Fuoco nelle Tenebre - La Rinascita della Fiamma

di Himenoshirotsuki
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Rinascita ***
Capitolo 3: *** Notizie ***
Capitolo 4: *** Fiducia ***
Capitolo 5: *** Il Segreto tra le Pagine ***
Capitolo 6: *** Frammenti di Memoria - Il Prezzo del Silenzio ***
Capitolo 7: *** Tempesta ***
Capitolo 8: *** Porto Eamone ***
Capitolo 9: *** La Legge del Contrappasso ***
Capitolo 10: *** Nelle Profondità degli Abissi ***
Capitolo 11: *** Nei tuoi occhi, il male ***
Capitolo 12: *** Auspici ***
Capitolo 13: *** L'ultimo baluardo ***
Capitolo 14: *** Cenere ***
Capitolo 15: *** La Prova ***
Capitolo 16: *** Viaggio ***
Capitolo 17: *** Frammenti di memoria - Tornare ***
Capitolo 18: *** Trappole ***
Capitolo 19: *** Veleno ***
Capitolo 20: *** Di nuovo in fuga ***
Capitolo 21: *** Complotto ***
Capitolo 22: *** Messaggero ***
Capitolo 23: *** Credere ***
Capitolo 24: *** Padre e figlia ***
Capitolo 25: *** Leggende ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


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Prologo

Davanti ai miei occhi si svolge il filo del Destino.
Feroce urla il Corvo dinanzi alle Schiere Oscure,
gracchia nei cieli del mondo alla ricerca del sangue perduto,
trama contro i figli di Yggrasil.
Dalle stelle del Nord, il sole arrossa la terra,
là dove Vita e Morte camminano fianco a fianco.
Nel tempo del lupo, la terra
si impregnerà di sangue innocente.
Il Guardiano spezzerà i lacci
per combattere la guerra del Mondo nato dal Nulla.
Arriverà alla fine dell'orizzonte, con la Morte come sua fedele compagna e seguace.
Sprofonderà nel cuore della terra, con la luce del Padre a fargli da guida.
Calcherà le Lande dei Primordi, con Amarnwyn e i figli di Yggrasil.
Allora il Protettore dell'Abisso vestirà le carni del figlio del Corvo.
[La Profezia della Veggente, parte perduta]

L’odore di sudore e il tanfo della malattia aleggiavano nella stanza, permeando ogni cosa. Ciotole di sangue giacevano ai piedi del letto. Lysandra le guardò appena, mentre attendeva che la serva, nonché ultima amante viva di Voren II, terminasse di aiutarlo a indossare l’armatura: quella mattina il re, suo marito, era riuscito a parlare e aveva ordinato che gli venisse portata. Ovviamente quell’umana, una donna che Lysandra non considerava nemmeno, era accorsa subito, pronta a obbedire agli ordini del suo sovrano, nonché benefattore. Con tutti i soldi che le aveva dato in quegli anni, la sua famiglia avrebbe vissuto negli agi della città alta per almeno altre tre generazioni.
Il re grugnì qualcosa tra i denti, spalancò gli occhi e aprì la bocca inspirando quanta più aria poteva. Lysandra si girò a guardarlo. Il baluginio dorato dell’armatura imperiale le riempì gli occhi. Era ancora perfettamente integra, lucida, senza nemmeno un’ammaccatura. Voren II non era mai stato un uomo forte né di mente né di corpo e la guerra l’aveva vista solo attraverso gli specchi magici; eppure nel momento della dipartita, voleva mostrarsi come un guerriero. Un lieve sorriso arcuò le labbra di Lysandra quando la serva si chinò per asciugargli il rivolo di bava rossa che gli colava da un lato della bocca.
- Mio signore… - esordì incerta, - non sarebbe meglio aspettare che arrivi il chierico di corte?  -
L’uomo scosse la testa e una scintilla di consapevolezza si accese in fondo alle iridi offuscate. Poi, facendosi aiutare dalla sua amante, si puntellò sui gomiti e tentò di mettersi seduto.
Lysandra osservava, immobile, le braccia incrociate sul corpetto nero, ricamato con merletti e gemme d’ossidiana lucente, e le labbra lievemente storte in una smorfia piena di biasimo. Voren non aveva nulla di Sejrel, il suo defunto padre. Era un sempliciotto, un uomo di ormai sessantasette anni che non aveva concluso nulla. Se non fosse stato per lei, a quell’ora le casse della capitale sarebbero state vuote e la guerra che lei lo aveva spinto a dichiarare sarebbe già stata perduta da un pezzo.
“L’unica cosa buona che tu possa fare è morire, mio caro.”
La porta della camera si aprì con uno schianto e Rogar, il chierico di corte, fece il suo ingresso col respiro ansante a l'aria trafelata. La lunga veste bianca frusciava ad ogni suo passo, donandogli un’andatura leggera, aggraziata, in netto contrasto con l’espressione torva del viso e le mani callose e tozze tipiche della sua razza.
- Delia, cosa stai facendo? Il re deve riposare. -
La ragazza occhieggiò nella sua direzione, per poi tornare a concentrarsi sulle labbra del sovrano che, adesso, si erano schiuse in una smorfia tremante e grottesca. La malattia che gli anneriva il sangue e lo gettava in lunghi periodi di catatonia stava di nuovo prendendo possesso del suo corpo. Ormai, pensò con piacere Lysandra, la coscienza lo abbandonava per settimane, a volte per mesi interi.
- Ho… ho il permesso della regina e del re. - si difese con un fil di voce, stringendo appena il braccio del sovrano.
Rogar spostò lo sguardo sulla donna che Delia aveva appena chiamato regina, squadrandola con una delle sue solite occhiate inquisitorie. Lysandra però rimase impassibile, trattenendo un sorriso dietro la linea pallida delle labbra serrate. Le sarebbe bastato poco per farlo condannare, uno sguardo insolente di troppo e le guardie non avrebbero esitato a trascinarlo giù nelle prigioni, ma sapeva che con un gesto del genere avrebbe perso l’appoggio di Cal’doran e di Valakas e non poteva permettersi di inimicarsi due tra i senatori più influenti del Consiglio, non ora. Questo però non significava che avrebbe lasciato correre qualora quel nano spocchioso avesse tentato di mettersi palesemente contro di lei. Non era così stupido da osare sfidarla apertamente, ne era consapevole, ma la sua rabbia silenziosa costituiva un ottimo spettacolo nell’attesa del momento propizio.
Dopo un lungo silenzio, Rogar sospirò. La luce obliqua del sole invernale si rifletté sulla fascia di bronzo e ferro battuto che gli cingeva il capo chino.
- Permettetemi di dargli un po’ di latte di papavero, maestà. - disse rivolto alla regina.
- Come volete, maestro. Siete voi l'esperto. - rispose Lysandra.
Il nano serrò i pugni e per un istante parve sul punto di scoppiare, tanta era la collera che stava reprimendo. Poi parve calmarsi, prese una delle fiale che portava alla cintura, la stappò e si avvicinò al re, ma questi lo allontanò con un debole gesto della mano.
- Non mi serve, Rogar. - rantolò sofferente.
- Vostra altezza… -
- Ho detto di no. - ripeté con più decisione, prima di piegarsi in un eccesso di tosse.
Il sangue gli sporcò le labbra e gocciolò in lacrime scarlatte sui gambali dell’armatura lucente. Delia lo pulì con un fazzoletto e, in silenzio, tutti rimasero in attesa che recuperasse il fiato.
- Volete anche l’elmo, sire? -
- No, quel coso mi soffoca. Portami la spada, piuttosto. -
Il chierico aprì la bocca per ribattere, ma bastò un’occhiata del re per metterlo a tacere. Un’altra delle sue buone qualità, pensò distrattamente Lysandra, era la sua cocciutaggine infantile, quella testardaggine insofferente che manifestava ogniqualvolta uno dei suoi Consiglieri tentava di dissuaderlo. Voren si era sempre impuntato, forte della sua autorità e del presunto rispetto che pensava i suoi sudditi nutrissero per lui, senza mai rendersi conto che qualsiasi scelta avesse fatto negli ultimi quindici anni di regno era stata decisa da lei.
“Sei debole, Voren, debole come un bambino, sia nella mente che nel corpo.”
Quando si era infiltrata a corte sotto le spoglie di una normale umana era stato difficile conquistarsi la fiducia di Sejrel Varaldien. Il monarca, per quanto giovane, era un uomo acuto, intelligente, che non si faceva abbindolare dal fascino o dalle parole di Wecilia Mallus, l'identità che aveva assunto per avvicinarci a lui. Aveva dovuto fargli terra bruciata intorno e instillare il seme del dubbio sulla fedeltà dei suoi sudditi per averne il pieno controllo e, anche dopo che l’unico che gli era rimasto accanto era Xerxas Ascrocell, il precedente sovrano di Esperya non si era mai totalmente piegato al suo volere. Quando era venuto il momento di ucciderlo, le era quasi dispiaciuto.
Lo sferragliare dell’armatura la ridestò dai ricordi e, quando puntò lo sguardo su Voren, lo vide infilarsi i guanti d’arme per poi alzarsi per prendere lo spadone dalla rastrelliera. Strinse l’elsa tra le mani e con un gemito lo sollevò. La luce morente del giorno rifulse sulla lama affilata, scivolando in una dorata carezza liquida sulla guardia rastremata, sul pomo pesante istoriato con le fauci snudate di un leone. Quando tornò a sedersi, il suo respiro era un rantolo affannoso. La coscienza, la scintilla di vita che si era accesa in fondo a quelle iridi torbide, lo stava lentamente abbandonando.
Lysandra non sapeva a cosa fosse dovuta quella malattia che lo consumava da dentro, ma ciò di cui era sicura e che aveva davvero importanza era che non era curabile, nemmeno con la magia. Non con quella così primitiva degli umani, almeno.
- Fate chiamare i membri del Consiglio… -
La sua voce era un sibilo appena udibile. La mano tremava appoggiata all’elsa della spada, così come tutto il suo corpo, piegato dal peso dell’armatura.
- Ho già mandato un messo, mio re. - Lysandra si sedette vicino a lui e gli prese delicatamente la mano, - Arriveranno a momenti, non ti preoccupare. -
Mentre lo diceva, al suo orecchio giunse il rumore di una moltitudine di passi. Si concentrò un istante e subito identificò dodici cadenze differenti, alle quali associò ad ognuna i vari sussurri che riusciva a captare, anche se tra lei e gli undici Consiglieri c’erano due doppie porte e un lungo corridoio.
Posò piano le labbra su quelle del re, ignorando il sapore maleodorante del suo alito, intrecciando con voluta lentezza le dita con quelle tozze e callose di lui. Quando le due guardie si spostarono per far entrare i membri del Consiglio, Lysandra si allontanò lentamente da Voren, incrociando gli occhi falsamente tristi con quelli sinceramente afflitti di Eron Ked’Alith e Ferul Cordwyn, che le risposero con un impercettibile segno di assenso.
- Vostra Altezza… -
- Niente formalismi, oggi. -
Arduin Valakas assentì, fece un passo nella stanza e si inchinò, seguito da tutti gli altri che, fino a quel momento, si erano limitati ad abbassare il capo in un silenzioso segno di rispetto, trattenendo le smorfie di disgusto e raccapriccio alla vista del sangue nelle ciotole. A Lysandra non era sfuggita l’ombra che aveva attraversato i suoi occhi neri quando li aveva visti scambiarsi quell’effusione, ma la regina era al corrente di quanto quel giovane diplomatico allampanato dai lunghi capelli chiari avesse sempre disapprovato le numerose amanti del re, fin da quando la sua legittima consorte era morta. Ovviamente, a causa dei numerosi nemici che brulicavano alla corte.
- Prego, sedetevi, ho un annuncio da fare. -
Lysandra, che nel frattempo si era alzata, schioccò le dita e dei servitori entrarono portando dodici sedie. Li aveva avvertiti preventivamente la mattina stessa, quando Voren aveva consegnato il sigillo reale nelle mani di Eron e Ferul. Delia, assieme a Rogar, si erano defilati non appena i dodici erano entrati, a malincuore, consapevoli che qualsiasi cosa sarebbe accaduta tra quelle quattro pareti loro non l’avrebbero saputa prima di qualche tempo. Ancora una volta, Lysandra dovette ricacciare indietro un ghigno compiaciuto.
Calò il silenzio, interrotto solo dal respiro spezzato del sovrano. Anche se non lo stimavano, erano costretti a rimanere lì, in attesa che fosse lui a prendere la parola, amaramente consci che quell’uomo che per quindici anni avevano osteggiato o supportato rimaneva comunque il loro re, superiore a tutti loro in quanto autorità e forza. Se avesse voluto, sarebbe bastata una semplice parola per portar via le loro terre, il denaro e l'influenza a corte.
- Ormai la mia ora sta per arrivare. - esalò Voren con un fil di voce, - Rogar e i chierici continuano a dire che se mi curassi, la mia vita si allungherebbe ancora di qualche anno, ma io, come penso tutti voi, so che questa è solo una bugia. Bisogna essere coraggiosi e sinceri di fronte alla morte, che prenderà tutti noi prima o poi. Scansarla non serve a niente. -
Si interruppe per riprendere fiato, le labbra screpolate schiuse nel tentativo di ispirare ancora più aria. Anche in quel momento, con il viso contratto in un’incrinata maschera severa e la bocca serrata in una smagrita linea pallida, sembrava solo il simulacro di un re, una statua di cera sciolta dall’espressione risoluta liquefatta dalla malattia.
- Non ho avuto eredi e l’unico che ho potuto stringere tra le braccia è morto assieme alla mia adorata regina. La lady qui vicino a me, - allungò la mano tremante, cercando quella di Lysandra, - mi è stata di conforto, ma gli Dei non ci hanno concesso il dono di un figlio maschio. La tradizione vorrebbe che io nominassi uno dei miei cugini o nipoti, ma, ahimè, nella famiglia di mio padre si sono insediate delle terribili serpi, vermi che attendono solo la mia dipartita per mettere le mani su un trono che spetta ai Varaldien per diritto di nascita. -
Lysandra prese il bicchiere di cristallo sulla scrivania di mogano intarsiata con fiori e foglie d’edera sui bordi e lo aiutò a bere. Il sudore lo faceva apparire ancora più pallido, malato, e le guance scavate e le profonde occhiaie violacee non facevano che accentuare quell’impressione.
- Cosa avete dunque deciso di fare, sire? -
A parlare era stata Kitiara Azlan, la consigliera più anziana assieme a Ferul Cordwyin. Indossava la lunga tunica quasi monacale della sua casata, con il giglio bianco ricamato sul petto e i capelli striati di grigio raccolti in una coda laterale. Per un istante, quando i loro occhi si incrociarono, quelli del re sembrarono riprendere vita. Sbatté le palpebre un paio di volte per riscuotersi dall’intorpidimento che stava lentamente prendendo possesso del suo spirito e sostenne il suo sguardo impassibile. L’aveva sempre considerata una sorella maggiore ed era stata l’unica a cui aveva dato retta, anche contro il volere di Lysandra.
La regina la osservò di nascosto e digrignò i denti.
“Un’altra amica di Xerxas che dovrò premurarmi di far sparire.”
- Ho intenzione di fare la cosa giusta, Consigliera. - replicò in un sibilo affannoso, - Ho discusso a lungo con i giuristi, nel nostro codice è previsto che io debba passare il potere a uno dei miei consanguinei, ma ci sono stati casi in passato che hanno visto una regina sedere sul trono. Io reputo che, visti tutti i nemici che anelano ingiustamente a prendere il mio posto, sia il caso che sia Wecilia, la mia amata consorte, a sostituirmi. -
Un brusio costernato riempì la camera. I Consiglieri, a parte Ked’Alith e Cordwyn, si scambiarono delle occhiate preoccupate, senza che però nessuno trovasse il coraggio di aprir bocca. Persino Kitiara era rimasta pietrificata, sbigottita da quella decisione di cui lei era totalmente all’oscuro.
- Vostra Altezza, con tutto il rispetto per voi e per lady Wecilia, non mi sembra una scelta saggia... - tentò di dissuaderlo, ma il sovrano scosse la testa.
- Ho già deciso. - la interruppe brusco, - Wecilia è la scelta migliore. In tutti questi anni è rimasta sempre al mio fianco ed è capace di governare anche meglio di alcuni di voi. Non ho intenzione di cambiare idea. -
Kitira chiuse gli occhi, mordendosi la lingua. Era ovvio che non fosse d’accordo, ma non poteva opporsi alla decisione del suo sovrano. Forse avrebbe tentato nuovamente di convincerlo se, come da copione, Ked’Alith non si fosse intromesso.
- Io sono d’accordo con voi, mio re, anzi, penso che sua maestà lady Wecilia si sia dimostrata più volte all’altezza di saper governare. -
Occhieggiò in direzione di Cordwyn, che continuò: - Appoggio pienamente quello che è stato detto. Posso capire che sia un evento assai inusuale, ma abbiamo dei precedenti di una certa importanza. Se il nostro sovrano pensa che questa sia la scelta migliore, chi siamo noi per opporci? -
Un coro di assenso si diffuse tra gli astanti che, poco dopo, annuirono. L’unica che rimase immobile con le mani strette a pugno fu Kitiara.
- Consigliere Azlan, voi…? -
La donna ispirò profondamente. Gavyn Erdarwell, il secondo membro più anziano, le strinse forte la spalla, come per avvertirla del pericolo in cui il suo astioso silenzio la stava mettendo, ma lei non parlò comunque, chiusa in un mutismo interrotto solo dal respiro controllato. Man mano che il tempo passava, la tensione cresceva e le facce, da allibite, divennero sempre più nervose. Quello del re si era ormai offuscato, adesso la sua testa gli ciondolava sul petto. Una parola aleggiò nell’aria, muta e inespressa negli occhi spaventati dei Consiglieri.
Con passo aggraziato, Lysandra si chinò su Voren e gli accarezzò i capelli sudati, resi ribelli dai nodi che nessuno aveva voluto sbrogliare.
- Non siete ancora d’accordo, Consigliera? Eppure mi sembra che voi siate sempre stata la prima a millantare l’importanza della democrazia. -
I loro sguardi si scontrarono. Lysandra sorrideva, sfidando apertamente la donna a dire la sua, mentre con la mano accarezzava la spalla del re. Per un lungo momento assaporò quel momento di vittoria, quel silenzio che stava per diventare un pretesto per accusarla di tradimento. Alla fine, però, la Consigliera abbassò il capo. Bastò quel gesto di sottomissione perché la tensione si allentasse.
- Bene, allora la decisione è presa. - dichiarò Lysandra, prendendosi il suo tempo per scrutare uno ad uno tutti i Consiglieri, - Se non avete altro da aggiungere, lasciateci soli. Voglio passare gli ultimi momenti con mio marito. -
Nessuno osò ribattere.
Quando udì i passi svanire in lontananza, si concesse una lunga risata, cristallina, squillante, vittoriosa.
Il re si riscosse un istante dal suo intorpidimento e alzò la testa, incrociando i suoi occhi. Annegò in due iridi di brace, di un rosso scuro e denso come quello del sangue nelle ciotole ai piedi del letto. Esalò un lungo e sibilante respiro, con gli occhi strabuzzati in un’espressione di profondo terrore che fece ridere la Lich ancora più forte. Poi il suo cuore smise di battere e la bellissima spada d’oro scivolò dalle sue mani inerti, sbattendo sul pavimento con un tonfo metallico.
La Lich abbandonò il cadavere di Voren sulle coltri sudate e allungò le gambe, facendosi scrocchiare il collo. Che il re avesse capito qualcosa in punto di morte non aveva importanza, i morti non possono parlare.
“Non se io non lo desidero.”
Si umettò le labbra e, da sotto il colletto alto dell’abito, sfilò una piccola sfera blu perfettamente circolare. Il laccio argentato a cui era legata, sottile come un capello, rifulse del lucore perlaceo della prima luna. Non importava se il re aveva capito qualcosa, né se c’era ancora qualcuno che avrebbe osato opporsi al suo volere, avrebbe avuto tempo per schiacciarli. Ora che possedeva il Cuore di Sershet, nessuno avrebbe più potuto fermarla.

Angolo Autrice:

 Ebbene sì, dopo quasi due anni, sono tornata. Mi dispiace avervi fatto aspettare così a lungo, purtroppo avevo bisogno di buttarmi su altro, scrivere altro, non perchè Fuoco non mi piacesse, ma perchè assorbiva ogni mia energia. Adesso, con l'inizio del nuovo anno, ho deciso di riprendere in mano e farvi leggere le avventure di Ledah e Airis, non senza un po' di timore (le mie solite paturnie mentali, ormai le conoscete... .) Allora, prima le informazioni di servizio: la storia verrà aggiornata ogni 10/12 giorni questo mese e forse anche il prossimo, questo perchè la seconda parte di Fuoco è un po' contorta e quindi preferisco prendermi più tempo per rileggere. In secondo luogo... in questi giorni metterò un sunto del primo libro sulla mia pagina così potrete rinfrescarvi la memoria qualora non vi ricordaste gli avvenimenti precedenti. Uhm... credo di aver detto tutto... sì, direi che non c'è altro da dire a parte che spero che questa seconda parte vi piaccia e vi appassioni come la precedente. Vi chiedo solo di non sparire e di farmi sentire la vostra presenza, anche solo con un messaggio privato in cui mi dite “ehi, bella, continua.” Mi servirà per tenere a bada le mie continue seghe mentali XD
Ora vi lascio al capitolo, prossimo appuntamento fissato al 20 di gennaio.
Hime

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Capitolo 2
*** Rinascita ***


Fuoco 2

1

Rinascita

Camminava attraverso il lungo corridoio di pietra nera, con la polvere e la cenere che turbinavano nell’aria immobile ad ogni suo passo. Una fitta foschia ammantava ogni cosa, stemperando e come assorbendo la luce calda delle torce appese alle pareti.
Airis non sapeva come fosse arrivata lì, né cosa di preciso la spronasse a proseguire, ma stranamente non le importava, non in quel momento. In quel luogo, dove riposavano coloro che nel corso delle ere avevano compiuto la sua stessa scelta, estranei partecipi del futuro del Mondo Nato dal Nulla, nessun pensiero poteva perturbare la pace eterna.
Continuò ad avanzare nel silenzio più assoluto, sotto lo sguardo spento dei guerrieri nelle alcove, uomini e donne in armatura che sedevano su troni d’onice e ossidiana. Percepiva i loro occhi sulla pelle nuda delle spalle e, anche se una parte di lei sapeva che non volevano farle male, non riusciva a non provare timore. Airis cercò nelle loro figure la presenza di una scintilla di vita, ma nessuno di loro batté ciglio, cristallizzati, pietrificati in un limbo in cui il tempo aveva cessato di scorrere. Alcuni indossavano sontuose cappe d’ermellino, di velluto scarlatto, di morbida seta; altri portavano armature istoriate d’oro e d’argento, impreziosite con gemme ed elaborati arabeschi. I loro volti non erano noti ad Airis, ma sapeva chi erano, poteva indicare il nome di ognuno di loro, raccontarne le gesta, gli errori, gli atti eroici. Forse anche lei un giorno avrebbe seduto in mezzo a loro, su un trono uguale, in quel posto dove solo a quelli che avevano abbracciato il suo stesso destino era possibile riposare.
Dopo qualche passo percepì una specie di sussulto alla sua destra. Si fermò e girò il capo nella direzione di quel timido suono, eppure così forte da incrinare l’eterno silenzio che impregnava la pietra. Uno dei dormienti, un umano seduto su uno scranno di lame smussate e narcisi sbozzati nell’alabastro, sollevò le palpebre e incontrò il suo sguardo. Per un fugace momento la guerriera ebbe la sensazione che la vedesse, che i suoi occhi di un indaco liquido l’avessero osservata mentre avanzava a testa alta in mezzo al corridoio. Lui aprì la bocca per dire qualcosa, ma il suono si congelò nell’aria stantia prima di poter prendere forma. Provò di nuovo a parlare, ma, ancora, quello che giunse alle orecchie di Airis fu solo un mormorio inudibile. Decise di proseguire, lasciandosi alle spalle quegli occhi sempre più offuscati e la loro disperata invocazione.
Non seppe per quanto impose alle sue gambe di muoversi, forse un’ora, forse qualche minuto: lì il tempo perdeva di significato. Di tanto in tanto guardava dietro di sé cercando di penetrare l’oscurità che, come un essere vivo, inghiottiva la luce delle torce. Ormai, delle cinquanta che l’avevano accolta quando aveva cominciato a camminare, ne erano rimaste accese solo venti. Venti, come i guerrieri allineati lungo i due lati del corridoio. Un’altra sfrigolò e si spense in un fruscio quando oltrepassò il trono dove era seduto un nano, sulle ginocchia un arco d’oro tempestato di gemme preziose.
Il buio strisciò sul pavimento, allungandosi fino a sfiorarle i piedi. Airis gettò appena un’occhiata alla lunga ombra, rendendosi conto di non averne paura. Non c’era niente, in quel luogo, che le facesse paura.
Un’altra torcia si spense dietro di lei, in risposta a un altro passo, e la nebbia si sfilacciò come il tessuto di un vecchio abito, per poi avvolgersi in volute fumose attorno a un trono di ebano e acero, con venature di ferro e bronzo che si attorcigliavano sullo schienale, compenetrandosi e allontanandosi in una danza di rune e disegni intricati. Osservando quelle linee, Airis sentì l’impulso di sedersi, di abbandonarsi al sonno che le pesava sulle palpebre, ma sapeva che non era per quello che le era stato mostrato.
Spostò lo sguardo davanti a sé, sulla nebbia che le ostruiva la visuale. Ancora una volta, senza che nessuno glielo avesse detto, capì che non doveva procedere oltre, che non c’era ragione che lei vedesse quello che si nascondeva al di là di quel muro grigio. Così si avvicinò al trono, pulì il seggio dalla polvere e vi si sedette. Non c’era altro suono se non il suo lento e quasi inudibile respiro.
- Guardiana. -
Una voce rimbalzò sulle pareti di roccia. Il timbro era insieme maschile e femminile, come se un uomo e una donna avessero parlato in coro.
- Figlia mia, finalmente sei qui. -
Airis chiuse appena gli occhi. L’armatura – quando l’aveva indossata? Non aveva sentito il suo peso mentre camminava – le gravava sulle spalle, sulle braccia, sulle gambe, una gabbia aderente d’acciaio e ferro da cui non poteva scappare. Non fu facile trovare la forza di parlare, dare corpo a quella domanda che premeva prepotentemente sulla lingua.
- Chi… chi sei? -
- Sono colui che diede respiro a Vita e Morte. -
Una stretta gelata le avvolse le tempie, mentre una mano invisibile le accarezzava delicatamente la guancia. Era liscia e ruvida al tempo stesso, in qualche modo le ricordava quella di suo padre e di sua madre al medesimo tempo.
- Dove ci troviamo? -
- Nel luogo che ti appartiene, dove un giorno, se vorrai, potrai riposare. - un refolo d’aria tiepida le fece turbinare i capelli sul viso, - Ora ascolta ciò che coloro che hanno accettato il tuo stesso destino hanno da dirti. Ascoltali e poi bevi, abbandonati tra le braccia dell’oblio. -
Nel corridoio di pietra calò di nuovo il silenzio. Airis attese un momento, il tempo di un battito di ciglia, prima che una miriade di echi si riverberassero nell’oscurità, nella sua stessa mente.
“Caillean.”
Sentire pronunciare il suo vero nome la riscosse dal torpore. Sbatté più volte le palpebre, mentre apriva e chiudeva i pugni ritmicamente, combattendo contro l’istinto di alzarsi dal trono.
- Chi… -
La sua voce era poco più di un bisbiglio roco, flebile persino alle sue stesse orecchie. Perché parlare era così difficile?
- Chi siete voi? Cosa volete? - formulò con più forza.
“Noi siamo te.”
Le ombre si agitarono e la nebbia alla sua destra si avvolse in spirali sempre più intricate.
“Siamo i tuoi antenati. Sei qui per ricevere la Verità, per vedere i giorni che ancora non esistono e le cicatrici di quelli che ora non sono più.”
Airis scosse debolmente la testa: - Non capisco… -
“La comprensione è figlia della conoscenza, Guardiana. Tu hai accettato il destino che era già stato scritto per te e noi ora ti renderemo partecipe di quello che fu e di quello che potrebbe essere. Chiudi gli occhi e ascolta, guarda, ricorda.”
Le voci le martellavano nella testa, si alzavano d’intensità, senza che nessuna bocca si muovesse nell’aria immobile, senza che nessun respiro incrinasse il silenzio che regnava attorno a lei, mentre il suo cuore rallentava sempre più, così come il suo respiro.
“Questo è il nostro dono per te.”
All'improvviso, davanti ai suoi occhi si spalancò una visione. Assistette a una battaglia sanguinosa tra due eserciti, uno capeggiato da un elfo dalla corona d’argento e l'altro da un uomo dagli occhi di bragia. Udì il loro grido bellico e subito dopo le prime file si schiantarono le une sulle altre, e il primo sangue venne versato. Ricordò il nome del condottiero delle terre libere, Arawan di Llanowar, e per un istante pensò di sbagliarsi, che quello fosse Ledah. Ma non era così. L’uomo che cavalcava sul possente baio aveva i lineamenti delicati dell’elfo, ma i suoi occhi erano azzurri come il ghiaccio perenne dei picchi a nord, non verde muschio.
Lo scenario cambiò repentinamente. Vide un uomo dalla pelle bronzea e gli ispidi capelli neri seduto su un trono d’oro e gemme preziose. Alle sue spalle, ricamato su un arazzo sdrucito, c'era il vessillo di un leone di fuoco. Udì il suo respiro greve diventare un gemito gorgogliante, mentre la sua vita si spegnava sotto le pugnalate di dodici uomini incappucciati, con indosso tutti delle vesti riccamente decorate, nobiliari. Quando il corpo si accasciò in una pozza di sangue, Airis ricordò il suo viso. Era lo stesso dell’uomo che aveva tentato di parlarle.
“Caillean, Figlia della Morte e Guardiana dell’Ordine, ascolta le nostre parole.”
La visione mutò di nuovo. Nella penombra di una cripta, Airis distinse i lineamenti di un vecchio seduto in mezzo a un cerchio magico, i viso pieno di rughe, i capelli radi e le vene bluastre che emergevano da sotto la pelle tirata. In mano, stretta tra le unghie così nere da sembrare marce, teneva una piccola sfera blu. Risuonarono nel buio dei rumori di passi, un ticchettio seguito dal rumore strascicante di piedi, e d'un tratto un giovane elfo venne buttato ai piedi del vecchio. In quel momento, la guerriera associò gli occhi di bragia del dio delle tenebre a quelli di quell’essere.
“Venti leghe al sud dovrai andare, oltre il Grande Mare la nave dovrai condurre fino all’Oceano di fuoco e ghiaccio. La tua meta è persa oltre l’orizzonte, nel castello avvolto dalle nuvole e stretto dall’illusione di un imperituro inverno.”
Sempre più rapide arrivarono le visioni, un vorticoso caos di voci, suoni, ricordi che la violentavano e la stordivano.
Una bambina con i capelli blu e gli occhi più scuri della notte correva nell’erba alta.
Un atrio tratteggiato nella calda luce del tramonto risuonava del canto delle arpe e dei flauti, accompagnando in un valzer fin troppo sensuale uomini e donne dalle ali sottili come farfalle.
Un drago con le squame lucide e gli occhi come tizzoni ardenti spiegava le ali, vomitando un inferno di fuoco su due eserciti in lotta.
Airis era lì in mezzo e combatteva senza né scudo né elmo, armata di una spada dalla lama scintillante di rune e vene rosse.
“Procedi attraverso il Ponte che unisce i due Mondi e giungi alla rocca dove giace la principessa eterna. Raccogli le lacrime dello sposo e inginocchiati al cospetto della Madre della Montagna. Prega con lei, danza con le sue figlie, odi e ignora il loro canto da sirene.”
- Basta… basta! -
Provò a tapparsi le orecchie, ma le sue braccia erano incollate al trono, pietrificate come se fossero anch’esse delle sculture di legno. Gemette e un’ondata di calore le percorse la pelle, riducendo le parole a un rantolo affannoso.
Vide un lupo e un falco che percorrevano una rorida prateria, col sole dell’alba che dorava i pistilli delle neonate primule. Udì il gracchiare iroso di un corvo e un forsennato battito d’ali agitò l’aria immobile nella volta stellata. E, negli occhi verde muschio del falco accoccolato vicino alla lupa ormai morta, prima che un turbinio di piume nere lo avvolgesse, rivide lo stesso sguardo disperato di Ledah.
- Ledah! -
Il suo urlo si spense in un gemito di dolore.
“Segui il percorso che scende nel ventre della Madre, prosegui oltre le paure, oltre i fantasmi. Paga il più atroce tributo e spendi il sangue di quanto più amavi dopo che il Cigno ha deposto il suo scudo e prima che la Cerva fugga nel firmamento.”
Il lezzo di sangue le penetrò nelle narici, invadendole la gola, il petto. I cadaveri giacevano a mucchi sulla radura del Rashaar, riversi in laghi di sangue che andava raggrumandosi. Molti erano mutilati, senza braccia, gambe, gli occhi cibo di vermi e corvi affamati. Airis fece spaziare lo sguardo in quella landa desolata, dove assieme al grido degli spettri senza nome echeggiava il coro dei vincitori, cavalieri dalle armature nere e i capelli bianchi come neve. Poi un ruggito rimbombò in cielo e davanti a sé gli steli arrossati divennero pipe d’oro e il sangue vino speziato in calici luccicanti. Gli invitati giacevano scomposti a un tavolo imbandito, con le mani ancora strette sulle cosce di pollo e la faccia annegata nel piatto strapieno. In fondo alla sala, seduta su un trono rialzato di spade insanguinate e teste mozzate, sedeva l’uomo dagli occhi di bragia, le labbra arcuate in un sorriso crudele. Sul capo portava una corona di rubini e teschi.
“Quando l’ultima torcia si spegnerà e il ringhio del fuoco farà tremare le alte mura del castello oltre le nuvole, lascia le lacrime dell’Eterna Sposa ivi dove si posa lo sguardo. Allora estrai la lama del Padre dal cuore di roccia e la mano che la difende dalla bocca della Madre.”
Airis urlò e stavolta la sua voce rimbalzò nel corridoio di pietra col fragore di mille tuoni, eppure incapace di sovrastare il brusio assordante che gli trafiggeva il cervello, un coro di sussurri e di frasi infrante, confuse in un caos di sillabe e parole strascicate.
- Basta, basta, andate via! -
Infine tornò il silenzio, denso e schiacciante, improvviso, che le mozzò il respiro.

La prima sensazione che strisciò nella sua coscienza, prima ancora che nel suo corpo, fu il freddo. Poi avvertì qualcosa che spingeva sotto la schiena, scricchiolando ad ogni suo movimento. Airis tentò di rotolare via, ma prima che potesse completare l'azione, l’oggetto che le pungolava le carni si ruppe con un secco “crack”. Portò una mano dietro di sé e le dita sfiorarono il legno di un ramo. Sbuffò e strizzò gli occhi per riprendere contatto con la realtà.
Si sorprese di quanto le venisse facile pensare ora. Si sentiva ancora intontita, ma, nonostante un fastidioso ronzio nelle orecchie, riusciva a mettere insieme una frase di senso compiuto. A fatica, si tirò su a sedere e abbassò lo sguardo sulle proprie mani, sulla pelle bianca delle dita trafitte dai raggi del sole. Inspirò ed espirò per un lungo minuto, quindi si decise a guardarsi attorno. Un istante più tardi si impietrì.
Un cadavere, il suo, giaceva riverso a terra in una pozza di sangue nera, il viso cereo rivolto verso il cielo, le ciocche rosse sfilacciate nell’erba alta e le dita debolmente chiuse attorno all’elsa di un pugnale dall’impugnatura in argento alchemico. La tunica strappata lasciava esposta una profonda ferita alla destra del cuore, poco sotto il costato.
Un disgusto gelido, accompagnato dalla paura più profonda, le fluì nel ventre, le conficcò gli artigli nelle viscere e tirò. Airis si piegò boccheggiando, l’aria che le bruciava nei polmoni lasciandola senza fiato. Se avesse avuto qualcosa nello stomaco, lo avrebbe vomitato. Non era preparata a quella vista e Cyril non le aveva accennato nulla.
Immobile, come paralizzata, rimase per un lungo momento a fissare il suo vecchio corpo, la testa che le pulsava furiosamente e il ronzio che le assaliva le orecchie.
“Sarà… sarà per depistare Lysandra.”
Tentò di convincersi, ma lo shock era stato enorme. Facendo forza sulle braccia, si trascinò più lontano che poté, finché la stanchezza non ebbe di nuovo il sopravvento. Cadde distesa sull’erba, annaspando. Chiuse gli occhi e tentò di concentrarsi sui suoni attorno a lei, sulla voce della natura. Focalizzò la sua attenzione sul proprio respiro, sul fruscio delle foglie mosse dal vento, sul battito d’ali di uno stormo d’uccelli, che, come un essere unico, volavano verso lidi più caldi in attesa della primavera. Il ronzio diminuì fino a sparire e, dopo una breve esitazione, riaprì gli occhi. I colori avevano ripreso la loro naturale gradazione e, quantomeno i contorni delle cose più vicine, avevano smesso di sfarfallare, permettendole di scrutare il familiare paesaggio. Accarezzò con lo sguardo i roridi steli d’erba, scivolò su di essi e si spinse al di là delle cime imbiancate degli alberi, sulla catena montuosa dei monti Eresse che, imponente come un drago dormiente, svettava contro il cielo grigio. Alla sua destra riconobbe il crepaccio, quello dove era precipitata quando…
Sospirò e si sollevò, spazzolandosi via la polvere dalla tunica di lana e spesso cotone che indossava, la stessa del suo cadavere. Scosse bruscamente il capo e allontanò quel pensiero, richiamando alla mente i ricordi che aveva di quel luogo.
Sì, se la memoria non l’ingannava, doveva trovarsi ancora vicino a Luthien e all’accampamento dei sopravvissuti. Il ricordo di tutto quello che era accaduto l’assalì, togliendole il fiato: Felther, il suo tradimento, Lysandra, Baldur che cavalcava a perdifiato assieme a Raiza, la viscosità del sangue che le imbrattava i vestiti e le si attaccava alla pelle. Gemette e si morse le labbra fino a quando il dolore non fu abbastanza forte da scacciare quelle immagini di morte.
“Devo rimanere calma, lucida. Respira, respira.”
Barcollò fino a un albero, un antico faggio dalle radici che affioravano dal terreno fangoso, un misto di terra e neve sciolta che le inzuppò i piedi. Vi si appoggiò con la schiena e trasse un profondo respiro, lasciando che l’aria fresca, quasi gelata, le decomprimesse i polmoni.
Le ultime parole di Cyril riemersero dalla memoria.
- Un anno. Un misero anno per salvare il mondo. Un po’ poco per un’impresa di questo genere. I bardi avranno di che comporre canzoni. -
Sorrise amara, per poi osservarsi le mani lisce, femminili, senza più calli. La tunica copriva il suo nuovo corpo, ma più Airis lo guardava, più non riusciva a capacitarsi che appartenesse a lei. Non sapeva spiegarsi, ma lo percepiva come estraneo, non suo. Forse, si disse, doveva solo di nuovo abituarsi ad essere viva. Rammentava che anche la prima volta, quando Lysandra le aveva impedito di morire, si era sentita nello stesso modo.
Il solo riportare alla mente il nome della sua vecchia aguzzina le procurò una fitta allo stomaco. Era lei la causa di tutto quel dolore, di tutta quella devastazione. Strinse i pugni e contrasse la mascella così forte da far scricchiolare i denti.
- Ti ho promesso che ti avrei ammazzata, un giorno. Un Cavaliere mantiene sempre le sue promesse. - sibilò.
Ingoiò la rabbia, imponendosi autocontrollo. Avrebbe messo ordine nella sua testa più tardi, adesso doveva trovare qualcosa di più pesante da mettersi e, magari, un’arma.
Con un ringhio si staccò dall’albero e si guardò attorno con più attenzione, alla ricerca di un indizio che l’aiutasse ad orientarsi, ma a parte la foresta e il cielo coperto di nubi non c’era niente. Sospirò e si massaggiò le tempie. Da qualche parte a nord dovevano trovarsi le rovine di Luthien e, probabilmente, anche l’accampamento. Non sapeva se fosse scampato qualcosa alla devastazione del drago e, sinceramente, cercava di non pensarci. Il ricordo di Copernico con il suo sorriso affabile riemerse da un angolo della sua mente, la ghermì con forza e la trascinò di nuovo in quel caos di gemiti e urla. Le gambe tremarono e Airis temette che non ce l’avrebbe fatta a compiere un passo in più. Invece continuò, ansimando ogni volta che il dolore le infliggeva una stilettata, straziandole il cuore; proseguì finché non riuscì più a trattenere le lacrime. Solo allora si fermò e lasciò che la loro carezza umida le scivolasse lungo le guance.
Pianse a lungo, nascosta all’ombra di un abete ricoperto di muschio e mangiato dall’edera. Pianse per Copernico, per la sua famiglia, per tutti gli abitanti di Luthien. Pianse in silenzio e con quelle lacrime regalò la sua ultima preghiera per loro, per i loro corpi insepolti e mai onorati.
Quando la crisi le diede tregua e fu in grado di ricacciare il dolore in fondo all'anima, si impose di mettere un piede davanti all'altro. Aveva un obiettivo ora, doveva salvare Ledah e non poteva permettersi errori: quello che era accaduto era stato frutto della sua indecisione e delle scelte sbagliate che aveva compiuto, continuare a rimuginarci non avrebbe riportato in vita nessuno. L’unica cosa che poteva fare era andare avanti a testa alta senza mai fermarsi e adempiere allo scopo per cui Cyril le aveva donato quella nuova vita, serbando nella memoria le voci, il calore e i sorrisi di quei giorni. Quei ricordi, a differenza delle ferite, non si sarebbero rimarginati, mai.
Esalò un sospirò stanco e obbligò la sua mente a ricordare qualcosa di quel bosco. Il Tabor, il grande fiume che divideva le regioni di Ferya ed Eleuterya, aveva molti affluenti, per lo più fiumiciattoli di poca importanza. Quando era all’accampamento riceveva regolarmente acqua, quindi le venne spontaneo pensare che nelle vicinanze dovesse essercene uno. Si guardò intorno e aguzzò l’udito, controllando persino l’intensità del suo respiro. Un sibilo di vento le portò all’orecchio un suono ritmico e scrosciante a circa mezzo miglio da dove si trovava lei. Prima di avviarsi, Airis raccolse un ramo da terra, quello che le sembrava il più robusto, e riprese ad avanzare, stando bene attenta a ogni rumore o fruscio sospetto. Non sapeva quanto tempo fosse passato da quando i soldati di Felther avevano raso al suolo l’accampamento, ma si augurava di non imbattersi in nessuno dei suoi non-morti, anche perché in quel caso ci sarebbe voluto ben più di un pezzo d’albero per cavarsela.
Con suo gran sollievo non accadde nulla e quando distinse la striscia argentata del corso d’acqua, trasse un sospiro di sollievo. Si inginocchiò sul terriccio umido e bevve con avidità. Non si era resa conto di avere così sete e, soprattutto, fame, fino a quando il suo stomaco non protestò.
“Oh, fantastico…”
Raccolse le mani a coppa con tutta l’intenzione di lavarsi la faccia, quando si pietrificò a guardare il suo riflesso. Aveva gli stessi capelli, dello stesso identico rosso acceso, e anche il viso non era cambiato, ma i segni indelebili che la guerra, le battaglie e il passato le avevano lasciato addosso erano svaniti.
Sbalordita, arrotolò le maniche della tunica e poi quelli dei calzoni fino al ginocchio. Niente cicatrici, niente segni di bruciature, nulla.
“Che anche quella sia…?”
Con una certa titubanza, infilò la mano sotto la stoffa, trattenendo il respiro. Quando le sue dita incontrarono la cicatrice sul petto, il suo cuore perse un battito. Percorse quel vecchio taglio per tutta la sua lunghezza, gli occhi socchiusi e le labbra serrate nella morsa dei denti. Perché quella c’era ancora? Perché Cyril non l’aveva fatta sparire come tutte le altre? Domande a cui, per ora, non poteva dare risposta.
Riprese a camminare verso nord, tenendo sempre come punto di riferimento il muschio che cresceva sul tronco degli alberi. Da quando si era pugnalata, non ricordava assolutamente nulla, era come se avesse dormito fino al momento in cui si era risvegliata nella Casa della Cenere, il luogo dove riposano i vecchi Guardiani. Non sapeva quando e come avesse acquisito quell'informazione, ma anche tutte le altre, che si era resa conto di possedere mentre camminava verso il trono in fondo al corridoio, sembravano essere spuntate dal nulla.
“In linea del tutto teorica, Cyril potrebbe averle… trascritte nella memoria del nuovo corpo, ma è pura speculazione. Avrebbe potuto dirmi qualcosa prima di rispedirmi qui, sarebbe stato molto gentile da parte sua.”
Dopo aver riflettuto un po’, accantonò tutte quelle domande e accelerò il passo. Il sole era già alto e avrebbe preferito arrivare e lasciare l’accampamento prima di sera. Tenendo sempre sott’occhio il nastro di fumo che si alzava oltre le cime degli alberi, risalì il fiume.
Pian piano l'astro diurno cominciò la sua parabola discendente e la luce divenne sempre più tenue al di là della coltre di nuvole che oscurava il cielo, mentre il freddo diventava sempre più pungente. Quando finalmente scorse la sagoma di una tenda rimasta miracolosamente in piedi, era ormai l'imbrunire.
Solo dopo aver scandagliato l'ambiente circostante, Airis si decise a entrare con cautela nell’accampamento, o meglio, di quel che ne rimaneva. I soldati di Felther non si erano nemmeno degnati di far sparire i corpi, lasciati in balia delle bestie selvatiche. Molti di questi giacevano nella stessa posizione in cui la morte li aveva colti, riversi nelle loro stesse interiora o in pozze di sangue ormai raggrumato, gli occhi e la bocca spalancati invasi dai vermi e dalle mosche. Sentì la rabbia montare. Scrutava quei volti lividi, le loro espressioni di terrore, cercando di imprimersele nella memoria, le dita serrate intorno al ramo e l’espressione del viso impassibile che celava la tempesta nel suo animo.
Più volte si inginocchiò per chiudere gli occhi dei morti, racchiudendo in quel gesto, l’unico che potesse fare, una preghiera perché trovassero la pace in qualsiasi posto fossero andati. Non distolse mai lo sguardo, nemmeno quando urtò la testa di un bambino con l’espressione terrorizzata ancora stampata sul viso e le lacrime gelate sulle guance cianotiche. Il suo corpo mutilato giaceva poco più in là, nascosto sotto quello di una donna a cui era stato strappato un braccio.
Passò oltre tutti gli abitanti di Luthien, oltre i loro cadaveri dissacrati, fatti a pezzi. Quando arrivò al centro del campo, si diresse con sicurezza verso la tenda di Felther. Alzò uno dei lembi e rimase per un lungo momento in silenzio a contemplare le varie macchie di sangue che annerivano il terreno nei punti in cui Raiza e Baldur avevano combattuto. Se mai un giorno li avesse rivisti, si ripromise, li avrebbe ringraziati per averla salvata. Il suo pensiero andò poi al Cavaliere del Drago, alla speranza che aveva portato, per poi trascinarla nel fango assieme alle donne, ai bambini, agli uomini innocenti che avevano creduto in lui. La pelle sulle nocche della mano che stringeva il ramo si tese così tanto da farle male.
- Non hai onore, Felther. - mormorò invelenita.
La luce del giorno sfumò nel rosso, per poi scurirsi nel viola del crepuscolo. Da lontano, le orecchie di Airis colsero l’ululato prolungato di un lupo e il cupo bubolare di un gufo. Volse gli occhi al cielo e valutò che le mancassero circa due ore prima che la notte calasse del tutto. Voltò le spalle alla tenda e cominciò a setacciare l’accampamento in cerca di un’arma e di qualcosa di più resistente da mettersi addosso. Ricordava che, tra i sopravvissuti, c’erano alcune guardie cittadine.
Sepolto sotto una delle tende al limitare del bosco, trovò un uomo con un’armatura ancora in buone condizioni. Un pugnale lungo gli trapassava da parte a parte il collo.
Prima di rivoltarlo di schiena, Airis prese un profondo respiro. Doveva farlo o non sarebbe sopravvissuta. Sciolse le cinghie e con delicatezza gli sfilò la corazza e cotta di maglia, stando bene attenta che i capelli non si impigliassero negli anelli. Le sarebbe stata un po’ larga, ma non poteva pretendere di più. Riluttante, infine, tenne ferma la testa ed estrasse il pugnale in un unico, rapido movimento. Lo pulì come meglio poté sull’erba e lo infilò nella cintura di cuoio.
“Questo è per le emergenze. Mi serve qualcosa di meglio per combattere.”
Si guardò intorno e, ancora una volta, dovette obbligarsi per alzarsi e dirigersi verso il cadavere di un uomo vicino ai resti del focolare. Una freccia lo aveva colpito alla schiena ed era uscita dal basso ventre, dopo aver fracassato il bacino e aver squarciato l’intestino e le arterie. Stretta ancora tra le dita gelate, teneva una spada dalla lama in acciaio incrostata di fango. Il fodero pendeva dalla cintura rimasta miracolosamente intatta.
La mano del morto si aprì senza che dovesse fare il minimo sforzo. Prima di rimettersi in piedi, abbassò il capo, ringraziando quell’uomo senza nome per il dono che le aveva fatto, poi rinfoderò la nuova arma.
“Bene, ora… ora devo solo avviarmi verso la prima città e…”
Non fece in tempo a terminare il pensiero, che le sue orecchie colsero un fruscio dalla parte opposta del campo, seguito dal tenue lucore di una torcia.
- Chi va là? Aspetta, aspetta, non scappare! -
Airis non stette a sentirlo. Scattò, correndo verso il bosco. Scivolava veloce nell’ombra, agile come non si sarebbe mai aspettata, i piedi che toccavano appena terra e il sangue che scorreva rapido nelle vene al comando concitato del cuore.
- Maledizione, aspetta! Voglio aiutarti! -
“A morire? No, grazie, semmai faccio da sola.”
Spostò un ramo che si frapponeva sulla sua strada, saltò una radice particolarmente spessa e si precipitò verso l’affluente del Tabor. Da lì sarebbe stato facile far perdere le sue tracce o, almeno, così sperava. Gettò una rapida occhiata alle sue spalle e imprecò tra i denti, vedendo la figura del suo inseguitore alle calcagna. Non aveva più la torcia e chissà come riusciva a seguirla in quella fitta oscurità.
Airis si addentrò ancora di più nel sottobosco, frenò e girò quando colse lo sciabordio familiare dell’acqua. Con i polmoni che le bruciavano e i muscoli che protestavano per lo sforzo, si costrinse ad aumentare l’andatura. Ma il suo inseguitore era sempre più vicino e guadagnava terreno, a momenti le sarebbe stato addosso.
Quando vide il nastro argentato che tagliava il bosco, si fermò all’improvviso e sguainò la spada, descrivendo un ampio semicerchio davanti a sé. L'altro si fermò poco prima di finire infilzato sulla lama.
- Stai indietro. - ringhiò.
- Va bene, va bene, calmati ora. Non voglio farti del male, solo parlare. -
- Chi sei? -
Lo sconosciuto sospirò, si morse le labbra e rimase fermo per qualche secondo, come se fosse indeciso sul da farsi. Poi alzò entrambe le mani e fece un passo nella sua direzione. La luce bianca della luna si infranse sul pettorale argentato, illuminando le due ali dorate che circondavano una spada istoriata con l’effige di un lupo.
- Sono Arghail, un soldato dell’esercito di Sershet. Ero di stanza a porto Eamone e, quando io e i mei compagni abbiamo visto quella luce accecante, ci siamo diretti subito qui. - fece un cenno con la testa, indicando un punto alle sue spalle, - I miei compagni si sono accampati poco lontano, ma io sono comunque voluto venire in avanscoperta per vedere se c’era qualcuno. -
Airis lo scrutò, diffidente. Da quella distanza riusciva a vederlo abbastanza bene. Era un ragazzo alto quanto lei, se non poco di più, con i capelli castani che gli si appiccicavano alla fronte sudata. Aveva le spalle larghe, rese ancora più possenti dagli spallacci che le ricoprivano, e al fianco portava una spada lunga, di ferro e acciaio temprato.
- Corri molto veloce per essere una ragazza. - buttò lì Arghail, le labbra atteggiate in un sorriso accondiscendente, - Devi avere un’ottima resistenza, visto che non è di certo facile tenere quell’andatura così sostenuta con quel peso. Eri per caso una guardia cittadina? -
Airis fece un passo indietro. La carezza gelida dell’acqua contro lo stivale le procurò un brivido freddo lungo la schiena.
- Ascolta, davvero, non voglio farti del male. Siamo… sono qui per aiutarti. - insisté, poi, vedendo che la sua interlocutrice non sembrava avere intenzione di collaborare, sospirò, - Puoi almeno dirmi dove sono i tuoi compagni e se hanno bisogno di aiuto? Ho visto i morti, siete forse stati attac… -
- Non c’è niente da salvare. - la voce le uscì più ostile di quello che avrebbe immaginato, - Non si è salvato nessuno, purtroppo. Non so cosa sia successo qui, io… stavo solo cercando delle armi tra i cadaveri. -
Il ragazzo aprì la bocca, per poi richiuderla senza dire nulla. Un istante dopo sgranò gli occhi, incredulo e sconcertato, e un flebile mormorio gli scivolò dalle labbra.
- Generale… -
Sentendosi chiamare con quell’appellativo, Airis si immobilizzò. Fu allora che la testa cominciò a girarle e tutto il mondo divenne un miscuglio frenetico di colori e di sagome senza più contorni. Perse la presa sulla spada e cadde in ginocchio, mentre il coro indistinto delle voci degli antichi Guardiani le assaliva le orecchie e le invadeva la mente.
L’ultima cosa che vide prima di accasciarsi al suolo furono gli occhi di Arghail.
Occhi chiari, di un indaco liquido illuminato da una sincera preoccupazione.
Occhi come quelli del re nella Casa della Cenere.
Una supplica riecheggiò nel cervello, levandosi al di sopra delle altre.
“Aiuta mio figlio a diventare re!”

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Capitolo 3
*** Notizie ***


Fuoco 2

2

Notizie

Quel giorno il sole sembrava splendere meno del solito. Nascosto dietro una coltre di nubi che preannunciava neve, illuminava la valle con una luce tiepida, opaca, che si smorzava sul verde sfumato degli steli d’erba e sulle pietre bianche che punteggiavano quell’oceano frusciante.
Con un sospiro, Mirya tornò a guardare il libro che aveva posato in grembo. Da ore continuava a leggere sempre la stessa frase e, da altrettanto tempo, continuava a distrarsi guardando fuori.
Erano giunti ad Alabastria da poco più di una settimana e ancora non si era abituata alla sua nuova condizione.
Chiuse il libro e ne accarezzò la costa logora, perdendosi ancora una volta a osservare i disegni ormai quasi cancellati dall’usura del tempo. Spostò poi lo sguardo sulla stanza, sul tavolo in radica di noce, sul letto a baldacchino rifinito in oro rivolto verso la finestra, sullo specchio cesellato di gemme preziose abbracciato da pregiate stoffe di lampasso di seta gialla e blu.
Chiunque avrebbe invidiato la sua condizione, al sicuro, servita e riverita dal mercante più ricco della città. Da quando era stata costretta a lasciare Amount-vinya, aveva sognato spesso di vivere in pace, lontana dal sangue e dalla violenza, ma mai avrebbe pensato che il suo desiderio si sarebbe realizzato così in grande, per di più ad Alabastria, la roccaforte dei nani del nord, la città-fortezza che, dopo Lotka, aveva la fama di non essere mai stata espugnata. Le due però non potevano essere più diverse. La prima era stata fondata alle radici dei monti Eresse e si sviluppava interamente sottoterra. Solo la grande facciata del grande castello, scolpita direttamente nella roccia, vedeva la luce del sole. Mentre viaggiavano, Myria aveva scorto i tre portoni di ferro in lontananza, ma Baldur aveva optato per proseguire oltre: i nani di Lotka erano feroci, ostili e lui non conosceva nessuno lì in città che avrebbe potuto accoglierli. Alabastria era tutt'altra cosa, invece. Costruita su dei vecchi terrazzamenti, si inerpicava su una collina di quasi cento braccia, sviluppandosi in altezza con le sue case, le sue botteghe e i suoi palazzi fino alla vetta, dove, in tempi così remoti da perdersi nella memoria, era stato eretto il Castello di Ferro. Quando avevano scorto l’imponente portone di faggio, Myria e i bambini non erano riusciti a celare lo stupore, restando a bocca aperta. Mentre Baldur, a cavallo di Raiza, faceva loro strada, la donna si era domandata come avesse fatto un popolo così rozzo e burbero a costruire una città così bella ed elegante.
Le venne quasi da ridere quando ripensò allo scambio di battute tra il nano e le guardie che pattugliavano le mura, al modo così cameratesco di interagire tra di loro, come se fossero cugini o amici di vecchia data. Le aveva scaldato il cuore anche l’accoglienza di Nordri, l’amico di Baldur, il mercante di vino più ricco della città, che non aveva esitato ad offrire a degli umani sconosciuti, sporchi e cenciosi un tetto sopra la testa e una zuppa calda.
“Sono stati gentili, ma non possiamo rimanere qui per sempre.”
Sospirò ancora e spostò la tendina di raso sottile, osservando le spalle del figlio. Aveva giocato per ore con gli altri ragazzi, suoi coetanei o poco più grandi, ridendo e scherzando con loro mentre si affrontavano in un duello all’ultimo sangue. Ora che tutti erano tornati alle loro case, si godeva il vento del primo pomeriggio, seduto sulla balconata di pietra bianca con le gambe a penzoloni e la spada di legno che gli aveva intagliato Baldur poggiata in grembo. Gli piaceva starsene lì da solo o in compagnia di Melwen a osservare il paesaggio, con lo sguardo perso al di là dell’orizzonte e i capelli ormai lunghissimi e indomabili che ondeggiavano al vento.
Guardandolo, Myria si rese conto di quanto fosse cresciuto in così poco tempo. Certo, balbettava ancora e si faceva facilmente trascinare da Melwen nelle sue “avventure esplorative” nei luoghi più improbabili della città, ma era riuscito a integrarsi perfettamente nel gruppetto di ragazzi che vivevano nelle case vicine. Era difficile non volergli bene, riusciva a farsi amare da tutti.
Sorrise mesta, ripensando ai loro primi tempi lì. Melwen e Zefiro avevano trascorso più di quattro giorni in completo silenzio, e anche successivamente si erano limitati a rispondere solo a monosillabi. Myria, dopo i primi infruttuosi tentativi, aveva rinunciato. In fin dei conti, capiva il loro bisogno di solitudine: quello che era successo a Luthien, il sangue, la morte, quegli esseri mostruosi, doveva essere stato ancor più orribile e spaventoso dal loro punto di vista. Fino ad allora la guerra e tutto ciò che essa portava con sé era stata solo un fantasma, un evento lontano che era oggetto dei discorsi degli adulti e dei canti dei bardi. Quel giorno di due settimane prima, invece, era piombata loro addosso nel modo più brutale che potessero immaginare ed era diventata improvvisamente reale. Mentre a Melwen era stata strappata via tutta la sua famiglia, Zefiro aveva perso Alan, un padre, un amico fidato.
Myria si morse le labbra, ricacciando indietro le lacrime al ricordo del viso sorridente del soldato: tutti avevano perso qualcuno, quel giorno. Una parte del loro cuore era morta con i loro cari.
Riaprì il libro, cercando il punto su cui si era interrotta, anche se, in quel momento, sapeva che avrebbe fatto fatica a concentrarsi. La sua mente vagava altrove, persa tra ricordi che sapevano di sale. Le lacrime premettero prepotentemente da dietro le ciglia e, prima che se ne accorgesse, percepì la loro carezza umida sulle guance.
- Strei? -
Myria trasalì, non si era accorta che Skjaldi, la sua cameriera personale, era entrata nella stanza.
- Strei, avete visite. -
- Fatelo entrare. - rispose subito Myria, asciugandosi velocemente le lacrime.
Essere chiamata “signora” con quel tono reverenziale le faceva uno strano effetto e non si era ancora abituata.
La cameriera si inchinò e aprì di nuovo la porta per lasciar passare l'ospite.
- Baldur? -
- E chi altri, mea strei? - le sorrise il nano, prendendo posto su una sedia di rovere addossata alla parete, - Per tutti i martelli di Gurhavat, adesso per parlarti devo pure chiedere un’udienza! Tra poco ti troverò seduta sul trono di Alabastria. -
A quelle parole, Myria scoppiò a ridere: - Detto da te lo prendo come un complimento, Baldur Pugno d’Acciaio. -
- Come fai a conoscere il mio soprannome? -
- Oh, sai, la città sarà gigantesca, ma i pettegolezzi girano, soprattutto in una casa dove la maggior parte della servitù è costituita da donne. -
Skjaldi si portò una mano davanti alla bocca per nascondere un sorriso divertito, ma Baldur le rivolse comunque un’occhiataccia, prima di consegnarle il pesante mantello. Probabilmente avrebbe aggiunto anche un insulto, se la cameriera non si fosse defilata nell’immediato. Subito dopo, anche se Myria non li aveva chiamati, fecero il loro ingresso nella stanza Farl e Fili, i due camerieri più giovani della casa, e in completo silenzio allestirono il tavolo di faggio con brocche d’argento cesellato e piatti di dolcetti al miele, mandorle e zenzero. Le pastafrolle appena sfornate spandevano un delicato profumo zuccherino nell'ambiente.
- Avete bisogno d’altro, strei? -
- No, grazie. Lasciateci soli. - disse Myria e i due si accomiatarono subito.
Quando la porta si chiuse, Baldur si afflosciò sulla sedia, le guance più rosse delle tende di broccato nell’atrio.
- Maledette oche, sempre a spettegolare stanno. -
Myria ridacchiò: - Però è stato divertente ascoltare la storia di come hai tentato di picchiare quel povero asino. Mi hanno anche riferito che… -
- Va bene, va bene, non voglio sentire quante altre cose sai. - la interruppe brusco, - Come stanno i bambini? -
- Abbastanza bene. Non hanno più gli incubi e sono riusciti ad integrarsi. - si sedette anche lei e si lisciò la gonna della sopravveste color pesca, - Melwen a volte ricerca la solitudine, ma penso sia normale. Ha perso tutta la sua famiglia, credo non le passerà mai del tutto. -
- E Zefiro, invece? Mi ha chiesto di intagliargli una spada, ma non me ne ha voluto rivelare il motivo. -
- Non ne posso essere certa, ma penso che sia tutto legato a una vecchia discussione. Zefiro stava parlando del suo futuro con Alan e, a un certo punto, gli aveva chiesto perché avesse scelto di diventare una guardia cittadina. Non ricordo esattamente cosa gli rispose Alan, ero nella stanza accanto a parlare con un’amica che si era appena sposata, però… - sospirò e si morse le labbra, le lacrime che già le inumidivano gli occhi, - Non lo so, in certi momenti non lo capisco. -
- Quello che è successo a Luthien e ad Amount-vinya lo ha cambiato. Purtroppo, la guerra costringe i bambini a diventare adulti prima del tempo. -
- Lo so. - inspirò profondamente, inghiottendo il groppo che le serrava la gola, - Tu che mi racconti? Dove sei stato? Sono giorni che non sento parlare di te. -
Baldur prese una manciata di frutta candita e la masticò per un po’, prima di rispondere: - Diciamo che sono andato in giro a cercare una persona. -
Myria rimase in silenzio qualche istante. Da quando erano arrivati, il nano era andato a trovarla spesso, quasi ogni sera, ma per un paio di giorni non l’aveva visto. Quando aveva chiesto a Nordri sue notizie, il padrone di casa era stato molto evasivo. Sapeva qualcosa, ma fino al ritorno del suo fidato amico e compagno non le avrebbe rivelato nulla. Durante le lunghe giornate passate e leggere o a parlare con le cameriere di casa, si era fatta un’idea su quale potesse essere l’obiettivo di Baldur, ma non aveva certezze. Almeno fino a quel momento.
- È stato un viaggio piuttosto faticoso, ma credo di aver trovato quel che ci serve per fare un po’ di luce su Melwen. -
- Sei riuscito a trovare un mago? -
- Più o meno, oserei dire che è stato lui a trovare me. Si chiama Nyi ed è un mago girovago. All’inizio, come tutti i lancia-incantesimi che si rispettano, non ne voleva sapere di collaborare, ma è bastato che facessi il nome della bambina per fargli cambiare idea. Chissà, forse la conosce addirittura. -
Myria trasse un respiro di sollievo. Quando l’accampamento era stato attaccato, lei, Melwen e Zefiro si erano salvati perché la figlia di Copernico, di punto in bianco, era riuscita a rendere tutti invisibili. Non sapeva esattamente come avesse fatto, era certa di non aver sentito nessuna parola magica uscire dalle sue labbra, eppure quando il soldato che li stava inseguendo era arrivato davanti a loro, si era limitato a guardarsi intorno smarrito, per poi tornare indietro. Era stato solo grazie a quella magia che si erano salvati, evitando la stessa fine di tutti gli altri sopravvissuti.
- È già in città? - domandò infine.
- Sì, arriverà a breve assieme a Nordri. Non so cdi cosa debbano parlare, ma dall’espressione di Nyi sembrava qualcosa di molto importante. - disse, rigirandosi la coppa d’argento tra le mani.
Myria sentiva che voleva aggiungere altro, così attese in silenzio che continuasse. Quando Baldur si protese verso di lei, si accorse che le lunghe trecce rossicce della barba celavano un viso tirato, segnato dalla stanchezza, che si accumulava sulle profonde occhiaie violacee.
- Mentre ero in viaggio, mi è sembrato di essere seguito. -
- Da chi? -
- Non lo so. Mi viene in mente solo un nome e spero di sbagliarmi. -
Lo sguardo di Baldur si rabbuiò, così come quello di Myria, le dita intrecciate sul grembo scosse da un lieve tremito.
- Le mura di Alabastria sono le più resistenti di tutta Esperya, i bambini non corrono alcun rischio. - la tranquillizzò il nano, posando una mano tozza su quelle della donna e stringendole appena, per confortarla, - Però non dobbiamo abbassare la guardia. Appena Nordri e Nyi arriveranno, vedremo di trovare una soluzione. Non ti capiterà più nulla, né a te, né a Melwen, né a Zefiro, vi proteggerò io. -
Myria annuì e poi lo abbracciò, affondando il viso nella sua spalla. La sua pelle sapeva di sale, sudore e erba bagnata, ma lei non ci fece caso, così come non badò all’impercettibile irrigidimento del nano. Le bastava che fosse lì, che fosse tornato. Non avrebbe sopportato di perderlo, non dopo quello che aveva fatto per salvare lei e i bambini. Nel suo cuore c’erano già troppe lapidi.
- Grazie. - esalò.
- Sono un mercenario, Myria, ma ho un cuore anch'io. - le batté una mano sulla schiena e sciolse l’abbraccio, - Non sarò un prode cavaliere come Airis, però posso assicurarti che non ti abbandonerò, almeno finché non sarò certo che tu sia al sicuro. - tossicchiò imbarazzato e si guardò intorno, - Fa caldo qui dentro, comunque. -
- È un modo come un altro per chiedermi di far portare qualcosa? -
- Per gli Avi, sì! Ho cavalcato in fretta e furia per tornare e riferirti le mie scoperte e tu nemmeno mi offri qualcosa da bere? Sei una pessima padrona di casa, lasciatelo dire. -
Ancora una volta, Myria non riuscì a trattenere un sorriso. I modi bruschi di Baldur le ricordavano le giornate ad Amount-vinya, quando il sole spandeva i suoi raggi caldi sulle pietre bianche della città e Alan veniva a cena a casa sua per tenere compagnia a lei e a Zefiro. Questo accadeva appena l’estate precedente, pochi mesi, un secolo. Eppure il nano era ancora lì, con lei e i bambini, un porto sicuro in un oceano in tempesta.
- Penso sia rimasta un po’ di birra doppio malto nelle cantine. -
Baldur si strofinò le mani con aria soddisfatta: - Ho giusto un po’ di sete, fai portare una pinta abbondante. Anzi, meglio due, una sicuramente non basta. -
- Pensi di riuscire a sostenere un discorso sensato dopo? - lo prese in giro Myria.
- Dubiti della mia resistenza, donna? -
- Diciamo che non vorrei che si aggiungesse qualche altro epiteto accanto al tuo nome. -
Il nano grugnì qualcosa tra i denti e Myria, stavolta, scoppiò a ridere di gusto, prima di suonare la campanella per chiamare la servitù.
 
- Sei sicura che sia una buona idea? -
- Perché non dovrebbe? Stiamo andando ad esplorare la parte vecchia della città, mica ci stiamo inoltrando fuori dalle mura. -
Zefiro sospirò e, ancora una volta, forse la decima da quando si erano infilati in quei cunicoli, si maledisse per aver dato retta a Melwen. Era cominciato tutto quella mattina, quando, mentre facevano colazione, la sua amica aveva proposto di fare una gita esplorativa. Ovviamente lui le aveva detto di no e lei, ovviamente, non l’aveva presa bene, ma non smaniava dalla voglia di ripetere l’esperienza della volta scorsa, quando era finito in un prato di ortiche. Purtroppo, Melwen non sapeva accettare i rifiuti. Così, appena i suoi amici si erano ritirati nelle loro case a mangiare, l’amica lo aveva raggiunto e, dopo un lungo discorso intercalato da minacce, adulazioni, preghiere e promesse era riuscita a convincerlo.
Armati, dunque, con due spade di legno, uno zainetto, una lanterna e un sacchetto pieno di focaccine, avevano corso attraverso la città, saltando gli scalini che collegavano i vari livelli e lasciandosi alle spalle l’Alabastria alta, per inoltrarsi nelle strade congestionate della parte più viva e popolosa, gremita di persone, case, botteghe e carretti trainati da muli e cavalli stanchi. Le nuvole si erano diradate e la luce abbacinante del sole accarezzava le strade, risplendendo sui ciottoli, sulle teste dei mercanti e sulle barbe bianche dei nani più anziani, assisi su sedie di legno fuori dall'uscio delle loro dimore a fumare la pipa.
Quando finalmente giunsero a uno degli ultimi terrazzamenti, Melwen tirò dritto fino a una stradina laterale che si immetteva in un’altra viuzza ancor più piccola e claustrofobica e la percorse fino alla fine. Da lì, il terreno declinava verso un ampio spazio pianeggiante che i bambini sapevano estendersi fino alle mura della città. Anche a quell'ora, era gremito di nani, uomini e donne dai visi sporchi di terra e caligine che, come formiche, facevano avanti e indietro dalle gallerie. Melwen si fermò a guardarli, nascosta all'ombra dell'ultima casa, le sopracciglia corrucciate e lo sguardo attento di chi cerca di fare mente locale, mentre Zefiro attendeva sue istruzioni. Nessuno, nemmeno i suoi amici, potevano affermare di conoscere bene le miniere di Alabastria e, persino tra i minatori più anziani, erano davvero pochi quelli che sapevano orientarsi con facilità in quel labirinto di cunicoli e gallerie. Aveva sentito dire da Nordri che i giacimenti di ferro erano stati il motivo che aveva spinto i nani nei tempi remoti a buttare le fondamenta della città proprio su quella collina e il bambino non aveva motivo di dubitarne, considerando che i più grandi mastri armaioli risiedevano proprio lì, ad Alabastria. Anche Lotka e Alcarin avevano delle vene metallifere, ma da quello che sapeva era la roccaforte nanica del nord a mantenere il primato.
- Bene, noi dobbiamo andare di là. - Melwen si inginocchiò e, dopo aver lanciato un'occhiata circospetta a destra a sinistra, gli indicò un punto vicino a una galleria, - Dobbiamo passare oltre quel tunnel. Ne seguiranno altri due o tre e poi ci sarà uno spiazzo desolato dove ci sono alcuni capanni degli attrezzi e vecchie carrucole. Nascosto dietro una pila di legno, ci dovrebbe essere quello che interessa a noi. -
- Ma... non sarà sorvegliato? Se quella galleria conduce alla città vecchia, ci sarà qualcuno che controlli che nessuno ci vada. -
- Di solito, a quest'ora, le guardie vanno a mangiare, quindi in realtà il passaggio dovrebbe essere libero, ma qualora le trovassimo... - si mordicchiò l'interno della guancia e si grattò l'orecchio arricciando le labbra, - Ci inventeremo qualcosa. Dobbiamo essere positivi. -
Zefiro annuì, ma in cuor suo sperava che qualcuno li fermasse. Ovviamente, la fortuna non fu dalla sua parte. Melwen, non sapeva come, lo guidò fino al tunnel, dapprima passando per le stradine della città, poi lungo un sentiero di terra battuta che li condusse nello spiazzo dove, a parte loro e dei merli accoccolati nel loro nido, non c'era nessuno né lì intorno, né davanti all'entrata della galleria. L'unico ostacolo che si frapponeva tra loro e la discesa nella città vecchia, era una porta di legno marcita, chiusa da spesse catene, ma che era bastato un semplice movimento della mano di Melwen perché il grosso lucchetto si aprisse.
“Perchè tutte a me...”
- Sei davvero sicura di quello che stiamo facendo? - domandò incerto Zefiro, - Ci sarà un motivo per cui nessuno viene più qui, non credi? -
“Anche se non mi spiego perché non si siano dati il cambio per la guardia.”
- Non ne ho idea e sinceramente non mi interessa. Insomma, pensaci: ci stiamo inoltrando nelle viscere della terra per vedere la vecchia Alabastria. Magari troveremo qualche tesoro! - cinguettò contenta Melwen, che avanzava davanti all'amico con la lanterna accesa, - Non sarebbe così strano. Tutti gli eroi, quando vanno ad esplorare i ruderi di una qualche antica e prospera città, trovano gioielli, diademi, spade magiche… -
- Vorrei farti presente che, l’ultima volta che hai detto così, abbiamo trovato soltanto le carcasse di un gatto e di un cane mummificati. E tu hai tentato di convincermi che fossero i resti rispettivamente di un unicorno e di un cucciolo di drago. -
Melwen gli rivolse uno sguardo infuocato: - Era buio, non vedevo bene, mica sono un elfo! -
- Hai continuato a ripeterlo anche il giorno dopo. - precisò.
- Beh, non è colpa mia se i disegni anatomici sui libri sono tutti uguali. Ho sempre sostenuto che i maghi dovrebbero affidare la tiratura dei loro tomi ai giovani che hanno ancora gli occhi buoni. -
Il bambino sbuffò, roteando gli occhi. Era impossibile spuntarla quando Melwen voleva avere ragione.
- Va bene, va bene. - si passò una mano tra i capelli e sospirò rassegnato, - Hai per caso una mappa della città sotterranea? Vorrei evitare di perdermi. -
- Ho anche di più. Mentre girovagavo per la biblioteca di Nordri, ho trovato un libro vecchissimo dove non c’era un disegno decente, ma ho notato delle didascalie a piè di pagina molto interessanti. -
- Capisci il dwarvish antico? -
- Più o meno. Mio… mio padre mi aveva insegnato i rudimenti della lingua. -
Quell’ultima frase le rotolò fuori dalle labbra in un sussurro strozzato e Zefiro sentì l’impellente bisogno di abbracciarla, ma si trattenne. Doveva essere lei a cercarlo e, anche se era straziante vederla in lacrime, non poteva fare altro che trasmetterle conforto con la sua presenza. Fino a quel momento aveva preferito lasciare le cose come stavano, non aveva mai provato a insistere né a parlare di quello che era successo. Ricordava ancora i discorsi vuoti che sua madre e Alan gli avevano propinato per consolarlo, quando aveva appreso che suo padre non sarebbe più tornato. Adesso, a distanza di tempo, capiva quanto si erano sentiti impotenti vedendolo chiudersi in se stesso, nel suo dolore, senza poter fare nulla se non aspettare.
Rimasero in silenzio per un lungo minuto. La pietra, resa scivolosa dell’azione erosiva del tempo e dell’acqua che sgocciolava dal soffitto, era stata invasa dal muschio e da una pianta rampicante simile all'equiseto i cui steli si allungavano fino al soffitto, costituendo una ragnatela fitta e impenetrabile quasi come il buio umido che li avvolgeva man mano che proseguivano. Mentre continuavano la loro discesa, con la scusa di evitare brutte cadute, Zefiro le strinse la mano, intrecciando le loro dita. Ci fu un momento in cui temette che la sua amica lo avrebbe respinto, ma poi i loro palmi aderirono e una sensazione di sollievo lo pervase.
Proseguirono per un tempo che Zefiro non seppe calcolare. Potevano essere ore o minuti, non avrebbe saputo dirlo con certezza. Le ombre danzavano sulle pareti di roccia, allungandosi e appiattendosi in un ondeggiare frenetico che ricordava quello dei tentacoli di un mostro marino. La luce della lanterna si spandeva in un cerchio aranciato attorno a loro, riuscendo appena a squarciare lo spesso velo nero che li circondava come un sudario. Girarono a destra, poi a sinistra, seguendo un percorso che solo Melwen sembrava conoscere. Più di una volta, la lanterna disegnò il profilo di alcune rune incise nella pietra, segni che Zefiro interpretò come delle specie di antiche indicazioni. A un certo punto, infilarono una galleria che terminava con una rampa di scale che si approfondava nell'oscurità. Con il cuore che batteva a mille, Zefiro sfiorò con la mano libera il profilo della spada di legno: se mai si fossero imbattuti in un cane randagio, si sarebbero potuti difendere.
- Quanto pensi che manchi? -
- Non molto. -
La voce incerta di Melwen suonò ben poco convincente, ma il bambino decise di non insistere. Prima o poi, si disse, sarebbero arrivati.
“Tutte le scale portano da qualche par…”
Non fece in tempo a terminare il pensiero, che dovette fermarsi di colpo per non andare a sbattere contro la sua amica. Grugnì contrariato, ma qualsiasi imprecazione gli morì in gola, soffocata da un sussulto stranito.
Davanti a loro si estendeva una grande piazza ortogonale, circondata dai contorni di quelle che Zefiro intuì essere le vecchie abitazioni di Alabastria. Al centro, circondata da massi e ricoperta da una ragnatela di rampicanti, giaceva la statua bronzea di Gurhavat, Dio Artigiano, creatore dei nani.
- Oh dei, Zefiro, ma è meravigliosa! - l'esclamazione emozionata di Melwen rimbalzò sulle pareti di pietra, mentre si addentrava nella piazza tenendo alta la lanterna, - Questa doveva essere la piazza del mercato, quindi lì, da qualche parte, ci dovrebbe essere il quartiere dei pellicciai e degli armaioli. Chissà se è rimasto qualcosa, magari una spada o uno scudo con il primo stemma… -
- Ferma, ferma, ferma! Stai parlando troppo in fretta e io non sto capendo. Siamo venuti qui per cercare qualche vecchio cimelio? -
- No, non proprio. Tieni la lanterna, ti faccio vedere. -
Zefiro obbedì. Melwen poggiò la borsa a terra, tirò fuori un libro dalla copertina spessa e lo aprì. Le pagine in pergamena erano sottilissime e ingiallite dal tempo. Illuminate dalla fievole luce della lanterna, scorrevano frusciando sotto le dita delicate di Melwen, dando l’impressione che si sarebbero potute sbriciolare da un momento all’altro. Il cinguettio eccitato della sua amica lo avvisò che aveva trovato ciò che cercava.
- È la mappa? -
- Sì. - accarezzò il disegno con un sorriso sognante, passando i polpastrelli sul tratto sfumato dell’inchiostro, - Vedi questa casa? Ecco, leggendo la didascalia e qualche paragrafo più in là, ho scoperto che corrisponde alla biblioteca personale del re. -
- Aspetta, quella che si dice contenere pergamene con incantesimi per distruggere intere città? -
La bambina alzò gli occhi al cielo: - Quelle sono semplicemente dicerie, per di più infondate. I nani non sono mai stati amanti della magia, men che mai di quella proibita. Solo uno sciocco crederebbe davvero a una storiella del genere. -
Zefiro storse le labbra e incassò in silenzio.
- In ogni caso, - riprese Melwen, - l’autore di questo libro sostiene che il re dell’epoca, tale Urgavat V, teneva una sua personale collezione di libri storici. In particolare dovrebbe possedere una delle versioni più belle e preziose della Mablung Ringëril. -
- Il libro sacro degli elfi? E perché un nano dovrebbe tenere quella roba nella sua biblioteca? -
- La tua ignoranza a volte è imbarazzante. -
- Scusami, sono solo un povero guerriero zuccone. Io sono il braccio e tu la mente, ricordi? -
La bambina sbuffò divertita: - Non è una storia che conosco molto bene, ma papà mi ha raccontato che all’inizio tutte le razze avevano un unico libro di riferimento. Poi, dopo la guerra del centesimo solstizio e la firma dei vari trattati di pace, questa unità religiosa è andata perduta, anche se i nomi degli dei e i testi di riferimento non hanno subito sostanziali modifiche. Ora, non possiamo spingerci fino al palazzo reale, è troppo all’interno della città e non penso sia una buona idea, viste le condizioni in cui versano le case qui intorno. -
- Perché spingerci fino alla biblioteca sarebbe meno pericoloso? -
- Ci stavo arrivando, se la smettessi di interrompermi… -
- Scusami, vai pure avanti. -
- Dicevo… la biblioteca è molto più vicina. Basterà oltrepassare la piazza e proseguire sempre dritto lungo la strada. Se ci teniamo al centro, dovremmo evitare qualsiasi problema. - dichiarò decisa, - Allora, che ne pensi? -
Zefiro si mordicchiò le labbra nervoso.
- Non lo so, non mi sembra comunque una buona idea. Insomma, pensavo fossimo venuti qui per vedere qualche muro crollato, invece adesso mi dici che vuoi andare a esplorare un’antica biblioteca dove pensi di trovare chissà che libro. Ma poi, se è davvero così prezioso, non dovrebbero averlo già trovato? - le fece notare.
- No, altrimenti sarebbe conservato da qualche parte. Ascolta, prometto che, se non troveremo niente di interessante o vedessimo qualcosa si sospetto, scapperemo a gambe levate. Però non rinunciamo a quest’occasione, proviamoci almeno. -
L'amico esitò. Da una parte era curioso di inoltrarsi nelle rovine della città e, anche se non l’avrebbe mai ammesso davanti a Melwen, il pensiero di andare alla ricerca di questo prezioso libro lo elettrizzava; dall’altra aveva paura di quello che poteva nascondersi nelle lunghe ombre dei palazzi distrutti. Certo, probabilmente, a parte loro e la muffa, non c’era niente di vivo lì sotto, ma non riusciva a non sentirsi intimidito. Strinse l’elsa della spada per farsi forza e respirò a fondo.
- Va bene, ma alla prima minaccia… -
- Sapevo che avresti accettato! - esclamò briosa Melwen, - Dai, su, muoviamoci. La curiosità mi sta mangiando viva. -
Oltrepassarono la piazza e, dopo aver superato un arco trionfale crollato, si inoltrarono lungo una strada silenziosa, costellata di detriti e macerie distrutte.
Zefiro si guardava intorno con circospezione, la mano serrata sulla sua arma di legno. Non sapeva da quanto tempo la città fosse stata abbandonata, ma gli steccati degli orti mangiati dai tarli e le ragnatele di crepe che ricoprivano i muri delle case gli suggerivano che fossero passati molti, moltissimi anni. Gli edifici sembravano ammassarsi gli uni sugli altri, blocchi di pietra pieni di fenditure e crolli che non avevano conservato nemmeno l’ombra dell’eleganza e maestosità di un tempo. Un silenzio denso come melassa aleggiava intorno a loro, permeando l’aria satura del soffocante odore di chiuso e morte. Zefiro rabbrividì non appena scorse le ossa di una mano schiacciate da un blocco di marmo e non riuscì a trattenere un sussulto quando rischiò di calpestare un teschio spaccato, fin troppo piccolo per appartenere ad un adulto.
“Cosa è successo qui?”
Come se gli avesse letto nel pensiero, Melwen sussurrò: - Tempo fa, i nani vivevano sottoterra. Un giorno una forte scossa di terremoto fece crollare tutto. Non ci sono stati moltissimi morti, però… -
- Però nessuno è voluto tornare dopo. -
La bambina assentì e scavalcò i resti di una colonna.
- Quindi questa città, la vecchia Alabastria… è un cimitero? -
- Non ufficialmente. -
Zefiro deglutì e affrettò il passo.
Passarono davanti a un edificio sventrato, lasciandosi alle spalle una piazza dove, sotto le tracce nere degli incendi, si celavano delle profonde fenditure, squarci che sfregiavano la pavimentazione simili alle artigliate di un mostro. Melwen osservò meravigliata la facciata divorata dalle fiamme di un altro edificio, che spiegò al suo compagno essere stata la Casa del Ferro, una delle più grandi e famose armerie di tutta Esperya. Poi rimase catturata dai bassorilievi in avorio che decoravano il pozzo di un patio scoperto. Di tanto in tanto, un’ombra di turbamento le offuscava lo sguardo quando nei suoi occhi si rifletteva l’immagine delle ossa bianche e degli scheletri dei morti insepolti, distrutte, frantumate.
Nel momento in cui scorse il profilo imponente della biblioteca, Zefiro trasse un respiro di sollievo. Si affiancò a Melwen e, senza nessuna esitazione, la prese per mano. Vedendo l’espressione spaesata della bambina, un sorriso incerto gli arcuò le labbra.
- È solo per precauzione. Tu sei lenta a correre, se qualcosa ci attaccasse ti trascinerei via più velocemente. -
In risposta ricevette un’occhiata non molto convinta, ma alla fine optò per non dire nulla. Salirono i tre scalini che li separavano dall’entrata e, con una lieve spinta, Melwen aprì la porta. Fece un solo passo all’interno prima di bloccarsi, mentre il suo mormorio sorpreso, assieme al cigolio dei vecchi cardini, si perse nell’aria satura dell’odore di carta e inchiostro.
Davanti a loro si apriva un’ampia stanza poligonale, con alte scaffalature che si innalzavano verso l’alto, confondendosi nell’ombra del soffitto a cassettoni. Un antico lampadario sormontava il pavimento a mosaico, dove un tempo le tessere componevano le due asce di ferro e lo scudo di legno, simbolo e stemma della città di Alabastria. Il profilo dei tavoli, carichi di libri dalle copertine rilegate in cuoio e di pergamene arrotolate, si intravedeva appena e la luce della lanterna bastava giusto ad illuminare uno stretto cerchio attorno a loro.
- Accidenti… - Melwen si guardò intorno meravigliata, - Ti rendi conto del posto in cui ci troviamo? Delle conoscenze che sono nascoste qui dentro? -
Zefiro annuì distrattamente, troppo concentrato a perlustrare la zona in cerca di eventuali pericoli. Intravide alcuni mozziconi di cera a pochi passi da lui. Di certo non era una mossa saggia aggirarsi in quel luogo pieno di carta secca e facilmente infiammabile con delle candele.
“Dovremo accontentarci di quello che abbiamo.”
Seguì Melwen, che si era infilata in mezzo ai corridoi tra le scaffalature.
- Secondo te che ore sono? - le domandò a bassa voce.
- Non lo so e adesso non mi importa. - prese dei volumi e, dopo aver dato una rapida occhiata ai titoli, li impilò per terra, - Tu guarda se c’è qualcosa d’interessante qui in mezzo, magari qualcosa che possiamo portare su. -
- Tu… tu vuoi davvero portare via qualcosa da qui? Sul serio? -
- Mi sembra ovvio. - Melwen parve stupita.
- Ma… ma non sarebbe una specie di profanazion… -
- Ascolta, già per il fatto che siamo venuti qui è come se avessimo profanato questo luogo. Se ci fossero dei fantasmi o delle presenze, penso che si sarebbero già manifestate, no? -
- Potrebbe essere, non ho mai incontrato un fantasma. -
La bambina sbuffò spazientita: - Allora muoviamoci. -
Zefiro notò un tremolio nella sua voce, che gli fece intuire che quella spavalderia era solo una maschera: Melwen aveva molto più coraggio di lui, ma quel luogo la metteva molto più in soggezione di quanto volesse far vedere.
Con un sospiro, aprì il primo libro e cominciò a sfogliarlo. Era scritto in dwarwish antico e la maggior parte delle lettere erano state cancellate. Riuscì a dedurre che era una biografia di un qualche vecchio re solo perché trovò una cronologia in fondo, accompagnata da vari ritratti di un uomo basso e tozzo che veniva incoronato davanti a una folla di altri uomini bassi e tozzi.
Andò avanti così per un po’, con Melwen che continuava a mettergli libri in mano e lui che tentava di capire di cosa parlassero. La maggior parte erano scritti in lingue che non conosceva, idiomi così arcaici da costituire solo le radici fondamentali dell’elfico, del dwarwish e della lingua comune attuale. L’unica cosa che poteva fare era guardare le figure o i disegni per cercare di intuire quantomeno l’argomento di cui trattavano. Più volte tentò di far notare a Melwen che sarebbe stato meglio se fosse stata lei a controllare i volumi, ma la bambina era troppo assorbita dalla sua ricerca per dargli realmente retta. Così, Zefiro si rassegnò a proseguire quell’infruttuoso lavoro, anche se, in cuor suo, era contento di vedere la sua amica così piena di entusiasmo, di quell’allegria contagiosa e trascinante che aveva conosciuto a Luthien.
Durante tutta l’ora successiva si spostarono spesso, scivolando da un corridoio all’altro in completo silenzio. Controllavano ogni scaffale, scandagliando con attenzione tutti i volumi, dapprima quelli con le pagine decorate in foglia d’oro e la copertina istoriata con pietre dure e gemme preziose, in seguito si limitarono a quelli con il titolo scritto con le lettere allungate ed eleganti tipiche della lingua elfica.
Quando alla fine Melwen cominciò a guardare i tomi che ingombravano uno dei tavoli ancora in piedi, lo sguardo di Zefiro venne calamitato da un libricino che giaceva sotto la semisfera di un mappamondo rotto. Posò la pergamena che aveva in mano e lo raccolse da terra, sfogliandolo rapidamente fino a metà. Osservò il disegno di un castello di cristallo, dipinto sullo sfondo di un cielo terso solcato da un arcobaleno. Sotto di esso, spiccava il verde acceso di un giardino in fiore, dove fate e folletti vestiti con abiti colorati e sgargianti giocavano, rincorrendosi in un labirinto di siepi e rose.
“Ma che bello! Che sia un libro di favole?”
Con incredibile delicatezza, girò la pagina con la punta del dito. A fianco di un lungo paragrafo scritto con una calligrafia fitta e incomprensibile, trovò un altro disegno, stavolta di un salone in festa, dove gli stessi nobili che erano stati rappresentati prima ballavano sotto un luminoso soffitto a volta. I loro visi, tratteggiati con una minuzia quasi maniacale, mostravano delle espressioni felici, divertite. I due troni in fondo alla sala erano vuoti, così come lo sguardo dell’uomo che osservava le coppie ballare da una balconata in penombra.
- Che leggi? -
La voce di Melwen lo spaventò. Era arrivata da dietro senza che lui se ne accorgesse.
- N-niente, un semplice libro di favole. - col cuore che rischiava di scoppiargli nel petto, si girò e glielo porse, - Ho solo guardato due pagine, però, a giudicare da quello che ho visto, non credo si tratti di quello che stiamo cercando. -
- No, infatti, ma è interessante. - aprì il libro alla prima pagina e lesse il titolo, - Landiel’id Oberon an Titania… sì, questo è il libro che racconta la tragica storia d’amore del re e della regina delle fate. -
- Ah, sì, ho capito, quello dove… -
Non fece in tempo a finire la frase che tutta la struttura tremò e un paio di scaffali caddero a terra con un rumore assordante. Alcuni pezzi del soffitto precipitarono al suolo, sbriciolandosi all’impatto. Seguì un’altra scossa e un’altra ancora e piano piano l'ambiente intorno a loro cominciò a collassare su se stesso.
Senza pensarci due volte, Zefiro afferrò la lanterna e Melwen e si mise a correre verso l’uscita. Non sapeva cos’era accaduto, né chi o cosa avesse generato il terremoto, ma dovevano andarsene. Infilò la porta e saltò gli scalini che lo separavano dalla strada dissestata, per poi darsi lo slancio e gettarsi in una folle corsa verso l'uscita. La terra sotto i loro piedi continuava a tremare, così come i colonnati, le case, gli archi. In un istante tutto iniziò a cadere a pezzi.
- Melwen! -
Un pezzo della facciata di un palazzo per poco non li schiacciò. Melwen cacciò un urlo e Zefiro la strattonò con ancora più forza.
- Non ce la faccio! - gridò la bambina.
La sua voce era spezzata dal pianto, copiose lacrime ora le rigavano il viso. Zefiro strinse i denti e aumentò l’andatura, i muscoli dei polpacci tesi per lo sforzo, il fiato che gli bruciava in gola. Saltò un masso, ne evitò un altro, tirò via la sua compagna prima che il capitello di una colonna le crollasse addosso. Dovevano farcela, la piazza del mercato era poco più avanti, già riusciva a vedere il profilo della statua di Gurhavat in lontananza.
In quel momento, la facciata di un palazzo cedette e i detriti travolsero quello adiacente. Nell’aria polverosa, Zefiro distinse nitidamente quell’enorme massa di pietra, mattoni e legno che si piegava, chiudendosi lentamente sopra di loro. Un attimo dopo, una luce accecante lo avvolse.


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Capitolo 4
*** Fiducia ***


Fuoco 2

3

Fiducia

Una goccia cadde a poca distanza da lui. Poi un'altra e un'altra ancora. Quel suono ritmico, snervante, monotono, era l’unico che sentiva da giorni, se si escludevano i continui mormorii dei suoi carcerieri. Ledah sollevò appena la testa, cercando nella semioscurità in cui l’avevano confinato di individuare l’ubicazione precisa di quel ticchettio liquido. Tuttavia, perse la concentrazione quasi subito – gli capitava spesso, di recente – e si riaccasciò con un sospiro sulla fredda pietra. Ad un tratto, udì il cigolio stridente dei cardini di una porta, seguito da un ordine sussurrato a mezza voce. Poi ogni suono cessò e rimase solo quella specie di maledetto ticchettio.
Non avrebbe saputo dire da quanto tempo era rinchiuso in quella prigione, ma di sicuro tra poco lui sarebbe venuto a fargli visita. Veniva sempre, tutti i giorni alla stessa ora, a volte accompagnato da Lysandra, altre volte da solo, ma non mancava mai di fargli visita. Ledah si era domandato a più riprese perché lo facesse, perché non si limitava ad aspettare che passassero quelle cinque settimane. Alla fine era giunto alla conclusione che provasse un piacere perverso a vederlo in quello stato pietoso, prostrato sulle ginocchia piagate, la testa a penzoloni e le braccia sospese come in croce, senza più nessuna speranza se non la dolorosa consapevolezza che la sua fine sarebbe giunta presto. Sorrise e cercò di appoggiarsi al muro, ma le catene glielo impedirono. Le afferrò e le strattonò senza particolare enfasi, più per un riflesso incondizionato che la vera convinzione di potersi realmente liberare. Le rune incise sugli anelli, a quel debole atto di ribellione si illuminarono, stirando le sue braccia ancora più alto, mentre la magia si riversava su di lui come un’onda. Ledah digrignò i denti e ingoiò le lacrime che premevano da dietro le ciglia, di nuovo esausto, senza fiato.
- Dovresti aver capito che da qui non c’è via d’uscita. -
L’elfo non dovette nemmeno alzare la testa. Sapeva chi era, era l’unica altra voce che sentiva, oltre a quelle nella sua testa.
- Però ti ammiro, sai? Molti si sarebbero arresi, invece tu continui a lottare, anche se sai benissimo di non poter contrastare gli incantesimi di contenimento di Elladan, o Lysandra, come le piace farsi chiamare adesso. Sei davvero mio figlio, caparbio e arrogante. - si abbandonò ad una risata roca e sorrise orgoglioso.
- Non chiamarmi così. -
- E come dovrei chiamarti? Ledah il Distruttore? - sbuffò con scherno, - Nelle tue vene scorre anche il mio sangue. Per quanto tu possa negare i fatti, la realtà è questa. Accettala e basta. -
Avanzò a passi lenti fino al cerchio di rune e si fermò ad osservare i simboli disegnati col sangue che sfavillavano nell’oscurità. Ledah lo squadrò con fierezza dal centro della sua prigione, quella che sua madre aveva progettato apposta per non farlo fuggire. Dopo un lungo momento, l’uomo fece un gesto noncurante della mano e una fiamma si accese sul palmo. La luce improvvisa accecò l’elfo, che di riflesso nascose il viso contro la spalla. Per un lungo minuto rimase immobile, poi, quando le macchie davanti agli occhi cominciarono a svanire, incontrò di nuovo le iridi rosso brace del suo aguzzino.
La prima volta che era venuto a trovarlo, Ledah lo aveva fissato con sgomento. Aveva letto moltissime cose sul suo conto, ma non era preparato a vederlo sotto quelle sembianze: l’immagine di Aesir, il dio oscuro con il fisico e la possanza di un guerriero, si era sgretolata per lasciare il posto a un vecchio dall'aspetto fragile e avvizzito. Aveva riconosciuto le fattezze di un Drow nei lineamenti aggraziati del viso e nella pelle scura, anche se dell’originaria bellezza non era rimasta che un lieve accenno: la carnagione aveva assunto una malsana sfumatura violacea, mentre le unghie non erano altro che un moncherino annerito e scheggiato che lasciava scoperta la carne viva.
Come se avesse intuito i suoi pensieri, Aesir sogghignò e in un attimo attraversò il cerchio di rune come se non esistesse, la mano che reggeva il fuoco magico davanti a sé.
- Hai lo stesso spirito combattivo di tua madre. Ogni volta che ti guardo, mi pare di vedere lei. Scommetto che piuttosto che piegarti al mio volere, preferiresti farti spezzare. - gli sibilò in un orecchio.
Ledah rise, una risata rauca che gli graffiò la gola. Avvertì il sapore ferroso del sangue in bocca e, in seguito, un rivolo denso e viscoso gli colò sul mento Ormai faticava a parlare, persino mangiare e bere erano una tortura, a malapena riusciva a trangugiare quella poltiglia di avena e chissà cos’altro che gli portavano ogni giorno per mantenerlo in vita. Eppure, nonostante tutto, non si sarebbe mai dichiarato sconfitto.
- Ti diverti a vedermi ridotto così? - sputò per terra un grumo di sangue e saliva e tornò a sfidare il dio con la sola forza dello sguardo.
- Non più di tanto. Magari all’inizio sì, adesso mi urta quasi vedere il mio prossimo contenitore trattato come una bestia da circo. Sarebbe più semplice se accettassi questa situazione. Ti ricordo che potrei rigenerare il tuo corpo in pochissime ore, se solo mi lasciassi entrare. Non sei stanco, Ledah? Coraggio, accoglimi! Ti aiuterò, te lo prometto. Non sentirai più alcun dolore. - lo blandì pacato, proprio come avrebbe fatto un padre affettuoso con l'amato pargoletto.
Gli sollevò il mento e Ledah si tirò indietro all’istante. Le manette attorno ai polsi si strinsero e le catene gli torsero violentemente le braccia, mentre una scarica elettrica gli scuoteva tutto il corpo. Solo facendo appello a tutta la rabbia che provava riuscì a trattenere le lacrime. Faceva male e il dolore ogni volta gli mozzava il fiato, ma non si sarebbe mai arreso.
- Già, tu non mi tratteresti in questo modo, infatti. - rispose sarcastico quando tornò a respirare, - Cosa vuoi da me? - grugnì affaticato.
Aesir si alzò e cominciò a girargli attorno. Alla luce tenue delle rune e della fiamma il suo viso appariva ancora più scavato, spettrale come quello di un morto.
- Lysandra mi ha riferito una cosa e io ho pensato che potesse interessare anche te. -
La sua voce rimbombò tra le pareti di pietra, fredda e raschiante, un suono che a Ledah ricordò il ringhio di una belva feroce.
- Se vuoi dirmi che il re degli umani è morto e che Lysandra ha preso il comando di Sershet, non ti scomodare, le guardie non parlano d’altro. Per quanto i vostri non-morti siano sempre ligi al dovere, in questi ultimi giorni non fanno che discutere dei piani della loro regina. -
Il sorriso sul viso del vecchio si allargò: - Eh, già. Immaginavo che la notizia sarebbe giunta fino a qui. D’altronde, nel regno degli umani tutto ciò che succede a corte è motivo di pettegolezzo. Ma no, non era di questo che volevo parlarti. Di' un po', sai che fine ha fatto la Morte Bianca, il Generale Airis Lullabyon? -
Ledah si impietrì di colpo. Percepì il poco sangue rimasto defluire dal volto e l'angoscia stritolargli il cuore in una morsa d'acciaio. Un cattivo presentimento si fece strada nella sua coscienza, tanto da bloccargli il respiro in gola. In quei giorni di prigionia aveva pensato spesso ad Airis, alla promessa che si erano scambiati prima di dividersi a Luthien. Anche mentre era in viaggio verso la capitale, durante la notte si svegliava in preda ai tremori, con quel pensiero troppo doloroso conficcato in testa. Aveva faticato ad accantonarlo, ancora adesso tremava, eppure qualcosa doveva essere successo, lo sentiva.
- Vedi, un paio di giorni fa Lysandra ha mandato alcuni esploratori a cercare il corpo del Generale. Sai, alcune voci sostenevano di averla scorta per le strade di Luthien prima dell’attacco del drago e degli elfi. Oh, non fare quella faccia inorridita, Ledah! A qualcuno dovevamo pur dare la colpa di quello che è accaduto e quale capro espiatorio migliore se non gli eterni nemici degli umani? -
- Voi… -
- Noi cosa? Siamo dei mostri? No, siamo solo degli attimi attori, migliori della maggior parte delle pedine che si muovono sulla scacchiera. - replicò, continuando a girare in cerchio.
- Gli elfi non farebbero mai una cosa simile! - ruggì Ledah.
Intuì che Aesir era alle sue spalle, vicinissimo, quando avvertì il suo fiato gelido sulla nuca.
- Gli umani hanno tutt’altra opinione del tuo popolo. - bisbigliò il dio, fintamente dispiaciuto, - Hanno dimenticato le antiche alleanze, ciò che una volta rappresentavate l’un per l’altro. Nei loro cuori sopravvive soltanto il ricordo del male che avete compiuto, mentre le gesta eroiche giacciono sotto cumuli d’ossa e cenere. -
I suoi occhi divennero ancora più rossi. Si portò di fronte a Ledah in un lampo e incatenò i loro sguardi.
- È in memoria di tali pregiudizi che continuerà questa guerra fratricida. Llanowar è caduta, Luthien è stata distrutta e molte altre la seguiranno. Varestei e Alfeir, gli amati figli di Yggrasill, zittiscono il loro dolore versando altro sangue, perpetrando le atrocità per cui hanno pianto, e combattono per i loro morti senza rendersi conto che ormai sono succubi della loro natura assassina, della voluttà che l'atto di togliere una vita porta con sé. Ma c’è anche un altro sentimento che li consuma e alimenta la loro fame di morte. - gli mise le mani sulle spalle e lo fissò con un'intensità tanto forte che Ledah si sentì schiacciare, - Parlo della disperazione, quella lacerante sofferenza che deriva dall'aver perso qualcuno di caro. È nella disperazione più nera che la follia pianta le sue radici. È questo il segreto, figlio mio. -
L’elfo scosse il capo con veemenza, incurante del dolore che quel gesto gli provocò. Avrebbe voluto tapparsi le orecchie, urlare, fuggire, ma le catene glielo impedivano.
- Airis Lullabyon, il Cavaliere del Lupo, è morta. Hanno trovato il suo cadavere in un burrone, si è tolta la vita per sfuggire a un’imboscata dei tuoi amati fratelli. Felther ha riportato la sua spada a corte qualche giorno fa. - dichiarò Aesir senza altri indugi, godendosi l'espressione sbigottita e cerea di Ledah.
Quelle parole aleggiarono nell’aria, rimbalzarono sulle mura di pietra in un’eco impossibile da ignorare. La paura gli attorcigliò le viscere, il dolore lo trafisse nel petto alla stregua di una lama arroventata e l'incredulità gli chiuse la gola come un cappio. Le voci che a lungo lo avevano tormentato tornarono ad assalirgli le orecchie, sibili suadenti che nulla avevano di umano.
Morta. Airis è morta. Sei solo, ora.
- No... non è vero… non può essere... - rantolò.
- Puoi non credermi, ma sai che non ho alcun motivo per mentire. Vedi, per quanto ti ammiri, quando mi svestirò delle spoglie di questo mio servo, preferirei non dover intraprendere una lotta contro la tua anima per il controllo del mio nuovo corpo. Questi incantesimi, quelli che Lysandra ha inciso su queste catene, sono potenti, ma non abbastanza. - accarezzò uno degli anelli con la punta delle dita, le labbra distorte in un sorriso crudele, - So che provavi qualcosa per Airis, lo so per certo, è così chiaro che non è mai stato necessario entrare nella tua mente. Ma vedi, Ledah, l’amore è quanto di più effimero e stupido esista, persino mio padre lo sapeva. Eppure, quando è arrivato il momento di fare la scelta giusta, non è riuscito a rinchiudermi. Mi ha esiliato a camminare nelle Profondità, illudendosi che gli anni e i secoli passati nelle ombre avrebbero cancellato la rabbia che provavo per lui e i miei fratelli. Invece questa è maturata, è diventata disperazione, accecante e cupa disperazione, per poi tramutarsi in odio. -
- Stai zitto! -
- Sarebbe molto più semplice se accettassi la sua morte. L’amore non fa per noi, non ci appartiene. Il dolore e la disperazione che stai provando non hanno senso, non ne avranno mai. Prendi atto della realtà, figlio mio, ti prometto che diventerà tutto più facil… -
- Io non sono tuo figlio! - urlò, le unghie affondate nei palmi nelle mani, il verde muschio ormai bruciato da un rosso denso, ardente.
Strattonò le catene, tirandole con tutta la forza che aveva in corpo, incurante delle scariche elettriche che lo scuotevano fin nelle ossa. Alzò lo sguardo, incontrando il ghigno beffardo del dio, e si sentì sommergere da quell’oceano di voci assordanti, che ripetevano sempre la stessa cosa.
Airis è morta. Morta. Sei solo.
Si protese verso Aesir, allungò un braccio per afferrarlo, ma le catene lo tirarono violentemente indietro, sollevandolo da terra fino a quando non rimase solo la punta di un piede a contatto con la pietra. Si dimenò in preda alla furia nel vano tentativo di scappare, mentre Aesir lo guardava inespressivo. Infine rimase immobile, schiacciato dalla sofferenza, senza più forze e con solo la compagnia di quei sussurri nelle orecchie.
Il dio schioccò la lingua e sorrise: - Era questo che volevo vedere. -
Poi gli diede le spalle e uscì.

- Generale? Generale, vi sentite bene? -
La voce di Arghail interruppe il suo sonno leggero. Mentre apriva lentamente gli occhi, Airis percepì l’odore selvatico della pelliccia e la consistenza ruvida di una coperta di lana. Fece perno sui gomiti e, non senza fatica, si mise a sedere. La luce del sole filtrava attraverso il tessuto madido dell’umidità notturna in lame luminose, delineando l’ambiente spartano di una tenda. Vide i tizzoni anneriti nei bracieri e un supporto in ferro occupato da un pettorale e una cotta di maglia familiari.
“La mia armatura?”
- Generale. - la richiamò il soldato e Airis si accorse che la stava scrutando.
- Arghail. - esalò, prima di prendersi la testa tra le mani, - Dove siamo? -
- Nella mia tenda, nell’accampamento provvisorio. -
- In quanti ti hanno visto portarmi qui? -
- Solo i miei compagni che facevano la ronda ieri notte, ma per ora non hanno fatto molte domande. Credo stiano semplicemente aspettando una spiegazione che io, al momento, non posso dare. - intrecciò le dita sotto il mento e scosse la testa, - Stento a credere che siate viva. Perché vi stavate nascondendo nella foresta? -
Airis trasse un profondo respiro e incrociò lo sguardo di Arghail. Adesso che lo osservava da vicino, riconobbe i tratti dell’uomo che aveva incrociato nella Casa della Cenere. Stessi capelli biondo-rossicci, stessa mascella volitiva, stesse labbra sottili. Era come se avesse davanti la medesima persona con una decina d’anni in meno. Di sicuro avevano qualche legame di sangue, anche se dubitava fossero padre e figlio.
- È una storia un po’ complicata. - rispose con un sospiro, si spostò una ciocca e fece per aggiungere qualcosa, quando i suoi occhi catturarono un dettaglio che l’allarmò, - Mi… mi hai per caso svestita tu? -
Il soldato scoppiò a ridere di gusto, ma davanti all’espressione minacciosa Cavaliere del Lupo si ricompose subito.
- No, non mi sarei mai permesso. Ho chiesto a una mia compagna di occuparsi di voi, la tunica che avete addosso è la sua. Io ero impegnato a convincere Ferul e Garth a non parlare con nessuno di quello che avevano visto. -
Airis lo scrutò in cerca di una ruga, qualsiasi segno che le comunicasse se le stesse mentendo, ma le parve sincero, quasi quanto la smorfia risentita che gli storceva le labbra.
- Mi credete davvero un uomo capace di approfittare di una donna svenuta? - strinse i pugni e scosse la testa, - Ho fatto un giuramento, Generale, io non… -
- Lo so. Ma la guerra cambia le persone e toglie sacralità ai giuramenti. - si alzò e poggiò la mano sul petto, all’altezza del cuore, - Ti sono grata per avermi salvato e anche per aver mantenuto celata la mia identità ai tuoi compagni, eppure non posso dire di fidarmi di te. -
Arghail sospirò e annuì comprensivo.
- Chi devo ringraziare per avermi dato degli abiti puliti? - domandò, sfiorando un lembo della semplice tunica in lana azzurra.
- La incontrerete oggi. Si chiama Hallende, è la cerusica. Dovrebbe passare a controllare le vostre condizioni a momenti. -
Il fruscio della tenda che si apriva richiamò la loro attenzione. Entrò una donna con l’estremità della sopravveste blu raccolta sul braccio destro, la tunica dorata le accarezzava la punta dei piedi ad ogni passo, stretta in vita da una fusciacca purpurea. Non appena la vide, Arghail si affrettò ad alzarsi per lasciarle posto. Lei si sedette e nel farlo i pendagli d’argento che le agghindavano le trecce emisero un leggero tintinnio.
- Come vi sentite stamattina, Generale? Vedo che vi siete ripresa e che la tunica vi calza a meraviglia. - le si rivolse con un sorriso gentile.
Airis notò gli occhi leggermente a mandorla e l’incarnato scuro del volto, tratti tipici dei Chàyl, il popolo che viveva nei deserti dell’Oquea del sud.
Inspirò profondamente e spostò le ciocche ribelli dietro la testa: - Mi sento meglio, sì. Grazie per avermi dato qualcosa di pulito. -
- Non merito nessun ringraziamento per aver svolto il mio dovere. Piuttosto, sono molto sorpresa di vedervi… viva. - scambiò un’occhiata veloce con Arghail, - Il Cavaliere del Drago ha riportato la vostra spada alla capitale e meno di una settimana fa si sono svolti i funerali vostri e di Ignus. Pensavamo tutti foste morta durante l’esplosione di Llanowar. -
- No, sono riuscita a salvarmi, anche se per pura fortuna. - si passò una mano sul viso, riportando alla mente gli eventi accaduti dopo che quella luce accecante aveva distrutto tutto.
Il viso di Ledah riemerse con prepotenza dalla sua memoria, assieme a tutti i momenti che avevano condiviso e alla promessa che si erano fatti prima che lei fuggisse con i cittadini sopravvissuti.
- A parte me, qualcun altro è scampato all'esplosione? - domandò speranzosa.
Hallende scosse la testa: - No, nessuno, a quanto sembra. Soltanto Felther è tornato vivo da Llanowar. -
- E al campo? -
- Ho mandato i miei uomini in perlustrazione mezz’ora fa. - intervenne Arghail, le labbra atteggiate in una smorfia amara che già lasciava presagire cosa avrebbe aggiunto, - Ma dubito che troveranno qualcuno di vivo. -
Airis annuì. Erano davvero tutti morti. Contrasse la mascella e si morse le labbra, abbassando lo sguardo sulle mani strette a pugno. Sussultò quando percepì una presenza al suo fianco. Le dita di Hallende si chiusero sulle sue, delicate e premurose.
- Non oso immaginare quanto abbiate patito in questi mesi. Persino per un Generale navigato come voi dev’essere stato orribile. Se posso fare qualcosa… -
- No, è solo... doloroso. - scrollò la testa e si scostò, - Ma immagino che non siate venuti qui per consolarmi. -
Hallende e Arghail non risposero. Ancora una volta i loro sguardi si cercarono e Airis colse nei loro occhi la domanda che non avevano ancora avuto il coraggio di porle.
- Volete sapere cosa so di Luthien, giusto? - li prevenne.
- Sì, se possibile. Abbiamo visto l’esplosione da porto Eamone e ci siamo subito diretti qui. Abbiamo marciato più in fretta che potevamo, ma non siamo arrivati in tempo. - disse il soldato con un fil di voce, gli occhi viola pieni di dolore, - Sono stati gli elfi ad attaccarvi? -
Airis spostò la sua attenzione su un braciere all’angolo della tenda, sfuggendo lo sguardo di Arghail, che interpretò quel gesto come un’esitazione dettata dalla sofferenza di ricordare quello che era accaduto. Si avvicinò e prese posto sulla sedia di fronte a lei con un impeto tale che per poco questa non cadde. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma un’occhiata ammonitrice da parte di Hallende fu più che sufficiente a fargli capire che non era il caso d’insistere, o così Airis si augurò, perché non avrebbe saputo come rispondere. La soluzione più logica sarebbe stata rivelare che erano gli elfi i colpevoli di quel massacro, ma la verità era un'altra.
- Purtroppo non vi posso aiutare. Ho vagato a lungo per la foresta di Llanowar, e quando finalmente sono riuscita a uscirne era già tutto distrutto. Anche quando sono arrivata al campo, la notte scorsa, non ho trovato altro che cadaveri. -
Al pensiero di aver depredato quei corpi insepolti, la vergogna le incendiò le guance. Percepì il calore della mano di Hallende a un pollice dalla guancia, ma si ritrasse in fretta.
- C’è altro che dovete chiedermi? -
- Sì. - rispose Arghail dopo un breve silenzio, sembrava quasi cercare le parole adatte per continuare, - Hallende, puoi lasciarci soli? -
La donna esitò, ma poi, vedendo che il soldato non sembrava intenzionato a cambiare il suo ordine, si alzò, fece un rapido inchino e uscì fuori dalla tenda.
Rimasti soli, Arghail si concesse ancora del tempo. Fissava Airis con un’espressione che non lasciava trapelare nulla, lo sguardo perso in chissà quali riflessioni. Quando finalmente parlò, aveva un tono gentile ma fermo.
- Perché quando mi sono annunciato vi siete nascosta? -
La guerriera si irrigidì, presa in contropiede.
- Dovresti sapere che sono cieca, soldato, non potevo vedere lo stemma sul tuo pettorale. Erano settimane che non incontravo anima viva, non potevo di certo immaginarmi di essermi davvero imbattuta in un mio alleato. - spiegò nervosa.
- In altre circostanze, Generale, vi crederei, tuttavia non sembrava che vi mancasse la vista, anzi, correvate come se sapeste con chiarezza quali ostacoli avevate davanti. Tutti eravamo convinti che usaste qualche artificio magico per combattere, ma quando Hallende vi ha spogliata non vi ha trovato niente addosso, né tatuaggi, né artefatti, né strane gemme. Inoltre… - le indicò gli zigomi, - non avete più le cicatrici attorno agli occhi, quelle che si dice vi siate procurata quando vi è stata tolta la vista. -
Airis non seppe come ribattere. Pensò rapidamente a una scusa che potesse giustificare quell’improvvisa guarigione, ma non le venne in mente nulla di convincente.
Davanti al suo silenzio, Arghail incalzò: - Ascoltate, qualsiasi cosa vi sia accaduta, qualsiasi cosa abbiate fatto per sopravvivere io non vi giudicherò. Il vostro esercito è stato spazzato via da un’esplosione, avete vagato per più di un mese in una foresta distrutta e poi rivissuto lo stesso incubo quando siete passata da Luthien. Per quanto sangue e devastazione abbiate visto, alla morte non ci si abitua mai. Vi prometto che quello che mi direte rimarrà tra me e voi. -
- Mi stai chiedendo di fidarmi di te? -
- So che è difficile e non posso pretendere che mi riveliate tutto, però voglio che sappiate che vi ammiro, Generale. Non avete niente di cui vergognarvi, non con me. -
Quella parola aveva un suono meraviglioso: fiducia. La guerriera se la ripeté ancora e ancora, assaporandola nella mente. Guarda caso l’ultima persona su cui aveva fatto affidamento era la stessa che adesso avrebbe dovuto salvare. Con Ledah però era stato diverso, era stata un’alleanza dettata dal bisogno di sopravvivenza, che in seguito si era evoluta in qualcosa di più, qualcosa che ancora non riusciva a capire. E ora qualcuno la pregava di buttarsi di nuovo, così come aveva fatto la prima volta che aveva incontrato Cyril.
Incrociò gli occhi con quelli di Arghail e lo studiò in silenzio per capire cosa gli passasse per la testa. Lui sostenne il suo sguardo senza avvicinarsi, senza muovere un muscolo.
- Non posso rivelarti quello che è successo, non ora. Quello che so è troppo importante e non posso permettermi errori. - allungò la mano e gliela posò sulla spalla, - Per favore, non farmi ulteriori domande e mantieni il segreto sulla mia identità. È importante che nessuno sappia che sono ancora viva. Quando arriverà il momento, quando sarò certa che potrò fidarmi di te, prometto di spiegarti ogni cosa. -
- Me lo state chiedendo? -
- No, soldato. È un ordine. -
Arghail annuì e abbozzò un sorriso: - Mi sembra un buon inizio. -
- Diciamo di sì, ne ho avuti di peggiori. -
- Allora spero che un giorno me li racconterete. Bene, è giunto il momento di andare. Riferirò ad Hallende di non parlare con nessuno di quello che sa. - disse alzandosi in piedi.
- E ai tuoi compagni? Cosa dirai? E all’ufficiale superiore? -
- Ai miei compagni dirò che ieri notte ho trovato una sopravvissuta e che la nostra cerusica ha rinvenuto i sintomi della febbre rossa. Nessuno oserà avvicinarsi. Per quel che riguarda la seconda domanda… - il sorriso sulle sue labbra si allargò, - Sappiate che siete al cospetto del capitano della guarnigione, ho una certa influenza. -
Ammiccò gentile, poi spostò il lembo della tenda e la lasciò sola. Airis tornò a stendersi sulla brandina e si tirò la coperta fino al petto. Era tornata in vita in un corpo che non era il suo, senza niente, disarmata e con una missione impossibile da portare a termine. Realizzò con amarezza che l’unica cosa che ora poteva fare era sperare di aver riposto bene la sua fiducia, che quell’atto di fede non le si sarebbe rivoltato contro.
“Meno di sei settimane all’eclissi, prima che Lysandra compia il rito e che Ledah diventi Aesir.”
Si toccò la bocca con una mano. Le labbra erano fredde e il gelo era sceso anche sul cuore. Sarebbe riuscita ad abituarsi in tempo?
La luce del sole calante indorava la tenda e l’orchestra della foresta si preparava ad accogliere la notte, ma Airis non poté cedere alle lusinghe del sonno, il pensiero che volava a Ledah e alle parole che non le aveva mai detto.

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Capitolo 5
*** Il Segreto tra le Pagine ***


Fuoco 2

4

Il Segreto tra le Pagine

Fin da piccolo, Zefiro era sempre stato un bambino tranquillo. Non amava andare in giro per Amount-vinya a combinare guai come la maggior parte dei suoi coetanei, ma passava la maggior parte del suo tempo a camminare per i boschi o sulle mura della città, osservando curioso e meravigliato il lavoro svolto dalle guardie. All’inizio sua madre non era stata molto d’accordo che rimanesse per ore lontano da casa. Se le mura di Amount-vinya erano molto vicine e sicure, girare nei prati e nella boscaglia attorno alla città costituiva invece un motivo di preoccupazione. Erano dovuti trascorrere circa sei mesi perché Mirya si abituasse all’idea e smettesse di lanciargli quelle occhiate di rimprovero che Zefiro odiava. Con l’aiuto di Alan, la donna si era rasserenata e, anzi, dopo un po’ di tempo aveva preso a fare delle domande al figlio, su cosa avesse visto nel bosco, su che strada avesse preso per arrivare alla collinetta delle rose o se avesse incontrato qualcun altro durante le sue passeggiate.
Conscio di quanto fosse costato alla madre concedergli quella libertà, Zefiro aveva fatto di tutto per non farla mai preoccupare: cercava di non sparire per lungo tempo e, per quanto possibile, si sforzava di tenerla sempre informata su dove fosse, magari scambiando due parole con quella chiacchierona della pescivendola o passando a prendere una focaccina dal panettiere in piazza.
Tuttavia, un giorno si inoltrò un po’ troppo nel bosco e tornò a casa ben oltre l’orario di cena. Fu in quell’occasione che vide per la prima volta sua madre arrabbiata. Le guardie e i vicini l’avevano fissato con rimprovero mentre camminava a testa bassa verso di lei, che, da quando lo aveva visto entrare, non aveva mai distolto lo sguardo dal suo, gli occhi arrossati pieni di lacrime e le labbra storte in una smorfia che lo spaventò. Lo schiaffo che gli diede non fu forte, ma bastò quel gesto e la sua espressione delusa a farlo scappare in camera prima di scoppiare in lacrime. Pianse per ore, con la faccia affondata nel cuscino, le dita che artigliavano la federa bagnata e il senso di colpa che gli serrava lo stomaco in una stretta così dolorosa da togliergli il fiato. Quando finalmente Myria era venuta da lui, era già notte fonda e il sonno era già sopraggiunto da molto. Probabilmente era stato il cigolio della porta a riscuoterlo, o forse era solo un’impressione dettata dalla stanchezza ad avergli donato una percezione distorta della realtà. Così Zefiro era rimasto immobile mentre sua madre, seduta sulla sedia accanto al letto, cominciava ad accarezzargli la testa e a dirgli quanto gli voleva bene. L’aveva ripetuto a lungo con la voce resa tremante dai singhiozzi, un sussurro pieno d’amore che lo aveva cullato, accompagnandolo nel torpore del sonno. Il giorno dopo, nessuno dei due aveva fatto menzione di quello che era accaduto. Si erano limitati ad abbracciarsi un po’ più del solito, a godersi l’uno la presenza dell’altra. Poi Zefiro si era staccato ed era corso fuori, dirigendosi verso le mura cittadine, nella mano sinistra il sacchetto con un panino al latte e nel cuore la promessa che non sarebbe mai più stato la causa delle lacrime di sua madre.
Aveva otto anni all'epoca, quando aveva giurato che non l’avrebbe più fatta soffrire. Eppure, in quel momento, sentiva come se il tempo non fosse mai passato. Myria spostava lo sguardo gelido da lui a Melwen. Nordri e Baldur si erano tenuti in disparte, ma la disapprovazione era dipinta chiaramente sui loro volti. Nyi, il mago che li aveva salvati, era appoggiato al muro con il cappuccio ben calcato sul volto.
Era stata la questione di un istante: un momento prima si trovavano nell'antica Alabastria e una casa stava crollando loro addosso, poi una luce accecante li aveva avvolti ed erano riapparsi lì, nella camera di Nordri. Sua madre era corsa loro incontro e, scossa dai singhiozzi, li aveva abbracciati fortissimo. Zefiro aveva sperato che non sarebbe accaduto nulla, che forse avrebbero avuto tempo e modo di inventarsi una scusa sul perché si fossero addentrati in quei vecchi ruderi, però Myria si era alzata e si era allontanata troncando ogi tentativo di spiegazione. Allora Zefiro aveva capito che stavolta l’aveva combinata davvero grossa.
L’unico che pareva distaccato era Nyi, assorto nella lettura di un libro dalla copertina consunta, uno dei tanti che costituivano la libreria personale di Nordri.
- Come avete fatto a entrare nella parte vecchia della città? - li interrogò Mirya severa, come la linea dritta ed esangue in cui aveva serrato le labbra.
Zefiro fremette e Melwen gli strinse la mano, trasmettendogli coraggio e sostegno. Eppure, nonostante l'amica fosse accanto a lui, Zefiro avvertiva un grande peso sulle spalle, un senso di colpa schiacciante che smembrava le parole prima che riuscisse ad articolarle. Chinò la testa, improvvisamente interessato alle venature del pavimento di legno, e si sforzò di spiegare.
- Abbiamo… abbiamo usato la magia. - balbettò.
- E come facevate a sapere dove si trovasse l’ingresso ovest? Solo le guardie e pochi altri conoscono quell’entrata. - intervenne Baldur.
- L'ho vista in uno dei libri di Nordri. - la voce di Melwen tremava, così come le sue ginocchia, - Non è stata colpa di Zefiro, è stata tutta una mia idea. Mi annoiavo e ho letto che c’era questa immensa biblioteca nella città sotterranea e così ho pensato che sarebbe stato divertente… -
- Divertente?! Ma vi rendete conto che stavate per morire! - sbottò il nano.
Avanzò verso di loro, la sua figura bassa e tozza che si stagliava contro la luce facendolo sembrare più alto, più imponente, tant’è che persino Myria rimase impietrita.
- Baldur, per favore… -
- Myria, non dirmi di tacere. Non possono passarla liscia, devono comprendere la gravita di ciò che hanno fatto. - dichiarò duro e si avvicinò a loro così tanto, che Zefiro poté sentire il suo respiro sul collo.
- Cosa vi è passato per la testa? Lo sapevate che era proibito scendere là sotto perché era pericoloso. Maledizione! Se non fosse stato per Nyi, a quest’ora non avremmo nemmeno dei corpi da seppellire. -
- Sì, lo so, ma… -
Baldur sbatté il pugno sul tavolo e la bambina sussultò spaventata.
- Hai parlato abbastanza. - ringhiò, gli occhi ridotti a due strette fessure.
Alternò lo sguardo da lei a Zefiro, la mascella contratta sotto la barba rossiccia, poi lanciò un'occhiata di fuoco a Nordri.
- Nordri, mi sai dire per quale maledetto motivo Bryonia non era lì di guardia? - indagò.
Il padrone di casa sospirò e si versò un altro bicchiere di idromele. Le rughe, che sprofondavano nella pelle assieme alla cicatrice orizzontale che gli sfregiava il viso dalla guancia all’orecchio, accentuavano ulteriormente l’espressione cupa. Rimase in silenzio per un tempo che a Zefiro parve un’eternità, gli occhi socchiusi persi in chissà quali pensieri.
- L’ho trovata sbronza assieme a Sinar e Mali nella locanda di Keli in piazza Spada. - riferì in tono dimesso.
Osservò il riflesso dorato dell’alcolico in controluce. Era già il quarto che beveva, ma sulle sue guance non c’era nemmeno l’ombra del rossore dell’ubriachezza.
 - Lo so che non sarebbe dovuto accadere, ma mi sembra che tu stia esagerando, Baldur. I bambini stanno bene e hanno imparato la lezione, rimproverarli ulteriormente non cambierà le cose. -
- Esatto, hanno capito la lezione. - Myria corse da Melwen e Zefiro e li strinse entrambi a sé.
- Siete troppo indulgenti. - borbottò il nano, scuotendo il capo.
La donna si frappose tra lui e i bambini, l’espressione battagliera sul viso che faceva a pugni con gli occhi arrossati e i capelli scarmigliati, sfuggiti dalla presa della treccia e delle forcine. Percependo la sua mano che gli accarezzava la schiena, Zefiro si sentì al sicuro, protetto.
Dopo un lungo momento in cui tutti trattennero il respiro, Baldur si arrese, ma solo quando andò a sedersi al tavolo il bambino osò tirare un sospiro di sollievo. Sapeva che il nano non avrebbe mai fatto del male a nessuno di loro, però non poteva negare di aver avuto paura quando in fondo alle pupille aveva scorto una luminescenza fredda, furiosa, una rabbia a stento trattenuta.
Quando la madre gli rivolse un incerto sorriso rassicurante, rimase fermo, finché non la vide allontanarsi per prendere posto al tavolo, la mano ancora stretta attorno a quella di Melwen, che non accennava ad alzare la testa. L'amica tremava e, anche se non riusciva a scorgere il viso dietro quella matassa di riccioli, Zefiro sapeva che si stava sforzando per non lasciare campo libero alle lacrime.
In quel silenzio interrotto solo dai sussurri sommessi delle cameriere che preparavano il pranzo, il bambino non sapeva cosa fare per consolare Melwen, per farle capire che non era colpa sua, perché lui le era andato dietro.
- Zefiro, Melwen, venite qui. -
L'esortazione pacata di Nordri li riscosse. Zefiro tirò il braccio dell’amica e la condusse fino al tavolo di noce dove avevano preso posto tutti a parte Nyi, che era rimasto appoggiato al muro durante tutta la discussione. Il cappuccio del mantello gli copriva il volto, ma il bambino poteva percepire il suo sguardo sulla pelle, anche se qualcosa gli diceva che non era davvero lui l’oggetto delle sue attenzioni. Istintivamente, rinserrò la stretta attorno alla mano di Melwen.
- Signori, vorrei presentarvi una persona. - cominciò il padrone di casa, ma venne subito interrotto da Baldur.
- Niente formalismi, abbiamo perso già abbastanza tempo. - brontolò, evidentemente infastidito dal tono quasi reverenziale usato da Nordri, - Chiediamo quel che dobbiamo chiedere a questo Lancia-incantesimi e risolviamo la questione. -
- Elltida travlet, dwarv. - sorrise Nyi, chiudendo il libro che stava leggendo e riponendolo sullo scaffale.
La sua voce aveva un timbro baritonale, profondo, che mal si sposava alla bassa statura e alle spalle strette che si intravedevano da sotto il mantello.
A quelle parole, il nano gli rivolse uno sguardo di fuoco: - Non ti rivolgere a me chiamandomi in quel modo, gnometto. -
- Non serve scaldarsi, non sono qui per litigare. - replicò tranquillo Nyi, - E comunque non è di certo con te che desidero parlare. -
Si fece avanti senza nessuna esitazione, fece il giro del tavolo e si inchinò in modo quasi aristocratico di fronte a Melwen.
- Sei davvero la figlia di Copernico. - la fissò intensamente, la tristezza che traspariva dalle sue parole, - Mi dispiace moltissimo per quello che è accaduto alla tua famiglia, non oso immaginare quanto debba essere stato difficile per te. -
Al sentir pronunciare il nome del padre la bambina si irrigidì, ma Nyi parve non accorgersene.
- Lo conoscevo molto bene: durante il periodo in cui abbiamo frequentato l’accademia siamo stati molto amici, poi però abbiamo preso strade diverse e non ci siamo più incontrati. - proseguì e con delicatezza le poggiò la mano sulla spalla, - Mi dispiace davvero che abbia fatto quella fine. Io… -
- N-non è carino parlare a qualcuno nascondendo la faccia. - lo interruppe Zefiro, - Insomma… non è molto cortese da parte vostra, ecco. -
Una smorfia di disappunto increspò le labbra del mago. Solo allora Zefiro si accorse che una fitta peluria bionda e riccia gli copriva il dorso e le dita dei piedi.
- Avete ragione, chiedo venia per la mia maleducazione. - si allontanò e schioccò le dita.
Il mantello si aprì e volteggiò in aria, piegandosi in modo impeccabile sullo schienale dell’unica sedia rimasta vuota. Ma non fu quella piccola magia a catalizzare l’attenzione dei due bambini. L'essere che si trovarono davanti era in tutto e per tutto simile a un umano, eccetto che per le orecchie a punta. A Zefiro ricordarono lontanamente quelle degli elfi. Era alto quasi quanto loro, forse qualche pollice di meno, con la pelle di un ricco color cannella e i capelli biondi che incorniciavano un viso spigoloso e punteggiato da una leggera barba che gli indorava le guance e il mento. Nonostante la sobria tunica nera e i monili d’argento al collo e alle mani, i suoi occhi incutevano soggezione e un timore reverenziale. Zefiro dovette reprimere l’istinto di allontanarsi. Sebbene lo sguardo del mago non fosse diretto su di lui, si sentiva comunque profondamente a disagio, a differenza di Melwen, che invece lo fissava affascinata.
- A viso scoperto, il vostro cavalier servente si sente più tranquillo? - lo sbeffeggiò apertamente.
- Nyi, non prenderlo in giro. Non è stata una giornata facile per loro. - lo ammonì Nordri, scatenando l’ilarità del mago.
- Non lo stavo prendendo in giro, anzi, chiedevo il suo permesso. Sia mai che tenti di assalirmi con la sua spada di legno.  - si passò una mano sulle labbra piene e lanciò un ultimo sguardo divertito a Zefiro, per poi posare nuovamente lo sguardo su Melwen, - Sappi che mi dispiace davvero per quello che è accaduto. Se posso fare qualcosa per te, io… -
La bambina scosse la testa: - No, non… non ora. Piuttosto, perché Baldur è venuto a cercarvi? -
- Diciamo che c’è una cosa che desidera sapere e io sono l’unico che gliela può rivelare. -
All'improvviso la porta si aprì e Magda, capo della servitù, entrò assieme ad altre due ragazze. In completo silenzio, senza fare quasi rumore, scivolarono verso il tavolo e vi posero un vassoio di dolcetti allo zenzero e cinque pinte di birra scura. Dopo un rapido inchino al padrone di casa, si dileguarono chiudendo la porta alle loro spalle.
Baldur si servì subito, seguito da Nordri, mentre Myria prese un dolcetto alle mandorle caramellate. Osservandola di sottecchi, Zefiro si rese conto che le spalle le tremavano ancora, anche se l’espressione arrabbiata aveva definitivamente abbandonato il suo viso. Quando i loro sguardi si incrociarono, l’ombra di un sorriso le sfiorò le labbra e la mano si strinse forte attorno alla sua, come per infondergli forza.
A quel punto, Nyi riprese il discorso: - Sono l’unico a poter dire a questi gentili signori in che stato è la tua magia, fino a che livello si è sviluppata e quanto ancora potrà crescere. -
- Cosa? Riuscireste a capirlo? - Melwen lo squadrò sorpresa, - Mio padre mi aveva detto che c’era un modo, ma ha anche aggiunto che… -
- Che bisogna che l'esaminatore conosca a fondo il paziente. - completò il mago, - Sì, di solito è così, ma ci sono alcune persone, come il sottoscritto, che non si fanno fermare da certe piccolezze. -
- Vedi, Melwen, Nyi è un mago estremamente potente, un cosiddetto Dominatore, capace di manipolare l’energia elementale a proprio piacimento. Se si avvalesse della magia del sangue, potrebbe captare la tua traccia magica per capire cosa sei. - le disse Nordri.
Notando l’espressione sconcertata sul viso della ragazzina e lo sguardo truce che Baldur gli aveva rivolto, il mago si affrettò a spiegare: - Non è niente di proibito, è solo il nome che è di pessimo gusto. Semplicemente, sfrutterò la componente liquida presente nel tuo sangue per mappare le vene, le arterie e i capillari. È la base del potere di un qualsiasi Dominatore avvalersi della componente elementale dell’universo per lanciare incantesimi. -
- La componente elementale? Cioè? - si intromise Myria, curiosa e intimorita.
- È un concetto un po’ complicato da spiegare a chi è estraneo al mondo della magia. Vi basti sapere che esistono due categorie di maghi: quelli come me traggono forza dagli elementi, mentre gli Arcanes si sincronizzano con l’energia intrinseca del mondo. -
- Mio padre era come voi? - domandò titubante Melwen.
- No, tuo padre era un Arcanes. Uno dei più potenti che abbia mai avuto la fortuna di conoscere. - Nyi strinse le labbra e serrò le palpebre per ricacciare indietro le lacrime, - In ogni caso, non sarà niente di invasivo, se è questo che ti preoccupava. -
La bambina assentì, ma il nervosismo non accennava ad abbandonarla. Continuava a spostare lo sguardo dal mago e Nordri, da Nordri a Nyi, a volte con qualche deviazione in direzione della porta. Era spaventata, confusa e, anche se non poteva scorgere l’espressione sul suo viso, Zefiro riusciva percepire la tensione attraverso i suoi palmi sudati.
- Sarà un processo doloroso? -  s'interessò, anticipando la compagna.
- Dipende. - un dolcetto si adagiò tra le mani del mago, che l’addentò, - Il mio potere di Dominatore si affida alla magia elementale. Fuoco, acqua, terra e aria sono le componenti essenziali di tutti gli incantesimi, siano essi appartenenti alla cosiddetta scuola bianca o scuola nera. Si potrebbe dire che la mia è una magia molto più primordiale e grezza rispetto a quella di tuo padre. che al contrario era un mago nel senso più classico del termine, nonché grande sostenitore della teoria secondo cui… -
- Arriva al dunque, Lancia-incatesimi, non ti abbiamo invitato qui per una dissertazione accademica. - lo interruppe Baldur con un tono che a malapena celava l’irritazione.
In risposta, Nyi levò gli occhi al cielo con un sospiro esasperato e Zefiro dovette fare un grande sforzo di volontà per trattenere una risata. Quel mezzo uomo non gli piaceva e vederlo incassare in quel modo gli procurava una certa soddisfazione.
- Come stavo tentando di spiegare, - lanciò un’occhiata truce al nano, - c’è una teoria secondo cui l’energia elementale sta alla base di tutto l’universo, è la forza generatrice di ogni singola forma di vita esistente, dalle più semplici alle più complesse. Col trascorrere dei secoli e dei millenni, le tracce di questa magia sono diventate sempre più rare, a parte in alcune razze che invece le mantengono vive con il continuo esercizio. Ora, Copernico era un mezzosangue, quindi è più che lecito pensare che tu abbia ereditato la sua stessa forza. Se così fosse, sarei molto felice di prenderti sotto la mia ala per allenarti. - terminò, scrutando Melwen con un sorriso gentile.
Zefiro sussultò.
“Allenarla? Significa che la porterà via e che non ci rivedremo mai più?”
La paura gli artigliò le viscere e divenne un dolore quasi fisico quando vide lo sguardo della sua amica completamente rapito, affascinato dalle parole di Nyi.
- Dovrò lasciare Albastria? - mormorò la bambina.
- Lo so che non è facile, ma è la cosa migliore. -
- Esatto. - confermò Nordri, sorseggiando la sua birra, - Dopo l’attacco a Luthien da parte di quel drago, non penso che tu sia al sicuro qui. -
- Le mura di Alabastria non sono mai crollate, non c’è posto più sicuro di questo. - replicò accorato Zefiro.
Tutti si girarono a guardarlo, compresa Melwen, ma lui non vi badò. Non sapeva dove avesse trovato tutta quella sicurezza, ma si augurò che non si esaurisse troppo in fretta. Quando incontrò lo sguardo penetrante del mago, il suo cuore perse un battito. Tuttavia, prima che potesse fermarsi, le parole gli scapparono di bocca.
- Avete detto che la porterete con voi, ma non pensate che correrebbe troppi rischi girando per Esperya? Soprattutto ora che la guerra si è inasprita, nessun luogo è più sicuro della fortezza nanica del nord. Inoltre, dopo tutto quello che le è accaduto, non penso sia una buona idea portarla via. -
- Anche io la penso come mio figlio. - approvò Myria, - Sapevo che tradizionalmente i maghi adottano fanciulli e fanciulle giovani per iniziarli alla magia, però questo mi pare esagerato. -
- È l’unica soluzione che abbiamo, soprattutto dopo gli eventi dell’ultimo mese. - ribatté Baldur, con una voce che non lasciava spazio a repliche di alcun genere.
Myria si chetò e intrecciò le mani in grembo, combattuta.
Calò un silenzio saturo di tensione. Le occhiate eloquenti dei tre adulti continuarono quel dialogo muto da cui i due bambini erano esclusi. Per un lungo minuto nessuno disse più niente, poi quando la donna trasse un profondo respiro e piegò le labbra in una smorfia amara, Zefiro capì che la decisione era già stata presa.
- È la scelta migliore, Melwen. - esordì Nordri, - Nyi è un ottimo mago e, da quello che mi ha detto, anche se non avessi le qualità che cerca, sarebbe disposto a prenderti con sé per portarti da un suo amico a Sershet, dove potrai imparare un lavoro. -
- E se invece mi dimostrassi valida? - domandò.
- In quel caso, diventeresti la mia apprendista. Ti insegnerei a padroneggiare il tuo potere se fosse simile al mio, oppure ti affiderei alle gentili cure dell’accademia di magia della capitale. - rispose Nyi, - Se mi permetterai di controllare, ricercherò attraverso la magia del sangue quelle tracce e vedrò quanto grande è il tuo potenziale. Potranno farlo i tuoi futuri insegnanti, ma preferisco occuparmene di persona, giusto per avere la sicurezza di non perdermi un possibile allievo. -
- Ma non è giusto! - protestò Zefiro, - Non potete obbligarla ad andarsene, lei… -
L’improvvisa stretta di mano della sua amica lo mise a tacere e, quando si girò a guardarla, si accorse che sorrideva, un sorriso accondiscendente che fu come una coltellata al petto.
- Non ti preoccupare, hanno ragione. Loro sono adulti, sanno quello che è meglio per noi. - lo rincuorò.
- Ma… -
- Zefiro, basta. - lo gelò.
Senza aggiungere altro, scese dalla sedia e si avvicinò a Nyi: - Puoi già controllare? -
Il mago annuì.
- Sarà una cosa veloce? -
- Sì, questo sì. - le posò le mani sulle spalle, - Ora chiudi gli occhi e rilassati. -
La bambina obbedì. Per i dieci minuti a seguire nessuno parlò, tutti concentrati su di loro. Zefiro rimase buono, anche se avrebbe davvero voluto rintanarsi in camera a piangere. Si sentiva messo da parte, ferito dal comportamento della sua amica e tradito dal silenzio della madre. Nonostante sapesse che la partenza di Melwen era la cosa più logica, poiché le avrebbe assicurato un futuro lontano dai pericoli della guerra, il pensiero di non vederla più, di perdere la sua amicizia, gli faceva male. Sperò fino alla fine che Nyi non trovasse niente di speciale in lei e, seppure fosse ben conscio che quella era solo una stupida speranza, una sensazione di gelo gli chiuse la gola quando le labbra del mago si arcuarono in un ampio sorriso.
Il mondo esterno, con i suoi suoni e i suoi colori, si sfaldò fino a svanire. Zefiro smise di percepire le carezze sulla schiena di sua madre e le goffe pacche consolatorie di Baldur, ed ebbe quasi l'impressione di sprofondare. Solo dopo qualche minuto, quando vide Melwen sparire oltre la soglia con la sacca a tracolla, trovò la forza di seguirla.
 
Non appena entrò nella sua stanza, Melwen si lasciò cadere sul letto ad occhi chiusi. Sentiva ancora il rimbombo del battito del suo cuore nelle orecchie e nella testa i pensieri si affastellavano veloci e caotici, senza che lei riuscisse davvero a prenderne in considerazione nemmeno uno. Si sentiva euforica. Nyi le aveva detto che la sua magia non solo era perfettamente sviluppata, ma che possedeva anche tutte le doti per diventare un’ottima maga. Anzi, una Dominatrice.
Non si sarebbe mai aspettata di essere così simile a Nyi, non in una cosa così profonda e intima. Da un certo punto di vista, quel dettaglio la spaventava. Suo padre le aveva ribadito più volte che non sempre la prole di un mago era capace di esercitare l’arte arcana, così come non era impossibile che da un uomo perfettamente normale nascesse un bambino con il dono della magia, ma non aveva mai accennato nulla al fatto che ci potesse essere una discordanza tra il potere dei genitori e quello dei loro figli.
E poi c’era Zefiro. L'amico non avrebbe mai accettato di lasciarla partire così. Lo aveva visto nei suoi occhi, nella determinazione con cui aveva risposto a Nyi. Non avrebbe mai creduto che sarebbe stato in grado di imporsi in quel modo: ci voleva coraggio per opporsi alla decisione di un mago, e di coraggio Zefiro ne aveva ben poco, o almeno così aveva sempre creduto.
Si tirò su a sedere e si passò una mano sul volto, inspirando profondamente. Non aveva voglia di pensare a ciò che era accaduto, né tanto meno soffermarsi su quello che sarebbe stato il suo futuro che, adesso si rendeva conto, non era mai stato più certo di così. Eppure non riusciva a esserne felice, non quanto avrebbe voluto.
Si allungò verso la sacca ed estrasse il libro che avevano trovato nella biblioteca. Cominciò a sfogliarlo, cercando di concentrare la sua attenzione sulle bellissime immagini che occupavano intere pagine e decoravano le lettere di ogni inizio paragrafo. Aveva sempre amato leggere. Pensandoci ora, era una cosa abbastanza ovvia, suo padre non aveva fatto altro che raccontarle storie fin da piccolissima e lei si divertiva spesso a inventarne di proprie. Era il suo modo per isolarsi dalla realtà e sognare di essere qualcun altro, immergendosi nelle avventure di cavalieri, principesse e impavidi eroi. Ora però faticava a rimanere attenta e le frasi scorrevano sotto i suoi occhi senza trasmetterle nulla, nemmeno il loro significato più superficiale.
Alla fine, con un sospiro frustrato, scivolò sul bordo del materasso, decisa ad alzarsi e andare a farsi un giro in città. Restare chiusa tra quelle quattro mura rischiava di farla impazzire e la sola idea di dover incontrare Zefiro la metteva a disagio. Non era ancora capace di usare una magia di trasporto, ma era sicura che sarebbe bastato fare un po’ di attenzione a non farsi scoprire mentre sgattaiolava fuori.
Saltò giù dal letto e, tutta presa dai suoi pensieri di fuga, non si rese conto che la porta si era aperta. Sulla soglia apparve Zefiro, il volto arrossato dal pianto e lo sguardo affranto, con le ciglia che trattenevano appena le lacrime. Melwen si irrigidì e abbassò il capo, rifiutandosi di guardarlo. Non voleva, non ce la faceva, non se la fissava in quel modo.
Zefiro percorse la distanza che li separava lentamente, strascicando i piedi sul pavimento, senza mai staccarle gli occhi di dosso.  La bambina attese, immobile, pronta a sentirsi rivolgere le peggiori offese, ma inaspettatamente non accadde nulla di tutto ciò. Zefiro l’avvolse in un abbraccio così forte da mozzarle il fiato, le sue mani le stringevano le spalle intrappolandola contro il suo petto, che non tardò a scuotersi in preda ai singhiozzi. Era di mezza testa più alto di lei e Melwen poteva sentire il suo cuore che batteva impazzito contro il suo orecchio.
- Non andare via… - la supplicò affranto.
- Zefiro, non posso restare, lo sai. -
Il bambino si allontanò il necessario per poterla osservare in viso.
- Ho capito che per te sarebbe una buona cosa, è solo che… non mi va di perderti. -
- Oh, ma non accadrà. - lo rassicurò, facendolo sedere sul letto, - Ti scriverò tutti i giorni e prometto che verrò a trovarti spesso, così potremo giocare assieme. -
- Hai già deciso che andrai con Nyi. - esalò triste.
Melwen si grattò nervosamente la nuca, cercando le parole giuste, ma queste le sfuggivano prima che lei potesse anche solo provare a metterle in ordine. Quindi spostò il libro e si sedette vicino a lui, allungando le gambe fin dove poté, nel vano tentativo di scaricare la tensione e l’angoscia che sentiva addosso.
- Sento che è la mia occasione, per quanto sia difficile e mi faccia paura. - ammise, strusciando il piede sul pavimento, - Voglio conoscere il mondo, scoprire i suoi misteri. Desidero imparare la magia per poter essere d'aiuto in qualche modo, ma se rimango qui... - sospirò, - Non mi va di lasciarti, Zefiro, ne abbiamo passate tante noi due, però... -
- Potremmo viaggiare insieme. - suggerì lui con un sorriso incerto.
- Ah, non so se Myria te lo permetterebbe. - sbuffò divertita.
- Dopo avermi nascosto che stavano cercando un mago per farti… beh, quello che ti hanno fatto, non voglio più parlarle, almeno per un po’. -
- Già, soprattutto visto che hanno deciso tutto alle nostre spalle. - si lasciò cadere distesa sul letto, - Non credo che cambieranno idea. -
- Tu di certo non ti sei ribellata, eh… -
- Ascolta, lì per lì non avevo voglia di litigare. - si stropicciò gli occhi e trasse un profondo respiro, - Ho sempre sognato di diventare una maga, come mio padre, e adesso che me ne si offre la possibilità non voglio rifiutarla. Ma da un lato, se questo significa separarmi da te… non suona più tanto entusiasmante, ecco. -
Vide Zefiro tirare su col naso e asciugarsi le lacrime con il dorso della mano. Tremava ancora, ma si era calmato.
- Posso provare a parlare con Nyi per vedere se puoi venire con noi. Insomma, anche se porta bene i suoi anni, ha una certa età… - provò Melwen.
- Lo faresti davvero? -
- Certo. Annessa alla scuola di magia, a Sershet c’è l’accademia militare. Così potremo entrambi realizzare i nostri sogni. -
- Ma Nyi ha detto che vuole addestrarti lui. - obiettò.
- Nyi può dire quello che gli pare e piace, ma sa che il posto più sicuro è proprio l’accademia. Hanno deciso di mandarmi via d’Alabastria perché dicono che qui è pericoloso. Bene, ora come ora Sershet è il posto più inespugnabile che esista e offre la miglior istruzione in materia di magia. Magari gireremo un po’ e poi andremo lì o viceversa. In ogni caso, comunque, dovrò fare l’accademia. -
- E non ti darà fastidio avermi intorno? -
- Scherzi? -
- Sicura? -
Davanti al suo viso speranzoso, Melwen avvertì l’impulso di sorridere.
- Sicura, sicura. - giurò e poi insieme scoppiarono in una risata lunga e liberatoria, che disperse l’angoscia e cancellò l’inquietudine.
Quando finalmente si calmarono, avevano entrambi le lacrime agli occhi e il respiro spezzato, le guance rosse non più per la tristezza, ma per la gioia.
- Piuttosto, ho visto che hai cominciato a leggere il libro. Hai trovato qualcosa di interessante? -
Melwen scosse la testa e si girò per prenderlo: - No, niente di che, sembra un semplice racconto per bambini, anche se devo dire che i disegni sono davvero meravigliosi. -
- Sì, è vero. - concordò Zefiro, allungandosi per vedere meglio, - Chissà quanto tempo ci avrà messo l’autore a farli tutti! -
- Sicuramente molto. È stata davvero una fortuna che si siano preservati così bene. -
Melwen sfiorò con la punta delle dita il ritratto della regina Titania, percorrendo la linea della matita lungo che tratteggiava la mandibola e il collo di cigno. Era stata ritratta con grande cura, prestando attenzione a qualsiasi dettaglio, come se l’autore avesse davvero avuto davanti la sovrana.
- Però tu non sei convinta che sia solo una favola per bambini, giusto? -
La domanda, posta con genuina naturalezza, sorprese Melwen, che, ancora una volta, si ritrovò a chiedersi come facesse il suo amico a interpretare con tanta facilità i suoi pensieri.
- Dai, non fare così, te lo si legge in faccia che non sei convinta! - scherzò lui, puntellandosi sui gomiti.
- Non lo so, è come se… se ci fosse qualcos'altro nascosto in queste pagine. Io non credo nel caso e, viste le circostanze, sono portata a pensare che questo libro ci sia capitato tra le mani per un motivo, ma mi sfugge quale sia. -
Davanti all’espressione perplessa di Zefiro, Melwen emise un lamento frustrato. Aveva avuto la stessa sensazione anche quando Baldur le aveva rivelato che Airis era morta. Razionalmente sapeva che non c’era ragione di dubitare delle parole del nano, che le lacrime che aveva versato per il Cavaliere del Lupo erano tutto fuorché finte, eppure c’era una parte di lei che non si era mai rassegnata all’idea che invece fosse sopravvissuta. Il dubbio la mordeva nel profondo, implacabile, e non riusciva a ignorarlo.
- Melwen? - la richiamò Zefiro.
La bambina si rese conto di essere rimasta imbambolata a fissare il vuoto. Il suo amico la osservava, rifletteva, forse nel tentativo di capire cosa le passasse per la testa. Alla fine, Zefiro si mise a sedere a gambe incrociate e la fronteggiò serio.
- È come con Airis? -
- Sì, una cosa del genere. - confermò lei.
- Beh, ci vorrà del tempo prima della partenza. Fino ad allora possiamo vedere se troviamo qualcosa in biblioteca. L’hai detto tu che nei libri c’è la soluzione a ogni problema, no? -
- Io dico un sacco di cose. - anche Melwen si tirò su e sospirò, - Davvero mi credi? -
- Perché non dovrei? Tu sei quella intelligente, e sei pure una maga. -
- Sono anche la più spericolata. - puntualizzò ridacchiando.
- Questo è appurato, ormai lo sanno anche i sassi che sei un tornado attira guai. - prese un bel respiro e la scrutò intensamente, - Io ti credo, Melwen. Siamo amici, e se non ti dessi fiducia io chi te la dovrebbe dare? -
- Hai ragione. - gli tirò un pugno sulla spalla e si alzò in piedi, - Dai, andiamo a vedere se c’è qualcos’altro d’interessante nella biblioteca personale di Nordri. -
- Adesso? Dopo quello che abbiamo combinato oggi, non mi sembra il caso… -
- Non fare il fifone. Ti ricordo che a noi piace andare all’avventura. - ghignò.
- A te, forse. Io preferisco rimanere al calduccio a casa. -
Melwen aprì la porta e lo trascinò in corridoio quasi di peso, coinvolgendolo in una risatina complice. L’aria era permeata dal profumo intenso della carne arrostita del cappone, accompagnato dall'aroma speziato delle mandorle tostate e quello salmastro della zuppa di pesce. Presto la cena sarebbe stata pronta, ma a loro non importava: intrufolarsi di nascosto in luogo proibito era molto più emozionante.

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Capitolo 6
*** Frammenti di Memoria - Il Prezzo del Silenzio ***


Fuoco 2

5

Frammenti di Memoria


Il Prezzo del Silenzio

Era passato del tempo ormai e nella prigione era calata una quiete ovattata, interrotta solo dal familiare e sporadico cigolio della porta e dai passi strascicati della vecchia che le portava da mangiare. Caillean aveva imparato a riconoscere la sua presenza, il suo modo di imboccarla e di tenerle la testa quasi con gentilezza. Non le parlava, d’altronde era già strano che la trattasse con un minimo di riguardo, ma questo a lei non importava, non più. Molte cose in quel lasso di tempo avevano perso significato, persino la sua coscienza si era come disgregata in tanti minuscoli frammenti, che sempre meno spesso le pungevano il cervello risvegliandola dall’intorpidimento mentale in cui era caduta. L’unica cosa che sembrava scuoterla era proprio il rumore della porta che si apriva e l’ombra sfocata della vecchia.
Caillean ispirò profondamente, cercando di ricordarsi quand’era stata l’ultima volta che l’aveva vista, ma perse la concentrazione quasi all’istante.
- Mamma… papà… - mormorò.
La voce le raschiò la gola secca, piegandola in un eccesso di tosse che le tolse il fiato. Solo quando il dolore si attenuò e l’aria tornò nei polmoni, Caillean fece forza sulle braccia per raddrizzarsi. Il freddo della pietra a contatto con la pelle le provocò un brivido lungo la spina dorsale, che la strappò al torpore.
Da quando il capo villaggio le aveva versato l’acido negli occhi non era più tornato, abbandonandola in quella stanza da sola, con quell’incendio che le divorava il viso, le orecchie, il collo; un’agonia lenta e straziante che l’aveva annichilita nel corpo e nell’anima.
All’inizio, i suoi carcerieri avevano continuato a portarle l’acqua con regolarità, mattina, pomeriggio e sera. Le arrivavano vicino, la vecchia e un uomo dalle mani ruvide come il cuoio, e le tappavano la bocca con un bicchiere o un mestolo, che poi riportavano fuori senza premurarsi di farglielo vuotare tutto. La lasciavano lì, incuranti delle sue grida e delle lacrime che l’acido non aveva ancora bruciato. Pian piano, però, le visite si erano diradate, fino a quando non era rimasta che la vecchia, la quale una volta al giorno apriva la porta e si premurava di mantenerla in vita, anche se Caillean aveva cercato in tutti modi di opporsi. Per un po’ c’era anche riuscita, la donna non aveva abbastanza forza per infilarle il mestolo tra le labbra, ma successivamente la paura della morte aveva risvegliato il suo istinto di sopravvivenza e, alla fine, quando la sua carceriera le accostava alla bocca un pezzo di pane stantio, si era trovata a divorarlo senza proferire parola. Faceva fatica a mangiare, con le labbra piene di tagli e il sapore nauseante del proprio sangue che le impestava la gola.
Quando l’uomo con le mani callose aveva sciolto le cinghie che la legavano alla sedia per serrarle i polsi nella morsa delle catene, l’infezione e la febbre erano già sopraggiunte da molto, quasi alla stessa velocità con cui la realtà circostante si era trasformata in una massa pulsante di sangue raggrumato. In quei giorni, Caillean aveva continuato a urlare, chiamando il nome del padre e della madre sempre più forte, implorandoli di venirla a salvare, di tornare da lei, mentre la luce svaniva dai suoi occhi e il mondo piombava nell’oscurità. Ma nessuno venne mai in suo aiuto, nessuno a parte l’uomo e la vecchia che si occupavano di lei. In seguito, neppure loro tornarono per molti giorni, almeno così le parve. Non ebbe più acqua, né cibo, né il conforto di una presenza umana al suo fianco. I suoi lamenti disperati rimbalzarono inascoltati contro le mura di pietra della sua prigione, finché non si spensero in un rantolo agonizzante.
Un po' di tempo dopo, impossibile calcolare quanto, udì un rumore di passi in avvicinamento e lo stridio della chiave che girava nella toppa. Caillean non dovette nemmeno alzare la testa per capire chi fosse. La vecchia litigava sempre con la serratura borbottando tra i denti e solo dopo uno o due tentativi riusciva ad aprire. Doveva essere davvero molto anziana. L'uomo, invece, era possente e forte. Non aveva mai compiuto alcuno sforzo per sollevarla e, anche quando l’obbligava a mangiare, la bambina non era riuscita a opporre mai resistenza.
In quel momento, egli entrò nella cella imprecando per la puzza e con malgarbo le mise tra le mani una ciotola. L’argilla di cui era fatta era ancora fresca, trasudava umidità. Le dita di Caillean affondarono nel materiale morbido e, guidate da un riflesso incondizionato, condussero il recipiente alle labbra. Bevve a lungo e avidamente, ingollando quanta più acqua potesse, prima che il suo carceriere se ne riappropriasse.
- Non capisco perché ti tengano in vita, strega. -sbuffò seccato.
Era la prima volta che Caillean sentiva la sua voce. Era carica di risentimento, rabbia, disprezzo, tutte emozioni che ricordava di aver provato anche lei un tempo. Percepì la sua presenza incombente su di lei e quasi le parve di vederlo, con la bocca atteggiata in una smorfia disgustata e i pugni serrati lungo i fianchi.
- Verrà il giorno in cui il nostro capo villaggio si stancherà di te. - il calore del suo fiato caldo le accarezzò la pelle a pochi pollici dall’orecchio, - Allora avrai davvero la punizione che meriti, figlia di Aesir. -
La porta venne chiusa di schianto. Caillean cadde raggomitolata sul fianco sinistro e si raccolse sulla paglia. Non percepiva più il fetore di escrementi né di urina, il suo olfatto aveva perduto la sensibilità. Le catene che pendevano dal soffitto gemettero in una lamentosa ninna nanna che la cullò, accompagnandola nel sonno.
I giorni si susseguirono uguali, scanditi dalle visite del suo carceriere e da quelle della vecchia. Caillean si ritrovò a domandarsi sempre più spesso cosa ne sarebbe stato di lei, se davvero l'avrebbero lasciata lì dentro a marcire finché del suo corpo non sarebbero rimaste solo che polvere e ossa. Un paio di volte tentò nuovamente di chiedere cosa le sarebbe accaduto, ma in risposta ricevette solo silenzio e calci.
Fu durante una di quelle giornate che il capo villaggio andò a trovarla. La sua visita venne annunciata dal tintinnare delle catene e dall'ormai familiare cigolio della porta. Caillean si appoggiò con la mano alla parete viscida d'umidità e strisciò lungo di essa fino a quando le manette di metallo non la bloccarono.
- Puoi lasciarci da soli. - ordinò il capo villaggio alla guardia.
Dopo un momento, la porta si chiuse. Caillean aveva riconosciuto quell'uomo ancor prima che parlasse. Radovan – così aveva appreso chiamarsi il suo carceriere – aveva un timbro baritonale, una voce profonda che la faceva tremare fin nelle ossa, mentre l'anziana aveva un passo claudicante, come se fosse zoppa. Il capo villaggio, invece, non aveva niente di particolare, nemmeno una caratteristica che Caillean potesse sfruttare per riconoscerlo. Semplicemente, sentiva che era lui, lo avvertiva in un modo istintivo.
- Ti trovo sciupata. - osservò e la bambina se lo immaginò mentre sorrideva, beffandosi delle sue condizioni, - Forse dovrei dire a Dana di portarti delle porzioni più abbondanti. Non voglio che tu muoia, non troppo in fretta, almeno. -
Si inginocchiò davanti a lei e le tirò su il mento, poi Caillean lo udì armeggiare con qualcosa, forse una sacca.
- Ti ho portato un po' di vino da bere. Penso che sia molto meglio dell'acqua sporca. -
La bambina tentò di allontanarsi, ma la presa dell'uomo era ferrea. Quando sentì il sapore amaro del vino in bocca, lo stomaco le si contorse dolorosamente e credette di essere sul punto di vomitarlo.
- Ecco, brava bambina, così. - le asciugò le labbra col dorso della mano e le accarezzò i capelli sudici, - Allora, questo periodo qui nelle segrete ti ha fatto riflettere? Pensi di poter accettare la mia offerta? -
La bambina aprì lentamente gli occhi. Anche se non poteva vedere, percepiva la vicinanza del suo viso da quello dell'uomo.
- Fottiti. - esalò, stringendo debolmente i pugni.
- Oh, che parole! Non si addicono a una signorina. - la mano del capo villaggio scivolò lungo il collo, sfiorando il tessuto lacero della casacca, - Mi si spezza il cuore a ricevere un altro tuo rifiuto. -
- Dove... dove sono gli altri? -
- Gli altri abitanti di Merite? Di loro non ti devi preoccupare ormai, sono già stati giudicati. -
Caillean aprì la bocca per ribattere, ma dalle sue labbra uscì solo un rantolo sommesso. Si sentiva la testa pesante e i pensieri fuggivano prima che lei potesse esprimerli. Era stato il vino, quel vino troppo forte preso a stomaco vuoto le aveva appannato la mente.
- Cosa... cosa significa? Li avete uccisi? -
- Uccisi... - sospirò l'uomo, spostandole una ciocca dietro l'orecchio, - Diciamo che, semplicemente, la giustizia ha fatto il suo corso. Chi era dalla parte dei figli di Aesir ha ricevuto la punizione che meritava, mentre chi si è pentito della sua stolida alleanza ha ricevuto una seconda possibilità. -
“Il che significa che li avete torturati finché non hanno detto quello che volevate sentirvi dire.”
L'ennesimo accesso di tosse la fece accartocciare su se stessa. Passò qualche minuto, prima che riuscisse di nuovo a parlare.
- Non sarò mai la tua sposa. Piuttosto preferisco morire. -
La mano che le accarezzava il viso tremò appena. Subito dopo, Caillean sentì il sapore del proprio sangue esploderle in bocca, mentre un dente le scivolava fuori dalle labbra spaccate e la guancia offesa iniziava a bruciare. Una lacrima, forse l'unica che le era rimasta, le rigò la pelle lurida.
- Schifosa ragazzina... -
Un altro colpo, più forte del precedente, la mandò a terra. La bambina tentò di raggomitolarsi nel tentativo di ripararsi dalla scarica di calci che la investì, ma non aveva abbastanza forza per difendersi. Tremò, cercando di trattenere i singhiozzi, anche se i suoi occhi erano asciutti.
“Kale...”
Il nome del padre le si affacciò alla mente, assieme al viso sorridente di sua madre Iola. Il pensiero di mostrarsi così debole la riempì di vergogna, una sofferenza ancor più straziante di quella causata dalle percosse e dalle ferite ancora aperte. Pregò che non la stessero guardando, che non udissero i suoi singulti.
- Piccola stronza ingrata... farai la fine di tuo padre! - ringhiò furioso il capo villaggio.
Un colpo le arrivò alla spalla. La clavicola si ruppe di netto e Caillean urlò con la poca voce che aveva in gola. Ne seguì un lungo momento di tregua, interrotta solo dal respirare concitato dell'uomo e dagli ansiti rantolanti della bambina. Il suo corpo era un grumo pulsante di dolore, così insopportabile da renderle difficile persino respirare. Non si accorse del peso dell'uomo sopra di lei finché l'aria non le si incastrò in gola e qualcosa di duro non le premette contro la coscia.
- Non mi vuoi come marito? Bene, mi prenderò ciò che voglio con la forza, allora. - le sibilò all'orecchio.
- No! -
Si dimenò come poté, lottando per strisciare via, ma non servì a nulla. Il manrovescio che la colpì la lasciò riversa sulla pietra, incapace di muoversi, senza fiato. Poi le mani dell'uomo si infilarono nei pantaloni di pelle, le dita affondarono feroci nella pelle e la sua bocca si chiuse sul suo collo con violenza. La riempì di morsi e quando la baciò, Caillean non riuscì a far altro che ricambiare, mentre lui armeggiava con i lacci dei pantaloni.
- Se avessi accettato sarebbe stato molto più dolce. - le sussurrò, la mano che era scivolata nella casacca a cercare forme che non c'erano, - Ora mi sembra giusto che pag... -
Un grido di allarme, seguito da altri, coprì le ultime parole. Il capo villaggio alzò la testa e si tirò su di scatto.
Uno scalpiccio frenetico di passi, poi la porta si aprì di schianto.
- Signore! Signore, ci attaccano! -
- Cosa? Chi? -
- Elfi, signore, elfi! -
- Non è possibile, siamo lontani dal confine! -
Un altro grido vibrò nell'aria, rimbalzando sulle pareti della prigione. Qualcuno berciò un ordine da qualche parte e il clangore di armi e spade divenne il suono dominante.
- Signore, dovete mettervi in salvo, non c'è tempo da perdere. -lo incitò il soldato, palesemente agitato.
Il capo villaggio non ribatté. D'altronde, pensò vagamente Caillean, era in gioco la sua vita. Lo sentì allontanarsi di corsa, seguito dai passi rapidi della guardia. Nessuno dei due si premurò di liberarla dalle catene e lei non si mosse, troppo stanca per tentare di liberarsi, troppo spaventata anche solo per pensare con lucidità, il vino che ancora le scorrev nelle vene ottenebrandole i sensi.
Fuori da lì la battaglia infuriava, ma ogni suono le arrivava lontano, ovattato. Forse al vino era stata mischiata qualche strana sostanza per stordirla. La testa le girava e il suo corpo disertava gli ordini della mente, incurante dell'istinto di sopravvivenza che smaniava per convincerlo ad alzarsi e a correre verso la libertà. La porta era stata lasciata aperta, era la sua occasione. Eppure, nonostante finalmente avesse una via di fuga, i suoi muscoli si rifiutarono di obbedire. Il terrore, come fango gelido, la paralizzava e le serrava la gola, incatenandola al pavimento sporco. Con le ultime forze rimaste, riuscì solo a rannicchiarsi contro il muro e a tirarsi su i pantaloni.
Un rumore concitato di passi attirò la sua attenzione. Qualcuno fece il suo ingresso nella cella e cadde accanto a lei in uno sferragliare assordante.
- N-no, no ti prego, no! -
Caillean si fece più piccola, appiattendosi contro la parete più che poté. L'uomo prese a strisciare verso il fondo della stanza, raschiando il pavimento con uno stridore metallico. Qualcun altro entrò. Aveva un passo leggero, sembrava quasi non sfiorare terra mentre avanzava verso il suo bersaglio.
- Ti prego, no... -
L'intruso passò accanto a Caillean come se non la vedesse.
- Giuro... giuro che se ti avvicini ancora ti ammazzo. - ringhiò in lacrime l'uomo, annaspando disperato fino al muro, - Non mi farò uccidere come un cane da un elf... -
La frase morì in un gorgoglio, un suono strozzato simile al risucchio di un imbuto. Qualcosa scivolò vicino alla bambina. La mano si mosse d'istinto e le dita sfiorarono la consistenza dell'oggetto. Era freddo, tagliente. Un lampo di consapevolezza la riscosse dal torpore.
“Un pugnale.”
Lo strinse con forza, facendo leva sulle catene per tirarsi a sedere, gli occhi che saettavano nel punto dove sapeva essere l'intruso.
Improvvisamente percepì una presenza al suo fianco. Si impietrì col cuore in gola. Non si era accorta che l'elfo le si era accostato. Non riusciva nemmeno a percepirne il respiro.
“Forse... forse non vuole che capisca che è qui, accanto a me.”
Si rese immediatamente conto di quanto fosse stupida quell'ipotesi. Perché avrebbe dovuto essere cauto? Lei era solo una bambina e lui un guerriero che poteva sopraffarla facilmente. Con l'aria bloccata tra sterno e diaframma, girò lentamente la testa alla sua destra e, anche se nei suoi occhi non c'era altro se non tetra oscurità, Caillean ebbe la sensazione che l'elfo la stesse fissando. Per un istante pensò d'essersi sbagliata, che la paura le stesse giocando un altro brutto scherzo, ma più il tempo passava, più quell'incertezza prendeva una connotazione reale. Poteva sentirne lo sguardo addosso mentre la studiava, osservandola con qualcosa che la bambina avrebbe definito curiosità. Chissà, forse gli piaceva, forse... forse l'avrebbe risparmiata.
- Anairë lapse. - mormorò l'elfo, allungando la mano verso di lei.
“Stupida.”
Quel pensiero le rimbombò nella testa, riversandole nelle membra intorpidite una scarica di adrenalina che la riscosse. La sua mano corse rapida all'elsa del pugnale e colpì alla cieca.
La pelle cedette con sconcertante facilità. La lama penetrò nella carne fino alla guardia e il sangue zampillò sulle sue mani. Un odore nauseabondo le permeò le narici e le fece contrarre le viscere, ma non la fermò. Tutto il dolore e la rabbia accumulati in quei giorni fluirono nelle dita e continuò a colpire ancora e ancora, urlando e piangendo. All'ennesimo affondo, il corpo dell'elfo cadde a terra e lei gli si gettò addosso, conficcando il pugnale fino a quando la punta non colpì il pavimento. Allora il tempo parve fermarsi. Caillean rimase ferma, il respiro affannato e uno strano gelo nelle ossa. Dopo un'eternità lasciò la presa sull'arma, si scansò bruscamente e si piegò in due per vomitare quel poco che aveva nello stomaco. Non seppe quanto rimase in quella posizione, così come non si rese conto della presenza di altri due intrusi finché non le si avvicinarono. Tentò di tirarsi indietro, ma stavolta nessun muscolo si mosse. Il caos di pensieri che si affastellavano nella sua testa si congelò, cristallizzandosi in un'unica e nitida consapevolezza.
“Sto per morire.”
Allungò la mano alla cieca alla ricerca del pugnale, ma qualcuno se ne impossessò nel momento in cui sfiorò coi polpastrelli il filo tagliente della lama.
- Non avere paura, siamo qui per aiutarti. - le disse una donna dalla voce gentile.
Un gemito metallico e le catene si afflosciarono a terra. Caillean non capiva cosa stesse succedendo, chi o cosa l'avesse liberata e da dove provenisse quel calore rassicurante che le scaldava la pelle dei polsi. Poi si sentì sollevare da braccia maschili e stringere al pettorale di un'armatura. Trasalì a quel contatto, ma non si ribellò, perché quella presa salda e sicura la faceva sentire protetta. Anche se percepiva la consistenza dura dell'acciaio contro la guancia e non poteva dare un volto ai suoi salvatori, non ne aveva paura.
- Andiamo, Fijit, qui abbiamo finito. - la esortò un uomo in tono concitato.
“Un soldato.”
Cullata dal dondolio, Caillean si concesse di chiudere gli occhi e abbandonarsi alla stanchezza. Si sentiva esausta, sfiancata, ma l'odore del sangue, che le si era appiccicato addosso violentandole il naso, le ostruiva anche la gola, rendendole difficile respirare e rilassarsi completamente.
“Sono un'assassina.”
Quella constatazione le fece contrarre le viscere e, se non fosse stata sicura di non avere più niente nello stomaco, avrebbe vomitato di nuovo.
- M... mi... mi dispiace. - pigolò e di riflesso si portò le mani al viso per frenare lacrime che non c'erano.
- Non avevi scelta. - rispose pacato l'uomo, stringendo la presa attorno al suo corpo, - Era in gioco la tua vita, non potevi fare altro. -
Caillean questo lo sapeva, eppure non riusciva a smettere di tremare. Si tirò piano le gambe al petto, facendosi sempre più piccola contro il torace del soldato.
- Non avevi scelta. - ripeté costui e la bambina percepì la sua convinzione come se fosse la propria.
Il cuore rallentò la sua corsa nel petto e l'aria le riempì i polmoni, sciogliendo in parte il peso che sentiva nella testa e nell'anima. Quando il sole le baciò la pelle, il sonno l'aveva già avvolta nel suo delicato abbraccio.
 
Quando si destò, con sorpresa Caillean si accorse che il dolore era scomparso. Di riflesso si guardò intorno, ma subito si ricordò che non poteva più vedere. A fatica, lottando contro la coperta che la copriva fino al mento, si mosse cercando di capire dove fosse, tastando con le mani intorno a sé.
- Finalmente ti sei svegliata. -
Associò subito quella voce alla donna che si chiamava Fijit. Aveva lo stesso timbro dolce della prima volta che l'aveva udita parlare, permeata da una sicurezza che le conferiva un'aura autorevole. Doveva essere giovane.
Caillean girò la testa, cercando di sollevarsi sui gomiti.
- Non muoverti, sei ancora debole e ti ho appena cambiato le medicazioni. - Fijit le si sedette accanto e le posò una mano sulla fronte, - Ah, meno male, la febbre è passata. -
- Dove... dove mi trovo...? Chi siete? - rantolò spaesata la bambina.
- Ci troviamo a Merite, precisamente nell'ospedale da campo che abbiamo allestito dopo l'attacco. Noi siamo un distaccamento dell'esercito che era stanziato a nord, stavamo tornando a Sershet quando abbiamo ricevuto una soffiata su un possibile attacco degli elfi in questa zona. - sospirò.
Caillean se la immaginò mentre si mordeva le labbra con un'espressione amareggiata.
- Abbiamo cercato di arrivare in fretta, ma non è stato sufficiente. -
- Sono morti in tanti? -
Fijit rimase un attimo in silenzio. Probabilmente si era accorta del suo tono freddo, di quel “sono” che metteva una certa distanza tra lei e gli abitanti del villaggio dove aveva sempre vissuto, ma a Caillean non importava. Non si sentiva più di appartenere a quel posto, non dopo tutto quello che era accaduto.
- Sì. - rispose cauta, allungandosi per cospargerle una crema dal profumo di ginepro sotto gli occhi, - Mi dispiace per quello che ti è accaduto. -
La bambina non rispose. Strinse le mani a pugno, come se quel gesto bastasse a respingere il dolore opprimente che le si era conficcato nel cuore.
- C'è una persona che ti vuole vedere. Te la senti di incontrarla? - disse dopo un momento Fijit.
Caillean esitò. Da fuori poteva udire il chiacchiericcio del soldati e un perpetuo rumore di passi e zoccoli. Il vento le portò alle orecchie il suono di qualcosa che bolliva in una pentola, sicuramente minestrone di verdure a giudicare dall'odore, quello che stavano servendo ai soldati e ai cittadini sopravvissuti.
- Va bene. - acconsentì.
- Allora lo vado a chiamare. Tu aspetta qui e non sforzarti, intesi? -
Caillean se la figurò sorridere. Mentre sentiva tintinnare le fibbie della sua bisaccia, la fantasia le plasmò un viso a cuore, incorniciato da capelli corti e neri, riccissimi, delicate onde color ebano che sfuggivano da una fascia colorata.
“Chissà se è davvero così.”
Trascorse meno di qualche minuto tra l'uscita di Fijit e l'entrata dell'uomo che l'aveva portata in braccio. Probabilmente doveva trovarsi nei paraggi o, più probabilmente, aveva aspettato che la sua compagna gli desse il permesso di introdursi nella tenda.
- Tu devi essere Caillean. - cominciò, prendendo posto su uno sgabello di legno accanto al giaciglio della piccola.
Aveva la stessa voce profonda e distaccata di quando era venuto a prenderla. La bambina immaginò che dovesse essere un uomo davvero alto e grosso.
- Sì... - confernò timorosa.
- Come ti senti? -
Come si sentiva? La verità era che nemmeno lei avrebbe saputo dirlo con certezza. Le ferite sul corpo non bruciavano più, persino la mandibola aveva cessato di pulsare. Seppur limitata nei movimenti dalle bende, riuscì a puntellarsi sui gomiti e a mettersi a sedere. Eppure, sentiva un peso sul petto, un martellare sordo che le sgretolava i pensieri e scoloriva ogni cosa.
- Sto bene. Mi sento solo un po' stanca. - si sforzò di sorridere per sembrare più convincente.
Il soldato la osservò per un po', poi sospirò e Caillean percepì la sua presenza farsi più vicina. Istintivamente si ritrasse, anche se sapeva che non voleva farle del male, ma per il suo corpo il solo fatto che fosse un uomo costituiva una minaccia.
- Mi diresti perché eri stata rinchiusa là dentro? Iola era molto confusa quando mi ha parlato e... -
- Mia madre è... è viva? - balbettò incredula.
- Sì. L'abbiamo incontrata sulla strada mentre marciavamo fino a qui. Ho dato ordine che la scortassero a Caewen. É lì che ti aspetta. -
Caillean quasi stentava a crederci. Sua madre quindi non l'aveva abbandonata, era semplicemente scappata per cercare aiuto. Il sollievo che la pervase alleggerì il peso che le gravava sul petto e gli artigli che le stritolavano lo stomaco allentarono la presa.
- Come fate a conoscere mia madre? -
- In realtà conoscevo tuo padre. -
- Quindi voi siete il Generale Lullabyon? -
- Davsten, solo Davsten, niente formalismi. Immagino che Kale ti abbia già parlato di me. -
La bambina annuì. Sì, suo padre le aveva raccontato tutto del grande Generale Lullabyon, del suo valore e del suo coraggio in battaglia. Ogni volta che menzionava il suo nome, i suoi occhi si illuminavano e un'espressione fiera si disegnava sulle sue labbra. Aveva sempre avuto solo parole di stima per quell'uomo e Caillean aveva capito quanto lo riempisse d'orgoglio l'aver combattuto al suo fianco.
Il viso sorridente di suo padre fece capolino dalla sua memoria. Lo rivide alto, forte, con in testa l'elmo sbeccato che conservava nella sua cassa sotto il letto, la spada in pugno e indosso l'armatura pesante, quella che le aveva proibito di toccare. Le parve di udire la sua risata come quando l'allenava e i suoi occhi brillavano di felicità, intensi, verdi come i primi steli d'erba. Poi la visione scomparve e al suo posto apparvero le mura di Merite e la picca con la sua testa in bella mostra, cosparsa di catrame e divorata dai corvi.
- Mi dispiace per quello che gli è accaduto, non meritava quella fine ingloriosa. - commentò dispiaciuto il Generale, ma non si avvicinò per consolarla, - Per questo vorrei mi raccontassi cosa è successo negli ultimi dieci giorni. -
Caillean si morse le labbra e cominciò a tormentarsi le dita. Non voleva parlare, desiderava soltanto abbandonarsi sul letto e dormire fino a non svegliarsi più.
- Non te la senti ancora? -
Silenzio.
- Puoi almeno dirmi chi è stato a farti rinchiudere e perché? -
- Il capo villaggio, mi ha accusata di aver ucciso Elyn, la figlia della fruttivendola. -
Davsten tacque, in attesa che lei continuasse. Forse, si disse Caillean, avrebbe dovuto aggiungere altro, raccontargli cos'era successo in quelle segrete, ma le parole rimasero lì, intrappolate in un bolo di angoscia e dolore.
- Stimavo molto tuo padre. - disse di punto in bianco Davsten, - Era un uomo che aveva carattere e forza d'animo a sufficienza per resistere nell'esercito, ma, a differenza di molti, non ha mai perso la pietà e la gentilezza che lo contraddistinguevano. È un particolare che ho sempre apprezzato di lui, assieme al suo coraggio e al suo spirito di sacrificio. Come molti, fu costretto a diventare un soldato quando la guerra al nord divenne più violenta. Ci furono dei reclutamenti di massa, così che nello stesso contingente, mescolati agli allievi dell'Accademia e ai veterani, trovavi contadini, maniscalchi, ladri, assassini. Le città al nord cominciavano a cadere e c'era un urgente bisogno di uomini, poco importava la loro capacità di combattere o il loro ceto sociale. Kale all'epoca aveva più o meno la mia stessa età, ma ebbe la fortuna di potersi allenare, prima di essere buttato in battaglia. Combattemmo spalla a spalla e riuscimmo a tornare al campo sani e salvi. Vedere i nostri compagni morire come mosche sotto le frecce degli avversari aveva lasciato un segno indelebile nella nostra memoria, ma non potemmo permetterci il lusso di piangerli. Li seppellimmo nelle tante fosse comuni fuori dal campo e poi tornammo ad allenarci per prepararci ai prossimi attacchi. Furono il tempo e il dolore della perdita ad avvicinarci. Io ero un ragazzino vanaglorioso, con in testa solo l'onore e il desiderio di distinguermi. Ero stato reclutato con molti altri miei compagni circa due anni prima che terminassi l'Accademia e, quando il mio Comandante mi spedì ad allenarmi assieme a tutti gli altri, mi sentii offeso nell'orgoglio. Cosa avrei mai potuto imparare io, il figlio di uno dei più grandi Generali del re, da quel branco di straccioni? -
La bambina rimase interdetta. Quell'immagine non corrispondeva per niente a quella che emergeva dai racconti di suo padre. Davsten ridacchiò.
- Sì, diciamo che Kale mi stimava troppo per riportare certi aneddoti, ma ti posso assicurare che ero tutto furché l'uomo che sono adesso. Il tempo e la guerra mi hanno cambiato, ma, soprattutto, l'amicizia con tuo padre. Ancora oggi mi dispiaccio di essere stato l'unico a essere insignito del titolo di Cavaliere. Lui ne aveva tutte le capacità e il diritto, e mio padre era disposto a dargli il suo appoggio, ma Kale non volle comunque. Sai perché rifiutò? -
Caillean scosse la testa. Davsten le mise una mano sulla spalla e la strinse leggermente.
- Per lo stesso motivo per cui io ho deciso di entrare nell'Ordine del Lupo: perché amava la sua famiglia, amava te e Iola e desiderava proteggervi, e sapeva che se fosse stato nominato Cavaliere non avrebbe potuto restarvi accanto come avrebbe voluto. -
Caillean sentiva addosso il suo sguardo, le sue mani calde sulla pelle le trasmettevano un calore rassicurante.
- Lui ti amava, Caillean, ti amava così tanto da andare al fronte per te. Tu hai ereditato la sua stessa forza d'animo. Non sei una sopravvissuta, non sei come le persone là fuori. Sei una guerriera, un lupo. Ti hanno picchiata, spezzata, umiliata, ma nonostante questo hai combattuto, conservando la tua dignità e la tua fierezza, anche se adesso ti sembrano perdute. -
- Sono cieca... non vedo più niente... - esalò con voce rotta, abbassò lo sguardo e scosse la testa, ricacciando indietro le lacrime, - Anche volendo, non potrò più diventare una guerriera. -
- Solo se sei convinta che è impossibile, lo sarà. Ricorda che in questo mondo non esiste niente di più potente della volontà. Se lo desideri davvero, se questo è ciò che vuoi, io ti aiuterò. Ma prima devi perdonare te stessa per quello che ti hanno fatto. Solo allora potrai tornare a vedere. -
Rimasero così, lei con gli occhi spenti puntati in quelli vivi dell'altro e il Generale con la mano ben ferma sulla sua spalla. Quando la presa si allentò, Caillean trasalì.
- Pensaci e quando sarai pronta dimmi la tua risposta. - aggiunse Davsten, per poi alzarsi e uscire dalla tenda, lasciandola a riflettere.

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Capitolo 7
*** Tempesta ***


Fuoco 2

6

Tempesta

Si misero in viaggio tre giorni dopo, alle prime luci dell'alba. Arghail avrebbe voluto che Airis si riposasse un po' di più, ma nemmeno le proteste e le raccomandazioni di Hallende furono sufficienti a dissuaderla dal partire. Airis spiegò al giovane comandante quanto fosse importante che giungessero a destinazione nel più breve tempo possibile e, alla fine, dopo una lunga ed estenuante discussione, Arghail non poté far altro che acconsentire, ordinando ai suoi uomini di cominciare a prepararsi. Alle loro domande sul motivo per cui avesse deciso di muoversi così presto, si limitò a rispondere che la sopravvissuta aveva bisogno di ulteriori cure, poiché la magia di Hallende non era sufficiente a guarirla dalla febbre rossa.
Quando sorse il sole, Airis venne scortata fuori dalla tenda dalla guaritrice e assieme a lei prese posto nel carro dove avevano caricato i vettovagliamenti. La guerriera percepì per tutto il tempo gli occhi dei soldati puntati addosso, le pesavano sulla nuca, ma nessuno osò avvicinarsi o rivolgerle la parola. D'altronde, Arghail e Hallende si erano premurati di diffondere la notizia della sua malattia in tutto il campo, dunque Airis dubitava che durante il viaggio qualcuno si sarebbe azzardato a darle fastidio. Doveva solo abituarsi a camminare con quel velo sul viso.
Appoggiò la schiena al legno trasudante umidità e sbuffò. Hallende le sorrise e si allungò per aggiustarle lo jalibeb, il velo fissato al capo che le copriva l'intera testa lasciando solo gli occhi scoperti. Anche quello, le aveva detto, era tipico dei Chàyl, la popolazione nomade che viveva nell'Oquea del sud. Inoltre, la pesante blusa nera e gli shalaar, i pantaloni larghi stretti sulla caviglia, proteggevano il corpo dal vento e dal caldo di quelle regioni aride. Il modello che Hallende le aveva prestato era però di lana e cotone, adatto al clima più rigido del nord di Esperya.
- So che non vi sentite molto a vostro agio con questi abiti. All'inizio anche io facevo fatica, mi ostacolavano molto nei movimenti. -
- Sì, in effetti sono un po' scomodi, ma penso sia perché sono abituata all'armatura. - commentò Airis in un sospiro.
- Non vi ho ancora chiesto come vi sentite oggi. -
La guerriera spostò lo sguardo alla sua destra. Il vento ingrossava la tela che celava il contenuto del carro alla vista, lasciando solo un triangolo di paesaggio visibile. Gli steli d'erba roridi si piegavano al loro passaggio, per poi ricadere sfiorando il fango che contornava i solchi scavati dalle ruote. I cavalieri, i pochi che Arghail si era portato dietro in quella spedizione, procedevano ai lati e dietro al carro, parlottando del più e del meno, scambiandosi battute sul tempo, sulla moglie del loro superiore o sull'ultima notte di baldoria in città che aveva visto un certo Darril fare a pugni con l'amante della sua donna. Nessuno parlava della guerra e della desolazione che avevano trovato a Luthien. L'orrore e la paura negli occhi degli uomini che Arghail aveva mandato in ricognizione avevano fatto morire qualsiasi domanda.
- Arlena? -
Airis impiegò qualche secondo a capire che Hallende si stava riferendo a lei. Infatti, oltre ai vestiti, per essere sicuri che nessuno la riconoscesse Arghail aveva proposto di usare un altro nome, una misura preventiva che lei stessa aveva approvato, ma non si era ancora abituata alla sua nuova identità.
- Sì, scusami, ero soprappensiero. -
- L'avevo notato. - ridacchiò Hallende.
- Sto bene, non devi preoccuparti. - le rispose sorridendo, si strinse nelle spalle e distese le gambe, cercando una posizione comoda.
Non aveva veramente freddo, non quanto ne avrebbe dovuto avere, ma il suo corpo agì prima del pensiero, guidato dall'istinto e dalla consuetudine, strofinando le mani contro il tessuto ruvido della blusa alla ricerca di un calore non necessario.
- Avete freddo? Volete che vi dia qualcosa di più pesante? - si allarmò Hallende e già aveva messo mano al suo scialle prima ancora che Airis le facesse un cenno di diniego.
- No, no, davvero, è stato solo un brivido. - minimizzò e ringraziò lo jalibeb che le copriva la bocca.
- Sicura? - si avvicinò e abbassò la voce, - Non vi dovete fare scrupoli, io posso usare la magia per scaldarmi. -
- Non me ne faccio, semplicemente sto bene così. -
Incrociò le braccia sul petto, spostando di nuovo l'attenzione sul paesaggio che intravedeva dallo spiraglio tra il legno e la tenda. Se n'era aperto un altro nell'angolo a destra e Airis adesso poteva osservare i rami degli alberi che sfilavano sui bordi del sentiero.
Hallende la fissò a lungo con cipiglio indagatore e, dopo svariati secondi, si convinse che non stava mentendo. Tuttavia, continuò a guardarla per molto tempo senza curarsi di farlo con discrezione, mettendo a disagio Airis. Quest'ultima fece del suo meglio per ignorarla, ma a un certo punto, stanca di quelle occhiate insistenti, abbassò le palpebre e finse di dormire. Era grata alla donna per la sua preoccupazione, oppure trovava a dir poco esagerata tutta quella premura. Era un Generale, un Cavaliere, non una ragazza indifesa, senza contare che era stata in grado di cavarsela da sola per più di un mese a Llanowar. Va bene, a quel tempo non era stata proprio da sola.
Davanti ai suoi occhi si disegnò il viso di Ledah, preciso in ogni dettaglio, e avvertì un'improvvisa fitta al cuore. Ancora una volta si domandò dove fosse e se sarebbe riuscita davvero a salvarlo. Aveva meno di cinque settimane e non sapeva ancora se era una buona idea prendere la prima nave per andare a Sershet.
“Perché deve essere tutto così complicato?”
Marciarono per tutto il giorno, facendo alcune soste per permettere ai cavalli di riposare e agli uomini di sgranchirsi le gambe.
Arghail chiamò Hallende fuori dal carro un paio di volte per chiederle come stava la sopravvissuta. Airis ebbe cura di non farsi vedere, maledicendosi per essersi fatta lasciare solo il pugnale, che aveva nascosto nello stivale. Con i muscoli tesi come cordoni sotto pelle, aspettò con lo sguardo puntato sulla tela, la mano che sfiorava l'elsa dell'arma pronta a sguainarla in caso di necessità. Rimase immobile, pronta a scattare, finché Hallende non tornò. Solo allora la tensione nel suo corpo si allentò e si lasciò ricadere con un sospiro di sollievo contro il legno.
Arghail le aveva dato la sua parola che l'avrebbe protetta, ma Airis non poteva permettersi il lusso di credergli. Si sentiva un po' in colpa a dubitare così della sua promessa, ma la guerra e gli orrori che questa aveva portato con sé avevano sminuito il valore di qualsiasi giuramento. Erano solo parole, che senza un forte senso dell'onore non significavano niente. Il tempo della fiducia era passato.
Quella prima notte trascorse tranquilla. Hallende le offrì della carne essiccata da mangiare e cenò con lei. Più volte tentò anche di intavolare un discorso, ma Airis non era in vena di parlare, né tanto meno aveva intenzione di spiegarle come aveva fatto a recuperare la vista. Che pensasse pure che aveva fatto ricorso alla magia elfica, non era un'intuizione che differisse poi molto dalla realtà.
La mattina successiva venne svegliata dalla voce di Arghail, che ordinava ai soldati di smontare il campo e rimettersi in marcia. Il cielo era ancora grigio e il sole rosseggiava appena sulla linea dell'orizzonte, nascosto da un banco di nuvole minacciose. Quando si lasciarono alle spalle il bosco e imboccarono la strada che seguiva il Tabor, i primi fiocchi di neve iniziarono a svolazzare nell'aria, una spolverata di batuffoli delicata ma costante, dall'intensità di una pioggerellina estiva. In poco tempo, il freddo si fece tagliente, la vita si ritrasse tra le radici e nei tronchi e il paesaggio venne coperto da uno strato bianco e compatto, alto almeno due o tre pollici.
Proseguirono fino al tardo pomeriggio, quando Arghail comandò di fermarsi di nuovo. Nelle vicinanze non c'erano città dove cercare riparo, la maggior parte dei centri abitati erano stati abbandonati durante le retate degli elfi, quindi dovettero accamparsi in una radura poco distante dalla strada maestra, con un boschetto che l'abbracciava da sud e il nastro scintillante del Tabor a nord.
Mentre allestivano l'accampamento, Airis si abbandonò alla pace che albergava in quel luogo. Il vento le portava lo scroscio gentile delle acque del fiume e, di tanto in tanto, tra le fronde imbiancate degli abeti udiva il frenetico battito d'ali di pettirossi e merli in cerca di un rifugio. Erano a metà marzo, eppure il freddo non accennava ad allentare la sua morsa gelida sulla terra.
“Dev'essere una conseguenza dell'esplosione causata da Copernico.”
Si appoggiò ad Hallende e si lasciò condurre fino alla sua tenda, che era stata allestita vicino a quella di Arghail. Era un padiglione leggermente più piccolo di quello del comandante, situato al centro del campo, nel punto più protetto. Non appena entrò, Airis abbandonò il braccio della guaritrice e si lasciò cadere sulla branda, togliendosi lo jalibeb dal viso.
- Avete bisogno di qualcosa? -
- Solo di un po' d'acqua. - rispose stanca, passandosi una mano sulla fronte.
A contatto del palmo, trovò la pelle era appena accaldata, con un leggero velo di sudore.
- Vado immediatamente a prendervela. - disse Hallende e uscì veloce.
Airis si distese sul materasso e soffermò lo sguardo sul soffitto della tenda, riflettendo sulla situazione. Se avesse continuato a nevicare, avrebbero impiegato almeno una decina di giorni ad arrivare a porto Eamone. Come se questo non fosse abbastanza, in quel periodo i khaalesh soffiavano con più forza del dovuto, provocando tempeste che rendevano difficile la navigazione.
- Permesso? -
La voce di Arghail la fece alzare di scatto. Lui ridacchiò e, dopo aver congedato le guardie, entrò. Non indossava più l'armatura. L'unica cosa che lo distingueva da un soldato qualunque era la lunga spada con un'effige di un lupo sull'elsa. Nonostante la sua semplicità, cozzava con la sobria tunica di lana scura e gli stivali al ginocchio da cacciatore.
- Sembri un baldo scudiero così vestito. - commentò Airis con un sorriso, accettando volentieri l'otre che le offriva.
- Sono solo un comandante molto stanco. - rispose Arghail, ricambiando il sorriso.
- Da quando un comandante si occupa dei malati? -
- Da quando la malata in questione è più alta in grado di me. - abbassò la voce, accostando l'unica sedia della tenda alla branda.
Airis bevve un lungo sorso d'acqua, lanciandogli qualche occhiata di sottecchi. La durezza del pugnale contro la coscia la rassicurava, anche se era ben consapevole che scappare da lì si sarebbe rivelata un'impresa suicida. Posò l'otre a terra e si asciugò le labbra col dorso della mano.
- Grazie. -
- Ve l'ho già detto, è un onore avervi qui con me. - un sorriso sincero gli increspò le labbra, - Mi dispiace farvi viaggiare nel carro, spero non sia troppo scomodo. -
- Assolutamente. Hallende è un po' apprensiva, ma alla fine è il suo lavoro. Piuttosto, a cosa devo la vostra visita? -
Arghail intrecciò le dita sotto il mento e si fece assorto. I suoi occhi viola la studiavano con attenzione.
- Perché tutta questa fretta per arrivare a porto Eamone? Mi avete detto di darvi fiducia, di non chiedere e io ho accettato senza indugio, perché vi conosco e ho stima di voi. Però ho degli uomini con me e ho promesso alle loro famiglie che avrei fatto il possibile per riportarli a casa. -
- Pensi che potrei esporre te e i suoi soldati a dei pericoli? -
- Non lo so, questo dovreste dirmelo voi. Non mi piace brancolare nel buio, soprattutto se ho delle vite da proteggere. Ditemi cosa sta accadendo e per quale ragione desiderate così tanto nascondere la vostra identità e arrivare il più in fretta possibile a porto Eamone. Io vi ho dato fiducia, ora tocca a voi. -
Airis si tormentò le dita, con una voglia pressante di rivelargli tutto, pur di sgravarsi del peso delle responsabilità che sentiva sulle spalle. Ma non poteva.
Sostenne il suo sguardo, vagliando le informazioni che gli avrebbe riferito e quelle che gli avrebbe taciuto. Mai come in quel momento si rese conto di quanto fossero assurde le avventure che aveva vissuto.
La conversazione venne interrotta da Hallende. Aveva in mano due piatti con della carne arrostita e due fette di pane. Vicino a lei gravitavano dei secchi pieni d'acqua, che a un suo cenno si posizionarono di fianco al catino vicino ai bracieri. Solo in quel momento Airis si accorse che la maggior parte della mobilia che c'era nella tenda doveva appartenere al comandante. Si girò per ringraziarlo, ma Arghail minimizzò con un gesto della mano.
- Riprenderemo più tardi, se per voi non è un problema. - le disse alzandosi e incontrando nuovamente il suo sguardo, prima di fare un inchino per accomiatarsi, - Se vi serve qualcosa, non esitate a chiedere. -
- Grazie. - rispose Airis, e anche lei si alzò per inchinarsi.
Rimasta solo con Hallende, la guerriera esalò un sospiro di sollievo. Avrebbe avuto tempo per pensare a cosa dirgli e, soprattutto, a come dirglielo.
- Dovreste parlargli. - la donna prese le posate e impilò i piatti sul tavolo, - Sarà anche giovane, ma ha la mente molto più acuta di quello che potrebbe sembrare. -
- Non ho messo in dubbio la sua intelligenza, ma è difficile da spiegae. -
Hallende tacque. Si tolse lo shadar, il velo che le avvolgeva il capo, e i pendagli tra le trecce candide ricaddero sulle spalle, lasciandole scoperta la nuca rasata dove era stato inciso a fuoco un intrico di crisantemi. Sopra le orecchie, invece, c'erano una farfalla posata su un loto con moltissimi petali, mentre sulla parte sinistra ne era stata tatuata un'altra adagiata su una stella.
- Avete paura che non possa capire? -
La guerriera non rispose. Come avrebbe potuto aprirsi? Persino lei era rimasta incredula quando Copernico le aveva raccontato cos'era successo a Ledah e chi sedesse a fianco del re di Esperya.
- Arghail vi stima molto e, qualsiasi cosa abbiate fatto o nascondiate, non vi giudicherà. Inoltre, vi somigliate. Vi stupireste di quante cose avete in comune. -
- Ad esempio? - domandò scettica Airis.
Hallende sorrise e i suoi occhi azzurri guizzarono divertiti. Congiunse le mani davanti al viso, mormorando una bassa litania a fior di labbra, e quando terminò dall'esterno della tenda non proveniva più alcun suono.
- Niente paura, è solo una misura precauzionale per evitare che qualcuno ci senta. - si affrettò a spiegare Hallende.
- Sono segreti così importanti da necessitare del riparo della magia? - domandò confusa Airis.
- Preferisco essere sicura che le nostre parole rimangano qui dentro, soprattutto visto che ora ci accingiamo a parlare di voi e non della povera Arlena. - si lisciò le pieghe dell'abito e cominciò a raccontare, - Siete stati entrambi adottati, voi dal Generale Lullabyon, lui da una famiglia di mercanti. Quando era piccolo, i suoi genitori lo hanno abbandonato in un tempio di Calime. Non mi ha detto molto, non è un argomento di cui ami molto parlare, ma è una cosa che vi accomuna, assieme alla scelta di entrare nel corpo dei Cavalieri. -
Airis si massaggiò il mento con aria assorta. Quel primo dettaglio poteva costituire un indizio importante che collegava Arghail all'uomo nella Casa della Cenere.
- Non si sa niente della sua famiglia d'origine? -
- No, non se ne è mai interessato, e forse è meglio così. A volte dal passato possiamo attingere il fuoco, ma esso può solo ridarci indietro sterili ceneri. Arghail è un brav'uomo, ne ho conosciuti pochi come lui. Quando sono arrivata a Esperya con mia sorella, ha fatto di tutto per difenderci. Qui da voi è raro vedere delle donne nell'esercito e, quelle poche che ci sono, vengono considerate inferiori agli uomini. Persino tra noi guaritori è difficile incontrarne. Eppure a lui non è mai importato, non ci ha mai fatte sentire inferiori. Certo, continua a trattarmi con i guanti di velluto, ma mi considera un'alleata preziosa, indipendentemente dal fatto che io sia una chaylita e una donna. -
- Vi conoscete molto bene. -
- Beh, sì. È rimasto con noi quando avevamo più bisogno, ma, soprattutto, ha aiutato mia sorella quando si è trovata a dover affrontare i pregiudizi e la diffidenza dei soldati. - increspò le labbra in una smorfia amara, lo sguardo perso nei ricordi, - Non ha esitato a intervenire quando hanno tentato di farle del male, anche se inimicarsi quell'uomo significava avere contro quasi tutti i nostri compagni, rischiando così di essere espulso dall'esercito. Ha mantenuto sempre le sue promesse. - spostò la sua attenzione su di lei e Airis percepì nel suo tono di voce una profonda tristezza, - Generale, vi portate un peso enorme sulle spalle, lo vedo dalle ombre che albergano nel vostro sguardo e dalla tensione che cala su di voi quando vedete o me o Arghail parlare con qualcuno. Non so cosa vi sia accaduto, che cosa vi renda così diffidente nei nostri confronti, ma ricordatevi che nelle battaglie siamo tutti responsabili gli uni degli altri, nessuno di noi è solo. Non disdegnate la mano che vi viene tesa, stringetela. Con me lo avete fatto. -
- Io non... non m sono fidata di te. Ho finto di farlo. - ribatté Airis presa in contropiede.
- Vi siete fatta curare, vi siete affidata a me anche se ero un estranea. Poter contare su qualcuno non è un male. Ogni giorno per vivere compiamo innumerevoli atti di fiducia: per esempio, lasciamo che il nostro scudiero si occupi delle nostre armi, che il cuoco cucini il nostro cibo, che il nostro compagno attenda il nostro ritorno a casa dalla guerra, che un estraneo mantenga il segreto gli è appena stato rivelato, tutto questo senza alcuna garanzia. Decidiamo di affidarci agli altri per le cose serie e per quelle frivole, per le questioni vitali e per quelle meno importanti e lo facciamo non perché lo vogliamo, ma per obbligo, perché è indispensabile per vivere. -
- La fiducia rende ciechi. -
- La fiducia è l'unica che può permetterci di camminare nel buio. Senza di essa, qualsiasi battaglia è persa e qualsiasi essere umano è solo. -
Airis si passò una mano tra i capelli e scosse la testa: - Mi ricordi molto una persona che, un po' di tempo fa, mi ha suggerito di lasciarmi cadere nel vuoto. -
- Allora questa persona era davvero molto saggia, anche se la metafora che ha usato è comunque un po' angosciante. - ridacchiò, - Ora torno nella mia tenda. Domani riprenderemo la marcia e devo ancora lavarmi. Buonanotte, Generale. -
- Buonanotte, Hallende. -
Lei fece un inchino e tolse il disturbo. Non appena ebbe oltrepassato la soglia, i rumori del campo invasero nuovamente la tenda, attaccandole le orecchie abituate alla quiete. Fece una smorfia infastidita e sbuffò.
Quindi si spogliò e con calma cominciò a lavarsi, godendosi la pace. L'acqua si era raffreddata, ma per lei non era un problema. Si prese tutto il tempo per sciacquare via la polvere e la sporcizia accumulate durante il viaggio, strofinando per bene la pelle con la spugna e gli oli profumati che Hallende le aveva portato. Colse l'occasione per osservarsi e ancora una volta si stupì di quanto fosse cambiato il suo corpo, ma almeno, adesso, cominciava a sentirlo un po' più suo. Controllò la cicatrice vicino al cuore, percorrendone la linea zigrinata con i polpastrelli. Le sembrava che fosse più in rilievo rispetto a quando si era svegliata e, se possibile, anche più frastagliata, ma attribuì quell'impressione alla stanchezza. Si asciugò e si vestì con abiti puliti, un paio di lunghe braghe e una casacca di lino e lana che le scendeva un po' sulle spalle. Tentò di domare i capelli scompigliati, ma alla fine capitolò e optò per una semplice quanto pratica coda.
Quando si distese sulla branda, gli unici rumori che erano rimasti a farle compagnia erano il chiacchiericcio delle guardie fuori dalla tenda e il cigolio metallico delle armature dei soldati che facevano la ronda, suoni familiari che ben si sposavano alla silenziosa orchestra della natura. Per un po' rimase concentrata su quella melodia, che fin da quando era bambina aveva la capacità di calmarla, le permise di avvolgerla e al suo respiro di allinearsi con l'impercettibile palpito della terra in letargo. La consapevolezza di quello che doveva fare emerse dalla sua coscienza e finalmente, quando il sonno venne a prenderla, per la prima volta da quando era tornata in vita la sua mente si sgombrò da ogni pensiero.
 
Marciarono a tappe forzate per altri cinque giorni, seguendo la stessa procedura. I soldati pian piano smisero di parlare, vinti dalla fatica, dal vento sferzante e dal freddo. I più religiosi rivolsero spesso preghiere al dio Faelivrin affinché mitigasse il tempo, ma il cielo non era mai sembrato tanto taciturno e lontano.
Il sole sorgeva pallido e quasi malato al di sopra della linea dell'orizzonte e si mostrava a tratti, solo quando le nubi si squarciavano, per poi ricompattarsi in un muro grigio e impenetrabile. Anche allora la sua luce era appena sufficiente a scaldare la terra che, prontamente, veniva raffreddata dai khaalesh che spiravano dal mare verso l'entroterra.
Durante quei giorni Airis origliò le conversazioni dei soldati. Apprese che la guerra, nei mesi precedenti, era proseguita senza nessun evento straordinario, a parte la caduta di Llanowar di cui ancora pochi si capacitavano. Il re aveva spostato la maggior parte delle sue truppe al sud, contro Sheelwood, e ne aveva stanziate altre nei pressi delle foreste vicine, attuando una strategia di guerriglia per fiaccare il morale degli elfi e convincerli alla resa.
Airis si ritrovò a riflettere abbastanza di frequente sulla decisione che aveva preso, dato che non aveva nessuno con cui chiacchierare a parte Hallende, che, per quanto gentile, amava impicciarsi un po' troppo. E poi il freddo pungente aveva portato con sé anche tutte le malattie invernali, così Hallende dovette assistere i soldati e non era raro che sparisse per intere ore. Di conseguenza, la guerriera rimaneva nel carro o nella tenda in compagnia dei suoi pensieri, che si rincorrevano come cavalli imbizzarriti per poi convergere su un'unica persona: Ledah.
Erano passate poche settimane da che si erano separati a Luthien e Airis lo pensava quasi sempre. Pensava a com'erano stati bene durante quella settimana a casa di Copernico o la festa in maschera; ricordava con piacere quei momenti e non poteva esimersi dal sorridere e provare ad abbracciarsi come aveva fatto l'elfo mentre ballavano, illudendosi di riuscire ad avvertire ancora il suo calore. A volte le pareva davvero di avere le mani dell'elfo su di sé, che la stringevano trasmettendole un senso di sicurezza e tranquillità che serbava solo nelle memorie legate al padre e al Generale Lullabyon. Poi le tornava in mente che Ledah era un elfo e gli elfi erano il nemico, e si costringeva a scacciare quelle sciocche fantasie.
Al settimo giorno, non appena Arghail diede l'ordine di accamparsi, Airis restò a guardarlo da dietro la tela del carro in attesa di potergli parlare, occasione che si presentò solo dopo cena. Quando l'uomo entrò nella tenda, vestiva con gli stessi abiti dell'ultima volta che si erano visti.
- Mi avete mandato a chiamare? - esordì Arghail con un sorriso affabile.
- Sì, accomodati, sarà una cosa un po' lunga. Ah, aspetta, vorrei che ci fosse anche Hallende. -
- Vado subito a cercarla. -
Il comandante uscì e pochi istanti dopo fece ancora il suo ingresso, seguito dalla donna. Si sedettero davanti ad Airis con espressioni serie e aspettarono di essere messi al corrente del motivo del colloquio. Dopo qualche attimo di esitazione, la ragazza si accinse a raccontare. Disse loro della disfatta del Rashaar, del viaggio attraverso Llanowar e dell'alleanza con Ledah. Poi narrò della fuga da Alfheim, dei sopravvissuti di Amount-vinya, di Myria, Alan e Baldur, e infine del drago, dell'assedio di Luthien, di Copernico e del suo sacrificio. Le parole fluirono senza ostacoli, in un fiume ininterrotto e costante, e via via percepì il peso che le gravava sull'animo alleggerirsi.
Arghail l'ascoltò paziente, interrompendola solo qualche volta per chiedere dei chiarimenti su certi dettagli o persone, il viso una maschera indecifrabile che non lasciava trapelare nessuna emozione. Hallende la osservò senza battere ciglio, interessata e partecipe, ma, al contrario del compagno, non si intromise mai.
Quando Airis terminò, il silenzio cadde sul trio. Arghail si prese un tempo che alla guerriera parve infinito, per riflettere, valutare e soppesare quello che lei gli aveva riferito. Anche se non voleva darlo a vedere, era turbato e scettico.
- Quindi, ricapitolando, avete stretto un'alleanza con questo elfo, Ledah, che vi ha ridato la vista mentre stavate viaggiando verso Alfheim. Lì siete stati attaccati dal Generale Ignus, che era diventato un non-morto, e vi siete divisi per poi ritrovarvi a Luthien, dove avete incontrato un ricercato per alto tradimento che ha fatto esplodere il gigantesco drago assieme all'esercito di elfi non-morti. E i pochi superstiti sono stati massacrati dal Cavaliere del Drago che era giunto in vostro aiuto. Ho dimenticato qualcosa? -
- No, in sostanza è tutto. -
Arghail sospirò e si passò una mano tra i capelli. La luce dei bracieri illuminò il tatuaggio di una farfalla posata su una stella, inciso a fuoco sulla pelle del collo, proprio come quello di Hallende.
- Mi riesce difficile crederci. - mormorò, occhieggiando in direzione della guaritrice.
Hallende incrociò lo sguardo dell'uomo. Ci fu un breve dialogo silenzioso tra i due, durante il quale Airis si sentì a disagio, come se fosse un'intrusa. Un minuto più tardi, Arghail tornò a guardarla sorridendo e Airis sentì il sudore freddo evaporare insieme al nervosismo.
- In primo luogo, vorrei ringraziarvi per esservi confidata con me, immagino non sia stato facile. -
Airis spostò l'attenzione su Hallende, che si limitò ad alzare le spalle e a chinare lievemente la testa.
- Se il vostro racconto corrisponde a verità, le certezze che ci hanno tenuti in piedi fino ad ora non hanno più alcun valore. - continuò Arghail, - Ammetto che da un lato non è arduo accettare l'idea che gli elfi abbiano fatto uso della necromanzia, ma dall'altro non riesco a raccapezzarmi dell'esistenza di un uomo uguale a Felther che ha preso il suo posto per macellare degli innocenti. Ciò implica che quel... quell'essere che ha ammazzato i sopravvissuti di Luthien e Amoun-vinya è il vero Cavaliere del Drago e non una copia creata dalla magia degli elfi per seminare zizzania tra di noi. Accidenti, questa storia è talmente assurda che potrebbe davvero rimettere a posto tanti tasselli. - un'ombra scurì le iridi viola e Airis si irrigidì, - Ci sono alcuni buchi nella versione che mi avete riferito, ma... va bene così. Non vi fidate ancora del tutto di me, ne sono consapevole, e dopo quello che avete passato lo capisco. Rispetterò il vostro silenzio e vi aiuterò. - si alzò e le tese la mano, - Se dite che Ledah è essenziale per capire cosa sia realmente successo a Llanowar, cercherò di farvi giungere a porto Eamone il più presto possibile. Ne va del destino di Esperya, giusto? - stirò le labbra in un sorriso sghembo, ma gentile.
La guerriera fissò per un lungo momento la mano che Arghail le tendeva, poi si alzò e gliela strinse con fermezza.
- Vi ringrazio. - disse, guardando sia lui sia la guaritrice, - Grazie per avermi creduto e per aver scelto di aiutarmi. -
- Lo avremmo fatto comunque. Conoscendo Arghail, non vi avrebbe mai abbandonata. - Hallende gli tirò un pugno sulla spalla, guadagnandosi un'occhiata truce, - Oh, dai, hai passato tutte queste sere e tormentarti su cosa le era accaduto! Ti sono venute pure le occhiaie per la preoccupazione. -
- Direi che “tormentarsi” mal si adatta a definire il mio stato d'animo degli ultimi giorni, non ero poi così disperato. - borbottò risentito Arghail.
- Certo, certo. -
- Non mi sono tormentato! - insisté piccato.
Improvvisamente l'atmosfera nella tenda divenne leggera, allegra e, nel silenzio che li circondava, la guerriera si sentì di nuovo a casa, rasserenata dalla vivacità delle battute che i suoi due nuovi alleati si scambiavano. Hallende aveva una risata argentina che metteva di buon umore, mentre Arghail riusciva a recitare bene la parte del finto offeso, ma al momento giusto lanciava una battuta che zittiva donna. C'era una complicità speciale tra loro.
Quando si congedarono per lasciarla riposare, Airis ricadde a peso morto sulla branda. Si sentiva svuotata, ma il nodo che le serrava la gola e le viscere si era sciolto come neve al sole. Chiuse gli occhi e inspirò profondamente il profumo che proveniva dai bracieri per via delle spezie che vi erano state gettate all'interno per mitigare l'odore forte dell'olio rosso. Si fece cullare da quella dolce fragranza e presto cedette al sonno senza opporre resistenza.
 
Intorno a lei c'era solo una distesa infinita di bianco, priva di qualsivoglia punto di riferimento. Airis sapeva dove si trovava e non si sorprese quando vide Cyril andarle incontro. Le sottili e candide ali che aveva al posto delle orecchie la sostenevano in volo, sbattendo forti e aggraziate a ritmo sincronizzato.
- Ottimo lavoro, sono fiera di te. - le disse con voce flautata, che le accarezzò le orecchie, calma e melodiosa, come il mormorio dell'acqua di un ruscello.
- Ti riferisci al fatto che mi sono fidata, oppure che ho trovato il prossimo erede al trono? -
Cyril si limitò a sorridere e Airis non se ne ebbe a male, poiché in fondo sapeva che non le avrebbe risposto.
- Perché mi hai chiamata? Non penso ti interessino le mie condizioni di salute. -
- È mio dovere preservare, per quanto possibile, la salute fisica del Guardiano. Quindi sì, ti ho riportata qui perché volevo parlarti. Quando sei entrata nella Casa della Cenere, gli spiriti hanno legato subito l'anima al corpo e io non ho fatto in tempo a dirti delle cose. -
- E adesso è arrivato il momento delle spiegazioni? Ero convinta che avrei dovuto cercare tutte le risposte da sola. -
- Ascoltami, ti prego. Il processo che ti ha riportata in vita è stato più rapido di quanto credessi, forse i Guardiani avranno ritenuto opportuna la tua presenza nel mondo materiale. Ormai tu non sei più né un essere umano né una Risvegliata, Airis. La magia ti ha resa più potente e ha temprato il tuo corpo rendendoti molto più forte di qualsiasi creatura esistente. I maghi ti chiamerebbero Homunculus, cioè un essere che racchiude in sé l'energia primigenia dell'universo, che lo alimenta e gli permette di vincere i limiti umani. -
- Quindi il corpo che ho trovato nella radura... -
- Era il tuo vecchio corpo, un guscio vuoto che è stato donato alla terra. - completò Cyril.
Airis deglutì e si passò le mani sul viso e tra i capelli. Aveva già vagliato quella possibilità, ma averne la conferma era un'altra questione.
- Abbine cura, Airis, poiché l'energia che alimenta il tuo corpo non è eterna. Col passare dei mesi, si esaurirà. A differenza di quello degli altri Guardiani, il tuo corpo non ha subito una mutazione, è stato proprio ricreato dal nulla. Plasmando l'energia che vivificò il Mondo Nato dal Nulla, la tua anima è stata ricucita a un nuovo contenitore, nato dall'unione degli elementi che compongono tutto ciò che esiste. La cicatrice sul cuore è il tuo orologio e le lancette sono il tatuaggio che si disegnerò attorno ad essa. Alla fine, quando si sarà preso ogni centimetro della tua pelle, il tuo tempo scadrà. -
- Immagino di non poterlo fermare... -
- No, per questo è importante che tu ristabilisca l'equilibrio in fretta. - sospirò e il suo sguardo si perse nel vuoto per un istante, prima di spostarsi di nuovo su di lei, - Devi andare a Sershet, salvare Ledah e trovare Amarnwyn. Non temere, io rimarrò sempre al tuo fianco, anche se non potrò parlare con te. -
- Lo farò, lo prometto. - la rassicurò Airis con un sorriso.
Avrebbe voluto aggiungere che lo faceva perché sentiva il bisogno di rivedere Ledah, di dirgli che la promessa che si erano scambiati a Luthien per lei era ancora valida, invece restò in silenzio. I sentimenti, di qualsiasi natura fossero, dovevano rimanere fuori da quella storia.
Cyril incatenò gli occhi a quelli di Airis, che si sentì nuda, esposta di fronte a quelle iridi che sapeva essere capaci di leggerle dentro. Poi chinò il capo in segno di saluto e le diede le spalle, lasciando che fossero i piedi e la memoria del suo corpo a condurla fuori da quel luogo, che era ovunque e da nessuna parte.
Mentre camminava, la voce di Cyril le giunse alle orecchie come un'eco lontana.
- Airis, la tempesta è vicina. -
La guerriera si voltò di tre quarti, incontrando ancora l'espressione seria di Cyril, le sue ali candide che si confondevano in quel bianco infinito.
- Che giunga, io la sto aspettando. -

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Capitolo 8
*** Porto Eamone ***


Fuoco 2

7

Porto Eamone

Al calar del sole del quarto giorno giunsero a porto Eamone. La città si trovava su un promontorio roccioso che si affacciava sul Mar di Ghiaccio. Quando era stata fondata, le mura che la circondavano erano basse, ma adesso, con l'inasprirsi della guerra, il governatore era stato costretto ad alzarle. Da lontano si vedeva la differenza tra la vecchia cinta difensiva di marmo levigato dal mare e la nuova, una striscia di blocchi regolari disposti a file alterne di testa e di taglio. Il ponte levatoio era abbassato e le guardie, vestite con le armature recanti lo stemma della famiglia reale, presidiavano l'ingresso, facendo pagare il pedaggio ai contadini e a quei pochi mercanti che ancora viaggiavano per le strade.
Quando il carro si fermò, Airis udì Arghail discutere rapidamente con uno dei soldati, che, non appena si rese conto di chi aveva davanti, mise da parte qualunque rimostranza. Proseguirono ancora per un po', inoltrandosi nella città. Nonostante l'ora, umani, nani e gnomi giravano per le vie in un continuo e caotico via vai che nemmeno la guerra era riuscita a intaccare. L'aria, satura dei profumi penetranti del porto, portava con sé le urla dei mercanti che rilanciavano sul prezzo, il cicaleccio delle donne che passeggiavano e il cigolio dei carri carichi di beni importati e d'asporto.
- Eri mai stata qui? - domandò Hallende.
- Sì, anche se è stato molto tempo fa. - rispose Airis.
- Quando siete stata mandata al Nord dalla regina? -
- Sì, ma sono venuta anche molto prima. -
- Mi è concesso chiedere... -
- Magari un'altra volta. - disse con un sorriso stanco.
Hallende non insisté, anche se l'espressione delusa sul suo viso lasciava intendere che le sarebbe piaciuto saperne di più. Ad Airis dispiacque, ma non aveva nessuna voglia di parlare del suo passato o condividere i ricordi che quella città aveva risvegliato in lei. Memorie felici, frammenti di una vita precedente che erano poi diventati mattoni sui quali aveva ricostruito se stessa.
La loro guarnigione si mosse piano tra i vicoli, imboccando una delle tante vie che si perdevano in quel labirinto di palazzi e case. La guerriera non sapeva esattamente dove si stessero dirigendo, ma dal panorama dedusse che non fossero poi così lontani dalla Piazza Grande.
Quando si fermarono, Hallende scese dal carro agile come un gatto, dopo averle fatto cenno di fare silenzio. Airis la sentì discutere con Arghail, informandolo che le condizioni di Arlena erano peggiorate. Non trascorsero che pochi istanti, prima che il comandante desse l'ordine ai suoi uomini di entrare nella caserma e rimanere nelle loro stanze. Quando lo scalpiccio e lo sferragliare dei soldati svanì in lontananza, Hallende tornò dentro e l'aiutò a smontare dal carro. Appoggiandosi al suo braccio, Airis si trascinò fuori e si lasciò condurre nella caserma. Era un edificio imponente, con un perimetro quadrangolare, lati arrotondati e un lato obliquo, circondato da un muro di qualche braccio in opera laterizia. La doppia porta che si apriva sull'ambiente interno era di un pesante legno di quercia con fregi in ferro, lavorato con una tecnica a sbalzo in modo da comporre il lupo della famiglia reale nella parte sinistra e l'ippocampo alato sulla destra.
Hallende la condusse per un lungo corridoio, tenendole una mano attorno alla spalla, con Arghail che procedeva al suo fianco con ampie falcate, ponendo domande alla sua compagna sulle condizioni di Airis. La guerriera, dal canto suo, rimase in silenzio, mugolando di tanto in tanto per rendere la messinscena più verosimile. Quando giunsero all'ultima camera del corridoio, il comandante fece un rapido inchino, prima di chiudersi la porta alle spalle. Probabilmente, pensò distrattamente Airis, stava andando a controllare che tutti i soldati fossero andati nella camerata.
L'infermeria era uno stanzone spartano, con una ventina di letti allineati su due muri e tre ampie finestre che aggettavano sulla strada. Hallende si affrettò a chiudere le tende, mentre la guerriera combatteva contro lo jalibeb. Appena riuscì a toglierselo, sequestrò la sedia dietro il tavolo di cedro dove erano state posate bende e vari barattoli, accomodandosi con un sospiro di sollievo.
- Vuoi mangiare qualcosa? - mormorò la cerusica, appoggiandosi al capezzale del letto di fronte a lei, - Se resisti un'ora o due, poi posso uscire per vedere se è avanzato un po' di pane o un mestolo di minestra d'avena. -
- No, adesso ho altro per la testa. - la guerriera si massaggiò le tempie, - Ti ringrazio per avermi aiutata, ma devo partire. -
- Sì, per andare alla ricerca dell'elfo. - sospirò Hallende, - Purtroppo non posso aiutarti, non conosco molto bene porto Eamone per dirti quali e quante navi sono dirette al sud. Dovresti provare a parlarne con Arghail, è un esperto di queste terre. -
A sentire nominare il nome del comandante, un altro pensiero fece capolino nella mente di Airis. Non sapeva ancora nulla di lui, a parte che era un uomo d'onore, che era stato adottato e che, secondo uno dei Guardiani, lei avrebbe dovuto aiutarlo a diventare re.
“Il che, ipotizzando che sia vero e possibile, è davvero difficile.”
- Qualcosa non va? Non vi sentite bene? - la richiamò preoccupata Hallende.
- No, no, è stato solo un viaggio lungo e sfiancante. - la rassicurò prontamente, - Inoltre... parliamoci chiaro: come fate a portare per ore questo scialle in testa? È soffocante! -
La donna scoppiò a ridere a bassa voce. Una risata limpida, cristallina, che contagiò anche Airis.
- Avete ragione, in effetti all'inizio è davvero fastidioso. Mia madre mi raccontava che la prima volta che ha provato a mettermelo, l'ho buttato a terra e sono scappata via. Quando finalmente è riuscita ad acchiapparmi, non le ho più parlato per giorni. - tossicchiò, ricomponendosi, - Pensandoci col senno di poi, se non avesse insistito mi sarei presa un'insolazione e sarei stata male, ma all'epoca ero troppo piccola per capire certe cose. -
- Non credo esistano bambini che condividano appieno le scelte che i loro genitori fanno per loro. - commentò Airis, accavallando le gambe e facendo scrocchiare la schiena, - Non avrei mai detto che fossi così pestifera, comunque. Sembri così... -
- Calma e pacata? Sapete come si dice, no? La pazienza è la virtù dei forti e io ne ho imparato il valore solo quando ho capito quale fosse la mia strada. -
- Ti riferisci al tuo percorso per diventare una guaritrice? -
- Per lo più mi riferisco alla fede, a ciò in cui credo. - la sua mano corse alla farfalla poggiata sul loto ai lati della testa e il suo sguardo si adombrò, perse la luminosità che fino a quel momento faceva vibrare le iridi turchesi, - Solo... a volte mi sarebbe piaciuto non dover scegliere. -
Non aggiunse altro e Airis capì che non sarebbe stato giusto domandare. Hallende aveva rispettato la sua riservatezza e aveva atteso che fosse lei ad aprirsi; ora era il suo turno di aspettare.
- Sai, c'era un soldato tra i miei uomini che era credente. Durante le pause tra un allenamento e l'altro, al posto di unirsi ai suoi compagni per bere o andare a far baldoria, si rifugiava nella sua tenda e pregava. L'ho visto spesso inginocchiarsi, con le mani giunte sul petto e gli occhi chiusi, mentre recitava una preghiera rivolta ad Laeyr. Un giorno gli chiesi perché lo facesse. Insomma, i miei genitori non erano molto religiosi, e nemmeno io lo ero. Faticavo a capire come mai dedicasse così tanto tempo a venerare un... qualcosa che nemmeno sappiamo se esiste. Lui mi rispose semplicemente che nella fede c'era abbastanza speranza per contrastare la desolazione, e abbastanza amore per tollerare la solitudine. Perciò, qualsiasi scelta tu abbia fatto, credo che sia stata la migliore se ti ha resa la persona che sei ora. -
Un sorriso si dipinse sulle labbra di Hallende, che poi si allungò e le strinse con delicatezza la mano, chinando appena il capo fino a sfiorarle le dita in un tacito gesto di ringraziamento. La guerriera la lasciò fare, senza tentare di avvicinarsi né allontanarsi. Solo quando la sentì allentare la presa, intrecciò le braccia sul petto.
- Ah, puoi anche smetterla di darmi del “voi”. Odio le formalità. - buttò lì Airis, cambiando argomento.
- Non mi sembrava, anzi, mi avete... mi hai dato l'impressione di bearti del tuo ruolo. - la prese in giro Hallende.
Airis scosse la testa, arricciando il naso in una smorfia fintamente offesa, già pronta a rispondere a tono, quando sentirono bussare. Subito si zittirono entrambe e Hallende, alzandosi, la esortò a infilarsi sotto le coperte. La guerriera obbedì e si girò dando le spalle alla porta, obbligandosi a respirare con regolarità così da dare l'impressione di star dormendo.
- Guardate che lo so che non state dormendo, Generale. -
La voce allegra di Arghail vibrò nell'aria immobile dell'infermeria, mentre avanzava nella sua direzione. Airis capì dalla pesantezza dei suoi passi che indossava ancora l'armatura.
- Ha detto che possiamo darle del “tu”. - gli disse Hallende, mentre si risiedeva sul letto.
A quel commento il comandante si fece serio: - Generale, siete sicura che vi vada bene? Non vorremmo mai mancarvi di rispetto. -
- Come ho già detto, odio le formalità. In pubblico le riesco a sopportare, ma in privato mi sembrano eccessive, soprattutto dopo quello che ci siamo detti. -
Arghail annuì, poi prese la seconda e ultima sedia rimasta dietro il tavolo di cedro e vi si sedette. Aveva un'espressione seria sul volto e Airis intuì che quello che le stava per dire non le avrebbe fatto piacere.
- Il re è morto, il male che lo divorava dall'interno non gli ha lasciato scampo. Ha nominato come suo successore sua moglie, Wecilia Mallus. Ho sentito un mercante che ne parlava mentre venivamo qui. I funerali si svolgeranno tra un paio di giorni. -
Il cuore di Airis perse un battito e sentì un brivido gelido serpeggiarle nelle ossa e avvilupparle lo stomaco. Si massaggiò la radice del naso, imponendosi di restare calma e non cedere all'angoscia . Cyril le aveva detto che il rito avrebbe avuto luogo durante una particolare congiunzione astrale, quindi dubitava che quell'episodio avrebbe influito sui suoi piani. Ciononostante, non riusciva a non pensare a quanto potere quella donna avesse accentrato nelle proprie mani: prima si era sbarazzata di Serjel, poi di Copernico e infine di Voren. Adesso, tra lei e il dominio assoluto della capitale, c'erano solo i dodici Consiglieri, e forse, a breve, nemmeno loro.
“Devo sbrigarmi.”
- Qualcosa non va? - domandò cauto Arghail.
- No, sono solo sconvolta. É stato inaspettato. Non credevo che sarebbe accaduto così presto. -
- Se non fosse che ora sul trono siede quella serpe, sarei quasi contento di quello che gli è accaduto. - sibilò lui, le dita intrecciate così strette da far sbiancare le nocche.
Airis si mostrò d'accordo. Non poteva dire di aver amato un sovrano come Voren, ma in fondo provava pietà per quell'uomo che, come suo padre prima di lui, era caduto nella rete della Lich.
- Senti, ma... i tuoi uomini non hanno paura? -
- Paura di cosa? -
- Che tu ti possa ammalare. La febbre rossa è molto contagiosa. -
L'uomo esitò, era evidente che non era preparato a una domanda del genere. Era come se stesse valutando cosa dire, soppesando le parole giuste da usare. Hallende non disse nulla, ma, da come lo guardava, Airis capì che già sapeva cosa stesse per dire.
- Non c'è pericolo, l'ho già contratta. - rivelò infine, spiazzando la guerriera.
La febbre rossa era una malattia crudele, anneriva il sangue, annichiliva la mente e distruggeva il corpo. Erano stati a centinaia i bambini colpiti sei anni prima, per lo più figli di contadini e mercanti girovaghi che non potevano permettersi le cure di un bravo guaritore come Hallende. Ancora oggi quei pochi che si erano salvati portavano i segni del loro calvario, menomazioni che impedivano loro di camminare e che, spesso, paralizzavano anche i loro bambini. La guerriera aveva dato per scontato che Arghail fosse il rampollo di una famiglia nobile, che era stato adottato per succedere alla carica di un qualche comandante d'alto rango senza eredi, ma quella rivelazione cambiava le carte in tavola.
- L'ho contratta quando ero piccolo e vivevo ancora in campagna. Sono stato fortunato che in quel periodo un giovane cerusico fosse stato mandato a fare l'apprendistato nel paese vicino al mio, altrimenti non ce l'avrei fatta. - spiegò con voce neutra, quasi atona, le braccia intrecciate dietro la nuca, - Piuttosto... adesso cos'hai intenzione di fare? Prendere una nave diretta a Sershet? -
- Sì, non ho molta scelta. Non sono sicura che Ledah sia lì, ma considerando la posizione di Lysandra e quello che vuole fare, non c'è posto più sicuro della capitale. -
- Non posso che concordare, ma non sarà facile trovarne una. In questo periodo i Khaleesh rendono difficile la navigazione, i mercanti preferiscono viaggiare per terra piuttosto che affrontare il rischio di un naufragio nelle acque gelide del Mar di Ghiaccio. Ma forse posso chiedere a un amico se può darci un passaggio. -
- Stai parlando di Torvir? - chiese Hallende.
- Sì. - rispose, spostando lo sguardo su Airis, - Era un mio commilitone. Abbiamo fatto l'Accademia insieme. -
- Ti fidi di lui? - s'informò Airis.
- Altroché, mi ha guardato le spalle un sacco di volte. È come un fratello. -
- Sì, è vero, è un uomo con un grande senso dell'onore. - confermò Hallende, mentre sulle sue labbra balenava un sorriso divertito, - È uno scavezzacollo, ma è una brava persona. Se glielo chiederemo, ci aiuterà. -
Airis annuì, poi il suo sguardo si perse sulla danza di luci che serpeggiavano sul vetro scuro della finestra.
- Non so se sia una buona idea uscire stasera. - proseguì Hallende, scoccandole un'occhiata preoccupata, - Hai... abbiamo affrontato un viaggio molto duro e abbiamo tutti bisogno di riposare. Sarebbe meglio dormire qui stanotte e domattina andare a cercare Torvir. -
- Sì, sarebbe la cosa più giusta. - concordò Arghail, stropicciandosi gli occhi con indice e pollice, - Domani dovrebbe arrivare anche Fadri per prendere il comando al mio posto. Inoltre, ora come ora, non saprei in che buco si possa essere andato a infilare quel pazzo. -
La guerriera si umettò le labbra pensierosa. Si sentiva ancora carica, piena di energie, nonostante avesse affrontato un viaggio a tappe forzate fino a lì. La cosa la sorprendeva e allo stesso tempo la spaventava. Cyril le aveva detto che era un homunculus, ma lei non sapeva esattamente cosa implicasse l'essere rinata con quel corpo che sembrava immune a tutto.
Spostò nuovamente la sua attenzione su Hallende e Arghail, concedendosi del tempo per pensare. La decisione arrivò da sé: c'era in gioco qualcosa di grande, dalle sue scelte dipendeva il destino di Esperya stessa, e non poteva permettersi il lusso di rischiare tutto.
- Per me va bene. - acconsentì, fingendo di sbadigliare, - Domani usciremo solo io e Hallende? -
- Sì, io vi raggiungerò quando Fadri arriverà in città. - replicò Arghail alzandosi, - Allora vi do la buonanotte, signore. Hallende, ti ricordi com'è la nave di Torvir? -
- Perbacco! Ha scelto una polena talmente originale che è impossibile dimenticarla! -
Il comandante sorrise, si inchinò e sparì oltre la soglia, chiudendosi la porta alle spalle.
Prima di andare a dormire, Hallende studiò Airis per un lungo momento.
- Domani devo fare una cosa. - bofonchiò tra sé e sé.
- Cosa? -
- Niente di che, non ti devi preoccupare. -
Airis sospirò e non insisté. Una vocina nella sua testa le ricordò che anche Myria aveva avuto la stessa espressione prima della festa.
 
Hallende venne a svegliarla che era quasi l'alba. Le spiegò a grandi linee cosa le avrebbe fatto e Airis si limitò a sedersi sullo sgabello per lasciare che le pettinasse i capelli. Una paletta mescolava un liquido nero vicino a un bacile pieno d'acqua, profumava di miele, giglio e cinnamomo. Quando la donna si ritenne soddisfatta del risultato, cominciò a spalmare l'impasto sulle ciocche, dalla radice fino alle punte. L'operazione durò per qualche ora. Hallende le lavò i capelli e glieli pettinò nuovamente, per poi stringerli in una treccia che partiva dalla sommità della nuca e dedicarsi al trucco del viso. Per tutto il tempo Airis non parlò quasi mai, ancora intontita dal sonno e dal brusco risveglio. Solo quando l'altra le mise davanti un piccolo specchio, prese coscienza del cambiamento.
- Come ti sembrano? Secondo me, ti donano. Ho scelto il colore più scuro che avevo. -
- Sono strani... - commentò, guardandosi da ogni angolazione.
Faticava a riconoscersi nel proprio riflesso. La ragazza con i capelli neri e l'espressione spaesata che la scrutava dallo specchio era lei, eppure allo stesso tempo le sembrava un'altra persona. Anche le sopracciglia erano state tinte, e le lentiggini che le punteggiavano tutto il viso erano sparite. Soltanto gli occhi erano rimasti invariati, ricordandole chi era davvero.
- Dai, vieni, dobbiamo sbrigarci. - la richiamò Hallende.
Aiutò Airis a vestirsi, avvolgendole il capo in uno jalibeb nero appaiato con lo shaalar dello stesso colore. Sotto le fece indossare dei pantaloni aderenti, una tunica di lana blu scura, dalle maniche un po' troppo larghe per i gusti di Airis, e dei guanti di lana che la coprivano fino all'avambraccio. Dopodiché, uscirono dall'infermeria. Rifecero la strada del giorno precedente, completa di sceneggiata, e quando oltrepassarono la porta, i due soldati di guardia si spostarono senza dire nulla. Airis poté percepire i loro sguardi di compatimento pesarle sulla nuca. Sapeva che doveva fingersi ancora malata per evitare di attirare l'attenzione, eppure non riuscì a trattenere una smorfia di disappunto.
Ad ogni modo, un minuto più tardi erano già all'aria aperta, la caserma alle spalle e la via maestra di fronte. Proseguirono a dritto per un po', poi Hallende svoltò bruscamente in un vicolo deserto. Airis colse l'occasione e si tolse scialle e tutto il resto, inspirando a pieni polmoni l'odore di salsedine portato dal vento, che soffiava dall'oceano. A quel punto, lontane da occhi conosciuti, si diressero verso il porto più tranquille.
La strada su cui Hallende la condusse si snodava in mezzo alle case come un serpente, zigzagando tra edifici dall'architettura disordinata, eppure unica nel suo genere, influenzata dai vari governi che si erano succeduti negli anni. Airis riconobbe, al di là dei tetti, le alte torri squadrate costruite da Varian D'Uster, con le tipiche gargolle dalla testa di drago, poi quella che fu la dimora di Castellari Ferdians, con i balconi in pietra decorati con ibischi ed edere rampicanti, e infine il grande tempio dedicato a Yius, il Leone Splendente, con il suo mastodontico frontone e le colonne di marmo rosa.
La prima volta che Airis era giunta a porto Eamone, Davsten l'aveva condotta per quelle stesse strade, descrivendole nei minimi particolari ciò che vedeva, così che anche lei potesse godere di quel paesaggio. Era una ragazzina allora, doveva ancora decidere cosa fare della propria vita.
- Ti piace questo posto, vero? -
- Sì. Da cosa lo hai capito? -
- Stai sorridendo. Tu non sorridi quasi mai, non con il cuore. -
Airis indugiò, colta in fallo. Si rannuvolò appena, poi rivolse alla donna un sorriso mesto.
- Sei una buona osservatrice. -
- È il mio lavoro. Muoviamoci, sia mai che Torvir trovi un'altra sottana a cui correre dietro. -
Seguirono le viuzze in discesa, passando per scale scolpite direttamente nella pietra e piazze gremite da nani, gnomi e umani intenti a trattare sul prezzo delle merci in mostra sulle bancarelle. In Via degli Arazzi, gioiellieri e sarti avevano aperto le porte delle loro botteghe, esponendo abiti sontuosi o bracciali di pietre dure provenienti da ogni parte del regno che affascinavano tutti, dal mendicante alla donna sulla portantina. Airis ripensò alle parole del Generale Lullabyon e a quanto fossero vere: poco importava da dove venivi, chi eri o chi saresti voluto diventare, a Porto Eamone avresti comunque potuto trovare un nuovo scopo o l'opportunità di realizzare i tuoi sogni.
Dopo aver comprato qualcosa da mangiare da un venditore ambulante, proseguirono a passo spedito fino a quando gli alberi delle navi apparvero al di sopra dei tetti. Mentre si avvicinavano, la guerriera si guardava intorno meravigliata. Era stata in quel luogo più di una volta, eppure quella era la prima che lo vedeva veramente: il porto era immenso. Si sviluppava su tutto il naturale bacino scavato dal Mar di Ghiaccio e tutta la sua circonferenza era occupata da approdi di ogni tipo, dove veleggiavano galeoni, galee e vascelli maestosi o modesti. Una stretta striscia di osterie, bordelli e negozi era stata costruita vicino al faro, che si stagliava contro l'orizzonte in tutte le sue undici braccia di pietra bianca e opalescente.
Hallende puntò sicura verso destra, dirigendosi verso un piccolo approdo dove era stata ormeggiata una nave che Airis non poté che definire particolare. La forma lunga e slanciata, assieme al pescaggio poco profondo, le ricordava le navi da guerra di mezzo secolo addietro, ma la vela rettangolare montata sull'unico albero le suggerì che in realtà dovesse essere ben più recente. Alla fine fu la prua ad attirare maggiormente la sua attenzione, la polena plasmata come un drago tricefalo dalle zanne snudate e gli occhi così grandi da essere quasi sproporzionati.
- Hallende! Quanto tempo! - gridò una voce gioviale dal ponte della nave.
Un uomo dai capelli bianchissimi, tagliati molto corti, si sbracciò verso di loro attirando l'attenzione di Hallende, che subito gli andò incontro.
- Torvir, come stai? Sempre occupato nei tuoi loschi traffici? -
- Sempre e comunque, mi conosci. - scherzò ammiccando, poi si girò verso uno dei suoi sottoposti e, dopo avergli dato istruzioni, scese sul pontile.
Aveva un accenno di barba sulle guance e sul collo e le orecchie leggermente allungate ben in vista, adornate con orecchini d'osso di varia grandezza. Gli occhi, di un rosso cupo, osservavano gli uomini che stavano caricando una grossa cassa. A lavoro ultimato, si girò a fronteggiarle, senza perdere il vago ghigno malizioso che gli arricciava gli angoli della bocca.
Airis si stupì nel riconoscere nel suo volto un retaggio elfico. Si domandò come fosse riuscito un mezzelfo a entrare nell'esercito e sopravvivere. Torvir intercettò il suo sguardo indagatore e ghignò più apertamente, facendo scivolare le iridi scarlatte sul corpo della guerriera.
- E chi è questa meraviglia? Non mi avevi detto di avere un'amica così carina! O forse me ne avevi parlato e io non me lo ricordo? No, impossibile, non potrei certo dimenticarmi di una simile bellezza nordica. -
- Smettila, non vedi che la stai mettendo in imbarazzo? - lo rimproverò, per poi voltarsi verso Airis, - Scusalo, fa sempre così... -
- Non ti preoccupare. -
- Ci sarai abituata, immagino. - si intromise Torvir.
- Decisamente. -
- Uh, aspetta. Hallende, non dirmi che è sposata o cose del genere. No, perché nel caso non è un problema per me, anzi, il fascino del proibito lo trovo particolarmente eccitante... -
Prima che potesse andare oltre, Airis lo fermò: - Intendevo dire che, essendo cresciuta con quattro fratelli maschi, sono abituata a certi comportamenti. Ci vuole ben altro per scandalizzarmi. -
Con un gesto più rapido di quello che l'uomo si aspettava, lo afferrò per le palle e le strinse come l'uva durante la stagione della vendemmia, sulle labbra arcuate un sorriso più divertito che minaccioso.
- Al tuo posto, terrei la bocca chiusa, capitano. E se pensi che io sia una nave da abbordare come un pirata... ti sbagli di grosso. -
Torvir la fissò sorpreso, evidentemente spiazzato da quella reazione. La guerriera si gustò la sua espressione per ancora qualche secondo, prima di lasciare molto lentamente la presa.
Hallende si coprì la bocca per nascondere una risata, ma nello stesso momento un paio esplosero nell'aria, accompagnate da una sequela di battute e applausi provenienti dalle bocche dei marinai, che avevano assistito dal ponte alla stregua di comari che spiano dalla finestra.
Torvir, dopo un breve istante in cui non seppe che fare, dardeggiò uno sguardo truce verso la ciurma, che si zittì tornando al lavoro.
- Dicevamo... Hallende, è da molto che non ci vediamo! Arghail come sta? - disse tossicchiando, nel tentativo di scacciare l'imbarazzo.
- Bene, sta aspettando che Fadri venga per sostituirlo. - rispose Hallende.
- Ah, quindi è qui in città? E come mai non è venuto a trovarmi? Non dirmi che ce l'ha ancora con me per la rissa alla taverna della volta scorsa. -
- No, non penso, sai che non rimane mai arrabbiato a lungo. Ha delle cose da fare prima di partire. -
- Torna a Sershet? -
- Sì, diciamo di sì. Anche tu sei in partenza, vedo. -
Torvir annuì e indicò con orgoglio la sua nave: - Ho da trasportare un grosso carico di spezie fino alla capitale. Non sarà una navigazione facile, con questo tempo così instabile dovremo stare più attenti del solito. Se fosse stato come ai vecchi tempi, avrei chiesto a te e ad Arghail di seguirmi, ma... -
- Potremmo parlare da un'altra parte? -
L'uomo alzò un sopracciglio e la scrutò con cipiglio sospettoso, prima di annuire.
- Lascio disposizioni a Sin e ti raggiungo al solito posto. -
- A dopo. - lo salutò la donna e quando furono abbastanza lontane guardò Airis interessata, - È vero che hai quattro fratelli maschi? -
- No, sono figlia unica. -
Hallende scoppiò a ridere e le batté una pacca sulla spalla.
- Sei stata fantastica prima! -
- Non ho fatto nulla. -
- Sei riuscita a mettere in imbarazzo Torvir, ti assicuro che non è un'impresa da poco. -
Airis si concesse un mezzo sorriso e assunse l'aria di una che la sa lunga: - Diciamo che so come prendere un uomo. -
Si diressero verso la linea di edifici che si affastellavano vicino al faro. Hallende tirò dritto fino a un palazzo basso e tozzo, dalla facciata erosa dal tempo e dalla salsedine. Dalle finestre accostate usciva il chiasso degli avventori.
- “Dalla Donna d'Oriente”. Non pensavo che Arghail fosse un frequentatore di simili bettole. -
Hallende si rabbuiò e le sue labbra si incresparono in una smorfia amara. Le dita della mano destra sfiorarono il tatuaggio, mentre la sinistra si strinse sulla pesante maniglia di ferro nero macchiato di ruggine. Poi, con un gesto fin troppo brusco, l'abbassò.
Il freddo si dissipò nelle volute di fumo acre che salivano fino al soffitto. Furono accolte dalle risate e dalle voci di uomini e donne ubriachi, almeno quelli che non dormivano stravaccati sui tavoli e sulle sedie mangiate dai tarli. Una cameriera vestita con un abito di un rosso smorto diede loro il benvenuto con un sorriso stanco, mentre sistemava bicchieri e piatti sul vassoio. L'oste dietro il bancone, un uomo dalla stazza considerevole e il naso adunco, alzò lo sguardo dall'orcio che stava lavando e, non appena notò le sue nuove clienti, si immobilizzò, gli occhi puntati su Hallende, che avanzava verso l'unico tavolo libero.
Di nuovo, Airis ebbe l'impressione che il rapporto tra Hallende e Arghail non fosse così chiaro e limpido come cercavano di dare a vedere. Avrebbe voluto capire cosa si nascondeva dietro lo sguardo triste della guaritrice e cosa significava il suo tatuaggio, lo stesso che Arghail aveva sul collo, perché ormai era chiaro che non era un simbolo di fede. O, almeno, non era soltanto quello.
- Prendi qualcosa? - chiese Hallende.
- Sono a posto. -
- Va bene, allora aspettiamo. - sospirò massaggiandosi le tempie, senza perdere di vista la porta.
Sembrava stanca, come se non avesse riposato durante la notte scorsa. Nel dormiveglia, ad Airis era parso di udire il cigolio della porta che si apriva e lì per lì lo aveva scambiato per un sogno, ma ora, guardando l'espressione tetra di Hallende, non ne era più così convinta.
- C'è qualcosa che non va? -
- Non ho dormito abbastanza, stanotte. - rispose la donna con un sorriso incerto, - Tu, invece, mi sembri riposata. -
- Sì, alla fine la stanchezza mi ha vinta. Comunque, se non vuoi parlarne basta dirlo. Tutti abbiamo dei segreti, in fin dei conti. -
Hallende spostò la sua attenzione su un punto al di là delle sue spalle, come se non riuscisse a sostenere il suo sguardo troppo a lungo.
In quell'istante la porta si aprì e Torvir fece il suo ingresso nel locale. Si era coperto il capo con il cappuccio di un mantello foderato di pelliccia, chiuso con una spilla rotonda d'ottone, e appesa alla cintola portava una spada lunga, infilata in un fodero piuttosto anonimo. Quando prese posto, scandagliò l'ambiente e richiamò l'oste con un cenno.
- Perché non ti togli il cappuccio? Non mi sembra che faccia così freddo. - lo interrogò Airis, stranita.
Torvir si mostrò imbarazzato: - Lo so, ma vedi... Dena, la cameriera... -
- Ho capito, non voglio sapere altro. -
Il capitano ridacchiò, poi rivolse la sua attenzione su Hallende.
- Allora, di cosa volevi parlarmi? -
- Vai subito al sodo, come al solito. -
- Se fossi venuta solo per salutarmi, non mi avresti chiesto di venire qui, per discutere lontani da occhi e orecchie indiscrete. Inoltre... - puntò gli occhi su Airis, - lei ha un viso piuttosto familiare... non vorrei fare nomi, ma... -
Le labbra della guerriera si curvarono in un lieve sorriso. Quell'uomo non era uno sprovveduto, per niente.
- Allora evitiamolo. Dopo i complimenti di prima, potrei persino offendermi. - allungò la mano verso di lui, - Mi chiamo Arlena. -
- È davvero un piacere conoscerti, Arlena. - ricambiò la stretta, calcando su quel nome con una certa enfasi.
L'oste servì loro un piatto con del formaggio e del pane, quindi se ne andò.
- Allora, dicevi di essere diretto a Sershet. - cominciò Hallende.
- Sì, partiamo nel primo pomeriggio, se il tempo non si guasta. -
- Bene. Ci chiedevamo se potessi dare ad Arghail e Arlena un passaggio sulla tua Signora dei Mari. -
- Non possono andare con le navi dell'esercito? Sono più che sicuro che il comandante che è venuto per prendere il posto di Arghail non sia giunto via terra. -
- Diciamo che per questo viaggio preferirebbero un mezzo meno vistoso per mantenere un basso profilo. -
- Tu non verresti, dunque? -
- No, io... no. Non con la tua nave. -
Torvir inarcò un sopracciglio e le fissò entrambe dubbioso, ma non rispose, concentrandosi sullo spalmare il formaggio morbido su una fetta di pane. Nonostante le palpebre abbassate, Airis poteva percepire il peso del suo sguardo sulla pelle.
- Avete bisogno di non far sapere a nessuno che state tornando in città, in sostanza. - addentò la fetta di pane e accavallò le gambe, senza smettere di guardarle, - Non mi piacciono i segreti, Hallende, soprattutto se coinvolgono direttamente me e la mia nave. -
- Torvir, ascolta... -
L'uomo la fermò con un gesto annoiato della mano: - Immagino che non abbiate intenzione di dirmi cosa avete in mente. Tu e Arghail avete sempre questo atteggiamento che mi fa saltare i nervi, come quelle persone che si aspettano di ricevere aiuto e favori senza sentirsi porre domande. Dammi una buona motivazione per prendervi sulla mia nave. Qualcosa di convincente, non la solita scusa che mi propini ogni volta. -
La donna serrò i denti e cominciò a tamburellare le dita sul tavolo, sostenendo lo sguardo di sfida del capitano, che non sembrava intenzionato a mollare l'osso. Airis aprì la bocca per intromettersi, ma, prima che potesse dire qualsiasi cosa, Arghail fece il suo ingresso nella locanda. A grandi falcate si diresse verso il loro e, senza troppe cerimonie, posò un sacchetto sulle ginocchia di Torvir. Poi rimase un attimo imbambolato a fissare Airis, incuriosito dai capelli neri, ma un'occhiata di Hallende fu sufficiente a mettere a tacere qualunque domanda.
- Ciao, Torvir, ti trovo bene. - salutò cordiale, prendendo una sedia dal tavolo vicino.
- Anche io ti trovo bene, anche se dovresti rifarti la barba. Sembra che te l'abbia tagliata un macellaio. - grugnì, soppesando il sacchetto, - Secondo te è sufficiente pagarmi per avere i miei servigi? Pensavo fossimo amici. -
- Lo siamo, ovviamente, però so anche quanto tu tenga alla tua beneamata Signora. Mi sembra un prezzo... ragionevole per ricevere un favore da te. -
Torvir scoppiò a ridere, ma Arghail non si unì alla sua risata.
- Quindi siamo giunti fino a questo punto? Piuttosto che rendermi partecipe dei vostri piani, comprate il mio silenzio. - commentò amareggiato, infilando la ricompensa nella scarsella, - Come sono cambiate le cose senza che nemmeno me ne rendessi conto... -
- Le persone cambiano, così come il rapporto che le unisce. - rispose il comandante con un tono gelido, - Ascolta, ho bisogno solo che cambi l'orario della partenza e che ci scorti fino alla capitale. Non ti daremo problemi e sono sicuro che se lo dirai ai tuoi uomini, sapranno tenere la bocca chiusa, sia quando saremo a bordo che quando saremo sbarcati. -
- Vuoi navigare di notte?! Con i Khaleesh che non si placano da giorni e il tempo più instabile degli ultimi dieci anni? È una follia! -
- Non eri forse tu quello che diceva che non esiste niente di abbastanza folle da fermarti? -
Il mezzelfo contrasse la mascella in una smorfia e scosse la testa, versandosi un bicchiere di vino. Lo sorseggiò lentamente, prendendosi tutto il tempo per riflettere. Airis rimase in disparte ad osservarli. C'era una rigida determinazione nelle iridi viola di Arghail, una fermezza che non ammetteva rifiuti. Avrebbe dovuto sentirsi sollevata, eppure qualcosa le suggeriva che quella sua insistenza non fosse dovuta solo alla promessa che le aveva fatto. Strinse i pugni sotto il tavolo, imponendosi di rimanere in silenzio.
- Allora? Mi aiuterai? -
Torvir finì il suo bicchiere e lo squadrò con un'espressione scettica prima di fare un gesto d'assenso.
- Fatevi trovare a mezzanotte al molo, Hallende ha visto dove è ormeggiata la mia nave. Cercate di arrivare puntuali, non ho intenzione di aspettarvi. - disse sbrigativo mentre si alzava, calcandosi bene il cappuccio sulla testa.
- Tu, piuttosto, vedi di non partire senza di noi. - lo rimbeccò Arghail.
Torvir gli lanciò un'occhiataccia e uscì veloce dalla locanda. Quando la porta si chiuse alle sue spalle, Airis intercettò lo sguardo che Arghail scambiò con Hallende, l'aria seria quando le invitò a seguirlo e il velo di tristezza che oscurò gli occhi della donna. Senza alcun dubbio, c'erano dei segreti di cui non era al corrente, oscure dinamiche affioravano dietro quei gesti e contatti visivi, e tale consapevolezza le creava disagio.

Note d'Autrice, aka l'angolino oscuro di Hime​:

Buongiorno!
Appaio perchè credo che prima o poi sia giusto per me fare una qualche apparizione. Allora, innanzitutto, ci tengo a ringraziare tutti i lettori, vecchi e nuovi, silenziosi e chiacchieroni, che sono accorsi a leggere questo seguito. Davvero, siete stati in tantissimi a rispondere ai miei messaggi e a sostenermi in questo progetto, è stata una sorpresa piacevole e... e non so davvero cosa dire se non “grazie”. Per ringraziarvi di tutto il supporto e della vostra partecipazione ( saltello sempre quando trovo una nuova recensione a questa storia **) ho pensato di indire un Giveaway al raggiungimento della 50esima recensione che, per me, è un traguardo importante. Che cosa si vince? Beh... una piccola OS AU! Scelta da voi, con protagonisti i vostri beniamini u.u per ora non vi dico di più, voglio che vi gustiate la sorpresa quando metterò effettivamente il “bando” sulla mia pagina autore, per ora sappiate che il vincitore avrà voce in capitolo anche sulla trama della suddetta OS u.u
Se volete rimanere aggiornati sullo stato del giveaway, mettete un like alla Pagina.
Un bacione
Hime

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Capitolo 9
*** La Legge del Contrappasso ***


Fuoco 2

8

La Legge del Contrappasso

Lysandra sospirò stancamente alla vista dell'ambasciatore che entrava nella sala delle udienze. Lancelith Cal'doran, secondogenito di Greleda e Reynridan Cal'doran, era un ragazzo alto, allampanato e dalla mascella squadrata, al quale la natura non aveva concesso né la bellezza né una mente brillante. Tuttavia, per compensare tali mancanze, possedeva un ego smisurato e assai poco buon senso. Come tutti gli uomini che credevano di avere il mondo ai propri piedi, Lancelith aveva dimostrato in ben più di un'occasione di essere il figlio che nessun genitore avrebbe voluto avere, ma, nonostante tutto quello che aveva combinato, sua madre non gli aveva mai rimproverato nulla e si ostinava a mandarlo come emissario a corte, forse nella vana speranza che la regina gli procurasse una moglie che avesse la pazienza di sopportarlo per tutto il resto della sua vita. In un certo qual modo, a Lysandra faceva pena la pochezza mentale di quell'umano che amava fregiarsi del titolo di “Magister”, come se quella parola avesse il potere di renderlo la persona intelligente che avrebbe dovuto essere. Non riusciva a sopportarlo, il suo modo di portare avanti la conversazione era irritante a causa dell'obbligo quasi morale di parlare usando l'ampolloso linguaggio accademico, intervallato qua e là da espressioni bizzarre e pompose comprensibili solo per gli eruditi – e spesso, a dire il vero, incontravano qualche difficoltà pure loro.
- Benvenuto, Lancelith. - lo salutò con una smorfia che voleva essere un sorriso di circostanza.
- Maestà. - il ragazzo s'inchinò ossequioso, - Spero di non avervi disturbata. Posso solo provare a immaginare quanto siate ancora addolorata per la perdita del vostro amato marito e nostro re. -
Prontamente, un sorriso triste emerse sulle labbra di Lysandra. Non che le venisse difficile fingere di essere afflitta, aveva il più totale controllo sulle sue emozioni, però quando era in presenza di Lancelith doveva sforzarsi soprattutto di nascondere il fastidio. Per questo quando il paggio le aveva annunciato che sarebbe venuto a farle visita, aveva optato di accompagnare l'abito in sciamito di seta rossa con un velo di merletto nero in segno di lutto. Trasse un profondo respiro e si asciugò una lacrima invisibile dagli occhi, aspettando che Lancelith continuasse.
- Mio padre rinnova le condoglianze e si rammarica per non essere potuto venire al funerale del re. Purtroppo, una banda di infidi contadini riottosi ha tentato di attaccare i soldati che erano andati a riscuotere le tasse e lui ha dovuto precipitarsi immediatamente nella nostra tenuta fuori città. Mi ha scongiurato di venire qui il prima possibile per porgervi le sue più sincere scuse. -
- Dite a vostro padre che non si deve preoccupare. Il mio caro marito è morto, ma il mondo va avanti nonostante la sua assenza. - scosse la testa e si portò una mano al petto, sfiorando la piccola sfera blu.
- Il mondo all'improvviso appare più povero, maestà. Anche il compito che il re vi ha lasciato è molto gravoso. Io e la mia famiglia ci teniamo a farvi sapere che avrete sempre il nostro appoggio, finché governerete con giustizia e magnanimità. - Lancelith sorrise, mostrando i denti storti e sporgenti.
“Fino a quando farò i vostri interessi, vorrai direi.”
- Oh, lo so. Siete una famiglia di grandi cavalieri, sono fin troppo consapevole di quanto siano importanti per voi le tradizioni. Nonostante ciò, non penso tu sia venuto al mio cospetto solo per ricordarmi quanto sia fortunata ad aver avuto il vostro appoggio. -
Lancelith intrecciò le dita dietro la schiena, sfoggiando il suo sorriso migliore, a metà tra il misterioso e il galante.
- Mia madre vi chiede quando mi presenterete l'adorabile fanciulla che diventerà la mia sposa. Ammetto di trattenere a stento la curiosità. Se ha anche solo un frammento della bellezza di vostra altezza, potrò considerarmi l'uomo più fortunato di Esperya, anzi, di tutte le terre conosciute e non. -
- Dovrete attendere ancora, Lancelith, la dama a voi promessa è difficile da trovare. I titoli dei quali vi fregiate sono tanti e non vorrei mai fare un torto alla vostra famiglia legando un giovane bello e intelligente come te a una donna la cui unica qualità è il dono caduco della bellezza. -
- Mi lusingate. -
- Dico solo il vero, come il mio amato marito. -
Lysandra sventolò la mano e alzò gli occhi al soffitto con un sospiro profondo, di quelli che faceva spesso da quando Voren era morto.
- Come ho sempre detto, il nostro re era un modello per tutti noi. - Lancelith si inchinò e abbassò la testa con aria grave, - Ora perdonatemi, mi congedo. Non voglio disturbare ulteriormente vostra grazia. -
Lysandra non disse nulla. Attese che il ragazzo uscisse dalla sala delle udienze prima di far cenno al capitano delle guardie di avvicinarsi. Era un uomo alto e possente, che Lysandra sapeva esserle fedelissimo, soprattutto da quando aveva scoperto che aveva picchiato fino a uccidere una prostituta nei bassifondi della città. Quando incontrò il suo sguardo, nascosta sotto il nero pece delle iridi e della minuscola pupilla, la Lich ravvide la stessa paura e timore reverenziale che aveva quando lo aveva convocato per mostrargli il cadavere della ragazza.
- A chi tocca? -
- Ci sono due ambasciatori della famiglia Erdarwell e Zagaloth che attendono d'incontrarvi. -
- Darò loro udienza nel pomeriggio. - decise, alzandosi dal trono.
Il capitano annuì e si congedò con un lieve cenno del capo, uscendo dal salone a grandi falcate, mentre Lysandra si avviava dalla parte opposta, verso la porta che conduceva alle sue stanze. Le due guardie si spostarono per permetterle di passare, senza che lei dovesse dire o fare nulla. Allo stesso modo, non appena varcò la soglia, richiusero la porta in totale silenzio. Se ne compiacque: Voren si era dimostrato inutile, un re incapace di governare e guadagnare il rispetto dei propri sudditi, ma la sua paranoia aveva contribuito a portare a corte soldati ciecamente obbedienti, uomini e donne provenienti dalla Dracea nord-occidentale, cresciuti per diventare guerrieri o assassini. Farsi tagliare la lingua costituiva il loro battesimo del fuoco quando uccidevano per la prima volta.
Camminò lungo il corridoio, passando davanti agli arazzi di lana e cotone colorati e ai quadri di tutti i precedenti re e regine, soffermandosi di tanto in tanto a osservare i loro volti. I Varaldien erano tutti uguali, a parte per qualche dettaglio non c'erano molte differenze nella fisionomia. Gli uomini avevano dei tratti molto femminili, le labbra a cuore, le ciglia lunghe e i capelli biondi leggermente mossi come quelle delle donne. Ognuno di loro riportava i tratti di Rhegar Varaldien e Sigil Alchiria, compresa la forza d'animo e un temperamento indomito che era valsa loro la nomea di “Draghi d'Esperya”. L'unico che si discostava da quella stirpe era Sejrel.
Si fermò a contemplare il quadro del precedente re di Esperya. Il pittore lo aveva voluto catturare mentre cavalcava il suo cavallo bardato di tutto punto, con la spada puntata verso il cielo e i capelli rossi trattenuti a stento dalla tiara dorata. Se lo ricordava quel ritratto: era stata la sua promessa sposa, la figlia di Kitiara Azlan, a insistere affinché si facesse ritrarre in groppa al nuovo stallone che suo padre gli aveva regalato. Lysandra ricordava anche di aver pensato di farlo sostituire con uno in cui il giovane sovrano era stato rappresentato a mezzobusto con la chiave di Sershet tra le mani come i suoi predecessori, ma poi aveva cambiato idea. Un sorriso beffardo si dipinse sulle sue labbra quando la memoria le ripropose il viso congestionato di quella ragazzina al funerale, il suo sguardo rabbioso e carico di rimpianto quando si erano incontrate al ballo il giorno in cui Voren era stato incoronato re.
Il nome Sejrel nell'antica lingua umana significava “speranza” e, per molto tempo, quel giovane aveva rappresentato un faro nella notte per Sershet e tutta Esperya. Era stato difficile farlo capitolare, e non solo perché era sempre attorniato da uomini come il consigliere Xerxas Ascrocell: Sejrel credeva davvero nella parità razziale e nella possibilità di ricreare una pace duratura come quella dopo la guerra del Centesimo Solstizio. Aveva persino creduto di rendere i Drow un popolo libero, spingendosi a fare una visita alla saline, le miniere in mezzo al deserto del Selyr, dove gli elfi oscuri erano costretti a lavorare per estrarre le gemme preziose tanto care a nani e gnomi.
- Saresti stato un grande re e una grande spina nel fianco. Te ne devo dare atto. Per questo è stato necessario eliminarti. - mormorò Lysandra, osservando assorta la tela.
- Mia signora, non è sicuro parlare qui. -
- E perché mai, Kvothe? - domandò divertita, girandosi per incrociare gli occhi di ghiaccio del Cavaliere dell'Aquila, nonché capo delle spie e del corpo di guardia della regina, che la fissava impassibile appoggiato al muro.
La scimitarra di argento alchemico brillava al suo fianco e il fodero di legno di frassino decorato con arabeschi dorati gli accarezzava la gamba, sfiorando appena gli alti schinieri. Il mantello, di un blu così scuro da sembrare nero, nascondeva tutta la sua figura, lasciando scoperta solo la maschera di gesso, una colombina azzurra traslucida impreziosita con intarsiature e rami verdi. Gli unici dettagli che Lysandra riusciva a vedere erano la bocca e gli occhi, due biglie ambrate incastonate in un viso che sapeva essere pallido, cadaverico.
- Non si può mai sapere chi si può aggirare in questi corridoi. - rispose il Cavaliere.
- Oh, mio caro, io so tutto di ciò che accade nel castello e anche fuori, anche se la mia vista è limitata. Per questo ci siete tu e i tuoi uomini, Kvothe. - fece un passo verso la porta delle sue stanze e gli intimò di seguirla.
L'uomo chinò il capo e, silenzioso come un'ombra, entrò subito dietro di lei. Ad accoglierli fu la fiamma scoppiettante del caminetto e il calore avvolgente che scaturiva dall'ipocausto vicino alla finestra sul lato ovest. Un grande letto a baldacchino decorato con tralicci d'edera e rose rampicanti era addossato contro il muro sud, rivolto verso la finestra ogivale che si apriva sul balcone di marmo bianco. Sul tavolino nero dalle tozze gambe leonine laccate in oro, posizionato vicino al caminetto, c'era una scacchiera, e lì accanto due carrelli pieni di dolcetti alle mandorle, pistacchi e frutta secca appena sfornati.
- Prego, accomodati pure, abbiamo molto di cui discutere. - lo invitò Lysandra, prendendo posto sulla sedia e facendogli cenno di fare altrettanto, - Sei anche fortunato, è l'ora del tè e Sarge ha appena sfornato i pasticcini. Vuoi favorire? -
- No, vi ringrazio, non ce n'è alcun bisogno. - sorrise appena e con la grazia di un gatto si lasciò cadere sulla sedia davanti a lei, lo sguardo già fisso sulla scacchiera di onice e alabastro.
Tutti i pezzi erano stati bagnati nell'oro e nell'argento, secondo un metodo antichissimo che si tramandava di generazione in generazione, a detta dell'artigiano che l'aveva venduta al defunto re. Per quanto Lysandra la trovasse di pessimo gusto, non poteva non apprezzare la cura dei particolari che adornavano i due schieramenti e i quattro lupi decorativi posti agli angoli della base, che sembravano incisi direttamente nell'apatite.
- Ti piace? - domandò con noncuranza Lysandra, portando alle labbra un dolcetto.
- Molto. È... davvero meravigliosa. - il Cavaliere prese l'alfiere e se lo rigirò tra le dita, per poi portarlo al viso con un'espressione strabiliata, - È un pezzo raro. Vostro marito ha fatto un ottimo affare a comprarla. -
- Concordo. - mentì la regina, versandogli un goccio di tè fumante nella propria tazza, - Veniamo al punto: cosa hai scoperto? -
- Niente che non sapete già. La maggior parte delle famiglie dei Consiglieri vi appoggia e il popolo, da quando avete promulgato l'editto per la regolamentazione degli incontri nell'arena e della distribuzione di cibo nei quartieri più poveri, vi adora. Le casse reali non sono mai vuote e Shilazard continua a dire che era dai tempi di Oesteron Varaldien che l'economia non era così prospera. Oserei dire che se non fosse stato per la morte di Voren, del Cavaliere del Lupo e del Cavaliere del Leone, avremmo assistito a festeggiamenti infiniti. - disse e tolse il cappuccio, rivelando la testa castana con i capelli tagliati corti fin sopra le orecchie.
- E i fatti di Luthien? -
- La rabbia e l'indignazione serpeggiano e fomentano sia i soldati che la popolazione. Tutti vogliono che gli elfi paghino per quello che hanno fatto. Non vedevo tutto questo fervore e questa voglia di combattere dalla caduta di Edon e Mera. -
Lysandra annuì, compiaciuta di sentire quelle parole. La settimana precedente, Felther era tornato con il corpo di Airis Lullabyon e lo spadone di Ignus Adelon. Prima che cominciasse la cerimonia funebre, la Lich si era occupata personalmente di verificare che il corpo della guerriera fosse quello originale e che fosse davvero morto. Quando aveva visto il sangue annerito attorno alla ferita vicino al cuore, non era riuscita a trattenere un ghigno soddisfatto.
- Tuttavia, ci sono delle complicazioni. In primo luogo, non tutte le famiglie sono felici del fatto che voi siate la nuova sovrana. Alcuni nomi penso non vi siano nuovi, altri invece... sono rimasto stupito persino io. -
- Davvero? -
- Sì, soprattutto se pensiamo che la famiglia in questione non annovera tra i suoi antenati Cavalieri di grande valore. -
- Ti riferisci forse ai Lancers? -
Un sorriso da gatto si stirò sulle labbra di Kvothe. Lysandra sospirò e spezzò una pasta all'amaretto condito con frutta glassata e pinoli caramellati. Sapeva che non tutte le famiglie nobili provavano simpatia nei suoi confronti e averne la certezza non l'angustiava. Stava andando tutto secondo i piani.
- Hai delle prove concrete di quello che dici? -
- Per ora si tratta di voci, chiacchiere sussurrate dalla servitù, ma il tempo mi ha insegnato che i pettegolezzi delle sguattere sono una fonte d'informazione più attendibile di molte altre. -
- Il problema, mio caro Kvothe, è che non bastano le chiacchiere di una serva inacidita e invidiosa per procedere con l'esproprio e la condanna a morte per alto tradimento. - si tamponò le labbra con il tovagliolo di raso, in modo da non rovinare il rossetto, - Quello che mi stai dicendo, lo sospettavo già da tempo, non è una novità. Mi serve qualcosa di più di un'antipatia. -
- E lo avrete, maestà. Io e miei uomini stiamo indagando, ho già attivato la mia rete di spie per tenerli tutti sotto controllo. Per ora sospetto stiano cercando un modo per detronizzarvi. Non so ancora come o quando, ma sono più che certo che il loro obiettivo finale sia questo e non una semplice e sterile polemica contro di voi. Sanno fin troppo bene che il popolo vi ama e che i Cal'doran, i Valakas, i Fellmoor e gli Erdarwel sono dalla vostra parte. Per il momento presumo si limiteranno a una tenace opposizione durante le sedute del Consiglio, almeno finché non capiranno quali sono le forze in campo. -
- Se il loro capo è Kitiara Azlan è probabile che attenderanno prima di agire. - convenne Lysandra con un tono quasi annoiato, - È astuta quella donna. Se potessi, la eliminerei subito. Ma la sua morte creerebbe scompiglio e i suoi alleati mi additerebbero subito come colpevole. Meglio aspettare, osservare e ponderare come muoverci. I giochi di potere sono mortali, o vinci o perdi. E io voglio vincere. -
- Vincerete, mia regina, e sapete perché? -
- Illuminami. -
Kvothe sogghignò, mettendo in mostra una dentatura perfetta, bianca, che contrastava con la lingua nera che gli umettava le labbra cianotiche.
- Voi avete me. Con il sottoscritto al vostro fianco, nessuno riuscirà a ostacolare la vostra avanzata. - si alzò, si genuflesse ai suoi piedi e con fare teatrale le baciò la mano, - Il giorno in cui mi avete riportato in vita, ho giurato di servirvi e che la mia rete avrebbe strangolato chiunque si sarebbe messo sulla vostra strada. Rinnovo il mio giuramento qui, ora, davanti a voi, affinché vi ricordiate che il vostro umile servitore vi coprirà le spalle. -
- Sei sempre molto modesto, Kvothe. -
- Dovevo avere pur qualche difetto. - ridacchiò, tornando a prendere posto sulla sedia, - Ci tenevo comunque a comunicarvi che anche Delia non costituisce più un problema per la corona. -
- Sono curiosa di sapere come ti sei occupato di lei. -
- Io? Nemmeno nella mia precedente vita ho mai alzato un dito su una donna. Beh, non direttamente. È che la povera Delia dovrebbe saperlo che non è una buona idea girare per le strade dei bassifondi dopo una certa ora. Quelle stradine possono costituire una rapida scorciatoia oppure una trappola mortale, soprattutto se si fanno gli incontri sbagliati. - illustrò con aria vaga.
Lysandra ammiccò, si versò l'ultima tazza di tè e vi buttò tre zollette, girando il cucchiaino finché non le parve che lo zucchero si fosse sciolto totalmente.
- Se mi concedete un commento, mia signora, il defunto re aveva dei pessimi gusti in fatto di donne. Anche le altre, tutte quelle che facevano parte del suo harem personale, non erano nemmeno lontanamente belle come voi. Mi chiedo sinceramente per quale assurdo motivo, avendo già voi al suo fianco, abbia dovuto rivolgere lo sguardo verso delle amanti così imbarazzanti. -
- Le solite fisse della maggior parte degli uomini. E poi c'era la questione dell'erede, sempre così importante per gli umani. Per una donna di quasi quarant'anni come Wecilia Mallus è difficile rimanere incinta. -
Lysandra tacque a lungo, fingendo di cercare di ricordare cosa dovesse domandargli, quando sentì qualcuno bussare. Il Cavaliere dell'Aquila portò la mano alla scimitarra e andò ad aprire. Non appena vide Felther, sul viso di Kvothe apparve un sorrisetto affettato, che venne ricambiato da un'occhiata di sussiego.
- Maestà. - esordì il nuovo arrivato, inchinandosi.
- Puntuale come sempre, Cavaliere. - Lysandra finì di sorseggiare il tè e si appoggiò comodamente allo schienale, - C'è altro, Kvothe? -
- No, niente che non possa aspettare. -
- Bene, va' pure. Avverti Sarge che è finito il tè. -
Il Cavaliere annuì e uscì dopo aver eseguito alcuni inchini complicati e cerimoniosi.
Lysandra tornò subito a rivolgersi a Felther, che aspettava immobile in posizione marziale di lato alla porta. Non le era sfuggita l'occhiata di fuoco che aveva scoccato in direzione del Cavaliere dell'Aquila, la rabbia celata dietro la sua solita espressione imperscrutabile.
Il rumore di passi, già flebile di per sé, si perse in lontananza, così Lysandra mise da parte gli indugi e gli fece cenno di avvicinarsi. Felther obbedì, portandosi al suo fianco. Indossava un'armatura semplice, spartana, con il simbolo della casata reale inciso sul pettorale e quello del suo ordine, un drago rosso con le ali spiegate, cucito sul mantello verde agganciato al collo con una spilla d'ottone. Non portava l'elmo, come invece l'etichetta imponeva durante le udienze ufficiali e non, lasciando scoperto il viso pallido e le occhiaie scure che gli infossavano gli occhi, di un grigio pastello che sfumava all'azzurro nell'intorno della pupilla.
La Lich storse la bocca in una lieve smorfia.
“Dovrebbe nutrirsi di più.”
- Vostra altezza, vengo a fare rapporto dal fronte. -
- Spero buone nuove, Felther. Siediti. - gli ordinò Lysandra.
Rhanagar, il suo cameriere personale, entrò nella stanza portando su un vassoio due tazzine di ceramica e una teiera fumante. Come tutti i Drow, indossava il collare da schiavo, abbellito da rune che rilucevano di un tenue bagliore verdastro. O almeno questo era ciò che gli altri vedevano, perché in realtà Lysandra aveva annullato la magia del collare da ancor prima che Voren morisse.
La regina lo guardò appena mentre sparecchiava, molto più interessata al viso del Cavaliere del Drago, che teneva sotto controllo qualsiasi movimento del Drow. Da quando si era svolta la parata in onore dei suoi compagni d'arme caduti, lo aveva mandato al nord per verificare a che punto fossero i preparativi e, eccetto quando lo contattava tramite la magia, non aveva avuto modo di osservarlo meglio. A differenza di molti altri Risvegliati, quando aveva ricucito l'anima al corpo le era parso che la trasformazione fosse andata a buon fine. Però, guardandolo ora, aveva un'aria “umanamente” stanca.
- Ti piacciono gli scacchi, Felther? -
- Abbastanza. Perché, mia signora? -
- Avevo voglia di una partita, ma Kvothe non è molto bravo. -
Lysandra attese che Rhanagar servisse a entrambi il tè, prima di muovere il primo pedone.
- Dunque, parla. -
- Procede tutto secondo i piani. Abbiamo impedito ai Whorm di uscire da Llanowar e Saradreza è riuscita ad addomesticarne altri cinque. Ho fatto spostare le truppe nel cuore della foresta di Noumenasse e ho stanziato un buon numero di soldati anche alle pendici dei monti Eresse. Attendiamo solo ordini da voi. -
- Ottimo. Direi che quell'esplosione è stata un imprevisto molto più utile di quello che pensassi.-
Felther assentì e mosse l'ultimo pedone sulla sinistra.
- Fenrir chiede se avete qualche preferenza sulla prova che vi deve portare. - aggiunse in tono neutro, come se stesse parlando del tempo atmosferico.
- Riferiscigli che mi basta anche il braccio, l'importante è che quella bambina muoia. Il come lo lascio decidere a lui. - accavallò le gambe e appoggiò il viso sul pugno chiuso, muovendo l'alfiere per un contrattacco al centro, - Mi sembri abbattuto negli ultimi giorni, Cavaliere. Qualcosa ti turba? -
Il labbro di Felther tremò in modo quasi impercettibile e abbassò lo sguardo, arroccando lungo l'ottava linea. Una mossa inutile, considerò Lysandra, le rendeva la cose fin troppo semplici. Con la mano ornata di anelli, spostò il suo alfiere, minacciando il re avversario e aprendo di forza la colonna centrale per la propria torre.
- Tenendo conto del fatto che non hai bisogno né di dormire né di mangiare e che sei un Generale esperto e temuto, mi stupisco di vederti ridotto così. Lo sei diventato da quando hai incontrato il Generale Lullabyon a casa sua. Non essere sorpreso, sai che tengo sotto controllo chiunque in questa città. E poi mi preoccupo per i miei sudditi. Sia mai che un turbamento interiore possa compromettere la tua capacità di giudizio. -
Al silenzio che seguì, Lysandra si domandò se avesse dovuto penetrare nella sua mente con la magia. Quasi Felther avesse captato quel pensiero, si irrigidì e negli occhi grigi guizzò improvvisa la consapevolezza di ciò che sarebbe accaduto se non avesse risposto.
- Non credevo che il Generale avrebbe reagito come ha fatto. - ammise dopo una breve esitazione, - L'ho visto andare in pezzi. Non si è arreso solo perché doveva sostenere sua moglie. È stato scioccante. -
Lysandra ridacchiò, una risata melodiosa che si diffuse nell'aria calda nella stanza come il trillo di un campanellino. Era al corrente anche di questo, la sorveglianza del vecchio Generale era stato uno dei primi incarichi che aveva assegnato a Kvothe. Il Cavaliere dell'Aquila le aveva riferito che l'uomo e sua moglie erano distrutti dal dolore, ma non sembravano un pericolo.
- Tu, invece, come hai preso la morte della tua compagna? - buttò lì suadente, gli occhi rossi che cercavano quelli del suo nervoso interlocutore, - Non ci mentiamo, Felther, so cosa provavi per lei e so cosa ha significato per te il suo rifiuto, l'ho visto quando ho riunito la tua anima al corpo. E ho scorto nei tuoi occhi il senso di colpa quando hai rimboccato la bandiera sulla sua bara. -
Felther strinse i pugni sui bordi del tavolino, sostenendo lo sguardo serio della regina. Se ci avesse messo più forza, avrebbe potuto romperlo.
- Quello che provo è ininfluente. Airis Lullabyon si è macchiata di alto tradimento e insubordinazione, questo è un fatto che niente potrà cambiare. Essere un Cavaliere significa anche compiere scelte di cui non si va fieri, ma che sono necessarie per mantenere l'ordine. Se temete che la mia fedeltà nei vostri confronti sia mal riposta, datemi la possibilità di dimostrarvi il contrario. - scandì deciso, la voce atona, tagliente come la lama del suo spadone.
- Oh, ma io sono più che certa che tu non sia quel genere d'uomo, Felther. Mi fido. -
Lysandra puntò il suo sguardo ardente su di lui, lo inchiodò sul posto, lasciandolo col braccio a mezz'aria proteso verso la torre. Voleva che avesse l'impressione che tutta la sua attenzione fosse concentrata su di lui, che nulla in quel momento fosse importante come Eigor Felther. Penetrò nella sua mente con estrema facilità, ne sfiorò i ricordi e ne scandagliò i pensieri, frammenti di vetro che si componevano in mosaici complessi di immagini e suoni, per poi rompersi nuovamente e sparire, sgretolandosi in pezzi sempre più piccoli. Ne contemplò uno in particolare, soffermandosi ad osservare i colori che si riflettevano sulla sua superficie fino a quando non svanì.
Lysandra sbatté un paio di volte le palpebre e dopo un momento si ritrovò nel suo corpo, di fronte a un Felther intontito e sgomento al tempo stesso.
- So che non mi tradirai, sei troppo attaccato all'onore. Volevo solo assicurarmi che il senso di colpa non ti stesse condizionando. -
- Non mi sento in colpa. - replicò gelido, spostando la torre lontano dal suo cavallo.
- Tutti gli uomini si sentono in colpa per qualcosa, è sufficiente trovare il motivo scatenante e applicare la giusta pressione per farla scoppiare. È un problema di tutti i sentimenti, basta il peso di una piuma perché la diga della ragione ceda. Adesso sei un Risvegliato, un essere sovrumano che non sente il bisogno di nutrirsi, di dormire, di riprodursi, ma non dimenticare che quella parte illogica e irrazionale che alimenta le emozioni è rimasta intoccata. Sono proprio le emozioni a renderti capace di intendere e di volere, ma allo stesso tempo, se non le tieni a bada, potrebbero portarti alla rovina. Per conseguire il potere e la vittoria c'è bisogno di pazienza, delicatezza, intelligenza, equilibrio, tenacia, nonché una notevole forza nel sopportare i fallimenti. Finora sei stato un soldato obbediente e un Generale esemplare, ma mi preme ricordarti di non sottovalutare la tua parte umana, che potrebbe confonderti e farti perdere di vista la strada. -
Lysandra mosse la regina e imprigionò il re avversario con un sorriso vittorioso, per poi colpirlo per farlo cadere.
- Scacco matto. -
Felther fissò la scacchiera e dopo un momento chinò il capo in segno di rispetto e sconfitta.
Lysandra si alzò con gesti eleganti, avvicinandosi alla finestra che aggettava sulla piazza principale. Da lì poteva vedere tutta la città e, tratteggiata nella luce debole eppure abbacinante del sole, scorse il profilo della statua del quarto Guardiano, quella del Cavaliere del Lupo, con la spada lunga alzata verso il cielo e l'elmo con le orecchie lupine allungate all'indietro.
- Non vi deluderò, mia regina. -
- Ne sono sicura, Cavaliere. Ora va', è il momento di spegnere l'ultima speranza del nord. -
Quando la porta si chiuse, l'attenzione di Lysandra venne di nuovo calamitata dalla scacchiera. La pedina del re sembrava scrutarla con i suoi occhi metallici.
“È stato fin troppo facile.”

Angolo Autrice:

Sì due angolini autore ravvicinati, sì non siete ubriachi. Innanzitutto, scusate se non ho ancora risposto alle vostre recensioni, le adoro e le leggo sempre e mi fa sempre strapiacere, ma sto preparando un esame enorme ( aka, Biochimica <.<) e non ho nemmeno tempo per respirare. Spero di sopravvivere fino al 20 aprile, così da dare una risposta a tutti, dal momento che sono ben felice che troviate tutti il tempo di leggere i miei deliri e le sfighe dei miei personaggi. Allora, emergo per dirvi tre cose: in primo luogo, interrompo la pubblicazione di Fuoco fino al primo di maggio, essenzialmente perchè sono rimasta senza quasi capitoli da pubblicare e preferisco prendermi queste due settimane per portarmi avanti con il lavoro, così da non farvi aspettare troppo nei prossimi mesi. In secondo luogo, vabbè, ci tenevo ad augurarvi buona Pasqua, perchè sì, la Pasqua è sacra così come il cioccolato che vi verrà fornito u.u In ultimo, vi ricordo che mancano solo 9 recensioni per il Giveaway! Spero che l'iniziativa vi piaccia e che continuerete a recensire come avete sempre fatto ** autrice felice e saltellante Per chi se lo fosse perso, vi lascio QUI il link della pagina per rimanere sempre aggiornati sullo stato del giveaway. Chi si aggiudicherà la OS premio per rendere felici i nostri eroi? 
Grazie mille per l'attenzione, un bacione a tutti e grazie ancora del supporto!
Hime

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Capitolo 10
*** Nelle Profondità degli Abissi ***


Fuoco 2

9

Nelle profondità degli abissi

Girarono per porto Eamone per buona parte del pomeriggio, per poi cenare in una locanda in una via del Quartiere d'Avorio, dove consumarono un brodo di pesce un po' troppo speziato. Airis rimase sempre in disparte, limitando al minimo indispensabile i suoi interventi nella conversazione tra Hallende e Arghail. L'unica discussione che ebbero, se così poteva essere definita, fu un battibecco davanti a un mercante d'armi, un tian dalla pelle bruna e il naso a patata, che si risolse con un acquisto da parte del comandante e un'occhiata torva da parte di Airis quando le mise in mano la spada e l'arco che aveva comprato per lei.
All'imbrunire si avviarono verso il molo dove la nave di Torvir li attendeva per la partenza. Là trovarono uno dei marinai che Airis aveva visto quel pomeriggio. Se ne stava appoggiato vicino alla murata, con una spada in bella vista appesa alla cintura e una sciarpa nera che gli copriva parzialmente il viso, lasciando scoperti solo gli occhi giallo-verdi come quelli di un gatto.
Non appena li vide, li squadrò da capo a piedi con uno sguardo freddo, analitico. Quando Arghail arrivò sotto la luce fioca della lanterna, l'uomo assottigliò lo sguardo e lo studiò per un lungo momento, prima di fargli cenno di seguirlo a bordo.
Si salutarono lì, Hallende li abbracciò e augurò loro buon viaggio. Airis lasciò loro un po' d'intimità, allontanandosi quanto necessario affinché potessero sentirsi liberi di parlare. La chierica le aveva detto che, non potendo prendere nessuna licenza, sarebbe partita con la prima nave militare disponibile, possibilmente quando il tempo fosse stato un po' meno instabile.
Salparono meno di mezz'ora più tardi. Il freddo quella notte era intenso e tagliente e il vento che soffiava dal mare si insinuava sotto le vesti, gelando le ossa e cibandosi del calore corporeo come una belva feroce.
Arghail si strinse nel mantello e, dopo essersi guardato intorno, andò verso prua alla ricerca di Torvir. Airis, invece, con un sospiro sconsolato passeggiò sul ponte finché non trovò un punto appartato. Si appoggiò alla balaustra e contemplò l'acqua nera come l'inchiostro, su cui si riflettevano a intermittenza le luci delle lanterne della nave. Chiuse gli occhi e si lasciò cullare dallo sciabordio, un suono che da sempre fungeva da balsamo per la sua anima e i suoi pensieri, permettendole di schiarirsi le idee. Il sospetto che Hallende e Arghail le nascondessero qualcosa non le dava pace. Non avrebbe dovuto stupirsene, in fin dei conti anche lei non aveva raccontato tutta la verità. Però c'erano troppe cose che ancora le sfuggivano. Nella trama complessa degli eventi di Esperya, che ruolo avrebbe avuto, o aveva avuto, Arghail? Perché quell'uomo, il Guardiano nella casa della Cenere, le aveva detto di farlo diventare re? E Hallende, in tutto questo, cosa aveva a che fare? Era una pedina importante da collocare sulla scacchiera o un semplice pedone sacrificabile?
Si prese la testa tra le mani: tante domande e quasi nessuna risposta. E intanto il tempo passava, uno stillicidio inesorabile che non faceva altro che angosciarla.
- Stai bene? - le chiese Arghail, strappandola alle sue elucubrazioni.
Si era appoggiato all'impavesata e la osservava da sotto il cappuccio, il viso leggermente arrossato e le palpebre socchiuse sulle iridi viola.
- Sì, sto bene. Come mai qui? Pensavo fossi andato a parlare con Torvir. -
- È stato di poche parole. - sbuffò, intrecciò le dita e allungò le braccia nel vuoto, spostando la sua attenzione sul mare.
Nessuno dei due disse niente per un po'. Airis si focalizzò sul via vai dei marinai in coperta, ascoltando distrattamente gli ordini impartiti dall'uomo che li aveva attesi sul molo e da una donna dalla pelle olivastra e le trecce bionde.
In un attimo mollarono gli ormeggi e la nave si staccò, lasciandosi il porto alle spalle. La Signora dei Mari si tuffava tra le onde velocissima, leggiadra e fiera come un albatro. Gli spruzzi arrivavano quasi fino a loro, bagnando il sartiame già umido. Al richiamo della donna bionda, cinque marinai sulla prua accorsero e cominciarono a sollevare dei cordoni, facendo ruotare i pennoni di legno per mantenere le vele ingrossate e tese.
- Lo so cosa stai pensando. - sospirò Arghail, senza incrociare il suo sguardo.
- Da quando leggi nel pensiero? -
- Non ho ancora questa facoltà, ma vedrò di svilupparla al più presto. - nella sua voce vibrò una nota di divertimento, - Diciamo che tu, in ogni caso, non ti sei curata di nascondere il tuo disappunto. -
- Non è disappunto, è solo questione di fiducia. -
- Non riesci proprio a fidarti di noi, eh? -
“Fosse solo questo.”
In realtà c'erano una miriade di interrogativi e incognite, e più cercava di risolverli più la verità sembrava sfuggirle. E poi c'era il tempo, il suo scorrere implacabile a torturarla. Cyril le aveva detto che tra sei settimane Lysandra avrebbe avviato il rito per riportare in vita Aesir e ormai non era sicura di riuscire a impedirlo. Strinse i pugni e si morse le labbra, obbligandosi a mantenere il sangue freddo. Non doveva permettere al dubbio, all'angoscia e allo sconforto di farsi strada nel suo cuore.
“Ho ancora un debito con te, Ledah. Non pensare di andartene senza che io l'abbia pagato.”
- È complicato da spiegare. - esalò in tono mesto.
Arghail annuì, come se si fosse aspettato quella risposta. Il mugghio delle onde riempì il silenzio e il rollio della nave li distrasse per un po'. Ma dopo qualche minuto Arghail tornò alla carica.
- Come mai hai deciso di arruolarti? -
La guerriera si spostò una ciocca nera sfuggita alla treccia e seguì con gli occhi la parabola discendente di un gabbiano, che, con grazia, si posò su una delle sartie. Quando un marinaio gli si avvicinò per scacciarlo, l'uccello cacciò un grido e si librò di nuovo in aria.
- Come mai ti interessa? -
- Girano molte voci su di te. Molti addirittura sostengono che tu sia la figlia illegittima del Generale Lullabyon. -
- Hanno una gran fantasia a credere che ci sia un legame di sangue tra me e lui. -
Arghail rise sommessamente, scuotendo la testa: - Sì, è quello che ho sempre pensato io. -
- Non oso immaginare cos'altro dicano. - sbuffò e, arresa, gli lanciò un'occhiata in tralice, - Va bene, risponderò alla tua domanda, a patto che poi tu faccia lo stesso. -
- Non c'è molto da sapere su di me. - ribatté lui, sorpreso e confuso.
- Questo lascialo giudicare agli altri. -
Arghail sospirò e si grattò il mento, dubbioso. Il vento gli gonfiava il cappuccio, scoprendo i capelli scompigliati e le occhiaie scure. Lanciò un'occhiata alle proprie spalle, come per assicurarsi che non ci fosse nessuno a origliare la loro conversazione, poi assentì.
- Comincio io. - sentenziò la ragazza, mentre raccoglieva i ricordi e cercava le parole giuste, - Fin da bambina ho sempre desiderato diventare un Cavaliere. I bardi, con le loro storie sul valore di questi uomini, mi affascinavano molto. pPoi c'era mio padre, il mio vero padre, che era un soldato e spesso era occupato al fronte nord, quindi non lo vedevo quasi mai. Le uniche testimonianze della guerra erano quelle dei cantori che di tanto in tanto sostavano nel mio paese. -
- Da dove vieni? -
- Un agglomerato di case a sud di Esperya, non penso tu nemmeno lo conosca. - si strinse nel mantello, più per nascondere la smorfia amara che per reale bisogno, - Mia madre non era granché d'accordo, secondo lei avrei dovuto imparare a cucinare, fare il bucato, prendere marito e, infine, trovare una casa da un'altra parte, magari in una città dove sarebbe stato più facile vivere, soprattutto per me. Io non ne volevo sapere, ovviamente. Nonostante mia madre mi sgridasse, ormai avevo le idee chiare. Mio padre non si è mai dimostrato contrario, anzi. Non era raro che prendesse in giro mia madre ricordandole quanto fosse pestifera alla mia età. Forse pensava che crescendo avrei cambiato idea da sola, chi lo sa. -
Il vento era diventato ancora più freddo e gli ordini alle loro spalle si susseguivano rapidi. I marinai correvano da una parte all'altra del ponte, intenti a lascare e cazzare le sartie in modo che le vele perdessero o catturassero le correnti.
Lo sguardo di Airis si perse oltre l'orizzonte, nel ricordo di un'assolata giornata estiva.
- Alla fine, mia madre mi prese da parte e mi spiegò come stavano le cose: la guerra non era un gioco, quello che i bardi raccontavano non era neanche lontanamente simile alla realtà. Mi disse che se avessi deciso di proseguire su questo cammino, avrei incontrato molte più difficoltà perché ero una donna. Non so per quale ragione, ma quelle parole, al posto di demoralizzarmi, mi convinsero ancora di più a intraprendere la strada per diventare un Cavaliere. Volevo che la guerra finisse, che la gente non dovesse più soffrire e che tutti potessero avere la possibilità di realizzare i loro sogni, indipendentemente dal sesso o dal ceto sociale. Ero certa di poter fare la differenza. -
- Ti sei mai ricreduta? -
- Ho risposto alla tua domanda, ora tocca a te. -
- È comunque inerente a ciò di cui stai parlando. Se vogliamo essere pignoli, non bisognerebbe nemmeno conteggiarla come un'altra domanda. -
La guerriera scosse la testa e abbassò le palpebre. Rivide uomini in catene, cadaveri sfregiati fino a rendere irriconoscibili i volti, elfi catturati mentre tentavano di scappare e poi messi al rogo, bambine e giovani donne stuprate in modi così violenti che in seguito i loro grembi non avevano potuto svilupparsi in modo normale, neonati uccisi a colpi di martello la cui unica colpa era quella di possedere il sangue del nemico nelle proprie vene. A tali immagini di morte si sovrapponevano quelle delle giornate passate con suo padre a imparare a cacciare e a tirare di spada, oppure Luthien in festa, il profumo zuccherino dei dolcetti appena sfornati e il ballo tra le braccia di Ledah, il suo calore, il modo in cui l'aveva guardata attraverso la maschera; o ancora le risate di Melwen e Zefiro, le premure di Myria, le parole cariche di speranza di Copernico.
- No, non mi sono ricreduta. Ho solo capito che bisogna possedere davvero molta determinazione per cambiare le cose. - mormorò flebilmente, per poi riscuotersi e raddrizzare le spalle, - Ora è il tuo turno. -
- Prego, sono pronto. -
- Uhm... raccontami dei tuoi genitori, di com'erano e di come ti hanno cresciuto. -
Il comandante si irrigidì e, quando Airis lo spiò, lo scoprì con i pugni serrati. Sapeva di aver toccato un tasto dolente, ma quelle informazioni le servivano. E per quanto dolorosi potessero essere i ricordi, sapeva che le avrebbe risposto.
- Hallende ti ha già anticipato qualcosa? -
- Più o meno, ma vorrei sentire tutta la storia dall'inizio. -
Improvvisamente, uno dei marinai sbraitò qualcosa e indicò nel mare, richiamando l'attenzione di tutti gli altri, che, incuranti dei rimproveri feroci dei due sovraintendenti, corsero alla paratia. Airis abbassò lo sguardo e rimase a bocca aperta nel vedere degli ippocampi dal manto blu e azzurro nuotare veloci accanto alla nave, mantenendosi perfettamente affiancati. Saltavano e si tuffavano come in un gioco, nitrendo ogni volta che un loro compagno si inabissava per poi riemergere vicino alla chiglia o in fondo al gruppo, gli zoccoli palmati che fendevano l'acqua e la luna che argentava la criniera d'alghe color pervinca.
- Non li avevi mai visti? - domandò divertito Arghail.
Airis negò a bocca aperta, incapace di distogliere l'attenzione dallo spettacolo che si stava svolgendo sotto i suoi occhi.
- Li ho solo scorti durante alcune attraversate, ma non si sono mai avvicinati tanto. -
- Infatti, di solito sono molto più timidi. - commentò una voce sconosciuta dietro di loro.
Si girarono giusto in tempo per vedere l'uomo che li aveva fatti salire a bordo affiancarglisi. Una semplice bandana gli copriva gli ispidi capelli neri e il cappotto gli sfiorava gli stivali ad ogni passo. Solo quando fu abbastanza vicino si abbassò la sciarpa, scoprendo dei denti sporgenti simili alle zanne di un cinghiale.
Airis, incredula, sbirciò in direzione di Arghail, ma nei suoi occhi non colse alcun un cenno di sorpresa.
- Davkar, non dovresti far tornare i tuoi uomini al lavoro? -
Davkar fece un gesto annoiato con la mano, come se volesse scacciare una mosca fastidiosa.
- Per qualche minuto possono godersi la visione di questi animali. Il vento è a nostro favore e stiamo precedendo con una velocità di sette nodi. Torvir non si lamenterà, te lo assicuro. - si appoggiò alla balaustra e si sporse per guardare meglio, - Inoltre, anche io sono curioso, non li ho mai visti così da vicino. -
Anche l'attenzione di Airis venne di nuovo calamitata dagli ippocampi. Un cucciolo con la cresta membranosa invece che di crini sollevò il muso e la fissò. Aveva occhi neri e liquidi, con lunghe ciglia setose. La guerriera ebbe la strana impressione di averlo già visto da qualche parte, soprattutto quando l'animale cercò di coinvolgere Arghail e nitrì finché non si accorse di lui. Si scrutarono fino a quando il capobranco non saltò fuori dall'acqua, per poi immergersi ancora insieme a tutti gli altri e scomparire alla vista.
Airis rimase a guardare le onde che si infrangevano contro lo scafo, stupefatta e al contempo scossa per la sensazione che aveva provato. Fu la risata divertita e bonaria di Davkar riportarla con i piedi per terra, una risata gradevole che mal si sposava con l'aria truce tipica di tutti gli ibridi di orco.
- Scusami, ma hai fatto una faccia così buffa! Un po' ti capisco, anch'io la prima volta mi sono meravigliato, però con questo vento ti consiglio di tenere la bocca ben chiusa, altrimenti ti ritroverai la lingua cosparsa di sale. - la stuzzicò.
Airis non reagì, fece solo spallucce. Non aveva molta voglia di parlare, non con lui almeno. Davkar dovette intuirlo perché, prima che Arghail potesse intervenire, li salutò frettolosamente.
- Sono tutti così propensi alle chiacchiere su questa nave? - domandò, senza nascondere il sarcasmo.
- Di solito no, evidentemente la presenza di una donna che non sia quella dispotica di Kyra li istiga. - fece un lieve cenno in direzione della ragazza che urlava ordini al fianco di Davkar, - Sai, gli aggettivi “aggraziata” e “delicata” non le si addicono molto. -
- Se stai cercando di deviare dal nostro argomento di conversazione principale, ti avviso che stai fallendo miseramente. -
- Non ci ho mai davvero sperato. - sospirò e si fece di nuovo serio, - Allora, dov'ero rimasto? -
- Non hai mai cominciato. -
Arghail si umettò nervosamente le labbra. Quando levò lo sguardo su di lei, Airis intravide una profonda tristezza.
- Non so esattamente chi siano i miei genitori. Mio padre e mia madre mi hanno trovato abbandonato sulla porta di casa loro, alla vigilia dell'equinozio di primavera, e da quel giorno mi hanno cresciuto come un figlio. Con gli anni ho iniziato a farmi delle domande, perché gli altri bambini mi additavano come “bastardo” o “figlio di nessuno” e non ne capivo il motivo. I miei genitori hanno provato a nascondermi la verità, fino a quando una sera mia madre non mi ha fatto sedere davanti al fuoco per raccontarmi tutto. Da una parte è stato liberatorio. Avevo sempre sospettato qualcosa, tra me e loro non c'era quasi nessuna somiglianza, ma mi ero sempre detto che era una coincidenza, una mia paranoia nata dagli insulti che mi rivolgevano. Sapere la verità è stato come prendere una boccata d'aria fresca, anche se sul momento il mondo mi è crollato addosso assieme alle certezze che mi ero costruito. -
- Dev'essere stato doloroso. -
Arghail sbuffò e fece una smorfia, poi infilò la mano sotto il mantello e tirò fuori un anello d'oro legato a una semplice cordicella a mo' di collana.
- Questa è l'unica cosa che i miei veri genitori mi hanno lasciato. Non ho nessun ricordo legato a loro. Però nemmeno mi interessa cercare informazioni, non più. -
- Hai mai provato a fare delle ricerche per scoprire la loro identità? -
- Sì, è stata la mia ossessione per molti anni, ma purtroppo si è rivelato come cercare un ago in un pagliaio. L'unica certezza che avevo era che appartenevano a una famiglia dell'aristocrazia e che qualcuno dei miei antenati si chiamava Elisewin. -
Le si fece più vicino, tanto che le loro spalle si toccarono, e rigirò l'anello tra le dita mostrandole l'iscrizione all'interno, le lettere morbide ed eleganti vergate nell'oro ancora brillante.
- Ho cercato a lungo, ma non ho mai trovato nulla, nemmeno nelle genealogie delle famiglie nobili più antiche della capitale. Alla fine ho rinunciato e ho deciso di andare avanti, senza più guardare indietro. -
- Allora perché lo hai ancora? -
- Non lo so. Ogni volta che provo a liberarmene, c'è qualcosa che mi ferma. So che potrebbero sembrare le parole di un pazzo, ma è come se... come se sentissi di doverlo custodire. -
Si sistemò la collana sotto il mantello e tornò a contemplare il mare, che sulla linea dell'orizzonte pareva gonfiarsi come se li volesse inghiottire.
Airis, dopo tutto quello che le era accaduto, ormai non si stupiva più di nulla, perciò l'esistenza di un anello magico non la turbava più di tanto.
- Hallende cosa ne pensa di questo? - buttò lì, nella speranza di riuscire a estorcergli qualche altra informazione, ma il sorriso furbo del comandante fu sufficiente a farle capire che la conversazione era finita.
- Avevamo detto una domanda ciascuno, Generale. Se desideri sapere di più, dovrai rispondere ad altre mie domande. - le soffiò all'orecchio.
Lei si ritrasse appena, scoccandogli un'occhiata di sfida.
- Sei salvo, per questa volta. -
- Ci vuole ben altro per farmi cadere in trappola. -
- Prima o poi tutti commettono degli errori. -
- Forse, ma non stasera. È stata una conversazione appassionante, magari ne potremo avere altre durante il viaggio. - ghignò, e subito dopo sbadigliò.
“Puoi contarci.”
- Buonanotte, Arlena. - la salutò, poi alzò il viso e inspirò a fondo corrugando le sopracciglia, - Vedi di non fare troppo tardi. C'è molta umidità nell'aria, sta arrivando una tempesta. -
- Va bene, rimango qui solo un altro po'. Buonanotte. -
Un banco di nubi più nere del cielo si stava addensando sopra le loro teste, prendendo in ostaggio la luna e le stelle. All'improvviso, nella mente di Airis risuonarono le parole d'avvertimento di Cyril.
 
Nei giorni successivi il viaggio proseguì tranquillo, senza alcun intoppo. Airis spesso si aggirava annoiata per la nave. Qualche membro dell'equipaggio a volte tentava di attaccare bottone, ma la conversazione moriva dopo qualche battuta, oppure proseguiva a singhiozzi finché il marinaio non decideva che aveva di meglio da fare. Per Airis non era una situazione insolita. Aveva sempre preferito i fatti alle parole, e quando era stata nominata Generale non aveva perso il vizio e la reputazione di pessima intrattenitrice. Anche con i suoi uomini più fidati, con i quali era cresciuta e aveva combattuto, difficilmente riusciva avere un dialogo che durasse più di due parole in croce. Mai si sarebbe immaginata di desiderare qualcuno con cui chiacchierare. Aveva provato a essere partecipe, come faceva quando era ancora una semplice recluta nell'esercito, ma ben presto si era resa conto che non avrebbe potuto condividere nulla con la ciurma di Torvir. Non la conoscevano nemmeno col suo vero nome, che cosa avrebbe potuto raccontar loro se non bugie?
Le sarebbe piaciuto parlare di nuovo con Arghail, ma il comandante era sfuggente e nervoso. Airis non sapeva a cosa attribuire quel repentino cambio di atteggiamento, anche se forse dietro c'era lo zampino di Torvir, date le occhiate torve che si lanciavano ogni volta che capitava loro di incrociarsi. Dopo l'ennesimo tentativo di spiegazioni fallito, la guerriera aveva deciso che non era affar suo e si era rintanata nella stiva, dove per passare il tempo aveva preso ad allenarsi. Dapprima si era limitata al solito addestramento, fendente dritto, sgualembro rovescio, taglio dritto, parata in spazzata dritta e rovescio, una serie di tecniche concatenate che ripeteva meccanicamente, concentrandosi sia sulla postura sia sulla potenza con cui eseguiva ogni colpo. L'esercizio era reso più difficile dal rollio della nave, ma presto vi si era adattata e aveva imparato come assecondarlo col movimento di braccia e gambe. Paradossalmente, non riusciva ad abituarsi alla sua nuova spada, troppo pesante e poco equilibrata per i suoi gusti.
Durante quei momenti morti, quando il corpo e la mente non erano abbastanza occupati, i ricordi la coglievano a tradimento, riemergendo dalla memoria come fantasmi erranti. Ripensava ai primi anni passati nell'esercito, alle difficoltà che aveva incontrato per integrarsi e per dimostrare che valeva qualcosa, il fatto di essere una donna non era un motivo valido per considerarla debole. Inevitabilmente, rievocava la voce calma e pacata di Felther, la sua attenta capacità analitica che destava stupore anche nei soldati più maturi e persino in qualche veterano. Tutti sapevano che sarebbe diventato il Cavaliere del Drago, così come suo padre e suo nonno prima di lui, era una carica che quasi si tramandava nella sua famiglia. Nessuno, tanto meno Airis, aveva capito il motivo che lo aveva spinto ad avvicinarsi a lei. Era stato improvviso, inaspettato: prima era seduta da sola a uno dei tavoli più lontani della mensa, poi aveva percepito una presenza prendere posto al suo fianco e, contemporaneamente, un forte brusio si era diffuso nella sala. Era riuscita a cogliere solo qualche esclamazione sorpresa e il nome del suo vicino: Eigor Felther. Le era rimasto accanto per tutto il pranzo senza proferir parola, mangiando la sua razione e aspettando che lei terminasse la propria. Dopodiché, Airis aveva udito i suoi passi allontanarsi e confondersi in mezzo a quelli dei loro compagni.
“Eravamo alleati, amici. Come abbiamo fatto ad arrivare a questo punto?”
Ad un tratto, nell'aria risuonò il fragore di un tuono e un'onda si infranse contro la nave con una tale forza da far cadere Airis. Ne seguirono altre, ancora più violente, una furia liquida che faceva rollare paurosamente il vascello.
Quando finalmente riuscì a rimettersi in piedi, Airis uscì dalla cabina e si trascinò su per le scale per vedere cosa stesse succedendo. I marinai correvano da una parte all'altra del ponte, eseguendo lesti gli ordini che avevano ricevuti dal nostromo, le cime e i pennoni che sfuggivano al loro comando come farfalle in un tornado.
- Che succede? -
- C'è una tempesta e noi siamo nell'occhio del ciclone! Torna sottocoperta! - le urlò Davkar a gran voce per sovrastare l'ululato del vento.
Un'altra onda li aggredì e la nave si inclinò pericolosamente, facendo temere ad Airis che si sarebbe ribaltata.
- Ditemi cosa posso fare per aiutarvi! -
Davkar la guardò sorpreso, ma bastò un altro colpo per fargli riprendere il controllo. Le intimò di seguirlo, facendosi largo tra il cordame e gli spruzzi che flagellavano il ponte da ambedue le parti. Assieme a una dozzina di marinai, aiutò a lascare le vele e a imbrigliarle ripiegando ampie sezioni di tela bagnata, per poi tesare di nuovo le sartie. Airis sentì un tuffo al cuore quando uno dei pennoni emise un cigolio agonizzante. Nell'oscurità la costa sembrava lontana, troppo.
- Maledizione! Mettersi alla cappa e poi rifugiarsi tutti sottocoperta! Riferite l'ordine, il capitano non vuole vedere nessuno sul ponte dopo la manovra! - sbraitò Davkar, poi puntò i suoi occhi da gatto su Airis, - Va' ad avvisare Torvir non appena abbiamo finito. -
- Sarà fatto. -
L'ordine rimbalzò da uomo a uomo e tutti si affrettarono verso la randa e il fiocco.
- Ammainate le vele! -
Tirarono con forza, combattendo contro la furia del vento, la pioggia battente e l'ondeggiare impazzito del vascello.
- Più forte! -
La voce stentorea di Arghail giunse alle sue orecchie. Airis vide la corda tendersi ancora di più dietro di lei e la vela dell'albero maestro cominciò a chiudersi, in contemporanea con le altre due. Torvir era aggrappato strenuamente al timone, la mascella contratta e i muscoli delle braccia sotto sforzo per non perdere la presa e mantenere la rotta.
- Ci siamo quasi, non mollate! - li esortò Davkar.
L'ultima parola gli morì in gola quando uno squarcio si aprì in una delle vele. L'albero cigolò, così come tutta la struttura e i due pennoni.
- Per tutti gli dei... -
- Non ce la possiamo fare, si porterà via tutta la nave! -
- Che qualcuno salga per tagliare le corde che la tengono! -
- Non andrà nessuno, è un suicidio con questo vento... -
- Silenzio! - berciò Torvir, avanzando verso di loro.
La coda si era completamente sciolta e i capelli bianchi ora gli frustavano incessantemente il viso. Squadrò la ciurma con espressione impassibile, ma il tremolio alle spalle tradiva la sua paura.
- Il timone è fissato sottovento, ma se qualcuno non sale a tagliare quelle maledette corde moriremo tutti! Non possiamo permetterci di perdere un albero per nessuna ragione al mondo. -
- Vado io. - si offrì Arghail.
Airis pensò che gli avrebbe detto di rinunciare, avrebbe mandato qualcun altro. Invece il mezzelfo tirò fuori un pugnale dallo stivale e glielo porse.
- Muoviti. Voialtri finite di ammainare le vele e poi tutti sottocoperta! Mi avete sentito? -
- Io rimango. Se la situazione dovesse complicarsi ulteriormente, tornerò sottocoperta. - disse Airis.
Torvir si abbandonò a un lungo sospiro, ma non replicò, spostando lo sguardo sulla sagoma di Arghail, che si stava lentamente arrampicando sull'albero di mezzana. Ogni volta che trovava una corda collegata alla vela, la tagliava senza esitare. Il vento faceva svolazzare il mantello attorno al suo corpo e la pioggia lo inzuppava, tanto da trasformarlo in una specie di frusta. Il capitano guardava in alto con crescente apprensione, tenendo sott'occhio la vela. Airis gli stava accanto, anche lei col cuore in gola.
Quando Arghail giunse all'altezza della vela e tagliò le ultime corde, il sollievo serpeggiò nei pochi membri della ciurma rimasti sul ponte.
La nave intanto rollava sospinta dalle onde, si alzava e si abbassava seguendo il ritmo impietoso del mare. All'improvviso, un'onda più alta delle altre si abbatté su di loro, ghermì Arghail e lo trascinò giù, oltre il parapetto.
- Uomo in mare! -
- Arlena! Arlena, torna qui! - gridò Torvir, non appena la vide partire correndo verso il punto in cui Arghail era scomparso.
Airis lo ignorò e avanzò schermandosi il viso dalla pioggia, che penetrava nella pelle come migliaia di aghi acuminati e gelidi.
“Non può morire! Se è davvero il prossimo re di Esperya, non posso assolutamente lasciarlo morire.”
Si sporse dalla balaustra e setacciò la distesa schiumosa in cerca di Arghail, l'ansia che le annodava lo stomaco. Scorse una mano allungarsi fuori dal pelo dell'acqua e una testa emergere tra i flutti, per poi svanire di nuovo, inghiottita dalla furia della tempesta. Si tuffò senza pensarci due volte.
L'impatto fu terribile. Il gelo le morse gambe e braccia e per lunghissimi istanti rimase paralizzata col respiro bloccato nei polmoni. Non seppe nemmeno lei come riuscì ad ordinare ai muscoli di muoversi. Annaspò chiamando Arghail a squarciagola, le onde che la sballottavano da una parte all'altra allontanandola dalla nave. Il buio l'avvolgeva e, per quanto assottigliasse lo sguardo, non vedeva altro se non acqua e nuvoloni neri che galoppavano veloci, scontrandosi con un ruggito tonante.
Una mano, la stessa mano che aveva visto prima, emerse poco lontana da lei e Arghail trasse un profondo respiro per incamerare ossigeno. Aveva il viso pallido e le labbra violacee, chiari sintomi di ipotermia. Non appena la individuò, si allungò nella sua direzione, mentre Airis nuotava verso di lui più veloce che poteva. Quando lo raggiunse, gli passò un braccio sotto le ascelle e lo chiamò ancora, nel tentativo di scuoterlo dal torpore in cui era precipitato e l'aiutasse a rimanere a galla, perché se si fosse lasciato andare sarebbero morti entrambi. Stava cercando di girarsi verso la nave, quando un'altra onda li avviluppò. Vinta dalla fatica e dal freddo, la guerriera perse la presa sul corpo svenuto di Arghail, la vista si appannò e le forze l'abbandonarono.
 
Il fragore di un tuono lo destò di soprassalto. Fuori era buio e nuvole nere avevano oscurato il cielo stellato, scaricando sulla terra e sul mare la loro ira. Si alzò lentamente dal letto di pellicce e si affacciò alla finestra, osservando il terribile spettacolo all'esterno, la furia della natura che si abbatteva contro la costa con un boato assordante. Ma non era stato quello a svegliarlo.
Lei era lì, lo sentiva.
Saltò in piedi e si avvolse nel mantello, i bracciali di crisoprasio che rilucevano alla luce fioca dei fuochi fatui. Doveva sbrigarsi, non aveva molto tempo.

Angolo Autrice:

Hello folks!
Come avete visto, la storia ha raggiunto le 50 recensioni! Quindi, come promesso, si parte col giveawy dove, chi vincerà, potrà decidere i personaggi e il mondo dove sarà ambientata la OS che scriverò! Vi lascio QUI il link della pagina e niente, se avete domande, sapete dove trovarmi! Un bacione e grazie mille a tutti!
Hime

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Capitolo 11
*** Nei tuoi occhi, il male ***


Fuoco 2

10

Nei tuoi occhi, il male

Uno scalpiccio nel corridoio strappò Ledah a un sonno breve e inquieto. La luce grigia della mattina non poteva filtrare attraverso la pietra, ma lui sapeva che il sole era sorto: da quando era lì dentro, aveva sviluppato la capacità di misurare lo scorrere del tempo in base alle visite che riceveva e al tipo di silenzio che lo attorniava. Si concentrò quindi sul rumore di passi in avvicinamento, cercando di associare quell'andatura marziale a un viso noto. Tuttavia, la sua attenzione venne presto calamitata, di nuovo, dallo sgocciolio che proveniva da un angolo della cella, ai margini del suo campo visivo. In quell'istante, come accadeva sempre non appena quel suono ipnotico prendeva possesso delle sue orecchie, le voci tornarono a farsi sentire, sussurrando maligne nella sua mente.
Ledah, dove scappi?
Pensi davvero che basti ignorarci per mandarci via?
Ingenuo.
Stupido.
Codardo.
“Perché non state mai zitte?!”
All'improvviso, una voce familiare si insinuò nella sua coscienza e lo riscosse dalla catalessi.
- Buongiorno, corvetto. - lo salutò Brandir, entrando nella stanza.
Sotto un mantello verde scuro, indossava l'armatura nera del loro primo incontro, con le daghe elfiche che tintinnavano contro gli alti schinieri ad ogni passo. All'altezza della gola, dove la lama di Airis lo aveva colpito, biancheggiava la cicatrice che, come una collana di spine, gli deturpava il collo.
- Non mi tratterrò a lungo, sono solo venuto a vedere come stavi. Mi sembri in forma, nonostante tutto. Le guardie mi hanno riferito che sei stato un po' inquieto negli ultimi giorni, addirittura riottoso. Qualcosa non va? -
Ledah sollevò stancamente il capo e fissò lo sguardo in quello del suo vecchio compagno d'armi. Aveva gli occhi di un verde slavato, opachi come quelli di un morto.
- Non hai voglia di parlare un po'? Sei solo da parecchio tempo, rinchiuso in una gabbia di simboli magici e silenzio, lasciato a impazzire, dovresti morire dalla voglia di scambiare due chiacchiere con qualcuno, no? Oppure non ti ricordi più come si fa? -
- Cosa vuoi? - gracchiò Ledah con un fil di voce.
Il sapore acre del sangue gli riempì la gola e l'odore dell'umidità gli permeò il naso, impedendogli di percepirne altri all'infuori di quello del suo corpo, che puzzava di sudore e sporcizia. Si protese verso Brandir, tirando le catene quel poco che bastava per avvicinarsi. Le rune sugli anelli, come si aspettava, non si attivarono.
- Speravo di ottenere una confessione. - rivelò il visitatore.
- Una... confessione? -
- Esatto. Non guardarmi con quell'aria trasognata, corvetto, sai di che cosa parlo. C'è solo una cosa che desidero udire dalle tue labbra e non capisco perché tu non sia stato il primo a chiedere alle guardie di farmi venire a chiamare. A breve finirà tutto, tu smetterai di esistere e il Mondo Nato dal Nulla rinascerà una seconda volta. Il tuo fato è segnato, non c'è nessuna possibilità di salvezza. Non ti resta più niente se non le ceneri ancora calde di ciò che hai distrutto. Perciò confessa e chiedi perdono per tutto il male che hai causato. -
- Ho già pagato per i crimini che ho commesso, ma forse Lysandra non te ne ha reso partecipe: il nostro popolo mi ha esiliato, Aiwen mi ha disconosciuto e ho vissuto a Llanowar come un reietto. -
- Non dovresti pronunciare il suo nome, anche se era tua sorella. Non osare mai più nominarla, hai capito? Non dopo quello che ci hai fatto! - ringhiò ostile, stringendo i pugni e cominciando a girargli attorno come un lupo pronto a balzare sulla sua preda, - Se non fosse stato per te, per la tua codardia, a quest'ora niente di tutto questo sarebbe accaduto: io non sarei morto e la mia bambina, la mia Vyndra, avrebbe un padre! -
- Non potevo consegnarmi a Lysandra! Lei non è la donna che credi, non lo è mai stata. Haldamir non avrebbe mai tentato di eliminare un'innocente. Se non credi alle mie parole, guarda ai fatti. I nostri fratelli del Consiglio... -
- I membri del Consiglio? Loro sono colpevoli tanto quanto te, Ledah. Mi sono sempre domandato come avessero fatto i nostri Anziani a non capire quanto fossi pericoloso. -
- Brandir, non sono io il nemico. Apri gli occhi! -
- Aprire gli occhi? L'ho già fatto, caro il mio corvetto. Sai, da quando sono diventato un Risvegliato, la verità mi è stata svelata in ogni dettaglio. Ora tutto mi appare limpido, chiaro, così semplice. - sospirò sorridendo, passeggiando avanti e indietro di fronte a Ledah, - La corruzione striscia ovunque senza risparmiare nessuno, né elfi né umani, o qualsiasi altra razza. In passato gli Alati, i figli prodighi di Yggrasil, furono puniti per la loro insolenza, per essersi opposti al volere del loro Padre, ma è evidente che la storia, la madre di tutti i mali, non ci ha insegnato nulla. Adesso è il momento che il Caos prevalga sull'Ordine, affinché dalle ceneri di questo mondo ne rinasca uno migliore, più giusto, più equilibrato. -
Mentre lo ascoltava parlare, Ledah si rese conto che Brandir credeva davvero a ciò che diceva. Lo capì dallo sguardo folle che gli aveva acceso lo sguardo e dalla fermezza che gli induriva la voce. Sembrava un pazzo, impressione accentuata dal pallore del suo viso, dalle pupille dilatate e le palpebre cerchiate di rosso.
- Brandir, non capisci che Lysandra ti sta ingannando? Ti ha manipolato e reso suo schiavo. Ascoltami, te ne prego, non darle retta. Qualsiasi cosa ti abbia detto, è stata soltanto per ammansirti e trasformarti in un suo fedele servitore. Il Consiglio non avrebbe mai mandato i loro migliori guerrieri a morire in una missione suicida, non con una guerra in corso. Hanno sempre pensato al bene del nostro popolo, sono sicuro che non fosse loro intenzione... -
- Ti volevano morto, Ledah! - sbottò diretto, esasperato dalla sua cocciutaggine, - Eri considerato un nemico e da tempo avevano pianificato di ucciderti. Non potevano condannarti a morte per il sangue che ti scorreva nelle vene, eri pur sempre il figlio di Elladan e, anche se col matrimonio con Haldamir lei aveva perso il diritto al trono, rimanevi pur sempre un membro della famiglia reale, un discendente diretto della stirpe Arawan. Nessuno avrebbe osato alzare un dito su di te. Per questo era necessario un pretesto valido, qualcosa che ti inchiodasse senza via di scampo. -
Brandir si spinse fino al limitare del cerchio di rune e si piegò appena, scoccandogli dall'alto un'occhiata derisoria e crudele.
- Però non avevano messo in conto una variabile di una certa importanza: tu non sei un elfo normale, sei nato da una donna morta e tuo padre è un dio. Si potrebbe dire che la vita sia stata più che generosa con te, molto più che con gli altri suoi figli. E tu, invece di accogliere questo dono e sacrificarti per un futuro migliore, cosa hai fatto? Sei scappato. Non hai onore, Ledah, tutta la tua vita è uno oltraggio! -
Ledah scoppiò a ridere e la sua voce raschiante sembrò il cupo gracchiare di un corvo.
- Cosa ci trovi di divertente? - sibilò Brandir tra i denti.
- Vuoi davvero saperlo? - strinse i pugni, trattenendosi dallo strattonare le catene, - Rido per non piangere. Perché quello che ho davanti non è più l'elfo che ho conosciuto, il mio più caro amico, un druido costretto a vestire i panni del soldato per servire la patria. No, tu sei un macellaio che si sta facendo manipolare da una Lich, il cui unico obiettivo è mettere in ginocchio il mondo al fine di agevolare un dio a distruggerlo! Non ti chiederò mai perdono. Forse in passato lo avrei fatto, la prima volta che ci siamo rivisti ti ho scongiurato di fermarti, ma ora ho capito: tu non sei Brandir, ma un sacco di carne che di lui ha conservato solo la faccia. Una brutta, cadaverica faccia. -
Trasse un profondo respiro, parlare per tutto quel tempo lo aveva sfiancato, ma i pensieri galoppavano più veloci di qualsiasi sensazione fisica e si riversavano fuori dalle sue labbra come un fiume in piena.
Brandir lo fissò per un lungo momento e Ledah sostenne fieramente quello sguardo: aveva la sensazione che se avesse incanalato tutto il dolore negli occhi, il suo amico avrebbe potuto percepirlo sulla pelle mentre gli scavava nella carne viva, fino ad addentrarsi nelle ossa. Forse allora avrebbe capito che non gli stava mentendo. Entrambi avevano perso qualcuno di caro.
Negli occhi di Brandir, tuttavia, c'era solo furia cieca, che gli distorceva i lineamenti delicati del viso e lo trasfigurava in una bestia. Gli bastò un passo per attraversare il cerchio di rune e arrivargli vicino, tanto che Ledah poté inalare l'odore marcescente che scaturiva dal suo corpo. Brandir gli afferrò violentemente il cuoio capelluto, tirandolo indietro e obbligandolo a mostrare la gola in segno di sottomissione. Poi gli prese il mento e lo costrinse a venire avanti con uno strattone, che fece pulsare i simboli sulle catene.
- Tu non sai cosa vuol dire perdere qualcuno che ami, non hai mai amato nessuno a parte te stesso. - sibilò invelenito a un palmo dal suo naso.
Ledah si contorse quando una scarica di dolore si irradiò in tutta la faccia, una ragnatela ardente che gli fece venire le lacrime agli occhi e gli arroventò le orecchie, mentre il cervello si svuotava.
Cosa poteva dire? Che anche lui aveva amato? Quello che provava per Airis cos'era?
“Non importa, tanto ormai lei non c'è più.”
A quel pensiero, le voci lo aggredirono ancora, sovrapponendosi l'una all'altra in un caos di parole.
Non c'è più motivo di combattere.
Vieni con noi, starai bene.
Il dolore passerà, non sentirai più nulla... avrai pace.
Quell'ultima frase scivolò nelle sue orecchie come miele. Socchiuse le palpebre e si immaginò come sarebbe stato abbandonarsi al torpore, che da un angolo della mente premeva per fagocitare la sua coscienza e la sua volontà. Si rese conto che sarebbe stato semplice, e forse finalmente avrebbe trovato la pace che tanto agognava fin da quando era stato esiliato. Era stanco, stufo di arrancare e trascinarsi su una strada che portava verso il baratro. Arrendersi era una proposta molto allettante.
Non seppe da dove provenne la voce che rispose a Brandir, era la sua e allo stesso tempo non lo era.
- Ti sbagli, c'è stata una persona che ho amato, una donna piena di segreti con la quale non ho passato che poche settimane della mia vita, nient'altro che frazioni di secondo in confronto ai secoli che mi porto sulle spalle. Eppure so di averla amata. Ciononostante, quello che ho perso non è abbastanza per farmi capitolare. La sofferenza non è una scusa sufficiente per lasciarmi schiacciare nel fango e convincermi ad abbandonare ciò per cui ho lottato per tutti questi anni. - puntò gli occhi lucidi di febbre in quelli dell'altro e curvò le labbra in una smorfia amara, - Sono felice che né Aiwen né Vyndra possano vederti adesso, non ti riconoscerebbero. -
Brandir lo fissò, per la prima volta senza parole dall'inizio della conversazione. Poi gli sferrò un pugno che gli strappò il fiato, e con esso i pensieri. Non soddisfatto, si accanì sempre di più, lo colpì ancora e ancora, grugnendo e urlando come un disperato. Non era la metodica crudeltà di un carnefice a guidare il suo corpo, quanto la lacerante consapevolezza di aver perso tutto.
Ledah incassò senza tentare di ribellarsi o schivare, poiché sarebbe bastato un movimento più brusco degli altri per attivare le catene. A dispetto del dolore, mantenne la testa alta e la bocca serrata, in modo tale che il suo aguzzino non venisse premiato nemmeno da un singolo gemito.
Quando le guardie arrivarono richiamate dal trambusto, stava già cedendo all'incoscienza. Però udì fino alla fine le grida di Brandir, lo vide contorcersi nel tentativo di aggredirlo nuovamente da dietro il velo rosso che gli copriva lo sguardo. Prima di svenire, frastornato dalle botte e del panico che si era scatenato nella prigione, Ledah captò un ultimo particolare che lo fece sorridere vittorioso: la linea di sangue del cerchio di rune, quella più esterna, si era rovinata.
 
Era mattina presto quando Ledah si svegliò. I raggi obliqui del sole entravano dalle finestre smerigliate, delineando i contorni del letto e della cassettiera sul muro opposto. L'elfo allungò le braccia stiracchiandosi e si guardò intorno con la vista ancora annebbiata dal sonno.
La notte precedente era tornato relativamente tardi alla Reggia dei Ginepri, ma nessuno sembrava essersi accorto del suo rientro tardivo, anche se sospettava che un paio di guardie avessero scorto quantomeno la sua ombra.
Si mise a sedere e dopo un lungo sbadiglio scese dal letto. I vestiti della sera prima erano appoggiati sulla sedia, impilati ordinatamente gli uni sugli altri, mentre l'armatura luccicava sulla rastrelliera, assieme al mantello verde scuro che aveva indossato durante il viaggio. Aveva il lembo sinistro leggermente strappato: avrebbe dovuto farlo riparare prima di partire in missione a Sheelwood, ma gli era passato di mente.
Sulla scrivania di legno scuro, un bigliettino piegato in quattro era stato infilato sotto il vaso di fiori, in modo che solo un angolo fosse visibile. Con un'espressione corrucciata, lo prese e lo aprì. Riconobbe subito la calligrafia di Brandir, le lettere vergate con una tale eleganza e precisione potevano essere solo che sue.
 
Oggi io e te abbiamo un impegno. Appena finito il colloquio, seguimi.
B.
P.s: nell'armadio troverai ciò che ti serve e non dimenticare di farti la treccia rituale.
 
Ledah inarcò un sopracciglio, perplesso e allo stesso tempo divertito. Quindi andò in bagno e si fermò davanti allo specchio. Osservò con espressione critica e quasi di sfida le ciocche ribelli che gli ricadevano sul viso e rilasciò un sospiro affranto. Dopodiché impugnò il pettine con cipiglio battagliero e arricciò le labbra, pronto a districare un nodo particolarmente tenace sulla nuca.
A Llanowar era usanza portare i capelli lunghi per dimostrare il legame con il Padre della Foresta, e Haldamir aveva sempre preteso che Ledah si adeguasse agli usi e costumi della foresta del Nord, anche se questi odiava dover perdere minuti preziosi ogni mattina per pettinarli. A distanza di anni dalla sua morte, però, nonostante si fosse ripromesso più volte di farlo, non li aveva mai tagliati.
Trovò strano che gli fosse tornato in mente suo padre, da diversi anni non ripensava a lui. Del resto, non avevano mai avuto un bel rapporto, Haldamir era sempre stato molto scostante e Ledah un ribelle. Più di tutto ricordava il suo sguardo severo, che aveva il potere di farlo sentire insignificante come un verme. Eppure non poteva biasimarlo per essersi comportato in quel modo, aveva avuto le sue ragioni. Solo quando era spirato, Ledah si era reso conto del vuoto che aveva lasciato. Non poteva dire di averlo amato, semmai il contrario. A differenza di Aiwen, non aveva versato nemmeno una lacrima mentre i capi tribù lo smembravano. Nei giorni a seguire era tornato spesso al cimitero per osservare i resti del suo corpo e, mentre i corvi e gli animali della foresta banchettavano con ciò che rimaneva del suo cadavere, Ledah aveva osservato la scena in religioso silenzio, finché non erano rimaste che ossa rotte e schizzi di sangue rappreso sull'erba.
Non sapeva se l'anima di Haldamir avesse trovato pace. Forse i corvi lo avevano guidato nel paradiso in cui tanto credeva per aiutarlo a diventare parte della natura, e qualora si fosse perso durante cammino che conduceva all'Elwing Telperiën, avrebbe potuto reincarnarsi e vigilare sul suo popolo.
Spero davvero che alla fine tu abbia trovato la serenità che in vita ti è stata preclusa.”
Prese un cofanetto di noce appoggiato allo specchio e tirò fuori delle piume di falco e un nastro verde muschio, per poi dividere i capelli in varie ciocche e cominciare a intrecciarli fin dalla cute, aggiungendo di tanto in tanto le decorazioni che aveva appoggiato sul ripiano.
Una volta terminata l'acconciatura, rientrò in camera e aprì l'armadio. Dentro c'erano un paio di calzoni scamosciati nei toni del verde e una tunica corta con inserti in seta e ricami sulle maniche svasate. Ad accompagnare il tutto, degli stivali in pelle nera, con un'edera che si arrampicava lungo tutto il polpaccio.
Almeno non è un abito.”
Ricordò con un sorriso il giorno dell'investitura di Aiwen, in cui suo padre costrinse lui e Brandir a indossare una lunga veste dorata e un cerchietto d'argento sulla testa, come si addiceva ai familiari e al promesso sposo di una candidata al Consiglio. A Brandir non era dispiaciuto, anzi, agghindato in quel modo, con i capelli stretti in una coda e la punta delle orecchie adornata con orecchino d'onice, sembrava un druido dei boschi, proprio quello che sarebbe diventato se la guerra non avesse preteso i suoi servigi. Per Ledah, invece, era stato uno strazio: si era sentito ridicolo con gli occhi truccati in modo da farli sembrare ancora più sottili, e per di più la veste gli andava stretta sulle spalle e sulle braccia.
Si avvicinò allo specchio e si sistemò il colletto e la treccia, assicurandosi che qualche ciocca non fosse sfuggita alla costrizione delle piume e del nastro. Infine uscì dalla camera, diretto alla sala dalle udienze.
La Reggia dei Ginepri, così era stata soprannominata la corte del re e della regina di Sheelwood, era una struttura che sorgeva al penultimo piano del Padre della Foresta. Somigliava a un castello principesco. Si estendeva per quattro piani ed era ornato con pinnacoli, balconate, sculture ornamentali e numerose torri che svettavano orgogliose con più di duecentosessanta piedi di pietra bianca. Su quella più alta, sita sul lato ovest, sventolava la bandiera della casata reale, una foglia dorata inscritta in una rosa dei venti. La prima volta che Ledah era andato a Sheelwood, l'aveva vista solo da fuori, ma già all'epoca era rimasto colpito dalla magnificenza delle statue e dei bassorilievi che decoravano le bifore e le trifore dai vetri coloratissimi.
L'interno rispecchiava la stessa spettacolare opulenza dell'esterno. Aveva sentito dire che ci fossero oltre duecento camere, incluse quelle della servitù e dei soldati della guardia personale del re e della regina. Gli alloggi del suo gruppo erano nell'ala est, vicino al cortile interno, con una piccola serra privata dove le dame passavano la maggior parte del tempo a parlare di cose frivole e di poco conto.
Con passo svelto, Ledah si orientò nei corridoi e raggiunse la Sala delle Udienze. Quando si avvicinò alla porta, le due guardie lo squadrarono da capo a piedi.
- Chi va là? -
- Sono uno dei guerrieri di Llanowar. Sono stato convocato dal re. - si annunciò.
L'elfo sulla sinistra, che sfoggiava una cicatrice sul labbro e un occhio glauco, si prese un momento per studiarlo, prima di rivolgere un cenno al suo compagno e farsi da parte. Ledah passò oltre a testa alta.
La Sala delle Udienze era imponente e ampia. Le tre arcate che la circondavano sui tre lati culminavano in un'abside, dove si trovava il trono di rovere. Lo schienale, intagliato nell'effige di un antico albero, si innalzava verso il soffitto, per poi fondersi con esso sfaldandosi in radici nodose che, come una ragnatela, penetravano nella pietra. Merli e cardellini svolazzavano in qua e là, per poi tornare a rifugiarsi nel loro nido, nascosto chissà dove nell'intrico di rami e foglie.
Ledah fissò incantato quella struttura, che sembrava tutto fuorché un semplice sfoggio di opulenza. Se avesse chiuso gli occhi, ne era certo, avrebbe percepito il respiro del legno e l'odore della clorofilla che lo irrorava e vivificava.
I suoi compagni già presenti, tutti vestiti con abiti eleganti, gli rivolsero un cenno di saluto. Brandir gli riservò una smorfia che voleva dire “sei sempre in ritardo”, ma Ledah lo ignorò deliberatamente e si accinse a prendere posto con aria innocente, sapendo che avrebbe fatto arrabbiare l'amico.
Re Meidras e sua moglie, la regina Vedra, sedevano affiancati, lui sul trono intagliato in un albero, lei su uno scranno di legno bianco, con rami esili e penduli che si allungavano verso l'alto intrecciandosi tra loro e con quelli dell'altro trono. Avevano entrambi la pelle ambrata, in un curato contrasto con i capelli corvini e gli occhi finemente truccati. Vedra stringeva la mano del marito, mentre quest'ultimo abbracciava la sala con lo sguardo, vagando da un viso all'altro con un'espressione ansiosa a indurirgli le labbra. Non appena vide che Ledah si era allineato con gli altri, si schiarì la voce e iniziò a parlare.
- Bene, ora ci siete tutti. Benvenuti a Sheelwood, stimati guerrieri. Mi dispiace avervi fatti venire per questioni così poco piacevoli, ma, come di sicuro saprete, la guerra è giunta fin qui. Immagino che il Consiglio vi abbia già edotti sul nemico che ci sta insidiando. -
- Sì, vostra maestà, ho conferito ieri pomeriggio con i vostri Anziani. Non credevo che tra gli uomini ne esistessero anche alcuni capaci di usare la magia e di essere allo stesso tempo così scaltri. Il comandante del manipolo accampato a oriente è molto più furbo di quanto mi aspettassi. - rispose prontamente Brandir.
- Proprio per questo vi abbiamo chiamati. Siamo preoccupati. Sebbene il Padre della Foresta sia celato alla vista dai nostri migliori incantesimi di occultamento, non possiamo escludere che questo mago sia in grado di tracciarne la posizione. Se così fosse, saremmo tutti in pericolo. - il re trasse un profondo respiro e si massaggiò la radice del naso, gli occhi adombrati dall'agitazione e dall'angoscia, - So che al Nord siete riusciti più volte a respingere l'avanzata degli umani e ciò fa di voi i candidati più adatti alla missione. Abbiamo perso fin troppe foreste per permetterci di sottovalutare la minaccia. -
Ledah si stupì a quelle parole. Tra Llanowar e Sheelwood non correva buon sangue da ormai molto tempo: gli abitanti della foresta del Sud reputavano quelli del Nord dei barbari ancora tenacemente attaccati alle tradizioni più antiche del loro popolo. Quando avevano perso le prime foreste, l'Assemblea dei Pari aveva mandato una delegazione da Meidras per offrire loro una mano, ma questi aveva rifiutato, troppo orgoglioso per accettare un'alleanza. Perciò sentirgli pronunciare un discorso del genere che nascondeva una chiara richiesta di aiuto lasciò di stucco tutti, persino la stessa regina.
- Saremmo onorati di assistervi, maestà. Quando i vostri guerrieri torneranno dalla spedizione, parlerò col loro comandante per organizzare un piano efficace. Sappiamo cosa aspettarci, abbiamo combattuto abbastanza per provare a prevedere le mosse dei nemici. Per quello che riguarda il mago, conto di ricevere notizie a breve sulle sue capacità. Sapere se è un Dominatore o un Arcanes ci aiuterebbe molto. - disse Brandir.
Il re annuì con aria affranta, intrecciando le dita con quelle della moglie. Un sorriso affiorò sulle labbra dell'elfo e, quando incrociò gli occhi della sua amata, la paura che li oscurava si dissolse, sostituita da una scintilla di speranza.
- Il ritorno di Baraja è previsto tra poco più di una settimana. Non appena sarà qui, la manderò subito da voi, comandante. Per ora prendetevi del tempo per riposare. Deve essere stato un lungo viaggio. - proferì Meidras.
- Grazie, maestà. -
- Bene, siete congedati. -
Tutti si inchinarono, compreso Ledah. Per tutto il colloquio, la regina non gli aveva staccato gli occhi di dosso, neanche per un istante. Anche mentre si allontanava, gli sembrava di sentire il peso del suo sguardo sulla nuca, come se volesse trafiggerlo da parte a parte. Quando le porte si chiusero alle loro spalle, per Ledah fu un sollievo.
Ad un certo punto, Brandir invitò i commilitoni ad avvicinarsi.
- Avete la giornata libera, ma ricordatevi di non ubriacarvi, sia mai che si lamentino della nostra maleducazione. -
- Non preoccupatevi, siamo dei bravi ragazzi. - gli rispose ridacchiando Gerania, la loro compagna più giovane, - Dai, andiamo, questo incontro mi ha fatto venire sete. -
- Anche a me. - concordò Ràl, - Seguitemi, ho visto una locanda al secondo piano del Padre. Se ci andiamo adesso, forse non troviamo troppa gente. -
Ledah abbozzò un sorriso divertito. Prima che Gerania potesse proporgli di accodarsi a loro, le fece un cenno di diniego con la testa. Aveva già bevuto abbastanza la sera addietro, per quel giorno era a posto.
Rimasti soli, Ledah studiò Brandir di sottecchi, cercando di non farsi notare. L'amico si comportava in modo strano da quando erano arrivati a Sheelwood e il fatto che non avesse voluto condividere con lui i dettagli che gli Anziani gli avevano riferito era solo uno dei suoi numerosi atteggiamenti sospetti. Anche mentre parlava con i sovrani era apparso teso.
Cosa mi stai nascondendo? Cosa ti turba così tanto da farti tenere la bocca chiusa?”
- Corvetto, puoi smetterla di fissarmi? È irritante. -
Brandir gli schioccò le dita davanti al naso per risvegliarlo dai suoi pensieri. Sorrideva come sempre, ma Ledah sapeva che c'era qualcosa che non andava. Si sforzò di ricambiare il sorriso e di mostrarsi disinvolto, nonostante il nervosismo e la tensione.
- Sì, scusami. È che sei così... colorato. Un pavone a confronto è un canarino sgraziato. -
- Lo prenderò come un complimento. - gli diede un pugno sulla spalla e gli fece strada lungo il corridoio, - Forza, cammina, anche noi abbiamo un impegno. -
- E tu odi fare tardi, lo so. - sospirò Ledah, le mani affondate nelle tasche dei calzoni, - Piuttosto, hai intenzione di dirmi di cosa si tratta, oppure devo indovinarlo? -
- Sono quasi tentato di tenertelo nascosto ancora un po' facendoti rodere il fegato, ma credo sia giusto che tu lo sappia. -
- Ecco, adesso sono preoccupato. -
Brandir ridacchiò e dopo un istante di esitazione dichiarò: - Io e Aiwen ci sposiamo oggi e tu ci farai da testimone. -
Ledah lo fissò a bocca aperta, a corto di parole. Sapeva che prima o poi avrebbero compiuto il grande passo, era nell'aria, ma non immaginava che avrebbero compiuto il grande passo proprio quel giorno. Brandir aveva sempre detto che avrebbero aspettato la fine della guerra, così da poter indire una grande festa, sia a Llanowar che a Sheelwood, ma erano passati quasi quarant'anni e Ledah immaginava che fossero stanchi di attendere. Dopo essersi ripreso, lo abbracciò e gli assestò poderose pacche sulla schiena.
- Finalmente! L'idea di avere una sorella zitella mi ha sempre tormentato, ma forse ora potrò mettermi il cuore in pace. -
Brandir scoppiò a ridere, imitato da Ledah, e le loro risate felici rimbalzarono sulle pareti di marmo bianco, richiamando l'attenzione degli elfi che passeggiavano per i corridoi. Essi si girarono a guardarli con disapprovazione, e quando Brandir e Ledah passarono vicino a uno di loro, che se ne stava con il naso arricciato come se ci fosse un cattivo odore nell'aria, l'ilarità crebbe assieme all'entusiasmo e scacciò via i cattivi pensieri.
Corsero fuori dalla reggia e attraversarono i ponti d'ambra continuando a scambiarsi battute, senza che il riso li abbandonasse mai. Incuranti della gente che sbirciava incuriosita nella loro direzione, scesero fino al piano di mezzo e si infilarono nei sentieri che si districavano sui rami dove sorgevano case, funghi variopinti e statue dedicate a divinità elfiche. Giunsero in prossimità di un ramo spesso e robusto, che sembrava invitarli a entrare in un gazebo avvolto da una veste sgargiante di clematidi e ipomee in fiore. Brandir si fermò al centro, mentre Ledah si appoggiò allo steccato, le braccia incrociate sul petto e il cuore in fermento. Di lì a poco, un'elfa agghindata con un semplice abito bianco e una spada di cristallo nero di Valhalla tra le mani arrivò da una stradina laterale, una delle tante che si snodava nei rami periferici del Padre della Foresta. Al suo fianco, nascosta da un mazzo di fiori troppo grande, c'era una bambina con le trecce rosse e gli occhi dello stesso azzurro dei fiumi di montagna, mentre alla sua sinistra avanzava un elfo con i lunghi capelli bianchi e delle leggere rughe ai lati della bocca e sulle mani screpolate.
Ledah e Brandir li fissarono finché non arrivarono ai primi scalini e lo sposo trasse un profondo respiro, prima che Aiwen lo affiancasse. Accarezzò la testa della bambina e, con un sorriso che gli illuminava gli occhi, le sussurrò qualcosa all'orecchio che Ledah non capì, ma che fece sorridere la diretta interessata. Poi, saltellando, quella si appiccicò allo steccato, affondando il viso nel mazzo di fiori.
Non appena anche Ledah si fu avvicinato, il sacerdote diede inizio alla cerimonia. Verso la metà, gli sposi disegnarono con la spada l'Amashta, il cerchio magico che, secondo la tradizione, li avrebbe protetti dagli spiriti maligni. Aiwen percorse la prima metà del cerchio, poi passò la spada a Brandir, gli occhi sprofondati in quelli dell'altro e il sorriso più felice che Ledah avesse mai visto. Nel frattempo, ripetevano le parole del sacerdote a bassa voce, scambiandosi le promesse.
 
Accolgo la tua protezione con la spada di Celebrinda
nel fuoco dell'amore e nei quattro elementi,
sotto le stelle del firmamento e sotto gli dei antichi e nuovi,
e giuro sul sangue che ciò che provo
è più puro della Verità Assoluta.
 
Il sacerdote compì un gesto con la mano e dal legno emersero delle candele. Brandir prese una stecca d'incenso dalle tasche e accese la prima, che per magia si dissolse in un vortice di petali rossi che il vento fece turbinare sul cerchio sacro. Aiwen gli si accostò e intrecciò le dita con le sue, prima di accompagnare la sua mano verso la seconda e la terza candela. Bastò un momento perché anche queste si sparpagliassero ovunque creando un tappeto floreale rosso, blu e giallo.
 
Tuo è il potere di Yggrasil, il sommo Padre,
tua la virtù di Galathien la saggia,
tua la fede di Lash'ar il mite
tue le gesta degli eroi che furono, sono e saranno
tua l’eleganza di Calimie la bella
tua l'indole del paziente Selindrior,
tua l’audacia di Tariel la cacciatrice,
tuo il fascino di Xana l'incantevole.
 
Tu sei la delizia d’ogni giorno,
la luce del sole appena nato,
il focolare acceso nelle notti gelide,
la stella più lucente che guida i marinai,
la prima spiga di grano,
il cervo che danza sui monti,
la grazia della colomba della pace,
il desiderio più profondo e anelato,
l'anima più gentile che il Padre mi ha concesso.
 
A questo punto, il sacerdote prese in custodia la spada e passò agli sposi un pugnale dalla lama ondulata, che catturava la luce come un piccolo sole. Aiwen strinse le dita attorno all'elsa e, dopo momento d'esitazione, si incise il polso destro. Il suo viso non tradì alcun dolore o paura, c'era solo determinazione, fiducia e amore. Brandir, non appena ella gli porse il pugnale, fece lo stesso, lo sguardo fisso in quello della sposa. Quando il sacerdote legò attorno ai loro polsi una striscia di stoffa bianca, che non tardò a macchiarsi di sangue, le loro voci si unirono per cantare un inno.
 
Ora il laccio che ci lega non si spezzerà più.
Imparerò da te ciò che la Vita non mi ha insegnato
e lo stesso sia per te, finché ciò che abbiamo cresca
e ciò che ci manca ci venga concesso.
Quel che ho amato, prometto d'amarlo sempre,
finché il Padre non ci prenderà con sé.
Il mio cuore sarà per te,
la mia anima sarà per te,
il mio amore sarà per te,
ora e per sempre.
 
Quando anche l'ultima nota si spense, Brandir e Aiwen si scrutarono in attesa, impazienti di ricevere dal sacerdote il segnale che la cerimonia si era conclusa. Non appena questi annuì e sorrise, Brandir sollevò Aiwen tra le braccia, affondò le dita tra i suoi capelli e baciò la sua risata.

Angolo Autrice:

Hello folks!
Oggi si è concluso il Giveaway e abbiamo un vincitore, finalmente u.u Nelle prossime due settimane mi impegnerò per mettere online la Os che vi ho promesso. Non vi dico ancora su chi sarà, ma vi assicuro che non appena la leggerete, vi verrà subito l'illuminazione u.u Bon, la prossima pubblicazione di fuoco è spostata all'11 giugno, ci si vede per allora!
Hime

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Capitolo 12
*** Auspici ***


Fuoco 2

11

Auspici

La città era avvolta da una nebbia così densa che la regina Eliria, nonostante fosse ormai abituata a quella presenza invadente, ne rimase comunque stupita. Osservò Alabastria, la sua Alabastria, da dietro la finestra del Castello di Ferro, la lunga tunica di lino e pizzo a cingerle il corpo e i capelli rossi sciolti sulla schiena.
Quel candido vello bianco conferiva alla città un'aura quasi onirica, le riportava alla mente le storie sulle fate e i folletti che la sua balia le raccontava quando era bambina. Prima di andare a dormire, quando lei e le sue sorelle erano le uniche ancora sveglie, Gwill rimboccava loro le coperte, prendeva il “vecchio libro rosso” – così lo chiamavano per via del colore della copertina e perché non aveva un titolo – e cominciava a leggere le gesta di Oberon e dalla sua amata Titania contro i figli di Aesir e la loro tragica storia d'amore. Ora la sua voce era quella stentorea del principe che risollevava il morale delle truppe prima della battaglia, ora si abbassava e, sibilando, evocava il viso della strega Mangiaossa quando persuadeva la fata ad accettare la mela avvelenata; poi ancora declinava dolcemente in un'inflessione delicata da soprano mentre recitava le ultime parole di Titania prima di cadere nel suo sonno eterno. Era la parte che Eliria amava e odiava di più: doveva sempre reprimere le lacrime, nonostante la descrizione della bellissima città di Asiria, che la vecchia Gwill tratteggiava con una precisione tale che più volte Eliria e le sue sorelle si domandarono se non l'avesse vista davvero, perché tutte quelle informazioni nel libro non c'erano.
Ecco, in quel momento Alabastria somigliava più che mai alla città fatata: abbracciata da un lenzuolo di nebbia che sfocava i contorni delle cose, sembrava il prodotto della fantasia di un bardo in estasi compositiva, con la neve che si era depositata sui bassi tetti e sui rami degli alberi disegnando arabeschi contorti e candidi, simili alla tempera che si usava per ritoccare i dettagli più insignificanti dei quadri.
Eliria sospirò e poggiò i polpastrelli contro il vetro freddo della finestra. Il tempo sembrava impazzito nelle ultime settimane: un giorno spirava il profumato vento primaverile e quello successivo l'inverno ghermiva la terra nella sua gelido abbraccio. Di quel passo, avrebbe fatto impazzire non solo i contadini, ma anche la sua servitù, che ogni volta doveva cambiarle i vestiti del guardaroba. Non che fosse un disturbo, dato che molte delle domestiche amavano poterla abbigliare come una bambola.
Intrecciò le braccia sul petto e si strinse nelle spalle quando percepì delle mani calde e ruvide adagiarsi sui suoi fianchi.
- Cosa ti turba, geba? Se hai freddo, dico a Merara e Raessa di portarti altre coperte. -
- No, sto bene, ho solo fatto un brutto sogno. Nulla di che. -
- A me non sembra, stai tremando. -
Quelle stesse mani la girarono con delicatezza e gli occhi azzurri di Eliria incontrarono quelli carbone di Balor. Le trecce, quelle che lei aveva insistito per fargli, ricadevano disordinate sul petto nudo, setosi nastri neri che si sfilacciavano in ciocche sempre più piccole e sottili. Amava infilarci le dita quando facevano l'amore, tirarle e stringerle nei momenti in cui il piacere raggiungeva il culmine e poi abbandonarcisi sopra, affinché il profumo di suo marito l'accompagnasse anche nel sonno. Quello, assieme al suo calore, riusciva a calmarla e permettevano a Uborh di traghettarla attraverso le acque impetuose dei sogni fino al mattino seguente, quando l'alba allungava le sue rosee dita sul mondo. Quella notte, tuttavia, non era stato sufficiente a conciliarle il riposo.
Eliria afferrò una ciocca e cominciò a giocherellarci, prendendo tempo. Balor la trasse a sé fino a ridurre lo spazio che separava il suo petto da quello di lei di solo qualche pollice. La regina sapeva che non le avrebbe fatto pressione per parlare, aveva imparato a conoscere e a rispettare i suoi silenzi. Egli avrebbe atteso finché non fosse stata lei ad aprirsi, anche se questo significava aspettare ore e, a volte, giorni. Almeno, così era di solito: adesso, nella stretta sui fianchi e nella tensione delle braccia, Eliria percepiva tutta l'apprensione che provava. Perché, ne era certa, Balor l'aveva sentita svegliarsi di soprassalto, l'aveva vista alzarsi dal letto madida di sudore e trascinarsi, tremante e scossa dai singhiozzi, fino alla finestra. Come tutte le volte che aveva un incubo, non era intervenuto, proprio come lei gli aveva fatto promettere, in attesa che si calmasse.
Appoggiò il viso sul suo torace e risalì sul suo collo per assaporare il profumo di mirra e lavanda ancora una volta, come se dovesse addormentarsi tra le sue braccia in quel momento. Le mani di Balor scivolarono sulle sue costole e l'avvicinarono ancora di più, per poi appoggiarsi sul pancione che sporgeva da sotto la camicia da notte, quasi volesse reclamare anche lui delle carezze.
- È la piccola peste che non ti fa dormire? - chiese e alzò la tunica il necessario per poter toccare il suo ventre, i baffi che celavano appena il sorriso sulle labbra, - Mia madre diceva che più scalciano, più saranno forti quando nasceranno. Non vedo l'ora di tenerlo in braccio e mostrargli quale madre meravigliosa ha fatto così tanto penare. Si pentirà di averti fatto passare tutte queste notti insonni, parola mia. -
Eliria si coprì la bocca per soffocare una risata e si lasciò condurre verso il letto, dove si sedette. Balor si inginocchiò ai suoi piedi e le baciò la pancia, proprio all'altezza dell'ombelico, dove la regina sentiva la testa del bambino, che scalciò di rimando.
- Vedi? Smania per venire al mondo. - mormorò l'uomo sorridendo.
- Sì... è già un guerriero. -
- Un guerriero indisciplinato, però. Appena sarà abbastanza grande, mi occuperò personalmente di metterlo in riga. Sconterà ogni singolo giorno che ti ha fatto dannare o ti ha portato via il sonno. -
La regina assentì piano e abbassò lo sguardo quando Balor si accomodò al suo fianco. Quella era la prima gravidanza che Gwynasiae le permetteva di portare avanti. Nei mesi precedenti, aveva sognato spesso di perdere il bambino, com'era successo per i precedenti. La sua più grande paura era sempre quella di svegliarsi con la sensazione vischiosa del sangue tra le cosce, la vita di suo figlio che si spandeva dolorosamente in rivoli rossi sulle lenzuola bianche. Ma il sogno che aveva fatto quella notte era diverso e metteva a nudo un'altra sua paura, ancora più recondita e radicata nel suo animo.
- Domani è necessario che tu vada al tempio? - bisbigliò, così piano che Balor dovette sforzarsi per capire.
- Il popolo deve vedere il suo sovrano, soprattutto ora che ho preso questa decisione. - rispose mesto, le mise una mano sulla spalla e le stampò un bacio sulla tempia, - Inoltre, domani devo discutere di alcune faccende importanti con mio fratello e Rekkr, non posso rimandare. -
- Ne sono consapevole, ma... ti prego, falli venire qui. Ho sognato uno stormo di corvi che volteggiava sul tempio e in lontananza ho udito il latrato dei cani. So che non credi in queste cose, ma se non lo vuoi fare per te stesso, fallo per me: questo è un presagio funesto, non mi sentirei tranquilla a saperti lì fuori. -
- Non sarò da solo, geba. Avrò una scorta armata a seguirmi. Non mi posso di certo far spaventare da quattro uccellacci, non ora che Wecilia Mallus ha preso il posto di Voren. Quella non aspetta altro che un passo falso per screditarmi. -
- La fama si può riguadagnare, la reputazione riabilitare, ma la vita no. Quando è perduta, lo resta per sempre. -
- Ho spie sparse in tutta la città e nessuna di loro mi ha mai riportato la voce di una possibile congiura ai miei danni. I Neriroccia e i Fiammaforgia non sono mai contenti, ma imporre ulteriori dazi sulle loro importazioni di ferro è stata una scelta obbligata. Per ora se ne stanno in silenzio quando sono presente e si limitano a borbottare solo tra di loro. La cosa importante è che non appoggiano nemmeno loro la nuova regina. Se anche fossero così intelligenti da non farsi scoprire dagli agenti di Hannarr, credi davvero che attenterebbero alla mia vita in un luogo sacro? Wecilia sarà anche una donna senza scrupoli, ma dubito si spingerebbe a tanto. -
Eliria annuì, eppure in cuor suo non si sentiva ancora tranquilla.
L'incoronazione della nuova regina era stata una delle feste più grandiose a cui avessero mai partecipato. Non avevano badato a spese e il banchetto si era protratto fino a sera inoltrata. Tutti gli invitati sembravano felici della loro nuova regnante e loro si erano ben guardati dal fare rimostranze, anche quando la regina era ben lontana, però Eliria aveva avvertito per tutta la sera un profondo senso di disagio. Gli occhi di Wecilia, sebbene finemente truccati, le facevano paura, le ricordavano quelli di un serpente, bellissimi e al tempo stesso mortali; sembravano seguirla ovunque e l'impressione di essere sempre osservata l'aveva angosciata per tutta la serata, insieme ad una terribile sensazione di estraneità. Quella era davvero la reggia di Voren che aveva visitato appena cinque anni prima, quando era convolata a nozze con Balor? Se lo era, allora perché non c'erano i visi noti e le persone amiche con le quali aveva legato durante il suo soggiorno? Se era vero ciò che diceva Rekkr, che la regina aveva fatto sostituire quasi tutte le guardie e la servitù del castello e che il nuovo Cavaliere dell'Aquila si era occupato personalmente di far sparire tutta la famiglia dell'amante del vecchio re, Eliria non era sicura di cosa Wecilia fosse capace, soprattutto ora che Balor le aveva negato il sostegno militare nella campagna contro gli elfi di Sheelwood.
- Se non vuoi sfilare con me domani, va bene. Nessuno te ne farà una colpa e il popolo capirà, ma io non posso esimermi. Sono il re, è mio dovere mostrarmi forte e impavido sia in pace che in guerra. -
Balor le accarezzò i riccioli ribelli e le alzò il mento, in modo da poterla guardare negli occhi. Dapprima Eliria oppose una leggera resistenza, poi il bisogno di essere rassicurata ebbe la meglio. Anche Balor era turbato, le rughe sulla fronte e agli angoli della bocca non facevano che sottolineare il suo stato d'animo, ma la regina sapeva che non l'avrebbe mai ammesso.
- Non c'è proprio possibilità di farti cambiare idea...? -
- No, non darò a quella serpe un pretesto per infangare la mia reputazione. Il mio bisnonno era ossessionato dall'idea di essere tradito e credeva a tutti i sogni che i suoi oracoli e maghi gli riferivano. A causa di questa paura, ha trascorso la sua intera esistenza barricato nel castello, delegando il compito di incontrare gli ambasciatori stranieri alla moglie e al suo consigliere. Senza nulla togliere a te e a Rekkr, ma non è questa la vita che io desidero. -
- Allora domani sarò con te. In quanto tua legittima consorte, non posso farti sfigurare di fronte al popolo. -
- Geba, davvero, se non te la senti Rekkr troverà una scusa convincente. Sei incinta di sette mesi, non è strano che... -
Eliria gli pose l'indice sulle labbra per zittirlo.
- Ho passato tutta la vita a nascondermi, prima dietro le gonne di mia madre, poi dietro la spada di mio padre e infine dietro il tuo scudo. È ora che anche mi dimostri una degna signora del Castello di Ferro. -
Balor rimase interdetto un momento. Quindi sorrise e l'abbracciò, facendola distendere sul materasso. Le ombre delle fiamme si proiettavano sul suo petto, diventando anch'esse parte del mosaico di tatuaggi sulle braccia, fino all'ombelico. Ognuno di essi era il ricordo di una battaglia, di un nemico abbattuto. Tutti tranne uno, una piccola luna circoscritta in un cerchio di stelle che richiamava il nome della sua amata, Eliria, “signora degli astri”.
- Dormi, domani sarà una lunga giornata. - le sussurrò, mordicchiandole l'orecchio.
- Mi prometti che farai attenzione? -
- Te lo prometto solo se anche tu mi prometti una cosa. -
- Che cosa? -
- Che se stanotte avrai un altro incubo, mi permetterai di abbracciarti. Non c'è niente di male a farsi consolare, tanto più se a farlo è il proprio marito. -
- Anche se si è la regina del Castello di Ferro? -
Balor le pizzicò la guancia e le sorrise complice: - Soprattutto se sei la regina del Castello di Ferro. Anzi, dovresti farlo più spesso, visto il nano che dorme nel tuo letto. -
Eliria non riuscì a trattenere una risata. L'inquietudine non aveva ancora abbandonato il suo cuore quando posò la testa sul cuscino, ma il calore di suo marito e la vicinanza del suo corpo seppellì ogni insicurezza sotto il velo dell'incoscienza.
 
*
 
Nella foresta di Noumenasse faceva freddo, molto più freddo di quanto Felther ricordasse. Chiuse la mano a pugno e sollevò la testa, incontrando uno stretto groviglio di rami, visione ormai divenuta familiare. Erano un intreccio fitto che schermava la luce della luna e degli astri, la respingeva come un ospite sgradito, preservando l'oscurità e la nebbia soffocante. Un tempo, gli aveva raccontato Saradreza, quel pezzo di terra era la dimora di folletti, silfidi e ninfe, ma poi la resistenza elfica aveva ceduto e gli umani erano riusciti a penetrare fin nel cuore della foresta e a uccidere il Padre. Era accaduto agli albori della guerra, uno dei tanti episodi che avevano inasprito i rapporti già tesi tra umani ed elfi.
Un batuffolo bianco, della consistenza del cotone, si infilò in una fessura tra i rami e si depositò sulla sua mano. Felther rientrò nella tenda e lo osservò mentre si scioglieva lentamente sul palmo, freddo quasi più dell'atmosfera che lo circondava. Kvothe gli aveva detto che era normale, per mantenere una temperatura costante avrebbe dovuto concentrarsi e far defluire il sangue dagli organi interni fino alla superficie più esterna della pelle, ma Felther non ci riusciva ancora. Per quel giorno non sarebbe stato necessario sembrare umano, però si ripromise comunque di impegnarsi di più per non rischiare di destare sospetti, come aveva raccomandato la regina.
- Generale, i preparativi sono ultimati. - disse Feliar entrando nella tenda e si mise in posizione marziale in attesa di ordini.
Indossava un'armatura elfica di un verde-giada traslucido, con gli spallacci, il pettorale, la panciera e la scarsella che si articolavano tra di loro con giunture argentate, quasi a costituire un'unica struttura, avvolgendo il guerriero come i petali di un fiore. Se il Cavaliere del Drago non avesse visto con i suoi stessi occhi quanto fosse resistente e flessibile, avrebbe bollato quell'armatura di cuoio come una gabbia da suicidio.
- Inreeniace quante pozioni ha prodotto? -
- Duemila, come avete ordinato. -
- Dille di farne almeno un altro centinaio. L'alba è ancora lontana, dovrebbe stare nei tempi. Poi manda a chiamare Saradreza e riferiscile che devo parlare urgentemente con lei. -
Il soldato annuì e uscì subito a passo di marcia. A Felther faceva uno strano effetto essere attorniato da tutti quei Drow. Era abituato a vederli nelle case dei nobili, servi e schiavi impiegati nei lavori più umili, con il collare che impediva loro di usare la magia bene in vista. Coloro che erano stati richiamati per la missione erano liberi, invece, guerrieri pronti a combattere e a morire per lui. Con sua grande sorpresa, aveva scoperto che essere a capo di quel piccolo contingente non era poi così diverso dal comandare un'ala dell'esercito umano. Quegli elfi dalla pelle nera come l'ebano e gli occhi più scuri della notte erano avvezzi a obbedire, disciplinati, si piegavano ai suoi ordini senza esitazione e combattevano con una ferocia gelida e controllata.
“Se avessero contato tra i nostri ranghi degli elementi così ligi al dovere, gli umani avrebbero già vinto la guerra da un pezzo.”
Ripensare a quando era umano gli faceva ancora male e quel dolore dell'anima risvegliava il bruciore della ferita sul petto. Quando si tolse la tunica, il suo sguardo venne calamitato dalla cicatrice che campeggiava poco sotto la clavicola. Lysandra gli aveva detto che la freccia che lo aveva trapassato gli aveva sfiorato il cuore, mezzo pollice più a sinistra e sarebbe morto sul colpo, senza possibilità di resurrezione.
Anche Airis ne aveva una simile, ma la sua cicatrice era stata lasciata da una lama. Si era domandato spesso come se la fosse procurata, da quando aveva scoperto che era come lui. Più cose apprendeva sul suo conto, più la curiosità cresceva, pretendendo altre informazioni, altra conoscenza che Felther non poteva fornirle: Airis era morta, portandosi nella tomba tutti i suoi segreti.
Sbatté le palpebre per scacciare il suo viso e i ricordi che, inevitabilmente, portava con sé. Memorie felici, vivide, passate, e proprio per questo troppo dolorose da sopportare. Ingoiò il groppo in gola e strinse le cinghie del pettorale, come se fosse sufficiente quel pezzo d'acciaio a proteggerlo dai demoni che portava nel cuore. O forse sperava che li contenesse, in modo che questi potessero pascersi delle sue carni senza che gli altri fossero spettatori di quell'agghiacciante banchetto.
- Generale, mi avete mandata a chiamare? -
- Sì, Saradreza, entra pure. -
La Drow fece il suo ingresso e si richiuse la tenda alle spalle. La lunga tunica le disegnava i fianchi, per poi riversarsi a terra in un tripudio di rune e simboli rossi, il cui significato Felther ignorava. I capelli, più rossi dei suoi occhi, erano raccolti in una treccia sulla nuca che ricadeva sul seno appena accennato, in un'acconciatura perfetta e ordinata come si confaceva alle maghe più potenti e rispettate di Seshamath.
- Hai novità? -
- Sono riuscita ad addomesticarne altri tre, come mi avevate richiesto. -
- E ora siamo a quota venti, correggimi se sbaglio. -
- È giusto, Generale. -
Felther saldò i bracciali e si assicurò che le cinghie delle manopole fossero ben salde. Avrebbe preferito avere anche le dita coperte, ma la finzione doveva essere perfetta.
- Per quello che riguarda la mia pozione? -
Saradreza sorrise e posò una piccola fiala sul tavolo. Felther ripose gli schinieri sul manichino e se la rigirò tra le mani. Il liquido all'interno era denso, simile all'olio.
“Diventerò il nemico che ho combattuto per anni.”
Quella considerazione aveva uno strano retrogusto e portava con sé una sensazione di estraneità che non sapeva come interpretare. Prima che potesse anche solo soffermarcisi però, l'apatia, quella stessa gelida apatia che lo investiva ogni volta che si interrogava sul perché di quella tattica, si impadronì di lui e della sua coscienza.
“ Non è mio compito farmi domande.”
- Con questa sembrerete un elfo a tutti gli effetti, nessuno vi potrà associare al famoso e irreprensibile Cavaliere del Drago. - ghignò Saradreza e si sedette sulla branda, gli occhi grandi accesi da una luce maliziosa, - Se mi permettete, però, le orecchie a punta e i capelli lunghi non vi donano. -
- È il tuo disprezzo a parlare. -
- Anche, ma solo un cieco potrebbe dire il contrario. A me piacete molto così come siete. - gli accarezzò la guancia, incatenando i loro sguardi mentre indugiava sul profilo delle sue labbra, - Dopo questa vittoria, spero abbiate un po' di tempo da dedicare alla vostra umile servitrice che tanto si prodiga per essere sempre bella e piacente ai vostri occhi. -
Il Cavaliere la lasciò fare, si concesse di perdersi in quelle iridi scarlatte e nella promessa taciuta della sua bocca, che tanto spesso aveva potuto assaporare. Saradreza era bella, come quasi tutte le Drow che aveva incontrato, ma era l'unica che avesse i capelli di un rosso naturale, una caratteristica più unica che rara che destava sempre stupore e invidia in tutte le sue sorelle. Ma agli occhi di Felther quella chioma fulva richiamava l'immagine di lei e la sua mente le sovrapponeva, modellando Saradreza fino a farla coincidere con Airis. C'erano notti in cui riusciva a distinguerle e a lasciare il suo ricordo fuori dalle lenzuola, altre in cui il bisogno di rivederla affogava nel fango ogni suo proposito di onestà e correttezza.
Si massaggiò la fronte con indice e medio, prima di allungare il braccio per riprendere gli schinieri.
- Non lo so, ultimamente la regina mi affida degli incarichi di vitale importanza e non posso permettermi distrazioni. Inoltre, non appena avremo terminato qui, dovrò recarmi di nuovo alla capitale per far visita a mia moglie e alla mia famiglia. -
Saradreza storse le labbra in una smorfia risentita. Si alzò, lisciandosi le invisibili pieghe della tunica, e si prodigò in un inchino ridicolmente plateale.
- Se mi è concesso, Generale, andrei a ultimare i preparativi. - proferì algida, il capo chino che non dissimulava l'irritazione nella voce.
Felther la congedò con un gesto della mano, senza distogliere la sua attenzione da quello che stava facendo. Saradreza era intelligente, la sua mente affascinante e da quando era tornato in vita gli era sempre stata accanto, ma non era lei, non lo capiva e mai avrebbe capito quanto fosse pesante il fardello che si portava sulle spalle. Ma adesso non importava, il dovere lo chiamava: era un Cavaliere del Drago, la sua fedeltà e l'onore di Sershet e della sua sovrana venivano prima di ogni altra cosa.
“I traditori meritano un solo destino.”
Si infilò l'elmo, prese la fiala dal tavolo e trasse un profondo respiro.
- Lunga vita alla regina. -
La stappò e ne bevve il contenuto, mentre nella sua mente si levava sempre più forte la voce che recitava il motto del suo ordine: obbedienza, potere, gloria.
 
*
 
La mattina seguente fu una lama di luce grigia a svegliare re Balor. Il nano aprì gli occhi, se li stropicciò e, prima che la voglia di girarsi dall'altra parte e godersi le grazie di sua moglie avesse il sopravvento, si alzò. Eliria dormiva ancora, con i riccioli rossi sparsi sul cuscino in una matassa ribelle. Rimase a osservarla inebetito finché la ragione non scacciò definitivamente il torpore del sonno.
Si avvicinò all'armadio e cominciò a rovistare in cerca degli indumenti che avrebbe dovuto indossare quel giorno. Avrebbe potuto chiamare la servitù, ma non voleva svegliare Eliria troppo presto e soprattutto desiderava rimanere da solo, senza nessun altro intorno se non l'ingombrante presenza di se stesso.
Le parole di sua moglie l'avevano turbato e, per quanto avesse provato a rasserenarla, lui era il primo a non sentirsi tranquillo. I cattivi auspici erano molti, si assommavano e gli pesavano sulla coscienza, senza che la ragione riuscisse a districarsi in quel guazzabuglio di segni o presunti tali. Tutto era cominciato quando aveva deciso di togliere il supporto militare alla regina e aveva ordinato di far ritirare le truppe, nonostante la chiara disapprovazione della sovrana e dei suoi sostenitori, che vedevano una fonte di guadagno nel perpetrare la guerra. Per quel che lo riguardava, Balor non ne voleva più sapere. Alabastria e il suo popolo erano stanchi di tutta quella devastazione, i mercanti avevano perso troppo per continuare a impegnare i loro fondi. Suo padre, Baltazar VI, non lo aveva capito e per questo nessuno lo aveva compianto quando era passato a miglior vita, ma lui non aveva intenzione di fare la sua stessa fine. Non c'era disonore più grande per un re che morire disprezzato dai propri sudditi e Balor desiderava essere ricordato per la sua indulgenza e capacità di discernimento, non solo per la sua forza e il suo coraggio.
Eppure, nonostante tutti i buoni propositi, non riusciva a rilassarsi. La sera in cui aveva dettato a Rekkr la missiva da consegnare alla regina, era apparsa nel cielo una cometa. La sua luce aveva illuminato la volta celeste per poco più di qualche istante, ma tutti gli uomini presenti alla riunione, tra cui il suo consigliere, suo cognato e i capi delle famiglie più influenti, avevano avuto tempo il vederla prima che il suo lucore si spegnesse al di là dell'orizzonte. Una settimana dopo, un corvo grosso quanto un falco si era posato sul davanzale della finestra e lo aveva fissato a lungo, incurante delle sue occhiatacce e dei tentativi di scacciarlo. Soltanto quando aveva sfoderato la spada l'uccello si era deciso a levare le tende, lasciandolo con l'impressione che quella bestiaccia maledetta fosse venuta lì con l'intento di spaventarlo, il suo sguardo era troppo intelligente per appartenere a un semplice animale. Anche in quel caso, si era sforzato di riderne, dandosi più volte del paranoico e del superstizioso, ma dentro di sé sentiva la viscere contrarsi.
Si morse le labbra e scosse la testa: non poteva lasciarsi condizionare da sciocchezze senza fondamento proprio in quel momento, doveva mostrarsi forte, sia per il suo popolo che per sua moglie.
- Geba, è ora. - la chiamò, accostandosi al letto, - Mando a chiamare le ancelle. -
- Sì... sì, ti ringrazio. - sbadigliò Eliria, mettendosi seduta.
Balor non riuscì a trattenere un sorriso: gli veniva spontaneo, lei aveva il potere di rischiarare anche le mattine più nere. Fece come aveva detto e andò ad aprire la porta della camera. Senonché, trovò Laecla e Mererka, vestite di tutto punto, proprio lì dietro, che non aspettavano altro che il risveglio dei sovrani. Si inchinarono rispettosamente e oltrepassarono la soglia, cominciando subito a lavorare. Il re le guardò colpito e si compiacque di tanta solerzia.
Prima che Eliria fosse completamente nuda, Balor uscì e si diresse direttamente in giardino. L'aria fredda del mattino gli sferzò le guance, fece turbinare le foglie ai suoi piedi e le spazzò via. Il nano ne seguì le acrobazie finché non scomparvero alla vista, poi intraprese una passeggiata priva di meta. Aveva bisogno di camminare e non pensare, come faceva quando doveva prendere una decisione difficile. Ad un tratto rammentò che avrebbe dovuto chiamare i suoi di attendenti per aiutarlo a mettersi l'armatura sotto i vestiti e farsi acconciare i capelli in modo rendersi presentabile, ma un altro soffio di vento portò via tutto, assieme alle foglie secche. Sospirò e osservò la sua dimora con espressione assorta, pur avendo la mente sgombra.
Il Castello di Ferro era la tipica fortezza nanica, imponente e sgraziata. Nel corso dei secoli i vari re avevano cercato di abbellirla, dopo la guerra del centesimo solstizio. Era stato un lavoro nel quale Baltazar VI si era prodigato a lungo e che Balor non poteva dimenticare. Suo padre aveva convocato gli architetti più famosi, per lo più gnomi e umani provenienti da Sershet, per modificare, addolcire e rimaneggiare quell'austero fortilizio con armoniosi porticati e facciate eleganti, in modo da scacciare la severità intrinseca di una roccaforte militare e, soprattutto, ammodernarla per non sfigurare durante le visite di messaggeri e importanti ospiti stranieri.
Da che Balor ricordava, Baltazar VI aveva perseguito il suo intento fino alla morte, lasciando dietro di sé una corte indebitata fino al collo e uno stuolo di concubine e figli illegittimi. Sua madre, la regina Rissa, aveva preso il comando della città e, con l'aiuto di Rekkr, era riuscita sia a riassorbire il debito che a rimpinguare le casse reali. Sicché, quando il trono era passato a Balor, lui non aveva dovuto preoccuparsi di nulla. Dopo aver consolidato il proprio potere, Balor aveva sposato Ysylla, la secondogenita dei Barbanera, una prestigiosa e potente famiglia di mercanti di spezie. Era stato un matrimonio regale, un'unione necessaria per riportare in auge una corte ancora povera. Non c'era amore tra loro, nessuno dei due lo aveva desiderato o cercato. Pochi anni dopo erano nate due bellissime figlie e, successivamente, Ysylla aveva dato alla luce anche un maschio, che Balor non aveva visto crescere perché Sejrel lo richiamò ai suoi doveri. La lettera che il messaggero gli recapitò diceva che doveva recarsi a difendere Edon e Mera assieme all'esercito regolare, poiché c'erano stati degli scontri violenti con gli elfi, ma Balor aveva letto il messaggio non scritto tra le righe: la guerra stava arrivando, e per quanto Sejrel avesse fatto di tutto per evitarlo, ormai erano arrivati a un punto di rottura. Pochi mesi dopo, il giovane monarca morì, assassinato dal suo più fidato amico, il consigliere Xerxas Ascrocell, e Voren II, il suo successore, aveva dichiarato guerra agli elfi. Durante quello stesso autunno, Ysylla aveva perso la vita dando alla luce un figlio morto. Balor non aveva potuto fare altro che scrivere ai familiari dal fronte e non aveva potuto visitare la tomba della moglie. Soltanto allora era potuto tornare a casa. Era già passato un anno e lui, di sua moglie, non ricordava altro se non lo sguardo triste di quando l'aveva salutata. Poi la vita era andata avanti, incurante delle perdite e del sangue versato. Aveva combattuto difendendo il nord e attaccando il sud, richiamando le truppe quando necessario e piegandosi a eseguire ordini che non condivideva.
Era stato durante l'inverno di cinque anni prima che aveva conosciuto Eliria. Non l'aveva mai notata e, se la solitudine non avesse acuito la sua capacità d'osservazione, sarebbe passato oltre senza soffermarsi. Era la terzogenita degli Spezzalancia, una famiglia che non era nobile, ma che si era conquistata una certa fama grazie all'audacia dei suoi membri, che annoveravano tra i loro ranghi guerrieri di grande spessore. Il padre di Eliria aveva da subito intuito l'interesse del re per sua figlia e l'aveva incoraggiata a frequentare di più la corte del Castello di Ferro. Anche se sapeva che non l'aveva fatto per bontà di cuore, Balor doveva ringraziarlo. Grazie a lui aveva avuto modo di conoscere Eliria, di apprezzarla e di innamorarsene nel breve tempo che avevano trascorso insieme prima che la guerra lo reclamasse. La sua anima era rifiorita in sua compagnia, e con essa era rinato anche l'amore per le cose belle, per l'arte, per la musica e la poesia. Per lei aveva richiesto che nei giardini, da tempo abbandonati alle cure disattente di due pigri giardinieri, fossero piantati tulipani, petunie, ellebori e astilbe, perché desiderava che Eliria avesse un luogo dove potersi sedere a leggere e ad ammirare lo spettacolo della natura in fiore durante le stagioni più miti.
Si chinò per inspirare il profumo di un laurotino e ne accarezzò le delicate corolle. Abbracciò con lo sguardo il centro del giardino, dove si innalzava una fontana raffigurante le due dee dell'amore, Ivmera ed Ehena, le dita intrecciate sopra le teste e le labbra vicine come se si stessero per baciare. Balor si avvicinò per poter osservare da vicino le pieghe del peplo e i capelli, scolpiti in modo che le ciocche delle due sorelle avvolgessero i loro corpi. Stette lì per un tempo che non seppe calcolare, ammaliato dalle loro forme e dalla bellezza dei loro visi, della posa aggraziata, delle labbra schiuse a sussurrare segreti al vento. Poi i pensieri cupi tornarono ad assalirlo e la magia si dissolse.
Non poteva permettersi di darla vinta ai dubbi. Quella guerra che tanto gli aveva portato via doveva finire. Se Wecilia e i suoi sostenitori volevano continuare, che chiedessero il sangue e il denaro degli altri alleati, perché da lui non avrebbero più visto nemmeno una moneta.
- Mio signore, mi dispiace disturbarvi, ma Rekkr mi ha mandato a ricordarvi che dovete indossare l'armatura prima di andare alla cerimonia. -
- Riferiscigli che sono adulto, non è necessario che mi faccia da balia. - rispose con un sorriso Balor al giovane nano che era venuto a cercarlo.
- Sì, mio signore. Mi manda inoltre a dirvi che il parrucchiere è nelle vostre stanze che vi attende. -
Il re levò gli occhi al cielo, esasperato. Quand'è che Rekkr avrebbe capito che i suoi novantadue anni non erano solo un numero da riportare nella sua biografia?
- Digli che arrivo. - rispose e si diresse verso la fortezza.
Il resto della mattinata procedette senza alcun intoppo, tra i preparativi per la sfilata verso il tempio. Balor si lasciò pettinare e abbigliare secondo i gusti del suo consigliere, che aveva scelto per l'occasione una tunica rossa, accompagnata dal pesante mantello foderato di pelliccia del precedente re, ricamato con fili d'oro e ornato di frange. Balor non lo apprezzava, lo trovava ingombrante ed eccessivo, ma l'annuncio che doveva fare richiedeva che si mostrasse vestito nel modo più maestoso possibile, quindi non obiettò. Anche a sua moglie era toccata una sorte simile, con la sola differenza che lei amava quegli abiti principeschi, sebbene le parve meno entusiasta del solito. Sebbene sorridesse, Balor la conosceva troppo bene per non intravedere l'angoscia celata dietro il trucco e la sua eterea bellezza.
Poco prima di avviarsi, mentre Rekkr e Hannarr davano disposizioni alla guardia armata, Balor avvertì l'impulso irrefrenabile di salutare ancora i suoi figli. Li fece scendere da cavallo e li abbracciò forte, sia le due ragazze, Soryan e Neall, che avevano ereditato i capelli neri di Ysylla, sia Thraed, che ormai lo superava di ben due pollici e splendeva nella sua armatura come Bofed, il campione del vecchio dio della guerra Gurhavat.
- Vi voglio bene, siete la cosa più importante per me. - sussurrò a tutti in un orecchio, in modo che solo loro potessero udirlo.
Dopo averli baciati incurante degli occhi indiscreti, sciolse l'abbraccio e montò sul suo stallone.
Il portone si aprì, ma nel momento in cui il sole sparì tra le nuvole, la terra tremò, facendo impennare i cavalli e innervosendo tutto il corteo. Rekkr gli lanciò l'ennesima occhiata di ammonimento, pregandolo tacitamente di seguire i suoi consigli e fare l'annuncio dalla fortezza, ma Balor scosse la testa e massaggiò la criniera dello stallone fino a quando non percepì più il peso dello sguardo dell'anziano consigliere sulla nuca.
“Non è niente, queste scosse non sono rare. E poi non posso più tornare indietro.”
- Mio signore.-
Eliria gli si accostò e gli sfiorò la mano con una carezza. Anche lei aveva paura, non serviva che parlasse perché anche lui condivideva i suoi stessi timori. Guardò la moglie, fiera e bellissima al suo fianco, che sembrava risplendere di luce propria nell'abito di porpora rossa e filigrana argentata che indossava. Lui non poteva essere da meno, non dopo il discorso della sera precedente.
- Avanziamo. - ordinò, impartendo il segnale.
Un tenue raggio di sole si insinuò in un varco tra le nuvole illuminando il loro passaggio. Balor si augurò che fosse di buon auspicio.

Angolo Autrice:

Hello folks!
Allora... ho messo il capitolo con due giorni d'anticipo visto che mi sentivo particolarmente magnanima... no, scherzo, mi è piaciuto moltissimo scriverlo, quindi non potevo non sottoporlo più presto del solito al vostro giudizio u.u Bon, non ho altro da dire se non, per chi non l'avesse vista, è uscita la OS su Melwen e Zefiro ( la trovate QUI) e... niente, spero che i feels siano tanti u.u QUI come al solito trovate la mia pagina per domande e imprecazioni XD Un bacione e grazie mille a tutti!
Hime

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Capitolo 13
*** L'ultimo baluardo ***


Fuoco 2

12

L'ultimo baluardo

La biblioteca privata di Nordri era la stanza più grande della casa dopo la sala da pranzo. Era di pianta ottagonale, con esili pilastri a garantire un sufficiente supporto alle pareti, perforate dalle numerose finestre architravate, i cui vetri sfoggiavano lo stemma di Alabastria, circondate da grottesche e armi. Da quando i bambini l'avevano scoperta – o per meglio dire, avevano tormentato il povero nano finché questi non aveva dato loro la chiave – passavano la maggior parte del tempo lì a leggere e a bighellonare tra gli scaffali in cerca di qualche nascondiglio segreto o di un codice antico scritto in una lingua dimenticata. Purtroppo per loro, specialmente per Zefiro, non c'era niente di tutto ciò nella biblioteca e la maggior parte dei tomi, per quanto vecchi e polverosi, trattavano argomenti troppo difficili o troppo noiosi, oppure Melwen li aveva già letti e si limitava a storcere il naso in una smorfia critica, prima di scuotere la testa e tornare a concentrarsi sulla storia d'amore di Oberon e Titania. Zefiro, in tutta sincerità, non capiva cosa ci trovasse di tanto entusiasmante: nonostante la sua amica conoscesse la leggenda a memoria, dato che aveva già riletto quel libriccino almeno una decina di volte, quando correvano a rifugiarsi nella biblioteca prendeva posto al tavolo sotto la finestra e si immergeva di nuovo nella lettura, senza rivolgergli la parola per tutto il tempo che rimanevano lì.
Zefiro sbuffò e scoccò un'occhiata risentita a Melwen, che, dimentica del mondo, girò pagina e incrociò le gambe sulla sedia.
“Arciuffi, smettila d'ignorarmi!” avrebbe voluto gridarle il bambino, ma un moto d'orgoglio lo spinse a inoltrarsi di nuovo tra gli scaffali, alla ricerca di qualcosa da fare. Frugare tra i libri era inutile, aveva appurato che non c'era nulla di speciale; giocare col mappamondo in... come lo aveva chiamato Melwen? Lino laminato, forse. Beh, non era più così divertente come le prime volte; a giocare ai “cacciatori di tesori” da solo non c'era gusto. Se non avesse trovato subito un passatempo, sarebbe morto di noia.
Bofonchiando tra sé e sé, prese un libro quasi intonso e si lasciò cadere schiena contro lo scaffale. Provò a concentrarsi sulle frasi, sillabando le parole, anche quelle più semplici, così come gli aveva spiegato sua madre, ma queste scorrevano veloci davanti ai suoi occhi senza che la sua bocca riuscisse a scandirle con correttezza e fluidità. Alla fine della prima pagina, poggiò il libro a terra e abbandonò le braccia lungo i fianchi. Stare lì non aveva niente di magico se lui e Melwen non erano assieme.
- Ci vuole impegno in tutte le cose, solo così si può sperare di raggiungere lo scopo. - diceva spesso Nyi, anzi lo ripeteva tutte le volte che la sua amica sbagliava un esercizio o si abbatteva quando, all'ennesimo tentativo, il risultato della magia non era quello sperato, - Impegno, Melwen, impegno. -
Gli piaceva molto quella parola, amava riempirsene la bocca e infilarla in ogni discorso, Zefiro sospettava per darsi delle arie, sebbene dovesse riconoscere che sapeva il fatto suo. Da quando aveva preso Melwen sotto la sua ala, la sua compagna aveva imparato alcuni rudimenti della magia, per lo più accenni teorici senza alcun applicazione pratica. D'altronde, Nyi era stato molto chiaro su quel punto: Melwen aveva le carte in regola per essere una potente Dominatrice, ma ci sarebbe voluto del tempo prima che cominciasse a padroneggiare correttamente tutti gli elementi.
- Visto che attraversare Esperya ora come ora non è sicuro, preferisco che la mia allieva impari prima le basi, così che si possa difendere. - aveva sentenziato circa una settimana prima, - Io farò di tutto per proteggerla e tenerla lontana dai pericoli, ma il mondo là fuori sa essere spietato. -
Quando sua madre gli aveva riferito la notizia, Zefiro non poteva essere più felice: avrebbe potuto passare altro tempo con la sua amica, godere ancora della sua compagnia, così da rendere il distacco meno doloroso.
La sua gioia era durata poco però. Nyi sequestrava Melwen per buona parte della giornata e la sera era troppo stanca persino per parlare. Per giunta, nei rari momenti che potevano trascorrere assieme, lei lo invitava nella biblioteca di Nordri, per poi rintanarsi in un angolo a leggere sempre quel maledetto libro. A volte Zefiro l'aveva anche vista prendere appunti, anche se non aveva la più pallida idea di cosa scrivesse così tanto febbrilmente. Aveva provato a chiederglielo, ma a parte un mugolio scocciato non aveva ottenuto altro.
Almeno oggi avrebbe visto qualcosa di interessante, si consolò, ripensando al messo che due giorni prima aveva annunciato che tutta la famiglia reale richiedeva l'adunanza del popolo al tempio di Yggrasil. Era una delle tante cose che gli piaceva di Alabastria, anche se non aveva avuto il tempo di visitarlo, ma da quello che aveva sentito era davvero molto grande e maestoso, più di tutti gli altri. Durante i primi giorni passati lì, Baldur e, in seguito, Nordri avevano raccontato che nella città erano presenti tredici templi, ognuno dedicato alle divinità che costituivano il pantheon ufficiale, sebbene fossero ancora in molti a venerare gli dei “pagani”, quelli che per secoli avevano condiviso con gli elfi.
- Alla fine, sono la stessa cosa. Ivmera ed Ehena sono i corrispettivi di Calime e Xana, così come Ovenar è Gurhavat, solo con un nome diverso. Ovviamente anche noi ci siamo adeguati al cambiamento e in via ufficiale è a loro che rivolgiamo le nostre preghiere, ma ci sono molti nobili mercanti che conservano nelle loro residenze private dei tempietti dedicati alle precedenti divinità. - aveva spiegato il padrone di casa, mentre si gustava un cannolo ripieno di ricotta, mandorle e miele.
Quando Zefiro gli aveva fatto notare che era una cosa strana, il nano era scoppiato a ridere così forte che parte del contenuto del cannolo gli aveva sporcato la barba.
- Hai ragione, ragazzo, ma che ci vogliamo fare? Sono i re che decidono tutto, anche chi e cosa merita di ricevere le nostre preghiere. -
Zefiro non aveva mai creduto in nessun dio. Aveva accompagnato sua madre al piccolo tempio di Amount-vinya quando glielo chiedeva e si era divertito a ridipingere le statuette degli Athairi e degli Ithei, ma per lui non avevano alcun significato. Erano statuette, nulla di più. Le curava, si occupava di tenerle sempre pulite e le pregava quando era necessario, ma lo faceva più per sua madre, per farla sentire meno sola. Il giorno in cui i soldati compagni di suo padre erano venuti a bussarle alla loro porta, aveva capito che non c'era nessuno spirito protettore a vegliare su di loro.
- Zefiro! Zefiro, vieni subito qui! -
Il bambino scattò in piedi e si diresse quasi di corsa al tavolo. Melwen saltellava tutta eccitata, bacchettando col dito sulla pagina del libro.
- L'ho trovato! -
- Trovato cosa? -
- Come cosa? La mappa! - prese il tomo e glielo mise sotto il naso, - Guarda qui. Ci ho messo un sacco per decifrarla, ma finalmente ci sono riuscita. -
Zefiro rimirò a bocca aperta i contorni luminosi di una terra che non aveva mai visto. Le montagne si innalzavano agli angoli della pagina, circoscrivendo una piana. A nord si ergeva il profilo di una foresta, mentre al centro era stato vergato con una calligrafia elegante “Asiria”. Zefiro si grattò la nuca, dubbioso. Melwen lo fissava con la sua solita espressione da maestrina, quella che assumeva quando intuiva che il suo amico non sapeva di cosa stesse parlando e si preparava a una lunga e dettagliata spiegazione, con annesso un rimprovero da “so-tutto-io”, ma stavolta Zefiro non aveva intenzione di capitolare così facilmente. Si spremette le meningi, aggrottò le sopracciglia e strizzò gli occhi, vagliando tutte le storie, le leggende e anche le dicerie che aveva sentito. Non poteva essere così difficile, diamine!
- Se non lo sai te lo dico io... - sogghignò Melwen.
- So benissimo cosa è Asiria, solo in questo momento mi sfugge. -
- Ti sfugge. -
- Sì, mi sfugge! -
La sua amica gli tirò il naso e gli diede le spalle risentita.
- Ahia, mi hai fatto male! -
- Non era certo mia intenzione farti una carezza. -
Zefiro si massaggiò la parte offesa e tornò a guardare il libro, ma rimase interdetto quando sotto i suoi occhi non trovò altro che la miniatura del re e della regina delle fate stretti in un abbraccio sensuale sotto un ginepro in fiore.
- Ma... ma dov'è la mappa? -
- Sei stato lento ed è sparita. È una cosa segreta, cosa ti aspettavi? Che rimanesse lì in eterno? - Melwen gli si accostò e passò il dito sulla pagina, mormorando a bassa voce una litania incomprensibile. Le parole e il disegno svanirono, assorbiti dalla carta stessa, e il profilo luminoso della mappa si tratteggiò ancora sotto i loro occhi, come se un pennello invisibile la stesse delineando proprio in quel momento.
- Allora? Cosa pensi che rappresenti? - tornò subito alla carica Melwen.
- Dunque, se stiamo parlando della leggenda di Oberon e Titania... credo... - gettò un occhio sulla mappa, - Potrebbe essere la città imperiale? -
- Hai tirato a indovinare, scommetto. -
- Può darsi, ma dalla tua faccia capisco d'aver indovinato. - sghignazzò Zefiro.
Melwen sospirò e lo invitò a condividere la poltroncina assieme a lei. Era stata pensata per far sedere un nano grande almeno quanto Baldur e loro due, anche se stretti, potevano stare vicini.
- Comunque è inesatto chiamarla città imperiale. Le fate, almeno questo dice la leggenda, si sono ritirate in questo luogo-non-luogo, perduto chissà dove dopo la Guerra del Centesimo Solstizio, e il loro regno non è così grande. -
- Non sapevo che tra le armate di Arawan ci fossero anche loro... -
- Nemmeno io, l'ho scoperto leggendo qui. - poggiò il libro contro le gambe e lo sfogliò fino alle prime pagine, - Secondo l'autore, il re degli elfi intraprese un viaggio fino al loro regno per chiedere un'alleanza con Oberon e Titania. Vedi? Qui aggiunge che fornirono loro non solo le loro armate, ma scesero anche in battaglia al loro fianco. -
- Strano che nessuno li abbia mai menzionati. -
- Non così tanto. Alla fine, la guerra contro Aesir è stata combattuta tanti secoli fa, magari si sono perse le testimonianze di allora. -
- Ma quindi... tu per tutto questo tempo hai cercato questa mappa? Perché, poi? È così importante? E soprattutto come facevi a sapere che era proprio in questo libro?-
- Lo avevo letto in uno dei libri della biblioteca di mio padre. Non credevo possibile che un essere umano fosse davvero riuscito ad andare e a tornare dal regno delle fate e avesse trascritto la mappa in un libro di storie, però è evidente che mi debba ricredere. - chiuse di colpo il libro e alzò la testa, i capelli ricci e ribelli che ricadevano oltre lo schienale, - Pensaci, se queste informazioni giungessero alle orecchie giuste, potremmo cambiare le sorti di questa guerra. Potremmo evitare altre stragi, altri morti, altra sofferenza se le fate decidessero di lottare al nostro fianco come tanti anni fa. -
Zefiro tacque, limitandosi ad appoggiare la mano sul suo ginocchio, abbastanza lontano per non sfiorarla e abbastanza vicino perché bastasse poco per stringere quella di Melwen se lei l'avesse voluto. Melwen allungò il mignolo e lo intrecciò con il suo, finché le loro nocche non si toccarono. Zefiro sapeva che il suo cuore sanguinava ancora e che quelle parole nascondevano il desiderio che nessun altro provasse lo stesso dolore che aveva straziato lei.
- Quindi cosa hai intenzione di fare? -
- Ne parlerò con Nyi. So che a te non piace, ma è un Dominatore davvero bravo e credo che saprà dirmi cosa è più giusto procedere. Se non fosse stato per lui, per le sue lezioni di magia, non sarei riuscita a individuare la mappa nascosta.-
Zefiro annuì greve. No, non gli sarebbe mai piaciuto. Le stava portando via la sua migliore amica. Non sarebbe mai riuscito a perdonarlo.
- Forza, sarà meglio prepararci per la cerimonia. Ti ricordi che stamattina dobbiamo andare al tempio, vero? -
Melwen si raddrizzò di scatto e lo fissò con tanto d'occhi. Zefiro incrociò le braccia sul petto e le porse la mano per aiutarla ad alzarsi, trattenendo a malapena un sorriso divertito.
- Dici che il tonto sono io e tu ti dimentichi di una cosa tanto importante? - la prese in giro, mentre uscivano dalla biblioteca mano nella mano.
- Sono stata così presa dall'allenamento con Nyi e dalla mia ricerca che l'ho accantonato... -
- Non ti devi giustificare, anche io spesso e volentieri mi dimentico le cose. -
Non era vero, lui ricordava qualsiasi cosa, anche il più stupido dettaglio, ma con lei era più divertente giocare al finto smemorato.
Uscirono dalla biblioteca e Zefiro l'accompagnò nella camera di sua madre, dall'altra parte della villa rispetto a dove si trovavano loro. Myria li attendeva sulla soglia, con le mani sui fianchi e le labbra arcuate in un sorriso che condivideva con Skjaldi, la sua cameriera personale. A Zefiro aveva da subito ispirato simpatia e, anche se si vergognava a dirglielo, i suoi capelli, di un castano dorato, erano belli quasi quanto quelli di sua madre.
- Strei, se volete posso occuparmi io di entrambi. - esordì la serva, inclinando la testa verso Myria.
- Assolutamente no. Ho sempre desiderato avere una femminuccia di cui occuparmi. Zefiro è dolce, ma non posso di certo fargli indossare gonne e merletti. -
- Anche perché sarebbe molto imbarazzante, mamma. - ribatté il diretto interessato con una smorfia di disappunto.
- Secondo me invece ti starebbero anche meglio che a me. - si intromise Melwen, ma il sorrisetto che le distendeva le labbra la diceva lunga su quanto credesse a quelle parole, - Fila via ora, le donne hanno bisogno dei loro spazi e tu non sei il benvenuto. -
- Va bene, va bene, me ne vado, non serve cacciarmi così. -
Alzò le mani in segno di resa e lasciò che Skjaldi lo conducesse nella stanza attigua, un'ampia camera spartana riscaldata da un camino di marmo. La luce si faceva largo tra le pieghe delle tende e si rifletteva sui mobili incerati e sul basso tavolino di legno di quercia con le gambe intagliate a zampa di leone, accentuando al contempo il color pastello delle coste lise dei tomi sugli scaffali della grande libreria a muro. Zefiro presuppose che fosse un'altra camera degli ospiti, la villa di Nordri ne era piena. E non c'era stanza in cui non ci fossero libri.
- Vostra madre ha scelto personalmente cosa dovrete indossare. Il nostro signore spera che le misure fornite siano quelle giuste e desidera dirvi, qualora avesse sbagliato, di comunicarglielo presto. -
Zefiro annuì, sebbene si sentisse un po' in imbarazzo a sentirsi trattare con così tanta reverenza.
- Mi dovret... - si interruppe e tossicchiò, - Dovrai vestirmi tu? -
- Come preferite. Il mio ruolo è quello di aiutarvi, ma se vi fa sentire a disagio posso attendere qui fuori. - gli scoccò un'occhiata complice, come se sapesse cosa gli avrebbe risposto.
In effetti, quando Zefiro confessò che avrebbe preferito fare da solo, non parve sorpresa.
- Vi lascio, allora. Se avete bisogno di me, chiamatemi. -
La donna chinò la testa e rimase così, finché il bambino non capì che stava aspettando che lui la congedasse. Con un impacciato cenno del capo, le diede il permesso di uscire e, non appena la porta si chiuse alle sue spalle, passò a esaminare gli abiti che sua madre aveva scelto per lui. La camicia, distesa sul materasso del letto, era di un rosso molto scuro che si sposava con quello nero delle braghe e ai guanti di pelle. Erano molto aderenti alla mano e Zefiro si stupì quando si accorse quanto fossero lunghi. Si stupì ancora di più nel vedere la tunica di lana morbida che avrebbe indossato, di un rosso acceso e con le maniche ampie ricamate con fili bianchi e gialli. Ma la cosa che più gli piacque fu il berretto di feltro che Skjaldi aveva appoggiato sul cuscino: era bellissimo e caldo, e abbinato con la spada di legno che gli aveva regalato Baldur lo faceva sembrare un principe. Un principe vero, come quelli delle favole che Melwen adorava.
Corse fuori con un solo stivale e, mentre tentava di infilarsi l'altro, quasi inciampò. La serva lo guardò con un ghigno divertito, ma non commentò. Zefirò la ignorò, smanioso di vedere la sua amica e sapere che abiti avrebbe indossato. Lei che amava i vestiti graziosi ed eleganti, non avrebbe preteso niente di meno.
Si appoggiò alla parete di fronte alla sua porta e rimase in trepidante attesa, fantasticando su come sua mamma l'avrebbe fatta vestire. In un angolo del suo cuore, sperava che anche lei avrebbe visto un cavaliere senza macchia e senza paura e non il suo solito amico fifone, quello che si divertiva sempre a prendere in giro.
“Potrei essere il tuo Oberon, se lo volessi.”
- Le piacerete, ne sono certa. -
Skjaldi gli si affiancò e gli rivolse un sorriso d'incoraggiamento. Zefiro puntò gli occhi sulla punta dei piedi e non provò nemmeno a negare, non era mai stato bravo a mentire.
- Come fai a dirlo? -
- Sono una donna, so cosa ci piace. Dubitate forse della mia parola? -
- N-no... -
- Allora, se acconsentite, vi darò un altro consiglio. - gli si mise davanti e gli fece arcuare le labbra, - Sorridete, una donna che vede il proprio compagno sorridere si sentirà ancora più bella. -
Zefiro avvampò fino alle orecchie e stava già per bofonchiare una serie di scuse senza senso, quando la porta si aprì. Un sorriso si dipinse spontaneo sulle sue labbra.
Melwen indossava un vestito turchese damascato, con una lunga gonna ricamata con inserti di velluto verde. La cintura di seta le circondava i fianchi per poi intrecciarsi sul davanti, ricadendo in due nastri fino quasi a terra. Mentre avanzava fece una piroetta per farsi vedere da Skjaldi.
Zefiro non riusciva a staccarle gli occhi di dosso: con i riccioli che le vorticavano sulle spalle e la ghirlanda di calendule sul capo, sembrava una fata. Quando Melwen si accorse di lui, gli andò incontro e si inchinò, tirando su la gonna come una vera principessa. Zefiro si affrettò a fare lo stesso, ma si piegò troppo e quasi le cadde addosso.
- Sei il solito imbranato... - ridacchiò Myria e gli si avvicinò per lisciargli le pieghe dell'abito, - Stai davvero, davvero, davvero bene. Non trovi, Melwen? -
- Sì, gli abiti gli calzano a pennello. Il sarto di Nordri ha fatto un ottimo lavoro. -
- Oh, non è stato nulla di che, ha solo preso alcuni vecchi abiti del signore e li ha rimessi a nuovo. Da quello che mi ha riferito il suo aiutante, si è anche divertito. - puntualizzò Skjaldi, poi si rivolse a Zefiro, - Posso riferirgli che ha fatto un buon lavoro e che non ci sono modifiche da fare? -
- S-sì, ditegli che sono molto soddisfatto. - farfugliò, prima che il suo sguardo venisse nuovamente calamitato da Melwen, una domanda sulla punta della lingua.
“Vuoi essere la mia dama?”
- Camminare con quelle scarpette non deve essere semplice. Se vuoi puoi... puoi appoggiarti a me. - offrì, sentendosi avvampare.
La bambina annuì convinta e lo prese a braccetto. Il rossore imporporò le guance e le orecchie di Zefiro, ma era troppo felice per farci caso. Notò appena le occhiate che sua madre e Skjaldi si scambiarono.
All'ingresso della villa c'erano sia Nordri che Baldur ad aspettarli, il primo vestito di tutto punto, con in più un mantello color antracite drappeggiato sulle spalle, l'altro con addosso dei semplici calzoni, stivali alti e una tunica di lana grezza con il collo foderato di pelliccia, la fidata ascia ben in vista attaccata alla cintola. Zefiro invidiava la sua tempra d'acciaio, pareva che nulla potesse scalfirlo, nemmeno il vento gelido che spazzava la città a quell'ora del mattino.
La strada che conduceva al tempio era ampia e scendeva verso di esso senza nessuna deviazione d'interesse. La gente, avvolta chi in pesanti mantelli preziosi, chi con degli indumenti più semplici, procedeva sull'acciottolato a passi lenti a causa del freddo pungente, ma anche perché man mano che ci si avvicinava al sagrato la folla aumentava sempre più e muoversi diventava difficile. Più di una volta a Zefiro calpestarono i piedi, ma l'emozione era talmente forte da offuscare il fastidio. Con Melwen a braccetto che cinguettava allegra, raccontandogli quello che si erano dette lei e Myria, tutto passava in secondo piano. Si vergognò moltissimo quando la scossa di terremoto lo spinse a cercare sua madre con lo sguardo. Nel momento in cui sentì le sue braccia avvolgerlo smise di tremare, ma ormai la magia era rotta. L'unica cosa che lo consolava era che tutti, Baldur compreso, si erano spaventati. Sospirò e strinse la mano della sua amica, fingendo di guardare altrove: almeno la sua pavidità per una volta sarebbe passata inosservata.
- Per Gurhavat, stavolta ha tremato davvero forte! - commentò Nordri.
- Di questi tempi, la terra è più instabile del solito. Non mi sorprenderei che fosse tutta colpa di quella maledetta esplosione. - mugugnò Baldur, - Cosa dice quel lancia-incantesimi? -
- Come fai a dire che ha detto qualcosa? -
- Perché deve fare l'intellettuale, figurati se non ha una sua personale teoria su quello che sta accadendo. -
Myria si coprì educatamente la bocca per nascondere un sorriso, mentre Melwen gli scoccò un'occhiata torva. Zefiro dovette obbligarsi a rimanere imperturbabile.
- Sì, ha detto qualcosa riguardo all'energia sprigionata dall'esplosione, che potrebbe essere la causa dell'instabilità del tempo e della terra, ma ammetto di non aver capito bene. - ammise Nordri, incassando la testa nel collo di pelliccia, - Quando torneremo a casa, gli chiederò delucidazioni. -
- Sono certo che non vede l'ora di sbrodolarti addosso le sue supposizioni. -
- Sei troppo diffidente nei suoi confronti. Ha accettato di aiutare Melwen, la sta addestrando e presto la porterà via da qui. Di quale altra dimostrazione di fedeltà hai bisogno per convincerti che non ha intenzione di raggirarci? -
- Ha ragione, Baldur. - lo precedette Myria, sfiorandogli la spalla, - Io non conosco bene Nyi, forse è un po' misterioso e si diverte a parlare in modo criptico, però non credo che potesse diventare un amico così ben accetto se Nordri non l'avesse reputato degno di fiducia. -
- Esatto! Quindi non parlare male di lui! - lo rimbeccò Melwen, mentre si liberava dalla stretta di Zefiro e a fatica si avvicinava, puntandogli un dito sul petto, - Può non piacerti, ma è il mio maestro e non ti lascerò dire pesti e corna di lui solo perché sei prevenuto verso quelli come noi. -
Messo alle strette, il nano dapprima guardò Nordri, poi Mirya, infine Zefiro. Quando però si rese conto di essere sotto assedio e che i rinforzi non sarebbero arrivati, alzò le mani in segno di resa e, borbottando tra sé e sé, li incitò a farsi largo per andare più avanti. Zefiro gli avrebbe voluto dare man forte, ma aveva troppa paura dell'ira della sua amica.
Avanzarono fino alla seconda fila, incuranti di essersi lasciati alle spalle una sequela di grugniti e mezzi insulti. Baldur era davanti a tutti, seguito da Nordri e infine, come uno spirito protettore, Myria. Zefiro avrebbe preferito che stesse qualche passo più lontana, ma il timore nel suo sguardo e la tensione nelle spalle lo indussero a tacere. Allungò la mano libera e prese la sua, elargendole il sorriso più rassicurante di cui fosse capace. Era l'unica cosa che potesse fare e, seppure piccola, sperava che bastasse perché sua madre si rasserenasse un poco. Myria lo ringraziò con lo sguardo e gli passò la mano sulla schiena.
Il sole si era aperto un varco nello strato ovattato di nubi e nebbia. Opache lame di luce illuminarono il sagrato del tempio e guizzarono sulle armature bronzee dei cento cavalieri del re che stavano attraversando la piazza e le vesti della famiglia reale, baluginando sugli ornamenti d'oro e infrangendosi sui tessuti raffinati, velluti, broccati, merletti e ricami preziosi delle ampie gonne. I cavalieri montavano dei Dizit, i quali esibivano le quattro zanne seghettate che fuoriuscivano dalla bocca ornate con degli anelli affilati sulla punta. Avanzavano disciplinati, in formazione attorno al re, per nulla spaventati dalla folla assiepata per assistere al corteo.
Zefiro osservò i Dizit a bocca aperta, come se fosse la prima volta. Somigliavano a dei cinghiali, ma erano più grossi, più pesanti e più feroci. Baldur gli aveva rivelato che la loro pelle era così dura da poter respingere anche la lancia di un cavaliere in carica.
Balor procedeva in groppa a un morello, affiancato da sua moglie Eliria. Lui indossava una corona di una disarmante semplicità, un cerchio d'oro con una semplice gemma preziosa incastonata al centro, in pendant con la tunica rossa e il pesante mantello foderato di pelliccia che copriva la groppa del cavallo ben oltre la sella. Suo figlio, Thraed, avanzava risoluto e impettito dietro di lui, elargendo sorrisi a tutti e fingendo di ignorare le urla di giubilo che si alzavano come in un coro disarmonico dalla folla. Smontò immediatamente dopo suo padre e sua madre, per poi aiutare le sue sorelle a scendere da cavallo.
- Dei, le hai viste? Hai visto i loro abiti? - mormorò meravigliata Melwen.
Myria non sapeva che dire, era senza parole, così ci pensò Zefiro ad annuire. Come avrebbe potuto non accorgersi di loro? Soryan e Neall erano splendide nei loro abiti di seta, in netto contrasto con i capelli nerissimi, intrecciati con fili dorati e nastri colorati. Tutta la folla esplose in uno scroscio di applausi.
- Quello lì chi è? - domandò dopo un momento, indicando un nano in groppa a un sauro in coda al corteo.
- È il consigliere del re, si chiama Rekkr. È il braccio destro di Balor, lo segue fin dalla tenera età e il re gli è molto affezionato. - rispose prontamente Melwen, accostandosi per farsi sentire, - Deve rimanere indietro rispetto alla famiglia reale perché non c'è nessun vincolo di parentela tra di loro, ma il fatto stesso che sia qui e non al Castello di Ferro sottolinea quanto Balor lo tenga in grande considerazione. -
Quando tutta la famiglia reale fu entrata, i cavalieri diedero il permesso alla folla di fluire nel tempio. I sacerdoti, nani e nane adornati con ampie vesti bianche e a piedi scalzi, diedero il benvenuto al loro re e si allinearono ai piedi della statua di Yggrasil, una decina di passi dietro l'altare. La luce del sole filtrava dalle vetrate e la statua del Padre di tutti gli dei seduto su un trono si ergeva imponente con i suoi quasi quaranta piedi d'altezza, dando l'impressione che se si fosse alzato avrebbe scoperchiato il tempio; fissava la folla con i suoi occhi di pietra, reggendo nella sinistra lo scettro con Vedrafnir e Nordranfir, l'aquila e il falco suoi consiglieri, e nella destra Anerwyn, la Forbice del cielo, la spada con cui aveva sconfitto Aesir. Zefiro si sentì intimorito da quello sguardo severo e, istintivamente, nel togliersi il capello abbassò il capo, prima che Melwen lo trascinasse verso gli ultimi posti rimasti a sedere a metà della navata.
- Mamma, se sei stanca posso... -
Myria negò e si accucciò vicino a lui, così da non occludere la visuale a nessuno. Sorrideva incantata, senza riuscire a staccare lo sguardo dal re e dalla sua famiglia. Persino Nordri, che di solito non si scomponeva mai, osservava rapito la scena. Baldur era al suo fianco, ma non sembrava stupito, come se fosse abituato a manifestazioni del genere.
Un'altra scossa fece tremare le colonne, crepò le vetrate e per un lungo istante la tensione si poté tagliare come un coltello. Con il viso nascosto nel collo di sua madre e con le unghie di Melwen piantate nel braccio, Zefiro si costrinse a ricacciare indietro le lacrime.
Quando tornò a regnare la calma, Balor aggirò l'altare, si inginocchiò brevemente davanti alla statua del dio e, fronteggiando di nuovo il popolo, levò alta la voce, che riecheggiò nel tempio sicura e ferma.
- Popolo di Alabastria, giungo qui dinanzi a voi non in veste di re, ma di semplice uomo. Questa corona, per quanto bella, è un fardello che grava su di me e sulla mia famiglia da secoli. È il simbolo del potere, della forza, ma l'oro con cui è stata forgiata è intriso di sangue, sudore e angosce. - si tolse la corona e se la rigirò tra le mani, per poi sollevarla in modo che tutti potessero vederla, - I miei antenati la fecero forgiare dai loro migliori artigiani e decisero l'ordine in cui incastonare le pietre secondo i principi su cui si fonda la nostra città: forza, nobiltà d'animo, coraggio, rispetto, saggezza. Come vostro re sono tenuto ad essere un esempio, un modello per tutti, ma oggi non vi parlerò in vesti di regnante. Questa guerra, questa lunga e dolorosa guerra, ci ha portato via tanto. Non mi riferisco solo alle risorse naturali o al denaro. Parlo del tempo e dei nostri cari, i fratelli che giacciono insepolti davanti a Llanowar, cibo per corvi e cani randagi. La foresta non esiste più, come ben saprete, è stata distrutta. Molti hanno gridato al miracolo, altri hanno maledetto gli elfi e ringraziato gli dei per la punizione che hanno loro inferto, ma la verità è che questa non è che un'effimera vittoria, una candela tremolante nel bel mezzo di una bufera. -
Si rimise la corona e scrutò in mezzo alla folla, come se stesse cercando qualcuno, un colpevole da punire, mettere a morte. Zefiro si irrigidì quando il suo sguardo si posò su lui e il respiro gli rimase incastrato in gola finché non passò oltre.
- Abbiamo vinto, fratelli. La foresta è caduta, gli elfi sono stati uccisi e ora della loro roccaforte non rimane altro che cenere. Ci ergiamo vincitori su una pila di cadaveri, li irridiamo, mentre i vermi e gli avvoltoi banchettano sui nostri nemici, dimentichi che tra quei corpi giacciono anche quelli dei nostri padri, dei nostri amici, dei nostri figli. Sono lì, carne carbonizzata senza nome, senza onore, irriconoscibili anche ai nostri occhi, mentre noi ci beiamo di aver sconfitto i nostri nemici, perché la guerra ci ha resi ciechi e sordi e l'unica cosa che riusciamo a vedere è quella fiammella incerta nella tempesta. Possiamo alimentarla, ma prima o poi si spegnerà. Allora ci renderemo conto di essere di nuovo soli, di nuovo infreddoliti, di nuovo disarmati davanti alla terribile forza della natura. Sono anni che siamo intrappolati e non abbiamo mai pensato di fermarci, di raccogliere i nostri morti e di tornare a casa, al riparo. Abbiamo chiuso gli occhi davanti alla realtà, asserragliati nel nostro orgoglio e nelle nostre credenze; abbiamo continuato a combattere contro il vento, senza renderci conto che non c'è arma che lo possa ferire o freccia che lo possa uccidere. La verità è che io non ricordo più perché abbiamo mosso guerra agli elfi, cosa ci ha spinti a radere al suolo le loro foreste. Voi vedete la nostra città più ricca? Vi sembra che le nostre strade sono più ampie, le nostre miniere più piene, i nostri commerci più prolifici? Le vostre tasche sono forse più pesanti? Vi dirò quello che vedo e che ho visto io: dolore, sofferenza, vuoto. Abbiamo pagato un pesante tributo in questi anni, lo abbiamo fatto perché siamo dei guerrieri, perché siamo nati per combattere, perché nel nostro sangue scorre la lava dei vulcani e le nostre ossa sono fatte di ferro, ma alla fine abbiamo perso molto. Ricchezza, vite, tempo: queste cose ci sono state indebitamente sottratte e, se non ci svegliamo, ci verrà richiesto di farlo ancora, ancora e ancora, finché i fiori della terra non nasceranno dello stesso colore delle nostre viscere. -
La folla cominciò a bisbigliare, alcune donne si strinsero ai loro uomini e i bambini fissarono i loro genitori, nei loro sguardi un'inespressa preghiera.
- Abbiamo firmato un accordo tempo fa, un'alleanza tra nani e umani. I re di allora decisero che saremmo dovuti intervenire in favore gli uni degli altri per difenderci e combattere un nemico comune. Una guerra giusta, perché la pace non è che una fievole luce nell'oscurità e noi abbiamo il compito di difenderla. Ma in questo conflitto non c'è niente di onorevole, di glorioso, niente che valga la pena proteggere. - trasse un profondo respiro e alzò le mani al cielo, - Per questo io oggi dichiaro che Alabastria non manderà più truppe! Sershet non avrà più alcun supporto militare o economico da parte nostra! Non mi farò accecare dall'orgoglio, dal desiderio di vittoria, dalla brama di potere. Sono un re e il mio primo compito è proteggere il mio popolo. E voi avete già pagato il vostro tributo di sangue troppo a lungo. Non lo permetterò più, mai più, lo giuro qui, davanti al Padre, che la morte mi colga se non dovessi rispettare il mio giuramento! -
La terra tremò di nuovo, un rombo di tuono si riverberò in tutto il tempio, rimbalzando sulle pareti come se le volesse sfondare. Il marmo resistette, le colonne anche, così come il soffitto, tutta la struttura si oppose alle scosse. Non sarebbe crollata, tutti sapevano che era stata appositamente costruita per rimanere in piedi, ma la paura serpeggiò tra le fila, fece serrare la folla come dei bambini spaventati. Gli sguardi rimasero puntati sulla figura del re, che, come un campione divino, si ergeva davanti all'altare, stringendo a sé i suoi familiari con le braccia, e con gli occhi tutti i presenti. Lui era lì per loro, li avrebbe protetti, questo diceva il suo portamento e la determinazione che brillava nelle iridi color onice.
Quando la terra si placò, dall'esterno si udì un tramestio e poi qualcuno cominciò a farsi largo in mezzo al muro di nani che riempiva il tempio. Zefiro intravide appena un baluginio metallico e una barba ispida.
- Fatemi passare, devo parlare con il re! -
Balor scese i tre scalini che lo separavano dalla prima fila di panche. Bastò un semplice cenno della sua mano affinché le persone ammassate si aprissero lasciando un varco, facendo passare un nano in armatura pesante, con gli occhi verdi spiritati e la faccia pallida. Subito dietro lo seguiva Rekkr a passo svelto.
- Maestà, ci attaccano! - sbraitò il nuovo arrivato.
Balor si irrigidì: - Chi? -
- Gli elfi, signore. Sono qui, alle porte della città. Avanzano da ovest e da est, sono un'intera armata! -
- Non è possibile, non ci sono più elfi qui al nord, sono stati tutti sterminati. - intervenne Bofed, la voce incrinata dall'agitazione.
Prima che potesse aggiungere altro, Balor gli intimò di tacere e poi si rivolse alla folla.
Zefiro sudò freddo. Non riusciva a respirare e la paura cresceva ad ogni istante che passava. Negli occhi di Melwen, di Myria e di tutti gli astanti lesse lo stesso profondo, terribile orrore.
“Dei, non di nuovo...”
- Tornate nelle vostre case e barricatevi dentro. Rekkr, mobilita l'esercito e fa' preparare le armature. Smar di che numeri parliamo? -
- Il doppio, forse il triplo del nostro esercito attuale. - rispose il nano dagli occhi verdi.
Il re non si scompose, ma la sorpresa era evidente nel suo sguardo. Tutti i presenti attendevano col fiato sospeso.
- Smar, va' alle prigioni, di' ai prigionieri che la corona li richiama al loro dovere. Prometti loro una grande somma e falli scortare alla porta sud della città. Trova il comandante delle guardie cittadine. - si scambiò un'occhiata con il suo consigliere e poi si rivolse a Bofed, - Figlio, porta tua madre e le tue sorelle al Castello di Ferro e rimani lì a proteggerle. -
Il giovane principe storse le labbra e aprì la bocca per obiettare, ma bastò un'occhiata ammonitrice del padre per ridurlo al silenzio. Chinò il capo e prese la regina sottobraccio, mentre le guardie sgomberavano il tempio.
Prima di essere trascinato via da Baldur, Zefiro vide le mani di Eliria e quelle di Balor sfiorarsi e i loro occhi adombrarsi, come se quello fosse il loro ultimo incontro. Poi il re si voltò e, assieme a Rekkr, uscì fuori.
 

*

 
- Che ne pensi, Negan? -
Il comandante delle sue armate, il più anziano ed esperto, scrollò le spalle in modo eloquente: - Sono tanti, mio signore. -
Balor strinse appena le briglie e scrollò le spalle. Non aveva mai visto così tanti elfi riuniti in un solo esercito, tanto più fuori dalle loro amate foreste. In verità, non credeva avrebbe mai più rivisto quelle armature verdi e bianche traslucide, che all'evenienza potevano assumere la stessa colorazione della neve e della vegetazione più fitta. Aveva combattuto a Llanowar troppo a lungo e per troppi anni per non riconoscerle.
Si morse le labbra e trasse un profondo respiro, prima di girarsi a guardare là dove gli arcieri si erano posizionati, acquattati in modo da avere un buon campo di tiro e allo stesso tempo essere dei bersagli difficili, irraggiungibili.
Balor trasse un profondo respiro, stringendo le briglie del suo Dizit. Aveva affrontato gli elfi molto spesso in battaglia, conosceva i loro punti di forza e le loro debolezze e sapeva che avrebbe dovuto gioire nel vederli così scoperti, lontani dal riparo sicuro della loro foresta. Tuttavia, più osservava quella marea verde più quel sentimento d'inquietudine gli raffreddava il sangue. Non aveva senso che fossero lì. Per quanto in superiorità numerica, non sarebbero mai riusciti a prendere Alabastria con un attacco frontale, avrebbero dovuto saperlo. A meno che non avessero un asso nella manica.
Il Dizit sbuffò, raspò la terra con gli zoccoli e scosse la testa.
- Buono, bello, buono. - Balor gli accarezzò il collo e la criniera, tirando appena le redini per farlo retrocedere.
- Anche lui sente l'eccitazione e la fame di sangue, maestà. - Negan sorrise e con lui anche gli altri capitani che lo affiancavano.
Erano nani che comandavano un centinaio di armati, uomini duri, temprati dalla guerra e protetti da pesanti armature. Nonostante il suo discorso, Balor poteva leggere nei loro occhi una rabbia fredda, controllata, che non attendeva altro che il suo segnale per scatenarsi. Volevano che gli elfi pagassero, sembrava quasi sperassero che venissero sotto le loro mura per farli a pezzi così come loro li avevano falciati con le loro maledette frecce.
“Vogliono vendetta.”
Non poteva biasimarli, anche lui aveva covato un profondo rancore fino a quando non aveva conosciuto Eliria. Doveva combattere per lei, respingerli per garantire la sua vita e quella del bambino che portava in grembo.
- Ho spedito un messo a Lotka per chiedere rinforzi, come mi avevate chiesto. - lo informò Rekkr, mentre controllavano le fila dell'esercito, - Mi è concesso un commento, mio signore? -
- Anche se te lo negassi, troveresti un modo per esprimerlo. Quindi parla. -
Il consigliere abbozzò un sorriso. Era molto anziano e le sopracciglia cespugliose e le rughe sulla fronte lo facevano sembrare ancora più stanco, ancora più vecchio, eppure teneva la schiena dritta, come se l'armatura, l'ascia e la lancia non gli pesassero.
- Non vi sembra un po' strano? Decidete di ritirare il vostro appoggio militare e gli elfi, quelli di Llanowar, non di Sheelwood, decidono di attaccare... -
Balor mugugnò un assenso. Era stata la prima cosa che aveva pensato, in effetti, ma gli sembrava troppo incredibile e assurda perché avesse un senso.
- Perché lei avrebbe dovuto farlo? -
- Perché vi teme, mio signore. Non siamo gli unici stanchi di questa guerra e il vostro gesto avrebbe messo in crisi l'alleanza non solo con i nani, ma anche con tutti gli altri. - guardò il re e poi si voltò, percorrendo con lo sguardo la piana fino alla prima linea degli elfi, una perfetta e ordinata barriera di scudi, lame e armature, - Sapevo che era affamata di potere, ma non credevo che sarebbe stata disposta a stringere un'alleanza con i nostri secolari nemici. -
Balor scosse la testa. Non sapeva cosa pensare, non voleva accettare un'eventualità del genere. Soprattutto si domandava come fosse possibile che fossero sopravvissuti così tanti elfi.
- Per ora concentriamoci sulla battaglia. -
Girò il Dizit e si portò al centro dello schieramento, attorniato dai suoi soldati e da pochi cavalieri armati con lancia e la fidata ascia o spada al fianco.
Attesero che l'esercito elfico si avvicinasse: dovevano difendere e l'unica cosa che potevano fare era aspettare che il nemico arrivasse alla portata degli arcieri. Gli elfi rimasero fermi per ancora un'ora prima di cominciare ad avanzare, veloci, compatti, una marea pronta a travolgerli. I nani li osservarono immobili e imperscrutabili, ma Balor poteva vedere il nervosismo nei loro occhi, la loro smania di combattere nelle mani sudate, strette attorno alle armi.
Man mano che le distanze si accorciavano, si rendeva conto che c'era un divario enorme tra i loro due eserciti. Cercò con gli occhi i comandanti di quell'immenso schieramento, ma non c'era nulla di diverso. Tutti vestivano nello stesso modo, almeno nelle prime file. Sulle ali, la cavalleria avanzava compatta, con le aste puntate verso l'alto, le punte affilate sembravano fendere la luce obliqua del sole. Vide alcuni cavalieri marciare di fianco delle colonne, ma a parte qualche occhiata nessuno di loro apriva mai bocca. Il profilo delle macchine d'assedio si stagliava minaccioso contro il cielo.
“Almeno i Lycos non ci sono. Magra consolazione.”
Strinse la cinghia dell'elmo e rivolse una preghiera a Yggrasil. Li avrebbe respinti a qualunque costo, anche se avesse dovuto dare la vita. Doveva fermali.
Alzò la mano e il vento gli portò alle orecchie il sibilo delle corde tese. I picchieri si fermarono e la cavalleria si arrestò. C'era una striscia di terra a dividerli, a malapena duecento iarde. Balor strinse i denti e ridusse gli occhi a fessure, il cuore che gli martellava contro il pettorale, riecheggiando nella cassa toracica ad ogni respiro. Si aspettava che avrebbero tirato fuori archi o balestre, che avessero i mente una strategia. Quasi non ci credette quando i cavalieri dettero di sprone e cominciarono a galoppare contro di loro, mirando al centro del loro schieramento, le lance in resta e gli zoccoli che rimbombavano sul terreno.
Balor attese il momento giusto, poi abbassò bruscamente la mano. Una tempesta di frecce sibilò nell'aria e come una pioggia mortale ricadde sugli elfi. La prima linea si ruppe, i cavalli colpiti a morte rovinarono a terra, trascinando con loro i propri cavalieri e schiacciandoli col loro loro peso. A parte i nitriti, però, nel silenzio che precedeva un'altra raffica di frecce nessuno dei morenti emise un gemito.
Il re corrugò la fronte ed esitò, stranito. Persino Rekkr non aprì bocca. Gli altri cavalieri si erano fermati e i cavalli scalciavano e si impennavano, innervositi dall'odore di sangue, ma gli elfi che li montavano erano impassibili. Sembravano più innervositi dall'indisciplina delle loro cavalcature che da quello che era appena successo.
- Soldati, avanti! - gridò Balor.
Rekkr spronò il suo Dizit e tutta la colonna centrale dell'esercito si mosse. Mentre le frecce sibilavano sopra le loro teste, attaccando al suolo elfi e bestie moribonde, il consigliere e i suoi si abbatterono sui cavalieri alle spalle di quel mucchio di carne senza vita. I soldati, bramosi di violenza e sangue, si allargarono a ventaglio, si strinsero sulle linee e si fecero strada tra gli elfi a colpi di ascia e spada, con una furia bestiale che puntava a fare a pezzi il nemico. Li disarcionarono e a quelli che non furono prontamente in grado di reagire tagliarono di netto testa, braccia, gambe; li fecero a pezzi come maiali. Le frecce ricadevano oltre la prima linea, una pioggia di legno e ferro, mietendo sempre più vittime e creando vuoti.
Balor studiava lo spettacolo dall'alto della sua sella. Vide gli elfi gettare le lance a terra e sguainare le daghe ricurve, contrastando fendente dopo fendente l'incalzante furia dei loro avversari, mentre molti dei suoi penetravano nelle linee nemiche.
“Sono troppi.”
Imprecò a mezza voce e si rivolse ai messaggeri che gli cavalcano al fianco.
- Trovate il comandante Hagan, ditegli di mobilitare immediatamente la sua fanteria prima che quella elfica ci attacchi ai fianchi. -
Mentre il messaggero galoppava verso gli uomini rimasti indietro, Balor diede l'ordine di avanzare. Fece saettare lo sguardo a destra e sinistra, alla ricerca del generale o capitano elfico che stava dirigendo quell'attacco suicida. Non doveva essere molto esperto, né doveva conoscere molto bene il campo di battaglia, se sperava di poterlo schiacciare solo con la superiorità numerica.
Rekkr socchiuse gli occhi e alzò il viso verso il cielo, come per pregare. I cavalieri elfici si stavano lentamente ritirando dall'ingorgo di morti e asce che era diventato il fulcro del campo di battaglia e lasciavano il posto a schiere di picchieri freschi o, almeno, ci stavano provando. In quel caos, non era una manovra semplice, ma d'altronde già l'attacco frontale era stato un azzardo. Tutto in quella battaglia era totalmente atipico.
I nani non si arresero, uccidendo chiunque si parasse loro davanti. Molti, avanzi di galera reclutati per l'occasione, di tanto in tanto gettavano delle occhiate feroci verso il re, per poi rivolgere la loro fame di sangue sugli elfi rimasti indietro. Volevano impressionarlo, far sì che quando fossero ritornati vincitori ad Alabastria lui non solo accordasse loro la libertà, ma anche la ricompensa che aveva promesso.
Balor era combattuto: non soltanto non godevano più del supporto degli arcieri, ma rischiavano di essere colpiti sui fianchi e di rimanere tagliati fuori dal resto dell'esercito. Guardò in lontananza e si sentì la gola secca. Aveva sperato in una rotta che facesse ripiegare le linee elfiche, ma il loro esercito sembrava immune alla paura e al dolore. Soltanto le bestie annusavano l'odore della morte, nitrivano, scalciando terrorizzate quando vedevano altri loro compagni a terra, eppure quei soldati sembravano non avere un'anima. Rekkr avrebbe dovuto ordinare la ritirata, ma la cavalleria pesante di Hagan stava già avanzando, muovendosi sulle ali, con gli arcieri che marciavano ordinati alle loro spalle in modo da poter avere i nemici di nuovo a portata di tiro. No, non doveva abbandonarsi allo sconforto: avevano un vantaggio e dovevano sfruttarlo al meglio.
I picchieri abbassarono le loro armi e caricarono, un'orda di demoni uniti in un'unica linea di aste e minacciose punte rastremate. I nani alzarono gli scudi e si prepararono a respingere l'attacco, spalla contro spalla, le spade e le asce già sguainate. All'impatto, la maggior parte riuscirono a mantenere la posizione, a scostare la testa della picca e a uccidere l'elfo, ma alcuni, molti di più di quelli che Balor sperasse, furono sbalzati via o rimasero impalati.
- Ritiratevi! Ritiratevi e riprendete la formazione! - urlò, sperando di con tutto se stesso che Rekkr e i suoi lo avessero sentito al di sopra del frastuono della battaglia.
Tornò indietro al galoppo di un centinaio di iarde, prima di girarsi nuovamente verso il fronte nemico. I nani arretrarono, rapidi e disciplinati, ma i picchieri incalzarono, falciando chiunque rimanesse indietro e calpestando i corpi dei nemici e dei compagni.
- Arcieri! -
Le frecce sibilarono sopra la testa di Balor, disegnarono una parabola perfetta e precipitarono giù spinte dalla forza di gravità. Gli elfi cominciarono a cadere, uno dopo l'altro, lasciando dei vuoti nella linea d'attacco. Balor gioì dentro di sé. Le armature degli elfi erano magiche, ma anche i loro archi di frassino, più piccoli e potenti di quelli delle altre razze, lo erano. Così esposti, senza uno scudo o una qualsiasi altra protezione, erano dei facili bersagli. Ma nonostante tutto continuavano ad avanzare, senza esitazione alcuna, lo sguardo spento diretto sugli arcieri ordinati in file distanziate tra loro, vestiti con armature di cuoio e spallacci più piccoli e leggeri rispetto a quelli di tutto il resto dell'esercito. Se li avessero uccisi, per loro sarebbe stata la fine.
- Avverti Kugnar, digli di tenere gli occhi aperti e lanciare quando non saremo più a portata. -
Il messaggero girò il Dizit e lo spronò a correre più veloce.
- Arretrare! Arretrare! -
I soldati obbedirono, aumentarono il passo per quanto poterono, lasciandosi dietro una marea di morti, mentre le linee dei picchieri si riformavano. Alcuni arcieri non fecero in tempo a ritirarsi e sparirono in quell'oceano di lame, ma la maggior parte riuscì a mettersi in salvo, tornando nelle retrovie o dietro i loro pavesi.
Il rumore del braccio della catapulta, seguito da uno spostamento d'aria e poi dal rumore di cocci rotti, si riverberò per tutta la piana. All'impatto si innalzò una nuvoletta di fumo bianco, che aleggiò nell'aria per qualche secondo, simile allo zucchero a velo sulla superficie di una torta. Poi la fiammata causata dalla calce viva investì i bersagli: ad alcuni entrò negli occhi e cominciò a divorarli, scavando nelle orbite fino al cervello, mentre ad altri la pece si attaccò alle armature, accendendole come torce. Il caos si diffuse nell'esercito elfico e gli arcieri dei nani ritrovarono il coraggio perduto. I dardi volarono bassi, i tiri precisi, mortali, si piantavano nel petto o in mezzo alla fronte dei nemici mettendoli in ginocchio. Quelli ben più grossi delle balliste si concentravano sulle linee retrostanti, con un ritmo serrato, impalando gli elfi che non avevano avuto i riflessi rapidi per schivarli. I loro ranghi cominciarono a svuotarsi e le picche si infilzarono nel terreno.
Ciò che restava del fronte elfico si arrestò alle spalle delle file smagrite dei picchieri. Balor li osservò, coperti di sangue e barcollanti, e per un attimo si concesse di tirare un sospiro di sollievo. Ma l'euforia si spense quando spostò lo sguardo al di là della prima linea nemica, su quella foresta di ferro, cuoio e acciaio. Ne avevano uccisi molti, ne era più che certo, ma l'impressione era che quell'esercito non avesse subito perdite, che fossero arrivati lì senza che loro avessero opposto alcuna resistenza. Lui, invece, in quella prima azione aveva perso almeno mille, forse duemila uomini. Strinse le briglie e imprecò. Gli elfi avrebbero attaccato di nuovo, lo sapeva, riusciva a vedere le truppe fresche che non avevano ancora partecipato alla battaglia. Non potevano asserragliarsi in città e aspettare i rinforzi da Lotka, non era nemmeno sicuro che il messaggero sarebbe arrivato sano e salvo, ma non poteva nemmeno rimanere lì a far morire i suoi uomini. Doveva pensare a qualcos'altro.
All'improvviso ci fu un'esplosione, poi un rombo e delle grida.
Quando Balor si girò, vide due colonne di fumo nero alzarsi verso il cielo. Mentre la terra tremava, i corvi posati sulle mura si levarono in volo gracchiando, come per deridere il re e le sue speranze.

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Capitolo 14
*** Cenere ***


Fuoco 2

13

Cenere

- Baldur, gli elfi... gli elfi sono tornati davvero? -
La voce di Melwen tremava, per quanto si sforzasse non riusciva renderla salda. Intorno a loro la tensione era alle stelle, densa e soffocante come fango nelle narici. I nani, tutti, sia quelli che erano presenti nel tempio sia quelli che erano rimasti fuori, stavano tornando alle loro case a passo di marcia, sospinti dalla fretta e dalle guardie che tentavano di mantenere l'ordine. I bambini si tenevano stretti alle gonne delle loro madri, i più piccoli nascondevano il viso nei seni, raggomitolandosi tra le loro braccia, mentre gli altri, i loro padri, i loro fratelli più grandi, avanzavano facendosi largo tra la folla per arrivare il più in fretta possibile alle loro abitazioni.
Baldur strinse la mano di Melwen e la prese in braccio prima che una famiglia fin troppo numerosa la travolgesse.
- Ce la caveremo, non preoccuparti. -
Melwen appoggiò il viso sulla sua spalla e si avvolse il mantello attorno alle spalle. Era un incubo, doveva esserlo. Si diede un pizzicotto e serrò forte le palpebre, inghiottendo il sapore acido e la consistenza grumosa della bile che sentiva risalirle in gola.
“Non di nuovo... dei, vi prego, non di nuovo.”
Tenne gli occhi chiusi ancora un po', tentando di convincersi che i suoni che sentiva, le urla, le parole intrise di paura, non fossero altro che frutto della sua mente. Quando trovò il coraggio di guardare, Alabastria era ancora lì, assieme al caos e al terrore.
Zefiro era in braccio a Myria e la fissava. Melwen sapeva che anche lui stava pensando le stesse cose, eppure manteneva il contatto visivo con lei. Sembrava dire “sono qui, non me ne vado” e il suo debole sorriso era l'unica cosa che riuscisse a vedere distintamente. Sorrise a sua volta e si strinse a Baldur, che nel frattempo aveva aumentato il passo.
Stavano procedendo sulla stessa strada dell'andata, ma in quel momento, con tutte le persone assiepate le une contro le altre, Melwen aveva l'impressione che si fosse ristretta, che le case si fossero spostate dalla loro posizione e che si stessero chiudendo su di loro. Era così concentrata a tenere sotto controllo il respiro che nemmeno si rese conto di ciò che accade.
Improvvisamente un'onda d'urto li scaraventò a terra e l'aria divenne rovente, irrespirabile. Melwen ruzzolò sull'acciottolato, rotolò per qualche piede e poi si fermò, supina. Il cielo sopra di lei si era rannuvolato, il sole era tenuto prigioniero dietro un'accecante coltre di nubi bianche. Chiuse gli occhi, tastandosi la tempia lì dove sentiva dolore. Quando ritrasse la mano, la punta delle dita era insanguinata.
Si rialzò a fatica, confusa, traballando sulle ginocchia molli. La testa le girava e la vista era appannata, sfarfallava come una candela sotto un vento mutevole e incostante. Persino i suoni, il marasma cacofonico di mormorii, borbottii e preghiere che aveva udito fino a quel momento, si erano tramutati in un fievole e indistinto brusio. Con le mani sulle ginocchia, alzò il capo e si guardò intorno. Baldur era a terra e Nordri lo aveva preso sottobraccio per aiutarlo a tirasi su; Mirya stringeva forte Zefiro, gli occhi spalancati fissi davanti a lei e la testa di suo figlio appoggiata alla spalla. Melwen seguì la traiettoria del suo sguardo con un strano senso di oppressione nel petto, quando alle sue narici il vento portò un intenso e stomachevole odore di legno e carne bruciata.
- L'armeria... è saltata l'armeria! - urlò una voce di donna dietro di lei.
- I feriti! Dobbiamo tirarli fuori dalle macerie! -
- No, non avvicinatevi, rimanete vicini. -
- Lì davanti c'erano mio marito con mia figlia! -
- Che qualcuno spenga il fuoco! -
Una colonna di fumo si alzava da un edificio sventrato a destra, spiraleggiava verso il cielo e lo anneriva. Una nube fuligginosa ricopriva ogni cosa, ostruendo la visuale, e soltanto quando si depositò a terra tutti poterono vedere la moltitudine di cadaveri che giaceva ai piedi di ciò che rimaneva dell'armeria. Erano riversi al suolo, le fiamme che ne divoravano la carne e i vestiti.
Melwen li osservò senza capacitarsi di come fosse finita lì, quasi all'imbocco della strada, poiché ricordava che Baldur l'aveva presa in braccio ben dopo che si erano lasciati alle spalle il tempio. Indietreggiò fino ad andare a sbattere contro Nordri, senza riuscire a staccare gli occhi da quell'orrore. I sopravvissuti, coloro che non erano morti schiacciati dalle macerie, si aggiravano qua e là smarriti, come fantasmi; tenevano le braccia in avanti, piene di schegge, mentre si trascinavano verso la folla attonita, gli occhi ridotti a grumi neri nelle orbite e la pelle a brandelli. Erano così sfigurati e gonfi che non si capiva se fossero uomini o donne. Molti avevano perso gli arti e arrancavano come potevano chiamando i nomi dei loro cari, pregando per avere aiuto, specialmente acqua, ma nessuno osò avvicinarsi. Nelle case vicine, le finestre erano esplose e le fiamme ne lambivano i tetti e i camini a una velocità impressionante.
Un'altra esplosione fece tremare la terra. Baldur strinse Melwen a sé. Nordri si fece largo fino a Myria e la trascinò a ridosso di una casa, sotto la tettoia che era sopravvissuta all'onda d'urto.
- Cosa... cosa sta accadendo? -
- Non lo so, qualcuno ha fatto saltare l'armeria. - il mercenario si voltò in direzione della seconda colonna di fumo e rinserrò la presa sull'ascia, - Qualsiasi cosa sia, è dentro la città. -
“Non può essere, Alabastria è inespugnabile!” avrebbe voluto urlare Melwen, ma la realtà era lì a prendersi gioco delle sue aspettative. Guardò le facce dei nani che ancora gremivano la strada, le loro espressioni attonite. C'era chi tentava, invano, di aprirsi un varco verso il tempio, qualche guardia che accorreva sul posto per capire cosa fosse successo e come intervenire, ma i più erano pietrificati e nei loro occhi Melwen lesse lo stesso stupore e la stessa paura che le gelavano il sangue.
C'era anche qualcos'altro, però, un'energia debole che pulsava all'interno dell'armeria distrutta, sotto la roccia spaccata, al di sotto del pavimento.
- Dobbiamo trovare Nyi. -
La voce di Baldur, sebbene ancora attenuata, riuscì a riscuoterla. La folla retrocesse e i sopravvissuti avanzarono, con le mani protese in avanti. Le labbra, o quel che ne rimaneva, si muovevano senza riuscire ad articolare le parole. Persino le guardie cittadine esitarono ad andare loro incontro. Il fuoco non si estingueva, continuava ad ardere e a divorare la struttura dell'armeria.
Melwen comprese subito di cosa si trattava: il Respiro del drago. Ne aveva sentito parlare, ma non credeva che qualcuno avrebbe avuto il coraggio di usarlo. Nessuno, se non un mago, avrebbe potuto estinguere quell'incendio.
- Dobbiamo andare. - le intimò Baldur.
Le afferrò il polso e girò lo testa verso una stradina incuneata tra due case. Nordri fece lo stesso con Myria, la sospinse gentilmente per farle capire di muoversi e la donna obbedì. Melwen si domandò perché tenesse in braccio Zefiro, perché non lo avesse già messo a terra. Sarebbe stato più semplice avanzare, avrebbero potuto anche correre, così da arrivare il più in fretta possibile a casa, dove, ne era certa, Nyi avrebbe risolto tutto, dando loro una spiegazione razionale, talmente semplice che tutti ne avrebbero riso per non esserci arrivati prima. Alabastria era un baluardo inattaccabile, imprendibile, e quello che stava accadendo era una tragedia legata a una dimenticanza di qualche soldato. Sì, doveva essere così, e anche Zefiro, quando si fosse svegliato, avrebbe concordato con lei.
Un grido risuonò nell'aria. Baldur si voltò di scatto e sfoderò l'ascia. Nordri spinse Myria nel vicolo e puntò lo sguardo in mezzo alla folla, dove un uomo fissava, tremante, le figure che emergevano dalle macerie in fiamme. Il fumo ne sfumava i contorni, ma Melwen seppe istintivamente cosa fossero, perché la paura che provava era la stessa di quel giorno.
Come spettri emersi dai suoi peggiori incubi, gli elfi si fecero strada tra architravi e mattoni sbriciolati, le spade che brillavano sotto la luce grigia e opaca del sole e l'armatura che da nera passava a un verde sempre più intenso. Uno di loro si guardò intorno e quando posò lo sguardo su di lei, Melwen ebbe la netta sensazione che fosse lì per lei, per ucciderla.
Il loro capo, un elfo più alto della norma, si avvicinò a uno dei sopravvissuti all'esplosione, un nano senza più abiti addosso e con i muscoli e le ossa della mandibola esposti. Lo trafisse da parte a parte e lo tiro su come un maiale sullo spiedo. In mezzo alle fiamme che ardevano sotto i suoi piedi, lambendo gli schinieri senza attecchire, l'elfo sembrava un mostro partorito dalla mente allucinata di un folle. Osservò il nano dibattersi, annaspare in cerca d'aria, gli occhi nascosti dall'ombra dell'elmo fissi in quelli della sua vittima. Riusciva a tenerlo alzato con la sola forza di un braccio, quello che impugnava la spada, mentre il sinistro era attorno al suo collo. Melwen udì lo scricchiolio della spina dorsale ancora prima che gliela rompesse. Quando l'elfo buttò a terra il cadavere del nano, tutti gli altri elfi che erano alle sue spalle si gettarono sulla folla.
Il terrore dilagò come una malattia e il caos, fino a quel momento trattenuto, esplose. Le urla dei primi caduti si unirono a quelle dei fuggitivi, che, ormai incuranti di tutto, spingevano per allontanarsi, buttando a terra i più deboli, calpestando gli anziani, i bambini lasciati incustoditi, mentre gli elfi fendevano il muro di corpi, disperdendoli a colpi di spada. Uno di loro afferrò un nano che incespicava trascinando la gamba ferita e gli aprì uno squarcio sulla schiena che lo fece rovinare a terra. Non si soffermò a vederlo morire, lo scavalcò in fretta e si gettò addosso a una donna con un neonato in braccio, che correva a perdifiato verso una viuzza secondaria.
Una guardia tentò di fermare due elfi. Non fece in tempo a menare un colpo d'ascia che un affondo lo raggiunse da sinistra, sfondò l'armatura e penetrò nel fianco. Il braccio rimase sospeso a mezz'aria, come se il tempo si fosse fermato. Non ebbe neanche modo di gridare, perché un attimo più tardi la sua testa rotolò sull'acciottolato. La lama elfica descrisse un semicerchio di gocce rosse e il sangue schizzò sugli astanti.
L'elfo che aveva incrociato lo sguardo di Melwen passò oltre il capo mozzato, incurante della pozza di sangue che si allargava insozzando i capelli e la barba, e si diresse verso di lei. Melwen rimase paralizzata, gli occhi incatenati ai suoi: erano rossi come quelli di un Drow e su tutta la sua persona, lo sentiva, c'era una forte aura magica.
- Andiamo! Via, via, via! -
Baldur l'agguantò per un braccio e cominciò a correre. Imboccò la strada dove Myria li attendeva e subito anche lei lo seguì, con Nordri che li seguiva in coda. Melwen lo vide liberarsi dal mantello e lanciarlo contro il loro inseguitore, che però lo schivò. Era veloce e aveva le gambe lunghe, troppo.
“Devo... devo fare qualcosa.”
Melwen strinse i pugni. Aveva ancora le orecchie tappate, ma la paura era un carburante che risvegliava il suo potere.
- Lascialo fluire. È sempre lì, a portata di mano, tu devi solo dirigerlo. -
La voce di Nyi presente nei suoi ricordi riecheggiò nella sua mente. Era più dolce, più calorosa, sembrava quella di suo padre. Un fremito familiare le percorse le braccia e si concentrò nelle sue mani. Una scarica elettrica si accumulò nel palmo della sua mano. Si allungò oltre la spalla di Baldur e mirò a un barile rotto, abbandonato lì in mezzo a paccottiglia e spazzatura. Aprì la mano e, concentrandosi, lo scagliò addosso all'elfo. Il legno andò in frantumi e l'inseguitore sbatté violentemente contro il muro.
- Non so cosa tu abbia fatto, ma, se puoi, continua. - le sussurrò il nano senza fiato.
Girarono l'angolo e imboccarono una strada in salita. Si misero in fila indiana, obbligandosi a mantenere la stessa andatura. Myria mise un piede in fallo, e sarebbe finita a terra se Nordri non l'avesse afferrata in tempo. La sostenne finché non riuscì a raddrizzarsi e poi riprese a correre, la testa di Zefiro riversa sulla sua spalla. Il bambino aveva perso il capello di feltro e sul collo della tunica si era espansa una grossa macchia di sangue. A quella vista, Melwen si sentì morire. Si morse le labbra e con un enorme sforzo riuscì a ricacciare indietro le lacrime: non poteva abbandonarsi allo sconforto, non ora che poteva fare qualcosa per aiutarli ad arrivare a casa.
Cambiarono direzione spesso, evitando più che potevano la ressa delle strade principali. In più di un'occasione Baldur si dovette fermare bruscamente per imboccare un'altra via, molto più piccola, più stretta, più claustrofobica. Melwen mantenne la concentrazione sul suo potere, i sensi vigili e i muscoli tesi.
Un elfo li intercettò. Sgozzò la guardia con cui stava combattendo e si gettò all'inseguimento. Afferrò una freccia dalla faretra sulla schiena e incoccò. Melwen aprì i pugni e stavolta due sassi volarono contro di lui: uno lo colpì sul naso, l'altro rimbalzò contro l'elmo. L'elfo indietreggiò coprendosi la parte lesa e abbassò l'arco, il sangue che colava copioso tra le dita.
“Non è abbastanza.”
Melwen trasse un profondo respiro. La ferita alla tempia pulsava, i suoi sensi acuiti dal potere percepivano il bruciore che si irradiava fin dentro l'orbita, ma si impose di ignorare il dolore e la paura e di mantenere la calma. Richiamò altro potere, lo lasciò fluire nel palmo della mano e lo sospinse con la forza di volontà come Nyi le aveva insegnato. Quando però tentò di spingerlo fuori dal suo corpo, esso rimase sotto pelle, mentre la stanchezza le ghermiva le palpebre e le mordeva gli arti. Senza che potesse fare nulla, le braccia ricaddero inerti contro la schiena di Baldur.
- Maledizione... -
Il nano aveva il respiro mozzo e correva sempre più piano. La casa era vicina, Melwen aveva percorso quella strada già un paio di volte con Zefiro, dieci minuti al massimo e sarebbero arrivati, eppure nessuno, lei compresa, era più in grado di muovere un passo.
L'elfo ghignò, ripose l'arco e sguainò le spade, lunghe lame ricurve percorse da un tripudio di simboli luminescenti. Baldur rinserrò la stretta su Melwen, spostando febbrile lo sguardo dall'ascia al loro nemico, poi a Myria. Non potevano rimanere a combatterlo e allo stesso tempo non potevano nemmeno continuare a scappare, non con un inseguitore tanto rapido alle spalle. Il mercenario si morse l'interno della guancia, combattuto sul da farsi. Melwen poteva avvertire la sua indecisione.
“Ti prego, non lasciarci...”
Le parole restarono incastrate in gola, i muscoli della bocca immobili, come atrofizzati. Il sangue le colava sugli occhi e le appiccicava i riccioli alla fronte, si sentiva sempre più debole, stanca come non lo era mai stata e, sebbene desiderasse pregare Baldur di rimanere, non riuscì a fare altro che a abbandonarsi con il naso così vicino alla sua barba da poterne inalare il profumo.
Nordri agì. Strappò l'ascia dalla mano del mercenario e si fece avanti. Aveva il viso segnato e i capelli scompigliati, tanto da sembrare una criniera grigia. Impugnò l'arma senza fatica, e con una tale sicurezza che Melwen quasi non lo riconobbe come il gentile e premuroso padrone di casa che si era preso cura di loro fino a quel giorno: con la tunica strappata e l'espressione determinata sul volto, sembrava un vecchio leone tornato sul campo di battaglia.
Baldur esitò, allungò il braccio come per trattenerlo, ma poi chiuse la mano a pugno e se la batté sul petto in silenzio, prima di voltarsi, afferrare Myria e riprendere a correre. Melwen si sforzò di tenere aperti gli occhi, di seguire lo scontro. Man mano che si allontanavano la figura di Nordri sbiadì sempre più, sfumando assieme al suono metallico delle armi.
Quando girarono l'angolo, l'ultima cosa che udì fu un gorgoglio e un raspare disperato di piedi, seguito da uno scalpiccio e da degli ordini in elfico.
Giunsero finalmente a casa. Baldur era così stanco che quasi si trascinò per gli ultimi passi. Senza più la sua amata ascia, aveva avvolto anche il braccio destro attorno al corpo sfiancato di Melwen.
- Skjaldi, Far, Fili che qualcuno ci apra! - urlò sfiatato.
Myria abbatté il pugno contro la porta, la voce rotta dalla paura. Zefiro non aveva ancora ripreso i sensi e il sangue era colato sulla spalla della madre.
Dopo qualche secondo, dall'interno rimbombarono dei passi e Skjaldi fece capolino sulla soglia. Aveva una spada insanguinata tra le mani e la camicia era strappata in vari punti.
- Entrate, presto! -
Non appena furono tutti al riparo, Far e Fili chiusero velocemente la porta e la serva personale di Myria li scortò nella sala da pranzo. Le finestre erano state sprangate e il corridoio e tutte le stanze erano illuminate solo dalla luce delle candele.
Baldur ripose Melwen su una sedia e le posò una mano sulla spalla. Un'altra mano le toccò la fronte e, quando la bambina racimolò la forza per aprire gli occhi, si ritrovò il viso del suo maestro a un palmo dal naso, che la scrutava con cipiglio critico. Un rumore di qualcosa che veniva trascinato attirò l'attenzione di Melwen, ma Nyi le impedì di distogliere lo sguardo. Aveva la tunica bruciata sulle maniche, un occhio tumefatto e un brutto livido sulla guancia, tuttavia mentre la controllava non si lamentò mai.
- Ti avevo detto di dosare il potere, adesso non potrai praticamente muoverti. - le spostò una ciocca di capelli per controllare la ferita alla tempia, per poi rivolgersi a Baldur, - La ferita non è grave, potrei guarirla, ma mi ci vorrebbe del tempo. Di' a Far di tamponarla, mentre io... -
- Me ne occupo io, tu alza il culo e fai qualcosa per Zefiro. -
La preoccupazione traspariva dagli occhi e dalla voce di Baldur. Melwen inclinò la testa per vedere dove fosse il suo amico, ma qualsiasi movimento facesse, anche il più piccolo, si tramutava in una fitta al cervello.
Nyi indugiò un momento, poi le diede le spalle e si avvicinò al lungo tavolo di quercia al centro della sala dove Myria aveva disteso Zefiro. Nella luce tetra delle candele il suo viso appariva senza vita, una funeraria maschera di cera bianca.
- Nordri dov'è? - sentì Skjaldi chiedere con apprensione.
Anche Nyi alzò il capo, in attesa di una spiegazione. Myria parve afflosciarsi e Baldur si limitò a scuotere la testa. Non ci fu bisogno di aggiungere altro, il silenzio valeva più di qualsiasi parola. La nana rinserrò la presa sulla spada e si stropicciò gli occhi umidi, i denti piantati nel labbro inferiore. Far e Fili sbatterono le palpebre, dapprima increduli, ma quando la consapevolezza di cosa era successo si fece strada nella loro coscienza non riuscirono a trattenersi. Piansero in silenzio, poche lacrime e nessun gemito Melwen quasi non lo udì e nonostante il dolore non si fecero fermare: si tirarono su le maniche e si affaccendarono, stando dietro agli ordini di Nyi, mentre Skjaldi teneva sott'occhio la porta della sala.
- Mi... mi dispiace. - esalò Melwen.
- Non è colpa tua, piccola. - la consolò Baldur.
Prese un pezzo di stoffa e lo imbevette con del vino, conservato in una delle tante bottiglie che erano state spostate sul tavolo. Un profumo speziato permeò l'aria, un effluvio stuzzicante di bosso e di ginestra così dolce che Melwen non poté fare a meno di associare al viso rubicondo di Nordri, quando durante una delle loro prime cene nella sua casa aveva stappato la sua “annata migliore” per dar loro il benvenuto. Una lacrima le si impigliò nelle ciglia.
- Non piangere, non l'avrebbe voluto. -
Il nano le tamponò la ferita e l'intorno con delicatezza, come se si stesse occupando di un animale ferito.
- Diceva spesso che gli sarebbe piaciuto essere ricordato mentre mangiava i suoi amati cannoli o mentre se ne stava spaparanzato a leggere un libro davanti al camino acceso. Più di una volta l'ho sentito dire che le uniche lacrime che vale la pena versare sono quelle di felicità. Sono certo che se adesso ti vedesse così, te lo ripeterebbe. -
Melwen tirò su col naso e si asciugò il moccio con il bordo della manica.
- Zefiro...-
- Lui ce la farà. -
- Come fai a esserne sicuro? -
- Perché non te ne vai se hai una promessa da mantenere. -
Baldur puntò il suo sguardo in quello di lei e la bambina vi lesse tutto il dolore e la sicurezza che aveva impresso in quelle ultime battute. Non le stava regalando una falsa speranza, credeva davvero che Zefiro sarebbe sopravvissuto, e Melwen si aggrappò con tutta se stessa a quelle parole, che nell'istante in cui tutto, ogni cosa, sembrava crollarle addosso, costituivano il suo unico, possibile appiglio per non sprofondare nello sconforto.
- Come facciamo ad andarcene da qui? -
- Forse potremmo aspettare i rinforzi. -
- Rinforzi? Quali rinforzi, Fili? Anche se Lotka decidesse di intervenire, quando le truppe arriveranno sarà ormai troppo tardi. -
- E allora cosa possiamo fare? -
- Posso portarvi via io. -
Skjaldi, Myria, Fili e Far si girarono verso Nyi. Il Dominatore era salito su una sedia ed era chino su Zefiro, la destra posata sopra la sua mano e l'altra che si muoveva a ritmo, come se stesse dirigendo un'orchestra.
- Conosci incantesimi di teletrasporto? -
Anche Melwen era sorpresa quanto Baldur. Suo padre era stato capace di qualsiasi cosa, se lo rammentava bene, ma durante le loro lezioni Nyi le aveva ribadito più e più volte che la capacità di manipolare gli elementi di un Dominatore non sempre può competere con quella di un Arcanes, soprattutto quando si tratta di incantesimi che coinvolgono più persone.
- Ne conosco più d'uno, ma il punto è un altro. Oltre a me stesso, posso portare solo altre quattro persone, non una di più. -
Un silenzio denso come melassa calò in tutta la sala. Tutti si lanciarono delle occhiate furtive e per un bel po', Melwen non seppe quanto, nessuno osò parlare.
- Inoltre, ho bisogno di concentrazione per fare una cosa del genere: ci teletrasporteremo a un paio di miglia di distanza da qui, quindi non saremo al sicuro: una volta fuori, rischieremmo comunque di morire, non sappiamo quanti sono là fuori. -
- Stai... stai dicendo che qualcuno dovrà rimanere qui? - mormorò Fili.
Nyi annuì con aria cupa.
- La figlia di Copernico verrà con me, perciò rimangono solo tre posti. - aggiunse e saltò giù dalla sedia, scrutandoli uno per uno, - Vedete voi chi, ma fate in fretta, non ho intenzione di aspettare che altri elfi vengano per ammazzarmi. -
Melwen avrebbe voluto urlare, ma la paura e la stanchezza la tenevano incollata alla sedia, la paralizzavano da capo a piedi senza che lei potesse fare nulla se non osservare la scena che si stava consumando davanti ai suoi occhi: Zefiro steso sul tavolo, ancora privo di sensi con il torace che si alzava e si abbassava lentamente, sua madre che singhiozzava, Far e Fili che giravano inquieti per la stanza, Skjaldi e Baldur che si scambiavano delle strane occhiate, in un dialogo muto portato avanti dagli occhi e non dalle bocche. Se soltanto non avesse esagerato con il suo potere, forse avrebbe potuto fare qualcosa, aiutare Nyi, salvare tutti.
“No, anche nel pieno delle forze sarei stata inutile. Non sono che una bambina di dodici anni che si è appena approcciata alla magia.”
L'evidenza della logica era lì, davanti a lei, materializzata nella figura del suo maestro, che con una serie di eleganti movimenti delle braccia, quasi fossero dei passi di danza, aveva dato corpo all'aria e la stava plasmando in una cornice ovale e fumosa che pian piano andava allargandosi. Non era una cosa di cui Melwen sarebbe stata capace, eppure non riusciva a darsi pace, ad arrendersi all'ovvietà dei fatti: si sentiva impotente e quel sentimento glaciale la stava scorticando da dentro.
- Io rimarrò qui. - esordì Skjaldi.
La voce era incerta e le tremavano le spalle, persino la presa sulla spada non sembrava più così salda. Strinse l'elsa a due mani e si parò davanti a Baldur, che la guardò boccheggiando.
- Tu non puoi morire, Pugno d'Acciaio, la parte dell'eroe non ti si addice più da un po', ormai. - lo prevenne la serva e gli diede un buffetto sulla guancia, le lacrime che già le bagnavano il colletto della camicetta, - Non sei un soldato a nessun bardo piace cantare le gesta di un mercenario con un cuore tenero. Le dame di corte lo troverebbero banale. -
- Rimaniamo anche noi. - Fili si fece avanti, tirando per il polso anche suo fratello, - Il nostro signore è morto qui, non possiamo andarcene. Sapete come si dice, no? Il capitano affonda con la sua nave. -
- Non... non è giusto. - Myria si alzò e accarezzò la guancia di Skjaldi.
- Lo so, strei, lo so, ma non vi chiederei mai di rimanere. Nordri avrebbe voluto che tu e i bambini vi salvaste e noi dobbiamo esaudire le richieste del nostro signore fino alla fine, anche e soprattutto rispettare i suoi ordini quando lui non c'è. - la nana le sfiorò la mano e si voltò per fissare i due fratelli, per poi gettare un'occhiata triste a Zefiro, - Potreste dirgli di ricordarsi di sorridere sempre e che alle donne piace vedere il proprio uomo sorridere? -
- Lo farò. -
Myria fece un passo indietro e si asciugò una lacrima: - Non so davvero come ringraziarvi... -
- Non sei obbligata, Skjaldi, né tu né i ragazzi lo siete. - intervenne Baldur.
- Sì che lo siamo. - si intromise Far, - Tutto ciò che avevamo era questa casa. Se sopravvivessimo, non riusciremmo a ricominciare. Abbiamo dei doveri, sia nei vostri confronti sia verso i nostri morti, abbandonarli qui... non è qualcosa che possiamo fare. -
- Inoltre, Baldur, tu sei l'unico che può difenderli fuori di qui. Io saprò maneggiare una spada, ma non ho mai voluto fare la vita del soldato: sono una cameriera, niente di più niente di meno. - Skjaldi gli mise una mano sulla spalla e si sforzò di sorridere, - Ognuno ha i suoi doveri, il tuo è quello di proteggere Myria, Zefiro e Melwen. -
A quel punto, la serva estrasse da una tasca del grembiule il libro di fiabe di Melwen e le si accostò per porgerglielo.
- Tieni. L'ho trovato nella biblioteca privata di Nordri. Volevo portartelo in camera, ma poi è scoppiato il finimondo, così... -
Melwen lo accettò grata, un sorriso appena accennato sulle labbra. Accarezzò il libro come se fosse una reliquia rara.
La pace ebbe breve durata. Dei colpi e poi il rumore dei cardini che cedevano interruppero la conversazione. Skjaldi si mise in posizione, mentre Fili e far si armarono con due attizzatoi. Baldur afferrò l'ascia che stava sopra il camino, un'arma ornamentale, inutilmente pesante, ma con una lama che rifulgeva minacciosa nella luce tremolante delle candele.
- Myria, prendi i bambini e spostati vicino a Nyi. - le ordinò affiancandola.
La donna assentì e piano. Tenendogli la testa sollevata, appoggiò Zefiro alla parete a pochi passi dal Dominatore. Quando si avvicinò a Melwen, un altro colpo fece tremare le porte del salone. I vetri della cristalliera tremarono e andarono in frantumi quando la lama di un'ascia trapassò il legno. Ne seguirono altre subito dopo. Non c'era nessun vociare dall'altra parte e il silenzio era interrotto solo dallo spostamento d'aria che precedeva l'impatto dell'arma.
- State pronti. - sibilò Skjaldi.
Quando la cristalliera cadde a terra e la porta cedette, tutti trattennero il respiro. Dall'ombra emersero le figure di tre elfi, i primi due armati con due asce, l'altro con delle lame ricurve. Dalla sua pozione, Melwen riuscì a intravedere gli occhi nascosti dall'elmo: erano rosso sangue.
 
*
 
Lusil correva verso le gallerie assieme ai sopravvissuti della sua famiglia e agli altri membri della popolazione, quei pochi che erano riusciti a scampare al carnaio. Sua moglie Terna gli strinse il braccio e Lusil di riflesso fece lo stesso, infilando una mano nella chioma scura di loro figlio Serin.
Era successo tutto così in fretta: dapprima le guardie avevano loro ordinato di tornare nelle loro case, poi, sulla via del ritorno, la caserma era saltata in aria e gli elfi erano sciamati nelle strade. La sorpresa era stata così tanta che nessuno, nemmeno le guardie cittadine rimaste, era riuscito a reagire, non subito almeno, e i loro nemici, il loro peggior incubo, avevano fatto una carneficina. Lui, Terna e Serin erano riusciti a mettersi in salvo solo perché erano lontani dall'esplosione e avevano avuto il tempo per scappare. La loro casa era troppo lontana e per arrivare avrebbero dovuto attraversare mezza città, così Lusil aveva condotto la sua famiglia verso gli ultimi terrazzamenti, quelli che aggettavano sulle miniere, con il proposito di fuggire attraverso le gallerie d'emergenza alla cui costruzione lui stesso aveva preso parte.
Purtroppo però, non era stato l'unico ad avere quell'idea: giunti alle miniere, avevano trovato una marea urlante di uomini, donne, bambini e anziani che si spintonavano per entrare, in un caos che nemmeno le guardie cittadine riuscivano a domare, troppo occupate a pattugliare le strade da cui potevano arrivare gli elfi.
Lusil continuava a guardarsi alle spalle. Aveva militato nell'esercito di Balor per una decina d'anni e, sebbene la vita del soldato non facesse per lui, si sentiva nudo senza un'arma tra le mani. L'unica cosa che lo rinfrancava era che, fino a quel momento, i pochi nemici che avevano assaltato la folla erano stati respinti dalle guardie. Cullò Serin e gli schioccò un bacio sulla guancia paffuta, inspirando il profumo di pesca della sua pelle. Il cuore rallentò la sua corsa e i polmoni compressi si distesero appena, richiamando l'aria che fino a quel momento era rimasta incastrata in gola.
“Ce la faremo. Le guardie stanno resistendo e il re combatte qui fuori: non appena ne avrà la possibilità, manderà qualcuno a darci man forte.”
Scambiò una lunga occhiata con la moglie. Terna arricciò le labbra in un mezzo sorriso e intrecciò le dita con quelle di lui, traendo a sua volta un profondo respiro.
- Tra poco saremo al sicuro. - affermò convinta e Lusil annuì.
Un elfo sbucò da sopra le scale e le saltò caricando a testa bassa, mentre un altro incoccava due frecce, mirando verso il cielo.
- Muovetevi! -
Le guardie, un manipolo di una decina di nani ben corazzati, alzò gli scudi. I dardi sibilarono, percorsero una traiettoria a parabola e rimbalzarono contro il metallo. Il nano dietro Lusil lo spinse con una tale forza che quasi lo mandò a terra, se non fosse stato per la presa salda di Terna.
- Sbrigatevi, presto! - la voce stentorea di Smar riecheggiò sui muri, - Uomini, mantenete la posizione! -
L'elfo era a pochi piedi di distanza, avanzava rapido e feroce come una pantera, l'armatura verde giada che rifletteva la luce del sole. Altri dardi piovvero su di loro, stavolta non solo dall'elfo in cima alle scale, ma anche da sopra di lui e dalla sua sinistra. L'anziana davanti a Lusil cadde a terra, trafitta da parte a parte da una freccia, e così anche il suo vicino, un nano dalla barba bionda e gli occhi scavati dalla paura: l'asta gli trapassò il cranio e la punta fuoriuscì dall'occhio, facendo esplodere sangue e materia cerebrale sugli astanti. Una donna urlò e alle sue grida se ne aggiunsero altre, ancora più impaurite, ancora più terrorizzate, simili a quelle delle pecore al macello.
Uno dei soldati sfoderò la balestra che aveva al fianco. Si tenne nascosto dietro il muro di scudi e, quando l'ebbe caricata, mirò. Il dardo fendette l'aria e l'elfo, il primo ad essere apparso, cadde al suolo in mezzo al prato di aste impennate alle sue spalle.
Lusil ricacciò in gola l'impulso di vomitare e scavalcò i corpi dei caduti. Quando percepì la carezza dell'umidità sulla pelle, si abbandonò a un sospiro di sollievo: non importava quanti ce ne fossero davanti a loro, erano salvi.
- Retrocedere! -
Qualcuno gli diede una gomitata, un altro ancora tentò di spostarlo per passare avanti, ma Lusil lo spinse dietro di sé e aumentò il passo, pestando i piedi ai più lenti o a chi non riusciva a procedere abbastanza in fretta. Le pareti di roccia si chiusero sopra di loro e la luce diminuì man mano che avanzavano, Lusil però conosceva quelle gallerie come le sue tasche e sapeva dove condurre la sua famiglia. Sì, ce l'avrebbero fatta, a breve avrebbero fatto crollare il passaggio e...
L'esplosione alle loro spalle fu così forte da farli cadere. Lusil rovinò a terra, Serin ancora stretto tra le braccia. Riuscì a lasciare la presa sulla mano di Terna in tempo per proteggere la testa del piccolo. Quando riuscì ad alzarsi, con il sapore della polvere in bocca si guardò intorno, completamente spaesato. Alle loro spalle, da dietro il muro di pietre che ostruivano l'entrata, udirono le grida delle guardie e dei cittadini rimasti fuori. Non comprese cosa stessero dicendo, un timpano gli era scoppiato e un rigolo di sangue gli scivolava fuori dall'orecchio, ma la poca luce che traspariva attraverso le fessure illuminò il viso preoccupato di sua moglie.
- Perché hanno fatto crollare l'entrata prima che fossimo tutti dentro? -
- Bastardi, ridatemi i miei bambini! - una donna si scagliò contro quel muro, graffiando le pietre fino a farsi sanguinare le dita, - Ridatemeli, ridatemeli! -
Altri si unirono al suo lamento funebre, tentando in tutti i modi di spostare i massi. Ma erano troppo grossi e loro, a parte le mani, non avevano attrezzi per spostarli. Dall'esterno le urla aumentarono d'intensità, così tanto da sopraffare gli ordini delle guardie. I sibili delle frecce fendevano l'aria a ritmo cadenzato, sembrava stesse piovendo.
“Non ce n'erano così tanti prima, ci hanno raggiunti...”
- Dobbiamo andare. - tirò su sua moglie e levò la voce in modo che tutti udissero, - Avanti, proseguite! -
- Non possiamo lasciarli, dobbiamo... dobbiamo spostare i massi per permetter loro di entrare. - si opposero subito alcuni, spaventati per la sorte dei cari al di là della barriera di massi.
Lusil scosse la testa: - Non possiamo fare nulla, sono già morti. -
La caduta di altre pietre ridusse tutti al silenzio. Il nano si voltò e chiuse gli occhi, concentrandosi per capire se ci fosse pericolo di frana. Il rumore di qualcosa che strisciava gli mandò il cuore in gola, ma nel buio non era in grado di individuarne la direzione.
- Lo hai sentito anche tu...? - mormorò Terna, avvicinandosi a lui.
Lusil stava per risponderle, quando le grida provenienti dalle file più avanti ruppero la stasi. Si irrigidì, deglutì e accarezzò suo figlio per calmarlo. A un tratto, della bava gli gocciolò sulla spalla. Sollevò lentamente la testa, solo per imbattersi in otto occhi gialli che lo fissavano famelici dal soffitto. Lusil rimase paralizzato a studiare la sua chiostra di zanne di quella creatura, il suo corpo vermiforme. Non ebbe tempo di emettere un singolo suono prima che la cosa gli staccasse la testa.
 
*
 
Balor infilò le staffe nei reni del Dizit e lo incitò: - Più veloce, più veloce! -
La bestia sbuffò infastidita, ma aumentò l'andatura. Dietro di lui, i settecento membri che aveva scelto come scorta e truppe di rincalzo diedero di sprone per stargli dietro.
Un elfo gli si parò davanti, tentò di colpire il Dizit alle zampe, ma il re gli separò la testa dal collo con un unico, fluido gesto del braccio. Il sangue schizzò sul muro di una casa e il corpo si afflosciò a terra come una bambola. I due nani che gli cavalcavano poco più indietro lanciarono una rapida occhiata al cadavere, per poi tornare a guardare la schiena del loro signore, le aste lunghe strette tra le mani.
La notizia di quello che stava accadendo in città era arrivata fino a loro. Balor li aveva mandati all'interno delle mura per raccogliere informazioni e, non appena aveva saputo della mattanza in atto, aveva affidato il comando a Negan, Hagan e Rekkr, ordinando loro di far ripiegare l'esercito. Aveva dovuto reprimere l'istinto di dare le spalle alle sue truppe per precipitarsi al Castello di Ferro. La sua famiglia era in pericolo, ma se avesse lasciato i suoi uomini allo sbaraglio sarebbe stata la fine per Alabastria stessa.
Una freccia sibilò a un palmo dal suo viso. Balor alzò lo sguardo: due elfi, entrambi armati di arco, si erano appostati sopra una casa, le loro figure parzialmente coperte dal comignolo. Il primo, quello che aveva appena tentato di ucciderlo, incoccò di nuovo, mentre l'altro prendeva la mira.
- Proteggete il re! -
Il generale Andavari e altri tre nani si portarono ai suoi fianchi e alzarono gli scudi. I dardi si infransero contro l'acciaio temprato, spezzandosi in due.
Balor strinse i denti e serrò la presa sulle redini nel tentativo di tenere la freno la rabbia: eccoli lì gli assassini del suo popolo, gli elfi che per anni aveva combattuto e dai quali ora doveva fuggire.
Altri colpi, stavolta tre, alla sua sinistra. Il nano vicino a lui, con la barba nera e ispida come quella di un'istrice, grugnì, sforzandosi di mantenere lo scudo alto, mentre altre frecce piovevano contro di lui. Con la coda dell'occhio intravide uno dei suoi incoccare l'arco per rispondere al tiro, udì la corda tendersi e poi il sibilo del rilascio. Un grido seguito da un'imprecazione lo fece sorridere e gli diede coraggio.
- Non abbandonate le vostre posizioni. Se gli elfi si pareranno sulla nostra strada, uccideteli, ma non perdete tempo. - ordinò con voce stentorea, sovrastando lo scalpiccio degli zoccoli dei Dizit e dei cavalli in corsa.
Il caos era tanto e le urla provenivano da ogni direzione. Balor sperava che la maggior parte dei cittadini fossero riusciti a fuggire attraverso le gallerie scavate nelle miniere. In cuor suo pregava che gli dei avessero avuto misericordia almeno dei bambini, ma una parte di lui, quella più fredda e razionale, continuava a domandarsi se non fossero stati proprio quei cunicoli a permettere agli elfi di penetrare in città.
“Ma come? Nemmeno Lysandra li conosceva.”
Scosse la testa e relegò quel pensiero in un angolo del suo cervello: non doveva abbandonarsi allo sconforto, non doveva distrarsi. L'unica cosa che contava era portare in salvo la sua famiglia.
Si fecero largo tra le strade ingombre di gente, uccidendo gli elfi quando ostruivano loro il passaggio. Le guardie sopravvissute lo acclamarono quando lo videro arrivare e i suoi soldati aggredirono gli assalitori con così tanta furia che, alle volte, Andavari dovette richiamarli all'ordine.
Nonostante cercassero di non farsi fermare, spesso dovettero combattere per aprirsi la strada. Gli elfi erano tanti, ma meno dell'esercito che, da fuori, premeva contro le loro mura. Balor perse un battito quando vide il profilo delle loro macchine d'assedio, trabucchi ed elepoli di legno rinforzato, farsi sempre più vicine. Gli uomini rimasti sui camminamenti correvano da una parte all'altra, caricando baliste e onagri sotto gli ordini urlati dai loro comandanti, mentre altri combattevano sulle scale, respingendo l'assalto degli elfi.
Il primo colpo d'ariete fece tremare il ponte levatoio e sembrò scuotere la città fin dalle sue fondamenta. Gli arcieri cominciarono a scoccare e quelli più vicini ai merli rovesciarono calderoni di olio e pece bollente sulle truppe ammassate sotto le mura.
- Resistete! -
Continuarono a risalire le strade fino alla parte più alta della città. Quando giunsero al Castello di Ferro e trovarono il ponte levatoio divelto a terra e in fiamme, il cuore di Balor mancò un battito.
- Di qua! Con me! -
Saltò giù dal Dizit e assieme agli altri soldati fece irruzione nella sala principale. I mobili stavano ancora bruciando e i corpi della servitù giacevano contro i muri o sul pavimento, alcuni con il viso così deturpato dal fuoco da renderli indistinguibili ammassi di carne bruciata senza volto e senza identità.
Prima ancora che potesse fare un passo, come se li avessero aspettati, un drappello di elfi si affacciò dalle scale. Le frecce piovvero su di loro, precise, letali, attaccando al suolo chi non riuscì ad alzare in tempo gli scudi.
- Avanzate! -
Balor era circondato dai suoi uomini. Uno di quelli più indietro gli passò uno scudo e poi tornò nelle retrovie, imbracciando il piccolo arco che portava nella faretra. Procedettero, passo dopo passo, sotto la tempesta di frecce. Metà dei soldati tenevano gli scudi rivolti verso l'alto, gli altri con le lance in resta, mentre quelli più lontani rispondevano al fuoco, ribattendo colpo su colpo per quanto lo spazio poco ampio glielo permettesse.
Non appena la maggior parte dei suoi uomini riuscì a entrare nella grande sala, Balor ordinò la carica. Nello stesso momento, dalle scale scesero gli elfi. A capeggiarli era una donna: non indossava l'elmo e i capelli rosso sangue le ricadevano languidi sulle spalle, appena scompigliati. Attorno a lei orbitava una barriera evanescente dai riflessi bluastri e, quando un arciere tentò di colpirla, il dardo rimbalzò su di essa.
“Deve essere un incubo.”
- Ferma i tuoi uomini, Balor. -
- E perché mai dovrei farlo? - ringhiò il re di rimando, l'ascia ben stretta in pugno.
L'elfa sorrise, mettendo in mostra i canini leggermente affilati. Fece un cenno a qualcuno, forse un elfo rimasto nascosto su per le scale. Dopo qualche istante, Eliria e i suoi tre figli cominciarono a scendere. Thraed zoppicava, a malapena riusciva ad appoggiare il piede a terra, sebbene si sforzasse di mostrarsi fiero, la testa alta e le spalle indietro. Aveva la mascella slogata e l'occhio tumefatto. Non appena vide suo padre, l'ombra di un sorriso di sollievo gli attraversò il viso, per poi tramutarsi in una smorfia sofferente.
- Cani! Come avete osato! -
Balor fece un passo verso di loro. La donna afferrò Eliria e le puntò un pugnale alla gola, il braccio ben serrato sulle sue spalle.
- Non oseresti... -
- Non esistono regole in guerra, caro re. - il suo tono era irridente e i suoi occhi brillavano, accesi da un sadico divertimento, - Non farmelo ripetere, di' ai tuoi uomini di abbassare le armi. -
Il re esitò. Tentò di raccogliere i pensieri, ma la logica sembrava svanita, così come la sua capacità di ragionare razionalmente, seppellita sotto l'immagine di sua moglie morta, dei suoi figli massacrati. Si morse l'interno della guancia e, semplicemente, alzò la mano e la fece ricadere lentamente lungo il fianco. In silenzio, tutti i soldati obbedirono.
- Bene, adesso ordina a tutti di entrare e di sbarrare le porte. - spostò lo sguardo sulle sue truppe e ghignò, - Tutti quelli che possono, almeno. Gli altri e gli arcieri, fuori. -
- Mio signore, non possiamo lasciarvi qui, è... -
- Obbedite. -
Andavari aprì la bocca, ma Balor non lo voleva ascoltare, e comunque non ci sarebbe riuscito. La sua attenzione era calamitata dalla sua famiglia, i vestiti macchiati di sangue di sua moglie, le dita rotte di Soryan e Neall. Se mai fossero uscite vive, pensò, avrebbe dovuto chiamare i migliori cerusici di Esperya per far tornare le loro mani com'erano prima.
- Obbedite, fate quello che vi ha detto di fare. - ripeté, imponendosi di mantenere la voce ferma.
Andavari annuì. Prese un profondo respiro e fece un cenno ai soldati. Piano, molto piano, si ritirarono. Man mano che la scorta fluiva fuori, coloro che erano rimasti ammassarono tutto ciò che c'era di integro vicino alla porta: pezzi di legno, mezzibusti di statue, tutto. Quando chiusero le porte, il silenzio divenne assoluto, pesante come pietra.
- Veniamo al punto. - esordì allora l'elfa, sollevando trionfante il mento, - Alabastria è nostra, avete perso: i vostri soldati possono combattere quanto vogliono, ma siete in netta inferiorità numerica e i cittadini sono imprigionati nelle gallerie d'emergenza. Quello che vi chiedo è una resa incondizionata: se sarete ragionevole, vi lascerò quel manipolo di uomini che vi rimane e la vostra famiglia. -
- Che garanzia ho che manterrete la vostra parola? -
- Nessuna, ma se rifiutate darò l'ordine ai miei di uccidervi tutti ora. A me non cambierebbe molto, ma... - lasciò la frase in sospeso e tracciò una lieve linea rossa sulla gola di Eliria, - Non penso abbiate il fegato di giocare così con la vita dei vostri familiari. -
Sua moglie digrignò i denti. Cercò di mostrarsi forte, eppure tremava come una foglia tra le braccia dell'elfa. Neall e Soryan tenevano il capo basso, senza degnarlo di uno sguardo, singhiozzando in silenzio.
Balor serrò i pugni e gettò un'occhiata alle sue spalle, ai duecento uomini che si erano disposti attorno al muro con le armi abbassate. Lo fissavano seri e nei loro occhi il re non lesse nessun rimprovero, nessun biasimo: erano lì per lui e per lui sarebbero morti. Poteva udire anche gli altri all'esterno, che rumoreggiavano appena come se volessero preservare il silenzio luttuoso che, come un velo, stava inesorabilmente avvolgendo la città. Le urla erano lontane, così come il rumore dell'ariete che colpiva il ponte levatoio e gli ordini dei soldati sulle mura. Di tanto in tanto, un'esplosione faceva tremare la terra, ma la confusione che c'era fuori scoloriva, sbiadendo in una eco lontana. L'unica cosa reale era quell'elfa e il pugnale puntato alla gola di sua moglie, assieme all'odore intenso e penetrante di alcol che permeava la sala. Era così intenso da fargli lacrimare gli occhi.
- Accetto. -
Non era la sua voce, quella, era troppo bassa, troppo roca.
- Inginocchiati e butta a terra la corona, Balor. - gli intimò l'elfa.
Il suo corpo si mosse da solo. Mentre i suoi uomini gli aprivano un varco per permettergli di passare, il re tenne la testa alta e gli occhi fissi davanti a sé. Un passo dietro l'altro, arrivò proprio ai piedi delle scale, sotto l'elfa e sua moglie. Eliria lo guardava con espressione supplice e Balor poté leggere nei suoi occhi che lo stava pregando di non farlo. Si concesse un momento per osservarla e imprimersela nella memoria, e quasi gli parve di sentire i suoi capelli tra le dita.
Portò le mani alla testa e chiuse gli occhi, rievocando altri ricordi: Soryan che ballava con Neall, le mani intrecciate e gli sguardi complici, belle come la loro madre, la luce che aveva illuminato le sue giornate; Thraed che montava il suo primo Dizit, la sua risata scanzonata, l'orgoglio dei suoi occhi; Eliria che sorrideva sotto i cipressi del suo giardino e il suo profumo dolce di cannella, fiordalisi e nontiscordardime.
Le dita sfiorarono il metallo e le spalle si accasciarono.
Sconfitto.
La corona cadde con un rumore sordo.
Balor riaprì gli occhi e si scontrò col ghigno vittorioso dell'elfa.
- Ops. Ho mentito. -
Un secondo più tardi affondò la lama del coltello e tagliò la gola a Eliria. Contemporaneamente, gli altri elfi pugnalarono a morte Thraed e le sue figlie. Quando il corpo della regina cadde a terra, una fiamma proruppe delle mani dell'elfa e la stanza si trasformò in un inferno di fuoco.
 
*
 
La testa gli pulsava e il dolore si propagava da un punto preciso dietro la nuca, poco sopra l'altezza del collo. Zefiro portò la mano lì a fatica e toccò appena i bordi gonfi della ferita. Non sanguinava, almeno non gli sembrava, ma faceva davvero male, così tanto che non appena la sfiorò ritrasse la mano in un basso gemito sofferente.
Un rumore improvviso lo fece sussultare. Ansiti, sibili, grugniti... aprì piano gli occhi e si sforzò di penetrare la nebbia che gli ostruiva la vista. Sette figure indefinite, più ombre che altro, si muovevano nel suo campo visivo: tre impugnavano delle lunghe lame, le altre tre avevano armi diverse ed erano molto più basse
Il dolore lo costrinse di nuovo a chiudere gli occhi e Zefiro si trovò di nuovo a brancolare in un'oscurità di puntini colorati, dove oltre al buio erano presenti anche le immagini di ciò che era accaduto – almeno di quello che presumeva fosse accaduto. Provò a soffermarsi sui frammenti, a ricomporli per dare un senso a quel caotico mosaico, ma più si sforzava più il dolore aumentava d'intensità e gli si conficcava nel cervello come un milione di aghi.
Una mano si strinse attorno alla sua e una voce, la voce di sua madre, penetrò nel buio.
- Sei vivo... -
C'era sorpresa in quelle due parole, sorpresa e sollievo. Zefiro inclinò appena la testa. Avrebbe voluto parlare, ma le labbra erano impastate da una sostanza appiccicosa mista di sangue e saliva.
- Andrà tutto bene. - mormorò Myria e gli cinse piano le spalle, - Andrà tutto bene, piccolo mio, andrà tutto bene. -
Un tonfo e un urlo risuonarono nell'aria. Myria si staccò da lui e Zefiro aprì gli occhi di scatto, spaventato. Era come se quel grido avesse aperto uno squarcio nella nebbia.
La sala da pranzo era tutta in disordine, c'erano mobili e bottiglie a pezzi ovunque, mentre il tavolo, il lungo tavolo dove di solito mangiavano, era chiazzato di sangue. A pochi passi c'era Nyi e davanti a lui una specie di specchio fumoso a grandezza d'uomo. Skjaldi, Fili e Far combattevano contro due elfi. Erano ricoperti di ferite, i visi stanchi e sfiancati, mentre Baldur era schiena al muro, il respiro che gli raschiava la gola e lo sguardo stralunato.
- Melwen! - gridò il nano. e Zefiro cercò la sua amica con lo sguardo.
Era accoccolata su una sedia, con la testa inclinata languidamente sulla spalla. Dormiva tranquilla, con un libro stretto al petto, ignara dell'elfo che si stava avvicinando. Impugnava una spada dalla lama ricurva nella sinistra. A Zefiro mancò il respiro quando vide che aveva gli occhi rossi.
“Fenrir.”
Quel nome emerse dalla sua memoria e si inabissò, soppresso dalla rabbia e dalla paura di cosa ciò significava. Zefiro tentò di alzarsi. Si puntellò sulle mani e ordinò alle gambe di issarlo, di correre, ma il dolore lo aggredì e lo inchiodò alla parete.
“Devo fare qualcosa.”
Per quanto ci provasse, non riusciva a muovere nemmeno un muscolo, mentre l'elfo era sempre più vicino.
Nyi si voltò, il viso imperlato di sudore. Aprì le bocca in un urlo che Zefiro non udì e lo specchio tremolò pericolosamente, la superficie si incrinò come se si stesse per rompere e il Dominatore dovette distogliere lo sguardo.
“Alzati, dannazione!”
Non seppe dove trovò la forza, non se ne curò nemmeno. Conficcò le dita nel muro e si mise in piedi, gli occhi fissi in quelli dell'elfo, sulla sua lama arrossata. Il dolore rese i colori, i suoni e gli odori più vividi, li amplificò e Zefiro quasi ne rimase frastornato. Sbatté le palpebre e trasse un profondo respiro, inebriato ed eccitato da quella nuova realtà.
“Posso farcela.”
Riaprì gli occhi e scattò. In un istante fu addosso all'elfo e affondò i denti nel collo con una facilità disarmante, penetrando fino alle labbra. Il suo sangue sapeva di ferro e sarebbe dovuto essere disgustoso, ma sul suo palato assumeva un retrogusto dolciastro, tanto, troppo piacevole.
L'elfo mollò la spada e gli afferrò la testa, si dimenò, menando gomitate in preda al dolore. Zefiro affondò ancora di più e strinse ancora più forte lo spallaccio a cui si teneva. Il cuoio si piegò, si deformò come se fosse fatto di carta. Per un momento il bambino si domandò come fosse possibile, ma presto la coscienza si addormentò, soppiantata da un elettrizzante senso di potere, che permeò ogni fibra del suo corpo. Il dolore era sparito, la ferita non bruciava più, c'erano solo lui e l'elfo che si contorceva in preda all'agonia. Andò a sbattere contro la parete e lo schiacciò contro di essa fino a togliergli il respiro. Zefiro provò a mantenere la presa, ma gli mancava l'aria. L'elfo lo agguantò per la nuca, si scostò appena e lo scaraventò su una sedia con una tale violenza che Zefiro sentì le ossa della cassa toracica rimbalzare contro la pelle.
- Kopel rivvil. - sputò, rivolgendo a Zafiro un gelido sguardo assassino.
Baldur lo buttò a terra con una spallata. Le trecce della barba si erano sciolte e il sangue sgocciolava dal labbro spaccato. Zefiro osservò la sua figura sdoppiarsi, triplicarsi, mentre il dolore tornava a farsi vivo. I suoni si attenuarono, divennero un unico miscuglio che gli si infilava nel cervello e lo raschiava come se volesse strapparglielo.
Con le forze che svanivano e il sapore del suo sangue sul palato e sulle labbra, si mise supino e poi a gattoni, cercando di raggiungere Melwen. Ma la sua amica non era più sulla sedia.
Udì qualcuno gridare un ordine e mosse la testa a destra e a sinistra nel panico. Qualcun'altro lo prese sotto le ascelle e lo sollevò prima che potesse reagire. Zefiro si ritrovò faccia a faccia con il volto umido di lacrime di sua madre. Fiutò un forte odore salino, che si amalgamò a quello del sangue e del sudore. Alle sue spalle c'era Nyi con Melwen in braccio, svenuta.
Myria rimase immobile un istante, quindi si voltò e iniziò a correre verso lo specchio fumoso. L'elfo colpì Baldur alla tempia e si accanì su di lui finché non andò a terra, poi scattò verso di loro. Ma il nano riuscì ad afferrargli le gambe e a farlo cadere.
- No! - urlò Zefiro, - Baldur! -
Il sorriso tronfio di Baldur fu l'ultima cosa che vide prima di oltrepassare il portale.

Angolo Autrice:

Hello folks!
Allora, nemmeno io ci credo, ma siamo giunti a metà ** Eh, sì, questo è il 14esimo capitolo e quindi sì, siamo a metà. Sono emozionatissima, non potete capire ** Comunque... come sempre mi faccio sentire per comunicarvi un paio di cose ( in realtà una, ma still...): visto che ad agosto conto di andare in vacanza (finalmente) non aggiornerò. Tornerò per i primissimi di ottobre ( diciamo attorno al 10 ottobre) con i nuovi capitoli. Purtroppo sono lenta, lenta, lenta a scrivere i capitoli, ma capitemi, ce la metto davvero tutta >-< Quindi, come al solito, vi rimando alla mia pagina FB dove però posterò spoiler di vario genere (ne ho uno che è molto, molto pieno di feels) e poi vi segnalo una storia che ho cominciato a pubblicare negli ultimi mesi: il titolo provvisorio è Summer tale, presto lo cambierò in Fighting Fire. Anche questa è ferma fino a settembre, però comunque mi sono interrotta in un punti abbastanza di cesura. SE voleste passare e dirmi cosa ne pensate ne sarei felice, dal momento che è la prima volta che mi cimento in una storia con ambientazione da "La Mille e una notte." Vi lascio il link, così se siete curiosi potete andare a sbirciare.^^

Un bacione e grazie di esistere a tutti!
Hime

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Capitolo 15
*** La Prova ***


14

La Prova

Quando Airis si risvegliò, la prima cosa che attirò la sua attenzione fu il forte odore di ruta e caprifoglio. Socchiuse appena gli occhi e si massaggiò la fronte, il cervello ancora annebbiato dal sonno. Solo in un secondo momento, quando si puntellò sui gomiti su una superficie morbida, si rese conto di essere distesa su un pagliericcio e che, a parte una coperta, non aveva altro addosso.
- Ti sei svegliata, lupa. -
Airis girò la testa di scatto nella direzione da cui proveniva la voce e allungò la mano al suo fianco senza guardare, ritrovandosi però ad artigliare il vuoto.
- Se stai cercando la tua spada, è lì sopra. - lo sconosciuto le indicò un basso tavolo con un movimento del capo, - Non ti servirà ora, non ho intenzione di farti del male. -
- Dov'è Arghail? - gracchiò, la gola secca e infiammata.
- L'uomo che viaggiava con te? È nella camera della mia compagna, non si è ancora svegliato. -
Lo sconosciuto si alzò dallo sgabello in cui era rimasto seduto fino ad allora – e chissà per quanto l'aveva osservata dormire in silenzio, pensò Airis con un brivido di inquietudine – e si avvicinò al davanzale della finestra alla sua sinistra, da dove prese un mazzolino di erbe da un cestello a terra per poi metterle in un piattino per bruciarle assieme ad altre, la maggior parte delle quali erano già ridotte in cenere. Subito nella stanza si diffuse un odore simile a quello dell'incenso, e in qualche modo Airis avvertì le proprie membra rilassarsi.
- Ti sei buttata in acqua per salvare il tuo amico. Un gesto molto nobile, il tuo. - commentò l'uomo in tono casuale, come se stesse discutendo del tempo.
Airis spalancò gli occhi. Si sentiva ancora un po' intontita, ma ricordava perfettamente quello che era successo.
- Chi sei? - indagò cauta sforzandosi di restare aggrappata alla lucidità, nonostante la percepisse scivolare via pian piano, sempre di più.
Egli non rispose subito. Si avvicinò al focolare sotto la finestra dove sobbolliva una pentola e, dopo aver aggiunto un po' di legna, passò la mano sulle fiamme. Bastò quel semplice gesto perché queste si ravvivassero, alzandosi allegre fino a lambirgli le dita, senza però ustionarle. Airis lo fissò sbalordita mentre lui continuava a regolare il fuoco. Di spalle sembrava ancora più alto e slanciato di quanto le era parso all'inizio.
- Sei un mago? -
- Tra la tua gente forse mi chiamereste così, sebbene sia una definizione generica e imprecisa. -
Si voltò e la trafisse con uno sguardo penetrante. I suoi occhi erano ambrati, leggermente sporgenti, con la pupilla ridotta a una fessura nera. I capelli erano della stessa tonalità delle braci ardenti, un arancione vivo che sulla punta della lunga treccia sfumava in un giallo paglierino chiarissimo. Nascoste tra le ciocche chiare, intravide delle orecchie a punta grandi come quelle di un uomo, ma affusolate come quelle di un elfo.
- Non hai ancora risposto alla mia domanda. -
- Il mio nome è Urian, lupa rossa. Ti trovi tra quelli che sono noti come i Monti Neri, più precisamente nella mia casa. -
- E come fai a sapere cosa è successo? Perché ci hai salvati? Come hai fatto a... - la sua voce si spense e in un attimo la sua mente si perse nei ricordi della tempesta, della sensazione dell'acqua che le riempiva i polmoni, della paura di morire annegata in mezzo ai flutti violenti del mare.
Urian stirò le labbra in un mezzo sorriso: - So molte cose. Vedo e ho visto frammenti di ciò che fu e di ciò che sarà, anche se spesso non sono riuscito a interpretare il loro significato. -
- Sei un... veggente? Un oracolo? -
Urian annuì solenne. C'era così tanta convinzione in quel gesto che Airis si rese conto che non stava mentendo. Era assurdo, irragionevole e impossibile, ma, come la maggior parte delle cose che le erano successe negli ultimi anni, anche se stentava a crederci era reale.
“Ed è anche la meno strana di tutte.”
- Tu sei la lupa rossa che vedo fin da quando sono nato. - Urian prese il mestolo appeso alla parete sopra il tavolo e lo girò nella pentola appesa a un gancio di ferro sopra le fiamme del caminetto, - Sei sempre stata presente, anche se non ti sognavo tutte le notti. Mi sono chiesto se esistevi davvero e cosa significassi per me, se non fossi un crudele scherzo della mia mente, e sino ad oggi credevo che sarei morto senza capire. -
Airis non sapeva come rispondere, così preferì tacere e sfruttare la pausa per raccogliere le idee. Coprendosi il corpo nudo con il lenzuolo, si mise a sedere e gettò un'occhiata intorno. Si trovava in una stanza non molto grande, pervasa dal profumo degli incensi che bruciavano sui davanzali delle due finestre e dall'odore di minestra di verdure cotte. Il tavolo dove era stata appoggiata la sua spada era ingombro di erbe, libri e pergamene, mentre gli utensili da cucina, così come le pentole di rame, erano attaccati alla parete su dei semplici chiodi di bronzo. Una pelliccia di orso bruno fungeva da tappeto, con una zampa protesa verso di lei e l'altra verso la cassapanca alla sua destra.
- Ora, invece, cosa credi? - lo interrogò dopo un momento.
Urian riprese a girare la minestra, prima in un senso poi nell'altro. Si girò appena e fissò lo sguardo sulla porta socchiusa, quella che dava sull'interno della casa. Un respiro un poco più forte arrivò alle orecchie di Airis, seguito dal crepitio della paglia schiacciata.
- Vado a vedere come sta il tuo compagno. Anche lui avrà molte domande. -
Urian le passò accanto, uscì e sparì oltre la soglia. La guerriera lo seguì con lo sguardo e, quando fu lasciata sola, trasse un sospiro di sollievo. La presenza del veggente la metteva a disagio, anche se non sapeva spiegarsene il motivo.
La sala era calda e accogliente e la coperta la proteggeva dagli spifferi che si intrufolavano sotto le finestre. Si alzò dal pagliericcio e ispezionò l'ambiente con più attenzione ai dettagli. Dietro le file di libri e fogli che infestavano il tavolo scorse il profilo dello schienale di una sedia, sulla quale era stata piegata la sua tunica con la sua biancheria. Era leggermente umida e le maniche erano ancora bagnate, ma era sempre meglio che andarsene in giro nuda. Indossò sul torace la fascia per contenere il seno e la tirò finché non fu abbastanza stretta.
In quell'istante la porta cigolò alle sue spalle e Urian condusse Arghail verso il tavolo. Airis si riavvolse velocemente nella coperta, si scostò e gli porse la sedia, ma il suo compagno la rifiutò con un cenno. Aveva delle brutte occhiaie e il taglio aperto sulla guancia gli conferiva un'aria ancora più stanca.
- Non penso serva che ti chieda come ti senti. - gli disse con un sorriso tirato.
- Immaginate bene, Generale. - ridacchiò lui, senza che gli occhi si accendessero, - Vi... ti devo la vita, non so davvero come ringraziarti. -
- Siamo compagni d'armi, non potevo lasciarti morire. -
Arghail annuì e portò la mano al collo, alla ricerca della collana con l'anello. Quando le sue dita si strinsero sulla pelle, si morse le labbra con espressione contrita ed esalò un profondo sospiro carico di tristezza e rassegnazione.
- Dove siamo? -
- Sui Monti Neri. Sei caduto dalla nave e la lupa rossa si è buttata per salvarti. - spiegò rapidamente Urian.
- Sì, quello me lo ricordo, solo... - si interruppe e alzò lo sguardo sul veggente, poi lo spostò su Airis, - Una lupa rossa? -
- Ti spiego dopo. -
Arghail si massaggiò le tempie e strizzò gli occhi per scacciare l'emicrania. Indossava una cioppa di lana grigia con le maniche lunghe e abbastanza ampie, la quale metteva in mostra la tunica a collo alto dello stesso colore che sottolineava più del necessario il colorito pallido delle guance appena imporporate dal calore della stanza.
- Mi dispiace che tu abbia perso la collana. - mormorò Urian.
Arghail sussultò e lo fissò con tanto d'occhi.
- Tuttavia, non tutto ciò che è perduto lo rimane per sempre. - aggiunse il padrone di casa con un sorriso enigmatico.
Quindi prese tre ciotole dalla credenza e li servì con due mestoli di minestra a testa, prima di invitarli a sedere attorno al fuoco. Arghail esitò e lanciò un'occhiata dubbiosa ad Airis per vedere cosa avrebbe fatto, ma lei era più concentrata su un altro dettaglio: i cucchiai, come i chiodi alle pareti, erano di bronzo.
- Avete rischiato di morire nell'acqua gelida, dovete restare al caldo. - mentre parlava, Urian aveva già ingoiato la prima cucchiaiata, - Non c'è tempo per la diffidenza: per il viaggio che vi attende dovrete essere in forze. -
Arghail si accigliò e lo studiò con gli occhi ridotti a fessure: - Come fai a sapere che... -
- So molte cose, giovane aquila. Gli dei mi hanno maledetto rendendomi partecipe del destino del loro creato, così che io potessi essere la loro voce nel Mondo Nato dal Nulla. - sollevò appena il capo e guardò Arghail, - Ho sentito molte cose del cielo, altrettante della terra e forse di più dal Fanciullo, dalla morte. -
- Sei... una sorta di profeta? -
- Presumo siano queste le definizioni corrette. Per la mia gente ero di Darhaid, ma è passato molto tempo da quando ho smesso quelle vesti. -
- Perché non lo sei più? -
- La conoscenza riservata solo agli immortali è difficile da comprendere, a volte persino per gli stessi dei. E quando l'unica cosa che i secoli possono intaccare è la mente, quello che è un tempo era un leone diventa una fiera folle alla ricerca del conforto del Fanciullo. -
Arghail annuì cupo, e così anche Airis, sebbene non fosse convinta di aver capito davvero. La guerriera si sedette tra lui e Urian e si godette il sapore della minestra sul palato. I pezzi di carne avevano assunto il retrogusto dell'aglio e sulla lingua la cannella pizzicava appena, mitigata dal sapore dell'alloro. Airis divorò la sua porzione, incurante dei pezzetti d'aglio che le si infilavano tra i denti, mentre Arghail mangiò con calma, gustandosi ogni singolo boccone. Di tanto in tanto gettava delle occhiate a Urian, intercettando il suo sguardo imperturbabile, ma nessuno dei due aprì bocca se non per mangiare.
- Sei un Fae. - dichiarò Airis dopo interminabili minuti di silenzio.
Urian sospirò, posò la scodella di fianco e la spostò lontano. Le fiamme si riflettevano negli occhi ambrati e le loro ombre danzavano sul viso e sulla pelle del collo e delle mani, sottile come organza sulle vene in rilievo.
- Curiosa denominazione. L'avevo dimenticata. - sussurrò con un sorriso mesto, lo sguardo basso sulle mani intrecciate in grembo, - Fae, fate, popolo fatato... nomi generici, eppure molto più precisi di molti altri. Da cosa lo hai capito? -
- Non ho visto ferro nella tua casa. -
Urian abbozzò un sorriso compiaciuto e accarezzò una lingua di fuoco con la punta del dito.
- Sei un'attenta osservatrice, lupa rossa. -
- Perché ci chiami così? - intervenne Arghail, - Lei “lupa rossa”, io “giovane aquila”. Abbiamo dei nomi veri, sai? -
- Lo so, ma è meglio che io non li conosca. I nomi hanno molto potere. - Urian socchiuse le palpebre un momento e poi le riaprì, - Come stavo dicendo alla tua compagna prima che ti svegliassi, l'ho sempre sognata, sin da quando ho memoria, con le sembianze di una lupa rossa. Dapprima l'ho vista come una cucciola che viveva assieme ai suoi genitori in un branco di lonze. Poi i suoi occhi sono diventati bianchi e ha camminato dietro un altro lupo dal manto grigio, lasciandosi alle spalle la sua foresta in fiamme e il corpo di suo padre. -
Urian inclinò la testa verso di lei e Airis si impose di non distogliere lo sguardo. Poteva percepire gli occhi di Arghail sulla nuca e il suo desiderio di sapere, ma lo ignorò. Urian conosceva ogni cosa, lo sentiva, e il fatto che non ci fosse segreto di cui lui fosse all'oscuro le spaventava, la faceva sentire vulnerabile, scoperta, esposta.
- A un certo punto, per molti anni non ti ho più sognata. Alle volte ricomparivi in frammenti di visioni più leggeri di una piuma, ma la mattina seguente il sole e il vento li avevano già trasportati lontano. Ho tentato di richiamarti, di trattenerti, eppure non ci sono mai riuscito: era come fare il tiro alla fune con un gigante. Quando sei tornata, eri cambiata. I tuoi occhi avevano ripreso colore e ti accompagnavi a un corvo, mentre intorno a voi imperversava una tempesta di fuoco e fiamme di un bianco abbacinante, che inghiottiva ogni cosa a parte voi. - si interruppe e strinse nel pugno la cenere incandescente che si alzava verso l'alto, - Questo è solo uno dei sogni che ricordo. Altri, più di quanti vorrei ammettere, sono scivolati nell'oblio, incompleti e incompresi. L'ultimo è stato quello della notte scorsa, lo stesso che mi ha spinto a scendere fino alla spiaggia. -
Airis non ebbe il coraggio di parlare. Se anche prima poteva avere dei dubbi su chi o cosa fosse, ora aveva la certezza che Urian non le stava mentendo.
- E tu, giovane aquila. - disse rivolto ad Arghail, - Ti ho incontrato solo nel sogno di ieri. Il tuo passato mi è precluso e il tuo futuro... è una marea instabile, mutevole come il vento e capriccioso come una femmina. L'unica cosa che so e che mi è dato sapere è che sei importante. La chiave che apre la tua porta spalancherà pure quella su un nuovo mondo, se riuscirai a trovarla. - inclinò l'angolo della bocca in un sorriso stanco che gli adombrò lo sguardo invece di accenderglielo.
Arghail aprì la bocca per poi richiuderla senza proferire parola. La delusione era racchiusa nella smorfia assunta dalle labbra, nei pugni chiusi sulle ginocchia e nelle spalle basse. Airis gli si avvicinò e gli batté una pacca sulla schiena, e così rimase finché lui non trasse un profondo respiro e si raddrizzò.
- Cosa credi significhino i tuoi sogni? -
- Possono voler dire tante cose, tutto è il contrario di tutto e la logica collassa muta dinanzi a ciò che vedo. Quello che ho potuto scorgere mi ha riportato alla mente una delle antiche profezie della Volva. -
- La Volva? - ripeté con un misto di meraviglia e soggezione.
- Erano trentatré. Trentatré Veggenti scelte tra gli Alati, la stirpe creata da Yggrasil stesso. Esse, al Crepuscolo degli dei, riferirono il messaggio ai più degni tra tutte le razze create. Molti le trascrissero, altri si affidarono alla loro memoria, ma il tempo è tiranno e i libri, così come i ricordi, sono soggetti al suo imperituro scorrere. I più hanno dimenticato e pochi non ne conservano altro che frammenti senza senso. O se anche ce l'hanno, un senso, questo è completamente stravolto. -
- E tu, invece? La conosci? -
Urian scrutò Arghail di sottecchi e iniziò a recitare senza indugio.
- Ammantato delle tenebre degli Abissi,
il Protettore delle Profondità marcerà sul Mondo Nato dal Nulla,
portando con sé la Stirpe forgiata dal suo stesso sangue.
I Popoli prenderanno le armi e la Morte li divorerà.
Tempo di spade, vento di distruzione, fuoco e cenere,
s'infrangeranno scudi e si alzeranno grida.
Tempo di tempesta, tempo di gelo.
Gemerà il suolo al tonfo dei cadaveri
e il crepuscolo avvolgerà il Mondo al calar del centesimo inverno.
Sotto un unico stendardo i Popoli leveranno le armi al cielo
e riforgeranno i vincoli di sangue dimenticati.
Tempo di luce, vento di primavera, fuoco purificatore.
Splende, fulgida, Amarnwyn nella sinistra del Guardiano.
Davanti ai miei occhi si svolge il filo del Destino.
Feroce urla il Corvo dinanzi alle Schiere Oscure,
gracchia nei cieli del mondo alla ricerca del sangue perduto,
trama contro i figli di Yggrasil.
Dalle stelle del Nord, il sole arrossa la terra,
là dove Vita e Morte camminano fianco a fianco.
Nel tempo del lupo, la terra
si impregnerà di sangue innocente.
Il Guardiano spezzerà i lacci
per combattere la guerra del Mondo nato dal Nulla.
Arriverà alla fine dell'orizzonte, con la Morte come sua fedele compagna e seguace.
Sprofonderà nel cuore della terra, con la luce del Padre a fargli da guida.
Calcherà le Lande dei Primordi, con Amarnwyn e i figli di Yggrasil.
Allora il Protettore delle Profondità vestirà le carni del figlio del Corvo. -
Airis boccheggiò attonita.
“La stessa profezia che mi aveva riferito Cyril. Significa che è lei la Volva?”
Arghail ascoltò rapito la profezia e, quando Urian tacque, parve riscuotersi.
- Tu credi davvero che Airis abbia a che fare con... - si interruppe e una risata isterica gli fece tremare le labbra, - Tutto ciò non ha il benché minimo senso. -
- La realtà spesso non può essere misurata con un metro di giudizio umano, giovane aquila. - Urian incrociò le gambe e ravvivò le fiamme con un gesto della mano, - Ciò che io credo potrebbe corrispondere al falso può rivelarsi vero e viceversa. Non c'è certezza nell'interpretazione dei sogni, se non che essi sono eventi che saranno, furono o potrebbero essere. -
Arghail si passò una mano sulla faccia e sbuffò frustrato.
- Di' quello che devi dire, Urian. - lo esortò Airis.
Il Fae rimase per un po' in silenzio, abbastanza da farle credere d'averlo offeso per il tono brusco che aveva usato. Ma quando prese la parola, la sua voce era pacata e seria.
- Credo tu sia la Guardiana, colei che è stata scelta dagli dei per riportare l'equilibrio nel Mondo Nato dal Nulla. Il tempo è il tuo peggior nemico, più del Fanciullo che ti alita sul collo. Sei alla ricerca di Amarnwyn, la Forbice del cielo, e della grazia per la realtà contingente che non ti è più cara. Tuttavia, le uniche guide a cui ti puoi affidare sono te stessa e i consigli di coloro che furono prima di te. Quello che mi domando è se sei davvero degna di ricoprire questo ruolo dopo ciò che hai fatto. - concluse, trapassandola con un'occhiata talmente intensa da farla sentire nuda.
Airis si morse l'interno della guancia e istintivamente si portò una mano sul petto, all'altezza del cuore.
- Perché dovrei dimostrare a te di essere degna? Chi sei davvero? -
- Sono molte cose, a seconda di chi mi vede. Per te, lupa rossa, sono un giudice e la mia gente i testimoni. -
Arghail strinse i pugni, ma, prima che decidesse di compiere qualsiasi gesto avventato, Airis lo afferrò per la spalla. Il suo doveva essere un semplice ammonimento, eppure il suo compagno non riuscì nemmeno ad alzarsi. La squadrò stranito, guardando prima la mano e poi lei, e solo allora Airis si rese conto che lo stava tenendo fermo con solo la forza del braccio e senza alcuno sforzo. Lo ritrasse lentamente e si osservò la mano, aprendo e chiudendo le dita divenute fredde, come se il sangue fosse improvvisamente defluito.
- Cosa accadrà se non dovessi risultare degna? -
- Per valicare i Monti Neri ti servono provviste, delle cavalcature adatte e un consiglio sulla via da intraprendere. -
- Moriremo, quindi. - constatò Arghail con una smorfia, - Se secondo il tuo giudizio Airis non sarà degna, moriremo. -
Urian si alzò, prese la spada che era posata sul tavolo e la porse alla sua legittima proprietaria.
- Se non ce la facessi, il mondo come lo conosciamo finirà. - mormorò Airis.
- Vorrà dire che la Volva ha errato nella sua scelta e che quest'era di caos dovrà attendere la venuta di un altro Guardiano. - disse Urian con voce calma e al contempo gelida.
La guerriera non capiva come potesse rimanere così tranquillo. Strinse l'elsa della spada e la legò alla cintola, mentre Arghail l'affiancò.
- Arghail, ascolta, so che è difficile da credere e capire, ma... -
- Non ho detto che gli credo. Ciò che ci ha rivelato esula da ogni schema logico e io non penso di... potermi fidare. Ancora stento a credere che i Fae delle leggende siano creature realmente esistenti. - bisbigliò e lanciò un'occhiata di sottecchi alla porta, al di là della quale Urian era sparito, - Ma tu gli credi e io ho promesso di avere fiducia in te. Ti giuro qui e adesso che ti seguirò fino alla fine. Urian ha ragione: non posso misurare le tue motivazioni con il mio secchio, né giudicare secondo il mio parere, non finché il quadro non sarà completo. Fino ad allora rimarrò fedele alla mia parola. -
- Sei un uomo d'onore. -
- È una delle poche cose che posso dire di essere. -
Urian tornò qualche istante dopo con una pesante pelliccia di muflone. Quando la porse ad Arghail, questi invitò Airis a coprirsi, ma la guerriera rifiutò. Il capitano alzò entrambe le sopracciglia perplesso, per poi mettersela sulle spalle senza ulteriori insistenze.
Fuori l'aria era immobile e tirava un vento freddo che piegava i pochi steli d'erba sopravvissuti alle gelate. La luce era obliqua, opaca, fendeva il banco di nubi in lame sottili che non portavano alcun calore. Non c'erano molte case e i pochi Fae che incrociarono erano tutti imbacuccati come Arghail, anche se ce n'erano alcuni con gli stessi capelli e occhi di Urian che giravano a gambe scoperte.
Una donna teneva un falco grosso come un'aquila reale sull'avambraccio, una bestia dal piumaggio della testa nero con riflessi rossastri e il becco color ardesia arcuato, quasi affilato. Non appena le passarono accanto, ebbero addosso tre paia d'occhi, le due del rapace, grandi e scure come piccole biglie, e quelle della Fae, con un'iride grande e una pupilla così piccola da apparire come una fessura nel blu.
Urian la oltrepassò come se non l'avesse nemmeno notata e ignorò gli sguardi di tutti i Fae che erano all'esterno. Airis invece ricambiò ogni occhiata senza mai lasciarsi intimorire e, mentre avanzava, notò con un certo orgoglio che anche Arghail li fronteggiava senza paura.
Non erano molti quelli che giravano per il villaggio – perché quello era, un villaggio, con poche case di pietra con il tetto di legno intrecciato –, ma quei pochi che incontrarono sulla loro strada li scrutavano ostili, alcuni talvolta facevano addirittua schioccare i denti d'argento, sorridendo minacciosi.
Una ragazza che agli occhi di Airis doveva dimostrare sì e no quindici anni abbassò il capo e svanì in un turbinio di polvere e foglie secche; un bambino alto massimo quattro piedi, con i capelli ricci e il naso schiacciato, elargì loro un sorriso grifagno, anche lui scoprendo la dentatura argentata da squalo; un uomo con i capelli tagliati poco sopra le orecchie, ispidi come aghi di pino, e dagli occhi neri sprovvisti di iride li degnò appena di uno sguardo, prima di montare su quello che, di primo acchito, sembrava un cavallo dal collo tozzo come quello di un toro e gli zoccoli biforcati. Airis notò le piccole corna e la presenza di una coda canina. Nessuno però, nemmeno le tre donne con la coda serpentina che sibilarono loro contro, ebbe il coraggio di avvicinarsi. Bastava una semplice occhiata di Urian per rimettere in riga i più bellicosi.
Quando furono fuori dal villaggio, Arghail si abbandonò a un sospiro di sollievo e Airis allentò la presa sull'elsa della spada. Attraversarono lo spiazzo erboso che abbracciava il villaggio e si diressero verso est, inerpicandosi su un sentiero che si inoltrava in un bosco di larici. Il vento faceva stormire le fronde e trasportava con sé un profumo appena percepibile di salsedine, così tenue da sbiadire, sopraffatto dall'intensa e fresca fragranza del sottobosco, un misto di muschio, primule ed erica. Di tanto in tanto una marmotta o una faina tagliava la strada di corsa, andandosi a nascondere in un cespuglietto di mugo o in una tana scavata tra le radici di un albero.
Urian era l'apripista, camminava davanti con ampie falcate senza però distanziarli mai troppo. Li lasciava indietro quel che bastava per garantire loro un po' di intimità o, come Airis pensò, per metterli a loro agio e lasciar loro il tempo di pensare, oppure semplicemente per permettere alla calma naturale del bosco di permeare le loro menti e placare i loro animi.
Nel silenzio imperante, interrotto solo dai rumori degli animali o dal mormorio del vento tra gli alberi, Airis si sentiva in pace con se stessa, in comunione con la parte più profonda del suo essere, e anche Arghail le sembrava rilassato, l'inquietudine scacciata sia dal suo sguardo che dal suo corpo.
La vegetazione si diradò e il percorso uscì dal bosco, proseguì su un clivo ripido dove l'erba cresceva più rada e li condusse a fiancheggiare una parete rocciosa nera tra le cui fessure ondeggiavano delle campanule dai petali viola, i pistilli che brillavano come piccole gemme, ancora roridi di rugiada. Da quell'altezza si poteva vedere il villaggio e il bosco di larici che si estendeva a perdita d'occhi fino quasi alle pendici della montagna, una vastità verde che toglieva il fiato.
Urian non disse nulla, né su come dovessero muoversi né su dove dovessero mettere i piedi. Per lui era facile, avanzava con la familiarità di chi conosce e vive da anni in quei luoghi, senza mai esitare o fermarsi paralizzato dalla paura e dalla meraviglia. Airis e Arghail procedettero a tentoni, lentamente, affidandosi in tutto alla loro guida: si aggrappavano dove lui metteva le mani, schivavano le pietre che lui evitava e si appoggiavano a quelle che lui reputava sicure. Avevano entrambi le mani umide, ma il sudore sul viso e sul collo si asciugava in fretta grazie alle continue correnti che piegavano le saponarie e i crochi che spuntavano tra i massi, questi ultimi protesi verso il sole, quasi anelando, supplici, il calore di una primavera che tardava ad arrivare.
- Siamo arrivati. - li informò pacato Urian quando giunsero in cima.
Airis dovette fare appello a tutta la sua dignità e orgoglio per non lasciarsi cadere distesa sull'erba. Arghail azzardò qualche passo e poi si sedette su una roccia che spuntava in mezzo a una piccola foresta di romici e bucaneve, mentre Urian si spinse fino al centro del prato, nel mezzo di un cerchio di pietre nere, alte più di cinque piedi, attorno alle quali si erano radunati una decina di Fae. Airis riconobbe anche qualche viso e le venne spontaneo domandarsi come avessero fatto ad arrivare fin lì senza che lei se ne accorgesse.
“Magia, ovviamente.”
Urian le fece cenno di avvicinarsi. Airis lanciò un'ultima occhiata ad Arghail prima di avviarsi. Era già stata convocata in un luogo come quello, quando ancora non era un Cavaliere e la sua appartenenza all'esercito era opinabile. Quel giorno si era sentita come in quel momento, con il cuore leggero e un fuoco freddo che le serpeggiava nelle vene, rinforzando il suo coraggio e forgiando la sua determinazione. Quando oltrepassò il cerchio di pietre, il vento prese a soffiare più forte.
- Trentatré pietre, trentatré testimoni degli dei. Lei è colei che la Volva ha scelto, la nuova Guardiana. Quello che accadrà tra queste pietre è il volere dei nostri genitori. Se sarà degna, metteremo da parte le nostre divergenze con gli umani e l'aiuteremo nel suo compito; se dovesse fallire, allora lasceremo che siano le Montagne a emettere l'ultimo giudizio. - Urian aveva mantenuto lo stesso tono di voce, eppure nel silenzio quasi totale ad Airis era sembrato un leone, - Non dovrai dimostrare né la tua forza né il tuo acume, Guardiana. Sei stata chiamata a rimettere in equilibrio la bilancia del Caos e dell'Ordine. È questo il tuo fine ultimo, il risultato che dovrai perseguire a qualsiasi costo, qualunque sia il prezzo richiesto. -
Airis annuì. Gli altri Fae rimanevano fuori dal cerchio e lei era il fulcro della loro attenzione. Glielo poteva leggere in faccia che speravano nel suo fallimento.
“Bastardi.”
- Cosa devo fare per provarti che Cyril non ha sbagliato? -
Urian sollevò le sopracciglia e Airis si godette la ruga di sorpresa sulla fronte. Dopo un momento, il Fae tornò impassibile e riprese a parlare come se non gli avesse detto alcunché.
- Ti verrà posta una domanda e dalla tua risposta capirò se questo compito ti appartiene. -
Airis storse le labbra: - Pensi davvero di potermi giudicare da una risposta? -
- Le parole, lupa rossa, sono importanti. Talvolta immiseriscono quello che si cela nel cuore di un uomo, lo riducono a un cumulo di sillabe che si perdono nel vento; ci sono volte, però, che sono più potenti di qualsiasi magia o incantesimo, e anche un semplice “sì” può cambiare il mondo e dire molto di più di cento azioni. Un baro risponderebbe alla domanda senza ponderare il peso di quelle parole o carpirne il loro vero significato, l'essenza recondita che esse portano con sé. E avrebbe errato, perché non è ciò in cui crede davvero. -
Levò le braccia al cielo e una fiamma si generò tra le sue mani.
- Sei un politico e fai parte di un collegio di tuo pari. Il tuo paese è in guerra da molti anni con un altro, più forte e potente. Tuttavia, negli ultimi mesi il vostro esercito ha riportato diverse vittorie contro ogni pronostico. Il Consiglio deve decidere cosa fare. Da un lato, metà di esso, così come metà del tuo popolo, desidera la resa, che trasformerà il vostro uno stato vassallo. In questo caso, la guerra terminerà e gli uomini, ormai sfiancati dalle innumerevoli morti e battaglie, potranno tornare a casa dai loro familiari per arare la terra, rimpinguare la casse con il loro salario e rendere più florido il commercio ormai da anni stagnante. In più, dovrete rinunciare alla vostra religione, ai vostri costumi e alle vostre tradizioni e adottare quelle dello stato vincitore e, probabilmente, il Consiglio di cui tu fai parte verrà sciolto. Dall'altro lato, potete continuare la guerra, così come propone il tuo migliore amico. Egli desidera proseguire, anche se questo significa armare ancora una volta l'esercito e sacrificare la vita di molti uomini. Le casse dello stato sono sufficienti per fornire armi per una sola, ultima battaglia, quella che potrebbe decretare la fine o l'inizio di tutto. Se perderete, diventerete schiavi, se ne uscirete vincitori vi potrete arricchire, i vostri confini si estenderebbero fino al mare e potrete vantare una ricchezza capace di rivaleggiare con quella dei re delle leggende. Tu sei la piuma che potrà far pendere l'ago della bilancia dall'una o dall'altra parte: se deciderai di schierarti con chi desidera la pace, il tuo amico verrà avvelenato, così da stroncare gli animi degli altri avversari e raggiungere l'unanimità. Se invece parteggerai per lui, l'unica cosa di cui avrai la consapevolezza è che altro sangue verrà versato e, forse, inutilmente. -
Urian si zittì e fece un passo indietro, portandosi a ridosso del cerchio. Airis non lo perse di vista finché non si fermò, così vicino a una delle pietre che gli sarebbe bastato far ondeggiare la mano per toccarla.
Trasse un profondo respiro e rilassò le spalle, spostando lo sguardo sugli astanti e poi oltre, fino a trovare la rassicurante presenza del cielo. Il vento aveva sfilacciato le nubi, liberando il sole dalla sua prigionia coatta. Portava con sé il rombo attutito di una cascata e lo sciabordio placido di un corso d'acqua. Airis si riempì i polmoni di quell'aria fresca e chiuse gli occhi. I suoni della natura le colmarono la mente ancora una volta e misero a tacere ogni obiezione, ogni angoscia. Erano solo lei e il vuoto pieno della vita in attesa della primavera.
La risposta emerse con una limpidezza disarmante, si profilò davanti alle palpebre chiuse come se fosse sempre stata lì.
Puntò lo sguardo su Urian e poi lo passò su tutti gli altri membri della comunità Fae lì raccolti, per poi tornare sul Darhaid. L'ombra di un sorriso aleggiava sulle sue labbra.
- Combatterò. - dichiarò ad alta voce, sicura e ferma, - Combatterò perché un popolo senza più un passato smette d'esistere. Combatterò perché è giusto onorare il sacrificio dei caduti. Combatterò perché non possiamo permettere alla guerra di portarci via i valori che ci hanno resi uomini, perché una pace nata dalla resa incondizionata ci toglierebbe la libertà. -
- Anche se il risultato potrebbe essere una tragedia? -
- Ho smesso di aspettarmi certezze molti anni fa. - si mise una mano sul petto, sopra la cicatrice che l'aveva condannata, - Che debba vivere o che debba morire, mi prenderò le mie responsabilità, nel bene e nel male. -
Urian la fissò negli occhi con un'espressione imperscrutabile. Tutti attorno a loro trattenevano il respiro, anche la natura sembrava imprigionata in un momento di stasi. Quindi avanzò fino a lei e le posò una mano sulla spalla, esercitando pressione per farle capire di inginocchiarsi.
- Il volere degli dei è sancito. - decretò solenne, non appena Airis fu in ginocchio.
Tirò fuori dalla tasca un orecchino con la forma filiforme di un drago. Era di cristallo nero, con le squame disegnate su tutto il corpo e le ali appena aperte, come se si fosse appena svegliato. Glielo accostò all'orecchio e, senza alcun preavviso, cacciò dentro il primo ago nel lobo e il secondo nell'elice.
Airis inghiottì un urlo e si schiacciò la mano contro l'orecchio, ma Urian l'allontanò con una manata.
- A... a che cosa serve? -
- Avevo sognato una lupa dal manto rosso che, in compagnia di una giovane aquila, valicava i Monti Neri. - le disse, ignorando il suo commento, la voce sempre calma e controllata, - Alle sue spalle il Fanciullo raccoglieva le farfalle danzando tra le macerie, mentre davanti a lei il buio ingoiava la luce e il Protettore delle Profondità banchettava con il cuore del Corvo. -
Prese la parte restante della coda del drago e la infilò nell'ago sul lobo, per poi assicurare la parte superiore con una rotellina.
- Ledah... Ledah non ce la farà? È questo che mi stai dicendo? - domandò col cuore in gola.
- Le scelte hanno un peso sull'avvenire, lupa rossa: ne basta una a volte per cambiare il futuro che sarebbe potuto accadere domani. -
Airis aprì la bocca per chiedere ancora, ma Urian si era già girato.
- Fornite alle Guardiana e al suo compagno tutto quello che sarà necessario per il viaggio. - disse oltrepassando il cerchio di pietre e si rivolse alla donna che era sparita non appena li aveva visti, - Porta il mio messaggio agli altri membri del villaggio e fa sì che la voce si sparga. -
- Volete davvero aiutare un'umana? Dopo tutto quello che ci hanno fatto passare, come potete... -
Urian mise a tacere il Fae che aveva parlato con un gesto imperioso della mano. Era un uomo alto e grosso, dagli occhi felini, la mascella volitiva e le spalle larghe.
- Gli dei non sbagliano mai, Morel. - sibilò Urian e l'occhiata gelida che gli scoccò lo costrinse ad abbassare la testa, - Ora va' e riportali al villaggio. -
- Sì, Darhaid. -
Non appena Urian si allontanò, il Fae fece come gli aveva ordinato. Arghail si era accostato ad Airis e le aveva stretto la spalla con un sorriso trionfante che le scaldò il cuore. L'abbracciò, incurante dell'improvvisa rigidità della sua compagna.
- Lo sapevo che ce l'avresti fatta. - le sussurrò.
- Sì... sì, va bene, ma ora lasciami. -
Il soldato scoppiò a ridere e si allontanò, le mani alzate in segno di resa. Sorrideva scanzonato e, sebbene nei suoi occhi fosse rimasta un'ombra di inquietudine, la tensione aveva abbandonato il suo corpo.
Quando il Fae fu abbastanza vicino, il vento turbinò intorno ai loro corpi sempre più in fretta, alzando foglie, strappando steli d'erba e alcuni sassolini. L'aria prese forma in un cornice rettangolare fumosa, quasi tangibile. All'interno vi era una fitta foschia, al di là della quale non si vedeva nulla.
Airis deglutì, la pelle leggermente imperlata di sudore, ma non fece in tempo a fare o dire nulla che il Fae la spinse all'interno. Si ritrovò al villaggio, davanti alla porta di Urian. Con le gambe che le tremavano, si dovette appoggiare al muro prima di vomitare tutto quello che aveva nello stomaco. Una parte schizzò sulla pietra, ma la maggior parte le imbrattò i piedi.
- Airis, cos'hai? -
Arghail corse verso di lei e fece passare il braccio sotto l'ascella per sostenerla. La guerriera aveva la bocca impastata e il sapore rancido della bile sulla lingua. Era così forte che vomitò di nuovo, stavolta con un po' più di contegno.
- È refrattaria alla magia. -
Urian comparve alle loro spalle in un vortice di cenere accesa, al suo fianco una donna con i capelli così chiari e sottili sa sembrare trasparenti. Anche quelli del Fae che li aveva riportati lì, osservò Airis, erano così.
- È una storia lunga. - rispose quando ebbe ripreso fiato, - Ora dateci quello che ci serve e lasciateci andare. -
- Ho già dato disposizioni in merito. Entro un paio d'ore sarà tutto pronto. -
Urian passò loro accanto, scostò la pozza di vomito e aprì la porta, lasciandola aperta. Arghail, sempre sorreggendola, la portò dentro e la fece sedere sul pagliericcio.
- Hai molti più segreti di quelli che pensassi. -
Airis appoggiò i gomiti sulle ginocchia, lasciando le mani a penzoloni. Sentiva ancora un fastidioso malessere in fondo allo stomaco, ma era abbastanza sicura di essersi svuotata del tutto.
- Solo un po' più degli altri. -
- Già. - ridacchiò l'amico e si sedette anche lui, - Non avevo mai sentito dell'esistenza di un'allergia simile. -
- Sono l'eroina di un'epopea epica... dovevo pur avere qualcosa di speciale, no? -
Arghail rise di nuovo.
- Lassilsan aveva un'ascia capace di spaccare le montagne, Chanim era in grado di parlare con gli animali e la grande Airis, Cavaliere del Lupo, grande Generale dell'esercito umano vomitava al primo sentore magico. -
- Almeno sono originale. - lo rimbeccò.
- Questo non si può negare. Potrò sapere qualcosa di più sulla mia misteriosa compagna di viaggio prima di imbarcarci nella nostra missione? -
Airis esitò prima di rispondere. La sua testa era altrove, concentrata su ciò che Urian le aveva detto, l'ultima frase che le aveva rivolto prima di abbandonare le Pietre Giudici. E il suo pensiero volò a Ledah, alla promessa che si erano fatti prima di dividersi a Luthien, e poi alle parole di Hallende, così simili a quelle di Davsten. Forse era davvero il momento di cominciare a ricambiare la fiducia che tante persone avevano riposto in lei.
- Un giorno. - sospirò con un sorriso mesto, guardandolo di sbieco, - Un giorno ti dirò tutto. -
Arghail assentì e si alzò, scrollandosi la polvere dalla cioppa.
- Tu riposa pure, ti sveglierò quando dovremo partire. -
Per la terza volta nella sua vita, Airis sentì di poter dormire sonni tranquilli. E così fece.

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Capitolo 16
*** Viaggio ***


Fuoco 2

15

Viaggio

Partirono poche ore dopo, non appena i Fae ebbero loro consegnato i viveri essenziali. Diedero loro anche quelle strane cavalcature che avevano visto prima di ascendere alle Pietre Giudici. Si chiamavano Gedharvha e, oltre ad avere gli zoccoli biforcuti, avevano le zampe striate e un pelo lucido come quello di un cane. Quando Arghail allungò la mano per accarezzare il suo esemplare, l'animale alzò il muso tozzo per andare incontro al suo palmo, emettendo un verso simile alle fusa di un gatto. Erano stati sellati con delle selle dall'arcione alto e le sacche con tutti gli alimenti per la loro sopravvivenza erano fissate a questa con delle corde molto spesse.
Prima di muoversi, Urian si avvicinò. Indossava gli stessi abiti di quella mattina e sul suo viso permaneva la solita espressione impassibile. Offrì ad Airis un sacchetto di cuoio chiuso da legacci.
- Che cos'è? -
- Varie erbe. Il cibo che vi abbiamo fornito è sufficiente per una settimana, il tempo necessario per valicare i Monti, ma qualora vi ritrovaste senza, dovrete fare attenzione a ciò che prendete: sia gli animali che le piante che crescono qui possono essere letali. -
- Tendi a sopravvalutare le mie capacità, Urian. Sono un soldato, non una cerusica. Anche volendo, non saprei distinguere il rosmarino dalla menta. -
- Non serve che sia tu a conoscerle. -
- Cosa intendi? -
Il Fae non rispose e Airis capì che, anche se avesse aspettato, non avrebbe ricevuto altro che silenzio. Accettò il sacchetto e lo infilò nella tasca all'interno della giornea.
- Grazie per tutto quello che hai fatto. -
- Non ringraziarmi, giovane lupa. Non ci sarà clemenza nella vita che ti attende. -
Le lanciò un'ultima occhiata, poi le diede le spalle e allontanarsi verso la sua casa. Airis lo seguì con lo sguardo finché la sua testa fulva non sparì al di là della porta. Anche gli altri Fae fluirono via, ognuno tornando alle proprie faccende.
Airis spronò il Gedharvha e raggiunse Arghail, che l'attendeva sul limitare del villaggio, la mappa che Urian aveva loro prestato già srotolata e un'ascia avvolta in stracci legata alla cintola con delle corde. Anche Airis aveva fatto lo stesso e aveva rinunciato al fodero, assicurando la spada attraverso una serie di nodi attorno alla guardia: faceva troppo freddo e non voleva correre il rischio che la spada rimanesse incastrata per la brina. Quando lo raggiunse, Arghail rimise la mappa nel portapergamene e le fece cenno di seguirlo.
L'ora di pranzo era passata da un pezzo e il vento aveva dissipato il muro di nubi, liberando il cielo e il sole. Non seguirono il percorso della mattina, ma ne intrapresero uno che si inoltrava verso ovest nel bosco di larici. Era una stradina sterrata, una scia appena segnata, nascosta in mezzo al fogliame e ai bassi arbusti, che però i Gedharvha sembravano conoscere molto bene. Avanzarono risoluti, con la testa alta, quasi non sentissero il peso delle borse ai fianchi, fermandosi solo di tanto in tanto per brucare qualche mirtillo. Ne erano così golosi che a un certo punto sia Airis che Arghail dovettero tirare le briglie per impedire loro di deviare dal percorso.
Dopo circa un paio d'ore, il sentiero divenne più impervio e il pendio, dapprima appena accennato, divenne una vera e propria salita. I larici lasciarono il passo a un bosco di cirmoli dal tronco nero e le foglie rosse, così alti da dare l'impressione di toccare il cielo con le loro fronde. Regnava un profondo silenzio e i passi dei Gedharvha erano l'unico disturbo nell'aria permeata dal profumo di fresco e resina.
- Li hai mai visti? - domandò Airis.
- Ne ho solo sentito parlare da Hallende. Nella sua lingua non so pronunciare il loro nome, ma da come me li ha descritti dovrebbero essere gli Alberi Guerrieri. -
- Un nome alquanto inusuale. -
- Deriva da una leggenda. Si dice che un vecchio cavaliere, sopravvissuto al tempo e ai suoi stessi figli, abbia deciso di suicidarsi per permettere al suo albero avvizzito di tornare a fiorire. È il motivo per cui sia le sue foglie che i suoi fiori sono dello stesso colore del sangue. -
Airis inarcò un sopracciglio e Arghail scoppiò a ridere.
- Lo so, è una leggenda molto macabra. -
- Doveva tenerci davvero molto per compiere un gesto così estremo. -
Arghail fece spallucce, strinse appena le briglie e accarezzò meditabondo la corta criniera del Gedharvha: - Il paese da cui viene Hallende ha delle usanze diverse dalle nostre. Alcune ai nostri occhi possono sembrare molto bizzarre. -
- Ci sei mai stato? -
- No, ciò che so me lo ha raccontato lei. -
- Siete... molto legati. - commentò cauta Airis.
Non sapeva nulla di lui, a parte le poche informazioni che era riuscita a scucirgli durante il primo giorno di traversata a bordo della Signora dei Mari. Era come viaggiare con uno sconosciuto, per certi versi. Forse, si disse, se avesse saputo qualcosa di più avrebbero potuto... essere amici? Meglio di no, tutti quelli con cui instaurava un legame rischiavano di finire nella tomba prematuramente.
- Sì, in passato. -
- A me sembra che lo siate ancora. -
- Era diverso, molto più profondo, se così si può dire. - si strofinò il collo, proprio all'altezza del tatuaggio che condivideva con Hallende, la farfalla posata su una stella, - Ho commesso troppi errori per pensare che sia rimasto uguale dopo tutti questi anni. -
- È per quello che è successo a sua sorella? - azzardò Airis.
Arghail corrugò le sopracciglia e la fissò perplesso. Dopo qualche secondo storse le labbra in una smorfia amara e scosse la testa.
- Sua sorella, è così che ti ha detto. -
- Mi dispiace, non volevo essere indiscreta. -
Il capitano le fece cenno con la mano di non preoccuparsi. L'ombra che gli aveva attraversato lo sguardo però era ancora lì e fagocitava la poca luce che filtrava tra le fronde degli alberi, trasformando l'indaco delle iridi in un viola scuro, tetro.
- Meglio che aumentiamo il passo o il temporale ci raggiungerà prima di sera. - sospirò e spronò il Gedharvha.
L'animale sbuffò risentito per quell'improvviso cambiamento di andatura, ma obbedì. Airis lasciò che la sorpassasse finché non arrivò al limite del suo campo visivo. Quando la nebbia l'ebbe quasi inghiottito, affrettò il passo.
Gli Alberi Guerrieri li circondavano come sentinelle e le ombre dei tronchi e dei rami si protendevano su di loro, simili a fauci pronte a ghermirli non appena avessero abbassato la guardia. La nebbia era sottile come un foglio di carta bagnata e si sfilacciava in lembi più o meno fitti, serpeggiando nel sottobosco e innalzandosi fino ai primi rami. Il vento faceva stormire le cime e produceva un rumore frusciante a raso terra, tra le ortiche e rododendri che sbucavano di poco dal suolo.
Airis non faceva altro che guardarsi intorno, la mano sempre vicino all'impugnatura della spada. Aveva la sensazione di non essere la benvenuta e il rosso intenso delle foglie degli Alberi Guerrieri rinforzava quella convinzione, la definiva nei contorni della certezza e la rendeva nervosa. Quando Arghail afferrò la sua ascia, anche Airis fece lo stesso e si portò al suo fianco, assottigliando lo sguardo alla ricerca della minaccia che l'aveva messo in allarme. La foresta rispose con uno sprezzante silenzio. La guerriera scosse la testa e masticò un'imprecazione. Era il luogo a suggestionarla e la stanchezza non aiutava.
- Troviamo un posto dove passare la notte. - suggerì e Arghail assentì.
Il ruggito lontano di un tuono fece tremare l'aria immobile.
- Sì, e anche in fretta. -
Arghail si inoltrò nel bosco e su ogni albero incise una X con la lama dell'ascia.
Quando le prime gocce di pioggia cominciarono a picchiettare sul terreno, avvistarono la tana di un animale, abbastanza grande per entrambi. Il terreno in quel punto cedeva in un dislivello di un paio di braccia e l'albero su cui sorgeva era inclinato così tanto che le radici, emerse dalla terra, parevano dita adunche aggrappate ai sassi e ai ciuffi d'erba.
Airis smontò e si avvicinò per controllare. La luce le venne fornita da un fulmine che esplose sopra le loro teste, spaventando uno scoiattolo e i suoi cuccioli, rannicchiati gli uni contro gli altri per proteggersi dal freddo. Non appena la videro, la fissarono per qualche istante e al successivo tuono scattarono fuori e sparirono veloci nel sottobosco.
- Non abbiamo di meglio per stanotte, dovremo accontentarci. -
- Ho dormito in posti peggiori. - rispose Arghail con ironia e abbozzò un sorriso che contagiò anche Airis.
I due Ghedharvha opposero resistenza quando provarono a tirarli all'interno. Strattonarono le redini con forza, sbattendo gli zoccoli a terra con gli occhi fiammeggianti. Nemmeno i tuoni e la pioggia battente sembravano convincerli.
All'ennesimo tentativo fallito, con i capelli che gli gocciolavano sugli occhi, Arghail porse le redini ad Airis.
- Dove stai andando? -
- Fidati di me. -
Le fece l'occhiolino e lei lo osservò finché il tramestio della pioggia non coprì quello dei suoi passi.
“Almeno la nebbia si è diradata...”
Il suo Ghedharvha aveva gli occhi piccoli e le ciglia corte e curve, simili a quelle di una mucca. Dalle narici emetteva delle nuvolette di vapore che si dissolvevano nella pioggia. La fissava con curiosità frammista a una palese irritazione, resa ancora più evidente dalle froge dilatate e i muscoli del collo tesi sotto la pelliccia bagnata.
- Sei proprio una bastian contraria. - Airis la tenne per la cavezza senza alcuno sforzo quando l'animale scosse la testa, - E non credere che ti lasci andare in giro per questi monti sotto la pioggia, sappilo. Mi servi per arrivare sana e salva a casa e no, non puoi rimanere qui fuori a infreddolirti tutta. -
L'animale sbruffò, trafiggendola con un'occhiata infastidita, mentre il suo compagno si era chinato per brucare l'erba, incurante del conflitto in corso.
- Sei una bestia intelligente, non capisco per quale motivo devi essere così intrattabile. -
- Perché ha paura del buio, come molti animali. -
Arghail spuntò da dietro un cespuglio. Era bagnato fradicio e i vestiti di panno pesante gli si erano attaccati alle spalle e alle braccia come una seconda pelle. In mano aveva alcune bacche di mirtillo e foglie di rododendro. Non appena anche gli animali si accorsero della sua presenza e lui fu abbastanza vicino, protesero i musi per afferrare le bacche. Airis li vide rilassarsi sotto le carezze del capitano mentre banchettavano.
- Se vi infilate lì sotto, dopo cena ve ne vado a prendere altre. - si offrì e si pulì le mani sui calzoni, gli occhi che passavano da un Ghedharvha all'altro.
Arghail sbatté le palpebre un paio di volte e fece un passo indietro. I due Ghedhravha si piegarono sulle zampe e si infilarono nella tana.
- Come... che cosa hai fatto? -
Il capitano la fissò trasecolato e poi aggrottò le sopracciglia. Il sorriso che le rivolse era pallido come il suo volto.
- Nulla, ho solo pensato che, somigliando a dei cavalli, potesse bastare dar loro quello che desideravano. E ora conviene anche a noi ripararci o rischiamo di ammalarci. - disse, poi si inginocchiò e avanzò nell'oscurità prima che Airis potesse chiedere ulteriori spiegazioni.
La tana era più larga che profonda di quanto sembrava dall'esterno ed era invasa dalle erbacce e dalla mobilia dei suoi precedenti ospiti: un letto di foglie marce, diversi segni di graffi sul terreno e varie ossa sparse un po' ovunque, piccole e sottili come quelle di un coniglio. Il soffitto era abbastanza alto per permettere a entrambi di muoversi con sufficiente facilità, sebbene dovessero tenere la testa bassa.
Fecero ordine come poterono, addossando alla parete in fondo tutta la sporcizia, per poi prendere il cibo dalle borse appese ai Ghedharvha. Mangiarono delle strisce di carne secca, accompagnata con del pane di segale e alcune nocciole. Si spartirono equamente la loro parte e si strinsero alle loro cavalcature, che già sonnecchiavano. Il vino che avevano mischiato con l'acqua era di pessima qualità e il sapore di tappo pungeva la lingua, ma bastava a scaldare le mani e i piedi intorpiditi dal freddo e dall'umidità.
Airis teneva il capo contro la parete di terra, il braccio destro disteso sul ginocchio piegato e le spalle morbide. Non si sentiva stanca, non quanto immaginava. La sua mente era sveglia, concentrata assieme ai suoi sensi verso l'esterno. La pioggia ticchettava sulle foglie e sul terreno fradicio, mettendo le ali ai piedi ai pochi animali che non avevano avuto la celerità o l'accortezza di correre al riparo quando c'erano state le avvisaglie del temporale.
“Domani sarà difficile proseguire.”
Anche se i Ghedharvha erano abituati a procedere su quei sentieri accidentati, non era sicuro mantenere un passo troppo sostenuto col terreno molle. Avrebbero dovuto continuare con più cautela, prestando attenzione a più dettagli, in una foresta sconosciuta. La loro unica guida era costituita da un pezzo di pergamena e dal loro buon senso: perdere l'uno o l'altro significava morire o, ancora peggio, non arrivare in tempo per interrompere il rituale.
- Troveremo un modo, tranquilla. - disse Arghail, sedendo vicino a lei, spalla a spalla.
I suoi abiti erano bagnati tanto quanto quelli di Airis, ma il calore che lasciavano filtrare era piacevole e la calmava.
- Riusciremo ad arrivare sani e salvi e al momento giusto. - aggiunse con più determinazione, - Abbi fiducia, ce la possiamo fare. Io ne ho passate di peggio, tu anche e non sarà di certo un temporale a fermarci. -
- A rallentarci sì, però. -
- Ce la faremo lo stesso. Sei un Generale, non puoi essere così pessimista, sennò abbatti il morale dei tuoi uomini. -
- Direi che realista mi si addice di più. -
- Questo tuo realismo non contribuisce alla riuscita dell'impresa. - si girò a guardarla e stirò le labbra in un sorriso stanco, - Non vedere tutto nero, Airis. Vedrai che ce la caveremo. -
La guerriera sospirò. L'angoscia le rimestava le viscere, affondava i suoi artigli e li faceva a brandelli ogni volta che si fermavano a riposare. La mente correva frenetica, una lepre e un lupo al tempo stesso, preda e predatore di se stessa e delle sue paure. C'erano troppe cose da giostrare, troppi problemi a cui pensare, eppure se voleva essere libera doveva trovare un modo per risolverli tutti. Aveva l'occasione di aggiustare le cose e consegnare il mondo a persone che l'avrebbero reso migliore. Hallende, Arghail, Melwen, Zefiro, Myria, tutti loro avevano il diritto di vivere.
“Anche Ledah. Soprattutto Ledah.”
- A chi stai pensando? -
Arghail aveva appoggiato la testa vicino alla sua e la fissava di sbieco, con la sola coda dell'occhio. Non c'era durezza nella sua voce, solo una curiosità appena venata da una saputa conoscenza, come quella di un amico con il quale è impossibile avere dei segreti. Airis rimase paralizzata dentro di sé: avrebbe voluto scaricare quel fardello, avere una persona al mondo che sapesse tutto quello che aveva fatto, tutto quello che era e le sarebbe piaciuto essere. Tuttavia, quel qualcuno non poteva essere Arghail.
- Ledah. - mormorò.
- L'elfo che devi salvare, giusto? -
Airis annuì.
- È importante per te. -
- Lo è per tutta Esperya, per capire... -
- Sì, ma al di là di questo, ha fatto molto per te, come tu per lui. Siete compagni. - sbadigliò e allungò le gambe, - E i compagni non si abbandonano mai. -
- Non ritorcermi contro le mie stesse parole, soldato. - borbottò Airis, senza riuscire a nascondere un piccolo sorriso.
- Solo ciò che mi colpisce particolarmente. - Arghail ridacchiò e si lasciò scivolare lungo la parete, fino a rannicchiarsi contro di essa, - Svegliami tra un paio d'ore, ti do il cambio per la guardia. -
Airis assentì e si avvolse nella cappa fino alla cintola, come aveva fatto Arghail. Accompagnata dal leggero russare del suo compagno, si concesse di ripensare alla festa di Luthien, quando aveva danzato tra le braccia di Ledah.
 
Il secondo giorno si misero in marcia alle prime luci dell'alba. Airis aveva preferito lasciar dormire Arghail e aveva montato la guardia da sola. Non si sentiva molto assonnata, le palpebre erano solo un po' più pesanti, come se la sera prima avesse bevuto più del normale.
- Avrei dovuto darti il cambio. - l'aveva rimproverata Arghail mentre facevano colazione, - Essere una Guardiana non ti esenta dal dormire. -
- Dormirò in sella, tanto ci sono abituata. -
Non era vero, aveva sempre faticato a riposare in groppa a un cavallo, ma era mattina presto e non aveva la forza mentale per sostenere una discussione.
I Ghedharvha furono ben contenti di riprendere il viaggio. Non appena avevano visto i loro cavalieri uscire per sgranchirsi le gambe, li avevano seguiti quasi trotterellando, per poi brucare un po' d'erba. Quando Arghail offrì loro alcune bacche di mirtillo, sollevarono immediatamente la testa e gli si avvicinarono per mangiare direttamente dalle sue mani.
La pioggia aveva reso il terreno morbido e scivoloso, tant'è che i Ghedharvha stessi procedevano con cautela. I loro zoccoli erano adatti per fare presa sulle rocce e, appesantiti com'erano, dovevano prestare molta attenzione.
La nebbia, simile a spuma del mare, aleggiava nell'aria, lambendo i rami più bassi degli Alberi Guerrieri con lo stesso tocco gentile delle rosee dita dell'alba. La foresta era silenziosa, la maggior parte degli animali stava ancora riposando. Da lontano si udiva il chiacchiericcio di una capinera e il canto flautato e più basso di un merlo. Era una melodia piacevole, che rompeva il silenzio e svegliava la mente assonnata di Airis.
Fecero poche deviazioni e si fermarono solo per sgranchire le gambe e per lavarsi. Il riflesso del sole sulla superficie del laghetto aveva destato l'attenzione di Arghail, che aveva fatto fermare gli animali e li aveva condotti fino alla polla. Due stambecchi si stavano abbeverando e un altro si stava appropinquando dalla foresta. Non appena li videro, scapparono via a rifugiarsi nella copertura data dagli alberi. Sulla superficie galleggiavano le foglie degli Alberi Guerrieri, aghi lunghi e rossi.
Airis si inginocchiò e si lavò la faccia con l'acqua gelida fino a quando non dovette strofinarsi le mani intorpidite dal freddo, mentre Arghail si occupò di riempire gli otri. Quando tornò in sella, si sentiva finalmente sveglia.
Dopo mezzogiorno si lasciarono alle spalle la foresta e assieme ad essa la sensazione di spaesamento. Gli alberi divennero sempre più radi e alla fine scomparvero del tutto, cedendo il passo a un paesaggio roccioso, con il sole che illuminava ogni cosa. La neve a quell'altitudine non si era ancora sciolta, cumuli bianchi barbagliavano ai lati del sentiero, abbacinanti nel loro candore che rievocava l'inverno appena passato. L'aria era rarefatta e fredda, sfrigolava sulla pelle e penetrava attraverso i pori come centinaia di piccoli aghi che affondavano sempre più a ogni alito di vento.
Arghail si fermò per controllare la direzione sulla mappa e fece un cenno di assenso ad Airis, indirizzandola verso una strada nascosta dalle rocce nere che declinava fino a costeggiare una parete a strapiombo sul vuoto. Non c'erano anelli a cui assicurarsi, né tanto meno appigli a cui aggrapparsi se fossero caduti. Era simile alla strada che Urian aveva scelto il giorno prima. Airis si chiese se anche quella segnata sulla mappa non servisse a metterla alla prova. Quando incrociò lo sguardo di Arghail, intuì che anche lui stava pensando la stessa cosa.
I Ghedharvha si misero in fila indiana e avanzarono lentamente, gli zoccoli che facevano presa sulle rocce con facilità.
Airis fissava la schiena del suo compagno. Lo vedeva rigido in sella e anche lui guardava ostinatamene davanti a sé, come se non avesse il piede a penzoloni sul vuoto. Il vento gli faceva turbinare i capelli, strappava ciuffi dalla mezza coda e faceva turbinare le ciocche biondo-rossicce sulle spalle.
- Soffri di vertigini? - gli chiese curiosa.
- Hai scoperto uno dei miei punti deboli. -
- Non hai fatto molto per nasconderlo. -
La risata che proruppe dalla bocca di Arghail era venata di nervosismo.
- È più semplice essere coraggiosi se non si è l'apripista. -
Si fermarono altre due volte prima di decidere di accamparsi. Il buio stava calando e il sole retrocesse abbandonando il palcoscenico del cielo alla sua sorella e amante luna. Trovarono riparo in una grotta che si protendeva nel ventre della montagna, così profonda da non vederne la fine. Stavolta i due Ghedharvha non si opposero e si lasciarono condurre all'interno, stendendosi vicino al fuoco che Airis aveva acceso per riscaldarsi. Non si lamentarono nemmeno quando Arghail ed Airis si accoccolarono con il viso contro il loro ventre, continuando a masticare il pezzo di pane che avevano loro offerto per non tenerli a digiuno.
- Vai a dormire, sarai stravolta. Non hai mai chiuso occhio. - disse Arghail, già sistemato con l'ascia a portata di mano.
Era pallido e la stanchezza era evidente sul suo viso, ma Airis sapeva che avrebbe insistito finché non avesse ceduto. Gli diede le spalle e si tirò le gambe al petto, sistemando la spada vicino al fuoco.
- Domani voglio sapere come hai fatto a domare queste teste dure. - mugugnò.
- Non è così importante. - rispose Arghail dopo un attimo di esitazione.
- Questo lascialo giudicare a me. -
- È un ordine? -
- No, solo mi piacerebbe sapere qualcosa di più su di te. Non mi piace viaggiare con un quasi sconosciuto. -
- La pensiamo allo stesso modo, allora. - un fruscio fece capire ad Airis che aveva allungato le gambe, - Poi non dire che era una storia noiosa, io ti avevo avvertito. -
La guerriera rimase sveglia ad ascoltare il proprio respiro e quello del suo compagno, le mente impigliata in una ragnatela di domande senza risposta. Chi era davvero Arghail e che ruolo avrebbe giocato in quella partita? Era davvero lui il prossimo re di Esperya? Perché Urian lo aveva visto sotto le sembianze di una giovane aquila? Quel dettaglio le sembrava importante, ma, come per la profezia, non riusciva a coglierne il vero valore.
Prima di addormentarsi captò un suono lontano. Il vento era teso e all'inizio credette di aver sentito male. Ma poi il rumore continuò, riecheggiò sopraffacendo l'ululato delle raffiche. Un boato potente, simile al suono di una tromba.
 
Il giorno successivo ripresero la loro marcia che il sole era già sorto. Arghail l'aveva svegliata per il turno di guardia e si erano alternati finché Airis non lo aveva svegliato per fare colazione. Il pane era così freddo che dovettero ravvivare la brace per farlo sciogliere.
Il sentiero sulla mappa scendeva di un paio di metri e poi riprendeva a salire verso un'altra cima che, a prima vista, sembrava un poco più bassa di quella da cui provenivano. Varie chiazze di neve ne sporcavano i crinali e la punta era ricoperta da un cappuccio bianco latte simile alla glassa di una torta per quanto era compatto.
- Hai sentito il boato ieri notte? - le domandò Arghail.
- Sì, anche se era lontano. Hai idea di cosa potesse essere? -
- Non ne ho idea, ma credo lo scopriremo presto. - indicò la montagna e rinserrò la presa sull'ascia appesa alla cintola.
Si inerpicarono per un sentiero costeggiato da licheni e rocce nere colonizzate da muschi ed epatiche, per poi ridiscendere ancora di quota, fino a una foresta di abeti bianchi retrostante una vallata, dove pascolavano quelle che parevano delle alci. Soltanto quando si trovarono a percorrere una lingua di terra che passava propria sopra il prato, Airis si avvide che erano tutto fuorché alci. Avevano il collo più lungo e meno tozzo e un palco di corna ossee orlate che fuoriuscivano dal centro del muso corto e carnoso, con una barba di un marrone più scuro della pelliccia che ricopriva il petto e la gobba a ridosso della testa. La guerriera notò che diversi esemplari possedevano un ulteriore paio di corna, più piccole delle altre, simili a quelle di un cervo ma ribaltate, rivolte verso la bocca.
- Sono... giganteschi. - commentò meravigliata e fece fermare il Ghedharvha dove il sentiero si allargava.
- Adesso sappiamo chi ci ha svegliato ieri notte. - rise Arghail, affiancandola, - Ammetto di non averne riconosciuto il verso, ma credo si tratti di Ailanti. -
- Li avevo solo sentiti nominare, non credevo nemmeno potessero esistere delle bestie così grosse. -
- Dopo aver visto i Lycos ti stupisci ancora? Sei una donna facilmente impressionabile. -
Airis gli rivolse un'occhiata truce e tornò a guardare il branco. Erano una quindicina, misti tra maschi e femmine, queste ultime provviste di un collare osseo ramificato in lunghi spuntoni affilati e con solo le due corna mandibolari, più simili a zanne che altro. Eppure, mentre giocavano con i cuccioli, palle di pelo lanoso a quattro zampe, si premuravano di non ferirli, strusciandogli il muso contro la testa o leccando le ferite quando nella foga di una corsa sfrenata uno di loro inciampava o urtava le loro corna.
- Sono... non trovo le parole per descriverli. -
- Giganteschi penso basti. -
Airis rimase incantata a osservarli. Non aveva mai avuto una particolare affinità con gli animali. Quando Davsten le aveva regalato il suo primo cavallo, ci aveva messo più di un mese per riuscire a rimanere in sella, e non era andata meglio con Mastino, il cane da caccia che amava saltarle addosso ogni volta che ne aveva l'occasione. Però quando Cirno, il destriero di Davsten che in battaglia mordeva e scalciava come una furia, diventava un puledrino alla vista della sua compagna, il ghiaccio sul suo cuore si scioglieva. Ancora adesso, assistendo a tanta premura nei confronti di quei cuccioli avventati, non riusciva a fare a meno di sorridere.
- Proseguiamo. -
Fece girare il Ghedharvha e Arghail si rimise in testa. Man mano che si allontanavano, il bramito degli Alianti divenne sempre più lontano, fino a quando l'aria non divenne immobile.
Il sentiero che stavano battendo seguiva la curva della montagna. Man mano che salivano, la vegetazione cedeva il passo a un terreno brullo, dove le poche forme di vita verdi erano licheni, muschi ed ematiche. Sporadicamente, tra i sassi spuntavano le corolle blu e viola di genziana e genzianella, che facevano tanto gola quasi quanto i mirtilli ai Ghedharvha.
Airis procedeva spedita, appuntando lo sguardo sui particolari del paesaggio. Nel silenzio quasi assoluto ogni suono sembrava esigere la sua attenzione e lei tentava di non rimanere impigliata nella ragnatela di dubbi e domande insolute. Erano soprattutto i ricordi a rincorrerla in quelle ore di quiete, i “se” e i “ma” di un futuro che sarebbe potuto essere se non avesse attuato determinate scelte.
“Penso troppo” si ammonì. Si impose di rimanere presente a se stessa e di volgere tutte le sue energie alla missione, senza mai riuscirci del tutto.
Sul far della sera trovarono un'altra grotta, più piccola di quella dove avevano riposato la sera precedente, ma accogliente quanto bastava per ospitare loro due e le loro cavalcature.
Mentre mangiavano, Arghail era teso come un fuso e le labbra esangui risaltavano sul volto pallido come una ferita infetta. Tremava e continuava a cambiare posizione, sfregandosi le mani vicino alle fiamme per scaldarsi. Faceva freddo e, se Airis avesse avuto ancora un corpo umano, anche lei sarebbe stata nelle sue condizioni.
- Bevi, ne hai bisogno. - disse e gli porse il suo bicchiere di vino.
Il capitano le lanciò uno sguardo obliquo, prima di accettare la sua offerta. Pur con i guanti, aveva le dita intorpidite. La lentezza con cui prese il bicchiere tra le mani era un indizio che Airis notò subito. Le sue, invece, erano appena tiepide.
- Grazie. - esalò dopo un sorso, abbozzando un sorriso incerto, - La resistenza al freddo è uno dei tuoi tanti poteri? -
- Se non voglio passare alla storia come colei che era allergica alla magia, qualcosa di bello lo devo pur avere. -
- Hai ragione, tu sei l'eroina che salverà il mondo. - sbuffò Arghail in tono solenne.
- Avverto del sarcasmo nella tua voce? -
- No, è solo stanchezza. Non sono più abituato a dormire all'addiaccio da un sacco di tempo. - trasse le ginocchia al petto e si strinse nella cappa.
- Tieni, prendi anche la mia. -
Airis si alzò e si tolse il mantello dalle spalle. Quando glielo tese, però, Arghail non lo accettò.
- Non posso. -
- Solo perché sono una donna non posso offrirti il mio aiuto? -
- Non è questione di cosa sei o non sei. -
- Per non ferire il tuo orgoglio preferisci crepare di freddo? -
- Sto solo dicendo che il tuo mantello non mi serve. - borbottò e contrasse la mascella, i suoi occhi la trapassarono come lame, - Io sono un capitano, ho seguito un addestramento da soldato, sono stato abituato a sopportare le intemperie, il gelo, il caldo e la fame. Posso sopravvivere anche a questo. -
Airis rimase a fissarlo, il braccio proteso verso di lui, la stoffa del mantello stropicciata nella stretta del pugno. Arghail non si scompose e continuò a ribattere a ogni silenziosa accusa che brillava nello sguardo della compagna. Anche se nessuno dei due parlava, Airis intuiva i pensieri dell'altro, li seguiva e ribatteva ad ogni obiezione senza aprir bocca. Alla fine, sconfitta, si rimise la cappa sulle spalle e si sedette vicino a lui, con i piedi che toccavano il cerchio di pietre attorno al fuoco.
- Mi domando come tu abbia fatto ad arrivare vivo fino ad oggi. - grugnì esasperata.
- Sono un uomo fortunato. -
- E cocciuto. -
- Mi pare ovvio. -
- Un giorno ti farai ammazzare. -
Arghail ridacchiò, una risata fievole e dimessa.
- Mio padre diceva “Meglio un uomo morto per i suoi ideali che un uomo vivo senza coscienza”. -
- Non penso che tuo padre sarebbe stato della stessa opinione se si fosse trovato col culo al gelo. - gli fece notare Airis.
- Anche questo è vero, ma in qualunque caso non accetterò la tua cappa. E poi… - si umettò le labbra con un'espressione serissima, - il rosso non mi dona granché. -
Airis levò gli occhi al cielo e rimase a osservare le fiamme per qualche minuto. Lo avrebbe volentieri preso a sberle se pure lei non fosse stata orgogliosa quanto lui, un tempo.
Sistemò un ciocco con la punta del piede, lo fece girare dalla parte non bruciata, e si alzò per prendere il portapergamene nella borsa del Ghedharvha di Arghail. La mappa che gli aveva fornito Urian era precisa, disegnava un percorso tra i monti e i valichi che si snodava tra gole e cime innevate.
- Che stai facendo? -
- Cerco un'altra strada. Tu non ce la fai a proseguire così. -
- Non è ver... -
- Non sussiste possibilità di dialogo. Sei a pezzi e siamo solo al terzo giorno di marcia. Non posso permettermi di portarmi dietro una zavorra semi congelata. Se mai ci attaccassero, come potresti difenderti in queste condizioni? - lo zittì Airis in un ringhio, - Preferisco correre qualche pericolo in più, piuttosto che vederti morire di freddo in questo modo. -
Arghail non ribatté e girò la testa dall'altra parte senza proferire parola. La guerriera attese e si preparò a sostenere un'altra discussione, ma il capitano rimase in silenzio. Dopo un po' Airis si accorse che si era addormentato. Senza fare rumore, gli posò il suo mantello sulle gambe e tornò a guardare la mappa.
“Che situazione di merda.”
Fuori il vento sibilava tra le rocce e un banco di nuvole aveva occupato il cielo, imprigionando la luna e le stelle nelle loro spire. Un lupo, in lontananza, ululò.
“Speriamo che domani non nevichi.”
Ma lei non era fortunata come Arghail.

Angolo Autrice:

Hello folks!
Spero che questo capitolo vi piaccia! Lo so che proseguiamo un poco a rilento, ma sappiate che sono tutte parti a loro modo importanti. Spero che comunque vi piaccia u.u Piccolo avviso: io andrò al Lucca, quindi se qualcuno è lì e vuole salutarmi che me lo comunichi, sarò felice di incontrarlo! A parte ciò, l'aggiornamento del 2 novembre è spostato al 5. Vi lascio il link della pagina QUI Un bacione e grazie mille a tutti!
Hime

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Capitolo 17
*** Frammenti di memoria - Tornare ***


Fuoco 2

16

Frammenti di memoria - Tornare

Partirono per Caewen una settimana più tardi, con al seguito i feriti più gravi, caricati su un carro di fortuna trainato da un mulo senza più padrone. Caillean ricordava a chi apparteneva, nella sua memoria il ricordo di Eridun era inscindibile da quello del muso punteggiato di bianco di quella bestia. Non si poteva dire che fosse amico della sua famiglia, nessuno a Merite lo era, ma in loro presenza era uno dei pochi che non si girava dall'altra parte o che non si allontanava quando Caillean andava in paese per svolgere qualche commissioni. Una volta, addirittura, le aveva offerto una mela e le aveva augurato una buona giornata. Era una cordialità scostante, accompagnata da un irrigidimento delle spalle e delle labbra, ma Eridun era un vecchio burbero, scorbutico con tutti, anche con chi gli mostrava gentilezza. Il suo mulo era come lui, un animale riottoso, intrattabile, così tanto testardo che più d'una volta lo aveva sentito lamentarsi, minacciandolo di macellarlo se non si fosse dato una mossa.
Quella mattina però, quando lo attaccarono al carro, Caillean non udì il solito raglio infastidito. Nel silenzio di quella mattina soleggiata, il vecchio mulo si fece mettere il morso senza alcuna protesta, mentre i soldati attorno a lui si preparavano per partire.
Caillean attese finché Fijit non la venne a chiamare. Come al solito, la chierica le cambiò le bende e le disinfettò le ferite, avendo cura di farle il meno male possibile. Caillean stringeva i denti, mentre le sue mani le spalmavano quell'unguento all'essenza di timo, lavanda e menta. Le pizzicava sulla pelle, pareva sfrigolare a contatto con le ustioni intorno agli occhi quasi fosse olio sulle fiamme, ma dopo un po' il bruciore di calmava e, assieme al buio rassicurante delle bende, sovveniva una sensazione di fresco rilassante. Resistere al dolore era diventata una necessità per dimostrare a se stessa che poteva farcela, che era forte abbastanza da sopravvivere. Ma quando Fijit però le rifaceva il bendaggio a forma di otto sulla clavicola, l'impulso di piangere le faceva contrarre le viscere così forte da farla tremare. Se le fossero rimaste lacrime da versare, se l'acido non le avesse bruciate tutte, non sarebbe riuscita a trattenerle.
Nonostante il suo stato di prostrazione fisica e mentale, Caillean non ne volle sapere di viaggiare sullo stesso carro dei feriti. Non poteva vederli, le loro occhiate sprezzanti non potevano più ferirla e la morte aleggiava su di loro, minacciosa e caritatevole come possono essere la paura dell'ignoto e il sollievo per la fine di ogni male; eppure i sentirne i gemiti agonizzanti e le preghiere sussurrate a mezzavoce non la faceva stare meglio. Non provava compassione, loro non ne avevano avuta né per lei né per suo padre, e il dolore, il suo amante, il suo onnipresente compagno, soffocava la rabbia e la soddisfazione per quello che era accaduto, per la punizione che gli dei o chi per loro gli aveva inflitto. Non voleva più averci a che fare o sapere nulla della loro sorte.
Si aggrappò a quella convinzione quando Fijit provò a persuaderla, vi affondò le unghie e i denti a ogni sobbalzo, a ogni dondolio più forte, a ogni fermata brusca del cavallo. Nel buio dei suoi occhi, l'oscurità pulsava al ritmo della clavicola rotta e il dolore la riempiva di evanescenti punti bianchi. Dalle labbra di Caillean però non uscì che un sospiro.
- Puoi ancora cambiare idea. - le sussurrò Fijit.
Il tono era gentile, molto più delicato di quello che si aspettasse. Caillean scosse appena la testa e il suo cervello rimbalzò contro le pareti della scatola cranica dandole i capogiri.
- Va bene. - esalò, inspirando a fondo, - Ce la faccio. -
- Adesso, ma se dopo non te la sentissi più, nessuno ti obbliga a rimanere in sella. -
La bambina fece un lieve cenno d'assenso col capo e si allontanò dalla sua schiena cui fino a quel momento era rimasta appoggiata.
La luce del sole le scaldava la faccia, penetrava attraverso le bende e le carezzava la pelle escoriata e unta. Non si era ancora riabituata e i suoi sensi percepivano tutto in modo più intenso, come se il mondo fosse morto e reincarnato in suono e profumi diversi che lei non aveva mai conosciuto.
- Potrò... potrò mai tornare a vedere? -
Uno spostamento d'aria l'avviso che Fijit si era raddrizzata. Tendeva a inarcare le spalle e a spingersi troppo in avanti, come se stesse per spronare il cavallo al galoppo da un momento all'altro.
- Non lo so, non mi sono mai trovata davanti a un caso simile. L'acido ha danneggiato i tessuti attorno agli occhi e la cornea e le palpebre non sono in buono stato. A Caewen ci saranno altre cerusiche, ne parlerò con loro e vedremo cosa possiamo fare. - le rivelò in tono greve, - Non credo comunque di poter fare molto: se ti avessi soccorso prima, forse avrei potuto salvare qualcosa, ma nello stato in cui ti abbiamo trovato non credo nemmeno la magia elfica possa aiutarti. -
Caillean annuì, anche se dentro di sé si sentiva morire.
- Mi dispiace, piccola... davvero. -
- É meglio così. Non mi hai illuso, sei stata... corretta. - deglutì e fece una pausa per racimolare la forza per continuare il discorso, - Se lo avessi scoperto dopo, sarebbe stato più doloroso. -
Fijit sospirò e il cavallo sbuffò, dilatando le froge.
- Vivere senza la vista è difficile, bisogna reinventarsi e imparare a usare gli altri sensi in tutto, ma non è impossibile. - tentò di consolarla e Caillean se la immaginò che sorrideva a disagio, senza trovare il coraggio di guardarla mentre le mentiva, - E tu sei una bambina forte, ce la farai, vedrai. -
Parole vuote, piene di vento, prive di significato.
Caillean annuì. Mentre il cavallo avanzava, l'oscurità ribolliva, pulsava spurgando la sua anima sciolta, mentre nel buio sbocciavano fiori rossi punteggiati da macchie nere.
- Sì, sono certa che ce la farò. -
Percepì lo sguardo di Fijit sulla pelle. Bruciava, bruciava più del dolore, era una freccia arroventata nella carne.
Non sono una vittima.”
Strinse i pugni e si morse l'interno della guancia. La pelle sotto le bende si tirò così tanto da farla sussultare. Stavolta Fijit non si girò.
Il resto del viaggio trascorse in silenzio. Nessuno delle due aprì bocca e nemmeno i soldati attorno a loro sembravano in vena di scherzare. Caillean apprese da uno di loro, un uomo con la voce nasale e roca, che Davsten guidava la processione, affiancato dal suo secondo in comando, un certo Idwal. Suo padre non l'aveva mai nemmeno menzionato, forse, pensò, non lo aveva conosciuto.
O non ha avuto il tempo di raccontarmelo...”
Proseguirono fino al calar del sole e poi si accamparono in una radura di erba stepposa, che scricchiolava sotto la suola degli stivali. Il vento, un soffocante vento caldo che si appropriava del suo respiro e le bagnava la nuca, le portò alle narici un forte odore di pelo sudato.
- Vieni, di qua. -
Fijit la prese delicatamente per mano e la condusse nella loro tenda. La fece sedere sulla branda e le cambiò le bende. Caillean osò sfiorarsi le palpebre, prima di ritrarre la mano come scottata. Erano prive di ciglia, gonfie, gibbose.
- Non devi toccare o rischi di infettare la ferita. -
Udì uno scroscio dapprima intenso, poi un semplice gocciolare prima che Fijit le passasse un panno umido sul viso. Era accaldata e il sudore copriva in parte l'essenza floreale dei suoi vestiti. Tuttavia nella mente di Caillean, anche così era una bellissima fanciulla, con i capelli biondi, gli occhi grandi ornati da lunghe ciglia chiare e le labbra sottili, sempre atteggiate in un sorriso incoraggiante, pronte però ad assottigliarsi in un'espressione severa. Era così che se l'immaginava, la fantasia, ormai, costituiva il suo unico ponte con la realtà.
-Ti porto la cena tra poco. Tu non ti muovere, va bene? -
E dove dovrei andare?” le avrebbe voluto rispondere Caillean, ma si limitò a fare un cenno affermativo prima di stendersi. Le balenò in mente che avrebbe dovuto togliersi i vestiti e lavarsi e quel pensiero rimase vivo e chiaro per un paio di secondi finché non si sgretolò, sprofondando nel buio.
- Non hai bisogno d'altro? -
La voce di Fijit era più tenue, distante quel tanto da farle capire che non era più vicina. Era stata veloce oppure era lei a non essersi accorta di quando si era allontanata?
- No, non ti preoccupare. Ti aspetto qui. -
Quando udì il fruscio della tenda che si chiudeva, tutta la fatica del viaggio le piombò addosso come un lupo. Si ritrovò a boccheggiare con il fiato che le si spezzava in un rantolo, la volontà dissanguata uccisa dalla stanchezza.
- Anairë lapse. -
Le sue labbra scandirono quella frase un paio di volte, finché non le mancò la voce. Erano le parole che le aveva detto l'elfo. Non sapeva il loro significato, ma il tono con cui erano state pronunciate, la meraviglia mista ad ammirazione di cui erano colme, le suggerivano che erano importanti.
- Oppure te lo sei solo immaginato. -
La sua sicurezza tentennò. No, erano reali, ogni cosa che era successa era reale. Quasi poteva ancora sentire la consistenza vischiosa del sangue sulle dita, l'olezzo ferroso che si propagava dai suoi vestiti. Deglutì e elevò le mani in alto, fino ad averle davanti agli occhi con il cuore che le batteva nelle tempie e lo stomaco dolorosamente contratto. No, la mente poteva sbagliare, ma la memoria del corpo, quella ricordava tutto, glielo aveva insegnato suo padre.
- Spero che... che tu ora stia bene, ora. - un singhiozzo le squassò il petto, - Scusami se non sono stata coraggiosa abbastanza, scusami se non ho protetto la mamma, scusami se mi sono fatta portare via la vista. -
Si raggomitolò su un lato, portò le gambe al petto, insensibile al dolore che si propagava dal viso in fiamme. Suo padre aveva sempre offerto il sale e il farro agli Athairi e sua madre si preoccupava che ogni sera gli incensi bruciassero vicino alle statuette degli Ithei. Perché non li avevano protetti? Perché erano rimasti sordi alle sue preghiere?
- Sono un'assassina... - si piantò le unghie nella cute, premette con forza fino a quando non sentì il sangue sotto i polpastrelli, - Papà, perdonami per quello che sono diventata. -
Pianse lacrime che non aveva fino a quando non ebbe più fiato. Quando non riuscì più a starein quella posizione, racimolò le forze per tirarsi a sedere. La testa era leggera, i pensieri inconsistenti e nell'aria aleggiava una calma piatta, colma dell'odore di una zuppa calda. Cercò la ciotola a tentoni, guidata dal naso, la afferrò assieme al cucchiaio e portò il primo boccone alle labbra. Aveva più sete che fame, almeno così era fintanto che il sapore di fagioli e lupini non le permeò la bocca. Divorò tutto, raschiando anche il fondo della scodella per poi leccare i bordi. Non le interessava che che qualcuno potesse vederla, si era già umiliata abbastanza agli occhi di tutti. Davsten, Fijit, gli altri soldati, tutti la compativano e la trattavano come una vittima innocente degli eventi.
- Non sono una vittima. - ripeté e le parole sibilarono minacciose tra i denti, - Io non sono una vittima. -
Strinse i pugni e serrò la mascella, immaginando di avere tra le mani la spada di suo padre. Era pesante, di ferro, con l'impugnatura rivestita di cuoio ormai liscio.
- Un giorno riuscirai a sollevarla. Anzi, ti dirò di più, ne avrai una tutta tua. -
Il sorriso orgoglioso di suo padre, la sicurezza con cui l'aveva guardata, erano il suo ricordo più caro. Lui aveva sempre creduto nel suo sogno.
Si mise in piedi e tenendo le mani davanti a sé, cercò l'apertura della tenda. Avanzò un passo alla volta, incerta, dritta dove credeva di aver udito la voce di Fijit prima che uscisse. Trovò il lembo, lo tirò e questi catturò il vento, si ingrossò e le sfuggì dalle dita, alzandosi verso l'alto. L'aria tersa della seria le si infilò nelle narici e le pervase i polmoni.
Si lasciò alle spalle la tenda, proseguì ancora. I soldati, quei pochi che si destreggiavano per mantenere viva la conversazione, continuarono a parlare. Caillean li sentiva, udiva le loro voci provenire da ogni dove in quel buio avvolgente, sembravano scaturire da dentro la sua testa. Obbligò le braccia a rimanere stese e continuò a camminare. Eccolo, il suono dell'acqua corrente, non è così lontano, deve dirigersi a destra e poi sarà lì.
Andò a sbattere contro qualcuno e quasi non ruzzolò a terra.
- Che ci fai qui, bambina? Stavi cercando Fijit? -
Era il soldato con la voce nasale. Non sembrava arrabbiato, nemmeno aveva sentito il contraccolpo probabilmente, a Caillean parve persino ci fosse un accenno di apprensione nel modo quasi incerto con cui le si era rivolto. Ma era un uomo, un nemico.
Non farti spaventare.”
- Volevo solo prendere un po' d'aria. - tenne alto lo sguardo mentre si rialzava, - Dentro la tenda fa molto caldo. -
Una pausa. Il chiacchiericcio di sottofondo persisteva, basso come un ronzio d'api in una torrida giornata estiva. A volte una voce si staccava dal coro: una risata appena accennata, un colpo di tosse, persino una pacca sulla spalla bastava a far vibrare la rete di suoni che si era cucita attorno a lei.
- Sì, qui al sud fa molto caldo. - si risolse a dire, - Non sono più abituato a questo clima. -
Caillean fece un passo indietro, fingendo di guardarsi attorno come per cercare qualcuno. Il sudore le inumidiva la nuca e la tunica sotto le ascelle, le aderiva alla pelle come un guanto e le costringeva i polmoni. A ogni respiro, le sembrava di ingoiare sabbia.
- Mi sapresti indicare dov'è il ruscello? -
- Se hai bisogno di lavarti, posso andare a chiamare Fijit per aiutart... -
- Non mi serve aiuto. -
Il suo corpo la tradiva, tremava spaventato, e la paura sferzava il suo cuore al galoppo. Caillean strinse i pugni, contrasse la mascella e piantò i piedi a terra. L'uomo non si era mosso e manteneva il suo sguardo su di lei.
- Non ho bisogno di aiuto. - ripeté, più sicura, - Voglio solo sciacquarmi la faccia nel torrente, tutto qui. -
Un'altra pausa. Udì il grattare di qualcosa, come mani su paglia secca.
Ha una barba, una barba molto folta e crespa.”
- Sei proprio sicura di non volere nessuno? Il ruscello è poco fuori dal campo, non è difficile arrivarci, solo che... - si interruppe e Caillean se lo figurò mentre si mordeva le labbra, - Ci sono molte persone qui, rischi di andare a sbattere. -
La sua determinazione si incrinò. Allontanarsi dalla tenda, camminare nel buio, arrivare al torrente e poi tornare indietro. C'erano troppi pericoli e lei era disarmata, cieca. Se uno di quegli uomini l'avesse seguita, non sarebbe mai riuscita a sfuggirgli.
- Farò il giro largo, allora. Spiegami come arrivare senza passare tra i soldati. -
L'uomo trasse un profondo respiro e le si accostò. Il calore del suo corpo sudato le graffiava le braccia.
- Sai contare? -
Aveva imparato i numeri solo fino a dieci.
- Sì, lo so fare. -
- I punti cardinali, invece? -
- Anche quelli. -
- Bene, adesso il tuo sguardo è rivolto a est. Volgilo verso ovest, poi conta quaranta passi. Al quarantunesimo, gira a sinistra e prosegui sempre dritta. Fa un gran baccano quel ruscelletto, lo sentirai quando sarai in rotta d'arrivo. -
Caillean annuì.
- Se hai bisogno, basta che fai un fischio. Le sentinelle ti sentiranno, poco ma sicuro. -
L'erba scricchiolò sotto i suoi piedi e la sensazione di oppressione nel petto lo accompagnò mentre si allontanava.
Posso farcela.”
Fece come gli aveva detto. Un piede avanti all'altro, cominciò a contare mentre proseguiva in linea retta. Quaranta era quattro volte dieci, quindi ogni volta che non sapeva come proseguire, ricominciava. Era difficile tenere i numeri a mente, a volte si dimenticava dov'era arrivata ed era costretta a fermarsi per contarli sulle dita. Gli uomini le passavano accanto senza far caso alla sua presenza. Era lì e allo stesso tempo non era lì, era invisibile ai loro occhi così come il mondo lo era ai suoi.
Uno, due, cinque... no, prima del cinque viene il quattro e prima ancora il tre.”
Qualcuno la urtò così forte che per poco Caillean non perse l'equilibrio.
- Stai attenta a dove vai. -
Un ragazzo, forse di una ventina d'anni. Doveva essere giovane perché la sua voce aveva una sfumatura fanciullesca, una vibrazione più alta rispetto a quella di un uomo adulto.
- Scusami...-
Non ti posso vedere.”
L'inizio della sua risposta rimase nell'aria, troncato sul nascere da un sussulto.
- Dove stai andando? Stai cercando Fijit per caso? -
Il tono si era ammorbidito e ora il suo respiro si infrangeva sulle sue guance, vicino, troppo. Il corpo di Caillean si mosse in fretta. Scattò senza pensare, rapido quel che bastava per cogliere di sorpresa il ragazzo e smarcarsi.
- Aspetta! -
La sua voce si sfilacciò alle sue spalle. Caillean correva più in fretta che poteva, alla cieca, senza più contare, andando a sbattere contro tutti quelli che non avevano l'accortezza di spostarsi. Correva lontana dall'accampamento, da quel luogo brulicante di uomini pronti a metterle le mani addosso, a giudicarla, a rinchiuderla, a sfigurarla.
La sabbia era vetro in pezzi nei suoi polmoni, la lingua un pezzo di cuoio usurato.
Devo scappare, devo scappare via, via da qui.”
Girò a sinistra, urtò qualcuno, di nuovo rischiò di cadere, ma non si fermò. L'erba scricchiolava al suo passaggio, il piede aderiva a terra, si allungava e poi si staccava dal suolo portandosi dietro alcuni pezzi di terra. L'aria immota, senza un fil di vento, vibrava attorno a lei e la tela di suoni con essa: le voci si interrompevano, così come i passi e quando Caillean passava oltre, diventavano acuti, si tramutavano in richiami che rimbalzavano di bocca in bocca.
- La cieca. -
- Dove va, perché corre? -
- Qualcuno trovi Fijit! -
Più in fretta, più in fretta!”
Due braccia la afferrarono e la tirarono su. Erano forti, la presa ferrea passava sotto le ascelle e la stringevano sullo sterno, poco sotto il seno.
- Lasciami! - Caillean si dimenò, arpionò le mani del suo aggressore e gli piantò le unghie sul dorso, - Non mi toccare, lasciami, lasciami! -
- Calmati. -
Davsten. Era amico di suo padre, l'aveva salvata, non era un pericolo.
É un uomo.”
Quel pensiero la fece rabbrividire. Scalciò più forte, dimenandosi come un'ossessa. Le mani si muovevano da sole, scavavano nella pelle dei solchi sempre più profondi. Il sangue, presto, le si infilò sotto le unghie.
- Calmati. - la strinse ancora più forte.
Caillean sputò l'aria che aveva nei polmoni. Lo graffiò ancora, fino a quando il buio non si riempì di puntini bianchi. La forza le venne meno e, pian piano, con l'incedere della consapevolezza di ciò che aveva fatto, una calma piatta calò nel suo cervello.
- Dov'è Fijit?- Davsten si guardò intorno, senza lasciare la presa, - Qualcuno la vada a chiamare, subito. -
Passi che si allontanano. Il chiocciare allegro del torrente le arrivava attenuato, una risata beffarda che andava e veniva secondo il suo capriccio.
- Scusami, non so cosa mi sia pres... -
- Zitta. -
La durezza nella sua voce la fece trasalire e Caillean rinunciò a qualsiasi tentativo di dialogo. Il cuore rallentò fino a battere calmo, appesantito dal senso di colpa e dalla vergogna. Quando Fijit arrivò, Davsten la mise a terra e le strinse forte le spalle prima di sospingerla tra le braccia della cerusica. Caillean non osò nemmeno girarsi a guardarlo quando la donna la prese per mano e la accompagnò alla tenda.
- Dammi le mani. - le ordinò quando si sedette sulla branda.
Non c'era traccia di dolcezza in quelle parole. Caillean obbedì e rimase immobile mentre la cerusica la lavava dal sangue. Ne aveva così tanto che le si era appiccicato sui palmi e tra le dita.
- La prossima volta che hai bisogno di qualcosa, chiamami. - strofinava con vigore, passando la spugna ruvida anche sul collo sudato, - Non so perché tu abbia tentato di fuggire né mi interessa saperlo, ora, ma voglio che tu sappia una cosa: sei cieca ora, non puoi muoverti come ti pare e piace, come se nulla fosse accaduto. Devi cominciare ad accattare questa nuova condizione prima che sia troppo tardi e tenere a bada i colpi di testa: hai idea di quello che ti poteva succedere se fossi uscita dal campo? Basta una buca e finisci con una caviglia slogata o l'osso del collo spezzato. -
Caillean abbassò lo sguardo sotto le bende. Non sapeva nemmeno lei perché lo avesse fatto, pensandoci a mente lucida era stata una follia anche solo immaginare di arrivare al torrente con le sue sole gambe.
- Mi... mi dispiace. -
- Non voglio le tue scuse, non me ne faccio niente delle scuse e nemmeno tu. - le prese le mani umide e gliele strinse tra le sue, - Quello che ti è successo è terribile, non posso nemmeno immaginare quanto dolore tu abbia provato, ma sei sopravvissuta. Se sei qui, se è stato il volere degli dei a salvarti, non puoi buttarti via per nessuna ragione al mondo: tua madre ha già perso l'uomo che amava, non può perdere anche sua figlia. -
Caillean si morse le labbra e strinse i pugni in grembo, desiderando con tutta se stessa di sparire. Era stata stupida, stupida ed egoista.
- Tra quattro giorni saremo a Caewen e la potrai rivedere. - le spostò una ciocca dietro l'orecchio e le accarezzò la guancia con le nocche, - Insieme, tu e lei, troverete un modo per andare avanti. Io mi consulterò con le altre e cercheremo una cura per i tuoi occhi, ma tu nel frattempo non devi fare altre pazzie, va bene? -
- Va... va bene. -
- Ora vai a dormire. Io sarò nel letto qui vicino, se non riesci a dormire o se hai male, svegliami. -
Attese che annuisse prima di alzarsi e andarsi a stendere. Dopo poco, il suo respiro si regolarizzò e Caillean sentì un fruscio che le fece capire che si era girata. Anche lei si lasciò cadere sulla sua branda, gli occhi rivolti al soffitto.
- Anairë lapse. - mormorò, - Anairë lapse. -
Continuò a ripetersi quelle due parole come una cantilena fino a notte fonda, fino a quando il sonno non la prese per mano e l'accompagnò in un mondo dove poteva ancora vedere.
Ripresero il cammino la mattina seguente, poco prima del sorgere dell'alba. Fijit si era alzata prima di lei per andare a controllare i feriti che fuori era ancora buio. Aveva cercato di fare meno rumore possibile, ma Caillean l'aveva sentita lo stesso. Quando era venuta a svegliarla, l'aria era ancora fresca e permeata dall'odore di rugiada e terra appena smossa.
Fijit non le chiese se volesse viaggiare sul carro, si limitò ad aiutarla a montare in sella dietro di lei.
Fu un viaggio silenzioso, durante il quale nessuno venne mai a disturbarle. Si fermarono due volte per far abbeverare i cavalli e dare la possibilità a Fijit di cambiare le bende a Caillean e occuparsi dei sopravvissuti sul carro. In quelle pause, spesso, tiravano giù i corpi dei morti per seppellirli e davano l'estremo saluto ai moribondi. Una bassa preghiera, le ultime confessioni e l'augurio che Uborh li traghettasse nel Val'ha. Poi, un sibilo e l'odore pungente del sangue si disperdeva nell'aria. Caillean contò fino a dieci, all'undicesimo colpo, la sua mente si rifiutò di proseguire. Quando ripresero il viaggio, apprese da un brandello di conversazione che la terra aveva accolto trenta anime, tra uomini e donne.
Per i tre giorni seguenti, il rituale si ripeté. Fijit prestava ascolto a tutti, per poi lasciare il compito di liberarli dai loro dolori terreni ad altri uomini. Tra questi, scoprì Caillean, c'era anche Davsten. Non le aveva più rivolto la parola dalla prima sera, eppure lei capiva quando le passava accanto o quando era lì vicino. A differenza di quello di Fijit, frettoloso e disattento, il passo di lui era grave e compassato, le trasmetteva la sicurezza che fosse lì, mai troppo lontano. Si vergognava ancora per come si era comportata, avrebbe voluto chiedergli scusa e dirgli che si era comportata come una stupida, ma il coraggio languiva sotto la cenere, soggiogato dai pensieri cupi che, ormai, erano i padroni della sua mente. I ricordi del tempo passato con suo padre erano ricorrenti, la braccavano nel sonno e la inseguivano nei sogni. Erano così vividi che spesso Caillean si domandava se quella non fosse la realtà e quella in cui si svegliava un incubo. Il dolore era l'unico antidoto che le permetteva di rimanere lucida, il pugnale da cui fuggiva e la bussola che l'aiutava a orientarsi. Quando era presente a se stessa, si domandava cosa avrebbe fatto quando avesse rivisto sua madre, se avrebbe trovato il coraggio di parlarle: lei era lì, era tornata, mentre suo padre giaceva a Merite, senza una lapide a cui inginocchiarsi e pregare. Davsten si era premurato di far togliere la testa, assieme alle altre dalle picche, ma del corpo non vi era traccia.
Sarei dovuta esserci io lì sopra.” si diceva e, nonostante il disgusto che provava verso se stessa e la sua debolezza, non riusciva a fare a meno di pensarci.
Suo padre era morto e lei non era stata abbastanza forte per impedirlo.
Devi perdonare te stessa per quello che ti hanno fatto.”
Davsten le aveva detto questo, durante il loro primo incontro, ma come poteva perdonarsi? Come poteva trovare un modo per alleviare il senso di colpa che la schiacciava?
Si mise le mani nei capelli e appoggiò la fronte sulle ginocchia. La sua porzione di minestra di lenticchie e fave era appoggiata ai suoi piedi, con ancora il cucchiaio pulito.
Era l'ultima sera, il giorno seguente, nel tardo pomeriggio, sarebbero arrivati a Caewen.
- Non mangi? -
La voce di Davsten proveniva da qualche passo da lei e un refolo piacevole le scompigliò i capelli sporchi.
- Non ho... fame. -
L'uomo si avvicinò. Torreggiava su di lei, un colosso la cui presenza avrebbe messo soggezione a chiunque.
- Guardami quando mi parli. -
Reprimendo l'istinto di infilarsi sotto la branda, Caillean alzò la testa e diresse lo sguardo in alto, dove credeva potesse trovarsi quello del suo interlocutore.
- Hai riflettuto su quello che ti ho detto? -
La bambina annuì, senza aggiungere altro. Davsten rimase in silenzio finché non arguì che doveva essere lui a continuare il discorso.
- Hai capito cosa ti ho chiesto? -
- Di perdonare me stessa. -
- Pensi di poterlo fare? -
- Non lo so. - si umettò le labbra e si abbracciò, - Non so come si fa, in realtà. Di solito, è qualcun altro che ci deve concedere il perdono. -
Sospirò e si sedette davanti a lei, sullo sgabello dove Fijit aveva posato la sua razione. Il fumo della minestra le scaldava la punta i piedi.
- So che ti senti responsabile per quello che è successo a Kale e so anche che, per quanto io possa dirti che non potevi fare nulla per impedirlo, tu continuerai a colpevolizzarti. Posso ripetertelo anche mille volte, ma le cose non cambieranno se non sarai tu a capirlo. - esordì la voce bassa e greve, - Se non ci riesci, allora voglio che rifletti su quanto tu sia importante per Iola. É scappata per venire a cercare aiuto e mi ha scongiurato di salvarti. Ora è a Caewen che aspetta di scorgere i miei uomini all'orizzonte e ogni giorno che passa si domanda se mai ti rivedrà. -
Caillean reprimette la tentazione di tornare a fissare il pavimento. Non era una vittima, si era promessa che non lo sarebbe più stata.
- Tuo padre ha rinunciato alla sua carriera per starvi vicino e tua madre si è consumata le suole in una corsa attraverso i boschi. Se non avesse incontrato noi, piuttosto che fermarsi sarebbe arrivata con i piedi insanguinati a Caewen. - si fermò, riprese fiato e continuò, - Voglio che tu tenga a mente da chi sei nata e cosa hanno fatto per te. Il dolore che ti porti dentro non svanirà, né ora né mai, ma non puoi permettergli di consumarti. Se non puoi vivere per te stessa, allora fallo per loro, per Kale che ha dato la vita per salvarvi e per tua madre che farebbe lo stesso. -
- Non è semplice... -
- Niente nella vita lo è. All'inizio anche i neonati fanno fatica a camminare, cadono e incespicano; poi però crescono e diventa parte di loro. E così ogni cosa, perché crescere significa anche affrontare la sofferenza, il dolore e il lutto. Faranno male, piangerai, ti dispererai, ma alla fine diventeranno delle cicatrici da guardare con orgoglio. -
Un sibilo, il verso di una lama estratta dal fodero.
- Avvicinati. -
Come calamitata, Caillean si alzò. Allungò la mano fino a toccare col palmo la consistenza dura del metallo.
- I soldati sono questo: combattono le battaglie degli altri per garantire un futuro che non possono vedere. Ma per brandire una spada, per poter scendere in campo e vincere, bisogna aver prima accettato i propri demoni. - le prese la destra e la condusse sull'impugnatura e Caillean la strinse, gli occhi negli occhi di Davsten, - Se adesso non sei ancora pronta, vota la tua vita a tuo padre e tua madre, vivi per loro e combatti per loro. -
Caillean lo fissò e poi rivolse lo sguardo alla spada. Era pesante, sul palmo percepiva l'usura del tempo e i segni delle numerose battaglie.
- Non sono una vittima. - disse e le prime dita si chiusero attorno alla lama, - Non voglio più esserlo. -
- Giura che combatterai. -
- Lo giuro. -
Dove aveva trovato quella fermezza? Quando era cresciuta così in fretta?
- Giura sul tuo sangue che lo farai per i tuoi genitori, per Iola e Kale. -
- Per Iola e Kale. -
La mano di Davsten coprì la sua e le premette le dita sul filo della lama. Il sangue stillò fuori in piccole gocce ai suoi piedi, in mezzo a loro.
Dopo un tempo che le parve infinito, l'uomo la liberò e Caillean ritirò la mano. Il palmo formicolava e la ferita bruciava, ma per la prima volta da quando era stata catturata dal capovillaggio si sentiva di nuovo forte.
- La tua anima è legata con questo giuramento. Rompilo e inficerai la memoria di tuo padre. -
- Non lo farò. -
I passi di Davsten si arrestarono a pochi passi da lei. Aveva già aperto la tenda per uscire.
- Fatti fasciare la mano da Fijit, non voglio che quella ferita si infetti. - disse e poi si allontanò.
Il giorno dopo, quando giunsero a Caewen, nel cuore di Caillean ardeva una nuova fiamma. Era piccola, il fuoco di una candela nel buio, ma non sarebbe bastata una tempesta per spegnarla. E quando sua madre le venne incontro gridando il suo nome e l'abbracciò, capì che l'unica cosa che non era mai stata sola, nemmeno nelle prigioni. 

Angolo Autrice:

Hello folks!
Buonasera ragazzi, come vedete finalmente ho messo online il capitolo che vi avevo promesso ^.^ Spero sia di vostro gradimento, come al solito fatemelo sapere in qualche modo u.u. Vi è piaciuto? Lo spero perché ci ho messo una vita a scriverlo >.< Bon, credo di avervi tediato abbastanza, se volete picchiarmi per il troppo angst ( o chiedere anche solo una spiegazione), il link è qui sotto u.u QUI Un bacione e grazie mille a tutti!
Hime

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Capitolo 18
*** Trappole ***


Fuoco 2

17

Trappole

Airis sbatté un paio di volte le palpebre, la mente e la vista ancora velate dalle nebbie del sonno. Si tirò su a sedere e si stropicciò gli occhi per scacciare la sensazione di intontimento. Soffiava un vento freddo nella grotta, che però la brace accesa riusciva a tenere lontano.
- Potresti dormire ancora un paio d'ore. - le disse Arghail.
La guerriera sbadigliò e si versò un goccio di vino. L'otre era rimasto vicino al fuoco e così il suo contenuto era ancora caldo.
- Lo farei, se non dovessimo alzarci tra poco. -
Arghail ridacchiò. Era nella stessa posizione di quando lo aveva svegliato, con l'ascia appoggiata sulle gambe ben coperte dal mantello di Airis. Gli occhi indaco avevano assunto una sfumatura violacea più scura e parevano brillare nella penombra appena rischiarata dalle braci.
- È successo qualcosa mentre dormivo? -
- Calma piatta, mio Generale. Fa solo un freddo dannato. - si strinse nel mantello e incrociò le gambe, - Davvero non ne hai bisogno? -
Airis si passò entrambe le mani sulle braccia. La giornea era foderata di pelliccia e le maniche della tunica sottostante erano di lana grezza. Erano dei capi fatti apposta per sopportare dei climi così rigidi, ma, nonostante tutto, un essere umano normale, anche col calore del Ghedharvha accoccolato alle sue spalle, avrebbe avuto quantomeno i brividi.
- Sono solo un po' infreddolita, ma niente di che. - rispose e si scrocchiò le dita, - Tu, piuttosto? -
- Mi piacerebbe essere a casa mia, davanti al mio caminetto, con una buona tazza di latte fumante sul tavolino. Non si dorme molto comodi sulla pietra. -
- Non posso che concordare. -
- Gli unici che sembrano a proprio agio sono Droguan e Rubia. -
Airis corrugò le sopracciglia: - Non ero consapevole di avere altri due compagni di viaggio. -
- Oh, sì che li abbiamo. Solo che non parlano molto. - accarezzò la testa del suo Ghedharvha con un mezzo sorriso, - Il tuo si chiama Droguan, la mia Rubia. -
- È stato Uravan a dirti come si chiamano? -
- No, con lui non ci ho parlato. Però so per esperienza che gli animali diventano più docili e mansueti se li si tratta con la stessa gentilezza con cui tratteresti un amico. Chiamarli “bestie” è come chiamare un essere umano “rifiuto”. -
Arghail si soffermò a grattare dietro le orecchie di Rubia e l'animale emise un verso compiaciuto, muovendo le zampe nel sonno.
- Ecco perché hai deciso di dar loro dei nomi. -
- Ed è anche il motivo per cui tu vai tanto d'accordo con gli animali. - scherzò.
Airis gli puntò il dito contro, un sorriso furbo ad arricciarle le labbra.
- Non mi dimentico le cose che voglio sapere. Mi avevi promesso che mi avresti svelato come hai fatto a domare questi due, adesso pretendo una risposta. -
Il capitano sospirò sconfitto. Spostò l'ascia dalle gambe e l'appoggiò a terra a portata di mano, mentre si dedicava a pettinare la criniera di Rubia.
- Non c'è molto da dire. I miei genitori sono dei mercanti, hanno una bottega di tessuti dove vendono tuniche, cappe, pellicce e tutto ciò che va di moda. Io li aiutavo come potevo quando ero bambino, occupandomi soprattutto di sbrigare le varie commissioni che mia madre mi affidava. Una volta sono andato fuori città per consegnare un tabarro a un loro amico che sarebbe partito presto. Si chiamava Dendillion ed era un vecchio mercante di stoffe in pensione. Non so perché, gli piacqui molto e, invece di mandarmi via subito, mi invitò a farmi un giro nella sua proprietà. Aveva una stalla con diversi animali, tra cui diversi cavalli, pecore, capre, conigli e anche alcuni maiali. A me erano sempre piaciuti, però i miei genitori si rifiutavano di prendere anche solo un cane da guardia. Sono rimasto lì tutto il pomeriggio e lui mi ha indicato il nome di ognuno di loro, raccontandomi quando lo aveva preso, i pregi e i difetti. - si passò una mano sulla bocca e poi la intrecciò all'altra sulla pancia, - Sono tornato lì spesso, finché non è morto. Mi ha insegnato tutto quello che so sugli animali, specialmente come trattarli per essere rispettati da ognuno di loro. -
- Doveva essere un uomo di buon cuore. - commentò Airis.
- Solo con i miei genitori e i suoi amici pelosi. Dendillion era giunto alla conclusione che gli animali erano meglio degli uomini e alla veneranda età di sessantaquattro anni aveva conservato pochi contatti col resto del mondo. Era una persona particolare, diciamo. -
- Anche tu la pensi allo stesso modo? -
La mano del capitano tornò ad accarezzare il Ghedarvha. Trascorse qualche momento prima che le rispondesse.
- Non lo so. A volte penso che aveva ragione, altre che fosse un vecchio solo e pieno di rimpianti. Eppure, quando mi trovo meglio in compagnia degli animali, li trovo più genuini e veritieri nelle loro reazioni. Ho conosciuto molti uomini e donne, ma il calore che Garwin, il mio cane, mi dona quando torno finalmente a casa, me lo ha dato solo una persona. -
“Hallende” tirò a indovinare Airis, ma si guardò bene dall'esprimere il suo pensiero. Gettò un'occhiata fuori dalla grotta. Il cielo era coperto e le nuvole grigie della sera precedente stazionavano minacciose sopra le loro teste, foriere di tempesta.
- Non è una storia noiosa. - mormorò assorta, - Anche se, vedendo come sono diventati mansueti questi pelosoni, pensavo avessi scoperto di avere qualche potere. -
Arghail scoppiò a ridere: - Sono solo più empatico con gli animali che con gli uomini. Mi dispiace, qui l'eroina speciale non sono io.-
- Ah, ah, ah, quanto sei spiritoso. -
- Simpatia è il mio secondo nome. - tossì un poi di volte e tornò serio, - Ora però tocca a me. Cosa significa “Anairë lapse”? -
Airis inarcò un sopracciglio.
- Lo hai ripetuto un paio di volte nel sonno. Sei molto più chiacchierona mentre dormi. - spiegò Arghail, - Ho fatto una domanda troppo personale, forse? -
- Più che altro sei sfortunato, perché non ti so rispondere. -
Stavolta fu il turno dell'uomo di rimanere perplesso.
- È una frase che mi fu detta da uno degli elfi che attaccò il mio villaggio. Lo uccisi prima che lui potesse uccidere me. Non so perché, però le sue parole mi sono rimaste impresse. -
- Non hai mai provato a scoprirne il significato? -
- No. A essere sincera, credevo di essermele dimenticate. - sospirò e bevve un lungo sorso di vino, - Mi tornano in mente molte cose in questi giorni. -
- “È nel silenzio che l'uomo trova se stesso”, dice spesso Hallende, e io sono d'accordo. Nella mia testa c'è sempre un gran baccano, solo quando metto a tacere i pensieri riesco a capire cosa è giusto fare. Bene! - si batté le mani sulle cosce e si alzò, imitato da Airis, - Hai ricavato qualcosa dal tuo studio della mappa ieri notte? -
- Dovrebbe esserci un sentiero più in basso. È stretto e passa in mezzo a valli e zone boschive, però almeno non rischierai di morire di freddo. -
- Allungheremo il viaggio. -
- Di uno, massimo due giorni. Ce lo possiamo permettere. -
- Conduci tu, allora. Ti vengo dietro con Rubia. -
Airis levò gli occhi al cielo, ma lasciò che fosse Arghail a svegliare i due Ghedharvha. Non appena aprirono gli occhi, allungarono il muso per reclamare una carezza. Le bacche di mirtillo che il capitano offrì loro furono un ulteriore incentivo a essere più docili e mansueti.
Si misero in marcia poco prima che sorgesse l'alba. Le stelle brillavano sempre meno e la loro luce fredda si affievoliva, sparendo nell'aurora del mattino.
Airis si era ripresa il suo mantello su insistenza di Arghail. Non si erano detti molto: Arghail si era avvicinato e le aveva rimesso il suo sulle spalle prima di montare, l'ascia appesa alla sella nuovamente avvolta negli stracci.
- Sei troppo orgoglioso. - lo aveva ammonito, ma lui si era limitato a fare spallucce, con quell'espressione a metà tra il serio e il faceto.
Per tutta la mattina il tempo fu clemente. A un certo punto cominciò a nevicare, batuffoli di neve ondeggiarono nell'aria, sciogliendosi non appena toccavano il suolo, senza attecchire, nient'altro che un sottile strato bianco il più delle volte interrotto da radi ciuffi d'erba.
- Dobbiamo comunque procedere il più spediti possibile. - ci tenne a precisare Arghail, - Se veniamo investiti da una bufera ora, non ne usciamo vivi. -
Scesero di quota. Solo quando ne sentirono l'estrema necessità si fermarono per mangiare un po' di fave e fagioli, per poi riprendere subito la marcia. Pian piano, la vegetazione ritornò padrona del paesaggio, finché, poco dopo l'ora di pranzo, non distinsero in lontananza il profilo degli Alberi Guerrieri. Il vento faceva frusciare le fronde, sibilava minaccioso, infilandosi sotto i vestiti pesanti come un serpente velenoso.
Arghail aveva incassato la testa nelle spalle e, quando pensava che Airis non lo vedesse, si strofinava le mani per trattenere il calore. Tremava meno del giorno precedente e le guance avevano riacquistato un po' di colorito, però il freddo lo sentiva.
- Fermiamoci lì. - Airis indicò un laghetto semicongelato, - Sia tu che io abbiamo bisogno di riprendere fiato. -
Arghail fece un cenno d'assenso e si mise al suo passo.
Controllarono i dintorni dello spiazzo prima di sedersi su un tronco caduto a mangiare con i Ghedharvha, legati al ramo di un albero.
- Come ti senti? - lo interrogò Airis.
- Meglio, decisamente. - rispose, strappò un pezzo di carne affumicata e lo masticò con calma, - Tu, invece? Fresca come un fiore? -
- Come sempre. -
- Essere l'eroina della situazione ha i suoi vantaggi. -
- Molti più svantaggi che vantaggi, te lo assicuro. -
Arghail accennò un sorriso e sorseggiò dell'acqua. Rubia allungò il muso, annusò quello che stava mangiando e poi lo ritirò, tornando a mangiare le foglie dell'albero.
- Prima di arrivare alla capitale, dovremmo trovare un modo per nascondere i tuoi capelli rossi. Così come sei ti riconoscerebbero tutti. -
Airis guardò una ciocca. Sopravvivevano alcune strisce nere, per lo più scolorite, e il rosso si stava pian piano riappropriando della sua capigliatura.
- C'è la possibilità che Hallende sia già a Sershet? -
- Potrebbe, ma non sono sicuro che sia già ripartita da Porto Eamone. È molto brava, e con questo tempo non so se ha potuto prendere congedo. -
- Speriamo che si calmino, allora. A parte mia madre, non ho molte conoscenze in città. -
Arghail incrociò le braccia sul petto, meditabondo.
- Potremmo provare a farti entrare con il cappuccio sul capo, ma è troppo rischioso. Di questi tempi, con la guerra che si sta inasprendo sempre di più, molte persone decidono di abbandonare le proprie case per cercare rifugio a Sershet. Per ordine della regina, i controlli sono diventati molto, molto rigidi. Non ti lascerebbero passare senza aver prima appurato che non sei pericolosa. -
- Immagino tu non conosca nessuno che ci possa aiutare. -
Il capitano si massaggiò la radice del naso: - Potrei provare a mandare un messaggio alla consigliera Azlan per vedere se può darci una mano. -
- Conosci la consigliera?! -
- Sì, l'ho incontrata un paio di volte. -
- Non mi dirai nulla di più, immagino. -
Arghail distolse lo sguardo.
- Mi dispiace... - sospirò e dal suo tono Airis capì che era sincero.
- Se ci può aiutare a entrare in città, farò finta che tu non mi stia palesemente nascondendo qualcosa. - arricciò le labbra in una finta smorfia contrita che lo fece ridere.
- Sai essere divertente anche tu, allora. -
- A volte. - concesse, mentre masticava una fava.
All'improvviso, tutto si fece quieto. Il vento era calato, il freddo sembrava meno intenso nel silenzio perfetto che li aveva avvolti. Airis saltò in piedi e afferrò la spada, e Arghail impugnò l'ascia. Si avvicinarono, schiena contro schiena, scrutando tra gli alberi. Ogni cosa attorno a loro taceva, immobile.
Un'ombra passò tra i rami, seguita da altre due. Il sole sopra di loro ne distorceva la figura, e la troppa oscurità rendeva difficile capire cosa fossero. Quando scesero di quota, entrambi si avvidero che erano falchi, grossi come aquile. Faticavano a volare, la loro apertura alare era troppo ampia per permetter loro grandi manovre in quelle fronde così fitte. Tre ben presto si posarono sui rami più sporgenti, mentre gli altri due esemplari continuarono a sorvegliarli dal cielo, descrivendo cerchi concentrici.
- Non mi piace. - mormorò Arghail.
Airis serrò la presa sulla spada. Non sarebbe servita granché se li avessero attaccati, ma stringere un'arma le permetteva di pensare con più lucidità.
- Avviciniamoci a Rubia e Droguan e speriamo che non ci attacchino prima. -
Il compagno annuì e cominciarono a indietreggiare. Uno dei falchi, quello che si era posato sul ramo più basso, sbatté più volte le ali, stridendo truce, gli occhi gialli fissi sulle sue prede. Gli artigli neri scavavano solchi profondi nel legno.
- Per caso sai ammansire quei cosi? -
- Non ho mai avuto a che fare con dei rapaci assassini, chiedo perdono. -
Airis lanciò un'occhiata dietro di sé. I Ghedharvha erano legati, ma se avessero corso abbastanza in fretta, sarebbero riusciti a sciogliere il nodo e...
“Se lasciamo le sacche per scappare, moriremo. Se non lo facciamo, moriremo lo stesso. Qualsiasi cosa faccia, non c'è via di fuga.”
Senza preavviso, il falco si gettò in picchiata ed emise uno stridio altissimo che fece tremare l'aria, come se un nugolo di frecce l'avesse attraversata, squarciandola. Airis si coprì le orecchie e Arghail l'abbracciò, facendole scudo con il proprio corpo.
Attesero che l'attacco arrivasse loro addosso, di sentire gli artigli e i becchi affondare nelle braccia, nelle gambe, ma non accadde nulla. Il battito d'ali persisteva, però, così vicino da coprire quello dei loro cuori, generando un costante venticello freddo.
Quando Airis alzò lo sguardo, i tre falchi erano lì, sospesi in aria, che li fissavano con i loro quattro occhi d'ambra.
- L'orecchino sta brillando... -
L'espressione stupita di Arghail la convinse a spostare la sua attenzione alla sua destra, a toccare con mano il drago di cristallo nero. Era leggermente tiepido al tatto, un calore che si sprigionava dall'interno. In quel momento Airis capì: non era lei che guardavano, ma l'orecchino.
“Cosa mi hai dato, Urian?”
I falchi volarono in alto, svanendo nella penombra, silenziosi com'erano arrivati. Quando rimasero soli, Arghail sospirò e si piegò sulle ginocchia, l'ascia ancora stretta in mano, prima di raddrizzarsi e slegare i due Ghedharvha.
- Andiamo via, in fretta. - la esortò, porgendole le briglie.
Airis non se lo fece ripetere due volte. Montò in sella subito e piantò i talloni nei fianchi di Droguan per costringerlo ad andare più veloce. Imprecò quando colpì con una spalla un ramo troppo basso e gli aghi rossi le rimasero impigliati nel mantello e nei capelli, ma continuò a spronarlo finché non si furono lasciati alle spalle la foresta. Soltanto allora Arghail si concesse di trarre un vero sospiro di sollievo.
- Erano i falchi dei Fae? - domandò, la pelle resa lucida dal sudore.
Airis si voltò. Scorse il profilo dei volatili in lontananza, tre macchie nel cielo. A nord, dove si stavano dirigendo, il cielo si era aperto e le nuvole erano spumoni sullo sfondo blu.
- Sì, direi proprio di sì. -
- Credevo Urian fosse dalla tua parte. -
- Non penso ci sia dietro lui. -
Sfiorò l'orecchino. Brillava ancora, anche se la luce era diminuita assieme al calore che emanava. Li aveva fermati. Non sapeva come, ma li aveva fermati.
- È più probabile che sia stata un'iniziativa degli altri Fae. A parte lui, tutti ci guardavano male. - aggiunse e riprese le redini.
Arghail si passò una mano sulla faccia e si massaggiò la fronte.
- Qualsiasi sia la verità, ci conviene ripartire. Fuori dalla foresta siamo dei bersagli ancora più facili. - si avvicinò e gli batté una pacca sulla spalla per richiamare la sua attenzione, - Se non ci fermiamo più fino a sera, dovremmo arrivare a un'altra zona boschiva. Cercheremo lì un riparo per la notte. -
Si rimisero in marcia. I Ghedharvha procedevano a passo sostenuto, senza farsi quasi mai distrarre dai ciuffi d'erba che di tanto in tanto spuntavano tra le rocce. Era come se avessero assimilato l'inquietudine dei loro cavalieri e volessero anche loro arrivare il prima possibile a destinazione. Più d'una volta, nel pomeriggio, passarono sopra le loro teste vari falchi e aquile, ma le bestie che avevano tentato di attaccarli non si rifecero vive.
Verso sera si inoltrarono in una foresta di pini. La neve giaceva al suolo in macchie grigiastre e informi e aveva spruzzato di bianco i rami più in alto. L'aria era più umida che fredda e aderiva alla pelle come un vestito troppo stretto.
“Almeno non si gela.”
- Fermiamoci qui, siamo abbastanza riparati. -
Scelsero un pino vecchio, con le fronde abbastanza ampie e serrate a costituire un tetto verde sopra le loro teste. Decisero che fosse meglio non accendere il fuoco, per evitare di segnalare la loro posizione ai falchi assassini o a qualsiasi altra creatura di passaggio. Tennero la guardia alta per tutta la cena, masticando piano, senza proferire parola. La paura acuiva i loro sensi e ogni rametto spezzato, ogni fruscio poteva nascondere una minaccia.
- Due ore ciascuno, se ti va bene. Comincio io. - propose Airis.
Arghail la squadrò circospetto: - Siamo sicuri che mi sveglierai per darti il cambio? -
- Dormire sulla sella è scomodo, preferisco il terreno, almeno posso sperare di chiudere occhio. - intrecciò le dita sul pomolo della spada e vi appoggiò il mento, - Quello che hai fatto oggi è stato molto stupido. -
Il capitano aprì la bocca per ribattere, ma Airis lo precedette.
- Sono un soldato, prima che una donna, e devi trattarmi come tale: mi sono guadagnata il diritto di essere considerata una tua pari e pretendo il rispetto che mi è dovuto.-
- L'ho fatto perché siamo compagni. Ci dobbiamo coprire la spalle a vicenda. -
- Stronzate. - gli lanciò un'occhiata obliqua e il suo tono si indurì, - Prima il mantello, ora questo. Non sono una ragazzina indifesa, ficcatelo in testa.-
Arghail si fece serio e la fissò con così tanta intensità che per Airis fu impossibile distogliere lo sguardo.
- Non sono tanto stupido da pensare che abbiate bisogno di un cavaliere che combatta le vostre cause, Generale. Quello che ho fatto, l'ho fatto per te, così come lo avrei fatto per chiunque altro, uomo o donna.-
La guerriera non rispose, impressionata dalle sue parole, dall'ardore con cui le aveva pronunciate. Il fastidio però rimase lì e la istigò, facendole venire ancora più voglia di prenderlo a pugni. Scosse la testa e rivolse gli occhi al cielo, oltre le chiome degli alberi. Era limpido, raso blu intessuto di una moltitudine di stelle. Archi sottili e brillanti raggi di luce iridescenti si perdevano nell'infinito e, come tende ingrossate da un gentile vento estivo, ondeggiavano in un ventaglio di giallo, rosso e verde.
- I Fuochi della Volpe. - mormorò Arghail senza fiato.
Airis ci mise un attimo a capire cosa le avesse detto. Erano uno spettacolo comune nelle terre innevate, ma il suo mondo, quando era arrivata lì, era stato ancora tutto buio.
- Sono... sono davvero bellissime. - riuscì a dire.
- Non li avevi mai visti? Ma com'è pos... - Arghail si zittì prima di terminare la frase, - Mi dispiace, mi ero dimenticato. -
- Meglio, significa che per te non sono mai stata cieca. - gli diede una pacca sulla spalla e tornò a sedersi, - Se succede qualcosa, ti sveglio. -
- Svegliami anche per darti il cambio. -
Airis sospirò sconsolata. Aveva incontrato ben pochi uomini così cocciuti in vita sua e lui doveva esserne il capo.
- Hai bisogno anche del mio mantello? -
- No, ci penserà Rubia a non farmi morire assiderato. - si stese vicino al Ghedharvha e si coprì come poté, - Tieni gli occhi aperti. -
- Lo farò. Ora dormi. -
Arghail annuì e chiuse gli occhi. Si addormentò dopo poco, vinto dalla stanchezza. Aveva la mano stretta a pugno sul petto, dove fino a poco tempo fa portava l'anello. Lo faceva ogni notte, persino nella posizione più scomoda: era come se senza si sentisse perduto e dovesse tenerlo tra le dita per non smarrire la strada. Anche lei, in passato, aveva avuto bisogno di aggrapparsi a qualcosa per non sprofondare. Adesso, senza più il peso del cristallo al collo, sentiva una forte nostalgia.
“Mi manchi, Delia.”
Rivolse la sua attenzione al cielo e rifletté sul fatto che i Fuochi della Volpe si potevano ammirare nei mesi più bui, quando l'estate svaniva e l'autunno incalzava.
“Un altro effetto dell'esplosione.”
Tuttavia, non riusciva a preoccuparsene. L'angoscia si era acquattata in un angolo della sua mente, nascosta assieme a Ledah, a Lysandra, a Aesir, ammaliata dal balletto celeste. Toccò la stoffa della tunica all'altezza del tatuaggio.
“Appena arriveremo alla capitale, lo controllerò. E farò tutto ciò che sarà giusto fare per vincere.”
Intanto la volpe correva veloce nel cielo, continuando a colpire la coltre di neve.
 
Il quinto giorno, Airis svegliò Arghail poco dopo che era sorto il sole. Fecero colazione scambiandosi giusto qualche parola sull'ultimo turno di guardia e lei gli riferì che, a parte qualche starnazzo notturno, non era successo nulla.
- Ottimo. Come stiamo messi a provviste? -
- Dovrebbero bastare per ancora qualche giorno. Se iniziassero a scarseggiare, stringeremo i denti. -
Arghil assentì. Aveva i capelli tutti scompigliati, anche peggio dei suoi, e delle brutte occhiaie.
- Ci credi che non vedo l'ora di arrivare a Sershet? Ho bisogno di riposare in un vero letto. -
- Non credevo che lo avrei mai detto, ma anche io. - concordò Airis.
- A tal proposito... hai intenzione di andare a casa tua? -
Le si bloccò il respiro in gola. Si alzò di scatto e diede subito le spalle ad Arghail, fingendo di controllare le cinghie che assicuravano le borse a Droguan.
- Non lo so. -
- Ho toccato un tasto dolente? -
- No, solo che non ho ancora deciso. - mormorò e in parte era la verità.
Con tutto quello che era accaduto, non si era mai soffermata a riflettere su cosa avrebbe fatto una volta arrivata a Sershet. Non aveva un piano, non aveva avuto il tempo, o il coraggio, di studiarne uno. Ora sentiva il cuore pesante e aveva le viscere aggrovigliate, mentre il dialogo che aveva avuto con Davsten prima di partire per Llanowar le si riaffacciava alla mente. Erano volate parole pesanti quel giorno, e lei alla fine se n'era andata salutando soltanto sua madre. Ora loro la credevano morta e l'ultimo ricordo che serbavano era quel litigio. Non se lo sarebbe mai perdonata.
“Idiota.”
Inspirò l'aria frizzante del mattino e lasciò che il freddo scacciasse gli ultimi strascichi del sonno.
Arghail trattenne lo sguardo su Airis ancora una frazione di secondo, prima di montare in sella e attendere che fosse lei a fargli strada.
Percorsero una buona parte della strada in silenzio, i sensi all'erta focalizzati su ogni movimento sulle loro teste. L'inquietudine era un sentimento costante che aleggiava tra di loro, più soffocante dell'umidità nell'atmosfera.
Airis spesso toccava l'orecchino per ritrovare la calma e arginare il fiume di pensieri che rischiava di farla annegare.
Quando il sentiero cominciò a declinare, si sentì più tranquilla. Le montagne si chiusero su di loro man mano che si inoltravano in una gola molto stretta, dove la neve si era accumulata così tanto da ghiacciare le pareti. Il vento sibilava tra le rocce e le sporgenze, sferzava la strada e le loro spalle. Arghail si alitò sulle mani e le strofinò sui vestiti. Erano rosse e intorpidite, e si serravano a fatica sulle redini.
- Una volta valicate queste montagne, saremo alla capitale in tre, massimo quattro giorni. Lì potrai finalmente riposare in un vero letto. - scherzò Airis.
- Non vedo l'ora, guarda, comincio a sognarlo anche di notte. - borbottò, si raddrizzò sulla sella e trasse un profondo respiro, massaggiandosi il fondoschiena, - Non ce la faccio più nemmeno a cavalcare. -
- Adesso capisci perché preferisco viaggiare a piedi? -
- Addirittura? Sei strana, lasciatelo dire. -
La guerriera si concesse una risata.
- Lo so, anche mio pad... -
Una freccia si piantò nel terreno a pochi pollici dalle zampe di Rubia. Il Ghedharvha nitrì e arretrò spaventato. Droguan tirò le briglie così forte che Airis quasi perse la presa. Un altro sibilo tagliò l'aria vicino al suo viso e rimbalzò con su un masso alle sue spalle. Le ombre di tre falchi oscurarono il cielo.
- Imboscata! -
Si buttarono a terra, poco prima che i rapaci riuscissero a ghermirli. Rotolarono per un paio di braccia e si rialzarono leggermente scossi. I due Ghedarvha imbizzarriti tiravano cornate a destra e a manca, senza mai colpire il bersaglio, scalciando come forsennati per difendersi dalle artigliate che li colpivano da ogni lato. Rubia tentò di scappare, ma le sacche erano tante e pesanti, e i due falchi che l'avevano assalita la raggiunsero subito. Emise un nitrito agghiacciante quando le strapparono un occhio.
- Andiamo, andiamo! -
Arghail la strattonò e Airis si rimise in piedi. L'orecchino era caldo e brillava con forza.
“Non ci proteggerà, stavolta.”
Il suo sguardo corse alla spada. Giaceva a terra, sporca di fango e ghiaccio sciolto.
- Corri! -
L'urlo di Arghail bastò a metterle le ali ai piedi. Si precipitò verso di Rubia a zigzag, veloce come non lo era mai stata, il fiato che si condensava in nuvolette di vapore davanti al suo viso. Afferrò la spada e, senza fermarsi, con Arghail alle calcagna, deviò verso la parete di pietra. Una freccia le aprì un taglio sulla spalla e un'altra la costrinse a cambiare traiettoria all'ultimo. Le ombre si nascondevano tra i massi, troppo in alto perché potesse vederli. I nitriti e gli scalpiccii disperati di Rubia e Droguan le giungevano attutiti, così distanti da disperdersi nell'eco del suo cuore al galoppo nel petto. L'unico suono netto erano i suoi passi e quelli di Arghail, e i loro respiri spezzati.
I loro aggressori li seguivano da sopra. Erano così veloci e leggiadri che quasi faticava a sentirli.
“Fae.”
Quel pensiero le raggelò il sangue e bastò per farla accelerare. Era un'intuizione emersa dal nulla, priva di basi, ma alimentò la paura come il vento le fiamme di un incendio.
“Manca poco, ce la posso fare.”
Il sudore le imperlava la fronte e le bruciava gli occhi, dandole l'impressione che il valico fosse più lontano di quello che in realtà era.
Improvvisamente, delle figure saltarono giù dalle pareti di roccia, atterrando a una trentina di piedi davanti a loro. Airis rallentò fino a fermarsi, mentre Arghail si bloccò di botto e quasi le venne addosso.
Quattro uomini, vestiti con abiti da cacciatore, li fissavano dall'entrata della gola. Uno aveva i capelli fulvi come quelli di Urian, gli altri sfoggiavano chiome castane o persino azzurro chiaro. Avevano tutti un arco in mano e una faretra sulla schiena; alla cintola era appesa una spada dalla guardia stretta, ancora foderata. Un falco si posò sul braccio di quello più alto, un uomo con la mascella squadrata e un sopracciglio solcato da una cicatrice bianca. Il volatile aveva le zampe e il becco lordi di sangue.
- Merda. - sputò Arghail.
Airis strinse la spada. Non avrebbe trovato parole migliori per definire la loro situazione in quel momento.
- Dacci l'orecchino, umana. - ordinò il Fae dai capelli fulvi, - Appartiene al Darhaid, le tue mani luride non sono degne di toccarlo. -
- È stato lui a darmelo. Estìar mi ha scelta tra i candidati, Cyril mi ha investita e Urian mi ha messo alla prova. In nome di ciò che sono, vi comando di lasciarmi passare. -
Non era la sua voce, quella. Veniva da dentro di lei e attingeva da una conoscenza antica, che non sapeva di possedere. I contorni della gola divennero sfocati per un istante, si liquefecero al limitare del suo campo visivo, per poi riassumere consistenza al primo battito di ciglia.
I Fae la scrutarono intimoriti. Due, i più giovani, persero le loro espressioni tracotanti e indietreggiarono. I falchi alzarono il capo di scatto e appuntarono lo sguardo su di lei, immobili.
- Sei un'umana, non sei degna di portare quell'orecchino. - reiterò con un ringhio il Fae con la cicatrice, - Nessuno di voi bestie lo è mai stato. -
- Airis, non so perché stai provando a ragionarci, è inutile. - le fece notare Arghail.
“Non so nemmeno io cosa sto facendo.”
- Toglietevi dai piedi, non ho intenzione di ripeterlo una seconda volta. - dichiarò e svolse la spada dagli stracci, divaricando le gambe.
La risata che proruppe dalle labbra del Fae era armonica, argentina. Se non avesse avuto una luce feroce negli occhi, Airis ci sarebbe cascata.
- Vuoi davvero morire, allora. Vorrà dire che ti mangerò mentre starai agonizzando a terra. Ho sempre amato il sapore della paura. - le labbra tremarono e si schiusero sui denti da squalo, - È da tanto che non assaporo carne umana fresca. -
Airis inspirò piano. In quell'istante, il balugino metallico dell'ascia richiamò la sua attenzione da sotto il corpo esanime di Rubia.
- Riesci a recuperarla? - bisbigliò all'indirizzo di Arghail.
Il Fae intanto si stava avvicinando. I suoi compagni lo fissavano, indecisi sul da farsi. Quelli più giovani, due ragazzi con i capelli verde acqua e il viso imberbe, si scambiarono delle occhiate insicure tra di loro, prima di seguire gli altri. Tutti avevano sguainato le spade, ma i falchi erano volati su uno sperone di roccia. Il terzo, con ancora i brandelli di carne tra gli artigli, si unì quasi subito. Non appena prese il volo, Arghail afferrò l'ascia con uno slancio fulmineo e affiancò di nuovo Airis.
- Spero tu abbia un piano. - le sibilò tra i denti, attento a non perdere di vista nessuno dei nemici.
Airis fece saettare lo sguardo a destra e a sinistra. C'era una rientranza nella parete di roccia a una decina di piedi alle loro spalle.
- Hai ancora fiato? -
Arghail rimase un attimo interdetto. Arretrò con lei, l'ascia stretta tra due mani davanti al viso, e girò leggermente il capo.
- Potrebbero essercene altri nascosti. -
I Fae erano a una cinquantina di braccia e al loro capo bastò seguire la traiettoria degli occhi di Arghail per capire cosa avevano in mente. Il sorriso sulle sue labbra si fece più largo.
Erano circa dieci di passi di corsa, quasi completamente allo scoperto, sotto il tiro di altri arcieri, per infilarsi in una grotta buia che conduceva chissà dove: un suicidio annunciato.
- Non abbiamo altra scelta. - rispose semplicemente.
Condivisero un ultimo sguardo d'intesa, poi Airis scattò.

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Capitolo 19
*** Veleno ***


Fuoco 2

18

Veleno

La caverna era buia e stretta. I loro passi e quelli dei loro inseguitori rimbombavano, echeggiando a lungo prima di perdersi nel nulla. Airis correva senza guardarsi indietro, seguendo il percorso naturale scavato nella roccia col cuore in gola e i muscoli delle gambe in fiamme. La paura scorreva nelle vene e le pervadeva i sensi; era il carburante del suo corpo, della sua mente.
- Prendeteli! -
- Sono là, li vedo! -
Arghail la superò, l'afferrò per il polso e imboccò una galleria a destra. Airis slittò, si diede di nuovo la spinta coi piedi e lo seguì. Udì voci concitate, un rumore sordo, un'imprecazione, un rapido e incomprensibile scambio di battute. Lo scalpiccio si affievolì, per poi riprendere meno intenso. Uno, due, tre nemici. Qualcuno era stato lasciato indietro.
Airis si infilò in un altro cunicolo, più basso, ancora più stretto. Furono costretti ad abbassare la testa, con le spalle che strusciavano contro le pareti, uno dietro l'altra.
- Dove sono andati? - ansimò.
Arghail si mise un dito davanti alle labbra per suggerirle di fare silenzio. I passi si divisero: un paio si gettarono al loro inseguimento, gli altri due presero un'altra direzione. Arrivarono a un bivio. Airis si fermò e Arghail sbirciò oltre la galleria di sinistra. Il respiro aveva smesso di condensarsi e si mescolava all'umidità crescente, che stava pian piano impadronendosi del loro ossigeno.
- Dove? - chiese Arghail con voce rauca.
Airis girò la testa a destra e a sinistra. Non riusciva a vedere niente, era buio pesto e i Fae si facevano sempre più vicini. Avevano anche aumentato l'andatura per raggiungerli. Presto li avrebbero trovati.
- Di qua. - decise.
Lo prese per mano e lo trascinò nella galleria di sinistra. Il terreno declinava e si inoltrava nel buio a perdita d'occhio. Arghail si sbilanciò in avanti, ma Airis lo sostenne e lo strattonò. Lui emise un singulto soffocato e riprese a correre a rotta di collo. Tremava per lo sforzo di non rallentare, a volte mancava dei passi o ne strascicava un paio, ma poi riacquistava il ritmo.
Nell'aria stantia e calda si fece strada il mormorio quasi impercettibile dell'acqua. Era lontano, veniva da tutte le direzioni e da nessuna.
“Resisti, maledizione, resisti.”
Airis contrasse la mascella e svoltò a sinistra, poi destra e di nuovo a sinistra. I polmoni bruciavano, la cassa toracica ne limitava l'espansione e l'aria era sempre più calda, sempre più irrespirabile, ed entrambi accusavano ormai i morsi della fatica, dell'acido lattico che induriva i muscoli e li dilaniava dall'interno. I loro inseguitori, invece, non avevano mai rallentato. Si bloccò prima di oltrepassare un'altra galleria. Il corpo si inclinò, la caviglia sbatté contro una sporgenza acuminata e per non cadere dovette aggrapparsi alla parete. Si graffiò la mano e si ruppe le unghie dell'indice e dell'anulare, ma il dolore le diede lo slancio per continuare a correre.
Superarono cinque tunnel, prima di trovarne uno abbastanza largo da non costringerli a mettersi in fila indiana, le mani sempre a contatto, mai troppo distanti. Lo scrosciare di un corso d'acqua si fece sempre più nitido. Doveva essere un fiume sotterraneo o una vena acquifera abbastanza grande e impetuosa da generare quel rumore: era lì che dovevano arrivare.
- Ferma! -
Troppo tardi. Airis si sentì mancare la terra sotto i piedi. Il vento soffiò dal basso, e le scompigliò i capelli dall'infinito vuoto sotto di lei. Il tempo parve fermarsi e lei rimase sospesa, la bocca congelata in un grido muto. Il cuore sussultò quando la gravità la tirò giù.
- Airis! -
All'ultimo istante Arghail le agguantò il polso, che scricchiolò in modo inquietante. Airis strinse i denti e si morse la lingua per trattenere i gemiti di dolore, mentre il buio si riempiva di pallini bianchi e rossi.
- Ti tengo. - la rassicurò e strinse l'altra mano poco sopra il gomito.
I muscoli delle spalle e delle braccia tremavano per lo sforzo. La issò di forza, la prese da sotto l'ascella e tirò ancora. Airis tentò di aiutarlo, appoggiò i piedi alla parete e spinse, mentre l'unica mano libera rimaneva aggrappata alla sua spalla. Fece leva sulle suole, ma la parete era troppo liscia, umida. Scivolò ancora di più e il capitano perse la presa, andando giù con lei.
- Prendeteli! -
I Fae erano arrivati. Erano lì, alle spalle di Arghail, Airis poteva sentire distintamente i loro passi a poche braccia da loro. Si scambiarono uno sguardo, uno solo. Nel buio, gli occhi dell'amico erano dei riflessi a malapena visibili, o forse era solo uno scherzo della paura, non poteva esserne certa.
- Vi avevamo detto che vi avremmo mangiati. -
Un risolino agghiacciante strisciò nell'oscurità, assieme alle sagome indistinte dei Fae. Airis guardò nuovamente il vuoto sotto di sé. Lo scrocio sordo del fiume saturava il silenzio, un suono irridente che faceva sembrare le esclamazioni eccitate dei loro inseguitori ancora più spettrali e sinistre. Gli spruzzi si innalzavano fino a lei, le avevano bagnato gli stivali e inumidito i pantaloni, ma non c'erano garanzie: poteva essere a dieci braccia come a trenta, l'eco non le permetteva di stimarlo. La scelta era spaccarsi le ossa o diventare la cena dei Fae. Artigliò Arghail per le spalle e lo tirò oltre la sporgenza, rompendo l'equilibrio precario tra braccia e gambe. Il capitano fece appena in tempo ad afferrare l'ascia.
Il dolore all'impatto la trafisse come mille spilli. Chiuse gli occhi ed emise un gemito sofferente che sfociò in un gorgoglio di bolle, mentre l'acqua le aggrediva la gola e le narici, trascinandola in basso con il peso della spada e dei vestiti. La corrente era forte, incontrollabile, e per quanto tentasse di combatterla non riusciva a opporsi. L'acqua vinse la barriera del suo respiro e Airis cominciò a soffocare. Arghail non era più con lei, si erano divisi durante la caduta, non c'era nessuno che potesse aiutarla. Sgambettò per cercare un appoggio, un masso, una sporgenza, ma i suoi piedi si allungarono nel nulla: stava annegando e non poteva fare niente per impedirlo.
“Delia, Davsten, madre... ”
Le sue grida divennero bolle. L'acqua si appropriò delle sue forze, le palpebre divennero pesanti, il sangue si raggelò fino a diventare piombo liquido nelle vene, pesante e vischioso come il liquido che le stava riempiendo i polmoni. La corrente la sbatté contro un masso, a cui Airis tentò di ancorarsi. Allungò le mani alla cieca e ne sfiorò appena la superficie bagnata, prima di essere nuovamente travolta.
“Ledah...”
L'acqua si infiltrò nei suoi pensieri e li strinse tra le sue dita ghiacciate fino a romperli. Esplosero tutti insieme e le schegge, gelide e taglienti, le si conficcarono nel cervello, inchiodando i lembi restanti della sua volontà alla parete della scatola cranica.
Una mano l'afferrò per il braccio e poi, improvvisamente, lo tirò finché Airis non percepì la consistenza pesante della lana. La dita affondarono nel costato, poco sotto il seno e tutti i muscoli si tesero sotto la manica.
- ...is. -
Qualcuno la stava chiamando da mille miglia, ma lei non poteva rispondere, non ci riusciva.
- Airis! -
La presa si serrò di più, abbastanza da comprimere il diaframma contro il petto, così forte da farle sputare l'acqua. Aveva un sapore acido, disgustoso, bruciava come bile sulla lingua e in gola.
- Svegliati! Svegliati, maledizione! -
Airis tossì ancora, fino a quando la gola non cominciò a farle male. Le tremavano le membra e la vista era un vortice di pallini bianchi, però ora almeno respirava.
- Non... non ce la faccio. - gemette Arghail, - Non riesco a tenermi... -
Un'onda lo investì in pieno viso e la sua mano slittò sulla roccia. Airis udì la sua mascella scricchiolare, mentre il capitano lottava per non essere trascinato via. Pareva febbricitante mentre la stringeva a sé, nient'altro che un peso morto tra le sue braccia. Un'altra onda, ancora più forte della precedente, si schiantò su di loro. Arghail venne sbalzato indietro. In un impeto, Airis distese il braccio e piantò le unghie nella roccia. Le infilò in due piccole rientranze asimmetriche, si tenne e il capitano si aggrappò a lei prima che la corrente lo inghiottisse.
- Arghail, non lasciarmi! - urlò per sovrastare il ruggito del fiume.
- È troppo fort... - l'acqua gli finì in bocca e gli ricacciò la frase in gola, - Non ce la faccio, non resisto più. -
La guerriera serrò i denti. Aveva perso sensibilità nella mano che stringeva la spada e le dita nella roccia sanguinavano, spedendole continue scariche di dolore che le facevano girare la testa. Raccolse le energie che le rimanevano e tese i muscoli. Un'onda la investì, più aggressiva e feroce delle altre. Airis perse la presa e le acque li sommersero.
 
La prima cosa che Airis percepì quando riprese i sensi fu la consistenza dura e fastidiosa di ciottoli sotto la schiena. Le braccia erano dolorosamente stirate. Riaprì piano gli occhi e vide sopra di lei il soffitto della caverna, adornato da stalattiti di cristallo nero. La luce filtrava attraverso piccoli e sporadici fori e rimbalzava sui lucenti blocchi cristallini, spade lisce piantate al suolo alte più di nove braccia. Armi degli antichi dei, incastrate nel suolo, uniche reduci di una battaglia.
Con la testa urtò un sasso. La vista sfarfallò e dovette chiudere più volte le palpebre per riacquisire lucidità. Il soffitto si era mosso? O erano i cristalli a seguirla? Intorpidita com'era, non riusciva a capirlo. Inspirò ed espirò.
Udì due voci che parlavano in una lingua che non conosceva, ma la riconobbe come la stessa che aveva sentito in bocca ai Fae che li inseguivano. Mosse le dita, le chiuse un paio di volte per riacquistare sensibilità e concentrò la sua attenzione sui polsi, legati con una corda. Allora era stato tutto inutile: alla fine erano stati catturati. Non era il soffitto a muoversi, erano i Fae che li stavano trascinando.
“Arghail?”
Girò la testa alla sua sinistra. Il capitano era lì, anche lui con le braccia legate da un doppio nodo. La sua testa sobbalzò quando urtò un cristallo sbeccato e le palpebre tremarono, come se si stesse per svegliare. Quando incontrò lo sguardo di Airis, questa gli fece segno di rimanere in silenzio.
I Fae continuarono discutere tra di loro in una serie di botta e risposta, intervallate da risatine e pugni sulla spalla. Quello che trascinava Arghail era una donna con le spalle larghe e muscolose, il collo taurino e i capelli tagliati corti così da scoprire la nuca. Sulle braccia luccicavano delle scaglie rosate che sparivano sotto la tunica. L'altra donna era più esile e alta, e i ciuffi che sbucavano dalla coda di cavallo erano di un bianco quasi trasparente. Portava la sua spada al fianco, legata alla spessa cintura di cuoio con un piccolo anello.
“Pensa, Airis, pensa.”
Socchiuse gli occhi e guardò Arghail. Era umano, non avrebbe potuto aiutarla. Avrebbe dovuto agire da sola e in fretta. Trasse un profondo respiro e gli fece un cenno del capo in direzione della Fae. Arghail annuì e Airis raccolse le forze.
“Vediamo quanto è forte questo nuovo corpo.”
La Fae la strattonò e fece passare la corda sopra la spalla. Airis andò a sbattere contro un cristallo nero. Trattenne un gemito, strinse i pugni, vi si aggrappò con le gambe e tirò con quanta più forza poteva. La donna perse la presa, si sbilanciò e cadde a terra con un tonfo sordo. Non fece in tempo a capire cosa stesse succedendo che Airis le saltò addosso. Le diede una gomitata in faccia, un colpo netto e preciso che le spaccò il setto nasale. La Fae urlò e si portò le mani al viso per difendersi, mentre combatteva per liberarsi.
Airis captò un rapido movimento al limitare del suo campo visivo. Girò di scatto la testa, pronta alla lotta, quando Arghail afferrò l'altra Fae per la caviglia e la fece inciampare. Le montò sulla schiena e le passò la corda attorno alla gola, cercando di evitare i suoi calci.
La distrazione le costò un pugno al fianco sinistro. Grugnì e ne incassò un altro. La Fae aveva gli occhi bianchi iniettati di sangue, le labbra sottilissime schiuse sui denti da squalo. Airis le sferrò un colpo alla tempia. Si chiese, forse per la decima volta, per quale maledetto motivo qualsiasi essere senziente che incontrava si ostinava a metterle i bastoni tra le ruote.
- Vuoi mangiarmi, figlia di puttana? - ringhiò furiosa, - So io cosa farti assaggiare. -
Strinse la presa sul suo bacino con le cosce e la colpì alla mandibola, poi alla bocca con una forza disumana. L'osso uscì d'asse e le labbra esplosero imbrattando le sue mani di sangue. Vicino a lei la lotta tra Arghail e la seconda Fae andava avanti, ma Airis era concentrata sulla sua avversaria. Caricò di nuovo.
- Muori. -
Il pugno andò a segno, così forte da sfondare il cranio della Fae all'altezza della tempia. Airis sentì con nitidezza lo schiocco agghiacciante dello sfenoide che si conficcava nel cervello. Il sangue schizzò dal naso e dalla bocca in uno zampillo violento.
Un urlo atroce e disperato riecheggiò nell'aria a poca distanza dalla guerriera. La Fae rimasta assestò un manrovescio ad Arghail con così tanta forza da buttarlo a terra e si scagliò contro Airis, che ebbe appena il tempo di allontanarsi dal corpo sotto di lei prima di essere investita.
Indietreggiò senza perdere d'occhio la donna che era caduta in ginocchio accanto al cadavere della sua compagna. Piangeva, ogni sua parola era interrotta dai singhiozzi, il viso affondato nel petto della Fae morta.
Airis andò a scontrarsi contro una colonna di cristallo nero obliqua. Il lato era tagliente, scheggiato in più punti. Vi appoggiò la corda sui polsi e cominciò a segarla, muovendo velocemente avanti e indietro le braccia.
La Fae superstite adagiò la testa dell'altra contro il masso dove Airis si era attaccata e le sfilò la spada dal fianco. Aveva negli occhi la rabbia della disperazione e mostrava i denti come un lupo braccato dai cacciatori. Avanzò trascinando la punta dell'arma sul terreno, lo sguardo spiritato fisso su di lei. Raggiuntala, vibrò un colpo calante a due mani. Airis riuscì a liberarsi per un soffio, prese la corda e rotolò di lato, togliendosi dalla traiettoria della lama. Riuscì a malapena a rialzarsi. La Fae mulinò la spada una seconda volta, stavolta in obliquo. Airis balzò all'indietro e ripristinò la distanza di sicurezza. Tese la corda con entrambe le mani e si spostò, poi cambiò ancora direzione e tornò sui suoi passi. La nemica la seguì con lo sguardo. A volte i suoi muscoli avevano uno spasmo, come se stesse per attaccare, ma poi restava ferma.
- Vieni a prendermi! - la provocò Airis e arretrò fino al cadavere.
Non era sicura di essere capita, ma sinceramente non le importava.
- Cos'è, hai paura? -
Poggiò il tallone sulla mano della Fae morta e la schiacciò. Le ossa emisero un gemito atroce. L'altra ringhiò feroce e le corse incontro. Menò un rapido colpo al ventre, ma Airis lo schivò, strisciò di lato, si portò veloce alle sue spalle e le strinse la corda attorno alla gola per strozzarla.
- Non vi permetterò di ostacolarmi ancora. - le sibilò all'orecchio.
La Fae le tirò una testata che la prese sul naso. Caddero a terra, una sopra l'altra. La guerriera legò le gambe attorno al suo bacino e tentò di stritolarla, mentre le dita rinserravano la presa sulla corda attorno alla sua gola.
- E chiunque si metterà sul mio cammino, lo ucciderò. -
La Fae scalciò, raspò il terreno con i piedi, le dita che raschiavano la corda e gli occhi rivoltati all'indietro. I capillari scoppiarono e le labbra sbiancarono. Nella bocca spalancata, la luce si rifletté in un barbaglio rossastro sui denti da squalo.
- Adesso vai, raggiungi la tua compagna e ricordati di me. -
Il collo si ruppe con uno schiocco e, in rantolo sommesso, la Fae smise di muoversi. La corda le aveva scavato due profondi solchi rossi nel collo e, quando Airis si levò il corpo di dosso, si staccò portandosi via una parte della pelle.
- Fottiti. - mugugnò tra i denti e si portò vicino ad Arghail.
Il capitano si era messo a sedere e si teneva la faccia. Aveva un occhio nero, uno zigomo rotto e le labbra tumide, nonché il segno di un morso sul braccio.
- Riesci ad alzarti? -
Arghail annuì, ancora intontito. Quando si mise in piedi, ebbe un capogiro e Airis lo dovette sostenere finché non si tenne saldo sulle sue gambe. Anche in quel caso, le ginocchia gli tremavano per lo sforzo.
- Lasciami, ce la faccio. -
- A me non sembra. -
Era un miracolo che fosse sopravvissuto alla colluttazione con solo qualche livido e osso rotto. Come se avesse intuito i suoi pensieri, Arghail arcuò le labbra in un mezzo sorriso: i due incisivi di sopra erano spaccati e aveva perso un canino.
- Non sono una donnicciula indifesa, Generale. -
- I denti te li ha fatti saltare lo stesso, però. - sorrise anche lei di rimando, cercando di alleggerire l'atmosfera, - Consolati, le donne non resistono al fascino delle cicatrici. -
- Non serve che me lo ricordi, Torvir ne è la dimostrazione vivente. -
Ripensare al capitano della “Signora dei Mari” la fece impensierire. Era riuscito ad arrivare a destinazione nonostante la tempesta? Quando il mare si era calmato, aveva mandato qualcuno a cercare i loro corpi, o aveva proseguito come se nulla fosse accaduto?
Forse parò ad alta voce, perché Arghail rispose: - Non lo so. È stata una persona importante per me, un fratello, ma ci sono delle cose che non gli ho potuto e non gli posso dire. -
“I segreti rovinano le amicizie.”
- Credi che ci abbia lasciati indietro, quindi? -
- Forse... non ne posso essere sicuro. Lui è un uomo che cambia idea molto facilmente. -
- Non sappiamo com'è il mare ora. Se il maltempo ha è durato a lungo, sarebbe già un miracolo se fosse riuscito ad arrivare vivo e vegeto alla capitale. - gli fece notare Airis, - In ogni caso, non è un problema che ci riguarda. -
Il capitano concordò con un gesto del capo.
La caverna, un vero e proprio tempio di colonne di cristallo nero, si perdeva nell'oscurità. Il sole sfolgorava luminoso attraverso i fori del soffitto, non doveva essere nemmeno metà pomeriggio. Il rumore del fiume si perdeva in lontananza.
- Tu non eri sveglio mentre ti trascinavano, vero? -
- No. Dobbiamo tornare al fiume, è l'unica soluzione possibile. -
- Senza sapere da dove siamo venuti, rischiamo di perderci e morire qui. - sospirò Airis, - Se hai una proposta, io sono tutta orecchie. -
Il capitano aggrottò le sopracciglia. Sudava e aveva il respiro affannoso, ma Airis lo attribuì all'umidità che permeava l'ambiente: era come essere in una serra.
- L'unica idea che mi viene in mente la puoi realizzare solo tu. - si umettò le labbra secche e la guardò, - Metti la mano a terra e cerca di sentire le vibrazioni dell'acqua. Non so se funzionerà, non ho mai provato. -
- Ci provo. -
Gli consegnò la spada, si inginocchiò, appoggiò la mano aperta a terra e chiuse gli occhi. Inspirò ed espirò finché il suo cuore non si allineò sul ritmo tranquillo che precede il sonno. L'aria calda le scorreva sulle braccia e sulla schiena, il sudore come collante tra la sua pelle e il tessuto della cioppa. Corrugò la fronte, rilassò i muscoli, escludendo quella sensazione di unto che si sentiva addosso, e allontanò i pensieri, tutti quelli che svolazzavano gracchiando nel suo cervello.
All'improvviso percepì un tremolio sotto il palmo. Avanzò di un passo e allungò la mano. A destra si affievoliva, più si protendeva sul terreno più sembrava perdersi. Si spostò di poco più avanti. La vibrazione persisteva, pareva accarezzarla, abbattendosi dentro di lei come onde sul bagnasciuga. Poggiò sul suolo anche l'altra mano e descrisse attorno a sé dei semicerchi, respirando sempre più piano: doveva ascoltare, ricordare come seguire senza gli occhi. Il corpo reagì prima della mente. Proseguì ancora tastando il terreno, i tendini e i nervi che vibravano con maggiore forza per ogni onda che li attraversava. Quando aprì gli occhi, stavano puntando la galleria di sinistra.
- Sei sicura? -
- Abbastanza. - lo prese sottobraccio senza troppe cerimonie, - Non fare quella faccia, hai una pessima cera. -
- Le labbra e lo zigomo non mi fanno sembrare un prode guerriero appena uscito da una sanguinosa battaglia? -
Airis abbozzò un sorriso: - Risparmia il fiato per pensare a cosa faremo una volta usciti di qui. -
La galleria era buia, solo qualche foro permetteva alla luce di illuminare il passaggio. L'umidità non accennava a diminuire e la poca aria proveniente dall'esterno non era sufficiente a rinfrescare l'ambiente o ad asciugare il sudore. Di tanto in tanto, Airis si fermava per controllare che stessero procedendo nella giusta direzione, ma faceva sempre più fatica a concentrarsi. Arghail aveva il respiro affannoso, l'incarnato cereo e le labbra si erano scurite fino a diventare livide. Più che camminare, trascinava i piedi e si appoggiava completamente a lei.
Giunti a un'altra stanza sorretta da colonne di cristallo levigate, lo adagiò a terra e gli mise la mano sulla fronte: scottava.
“Cazzo.”
- Arghail! Arghail, sveglia. - lo scosse finché il capitano non schiuse le palpebre, - Ho bisogno che ti sforzi di non dormire, chiaro? -
- Stavo... stavo solo riposando gli occhi. -
- Dimmi cosa senti. -
Il capitano deglutì. I capillari emergevano sotto la pelle infiammata, tralicci avvizziti che si espandevano fino allo zigomo viola.
- La testa... mi fa male. E ho caldo. - aprì di scatto gli occhi ed ebbe uno spasmo quando tentò di tirarsi su, - Le gambe... non sento più le gambe! -
- Mantieni la calma. - lo incoraggiò, poi gli strinse il braccio e il capitano cacciò un urlo.
Airis ritirò la mano: il sangue che la macchiava era denso, grumoso, più simile a una composta di mele. La ferita era gonfia e spurgava pus. Tastò la cioppa all'altezza del cuore, lì dove sapeva esserci il sacchetto. La tirò fuori e la aprì, estraendo le erbe bagnate. Sebbene secche, in qualche modo erano ancora integre.
“Quali piante usava Delia. Salvia, tiglio, rosmarino... questa non lo so. Somiglia alla lavanda, ma non riesco a capirlo.”
Un ansito sofferente la allarmò. Arghail aveva la schiena piegata in un arco tesissimo, le dita contratte, le braccia e le gambe rigide. Quando cominciarono le convulsioni, ribaltò gli occhi all'indietro e spalancò la bocca in un grido senza voce.
Airis gli bloccò le braccia, lottando per tenerlo fermo. Nell'aria soffocante, l'improvvisa puzza di urina le fece quasi lacrimare gli occhi. Non sapeva cosa fare, come aiutarlo.
- Non puoi morire ora! Sei il prossimo re di Esperya, non ti lascerò crepare in questa grotta schifosa. Hai capito? Ti proibisco di morire! -
La sua vista si annebbiò, i contorni divennero labili e i colori sfumati. Solo Arghail era tangibile e reale. A quel punto una calma innaturale scese su di lei e una coscienza estranea si risvegliò.
Lasciò andare Arghail e ispezionò le altre erbe nel sacchetto: biancospino, sambuco, echinacea, tiglio. Ne masticò alcune sotto i denti e poi sputò l'impiastro assieme a della saliva. Aveva un profumo fresco e intenso, così come si aspettava.
- Sono qui, Arghail. Non ti abbandono. -
Arghail si irrigidì e il suo corpo si rilassò. Tremava ancora, ma la stava guardando, di nuovo presente a se stesso.
- Brucerà, ma tu non devi muoverti, per nessuna ragione al mondo. - lo avvertì e gli prese il braccio.
La ferita pulsava e la pelle tutta attorno era arrossata. Il veleno dei Fae era entrato in circolo e avrebbe presto raggiunto il cuore. Le crisi epilettiche erano solo il primo sintomo di una morte molto più lenta e dolorosa. Anche lei, la Guardiana, era stata ferita, ma il veleno sulla freccia non aveva effetto sul suo nuovo corpo.
Strappò un lembo della manica e lo avvolse stretto attorno al braccio dell'uomo.
- Chi sei? - esalò Arghail.
- Non ha senso sprecare parole per un morto, principe. Risparmia il fiato, le ore che verranno saranno dure per te. - gli disse, si alzò e prese la spada che era caduta a terra.
Arghail ebbe un altro spasmo e si inarcò di nuovo, ma meno di prima. L'impacco stava già facendo effetto.
- Dov'è Airis? Sei un fantasma e ti sei... - storse le labbra in una smorfia sofferente, - ti sei impadronita del suo corpo? -
Le venne da ridere. Non ricordava che i mortali potessero essere così ingenui, era passato troppo tempo da quando era stata una di loro.
- No. Non fare altre domande, non sarò io a dar loro una risposta. - lo prevenne e gli diede le spalle.
Gettò un'occhiata alla ferita sulla spalla della Guardiana. Puzzava, ma aveva già spurgato la maggior parte del veleno. Prese delle foglie di drosera e zenzero e le masticò fino ad ottenere un impasto più grumoso che si affrettò a spalmare sul taglio.
- Vado a prendere dell'acqua, tornerò a breve. - si voltò un'ultima volta e appuntò lo sguardo su di lui, - Hai gli stessi occhi di tuo padre. -
Poi si avviò verso la galleria che l'avrebbe portata al fiume.
Airis sbatté le palpebre per rimettere a fuoco. Davanti a lei scorreva il fiume, il fragore delle sue acque era un ruggito che le invadeva le orecchie. Si tolse la cioppa, rimanendo solo in pantaloni, la immerse nella corrente e attese che si impregnasse. Si sentiva ancora frastornata e il buio ai margini della vista era ancora coperto da una patina biancastra. Durante il tempo in cui l'entità aveva preso il suo posto, Airis aveva guardato attraverso i propri occhi, relegata in un angolo, in silenzio. I pensieri fluivano dalla donna verso la sua coscienza, erano suoi e allo stesso tempo non le appartenevano, ma sentiva che, se avesse voluto, avrebbe potuto riprendere il controllo del suo corpo senza che l'entità opponesse resistenza.
Strappò la manica destra, quella che era stata tagliata dalla freccia, e infilò la galleria per tornare indietro. Procedette per un pezzo al buio, senza sapere che pensare: c'erano già troppe domande insolute, aggiungerne altre le avrebbe procurato solo un gran mal di testa.
“Urian sapeva.”
I fori sul soffitto ricomparvero dopo una lunga salita e il caldo parve affievolirsi. Airis si appoggiò alla parete per riprendere fiato e l'occhio le cadde sul petto. Dalle bende strette sul seno fuoriuscivano dei segni neri, sottili capillari neri simili a quelli della cancrena che si estendevano anche sulle costole. Erano in rilievo e ruvidi al tatto, come se la pelle in quel punto non fosse che un foglio di carta stropicciata. Non era passato nemmeno un mese e il tatuaggio stava già espandendosi.
Un verso inarticolato di Arghail la riscosse. Strinse la mano attorno all'elsa della spada, scattò e corse a perdifiato attraverso la galleria, più veloce che poteva, lasciando che fossero le sue gambe a condurla. La poca luce che filtrava dal soffitto delineò, al suo arrivo, sei figure ingobbite con vestiti laceri, più stracci che altro, e poche e sporadiche ciocche di capelli su una testa altresì innaturalmente glabra. Occhi senza iride o pupilla la fissarono, la bocca senza labbra irta di denti adamantini aperta e piena di saliva. Erano vicini ad Arghail, non avrebbero dovuto nemmeno distendere del tutto il braccio per afferrarlo. Non lo fecero, però. Un ghigno famelico precedette la loro carica contro di lei.
Airis schivò un'artigliata, si portò alle spalle del mostro e menò un fendente in diagonale, che gli aprì la schiena da parte a parte. Il sangue le schizzò sul viso. Gli altri interruppero il loro assalto e indietreggiarono nelle ombre. Respiravano piano, anzi sembravano non respirare affatto. Persino per il suo udito sviluppato era difficile sentirli.
Chiuse gli occhi e si rimise in guardia. Inspirò piano e strinse la spada, tenendola davanti al viso. Dei sassolini rotolarono, un acciottolio che produceva una bassa vibrazione nella terra: si stavano muovendo sul perimetro della stanza, simili a una massa di spettatori durante le lotte tra cani.
Balzò indietro e la bocca di un mostro si chiuse sul vuoto. La lama schizzò in avanti, aprì un taglio nella carne e si ritrasse, per poi affondare con maggiore forza. Il mostro digrignò i denti, li sbatté come se avesse avuto freddo e rinnovò l'attacco.
Airis si girò, affondò e falciò in diagonale, dal basso verso l'alto. La spada incontrò la resistenza degli artigli, ci strisciò sopra in un gemito metallico. Si abbassò sulle ginocchia, descrisse un semicerchio all'altezza dei suoi occhi e stavolta udì la punta farsi strada nella carne ancor prima che l'essere urlasse. Airis scattò e si infilò tra i due che le erano arrivati alle spalle. Colpì il primo al volo, dove sapeva esserci la carotide. Nessun affondo, un unico mezzo movimento dell'avambraccio, rapido e letale. Si sottrasse all'ennesimo attacco con movimenti agili, elegante come un gatto. Il sudore le colava sulle braccia, le inumidiva le labbra e le imperlava le ciglia. Il sangue, quello che era schizzato dal collo del mostro, tamburellò sulla punta degli stivali. Compì tre passi e caricò frontalmente il suo avversario, che però se lo aspettava e arretrò prima che la spada gli aprisse il cranio. Emise un ruggito che risuonò in tutta la stanza come un incitazione di sfida.
Airis allargò le gambe per abbassare il baricentro.
Il secondo mostro la sorprese alle spalle. La guerriera schivò, si girò e calò un fendente a due mani. Il sibilo della lama non si interruppe quando squarciò la carne. Udì un tonfo e un basso rantolio, seguito dal rumore tenue di sassi mossi.
Una mano tentò di afferrarle il collo. Airis danzò lontano, si voltò e colpì il mostro al viso col pomo della spada. Le ossa del naso e della mascella si ruppero con uno schiocco. Lo atterrò con un calcio, lo schiacciò a terra che ancora si teneva uggiolando il viso e lo trafisse al collo. La lama aprì il pomo d'Adamo, trapassò l'esofago, divise la collonna vertebrale e si piantò a terra. Airis gli mise un ginocchio sul petto e appoggiò la fronte contro l'impugnatura della spada. Il sudore le colava sulla schiena in gocce grosse e calde. Inspirò finché non le parve di aver incamerato abbastanza ossigeno e aprì gli occhi. Il mostro la fissava dal basso, con il sangue, il muco e la saliva che gli colavano sulla faccia grottesca. Guardandolo da vicino, Airis vide un'iride e una pupilla azzurrine, così chiare da sparire nel fondo bianco della sclera. Vide anche le orecchie, grandi come quelle di un uomo e affusolate come quelle di un elfo.
“Un Fae.”
Sfilò la spada e se la rinfoderò. Strappò gli abiti del mostro, o qualsiasi cosa fosse, e prese gli stracci che avevano addosso gli altri cadaveri per legarli assieme, in modo da fare una corda. Non sapeva quanto avrebbe retto. Raccolse anche la sua tunica e accorse da Arghail. Era più sudato di lei e respirava a fatica. Airis sperava che l'impiastro avesse arrestato il veleno.
“In ogni caso, non ho le competenze per saperlo.”
Gli tirò su la testa, gliela deterse e poi gli diede un paio di schiaffetti per svegliarlo. Il capitano schiuse le palpebre e la fissò senza vederla davvero, lo sguardo febbricitante e allucinato.
- Apri la bocca. - gli ordinò.
Non si aspettava che avrebbe recepito subito, invece Arghail obbedì. Quando Airis gli strizzò l'acqua sulle labbra, mugolò e strinse la tunica bagnata a sua volta, attaccandosi come un bambino al seno della madre.
- Ora ti lego e ti porto sulle spalle. - mentre lo diceva, fece passare la corda attorno alle gambe e al bacino, - Cerca di non muoverti troppo, sei malato e il veleno ti ha debilitato molto. -
- … lasciami. - tossì e ripeté, - Lasciami qui... -
- Scordatelo. -
- Se non lo fai, moriremo entrambi. -
- Non morirà nessuno. - rispose convinta.
Gli assicurò anche la braccia e se lo issò sulle spalle: era più leggero di quello che si aspettasse.
- Riesci a tirare su le gambe? -
I muscoli ebbero uno spasmo, ma le gambe rimasero lì, inermi a penzoloni. Un gemito proruppe dalle labbra di Arghail.
- Non... non ci riesco. -
- Va bene, va bene. - gliele prese lei e strinse la presa sui polpacci, - Ti tengo io. -
- Sono un peso, lasciami. -
- Stai zitto, sei fastidioso. - ringhiò e si incamminò.
Passi svelti, falcate ampie. Se avesse potuto, avrebbe corso fino al fiume per lasciarsi alle spalle quella tana di... gli dei soli sapevano cosa. Il battito del cuore sovrastava su qualunque altro suono, le riempiva le orecchie in modo inversamente proporzionale al poco ossigeno nell'aria.
Giunse al fiume in circa un'ora e cominciò a seguirne il corso. Sperava con tutta se stessa che i nemici fossero finiti, non aveva la forza di combatterne altri, e con Arghail ridotto in quello stato sarebbe stata sola. Nella peggiore delle ipotesi avrebbe dovuto abbandonarlo, ma così facendo avrebbe fallito in parte la sua missione di Guardiana.
Sospirò e si tenne alla parete per non scivolare. No, non l'avrebbe abbandonato: Arghail sarebbe diventato il nuovo re, anche se per farlo sedere sul trono avrebbe dovuto abbracciare la morte.
 
Era una giornata uggiosa e tirava un piacevole venticello. Fareun osservava il suo gregge pascolare, uno stelo d'erba in bocca e il mento appoggiato al bastone. Era piacevole, molto più che a valle, dove una primavera inattesa aveva già fatto sbocciare i crochi e le genzianelle primaticcie. Lì, al sud, l'inverno non era mai durato molto, ma quell'anno era fuggito via fin troppo in fretta, come un cervo spaventato da un cane da caccia. Un evento inusuale, aveva pensato, ma poi aveva accantonato la questione quando aveva condotto le pecore sul sentiero, fino a quel prato.
“Stavolta la fortuna ci assiste.”
L'abbaiare di Cucciolo richiamò la sua attenzione. Non fece in tempo ad alzarsi che il cane era già scattato su per il sentiero ed era sparito oltre la prima curva.
- Maledetto. - grugnì innervosito, - Mai vista una bestia così ribelle. Mio padre non ti ha bastonato a dovere quando eri piccolo! -
E dire che era stato proprio lui a insistere per comprarlo. Gli aveva fatto una gran pena quando lo aveva visto in quella gabbia sudicia, attaccato alle sbarre e atterrito da qualsiasi mano tentasse anche solo di accarezzarlo. A distanza di quasi dieci anni, non si era pentito di averlo preso, ma non poteva non imprecare quando, al posto di sorvegliare il gregge, si allontanava per inseguire l'odore di una femmina o di una possibile preda. Comunque, a parte prendersela con lo spirito del padre per non averlo picchiato abbastanza, non aveva mai alzato il bastone contro il suo cane.
- Stavolta però mi sente. - borbottò, poi inspirò ed esclamò, - Mi hai sentito, bestiaccia? Stavolta vedrai se non ti faccio uggiolare. Altro che bastone! Starai a digiuno finché non impari un po' di disciplina! -
Cucciolo gli rispose con un latrato. Fareun accelerò il passo, svoltò la curva e il bastone gli cadde di mano.
- Per tutti gli dei... -
Il cane stava leccando la mano a un uomo con la barba folta e il viso sudato, pallido come un morto. Sotto di lui, giaceva una donna con i capelli rossi come le fiamme.

Angolo Autrice:

Hello folks!
Dunque, mi paleso a voi per darvi due buone notizie. La prima è che alla fine di questo secondo libro mancano "solo" dieci capitoli. SE i miei calcoli sono corretti, Fuoco nelle Tenebre, la Rinascita della Fiamma si dovrebbe chiudere col 30esimo capitolo. In secondo luogo... siamo quasi a 100 recensioni ** Grazie davvero per essere sempre partecipi e di farmi sapere sempre la vostra opinione. Svusate se non ho ancora risposto alle recensioni, ma sono stanchissima e l'università mi sfianca. Comunque, per celebrare le 100 recensioni, ci sarà un nuovo giveaway. Cosa cambia dalla volta scorsa? Dunque, accetterò sia persone che si prenoteranno qui su EFP (magari nella risposta alle recensioni vi associo anche un numero) sia su FB. L'unica cosa che vi chiedo è magari ti controllare sul post che farò sulla pagina se il vostro nome c'è e non mi sono dimenticata nessuno. Cosa si vincerà? Ecco, stavolta, il vincitore sceglierà un personaggio (del primo o del secondo Fuoco) e io scriverò una os su un episodio del suo passato. Vi piace l'idea? Spero di sì, è una cosa che mi elettrizza troppo XD Then, tenete sott'occhio la pagina e il contatore delle recensioni. Allo scadere delle 100... prenotatevi! Il link della pagina è QUI Un bacione e grazie mille a tutti!
Hime

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Capitolo 20
*** Di nuovo in fuga ***


Fuoco 2

19

Di nuovo in fuga

Quando emersero dal portale, l'odore acre di fumo si espanse nei suoi polmoni come un olezzo mefitico. Zefiro aveva ancora le braccia protese e, per una frazione di secondo, rimasero così, finché i tremori gli risucchiarono tutte le forze. In lontananza, al cospetto di un cielo plumbeo e ammantato di cenere e fumi neri, Alabastria bruciava. Anche se Myria si rifiutava di guardare la città, il frammento che aveva scorto quando era uscita dal portale si era piantato nel petto come un punteruolo arroventato.
- Andiamo, non possiamo perdere altro tempo. - li esortò Nyi.
Depose Melwen al suolo e infilò nella tasca della tunica il libro che la bambina stringeva tra le braccia. Aveva la fronte imperlata di sudore e gli aloni umidi si allargavano sotto le ascelle e intorno al collo. Si sforzò di tenere le spalle dritte, ma persino l'aria sembrava un peso insopportabile in quel momento.
- La porto io. - disse Myria risoluta e poi si rivolse a Zefiro, - Amore, ce la fai a camminare? -
Suo figlio non le rispose. Anche quando lo lasciò a terra per prendere in braccio Melwen, Zefiro continuò a fissare le fiamme che lambivano la città, così alte da valicare le mura. Si innalzavano sprezzanti, come se volessero carbonizzare anche il sole stesso, un sudario di cenere e polvere che soffocava e anneriva il cielo.
- Ho lasciato degli amici in quell'inferno per salvare voi. Muovetevi. - ringhiò Nyi.
Myria avvertì le mani formicolare, ma prima ancor prima della rabbia, fu il senso di colpa a pervaderla, si impossessò di lei, la imprigionò in un angolo e la mise ai ceppi. Come in croce, legata e messa al rogo dal disprezzo verso se stessa, si sentì improvvisamente svuotata. Era sopravvissuta ad Alan, ad Airis e ora a Baldur: un altro legame reciso, l'ennesima tomba in un cimitero sconfinato.
Si incamminarono più in fretta che poterono, combattendo contro una stanchezza velenosa. La pianura che circondava Alabastria era un oceano che, dalla casa di Nordri, pareva espandersi per miglia, una distesa di un verde infinito e uniforme, dipinta da una lunga e densa pennellata di colore che, solo di tanto in tanto, punteggiava il muschio cresciuto sulle pietre, scogli bianchi su cui si abbattevano gli steli d'erba. Alabastria emergeva simile a un faraglione, dominava quella radura circondata dalle colline come una regina, così bella da togliere il fiato, drappeggiata dalle sue mura e dallo stendardo che garriva al vento. La prima volta che l'aveva attraversata, Myria era una profuga, fuggita assieme ai bambini e a Baldur da una città sventrata da un drago e dilaniata da un male che non si sapeva spiegare. Ricordava che Raiza li aveva scortati finché la prudenza l'aveva frenato. Era stato un addio, il loro, che si era consumato in uno scambio di sguardi e poche, concise parole. Poi il Lycos era corso via, finché non era diventato un pallino bianco disperso nel verde.
Myria sorrise, tirò su la bambina e allungò il passo per non farsi lasciare indietro da Nyi. Aveva davvero sperato che quella sarebbe stata la sua ultima fuga, il termine di una corsa lunga e faticosa, di cui lei era stata l'unica a tagliare il traguardo.
“Morire è la vittoria dei deboli”, diceva spesso sua madre mentre lavava i panni di suo padre, quelli macchiati di sangue. Non poteva andarsene, Amount-vinya era l'unico posto che conosceva. La sua famiglia aveva le sue radici lì e non avrebbe tollerato che un loro frutto cadesse lontano dall'albero. Così era rimasta, con quel marito che la sera, quando tornava e non trovava la casa in ordine o la cena abbastanza calda, la picchiava finché il suo viso non era una mappa di lividi. Mormorava quella frase a Myria con un sorriso che non aveva la forza di scaldare nemmeno una candela.
Sua madre aveva corteggiato il sollievo della morte per anni, finché questa non era venuta a prenderla subito dopo la dipartita del marito, pochi giorni dopo che Alan aveva chiesto la mano di Myria. L'avevano sepolta col suo abito più bello, con il bouquet che le incorniciava il viso ceruleo. Per Myria era stata una sconfitta, un dolore che aveva offuscato il giorno del suo matrimonio, quando aveva percorso la piccola navata del tempio da sola fino all'altare. Per sua madre, invece, morire era stata l'unica strada percorribile: si era sottomessa a una vita che pretendeva la sua presenza, e il sollievo per aver tagliato il traguardo dopo vent'anni di danza con la morte era visibile nella serenità del suo eterno sonno.
Forse, pensò Myria mentre camminava, c'era un fondo di verità in quello che sua madre aveva detto. Era anche l'unica spiegazione che la sua mente lacerata era disposta ad accettare dopo tutte quelle perdite.
Non si fermarono finché il vento non disperse i fumi degli incendi e le urla non divennero altro che un sibilo che si confondeva tra lo stormire degli alberi. Quella notte, ad accoglierli e a fornire loro riparo fu un boschetto di noccioli, sul lato destro di una collina, una delle tante che incurvavano il terreno attorno ad Alabastria. I bambini erano sfiniti, soprattutto Melwen, che nonostante avesse camminato meno degli altri portava sul viso i segni della stessa fatica di Nyi.
- Niente fuoco, sarebbe un rischio. Non ci sono grossi predatori su queste colline, ma dovremo comunque fare dei turni di guardia. - decretò il mago.
- E per il cibo? Come faremo? - chiese Myria.
- Tu sai cacciare, donna? - domandò, fissandola dritta negli occhi, e davanti al suo silenzio si limitò a prendere altre foglie e a lisciarle sul terreno, prima di tagliuzzarle con il pugnale che portava alla cintura, - Dovremo sopravvivere con bacche e radici, mi sa. Se e quando riuscirò a riprendere abbastanza forze, potrò provare a catturare un pesce con la magia, ma fino ad allora ci accontenteremo. -
Myria annuì. Il terreno era coperto da un fitto tappeto di foglie e di grossi pezzi profumati di corteccia. Prese quelli più sani, li radunò e ne fece un giaciglio per sé e i bambini in modo da isolare i loro corpi dalla terra fredda. Zefiro si era seduto vicino a Melwen e teneva la spada di legno sulle ginocchia. Le stringeva la mano sulla spalla e le strofinava le braccia quando la sentiva rabbrividire o quando la bambina apriva le palpebre in un sussulto: continuava a entrare e uscire dal sonno, svegliandosi solo per qualche momento, prima di riaddormentarsi. La ghirlanda di calendule le era caduta durante le fuga e i riccioli erano tutti aggrovigliati, con alcune punte rese appiccicose dal sangue raggrumato.
Myria andò loro vicino e li circondò col suo scialle, quello che si era premurata di prendere da casa di Nordri prima di uscire. Skjaldi le aveva detto di portarsi dietro lo scialle di lana più leggera, poiché durante il pomeriggio non avrebbe fatto così freddo, ma Myria non le aveva dato ascolto. La stoffa profumava ancora, nonostante fosse sporca e bruciata alle estremità.
- Amore? -
Zefiro alzò la testa dal petto e incrociò il suo sguardo. Era pallido e il sangue rappreso attorno alla bocca gli aveva impiastricciato la tunica, già lorda di quello che aveva perso dalla ferita alla testa. Guardando suo figlio, Myria non sapeva cosa pensare: aveva azzannato Fenrir e aveva distrutto lo spallaccio della sua armatura come se fosse stato non più duro del vetro. Tutto ciò che rimaneva della belva che si era scagliata contro il Drow ora era svanito, rimpiazzato da uno sguardo vacuo e un viso gonfio, rigato dalle lacrime.
- Dimmi, mamma. -
- Come ti senti? -
Zefiro sospirò e chiuse gli occhi. Quando si avvide che Myria si era accorta delle loro mani intrecciate, lasciò quella di Melwen e la serrò di nuovo sull'impugnatura della spada.
- Non lo so. Non... non lo voglio pensare. L'unica cosa che desidero è dormire. -
- Devi mangiare qualcosa. Andremo io e Nyi a cercare il cibo. -
- Non so se ci riesco. -
- Puoi fare un piccolo sforzo per me? -
Si sedette al suo fianco e gli spostò i capelli per controllare la ferita alla testa. Skjaldi l'aveva medicato come meglio poteva e, per sua fortuna, non aveva ripreso a sanguinare. Tastò con cautela la cute arrossata intorno al taglio e poi abbandonò le braccia sulle gambe stese. Si umettò le labbra e richiamò tutte le energie residue per prendere le mani di Zefiro e portarle alle labbra. Avrebbe tanto voluto abbracciarlo, cullarlo contro il suo petto e dirgli che sarebbe andato tutto bene, ma la verità era che non c'erano certezze. Alcarin era a sei giorni di cammino e loro erano appiedati, senza cibo e alla mercé del tempo. Fenrir si era lasciato sfuggire Melwen. Myria sapeva che chiunque lo avesse incaricato di ucciderla li avrebbe cercati, deciso a stanarli ovunque si sarebbero nascosti. E lei, come madre, non poteva fare nulla per proteggere nessuno. Quell'impotenza le scioglieva le viscere e la metteva davanti ai suoi limiti, era un altro chiodo arrugginito nel suo cuore infetto.
Zefiro abbozzò un sorriso, così debole da risultare quasi spettrale sul viso stanco.
- Ora che ci penso, ho un po' di fame. - accondiscese.
- Vado a cercare qualcosa da mettere sotto i denti. - gli sorrise, si rimise in piedi e si voltò.
Nyi si sfregava le mani appoggiato a un albero, mormorando parole indefinite a fior di labbra, in una lingua che Myria non riusciva a comprendere. Non appena si accorse d'essere osservato, nascose le dita nelle maniche della tunica lisa e le fece cenno di seguirlo.
- Non serve che mi accompagni. Posso procacciare la cena per tutti e quattro. - gli disse quando lo raggiunse.
Nonostante fosse più basso di lei, il mago camminava a passo sicuro e spedito, tanto che Myria faticava a stargli dietro.
- Preferisco scegliere da me la mia cena. -
La donna si arrese, nessuno dei due era in vena di chiacchiere, e le parole non avrebbero fatto altro che appesantire quel silenzio rumoroso.
Trovarono delle bacche di bosco nascoste dietro un cespuglio di rovi e una pianta di ribes neri ancora carica di frutti. Nyi scovò anche delle radici, che più che far venire l'appetito, chiudevano lo stomaco per quanto puzzavano. Raccolse in una piccola borraccia anche l'acqua da un torrente poco lontano da loro. Il suo letto, piccolo e stretto, serpeggiava tra le rocce tranquillo, scorrendo con calma piatta sotto le ombre delle fronde dei noccioli. Era desolante quell'immobilità, così indifferente e immutabile dinanzi alla tragedia che si era appena consumata. Sembrava beffarsi del loro dolore, scrosciando via come l'acqua del ruscello o le foglie che veleggiavano sulla sua superficie.
Mangiarono in silenzio, mentre Melwen dormiva con la testa sulle sue gambe. Le bacche e le radici che avanzarono, decisero di conservarle per quando la bambina si sarebbe svegliata. O meglio, Nyi decise che avrebbero fatto così.
- È lei che dobbiamo proteggere. Se Melwen non arriva alla capitale, tutto sarà perduto. -
Non era necessario aggiungere altro, il messaggio sottinteso era chiaro. Myria dovette inghiottire l'acido che le irritava la lingua, tentata di lasciarsi andare allo sfogo e urlare in faccia al mago che Melwen era solo una bambina, non avrebbe dovuto portare un simile fardello. Ma Nyi, sdraiato sul giaciglio, si era già girato dall'altra parte, e quando schioccò le dita il venticello che piegava gli steli d'erba diminuì fino a placarsi.
- Mamma, vuoi che cominci io il turno di guardia? -
- No... no, tu dormi. Rimango sveglia io. -
- Ne sei sicura? -
Myria annuì e il suo sguardo si posò sui capelli di suo figlio. Erano castani, come quelli di suo padre, e conservavano ancora alcuni ciuffi biondi dall'estate precedente, l'effetto delle lunghe giornate passate a bighellonare tra le strade di Amount-vynia sotto il sole di mezzodì.
- Quando tocca a te, ti sveglio. Va bene? -
Gli sfiorò il viso in una carezza e il bambino catturò la sua mano tra la guancia e il collo. Gli era rimasta qualche macchia di sangue che lei cancellò solo quando Zefiro raddrizzò la testa.
- Quello che è successo a casa di Nordri... -
Myria gli poggiò il dito sulle labbra.
- Non è importante,. Siamo vivi e questa è l'unica cosa che conta per stanotte. Domani proveremo a cercare delle rispose. Inoltre... - gli fece un cenno col capo in direzione di Melwen, - c'è qualcun altro che ha bisogno delle tue attenzioni. -
Zefiro sistemò lo scialle sulle spalle dell'amica. Era tutta raggomitolata vicino a lui, con le ginocchia tirate al petto, nascoste sotto l'ampia gonna.
- Sì, hai ragione. -
- Lo so che ho ragione. Sono tua madre, so sempre cosa è meglio per te. Ora stenditi, vi rimbocco le coperte. -
Prese lo scialle e lo scosse per ripulirlo da foglie e rametti, prima di stenderlo di nuovo su entrambi i bambini, infilando i lembi sotto i piedi e sotto la schiena in modo da non far fuggire il caldo. Zefiro abbracciò forte Melwen e sprofondò il naso nei suoi capelli, incurante dei riccioli che gli pizzicavano il naso.
- Mamma. -
- Sì, amore? -
- Ti voglio bene. -
Myria si sedette sul suo giaciglio poco più in là e accarezzò con gli occhi il profilo di Zefiro nel buio.
- Anche io te ne voglio. - soffiò.
Attese finché non udì il suo respiro farsi profondo. Quando rimase sola, si allontanò quel tanto che bastava perché le sue lacrime non lo svegliassero. Vivido e bruciante, il dolore la sommerse, lasciandola a terra, senza fiato. Non sapeva per chi stesse piangendo, non sapeva nemmeno più a chi rivolgere le sue preghiere e chiedere spiegazioni. Perché non potevano vivere in pace? Perché ogni casa che apriva loro le porte finiva sempre distrutta?
- Uborh, abbi pietà. Trasporta le loro anime nel Val'ha, anche se non hanno moneta per pagare il pedaggio. - giunse le mani al petto e vi poggiò la fronte, - Traghettatore delle anime, invoco la tua benedizione sui loro spiriti inquieti, che tu possa condurli nel grembo caldo delle Terre dell'Eterna Primavera. -
Si morse le labbra e rinserrò la stretta delle dita. Si costrinse a non pensare a Nordri, a Skjaldi, a tutta la servitù che li aveva accolti, accuditi, protetti, che era stata capace con pochi gesti di farli sentire di nuovo parte di una casa che non contava solo un tetto e quattro pareti. Quindi tornò al suo giaciglio e si appoggiò con la schiena all'albero, lo sguardo puntato davanti a sé. Cercò di non pensarci, di tenerlo lontano, ma il viso di Baldur, la sua espressione di trionfo prima che svanissero al di là del portale, seguitava imperterrita a riemergere dalle pieghe della mente, accompagnata dagli stralci dei tanti momenti passati insieme. Tra tutte le croci che, prima o poi, avrebbe dovuto piantare, sarebbe stata quella la più sofferente. Perché Baldur era rimasto anche quando avrebbe potuto andarsene e riprendere la sua attività di mercenario. Niente lo legava lì, nessun patto, nessun contratto. Non c'era stata nemmeno una ricompensa da riscuotere quando erano giunti ad Alabastria. Eppure, Baldur era rimasto. Per Melwen, per Zefiro, per lei. Aveva combattuto per loro all'accampamento, li aveva salvati, sebbene non avesse alcun motivo per farlo. E, alla fine, era morto per loro.
Si diede il cambio con Nyi altre due volte quella sera. Lui non chiese niente dei suoi occhi rossi e Myria non indagò sui suoi strani comportamenti. Lo aveva scorto sbattere i pugni a terra, con un impeto rabbioso che si era esaurito dopo diversi colpi che gli avevano scorticato le nocche.
Si destarono che il sole già indorava le colline. Melwen aveva due profonde occhiaie e faticava a tenere dritta la testa. Se ne stava con la testa appoggiata alla spalla di Zefiro e sbocconcellava le bacche avanzate dal giorno precedente con alcune foglie di efedra.
- Dovresti sentirti meglio tra un po'. - le disse Nyi masticando una radice, gli occhi fissi sulla bambina, - Mangia tutto, non ci fermeremo molto oggi. -
Myria si accontentò dei ribes e annuì distrattamente a una domanda del Dominatore che non aveva davvero ascoltato, contemplando assorta il bosco. Era un'impresa tenere le palpebre aperte, e un fastidioso mal di testa pulsava alla base del cranio, azzannando il viso e le tempie. Avrebbe avuto bisogno di un tè d'efedra, con un frammento di corteccia e una spolverata d'ortica, ma preferiva tenersi quel dolore piuttosto che chiederne una dose a Nyi.
Zefiro le si sedette accanto e le posò una mano sulla spalla. Myria la strinse e d'istinto lo trasse a sé.
- Perché non mi hai svegliato? -
- Avevi bisogno di dormire. -
- Anche tu. -
Myria scosse la testa e trasse un profondo respiro, nella speranza di trovare le parole per spiegargli che quello era l'unico modo per proteggerlo, per permettergli di conservare la forze se Fenrir li avesse raggiunti.
“Se arriverà, non potrò fermarlo. Non sono abbastana forte. Ma prima di fargli del male dovrà passare sul mio cadavere, questo è certo.”
Fremette quando suo figlio l'abbracciò, e si sentì quasi mancare il fiato nel momento in cui la strinse come se fosse lei la bambina da difendere.
- Stanotte il primo turno è mio. - sancì Zefiro con una sicurezza responsabile.
Quando era cresciuto così in fretta? Dov'era il bambino sorridente e impacciato che girovagava per le strade di Amount-vinya?
Zefiro si discostò appena e la guardò sorridendo.
- Mamma, puoi fare affidamento su di me. Non ti devi più preoccupare. - fece una pausa e soffocò una risata tra i denti, - O meglio, puoi farlo, ma meno del solito. -
Myria assentì e si appoggiò al suo braccio per alzarsi. Poteva percepire il muscolo teso sotto il palmo. Tutto in lui sembrava protendersi verso una forma definitiva e nei tratti del viso e del corpo cominciavano a palesarsi le linee dritte e spigolose di un uomo. Ora il suo sguardo irradiava la fermezza di un sopravvissuto alla tragedia e di un guerriero pronto alla battaglia: stava diventando adulto sotto i suoi occhi e lei non aveva che scorto un seme che, in realtà, era già germogliato.
Nei giorni successivi, viaggiarono per le colline e pian piano le foreste aperte che ne punteggiavano i clivi cedettero il passo ad ampie praterie che ospitavano piccoli agglomerati urbani, paesi e sparse fattorie. Su ordine di Nyi, si mantennero sempre lontani dalle strade principali. Seguirono da lontano il Tabor e, giunti in prossimità delle case, le oltrepassarono con un ampio giro. Più d'una volta Myria propose di fermarsi, almeno per la notte, a dormire sotto qualche tetto, ma bastava un'occhiata o una parola del mago per mandare all'aria i suoi piani. Ogni sua recriminazione venne messa a tacere quando prese coscienza del suo aspetto. In quei giorni, la sua mente anestetizzata dal sonno e dalla stanchezza aveva vagato tra i ricordi, senza mai soffermarsi davvero sulla realtà che la circondava. I campi, i frutteti, persino i cani da guardia, gli animali che più amava al mondo, non erano stati sufficienti a distogliere la sua attenzione dai pensieri cupi che l'accompagnavano in ogni dove. Fu una doccia fredda quando le acque del fiume le rimandarono l'immagine di una donna sporca, con i capelli scompigliati e unti e i vestiti come congelati nella presa del sangue secco. Anche suo figlio e Melwen erano nelle stesse condizioni pietose, con la sola differenza che su di loro i segni della fatica e delle notti passate erano ancora più evidenti. Gli ematomi erano divenuti delle macchie violacee sul viso e sul petto di Zefiro. Myria gli aveva tastato le costole per assicurarsi che non si fossero rotte, ma non avendo nessuna competenza ne aveva ricavato solo ulteriore angoscia. Suo figlio, tuttavia, avanzava imperterrito, anche quando era chiaro che era allo stremo delle forze e aveva bisogno di riposare. Spesso era Myria a pretendere che si fermassero per qualche minuto. C'era coraggio in quella sfiancante determinazione. I lividi, le escoriazioni, il respiro ansante, così rauco da trasformarsi in un rantolo, e i suoi calzoni deformati all'altezza delle ginocchia non bastavano per intaccarla. Tuttavia, la donna non poté fare a meno di notare che Zefiro teneva sempre la mano sulla spada di legno e sobbalzava a ogni rumore, facendo saettare lo sguardo a destra e a sinistra, come una lepre braccata da un branco di lupi.
Dopo che si era svegliata, Melwen aveva chiesto dov'era il libro e, una volta che si era accertata che fosse al sicuro, si era trincerata dietro un muro di silenzio. Aveva gli occhi perennemente arrossati, Myria non sapeva se per colpa dell'efedra o dei lunghi pianti che turbavano il suo sonno. Con la gonna sgualcita e la cintura strappata, sembrava un fiore appassito sul punto di sbriciolarsi.
No, non potevano avvicinarsi a nessun villaggio in quello stato: anche con le monetine di rame che Nyi aveva con sé, nessun oste avrebbe offerto loro una stanza. Myria invidiava la tempra di quell'uomo e, in segreto, si domandava come facesse a camminare scalzo su qualsiasi terreno. Gran parte del merito doveva andare alla peluria che gli ricopriva i piedi, ciuffi biondi che, come un mantello di grano, gli scaldavano il dorso e le dita, ma lei dubitava fosse solo quello. La notte non soffiava mai vento e durante il giorno le nuvole parevano sfilacciarsi al loro passaggio, salvo poi ricompattarsi in coltri bianche e lattiginose alle loro spalle. Era chiaro che Nyi stesse esercitando il suo potere sul tempo e Myria non escludeva che, oltre alla protezione della tunica e del mantello, manipolasse gli elementi per soffrire meno il freddo, ma, come molte altre cose, non le era dato sapere nulla, se non ciò che il Dominatore reputava necessario farle sapere. Lo avrebbe detestato e le sarebbe anche piaciuto ritrovare la forza nella rabbia che l'odio portava con sé. Sarebbe stato l'alcol che avrebbe rinvigorito la fiamma fiaccata del suo essere e le avrebbe dispensato l'energia necessaria per procedere senza mai voltarsi indietro, anche quando il corpo minacciava di cedere alla stanchezza e la febbre dell'anima le inceneriva ogni volontà di sopravvivenza. Ma le rispostacce, le occhiate di sussiego e il malcelato rancore nei loro confronti era una legna umida e giovane, che si infiammava poco, affumicando la gola con un odore di bruciato che si scioglieva nella saliva. Erano uniti per il filo spinato del lutto, ne condividevano il senso di vuoto, la solitudine e il rimorso che stritolava il cuore. Non c'era riposo nei sogni, per entrambi, solo la nostalgia di tempi e di luoghi che sarebbero sopravvissuti fino a scolorire, assieme alle persone con le quali figuravano nei quadri della loro memoria. Si erano lasciati tutto alle spalle, lei e Nyi, e anche se avessero voluto trattenerli, il tempo, l'incedere incessante dei giorni, delle settimane, dei mesi, degli anni, avrebbero eroso tutto finché, di quei ricordi preziosi, non ne sarebbe rimasto altro che il vago sentore. Mentre lei aveva Zefiro su cui concentrare i suoi pensieri, Nyi non aveva altro se non la rabbia. Due stampelle diverse per due persone ferite che percorrevano la stessa strada.
- Cosa è esattamente tuo figlio? - le domandò la sera del terzo giorno.
Myria aveva appena finito il turno di guardia ed era andata a svegliarlo per il cambio. Non aveva fatto in tempo a scuoterlo che lui si era girato verso di lei. Nel buio, i suoi occhi chiari parevano accesi da un fuoco bianco.
- Co... come? -
- Ti ho chiesto cosa è tuo figlio. È saltato addosso a quel Drow e ne ha distrutto lo spallaccio con la forza di una mano. - si mise a sedere e un sorriso sardonico gli arcuò le labbra, - Dunque, mia cara e bella Myria, a chi hai aperto le gambe mentre tuo marito era via? -
La donna non ci vide più e lo schiaffeggiò così forte da fargli scattare la testa di lato.
- Non ti azzardare mai più. Puoi odiarmi, se vuoi, ma non osare metter bocca tra me e mio marito. Tu non sai niente né di me né di lui. - sibilò minacciosa.
- Proprio perché non so, domando. - Nyi si massaggiò la guancia offesa, spingendo la lingua contro l'interno della guancia e sul labbro superiore, - Non è umano, è inutile chiudere gli occhi davanti all'evidenza. Conoscendo la scarsa capacità di voi donne umane di mantenere giuramenti e promesse, non me ne sarei stupito. -
Myria si allungò per colpirlo ancora, ma il Dominatore balzò indietro. Il suo ghigno era ancora lì, tagliente, sprezzante, le faceva prudere le mani.
- Non ho intenzione di continuare questa conversazione. - sibilò Myria.
- Sai che potrei darti una risposta. -
- Non sei il solo Dominatore in tutta Esperya. -
- No, ma sono l'unico che conosci e che ha visto con i propri occhi quello che Zefiro ha fatto. -
Myria si distese sul suo giaciglio e si avvolse come poté nella gonna. La magia teneva lontano il freddo che il vento portava con sé, ma non bastava a riscaldare l'aria che li circondava.
- Dunque non vuoi sapere nemmeno sapere la mia teoria? -
- Voglio solo dormire. -
Ne seguì un lungo silenzio, incrinato dal bubbolare di un gufo in lontananza.
- Un giorno lo vorrai sapere. Tuo figlio presto pretenderà delle risposte. -
La donna gli diede le spalle, non voleva né ascoltare né discutere. C'era ancora tempo.
Nyi si arrese con un sospiro: - Come vuoi. Ma il giorno in cui lo capirà, perché non illuderti, Zefiro non è stupido, dovrai dargli una spiegazione. E quando accadrà, non vorrei essere nei tuoi panni. -
Myria attese che l'altro si allontanasse per trarre un respiro di sollievo. Il sonno la reclamò tardi e nelle nebbie confuse dei sogni non trovò nient'altro che angoscia. Profonda, radicata e malevola angoscia.
La mattina del quarto giorno seguirono il fiume Tabor verso sud-ovest, dirigendosi verso l'entroterra. La sera si fermarono a riposare in un boschetto di castagni. Si erano lasciati alle spalle un borgo di piccole dimensioni e avevano proseguito finché il sole non era calato e non erano rimaste che le stelle a guidare i loro passi. Era pericoloso proseguire di notte, ma nessuno aveva il coraggio di disobbedire agli ordini di Nyi.
Myria stava ben attenta a non mettere i piedi in fallo, mentre con la coda dell'occhio non perdeva di vista i bambini. Melwen aveva riacquisito un po' di colorito e, dopo aver strappato una parte della gonna, riusciva a muoversi con maggiore libertà. Zefiro procedeva al suo fianco, la mano sempre tesa, pronta ad afferrarla a ogni evenienza. Di tanto in tanto il figlio la cercava con gli occhi e ogni volta era un ago nel petto, un piccolo dolore che minacciava di mandarla in pezzi. Si sentiva sola, imprigionata dalla gabbia di quel gran segreto che, negli anni, aveva cacciato in un angolo della sua coscienza, sperando di trovare un giorno il coraggio di affrontarlo. Ma il tempo era passato e lei aveva sempre rifuggito tutte le occasioni per rivelarlo.
- Qui va bene. - Nyi indicò uno spiazzo erboso, - Melwen, Zefiro, voi rimanete qui con Myria, io intanto vado a cercare qualcosa da mangiare. -
Il bambino annuì e, non appena il Dominatore si fu allontanato, si tirò su le maniche e si avvicinò al fiume per lavarsi. La temperatura si era alzata e, a parte un vento vespertino più umido che freddo, si stava molto meglio delle altre sere.
Myria si sedette vicino a Melwen e mangiò le bacche avanzate dalla sera precedente. Seppure fossero ancora abbastanza fresche, il sapore di gesso dell'acqua predominava sulla fragranza succosa della polpa.
- Ne vuoi un po'? - le chiese, ma la bambina scosse la testa in segno di diniego.
Un altro effetto collaterale dell'efedra era la mancanza di appetito. Melwen faceva fatica a mangiare, si doveva sforzare per inghiottire ogni boccone. Vederla così sciupata era un pugno nello stomaco.
- Ne sei sicura? -
Melwen rifiutò ancora e raccolse le gambe al petto. I suoi occhi si spostarono seguendo i movimenti di Zefiro, lo tenevano sotto tiro senza perderlo di vista. Sembrava diventato il centro del suo mondo.
Myria frugò nella sua mente in cerca di qualcosa da dire per non far morire la conversazione, ma ben presto si rese conto di aver esaurito le parole. Sentiva la testa pesante, le comprimeva il cranio come un elmo di ferro incandescente, scacciando i pensieri e immobilizzandola. Gli occhi si abbassarono contro la sua volontà. Provò a riaprirli, ma le palpebre rimasero sigillate.
“Solo qualche minuto...”
Il rumore delle foglie calpestate non la allarmò subito. Lo attribuì a Nyi che stava tornando e non ci diede peso. Lo scricchiolare, però, non cessò e soltanto quando fu abbastanza vicino la mente di Myria processò che dei passi così pesanti non potevano appartenere al Dominatore. Scattò in piedi come una molla, afferrò un ramo sommerso dalle foglie e tirò Melwen a sé. Zefiro la raggiunse d'un balzo, con ancora le maniche rimboccate fino ai gomiti e il viso bagnato. Aveva messo mano alla spada di legno, ma poi si era chinato e aveva preso un sasso da terra.
- Statemi vicino. - mormorò Myria.
Rinserrò la presa, stringendo il ramo con entrambe le mani, e si tenne pronta, gli occhi fissi su un punto al di là della boscaglia e i sensi protesi verso quel rumore sempre più vicino. Il cuore le scivolò sotto i piedi quando fece capolino il muso insanguinato di un lupo. Era grosso come un cavallo, con il pelo bianco e le orecchie in avanti. Tra le fauci teneva una lepre ancora calda.
- Raiza. -
Quel nome uscì in un sussurro e Myria ebbe l'impressione che il lupo sorridesse. Melwen compì tre brevi passi e il Lycos lasciò cadere la preda. Le permise di abbracciarlo e attese che fosse lei a staccarsi, prima di sposare lo sguardo su Myria e Zefiro. Nella semioscurità, i suoi occhi, uno dorato e uno azzurro, sembravano due gemme preziose.
- È stata dura raggiungervi. -
- Come... come hai fatto a trovarci? - balbettò Myria sbalordita.
- Anche se il tempo non è stato dei migliori, non potrei mai dimenticarmi il vostro odore. -
Nyi irruppe in mezzo a loro con le mani avvolte dalle fiamme puntate in avanti. Il Lycos indietreggiò bruscamente con un basso ringhio.
- Nyi, fermo, non è una minaccia! - esclamò Melwen e si frappose tra i due con le braccia aperte.
- Non ricordavo che i Lycos fossero nostri alleati.- replicò Nyi caustico.
- Lui ci ha aiutati quando siamo fuggiti da Luthien. Non ci farà del male. -
- Sì, è vero, da lui non abbiamo niente da temere. - aggiunse Zefiro.
Il Dominatore sostò lo sguardo tra i due bambini e poi lo appuntò su Myria, come per chiederle se stessero mentendo. O, semplicemente, perché non sapeva dove posarlo. Lei, in risposta, lasciò cadere il ramo a terra e tornò a sedersi. Sentì il peso dei suoi occhi addosso per un po', finché non udì Zefiro tirare un sospiro di sollievo e Raiza smise di ringhiare.
- Ho trovato delle carote e degli asparagi selvatici. - borbottò Nyi e si sedette contro l'albero dove prima c'era la donna.
Raiza lo fissò sospettoso, vicino a Melwen e Zefiro, le zanne ancora scoperte. Si rilassò solo quando il Dominatore rivolse tutte le sue attenzioni alle radici, cominciando a ripulirle dalle radichette laterali.
- Quella è per voi, io ho già mangiato. - disse il Lycos e indicò col muso la lepre.
- Non possiamo accendere il fuoco. Sarebbe come mettersi un bersaglio in fronte e gridare “siamo qui, veniteci a prendere”. - replicò Nyi, alzandosi per andare a lavare le radici nel fiume.
- Non ho visto nessuno mentre mi avvicinavo. Anche ora, a parte la vostra puzza, non sento altro. - annusò l'aria e scosse il muso, strizzando le palpebre, - Siete gli unici qui. -
- Ho detto di no. Siamo a un giorno e mezzo di marcia da Alcarin, non voglio rischiare. -
- Se andiamo avanti così, non credo ci arriveremo. - sibilò Myria.
Nyi la fulminò con un'occhiata, ma lei non ci fece caso. Si umettò le labbra e trasse un profondo, difficoltoso respiro.
- Sono quattro giorni che mangiamo bacche e radici. I bambini hanno bisogno di qualcosa di più sostanzioso per proseguire e anche tu non puoi andare avanti così. Siamo tutti allo stremo delle forze, dubito potremmo difenderci se ci attaccassero. -
- Quel che dice è giusto, piedi pelosi. - concordò Raiza, - Perlustrerò i dintorni, voi mangiate. -
Senza attendere oltre, balzò oltre un cespuglio di bassi rovi e svanì nel sottobosco.
Nyi scosse la testa e indirizzò tutto il suo sussiego su Myria: - Spero tu sappia ciò che fai. -
Lei fece spallucce, un gesto di indifferenza che lo innervosì, ma non gliene importava granché. C'era troppo nella sua testa per provare a fingere che le interessasse.
- Preoccupati di accendere il fuoco. - rispose e si alzò.
Nemmeno si accorse di star pestando un coltello finché Nyi non le fischiò per richiamare la sua attenzione.
- Usa quello, ci metterai di meno. - le disse e Myria lo raccolse.
Prese la lepre e si sedette su una pietra sporgente sul bordo del fiume. Si accucciò su un masso e chiamò Zefiro.
- Tienila in alto con le zampe aperte. - gli ordinò e cominciò a scuoiarla.
Tagliò il bordo della pelliccia con cautela su tutte e quattro le zampe della lepre. Incise senza metterci troppa forza, quel che bastava per mettere in mostra la carne sottostante. Poi tagliò l'osso della coda, stando attenta a non rompere la vescica.
- Adesso tirerò via la pelle. - lo avvisò e posò il coltello.
Zefiro fissava l'animale con le labbra serrate. Deglutì e strinse la presa sulle zampe, allargandole ancora di più.
Bastò una leggera pressione perché la pelle si strappasse con un suono appiccicoso, come se mille fili si spezzassero contemporaneamente, liberando i muscoli insanguinati fino alla base del cranio. La bestia era piccola, la testa e le orecchie morbide come lana.
- Ti serve ancora il mio aiuto, mamma? -
- No, per la pelle sulle zampe posso fare da sola. -
Gli rivolse un sorriso d'incoraggiamento e lo seguì con gli occhi mentre si andava a lavare le mani. Le strofinò con forza, finché il freddo dell'acqua non le arrossò così tanto da intorpidirle. Myria attese che si fosse allontanato, prima di rompere le ossa delle zampe e sbarazzarsi della pelle rimasta. Mentre si preoccupava di sviscerare l'animale, si ricordò di quanto Alan amasse la lepre come lei la cucinava. Così, quando chiudeva la sua bottega, Myria andava a prendere la maggiorana, le foglie di menta e d'alloro e le cipolle e poi tornava subito a casa per mettersi ai fornelli. E quando lui passava a “farle visita”, così amava dire, gli faceva trovare la coscia condita già nel piatto. Si sedevano attorno al tavolo rotondo, quello che suo marito aveva intagliato con le sue stesse mani, e mangiavano, lei, Zefiro e Alan. Il focolare dorava la piccola stanza e i loro pochi averi, accompagnando le risate, i discorsi e le battute. Il calore di una famiglia, il sapore dei piatti fatti in casa. Sorrise e inghiottì il groppo amaro assieme alle lacrime.
“Non era destino.”
Nyi aveva acceso un fuoco. Le sue mani danzavano sopra le fiamme e si allontanavano quando queste tentavano di lambirle, per poi avvicinarsi ancora, fino quasi a toccarle. Lo scoppiettare del legno era la musica che accompagnava quelle lente carezze. Più che magia, sembrava che Nyi stesse percorrendo le curve di una donna. Myria lo osservò per un po', rapita dal modo con cui manipolava le fiamme come se fosse un incantatore di serpenti. Poi prese un ramo, lo tagliò a mo' di spiedo e mise la carne a cuocere, mentre si occupava di sbucciare le carote. Le mangiarono così, un poco più cotte, assieme a un pezzo di lepre a testa.
Non parlarono quella sera, però andarono a letto con la pancia piena. Raiza montò la guardia con loro, controllò i dintorni e li rassicurò, ancora una volta, che non c'era nessuno nelle vicinanze. Insistette perché lasciassero dormire i bambini.
- Anche tu, umana, ne avresti bisogno. - osservò.
- Lo so, ma non riesco a riposare. - bisbigliò Myria, alzando gli occhi al cielo, - Perché sei venuto? -
- Ero a caccia nella foresta di Noumenasse e ho visto degli elfi neri. Erano accampati lì, un esercito intero. C'erano anche i morti, quelli che hanno distrutto Luthien. Ho visto uno di loro levarsi dalla tomba. Allora ho capito che sarebbe successo ancora. - appoggiò il muso sulle zampe anteriori e un'ombra attraversò i suoi occhi, - Non potevo fare nulla contro di loro. Erano troppi, mi avrebbero ucciso e sarei diventato come gli altri morti, una marionetta al loro servizio. Ho sorvegliato la città da lontano finché il vento non mi ha portato un odore familiare. Era una scia debole e incostante, è stato difficile seguirla, soprattutto perché il vento stesso che me l'aveva portata continuava a cambiare. - Raiza posò lo sguardo sul Dominatore che, a quell'ora, riposava, tutto infagottato nel suo mantello, - È grazie a lui. -
- Sa il fatto suo. - dovette concedere la donna, - Ci seguirai fino ad Alcarin?-
- Non lo so, devo ancora decidere. Le foreste non sono più sicure. -
“Non so più se esista un posto sicuro.”
Si prese il viso tra le mani e afferrò con la punta delle dita delle ciocche di capelli. Il cuore le faceva male, ogni singola parte di lei, anche la più piccola, era in pezzi. La paura, una serpe viscida e gelida, le si insinuò tra le viscere.
- È un incubo... -
Raiza fece schioccare la mandibola.
- Sarebbe bello se lo fosse. Ora prova a dormire, se riesci. -
Il mattino successivo seguirono il fiume sino a un punto meno profondo per poterlo guadare. Camminarono tutto il giorno, finché in lontananza non scorsero il profilo di una città. Era solo un'increspatura sulla linea dell'orizzonte, indistinguibile dal resto se non per quella zigrinatura leggermente più scura su un paesaggio di un verde eterogeneo. Almeno agli occhi di Myria questa era l'impressione, ma era anche consapevole che la stanchezza le potesse giocare qualche brutto scherzo. Così procedette a passo svelto, fermandosi solo quando non sentiva più davvero le gambe e aveva bisogno di appoggiarsi a qualcosa.
Sul far della sera, Alcarin prese consistenza. Le luci che la illuminavano sembravano delle lucciole che ronzavano annoiate nell'aria immobile.
- Sei fortunato che la persona da cui stiamo andando non abita in città. - ghignò Nyi in direzione di Raiza.
Il Lycos non si premurò di rispondere.
A prendere la parola fu Zefiro: - Dove sta, allora? E, soprattutto, chi è? -
Il Dominatore gli lanciò un'occhiata obliqua.
- È un amico. O meglio, era amico di Copernico, ma sono sicuro ci ospiterà per il tempo necessario a farmi riprendere. -
Una scintilla curiosa si accese in fondo alle iridi di Melwen. Myria sperò che dicesse qualcosa, invece non schiuse nemmeno le labbra. L'effetto dell'efedra era svanito e, come ogni sera, la lasciava svuotata, in preda a un'abulia da malata. Zefiro le passò una mano tra i riccioli e la trasse a sé, in modo che potesse appoggiarsi al suo petto.
- E poi? Dove andremo? -
Nyi si bloccò, le dita che già stavano tirando un'altra radichetta.
- Nel posto più sicuro per tutti noi: alla capitale. -
Raiza alzò di scatto le orecchie e si guardò intorno.
- Hai sentito qualcosa? -
- Mi era sembrato di sentire un odore strano, ma... - annusò l'aria per un momento e poi scosse la testa, - Qualche cervo deve aver urinato sottovento. -
Tutti, compreso Nyi, tirarono un sospiro di sollievo. Per la notte montarono la guardia lui e Raiza. Myria dormì a tratti, e come Melwen spesso si svegliava in preda agli incubi, con un urlo incastrato in gola e gli occhi umidi. In perenne bilico tra il sogno e la realtà, le parve di udire il gracchiare di un corvo chissà dove e il frullio delle sue ali tra le fronde.
A metà del giorno dopo, il fiume sfociò nell'ampio bacino del lago Eliter. Al di là di esso, la collina che ospitava il tempio di Ovenar svettava in tutta la sua austerità, una costruzione tozza con la facciata decorata con cornicioni, lesene e nicchie rettangolari che ospitavano la riproduzione in bronzo delle armi impugnate dagli eroi delle leggende. Anche con la luce del sole calante brillavano in lontananza, barbagliando ogni volta che i raggi le colpivano. Nemmeno le mura riuscivano a nasconderle.
Nyi, però, non li guidò verso la città. Aggirò il lago per un pezzo e si diresse verso una casa isolata dalle altre e dalla strada. Attraversarono un campo di erba tagliata e si fermarono davanti allo steccato. Raiza non era con loro, per sicurezza aveva deciso di fare il giro largo, per poi rifugiarsi nella foresta di Lagrande, anche se Myria sospettava che volesse controllare i dintorni. Gli elfi avevano abbandonato quella foresta molto, molto tempo prima che lei stessa nascesse, sarebbe dovuta essere sicura.
“Anche Noumenasse doveva esserlo.”
Doveva fare chiarezza, studiare un piano, capire quale fosse la scelta migliore da fare. Checché Nyi ne dicesse, c'erano troppe variabili e nessuno, nemmeno lui, poteva permettersi l'arroganza della certezza. Non dopo quello che era successo, non dopo la scoperta che l'esercito che aveva distrutto Alabastria era fatto di morti.
Nyi aprì la mano e soffiò, come se stesse imprimendo la forza di volare a un petalo di rosa. Non trascorse che qualche istante, poi la porta dell'abitazione si aprì.

Angolo Autrice:

Hello folks!
dunque, vi lascio questo piccolo avviso per avvisarvi che dopo questo capitolo (che spero vivamente vi piaccia, nonostante la lunghezza <.<) gli aggiornamenti riprenderanno l'8 di gennaio. Ho ancora alcuni capitoli da parte, ma ho bisogno di tempo per immagazzinarne altri, così da non farvi mai attendere troppo tra un aggiornamento e l'altro. Ho visto che già alcuni di voi sono interessati al giveaway, quindi tenete d'occhio il contatore delle recensioni. Guardate, se prima di Natale sale a 100, prometto che se non a Natale stesso, a santo stefano apro ufficialmente il giveaway u.u Vi ringrazio ancora per tutto quello che fate, per la costanza con cui mi seguite. Prima di salutarvi, vi chiedo una cosa: finora, come vi è parso questo secondo libro? Meglio, peggo del primo? Vi sta prendendo? E, soprattutto, a fronte di due libri ( di cui questo che ha superato la metà) e un altro che devo ancora scrivere (il terzo Fuoco, per intenderci), vi sembra che abbia la potenzialità per diventare un libro vero? Fatemelo sapere u.u come al solito, vi lascio il link della pagina qui sotto u.u QUI Un bacione e grazie mille a tutti!
Hime

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Capitolo 21
*** Complotto ***


Fuoco 2

20

Complotto

 Era una sera tiepida e le stelle sembravano più vicine del solito. Davsten aveva l'impressione che gli sarebbe bastato allungare la mano per intrappolarne una nel palmo. Intrecciò le dita e lasciò la mani a penzoloni oltre il parapetto, lo sguardo che spaziava sulla città ancora sveglia. Come lucciole stanche, le luci che punteggiavano le strade svanivano e riapparivano quasi a intermittenza, muovendosi nelle vie e nei vicoli più stretti e labirintici. Da lontano, le note di una musica allegra di un'orchestra cavalcavano il venticello vespertino, spazzando i viali alberati e innalzando un ventaglio di petali e foglie verdi.
“La primavera è arrivata in anticipo, quest'anno.”
Si era alzato presto quella mattina, molto prima del solito. Iola giaceva ancora addormentata accanto a lui. L'aveva guardata per un po' e poi le aveva schioccato un delicato bacio sulle labbra, prima di coprirle le spalle nude con le lenzuola. Sulla soglia, l'aveva ammirata una volta di più, indeciso se svegliarla o meno. Le occhiaie e i segni del pianto lo avevano fatto desistere, risvegliando il dolore che la sera precedente non gli aveva dato requie.
Strinse forte il pugno e prese tra le dita un bocciolo di glicine. La luna inargentava la corolla ancora chiusa e ne tratteggiava il profilo che quasi spariva nella sua mano. Il profumo, intenso e delicato quanto quello dei gelsomini, si spandeva dal suo palmo e gli sfiorava le narici come la carezza di un bambino. Erano sbocciati presto, come i fiori nella Via dei Re. Tutta la capitale aveva accolto la primavera e si era trasformata in un tripudio di colori. Quando beveva troppo, Idwal diceva che Sershet era come la sua regina: bella, vanitosa ed egocentrica.
- Ma, soprattutto, una gran puttana. - aggiungeva con una grassa risata e si riempiva nuovamente il boccale. - Forse è meglio che sia morta. Non avrebbe potuto sopportare di vivere in una città così ingrata e capricciosa. -
Davsten annuiva e brindava con lui. Ad Airis, che la sua anima riposi in pace nel Val'ha, si dicevano. Che Ovenar l'abbia in gloria, che le mani di Darmehana le rendano la vista che perse in vita. Idwal buttava giù l'idromele in un sorso solo, per poi riempirlo di nuovo e prendere il boccale vuoto di Davsten. Lo facevano spesso, quando erano nell'esercito e l'alcol scarseggiava. In qualche modo si doveva pur brindare, no? Anche adesso che si erano lasciati alle spalle i campi di battaglia perseveravano nell'abitudine.
“Certi vizi sono proprio duri a morire.”
Abbandonò il grappolo di glicini e rientrò in casa. Il caminetto era spento ed era stato ripulito di recente dagli ultimi residui di cenere. Quell'inverno il tempo era stato piuttosto mite, se possibile più caldo degli anni precedenti, e non avevano dovuto accenderlo spesso. Iola aveva comunque insistito per mettere a posto tutto, lavando e lustrando anche i servizi di piatti, quelli che imbandivano la tavola nelle occasioni più importanti, nonostante non ci fosse un reale bisogno. Davsten non glielo aveva impedito, così come non si era opposto quando Iola gli aveva chiesto di poter ordinare i glicini che coronavano il balcone e il porticato del giardino interno. Era lei stessa a occuparsene, ogni mattina. Li potava, controllava che non avessero parassiti e sistemava i rami di sostegno. Spesso, Davsten l'aveva sorpresa mentre sedeva sotto gli archi del gazebo e fissava i fiori, con Lorcan che si divertiva a giocare con le ciocche sfuggite alla costrizione delle forcine. Alcune strie bianche ingrigivano la sua chioma nera e le rughe sul viso erano più profonde, dei solchi che apparivano quando corrugava le sopracciglia o stringeva le palpebre per ricacciare indietro le lacrime, talvolta anche permanendo come ombre scure la pelle increspata.
- I glicini simboleggiano l'immortalità. - gli aveva spiegato indicando uno stelo e col dito ne aveva seguito l'avvilupparsi fino al tetto aperto del gazebo, - Fijit mi aveva detto che nelle loro corolle si nascondono le anime in attesa del tempo in cui potranno andare nel Val'ha. Durante il solstizio d'estate fioriscono e lasciano che le anime prendano il loro posto al di là del cielo e brillino attraverso di esso. Ogni stella non è altro che un'apertura tramite cui i nostri cari ci fanno sapere che sono felici e che stanno bene. - si era asciugata una lacrima e aveva lasciato che Lorcan si appropriasse del suo mignolo con un sorriso malinconico, sottile come la linea di matita sotto gli occhi, - Vorrei che Caillean restasse a dormire tra i petali. Sono un'egoista a sperare che decida di rimanere in questo giardino? -
Davsten non aveva saputo cosa risponderle.
Attraversò il salotto, prese il mantello dall'appendiabiti nell'atrio e uscì. Sulla strada principale il via vai continuava, imperterrito. Le bancarelle si erano assiepate sul marciapiedi in cocciopesto realizzati di recente e i loro venditori richiamavano i curiosi, esponendo la mercanzia con voce tonante, talvolta prendendola in mano perché anche i clienti più lontani potessero vederla. Sul lato destro, i tavoli della “Tavola del Cavaliere” e “Il cuore della regina” erano ancora occupati da commensali alticci, che si divertivano a scambiarsi battute sulle loro conoscenze. Ve ne erano altri, più lontani e meno rumorosi, che invece discutevano a bassa voce, tenendo sott'occhio le guardie che pattugliavano la strada. Nell'aria festosa e allegra, i loro sguardi erano come un vento freddo in una sera afosa. Davsten li guardò appena, senza troppo interesse, e poi allungò il passo finché non se li lasciò alle spalle.
Passando di fianco al forno della vecchia Catrin, si bloccò. Era chiuso a quell'ora, eppure l'odore fragrante del pane appena sfornato permeava l'aria. Davsten salì sul marciapiede e si fermò davanti alla porta, al di là della quale pendeva un campanellino. Di giorno trillava sempre, annunciando l'entrata di un nuovo cliente, di mattina presto e soprattutto nell'ultima ora prima della chiusura, quando i contadini e gli ultimi mercanti si affannavano per accaparrarsi le ultime pagnotte.
Quella traccia di profumo diede una consistenza reale alla Airis nella sua memoria. Nei primi tempi alla capitale, si fermava spesso lì davanti, catturata dal profumo dei dolci appena fatti. Non le piacevano granché, aveva sempre preferito le focacce salate o alle olive, però l'aroma delle spezie e dei semi di cardamomo le piaceva così tanto da farle rallentare il passo. Si fermava proprio lì, davanti alla porta, anche solo per qualche secondo e poi gli correva dietro, se lui non aveva fatto lo stesso.
Davsten inspirò l'aria tra i denti, la trasse a sé in un sibilo rumoroso.
“Non è qui.” si disse, ma indugiò ancora prima di riprendere a camminare con un'andatura più spedita. Girando le spalle a quel ricordo, sperava che sarebbe rimasto lì, incatenato alla labile scia di quel profumo, anche se tutta la strada era un affresco di momenti passati assieme che gli scorrevano davanti agli occhi, una mostra senza fine di contingenze e frammenti d'esistenza prima sbiaditi e poi restaurati dal dolore nelle loro tinte più accese.
Alzò la testa e soffermò lo sguardo su ogni tratto di strada che ne racchiudeva qualcuno. Come un'edera, la memoria si sostenne ai muri delle case, ai tetti e inghiottì anche i comignoli, avvolgendoli in un sudario di nostalgia. Ovunque andasse con gli occhi, rimetteva insieme cocci di ricordi che nemmeno sapeva di conservare, rimasugli di parole dette e poi dimenticate perché poco importanti o così ovvie da non meritare un posto nel suo corridoio consapevole, quello illuminato dalla volontà razionale del ricordare. E anche se quelle briciole non colmavano il vuoto che aveva al posto del cuore, Davsten le raccoglieva tutte, anche le più piccole e senza valore.
Giunse alla fine della strada e imboccò un vicolo che si snodava tra le case, con i balconi che aggettavano su di esso con i loro fiori e le loro barocche architetture. Sfilavano ai suoi fianchi, profilandosi nel cielo con le loro linee curve e sinuose che si arrotolavano in ellissi e spirali sugli stucchi, e i marmi preziosi che decoravano la facciata degli avancorpi e delle colonne giganti. Persino quella zona della città, una delle più tranquille e periferiche rispetto al centro, era stata investita dall'ondata innovativa dello Stile dei Draghi. Tutto doveva essere costruito per stupire, togliere il fiato e attirare l'attenzione di chiunque, non solo dei pellegrini: Sershet doveva essere una città ammaliante, rivestita dei marmi più splendidi, ingioiellata con eleganza dai suoi architetti e dai suoi pittori; così bella da spiccare tra tutte le altre come un diamante in mezzo a un mare di zirconi. La città dei re. Una nomea e un'aura di regalità che tutti i suoi sovrani si erano premurati di cucirle addosso.
Eppure, bastava una semplice pioggia perché la regina delle sabbie rivelasse il suo vero volto. Senza il trucco e il sole che ne impomatava la facciata, Sershet diventava caotica, sgraziata, scevra di ogni suo colore.
"Pacchiana."
Si calcò il cappuccio in testa e girò a sinistra. Un carro trainato da buoi rallentava il traffico sulla strada. L'uomo sulla cassetta sferzava gli animali e inveiva contro di loro, nella speranza che questi aumentassero il passo, mentre gli uomini che lo scortavano osservavano impassibili la scena. I capelli neri erano tutti legati in una bassa coda e indossavano delle semplici armature di cuoio senza insegne.
Davsten li riconobbe subito: Ajgara. Da quando Voren aveva ufficializzato la sua unione con Wecilia Mallus, ne erano arrivati sempre più, dapprima presi al soldo del re come sua guardia personale, in seguito assunti dai mercanti più abbienti e facoltosi che potevano permettersi il lusso di pagare quei guerrieri provenienti dalla Dracea nord-occidentale.
Davsten passò accanto a una donna con gli occhi allungati, sottolineati da un pesante trucco nero, e una cicatrice all'angolo piegata verso l'alto come in un sorriso macabro. Non lo guardò nemmeno, rimanendo ferma a fissare il suo committente imprecare contro un suo servo, che, a sua detta, lo pagava per nulla, se non era in grado di far muovere quei maledetti buoi.
Sul fondo della via Eryr si era creato un ingorgo di carri e un'accesa discussione tra un sedicente mercante di spezie e una guardia che aveva preteso di controllare il carico. Erano intervenuti anche altri, compresi due soldati, ma le loro esortazioni a mantenere la calma e a regolare i toni non erano state accolte. Se non fosse stato per un giovane che si era mantenuto nelle retrovie durante la discussione, Davsten sarebbe potuto passare indisturbato, senza che nessuno se ne accorgesse.
Oltre la porta, la strada proseguiva dritta e, salvo i soliti curiosi che facevano capannello per vedere cosa stesse succedendo, l'atmosfera tesa si ammorbidiva e la tensione si rarefaceva fino a sparire. Da quella prospettiva, Davsten poteva scorgere la testa dell'Aquila, l'enorme statua che sorvegliava i dintorni al di fuori delle mura più esterne della città. Le piume che dipartivano dall'elmo si aprivano in un paio di ali aggraziate e il cimiero scendeva oltre la gronda. Anche se non riusciva a vederne che una parte, Davsten aveva ben impressi nella mente tutti i dettagli di quella statua: era sempre lei a dargli il benvenuto ogni volta che tornava in città, quando la guerra si era spostata verso sud, contro gli elfi di Sheelwood.
Percorse la via per un tratto e poi svoltò in una strada che digradava verso il basso. Le case pian piano diminuirono fino a sparire in agglomerati di costruzioni molto alte, bambini zoppi e senza grazia a confronto con quelle che proliferavano nei quartieri più ricchi. Inondate dalla luce della luna, l'intrico di passerelle, grondaie pericolanti e fili con i vestiti stesi ad asciugare appariva come una sottile maglia d'argento senza più il suo ciondolo.
C'erano poche persone in giro a quell'ora, soprattutto in quell'area della città. Davsten intravide qualche mendicante aggirarsi per la strada e poi svanire in una taverna senza insegne, incuneata tra due palazzine a due piani. La musica che lo aveva affiancato fino a lì si era trasformata in una eco indefinita e lontana, che risuonava come un sottofondo d'accompagnamento agli attutiti rumori della sera. Il vento che stormiva tra gli alberi era un sussurro che produceva una nenia frusciante, così bassa da risultare quasi inudibile.
Davsten osservò il viale alberato che conduceva al tempio di Yggrasil e di Laeyr in fondo alla strada. Erano due costruzioni austere, senza statue od orpelli di sorta, in netto contrasto con lo splendore della città. Semplici templi bianchi, come le vesti dei loro abitanti, come il volto dei morti. A quell'ora i sacerdoti giià dormivano, ma le candele all'interno rimanevano sempre accese e davano vita a un gioco di luci che si rifletteva sulle vetrate smaltate. La natura stessa si inchinava al silenzio di quelle sale di eterno riposo.
Davsten trasse un profondo respiro. Si abbassò il cappuccio per mostrare il viso alle due guardie ai lati del cancello e poi procedette spedito.
Frassini dai rami spogli e nodosi, simbolo di Yggrasil, scandivano tombe equidistanti le une dalle altre. Molte recavano ai propri piedi dei fiori appena posati, ancora freschi e colorati, così vividi in quella marea di bianco da essere accecanti pure nella penombra. A essi si intervallavano tombe senza lapide, con solo un vaso sbrecciato contenente una o due margherite o oggetti di poco valore, come un semplice martello o un ferro di cavallo, appoggiati direttamente sulla terra battuta. Nella zona più povera, dove venivano seppelliti i corpi senza nome, c'era solo quella, ettari ed ettari di nulla che si approfondivano nella notte: se Davsten avesse dovuto rappresentare il dolore dell'assenza, sarebbe stata una voragine liscia di terra appena smossa.
Si lasciò alle spalle una basilica sormontata da una cupola appartenente alla famiglia Valakas, con lo stemma della testa del leone dorato in campo rosso che spiccava sulla facciata e un'altra, più piccola ma non meno modesta, con la losanga del lupo dei Fellmoor incastonata proprio sotto il rosone. Tutte le dodici famiglie nobiliari avevano delle cripte di famiglia e, quelle i cui membri facevano parte del Consiglio, si erano fatte erigere, negli anni, templi sempre più monumentali e stupefacenti.
"Come se la morte potesse essere abbellita."
C'era stato un tempo in cui aveva pensato che la morte andasse glorificata, che fosse un'onta non celebrare la dipartita di un uomo che aveva combattuto al suo fianco. Poi la guerra aveva preteso il suo tributo di sangue e Davsten aveva visto cos'era davvero la tanto acclamata morte per la patria: era visceri, acido e materia cerebrale sul terreno; era setticemia, vomito e febbre nel campo. Non c'era niente di eroico nella morte in sé, quanto nelle cause efficienti che a essa conducevano. Aveva partecipato ai funerali dei propri superiori e, in seguito, di molti dei suoi soldati, rimboccando lo stendardo sulle loro bare quando richiesto. Le perdite erano state una costante della sua vita, le aveva subite e le aveva accettate come suo dovere di soldato. Perché quello comportava il suo ruolo: perdere pochi affinché molti vincessero. Nessuno, però, lo aveva preparato a quel dolore.
Si appropinquò a un tempietto in pietra calcarea anonimo, con una porticina di legno rinforzata e un tetto spiovente. Lo stemma della sua famiglia, uno scudo con una torcia nel centro, capeggiava sopra la soglia, sovrastato da una pergamena su cui era stato inciso il motto dell'Ordine del Lupo.
 
La spada della giustizia contro le Tenebre dell'oppressione.
 
Davsten sfilò la chiave dalla tasca e accostò la porta alle sue spalle. Le scale si inoltravano nella semioscurità, illuminata dalle torce appese al muro. Ne accese una e la staccò per farsi luce mentre scendeva.
La cripta era umida e fredda, anche se meno lugubre del giorno precedente. L'altare sul fondo era stato spolverato e anche il pavimento lì attorno era stato ripulito. Sopravvivevano solo alcune macchie nere che nemmeno l'olio di gomito avrebbe potuto rimuovere. Le bare languivano in piccole nicchie scavate nel muro, ognuna con sopra drappeggiata la bandiera della capitale. Davsten si prese un po' di tempo per osservarle, prima di dirigersi a grandi passi verso l'ultima, quella che davvero gli interessava.
Era uguale a quelle di tutti i suoi antenati, all'apparenza. Non c'erano decorazioni all'esterno, se non lo stemma di famiglia e, sotto, il nome e i titoli conquistati. Non una frase di commiato, non un epitaffio, nulla. Davsten però l'avrebbe riconosciuta tra mille.
Si portò sul lato e poi ripiegò la bandiera fino a metà. Al di là del vetro, Airis sembrava dormire. Se non fosse stato per le dita intrecciate sull'impugnatura della spada e il viso cereo, immobile, Davsten avrebbe anche potuto crederci. Ma la magia poteva solo sottrarre il corpo all'azione erosiva del tempo.
Poggiò la mano sopra la sua guancia e rimase lì, a fissarla. Non aveva pianto quando Felther gli aveva comunicato che era morta, già lo sospettava da tempo, eppure non si era mai soffermato abbastanza per permettere a quel pensiero di radicarsi in lui. Era stato accanto a Iola, l'aveva sostenuta prima e dopo il funerale. Non poteva crollare, se l'era ripetuto finché quelle parole non gli si erano impiantate dentro, diventando esse stesse la propria roccia, le stampelle che gli permettevano di continuare a camminare, parlare, mantenere la lucidità necessaria a mandare avanti la casa e gli affari. Più la guardava, però, più le lacrime defluivano dagli occhi in quel gorgo che gli aveva squarciato il cuore, che si allargava sempre di più, giorno dopo giorno. Se avesse potuto aprirsi il petto, ne era certo, avrebbe trovato un muscolo sfregiato e mangiato dai vermi.
- I genitori non dovrebbero sopravvivere ai loro figli. - mormorò e strinse la mano a pugno, - Mi dispiace, Airis. -
- È stata una grande perdita. -
Davsten trasse un profondo respiro per trattenere la rabbia.
- Una giovane davvero promettente. Ha portato alto il vostro cognome, capitano. -
Non rispose. Si limitò a girarsi e a incrociare lo sguardo della donna incappucciata che aveva parlato. C'erano altri due uomini al suo fianco, entrambi con il volto coperto, ma Davsten sapeva già chi erano.
- Siete venuti qui anche voi per pregare per mia figlia, Consiglieri? Quale grande onore. -
- Anche. Non ho avuto modo di partecipare al funerale e tu sei stato molto sfuggente in questi ultimi tempi. -
Kitiara Azlan si tolse il cappuccio e si passò una mano tra i capelli per ridare volume alle ciocche schiacciate. La palpebra sotto era truccata con un filo di matita azzurra, che sottolineava le iridi verdi e distoglieva l'attenzione dalle rughe agli angoli della bocca e dalla fossetta sul mento. Una forcina d'oro con un giglio perlaceo teneva la frangia in ordine, piegandola proprio al di sopra dell'orecchio.
Dopo una breve esitazione, anche Gavyn Erdarwell e Ynyr Fellmoor fecero lo stesso.
Davsten li scrutò imperturbabile, finché la donna non si avvicinò. Senza dire nulla, si spostò, dandole modo di vedere il viso di Airis.
- Le bruciature intorno agli occhi non hanno mai deturpato la sua bellezza. - commentò Ynyr.
Davsten non rispose. La figlia di Kitiara era bassa di statura, aveva lunghi capelli biondi che incorniciavano un viso grazioso, senza alcuna imperfezione se non un piccolo neo al lato della bocca. Era stata la prima pretendente di Sejrel e, anche dopo il mancato matrimonio, ne aveva avuti molti altri, prima di convolare a nozze. Airis, invece, era alta, molto più delle ragazze nobili e di molti rampolli. Aveva le mani screpolate e i palmi induriti dai calli, il viso squadrato, screziato da una pazzia di lentiggini che le coprivano anche le spalle. Non aveva mai avuto pretendenti, né prima né dopo che aveva fatto carriera nell'esercito.
- La bellezza non è un valore importante per un soldato. -
- Ma Airis era la vostra unica discendente. Prima o poi si sarebbe dovuta sposare per continuare la vostra genia. - sospirò il Consigliere Gavyn, - Sarebbe stato fortunato l'uomo che l'avesse presa in sposa: avrebbe avuto al suo fianco una donna forte, determinata e sagace. Delle caratteristiche rare, oggi giorno. -
Davsten annuì e poi spostò l'attenzione su Kitiara. Aveva appoggiato la mano sul vetro, esattamente sull'alone che aveva lasciato la sua, e rimaneva in religioso silenzio a guardare il viso di Airis. Anche Gavyn non aveva più aperto bocca e si limitava a tenere le dita intrecciate in grembo e il capo basso. Le labbra si muovevano piano, articolando i versi muti di una preghiera.
- So già cosa volete e vi ho già dato la mia risposta. Non mi interessa entrare in questa faida politica. - sibilò infine Davsten, incapace di reggere ancora la tensione.
- Dovrebbe. È stata Wecilia a cominciare questa guerra ed è a causa della sua stolidità che tua figlia è morta. - lo fronteggiò Gavyn.
- Airis è morta perché era un soldato. Ha compiuto il suo dovere al meglio e, alla fine, è salita sulla barca di Uborh, come tanti altri prima di lei. - calcò su quell'ultima parte e lasciò che la sua voce si facesse foriera della sua rabbia e del suo disprezzo, - Voi, Consigliere, dovreste comprenderlo, persino più di me. -
Gavyn chiuse le labbra in una linea sottile che sembrava quasi scolpita nel volto scavato. Era un uomo dalla carnagione dorata e dalla figura scarna, come tutti i Fellmoor. Suo figlio era sepolto in una cripta poco lontana. Era morto che non aveva ancora compiuto il suo diciottesimo anno di vita, trafitto da una freccia durante un'imboscata a Sheelwood.
- Non sarà la vendetta a riportare indietro i nostri figli. - riprese tagliente Davsten, - Niente e nessuno ce li potrà ridare. -
- Questo è vero. Molti sono morti, ma non possiamo permettere che altre vite vengano seppellite per la pazzia di una regina. - Kitiara prese la parola, gli occhi accesi da una luce feroce, così sinceri da essere disarmanti, - Dobbiamo fermarci, Davsten, dobbiamo porre fine a questo conflitto, che dura ormai da troppo tempo. Tu puoi far sì che ciò accada. -
- Non siamo gli unici a essere scontenti della scelta del re. Anche la tenacia dei nani sta languendo e Balor stesso sta pensando di ritirare il suo supporto militare dalle nostre truppe. - si accodò Gavyn, - Col tuo aiuto e la tua esperienza dalla nostra parte, potremmo ripristinare il giusto ordine delle cose e mettere sul trono un uomo degno, disposto a servire e a sacrificarsi per il popolo. -
- È una bella espressione questa, per dire che volete eliminare la regina. -
Tutti si congelarono a quelle parole, tranne Kitiara.
- Abbiamo l'appoggio di Balor e di molte famiglie nobili di Lèdomoda e Plurgia. Abbiamo già stretto accordi con i capitani delle loro truppe, quelle che la regina stessa ha richiesto per ricostituire i ranghi del nostro esercito. Né i Wias né gli Zagaloth ci aiuteranno nella riuscita del piano, ma non ci ostacoleranno nemmeno. I rischi sono minimi. -
- Non ho intenzione di assassinare la regina durante la messa in memoria dei caduti. - ringhiò Davsten.
Gavyn e Ynyr strabuzzarono gli occhi e li appuntarono, disorientati, su Kitara.
- Non ho intenzione di macchiarmi le mani con lo stesso sangue che ho giurato di proteggere. - continuò imperterrito, - Sono un Cavaliere e ho giurato davanti agli dei che avrei protetto la stirpe regale finché avessi avuto fiato in corpo. -
- Ma avete anche giurato che avreste protetto il popolo. Il vostro stesso detto mette in risalto il vostro ruolo di campioni della gente comune. E ora loro, là fuori, hanno bisogno di voi e della vostra determinazione. - lo rimbeccò Kitara, - Sapete meglio di me quanto questa guerra ci sia costata e la regina vuole comunque continuarla, anche se ciò implica il tributo di centinaia di migliaia di vite. Se lei non ha intenzione di finirla, è giusto che qualcuno la fermi. -
- Arrivare a questo punto... credevo che l'avremmo destituita e basta. - mormorò a bocca asciutta Ynyr.
Gavyn si umettò le labbra un paio di volte prima di parlare. Nella luce fredda, le rughe sul suo viso risaltavano in una ragnatela che si approfondiva sulla fronte e ai lati degli occhi. Era più vecchio in quella cripta, l'impronta del tempo sul suo corpo così evidente che nemmeno le spalle ancora muscolose e il collo nerboruto avrebbero potuto dissimularla.
- Non c'è altra scelta. - ripeté, più convinto, - È l'unico modo per assicurarci che non costituirà mai più una minaccia. -
- Non possiamo permetterci pietà. Abbiamo parlato e discusso a lungo, e rinviato anche quando ne avremmo avuto occasione. Basta sentimentalismi, basta inibizioni. Gli occhi degli dei saranno puntati su di noi, ma, sono certa, se è vero quello che millantano i sacerdoti, allora Yggrasil perdonerà e ci accoglierà comunque nell'Elwing Telperiën. - commentò cupa Kitiara, guardando in faccia sia Ynyr che Gavyn, - Abbiamo designato voi, Davsten Lullabyon, per questo incarico perché siete un veterano e tutti a Sershet vi conoscono e vi ammirano. La vostra famiglia ha conquistato il cavalierato grazie al coraggio e alle azioni che hanno contraddistinto i vostri antenati, fino a voi. La vostra fama vi precede e anche l'ultimo dei mendicanti conosce la vostra storia. Se sentissero che siete stato voi, e non un sicario qualsiasi, a calare la lama sul collo di Wecilia Mallus, tutti si schiererebbero dalla nostra parte. Non ci sarebbe quasi nessuna resistenza, i disordini sarebbero contenuti e le truppe entrerebbero in città e occuperebbero il castello senza colpo ferire. -
Davsten fece un passo in avanti, finché ci fu una distanza di mezzo braccio tra lui e la Consigliera. La superava di una spanna, eppure la donna non era intimorita. Lo fissava risoluta, forte della sua rabbia e del suo odio.
- Allora dovrete cercarvi un buon assassino. - replicò asciutto, diretto come una freccia contro un bersaglio immobile, - Per quanto odio possa provare per quello che è accaduto e per quello che sta accadendo, questa non è la mia battaglia. Non infrangerò un giuramento solo perché, adesso, non ha più valore. Se mia figlia fosse viva, non riuscirebbe più a guardarmi in faccia e, se per questo, nemmeno io. -
Guardò dapprima Gavyn e Ynyr e poi tornò su Kitiara: era lei la mente che aveva macchinato tutto, il burattinaio che tirava le fila del complotto. Fronteggiò il suo sussiegoso silenzio a viso aperto, incurante nel giudizio nelle labbra assottigliate e nei muscoli scanalati del collo come cordoni di un galeone in tempesta.
- Non vi tradirò, ma non voglio essere coinvolto. Lasciate stare me e state lontani dalla mia famiglia. Non fermate i miei servitori, non mandatemi messaggeri, non invitatemi alle vostre cene, non cercate il mio sguardo nelle occasioni in cui le circostanze ci faranno incontrare. Portate avanti la vostra crociata da soli, con i vostri alleati. Sono sicuro che troverete facilmente qualcuno disposto a versare il sangue della regina, ma non sarò io il vostro braccio armato. -
La donna non rispose subito, ma Davsten poteva capire dalla postura rigida delle spalle che la sua risposta l'aveva contrariata. Il respiro di Gavyn e Ynyr raspava il silenzio della cripta.
- Non c'è nessuna somma di denaro o promessa di terre che potrebbe farvi cambiare idea, immagino. -
- Conoscete già la risposta. -
- Allora non abbiamo più nulla da dirci. - concluse, si rimise il cappuccio e fece cenno ai Consiglieri di seguirla.
Nessuno dei due se lo fece ripetere. Salirono le scale, Davsten con loro. Li seguì con gli occhi finché non li vide sparire in lontananza, sotto la pioggia che inumidiva e rinfrescava l'aria al di fuori della cripta. Attese che il ticchettio delle gocce sopraffacesse il rumore dei loro passi, prima di rientrare nella cripta. Si fermò sulla soglia e si appoggiò alla porta. Quando Idwal era ubriaco diceva spesso che i giuramenti sono la tomba della volontà.
- Onora il re, e onori il re. Difendi il popolo, e difendi il popolo. Ma quando per difendere il popolo devi disonorare il tuo re? Quando, per compiere gli ordini del tuo re, devi rivolgere la spada contro la tua stessa gente? - si era pulito la bocca dalla schiuma e poi aveva inclinato la testa a destra e a sinistra, squadrando il boccale con un sorriso da faina, - È proprio vero, amico mio: i giuramenti, come le promesse, sono fatti per essere infranti. -
Davsten prese la chiave dalla tasca e la girò nella toppa per tutte e tre le mandate. Fuori la pioggia si era trasformata in un burrascoso temporale, poteva sentirne la forza attraverso il rimbombo delle gocce sul terreno. Rimase ancora un momento a fissare al di sopra dello stipite della porta, all'altezza dove sapeva esserci il motto dei Cavalieri del Lupo.
 
Giammai noi attaccheremo per primi.
Giammai provocheremo per primi.
Il nostro cuore conoscerà solo la virtù.
La nostra spada abbatterà il Male.
Il nostro scudo difenderà i deboli.
Come un sol corpo, noi combatteremo.
Non indietreggeremo di un solo passo, finché avremo fiato.
Davanti alle tenebre, ci ergeremo sui corpi dei nostri nemici.
Chiunque rinnegherà questo giuramento, sarà per noi e per gli dei un rinnegato.
Nessun riposo, per noi.
 
- Tutto per la gloria del popolo e del re. - pronunciò ad alta voce l'ultimo verso del giuramento.
Sospirò e scese di nuovo le scale. Per la prima volta in vita sua, Davsten non sapeva se avesse preso la giusta decisione.

Angolo Autrice:

Hello folks!
perdonatemi se l'aggiornamento è arrivato in ritardo, ma mi sono ammalata e il mio ragazzo con me >.< In questi giorni mi applico per rispondere alle recensioni, giuro! E ancora, scusate se sono sparita. Spero abbiate passato un buon Natale e un buon fine anno tutti u.u Come sempre, link della pagina QUI e buona serata a tutti! Un bacione e grazie mille a tutti!
Hime

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Capitolo 22
*** Messaggero ***


Fuoco 2

21

Messaggero

 Nonostante non facesse molto freddo, il camino era comunque acceso. La legna era ridotta a una brace annerita dai contorni rosseggianti che si allargavano in un'aureola d'arancio sfumata. Talvolta una spolverata di scintille si elevava in un guizzo fulmineo, per poi ricadere sui tizzoni ardenti in grigi petali di cenere.
Lyssandra fissava quel gorgoglio di faville ammantata da una vestaglia di chermes, chiusa sulla vita da una cintura di seta, che ricadeva morbida fin quasi a sfiorarle i piedi nudi. Il calore trattenuto dalla lana del tappeto e quello che si protendeva dal camino erano più che sufficienti per non farle patire gli spifferi che si intrufolavano da sotto la porta e la finestra.
- Lyssandra. -
La regina si voltò e gattonò sul letto, sopra il corpo nudo e solo parzialmente coperto dalle lenzuola di Aesir. Era bello, in quel nuovo corpo di Drow, giovane e perfetto come ci si aspetterebbe da un dio. Si abbandonò a un mugolio compiaciuto quando le accarezzò la guancia e poi la mano si spinse tra i suoi capelli, dividendo le ciocche tra le dita e stringendole con la stessa prepotenza con cui le aveva afferrate durante tutto il rapporto.
- Quando inarchi la schiena in questo modo sembri proprio una gatta... - le soffiò Aesir all'orecchio e si appropriò del suo lobo, mordicchiandolo appena con i canini sporgenti, - O una tigre, vista la tua ferocia. -
- Posso essere quello che desideri, lo sai... -
- Lo so. - passò le mani sulla schiena e si soffermò sui fianchi, sui segni che disegnavano una trama di graffi rossi e sanguinanti, - Hai la grazia e l'aggressività silenziosa di una tigre. Bella, sensuale e paziente... tutte doti che si addicono a una regina. -
Lyssandra annuì e si distese al suo fianco, la mano sul dorso di quella di Aesir. Allacciò il suo sguardo a quegli occhi di bragia, più scuri di quelli di un Drow normale, con l'iride screziata da pagliuzze dorate che si irradiavano da due onici nere e incandescenti, solcate da crepe vermiglie.
- Manca poco all'allineamento. -
- Non sei ancora riuscita a rompere la volontà del mio ricettacolo, però. -
Lysandra abbozzò un mezzo sorriso: - Lo sarà ben presto. L'odio di Brandir e la morte di Airis basteranno a logorarlo quel che basta perché si inchini al tuo volere. -
- Mi sembra abbia digerito molto bene il lutto per quella donna. - commentò il dio, prendendole il mento con pollice e indice, - Forse hai commesso un errore di valutazione, mia cara. -
- Ti posso assicurare che l'amore che provava per lei era reale. -
- Più di quello che tu provi per me? -
La risposta le morì in gola, inghiottita dalla bocca vorace di Aesir. L'artigliò per la nuca e le schiuse le labbra in un bacio pretenzioso per impadronirsi della sua lingua. Quando la prostrò, la avvolse con la propria e poi la morse forte, tanto che Lyssandra percepì il sapore del proprio sangue sul palato. Si azzardò ad accarezzargli il viso, l'accenno di barba che gli punteggiava le guance, ma Aesir le ghermì il polso e lo schiacciò sul materasso, le unghie conficcate nella carne viva.
- Detesto i contrattempi, Elladan. Più di tutto, odio quando mi si mente. Avevi detto che per l'allineamento il mio contenitore avrebbe perso ogni sua volontà, eppure ancora mi sfida con gli occhi. Avevi detto che il corpo era abbastanza forte da resistere fino al rituale, eppure già dopo una settimana ha cominciato a decadere. Quante ulteriori inesattezze pensi di poterti permettere? Sono un dio molto paziente e magnanimo, ma vedo che stai disilludendo molte delle mie aspettative. -
La regina deglutì. Rilassò tutti i muscoli e smise di lottare, mentre Aesir le lasciava una scia di morsi lungo tutto il collo.
- Io... ci sono cose che non avevo previsto, ma son certa che tutto andrà per il verso giusto. Ho predisposto ogni cosa e non c'è nulla che... -
Lui le torse un capezzolo a tradimento, lo schiacciò tra le unghie appuntite stroncando le ultime parole in un rantolo sommesso.
- Non ho chiesti spiegazioni, me ne hai date già abbastanza. Finora hai recitato bene la parte della regina degli uomini, ma la politica non è tutto in questa partita. Hai volto lo sguardo altrove, senza curarti delle serpi che covi in seno alla tua stessa città. -
Allentò la presa e spostò la vestaglia, titillando il capezzolo ferito con la punta della lingua, mentre con la sinistra le palpava l'altro appena coperto dal tessuto. Le mani del Drow erano lisce, senza alcuna imperfezion,e se non nelle dita lunghe e troppo affusolate. Quelle stesse dita, appartenute a un giovane mago, vibravano sul corpo di Lyssandra e lo percorrevano con l'accuratezza di un acrobata, suonando le note nascoste sotto la sua pelle e negli anfratti più intimi, i più nascosti, quelli che le sue dame menzionavano a bassa voce, con la pudicizia propria delle giovani vergini, non ancora avvezze al piacere. Sussultò appena quando Aesir le tolse la cintura. La vestaglia scivolò via, lasciandola nuda, esposta e vulnerabile alle sue mani e alla sua bocca. Mentre il suo braccio calava, inarrestabile, tra le pieghe del suo corpo, Lyssandra si stese e dischiuse le gambe.
- Hai un piano? -
- Sì, ho già in mente come stroncare i loro. -
Seguì il viso del dio che scivolava tra le sue cosce. Il suo respiro le solleticava la pelle, la riempiva di brividi. Le venne quasi istintivo affondare le unghie tra le ciocche scompigliate quando l'aria calda si infranse sulle sue labbra umide.
- Ho messo tutti i Cavalieri dell'Aquila alle calcagna dei più facinorosi. È Kvothe a dirigere le azioni e sono più che certa che farà un ottimo lavoro. -
Aesir inspirò il profumo del suo fiore, la corolla esterna, e ne profilò il contorno con la lingua.
- Ti fidi di lui? -
- È il più bravo. - sospirò.
- Non sempre il segugio col naso migliore è il più leale. Non per altro, la sua vita è finita appesa su una forca. - puntualizzò, mentre la apriva e saggiava i suoi umori con la punta del dito, affondando il necessario da sporcare solo la prima falange.
- Lo tengo sott'occhio... conosco i suoi trascorsi, so anche come tenerlo a bada. -
Aesir sorrise nell'incavo della coscia, distratto dal tessuto soffice e caldo in cui affondava il dito.
- Sai, non ho mai capito i mortali che strappano il piacere alle donne con la forza. Cosa ci troveranno mai di eccitante nell'infliggere dolore durante il sesso? -
Infilò due dita tra le grandi labbra, le aprì del tutto e le immerse nell'intimità di Lyssandra, tastando le pareti interne. Lyssandra rilasciò un piccolo gemito. Si puntellò sulle punte dei piedi, alzò il bacino e inarcò appena la schiena, percorsa da una scarica di piacere che pervase ogni angolo del suo corpo. Aesir non le permise di chiudere le gambe: le afferrò da sotto il ginocchio e le piegò contro il suo petto.
- Kvothe non sa godere delle vere gioie della vita con una donna. - affermò con un tono che era già di per sé una sentenza, - Però concordo che sia un uomo semplice: una bella dama di compagnia con cui giocare ogni notte è sufficiente perché resti al suo posto. In fin dei conti, è un buon cane. Non trovi? -
Lyssandra si umettò le labbra secche e agguantò le prime parole che le vennero in mente, le uniche che era in grado di pronunciare.
- Sì... sì, basta che possa soddisfare le sue voglie. -
Aesir si erse sopra di lei e la ispezionò con una meticolosità chirurgica. La mangiava con gli occhi, Lyssandra ne scorse il desiderio in fondo alle pupille dilatate per l'eccitazione, ma preservava ancora il controllo su se stesso. La reazione fisica, quella di qualsiasi uomo davanti al suo corpo, era disgiunta da quella mentale, psichica. Se c'erano istinti in lui, non erano abbastanza forti da indurlo in tentazione.
- Per quello che riguarda Ledah, invece? -
- Ci devo pensare. - ammise, sapendo che sarebbe stata punita.
Aesir accennò un sorriso e Lyssandra scorse la punta dei canini spuntare dal labbro superiore. Lunghi, affilati e lucenti nella luce ovattata della camera da letto.
- No... no, ci andrò a parlare. Vedrò di farlo cedere. - si corresse subito.
Udire la propria voce sconvolta dall'irrequietezza, sentire le parole schiantarsi contro la fila dei denti e strisciare tra i loro spazi stretti con una nota di supplica sibilante, era una sensazione a cui era ormai avvezza, ma a cui non riusciva ad accettarla.
- Bene. Ora guardami. -
Lyssandra obbedì. Raddrizzò la testa, si spostò i capelli dal viso – ora neri, come quelli della vera Wecilia Mallus – e ricercò i suoi occhi al di là della vista appannata dall'ebbrezza del momento.
- Anche con queste fattezze riesco a vederti. - le sussurrò con un sorriso complice.
Appoggiò una delle gambe della donna sulla propria spalla, a un soffio dal mento. Gli bastò inclinare la testa per posare il primo bacio, proprio poco sotto la piega del ginocchio,
- Torna normale. O maschera l'aspetto insignificante di questa mortale. È te che voglio. -
In un battito di ciglia la magia livellò le rughe intorno agli occhi e alla bocca, schiarendo il colorito olivastro e le ciocche scure. Era un banale trucco di prestigio, semplice come tagliare un foglio di carta teso su tutto il corpo. Quando tornava a essere lei, Lyssandra percepiva la pellicola dell'incantesimo distaccarsi dal proprio corpo come se fosse stata reale.
Aesir appoggiò le mani ai lati del suo viso. Aveva assunto quell'espressione impassibile che non lasciava trasparire nulla. Al di là poteva celarsi la rabbia più profonda o la passione più travolgente. Vivere in quel margine d'incertezza, subirlo sulla propria pelle, la agitava tutte le volte.
- Hlodyn. - proferì a bassa voce, passò un dito sulla clavicola e vi adagiò un bacio a stampo, - Ogni volta che ti guardo, me la ricordi. Hai il suo aspetto. Come Elladan la somiglianza era maggiore, ma anche ora che sei la mia serva più devota la rivedo sempre in te. -
- Non sono lei. - dichiarò secca, travolta da una lieve scarica di gelosia.
- E non lo sarai mai. Nessuna donna potrà mai eguagliarla. - le avvolse la vita con il braccio e le si avvicinò finché Lyssandra non fu costretta a inarcare la schiena, - Voglio che tu te lo imprima nella memoria, Elladan: tu non sei che un sostituto, una bella copia. Quando rinascerò, rimarrai al mio fianco, ma non ti illudere che tu possa prendere il suo posto. -
- Non l'ho mai pensato. -
La girò come se non avesse peso, le afferrò i capelli, li strinse in una coda abborracciata e li tirò finché la spina dorsale di Lyssandra non descrisse una conca perfetta, con la testa riversa all'indietro e i glutei ben in alto.
- Giusto... tu vuoi solo vendetta e potere. - sogghignò il dio e si fece largo tra le sue natiche, strusciando il suo membro su e giù soltanto per provocare, - Come ogni regina che si rispetti, l'amore non fa per te. -
Lyssandra si morse il labbro inferiore, le palpebre a mezz'asta sugli occhi adombrati dal piacere. I ricordi di quando era viva, di quando era Elladan, ribollivano in fondo alla sua coscienza, pronti a risalire a galla, ma il loro calore non scioglieva che la superficie del lago ghiacciato al di sotto della quale erano reclusi.
- Amavi Haldamir? - le domandò Aesir.
- No. -
Il dio ritrasse il bacino e spinse un gluteo verso l'esterno.
- Amavi Haldamir? - le chiese ancora, più severo.
Lyssandra scosse la testa. Con la gola così esposta, si sentiva come una puledra al macello. Soltanto che, in questo caso, il suo aguzzino non impugnava un coltello.
- Sii sincera. -
- Elladan... lei lo amava. -
- E tu no? -
- No. -
La punta del membro di Aesir era leggermente umida, sporca di qualche goccia di sperma. Lo strusciò ancora un istante, prima di affondare due dita dapprima nella sua apertura fradicia, poi tra i suoi glutei. Entrò e uscì varie volte, cospargendo le sue pareti con i suoi stessi umori. A volte spingeva dentro fino all'ultima falange, le piegava all'interno e riprendeva come se non si fosse mai fermato.
Lyssandra fremeva, ogni nervo del suo corpo teso nei muscoli rigidi. Gemeva, gemeva per lui, in un cantico di piacere che era dedicato solo alle sue orecchie, esclusivamente alla sua persona.
Un tocco leggero al di là della porta. Cinque colpi, uno dietro l'altro, scanditi in una isocronia perfetta.
- Fallo entrare. - ordinò Aesir, dolce come miele.
L'ansito che Lyssandra represse le gonfiò appena il labbro inferiore.
- Avanti. - disse con fermezza, fiera che le corde vocali non avessero tremato.
Kvothe scivolò all'interno in un elegante fruscio di seta. Indossava una colombina diversa, sempre bianca, ma senza alcuna decorazione. Quando si tolse il cappuccio, i capelli corti e mossi gli ricaddero poco sopra le sopracciglia bionde. Furono l'unica cosa che si mosse su un volto altrimenti imperturbabile.
- Spero tu abbia novità per la nostra regina, Kvothe. - scandì il dio, continuando a massaggiare la carne di Lyssandra con un sorriso che non aveva nulla di innocente.
- Sì, porto notizie importanti. - rispose Kvothe, impassibile quanto una statua.
- Attendi pure lì. Quando la regina sarà libera, potrai riferirle tutto quello che sai. -
Detto ciò, si piegò e imprigionò il lobo dell'orecchio tra le labbra, i denti tra la pelle e l'orecchino di perla.
- Sbaglio, Elladan? -
- No... -
La donna non incrociò lo sguardo di Kvothe, non serviva: aveva visto nei suoi ricordi recessi l'increspatura perversa, il piacere malato che ammantava le iridi ambrate quando sottometteva una donna. O un altro uomo lo faceva al suo posto.
- E sia. - Kvothe fece un lieve inchino e si spostò adiacente al muro, - Attenderò. -
Aesir sorrise apertamente e ridacchiò appena. Lyssandra esalò un gemito simile a un ringhio quando lui la penetrò.
Oh, sì, lei gli apparteneva e così sarebbe sempre stato. Nella vita e nella morte. Nel corpo e nell'anima.
 
Ledah chiuse gli occhi e tese l'orecchio verso la porta. C'era soltanto silenzio.
"Che se ne siano andati?"
Scosse la testa e si tirò in piedi. L'azione, però, si rivelò uno sforzo immenso, più doloroso di quanto avesse immaginato. Nonostante lo costringessero a mangiare, il suo corpo era deperito. I muscoli si erano indeboliti e assottigliati, perdendo forza e tono. Persino assunse una posizione eretta, non riuscì a tenere le ginocchia dritte come avrebbe voluto.
"Non arrenderti."
Aprì gli occhi e si guardò intorno, studiando la circonferenza del cerchio di rune. Ogni simbolo sfavillava nel buio, rilasciando un barlume violaceo che si arrampicava sulle catene fino a toccare il soffitto. Ledah non aveva idea di quanto fosse alto, ma era quasi certo che tutto quel buio nascondesse molto meno spazio di ciò che poteva sembrare. Soltanto una runa emetteva meno luce delle altre, quella che era stata in parte sbiadita da Brandir. Al pensiero, avvertì una stretta al cuore.
"Non distrarti."
Il battito regolare rintoccava sommesso nel suo petto. Ne seguì l'oscillazione e lasciò che lo cullasse nella sua semplice ripetizione. La magia scorreva sul fondo del proprio essere, una corrente di potenza che si irradiava e serpeggiava nel suo corpo, irrorandolo attraverso le ramificazioni. La magia intrinseca al cerchio di rune ne diminuiva il flusso, una frana continua e impetuosa che ne tappava la sorgente.
Ledah si inginocchiò e spostò i detriti a fatica, più in fretta che poté, prima che un nuovo crollo la seppellisse. La corrente aveva conservato la sua iridescenza sporca, intorbidita da un nero diluito. Osservandola, sembrava inchiostro annacquato. Ledah la raccolse nelle mani a coppa e bevve.
“Vieni da me.”
La frana lo travolse, crudele e inaspettata. I ciottoli gli finirono nel naso, in bocca, in gola: lo aveva sepolto vivo. Chili e chili di terra gli comprimevano il petto e gli ostruivano le narici e la gola, impedendogli di respirare o gridare aiuto. Ma, anche se avesse potuto parlare, nessuno sarebbe giunto in suo soccorso: la sua mente era intrappolata sotto le macerie e il suo corpo incatenato.
Rimase così per ore, o così gli parve. Nel buio di quella prigione il tempo si disgregava, era la maschera di sabbia ruvida che gli aderiva al viso.
Riemerse che il respiro gli raschiava la gola arida e sospingeva il sangue dalle ferite lungo la curva del labbro inferiore. Le catene che gli avevano torto le braccia si stavano pian piano allentando. Fu un sollievo quando riuscì a toccare il pavimento con tutta la pianta dei piedi.
Non dovevi chiamarmi. Sei di nuovo senza forze.
L'elfo fece una smorfia all'udire quella voce autoritaria, seppur non fisica, che sovrastava tutte quelle che gli infestavano il cervello. Era più reale di loro e dalla goccia che stillava in lontananza. Nella follia di pallini neri che gli sfarfallavano davanti agli occhi, Ledah distinse la figura dello spirito di Aasterian.
"Dovevo fare qualcosa. Se mi arrendessi, loro mi schiaccerebbero."
Ora che sei così debole, sarà una lotta impari.
"Lo so, ma meglio questo che rimanere qui senza fare niente. Airis... Airis è viva? Tu puoi trovarla?"
Aasterian non rispose. Lo spirito del capobranco dei Lycos lo fissava da oltre il cerchio di rune, un'essenza dai contorni instabili e trepidanti come le fiamme di un camino. Scintille blu si staccavano dagli arti o dalla lunga coda e poi svanivano nell'aria senza alcun rumore. Negli occhi luminosi, Ledah non scorgeva altro che il bianco infinito e opalescente dell'eternità.
Potrei, ma perché io possa continuare a manifestarmi devo attingere energia da te. E poi... lei non te lo permetterà.
"Fosse per lei, io dovrei essere già morto."
Potrebbe essere una ricerca vana.
"Non mi interessa."
Arawan sarebbe fiero di te.
Fu il turno di Ledah di raccogliere i pensieri. Sua madre era di sangue reale, una discendente del Re, l'unico che aveva unificato gli elfi del nord e del sud in un unico regno. Elladan – o quello che rimaneva di lei – sua sorella e lui erano gli ultimi della sua genia. Se le divergenze non li avessero portati a un'altra separazione, se gli elfi di Llanowar non fossero ritornati alle vecchie usanze, ora il trono sarebbe stato suo. Una pesante eredità che non avrebbe voluto, appartenente a un antenato che conosceva solo dai racconti di suo padre e dalle storie della sua gente.
Non era il tuo posto, quello.
"Lo so. Riflettevo solo sul fatto che adesso le cose sarebbero diverse."
Aasterian si sedette sulle zampe posteriori e guardò in alto, scrollando la folta criniera attorno al collo.
Non ci è dato conoscere il futuro.
"Non mi è mai interessato conoscerlo. È che a volte mi viene spontaneo domandarmelo."
Lo so. Tutti i vivi lo fanno.
Ledah prese un profondo respiro. La magia che li teneva uniti era un filo sottilissimo e liquido che riverberava di una luce blu. Sarebbe bastata la forbice di un Arcanes inesperto per reciderlo, ma era la sua unica possibilità per trovare Airis. Si era aggrappato all'idea che fosse ancora viva, l'aveva coltivata e cullata dentro di sé assieme a quella persistente sensazione che lo aveva portato a maturare quella speranza, e non l'avrebbe mollata nemmeno se fosse stato in punto di morte.
"Attingi a quanta più magia puoi. Lyssandra potrebbe scoprirmi e interrompere il legame prima che tu riesca a rintracciarla."
Se prendessi troppa energia, non riusciresti più a respingere le voci.
L'elfo inspirò rumorosamente dal naso.
"Prendi ciò che devi e lasciami quel che basta per non crollare." strinse i denti, sollevò la testa e legò il suo sguardo a quello di Aasterian. "Trovala."
Se è ancora viva, la troverò.
Il Lycos alzò di scatto le orecchie e si voltò di tre quarti, piegando il capo di lato.
Vado. Lei sta arrivando.
Svanì e in quel momento il rumore di passi che si avvicinavano giunse chiaro anche a Ledah. Come svuotato, la testa gli ricadde sul petto e le ginocchia cedettero alla stanchezza. Anche se piccola, quella nuova deviazione della corrente principale già lo logorava. Poteva sentire ogni goccia che usciva dalle sue ramificazioni, percorreva il filo e si riversava in Aasterian. Il dolore germogliò dal nulla e invase tutto: la pelle, i muscoli, le ossa, ogni singola fibra del suo essere si rattrappì. Il suo corpo smise di appartenergli. Non avrebbe dovuto cedere alla magia. Non era sicuro nemmeno che avrebbe resistito fino a quando Aasterian avesse trovato Airis.
Non puoi fidarti di lei.
Era una serva di Lyssandra.
Traditrice!
Ti avrebbe consegnato nelle sue mani!
Ledah strinse i denti. Combatté l'istinto di urlare, schiacciò la disperazione contro la cassa toracica e la raschiò contro lo sterno finché non rimase altro che un gorgogliante grumo di sangue, che fluì tra le sue dita. Le grosse gocce pesanti di quel sentimento viscoso si depositarono sul fondo della sua anima in un lago ghiacciato, abbacinante nel suo bianco mortale.
“Zitte. Silenzio.”
Le voci risero tutte insieme, un coro irridente di folletti maligni. Lo afferrarono con le loro mani prive di consistenza e lo trascinarono in basso. Anche schiacciato con la schiena contro la lastra gelida, Ledah combatté con le unghie e con i denti. Urlò, scalciò, tirò pugni finché l'incubo in cui era stato trascinato non si dissolse in un crepuscolo arido e popolato da sogni informi, abbozzati nella loro essenza, ma troppo stanchi anch'essi per dominare la sua mente inquieta.
Quando si svegliò, ore o minuti dopo, si accorse subito di non essere solo.
- Guardami - gli ordinò Lyssandra.
Ledah obbedì. Anche se non glielo avesse imposto, si rifiutava di rimanere prostrato ai suoi piedi.
La donna che lo fissava non aveva l'aspetto di sua madre, ma lui intuiva dal suo sguardo che quelle sembianze non erano altro che un costume di scena.
- Vedo che le ferite sono guarite. - commentò indifferente, per poi ripulirsi una sbavatura del rossetto all'angolo della bocca con il pollice, - Sarebbe stato un problema se Brandir ti avesse danneggiato troppo. -
- Sei stata tu a mandarlo qui? -
- Ci teneva molto a rivederti. -
Ledah scrollò il capo in modo da spostare le ciocche dagli occhi. Così sciolti, senza nulla a trattenerli, erano una folta criniera nera e liscia che gli copriva tutta la schiena e gli tarpava il respiro.
- Come puoi fare tutto questo? -
- A cosa ti riferisci? -
- Servire Aesir. Posso capire il tuo rancore nei miei confronti, ho vissuto la guerra e ho visto coi miei stessi occhi cosa significa lo stupro per una donna. -
Serrò le palpebre, ma non servì a niente: i Ferirael, i bambini mezzosangue, gli si erano impressi a fuoco nella memoria. Lasciati a morire di fame, freddo e stenti appena nati. Perché ogni vita andava accolta, ma che fosse la foresta a decidere del loro destino.
- Dopo tutto quello che ti ha fatto, come puoi anche solo concepire di stargli accanto? - continuò e i suoi occhi divennero delle piccole fessure, - Perché non mi hai ucciso quando potevi? -
Non si aspettava una risposta. Quello che aveva detto era solo ciò che si era sempre domandato. Si stupì quando Lyssandra si avvicinò fino a sfiorare con la punta delle scarpe il perimetro del cerchio di rune.
- Elladan avrebbe voluto abortire. Considerava ogni vita sacra, così come Haldamir, ma quello che le stava crescendo dentro le ricordava il dolore che aveva provato durante tutto il rapporto. Ha provato a cancellarti dalla sua esistenza. Ha usato i semi di trifoglio, prezzemolo e tutte le erbe che è riuscita a procacciarsi. Che stolta: non si può uccidere il figlio di un dio con radici di tannino o coriandolo. - sorrise e si lisciò la gonna con un sorriso saputo, - Sei cresciuto e alla fine sei nato. Elladan non voleva nemmeno toccarti. Hanno provato a darti a lei dopo il parto, ma non ha voluto. Ti osservava, mentre la levatrice ti puliva gli occhi e la bocca. Se avessi pianto, forse avrebbe ceduto, ma tu ti limitavi a guardarla. L'unica che si è azzardata ad avvicinarsi è stata sua figlia, Aiwen. Le sue sono state le prime braccia che ti hanno stretto. -
La sua mano andò a un ciondolo che portava al collo, una sfera blu perfetta, e lo fece scivolare sotto il vestito.
- “Colui che distrugge”, è il significato del tuo nome. È stato lei a sceglierlo. -
- Lo so. È stata anche lei a risvegliare l'eredità di Aesir latente in me. -
Lyssandra scosse la testa: - No, a quel punto della storia Elladan non c'era più. Era morta poco a poco. Più tu crescevi, più lei moriva. Si può dire che sia stata la tua prima vittima. È stata una lunga agonia. A volte ha creduto di poterti amare, ci ha pure provato, ma poi si ricordava di come eri stato concepito. Bastava anche solo un lampo di quei momenti per farla desistere. In ogni caso, prima di morire ha sfruttato bene il suo tempo. Ha letto tutti i libri di Haldamir sulla guerra degli dei, su Aesir, Yggrasil, tutte le leggende tramandate dai popoli da loro creati. Ti stupiresti se sapessi cosa ha scoperto. -
Si innalzò di qualche spanna in aria e lo inchiodò con gli occhi.
- Dicono che la storia la scrivano i vincitori, ma non è vero. Non basta l'autorità di un bardo o di un re per radicare una credenza nella realtà. Quella è solo la prima di una lunga serie di passi, l'inizio, ma non l'essenziale. Perché la storia diventi tale, bisogna ricercare un motivo di odio. Disumanizzare il popolo che si ha appena sconfitto, rendere i loro martiri dei folli, i loro soldati dei nemici. Era sufficiente un solo dito puntato, qualcuno che accusasse qualcun altro di essere l'artefice delle sue disgrazie. Da lì era solo una strada in discesa: morte, sangue, dolore, rabbia e furore si accumulavano e sommergevano la realtà oggettiva, la seppellivano sotto un cumulo di macerie fumanti e, alla fine, ciò che restava non era altro che una visione distorta della verità. E le cose non sono mai cambiate, ancora oggi va così. -
La risata di Ledah sibilò tra i denti simile a un ringhio: - Stai provando a farmi credere che Aesir sia il protagonista buono e incompreso? -
Lyssandra non rispose subito e a Ledah venne da ridere al pensiero che quello fosse il loro primo discorso madre-figlio, il massimo dell'intimità che avessero mai condiviso.
- Se quella notte Haldamir non avesse fermato Elladan, se non l'avesse uccisa prima di terminare il rituale, a quest'ora la verità sarebbe emersa. Tutti voi vi opponete a ciò che millantate di conoscere. Uomini, nani, orchi, elfi, tutti pensate di avere in mano un diamante, quando in realtà stringete solo un insulso zircone. Nonostante tutto ciò che hai subito nel corso della tua vita, nemmeno tu riesci a capire, Ledah. -
L'elfo sussultò. Era la prima volta che pronunciava il suo nome. E non era venato di rabbia od odio, come si era aspettato.
- Gli elfi si pensa siano la razza più bella e armoniosa del mondo, eppure ne esistono molti che, pur essendo alti, sono brutti e sgraziati, peggio degli uomini. I Drow sono conosciuti per la loro spietatezza, per aver ridotto tutta Esperya in schiavitù, eppure ci sono madri che amano i figli più di loro stesse. - gli arrivò vicino e gli sfiorò la guancia con una carezza quasi materna, - È conoscenza comune che le persone coi capelli rossi siano i servi corrotti di Aesir, ma tu non hai esitato a fidarti di una di loro quando sei rimasto solo. -
- Perché gli uomini sono superstiziosi. -
- Gli orchi credono che mangiare la carne degli animali uccisi doni loro la forza, mentre gli elfi di Llanowar si scambiavano il primo bacio sotto il vischio perché così l'amore sarebbe stato eterno. Cosa sono queste, se non superstizioni? Non hanno una logica se non la cieca fede in ciò che gli antenati tramandano, eppure nessuno dubita. Sono verità sacrosante e imprescindibili. È sufficiente guardarsi intorno per accorgersi di quanto siano fallaci: le persone e i fatti smentiscono il passato. Ma non basta, non basta mai ed è per questo che è necessario un sacrificio, un'immolazione affinché tutti sappiano. Affinché anche tu sappia. - gli prese il mento e lo avviluppò nel suo sguardo di fuoco, - Airis era una mia creatura. Io l'ho resa una mia Risvegliata, io l'ho trascinata nel fango, io le ho strappato la sua dignità. Ma sei stato tu, quando l'hai uccisa, a consegnarla nelle mie mani. -
Fu come se gli avessero tolto la terra sotto i piedi. La voci gli assalirono le orecchie, feroci, predatorie
L'hai uccisa.
Mostro!
- Non è vero... -
Lyssandra gli spostò una ciocca dietro l'orecchio, le labbra coperte di rossetto aperte su un sorriso crudelmente sincero.
“È una bugiarda.”
No, lei non mente mai.
Hai le mani lorde di sangue.
Del suo sangue, di Airis!
- Non è vero! Non l'avevo mai vista, io... -
Uno squarcio bianco occupò tutto il suo campo visivo. Brandir a terra, il petto sfondato. I suoi compagni a terra, bambole di carne dagli occhi di vetro, ancora caldi, coperti da tanti, troppi altri. Alcuni non avevano nemmeno le orecchie a punta.
- La verità è un cristallo di ghiaccio. Se lo stringi troppo forte, potresti tagliarti. - sussurrò Lyssandra e uscì dal cerchio di rune per andarsene dalla cella.
- Non l'ho uccisa io, non sono stato io! - gridò Ledah strattonando le catene, ma esse lo tirarono indietro e lo sollevarono da terra, - Non sono stato io! Non sono stato io! -
Lyssandra ghignò e la porta si chiuse nel buio con un tonfo secco.
- Non sono stato io... -
Ledah voleva piangere, ma gli occhi erano asciutti. La voce si frantumò in un singulto e le parole, le stesse che aveva ripetuto al nulla, si persero nelle tenebre.
Sei solo un assassino.
 
Lyssandra entrò a grandi falcate nella Camera del Consiglio. I dieci consiglieri si alzarono in sincrono e attesero che la regina prendesse il suo posto al tavolo. Luce calda bagnava la sala, ammantandola con il chiarore ambrato del primo mattino. Il camino in fondo era spento e l'unica cosa che bruciava erano gli incensieri, dai quali si innalzavano volute della fragranza intensa dei ciclamini e dei fiori d'acanto.
Un paggio, un ragazzo di sedici anni con i capelli legati in una coda da guerriero e il naso a patata, accorse alle spalle dello scranno e lo spostò per far sì che la regina potesse sedersi, prima di defilarsi a un suo cenno.
- Buongiorno, consiglieri. -
- Salute a voi, mia regina. - Kitiara Azlan prese la parola, - Spero che abbiate dormito bene stanotte. Dall'ultima volta che ci siamo riuniti, mi si riempie il cuore di gioia a vedervi meno afflitta. -
- Anche se è difficile da sopportare, Voren ha scelto me per tenere le redini del regno e non posso permettere al dolore di sopraffarmi. Sono comunque felice che la mia salute vi stia a cuore, consigliera – rispose, giunse le mani in grembo e le rivolse un sorriso affettato.
La donna strinse appena le labbra. Nonostante fosse un'umana, Lyssandra doveva riconoscere che aveva un ottimo sangue freddo. Sarebbe potuta essere un'ottima pedina, se solo non avesse giocato dalla parte opposta della scacchiera.
- Siamo qui per portare alla vostra attenzione alcuni nostri... dubbi. Come ben sapete, la guerra dura da molto tempo e voi, così come il nostro re, avete scelto di perseguire la sua causa. Nonostante le altre città, umane e naniche, appoggino la vostra volontà, desiderano sapere come intendete muovere l'esercito e come e dove si svolgerà la celebrazione in memoria dei caduti. -
- Considerando l'andamento delle ultime battaglie, reputo opportuno indire un consiglio di guerra con i nostri comandanti. Llanowar è caduta, ma le scorrerie dei suoi abitanti non sono cessate. Il motivo dell'esplosione ci è ancora ignoto ed è rischioso mandare degli esploratori a raccogliere delle prove con questo tempo così instabile. Tuttavia, reputo anche necessario capire qual è l'arma che gli elfi stavano costruendo, affinché i nostri maghi possano essere preparati: non sappiamo in quanti fossero coinvolti, se quello che è accaduto è stato un vero e proprio suicidio o se hanno perso il controllo della forza che stavano maneggiando. Questa è nostra priorità. Il fronte a Sheelwood sta avanzando, anche se la nuova alleanza con gli orchi è stata improvvisa e inaspettata, ma i nostri uomini non cedono terreno. -
- E le città del nord? Sono rimaste in poche, tutte addossate sulla costa sud-est. Il governatore di porto Eamone è molto preoccupato, teme che gli elfi possano attaccare la sua città. -
- Dubito che i nostri nemici si spingeranno mai così lontani dalla loro amata foresta. Comunque avevo già preventivato di inviare altri uomini. Anche se poche, non possiamo perdere quelle città: sono dei porti, abbandonarli a se stessi significherebbe cedere il nord agli elfi e questo non possiamo permetterlo. -
- Io vi appoggio, ovviamente. - intervenne Caitriona Zagaloth.
Era una donna del sud, appesantita dal tempo, ma che manteneva ancora il fascino della gioventù nelle curve disegnate dalla tunica viola, con le due asce dorate della spilla che parevano pretendere l'attenzione di tutti. I lunghi capelli ondulati erano sciolti sulle spalle e conservavano qualcosa del loro riflesso violaceo. I magnetici occhi scuri erano ombreggiati da lunghe ciglia nere, abilmente curvate all'insù.
- La mia lealtà e quella della mia famiglia è indiscussa. Abbiamo servito la casata reale per generazioni, senza mai mettere in discussione il vostro sacro diritto di governare. Tuttavia, per quanto io vi possa seguire, non posso non notare un certo scontento tra le nobili famiglie delle province. Percepiscono il nord come una terra lontana e distante, i più non si sono mai spinti al di là dei Monti Neri. Non sto mettendo in discussione la loro lealtà, ma non credo sia cosa nuova che molti si stiano domandando per quanto dovranno ancora combattere. -
- Per il tempo che sarà ancora necessario. Purtroppo, non ho incominciato io questa guerra, ma in onore dei miei predecessori non posso deporre le armi ora: Llanowar è caduta e adesso anche il dominio di Sheelwood sta scricchiolando. Voren era un uomo lungimirante, ma non ha fatto in tempo a veder terminare la sua muraglia. -
Era stata una sua idea: torrette di segnalazione non solo nelle città, ma anche e soprattutto lungo tutta la costa e fin nell'interno del continente, una rete capillare che innervava tutto il Nord. Erano sempre esistite, ma solo negli ultimi anni erano state spostate delle importanti somme di denaro per la loro ricostruzione, gestione e manutenzione.
"Tutto merito mio."
- E Alabastria? - Kitiara Azlan la trafisse con uno sguardo di ghiaccio, - Come pensate di gestire la ritirata di re Balor dall'alleanza? -
La porta si spalancò e il paggio che le aveva spostato lo scranno venne quasi travolto da un messaggero. Aveva gli abiti sporchi, gli stivali e i pantaloni strappati e il capello di feltro stretto in mano. Si inginocchiò rapidamente e fissò Lyssandra dritta negli occhi.
- Mia regina... Alabastria è caduta. - disse tutto d'un fiato.
Un mormorio spaventato serpeggiò tra i consiglieri. Lyssandra trattenne il sorriso dietro le labbra.
- Com'è possibile? - obiettò Reynridan Cal'doran con una nota isterica nella voce.
- Parla, ragazzo. - lo esortò Ynyr Fellmoor.
Il messaggero deglutì e prese un respiro profondo: - Alabastria è caduta, consiglieri. Non appena hanno visto i fumi alzarsi verso il cielo, l'esercito è stato mobilitato. Le pattuglie che sono state mandate hanno solo trovato cenere e macerie. Non sappiamo ancora nulla di Lotka, ma temiamo che... -
Ynyr si lasciò ricadere sulla sedia e Kitiara Azlan allungò le braccia, intrecciando le dita davanti a sé. Un silenzio sepolcrale invase la sala.
- Guardie. - enunciò Lyssandra.
Bastò quell'unica parola e i soldati entrarono.
- Assicurate un bagno caldo, cibo e un letto a questo messaggero. - ordinò.
Quindi appuntò lo sguardo sui consiglieri al tavolo, atterriti dalla notizia. Nascose la soddisfazione dietro il velo del lutto, quello che portava da quando suo marito era morto, e si schiarì la gola.
- Non disturbateci finché non avremo finito. - aggiunse mentre la porta si chiudeva.
I contorni delle piume dorate sulle ali che circondavano una spada istoriata con l'effige di un lupo, incise nel centro del tavolo, parvero svanire nella luce.

Angolo Autrice:

Hello folks! Eccomi a rapporto. Stavolta non vi dico nulla se non che mancano solo 3 recensioni per il giveaway ** Orsù, fatevi sotto! Per seguire poi l'andamento del giveaway il link è
QUI Un bacione e grazie mille a tutti!
Hime

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Capitolo 23
*** Credere ***


Fuoco 2

22

Credere

Melwen strinse le coperte per proteggersi dagli spifferi che si infilavano tra i vecchi infissi e fissò il soffitto, controllando l'intensità dei suoi respiri. I polmoni erano costretti dalle catene della stanchezza e un'irrequietezza notturna le serpeggiava tra i muscoli sotto forma di un lieve e costante tremore. Era come se fosse caduta preda della febbre. Quasi quasi sarebbe stato meglio.
Vicino a lei, Zefiro si girò, tirandosi le lenzuola fin sopra la testa. Nel buio, Melwen lo visualizzò mentre sprimacciava il cuscino e vi affondava il viso, una mano proprio sotto la testa e l'altra allungata verso di lei, con le dita appena piegate. Le sarebbe bastato protendere la propria per toccarla.
Deglutì e si leccò le labbra screpolate. La saliva ammorbidì la pelle, che, come una calza troppo tesa, si rilassò sui piccoli tagli umidi. Le facevano ancora male, ma il sapore del miele sovrastava quello del sangue quanto bastava per rendere quel fastidio sopportabile.
- Stai dormendo? - domandò Melwen.
La domanda aleggiò nella stanza, sfiorando la superficie di silenzio notturno come una falena.
- No. -
Il fruscio delle lenzuola l'avvertì che Zefiro si era girato ancora, stavolta verso di lei.
- Ti ho svegliato? -
- Non mi sono mai addormentato. - sbatté le palpebre e si mise una mano sulla bocca per coprire uno sbadiglio, - La tisana di Eogann non era poi così forte come diceva. -
Melwen si concesse un sorriso quando Zefiro si stropicciò gli occhi. La coscienza la bacchettò per averlo destato dal sonno, ma non riusciva a sentirsi veramente in colpa.
Si voltò verso di lui, poggiò la mano vicino al guanciale e gli avvolse un dito. La pelle era fresca, pareva ghiacciata a confronto con la sua.
- Sei caldissima. - constatò Zefiro con una punta di preoccupazione, - Vuoi che vada a chiamare Eogann? -
- No, non può fare nulla. È... è normale. Sarebbe successo in ogni caso, con quelle concentrazioni di efedra. -
- È tutta colpa di Nyi. Se non avesse esagerato, ora non staresti così male. -
Melwen fece un profondo respiro. Era inutile che cercasse di spiegargli perché lo avesse fatto. C'era troppa rabbia in lui, troppo rancore per quei giorni di marcia forzati, sotto lo sguardo rancoroso del suo maestro di giorno e in fuga dai suoi demoni personali di notte, quelli di cui le raccontava a mezza voce quando credeva che stesse dormendo.
- Passerà. Un paio di giorni e sarò di nuovo in forze. -
- Non riesco più a vederti in questo stato. A volte... a volte sembravi come loro. -
- Loro? Loro chi? -
Zefiro storse le labbra, a disagio.
- Come quelli che ci hanno attaccato a Luthien e ad Alabastria. Avevi gli occhi vuoti come i loro. -
Melwen rilasciò un sospiro. Sotto la patina di sudore che le ricopriva il corpo poté sentire il brivido freddo della paura.
Lo aveva pensato anche lei. Era stato un flash rapidissimo, che l'aveva gettata al cospetto di un viso cinereo. Gli occhi inespressivi di quelle creature, il lucore lattiginoso simile a pasta vitrea che ne annebbiava lo sguardo era lo stesso che aveva visto al funerale dell'amico di suo padre quando era piccola.
- Era solo l'effetto dell'efedra e della stanchezza. - asserì con la voce che tremava appena.
- Lo so, ma non ho potuto fare a meno di pensarlo. È tutto ancora così vivido, Melwen... mi basta chiudere gli occhi e mi sembra di essere ancora lì. - le acchiappò un altro dito e continuò in un sussurro, - Ho sonno e vorrei dormire, ma ho paura di vederli ancora. O di svegliarmi e scoprire che non siamo mai riusciti a scappare. -
Melwen non disse nulla. Ecco un altro segreto che Zefiro aveva confessato soltanto a lei. Una volta le aveva detto che provava invidia per il suo sonno leggero. Lui, invece, rimaneva intrappolato nei suoi incubi fino al mattino: per quanto urlasse, la sua voce echeggiava solo nella sua mente. Era stato sempre così, da quando era scappato da Amount-vinya fino alla fuga da Alabastria, prigioniero fino al sorgere del sole, come una maledizione.
Zefiro spostò le lenzuola e si puntellò sul gomito.
- Mamma è preoccupata per te. -
- Perché non parlo? -
- Lei e Nyi non sanno che con me lo fai. Non ti fidi di loro? -
Melwen scosse la testa: - Non è questo. -
- Allora perché? -
- Non lo so. Loro... -
Non sapeva cosa rispondere. Come poteva spiegargli che aveva timore di esporsi, di sentirsi ancora più colpevole di quello che già era? Perché sebbene Melwen fosse sopravvissuta, non poteva sentirsi grata di quel privilegio. Nei racconti a salvarsi erano i migliori, gli eletti latori di grandi cambiamenti. Ma lei? Cosa era la sua vita rispetto alle centinaia falciate via a Luthien e ad Alabastria? Ogni volta che aveva osato incontrare gli occhi di Nyi e di Myria si era sentita in dovere di trovare una giustificazione al fatto di essere ancora viva. Suo padre, Baldur, Nordri, coloro che avevano qualcosa da dare al mondo erano tutti morti. Lei, invece, una bambina senza meriti, era ancora lì.
- Melwen... -
- Non me la sento di affrontarli. Non ancora. -
Zefiro intrecciò le dita con le sue e le strinse forte. Lui più di tutti poteva capirla. Erano uguali: due innocenti ai ceppi, legati dalla colpa di essere vivi.
- Passerà. Un giorno capiremo perché. - il bambino abbozzò un sorriso, - Il passato è una certezza, il presente non esiste e il futuro è una sorpresa. Magari c'è qualcosa in serbo per noi che darà un senso a tutto questo. -
- Come nei libri. -
- Sì, come nei libri. C'è sempre un motivo dietro la morte dei genitori dell'eroe o la dipartita di un amico. Lo hai sempre detto anche tu: gli ostacoli servono per temprare i protagonisti delle storie. -
Melwen si mise supina a fissare il soffitto, che nel buio era punteggiato da una costellazione di incostanti macchioline colorate.
- Come fai a sentirti un protagonista dopo tutto ciò che ti è successo? - gli chiese, inclinò la testa e nascose lo sguardo dietro le onde dei propri riccioli, - Io mi sento un personaggio secondario in balia dei capricci di uno scrittore indeciso e incapace. Nessuno leggerebbe una storia così tragica e senza senso. -
- No, hai ragione, piacerebbe a troppe poche persone. - scherzò.
- Avrei detto a nessuno. -
- Solo perché la gente non sa aspettare. A me piacciono le storie che si sviluppano lentamente, che danno spazio anche ai personaggi di poco conto. Non so leggere molto bene, ma più delle ballate dei bardi ho sempre apprezzato i racconti di Alan e di mio padre. Loro davano importanza a tutte quelle piccole cose che nei libri più famosi non vengono nemmeno presi in considerazione. Dedicavano attenzione anche ai compagni meno conosciuti, quelli con cui avevano scambiato solo qualche parola, o ai mercanti, o agli accattoni o alle lavandaie. Nei loro racconti tutti erano protagonisti, in un modo o nell'altro. Tutti abbiamo qualcosa di speciale, Melwen. Solo che a volte è difficile da vedere, tutto qui. -
- Quest'ultima frase la pronunciano spesso anche i peggiori cantori. -
- Ma non significa che non sia vera. -
- Tu sei sicuramente diverso dagli altri. -
Melwen si strappò le coperte di dosso e si issò a sedere, le gambe incrociate sotto la leggera camicia da notte. Il sollievo che provò quando l'aria fresca della stanza le accarezzò la pelle accaldata le procurò un piacevole brivido freddo lungo le braccia e la spina dorsale.
- Non so nemmeno spiegare cosa sia successo, Melwen... -
- Ma è un chiaro segno che c'è qualcosa di speciale in te. Nessun uomo avrebbe mai potuto distruggere uno spallaccio così. - lo fissò con gli occhi sgranati, la mente di nuovo iperattiva che ricercava indizi, associava ipotesi e creava collegamenti logici, - È da quando me lo hai detto che ci penso, ma ancora non ho trovato una spiegazione. -
Zefiro seguì il suo esempio e si appoggiò alla testiera del letto.
- Ho paura di quello che sono. -
- E perché mai? Tu mi hai salvata. Se non fosse stato per te, sarei morta. -
L'euforia si infranse contro un muro di silenzio. Zefiro aveva giunto le mani in grembo e fissava il pavimento con la testa incassata nelle spalle, improvvisamente rimpicciolito, accartocciato su se stesso come se volesse sparire. Il peso di qualcosa di non detto divenne tangibile come l'aria che respiravano, sabbia in gola che si appiccicava al palato e rattrappiva la lingua.
- C'è qualcosa che non so? -
Non doveva essere una domanda, ma Melwen voleva concedersi il beneficio del dubbio.
- … no. - esitò, alzò lo sguardo su di lei e si spostò i capelli con una ventata di mano, - Ho molta sete. Ce la fai ad accompagnarmi in cucina a prendere un bicchier d'acqua? -
Melwen si morse l'interno della guancia. La sua mente scalpitava, avendo fiutato la bugia, e smaniava per il desiderio di stanarla, eviscerarla, analizzarla. Si sentiva offesa dalla sua sfiducia, ma, per quanto infastidita, l'istinto le cucì le labbra.
"Me ne parlerà. Ha solo bisogno di tempo, come me."
- Anch'io ho bisogno di qualcosa di fresco. - asserì e, si rese conto, non era poi così lontano dalla realtà.
La cucina e il salotto erano una stanza unica, piccola ma molto ordinata. La tovaglia era stata piegata accuratamente e sistemata sulla sedia accanto al tavolo di noce dove avevano cenato, il pavimento spazzato e le posate riposte nei cassetti. Le candele profumavano l'ambiente e scacciavano il buio, spandendo assieme alla luce l'essenza di limone, lavanda e cannella. Grosse e tozze, sembravano dei cristalli opachi ricoperti da finimenti di cera.
Melwen si fermò e inspirò a pieni polmoni.
- È davvero buono... -
- Più che buono, rilassante. -
La bambina aprì gli occhi e annuì. Andò fino al tavolo e prese la teiera di ceramica per il manico, sollevandola dalle piccole braci calde che sfrigolavano a qualche pollice dal legno.
- Avvicini le tazze? -
Zefiro non se lo fece ripetere. Le porse prima quella con un giglio dipinto sulla superficie e poi quella con un soldato stilizzato in groppa al suo destriero rampante. Almeno, quello doveva essere nell'immaginario del piccolo artista che lo aveva dipinto.
"Anche io ne avevo fatta una per mio padre."
Seppellì la malinconia in un lungo sorso di tè e si diresse verso la poltrona vicino al camino. Del fuoco non era rimasto granché, solo qualche ciocco carbonizzato, però bastava a riscaldarla. La maggior parte dell'illuminazione proveniva dalle candele che Eogann aveva posizionato anche sulla mensola, alternate a diversi giocattoli in legno e di pezza. Il cerbiatto sull'angolo più lontano sembrava indicare col muso la casetta rossa dipinta nel quadro sulla parete. Per Melwen era semplice immaginarlo mentre la fissava con i suoi occhi curiosi, indeciso se avvicinarsi al recinto dell'orto e rubare l'uva o tornare correndo nel bosco dalla sua mamma. In quel crepuscolo, la sua fantasia era un indomabile cavallo selvaggio.
- Non metti lo zucchero? -
Melwen scosse la testa e si bagnò le labbra sul bordo della tazza.
- No, mi piace di più così. -
- Amaro? A te che piacciono i dolci con glassa, miele e pinoli? - Zefiro si sedette sul bracciolo e la fissò, - Tu, signorina, devi stare proprio male. -
Melwen si concesse una risata: - Mi piace assaporare l'essenza delle diverse erbe. -
- Le riesci anche a riconoscere, scommetto. -
- Mi stai sfidando? -
Zefiro nascose il sorriso dietro la tazza, ma Melwen lo scorse comunque. Si spostò un ricciolo che le solleticava il naso e trattenne il tè in bocca per qualche momento.
- Verbena, menta, tiglio, papavero. -
- L'ultimo è sbagliato. -
- Non è possibile. Avrai preso un abbaglio tu. -
- No, riassaggia. -
Melwen sospirò e bevve ancora. Rimase a fissare i cerchi concentrici che si allargavano dal punto in cui aveva immerso le labbra.
- Camomilla. - si corresse alla fine e si abbandonò a una risata stanca, - Questo viaggio deve avermi proprio sfiancata per farmi battere così da te. -
- Non sono così scarso come credi. Ti ricordo che mia madre aveva un negozio di erbe ad Amount-vinya. -
- Non credevo però ti fossi mai interessato al suo mestiere. -
- È vero, ma alcune cose a furia di aiutarla le ho imparate. E poi mi sono sempre piaciute le tisane alla camomilla. -
- Mi sorprendi... non lo avrei mai detto. -
Zefiro fece spallucce e appoggiò la tazza vuota sulla mensola del camino.
- Prima che mio padre morisse non le apprezzavo granché. Mamma ha cominciato a prepararmele quando si è accorta che non riuscivo più a dormire. Prima che si innamorasse di Alan, anche lei la beveva tutte le sere. -
- Alan... era l'uomo che vedevo spesso assieme a lei? -
- Proprio lui. Non era il mio vero padre, ma da quando Tanet è morto si è sempre preso cura di noi. - piegò una gamba sul bracciolo, col ginocchio che sporgeva verso l'esterno, - Mia madre aveva ripreso anche a fare le candele profumate. Non erano belle come quelle di Eogann, ma quando le accendeva sembrava che sotto il pavimento ci fosse un prato fiorito. -
Melwen lo ascoltava, rapita dalle sue parole e dai suoi occhi brillanti, carichi di nostalgia. La sua voce era velluto, si stendeva sugli eventi della sua storia come un panno su un servizio di piatti antico e prezioso, sottraendolo alla vista e lasciando campo all'immaginazione. E lei fantasticava su quella vita di cui non era a conoscenza. Anche i più piccoli dettagli erano caramelle succose per la sua mente affamata.
- So davvero poco di te. - lo interruppe e alzò lo sguardo su di lui, - Da quando ci siamo incontrati non ti ho mai chiesto nulla. -
- La mia vita è stata normale. Sei tu quella che ha aneddoti interessanti da raccontare. -
Zefiro lasciò a penzoloni le gambe, prima di scendere dal bracciolo e prendere tra le mani un soldatino. Indossava un'armatura con lo stemma della capitale e un lungo ed elegante mantello arancione, con la losanga dell'ordine del Leone cucito con un filo dorato. Le braccia si sollevarono quando Zefiro alzò la sinistra, quella che brandiva la lunga spada.
- Te lo ripeto, non sono una persona interessante. Sono nato e cresciuto ad Amount-vinya finché Sershet non l'ha abbandonata a se stessa, quando da avamposto militare si è trasformata in una... bettola di gente affamata. - le sue spalle tremarono quando sputò quelle ultime parole, per poi rilassarsi, - E poi ho incontrato te. -
- Lo dici come se parlassi di un miracolo. -
Zefiro piegò alternativamente le gambe del soldato, muovendolo sul piano della mensola come se stesse marciando in una parata vittoriosa.
- Non dovremmo andare a letto? -
Il cambiamento repentino di argomento la lasciò senza parole. Fissò il fondo d'erbe che galleggiava sulla superficie del tè avanzato. I brividi si erano quietati e il sudore le raffreddava la pelle calda sotto la camicia da notte. Non si sentiva meglio, ma non era nemmeno peggiorata.
- Non ho voglia di alzarmi. - mugolò incrociando le gambe sotto la gonna. - Qui si sta meglio che di là. È più caldo, è più... -
- Familiare. - completò Zefiro.
A Melwen venne spontaneo sorridere di fronte alla sua capacità di leggerle nel pensiero.
- Esatto. -
Il suo amico si guardò intorno, aprì la cassettiera sotto il quadro della natura morta e tirò fuori una pesante coperta di lana piena di pelucchi.
- Ma... ma che fai? -
- Rendo quella poltrona confortevole per la notte, mi sembra ovvio. - spiegò e le drappeggiò la coperta sulle spalle prima di sedersi vicino a lei.
Melwen si strinse contro l'altro bracciolo in modo da fargli posto e intrecciò le gambe con le sue. Le guance di Zefiro si imporporarono e l'imbarazzò gli incendiò anche le orecchie, ma la bambina finse di non farci caso. Erano stretti l'uno contro l'altra e ognuno poteva sentire e respirare l'aria dell'altro. Fece passare un braccio attorno al petto e Zefiro le offrì la spalla su cui appoggiare la testa. Il suo cuore batteva veloce contro il palmo della sua mano aperta.
- Stai comodo? -
- Mh...-
- Lo prendo come un sì. Buonanotte, Zefiro. -
- Sogni d'oro, Melwen. -
 
La mattina li colse addormentati. Melwen poteva sentire il peso della testa di Zefiro sulla propria, con il mento proprio sopra l'attaccatura dei capelli. Serrò le palpebre e si portò il braccio davanti al viso, ma era una barriera inefficace contro la luce del sole mattutino. Si districò dall'abbraccio del suo amico e, piano, spostandosi con attenzione, riuscì ad alzarsi.
I bracieri che la sera prima sostenevano in aria la teiera si erano ridotti a una montagnetta di cenere uguale a quella che anneriva il fondo del focolare. Melwen prese le tazze e si avviò verso la cucina.
Si accorse di non essere l'unica sveglia quando vide che la porta era socchiusa. Riconobbe anche la voce di Eogann che canticchiava a bassa voce. Curiosa, si appoggiò con la schiena allo stipite per ascoltare meglio le parole.
 
C'eran tre corvi all'angolo,
neri, brutti e tetri.
Uno disse all'altro:
- Ho fame, cosa mangiamo? -
Basilico, cannella e quadrifoglio.
 
- Laggiù c'è un gran campo di
bacche, funghi e grano.
Orsù, andiamo!
Il contadino se n'è andato. -
Basilico, cannella e quadrifoglio.
 
Volaron con foga nel blu
frecce veloci e rapide.
Giunsero là tutti assieme,
tra gli arbusti e le fronde inquiete.
Basilico, cannella e quadrifoglio.
 
Eogann si interruppe. Melwen non ebbe il tempo di reagire, che la testa dell'uomo sbucò oltre la porta. I suoi capelli non avevano visto un pettine dalla sera prima, eppure c'era un che di ordinato in quelle ciocche castane che gli ricadevano sulla fronte alta, appena solcate dalle rughe. Alle sue spalle, il fischio acuto della teiera sul fuoco sprigionò il profumo di rosmarino e finocchio.
- Il letto non era abbastanza comodo? - le chiese con un sorriso.
Melwen intrecciò le dita dietro la schiena. Zefiro ancora dormiva beato e lei si sentiva messa all'angolo. E non aveva alcuna contromossa pronta.
- Non sono arrabbiato. Anzi, sono dispiaciuto più che altro: è vero, quelli sono i letti dei miei figli e sono un po' vecchi, ma non credevo fossero così vecchi. - scosse la testa e si passò la mano tra la barba ispida e ribelle, - Ti ricordi dove sono le posate? -
La bambina annuì incerta.
- Prendi anche la tovaglia dal primo cassetto dall'alto, va bene? -
Melwen capì che non era una vera domanda quando Eogann le diede le spalle e tornò in cucina. Lo osservò armeggiare con i cesti di erbe, mentre girava come una trottola aprendo le ante dei pensili ed estraendo barattoli di marmellata, pane, burro e altre leccornie, che ricordarono a Melwen quanta fame avesse. Nonostante il borbottio allo stomaco, rimase imbambolata a fissarlo, avvinta da quella dimostrazione di vitalità mattiniera.
Si coprì la bocca con la mano per nascondere uno sbadiglio e si accostò alla cassettiera. Prese la prima tovaglia che le capitò sotto mano, una di cotone leggera con il bordo ornato con dei ciclamini, e si avvicinò al tavolo. La collinetta di cenere era ancora lì e pareva sfidarla a toglierla.
- Ah! Giusto, mi era passato di mente. -
La risata prorompente di Eogann si addolcì nelle parole di una formula magica. Il cumulo si alzò, compatto, e una bava di vento lo mise alla porta – anzi, alla finestra, mentre un panno schizzato fuori dalla cucina strofinava via gli ultimi residui.
- Sto davvero vedendo un panno che si muove da solo? -
Melwen si girò, trovandosi faccia a faccia con Zefiro. Aveva ancora un occhio a mezz'asta e l'altro non del tutto aperto, ma aveva riacquistato un po' di colorito, soprattutto sulle guance. Un po' lo invidiava: gli era bastata una sola notte di sonno e il suo corpo già si stava riprendendo.
- Eogann è un mago proprio come mio padre. - gli ricordò mentre stendeva la tovaglia.
Zefiro si stropicciò più volte gli occhi prima di rispondere.
- Sono cose che non si vedono proprio tutti i giorni, cerca di capirmi. - intrecciò le dita e sollevò le braccia, facendo scrocchiare braccia e spalle, - Posso aiutare in qualche modo? -
- Sì, prendi le posate. Ho una gran fame. -
Quando finì di dirlo si rese conto che era vero, che quel brontolio non era dettato solo da un bisogno fisico, ma da una piacevole voglia di assaporare ciò che Eogann aveva da offrire.
"Non sono più nemmeno stanca."
La camicia era un po' umida sulla schiena e sotto le ascelle e i capelli li sentiva pesanti e unti, ma non c'era traccia della sfibrante stanchezza del giorno precedente. Anche la pelle era fresca e la sua biblioteca mentale era in ordine: pensare con lucidità le era di nuovo possibile.
Zefiro la raggiunse in contemporanea a Eogann. Il bambino si bloccò a bocca aperta, mentre la teiera, il centrino, i barattoli di marmellata e le tazze si disponevano da sole dove ci si sarebbe aspettato di trovarle in una tavola imbandita per la colazione.
- Non ti stupire troppo. Sono solo trucchetti. - lo prese in giro Eogann, depositando un quarto di torta sul tagliere.
Come se non avessero atteso altro, Myria e Nyi fecero il loro ingresso nella stanza. Loro, a differenza di Eogann, si erano presi il tempo per sistemarsi prima di presentarsi per la colazione. A Melwen faceva uno strano effetto vederli di nuovo puliti, senza più i vestiti laceri addosso. Le sembrava fosse passato un secolo da quando avevano fatto colazione in una casa vera.
- Sedetevi e mangiate quello che volete senza fare complimenti. C'è cibo per tutti. -
Eogann finì di accendere gli incensi sulla mensola davanti al tavolo e prese posto a capotavola. Come per dare l'esempio, fu il primo a servirsi: prese una fetta di pane caldo e la spalmò con burro e marmellata di albicocche.
Nyi fu il secondo a sedersi. A differenza loro, sembrava perfettamente a suo agio, come se quel trattamento di cortesia gli fosse dovuto. Melwen aveva avuto modo di notarlo anche il giorno prima che non mostrava alcun imbarazzo a mangiare al tavolo di un amico che non vedeva da anni.
"Conoscente. Eogann era amico di mio padre."
Myria sospinse sia lei che Zefiro verso due sedie vicine, mentre lei prese posto dall'altra parte del tavolo, di fronte al padrone di casa. Anche lei ancora esitava, ma poi quando vide suo figlio allungare la mano per prendere una fetta di torta, mise da parte ogni indugio e si servì a sua volta.
- Ne taglio una fetta anche per te? -
Melwen annuì.
- È una torta ai ceci dolce. È dell'altro ieri, ma dovrebbe essere ancora buona. - la informò Eogann, - Se non ti piacesse, non ti crucciare, non sono un uomo che si offende per certe cose. -
Sorrise e si versò il tè. Il grosso medaglione d'argento che portava al collo scivolò lungo il petto, arrivando a toccare il tavolo con un tonfo.
Melwen trattenne lo sguardo su di lui ancora un poco, poi tornò a rivolgere le sue attenzioni alla fetta di pane intrisa di marmellata. Le era parso di vedere un'ombra nello sguardo di Eogann, la stessa oscurità liquida che gli aveva velato gli occhi quando Nyi gli aveva riferito quanto accaduto ad Alabastria. E mentre il suo maestro snocciolava i fatti come se stesse leggendo una lista della spesa, Eogann lo aveva ascoltato con espressione cupa. La presa attorno al medaglione si era fatta più stretta nel momento in cui Nyi gli aveva spiegato perché Melwen era lì e non a Luthien, con suo padre e la sua famiglia. Nel salotto pervaso dal profumo degli incensi, mentre il fumo si innalzava verso il soffitto, le parole si erano incuneate in profondità, fino a ferire l'anima.
- … sa più giusta. -
Melwen alzò la testa dal piatto e si girò verso Nyi. Non si era rivolto a lei, ma dal modo in cui guardava Eogann era chiaro che ci fosse una conversazione in atto. Myria si era stretta nelle spalle e teneva la tazza fumante vicino alle labbra, Zefiro aveva appoggiato la guancia contro il pugno chiuso e il suo maestro aveva la destra aperta protesa verso il padrone di casa.
- Indubbiamente. - concordò Eogann e zuccherò ulteriormente il suo tè, - Potete rimanere quanto volete. So che preferite partire al più presto, ma... -
- Eogann, Copernico era un mago molto più potente di te ed è morto. Credi davvero di poterci proteggere? - lo sguardo di Nyi era eloquente, - Più rimaniamo qui, più ti mettiamo in pericolo. Se è vero che stanno cercando Melwen, l'unica cosa che possiamo fare è rifugiarci alla capitale. Lì sarà al sicuro. -
Le rughe sulla fronte di Eogann divennero più profonde. Prese la tazza con entrambe le mani e se la portò alle labbra, senza però inclinarla per bere.
- Allora ripartirete tra tre giorni. -
- Sì, è la cosa migliore per tutti quanti. -
- Bene, fino ad allora però risparmiate le forze. Soprattutto tu, Nyi. - gli lanciò un'occhiata in tralice e poi si alzò, - Voi finite pure di fare colazione. Io intanto vado a rafforzare le barriere magiche attorno alla casa. -
Si congedò con un saluto militare e uscì senza aggiungere altro. Myria scosse la testa e storse le labbra in una smorfia di biasimo che non sfuggì a nessuno, nemmeno a Nyi.
- È per il suo bene. Prima ce ne andiamo, meglio è. - ripeté senza scomporsi e afferrò un biscotto dalla ciotola.
- Sei stato sgarbato. -
- Sono stato chiaro, è diverso. Copernico era un grande mago, un Arcanes come non ne avevo mai conosciuti. Lui ci sa fare, ma nemmeno prima di abbandonare gli studi poteva vantare la sua stessa bravura. Perciò preferisco che non si faccia false speranze: ripagherò la sua gentilezza, un giorno, ma non può e non deve seguirci o fare più del necessario. - si pulì una macchia di cioccolato all'angolo della bocca, - Se rimaniamo troppo, esponiamo non solo lui, ma anche tutta la sua famiglia. E voi non volete che, tornando, sua moglie e i suoi due figli trovino un cadavere o gli dei soli sanno cosa, giusto? -
Mirya assentì, anche se non si tolse dalle labbra la smorfia di sdegno. Si rivolse a Melwen con una voce molto più dura di quello che lei si aspettasse, facendola sobbalzare.
- Avete bisogno di un bagno, voi due. - sancì.
- Fa' prima Melwen, io mi occupo di prendere e scaldare l'acqua. - si propose in fretta Zefiro.
Non servì che dicesse altro. Melwen si alzò e subito si defilarono.
Il bagno era una stanza piccola, ancora impregnata di vapore. Piccole gocce d'umidità scivolavano lungo la superficie dello specchio senza cornice. Due asciugamani erano stesi su un appendiabiti, mentre un altro paio era impilato su una sedia vicino alla vasca.
- Sicuro che possa fare prima io? - chiese incerta Melwen.
- Sì. E poi a me non pesa sciacquarmi con l'acqua fredda. -
Zefiro si chiuse la porta alle spalle e fece avanti a indietro dal pozzo di fianco alla casa un po' di volte prima di riempire la vasca. All'ultimo giro, tornò con una tunica in velluto arancio a maniche lunghe.
- Te la manda Eogann. - le riferì, per poi lasciarla sola.
Melwen si crogiolò a lungo nell'acqua calda. Eogann aveva a lasciato a disposizione sul lavandino diverse boccette e piccole ciotole di terracotta con creme dai colori più intensi e disparati. Ne raccolse una all'essenza di limone, con la quale si massaggiò i capelli e si strofinò vigorosamente braccia e gambe. Si abbandonò contro il bordo della vasca finché le dita non diventarono rugose e il calore era quasi completamente evaporato. L'acqua che lasciò era più scura e torbida di quella di una palude.
Quando si fu completamente asciugata, alzò lo sguardo e scorse nello specchio un viso che, per un momento, la spaventò. Erano passati pochi giorni dalla partenza da Alabastria, eppure l'impressione era che fossero fuggiti per mesi. Il viso era più magro, le guance meno piene e le braccia più sottili. L'abito era lente in alcuni punti, e il tessuto ricadeva in una piega informe e sgraziata. L'efedra e la tensione della fuga avevano lasciato segni visibili, molto più di quanto si aspettasse.
"Se mio padre mi vedesse ora, cosa penserebbe?"
Non era sicura di voler sapere la risposta. Anche solo il sentore che avrebbe potuto guardarla con pietà, come un animale ferito e braccato, le faceva male.
Quando uscì, trovò Zefiro ad aspettarla, seduto sullo sgabello vicino alle scale che scendevano di sotto. Melwen gli sorrise e gli promise di aspettarlo in salotto.
La tavola di cucina era di nuovo in ordine. Per terra non c'era traccia di alcuna briciola. La bambina sbirciò tra i titoli dei libri sulla mensola, senza trovare niente di interessante: aveva voglia di qualcosa di più coinvolgente, che catalizzasse ogni suo pensiero e un trattato sulle piante curative, per quanto accurato ed esaustivo, non era ciò che le serviva.
- Tieni. -
Nyi la sorprese alle spalle, silenzioso come un gatto.
- Quando siamo fuggiti da Alabastria, me lo hai affidato. - le disse aprendo il libro e sfogliò rapidamente le pagine, - Non so cosa ci trovi d'interessante, ma sembra importante per te. -
Melwen lo prese e accarezzò la copertina. I bordi erano appena bruciacchiati, ma a parte quello era intonso.
- Grazie. -
- Di nulla. - si passò una mano tra i capelli biondi e si coprì la bocca quando sbadigliò, - Vado a riposare un po'. Quello che Eogann ha detto a me, vale anche per te: non sforzarti. Se senti tornare il mal di testa, fermati e chiedigli di farti una delle sue tisane. L'efedra ci ha resi forti, ma ha delle brutte controindicazioni. -
- Lo farò. -
Quando udì la porta della stanza di Nyi chiudersi, Melwen prese posto a tavola e aprì il libro. Pronunciò le parole magiche a bassa voce e sotto la sua mano si disegnò il profilo luminoso della mappa di Asiria. Una fitta alla tempia le riempì la vista di puntini colorati e un senso di nausea violento le arpionò lo stomaco subito dopo. Melwen ringraziò di essere seduta, certa che se fosse stata in piedi sarebbe crollata. Dovette attendere alcuni istanti con la testa sprofondata nelle mani e gli occhi chiusi prima di appuntare di nuovo lo sguardo sulla mappa. Era come la ricordava, con il profilo delle montagne a est che avvolgevano la terra come una corona e il fiume Aniene che si districava tra foreste, pianure e colline.
Si rimise in piedi e spostò i libri sulla mensola finché non trovò, infilati in un saggio sulle tecniche di erboristeria, delle pergamene bianche. Ne prese una e andò al camino, dove aveva visto dei carboncini colorati. La lastra che chiudeva la scatola di legno lasciava in mostra quello verde e quello azzurro, entrambi ridotti a un moncherino non più grosso di una falange. Melwen controllò anche gli altri e, alla fine, scelse quello marrone, l'unico che aveva ancora delle dimensioni accettabili.
Quando tornò al tavolo, cominciò a copiare ciò che poteva, cercando di mantenere il più possibile le proporzioni. Non era mai stata molto edotta nel disegno, ma si impegnò per riportare su carta una mappa dettagliata. Se, come sospettava, era importante, non poteva continuare a usare la magia per vederla. Era essenziale che la potesse avere sott'occhio quando avesse voluto.
Quando Zefiro la raggiunse, non si accorse della sua presenza finché non alzò la testa e lo scoprì che sfogliava un libro, uno dei tanti manuali della biblioteca personale di Eogann. Si scambiarono un'occhiata complice, poi lei si rimise al lavoro. Soltanto quando ebbe completato la mappa, si concesse una pausa. Aveva la testa pesante e la stanza girava attorno a lei.
- Melwen? Ti senti bene? -
Zefiro le si fece subito vicino e le prese la mano sinistra, quella tutta macchiata d'inchiostro, tra le proprie.
- No... non così tanto. - mentì, anche se il tono lamentoso tradiva il suo vero stato d'animo.
- Vado a chiamare Eogann, se vuoi. -
- Non è niente, non disturbarlo. Basta che mi riposi un attimo e tra poco mi passerà. -
- E se peggiora? -
- Non accadrà. -
Non era stata molto persuasiva, ma Zefiro si risedette. La tenne sott'occhio, preoccupato e teso come una corda di violino, senza proferire nemmeno una parola di biasimo o rimprovero. Così, come quando l'aveva vista usare la magia per richiamare la mappa, anche in quel momento si limitò a rimanerle accanto.
- Riponi troppa fiducia in me. - gli disse quando si assicurò di essere tornata sulla terra ferma.
- Devo. Tanto lo so che se quando ti impunti, non posso far nulla per farti desistere. -
Melwen annuì piano e si abbandonò contro lo schienale della sedia.
Quando Eogann rientrò, un'ora o forse due dopo, si sentiva decisamente meglio. Zefiro l'anticipò e corse subito ad aiutare il mago, caricandosi le braccia con verdure. Melwen lo guardò in cagnesco quando le passò accanto, ma il suo amico le mise una patata in mano e andò in cucina.
- Hai una brutta cera, Melwen. Vuoi che ti faccia una tisana? -
- Mi gira solo un po' la testa, nulla di che. -
- Ne sei sicura? Non devi fare complimenti, lo sai. -
- Allora... penso che approfitterò della tua gentilezza. -
Eogann le sorrise soddisfatto e iniziò a tagliare un cespo di erbette con le foglie simili ad aghi. Senza che gli dicesse nulla, Zefiro scattò fuori per andare a prendere l'acqua al pozzo.
- La tisana che ti farò sarà al serpillo, tiglio e fiori d'arancio, la preferita di mio figlio Yezh. Anche lui soffre spesso di emicranie, soprattutto dopo lo studio. - scosse la testa e si passò una mano sulla fronte, - Quel ragazzo è uno stacanovista, altroché. -
- Anche lui è un mago? -
- Sì e se si mette d'impegno, diventerà molto, molto più bravo del sottoscritto. Ciara somiglia un po' di più a me alla sua età. Ha il talento, ma non sembra interessata ad affinarlo. Sua madre ha insistito per portarla con sé per farle fare quattro chiacchiere con sua nonna. Chissà, magari mia suocera riuscirà a convincerla. -
Zefiro rientrò con il secchio riempito fino a metà. Con un cenno, Eogann gli indicò di appoggiarlo vicino all'ampia finestra alla sua sinistra, quella che aggettava sull'orto.
- Dubito che quei due si sveglieranno. Avete fame? Volete che prepari qualcosa per pranzo? -
- Io sono a posto così. -
- Anche io. - si accodò Melwen.
- Allora farete una merenda più sostanziosa. -
Mosse l'indice dal basso verso l'alto e un nastro d'acqua riempì il pentolino. Il fuoco si accese la carbonella sotto il fornello.
Sentendosi di troppo, la bambina capì che l'unica cosa che potesse fare era dare meno fastidio possibile. La stanza era di per sé piccola e c'era già Zefiro che stava aiutando Eogann a pulire la verdura. Si sedette su un basso sgabello con le mani tra le gambe.
- Grazie per il vestito. -
- E di che? A Ciara non va più e sono abbastanza sicuro che non avrebbe fatto tante storie a dartelo. - si fermò e un brivido, o almeno quello che agli occhi di Melwen sembrava un brivido, gli scosse le spalle, - E poi è il minimo che possa fare per la figlia di uno dei miei amici più cari. -
Eccolo, il momento che Melwen temeva di più.
- Era venuto qui prima di... prima che Uborh lo prendesse con sé. Era da una vita che non ci vedevamo e io gli ho offerto il mio mirto migliore. Abbiamo parlato dei nostri figli, degli ultimi avvenimenti, di quanto il tempo fosse instabile. Abbiamo concordato nell'affermare che quel fenomeno era imputabile all'esplosione di Llanowar. Poi mi ha dato un frammento di un cristallo. Anche lì, abbiamo concordato che fosse un catalizzatore e che fosse la minima parte di qualcosa di più grande. Non sapevamo però di cosa. Così ci siamo lanciati in teorie. Io ero un mago mediocre rispetto a lui, ma Copernico era una mente dispersiva e io ero le radici che lo obbligavano a rimanere a terra. -
Melwen ricordò. La sera prima della partenza per Alcarin, suo padre era venuto a darle il bacio della buonanotte. Le aveva promesso che uno di quei giorni l'avrebbe accompagnata alla festa in paese. Era stata l'ultima volta che lo aveva visto.
- Avete capito cos'era, alla fine? -
- No, solo quello che ti ho detto. Si è teletrasportato in città senza dirmi nulla, portando con sé il cristallo. Solo quando si è diffusa la voce che Luthien era stata distrutta ho capito perché se n'era andato senza salutare. - pulì il coltello con un panno e mise nel pentolino le erbe tagliate, - Mi dispiace, Melwen. Ho pensato per giorni di venire a cercarti, ma dovevo occuparmi della mia famiglia. E quando ho provato a cercarti con la magia, c'era un'interferenza tale da annullare qualsiasi tentativo. -
- Non è colpa tua... lo capisco. Hai fatto la cosa giusta. - rispose Melwen con un fil di voce.
Eogann si inginocchiò e si lavò le mani, tenendo lo sguardo basso. Zefiro restò di spalle e si spostò di lato, più lontano, forse per lasciar loro un po' di privacy.
- Non ricordo quanto zucchero debba aggiungere. Vado a prendere il libro di là. - borbottò Eogann e uscì dalla cucina.
Melwen fissò la schiena di Zefiro e i movimenti delle sue dita mentre si occupava di togliere le cimette da un cavolo. Non sapeva cosa fare. Si sentiva leggera, quasi avesse le ossa cave e i muscoli ridotti a una sottile fila di fibre atrofizzate. Era come se la pesantezza del suo essere si fosse estinta nel vapore dell'acqua che bolliva e nelle nuvole calde che salivano verso il soffitto, lasciandola con un'insostenibile debolezza. Stava sprofondando in quel torpore simile al sonno che le ottenebrava i sensi e la dissanguava da ogni sensazione. Quell'assenza era il massimo a cui la sua anima potesse aspirare.
- Questa l'hai fatta tu, Melwen? -
Girò la testa verso la mappa che Eogann teneva in mano.
- È venuta peggio di quello che mi aspettassi. - commentò stancamente.
- Manca solo un po' di proporzioni. - la girò e la allontanò dal viso, - L'hai copiata da quel libro in soggiorno? -
La bambina fece segno di sì con la testa. Eogann rimase sovrappensiero a studiare la pergamena, finché il ribollire dell'acqua non richiamò la sua attenzione. Spense il fuoco con un gesto svogliato della mano e versò la tisana nella tazza.
- Posso tenerla per stasera? -
- Solo la mappa, il libro lascialo. -
- D'accordo, vado a posarla nel mio studio. - disse, poi arrotolò la pergamena e poi uscì.
Il resto della giornata si trascinò. Melwen fece visita a Raiza e gli portò da mangiare dello stufato avanzato dalla sera precedente. Il Lycos le lanciò una lunga occhiata quando la vide entrare nella stalla e si prestò a farsi ad accarezzare. In mezzo agli sparuti fili di fieno, con le lame di luce polverose che rischiavano quello stanzone così grande e vuoto, spiccava come la piuma di un cigno nero su un lenzuolo stracciato. Non le disse nulla, si limitò a lanciarle qualche occhiata tra un morso e l'altro. Dopo essere tornato dall'ispezione notturna della foresta di Lagrande le sembrava più tranquillo, anche se spesso, quando il vento si sgusciava sotto la porta, alzava il muso per captarne gli odori.
Zefiro provò a insegnarle a giocare a dama, ma il cervello do Melwen era troppo intorpidito. Riuscì a vincere soltanto due volte sulle dieci partite che fecero, e solo perché l'amico decise di concederle la vittoria. Ma alla fine non le importava. Non c'era spazio in quel nulla troppo pieno.
A cena, Myria e Nyi mangiarono con loro la zuppa di ceci e le polpette di cavolfiore. La conversazione si arenò spesso e non sempre la madre di Zefiro riuscì a salvarla da un naufragio certo. Fu un sollievo quando finirono anche le ultime fette della torta della mattina e tornarono tutti nelle loro stanze.
- Dove vuoi dormire stanotte? - le chiese Zefiro quando si trovarono da soli.
Melwen osservò la stanza. I due letti erano sfatti e le coperte toccavano con i lembi il pavimento. Le dava l'idea di un ambiente dimenticato, abbandonato a se stesso. Non avrebbe dovuto, ma quell'apparente incuria le comprimeva la cassa toracica.
- Stiamo qui. - decise, sedendosi sul materasso freddo.
Zefiro si morse la lingua, trattenendo qualsiasi cosa volesse dire.
- Va bene. Se ti senti male o hai qualche incubo, svegliami. -
Melwen gli fu grata per la sua comprensione, per quel silenzio che condividevano che la faceva sentire in pace con se stessa. Durante la notte gli prese la mano e se la portò al viso. Non c'era segreto che li potesse separare.

Angolo Autrice:

Hello folks!
Si procede a spron battuto qui u.u eh, eh, eh, pian piano ci avviamo verso la fine anche di questo secondo volume. Comunque, non so se avete notato ma siamo arrivati a ben 100 recensioni! Quindi, da ora fino al 18 avete tempo per o iscrivervi al giveaway sulla pagina oppure scrivermi in privato e confermarmi che siete ancora interessati u.u Come sempre QUI c'è il link alla mia pagina autrice. Un bacione e grazie mille a tutti!
Hime

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Capitolo 24
*** Padre e figlia ***


Fuoco 2

23

Padre e figlia

Quella mattina, al risveglio, Airis rimase sdraiata per un po' ad ascoltare i suoni lievi del mondo esterno. Arghail riposava nell’altro letto e il suo respiro era l’unico rumore che interrompeva il silenzio nella stanza. Dopo qualche minuto, s i tirò su a sedere e si massaggiò il collo. Aveva tutti i muscoli indolenziti e dovette fare più di un tentativo per riuscire ad alzarsi. Quando si sentì sicura sulle proprie gambe, si avvicinò al tavolino dov’era stata posata una brocca d’acqua e la sua spada. Prese quest'ultima, controllò il filo e la allacciò sul fianco. Poi si appoggiò al muro e si massaggiò la radice del naso.
La porta si aprì con uno scricchiolio sommesso e Fareun entrò con un vassoio in mano. Non appena la vide in piedi, la squadrò dalla soglia per qualche secondo prima di muovere i primi passi all’interno. Cucciolo gli trotterellò accanto e andò ad accoccolarsi ai piedi del letto di Arghail, nel punto dove la sua mano sporgeva dal materasso.
- Non credevo di trovarti già sveglia. -
Fareun posò il vassoio sul tavolino, si sedette sullo sgabello con un sospiro stanco e inclinò la testa per vedere oltre le spalle di Airis.
- Il tuo amico dorme ancora. Bene, è un ottimo segno, significa che le erbe hanno funzionato. -
- Ti sei occupato tu di noi? -
- No, è stata mia nonna. Anche se quando hai tentato di colpirla si è spaventata molto. -
Con una smorfia di dolore Airis si staccò dalla parete e prese posto sulla sedia più vicina. Fletté le gambe un paio di volte, cercando di ignorare le fitte ai muscoli.
- Dille che mi dispiace. Non era davvero mia intenzione farle del male. Mi sono svegliata, ho visto una figura sopra di me e ho reagito d’istinto. -
- Non abbiamo cominciato col piede giusto, ma di questo non ti devi preoccupare. Mia nonna ha accudito nove figli e altri sei nipoti, non rimane spaventata mai troppo a lungo. - ridacchiò e, afferrando il coltello con la lama smussata, spalmò del burro su una fetta di pane, - Tieni, mangia. Hai una brutta cera. -
Airis accettò volentieri e diede subito un morso. Mangiò in silenzio e, quand’ebbe finito, prontamente Fareun le porse un bicchiere di latte colmo fin quasi all’orlo. La sua mano era magra e la pelle, ricca di cicatrici, scura come il cuoio.
- Grazie per quello che avete fatto. Saremmo morti se non ci aveste soccorso. -
- Tu no, ma il tuo amico era in pessime condizioni. Non so che cosa vi sia passato per la testa quando avete deciso di attraversare le montagne. Lo sanno tutti che sono maledette. -
Airis non commentò. Sorseggiò il bicchiere di latte e tornò a guardare Arghail.
- Le sue gambe come stanno? -
Faerun prese un generoso pezzo di pane e se lo infilò tutto in bocca. Mentre masticava, molti pezzi di mollica ricaddero sulla tunica.
- Il tuo amico non ha niente di rotto, per fortuna, solo molte ferite, alcune più brutte delle altre. Dove siete diretti? -
Airis sapeva che prima o poi sarebbero arrivate le domande scomode. Guardò il bicchiere di latte e lo roteò piano, gli occhi fissi sui granuli di farina che vorticavano sulla superficie.
- Non voglio farmi gli affari tuoi e del tuo amico, ma sarò franco: io non voglio guai. - continuò Faerun e la sua attenzione si appuntò sulle statuette di terracotta sulla mensola vicino alla finestra, - I miei antenati mi obbligano a offrirvi ospitalità, ma vorrei che ve ne andaste quanto prima. -
- Non vi dovete preoccupare. Dateci il tempo di riprenderci e ce ne andremo. Quanto dista la magione Lullabyon? -
- Meno di una giornata a cavallo. -
Airis si sgranchì le braccia e si alzò in piedi.
- Avete un cavallo? -
Faerun incassò il collo nelle spalle, come se un grosso peso gli stesse gravando addosso. Dal suo sguardo diffidente Airis intuì cosa stesse per dire.
- Chi mi dice che non fuggirete con ciò che è mio? -
- Andrò da sola. - rispose e lanciò un'occhiata preoccupata ad Arghail, - Il mio compagno rimarrà qui ad aspettarmi. Se te ne prenderai cura e non farai parola di noi con nessuno, quando tornerò vedrò di ripagare la tua ospitalità. -
L’uomo puntò gli occhi sulla sua spada, intrecciò le dita tra le gambe e dondolò la testa in lievi cenni d’assenso un paio di volte.
- Vuoi partire subito? -
- Prima parto, prima torno, prima ce ne possiamo andare. -
Faerun le diede una pacca sbrigativa sulla spalla e, senza aggiungere altro, uscì dalla stanza.
Airis si avvicinò al letto di Arghail e si inginocchiò al suo fianco.
- Resisti, tornerò presto. - gli sussurrò all’orecchio.
 
La magione Lullabyon si stagliava contro il cielo notturno, imponente come un drago. Dopo averci vissuto degli anni, Airis aveva disegnato nella sua mente una mappa della sua grandezza, ma solo ora la vedeva con i propri occhi per la prima volta.
Lo stronfiare nervoso del cavallo la distolse dai suoi pensieri. Legò le redini al ramo più basso, si calcò il cappuccio sulla testa e si mosse tra gli alberi. Aveva piovuto durante il tragitto e ora, a ogni soffio di vento, l’aria umida le sferzava le guance.  Giunta in prossimità della magione, si acquattò in un piccolo campo di margherite e ispezionò i dintorni con lo sguardo.
Due soldati sorvegliavano il cancello d’entrata. La luce delle torce inestinguibili rischiarava l’oscurità attorno a loro e appiattiva le ombre in figure lunghe e strette. Da quella distanza era difficile distinguerli bene, ma la voce del più anziano le ricordò subito quella di Moros. Non riusciva a smettere di fissarlo. Era strano poter dare finalmente un volto a quel timbro baritonale.
Airis fece il giro, affidandosi alla memoria del corpo, e uscì allo scoperto solo dopo essersi guardata ancora una volta intorno, per assicurarsi che non ci fosse nessuno nei paraggi.  Corse fino alla siepe che delimitava il confine est e infilò il braccio tra le foglie. Le venne da sorridere quando la sua mano si chiuse sul vuoto, invece che toccare il cancello. Quando era bambina, era stato il cane, Mastino, a mostrarle quell’insolita via d’uscita. Incredibile che fossero già passati dieci anni.
Scosse la testa e si grattò il petto con le dita, come se assieme allo sporco potesse scrollarsi di dosso anche la malinconia. Spostò i rami della siepe, si chinò e scavalcò l’inferriata. Lo spazio tra le sbarre era stretto, molto più di quanto ricordasse. Abbassò le ginocchia e strinse i denti, facendo forza con tutto il corpo. Ebbe un moto di panico quando rimase incastrata con la spalla. Aveva anche il respiro mozzo, come se l’aria che la circondava non fosse sufficiente.
Un corvo gracchiò in lontananza e lo zirlare di un tordo si fuse con il frinire dei grilli. La natura sembrava impassibile al caos che imperversava dentro di lei.
Con un ultimo strattone, si diede la spinta e incespicò dall’altra parte. Quando si raddrizzò, si accovacciò sotto la tettoia dietro l’angolo. Da quella prospettiva riusciva a vedere bene l’entrata principale e buona parte del giardino.
Il paesaggio la confuse: era familiare e, allo stesso tempo, estraneo. Ricordava lo scricchiolio della rugiada sotto i piedi, il profumo fresco della menta e il cigolio dell’altalena, quella che Davsten le aveva costruito. L’albero su cui amava arrampicarsi era ancora lì, vicino al capanno degli attrezzi, infestato dall’edera. Pareva un vecchio prostrato dalla malattia.  Una stretta al cuore le inumidì gli occhi. Si avvolse nel mantello e, dopo essersi guardata ancora una volta alle spalle, si diresse verso la cantina. La luna imbiancava la doppia porta incassata nel terreno. Era chiusa da un catenaccio di ferro lucido a forma di serpente.  Si inginocchiò e soppesò il lucchetto, un cubo d’ottone grosso come il suo palmo. Appurando che non ci fosse alcun arnese con cui aprirlo, lo strattonò decisa. Le catene cigolarono, serrandosi attorno alle maniglie in una presa sempre più stretta. Airis continuò a ruotare finché gli anelli non si incastrarono gli uni negli altri. I muscoli del braccio si tesero nello sforzo e il calore le imporporò le guance quando aumentò la forza di torsione. Il ferro si incrinò, per poi rompersi in un gemito sommesso.  Sfilò la catena dalle maniglie, aprì la porta e scese a tentoni le scale.  Sotto era buio pesto e l’umidità trasudava dalle pareti. Airis allungò la mano e toccò la familiare superficie liscia del portabottiglie. Percorse le scanalature nella roccia e proseguì con cautela, stando bene attenta a dove metteva i piedi. Almeno lì non era cambiato molto. Le botti erano sempre sulla sinistra, a parte una che era addossata al muro di destra. Le torce erano appese a portata di mano. La polvere le pizzicava le narici e costellava l’oscurità di tanti minuscoli puntini. Si strofinò il naso per non rischiare di starnutire.  Salì i quattro scalini che la separavano dalla “porta nana”, come l’aveva rinominata da bambina, perché tutti, eccetto lei, dovevano chinare la testa per poter entrare. La luce che filtrava dallo spiraglio in basso era così flebile che a malapena bastava a delineare il profilo dei suoi stivali. Un lampo di incertezza la fermò prima che avvolgesse le dita attorno alla maniglia. Cosa avrebbe detto a Davsten? Come avrebbe reagito a rivederla dopo tutto quel tempo? Non sapeva nemmeno se le avrebbe creduto o se l’avrebbe perdonata dopo quello che si erano detti l’ultima volta. Lei non aveva mai dimenticato le parole aspre che si erano scambiati prima che partisse per il nord.
Un latrato improvviso le risucchiò via tutta l’aria e la voce, lasciandola boccheggiante nella penombra.
- Mastino! Mi farai venire un infarto! Cosa c’è? -
Airis deglutì e attese, rigida, dietro la porta chiusa. Non aveva il coraggio nemmeno di respirare. Il battito si arrestò all'udire dei passi fermarsi proprio oltre la barriera di legno. Il cane uggiolò e il collare tintinnò quando si strusciò contro la porta.
Quando la maniglia si abbassò e la porta si aprì, Airis rimase immobile. Un cane grosso quanto un pony, dal pelo nero e il muso schiacciato, le saltò addosso, scodinzolando contento, spalmando tonnellate di bava sui suoi vestiti e sulla sua faccia.
- Ba… basta! - protestò tra le risate, ma il cane la ignorò.
Quando riuscì a svincolarsi, Airis si spostò di lato e oltrepassò la soglia.
- A cuccia. -
A quell’ordine, Mastino si calmò e si sedette vicino al suo padrone. Parve quasi farle un cenno incoraggiante col muso, ma lei mantenne lo sguardo basso, pronta a ricevere le urla e le accuse di Davsten.  Sussultò quando percepì due braccia circondarle la schiena per premerla contro un torace ampio, lo stesso sul quale da piccola aveva cercato conforto dopo un incubo o durante un temporale. Persino i vestiti avevano il medesimo odore.  Un singhiozzo le sfuggì dalle labbra e un velo di lacrime si formò dietro le palpebre chiuse. Lentamente portò le proprie braccia in alto, a cingergli il collo, e si stupì quando non dovette sollevarsi in punta di piedi. Il peso dei sentimenti le schiacciava lo sterno, eppure non lo avrebbe scambiato per niente al mondo. - Se sei un sogno, prego gli dei di non svegliarmi mai più… - mormorò Davsten, affondando le dita tra le ciocche rosse. Tremava e il respiro incespicava a singhiozzi dalle sue labbra, come se facesse fatica a riempirsi i polmoni di aria. Quando le sue gambe cedettero, Airis lo strinse più forte e, finalmente, si concesse di piangere. Non seppe quanto rimasero rannicchiati sul pavimento, aggrappati l’uno all’altra. Fu suo padre il primo a recuperare il contegno. Si alzò barcollando e tese una mano ad Airis, che l’accetto. Non appena furono entrambi in piedi, Davsten si allontanò di un passo per osservarla meglio, facendo scorrere le mani sul suo viso e lungo spalle e braccia. I suoi occhi erano sgranati e un sorriso incredulo gli curvava le labbra. La ammirò come un collezionista che venera una rara opera d’arte.
Airis si prese tempo per osservarlo a sua volta. Era come lo aveva sempre immaginato. C’era una cicatrice sotto l’occhio destro e il mento era ricoperto da uno strato di barba incolta. Un formicolio esplose sul suo collo al ricordo di come quel cespuglio le solleticava la pelle quando lo abbracciava. Memorizzò il colore scuro dei suoi capelli e l’azzurro sporco delle sue iridi. Poi notò il pallore del suo incarnato, le occhiaie sopra gli zigomi sporgenti, le rughe sulla fronte alta e sulle guance incavate. Era invecchiato, ma era sempre lui. Riuscire finalmente ad associare una faccia alla voce che aveva imparato ad amare la scombussolò e un soffice tepore le sbocciò nel petto.
Davsten appoggiò la fronte contro la sua, senza allontanare le mani dalle sue guance.
- Sei tornata… sei davvero tornata. - le accarezzò la nuca, la abbracciò ancora e si allontanò lungo il corridoio, - C’è del mirto nelle cucine. Vai a prenderlo. -
Airis si asciugò gli occhi e si avviò anche lei, seguendo l’eco dei passi del padre. Davsten si diresse nello studio, mentre lei deviò verso le cucine. I quadri e gli arazzi le scorrevano accanto alla stregua di visioni oniriche. Aveva quasi l’impressione di essere sospesa nel tempo e nello spazio, prigioniera di un sogno che era anche un ricordo.
Quando entrò nelle cucine, non trovò nessuno. Diverse pentole erano state lasciate sul fuoco, tutte con il coperchio appena spostato in modo tale da far fuoriuscire il fumo. Oltre a quello del bollito, Airis riconobbe il profumo del sugo per le polpette. Assaporò l’atmosfera di casa, riempiendosi il cuore di quelle nuove e familiari forme. Poi, avvalendosi della memoria del corpo, spostò gli stracci vicino al lavabo, sollevò il coperchio di una botola e prese il mirto, assieme a due tazze pulite. Davsten l’attendeva accomodato su una poltrona, di fronte al camino spento. Non appena Airis entrò, la invitò a prendere posto vicino a lui. Il suo odore era più forte in quella stanza. Sapeva di tabacco, cuoio e fieno. Era un abbraccio caldo che la metteva a suo agio e raccontava quanto non fosse cambiato negli anni.
- Tua madre non è voluta venire. Dice che questa casa ha troppi ricordi di te. - sospirò, appoggiò la testa contro lo schienale e roteò gli occhi, - Io, invece, la amo proprio perché mi ricorda te. Quando voglio sentirti vicina, passo un paio di giorni qui. -
Airis stappò la bottiglia e versò da bere a entrambi: - Con gli anni sei diventato più sentimentale. -
- La vecchiaia intenerisce il cuore di tutti gli uomini. -
Davsten si alzò, andò alla scrivania dalla parte opposta della stanza e tornò con un piatto in mano. Il profumo del limone le stuzzicò le narici.
- Erano il dessert di stasera. Anche se non sono più caldi, sono ancora buoni. -
Airis prese un biscotto e lo addentò senza esitare. Lo zenzero le punse la lingua e la crema le esplose in bocca, tant’è che una goccia le colò sul mento. Non riuscì a reprimere un sorriso quando Davsten le porse il suo fazzoletto di stoffa.
- Venticinque e passa anni e ancora ti sporchi come se ne avessi nove. - sbuffò bonario.
- Non è colpa mia se Cara li riempie così tanto. -
Suo padre scosse la testa, ma sorrideva anche lui, anche se le rughe marcate e le occhiaie tradivano la sua stanchezza.
- Quand’è stata l’ultima volta che hai dormito? - domandò Airis.
- Dormo, ma il sonno non mi fa stare meglio. - rispose e si abbandonò contro lo schienale, il capo reclinato verso di lei, - Ti ho seppellita qualche settimana fa, dopo mesi che non avevo tue notizie, e ora sei qui, davanti a me, come se fossi appena tornata da una passeggiata fuori città. Mi è difficile credere di non essere uscito di senno. -
Airis versò altro mirto in ambedue le tazze: - Prima di raccontarti tutto, devo chiederti scusa. -
- Per cosa? -
Lei si passò le mani sul viso e le lasciò ricadere sulle ginocchia con un sospiro. Era assurdo quante volte avesse riflettuto su cosa dirgli e adesso, nel momento cruciale, non sapesse da dove cominciare. Non c’era un vero inizio, solo preludi di frasi e parole sconnesse.
- Stai pensando a Felther? - indagò Davsten.
- Tra le altre cose... -
- È acqua passata, ormai. E dal tuo sguardo capisco che è passato anche quello che provavi per lui. -
Airis strinse appena la presa sulle ginocchia. Felther, l’uomo che aveva amato e che poi non aveva esitato a sollevare la spada contro di lei. La ferita del suo tradimento era ancora fresca e bruciava come arsenico nelle viscere. Bevve di nuovo, sperando di soffocare l’angoscia con il mirto. Si era dimenticata come scendeva bene quello che produceva Cara, quanto forte fosse il calore che sprigionava mentre attraversava lo stomaco. Socchiuse gli occhi e inspirò forte per alimentare il fuoco. Che si alzassero, quelle fiamme, che divorassero l’inquietudine e il senso di colpa.
- Tutti commettiamo degli errori. Forse avrei dovuto essere meno duro e forse tu avresti dovuto provare ad ascoltarmi. Ora non importa più. Quel che è fatto, è fatto. - Davsten sospirò e levò in alto il calice, - Alla salute. -
- Alla salute. -
Il vento fuori stormiva tra i rami e colmava il silenzio. Mastino entrò nello studio trotterellando e andò ad accucciarsi ai piedi del suo padrone. Non appena i suoi occhi caddero sul piatto di biscotti, la bocca si riempì di bava. Airis ne spezzò uno e lo fece cadere a terra, lì dove il tappeto non copriva il pavimento.
- Ti ricordi le regole di casa. - constatò Davsten, compiaciuto.
- E come dimenticarle? La sfuriata che fece mamma quando sbriciolai i biscotti su questo tappeto mi resterà impressa nella memoria per sempre. -
- E aveva ragione. Quante volte ti aveva detto di non farlo? -
- Me lo sono meritato. -
Risero e Davasten le diede una pacca sulla mano, come sempre faceva quando approvava quel che diceva. Poi corrugò le sopracciglia e la luce nel suo sguardo si attenuò. Mentre i suoi occhi vagavano per la stanza senza posarsi su nulla, la tensione gli indurì di nuovo le spalle.  Soffiò le parole seguenti assieme a un sospiro, come se provenissero dal petto e non dalla bocca:  - Tre anni fa è nato mio figlio. Si chiama Lorcan. - Airis attese che aggiungesse altro, ma suo padre la guardava e basta, in attesa di una sua reazione.
- Ho un fratello, quindi. - proferì in tono neutro, lo sguardo puntato sul bicchiere che stringeva tra le mani.
Fratello. Il concetto le causò un tuffo al cuore e un’ondata di sensazioni contrastanti. Le sentì diffondersi in ogni fibra del suo corpo, un calore che le scaldava il petto e le intorpidiva le dita. La vita era andata avanti mentre lei era in guerra, mentre moriva.
- Non ce lo aspettavamo. Si può dire che è stata una sorpresa per entrambi, sia per me che per Iola. - proseguì Davsten, - Tua madre dice che ti somiglia molto. -
- Ed è vero? -
- È ancora presto per dirlo.  -
- Beh, speriamo che… - si maledisse quando la sua voce incespicò sulla lingua rigida, - Speriamo che Lorcan non venga su come me. -
Davsten allungò la mano oltre il bracciolo per prendere la sua. La vita lontana dai campi di battaglia aveva limato i calli sul palmo, ma ad Airis bastava stringere un poco di più per avvertirne le lievi gibbosità nascoste sotto la pelle.
- Nessuno è come te, figlia mia. E per noi sei e rimarrai sempre la nostra primogenita. - le sorrise dolcemente, poi si schiarì la gola, - Ora raccontami cosa ti è successo. Io so che quello che ho seppellito era il tuo cadavere, ma tu ora sei qui, respiri e hai anche recuperato la vista. Come è possibile? -
Airis non si era preparata un discorso, così cominciò a narrare gli eventi seguendo un filo cronologico, dall’esplosione di Llanowar fino alla fuga dai Fae. Non tralasciò nulla, rivelandogli pure ciò che le avevano detto Cyril e Urian. Si scoprì anche su Ledah e spesso, durante tutto il resoconto, il suo nome tornò molte volte, forse anche più del necessario.  Quando terminò, si abbandonò contro la poltrona, esausta.  Mastino si avvicinò per leccarle le dita, come se volesse darle conforto, e Airis si sentì in dovere di ricambiare le sue attenzioni con una carezza. - Sei tornata perché vuoi liberare questo elfo? -
- Sì. -
Davsten si alzò con aria cupa e assorta e prese a camminare per la stanza, osservando di tanto in tanto gli arazzi appesi alle pareti. Quando il suo sguardo si soffermò nuovamente su di lei, Airis gli lesse negli occhi la domanda successiva.
- Non sarebbe più saggio ucciderlo? Così facendo, porresti fine ai piani di Aesir. -
- Non se lo merita, non dopo tutto quello che ha passato. -
- Concordi, però, che sarebbe la strada più facile. -
- Vero, ma ho molti debiti nei suoi confronti e non sarei un Cavaliere se non li saldassi. -
Davsten esalò un sospiro e scrollò il capo con disapprovazione.
- Ho fatto un giuramento quando sono entrata nell’Ordine del Lupo. - insisté Airis, - Ho giurato che avrei protetto i deboli e che mai avrei impugnato le armi contro la mia città. Ledah non è né un debole né un umano, ma è lui che mi ha ridato la vista e mi ha salvata, anche se ero una sua nemica. Gli devo la vita, padre, non posso abbandonarlo. -
Davsten sospirò ancora.  I raggi lunari che filtravano attraverso le tende semiaperte gli accarezzarono i capelli e le spalle larghe e appena ingobbite. Il dolore lo aveva fatto invecchiare più in fretta, pur senza intaccare la sua indole. Era un cavaliere, dentro e fuori.
- Non credevo che la situazione fosse tanto complicata. Ho sempre cercato di tenermi fuori dalla rete della politica, ma ormai è evidente che non posso più fuggire. - disse Davsten dopo qualche minuto di silenzio.
- Che intendi? -
- Pochi giorni fa, Kitiara Azlan, Gavyn Erdarwell e Ynyr Fellmoor mi hanno seguito fin dentro la tua cripta per dirmi che hanno intenzione di eliminare la regina durante la celebrazione dei caduti. -
- Che cosa?! -
- Ho rifiutato di prendere parte al complotto. Tuttavia, se avessi saputo che abbiamo a che fare con un mostro… -
- Nessuno ne era a conoscenza. Persino io ho faticato a crederci. -
- Uhm. -
- Cosa pensi di fare? -
- Sono stanco e ho bevuto troppo per prendere una decisione stanotte. Domani ne parleremo con calma, dopo che sarai andata a prendere Arghail. -
- Suppongo tu abbia ragione. - mormorò alzandosi, - Dove posso dormire? -
- Nella tua camera, come sempre. Ti ricordi dov’è? -
- Sì. -
- Allora, buonanotte. -
- Buonanotte. -
Sulla soglia, Airis si girò. Davsten non si era mosso e la osservava attraverso le palpebre socchiuse. Quanto aveva combattuto per non lasciarsi sopraffare dal dolore? Quante maschere aveva dovuto indossare?  Possibile che nessuno avesse notato la curvatura delle spalle e i fili bianchi nella barba e nei capelli?
- Ti voglio bene, padre. -
- Anch’io te ne voglio, figlia mia. - 
Quando entrò nella sua vecchia camera, Airis rimase imbambolata a fissare il letto e la scarsa mobilia. L’arredamento era sempre stato minimo, al fine di agevolare i suoi movimenti nella cecità. Le lenzuola sapevano di fresco e non c’era traccia di polvere. Aprì la finestra, giusto per cambiare l’aria, e poi si sdraiò sul letto, stremata fin nel midollo.
Il mirto le appesantiva le membra, trasformando l’angoscia in un calore piacevole che la invitava a lasciarsi andare. Inspirò a fondo l’odore di lavanda, legno e malva che permeava la stanza. Il profumo di casa. Si tolse gli stivali e si rannicchiò in posizione fetale, stringendo il cuscino al petto, come quando era bambina e sognava di diventare un Cavaliere. Il sonno la ghermì pochi minuti più tardi.
La mattina seguente trovò il vassoio della colazione davanti alla porta: pane caldo, marmellata di albicocche e una ciotola di latte colma fino all’orlo. Mangiò con calma, godendosi il silenzio.
Quando suo padre venne a bussare, era già vestita e pronta a cominciare la giornata. Rispetto alla sera prima, le sembrò più rilassato e l’alone scuro attorno agli occhi si era in parte riassorbito.
- Ho dato a Cara e a tutti i servi un giorno di riposo. - le comunicò, sedendosi sul bordo del letto, - Come hai dormito? -
- Bene, grazie. -
- Anche se questo materasso è duro come la pietra? -
- Trovo che sia comunque molto più comodo di qualsiasi superficie su cui ho dormito ultimamente. Cosa hai deciso di fare? -
- Se ho capito bene, non ti avrei mai riabbracciata senza il suo aiuto. In quanto cavaliere e padre, gli devo molto. Perciò d’accordo, ti darò una mano. - le sfiorò la guancia e le spostò una ciocca dietro l’orecchio in una carezza gentile e goffa al tempo stesso, - Discuteremo i dettagli quando tornerai. Ora va’ a prendere Arghail. -
La gioia le riempì il cuore, così tanto e così in fretta da provocarle un capogiro.
- Grazie, padre. Significa molto per me. -
- Lo so. - rispose con un sorriso.
Insieme si diressero alla scuderia. Il cavallo di Davsten, Saetta, sollevò il muso non appena percepì la presenza del suo padrone, lanciando un lungo nitrito in saluto. Nella stalla accanto dormicchiava tranquillo il morello che Faerun le aveva prestato.
- Tieni, questa è la… mancia per il disturbo. -
Suo padre le mise in mano una scarsella di pelle nera, lavorata con inserti di cuoio finissimi. Airis la accettò senza replicare. Si appoggiò alla parete e lo osservò armeggiare con la sella di Saetta con fare esperto. Davsten amava gli animali. In quello era molto simile ad Arghail.
- Ecco, prendila pure. E non dare troppo di sprone, sai che si imbizzarrisce. -
- Grazie. Sarò di ritorno in serata. - gli disse, scortando Saetta per le redini fuori dalle scuderie.
- Devo far venire un guaritore per Arghail? -
- Arghail è molto legato a una donna di nome Hallende. Dovrebbe essere arrivata in città da un po’. -
- Dove posso trovarla? -
- Al tempio di Hijan, o alla sede dell’Ordine del Lupo. -
Davsten annuì e le aprì il cancello. Né Moros né l’altra guardia più giovane erano presenti.
- Oggi andrò alla commemorazione dei caduti. Se dovessi tornare tardi, nella scarsella c’è anche un mazzo di chiavi di riserva. Stai attenta. -
- Anche tu. -
Airis montò su Saetta e guardò un’ultima volta suo padre prima di dare di sprone. Saetta si impennò e partì al galoppo con un nitrito bellicoso.
- Sempre a fare di testa tua! - le urlò dietro il padre.
Lei scoppiò a ridere, i capelli sciolti al vento e una scintilla vispa negli occhi.
Raggiunse la dimora di Faerun molto più in fretta di quanto si era aspettata. Il padrone di casa la accolse con un cenno del capo, ma storse il naso quando vide che non aveva riportato indietro il suo morello. Si rasserenò un poco solo quando Airis gli mise in mano le venti monete d’argento della scarsella.
Arghail dormiva ancora nella stanza in cui lo aveva lasciato. Al suo capezzale, ingobbita su una sedia, c’era la nonna di Faerun, intenta a fissare il paziente con uno sguardo severo. I suoi capelli erano un grigio groviglio di lanugine, la pelle una ragnatela di rughe. Non proferì verbo, né accennò ad aiutare Airis quando passò delle corde, fornitegli da Faerun, attorno al busto di Arghail. Questi restò incosciente per tutto il tempo. Airis lo trascinò fuori, lo issò sulla sella e legò le estremità delle funi alle cinghie, assicurandosi che non cadesse.
- Non credo si sveglierà tanto presto. Gli abbiamo dato un infuso di semi di papavero che stenderebbe anche un cavallo per quanto era forte. - le disse Faerun.
Quando Airis si accigliò, l’altro si affrettò a spiegare.
- Mugolava nel sonno e mia nonna pensava che stesse soffrendo. -
Airis sospirò e spostò i capelli dietro le orecchie. Saetta stronfiò ed emise un basso nitrito quando anche lei montò in groppa.
- Noi non siamo mai stati qui, chiaro? -
Faerun annuì solenne, per poi sparire all’interno della casa.
Un paio di ore dopo, Airis intravide oltre gli alberi il profilo della magione Lullabyon. Il cielo si era rannuvolato, tanto che pareva notte invece che primo pomeriggio. La luce di una candela illuminava la finestra della cucina. Airis condusse Saetta nelle scuderie e, prima di andarsene con Arghail, le tolse la sella e la pulì con la spazzola. Trascinando l'amico verso la porta, gli ansimò incoraggiamenti nell'orecchio, ignara se la sentisse o meno.  Il suo odore, un misto tra sudore e terra, le fece accapponare la pelle. Conosceva fin troppo bene quella puzza, poiché era la stessa che l’aveva spesso assalita nell’ospedale dell’accampamento. Spinse la porta della cucina con la spalla e barcollò all'interno.  Arghail grugnì quando lo strattonò con un po’ troppa forza. Lo trasportò velocemente in salotto e lo depose con cautela sul divano. Non appena il suo corpo toccò i soffici cuscini, esalò un sospiro di sollievo. Davsten e Hallende li raggiunsero subito dopo. Lei andò ad inginocchiarsi accanto ad Arghail, mentre Davsten si accostò ad Airis. Le loro espressioni cupe la allarmarono all’istante.
- Che cosa è successo? - gli chiese col cuore in gola.
- Esattamente ciò che temevamo: hanno attentato alla vita della regina. -

Angolo Autrice:

Hello folks!
sì, finalmente sono tornata. Scusate il mega ritardo, ma... beh, sono successe delle cose che mi hanno tenuta lontana da EFP. No, non parlo solo dell'università. Quella sì, c'è sempre, ma... beh, a dicemebre pubblicherò un libro. Fermi tutti, niente infarti, lasciatemi spiegare xD Allora, quest'estate ho deciso assieme a tre mie amiche di dar vita a un progetto di beneficenza che porterà, per l'appunto, alla produzione di una raccolta di racconti tema tarocchi. La cosa più bella è che tutto il ricavato verrà devoluto in beneficenza alla Telethon. é stata davvero una bellissima esperienza e, anche se bisognerà aspettare ancora un po' per l'uscita del libro (la data è il 12 di dicembre) sono davvero felicissima di aver contribuito ^^ Se volete saperne di più, vi lascio i link delle diverse pagine social, così se volete supportare questo progetto o, semplicemente, sbirciare per vedere meglio di che cosa si tratta, vi basterà clikkare sul link apposito. Per quello che, invece, riguarda le storie qui su EFP: allora, Whispering Wind la sto scrivendo e conto di cominciare a pubblicarla a dicembre (voglio avere un po' di capitoli da parte), mentre Fuoco la pubblicazione riprende da oggi. Non vi posso dare la sicurezza di due capitoli al mese, ma vi assicuro che da ora in avanti proseguirò fino al termine di questo secondo volume. Un bacione e fatemi sapere che ne pensate di questo capitolo u.u QUI la pagina FB QUI la pagina Instagram

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Capitolo 25
*** Leggende ***


Fuoco 2

24

Leggende

La notte era il momento più lungo della giornata, per Zefiro. Melwen dormiva vicino a lui, schiacciata contro il suo fianco come un cardellino infreddolito, avvolta nella coperta fino alla testa, con solo qualche sparuto ricciolo sparso sul cuscino. Quando si muoveva, erano una delicata carezza sulla sua pelle, come il suo respiro rilassato.
"Ti invidio… vorrei poter dormire anche io come fai tu."
Melwen mugugnò qualcosa di indefinito e si rannicchiò ancor più. Tremava appena e un velo di sudore brillava nelle increspature della fronte e delle sopracciglia. Zefiro protese il braccio fuori dal letto e lo inumidì nel catino d’acqua sulla sedia, prima di tamponarlo sulle sue guance. Anche nel buio, riusciva a distinguerne il rossore febbrile.
- Vado un attimo a prendere una boccata d’aria, torno subito. - le soffiò all’orecchio.
Come se volesse dargli il suo permesso, Melwen ritirò il braccio contro il petto e si spostò sul bordo del letto, dove il lenzuolo era scivolato via dall’angolo, lasciando esposta una riga di materasso. 
Zefiro le lanciò un’ultima occhiata, poi prese un profondo respiro e compì il primo passo. Il legno sotto il suo piede scricchiolò, un dirugginio d’assi che riecheggiò nel silenzio della stanza. Zefiro fece una smorfia e improvvisò una corsetta. Non controllò che Melwen stesse ancora dormendo prima di appoggiare la mano sulla maniglia e spalancare la porta, proseguendo fino al soggiorno.
Le candele, come la sera precedente, erano accese e sprigionavano un intenso aroma di melograno e cannella. Sul tavolo dove levitava la teiera, oltre alle braci per tenerla in caldo, Eogann aveva lasciato anche due tazze. Zefiro afferrò quella con inciso sopra un cavaliere in groppa al suo destriero rampante. Dopo averla riempita fino all’orlo, si sedette e rimase a osservare il fumo che spiraleggiava verso il soffitto, le mani che sostenevano il mento e le palpebre socchiuse, senza pensare a null’altro se non al profumo dello zenzero. Quando gli parve che la tazza fosse un po’ meno calda, aggiunse un cucchiaino di miele e si mise a sorseggiare la tisana.
- Come mai sveglio? Hai fatto un brutto sogno? -
Zefiro sussultò per la sorpresa e si voltò di scatto. Il busto di Eogann spuntava per metà dalla rampa di scale. Lo vide salire gli ultimi scalini e avvicinarsi con una candela in mano.
- Non ho sonno. - rispose.
- È sempre così, oppure ti capita solo in questi giorni? -
- La seconda. -
Eogann si sedette davanti a lui. Indossava una tunica di un azzurro stinto, con le maniche così ampie da lasciar sbucare solo la punta delle dita. A un suo cenno, la teiera si inclinò, versando la tisana nell’altra tazza.
- E voi? Come mai siete sveglio? -
- Non serve essere così formali, Zefiro. Nemmeno i miei figli sono così rispettosi. - si abbandonò a una risata e soffiò per scacciare via fumo e calore, - Melwen dorme? -
- Sì. È stata una giornata pesante per lei. -
- L’efedra è un’ottima erba, se presa per un periodo limitato di tempo e in dosi non eccessive. Purtroppo, nel caso di Melwen, gli effetti collaterali ci metteranno un po’ a sparire. -
- Un po’ quanto? -
- Non posso darti una risposta certa, dipende da molti fattori. Posso dirti, però, che già il fatto che stia dormendo è un progresso non da poco. -
Zefiro annuì. I petali di lavanda galleggiavano sulla superficie della tisana, urtandosi e urtando i bordi della tazza simili a zattere alla deriva. Così come la sua mente, anche loro avevano perso il nord.
- Non ti preoccupare, Melwen starà meglio. Tutti voi starete meglio, non appena arriverete alla capitale. - Eogann bevve un lungo sorso di tisana e si alzò, - Visto che anche tu non hai sonno, perché non mi dai una mano? -
- Di che si tratta? - 
- Vieni, te lo spiego nel mio studio. -
Zefiro saltò giù dalla sedia e lo seguì. Scesero lungo una rampa di scale che sprofondava nella penombra, attorcigliandosi su se stessa, con la ringhiera e il palo di supporto in legno decorato con incisioni di foglie d’edera. Quando scese l’ultimo gradino, Zefiro percepì sotto le babbucce la consistenza morbida dell’erba. 
- Ma che...? -
- È solo un'illusione, tranquillo. - spiegò Eogann.
Si avvicinò allo scrittoio e si accomodò su quello che sarebbe potuto sembrare un albero, se non fosse stato per i rami intrecciati a mo’ di schienale, per il cuscino di muschio e le quattro radici a sorreggere il tutto. 
- I miei figli dicono che sono un po’ troppo fissato con le piante, ma che ci posso fare? Sono pur sempre un cacciatore. -
- Un cacciatore? -
- Sì, e pure molto bravo. Poi i fiori in casa mia hanno cominciato a sbocciare anche in inverno e mio padre mi ha mandato a calci nel sedere all’Accademia. -
Zefiro sprofondò nel cappello di un fungo rosso a macchie bianche nello stesso momento in cui una farfalla si posò sulla sua spalla. La fissò a bocca aperta, sbalordito dalla sua grandezza. Quando le offrì il dito, il movimento delle zampe a contatto con la pelle gli causò prurito, ma era una sensazione piacevole, come il calore che soffondevano le grandi ali blu. Non ricordava dove o quando, ma era sicuro d’averla già provata.
- Sembri piacere a Ygerna. -
- Chi? - 
Seguì la traiettoria dello sguardo di Eogann e capì. Abbassò la mano e la farfalla sbatté le ali, spargendo una polvere brillante tutt’attorno a lei. 
- È un famiglio? -
- Sì. L’ho comprata quando studiavo all’Accademia e, da quel momento, i miei incantesimi sono migliorati di molto. Il mercante che me l’ha venduta mi ha detto di averla catturata nella foresta di Finnbharr. Ho sempre pensato fossero solo parole, ma ieri ho dovuto ricredermi. - 
Schioccò le dita e si accesero una decina di fiammelle blu sopra di loro, illuminando la pergamena sullo scrittoio, quella che aveva disegnato Melwen quel pomeriggio. 
- Sai cosa è questa? -
Zefiro si affrettò a quietare i brividi strofinandosi le braccia. Scosse con veemenza la testa per scacciare l’inquietudine che quella visione gli procurava.
- Hai freddo? Vuoi che ti vada a prendere una coperta? - gli domandò Eogann.
- No, no, sto bene. Per favore, andat… vai avanti. -
- Questa che ha disegnato Melwen è la cartina del regno delle fate, la vera mappa. Certo, è un po’ approssimativa, ma secondo Ygerna è più che affidabile. -
- Ygerna parla? -
- Diciamo che si fa capire. - Eogann offrì alla farfalla il palmo e la adagiò sullo scrittoio, sotto l’ombra allungata di un calamaio, - Comunque, non l’ho mai sentita così felice come quando ha visto questa mappa. -
- Non hai detto che è originaria di lì? -
- Sì, ma è risaputo che qualsiasi creatura che abbandona il regno delle fate dimentica dov’è. Gli studiosi ritengono che ci sia una specie di magia protettiva sul confine. Purtroppo, possiamo solo ipotizzare che sia vero, anche perché sennò non mi spiego come una farfalla cristallo possa aver dimenticato una cosa così importante. -
Zefiro appuntò la sua attenzione sulle ali blu di Ygerna, prima di tornare a guardare Eogann: - Melwen ha ricopiato la mappa da un libro di fiabe. Potrebbe essere solo una fantasia e basta. -
- No, non lo è. - li interruppe Melwen, sbucando all'improvviso accanto a Zefiro.
Si sistemò allo scrittoio e soffiò sulla tazza fumante. Aveva tutti i riccioli scompigliati, gli occhi arrossati leggermente lucidi e il libro della fiaba di Oberon e Titania sottobraccio.
- Scusate, non volevo origliare. Mi sono svegliata, sono andata in sala per bere la tisana e ho visto la luce, così... -
- Dovresti essere a dormire, tu. Hai bisogno di riposo. - la rimproverò Zefiro.
- Anche tu, sai? -
- Avete tutti e due bisogno di dormire, ma se Altor non vi concede il sonno, c’è ben poco da fare. - Eogann batté una pacca sulla spalla a entrambi e tornò ad appoggiarsi allo schienale, - E poi, considerando che è proprio del suo disegno che stavamo parlando, è più che benvenuta. -
Nell’appoggiare la bocca alla tazza, Melwen increspò le labbra in un sorrisetto vittorioso. Anche se la tentazione di prenderla di forza e riportarla a letto era tanta, Zefiro si obbligò a rimanere seduto, con braccia incrociate sul petto e le mani infilate sotto le ascelle. Le tirò fuori solo quando Eogann gli porse la tazza di latte e miele, di nuovo calda.
- Ho copiato la mappa da questo libro. - disse Melwen porgendogli il libro e nascose i piedi sotto la gonna della camicia da notte, - Lo ha trovato Zefiro nella biblioteca della vecchia Alabastria. -
Eogann annuì, sfogliandolo: - Questi disegni sono davvero belli. Sono delle vere e proprie opere d’arte. -
- La mappa si trova quasi a metà ed è stata disegnata su due pagine. Ci ho messo un po’ a farla apparire, ma alla fine ho trovato la giusta combinazione per decriptare l’incantesimo protettivo. - 
Si riappropriò delicatamente il libro dalle mani di Eogann e scorse in fretta le pagine. Le bastava avvicinare le dita perché queste girassero. 
- Se fosse stata solo una fantasia, l’autore non avrebbe avuto motivo di nasconderla. -
- Però lo sai cosa dicono le leggende: Faerie permette a pochi di entrare e a pochissimi di uscire. -
Le dita di Zefiro si strinsero di più attorno alla tazza, ma il calore non era neppure sufficiente a scacciare l’intirizzimento alle dita. Così si limitò ad avvicinare le gambe e a raggomitolarsi come poteva, stringendo i gomiti ai fianchi e piegandosi in avanti, sullo stomaco dolorosamente contratto.
- Faerie? - domandò Melwen.
- È il nome del regno delle fate. A nessun Sidhe piacerebbe essere chiamato Fae. È come se io decidessi di chiamare un uomo "coccodè". -
Il modo in cui fece il verso della gallina strappò un sorriso a tutti e due i bambini. 
- Comunque, questo racconta la leggenda. Entrare a Faerie è difficile, uscirne è quasi impossibile, almeno per i non-Sidhe. È il motivo per cui non ho creduto al mercante quando mi ha riferito di essere stato lui stesso a catturare Ygerna. -
Melwen si mordicchiò il labbro inferiore, arrotolando e srotolando un ricciolo sulla punta dell’indice: - Allora rimangono solo due scelte. O l’autore era un Fa… Sidhe, oppure era una persona così forte da riuscire ad andarsene e a mantenere la memoria. -
- Oppure, era entrambe le cose. -
Eogann si alzò e andò a prendere un grosso libro dalla libreria dietro lo scrittoio. Si inumidì le dita, scorse le pagine e tornò dai bambini, seguito dalle fiammelle che, subito, si ammassarono sopra la sua testa in un’ordinata mezzaluna.
“Al principio era Yggrasil, quando ancora nulla esisteva. Non c'era né cielo bordato di nuvole, né foresta, né gelide onde, né vento caldo. Poi Egli uscì dalle pieghe del tempo e modellò il Suo pensiero, cominciando a dare forma al mondo. Sotto il suo tocco si formò la terra e, dove diresse gli occhi, splendette il Sole, compagno della Luna, coprendo quelle lande desolate di prati e germogli profumati. Infine, tese la mano e sotto il suo palmo la terra si aprì, lasciando sgorgare l'acqua di mari, oceani e fiumi. Con la forza degli elementi da Lui creati, generò gli altri undici dei, Suoi amati Figli.” - 
Continuò a leggere a bassa voce, muovendo le labbra senza emettere alcun suono. Si fermò su una riga, ma gli occhi continuarono proseguirono ancora un pezzo prima che la voce desse corpo alle parole. 
“I Drokar sarebbero dovuti essere la Stirpe perfetta, inferiore solo a quella di Yggrasil. Invece erano al pari di tutte le altre, senza luce e senza gloria. Endemion, logorato dalla gelosia, rifiutò di considerarla un fallimento e giurò vendetta contro i propri Fratelli e Yggrasil stesso”. -
- Yggrasil sapeva che Aesir sarebbe tornato. È per questo che ha lasciato tre frammenti della sua anima nel Mondo Nato dal Nulla, perché noi potessimo difenderci.  Ma no, non fece solo questo. No, chiese ai suoi figli di scegliere un eletto che potesse operare il volere degli dei e potesse impugnare anche la Forbice del Cielo. - Melwen aveva gli occhi spalancati e articolava parole senza voce, battendo il piede come per scandire lo scorrere dei suoi pensieri, - Ora tutto comincia ad avere un senso. -
Zefiro corrugò le sopracciglia e scosse la testa: - Che cosa ha un senso? -
- Chi ha realizzato la mappa era un Guardiano. È il suo lascito, capisci? -
- Perché dovrebbe interessarci? -
- Perché sono i Sidhe i custodi della Forbice del Cielo. - spiegò Eogann.
Una pipa si alzò dallo scaffale più alto della libreria e volò tra le sue mani. Schioccò le dita e, sulla punta del suo pollice, si accese una piccola fiamma, con cui l'accese. Al primo tiro, nell’aria si diffuse un odore dolciastro.
- Nel Mablung Ringëril è chiamata "Amernwyn", nella Seferìa "Forbice del Cielo". Qualunque sia il suo nome, è la spada che Yggrasil usò per sconfiggere Endemion, o Aesir. - aspirò, gonfiò appena le guance e soffiò fuori una voluta di fumo, - Ragioniamo per assurdo. Se colui o colei che ha disegnato questa mappa fosse stato un Guardiano, avrebbe avuto non solo le capacità per andare e uscire da Faerie, ma anche motivo sia per disegnare una mappa sia per nasconderla. Considerato il grado dei dettagli, non è da escludere che fosse un Sidhe a sua volta. -
Zefiro prese la pergamena e la strinse così forte da accartocciarne i lati e creparne gli angoli.
- Tutto quello che state dicendo non ha il benché minimo senso. Parlate di dei, Guardiani, spade magiche e mappe segrete come se tutto questo fosse… fosse reale! -
- È molto meno assurdo di quello che potres… -
- No, è assurdo e basta. Sono leggende, Melwen. Come puoi crederci? -
- Perché, paradossalmente, sembrano le uniche in grado di darci delle risposte. - lo sedò Eogann, per poi massaggiarsi la radice del naso e distendere le gambe sopra una coccinella grossa quanto un gatto, - Dalla caduta di Llanowar, il mondo è cambiato, e il tempo anche non è più lo stesso. Ho sentito che la primavera, al sud, è arrivata prima del previsto e che a ovest spirano dei venti così forti da impedire la normale navigazione. È come se qualcosa, nel cuore del mondo, si fosse rotto. -
- E quando l'equilibrio viene compromesso, compare il Guardiano. - completò Melwen.
Il mago annuì, mordicchiando il dente del bocchino: - Devo recuperare i miei appunti sul frammento che mi ha portato tuo padre. Forse da quelli potrò… -
- Io vado a dormire. -
Zefiro si alzò e si pulì dalla polvere luccicante che gli si era appiccicata alle dita. 
- Zefiro, ma che ti prende? - 
Melwen lo afferrò per il braccio. I suoi occhi avevano assunto una sfumatura rossastra e il sudore le aveva macchiato la camicia sotto le ascelle e sul collo.
- Mi prende che mi è venuto sonno e voglio andare a dormire. Anche tu dovresti, hai bisogno di riposare. -
- Ma finalmente possiamo avere delle risposte! -
- Parla per te. A me non interessa. -
Tentò di liberarsi, ma Melwen non si arrese: - Non è vero. È solo una bugia perché sei uno stupido fifone! -
- Non sono un fifone! - 
Zefiro si districò e la spinse a terra. Ignorando lo sguardo disorientato dell'amica e i rimproveri di Eogann, marciò fuori dalla stanza senza voltarsi indietro. 
Un'ora dopo, tenne gli occhi fermamente chiusi quando udì Melwen rientrare. La sentì infilarsi sotto le coperte, girarsi e rigirarsi per un po’, finché il respiro non si allineò sulla sequenza del sonno. Non si svegliò mai e Zefiro non si azzardò ad abbracciarla. Aveva paura che, se avesse percepito il suo calore, l’avrebbe spinto via.
Distese le gambe e si fissò le mani. La luce della luna le illuminava di un chiarore spettrale, esaltando il profilo delle ossa e delle vene scure. Aveva spaccato lo spallaccio dell’elfo che aveva aggredito Melwen con quelle mani. Lo aveva stretto e il cuoio si era piegato come una foglia essiccata dal freddo. Aveva trovato piacevole il sapore del sangue, la sensazione di potere che aveva portato con sé, e più ci pensava, più si rendeva conto che avrebbe voluto assaporarla di nuovo.
Ritirò un braccio sotto le coperte e allungò l’altro sotto il cuscino, lasciando la mano a penzoloni fuori dal letto. Nel buio sbocciarono grosse macchie di colore, così grandi e vivide da sembrare fiori nell’oscurità della stanza. Giravano su se stessi come trottole. Più Zefiro assottigliava gli occhi, più diventavano definiti, così come i visi nascosti dal loro vorticare. 
Intravide l’espressione distesa di suo padre davanti al camino di casa. Le ombre delle fiamme si proiettavano sul tappeto, sfiorando i piedi nudi e induriti dai calli. 
Scorse Alan camminare per le strade di Amount-vinya. Lo seguivano le guardie e alcuni bambini, tutti sorridenti sotto i riverberi del sole sull’acciottolato. 
Baldur intagliava la sua spada di legno seduto su uno sgabello in giardino. I trucioli si erano depositati ai suoi piedi come petali dopo la pioggia. 
Nordri fissava il suo operato e lo intratteneva, riempiendogli il boccale prima che il vino finisse.
Morti. Erano tutti morti. 
Zefiro strinse il lenzuolo e abbassò le palpebre. I fiori ricomparvero comunque, si aprirono e ripresero a vorticare fino fondersi in un uniforme velo rosso. 
Rivide sua madre con Nyi, nello spazio erboso dove si erano accampati mentre fuggivano. Udì la voce di Nyi come se fosse lì con lui in quel momento.
- Non è umano, è inutile chiudere gli occhi davanti all'evidenza. -
- Non vuoi nemmeno ascoltare la mia teoria? -
- Tuo figlio presto pretenderà delle risposte. - 
Buttò all’aria le coperte, corse in bagno e sbatté la porta. Gli tremavano le mani mentre si scostava la stoffa da una spalla. La voglia era lì, tra scapola e collo, una macchia oblunga e nera come un livido.
- Cos’è quella? -
Zefiro afferrò la tunica e la frappose tra lui e lo sguardo interrogativo di Myria: - Niente. Che ci fai qui? - 
Sua madre compì un passo all’interno del bagno e si chiuse piano la porta alle spalle, come se avesse a che fare con un animale impaurito. Zefiro non si mosse. Si strinse la tunica al petto e seguì con gli occhi sua madre mentre prendeva posto sulla sedia di fianco alla vasca.
- Sai che puoi dirmi tutto. Sono tua madre, non c’è niente che… -
- Tu non sei mia madre. -
Myria gelò.
- Non dire così, Zefiro. Io e Tanet ti abbiamo sempre amato. -
- Quindi è vero. È… è come diceva Nyi. Dimmi cosa sono. - 
Le lacrime gli appesantirono le ciglia. Scansò la mano di sua madre, protesa per elargirgli una carezza sul viso, e si spostò di lato, fuori dalla sua portata.
- Sei mio figlio. -
- Basta bugie! -
- Non ti sto mentendo. -
- Smettila! Quello che ho fatto non è normale, lo sai anche tu! -
Myria non rispose. La bocca si mosse, ma senza articolare alcuna parola. Il suo respiro spezzato pervadeva il silenzio. 
Zefiro lasciò cadere la tunica e avanzò verso di lei: - Voglio sapere la verità. Me lo devi. -
- Non costringermi, ti prego… -
- Voglio sapere. -
Impresse in quel “voglio” tutta la sua disperazione. 
Sua madre intrecciò le dita in grembo e abbassò il capo. I capelli scesero a incorniciarle la fronte e le guance.
- Ti ha portato tuo padre a casa. Mi ha detto di averti trovato abbandonato in un vicolo di Amount-vinya. -
Zefiro deglutì. Le vertigini lo colsero e le ginocchia si piegarono sotto il peso del suo corpo. L’impatto della schiena contro la parete si ripercosse nella gabbia toracica e nella spina dorsale, togliendogli il fiato.
- Non so chi fossero i tuoi veri genitori, né il motivo per cui ti hanno abbandonato. Quando Tanet ti ha portato a casa, ero soltanto felice del dono che gli dei mi avevano fatto. -
- Zefiro… Zefiro è…? -
- Il tuo nome, lo abbiamo scelto noi. - Myria si alzò e, prima che Zefiro potesse spostarsi, gli circondò la testa con le braccia, premendosela contro il proprio petto, - Io e tuo padre ci eravamo promessi che sarebbe rimasto un segreto finché non saresti stato abbastanza grande. E quando lui è morto, tu eri ancora troppo piccolo. -
- Me ne avresti mai parlato? -
- Sì… sì, lo avrei fatto. -
Zefiro colse l’esitazione nella sua voce. Quelle parole gli avevano cavato fuori tutto e, adesso, erano rimasti solo i muscoli e le interiora gelate a trattenere il suo corpo vuoto. Piano, come in un sogno a occhi aperti, spinse via la donna e uscì dal bagno.
 
Anche se era stata l’ultima a infilarsi a letto, Melwen fu la prima ad alzarsi la mattina seguente. 
Quando udì la porta chiudersi e i passi allontanarsi, Zefiro si sedette sul materasso. Si trascinò in bagno, si lavò e scese a far colazione. Non appena lo vide, Eogann gli rivolse un caloroso sorriso, accompagnato da un “buongiorno” che scalfì appena il suo silenzio. 
Myria e Melwen sedevano dall’altra parte del tavolo. Nessuna delle due gli rivolse la parola. Soltanto sua madre, di tanto in tanto, si azzardava ad alzare la testa per guardarlo. Zefiro incassò le sue occhiate, le sostenne per un po' e le lasciò cadere, abbassando lo sguardo prima che il bisogno di andare ad abbracciarla prevalesse. 
Si defilò non appena poté, senza rivolgere la parola a nessuno.
Passò la mattina a gironzolare tra il giardino e l’orto e, quando si stancò, andò a rifugiarsi nella stalla. Reza lo accolse con una lunga occhiata stizzita, ma non gli ringhiò di andarsene, né si arrabbiò quando Zefiro si sedette vicino a lui. 
Era un silenzio piacevole, quello che sussisteva lì dentro. Il profumo di paglia e legno si accompagnava a quello dei cespi d’erba lasciati a essiccare appesi alle pareti. Con la poca luce che trapelava attraverso le varie fessure, tutto era avvolto dalla semioscurità. Se soltanto non avesse avuto la mente così affollata e rumorosa, Zefiro si sarebbe lasciato volentieri vincere dalla stanchezza. Rimase lì finché Eogann non si affacciò e lo informò che era pronto in tavola.
Durante il pranzo, le conversazioni ebbero un andamento altalenante. Nessuno si impegnò molto per evitare i silenzi. Zefiro rimestò la sua zuppa di patate, ormai fredda, trincerato dietro un muro di mutismo.
Quando gli adulti si alzarono e rimase solo Melwen, la bambina gli scoccò un'occhiata incerta.
- Cosa è successo ieri con tua madre? Avete litigato? -
Zefiro si bloccò e alzò lo sguardo. Melwen lo fissava dall’altra parte del tavolo con un contorno di marmellata di fichi attorno alle labbra. Se non avesse avuto un’espressione così seria, gli sarebbe venuto da ridere.
- Credevo stessi dormendo. -
- Il tuo continuo sbattere le porte mi ha svegliata. - addentò la fetta di pane e si pulì la bocca e la punta del naso, - Allora? Hai intenzione di dirmi cosa ti è preso ieri, oppure devo tirare a indovinare? -
Zefiro sollevò un pezzo di patata, lo portò all’altezza degli occhi e lo lasciò ricadere nella tazza. 
- Puoi provarci, ma non credo ci riusciresti. -
- Per quanto ancora pensi di continuare a fare così? -
- Così come? -
- A comportarti da "cattivo", anche se ci sarebbe una parola molto più volgare, e calzante, per descriverti. -
- Ma tu sei una brava bambina e non la dirai. -
- Sono seria. Voglio sapere cos’hai. -
Zefiro avrebbe voluto avere una bugia pronta da rifilarle, ma non gli veniva in mente nulla. Le parole gli erano precipitate in gola e nello stomaco si erano sciolte. Sobbalzò quando percepì il calore di una mano sulla propria. Melwen si era seduta di fianco a lui e sorrideva. Quel sorriso aveva il potere di calmarlo più di qualsiasi tisana.
- Non sono arrabbiata con te. Cioè sì, lo sono, ma non tanto da far finta di niente. -
- È complicato da spiegare. - sospirò arreso.
- Non c’è molto da fare qui. Ho tutto il tempo del mondo. -
Zefiro allacciò le dita dietro la nuca e rimase in silenzio a guardare la luce che ingrigiva il paesaggio.
- Andiamo fuori. Ho voglia di sgranchirmi le gambe. - propose, - Ce la fai o sei troppo stanca? -
- No, ce la faccio. -
Il giardino di Eogann era ben curato, così come casa sua. Avanzarono nell’erba bassa fino allo steccato e si sedettero con le gambe a penzoloni. Il vento scivolava sulla superficie del lago, increspando il riflesso della città e del tempio di Ovenar. A guardarlo da lì, a Zefiro non sembrava così maestoso come gli era parso qualche giorno prima.
- È davvero possibile che nessuno ci veda? - 
- Con la magia si può quasi tutto. -
- Quasi? -
- Ci sono cose che soltanto un dio potrebbe fare. - disse Melwen, per poi puntargli il dito contro il naso, - Non provare a distrarmi. La tua tattica questa volta non funzionerà. -
- Non ci avevo pensato, a essere sincero. Mi stavo solo chiedendo se eravamo davvero al sicuro come diceva Eogann. - sospirò di nuovo e rilassò le spalle, - Il giorno dopo la caduta di Alabastria mi è apparsa una macchia sulla spalla. - rivelò sottovoce.
- Una macchia? -
- Sì. Il giorno prima non c’era e ora… ora è lì. E ho paura e sono arrabbiato con mia madre. - si passò entrambe le mani sul viso per scacciare le lacrime, - Perché lei e papà sapevano che ero strano, ma non mi hanno mai detto niente. Mi hanno tenuto nascosto che non ero loro figlio e forse mamma nemmeno me lo avrebbe detto. -
Melwen si fece più vicina. Quando lo strinse a sé in un abbraccio, Zefiro crollò. Le mura si sgretolarono e la disperazione si riversò fuori in un singulto che lo scosse fin nello stomaco.
- Sono un mostro... -
- No, non è vero. - protestò Melwen con veemenza, - Non dirlo neanche per scherzo. -
- I miei veri genitori non mi hanno voluto. Mi... mi hanno abbandonato in un vicolo, capisci? Non mi hanno nemmeno dato un nome. - 
Più parlava, più sentiva la crepa dentro di sé allargarsi. Ma, anche se avesse voluto, non aveva più la forza di trattenersi. 
- Non mi hanno voluto perché sono un mostro. Loro sapevano quello che sarei diventato e hanno voluto sbarazzarsi di me. -
La sua voce si spezzò. I singhiozzi frammentarono le frasi, riducendole a brandelli prima che potesse pronunciarle. Tuttavia, per quanta rabbia potesse provare, non allontanò Melwen da sé. Lei gli premette la testa contro la spalla e lo cinse con tutte e due le braccia, finché i singhiozzi non esaurirono.
- Sei la persona più dolce e gentile che conosca, Zefiro. Non puoi essere un mostro. E anche lo fossi, io non ho paura di te, perché so che non mi faresti mai del male. -
Zefiro tirò su col naso e si raddrizzò. Si sentiva la testa svuotata e i pensieri, i pochi che erano rimasti, era come se non avessero più peso e fossero diventati d’improvviso inconsistenti.
- Come fai a esserne sicura? Ti ho detto che mi è piaciuto il sang… -
- Ho sentito, e non penso proprio tu sia cattivo. Il mostro sotto il letto di mia sorella lo era. Persino mia mamma, quando si arrabbiava, faceva più paura, e tu hai visto quanto poco fosse minacciosa. -
- Melwen, è una cosa seria. - la rimproverò, ma le labbra si curvarono spontaneamente nel fantasma di un sorriso.
- Pure io lo sono. Magari non sei umano, ma questo non significa che tu sia cattivo. Sei solo diverso, tutto qui. -
- Quindi non hai paura di me? -
- Come potrei? Sei il mio migliore amico. Mi hai anche salvato la vita, proprio come un vero eroe. - disse e gli rivolse un sorriso a trentadue denti.
Il vento si infilò tra le pieghe della gonna, aprendola come la corolla di un fiore. Melwen scoppiò a ridere e inclinò il collo per godersi la luce del sole che, all’improvviso, si era fatta largo nelle nubi. 
- Eogann potrebbe darti delle risposte su quello che sei. Credo che dovresti ascoltarlo. -
- Pensi mi permetterà di andare nel suo studio? -
- Sì. Soprattutto Ygerna. Ecco, vedi? Se fossi cattivo, non potresti piacere a una farfalla fatata. -
- A me fa strano anche solo pensare che esista una farfalla fatata. O… o che esistano le fate, in generale. -
Melwen ridacchiò: - Mio padre diceva che il mondo è strano e pieno di meraviglie da scoprire. Credo che, se fosse ancora vivo, sarebbe stato felice di questa nostra scoperta. -
Rimasero a guardare il transitare di uomini e bestie sul sentiero finché stare seduti sullo steccato non divenne troppo scomodo. Allora, con le gambe formicolanti, balzarono a terra e tornarono dentro casa.
Per cena mangiarono un bollito misto di spigola e code di rospo, accompagnati da un brodetto aromatizzato con sedano, cipolle e prezzemolo. Quand’ebbero finito, Myria si offrì di andare a lavare i piatti, mentre Nyi raccomandò tutti di prepararsi per la partenza del giorno dopo. 
Eogann fu l’unico che rimase a tavola con i bambini. Zefiro attese che finisse il suo bicchiere di vino, prima di seguirlo assieme a Melwen nel suo studio al piano di sotto. Non appena mise piede sull’erba, Ygerna si innalzò dalla corolla di un tulipano e gli svolazzò attorno, spargendogli addosso una nuvola di polvere luccicante.
- Allora… stai un po’ meglio rispetto a ieri? - gli domandò Eogann.
- Perdonatemi, sono stato maleducato. - rispose con una smorfia colpevole.
- Non preoccuparti. E smettila di darmi del "voi". Sedetevi, piuttosto. In Accademia avrete tutto il tempo per stare in piedi e ingrassare l’ego dei professori con le buone maniere. -
- Solo Melwen ci andrà. Io e mia madre… non lo so cosa faremo. - disse Zefiro.
- Oh. - 
Eogann prese la pipa e, come la sera precedente, l’accese con uno schiocco di dita. Quando accavallò le gambe, le narici si dilatarono appena nel spingere fuori il fumo. 
- Bah, tipico di Nyi: prima i suoi allievi, sempre e comunque. -
Melwen strinse la copertina del libro e arcuò le spalle in avanti. Di riflesso, Zefiro appoggiò la mano sulla sua. Poi il bambino si rivolse al mago. 
- Ho bisogno di parlarti. -
- Lo so. -
Zefiro si strofinò le mani sudate sui pantaloni e focalizzò la sua attenzione su Ygerna, sul suo caotico volo di fiore in fiore. Quando la farfalla si posò su una pianta di malva, si sentì pronto a parlare.
- Ad Alabastria ho tentato di uccidere un elfo. - il solo ammetterlo ad alta voce gli causò un brivido di ribrezzo, - Melwen era svenuta e lui si stava avvicinando a lei e io… gli sono saltato addosso. E quando l’ho morso e ho percepito il sapore del suo sangue sulla lingua, mi sono scoperto a desiderarne ancora. È stato brutto venire scaraventato contro una sedia, e non solo perché ho ricominciato a sentire dolore. - 
Girò le mani e rimase a guardarne i palmi. Il ricordo tattile del sangue gli macchiò di nuovo le dita e per un momento tornarono di nuovo appiccicose e sporche come quel giorno. 
- Poi è apparsa una macchia nera sulla mia spalla. Me ne sono accorto la mattina dopo la caduta della città. -
- Fammi vedere. -
Zefiro abbassò il collo della tunica e alzò la spalla. Eogann ispezionò la macchia, inclinando la testa in modo da guardarla da più angolazioni. 
- Ho letto qualcosa a riguardo. - spostò la pipa all’angolo della bocca, sfilò un libro da uno degli scaffali più alti e cominciò a sfogliarlo in fretta, - Li chiamano Dhoìsidhe, o Eile. Sono i figli di una fata e di un umano. -
Quelle parole lo colpirono come uno schiaffo. Zefiro fissò stralunato il libro che Eogann teneva aperto sulle ginocchia, focalizzando la sua attenzione sulla pagina che gli stava indicando. Lì c'era un disegno in bianco e nero di una donna girata di schiena. Sulla spalla aveva una macchia oblunga e scura.
- La carne umana è la preferita dei Sidhe. Anche se non si avventurano mai al di fuori dei loro confini, si assicurano di attirare le prede nei loro boschi per catturarle. Eppure, alcune leggende raccontano di alcuni fatati che si sono innamorati di umani e hanno deciso di abbandonare Faerie. Non si sa molto di queste coppie, se non che il genitore Sidhe impone il Marchio alla propria progenie, prima di abbandonarla. -
Zefiro prese il libro e sfiorò in punta di dita la macchia scura sulla spalla della ragazza. Non riusciva a parlare. Le cose al limitare del suo campo visivo erano sfocate, i suoni attutiti. Davanti ai suoi occhi non c’era altro che quel disegno attorniato da una nube di inchiostro disciolto.
- Perché abbandonano i propri figli? - chiese Melwen.
- Non lo sappiamo. Le leggende dicono che è perché li disprezzano, altre perché desiderano che vivano come umani finché non sentiranno il richiamo del loro sangue Sidhe. Mi dispiace Zefiro… -
Il bambino scosse la testa. Si pizzicò forte il braccio, ma lo studio non svanì né lui si svegliò nel suo letto. Anche il dolore lo intorpidì appena.
- È assurdo. - esalò con un filo di voce.
- Molte di quanto sta succedendo è assurdo. - Eogann fece il giro del tavolo, aprì un cassetto e porse un plico di fogli a Melwen, - Questi sono i miei appunti sul cristallo che mi aveva portato tuo padre. Credo sia giusto che li abbia tu. -
- Grazie per quello che hai fatto per noi. - disse Melwen, prese le pergamene e le infilò dentro il libro delle fiabe.
-  Avrei voluto fare di più, ma sono un mago mediocre. - rispose Eogann con un lieve sorriso e svuotò la pipa in un posacenere di terracotta scheggiato, - Ora andate a letto. Se avrete problemi ad addormentarvi, vi lascio la teiera calda con un infuso di camomilla sul tavolo. -
Zefiro si dovette appoggiare a Melwen per sollevarsi. Non si sentiva più le ginocchia, le gambe, nulla. Dalla cintola in giù i muscoli non erano altro che pietra.
Dormirono affiancati tutta la notte, mano nella mano. Poco dopo colazione, si radunarono fuori assieme a Raiza, Myria ed Eogann. Nyi li attendeva con le mani intrecciate dietro la schiena. Il sole, così caldo e luminoso, gli dorava i capelli e i peli sul dorso dei piedi. Diede loro le spalle e mosse le braccia descrivendo degli ampi cerchi, mentre davanti a lui si apriva lo stesso specchio fumoso che, giorni prima, li aveva teletrasportati fuori da Alabastria.
- Alla capitale sarete al sicuro. Non dimenticherete tutto, ma avrete tempo per… dare un senso al vostro dolore. - mormorò Eogann, inginocchiandosi dietro ai due bambini, - Zefiro, ricorda che non è il nostro sangue a decidere il nostro futuro. Le radici servono a dare stabilità all’albero, ma sono i suoi rami a permettergli di toccare il cielo. -
Quando mise una mano sulla spalla di Zefiro, Ygerna subito vi si posò sopra.
- Andiamo, non ho intenzione di tenere aperto il portale per i vostri stupidi addii. - borbottò Nyi.
Eogann li sospinse in avanti e Melwen trascinò Zefiro fino al portale. Al di là non c’erano altro che ombre immobili. 
Il bambino esitò sulla soglia e si girò a guardare sua madre, che li seguiva un paio di passi più indietro. Aveva bisogno di tempo per capire se poteva perdonarla, ma in quel momento si sforzò di abbozzare un sorriso per non farle perdere la speranza.
Infine, racimolando il coraggio, trasse un profondo respiro e seguì Melwen dentro il portale.


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