Doomed Destiny || Le origini dell'Ombra

di eliseCS
(/viewuser.php?uid=635944)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** VI ***
Capitolo 7: *** VII ***
Capitolo 8: *** VIII ***
Capitolo 9: *** IX ***
Capitolo 10: *** X ***
Capitolo 11: *** XI ***
Capitolo 12: *** XII ***
Capitolo 13: *** XIII ***
Capitolo 14: *** XIV ***
Capitolo 15: *** XV ***
Capitolo 16: *** XVI ***
Capitolo 17: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** I ***


Premetto che questa storia non ha basi storiche o altro, l'ispirazione mi è venuta riguradando per l'ennesima volta Pirati dei Caraibi e questo è quanto.
L'ambientazione temporale - e territoriale -  è più o meno quella, e so già che ci saranno un mucchio di imprecisioni, ma la storia mi è venuta così e a quanto pare (almeno per il momento) il mio lato pignolo e maniacale per quanto riguarda i dettagli si è fatto da parte.

I personaggi sono completamente inventati e se c'è qualche nome che potrebbe avere qualche legame con eventi successi realmente sappiate che non era mia intenzione: ho scelto i nomi in base a come mi suonavano, fate un po' voi...
Lo spumante per il brindisi del compleanno (citato nell'introduzione) deve avermi dato il colpo di grazia convincendomi a pubblicare questa "cosa" per un non meglio precisato motivo.
Spero ugualmente che a qualcuno possa piacere.









I - In cui la piccola Isabelle passa da una gabbia d’oro a una di ferro
 
Isabelle Maria Torres aveva sempre vissuto in quella che chiunque dall’esterno avrebbe definito una gabbia dorata.
Ovviamente a soli dieci anni la bambina, seppure fosse molto sveglia e intelligente per la sua età, non avrebbe saputo cogliere appieno il significato di tale espressione, ma se lo avesse fatto avrebbe sicuramente affermato di non essere d’accordo.
Almeno non del tutto.
 
Essere la figlia del Primo Consigliere del Governatore di Antigua ha sicuramente i suoi lati positivi.
Un’enorme villa in cui abitare, tanto per cominciare, con la servitù pronta ad accontentarla qualsiasi cosa voglia: un cuoco che cucina solo i cibi che le piacciono, una sarta personale e un’educatrice con cui va abbastanza d’accordo – tenendo conto che erano state scartate le almeno venti signore che si erano presentate prima.
Fino a questo punto la piccola Isabelle avrebbe potuto convenire che stare dentro quella gabbia non era poi così male, soprattutto se lei occasionalmente cercava di fare in modo che fosse anche meglio.
 
Harry, il figlio del Governatore, aveva la sua stessa età – era giusto più vecchio di un paio di mesi – era il suo migliore nonché unico compagno di giochi, e non erano rare le volte in cui entrambi si mettevano nei guai con i rispettivi genitori – beh, loro o la servitù… - a causa dei loro passatempi.
E in effetti sarebbe stato difficile evitarlo visto che quelli variavano dalla lotta nel fango negli orti dopo che aveva piovuto allo sgattaiolare di nascosto fuori dalle mura della propria abitazione facendo rischiare più volte un attacco di cuore a qualcuno, principalmente per raggiungere l’officina del fabbro di fiducia del Governatore e restare a osservarlo mentre lavorava - e ricevere occasionalmente qualche breve lezione su come si impugna un pugnale.
Anche se in realtà il loro passatempo preferito era un altro, e poteva essere riassunto in un’unica parola: pirati.
Tra le storie della servitù, quelle raccontate dal fabbro e quello che i rispettivi padri si lasciavano occasionalmente scappare durante i pasti sarebbe stato impossibile per loro non rimanere affascinati dall’argomento: più le storie erano avventurose e ricche di combattimenti più le trovavano avvincenti, e le loro preferite in assoluto erano di certo quelle che riguardavano una delle navi pirata più famose dell’epoca, la Doomed Destiny, e il suo Capitano Gabriel Cortès.
Si diceva che le vele della nave fossero scarlatte come il sangue e che gli uomini che facevano parte della ciurma condividessero il destino dannato di cui la nave portava il nome.
Non era quindi raro vedere i due bambini giocare e duellare tra loro con spade di legno mentre fingevano di essere temuti pirati che si contendevano un cospicuo bottino – una collana di perle della madre di Isabelle piuttosto che un paio di orecchini di quella di Harry – e allo stesso tempo cercavano di non essere catturati dagli uomini al servizio della Marina – la servitù –  di cui tra l’altro i loro padri facevano parte.
Abituati a stare insieme praticamente da quando erano nati, complice la forte amicizia che legava le loro madri, Isabelle ed Harry erano praticamente inseparabili e ormai quasi tutti sapevano che se c’era uno dei due l’altro era sicuramente nei paraggi.
Probabilmente Isabelle non avrebbe saputo cosa fare se fosse rimasta senza Harry e viceversa, anche se essendo ancora così giovani nessuno dei due avrebbe avuto il coraggio di ammetterlo.
 
Quindi no, quello che Isabelle odiava della gabbia non era il fatto di non poterci uscire – o di poterlo fare per davvero poco tempo – ma il fatto che se lei era tenuta dentro non voleva necessariamente dire che i mostri restassero chiusi fuori.
E in quell’ultimo periodo sembrava proprio che non facessero altro che entrare.
 
Negli ultimi mesi suo padre aveva scoperto due nuove passioni in aggiunta a quella che aveva sempre avuto nei confronti del potere che derivava dalla sua carica: il gioco e il bere.
I soldi della paga, nonostante non fossero di certo pochi, non tardarono a diventare insufficienti per ripagare i debiti di gioco che l’Ammiraglio Torres aveva ben presto accumulato al punto che l’uomo non ci aveva pensato due volte prima di cominciare a mettere mano al patrimonio della famiglia, compresa la parte riservata alla dote di Isabelle che avevano già cominciato a mettere da parte.
La prima ad andarsene fu la sarta, ma ad Isabelle non dispiacque tanto quanto arrivò il turno della sua educatrice a cui lei alla fine dei conti si era affezionata: tutte le sue lacrime non servirono a impedire che la donna venisse mandata via, non potevano più pagarla.
La servitù venne ridotta al minimo e solo il cuoco sembrò l’unico a non vedere il suo posto messo in pericolo dalla nuova situazione economica della famiglia.
 
Quello che però cominciò a segnare sul serio un cambiamento in lei fu il conoscere un sentimento che non aveva mai provato prima, non in quel modo: la paura.
Perché davvero, per Isabelle non c’era nulla di più spaventoso di suo padre che tornava a casa nel cuore della notte ubriaco.
La prima volta che era successo si era svegliata di soprassalto alle urla sguaiate del genitore, alle quali si erano poi aggiunte quelle di sua madre, ed era passata un’intera settimana trascorsa a quel modo prima che avesse il coraggio di andare a chiedere alla donna cosa stesse succedendo.
La risposta che le era stata data le era parsa inizialmente incredibile: lei conosceva suo padre come l’uomo pacato e gentile che fino a poco tempo prima le dava il bacio della buona notte e che ancora si sforzava di prenderla in braccio quando lei gli correva incontro dopo una giornata di lavoro.
Isabelle dovette alla fine riconoscere che però quella che le era stata detta non era altro che la pura verità quando una sera l’uomo era ritornato a casa prima - lei non era ancora andata a dormire - e le aveva messo le mani addosso.
In quel momento aveva anche capito cosa fossero quelle ombre scure su braccia e viso che sua madre cercava di coprire con la cipria prima di uscire di casa, visto che dal giorno seguente dovette farlo anche lei.
 
 
 
Le era capitato solo una volta di vedere usare la frusta su un uomo della servitù che aveva rubato in casa, mai avrebbe pensato che sarebbe toccato anche a lei provarla.
 
Giocando con Harry il giorno prima avevano preso in prestito una delle medaglie di suo padre, e quando l’uomo non l’aveva trovata – Isabelle si era dimenticata di rimetterla a posto – l’uomo era andato subito in camera della figlia e l’aveva trascinata al piano di sotto prendendola per i capelli.
Le frustate erano state poche ma tremende, sua madre era riuscita a fermare il marito rompendogli una bottiglia in testa solo perché Harry, andato a casa dei Torres per giocare con Isabelle, si era trovato davanti la scena e aveva cercato di fermare l’uomo.
I segni sulla sua schiena non sarebbero mai scomparsi del tutto, per non parlare di quello che la bambina avrebbe provato da quel momento in poi nel vedere una frusta.
Quello era stato anche il giorno che Maria Torres aveva sbattuto il marito fuori di casa intimandogli di non farsi più vedere finchè non avesse sistemato i suoi debiti e non avesse smesso di bere.
 
Erano passati ormai due mesi.
 
Ecco perché Isabelle si ritrovò ad essere più spaventata che sorpresa quando suo padre la svegliò nel cuore della notte mettendole una mano sulla bocca per impedirle di urlare.
La bambina, terrorizzata, non potè fare altro che annuire e seguire gli ordini del genitore sperando che non le facesse del male.
Non sembrava ubriaco come le altre volte, ma quando l’uomo la prese in braccio Isabelle potè comunque sentire l’odore dell’alcol nel suo alito, aveva imparato a riconoscerlo.
“Vuoi che la mamma sia di nuovo contenta, sì?” le bisbigliò il genitore parlandole per la prima volta solo quando furono fuori dalle mura domestiche.
Isabelle annuì incerta: non capiva come quella gita notturna avrebbe potuto risolvere i loro problemi e far felice la madre, ma non aveva il coraggio di dire nulla, non voleva essere picchiata di nuovo.
“Brava bambina” commentò semplicemente suo padre al suo cenno senza aggiungere altro.
Dopo quasi un quarto d’ora erano arrivati al porto, caratterizzato dall’odore di pesce e salsedine più forte rispetto al resto della città; il buio era fitto intorno a loro e poche erano le lanterne che rischiaravano la strada.
Gli unici rumori, per lo più risa sguaiate e canti stonati di uomini ubriachi, provenivano dalla locanda che sorgeva poco distante: un insegna di legno verniciata di verde con il nome scritto a lettere consumate e il disegno stilizzato di una sirena era illuminato da due torce appese ai lati.
Arrivata al punto in cui poteva percepire anche la puzza di alcolici e di sudore la bambina ebbe il timore che suo padre potesse portarla la dentro, ma all’ultimo l’uomo entrò in un vicolo che se possibile era ancora più scuro e puzzolente.
Arrivati quasi in fondo si fermò e la mise giù.
Isabelle rabbrividì nella sua camicia da notte di lino bianco mentre cercava di non pensare a cosa stessero pestando i suoi piedi nudi.
Per essere una bambina era abbastanza coraggiosa da giocare nel fango, ma a tutto c’era un limite.
 
Nel frattempo suo padre aveva bussato ad una porta che lei non aveva notato, e dopo qualche istante due uomini ne erano usciti, riusciva a mala pena a distinguere i loro volti nel buio.
“Finalmente, pensavamo avesse cambiato idea…” esordì quello che dei due era più alto e muscoloso.
“No” ribattè Torres secco.
Afferrò Isabelle per una spalla e rudemente la spinse in avanti rischiando quasi di farla inciampare.
L’uomo la osservò per un attimo e poi scoppiò a ridere: “Avevate detto che vostra figlia era una giovane donna, questa qui avrà quanto? Otto, nove anni? L’accordo salta” stabilì.
Torres indurì la mascella: “Isabelle ha dieci anni e crescerà in fretta. Non mi importa cosa avete capito voi, adesso fuori il mio denaro” lo minacciò estraendo dai calzoni una flintlock e puntandogliela contro.
Isabelle sentiva la testa girare: cosa stava succedendo?
L’uomo alzò le mani davanti alla pistola e fece un cenno con la testa al compare al suo fianco senza però smettere di sorridere sinistramente.
Quello, molto più smilzo rispetto all’altro, fece comparire una sacca di tela e la fece tintinnare: lì dentro dovevano esserci un sacco di pezzi da otto, letteralmente.
Suo padre la spinse in avanti così velocemente che di nuovo la bambina rischiò di cadere per terra.
Riprese l’equilibrio giusto in tempo per vedere suo padre che faceva una stima approssimativa del denaro guardando dentro la borsa, la pistola era tornata al suo posto, le monete che catturavano la poca luce presente facendola riflettere nei suoi occhi avidi.
 
Isabelle realizzò di colpo: suo padre l’aveva appena venduta.
 
Il tempo di metabolizzare la cosa e cominciò ad urlare cercando di correre verso il genitore.
Il secondo uomo le fu subito dietro: al primo tentativo un bel pezzo della sua camicia da notte gli rimase in mano, ma al secondo riuscì a caricarsela in spalla insensibile al suo dimenarsi.
Si rivolse velocemente all’altro chiedendo un rapido “Finisci tu il lavoro?” prima di voltarsi per tornare all’interno dell’edificio da cui erano usciti.
La bambina vide la scena come al rallentatore.
Suo padre era di spalle e se ne stava già andando con i soldi, sordo alle urla disperate della figlia.
Ci fu quello che a Isabelle sembrò un boato assordante e Torres si fermò, cadendo subito dopo di faccia sul selciato.
Da quella distanza Isabelle non poteva vederlo ma aveva un foro in testa.
Vicino a lui il sangue era schizzato raggiungendo e macchiando anche il pezzo di stoffa che era stato strappato dalla camicia da notte della bambina e buttato per terra con noncuranza.
L’uomo che gli aveva sparato si affrettò a recuperare la borsa dei soldi e seguire il suo compare.
Anche Isabelle, che dopo un attimo di shock aveva ripreso a urlare, fu quietata con un colpo del calcio della pistola dietro la nuca prima che l’uomo la riponesse.
Il dolore alla testa per la botta e quello al cuore per tutto quello che era successo quella notte sparirono nel momento in cui smise finalmente di agitarsi tra le braccia dell’uomo che l’aveva comprata.
 
 
 
Quando cominciò a riprendere conoscenza, poco per volta, Isabelle non aprì subito gli occhi.
Nella sua mente si rincorrevano le immagini di quello che doveva per forza essere il peggiore incubo che avesse mai fatto e voleva essere certa di averle scacciate tutte prima di svegliarsi definitivamente.
Purtroppo per lei quello non era stato affatto un incubo: la cella con le sbarre di ferro dov’era rinchiusa e il rigido pavimento di legno su cui era distesa parlavano chiaro.
Ma quella non era la cosa più sconvolgente.
Il panico si impossessò prepotentemente di lei quando provò ad alzarsi e si accorse che aveva qualche problema a restare in equilibrio perché il pavimento non stava fermo.
Unendolo al fatto che l’odore si salsedine era più forte di quanto l’avesse mai sentito e che quello che le arrivava alle orecchie era il rumore delle onde del mare la risposta alla domanda dove mi trovo? era spaventosamente semplice: era a bordo di una nave.
La bambina si appigliò alla dura panca in legno, unica seduta della cella se uno non contava il pavimento, si chinò avanti e vomitò.
Quando ebbe finito si pulì maldestramente la bocca con la manica della sua camicia da notte – che già non era più bianca – e si sedette in un angolo portandosi le ginocchia al petto.
Nulla potè impedire alle lacrime di rigarle le guance mentre sperava che quella situazione finisse al più presto.
Perché sua madre avrebbe sicuramente mandato qualcuno a cercarla, vero?
Non avrebbe permesso che la sua bambina le venisse portata via così.
 
Non sapeva che però sarebbe passato davvero molto tempo prima di ritornare nel posto che, fino a quel momento, aveva chiamato casa.
 
Per il momento non poteva fare altro che rimanere lì rannicchiata cercando di controllare la nausea che il rollare della nave le provocava.


 










Come avevo avvertito nel mio profilo (che nessuno ha letto...) ho deciso di accorciare i capitoli lasciandoli con un "titolo" per volta com'era nel piano originale invece di raggrupparli insieme.
Sotto ho lasciato il commento che avevo scritto la prima volta che ho caricato la storia
⬇⬇⬇




Salve, sono tornata!
*nemmeno la balla di fieno si degna di rotolare*
Benissimo...
Se siete arrivati a leggere quaggiù in fondo vuol dire che avete letto anche gli
avvertimenti che c'erano all'inizio del capitolo, quindi non c'è bisogno di aggiungere altro, giusto?
A quanto pare non riesco a stare senza scrivere per periodi prolungati di tempo (leggasi per più di qualche giorno) e questo è il risultato: voi che vi sorbite una mia nuova storia.
Questa storia è un'originale (più o meno) e sono tanto, tanto, tanto (tanto, 
tanto, tanto, tanto, tanto, tanto) insicura al riguardo.
Come sempre sono ben accette critiche (costruttive possibilmente), suggerimenti, domande, ecc, ecc; e ribadisco che non mordo...
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto almeno un po' e spero di arrivare presto a pubblicare il prossimo.

Vi prego, qualche anima pia mi faccia sapere che tutto questo non è solo uno spreco di tempo (e di carta) e che quello che ho scritto è quanto meno leggibile...
Mi piacerebbe tanto fare come fa qualcuno, della serie "finchè non c'è almeno una recensione non pubblico il prossimo capitolo" ma a quanto pare, viste le precedenti esperienze, non me lo posso permettere; quindi vi dico solo che il prossimo capitolo arriverà il prima possibile.
Grazie a chi ha letto
E.



 

 



 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** II ***


II - Di corse, travestimenti e Brandy
 
Non sapeva quanto tempo era passato da quando era stata rapita.
Basandosi sui suoni che sentiva provenire dall’esterno e dai movimenti oscillatori della nave avevano toccato terra almeno un paio di volte, ma ovviamente a lei non era stato permesso scendere.
Era sempre rimasta nella cella, da sola.
L’unico a interrompere la sua solitudine era un uomo, sempre lo stesso, che due volte al giorno le portava dell’acqua e un tozzo di pane e svuotava il secchio che le avevano dato per i suoi bisogni.
Lei non lo sapeva ma al contrario di quello a cui aveva pensato quella in cui stava viaggiando non era una nave che trafficava schiavi, almeno non in modo esplicito.
La Butterfly era una nave mercantile che solo di recente aveva cominciato ad ospitare carico umano che non fosse l’equipaggio: il capitano, vedendo che gli affari non andavano molto bene, aveva deciso di cominciare a commerciare qualcosa di diverso, guadagnandoci quasi il doppio visto che alla fine la merce che prendeva non la pagava sul serio, proprio come era successo con il padre di Isabelle…
Al momento la bambina sembrava essere l’unica passeggera in più, ma non sapeva che la sua permanenza prolungata era solo dovuta al fatto che il capitano della Butterfly non riusciva a trovare un acquirente per lei.
In effetti la bambina era ancora troppo piccola per poter essere usata per quello che di solito venivano prese le giovani donne.
 
Venne svegliata di colpo dal rumore della porta della cella che veniva aperta con grande stridore.
Il suo carceriere le legò le mani e la condusse fuori senza una parola.
I suoi occhi ci misero diverso tempo a riabituarsi alla luce del sole dopo tutto il tempo che aveva passato sotto coperta e inciampando non finì a terra solo perché l’uomo che la accompagnava la stringeva forte per il braccio.
Camminando lungo il ponte Isabelle tenne gli occhi bassi ma poteva benissimo immaginare gli sguardi degli uomini dell’equipaggio puntati su di lei.
Fu condotta al cospetto del capitano che le fornì un secchio d’acqua e una pezza lurida per pulirsi appena il viso dallo sporco che vi si era accumulato.
Eseguì il tutto senza fiatare con le mani ancora legate, e quando ebbe finito non riuscì quasi a emettere un verso di sorpresa nel ritrovarsi dentro a un sacco.
Non aveva neanche la forza di provare a ribellarsi.
Il capitano sembrò apprezzare.
 
Dopo diversi minuti di sballottamento venne finalmente appoggiata a terra e la fecero uscire.
Tanto per cambiare si trovava di nuovo in un vicolo, almeno quella volta era giorno.
Venne lasciata in disparte mentre il capitano e l’altro uomo che era con lui, lo stesso che aveva ucciso suo padre, parlavano.
Non sapeva se fosse perché pensavano che fosse stupida, troppo piccola per capire o se semplicemente non gli importasse, ma Isabelle riusciva perfettamente a sentirli.
A quanto pareva stava per essere venduta.
Di nuovo.
Si stava giusto augurando che il suo nuovo proprietario avesse la sua stessa predisposizione verso il mal di mare quando una frase detta appena più a bassa voce rispetto alle altre fece breccia nella sua testa.
“Se neanche questo la prende ce ne liberiamo”.
La bambina abbassò la testa per cercare di non far capire che aveva sentito, anche se sembrava che i due uomini stessero continuando a non far caso a lei.
Cosa poteva fare?
Era una bambina di dieci anni in una città sconosciuta senza mezzo soldo in tasca: dove sarebbe potuta andare?
Ma prima: come avrebbe fatto a scappare?
Si era sempre considerata piuttosto veloce visto che spesso le capitava di battere Harry nelle gare di corsa, ma lì si trattava di uomini adulti, non di un bambino che a dirla tutta era anche più basso di lei.
Però doveva tentare, non c’era altro modo.
L’avrebbero uccisa lo stesso se il compratore non si fosse mostrato interessato, come era evidentemente successo con quelli precedenti da quanto aveva capito, cosa aveva da perdere?
Per fortuna le avevano legato solo le mani, l’unico impedimento sarebbe potuta essere la camicia da notte.
Cominciò a spostarsi piano, un passo alla volta, cercando di non attirare l’attenzione, in modo da avere la via più libera quando avrebbe cominciato a correre.
Nel frattempo i due sembravano essersi stufati di aspettare perché si erano entrambi seduti su due barili rovesciati che erano accatastati lì in fondo al vicolo.
 
Isabelle si lasciò sfuggire un mezzo sorriso e scattò.
Ai due uomini ci volle qualche istante per collegare il rumore di passi veloci alle loro spalle al fatto che la loro merce stesse scappando e quando lo fecero ormai era troppo tardi: la bambina aveva già raggiunto la fine del vicolo mescolandosi con la gente che andava e veniva nella via più grande.
Ce l’aveva fatta.
Ora per cominciare, doveva trovare un modo per liberarsi dalle corde che le legavano i polsi che le stavano facendo guadagnare più di qualche occhiata curiosa da parte dei passanti.
 
 
 
Trovare un fabbro non fu difficile, intrufolarsi all’interno e segare le corde approfittando del filo di una sega lasciata in disparte nemmeno: a quanto pareva i giochi che faceva con Harry che consistevano nell’aggirarsi per casa cercando di passare inosservati erano serviti a qualcosa.
Girovagando a caso per la città, non sapeva neanche dove fosse, era riuscita a recuperare una maglia e delle braghe che fossero più o meno della sua taglia.
Era la prima volta che non indossava una gonna, ma continuando a girare in camicia da notte avrebbe solo attirato l’attenzione.
Aveva anche trafugato un cappello con cui nascondere i capelli.
Sua madre aveva origini inglesi e lei aveva ereditato il suo incarnato chiaro e i capelli biondi, chiari come il grano.
Avrebbe dato meno nell’occhio se li avesse tenuti coperti e a quel punto, conciata com’era, sarebbe anche potuta passare per un maschio.
Continuò a vagare per le strade cercando di capire se ci fosse qualcuno a cui chiedere aiuto, ma non sapeva nemmeno se in quel posto conoscessero Antigua e di uomini in uniforme a chi domandare non c’era nemmeno l’ombra.
Si era avvicinata all’ingresso di una locanda, appoggiandosi contro il muro sperando che uscendo qualcuno avesse pietà di lei e le allungasse qualcosa da mangiare – non successe e i crampi allo stomaco cominciavano a farsi sentire – quando una parola attirò la sua attenzione.
 
Tortuga.
 
Quell’uomo e il suo compare stavano parlando di Tortuga.
Come tutti i ragazzini che si rispettavano Isabelle sapeva benissimo cosa fosse Tortuga e il collegamento che aveva con i pirati.
Senza perdere tempo si mise dietro ai due, cercando di seguire la conversazione senza farsi notare.
Se non aveva capito male la loro nave commerciava alcolici, brandy e rum in particolare, e se c’è una cosa che i pirati amano quasi quanto il mare e la loro nave è proprio quello.
A quanto pareva il capitano aveva deciso di fare una tappa a Tortuga per guadagnare qualcosa sottobanco, visto che l’ultima volta gli affari erano andati più che bene.
La bambina li seguì fino al porto e non ci mise molto a capire qual era la nave verso cui erano diretti.
Si chiamava Brandy…
Ora doveva solo decidere cosa fare.
 
Avrebbe potuto provare a salire di nascosto, ma non voleva pensare a cosa sarebbe potuto succedere se l’avessero scoperta.
Prima che gli uomini potessero avvicinarsi alla passerella per salire Isabelle rivelò la sua presenza.
“Aspettate!”
I due si guardarono intorno spaesati per poi lanciarle uno sguardo stupito quando si resero conto di chi li aveva richiamati.
“Ma guarda un po’ cosa abbiamo qui” commentò il primo scoprendo i denti, per la maggior parte neri.
“Ti sei perso?” domandò l’altro prendendola palesemente in giro.
Lei scosse la testa.
“E allora cosa vuoi moccioso? Non abbiamo tempo da perdere qui!”
Fecero per voltarsi ma Isabelle fu più rapida.
“Ho sentito che la nave è diretta a Tortuga” disse.
I due gelarono sul posto.
“Abbassa la voce, vuoi farci arrestare?” domandò quello che aveva parlato per primo prendendola per il bavero della casacca.
“Voglio venire con voi” aggiunse Isabelle piano. “Vi prego”.
“Non prendiamo mocciosi a bordo, mi dispiace” si sentì rispondere.
“No, vi preso, aspettate. Io devo andarci!”
“E a fare cosa di grazia? Tortuga non è posto per bambini. E poi cosa pensi? Che il capitano ti farà salire a bordo come se niente fosse… senza pagare?”
La bambina deglutì: di certo non aveva soldi.
“Potrei… lavorare?” azzardò alla fine.
Sperava che non badassero all’età se avessero voluto usarla come mozzo per pulire il ponte.
I due si scambiarono uno sguardo.
“Come ti chiami moccioso?” domandò alla fine quello con i denti marci.
“I…” si bloccò appena in tempo.
Se avesse rivelato di essere una femmina non l’avrebbero mai fatta salire, e fino a quel momento si erano rivolti a lei usando il maschile, quindi…
“Io mi chiamo Harry” rispose dicendo il primo nome che gli passò per la testa e ignorando la fitta di nostalgica che arrivò subito dopo.
“E quanti anni hai?”
“Dieci”
“Sembri più piccolo…”
Lei abbassò lo sguardo.
“Bene Harry. Visto che vuoi così disperatamente andare a Tortuga proveremo a parlarne con il capitano. C’è sempre bisogno di mani in più, ma di solito tendiamo a prendere uomini più grandi, non so se mi spiego…” commentò il secondo uomo e solo in quel momento Isabelle notò che gli mancava la mano sinistra.
Quello seguì il suo sguardo e le sorrise di rimando.
“Aspetta qui” fu l’ultima cosa che le dissero prima di lasciarla sola.
 
 
 
҉
 
 
 
“Terra!”
Il grido si sentì forte e chiaro dal marinaio sulla torre di vedetta.
Isabelle si concesse di abbandonare momentaneamente lo straccio con cui stava , per l’ennesima volta, lucidando il ponte per guardare fuori bordo.
All’orizzonte era visibile il profilo di una costa.
Tortuga.
 
 
Aveva aspettato diverso tempo i due uomini, che quando erano tornati le avevano detto di seguirli a bordo.
Era stata portata al cospetto del capitano, un uomo rubicondo con la pancia sporgente, che dopo averla squadrata aveva dato istruzioni affinchè le venissero dati un secchio e uno straccio: poteva mettersi subito al lavoro per guadagnarsi la cena.
In quei quattro giorni di viaggio aveva perso il conto di quante volte aveva ripassato il ponte della Brandy: era l’unica ad occuparsene e tempo di arrivare a pulire a prua doveva già ricominciare a poppa.
Non aveva mai lavorato in vita sua – fortuna che almeno aveva osservato un paio di volte le domestiche pulire i pavimenti di casa perché altrimenti non avrebbe saputo neanche come impugnare lo straccio – e le vesciche sulle sue mani ne erano la prova.
 
Non perse tempo quando la nave attraccò:
salutò solo Nick e Tom, i due marinai che aveva incontrato prima di salpare, e cominciò subito a esplorare il posto.
Non aveva un attimo da perdere.














Ma buongiorno!
Ammetto di avervi fatto aspettare davvero tanto (troppo) per questo secondo capitolo... (ammesso che ci fosse qualcuno ad aspettarlo).
Comunque passo subito alla buona notizia.
Come ho scritto nel mio profilo questa storia è già conclusa, diciamo. Motivo per cui posso permettermi di pubblicare i capitoli con cadenza regolare.
Cadenza che ho deciso essere di un capitolo ogni due settimane, abbreviato a uno a settimana nel caso in cui dovessero esserci recensioni.
Non aggiungo altro, vi saluto lasciandovi l'appuntamento per martedì 7 novembre (o 31 ottobre a seconda dei casi).
A presto
E.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** III ***


III - Di sviluppi inaspettati, collane apparentemente trascurate e nuove piccole ladre
 
Di tutte le descrizioni e i racconti che Isabelle aveva ascoltato sull’isola di Tortuga doveva riconoscere che nessuno gli faceva giustizia fino in fondo.
Odori, colori, suoni e sensazioni parevano amplificati, e sembrava che persino gli uomini cambiassero non appena mettevano piede su quel suolo.
Lì non c’erano regole, non c’erano leggi, a parte una: quella del Codice dei pirati.
Qualsiasi altra convenzione sociale imparata altrove poteva anche essere dimenticata.
 
Ora, Isabelle sapeva del Codice e dei pirati quello che poteva sapere una bambina di dieci anni, ovvero non molto.
Ma nella sua ingenuità era convinta che il suo piano fosse semplice e avrebbe potuto funzionare.
Le bastava trovare un pirata, spiegare la sua situazione e assicurare che gli avrebbero sicuramente offerto una generosa somma come riscatto se l’avesse riportata a casa.
E quale posto migliore dove cominciare la ricerca se non da quella che sembrava essere la locanda più grande, rumorosa e affollata del posto?
 
Purtroppo però le cose erano destinate ad andare molto diversamente rispetto a come se le era immaginate.
 
Non aveva fatto in tempo a toccare la porta che era stata letteralmente travolta da un gruppo di uomini che facevano a botte.
Evidentemente lì a Tortuga a nessuno importava se eri già ubriaco nel primo pomeriggio.
Cadde all’indietro sbattendo la testa sul muro dell’edificio: troppo forte e nel punto sbagliato.
Quando si riprese era già buio, le strade erano rischiarate dalla luce della luna e da qualche lanterna appena all’esterno degli edifici.
Si guardò intorno impiegandoci un po’ per ricordarsi dov’era.
 
Lei si chiamava Isabelle ed era a Tortuga per…
Una fitta le attraversò la testa facendola sibilare dal dolore.
Aveva dieci anni, si chiamava Isabelle e… nulla, vuoto totale.
Gli unici elementi che le tornavano alla mente erano il suo nome, la sua età e il posto in cui si trovava, ma non aveva la minima idea di come ci fosse arrivata e perché.
Per quello che ne sapeva i suoi genitori potevano essere dei mercanti che si erano stufati di averla tra i piedi e avevano deciso di lasciarla lì, oppure aveva sempre vissuto lì, oppure…
La bambina deglutì a fatica: aveva la gola riarsa e le labbra screpolate.
Da quanto non beveva?
Come se non bastasse anche il suo stomaco cominciò a brontolare reclamando cibo.
Alzò lo sguardo sopra la sua testa e notò l’insegna della locanda.
Sentiva che era familiare ma non avrebbe saputo dire perché.
Entrò.
 
L’ambiente all’interno era appena più illuminato e la penombra restava comunque offuscata dal fumo delle pipe di diversi uomini.
L’odore di alcol le riempì le narici insieme a quello ancora meno gradevole della puzza di uomini che non si lavavano da mesi.
Ma il bisogno di un bagno era decisamente al secondo posto rispetto al cibo.
Facendosi strada tra la gente – gli uomini che urlavano ubriachi le erano in qualche modo familiari, mentre invece non pensava di aver mai visto donne andare in giro con le gambe così scoperte – arrivò a quello che doveva essere il bancone.
Al di dietro diverse donne con la mercanzia bene in mostra si adoperavano per servire i clienti ricevendo di tanto in tanto qualche mancia extra più che gradita.
Si arrampicò su uno sgabello miracolosamente vuoto, visto che di suo superava di poco il ripiano con la testa, e cercò di attirare l’attenzione.
“Potrei avere qualcosa da mangiare per favore?” supplicò la donna che le si era avvicinata, sembrava essere la più anziana tra quelle presenti, per quanto portasse comunque bene la sua età. Non doveva avere più di una quarantina d’anni.
Quella alzò un sopracciglio – espressioni come per favore erano inesistenti nel vocabolario degli individui che frequentavano la sua locanda – e appoggiò i gomiti sul bancone per arrivare alla sua altezza.
“Con un pezzo da otto posso darti anche da bere se vuoi, ragazzino” propose.
Isabelle si morse un labbro: prima di entrare aveva controllato, addosso non aveva assolutamente nulla di valore, per non parlare di monete o pezzi da otto!
“Io… non ho nulla…”
La donna si ritrasse: “Mi dispiace mocciosetto, ma non do da mangiare gratis, neanche ai bambini. Torna quando avrai qualcosa da darmi in cambio” disse, e si allontanò per servire qualcun altro.
 
Isabelle scrutò l’ambiente circostante: forse avrebbe potuto provare a rubare qualcosa a chi era troppo ubriaco per accorgersene…
Stava per avvicinarsi ad un uomo che sembrava quasi collassato sul tavolo, nella confusione nessuno badava a lei, quando un luccichio attirò la sua attenzione.
Legato alla cintura di un uomo seduto ad un tavolo poco distante, lui le dava le spalle, c’era una specie di medaglione d’argento appeso ad una fettuccia di cuoio.
Non era un pezzo da otto ma poteva fare al caso suo.
Fece per avvicinarsi quando qualcosa la fermò: non sapeva perché ma sentiva che rubare non era una cosa giusta, non andava bene.
Si sarebbe cacciata nei guai.
Mandò via quella sensazione: per quello che ne sapeva poteva non essere la prima volta che lo faceva e poi non aveva intenzione di morire di fame.
Nel tragitto afferrò un coltello che sporgeva da uno dei tavoli a cui passò accanto rigirandoselo poi tra le mani per capire come impugnarlo al meglio.
Sembrava anche discretamente affilato, bene.
Una volta che fu alle spalle dell’uomo si bloccò.
Poteva farlo, doveva solo stare attenta e fare piano, e quello non se ne sarebbe neanche accorto.
In quel momento l’uomo si prese la testa tra le mani sospirando profondamente come se anche lui stesse cercando di venire a capo di una situazione difficile.
Doveva farlo ora.
Senza tirare prese in mano la fettuccia in modo da tenerla tesa e facendo più piano possibile la tagliò ritrovandosi a stringere in mano il medaglione dopo pochi secondi.
Si allontanò il più in fretta possibile rimettendo giù il coltello su un tavolo a caso per poi tornare al bancone.
Richiamò l’attenzione della donna di prima e quando quella aprì la mano porgendogliela dicendo “Prima i soldi, ragazzino” Isabelle le appoggiò sul palmo il pezzo di argento e quello che restava del laccio che era rimasto attaccato.
Questa volta la donna alzò entrambe le sopracciglia e studiò il pezzo per diversi secondi.
Alla fine parve decidere che doveva essere sufficiente perché se lo infilò in tasca.
Uscì da dietro il bancone e fece segno alla bambina di seguirla.
La portò in una stanza adiacente alla sala principale, sembrava una sorta di magazzino e a parte alcune casse dentro non c’era nulla.
“Aspetta qui, adesso ti porto qualcosa” disse per poi lasciarla sola.
Isabelle si sedette su una delle casse e cominciò ad aspettare.
 
 
 
Saltò subito in piedi quando la donna ritornò, ma con orrore Isabelle non solo scoprì che non aveva nulla da mangiare con sé, ma c’era anche un uomo dietro di lei.
E anche se lo aveva visto solo seduto e di schiena Isabelle sapeva chi fosse: era quello a cui aveva rubato la collana.
 
Isabelle indietreggiò di un passo mentre l’uomo continuava ad avvicinarsi.
Adesso che era in piedi sembrava ancora più imponente, e anche se l’ambiente era poco illuminato poteva ben vedere quanto i suoi capelli biondi, seppur più scuri dei suoi, risaltassero sulla sua carnagione abbronzata.
Anche gli occhi erano molto chiari, probabilmente azzurri.
“Quindi questo moccioso è colui che è riuscito a superare la prova del medaglione?” domandò alla donna, la voce profonda.
“Sei sicura Faye che sia stato proprio lui?”
La donna, Faye, annuì: “L’ho tenuto d’occhio da quando è entrato, di solito non si vedono molti mocciosi in giro. Ha fatto tutto da solo”.
L’uomo annuì serio avvicinandosi ancora di più.
“Sai chi sono io?” domandò rivolgendosi a Isabelle.
Lei scosse la testa.
“Io sono il Capitano Gabriel Cortès. Hai mai sentito parlare della Doomed Destiny?”
A quel nome la bambina non potè fare a meno di annuire: la Doomed Destiny era la nave pirata più famosa dell’epoca, nota per i suoi innumerevoli bottini e gli scontri con i vascelli della Marina.
Non sapeva dove avesse appreso quelle informazioni, ma sapeva che erano vere.
E adesso lei aveva davanti il capitano della nave più temuta dei sette mari.
“Questo medaglione apparteneva a mia moglie, non l’avrei lasciato andare tanto facilmente… ma avevo bisogno di un’esca per trovare un ladro bravo e discreto e a quanto pare, anche se non è decisamente quello che mi aspettavo, l’ho trovato” riprese Cortès nel frattempo.
“Come ti chiami giovanotto?”
“Harry” rispose Isabelle prima di riuscire a fermarsi.
Non sapeva perché le fosse uscito proprio quel nome, e quella scena le dava un vago senso di déjà-vu.
Evidentemente però non era l’unica a pensare che per un qualche motivo la situazione fosse strana.
Cortès la scrutò con più attenzione e Isabelle si sentì quasi mancare quando l’uomo allungò una mano verso il cappello che aveva in testa.
 
Quando si era svegliata fuori dalla locanda ce l’aveva già indosso, e dopo aver constatato la lunghezza dei suoi capelli aveva deciso che sarebbe stato meglio continuare a tenerlo: passare per un maschio poteva solo essere una cosa positiva.
 
Cortès afferrò la breve tesa del cappello e senza troppe cerimonie glielo tolse: una cascata di capelli biondi, incredibilmente sporchi e annodati ma pur sempre lunghi quasi fino alla vita, le ricadde sulla schiena e sulle spalle.
Faye si lasciò scappare un’esclamazione di sorpresa mentre l’espressione del pirata rimase impassibile.
“Come ti chiami? Voglio la verità, non te lo chiederò di nuovo”
“Isabelle” rispose lei in un soffio.
“Quanti anni hai?”
“Dieci”
“Come mai sei qui?”
La bambina non rispose guardandosi la punta dei piedi.
“Ragazzina… ti ho chiesto…”
“Non lo so! Non mi ricordo!” urlò a quel punto lei.
L’idea di mettersi a piangere non le piaceva neanche un po’, ma in quel momento non sarebbe più riuscita a trattenersi.
“Mi sono svegliata qui fuori e non mi ricordo niente… so che volevo arrivare qui a Tortuga ma non ricordo perché! E adesso ho sete, e fame, e non so quando ho mangiato l’ultima volta e lei – indicò Faye – ha detto che dovevo per forza darla qualcosa in cambio per avere un po’ di cibo e io ho visto la collana e…” disse singhiozzando con le lacrime che lasciavano la loro scia sulla sporcizia che si era accumulata sul suo viso.
 
In quel momento sentiva la forte necessità di tornare a casa, ovunque essa fosse.













No, non mi ero dimenticata che dovevo aggiornare.
Sì, mi ero dimenticata che oggi lavoravo quindi dopo dodici ore e mezza di turno mi scuserete per il ritardo.
E poi come se non bastasse la coinquilina inglese si è affettata (più o meno) un dito tagliando le patate per la cena, e a cosa serve avere un'infermiera in casa se poi non la usi?
Finite le precisazioni...
Dal prossimo capitolo si entrarà finalmente nel vivo della storia, la parte più "introduttiva" è (finalmente?) terminata.
Ringraziate tutti ​Maria Marea che ha recensito lo scorso capitolo facendo anticipare la pubblicazione di questo di una settimana.
Stesso discorso per il prossimo: appuntamento per
martedì 14 novembre (o eventualmente per il 7 novembre in caso di recensioni).
Scusate se oggi sono così di fretta ma sono di turno anche domani e ho una certa fretta di raggiungere il letto...
E.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** IV ***


IV - Una proposta, un nuovo capitano, delle mappe a lungo cercate e un’Ombra
 
“Faye, andate a prendere qualcosa da mangiare per la piccola, pago io” ordinò sorprendentemente Cortès.
La donna lo guardò stupita per un attimo ma poi uscì dal magazzino senza dire una parola per fare come le era stato detto.
L’uomo si avvicinò ad Isabelle non appena Faye li lasciò soli, e cogliendola totalmente alla sprovvista la l’abbracciò.
“Ti credo ragazzina, ma ora smetti di piangere” le disse passandole piano una mano sulla schiena.
A vederlo si sarebbe detto che fosse abituato ad avere a che fare con i bambini…
“Mi sembri una persona intelligente Isabelle. Anche se non te lo ricordi sono sicuro che arrivare fino a qui, da sola a quanto sembra, non sia stato facile” riprese poco dopo sciogliendo l’abbraccio.
“Ho quindi una proposta da farti”
La bambina raddrizzò la schiena prestando attenzione, una mano a togliere le ultime lacrime rimaste sul suo viso.
“Come ho detto prima la collana era una prova, e tu l’hai superata. Vedi, in questo momento qui a Tortuga c’è una persona che ha qualcosa che mi serve: se riuscirai a prenderla ti porterò con me” spiegò.
“Con voi?” ripetè lei con gli occhi spalancati.
Il pirata annuì: “Con me, sulla mia nave. Sì” confermò.
“… ma così diventerei un pirata anch’io?”
Cortès si lasciò scappare una breve risata: “Magari non subito, ma col tempo… chi lo sa?” rispose.
Isabelle distolse lo sguardo tormentandosi le mani.
 
Rubare e unirsi alla ciurma di una nave pirata… quella nave pirata!
Qualcosa le diceva che non avrebbe dovuto accettare, come se le fosse stato insegnato che la pirateria fosse una cosa deplorevole – o qualcosa del genere – ma in quel momento che alternative aveva?
Non sarebbe durata un giorno da sola lì a Tortuga, sulla nave almeno sarebbe stata sotto la responsabilità di Cortès… o almeno sperava sarebbe stato così.
 
Rialzò la testa, i suoi occhi scuri incontrarono quelli azzurri del pirata e sembravano aver acquisito una nuova determinazione.
 
“Cosa devo rubare?”
 
 
 
҉
 
 
 
“Sicuro che sia il posto giusta stavolta? È il quarto forte che attacchiamo, se quelle mappe non sono neanche qui…”
“Risparmiami Shade, questa volta riprenderemo il largo con quello per cui siamo venuti” venne interrotta la ragazza.
“Tu piuttosto: sei pronta?”
La ragazza sbuffò alzando gli occhi al cielo, stringendo l’elsa della spada con la mano destra e quella di un pugnale con la mano sinistra, entrambi appesi alla sua cintura. Il terzo pugnale lo aveva dentro allo stivale destro, legato alla gamba.
“Devo ricordarti il motivo per cui tuo padre ha deciso di farmi salire a bordo della Doomed? Mi chiamo Ombra per un motivo… se quelle carte ci sono le troverò e le farò sparire senza che nessuno se ne accorga. Voi pensate a tenere guardie e compagnia bella impegnate, al resto ci penso io”
“Come sempre”
I due, ragazzo e ragazza, si scambiarono un ultimo sorriso complice prima di uscire dalla cabina del capitano e raggiungere il ponte della nave, dove il resto dell’equipaggio si era già riunito.
 
Capelli biondi e occhi azzurri come il padre, pelle abbronzata a forza di stare continuamente sotto il sole e il fisico temprato da tutti gli anni trascorsi per mare: Julian Cortès, il capitano più giovane che la Doomed Destiny avesse mai avuto.
Aveva ventisette anni ma aveva ereditato il titolo alla morte del padre, cinque anni prima.
Nessun componente dell’equipaggio si era opposto: erano tutti d’accordo che Julian sarebbe stato il degno erede di Gabriel Cortès, e in quegli anni il ragazzo aveva dimostrato loro che avevano avuto ragione.
Nonostante la giovane età Julian sapeva bene come mandare avanti la nave e come tenere sempre alto il morale delle ciurma.
Tra le varie scorrerie ai danni delle navi mercantili che avevano il dispiacere di incontrare la Doomed sulla loro rotta, i bottini, da spendere quasi interamente in donne e rum ogni volta che attraccavano a Tortuga o in qualche altro porto sicuro, erano sempre ben consistenti e nessuno si era tirato indietro nemmeno quando il nuovo Capitano Cortès aveva annunciato che avrebbe vendicato la morte del padre – che ovviamente non era avvenuta per cause naturali – umiliando il pirata che l’aveva provocata rubandogli il suo stesso tesoro da sotto il naso e poi uccidendolo.
E proprio per quel motivo si stavano preparando ad assaltare il forte di quella prospera cittadina di mare.
Reyes, il sopracitato pirata di cui Julian voleva vendicarsi, aveva nascosto il suo tesoro su un’isola che aveva trovato incrociando le rotte di una delle sue mappe con quelle di una mappa della Marina: senza quest’ultima sarebbe stato impossibile rintracciarla.
Julian era venuto a conoscenza di quella informazione dopo anni di ricerche e dopo tre buchi nell’acqua sembrava che finalmente il loro obiettivo fosse quello giusto.
Se tutto fosse andato secondo i piani entro la mattina seguente sarebbero finalmente entrati in possesso della chiave per raggiungere quell’isola e il tesoro tanto bramato.
 
Subito dietro di lui veniva Shade, che altri non era che quella bambina che quindici anni prima aveva accettato un certo incarico da Gabriel Cortès guadagnandosi il suo posto a bordo.
Quando il capitano l’aveva presentata alla ciurma c’erano stati diversi mormorii perplessi sia per l’età della bambina sia per il fatto che, appunto, era una femmina.
Ed era risaputo che avere una donna a bordo, anche se in miniatura, portava sfortuna.
Parte delle perplessità erano state dissipate quando Cortès aveva detto a tutti quello che la bambina era riuscita a rubare per loro e con il passare del tempo era a tutti gli effetti diventata una di loro: la ciurma ci aveva messo poco ad affezionarsi, e spesso capitava che i nuovi arrivati, colpa probabilmente del biondo dei suoi capelli, pensassero che Cortès non avesse un figlio solo ma due.
Julian era stato quello che ci aveva messo di più ad abituarsi alla sua presenza.
Da sempre era stato lui il favorito del padre e dell’equipaggio e di punto in bianco arrivava la mocciosetta più piccola di due anni e gli rubava il posto.
La situazione si era risolta un anno dopo l’arrivo di Isabelle: lei e Julian se le erano date di santa ragione – offrendo una buona mezz’ora di svago alla ciurma – finchè entrambi non avevano deciso che l’avversario si fosse guadagnato il rispetto reciproco e si erano stretti la mano.
Julian aveva il naso rotto e una brutta abrasione sul fianco mentre a Isabelle era saltato un dente – per fortuna non uno di quelli definitivi – e le era rimasta come ricordo una sottile cicatrice in fronte vicino all’attaccatura dei capelli.
Quando Cortès aveva scoperto cosa avevano combinato li aveva puniti entrambi: era felice che finalmente i suoi figli – perché sì, ormai considerava anche la bambina come sua – andassero d’accordo, ma risse di quel genere sulla sua nave erano assolutamente vietate.
La frustate erano state sette e non venti, e date con un frustino singolo invece che con il gatto a nove code, ma lasciarono ugualmente i loro segni.
Il capitano aveva esitato appena quando aveva notato che sulla schiena di Isabelle ci fossero già le prove del passaggio di una frusta, ma alla fine aveva punito anche lei come aveva fatto con Julian.
Quella era stata l’unica volta in cui Isabelle avesse dato segno di ricordare qualcosa della sua vita prima che perdesse la memoria: la frusta sembrava aver risvegliato qualcosa in lei anche se alla fine non erano comunque riusciti a scoprire nulla.
Adesso quella bambina di anni ne aveva venticinque e da almeno dieci nessuno pronunciava più il suo vero nome: dopo l’ennesimo colpo riuscito grazie al suo contributo si era guadagnata il soprannome Shade, ombra, per la sua particolare abilità nel mimetizzarsi con l’ambiente circostante, qualunque esso fosse, e riuscire a rubare quello che le era stato ordinato facendo sì che nessuno se ne accorgesse.
Come un’ombra nessuno faceva caso a lei.
Almeno finchè non era troppo tardi.
 
Contrariamente al resto della ciurma che vestiva, beh, da pirata, lei era solita indossare sempre abiti neri.
Occasionalmente poteva capitare di vederla indossare una camicia bianca o una giacca di qualche altro colore, verosimilmente prese in prestito da Julian, ma di certo non quando aveva una missione da portare a termine.
E anche quella volta non faceva eccezione: nera la camicia a maniche lunghe, i pantaloni, gli stivali e la giacca che mascherava le sue forme femminili.
Persino le fodere della spada e del pugnale erano nere, come pure la fascia che aveva in testa per tenere i capelli scostati dal viso.
A forza di lavarli con l’acqua di mare erano se possibile diventati ancora più chiari e dopo la prima e ultima volta che se li era dovuti tagliare cortissimi – per colpa di un’epidemia di pidocchi – li aveva sempre tenuti lunghi almeno fino a metà schiena.
In quel momento li aveva sciolti sulle spalle, quando sarebbe arrivato il momento di scendere a terra per fare il suo lavoro li avrebbe raccolti e nascosti del tutto sotto la bandana scura per dare meno nell’occhio.
Era solita tenere anche il viso coperto, lasciando liberi solo gli occhi: nessuno al di fuori della ciurma doveva sapere che aspetto avesse la tanto temuta Ombra della Doomed Destiny.
 
 
 
“Signori, ci siamo!” esclamò Julian suscitando fischi di approvazione e applausi da parte dell’equipaggio.
“Spero che tutti vi ricordiate il vostro posto: io, Shade e chi di voi si è offerto volontario raggiungeremo terra mentre la nave resterà nascosta dietro questo promontorio. Il tempo di un giro di clessidra per consentirci di entrare nella città indisturbati e poi sapete cosa dovete fare… contiamo sulla buona riuscita del diversivo…” continuò pronunciando l’ultima parola con un sorriso affatto rassicurante che venne accolto da altre grida da parte dei marinai.
“Wilson, vi lascio il timone” concluse rivolto al nostromo.
Sai cosa farò a te se succede qualcosa alla mia nave era il messaggio sottointeso, anche se in realtà non ce n’era bisogno: l’uomo per lui era come un secondo padre e gli avrebbe affidato la sua stessa vita.
Il suo sguardo rimase puntato all’orizzonte finchè il sole non scomparve: era arrivato il momento di muoversi.
 
 
 
҉
 
 
 
Era stata una tranquilla e piacevole giornata ad Antigua, nessuno avrebbe potuto sospettare quello che sarebbe successo di lì a poco.
Julian, Shade e altri tre marinai cominciarono cautamente a risalire la spiaggia su cui erano arrivati con la scialuppa, le mani appoggiate sulle else delle rispettive spade, pronti a scattare al minimo segnale di pericolo.
Due uomini erano rimasti di guardia alla scialuppa, ma non sarebbero rimasti soli per molto.
 
Il piano era lo stesso che avevano messo in atto le volte precedenti: loro, ma Shade in particolar modo, sarebbero andati avanti per individuare e raggiungere il luogo in ci si sarebbero trovate le carte nautiche che gli interessavano.
Il tempo di un giro di clessidra, quello che solitamente bastava a Shade per fare quello che doveva fare, e anche la Doomed Destiny sarebbe arrivata a fare la sua parte: un paio di colpi di cannone erano il diversivo migliore su cui avrebbero potuto contare, e poi Julian non avrebbe mai potuto negare al suo equipaggio un po’ di divertimento lasciandoli liberi di racimolare un po’ di bottino in una città ricca come quella.
Lui avrebbe avuto le sue carte e anche il resto della ciurma sarebbe stato soddisfatto: due piccioni con una fava.
 
 
Raggiunsero il forte senza particolari problemi: con il calare del buio per strada non c’era praticamente nessuno a parte qualche straccione già ubriaco.
Shade entrò da sola lasciando i due uomini fuori dall’edificio a controllare la situazione: una volta dentro meno si era e meno avrebbero dato nell’occhio, e modestamente lei era più che in grado di cavarsela in un combattimento contro chiunque.
Gabriel Cortès in persona le aveva insegnato a combattere e l’unico che riusciva a tenerle testa era Julian, ma solo perché aveva avuto lo stesso maestro.
Evitare le guardie che sorvegliavano i corridoi fu un gioco da ragazzi, l’unica che dovette mettere fuori combattimento fu quella che presidiava la porta della sala delle carte nautiche.
Una botta in testa con l’elsa del pugnale e quello era a terra.
Lo trascinò nella stanza dopo aver forzato la serratura ed essersi accertata che nessuno l’avesse notata richiudendosi silenziosamente la porta alle spalle.
Diede un’occhiata generale alla stanza per poi dirigersi a passo sicuro verso una vetrinetta piena di rotoli, quella che conteneva le carte con le rotte delle navi da guerra.
Si lasciò scappare una mezza risata quando constatò che le carte erano numerate: così ci avrebbe messo ancora meno e non avrebbe dovuto aprirle tutte.
Si mise alla ricerca pensando che se avesse fatto in fretta anche lei avrebbe potuto divertirsi giù in città quando il diversivo sarebbe cominciato: adorava passare a svaligiare le botteghe dei fabbri, per lei i pugnali non erano mai abbastanza.
Quando pensò di aver finalmente trovato quello che stava cercando il sorriso le si gelò sulle labbra.
 
 
 
Il giro di clessidra era evidentemente terminato visto che palle di cannone sibilarono nell’aria andando poi a schiantarsi su mura ed edifici.
La città si animò di colpo mentre i soldati uscivano per cercare di capire quale fosse la minaccia e come fare per fronteggiarla.
Solo che Shade non era ancora di ritorno.
Dovettero passare un paio di minuti e altre cannonate, questa volta a salve solo per fare scena, prima che la ragazza uscisse finalmente dall’edificio cercando di non farsi vedere dai soldati che vi stavano affluendo per organizzarsi.
 
Era a mani vuote.
 
“Cosa significa, dove sono le mappe?” domandò Julian.
“Non erano nella sala…”
“Dannazione!” la interruppe fendendo con l’aria la spada, sfogandosi sulla vegetazione circostante.
“Smettila, vuoi farci scoprire?” lo bloccò Shade fermandogli il braccio con cui impugnava l’arma.
“Ho detto che non erano nella sala, ma penso di sapere dove sono”
“Continua”
“C’è un registro che deve essere firmato ogni volta che qualcuno consulta quelle mappe, dopotutto stiamo parlando di rotte per la guerra…”
“E allora?”
“E allora l’ultimo ad aver firmato è un certo Geoffry Reagan, e mi sono informata – ovvero aveva minacciato il povero soldato che aveva tramortito per entrare nella sala – è il governatore di Antigua”
Julian annuì soddisfatto: “Sembra allora che il governatore riceverà visite questa sera…”













Ma buonasera a tutti!
No, non ho preso un abbaglio, sono consapevole che oggi sia lunedì e non martedì.
Solo che domani ho una lista talmente lunga di cose da fare che ho deciso di prendermi avanti almeno con la pubblicazione del capitolo (che comunque spero vi sia piaciuto).
Abbiamo un bel salto temporale, Shade non è più una bambina e possiamo dire che la storia sia ufficialmente iniziata.
Se non ci saranno problemi mi rifarò viva per il prossimo aggiornamento che sarà martedì 28 novembre (salvo recensioni che anticiperebbero la data di una settimana come ben sapete).
A presto!
E.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** V ***


V - Quando Cortès acquisisce un nuovo membro dell’equipaggio in seguito ad una visita di cortesia
 
In pochi istanti Antigua era diventata quasi irriconoscibile.
Tutto era cominciato con dei colpi di cannone e da lì era scoppiato il caos.
Le strade non erano più deserte ma gremite di persone: ogni uomo in grado di impugnare un’arma e combattere aveva lasciato la propria abitazione per andare a cercare di aiutare a tenere testa all’orda di pirati che era sbarcata in città.
Perché era di quello che si trattava: pirati.
Uomini che sembravano posseduti dal demonio e che quasi comparendo dal nulla avevano cominciato a prendere d’assalto le prime abitazioni che trovavano sulla loro strada per depredarle.
Alcuni si erano accontentati degli edifici nei pressi del porto, mentre altri erano andati diretti verso le ville sicuramente più fornite sotto il punto di vista di oro e gioielli da rubare.
Quella del governatore era ovviamente una di quelle.
 
 
Affacciatosi alla finestra della sua stanza, non appena vide i pirati avvicinarsi di corsa alla villa per poi tentare di buttare giù la porta Harry non ci pensò due volte prima di correre ad impugnare la sua spada, per andare a sua volta a difendere la propria dimora.
Non riuscì nemmeno ad arrivare al primo piano che venne intercettato e fermato da suo padre.
“Cosa pensi di fare ragazzo? Torna subito di sopra!”
“Padre! Non potete chiedermi di farmi da parte…”
“Infatti non te lo sto chiedendo: è un ordine! Vai nel mio studio e chiuditi dentro. Sei il figlio del governatore, non ho intenzione di pagare un riscatto per una tua cattura se può essere evitata” disse mettendogli in mano la chiave dello studio in questione.
“Ma padre…”
“Harry, vai!”
Ormai i rumori dello scontro indicavano che i pirati erano riusciti a entrare.
Nonostante tutto il ragazzo obbedì all’ordine del padre, ricominciando a salire le scale mentre il genitore prendeva la direzione opposta, anche lui spada alla mano.
Fece come gli era stato detto: raggiunse lo studio e chiuse la porta a chiave dopo esserci entrato.
Sperava solo che nessuno venisse a conoscenza del fatto che il figlio del governatore della città era a nascondersi mentre tutti gli altri erano fuori a combattere.
Dallo studio il clangore delle spade e le urla degli uomini arrivavano quasi ovattati: i muri della casa erano spessi e la porta della stanza era molto più massiccia rispetto a quelle del resto della casa.
Se avessero voluto buttarla giù avrebbero avuto il loro bel daffare.
Abbandonata la spada sopra il tavolo attorno al quale suo padre si riuniva con i suoi collaboratori quando si incontravano direttamente alla villa e non al forte, Harry cominciò a girare per lo studio.
Si azzardò a guardare fuori dalla finestra che c’era alla spalle della scrivania, nessuno l’avrebbe notato visto com’erano tutti intenti a combattere.
Nonostante quello aveva la strana sensazione di essere osservato, il che era impossibile visto che era chiuso a chiave, da solo, all’interno dello studio.
Fu osservando il ripiano della scrivania che notò qualcosa di strano.
 
Non più tardi di quel pomeriggio suo padre era andato al forte per consultare delle mappe, ma non avendo concluso le aveva portate a casa.
Le aveva studiate per tutta la serata e quando Harry era andato a tirarlo fuori dallo studio per scendere a cena – la signora Reagan ci teneva che cominciassero a mangiare tutti insieme – le aveva lasciate aperte sullo scrittoio.
La stanza era sempre chiusa in sua assenza, solo lui aveva la chiave, e persino la servitù poteva pulire solo in sua presenza.
Harry si ritrovò ad essere molto più che sorpreso quando si rese conto che le mappe non c’erano più.
Sparite.
Frugò rapido tra le altre scartoffie presenti sul ripiano, ma di quelle che stava cercando nemmeno l’ombra.
Ombra… era un’ombra quella che si era appena mossa alle sue spalle?
Si girò di scatto ma non c’era nessuno, la stanza era deserta come quando era entrato.
Urla provenienti dal corridoio e il rumore di passi frettolosi di qualcuno che correva gli fecero riportare l’attenzione sulla porta: la chiave ancora nella toppa dove l’aveva lasciata.
 
Raggelò: aveva appena realizzato una cosa che avrebbe dovuto fargli scattare un campanello d’allarme all’istante.
Non aveva dovuto usare la chiave per entrare nello studio, quando era arrivato la porta era già aperta.
E se la porta era già aperta si spiegava anche la mancanza delle carte nautiche dalla scrivania del padre…
“A quanto pare stasera potrò divertirmi un po’ anche io, nonostante tutto…”
Una voce lo fece sobbalzare ma una lama fredda e potenzialmente affilata appoggiata alla sua gola lo fece desistere dal provare a liberarsi in qualsiasi modo: un movimento sbagliato e alla piccola macchia di sugo che si era fatto durante la cena sulla camicia se ne sarebbe aggiunta un’altra ben più grande del suo sangue.
“Molto bravo, hai già capito come ci si comporta” continuò la voce.
Il tono era basso, le parole pronunciate lentamente e sembrava che chiunque fosse il suo assalitore avesse qualcosa davanti alla bocca, magari per tenere il viso coperto?
Aveva qualche difficoltà ad associare la voce ad un viso: da quel poco che aveva sentito avrebbe detto che la persona alle sue spalle fosse molto giovane, quasi un ragazzino, ma non era possibile: giusto?
Quello era comunque l’ultimo dei suoi problemi.
“Adesso andiamo e non fare scherzi” venne ammonito con una pressione più accentuata della lama per qualche secondo per poi essere spinto in avanti.
L’idea di suo padre di mandarlo a nascondere nel suo studio non era stata poi così brillante…
 
 
Julian si stava più o meno divertendo.
La casa del governatore non era poco sorvegliata come si aspettava – tenendo conto delle precedenti incursioni – e l’uomo stesso era un combattente molto più abile di quanto si sarebbe potuto dire ad una prima occhiata.
Sicuramente più abile dei governatori che lo avevano preceduto nelle altre città che se l’erano data a gambe levate appena aveva estratto la spada.
In quel momento lui e gli altri due uomini stavano combattendo contro il Governatore Reagan e un buon numero di guardie, palesemente in inferiorità numerica, nell’ingresso della villa giusto davanti all’inizio della scalinata principale che portava ai piani superiori.
Di tanto in tanto gli piaceva tornare a mettersi alla prova in un duello degno di essere chiamato tale anche se, nonostante tutto, cominciava a sperare che Shade si desse una mossa perché dopo il primo quarto d’ora aveva iniziato a stufarsi.
Un movimento al limitare del suo campo visivo, due figure comparse silenziosamente a metà delle scale e Julian si lasciò scappare un sorriso impertinente diretto al suo avversario.
Impegnò la spada dell’uomo e approfittando dell’attimo lo colpì allo stomaco con una ginocchiata che lo fece piegare in due per poi spintonarlo all’indietro in modo da prendere le distanze e fargli perdere l’equilibrio.
Non era il massimo dell’onestà come mossa, ma dopotutto era un pirata…
“Le consiglio di arrendersi e lasciarci andare governatore. Spero che sappia riconoscere quando si è stati battuti” disse Julian tenendo sempre puntata la spada contro l’avversario che si stava riprendendo dal colpo subito.
Anche gli altri soldati, che avevano notato quello che aveva visto Julian si fermarono.
“Non mi sembra di essere stato battuto, ancora” ribattè Reagan raddrizzandosi e rinsaldando la presa sull’elsa della spada. “E voi non sembrate nella posizione di potermi minacciare, pirata. Uomini!” esclamò poi invitando i soldati a riprendere da dove si erano interrotti.
“Ah no?” lo schernì Julian, il suo sorriso ancora più ampio, facendo un cenno con la testa verso un punto alla spalle dell’uomo.
Lo sguardo deciso del pirata fece evidentemente capire al Governatore che Julian non stava bluffando perché, pur senza abbassare la guardia, l’uomo si girò.
La presa sulla spada si fece meno salda per un momento quando si ritrovò davanti il figlio con un pugnale puntato alla gola da un pirata completamente vestito di nero dalla testa ai piedi: i capelli erano coperti da una bandana e anche il resto del viso era celato sotto una striscia di stoffa nera, solo gli occhi scuri erano scoperti.
“Governatore, ho il piacere di presentarvi l’Ombra della Doomed Destiny”.
 
L’uomo fece passare più volte il suo sguardo dall’aggressore del figlio, che nel frattempo aveva fatto un cenno con la mano che non teneva il pugnale a voler imitare un inchino, al ragazzo contro cui aveva combattuto fino a quel momento.
Alla fine sembrò collegare il tutto.
“Cortès…” sfuggì infatti dalle sue labbra.
“Al vostro servizio” lo schernì Julian sfiorando appena il cappello con due dita.
“Ora da bravo ordini alle sue guardie di abbassare definitivamente le armi: avete la mia parola che i miei uomini che incontreremo più avanti non attaccheranno”
“E io dovrei credere alla parola di un pirata?”
Julian alzò gli occhi al cielo e subito dopo ad Harry sfuggì un gemito: ancora un po’ di pressione in più con il pugnale e…
Reagan impallidì e fece come gli era stato detto.
“Vi prego, prendete tutto quello che volete ma lasciate andare mio figlio!” supplicò.
“Oh, lo lasceremo andare, ma non subito. Vedete, penso di aver appena trovato il salvacondotto che ci permetterà di tornare alla nave senza che nessuno provi a fermarci…” lo rassicurò il pirata.
Al suo ordine l’uomo che era con lui e altri che avevano finito di esplorare la casa cominciarono ad incamminarsi, dietro di loro lui e Shade con il figlio del governatore.
Harry guardò il padre, pensando ad un modo per fargli sapere quello che i pirati avevano rubato.
Provò a muovere le labbra, ma sorprendentemente l’Ombra lo fermò prima che potesse emettere un solo fiato: “Non una parola, tesoro. O sarà l’ultima”.
Il ragazzo chiuse la bocca e deglutì: aveva capito che non scherzavano.
Intanto la sua mente ragionava.
Sapeva quali erano le mappe che erano state rubate, probabilmente suo padre non si sarebbe ricordato a memoria tutte le rotte che vi erano segnate ma con un po’ di fortuna avrebbero potuto intercettare quella che i pirati volevano seguire, qualsiasi fosse il loro obiettivo.
Perché era per quello che avevano preso quelle mappe, no?
Per le rotte che indicavano.
 
Ormai erano arrivati alla spiaggia dove i pirati erano approdati con le scialuppe, l’ordine di tornare alla nave doveva essere giunto a tutti, come anche quello di non attaccare i pirati finchè il figlio del Governatore fosse stato in mano loro.
Harry non si era mai sentito più stupido e inutile in tutta la sua vita.
Oh, avrebbe trovato il modo di fargliela pagare, fosse stata l’ultima cosa che faceva.
A Cortès e a chiunque fosse stato così codardo e disonesto da attaccarlo quando era disarmato e per di più di spalle.
Era proprio vero che i pirati non avevano onore.
La scialuppa che avrebbe trasportato il capitano, l’Ombra e gli uomini rimasti era l’ultima rimasta a riva.
 
“Noi adesso raggiungeremo la nave, e a seconda di come si comporta decideremo se rimandare indietro suo figlio a nuoto o se concedergli una scialuppa… sapete nuotare vero?” disse Cortès rivolgendosi alla fine direttamente a Harry prendendolo in giro.
Il governatore non potè fare altro che assentire impotente mentre la scialuppa prendeva il largo alla volta della Doomed Destiny con suo figlio a bordo.
 
Proprio quando pensò di poter finalmente tornare a riva il pirata mascherato che l’aveva aggredito parlò di nuovo, e quello che disse gli fece montare un’ondata di paura che non aveva mai provato prima.
“Il ragazzo sa quello che abbiamo preso” disse, la voce sempre camuffata dal pezzo di stoffa.
Il pirata non era più alle sue spalle, ma seduto davanti a lui anche se non aveva comunque smesso di tenerlo sotto tiro con il pugnale che ancora stringeva in mano.
Cortès lo squadrò pensando palesemente a cosa farne di lui.
“Prima o poi il governatore lo scoprirebbe lo stesso, che lo dica lui o meno. Le mappe erano in bella vista sulla scrivania di Reagan, si accorgerà subito della mancanza” proseguì.
“E a quel punto gli basterebbe chiedere alla Marina di fargliene avere una nuova e poi sarebbero liberi di rincorrerci senza problemi” tirò le somme Julian.
“Non è detto che la rotta resti la stessa…” azzardò Shade ma fu bloccata dal capitano.
“Lo stesso, non posso rischiare di avere anche la Marina tra i piedi” sbottò arrabbiato. “Tu cosa proponi?”
 
Intanto Harry seguiva il dialogo abbastanza stupito: mai una volta aveva sentito il pirata mascherato rivolgersi a Cortès chiamandolo capitano, signore o con un qualunque titolo che implicasse un certo rispetto.
Gli aveva sempre dato del tu e la cosa era alquanto insolita.
 
“Potremo tenerlo”
La voce soffocata dell’Ombra lo riscosse dai suoi pensieri facendolo sudare freddo.
No, non potevano…
“Possiamo usarlo come stasera se dovessimo essere raggiunti, e un mozzo in più a bordo fa sempre comodo: se vuole mangiare dovrà rendersi utile”
Julian annuì soddisfatto dalla soluzione trovata da Shade: “Mi sembra accettabile”
Qualcuno recuperò una bottiglia – vuota – dal fondo della scialuppa mentre Shade tirava fuori dalla giacca un carboncino e le mappe, strappando via un pezzo di carta bianca dal bordo.
Scribacchiò qualcosa dopodichè piegò il foglietto per farlo entrare nella bottiglia che successivamente venne sigillata e buttata in mare verso la riva, la corrente avrebbe fatto il resto.
La scialuppa cozzò contro la fiancata della nave, una scala di corda venne fatta calare fino a loro mentre altre funi provviste di ganci li raggiunsero affinchè gli uomini a bordo potessero issare la scialuppa.
Harry lanciò un’ultima occhiata al punto in cui la bottiglia era sparita tra le onde.
“Male che vada lo capiranno da soli che non abbiamo intenzione di restituirti, non credi?” lo canzonò Julian prima di afferrare la scala e cominciare a salire.
Il figlio del Governatore ricacciò indietro la risposta pungente che avrebbe voluto dare: chissà quanto tempo avrebbe passato a bordo, sarebbe riuscito a vendicarsi.
Alla fine fu il penultimo a lasciare la scialuppa, dietro di lui solo l’Ombra che ancora gli puntava il pugnale alla schiena.













Scusate per l'ora, ma se di giorno sono di turno è già tanto se a fine giornata mi resta la forza per accendere il computer...
Stiamo entrando sempre più nel vivo della storia, Shade e Harry si sono finalmente (re)incontrati.
Stavolta sono un po' di corsa (non posso mica arrivare tardi all'appuntamento con il cuscino, no?) quindi vi saluto e vi rimando direttamente al prossimo aggiornamento: martedì 5 dicembre (o 28 novembre in caso, sapete come funziona).
'Notte
E.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** VI ***


VI - Di duelli, idee molto stupide e punizioni meritate
 
Harry non era stato l’unico nuovo acquisto della ciurma della Doomed Destiny.
Con suo grande sconcerto il figlio del Governatore aveva preso atto che durante il loro passaggio ad Antigua i pirati non avevano visitato solo ville e abitazioni, ma anche l’armeria – a giudicare dal bottino in armi e polvere da sparo – e le prigioni.
E ovviamente quegli avanzi di galera ci avevano messo meno di un battito di ciglia per amalgamarsi all’equipaggio della nave, al contrario di lui che continuava ad essere guardato con diffidenza.
Come se avesse potuto fare qualcosa ai danni degli uomini presenti a bordo: ovunque andasse le armi venivano fatte sparire o tenute sotto stretta sorveglianza dai rispettivi proprietari e il ricordo della lama di Shade sul suo collo per il momento era sufficiente per farlo desistere dal fare qualcosa di stupido.
 
Shade era stata una sorpresa, in tutti i sensi.
Non appena la nave aveva spiegato le vele per allontanarsi da Antigua il più in fretta possibile l’Ombra aveva iniziato a svestirsi.
Gli era quasi andata di traverso la saliva quando, una volta che si fu tolta la giacca, era rimasta in maniche di camicia e corsetto, che lasciavano ben intuire le sue forme femminili.
L’equipaggio l’aveva preso in giro per giorni per la sua espressione sconvolta quando la ragazza – perché sì, la famosa e temuta Ombra della Doomed Destiny era una ragazza – si era scoperta il viso e la testa lasciando libera la lunga chioma di capelli biondi.
In quel momento aveva anche capito perché quando l’aveva sentita parlare la sua voce gli era sembrata strana: non era quella di un ragazzino, ma di una donna.
Da parte sua Shade – quello era il modo in cui tutti si rivolgevano a lei – gli aveva riservato un’unica occhiata divertita prima di dare disposizioni al nostromo su quello che ne sarebbe stato di lui e poi sparire con Cortès alla volta della cabina del capitano.
 
Da quella notte erano passate quasi due settimane e mezza ed Harry ancora non si era abituato alla vita sulla nave, non tanto per il fatto di essere in mare per così tanto tempo – era un capitano della Marina dopotutto – quanto per l’essere a bordo di una nave pirata.
La ciurma continuava a trattarlo come un emarginato e lui non faceva nulla per cambiare le cose.
Sospettava che Shade avesse dato ordini precisi al riguardo altrimenti sarebbe probabilmente stato ucciso nel sonno.
L’unico cambiamento sostanziale poteva essere considerato la comparsa di vesciche sulle sue mani a forza di passare il ponte della Doomed con stracci sempre più luridi.
Non stavano scherzando quando avevano detto che un mozzo in più a bordo fa sempre comodo: da quando era arrivato sembrava essere l’unico a dover fare quel lavoro, avrebbe dato qualsiasi cosa per poter fare qualcos’altro, anche rifare le cime sarebbe andato bene, anche per una sola giornata.
 
 
 
҉
 
 
 
Quel giorno, all’ennesima presa in giro da parte della ciurma che si divertiva un sacco a vedere il figlio del Governatore che puliva i pavimenti, scoppiò.
“Adesso basta!” esclamò buttando lo straccio che stava usando dentro al secchio schizzando acqua tutt’intorno.
Gli uomini lì vicino ghignarono.
“Dico sul serio, basta. Mi rifiuto di passare questo ponte un’altra volta! E dubito che il mozzo precedente dovesse farlo ogni giorno
“E quindi cosa proponete? Sapete come funziona: se volete mangiare dovete rendervi utile, e questa è l’unica cosa che potete fare. Temo che qui nessuno si fidi abbastanza da lasciarvi fare qualcosa che abbia a che fare con le armi, con il carico della stiva e nemmeno con la cucina…” rispose tranquilla Shade ignorando il colpo che gli aveva fatto prendere.
Evidentemente quella di muoversi senza far rumore era una sua capacità intrinseca, e il fatto che a bordo girasse quasi sempre a piedi nudi di certo non aiutava.
“Potrei aiutare a rifare le cime…” azzardò Harry e la ragazza scoppiò a ridere non appena ebbe finito di pronunciare l’ultima parola.
“Per ritrovarci tutti i nodi fatti male apposta che si sciolgono al minimo alito di vento che li sollecita un po’? Non credo proprio”
“Per favore! Non ce la faccio più. Fatemi fare qualcos’altro o tanto vale che mi buttate fuori bordo: diventerò matto se vado avanti così” non gli importava neanche di sembrare patetico a supplicare a quel modo.
Vide Shade fare dei cenni con il capo e seguendo il suo sguardo si accorse che il capitano – Julian, come lo chiamava lei – era anche lui lì a seguire la scena.
Alla fine la ragazza si allontanò un attimo, al suo ritorno aveva in mano due spade: gliene porse una.
 
“Duellerete con me” disse. “Primo sangue. In base al risultato deciderò se continuerete a occuparvi del ponte o meno per il resto della vostra permanenza qui” spiegò.
Alle sue parole i pirati si fecero indietro in modo da lasciare libero il campo.
“In guardia!”
Harry si concesse un istante per apprezzare la sensazione di avere una spada in mano dopo tanto tempo per poi mettersi in guardia come gli era stato detto.
Uno sparo a salve diede il via al duello.
Shade gli fu addosso in un attimo, ma da come si muoveva Harry poteva capire che non stava facendo sul serio, non ancora.
Lo stava testando, mettendolo alla prova per farsi un’idea su come combatteva.
Se quella era la sua idea di andarci piano aveva paura di scoprire come sarebbe stato se Shade avesse deciso di impegnarsi davvero.
Scacciò quel pensiero e si concentrò sul combattimento: al primo sangue, nessuno mirava ad uccidere e sarebbe bastato un graffio per far terminare il tutto.
Richiamando alla mente tutti gli insegnamenti ricevuti negli anni dal suo maestro di spada e da suo padre passò al contrattacco.
La ragazza percepì a sua volta il cambiamento e modificò i suoi colpi di conseguenza.
Se gli avessero detto che una donna sarebbe potuta essere così abile con la spada non ci avrebbe mai creduto.
 
 
Il ragazzo non se la cavava male, doveva ammetterlo.
La sua tecnica era impeccabile anche se le sue mosse alla lunga diventavano prevedibili: gli mancava la fantasia e quel pizzico di disonestà che caratterizzavano pressochè qualsiasi pirata non solo in combattimento ma anche nella vita in generale.
Non avrebbe avuto problemi a vincere contro un altro avversario, ma era di Shade, l’Ombra della Doomed Destiny, che si stava parlando.
Lasciò che il duello procedesse per un tempo ragionevolmente lungo, giusto per dare anche un piacevole diversivo alla ciurma, per poi farlo terminare in una manciata di secondi.
Senza neanche rendersene conto Harry si ritrovò seduto per terra, un piccolo taglio sul braccio sinistro e la camicia sporca di rosso in corrispondenza di esso.
Il combattimento era finito e lui aveva perso.
 
Tra le risate generali degli spettatori che già si stavano disperdendo non potè fare altro che abbassare la testa, umiliato.
Due furono le uniche persone che osarono avvicinarsi.
Shade, l’espressione illeggibile, e Matt.
 
Matt era un ragazzo di appena 16 anni recuperato mentre cercava di scappare dalla condanna all’amputazione della mano destra per aver rubato.
Era il più giovane della ciurma, stava simpatico a tutti e anche gli individui più burberi e inavvicinabili erano affezionati a lui.
Era quasi la mascotte della Doomed.
Per non parlare del fatto che fosse un’ottima vedetta e che a volte riuscisse a fare dei veri e propri miracoli con i pochi ingredienti che erano disponibili a bordo dando una mano al povero cuoco.
Ed era anche l’unico che aveva cercato di mettere Harry a suo agio consigliandogli il modo per pulire il ponte in meno tempo, il modo migliore per dare sollievo alle vesciche che aveva sulla mani e dandogli batuffoli di cotone da mettersi nelle orecchie quando il russare degli altri uomini o le loro risate ubriache diventavano troppo per riuscire a dormire la notte.
E proprio per quella gentilezza che il ragazzo gli aveva sempre dimostrato si maledisse una volta di più per quello che stava per fare, ma in quel momento seduto sul ponte, ferito nel corpo e ancora più gravemente nell’orgoglio, gli sembrava l’unica cosa che potesse fare.
Afferrò la mano che Matt gli stava porgendo per aiutarlo ad alzarsi, e come fu in piedi gli torse il braccio dietro la schiena.
Preso alla sprovvista il ragazzo non ebbe neanche il tempo di provare a liberarsi e l’istante successivo Harry aveva portato il filo della spada – che nessuno gli aveva ancora tolto – a contatto con la sua gola.
In un attimo i pirati che stavano già tornando alle loro solite occupazioni fecero dietro front stringendosi di nuovo in cerchio intorno a lui.
Il vago sorriso che era spuntato sul viso di Shade, e che lui aveva notato un attimo troppo tardi, era stato velocemente rimpiazzato da un’espressione fredda e calcolatrice.
 
“Di grazia cosa pensate di ottenere in questo modo?” gli domandò, le parole affilate come lame.
“Voglio che mi lasciate andare” rispose pregando che nessuno notasse il tremolio della sua voce.
Matt si mosse appena e lui aumentò la stretta.
Shade si lasciò andare ad una breve risata, completamente priva di allegria.
“Non possiamo lasciarvi andare e sapete perché”
“Voglio una scialuppa, provviste e che mi lasciate andare” replicò lui.
La ragazza alzò gli occhi al cielo: “Forse non l’avete capito, ma così facendo otterrete solo di farvi ammazzare” disse spietata.
Harry rabbrividì.
Si ritrovò a stringere convulsamente la presa sul braccio di Matt, quasi fosse il ragazzo a dover sostenere lui, quando al fianco di Shade arrivò Julian.
“Volete morire, Harry?” domandò il capitano, l’ira nei suoi occhi rispecchiata in quella degli altri pirati.
Suo malgrado Harry scosse la testa: no che non voleva morire.
“Lasciate andare Matt” gli ordinò.
 
Julian sospirò nel vedere che Harry ancora non mollava la presa: estrasse un flintlock e gliela puntò contro.
A quel punto il ragazzo sbarrò gli occhi ma d’altronde cosa poteva aspettarsi da un pirata?
Ad un secondo cenno del capitano i pirati attorno a lui tirarono fuori a loro volta una pistola puntandola contro lo stesso bersaglio.
Persino Shade – non l’aveva mai vista con in mano un’arma che non fosse uno dei due pugnali che portava sempre appresso o la spada.
 
Finalmente riuscì a costringersi a mollare la presa su Matt lasciando cadere la spada per terra affianco ai suoi piedi.
Il ragazzo gli riservò un unico sguardo ferito prima di sparire tra la ciurma che si richiuse all’istante su di lui per controllare che non avesse neanche un graffio.
Davanti a lui erano rimasti solo Cortès, Shade e Wilson, il nostromo.
Quello tirò fuori dal doppio petto della giacca un rotolo di pergamena che cominciò a scorrere velocemente.
“Trentanove” disse semplicemente prima di passare la pergamena al capitano.
Shade la intercettò a metà strada e cominciò a leggere a sua volta a labbra strette.
“Trentanove” ripetè a bassa voce restituendo la pergamena al nostromo.
 
“Avete detto che non volete morire, quindi ecco quello che vi aspetta: trentanove frustate in base a quanto sancito dalla legge del Codice, e vi sarà risparmiata la vita. Questa è la punizione che spetta a chi colpisce un uomo dell’equipaggio”.
Harry sentì la testa girare ma si sforzò di restare saldo sulle gambe.
“Potete accettare le frustate oppure quello che vi sarà riservato sarà un colpo di flintlock in testa, capite?”
Il figlio del Governatore annuì piano, la nausea si era aggiunta ai giramenti.
“Accetto la frusta” riuscì a sussurrare.
In un attimo Shade gli aveva punto un polpastrello con la punta di un pugnale premendo poi il suo dito su un altro pezzo di pergamena che il nostromo stava porgendo, in modo da lasciare la firma.
“Frustate siano” confermò Cortès non appena il nostromo ebbe finito di riporre le carte.
Lo prese saldamente per una spalla portandolo ad appoggiarsi all’albero di mezzana facendogli intendere che doveva abbracciarlo mentre qualcuno gli toglieva la camicia lasciandogli la schiena nuda.
 
In quel momento, esposto davanti a tutti in attesa di ricevere la sua punizione, si rese veramente conto di quello che era successo.
Le frustate erano la pena da scontare secondo quanto diceva il Codice.
Ma il Codice veniva applicato solo ai pirati, ai membri effettivi della ciurma… e lui non lo era.
Con quella goccia di sangue non aveva firmato solo il suo accettare la frusta, aveva firmato il suo ingresso nell’equipaggio della Doomed Destiny.
Certo, avrebbe fatto qualsiasi cosa per non morire, ma realizzare di essere appena diventato un pirata – almeno sulla carta – lo avrebbe definitivamente fatto crollare se non fosse già stato appoggiato all’albero che lo sorreggeva.
 
Qualcuno gli fece ondeggiare un pezzo di cima davanti alla faccia.
“Mordi, aiuta…” riconobbe la voce di Cortès nonostante le orecchie che gli fischiavano.
Si costrinse ad alzare la testa per prendere la corda: non c’era un uomo della ciurma che non sembrasse soddisfatto per quello che sarebbe successo.
Prima di tornare a guardare il pavimento il suo sguardo si soffermò su Shade.
Al contrario degli altri sembrava non provare nulla: il volto impassibile e gli occhi rivolti nella sua direzione come se però non lo stessero vedendo veramente, quasi persi nel vuoto.
 
“Uno!”
Il primo numero urlato dal nostromo venne accolto da esclamazioni soddisfatte.
Solo che insieme al dolore dovuto al colpo arrivò anche qualcosa che Harry non si sarebbe mai aspettato, non in quel momento.
Un ricordo.













Buon pomeriggio a tutti!
Aggiornamento inaspettato, eh?
Semplicemente so che non avrei avuto tempo di pubblicare nè domani, nè martedì (giorno stabilito) e nemmeno mercoledì... e faccio prima a dire che ho tutta la settimana impegnata, ecco.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto (anche se molto probabilmente mi odierete per come l'ho fatto concludere...).
Prossimo aggiornamento per martedì 19 dicembre! Alla prossima
E.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** VII ***


VII - In cui Harry scopre di non essere l’unico ad avere un’avversione per la frusta e un’isola appare all’orizzonte
 
Flashback (15 anni prima)
Quel pomeriggio come tanti altri il giovane Harry Reagan si stava recando alla villa dei Torres per andare a giocare con Isabelle.
La guardia che lo aveva accompagnato fino a lì si congedò nel momento in cui il signorino entrò nella casa passando automaticamente sotto il controllo e la protezione di guardie e servitù dell’abitazione.
Niente avrebbe potuto prepararlo alla scena a cui si era trovato di fronte non appena entrò nel salone della casa per annunciarsi.
Il padre di Isabelle si era appena scrollato di dosso la moglie, che era malamente caduta indietro, mentre continuava a brandire un frustino di cuoio verso la bambina.
Non aveva mai visto il consigliere in quelle condizioni e all’improvviso i lividi che la sua amica cercava di nascondere in quell’ultimo periodo assunsero un significato.
Le urla di Isabelle lo riscossero dal suo stato di quasi trance, trovarsi davanti a quella situazione lo aveva paralizzato: Torres aveva cominciato a colpire la figlia sulla schiena attraverso il leggero vestitino che la bambina stava indossando che ben presto si macchiò di rosso.
Senza pensarci due volte corse verso l’uomo aggrappandosi poi al braccio con cui brandiva la frusta improvvisata per impedirgli di continuare ad usarla.
“Basta! Così le fate male!” urlò mentre l’uomo cercava di toglierselo di dosso.
“Isa scappa!” esortò poi la bambina che era rimasta ferma a guardarlo con il volto rigato dalle lacrime e allo stesso tempo deformato dal dolore.
Uno schianto, il rumore di vetro che si infrange, e l’attimo dopo Torres era a terra privo di sensi.
Alle sue spalle la madre di Isabelle, il labbro spaccato e un graffio sulla guancia, teneva in mano quello che rimaneva del vaso che aveva appena rotto in testa al marito.
Ringraziò Harry per quello che aveva fatto e prese in braccio la figlia cercando di non toccare dove la frusta aveva lasciato i segni del suo passaggio.
 
Harry avrebbe sempre ricordato che durante tutto il tragitto per portare Isabelle nella sua stanza la bambina non aveva mai lasciato la sua mano, stringendo la presa quando lui aveva provato a scioglierla e accompagnando il gesto con un debole “Resta”, non accennando a lasciargliela nemmeno quando Mrs. Torres li aveva lasciati soli per andare a chiamare il medico e la bambina, sfinita, si era addormentata.
Fine flashback
 
 
 
Shade teneva lo sguardo fisso sulla frusta impugnata da Wilson che calava inesorabile sulla schiena di Harry.
La suggestione era così forte che poteva quasi sentire le sue cicatrici pizzicare.
Nonostante tutto era palese che il nostromo ci stesse andando piano, poteva dirlo dal modo in cui il gatto a nove code colpiva la carne del ragazzo, l’angolazione delle strisce di cuoio e il rapido movimento del polso con cui l’uomo garantiva il minimo tempo di contatto.
Delle poche volte che si era resa necessaria una fustigazione a bordo della Doomed Destiny non aveva mai visto il nostromo stare così leggero.
Eppure nonostante tutto era la prima volta che Shade rimaneva così turbata all’esecuzione di quella punizione.
Non sapeva neanche lei perché ma da quando era iniziata aveva dovuto concentrarsi per non cedere all’impulso di bloccare lei stessa il braccio del nostromo urlando “Basta!”
Qualcosa le diceva che se le posizioni fossero state invertite Harry lo avrebbe fatto per lei, e questo non aveva senso.
 
Harry… quel nome le era maledettamente familiare e quando il ragazzo si era presentato appena arrivato a bordo della nave Julian non aveva perso tempo a prenderla in giro ricordandole che quello era lo stesso nome con cui lei si era presentata a suo padre prima che la prendesse con sé in quei dieci secondi in cui l’aveva scambiata per un maschio.
Per non parlare dello sguardo perplesso e sorpreso quando aveva fatto firmare il ragazzo con il sangue il suo ingresso nella ciurma: si era mossa così velocemente quasi avesse avuto paura che Harry potesse cambiare idea e preferire il colpo di flintlock.
 
“Ventisette…”
La voce del nostromo accompagnata dal rumore del gatto a nove code che incontrava la pelle di Harry per l’ennesima volta la fecero quasi sobbalzare.
Guardare la schiena del ragazzo non fu una buona idea.
E sì che era abituata a peggio…
“Ormai ha quasi finito” le sussurrò Julian stingendole piano il braccio quasi avesse capito quello che le stava passando per la testa.
“Basta, per favore…” supplicò lei di rimando, suo malgrado senza riuscire a distogliere lo sguardo.
Julian sembrò interdetto per un attimo, alla fine sospirò.
Il nostromo venne fermato prima che potesse dare il trentunesimo colpo, ma gli uomini esultarono comunque soddisfatti prima di ritornare al loro posti nonostante la punizione fosse stata accorciata.
Quel damerino aveva avuto quello che si meritava.
 
In quel momento a Harry sembrava di essere all’esterno del suo stesso corpo.
Si accorse a mala pena che qualcuno l’aveva aiutato a staccarsi dal suo appoggio per poi sostenerlo – se non l’avessero fatto sarebbe crollato a terra – ed ebbe persino difficoltà ad aprire la bocca per lasciare che gli sfilassero il pezzo di cima che aveva stretto tra i denti fino a quel momento.
Non c’era una parte di lui che gli rispondesse.
La sua mente era completamente annebbiata dal dolore, la schiena sembrava essere in fiamme come se su di lui avessero usato una frusta infuocata e non riusciva a elaborare un pensiero coerente.
Sicuramente visto da fuori doveva sembrare un caso pietoso: lo sguardo vacuo perso nel vuoto, gli occhi lucidi e le lacrime che alla fine non era riuscito a trattenere che gli rigavano le guance.
Non aveva urlato – corda in bocca a parte – aveva cercato di mostrarsi forte il più a lungo possibile, ma all’incirca verso la quindicesima frustata tutto era diventato semplicemente troppo; gemiti di dolore soffocati e lacrime erano cominciati insieme.
Lo trascinarono di peso , la punta degli stivali che strusciava sul legno del pavimento e la testa a ciondoloni in avanti, ciuffi di capelli che gli ricadevano sulla fronte.
In un unico barlume di lucidità realizzò di non essere stato portato alla sua amaca sotto coperta solo quando il suo volto in fiamme incontrò la consistenza fresca e morbida di un cuscino, il resto del suo corpo appoggiato su una superficie che di sicuro non era un pezzo di tela sospeso in aria.
Svenne.
 
 
Non sapeva quanto tempo era passato da quando aveva perso conoscenza: aveva ancora la guancia appoggiata al cuscino, disteso a pancia in giù sul materasso mentre la luce che entra dalla finestra della cabina gli faceva sapere che doveva essere passato almeno un giorno dalla sua punizione.
Cabina… si trovava nella cabina del capitano!
D’altronde chi mai avrebbe potuto avere a disposizione un letto vero a bordo di una nave?
Provò a muovere appena le braccia e la sua schiena protestò subito: non andava più a fuoco come prima, ma la pelle gli tirava anche solo respirando e non era affatto una bella sensazione.
Probabilmente la situazione sarebbe stata anche peggio se in quel momento non ci fosse stato qualcuno che con tocchi precisi ma delicati gli stava spalmando sulle ferite quello che sembrava essere un unguento…
Cosa?
Irrazionalmente fece per fare leva sulle braccia per tirarsi su e vedere chi fosse lì con lui, ma una mano appoggiata tempestivamente alla base del suo collo glielo impedì bloccandolo prima che potesse fare danni esercitando una pressione che per quanto lieve lo fece gemere e ricadere sul materasso, nonostante la frusta non fosse arrivata a toccarlo in quello specifico punto.
“Non vorrete rovinare il lavoro, spero?” domandò una voce mentre lui cercava almeno di girare la testa il più possibile nella sua direzione.
“Ecco, ho finito”
La sensazione della mano sulla sua schiena sparì di colpo e l’attimo dopo Shade era seduta affianco al letto, per terra, in modo da avere il viso alla sua stessa altezza.
I capelli erano raccolti in una lunga treccia che le ricadeva sulla spalla e si stava ripulendo le mani su un pezzo di stoffa.
“È un unguento che aiuta a far cicatrizzare le ferite” rispose alla sua muta domanda.
“Avete dormito per una giornata intera e ne abbiamo approfittato per sistemarvi la schiena… beh, io ne ho approfittato, mi occupo io di queste cose” lo informò con tono pratico.
Harry intanto continuava a guardarla come imbambolato.
“Grazie” fu la risposta che riuscì a mettere insieme dal momento che Shade continuava a fissarlo aspettando che dicesse qualcosa.
La ragazza annuì sovrappensiero.
 
“Adesso volete spiegarmi cosa pensavate di ottenere minacciando Matt a quel modo?” domandò alla fine tornando di colpo seria.
Harry deglutì maledicendo il fatto che nella posizione in cui si trovava non poteva distogliere lo sguardo.
Shade sospirò: “Mi avete ben tenuto testa durante il duello e ve l’ho proposto solo perché avevo già discusso con Julian riguardo l’affidarvi qualche altra mansione… cosa dovrei fare adesso?”
Il ragazzo aprì la bocca e la richiuse: non sapeva cosa dire.
Shade si rialzò in piedi con la solita grazia silenziosa che la contraddistingueva: “Vi lascio riposare. Più tardi qualcuno vi porterà da mangiare e potrete provare a sedervi” gli disse avviandosi verso l’uscita.
“E… Harry?” richiamò un’ultima volta la sua attenzione, un piede già fuori dalla cabina, nonostante dalla sua posizione il ragazzo non potesse vederla.
“Adesso fate ufficialmente parte di questo equipaggio, vedete di tenerlo presente e comportarvi di conseguenza” la porta si richiuse con un leggero tonfo.
Il ragazzo affondò il viso nel cuscino soffocando un grido nella stoffa.
 
 
 
҉
 
 
 
L’incontro con il gatto a nove code non aveva cambiato il modo in cui veniva guardato dagli uomini della ciurma, ma almeno lui non doveva più pulire il ponte della nave.
In primo luogo perché le condizioni della sua schiena non l’avrebbero permesso – non subito almeno, nonostante il miracolo che Shade aveva fatto – e secondariamente perché se avesse provato di nuovo a mettere in atto un’azione di ribellione tanto avventata non ci sarebbe stato nessuno Codice: lo avrebbero fatto direttamente camminare sull’asse.
Questo nessuno lo aveva detto esplicitamente, ma era l’unica giustificazione al fatto che da quel momento in poi nessuno ci pensava troppo prima di dargli qualcosa da fare.
 
Avevano fatto scalo una volta, e due avevano requisito il carico di navi mercantili che trasportavano alcolici: fosse mai che la ciurma rimanesse senza.
Lo scambio si era svolto tutto sommato abbastanza pacificamente: Julian aveva dato ordine di abbordare la nave ma aveva altresì garantito che non avrebbe torto una capello a nessuno se avessero collaborato.
L’unica cosa che voleva era il carico nella stiva.
Probabilmente i due capitani si erano accorti che in realtà mancavano anche i dobloni frutto dei loro guadagni quando ormai la Doomed Destiny era già sparita all’orizzonte.
Di quello se ne era ovviamente occupata Shade mentre Cortès e il capitano di turno erano impegnati nella trattativa.
 
 
Fu una settimana dopo l’ultimo abbordaggio che l’urlo di Matt fendette l’aria mattutina.
“Terra!”
Nel giro di pochi secondi quasi tutti gli uomini erano sul ponte, Harry incluso, si erano affacciati al parapetto per guardare nella direzione indicata dal ragazzo.
Aveva ragione: all’orizzonte, tanto lontana da sembrare quasi sfocata, una striscia scura spiccava sul filo dell’acqua.
Julian e Shade, al timone con cannocchiale e bussola alla mano, si stavano sorridendo complici.
Harry si era spesso chiesto a cosa sarebbero servite le mappe che avevano rubato ad Antigua, a quanto pareva stava per scoprirlo.
Per l’ora di pranzo la striscia di terra si era trasformata in un’isola: adesso si poteva anche distinguere la vegetazione che vi cresceva.
Trovatosi momentaneamente sprovvisto di un compito – aveva già aiutato a servire il cibo e poi a ritirare le poche stoviglie che c’erano – Harry si era fermato a osservare l’isola.
Un fruscio gli fece capire che Shade era appena arrivata al suo fianco.
“Non mi lascerete scendere a terra, vero?” domandò mestamente.
La ragazza si sedette sul parapetto con un salto e piegò la testa di lato, scrutandolo.
“E perché mai non dovremmo?” chiese divertita.
“Non avete paura che scappi?” ribattè lui.
Shade scosse la testa: “L’isola è deserta, se volete provarci fate pure…” lo provocò “E comunque pensate che il capitano vi lascerebbe scappare così come se niente fosse? Pensavo che le frustate fossero servite a qualcosa…”
Harry lasciò perdere l’isola e si girò a fronteggiare la ragazza.: “Nemmeno voi sembrate molto a vostro agio con la frusta, dico bene?”
 
Non che avesse avuto modo di fermarsi a parlare con lei, ma aveva notato che ogni volta che frusta o gatto a nove code venivano chiamati in causa – la maggior parte delle volte nelle storie che i pirati più vecchi raccontavano dopo cena – la ragazza tendeva a irrigidirsi.
Anche quella volta la sua voce aveva tremato appena quando aveva pronunciato la parola frustate.
 
Forse però era stato più impertinente di quanto si sarebbe dovuto permettere perché l’espressione della ragazza si fece seria all’istante.
“Non capisco come questo potrebbe interessarvi” fu la sua secca risposta prima che scendesse dal parapetto e lo lasciasse da solo.













Buon pomeriggio a tutti.
Ecco finalmente il ricordo che torna in mente ad Harry, ricordo che più avanti troveremo di nuovo, però forse nella testa di qualcun altro...
Ma non dimentichiamoci che a quanto pare Julian e Shade sono riusciti ad arrivare alla loro tanto agognata "isola del tesoro", se così vogliamo chiamarla, che era anche il motivo per cui avevano deciso di tenersi il figlio del governatore a bordo.
Chissà cosa ne sarà di Harry adesso che hano raggiunto il loro obiettivo e non gli serve più... si accettano scommesse.
Appuntamento con il prossimo capitolo martedì 2 gennaio (caspita, saremo già nel 2018!).
E.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** VIII ***


VIII - In cui il tesoro di Reyes non è più un’utopia e Shade ed Harry si sentono in vena di confessioni
 
Alla fine lo avevano fatto scendere sul serio.
Aveva aiutato a portare le pale mentre Julian e Shade facevano strada in testa al gruppo.
Prima di scendere dalla Doomed aveva sbirciato nella sua direzione e aveva visto la ragazza e Cortès che controllavano la bussola mentre tenevano sovrapposte due mappe: una era indubbiamente quella che avevano rubato ad Antigua.
La seconda invece sembrava decisamente più vecchia e sgualcita, e a giudicare dai segni confusi e linee tratteggiate che vi aveva intravisto dubitava che sarebbe riuscito a leggera.
E ora eccoli lì, nel bel mezzo del nulla, circondati dalla vegetazione selvaggia cercando di aprirsi la strada a colpi di spada e macete.
A quanto pareva però Harry era l’unico a non sapere cosa stesse realmente succedendo perché quando il capitano, prima di sbarcare, aveva esclamato: “Signori, il giorno che stavamo aspettando è arrivato!” tutti avevano risposto con sonore grida di giubilo.
Evidentemente il tesoro custodito in quell’isola doveva essere bello grande per suscitare tale entusiasmo.
 
“Qui”
Il gruppo si fermò all’istante all’ordine del capitano ed Harry per poco non rischiò di finire addosso al pirata che gli stava davanti.
Cortès intanto si stava guardando attorno con un’aria vagamente confusa mentre Shade… era sparita, tanto per cambiare.
Il resto degli uomini del gruppo si guardavano tra loro cercando di capire se dovessero cominciare a scavare o meno, anche se il punto in cui si trovavano era così fitto di alberi e cespugli che sembrava impossibile che qualcuno potesse aver sotterrato qualcosa proprio lì.
Il novello pirata stava giusto cominciando a chiedersi se Cortès non avesse scelto un punto a caso quando Shade ricomparve sorridendo.
Harry dovette scuotere la testa per scacciare i pensieri poco casti che gli avevano invaso la mente nel vedere la ragazza così felice e sorridente per concentrarsi invece su quello che stava dicendo.
“È qui” aveva confermato, cominciando poi a indicare con ampi gesti la parete rocciosa che c’era alle loro spalle a cui più di qualche uomo si era appoggiato dopo la lunga camminata.
 
Alla fine le pale non vennero usate per scavare il terreno ma come leve per rimuovere un blocco di roccia discretamente grande da quella che si rivelò essere l’entrata di una grotta.
All’interno la luce del sole filtrava debole attraverso delle crepe più in alto nella pietra, ma nonostante tutto i dobloni, i gioielli e le pietre preziose che erano ammassate in diverse casse e forzieri erano più che visibili.
Dovettero fare diversi giri e richiamare ulteriori uomini dalla nave per svuotarla tutta.
Ogni centimetro di superficie fu scrupolosamente esplorato per essere sicuri di non aver lasciato indietro neanche il più piccolo degli orecchini.
 
I festeggiamenti della ciurma durarono fino a tarda notte, e come biasimarli?
Il bottino era stato spartito e persino lui aveva avuto la sua, piccola, parte – e i pirati ubriachi erano fin troppo felici di raccontare i modi in cui avrebbero speso la loro quota a chiunque fosse stato ad ascoltarli.
La soddisfazione sui volti di Cortès e di Shade spingeva però Harry a credere che dietro i loro sorrisi ci fosse qualcosa di più oltre alla felicità di aver guadagnato talmente tanto in un colpo solo da potersi ritirare a fare la bella vita da qualche parte.
Rimasero ancorati nei pressi dell’isola per un’ulteriore mezza giornata per permettere agli uomini di riprendersi, e dopo aver fatto rifornimento d’acqua ripresero il largo.
Harry si rese conto che adesso la guida di Cortès al timone sembrava più decisa: contrariamente a quanto era stato fino a quel momento si capiva che sapeva bene dove andare.
 
Il quinto giorno di navigazione, subito dopo la colazione, con sua grande sorpresa Shade lo mandò a chiamare invitandolo a raggiungerla sottocoperta per parlare.
“So che la cosa non vi piacerà ma non c’è altro modo” esordì la ragazza non appena fu arrivato.
Lui rabbrividì istantaneamente.
“Julian sarebbe uno sciocco a continuare ad andare per mare portandosi dietro un bottino tanto grande e appetibile. Motivo per cui tra due giorni faremo scalo a Isla Cortès per nascondere la nostra parte” cominciò a spiegare.
“Posso capirlo. E immagino che questa volta non mi sarà consentito scendere…”
“No Harry, questa volta non vi sarà consentito neanche vedere l’isola” precisò Shade.
Il ragazzo rimase un attimo interdetto.
“Cosa vuol dire? Che dovrò restare sotto coperta per tutto il tempo?” realizzò alla fine.
“Harry…”
“No, sono uno di voi ormai, ho firmato, non potete…”
“Siete uno di noi? Forse, ma di certo non lo avete ancora dimostrato e né la ciurma né il capitano si fidano ancora” lo interruppe alzando a sua volta la voce.
“Vi prego non opponetevi, o il vostro comportamento servirà soltanto a dimostrare che nonostante quello che avete appena detto non fate parte della ciurma”
Harry sospirò: “Quindi cosa farete? Mi legherete alla trave della mia amaca?”
Shade scosse piano la testa mordendosi le labbra: “Ho l’ordine di accompagnarvi in cella…”
Il ragazzo la guardò per un attimo con gli occhi sbarrati per poi passarsi una mano tra i capelli.
Alla fine diede l’unica risposta che avrebbe potuto dare: “Va bene, vi seguo”.
 
 
 
Quei due giorni passati agli arresti non erano stati così male.
Gli portavano regolarmente da mangiare, non doveva neanche lavorare e Shade si intratteneva spesso e volentieri con lui a fargli compagnia, come se si sentisse in colpa.
Da quando era salito a bordo della Doomed non aveva mai parlato così tanto con qualcuno, e si poteva quasi dire che, in un certo senso, stava finalmente cominciando a conoscere la ragazza un po’ meglio.
 
“Allora, quanto manca alla fine della mia prigionia?” domandò scherzando Harry quando Shade lo raggiunse la sera del terzo giorno.
La ragazza rispose incredibilmente al suo sorriso: “Ancora poco, non temete. La nave sta salpando e non ci vorrà molto prima che si allontani dall’isola, abbiamo il vento favorevole”
“Permettetemi intanto di ringraziarvi per avermi fatto compagnia in questi giorni. Non avrei voluto distogliervi dalle vostre occupazioni” continuò il ragazzo.
“Nulla che gli uomini non siano in grado di gestire da soli, non preoccupatevi. E se posso essere sincera non vorrei aver disturbato io voi. In certi momenti sembravate così preso dai vostri pensieri… so che non deve essere una situazione facile da affrontare per voi, ma alla fine non ve la state cavando così male” disse lei quasi scusandosi.
“Apprezzo la vostra sincerità e il complimento, ma in realtà non stavo pensando alla mia situazione attuale. In realtà erano più vecchi ricordi, sapete com’è: tornano a galla quando uno meno se lo aspetta” replicò lui.
Shade sembrava sinceramente stupita.
E incuriosita.
Aprì la porta della cella andandosi a sedere sulla panca di fronte a quella su cui era seduto Harry.
“Se non sono indiscreta posso allora domandarvi quali sono questi ricordi che sembravano impensierirvi tanto?” chiese alla fine.
Il ragazza curvò le labbra in un mezzo sorriso.
“Non sono brutti ricordi, non del tutto. Quando ero piccolo ad Antigua avevo come amica la figlia di uno dei consiglieri di mio padre, avevamo la stessa età”
“Quanti anni avete Harry?”
“Venticinque”
Come lei.
Shade assentì: “Continuate pure”
“Ogni momento libero da maestri ed educatori ne approfittavamo per giocare insieme e nonostante fossimo solo dei mocciosi ne combinavamo di tutti i colori… a volte addirittura scappavamo alla sorveglianza dei domestici per sgattaiolare da soli fino in paese. Rubavamo i vestiti al figlio del garzone per non farci riconoscere… i nostri genitori non si arrabbiavano mai così tanto”
“Lo immagino… doveva avere un bel caratterino la vostra amica per venirvi dietro in avventure del genere. Non conosco molte lady che troverebbero divertente indossare vestiti di un garzone…”
“Oh, lo aveva eccome” confermò Harry con una risata. “La maggior parte dei guai che combinavamo erano idee sue…”
“E la storia come finisce? Mi sembrate davvero affezionato… per caso è la vostra promessa sposa?” tirò ad indovinare Shade.
“No, lei…” l’espressione del ragazzo si rabbuiò di colpo e Shade sembrò intuire che forse aveva chiesto troppo.
“Se non volete… non siete obbligato…”
Harry scosse la testa e proseguì.
“Una mattina alla villa si sono svegliati e lei non era nel suo letto. Hanno setacciato Antigua da cima a fondo e alla fine hanno trovato il consigliere Torres, suo padre riverso in una pozza di sangue con un foro in testa in un vicolo vicino al porto. Era da mesi che aveva… problemi, di alcool e di gioco. Nessuno ha mai potuto dire con sicurezza quale fosse stato il suo intento, ma nel fango del vicolo c’erano impronte abbastanza piccole da poter essere della figlia per poter dire che anche lei era lì con il padre. Per non parlare di un pezzo insanguinato del suo vestito. Qualsiasi cosa ne sia stata di lei tutti hanno convenuto avesse fatto la fine del padre. Aveva solo dieci anni…” la voce gli si spezzò alla fine della frase.
“Io… mi dispiace, non avrei dovuto chiedere” disse Shade dopo un istante di silenzio sentendosi in colpa.
“Non dispiacetevi” si affrettò a ribattere Harry. “Ad Antigua parlare della sfortunata Isa Torres è ancora un tabù, ed è la prima volta che ne parlo così apertamente con qualcuno. Credo che mi abbia fatto bene, in realtà… perciò: grazie, per avermi ascoltato”.
La ragazza rispose con un cenno del capo e il silenzio calò di nuovo nella cella: in sottofondo il rumore del mare e quello più attutito degli uomini che andavano avanti e indietro sopra le loro teste.
 
“Ero una trovatella senza genitori e senza un soldo quando il capitano Cortès, il padre di Julian, mi ha scoperta e ha deciso di tenermi con sé. Non so che idea vi siate fatto ma io e Julian ci consideriamo fratelli in tutto e per tutto” parlò Shade rompendo il silenzio.
“Non è stato sempre così: all’inizio non ci sopportavamo, Julian mi detestava, pensava che avessi usurpato il suo posto. Ovviamente non avrei mai potuto… Alla fine dopo un anno abbiamo deciso di risolvere le nostre divergenze una volta per tutte.
Abbiamo fatto a botte per quasi mezz’ora: alla fine eravamo diventati amici, ma avevamo dimenticato che a bordo è vietato scatenare risse”.
Harry la ascoltava senza osare interromperla cercando di capire dove il racconto della ragazza volesse andare a parare.
“Trentanove sono le frustate previste per chi minaccia un uomo con una qualsiasi arma con la chiara intenzione di ferire. Venti sono quelle previste per chi viene coinvolto in una rissa” continuò intanto lei.
Harry spalancò gli occhi, forse cominciava a capire.
“Eravamo ancora troppo giovani per poter sopportare venti colpi di frusta, ma non abbastanza per poterci risparmiare l’intera punizione. Alla fine furono sette colpi a testa, con una frusta singola”
“E da quel momento non avete più avuto un buon rapporto con il gatto a nove code?” provò a domandare Harry.
“In realtà no” rispose Shade scuotendo la testa, lasciando interdetto il ragazzo. “Scoprendomi la schiena saltò fuori che non era la prima volta che qualcuno usava una frusta su di me, e anche se io non me lo ricordo a quanto pare è quello che mi ha causato questa… avversione” spiegò.
“Il punto è che non avrei voluto sottoporre voi alla stessa umiliazione, ma spero che capiate che se nemmeno i figli del capitano vengono risparmiati, a causa del vostro gesto una punizione era d’obbligo, o la ciurma si sarebbe sentita in dovere di farvi pagare personalmente quello che avete provato a fare a Matt…”
Harry si affrettò ad annuire, alzandosi in piedi e raggiungendo Shade che mentre raccontava aveva cominciato a camminare avanti e indietro per lo spazio ristretto della cella.
“Sì, lo capisco”
Quando la ragazza fece di nuovo dietro front se lo ritrovò davanti scontrandosi con lui.
Non era da lei imbarazzarsi, neanche in situazioni come quella, ma in quel momento non riuscì a trattenersi dall’abbassare la testa per non incrociare lo sguardo del ragazzo.
 
“Mi dispiace” sussurrò.
“Non siete stata voi a brandire il gatto a nove code”
“Lo stesso. Se non vi avessi messo nella condizione di spingervi a minacciare Matt nulla di tutto questo sarebbe…”
Non riuscì a concludere la frase perché le labbra di Harry si posarono sulle sue cogliendola alla sprovvista.
Di certo l’esperienza con gli uomini non le mancava, ma sarebbe stata una bugiarda se avesse detto che quel ragazzo contava per lei come tutti gli altri.
Non sapeva come o perché, ma lui era diverso, se lo sentiva.
Una delle mani di Harry passò sotto la sua camicia sfiorandole piano la pelle del fianco che in quel momento era libera dal corsetto che indossava di solito e a quel punto Shade smise di pensare.
Prese con le mani il viso del ragazzo e ricambiò a sua volta il bacio, con grande sollievo di Harry che per un momento aveva pensato di aver appena firmato la sua definitiva condanna a morte.
L’attimo dopo Shade si trovò stretta tra il corpo del ragazzo e le sbarre della cella che le premevano sulla schiena, la bocca di Harry che era scesa sul suo collo mentre lei aveva buttato la testa all’indietro.
Sentì la mano di lui risalire insieme all’altra sotto la camicia, provocandole piccoli brividi dove entrava in contatto con la sua pelle più calda, e stava giusto per fare altrettanto – di certo in quel momento Harry avrebbe potuto benissimo fare a meno dell’indumento – quando un improvviso rumore di passi e una voce li fece bloccare all’istante.
 
“Shade?” chiamò Matt fermandosi fortunatamente all’inizio delle scale che portavano al livello più basso della nave e quindi alle celle dove c’erano loro.
I due si separarono come scottati, Shade che cercava di sistemarsi i capelli mentre Harry si infilava di nuovo la camicia dentro i calzoni.
“Il capitano ha detto che Harry può lasciare la cella, e tra poco è pronta la cena” proseguì il ragazzo.
“Grazie Matt, arriviamo” urlò Shade di rimando pregando non si notasse il fatto che le mancava il fiato come se avesse appena corso.
Sospirarono entrambi di sollievo quando sentirono i passi del ragazzo allontanarsi per risalire sopra coperta.
 
Lei e Harry lasciarono la cella e il tonfo metallico che produsse la porta quando venne richiusa sembrò svegliare definitivamente la ragazza.
Era stato bello, non poteva negarlo, come non poteva non ammettere che non le sarebbe affatto dispiaciuto se ci fosse stato qualcosa in più, ma evidentemente non era destino.
Era arrivato il momento di rimettere i piedi per terra e considerare le cose come stavano.
 
“Harry?”
Il ragazzo si fermò quando Shade lo chiamò prima di cominciare a salire la scala che li avrebbe riportati sul ponte.
Aveva ancora lo sguardo vagamente allucinato per quello che era appena successo.
“Tutta la ciurma lo sa, anche se il capitano darà ufficialmente l’annuncio dopo cena: faremo tappa a Tortuga per qualche giorno, per dare un po’ di soddisfazione agli uomini e permettergli di spendere la loro parte di bottino” disse la ragazza.
Accennò un sorriso verso la fine ma tornò subito seria.
“Non sarai a bordo con noi quando ripartiremo” concluse per poi superarlo e lasciarlo lì incantato a metabolizzare la notizia.













Lo ammetto, stavo quasi per dimenticarmi che oggi era martedì, ma eccomi qui :)
Spero che il capitolo vi sia piaciuto come sempre, prossimo aggiornamento previsto per martedì 16 gennaio.
Alla prossima
E.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** IX ***


IX - Di tempeste, promesse di libertà e lacrime solitarie
 
Sapere che una volta arrivati a Tortuga lo avrebbero lasciato andare non aveva entusiasmato Harry come avrebbe dovuto.
Da quando gli aveva comunicato la novità Shade sembrava evitarlo e a lui sembrava gli fosse sceso un peso sullo stomaco.
La mattina seguente dopo aver lasciato Isla Cortès il capitano l’aveva mandato a chiamare per confermargli quello che la ragazza aveva già anticipato.
 
La mappa che avevano rubato ad Antigua era servita al suo scopo – gli era alla fine stato spiegato che solo sovrapponendo quella ad un’altra che era già in loro possesso sarebbe stato possibile ricavare la posizione dell’isola che avevano depredato – e adesso che non avevano più motivo di incrociare rotte militare non c’era neanche bisogno che lui rimanesse a bordo come garanzia: da quel momento in poi se avessero incrociato navi della marina si sarebbero comportati come avevano sempre fatto quando non avevano un ostaggio da poter scambiare.
Cortès l’aveva congedato quasi deridendolo dicendogli che aveva il permesso di cominciare a pensare a come avrebbe fatto a tornare ad Antigua una volta che fosse stato libero.
 
 
I suoi pensieri vennero però deviati verso tutt’altre preoccupazioni quando una mattina, recatosi sul ponte, trovò Cortès e Shade al timone intenti a discutere animatamente sotto un cielo colorato di rosso dal sole albeggiante.
Nonostante il piacevole tepore raggelò all’istante.
Aveva cominciato ad andare per mare da quando aveva avuto l’età e si era arruolato il prima possibile per seguire le orme del padre, sapeva cosa significava il cielo colorato a quel modo di mattina.
“Dobbiamo trovare un’isola per attraccare prima che la tempesta ci raggiunga” esclamò dopo aver fatto di corsa il tratto di ponte che lo separava dal timone interrompendo Cortès e Shade che ancora stavano parlando tra loro.
La ragazza guardò il cielo sbuffando mentre Cortès lo fulminò con lo sguardo.
“Ma davvero Reagan? E di cosa pensate che stessimo discutendo mia sorella ed io prima che voi arrivaste a interrompere?” gli sibilò. “Pensate davvero che abbia bisogno che un ragazzino viziato mi dica cosa devo fare con la mia nave?”
“Julian, credo che abbia afferrato il concetto” lo frenò Shade mettendogli una mano sulla spalla e incitando allo stesso tempo con lo sguardo il figlio del Governatore a lasciarli di nuovo soli.
Harry non potè fare altro che abbassare la testa e retrocedere mormorando scuse.
Poco più tardi quella stessa mattina tutti gli uomini furono chiamati a raccolta sul ponte per essere messi al corrente della situazione.
Come si poteva prevedere dal colore del cielo presto una tempesta si sarebbe abbattuta sulle acque che stavano navigando.
Come qualcuno aveva proposto, la cosa migliore da fare sarebbe stata trovare riparo presso un’isola o un porto sicuro e aspettare che passasse.
Il problema era che non c’era un isola presso cui fare porto.
Capitano, Ombra e nostromo aveva personalmente esaminato tutte le carte nautiche a loro disposizione e verificato con grande sconforto che non avrebbero fatto in tempo a raggiungere l’isola più vicina prima che la tempesta li raggiungesse, e a quel punto gli sarebbe convenuto fare direttamente rotta verso Tortuga.
 
 
 
҉
 
 
 
La tempesta si abbattè sulla nave forte e spietata, quasi a voler dare conferma che chi aveva avuto l’idea di nominare la nave Destino Condannato ci aveva visto giusto.
Gli uomini faticavano a tenere le loro posizioni a causa del forte vendo ululante e delle onde che puntualmente si riversavano sul ponte minacciando di trascinare fuori bordo chiunque non avesse avuto l’accortezza di legarsi con una cima.
 
Alla comparsa della prima pioggia Shade aveva provato a convincere Harry a rimanere al sicuro, sotto coperta, quello non aveva voluto sentire ragioni: se persino a Matt era consentito rimanere sul ponte a dare una mano lui non sarebbe stato da meno.
Al momento comunque la ragazza non aveva decisamente tempo di continuare a preoccuparsi per lui, impegnata com’era ad alternarsi con il nostromo nell’aiutare il capitano a tenere il timone per cercare di non andare fuori rotta e nel badare al sempre crescente numero di feriti che venivano fatti scendere sotto coperta in modo che lei potesse occuparsi di loro.
 
 
Il terzo giorno, quando ormai l’equipaggio cominciava ad essere davvero allo stremo delle forze, un’unica parola, urlata sopra il frastuono della tempesta che ancora imperversava, ebbe il potere di paralizzare gli uomini per un lungo istante.
 
Maelstrom.
 
Shade e Julian si guardarono negli occhi per una frazione di secondo prima di individuare la minaccia tra le onde e cominciare a girare il timone il più in fretta possibile.
Non era la prima volta che si imbattevano in uno di quei fenomeni, ma quella il vortice si era formato così all’improvviso e così vicino alla nave che solo un miracolo gli avrebbe impedito si finire a riposare sul fondo dell’oceano.
 
 
Un urlo, a mala pena udito in mezzo alla confusione tanto che per un attimo Shade pensò di esserselo immaginato, e poco dopo guardandosi attorno con difficoltà la ragazza riuscì a individuarne la fonte.
Era letteralmente appesa al timone per cercare di mantenerlo come le era stato indicato da Julian, il quale a sua volta urlava ordini a chi fosse abbastanza vicino da sentirli riguardo il liberarsi di parte del carico per rendere la nave più leggera e consentirle di uscire dal vortice che alla fine non era riuscita a evitare del tutto.
La Doomed si era infatti pericolosamente inclinata nel momento in cui era entrata nelle correnti delle acque del maelstrom, e quella era stata la causa dell’urlo.
Matt, che nonostante la tempesta non aveva disertato il suo ruolo di vedetta – alla fine era stato proprio lui ad avvertire tutti del pericolo – era inevitabilmente scivolato dalle sartie dove si era posizionato – pensare di poter restare sulla coffa sarebbe stata una pazzia – e la fune con cui si era legato si era spezzata.
Il ragazzo era rimasto sospeso nel vuoto, la gamba incastrata nelle sartie l’unica cosa che gli impediva di precipitare.
 
Prima che Julian potesse ordinarle di non lasciare il suo posto Shade diede ordine al primo uomo che le passò accanto di sostituirla, mentre lei cominciava ad attraversare di corsa il ponte, procurandosi una cima strada facendo, per andare a recuperare il ragazzo.
La sua gamba era piegata in un’angolazione strana, ma tutto sommato non sembrava rotta.
L’espressione sul viso di Matt era più che altro da attribuire alla paura che il ragazzo stava sicuramente provando in quel momento.
Shade fece in modo di rimetterlo in sicurezza usando la corda che aveva portato con sé, ordinandogli poi di andare sotto coperta e rimanerci finchè la tempesta non sarebbe passata.
Matt non se lo fece ripetere due volte.
Shade rimase sulla sartia il tempo di vedere il ragazzo sparire dentro il boccaporto più vicino – zoppicando appena – per poi guardarsi intorno per farsi un’idea della situazione.
 
Nel tempo che aveva impiegato per liberare Matte la Doomed sembrava essere riuscita ad uscire dal maelstrom, anche se ancora risultava in balia delle sue correnti.
La pioggia le sembrava appena diminuita, ma non voleva pensarci troppo e nutrire false speranze.
Stava giusto cominciando a scendere per tornare al suo posto quando una raffica di vento particolarmente potente, seguita subito dopo da un’onda la investì in pieno.
Se era riuscita a tenersi sotto al vento non potè fare nulla contro il getto di gelida acqua salata che le si abbattè addosso.
Il sartiame era più che scivoloso dopo tre giorni ininterrotti di pioggia e le sue mani in condizioni non completamente ottime, nonostante avesse cercato di salvaguardarle il più possibile dovendo lei occuparsi dei feriti, non riuscirono a tenere il suo peso dopo che i suoi piedi erano scivolati dal loro appoggio.
Era stata così presa dalla foga di aiutare Matt che non aveva pensato di legare lei stessa con una cima per essere più sicura durante la sua arrampicata.
Prima che potesse rendersene conto stava precipitando, le onde che si accavallavano sotto di lei quasi volessero fare a gara per chi l’avrebbe inghiottita.
Chiudere gli occhi fu un riflesso involontario, ma invece dell’impatto con le acque gelide dell’oceano il suo corpo entrò in contatto con qualcosa di decisamente più solido e resistente.
Quello che le aveva appena circondato la vita stringendola con una presa ferrea era senza dubbio un braccio.
Appena fu di nuovo stabile sulle gambe, i piedi appoggiati sul ponte della nave, si girò scoprendo che il pazzo che si era sporto dal parapetto salvandola dalla furia dell’acqua altri non era che Harry.
Il ragazzo aveva una cima legata in vita, in quel momento Shade non riusciva a vedere dove fosse assicurata, e la stava guardando con espressione spaventata e sollevata allo stesso tempo.
Shade gli fece un cenno mettendogli una mano sulla spalla come ringraziamento per poi affrettarsi a ritornare al suo posto al timone affianco a Julian.
Non l’avrebbe mai ammesso ma ancora sentiva la stretta del braccio di Harry attorno al suo corpo.
 
 
 
҉
 
 
 
“Quanto ci fermeremo a Tortuga?”
“Pensavo qualche giorno… di certo non più di una settimana. L’equipaggio potrà fare quello che vuole della sua parte di bottino e voglio che tutti siano perfettamente sobri quando salperemo di nuovo” Julian rispose alla domanda che gli era stata posta mentre finiva di riporre le ultime carte nautiche che aveva consultato.
“E tu potresti anche darmi una mano a trovare un nuovo mozzo e dei sostituti ai membri dell’equipaggio che sono venuti a mancare” aggiunse. “Adesso che quello che abbiamo attualmente verrà congedato dobbiamo pensare a rimpiazzarlo...”
Shade sospirò sedendosi sul letto.
Fece per dire qualcosa ma all’ultimo momento sembrò cambiare idea e continuò a rimanere zitta abbassando lo sguardo sulle sue mani che teneva in grembo.
Julian le si avvicinò e si sedette al suo fianco.
“Tu non vuoi che se ne vada” disse. Non era una domanda.
La ragazza scrollò le spalle: “Mi ha salvato la vita durante la tempesta, e non so come ma in quell’inferno praticamente tutta la ciurma l’ha visto: adesso lo considerano sul serio uno di loro…” cominciò.
 
Era vero, dopo il suo salvataggio la tempesta si era quietata velocemente quasi quanto era arrivata, come se il suo obiettivo nell’abbattersi sulla Doomed Destiny fosse quello di dare l’occasione a Harry di dare prova del suo valore e farsi finalmente accettare dal resto dell’equipaggio.
A quando pareva a parte i morti, i feriti e i danni alla nave quella tempesta qualcosa di buono l’aveva fatto.
 
“E io gli devo la mia vita” concluse Shade.
Julian sorrise furbo facendo brillare gli occhi: “Non mentire a te stessa e nemmeno a me, sorellina. Sai che con me non funziona. Ti sei affezionata a lui, ammettilo”.
Le guance della ragazza assunsero una sfumatura appena più rosata, non era da lei arrossire così facilmente.
Ciò non cambiava che quello che aveva detto Julian fosse vero: si era davvero affezionata a Harry, molto più di quanto pensasse e per motivi a lei sconosciuti, e adesso l’idea che di lì a qualche giorno al massimo non le sarebbe più bastato alzare lo sguardo per vedere i suoi capelli castani mossi dal vento – in quei mesi a bordo della Doomed gli erano cresciuti – e i suoi occhi color nocciola le faceva sentire un vuoto allo stomaco che non aveva mai provato prima.
La mano di Julian che le stringeva la spalla la fece riscuotere: il ragazzo annuì facendole capire che il suo silenzio aveva significato più di un intero discorso.
Il suono di una campana interruppe lo scambio di sguardi avvisandoli che la cena sarebbe stata pronta a breve.
 
Il capitano fu il primo ad alzarsi in piedi e a raggiungere la porta della cabina.
“Sono un pirata ma gli ho dato la mia parola che una volta tornati a Tortuga sarebbe stato libero dal contratto e sarebbe potuto tornare a casa” esordì prima di aprire l’uscio, la mano già sulla maniglia.
“Si è comportato in modo che gli fa onore salvandoti l’altro giorno e mi fa piacere che alla fine sia riuscito a guadagnarsi il rispetto dell’equipaggio, ma lui non appartiene a questo mondo” continuò indurendo appena il tono.
“Non è come te e me che ce l’abbiamo nel sangue: si è adeguato perché non aveva altra scelta, altrimenti non…”
“Vuoi dire che in altre circostanze mi avrebbe lasciata cadere?” lo interruppe di colpo Shade accusandolo con gli occhi
Julian sospirò appena prima di rispondere affermativamente: “Sì Shade, è proprio quello che sto dicendo. Non dimenticarti che lui è il figlio del Governatore di Antigua, una delle colonie più importanti, ed è pure un capitano di corvetta della marina, mentre noi siamo pirati. In altre circostanze – ripetè con una smorfia le stesse parole appena usate da lei – lui e i suoi non esiterebbero un attimo a condannarci alla forca e rimanere lì a guardare mentre penzoliamo nel vuoto. E tu faresti bene a non farti coinvolgere più di quando già non sia. Se vuoi un consiglio: stagli alla larga” concluse.
 
Lasciò la cabina sbattendosi la porta alle spalle mentre un’unica goccia di acqua salata – che però non aveva nulla a che fare con il mare – rigava una guancia di Shade per la prima volta dopo tanto tempo.












Salve a tutti!
Avrei voluto aggiornare ieri (ringraziate 
Maria Marea) ma a causa dei magnifici turni che sto facendo in questo ultimo periodo sono collassata sul letto prima di potermi anche solo avvicinare al computer...
Diciamo che ormai abbiamo superato la metà della storia, piano piano ci stiamo avviando verso la conclusione. Ma non disperate (sì, come no...) ci sono ancora sette capitoli più l'epilogo (mi sembra) prima di arrivare a scrivere la parola fine.
Vi lascio l'appuntamento per martedì 23 gennaio!
E.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** X ***


X - In cui Harry impara che non si dovrebbe mai accettare da bere da uno sconosciuto (membro dell’equipaggio del capitano che odia il tuo capitano)
 
La giornata e mezza che impiegarono per raggiungere Tortuga Shade la trascorse impiegando buona parte del suo tempo nell’evitare Harry.
Le parole che Julian le aveva detto al riguardo del ragazzo erano state dure e l’avevano colpita molto più di quanto avrebbero dovuto, ma lei stessa sapeva che erano vere.
Loro erano pirati, e non era un segreto per nessuno il fatto che bastasse il minimo sospetto per essere condannati alla forca.
Probabilmente persino Harry sarebbe stato interrogato sui suoi mesi passati a bordo della Doomed Destiny per poterlo scagionare da qualsiasi possibile accusa che gli si sarebbe potuta attribuire.
Non poteva fare a meno di pensare che se non fosse stato il figlio di una carica così importante molto probabilmente l’avrebbero condannato ugualmente.
 
Ciò non cambiava però quello che provava lei.
Cresciuta da uno dei pirati più temuti dell’epoca in mezzo ad una ciurma, ovviamente, di soli uomini non aveva avuto molte occasioni per permettersi di provare affetto.
Certo, l’equipaggio era la sua famiglia, Gabriel Cortès era stato un padre per lei e considerava a tutti gli effetti Julian come un fratello, ma quella prima volta in cui i suoi occhi avevano incrociato quelli di Harry, senza maschera e senza travestimenti di mezzo, si era sentita a casa.
Aveva paura anche solo a chiedersi come potesse essere possibile.
E quando Harry l’aveva tenuta stretta tra le sue braccia quando l’aveva salvata da morte certa durante la tempesta si era sentita al sicuro come mai le era capitato.
E no, non voleva neanche pesare a come si era arresa senza pensarci due volte quado si erano baciati.
 
La nave attraccò e molti furono gli sguardi sorpresi quando la ciurma vide Shade scendere a terra per prima, quasi come se stesse scappando, lei che di solito era sempre l’ultima a lasciarla insieme al capitano.
Il capitano in questione si accontentò di osservare la figura vestita di nero della ragazza sparire velocemente confondendosi come un’ombra tra gli avventori dell’isola inarcando appena un sopracciglio ma senza dire nulla.
 
 
 
•••
 
 
 
Harry riappoggiò sul bancone il boccale, rigorosamente vuoto, che si era fatto servire poco prima.
Era il quarto, e a giudicare dallo scricchiolare lamentoso emesso dall’oggetto forse ci aveva messo un po’ più forza del dovuto nel compiere il gesto.
E forse era anche il caso di fermarsi prima di ridursi nelle stesse condizioni in cui versavano alcuni uomini dell’equipaggio della Doomed che aveva incrociato prima di immergersi nella confusione della locanda, non gli era mai piaciuta l’idea di ubriacarsi a quel modo.
 
“Rum per me e il mio amico!”
L’esclamazione, accompagnata da un sonoro pugno picchiato contro il bancone, lo fece sobbalzare.
L’ordine fu servito in fretta e Cortès svuotò il suo bicchiere tutto d’un fiato prima di asciugarsi le labbra con il dorso della mano e girarsi verso di lui.
“Ditemi Harry, vi state godendo i vostri ultimi giorni di libertà?” gli domandò beffardo. “Avete già pensato a come ritornare alla vostra amata isola?”
Il ragazzo prese tempo concedendosi un lungo sorso del liquore che l’altro aveva ordinato.
No, non si stava godendo un bel niente e a tutto aveva pensato tranne ad un modo per fare ritorno ad Antigua.
In realtà l’oggetto che aveva costantemente occupato i suoi pensieri da quando aveva rimesso piede sulla terraferma era uno solo, aveva le fattezze di una ragazza e rispondeva al nome di Shade.
 
Se dopo quanto successo durante la tempesta sembravano essersi riavvicinati, all’incirca una giornata prima dell’arrivo a Tortuga la ragazza aveva ripreso ad evitarlo, e lui non riusciva neanche a capire perché.
Cosa aveva fatto stavolta?
Non avrebbe saputo dare un nome al rapporto che si era creato tra loro, e più volte di quanto gli sarebbe piaciuto ammettere si era ritrovato a paragonare Shade a Isabelle.
Era da quando la sua migliore amica era scomparsa che non trovava qualcuno con cui si sentisse così a suo agio, con cui potesse parlare liberamente.
Qualcuno che lo capisse.
Tra lui e Shade non c’era quell’imbarazzo che si andava a creare ogni volta che doveva approcciarsi a una delle lady di Antigua: convenzioni sociali da rispettare, distanze da mantenere, conversazioni in cui l’unica cosa che conta è il linguaggio appropriato.
Quando parlava con Shade gli sembrava di essere ritornato al tempo in cui lui e Isabelle andavano a giocare nel fango degli orti dietro le loro case.
E Dio solo sapeva quanto gli fosse mancato tutto quello, tanto quanto il tempo che era rimasto chiuso in camera sua quando gli avevano detto che la piccola Isabelle Torres non c’era più.
Si era rifiutato di mangiare per giorni.
 
“Di solito l’alcol scioglie la lingua, ma a quanto pare voi rimanete sempre un uomo di poche parole, non è vero Harry?” dopo quella che gli parve un’eternità Cortès parlò di nuovo.
“Questo è il motivo per cui non sono solito ubriacarmi, capitano” rispose lui piccato finendo in un sorso quello che restava del rum che gli era stato offerto, più che altro per non risultare maleducato.
“Un gentiluomo fino alla fine…”
Una terza voce li raggiunse, spingendo i sue uomini a dare le spalle al bancone per squadrare il nuovo arrivato.
Era un uomo di almeno una ventina di anni più vecchio di loro e dall’aria assolutamente anonima, entrambi si misero in guardia all’istante nonostante quello avesse appena appoggiato sul bancone due boccali pieni tenendo in mano il terzo per sé.
“Per voi, amici!” esclamò accennando ai boccali che nessuno aveva toccato.
“Ci conosciamo?” domandò cautamente Cortès prendendo in mano la bevanda ma senza berne una goccia.
Harry lasciò il suo dov’era.
“Oh no” rispose l’uomo “Non pretendo certo che un uomo importante come il capitano della Doomed Destiny conosca una nullità come me, ma io so chi siete voi e il vostro accompagnatore, e voi sapete chi è il mio capitano”
Cortès si irrigidì all’istante portando la mano sull’elsa della spada.
Harry invece seguiva la scena confuso.
Lo straniero sembrò capire il suo sguardo.
“Ah, capisco…” disse infatti “Vi siete portati dietro il figlio del Governatore di Antigua per tutto questo tempo e non gli avete nemmeno spiegato quello in cui l’avete coinvolto, non è così?” domandò retoricamente.
Cortès sembrava stranamente a corto di parole e l’uomo si sentì autorizzato a continuare.
“Forse non sapete che ancora quindici anni fa il primo capitano Cortès rubò al mio un oggetto di particolare valore: una mappa. Quella indicava la rotta da seguire per raggiungere uno dei più antichi e ricchi tesori su cui un pirata avrebbe mai pensato di poter posare gli occhi. Nonostante non fosse più in suo possesso dopo tutto il tempo che aveva già passato a studiarla il mio capitano riuscì a ricordarsi la mappa e dopo anni – dovete sapere che la mappa era cifrata, non sarebbe bastato semplicemente leggerla per arrivare a destinazione – riuscì a raggiungere il posto, insieme a Cortès. Il fatto che l’attuale capitano della Doomed Destiny sia il figlio penso vi faccia intuire quale fu l’esito dello scontro che ebbe luogo”
Harry annuì impercettibilmente mentre le nocche di Julian erano ormai sbiancate tanto era forte la presa sulla spada.
In effetti quando aveva capito che il ragazzo era il capitano della nave era rimasto sorpreso: si aspettava qualcuno di decisamente più vecchio e lui ovviamente non sapeva nulla della scomparsa prematura di Gabriel Cortès.
“A quanto pare però il figlio ha superato il padre: il tesoro che avete rubato appartiene di diritto al mio capitano” concluse.
 
Cortès si lasciò andare ad un sorriso divertito: “Spiacente, ma temo che a quest’ora i miei uomini abbiano speso buona parte, se non tutta, della quota che gli spettava dal bottino. Puoi andare a dire a Reyes che non c’è più nulla da restituire”
L’uomo scosse la testa: “Quando ha capito le vostre intenzioni – assaltare tutte quelle città per cercare una mappa in particolare ha dato nell’occhio, sapete? – il mio capitano ha ritenuto opportuno prendere provvedimenti. Provvedimenti che alla fine gli assicureranno salvezza, un bottino forse ancora più ricco di quello che voi avete rubato e la vostra scomparsa da questo mondo…”
Cortès sbarrò gli occhi mentre Harry cominciava ad avere un brutto presentimento.
“Reyes ha offerto i suoi servigi diventando un libero corsaro della Marina…”
“Dubito che possa considerarsi libero se è agli ordini di qualcuno…” sputò fuori Cortès
“E si è offerto volontario per recuperare il povero figlio del Governatore Reagan che è stato barbaramente preso in ostaggio e poi rapito durante il vostro sopralluogo ad Antigua, insieme ovviamente a delle importanti mappe con rotte di guerra…”
 
Cortès estrasse la spada in un unico movimento fluido e la puntò al petto dell’uomo.
Quello non si lasciò impressionare: “Suvvia, non vorrete dare spettacolo qui dentro, capitano?”
“Sparite subito dalla mia vista” sibilò Julian in risposta.
“Come volete. Reyes vi aspetta attraccato al largo di Tortuga: potete decidere se andare da lui spontaneamente o se farvi inseguire fino alla vostra disfatta”
L’uomo fece un passo indietro ma Cortès non mosse la spada di un centimetro.
A Harry scoppiava la testa: era stato trascinato in una faida tra pirati che durava, da quanto aveva capito, da più di una decina di anni e per l’ennesima volta si ritrovava ad essere considerato alla stregua di un oggetto di scambio.
Prese il boccale che era rimasto intoccato sul bancone fino a quel momento, sperava fosse qualcosa di forte.
 
 
Il tutto accadde abbastanza in fretta.
Non fece in tempo a bere due sorsi che l’uomo di Reyes aveva sorriso malignamente commentando: “Sarebbe proprio un peccato se il mio capitano dovesse riferire al Governatore Reagan che suo figlio è stato ucciso dal pirata che l’ha rapito…”
L’attimo successivo una lama spuntò dal petto dell’uomo che cadde a terra agonizzante, un’espressione di pura sorpresa in volto, dopo pochi secondi.
Dietro di lui c’era Shade, la spada in mano, con un’emozione negli occhi che non le aveva mai visto, nemmeno quando aveva rischiato di morire durante la tempesta: paura.
Con due lunghe falcate l’aveva raggiunto strappandogli il boccale di mano e buttandolo per terra dopo averne annusato il contenuto.
“L’hai bevuto? Harry, hai bevuto da lì?” gli domandò la ragazza stringendogli il braccio con la mano libera.
Harry non fece in tempo a registrare la sorpresa per il fatto che per la prima volta Shade si era rivolta a lui senza usare il voi e nemmeno a chiedersi come mai fosse così importante sapere se avesse bevuto o meno che la sua testa cominciò a girargli mentre sentiva le gambe diventargli molli.
L’unica cosa che percepì prima di svenire cadendo in avanti furono le braccia della ragazza e di Julian che lo avevano preso al volo.
 
 
 
•••
 
 
 
Riprese conoscenza poco per volta.
Era disteso su una superficie rigida che oscillava periodicamente… era a bordo di una nave… e sentiva la gola in fiamme.
Non fece neanche in tempo a mettersi seduto e a guardarsi intorno che fu costretto a sporgersi di lato per non vomitare il contenuto del suo stomaco – bile e succhi gastrici – direttamente sui suoi pantaloni.
Quando ebbe finito si pulì la bocca passandosela sulla manica della camicia che aveva addosso e dopo aver preso un paio di respiri profondi alzò finalmente lo sguardo.
Era in una cella.
 
“Bentornato” lo accolse una voce con finta allegria.
Voltandosi Harry potè apprendere che anche la cella accanto alla sua era occupata.
Cortès gli sorrise mestamente quando provò ad alzarsi in piedi dal pavimento dov’era rimasto fino a quel momento per avvicinarsi.
“Cosa…?”
“Il rum che l’uomo di Reyes ci ha offerto alla locanda era avvelenato” rispose prima ancora che potesse finire la domanda.
“Per fortuna avete bevuto solo pochi sorsi o non sareste ancora qui…”
Harry annuì: “Dove siamo?”
Cortès fece una smorfia: “A bordo della Vengeance, la nave di Reyes. Dovreste essere felice: state tornado a casa”.













Passo di volata e vi ricordo il prossimo aggiornamento per martedì 6 febbraio (e le mie scuse per il giorno di ritardo con cui ho pubblicato).
Buona serata a tutti
E.


 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** XI ***


XI - Deliri, conversazioni e ancora colpi di frusta 
 
“Non
capisco” sbottò Harry.
Cortès rise: “E sì che pensavo non foste così ubriaco da non capire quello che l’uomo di Reyes ci ha detto quella sera alla locanda…”
“Non ero ubriaco…”
“E allora cosa non capite? Per qualche assurdo motivo che riguarderà il suo tornaconto Reyes si è messo al servizio della Marina per riportarvi a casa. Eccoci qua, qual è il problema?”
“E se io non volessi tornare a casa?” sussurrò il ragazzo tanto che il capitano fece quasi fatica a sentirlo.
“Harry, non appartenete a questo posto, e voi lo sapete”
“Io so che una volta tanto vorrei che non fosse qualcun altro a dirmi qual è il mio posto” ribattè arrabbiato.
“E cosa avreste fatto, sentiamo! Cosa vi dice che sareste rimasto a bordo della Doomed, eh?”
“Ho firmato…”
“E la firma sarebbe stata valida fino a quando non saremmo arrivati a Tortuga”
“Allora avrei firmato di nuovo!”
“E siete sicuro che io ve lo avrei permesso?”
Ormai i due erano in piedi l’uno davanti all’altro, separate solo dalle sbarre che dividevano le celle.
 
“Shade avrebbe…”
“Non nominatela, non osate nominarla!” urlò Cortès a quel punto.
Harry suo malgrado fece un passo indietro: non aveva mai visto il pirata così fuori di sé.
“È tutta colpa vostra! È colpa vostra se siamo qui, colpa vostra se lei è…”
“Se lei è?” lo incalzò visto che non aveva concluso la frase. “Vi ricordo che non è stata mia l’idea di derubare Reyes o di portarmi con voi, quindi come potrebbe essere colpa mia?” aggiunse ancora.
Cortès si fece passare una mano tra i capelli sospirando pesantemente.
Di colpo la rabbia sembrava aver lasciato il posto a ben altre emozioni.
Harry non si lasciò sfuggire il cambiamento.
“Dov’è? Dov’è Shade?” domandò scuotendo le sbarre della cella pretendendo una risposta.
Si ricordava che era stata la ragazza a prenderlo prima che cadesse, ma poi…
“Quanto ho dormito? Cos’è successo?” domandò alla fine abbassando il tono.
 
Cortès si sedette appoggiando la schiena alle sbarre.
“Avete dormito quattro giorni, oggi è il quinto” rispose.
“Avete delirato i primi tre e ieri quando avete cominciato a tranquillizzarvi abbiamo capito che ce l’avreste fatta” spiegò.
A Harry non sfuggì l’uso del plurale ma non lo interruppe.
“L’uomo stava mentendo: Reyes e altri suoi uomini ci stavano aspettando già fuori dalla locanda” riprese poco dopo “Shade ha promesso di non opporre resistenza se in cambio il resto della ciurma e la Doomed Destiny sarebbero state lasciate in pace. Non so come mai Reyes abbia accettato di lasciare indietro la nave…” aggiunse anticipando la domanda che Harry avrebbe sicuramente posto.
“Probabilmente noi tre eravamo l’unica cosa che gli interessava al momento”
 
“Come mai non siamo ancora ad Antigua? Avete detto che siamo in mare da cinque giorni…” si interruppe alla risate fredda dell’altro.
“Non penso che arriveremo ad Antigua molto presto… Reyes vuole averci tutti in ottima forma per la nostra esecuzione”
Harry gelò sul posto.
“No, non la vostra” lo tranquillizzò subito il pirata, forse non capendo che la sua reazione era più dovuta al pensiero di quello che ne sarebbe stato di Shade.
“Anche a mani nude mia sorella può essere considerata un’arma modestamente letale. Di certo non potrebbe mai vincere contro un’intera ciurma ma potrebbe ugualmente arrecare discreti danni. Ecco perché la sua parola riguardo il non opporre resistenza è così preziosa, e Reyes lo sa…” disse Cortès riprendendo la parola.
“Ha ucciso quell’uomo alla locanda perché pensava vi stesse minacciando. Solo dopo ha realizzato che il pericolo fosse molto più sottile della lama di una spada o di un pugnale. Sta di fatto che Reyes le ha subito fatto sapere che sarebbe stata punita per il suo gesto”
Entrambi rabbrividirono.
“Per tutto questo tempo ha rinunciato a metà della sua razione di acqua e cibo per fare avere a voi qualcosa che contrastasse l’effetto del veleno, e ha promesso che avrebbe accettato qualsiasi punizione le avrebbero voluto riservare a patto che le venisse impartita quando voi sareste stato fuori pericolo” spiegò.
 
“Dov’è Shade?” domandò un’altra volta Harry, tutt’a un tratto aveva paura della risposta.
“Sono venuti a prenderla non molto tempo prima che voi riprendeste conoscenza. Temo che in questo momento stia scontando la punizione che Reyes le aveva promesso”.
 
 
“Cosa pensate che le faranno?” domandò Harry dopo diverso tempo, sperando che Cortès non gli urlasse di nuovo contro.
Il pirata scrollò le spalle: “Qualsiasi cosa, immagino. Soprattutto tenendo conto che Reyes è convinto che è colpa di Shade se è successo tutto questo”
“Perché ha rubato la mappa ad Antigua?” domandò l’altro curioso.
“No, no. Perché è stata lei a rubargli la mappa del bottino di cui parlava l’uomo. Quella crittografata”
Harry lo guardò confuso: “Ma l’uomo ha detto che è stato quindici anni fa”
“Esatto”
“A soli dieci anni Shade ha rubato una mappa così importante sotto il naso di Reyes?”
“Proprio così” confermò Cortès con un mezzo sorriso. “In questo modo si è anche guadagnata il suo posto sulla Doomed, la sua storia è una delle preferite dell’equipaggio, non l’avete mai sentita?”
Il ragazzo scosse la testa.
 
“Eravamo a Tortuga, io ero rimasto a bordo, avevo solo dodici anni, e mio padre è sceso a terra con pochi altri uomini per reclutare. Quella volta però gli serviva un solo uomo, uno abbastanza abile da riuscire a sottrargli il medaglione di mia madre senza che se ne accorgesse – aveva cominciato a giocherellare col suddetto gioiello, che teneva intorno al collo, senza neanche accorgersene, sovrappensiero - Gli serviva un ladro. Se qualcuno fosse riuscito a superare la prova avrebbe potuto scegliere se provare a rubare la mappa dalla stessa nave di Reyes oppure rifiutare. Nel caso in cui però avesse avuto successo avrebbe avuto di diritto un posto a bordo della Doomed” raccontò Julian.
“Non ti dico la sorpresa e lo sconcerto degli uomini quando, solo alla seconda sera, mio padre è tornato a bordo con le tanto bramate mappe e una mocciosetta bionda di dieci anni che si ricordava solo il suo nome e la sua età” commentò ridendo.
“Il soprannome ombra glielo ha dato lui, e da quel momento non ha mai voluto farsi chiamare in altro modo. Solo io a bordo conosco il suo vero nome e… beh, a quanto pare anche voi” concluse.
 
Il ragazzo rinunciò a cercare di immaginare la piccola Shade che a soli dieci anni entrava a far parte della ciurma di una nave pirata per guardare confuso il suo interlocutore.
“Cosa volete dire?” domandò.
Lui non sapeva quale fosse il vero nome di Shade.
L’altro alzò le sopracciglia: “Oh, andiamo. Non ha senso che lo neghiate anche se mia sorella si ostina a fare lo stesso. Evidentemente Shade vi ha ritenuto degno di fiducia se vi ha rivelato una cosa così personale come il suo nome di battesimo. Fine della storia, non mi offendo mica”
L’espressione di Harry si fece, se possibile, ancora più confusa: “Vi posso assicurare che Shade non mi ha mai detto nulla a tal proposito, davvero”
“Potete allora spiegarmi come mai mentre deliravate non facevate altro che ripetere il suo nome?”
 
Il ragazzo aprì la bocca per ribattere ma il rumore di un boccaporto che, molto più su, si apriva lo bloccò.
Si sentivano vagamente le grida soddisfatte dei marinai sul ponte seguite subito dopo dal rumore molto più distinto di passi che scendevano le scale di legno che portavano alle celle.
Dei tonfi suggerivano che chi stava scendendo stesse al contempo trascinando qualcosa.
O qualcuno…
“In fondo alla cella” ordinò una voce rude. “Signor Reagan è un piacere riavervi tra di noi” Reyes lo salutò sbeffeggiandolo.
I capelli corvini, legati in una bassa coda, erano in parte nascosti dal cappello che indossava, gli occhi neri che brillavano minacciosi e l’orlo della camicia che usciva dalle maniche della giacca fino a sfiorare l’elsa della spada là dove l’uomo aveva appoggiato la sua mano.
Dimostrava almeno una cinquantina d’anni, ma non per questo sembrava un avversario meno temibile.
 
“Potete metterla con lui, sia mai che voglia ricambiare il favore…” ghignò facendosi da parte.
L’uomo alle sue spalle aprì la porta della cella di Harry, tenendolo sotto tiro con una flintlock giusto per sicurezza, mentre altri due uomini si fecero avanti.
Cortès sbiancò di colpo e anche Harry dovette sorreggersi al muro della cella per non far cedere le gambe.
I due stavano tenendo su di peso Shade, incosciente, la testa piegata in avanti con ciuffi di capelli che erano sfuggiti alla treccia in cui erano stati legati che le erano rimasti incollati al viso.
Essendo una donna non le avevano tolto la camicia – per l’occasione gliene avevano fatta indossare una bianca – che al momento era quasi completamente tinta di rosso e a mala pena riusciva a tenerla coperta visto il modo in cui era stata fatta a pezzi sulla schiena.
 
La schiena.
Ovviamente Harry non aveva avuto modo di vedere le sue ferite quando era stato frustato, ma era sicuro che non fosse niente rispetto allo stato in cui versava Shade in quel momento.
 
I due uomini la mollarono malamente all’interno della cella e lui fece appena in tempo a prenderla prima che sbattesse la testa, per poi stenderla a pancia in giù come meglio poteva.
Era tutto un unico grumo indistinto di carne, sangue e stoffa ed Harry chiuse gli occhi costringendosi a mandare indietro il senso di nausea che lo aveva pervaso.
Se nessuno avesse fatto niente sarebbe morta di sicuro.
Stava continuando a perdere sangue e senza una medicazione appropriata le ferite si sarebbero infettate nel giro di poco.
 
“Cinquanta colpi di gatto a nove code per chi uccide un membro dell’equipaggio al di fuori di regolare duello…” lo schernì Reyes nel frattempo congedando gli uomini che erano scesi con lui.
“Temo però che ogni tanto il nostromo abbia perso il conto…” aggiunse facendo fremere sia Harry che Julian.
“Morirà se non la fate vedere da un medico e voi lo sapete” esclamò Cortès non appena il capitano diede segno di volerli lasciare.
L’uomo ritornò sui suoi passi ghignando: “Il medico e i materiali per curarla costano, cosa potete darmi in cambio?”
“Una volta ad Antigua potrete avere tutto l’oro che volete” intervenne a quel punto Harry.
“Io avrò già tutto l’oro che voglio” rispose il pirata scuotendo la testa.
“Le mie razioni di cibo. E di acqua. Quelle in cambio di cure per lei”
“Vedo che avete capito in fretta…”
Harry si sforzò di sostenere lo sguardo dell’uomo finchè quello non diede loro le spalle salutandoli con un: “Vi farò sapere quando il medico di bordo sarà libero” con chiaro tono di scherno.
 
Il ragazzo riportò la sua attenzione su Shade: non aveva idea da dove cominciare o dove mettere le mani.
Si sfilò la corta giacchetta che aveva ancora indosso e dopo averla arrotolata la posizionò sotto la testa della ragazza in modo che le facesse da cuscino.
“Prendete questa” Cortès aveva allungato un braccio oltre le sbarre porgendogli una bottiglia.
“È l’acqua che mi è avanzata da ieri, ce ne portano una al giorno” disse. “Vedete di cercare almeno di toglierle la stoffa della camicia dalle ferite”
Harry prese la bottiglia annuendo apprestandosi poi a fare quanto gli era stato detto cercando di essere il più delicato possibile.
Quando ebbe finito l’acqua era terminata e mentre si puliva le mani sporche di sangue sulla sua stessa camicia si ritrovò a incrociare lo sguardo con quello stralunato e sofferente della ragazza.
“Shade?” sussurrò attirando anche l’attenzione di Cortès che subito: “È sveglia?” domandò.
La ragazza fece una smorfia, che sarebbe dovuta essere un sorriso per tranquillizzarli, e richiuse gli occhi.
Questo non prima di aver goffamente allungato una mano verso quella di Harry per poi stringerla.
“Non lasciatemi” disse con voce a mala pena udibile al quale il ragazzo reagì spalancando la bocca per lo stupore.
Perché quella era la stessa disperata richiesta che le aveva fatto la sua Isabelle quel pomeriggio di quindici anni prima quando l’aveva salvata dalla frusta che il suo stesso padre aveva brandito contro di lei.
Perché Isabelle era il nome che di colpo si ricordò di aver invocato più volte sotto l’effetto del veleno e se il suo ragionamento era giusto, stando a quanto Cortès aveva detto, Isabelle era anche il vero nome di Shade.

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** XII ***


XII - Incubi, ricordi e tre parole
 
Se non altro il medico sembrò avere più compassione del suo capitano visto che fece tutto il possibile per curare al meglio la schiena di Shade.
La ragazza rimase priva di conoscenza per quasi un’intera settimana, la metà della quale trascorsa in preda alla febbre, ma finalmente cominciava a dare qualche segno di miglioramento.
Harry aveva continuato a rinunciare alla sua razione di cibo e acqua – Julian divideva le sue con lui – per assicurarsi che alla ragazza non mancasse nulla e le ferite sulla schiena, per quanto brutte, si erano finalmente cicatrizzate.
Il fatto che occasionalmente nel sonno la ragazza avesse chiamato il nome del figlio del Governatore aveva lasciato perplessi – e imbarazzati – sia Cortès che il diretto interessato, ma il capitano della Doomed Destiny aveva avuto il buon senso di non commentare.
 
 
Shade si svegliò definitivamente un pomeriggio, ormai erano rinchiusi a bordo della Vengeance da due settimane abbondanti, quando Harry era stato da poco portato sul ponte per prendere un po’ d’aria: Reyes li faceva salire occasionalmente e sotto stretta sorveglianza affinchè non si ammalassero a forza di stare al buio e umido delle celle.
 
“Shade?” la chiamò Cortès avvicinandosi alle sbarre non appena la ragazza aveva cominciato a dare segno di essere sul punto di svegliarsi.
“Julian?” fu il nome pronunciato in risposta con voce impastata mentre la ragazza cercava di girarsi sul fianco cercando di capire in che stato versasse la sua povera schiena e quali movimenti le fossero concessi.
Si sentiva molto debole e la testa le girava anche in quella posizione.
“Shade, grazie al cielo!” esclamò il ragazzo non appena si rese conto che effettivamente era sveglia e lucida.
“Non chiedermi come mi sento o potrei non rispondere delle mie azioni” lo minacciò scherzosamente lei, sapendo bene che in quelle condizioni non sarebbe riuscita a fare proprio un bel niente, mentre si metteva a sedere reprimendo un gemito.
La pelle della schiena le tirava all’inverosimile, ma sapeva che le sarebbe potuta andare peggio.
“Hai dell’acqua?” si ritrovò a chiedere.
Julian fu veloce a porgerle la bottiglia piena per metà anche se per prenderla Shade dovette ugualmente trascinarsi fino al limitare della cella.
“Mi hanno addirittura concesso una camicia nuova” constatò con un mezzo sorriso mentre restituiva all’altro la bottiglia vuota, osservando l’indumento che aveva indosso che, seppure sporco di sangue in alcuni punti, di sicuro non era lo stesso che era passato sotto i colpi del gatto a nove code insieme a lei.
Il pirata scosse la testa non sapendo se restare serio o ricambiare il sorriso.
“Ovviamente no” disse alla fine. “È quella di Harry”
 
Al suono di quel nome l’espressione di Shade si incupì appena mentre girava la testa per guardarsi attorno.
“Non preoccuparti, sta bene. Al momento è sul ponte per i pochi minuti di aria che Reyes ci concede ogni giorno” la tranquillizzò lui.
“Si è ripreso benissimo ed è stato lui ad occuparsi di te visto che hanno ben pensato di metterti nella sua cella quando ti hanno riportata qui” aggiunse.
Shade annuì pensierosa.
 
“Ho fatto uno strano sogno” disse alla fine dopo un lungo attimo di silenzio, appoggiando lentamente la schiena alle sbarre e sibilando appena per abituarsi al freddo e al contatto non esattamente piacevole.
“Ero in una casa, una villa… assomigliava tantissimo a quella del Governatore ad Antigua” cominciò a raccontare dopo aver trovato una posizione vagamente comoda.
“Avevo di nuovo dieci anni e avevo indosso uno di quei ridicoli vestitini che fanno mettere alle bambine di buona famiglia… Dio, ero ridicola…” ridacchiò tra sé e sé, tornando però seria subito dopo.
“C’erano anche un uomo e una donna: vestito elegante lei, parrucca lui… l’uomo aveva un frustino in mano e… e lo usava su di me” disse d’un fiato.
Julian le strinse una mano attraverso le sbarre.
“La donna non riusciva a fare niente, era troppo debole per opporsi, e intanto l’uomo continuava, e poi…” si fermò trattenendo un brivido.
“Poi?” la incoraggiò lui.
Shade sospirò.
“Poi dal nulla è sbucato fuori un bambino, avrà avuto la mia stessa età, urlava all’uomo di fermarsi, cercava di togliergli la frusta di mano. Mi ha urlato di scappare mentre l’uomo era concentrato su di lui - mi ha chiamata Isa! – e poi l’uomo è caduto a terra perché la donna gli ha rotto una bottiglia in testa” concluse alzando lo sguardo incontrando gli occhi azzurri di Julian.
 
“Tu… pensi che sia un ricordo?” domandò lui alla fine.
Shade annuì poco convinta senza dire nulla, sembrava stesse cercando di dare senso a qualcosa nella sua testa, combattuta se dire anche quella cosa o tenersela per sé.
Alla fine cedette.
“Julian?” richiamò la sua attenzione.
“Dimmi Shade” rispose pacatamente lui sapendo che quello che la ragazza stava per dire era sicuramente importante.
Ci fu un altro istante di silenzio e poi…
“Quel bambino era Harry”
 
 
 
•••
 
 
 
L’Harry in questione non venne riportato da loro nelle celle.
Solo la mattina seguente, quando uno degli uomini della ciurma passò come la sera precedente a distribuire pane e acqua per i prigionieri, vennero avvisati che il ragazzo avrebbe trascorso i due giorni rimasti prima di arrivare ad Antigua sovracoperta con il capitano.
La cosa aveva una sua logica: se il Governatore doveva essere convinto che Reyes avesse salvato suo figlio farlo scendere dalla nave in veste di prigioniero sicuramente non avrebbe aiutato, e finalmente adesso che la ragazza si era ripresa non c’era più ragione di rimandare l’arrivo all’isola.
 
Shade e Julian non avevano più riaperto il discorso sul presunto ricordo o sogno che fosse, e più ci rimuginava più la ragazza si convinceva che dovesse essere tutta una coincidenza: anche se non era perfettamente in sé si doveva essere lasciata condizionare dalla vicinanza del ragazzo e la sua mente aveva fatto il resto.
Magari la scena dell’uomo che la picchiava poteva anche essere davvero un ricordo – che avrebbe spiegato una volta per tutte la sua avversione nei confronti della frusta – ma il bambino di dieci anni che assomigliava al ragazzo sicuramente era frutto della sua immaginazione.
L’unica cosa che per lei rimaneva ancora un punto interrogativo, almeno in parte, era il fatto che Harry aveva ripetuto più volte il nome Isabelle quando ancora delirava sotto gli effetti del veleno.
L’unica spiegazione che la sua mente  sembrava voler accettare era che quello fosse sicuramente il nome dell’amica del ragazzo che era morta quando era piccola, e il fatto che quello fosse anche il suo nome doveva essere solo una grande coincidenza.
Di sicuro non era l’unica a portare quel nome.
 
 
 
•••
 
 
 
Il giorno in cui approdarono finalmente ad Antigua vennero scortati entrambi sul ponte della nave in catene, tenuti sotto tiro con una flintlock dagli uomini che li accompagnavano.
La nave era nel pieno delle manovre di ormeggio e già un buon numero di persone si erano affollate nei pressi del porto per assistere.
Shade fu quella che ci mise di più a riabituarsi alla luce del sole visto che alla fine dei conti lei non aveva mai messo piede fuori dalle celle dopo la sua punizione.
Non appena fu di nuovo in grado di tenere entrambi gli occhi bene aperti non potè fare a meno di cercare Harry con lo sguardo.
Trovò il ragazzo mentre stava a sua volta guardando nella sua direzione ed ebbe un tuffo al cuore.
L’aveva sempre oggettivamente considerato bello e vederlo per la prima volta dopo tanto tempo con il viso pulito, i capelli tenuti ordinatamente all’indietro e vestiti degni di essere considerati tali le aveva fatto uno strano effetto.
Si ritrovò a rispondere alla sua espressione di scuse con un’alzata di spalle e un cenno del capo: era un pirata, se la sarebbe cavata come aveva sempre fatto.
 
Non appena misero piede sul pontile si trovarono davanti il Governatore Reagan soddisfatto di vedere Shade e Cortès al suo cospetto, nonostante la sorpresa iniziale nell’apprendere che l’ombra era una donna.
“Guardie: scortate i nostri ospiti alle prigioni” ordinò senza perdere tempo.
Shade fece a mala pena in tempo a vedere il Governatore che batteva una mano sulla schiena del figlio mentre quello veniva stritolato dalla madre, al diavolo l’etichetta, prima di essere trascinata via.
Julian la sorreggeva ancora per un braccio per aiutarla a camminare.
 
Per raggiungere le prigioni del forte presero la via che passava per la parte meno ricca della città.
Pur sapendo che Julian stava facendo lo stesso Shade si diede da fare a guardarsi intorno cercando di memorizzare ogni via e ogni edificio che le sarebbero potuti tornare utili in caso di fuga.
Passarono davanti ad una locanda, Shade vi posò sopra gli occhi e da lì non riuscì più a toglierli tanto che il soldato che le stava alle spalle andò a sbatterle contro – con grande disappunto della sua schiena – non essendosi accorto che si era fermata di colpo.
Dall’edificio vecchio con il muro scrostato della locanda al vicolo che si apriva propri olì in parte il passo fu breve.
Breve quanto il tempo di uno sparo nel buio seguito dal tonfo sordo di un corpo che cadeva per terra senza vita.
“Andiamo, forza” la guardia la spintonò incitandola a procedere e per il resto del tragitto Shade non riuscì a concentrarsi su altro che non fosse quel vicolo.
Le domande che Julian le pose riguardo cosa le fosse successo durante il tragitto non ebbero risposta: l’unica cosa che sentiva in quel momento erano le urla disperate di una bambina.
 
 
Il giorno successivo non ricevettero visite, ma quello dopo ancora la familiare figura di Harry fece il suo ingresso nel carcere.
“Vi farò uscire di qui” fu la prima cosa che disse non appena si fu assicurato che nessuno potesse sentire quello che si sarebbero detti.
“Sarete tutti e due condannati alla forca anche se Reyes sta facendo pressioni a mio padre affinchè sia lui stesso a occuparsi di voi” continuò rivolto a Cortès.
Quello scosse la testa: “Se noi scappiamo la prima persona che sospetteranno per la fuga sarete voi, lo sapete vero?”
Il ragazzo abbassò la testa.
“E se anche ci faceste uscire di qui non avremo modo di lasciare l’isola” aggiunse.
“Questo non è detto” intervenne Shade.
“Ah, allora parli ancora!” la rimbeccò Julian infastidito per il fatto che da quando erano lì la ragazza non avesse pronunciato una parola. “Se avessi saputo prima che bastava la sua presenza…” indicò Harry che arrossì “per farti funzionare la lingua avrei…”
“Taci” ordinò lei gelida.
Cortès sbuffò: “Illuminaci allora”
 
“Sapevo già della presenza di Reyes sull’isola quando vi ho raggiunti alla locanda quella sera. Prima di fare qualsiasi cosa ho rintracciato Wilson e gli ho ordinato di recuperare il maggior numero di uomini della ciurma che avesse potuto, tornare alla Doomed e prendere il largo” i due la guardarono a bocca aperta.
“Non è stato difficile fare una visitina alla cabina del capitano della Vengeance, nulla che non avessi già fatto, e ho copiato un paio di rotte che Reyes avrebbe potuto seguire per tornare ad Antigua in modo he Wilson potesse calcolare bene le tempistiche e alcuni appunti del suo diario di bordo: sapevo già cosa aveva intenzione di fare… Comunque tra due giorni, massimo tre, dovrebbe raggiungerci. Gli ho detto di stargli dietro, senza farsi scoprire ovviamente”.
Gli altri due la guardarono stupefatti, non si poteva dire che Shade fosse una sprovveduta.
“E siete sicura che il nostromo farà come avete detto?” Harry non riuscì a trattenersi dal domandare. “Come fate a sapere che non abbia preso il largo con la Doomed lasciandovi qui?”
La ragazza bloccò Julian prima che si mettesse ad urlare la sua indignazione.
“Wilson era già nostromo a bordo della Doomed quando Gabriel Cortès era capitano, il quale l’aveva salvato da una condanna a morte. Nutriva un grande rispetto per lui quanto per noi, e noi ci fidiamo di lui” rispose tranquillamente e Harry abbassò il capo imbarazzato.
“Se riesce ad arrivare entro tre giorni possiamo farcela” disse alla fine, nessuno commentò l’uso del plurale.
“Sarà meglio che andiate: le guardie potrebbero farsi venire strane idee se vi intrattenete con noi per troppo tempo” lo congedò Cortès.
Il ragazzo assentì con un cenno, allontanandosi subito dopo non senza riservare una lunga occhiata a Shade che però sembrava già di nuovo persa nei suoi pensieri.
 
 
 
•••
 
 
 
Il giorno seguente vennero svegliati non molto gentilmente dalle guardie che erano venute a prelevarli per portarli al cospetto del Governatore.
 
Da quando erano arrivati sembrava che il sonno di Shade venisse continuamente tormentato da incubi, Julian poteva dirlo per il suo lamentarsi a mezza voce e il muoversi inquieta sulla panca che usava come letto: erano anni che condividevano la cabina a bordo della nave e non gli era mai capitato di vederla così.
Quella notte in particolare però sembrava averle superate tutte: un paio di ore prima dell’alba un urlo – che, doveva ammetterlo, gli aveva fatto accapponare la pelle – aveva attraversato l’aria delle celle richiamando anche i soldati di guardia, e l’attimo dopo si era ritrovato a consolare Shade che si era svegliata con le lacrime che le rigavano le guance.
Era riuscita a riaddormentarsi a fatica mentre Julian era rimasto a vegliare su di lei finchè non si era riappisolato a sua volta tenendola ancora stretta tra le braccia.
 
Shade sembrava distrutta e la cosa lasciò perplesse anche le persone che li stavano aspettando nella sala in cui erano stati condotti.
Allo sguardo allarmato di Harry, in piedi al fianco del padre, Cortès non potè rispondere se non con un’impercettibile movimento del capo, a voler dire che nemmeno lui sapeva cosa stesse succedendo alla ragazza.
Quello che si ritrovarono ad assistere fu una specie di processo privato: ovviamente la sentenza era già stata decisa – condanna per pirateria fondamentalmente – e quello doveva essere solo un modo per avere conferma dei reati commessi dai due visto che né Shade né Julian si disturbarono a smentire nessuna delle accuse elencate nella lunga lista che il Governatore aveva letto.
 
“Uno di voi due vorrebbe aggiungere qualcosa?” domandò ironicamente Reagan dopo aver finito.
“No Governatore, penso che lei sia già stato esaustivo” rispose sfrontato Cortès per mascherare la paura che invece provava.
La sentenza sarebbe stata eseguita il giorno dopo e di certo Wilson non sarebbe mai riuscito a raggiungerli in tempo.
Ci avevano provato, ma quella volta non ce l’avevano fatta.
Visto che apparentemente non c’era nient’altro da dire Reagan fece per richiamare le guardie affinchè scortassero i prigionieri alla loro cella, ma prima che potesse dare l’ordine Shade alzò la testa che fino a quel momento aveva tenuto rigorosamente bassa, il suo sguardo fisso sui piedi.
Quando la sentenza era stata letta si era dovuta trattenere dall’imprecare ad alta voce.
Non avrebbe voluto, ma visto come si erano messe le cose quella era forse l’unica cosa che gli avrebbe fatto guadagnare tempo.
Almeno quelle notti di incubi tormentati erano servite a qualcosa e con un po’ di fortuna avrebbero tutti creduto che anche Cortès era al corrente di tutto e avrebbero rimandato così anche la sua esecuzione.
 
Guardò il governatore negli occhi con aria di sfida e parlò.
Tre parole.
Tre semplici parole che però ebbero il potere di far scendere un silenzio immediato nella stanza.
 
 
 
“Isabelle Maria Torres”

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** XIII ***


XIII - Tempo di confessioni e incomprensioni
 
Il silenzio durò il tempo necessario per i presenti di realizzare fino in fondo quello che Shade aveva detto, dopodichè la sala venne invasa da voci più o meno concitate che si parlavano una sopra l’altra.
Il Governatore ebbe il suo bel da fare a richiamare l’ordine, e dopo che i presenti si furono ridati un minimo di contegno non aspettò un attimo prima di avvicinarsi alla ragazza e scuoterla prendendola per la maglia.
“Cosa ne vuoi sapere tu, pirata? Come ti permetti di fare quel nome qui?”
 
La vicenda del consigliere Torres e della piccola Isabelle aveva suscitato molto scalpore all’epoca, e come ben si sa alcune ferite non si rimarginano mai del tutto.
La signora Torres in particolare era sempre stata molto rispettata ad Antigua e perdere la figlia l’aveva devastata: aveva impiegato anni prima di rassegnarsi al fatto che la sua bambina non sarebbe più tornata indietro, non sarebbe più tornata a casa.
Ci aveva messo cinque anni prima di superare il lutto – della figlia più che del marito – e accettare poi di risposarsi.
Il consigliere Blake era sicuramente un uomo molto più equilibrato di Torres e le aveva addirittura dato un maschietto.
La nuova signora Blake non l’avrebbe mai ammesso ma era intimamente rimasta sollevata che non fosse stata un’altra femmina perché sapeva che le avrebbe inevitabilmente ricordato la figlia perduta.
 
 
Shade sostenne lo sguardo del Governatore senza battere ciglio.
L’unica persona che non aveva il coraggio di guardare in quel momento era Harry: da quando il nome della bambina aveva lasciato le sue labbra il ragazzo aveva un’espressione persa, come se fosse stato appena colpito senza aspettarselo.
“Parla, pirata!” la incalzò Reagan.
Shade, con grande sconcerto di tutti, rispose ridendo.
“Non dovevamo essere riportati alla nostra cella, Governatore?” osservò sfrontata facendo un passo indietro per sottrarsi alla presa dell’uomo.
“Cosa sai di quel nome?” insistette ancora quello facendo a sua volta un passo avanti.
“Sa com’è…” si decise finalmente a dire dopo aver riflettuto attentamente per un attimo “I bambini venduti dai mercanti di schiavi non sono cosa poi così rara…”
Alla sua affermazione le esclamazioni più varie riesplosero nella sala, indignate.
Shade si stampò un sorrisetto impertinente sulle labbra facendo ben intendere che non avrebbe aggiunto altro.
A giudicare dalle occhiate che stava ricevendo, se avessero potuto l’avrebbero giustiziata seduta stante.
 
Avevano ovviamente capito male tutti quanti, dal primo all’ultimo.
Troppo presi alla sprovvista nel sentire quel nome che ad Antigua era ancora un tabù nonostante gli anni passati per prestare attenzione alla persona che quel nome l’aveva tirato fuori e, appunto, gli anni che erano trascorsi dal fatto.
Il Governatore sembrava arrivato al limite della sopportazione e diede il tanto atteso ordine alle guardi di far sparire i prigionieri dalla sua vista.
“Si può sapere cosa hai fatto?” domandò Julian a bassa voce durante il tragitto.
“Guadagno tempo” rispose semplicemente Shade.
Il suo piano non era ben congegnato come di solito faceva, probabilmente non era neanche degno di essere considerato tale, ma in quel momento era l’unica cosa a cui poteva appigliarsi.
L’unica cosa su cui poteva contare anche se lei stessa doveva ancora finire di riordinare le idee e i ricordi.
 
Perché passare davanti alla locanda e al vicolo dove era stata rapita aveva fatto scattare qualcosa nella testa di Shade, qualcosa che era riuscita a scavalcare persino la commozione causata dalla botta presa in testa quando era stata travolta da quegli uomini ubriachi a Tortuga.
Adesso sì che si ricordava cos’era successo prima che entrasse nella locanda di Faye, rubasse un certo medaglione per poi essere reclutata nella ciurma della Doomed Destiny da Gabriel Cortès in persona.
Quel senso di confusione era iniziato con lo strano sogno in cui aveva visto Harry bambino e l’incubo che aveva avuto quella notte dal quale si era risvegliata urlando era stato l’ultimo pezzo.
Adesso ricordava.
Tutto.
 
 
Le guardie non furono le sole ad entrare nelle prigioni con i due pirati.
Non appena le porte delle celle si furono richiuse alle loro spalle un Harry dalla faccia sconvolta e i capelli spettinati per la corsa che aveva fatto per raggiungerli dalla sala del consiglio gli si presentò davanti.
“Come hai potuto?” domandò urlando rivolgendosi direttamente a Shade.
“Ti ho parlato di lei, ti ho confessato quanto ci tenessi, quanto ancora ci tenga, e cosa è significato per questa città e tu la usi a quel modo? Per cosa poi? Per guadagnare tempo? Avresti potuto…” si interruppe in tempo prima di urlare ai quattro venti che li avrebbe aiutati lui ad evadere cambiando frase all’ultimo “Avresti potuto inventarti qualsiasi altra cosa! Sei un pirata, no? Me l’hai detto tu che la fantasia non vi manca!”
Shade in quel momento era combattuta: vedere Harry così l’aveva presa alla sprovvista.
Avrebbe potuto provare a spiegargli tutto subito, a patto che le avesse creduto, ma ne sarebbe valsa la pena?
Le tornò alla mente l’ultima discussione avuta con Julian riguardo al fatto che il ragazzo non appartenesse al loro mondo.
Forse era meglio così…
 
“Come avete detto voi Harry, sono un pirata” ribattè alla fine mentre lui riprendeva fiato “E pensavo aveste capito che i pirati pensano prima di tutto a loro stessi, soprattutto quando si parla di salvarsi la pelle. E se qualcun altro può andarci di mezzo al posto nostro tanto meglio”
A quel punto anche Cortès la stava guardando perplesso, non avrebbe mai immaginato che Shade potesse parlare al ragazzo a quel modo, non dopo aver visto quanto ci teneva a lui e il rapporto che si era instaurato tra loro.
Il figlio del Governatore la guardò con tanto d’occhi, come se anche lui si stesse chiedendo se avesse sentito bene.
“Ah, vi darei anche un consiglio” aggiunse alla fine Shade. “piangere come una ragazzina non si addice di certo ad un Capitano di corvetta… giusto per essere sicura che ne siate consapevole” concluse dando poi le spalle al suo interlocutore facendo capire che per lei la questione era chiusa.
L’espressione di Harry passò da arrabbiata a delusa e ferita.
“Pensavo di potermi fidare di voi” si lasciò scappare a mezza voce mentre lentamente tornava sui suoi passi lasciandosi alle spalle la cella.
“Pensavate male” la risposta della ragazza gli arrivò al petto come una pugnalata.
 
“Potrei sapere a cosa ho appena assistito?” domandò pazientemente Julian non appena fu sicuro che Harry non fosse più a portata di orecchio.
“Ho solo ripensato a quello che mi avevi detto: lui non fa parte del nostro mondo, ed era arrivato il momento che qualcuno glielo facesse capire. Almeno così la smetterà di illudersi” rispose Shade con noncuranza.
“Non ti ho mai sentita mentire così male” la provocò lui.
La ragazza scosse il capo: “Come credi”
“No Shade. Hai appena fatto allontanare l’unica persona in questo posto disposta a darci una mano!” ribattè lui alzando la voce.
“E che sarebbe stata condannata dopo la nostra fuga per aver aiutato due pirati a sfuggire alla legge! Se queste sono le conseguenze preferisco aspettare e sperare che Wilson si dia una mossa: non lascerò che Harry finisca sulla forca al posto mio” rispose a tono Shade lasciando finalmente perdere la recita.
Non avrebbe davvero potuto sopportare che Harry facesse quella fine: non dopo quello che aveva ammesso – a se stessa – di provare per lui, e ancora meno dopo aver ricordato quello che lui aveva fatto per lei quando erano piccoli.
Cortès si passò una mano tra i capelli sospirando pesantemente:  “Sei un’idiota!” la accusò. “È ovvio che l’avremo portato con noi!”
Shade lo guardò male: “Hai detto tu che non sarebbe mai potuto entrare a far parte dell’equipaggio della Doomed, tu che hai detto di stargli alla larga e non farmi coinvolgere!”
Litigare a quel modo era veramente frustrante: avrebbe voluto urlare a piedi polmoni e invece era costretta a farlo sottovoce per non farsi sentire da eventuali guardie.
Il pirata alzò gli occhi al cielo: “Questo perché avevo paura che la sua influenza su di te fosse maggiore della tua su di lui, ma evidentemente mi sbagliavo visto che alla fine mi ha praticamente chiesto di rimanere… e poi da quando fai quello che ti dico? Non l’hai mai fatto” concluse.
I due si guardarono per un attimo senza aggiungere altro.
Shade si sedette sulla panca della cella imitata poco dopo da Julian.
“Almeno mi puoi spiegare chi diavolo è questa Isabella Maria Torres che a solo nominarla sono impazziti tutti?” domandò alla fine il ragazzo abbassando ancora di più la voce.
Shade si lasciò scappare un mezzo sorriso: “Sono io”
E cercando di non ridere all’espressione di assoluto stupore di Julian – fallendo miseramente – cominciò a raccontargli la sua storia.
 
 
 
҉
 
 
 
Quando Shade aveva finito di raccontare tutto Julian l’aveva abbracciata per lunghi attimi.
“Non vado da nessuna parte, sai?” l’aveva tranquillizzato lei capendo le sue preoccupazioni. “Potrò anche essere nata in una buona famiglia rispettosa della legge, ma ho passato gli ultimi quindici anni con te sulla Doomed senza averne il minimo ricordo, e non avrei il minimo dubbio a rispondere se dovessero chiedermi quale dei due mondi scegliere” aveva messo in chiaro.
“O scappiamo tutti e due o non esiste che io ti lascia andare alla forca da solo, questa è una promessa. Per quanto mi riguarda Gabriel Cortès è mio padre e tu mio fratello, fine della storia. Preferisco essere Shade Cortès che Isabella Torres” aveva concluso il discorso con gli occhi lucidi, a prova di quanto credesse in quello che aveva appena detto.
Julian non aveva fatto altro che abbracciarla di nuovo sussurrandole che non avrebbe potuto desiderare una sorella migliore.
 
 
 
҉
 
 
 
Evidentemente tirare fuori il suo vecchio nome era davvero servito a qualcosa visto che altri due giorni erano passati e ancora nessuno era stato impiccato.
Per questo quel pomeriggio furono sorpresi dall’arrivo di alcune guardie che si fermarono davanti alla loro cella.
Non erano delle prigioni perché erano vestite in modo diverso e ordinarono a Cortès di sedersi in fondo alla cella mentre loro ammanettavano e prelevavano Shade.
Le domande della ragazza su dove la stessero portando rimasero senza risposta e prima che lo perdesse di vista riuscì a lanciare un’occhiata a Julian per tranquillizzarlo: se avesse visto che le cose si mettevano male sarebbe scappata, quel piccolo gruppo di uomini non avrebbe rappresentato un problema per lei.
Restò alquanto interdetta quando capì che la stavano portando fuori dal forte, diretti verso la zona in cui sorgevano le ville del Governatore e dei suoi consiglieri.
Cercò di calmare il battito del suo cuore quando passarono davanti a una villa dall’aspetto abbandonato, le finestre sbarrate e la vegetazione del giardino incolta: era la sua vecchia casa.
Superarono un altro paio di abitazioni prima che entrassero finalmente in una.
Gli uomini la scortarono fino al salone del piano terra, dopotutto quelle ville si somigliavano tutte in quanto struttura, e la fecero sedere su una delle sedie disposte intorno al grande tavolo al centro della stanza.
“La casa è circondata, vedi di non fare scherzi” le ordinò quello che era evidentemente il capo prima di lasciare la stanza insieme alle altre quattro guardie.
Shade alzò gli occhi al cielo trattenendosi dal commentare che il fatto che la casa fosse circondata in caso di fuga non le avrebbe fatto né caldo né freddo.
Il salone aveva due porte di accesso, per non parlare delle finestre: se avesse voluto scappare avrebbe avuto l’imbarazzo della scelta.
Inoltre tecnicamente lei sapeva anche quali erano le posizioni che le guardie tenevano lungo il perimetro della casa, visto che già quindici anni prima aveva avuto la necessità di eluderle per poter sgattaiolare fuori senza essere vista insieme a Harry, ma forse non era il caso di dirlo ad alta voce.
 
La ragazza scosse la testa cercando di mettere da parte il pensiero di Harry e dei piani di fuga che aveva già elaborato quasi involontariamente.
Prima voleva assolutamente capire cosa ci faceva in quel posto.

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** XIV ***


XIV - Di fratelli, lezioni di spada e madri apprensive
 
Non era da molto che aspettava, ma Shade stava già cominciando ad essere stufa.
Se pensavano che farla aspettare l’avrebbe resa più incline a collaborare o a fare qualsiasi cosa per cui l’avevano condotta lì si sbagliavano di grosso.
Si raddrizzò di scatto sulla sedia su cui si era ormai stravaccata da un pezzo – al diavolo la postura, lei si sedeva come voleva – quando l’altra porta del salone, non quella da cui era entrata lei, si aprì e si richiuse in fretta al passaggio di un bambino.
A occhio e croce non doveva avere più di una decina d’anni, i capelli biondo cenere scappati dal codino in cui sarebbero dovuti essere raccolti spettinati e brillanti occhi blu.
Il fatto che abitasse in quella casa o fosse quantomeno figlio di qualcuno di importante lo si poteva capire dal suo abbigliamento. Di certo non era uno dei pargoli della servitù.
La cosa che però incuriosì di più Shade fu il fatto che il ragazzino teneva in mano due spade: una era più corta e aveva tutta l’aria di avere il filo della lama decisamente non affilato, mentre l’altra, solo a giudicare dall’elsa che spuntava dal fodero, dava l’idea di essere davvero una splendida arma.
La ragazza si morse le labbra per non lasciarsi scappare un ghigno al pensiero di quanto sarebbe stato facile disarmarlo anche con le manette.
Finalmente anche il bambino si accorse di non essere solo nella stanza e per un attimo il sorriso soddisfatto sparì dalle sue labbra mentre osservava con espressione più curiosa che spaventata la ragazza che lo stava squadrando a sua volta.
 
“Chi sei?” chiese alla fine muovendo un passo verso di lei, Shade ancora seduta non si era mossa, stringendo appena di più la presa sulle due spade che teneva in mano.
Se la ragazza rimase sorpresa dalla domanda così diretta del bambino non lo diede a vedere.
“Io sono Shade” rispose dopo averlo studiato per qualche altro istante. “Tu?”
Gli occhi del ragazzino sembrarono diventare ancora più grandi quando si rese conto di chi aveva davanti.
 
Dopo l’assalto ad Antigua avvenuto mesi prima la servitù ancora non parlava d’altro, e aveva sentito le cameriere parlare del fatto che il capitano della famosa nave pirata Doomed Destiny e la sua ombra erano stati catturati di recente.
 
“Sei un pirata…” sussurrò facendo un passo indietro.
Shade sorrise: “Proprio così” confermò. “Ma tu non mi hai ancora detto come ti chiami, ragazzino”
Quello non sembrava più molto convinto ma Shade aveva deciso che non avrebbe lasciato andare via così facilmente la sua unica distrazione del momento, e in più non aveva davvero intenzione di fargli del male.
“Hai la mia parola che non muoverò un dito contro di te” promise infatti poco dopo richiamando l’attenzione del bambino su di sé.
“Mio padre dice che non bisogna mai fidarsi della parola di un pirata” si lasciò sfuggire lui.
Shade alzò gli occhi al cielo: “Quello dipende dalle circostanze, ragazzino. E si dà il caso che in questo momento non ci guadagnerei nulla a prenderti in giro. Sono qui ad aspettare non so cosa e mi farebbe davvero piacere avere un po’ di compagnia” rispose più sinceramente di quanto lei stessa avesse voluto.
Comunque non avrebbe mai fatto del male ad un bambino: aveva sempre rispettato questa regola che si era autoimposta, e dopo aver ricordato tutto quello che le era successo quindici anni prima era sicura che l’avrebbe seguita ancora più scrupolosamente.
 
“Mi chiamo Dorian” disse alla fine il bambino cogliendola alla sprovvista.
Aveva riportato la sua attenzione al soffitto della stanza e le era sembrato che il ragazzino di fosse riavvicinato alla porta per andarsene.
Evidentemente ci aveva ripensato.
“Beh, molto piacere Dorian” rispose Shade, il bambino che ancora le stava lontano.
“Come mai sei qui?” aggiunse poi visto che sembrava che Dorian non sapesse cosa dire. “Con quelle spade per di più…”
Il bambino arrossì: “Voglio imparare ad usarla, ma mio padre non ha tempo e l’istruttore si è stufato perché dice che non imparo in fretta e che questo conferma solo che sono ancora troppo piccolo per imparare” confessò.
“Sciocchezze, io ho imparato a usare il pugnale a dieci anni e la spada a undici” disse Shade sorridendo appena ripensando al coltello che Gabriel Cortès le aveva messo tra le mani non appena aveva messo piede sul ponte della Doomed.
A Dorian si illuminarono gli occhi: “Anch’io ho dieci anni!” esclamò avvicinandosi alla ragazza senza quasi rendersene conto.
“Questa l’ha portata il fabbro l’altro giorno, è di mio padre” riprese abbassando appena la voce. “Volevo nasconderla finchè non avesse accettato di insegnarmi” concluse.
Shade mosse la testa in un cenno di approvazione: quel ragazzino le stava simpatico, le piaceva come ragionava.
“Fammi vedere come la impugni” ordinò di punto in bianco.
Dorian la guardò confuso.
“Forza, non ci credo che gliel’hai presa e non hai neanche provato a brandirla. Tirala fuori dal fodero e fammi vedere come la tieni” lo esortò.
Un po’ insicuro il bambino appoggiò la spada spuntata sul tavolo di legno e sfoderò l’altra brandendola davanti a lui con un certo impaccio.
Di sicuro rispetto a quella che verosimilmente gli era stata data per esercitarsi pesava di più.
Shade lo osservò attentamente: non male, ma si poteva migliorare.
Si alzò di scatto e a quel suo movimento Dorian abbassò la spada retrocedendo di qualche passo.
“Nel caso dovessi difenderti devi tenerla sollevata, sai?” lo prese in giro lei sbuffando. “E poi pensavo fosse chiaro che non ti farò del male. Vieni qua che ora ti do qualche consiglio su come tenere quella spada…”
Alla fine fu lei a raggiungere Dorian e ad mettersi al suo fianco mentre pazientemente gli sistemava meglio le mani per fargli capire come avere un maggiore equilibrio anche con un’arma che pesava di più a quanto era abituato, dandogli suggerimenti su come assumere una migliore posizione di gambe e piedi – il tutto non senza un certo impaccio visto che aveva ancora le manette che le tenevano insieme i polsi.
Dal canto suo Dorian sembrava di colpo essersi completamente dimenticato di cosa fosse la persona con cui stava avendo a che fare, troppo felice che finalmente qualcuno lo stesse ascoltando e gli stesse insegnando con calma invece di mandarlo via come succedeva di solito.
 
Dopo avergli brevemente spiegato il tipo più semplice di parata e di affondo Shade si raddrizzò e prese l’altra spada.
Si posizionò davanti a Dorian e “Colpiscimi” gli ordinò.
Il bambino la guardò con tanto d’occhi: “Cosa?”
“Uno non si rende conto cosa vuol dire usare veramente la spada finchè non la incrocia con quella di qualcun altro. Affettare l’aria non serve a nulla, quindi forza: fai del tuo peggio… ma ricordati quello che ti ho appena spiegato” lo istruì Shade, sentendosi strana ma allo stesso tempo fiera di stare insegnando qualcosa a quel ragazzino.
Con una breve rincorsa e un mezzo urlo Dorian le andò incontro facendo scontrare le due lame.
A Shade bastò un minimo movimento del polso e l’attimo dopo Dorian si ritrovò a mani vuote, l’arma a terra.
“Su raccoglila. Devi usare più forza e tenere salda la presa, non puoi lasciarla cadere alla minima botta che ricevi” lo esortò Shade.
 
Per un attimo, ritrovandosi disarmato, un’espressione di paura si era impossessata degli occhi del bambino, pensando che probabilmente Shade ne avrebbe approfittato per prendergli la spada vera e scappare.
Ma la ragazza era ancora lì davanti a lui, a incitarlo a riprovare, e in quel momento Dorian sembrò capire che era stata sempre sincera quando gli aveva ripetuto che non gli avrebbe fatto del male.
Nonostante il suo disastroso primo tentativo era ancora lì, disposta a continuare a spiegargli, cosa che purtroppo accadeva assai di rado.
Suo padre era troppo impegnato con gli affari del Consiglio per passare del tempo con lui, e quelle rarissime volte che lo faceva se Dorian non era veloce ad eseguire quello che gli veniva detto di fare lo lasciava per non perdere tempo.
Sua madre era l’unica che aveva più pazienza con lui, ma essendo un maschio trascorreva la maggior parte del tempo con un educatore che doveva insegnargli, come le chiamava lui, le cose da maschi.
Non che a lui non andasse bene, ma anche quell’uomo non era certo famoso per la sua pazienza e lui comunque avrebbe ritenuto lezioni su come usare veramente le armi molto più interessanti delle letture di codici e carte.
Shade sembrava avere tutte le caratteristiche che avrebbe sempre voluto avesse il suo educatore: paziente, interessato a quello che piaceva a lui… il fatto che fosse un pirata rendeva le cose ancora più interessanti visto che, a quanto dicevano i suoi genitori, i pirati erano persone rozze e brute, senza il minimo senso dell’onore, impazienti e pronte a fregarti quando meno te lo aspetti.
Se mai avesse avuto una sorella maggiore avrebbe voluto che fosse esattamente come lei…
 
“Ti sei incantato?” lo riscosse la voce di Shade.
Lui scosse la testa.
“Volevo ringraziarti” disse.
La ragazza lo guardò confusa: “E per cosa?”
“Per avermi insegnato” rispose lui pronto.
“Ragazzino, qua sono ben lontana dall’averti ancora insegnato qualcosa…”
“Però sei ancora qui… non nel senso che saresti potuta andare da qualche parte ovviamente… ma di solito quando sbaglio mi lasciano da solo finchè non mi riesce bene”
A quello Shade non seppe ribattere.
“Allora, adesso ti spiego… raccogli la spada” si rianimò.
Dorian eseguì entusiasta rimettendosi in guardia.
“Visto che quello l’hai già imparato?” lo lodò Shade apprezzando che effettivamente la posizione fosse corretta.
Gli diede poi disposizioni sui movimenti da eseguire successivamente: una serie di mosse semplici, a cui lei avrebbe risposto con delle parate, che però avrebbero fatto in modo che Dorian capisse meglio cosa stava facendo e come farlo nel modo giusto.
 
In effetti in quella maniera non era così male, e andando piano all’inizio Dorian riusciva a concentrarsi di più sui movimenti e memorizzarli.
Erano presi dal momento, il sorriso sul viso di Dorian riflesso in quello di Shade e le spade incrociate tra loro quando un urlo e un’esclamazione di sorpresa mista a orrore li fece allarmare.
“Dorian!” la voce apparteneva ad una donna.
Sulla cinquantina, con i capelli biondi raccolti in una pettinatura mediamente elaborata e un vestito che indicava chiaramente la classe sociale a cui apparteneva.
Probabilmente era la padrona di casa e Dorian confermò tutte le teorie che la ragazza aveva fatto fino a quel momento chiamandola “Madre!” in risposta.
 
A Shade era bastata un’occhiata per riconoscerla, nonostante fossero passati quindici anni dall’ultima volta, e fortunatamente l’altra sembrava troppo presa dal figlio per far caso al fatto che la ragazza le aveva dato le spalle con la chiara intenzione di non farsi vedere in viso.
Seguì distrattamente i rimproveri che la donna rivolse al figlio (“Si può sapere cosa pensavi di fare? Ti abbiamo cercato ovunque! Come ti è saltato in mente di restare qui dentro con lei? E poi cosa stavate facendo? Dorian… quella non è la spada nuova di tuo padre?”) finchè non decise che sia lei che Dorian ne avevano sentite abbastanza – con la differenza che il bambino non avrebbe mai osato ribattere – e intervenne.
“Suo figlio ha avuto la cortesia di tenermi compagnia mentre aspettavo, potrebbe anche smetterla di rimproverarlo”
La donna tacque all’istante.
“Dorian, vai” ordinò poi facendo cenno alla cameriera che era con lei, che si era fermata sulla porta, di portarlo via.
Lui sembrò rimanerci male ma non gli fu dato modo di fare altro se non ubbidire.
“Ciao Shade!” salutò la ragazza, e prima che venisse trascinato via lei rispose con un “Ciao Dorian” sperando che, anche se non lo stava guardando direttamente, il bambino avesse intuito se non altro dal suo tono che nel farlo aveva sorriso.
 
“Allora, posso sapere come mai mi trovo qui?” domandò Shade quando sentì la porta della sala richiudersi con un leggero tonfo.
Come se ormai non l’avesse già intuito…
“Sarebbe educazione guardare in faccia la persona con cui si sta parlando” disse la donna senza rispondere.
“Come ha fatto notare prima a suo figlio, sono un pirata” ribattè Shade facendo riferimento a uno dei rimproveri mossi al bambino poco prima. “Non me ne faccio nulla delle buone maniere…” concluse.
Sentì la donna sospirare.
“Molto bene” disse alla fine.
“Mi chiamo Maria Blake, sono la moglie del Primo Consigliere Blake, anche se prima di questo matrimonio sono stata sposata con un altro cognome. E si dà il caso che il nome che lei ha tirato fuori con così tanta leggerezza due giorni fa al Consiglio è quello di mia figlia”.

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** XV ***


XV - In cui il buon vecchio Wilson arriva a recuperare i due prigionieri e tutto procede troppo bene per essere vero
 
Shade non diede segno di essere stata toccata da quelle parole.
In realtà se le era aspettate da quando la donna aveva fatto la sua comparsa e lei l’aveva riconosciuta.
Tuttavia in quel momento si era ritrovata a corto di idee per rispondere: continuava a ripetere a se stessa che doveva anche pensare a Julian e ad un modo per tirare tutti e due fuori dalla prigione e scampare la condanna.
Dove diavolo era finito Wilson?
Che fosse stato come aveva detto Harry e avesse fatto male a fidarsi?
 
Nel frattempo la donna aveva ricominciato a parlare e lei si era persa la domanda che le era stata fatta.
“Temo di essermi persa un attimo nei miei pensieri, stavate dicendo?” chiede sempre mantenendo la nota di scherno nella sua voce.
“Ho detto che forse a voi non importa ma a me questa conversazione risulterebbe più facile se potessimo parlare faccia a faccia” ripetè pazientemente la donna.
Probabilmente aveva capito che alzare la voce con lei non avrebbe sortito alcun effetto se non quello di farla irritare e renderla ancor più indisponente.
Shade riflettè.
Forse poteva farlo.
Era da quando erano sati presi da Reyes che non si faceva un bagno, i suoi capelli erano così sporchi che al momento nessuno avrebbe potuto dire fossero biondi e sicuramente anche la sua faccia non era nelle migliori condizioni. Probabilmente aveva ancora tracce del suo stesso sangue addosso.
E poi… quindici anni dovevano pur averla cambiata in qualche modo, no?
 
Lentamente, e comunque senza guardare la donna negli occhi, si girò verso di lei.
Quella sembrò soddisfatta e prese elegantemente posto su uno dei divanetti disposti contro al muro della sala facendo segno alla ragazza di riaccomodarsi pure sulla sedia dov’era seduta prima.
“Cosa vuole da me?” chiese, pur avendo già immaginato dove il discorso sarebbe andato a parare.
“Dove avete sentito quel nome?” domandò subito la donna senza girare intorno alla questione.
“Tortuga” rispose Shade cautamente dopo averci pensato un po’ su.
La donna sussultò: “Mia figlia è Tortuga?”
“Non ne ho la più pallida idea” la ragazza non riuscì a trattenere un ghigno.
“Allora come mai il suo nome è arrivato fino a lì?”
“Perché io dovrei saperlo?”
“Perché avete fatto il suo nome allora? Come potevate sapere che Isabelle era stata portata via da Antigua? Fare il suo nome in qualsiasi altra città non avrebbe portato a nulla”
Shade aprì la bocca e la richiuse: a quello non poteva rispondere.
“Allora sapete davvero qualcosa…” sussurrò la donna in seguito al suo silenzio.
Shade decise di prendere in mano la situazione.
“Voglio che il capitano Cortès venga liberato e che gli sia garantito un passaggio sicuro fino a Tortuga dove potrà riprendere i contatti con il suo equipaggio. Esaudite la mia richiesta e forse potrei essere incline a ricordarmi qualcosa riguardo vostra figlia” parò sicura guardando per la prima volta la donna negli occhi, anche se distolse lo sguardo subito dopo.
 
 
La riportarono alla cella e quando furono di nuovo soli Julian non perse tempo a chiederle dove l’avessero portata.
“Mia madre voleva sapere che fine avessi fatto” spiegò brevemente Shade lasciando il pirata a bocca aperta.
“Non credo che mi abbia riconosciuta comunque: sono passati quindici anni e poi mi hai vista? Non mi faccio il bagno da un mese, non mi riconosco neanche io…” lo tranquillizzò.
“Le ho detto che se ti avessero lasciato andare le avrei raccontato quello che sapevo” concluse poi abbassando appena la voce.
“Che cosa?” si animò Julian. “Dubito che esaudiranno la tua richiesta e se per un miracolo lo facessero tu cosa diresti poi?”
Shade scrollò le spalle: “Non dubitare della forza di volontà di una madre che vuole riavere la figlia perduta” lo prese scherzosamente in giro.
“Non hai risposto alla domanda…”
“Non lo so, ok? Mi inventerò qualcosa. Ormai ha capito che so di cosa sto parlando…”
“Eravamo d’accordo che ce ne saremo andati via da qui insieme”
“Troverei il modo di raggiungerti. Sono l’Ombra della Doomed Destiny, no? Passare inosservata è quello che so fare meglio. Tornerei sempre da te se dovessimo dividerci”
“Non ti lascerò comunque indietro e la questione è chiusa”
 
 
 
Entrambi avevano fatto fatica ad addormentarsi a causa dei pensieri che gli giravano per la mente e nessuno dei due risultò particolarmente entusiasta di essere svegliato nel bel mezzo della notte da quella che era sembrata un’esplosione.
Almeno finchè non capirono da cosa poteva essere stata provocata…
Nei pochi attimi che impiegarono per svegliarsi del tutto il rumore di altre quattro bordate attraversò l’aria e i due pirati finirono con il guardarsi a vicenda con il sorriso sulle labbra.
“Pensi che…?”
“Spero proprio di sì…”
La piccola finestrella con le sbarre della cella era troppo in altro per potersi affacciare e vedere cosa stava accadendo all’esterno, ma dopo poco i rumori di uno scontro arrivarono ben chiari anche a loro.
 
“Capitano? Shade?”
Si sentirono chiamare da una voce e poco dopo nel corridoio era comparso Matt: una spada nella mano destra e un mazzo di chiavi nella sinistra, il sorriso che gli andava da un orecchio all’altro.
“Di qua, li ho trovati!” urlò alle sue spalle, e mentre lui si adoperava ad aprire la cella altri cinque uomini fecero la loro comparsa dietro di lui.
Shade avrebbe potuto piangere dalla gioia: avevano la sua spada, i due pugnali e gli stiletti che di solito teneva nascosti negli stivali.
“Wilson?” domandò Cortès mentre si rimetteva la bandoliera con la fontina della flintlock dopo aver già riallacciato la cintura con la spada.
“È rimasto a bordo, signore. Ha dato carta bianca alla ciurma e incaricato noi di venire a cercarvi” rispose Matt efficiente.
Cortès sembrava soddisfatto.
“Come mai ci avete messo tanto?” chiese invece Shade che nel frattempo aveva recuperato anche una delle sue fasce per legarsi i capelli in modo che non le dessero fastidio.
“A bordo c’era una spia di Reyes” spiegò il ragazzo, gli occhi del capitano brillarono di rabbia.
“L’abbiamo individuata e ce ne siamo occupati, ma aveva comunque fatto in tempo a mettere fuori uso il timone… ci ha fatto perdere tre giorni. E poi all’inizio la ciurma non era molto entusiasta, ma Wilson è riuscito a convincerla dicendo che si sarebbero potuti prendere la sua parte del prossimo bottino”
Adesso Julian sembrava piacevolmente sorpreso.
“Ok, ti ricorderò di aumentargli la quota, adesso però andiamo, sono stufa di stare qua dentro” lo riscosse Shade mettendosi in testa al gruppo.
“E invece com’è che voi siete ancora vivi? Avevamo paura di trovarvi appesi come monito fuori dalla baia…” chiese Matt mentre procedevano, le spade sguainate davanti a loro.
“Diciamo che Shade in questa città ha conoscenze importanti di cui si è ricordata giusto in tempo per evitarci la forca” rispose Cortès sibillino.
 
Arrivati fuori la scena che gli si presentò davanti sembrava la stessa di quando erano passati la prima volta per prendere le mappe: il caos più totale.
Se Shade e gli uomini non ci pensarono due volte prima di rivolgersi verso il porto Cortès puntò nella direzione opposta.
“Dove pensi di andare?” lo bloccò la ragazza trattenendolo per la giacca che aveva finalmente indossato di nuovo dopo tanto tempo.
Stando nelle celle avevano tolto loro tutti gli effetti personali, giacche e cappelli compresi.
“Reyes è ospite del primo consigliere del Governatore. Ho intenzione di mettere fine a questa storia una volta per tutte”
Shade alzò gli occhi al cielo: “Vengo con te, allora” decise. “Voi potete fare quello che volete, tornare alla nave o divertirvi ancora un po’ in giro, il vostro lavoro l’avete fatto” congedò Matt e gli altri uomini che con un luccichio negli occhi non ci pensarono due volte prima di buttarsi nella mischia.
 
 
Come l’ultima volta le ville erano state prese d’assalto dai membri della ciurma che depredavano tutto quello su cui riuscivano a mettere le mani.
“Reyes è mio” sottolineò un’ultima volta Cortès dopo averlo visto combattere in lontananza fuori dalla porta d’ingresso dell’abitazione di cui era ospite.
“Se riesco a toglierlo di mezzo la sua nave è tua” le promise poi lasciando Shade abbastanza sorpresa prima di dirigersi verso il suo obiettivo.
La ragazza lo lasciò andare, sapeva che se la sarebbe cavata.
 
Sgattaiolò inosservata fino ad una delle porta di servizio utilizzate dalla servitù ed entrò nella villa.
Aveva pensato di fare un giro per lo studio del consigliere per vedere se fosse riuscita a trovare qualcosa di utile o di valore.
La servitù – e sperava anche un certo abitante della casa di dieci anni - era probabilmente tutta scappata a nascondersi e le uniche persone che incrociò furono uomini della ciurma che dopo averla riconosciuta la salutarono rispettosamente al suo passaggio.
Aveva appena finito di forzare la porta della stanza in questione – ancora non capiva come mai si ostinassero a chiuderla a chiave – quando un urlo le fece girare la testa di scatto.
Permise a se stessa di pensarci una manciata di secondi, ma quando un secondo grido le arrivò alle orecchie non potè fare altro che sbattere violentemente il pugno sulla porta – che si aprì cigolando appena – fare dietro front e cercare di raggiungere il posto da cui veniva il suono.
Era un’anticamera.
Evidentemente la donna e il bambino non avevano fatto in tempo a trovare un nascondiglio migliore dell’armadio e alla fine erano stati scoperti.
Dorian era in piedi davanti alla madre e Shade non potè che essere orgogliosa del fatto che stava impugnando quell’attizzatoio in modo impeccabile, con la presa che lei stessa gli aveva suggerito solo il giorno prima.
Persino sulla postura non aveva nulla da ridire, e il bambino sembrava sicuro di sé nonostante il terrore ben visibile nei suoi occhi.
Maria alle sue spalle era accasciata sul pavimento con la schiena appoggiata all’armadio sopracitato, un rivolo di sangue le scendeva sulla guancia dall’attaccatura dei capelli biondi doveva aveva battuto la testa.
Shade non ebbe problemi a riconoscere l’uomo che li stava minacciando anche se era girato di spalle.
Individui del genere non le piacevano neanche un po’, fortunatamente a bordo ce n’erano giusto una manciata anche se Julian le ripeteva ogni volta che in certe occasioni fa comodo avere uomini davvero senza scrupoli.
“Fatti da parte ragazzino” lo sentì dire mentre era ancora nascosta nell’ombra.
Dorian non si mosse scuotendo la testa.
L’uomo ghignò e alzò la spada.
“Ruben!” lo richiamò Shade prima che potesse abbatterla sul bambino.
Quello si bloccò appena in tempo, girandosi poi stupefatto a fronteggiarla.
“Mi occupo io di loro se non ti dispiace”
Ruben fece per ribattere ma all’ultimo ci ripensò capendo che forse non era il caso di contestare l’Ombra della Doomed.
“Ai vostri ordini Shade” ripose la spada chinando la testa con rispetto, seppure il tono che aveva usato non le piacque per niente, mentre usciva dalla stanza.
“Ho visto delle guardie al primo piano” lo richiamò la ragazza, almeno non avrebbe cercato di insidiare altre donne e avrebbe combattuto contro qualcuno che avrebbe saputo come difendersi.
L’uomo rispose con un sorriso poco rassicurante prima di andarsene definitivamente.
 
Il tempo di sentire il clangore dell’attizzatoio che cadeva sul pavimento e l’attimo dopo Shade si ritrovò le braccia di Dorian strette intorno al busto.
“Grazie per averci salvato” disse prendendola completamente in contropiede.
Dopo un istante, sotto lo sguardo raggelato di Maria che osservava il figlio – dopotutto Shade aveva lei stessa una spada in mano – la ragazza sollevò una mano a scompigliare i capelli di Dorian.
“Ti avevo dato la mia parola che non ti avrei fatto del male, no? E poi non potevo lasciare che ti uccidesse adesso che hai finalmente imparato a tenere la spada come di deve” rispose con un mezzo sorriso.
“Forza, sarà meglio che andiate a nascondervi adesso, e vedete di trovarvi un nascondiglio migliore stavolta” rispose staccandosi dall’abbraccio.
“E tieni questo, ti assicuro che funziona meglio dell’attizzatoio” aggiunse poi dando in mano al ragazzino uno dei suoi due pugnali a lama lunga.
Dopo aver guardato l’arma con stupore per un istante Dorian annuì e andò a prendere la madre per mano mentre Shade controllava che nel corridoio non ci fosse nessuno
“Se fate in fretta non dovreste incontrare altri uomini” li avvisò.
“Andate via” Maria la stupì prendendo finalmente la parola.
“Di certo non resteremo qui dopo che gli uomini della Doomed si sono dati tanto da fare per venire a recuperarci, non crede?” ribattè ironica Shade avendo però ben capito cosa aveva spinto la donna a parlare.
“Quindi non ti vedrò più?” domandò a bassa voce Dorian guardandola triste.
“Sono sicura che diventerai bravissimo a combattere con la spada anche senza di me” lo rassicurò la ragazza, il bambino abbassò lo sguardo.
“Andate ora” li esortò un’ultima volta per poi uscire dalla stanza e prendere due direzioni diverse.
 
Osservando madre e figlio correre verso il capo opposto del corridoio non potè ignorare completamente il peso che le era sceso sullo stomaco.
“Maria!” richiamò la donna che si voltò a guardarla interrogativa.
Prese un paio di respiri profondi consapevole che quella fosse una pessima idea e si costrinse a parlare prima di poterci ripensare.
“Isabelle sta bene e vi saluta” disse tutto d’un fiato per poi girare i tacchi il più in fretta possibile, lasciando la donna quasi sotto shock mentre il figlio la tirava per il braccio per andare a nascondersi.













Va bene, potete uccide... no, uccidermi no perchè altrimenti non saprete mai come va a finire la storia, ma credo di essere in grado di sopportare qualche maledizione minore...
Posso immaginare i saldi di gioia per il finale assolutamente conclusivo.... (vi assicuro che il prossimo potrebbe essere addirittura peggio, dopotutto il titolo di questo capitolo dovrà pur significare qualcosa).
In ogni caso... grazie a tutti coloro che hanno continuato a seguire la mia storia nonostante l'assenza di miei commenti a fine capitolo e la mia assenza in generale.
Un grazie in particolare a 
Maria Marea e ​Sguiscettosa che hanno commentato gli scorsi capitoli ❤
Direi che per gli aggiornamenti riprendo con la "regola" che avevo proposto/imposto all'inizio della storia: due settimane di attesa che si riducono a una se qualcuno volesse lasciare un commento.
Quindi appuntamento per martedì 24 aprile, o martedì 17 (decidete voi...).
Ormai siamo davvero agli sgoccioli...
Alla prossima
E.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** XVI ***


XVI - In cui Isabelle torna suo malgrado nella gabbia da cui era partita – che non è più d’oro
 
Shade era uscita dallo studio del consigliere Blake con diverse mappe interessanti: essere in possesso delle rotte avrebbe reso l’assaltare le navi mercantili ancora più facile.
Mentre ritornava al piano terra incontrò qualche guardia che non ebbe problemi a gestire – nonostante la sua schiena non potesse dirsi ancora guarita del tutto – e richiamò un paio di uomini dell’equipaggio che si unirono a lei.
 
Cortès e Reyes stavano ancora combattendo, ma era evidente che ormai tutti e due fossero giunti al limite.
A giudicare dallo stato delle loro facce e dalla quantità di sangue presente sulle rispettive camicie dovevano anche aver fato a pugni per qualche momento dimenticando le spade.
Intorno a loro altri pirati, uomini di Cortès ma anche di Reyes stesso, combattevano tra loro o contro altri soldati.
Shade individuò gli uomini della Doomed nella mischia e dopo aver ordinato a quelli che erano con lei di fare altrettanto andò a dar loro una mano.
Dopo pochi secondi la lama della sua spada e quella del pugnale che teneva nell’altra mano si erano colorate di rosso e Julian e Reyes erano gli unici che stavano ancora combattendo.
Lei e gli altri uomini si trovarono loro malgrado a fare da scudo ai due pirati nel momento in cui il Governatore in persona fece la sua comparsa accompagnato da un intero plotone di guardie, insieme a Blake che evidentemente era andato a chiamarli.
Al loro fianco c’era anche Harry e Shade ebbe un tuffo al cuore: non era più tornato a trovarli da quando avevano discusso.
Chissà cosa avrebbe detto se avesse sentito quello che aveva urlato a Maria poco prima…
“Fatevi da parte” ordinò Reagan facendo contemporaneamente segno alle guardie di mettersi in posizione e caricare i moschetti.
Contro quelli la spada non sarebbe servita a nulla.
I pirati guardarono Shade in attesa di un suo ordine, ma prima che la ragazza potesse aprire bocca un colpo di pistola risuonò alle loro spalle facendoli voltare tutti di scatto.
Cortès era in piedi, la canna della flintlock nella sua mano sinistra che ancora fumava, mentre Reyes era a terra, lo sguardo perso nel vuoto e una macchia scarlatta all’altezza del cuore.
Il capitano sputò per terra un grumo di sangue pulendosi poi la bocca con il dorso della mano.
“Signori” esordì affiancandosi a Shade sorridendole soddisfatto “Noi togliamo il disturbo”
Fece qualche passo in avanti ma fu ovviamente fermato.
“Voi non andate da nessuna parte” lo minacciò Blake.
“Perché invece di stare qui a perdere tempo non va a sincerarsi delle condizioni di sua moglie e suo figlio, consigliere?” si inserì a quel punto Shade
L’uomo tremò dalla rabbia: “Che cosa gli avete fatto?” urlò azzardando un affondo che la ragazza parò senza problemi.
Non si perse nemmeno il lampo di paura che aveva attraversato lo sguardo di Harry, e sì che pensava che ormai la conoscesse, o come minimo che avesse un’opinione un po’ migliore di lei.
“Nulla, ho semplicemente consigliato loro di trovarsi un nascondiglio migliore dell’armadio dell’anticamera” rispose strafottente.
L’uomo sbiancò
“Siete tutti in arresto” riprese a quel punto la parola Reagan. “Potete farvi arrestare senza opporre resistenza oppure potete provare a scappare e morire subito”
Come se non li aspettasse la forca se fossero rimasti…
Uno degli uomini, senza alcun preavviso, si mise a correre.
Il Governatore fece un cenno a uno dei soldati in prima fila che prontamente caricò il moschetto prendendo la mira.
Peccato che all’ultimo Shade lanciò uno dei suoi stiletti colpendogli la gamba: il moschetto venne calato proprio mentre il colpo veniva sparato finendo sul piede della guardia accanto che subito fu a terra come il collega urlando di dolore.
Alcuni soldati si affrettarono a soccorrerli portandoli via: meglio, meno persone a cui dover tenere testa.
A quel punto sia Blake che Reagan tirarono fuori le loro flintlock puntandole al petto della ragazza.
Sembrava essere arrivati ad una posizione di stallo finchè un “No, fermi!” risuonò nell’aria.
Dorian era appena uscito dal portone d’ingresso e stava correndo verso di loro.
Aveva ancora in mano il pugnale che Shade gli aveva dato prima.
 
“Dorian cosa stai facendo?” lo richiamò il padre preso totalmente in contropiede. Sembrava quasi sul punto di svenire.
“Non le farete del male” rispose il bambino deciso. “Questo e tuo, non mi serve più: non ci sono più uomini in casa” disse rivolgendosi a Shade che si ritrovò il pugnale tra le mani.
“Shade ci ha salvato” concluse.
Cortès alzò un sopracciglio, pur non essendo veramente arrabbiato con lei: sapeva che non toccava i bambini.
“Da cosa esattamente li avresti salvati?” chiese vagamente divertito, più per prendere tempo e magari far arrabbiare ancora di più Blake.
“Credo che prima Ruben avesse intenzioni non del tutto caste nei confronti della moglie del consigliere Blake” rispose candidamente. “Gli ho consigliato di andarsi a cercare qualcun altro”
Blake e gli altri uomini erano diventati paonazzi dalla rabbia e l’imbarazzo.
“E perché mai non l’hai lasciato fare?”
La domanda di Cortès sollevò parecchie esclamazioni indignate, compresa quella di Shade.
“Lo sai perché, idiota” gli sibilò.
“Non capisco lo stesso. Non le devi nulla” ribattè quello.
 
“Per quanto sentirvi discutere possa essere entusiasmante direi che non possiamo stare qui tutta la notte” li interruppe il Governatore.
“Concordo con lei” assentì Cortès.
Dal nulla fece apparire un’altra flintlock mentre Shade e i pirati rimasti facevano altrettanto.
“Potrebbe riuscire ad ucciderci, ma di certo noi uccideremo voi a nostra volta, a voi la scelta”
In tutto quello i presenti sembravano già essersi dimenticati di Dorian che si era spostato al fianco di Shade, tra lei e Cortès.
“Ti fidi di me?” sussurrò la ragazza al bambino girando appena la testa approfittando del fatto che tutti fossero concentrati su Julian che stava ancora parlando.
Dorian la guardò spaventato per un attimo ma poi annuì.
“Ho la tua parola, vero?” chiese debolmente.
Shade annuì stupendosi del fatto che a quanto pareva il ragazzino aveva già capito quale fosse la sua idea.
 
“Io ho un modo per risolvere la questione!” esclamò l’Ombra a quel punto alzando in aria il pugnale dopo aver rimesso via la pistola attirando così su di sé tutta l’attenzione.
Quando riabbassò il braccio la lama andò ad appoggiarsi al collo di Dorian che aveva cominciato a tremare.
“Se vuole bene a suo figlio, Consigliere, le consiglierei di lasciarci passare” minacciò in modo eloquente.
Il Governatore alzò gli occhi al cielo e suo malgrado ordinò ai soldati di riporre le armi.
Si erano fatti fregare di nuovo.
 
 
 
Erano ormai arrivati alla spiaggia, mancava l’ultima scialuppa che avrebbe riportato Cortès, Shade e altri tre uomini alla nave.
“Shade per favore” prese parola Harry per la prima volta. Si era staccato dal gruppo seguendola, e stranamente gli altri membri dell’equipaggio non avevano fatto nulla per bloccarlo.
La ragazza sorrise in risposta: “Ve lo rimandiamo indietro, promesso” disse riferendosi a Dorian mentre lo faceva salire a bordo della scialuppa.
Diede una spinta all’imbarcazione insieme a un altro uomo in modo che si staccasse dalla riva, ma al contrario suo non ci salì subito.
Si avvicinò invece al ragazzo finchè non ci furono che pochi passi a separarli, parlando piano non li avrebbero sentiti, pensando tutt’al più che stavano discutendo del ritorno del bambino.
“Potresti venire con noi” propose a bassa voce facendogli spalancare gli occhi dalla sorpresa.
La reazione durò comunque poco: “Mi sembrava chiaro che non ci fosse posto per me a bordo. Che non avessi la stoffa per essere uno di voi” ribattè infatti con rabbia.
“Quella è stata una riprovevole incomprensione tra me e il capitano” assicurò lei.
“Mi dispiace ma non posso comunque” sospirò alla fine Harry. “Mi era sembrato di rivedere in voi i tratti di una persona che forse avrei potuto amare se non mi fosse stata portata via così preso, ma mi sono reso conto che mi sbagliavo. Spero che le nostre strade non si incrocino più. Addio” concluse con un cenno del capo.
“Addio di nuovo, Harry” salutò lei a sua volta.
Il ragazzo non fece in tempo a chiedersi cosa volesse dire la ragazza con quel di nuovo quando una voce femminile attirò l’attenzione di tutti i presenti.
 
“Non porterete via mio figlio!” Maria Blake, ancora in veste da camera, era arrivata di corsa alla spiaggia e aveva una flintlock in mano.
Prima che qualcuno potesse fermarla si sentì il rumore di uno sparo e l’attimo dopo Harry si ritrovò suo malgrado a sorreggere Shade, colpita ad una spalla.
“Shade!” urlarono contemporaneamente Cortès e Dorian dalla scialuppa, mentre l’ultimo saltava fuori bordo approfittando del fondale ancora basso.
“No! Voi andate!” urlò la ragazza stringendo i denti vedendo che Julian stava per tornare indietro a sua volta.
Gli uomini a bordo della scialuppa pensarono bene di obbedire cominciando a remare con foga: ora che Dorian non era più con loro erano di nuovo sotto tiro.
“Io me la caverò” sussurrò un’ultima volta Shade prima di svenire per il dolore e la rapida perdita di sangue, chiudendo gli occhi dopo aver visto un’ultima volta il viso sconvolto di Julian che si allontanava.













Io non ho più scusanti e voi avete tutto il diritto di essere arrabbiati.
Se c'è ancora qualche anima che segue questa storia sappia che il prossimo capitolo è l'epilogo. Proverò a non farvi aspettare troppo, almeno questo ve lo devo visto che ormai la storia è finita.
Alla prossima
E.

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Epilogo ***


Epilogo - Di nuovo in gabbia
 
Svegliarsi fu come riprendere fiato dopo tanto tempo passato a trattenere il respiro sott’acqua.
Shade sentiva la testa pesante, il battito del cuore che pulsava nelle orecchie, e come provò a muovere il braccio destro un gemito di dolore le uscì dalle labbra.
La signora Blake non aveva neanche preso la mira ed era addirittura riuscita a colpirla alla spalla; in effetti era fortunata che avesse ancora il braccio.
Fortuna che sapeva usare bene la spada anche con la mano sinistra…
 
Due cameriere entrarono nella stanza chiacchierando indisturbate tra loro, ma si interruppero subito non appena si accorsero che la ragazza nel letto aveva gli occhi aperti.
Una delle due uscì di nuovo mentre l’altra si avvicinò al letto sistemandole i cuscini che le sorreggevano la schiena.
“Il signorino Harry sarà felice di vedervi finalmente sveglia” si permise di commentare.
Shade sembrò realizzare solo in quel momento che non era nelle prigioni, ma in una stanza ampia e ariosa che sapeva di pulito.
Il materasso su cui era distesa non sembrava neanche parente di quello che aveva a bordo della Doomed – a cui si era comunque abituata – e le lenzuola erano fresche e lisce.
“Dove mi trovo?” domandò con non poca difficoltà, la gola secca e la bocca impastata.
“Siete a casa del Governatore” rispose la cameriera confermando così la sua supposizione.
Quasi l’avesse chiamato Reagan fece il suo ingresso poco dopo, Harry al seguito.
 
“Siamo lieti di vedere che ci voglia più di un colpo di pistola per mandare all’altro mondo la famosa Ombra della Doomed Destiny, sarebbe stato alquanto deludente” esordì pungente l’uomo. “Spero che dopo questo vi sentirete più disposta a rispondere alle domande che vi faremo”
“Andate al diavolo” sibilò lei in risposta toccandosi cautamente la spalla ferita con la mano.
Sotto l’abbondante bendaggio c’era di sicuro un’altra cicatrice da aggiungere alla collezione di quelle che portava già sulla schiena e di cui si era perso il conto.
“Vi sono state date cure mediche e un posto appropriato dove stare in attesa che vi riprendeste…” riprese il Governatore con rabbia ignorando il figlio che provava a dirgli di non esagerare.
“Potreste almeno mostrare un po’ di gratitudine!”
“Non mi sembrava di avervi chiesto qualcosa” ribattè Shade alzandosi goffamente dai cuscini e mettendosi a sedere. “Dovrei ringraziarvi per avermi curato dopo che uno dei vostri mi ha sparato? Per caso come avrei dovuto ringraziare Reyes per avermi frustato quasi a morte e poi concedermi cure solo per permettermi di arrivare viva alla mia esecuzione? Davvero?”
“Shade…” provò Harry
“Tu non permetterti di parlarmi!” urlò la ragazza ricadendo indietro sui cuscini con un mezzo urlo di dolore.
Voleva mettersi a piangere come non le succedeva da anni.
“Farà meglio ad abituarsi signorina” commentò il Governatore facendole storcere la bocca all’uso di quell’appellativo. “Non ci saremo presi il disturbo di salvarla se non fosse che lei ha risposte che noi, la signora Blake in particolare, vogliamo sapere”
 
Shade sbuffò a quelle parole.
Ovviamente, se non gli fosse servita a qualcosa l’avrebbero lasciata morire dissanguata mentre loro restavano a guardare.
Ripensò a Julian: alla fine, anche se lui stesso aveva ammesso di essersi sbagliato, aveva avuto ragione comunque
Nel momento in cui avrebbero avuto quello che volevano l’avrebbero probabilmente giustiziata senza battere ciglio.
 
“Per quanto mi riguarda allora avreste potuto lasciarmi morire. Sparite” ordinò girando la testa la testa dall’altra parte, ringraziando il cielo che nessuno ebbe più nulla da aggiungere.
 
 
Si ricordava quanto aveva desiderato tornare a casa dopo che Torres era stato ucciso e lei era stata portata via, ma ormai per lei quella non era più casa.
Casa era la Doomed Destiny con Julian, Wilson e il resto della ciurma.
In quel momento le sembrava solo di essere tornata dentro quella gabbia da cui voleva scappare prima che tutto cominciasse.
E questa volta non era neanche dorata.






 
Fine













Ok, la storia è finita.
Ma... ovviamente c'è un ma. Nel remoto caso in cui qualcuno sia interessato ho già iniziato a scrivere il seguito, che però non inizierò a pubblicare almeno finchè non saprò esattamente dove sto andando a parare (perchè al momento le parole escono da sole ma costruire una trama coerente è tutto un altro discorso).
Ringrazio tutti coloro che hanno messo la storia tra preferite/seguite/ricordate, i lettori silenziosi e coloro che invece mi hanno fatto compagnia con i loro commenti: 
Sguiscettosa, ​Maria Marea e ​Perdyta... grazie di cuore!
Prometto di farvi un fischio se mai il secondo capitolo di questa "avventura" vedrà la luce
Alla prossima
E.

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3602437