Trigger di laylabinx (/viewuser.php?uid=968215)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Zhelaniye (Brama) ***
Capitolo 2: *** Rzhavyy (Arrugginito) ***
Capitolo 3: *** Semnadtsat' (Diciassette) ***
Capitolo 4: *** Rassvet (Alba) ***
Capitolo 5: *** Pech' (Fornace) ***
Capitolo 6: *** Devyat' (Nove) ***
Capitolo 7: *** Dobrokachestvennyy (Benigno) ***
Capitolo 8: *** Vozvrashcheniye Na Rodinu (Ritorno a casa) ***
Capitolo 9: *** Odin (Uno) ***
Capitolo 10: *** Gruzovoy Vagon (Vagone merci) ***
Capitolo 1 *** Zhelaniye (Brama) ***
cap 1 trigger
NdA
Ciao
a tutti! Spero che stiate tutti bene! Questa è un'idea con la quale ho iniziato
a trastullarmi fin da quando è uscito il film, volevo concentrarmi sulle parole
del codice di attivazione e scrivere qualcosa a proposito di ognuna.
Il
lavoro in realtà verrà diviso in due parti: la prima parte riguarderà tutto
quello che ha portato agli eventi di Civil War e la seconda parte sarà a
proposito di tutto quello che succede in seguito.
Nel
corso della storia saranno presenti alcune situazioni abbastanza sgradevoli ma
cercherò di inserire un avviso all'inizio di ogni capitolo, giusto in caso.
In
più, la storia potrebbe contenere accenni Stucky e implicazioni slash ma non
sarà nulla di esplicito, tutti quelli che non amano il genere possono comunque
considerarla solo una bromance molto accentuata!
Spero
vi piaccia!
laylabinx
Capitolo 1: Zhelaniye
Bramosia.
L'unica parola che trova per descrivere l'espressione sulla faccia di
Steve. Può
leggere un'intera lista di altre emozioni - è triste,
sconvolto, ansioso, respinto
- ma l'espressione che racchiude tutto il resto è bramosia. Steve
vede la sua uniforme e capisce senza bisogno di sentirselo dire,
è qualcosa che
sa fin dentro il midollo: Bucky sta per andarsene e lui
resterà a casa.
«Sei
stato assegnato?»
Steve non prova neanche a nascondere la passività
nella voce. Sapeva
che sarebbe successo sin dall'attacco a Pearl Harbor.
Bucky
esita per una frazione di secondo prima di rispondere, dondolandosi
leggermente
sui talloni. Riconosce quello sguardo, il fastidio che accompagna la
realizzazione che ancora una volta non ce l'ha fatta. Steve non ce l'ha
fatta a causa
della sua salute, della sua corporatura, del suo peso e a causa di
altre
centinaia di motivi che l'universo ha deciso di scaricargli addosso
durante tutta la sua vita.
Non
è arrabbiato con Bucky, è arrabbiato con se
stesso.
Steve
potrebbe anche scoprirlo da solo, ormai non c'è modo di
cambiare gli ordini, ma merita di
sentirlo da lui.
«107esimo,
Sergente James Barnes,»
dice senza troppo entusiasmo, un mezzo
sorriso che gli inarca un lato della bocca. «Salpo
per l'Inghilterra domani all'alba.»
Stavolta
tocca a Steve esitare, intrappolato in un tumulto di sensazioni che
non saprebbe nemmeno iniziare a descrivere. È
orgoglioso di Bucky, così dannatamente fiero da starci quasi
male, eppure per lui è
difficile sentirsi felice quando sa che verrà lasciato
indietro. Sa che non gli
verrà mai data l'occasione di difendere il proprio Paese
come vorrebbe.
«Anch'io
dovrei esserci,» intona calmo,
scuotendo la testa e fissando il cemento coperto di rifiuti.
Bucky
non
ha alcun dubbio che se gliene lasciasse
l'opportunità, Steve passerebbe il resto del pomeriggio in
quel vicolo desolato
a piangere sul proprio triste destino.
Non può permettere che succeda. Non a Steve e non
stanotte.
Domani salperà per il grande ignoto1,
per i
butterati campi di battaglia in Europa. Vuole almeno un'ultima notte
spensierata prima di andarsene.
«Forza,
vieni,» dice in una risata che è
solo leggermente forzata.
Passa un braccio intorno alle spalle magre e
scheletriche di Steve e lo trascina via con sé lungo il
vicolo. «È
la mia
ultima sera. Devo darti una ripulita.»
Steve
sembra
mettere il broncio però passa lo stesso le dita tra i
capelli che gli ricadono
sulla faccia, nel tentativo di pettinarli. «Perché?
Dove
stiamo andando?»
Bucky
sorride e lo stringe un po' più forte nel
proprio abbraccio. «Nel
futuro,» risponde, schiaffandogli sul petto
un giornale piegato a metà e guidandolo fino alla strada.
OOOOO
Il
futuro
si rivela essere un'esposizione mondiale, piena
di luci brillanti e dimostrazioni e un sacco di gente curiosa. Bucky
indossa
ancora l'uniforme e Steve si è ripulito per quanto gli
è stato possibile, considerato
il poco tempo a disposizione. I suoi vestiti sono ancora sgualciti e un
livido
sta spuntando sotto un occhio per accompagnarsi al taglio sul labbro,
ma se non
altro cerca di fare bella figura.
«Che
cosa hai raccontato di me?»
chiede, sistemandosi di nuovo i capelli da un lato.
Bucky
vorrebbe dargli uno schiaffo sulla mano e dirgli
di rilassarsi, non esiste possibilità al mondo che si metta
mai a parlare male
di lui. Si limita a sogghignare e fa un cenno di saluto alle due
ragazze
dirette verso di loro.
«Solo
le cose buone,» lo rassicura mentre
porge il braccio ad una brunetta molto carina. La sua amica, una bionda
altrettanto carina, si ferma di fianco a loro e il suo sorriso vacilla
un
istante quando vede Steve. A quanto pare non era quello che si
aspettava.
Steve
cerca
di non pensarci troppo mentre la bruna si
allontana insieme a Bucky, la sua amica al seguito che cammina accanto
a loro. In
tutta onestà non può biasimarla: è
consapevole di non avere un aspetto
attraente quanto Bucky e se la ragazza aveva immaginato di incontrare
qualcuno
simile all'amico dev'essere rimasta penosamente delusa. Qualsiasi
appuntamento a
quattro alla fine va sempre così e per Steve non
è una grossa sorpresa quando
Bucky si ritrova con entrambe le ragazze a braccetto.
Una
dimostrazione inizia su di un palco a poca
distanza e le ragazze si precipitano euforiche in quella direzione,
portando
Bucky insieme a loro. Steve li segue senza troppa fretta. L'uomo
sul palco, un eccentrico inventore di nome
Howard Stark, sta parlando di argomenti bizzarri quali l'energia
rinnovabile e
automobili volanti. Suona abbastanza assurdo anche se Stark ha perfino
creato un
prototipo (sebbene riesca a restare sospeso solo per dieci secondi,
circa) e a
tutti sembra di aver appena assistito a qualcosa di incredibile.
Bucky
sorride e si gira verso Steve, ma lo spazio in cui l'amico si trovava
alcuni
momenti prima è vuoto. Con espressione preoccupata passa in
rassegna la folla
senza trovare traccia del piccoletto. I suoi occhi si fermano
sull'insegna di
un centro di reclutamento al di là del parco e capisce al
volo dove Steve potrebbe esserci cacciato.
Quasi
a
colpo sicuro, lo trova a pochi passi
dall'entrata - deciso a cercare di nuovo una qualsiasi falla nel
sistema,
qualche scappatoia da sfruttare per ottenere l'idoneità. E
Dio solo sa quanto
Steve sia un ostinato figlio di buona donna: se c'è un modo
per riuscire a farsi
arruolare, prima o poi finirà per trovarlo.
«Vuoi
veramente provarci di nuovo?»
domanda Bucky, rassegnato e stanco perché sa già
quale sarà la risposta.
Steve
si
stringe nelle spalle e affonda le mani nelle tasche. «Beh,
è una fiera. Tento la fortuna.»
«Nei
panni di chi?»
ribatte
Bucky, improvvisamente irritato dalla situazione. «Steve
dall'Ohio? Ti scopriranno. O peggio, ti
arruoleranno.»
Questo
sembra provocare in Steve un lampo di fastidio
che gli attraversa il viso e raddrizza la schiena per sembrare
più alto.
Non funziona.
«Senti,
so che tu pensi che io non sia
all'altezza…»
Il
commento
in sé è peggio della sua eterna
testardaggine. Steve pensa davvero una cosa del
genere, è convinto
che Bucky pensi che lui non sia in grado ma in verità
è esattamente il
contrario: Bucky sa che Steve
può
farcela, ecco il problema. Steve non sa quando rinunciare, non si tira
mai indietro
di fronte ad uno scontro anche se potrebbe restarci secco, e per Bucky
è una
verità assoluta. Sa che Steve può farcela ed
è per questo motivo che non vuole
neanche vederlo provare.
«Questa
non è una scazzottata in un vicolo,» gli
spiega
in tono più paziente possibile. «È
una
guerra. Perché ci tieni a combattere? Puoi fare tanti
lavori…»
Ma
Steve
non ha alcuna intenzione di accettarlo.
Sedersi ai margini e restare a guardare mentre altri occupano un posto
in prima
linea al fronte non lo rende soddisfatto. Non è felice di
non essere abbastanza
forte, di non essere mai abbastanza,
per
questo non è felice di essere lasciato a casa. E di nuovo
spunta la bramosia
nei suoi occhi. Il desiderio di farsi valere, di dimostrare al mondo
che può
realizzare qualsiasi progetto si metta in testa, nonostante tutti gli
ostacoli.
«Ci
sono uomini che sacrificano le loro vite,»
insiste Steve, altrettanto esasperato dalla
discussione. «Io
non ho nessun diritto di fare meno di quegli
uomini. È questo che non vuoi capire. Non si tratta di me.»
Bucky
si
lascia scappare un sospiro profondo. «Appunto.
Tu non devi dimostrare niente.»
Steve
non
risponde ma continua a sostenere lo sguardo.
Se è una sfida, come tante altre cose nella sua vita, non ha
intenzione di
cedere.
Le
ragazze
arrivano dietro di loro, richiamando l'attenzione di Bucky.
È lui a
distogliere per primo lo sguardo da Steve, per girarsi e rassicurarle
con un
sorriso e la promessa di portarle a ballare.
Torna
a
fissare Steve con un nuovo sospiro e scuotendo
la testa. «Non
fare nulla di stupido finché non torno.»
«Come
potrei?»
ribatte
Steve con prontezza. «La
stupidità te la porti tutta con te.»
Bucky
ridacchia a fior di labbra e poi stringe Steve in un veloce
abbraccio. «Sei
un imbecille.»
«Cretino,»
borbotta Steve, rispondendo
all'abbraccio e osservando Bucky allontanarsi mentre sul viso gli
rimane
dipinta la stessa espressione di bramosia. «Non
vincere la guerra finché
non arrivo io,» aggiunge, guadagnandosi un saluto militare
dall'amico
prima che scompaia in mezzo alla gente per cercare le loro (sue?)
accompagnatrici.
Steve indugia per un istante, le mani infilate in
fondo alle tasche, desideroso di partire ma costretto a restare.
OOOOO
La
notte
passa in una macchia sfocata di balli e
whisky. Le ragazze sono bellissime, il liquore è forte e
Bucky fa tutto il
possibile per placare il devastante senso di fatalità che
gli sta montando nel
petto da quando ha ricevuto l'assegnazione. Si maschera dietro una
facciata di
coraggio, sorride fin troppo e ride al momento giusto e si sforza di
comportarsi
come se domani non dovesse mai arrivare. Domani rappresenta l'ignoto,
un
terreno sul quale non si è mai avventurato prima. Domani
potrebbe essere
l'ultima volta che vedrà Brooklyn. Domani, a essere franchi,
è terrificante.
Non
lo
ammetterebbe mai, non lo confesserebbe mai a
nessuno (soprattutto non a Steve) ma non si è presentato di
propria volontà. È
stato arruolato come ogni altro giovane sano e robusto in tutto il
Paese. Ha
ricevuto la chiamata di leva per posta, ancora prima di poter
considerare l'arruolamento
volontario. Non è nemmeno sicuro che si sarebbe unito
all'esercito se non fosse
stato obbligato.
Non
che non
voglia fare la propria parte e difendere
il Paese - non è un codardo né uno scansafatiche
- però ha sempre esitato perché arruolarsi
significa lasciare Steve.
Steve, che cerca ogni volta di fare la cosa giusta
anche se significa ritrovarsi con un occhio nero. Steve, che
immancabilmente si
ammala di polmonite una volta l'anno e rifiuta di andare in ospedale
anche
quando tossisce così tanto da non riuscire a reggersi in
piedi. Steve, che
ormai non ha più nessuno al mondo e dopo la partenza di
Bucky resterà
completamente da solo.
Comunque
non gli direbbe mai niente, per non rinforzare
l'idea che Steve abbia bisogno di qualcuno che si prenda cura di lui.
Ne ha
bisogno (ostinato bastardo) eppure Bucky non glielo direbbe mai. Non sa
se questo
possa renderlo in qualche modo meno virile, non cogliere
l'opportunità quando
si presenta - non ci ha mai neanche pensato.
Ha
esitato
ad arruolarsi e forse non l'avrebbe mai fatto se avesse potuto
scegliere. Alla
fine per lui non c'è stata una scelta, è stato
reclutato obbligatoriamente, gli è stato assegnato il grado
di Sergente e il
compito di difendere l'America e dare appoggio agli Alleati. A
volte gli piacerebbe essere così coraggioso e spavaldo
come cerca di apparire. Come l’uomo che Steve vede in lui.
Le
ragazze
sono una buona compagnia per la serata e
per qualche tempo riesce a dimenticare che l'indomani mattina
verrà imbarcato.
Balla con loro, le tiene strette e lascia che si stringano a lui.
Quando le accompagna
a casa, più tardi, gli rimangono sul colletto tracce di due
diverse sfumature
di rossetto e la sua uniforme è impregnata di profumo dai
toni floreali.
Sorride
mentre le osserva scomparire all'interno e
continua a salutarle con una mano finché la porta si
richiude dietro di loro.
Il suo appartamento è solo a qualche isolato di distanza,
non ci metterà molto
a raggiungerlo a piedi. L'unico problema è che adesso
è da solo e non c'è nulla
ad aiutarlo a tenere sotto controllo l'apprensione per il giorno dopo.
Diamine,
il giorno dopo in realtà è già oggi e
nel giro di poche ore dovrà essere
diretto alla stazione.
Una
fiammata
di energia nervosa gli fa rivoltare lo stomaco (oppure è
colpa del whisky) e sistema
le spalle per rimettersi dritto in piedi. Infila le mani nelle tasche e
comincia a camminare verso casa, ignorando i palpiti d'ansia che
accompagnano
ogni passo.
Pesca
le
chiavi dal taschino quando è quasi arrivato e si lancia su
per le scale due
alla volta per poi fermarsi di fronte alla porta d'ingresso. Si ferma,
le dita
esitano di fronte alla serratura. All'improvviso gli torna in mente che
si
tratta dell'ultima notte che passerà in questo appartamento,
in questa città,
forse in assoluto. Non dovrebbe stupirsi più di tanto,
sapeva da mesi che
sarebbe successo, ma realizzare che il momento è davvero
arrivato lo lascia di
sasso.
Scuote
la
testa, inspirando lentamente per riprendere il controllo. Finisce per
dare al
whisky gran parte della colpa per quest'ansia e apprensione.
Andrà tutto bene:
in fondo qual è la cosa peggiore che potrebbe succedere?
Infila la
chiave nella toppa e spalanca la porta.
Le
luci
sono
già spente, Steve è addormentato sul logoro e
consunto materasso che dividono.
Il loro appartamento è minuscolo, non molto diverso da una
baracca con soltanto
quattro spesse mura, ma da quasi quattro anni per entrambi è
diventata casa. È
tornato a casa per la sua ultima notte. Bucky sospira sottovoce e
chiude la
porta, lasciando le luci spente.
Si
spoglia
fino a restare con la sola biancheria indosso e appende l'uniforme sul
retro
della porta, in ordine. Sono da poco passate le due del mattino e sa
che dovrà
alzarsi e prepararsi non più tardi delle cinque e mezza se
vuole arrivare in
tempo alla stazione. L'idea comunque non lo preoccupa, al momento
l'unica cosa
che vuole è dormire e passare un'ultima notte nel proprio
appartamento.
Attraversa
la stanza in direzione del materasso schiacciato contro il muro e si
siede mollemente
lungo il bordo. Steve è rannicchiato sul proprio lato del
letto, la faccia
rivolta al muro e il respiro regolare. Bucky rimane a fissargli la
schiena per
alcuni istanti, osservandolo respirare e imprimendosi nella memoria
ogni
particolare possibile. Si domanda se si dimenticherà di lui
una volta che sarà
partito, se i minuscoli dettagli che hanno sempre tenuto insieme le
loro vite
scompariranno in una nuvola di fumo e polvere da sparo.
Scaccia
tutte queste idee dalla testa e si sdraia sul materasso, troppo stanco
per
continuare a pensarci. Steve si muove per un attimo ma torna subito a
giacere
immobile. Bucky non si lascia ingannare.
«Hey
Stevie,» sussurra
piano nell'umida, stantia oscurità del loro
appartamento. «Sei
sveglio?»
Steve
non
risponde per diversi istanti, poi alla fine cede con uno sbuffo
sommesso. «È
difficile dormire se mi blateri nelle orecchie,» risponde
in
tono mesto. «Come
è andata?»
«Faceva
caldo,»
ammette
Bucky, allungandosi nel letto mentre fissa il buio del
soffitto. «Non
so perché non accendano i ventilatori in quelle
sale da ballo. Vedere che la gente in pista gronda di sudore dovrebbe
suggerire qualcosa.»
Steve
ride
sommessamente e continua a rivolgergli le spalle.
«È
strano pensare che questa sia la mia ultima notte
qui,» mormora
Bucky, più tra sé che davvero diretto a Steve.
Sta riflettendo ad alta voce,
dando sfogo alle preoccupazioni piuttosto che tenerle dentro.
Steve
sbuffa
di nuovo, brusco e perfino un po' irritato, poi si gira nel letto verso
di lui.
Borbotta tra
i denti qualcosa che suona parecchio come "stupido
cretino"
prima
di chiudere nei pugni la
canotta di
Bucky. In meno di un secondo gli preme il viso sul petto, serrando
forte la
presa mentre il respiro si accorcia e diventa affannato. Bucky lo
prende fra le
braccia per stringerlo con gentilezza, posandogli la guancia sui
capelli.
«Promettimi
che non finirai per farti ammazzare laggiù,
Barnes,» bisbiglia
Steve, le sue dita ancora attorcigliate attorno alla stoffa della
canottiera. «Devi
promettermelo.»
Bucky
annuisce ma sa che si tratta di una promessa che non è certo
di poter
rispettare. «Solo
se tu prometti di scrivermi,» ribatte,
mentre segue il contorno delle ossa lungo la schiena scheletrica di
Steve. «A
quanto pare i soldati al fronte sentono parecchio la
nostalgia di casa, Stevie. Rischiano di prendere decisioni avventate.
Tu
scrivimi, continua a raccontarmi di tutti i guai in cui ti stai
cacciando ed io
eviterò di comportarmi da idiota.»
Steve
ride
(o
si tratta di un singhiozzo soffocato) e torna a nascondere il viso
contro il
petto di Bucky. «Sei
davvero un cretino, lo sai?»
domanda. È la confessione timida e profonda di
qualcosa molto più importante che nessuno dei due ha il
coraggio di ammettere.
Bucky
sorride debolmente e lo stringe ancora più a sé;
anche per lui è lo stesso ma
stanotte non è il momento adatto per parlarne. Sarebbe
scontato, scadente, e
aspettare il momento giusto è essenziale. Peccato che il
tempo non giochi a
loro favore.
«Lo
so, imbecille,» sussurra
in risposta mentre ancora tiene Steve
abbracciato. «Lo
so.»
Passano
così
il resto della notte, abbracciati uno all'altro come se fosse l'ultima
volta. Forse
lo è davvero.
Steve
desidera partire tanto quanto Bucky desidera rimanere. Il mattino
arriverà,
come sempre, e Bucky sarà costretto ad andarsene mentre
Steve sarà costretto a
restare indietro. Quasi si trattasse delle parole di una crudele
canzoncina in
rima: brama di andare, brama di rimanere, nessuno dei due
ciò che vuole
potrà avere.
1.
The great unknown
Generalmente
descrive situazioni nuove e sconosciute ma può anche riferirsi alla
consapevolezza di essere destinati a morte certa. [NdT]
Capitolo originale dell'autrice
Show her some love!
Salve a tutti voi che leggete!
Non
volevo irrompere per la prima volta nel fandom senza neanche fare un saluto, quindi vi lascio giusto due righe per dire che tradurre
questa storia è stato un piacere e spero che il risultato riesca ad
appassionarvi.
Your Humble
Translator
|
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Capitolo 2 *** Rzhavyy (Arrugginito) ***
cap 2 trigger
Capitolo 2: Rzhavyy
«32...
557...»
È
martedì.
Almeno, pensa che sia martedì… potrebbe essere
lunedì.
Non ne è per niente sicuro. Il concetto di tempo
è abbastanza insignificante
dove si trova; non vede nient'altro a parte luce artificiale e finestre
sudice,
quindi distinguere il giorno dalla notte è difficile. A
volte le ore si muovono
appiccicose come la melassa, altre sembrano passare alla
velocità di un
fulmine. I giorni si mischiano sbiaditi, onestamente non ha idea da
quanto si
trovi lì. Settimane? Mesi? Il suo cervello frastornato cerca
di ricostruire una
vaga linea temporale e decide che si tratta di settimane. Pensa di
essere rimasto
lì per alcune settimane, ma ancora non è
certo… è troppo stanco perché gli
importi davvero…
«Sergente
James Barnes…»
La
voce che echeggia
nella stanza, sopra di lui, non ha niente a che vedere con la sua.
È
vuota
e sottile, fragile come assi di legno marcio. Pensa che in parte sia
dovuto al
freddo ma sa che la vera causa sono le urla. Urla che gli fanno
bruciare la
gola e scoppiare i polmoni lasciandolo senza respiro, sfiancato. Forse
sarebbe
peggio se dopo un po' non svenisse per il dolore e la stanchezza, ma
prima di svenire
ci sono sempre le urla.
Non
sa che
cosa gli stiano facendo o cosa stiano
cercando di ottenere. Ogni tanto riesce a carpire un paio di parole qua
e là,
conversazioni in tedesco che si mischiano a termini in un inglese dal
forte
accento teutonico. Esperimento, collaudo,
siero… le parole non hanno senso e non riesce a
dare loro un senso neanche
nella propria testa. Stanno conducendo dei test per i loro soldati e
chi
potrebbe essere di miglior uso come cavie se non i prigionieri di
guerra?
A
lui tocca diverse volte a settimana, esperimenti che
coinvolgono bisturi ed elettricità. Gli incidono la pelle
per
vedere quanto a
lungo sanguina, gli fratturano le dita per sapere quanto impiegano a
guarire. Lo
infilzano alle costole con un pungolo da bestiame e lo osservano
contorcersi sul pavimento, senza mostrare alcun interesse. Non sa se
siano soddisfatti o
scontenti dei risultati; prendono appunti, parlano tra loro e
ricominciano da
capo col procedimento alcuni giorni dopo.
Gli
fanno
iniezioni quasi tutti i giorni. Aghi lunghi,
affilati, iniettano un liquido viscoso che brucia lungo tutto il
braccio. Le
sue vene sembrano riempirsi di catrame fuso che si indurisce e
stratifica man
mano che si diffonde. Le braccia sono segnate ovunque le siringhe hanno
bucato
la pelle e le cicatrici sembrano arrivare fino all'osso. Il suo corpo
è
dolorante, brucia come mai gli era successo o come mai pensava potesse
succedere. Si sente scottare per la febbre e gelare di freddo allo
stesso
tempo, trema per il sudore che gli si aggrappa addosso e gli inumidisce
i
capelli.
A
volte si
domanda se fosse così che Steve si sentiva quando
rimaneva costretto a letto da qualche residuo di influenza, in inverno.
Scottava
per giorni, tremando come se stesse per congelare a morte, e lui poteva
solo
restare impotente a guardarlo. Cerca di non pensarci troppo, comunque,
perché il pensiero di Steve fa male; fa male pensare a
chiunque, a casa. Gli
lascia una dolorosa sensazione di peso nel petto, un buco nero senza
fondo.
Pensa a Steve e gli viene voglia di piangere.
L'hanno
portato di nuovo lì quel mattino, due guardie
a sorreggerlo mentre un uomo sparuto e con gli occhiali era concentrato
sulle carte
sparpagliate sopra la scrivania. Ad un suo cenno si è
ritrovato sbattuto sul
tavolo senza troppi complimenti, con delle robuste cinghie di cuoio
strette
intorno al petto e alle gambe per impedirgli di muoversi.
Non
ha idea di quali esperimenti abbiano in programma per lui oggi, in
genere non è mai niente di buono. Cerca di farsi forza e si concentra sulla respirazione.
Il
dottore - se si può chiamarlo così - l'ha
lasciato legato al tavolo ed è andato a cercare degli
strumenti. È successo più
di mezz'ora prima e non è ancora tornato. Non che si stia
lamentando: qualsiasi
attimo di tempo lontano da dottori sadici e dai loro esperimenti
significa più tempo
in cui non viene torturato, quindi cerca di assaporare la dolcezza del
momento
finché dura.
«32557…»
Qualcosa
gli gocciola in faccia,
scivola e gli
rotola giù per la guancia. Sussulta sorpreso e si concentra,
sbattendo le palpebre
per mettere a fuoco la tubatura sopra la sua testa. Sembra essere fuori
posto e
si chiede come mai non se ne fosse accorto prima. Non
te ne sei accorto finché non ti ha sgocciolato addosso,
genio, gli
fa notare il proprio cervello. Sta' zitto,
ordina in risposta, e i pensieri sembrano fermarsi.
Ah! Ben fatto!
Torna
a
concentrarsi sulla tubatura, alta sopra di lui
e gocciolante… qualcosa. Molto probabilmente acqua, non
può saperlo con
certezza. Di sicuro la pelle non si sta squagliando dove l'ha colpito
la prima
goccia, quindi arriva alla deduzione che non si tratti di acido. Un
urrà per le
piccole gioie.
Un'altra
goccia lo colpisce nello stesso posto e cade da un'altezza
sufficiente a causargli la sensazione di una piccola
puntura quando la stilla viene a contatto con la sua pelle. Solleva lo
sguardo
verso l'origine della perdita.
Stupido tubo arrugginito.
Se non fosse legato al tavolo è abbastanza sicuro che
potrebbe allungarsi e toccarlo, però il sopraccitato 'essere
legato al tavolo'
è un problema e lo è pure il fatto che non
riuscirebbe a reggersi in piedi neanche volendo.
Le
ultime volte in cui sono venuti per trascinarlo
fuori dalla sua cella hanno fatto esattamente quello: l'hanno
trascinato. Le
iniezioni lo lasciano sempre indebolito e malfermo; se già
è faticoso riuscire
a mettersi in piedi da solo, non parliamo di quanto lo sia riuscire a
fare più
di qualche passo. Alcuni degli altri prigionieri nella cella cercano di
aiutare come possono, allontanando le guardie e mettendosi in mezzo
quando
è troppo
debole per difendersi da solo. Uno di loro, un omone grande e grosso di
nome Dugan,
ama sputare un fiume di insulti oltremodo coloriti per
distogliere l'attenzione da lui. La sua lista di improperi
creativi sembra infinita. Dugan gli
piace.
«Sergente…»
Un'altra
goccia gli colpisce la
faccia e lui corruga la fronte. L'acqua ha l'odore della tubatura -
ruggine,
rugginosa, arrugginita. L'intera stanza odora di ruggine adesso,
è tutto quello
a cui riesce a pensare. Ferro, metallo, rame. Odora di sangue. Ruggine
e
sangue, sangue e ruggine. Gli torna in mente l'Uomo di Latta, bloccato
con
l'ascia in mano dopo che le sue giunture si erano arrugginite. Il suo
sangue
ormai si è trasformato in ruggine.
«James
Barnes,» ricomincia a dire tra sé,
confuso e disorientato nel tentativo di concentrarsi su qualcosa, qualsiasi cosa. Durante il corso di
addestramento gli istruttori avevano insegnato come resistere alla
tortura
durante gli interrogatori. Ripetere nome, grado, numero, ancora e
ancora e ancora
per evitare di cedere. Uno dei soldati nella sua unità ci
scherzava su dicendo che
non gli sarebbe mai servito, perché non l'avrebbero
catturato: avrebbe fatto
fuori ogni Nazista che gli fosse capitato a tiro. Il suo nome era
Daniel Burke
e un proiettile l'aveva colpito in fronte il giorno in cui erano
stati catturati. Alla fine non gli era servito.
Né
era servito a tanti altri come lui. Uccisi
da proiettili o schegge di proiettili, si erano guadagnati soltanto
uniformi
intrise di sangue e una morte violenta in territorio straniero. Pensa a
Daniel
Burke e alla collanina con San Michele che la madre gli aveva dato,
ancora
attaccata insieme alle piastrine. Ad Arthur Dowling e alla moglie
giovane e
carina, rimasta vedova dopo che una granata era rotolata in trincea.
Pensa
a quanto assurde siano state quelle morti, a come siano arrivate
rapide, brutali
e insensate.
Pensa
ai
soldati dallo sguardo impassibile che si
presenteranno davanti alla porta di casa dei caduti, con in mano una
bandiera ripiegata
e una lettera di condoglianze. Pensa a quanto le
parole "siamo spiacenti"
siano così vuote, parole che non possono neanche iniziare ad
alleviare la sofferenza, la rabbia e la desolazione causate dalla morte
di una persona cara. «Le nostre più sentite condoglianze per
la
perdita di vostro figlio… si è battuto con
coraggio… ha difeso il Paese… era un
eroe…»
Cazzate.
Quelle parole non sono nulla se non degli scarabocchi per
indorare la pillola e ammorbidire la brutalità della guerra.
Vostro figlio è
morto col terrore negli occhi, ucciso in una foresta coperta di neve in
Germania,
scomparso o presumibilmente ucciso in azione.
Pensa
a come la sua stessa famiglia riceverà una
visita del genere per informarli che lui è stato fatto
prigioniero, scomparso
dietro alle linee nemiche, dato per morto. C'è una reale
possibilità che tutto
quello che gli stanno iniettando finisca per ucciderlo, allora la
bandiera ripiegata finirà accanto ad una sua foto sul
caminetto. Pensa a come i suoi
familiari passeranno
il resto delle loro vite chiedendosi se potrebbe essere ancora vivo, se
per
qualche miracolo sia riuscito a sopravvivere a questa guerra orribile e
sanguinosa.
Quel
che è peggio, pensa ancora a Steve. A come
reagirà quando gli arriverà la notizia, quando
verrà a sapere che il suo migliore
amico è morto. Pensa a Steve che andrà a
infilarsi in
risse sempre più violente
perché non avrà altro da perdere, non
avrà nessuno
a tirarlo fuori da uno
squallido vicolo, nessuno a impedirgli di farsi ammazzare.
Verrà
lasciato
solo, con niente di più che un desiderio di morte, ansioso
di
sfogare il proprio dolore nella maniera più distruttiva
possibile.
«32557…»
L'acqua
salata che gli scivola
giù dalla
guancia stavolta non ha niente a che fare con la tubatura arrugginita
sopra di
lui.
Deglutisce combattendo la paura, la nausea e la
disperazione che gli attanagliano le viscere. Finirà per
morire lì sotto, lo sa,
e quello che è peggio è che Steve o la sua
famiglia non avranno un corpo da
sotterrare. Ormai ha imparato qualcosa sui Nazisti e sa che si
libereranno del suo
cadavere in fretta e in maniera raffazzonata, in una fossa comune o in
un rogo allestito
alla
bell'e meglio. Non resterà più
nulla di lui, solo un nome e delle fotografie a
provare che sia perfino mai esistito.
Si
sente un
forte schianto da qualche parte fuori
dall'edificio ma non ha neanche la voglia di sprecare energie per
reagire. Le guardie
sono sempre impegnate a provare nuove armi ed equipaggiamenti,
sperimentando
cosa possa infliggere maggior danno con minor sforzo. La loro
tecnologia è futuristica
e complessa, quasi aliena. Se mai dovessero riuscire a renderla
perfetta, se
solo riuscissero ad usare tutta quella tecnologia in loro favore, la
guerra
diventerebbe ben più complicata di quanto era stato
immaginato in precedenza.
«Sergente…
James Barnes…»
Un'altra
goccia di
acqua rugginosa gli atterra in faccia. Lo sgocciolio del tubo sta
iniziando ad
essere monotono. Ogni goccia traccia un rivolo freddo lungo un lato del
suo
viso e arriva fino ai capelli. Gli sta facendo venire mal di testa.
Si
sente un
altro schianto, un po' più rumoroso e più
vicino, stavolta, e dentro di sé rabbrividisce.
Può solo significare che il
dottore è tornato con i propri arnesi ed un nuovo ciclo di
esperimenti sta per
iniziare. Si fa coraggio e si prepara, mentalmente e fisicamente.
Quello
che
succede poco dopo è abbastanza
inaspettato: al posto del dottore c'è un uomo alto e biondo
che torreggia su di
lui, chiamandolo per nome e strappando via le cinghie a mani nude.
«Bucky,»
dice il biondo, senza fiato,
chinandosi su di lui. «Sono
io.
Sono Steve.»
Per
un
attimo non può fare altro che fissarlo. Conosce
Steve, lo conosce fin da quando aveva sei anni, e quello che sta
guardando decisamente non è
Steve. Il
suo Steve è piccolo e sparuto, tutto ossa e cervello. L'uomo
che gli sta di
fronte è troppo robusto per essere Steve.
Continua
a
fissarlo per almeno altri dieci secondi,
per cercare di determinare se quello sia davvero il
suo Steve e non uno scherzo della luce o peggio, una crudele
allucinazione causata da qualsiasi cosa gli abbiano iniettato.
«Steve?»
La domanda esce un po’ confusa e
diffidente perché anche se quello fosse il
suo Steve, come avrebbe fatto ad arrivare fin lì?
Dovrebbe essere a casa, a
Brooklyn, al sicuro. Dio, dovrebbe essere al
sicuro.
«Steve,»
dice ancora, perché quel sorriso
idiota è inconfondibile e in qualche modo il suo stupido,
incosciente,
coraggioso Steve adesso è nel cuore della Germania Nazista e
non è sicuro di
essere contento o incazzato a morte nel vederlo.
Il
biondo
annuisce con energia e lo afferra per le
spalle, sollevandolo fino a metterlo seduto. Gli mette le mani ovunque,
sulle
braccia, sulla schiena. Una mano di Steve (troppo
grande, non più scheletrica…) arriva a
posarsi sulla sua nuca per un
attimo.
«Credevo
fossi morto,» dice Steve (il nuovo
Steve, l'enorme Steve), gli occhi azzurri affranti mentre continua ad
osservare
il suo aspetto macilento.
Non
riesce
a pensare a niente di intelligente da dire,
così rimane a guardarlo per un lungo istante. «Credevo
fossi
più piccolo.»
Si
sente ancora un'esplosione e Steve distoglie lo
sguardo, senza lasciare la presa. «Andiamo,»
aggiunge
mentre si fa passare un braccio intorno alle spalle e lo sostiene
fino a
raggiungere la porta.
«Che
ti è successo?» domanda lui come ubriaco,
oscillando per l'improvviso cambio di gravità. Ha bisogno di
sapere, perché nonostante quello sia Steve non è
di certo il suo Steve, lo Steve
che ricorda. Steve lo tiene stretto a sé e
continua a camminare.
«Mi
sono arruolato,» dice semplicemente,
con un altro mezzo sorriso idiota, ed è una risposta
talmente da Steve da suscitargli
come reazione solo un'alzata di spalle. Si aggrappa di nuovo alla sua
giacca e lascia che sia Steve a
portarlo fuori da quella stanza che odora di ruggine.
Capitolo originale dell'autrice
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Capitolo 3 *** Semnadtsat' (Diciassette) ***
cap 3
NdA
Avviso: questo capitolo
contiene alcune immagini cruente.
Capitolo 3: Semnadtsat'
Il
cielo,
scuro e infido, ha il colore della cenere di sigaretta e la minaccia di
una
bufera sembra essere dietro l'angolo. Fiocchi pesanti e corposi cadono
giù come palle di cotone bagnato, mischiandosi con il
nevischio che turbina nell'aria
gelida. Si posano sulle uniformi, affondano nella stoffa e il freddo si
fa
strada fino alle ossa. Se il colore grigio potesse essere un luogo,
sarebbe di
certo quella vallata ricoperta di neve.
Un
tratto di
binario ferroviario è visibile in lontananza, spesso e nero
come
il corpo di
una vipera. Ci sono dei cavi sopra le loro teste, ridicolmente sottili
e
ondeggianti al passaggio del vento. Morita assicura che sono abbastanza
resistenti e se qualcuno degli altri ha dubbi in merito preferisce
non condividerli col resto del gruppo. Hanno un treno da prendere che
arriverà a minuti, mentre la neve
continua a cadere.
«Ricordi
quando ti ho portato sulle montagne russe a Coney
Island?» chiede Bucky, gli occhi fissi sui binari. Sente il
bisogno di
fare conversazione perché il piano è del tutto
folle e Cristo Santo, per arrivare
a fondovalle c'è un bel pezzo di discesa.
Steve
lo
asseconda, anche i suoi occhi sono fissi sui binari. «Sì.
Ho dato di
stomaco.»
«Ti
stai vendicando, vero?»
Un
angolo
della bocca di Steve si inarca per un istante. «Perché
mai dovrei farlo?»
Bucky
sorride e si aggiusta la giacca più stretta intorno al
corpo. Sa di non essere
l'unico a sentire freddo ma per qualche ragione sembra scavargli
dentro, a
fondo. Non sa perché, non ha un vero metro di giudizio in
merito, eppure è
abbastanza sicuro di essere diventato più sensibile al
freddo per colpa di tutto
quello che i dottori dell'Hydra1 gli
hanno iniettato. Non si è più sentito sul
serio al caldo da mesi e attribuisce la colpa a tutti gli esperimenti
che hanno
fatto su di lui.
Non
è solo
una sensazione superficiale. Il freddo penetra e gli si avvinghia
addosso,
cristallizza le sue molecole e fa diventare il suo sangue una
fanghiglia
ghiacciata. Pensa che se in qualche modo dovesse farcela e
sopravvivere, se
riuscisse a tornare dalla guerra, finirebbe per trasferirsi in
Arizona e vivere nel deserto.
La
conferma
a procedere arriva un minuto dopo: il treno si sta avvicinando. Zola
è a bordo e
la finestra di tempo per agire si rimpicciolisce man mano che si apre.
Steve è
il primo a lanciarsi, agganciandosi al cavo e buttandosi giù
dal dirupo. Bucky lo
segue subito dopo, scivolando lungo il cavo verso il treno che procede
a tutta
velocità.
C'è
un breve
momento di panico in cui sembra che la discesa sia troppo lenta, che
potrebbero
mancare il bersaglio e fallire, ma dopo qualche istante atterrano sul
tetto di
un convoglio in movimento e ogni cosa sembra surreale. Nonostante la
forza
d'inerzia sono in grado di muoversi con disinvoltura, passando da una
carrozza
all'altra fino ad arrivare a quella giusta.
Steve
scende
per la scala per primo; Bucky si tiene a poca distanza e tutti e due
entrano
nella carrozza vuota. L'elemento sorpresa è dalla loro parte
e se la fortuna
decidesse di giocare almeno una piccola parte in tutto ciò
forse potrebbero
catturare Zola senza dover sparare neanche un colpo. Certo, si tratta
più che
altro di una pia illusione.
Steve
lo
precede e avanza lungo la carrozza di qualche passo. È
sufficiente perché una porta
si chiuda all'improvviso tra di loro, separandoli: sono solo pochi
centimetri
di acciaio e vetro che comunque hanno l'effetto di un blocco di
cemento. Succede
tutto nel giro di un attimo e il piano va completamente a rotoli.
Si
sentono
le esplosioni dei fucili dietro di loro, un forte schianto dal lato
della porta
dove si trova Steve e Bucky si nasconde dietro una pila di casse per
evitare di
essere colpito. Non è sicuro di chi gli stia sparando, anche
se non ha alcuna importanza
- non ha intenzione di lasciarsi uccidere. Steve ha il proprio daffare
nell'altro
scompartimento, qualcosa di più imponente di un semplice
scontro a fuoco come
quello dalla parte di Bucky.
Una
sparatoria al chiuso non è mai preferibile ed è
anche
peggio quando il nemico
ha molte più munizioni di te. Bucky esaurisce gli ultimi due
proiettili e sente
un click che gli fa aggrovigliare le budella: il caricatore ormai
è vuoto e
inutile. L'altro uomo, chiunque lui sia, ha ancora quella che sembra
una scorta
interminabile di munizioni e non ci vorrà molto prima che
lui
venga costretto alla resa, nell'angolo in cui si è
rannicchiato.
Prende
un
respiro profondo e deglutisce, non c'è alcuna
possibilità
che stavolta riesca ad uscirne.
Pensa che potrebbe buttarsi addosso al cecchino, metterlo al tappeto e
fermarlo
prima che arrivi a Steve. È vero, morirebbe nel farlo, ma
almeno
sarebbe per una buona ragione. Si fa coraggio preparandosi alla
carica, pronto ad accettare il suo inevitabile destino.
In
quel momento la porta si apre per miracolo e Steve gli lancia una
pistola.
Bucky la afferra al volo e non ha quasi tempo di farsi domande su cosa
stia per
succedere perché Steve inizia a correre in direzione
dell'uomo col fucile come un toro
alla carica, lo scudo che protegge entrambi mentre i proiettili ci
rimbalzano
sopra con un tintinnio.
Sbatte
lo
scudo contro lo scaffale più vicino, facendo scivolare una
delle pesanti casse
addosso al cecchino e costringendolo a scansarsi di lato. Questo
dà a Bucky il
tempo di prendere la mira e sparargli un unico colpo nel petto; l'uomo
cade a
terra e nella carrozza torna ad esserci silenzio.
«L'avevo
messo alle corde,» mormora senza fiato, la pistola puntata
sul nemico
esanime. La sua mano trema appena e Steve è abbastanza
indulgente da
trattenersi dal farglielo notare.
«L'ho
visto,» lo riassicura.
Qualsiasi
cosa Bucky stesse per dire viene interrotta, perché la porta
si
apre di nuovo e Steve
gli urla di abbassarsi. Riesce solo a intravedere il rapido movimento
dello scudo, poi l'intera carrozza è scossa dal contraccolpo
di
una deflagrazione.
Steve
finisce lanciato per aria e una delle pareti di metallo esplode verso
l'esterno, il vagone diventa un vuoto gelido in un istante. Una voce
ordina di sparare un'altra volta ma Steve è sempre fuori
combattimento, lo scudo accanto a lui, così Bucky prende una
decisione.
Raccoglie
lo
scudo perché è il suo turno di proteggere Steve,
bloccando i colpi e creando un
diversivo. Raccoglie lo scudo perché altrimenti lui e Steve
verrebbero uccisi e
non può lasciare che accada. Raccoglie lo scudo
perché il soldato dell'Hydra che li ha attaccati sta
ricaricando
la propria arma e non c'è altra
scelta.
Lo
sparo è
abbastanza potente da proiettarlo all'indietro e fargli mancare l'aria
dai
polmoni. Sente una ventata d'aria fredda sulla pelle e cerca un
appiglio
qualsiasi alla cieca, le sue mani si stringono intorno a una maniglia
che ormai dondola a causa dei danni subiti.
Steve
sta
gridando il suo nome, gli sta dicendo di resistere, di afferrargli la
mano. È troppo lontano da lui - in verità
soltanto alcuni millimetri che però si trasformano
in miglia tra di loro. Bucky non può arrivarci, sa che non
può, ma ci prova lo
stesso. La lamiera oscilla con un cigolio ferroso, Steve si sporge per
raggiungerlo, Bucky si allunga a propria volta…
Il
metallo
cede all'improvviso e lo fa precipitare nel nulla, tra il ghiaccio e la
neve. Riesce a vedere Steve che grida ancora il suo nome, gli occhi
spalancati e terrorizzati
mentre lo guarda cadere. Anche lui sta urlando ma Steve quasi non
riesce a
sentirlo per via del vento e del nevischio che gli sferzano il viso. Il
treno,
i binari, Steve…
tutto scompare in
lontananza.
Il
vuoto sotto
di lui si trasforma in roccia in un baleno. Il primo impatto
è il peggiore,
perché atterra sulla spalla sinistra e il braccio si spezza
come un ramoscello.
L'urto col suolo lo fa rotolare e rimbalzare quasi fosse una bambola di
stracci, rompendo altre ossa e lacerando la pelle; le costole vengono
schiacciate da un lato, i polmoni si riempiono di aria e sangue con un
gorgoglio disgustoso. Il cranio colpisce qualcosa
di duro e solido e per un momento il mondo si tinge di nero.
Ricade di
schiena nella neve, spezzato, sanguinante e morente. C'è
sangue nei suoi occhi,
nella sua bocca, sangue che continua a scorrergli sul viso. Perde
conoscenza ma
ogni tanto sembra tornare in sé, giusto per un minuto o per
una manciata di secondi.
Cerca di prendere fiato e i polmoni non collaborano, bloccandogli ogni
respiro
in un rantolo. Sente un suono ansimante, acuto, e gli serve un po' di
tempo per
realizzare che viene da lui.
Il
dolore è indescrivibile,
peggiore di qualsiasi cosa abbia mai provato, talmente intenso da farlo
svenire
svariate volte. Se gli capita di riprendere i sensi lo assalgono nuove
ondate
di agonia e geme con lamenti pietosi che non sembrano neanche umani.
Prova
a
muoversi o a girarsi in un tentativo di mettersi in piedi,
perché restare
sdraiato lì significa senza dubbio morire. Non funziona; con
le costole
frantumate, una gamba rotta e quello che con molta
probabilità è un trauma cranico,
non c'è davvero molto che sia in grado di fare.
La
sua
spalla sinistra sembra andare a fuoco, a dispetto del freddo, e si
sforza di
sollevare il braccio per controllare i danni. Peccato che non ci sia
più un
braccio: è stato tranciato via poco al di sotto della spalla
e sulla neve si
allarga una chiazza di sangue rosso vivo. Di fronte a quello spettacolo
torna a perdere
conoscenza.
Quando
apre di
nuovo gli occhi si sta muovendo. In effetti lui
non sta muovendo un muscolo, qualcuno lo sta trascinando in mezzo alla
neve.
Non sa chi l'abbia trovato o come, gli sembra di capire che parlino
russo. Il
moncherino insanguinato lascia dietro di sé una lunga scia
cruenta e uno strato
di neve sporca si è congelato intorno alla carne maciullata
e all'osso esposto.
Gli
si offusca la vista e si rende conto di non riuscire a respirare.
Pensa che dovrebbe essere
in preda al panico ma perde i sensi prima di poterci riuscire; la
testa ciondola all'indietro e con la coda dell'occhio cattura
l'immagine di un
orologio al polso di uno degli uomini che lo stanno
trascinando.
11:17.
Socchiude
le
palpebre, sputa un'ultima boccata di sangue e smette di respirare.
James Buchanan
Barnes muore alle undici e diciassette del mattino.
1. L'autrice
ha scelto di utilizzare questa versione del nome, anche se di solito in
ambito MCU viene scritto tutto in maiuscolo. [NdT]
Capitolo originale dell'autrice
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Capitolo 4 *** Rassvet (Alba) ***
cap 4
NdA
Mi è capitato di incrociare
questo headcanon diverse volte e mi è piaciuto parecchio, così ho colto
l'occasione per sfruttarlo un po'. Spero piaccia anche a voi!
Capitolo 4: Rassvet
L'America
è
uno strano Paese. In confronto alla gelida desolazione della Russia,
l'America
sembra intollerabilmente affollata, insopportabile e calda. Non lo
mandano spesso
in America; è solo la seconda volta che hanno richiesto un
suo intervento ed è
abbastanza ovvio che lui sia l'unico in grado di completare la missione
in
breve tempo.
Le
persone
che gli hanno assegnato l'incarico, quelli che l'hanno risvegliato
dalla criostasi,
sono degli Americani in completo scuro dai sorrisi fasulli. Lavorano a
stretto
contatto con altri uomini dal forte accento russo e dal loro linguaggio
del corpo
traspare un senso di negoziato inquieto. Parlano di lui come se fosse
un
oggetto, un mezzo per raggiungere un determinato scopo. Non gli
forniscono
altre motivazioni oltre a quella che il suo contributo
servirà a riscrivere la
Storia.
Gli
viene
dato un nome, una data, un incarico e questo è tutto. Se non
riceve
informazioni aggiuntive non chiede nemmeno. Non chiede mai. Hanno le
loro
ragioni per volere che sia fatto e lui non è altro che uno
strumento per ottenere
il risultato. Non devono alcuna spiegazione alla loro arma e del resto
l'arma non ne ha bisogno.
Le
ultime
istruzioni vengono consegnate un giovedì sera, col
sottinteso che un fallimento
non sarà tollerato. L'avvertimento non è
necessario: non ha mai
fallito. L'incarico verrà portato a termine il giorno dopo,
come gli è stato
ordinato, e si aprirà un nuovo capitolo nella Storia.
Lo
lasciano
in un deposito fuori città con la documentazione necessaria,
una singola sedia e
tre guardie addestrate a sparare ancora prima di fare domande, in caso
la situazione lo richiedesse. Anche questa precauzione non è
necessaria. Si
trova lì per un lavoro; l'America per lui non rappresenta
nulla,
se non un miscuglio di città gremite e aria inquinata. Siede
sulla sedia, immobile e in
silenzio, e aspetta che si faccia giorno.
Non
si muove
per almeno sette ore filate. Quando i primi raggi di sole iniziano a
tagliare
il buio del mattino si alza e raccoglie i documenti. L'alba arriva
con un bagliore di metallo fuso e tinge i ciuffi di nuvole del colore
del
sangue. Il conto alla rovescia è cominciato e i pezzi sono
al proprio posto.
Manca solo la mossa decisiva.
Il
furgone
arriva alle 7:30 in punto per portarli in città.
L'equipaggiamento è a bordo,
il percorso pianificato. La portiera si chiude e il deposito scompare
nello
specchietto retrovisore.
A
quell'ora
del mattino il traffico è scarso ma le principali arterie
sono già bloccate, le
deviazioni indicate con segnali luminosi. La sicurezza è
ancora ridotta ai
minimi termini, ad eccezione delle maggiori intersezioni e delle strade
più tortuose.
Questo dettaglio gioca a suo favore ed è in grado di
scendere in strada senza
essere visto. Il furgone scompare e lui rimane da solo con una borsa;
che tornino a prenderlo
o meno non deve interessargli, tutto ciò che importa
è la missione.
Il
carico
sulla spalla è pesante, sfrega contro le articolazioni
metalliche ad ogni
passo. Mette a tacere il fastidio e continua a camminare, il dolore
fisico non è altro che
un inconveniente per lui. La porta di servizio dell'edificio
è aperta come
previsto e i corridoi sono deserti. L'unico rumore che risuona nel
vuoto è il
suono dei suoi stivali sulle piastrelle e sul parquet dei pavimenti.
Entra
nella
stanza prestabilita e sistema a terra il borsone, aprendo la zip con
cautela per
estrarre la propria attrezzatura. Assemblarla è
un'operazione meccanica,
metodica, qualcosa che ha ripetuto innumerevoli volte prima di questa.
Non
presta troppa attenzione a cosa sta facendo, piuttosto si concentra
sulla vista
della città adagiata sotto di lui.
I
palazzi sono ammassati uno all'altro e si espandono a
macchia d'olio in ogni direzione, allungandosi fino all'orizzonte come
un mare
di mattoni e cemento. Agglomerati urbani di questo tipo rappresentano
una minaccia, troppe
possibili variabili e pianificazione inadeguata. Detesta le metropoli.
Di
tanto in
tanto nella testa ha dei flash di città simili, immagini
sfocate che si
mescolano insieme alla rinfusa e sono troppo confusionarie o distorte
per
essere dei veri ricordi. Posti dove non è mai stato, che non
ha visto, ai quali
non sente di appartenere. Immagini di banchine e grattacieli e vicoli.
Non
significano niente, sono inutili e non gli sono di alcun vantaggio. Li
ignora e
prepara il fucile.
Il
pallido mattino
si trasforma in una giornata di sole acceso e la temperatura tiepida risulta
fastidiosa, insolita per quel periodo della stagione. Sarebbe persino
soffocante se non ci
fosse la finestra aperta. Gli restano ancora tre ore prima che sia il
momento
di agire e si siede a ridosso del muro, la schiena schiacciata contro i
mattoni.
Il
traffico
all'esterno inizia ad aumentare man mano che la mattinata procede e
folle di
persone si accalcano lungo ciascun lato dei marciapiedi. L'eccitazione
è
palpabile nell'aria, carica di entusiasmo e aspettative. In molti hanno
preso
un giorno di permesso dal lavoro, i bambini non sono andati a scuola,
tutti vogliono
poter dire di aver fatto parte della Storia. Lo saranno, più
di quanto possano
immaginare: ogni persona in strada sarà testimone di un
momento cruciale
nella storia dell'umanità.
Si
mette in
posizione e aspetta. Il sole adesso è alto nel cielo di
novembre, riempie le
strade di luce calda e intensa. Il corteo è ben in vista e
gira l'angolo, la
ressa sotto di lui si fa sempre più eccitata. Prende la
mira, aggiusta il tiro
e preme il grilletto.
Le
urla che
esplodono tra la folla sono quasi istantanee. Una macchina sterza e si
ferma, poi
accelera di colpo quando l'autista si rende conto della situazione. La
carrozzeria è chiazzata di sangue denso, mescolato a materia
cerebrale. C'è
anche più sangue che affonda in un vestito rosa, tingendo il
tessuto di
scarlatto sgargiante. Il caos infuria nelle strade, le automobili
sembrano
impazzite, molte persone continuano a gridare in preda al panico.
Impassibile si rialza e si allontana dalla
finestra.
Il
presunto
colpevole, un giovane Marine con dei precedenti penali, è
già stato incastrato
con prove sufficienti da assicurarsi che a nessuno venga in mente di
scavare
più a fondo. Ha dei legami con l'Unione Sovietica, accuse di
affiliazione al Comunismo,
si tratterà di un'indagine aperta e chiusa in un lampo. Di
sicuro negherà, lo
fanno sempre tutti, ma non avrà importanza.
Anche lui entrerà a far parte della Storia, il suo nome
collegato alla macchina coperta di sangue.
La
calca urlante
funge da perfetta distrazione e si mescola alla gente senza dare nell'occhio. Non
ha più il fucile né il borsone o qualsiasi cosa
possa distinguerlo da un
normale civile. Il braccio di metallo è nascosto sotto una
manica scura e si
lascia trascinare via dalla corrente di terrore e grida.
Segue
la
folla finché questa non si disperde come un brulicante
ammasso di scarafaggi.
Sirene sfrecciano per le
strade, luci lampeggianti rosse e blu si precipitano verso l'epicentro
della confusione. Si allontana da tutto ciò camminando.
Procede
con
lentezza e senza avere una reale meta da raggiungere, girando un angolo
qui e
attraversando una strada là. Non ha una vera destinazione,
neanche importa che
ce l'abbia; i suoi guardiani1 lo troveranno, lo porteranno via e
allora scomparirà in fretta come è
arrivato.
I
televisori
nei negozi sono sintonizzati sulle stazioni locali che trasmettono le
ultime
notizie. Un filmato è già disponibile e dei
testimoni singhiozzanti vengono
intervistati in diretta. È una tragedia nazionale,
inconcepibile e
inimmaginabile. Le immagini continuano ad essere mostrate a ripetizione.
Si
concede
un attimo per fermarsi di fronte ad una delle vetrine, dove un gruppo
di
persone è radunato per seguire il notiziario: mostrare poco
interesse o un
atteggiamento di totale, spietata indifferenza potrebbe far nascere dei
sospetti
e far girare qualche testa. Finge di essere un cittadino confuso e
preoccupato, rimane insieme agli altri per alcuni minuti prima di
andarsene.
I
grattacieli pieni di uffici si diradano e
lasciano spazio a quartieri residenziali e appezzamenti edificabili.
Incontra
piccole case di tanto in tanto, lontano dal cuore della metropoli. Un
parco
compare sul suo cammino, alla fine di un viale, e si dirige in quella
direzione
in mancanza di una scelta migliore.
È perlopiù
deserto,
incontra solo alcune persone che portano a spasso i cani o spingono i
bimbi
sulle altalene. Sono del tutto all'oscuro di quanto è
successo a
pochi isolati
di distanza, spensierati nella loro temporanea inconsapevolezza. Si
accorge di un'enorme
bandiera sistemata al centro del parco, che ondeggia fieramente al
vento. Il giorno dopo
sarà a mezz'asta e probabilmente resterà
così per
settimane. Una Nazione in lutto piangerà la perdita
del proprio leader.
Guarda
la
bandiera a lungo, ammirandone il movimento e lo sventolio, l'esplosione
di
stelle delineate sul tessuto che emergono dal blu in alto a sinistra.
Contempla
la bandiera per tutto quel tempo perché gli ricorda
qualcosa, eppure non è
sicuro di cosa si tratti. Non dovrebbe ricordargli nulla; lui non ha
ricordi,
non esiste neanche se non quando i suoi servizi sono richiesti. Non ha
passato,
non ha radici - lui è un arma, ecco tutto.
Tiene
gli occhi
fissi sulla bandiera. Rappresenta qualcosa di concreto e importante,
qualcosa
di fiero. Ripensa all'uomo che ha appena assassinato, alla Nazione in
lutto, e
si chiede se sia per quel motivo che non riesce a distogliere lo
sguardo. In
realtà la bandiera rappresenta qualcos'altro, qualcosa che
si
agita nel
profondo della sua mente e non dovrebbe esserci. Questa bandiera
è quadrata ma lui sta pensando ad una rotonda.
Il
furgone
si accosta al marciapiede meno di cinque minuti dopo e lui sale a bordo
senza bisogno che
gli venga richiesto. Continua a fissare la bandiera finché
la portiera si
richiude e il veicolo si allontana dal parco. È un viaggio
tranquillo, nessuno parla perché in fondo non è
necessario. Il
lavoro è stato eseguito e l'incarico portato a termine
secondo gli ordini.
Quando
lo riportano al deposito trova i suoi committenti ad aspettarlo.
Annuiscono con un fugace cenno
della testa, giusto un minimo segno d'approvazione, poi scompaiono.
Anche a
loro tocca recitare la parte degli onesti cittadini confusi e
preoccupati, così
lo lasciano insieme ai
guardiani per il resto del pomeriggio mentre tutto il Paese fatica a
riprendersi dallo shock.
Le
guardie
si distraggono con un piccolo televisore portatile, saltando tra i vari
canali
che riportano sempre la stessa notizia. È confermato: il
Presidente è morto e
il mondo non sarà più lo stesso.
Lui
rimane
immobile sulla sedia e scruta il pavimento di calcestruzzo. Non pensa
alle notizie, alla
morte del Presidente o a quello che significa per il Paese. Sta
pensando a
quella maledetta bandiera e al perché non riesca a
togliersela
di mente. Significa
qualcosa, sa che è così, ma allo stesso tempo non
ha
alcun significato. È solo
stoffa, tinta, cucita e così smielata nel suo patriottismo e
orgoglio da far venire la nausea, però significa qualcosa e
lui
non sa cosa.
La
notte
passa lenta e tranquilla, le ore di oscurità si trasformano
nel tenue luccichio
del mattino. Una delle guardie porta un giornale, in prima pagina
compare un
fermo immagine del filmato del giorno precedente. Glielo fanno cadere
in grembo
e se ne vanno, lasciandogli il tempo di misurare la portata
dell'avvenimento dagli enormi caratteri in bianco e nero.
Lancia
un'unica
occhiata al frontespizio e spinge il giornale a terra. Fuori dal
deposito il
sole si arrampica nel cielo annunciando l'alba del primo giorno di un
nuovo governo.
La Storia è stata cambiata nel giro di mezzo secondo con un
proiettile e adesso
il mondo sta rinascendo dalle proprie ceneri. Pensa ad una fenice e
ripensa a
quella bandiera.
L'America
è
davvero uno strano Paese.
1.
Handlers
Addetti/incaricati/responsabili, se riferito a mansioni organizzative. Quando invece si riferisce ad esseri
viventi è più consono il termine addestratori/ammaestratori, perché in genere definisce
il personale che si occupa della gestione degli animali - ad esempio in un
circo.
Nella prima stesura avevo usato il termine "sorveglianti" ma per la
versione definitiva ho scelto "guardiani", dato che volevo
mantenere inalterato il concetto del Soldato d'Inverno trattato
come un animale. [NdT]
Capitolo originale dell'autrice
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Capitolo 5 *** Pech' (Fornace) ***
cap5
Capitolo 5: Pech'
«Sergente
Barnes…?»
Le parole
escono impastate e confuse, venate di incredulità.
Nonostante le ferite e la gravità
dell'incidente, l'uomo steso a terra ha l'aria di chi ha appena visto
un
fantasma.
Il
Soldato
esita per un secondo - un piccolo, insignificante attimo. Quel nome non
significa nulla, di sicuro non è il suo, ma lo stesso lo
costringe a fermarsi.
Poi il tempo riparte, il nome scompare e si abbassa per afferrare
l'uomo per i
capelli.
I
colpi
vanno a segno in rapida successione, il primo a frantumare il cranio e
il
secondo a spezzargli il collo. La donna è ancora nella
macchina, si lamenta e
chiama invano il marito. Howard. Il
nome dell'uomo è Howard.
Sistema
il
corpo sul sedile anteriore e rimane a fissare il sangue mentre imbratta il volante. La donna non
può
muoversi, le sue ferite sono troppo gravi; si lascia scappare un
piccolo
singhiozzo disperato e crolla di nuovo contro lo schienale.
Per
un
istante considera l'idea di recuperare soltanto il carico. Howard Stark
era
l'obiettivo principale, non lei. Lei non sarebbe in grado di seguirlo,
non può
neanche chiamare aiuto. Gli basterebbe andarsene e scomparire nella
notte, lasciandola
insieme al cadavere del marito nella macchina semidistrutta.
Estrazione1.
Nessun testimone. Questi erano gli ordini e chi gli ha affidato la
missione è stato
molto chiari sul da farsi.
Gira
intorno
alla macchina fino al lato del passeggero.
La
donna è
già morta, anche se respira ancora. Un liquido chiaro cola
dalle orecchie e dal
naso, mischiandosi al sangue sul viso. Le tremano le mani e il respiro
ormai è
simile a rantoli affannati. Trauma cranico, frattura depressa. Gli
airbag non
si sono aperti e ha sbattuto la testa sul cruscotto quando la macchina
si è
schiantata contro l'albero. Il suo destino è stato segnato
nel momento in cui la
vettura è uscita di strada. Sta morendo e i soccorsi non
arriveranno mai.
Si
china
all'interno dell'abitacolo e le stringe le mani intorno alla gola; lei
non
oppone resistenza se non per un debole gemito quando la pressione le
toglie il
fiato. Basta un solo movimento e le spezza il collo in uno scatto
secco. E’
rapido e indolore, molto più veloce che vederla agonizzare a
causa dei traumi
riportati.
Abbandona
entrambi i corpi tra i rottami e toglie la valigetta dal portabagagli.
Il
passaggio finale è distruggere la telecamera che ha filmato
l'assassinio dal
principio. Nessun testimone. Un proiettile piazzato al punto giusto fa
saltare
la lente e il Soldato torna alla propria moto.
La
base è a
meno di dieci miglia di distanza ed è abbastanza facile
tornare senza essere
visto. La valigetta è legata sul sellino dietro di lui,
contenente qualsiasi
cosa i suoi committenti pensino valga tanto da dover uccidere per
averla. Non
ha domandato, non ha mai chiesto dettagli; ha semplicemente accettato
l'incarico senza una parola, pronto ad obbedire. Adesso però
ha delle domande.
L'obiettivo,
Stark, l'ha chiamato per nome prima di morire.
Barnes.
Non sa chi sia
Barnes né perché Stark l'abbia chiamato
così ma vuole saperlo, visto che ha
esitato. Non ha mai esitato durante un incarico, almeno non fino a
questa
notte, e la causa di tale esitazione è stato proprio il nome
Barnes. Al nome
era perfino associato un grado: Sergente.
Militare, quindi. Per chiunque Stark l'avesse preso, si trattava di un
militare.
Riflette
su quel
nome, su cosa possa significare o se abbia davvero un qualsiasi
significato,
perché nella sua realtà è
insignificante. Lui non ha nome, non ha identità, non
ha niente all'infuori di una pistola e una missione. È
un'arma, nulla di più,
però quel nome ha fatto risuonare qualcosa come un sonar.
I
rari flash
che lo colpiscono quando è in azione sembrano per la maggior
parte schegge di ricordi.
Sono indefiniti, muri di mattone e vicoli polverosi e ciocche di
capelli
biondi. Niente di tangibile, niente di vero, niente al quale possa
aggrapparsi.
Brandelli della vita di qualcun altro, di una vita prima delle pistole
e del
sangue. Una vita che non gli appartiene.
Barnes. Il
nome
continua a rimbalzare nel suo cervello. Sergente
Barnes. Chi diavolo può essere?
È così
lontano da lui ed estraneo, un nome nel quale non si riconosce.
Gli scivola addosso come olio sull'acqua e rotola a terra, abbandonato.
Barnes.
Spiacente, non c'è nessuno con quel nome da queste parti.
Un
nuovo nome viene a galla appena diventa chiaro che la sua mente non
voglia avere nulla a che fare con Barnes.
Stark. Howard Stark. Eccentrico inventore, milionario e…
qualcos'altro.
Che altro? Non lo sa, perché il nome Stark - proprio come
Barnes - non dovrebbe
avere alcun significato. Eppure è come se l'avesse e lui non
sa darsi una
spiegazione in merito.
Anche
quel
nome porta con sé alcuni granelli di false memorie, briciole
di informazioni e
dettagli. Ci sono balenii di luci ed elettricità, un
attenuato rumore di
applausi che sembra risuonare da un passato distante secoli. Immagini
sfocate
di un uomo dai capelli scuri, carismatico; parla del futuro come se ci
fosse
stato e manda il pubblico in visibilio.
Il
Soldato
scuote il capo e si concentra sulla strada immersa nel buio. I pensieri
sono
una distrazione e lui si rifiuta di lasciarsi infastidire. La missione
è
compiuta, l'obiettivo e i testimoni eliminati. Allora perché
non riesce a
liberarsi dei pensieri che continuano ad ammassarsi nella sua testa?
La
base si
profila in lontananza, un insieme di magazzini e depositi illuminati;
si ferma
sul retro di un blocco isolato prima di slegare la valigetta e
dirigersi all'interno.
I suoi committenti stanno aspettando, recuperano la valigetta senza
dire una
parola e poi la aprono con cautela. All'interno ci sono cinque sacche
bluastre
dall'aspetto anonimo ma di particolare valore, a giudicare dal sangue
che è
stato versato per averle.
«Ottimo
lavoro, Soldato,» dice uno degli uomini, lo sguardo fisso
sulle sacche di
liquido. «Il
tuo contributo ha spianato la strada al futuro.»
Non
gli
importa nulla del futuro; al momento i suoi pensieri sono rivolti al
passato.
Sergente Barnes. Howard
Stark. Quei nomi significano qualcosa, però non sa
cosa e non
conoscere la risposta a quella domanda è come sentire una
pressione che spinge
dietro i bulbi oculari. Il bisogno di ottenere risposte e il rifiuto di
ammettere la presenza stessa di domande sono in guerra uno con l'altro
dentro
di lui. Non durerà per molto; non dura mai troppo a lungo.
I
suoi
committenti non gli lasciano il tempo di rimuginare,
hanno altri piani. Le sacche che ha recuperato sono piene di
siero, qualcosa che dovrebbe servire a creare altri Soldati come lui. I
tre
giorni successivi sono fatti di esperimenti e test, urla e pianti di
agonia.
Alla fine le grida si spengono e nascono cinque nuovi assassini.
Sono
tutti già
ben preparati, soldati d'elite letali in qualsiasi maniera
immaginabile, eppure
lo costringono ad occuparsi del loro addestramento. Lui non
è in perfetta forma
e si nota fin da subito. Uno dei nuovi Soldati riesce ad avere la
meglio durante
una sessione di combattimento e lo lancia a peso morto dall'altro lato
della
palestra. Dà la colpa ad una mancanza di concentrazione,
qualcosa che non gli è
mai successo prima; dalla notte in cui ha ucciso Howard Stark non si
è più
sentito a posto e nemmeno ha ottenuto risposte.
Più
a lungo
rimane fuori dalla criostasi, più flash e
frammenti di memoria sembrano affiorare. Non sono comunque nulla di
concreto,
ma si fanno più intensi e frequenti. Sono spesso
accompagnati da una forte emicrania,
un punteruolo infilzato nel cervello insieme ad ogni immagine. Ogni
ricordo (se
davvero di quello si tratta) è pericoloso come un aneurisma
pronto a
scoppiare.
Sergente
Barnes. Barnes.
Barnes. Il nome ruggisce
incandescente, una fornace tra le mura della
sua mente. È un nome che scotta e accende i suoi sensi,
marchia a fuoco la sua
pelle. Dopo aver passato così tanti anni tra la neve e il
ghiaccio, pronunciare
quel nome è come trovarsi tra le fiamme dell'Inferno.
Il
nome
echeggia ancora rovente quando l'altro Soldato lo rovescia senza
sforzo; una
bruciante agonia gli carbonizza i nervi ottici. Barnes.
Barnes. Barnes.
Colpisce il muro di schiena e
per un attimo la brace si estingue, Barnes
e Sergente e Stark
spariscono in un velo annebbiato di dolore e collera. I
ricordi sono come lingue di fuoco ma la sua rabbia è gelida
e mortale.
L'altro
Soldato intanto uccide uno dei dottori presenti
e in breve nella palestra si scatena un putiferio. Qualcuno lo afferra
per una
spalla e usa il suo corpo come scudo, in cerca di una via di fuga,
mentre il
resto dei Soldati rimane all'interno. Servono due unità
complete per far
tornare la calma e si registrano numerose perdite tra i militari.
I
cinque
nuovi Soldati sono troppo instabili, troppo imprevedibili. Vengono
messi in stasi
in tutta fretta, aspettando il momento in cui sarà possibile
organizzare
maggiori contromisure per contenerli. Lui osserva in silenzio,
consapevole che
a breve toccherà a lui. Non lo tengono fuori mai
più del tempo necessario e
adesso che la sua presenza non è indispensabile lo
riaddormenteranno. Non che
sia una gran sorpresa, ma lo stesso non è piacevole.
Il
suo turno
arriva il giorno dopo e lo conducono in una stanza dove c'è
un'unità di criostasi
aperta. Dormirà fino a che gli verrà assegnato un
nuovo incarico, impossibile dire quanto potrebbe volerci. È
successo prima e succederà di nuovo e di nuovo e di nuovo.
Stavolta però gli
sembra quasi di sentirsi sollevato; perlomeno la procedura
metterà fine all'irradiante
sensazione di bruciore causata da quei nomi. Stark
e Barnes. Stark e Barnes.
Lo
stanno preparando per la stasi quando si decide a parlare. Non aveva
mai fatto domande prima, non aveva mai avuto ragioni per farne, ma
adesso ha
bisogno di sapere. La supernova accecante che si sprigiona nella sua
testa lo
sta facendo impazzire.
«Chi
è
il Sergente Barnes?»
chiede alla fine, con voce rauca e secca.
Un tecnico
che si sta occupando di lui lo guarda e poi scambia un'occhiata col
collega. L'arma ha parlato, non
è previsto che l'arma parli. Non rispondono alla sua
domanda; gli fanno
indossare una specie di museruola e lo infilano nella capsula.
Non
ricevere
alcuna risposta è la cosa peggiore. Nonostante il freddo
della criostasi aiuti
a placare il violento incendio nella sua testa, non riesce a staccare
del tutto
la spina per togliergli ogni residuo di consapevolezza. Passa i cinque
anni successivi ad avere incubi su un carismatico scienziato che
inventa macchine
volanti, in un futuro che si trova nel passato. Ha incubi che
coinvolgono un
uomo chiamato Stark, un soldato di nome Barnes, e tutto quello che
riesce a
vedere è sangue.
1. In gergo
militare indica il processo di rimozione e trasferimento di personale o di
altri elementi, in genere da una zona considerata pericolosa ad una più sicura.
Quando i soggetti coinvolti oppongono resistenza ed è necessario un intervento
coercitivo si parla di estrazione (esfiltrazione) ostile. [NdT]
Capitolo originale dell'autrice
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Capitolo 6 *** Devyat' (Nove) ***
cap 6 finire revisione
Capitolo 6: Devyat'
Nove
giorni.
Il tempo che ha passato fuori dalla criostasi.
L'anno
è il
2014 e si trova al centro di Washington D.C., a studiare file e dossier
riempiti di informazioni sul suo prossimo incarico. Si tratta di un
uomo potente
e temibile, il direttore di un'organizzazione chiamata S.H.I.E.L.D. ;
l'unica
foto di lui che gli hanno fornito mostra un viso severo e una benda su
un
occhio, un'immagine che manda forte e chiaro il messaggio "meglio
non prendermi per il verso sbagliato". Ha
affrontato la malvagità che c'è nel mondo e l'ha
costretta ad indietreggiare al proprio
passaggio, ma adesso
qualcuno lo vuole morto e non esiste alcun modo di fermare l'ordine.
La
tabella
di marcia è approssimativa, il particolare che conta
è che la missione venga
svolta in fretta e per bene. Il Soldato osserva la foto e il Direttore
sembra
osservare lui di rimando. Ha memorizzato tutti suoi orari e impegni, sa di preciso dove si
troverà in ogni
momento. Arriverà in posizione perfetta in meno di un'ora e
il Soldato sarà
pronto ad agire. Richiude la cartelletta di scatto, si alza e si avvia
verso la
porta.
Nove
isolati. La distanza che lo separa dall'obiettivo.
Lascia che
siano gli altri a muoversi per primi,
che siano loro ad occuparsi di bloccarlo e accerchiarlo. L'auto del
Direttore
viene circondata da tutti i lati, fori di proiettile riducono la
vernice nera e
lucida a un colabrodo e i finestrini si riempiono di ragnatele di vetro
incrinato.
Il
Direttore
però è pieno di risorse, molte più di
quelle che si sarebbero aspettati da lui,
e riesce a sfuggire all'assalto prima che possano finire il lavoro. Si
apre una
via di fuga e loro lo inseguono, altre macchine e pedoni vengono
coinvolti
nella frenesia della caccia all'uomo. Il Soldato si limita a tracciare
il
segnale del trasmettitore nascosto nel sistema di navigazione.
Può sentire
sirene e grida, poi un fragore di
metallo accartocciato e vetro rotto. Continua a camminare verso
l'incrocio.
Il
SUV del Direttore
appare in fondo al viale dopo una sterzata improvvisa e, a dispetto dei
danni,
non sembra avere intenzione di rallentare. Il Soldato lo sta
aspettando.
Prende la
mira con la propria arma e spara un piccolo disco che si attacca al
fondo
dell'auto. Una violenta esplosione ribalta il veicolo a mezz'aria e lo
fa
ricadere sul tetto, continuando a strisciare sull'asfalto fino a
perdere
velocità. Il Direttore non è morto,
può ancora vedere del movimento all'interno
dell'abitacolo.
A
terra ci
sono brandelli di gomma bruciata e schegge di lamiera sparsi ovunque;
molte persone
stanno correndo e urlando, qualcuno sta parlando al cellulare - forse
per
avvisare le autorità di quanto sta succedendo. Non che abbia
molta importanza.
Strappa via la portiera con un semplice gesto: il Direttore
è scomparso,
rimane solo il foro frastagliato del passaggio che è
riuscito a scavare per
accedere alle fogne e scappare. Intraprendente e scaltro.
Le
sirene
delle volanti di Polizia e di un'ambulanza si fanno più
vicine. Si toglie dalla
strada principale e scompare in un
vicolo prima che arrivino. Un furgone si ferma nel vicolo e la
porta si apre; sale a bordo senza dire neanche una parola, mentre
ascolta il
frenetico giro di comunicazioni che rimbalzano attraverso alcune radio.
Non c'è
traccia del Direttore ma stanno triangolando la posizione del suo
telefono. Una
volta che riceveranno il via libera a procedere si rimetteranno in
marcia.
La
mano di
metallo si contrae al suo fianco, si rilassa, si contrae di nuovo. La
museruola
che indossa è stretta e gli taglia la pelle ma
ignora il
dolore. I suoi
committenti non vogliono che parli, ecco spiegata la presenza del
bavaglio,
così lo indossa senza lamentarsi. Vogliono risultati,
vogliono
che il lavoro
sia portato a termine. Se per qualche motivo ciò non dovesse
accadere si disferebbero di lui e affiderebbero l'incarico a qualcun
altro. Ha già
fallito al primo tentativo, non succederà al secondo.
La
localizzazione viene confermata circa un'ora dopo e si muove per conto
proprio.
Può ottenere più risultati da solo,
c'è
meno rischio di distrazione. Prende un fucile e le coordinate e si
dirige
verso un palazzo dall'altra parte della città.
Il
Direttore
è malconcio; le ferite, benché non mortali,
sono comunque abbastanza gravi da rallentarlo. Si sta nascondendo
nell'appartamento di
qualcuno, ha spento le luci e si è lasciato cadere su una
sedia. Può seguire i suoi movimenti attraverso il
mirino in attesa di una visuale
perfetta.
Un
uomo entra
nell'appartamento, nota il Direttore e scambia con lui qualche parola.
Il
Direttore sa che lo stanno braccando e che il suo nome dev'essere
finito in
cima ad una lista di personaggi scomodi. Ha fiducia nell'uomo col quale
sta
parlando, tanto da affidargli la propria vita; sembra sapere che
farà la cosa
giusta e si è rivolto a lui per cercare aiuto, peccato che
il suo tempo ormai
sia scaduto.
Si
alza,
muove un paio di passi in mezzo alla stanza ed è allora che
il
Soldato spara. I
proiettili raggiungono il bersaglio con precisione e il Direttore cade
a terra;
l'uomo nella stanza si abbassa su di lui per proteggerlo e subito dopo
guarda fuori dalla finestra. Riesce a individuare da quale
direzione provenivano gli spari, dal tetto dell'edificio dal lato
opposto
della via, e si accorge della presenza di un cecchino.
Il
Soldato non
pensa che l'uomo si metterà ad inseguirlo eppure se lo trova
alle calcagna, lanciato
alla carica nel tentativo di raggiungerlo. Con un tuffo atterra proprio
dietro
di lui, si rimette in piedi in una frazione di secondo e gli lancia
contro
qualcosa, che il Soldato blocca al volo con una mano. È liscio
e pesante, rosso, argento e blu con una stella bianca al centro.
Ricorda una
bandiera ma è rotondo e fatto di metallo. È uno
scudo e per qualche ragione
gli sembra di averlo già visto.
Per un attimo è come se
in lui affiorassero
pensieri sepolti a lungo e dimenticati. A propria volta lancia lo scudo
e
colpisce l'uomo sul petto, facendolo arretrare di almeno mezzo metro.
Quel breve
momento di distrazione gli permette di scavalcare il parapetto e
scomparire giù
per una scala anticincendio, nel vicolo buio. L'uomo sul tetto e il suo
scudo a
stelle e strisce rimangono indietro.
Nove
ore. Quanto
impiega a rintracciare i suoi nuovi obiettivi.
Pierce gliene
ha concesse dieci; a lui ne servono soltanto nove. Stavolta sono in
due, un uomo e una donna.
Sono venuti a conoscenza di alcune informazioni relative all'Hydra che
dovevano
restare segrete e adesso costituiscono un pericolo.
La
donna non
sarà facile da togliere di mezzo. È un'assassina
addestrata dai Sovietici, la
sua scheda personale riporta un elenco di omicidi confermati lungo
quanto una
guida del telefono. Ha
un aspetto familiare, forse
faceva parte di un precedente lavoro
in cui era stata coinvolta pur non essendo l'obiettivo designato.
Adesso le carte in tavola sono cambiate ed è senza dubbio
uno
degli obiettivi.
L'uomo
sarà
altrettanto difficile da liquidare. È lo stesso
dell'appartamento, quello che
il Direttore è andato a trovare prima di
morire. È un Capitano dell'esercito, i file dicono che
è nato nel 1918 ma
non sembra un giorno più vecchio di venticinque anni.
È strano, però lui non
fa obiezioni. Sa che non è il caso di mettere in discussione
gli ordini.
Nella
documentazione è stato riportato tutto,
dalla sua infanzia all'appartamento nel quale vive adesso, ma non
è per quello che c'è qualcosa di familiare in
lui. Nel
profondo, dentro di sé, il Soldato sente di conoscerlo -
ogni
dettaglio del suo
volto, della vita che ha vissuto. Una parte di lui è
convinta di
doverlo
riconoscere,nonostante sia impossibile.
Non
conosce
nessuno al di fuori dei suoi committenti e dei guardiani. Non ha
bisogno di amici
o colleghi, nessuno al quale legarsi che possa diventare un punto
debole o un
peso. Lui è un'arma, niente di più. Quest'uomo
è solo un'altra faccia, un'altra
missione da completare.
Studia
il
volto del Capitano ancora per pochi
istanti, chiude la cartellina e la spinge al centro del tavolo.
Nove
minuti.
La durata dello scontro sul ponte.
Sbarazzarsi
di Sitwell non è complicato, ma la donna e il
Capitano… è un altro discorso.
Dimostrano di essere tenaci quanto il Direttore e la situazione prende
ben
presto una piega irritante. Il Soldato si concentra sulla donna per
prima e
attacca come un predatore.
Se
pensava
che gli avrebbe permesso di ucciderla senza opporre resistenza o
combattere, si
era sbagliato di grosso. Addirittura lei riesce ad avere la meglio per
una
manciata di secondi, gli colpisce il braccio con un minuscolo congegno
che
emette un segnale elettromagnetico e gli fa perdere l'equilibrio. Si
tratta più che altro di una fastidiosa seccatura, che lo fa
infuriare.
La
segue con
lo sguardo per prendere la mira mentre lei si mette a correre
allontanando più
gente possibile dalla strada man mano che guadagna terreno. La
traiettoria non
è pulita, il proiettile le trapassa la spalla e la fa cadere
a terra; il Soldato
si incammina verso di lei per finire il lavoro.
Il
Capitano
lo intercetta prima che possa raggiungerla e diventa subito chiaro che
neppure
lui abbia intenzione di cedere senza lottare. Il Soldato è
veloce ma il Capitano
combatte alla pari, sia in difesa che in attacco. È
altrettanto aggressivo e
forte come il suo avversario e lo scudo è capace di
trasformarsi in un utile
strumento d'offesa.
Afferra
il
Capitano per la gola e lo manda a sbattere contro un furgoncino; lui
contrattacca
calciandolo indietro. Lo scontro è violento e rapido e ad un
tratto il
Capitano lo rovescia a terra, sulla strada. Atterra di schiena e
quando si risolleva di scatto la museruola cade sull'asfalto.
Stranamente,
il
Capitano sembra vacillare.
Incredulo si ferma e sbianca,
quasi non gli fosse rimasto più sangue nelle
vene. «Bucky?»
Anche
se il nome sembra ricordargli qualcosa il
Soldato risponde con un'occhiata gelida. «Chi
diavolo è Bucky?»
Il
Capitano
non ha il tempo di replicare perché all'improvviso un uomo
dalle ali di metallo
compare dietro il suo avversario e lo spinge a terra. Il Soldato si
rialza ed
estrae una pistola, ma esita per una frazione di secondo: quel nome
significa
qualcosa, il Capitano significa qualcosa.
L'esplosione
del furgone alle sue spalle lo coglie di sorpresa e gli fa perdere
l'occasione
giusta per sparare. Impreca sottovoce prima di scomparire tra la
cortina di
fumo nero e denso; lascia il Capitano e la donna e in mezzo alla
strada, circondati
da più armi che uomini. Saranno morti entro un'ora, non
rimane per finire il
lavoro che ha cominciato.
Non è in
grado.
Sente che
si sta sgretolando in mille pezzi e tutto quello che può
fare è mettersi a
correre.
Bucky.
Bucky. Bucky. Il
nome rimbalza impazzito nella sua testa, lacerando
ogni cosa con la quale entri a contatto. È rimasto sepolto a
fondo, antico e
dimenticato, e adesso si sta facendo strada verso la superficie con le
unghie e
con i denti.
Bucky.
Bucky. Bucky. Ogni
sillaba lo colpisce come un calcio alle costole. L'uomo
sul ponte. Il Capitano. Steve Rogers. Pensa di conoscere
quell'uomo, ma non è possibile
perché il Soldato non
conosce nessuno. Non
ha mai conosciuto davvero qualcuno. L'uomo sul ponte è
niente e tutto allo
stesso tempo.
Riesce a trovare la
strada per tornare al laboratorio per pura fortuna; la sua mente
è confusa,
il suo cervello trabocca di schegge di vetro e frammenti di metallo
appuntito.
Pierce sta parlando ma il Soldato non risponde. È ancora il
Soldato? È Bucky?
Chi diavolo è…?
Pierce
lo
schiaffeggia con forza per richiamare la sua attenzione. Gli sta ancora
parlando, gli sta spiegando quanto il suo contributo sia importante per
l'intera umanità. Il Soldato però non vuole
ascoltare. Ha
una
domanda.
«L'uomo
sul ponte…» biascica
con voce roca. «Chi
era?»
Pierce
risponde di malavoglia. Senza perdersi in troppi dettagli spiega che
l'ha incontrato in
settimana durante un precedente incarico; il Capitano sta creando dei
problemi
ed è necessario eliminarlo.
«Lo
conoscevo,» insiste
il Soldato,
perché anche se la possibilità è da
escludere a priori, quest'uomo - il Capitano,
Steve… lui lo conosce.
Pierce
sospira
e ordina di resettarlo, di farlo
tornare pulito come un foglio bianco. Qualsiasi accenno di memoria che
sta riaffiorando
deve sparire.
«Ma
io lo conoscevo,» ripete
il
Soldato. Nessuno gli dà retta.
Lo fanno
sdraiare sulla poltrona, gli infilano un dischetto di gomma tra i denti
e
premono l'interruttore.
Le
schegge
di vetro e frammenti di metallo nel suo cervello prendono a mischiarsi
tra loro
in un vortice lacerante; i pensieri diventano liquidi come metallo
fuso, che
trasforma i nomi in cenere. Ogni cosa sparisce, cancellata. Tabula rasa.
Nove
parole1.
Quante bastano a risvegliare una coscienza a lungo sopita.
Sta
affrontando di nuovo il Capitano, non su un ponte ma su di una nave da
guerra
che si libra nell'aria. Il Capitano continua a chiamarlo con un nome
che non ha
mai sentito prima, sta cercando di parlare ad una persona che non
esiste. Il Soldato
ha l'ordine di toglierlo di mezzo per portare a termine l'incarico e
non ha
intenzione di fallire ancora.
Il
Capitano si
mantiene in posizione di difesa questa volta, bloccando i colpi e
schivandoli
ma facendo poco o nulla per contrattaccare. Ha deciso di evitare di
battersi, come se il Soldato fosse un suo amico. Peccato che il Soldato
non abbia amici; combatte
per uccidere, per concludere la missione. I suoi attacchi sono mirati a
spezzare ossa e causare emorragie interne. Il coltello e la pistola che
porta
con sé servono ad infliggere danni ben peggiori. La lama
infatti
viene
conficcata nella spalla del Capitano e tre proiettili gli finiscono in
corpo.
Dovrebbero essere sufficienti ad ucciderlo ma non sembrano avere alcun
effetto.
Rimane
in
piedi anche quando la nave comincia a puntare verso il basso e la sua
uniforme
è impregnata di sangue. Senza pensare alla propria
incolumità spreca energie
per liberare il Soldato, intrappolato da una grossa trave di metallo
che lo
schiaccia contro un pannello di vetro. Poi fa la mossa più
sciocca di tutte: abbandona
lo scudo.
«Non
combatterò con te, Buck,»
dice ad un uomo senza nome. «Tu
sei il mio
migliore amico.»
Per
qualche
ragione provoca un moto di rabbia nel Soldato. Lui non ha amici, non ha
un nome,
non è nessuno - eppure quest'uomo, questo stupido idiota,
è disposto a morire
pur di dimostrargli il contrario. Ruggisce e si lancia addosso al
Capitano, bloccandolo
sulla superficie incrinata per prenderlo a pugni più forte
che può.
«Tu
sei la mia missione,» sibila,
una
mano stretta a pugno e sollevata per colpire.
«Allora
concludila,» rantola
il Capitano,
con il viso ormai ridotto ad una maschera piena di lividi. «Io
sarò con te
fino alla fine.»
Il
Soldato
si blocca, il braccio ancora alzato e gli occhi incollati al volto
tumefatto
dell'uomo sotto di sé. Le parole lo scuotono come un
uragano, spazzando via
strati e strati di oscurità e nebbia. Le ricorda
perché è sicuro di averle
dette lui stesso, sebbene non sappia di preciso quando. Ricorda anche
l'uomo
a terra, pesto e sanguinante e indifeso. Lo conosce, conosce il suo
viso: Steve.
Il
mondo
sembra crollargli sotto i piedi e il Capitano - anzi no, Steve
- precipita insieme ad esso. Lo guarda cadere nel vuoto, una
bambola di pezza senza ossa vestita con i colori della bandiera
americana. Il corpo
inerte colpisce la superficie del fiume e affonda; il Soldato salta
solo mentre la
nave alle sue spalle inizia ad andare in pezzi.
Nove
secondi. L'attimo che gli serve per tornare a galla.
L'acqua è limacciosa
e opaca per via dei numerosi detriti che cadono dal cielo, smuovendo la
terra
sul fondo, ma in superficie scintilla come uno specchio. Il relitto
della nave
ancora in fiamme sembra quasi l'illustrazione di un pianeta morente e
nuota in quella
direzione.
Raggiunge
il
Capitano (Steve, gli ricorda con
insistenza il suo cervello) che fluttua a peso morto tra la fanghiglia.
La luce
del sole filtra sbiadita e si riflette sugli inserti bianchi
dell'uniforme, filamenti
di sangue si allungano dai fori di proiettile nel tessuto e prendono la
forma
di viticci cremisi.
Non
sa se
Steve sia morto o vivo, non perde tempo a pensarci: lo afferra, lo
stringe
contro il proprio corpo e nuota per portare entrambi in salvo. Il
braccio di
metallo rimane arpionato intorno al petto del Capitano.
Non
è sicuro
del perché sia così determinato a
riportarlo in superficie, dato che con molta probabilità
è già morto, ma
continua a nuotare. I suoi polmoni bruciano per la mancanza d'ossigeno
e può
sentire la testa troppo leggera. Non ci fa caso e punta risoluto verso
l'alto, fino ad emerge
oltre il pelo dell'acqua.
Prende
una profonda boccata d'aria, satura di fumo; la corrente porta con
sé chiazze d'olio e rottami e, nonostante la
terraferma
non sia a troppa distanza, il corpo che sta trasportando sembra fare
del
proprio meglio per tornare ad inabissarsi nel fiume. Non ha idea del
perché
mantenere salda la presa sia un pensiero irremovibile. Ringhia per la
frustrazione e ricomincia a nuotare.
Impiega
molto più tempo di quanto avrebbe voluto per raggiungere la
battigia e posare
la suola degli stivali sul fondale sassoso. È affannato,
quasi stremato dalla
spossatezza, ma tiene le dita sempre
strette alle cinghie dell'uniforme del Capitano (Steve)
e riesce a trascinarlo fino alla sponda.
Allenta
la
presa soltanto quando gli sembra che Steve sia al sicuro. Lo lascia
cadere sulla riva con un tonfo attutito; respira a malapena, da un
angolo della
bocca sgorga un rivolo sottile di sangue e acqua, però
è vivo grazie al Soldato. Per
la prima volta ha risparmiato una vita
piuttosto che spezzarla.
Rimane
a
fissare il Capitano per alcuni lunghi istanti, le parole gli echeggiano
in mente ancora e ancora. Sarò con te fino alla
fine. Si sente stordito e
arrabbiato (oppure
potrebbe essere una commozione cerebrale, che di sicuro ha riportato) e
sa che
dovrebbe portare a termine il lavoro, eliminare l'obiettivo e farla
finita.
Se
davvero avesse
voluto ucciderlo avrebbe potuto lasciarlo affondare nel fiume e
annegare. Potrebbe
comunque strangolarlo o spezzargli il collo e lasciarlo lì,
morto. Potrebbe completare
la missione in un centinaio di maniere diverse, ma non lo fa. Non
può. Sarò
con te fino alla fine. Si
inginocchia e appoggia una mano sulla stella al centro del petto del
Capitano.
Nove
battiti. Quanto a lungo resta così.
Tiene il
palmo posato sul torace di Steve,
rincuorandosi nel constatare la presenza di
un debole battito cardiaco. Non ha alcun senso, dato che è
stato inviato a
svolgere il compito opposto. Il suo incarico non era tenere quest'uomo
in vita,
era stato mandato ad ucciderlo; non sa
perché ma salvargli la vita è diventato importante, forse persino la cosa
più importante al mondo.
Rimane
ad
osservare
il suo viso, analizzando ogni dettaglio nel tentativo di ricostruire
un ricordo qualsiasi. Sente di conoscerlo ed è un
problema. Perché se davvero
si conoscono, se sul serio esiste qualcosa nel passato che lo lega a
quest'uomo… non
ne ha memoria. Il Capitano si sbagliava quando
diceva che erano amici,
perché gli amici si ricordano uno dell'altro e non cercano
di
uccidersi perché gli è stato ordinato da alcuni
ufficiali del
governo.
Ritira
la
mano e si alza. Chiunque
lui fosse in passato, ormai non è più quella
persona.
Adesso è nessuno,
non ha un posto al mondo dove andare, non ha amici. Non ha ricordi. Non
ha
nulla.
Nove
passi. La
distanza che percorre prima di sentir arrivare qualcuno alle sue spalle.
È una
donna, che chiama Steve a gran voce in tono angosciato.
Si
allontana
dal Capitano ancora privo di sensi sulla riva, dall'uomo che dice di
essere suo amico anche
se lui non se ne ricorda, dall'uomo che prima per lui non significava
niente ma
adesso invece significa tutto.
Dieci
passi.
Continua a camminare.
1. I'm with you 'til the end of the line
Nel caso della traduzione conteggio come
nove parole l'intera frase di Steve, ovvero «Allora concludila: io sarò con te fino alla
fine.» [NdT]
Capitolo
originale dell'autrice
Show her some love!
Ehilà!
Faccio
capolino un istante per augurarvi buone feste e per linkarvi anche un post Tumblr che riporta una breve
analisi dell'outfit del Soldato d'Inverno, visto che mi sembra molto in linea
con alcuni degli argomenti trattati in questi capitoli. Enjoy and happy holidays, everyone!
Your
Humble Translator
|
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Capitolo 7 *** Dobrokachestvennyy (Benigno) ***
cap 7 finire revisione
NdA
Questo
capitolo non ha un vero e proprio senso, ad essere sincera: è solo nato dal mio
desiderio di vedere qualcuno comportarsi gentilmente nei confronti di Bucky,
dopo tutto quello che è successo in Civil War. Spero che vi piaccia!
Capitolo 7: Dobrokachestvennyy
«Stai
sanguinando,» gli dice una voce.
È
sufficiente per distoglierlo dai suoi oscuri e silenziosi pensieri.
Quando
alza la testa incontra lo sguardo della donnina
ferma in
piedi davanti a lui. Sembrerebbe avere almeno ottant'anni e quasi
scompare
sotto l'ombrello blu che tiene in mano; gli ha parlato con gentilezza,
come se
tornare a casa e trovarsi davanti un uomo sanguinante, con i vestiti a
brandelli, sia la cosa più normale al mondo.
Il
temporale si è scatenato all'improvviso e lui ha
finito per ritrovarsi rannicchiato sugli scalini di un palazzo. Aveva
programmato di fermarsi solo pochi
minuti o almeno finché la pioggia si fosse calmata, ma il
cielo
color ardesia non gli ha lasciato tregua per tutta la giornata. I suoi
vestiti sono zuppi,
i capelli fradici e il suo aspetto in generale dev'essere poco
rassicurante.
Sono
passate tre settimane dallo scontro col
Capitano e dalla caduta dello S.H.I.E.L.D.
Non poteva restare a Washington, soprattutto a causa
di tutte le ripercussioni di quello che i media hanno rinominato "Hydra-Gate". Il rischio di essere riconosciuto o
di essere ricatturato
da uno dei suoi guardiani era troppo alto e non gli è
rimasta altra scelta
che scappare.
Non
è riuscito ad andare molto lontano,
comunque; non sapere chi sei significa anche non avere alcun
documento né soldi. Senza una destinazione precisa in mente
è arrivato fino ad Alexandria, ad un
tiro di schioppo da Washington - la distanza maggiore che è
riuscito a coprire
in così breve tempo. Ha continuato a
girare per le strade come un'ombra trasportata dal vento, dormendo in
edifici
abbandonati e frugando tra gli scatoloni della beneficenza per cercare
qualche
vestito. La città è molto più piccola
di Washington ma lo stesso abbastanza
grande per permettergli di scomparire. Da qui può iniziare a
riprendere il
controllo della propria vita.
Ha
scoperto
che quanto più a lungo rimane lontano dalla capsula di
criostasi, più la sua
memoria migliora. I ricordi però sono imprevedibili e
arrivano con la violenza
di una mareggiata che lo schiaffeggia e lo trascina via afferrandolo
per i
piedi, come la risacca. Le immagini sono confuse, offuscate, spezzoni
di
pellicola rovinata che scorrono attraverso un proiettore. È
sempre difficile
metterli in ordine perché non sono lineari. Gli anni '60 si
mischiano a memorie
degli anni '90 e ci sono ancora troppi spazi vuoti, così la
sua vita finisce per assomigliare soltanto ad un distorto
puzzle incompleto.
La
notte
precedente è stata dura. In verità quasi tutte le
notti lo sono, anche se
l'ultima è stata la peggiore perché la minaccia
del temporale aveva reso l'aria
umida e fredda. Ormai
non riesce più a tollerare il freddo; gli ricorda la
criostasi e il gelo che
scava nel profondo. Gli ricorda una vallata immersa nella neve, metallo
contorto
e rocce ghiacciate. Il freddo gli fa pensare ad una morte che rivive
ogni volta
che ha degli incubi.
Si
è
svegliato urlando, in cerca di qualcosa che non era lì. Una
mano, forse. Un
viso. Un passato che non riesce a ricostruire.
Il palazzo nel quale si era nascosto
era vuoto, un complesso di uffici pignorati in attesa di essere
riadattato alla fine del mese. Non
ricorda
molto del sogno, a parte che era cupo e pieno di sangue. Ha spesso
sogni di questo tipo. A volte invece vede
un uomo con i
capelli neri e i baffi oppure un eroe di guerra vestito di rosso,
bianco e blu.
Si sveglia sconvolto, la testa sottosopra per i pensieri che corrono
ovunque,
impazziti. Una parte di lui sa che queste persone sono importanti, che
le
conosce, sebbene non riesca a ricordare perché.
Appena
le urla
gli sono morte in gola si è reso conto che la mano sinistra
era allungata nel
vuoto, il braccio disteso e la cromatura lucente nella pallida luce del
mattino. All'improvviso si è sentito furioso, senza sapere
bene per quale
motivo, e ci si è accanito contro.
L'arto
di
metallo serve ad impedirgli di dimenticare cosa è diventato,
in che cosa
l'hanno trasformato. Rappresenta tutte le cose terribili che ha fatto,
ogni
assassinio, ogni missione, ogni vittima. Con l'altra mano ha afferrato
la
placca della protesi, dove il bordo irregolare si unisce alla spalla;
è fusa
alla sua pelle, connessa al suo corpo come se fosse qualcosa che gli
appartiene, e per questo sente di odiarla. Ha
cercato di strapparla via, lacerando la pelle nel tentativo di
rimuoverla.
Non ha funzionato, è rimasta saldamente fissata al proprio
posto nonostante
tutti i suoi sforzi. L'unico risultato che ha ottenuto sono stati pelle
strappata e unghie rotte.
Ha
sanguinato per un bel po', dopo. Le ferite che si è inferto
erano profonde e ben
presto sul metallo lucente hanno cominciato a gocciolare rivoli
cremisi,
serpeggiando lungo l'articolazione. Faceva male ed era come se lo
meritasse. Il
braccio è un'arma e dev'essere distrutto. Se proprio
è impossibile eliminarlo,
deve fare in modo che muoverlo diventi una sofferenza.
Non
ha dormito
per tutto il resto della notte, sfinito da quell'incubo e troppo
turbato per
dimenticarlo. La spalla faceva male, sanguinante e ferita, eppure ha
ignorato il
dolore. È rimasto seduto con la schiena appoggiata al muro
finché le prime
luci del mattino hanno illuminato la città. Non poteva
restare lì, lo sapeva,
così ha raccolto quel poco che aveva con sé e si
è rimesso in cammino.
Adesso
si trova sugli scalini dell'appartamento di questa donna, una
situazione come
minimo inaspettata. Quello
che è ancora più inaspettato è che la
donna non sembri turbata
o spaventata dal sangue che ormai ha inzuppato la manica e tinto il
tessuto di rosso scuro - solo incuriosita.
Prova a coprire la macchia e una fitta lancinante gli
trapassa il braccio.
«Mi
spiace,»
mugugna a bassa voce, allontanandosi dagli scalini e tornando sotto la
pioggia. «Mi spiace, non volevo…»
La
donna gli
rivolge un'occhiata perplessa. «Dove pensi di
andare?!»
È il
suo
turno di essere confuso e si stringe nelle spalle. Fa un cenno in una
vaga
direzione, nessun punto in particolare, e sta per dire che
andrà da quella
parte ma lei non gli lascia il tempo di parlare.
«Credi
davvero che ti lascerei andare via con un tempo del genere?»
La domanda
suona
retorica, come se la risposta fosse del tutto scontata.
«Secondo
le previsioni migliorerà soltanto durante la notte. Non ho
intenzione di mandarti via.»
Gli
passa
accanto e scuote l'ombrello sul bordo del portico. Scrollata gran parte
dell'acqua infila soddisfatta una
mano in tasca e prende un mazzo di chiavi, infilandone una nella
serratura prima
di aprire la porta. «Avanti,» annuisce per
invitarlo a seguirla, «vieni con me.»
Lui
non si
muove. È un gesto davvero generoso ma non è
il caso; non potrebbe sopportare
l'idea di perdere il controllo e fare del male a qualcuno per sbaglio,
per
questo è stato ben attento a tenere le distanze da chiunque
incontrasse. Adesso
questa anziana signora lo sta letteralmente invitando nella propria
casa e
tutto nella sua testa urla "pessima
idea". In
più non conosce per nulla
questa donna, non ha idea di chi sia o di quali siano le sue
intenzioni, perché
stia facendo una cosa del genere…
«Non
costringermi a trascinarti di peso,» dice ancora lei, un filo
di esasperazione
nella voce. Non che lo stia minacciando (probabilmente
pesa
quaranta chili vestita e non costituisce
affatto un pericolo) eppure è determinata a non accettare un
no come risposta. Anche se va contro tutto quello che si è
imposto di non fare, alla fine si
decide a muovere
un paio di passi attraverso la soglia.
Una
volta
che entrambi si trovano oltre
l'ingresso la donna chiude la porta
e ci appende l'ombrello per
il manico. «Le strade si allagheranno se questa pioggia
continuerà così,» mormora
tra sé prima di fargli strada verso
la sala. «Andiamo, da questa parte.»
Lui
la segue
senza una parola, osservando le fotografie e i dipinti affissi
alle pareti. L'appartamento è modesto, ha una singola camera
da letto e le
altre stanze sono visibili dalla sala; a dispetto delle dimensioni ha
un'aria
accogliente, un piccolo nido confortevole più che un mero
edificio. È passato
parecchio tempo da quando si è trovato in un posto che
potesse dargli l'impressione di
trovarsi a casa.
«Scusa
il
disordine,» dice la donna dalla cucina e lui si guarda
intorno, senza trovarne traccia. «Non aspettavo
compagnia. Dovevamo essere soltanto il
temporale ed io, stasera.»
La
testa
della sua ospite fa capolino da un angolo mentre lui rimane immobile in
sala. «Ho dei vestiti che puoi prendere in prestito. Erano
di mio marito e non ho ancora trovato il coraggio di liberarmene. Sai,
mi
aiutano a ricordare.»
Si
sente il
clangore attutito di una pentola appoggiata sui fornelli e la donna
ricompare nel corridoio. «Se non vuoi dei vestiti posso
buttare i tuoi nell'asciugatrice.
Sempre meglio che tenerli addosso tutti bagnati.» Lo guarda, in attesa di una risposta
che tarda
ad arrivare. «Beh, ti decidi a raggiungermi o no?»
chiede alla fine indicandogli
la cucina con una mano.
Lui
non è in grado di replicare
e si limita a trascinare i piedi lungo il corridoio. La cucina, come il
resto
dell'appartamento, è piccola ma funzionale ed è
dipinta di un leggero grigio che
ricorda il colore della lana filata. C'è un tavolino spinto
contro un muro, sopra
al quale si trova una mensola riempita di libri di ricette, e il resto
dello
spazio è occupato da quadretti di etichette vintage. Si
lascia cadere su
una delle sedie a disposizione, cullato dall'intimità e dal
calore dell'ambiente.
Soddisfatta
di questo piccolo progresso, la
donna si toglie l'impermeabile e lo appende ad un gancio accanto al
frigorifero. È davvero minuta, forse qualche centimetro
più alta di un metro e
mezzo, e pare così
leggera che un
minimo colpo di vento potrebbe farla volar via. I suoi capelli sono di
un
bianco lucente, in netto contrasto con la pelle scura. Spazza via un
residuo di
pioggia che inizia a scivolarle giù per la fronte, poi si
gira per guardarlo ed è come se riuscisse a
scuoterlo fin dentro l'anima.
«Dolcezza, hai l'aspetto di qualcuno che non
se la sta passando bene.»
L'eufemismo
del secolo: è sudicio e lo sa bene, i capelli sono
più lunghi di
quanto siano mai stati, sporchi e gocciolanti
acqua sul pavimento di linoleum. Ha la barba lunga,
può sentirla grattare anche attraverso il
bavero
della giacca; considerato il suo aspetto e la manica imbrattata di
sangue,
questa dolce, anziana signora non avrebbe mai dovuto fidarsi tanto da
invitarlo
ad entrare. «Perché lo sta
facendo?»
«Cosa?»
«Aiutarmi,»
spiega lui stringendosi nelle spalle. «Non mi conosce, potrei
essere
pericoloso.»
Lei
non dice nulla e si limita a fissarlo.
Il che lo costringe ad incurvarsi sulla sedia, simile ad un bambino
messo in
punizione. «Senta… non posso pagare
per…»
«Ah,
finiscila,»
dice lei, una mano sollevata nell'universale gesto che sta per "non
aggiungere altro". «Non pensarci neanche, non
voglio che tu mi dia dei soldi.»
«Allora
perché mi sta aiutando?»
La
donna
ride, stupefatta. «Tesoro, lo sai che a volte le persone
aiutano
gli altri e basta, vero?»
Alla
sua espressione persa nel vuoto sospira e sorride con fare gentile e
benigno. «Dopo aver lavorato per anni in molti centri di
accoglienza so capire quando mi trovo davanti qualcuno che ha bisogno
di un
pasto caldo e di un letto dove dormire. Stavi sui gradini di casa mia,
bagnato fradicio e con l'aspetto di un cucciolo abbandonato…
come potevo
buttarti fuori?»
Accompagna
il tutto con un'alzata di spalle, a sottolineare che non c'è
bisogno di
aggiungere altro. «Ora,»
continua
indicando il corridoio, «io inizio a preparare la cena. Tu
vai a farti
una doccia e a cambiarti, rischi di prendere
una polmonite. È la seconda porta sulla destra,
gli asciugamani sono sotto
il lavandino. Lascia la tua roba nella cesta della biancheria,
metterò tutto
nell'asciugatrice quando avrai finito.»
Lui
lancia
un'occhiata in fondo alla sala ed
esita. Nessuno è mai stato così gentile con lui,
almeno non che lui ricordi. I
suoi guardiani e committenti non hanno mai fatto niente per lui - o
perlomeno,
quando è successo era sempre perché si
aspettavano qualcosa da lui. Qualcosa
che in genere finiva con spargimenti di sangue. Ha ancora le cicatrici
e alcune
ossa rotte come ricordo della loro gentilezza; secondo la sua
esperienza niente
viene mai guadagnato senza sacrificare qualcosa in cambio.
«Però
una
cosa da te la voglio,» dice la donna mentre lui fa per
alzarsi.
Quasi
sobbalza a questa richiesta. «Che
cosa?»
«Sapere
il tuo nome.»
Rimane
spiazzato, perché non è di certo quello che si
aspettava ma non per questo è meno
difficile darle una risposta.
Non è
sicuro di quale sia il suo nome: il Capitano l'ha chiamato "Bucky"
eppure non
sente alcuna connessione con quella precedente identità. Le
targhe commemorative
che ha visto al museo, con la sua faccia e le sue foto, riportavano la
scritta "James". È la cosa più simile ad un
vero nome, piuttosto che un soprannome usato da un amico del quale non
ha
memoria.
«James,»
dice alla fine. Quel nome lo fa sentire vuoto e completo allo stesso
tempo.
La
donna gli
sorride, gentile e cordiale. «James,» ripete a
bassa voce ed è come se
acquistasse importanza detto da lei. «Proprio come mio
figlio. Beh, James… puoi
chiamarmi Anna.»
Lui
si
sforza di sorridere. Si tratta
di un'espressione sconosciuta, poco familiare, e si chiede se lo stia
facendo nel
modo giusto. «Piacere di conoscerla.»
«È
un piacere conoscere te, James,» ribatte Anna. Fa un cenno
con la testa in
direzione del corridoio. «Vai, adesso. Datti una ripulita e
poi torna qui, più tardi penserò ai tuoi vestiti.»
Lui
annuisce
e si incammina in fondo al corridoio, in direzione del bagno. La luce
si
accende in uno sfarfallio quando trova l'interruttore sul muro e la
stanza
viene illuminata da un bagliore fluorescente. I muri sono di colore
beige
chiaro e c'è appesa la fotografia incorniciata di una barca
a vela. La stanza è
piccola e un tantino angusta, ma non si lamenta; in confronto alla
capsula di
criostasi sembra un castello.
Toglie
i
vestiti strato per strato e li lascia cadere nel lavandino,
trattenendo
una smorfia quando deve utilizzare la spalla sinistra. La carne
è lacerata ed esposta, i solchi profondi intorno al metallo
sono in parte coperti
da crostema ci sono ancora rivoli di
sangue che trasudano dalle ferite e colano giù per il
braccio di metallo,
insinuandosi tra le placche di metallo e le articolazioni. La stella
è
scomparsa, raschiata via con un pezzo di vetro due giorni dopo la
battaglia nel
cielo sopra il Potomac. Rappresentava soltanto un promemoria del
periodo
trascorso in cattività, un altro dettaglio che non sarebbe
mai riuscito a
dimenticare. Era stato comunque più facile eliminare la
stella che l'intero braccio e se n'era liberato con piacere.
La
doccia
sputacchia per un istante, poi il getto si stabilizza nel giro di
alcuni
secondi. Entra nella cabina e ci rimane per due minuti circa,
abbastanza per
ripulirsi; non vuole approfittare della cortesia di Anna più
di quanto non
abbia già fatto e usare tutta la sua acqua calda
è fuori discussione.
Chiude
il
rubinetto e rimane avvolto dal vapore, taciturno. Non riesce a
ricordare
l'ultima volta che è stato invitato ad entrare in casa di
qualcuno o l'ultima
volta che è stato considerato un essere umano piuttosto che
un'arma.
Non lo merita, non si merita tanta compassione. Ha fatto cose
terribili,
indicibili, e chiunque pensi che lui sia diverso da un mostro
dev'essere fuori
di testa.
Con
un
sospiro sommesso esce dalla doccia. Sul ripiano vicino al lavandino
trova una piccola
quantità di abiti ripiegati e impilati uno sull'altro. I
suoi indumenti bagnati
sono spariti, rimpiazzati con dei ricambi asciutti; non ha neanche
sentito la
porta aprirsi e si chiede come sia possibile che i suoi riflessi si
siano arrugginiti nel giro di poche settimane. I
pantaloni
sono quasi della misura giusta però la
camicia è troppo stretta e non può chiuderla del
tutto senza rischiare di
strapparla. Meglio così, dato che apparteneva al marito di
Anna e non vuole
rovinarla macchiandola di sangue.
Il
riflesso che lo osserva dallo specchio è quello di un uomo
che non aveva mai
visto, scarmigliato e smunto, con borse scure sotto agli occhi.
È solo un
guscio vuoto, il fantasma di qualcuno che una volta era umano. C'è
anche un pettine di plastica sul ripiano e decide
di
fare un tentativo di rendersi presentabile. Anna è stata
gentile con lui, è
stata dolce e premurosa, le deve
almeno lo sforzo di cercare di apparire in ordine. Fa scorrere con cura
il
pettine fra i capelli, sciogliendo i nodi che si sono formati per
settimane e lasciando
che le ciocche bagnate gli ricadano sul viso, come una coltre scura e
umida.
Raggiunto
un
risultato soddisfacente rimette a posto il pettine e piega alla
perfezione la
camicia del marito di Anna. Finché i suoi vestiti non
usciranno dall'asciugatrice
non potrà rivestirsi del tutto. In un'altra situazione non
sarebbe un problema ma
in questo caso sa che Anna vedrebbe il suo braccio e non vuole
spaventarla. Non
sa come potrebbe nasconderle l'arto di metallo, anche se è
intenzionato a provarci.
Anna
è in
cucina quando lui esce dal bagno, la schiena rivolta verso la porta
mentre è
intenta a cucinare. Non deve riuscire a vedere il suo braccio;
è orrendo e
brutale, uno strumento di morte fuso al suo stesso corpo, ed
è meglio che lei
non ci si avvicini nemmeno.
In
quel
momento però si gira, lo vede e scuote la testa. «Continui
a sanguinare,» dice prima di chinarsi a rovistare nella
credenza sotto
il lavello. Estrae una scatola di plastica e la appoggia sul bancone
vicino ai
fornelli, poi recupera alcune garze contenute all'interno.
«Vieni
a
sederti,» aggiunge indicando la sedia più vicina.
Non è tanto una richiesta quanto un ordine,
benché
cortese. Lui è così abituato agli ordini da
obbedire in silenzio e mettersi
seduto senza discutere.
Per
un
momento Anna sembra esitare, si limita ad osservare
a lungo il braccio metallico. I suoi occhi scuri non tradiscono alcun
pensiero
ma la smorfia che le arriccia le labbra vale più di mille
parole. Ancora una
volta, comunque, non è sconvolta o disgustata - solo
preoccupata. Facendo
attenzione allunga la mano e tocca una delle placche, dove si connette
alla
spalla. Lui trattiene un sussulto; non è il dolore a
infastidirlo, più che
altro la preoccupazione che lei si trovi a poca distanza da un'arma
tanto
pericolosa. «Ferita di guerra?»
«Qualcosa
del genere,» risponde lui. Un
muscolo della mascella si contrae quando Anna comincia a tamponare i
solchi più
profondi con uno straccio imbevuto di acqua ossigenata. «Come
fa a saperlo?»
«Mio
nipote
è stato ferito in Afghanistan,» spiega Anna
intanto che srotola una benda
sottile e la avvolge intorno ai graffi superficiali. «Ha
perso la gamba al di
sotto del ginocchio. Gli è servito parecchio tempo per
abituarsi alla protesi, anche
lui si riduceva così a forza di grattarsi.»
Lavora
in
silenzio per un po', pulendo il
sangue e bendando le ferite. Lui rimane rigido e immobile per lo sforzo
di non
muoversi troppo. È strano quanto quei gesti amorevoli
facciano quasi più male
delle ferite stesse; le mani di Anna sono delicate, una sensazione che
gli toglie il fiato.
Nessuno l'ha mai trattato con tanta gentilezza. «Quando hai
prestato servizio?»
«1945,»
dice
lui in automatico, le parole gli escono di bocca prima che possa
fermarle. Si
morde una guancia, irritato da quella perdita di autocontrollo.
Anna
sembra
sorpresa, lo guarda incredula e poi ride di gusto. «Beh,
caro, se eri sotto
le armi nel '45 hai davvero un bell'aspetto per uno della tua
età! Mio
marito ha partecipato alla Guerra di Corea, se ne è andato
da quasi tre anni.
Durante la Seconda Guerra Mondiale eravamo bambini.»
Assicura
le
bende con del cerotto a nastro e scuote la testa. «Non sei
costretto a
parlarmene se non vuoi. A Robert non è mai piaciuto parlarne
e neppure mio
nipote Marcus ne parla volentieri.»
Rimette
le
garze nella scatola di plastica, poi si allontana per riporla sotto il
lavello. «Ho sempre vissuto in mezzo a dei soldati. So che la
guerra è un argomento difficile, la maggior
parte delle
persone preferisce evitarlo.»
Lui
le offre
un debole sorriso in risposta, grato per quell'attimo di tregua. Non
è sicuro
di cosa sarebbe riuscito ad inventarsi se Anna avesse insistito; non
ricorda nulla della guerra o della sua vita prima di essa e parlare di
sé finirebbe
solo per far nascere altre domande in proposito.
Prova
a far
ruotare la spalla con cautela. Fa ancora male ma può
sopportarlo, gli è
capitato di stare molto peggio. Se non altro ha smesso di sanguinare.
Sposta lo
sguardo verso Anna, che con l'aiuto di un mestolo sta rimestando la
cena che ha
appena tolto dal fuoco. «Posso dare una mano?»
«Puoi
aiutarmi standotene tranquillo, così quelle bende resteranno
al loro posto,» ribatte
lei. Si china sul tavolo e gli posa di fronte una scodella di zuppa.
«E puoi
aiutarmi anche finendo tutto quello che ti piazzerò sotto il
naso. Direi che è
da un pezzo che non mangi qualcosa di decente.»
Lui
si
sofferma a pensarci per un attimo:
quando è stata l'ultima volta in cui può dire di
aver fatto un pasto completo o
di aver mangiato del cibo preparato con tanta cura? I suoi guardiani e
committenti in genere gli fornivano vitamine e barrette proteiche.
Perfino
durante le missioni, nel tempo che passava fuori dalla capsula di
criostasi,
non mangiava altro che frutta rubata dalle bancarelle per strada o quel
poco di
cibo che riusciva a recuperare nei cassonetti dell'immondizia.
La
zuppa è
favolosa e vuota la scodella senza bisogno d'incoraggiamento.
Anna siede dall'altra parte del tavolo, finendo la propria porzione in
tutta
calma. Un paio di volte solleva lo sguardo dal proprio piatto e lo
fissa in
silenzio, come se stesse cercando di trovare da sola delle risposte.
Quando si
decide a parlare la sua
voce è calda e affettuosa. «Perdonami se te lo dico…
sembra che tu stia
scappando da qualcosa.»
Lui
rimane
impietrito e la donna solleva una mano in un gesto di scuse.
«Mi spiace se ho
toccato un tasto dolente, non intendevo offenderti. È solo
che dal tuo aspetto
direi che non hai ben chiaro se andartene sul serio o se invece
dovresti
restare.»
Quelle
parole lo lasciano attonito. Anna ha ragione, c'è ancora
qualcosa che lo trattiene: il Capitano,
Steve. Non
riesce a decidersi a scomparire del tutto, non ancora. Sa che Steve
potrebbe avere alcune delle risposte che sta cercando, sul passato che
non
riesce a ricordare, eppure non ha il coraggio di affrontarlo.
Ha
solo
bisogno di stargli lontano per tenere entrambi al sicuro,
perché
non è certo di potersi fidare di se stesso intorno a lui.
L'ha
quasi ucciso alcune
settimane prima e il pensiero che potrebbe fargli di nuovo del male,
intenzionalmente o meno,
lo fa star
male. Dovrebbe andarsene, scappare il più lontano possibile
e
non tornare mai perché solo così Steve sarebbe
fuori
pericolo, ma non riesce a farlo. Non
riesce nemmeno a costringersi a farlo, perché Steve
rappresenta
tutto quello
che ha perso e tutto quello che vorrebbe ritrovare. Non riesce ad
andarsene
perché teme che facendolo finirebbe per perdersi per sempre.
«È
complicato,» ammette scegliendo con cautela cosa rivelare in
proposito, «non
ricordo molto della mia vita.» La mano destra sfiora la
tempia, la sinistra rimane
ben salda sulla gamba. «Ci sono dei vuoti nella mia memoria,
dei buchi neri.
Quello che mi è successo… non ricordo quasi nulla
di chi sono, di chi ero. C'è
qualcuno che potrebbe aiutarmi…»
Scuote
la
testa e lascia che la frase quasi gli muoia sulle labbra.
«Sono ancora troppo
pericoloso per stargli intorno. Al momento andarmene potrebbe essere
l'unica soluzione.»
Anna
non
parla e ascolta in silenzio. La sua espressione è
comprensiva, i suoi
occhi amichevoli. «Immagino ci si senta parecchio
soli.»
«Sentirsi
soli
va bene. Se sono da solo significa che non posso fare male a
nessuno.»
La
donna gli
risponde con un sorriso triste. «Isolarsi dal resto del mondo
non è sempre la
scelta giusta, anche se
potrebbe sembrare così. Però se pensi che sia
quello che ti serve per
riprenderti indietro la tua vita va bene, a volte il passo
più difficile da
fare è confrontarci con noi stessi.»
Lui
annuisce
in assenso. Uno degli aspetti più difficili di non avere
ricordi precedenti alla battaglia del Triskelion
è non sapere chi potrebbe essere, ora. L'uomo che era una
volta - James, Bucky - ormai
non è più la stessa
persona. Non è neanche più il Soldato d'Inverno.
Non sa chi è, chi dovrebbe
essere, e deve cercare di capirlo prima di poter fare qualsiasi altra
cosa.
All'improvviso
il fragore di un tuono risuona sopra le loro teste, abbastanza forte da
scuotere le ante della credenza. Anna sobbalza per un istante, lui
invece impiega
un secondo o due per reprimere l'istinto di scattare in piedi e
raggiungere di
corsa la porta.
«Meglio
avere un paio di torce a portata di mano,» mormora Anna
mentre si alza per
rovistare in un piccolo armadietto accanto al frigorifero. Recupera due
torce
elettriche da uno dei ripiani e torna a sedersi al tavolo, allungandone
una
nella sua direzione. «Questa potrebbe esserti utile nelle
prossime ore.»
Lui
accetta
senza obiettare; non è affatto preoccupato dalla
possibilità di un blackout ma lo
stesso non rifiuta l'offerta.
Il
resto
della serata passa accompagnato dal picchiettare della pioggia sui
vetri e dal
brontolio dei tuoni. Anna gli parla del marito, di come l'ha
conosciuto, e l'espressione
sul suo viso al ricordo gli riscalda il cuore. Parla dei figli e dei
nipoti, del suo lavoro di insegnante e del volontariato presso numerose
chiese e rifugi
in tutta la città; gli racconta la propria vita e lui
vorrebbe
essere in grado
di raccontarle qualcosa della sua.
È in
quel
momento che decide quale tipo di uomo vuole essere - degno
dell'accoglienza e
della gentilezza di Anna, degno delle sue parole gentili. Non sa se
sarà mai in
grado di redimersi per tutte le azioni disumane che ha compiuto ma lei
e la sua
famiglia sono le persone che vuole difendere, proteggere dall'orrore
che c'è nel mondo. Per
conto dell'Hydra si è macchiato di crimini
atroci e gli è venuto quasi naturale dimenticarsi che
potessero esistere
persone buone e altruiste.
La
pioggia
continua a scrosciare, intervallando violenti nubifragi a volte e
leggeri rovesci altre;
Anna insiste perché rimanga per la notte, facendogli notare
che il temporale
dovrebbe allentare la presa solo intorno alle cinque del mattino.
Nonostante la
conosca da poche ore, lui sa che è meglio non contraddirla.
Il
divano
nel soggiorno si apre e si trasforma in un letto e Anna gli porta un
buon numero
di lenzuola, cuscini e trapunte che sembrano avere quasi più
anni di lei. Lo
aiuta a sistemarsi per la notte seguitando a chiedere scusa per il
fantomatico disordine.
Lui le assicura che non c'è alcun problema, anche se
è come parlare al muro.
Una
volta
che il letto è pronto Anna fa un passo indietro e controlla
il
risultato. Non sembra esserne soddisfatta e per l'ennesima volta lui le
assicura che è perfetto. Non ha idea di come potrebbe mai
ripagarla per la sua
generosità e offrirgli un posto per la notte è
un'altra voce da aggiungere alla
lista.
«Fammi
sapere se ti serve qualcos'altro, la mia stanza è in fondo
al corridoio,» dice
la donna, poi gli stringe la mano destra con dolcezza. «Qui
sei al sicuro.»
È una
strana affermazione, che gli provoca una reazione perfino
più
strana: non si è mai sentito al sicuro in nessun posto e non
è
affatto abituato a sentirsi rassicurare, così annuisce e
cerca
di
sorridere.
«Grazie,»
risponde semplicemente, perché non riesce a pensare a niente
di diverso. «Di tutto.»
«Non
c'è di che, tesoro.»
Anna gli volta le spalle e si allontana lungo il corridoio fino a
raggiungere la
propria stanza. La porta si chiude con un debole scatto e lui si trova
da solo.
Quella
notte
non dorme per paura di disturbarla gridando a causa degli incubi che
potrebbe
avere, piuttosto preferisce rimanere sveglio e sorvegliare la
casa. È l'unica cosa che può fare per lei ed
è
più che felice di farlo.
Il
picchettio
della pioggia si interrompe poco dopo le cinque. Si alza in silenzio e rimette
il divano a
posto, piega
le coperte e le lenzuola e le appoggia sui cuscini. Lascia tutto il
più in
ordine possibile, in modo che Anna non debba perdere troppo tempo a
sistemare.
L'appartamento
è avvolto nel buio e Anna sta ancora dormendo,
così scivola fuori dalla porta d'ingresso
e la richiude con cautela dietro di sé. Può
sentire la serratura scattare e il
pomello gira a vuoto una volta che il blocco è inserito;
soddisfatto si
incammina per strada. Sa di non essere
una bella persona e sa che non potrà mai sdebitarsi con Anna
per la sua gentilezza.
Promette a se stesso che si impegnerà per diventare almeno
la metà dell'uomo
che lei pensa che sia.
Torna
da
quelle parti qualche giorno più tardi, con un mazzo di fiori
recuperato dagli
scarti sul retro di un negozio. Alcuni dei petali sono appassiti e
flosci ma non poteva fare di meglio e spera sia abbastanza; lascia il
regalo sui
gradini e se ne va senza neanche fermarsi a controllare che lei vada ad
aprire
la porta.
Quando
passa
di lì per l'ultima volta, il giorno dopo, vede i fiori
infilati in un vaso e
sistemati sul davanzale della finestra che si affaccia sulla via. Per
la prima
volta in anni riesce a sorridere davvero.
Capitolo originale dell'autrice
Show her some love!
|
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Capitolo 8 *** Vozvrashcheniye Na Rodinu (Ritorno a casa) ***
cap 8 finire revisione
NdA
Ciao a tutti! Ho
usato questa idea già un paio di volte perché Bucky che, senza farsi notare, entra
nell'appartamento di Steve per controllare che vada tutto bene è uno dei miei
trope preferiti. È uno spione preoccupato! Spero vi piaccia!
Capitolo 8: Vozvrashcheniye
Na Rodinu
La
Sokovia
si sbriciola come se fosse fatta di truciolato. Palazzi, strade, interi
isolati
si sgretolano a mezz'aria, staccandosi da un blocco centrale e
precipitando a
terra in enormi frantumi. La nazione viene distrutta in diretta tv, la
notizia
riportata da quasi tutti i canali.
Lui
osserva in
silenzio, in un caffè di Manhattan. La televisione
è accesa, l'orrore trasmesso
sullo schermo in alta definizione; ogni persona nel locale guarda
mentre la
Sokovia si solleva sempre più nell'atmosfera, un Paese
trasformato in
un meteorite. Una donna sta piangendo in un angolo, qualcuno sta
pregando e
tutti sono attoniti, incapaci di credere ai propri occhi.
È come
qualcosa uscito da un incubo surreale, terribile e impossibile. I
filmati diventano
sempre più tremolanti e arrivano notizie dei Vendicatori,
che stanno cercando
di fermare una catastrofe. Non sa chi siano i Vendicatori ma per qualche
ragione
il nome suona familiare e si trova a digrignare i denti intanto che le
immagini
dei notiziari continuano a scorrere. Ci sono scie rosse e dorate che
schizzano fulminee
tra la polvere che oscura il cielo, poi c'è uno scintillio
di rosso, bianco e
blu e no, no, NO… Steve
è lassù.
Ecco
perché
ha riconosciuto quel nome, è quello il motivo per cui
l'aveva già sentito: la
prima cosa che gli è tornata in mente quando ha iniziato a
ricordare è stata
Steve. Ha scovato ogni piccola informazione a proposito del Capitano e
si è
impresso ogni dettaglio nella memoria. Se non riesce a ricordare molto
di sé sente
che almeno deve conoscere qualcosa di Steve.
Steve,
che
ha messo fine alla guerra in Germania quando avrebbe dovuto essere a
casa, a
Brooklyn.
Steve, che
è diventato Capitan America, leader degli Howling Commandos.
Steve, Capitan
America, il primo dei Vendicatori.
Steve, che
adesso si trova in Sokovia nel mezzo di una strada distrutta mentre il
resto
del Paese galleggia ad alta quota.
Lo
vede per
una frazione di secondo, affacciato sul cratere creato da un parcheggio
che
adesso si apre nell'abisso. Tiene lo scudo in mano, la stella bianca
gli orna
il petto e assomiglia in tutto e per tutto a quell'incosciente
imbecille che ha
fatto irruzione in una delle basi dell'Hydra. Pazzo disgraziato, non ha
mai
saputo quando fermarsi…
Il
pensiero gli
fa girare la testa e per un attimo si aggrappa allo schienale della
sedia per
mantenere l'equilibrio. Ha studiato la storia del Capitano fino alla
nausea,
tuttavia è difficile riuscire a capire come posizionarsi nel
quadro generale. Si
sente ancora distaccato dal proprio passato e quel poco che ricorda gli
si
conficca nel cervello come filo spinato. Parole e frasi, un braccio
intorno
alle spalle, Steve che pronuncia il suo nome. Un'ondata di emozioni
riaffiora
prepotente: orgoglio, preoccupazione, senso di protezione.
L'immagine
sullo schermo cambia, Steve sparisce e all'improvviso è come
se gli mancasse
l'aria. Non riesce a vederlo, non sa dove sia, la telecamera taglia su
un'altra
inquadratura e il Capitano è scomparso. La presa sullo
schienale della sedia è
abbastanza stretta da piegare il metallo tra le dita ma nessuno sembra
farci
caso, sono tutti troppo impegnati a fissare la televisione.
Non
riesce più
a tollerare la sensazione di sentirsi rinchiuso in quel
caffè.
Si fa
largo a spintoni per la strada, barcollando sul marciapiede. Un'altra
televisione trasmette le ultime notizie dalla vetrina di un negozio
poco
distante ed è impossibile passare oltre senza lanciare uno
sguardo. È un evento
senza precedenti, che ha il potenziale per distruggere qualsiasi essere
vivente
sulla Terra. Tiene gli occhi fissi sullo schermo con febbrile
attenzione, in
cerca di una qualsiasi traccia del Capitano. Ha bisogno di vederlo, ha
bisogno
di assicurarsi che sia ancora vivo.
Delle
sirene
strillano in lontananza da qualche parte, in città; gli
annunciatori tv invitano
la gente a cercare
riparo e prepararsi al peggio. Non che possa fare differenza, se la
Sokovia
verrà distrutta il mondo intero seguirà a breve.
Lo
scontro
sta raggiungendo una svolta decisiva e ogni scossone o dondolio del
blocco di
terra potrebbe essere l'ultimo. Rifiuta di muoversi finché
non saprà dove si
trova Steve. Per quanto abbia cercato di stargli alla larga, per quanta
distanza abbia cercato di mettere tra loro, non riesce a costringere il
proprio
corpo a muoversi - non finché non avrà la
certezza che Steve stia bene.
Qualcosa
di
enorme appare in un angolo dei monitor. Una nave in grado di volare,
simile a quella
sulla quale lui e Steve hanno combattuto nei cieli sopra il Potomac. I
giornalisti adesso sembrano parlare con entusiasmo, nonostante la
Sokovia abbia
raggiunto un'altitudine tale che le
persone coinvolte nel disastro sembrano ormai formiche. Molte
navette più piccole raggiungono le strade mentre le fiamme
della battaglia non
accennano a placarsi.
Gli
ultimi
civili si imbarcano in tutta fretta e nel giro di un attimo succede
l'inevitabile: l'ammasso di rocce ed edifici comincia a precipitare
verso il
basso e il suo stomaco si contorce quando realizza cosa sta per
accadere. Se
dovesse raggiungere il suolo sarebbe la fine.
Poi un
lampo di luce accecante, un'esplosione di formidabile energia e la
Sokovia si
disintegra in miliardi di frammenti. Le telecamere vengono oscurate
dalla
cortina opaca di fumo e detriti che satura l'aria.
Servono
alcuni minuti per far tornare l'inquadratura a fuoco. L'immensa nave da
guerra
atterra a diverse miglia di distanza dal luogo del disastro per
scaricare i
passeggeri e lui non perde un solo istante della trasmissione. Scorge
il
Capitano in lontananza, coperto di polvere e tracce di sangue; sta
aiutando una
donna e i suoi bambini a sbarcare. Il sollievo che prova nel saperlo
vivo e tutto
d'un pezzo non gli è ben chiaro, ma adesso che sa che Steve
sta bene può
ricominciare a respirare.
I
giornalisti in tv riprendono il commento in diretta e lui si allontana
dalla
vetrina. Non ha bisogno di vedere nient'altro, Steve è al
sicuro e per qualche ragione è l'unica cosa che conti.
Cammina fino al lato opposto della strada e gira l'angolo, intanto che
il
filmato della distruzione della Sokovia viene mostrato più e
più volte.
OOOOO
Si
trova
ancora a New York quattro giorni dopo, seduto sul tetto di un palazzo
di fronte
ad un condominio. Sta aspettando Steve, anche se non lo ammetterebbe
mai,
anticipando il suo ritorno come una sposa di guerra. È
rimasto lontano per più
di sei mesi, tenendosi a distanza dalle città principali
ogni volta che lui o
il suo amico, l'uomo con le ali di metallo, riuscivano ad arrivargli
troppo
vicino.
Non
si fida
di quello che potrebbe fare se dovesse incontrare Steve. Forse il
condizionamento dell'Hydra gli farebbe scattare di nuovo qualcosa in
testa,
spingendolo a completare la missione che non ha portato a termine tempo
prima,
a Washington. Per questo mantiene le distanze ma lo stesso ha bisogno
di
controllare, di vederlo di persona.
I
Vendicatori, Steve compreso, hanno fatto avanti e indietro per aiutare
i
sopravvissuti e coordinare le operazioni di soccorso. Ci sono stati
numerosi incontri
e comitati consultivi; la squadra ha preso parte a ciascuno di essi
finché non
è rimasto nessun altro intervento possibile e tutti loro
sono stati rimandati
in America per un breve periodo di riposo. Ha scoperto tutte queste
informazioni attraverso le comunicazioni radio dello S.H.I.E.L.D. ,
dato che
ancora riesce ad accedere ad alcuni dei loro canali più
sicuri. Interessante
come nessuno all'interno si sia preoccupato di modificare i codici dopo
che
l'Hydra ha quasi preso il controllo, però non è
una questione che lo riguardi.
Ciò che gli importava era ottenere la conferma che i
Vendicatori sarebbero
rientrati a New York nel pomeriggio. Armato solo di questa certezza si
è
diretto all'appartamento di Steve e si è arrampicato sul
tetto del palazzo di
fronte, per poi aspettare.
Il
giorno si
trasforma in pomeriggio e diventa sera. Sono passate da poco le sette e
mezza
quando Steve spalanca la porta. Da quello che può vedere
dalla sua postazione
dal tetto l'arredamento ha un aspetto spartano, soltanto pochi mobili
necessari
ad assicurare giusto le minime comodità. È chiaro
che non si tratti di un
posto dove Steve passa molto tempo, sebbene sia una benedizione avere
un posto
tranquillo dove rifugiarsi e staccare la spina - soprattutto
considerati gli avvenimenti
dei giorni passati.
L'appartamento
è l'ultimo sul piano, il che significa che le finestre si
affacciano in due
diverse direzioni. Non sarebbe un problema se non fosse per il fatto
che a
quanto pare Steve non crede nell'uso delle tende e c'è una
vista perfetta di
quasi ogni stanza dalla strada. Per essere uno che cerca di
mimetizzarsi nel
resto della società quando non indossa l'uniforme, Steve
sembra ignorare i
fondamentali principi di tutela della privacy; chiunque dal marciapiede
potrebbe guardare in su e spiarlo mentre si aggira per casa.
L'idea
che
Steve non abbia il minimo riguardo per la propria incolumità
lo disturba. Certe
cose non cambiano mai e se i suoi scarsi ricordi sono attendibili (il
che è
tutto da vedere) significa che continua a non preoccuparsi di quello
che
potrebbe succedergli perché è troppo impegnato a
proteggere gli altri piuttosto
che se stesso.
Steve
non
rimane in sala molto a lungo. Lascia la posta arretrata sul tavolo, fa
cadere
le chiavi sopra le buste e si dirige quasi subito verso la camera da
letto. È
l'unica finestra della casa protetta da tende ma quando accende le luci
la sua figura
è comunque visibile attraverso di esse. Cammina su e
giù
per la stanza per
alcuni minuti, muovendosi a fatica per via della stanchezza, delle
ferite e dei lividi con i quali dovrà fare i conti per
diverse settimane.
La
luce si
spegne poco dopo e nell'appartamento cala il buio.
Lascia
passare almeno un paio d'ore prima di fare la propria mossa. Scende dal
tetto e
attraversa la strada; non degna di uno sguardo l'ingresso principale
del
palazzo che ha di fronte e si arrampica per la scala antincendio che si
trova
sotto la finestra del soggiorno. Finestra aperta, nota con enorme
disappunto.
Scivola
all'interno
spostandosi come un'ombra attraverso l'oscurità. Con molta
probabilità Steve
continuerebbe a dormire perfino se scoppiasse una bomba, ma
è comunque cauto ed
evita ogni tipo di rumore. La porta della camera da letto è
spalancata e riesce
a distinguere la sagoma di un corpo sdraiato tra le lenzuola.
Non
stava
così vicino al Capitano da quando l'ha trascinato fuori dal
fiume. Avverte
ogni muscolo del corpo contrarsi, fremere per l'urgenza di fare
dietrofront e
scomparire nella notte. Sta correndo un rischio enorme e non dovrebbe
nemmeno
trovarsi lì, eppure si blocca impietrito nel corridoio;
raccoglie il coraggio
per avvicinarsi, quasi stesse avanzando in un campo minato.
Steve
è
sistemato al centro del letto con le gambe divaricate e le braccia
abbandonate
sui cuscini. Non ha neanche perso tempo a svestirsi, è
collassato sul
materasso e le tracce dello stress e del caos che ha dovuto affrontare
in
Sokovia sono
abbastanza evidenti sul suo viso. I capelli sono disordinati e
arruffati, il
respiro regolare. Da vicino e privo dell'uniforme sembra
incredibilmente
giovane e vulnerabile.
I
ricordi
che ha di lui sono discrepanti, si scontrano e rimbalzano come palline
di
gomma. In alcuni è un piccoletto scheletrico, con un occhio
nero e un labbro
spaccato; in
altri invece è l'uomo alto e forte che adesso riposa, ignaro
della sua
presenza. Enorme e mingherlino, implacabile e gentile, Capitan America
e Steve
Rogers. Si chiede quale dei due sia davvero reale, anche se
è probabile che lo
siano entrambi.
Alla
fine si
decide a muovere un altro passo verso il letto.
Un
microscopico sussulto nel respiro di Steve lo rimette sull'attenti: a
giudicare
dalle rughe che si formano sulla sua fronte, qualsiasi cosa stia
sognando non
deve essere piacevole. Pur non conoscendone la ragione, sapere che
Steve è
turbato gli scuote qualcosa nel profondo. Qualcosa di intrinseco e
radicato come
se fosse parte del suo codice genetico.
Allunga
una
mano e accarezza con cautela il palmo di Steve. Tiene il braccio di
metallo
lontano da lui, l'ha già fatto soffrire abbastanza usando
quell'arto; si
concentra sulla sensazione che gli trasmette il contatto con la sua
pelle. Quella
di Steve è tiepida e sfiorarla gli dà
l'impressione di trovarsi a casa.
Le dita del
Capitano si chiudono intorno alle sue, un movimento così
spontaneo e
inconsapevole che di certo si tratta di un semplice riflesso. Dovrebbe
andarsene, scappare lontano e non tornare mai più,
perché se Steve dovesse
svegliarsi e vederlo, chiamarlo per nome, chiedergli di
restare… sarebbe
impossibile rispondere di no.
Rimane
immobile
per alcuni istanti, le dita di Steve piegate intorno alle sue in cerca
di
conforto dopo un incubo. Fa scivolare il pollice lungo l'indice di
Steve, in
modo da rassicurarlo per quel poco che può.
Ossa
piccole. Steve ha sempre avuto ossa piccole. Se lo ricorda, o almeno lo sa.
Steve una volta era molto gracile e per questo l'ha sempre tenuto
d'occhio.
Scaccia
i
pensieri e si allontana dal letto, la mano ricade lontano dal Capitano
ancora addormentato; sgattaiola
fuori dalla stanza e fuori dalla finestra, poi sulla scala antincendio.
Per
quanto una parte di lui voglia restare, la parte più
preminente e logica sa che
non è il caso. È troppo pericoloso, troppo
imprevedibile e se rimanendo finisse
per fargli di nuovo del male non potrebbe perdonarselo.
Quando
raggiunge il lato opposto del vicolo si ferma a guardare dal basso
verso l'alto
in direzione dell'appartamento. Il tempo si ferma per una frazione di
secondo
mentre una luce nella camera da letto si accende e qualcuno si muove
dietro le tende.
Steve
si
affaccia alla finestra ma non c'è nessuno nella strada sotto
di lui, il
marciapiede è deserto. Chiunque ci fosse qualche attimo
prima è sparito senza
lasciare traccia, scomparso nell'oscurità.
Capitolo originale dell'autrice
Show her some love!
È d'obbligo inserire un ringraziamento a Ragenruin, che ha contribuito a questo capitolo in anteprima sopportando i miei
dubbi su quanto siano efficaci le traduzioni di alcuni passaggi… soprattutto
quelli che fanno nascere immagini mentali poco dignitose!
* "It's eleven thirty!" Lancia una lattina di Diet Coke in
casa di Steve e aspetta gli sviluppi *
Your
Humble Translator
|
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Capitolo 9 *** Odin (Uno) ***
cap 9
NdA
C'è un po' di tematica slash in questo capitolo. Niente di eccezionale, se
non una consapevolezza arrivata in ritardo, e può comunque essere vista in un
contesto di bromance. Spero vi piaccia!
Capitolo 9: Odin
Decide
di
andarsene tre giorni dopo. Non lascia soltanto l'isola di Manhattan ma
lascia
la città, lo Stato, il Paese; ha bisogno di scomparire, di
allontanarsi da
tutto ciò che ha cercato di distruggere mentre l'Hydra era
ancora operativa. Sa
che Steve continuerà a cercarlo, non si darà per
vinto adesso che sa che è
ancora vivo, ed è questo il vero problema. La cosa peggiore
che potrebbe
succedere è che Steve riesca davvero a trovarlo e provi a
convincerlo a
restare, perché in quel caso finirebbe per dargli retta.
Non
vuole correre rischi. Non può fare del male a nessuno se
rimane da solo e
Dio solo sa quanto poco si meriti che qualcuno si preoccupi per lui.
È un
assassino, un'arma forgiata con ossa e metallo. Non si merita che
qualcuno come
Steve, altruista e testardo, rischi di farsi ammazzare nel tentativo di
aiutarlo. L'isolamento è l'unica soluzione.
Tutta
la sua
vita entra in un singolo zaino. Non possiede molto, giusto alcune
camicie e un
paio di jeans di scorta e una collezione di taccuini. I taccuini sono
gli
oggetti personali ai quali è più legato e
continua ad aprire il borsone per
controllare all'interno, quasi potessero scomparire
nel momento in cui non li sta guardando. Contengono i suoi
ricordi
e ci si aggrappa come ad un'ancora di salvezza.
Ha
iniziato
a scrivere per mettere in ordine tutti i ricordi ai quali non riusciva
a dare
un senso, in modo da decifrarli in seguito. Ben presto i taccuini sono
diventati una finestra su
un passato che
ancora fatica a riconoscere come proprio.
Il
primo gli
è stato offerto gratis insieme ad una penna, durante una
specie di inaugurazione
di fronte ad un palazzo pieno di uffici, un pomeriggio. Dopo averli
presi è rimasto
a fissare a lungo le pagine vuote, domandandosi cosa avrebbe potuto
farsene. La
penna sembrava così pesante tra le dita. In alto nella prima
pagina, in una
grafia disordinata fatta di piccole lettere ha scritto Il
mio nome è…
Si
è fermato
per un attimo, insicuro su come completare la frase. Per Anna era stato
James,
sebbene sembrasse strano; troppo preciso e formale, un nome che gli
appartiene
anche se non l'ha quasi mai usato. Steve invece l'aveva chiamato Bucky.
Quel
nome suona un poco più familiare ma comunque estraneo, dato
che il Bucky che Steve
conosceva è morto ormai da parecchio tempo.
Non
riuscendo
a decidere cosa scrivere ha lasciato il resto in bianco e ha infilato
il taccuino
nella giacca. L'ha aperto di nuovo il mattino seguente per aggiungere
Bucky
alla fine della frase, perché gli sembrava più
giusto così.
Nel
corso
dei giorni successivi ha riempito tutto lo spazio disponibile di
scarabocchi - poche
parole o una frase striminzita, frammenti di una vita alla quale adesso
sta
cercando di ridare una direzione.
Avevo una sorella di nome Rachel.
Ho
perso il
primo dente quando avevo sei anni.
Odio
il
cocco.
Altri
sono
più lunghi e dettagliati, frutto delle memorie meglio
delineate. Gli è sembrato
comunque strano scriverli, come delle mezze verità che
rischiavano di non
corrispondere alla realtà una volta impresse su carta.
Mia
madre
era un'insegnante della scuola elementare Oliver H. Perry. Le piaceva
insegnare
matematica e scienze.
Ho
trovato lavoro
come scaricatore al porto durante l'estate del 1941. Il mio capo si
chiamava
Frank Malone. Aveva solo tre dita alla mano destra, colpa di un
incidente che
gli era capitato quando aveva dodici anni.
Il
mio primo
appartamento era in una pensione a Greenpoint. Era una stanza singola
con una
finestra rotta e c'era un negozio di alimentari dall'altra parte della
strada.
Alcune
delle
note sono state depennate o cancellate, modificate a metà
della frase ogni
volta che si rendeva conto di confondersi con qualcos'altro. Nonostante
siano sconnesse
e confuse, averle a portata di mano lo ha aiutato ad iniziare a
riprendere il
controllo.
Il
secondo
taccuino è arrivato alla stessa maniera, regalatogli per
strada di fronte al
campus di un college; ha iniziato a scrivere quasi all'istante e ben
presto non
è rimasta alcuna riga vuota. Questo è leggermente
diverso, però: mentre il
primo è una raccolta di ricordi sporadici, tasselli di un
puzzle che alla fine
può essere ricomposto, il secondo contiene tutto quello che
sa a proposito di
Steve Rogers.
Una
metà
delle pagine riporta ogni cosa che ha letto sulle targhe allo
Smithsonian e le
informazioni sul Capitano che ha recuperato attraverso altre fonti. Ha
scritto
dov'è nato, ha scritto qualcosa a proposito della sua
infanzia e dove è
cresciuto. Ha scritto di quando si è arruolato
nell'esercito, è diventato il
leader degli Howling Commandos e di quando si è sacrificato
alla fine della
guerra. Ha riempito pagine con i dettagli di quando e come è
stato ritrovato,
del suo impegno con i Vendicatori, di come ha smascherato la corruzione
dello S.H.I.E.L.D.
ad opera dell'Hydra.
L'altra
metà
è dedicata ai dettagli che lui
ricorda a proposito di Steve, tutti gli elementi più
personali e privati che
non si trovano affissi al muro in un museo.
Il
colore
preferito di Steve è il verde.
A
Steve
piacciono le mele.
Steve
riempiva le scarpe di giornali in modo che non gli stessero larghe.
Steve
soffre
di ipermobilità al polso destro.
Steve
si è
rotto una caviglia in seconda elementare.
Steve
era
stato accettato alla scuola d'arte ma non poteva permettersi di pagare
la
retta.
La
madre di
Steve era infermiera.
Steve
ha un
gancio sinistro micidiale.
A
differenza
del primo taccuino, le note sono più approfondite;
può non sapere molto di se
stesso, ma di sicuro conosce il Capitano.
Steve
ha una
cicatrice a forma di x sull'anca sinistra, se l'è procurata
inciampando nel
parco e cadendo su di un bastone.
Un
anno
Steve ha venduto ad una fiera degli schizzi fatti a carboncino per
comprare un
regalo di compleanno a sua madre.
Le
iridi di Steve
hanno dei riflessi verdi ma si vedono solo quando c'è la
luce giusta.
Steve
si è
rotto una costola quando ha fatto a botte con Ricky Salas.
Steve
ha
l'abitudine di accoccolarsi di nascosto accanto a te, la notte1.
Inoltre è sempre caldo come un termosifone.
Steve
profuma di trifoglio e cannella.
Conserva
all'interno
del taccuino alcune fotografie prese da riviste patinate e delle
polaroid
scovate nelle biblioteche. Anche se non ricorda nulla della propria
vita, finché
continuerà ad avere il viso di Steve impresso in testa
andrà tutto bene.
Steve
è mio
amico.
Per
questo la
decisione di andarsene è fisicamente dolorosa. Per ogni
buona ragione che ha
per rimanere (e non sono molte) ce ne sono comunque altre dieci che lo
spingono
a scappare - tutto a causa di Steve. Sa che andarsene è la
scelta migliore e al
contempo la sola idea basta a farlo sentire come se qualcuno l'avesse
appena
accoltellato allo stomaco.
Cerca
di
distrarsi dai propri pensieri racimolando il denaro necessario; i conti
in
banca di alcuni dei suoi committenti sono ancora disponibili e lui
riesce ad
accedervi senza troppa difficoltà. Rubare i soldi
è la parte meno complessa, il
procedimento più laborioso è prelevarli di
persona. Qualcuno che ritira intere
mazzette di banconote da uno sportello automatico potrebbe destare
sospetti e
deve anche fare attenzione a non mostrare la propria faccia alle
telecamere di
sorveglianza, per paura di essere riconosciuto. È
un'operazione che richiede
pazienza, tuttavia alla fine del mese si ritrova con una somma
soddisfacente.
Con
i
contanti alla mano l'unica cosa che gli resta da fare è
andarsene da New York.
Rimane fuori dall'appartamento di Steve per almeno venti minuti quel
mattino, un
bel pezzo prima dell'alba, e osserva la finestra oscurata memorizzando
il
disegno delle tende. Slaccia la cerniera dello zaino e prende uno dei
nuovi taccuini;
c'è una penna infilata tra le pagine, in attesa della
prossima nota da appuntare.
Io
amo Steve
Rogers2. Ecco perché me ne sto
andando.
Richiude
il
quadernino e lo rimette a posto, poi fa scorrere la zip e passa le
cinghie
oltre le spalle. La sua intera vita esiste chiusa in uno zaino
traboccante di
taccuini e fotografie e ricordi di un uomo in rosso, bianco e blu. Si
gira e si
incammina lontano dall'appartamento di Steve, lontano dall'isolato in
cui vive
Steve… lontano da Steve.
1. Steve is a stealth cuddler at nigh
Ci sono dei
termini che proprio non si prestano ad una traduzione stringata!
2. I love
Steve Rogers
L'autrice
ha scelto di usare questa formula invece
dell'inequivocabile "I'm in love with" per mantenere un contesto valido
sia come bromance che come slash, per sua stessa ammissione nelle NdA.
Del
resto la formula "I love" in Inglese si applica ad un sacco di
situazioni e definisce sia l'amore romantico che l'affetto verso i
membri della famiglia e gli amici. [NdT]
Capitolo originale dell'autrice
Show her some love!
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Capitolo 10 *** Gruzovoy Vagon (Vagone merci) ***
cap 10 da modificare
NdA
Questa
storia ormai è completa ma sto lavorando alla seconda parte! Grazie mille a
tutti per aver letto!
Capitolo 10: Gruzovoy
Vagon
Arriva
in
Romania all'interno di un vagone merci. È tardo pomeriggio e
il sole brilla
alto nel cielo, riscaldando le fredde folate di vento che si
intrufolano di
tanto in tanto attraverso la lamiera.
Ha
dovuto
fare un po' di attenzione ma è riuscito a passare del tutto
inosservato
quando i container sono stati caricati su una nave mercantile; nessuno
sapeva
che ci fosse anche lui sul retro, lo zaino riempito di abbastanza cibo
e acqua da
bastargli per tutta la durata del viaggio. Il
cargo ha
raggiunto il porto alcuni giorni dopo e il cassone è stato
spostato fino
all'aggancio ferroviario. Lui è rimasto tranquillo nel suo
nascondiglio, in un
angolo dietro ad una pila di casse, aspettando l'occasione migliore per
scendere.
Dopo
una
mattinata trascorsa su binari sferraglianti, il treno si ferma per fare
tappa in una stazione a Bucarest. Approfitta dei pochi secondi di
distrazione degli operai di linea occupati a scaricare la merce di un
altro
container e sguscia fuori attraverso il portellone laterale. Nel giro
di
un attimo si mescola alla folla di persone che sciama verso l'uscita.
Con
la borsa in spalla e il cappellino da baseball calato sugli occhi ha
esattamente l'aspetto di uno dei tanti turisti che gironzolano per le
strade.
La
città è
vasta e popolosa, eppure non sembra essere grande abbastanza; gli serve
una
metropoli, un posto dove scomparire tra le centinaia di migliaia di
abitanti
per cancellarsi e ricominciare da capo. Potrebbe essere
un primo passo per iniziare a disfarsi del condizionamento
dell'Hydra e prendersi
indietro la propria vita. Ci vorrà parecchio, ma del resto
adesso ha un
sacco di tempo a disposizione e che
altro potrebbe farci?
Vaga
senza
meta per i quartieri più periferici finché si
imbatte in una pensione di bassa categoria. Per quanto
abbia bisogno di mescolarsi alla gente comune in modo da non destare
sospetti vuole evitare di fare del
male a qualcuno nel processo. Sta migliorando molto a rilento e non
può sapere se
esista ancora il rischio di trasformarsi in un'arma letale,
contro la sua volontà.
Un'insegna
all'ingresso
del palazzo informa i passanti che ci sono stanze disponibili. L'uomo
dall'altra parte del bancone
nell'ufficio del responsabile non
fa
troppe domande, la mazzetta di denaro appoggiata sul tavolo conferma
che il
nuovo inquilino può permettersi di pagare e non serve sapere
altro. Gli
consegna una chiave e gli fa firmare un pezzo di carta che non ha il
minimo
aspetto di un reale contratto d'affitto, poi fa segno con la testa in
direzione
delle scale.
Il
suo nuovo
appartamento è al nono piano, alla fine del corridoio che si
affaccia
sull'atrio al centro dell'edificio. Gli unici complementi d'arredo sono
un
frigorifero e un materasso logoro, sistemato
contro il muro. Forse a causa della
muffa o del fumo di sigaretta, le pareti hanno preso un colore
giallo-marrone e
le finestre sono luride; è uno spazio angusto, con rubinetti
gocciolanti e il
pavimento dissestato, ma per adesso quattro mura e un impianto
idraulico sono tutto quello che gli serve.
La
prima cosa che fa è
sollevare una delle
assi in cucina per infilare il borsone tra le intercapedini. Non toglie
niente
dall'interno, lo lascia com'è; contiene tutti i soldi, i
taccuini e quei pochi rimasugli di vestiti che
è riuscito a conservare. Sa per esperienza che è
meglio avere uno zaino di
salvataggio1 pronto per ogni
necessità, quindi lo nasconde in bella
vista e risistema le tavole del pavimento al loro posto.
Realizza
solo in quel momento di essere sfinito. Viaggiare nel vagone merci l'ha
messo a
dura prova, a livello mentale e fisico, e gli ha prosciugato ogni
riserva di energia. Si lascia cadere
sul materasso che puzza di marcio, trattenendo una smorfia quando
qualcosa di
appuntito passa attraverso la fodera e lo colpisce all'altezza delle
reni.
Allunga la mano di metallo sotto la schiena, strappa via una molla
ribelle e la
lancia dall'altra parte della stanza.
È stanco,
più esausto di quanto sia mai stato. Non vuole nient'altro
che mettersi a dormire, anche
se la sua mente glielo impedisce - sempre all'erta e vigile,
concentrata
sull'ambiente sconosciuto che lo circonda. Rimane sdraiato sul letto a
fissare
il soffitto e passa la notte in bianco.
OOOOO
Il
primo
mese passa in una macchia confusa. Inizia a conoscere la
città, comincia a
chiedersi se riuscirebbe a viverci in pianta stabile. Sta imparando la
lingua
abbastanza in fretta e man mano diventa più facile parlarla
senza rispondere a
monosillabi, in russo. Non succede spesso ma talvolta viene coinvolto
in una
conversazione con gli altri inquilini, a proposito dei problemi nel
palazzo o
di quello che succede in giro. I suoi vicini in genere tendono a stare
per conto
proprio e non si sente molto
in colpa se alla fine della giornata non ha rivolto parola ad anima
viva.
Avere
una routine
quotidiana collaudata lo aiuta a trovare un minimo di equilibrio.
Quando torna
a casa solleva le assi del pavimento per assicurarsi che lo zaino sia
ancora
lì; prende i taccuini e li rilegge uno per uno, si imprime
nella memoria ogni
parola perché non sa se potrebbe capitargli di nuovo di
dimenticare tutto
quello che c'è scritto.
Ne
ha
aggiunti altri a quelli che ha portato con sé. Continua a
sembrare strano, i frammenti
della sua vita gli risultano tuttora estranei e distanti anni luce
mentre li trascrive
su carta, anche se non smette di farlo. Sa che devono avere importanza
e li
mette tutti per iscritto, nascondendoli in
modo da tenerli al sicuro.
Il
mese successivo non c'è più spazio nel borsone.
Ci sono fin troppi quadernini, ciascuno
riempito di ricordi e informazioni fino all'ultimo foglio,
così decide di
lasciarne alcuni sugli scaffali della cucina o sul davanzale della
finestra. Ha
collezionato ritagli di giornale da usare come segnalibri, compresa una
foto di
Steve. Lo ritrae in veste di Capitan America, coperto da capo a piedi
di rosso,
bianco e blu; regge lo scudo al proprio fianco e lo sguardo
è rivolto all'orizzonte,
la mascella contratta con aria determinata. È un'immagine
solenne e maestosa, simile alle gigantografie esposte allo
Smithsonian.
L'uniforme
risveglia qualcosa nella sua testa, lo stuzzica e lo punzecchia come un
bambino
con un bastoncino. La guarda e sente il bisogno di recuperare un
taccuino dallo
scaffale: ricorda un campo di battaglia, macchie di cenere e di
terriccio
ghiacciato, la stella bianca che spicca luminosa…
però
quella nella fotografia dev'essere la seconda o la terza che ha
cambiato. No, lui ricorda ancora la prima uniforme
che Steve indossava quando ha fatto irruzione nella base dell'Hydra in
Germania.
Cerca
una
delle pagine con qualche riga ancora disponibile e butta giù
un appunto
frettoloso.
Steve
indossava una giacca di pelle marrone e un elmetto con sopra degli
occhialoni
da motocicletta. È saltato giù da un aeroplano
per atterrare in territorio
Nazista, nel mezzo di una zona di guerra. Steve è un dannato
imbecille.
Potrebbe
scrivere dell'altro più tardi, se nuovi ricordi dovessero
riaffiorare, ma per il momento è stanco.
Il
materasso
che puzzava di muffa e sudore è sparito da poco, sostituito
da uno di seconda
mano sul quale ha steso un sacco a pelo. Non si sente abbastanza sicuro
da
dormire tra lenzuola o coperte o qualsiasi cosa nel quale potrebbe
restare ingarbugliato
in caso avesse bisogno di scappare all'improvviso. Non fa mai male
essere previdenti.
OOOOO
Il
mondo
sembra fermarsi di colpo un giovedì.
Si
trova ad
una bancarella al mercato. La donna che vende frutta è
gentile e
gli sorride, mostrando
la merce in vendita e il prezzo, e scambiano due chiacchiere mentre lui
sceglie
alcune prugne. Qualcosa però attira la sua attenzione: forse
si
tratta
d'intuizione o semplicemente è il risultato di anni passati
a
vivere al di fuori della legge, ma sente di essere osservato.
Si
gira e vede
un uomo all'interno di un'edicola, dall'altra parte del viale. Ha un
quotidiano
in mano e sta fissando proprio lui con l'espressione di chi sa qualcosa
che
nessun altro sa. Un'ondata di timore lo colpisce come un pugno a
tradimento.
L'aria
sembra
diventare gelata e si allontana dalla bancarella della frutta
mormorando delle
scuse a bassa voce, prima di attraversare la strada. Appena l'uomo si
accorge
di essere stato scoperto lascia cadere il giornale per fuggire a gambe
levate;
quando lui riesce a raggiungere l'edicola raccoglie il quotidiano e le
foto in
prima pagina gli tolgono il fiato.
Una
bomba è
esplosa in un'ambasciata, ci sono diversi feriti e vittime e per
qualche
ragione la sua faccia è incollata di fianco ai titoli a
caratteri cubitali. Anche
se l'immagine è sgranata, presa da una videocamera di
sicurezza, si tratta
senza dubbio di lui. Però lui non farebbe mai una cosa del
gemere, almeno di
questo è sicuro. Non sa spiegarsi perché la sua
faccia dovrebbe essere in quel
filmato. La risposta logica è che qualcuno stia cercando di
incastrarlo (per
chissà quale motivo) eppure una seconda ipotesi,
più sinistra, striscia nel suo
cervello: e se davvero fossi stato io
a farlo?
È fin
troppo consapevole di aver perso il controllo delle proprie azioni in
passato.
Ha fatto irruzione in diversi edifici, rapito gli obiettivi che gli
erano stati
assegnati, ucciso chiunque finisse per trovarsi aggiunto alla lista
nera dei
suoi committenti. Ogni volta che tornava ad avere coscienza di
sé, ore dopo o
giorni più tardi, non aveva nient'altro che del sangue sulle
mani a suggerirgli
cosa fosse successo. Il solo pensiero è nauseante e
terrificante e la parte
peggiore è che potrebbe essere successo di nuovo.
Si
sente
frastornato, la testa comincia a vorticare impazzita come un satellite
calciato
fuori dall'orbita. Continua a rimuginare… sono io il responsabile?
Non può esserne sicuro…
I
piedi lo
trascinano fino a casa, quasi camminassero da soli; di certo non
ricorda di
essersi diretto da quella parte. Solo quando si trova a muovere alcuni
passi
nell'androne del palazzo realizza dove si trova e che cosa sta
succedendo. Deve
andarsene, prendere quel poco che gli appartiene e scappare. Non
importa che
sia coinvolto nell'attentato o no - la gente pensa che lo sia ed
è
sufficiente per condannarlo a morte.
Fa
un rapido elenco di
possibili destinazioni e come raggiungerle mentre sale
le scale due o tre per volta. Treno e vagone merci sono le due
soluzioni
migliori, gli darebbero modo di uscire dal Paese senza essere visto e
senza che
qualcuno dia l'allarme. Sa che può raggiungere la zona di
carico della stazione
in mezz'ora, circa; ha solo bisogno di recuperare lo zaino.
Rimane
di
sasso una volta raggiunto il proprio piano, ogni muscolo del corpo in
teso e in
allerta. La porta dell'appartamento è chiusa ma sa che
c'è qualcuno
all'interno, può sentirlo. Forse dovrebbe solo lasciarsi
tutto alle spalle e
abbandonare anche lo zaino, in modo da scappare subito.
Scarta
quell'idea in fretta. Non vuole che si arrivi ad uno scontro, non vuole
fare
male a nessuno, però quei taccuini e i ricordi che
contengono sono l'unica cosa
che gli appartenga davvero e non può lasciarli indietro.
Apre la porta ed entra.
L'uomo
che
si trova davanti non è armato; è chiaro
perché si trovi lì, eppure non
costituisce una minaccia. Gli rivolge le spalle, tiene uno dei
quadernini tra
le mani e le sue dita stanno sfiorando una fotografia tra le pagine.
Sembra
rendersi conto di non essere da solo nel momento esatto in cui lui
entra nella
stanza, così si gira per fronteggiarlo. Un paio di occhi
azzurri si fissano nei
suoi.
«Mi
conosci?» gli chiede con una sfumatura nervosa nella voce.
Eppure non c'è diffidenza
nella sua espressione, nessuna traccia di paura o dubbio. La domanda
è più che
altro una formalità: entrambi sanno quale sia la risposta e
non ha alcun senso
mentire.
In
realtà
vorrebbe tanto poter dire di no. Dio, se lo vorrebbe.
Se riuscisse
a negare forse Steve se ne andrebbe e gli starebbe lontano una volta
per tutte;
non è sicuro per lui stargli accanto, soprattutto adesso.
Qualcuno gli ha
piazzato un bersaglio sulla schiena, più grande e luminoso
di quanto sia mai
stato, e se Steve continua a restargli troppo intorno potrebbe finire
ferito o
ammazzato. Non può permettere che questo succeda.
La
domanda
continua a stagnare nell'aria.
Mi
conosci?
Ovviamente
lo conosce. Steve è l'unica cosa che conosce, l'unica cosa
che vuole conoscere.
Lo conosce meglio di quanto conosca se stesso, meglio di quanto conosca
la sua
stessa vita. Conosce Steve e per qualche ragione è come se
fosse l'unico dettaglio
che abbia mai avuto importanza. Risponde con un piccolo cenno del capo.
«Sei
Steve.»
E io
sono Bucky...
1. Bug out
bag
Qualsiasi tipo
di contenitore facilmente trasportabile in grado di contenere un
equipaggiamento base (abiti, contanti, documenti, piccole scorte di cibo) utile
durante situazioni d'emergenza nelle quali sia necessario allontanarsi nel
minor tempo possibile da una zona considerata a rischio. [NdT]
Capitolo originale dell'autrice
Show her
some love!
Ringraziamenti
Ebbene sì… siamo arrivati alla fine.
Sniff.
Un po' di tristezza c'è, lo ammetto, ma non è
comparabile alla gioia di aver condiviso questa avventura! Quindi grazie a
tutti voi che avete letto e in particolare un immenso grazie di cuore alle
meravigliose Aster_01 e Ragenruin, per essersi lasciate spappolare
i feels settimana dopo settimana… in compagnia c'è più gusto!!!
Your Humble Translator,
Milla984
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