Even Lovers Drown

di Curiosity
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** All The Pain A Man Can Take ***
Capitolo 2: *** How A Broken Heart Still Breaks ***
Capitolo 3: *** I'd Kill To Take Your Place ***
Capitolo 4: *** Tell Me A Lie, Tell Me You Don't Care ***
Capitolo 5: *** I'll Die If You Deny Me ***
Capitolo 6: *** You've Run So Long, You've Run So Far ***
Capitolo 7: *** The Hangman's Knot ***



Capitolo 1
*** All The Pain A Man Can Take ***


Note: Il titolo della ff deriva dalla poesia di Yeats “A mermaid found a swimming lad”. Trovo che l’idea alla base dell’amore della sirena (‘vedo questa cosa che mi piace e la faccio mia senza pensare che così facendo la ucciderò’) descriva molto bene il modo in cui Hannibal ama Will. I titoli dei capitoli sono presi da “Sadist” degli Stone Sour, e le citazioni all’inizio di ognuno da Cime Tempestose di Emily Brontë.

Avvertenze: questa ff mi è uscita molto dark. Si fa menzione di depressione, abbandono e pensieri suicidi, quindi se sapete di essere sensibili a questi argomenti vi sconsiglio di leggere.

 

Even Lovers Drown

di Curiosity

1. All The Pain A Man Can Take

“Be with me always--take any form--drive me mad.

Only do not leave me in this abyss, where I cannot find you!

Oh, God! It is unutterable! I cannot live without my life! I cannot live without my soul! “   

                                                                                                        (Heathcliff – Wuthering Heights)

 

Era strano. Dall’alba dei tempi gli esseri umani temevano il momento della morte. L’idea di scomparire per sempre atterriva tutti, tanto che era difficile che se ne parlasse, e anche quando accadeva lo si faceva sempre a bassa voce, come per non farsi sentire. Come per non incutere timore.

Per qualche minuto, durante la corsa in ospedale, lui era morto. Nulla di irreparabile, avevano detto i dottori, giusto una manciata di secondi. Il suo cuore si era fermato e lui aveva cessato di esistere, nient’altro che una sacca di carne e organi e sangue, anche se quello lo aveva versato quasi tutto sull’immacolato pavimento di casa Lecter.

C’erano volute due trasfusioni di emoglobina e un defibrillatore caricato al massimo per acchiapparlo per i capelli e riportarlo in vita. Da quando si era svegliato, più di una volta medici e infermieri gli avevano fatto i complimenti perché aveva lottato. Aveva lottato e aveva riaperto gli occhi, debole, tremante, confuso ma vivo. Will non li aveva corretti, ma non era andata così. Lui si era semplicemente lasciato andare alle acque calme del suo fiume, facendosi cullare verso il sonno come dall’abbraccio di una madre.

Era stato pacifico. Era stato semplice.

Will si chiedeva perché nessuno gli avesse detto che sopravvivere sarebbe stato molto peggio.

*

L’odore del disinfettante che impregnava l’aria era insopportabile. Il bianco accecante delle pareti era insopportabile. Essere rinchiuso nella sua stessa pelle era insopportabile, ma a quello non vi era rimedio, almeno per il momento.

Gli avevano detto che il periodo di convalescenza sarebbe stato lungo. La lama che gli aveva perforato il ventre gli aveva fatto fuori un pezzo di intestino, e se era vivo secondo i medici era solo per miracolo. Will avrebbe loro riso in faccia se solo ne avesse avuto la forza. Non esisteva alcun miracolo, solo il disegno meticoloso di un uomo che gli aveva portato via ogni cosa tranne una, l’unica che avrebbe potuto donargli la pace dell’oblio. L’unica che a togliergliela a quel punto sarebbe stato un gesto di pietà.

Ma no, ovviamente.

Il suo non era un dio misericordioso.

Will non ricordava con chiarezza cosa fosse successo dopo che Hannibal lo aveva lasciato andare e lui era scivolato a terra. Sapeva di essere arrancato verso Abigail per tentare di fermare il torrente cremisi che le schizzava dal collo squarciato, quello sì. Il suo ultimo ricordo di lei era un fermo immagine dei suoi occhi azzurri spalancati mentre la ragazza annegava nel proprio sangue. Sapeva che avrebbe dovuto farvi i conti finché avesse avuto vita. L’aveva avuta di nuovo per un attimo, e poi gli era stata strappata via. Non aveva nemmeno chiesto sue notizie ai medici. Sapeva che era morta con la stessa certezza con cui sapeva che un pezzo del suo cuore era morto con lei.

Non ricordava nemmeno il momento in cui Hannibal se n’era andato. All’improvviso si era ritrovato da solo sul pavimento della cucina, un cadavere accanto a lui e la presa stretta al ventre per arginare la vita che gli spillava vermiglia tra le mani. Aveva accuratamente evitato di soffermarsi sul pensiero che molto probabilmente non lo avrebbe mai più rivisto. Si era tenuto ben alla larga dalla finalità di quella considerazione, come camminando in punta di piedi intorno ai cocci di una tazzina frantumata per non ferirsi.

Per coerenza non gli sarebbe dovuto importare. Era stata sua l’idea di fare il doppiogioco, sua l’idea di fargli credere che lui fosse dalla sua parte, che volesse realmente scappare con lui. Ciò che Will aveva voluto più di ogni altra cosa era la vendetta, si diceva, anche se forse verso la fine le sue intenzioni era cambiate. Se non avesse avvertito Hannibal che l’FBI stava arrivando forse quella carneficina si sarebbe potuta evitare. Se non lo avesse mai tradito in primo luogo, Abigail sarebbe stata ancora viva e a quell’ora si sarebbero trovati in Europa, insieme. Il vuoto allo stomaco che gli dava quella consapevolezza era pari a quello che gli aveva dato incrociare lo sguardo ferito di Hannibal poco prima che lo accoltellasse. Poco prima che se ne andasse.

Will era quasi riconoscente che le dosi di antidolorifici fossero abbastanza potenti da farlo fluttuare nel nulla per la maggior parte del tempo, allontanandolo da quei pensieri.

Non era pronto per farvi i conti, gli diceva la sua parte razionale.

Non lo sarai mai, rispondeva il suo cuore.

*

La processione di visitatori che si avvicendarono uno dopo l'altro al suo capezzale gli ricordò quelle dei cortei funebri, quando tutti andavano a dare il loro ultimo saluto al defunto. Medici, per lo più, ma anche conoscenti, quei pochi che non si trovavano a loro volta in un letto di ospedale. Price e Zeller gli portarono dei fiori, cercando di farlo sorridere. Kade Purnell dell’FBI si presentò con un affettato augurio di guarigione da parte del bureau, i suoi reali pensieri facilmente leggibili dietro al suo sguardo freddo – non ho pietà per te, Graham, hai giocato col fuoco e hai trascinato l’intera FBI con te, e se solo non fosse per la mancanza di prove ti sbatterei in una cella e getterei via la chiave perché so che sei esattamente come il mostro che non sei riuscito a catturare - e Will avrebbe voluto avere un interruttore che gli permettesse di spegnere la propria empatia.

Anche in quello il suo dio non era stato misericordioso.

I primi giorni passarono così, in un avvicendarsi di eventi di poco conto e di sogni agitati, e Will non era mai del tutto sicuro di essere completamente sveglio. Il mondo era una serie di impressioni veloci che si muovevano intorno a lui, o forse era lui che era un punto immobile in mezzo a quel marasma di vita. Un sopravvissuto, un redivivo, qualcuno che non si sarebbe dovuto trovare lì.

Dopo qualche tempo lo piazzarono su una sedia a rotelle. L’infermiera che lo accudiva quel giorno gli disse che se voleva poteva andare a far visita a Jack e Alana, ricoverati a loro volta su un altro piano. Lo sguardo che Will le rivolse le fece congelare il sorriso sulle labbra, e lui si sentì subito in colpa. Non aveva niente contro di lei – anonima, sulla trentina, un interesse per la medicina che era stato tarpato sul nascere dalla necessità di avere uno stipendio fisso e le aveva fatto abbandonare il sogno dell’università per infermieristica, lavoro che per questo amava e odiava allo stesso tempo – e non era certo colpa sua se avrebbe preferito farsi amputare un arto piuttosto che rivederli dopo quello che era successo.

Era difficile districare la matassa di sentimenti che provava nei loro confronti. Senso di colpa. Dispiacere. Risentimento. Voglia di urlare loro in faccia che se era successo quello che era successo era colpa loro, che se non lo avessero mai messo nella stessa stanza con Hannibal Lecter la sua vita non sarebbe mai caduta così irrimediabilmente a pezzi.

Alla fine lasciò che lo accompagnassero da Jack. Quando lo vide l’uomo era a malapena sveglio per via dei sedativi (anche lui si era salvato solo per il rotto della cuffia), ma i suoi occhi si fissarono su di lui appena lo scorsero. Non si dissero nulla, perché non c’era nulla da dire. Will restò con lui una decina di minuti, poi gli posò una mano sulla spalla e lo lasciò a riposare, spingendo la propria sedia a rotelle fino al reparto in cui si trovava Alana.

Con lei non andò così liscia.

“Hey”, la salutò dalla soglia della sua stanza.

“Hey”, rispose lei, voltando la testa quel poco che le permetteva il busto integrale studiato per non farle sbriciolare ulteriormente la schiena.

Will spinse la sedia a rotelle finché si trovò accanto al suo letto. Fissò la sua forma supina, tenuta insieme da barre metalliche e viti nella speranza che il suo corpo fosse in grado di ricostruirsi dopo la caduta, e si stupì a dover reprimere l’infantile impulso di uscirsene con un ‘Te l’avevo detto’.

“Belle imbragature”, disse tentando di buttarla sul ridere per non cedere alla voglia di essere cattivo.

“Le fanno anche in rosa, ma ho pensato che il bianco si abbina meglio”, scherzò lei a sua volta, senza che il sorriso le raggiungesse gli occhi.

Dopo qualche attimo di esitazione Will le prese la mano.

“Camminerai di nuovo?”

“Con un bastone.”

“Frederick sarà terribilmente offeso di non avere più l’esclusiva.”

Questo la fece sorridere in maniera più sincera, ma Will vide che qualche pensiero le si agitava negli occhi, ed era piuttosto sicuro di sapere di cosa si trattasse.

“Will…”

“No, Alana.”

“Will, io devo chiederti scusa.”

Will emise una risatina nervosa. Non voleva sentirle, le sue scuse. Non aveva alcun diritto di dispiacersi adesso.

“Per cosa? Per non avermi creduto all’inizio o per aver sperato fino all’ultimo che io fossi pazzo così da non dover affrontare il pensiero di aver commesso un madornale errore di giudizio?”

Aveva avuto intenzione di dirlo con tono scherzoso, ma per qualche motivo la voce gli uscì fredda come un pezzo di ghiaccio.

Alana assottigliò le labbra, cercando visibilmente di ignorare la glacialità del suo tono.

“Ho detto che mi dispiace.”

“Oh, lo so che ti dispiace”, disse passandosi nervosamente una mano sul viso. “Hai rifiutato me usando la mia instabilità come scusa per gettarti direttamente tra le braccia dello Squartatore di Chesapeake. Anche io mi dispiacerei.”

Alana distolse lo sguardo, ritraendo la mano dalla sua.

 “So di essere stata cieca…”

“Questo non ti assolve.”

Fu il turno di Alana di scoppiare in una risatina incredula.

“Cos’altro vuoi che ti dica, Will? Congratulazioni, tu avevi ragione e io torto. Questo ti fa sentire meglio?”

“Non mi fa sentire peggio.”

Non sapeva da dove gli stesse uscendo tutta quella cattiveria. Aveva il sospetto che giacesse da mesi nascosta in qualche angolo della sua mente come brace sotto la cenere, attendendo solo il momento in cui sarebbe potuta tornare a bruciare.

Alana tacque, gli occhi lucidi che si posavano ovunque tranne che su di lui.

“Hannibal dovrebbe essere fiero di sé. Sei diventato crudele quanto lui.”

“La terapia del Dr Lecter garantisce sempre ottimi risultati, come tu stessa mi hai più volte assicurato.”

“Ho rischiato di non camminare mai più, Will, non credi che io abbia già pagato abbastanza?”

Will non rispose, perché sapeva che se lo avesse fatto la sua risposta non le sarebbe piaciuta. Non provava alcuna pietà per lei. Non provava nessuna particolare emozione negli ultimi tempi, a dire la verità. Si sentiva come un arto addormentato, come se si aspettasse da un momento all’altro di avvertire le punture di spillo che avrebbero segnalato il suo risveglio, solo che ancora non erano arrivate.

Il silenzio che seguì fu orribilmente teso. Fu Alana a spezzarlo, alla fine, e non per dissipare la tensione.

“L’FBI dice che lo hai avvertito, Will. Hai chiamato Hannibal per avvisarlo che Jack stava arrivando. È così?”

Will scoprì di non avere alcun problema ad ammetterlo.

“E’ così.”

“Perché l’hai fatto?”

Perché non volevo che lo catturaste.

Perché nessuno di voi meritava di prenderlo, ciechi come siete.

Perché il pensiero della sua mente brillante che si deteriora lentamente tra sedativi, elettroshock e le quattro pareti di un manicomio mi era intollerabile.

“Perché speravo che nessuno dovesse morire”, mentì.

Alana chiuse gli occhi e sospirò, come cercando di riprendere le redini di una conversazione che le era abbondantemente sfuggita di mano.

“Non voglio litigare con te, Will. Siamo dei sopravvissuti. Dovremmo farci forza a vicenda, non darci contro l’un l’altro.”

Will deglutì, abbassando gli occhi e sentendosi improvvisamente stanco.

“Non sono del tutto sicuro di essere sopravvissuto”, ammise a bassa voce.

Lo sguardo di Alana si addolcì. Una volta Will avrebbe trovato conforto in quell’espressione, lo sapeva, ma non era più così.

“La parte più difficile dell’andare avanti è non guardarsi indietro”, rispose la donna con tono gentile. “Dobbiamo trovare la forza di lasciarci il passato alle spalle.”

Will annuì meccanicamente.

Lasciò che fosse il pilota automatico a congedarlo da Alana, augurandole di guarire al più presto e facendole promesse di tenersi in contatto che già sapeva che non avrebbe mantenuto.

Fu quando fu nuovamente sulla soglia che lei parlò di nuovo.

“Se n’è andato, Will”, disse la donna alle sue spalle. “Non tornerà.”

Will se ne andò senza voltarsi, temendo l’espressione che l’altra avrebbe potuto leggergli in viso.

*

Una mattina un'infermiera lo trovò con la fasciatura disfatta e le dita che artigliavano la ferita ancora dolorante lungo la sottile linea scura del sangue coagulato, come se volesse strapparsela dalla pelle. O riaprirla. La donna gli disse di smetterla, gli allontanò la mano e gli risistemò le bende. Il giorno dopo lo scoprì a farlo di nuovo, e con gentilezza gli fece presente che se non avesse smesso non ci sarebbe stata alcuna speranza che la cicatrice scomparisse.

Will non smise.

*

Dopo qualche settimana iniziarono a farlo stare in piedi. Prima solo qualche minuto, fermo immobile con una mano sulla ringhiera metallica del letto, giusto per abituarsi a sentire nuovamente il peso sulle gambe. Poi qualche passo in giro per la stanza, e dopo ancora su e giù per il corridoio. Ogni volta l’impresa lo sfiancava come se avesse scalato una montagna, e il resto del giorno lo passava a dormire o, quando non riusciva a evitare che ce lo portassero, di fronte a una delle finestre che davano sul giardino sottostante l’ospedale.

Will osservava i pazienti in fase di recupero passeggiare in mezzo al prato, cosa che gli avevano assicurato gli avrebbe certamente risollevato l’umore, e l’unica cosa che gli veniva da pensare era che il sole non avesse alcun diritto di brillare così luminoso.

“Non lo trovi intollerabile?”, chiese la voce di Abigail accanto a lui.

Will non si voltò a guardarla, per paura che vederla avrebbe potuto illuderlo che fosse realmente lì. Restò a fissare le figure che si aggiravano pacifiche per il giardino. Incuranti. Ignare.

“Il mondo non si è fermato”, osservò a bassa voce, sentendo in bocca il sapore del risentimento.

“E la Terra non ha smesso di girare, e il sole non si è spento. La vita va avanti. Nessuno sa che sono morta. A nessuno importa.”

“A me sì.”

“Tu non conti. Mi avevi già persa una volta.”

“Ed è stato ancora più difficile.”

“Solo perché non c’è qui Hannibal a fingere di leccarti le ferite.”

Will sentì un groppo in gola formarsi alla parola ‘fingere’. Buffo che dell’intera frase quello fosse l’aspetto che lo disturbava di più. Con la coda dell’occhio vide Abigail voltarsi verso di lui, e quando parlò nuovamente il tono della ragazza si era fatto più gentile.

“Anche noi gli manchiamo, Will. Ci ha lasciati alle spalle, ma aveva fatto posto per me e te nella sua vita.”

Will stirò le labbra in quello che sarebbe voluto essere un sorriso, ma che aveva invece tutta l’aria di una smorfia di dolore. Si chiese cosa dicesse il fatto che persino i fantasmi partoriti dalla sua mente avessero pietà di lui.

“Ti ha uccisa davanti ai miei occhi, Abigail.”

“Sì, per punirti. Ma voleva che tu vivessi.”

“Mi ha lasciato a morire.”

“No. Ti ha accoltellato con precisione chirurgica per non ucciderti.”

Will sorrise senza allegria.

“E credi che dovrei ringraziarlo?”

“Credo che dovresti chiederti il perché.”

Will scosse la testa, passandosi una mano sul viso.

“Non voglio saperlo.”

“E cosa vuoi?”

Will fissò lo sguardo sulle chiome degli alberi, mosse appena dal vento.

Ripensò a Hannibal, al momento in cui gli aveva fasciato le nocche doloranti dopo il suo primo omicidio volontario, a come aveva detto di essere fiero di lui. Ripensò ai momenti in cui si era lasciato andare all’illusione che stessero realmente per partire insieme, che sarebbe realmente andato con lui, e al senso di completezza che aveva provato. Niente più necessità di amalgamarsi alle persone intorno a lui, di passare inosservato, di sembrare normale. Hannibal lo aveva accettato in tutto e per tutto. Hannibal gli aveva mostrato lati di sé che da solo non avrebbe mai potuto accettare.

Hannibal se n’era andato, lasciandolo a dissanguarsi sull'elegante pavimento di marmo come la tazzina spezzata che era.

“Vorrei che tu non avessi dovuto pagare per i miei errori”, rispose.

La ragazza inclinò la testa da un lato, in un modo che a Will ricordò orribilmente Hannibal.

“Vorresti essere al mio posto.”

Will scrollò appena le spalle.

“Sarebbe solo giustizia.”

“La vita non è giusta con nessuno. Non c’è alcun motivo per cui avrebbe dovuto esserlo con me, dopo tutto quello che ho fatto.”

Will si voltò finalmente verso di lei, osservando il suo profilo e le piccole lentiggini che il sole faceva spiccare sulle sue guance. Sembrava così reale. Dietro i suoi occhi poteva persino vedere agitarsi pensieri su suo padre, su Hannibal, su ciò che aveva fatto pur di accontentare entrambi. Una bambina persa in un mondo più grande di lei, la cui unica colpa era quella di essersi aggrappata alle persone sbagliate per non affogare.

“Non c’è nulla di sbagliato in te”, disse con enfasi, e Abigail si voltò a guardarlo. “Quello che hai fatto sono state le circostanze a dettarlo, ciò volevi realmente era non restare sola. Non devi vergognarti di temere l’abbandono.”

La ragazza sorrise, sfiorandogli la spalla in una carezza incorporea.

“Nemmeno tu, Will.”

“Will Graham?”

La voce alle sue spalle spezzò quel momento, e Will sbatté le palpebre, ogni traccia di Abigail scomparsa in un baleno. Will si voltò, ancora disorientato, trovando un infermiere sulla porta che lo guardava con aria incerta. Si chiese se lo avesse sentito parlare da solo o se fosse stato tutto nella sua testa. Non era mai sicuro di quanto a fondo lo trascinasse la sua mente quando iniziava a vedere cose che non c’erano.

“Sì?”, chiese dopo essersi schiarito la voce.

“Il primario dice che domani la dimettiamo. Può tornare a casa”, disse, poi esitò un momento. “Tutto a posto?”

Will annuì senza guardarlo negli occhi, non volendo vedere il dubbio nell’espressione nell’altro, il dubbio che ci fosse in lui qualcosa che non andava.

“Tutto a posto”, mentì, tornando a voltarsi verso la finestra e sperando con tutto il cuore che l’infermiere non gli facesse altre domande.

L’uomo restò lì dov’era qualche secondo, quindi sentì i suoi passi allontanarsi e Will tirò un sospiro di sollievo. Rimase alla finestra ancora qualche minuto, quindi andò a preparare le sue cose.

*

Tornare nel mondo reale fu come schiantarsi in acqua dopo essersi lanciati da una scogliera, doloroso e brutale. Mentre lui galleggiava nel torpore ovattato dell’ospedale, fiumi d’inchiostro erano stati scritti a proposito di ciò che era successo, e Will si ritrovò a leggerli tutti con la foga febbrile di un tossicodipendente in astinenza. Sapeva benissimo che gli avrebbe fatto solo male, ma non riusciva a smettere.

Scoprì che Freddie Lounds si era introdotta in ospedale mentre lui era in coma e aveva scattato una foto del suo corpo nudo e spezzato. Will sapeva che se ne avesse avuto la forza le avrebbe volentieri torto il collo, ma non l’aveva, né quella per farle effettivamente del male né quella per curarsi realmente di ciò che aveva fatto. Si chiese se Hannibal leggesse ancora Tattlecrime. Se persino in Europa, in Asia, o in qualunque cazzo di posto fosse andato a infilarsi con la sua psichiatra seguisse ancora ciò che accadeva a Baltimora – a Will – e non appena formulò il pensiero si obbligò a sopprimerlo. Non importava. Non faceva nessuna differenza.

Di tutti gli aggettivi che aveva sentito riferire ad Hannibal da quando era uscito, ‘pazzo’ era quello che più odiava, quello che più di tutti si allontanava dalla realtà, talmente semplicistico e ingenuo che se solo si fosse ricordato ancora come fare si sarebbe messo a ridere. Era come guardare un diamante e vedere solo una delle mille sfaccettature che lo fanno brillare di luce, come osservare un’opera d’arte e soffermarsi sulle singole pennellate e non sulla figura d’insieme.

Tutto ciò che gli altri vedevano quando pensavano a Hannibal era il mostro, il cannibale, il serial killer che aveva mietuto più vittime di quante sarebbero mai stati in grado di accertare, e Will li disprezzava per questo. Non sapevano, non capivano, non vedevano. Erano gli stessi idioti che si erano fatti abbindolare da lui per anni, in fondo, e che avrebbero continuato a farlo se solo Will non avesse a fatica aperto loro gli occhi. Eppure era stato così ovvio, così palese. Avrebbero dovuto capire con chi avevano a che fare dal modo stesso in cui il dottore spesso poneva le sue frasi, angolandole appena in maniera tale da far sì che facessero male, aghi dolorosi al soldo di quella distratta voglia di ferire, di quell'istinto così profondamente parte di lui, della sua mente, di ciò che gli psichiatri chiamano ‘psicopatico’, un essere che non ha in sé altro istinto se non la distruzione.

Ma anche quello non era del tutto esatto, in fin dei conti, se Will fosse stato onesto con se stesso - e l'onestà era un lusso che raramente ormai si concedeva per paura di ciò che avrebbe potuto vedere nel suo riflesso se mai si fosse messo uno specchio di fronte. Nello sguardo di Hannibal aveva visto l’orgoglio del creatore che guarda verso la propria perfetta, magnifica creatura. Aveva visto la fascinazione, l’ammirazione, il coinvolgimento. Le aveva sentite nella sua mente quando si era immedesimato in lui, e una parte di Will aveva gioito lusingata.

Non aveva nemmeno abbastanza parole per insultarsi.

Quando finalmente rientrò in casa, sei settimane dopo aver quasi perso la vita, fu come introdursi nella vita di qualcun altro. Come guardarsi allo specchio e scoprire che il proprio riflesso non è più un’accurata rappresentazione del proprio essere. L’FBI era venuto e se n’era andato, probabilmente in cerca di indizi che Will non aveva circa l’ubicazione di Hannibal, nonostante avessero cercato di non renderlo eccessivamente palese. A Will non importava. La violazione della sua privacy era l’ultima in un lungo elenco di violazioni che aveva subito nell’ultimo periodo.

L’indomani sarebbe andato a prendere i suoi cani al canile dove erano stati lasciati durante la sua convalescenza. Era strano non sentire il familiare ticchettio delle loro unghie sul pavimento di legno, non sentirli uggiolare per richiamare la sua attenzione. Ora come ora la casa era fin troppo vuota.

Will posò le chiavi sul tavolo del soggiorno, guardandosi intorno nell’ambiente semibuio. La sua giacca pendeva dall’attaccapanni. I piatti e i bicchieri giacevano asciutti sul lavandino, impilati e pronti per essere messi via. La sua poltrona preferita era sistemata al suo solito posto di fronte al camino spento, così che la sera potesse leggere comodamente alla luce del fuoco prima di andare a dormire.

Era tutto perfettamente in ordine, pronto perché ricominciasse a vivere.

Era tutto a posto.

Tutto a posto.

Will si tappò la bocca con la mano prima che l'urlo che gli stava nascendo in gola avesse modo di uscire. Se avesse iniziato a gridare sapeva che non avrebbe più smesso. Si sarebbe consumato poco a poco, e di lui non sarebbe rimasto altro che la sua voce straziata, come successe a Eco nel mito, a rimbalzare tra le pareti di quella casa che lo opprimeva con la familiarità di una vita che era stata e non sarebbe più tornata.

Si ritrovò in ginocchio, il petto scosso da un principio di iperventilazione, le dita affondate nella stoffa dei jeans come in cerca di un appiglio qualsiasi. La stanza girò intorno a lui, improvvisamente più buia di quanto non fosse stata poco prima, o forse era semplicemente la sua vista che si anneriva per il panico.

Will si sdraiò a terra in posizione fetale, tentando inutilmente di riprendere il controllo di sé.

Era da solo, nel buio, e non aveva alcuna via d’uscita.

Non sei solo, Will, disse la voce di Hannibal emergendo dai suoi ricordi, una promessa e una minaccia allo stesso tempo, e Will sperò che bastasse coprirsi le orecchie per non sentirlo.

Sono qui accanto a te.

Ma no, ovviamente.

Il suo, d'altronde, non era un dio misericordioso.

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Capitolo 2
*** How A Broken Heart Still Breaks ***


Note: Suppongo siamo tutti d’accordo che il disegno di Hanni col tizio nudo che si vede nella serie sia un chiaro ritratto di Will e del suo fondoschiena, sì? Bene. Ho inserito vari dialoghi tratti dalla serie nelle stanze del Palazzo della Memoria di Hannibal (non ho mai visto la serie in italiano né ho alcuna intenzione di farlo, per cui la traduzione dei dialoghi è fatta da moi e non è quella ufficiale). Il verso da lui citato, “Né voi senza di me né io senza di voi”, è preso dal Lai du Chievrefoil di Marie de France (scritto in un francese medievale poco comprensibile, unico motivo per cui non l’ho inserito in lingua originale). Spero sappiate anche che Hannibal in canon è figlio di Simonetta Sforza, erede delle famiglie Sforza e Visconti, il che lo rende mezzo italiano. La poesia che recita è ovviamente “A Se Stesso” di Leopardi.

Even Lovers Drown

di Curiosity

2. How A Broken Heart Still Breaks

 

“I gave him my heart, and he took and pinched it to death; and flung it back to me.

People feel with their hearts, Ellen.

And since he has destroyed mine, I have not power to feel for him.”

                                                                                              (Catherine Earnshaw – Wuthering Heights)

C’era sempre qualcosa di estremamente familiare nel maneggiare un coltello da cucina. A prescindere da dove ci si trovasse nel mondo e da chi fosse il proprietario dell’utensile in questione, la sensazione di stringerne il manico, di sentirne il peso e il suo perfetto bilanciamento sul palmo erano piacevoli, familiari costanti.

La lama che Hannibal stava maneggiando in quel momento non era delle migliori – costosa ma non professionale, di quelle che si sarebbero potute trovare in un negozio di oggetti casalinghi di medio-alto livello ma non certo tra le attrezzature di uno chef – ma questo non significava che non fosse in grado di fare il suo lavoro con passabile accuratezza. Da ciò che aveva osservato tra gli utensili in dotazione in quella cucina era chiaro che in quella casa non si cucinasse poi così tanto. La squisitezza delle credenze in mogano e la chiara dispendiosità dei fornelli e del frigorifero in acciaio inossidabile erano frutto di una scelta votata più a sottolineare lo status di famiglia altolocata che a fini applicativi. Probabilmente per anni la padella in cui al momento un pezzo di rene umano si stava scottando a fuoco lento non era stata usata per altro se non fare figura. E Hannibal odiava gli sprechi.

Finì di tagliare il sedano e lo aggiunse alle verdure nell’altra padella mentre le note di “Sogno soave e casto” di Donizetti scivolavano leggere per la stanza. Tutto sommato non poteva lamentarsi delle scelte musicali dei padroni di casa. L’appartamento intero rispecchiava i suoi gusti, a dire la verità. Peccato che non vi si sarebbe fermato a lungo. Parigi era una città incantevole e avrebbe voluto potervi restare più di qualche mese, ma non sarebbe stato prudente. Era sempre meglio non restare troppo a lungo nel solito terreno di caccia, ora che non aveva più nello scantinato i mezzi per disfarsi facilmente delle prove. Nonostante lasciare la città in cui aveva passato la giovinezza gli sarebbe dispiaciuto, cucinare gli aveva come al solito migliorato l’umore. Cucinare, e liberare il mondo dell’ennesimo spreco di spazio.

Lasciò il cibo a rosolare a fuoco lento, e intonando a voce bassa il motivo che usciva dal grammofono andò ad aprire l’anta della cantinetta frigo in cui una ventina di bottiglie di ottima qualità facevano bella mostra di sé. Hannibal ne prese una a caso, sollevandola per poterne ispezionare l’etichetta, e la nota che gli usciva dalla gola si interruppe bruscamente. Conosceva quel vino. La porta di una delle stanze del suo Palazzo della Memoria si spalancò senza il suo consenso, e dalla soglia osservò un Will semi-imbarazzato che gli porgeva quella stessa bottiglia, mille vite fa.

“Sicuro di non poter rimanere?”, aveva chiesto, e ancora ricordava quanto si fosse stupito a scoprire che non lo stava dicendo per semplice cortesia. Avrebbe davvero voluto che Will restasse alla sua cena di gala.

“Non credo che sarei di compagnia”, aveva scosso la testa Will, a disagio tra i camerieri del catering che si aggiravano per la cucina.

“Non sono d’accordo”, aveva risposto lui. Will aveva sollevato lo sguardo e per un attimo aveva incrociato i suoi occhi, cosa estremamente rara all’epoca. Era la seconda volta che succedeva, quel giorno. La prima era stata mentre Hannibal richiudeva l’incisione maldestra del killer che tentava di asportare gli organi delle sue vittime senza ucciderle, fallendo ogni volta. Subito dopo che l’FBI l’aveva arrestato, lui era intervenuto per salvare l’ultimo dei suoi “donatori”, suturandone la ferita sull’ambulanza, sotto lo sguardo di Will. I loro occhi si erano incrociati, e non per la prima volta Hannibal aveva desiderato poter scoprire cosa si agitava dietro quei febbrili occhi chiari.

Richiuse la porta prima che il mezzo sorriso imbarazzato di Will potesse impedirgli di fare altrimenti, e con un battito di ciglia tornò al presente. Sistemò nuovamente la bottiglia dove l’aveva trovata, prendendone un’altra e tornando ai fornelli.

Diede gli ultimi tocchi alla sua cena e la impiattò, portandola insieme alla bottiglia in soggiorno dove lo attendeva la tavola splendidamente apparecchiata. Si versò da bere, prendendone un sorso e iniziando a tagliare la carne. Quando la assaggiò sentì che si scioglieva in bocca e annuì soddisfatto, e in quel momento avvertì la porta d’ingresso aprirsi. Continuò a mangiare indisturbato, e quando Mrs Fell fece la sua entrata in sala da pranzo e si accorse che non era suo marito l’uomo seduto al tavolo – nonostante in un certo senso suo marito fosse sul tavolo, o meglio sul piatto – Hannibal sorrise appena.

“Bonsoir.”

*

“Perché Firenze?”, chiese Bedelia, elegantemente reclinata sulla poltrona di broccato con un bicchiere di vino tra le mani.

Hannibal finì di accentuare il chiaroscuro sulla figura maschile che stava disegnando, soffiando via i granelli di grafite in eccesso così che non annerissero il disegno intero.

“Si è liberato un posto come curatore e traduttore della biblioteca di Palazzo Capponi. All’esimio Dr Fell è stato offerto di sostituirlo.”

“Uno straniero alla direzione di certo farà scalpore. Credi sia saggio attirare così l’attenzione?”

Se Hannibal non fosse stato troppo raffinato per farlo avrebbe scosso le spalle.

“E’ sempre meglio nascondersi in bella vista quando non si vuole essere trovati.”

“Di certo è una strategia che per te ha sempre funzionato”, osservò Bedelia facendo roteare il vino nel bicchiere ed osservandovi il riverbero ambrato del fuoco nel camino.

“Esattamente. E dubito che qualcuno potrebbe mai pensare che l’illustre Dr Fell sia in realtà in fuga dall’FBI.”

A quello la donna inclinò il capo da un lato, soppesandolo.

“Stai realmente fuggendo da loro? O stai correndo loro incontro?”

Hannibal sollevò lo sguardo dal disegno, le sopracciglia alzate.

“Non avrei alcun motivo per farlo.”

Bedelia emise un verso di contemplazione, sorridendo appena e voltando lo sguardo verso il camino. Hannibal era tornato al suo disegno quando lei parlò di nuovo.

“Suppongo tu sappia che Will Graham si è svegliato.”

La punta della matita esitò solo un attimo sul foglio, ma fu abbastanza per rovinare la perfezione della linea che stava tracciando. Hannibal assottigliò appena le labbra, prendendo la gomma e usando il bisturi che teneva sempre sul tavolo per tagliarne un bordo in maniera tale che creasse un angolo preciso.

“Ne sono al corrente.”

Aveva seguito suo malgrado ciò che accadeva a Will dal momento in cui era arrivato in Europa, liquidando l’impulso come semplice curiosità. Quando Freddie Lounds aveva pubblicato la foto scattata di straforo di Will ancora in coma, nudo e supino sul letto, si era ritrovato a fissare più a lungo di quanto non fosse disposto ad ammettere l’alone scuro del sangue che macchiava le bende che lo avvolgevano. Per un attimo aveva immaginato le mani estranee dei medici posarsi su Will e ricucire lo squarcio, senza avere il minimo diritto di fare né l’una né l’altra cosa, e aveva desiderato di poter essere lì per eliminarli uno ad uno. Avrebbe cavato loro il cuore e avrebbe strappato a Will le fasciature di dosso, così da poter osservare liberamente la ferita che gli aveva aperto nel ventre, il suo marchio indelebile. L’espiazione del tradimento che Will si sarebbe portato addosso per sempre.

“E questo come ti fa sentire?”, chiese Bedelia col migliore dei suoi toni distaccati da psichiatra.

“Contento per lui”, rispose Hannibal, sistemando con la gomma le imperfezioni indesiderate. “Anche se evidentemente avrei dovuto essere più preciso con la lama.”

“Tu non commetti errori, Hannibal. Se lo avessi voluto morto, sarebbe morto.”

Hannibal posò la gomma, abbandonando temporaneamente il disegno e intrecciando le dita sul tavolo.

“Perché mai avrei dovuto risparmiarlo?”

Bedelia fece scorrere un dito sul bordo del bicchiere di cristallo.

“Il senso di solitudine è qualcosa che accomuna tutti gli esseri umani, anche quelli a cui piacerebbe illudersi di non esservi soggetti”, osservò. “Se lo avessi ucciso non avresti mai più trovato qualcuno come lui. Non nascerà mai più un essere umano in grado di comprenderti visceralmente quanto Will Graham.”

Hannibal aveva sempre gradito la sagacia di Bedelia. Supponeva che prima o poi sarebbe stato il pretesto per cui l’avrebbe uccisa.

“Escludi anche te stessa?”

La donna sorrise appena, sollevando gli occhi su di lui.

“Non sono ancora così accecata dalla tua influenza da non sapere di non essere che un misero rimpiazzo.”

“Se questo è ciò che credi perché sei venuta con me?”

Bedelia vuotò il contenuto del bicchiere in un sorso, allungandosi verso la bottiglia di vino e versandosene un altro.

“Solitudine. E istinto di sopravvivenza. Mi avresti lasciata vivere se non ti avessi seguito?”

Hannibal non sbatté nemmeno le palpebre.

“No”, rispose sinceramente.

“Come pensavo”, rispose la donna portandosi il bicchiere alle labbra. “Ci sono cose che perdoneresti solo a lui.”

Hannibal evitò di farle notare che il suo ‘perdono’ non era qualcosa a cui sarebbe voluta mai essere soggetta.

“In fondo gli devo molto”, rispose invece con tono leggero. “Mi ha insegnato qualcosa di me che non sapevo: quanto l'amore sia in grado di accecarmi se gli lascio modo di farlo.”

Bedelia si alzò in piedi, muovendo i pochi passi che la separavano dalla finestra e appoggiandosi col gomito al davanzale. Le luci notturne di Parigi costellavano la notte come sciami di lucciole artificiali.

“Nel mito l’Amore divenne cieco mentre partecipava a un gioco organizzato dalla Follia”, osservò. “Per farsi perdonare lei gli promise che sarebbe rimasta per sempre al suo fianco e che sarebbe stata i suoi occhi. Da allora non si può provare l’uno senza che l’altra guidi le nostre azioni.”

Né voi senza di me, né io senza di voi”, citò Hannibal, tornando ad impugnare la matita e riprendendo a disegnare.

Sentì lo sguardo della donna posarsi su di lui ma la ignorò, continuando indisturbato anche quando la sentì avvicinarsi.

“Non credo che la tua cecità nei suoi confronti sia l’unica cosa che ti ha insegnato. Da quanti anni era che non provavi rimpianto?”

“Non rimpiango nulla di ciò che ho fatto”, disse senza sollevare lo sguardo.

“Non per ciò che hai fatto”, rispose Bedelia, facendo scorrere un dito sul bordo del disegno, attenta a non rovinarlo ma comunque sufficientemente intrusiva da non poter essere ignorata. “Ma per ciò che non hai potuto avere.”

Hannibal non rispose, restando immobile finché non la sentì allontanarsi, lo sguardo fisso sulla figura maschile che si faceva ad ogni linea e ad ogni ombra più familiare.

“L’ossessione è un baratro di cui è estremamente difficile vedere la fine, Hannibal”, gli disse dalla soglia. “Soprattutto quando non si ha nessuna intenzione di uscirne.”

*

Anthony Dimmond era l’incarnazione stessa dell’arrivismo e della bonaria supponenza.

La prima volta che lo aveva incontrato era stato a Parigi, e fin dal primo momento aveva visto nei suoi occhi quella scintilla di interesse che sarebbe potuta essere estremamente promettente così come estremamente pericolosa. Promettente, perché Hannibal adorava tirar fuori il lato meno umano delle persone con cui veniva in contatto, far loro cedere all’inclinazione naturale di fare del male, soprattutto se esse manifestavano già i segni di una predisposizione in tal senso. Pericoloso, perché ora che si era stabilito a Firenze in qualità di Dr Fell, ora che aveva indossato la maschera del letterato e del marito amorevole, sarebbe stato terribilmente irritante se Mr Dimmond avesse deciso di smascherarlo per ciò che non era.

La soluzione più semplice sarebbe stata liberarsi di lui. Farlo scomparire una volta per tutte senza dare nell’occhio, così che non potesse più costituire un pericolo. Invece, nel momento in cui se lo era ritrovato davanti, aveva deciso di invitarlo a cena, e non per essere il piatto principale. Era stata una serata sorprendentemente piacevole, in realtà. Hannibal aveva sorriso divertito alla faccia tosta dell’uomo quando aveva in maniera non poi così discreta accennato ad una cosa a tre.

Bedelia gli aveva rivolto uno sguardo incerto quando lo aveva lasciato andare senza un graffio, anzi chiedendogli di incontrarsi alla conferenza del Dr Fell il giorno dopo.

“Capisco che sia in linea col tuo senso del drammatico, ma non credi che sia rischioso fargli scoprire che ti sei appropriato dell’identità del Dr Fell in una stanza gremita di persone?”, chiese la donna mentre lui iniziava a sparecchiare. “Cosa succederebbe se decidesse di smascherarti di fronte a tutti?”

“Ti preoccupi troppo, Bedelia”, rispose Hannibal con nonchalance. “Anthony Dimmond vuole essere mio amico. Hai visto anche tu la curiosità nei suoi occhi. Scoprire chi mi fingo di essere non farà altro che alimentarla.”

Bedelia incrociò le braccia, muovendo qualche passo accompagnato dalla cadenza ritmica dei suoi tacchi.

“Sei imprudente, Hannibal. Non è da te.”

Hannibal trasportò una pila di piatti in cucina, tornando in soggiorno per spegnere le candele sul tavolo.

“Ho sempre trovato che i rischi calcolati abbiano il loro fascino”, rispose.

“Questo non è un rischio calcolato, è un salto nel vuoto”, obiettò Bedelia. “Non hai modo di prevedere come reagirà.”

“Ho fiducia nel fatto che Mr Dimmond sappia che le cose sarebbero molto più interessanti con me a piede libero invece che in prigione.”

Finì di sparecchiare e si avviò in cucina, dove iniziò a rassettare gli utensili che aveva usato per preparare la cena. Bedelia lo seguì, appoggiandosi allo stipite della porta ed osservandolo.

“So cosa vedi in lui”, disse la donna dopo qualche minuto. “Puro, disinibito potenziale. E’ qualcosa a cui tu non sei mai riuscito a resistere.”

“Gli sprechi sono un crimine imperdonabile. Cerco semplicemente di sincerarmi che coloro che le possiedono abbiano libero accesso all’interezza delle proprie potenzialità.”

“Non possiamo sempre seguire l’istinto, Hannibal, o non saremmo diversi dagli animali. Credevo che gli avvenimenti dell’ultimo periodo ti avessero insegnato ad essere più cauto.”

Hannibal sollevò lo sguardo su di lei, asciugandosi lentamente le mani su uno strofinaccio dopo aver sciacquato i bicchieri che non sarebbero potuti essere messi nella lavapiatti.

“Preferiresti quindi che tornassi a dedicarmi ad altri passatempi, anche se rischierebbero di attirare l’attenzione?”

“Preferirei che la tua disperata ricerca di un nuovo discepolo non mettesse a rischio anche la mia libertà, oltre che la tua.”

Hannibal sorrise appena, girando intorno al bancone e portandosi di fianco a lei.

“Non temere, Bedelia”, disse con tono cordiale, posandole una mano sulla spalla. “Finché sarai con me non hai alcun motivo di temere per la tua libertà.”

O per meglio dire, non era della sua libertà che si sarebbe dovuta preoccupare in sua presenza. Dallo sguardo che lei gli rivolse fu chiaro che avesse colto perfettamente la minaccia sottintesa. Hannibal la lasciò lì dov’era, avviandosi verso la stanza da musica. Sapeva perfettamente che Bedelia stava progettando qualcosa. Di andarsene o di farsi trovare - e di riflesso far trovare anche lui - non ne era sicuro, ma non importava. Se lo avesse tradito ne avrebbe pagato le conseguenze.

Uscì sul terrazzo, la fresca aria autunnale appena pungente contro il viso, posando le mani sul parapetto e osservando Firenze semiaddormentata. Nella sua mente spalancò il portone d’ingresso del suo Palazzo, trovandosi avvolto dalla luce pomeridiana che filtrava dai finestroni in vetro colorato. Attraversò la navata della Cappella dei Normanni, maestosa e opulenta, scivolando oltre una porta laterale laddove nel luogo fisico si sarebbe trovata la sacrestia. Imboccò invece lo scalone della Reggia di Caserta, l’inizio dell’ala del suo Palazzo dedicata a Will.

Quando aveva iniziato ad archiviare i suoi ricordi del profiler - quando ancora non aveva la minima idea di ciò a cui la loro conoscenza avrebbe portato entrambi - si era ben presto reso conto che confinare le sue osservazioni su di lui a una semplice serie di stanze non sarebbe stato sufficiente. Will non aveva nulla in comune con coloro che Hannibal incrociava tutti i giorni. Era un diamante grezzo in una distesa di sassi privi di valore, una rosa persa in una foresta di rovi ed erbacce. Will spiccava contro il grigiore delle persone comuni come un dio del sole in mezzo ai mortali. L’unico modo che aveva trovato per rendergli giustizia era costruire da zero una nuova ala del proprio palazzo.

Quanto era stato sciocco. Si era lasciato accecare dal suo ardore per quel ragazzo terribilmente brillante, terribilmente umano, al tempo stesso fragile e pericoloso, e dalla speranza di aver finalmente trovato un suo pari. Dopo Mischa, non era mai più successo. Non era mai più accaduto che la sua mente e la sua attenzione venissero rapite in quel modo da qualcuno. Non era un caso che l’ala del Palazzo dedicata a lei - per lo meno quella fatta di ricordi felici - rassomigliasse tanto quella di Will. Erano le uniche due persone che Hannibal avesse mai lasciato avvicinare abbastanza da poterne essere ferito.

Hannibal aveva passato la vita come una sorta di divinità intoccabile che camminava tra meri mortali, come un gigante tra misere formiche, finché non aveva incontrato quell'uomo - schietto, scortese, perennemente atterrito dai propri straordinari doni tanto che avrebbe dato di tutto pur di gettarli al vento ed essere come gli altri - e invece di reagire come aveva sempre sempre fatto prima d'allora e trasformarlo in cibo aveva invece lasciato che gli aprisse dentro una voragine che non sapeva come colmare. Errore suo, in fondo. Avrebbe dovuto ricordarsi quanto poco fosse sempre stato in grado di predire il suo comportamento. Qualsiasi cosa Will facesse era per lui un’inesauribile fonte di fascinazione.

Hannibal avanzò per uno dei corridoi dell’Hermitage, elegantemente dipinto, sul quale si aprivano decine di porte. Dietro ad ognuna si celava un ricordo, un’osservazione, un momento che Hannibal aveva voluto incastonare nel tempo. Istanti di inestimabile valore, ospitati in un luogo nato per esporre capolavori. Dopo il tradimento di Will era stato tentato di distruggere tutto, di forzare la propria mente a dimenticare per puro spregio, ma sapeva che era impossibile. Aveva una memoria perfetta e, suo malgrado, ciò che Will gli aveva fatto sarebbe rimasto con lui per sempre.

Credevi di potermi cambiare, così come io ho cambiato te?”, sussurrò la sua voce da dietro una porta chiusa.

La risata senza fiato di Will in risposta fu appena udibile mentre vi passava di fronte.

L’ho già fatto.”

Hannibal continuò oltre. Alcune maniglie erano più lucide delle altre, quelle delle stanze dove suo malgrado si era recato con maggiore frequenza da quando era partito. Si fermò di fronte ad una porta in particolare, e nell’aprirla si ritrovò nel suo studio, in piedi tra le librerie, a gettare fogli di vita passata giù dal ballatoio per prepararsi a una vita futura che non sarebbe mai iniziata. Will lo osservava da sotto, un punto fermo tra una tempesta di fogli bianchi che cadevano intorno a lui come foglie d’autunno.

Questi sono i tuoi appunti su di me”, aveva detto Will, afferrando al volo uno dei quaderni che lui aveva lanciato di sotto.

Hannibal aveva finto di accorgersene solo in quel momento, sbirciandoli dall’alto.

Sì, lo sono.

I tuoi pazienti non avranno bisogno  di questi dopo che te ne sarai andato?”

L’FBI leggerà ogni mio singolo appunto se li lascio qui. Risparmierò ai miei clienti l’intrusione”, aveva risposto, osservando Will sfogliare le pagine che lo riguardavano mentre si avvicinava al camino.

Quando aveva strappato la prima pagina e l’aveva gettata nel fuoco Hannibal l’aveva osservata crepitare da lontano, godendosi l’immagine di Will che gli dava le spalle, avvolto in un alone rossastro. Aveva lasciato che i suoi appunti, vergati nella sua scrittura elegante e ricercata, venissero lentamente divorati dalle fiamme, una pagina dopo l’altra. Parole e inchiostro si erano trasformati in fumo, e con essi anche ogni suo ragionamento intorno a Will, così che nessuno avrebbe più potuto leggerlo. Così che nessuno potesse conoscerlo come lo conosceva lui, vederlo come lo vedeva lui. La disarmante, danneggiata perfezione di Will Graham era un bagliore di bellezza che solo a lui doveva essere dato apprezzare.

“Smantello la persona che ero e la sposto mattone per mattone”, aveva detto scendendo la scala con altri quaderni in mano, pronti ad essere distrutti. “Quando lasceremo questa vita, Jack Crawford e l'FBI alle nostre spalle, avrò sempre questo posto.”

Will si era voltato verso di lui.

“Nel tuo palazzo della memoria?”, aveva chiesto.

Hannibal aveva annuito.

“Il mio palazzo è vasto, anche per gli standard medievali. Il foyer è la Cappella Palatina di Palermo. Severa, splendida e senza tempo. Con un unico rimando alla mortalità, un teschio incastonato nel pavimento.”

Will aveva abbassato lo sguardo, continuando a gettare fogli nel fuoco.

“L'unica cosa che serve a me è un corso d'acqua.”

“In quei momenti in cui non riesci a prevalere su ciò che ti circonda, può far sparire tutto quanto”, aveva detto Hannibal, perfettamente consapevole di come la mente di Will funzionava. Avrebbe voluto poterlo vedere, al sicuro nella sua testa, immerso nell’acqua fino alla vita e per una volta rilassato.

“Inclino la testa all'indietro, chiudo gli occhi, e mi abbandono alla quiete del fiume”, aveva risposto Will.

“Puoi far sparire tutto quanto”, sussurrò la voce di Hannibal dall’altra stanza, un’intrusa indesiderata e carica di rancore. “Inclina la testa all'indietro. Chiudi gli occhi e abbandonati alla quiete del fiume.”

Hannibal si richiuse la porta alle spalle prima che la sua stessa mente potesse avvelenare quel ricordo.

Forse aveva ragione Bedelia. Forse inconsciamente stava solo cercando qualcuno che colmasse il vuoto. L’idea che la sua mente potesse di sua iniziativa controllare le sue azioni e i suoi comportamenti senza che lui avesse voce in capitolo gli stava tutt’altro che bene.

Sapeva cosa voleva realmente, e non era nella sua indole negarsi ciò che desiderava. Dal momento che Will non aveva dato segni di volerlo inseguire, supponeva fosse giunto il momento di inviargli un invito formale.

*

Hannibal si trovò a contemplare per diversi minuti l’opera terminata di fronte a lui. Le sue mani grondavano del sangue di Anthony Dimmond e i muscoli delle braccia gli dolevano per lo sforzo di sollevare e sistemare al proprio posto ogni singolo pezzo così da dar forma al suo disegno, ma il senso di gratificazione nel vederlo realizzato valeva quello ed altro.

Or poserai per sempre, stanco mio cor”, recitò, fissando il suo cuore incarnato in quell’agglomerato di sangue e arti smembrati. Per qualche motivo gli era tornata in mente sua madre, quando la sera prima di metterlo a dormire gli leggeva le poesie che preferiva tra quelle del Paese che aveva dovuto lasciare.

“Posa per sempre”, mormorava la sua voce dai suoi ricordi. “Assai palpitasti. Non val cosa nessuna i moti tuoi, né di sospiri è degna la terra.”

Hannibal indietreggiò lentamente, lasciando il proprio dono - non la più raffinata tra le sue opere ma di certo la più sentita - lì dove sapeva sarebbe stato trovato e trasmesso sugli schermi di tutto il mondo.

... e l’infinita vanità del tutto.

*

Giorni dopo, ad un oceano di distanza, una tazzina da té s’infranse a terra con uno schiocco simile ad una risata ironica. Will Graham era nel centro del suo salotto, immobile come un cervo in mezzo alla strada, i piedi immersi in una pozza d’acqua calda e cocci di porcellana.

Non c’era alcun motivo per cui la televisione - accesa per caso, in maniera svogliata, tanto per riempire di rumore bianco il silenzio assordante delle sue giornate - avrebbe dovuto restituirgli quell’immagine così familiare. No, familiare non era la parola giusta. La sanguinosa opera d’arte che faceva bella mostra di sé al centro di una chiesa di Palermo non era qualcosa che avesse mai visto, ma nonostante tutto la riconosceva. C’era qualcosa d’inconfondibile in essa, come le pennellate di Van Gogh o le note gravi e solenni di Beethoven. Will fissava quel cuore insanguinato, sorretto e allo stesso tempo trafitto da tre spade, ed era come se potesse leggervi il suo nome sopra.

Poi, un movimento nell’angolo del suo campo visivo attirò la sua attenzione. Sollevò lo sguardo, e tutta l’aria che aveva in corpo sembrò abbandonarlo improvvisamente.

Dall’altra parte della stanza Hannibal lo fissava dal buio, come un’ombra più scura delle altre. Will resistette a malapena all’istinto di indietreggiare. Non era reale, lo sapeva. Sembrava essere uscito direttamente da uno dei suoi incubi. Peccato che in quel periodo non fosse poi così in grado di distinguere la realtà dal sogno.

Hannibal sorrise, quasi riuscisse a leggergli nel pensiero.

“Salve, Will”.

 

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Capitolo 3
*** I'd Kill To Take Your Place ***


Note: Se qualcuno di voi ha mai letto Watchmen riconoscerà le risposte di Will al test di Rorschach come quelle dell’omonimo personaggio del fumetto (che se non avete letto vi consiglio caldamente). “Mawmaw” in dialetto Cajun significa “nonna”, “tee-do” sta per “piccolo”.

Even Lovers Drown

di Curiosity

3. I’d Kill To Take Your Place


“I have dreamt in my life, dreams that have stayed with me ever after, and changed my ideas;

they have gone through and through me, like wine through water, and altered the color of my mind.”

                                                                                                                (Catherine Earnshaw - Wuthering Heights)

Will si ricordò di ricominciare a respirare solo quando sentì i polmoni dolergli per la mancanza d’ossigeno. Hannibal lo fissava da un angolo del suo salotto, nient’altro che uno scherzo beffardo della sua mente provata.

Dove sei stato tutto questo tempo?, avrebbe voluto urlargli in faccia, ma non lo fece. Più di tre mesi erano passati da quando era uscito dall’ospedale, cinque da quella fatidica notte. Cinque mesi in cui i suoi interlocutori erano stati solo i fantasmi delle persone che aveva visto morire - Abigail, Beverly, Hobbes… era la prima volta che Hannibal gli appariva. Aveva temuto e bramato quell’istante più di ogni altra cosa al mondo.

“Cosa sei? Un’altra allucinazione?”, chiese Will, tentando di dare un senso all’apparizione dell’uomo di fronte a sé.

“Potrei essere perfettamente reale.”

Will avrebbe voluto complimentarsi con la sua mente per l’accuratezza con cui stava riproducendo la voce di Hannibal, dal timbro profondo al leggero accento europeo che toccava le sue parole.

“No. Conosco la differenza tra ciò che è reale e ciò che non lo è. Sei solo un’ombra partorita dalla mia mente, come Abigail e Beverly, ma non c’è alcun motivo per cui dovrei vederti. Non provo alcun senso di colpa nei tuoi confronti.”

Hannibal abbandonò il suo angolo e si mosse lentamente verso di lui, con la grazia felina che aveva sempre contraddistinto anche il suo corrispettivo reale.

“Ne sei così sicuro?”

“Sei un assassino. Ti meritavi ben di peggio di ciò che ho fatto”, sibilò a denti stretti.

“E tu? Meritavi il male che ti sei fatto per ingannare me?”

“Non so di cosa tu stia parlando.”

Hannibal abbassò lo sguardo sulla pozza di tè ai piedi di Will, per poi tornare ad osservarlo con un mezzo sorriso.

“Sento l’odore dell’alcool da qui, Will. Più che un tè credo che quello si potesse definire del whiskey annacquato con teina.”

“Non sono affari tuoi”, sputò l’altro, uscendo finalmente dal momento di immobilità e afferrando uno degli strofinacci della cucina per cercare di rimediare a quel disastro.

"Come ti sei sentito, Will?”, continuò Hannibal come se nulla fosse. “Dopo tutto l'impegno che avevi impiegato nell'ingannarmi, alla fine i tuoi sforzi sono stati vani. Si può dire che tu ti sia scavato la fossa da solo, la tua e quella di Abigail. Pensavi davvero di potermi battere al mio stesso gioco?"

Will non rispose, andando ad inginocchiarsi con una smorfia di dolore e iniziando ad asciugare e raccogliere frammenti di porcellana, la gola improvvisamente tanto stretta che gli veniva difficile deglutire.

"Ma forse è quello il punto, vero?”, continuò l’altro, prendendo a girargli lentamente intorno come un lupo che ha puntato la preda. “Una volta iniziato a giocare smettere è impossibile. Ti sei addentrato tanto a fondo nella mia mente per ingannarmi che ancora hai difficoltà a venirne fuori."

“Basta, smettila.”

"I tuoi amici all’FBI sanno quanto ardentemente saresti voluto venire con me? Hanno una minima idea di quanto tu ti sia pentito di non averlo fatto?"

“HO DETTO BASTA”, urlò, lanciando ciò che rimaneva del manico della tazzina contro l’altro, che lo schivò con eleganza come se sapesse benissimo che lo avrebbe fatto. Così era, si ricordò Will. Non doveva ingannarsi a pensare che Hannibal fosse veramente lì, o sarebbe stata la fine.

Hannibal lo fissò in silenzio, e Will fece altrettanto, come sperando che la forza del suo sguardo avesse il potere di farlo scomparire. Il suo respiro pesante, rabbioso, era l’unico rumore che spezzava il silenzio della casa.

“Te ne sei andato. Mi hai lasciato alle spalle. Non hai alcun diritto di perseguitarmi”, disse a denti stretti.

Hannibal sorrise, orribilmente sornione.

“Ti sbagli, Will. Sono l'unico che ha il diritto di farlo.”

Will non rispose, dandogli le spalle e finendo di pulire con gesti bruschi il pavimento. Con qualche difficoltà si alzò e gli passò accanto per tornare in cucina, senza nemmeno degnarlo di uno sguardo.

L’altro lo seguì, appoggiandosi allo stipite della porta mentre Will gettava i cocci nell’immondizia. Poteva sentire il suo sguardo addosso come una lama di pugnale conficcata nella schiena. Se c’era una cosa che si poteva dire di Hannibal Lecter, reale o meno, era che averlo intorno avrebbe inevitabilmente finito per fare male. Fece di tutto pur di ignorarlo, mettendosi perfino a lavare la montagna di piatti sporchi che giaceva abbandonata nel lavello da quando aveva smesso di ricordarsi di dover mangiare.

“Mi manchi, Will.”

Il piatto che stava lavando quasi gli sfuggì di mano, e Will fu costretto a fermarsi, appoggiando le mani sul bordo del lavandino e abbassando la testa con un sospiro profondo.

“Tu. Non sei. Reale!”, esclamò esasperato, tornando finalmente a voltarsi verso di lui, passandosi le mani sul viso come se potesse aiutarlo a svegliarsi da quell’incubo. “Non so nemmeno perché ti sto rispondendo! Anche quello che hai appena detto, non sei tu a dirlo, è solo-”

Si interruppe di colpo, chiudendo gli occhi e scuotendo la testa.

“...è solo quello che vorresti sentirmi dire se fossi qui”, concluse Hannibal per lui.

Will rise con una nota di disperazione nella voce.

“Mio dio, sto davvero impazzendo.”

Lasciò la cucina, o per meglio dire fuggì, sperando che l’altro magicamente scomparisse, ma ovviamente non fu così fortunato e lo sentì seguire i suoi passi nuovamente in soggiorno.

“Ti ho lasciato il mio cuore, Will.”

Will si bloccò a quelle parole. Sì, l’aveva fatto. E quella non era stata un’allucinazione. Suo malgrado lanciò uno sguardo allo schermo della tv ancora accesa, dove ora erano passati a parlare di sport. Non importava. L’opera di Hannibal era come impressa a fuoco nelle sue palpebre, così come il messaggio contenuto in essa.

Mi hai tradito. Mi hai spezzato il cuore, ma ti perdono. E’ qui, l’ho lasciato per te, nel luogo che è al centro della mia mente così come lo sei tu. Accettalo. Vieni da me.

Si voltò appena, scoprendo che l’uomo si era fatto incredibilmente vicino e lo guardava ora con l’intensità che aveva sempre contraddistinto anche il suo io reale, come se il profiler catturasse completamente la sua attenzione. Will allungò la mano, quasi aspettandosi che Hannibal si sarebbe dissolto nell’aria. Il suo palmo invece si posò su una forma solida, ingannevolmente reale, non fosse stato per l'assoluta immobilità di quel petto vuoto. Nessun cuore ad animarlo, non dopo che era stato lasciato per lui sotto le volte della Cappella dei Normanni. Come un dono.

O come un modo per rinfacciargli chi da quel petto lo aveva strappato.

"Ti appartiene, adesso. Cosa hai intenzione di farne?", chiese Hannibal. "Lo mangerai?"

Gli occhi di Will restarono fissi sul punto in cui la sua mano spiccava contro il nero della camicia del fantasma che per mesi aveva temuto e sperato che arrivasse a perseguitarlo. Non lo aveva mai visto indossare quel colore.

"Nei miti anglosassoni quando un estraneo appare lungo la strada dei viandanti e offre loro del cibo è sempre una pessima idea accettarlo”, disse a bassa voce. "Nessuno scampo per chi cede alle lusinghe della propria fame."

"E' questo che senti? Di non avere scampo?"

"Sento che se accettassi dovrei restare con te per sempre".

"E allora resta".

Will scosse la testa, abbassando la mano e ponendo fine ad ogni contatto tra loro.

“Non ho più nulla da darti. Mi hai portato via tutto ciò che avevo.”

“Ti ho portato via una vita che non ti si addiceva, una vita fatta di menzogne e inibizioni”, ribatté Hannibal. “Se solo avessi accettato ciò che ti offrivo, se solo avessi seguito il tuo cuore e non ti fossi lasciato fermare dal tuo timore delle conseguenze, ti avrei dato molto più di ciò che ti ho tolto.”

“Una vita da burattino, mosso eternamente dai tuoi fili.”

“Una vita da mio eguale. Puoi mentire a te stesso ad alta voce se ti fa sentire meglio, ma sai che sarebbe stato così. Tu ed io, e nessuna regola umana o divina a fermarci. Ma no, invece. Hai dovuto distruggere entrambi con quella debolezza che chiami virtù.”

L’uggiolare dei suoi cani alla porta lo distrasse dalla risposta rabbiosa che gli avrebbe sputato contro, e quando tornò a voltarsi dopo averli fatti entrare Hannibal era sparito.

Will tirò un lento sospiro di sollievo. Si avvicinò al letto che teneva in soggiorno e vi crollò sopra, improvvisamente esausto. Winston lo osservava dai piedi del letto, come avvertendo che c’era qualcosa che non andava. Allungò una mano verso di lui e il cane si avvicinò, finendo per saltare sul letto e accoccolarsi accanto a lui. Ben presto anche gli altri fecero lo stesso, e Will si addormentò avvolto dal calore delle loro pellicce e cullato dai loro respiri affannati.

*

Will odiava le sedute psichiatriche.

Le aveva odiate fin da quando non era ancora abbastanza adulto da rendersi conto del perché ogni settimana suo padre lo accompagnasse dal dottore a parlare, quando ancora credeva che fosse perfettamente normale per i bambini avere uno psichiatra e prendere le medicine da lui prescritte. I suoi compagni di scuola gli avevano insegnato che così non era a suon di pugni e calci, urlandogli cose come “stramboide” e “scherzo della natura” nelle orecchie.

L’intera premessa dell’analisi psichiatrica era per lui un’enorme fonte di frustrazione. Il compito dello psichiatra era quello di far credere al paziente di essergli vicino emotivamente, di essere lì per ascoltarlo e supportarlo, quando in realtà ogni seduta era solo una serie di imboscate analitiche in cui ogni segreto era carpito con parole falsamente gentili o con manipolazioni mirate a far reagire il paziente in un certo modo. Nel migliore dei casi, lo psichiatra era un perfetto, distaccato bugiardo; nel peggiore, un incompetente che voleva solo sondargli il cervello per soddisfare la propria curiosità. In entrambi i casi l’empatia di Will era in grado di discernere subito di quale tipo di analista si trattava.

Nel caso di quello seduto di fronte a lui in quel momento, del secondo.

“Signor Graham, ora le mostrerò una serie di immagini, in ognuna delle quali vedrà una macchia d’inchiostro simmetrica. Vorrei che le guardasse e che mi dicesse a cosa pensa che somiglino, d’accordo?”

Will si trattenne a stento dall’alzare gli occhi al cielo. Dopo essere stato dimesso dall’ospedale l’FBI gli aveva assegnato d’ufficio uno psichiatra, come da prassi. Will aveva inviato le proprie dimissioni da agente speciale il giorno stesso, allegando una lettera in cui sottolineava come, non essendo più in alcun modo legato al bureau, non aveva più senso che ne seguisse le procedure e rinunciava perciò allo strizzacervelli gentilmente offerto. L’ospedale che lo aveva avuto in cura aveva allora inviato due dottori per tentare di convincerlo ad entrare in terapia dal momento che era stato accertato che aveva subito un trauma psicologico, e Will era riuscito a disfarsene solo dopo aver loro sputato in faccia ogni singolo segreto scabroso o scomoda verità che era riuscito a leggere loro addosso, dall’infedeltà della moglie di uno alla propensione per le prostitute minorenni dell’altro. Quasi gli dispiaceva di non essere stato abbastanza cattivo da farli piangere.

“Proprio non vuoi andarci in analisi, eh?”, aveva chiesto il fantasma di Beverly, seduta accanto a lui sulle scale del portico di casa sua mentre insieme osservavano i dottori fuggire quasi a gambe levate.

“Non voglio nessuno a rovistare nella mia testa”, rispose a denti stretti.

“Nessuno tranne Hannibal, vuoi dire”.

Will per l’ennesima volta si chiese per quale motivo dovesse sottostare alle introspezioni non richieste dei fantasmi - che fantasmi non erano, ma era l’unica definizione accettabile che aveva trovato come alternativa al ben più preoccupante ‘allucinazioni’ -  scaturiti dalla sua testa. Non che gli dessero fastidio. Come i suoi cani, erano un modo come un altro per ingannare la solitudine, e averli attorno gli dava una sensazione di familiare sicurezza. Per lo meno finché non si mettevano a psicanalizzarlo.

“Se hai finito puoi anche andartene”, rispose, sapendo che tanto non l’avrebbe fatto. Non aveva alcun controllo sul loro andare e venire. Sospirò, sfilando un pacchetto di sigarette dalla tasca ed accendendosene una.

Beverly lo squadrò.

“Da quando in qua fumi, cowboy?”

Will trattenne la prima boccata finché non sentì i polmoni bruciare, quindi esalò una nuvola di fumo nell’aria fresca del mattino.

“Fissazione orale”, spiegò con voce piatta. “Abbastanza comune in casi di disturbo da stress post-traumatico con conseguente regressione della personalità. Mio padre fumava. Mi rifugio nella sicurezza di qualcosa di familiare e ripetibile all’infinito, a mia disposizione ogni volta che voglio. Freud lo chiamava anche cannibalismo. Cercalo su Google.”

“Hey, non metterti a fare il saccente con me, bel faccino”, rispose lei piantandogli un dito contro il petto. “Avrò anche lavorato per la scientifica, ma l’ho fatta anch’io l’accademia dell’FBI.”

Will alzò le mani in segno di resa.

“Scusa. Sono stato-”

-incredibilmente scortese, aveva concluso per lui la voce di Hannibal nella sua testa.

“...Quando sono stanco divento burbero”, riformulò alla fine.

“Sei fortunato che mi stai simpatico”, aveva mormorato Beverly in risposta. “Sicuro che un po’ di sana analisi non possa farti bene?”

Will aveva preso un altro tiro dalla sigaretta.

“L’ultima cosa che mi serve è un idiota che mi piazzi davanti una serie di macchie e che cerchi di estrapolare le tracce di un qualche fantomatico trauma infantile dalle mie risposte”, aveva sbottato.

Col senno di poi, di fronte alle suddette macchie sorrette dalle mani nervose del suddetto idiota, Will si pentì per l’ennesima volta di aver infine ceduto alle gentili pressioni di Alana e aver deciso di incontrare il maledetto psichiatra dell’FBI in via non ufficiale. In realtà il fattore decisivo era stato l’apparizione di Hannibal.  Sarebbe stato disposto a tutto pur di non ripetere l’esperienza, anche a tentare coi metodi pseudoscientifici di un imbecille.

“D’accordo, questa è la prima immagine”, disse quest’ultimo, apparentemente del tutto ignaro del disprezzo che Will provava per lui in particolare e per gli psichiatri in generale. “Mi dica cosa vede.”

Will trattenne l’impulso di spiegargli esattamente cosa pensasse della validità - presunta - del test di Rorschach, possibilmente usando il maggior numero possibile di epiteti coloriti di quelli che la sua educazione di figlio di un operaio del Sud gli aveva trasmesso. Fissò la macchia e scoprì di essere troppo irritato per concentrarsi. Immaginò invece di poter afferrare il fermacarte d’onice a forma di piramide che si trovava sulla scrivania di fronte a lui e di colpire con esso lo stimato professionista che credeva che bastasse un simile test per sbrogliare il groviglio di traumi, nevrosi e pessime scelte di vita che era Will Graham. In genere immaginare ciò che avrebbe fatto se solo avesse seguito la sua rabbia lo aiutava a calmarsi, ma quella volta non andò così.

Senza volerlo scivolò in uno dei suoi stati di immaginazione lucida, e si ritrovò col fermacarte in mano, a fissare gli occhi spenti e senza vita dello psichiatra dell’FBI, la presa sull’oggetto scivolosa per il sangue scaturito dallo squarcio che lui stesso gli aveva aperto nel collo e che ancora gli schizzava sangue arterioso addosso come pioggia scarlatta.

Se tu seguissi gli impulsi che hai così a lungo trattenuto…, sussurrò la voce di Hannibal dai recessi della sua mente, e per un attimo temette che gli si sarebbe materializzato accanto. Se li coltivassi come le ispirazioni che sono… diverteresti qualcosa d’altro da te stesso.

Will sbatté le palpebre un paio di volte e scoprì di non essersi mai mosso, ancora seduto sulla stessa poltrona di pelle, la presa stretta sui braccioli come se avesse paura di cadere e il medico che lo fissava pazientemente in attesa di una risposta.

Will si umettò le labbra.

“Una bellissima farfalla”, rispose con voce più naturale possibile.

Lo psichiatra lo fissò per un attimo, poi scribacchiò qualcosa su un foglio e passò all’immagine successiva. Questa volta Will si concentrò sull’immagine, cercando di evitare che i suoi pensieri gli sfuggissero nuovamente di mano.

La seconda macchia lo fece subito pensare a Margot. La parte nera assomigliava a un bacino umano, e quella rossa al sangue di un aborto forzato. Buffo che ogni singolo avvenimento cruciale della sua vita negli ultimi due anni fosse in qualche modo legato ad Hannibal. Non importava che fosse stato Mason Verger a fare materialmente in modo che quel bambino non venisse mai alla luce. Era stato Hannibal a versargli nell’orecchio il veleno del sospetto, a sussurrargli malignità come il serpente nel Giardino dell’Eden, e per quanto lo riguardava era altrettanto responsabile.

Sapeva quanto l’uomo avesse adorato portargli via ogni cosa, lasciarlo con nulla che non fosse lui. Aveva fatto sì che non gli restasse più niente. E, quando aveva finito di fargli terra bruciata intorno così che non potesse nemmeno sperare in un’esistenza normale senza di lui, Hannibal se ne era andato. Era partito, salendo su un aereo con Bedelia du Maurier verso una qualche meta lontana, verso l’Europa e tutto ciò che aveva da offrire. Come se nulla fosse. Come se Will non fosse nessuno, solo un'altra vittima dello Squartatore di Chesapeake, l'ennesima, ancora vivo solo per pura distrazione, indegno persino di essere trasformato in arte o in nutrimento.

Privo di valore.

Sostituibile.

Voglio solo ciò che è meglio per te, Will.

Bugiardo, bugiardo, bugiardo.

“Dei bellissimi fiori”, rispose a denti stretti.

L’uomo di fronte a lui lo squadrò per un attimo con l’aria di qualcuno che finalmente comprende che continuare sarà solo una perdita di tempo. Will sperò che quello bastasse a scoraggiarlo, a fargli interrompere la seduta, ma quello non era il suo giorno fortunato.

La terza immagine che gli venne mostrata sembrava contenere due figure imbrattate da schizzi di sangue. Will si costrinse a non pensare alla notte in cui aveva riversato le viscere nella cucina di Hannibal. Pensò invece a Bedelia, alla sua fuga, e si chiese se stesse uccidendo con lui adesso. Una volta aveva ammesso di essere stata indotta dall’uomo a commettere un omicidio. Hannibal era terribilmente bravo a fornire motivi validi per uccidere. Cercò di immaginarsi al posto di lei, al fianco del mostro che ancora popolava i suoi incubi e le sue ore di veglia, come un’infezione che non riusciva a debellare. Avrebbe ucciso con lui, se fosse stato al suo posto? Si sarebbe lasciato andare?

Pensò allo sguardo orgoglioso di Hannibal quando gli aveva portato il cadavere di Randall Tier, come un padrone orgoglioso a cui il gatto aveva lasciato i frutti della sua caccia.

Sollevò lo sguardo sull’uomo in attesa.

Ciò che vedo in quella macchia è me stesso come sarei potuto essere. Come sarei dovuto essere. Libero, disinibito, le mani sporche di sangue intrecciate tra quelle dell’assassino che, non avendo voluto graziarmi con una morte veloce ad opera di un coltello, mi sta ora uccidendo poco a poco con la sua assenza.

Ciò che vedo è il mio madornale errore di giudizio.

“Nuvole.”

*

Dopo solo quattro sedute lo psichiatra lo dichiarò perfettamente sano di mente - Will ebbe il sospetto che ci fosse lo zampino dei piani alti dell’FBI che non vedevano l’ora di mettere a tacere le accuse di aver mandato candidamente al macello, fisicamente e mentalmente, uno dei loro agenti speciali durante l’affare Lecter. Il medico non gli prescrisse psicofarmaci (non che Will in ogni caso li avrebbe presi) ma gli diede delle pillole per dormire quando Will accennò ai suoi incubi. La prima volta che ne ingollò duee accompagnate da un bicchiere di whiskey dormì per sedici ore di fila, e si svegliò intontito, spaesato e con l’impressione di aver esagerato col dosaggio a giudicare dal mal di testa che gli stava spaccando il cranio in due.

Erano passati quasi sei mesi, ormai. La sua vita era un limbo di nulla. Senza il lavoro all’accademia dell’FBI era difficile riempire le sue giornate, ma non riusciva a pentirsi di essersi dimesso. Non aveva la forza per qualcosa di impegnativo come l’insegnamento. Aveva dei risparmi da parte, e finché gli fossero bastati per andare avanti non aveva intenzione di preoccuparsi di cosa fare della sua vita. Dormiva, per lo più. Quando si sentiva un poco più attivo aveva preso a passare le giornate sul portico a respirare la fresca aria autunnale, osservando i suoi cani scorrazzare felici per i campi di fronte a casa sua. Avrebbe voluto alle volte scendere al fiume a pescare, ma si sentiva sempre troppo stanco per farlo.

Complicated grief disorder”, disse Abigail una sera, seduta accanto a lui sul divano di vimini, il volto rivolto verso il cielo notturno trapunto dalla miriade di stelle, vantaggio dell’abitare in un luogo lontano dalla città. “E’ quello che stai attraversando adesso. Non ci vuole un genio per capirlo, né uno psichiatra.”

“Non dovresti nemmeno conoscerla, quell’espressione”, rispose Will avvolgendosi meglio nella coperta che gli cingeva le spalle.

“Sono nella tua testa. So tutto quello che sai tu.”

“Quindi in realtà mi sto autodiagnosticando un disturbo psicologico post-traumatico?”

Abigail scrollò le spalle.

“Magari hai bisogno di sentirtelo dire da qualcuno.”

“Preferirei non pensare alla mia situazione mentale al momento.”

“Che è esattamente il motivo per cui hai bisogno di sentirtelo dire.”

Will prese un tiro dalla sigaretta, esalando il fumo dalla parte opposta rispetto a Abigail.

“Bene, quindi il mio cervello pensa che io sia in una fase di lutto patologico che non riesco a superare. In che modo questo dovrebbe essermi d’aiuto?”

“Potresti ad esempio decidere che sia ora di uscirne”, suggerì lei.

“Se potessi l’avrei già fatto”, mormorò Will, posando la sigaretta e prendendo un lungo sorso dal suo bicchiere di whiskey.

“Non credo. Questo dolore è l’ultima cosa che ti rimane di lui. E’ comprensibile che tu non voglia disfartene.”

Will chiuse gli occhi, concentrandosi sul proprio respiro come per resistere a una vertigine.

“Non voglio parlare di lui.”

“Ok.”

Will aprì gli occhi, sollevando un sopracciglio.

“Ok?”

Abigail scrollò le spalle.

“Se non vuoi parlarne non ne parliamo. Non sono qui per renderti le cose più difficili.”

Will avrebbe voluto chiederle per quale motivo fosse lì, allora, ma si trattenne per paura che per qualche ragione la ragazza scomparisse per sempre. Non era ancora pronto a lasciarla andare. Osservò il suo profilo alzarsi verso il cielo notturno, appena visibile al chiarore della luna.

“Mi sono sempre piaciute le stelle”, disse lei, cambiando gentilmente argomento.

“Anche a me. Mio padre d’estate mi portava in mare con la sua barca sgangherata e mi spiegava i nomi delle costellazioni e come orientarsi grazie ad esse.”

Avvertì Abigail sorridere accanto a sé.

“Me lo avresti insegnato? Se ne avessimo avuto il tempo?”

“Sì. L’avrei fatto anche prima, ma non sapevo che ti piacessero.”

“Mi piacciono perché mi fanno sentire irrilevante”, disse Abigail, infilandosi le mani giunte tra le ginocchia come per scaldarle da un freddo che per forza di cose non poteva sentire. “Ogni singolo errore che io abbia mai fatto scompare di fronte alla vastità dell’infinito.”

Will emise un verso di assenso, roteando distrattamente il bicchiere.

“Di certo guardarle rimette ogni cosa in prospettiva”, concordò.

“Già. Amore, tradimenti, odio…”

Will prese un altro tiro.

“Odiavi tuo padre?”, si ritrovò a chiederle. “Per ciò che ti aveva spinta a fare? Per ciò che ti aveva spinta a diventare?”

Abigail tacque qualche secondo, cercando le parole giuste.

“E' difficile odiare qualcuno che si comprende fino in fondo. Si può essere in disaccordo, persino provare orrore per le sue azioni, ma l'odio…”, mormorò scuotendo la testa. “Conoscevo mio padre meglio di chiunque altro. Dovevo conoscerlo, ne andava della mia vita. Sapevo che cos’era e cosa faceva, ma io per lui ero speciale, ed ero orgogliosa di esserlo perché lo amavo così tanto. Il resto del mondo avrebbe potuto scomparire per quanto mi riguardava.”

Abigail chiuse gli occhi, un sorriso triste sulle labbra.

“Sono scomparsa io, alla fine.”

Will non disse nulla. Posò il bicchiere sul tavolino e allungò il braccio fino a cingerle le spalle, così ingannevolmente reali nonostante tutto. Abigail appoggiò la testa sulla sua spalla, e in silenzio restarono al buio a guardare le stelle.

*

Will aveva preso a coprire gli specchi in giro per casa con dei drappi di stoffa.

Ricordava ancora sua nonna, tutta dialetto francese, superstizioni e storie di spiriti, che ad ogni funerale di famiglia faceva la stessa cosa.

Écoute, Tee-do”, gli diceva usando quel nomignolo affettuoso. “Devi sempre coprire gli specchi quando muore qualcuno, t’as compris? Gli specchi catturano gli spiriti. Se non li copri le anime dei morti non possono andare avanti e restano a perseguitare i vivi.”

Oui, Mawmaw”, rispondeva sempre lui ubbidiente.

A trent’anni di distanza, non era per quello che aveva ricominciato a farlo, nonostante le anime dei morti gli camminassero quasi perennemente intorno. Se lo aveva fatto, era per non doversi guardare negli occhi.

Aveva soccorso abbastanza cani abbandonati da saperne riconoscere uno a prima vista quando lo vedeva. Non credeva che lo specchio gli avrebbe mai restituito l’immagine di uno di essi.

*

La seconda volta che Hannibal gli apparve fu dopo essersi aperto un taglio sul palmo mentre preparava la cena per i suoi cani.

Aveva da poco messo giù il telefono con Alana. Nonostante tutto erano rimasti in contatto (anche se non certo grazie a lui) e di tanto in tanto si incontravano per un caffé. Il giorno dopo si sarebbero dovuti vedere, anche se Will non ne aveva esattamente voglia - il risentimento che aveva provato verso di lei era svanito, ma molto semplicemente non si sentiva in vena di chiacchierare. Stava ancora cercando una qualsiasi scusa credibile da poter tirar fuori all’ultimo minuto quando la lama del coltello gli era scivolata di mano e con la forza residua del gesto gli aveva lacerato il palmo.

Will restò a fissare i rivoli rossi gocciolargli copiosi dalla mano con una strana sorta di stupore. La ferita gli pulsava, abbastanza profonda da sanguinare copiosamente sul suo bancone di marmo e giù per il suo avambraccio. Il dolore era… stranamente benaccetto. Da quanto tempo era che non provava qualcosa di diverso dal torpore?

“Will”, disse una voce dietro di lui.

Non si voltò, non ce n’era bisogno.

Gli squali erano sempre attratti dall’odore del sangue.

“Non sapevo nemmeno cosa fosse il dolore prima che entrassi nella mia vita”, ragionò Will senza staccare gli occhi dalla ferita. “Non realmente.”

Sentì Hannibal avvicinarsi di un passo, e dovette combattere il senso di pericolo che dargli le spalle gli faceva provare.

“Lo dici come se ora ne sentissi la mancanza”, osservò Hannibal.

Will rise appena, senza voltarsi.

“Continui a illuderti di avermi reso una persona che non sono.”

“E tu continui a illuderti di non essere la persona che sei.”

A quello Will si voltò di scatto, improvvisamente furibondo.

“Io non sono ciò che tu volevi fare di me!”, ringhiò.

“No, non lo sei. Sei molto, molto di più.”

Will emise un singhiozzo strozzato, e voltandosi nuovamente cercò di tamponare il sangue e contemporaneamente di nascondere il fatto di avere gli occhi lucidi.

“Perché sei qui?”, sibilò, cercando di trasformare il dolore in rabbia. “Cos’altro vuoi da me?”

Hannibal si appoggiò al bancone accanto a lui con un fianco, osservandolo imperscrutabile.

“Lo sai cosa voglio.”

Will tirò su col naso, accorgendosi suo malgrado di stare tremando.

“Vuoi che venga da te.”

“Il mondo è un posto migliore se ci sei tu”, rispose l’altro quasi con dolcezza.

Will scoppiò in una risata isterica, gettando lo strofinaccio insanguinato nel lavandino ed indietreggiando per mettere nuovamente spazio tra di loro.

“E’ per questo che hai tentato di uccidermi?”

Hannibal lo seguì con lo sguardo, senza però muoversi da dove si trovava.

“Quella è stata una reazione, un impulso. Difficile da controllare persino per me.”

“E ora, fammi indovinare, te ne sei pentito?”

L’altro sospirò appena - dio, quanto erano verosimili le sue espressioni - ed abbassò lo sguardo, appoggiandosi con la schena completamente al bancone ed intrecciando le mani in grembo.

“Immagina di aver rotto una tazzina, la tua preferita”, iniziò a mo’ di risposta. “Giace ridotta in mille pezzi sul pavimento, spezzata senza possibilità di riparazione.”

Will chiuse gli occhi. Non voleva ascoltare. Sapeva già come andava a finire quella storia. La tazzina non si ricomponeva.

“Tu sai che la tazzina è rotta”, continuò Hannibal. “Sai di non poterla riparare. Ma non riesci a trovare la forza di buttarla via perché sai che quando lo farai, nel momento in cui ne terrai in mano i frammenti, improvvisamente la sua irreparabilità diventerà reale. E tu non vuoi che sia reale.”

Will scosse la testa, appoggiato ora contro la porta del frigo, dalla parte diametralmente opposta rispetto a Hannibal.

“Puoi dire quello che vuoi. Non devo crederti per forza.”

L’uomo inclinò appena la testa da un lato.

“Sono sempre stato onesto con te, per quanto mi era possibile.”

Di nuovo Will rise, guardando ovunque tranne che verso l’uomo di fronte a lui.

“Una volta ti chiesi perché avessi smesso di fare il chirurgo”, gli ricordò. “Mi dicesti che non eri riuscito a salvare qualcuno e che per questo ti era sembrato quasi di averlo ucciso.”

“E' vero.”

“No, invece, mentivi. E' esattamente l'opposto. Perdere pazienti sul tavolo operatorio non dà la stessa sensazione di uccidere. E' per questo che hai smesso, perché non era divertente.”

Hannibal non negò, restando semplicemente in silenzio a fissarlo, e Will sentì la rabbia montargli nel sangue. Odiava quello sguardo clinico e distaccato, odiava quel suo modo di guardarlo come se fosse poco più che una cavia di laboratorio che esisteva giusto per intrattenerlo, lo odiava, lo odiava! E lo odiava per l’effetto che quel suo modo di agire aveva su di lui, quella peculiare e distratta crudeltà che lo spezzava in mille pezzi e gettava la sua mente nel caos più totale, nella folle speranza che Hannibal stesso tornasse indietro a ricomporne i pezzi.

“Sei solo un lurido bugiardo”, sputò tra i denti, muovendo un passo verso di lui come un animale pronto all’attacco. “Non hai alcun diritto di sentire la mia mancanza. Non hai alcun diritto di lasciarmi il tuo cuore, di volere una seconda opportunità, non la meriti!”

“E’ quello che vuoi anche tu, Will”, ribatté Hannibal, del tutto impassibile di fronte alla sua rabbia.

“Oh, no, Dr Lecter”, sibilò l’altro ad un passo da lui, le mani strette a pugno. “Quello che voglio è non vederti mai più, né te né questa specie di fantasma con cui la mia mente mi sta perseguitando.”

Hannibal si avvicinò a sua volta, in maniera tale che Will fosse costretto a sollevare il viso verso l’alto per poter continuare a guardarlo negli occhi.

“Non puoi cacciarmi, Will. Sono dentro la tua testa. Non me ne andrò mai.”

Un sorriso crudele si dipinse allora sulle labbra del profiler, che mosse un passo indietro e poi un altro, continuando a guardarlo dritto negli occhi.

“Ah sì? Beh, vorrà dire che dovrò trovare una soluzione da solo, non credi?”, disse, aprendo le braccia come ad invitare l’altro a fermarlo. Girò sui tacchi e lasciò la cucina, marciando fino al comodino e aprendo violentemente il cassetto, afferrando ogni singolo barattolo di sonniferi che riuscì a trovare.

“Will”, disse la voce di Hannibal alle sue spalle, e il suo cuore gioì crudele a sentirvi una nota di preoccupazione.

Will lo ignorò completamente, prendendo una manciata di pillole e andando a recuperare una qualsiasi delle bottiglie di whiskey abbandonate in giro per la casa.

Will.”

Si versò un bicchiere abbondante e solo allora si voltò nuovamente verso l’altro, sollevandolo nella sua direzione.

“Alla tua, Dr Lecter”, mormorò con ogni singola goccia di risentimento che riuscì a trovare dentro se stesso. “Sei mesi fa non sei riuscito a uccidermi ma io, oggi, sono qui per finire il lavoro. Non sono forse un bravo discepolo?”

“Non farlo.”

Will si cacciò le pillole in bocca.

“Per favore.”

Ingollò il contenuto del bicchiere in un colpo solo, deglutendo i sonniferi uno dietro l’altro senza nemmeno preoccuparsi di contarli. Quando ebbe finito si leccò le labbra e tornò ad osservare l’altro, fermo immobile al centro del suo salotto, imperscrutabile come una statua. Non aveva fatto nulla per impedirgli di prendere le pillole, ovviamente. Non aveva fatto nulla perché non era reale.

Will allungò nuovamente il bicchiere verso di lui, come in un brindisi vuoto, e quella volta lasciò che rovinasse a terra e si infrangesse in mille pezzi.

*

Quando quella mattina Hannibal si era svegliato l’aveva fatto stranamente di buon umore. L’aria mite dell’autunno fiorentino sembrava una promessa più che sufficiente per sollevargli lo spirito. Si era alzato, si era lavato, aveva preparato la colazione - un fattorino estremamente maleducato - per sé e per Bedelia, le aveva augurato di passare una buona mattinata in giro per Firenze e si era quindi ritirato nel suo studio con l’iPad.

Aveva davvero avuto fiducia nel fatto che sarebbe stata una bella giornata. Per questo quando per forza dell’abitudine aveva aperto il sito di Tattlecrime impiegò qualche secondo e tre letture consecutive per comprendere fino in fondo il significato del titolo che campeggiava in prima pagina:


>> ESCLUSIVA! NOTO PROFILER WILL GRAHAM RICOVERATO IN OSPEDALE DOPO UN’OVERDOSE DA BARBITURICI! I DOTTORI: “POTREBBE NON FARCELA”. INCIDENTE O TENTATIVO DI SUICIDIO? TUTTE LE NEWS MINUTO PER MINUTO SU TATTLECRIME.COM!<<

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Capitolo 4
*** Tell Me A Lie, Tell Me You Don't Care ***


Note: Qualcuno ha detto reunion? Qualcuno ha detto papiro? Qualcuno ha detto dialoghi senza fine in puro stile Curiosity? No? Beh ve li beccate lo stesso. MERRY MURDER CHRISTMAS BITCHES.

Even Lovers Drown

di Curiosity

4. Tell Me A Lie, Tell Me You Don’t Care


“I have not broken your heart - you have broken it; and in breaking it, you have broken mine.”

                                                                                                               (Heathcliff - Wuthering Heights)

Alla fine l’idea venne a Jack.

Era stato la prima persona che aveva visto quando il ritmico ‘bip’ delle apparecchiature lo aveva svegliato suo malgrado da un sonno che aveva sperato essere eterno. Will aveva a malapena aperto un occhio che l’ex capo della BAU aveva iniziato ad insultarlo e a spiegargli per filo e per segno cosa pensasse della codardia dimostrata nel gesto da lui compiuto. C’erano voluti due infermieri e un dottore per rimuoverlo dalla stanza, alla fine, ma non prima di aver puntato minacciosamente un dito contro Will e aver abbaiato un “Torno a trovarti domani, farai bene a non fare altri scherzi”.

Will era rimasto a fissare la porta da cui era uscito mentre i dottori gli facevano domande di routine - sa come si chiama? Qual è l’ultima cosa che ricorda? È consapevole che la dose di sonniferi da lei ingeriti sarebbe potuta essere letale?

“Sì, era quella l’idea”, aveva mormorato in risposta.

Il dottore - sulla cinquantina, in piena crisi di mezz’età, tradiva la moglie con l’infermiera che ora stava controllando la flebo di Will e dal modo in cui lei sembrava pendere dalle sue labbra era probabile che le avesse promesso, mentendo, che prima o poi avrebbe divorziato - lo aveva squadrato per qualche secondo, per poi attaccare il discorso standard circa la necessità di tenerlo sotto controllo per evitare ricadute (o che ci riprovasse), e Will aveva smesso di ascoltarlo.

Era stata Alana a trovarlo. Nella fretta di farla finita Will si era completamente dimenticato che aveva promesso alla donna di vedersi per un caffé, e quando lei era arrivata a Wolf Trap la mattina dopo l’aveva trovato riverso sul letto, i cani che uggiolavano preoccupati intorno a lui.

“Will, avresti dovuto dirmelo se le cose andavano così male”, gli aveva detto quando lo era andata a trovare, gli occhi colmi di un senso di colpa che Will non avrebbe voluto vedere. Era l’ennesima dimostrazione che, per quanto Alana tenesse a lui, davvero non riusciva a non considerarlo un caso umano bisognoso di aiuto, e si sentiva quindi in colpa per non averglielo fornito. Quando se n’era andata raccomandandogli di riposarsi Will aveva tirato un sospiro di sollievo.

Il giorno dopo quando Jack era tornato lo aveva fatto guardato a vista da un’infermiera pronta a cacciarlo nuovamente se avesse dovuto alzare la voce, recando con sé il quotidiano di Baltimora su cui campeggiava un titolo sul suo mancato suicidio.

“La notizia è su tutti i giornali, Will, anche quelli online”, aveva detto Jack. “Sai cosa sinifica?”

Will fissò lo sguardo sulla cicatrice sul collo dell’uomo, così da non doverlo guardare negli occhi.

“Pensi che Hannibal a quest’ora l’abbia letta”, rispose. “Pensi di poterla usare come esca.”

“Quello che dico è che non ha senso sprecare un’occasione del genere”, rispose l’altro infilandosi le mani in tasca. “Mezza rete è già  convinta che tu sia in fin di vita. Lasciamo che credano che tu sia morto, e che lo scrivano sui loro tabloid da quattro soldi. Scommetto il mio unico paio di scarpe firmate che Hannibal, ovunque sia, stia seguendo quello che succede qui. I continui articoli di Freddie Lounds circa suoi presunti avvistamenti e l’incapacità dell’FBI di rintracciarlo devono essere una manna per il suo ego.”

Will si leccò le labbra secche, cercando di sopprimere un tremito all’idea che Hannibal potesse venirlo a cercare, di paura o di febbrile attesa non lo sapeva nemmeno lui.

“Dai per scontato che a Hannibal importi qualcosa di me. Credo che abbia ampiamente dimostrato che così non è”, gli fece notare, senza lasciare che l’amarezza che quella consapevolezza gli dava trasparisse dalla sua voce.

Jack lo squadrò.

“Sappiamo entrambi che questo non è vero”, disse l’uomo.

“Ah davvero?”, ribatté Will, suo malgrado serrando la mandibola per l’irritazione. “Quello che so io, Jack, è che Hannibal mi ha piantato un contello in pancia e mi ha sviscerato come un pesce. Quello che so io è che ha preso un aereo verso qualche meta sconosciuta senza nemmeno sincerarsi di avermi ucciso o meno. Per quanto ne so io è probabile che nemmeno legga più i giornali americani, troppo impegnato a dorarsi al sole su qualche spiaggia con la sua psichiatra.”

Si rese conto di quanto quelle parole suonassero risentite solo quando le ebbe già pronunciate. Jack lo fissò qualche secondo in silenzio, ma fu abbastanza magnanimo da non farglielo notare quando parlò nuovamente.

“Hannibal Lecter è l’assassino più efficiente che io abbia mai incontrato nel corso della mia carriera, Will. Se non ti ha ucciso è perché non voleva farlo, non per una qualche svista.”

“Dio, Jack, non crederai che tenesse troppo a me per uccidermi?”, rise incredulo. “Se davvero era sua intenzione risparmiarmi non è stato per pietà, ma perché sapeva che così avrebbe fatto ben più male. Non meritavo una morte veloce dopo quello che ho fatto.”

“Will”, sospirò l’altro. “Né tu né io possiamo sapere quali fossero realmente le sue intenzioni. Ma vale la pena tentare. Il peggio che può accadere è che non succeda niente, e tu potrai lasciarti tutto alle spalle e andare avanti con la tua vita.”

Quale vita?, non chiese Will.

Will alla fine sospirò, scrollando le spalle.

“Fai come vuoi, Jack. Se pensi che sia una buona idea io non ti fermerò.”

Fu così che Will Graham, 38 anni, morì tragicamente a seguito di un’overdose da barbiturici da cui i medici non erano riusciti a salvarlo. La notizia fece il giro delle televisioni e dei giornali, sottolineando quanto fosse sventurato che colui che aveva aiutato a smascherare il più efferato serial killer dell’ultimo secolo avesse finito per soccombere ai propri demoni, perdendosi in un baratro di alcool e sonniferi. Non essendoci alcuna famiglia ad organizzare i funerali, la cerimonia si tenne con un certo ritardo rispetto al solito - solo una volta che l’FBI fu sicura di averla pubblicizzata a sufficienza, avrebbero detto le malelingue - alla presenza di pochi amici e conoscenti. Parole di encomio furono spese dalle figure più importanti dell’FBI, con Kade Purnell che arrivò a definire il suo contributo al bureau come “il dono più grande che il popolo americano avrebbe mai potuto desiderare”.

Will - o meglio, Kyle Lambert, in base a quanto dichiarato dai suoi nuovi documenti - seguì la vicenda con la sensazione di stare vivendo un’esperienza extracorporea. La sua bara che veniva lentamente interrata sotto una lapide che portava il suo nome era l’ultima cosa che credeva avrebbe mai visto al telegiornale, ma aveva smesso di stupirsi di quanto alla sua vita piacesse prendere pieghe singolari.

Purtroppo per l’FBI, il piano fu un fiasco totale. Di Hannibal Lecter non si scorse minimamente traccia né prima né dopo il funerale, e ben presto anche Jack fu costretto ad affrontare la realtà: ovunque l’uomo si trovasse nel mondo, o non aveva saputo, o non gli era importato abbastanza da venire a controllare di persona. Will cercò di convincersi che non fosse rammarico quello che sentì quando fu evidente che Hannibal non si sarebbe fatto vivo. Lasciò che lo spostassero sotto copertura in una clinica di riabilitazione per casi di tentato suicidio, in un complesso residenziale tranquillo nella periferia di Baltimora. Vi restò per un totale di tre giorni, poi fabbricò una corda con delle lenzuola, si calò dalla finestra e nessuno lo rivide più.

Far perdere le proprie tracce non fu difficile per chi come lui aveva lavorato per l’FBI e conosceva a memoria i loro metodi investigativi. Nonostante la preoccupazione di Jack e Alana, fu impossibile rilasciare una segnalazione di sparizione col suo volto dal momento che era quello di un uomo morto, e su questo Will aveva contato. Il suo unico rimpianto fu non potersi portar dietro i suoi cani, ma sapeva che Alana si sarebbe presa cura di loro nel caso Will avesse deciso di tornare. Non aveva alcuna intenzione di farlo.

Rubò una macchina in un parcheggio non lontano dall’ospedale, scambiandone la targa con quella dell’automobile vicina in maniera che fosse più difficile rintracciarlo. La scambiò di nuovo in West Virginia, poi in Kentucky e infine vendette la vettura a uno sfasciacarrozze in Alabama, guadagnandoci abbastanza per potersi comprare un biglietto di sola andata per la Florida. Si sistemò in una catapecchia abbandonata che incontrò su una spiaggia paludosa, iniziando a rimetterla in sesto coi tronchi di legno che la marea abbandonava levigati sulla sabbia e con gli attrezzi semiarrugginiti trovati nel capanno lì adiacente.

Dopo un paio di mesi aveva iniziato a guadagnare qualcosa svolgendo lavoretti di manutenzione sulle case del vicinato, la sua natura taciturna del tutto sorvolata dai vicini alla luce delle sue capacità manuali, e ben presto gli abitanti della cittadina poco distante iniziarono a portargli automobili in panne e motori di barche a cui dare un’occhiata dal momento che l’ultima officina meccanica del luogo aveva chiuso anni prima per via della crisi. A Will i lavori manuali non dispiacevano, nemmeno quelli pesanti, e anzi gli ricordavano la sua adolescenza passata ad aiutare suo padre al cantiere in Louisiana. Dopo qualche tempo fu in grado di comprarsi un vecchio pick-up (o meglio un rottame che ne aveva l’aspetto, ma una volta che lo ebbe sistemato divenne perfettamente funzionante anche se non bello da vedere) così da poter più facilmente ritirare e consegnare i pezzi per la sua clientela.

Il resto dei suoi introiti venivano spesi principalmente in whiskey e cibo, anche se gran parte di quello finiva sempre per lasciarlo a Lucky, il randagio che aveva preso a farsi vedere di tanto in tanto dalle parti di casa sua. Tutto sommato non era una brutta vita. Il sole della Florida gli aveva schiarito i capelli e scurito le guance, e con la barba folta a coprirgli il viso supponeva di non correre il rischio di essere accidentalmente riconosciuto. L’anonimato gli si addiceva, e nonostante di tanto in tanto avvertisse un vago senso di solitudine sapere di non dover rendere conto a nessuno, di non avere anima viva a contestare il suo stile di vita indubbiamente poco sano almeno per quanto riguardava le quantità di alcool da lui ingerite, era un sollievo. I fantasmi per qualche motivo non lo perseguitavano più.

Andava tutto bene, per lo meno fino a quella fatidica sera.

Will stava rientrando semiubriaco dal pub dove di tanto in tanto passava le sue serate quando non aveva nulla da bere a casa (buffo come avesse finito per trasformarsi in un ubriacone come suo padre dopo un’adolescenza passata a giurare di non diventarlo). Si chiuse la cigolante porta di casa alle spalle, barcollando appena attraverso il soggiorno composto di mobili recuperati da un robivecchi. Fu allora che si bloccò, un brivido alla base del collo che gli diceva che qualcosa non andava. Come quando in una foresta il predatore è vicino e improvvisamente ogni animale cessa di fare rumore come se stesse trattenendo il fiato. Il silenzio che regnava lì dentro era innaturale.

Poi una tavola del pavimento cigolò, e la figura che ancora vedeva nei suoi incubi uscì dal buio.

“Salve, Will”, disse semplicemente Hannibal, gli occhi scuri che brillavano appena nella penombra come quelli dei mostri delle favole.

Will lo fissò in silenzio, stranamente calmo, quasi non avesse ancora del tutto realizzato che fosse realmente lì.

“Sei reale?”, chiese.

“Sono reale.”

Di nuovo silenzio, e Will annuì appena come prendendone atto. Poi distolse lo sguardo e si sfilò la giacca andando a posarla su una sedia, dando le spalle all’altro come se non ci fosse.

"Non sei sorpreso di trovarmi qui?", chiese Hannibal, la nota curiosa nella sua voce così familiare da essere quasi dolorosa dopo tutto quel tempo.

Will non si voltò, versandosi un bicchier d’acqua dal lavandino e prendendone un sorso.

"No. Tu sei sempre presente nella mia mente. E' come se non te ne andassi mai."

Posò il bicchiere sul bancone, appoggiandosi ad esso con le mani e reclinando la testa con un sospiro. Sentì Hannibal avvicinarsi di qualche passo, con un incedere quasi incerto, non tanto da entrare nel suo spazio vitale ma abbastanza. Abbastanza.

Quando lo avvertì sollevare un braccio per toccarlo si voltò di scatto e gli mollò un pugno in pieno volto, tanto forte da farlo indietreggiare. Lo colpì di nuovo, e di nuovo, finché Hannibal non iniziò a parare i suoi colpi, senza battere ciglio al suo improvviso attacco.

“Non sei nelle condizioni per combattere, Will”, gli disse dopo che gli ebbe bloccato prima un braccio e poi un altro, chiudendogli i polsi in una morsa e impedendogli i movimenti. Will per tutta risposta gli diede una testata sul naso, e dovette fargli parecchio male perché Hannibal mollò la presa e barcollò all’indietro. Will colse l’occasione e gli si lanciò contro con tutta la forza che aveva, scaraventando entrambi a terra e trascinando con loro un tavolino e la rispettiva lampada che si infranse al suolo.

A cavalcioni dell’altro iniziò a tempestarlo di pugni, così come aveva fatto con Randall Tier la notte che lo aveva ucciso a mani nude, immaginando che al suo posto ci fosse Hannibal. Che ironia che il suo desiderio si fosse avverato ma che non provasse nemmeno un briciolo dell’esaltazione che aveva provato allora.

Quando si fermò non fu perché avesse esaurito la rabbia dentro di sé, ma perché un improvviso capogiro lo costrinse a stringersi alle spalle di Hannibal per non cadere. L’uomo gli prese subito il volto tra le mani, senza permesso, come aveva sempre fatto, incurante del sangue che gli spillava dal naso e dal labbro spaccato.

“Will, quando è stata l’ultima volta che hai mangiato?”, chiese come se Will non avesse appena tentato di ucciderlo a suon di pugni. Non aveva opposto alcuna resistenza, anche se avrebbe potuto, si era solo difeso.

Non aveva fatto tutta quella strada per lasciare che Will lo allontanasse.

Osservò Will scuotere la testa e tentare flebilmente di alzarsi, ma la sua presa lo trattenne lì dov’era. Hannibal si rese conto solo in quel momento che il peso del corpo su di lui era fin troppo leggero per un uomo dell’altezza di Will. I vestiti larghi nascondevano una serie di angoli sporgenti che ora Hannibal poteva sentire su di sé - ed era magro, troppo magro, quasi morto di fame, quasi come Mischa.

“Rispondimi, Will.”

“Sta’ zitto”, sbottò lui in risposta, gli occhi chiusi come a placare una vertigine.

Prima che potesse protestare ulteriormente Hannibal si alzò a sedere e chiuse la presa intorno a lui, sollevandosi in piedi tenendolo tra le braccia. Will emise un verso di protesta, ma era troppo debole e ubriaco per opporre realmente resistenza. Tentò comunque di divincolarsi, e Hannibal lo strattonò una volta con disapprovazione.

“Non essere cocciuto, Will”, lo redarguì sistemandolo sul letto (in soggiorno anche quello, come a Wolf Trap, ma in questo caso l’abitazione non aveva un piano superiore), tentando di sbrogliare il groviglio di coperte  disfatte in maniera da potervelo avvolgere.

“Non sono un bambino”, protestò Will.

“Allora smetti di comportarti come tale”, ribatté lui. Finì di sistemare l’altro ed estrasse un fazzoletto dalla tasca, tamponandosi il labbro e il naso e pulendosi il volto dal sangue. Will lo fissò in silenzio per tutto il tempo, gli occhi sfocati dall’alcool. “Suppongo che quando aprirò la tua credenza non vi troverò nulla di commestibile, non è così?”

Will continuò a fissarlo accigliato, scuotendo appena la testa.

“Perché sei qui?”, chiese con un filo di voce invece di rispondere.

Hannibal batté le palpebre.

“Lo sai il perché.”

“Sei qui per uccidermi una volta per tutte.”

L’altro assunse per un attimo l’espressione che esibiva ogni volta che Will lo coglieva di sorpresa con una delle sue risposte.

“Non voglio ucciderti”, rispose.

“Non ha importanza quello che vuoi”, ribatté l’altro, le dita che formicolavano un po’ per l’alcool un po’ per i pugni che aveva tirato, la lingua impastata dal whiskey. “Sei qui, e non esiste altro destino per me e te insieme se non la morte.”

Hannibal sorrise appena.

"Non pensavo credessi nel destino, Will".

Will non ricambiò l’espressione.

"Non si tratta di azioni preordinate, ma di scelte”, biascicò. “Non ho intenzione di lasciare la tua vita in mano a qualcun altro. Dopo tutto quello che mi hai portato via hai un debito con me. Il tuo futuro mi appartiene, comunque vada a finire questa notte."

Hannibal tacque per qualche secondo.

"Non deve per forza finire", disse infine.

Will lo scrutò come se stesse cercando nel suo sguardo una qualsiasi trappola o inganno, ma per una volta Hannibal non aveva alcun secondo fine. Quasi.

“C’è del pesce nel freezer”, mormorò Will alla fine, indicando la cucina con un cenno della testa. Hannibal annuì e si alzò in piedi.  Will gli afferrò il polso senza realmente volerlo, e l’altro si voltò a guardarlo. Si fissarono per qualche secondo, poi Hannibal posò la propria mano sulla sua, sciogliendogli la presa gentilmente, un dito dopo l’altro.

“Riposa, Will. Sarò qui quando ti sveglierai.”

Will lo seguì con lo sguardo mentre entrava in cucina, accendendo la luce e mettendosi ad armeggiare tra gli sportelli in cerca degli utensili necessari. Lentamente le sue palpebre iniziarono a calare, e quando si addormentò fu con la certezza che la sua mente gli avesse giocato semplicemente un altro scherzo e che nulla di tutto ciò che aveva appena visto fosse reale.

*

A svegliarlo fu il profumo del cibo. Per un attimo pensò di essere tornato a casa la sera prima ed essersi preparato qualcosa da mangiare senza esserne del tutto consapevole, poi la sua mente ricordò.

Spalancò gli occhi e si tirò a sedere di scatto, pentendosene non appena l’emicrania post sbornia si fece sentire. Serrò i denti con forza, posando i piedi a terra. Dalla porta della cucina filtrava della luce ma forse, solo forse, l’aveva lasciata accesa lui la sera prima. Non era più sicuro nemmeno lui di sapere cosa volesse.

“Hannibal?”, chiamò incerto, e suo malgrado il cuore gli balzò in gola quando la porta si spalancò e il suo ex-psichiatra gli sorrise dalla soglia.

“Buongiorno, Will”, disse semplicemente, e solo in quel momento il profiler si rese conto che dalle finestre filtravano le prime luci dell’alba. Si accorse anche che la sua abitazione era più in ordine di quanto non la ricordasse, e capì che l’altro doveva aver fatto pulizia mentre dormiva, gettando le bottiglie vuote di birra e whiskey chissà dove e raccogliendo i vestiti che era solito lasciare in giro. Non era sicuro di sapere come quella conspevolezza lo facesse sentire.

“Se vuoi andare a lavarti la colazione è pronta.”, disse Hannibal prendendo i pochi piatti spaiati che Will possedeva e iniziando ad apparecchiare come se nulla fosse. “Anche se questa volta mi hai davvero messo alla prova vista la penuria di ingredienti-”

“Sei reale”, lo interruppe Will, ma questa volta non era una domanda. Ora sapeva di non stare sognando.

Hannibal sollevò la testa, osservandolo.

“Sì”, rispose semplicemente.

Will si alzò in piedi, testando il proprio equilibrio, e quando vide che la terra rimaneva lì dov’era si avviò lentamente verso il bagno, passando dall’ingresso. Con la coda dell’occhio vide che Hannibal era tornato in cucina, e si affrettò a infilare la mano nella sua giacca da lavoro, trovandola vuota.

“Se stai cercando il cellulare, l’ho gettato in mare qualche ora fa”, disse a voce alta Hannibal dalla cucina, come se sapesse perfettamente cosa gli passava per la testa.

Will strinse i pugni e non rispose, infilandosi in bagno e sbattendosi la porta alle spalle. Non era che avesse deciso di chiamare l’FBI. Per quanto l’idea di Hannibal dietro le sbarre fosse allettante non era sicuro che avrebbe avuto la forza di fare ciò che già una volta non gli era riuscito. Era la mancanza di scelta che non gli piaceva affatto.

Quando ebbe finito in bagno si avviò lentamente verso la cucina, notando i vestiti che indossava la sera prima piegati su una poltrona. Hannibal doveva averlo svestito mentre dormiva, lasciandolo in t-shirt e boxer. Anche quello era qualcosa per cui non sapeva come sentirsi.

Hannibal gli fece cenno di sedersi e gli mise davanti un piatto fumante.

“Aringhe al forno con mousse di fagioli e crostini all’aglio.”

“Cena per colazione?”, si ritrovò a chiedere Will.

L’altro sorrise appena.

“Dal momento che dubito che tu abbia cenato ieri, o il giorno prima a dire il vero, credo sia appropriato, anche alla luce della cospicua quantità di alcool da te ingerita solo poche ore fa. Inoltre, come ho già detto, la scarsezza di provviste ha in qualche modo limitato la scelta di pietanza.”

Will assaggiò il primo boccone - la cosa buona del pesce era che non vi era modo di confonderlo con carne umana - e l’esplosione di sapori che sentì sulla lingua gli fece chiudere gli occhi. Non avrebbe mai voluto ammetterlo, ma la cucina di Hannibal gli era mancata.

“Come mi hai trovato?”, chiese senza alzare gli occhi dal piatto.

“Ha importanza?”

“Per me sì. Voglio sapere quante persone hai ucciso per arrivare fin qui.”

Il rumore delle posate di Hannibal si interruppe, e Will poté sentire il suo sguardo su di lui. Non gli diede la soddisfazione di incrociarlo.

“Meno di quante potresti pensare”, rispose.

“Ti sto ascoltando.”

Il rumore di posate riprese.

“Il dottore che ti aveva in cura all’ospedale dopo il tuo tentativo di suicidio”, iniziò, con lo stesso tono con cui avrebbe elencato un nuovo elettrodomestico per la sua cucina. “Temo che la polizia scoprirà che l’infermiera con cui aveva una relazione non gradiva il fatto che non avesse intenzione di lasciare la moglie.”

“Perché sei andato proprio da lui?”, chiese Will continuando a mangiare. Cercò di trovare dentro di sé una briciola di rammarico per l’uomo, ma scoprì di non averne. Era stanco di preoccuparsi degli altri.

“Perché ero certo che la tua morte fosse stata tutta una messinscena, ma non potevo provarlo. All’inizio credevo che anche il tentativo di suicidio lo fosse, ma poi ho scoperto altrimenti. Quando ho appreso la notizia ho preso il primo volo da Firenze e sono andato all’ospedale menzionato dai giornali per avere delle risposte.”

“Se eri così sicuro che fosse tutto falso perché sei tornato negli Stati Uniti? Avresti potuto assumere un investigatore privato a distanza se erano solo risposte quelle che cercavi.”

Hannibal non rispose, e fu il turno di Will di alzare la testa senza che l’altro incrociasse il suo sguardo.

“Oh”, mormorò Will, e sentì una soddisfazione crudele scaldargli il petto. “Il freddo, razionale Hannibal Lecter che agisce d’impulso. Non è da te.”

“Fino a qualche tempo fa avrei detto che tentare di toglierti la vita non è da te, Will, eppure siamo qui”, ribatté l’uomo con eguale cattiveria, e Will tacque. Di tanto in tanto si chiedeva come avesse fatto a non notare fin da subito il sadismo dell’altro quando si erano conosciuti. Ferire gli veniva così facile, sapeva sempre dove colpire per far male.

Posò la forchetta, sentendo che gli si era chiuso lo stomaco, senza alzare lo sguardo.

“Le mie scuse”, disse Hannibal dopo qualche secondo. “Non era mia intenzione farti perdere l’appetito.”

“No, volevi solo ferirmi”, rispose lui glaciale. “E’ quello che ti riesce meglio.”

Hannibal posò a sua volta le posate sul piatto, ordinatamente, una accanto all’altra.

“Perché l’hai fatto, Will? Perché hai cercato di ucciderti?”

Will soppesò la possibilità di non rispondergli. Dopo tutto quello che gli aveva fatto Hannibal non meritava di avere nuovamente accesso alla sua testa.

“Perché ero stanco”, rispose vago, ma poi incrociò lo sguardo dell’altro e il resto della verità gli scivolò fuori dalle labbra. “E perché speravo che venirlo a sapere ti avrebbe fatto del male.”

Hannibal sembrò soppesare la sua risposta, come se tentasse di decidere se si trattasse o no di manipolazione.

“Ti fa sentire meglio sapere che ci saresti riuscito?”

Fu il turno di Will di guardare l’altro in cerca di tracce di menzogna, ma non ne trovò.

“Sì”, rispose sinceramente.

Lentamente ripresero a mangiare, il silenzio rotto solo dal rumore delle posate sui piatti.

“Mi hai lasciato il tuo cuore nella Cappella Palatina”, disse Will dopo un po’.

Hannibal alzò nuovamente lo sguardo su di lui.

“Lo hai visto?”

Will annuì.

“Lo hanno trasmesso alla televisione. Hanno detto che ha causato un certo scompiglio a Palermo.”

“E cosa hai pensato?”

Che fosse il dono più bello che mi avessero mai fatto.

Will si morse la lingua per impedirsi di dare quella risposta.

“Che fosse il tuo modo per dirmi di venire da te”, disse invece.

“Un’esca, come la notizia della tua morte”, osservò Hannibal.

“Sì. La differenza è che tu hai abboccato”, disse, questa volta senza tono canzonatorio. Era un semplice dato di fatto. “Jack era sicuro che avrebbe funzionato. Era certo che il tuo ego ti avrebbe spinto a seguire i giornali americani alla ricerca di notizie su di te.”

“Jack mi dipinge come più narcisista di quello che sono”.

Will sollevò un sopracciglio.

“Non potresti essere più narcisista nemmeno se morissi affogato per aver fissato innamorato il tuo riflesso in una pozza d’acqua.”

A quel commento Hannibal sorrise come solo lui sapeva fare, con gli occhi e con una curva appena accennata delle labbra, come faceva ogni volta che Will gli dava motivo di ricordarsi del perché la sua compagnia gli piacesse così tanto. Will abbassò lo sguardo, sopraffatto dalla fitta di nostalgia che provò. Non si era reso conto di quanto quell’espressione gli fosse mancata fino a quel momento.

Si alzò in piedi pur di fare qualcosa, portando il piatto vuoto fino al lavandino e iniziando a lavare le stoviglie che Hannibal aveva usato per cucinare. Dopo poco l’uomo si unì a lui, asciugando ciò che Will gli passava e disponendo il tutto in una pila ordinata.

Will sentiva la tensione irrigidirgli i muscoli e i movimenti. Il suo gomito sfiorava di tanto in tanto quello di Hannibal, e ogni volta era come se una scarica di elettricità lo percorresse da capo a piedi. Faceva male.

"Non avevi mai usato il mio nome prima”, osservò Hannibal. “Non di fronte a me, almeno."

Will si rese conto che aveva ragione. Nella sua vecchia vita si era sempre rivolto ad Hannibal come ‘Dr Lecter’, prima per rispetto, poi, quando aveva cercato di ingannarlo sfruttando l’evidente attrazione di Hannibal per ciò che Will era, per provocarlo.

“Te l’ho detto. Hai passato molto tempo nella mia testa mentre non c’eri. Era diventato strano continuare a pensare a te come al Dr Lecter”.

La sua voce suonò tesa alle sue stesse orecchie.

“Respira, Will”, lo sentì dire con la consueta calma compostezza. Gli aveva sempre invidiato quell’autocontrollo. “Non sono qui per farti del male.”

“Disse il ragno alla mosca”, mormorò Will.

Hannibal gli gettò uno sguardo con la coda dell’occhio, continuando ad asciugare.

“Il ragno per la mosca è un predatore naturale. Tu non sei la mia preda, sei mio amico”.

Will rise senza un briciolo di allegria.

“Io e te siamo amici nella stessa maniera in cui un pugnale nel ventre può essere considerato solo una ferita superficiale”, dichiarò a bassa voce senza alzare lo sguardo. “Minimizzando qualcosa che potrebbe benissimo portare alla morte.”

La metafora non era stata scelta a caso, e lo sapevano entrambi.

“L’amicizia necessita la nostra vulnerabilità”, osservò l’altro. “Significa lasciare che un’altra persona ci veda per ciò che siamo realmente. Non si può essere amici di qualcuno che non sa chi siamo. Essere visti ci espone all’eventualità di essere feriti.”

Will strinse i denti, appoggiando i palmi delle mani al lavandino e chiudendo gli occhi.

“Ogni cosa mi ferisce”, disse quasi con rabbia. “E' la condanna dell’avere un disturbo dell’empatia. E’ per questo che ti piaccio così tanto. Tu adori vedere gli altri soffrire.”

Hannibal non negò le sue parole, voltandosi di lui. Will poteva sentire il suo sguardo sul viso anche ad occhi chiusi.

“Tu soffri splendidamente, Will”, disse quasi con dolcezza.

Prima che se ne rendesse conto Will aveva afferrato un coltello dal lavandino e lo aveva premuto alla gola di Hannibal, l’altra mano che gli stringeva il colletto della camicia in una morsa. L’altro si fece perfettamente immobile ad eccezione del movimento dei suoi occhi, che sembravano non riuscire a decidere dove posarsi e stavano ora esplorando Will - il suo volto, la sua posizione minacciosa, i suoi denti snudati come quelli di un animale pronto all’attacco - come se non avessero mai visto nulla di più bello al mondo.

“Dammi solo un buon motivo per cui non dovrei farlo”, ringhiò Will, premendo con la lama affilata abbastanza da rischiare di lacerargli la pelle del collo e allo stesso tempo da rendergli più difficoltoso respirare.

Hannibal non si scompose. Continuò a sostenere il suo sguardo, le pupille che avevano quasi inghiottito del tutto l’iride castano-rossastra dei suoi occhi.

“Non ne ho nessuno”, ammise a bassa voce.

Will espirò. Razionalmente sapeva che se Hannibal avesse voluto sarebbe probabilmente riuscito a liberarsi. Era allenato, in forze, mentre Will era malnutrito e di certo non più abituato a difendersi in combattimento. Ma Hannibal era anche un maledetto stronzo supponente, e Will era sicuro che quello fosse il suo modo di metterlo alla prova. Stava scommettendo la sua vita sul fatto che Will non sarebbe riuscito ad andare fino in fondo, limitandosi ad osservarlo con aria placidamente curiosa, ed era qualcosa così tipico di lui che Will avrebbe voluto ricominciare a prenderlo a pugni solo per cancellargli quell’espressione dalla faccia.

Sarebbe stato così semplice. Un guizzo del polso e si sarebbe liberato di lui per sempre.

“Allora credo che tu abbia un grosso problema”, sibilò Will, il volto estremamente vicino al suo tanto che Hannibal poteva sentire il suo fiato sulle labbra.

L’espressione ferale sul viso di Will era qualcosa di magnifico. Si rammaricava solo di non avere con sé nulla per poterla imprimere su carta e renderla immortale. Aveva atteso così a lungo per poter osservare Will senza inibizioni, senza i freni imposti dal retaggio di un’educazione elargita da creature inferiori. Il fatto che quella ferocia fosse rivolta a lui passava del tutto in secondo piano.

Hannibal affondò lo sguardo in quegli occhi di un azzurro indefinibile, in grado di cambiare a seconda della luce e di ciò che gli era intorno e divenire verde, grigio, blu notte - colori estranei che si appropriavano del suo sguardo, lo inghiottivano e lo trasformavano fino a non renderlo più lo stesso, così come lui  per anni non era più stato se stesso ogni volta che scivolava nella mente di un serial killer e si annullava nei suoi pensieri, ma non adesso, non qui; qui Will era una creatura di suo proprio disegno - e vi trovò la fame di violenza che aveva sempre saputo far parte di Will. Inspirò profondamente, incurante della lama puntata al suo collo, imprimendosi nella mente il profumo dell’altro - paura, rabbia, disperazione e sete di sangue. Semplicemente sublime.

“Mi sei mancato, Will.”

Will ringhiò e lo spinse via, aprendogli col movimento un taglio alla gola, non abbastanza profondo da costituire un pericolo ma comunque abbastanza da iniziare a grondare sangue. Nel tempo che Hannibal impiegò a portarsi la mano alla gola per accertare i danni e dichiararla una ferita superficiale, Will gettò il coltello nel lavandino e afferrò le sigarette, sgusciando fuori dall’abitazione prima che l’altro potesse fermarlo.

Percorse duecento metri di spiaggia prima di fermarsi, il fiato corto e la luce del basso sole nascente che gli feriva gli occhi. Estrasse una sigaretta e dopo qualche iroso tentativo e altrettante imprecazioni riuscì a convincere l’accendino a funzionare, accendendola e prendendone un lungo tiro. Si sentì immediatamente più calmo - autosuggestione, lo sapeva, ma bastava che funzionasse - e lentamente i tremiti che lo scuotevano diminuirono fino a divenire poco più che brividi. Si rese conto di essere uscito di casa in nient’altro che maglietta e boxer solo quando riacquistò abbastanza controllo da accorgersi del morso dell’aria fredda sulla pelle.

Avvertì la presenza di Hannibal alle sue spalle senza che l’altro facesse il minimo rumore. Era disarmante notare quanto ancora fossero istintivamente in armonia l’uno con l’altro.

“Fissazione orale?”, chiese l’uomo alle sue spalle.

Will espirò profondamente, volute di fumo che si perdevano nel riverbero dell’alba.

“Non giudicarmi.”

“Non l’ho mai fatto.”

Lo sentì avvicinarsi lentamente, ma prima di avere il tempo di irrigidirsi Hannibal gli aveva posato una giacca sulle spalle. Will se la strinse addosso senza dire nulla.

“Pensi che cercherai di nuovo di uccidermi, Will?”

La voce di Hannibal era calma e misurata, nonostante Will potesse vederlo con la coda dell’occhio mentre si premeva uno strofinaccio sul collo per arginare il sangue che ancora gli sgorgava dalla ferita da lui inferta.

Will prese un altro tiro, scuotendo la testa.

“No. Credo sia stato appurato che non ne sono in grado. Tu pensi che cercherai di uccidermi?”

“Non è per questo che sono qui.”

Will si voltò verso di lui, dando le spalle al mare. Il cielo rossastro illuminava i suoi ricci con un’aureola di luce. Nonostante le occhiaie e l’aria trasandata Hannibal non sarebbe riuscito a distogliere lo sguardo nemmeno volendo.

“E perché sei qui?”

“Perché volevo vederti”, rispose, pur sapendo che come risposta non si avvicinava nemmeno lontanamente a spiegare il groviglio di sentimenti che lo avevano portato a salire su un aereo senza realmente soppesare le conseguenze come aveva sempre fatto.

“La verità è che non lo sai nemmeno tu perché sei tornato”, ribatté Will. “Vuoi sapere cosa penso?”

“Sempre.”

Will cercò di ignorare il brivido d’orgoglio che quella risposta gli fece provare.

“Penso che in Europa tu abbia ucciso solo per inerzia. Come ci si sente a non trovare più abbastanza soddisfazione nelle vecchie abitudini?”

Hannibal non sbatté nemmeno le ciglia.

“Ti assicuro che la soddisfazione era più che sufficiente.”

“Davvero? Io credo invece di no”, disse Will,  muovendo un passo verso di lui. “Uccidere è sempre stato per te come infilare un completo su misura, come indossare la tua stessa pelle. Ma io ti ho cambiato, e se c'è una cosa che non sopporti è un abito che non ti sta a pennello.”

“Credi di aver placato la mia sete di sangue?”, chiese inclinando il capo da un lato.

“No. Credo che avessi fatto talmente la bocca all’idea di spingermi a uccidere con te che ogni tuo omicidio da quando hai lasciato gli Stati Uniti ti ha lasciato freddo. Piatti insipidi, quando una volta per te affondare le mani nel petto di qualche maiale immeritevole equivaleva a un banchetto per i sensi.”

Erano l’uno di fronte all’altro, ora. Will gettò la sigaretta tra la sabbia, esalando un’ultima nuvola di fumo.

“Mi sbaglio?”, lo incalzò.

“Cosa vuoi farmi ammettere, Will?”

Will tacque. Non lo sapeva nemmeno lui. Che non era stato l’unico a stare male, forse. Che quella separazione era costata a Hannibal quanto era costata a lui.

“Vuoi che ti dica che avevi ragione? Che mi hai cambiato? Sei un ragazzo estremamente brillante. Sai già che è così.”

La facilità con cui lo ammise stupì Will e al contempo gli riempì il petto di una ridicola forma di sollievo. Deglutì, sentendosi estremamente trasparente sotto lo sguardo intenso dell’altro.

Hannibal estese una mano verso di lui, in una richiesta di permesso silenziosa. Lo sguardo di Will si spostò involontariamente verso l'altra mano, ancora ferma al suo fianco. L'ultima volta che lo aveva avuto così vicino, faccia a faccia, quella mano aveva brandito un coltello.

Lentamente, come se avesse avuto a che fare con un animale spaventato, le dita di Hannibal si intrecciarono coi riccioli alla base del suo cranio, e Will cercò di ignorare la sensazione che fosse un incastro perfetto, un pezzo di puzzle nato per stare lì.

“Una verità per una verità”, propose Hannibal. “Risponderai?”

Will esitò solo un attimo, poi annuì. Non aveva più la forza per lottare contro un legame che si era inesorabilmente sigillato molto tempo prima.

Hannibal lo guardò per un lungo momento prima di parlare.

“Sarebbe stato davvero così orribile, Will? Venire via con me?”

Will sentì il cuore schizzargli in gola. Eccola, la domanda fatidica. Quella che la sua mente gli aveva riproposto giorno dopo giorno, notte dopo notte, da quando la sua vita era andata a puttane. Si era sforzato così a lungo di ignorarla per non dover rispondere che sentirla pronunciata a voce alta fu come ricevere uno schiaffo in pieno volto. Pensò a Abigail, al modo insistente con cui il suo fantasma aveva cercato di fargli accettare il fatto che si sentisse abbandonato. Pensò a Beverly, al modo in cui la stessa mano che ora giaceva gentile sul suo volto dovesse essersi chiusa intorno alla sua gola per ucciderla. Pensò ad Alana, e a Jack, e a tutte le persone il cui sangue era stato versato che il suo cuore coi suoi ridicoli desideri reconditi tradiva ad ogni battito.

Il pollice di Hannibal gli accarezzò lo zigomo, ancorandolo e facendolo tornare al presente. Will sollevò gli occhi su di lui, e per una volta fu sincero con se stesso.

“No.”

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Capitolo 5
*** I'll Die If You Deny Me ***


Note: Questo doveva essere l’ultimo capitolo ma pare che io non riesca a smettere di scrivere, per cui a quanto sembra ce ne sarà almeno un altro, se non due.

Even Lovers Drown

di Curiosity

5. I’ll Die If You Deny Me

"My love for Heathcliff resembles the eternal rocks beneath: a source of little visible delight, but necessary.

Nelly, I am Heathcliff! He's always, always in my mind: not as a pleasure, any more than I am always a pleasure to myself, but as my own being.

So don't talk of our separation again: it is impracticable."

                                   (Catherine Earnshaw, Wuthering Heights)

Quando rientrarono in casa il sole iniziava ad alzarsi nel cielo, e il randagio a cui Will dava spesso da mangiare scodinzolava sul portico in attesa di ricevere qualcosa per colazione. Will tirò fuori una coscia di pollo dal frigo e lo lasciò a rosicchiarne l’osso sulle tavole di legno della veranda che andavano scaldandosi alla luce mattutina. Scorse una macchina parcheggiata poco lontano dalla sua abitazione e suppose fosse l’auto con cui Hannibal doveva essere arrivato fin lì - una vecchia Ford, di certo nulla a che vedere con la Bentley che l’uomo aveva posseduto a Baltimora.

Rientrò dentro, chiudendosi la porta alle spalle e lasciando che Hannibal gli togliesse la giacca dalle spalle per appenderla. Si accorse di sentirsi stanco, o meglio, svuotato. Non aveva la più pallida idea di quale fosse la direzione che la sua vita stava prendendo ma non aveva la forza per curarsene.

“Quanto ti fermerai?”, chiese.

Sembrava un quesito così banale, così… fuori luogo. Come se Hannibal fosse un vecchio amico in visita, e non l’uomo che l’aveva quasi ucciso.

“Hai così fretta di mandarmi via?”, sorrise l’altro.

“No”, rispose sinceramente. “Ma la casa è stata pensata per una persona sola. Oltre a non esserci cibo ho un solo letto e ben pochi vestiti da prestarti.”

“Per i vestiti non devi preoccuparti”, disse Hannibal indicando con un cenno del capo un borsone scuro che Will prima non aveva notato, appoggiato vicino al suo sgangherato armadio. Per qualche motivo gli veniva difficile immaginare che Hannibal potesse viaggiare con solo quella misera quantità di vestiti. Non poteva esserne certo, ma scommetteva che nella sua vecchia vita lo psichiatra avesse posseduto una cabina armadio, di quelle abbastanza grandi da ospitare comodamente una famiglia intera.

“Per la sistemazione notturna posso dormire sul divano”, continuò Hannibal. “Sono più adattabile di quanto tu non creda”.

“Non la penserai così quando ti si conficcheranno le sue vecchie molle tra le costole mentre dormi.”

Hannibal sorrise.

“Cosa suggerisci, allora?”

“Ci dormo io, tu puoi prendere il letto. Da qualche parte devo avere delle lenzula di ricambio.”

“Non è necessario, Will”, ribatté l’altro. “La tua forma fisica non versa nelle condizioni migliori. Preferirei saperti in un letto comodo, considerando il fatto che suppongo tu continui ad avere episodi d’insonnia. Non è così?”

Will non poté negarlo, quindi si limitò a scrollare le spalle. Cercò di non concentrarsi troppo sul modo in cui Hannibal sembrava preoccuparsi per la sua salute, o avrebbe iniziato a chiedersi il perché e a cercare segni di manipolazione dietro ogni sua parola.

“Come vuoi, ma non dirmi che non ti avevo avvertito”, disse infine, passandosi una mano sugli occhi. Ora che era completamente sveglio poteva sentire la testa pulsargli ritmicamente coi postumi della sbornia.

Hannibal gli posò una mano sulla spalla senza preavviso, e Will quasi sobbalzò.

“Non hai dormito abbastanza”, osservò l’uomo ignorando la reazione istintiva di Will e lasciando la mano lì dov’era. Terapia comportamentale tramite esposizione, suggerì la mente di Will senza che lui glielo chiedesse. La ripetizione di uno stimolo temuto finché la paura non diminuisce con l’abitudine.

Will si autozittì mentalmente.

“Sto bene”, rispose teso.

“Dovresti riposare”, ribatté l’altro. “Nel frattempo io farò un salto in città a comprare qualcosa da mangiare.”

“Dubito che al supermercato abbiano il tipo di carne che preferisci”, disse prima di riuscire a trattenersi.

Hannibal si limitò a guardarlo.

“Credo di poterne fare a meno per qualche tempo. Ti fidi di me?”

“Assolutamente no”, rispose Will senza alcuna esitazione.

Gli occhi scuri di Hannibal assunsero una luce divertita.

“Lo immaginavo. Motivo per cui puoi star certo che farò quanto è in mio potere per essere sincero in questo frangente e riconquistare la tua fiducia.”

Will lo squadrò accigliato.

“Sono sicuro che questo ragionamento nella tua testa abbia senso, ma non ce l’ha”, lo informò. “E’ come se il lupo chiedesse a Cappuccetto Rosso di fidarsi dopo averla già mangiata, con la scusa che farebbe qualsiasi cosa pur di guadagnarsi nuovamente la sua fiducia e poterla mangiare di nuovo.”

Hannibal non sembrò minimamente offeso dal paragone, e gli scoccò un’occhiata quasi allegra mentre si infilava la giacca di pelle. Will non l’aveva notata la sera prima.

“Per quanto sono certo che cibarmi di te sarebbe un’esperienza che ricorderei per il resto della vita, Will, non è al momento tra le mie intenzioni.”

Al momento.

Will emise un sospiro, andando a sedersi sul letto e aprendo il cassetto del comodino in cerca di un analgesico.

“Lo sai, vero, che c’è una taglia sulla tua testa?”, gli ricordò.

Hannibal sembrò oltremodo divertito.

“Oh, sì. Mason Verger ha apparentemente quantificato il valore della mia vita in due milioni di dollari. Ho chiamato il suo numero un paio di volte da Firenze, tanto per divertirmi.”

Hannibal posò una mano sulla sua prima che potesse inghiottire una pillola, esaminando la scatola di antidolorifici e leggendone i componenti prima di lasciarlo andare, il medicinale avendo evidentemente passato la sua ispezione. Will cercò di non sentirsi irritato ad essere trattato come un bambino.

“E nessuno in tutto questo tempo ti ha riconosciuto?”, chiese invece, ingollando la pastiglia a secco.

“No. Non è poi così difficile essere invisibili se sai come farlo”, rispose l’altro sfilando un paio di occhiali da sole dal taschino della giacca e indossandoli.

Will impiegò qualche secondo per capire che l’uomo stava facendo sul serio.

“Chi credi di essere, Clark Kent?”

“La gente è cieca, Will. Vede solo ciò che vuole vedere”, affermò  Hannibal. “L’immagine che i media hanno fornito di me sono quelle del mostro in camicia di forza e maschera antimorso o quelle dello scapolo altolocato avvolto in un completo su misura. Non si aspettano di trovarsi davanti una persona normale in abiti dozzinali.”

Will ridacchiò.

“Il fatto di indossare una giacca di pelle non ti rende automaticamente working class, Hannibal, soprattutto se è chiaramente pelle vera e cucita a mano. E scommetto che quei pantaloni erano parte di un completo.”

Hannibal sollevò un sopracciglio.

“L’importante è che non diano nell’occhio”, disse senza negare né confermare l’intuizione di Will. Il profiler lasciò cadere l’argomento solo perché in effetti, essendo neri tinta unita, davano decisamente meno nell’occhio di uno qualsiasi degli atroci abiti a fantasia scozzese che l’uomo aveva usato portare.

“D’accordo, la massa è facilmente sviabile”, concesse Will. “Ma l’FBI?  Jack sta cercando sia me che te, anche se per ragioni diverse. Se tu sei riuscito a trovarmi può farlo anche lui.”

Le labbra di Hannibal si piegarono appena in un’aria soddisfatta.

“No, lo escludo.”

Will sbatté le palpebre.

“Li hai depistati”, intuì.

L’altro inclinò la testa in segno di assenso.

“Il dottore della clinica non sapeva dove tu fossi diretto, ma un rapido controllo incrociato delle auto rubate nella zona e di quelle di cui era stato denunciato un cambio di targa non autorizzato mi ha permesso di seguire le tue tracce fino in Alabama. Un vero peccato che molti di quei documenti siano andati inspiegabilmente persi nell’archivio prima che l’FBI avesse il tempo di consultarli.”

“Ho capito, sei stato estremamente cauto. Questo ancora non spiega come sei arrivato qui.”

Hannibal scrollò appena le spalle.

“Ho supposto che ti saresti recato in un luogo che ti fosse congeniale, isolato ma abbastanza familiare da non farti sentire spaesato. Ho escluso la Louisiana perché sarebbe stato troppo ovvio, e ho optato per il luogo analogo più vicino all’ultimo posto dove sapevo che eri passato.”

L’ex profiler lo squadrò per qualche secondo.

“Vuoi dirmi che hai percorso la Florida a casaccio fino a trovare il giusto meccanico solitario con la tendenza ad alzare il gomito tra le centinaia che devono esistere in questo stato?”

“Perché credi che abbia impiegato mesi a trovarti?”

Will si passò una mano tra i capelli. Se non avesse saputo che l’altro era serissimo si sarebbe messo a ridere per l’assurdità delle sue affermazioni.

“Ho bisogno di dormirci sopra”, mormorò, scuotendo la testa.

Il pensiero che Hannibal avesse passato mesi a cercarlo col rischio di farsi scoprire, per nessun altro motivo se non per vederlo, era decisamente troppo da digerire in un colpo solo.

Alla fine lasciò che Hannibal si recasse in città - non c’era poi molto che avrebbe potuto fare per fermarlo, anche volendo - e per tutto il tempo in cui l’uomo stette via Will non riuscì a staccare gli occhi dalla porta, le orecchie tese a carpire il minimo rumore che potesse assomigliare al crepitare delle ruote di un auto sullo sterrato che portava a casa sua. Continuava a ripetersi che si trattasse di apprensione al pensiero di cosa Hannibal avrebbe potuto combinare se avesse deciso di lasciarsi andare ai suoi istinti, ma sapeva che era una menzogna.

Quello che temeva, era che non tornasse. E che tornasse, in egual misura.

Quando infine lo sentì rientrare si finse addormentato, e fu grato del fatto che il senso più acuto di Hannibal fosse l’olfatto e non l’udito, o era certo che sarebbe riuscito a sentire il cuore che gli galoppava nel petto senza che riuscisse a quietarlo.

*

Era strano, come il tempo riuscisse a rendere normali anche le cose più bizzarre. Se qualcuno solo un mese prima avesse detto a Will che si sarebbe ritrovato a convivere piuttosto pacificamente con Hannibal Lecter si sarebbe probabilmente messo a ridere. E invece, i giorni iniziarono a passare uno dietro l’altro trasformandosi in settimane, e una sorta di strano equilibrio si creò tra loro.

Will ogni mattino prendeva un quaderno e vi disegnava un orologio per ricordarsi che quella era la realtà.

Mi chiamo Will Graham. Sono le 7:45 del mattino e mi trovo a Naples, Florida. Sono in piedi nel mio soggiorno e ho un serial killer ricercato dall’Interpol che mi prepara la colazione in cucina.

La realtà non era mai stata più surreale, e Will scoprì di non avere la forza per curarsene.

Hannibal iniziò ad aiutarlo a rimettere in sesto la catapecchia in cui viveva - vivevano, adesso - e Will dovette abituarsi all’immagine del suo aristocratico ‘ospite’ che svolgeva lavori manuali come una persona normale. Per qualche motivo gli veniva difficile credere che l’uomo potesse usare la sua considerevole forza fisica per qualcosa che non fosse uccidere, o che potesse abbandonare i suoi capi firmati per i jeans e la maglietta da lavoro che Will gli fornì. Nonostante ciò, Hannibal si dimostrò più che utile, e mai una volta si lamentò del fatto che Will si approfittasse della sua disponibilità appioppandogli i lavori più pesanti tanto per fargli dispetto.

In compenso, l’uomo diveniva irremovibile quando si trattava di cibo; esigeva che il profiler terminasse ogni pietanza da lui posta nel piatto - per tacito accordo sempre pesce o verdura e mai carne - nonostante l’appetito di Will fosse ai minimi storici. Lentamente, Will notò che i vestiti gli calzavano meglio, e scoprì di avere più energia durante il giorno, ma si rifiutò caregoricamente di ammettere che fosse merito di Hannibal. Anche la politica dell’uomo circa il consumo d’alcool era una spina nel fianco, Will vedendosi concesse solo due dita di whiskey la sera prima di dormire. Notò anche che il suo solito dopobarba era magicamente sparito, sostituito da una versione ben più costosa e raffinata che probabilmente Hannibal non riteneva altrettanto offensivo per il proprio naso.

Da parte sua il profiler si consolava osservando la schiena di Hannibal farsi sempre più rigida man mano che l’infausto divano su cui dormiva gli distruggeva le vertebre una dopo l’altra, finché una sera, cogliendo lo sguardo di silenzioso deploro che l’uomo rivolgeva al pezzo d’arredamento prima di coricarvisi, Will ebbe pietà di lui e prendendolo per un braccio lo tirò verso il letto.

Il suo ultimo pensiero prima di dormire fu che avere Hannibal così vicino a guardia completamente abbassata avrebbe dovuto terrorizzarlo. Così non era, per cui lasciò che fosse quel pensiero a terrorizzarlo invece mentre scivolava nel sonno.

*

Più difficoltoso fu convincere lo psichiatra a lasciarlo andare in città da solo. Comprensibilmente, Hannibal non si fidava di lui, il ricordo del suo tradimento ancora troppo fresco nella memoria per non pensare che alla prima opportunità Will avrebbe chiamato l’FBI per disfarsi di lui.

“Sei ancora arrabbiato con me, ammettilo”, esclamò esasperato il profiler dopo l’ennesima discussione sull’argomento.

Hannibal lo guardò come se stesse decidendo se dire o no la verità.

“Una parte di me lo è”, ammise infine.

“Hai detto di avermi perdonato”, gli ricordò Will.

“Mi è stato fatto notare che il perdono è qualcosa di troppo grande per un persona sola”, rispose l’uomo. “Ne necessita due, il traditore e il tradito.”

“Chi di noi è quale?”

“Entrambi siamo l’uno e l’altro, credo.”

Era prima mattina ed erano seduti al tavolo della cucina, il ronzio del vecchio frigorifero l’unico rumore che riempiva il silenzio oltre al lontano scroscio delle onde.

“Quindi sta a noi perdonarci a vicenda?”, chiese Will.

Hannibal prese un respiro più profondo degli altri, quasi un sospiro.

“Il perdono è simile all’amore. Non si può decidere di chi innamorarsi.”

Will sbatté le palpebre, fissando la sua tazza di caffé. Anche quello era migliorato da quando Hannibal era lì, nonostante la miscela fosse sempre la stessa. Will odiava l’uomo anche per la sua capacità di rendere migliori cose che aveva accettato anni prima sarebbero sempre state mediocri nella sua vita.

“Dove hai lasciato Bedelia?”, si ritrovò a chiedere senza sapere esattamente da dove gli fosse uscita.

“A Firenze.”

“Viva o morta?”

Hannibal sollevò un sopracciglio.

“Ha tentato di fermarmi quando ho espresso l’intenzione di venire a cercarti. Tu cosa credi?”

“Credo che diresti qualsiasi cosa pur di diminuire il mio astio nei tuoi confronti, anche darmi la risposta che sai che voglio sentire.”

L’altro lo osservò con aria curiosa.

“Credi che pensi che vorresti Bedelia morta?”

“Credo che tu sappia che non nutro alcuna simpatia per lei. Non dopo…”, si interruppe appena in tempo.

Non dopo che ha preso il posto che avrei dovuto occupare io.

Scrollò le spalle senza finire la frase, fingendo di non sapere che Hannibal potesse leggergli il resto in faccia.

“Ti sei mai pentito di non essere venuto via con me, Will?”, chiese l’uomo dopo qualche secondo, a testimonianza del fatto che sapesse esattamente che filo avevano seguito i suoi pensieri.

“Ti sei mai pentito di avermi aperto in due con un coltello?”, sibilò lui pur di zittirlo.

“Sì”, rispose Hannibal, cogliendolo del tutto di sorpresa. Non si era aspettato una risposta, tantomeno quella risposta. “Per le conseguenze che quell’azione ha avuto.”

Will osservò la sua espressione aperta, il modo sicuro con cui lo guardava. Deglutì.

“Esattamente che conseguenze credevi avrebbe avuto l’accoltellarmi?”

“Forse sarebbe più corretto dire che mi sono pentito di non aver preventivato certe... conseguenze inaspettate che mi avrebbero di certo fermato la mano.”

Will si portò una mano al punto in cui il naso incontrava la fronte, chiudendo gli occhi accigliato. Dover sempre leggere tra le righe con Hannibal gli dava il mal di testa. Forse era così che si sentivano le persone normali, quando dovevano decifrare le azioni altrui senza l’aiuto di una spropositata empatia. Bello schifo.

“Non ti aspettavi che ti mancassi così tanto”, elaborò a bassa voce, traducendo da quel groviglio di significati reconditi che erano le esternazioni di Hannibal.

“Tu ti aspettavi di sentire la mia mancanza?”, gli chiese l’uomo candidamente, e Will dovette mordersi la lingua per non negare categoricamente quell’affermazione come un bambino che si discolpa da una marachella.

Era inutile continuare a prendersi in giro. La verità, anche se non espressa, la sapevano entrambi.

“È diverso”, disse infine.

“Cosa è diverso?”

“Il modo in cui abbiamo… necessità dell’altro”, rispose cercando di sembrare il più distaccato possibile. “Tu hai bisogno di me perché vuoi essere compreso. Io ho bisogno di te perché voglio comprendere me stesso.”

“Il motivo è irrilevante, è il risultato che conta”, ribatté Hannibal. “Ed è la codipendenza, per quanto sanguinosa essa sia. Siamo come una stella binaria. Due soli che ruotano senza posa l’uno intorno all’altro, attraendosi e respingendosi allo stesso tempo.”

“Succubi di una gravità che non lascia loro scampo.”

“Eppure più brillanti di qualsiasi altra stella del cielo. Siamo come Sirio, Will. Due stelle, una sola luce. Vorrei solo che tu riuscissi a vederla come la vedo io.”

Will si lasciò sfuggire una risatina.

“È un po’ difficile quando non hai fatto altro che darmi ragioni per pensare che averti intorno sia una pessima idea.”

Hannibal lo osservò con l’aria distaccata che aveva usato in passato quando erano in seduta, una maschera che rendeva ancora più difficoltoso riuscire a leggere i suoi pensieri.

“Se la pensi così mi chiedo perché tu abbia sentito la mia mancanza. Se tutto ciò che ci unisce è il male che ci siamo fatti non sarebbe più semplice lasciarci andare una volta per tutte?”

Will si grattò il collo, a disagio. Non era mai stato bravo a dar voce a quello che provava, anche quando quello che provava non riguardava un serial killer cannibale. Aveva l’impressione che Hannibal sapesse perfettamente ciò che stava per dire, ma che per puro principio volesse sentirglielo enunciare a voce alta.

“Immagina di aver rotto una tazzina, la tua preferita”, iniziò, usando le stesse parole che l’Hannibal nella sua testa aveva usato con lui tempo addietro. “Giace ridotta in mille pezzi sul pavimento, spezzata senza possibilità di riparazione. Tu sai che la tazzina è rotta. Sai di non poterla riparare. Ma non riesci a trovare la forza di buttarla via perché sai che quando lo farai, nel momento in cui ne terrai in mano i frammenti, improvvisamente la sua irreparabilità diventerà reale. E tu non vuoi che sia reale.”

Hannibal lo ascoltava in silenzio, la posa rilassata, reclinato contro lo schienale della sedia traballante della cucina come se fosse stata una delle eleganti poltrone del suo studio.

“Quindi la lasci sul pavimento, lasci che si ricopra di polvere”, continuò Will. “Lasci che coloro che ti stanno attorno vi inciampino, ferendosi i piedi o sbriciolandola ulteriormente. Lasci che tu stesso ti ci ferisca e la sbricioli, lasci che le sue schegge ti entrino sotto la pelle, tanto ti ha già fatto sanguinare oltre ogni possibile guarigione. La conservi così com'è, come una scena del crimine. Perché in realtà, in fondo, vuoi che continui a farti del male. Non vuoi mai dimenticare né il male che ti ha fatto né il piacere che ti ha dato quando era ancora integra.”

Will tacque, sentendosi allo stesso tempo come se avesse detto troppo e troppo poco. Come si poteva mettere in parole un rapporto come il loro?

“Non ti chiedo di dimenticare, Will”, disse Hannibal dopo qualche minuto.

“Nemmeno io. Ma ho bisogno che mi concedi un minimo della tua fiducia, come io ho fatto con te.”

Le labbra di Hannibal si piegarono impercettibilmente in quello che in chiunque altro sarebbe stato un sorriso malinconico.

“E’ difficile disfarsi della sensazione che tu abbia sempre l’odore del tradimento addosso.”

“Come per me è difficile dimenticare la sensazione che tu mi stia ancora puntando un pugnale al ventre”, lo rimbeccò Will. “Se fidarsi fosse semplice non avrebbe una così grande importanza.”

Hannibal sembrò soppesarlo con lo sguardo.

“Devo chiudere gli occhi e saltare, sperando che tu mi prenda?”

“Sì”, rispose semplicemente Will.

Hannibal non rispose e si alzò in piedi, portando le tazze al lavandino per lavarle. Will lo osservò per qualche minuto in silenzio, chiedendosi come avrebbero fatto ad andare avanti così senza finire per ammazzarsi sul serio a vicenda. Quando aveva ormai perso quasi del tutto le speranze, Hannibal parlò.

“Sarò qui, quando tornerai.”

*

Da quel giorno le cose si erano fatte marginalmente più facili. Decidere di fidarsi non equivaleva a riuscirci subito, ma era un passo nella giusta direzione. Entrambi sembravano aver deciso che valesse la pena tentare di sopravvivere a quella convivenza. Lentamente Will smise di chiedersi perché l’altro fosse ancora lì, e Hannibal smise di chiedersi perché l’altro lo facesse ancora restare.

Insieme finirono di riparare il tetto, passando alla balaustra della veranda, e il profiler iniziò pian piano ad abituarsi a sentire gli occhi dell’altro che lo seguivano quasi costantemente, soprattutto quando si metteva a riparare i motori delle barche sul retro. Hannibal in genere si sistemava su una vecchia sdraio lì dove era sicuro che non avrebbe dato fastidio, un bicchiere di vino in mano e uno dei libri di Will sulle gambe, gli occhi che molto spesso abbandonavano i ghirigori d’inchiostro per osservarlo attenti, quasi fosse stato uno spettacolo degno di Broadway.

Era una vita molto più semplice di quella che Hannibal aveva conosciuto a Firenze, o a Parigi, o a Baltimora, ma non poteva dire che gli pesasse. Will sopperiva con la sua compagnia alle mancanze della sistemazione spartana, e ben presto smisero di girarsi intorno come fiere guardinghe e ripresero le loro conversazioni. Era come se non fosse passato un singolo giorno. Avere a disposizione la mente di Will con cui confrontarsi era come infilarsi il proprio maglione preferito, comodo e familiare. Più conversavano, più si chiedeva come fosse riuscito a fare a meno della sua brillantezza e delle sue risposte brusche ma sincere. Bedelia, Anthony Dimmond, persino Chiyoh, impallidivano al confronto. Aveva pensato che il pianoforte che aveva rimpiazzato il suo adorato clavicembalo a Firenze sarebbe stato l’unico misero sostituto con cui avrebbe dovuto convivere nella sua vita in fuga, ma si era sbagliato.

Will aveva impiegato un po’ ad accorgersene, ma Hannibal aveva preso a disegnarlo. Di tanto in tanto lo vedeva afferrare un quaderno e una matita e sistemarsi in un angolo. Inizialmente erano solo disegni del paesaggio che si intravedeva dalla finestra, o di città che Will non conosceva ma che la memoria dell’altro riproponeva con perfetta attenzione ai dettagli, ma ben presto iniziò a scorgere se stesso spiccare sulle pagine bianche, ritratto sempre e comunque a suo parere in un una luce ben più lusinghiera di quanto non fosse la realtà. Ogni volta che vedeva lo sguardo incerto di Will nel vedersi così rappresentato Hannibal sorrideva, assicurandogli che gli occhi di un artista erano sempre mille volte più affidabili di quelli dei propri modelli.

Will un giorno tornò a casa con un vecchio giradischi e un sacchetto pieno di pezzi d’opera e di musica classica, allungandoli a Hannibal mentre tentava e falliva di fingere che non fosse un gesto gentile. Hannibal gli sorrise e gli posò una mano sulla spalla, e Will finse di non notare quanto a lungo l’altro protrasse quel contatto. L’apparecchio era vecchio, e ogni volta che lo attaccavano finiva per mandare in cortocircuito il mini-generatore che Will teneva nel capanno e che gli forniva elettricità, motivo per cui quando lo usavano erano costretti a spegnere ogni altra luce in casa. Quelle serate umide, colorate del grigio dei frequenti temporali pomeridiani della Florida, buie per la coltre di nubi e la mancanza di luce, erano diventate una piacevole routine tra loro.

Di tanto in tanto la mano di Hannibal scivolava alla base del collo di Will, guidandolo gentilmente fino al divano perché nel buio non inciampasse nel tappeto che avevano comprato per coprire le macchie di umido sul pavimento. Will si sarebbe stupito del modo inquietante in cui l’uomo sembrava essere in grado di vedere perfettamente al buio come un felino se non fosse stato troppo preso a congelarsi puntualmente sul posto, senza nemmeno respirare.

Dopo tutto ciò che gli era successo e tutto ciò che aveva fatto a se stesso, si era realmente reso conto di quanto provata dovesse essere la sua psiche solo quando aveva realizzato con quanta facilità si sarebbe volentieri lasciato andare al suo tocco. Aveva sempre evitato il contatto fisico come la peste, e ora lo inseguiva come un cane che cerca le feste del padrone. O come qualcuno che aveva subito un abbandono e doveva convincersi che non sarebbe più accaduto.

Ogni volta che Hannibal lo toccava Will era mortalmente combattuto tra ciò che sapeva avrebbe dovuto provare - rabbia, disgusto, persino paura - e ciò che provava realmente - sollievo, calma, voglia di chiudere gli occhi e non pensare più a niente. Il risultato era quella specie di paralisi che lo prendeva da capo a piedi, come un topolino tra le spire di un serpente.

Una sera, con l’Aida che suonava in sottofondo, la reazione che ebbe fu così vistosa che perfino Hannibal, che fino ad allora aveva accuratamente ignorato i suoi segnali di diasagio, fu costretto a menzionarli.

“Se vuoi che smetta di toccarti, Will, devi solo chiedermelo”, si offrì. Dietro il suo tono gentile Will poté avvertire la riluttanza con cui lo stava proponendo. Era quasi più facile decifrare le mille sfaccettature dell’uomo, senza l’intensità del suo sguardo a distrarlo nel buio.

“No”, rispose Will un po’ troppo in fretta. Si schiarì la voce, continuando con tono più controllato. “So che vuoi riabituarmi al contatto fisico con te dopo che mi hai quasi ucciso, ma non ce n’è bisogno. Non ho paura di quello che potresti farmi.”

“Non si direbbe.”

Will prese un respiro profondo, appellandosi a tutta la sua concentrazione per cercare di sciogliere i muscoli irrigiditi.

“Il tuo tocco mi calma. L’idea del tuo tocco mi manda nel panico.”

Scorse Hannibal sorridere nel buio, un singolo istante in cui i suoi canini balenarono nella luce fioca, la mano ancora posata saldamente sulla sua nuca.

“Mi stupirei del contrario. E’ semplice istinto di sopravvivenza, Will. Mi fa piacere vedere che ne hai ancora uno.”

Will esalò una risata ironica.

“Se funzionasse a dovere mi renderebbe insopportabile il contatto con te, non solo il pensiero del contatto.”

“Allora sono felice che non funzioni.”

Nonostante le sue parole lo lasciò lentamente andare, e Will si  passò stintivamente una mano sul collo come per cancellare la sensazione del tocco dell’altro. O per trattenerla.

“Nessuno mi ha mai toccato tanto spesso e con tanta insistenza quanto te”, osservò a bassa voce. “Nemmeno le donne con cui ho avuto delle storie.”

“Hai sempre dato l’impressione di non essere una persona che gradisce il contatto fisico. Suppongo tu le abbia scoraggiate.”

Hannibal non lo stava più toccando ma era rimasto comunque vicino, e Will avvertiva la presenza dell’altro come una pressione sulla pelle.

“Mentre tu hai sempre ignorato i miei tentativi di scoraggiare te”, si ritrovò a ridacchiare suo malgrado.

Avvertì il divertimento di Hannibal senza nemmeno doverlo vedere, come se ormai avesse sviluppato un sesto senso quando si trattava di lui.

“Non è mai stata mia intenzione metterti a disagio.”

“Certo che no”, rispose. “Eri curioso di vedere cosa sarebbe successo se avessi continuato, e se sarei caduto nella più vecchia delle manipolazioni. Questo”, armeggiò con le mani al buio per indicare la situazione corrente, sicuro che l’altro l’avrebbe visto,  “È esattamente quello che volevi.”

“Che fossi combattuto?”

“Che formassi con te un legame nonostante tutto quello che mi hai fatto”, puntualizzò. “Il contatto fisico crea la falsa premessa di un rapporto ben più sano e familiare del nostro. Anche la frequenza con cui chiami per nome le persone intorno a te, me compreso, è un modo per manipolarle. Convince l’ego del tuo interlocutore di avere tutta la tua attenzione, come se non vedessi nessun altro al mondo.”

Stava parlando con tono analitico. Di tutti gli aspetti negativi di Hannibal quello era uno dei meno gravi, in fondo. La manipolazione era ampiamente diffusa anche tra le persone normali, senza che potessero addurre la scusa di essere degli psicopatici.

“Hai fatto sì che mi abituassi all’ubiquità della tua presenza nella mia vita, e che fossi abbastanza psicologicamente danneggiato da soffrire la tua partenza”, continuò stringendosi nelle spalle. “E adesso stai raccogliendo ciò che hai seminato.”

“Credi che abbia indotto in te una Sindrome di Stoccolma?”

Il tono di Hannibal era tutt’altro che offeso, quasi curioso.

“Non lo credo, lo so. È così ovvio e banale che non riesco nemmeno ad avercela con te, perché avrei dovuto accorgermene subito. È la reazione standard di una psiche che ha subito un abuso da parte di una persona vicina. La vittima che cerca conforto nel proprio tormentatore. Siamo programmati per sopravvivere, non per essere sani di mente.”

“Ti consideri una vittima?”

“Ti considero il mio carnefice. Ciò che ero non esiste più. Di me rimangono solo frantumi, e sei tu a tenerli insieme.”

Fuori aveva iniziato a piovere. Will pensò marginalmente alla vernice ancora fresca sul parapetto della veranda che aveva dipinto quella mattina, ma ormai era troppo tardi per andarla a coprire.

“Hai passato la vita a tenere insieme i brandelli della tua mente, Will, come se temessi che qualcuno dall’esterno potesse penetrare fra le tue crepe”, considerò Hannibal con tono quasi gentile. “Ti è mai venuto in mente che magari la fragilità che senti è qualcosa che hai dentro che tenta di uscire?”

“Un mostro sotto la pelle?”

“Una metamorfosi. Una falena che emerge dalla crisalide.”

Will emise uno sbuffo divertito, scuotendo la testa, la tensione che lasciava il posto a una sorta di esasperato divertimento.

La teiera che Hannibal aveva messo sul fuoco una decina di minuti prima iniziò a fischiare, e l’uomo si avviò in cucina per versare loro del té. Era divenuto quasi un rituale tra loro, quello, nonostante Will continuasse a preferire il caffé, Hannibal aveva avuto da ridire sulle quantità da lui consumate anche di quello. Will si era ritrovato a sperare che l’uomo si ustionasse con la sua maledetta teiera almeno una volta quando con ridicola nonchalance versava il té al buio, ma ovviamente non era così fortunato.

“Perché non mi stupisce che tra la farfalla e la falena tu abbia scelto quest’ultima come metafora?”, chiese a voce alta perché l’altro lo sentisse mentre si sistemava sul divano. “Vive meno, è meno bella ed è mortalmente attratta da ciò che può benissimo distruggerla.”

“Non è il destino di ogni essere umano?”, chiese placidamente l’altro tornando in soggiorno con due tazze fumanti, allungandone una a Will con attenzione.

“Credevo fosse quello di uccidere l’oggetto del proprio amore”, osservò Will con un sorrisetto.

“Anche. Dovresti averne avuto più di una dimostrazione.”

Fu allora che qualcosa nella mente di Will scattò. Come se un pezzo di mosaico fino ad allora rimasto sfuso avesse finalmente trovato il proprio posto, donando finalmente un ordine anche a tutti gli altri. I suoi pensieri furono costretti a riorganizzarsi intorno a quella nuova consapevolezza, e improvvisamente divenne tutto così ovvio.

Appoggiò la tazza sul tavolino accanto al divano, alzandosi in piedi e andando a staccare il giradischi, interrompendo bruscamente la musica.

“Will?”

Hannibal fu costretto a socchiudere gli occhi quando le luci tornarono ad accendersi bruscamente, le pupille ormai adattatesi all’oscurità. Will era in piedi accanto all’interruttore del salotto, a braccia conserte, e lo fissava con uno sguardo a metà tra l’accusatorio e l’incredulo.

“Tu credi di amarmi”, mormorò.

Hannibal, a suo merito, non mostrò minimamente di essere stato preso in contropiede. Sbattè le palpebre una volta, senza nemmeno cambiare espressione, e quella fu la totalità della sua reazione.

“Lo dici come se il solo pensiero ti sembrasse ridicolo”, osservò con una calma snervante.

Will rise, non sapendo che altro fare, passandosi le mani tra i capelli con più forza di quanto non fosse necessario.

“Dell’amore”, sibilò, “Tu non sai nulla”.

“Perché? Perché ti ho fatto del male?”, ribatté Hannibal. “L’amore genera più mostri di qualsiasi altra emozione, Will. Mai ci fu più grande sofferenza di quella causata da coloro che, accecati dall’amore, sarebbero disposti a tutto pur di soddisfare i loro desideri.”

Will scosse la testa. Hannibal non stava negando la sua intuizione, e la sua mente era nel caos.

“Non stai facendo sul serio.”

"L'arte è un autoritratto dell’artista, Will", affermò Hannibal con quel suo insopportabile tono saccente. “Cosa credi che abbia voluto dire lasciandoti il mio cuore?”

“Tu sei una maledetta metafora ambulante, Hannibal, per quanto ne so il tuo regalo poteva essere il tuo modo per ricordarmi che se ho ancora un cuore nel petto è perche tu sei stato così gentile da non strapparmelo!”

“Perché menti a te stesso, Will? Nessuno mi conosce meglio di te. Sai benissimo qual è la verità anche se ti ostini ad ignorarla.”

Will non rispose. Era assurdo, era semplicemente assurdo, eppure… eppure aveva perfettamente senso. Hannibal era l’essere più razionale che avesse mai conosciuto, ma il suo debole per lui, quella che fino a poco prima avrebbe detto essere semplice fascinazione, lo aveva più volte portato ad agire in maniera irrazionale. Lo aveva fatto scarcerare dopo che lui stesso lo aveva incastrato per i suoi omicidi, semplicemente perché aveva sentito la sua mancanza. Subito dopo aveva abbassato la guardia, fidandosi di lui e cadendo magistralmente nella trappola di Will, nonostante tutte le volte che il profiler gli aveva promesso che gliel’avrebbe fatta pagare. Aveva ucciso Abigail per ferirlo, ma lo aveva lasciato in vita perché non era riuscito a fare altrimenti. Aveva rischiato di far saltare le proprie coperture in Italia pur di inviargli un messaggio, pur di farsi trovare, e quando Will era stato in fin di vita aveva lasciato tutto e aveva passato mesi a cercarlo.

Non era solo irrazionale. Era semplicemente folle.

Shakespeare non era mai stato più corretto. Love makes fools of us all.

Improvvisamente l’idea di restare lì gli divenne insopportabile. Prima che potesse ripensarci girò sui tacchi e marciò fuori dalla stanza. Afferrò la giacca e la infilò sbrigativamente, uscendo nel temporale senza curarsi di prendere un ombrello, ignorando la voce di Hannibal che lo chiamava. Salì in macchina che era già fradicio, mettendo in moto ed allontanandosi verso la strada statale, la testa che ronzava di pensieri e le nocche sbiancate dalla forza con cui stringeva il volante.

Quella notte non tornò a casa.

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Capitolo 6
*** You've Run So Long, You've Run So Far ***


Note: Chiedo venia per il ritardo ma la vita vera si è messa di mezzo. Capitolo breve perché il prossimo è l'ultimo e non mi andava di metterne un pezzo in questo solo per allungarlo né di fare un capitolo unico. Titolo e citazione in tributo a David Bowie perché la sua morte è uno scherzo crudele.

Even Lovers Drown

di Curiosity

6. You’ve Run So Long, You’ve Run So Far

How you turn my world, you precious thing

You starve and near exhaust me

Everything I've done, I've done for you

I move the stars for no one

                                               (David Bowie, “Within You”)

Quando Will ricomparve sulla soglia la sera dopo, Hannibal aveva all’attivo solo mezz’ora di sonno nelle ultime ventiquattr’ore, ma fece accuratamente in modo di non darlo a vedere. Si avvicinò invece a Will, che puzzava di alcool e di vestiti umidi non lavati, e gli chiese gentilmente se gli andasse di mangiare qualcosa.

L’altro lo squadrò in silenzio, pesanti occhiaie a segnare i suoi occhi che testimoniavano quanto poco anche lui avesse dormito. Hannibal quasi credette che non gli avrebbe risposto, ma alla fine il profiler annuì.

Nei giorni seguenti non ne parlarono. Le loro interazioni ripresero a procedere come al solito, ma era come se entrambi stessero solo prendendo tempo in vista di un confronto che sapevano essere inevitabile. Will accettò una serie di lavori in città che lo portarono a non essere in casa per la maggior parte del giorno, e Hannibal come al solito accettò la cosa di apparente buon grado.

Will sapeva che quella vita all’uomo stava stretta, ma non sapeva cosa farci. Le esistenze che ognuno di loro avrebbe scelto per se stesso erano del tutto inconciliabili l’una con l’altra, e lo sapevano entrambi: Will era un solitario, segnato dalla vita e alla disperata ricerca di un po’ di pace. Hannibal era un uomo d’azione; adorava l’interazione e le sfide, e una vita di eremitaggio in quel luogo dimenticato da Dio a leggere i libri di Will e a cucinare per lui non avrebbe mai potuto placare la sua fame di nuove esperienze, per non parlare della sua sete di sangue. Sapevano entrambi di essere seduti su una polveriera pronta ad esplodere, eppure entrambi stavano ignorando la questione nella speranza che saltasse in aria il più tardi possibile.

Will tornava sempre piuttosto stanco dalle sue giornate di lavoro, ma non era nulla in confronto alla stanchezza che aveva avuto addosso prima che Hannibal si presentasse alla sua soglia. Sapeva di essere molto più in salute di quanto non fosse stato solo un mese prima, e non certo per merito suo. Non sapendo come ricambiare si era imposto di essere meno scontroso con l’altro, nonostante quello che gli dettava l’istinto, ma come era immaginabile stava facendo un pessimo lavoro. Ora che conosceva i sentimenti di Hannibal per qualche motivo non riusciva a perdonarglieli.

Una sera Will era seduto su una barca rovesciata sul retro di casa sua. La barca in questione era un 6 metri che aveva visto tempi migliori e di cui stava rimettendo in sesto la chiglia dopo che il proprietario era riuscito a schiantarla su una secca durante un attacco di esibizionismo.

La carena metallica era ancora marginalmente calda per il sole lì dove Will aveva posato le mani, le gambe distese di fronte a sé e lo sguardo rivolto al cielo notturno. Sentì la porta della veranda sbattere e Hannibal che si avvicinava, col passo pesante di qualcuno che avrebbe potuto benissimo non fare alcun rumore se avesse voluto ma aveva scelto di farne. Sapeva che se aveva reso così palese la sua presenza era solo per riguardo verso di lui, e gliene era grato.

Hannibal gli allungò un bicchiere, il profilo illuminato dal pallore della mezzaluna alta nel cielo, e quando Will lo prese si issò sulla barca a sua volta per sedere accanto a lui.

“Cos’è?”, chiese Will occhieggiando il liquido apparentemente perlato nella penombra.

“Un tentativo di comporre un Golden Shot.”

Will sollevò le sopracciglia nel buio, sorpreso che con la sua politica verso gli alcolici e il consumo che il profiler tendeva a farne Hannibal avesse deciso di preparargli un cocktail, e uno a base di whiskey per di più.

“Quello con l’uovo?”

“Sì. Ahimé temo di aver esagerato col succo d’arancia”, sospirò l’altro.

Will ridacchiò.

“Allora esiste qualcosa in cui non eccelle al primo tentativo, Dr Lecter. E io che la credevo infallibile”, scherzò con una familiarità che dopo tutto il sangue versato tra loro sarebbe dovuta sembrare irrimediabilmente fuori luogo, ma così non era.

Hannibal si voltò verso di lui nel buio con un mezzo sorriso.

“A quanto pare”, ammise, scontrando il bicchiere col suo in un brindisi. “Puoi perdonarmi?”

La domanda risuonò inizialmente giocosa, ma nella quiete che coincise col loro prenderne un sorso - e il gusto dell’arancia era esattamente come sarebbe dovuto essere a discapito delle parole dell’altro - Will intuì che non stavano più parlando solo di cocktail.

Si leccò le labbra, abbassando il bicchiere fino a posarne la base sulla stoffa rovinata dei suoi jeans, concentrandosi sulla nota di agrumi smorzata dall’uovo e sul calore del liquido che scendeva nel suo esofago.

"Ti perdono per ciò che mi hai fatto, non per quello che credi di provare per me”, rispose a bassa voce dopo un po’, come se temesse che qualcuno potesse sentirli.

Hannibal, che nel frattempo aveva portato lo sguardo al cielo, tornò a posarlo su di lui.

“Non sono l’uno legato all’altro?”

“No. Non è stato per amore che mi hai servito su un piatto d’argento l’opportunità di uccidere Hobbs o Tyer, né che mi hai assecondato fin quasi all’ultimo momento quando stavo per uccidere l’assistente sociale di Peter Bernardone. È stata la curiosità a guidare le tue scelte, e le tue scelte hanno guidato le mie. E per questo ti perdono.”

Will non sapeva quanto fosse saggio continuare a parlare di quell’argomento. Ogni volta che pensava a quello che l’altro sosteneva di provare per lui gli si annodava lo stomaco di rabbia, stupore e una punta di lusingato orgoglio che non avrebbe mai ammesso ad anima viva.

Nonostante tutto, essere l’oggetto del desiderio di una creatura come Hannibal Lecter era qualcosa che mozzava il fiato.

“Mi perdoni per i tuoi peccati”, osservò Hannibal.

“Sì. E perdono me per i tuoi.”

“Ma non riesci ad accettare che provi qualcosa per te.”

Will prese un respiro profondo, scuotendo la testa.

“La tua è… ossessione”, mormorò nel bicchiere, prendendone un altro sorso. Sperava che minimizzare la cosa lo avrebbe aiutato ad allontanare il panico che gli attanagliava le ossa.

“Forse è anche quello. Fa differenza?”

“Sì. Sono la prima persona che riesce a vedere ciò che sei. È normale che tu ti sia infatuato di me. Dell’idea che hai di me.”

“E quale sarebbe la mia idea di te?”

Will si accorse che Hannibal aveva già finito il suo drink, e si chiese se l’uomo non avesse avuto intenzione fin dall’inizio di toccare quell’argomento e l’alcool non fosse stato tanto per Will quanto per lui.

“Qualcuno che ti assomiglia, che puoi facilmente fuorviare con la tua influenza e plasmare a tua immagine  e somiglianza”, rispose. “Purtroppo per te sono un esperimento mal riuscito, come il mostro di Frankenstein.”

“Io ti vedo come mio eguale, Will, non come un esperimento”, ribatté Hannibal, continuando a guardarlo nonostante Will si ostinasse a non voltarsi. “Io e te siamo complementari. Tu sei la mia perfetta metà.”

Will chiuse gli occhi, rabbrividendo a quell’affermazione che pareva tanto inesorabile quanto minacciosa. Si umettò le labbra.

“In ogni caso il tuo è un amore narcisistico. Ami la parte di te che rivedi in me.”

Hannibal sorrise, e Will avvertì lo sbuffo d’aria del suo divertimento anche senza guardarlo.

“L’amore è narcisistico ed egocentrico per sua natura, Will”, gli fece notare. “Amiamo coloro che ci fanno sentire bene, coloro con cui sentiamo di avere qualcosa in comune. Amiamo i nostri figli perché sono ciò che rimarrà di noi dopo la morte, e i nostri coniugi perché ci fanno sentire amati e sicuri. Anche l’amore che avevi per i tuoi cani era egoistico. Tenevi a loro perché non ti chiedevano nulla in cambio e perché non erano in grado di vedere realmente cosa si cela in te. Riflettevano la realtà che avresti voluto fosse reale, ignorando le parti di te che non sei mai riuscito ad accettare.”

Will finì il suo drink e appoggiò il bicchiere in bilico sull’ampia chiglia, voltandosi finalmente verso l’altro e sistemandosi a gambe incrociate. Era buffo come per chiunque altro quella situazione - essere seduti al buio a parlare d’amore sotto le stelle, l’alcool sulle labbra e la luce della luna a illuminarli - sarebbe potuta essere l’epiteto del romanticismo. Will aveva perso il conto di tutte le volte che aveva rimpianto una vita più semplice.

“Stai riducendo l’amore a ciò che tu pensi che sia”, ribatté. “Per te è una creatura affamata, tutta artigli e zanne, avida di possesso. Si riflette nel modo in cui ti sei sempre comportato con me. E’ per questo che averti intorno mi fa così male.”

Hannibal lo osservava attentamente, il capo inclinato appena da un lato.

“Anche adesso?”

“Sì. Perché non è mai esistito nessuno che mi abbia usato e ferito quanto hai fatto tu, e se fossi una persona normale avrei lasciato che l’FBI ti catturasse senza avvertirti o ti avrei ucciso con le mie mani. E invece non ne sono in grado.”

Il lampione sulla strada poco più in là sfarfallò un paio di volte accendendosi, gettando una luce ambrata su un lato dei loro visi e sull’altro ombre decise, come in un chiaroscuro di Caravaggio.

“Ti comprendo troppo bene per lasciarti andare”, continuò Will con la voce di qualcuno che aveva ormai accettato una verità innegabile. “C’è un... vuoto, nella realtà, nel posto che occupavo prima di incontrarti, una sagoma con la mia forma. Dovrebbe essere un incastro perfetto, ma tu mi hai cambiato così tanto che non riesco più a entrarci. Quando ti ho intorno ciò che sei filtra in me e riesco a sentire i tuoi desideri, la tua fame artigliarmi lo stomaco, e non riesco più a distinguere dove tu finisci e dove io cominci.”

Hannibal sembrò soppesare le sue parole prima di rispondere. La parte superiore del suo corpo era angolata verso Will, come se lui fosse il suo centro di gravità.

“Parli come se non avessi alcun appetito per la violenza, ma il tuo è pari al mio”, disse. “La differenza è che tu ti rifiuti di accettarlo e punti il dito contro di me per addossarmi colpe che non ho.”

“Io non traggo alcun piacere dal togliere la vita a degli innocenti”, ribatté Will, ma per una volta non c’era rabbia nel suo tono, solo una stanca fermezza.

“L’innocenza è un costrutto degli esseri umani, e come tutto ciò che li riguarda è soggettiva”, rispose Hannibal. “Ti senti davvero di ergerti a giudice? Nemmeno Dio sembra preoccuparsi di chi ha o non ha colpa quando elargisce morte e distruzione, perché dovrei farlo io?”

“Tu non sei Dio, Hannibal. Sei solo un uomo, anche se non gradisci ricordarlo.”

Hannibal sorrise, come se avesse voluto arrivare esattamente a quel punto del discorso.

“Se lo sono allora perché è così difficile credere che possa provare la più umana delle emozioni?”

Will aprì la bocca per rispondere ma la richiuse, non sapendo cosa dire.

Perché sei uno psicopatico, e non puoi provare amore.

Perché nessun amore dovrebbe costare un tale prezzo in sangue e lacrime.

Perché se fosse vero allora quello che mi hai fatto farebbe ancora più male.

Deglutì, e finì per non dire nulla.

“Will”, iniziò Hannibal, ma Will aveva sentito abbastanza.

“Credo che andrò a dormire”, lo interruppe, scivolando giù dalla barca per allontanarsi, ma Hannibal fece lo stesso.

“Will”, ripeté, allungando il braccio per impedirgli il passaggio, e senza volerlo - o forse deliberatamente - la sua mano cadde sul ventre del profiler.

Entrambi si congelarono sul posto a quel contatto, due statue di sale perfettamente immobili che a malapena respiravano.

Nessuno dei due aveva più fatto alcun riferimento alla ferita che lì giaceva, nascosta solo da un misero strato di stoffa. Così come con l’argomento dell’amore di Hannibal, avevano entrambi preferito fingere che non fosse lì, ma nessuno dei due aveva mai dimenticato che ci fosse. Will aveva sempre accuratamente evitato di spogliarsi di fronte all’altro, e l’ex-psichiatra, nonostante la sua reiterata invasione del suo spazio vitale, si era ben guardato dal posare le mani in un punto anche solo remotamente vicino a quello per paura della reazione che avrebbe potuto causare. Will stesso aveva passato mesi a non guardarsi allo specchio, pur di non vedere il marchio che l’altro aveva lasciato su di lui, come un sorriso crudele che lo sbeffeggiava per essere stato lasciato indietro.

Will avvertì il calore della mano di Hannibal passare attraverso la stoffa sottile della sua maglietta, e quando col cuore in gola alzò lo sguardo vide che l’altro sembrava essere pietrificato quanto lui, gli occhi che non riuscivano a staccarsi da quell’unico punto di contatto.

“Vuoi vederla, vero?”, chiese il profiler.

Hannibal aprì le labbra, pronto a elargire una delle sue risposte vaghe, ma Will questa volta non glielo avrebbe permesso.

“La verità”, gli impose.

Hannibal sollevò lo sguardo, e Will poté leggere in quegli abissi scuri il desiderio che fino ad allora aveva accuratamente celato. Nessuno dei due aveva minimamente accennato a mettere distanza tra loro, né ad uscire da quella posa possessiva, il braccio di Hannibal in parte intorno alla vita di Will, come se quello fosse il suo legittimo posto.

“Lo vorrei molto”, ammise a bassa voce.

Will prese un respiro tremulo.

“Perché? Così da poter avere sotto gli occhi il male che mi hai fatto? Il tuo marchio su di me?”.

Le dita di Hannibal si strinsero impercettibilmente sul suo ventre, e alla luce del lampione poté vedere le pupille dell’uomo dilatarsi di piacere al pensiero. Stronzo vanesio.

“Se non vuoi mostrarmela, Will, lo capisco”, disse comunque, anche se con riluttanza.

Will dovette prendere qualche respiro profondo prima di riuscire a muoversi. Lentamente la sua mano scansò quella di Hannibal, prese un lembo della maglietta e ne sollevò l’orlo, rivelando pezzo dopo pezzo la sua pelle chiara.

Gli occhi di Hannibal sembrarono inghiottire quell’immagine con l’ingordigia di un assetato che tocca l’acqua dopo mesi di siccità. Will aveva distolto lo sguardo, ma avvertì l’esatto momento in cui la cicatrice entrò a contatto con l’aria e divenne visibile. Hannibal cadde in ginocchio di fronte a lui, e Will suo malgrado tornò a guardarlo, sorpreso. C’erano desiderio e ammirazione nel suo sguardo scuro, e fame e una forma di stupore reverenziale nelle sue labbra dischiuse.

Quasi sobbalzò quando le dita dell’altro lo sfiorarono, scorrendo leggere come un sospiro sul bordo irregolare della ferita.

“Non è guarita bene”, mormorò Hannibal con una punta di disapprovazione, la voce per una volta roca come se avesse la gola secca. “Il taglio da me fatto era preciso, il segno avrebbe dovuto essere minimo.”

“Sono un pessimo paziente”, rispose Will con una sorta di disperato umorismo. Tremava appena, da capo a piedi. “Temo di aver rovinato il tuo capolavoro.”

Hannibal sollevò gli occhi su di lui, e Will vide lo sguardo di perfetta adorazione che il mostro ai suoi piedi gli stava rivolgendo, come se fosse un'opera d'arte. Come se Will fosse la cazzo di Gioconda e fosse un privilegio trovarsi lì di fronte a lui, in ginocchio, a riempire di pieghe i pantaloni ridicolmente costosi che aveva indosso.

“Sei magnifico, Will”, esalò l’uomo, e Will fu costretto a chiudere gli occhi pur di sfuggire all’intensità del suo sguardo.

Sobbalzò nuovamente, questa volta con violenza, quando sentì le labbra di Hannibal premere contro la cicatrice in un bacio appena palpabile. Suo malgrado un gemito strozzato gli sfuggì dalla gola, e sentì i tremiti che lo scuotevano farsi più forti. Hannibal gli afferrò i fianchi con più forza - non tanta che non avrebbe potuto liberarsi se lo avesse voluto, comunque - e lo tenne fermo lì dov’era. Will riuscì solo a restare immobile, gli occhi chiusi e umidi, del tutto sopraffatto da quanto giusta e sbagliata al tempo stesso fosse la sensazione della lingua di Hannibal che sostituiva le sue labbra in quell’esplorazione.

“All’inizio continuavo a sognarti”, confessò Will in un soffio senza realmente sapere perché lo stesse dicendo. “Mi inchiodavi a terra e mi strappavi i punti dalla ferita coi denti, lasciandomi di nuovo a morire dissanguato.”

Hannibal sollevò lo sguardo su di lui, leccandosi le labbra.

“Sogni spesso che io ti faccia del male?”

Non aveva alcun diritto di suonare così calmo.

“Non ho bisogno di sognarlo”, rispose Will, tornando a chiudere gli occhi quando Hannibal riprese ad esplorare la sua pelle con le labbra come se fosse il suo modo di scusarsi.

Le terminazioni nervose in quell’area dell’addome di Will erano state danneggiate dalla ferita. Per mesi erano state quasi del tutto insensibili, ma in quel momento sembrava che avessero deciso di risvegliarsi tutto d’un botto sotto le attenzioni di colui che le aveva segnate, come se riconoscessero il tocco del loro legittimo proprietario.

A un certo punto perse cognizione di ogni altra cosa che non fosse quel contatto tra loro. Seppe che le sue guance erano in fiamme solo quando Hannibal si rialzò e le prese tra le mani, appoggiando la fronte alla sua e respirando sulle sue labbra.

“Mio Will”, sussurrò con quella che poteva essere descritta solo come meraviglia. “Oh, how I long for thee.”

Will emise un respiro divertito, gli occhi ancora chiusi e la certezza che fossero le mani dell’altro intorno al viso a tenerlo in piedi.

“Non so cosa tu possa bramare ancora”, rispose col poco fiato che aveva in gola. “Hai libero accesso alla mia mente da molto tempo ormai. Hai abbattuto ogni singola difesa che ho provato ad opporre, e hai lasciato dietro di te solo terra bruciata. Cos’altro vuoi?”

Hannibal prese un lungo respiro, inspirando l’odore della pelle di Will così vicino a lui.

“L’unica cosa che non posso prendere con la forza.”

Ma certo, pensò Will. La fame di un wendigo non conosceva fine, né poteva essere saziata finché non avesse consumato completamente l’oggetto del suo desiderio. Peccato per il mostro che del suo cuore fosse rimasto ben poco.

“Potresti, se me lo strappassi dal petto”, osservò, prendendo la mano dell’altro tra le sue e portandosela al torace, dove quel muscolo ribelle ancora batteva nonostante tutto ciò che entrambi avevano fatto per arrestarlo.

“Non è quello che voglio”, disse Hannibal.

“No. Non lo è”, concordò Will.

Aprì finalmente gli occhi, e poté vedere ogni speranza e desiderio che si agitava dietro gli occhi scuri dell’altro. Vi erano vite intere di potenzialità in quelle pozze buie, e mondi che sapeva gli sarebbero stati offerti su un piatto d’argento se solo avesse deciso di assecondarlo. Infinita bellezza, e inimmaginabile rovina, e la certezza di appartenere alla persona per cui si è nati.

“Non posso essere ciò che vuoi”, sussurrò suo malgrado, perché era vero.

“Non voglio che tu sia nulla che già non sei”, ribatté Hannibal.

I loro volti erano così vicini che avrebbero potuto colmare la distanza tra le loro bocche in ogni momento, ma non era quello il punto.

“Non ho… appetito per l’omicidio indiscriminato”, insistette Will.

“Tutti abbiamo il potenziale per uccidere. Alcuni di noi richiedono più incoraggiamento di altri.”

Will scosse la testa. A un certo punto aveva affondato le dita nella camicia dell’altro, stringendone la stoffa come per timore di cadere, e nemmeno se ne era accorto.

“Dici incoraggiamento, ma intendi coercizione”, obiettò.

“Non ti ho mai obbligato a fare nulla, Will. Quando hai ucciso l’hai fatto per tua scelta.”

“Randall ha tentato di uccidermi, e Garrett Jacob Hobbs avrebbe ucciso Abigail”, ribatté debolmente, ma anche alle sue orecchie quelle parole suonarono vuote.

“Non l’hai fatto per quello. Fare del male a chi fa del male dà una bella sensazione, tutto qui.”

Will avrebbe voluto che quelle parole non suonassero così vere alle sue orecchie. Per un attimo pensò davvero che fosse tutto così semplice. Che per tutti quegli anni si fosse ingannato, seguendo una sua cieca etica in un mondo che ruotava invece intorno all’estetica della violenza. Per un attimo abbracciò il punto di vista di Hannibal - né bene né male, né giusto né sbagliato, ma solo scale di grigio e coloro troppo stolti per comprenderlo - e si stupì della facilità con cui gli riuscì, come se si stesse infilando un abito che gli calzava a pennello.

Poi lanciò uno sguardo oltre le spalle di Hannibal, dove i fantasmi di Abigail e Beverly lo fissavano dall’altra parte del giardino, e seppe che il senso di colpa ancora dentro di lui non glielo avrebbe permesso.

“Non posso”, disse scuotendo la testa, e questa volta indietreggiò, abbassandosi la maglietta e voltandogli le spalle per tornare verso casa.

Hannibal lo fissò allontanarsi con una sorta di frustrata esasperazione.

“Jack Crawford non merita questa tua lealtà”, gli disse prima che potesse rientrare all’interno.

Will si bloccò sul posto, ma non si girò a guardarlo.

“Non è per Jack che lo faccio”, rispose. Sentì la mano di Beverly posarsi sulla sua spalla, e strinse i pugni per darsi risolutezza. “E’ per rispetto verso la persona che ero.”

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Capitolo 7
*** The Hangman's Knot ***


Even Lovers Drown

di Curiosity

7. The Hangman’s Knot

Don’t care if he’s guilty, don’t care if he’s not

He’s good and he’s bad and he’s all that I’ve got

Oh Lord, oh Lord, I’m begging you please

Don’t take that sinner from me

                                               (The Civil Wars, “Devil’s Backbone”)

Hannibal riagganciò la cornetta del telefono pubblico, emergendo dalla cabina nel sole del  mattino. Ripiegò in quattro il fazzoletto che aveva usato per impugnare l’apparecchio senza lasciare impronte, quindi lo gettò nel cestino più vicino.

Will lo credeva in paese per svolgere una commissione, e in un certo senso non si sbagliava. Era andato lì per fare qualcosa che aveva rimandato fin troppo a lungo, e ora che aveva portato a termine il suo intento si sentiva più leggero. Quasi riusciva a vederlo, lo sguardo tradito che Will gli avrebbe rivolto quando avesse scoperto cosa aveva fatto. Ma d’altronde, Hannibal era un fermo sostenitore della teoria per cui un male necessario era in realtà un bene sotto mentite spoglie, ed era al bene di Will che lui stava pensando in quel momento. Il fatto che stesse pensando anche al proprio non rendeva meno altruistica la sua intenzione.

Gli ultimi giorni erano stati un continuo camminare sul filo del rasoio, e un continuo rigettare da parte di Will i tentativi di conversazione di Hannibal.

“Preferirei che fumassi di meno”, aveva detto Hannibal alla quinta sigaretta accesa dall’altro nel giro di un’ora.

“Perché, rovina il sapore della carne?”, lo aveva zittito Will lasciando la stanza.

Se il profiler non si fosse dimostrato così difficile Hannibal non avrebbe dovuto ricorrere all’inganno, ma tant’era. Nel momento in cui era arrivato lì, settimane prima, non pensava si sarebbe mai dovuto fermare così a lungo. Restare ancora era fuori discussione, ma anche partire senza Will lo era. E visto che non sembrava aver intenzione di collaborare gli avrebbe forzato la mano.

Hannibal Lecter, d’altronde, non aveva mai saputo accettare un no come risposta.

La sera prima il profiler era andato a dormire reiterando per l’ennesima volta la sua volontà di mettere il più possibile distanza tra loro.

“Forse dovresti andartene”, aveva detto senza guardarlo in faccia.

“La distanza non cambia nulla, l’abbiamo già appurato.” aveva risposto lui con tono piatto. “Puoi separare due calamite e sperare che non si attraggano, ma è nella loro natura cercarsi. Così come è nella mia natura non riuscire a rinunciare a ciò che voglio.”

Will aveva scosso la testa.

“Una volta mi dicesti che se mai ti avessero catturato avresti potuto vivere a oltranza nel tuo Palazzo della Memoria. So per certo che io vi occupo molte stanze. Perché non puoi lasciarmi andare e accontentarti del me nella tua mente?”

“Tutto cambia quando si tratta di te, Will. Nessun misero ricordo potrebbe mai renderti giustizia. Nessuna illusione creata dalla mia mente potrebbe mai sperare di soddisfarmi. Nessun brandello di realtà riesce ad avvicinarsi a ciò che sei.”

Will non gli aveva risposto, e Hannibal non aveva insistito. Aveva ormai capito che con le buone maniere non avrebbe ottenuto nulla. Era per quello che era andato lì quel giorno. Con gli occhiali da sole a coprirgli gli occhi osservò per un attimo gli ignari abitanti di quella cittadina, formiche laboriose che gli sciamavano intorno del tutto ignare del sangue che molto presto sarebbe stato versato in un modo o nell’altro per sua volontà.

Ora non gli rimaneva che aspettare.

*

Will osservò critico l’ennesima tavola di legno del tetto che ad un’accurata ispezione si stava rivelando inservibile. Il ciclone che aveva investito la Florida nei giorni precedenti aveva messo a dura prova la struttura e l’integrità della catapecchia in cui vivevano, e se gli scrosci di pioggia fossero continuati ancora a lungo nulla li avrebbe salvati dal fare un bel bagno quando il marciume avrebbe finalmente fatto cedere il soffitto intero.

Will si limitò a piazzare un altro telone isolante sulle tavole e ad assicurarlo alla bene e meglio, in un tentativo di risparmiare al legno esausto almeno il peggio dell’umidità, quindi scese dal tetto, gli stivali di gomma che affondavano nella sabbia inzuppata d’acqua.

Quel clima rendeva solo tutto più difficile. Anche la sopportazione di Will per la presenza dell’altro sembrava essere stata messa a dura prova dal ciclone. Essere costretti in un ambiente chiuso con qualcuno che preferiresti non vedere per non dover fare i conti coi sentimenti irrisolti che provi per lui non era esattamente la sua idea di divertimento. Aveva cercato di spingerlo via, di cacciarlo, si giustificava con se stesso, ma Hannibal non aveva voluto sentire ragioni. E in ogni caso che differenza faceva? Hannibal gli era entrato nelle ossa, che gli piacesse o no, e mandarlo via sarebbe stata solo una soluzione a metà. Sarebbe sempre rimasto una parte di lui, un mormorio costante che avrebbe finito per seppellirlo sottoterra a forza di alcool ingurgitato per dimenticare.

Rientrò in casa dopo essersi tolto le scarpe, accendendo il giradischi tanto per riempire di rumore bianco i suoi pensieri. Scelse un disco a caso e lo mise su, rimettendosi al lavoro nel tentativo di arginare le perdite interne. Qualche tempo dopo, ore o minuti non avrebbe saputo dirlo, Hannibal rientrò dalla sua commissione in città, il sacchetto del negozio di dischi sotto braccio e i capelli appena spettinati dal vento che soffiava sulla spiaggia.

“Le riparazioni sembrano procedere bene”, osservò sollevando lo sguardo su Will in bilico su una sedia che cercava di convincere i chiodi ad affondare nel legno marcio senza irreparabilmente sfondarlo.

Un grugnito di assenso fu tutto quello che Will si sentì disposto a concedergli, perché, sinceramente? ‘Procedere bene’ non era esattamente una definizione che avrebbe usato per indicare un qualsiasi aspetto della sua vita, compreso quello che lo vedeva vestire i panni del carpentiere aggiustatutto che a detta della fruttivendola del paese stava riscuotendo un certo apprezzamento tra le annoiate massaie di Naples, col risultato che Will aveva iniziato a chiedersi se tutte quelle porte che non si aprivano e tutti quei motori improvvisamente ingolfati non fossero in fondo una scusa per vederlo sudare nella speranza che si togliesse la camicia. Era quasi stato tentato di farlo un paio di volte, tanto per godersi l’espressione che il suo addome segnato e tutt’altro che rassomigliante a quello del protagonista di un qualsiasi sogno erotico avrebbe suscitato.

Hannibal finse di non far caso a quel mutismo prolungato e si limitò a spostarsi in cucina, lasciando sul tavolo il sacchetto coi dischi. Fu solo quando Will scese mezzo sconfitto dalle travi che aveva tentato di riparare che vi gettò un occhio, bloccandosi a metà di un passo. Conosceva abbastanza Hannibal da sapere che Billie Holiday non era nemmeno lontanamente abbastanza raffinata e snob per essere tra le sue scelte musicali, mentre aveva spiccato tra i cd che Will aveva avuto a Wolf Trap per via della quantità di ricordi della sua infanzia che erano legati alle sue canzoni. Will si ricordò per l’ennesima volta della quantità di tempo che Hannibal aveva passato a casa sua quando vi era andato per impiantarvi prove per incastrarlo al posto suo. Supponeva che conoscesse persino l’elenco dei suoi libri a memoria.

Strinse i denti, ricordandosi che un mezzo gesto gentile non voleva dire niente se il fine ultimo era quello di manipolarlo affinché ricominciasse a parlargli. Una parte di sé si chiese allora che differenza ci fosse tra il porgere il proverbiale rametto d’ulivo e la manipolazione, ma dal momento che il discorso sembrava così pendere a favore di Hannibal lo abbandonò del tutto prima che potesse trarne conclusioni che avrebbero potuto mettere l’altro sotto una luce meno negativa.

Will gli passò quindi accanto senza guardarlo e afferrò un pentolino dalla credenza, per poi superarlo nuovamente continuando ad ignorarlo. Sbatté con più violenza del dovuto il pentolino sul tavolo, là dove sapeva che il tetto avrebbe gocciolato non appena si fosse rimesso a piovere, e con il suo umore nero ormai reso sufficientemente palese se ne andò a leggere in salotto, non prima di aver messo su il 45 giri di Billie Holiday.

Non aveva senso sprecare della buona musica solo per dispetto.

*

La luce andava sparendo dal cielo quando Lucky si mise ad abbaiare. Non era di per sé un avvenimento raro; abitando in mezzo alla natura anche solo il passaggio di un gabbiano alle volte poteva dare il via a una serie di richiami più o meno forsennati. Ma Will era vissuto a stretto contatto coi cani da quando ancora con gambette instabili usava razzolare di fronte alla roulotte di suo padre in Louisiana, e seppe che c’era qualcosa che non andava con lo stesso istinto con cui un marinaio guarda il cielo azzurro e percepisce che la tempesta è vicina.

Si alzò dal divano passando lungo la parete, andando ad accostarsi alla portafinestra per sbirciare fuori, ma senza riuscire a scorgere nulla. Lucky stava ritto sul portico, puntato verso la strada come una banderuola che indica la direzione del vento. Si voltò verso Hannibal per dirgli che qualcosa non andava, ma nel momento stesso in cui incrociò i suoi occhi - calmi, pacifici, innocenti - sentì un brivido corrergli giù per la schiena.

Conosceva quell’espressione. Gliel’aveva vista fin troppo spesso sul volto nel corso degli anni, ingannevolmente rassicurante, ai limiti dell'inespressivo - lo stesso tipo di pacifica inespressività che contraddistingue certe pareti di roccia, che si scoprono impossibili da scalare solo quando si è già a metà della salita e non esiste più modo di scendere se non cadere nel vuoto.

Avrebbe dovuto saperlo.

Hannibal era stato fin troppo calmo nei giorni precedenti, come uno squalo appostato immobile sul fondale in attesa di una preda incauta su cui avventarsi. Will aveva cercato d’ignorare con tutto se stesso la sensazione che vi fosse qualcosa che non andava, il brivido dietro al collo che gli faceva capire dall’espressione di Hannibal che qualcosa era cambiato.

Col senno di poi, era stata davvero una pessima idea.

“Hannibal”, disse con una calma che non sentiva. “Cosa hai fatto?”

Hannibal chiuse lentamente il libro che aveva in mano, posandolo sul tavolino accanto alla poltrona e intrecciandosi le mani in grembo come aveva usato fare durante la sua vita da psichiatra.

“Ho chiamato Mason e gli ho comunicato la nostra posizione.”

Will chiuse per un attimo gli occhi per combattere una vertigine. La voce di Billie Holiday si dipanava dal grammofono, morbida e calda come whiskey, e come il whiskey aveva in sé un sentore di disperazione.

Ever since the world began

There have been other fools like me

Born to be

In love with a no-good man

Riaprì le palpebre, prendendo un respiro profondo.

“Non potevi proprio trattenerti, vero? Dovevi per forza mandare tutto a puttane,” sibilò tra i denti.

“Cosa volevi, Will? Che restassi buono qui con te per sempre, lasciando che ci spegnessimo lentamente? Preferisco vederci bruciare tutti d’un colpo come i soli che siamo.”

Will scoppiò a ridere, perché se non l’avesse fatto si sarebbe messo a piangere.

“Fanculo.”

In quel momento una raffica di colpi sfondò i vetri delle finestre, ed entrambi si gettarono a terra in una pioggia di cocci taglienti. Will imprecò, strisciando velocemente fino allo sgabuzzino del corridoio che conteneva il vecchio fucile che si era procurato quando era arrivato lì. Con mani tremanti afferrò l’arma, cercando a tentoni le munizioni sulla mensola e tentando contemporaneamente di restare basso. Sapeva di dover avere l’adrenalina alle stelle perché vi erano rivoli di sangue a corrergli giù per gli avambracci là dove i frammenti di vetro si erano conficcati mentre avanzava carponi, ma non riusciva minimamente a sentirli.

“Respira, Will. Tranquillo”, disse Abigail, improvvisamente inginocchiata accanto a lui. “L'adrenalina è tua amica. Metti i proiettili nella canna inferiore, uno dopo l’altro. Ora porta indietro il grilletto. Quando scatta significa che hai un colpo in canna e che sei pronto a cacciare.”

I movimenti di Will persero gradualmente il tremore febbrile iniziale man mano che Abigail parlava. Conosceva la caccia. Da qualche parte nella sua mente vi erano ancora le vestigia di Garrett Jacob Hobbs, e per una volta non cercò di frenare il suo cervello quando riesumò dai suoi recessi la forma mentis della Verla del Minnesota, ma anzi si lasciò andare.

Vedi?

“Will, aspetta che siano loro ad avvicinarsi”, disse Hannibal ora acquattato dietro al divano, un martello recuperato dalla cassetta degli attrezzi in mano.

Will si voltò verso di lui.

“I predatori attaccano”, disse Abigail, o forse Will, perché la voce che riverberò nella stanza era la sua dopotutto, e un attimo dopo Will era scattato e si stava catapultando fuori.

Il primo sicario fu colto di sorpresa, e si beccò una pallottola nel collo prima ancora che avesse il tempo di sollevare la pistola. Il secondo schivò il proiettile di Will e sparò tre volte di fila in risposta, ma i colpi si conficcarono sul lato del pick up dietro cui Will si era lanciato; un secondo un colpo di fucile sparato da sotto la macchina gli perforò il polpaccio, facendolo cadere a terra dove Lucky lo azzannò alla gola. Il terzo sicario afferrò Will di sorpresa per la caviglia e lo trascinò via da sotto la macchina, ma una martellata di Hannibal arrivatogli alle spalle gli sparse le cervella sul portico in una pennellata scarlatta.

Uno dopo l’altro tentarono di sopraffarli, e uno dopo l’altro fallirono. Will scoprì che il torpore che gli aveva pesato sul cervello per tutti quei mesi era improvvisamente scomparso, sostituito dall’euforia di sentirsi nuovamente, finalmente vivo. Il suo cuore pompava sangue in spinte potenti, il suo respiro era corto, i suoi muscoli tesi e le sue mani sporche di sangue. Era una macchina da guerra e Hannibal era un dio della morte, e nessuno di quegli esseri inferiori poteva sperare di avere la meglio su di loro.

Quando i proiettili finirono quasi non se ne accorse, abbandonando il fucile e passando all’attacco a mani nude - le armi da fuoco mancavano d’intimità, in ogni caso - e come Randall Tier aveva lasciato che la bestia interiore si manifestasse all’esterno, così Will lasciò che a guidare i suoi movimenti fosse l’istinto violento che così a lungo aveva tentato di sopprimere, e l’abilità nel corpo a corpo che aveva contraddistinto Beverly (“Chiudi il braccio intorno alla sua gola e stringi, Will, la mancanza di ossigeno farà il resto”), e la ferocia di ogni singolo serial killer in cui si era mai immedesimato.

Qualcosa che hai dentro che tenta di uscire.

Era così preso dall’ebbrezza della violenza che, una volta eliminato il suo ultimo avversario, impiegò qualche secondo prima di accorgersi con la coda dell’occhio che i movimenti di Hannibal si erano fatti più lenti e meno precisi, e quando si voltò vide il sangue macchiargli la camicia da uno squarcio sul fianco. L’ultimo dei sicari brandiva un coltello e si stava preparando ad attaccare nuovamente, e questa volta sarebbe stato un colpo fatale.

Per un attimo restò perfettamente immobile. Hannibal non meritava il suo aiuto. Aveva infilato entrambi in quel gigantesco casino di sua spontanea volontà, per puro capriccio. Il mondo avrebbe beneficiato della sua assenza. Will avrebbe beneficiato dalla sua assenza. Una vita libera dall’ombra che aveva proiettato sulla sua esistenza dal primo momento in cui vi aveva messo piede. Avrebbe potuto salvare chissà quante vittime future se solo avesse lasciato che morisse, e risparmiare chissà quanto sangue dall’essere versato, e quante lacrime dall’essere piante. La salvezza dell’umanità su un piatto d’argento. Ma, realizzò in quel momento, in realtà lui a quel mondo non doveva niente. Aveva passato la vita ad agire per il bene degli altri, ma quella persona non esisteva più.

Il suo dio non era mai stato misericordioso e, in fondo, non lo era nemmeno lui.

Si lanciò contro l’uomo come una fiera che balza sulla preda, saltandogli addosso da dietro e affondando i denti nel suo collo per poi tirar via il viso e strappare. Una pioggia di sangue si riversò su Hannibal, parzialmente inginocchiato di fronte all’assassino con una mano premuta sulla ferita, e Will lo vide chiudere gli occhi e lasciare che quel battesimo lo dipingesse di rosso. Quando li riaprì l’ultimo sicario giaceva rantolante a terra, e il volto di entrambi era una maschera scarlatta.

“Will”, disse in un soffio, appoggiando la mano libera a terra e sedendosi sulla sabbia sporca di sangue mentre Will faceva lo stesso contro il lato del pick up, il fiato corto e il sapore del ferro in bocca.

“Sei stato magnifico, Will.”

“Taci. Non hai alcun diritto di parlare”, ringhiò lui a bassa voce.

“Se non fossi ferito mi alzerei in piedi e applaudirei la tua perfezione”, continuò Hannibal ignorando le sue parole. “O mi inginocchierei di fronte ad essa come un supplice di fronte a un altare.”

Will chiuse gli occhi, abbandonando la testa all’indietro contro il metallo e respirando profondamente per riprendere fiato.

“E’ questo che vuoi? Prostrarti ai piedi del mostro che hai creato?” chiese senza guardarlo. “Vuoi adorarmi come un dio dopo avermi fatto precipitare dal Paradiso?”

Fu come se potesse avvertire il sorriso di Hannibal nell’aria anche senza vederlo.

“Mio caro Will, ho dimenticato come desiderare qualsiasi altra cosa da quando ti ho conosciuto.”

Will spalancò di colpo gli occhi e gli tirò addosso una manciata di sabbia con rabbia.

“Hai rischiato di farci ammazzare!”

Hannibal scrollò le spalle.

“Ero sicuro che li avremmo sopraffatti.”

“Non potevi saperlo!”

“Ero disposto a correre il rischio pur di vederti emergere in tutta la tua gloria.”

Will emise un verso frustrato, prendendosi la testa tra le mani.

“Sei completamente fuori. Mi chiedo perché me ne stupisco. Sembri sempre così maledettamente razionale che è facile dimenticare che in realtà sei un pazzo furioso.”

"Credevo avessi bisogno di una spinta. Un mezzo d'ausilio per scoprire cosa saresti potuto diventare."

"Ho sempre saputo cosa sarei potuto diventare", mormorò in risposta.

Per qualche minuto restarono in silenzio, ascoltando la risacca scrosciare pigra sulla spiaggia. Lucky aveva preso a leccare il sangue da uno dei cadaveri e probabilmente a mangiarne dei pezzi, scodinzolando, ma Will era troppo stanco per curarsene.

Fu Hannibal a spezzare la quiete.

“Mi hai salvato la vita, Will.”

Will si lasciò sfuggire una risatina.

“Credimi, lo so.”

“Non ero del tutto sicuro che lo avresti fatto”, ammise Hannibal.

“Nemmeno io”, rispose Will dopo un po’. Il suo sguardo era sull’orizzonte, azzurro-verde come l’incontro di cielo e mare. “Tu sei… la persona che più detesto in tutto l’universo. Sei tornato a perseguitarmi quando non volevo altro che un po' di pace. Sei come veleno. Hai contaminato la mia vita e mi hai lasciato come solo un’ombra di ciò che ero, una creatura a cui non so nemmeno dare un nome.”

Hannibal lo ascoltava in silenzio, gli occhi fissi sul suo profilo.

“So quello che dovrei volere”, continuò Will. “Non averti mai conosciuto.”

“E pensi che per me non sia lo stesso?” chiese Hannibal. “Ho impiegato anni per costruirmi la mia vita a Baltimora. Godevo di una perfetta libertà, mentre ora sono legato a te da catene più spesse delle sbarre di qualsiasi cella. Vivo alla mercé dei capricci della tua morale.”

Will si voltò finalmente verso di lui. Negli occhi del mostro non vi era traccia di risentimento per ciò che aveva appena detto, solo un’infinita ammirazione e voglia di possesso che gli squassò la mente con l’eco dei pensieri che per una volta Hannibal non stava minimamente cercando di dissimulare.

Se solo potessi ti aprirei in due il torace e vivrei tra le tue costole. Se solo potessi ti strapperei il cuore dal petto e lo cullerei ancora pulsante tra le mani, così da essere sicuro che non potessi donarlo a nessun altro se non a me.

Will emise un respiro tremulo. Hannibal lo aveva paragonato a una falena qualche giorno prima, ma ora capiva che lo erano entrambi, solo in maniera opposta: Hannibal era attratto dalla luce che lui emanava, Will dall’oscurità in cui l’altro viveva. Erano l’uno il negativo dell’altro.

Tornò a guardare il mare, accarezzando la testa di Lucky che era andato ad accucciarsi accanto a lui. Lo sguardo di Hannibal non si spostò di un millimetro da Will, mentre nel suo palazzo della memoria nuove cattedrali nascevano dal nulla, volte infinite su cui affrescare il divenire e la gloria a cui aveva assistito quel giorno, così che non ci fosse più nemmeno un angolo della sua mente che non serbasse il ricordo di Will.

Will era come l’oceano. E Hannibal sarebbe volentieri annegato in lui.

*

La barca solcava le onde dell’Atlantico in un alternarsi di beccheggi e rollii, la vela spiegata gonfia di vento da ovest.

Erano due giorni che navigavano. Will aveva ultimato le riparazioni del sei metri giusto in tempo per il loro confronto a fuoco, e aveva deciso che in fondo un proprietario che riesce ad arenare un’imbarcazione del genere su una secca non meritava realmente di averla, per cui vi avevano caricato viveri, cane e bagagli ed erano salpati dalla Florida alla volta dell’Europa.

Will era piuttosto sicuro che ormai qualcuno dovesse aver trovato i cadaveri sulla spiaggia, carbonizzati all’interno della catapecchia a cui avevano dato fuoco. Si chiese se Jack fosse venuto al corrente della notizia e se avesse avuto il dubbio che il peculiare straniero che aveva vissuto lì potesse essere lui. In realtà, comunque, non gli importava.

“Temo che il giradischi ci abbia abbandonati una volta per tutte”, disse Hannibal sbucando da sotto coperta con l’apparecchio in mano, i movimenti attenti di chi non voleva strappare i punti della propria ferita ancora in fase di guarigione. “Pare che il voltaggio della barca sia stato troppo per lui.”

“Mi stupisco che sia durato così tanto in realtà”, rispose osservandolo avvicinarsi al bordo della barca. “Che fai?”

“Ce ne procureremo un altro una volta arrivati in Europa. Sono certo che essere seppellito in mare sia un destino che capita a ben pochi suoi simili.”

Will lo seguì con gli occhi mentre il giradischi veniva gettato fuoribordo e inghiottito dalle onde.

Sic transit gloria mundi”, mormorò.

Hannibal gli si avvicinò, posando una mano accanto alla sua sul timone.

“Pensi ancora che il nostro unico possibile destino insieme sia la morte?”, chiese con un tono più colloquiale di quanto una simile domanda non avrebbe richiesto.

“Sì. Non credo esista un lieto fine per noi”, rispose Will senza esitazione.

Hannibal soppesò quelle parole.

“Ma non è questo l’amore in fondo?”, chiese. “Morire da singolo per risvegliarsi parte di un tutto?”

Will sorrise, spostando lo sguardo su di lui. Non c’erano più ombre nei suoi occhi, né occhiaie sotto di essi. I suoi demoni non lo tormentavano più, perché li aveva accettati tutti.

“E quando ci prenderanno?”, chiese. “Quando avremo versato il sangue di mille bestie immeritevoli e nella nostra euforica arroganza commetteremo un errore, quando l’Interpol sparerà su di noi a vista… anche allora parlerai d’amore? Quando spireremo l’uno tra le braccia dell’altro?”

Gli occhi di Hannibal si piegarono in un sorriso.

“Soprattutto allora. Non potrei chiedere nulla di più che avere il tuo nome sulle labbra quando esalerò il mio ultimo respiro.”

Will non rispose, tornando a guardare l’orizzonte. Solo quando l’altro gli prese la mano tra le sue tornò a guardarlo.

“Will. Forse ci prenderanno. Forse ci braccheranno come animali e ci uccideranno a sangue freddo. Ma prima...”, disse portandosi la sua mano alle labbra e posando un bacio sulle nocche. “Prima vivremo.”

Il brivido che percorse Will a quel contatto sembrò propagarsi da lui ad Hannibal come una scarica elettrica in un circuito chiuso. Will lo osservò per qualche secondo, ed infine annuì.

“Sì. Prima vivremo.”


***

Happy together, unhappy together, and won't it be fine?




Fine.

_____________

Note finali: Chiedo venia a tutti coloro che hanno aspettato che mi decidessi ad alzare il mio deretano da titano e a finire questa storia in tempi brevi. Sono rimasta a metà di questo capitolo per mesi, senza sapere bene come concluderlo, finché ieri la mia musa ha finalmente deciso di fare il suo lavoro e permettermi di scrivere la parola fine. Grazie mille a chi ha letto e recensito, le vostre parole sono sempre apprezzate e sono quello che mi spinge a scrivere :) Alla prossima!

L’ultimo verso viene dalla canzone di Billie Holiday che suona a inizio capitolo. E per chi fosse interessato, questo è il testo della poesia da cui è tratto il titolo della ff:

A mermaid found a swimming lad, (Una sirena trovò un ragazzo che nuotava)

Picked him up for her own, (E lo prese per sé)

Pressed her body to his body, (Premette il corpo al suo)

Laughed; and plunging down (Rise; e tuffandosi in profondità)

Forgot in cruel happiness (Dimenticò nella sua felicità crudele)

That even lovers drown. (Che anche gli amanti affogano)



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