note fredde su colori sgargianti ~ memories and obsessions

di geal righ
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Calintz »the fall and the escape ***
Capitolo 2: *** Cedric »if I could find a way then I would bring you back tonight ***
Capitolo 3: *** Cedric »close your eyes and pray for the garish light of day ***
Capitolo 4: *** Calintz »I'm lost inside the pain I feel without you ***



Capitolo 1
*** Calintz »the fall and the escape ***


quando ti capaciti che in questo modo non può andare avanti.
quando t’accorgi che puoi provare a sostituirlo con chiunque, ma se non è lui, non vuoi nessun’altro al tuo fianco.
quando ti rendi conto che l’unica cosa che vuoi fare quando lo vedi con altri è urlare e correre via.
allora, forse, è arrivato il momento di smettere di prendersi in giro. smettere di far finta di essere solo amici davanti agli altri, e comportarsi come compagni quando si è da soli.
è arrivato il momento di prendere una decisione. una decisione che non per forza sarà quella giusta, o verrà accettata fin da subito.
 
[...]
 
[no, lui ancora non sa niente.] la mia tranquillità era quasi imbarazzante mentre parlavamo di un argomento cosi importante. importante poi per chi? per me sicuramente, per Erika non saprei. non mi sono mai preoccupato di chiederle nulla in merito, forse ipotizzava ma è sempre stata ad ascoltarmi in silenzio, senza fare troppe domande. [ah...] è la prima replica che ebbi da parte sua. un’esclamazione che nel tono mostrava parecchio stupore. [e quando avresti intenzione di dirglielo Cal, vuoi forse chiamarlo quando sei in aeroporto?] gira la testa verso di me mentre parla, cercandomi con quei suoi occhi smeraldo che mi mandavano letteralmente ai matti. non riuscivo a capacitarmi di come sia riuscito a non metterle mai le mani addosso, eppure ho sempre pensato che non dev’essere niente male, a letto. [in realtà era proprio quello che volevo fare...] muovo le braccia tirandole verso l’alto e piegandole cosi da poggiarle al di sotto della mia testa, tra questa e il cuscino del letto. avevo i suoi occhi puntati addosso, me ne rendevo conto, eppure continuavo a fissare il soffitto senza girarmi mai. quando chiusi i miei sbuffai cacciando aria dalla bocca e solo in quel momento mi mossi sul letto girandomi e mettendomi di profilo, col braccio sinistro piegato e la mano a palmo aperto su cui appoggiare il mento. lei era seduta a mo di indiano sul tappeto in terra, con entrambe le braccia contro il bordo del letto, e mi osservava ancora [senti.] e già che partivo in quel modo vuol dire che non sono minimamente convinto di quello che sto dicendo, infatti la sua prima reazione fu inarcare un sopracciglio. però mi ha lasciato parlare senza dire ancora nulla [già devo trovare un cazzo di modo per approfondire l’argomento con Edward, come pensi che possa anche parlarne a Cedric a distanza di ancora due settimane dalla partenza?] serro le labbra rimanendo a fissarla come se in quel momento la stavo sfidando a trovarla lei una soluzione. lei si limitò a scuotere la testa un paio di volte e sbuffare appena. più un sospiro rassegnato [ti fai troppi problemi Cal, te l’ho sempre detto.] muove la mano destra avvicinandomela al viso e spostandomi una ciocca di capelli [sappiamo bene tutti e due che Eddy è solo un passatempo, quindi perché non ne parli a Cedric fin da subito? insomma, lui è il tuo amico d’infanzia, io al suo posto ci rimarrei male a venirlo a sapere all’ultimo minuto.] quindi mi sono sentito tirare la medesima ciocca, che mi accorsi non aveva spostato, ma se la stava intrecciando tra le dita, arricciolandola. e poi ha sorriso. e quando sorrideva mi rincoglionivo [ci provo. Eddy comunque lo vedo stasera quindi il problema, almeno con lui, è presto risolto.] Erika mi lasciò andare i capelli e si limitò ad annuire, quindi si alzò facendo leva sulle mani che premono contro il materasso [vado a preparare il tea e torno. ci sono cose per cui non dovremmo impensierirci troppo ma lasciare che vadano come devono.]
 
rividi Erika altre volte in quelle due settimane, più che tutti gli altri del gruppo con cui uscivamo di solito. abbiamo parlato di com’era andata la serata con Eddy, del fatto che non avevo ancora accennato niente a Cedric ma, al contrario, i suoi genitori lo sapevano. lei non ha più insistito e io ancora non avevo capito le sue parole di quel giorno. con Erika passavo le giornate libere dal lavoro, mentre con Cedric quasi tutte le notti. mia madre non si faceva problemi dal momento che siamo cresciuti assieme.
 
fu proprio durante una di quelle notti che mi chiese di Eddy, uscendosene di punto in bianco quasi senza motivo. rimasi a fissarlo per una buona manciata di secondi prima di rispondergli. insomma, eravamo entrambi nudi sotto le coperte, accaldati per via dell’amplesso appena conclusosi, e lui ha tirato in mezzo un’altra persona come se niente fosse [con Eddy è finita, perché me lo chiedi proprio ora?] poco importa del reale motivo per cui me lo chiese, apprezzai comunque la sua domanda e il suo interesse, anche se decisamente egoistico [mhm.] Quei mugugni spesso racchiudono un universo di parole che non diceva mai, lasciandomi il più delle volte con dei dubbi atroci che nemmeno esponevo, dal momento che sapevo già non avrei ricevuto alcuna risposta [non era adatto a te. erano più le volte che ti lamentavi di lui che quelle in cui ne parlavi col sorriso.] penso di non essermi mai abituato a quelle parole, quel “non era adatto a te.” detto in quel modo cosi morbido e dolce. mi spiazzava ogni volta che lo diceva [no... non lo era.] una risposta pressoché inutile ma pure l’unica che mi sentii di dargli in quel frangete, prima di abbracciarlo e nascondere la testa contro il suo petto.
 
ammetto di essermi adagiato molto in quelle due settimane rimanenti, rimandando ogni volta il parlare con Cedric, fino alla fine, fino a che anche Erika non mi ha strappato la promessa di dirglielo almeno qualche giorno prima.
non ce l’ho fatta. ogni volta che provavo a prendere l’argomento c’era qualcosa che mi bloccava e glissavo, glissavo sempre. lui in quelle due settimane stava vedendosi con una ragazza, ma non sembrava poi cosi importante visto che spesso mi trascinava a casa sua per farlo o si fermava da me.
il giorno prima della mia partenza Cedric l’ha piantata senza darle troppe spiegazioni. questo mi mise ancora più agitazione addosso.
poi, il tempo è finito.
Ci ritroviamo entrambi col pomeriggio libero dal lavoro. ci vediamo con gli amici, l’ultimo giorno insieme al gruppo, per me. la cena fuori tutti assieme. Erika che si era seduta vicino a me e, quando è arrivato il momento di salutarci, mi ha abbracciato sussurrandomi un [ci vediamo presto, Cal.] solo per me. un miracolo che non sia scoppiato a piangere li, tra le sue braccia, in quel preciso momento. invece mi limitai ad abbracciarla a mia volta rispondendole un semplice [si.]. il ritorno a casa insieme a Cedric. lui che mi aveva chiesto di passare la notte insieme perché era già qualche giorno che non trascorrevamo del tempo da soli. io che ci ho provato, davvero, a dirgli di no, che era tardi, che forse era meglio se tornavo a casa, che, che, che, mille altri che inutili e mille altre scuse, tutto zittito e messo a tacere dalle sue labbra contro le mie, dalle sue braccia che mi stringevano i fianchi.
ci era voluto davvero poco a ritrovarmi nel suo letto, stretto contro di lui, con in testa le sue parole, i suoi gemiti, il rumore del suo respiro e il mio respiro pieno del suo odore.
e le lacrime, dannate fottute, quelle maledettissime lacrime che ho cercato in tutti i modi di ricacciare indietro, mascherandole da dolore quando non riuscivo, per le volte in cui mi stringeva più forte, o che mi mordeva nel punto sbagliato. e tutte le volte sentivo le sue scuse e le sue dita che salivano al mio viso, sugli occhi ad asciugare quelle dannate lacrime. gli sguardi e le attenzioni che mi ha rivolto quella sera erano dolcissimi, cosi tanto che il giorno dopo scrissi a Erika chiedendole se per caso avesse accennato qualcosa a Cedric. mi disse di no, che lei non si sarebbe mai permessa e la conosco troppo bene per sapere che mi stava dicendo la verità.
 
è l’istinto ad essere più forte di ogni parola o pensiero logico, alle volte. Cedric probabilmente immaginava qualcosa, ma non ha mai detto assolutamente nulla fino alla mattina dopo. fino a quando non sono stato io a parlare, finalmente.
è quando stavo per tornarmene a casa che mi sono deciso. stavo fermo davanti alla porta d’ingresso di casa sua, mi sono girato per salutarlo e ho sfoggiato il mio miglior sorriso, niente di costruito per lui. non c’è mai stata falsità o menzogna tra noi.
[ho deciso di partire. lascio Londra.] mi rendo conto che non sarei dovuto essere cosi brusco, ne cosi diretto. e mi resi conto solo dopo di quanto posso averlo ferito con quelle poche parole. [ah.] i secondi di silenzio che seguirono furono interminabili e atroci, sentivo le lacrime che tornavano a premere dietro i miei occhi e mi resi conto di averli lucidi. eppure non piansi mai mentre gli parlavo [davvero? beh, sono sicuro che ti troverai bene ovunque andrai, e che non ti sarà difficile trovare lavoro vista la tua esperienza.] non so se quelle parole mi fecero più male perché le pensai prive di interesse, o semplicemente per la freddezza che, seppur nascosta, si sentiva nelle stesse. ci misi un po’ a continuare, devo essere sembrato un cretino in quel momento [già.] e infatti la mia prima replica non fu nemmeno niente di cosi sensato. semplicemente confermai quanto lui stesso aveva appena detto [beh... allora ci sentiamo eh. stammi bene, Cedric.] non mi sono nemmeno fermato ad aspettare, mi sono girato aprendo la porta e andandomene, quasi stessi scappando come un vigliacco. Cedric ha tenuto gli occhi bassi, sulla tazza di tea che stringeva tra le mani, per tutto il tempo -interminabile quasi- in cui abbiamo parlato, io non gli ho mai chiesto di alzarli e guardarmi, lui semplicemente non lo ha mai fatto. me ne sono andato con solo il suo saluto che mi accompagnava [anche tu, Calintz.] il suono della sua voce mentre pronunciava il mio nome era dolcissimo. scoppiai in lacrime non appena svoltato l’angolo di casa sua.
 
per la strada di casa mi venne in mente una scena tratta da Il Corvo di O’Barr che avevo riletto giusto qualche giorno prima. il momento in cui Eric trova e parla con Tin Tin di quando questi e il suo gruppo uccisero lui e Shelly in una notte di ottobre. tra una vignetta e l’altra c’è il corvo che si rivolge ad Eric dicendogli “non guardare! non guardare!”
in quel momento mi resi davvero conto che se mi fossi voltato sarei tornato di corsa a casa di Cedric e le mie intenzioni di andarmene sarebbero andate bellamente a puttane, oltre che avrei rovinato tutto: lui non sapeva il reale motivo della mia partenza. ed andava bene cosi.
 
ricordo di aver passato tutto il resto della mattinata chiuso in camera mia, e anche buona parte del pomeriggio, prima di essere accompagnato in aeroporto da mia madre che erano quasi le otto di sera. dovevo sembrare davvero scemo, per quanto ci fosse ancora un po’ di luce io tenevo su degli occhiali da sole scurissimi, ed enormi, che mi coprissero completamente gli occhi arrossati e gonfi.
quando la salutai lei non mi chiese nulla, sapeva che avevo passato la notte da Cedric e immaginava glie ne avessi parlato, ma in quel momento si limitò solamente a sorridere e ad abbracciarmi [ti ho messo Tolkien nel borsone, cosi potrai leggere qualcosa durante il volo. fa buon viaggio tesoro mio.] Tolkien. io adoro Tolkien e nella fretta e nell’agitazione non avevo preso nessuno dei suoi libri. [siamo liberi nelle scelte, non dalle conseguenze di quanto scegliamo.] è con quelle parole che si è allontanata posandomi un bacio sulla fronte e lasciandomi decisamente zittito.
mentre la salutavo e recuperavo la  valigia per avviarmi sentivo le lacrime che tornavano di nuovo a spingere dietro i miei occhi. cercai di trattenerle fino alla fine, fino a che non fui certo di non poter cambiare idea.
fino a che l’aereo non decollò facendomi lasciare a terra, in quella calda e afosa Londra d’inizio estate, a cosi pochi giorni dal suo compleanno, tutto ciò cui tenevo di più.
 
non riuscii a leggere niente durante il volo per quanto ci abbia provato. passai quelle 12 ore piangendo e dormendo a fasi alterne, fino a che, alla fine, mi addormentai con il libro tra le mani.

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Capitolo 2
*** Cedric »if I could find a way then I would bring you back tonight ***


Se ripenso a quella mattina, la prima cosa che mi viene in mente è il sapore pessimo del tea.
Avevo seguito tutti i soliti procedimenti, eppure aveva un sapore amaro, come se ci fosse un qualcosa di sbagliato, in tutto quello. Non sono mai riuscito a capire cosa ci fosse, quel giorno, a dargli un sapore del genere.
Quando Calintz arrivò in sala, era già vestito e pronto ad andarsene. Non c'eravamo parlati poi molto, quella mattina: Cal aveva insistito di lasciare subito il letto così da potersi lavare e farsi una doccia, dato che andava di fretta. Poi, è arrivata la notizia.
[ho deciso di partire. Lascio Londra.]
Fu come una vasca d'acqua ghiacciata in piena faccia. O un pugno.
Avevo avuto dei segnali, che era successo o doveva succedere qualcosa, ma non mi sarei mai aspettato niente del genere, niente di così netto.
In quelle ultime settimane, io e Cal eravamo arrivati al punto che, determinati argomenti, non potevano semplicemente essere affrontati: non appena li sfioravo, lui li sviava immediatamente su altri, glissava subito o, semplicemente, s'innervosiva e lasciava morire lì la conversazione. Ho provato alcune volte a chiedergli se ci fosse qualcosa che non andava, ma la reazione era sempre la stessa. Alla fine, ho semplicemente iniziato ad evitare certi giri di parole e certe direzioni, mentre parlavamo. Non che non volessi sapere o volessi evitare, ma sapevo che forzarlo sarebbe stato inutile - preferivo che si prendesse il suo tempo, prima di parlarmene lui stesso.
Ricordo l'insistenza che ho dovuto metterci la sera prima, per farlo venire da me. Era capitato più e più volte che cercasse di rifiutare ogni mia proposta per non finire a letto insieme, eppure, il giorno prima, in quei rifiuti c'era un dolore latente, un'urgenza, non la decisione che di solito usava in certe occasioni.
E poi quelle lacrime.
Quando passi anni a letto con quella persona, impari a riconoscere tutte le sue espressioni, anche quelle durante l'amplesso - inizi a studiarle così a fondo per la semplice necessità di volerle imprimere nella memoria che, poi, nella memoria ti rimangono così bene che non si tolgono più. Ed io, quelle lacrime, non gliele avevo mai viste. Quella notte, mentre lo sfioravo e lo accarezzavo e lo baciavo, mi sembrava di assaggiare non la sua pelle, ma l'ombra della stessa. E' stata solo una sensazione, credo l'esplosione di tutte quelle settimane di tensione e di analisi continua, eppure c'era e non ero riuscito a liberarmene affatto.
Più riuscivo a mettere i tasselli al loro posto, più non riuscivo a sollevare lo sguardo per poterlo guardare. Il pensiero di avere il suo sguardo addosso, a vedere la mia reazione mi lasciava senza fiato e la semplice idea che, sollevando il mio avrei potuto incontrare i suoi occhi me lo mozzava totalmente. [ah. Davvero?] mi rendo conto che ci misi una vita, prima di parlare. Ed avevo bisogno di più tempo, di più tempo per capire come prenderla, il modo giusto per non fare passi falsi. [beh, sono sicuro che ti troverai bene ovunque andrai, e che non ti sarà difficile trovare lavoro vista la tua esperienza.]
Alla fine, ci riuscii. Come si aspettava che la prendessi e che gli dicessi? "Non voglio che tu vada"?, "Voglio che tu stia con me"? Con quali pretese, poi? Chi ero io per fermarlo? Che gli avevo dato in tutti quegli anni da potermi far scegliere per la sua vita? E l'avrei dovuto fermare per... cosa? Un pugno di polvere? Non avrei anteposto la mia felicità alla sua e, di certo, non gli avrei fatto impedire di percorrere il suo cammino, qualunque fosse stato. Anche se era lontano da me, anche se non ero d'accordo.
[già. Beh... allora ci sentiamo eh. Stammi bene, Cedric.]
Fu allora che capii.
Capii che quello non era un semplice avviso, era anche il suo saluto. Capii che, se non avessi insistito il giorno prima a farlo venire a casa mia, non avrei avuto neanche quegli ultimi momenti con lui. Capii che, se non avessi sollevato allora lo sguardo, non avrei più potuto rivedere il mio Calintz per un tempo decisamente lungo e che non c'aveva mai tenuto separat così a lungo. E non lo feci, non risollevai lo sguardo e rimasi a guardare il tea. Perché, soprattutto, capii che se l'avessi guardato in quel frangente avrei fatto la scelta più insensata ed egoista della mia vita: tenerlo con me. E lui non si meritava una cosa del genere. Di quella mattina, non so se mi fece più male l'idea di non poterlo avere più tra le dita o l'idea che non avessi più tempo con lui. Mi ero reso conto che m'era già scivolato dalle dita come acqua di fonte, fredda e limpida eppure inafferrabile. E non potevo tenerla con me, non più.
[anche tu, Calintz.]
Ricordo ancora il nodo alla gola, quando l'ho salutato. Ma, soprattutto, ricordo il momento in cui è uscito dalla porta - il suo odore, portato dentro casa dalla corrente un attimo prima del tonfo della porta che si richiudeva. Ricordo soprattutto il suo odore perché, per mesi, credo di essermi aggrappato solo a quello. Era così forte da farmi girare la testa, in quel momento.
La prima cosa che feci, appena Calintz andò via, fu buttare il tea.

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Capitolo 3
*** Cedric »close your eyes and pray for the garish light of day ***


Passai tutto il giorno in camera mia e, se per l'inizio della mattinata avevo voglia solo di piangere, avevo passato il resto del pomeriggio e della sera a lavorare al computer e con la tavoletta grafica. Il pensiero che non ci fosse tea in casa mi rasserenava e m'innervosiva al tempo stesso.
Mia madre tornò nel pomeriggio inoltrato, ma io non le risposi, in un primo momento. Mi sentii aprire solo la porta della stanza dopo un po', spalancandola. [Cedric, non c'è più tea!]
Se me l'avesse detto anche solo il giorno prima, immagino che sarei entrato in crisi o mi sarei messo a ridere -anche perché, sicuramente, avrei saputo che era stato semplicemente spostato. [sì, l'ho buttato.] non avevo mai distolto lo sguardo dallo schermo, mentre continuavo a lavorare. La coda contro le gambe era una coccola, un contatto che, per quanto mi mandasse ancora più calore del normale, non riuscivo a rinunciarci. Averla là, vicino a me, mi faceva sentire a tratti protetto e coperto - come se una semplice coda potesse gettarmi addosso chissà quale copertura.
[perché?] per quanto non la guardavo, sentivo perfettamente mia madre avvicinarsi e posizionarsi dietro di me per vedere i miei lavori: era una cosa che si divertiva a fare e diceva che la rilassava, sia quando lo facevo io che quando lo faceva papà. [erano invecchiati e s'erano rovinati.] fu solo per un istante, ma mi parve che non stessi più parlando del tea. Cosa s'era rovinato, in fin dei conti? Avevo appena collegato che, per tutta la giornata, non m'ero mai girato ad osservare la stanza, neanche per sbaglio. E m'ero reso conto che non l'avevo fatto per paura di ritrovarmi il fantasma del ragazzo dai capelli blu notte che m'era sempre stato attorno da fin quando avessi memoria. L'unica differenza è che avrei saputo che era solo la mia immaginazione e che quel ragazzo non abitava neanche più nella casa vicino la mia. La cosa mi colpì con un dolore lancinante al petto.
Mia madre credo che avesse capito qualcosa perché, l'unica cosa che mi ricordo prima che mi si annebbiasse la vista per colpa delle lacrime, furono solo le sue braccia attorno al mio collo, a stringermi. Ed avevo un tremendo bisogno di quell'abbraccio, per quanto non glielo dissi mai e per quanto non la ringraziai mai. Per quanto avessi bisogno di stare solo, avevo ancora più voglia di qualcuno che potesse leggermi letteralmente dentro senza il bisogno di comunicare o aprire bocca. [se si conservano bene le cose è difficile che si rovinino - e tu le sai conservare bene le cose, Ced. Devi solo ricordarti come si fa.] non mi diede il tempo di replicare perché andò quasi immediatamente fuori. Io non smisi di osservare lo schermo del computer. [tu lo sapevi?] non specificai - non ce n'era bisogno. [sì. Victoria me l'aveva detto già qualche mese fa, di quest'idea. Cal ci aveva chiesto di non dirti nulla e che ci avrebbe pensato lui.] ci fu qualche attimo di silenzio, mentre metabolizzavo la cosa. [mi dispiace che se ne sia andato.] continuai a non parlare. Lo sapevo cosa c'era, alla base di quel dispiacere - per quanto fosse dispiaciuta per il fatto che Calintz non ci fosse più, il suo dispiacere era ben più ampio e mi raggiungeva perfettamente. L'unica cosa che feci fu mugugnare appena per concordare, poi riprendere a disegnare nel mentre che la porta della mia stanza si chiudeva, isolandomi di nuovo.
La cosa strana fu che non riuscivo ad avercela con mia madre e mio padre, per non avermelo detto. E, per quanto fossi deluso dal fatto che Calintz mi avesse dato così poco preavviso, non riuscivo ad avercela realmente neanche con lui. Semplicemente, non potevo.
Quel giorno, il tea non mi mancò affatto.
 
I giorni successivi, furono i peggiori.
Il mio carattere aveva avuto un picco impressionante e mi rendevo conto che anche semplici comportamenti mi davanti assolutamente fastidio. Non volevo vedere nessuno e m'ero reso conto di non andare in foresta da un tempo sempre più lungo - se dovevo trasformarmi, lo facevo direttamente dentro le mura di casa. Non avevo neanche voglia di uscire. L'unica cosa che facevo era lavorare e, ogni tanto, lo facevo così tanto da togliermi del tutto il sonno. Il tea continuava a non essere presente in alcun modo. Non avevo provato a contattare Calintz in alcun modo e lui aveva fatto la stessa cosa con me; a parte questo, sapevo più o meno che stava cercando di ambientarsi e tutto quello che lo riguardava perché mia madre me ne parlava anche senza che io chiedessi. Questa era una di quelle cose che m'infastidiva e mi tranquillizzava al tempo stesso perché era un continuo ricordarmi che lui non era più a Londra. D'altro canto, era anche un modo per sentirmi più vicino a lui.
Era il giorno prima del mio compleanno quando mia madre mi chiese cosa volevo fare. Io, in tutta onestà, m'ero scordato che stava per arrivare - ed il ricordarmelo fu un ennesimo pugno in piena faccia. Non tanto perché non avrei passato il compleanno con lui, quanto il ricordo di ciò che custodiva, il mio compleanno. Avevo lottato anni per non rovinare niente, cercare di non distruggere quella piccola e preziosa palla di cristallo che era il nostro rapporto. Come ero riuscito ad arrivare comunque a questo punto? Mi aveva spinto la paura di... cosa, rimanere solo per tutta la vita se avessi fatto la scelta sbagliata? [lavoro, no?] fu la mia risposta immediata. Mia madre si lamentò sul fatto che non potessi lavorare anche il giorno del mio compleanno, ma fu mio padre a zittirla, senza troppa delicatezza. [ma lascialo lavorare, se vuole.] non lo ringraziai mai a voce, ma ne fui tremendamente grato. Poi, arrivò la domanda del [vuoi qualcosa in particolare?] e fu allora che scelsi che era meglio evitare in tutti i modi di pensare a Calintz nei miei spazi. [sì. Voglio riarredare la mia stanza.] non mi si fraintenda, non volevo cancellare tutto quello che c'era stato. Ma decisi anche che non valeva la pena dannarsi per cambiare qualcosa che non sarebbe mai più potuto essere cambiato - era meglio andare avanti.
 
Il giorno del mio compleanno, lo passai tutto il tempo a lavorare. Mio padre mi passò tutti gli appuntamenti così da tenermi più impegnato possibile - e ci riuscii, almeno fino a quando non tornai a casa. Dopo il classico bagno, andai in sala e trovai mia madre al telefono. Non ci misi molto a riconoscere, dall'altro lato della cornetta, la voce di Calintz. Ricordo ancora l'agitazione e l'ansia dei primi momenti, tanto quanto il dolore e la gioia di poter avere un frammento di qualcosa che gli appartenesse. Riuscii a sentire anche perfettamente il suo [ah, poi lo chiamo io a Cedric, più tardi. Ora sono di fretta.] fu allora che capii che era inutile mantenere quella gioia. Quando mia madre chiuse la chiamata, mi disse un semplice [ha detto che ti richiama.] era speranzosa e mi sorrideva raggiante. Lo so che stava sperando, in quel momento "le cose si aggiusteranno presto, vedrai". Ma entrambi sapevamo la verità e, chi ebbe il coraggio di dirla, fui io. [...no, non lo farà.] non mi resi neanche conto quanto quella verità facesse male. Mi rifugiai in una camera che era già iniziata ad essere smantellata.
 
I lavori per la stanza non ci misero poi così tanto. I miei non volevano che stessi senza un appoggio ed avevo già in mente cosa utilizzare, più o meno. Alcuni mobili vennero comprati nuovi, altri riutilizzati. Quando finimmo, mi sembrò di aver cancellato una parte della mia vita - ed ancora oggi non saprei se quel pensiero mi faceva sentire sollevato o tremendamente angosciato. Discussi un po' con mia madre per un po', riguardo la faccenda di Calintz. Lei insisteva che io gli scrivessi almeno per chiedere come se la passava, io ero fermo nella convinzione che, il primo a dover scrivere, fosse lui. In realtà non pensavo ad una cosa del genere per orgoglio o altro, ma immaginavo che, così come io avessi bisogno di tempo per accettare tutta la situazione, lo stesso fosse per lui. Che poi non capivo neanche perché lo pensavo. Era stato lui a scegliere di andarsene, di lasciare tutto ciò che aveva e di lasciarmi indietro. Perché doveva aver bisogno di tempo? L'unica cosa che sapevo è che l'istinto mi diceva quella cosa - e, a volte, bisogna affidarsi solo a quello.
Fatto sta che, circa allo scoccare delle due settimane da quando Calintz se n'era andato, gli scrissi. Niente di che, giusto come stava e se si fosse ambientato bene. La risposta a quel messaggio non arrivò mai - e credo che entrai solo allora nella consapevolezza che, di fondo, Calintz non mi voleva più nella sua vita.
In quel momento mi sono davvero reso conto di quanto facesse male la sua assenza nella mia vita. E del fatto che, in un modo o nell'altro, sarei dovuto andare avanti senza di lui, per la prima volta in tutta la mia vita.
Quattro giorni dopo, andai a comprare il tea nuovo.
Per il primo periodo che tornai a bere tea, mi tornò sempre in mente il sapore di quella tazza amara. Inghiottii e seppellii quel sapore.
 
Tutto il mese di luglio fu una sorta di transizione.
Calintz continuava a non farsi sentire e quel messaggio che gli avevo mandato era rimasto là, in un limbo dove non sapevo assolutamente nulla. Le uniche notizie che continuavo a ricevere erano attraverso mia madre, così come sapevo del fatto che, spesso, chiedeva di me sia a lei che a Victoria.
E' sempre stato un comportamento che non mi sono mai riuscito a spiegare, quello. Perché chiedere ad altri di me e non interessarsi personalmente? Ammetto che la cosa mi lasciava con l'amaro in bocca, tutte le volte. Erano comportamenti tipici suoi, ma che mi facevano mandare il sangue al cervello perché non avevano assolutamente logica. Ed io, nella mia posizione, non riuscivo neanche a codificarli in alcuna maniera.
Era un modo per chiedermi qualcosa? Per interessarsi perché era preoccupato? Un modo per dimostrare il suo interesse ed il suo affetto nei miei confronti? Se con le parole e con gli altri si dimostrava in un modo, con gli atteggiamenti dimostrava l'esatto opposto. Era una cosa che non riuscivo a capire in alcuna maniera.
Ripresi ad uscire più assiduamente solo a metà di luglio e ripresi anche con alcune delle mie vecchie abitudini. Mi sembrava il modo migliore per non pensare a lui.
E per qualche momento era pure vero.
Poi, arrivava il dopo. La pausa dall'amplesso e vedevo il ragazzo o la ragazza di turno là, distesi, che fossero dormienti o rilassati. Quei momenti erano una fucilata, tutte le volte. Coi polmoni pieni dell'odore di quella persona, mi rendevo conto di cercare delle note, in quella fragranza, che potessero avvicinarsi a quelle dell'odore di Calintz. Sfioravo la loro pelle nella speranza che avesse una consistenza simile alla sua. Non sopportavo i loro gemiti perché mi aspettavo, da un momento all'altro, di sentire solo i suoi.
E poi loro riaprivano gli occhi. Ed io non riuscivo a trovare quei due occhi blu e viola a fissarmi.
Ogni volta, era la salvezza e la distruzione. Non riuscivo a sentirmi mai appagato perché non potevano appagarmi.
 
Ebbi notizie da lui, per la prima volta, agli inizi di agosto.
Il lavoro stava andando bene ed avevo iniziato un po' ad uscire - cose minime, principalmente per svagarmi un pochino. In realtà, quando mi scrisse non mi trovavo neanche in Inghilterra, ma avevo raggiunto mia madre in Norvegia alcune settimane prima del solito. Lì avevo sotto mano un ragazzino, probabilmente degli ultimi anni del Liceo - non mi ero neanche informato più di tanto. Credo che l'avessi scelto di proposito, in quel modo: fisicamente gli assomigliava molto e tanto mi bastava. Caratterialmente, era un moccioso scialbo e senza una reale sostanza. Semplice carne da macello.
Quando mi scrisse, era piena notte ed io ero fuori. Vicino a casa dei miei nonni, c'era un fiordo ed il sole di mezzanotte lo illuminava in maniera meravigliosa. Si fece sentire su Skype ed il messaggio era molto simile a quello che gli avevo scritto io, quasi un mese prima - mi chiedeva come stessi. Fu un attimo, un solo attimo nella quale in quei mesi in cui ero stato totalmente da solo e totalmente distanti da lui furono eliminati, in un colpo solo. Un solo attimo in cui la consapevolezza di non poterlo avere vicino svanì nel nulla e, forse, una parte di me si illuse che, magari, sarebbe potuto tornare tutto come prima. La prima cosa che feci non fu rispondere al suo messaggio, ma avviare immediatamente la chiamata di Skype dal cellulare. quando decise di rispondere alla chiamata, non gli lasciai neanche il tempo di parlare [ehi, va tutto bene? E' successo qualcosa?] mi sembrava ovvio chiederglielo. Aveva passato quasi un mese e mezzo senza farsi sentire e, sinceramente, mi aspettavo che mi contattasse solamente in caso di necessità. Non feci neppure caso al fatto che il mio tono di voce fosse allarmato o meno. [no, io... non ci sentivamo da un po' e volevo sapere come te la passassi.] mi rendo ancora conto di quanto mi abbia fatto sciogliere il cuore, quando ho sentito la sua voce. E' stata come una boccata d'ossigeno nuova, rinnovata. Parlammo per una mezz'oretta abbondante - in Norvegia erano le 3 di notte circa, a differenza di Narita. Calintz disse che aveva notato che ero ancora online e c'aveva provato.
[Calintz...] fu quasi allo scadere della chiamata che mi ritrovai a chiamarlo - me ne resi conto dopo averlo fatto. Stavo pensando a quanto mi mancasse e, in quel momento, mentre gli stavo parlando, m'ero reso conto di non volere solo la sua voce, per respirare. Avevo bisogno proprio di lui. E mi resi conto di non poterglielo dire. [...sono felice di averti sentito. Dovresti tornare a farti sentire più spesso.] annegai tutto nei meandri del mio cuore. Tutto quello che volevo dirgli, come mi sentivo. Seppellii tutto perché non vedevo il senso, di farli riemergere. [ha fatto piacere anche a me.]
Quando chiusi la chiamata, mi resi conto di quanto m'ero illuso appena avevo letto il suo messaggio. Non poteva tornare tutto come prima - era impossibile. Anche una mente controllata, a volte, si lascia strozzare dalle speranze.
 
Nel periodo di tempo successivo, io e Calintz tornammo a dei contatti quasi classici, se non fosse per il fattore distanza. Ci sentivamo più o meno tutti i giorni, che fosse al telefono o per messaggi. C'eravamo abituati più o meno tutt'e due alla non presenza l'uno e dell'altro nei luoghi dove vivevamo, ma, per quanto non ce lo dicessimo mai apertamente, era chiaro che per entrambi era la stessa cosa: distanti potevano esserci pure meno drammi, ma era un qualcosa di così superficiale, il non poterci assaporare appieno, che ci lasciava sempre perennemente insoddisfatti. Trovai conferma nella cosa in una tarda sera, ad ottobre. Stavo facendo di nuovo le ore piccole - ormai era un classico - e Calintz mi chiamò.
Parlammo per un po' del più e del meno fino a quando non sentì la sua proposta [perché non vieni qui, a Natale?] ammetto che mi lasciò leggermente sorpreso la cosa, in un primo momento. C'era voluto un po' prima che io e Cal tornassimo a parlare con naturalezza, sia al telefono che tramite messaggi - soprattutto per il primo mese e mezzo, era come se s'era costruito un muro, tra di noi. C'erano argomenti che non volevamo affrontare ed altri che non potevano essere affrontati: spesso Cal dimostrava dei forti sensi di colpa quando mi scappava di dirgli del lavoro che stavo facendo allo studio, dei turni di lavoro che mi tenevano impegnato tutto il giorno o cose del genere. Questo lo chiudeva ancora di più e quindi ho iniziato solo ad evitare di dirlo.
Il fatto che Calintz mi chiedesse di passare il Natale da lui era, al tempo stesso, una piccola gioia. Non ci vedevamo da ormai quasi quattro mesi e presto sarebbero aumentati - l'idea di poter passare del tempo con lui mi scaldava il cuore. [posso provare a chiedere ai miei, magari ti faccio sapere meglio più avanti, ma in generale cerco di venire.] era ovvio che avrei cercato di venire.
Poi, c'è stato quel momento in cui è sembrato che quel muro non ci fosse mai stato. [mi manchi.]
Lì, mi si è svuotato tutto il mondo. Quello che più mi mandava alla testa, di Calintz, sia in senso positivo che negativo, era che semplicemente, le cose, le faceva. E sentirgli dire quelle parole significava che sì, le stava pensando davvero. Credo fosse stato il mio colpo di grazia. [mi manchi anche tu, mostriciattolo.] ci misi un po' prima di rispondere e, ripensandoci, non ricordo neanche se mi sono pentito o meno di averlo detto. Era un venire allo scoperto così ampio che mi faceva paura.
La chiamata durò poco, dopo quello scambio, perché s'intromise un'altra voce. L'unica cosa che capii è che conosceva Calintz, abbastanza bene.
Pure a chiamata chiusa, anche senza essermi goduto del tutto la sua reazione, a me bastava. Mi bastava sapere che gli mancavo.
 
Le cose hanno iniziato ad assumere una piega strana dopo un servizio fotografico,nell'agenzia delle nostre madri. Ricordo che la mia mi aveva chiesto di posare per un servizio in stile goth ed io avevo accettato a scatola chiusa - c'ero abituato e non era proprio una cosa che mi dava così fastidio. Mi ero ritrovato a fare coppia con Rebecca, una modella dell'agenzia che m'ero portata a letto un paio di volte - niente di serio, ma lei si lasciava prendere molto spesso dalla sindrome della crocerossina e cercava di curare tutti i casi più disperati (e, per lei, i casi disperati erano coloro che non volevano una relazione seria). Quindi era piuttosto facile rigirarsela e farla cadere in un letto. Bellissima, la classica bambola che ti fa girare la testa quando passa per strada, ma di un'ingenuità atroce.
Durante una delle varie pause, ricordo che mi chiese a bruciapelo. [perché non fai il modello? Staresti così bene, sei adatto.] non era la prima volta che me l'avevano detto ed era forse l'ennesima a cui andavo a rispondere. [perché non è quello che voglio fare.] la sua espressione perplessa, non mi convinse troppo.  [come modello potresti fare molto più successo e potresti migliorare molto di più.] prima di rispondere, mi tolsi la maschera che stavo indossando -, ma non ebbi tempo di rispondere perché, in quella conversazione, si mise in mezzo un'altra voce. [migliorerà soprattutto come tatuatore. Sarà uno dei migliori.] quando mi girai, trovai il viso di mia madre che sorrideva con una fierezza sconfinata e che fronteggiava a testa alta la modella. Quella, era solo l'inizio della sua trappola - ed io ci caddi in pieno centro.
Riprendemmo il discorso in macchina, mentre tornavamo a casa. [Rebecca ha ragione però, sai? Avere successo come modello è molto più facile.] quando la guardai, immagino l'abbia fatto come se stessi fissando un alieno. Ma che diamine le saltava in mente? Prima mi sosteneva e poi diceva queste cose? [ed infatti sto lavorando come un dannato, allo studio ed anche a casa. Lo so che come tatuatore non avrò lo stesso successo che potrei avere nella tua agenzia.] l'argomento mi faceva innervosire, puntualmente. Nel periodo in cui andavo all'Accademia, questo discorso era uscito più e più volte, persino di fronte a Calintz nel tentativo di trovare un supporto in lui e che potesse convincermi. Per fortuna, Cal non s'era mai fatto piegare ed avevo trovato un appoggio solido su quell'argomento - e, per quanto avesse detto che la scelta finale fosse sempre e solo la mia, sapevo che anche mio padre aveva fatto la sua parte. [massì massì, lo so. Però tuo padre maneggia solo degli stili in particolare.] aveva ripreso mia madre, con tutta calma. [secondo me se vuoi davvero migliorare come tatuatore dovresti cambiare studio, almeno per un po'. Magari lasciare persino Londra e prendere un po' lo spunto di Calintz. Poi in futuro puoi anche tornare e prendere tutto tu in gestione, chi lo sa.] e, per quanto avessimo affrontato più volte discorsi simili, non era mai arrivata a farmi delle proposte del genere. Rimasi in silenzio per una buona manciata di secondi, rimuginando su quello che m'aveva appena detto. [lo sai che non posso lasciare Londra al momento.] le feci notare, più tardi. [papà ha bisogno d'aiuto per lo studio e se lo lasciassi pure io, mi ammazzerebbe.] l'unica cosa che mi disse mia madre, fu [se vuoi qualcosa, dovresti solo prenderla e non preoccuparti del resto. Pensa alla tua felicità una volta ogni tanto e non quella di chi ti sta attorno.]
Non ebbi il coraggio di risponderle.
 
La seconda volta che ci fu un discorso simile, ricordo che ero andato a trovare mia madre in agenzia - non ricordo cosa dovevo portarle e che s'era scordata a casa. Ovviamente, pensandoci ora lucidamente, mi rendo conto che m'aveva incastrato. La trovai nello studio di Victoria a parlare del più e del meno. Quando le salutai e passai quello che dovevo dare a mia madre, lei mi disse [ah sai? Calintz ha trovato lavoro come tatuatore a Narita.] in realtà non avevo ancora avuto novità, ma sapevo che Cal doveva andare a parlare col proprietario di uno studio che aveva bisogno di nuovo personale. [ah, l'hanno preso?] domandai verso Victoria, ma non ebbe neanche il tempo di parlare perché mia madre riprese, come una macchinetta. Ed è odiosa quando fa così, hai l'unica voglia di prendere una qualsiasi cosa e tapparle la bocca per ammutolirla e godersi un po' il silenzio. [già, dice che si trova tanto bene, là.]
Quando parlò Victoria, le cose precipitarono ancora di più. [è un peccato che non abbia trovato ancora nessun compagno, però. E' un ragazzo così bello ed ha così tante qualità, si merita qualcuno che sappia renderlo felice.] fu allora che riuscì a conquistarsi l'attenzione di entrambi e con un'unica frase ad effetto, un vero e proprio colpo basso. Immagino che il pensiero di entrambi fosse lo stesso "non ci posso credere che l'abbia detto". [insomma, va a letto con un mucchio di gente e non si decide a fare sul serio con nessuno. Non posso crederci di avere un figlio del genere.] Comprendevo il fatto che Victoria ci tenesse particolarmente alla sua felicità, dato che era suo figlio e tutto, ma non mi faceva comunque passare il nervosismo che mi sentivo addosso, a quella frase. Era come avere una doppia pelle creata da ortiche e da pensieri insostenibili. Mi sembrava assurdo che avesse potuto dire una cosa del genere. Poi, si rivolse direttamente a me. [Lo sapevi che a quanto pare c'è un ragazzo interessato a lui? Speriamo metta la testa a posto.] Il fatto che mi stesse dicendo direttamente quelle cose, a me, mi lasciò sconvolto. Non riuscivo a reagire in maniera naturale e non sapevo se prendermela principalmente con lei perché me l'avesse detto o col ragazzo in questione perché si fosse avvicinato a qualcosa che era una mia prerogativa. [...già.] fu tutto quello che riuscii a dire - una cosa stupidissima, insomma. Che poi, prerogativa di che? Calintz non era mio e non mi apparteneva affatto, così come non stavamo neppure assieme. In fin dei conti, era libero di fare quello che voleva. Era già successo qualcosa del genere, quando lui frequentava altre persone, ma allora era diverso: c'ero io vicino e, per quanto gli altri potessero sfiorarlo, lui sarebbe tornato sempre da me. Il pensiero che questa volta non potevo fare assolutamente nulla... mi ammazzava.
E fu solo dopo aver detto quell'ultima parola che mi resi conto dello sguardo che mi stava rivolgendo mia madre: da predatrice. Da chi stava pescando in un fiume congelato gli unici pesci rimasti in vita. Di chi sapeva di avere la vittoria in tasca perché l'aveva appena vista brillare. [ma dai, sicuramente troverà qualcuno. Non ti devi preoccupare, è normale.] non appena mia madre la rassicurò, io filai con un saluto rapido. Avevo il cuore in gola come chi aveva appena fronteggiato la morte e non se n'era neppure reso conto.
 
L'ultima sparata di mia madre, fu circa prima della metà di ottobre. Ammetto che avevo pensato all'idea di poter lasciare lo studio di mio padre e m'ero informato un po' anche sugli altri stati, a livello di tatuaggi. Il Giappone era quasi in cima alle classifiche, per un motivo o per un altro. Ovviamente, non avevo ancora accennato nulla a mio padre.
Quel giorno mia madre entrò in camera per portarmi il tea ed avevo alcune finestre aperte proprio riguardo questi argomenti. Rimase qualche secondo buono ad osservare prima d'attaccare bottone. [hai già iniziato a vedere qualche meta? Il Giappone mi avevi detto che era ben aggiornato al riguardo, no?]
Ed aveva ragione. Lo stile giapponese era davvero usato per i tatuaggi di tutto il mondo e poterlo padroneggiare sarebbe stato un bel passo avanti, per me. [lo so, ma a quel punto dovrei scegliere anche la città.] rimase un po' a guardare la pagina, appoggiata contro l'armadio del letto. Poi, se ne uscì solo con un suggerimento. [va a Narita.]
non so se mi mise più agitazione il fatto che avesse suggerito quel posto o che l'avesse semplicemente nominato. Rimasi a guardarla per un po' in uno stato di totale perplessità, fino a decidermi. [a Narita c'è Calintz, mamma. Sembrerebbe che lo stia seguendo.] lei si mise a ridere e mi accarezzò la coda. [e ti darebbe così fastidio, se fosse così?]
Mentre lasciava la mia stanza, pensai a quella domanda fino a non essere riuscito a trovare una risposta. No, non m'importava. Fu allora che mi resi conto che, senza neanche rendermene conto, avevo già scelto tutto ciò che volevo.
 
Quando parlai a mio padre e mia madre di volermi trasferire a Narita, era metà ottobre superato.
Calintz non sapeva nulla, né dell'idea di voler lasciare in generale Londra né di volermi trasferire in Giappone.
Quando dissi ai miei genitori che avevo finalmente scelto, mio padre non fu d'accordo: il lavoro ne avrebbe sicuramente risentito e non mi trovava pronto a trasferirmi all'estero. Mia madre mi guardò per tutto il tempo come se volesse studiarmi. Non capì mai perché mi guardava così, se era perché aveva capito le mie reali intenzioni o se mi stava studiando solo per cercare di capire se ero sicuro di ciò che stavo facendo. Non parlò per un bel po', lasciando me e mio padre alle nostre classiche discussioni e guerre fredde continue. Quando finalmente si decise, era passata più di una mezz'ora abbondante. [mandiamolo.] fu l'unica cosa che disse a mio padre, in un primo momento. [se è serio, cercherà subito un lavoro. Gli chiederemo di farci sapere lo stipendio, ogni mese, per vedere anche come si mantiene. Se entro un mese non riuscirà a fare nulla, tornerà qui a Londra, no?] ci volle un po' per convincere mio padre.
Ricordo che quando alla fine fummo tutti d'accordo, l'unica cosa che fece mia madre fu prendere il computer ed il cellulare, passandomi entrambi. [chiama Victoria e prendi il biglietto.] la sua unica motivazione fu [quando scegli di fare qualcosa, falla subito prima che cambi idea. Non potrai più tornare indietro, così.]
Calintz non venne avvisato di niente, mai.

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Capitolo 4
*** Calintz »I'm lost inside the pain I feel without you ***


l’aereo non faceva scalo e non c’erano cambi nella tratta. era un diretto per Narita e all’atterraggio trovai mio padre che era li ad aspettarmi già da un’ora abbondante. arrivai nel primo pomeriggio e il fuso orario, combinato con le fasi di pianto e dormiveglia durante il volo si fecero sentire tutte assieme. gli crollai letteralmente addosso quando mi abbracciò, rifugiandomi in un pianto liberatorio che spacciai per la mancanza da lui [ehi. che misera figura ci fai se alla tua età piangi ancora in questo modo?] lo disse scherzando, ma si sentiva che era più che felice di vedermi li. mi infilai nuovamente gli occhiali e lo seguii fuori dall’aeroporto, non andammo subito a casa ma mi portò a mangiare. ero a stomaco vuoto praticamente dalla sera prima, e anche in quel momento avevo comunque mangiato come un uccellino. anche quello influiva sulla pesantezza dovuta al fuso orario tra Narita e Londra.
mentre tornavamo a casa mi spiegò un po’ le regole, dal togliersi le scarpe una volta entrati che era quella che valeva per ogni appartamento, poi passò direttamente a quelle di casa: non toccare nessuno dei reperti che aveva dentro casa (una volta, quando avevo circa dieci anni, gli feci cadere un vecchio vaso cinese. probabilmente non gli è mai andata giù pur non dandomi mai colpe esagerate proprio perché ero un bambino), non tenere la musica o la tv troppo alta, non lasciare in giro gli attrezzi da disegno e relativi fogli... insomma, cose che io puntualmente mi scordavo nel giro di due giorni e lui era costretto a ripetermi fino a che non si stancava, allora mi lasciava fare. quella stessa sera chiamai a casa avvisando che ero arrivato, che stavo bene e che il fuso orario era davvero massacrante. prima di chiudere la chiamata chiesi a mia madre di avvisare anche Cedric. sapevo che lo avrebbe fatto in ogni caso, anche se non glie lo avessi chiesto, ma chiederglielo mi fece sentire un po’ meno in colpa nei suoi confronti.
 
nel giro di due di giorni mi era salita una febbre veramente indecente. mio padre era andato fuori per una settimana circa lasciandomi li dopo il mio rifiuto a volerlo seguire per non intralciarlo nel suo lavoro, e non sapevo come muovermi. chiamai direttamente mia madre ricordandomi solo quando rispose che a Londra era notte inoltrata e che l’avevo appena svegliata. lei mi disse di chiamare la guardia medica e parlare con loro, ma come prima cosa vedere se mio padre avesse qualche medicina in casa cosi da prendere almeno delle pasticche.
se non mi ricoverarono fu un miracolo, quando la guardia medica arrivò a casa mi disse che avevo sfiorato i 40° di temperatura, e me ne rendevo conto di mio perché non riuscivo in alcun modo ad essere lucido, non capivo più della metà delle cose che mi diceva e spesso mi agitavo e avevo attacchi di pianto senza motivo. mi diede un tranquillante subito dopo avermi fatto una puntura con non so quale roba dentro, disse che era per far scendere la febbre. ricordo solo che mi addormentai non appena andò via e dormii per il resto della giornata e per tutta la notte. la mattina dopo mio padre era di nuovo a casa, preoccupatissimo per me [mi ha chiamato la mamma dicendo che stavi male.] non so se era maggiore la felicità di vederlo li, o il senso di colpa per averlo fatto tornare prima dal suo lavoro per stare con me [mamma esagera sempre. se dormo mi passa.] mi resi conto solo dopo che in mano aveva il foglio che la guardia medica mi aveva lasciato il giorno prima, nemmeno me ne ricordavo [qui dice che avevi 40°, non è proprio stare bene.] non trovai niente da rispondere, e per una volta lo lascia fare senza trovare niente che non andasse. la  febbre durò una settimana in tutto, ma gli ultimi due giorni ormai era solo una leggera alterazione perché stavo decisamente meglio. quando chiamai nuovamente mia madre per avvisarla e tranquillizzarla mi disse che anche Cedric sarebbe stato contento di sapere che ora stavo bene, e che si era agitato parecchio all’inizio.
la cosa mi tolse ogni parola di bocca, tanto che la salutai piuttosto frettolosamente e chiusi la chiamata tornandomene in camera e chiudendomi dentro. piansi di nuovo.
 
mi  resi conto di sentirmi veramente in colpa nei confronti di Cedric, per svariati motivi. il primo era proprio il non avergli dato modo e maniera di sapere niente fino alla mattina stessa della mia partenza, salutandolo in quel modo veramente ignobile. gli altri erano piccolezze, all’incirca, l’avergli buttato addosso anche i miei turni al negozio, il non avergli spiegato il motivo della mia partenza, l’aver reagito in maniera eccessiva ogni volta che si toccavano determinati argomenti... eppure non avevo il coraggio di chiamarlo per parlarne, anzi evitai ogni contatto possibile con lui, tranne il chiederne notizie a mia madre o alla sua. non gli feci nemmeno gli auguri per il compleanno pur sapendo cosa quel giorno rappresentasse, per entrambi.
chiamai casa sua quel giorno, mi rispose sua madre ma quando sentii la voce di Cedric cosi poco distante dal telefono chiusi la chiamata in maniera rapidissima, dicendo di avere fretta e che lo avrei richiamato più tardi per gli auguri.
non lo richiamai. penso di averlo ferito davvero tanto, in quel modo.
non lo richiamai per parecchio tempo, giorni, settimane, quasi due mesi.
 
in realtà non so nemmeno per quale motivo decisi di tenere il telefono ancora attivo, li. in fondo mio padre aveva il pc e io usavo Skype per chiamare o mandare messaggi, e c’era ben poca gente che avevo interesse di sentire ancora.
quando mi arrivò il messaggio di Cedric a distanza di due settimane dal mio arrivo a Narita, un semplicissimo “come stai? ti stai ambientando bene?” non ebbi il coraggio di rispondergli, ma allo stesso tempo lessi e rilessi quelle due domande, quelle sei parole un’infinità di volte, senza avere il coraggio di cancellarlo. la sera dissi a mio padre che volevo disattivare il numero, che non ne avevo bisogno. me lo chiese il motivo, ma avevo già la risposta pronta [perché posso usare il tuo pc senza dover spendere soldi per il telefono.] questo lo convinse e il giorno dopo passammo in un negozio di telefonia e disattivammo il numero. tenni comunque il telefono, quel messaggio mi fece compagnia fino a che non fui io, più di un mese dopo, ad agosto, a decidermi a scrivergli.
 
non mi applicai nemmeno troppo, quando lo feci. semplicemente copiai direttamente il suo messaggio, inviandoglielo su Skype. mio padre era di nuovo fuori per lavoro e io stavo cercando un appartamento dove potermi spostare per avere un po’ di privacy, pur cercandolo vicino al suo, per necessità.
a Londra era notte fonda in quel momento, ma Cedric era ancora loggato quindi provai a scrivergli. lui non mi rispose, mi chiamò direttamente mandandomi letteralmente nel panico. ci misi qualche secondo buono prima di andare a rispondergli, e anche in quel momento non ne ero troppo convinto [ehi, va tutto bene? è successo qualcosa?] non mi diede nemmeno il tempo di rispondere che mi buttò addosso quelle due domande con un tono fin troppo preoccupato. sentire la sua voce, in quel momento, mi fece crollare letteralmente. dovetti fare uno sforzo enorme per non mettermi a piangere e per non chiudere la chiamata. ma soprattutto, dovetti fare uno sforzo enorme per tenere un tono di voce tranquillo [no, io... non ci sentivamo da un po’ e volevo sapere come te la passassi.] che idiota, con la voce che mi tremava non davo proprio l’impressione di qualcuno tranquillo. mi disse che non era a Londra e che aveva raggiunto la madre in Norvegia, come ogni estate, quando gli chiesi come mai andò  cosi in anticipo rispetto al solito la sua risposta fu molto evasiva, mi disse che al negozio non c’era troppo lavoro e che quindi era partito prima. non ho insistito.
non rimanemmo molto in chiamata, ma proprio mentre lo stavo salutando mi chiamò per nome [Calintz...] non ebbi il coraggio di parlare. non ebbi il coraggio di chiudere la chiamata in quel preciso istante, per paura di cosa avrebbe potuto dire, per paura di cosa avrei potuto dire io in risposta. non ne ebbi il coraggio e, semplicemente, rimasi ad ascoltarlo in silenzio [...sono felice di averti sentito. dovresti tornare a farti sentire più spesso.] sentivo qualcosa di caldo che mi scivolava lungo le guance e gli occhi iniziavano ad appannarsi, mentre fissavo la schermata di Skype aperta sulla sua chat. chiusi gli occhi cercando di calmarmi un momento, prima di rispondere. non potevo fargli sentire che stavo piangendo, non potevo e non volevo mostrarmi cosi debole. non avevo il diritto di farlo, non dopo essermene andato per cercare di dimenticarlo [ha fatto piacere anche a me.]
me ne resi conto solo quando chiusi la chiamata, era inutile scappare perché ovunque fossi andato Cedric sarebbe sempre stato presente. e più cercavo di allontanarlo, meno mi era possibile.
 
mi rendevo conto di cercarlo in ogni cosa che facevo, in ogni posto in cui andavo.
scelsi il mio appartamento perché aveva un balconcino abbastanza grande che girava su due lati di casa prendendo tutte le stanze tranne il bagno, perché a Cedric piace avere le stanze ben illuminate.
tenevo sempre del tea in casa, quello inglese ovviamente. anche se ne bevevo pochissimo me ne facevo mandare da mia madre quando lo finivo, perché a lui piace e ne va matto e se in casa manca si agita.
trovai una libreria con una piccola sala di lettura nel retro negozio dove facevano anche il tea. mi ci fermavo spesso per il puro gusto di stare li a leggere e bere tea. però ogni volta restavo fossilizzato sulla medesima pagina, sulla medesima frase alle volte, trovandomi a pensare a tutti i possibili sviluppi che ci sarebbero stati se avessi parlato a Cedric delle mie intenzioni di trasferirmi, con l’anticipo che voleva Erika. ma soprattutto, se gli avessi detto il perché, che mi trasferivo perché volevo allontanarmi da lui. che mi trasferivo perché non sopportavo più di vederlo assieme ad altri che non fossi io. che non accettavo il suo essere dolce verso altri che non fossi io. che ero io quello che doveva avere affianco, non tutti quei cretini e quelle cretine che gli rivolgevano sorrisini solo perché volevano finirci a letto.
ma che diritto avevo di dirgli delle cose del genere, quando lui per primo non ha mai cercato di cambiare il rapporto che avevamo, tenendomi stretto in quel modo senza mai fare quel singolo passo in più che avrebbe evitato tante e tante cose. e io che accettai la cosa, pur di non perderlo del tutto. io che al suo compleanno gli sono piombato a casa dicendogli che mi piaceva, che avrei voluto stare con lui e che per tutta risposta mi sono visto riempire di attenzioni uniche, credendo che dietro quelle stesse attenzioni ci sarebbe potuto essere qualcosa di più.
ogni volta che mi fermavo a pensare a tutto questo, finivo sempre per innervosirmi e lasciavo perdere qualunque cosa stessi facendo in quel preciso momento, per evitare di rovinarla. se potevo sfogavo disegnando e ascoltando musica, altrimenti semplicemente mi buttavo sul letto restando a luci spente fino ad addormentarmi.
la lontananza a volte aiuta. altre, semplicemente, distrugge.
dovevo andare avanti, in un modo o nell’altro.
 
[...]
 
non ho avuto nessuna storia seria nei mesi che passarono. quelle che c’erano erano solamente scappate da una notte in cui la mattina non ricordavo nemmeno più il nome della persona in questione, o forse non lo avevo mai davvero saputo. non che la cosa m’importasse poi cosi tanto dal momento che quasi non gli davo il tempo di rivestirsi che già li accompagnavo alla porta.
cercavo  sempre di non aprirmi mai mentalmente quando passavo le notti con qualcuno, perché non ne ero intenzionato e non volevo impegnarmi in alcun modo, con nessuno. i miei erano semplici sfoghi che rigettavo contro chi catturava il mio interesse a livello prettamente fisico. non permettevo a nessuno di loro di vedere qualcosa di me che avrebbe potuto avvicinarli di più, cosi come non permettevo a me stesso di fare la medesima cosa in opposto. non andavo mai a letto con la stessa persona più di una volta, proprio per questo motivo.
non permettevo nemmeno di avere il comando a letto se si trattava di uomini, ero sempre io a gestire tutto. io a decidere quando iniziare e quando finire. io a decidere quando smetterla, se la cosa mi stava venendo a noia.
e quello ormai succedeva sempre più spesso nell’ultimo periodo perché mi rendevo conto che per quanto ci provassi, non era nessuno di loro che volevo nel letto. non erano le loro mani che volevo mi sfiorassero, non erano i loro sguardi a volere addosso, non erano le loro voci e il loro chiamarmi ciò che volevo davvero sentire.
spesso capitava anche che mi bloccassi nel bel mezzo dell’amplesso, togliendomi e infilandomi in bagno, lasciando il ragazzo o la ragazza di turno li sul letto a cercare di capire il mio comportamento, a chiedersi se non fossero loro, forse, ad aver sbagliato qualcosa, qualche gesto o qualche parola fuori posto.
dopo un po’ smisi perfino di cercare una via di fuga in quei rapporti occasionali che, mi rendevo conto, non mi soddisfacevano nemmeno più. volevo stare solo, semplicemente.
 
verso la fine di settembre conobbi un ragazzo al babylon, era abbastanza tranquillo e ci si parlava pure piuttosto bene. ci vedemmo qualche volta fino a che, una sera, in spiaggia dopo la mia solita corsa pomeridiana, mi ha baciato quasi senza preavviso. non mi sono tolto anche se probabilmente avrei dovuto, ma in quel momento la mia testa ha azzerato ogni pensiero possibile lasciandomi in silenzio. nel frattempo mio padre decise che dovevo avere nuovamente un numero a cui poter essere raggiungibile visto che ora abitavo per conto mio e mi stavo anche cercando un nuovo lavoro li. diceva che cosi sarebbe stato più semplice anche per lui contattarmi, oltre che per mia madre.
alla fine accettai, ma con la sola condizione che il telefono lo avremmo pagato assieme e non lui per intero. un compromesso che andò bene ad entrambi, anche se per me all’iniziò fu quasi solo un peso dal momento che me lo dimenticavo spesso a casa e il più delle volte acceso.
con Cedric avevo ripreso a sentirmi più o meno come prima, quasi tutti i giorni, anche se non era più realmente come prima. si sentiva che c’era qualcosa che non andava, qualcosa che mancava in quei contatti. ma nessuno dei due sollevò mai la questione e la cosa rimase cosi.
è  proprio Cedric che chiamai, la sera in cui abbiamo acquistato il telefono. ero alla stazione della metro e stavo tornando a casa, stavo aspettando un treno un po’ meno affollato cosi da non dovermi fare le poche fermate che dovevo in piedi o in mezzo alla calca. decisi di chiamarlo per aggiornarlo un po’ sulla situazione fino a che non me ne sono uscito in maniera totalmente imprevista, tanto per me quanto, probabilmente di più, per lui [perché non vieni qui, a Natale?] ci ho pensato dopo a cosa quella domanda comportava. se Cedric fosse davvero venuto a Narita quei mesi sarebbero stati annullati nel giro di un solo istante, solo vedendolo, e il suo rientro a Londra mi avrebbe lasciato distrutto. ci avevo messo quasi quattro mesi a trovare un modo per andare avanti, e tutt’ora non riuscivo a sentirlo senza agitarmi. che cazzo mi era saltato in mente? che cazzo stavo pensando, mentre gli ho fatto quella domanda? [posso provare a chiedere ai miei, magari ti faccio sapere meglio più avanti, ma in generale cerco di venire.] la sua risposta è stata il colpo finale ad un muro che era ormai fin troppo pieno di crepe e punti morti. o forse non era mai stato davvero cosi solido come credevo. sta di fatto che fui davvero felice di sentire quelle parole, che fosse riuscito o meno a venire era indifferente. mi accorsi che quei mesi, quella distanza tra noi, sembrava stesse iniziando a diminuire lentamente, ma in maniera inarrestabile e io non potevo (o forse non volevo) fare niente per arginare la cosa.
[mi manchi.] mi rendo perfettamente conto che avrei dovuto mordermi la lingua in quel momento, invece gli dissi quelle due parole che non riuscii a trattenere in alcun modo, andarono da sole e ritrattare era impossibile. il silenzio successivo, prima dell’eventuale risposta di Cedric, era decisamente pesante, oltre che anche imbarazzante, in parte. non volevo parlare più proprio per evitare di dire chissà che altra roba, quando ho sentito le sue parole [mi manchi anche tu, mostriciattolo.] mi sono reso conto che quelle poche parole mi fecero crollare davvero malissimo. per fortuna è arrivato il ragazzo del babylon a tirarmi fuori da una situazione che, sapevo perfettamente, avrei rischiato solo di far degenerare, in un modo o nell’altro.
le cose con lui hanno avuto un picco inaspettato -per me almeno- la sera che l’ho invitato a casa per una pizza. ci siamo ritrovati a parlare del più e del meno fino a che lui non mi disse di voler provare a farmi dimenticare il ragazzo  con cui mi trovò al telefono la sera alla stazione della metro. gli avevo detto proprio pochissime cose riguardo a Cedric, e soprattutto gli avevo detto che era un mio amico d’infanzia, quindi non so proprio perchè se ne sia uscito in quel modo ma soprattutto non so cosa si aspettasse da me. con lui non era poi tanto diverso rispetto agli altri, ma ebbi la buona grazia di dirgli che non ero in grado di dargli ciò che voleva a livello emotivo. accettò le mie parole e ci ritrovammo a letto nel giro di poco.
anche con lui, come è stato con tutti gli altri, fui io a dirigere i giochi dall’inizio alla fine.
 
mia madre sapeva che non avevo un rapporto stabile con nessuno e per quanto accettasse la cosa, non passava volta che mi chiedesse come stavo, in quel frangente. fu proprio durante una delle nostre conversazioni che uscì, di nuovo, l’argomento [perché non cerchi di costruire un rapporto stabile con qualcuno?] la domanda ormai era talmente attesa che non la feci nemmeno aspettare troppo a lungo, risposti in maniera quasi meccanica [perché non ho la minima intenzione di impegnarmi in una relazione con qualcuno, al momento, mamma.] fu la sua risposta che però mi zittì, trovandomi decisamente impreparato sotto quel punto di vista. il discorso si era evoluto in maniera strana [Cal, continuando a fuggire non riuscirai mai a risolvere nulla. se anche chiudi gli occhi i problemi non spariscono, rimangono li davanti in attesa che tu li riapra e torni ad occupartene.] chiudemmo li l’argomento e cambiammo discorso, eppure a chiamata chiusa tornai a pensare più volte a quelle parole, immaginando come sarebbe potuto andare se io e Cedric avessimo trovato una qualche soluzione al nostro rapporto, tanto fragile quanto illusorio e per questo ancor più da proteggere.
 
non sono mai riuscito a darmi una risposta, almeno fino a che questa mi è piombata letteralmente davanti il giorno dopo il mio compleanno, ed aveva precisamente il suo aspetto. credo di aver provato una felicità simile ben altre poche volte nella vita.

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