The light that guides you home

di bluerose95
(/viewuser.php?uid=329405)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***



Capitolo 1
 
Henry fece scorrere un dito sul lato frastagliato della fotografia, quella foto che aveva trovato qualche settimana prima in soffitta mentre cercava il suo skateboard e che da allora aveva tenuto sempre con sé, nella tasca del cappotto quando andava a scuola e sotto il cuscino quando dormiva.
Sapeva chi mancava in quella foto, e gli si strinse il cuore in una gelida morsa di dolore sebbene avesse solo dieci anni.
Se l’avesse trovata, sua madre si sarebbe infuriata e avrebbe sofferto ulteriormente, ma lui voleva sapere, meritava di sapere chi fosse quella parte mancante della sua vita. Ci aveva rimuginato sopra da quando quella foto gli era finita tra le mani, e ora era più convinto che mai della propria decisione.
Si alzò dal letto e si infilò il lungo cappotto nero, legandosi al collo la sciarpa a righe rosse che la sua madrina gli aveva regalato il precedente Natale e ripose con cura la foto nella tasca interna, a contatto con il proprio cuore.
Scese le scale di corsa, sua madre era seduta al tavolo della cucina con fogli sparsi davanti a sé e una tazza di cioccolata calda con panna e cannella in una mano. « Dove stai andando, ragazzino? » Non aveva nemmeno alzato gli occhi dal foglio che stava guardando.
Henry si mordicchiò il labbro inferiore, sua madre aveva un sesto senso per le bugie, quindi optò per una mezza verità che poi tanto bugia non era. « Vado da Roland, » disse cercando di non sembrare agitato mentre si dondolava sui talloni con le mani in tasca e un sorriso innocente sulle labbra.
Emma lo guardò per un istante, scrutandolo con intensità, prima di annuire con un cenno del capo. « Va bene, ma non fare tardi, » si raccomandò bevendo un sorso di cioccolata.
Il bambino sorrise e trattenne un sospiro di sollievo mentre si affrettava a uscire dalla casa in stile vittoriano saltando i gradini della veranda di corsa, infischiandosene del fatto che avrebbe potuto scivolare, voleva soltanto raggiungere la casa di Roland il più velocemente possibile.
Corse a perdifiato lungo i marciapiedi di Storybrooke, l’aria fredda e secca dell’inverno gli arrossava le guance e gli faceva pizzicare gli occhi, ma la determinazione lo infiammava, la fotografia che premeva contro il suo cuore gli ricordava del suo proposito, di ciò che avrebbe perso se non avesse trovato ciò che stava cercando.
Spinse il cancello sempre aperto di casa Mills, la casa del sindaco, un’immensa struttura bianca che conosceva bene quasi quanto casa sua, e si affrettò lungo il vialetto. Suonò il campanello, spostando il peso da un piede all’altro, impaziente.
Non aveva parlato con nessuno del suo piano, ma se Regina non l’avesse aiutato ne aveva un altro di riserva, nulla di avventato, solo una cosa fondamentalmente necessaria per avere quel lieto fine di cui sua madre gli aveva tanto parlato. Non lo voleva solo per sé, ma anche per lei. Inoltre, era sicuro che la sua madrina non lo avrebbe abbandonato, per lei era come un secondo figlio.
La porta si aprì, e Regina guardò Henry con le sopracciglia aggrottate. Indossava un abito semplice color porpora e i tacchi alti, segno che era appena rientrata o che si stava preparando per uscire. Non che a Henry importasse, le avrebbe comunque parlato anche a costo di seguirla.
« Henry, che cosa ci fai qui? Roland non c’è, credevo lo sapessi… » iniziò Regina scostandosi comunque per farlo entrare al caldo. Chiuse la porta dietro di sé e si portò le mani ai fianchi, anche se non era sua madre si preoccupava per lui come se fosse suo figlio, così come Emma si preoccupava per Roland.
« Lo so, lo so, » disse Henry in fretta sbottonandosi appena il cappotto per poter prendere la foto dalla tasca interna. « Sono venuto per questa. »
Regina l’afferrò confusa. La foto strappata raffigurava un’Emma più giovane, sembrava una principessa uscita dalle fiabe in quel suo abito rosso e l’espressione sognante. A occhio e croce doveva risalire a prima della nascita di Henry, quando aveva diciannove o vent’anni.
« Cosa c’entro io con tua madre e questa fotografia? »
Henry si mordicchiò il labbro inferiore, all’improvviso incapace di pronunciare alcuna parola. « È che… voglio che anche la mamma abbia il suo lieto fine. »
Con un flebile sospiro, Regina gli sorrise. « Avevo intenzione di farmi una cioccolata, vuoi unirti a me così mi racconti che cosa ti tormenta? »
Era una domanda retorica, lo sapevano entrambi, Henry non avrebbe mai rinunciato a una cioccolata calda, in quel frangente era come sua madre, goloso oltremisura.
Mentre Regina preparava quel nettare divino, Henry si sedette su un alto sgabello davanti all’isola della cucina e riprese fra le mani la foto che la donna aveva lasciato lì sopra. Sua madre lì era così felice, felice forse come non l’aveva mai vista, raggiante addirittura, e bellissima come non mai.
« Dove l’hai trovata? » chiese Regina, aveva lo stesso atteggiamento di sua madre quando iniziava a fare ricerche su persone scomparse come secondo lavoro, anche se Emma diceva sempre fosse quasi più un hobby che altro. Era brava a trovare persone, così si giustificava, e Henry provò un moto di tristezza pensando che, con tutta probabilità, lui non l’aveva nemmeno cercato.
« In soffitta, in una vecchia scatola insieme a un anello infilato in una catenella, al modellino intagliato di una nave a forma di cigno o una cosa del genere, e a degli spartiti musicali. »
Regina arcuò un sopracciglio mentre mescolava la cioccolata. « Che cosa stai cercando, Henry? Perché sei venuto da me? »
Lui abbassò nuovamente lo sguardo triste sulla foto, accarezzando il lato frastagliato. Che cosa cercava? Una famiglia? Ce l’aveva già, ma non era al completo. Un lieto fine? Quello che aveva non era abbastanza, né per lui né per sua madre.
« Mamma non mi direbbe nulla, e sono convinto che persino i nonni mi nasconderebbero la verità, ma non tu, perché sai quanto si può essere infelici quando si è da soli. »
Regina trasalì, ma riuscì a contenersi e versò la cioccolata in due tazze, decorando quella di Henry con panna montata e cannella come piaceva a lui.
Ora trentacinquenne, Regina sapeva cosa fosse la solitudine, lo sapeva benissimo, perché sua madre non l’aveva mai amata, ed era cresciuta covando risentimento dentro di sé, odiando non solo chi le stava attorno, ma persino se stessa. Poi, con l’aiuto di Robin e degli Swan era riuscita a venir fuori da quella sua spirale d’odio. Henry non lo poteva sapere, ma con tutta probabilità i suoi nonni non sapevano tenere la lingua dentro i denti.
« Perché ho la sensazione che questa cosa mi metterà contro Emma? » domandò appoggiandogli la tazza fra le mani e sfilandogli dolcemente la fotografia dalle dita, rigirandola. C’era una scritta, la calligrafia non sembrava quella di Emma, ma si leggeva solamente “la luce”.
Henry chiuse gli occhi, il calore della bevanda bollente fluiva attraverso la ceramica, scaldandogli le mani gelate. « Perché lei non vuole dirmi chi è mio padre. »
Regina chiuse gli occhi. Temeva che fosse così, ma non aveva pensato che Henry potesse rivolgersi a lei per una tale faccenda. Si diede della sciocca, perché se c’era una persona che poteva agire indisturbata era lei, Emma e suo padre David erano gli sceriffi della città, ma lei aveva più potere e poteva permettersi di fare quella ricerca per lui. Sarebbe potuto andare da Gold, ma evidentemente non si fidava abbastanza di lui.
« Henry, » disse pacatamente dopo aver bevuto un lungo sorso di cioccolata, pensando che avrebbe preferito qualcosa di molto più forte, « quello che mi stai chiedendo è una cosa che non potrei fare e che tua madre non mi perdonerebbe mai. »
Lui scosse il capo. « Ti perdonerà perché siete amiche e perché sarà felice anche lei quando le cose si sistemeranno. »
La donna socchiuse gli occhi. Povero Henry, quanto ingenuo era. Sospirò, scuotendo appena il capo. « Immagino che non vorrai lasciar perdere. » E le sembrava giusto, lui aveva diritto di sapere, ma qual era il prezzo? Suo padre era ancora vivo? Era una persona di cui fidarsi? Era forse un alcolizzato oppure un drogato? Si sarebbe preso cura di lui? Sapeva della sua esistenza e aveva fatto in modo di far perdere le proprie tracce lasciando Emma da sola?
« È mio padre, e mamma non avrebbe tenuto quelle cose, inoltre… » esitò bevendo un sorso di cioccolata e scottandosi la lingua, « a volte la sento piangere, la notte, e di tanto in tanto, quando sale in soffitta, ci rimane per molto tempo. Una volta l’ho vista rigirarsi l’anello tra le dita, ma sono andato via prima che potesse vedermi. »
« E credi che farlo piombare nella sua vita possa tirarla sua di morale? E se lui si fosse rifatto una vita? Se avesse dei figli o se comunque si fosse sposato? »
Gli occhi di Henry si fecero lucidi e si affrettò a spostare lo sguardo. Eccome se ci aveva pensato, e questi pensieri lo avevano anche tenuto sveglio la notte, ma voleva trovarlo, voleva vedere se avesse qualcosa di suo, nel fisico o nei gesti, se finalmente avrebbe avuto il suo vero lieto fine. Tirò su col naso e annuì lentamente. « Sì, ci ho pensato, » mormorò con voce spezzata, « ma non m’importa. »
Regina annuì, era ovvio che fosse così, e anche se gliene fosse importato, non lo avrebbe certo ammesso, nemmeno con se stesso. « L’unico luogo in cui tua madre è stata al di fuori di Storybrooke è New York, dove ha iniziato ma mai finito l’università. »
Henry annuì, le lacrime erano sparite e ora i suoi occhi brillavano d’eccitazione. Regina ne sorrise. « Perché era incinta di me, » disse lui, trepidante. « Quindi, come candidati, potrebbero esserci i suoi i suoi compagni di corso… »
« Oppure l’intera New York, » sospirò Regina. Sarebbe stato un gran lavoro, ma per Henry lo avrebbe fatto anche a costo di non dormire la notte. Avrebbe potuto contare su Robin, e anche Henry e Roland le avrebbero dato una mano. Scosse il capo, riordinando le idee. « C’era inciso qualcosa sull’anello? Era un anello di fidanzamento? »
« No, era un semplice anello d’argento, credo, con una pietra nera, un’onice o qualcosa di simile. Molto sobrio, ecco. E ai lati della pietra c’erano due fiori a quattro petali in rilievo. »
 Regina arcuò un sopracciglio, era insolito come anello, tuttavia doveva significare molto per Emma. « E sugli spartiti? C’è qualche nome? » Sentiva che non si trattava di una qualche canzone famosa, quanto più di una composizione originale.
« Purtroppo non c’è nulla, ma il titolo è Swan Song ed è stato sicuramente scritto dalla stessa persona che ha scritto qualcosa sul retro della foto. »
« Swan Song? Che cosa melensa. » Regina arricciò il naso, ma Henry le rivolse un sorriso raggiante, al quale lei rispose.
Nessuno scriveva una canzone per una persona e la lasciava semplicemente andare senza mai cercarla, no?
« Bene, allora cominciamo. Dovrò fare qualche chiamata, ma credo sia meglio iniziare con l’università, lì dovrebbero avere delle informazioni su dove alloggiava e, se siamo fortunati, magari aveva anche una qualche coinquilina che sa qualcosa sulla sua permanenza lì. »
« E su mio padre. »
« E su tuo padre. »
Il sorriso di Henry si ampliò maggiormente. Tese la mano a Regina con fare solenne. « Bene, allora, che l’Operazione Cigno Bianco abbia inizio. »

 
▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼

Come se non mi bastassero tutte le fanfiction che ho nel cassetto e tutte le originali, mi metto a scrivere anche su Once! Beh, dopo la 5x08 credo di aver iniziato ad avere un attaccamento morboso per Killian, e questa è la prima che posto, di fanfiction, perché ne ho pure un'altra, che si chiamerà "Swan Song", e che spero di pubblicare presto :3
Ma veniamo a questa storia, a questo AU dove non c'è magia, tutti vivono felici e contenti, tranne Henry ed Emma. Sì, lo avrete immaginato, essendo un AU ed essendo i protagonisti i Captain Swan. Henry non è il figlio di Neal, che comunque penso apparirà a un certo punto, ma qui si esplorerà il dolore della perdita, le incomprensioni, e si capirà come si è arrivati fino a qui. Non mancheranno momenti angst e fluff - anche se prima dell'arrivo di Killian dovrete aspettare il terzo o quarto capitolo v.v
Dal titolo che ho inserito, per gli shipper CS sarà facile capire che è ispirata da The Words di Christina Perri che adoro e sto tipo ascoltando con il ripetitore da giorni.
Non credo di aver altro da aggiungere, se non una precisazione: Robin e Regina sono i veri genitori di Roland, niente Marian qui. Dopotutto è un AU, quindi tutti i nostri desideri possono avverarsi. O almeno i miei lol
Baci a tutti, e cercate di non morire davanti a Dark Hook che già ci penso io ad avere millemila infarti,
blue

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2
 
Regina appoggiò la tazza di caffè sulla scrivania di marmo nero, lo sguardo che vagava disperato sui vari fogli sparsi davanti a lei. Emma era decisamente più brava di lei a trovare le persone, ma non poteva andarle a chiedere di trovare il padre di suo figlio.
Sospirò sconsolata e afferrò riluttante un altro fascicolo. Ne aveva già letti una dozzina, ma sembravano non finire mai, tutti possibili candidati a essere il padre di Henry, tutti appartenenti alla stessa confraternita.
Quel giorno – o, per meglio dire, il giorno prima, essendo passata la mezzanotte già da un bel po’ di tempo – aveva rintracciato la compagna di stanza di Emma all’università grazie a Henry e alle domande innocenti che aveva posto alla madre, ma la donna le aveva detto solamente che non si vedevano quasi mai per incompatibilità di orari e abitudini, sebbene fosse abbastanza sicura che frequentasse un ragazzo di una confraternita. Non era poi stata sua coinquilina per molto, in quanto Emma, nel giro di un anno, era andata ad abitare per conto suo, molto probabilmente con questo ragazzo.
Aveva poi telefonato a una sua amica di New York che di tanto in tanto faceva dei lavori per lei e le aveva chiesto di recuperare, in modo discreto, i file di tutti gli studenti entrati o già presenti nella confraternita nell’anno in cui Emma si era iscritta all’università.
E ora quei fascicoli erano impilati davanti a lei, fra quelli probabilmente avrebbe trovato il padre di Henry.
Avevano optato per una strada ovvia, invece che interrogarli tutti avevano scartato i meno probabili utilizzando il gruppo sanguigno di Henry e quello di Emma. Dopotutto, la genetica non si poteva cambiare da un giorno all’altro.
Sentì due mani sulle sue spalle e subito si rilassò, abbandonandosi a quel massaggio. « Quanti te ne mancano? » le domandò Robin chinandosi sul suo orecchio. Aveva messo a letto Roland e Henry, non era il caso di tenerli svegli fino a tardi anche se era sabato.
Avevano scremato i fascicoli, in origine una cinquantina, arrivando così a quindici possibili candidati – il che era già più di quanto avessero potuto sperare, ma purtroppo non era abbastanza.
Regina sospirò, reclinando il capo per guardare il marito negli occhi. « Ancora troppi, a parte utilizzare i possibili gruppi sanguigni non ho altri indizi. Henry è un bambino intelligente, ma potrebbe non significare nulla e i voti di suo padre potrebbero non essere rilevanti. Oltretutto, ce ne sono un sacco con i capelli neri o castani. In poche parole, siamo a un punto morto. »
Robin ridacchiò continuando a massaggiare le spalle contratte della moglie. Sapeva che ci metteva l’anima, perché un po’ era un caso personale e, dopotutto, Henry era comunque parte della sua famiglia. « Hai pensato di chiamare uno di questi ragazzi e chiedere se conosce Emma? Magari uno di loro ha qualche informazione in più. Oppure, se vuoi scoprire di più su quella foto che ti ha fatto vedere Henry, puoi cercare le foto di vari eventi dell’epoca. Certo, New York avrà balli di gala a non finire, ma per permettersi un abito del genere Emma deve aver avuto o il tempo per cucirlo o i soldi per comprarlo, e da quello che vedo, non è per niente economico. Quindi, o gliel’hanno prestato, o glielo ha regalato il suo fidanzato. »
Gli occhi di Regina si illuminarono. « E quindi deve essere uno di buona famiglia. »
« Oppure ha fatto fondo a tutti i suoi risparmi. »
Regina si alzò di slancio e si volse a baciare Robin. Era stato fin da sempre il suo eroe, e anche ora l’aveva salvata dal punto morto in cui si trovava. « Ti ho già detto quanto ti amo? »
Lui sorrise contro le sue labbra. « Potresti ripetermelo al piano di sopra, chiunque tu scegliessi come vittima delle tue telefonate a quest’ora della notte ti maledirebbe» »
« Ma potrei cercare l’evento… »
Robin scosse il capo, appoggiandole un dito sulle labbra. « No, no, Regina, per oggi hai fatto abbastanza, inoltre Henry domani ti vorrà lucida quando riprenderemo a sfogliare i candidati. »
Sentendo improvvisamente tutta la stanchezza di quel giorno diffondersi in lei, Regina si abbandonò all’abbraccio del marito, lasciando che la trascinasse verso la loro camera da letto, troppo concentrata a baciarlo per opporsi.
 
Quella mattina si era alzato presto, Roland dormiva ancora accanto a lui e dal piano di sotto non proveniva alcun rumore. A piedi nudi si era quindi diretto verso l’ufficio di Regina, sul tavolo erano abbandonate le cartelline dei vari candidati. Alzò gli occhi al cielo, sembrava più una gara che una ricerca, ma non aveva altro modo per definirli.
La sera precedente Henry aveva studiato tutti i volti di quegli uomini, qualcuno aveva attirato la sua attenzione, ma non voleva farsi delle illusioni, non ancora. Si sedette quindi davanti alla scrivania e prese un fascicolo a caso, ignorando i fogli sparsi che Regina doveva star studiando prima di andare a dormire.
Aveva preso un certo Walsh, ma arricciò il naso nel guardare la sua foto, aveva un che di scimmiesco, qualcosa in lui gli ricordava un macaco. Sperò di non sbagliarsi nel dire che quello non poteva assolutamente essere suo padre. Ripose il fascicolo sulla pila da cui l’aveva preso e prese la foto di sua madre, rigirandosela più volte tra le dita.
Si domandò cosa avrebbe fatto Emma se le avesse proposto di indossare nuovamente quel vestito, sempre che ce l’avesse ancora. Probabilmente sarebbe svenuta sul posto. Magari ce l’aveva lui, e ogni volta che lo guardava o guardava l’altra parte della fotografia si rattristava per la sua perdita.
Sì, Henry era un romantico, un sognatore, e credeva davvero che suo padre lo avrebbe accolto a braccia aperte. Non poteva non essere così, non poteva credere diversamente, temeva che altrimenti le cose non sarebbero andate come voleva lui, temeva che non avrebbe più visto sorridere sua madre come faceva in quella foto.
Con un sospiro, Henry si alzò e fece il giro della scrivania, sedendosi al posto di Regina. Dovette inginocchiarsi sopra la morbida poltrona di pelle nera per riuscire a torreggiare almeno un poco sulle scartoffie sparse davanti a sé. Si chiese cosa stesse cercando la sua madrina, fra i dati personali c’era sì lo stato civile, ma non le storielle sentimentali di ogni ragazzo.
Però…
Però si mettevano i recapiti telefonici per i numeri d’emergenza e, dato che sembrava che i suoi genitori avessero convissuto per qualche tempo, era altamente probabile che in quei fogli vi fosse il nome di Emma.
Henry sorrise, raggiante, mentre si affrettava a controllare ogni fascicolo alla ricerca dei numeri da chiamare in caso di emergenza, una scarica di adrenalina gli percorse le vene, elettrizzandolo.
In quel momento, sulla porta dell’ufficio apparve Robin con ancora addosso una maglia a maniche corte verde scuro e i pantaloni del pigiama, le braccia conserte al petto mentre guardava il ragazzo con un sorriso. « Dalla tua espressione sembra che tu abbia trovato qualcosa. »
« Non ancora, » disse Henry alzando solo per un attimo gli occhi sul suo padrino per poi riportarli sui fogli che aveva in mano, « solo un’intuizione. Numeri d’emergenza. »
Robin capì all’istante, sorpreso ancora una volta dall’intelligenza di quel bambino. Senza di dire nulla afferrò un fascicolo e controllò rapidamente tra i vari recapiti telefonici, ma non trovò il nome di Emma da nessuna parte. Ne prese un altro, e poi un altro ancora, fino a quando non vide “Emma Swan” stampato accanto a un numero di telefono.
« Trovato! » esclamò Henry nello stesso istante in cui stava per aprire bocca.
« Com’è possibile? Anche io l’ho trovato. » Fece il giro della scrivania, le sopracciglia aggrottate, e si mise a confrontare i due numeri di telefono, ovviamente identici. Poi guardò i nomi sui due fascicoli.
Liam e Killian Jones.
Probabilmente erano fratelli, ecco il perché del gruppo sanguigno simile, anche se non era sempre così tra fratelli.
Quello però era un bell’intoppo che nessuno di loro aveva previsto. Tuttavia, fortunatamente, c’era un modo per sapere con chi dei due Emma fosse andata a convivere.
« So che sarà difficile aspettare, Henry, ho avuto un’idea su come capire con chi usciva tua madre. Però dovrai aspettare, prima ci vuole una bella colazione. »
Con un sorriso a trentadue denti, Henry si alzò e abbracciò Robin. « Vado a svegliare Roland. Posso avere i pancakes alla cannella, per favore? »
Robin annuì con un sorriso mentre scompigliava i capelli a quello che oramai era diventato per lui un figlio acquisito e lo osservò correre fuori dall’ufficio con la speranza che lo rendeva raggiante come il sole.
Se ne andò in cucina, dove preparò i pancakes e le cioccolate calde per i più piccoli e caffè per lui e Regina. Gli piaceva la tranquillità famigliare, ma tutto quel mistero e quelle ricerche gli ricordavano un po’ la vita spericolata che aveva vissuto prima di incontrare Regina.
Sogghignò, le aveva praticamente stravolto la vita, e in meglio. All’inizio aveva solo avuto intenzione di derubarla, ma aveva trovato pane per i propri denti, tosta com’era. Tuttavia non l’avrebbe mai cambiata per nessun motivo al mondo, l’amava così com’era. Le aveva aperto gli occhi, insegnandole quali fossero le bellezze della vita, portandola nei boschi lì attorno e insegnandole a tirare con l’arco, e lei gli aveva fatto trovare un posto nel mondo dopo aver girovagato per tutta l’America, un inglese trapiantato nel Nuovo Mondo.
Con un sospiro innamorato, Robin versò cioccolata e caffè nelle varie tazze mentre suo figlio e il suo figlioccio erano scesi facendo un gran chiasso con il loro vociare e preparavano la tavola. I due parlottavano dell’imminente uscita del settimo episodio di Star Wars tutti eccitati, spensierati come dovevano essere i bambini di quell’età.
Sentì Regina entrare e si volse verso di lei, regalandole un sorriso dolce e, mentre l’osservava sedersi al solito posto, rischiò di bruciare i pancakes alla cannella di Henry.
Servì tutti, dividendosi tra pancakes e uova strapazzate con bacon e, finalmente, si sedette anche lui, ascoltando con attenzione le varie congetture dei due bambini sul film che sarebbero presto andati a vedere.
« Rimpiangi ancora di avergli permesso di prendere quella spada laser? » domandò a Regina con uno sguardo divertito da sopra la tazza di caffè.
Lei dischiuse le labbra, in pigiama e con i capelli spettinati non sembrava affatto l’austero sindaco che era, ma quel suo atteggiamento inflessibile era parte del suo passato, e Robin amava anche quello, a modo suo, perché senza quello non l’avrebbe trovata così tenace e pronta a lanciargli una sfida alla quale non si era tirato indietro. Tuttavia, sapeva che dietro quell’espressione fintamente disgustata c’erano solo amore e divertimento.
« Io non rimpiango nulla, basta solo che non la usi contro le porcellane cinesi, » sibilò lanciando un’occhiata minacciosa al figlio, ancora immerso nella discussione con il suo migliore amico.
Robin le prese la mano. « Non rimpiangerai nemmeno ciò che stiamo facendo quando Emma lo verrà a sapere? » Conosceva già la risposta, ma vedeva che quella era anche una battaglia di Regina, e voleva farsi carico di ogni sua paura, come sempre.
« No, Robin, » mormorò in modo che solo lui potesse sentirla, « Henry merita di sapere chi è suo padre, per quanto brutto potrebbe rivelarsi. Se non lo troviamo ora non smetterà di cercarlo, e se non lo aiutiamo, potrebbe farlo da solo, e preferisco che Emma incolpi me sapendo che però l’ho protetto piuttosto che lui se ne vada da solo a New York o dovunque egli viva ora. »
« A tal proposito, » disse Robin ripulendo il proprio piatto dalle uova strapazzate, « io e Henry abbiamo trovato due candidati perfetti. »
Regina aggrottò le sopracciglia. « E come? » Mentre pronunciava queste due parole percepì l’euforia montare, erano sempre più vicini alla verità, e questo le infondeva anche gioia, perché presto il suo caro Henry avrebbe potuto, nel migliore dei casi, avere anche un padre a cui volere bene e che ricambiasse il suo amore.
« Numeri d’emergenza. »
Le labbra di Regina si dischiusero in un sorriso accattivante, di quelli che solo lei sapeva fare, irradiando orgoglio. « E chi sarebbero questi due? Un momento, perché sono due? »
« Sono fratelli. Liam e Killian Jones. »
Regina si chinò verso il marito. « Quindi, probabilmente, il nostro Henry è un Jones. Non suona male, no? »
« Speriamo che suoni bene anche al Jones in questione. »
Come se l’incantesimo si fosse spezzato, Regina sospirò e ritornò ai suoi pancakes imbevuti di sciroppo d’acero. « Spero solo di non avergli dato false speranze, se così fosse non potrei mai perdonarmelo. »
« Dirlo ora non servirà a nulla. Però, come hai detto tu, è meglio così. Almeno sarà una discussione tra adulti, quando avverrà. Mi domando solo se David e Mary Margaret sappiano chi sia. »
Regina lo guardò arcuando un sopracciglio. « Lei di sicuro sì, non so perché, ma ne sono convinta, nasconde qualcosa. David invece non credo, o all’epoca sarebbe volato a New York e avrebbe ucciso con le sue mani quell’uomo. »
Robin si appoggiò allo schienale della sedia, incrociando le braccia al petto. « Già, mi sarebbe piaciuto vedere la scena, » sogghignò pensando allo sceriffo pronto a difendere l’onore della figlia a ogni costo.
Quando Emma era tornata in grande segreto da New York era rimasta a casa dei suoi genitori, solo in pochi sapevano che si trovava a Storybrooke, e ancor meno persone sapevano che fosse incinta, almeno fino a quando non era più riuscita a tenerlo segreto.
Regina era stata tra le prime a saperlo le era rimasta accanto come un’amica, insieme a Ruby, Elsa e Anna, facendo in modo di alleggerirle il cuore, nessuna aveva chiesto nulla, lasciando che si sfogasse solo se lo avesse desiderato. Non l’aveva ovviamente fatto e si era come rinchiusa in se stessa, dando tutto l’amore che aveva al figlio che portava in grembo.
Regina sogghignò. « Spero solo di star facendo la cosa giusta. »
« Sicuramente, » la tranquillizzò Robin prendendole la mano e accarezzandole il palmo con il pollice.
Con un sorriso dolce e ricolmo di gratitudine, Regina finì la propria colazione e ascoltò distrattamente il chiacchiericcio dei bambini, rimuginando su quanto dovesse essere profondo il dolore di Emma. Si chiese ancora una volta se l’avrebbe mai perdonata, ma non era solo quello a tormentarla. Era anche il possibile esito di quelle ricerche. E se il padre di Henry fosse morto? Era possibile che avesse una sua famiglia e, se fosse stato così, l’avrebbe comunque accettato come suo figlio? Avrebbe messo in dubbio la paternità? Amava ancora Emma o l’aveva dimenticata?
Non ne era certa, ma aveva la sensazione che nessuno dei due avesse dimenticato l’altro. Sembrava stupido, fin troppo romantico e melenso, ma aveva capito che l’amore di Emma era genuino, che non era mai mutato in tutti quegli anni.
Difatti Emma non aveva mai avuto più alcun appuntamento, bensì aveva dedicato gli ultimi dieci anni al lavoro e al figlio che amava più della sua stessa vita.
Con un sorriso amaro sulle labbra, Regina finì il proprio caffè e si alzò, lasciando la cucina solo dopo aver dato un bacio sulla fronte ai due bambini per poi dirigersi nel proprio ufficio dove l’aspettavano i fascicoli dei fratelli Jones. Si sedette sulla poltrona e si rilassò contro lo schienale mentre sfogliava la cartella di Liam Jones.
Aveva i capelli ricci e gli occhi azzurri, sembrava intelligente, e dai suoi voti era effettivamente così, ma… Regina trasalì, perché in mano le finì un certificato di morte, redatto tre anni dopo questa.
Aggrottò le sopracciglia, com’era possibile che fosse stato dato per morto dopo tre anni? Forse, all’epoca, nessuno sapeva chi fosse, ma… perché tre anni?
Scosse il capo, a questo punto sperava non fosse lui il padre di Henry. Era egoistico da parte sua, ma non voleva dargli una tale delusione, perché questo l’avrebbe fatto stare peggio. Fosse era proprio perché era morto che Emma non ne aveva mai parlato. Però era anche vero che quando era stato redatto il certificato di morte Henry aveva già tre anni, sebbene la morte coincidesse con il periodo in cui era tornata a Storybrooke.
Scosse il capo, riordinando i pensieri e passò alla cartella di Killian Jones nella quale non trovò, fortunatamente, alcun certificato di morte. Non aveva tuttavia mai finito gli studi, dalla foto somigliava al fratello, anche se i suoi occhi erano molto più blu di quelli di Liam e i capelli più scuri, oltre al fatto che aveva un viso un po’ più magro, il tutto reso dannatamente affascinante da un sorriso malizioso.
Non sembrava affatto un candidato perfetto, ma era l’unico che al momento era ancora in vita. Avrebbe dovuto chiamarlo, ma lui avrebbe potuto mentirle, dire che per lui non era mai esistita alcuna Emma Swan. In questo caso sarebbe stata una conferma, ma non voleva dare nulla per scontato.
Determinata, guardò l’orologio, erano appena passate le nove, ma avrebbe tirato giù dal letto qualcuno, anche a costo di chiamare tutti e cinquanta i numeri, sempre che nel frattempo non li avessero cambiati. Afferrò la cartella di un certo Walsh, cercò il suo numero di telefono e lo compose.
Ci vollero sette squilli prima che una voce assonnata rispondesse. « Pronto? Chi è? »
« Salve, sono Regina Mills, lei non mi conosce, ma forse può essermi d’aiuto. Può sembrarle strano, ma mi è stato detto che forse lei poteva sapere qualcosa riguardo alla mia amica, Emma Swan. »
« Emma Swan? Io non conosco nessuna Emma Swan. »
Regina alzò gli occhi al cielo. Ovvio, come poteva aspettarsi che si ricordasse di una ragazza che non aveva mai frequentato e che forse aveva conosciuto dieci anni prima? « Ha ragione, mi scusi, tuttavia credo frequentasse un ragazzo che conoscete, un certo Jones… »
Udì un borbottio dall’altra parte del telefono, un’imprecazione e qualcosa – forse l’anta di un armadio – sbattere con forza. « Senta, non so chi lei sia e come abbia ottenuto il mio numero. Non che me ne importi, dato che non sta chiedendo di me, quindi le risponderò francamente: ricordo il Jones di cui sta parlando, ricordo anche la sua ragazza, era pazzo di lei, ma non so proprio dove si trovi ora. »
« Un attimo solo, » si affrettò a dire Regina prima che Walsh potesse riattaccare, « quale dei due era, Killian o Liam? »
« Che domande, » sbuffò lui, seccato, « Killian Jones, ovviamente. »
Ovviamente. Regina sorrise, un sorriso a trentadue denti. « Grazie infinite, » disse compiaciuta, chiudendogli il telefono in faccia, non voleva dare a quel bifolco quella soddisfazione.
Afferrò la foto del ragazzo e la guardò meglio. C’era del fascino in quel ragazzo, era incredibilmente bello, doveva ammetterlo, eppure non era sicura che la sua amica potesse essersi innamorata di un tipo del genere. Certo, Emma non badava mai solo all’aspetto fisico, però c’era qualcosa di magnetico nel suo sguardo azzurro.
Aveva la stessa età di Emma, veniva dall’Irlanda e si era iscritto ai corsi d’arte. Regina arcuò le sopracciglia, scettica riguardo al fatto che Emma si fosse innamorata di un artista. Scrollò le spalle, aveva finalmente trovato il padre di Henry, era questo quello che contava.
Sempre che fosse il padre di Henry, ovviamente, e che Emma non lo avesse tradito e, per questo, se ne fosse andata, sopraffatta dalla vergogna.
Regina scosse il capo con forza, quel pensiero crudele non poteva essere vero, Emma non lo avrebbe mai fatto, ne era sicura.
Guardò l’ultimo indirizzo indicato sul fascicolo di Killian Jones, doveva trattarsi di un appartamento in centro a New York, con tutta probabilità si trattava di quello che aveva diviso con Emma. L’indomani sarebbe partita per New York con Henry, il ragazzino non l’avrebbe mai perdonata se fosse andata da suo padre senza di lui.
Proprio in quell’istante, Henry appoggiò le braccia sulla scrivania e fissò la foto di Killian Jones. Regina non capì che cosa stesse provando il bambino, aveva il labbro superiore sporco di panna, l’espressione pensosa mentre osservava la foto di suo padre. Che gli piacesse quello che stava vedendo? Che fosse invece deluso dall’esito di quella ricerca?
« Henry… »
« Domani andiamo a New York? »
« Se non te la senti… »
« No, » la interruppe subito lui, alzando gli occhi simili a quelli della madre, verdi con quel tocco di castano attorno alle iridi, « non sono deluso, è solo che… non so nemmeno io come mi sento. »
Regina si alzò, girando attorno alla scrivania per abbracciare con forza Henry. Gli appoggiò un bacio sulla fronte, stringendolo dolcemente contro di sé. « Va tutto bene, » mormorò accarezzandogli i capelli, « ora va a giocare con Roland, domani tutti e tre andremo in campeggio. »
Henry si allontanò dalla donna e lei gli strizzò l’occhio, complice, mentre osservava il sorriso del ragazzino ampliarsi. « Grazie di tutto, » le disse prima di correre da Roland con il cuore che gli batteva all’impazzata nel petto al pensiero che presto avrebbe conosciuto suo padre.

 
▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼

Quattro. Di fanfiction su Once ne ho quattro e Dio solo lo sa quanto mi stia piacendo scriverle. Spero di postarle presto, forse non tutte subito, ma una al più presto, un'altra Modern!AU *^*
Prima che mi linciate, esperti di genetica, ho fatto una cosa che dovrebbe mettere d'accordo tutti: non potendo capire di quale singolo gruppo sanguigno potesse essere Killian, ho fatto in modo che venissero esclusi tutti gli altri gruppi che non avrebbero mai potuto essere compatibili con quello di Henry. Se vi state chiedendo perché non abbiano scelto la strada più ovvia, la risposta arriverà nel prossimo capitolo, assieme a un po' di angst e un bel po' di fluff :3
Spero di sentirvi in tanti *^*
Baci,
bluerose

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


 
Capitolo 3
 
Henry prese coraggio e suonò il campanello.
Regina lo avrebbe ucciso, anche se la prima a farlo sarebbe stata sua madre. La sua madrina gli aveva detto di non fare nulla di avventato, e difatti era stato così: aveva pianificato fin dall’inizio di non andare con Regina a trovare suo padre. Non che non la volesse con sé, ma aveva preferito tenerla lontano dall’ira di sua madre più che poteva.
Ecco perché, dopo essere tornato a casa, quella mattina, aveva aspettato che sua madre andasse alla stazione di polizia e aveva preso tutte le sue carte di credito. Era poi corso a prendere l’autobus che portava alla città più vicina e da lì era stato un continuo cambio di treni fino a New York.
Era affamato, nonostante avesse appena divorato un paio di snack al cioccolato, dopotutto non aveva esattamente pranzato si erano ormai fatte le sette di sera.
Sua madre lo avrebbe ucciso, decisamente.
In quel momento, la porta si aprì, e il suo cuore saltò dei battiti prima di accelerare come quello di un uccellino.
L’uomo che se ne stava appoggiato allo stipite della porta era alto e snello, gli occhi blu come il mare scrutavano Henry, confusi. Il ragazzino si perse per un attimo a contemplare quel volto, dagli zigomi alti alle labbra piegate in un sorriso innocentemente seducente, fino ai capelli neri e scompigliati e al filo ordinato di barba che gli copriva le guance.
«Uh, ti sei perso?» domandò Killian Jones con voce calda, Henry poteva percepire un chiaro accento irlandese. Il pensiero che, se fosse stato con lui fin dall’inizio, forse sarebbe riuscito a parlare come lui lo fece rabbrividire dall’eccitazione.
«Sei tu Killian Jones?»
L’uomo arcuò un sopracciglio. «Sì, e tu chi sei?»
Il ragazzino sorrise. «Io mi chiamo Henry, sono tuo figlio.»
Killian fu quasi sul punto di scoppiare a ridere. Era impossibile che avesse un figlio. «Senti, ragazzino, non è possibile che tu sia mio figlio, avrai sì e no dieci anni e…» La verità lo colpì come un pugno nello stomaco, ma fece più male di una pugnalata al cuore.
Henry approfittò di quell’attimo di spaesamento di Killian per passare sotto il suo braccio ed entrare nell’appartamento moderno, ordinato come di solito quello d’uno scapolo trentenne non era. L’uomo chiuse la porta dietro di sé ancora scosso dalla portata di quella notizia.
Per dieci anni aveva vissuto da solo, rinchiuso nella prigione fatta di lavoro e dolore dopo aver scoperto che la donna che amava se n’era andata e che suo fratello era morto e che lui non era stato in grado di salvarlo.
Si appoggiò con tutto il peso contro la porta, sentiva le gambe molli e temeva di non riuscire più a reggersi in piedi se si fosse costretto a fare un passo verso il bambino. Quello non poteva essere suo figlio, Emma non era incinta quando l’aveva lasciato. O sì? Scrollò il capo con forza, non era possibile, doveva essersi sbagliato. Magari era di suo fratello, ma era improbabile che Liam fosse stato così irresponsabile, oltretutto era molto serio quando si parlava di ragazze.
Tuttavia…
No, non era possibile. Lui ed Emma erano stati attenti e, certo, forse nell’andare a convivere insieme dopo solo sei mesi avevano accelerato un po’ i tempi, ma si amavano, e non riuscivano a sopportare l’idea di stare separati. Lui non la sopportava tutt’ora, ma dopo ciò che gli era stato detto aveva deciso di uscire dalla vita di Emma per sempre, sebbene lei non avesse avuto alcuna intenzione di andarsene dalla sua mente.
Però, all’epoca, quel bambino – suo figlio – doveva avere già quattro anni, e nessuno gli aveva detto nulla.
«Ehi, ragazzino,» disse allora, vedendolo aprire il frigorifero e tirarne fuori una bottiglia di succo di frutta come se fosse a casa sua, «io non ho figli.»
Henry arcuò un sopracciglio, bevendo un sorso di succo. «Tu sei Killian Jones, no? E dieci anni fa hai vissuto con mia madre, Emma Swan, giusto?»
Il mondo parve crollare addosso a Killian, questa volta sembrava tutto troppo reale. No, non poteva essere, Emma glielo avrebbe detto, no? Per tutto quel tempo non lo aveva cercato, lo aveva lasciato solo quando aveva più bisogno di lei, nemmeno i genitori gli erano stati vicini, e lui aveva sperato di trovarla lì, accanto a sé, perché lei c’era sempre stata.
«Ora chiamo la polizia.» Afferrò il telefono, pronto a comporre il numero, se Emma aveva detto al figlio che lui era suo padre, allora perché non era venuta anche lei? A meno che, ovviamente, non sapesse che lui fosse lì, il che sembrava essere la cosa più plausibile, e provò una punta d’orgoglio al pensiero. Bene, avrebbe ammazzato anche lui, oltre che il figlio.
«E io dirò che mi hai rapito.»
A quella minaccia, Killian alzò lo sguardo sugli occhi di Henry, quelli di suo figlio. Fu colto da un senso di vertigini, erano gli stessi occhi di sua madre, forse un po’ più scuri, ma capaci ancora di fargli girare la testa.
«Perché sono il tuo padre biologico.» Dire quelle parole fu facile, come se gli appartenessero da sempre, tuttavia non poté fare a meno di sentirsi pervadere da una sensazione di panico mista a gioia. Scosse il capo, non voleva pensarci.
«Esattamente,» rispose Henry con un sorriso a trentadue denti. Provava un insieme di emozioni contrastanti, ma l’euforia prevaleva su tutte le altre, il cuore gli batteva all’impazzata, ma si trattenne dall’illudersi che lui sarebbe stato lieto di quella notizia. Frugò nello zaino che aveva portato con sé e che aveva appoggiato su uno sgabello e tirò fuori il biglietto da visita di Regina. «Se vuoi chiamare qualcuno, chiama lei, mi ha aiutato a trovarti.»
Ancora confuso, Killian afferrò il biglietto e se lo rigirò tra le dita. Regina Mills. Sindaco di Storybrooke.
Storybrooke. Killian quasi ridacchiò amaramente, non era possibile, eppure tutto tornava, come una maledizione. Inspirò a fondo e guardò Henry, il quale ricambiò il suo sguardo con fermezza, quasi lo sfidasse a non fare quella chiamata. Senza pensarci due volte, Killian compose il numero. Non dovette attendere molto prima di sentire una voce femminile piuttosto adirata dall’altro capo del telefono. «Pronto?»
«Salve,» iniziò cautamente Killian, non sapeva bene come intavolare il discorso, e questa Regina Mills sembrava estremamente arrabbiata, «sono Killian Jones, credo che…»
«Oh, direttore, è lei? Un attimo solo, la prego,» lo interruppe lei, probabilmente perché non poteva parlare in quel momento, il pensiero che quella donna potesse trovarsi nella stessa stanza di Emma gli causò una dolorosa stretta al cuore che gli mozzò il respiro. «Henry è con lei?» sibilò, la voce ridotta a un sussurro, preoccupata.
«Sì, è qui ma…»
«Bene, almeno è al sicuro, spero. Domani prenda il volo per Portland delle otto e trenta e lo porti a Storybrooke. Prenoterò due biglietti a suo nome, sarò lì ad aspettarvi.»
Killian strinse gli occhi, l’ultima cosa che voleva era rivedere Emma. Anzi, lo voleva, disperatamente, avrebbe voluto parlarle, ora più che mai, però quelle parole, quelle diaboliche parole gli rimbombavano nella testa. «D’accordo,» disse senza riuscire a fermarsi. Se quello era davvero suo figlio, e al momento non ne dubitava affatto, allora avrebbe dovuto parlare con Emma.
«Molto bene, avvertirò Emma
«Mi ucciderà,» sentenziò Killian, la mano sinistra stretta attorno al marmo nero dell’isola della cucina, le nocche bianche.
Udì una risatina amara e per nulla divertita. «No, signor Jones, ci ucciderà tutti.» Detto questo, Regina interruppe la chiamata, probabilmente per andare a dire a Emma che suo figlio stava bene.
Quella donna però aveva ragione, Emma li avrebbe uccisi dal primo all’ultimo senza pensarci due volte ma, per quanto lo riguardava, Killian era già morto quando dieci anni prima lei lo aveva lasciato. Spostò lo sguardo su Henry, quel ragazzino che era strafottenza malcelata da dolcezza e innocenza perché, insomma, nessun bambino si presentava a casa del padre dopo dieci anni, e da solo oltretutto.
Non che Killian sapesse molto dei rapporti padre e figlio, anzi, non ne sapeva quasi nulla, se non che il suo era quasi del tutto inesistente.
Si passò una mano fra i capelli, scacciando il ricordo del padre. «Immagino… immagino che tu non abbia ancora cenato, giusto?»
Con un sorrisino innocente, Henry annuì. «Solo qualche snack al cioccolato e qualche biscotto che ha fatto mamma.»
Killian lo guardò con le sopracciglia arcuate. Biscotti? Fatti da Emma? «Cento dollari che sono alla cannella,» mormorò a voce talmente bassa che pensò Henry non l’avesse sentito.
«Esatto, ma non ho cento dollari,» replicò infatti il ragazzino togliendosi anche il cappotto e la sciarpa prima di andare a sedersi su uno dei divani davanti alle vetrate che davano su New York. Era una vista bellissima, Henry sarebbe rimasto ore a guardare le luci della città, ma avrebbe preferito cento volte vedere la luna riflettersi sulla superficie dell’acqua come riusciva a fare dalla finestra della propria camera.
Killian strinse le labbra, non sapeva che cosa fare, aveva bisogno di pensare, di assimilare ciò che gli stava succedendo e il perché nessuno gli avesse detto che aveva un figlio. Perché Emma non gli aveva detto nulla? Se n’era andata perché era incinta? Di che cosa aveva avuto paura per non lasciargli nemmeno un biglietto? Perché se ne era andata?
Quell’ultima domanda lo accompagnava sempre prima di addormentarsi, e cercava ancora una risposta, cercava di capire perché la donna che amava non lo avesse cercato, perché non si fosse preoccupata abbastanza per lui.
Doveva aver pensato che avesse passato giorni a fare baldoria, forse con la confraternita, ma quanti giorni era rimasta in quella casa, sola, prima di andarsene definitivamente? E aveva pensato alla cosa che più si allontanava dalla verità. Se solo lei lo avesse cercato…
Killian strinse i pugni, rifiutando di proseguire su quella strada, purtroppo non aveva un sacco contro il quale sfogare rabbia e frustrazione.
«Che cosa vuoi mangiare?» domandò allora a Henry, scrutando la sua espressione. Sembrava felice, ma nei suoi occhi leggeva turbamento, forse non gli piaceva ciò che vedeva, forse era deluso da suo padre. A quel pensiero, Killian si adombrò, non voleva che suo figlio si vergognasse di lui. Quasi sorrise, davvero stava iniziando a considerarlo suo figlio? E se non fosse stato suo? L’idea fece perdere un battito al suo cuore.
Henry si strinse nelle spalle. «Qualsiasi cosa, muoio di fame,» disse guardando Killian da sotto le ciglia nel modo più innocente che conosceva.
Scacciando l’idea di poco prima, Killian sogghignò e iniziò a preparare dei maccheroni al formaggio, erano indubbiamente un pasto succulento per un bambino e anche lui li adorava.
Avrebbe voluto chiedergli di Emma, di come stesse, ma non ne aveva il coraggio, la ferita che gli aveva lasciato continuava a sanguinare da dieci anni. Presto l’avrebbe rivista e, a dire la verità, temeva quel momento, perché gli si sarebbe spezzato nuovamente il cuore, e non avrebbe mai potuto sopportare il suo sguardo accusatore quando in realtà lui non aveva fatto nulla di male.
Si era domandato infinite volte se fosse a conoscenza della verità, se sapesse che cosa gli fosse successo quando se n’era andata, forse… forse non sapeva che cosa gli era accaduto e aveva tirato delle conclusioni affrettate.
Scosse il capo mentre tagliava il formaggio a dadi, cupo in volto. Non le avrebbe permesso di rovinargli nuovamente la vita, si era portata via dieci anni della sua vita, dieci anni in cui gli aveva nascosto un figlio.
«Come hai fatto a trovarmi?» domandò allora a Henry, appoggiandosi contro il piano cottura, le braccia incrociate al petto e lo sguardo azzurro indagatore mentre aspettava che l’acqua bollisse.
Henry aggrottò appena le sopracciglia. «Non volevi essere trovato?»
C’era panico nella sua voce, Killian poté vedere i suoi occhi agitarsi e guardare ogni angolo della stanza ma non lui. Sorrise dolcemente, il cuore pervaso da un senso di tenerezza. «Non ho detto questo, Henry,» disse resistendo alla tentazione di avvicinarsi e di stringerlo a sé per rassicurarlo, domandandosi come sarebbe stato, che cosa avrebbe sentito.
Il bambino sorrise, riportando lo sguardo sull’uomo, decisamente sollevato. «Regina mi ha aiutato, ha telefonato a una coinquilina della mamma che le ha parlato di un ragazzo di una confraternita e a quel punto si è fatta mandare i file di ogni membro di questa nell’anno in cui la mamma si è iscritta all’università…»
«Aspetta, diffondere i fascicoli personali degli studenti è illegale, come…» Si fermò davanti allo sguardo innocente di Henry, questa Regina doveva avere dei contatti piuttosto importanti, oppure decisamente incuranti della legge.
«Comunque, poi abbiamo escluso i gruppi sanguigni che non potevano coincidere con il mio e dopo abbiamo controllato i numeri da chiamare in caso di emergenza.»
Killian alzò le sopracciglia, ammirando l’astuzia di quella donna e, con tutta probabilità, anche quella del ragazzino. Tuttavia, avrebbero potuto trovare una strada più semplice. «Perché non avete semplicemente guardato il fascicolo di tua madre?»
Henry si era accorto che, in tutto quel tempo, lui non aveva mai fatto il nome di Emma, nemmeno una volta. Si strinse nelle spalle. «L’amica di Regina l’ha cercato, ma non c’era.»
Doveva aspettarselo, Emma era sempre stata brava sia a trovare le persone che a nascondere le proprie tracce.  A trovare le persone, già, tutte meno che lui.
Non si accorse che Henry gli si era avvicinato e gli stava tendendo una fotografia strappata. Quando abbassò lo sguardo, Killian la riconobbe all’istante, e così anche il suo cuore, che si fermò prima di ricominciare a battere dolorosamente. La prese delicatamente tra le dita, quasi temesse si polverizzasse all’istante. Ricordava benissimo quella sera, e quel vestito, quell’ingombrante abito rosso che lo aveva quasi fatto impazzire nel tentativo di tenerglielo nascosto, ma alla fine ci era riuscito.
«Quando è stata scattata?»
Killian sogghignò, ricordandosi tutto l’evento. Era stata una serata piuttosto movimentata, ma al contempo indimenticabile e speciale. «Era la vigilia di Natale, la prima che abbiamo passato insieme, e io le ho regalato questo vestito,» disse accarezzando il bordo frastagliato della fotografia, aveva ancora l’altra metà, riposta con cura nell’album che di tanto in tanto sfogliava ancora. Una volta era stato sul punto di bruciare tutto ciò che gli ricordava Emma ma non aveva avuto il coraggio di farlo.
«Come mai?»
«Beh,» iniziò impacciato Killian restituendo la foto a Henry mentre buttava la pasta per farla cuocere e preparava la teglia da mettere in forno, «diciamo che appena l’ho visto ho pensato a lei. E poi c’era questo ballo…» Killian non avrebbe mai dimenticato la faccia di suo padre quando l’aveva visto lì. «Devi sapere che sono la pecora nera della mia famiglia, i Jones sono piuttosto facoltosi qui in città, ma io me ne sono andato appena ho potuto. Durante le festività si divertono a dare ricevimenti e ho pensato di passare, ecco, una serata diversa.»
«E quindi vi siete intrufolati al ballo dei tuoi genitori?» Henry pendeva a dir poco dalle sue labbra, finalmente sentiva la storia dietro quella fotografia, una storia in cui sua madre e suo padre avevano avuto un’avventura degna di essere scritta in un libro di favole, e nella quale avevano fatto una comparsa persino i suoi nonni.
Killian annuì, lo sguardo perso nei ricordi. «Oh, sì, abbiamo ballato molto prima che mio padre desse l’ordine alla sicurezza di scortarci fuori. E lì, beh, abbiamo fatto la nostra figura correndo dritti in mezzo alla sala da ballo e poi in strada, mentre ci rincorrevano e io facevo di tutto per aiutare tua madre a tenere sollevate le gonne così che non la intralciassero. Sì, credo che qualcuno ne parli ancora.»
Henry si sentì quasi frastornato, sua madre non gli aveva mai raccontato quella storia, non aveva mai parlato del suo passato, se non di quando era piccola. Avrebbe voluto rivolgergli altre domande, ma ora come ora non avrebbe saputo quale scegliere. Si trattenne dall’aggiungere altro con un fremito e lo guardò mentre si muoveva quasi a suo agio nella cucina e preparava la cena per due, come se fosse una cosa naturale.
«Lei ha ancora alcune delle tue cose, oltre alla fotografia,» disse Henry mentre Killian era concentrato sulla teglia di pasta che doveva infornare, ma vide le sue spalle irrigidirsi prima di rilassarsi.
Quando si abbassò per infilare la pirofila nel forno, il ragazzino giurò che suo padre stesse sorridendo.
 
Nemmeno stare sotto la doccia per un’ora e mezza aveva lavato via quel senso di spossatezza che aveva addosso assieme a quella dolce sensazione di euforica felicità che aveva iniziato a pervaderlo durante la cena.
Henry si era addormentato sul divano mentre guardava i cartoni animati e lo aveva portato nella propria camera da letto, rimboccandogli le coperte, come se fosse la cosa più naturale sulla faccia della terra. Era strano, ma si era sentito subito legato a quel ragazzino, e non solo perché aveva detto di essere suo figlio, ma perché gli ricordava Emma.
Gli si strinse il cuore nel controllare un’ultima volta il bambino, dormiva rannicchiato sul suo lato, le coperte quasi lo seppellivano, ma sul viso aveva un’espressione beata, felice. Lasciò la porta socchiusa mentre entrava nella stanza di fronte, la seconda camera da letto dell’appartamento che non usava mai, nessuno lo andava mai a trovare, né colleghi di lavoro né amici. Lì dentro, inoltre, teneva tutte le cose lasciate da Emma, dai vestiti agli album di fotografie.
Accese la luce e ne prese uno dalla mensola sopra la scrivania, sedendosi sul bordo del letto, i capelli bagnati stillavano acqua sul leggero tessuto del pigiama grigio scuro. Sollevò le gambe e si stese su un fianco, il capo appoggiato alla mano mentre guardava con occhi colmi dolore le foto di quando era ancora felice e spensierato.
C’erano foto sue e di Emma, altre con alcuni amici dell’università e alcune con suo fratello, all’epoca nessuno di loro pensava a dove si sarebbero trovati dieci anni dopo, ma ora suo fratello non c’era più ed Emma lo aveva abbandonato.
Inspirò a fondo mentre girava un’altra pagina, vedendo la foto strappata. Si era domandato molte volte perché avesse scelto proprio quella, scervellandosi sul motivo che l’aveva spinta a strapparla prima di andarsene. Poi si ricordò delle parole di Henry.
«Lei ha ancora alcune delle tue cose, oltre alla fotografia.»
Emma aveva ancora l’anello, doveva essere così, perché era stata quella sera stessa, quando si erano fermati ansanti davanti alla fontana di Bethseda, che lui le aveva dato l’anello, promettendole che il suo amore sarebbe sempre stato la luce che l’avrebbe guidata a casa. Non era una proposta di matrimonio, ma era un inizio, era una promessa che lui si era ripromesso di mantenere sempre.
Aveva preso l’anello al ballo, glielo aveva dato sua madre dopo averlo tirato per un attimo in disparte senza che suo padre li vedesse, dicendogli che era orgogliosa di lui, e che ci sarebbe stata sempre se mai avesse avuto bisogno di qualcosa.
Dopo quella sera avevano vissuto felici più che mai, come se stessero vivendo una favola, ma poi, essendo questa la vita vera, era arrivata la tempesta, e aveva spazzato via tutto.

 
▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼

Eccomi qui! Anche se non ho finito il capitolo successivo mi ero ripromessa di postare il capitolo una volta finiti gli esami - uno su due portati a casa, ma almeno in gestione e marketing ho preso 27 *ç* - e ne sono immensamente felice.
Spero che il capitolo sia soddisfacente, ho riscritto un paio di scene perché non mi sembravano adatte - ovviamente all'inizio non potevo non mettere una scena come quella della serie lol
Ora mi godo questa settimana di vacanza prima di fare statistica e bilanci, ma spero di riuscire a non scomparire totalmente da EFP :3
Grazie a chi è rimasto con me finora e a chi rimarrà in futuro!
Baci,
bluerose

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***



Capitolo 4
 
Emma non aveva dormito affatto, era stata in pensiero per due giorni ed era stata quasi sul punto di prendere il primo volo per New York, frenata solamente dalle parole di Regina, la quale era stata sul punto di legarla pur di trattenerla a Storybrooke.
Non le era affatto grata, soprattutto perché aveva aiutato suo figlio a trovare Killian. Dio, avrebbe voluto ucciderla. Anzi, avrebbe voluto uccidere soprattutto lui, perché anche quando aveva cercato in tutti i modi di dimenticarlo era riuscito a rovinare la sua vita.
Rovinarla. Era davvero così?
Scosse il capo, versandosi l’ennesima tazza di caffè, irritabile o meno quel giorno avrebbe finalmente rivisto suo figlio e poi avrebbe piantato una pallottola nel petto del suo ex. Dio, il caffè la stava rendendo davvero suscettibile e non la faceva pensare correttamente. No, non avrebbe ucciso Killian, lo avrebbe solo riportato a New York a calci nel sedere.
Meglio in Irlanda, così sarebbe decisamente lontano.
Dio, perché era stata così stupida? Perché non aveva parlato con Henry quando le aveva chiesto per la prima volta chi fosse suo padre? Perché non gli aveva detto che era morto? Almeno a quel modo avrebbe potuto togliergli ogni voglia di trovarlo, sebbene in cuor suo sapesse che Henry non si meritava affatto quella menzogna. E così gli aveva detto di lasciar perdere quella faccenda solo per affrontarne ora le conseguenze.
L’unica cosa di cui era certa era che Henry era sano e salvo a New York, e quello era l’importante. Sapeva benissimo che un giorno avrebbe dovuto affrontare altre domande su Killian, ma sperava sarebbero state molto più avanti, non avrebbe mai immaginato che suo figlio sarebbe andato addirittura a cercarlo. E poi, come diavolo avevano fatto a trovarlo? Certo, Regina aveva le mani in pasta un po’ dappertutto, ma mai quanto Gold, ed era impossibile che si fossero rivolti a lui. Emma era stata brava, aveva fatto sparire il proprio fascicolo dall’università e l’aveva nascosto molto bene in soffitta, così come tutti gli altri ricordi che la legavano a New York e a Killian Jones, ma oramai il danno era fatto e, se tutto andava per il meglio, lo avrebbe visto solo per pochi minuti per il resto della sua vita.
Fu quasi sul punto di lanciare la tazza contro la parete, la sera prima aveva svuotato il caricatore della pistola contro un muro della stazione di polizia nel tentativo di colmare quella sensazione di vuoto che l’assenza del figlio le lasciava addosso – no, non voleva pensare che fosse anche causa sua.
Suo padre l’aveva trovata rannicchiata in un angolo con le lacrime che le scivolavano inesorabili sulle guance mentre tutto il dolore che aveva dentro si riversava all’esterno, mostrando a una delle persone che amava di più al mondo quanto fosse devastata, quanto fosse perduta senza suo figlio.
David l’aveva riaccompagnata a casa e si era trattenuto nonostante le sue proteste, promettendole che sarebbe stato con lei fino a quando Henry non fosse tornato, e difatti ora stava sonnecchiando sul divano, una coperta lo copriva fin sotto il mento.
Senza di lui Emma si sarebbe sentita ancora più persa e, segretamente, gli era infinitamente grata che fosse rimasto, se se ne fosse andato anche lui il suo cuore non avrebbe retto.
Fu mentre si scottava incurante la lingua con il caffè che sentì il campanello suonare. Quella doveva essere Regina, erano le undici e aveva detto che l’avrebbe accompagnata all’aeroporto per andare a prendere Henry, almeno a quel modo avrebbe potuto mettere Killian sul prossimo volo per New York senza proteste. Era sicura al cento per cento che non avrebbe voluto avere a che fare con Henry, dopotutto se ne era andato e non era più tornato, non l’aveva mai cercata, tutte quelle promesse d’amore erano state solo parole al vento che ora non contavano più.
Guardando verso il salotto appurò che suo padre non si era svegliato e si alzò, dirigendosi verso l’entrata, ma non era affatto preparata a ciò che le si parò davanti quando aprì la porta.
Killian era ancora più bello di quanto ricordasse – e purtroppo lo ricordava molto bene. Non sembrava nemmeno avesse dieci anni in più di quando l’aveva visto la prima volta, e questo non fece altro che accentuare il dolore acuto che provava al petto.
Indossava una giacca in pelle, cosa normale per lui, ricordò Emma, sforzandosi di non pensare a quanto caldo fosse sempre stato il suo corpo e quanto quella sua giacca di pelle l’avesse confortata nelle fresche serate newyorkesi quando se la toglieva per appoggiargliela sulle spalle.
Ammirò suo malgrado il modo in cui la camicia blu notte che portava sotto aderiva al torace sul quale aveva posato mille volte mani e labbra, le toniche gambe fasciate da jeans neri e un paio di Converse nere e consumate ai piedi, ma niente la rapì come fecero i suoi occhi blu, così incredibilmente blu che pensò potesse affogare in quell’oceano. Dio, erano sempre stati così blu o era l’immensa tristezza che vi leggeva dentro a renderli tali?
«Mamma!»
La voce di Henry sembrò arrivarle da un altro mondo, ma quando le circondò la vita con le braccia e abbassò lo sguardo sul figlio, la colpì un senso di sollievo. Ricambiò l’abbraccio con forza, appoggiando la guancia sui capelli di Henry, il suo cuore più leggero nonostante l’uomo sulla soglia, gli occhi chiusi mentre inspirava il profumo di cannella che lo accompagnava costantemente. Suo figlio era al sicuro, era a casa, era questo ciò che contava.
Dopo essersi concessa quell’attimo di pura gioia nel rivederlo, Emma lo allontanò appena da sé, tenendolo per le spalle. «Henry, come hai osato fare una cosa del genere? Hai fatto preoccupare tutti quanti!» La voce le tremava per l’emozione, nonostante tentasse di essere solo arrabbiata non ci riusciva, non sul serio.
«Mamma,» la interruppe lui, guardandola con quegli occhi verdi da cucciolo che aveva preso da lei, «mi dispiace, ma se non lo avessi fatto non avrei mai trovato…»
«Emma,» si intromise Killian dopo lo shock iniziale causatogli dal rivederla dopo tutto quel tempo, la voce esitante mentre pronunciava il suo nome per la prima volta dopo anni nonostante se lo fosse ripetuto infinite volte nella propria mente come una supplica, «non trattarlo così, ha fatto solo ciò che tu non hai avuto il coraggio di fare tu in tutti questi anni.»
Le parole di Killian erano dure e gelide come il ghiaccio, e sebbene Emma avesse fasciato per anni il proprio cuore ferito, non poté impedire a quel suo tono distaccato di farle male un’altra volta. Quindi dava la colpa a lei, buono a spersi.
«Henry, vai di sopra,» ordinò riportando lo sguardo su Killian. Sentì dei rumori e si volse un attimo per vedere suo padre avvicinarsi, gli occhi azzurri guardinghi mentre allungava una mano per scompigliare i capelli del nipote.
Henry sorrise a David prima di volgersi verso Killian e cingergli la vita con forza. «Ci vediamo per cena?» domandò guardandolo dal basso con gli occhi di sua madre ma con un’espressione assolutamente identica a quella di lui, il mento appoggiato al suo stomaco.
Con un sorriso – quel sorriso che Emma adorava un tempo e che pure in quel momento le fece tremare le gambe – Killian scompigliò i capelli di Henry. «Certamente, ragazzino,» rispose prima di indicargli con un cenno del capo le scale.
Il cuore di Emma si fermò un attimo davanti a quella scena, così dannatamente toccante e intima, eppure così maledettamente indesiderata. Ma davvero non voleva rivivere quel momento più e più volte, magari ogni giorno in quella stessa casa? Scacciò il pensiero, non poteva permettersi di sognare a quel modo, lui l’aveva abbandonata, se n’era andato, non poteva piombare nuovamente nella sua vita come se nulla fosse, perché tanto se ne sarebbe andato nuovamente, spezzando il cuore di Henry.
Henry si fermò per un attimo ad abbracciare David prima di salire di corsa in camera sua, sulle labbra un sorriso che gli illuminava il volto in un modo che Emma non aveva mai visto prima. Le si strinse il cuore, ma riuscì comunque a tenere lontana quella sensazione.
«Devi andartene,» sputò fuori non appena sentì la porta della camera di Henry chiudersi. Non poteva sopportare di avere Killian nella propria città, vicino a suo figlio, vicino a lei. Era ovvio che pure lui volesse andarsene, che volesse lavarsi le mani di quel figlio. Eppure… eppure ciò che aveva visto finora, quel sorriso sul volto di Henry era una cosa meravigliosa che lei non era mai riuscita a scaturire.
«No,» rispose duramente Killian, puntando un dito verso le scale, «quello è mio figlio, Emma, e tu me lo hai portato via, me lo hai tenuto nascosto per tutto questo tempo. Come hai potuto?»
Emma sbiancò davanti a quell’accusa, ma non fu lei a colpirlo, bensì suo padre, che lo spedì disteso sui gradini della veranda con un pugno. Dovette trattenersi dal correre da lui e assicurarsi che stesse bene affondando le unghie nel legno dello stipite, non poteva permettersi di provare pietà per lui, lui non ne aveva provata per lei.
«Vattene da Storybrooke, altrimenti sarò costretto a cacciarti,» lo minacciò David con un tono glaciale che Emma non gli aveva mai sentito usare. «Posso impedire a Granny di darti una stanza, posso impedire a chiunque di stipulare addirittura un contratto d’affitto con te. Tornatene da dove sei venuto e stai lontano dalla mia famiglia.»
Killian si rialzò, dolorante, massaggiandosi la mascella nel punto in cui David l’aveva colpito, consapevole che entro quella sera sarebbe diventato bluastro, ma non lasciò che le sue minacce facessero centro, aveva vissuto molti anni a sentirne dalla bocca del suo stesso padre per curarsene.
«Non m’importa,» disse con occhi accesi dalla più profonda delle determinazioni, il muscolo della sua mascella pulsava mentre teneva lo sguardo fisso su Emma. «Cacciatemi pure, vorrà dire che pianterò una tenda fuori dal confine di Storybrooke dove voi non avete alcuna giurisdizione. Non mi terrai altri dieci anni fuori dalla vita di mio figlio.»
«Lui non è tuo figlio. Non ha bisogno di un padre,» sibilò Emma, la sua voce rischiò di spezzarsi nel dire quelle parole, perché un padre era la cosa di cui Henry aveva più bisogno al momento, e lei glielo stava impedendo. Perché? Perché all’epoca se n’è andato? Perché è tornato solamente ora?
«E allora perché è venuto a cercarmi a New York da solo? Non credi che forse abbia bisogno di un padre?»
«Io sono sua madre, so che cos’è meglio per lui!»
«Ma davvero? Quindi andartene è stata la cosa migliore per lui? Tenerlo nascosto tutti questi anni è stata la cosa più giusta da fare, Emma?»
Il cuore di Emma si fermò per un attimo, Killian la chiamava col suo nome solo quando era estremamente serio riguardo ai propri sentimenti, come quando le aveva dato l’anello, o quando era davvero, davvero arrabbiato. E Cristo se le mancava il modo in cui la chiama tesoro, amore o, più semplicemente, Swan.
Tuttavia, Emma ancora non riusciva a capire perché l’avesse accusata di averlo abbandonato quando invece era stato lui ad andarsene per primo, a non tornare dopo giorni, ad abbandonarla. Scosse il capo, non poteva permettersi di cedere alle sue accuse, non quando doveva proteggere Henry.
Poi, un pensiero la colpì improvvisamente. Regina era stata in combutta con Henry fin dall’inizio, le aveva mentito quando aveva detto che sarebbe andata a prenderla per portarla all’aeroporto, quindi doveva sapere che sarebbero arrivati prima e che Killian aveva intenzione rimanere a Storybrooke. Anche se gli avesse impedito di prendere una stanza da Granny, era certa che il sindaco gli avrebbe offerto una sistemazione in casa sua.
Strinse i pugni per calmarsi, le unghie conficcate nei palmi. Sentì la mano di suo padre sulla spalla, il suo miglior sostegno quando la notte si svegliava in lacrime al pensiero di quell’ultima notte con Killian, a come si erano urlati addosso cose che entrambi avevano poi rimpianto amaramente. «Perché adesso?»
La voce di lei era talmente flebile che Killian faticò a sentirla. «Perché Henry è venuto a cercarmi, altrimenti non avrei mai saputo di avere un figlio. Come hai potuto farmi una cosa del genere, Emma?»
«Non osare, Killian,» ringhiò lei, gli occhi verdi furiosi mentre ricacciava indietro le lacrime, la voce sempre più alta fino a sfociare in un urlo, «non osare dare la colpa a me, sei stato tu a lasciarmi!»
Killian scosse il capo, incredulo e adirato, incapace di sopportare oltre quell’accusa. Davvero pensava che, se fosse stato in suo potere, non sarebbe tornato? «Io non ti avrei mai lasciata, Emma, lo sai, te l’ho ripetuto mille volte, davanti alla fontana…»
«Te ne sei andato!»
«Ma non è stata una mia decisione rimanere lontano da te, non è stata una mia decisione quando Liam…» Killian si fermò improvvisamente, scuotendo il capo, non era possibile che non sapesse, era semplicemente impossibile, quando era venuto a Storybrooke aveva detto chiaramente come stavano le cose, che cosa gli fosse capitato, che cosa lo avesse trattenuto. «Vengo a prendere Henry per cena.»
Non ammetteva replica, avrebbe cenato con il figlio come gli aveva promesso, anche se avesse dovuto imbastire una guerra contro Emma, l’ennesima di altre mille e sperava non l’ultima.
Girò sui propri tacchi e fece in tempo a scendere gli scalini della veranda prima che le dita di lei si chiudessero attorno al suo polso sinistro. Si irrigidì, fermandosi, la pelle sensibile pervasa da una miriade di brividi, il ricordo di quel tocco non rendeva giustizia a quel momento, le cicatrici che pulsavano come se fossero ancora aperte e le avesse appena immerse nel sale.
Si volse lentamente, cauto, solo per incrociare i grandi occhi verdi di Emma, confusi, una piccola ruga si era formata tra le sopracciglia aggrottate, e provò il desiderio di baciarla come era solito fare un tempo. Avrebbe voluto stringerla fra le braccia, dirle che andava tutto bene e che non l’avrebbe più abbandonata, che era stata una stupida a pensare che lui avesse voluto stare lontano da lei anche solo per cinque secondi, ma non poteva farlo, non poteva permettersi di provare questi sentimenti quando lei ancora lo accusava di essersene andato.
«Che cos’è successo a Liam?»
C’era panico nei suoi occhi, dopotutto anche lei era stata amica di suo fratello e gli aveva voluto bene, anzi, anche per lei era diventato come una sottospecie di fratello maggiore. Abbassò un attimo lo sguardo sulla mano di lei ancora stretta attorno al suo polso, la pelle in quel punto gli bruciava come se gli avessero dato fuoco, come se il suo tocco gli stesse incendiando la carne.
Emma fece in tempo a vedere il dolore – un dolore agghiacciante e profondo, che non poteva essere facilmente sanato – negli occhi blu di lui prima che si liberasse dalla sua presa, voltandole le spalle e andandosene mentre un’altra dolorosa sfilettata le colpiva il cuore.
 
▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼

Bene, eccomi qui con il capitolo tanto atteso in cui la nostra cara Emma incontra il suo beneamato ex. Uh, il fatto che ci fosse David era pianificato sin dall'inizio, e il fatto che Henry e Killian sembra abbiano legato verrà ripreso nel prossimo capitolo in cui si scoprirà che cos'è effettivamente successo a Liam, ma non sarà Killian a raccontarlo, quello accadrà più avanti.
Ora mi concentrerò sul prossimo esame che devo fare, quindi non so quando aggiornerò, però forse, e dico forse, chi segue anche A Little Piece of Heaven potrebbe ricevere una sorpresa - con quella storia purtroppo ho avuto un blocco dello scrittore e la cosa mi devasta, nonostante sappia già come stendere i capitoli.
Ah, c'è anche un altro anello, uno che Killian non ha mai visto in vita sua - o almeno non al dito di Emma - di cui le ha parlato, una cosa legata a un altro telefilm, alla cultura del nostro caro Colin e che inizia con C e finisce con H - se indovinate cos'è vi regalo dei biscotti.
Grazie a tutti per le recensioni e le visite, mi fanno molto piacere :3
A presto, spero,
blue

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***



Capitolo 5
 
Sentiva ancora le cicatrici di Killian sotto le proprie dita, sembravano averle impresso un marchio indelebile sul palmo della mano. Come aveva fatto a procurarsele? Perché pensava non fosse colpa sua? Che cosa era successo a Liam?
Aveva lasciato che Killian salisse in macchina senza dirgli altro, senza inseguirlo, impotente, sapendo che non avrebbe funzionato, perché lui pensava che lei sapesse. Il problema, però, era che lei non sapeva nulla, e questo lo aveva fatto arrabbiare ancora di più – con lei, con se stesso.
Sentì una mano sulle spalle e trasalì. David non aveva lasciato il suo fianco nemmeno un stante, e lei non poté fare a meno di appoggiarsi a lui come faceva fin da bambina. Le circondò le spalle con il braccio, premendole le labbra sul capo mentre tentava di tenere insieme i frammenti in cui era stato ridotto il suo povero cuore.
«Rientriamo, ti faccio una cioccolata calda,» le mormorò dolcemente mentre la conduceva verso la veranda.
David aveva visto la scena, testimone non solo il dolore di sua figlia, ma anche di quello negli occhi di lui, un dolore che combaciava alla perfezione con quello di Emma e a quello che avrebbe provato lui se sua moglie fosse venuta a mancare.
Aveva sempre saputo che al suo primo amore Emma aveva dato tutto, proprio come sapeva che quell’amore non si era mai spento.
Era forse una maledizione, quella della sua famiglia, perché sembrava che il vero amore li trovasse sempre, o così amava scherzare sua madre quando era ancora in vita, o anche Mary Margaret. Eppure, purtroppo, a Emma non era toccata la stessa sorte, il suo lieto fine era stato distrutto. O almeno così aveva creduto fino a quando Killian Jones non era ricomparso.
David non sapeva che cosa pensare; da una parte avrebbe voluto proteggere la figlia dall’uomo che l’aveva ferita così brutalmente ma che le aveva dato Henry, mentre dall’altra, forse, se anche minima, c’era la possibilità che Emma tornasse la spensierata ragazza che non era più da dieci anni.
Emma andò a sedersi sul divano, lo sguardo perso nel vuoto, nel ricordo del dolore che aveva visto negli occhi di Killian, così profondo e straziante che aveva quasi sopraffatto entrambi. Senza pensarci due volte si allungò verso il tavolo da caffè e prese il laptop che aveva lasciato lì sopra, il suo caso ancora aperto dopo la scomparsa di Henry.
Era brava a trovare le persone, e molto tempo prima aveva trovato anche Killian, sapeva che era ancora a New York nell’appartamento che avevano condiviso, come se non fosse riuscito a lasciarla andare completamente, proprio come lei non era mai riuscita a lasciare andare lui.
Le si strinse il cuore e gli occhi le si riempirono di lacrime mentre digitava con dita tremanti “Liam Jones” nel motore di ricerca. Trovò profili Facebook e Twitter, ma nulla che potesse interessarle, solamente riferimenti comuni perché, al contrario di Killian, Liam era un nome piuttosto comune.
Scorse varie pagine senza leggere davvero le parole fino a quando un link non catturò la sua attenzione. Cliccandoci sopra, venne reindirizzata all’articolo di un di un giornale di New York risalente a sette anni prima.
Iniziò a leggere, lo sguardo incollato allo schermo, talmente concentrata che non sbatteva nemmeno le palpebre mentre le parole incidevano gravi ferite nel suo cuore.
«Emma!»
La voce di David la fece trasalire, quello che aveva appena letto non poteva essere vero. Killian glielo avrebbe detto, Liam era anche suo amico, Liam era… era.
Non riuscì a trattenere le lacrime e si coprì il volto con le mani, provando all’improvviso un dolore atroce, come se le avessero strappato un braccio.
Ma non potevano essersi sbagliati, quella era la nave di Liam, e su quella nave c’era anche Killian, solo un miracolo lo aveva tenuto in vita, o così almeno riportava l’articolo. Le girava la testa e sentì la bile acida sul fondo della gola.
Come aveva potuto essere così stupida? Lui se n’era andato, ma aveva ragione, non era stata una sua scelta starsene lontano da lei, proprio per niente. Si prese la testa fra le mani, infilandosi le dita tra i capelli mentre lacrime le scendevano lungo le guance.
«Questo è suo fratello?» domandò David guardando la foto di Liam sul monitor. Assomigliava molto al fratello, ma era più grande di lui, capelli ricci e un poco più chiari dove Killian li aveva neri come l’inchiostro, appena arricciati sulle punte se non li avesse tagliati spesso.
«Era,» precisò Emma con amarezza, trovando conforto nell’abbraccio di suo padre, proprio come aveva fatto dopo essere tornata a Storybrooke. Né lui né sua madre l’avevano giudicata, Emma aveva preferito tenere per sé tutte le informazioni su Killian, e i suoi genitori avevano amato Henry fin dalla prima ecografia.
«Mi dispiace, tesoro,» mormorò David tra i suoi capelli, stringendo il corpo gracile della figlia scosso dai singhiozzi. Dopo anni aveva scoperto di aver perso un’altra parte della sua vita sebbene un’altra fosse appena tornata.
Doveva essere sempre così, una vita per una vita?
«Avrei dovuto saperlo, sono stata una stupida,» mormorò Emma tirando su col naso, incapace di fermare il mare di lacrime che quel senso di perdita le causava. «Se solo avessi aspettato ancora… Se solo lo avessi cercato, papà.»
«Shh, piccola, non darti colpe che non hai.»
Emma scosse il capo, non riusciva a capacitarsi di essersi lasciata sfuggire tra le dita la propria felicità, la felicità di entrambi. La felicità di suo figlio.
Sarebbe dovuta andare da Killian, chiedere di perdonarla per la sua stupidità, ma non ne aveva la forza, era troppo distrutta dalla notizia della morte di Liam e sopraffatta dalle sensazioni che rivedere Killian le aveva procurato.
Quando le lacrime si fermarono, anche il mondo sembrò arrestarsi attorno a lei, ed espresse l’ardente desiderio di poter tornare indietro di dieci anni.
 
Era quasi sera quando riaprì gli occhi, il sole filtrava dalla finestra colorando il salotto di un rosso cupo venato di viola, come se quella giornata avesse bisogno di una sfumatura ancora più cupa.
Si sentiva sfinita, per nulla riposata, troppi pensieri le vorticavano nella testa a avrebbe voluto semplicemente spegnere il cervello. A dire il vero, avrebbe avuto bisogno di un bagno caldo, ma non poteva ancora permettersi di rilassarsi, prima doveva parlare con Killian, doveva chiedergli quali fossero le sue intenzioni, doveva sapere se voleva restare, se non per lei almeno per Henry.
Lentamente, si mise a sedere, la coperta che suo padre le aveva messo addosso le scivolò in grembo. Con la mano andò automaticamente a coprirsi lo stomaco, domandandosi per l’ennesima volta cosa sarebbe successo se fossero rimasti insieme, se la mano di lui, ogni notte, le avrebbe accarezzato il pancione da quando fosse stato ancora piatto a quando invece fosse diventato fin troppo ingombrante.
Si chiese anche se l’avrebbe disegnata, se di tanto in tanto avrebbe catturato sul foglio la sua figura mentre portava in grembo suo figlio, se l’avrebbe amata più di quanto non avesse mai fatto. Sarebbe stato felice all’epoca? Se non gli avesse permesso di andarsene, avrebbe potuto risparmiare loro dieci anni di dolore? Avrebbe potuto impedire in qualche modo la morte di Liam?
Lacrime corsero silenziose lungo le sue guance mentre si alzava lentamente, salendo quasi barcollante le scale fino alla camera di Henry. Il bambino stava leggendo, steso sul letto, ma sembrava troppo distante con il pensiero per concentrarsi sulla propria copia de Il Signore degli Anelli.
Sentendo una fitta al cuore, Emma si avvicinò lentamente, sedendosi accanto a lui e lasciando che si accoccolasse con la testa contro il suo petto, stringendolo con forza a sé. Gli appoggiò un bacio sulla testa, fra i capelli castano scuro, scompigliati come quelli di suo padre. Dio, Emma ancora ricordava quanto fossero setosi, quanto le piacesse accarezzargli la nuca dove le ciocche nere si arricciavano appena.
«Sei arrabbiata con me, mamma?» domandò Henry reclinando il capo all’indietro per guardarla negli occhi.
Emma inspirò a fondo. «Un po’,» ammise, stringendo Henry a sé con ancora più forza, grata che fosse tra le sue braccia. «Non sono certo contenta che tu sia andato a New York da solo, Henry, avresti potuto perderti, o peggio. Non sai quanto mi hai fatta spaventare.»
«Mi dispiace,» mormorò lui ricambiando l’abbraccio con altrettanta forza, ed Emma sapeva che gli dispiaceva davvero.
«Ti sei mai sentito spaventato?»
Henry scosse appena il capo in cenno di assenso. «Sì, ma non nel senso che intendi tu. Io… avevo paura che lui non mi volesse, che mi mandasse via…»
Emma non poté fare a meno di sorridere. «È sempre stato un uomo fantastico,» mormorò dolcemente. Henry aveva preso molto da lui e di questo ne era estremamente orgogliosa. Amava suo figlio, non solo perché le ricordava Killian o perché era la luce della sua vita, ma perché era la parte migliore di entrambi.
«Non mi impedirai di vederlo, vero?»
Il tono cauto e timoroso di lui le fece salire nuovamente le lacrime agli occhi. «No, piccolo, non dopo tutto ciò che hai fatto per trovarlo. Dopo tutto questo ho capito quanto tu avessi bisogno di sapere fin dall’inizio.»
«Grazie,» le sussurrò muovendosi per allungarsi a darle un bacio sulla guancia prima di circondarle il collo con le braccia, sistemandosi in grembo a lei come faceva quando era piccolo.
Rimasero lì abbracciati per qualche minuto, Henry ascoltava il battito del cuore di sua madre mentre lei si beava di quella stretta, come se invece fosse lei ad aggrapparsi a lui e non viceversa. E in effetti era così, Henry era stata la sua ancora per molto, molto tempo, era stata la ragione per cui non aveva mai mollato nonostante a volte il dolore minacciasse di trascinarla via da lui.
Aveva amato Killian con tutta se stessa, gli aveva donato anima e corpo, gli aveva donato il suo cuore e lui lo aveva custodito a lungo prima di ridurlo in polvere con le sue stesse dita. Dopo quell’esperienza, Emma aveva innalzato delle mura attorno ai frammenti che rimanevano del proprio cuore, impedendo al dolore di entrare e riversando tutto l’amore che ancora poteva dare su Henry, lui era l’unica cosa che contava.
Udì bussare al piano di sotto e subito si irrigidì, stringendo Henry con forza, quasi non volesse lasciarlo andare. Ma glielo aveva promesso, e quindi, facendo leva sull’amore per suo figlio, si alzò, dandogli un ultimo bacio sulla fronte. «Preparati, io vado ad aprire.»
«Mamma?» la chiamò Henry, mettendosi a sedere sul bordo del letto. «Non trattarlo male, ti prego.»
Con un sorriso pacato, Emma si diresse verso il piano di sotto, tentando di prepararsi mentalmente a ciò che sarebbe accaduto una volta che avesse aperto la porta.
Si asciugò i palmi sudati sui jeans e allungò una mano verso la maniglia, il pulsare del proprio cuore le rimbombava nelle orecchie mentre apriva la porta, rivelando l’alta figura di Killian, le mani dietro la schiena e l’espressione cauta. Nel punto in cui suo padre l’aveva colpito aveva iniziato a formarsi un livido ed Emma si sentì quasi male per lui. Quasi.
«Ciao, Swan,» mormorò lui a bassa voce, spostando il peso da un piede all’altro.
Emma rabbrividì, le sembrava di essere tornata indietro di dieci anni, quando lui usava sempre il suo cognome o “tesoro” per riferirsi a lei. Quasi non si accorse che le aveva teso un mazzo di fiori – Cristo, perché proprio i botton d’oro? Sentì come se il tatuaggio che aveva sul polso avesse iniziato a bruciare. Glielo aveva disegnato lui su un tovagliolo durante il loro primo appuntamento e, quando avevano festeggiato i primi sei mesi insieme, lei se lo era fatto tatuare. Per quanto fosse doloroso, non avrebbe mai voluto coprirlo o rimuoverlo, le sarebbe mancato tracciare inconsapevolmente quelle linee nere così familiari.
Provò davvero a non farsi toccare da quel gesto, ci provò davvero, ma quando prese i fiori e le loro dita si sfiorarono, le farfalle si librarono in volo nel suo stomaco e un leggero rossore le si diffuse sulle guance. «Uhm, grazie… non dovevi,» mormorò impacciata, scostandosi per farlo entrare, sapendo perfettamente che era una cattiva, terribile idea.
«Dovevo, Swan, soprattutto per come mi sono comportato prima,» rispose lui entrando in casa, ed Emma non poté fare a meno di pensare a tutte quelle volte che aveva sognato, anche a occhi aperti, di averlo lì con sé, con Henry, come se fossero una vera famiglia.
Potreste ancora esserlo, le ricordò una vocina che scacciò prontamente. Non voleva illudersi, non voleva pensare che Killian potesse ancora amarla, per quanto ne sapeva lei, poteva anche avere una nuova vita a New York.
«Io… uhm, vuoi qualcosa da bere?» chiese dirigendosi verso la cucina dove afferrò un vaso e lo riempì d’acqua. Vi sistemò i fiori, consapevole della presenza di lui dietro di sé, a debita distanza come a volersi impedire di raggiungerla e stringerla fra le braccia prima di baciarla con passione. Sbatté le palpebre un paio di volte, impedendosi di dirigersi con il pensiero. Non poteva, non era giusto.
«No, grazie,» le rispose sottovoce.
Emma si volse a guardarlo, appoggiandosi con i fianchi al marmo del ripiano, perdendosi nel modo in cui con la mano andava a scompigliarsi i capelli o a grattare quel punto dietro l’orecchio che quando invece lei gli baciava gli faceva venire i brividi.
Sentì il proprio stomaco attorcigliarsi, come poteva ricordare così vividamente ogni dettaglio del suo corpo? Come poteva volere il suo corpo sotto di sé con lo stesso fervore dopo tutti quegli anni?
«Mi dispiace,» disse all’improvviso, mordendosi con forza il labbro perché non sapeva esattamente per cosa fosse dispiaciuta. Per Liam? O per avergli tenuto nascosto Henry per dieci anni?
Evidentemente Killian vide il dubbio nei suoi occhi perché non glielo chiese. Dannato libro aperto, sbottò a se stessa, abbassando lo sguardo sul tavolo.
«Dispiace anche a me.»
«Io… non lo sapevo.» Non sapevo di essere incinta quando me ne sono andata. Non sapevo che Liam fosse morto.
«Lo avevo immaginato,» mormorò lui con voce soffice, e a Emma venne quasi voglia di piangere. Ma se c’era qualcosa che aveva imparato nel corso degli anni era mascherare le proprie emozioni, cosa che però le era sempre risultata difficile, se non impossibile, con Killian.
Guardando distrattamente l’orologio appeso alla parete, uno stupido gatto la cui coda faceva da pendolo, Emma fece leva sul proprio coraggio e fece per uscire dalla cucina, passandogli pericolosamente vicino. «Vado a chiamare Henry.» Dopotutto è per lui che sei qui. Non per me. Non più.
Killian l’afferrò per un gomito, i loro corpi cozzarono l’uno contro l’altro, scatenando come delle scintille invisibili che incendiarono il sangue di entrambi.
Gli occhi di lui erano fissi sul suo anulare destro al quale brillava un sottile anello d’oro bianco che Killian riconobbe all’istante. Benché non fosse quello di sua madre, anche quello faceva parte di lui, faceva parte di ciò che era perché era un simbolo della sua terra natia, della sua cultura.
Chiuse gli occhi, tracciando con le dita le mani, la corona e il cuore con la punta rivolta verso il polso. «Le mani sono lì per amicizia, il cuore è lì per amore. Per la fedeltà lungo gli anni, la corona vi è soprapposta,» mormorò a fior di labbra, aprendo gli occhi solamente per incontrare quelli di lei.
Emma sobbalzò appena, sentiva le lacrime bruciare agli angoli degli occhi mentre il suo respiro diventava sempre più veloce e irregolare.
Quando aveva visto l’anello per la prima volta in quella teca stava comprando le prime cose per la nursery, lo stomaco solo leggermente rigonfio, e aveva ignorato con tutta se stessa il desiderio di entrare nella gioielleria e comprarlo. La seconda volta, invece, era stata spinta da un segno del destino, o così lo aveva definito Regina, perché quando la luce lo aveva illuminato – non si era affatto ricordata di come lui le strizzava l’occhio dopo una battutina, nient’affatto – Henry le aveva dato il primo calcio.
Per quel motivo, in quei dieci anni, aveva sempre avuto al dito quell’anello di Claddagh, quello che simboleggiava amicizia, lealtà e amore. Sapeva come indossarlo per indicare che aveva un legame amoroso nonostante il suo cuore fosse spezzato, e tutto questo grazie alle spiegazioni di Killian durante una delle loro maratone di Buffy, quando le aveva spiegato per filo e per segno cosa simboleggiasse quell’anello con quelle stesse parole.
«Killian…»
Quella di Emma una supplica. Di baciarla, di lasciarla andare, nemmeno lei lo sapeva. Stava per chiudere gli occhi e allungarsi verso il suo viso quando sentì Henry scendere le scale di corsa.
Come se fosse stata scottata dal tocco di Killian, Emma sobbalzò e si tirò indietro con forza, finendo quasi contro l’altro stipite, lo sguardo basso per evitare quello di lui che sentiva fisso su di sé.
«Sono pronto,» annunciò Henry con un sorriso a trentadue denti, ed Emma assottigliò le palpebre, chiedendosi come mai avesse scelto quel preciso momento per fare la propria comparsa.
Il volto di Killian si illuminò. «Perfetto.» Lanciò un’ultima occhiata a Emma, del tutto innocente, questa volta. «Vuoi venire con noi?»
No, no. Sarebbe stato troppo, e sarebbe stato estremamente imbarazzante. Killian ed Henry avevano bisogno di legare, lei sarebbe stata solo il terzo incomodo. Quindi forzò un sorriso. «No, credo che Netflix potrà adeguatamente tenermi compagnia. Ma ti voglio a casa per le nove, domani hai scuola,» stabilì con un’occhiata seria a entrambi. Dio, sembrava proprio la scena di una famiglia perfetta in cui padre e figlio andavano a divertirsi. Non che fosse lontana dalla verità, ma non sapeva se fosse una cosa che la facesse gioire o meno.
«Signorsì, sceriffo Swan!» disse Henry abbracciandola e accettando il bacio che gli diede sulla fronte prima di dirigersi verso la porta.
Killian la guardò un’ultima volta, un timido sorriso sulle labbra. «Non preoccuparti, Swan, te lo riporterò sano e salvo a casa.»
Emma deglutì. Casa. Era da molto che non si chiedeva perché ogni volta che pronunciava quella parola sentisse un buco dentro di sé, una parte mancante. Eppure, in quel momento, si domandò perché, nel sentirla pronunciare da Killian, quella voragine sembrava essere scomparsa.
Un naturale sorriso le incurvò le labbra. «Ne sono certa,» mormorò prima che i due uscissero, appoggiata contro lo stipite.
Quelle parole avevano colpito lui tanto quanto lei, perché nonostante avesse tentato di tenerlo in tutti i modi lontano da sé e da Henry, Emma aveva realizzato che si fidava ancora di lui.
Si lasciò scivolare contro il muro fino a che non fu seduta sul pavimento, le ginocchia premute contro il petto, chiedendosi se si fidasse abbastanza di se stessa e della terribile decisione che aveva preso lasciandolo rientrare nella propria vita.

 
▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼
 
D'accordo, dopo la convention a Versailles che mi ha fatto impazzire di gelosia - e impazzire in generale - per due giorni, ecco qui il quinto capitolo. C'è ancora molto da dire sul passato di Killian e su quello che è effettivamente successo dieci anni prima, e parte verrà ispezionato, spero, nel prossimo capitolo che non ho ancora avuto modo di iniziare - la bellezza di andare all'università e di dover andare avanti con gli esami di continuo.
Come avete visto, Emma inizia a capire di aver sbagliato, se non del tutto, almeno in parte, e David - ah, David! - vede quanto la cosa la faccia soffrire. Introdurrò Mary Margaret più avanti (capitolo setto od otto, dipende), e non so se vi piacerà, a voi la scelta xD
Anyway, non so quando aggiornerò, forse metterò anche storie nuove, forse, no - spero di no, ma di sicuro ne scriverò. A luglio ho lo stage, quindi di scrivere non credo proprio se ne parli, purtroppo, se non proprio trafiletti.
Spero comunque che il capitolo vi sia piaciuto - Colin + Irlanda + Buffy + il mio amore per l'anello di Claddagh sono una combinazione infernale muahahahah - e spero di sentirvi in tanti v.v
Alla prossima e grazie mille di tutto il supporto che mi date,
blue

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***



Capitolo 6
 
Killian era ancora scombussolato dalla vista dell’anello al dito di Emma per realizzare che Henry lo stava aspettando con le braccia incrociate al petto, un sopracciglio alzato e un’espressione che gli ricordava fin troppo bene la propria.
Sentendo le punte delle orecchie ardergli dall’imbarazzo, chinò il capo, guardandolo da sotto le ciglia. «Chiedo scusa, ragazzino,» borbottò quasi fra sé e lo affiancò, alzando la mano per scompigliargli i capelli. Non erano neri come i suoi, un po’ più chiari, e per un attimo si chiese come si era sentita Emma per tutti quegli anni con una sua copia quasi esatta.
Henry gli regalò un sorriso tutto fossette e gli si strinse il cuore al pensiero di tutto ciò che si era perso in quegli anni. Ancora non riusciva a capire come mai Emma continuasse a pensare che l’avesse lasciata.
Certo, lui era uscito di casa sbattendo la porta un po’ troppo forte, stufo delle accuse di Emma in merito a quella faccenda, anche se ora aveva un’idea di cosa – o chi – doveva ringraziare. Non che facesse una colpa a Henry per aver reso sua madre un po’ lunatica nei primi mesi della gravidanza, gravidanza che lui aveva totalmente mancato.
«Allora, che lavoro fai?» gli chiese Henry mentre si dirigevano verso Main Street.
«Sono un architetto navale, progetto yacht e, di tanto in tanto, anche qualche nave da crociera, ma quelle sono piuttosto rare, le lascio a Tink, in quello è più brava di me.»
«Forte!» esclamò Henry con una luce negli occhi che fece gonfiare il petto di Killian d’orgoglio, era fiero di poter essere fonte di ammirazione per suo figlio. «E lavori in proprio o per uno studio?»
Ah, ora viene fuori la verità. «Sono socio di uno studio d’architettura di Boston,» disse lentamente, lasciando che Henry traesse da sé le conclusioni.
«Quindi,» fece in tono pacato Henry, «potresti lavorare dovunque tu voglia, giusto?» Era difficile non vedere la speranza che il bambino cercava di scacciare suo malgrado dal proprio viso.
Tuttavia, Killian non voleva dargli false speranze, non quando non aveva ancora parlato davvero con Emma, né con Tink, che comunque l’avrebbe appoggiato in tutto. «Potrei, sì, ma prima devo parlare con tua madre, oltre che con i miei soci. Avendo uno studio anche a New York, ho delle responsabilità anche lì, perciò non posso prometterti nulla. Tuttavia,» disse fermandolo e inginocchiandosi davanti a lui sul marciapiede per incrociare il suo sguardo, «ti prometto che farò di tutto per essere qui la maggior parte del tempo. Ora che ho trovato te e tua madre non ho alcuna intenzione di lasciarvi andare.»
Gli occhi di Henry brillarono ancora di più. «Significa che hai intenzione di conquistarla di nuovo?»
Questo fece ridacchiare Killian che, rialzandosi, strinse Henry a sé con un braccio attorno alle spalle. «Devi sapere, ragazzino, che quando ho conosciuto tua madre ero estremamente timido, e ci ho messo moltissimo a trovare il coraggio per chiederle di uscire. Però è anche vero che le ho promesso che avrei vinto il suo cuore, e così ho fatto. Ora, non vorrei spingere troppo la mia fortuna, ma oserei dire che in parte è ancora mio.»
«Su questo siamo d’accordo,» confermò Henry. «Non ha mai frequentato nessuno da quando sono nato, nessun ragazzo, anche se in città ci provavano in molti con lei, soprattutto il figlio del signor Gold, Neal.»
«Neal Gold? Figlio di papà che pensa di avere la città ai suoi piedi? Già, me ne ha parlato,» sibilò Killian, per nulla sorpreso dalla punta di gelosia che sapeva aveva assunto la sua voce. Dentro di sé si sentiva ribollire il sangue al pensiero di Emma fra le braccia di qualcun altro. Non che lui fosse stato un santo in quegli ultimi anni dopo la riabilitazione, ma nessuna aveva significato nulla, nessuna era mai stata Emma, e ogni volta che se ne andava dai loro appartamenti prima di correre il rischio di addormentarsi, si sentiva come un traditore nei suoi confronti.
«Già,» disse Henry storcendo il naso, evidentemente nemmeno lui pensava che quel tipo fosse simpatico. Anche perché Emma e lui erano un pacchetto completo, non avrebbero potuto essere separati così facilmente dai desideri di un maledetto coglione che voleva solo entrare nelle mutande di lei.
Raggiunsero la tavola calda di Granny dove lui aveva prenotato una stanza, rifiutando gentilmente una stanza dal sindaco, non voleva imporsi anche a lei oltre che a tutto il resto della città che non solo lo guardava con un piglio di diffidenza, ma anche con odio perché ormai doveva essersi diffusa la notizia che era lui la causa della sofferenza di uno dei loro poliziotti.
Killian lasciò la presa su Henry, permettendogli di aprire la porta della tavola calda, facendo tintinnare la campanella. Non trovava possibile, inoltre, cancellare il sorriso che aveva sulle labbra – non che avesse intenzione di farlo, assolutamente.
«Hey, Ruby!» salutò Henry la cameriera dietro il bancone prima di dirigersi verso un tavolo vuoto che probabilmente ormai recava inciso il suo nome.
«Henry David Swan,» esclamò Ruby in risposta, correndo – per quanto fosse possibile sui suoi tacchi vertiginosi, anche se quella ragazza sembrava sfidare la forza di gravità senza problema – a sedersi accanto al bambino, «dovrei bandirti da qui fino a nuovo ordine per lo spavento che hai fatto prendere a tua madre e a me, per non parlare di David e Mary Margaret! E a Granny non hai pensato?»
Le parole di Ruby ebbero l’effetto sperato, perché Henry arrossì come un peperone, e Killian notò con orgoglio che le orecchie leggermente a punta del bambino si erano tinte di un rosso incandescente.
«Scusa, zia Ruby,» disse Henry mordendosi il labbro inferiore e guardando la donna con i suoi occhi da cucciolo da sotto le ciglia lunghe e scure.
Anche se non gliel’ho insegnato personalmente, questo l’ha decisamente preso da me¸ pensò Killian, e poté giurare che il suo petto sarebbe scoppiato se quel bambino non avesse smesso di inorgoglirlo. Che scoppiasse pure, anzi, quello era suo figlio, se non doveva scoppiare per lui, per chi altri, allora?
Ruby sbuffò, scuotendo il capo e stringendo Henry in un abbraccio soffocante. «Sei fortunato che ti voglia bene, mastichino,» borbottò premendogli le labbra rosse sulla testa. Lo strinse nuovamente con forza, facendolo rantolare appena, prima di staccarsi da lui e puntare lo sguardo su Killian. Aggrottò le sopracciglia, inclinando il capo di lato, evidentemente confusa nel non vedere Emma. «E tu chi saresti, di grazia?»
Sotto a quello sguardo, Killian si sentì quasi sprofondare, evidentemente qualsiasi risposta sarebbe stata sbagliata dato che probabilmente gli sarebbe saltato alla gola in ogni caso. «Killian Jones,» rispose sostenendo il suo sguardo, dopotutto non si tirava mai indietro davanti a una sfida. Non che quella lo fosse, voleva semplicemente cenare con suo figlio, non gli importava che cosa pensassero gli altri.
«Killian… Jones,» mormorò quasi fra sé Ruby, e Killian si accorse di come la mano di lei sulla spalla di Henry si strinse con forza. Quasi dal nulla, sul volto della ragazza comparve un sorriso, niente a che vedere con un sorriso normale, nient’affatto, anzi, sembrava più qualcosa di ferale e animalesco, da lupo. Killian sentì un brivido corrergli lungo la schiena. «Beh, accomodati pure, vado a prendere i vostri menu.»
Per nulla convinto da quelle parole, Killian si sedette esitante sul divanetto davanti a Henry, aspettando che Ruby se ne andasse prima di aprire bocca. «Perché ho la sensazione che non abbia alcuna intenzione di tornare coi menu?»
Henry ridacchiò, appoggiando i gomiti sul tavolo e il mento sulle mani. «Zia Ruby è sempre così, ha la capacità di far paura a tutti, ma sotto sotto è buona. Non dirle che te l’ho detto, però, o davvero mi bandisce da qui.»
«Non sia mai,» rispose Killian con finto terrore, portandosi una mano al cuore. «Allora, Henry, che cosa ti piace fare nel…»
Venne interrotto improvvisamente da delle urla provenienti da quella che probabilmente era la cucina o una stanza lì accanto, urla di due donne che discutevano animatamente. Stava per aprire bocca e rivolgersi nuovamente a Henry quando Ruby emerse da oltre il bancone, diretta a passo di marcia verso di loro.
E con una balestra in mano.
«Hai dieci secondi per dirmi che cosa diamine ci fai qui prima che ti pianti una freccia in mezzo agli occhi. E fidati, ho una mira eccellentissima.»
«Zia Ruby…» iniziò Henry, cautamente, ma lei non sembrava intenzionata ad ascoltarlo.
«Uno…»
«Rebecca Liza Lucas, metti giù quella balestra!» La voce di Granny rimbombò nella tavola calda, ma la ragazza non aveva alcuna intenzione di arrendersi alla nonnina.
«Due…»
Killian, però, passato lo shock iniziale, sapeva che non gli avrebbe fatto alcunché. Non con Henry lì presente, perlomeno. «Sono qui per conoscere Henry,» disse semplicemente. Avrebbe potuto inventare chissà quale storia epica, ma invece preferì la pura verità.
«Conoscerlo e basta o portarlo con te?» La domanda lo colpì, facendogli più male di quanto potesse mai fare una freccia in mezzo agli occhi. La sua espressione si fece dura, quasi rabbiosa, quel tanto almeno da far vacillare lo sguardo di Ruby.
«Non farei mai una cosa del genere a Emma o Henry.»
«Allora te ne andrai come hai fatto dieci anni fa?» ringhiò Ruby, la presa ancora una vola salda sulla balestra.
Pur non essendo orgoglioso di come fossero andate le cose dieci anni prima, lo infastidiva il fatto che tutti pensassero che se ne fosse semplicemente andato, abbandonando Emma. Se avessero saputo, forse, lo avrebbero guardato in modo diverso. Inspirò a fondo, consapevole che la prima persona con cui doveva assolutamente parlare della faccenda era proprio Emma. Le doveva una spiegazione, oltre che le sue più sentite scuse per non aver lottato di più per loro e allora, forse, avrebbe capito che non era stata sua intenzione abbandonare né lei né loro figlio.
Spostando lo sguardo su Henry, il quale lo stava guardando con la speranza che caratterizzava i bambini che si sentivano abbandonati, scosse fermamente il capo. «Assolutamente no.» Dio, avrebbe fatto muovere tutti gli uffici di Boston e New York nel Maine in quello stesso istante se gli avesse fatto guadagnare un altro di quei sorrisi di Henry, pieno di amore e felicità, che ora il bambino aveva dipinto sul viso.
Senza esitazione, Henry si alzò, scostando Ruby con una spinta non proprio gentile e girò attorno al tavolo, gettando le braccia al collo di Killian e togliendogli il respiro. Sapeva che era troppo presto per tentare di conquistare Emma, ma al momento voleva concentrarsi su suo figlio, scoprire tutto ciò che si era perso in quegli anni. Poi, col tempo, avrebbe messo in atto il piano per riconquistare la donna che amava, e qualcosa gli diceva che il ragazzino che stava stringendo a sé come se fosse la cosa più preziosa al mondo – e lo era – lo avrebbe aiutato.
Evidentemente soddisfatta, Ruby mise la sicura alla balestra – cosa che fece rilassare non poco Killian – e se ne tornò canticchiando verso Granny, che la guardava con un misto di orgoglio e rimprovero. Sapeva di non averla convinta del tutto, ma in quel momento aveva suo figlio tra le braccia, e quello era un momento che meritava tutta la sua attenzione.
Gli appoggiò dolcemente le labbra sul capo, guadagnandosi un’ultima stretta prima che Henry sciogliesse l’abbraccio e tornasse al proprio posto. La maggior parte degli sguardi degli altri clienti era ancora su di loro, ma l’atmosfera si era rilassata abbastanza da rendere la cena piacevole.
«Il nonno ti ha dato un pugno, vero?» domandò Henry inclinando appena la testa di lato, accennando con un vago gesto della mano al livido che si stava lentamente formando sullo zigomo di Killian. Non sembrava deliziato dall’idea, quanto più deluso dal comportamento del nonno. Tuttavia, Killian sapeva di meritarselo.
«Niente che io non meriti,» lo tranquillizzò Killian, notando con la coda dell’occhio che Ruby stava tornando verso di loro, questa volta davvero con in mano i menu. Li lasciò sul tavolo senza dire nulla, le bastò un’occhiataccia nella sua direzione, completa diffidenza e velata minaccia di morte.
Henry fece una smorfia. «Immagino sia così, ma una volta ho dato un pugno a un compagno di classe che non finiva di prendermi in giro e si è arrabbiato anche più di mamma.»
A Killian si strinse il cuore in una morsa dolorosa al pensiero di suo figlio che faceva a botte per difendersi, per il fatto che lui fosse stato assente e non avesse potuto assumere il ruolo di padre arrabbiato per come aveva affrontato la faccenda ma che segretamente era orgoglioso della forza di suo figlio. Schiarendosi la voce, disse: «Sono sicuro che se lo sia meritato, anche se non posso dire di approvare completamente il metodo.» Gli fece l’occhiolino, e vederlo ghignare esattamente come lui lo fece scoppiare ancora un’altra volta d’orgoglio. Aveva dieci anni d’orgoglio da recuperare, e non se ne sarebbe fatto mancare nessuno.
«Lo ha detto anche mamma – e anche il nonno. La nonna invece non ha apprezzato particolarmente,» borbottò Henry guardando distrattamente il menu, dopotutto lo sapeva a memoria e aveva vissuto abbastanza a Storybrooke per avere un suo “solito”.
Killian strinse le labbra, e se anche Henry lo notò, non vi fece cenno. «E a te cosa piace fare nel tempo libero?» gli chiese invece, appoggiandosi coi gomiti sul tavolo, sperando che questa volta una pazza furiosa con la balestra non li interrompesse.
Henry scrollò le spalle, come se la cosa non fosse di grande importanza, ma il suo tono di voce tradiva la gioia nel raccontare i suoi passatempi preferiti a qualcuno cui interessassero davvero, a qualcuno come suo padre. «Mi piace molto leggere, mamma non sa quasi più dove mettere i libri, ma si rifiuta di prendermi un Kindle, dice che altrimenti mi rovinerò la vista come lei.» A quello, Killian ridacchiò, ricordando con amore quanto fosse bellissima con gli occhiali neri sul naso. «E poi mi piacciono i misteri, come le caccie al tesoro…»
«Oppure come esplorare le miniere senza nessuno a supervisionarti con tua madre che per poco non aveva un infarto?» li interruppe Ruby, le labbra rosse strette in una linea di disapprovazione.
La testa di Killian scattò verso di lei e poi verso Henry, il quale aveva incassato il capo tra le spalle, nel misero tentativo di scomparire. «Hai fatto cosa?» domandò incredulo, ammirando in parte la sua temerarietà e castigando se stesso ancora una volta, perché non era stato lì a impedirglielo, o ad accompagnarlo se proprio aveva voglia di farlo. Strinse i pugni sulle cosce.
«Non è stata colpa della mamma!» esclamò Henry, come in preda al panico, temendo forse che questo potesse causare un’altra frattura fra loro.
Istantaneamente, lo sguardo di Killian si fece più dolce, e vide suo figlio rilassarsi ulteriormente. «Non credo che Emma possa essere stata così spericolata da farti correre un rischio del genere, Henry; se è anche un briciolo della persona che ricordo, l’ultima cosa che vorrebbe fare è mettere in pericolo qualcuno che ama.»
Udì Ruby grugnire, scettica. «Già, lei almeno non abbandonerebbe qualcuno.»
Chiudendo un attimo gli occhi per calmarsi, riaprì le palpebre solo per socchiuderle quando fissò la mora con uno sguardo tagliente. «Senti, dolcezza, ciò che è successo riguarda me ed Emma, nessun altro, quindi ti prego, perché invece di stare qui a fare il cane da guardia a mio figlio, non prendi le nostre ordinazioni e continui a fare il tuo lavoro?»
Shockata, Ruby non ci mise molto a socchiudere a sua volta le palpebre e a chinarsi su di lui. «Oh, no, biscottino, forse non hai capito, tu hai fatto soffrire la mia migliore amica, e non la passerai liscia, neanche se mai penserà di perdonarti, perché non lo farà mai
Furono solo i singulti di Henry che li strapparono da quella sfida, Ruby ben più sconvolta di Killian, perché da quando era nato, Henry non aveva mai pianto in sua presenza.
Henry si alzò e si diresse a passo veloce verso il bagno, le mani strette a pugno lungo i fianchi.
Scostandola con poca grazia dal proprio cammino, Killian fece per seguire suo figlio, girando appena sui tacchi per guardarla male un’altra volta. «Sei talmente tanto desiderosa di proteggere Emma che non hai pensato a ciò che ha fatto Henry per trovare me. Se l’ha fatto, è perché vuole conoscermi, e nella sua mente credo abbia visto un lieto fine per noi tre. Forse non sai molto sull’abbandono, tesoro, ma anche questo ne è un esempio. Se avessi saputo di Henry, avrei fatto pressioni, ma sono stato cacciato, ed è solo grazie a lui che sono qui, grazie a un bambino di dieci anni che vuole conoscere me, e che è venuto fino a Boston da solo per farlo. Se per te questo non è abbastanza per capire che cosa voglia davvero Henry, allora credo che questi dieci anni che hai speso a fare la zia non siano bastati per conoscerlo davvero.»
Con quelle parole, Killian si diresse a grandi passi verso il bagno degli uomini, ora libero dalla rabbia passeggera che aveva dissipato, concentrato con ogni fibra del suo essere su suo figlio.
Dal canto suo, Ruby rimase, forse per la prima volta nella sua vita – o seconda da quando Emma le aveva detto di essere incinta – senza parole.
Certo lei aveva perso i genitori da piccola ed era stata cresciuta da Granny, piena di amici dove Henry non ne aveva molti, ma soprattutto non le era mai stato fatto mancare nulla, e poche volte sentiva la mancanza dei suoi. Perciò sì, avrebbe potuto capire come si sentiva Henry, ma evidentemente non era riuscita a essere la zia perfetta, solo la zia divertente, e quello le fece male.
Ma non era solo quello, no, c’era anche una frase che l’aveva colpita nel discorso di Killian, a parte quelle che la insultavano non proprio velatamente e che facevano intuire molto su di lui. Sono stato cacciato, così ha detto, pensò aggrottando le sopracciglia scure. Questo voleva dire che era già stato a Storybrooke, ma che non aveva visto né Emma né Henry.
Confusa, andò in cucina da Granny. «Nonna, tu… hai mai visto quell’uomo?» domandò incredula delle sue stesse parole. Era possibile che lo avesse già visto, ma di certo se ne sarebbe ricordata, uno così non si dimenticava facilmente, e anzi sarebbe stato preda di qualche suo doppio senso.
Granny non alzò gli occhi da dove stava creando un altro strato della sua ottima lasagna per la serata. «Parli del tipo che stavi per uccidere prima? Beh, se è lui quello che ho visto sei anni fa, allora è messo decisamente meglio, niente più viso scavato e aloni neri sotto gli occhi. Più muscoloso, anche.»
Un brivido di gelo percorse la schiena di Ruby, per nulla contenta di dove stava andando a parare. «Sei anni fa? Ma… cosa ti ha chiesto?»
L’anziana donna sbuffò, guardandola con un sopracciglio arcuato. «E io come faccio a ricordarmelo?»
Per tutta risposta, Ruby arcuò a sua volta un sopracciglio, facendo sospirare sua nonna.
«D’accordo, mi ha chiesto di Emma, e io l’ho mandato a casa sua. Con quel faccino e quegli occhi supplicanti non potevo dirgli di no.»
«Ma Emma sei anni fa viveva ancora con i suoi.»
«Esatto.»
«Questo vuol dire che o ha visto David, oppure Mary Margaret.»
Merda. Merda, merda, merda. Se aveva ragione, l’unica capace di ferire un uomo con la propria lingua tagliente, invece che accettare di ascoltare delle spiegazioni anche dopo avergli dato un pugno in faccia, era Mary Margaret.
E se Mary Margaret aveva parlato con Killian, non c’erano dubbi che avesse avuto il desiderio di stare lontano da Storybrooke per sempre, tornando solo perché ciò che la donna in questione gli aveva detto si era rivelato tutto falso.
Senza dire una parola, appese il grembiule al gancio e, infilandosi il cappotto, lasciò di volata la tavola calda. Doveva parlare con Emma, e doveva farlo prima che scoppiasse la Terza Guerra Mondiale.
Beh, quella è probabile che scoppi comunque quando lo verrà a sapere, pensò Ruby, domandandosi perché Mary Margaret era stata così crudele da voler impedire alla sua stessa figlia di avere il proprio lieto fine.

 
▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼
 
Mi vergogno per quanto tempo è passato, mi vergogno davvero, ma tra esami e blocco dello scrittore per questa fic - anche se so come devo andare avanti - non pensavo fosse passato così tanto.
Allora, due cosette: Killian non è stato un santo, e non lo è stata nemmeno Emma, anche se lo spiegherò a tempo debito. Certo, potevano rimanere "fedeli", ma si erano "lasciati" da dieci anni, ed Emma non ha mai frequentato nessuno, così come non l'ha fatto Killian. Avventure di una notte, decisamente IC per entrambi, ma come ho sottolineato, sembrava sempre di fare un torto all'altro. Sapevo fin dall'inizio che la colpa sarebbe stata di Mary Margaret - perché Ruby può essere l'istigatrice, ma anche lei ha avuto le proprie batoste - ma Mary Margaret, beh, c'è chi la dipinge con la madre con la puzza sotto il naso, che non vuole Killian con Emma perché è sempre stata Team Neal - a parte dopo la 5° stagione, ma, insomma, è stata la prima a spingere Emma verso Neal nella 3° quando non sapeva cosa le aveva fatto. Spiegherò tutto nel prossimo capitolo, forse, ma non l'ho ancora scritto e non so quando arriverà.
Spero di sentirvi in molti, e grazie mille per continuare a rimanere qui con me e con questa fic ♥
bluerose

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3320354