Il Buono, La Bella, Il Cattivo

di Jim2233
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo 1: Il Buono ***
Capitolo 2: *** Prologo 2: La Bella ***
Capitolo 3: *** Prologo 3: Il Cattivo ***
Capitolo 4: *** Capitolo 1: Giù la testa ***
Capitolo 5: *** Capitolo 2: Furia rossa ***
Capitolo 6: *** Capitolo 3: Helltown ***
Capitolo 7: *** Capitolo 4: La terra degli Apache ***
Capitolo 8: *** Capitolo 5: Il quinto uomo ***
Capitolo 9: *** Capitolo 6: Territorio nemico ***
Capitolo 10: *** Capitolo 7: L'inseguimento ***
Capitolo 11: *** Capitolo 8: Yuma! ***
Capitolo 12: *** Capitolo 9: Uno sceriffo nei guai ***
Capitolo 13: *** Capitolo 10: La cella della morte ***
Capitolo 14: *** Capitolo 11: Il guerriero Apache ***
Capitolo 15: *** Capitolo 12: Il tranello ***



Capitolo 1
*** Prologo 1: Il Buono ***


Il sole picchiava sulla cittadina di Hangtown, in California, quando il Cowboy a cavallo arrivò. Stanco e affamato come solo un viaggio attraverso il Sentiero della California rendeva un uomo, si guardò attorno, gli occhi socchiusi.

Quella in cui era capitato era la tipica cittadina ingranditasi rapidamente grazie alla corsa all’oro, che in California impazzava già da diversi mesi. Nonostante questo, le poche strade che si incrociavano erano completamente deserte, fatta eccezione per un cespuglio solitario che rotolava nella polvere.

Il silenzio era totale, se non per i lontani schiamazzi provenienti dal Saloon nella piazza principale.

Il Cowboy seguì i rumori fino ad arrivare al locale. Scese lentamente dal cavallo, lo legò alla recinzione e spalancò le ante di legno.

Provò a capire quali fossero le reazioni degli avventori alla sua comparsa, ma gli sembrò che nessuno lo degnasse di particolari attenzioni. Sorrise fra sé. Probabilmente non era raro che dei forestieri passassero per quel posto a fare rifornimento.

Si diresse al bancone e ottenne un tavolo. Ordinò un pranzo non molto abbondante ma sostanzioso, insieme a del whisky.

Mentre mangiava scrutò fuori dal locale e intravide una forca alla quale era ancora appesa una corda, residuo di una recente impiccagione.

Finito di sorseggiare il suo whisky, si fece assegnare una camera in cui riprendersi dal faticoso viaggio, prima di scendere a cenare.

 

Di sera, il Saloon era affollato. Una danzatrice, accompagnata da un abile pianista, intratteneva gli avventori, i quali applaudivano spesso e volentieri lanciando fischi di approvazione.

Il Cowboy si diresse verso il bancone, cercando di non attirare l’attenzione.

Cominciamo, si disse, sospirando piano.

Schiarendosi la voce, estrasse un foglio arrotolato e lo dispiegò davanti al proprietario del Saloon. Il manifesto recava il ritratto di un volto solcato da una lunga cicatrice sulla guancia sinistra. Sotto l’immagine del singolare viso si trovava una scritta, «Dead or alive», e ancora più in basso ce n’era un’altra: 3000 $.

“Ho bisogno di sapere se questa persona si trova qui” chiese il Cowboy all’uomo, senza troppi giri di parole.

Il proprietario lo guardò strabuzzando gli occhi. In effetti quel ceffo si trovava proprio nel suo Saloon, ne era certo. Quella faccia non si dimenticava facilmente.

“Si trova a quel tavolo laggiù nell’angolo.” Sembrava che l'uomo si sforzasse di dire quelle parole, come se non volesse rivelarle. “Grazie mille” fece il Cowboy, che apparentemente non aveva fatto una piega “Le sono grato dell’informazione.”

 

 

 

Due ore più tardi, un movimento catturò la sua attenzione. L’uomo seduto al tavolo nell’angolo si stava alzando. Il Cowboy era sicuro che fosse la persona giusta, dato che lo aveva sorvegliato tutta la serata con discrezione. Finalmente la sua lunga caccia, che lo aveva portato ad attraversare una pista ostica come il Sentiero della California, stava per terminare. Si impose di restare calmo.

Seguì l’uomo con lo sguardo: si stava dirigendo verso il bancone. Vide che parlava con il proprietario, ma sembrava che la conversazione non gli andasse a genio, visto il modo in cui si accigliava. Alla fine, ignorando le proteste dell’uomo, scavalcò il bancone e scomparve nel retro.

Quasi immediatamente un urlo femminile proveniente da quella direzione squarciò la sonnacchiosa atmosfera del Saloon.

Non ci siamo proprio, pensò il Cowboy mentre si alzava e a passo svelto raggiungeva il bancone. Ad un’occhiata eloquente del proprietario entrò nel retro.

La voce femminile apparteneva chiaramente alla danzatrice, che stava per essere importunata dal ricercato.

Fu un attimo. La mano dell’uomo che si alzava e la Colt del Cowboy che faceva fuoco. Il ricercato si accasciò senza vita.

“Non ti darà più fastidio, stai tranquilla” fece il Cowboy mentre riponeva la pistola nella fondina.

Solo dopo parecchi secondi la ragazza trovò il coraggio di parlare. “Chi sei?”

Il Cowboy si tolse il cappello rivelando folti capelli color bronzo.

“I miei nemici mi chiamano Biondo, ma tu puoi chiamarmi Finnick”.

 

 

Angolo dell’autore

Ciao a tutti! Questa pazza pazza idea mi è venuta durante l’estate, quando ho “scoperto” i bellissimi western di Sergio Leone e Clint Eastwood. Nella mia strana testa è scattato questo ragionamento: Hunger Games + Western = FANFICTION!

Spero di non aver osato troppo e di aver creato qualcosa di piacevole da leggere. Spero di limitare al massimo gli OOC, ma sarà un’impresa impossibile. Questo è il primo dei tre prologhi, il secondo e il terzo verranno pubblicati domani e dopodomani.

Beh, fatemi sapere cosa ne pensate!

 

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Capitolo 2
*** Prologo 2: La Bella ***


La Ballerina camminava frettolosa lungo le strade polverose della cittadina. Dopo lunghe ore passate a pulire la casa del ricco uomo, era impaziente di tornare a casa.

Poteva vedere il sole abbassarsi fino a toccare le colline a ovest: la giornata stava per volgere al termine.

Sentiva il corpo dolere un po’ dappertutto a causa del duro lavoro svolto, ma sapeva che per lei quella sera ci sarebbe stato ancora da faticare.

Giunta a casa, aprì la porta ed entrò. A restituirle lo sguardo c’era una ragazzina di dieci anni, che non appena la vide le saltò in braccio salutandola calorosamente. La Ballerina ricambiò con entusiasmo: era tutta la giornata che aspettava quel momento.

“Mi sei mancata, Paperella.”

“Anche tu! Ho avuto paura mentre ti aspettavo.”

“Paura? E di cosa?”

“Avevo paura che i pellerossa venissero a prendermi”

“Perché dovresti avere paura degli indiani?”

“La maestra ce ne ha parlato a scuola. Ha detto che sono cattivi e odiano noi bianchi.”

La Ballerina sospirò. Un discorso sugli indiani non era mai facile da affrontare, specialmente con una ragazzina di dieci anni. Tutto quello che poteva fare era rassicurarla.

“Devi sapere che i bianchi hanno trattato male gli indiani. È per questo che non gli stiamo simpatici. Però devi stare tranquilla, loro sono molto lontani da noi.”

“Sei sicura?”

“Certo. I Navajos abitano in Arizona, e i Sioux sono talmente tanto a nord che i loro inverni non finiscono mai. Qui puoi dormire tranquilla.”

La bambina sorrise e si disfece le trecce bionde.

 

 

Dopo un rapido bagno la Ballerina, ripulita e profumata, scelse il suo vestito migliore e si preparò ad uscire.

“Paperella, vado a lavorare. Buonanotte” disse abbracciando la bambina.

“Ti voglio bene.”

“Anch’io. Ora però dormi.”

Con la solita stretta al cuore, la Ballerina si chiuse la porta alle spalle.

 

 

Mezz’ora più tardi, ballava sotto gli occhi di tutti i clienti del Saloon, sorridendo a tutti i fischi di approvazione che sentiva. Sapeva benissimo che almeno la metà della folla che la stava guardando avrebbe voluto passare la notte con lei, ma, come ogni sera, non si sarebbe concessa a nessuno.

Quando la musica finì, trasse un sospiro di sollievo mentre faceva un lieve inchino e si dirigeva nel retro del locale.

Sola con i propri pensieri, si guardò allo specchio. Nella stanza semibuia, vedeva una ragazza truccata e ben vestita. In un ambiente del genere avrebbe suscitato un’unica impressione, ma la Ballerina lavorava tutto il giorno per non essere costretta a concedersi al primo uomo che la desiderava solo per qualche soldo in più.

“Allora, saliamo in camera?” la voce la fece trasalire e voltare di scatto. A parlare era stato un uomo, palesemente ubriaco.

La Ballerina impallidì mentre lo guardava meglio: una lunga cicatrice gli attraversava la guancia; una pistola gli faceva pendere da un lato il cinturone.

Ripensò a tutti gli uomini che aveva respinto. L’esperienza le aveva insegnato che gli ubriachi erano i più restii ad andarsene. Per un attimo ebbe paura.

L’immagine della sua sorellina che la aspettava si fece spazio nella mente, reprimendo l’ansia che la stava bloccando. Cercò di ragionare: probabilmente in quelle condizioni l’uomo non sarebbe stato in grado di spararle, ma se l’avesse aggredita in quello spazio angusto, per lei non ci sarebbe stato scampo.

L’ubriaco si accorse dell’esitazione della ragazza, e si avvicinò con passi pesanti e minacciosi.

Senza via di fuga, la Ballerina strillò, chiamando aiuto a pieni polmoni.

Il tempo stringeva. Indietreggiando, la ragazza ebbe un sussulto quando urtò il muro con la schiena.

Rifiutandosi di cedere alla paura, si preparò a combattere.

Uno sparo, e l’uomo si accasciò. Non aveva avuto neanche il tempo di toccarla.

“Non ti darà più fastidio, stai tranquilla.”

Il suo salvatore stava riponendo la Colt nella fondina.

“Chi sei?” chiese attonita la Ballerina.

Il Cowboy si tolse lo Stetson prima di parlare, mostrando i folti capelli color bronzo.

“I miei nemici mi chiamano Biondo, ma tu puoi chiamarmi Finnick”.

La Ballerina tese la mano.

“Io mi chiamo Katniss.”

 

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Capitolo 3
*** Prologo 3: Il Cattivo ***


Il sole stava sorgendo e cominciava a disegnare ombre oblique sul terreno.

Il Boss cavalcava piano, per non stancare inutilmente il cavallo. Nonostante la strada impolverata, la sua giacca restava immacolata.

Si lasciò sfuggire un impercettibile sbuffo di soddisfazione quando arrivò in vista della sua destinazione. Davanti a lui si stagliava un edificio tozzo ma esteso, dalle pareti bianche, che il Boss conosceva bene. Il posto era noto a tutti come il carcere di Yuma.

Le sentinelle in cima alle torri di guardia notarono il suo arrivo e si misero in allarme, ma appena lo riconobbero lo fecero entrare.

“Devo parlare con il direttore” esordì questo.

“Ci segua, la condurremo nel suo ufficio” rispose una guardia.

 

 

L’ufficio del direttore era spoglio, così come lo era il resto della prigione. Il Boss si schiarì la voce prima di esporre la sua richiesta.

“So che oggi dovreste liberare un prigioniero. È esatto?”

“È esatto” rispose il direttore “La scarcerazione è prevista tra un paio d’ore.”

“Bene. Se possibile, vorrei parlare con lui appena possibile.”

“Ma certo. Per uno come lei non sarà un problema fare un’eccezione.”

“Grazie mille. Aspetterò qui fuori.” concluse il Boss.

 

 

Due ore più tardi, il tintinnio di un mazzo di chiavi catturò la sua attenzione. Il direttore stava tornando da lui.

“È giunta l’ora. Se vuole seguirmi…”

Camminarono nel silenzio più assoluto. La maggior parte dei detenuti dormiva ancora, e i due non ci tenevano affatto a svegliarli.

Finalmente arrivarono alla cella giusta. Attraverso le sbarre il Boss riusciva a vedere un giovane uomo dai capelli color paglia, quasi bianchi. Era già sveglio e aspettava seduto sul bordo della sua panca.

“Cato” fece il direttore “sembra che da oggi tu sia un uomo libero”.

Il giovane non rispose. Nonostante la posizione di inferiorità il suo sguardo trasudava arroganza. I due anni in prigione non erano bastati a domarlo, a placare la sua sete di omicidi. La Belva, così veniva chiamato dalle forze dell’ordine, era pronta a tornare in circolazione.

La porta arrugginita sferragliò mentre veniva aperta. Il giovane, deperito ed emaciato, seppur muscoloso, uscì con passo incerto. Rivolse uno sguardo sorpreso al Boss.

“Vieni” proseguì il direttore “Ti restituisco i tuoi effetti personali”.

 

 

Dieci minuti dopo, Cato sembrava rinato. I vestiti mascheravano la sua magrezza, e l’espressione sul viso lo faceva sembrare rilassato.

“Direttore, non serve che lo scortiate fino a Yuma” fece il Boss “Da qui in poi me ne occupo io”

“Gliene sono molto grato. Vorrei salutarla con un arrivederci, ma probabilmente non sarebbe di buon auspicio”

Il Boss rise, prima di rispondere.

“Allora, che questo sia un addio”.

 

 

La città di Yuma stava cominciando ad animarsi quando i due arrivarono.

 “Non ti ho dimenticato, Cato. Ho aspettato con ansia questo giorno” disse il Boss “Apri la bisaccia sul fianco del cavallo”.

Cato eseguì e le sue mani si serrarono attorno all’oggetto che tanto aveva desiderato avere tra le mani nella cella in cui era rinchiuso. Il giovane osservò stupito la pistola che aveva appena tirato fuori. Era carica.

“Mi servi, Cato. Ho bisogno di uomini di valore”.

“Cosa sta succedendo?”

“Ancora niente, ma sta per cominciare qualcosa di grande”.

Il giornalista che gestiva il “Daily Reporter”, l’unico giornale della città, cominciava ad affiggere i manifesti con le varie notizie, e fu proprio una di queste ad attirare l’attenzione del Boss. Riportava l’annullamento della taglia di un ricercato, dovuta  alla morte del ricercato stesso.

“Non è possibile” il Boss imprecava cercando di dominare l’ira che saliva sempre più. Chiese al giornalista se fosse sicuro della veridicità della notizia.

“Certo che è vera” rispose l’uomo “È stato ucciso proprio ieri a Hangtown da un famoso bounty-killer.”

Il Boss si girò verso l’ex-prigioniero.

“Ti ricordi Cray?”

“Certo.”

“L’hanno ucciso.”

Il Boss sollevò gli occhi dalla notizia, due occhi che parlavano di odio e vendetta.

“Ho un compito per te, Cato: vai a Hangtown e ammazza quel bastardo di un Biondo.”

“Sarà fatto, Mister Snow.”

 

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 1: Giù la testa ***


Katniss venne svegliata da un tremendo urlo e lottò contro le palpebre pesanti cercando di recuperare la lucidità alla svelta.

La sua sorellina stava chiamando aiuto! Si alzò di scatto dal letto e corse verso la direzione dalla quale proveniva la voce.

“Prim!” fece Katniss “Che succede?”

La bambina era in piedi e con aria sconvolta indicava Finnick.

“Katniss! C’è un uomo in casa nostra!”

“È tutto a posto, Prim. È un amico, ieri mi ha salvato la vita”.

“Davvero?” chiese sorpresa la bambina.

“Proprio così.”

L’espressione di Finnick era un misto fra l’imbarazzato e il divertito.

“Sembri rilassato, per uno a cui vogliono fare la pelle” osservò Katniss.

“Hai ragione” ribatté lui “ma non credo che qui mi troveranno.”

I pensieri della ragazza tornarono alla sera precedente.

 

La voce del proprietario del Saloon rimbombava nel locale.

“Non c’è assolutamente niente da vedere! Andatevene a dormire tutti quanti!”

In poco tempo il posto si era svuotato e Finnick era uscito dalla stanza trascinandosi dietro il cadavere del ricercato.

“La ragazza sta benissimo, è solo un po’ scossa” aveva detto all’uomo “Ma mi sa dire dove posso trovare lo sceriffo?”

Ottenute le indicazioni, si era apprestato ad uscire, ma Katniss lo aveva fermato.

“Finnick! Posso accompagnarti dallo sceriffo?”

Il ragazzo aveva annuito mentre infilava il corpo del ricercato in un grande sacco. Legatolo al cavallo, si era incamminato con la ragazza.

 

“Katniss?!” Aveva esclamato lo sceriffo non appena l’aveva vista “Cosa è successo?”

“È tutto a posto, sto bene” lo aveva tranquillizzato la ragazza, prima di riprendere: “Dovrei presentarti un… un amico. Mi ha appena salvato la vita”.

“Finnick Odair” aveva esordito il pistolero tendendo la mano.

“Sono lo sceriffo Peeta Mellark, piacere” aveva risposto lo sceriffo, stringendola.

“Lì dentro c’è un ricercato da tremila dollari.”

Finnick stava indicando il sacco sul cavallo “Si tratta di un certo Cray.”

Lo sceriffo aveva cominciato a cercare con lo sguardo tra i ari avvisi di taglia attaccati al muro dietro la sua scrivania.

“Cray… Ma fa parte della banda di Snow!” aveva esclamato Peeta sbigottito “Amico, hai idea di chi ti stai mettendo contro?”

“Certo” aveva ribattuto Finnick con fermezza “E ho i miei buoni motivi per farlo.”

Ora i penetranti occhi azzurri di Peeta fissavano con attenzione Finnick.

“In questo mondo ognuno sceglie la propria strada, consapevole dei rischi”

Lo sceriffo si era girato e aveva preso i soldi della taglia.

“Sceriffo, è giovane per il lavoro che fa” aveva detto Finnick prendendo il denaro “Ma da quello che vedo, è uno che sa come gira il mondo.”

“Ho dovuto imparare” era stata la risposta di Peeta, pronunciata con voce ferma.

“Piuttosto, stanotte ti verranno a cercare” aveva ripreso lo sceriffo “ti ospiterei in casa mia, se non fosse il posto più probabile da usare come nascondiglio.”

“Dormi da me.” La voce di Katniss li aveva sorpresi entrambi “A nessuno verrà mai in mente di cercarti in casa mia. E poi, posso finalmente rendermi utile.”

Finnick aveva annuito lentamente, riflettendo.

“Mi sembra una buona idea” Aveva detto Peeta, prima di tendergli la mano per salutarlo.

“Ti auguro di riuscire a finire quello che stai facendo, Finnick.”

“Già” aveva risposto il pistolero “Me lo auguro anch’io.”

 

Katniss tornò al presente,

“Cosa hai intenzione di fare, adesso?”

“Di sicuro non resterò” rispose Finnick “Devo sistemare un po’ di cose qui, poi partirò.”

“Perché fai tutto questo?”

Il ragazzo fissò Katniss a lungo, prima di rispondere.

“Ho un conto in sospeso con Snow. E non posso fermarmi finché non lo avrò saldato.”

 

 

***

 

 

La mattina seguente Finnick decise di uscire. Nella sua mente si era già delineato un piano da diverso tempo. Dopo aver fatto rifornimento, sarebbe partito il giorno stesso alla volta di Bakersfield, una grande città mineraria situata in California. Sarebbe arrivato di sera, per non dare troppo nell’occhio. Una volta lì, avrebbe cominciato a fiutare l’aria che proveniva da Yuma, dove avrebbe potuto finalmente concludere il suo lavoro.

Il sole era ormai alto e le prime diligenze cominciavano a partire, sollevando nuvole di polvere. Finnick spinse in avanti la porta dell’emporio cittadino, che si aprì con uno scampanellio, ed entrò.

Ignorando lo sguardo di sottecchi lanciatogli dal proprietario semi-addormentato del negozio, cominciò ad aggirarsi tra gli scaffali. Cercava soprattutto munizioni, dato che nel lungo viaggio per arrivare a Hangtown ne aveva dovute utilizzare parecchie. Trovate delle pallottole della giusta misura, ne afferrò diverse manciate e tornò indietro poggiandole sul bancone.

“Sono due dollari” fece l‘uomo.

La porta del negozio si aprì, ma Finnick non ci fece caso. Il ragazzo aprì la bisaccia e contò le monete; nel farlo un paio cadde a terra.

Si chinò per raccoglierle e nello stesso istante udì un potente colpo di pistola, amplificato dall’ambiente chiuso. Percepì la pallottola che si andava a conficcare in profondità nel legno del bancone. Spinto dai soli riflessi, che tante volte gli avevano salvato la vita, rotolò su un fianco per togliersi dalla traiettoria di tiro. Al quarto sparo, però, avvertì un dolore lancinante che proveniva dalla gamba sinistra: era stato colpito. Strinse i denti e, ignorando le fitte che la ferita diffondeva in tutto il corpo, fece leva con le braccia per buttarsi dietro il bancone, in modo da avere una copertura.

L’aggressore, intanto, aveva finito i colpi. Affacciandosi dal suo riparo di fortuna, Finnick lo scorse intento a rifugiarsi dietro l’angolo della porta d’ingresso per ricaricare la sua arma. Il Biondo, però, fu più veloce. Prima che l’altro scomparisse riuscì a centrargli il braccio con un colpo ben piazzato. Sapendo di non avere molto tempo prima che il bandito tornasse all’attacco, si lanciò fuori dall’emporio cercando di coglierlo di sorpresa.

Solo in quel momento poté guardarlo in faccia chiaramente. Aveva già notato i capelli di un biondo chiarissimo, ma fu lo sguardo folle e omicida a fargli tornare la memoria. Quello era Cato, uno dei più pericolosi sicari della banda di Snow.

Finnick rimase interdetto: era convinto che fosse ancora in carcere.

Cato notò l’esitazione del Biondo e, messo alle strette e senza colpi, saltò sul cavallo e lo spronò al galoppo.

Troppo facile, pensò Finnick prendendo la mira, ma al momento di premere il grilletto la gamba ferita cedette sotto il suo peso, facendolo stramazzare al suolo.

Rialzatosi, il bandito era ormai troppo lontano. Imprecando a bassa voce, si rese conto che stava buttando al vento una ghiotta occasione per sapere qualcosa di più sulla banda di Snow. Soppesò per qualche istante i rischi e decise di inseguire Cato.

Zoppicando più veloce che poteva, raggiunse la casa di Katniss, che per fortuna non era lontana. Stava per montare sul cavallo, quando la voce della ragazza lo raggiunse.

“Finnick! Cosa stai facendo?”

“Un sicario di Snow mi ha aggredito. Devo inseguirlo.”

“Oh mio Dio, Finnick, sei ferito!”

“Non è niente!” ribatté lui quasi urlando prima di calciare i fianchi del cavallo con gli speroni.

In poco tempo era già fuori da Hangtown, nella direzione presa da Cato. Seguire le sue tracce sarebbe stato facile, ma le condizioni della sua gamba peggioravano il tutto, non avendo avuto neanche il tempo di fasciarsi la ferita. Tuttavia sapeva di non poter mollare proprio ora: l’occasione di poter estorcere informazioni ad un membro della banda di Snow non si sarebbe ripresentata così facilmente.

Osservando il paesaggio circostante Finnick storse il naso. Tutto intorno a lui si estendeva la Sierra Nevada, la grande catena montuosa della California, e un inseguimento tra le montagne lo avrebbe sfavorito non poco.

All’improvviso, però, si vide sbarrare la strada da dieci individui. Li identificò all’istante come pellerossa, ma non riusciva a capire a che tribù appartenessero. Mentre si avvicinavano lentamente, comprese che le loro intenzioni erano ben poco pacifiche.

Sentì aumentare la rabbia dentro di sé, subito soppiantata dalla preoccupazione di come salvarsi. Non poteva combattere contro dieci nemici contemporaneamente, né aveva il tempo di trovare un riparo. Come animata da volontà propria, la ferita prese a sanguinare copiosamente.

Con la vista che si appannava lentamente e sentendo scemare le poche forze che gli rimanevano, Finnick avvertì solo il rimpianto di non aver concluso il suo compito.

Non reagì al trambusto che proveniva da dietro: cavalli che galoppavano, urla e spari. I pellerossa correvano via, messi in fuga.

Cadde dal cavallo, atterrando nella polvere. Un giovane in divisa dalla carnagione olivastra si era chinato su di lui, urlando.

“È ferito, bisogna soccorrerlo subito!”

L’ultima cosa che Finnick riuscì a vedere furono i suoi occhi grigi, prima che la mente si spegnesse definitivamente facendolo piombare nel buio.

 

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Capitolo 5
*** Capitolo 2: Furia rossa ***


Coriolanus Snow camminava nervosamente nella sua lussuosa villa. Ripensava al giorno precedente, quando aveva incontrato Cato. Preso dall’ira, lo aveva mandato a Hangtown ordinandogli di uccidere quel cacciatore di taglie. Era stata una mossa avventata: due anni nel carcere di Yuma rendevano inoffensivo anche l’uomo più tenace. Cato era uscito da quel posto stanco e denutrito e avrebbe dovuto riposare, prima di intraprendere una missione così impegnativa. C’erano mille eventualità che potevano andare storte; Snow cominciava ad avere brutti presentimenti. E nella sua vita, si era sempre fidato dei presentimenti.

Qualcuno bussò alla porta, facendolo sussultare.

"Chi è?" abbaiò.

"Sono Thread, mister Snow" rispose una voce ovattata dall'altro lato.

"Entra."

Thread era un uomo alto, dai capelli grigi e gli occhi di ghiaccio.

"Mister Snow" iniziò "Le teste rosse cominciano ad essere impazienti. Cosa facciamo?"

Maledetti indiani, pensò Snow. Tutti presi dai loro riti di guerra, una volta scatenati non potevano più essere fermati.

"Dannazione! Fai fare loro quello che vogliono! E adesso vattene!"

Thread uscì dalla stanza silenziosamente, richiudendosi la porta alle spalle.

Snow avrebbe voluto credere che andava tutto bene, ma doveva ammettere che non era così. Un cacciatore di taglie girava libero per la California uccidendo i suoi sottoposti, una sparuta compagnia di ribelli disertava l'esercito, e i suoi ordini erano eseguiti da una tribù di indiani incontrollabili assetati di sangue.

Non andava tutto bene.

 

 

***

 

 

 

Nella mente di Katniss si affollavano tanti pensieri, la maggior parte dei quali era rivolta a Finnick e al suo folle inseguimento. Da quello che aveva capito, era riuscito miracolosamente a mettere in fuga il sicario, nonostante avesse rimediato una pallottola, e tuttavia aveva deciso di mettersi sulle sue tracce.

La ragazza sapeva che con una ferita da pistola si andava ben poco lontano, e ormai a Finnick poteva essere successo di tutto. Decise di andare a parlarne con Peeta.

 

Lo sceriffo ascoltò attentamente, e quando Katniss finì di raccontare, sul suo volto si disegnò un’espressione grave.

“Hai detto che si è diretto verso le montagne?”

Katniss annuì e Peeta sospirò.

“È praticamente impossibile inseguire qualcuno in quei posti. Possiamo solo sperare che gli sia sfuggito.”

La ragazza stava per rispondere, quando udirono un rombo lontano.

“Sembrano cavalli al galoppo.” osservò Peeta.

Corsero fuori. Lo sceriffo si avvicinò a passo veloce ai confini della cittadina, seguito da Katniss.

“Li vedi?” le chiese.

All’orizzonte quello che sembrava un esercito cavalcava verso di loro. Delle torce accese mandavano bagliori, accentuati dalla luce calante del pomeriggio. Si udivano dei terribili e disumani gridi di guerra.

L’Inferno stava arrivando.

 

 

***

 

 

 

Finnick si svegliò in preda al dolore. La sua gamba sinistra sembrava andare a fuoco.

Il giovane dagli occhi grigi gli stava parlando con tono calmo.

“Amico, hai una brutta ferita. Devo estrarre la pallottola.”

“Farà male” aggiunse.

“So come si estrae una pallottola “ biascicò Finnick a denti stretti.

“Beh, allora questo rende tutto molto più semplice.”

Alla sua destra un focolare acceso mandava bagliori e aria calda; qualcuno vi stava passando un coltello, arroventandolo. Il giovane gli porse un oggetto simile a un sacchettino di pelle.

“Tienilo tra i denti, ti aiuterà. Purtroppo non abbiamo alcool per stordirti”

Finnick sapeva benissimo a cosa stava andando incontro. Strinse il sacchetto in bocca.

“Passami il coltello” sentì dire.

Poi arrivò il dolore. La lama rovente che veniva rigirata nella carne era una tortura terribile. Cercò di urlare, ma dalla bocca uscì fuori solo un gemito soffocato. Sapeva di dover restare fermo, ma il suo corpo si divincolava automaticamente, quasi animato da una volontà propria, nonostante delle braccia forti lo tenessero inchiodato a terra.

Era inutile cercare di pensare a qualcosa di sensato, l’unica cosa che poteva visualizzare nella mente era il dolore, acuto e prolungato, che gli faceva perdere la cognizione della realtà. Serrò gli occhi talmente forte da vedere lampi di luce nel buio delle palpebre chiuse.

Poi tutto finì. Sentì che qualcosa veniva tirato fuori dalla coscia, mentre il dolore diminuiva gradualmente.

Ancora stordito, si ricordò di poter aprire gli occhi. Poteva vedere il ragazzo in divisa che gli fasciava la gamba. Riprendendo pian piano il controllo di sé stesso, scoprì di poter muovere di nuovo le braccia. Si tolse il sacchetto di pelle dalla bocca e proruppe in una serie di colpi di tosse.

“Vorrei farti riposare, ne avresti bisogno, ma dobbiamo andarcene da qui” fece il giovane “Troveremo un posto migliore per organizzare un bivacco.”

Tese la mano per aiutarlo a rialzarsi, fissandolo con i suoi occhi grigi.

“A proposito, io sono il capitano Gale Hawthorne.”

 

 

Mentre cavalcava, Finnick osservò meglio i suoi nuovi compagni di viaggio. A prima vista, sembravano essere circa una ventina. La divisa che indossavano comprendeva la giacca blu tipica dell’esercito, ma c’era qualcosa di strano. Innanzitutto erano troppo pochi per formare una compagnia, anche se quel ragazzo si era presentato come “capitano”. Gale cavalcava in testa al gruppetto e al suo fianco c’era un ragazzo nero: Finnick era piuttosto certo che nell’esercito questo non avvenisse.

Una volta fermati, i soldati cominciarono i preparativi per la notte. Quando Gale si avvicinò per controllare la ferita, Finnick disse:

“Non ti ho ancora ringraziato.”

L’altro scrollò le spalle.

“È solo il nostro lavoro.”

“Siete vigilantes?”

Gale rimase in silenzio.

“Insomma” continuò Finnick “Viaggiate in pochi, ci sono donne e neri con voi… Nessuna compagnia dell’esercito può essere così.”

“Fino a poco tempo fa ero un capitano dell’esercito” iniziò a raccontare Gale “La mia compagnia era a Fort Defiance, in Arizona. Poi ho deciso di scappare.”

“Perché?”

“Perché più passava il tempo, più mi rendevo conto che l’esercito era manovrato da criminali. Ben presto mi sono reso conto che il sistema era marcio in profondità.”

“Quando hai deciso di scappare?” Chiese Finnick.

Gale prese a parlare in tono più concitato.

“Ci era appena arrivata la notizia che dei banditi avevano rapinato la banca di Flagstaff. Mi ero offerto di inseguirli, ma un ordine…Diciamo, improrogabile, dall’alto ci ha impedito di farlo. Due giorni dopo abbiamo saputo che i banditi erano stati assoldati da Coriolanus Snow.”

Gli occhi di Finnick mandarono un lampo, ma l’altro, preso com’era dal suo racconto non se ne accorse.

“Non mi ero arruolato per stare a guardare. Me ne sono andato il giorno stesso, dopo aver radunato un po’ di compagni fidati. Ci identifichiamo ancora come Compagnia 451, ma a tutti gli effetti, sì, siamo dei vigilantes.” Concluse Gale con tono rassegnato.

Finnick sapeva di dovergli dire la verità.

“Prima di incontrare quei pellerossa, stavo inseguendo un sicario di Snow.”

Gli occhi di Gale si fecero d’un tratto più attenti.

“Perché Snow ti vuole morto?”

"Forse perché sa che anche io voglio morto lui"

Finnick scrollò le spalle.

"Ad ogni modo, non mi interessa. Non mi fermerò finché non avrò messo fine alle sue prepotenze. E comunque, cosa ci facevano degli indiani in questo territorio?"

"È molto strano. Ultimamente alcuni gruppi di pellerossa si stanno spingendo molto oltre le loro riserve."

“Capitano!”

Era stato il ragazzo nero a interromperli.

“Cosa c’è, Boggs?”

“Ho brutte notizie. Un gruppo di indiani ha attaccato Hangtown.”

 

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 3: Helltown ***


A Katniss sembrava di vivere in un incubo.

Nell’aria non si sentiva altro che urla, spari e il rombo dell’incendio che si propagava sempre più: un gruppo di Indiani al galoppo stava devastando Hangtown mettendola a ferro e fuoco e uccidendo chiunque si trovasse davanti.

La ragazza si sentì strattonare una spalla e trasalì, costringendosi a staccare gli occhi da quello scenario apocalittico. Era Peeta.

“Katniss, resta qui!”

“Dove vai?” urlò lei, cercando di reprimere l’angoscia.

“Devo difendere la mia città!” fu la risposta brusca dello sceriffo.

“Voglio che tu rimanga qui, non devi correre rischi!”

Senza darle il tempo di protestare si allontanò correndo.

La ragazza non riusciva a realizzare che tutto quello stesse accadendo veramente. Di primo impatto, forse per la sorpresa o per la paura, le sembrava che gli Indiani fossero centinaia e centinaia, ma osservandoli ora non potevano essere più di cinquanta, anche se con le loro urla di guerra e le torce accese sembravano dei diavoli usciti dall’Inferno. Avevano appiccato il fuoco alle prime case, e in brevissimo tempo era divampato un gigantesco incendio. Gli abitanti che si salvavano dal fuoco trovavano ad aspettarli gli aggressori che li falciavano senza pietà, senza risparmiare nessuno. Neanche le donne e i bambini trovavano scampo. Era un vero e proprio massacro.

L’immagine di Prim sola e indifesa squarciò la mente di Katniss come un lampo, facendola risvegliare dal torpore. Ignorando le raccomandazioni di Peeta, si alzò e cominciò a correre verso le strade di Hangtown, pensando a dove potesse essere la sua sorellina. Era rimasta in casa, impietrita dalla paura? Oppure aveva cercato di fuggire? Tra il fuoco e gli invasori, la ragazza non riusciva ad immaginare quale fosse il male minore.

Degli spari riecheggiavano in lontananza. Sembrava che gli abitanti della cittadina, probabilmente sollecitati da Peeta, stessero organizzando una prima resistenza.

Con la vista offuscata dal fumo, Katniss vedeva Prim in ogni bambino che cercava di salvarsi dalla carneficina. La vista dei cadaveri in mezzo alla strada aumentava il senso di disperazione che sentiva dentro.

L’adrenalina la spingeva a correre verso la casa, ma all’improvviso si vide la strada tagliata da un gruppo di uomini armati che arrivava da una via laterale. In fondo al gruppo c’era Peeta, che urlava a pieni polmoni.

“Formate delle barricate, va bene qualsiasi cosa!”

Con un tuffo al cuore, Katniss sentì che le urla rauche degli Indiani si facevano più vicine.

“Stanno arrivando! Facciamo presto!”

In quel momento la ragazza incrociò lo sguardo di Peeta, che si avvicinò a grandi passi.

“Ti avevo detto di restare al riparo, perché non mi hai ascoltato?”

“Devo cercare Prim!” urlò Katniss in risposta cercando di non sembrare isterica.

“Non c’è tempo. Le senti queste urla? Stanno venendo a prenderci! Nasconditi dietro una barricata e non muoverti”

La ragazza si rese conto che Peeta aveva ragione. Gli uomini avevano già formato una barriera allineando alcune carrozze. Katniss si rifugiò dietro una di esse e cercò di capire quante possibilità avesse la resistenza. Non ci mise molto a capire che sarebbe stato un disastro. I difensori della città non erano più di una ventina, seppure ben armati. Le barricate sarebbero sembrate dei fuscelli, di fronte a una carica di cinquanta Indiani.

“Ehi, dolcezza, ti metti anche tu a sparare con noi?”

Quella voce la fece sobbalzare. Girandosi, si trovò faccia a faccia con Haymitch. Conoscendo la sua fama, rimase sorpresa di non trovarlo ubriaco. Cliente fisso del Saloon, si diceva che alla compagnia di una donna preferisse quella di una bottiglia di whisky. Sembrava che fosse solo al mondo e nessuno aveva il coraggio di indagare il suo passato.

“Quelli non sono indiani normali” aggiunse Haymitch “Quelli sono Piedi Neri.”

“Cosa vuoi dire?”

“Sono gli Indiani più aggressivi che si conoscano. Hanno la guerra nel sangue e non si fermeranno finché non avranno distrutto tutto.”

La voce di Peeta li interruppe.

“Arrivano!”

Katniss si chinò, rammaricandosi di non avere un’arma, mentre gli uomini aprivano il fuoco. Le pallottole fischiavano sopra la sua testa, gli spari e le urla dei feriti riempivano l’aria. Udì Haymitch imprecare al suo fianco e si rese conto che la situazione era più grave del previsto.

Intanto Peeta si era avvicinato e le stava porgendo una pistola.

“Prendila, devi difenderti. Stiamo per rompere le righe.”

Katniss deglutì e afferrò l’arma. Voltandosi, vide gli Indiani arrivare. Era la prima volta che poteva osservarli da vicino, e subito capì cosa intendesse Haymitch.

I Piedi Neri erano davvero spaventosi. I visi, dipinti a strisce rosso sangue, erano contratti in smorfie talmente feroci da sembrare disumane. Le calzature nere come la pece colpivano senza sosta i fianchi dei cavalli, spingendoli ad un folle galoppo.

I timidi spari dei difensori non spaventarono i Piedi Neri, che ruppero senza problemi l’unica linea difensiva, costringendo gli abitanti di Hangtown a disperdersi.

Mentre correva per cercare un riparo, Katniss sentì una voce che la chiamava.

“Adesso, Katniss!”

Era Peeta.

“Vai a cercare Prim!”

La ragazza cambiò direzione e, nonostante fosse già senza fiato, si precipitò verso casa. Man mano che si addentrava nella cittadina, il fumo dell’incendio la faceva tossire. Gli edifici in fiamme le sembravano tutti uguali, ma, guidata dall’istinto, riuscì a trovare quella giusta.

La porta era socchiusa, ma Katniss non ci fece caso. La aprì piano e mosse pochi passi incerti all’interno. Nonostante il calore soffocante delle fiamme, avvertì un brivido lungo la schiena. Provò a chiamare Prim, ma il rumore sordo dell’incendio non le permise di sentire nemmeno la sua stessa voce. Sentendo l’ansia montare rapidamente, si mise ad urlare.

“Prim! Mi senti?”

Non arrivò nessuna risposta.

Osservando meglio, Katniss notò una lunga ombra, proveniente da una stanza adiacente, che si stagliava sul pavimento. Si mosse in avanti, chiamando ancora una volta il nome della sorellina, ma non trovò ciò che sperava. Non appena guardò cosa c’era nella stanza, si sentì afferrare e spingere via con una forza spaventosa. Il violento urto contro la parete opposta le fece cedere le gambe. Mentre scivolava a terra scorse un pellerossa che usciva di corsa dalla casa. I suoi mocassini neri furono l’ultima cosa che riuscì a vedere prima di perdere i sensi.

 

 

***

 

 

La prima cosa che Katniss percepì una volta aperti gli occhi fu un intenso e pungente odore di legno bruciato. La testa le faceva un male terribile: era come se qualcosa di molto pesante le schiacciasse la fronte, impedendole di pensare lucidamente. Cercò di alzarsi, ma venne bloccata da un forte accesso di tosse.

Non appena fu in grado di guardarsi intorno, sentì il modo crollarle addosso.

Hangtown, la sua città, era ridotta ad un mucchio di macerie fumanti, con gli ultimi rimasugli dell’incendio che ancora bruciavano. Ben pochi edifici si erano salvati dalla furia distruttiva del fuoco e degli Indiani. Corpi senza vita giacevano uno accanto all’altro, in attesa di una sepoltura dignitosa. I pochi soccorritori si affaccendavano qua e là, affannati.

Nonostante i sensi ancora intorpiditi, udì chiaramente il rumore di cavalli al galoppo che si avvicinava sempre più. Stavano arrivando degli uomini, tutti vestiti con un’impolverata giacca blu. Sembravano attoniti di fronte alla devastazione della città.

“Katniss!”

La ragazza sentì una voce familiare che la chiamava.

Finnick!

Si era completamente dimenticata del giovane pistolero, che zoppicando vistosamente cercava di raggiungerla.

“Katniss! Stai bene?”

“Non credo” fece la ragazza, ancora confusa.

“Cos’è successo?”

Katniss trasse un lungo sospiro, ma prima che potesse rispondere, sopraggiunse Peeta. Era sporco di fuliggine e teneva la testa bassa.

“Katniss” esordì in tono grave. “L’abbiamo cercata dappertutto, ma purtroppo Prim è… sparita.”

 

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Capitolo 7
*** Capitolo 4: La terra degli Apache ***


Sui resti di Hangtown era scesa una notte insolitamente luminosa: numerose stelle brillavano nel cielo plumbeo, come se provassero a far sentire la loro vicinanza alle vittime dell’attacco.

I sopravvissuti si erano radunati nelle poche case che avevano resistito all’incendio, ma erano ben pochi quelli che riuscivano a dormire. Finnick aveva preferito restare all’aperto nell’accampamento della Compagnia 451. Steso nella sua tenda, dall’esterno riusciva a sentire il crepitare del fuoco e due voci che parlavano sommesse, probabilmente Gale e Boggs.

Dopo tutti gli avvenimenti della giornata, il ragazzo si sarebbe aspettato di crollare, invece i suoi occhi rimanevano sbarrati sotto lo Stetson calato sulla fronte.

Cosa avrebbe fatto ora? Il suo istinto gli consigliava, almeno per il momento, di lasciar perdere il piano originale.

Ripensò a tutti gli eventi delle precedenti ventiquattro ore: l’aggressione di Cato, l’apparizione dei Pellerossa durante l’inseguimento e l’attacco dei Piedi Neri. In effetti, c’era qualcosa di strano: non poteva trattarsi di semplici coincidenze. Si sforzò di trovare un filo conduttore tra tutte le vicende, ma l’unica soluzione che riusciva a trovare rendeva la situazione così critica che non riusciva ad accettarla. Aveva bisogno di più indizi, ma dubitava di poter trovare qualcosa di utile nel posto in cui si trovava. Avrebbe potuto chiedere a Gale, ma dalla breve conversazione che avevano avuto qualche ora prima aveva intuito che anche l’ex soldato era a corto di informazioni.

Mentre fissava il vuoto, la sua mente si soffermò su Katniss. La ragazza era rimasta sconvolta dalla scomparsa della sorellina. Finnick si rendeva conto che c’erano solo due possibilità, oltretutto per nulla rassicuranti: Prim poteva essere morta nell’incendio, ma il ragazzo aveva un altro presentimento. Le tribù Indiane più aggressive avevano la nota abitudine di fare prigionieri durante gli attacchi, quindi l’ipotesi di un rapimento non era così remota.

Presa una decisione, lentamente si alzò e uscì dalla tenda.

Non impiegò molto a trovare Katniss. La ragazza era da sola, seduta sulla soglia di una casa a fissare il buio.

“Katniss” esordì Finnick “Devo partire all’alba”.

Per un istante lo sguardo smarrito rivoltogli dalla ragazza lo fece sentire in colpa.

“Perché?”

“Devo avere più informazioni su quello che è successo. So dove trovarle, ma bisogna che faccia in fretta”

“Potrebbero aggredirti…” protestò Katniss, ma Finnick la fermò.

“Non gli lascerò questa soddisfazione.”

“Dove vai?” si rassegnò lei.

“A Nord. Ho degli… amici, lì. Ora riposati”

Il ragazzo fece per andarsene, ma prima di allontanarsi si fermò.

“Katniss” aggiunse “Troveremo Prim. Te lo prometto.”

 

 

Non appena il sole fece capolino dalle colline che circondavano Hangtown, Finnick spinse al trotto il suo cavallo, lasciandosi alle spalle la cittadina.

Prima di partire, aveva parlato a lungo con Gale, spiegandogli dove fosse diretto.

Represse la tentazione di accelerare per l’impazienza di arrivare: il viaggio non sarebbe durato più di qualche ora e non avrebbe comunque forzato l’andatura per non rischiare di riaprire la ferita.

Pensò alla giornata che aspettava i superstiti di Hangtown: una continua ricerca dei dispersi. Sapeva di non poter restare ad aiutare: se i suoi sospetti erano fondati, non ci si poteva permettere di temporeggiare.

Provò a liberare la mente da ogni preoccupazione. Lasciò vagare liberamente lo sguardo sul pallido sole che sorgeva, senza concentrarsi su nulla in particolare, ma una volta arrivato nei pressi della sua meta la mente fu invasa da un torrente di ricordi impossibile da arginare.

 

Una giornata assolata, una diligenza che attraversa il deserto, poi dei colpi di pistola, una voce infantile che piange.

 

Finnick fu richiamato alla realtà dai rumori quotidiani della riserva Apache, nella quale era appena arrivato. Il villaggio era situato in una valle verdeggiante, alla quale facevano scudo delle colline.

L’insediamento era costituito da decine di tepee decorati con colori vivaci, case in legno e grandi recinti per gli animali.

Il ragazzo si diresse verso il centro del villaggio, dove si trovavano alcune abitazioni più grandi delle altre.

“Lupo Vendicatore” lo chiamò un Pellerossa che si era avvicinato.

Finnick sapeva che sarebbe stato riconosciuto, ma sentirsi chiamato così lo colpì.

“Hau” rispose “Sono qui per vedere Falco Nero.”

“Sono sicuro che ti riceverà con piacere” sorrise l’altro “Bentornato.”

 

 

 

“Sei cambiato molto, Lupo Vendicatore” esordì il capo degli Apache, non appena Finnick gli si fu seduto di fronte.

“Sono passate ventiquattro lune da quando te ne sei andato, eppure sento che il tuo cuore non è sereno.”

“La mia missione non è ancora conclusa” ammise il ragazzo “Ma negli ultimi giorni stanno accadendo strani eventi.”

Falco Nero socchiuse gli occhi e Finnick capì di dover proseguire.

“I Piedi Neri stanno sconfinando dai loro territori ad Est” fece una pausa “Proprio ieri hanno distrutto la città di Hangtown.”

Il capo Apache rimase impassibile e Finnick continuò in tono più concitato.

“Ho il presentimento che abbiano preso ordini da qualcuno. Ne sai qualcosa?”

Dopo un lungo silenzio, Falco Nero trasse un lungo sospiro.

“Ho brutte notizie per te. Due lune fa, degli uomini bianchi sono venuti a proporci un accordo.”

“Un accordo?” chiese Finnick, sperando di aver capito male, ma mano a mano che il capo indiano continuava, le sue paure si materializzarono.

“Ci promettevano la loro protezione.”

“In cambio di cosa?”

“In cambio di crimini. Per conto loro” concluse il capo Apache.

“Falco Nero” disse il ragazzo “Devi dirmi chi erano quei bianchi.”

“Il loro capo è l’uomo che vuoi uccidere” rispose in tono grave l’altro “Coriolanus Snow.”

 

 

Finnick uscì sconvolto dall’abitazione. Falco Nero gli aveva appena confermato che i suoi peggiori presentimenti erano fondati. Snow aveva capito di aver bisogno di una copertura per i suoi crimini, e aveva deciso di proporre un’alleanza a una tribù di Indiani. Evidentemente, dopo che gli Apache avevano rifiutato, si era rivolto con successo ai Piedi Neri.

Ragionando sulla sua situazione, si rese conto che in effetti ora i suoi due obiettivi erano collegati: per uccidere Snow, si sarebbe sicuramente dovuto scontrare con i Piedi Neri; probabilmente la sorellina di Katniss si trovava in uno dei loro villaggi.

A interrompere le sue riflessioni fu una voce familiare che lo chiamava.

“Finnick!”

Il ragazzo si girò di scatto: una ragazza con i capelli raccolti in trecce stava camminando in fretta verso di lui. Con il cuore che gli martellava nel petto, Finnick tese le braccia e la strinse in un abbraccio talmente intenso da fargli dimenticare Snow e i Piedi Neri.

“Mi sei mancato” disse la ragazza, appoggiando la testa sulla sua spalla.

“Anche tu mi sei mancata, Annie” ebbe un fremito nel pronunciare il suo nome.

La ragazza si staccò improvvisamente da lui.

“Te ne vai di nuovo?”

“Devo ripartire oggi stesso” rispose Finnick con voce spezzata.

“Ho paura per te” fece Annie, gli occhi umidi.

“Tornerò” la rassicurò il ragazzo “È una promessa.”

La strinse a sé di nuovo, sapendo che presto avrebbe rimpianto quei momenti. Ricordava perfettamente gli eventi di due anni prima, quando si erano legati davanti a tutta la tribù. La ragazza aveva insistito per avere un nome da bianca, proprio come lui, e aveva scelto di chiamarsi Annie, in aggiunta al vecchio nome Apache Figlia dell’Acqua.

Anche allora Finnick le aveva promesso che sarebbe tornato, ma sapeva che il momento non era ancora arrivato.

Prima di cedere alla tristezza, decise di andarsene. Salutò Annie con un dolce bacio e ripartì alla volta di Hangtown, sentendo una nuova ferita al cuore per ogni passo che lo separava dalla sua amata.

 

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Capitolo 8
*** Capitolo 5: Il quinto uomo ***


In una lussuosa villa a Yuma, due uomini discutevano animatamente.

“Le teste rosse confermano di aver raso al suolo Hangtown, signore” disse Thread.

Il viso di Coriolanus Snow si aprì in un ghigno malvagio.

“Abbiamo notizie di Cato?”

“Purtroppo no” ammise l’altro “Sono sicuri di non aver avvistato né Cato, né il cacciatore di taglie.”

L’euforia di Snow si spense.

“Cosa significa?”

“Non so, signore” rispose Thread, con aria assorta “Potrebbero esserci tante spiegazioni.”

Stette un po’ in silenzio, riflettendo, poi proseguì.

“Cato potrebbe aver avuto dei problemi nel viaggio di ritorno…”

“L’unica cosa che possiamo fare” lo interruppe Snow  bruscamente “È aspettare il suo ritorno.”

Si sentiva tremendamente impotente e sapeva che ciò era dovuto a un suo stesso errore. Ad un tratto sentì il bisogno di riflettere con calma, senza avere davanti quei maledetti occhi glaciali che lo fissavano senza far trasparire alcuna emozione.

“Certo” rispose l’altro, capendo che il colloquio era finito.

“Ora lasciami da solo.”

Thread uscì dalla stanza senza commentare, sentendo Snow prorompere in un violento attacco di tosse.

 

 

***

 

 

Katniss si osservò sconsolata le mani sanguinanti. Aveva passato tutto il giorno a scavare nelle macerie ancora fumanti di Hangtown, cercando di trovare eventuali feriti e dispersi. Non c’era alcuna traccia di Prim. Se questo da un lato la consolava, dall’altro la atterriva la possibilità che fosse nelle mani degli Indiani. Cosa le avrebbero fatto? Non osava nemmeno pensarci. Non aveva idea del trattamento riservato dai Pellerossa ai prigionieri di guerra, ma se pensava agli assassini con cui aveva a che fare e all’età della sua sorellina non riusciva a pensare nulla di buono.

Finnick le aveva promesso che l’avrebbero ritrovata: ormai le era rimasto solo questo a cui aggrapparsi.

Si guardò intorno. Peeta sembrava stravolto quanto lei; i misteriosi soldati ribelli continuavano a prestare aiuto ai feriti. Ancora non capiva chi fossero veramente, ma Finnick era tornato con loro a Hangtown: cosa significava?

“Katniss” la chiamò lo sceriffo “Dovresti riposare. Qui non possiamo fare più nulla.”

“Non posso, Peeta” rispose abbattuta la ragazza “Non ci riuscirei.”

“Non disperarti” provò a rassicurarla “Prim è viva, ne sono sicuro. La troveremo.”

“Finnick mi ha detto la stessa cosa.”

“Sei sicura di poterti fidare di lui?”

“Cosa vuoi dire?”

Peeta sospirò e si sistemò nervosamente il cappello, prima di rispondere.

“Non lo sto accusando, assolutamente. Però, vedi, tutto questo è successo immediatamente dopo il suo arrivo qui.”

La sua voce era cauta, come stesse muovendo i primi passi su un territorio sconosciuto e pericoloso.

“Non puoi…”

Peeta la interruppe.

“Quello che voglio dire, Katniss, è che non sappiamo chi sia veramente Finnick.”

La ragazza rimase in silenzio. Ormai si sentiva legata al pistolero biondo, ma in un angolino della mente era cosciente di non sapere nulla su di lui.

“Dov’è finito, a proposito?” chiese lo sceriffo.

Neanche a farlo apposta, Finnick arrivò in quel momento.

Katniss lo guardò con aria interrogativa, fino a che lui non parlò con tono grave.

“Devo parlarvi. Ho delle notizie.”

 

 

***

 

 

Poco dopo si trovavano nella tenda di Finnick, che aveva insistito perché ci fosse anche Gale in quella strana riunione. Il capitano aveva conosciuto Katniss e lo sceriffo, ma le presentazioni erano state piuttosto stiracchiate.

“Avevi detto di avere notizie” esordì Peeta.

“Le ho, ma non credo che vi piaceranno” rispose Finnick “In ogni caso, ho scoperto che i Piedi Neri agiscono sotto gli ordini di Coriolanus Snow.”

L’affermazione fu accolta con un’espressione sgomenta dagli altri tre.

“Come fai ad esserne sicuro?” chiese lo sceriffo.

Il ragazzo esitò, prima di rispondere.

“Sono stato nella riserva Apache, oggi” spiegò, cauto “E mi hanno detto di avere ricevuto una visita da Snow, due mesi fa.”

Peeta socchiuse gli occhi e Finnick capì che stava esaminando la sua frase parola per parola.

“Quello che sto cercando di dire” proseguì “È che il nostro vero nemico è proprio Snow.”

“Allora perché avrebbero attaccato la città?” intervenne Gale.

“Lui sa chi sono” rispose “E sono abbastanza sicuro che voglia uccidermi. Ma non credo che l’attacco sia stato a causa mia.”

“Vuoi dire che Hangtown potrebbe avere dei precedenti con lui?” chiese il capitano.

“Esatto.”

Tutti si voltarono verso Peeta.

“Non siamo mai stati in buoni rapporti con Snow” ammise lo sceriffo “Da sempre si è interessato alle miniere sulle colline qui intorno, ma abbiamo sempre cercato di respingerli.”

“Perché?” chiese Finnick.

“Perché la città non ne avrebbe tratto nessun vantaggio” spiegò Katniss “Se invece a estrarre materiali preziosi fosse stata la nostra gente, l’economia di Hangtown sarebbe prosperata.”

Il ragazzo annuì. Aveva visitato abbastanza città durante la corsa all’oro da conoscerne bene il meccanismo. Se la situazione economica era positiva, il posto cresceva in fretta.

“Pensi che Snow abbia attaccato per questo?” chiese Peeta.

“Credo sia un motivo plausibile.”

Finnick osservò gli altri tre tacere, mentre cercavano di digerire le informazioni.

A rompere il silenzio fu Gale.

“Cosa facciamo, quindi?”

“Io dico di muoverci” propose il ragazzo “Avviciniamoci all’obiettivo. Quando saremo lì decideremo come agire.”

“Non mi sembra una cattiva idea” approvò Peeta “Quanti saremo?”

“La mia compagnia sarà con voi” intervenne Gale, ma Finnick storse la bocca.

“Non credo sia una buona idea. Dovremo essere pochi, per non attirare l’attenzione.”

“Che ne dite… di noi quattro?” suggerì Katniss “Io voglio esserci.”

“Ne sei sicura?” chiese Finnick.

La ragazza stava per ribattere, ma lo sceriffo la anticipò.

“Ne ha tutti i diritti, direi. Piuttosto, credo che ci sia un’altra persona che debba venire con noi.”

 

 

Finnick tratteneva a stento il sorriso, mentre osservava Peeta cercare di convincere l’uomo a intraprendere quel viaggio.

Haymitch, gli sembrava si chiamasse. Dimostrava tranquillamente una quarantina di anni; il suo periodo di massima forma era chiaramente un ricordo lontano, ma i suoi occhi grigi, seppur arrossati, mandavano lampi di intelligenza. Dal tono strascicato della voce il ragazzo capì che l’uomo aveva avuto un recente “incontro” con dell’alcool.

“Andiamo, Haymitch” stava dicendo lo sceriffo “Sai benissimo che saresti fondamentale. Nessuno conosce gli Indiani meglio di te.”

“Beh, suppongo che alla fine dovrò aiutarvi” fece l’uomo, con tono rassegnato “Ma ho bisogno di portare del liquore.”

Agitò una mano.

“Sapete, mi aiuta a… concentrarmi.”

“Non se ne parla, Haymitch” ribatté Peeta “Non si beve in missione. Ci servi sobrio.”

L’altro capì di non poter prevalere e si allontanò contrariato, scuotendo la testa e borbottando qualcosa di poco carino sugli sceriffi intransigenti.

A uno sguardo interrogativo di Finnick, Katniss rise.

“Oh, non preoccuparti, alla fine verrà. Deve solo andare a salutare il suo amato liquore.”

 

 

 

Il pomeriggio seguente Finnick uscì dalla tenda e cominciò a preparare il cavallo. La mattina stessa aveva radunato i suoi averi in una sacca di pelle che ora portava a tracolla. Fu sorpreso nel vedere Katniss già pronta che camminava nella sua direzione. Sembrava perfettamente a suo agio in quell’abbigliamento: stivali, pantaloni spessi, camicia e cappello a tesa larga. Poteva quasi sembrare un ragazzo se non fosse stato per la lunga treccia scura che spuntava da sotto il copricapo.

“Mi fido di te” gli disse a bassa voce, e il ragazzo capì che si riferiva alla promessa di trovare Prim. Prima che potesse rispondere, sentì dei passi alle sue spalle: anche Gale era arrivato.

“Peeta e Haymitch saranno qui a momenti” fece Katniss.

Aveva ragione: dopo qualche minuto, uno scalpiccio di zoccoli segnalò la loro comparsa.

“Dove ha lasciato la stella, sceriffo?” chiese Gale inarcando le sopracciglia, notando la mancanza del simbolo.

“L’ho lasciata al mio vice, quindi ora sono un reietto come te” rispose lui, sottolineando la parola reietto.

“Questo significa che puoi darmi del tu” aggiunse Peeta sorridendo, ed entrambi assunsero un’espressione più pacata.

“Allora, si parte?” fece Finnick.

“Direi di sì” rispose Peeta “Haymitch, se ti becco con dell’alcool ti lascio a piedi nel deserto.”

“Certo” rispose l’uomo con noncuranza, ma non appena lo sceriffo si fu voltato, mostrò una bottiglia di whisky nella tasca interna della giacca agli altri, facendo l’occhiolino.

I cinque partirono in quell’atmosfera rilassata, cavalcando verso Est e lasciandosi alle spalle il luminoso sole della California.

 

 

Ciao a tutti! Visto che secondo i miei piani sono arrivato più o meno a metà della storia, scrivo due parole qui. Bene, non posso garantire un aggiornamento costante, perché la storia non è assolutamente completa, e mi sono anche preso una bella pausa causa impegni scolastici qualche tempo fa, ma vi assicuro che non la lascerò incompiuta.

Come avete notato, sto utilizzando tre diversi POV, uno per ogni personaggio introdotto nei prologhi, e credo proprio di continuare così fino alla fine.

Per i titoli dei capitoli, sto usando titoli di film western, o in alternativa di albi di Tex.

Voglio ringraziare tutti quelli che mi hanno recensito, che seguono la storia e che l’hanno messa fra le preferite o le ricordate: davvero, mi date uno stimolo in più!

Un gigantesco “grazie” va alla fantastica beta Ninety Nine, che ha sempre la pazienza di stare a leggere e commentare ogni riga che scrivo.

Credo di aver finito… Alla prossima!

Jim

 

 

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Capitolo 9
*** Capitolo 6: Territorio nemico ***


Bakersfield.

Per Katniss, che raramente abbandonava Hangtown, quel posto era immenso. Ovunque si girasse, vedeva alti edifici e diligenze che attraversavano le strade, sollevando grosse nuvole di polvere.

Il clima era ostile. I numerosi minatori che abitavano lì si aggiravano ostili tra le strade. Katniss notò che tutti tenevano una mano poggiata sul fianco e nascosta dalla giacca, come se stessero per estrarre la pistola da un momento all’altro.

“Ormai siamo in territorio nemico” aveva detto Finnick. Bakersfield, infatti, non era lontana da Yuma, il quartier generale di Snow.

La ragazza osservò i quattro compagni. In apparenza erano perfettamente calmi, ma riuscì comunque a trovare in loro segni di agitazione: si sistemavano il cappello in continuazione  e cercavano con regolarità un contatto con il cinturone.

In effetti, il solo pensiero di essere trovati dagli uomini di Snow la faceva rabbrividire, ma cercò di farsi coraggio. Dopotutto, era stata lei a voler partire.

“Forza, cerchiamo un posto per la notte” propose Haymitch.

Essendo partiti nel pomeriggio, erano arrivati lì quasi al tramonto; era stata una scelta forzata dalla necessità di non avere il sole in faccia durante il viaggio.

Entrarono nel primo Saloon dignitoso che incontrarono. Katniss si impose di non scrutare gli avventori, mentre si dirigevano verso il bancone.

“Salve. Avete una camera libera per stanotte?” chiese Gale.

La ragazza rimase sbigottita quando guardò verso il bancone: a rispondere a Gale era stata una giovane donna dai capelli castani. Le sembrò strano che non ci fosse un uomo.

“Buonasera, cowboy” rispose la donna con fare sarcastico “Certo che lo abbiamo.”

“E dovremmo anche mangiare qui.”

“Quel tavolo laggiù è libero” rispose indicandolo con un dito.

Una volta seduti, i cinque cominciarono a parlare.

“Non mi piace questo posto” fece Peeta.

“Neanche a me” concordò Finnick “Ma era una tappa obbligatoria. Yuma è troppo lontana per arrivarci in un giorno solo.”

“In ogni caso, io dico di tenere le armi sempre a portata di mano. Questo ha tutta l’aria di un posto in cui le risse cominciano per delle sciocchezze” propose Haymitch.

“Non è una cattiva idea. Ci sono troppi brutti ceffi, qui” concluse Gale socchiudendo gli occhi e guardandosi intorno.

“E se succede qualcosa?” chiese cauta Katniss.

“Se succede qualcosa, dolcezza… Ce ne andiamo” rispose con voce melliflua Haymitch “E alla svelta. Dobbiamo passare inosservati.”

La ragazza cedette alla tentazione di guardarsi intorno. Tutti i tavoli le sembravano occupati da gente poco raccomandabile. Si chiese quanti di loro avessero una taglia sulla testa. Il suo sguardo finì nuovamente sulla donna al bancone. Il suo volto sembrava perennemente contratto in una smorfia sarcastica. Si ritrovò a chiedersi per l’ennesima volta come facesse una donna a gestire un Saloon: a Hangtown nessuno avrebbe immaginato una cosa del genere.

“Vado a prendere qualcosa da mangiare” si offrì Finnick.

Katniss lo osservò con un brutto presentimento mentre si alzava e attraversava il locale.

 

***

 

Finnick non riusciva a scrollarsi di dosso la strana sensazione di essere osservato. Non trovava una valida spiegazione, ma si sentiva come se gli occhi di tutti i clienti del Saloon fossero puntati su di lui.

Smettila, si disse. Era sicuramente ancora scosso dall’attacco di Cato. Non c’era ragione di sentirsi così. Respirò profondamente un paio di volte, ma la tensione non accennava a scemare.

Raggiunse il bancone.

“Cosa possiamo avere da mangiare?”

“Fagioli” fu la secca risposta della donna.

“Oppure?”

“Fagioli.”

Di nuovo quel sorriso sarcastico. La donna proseguì: “Non è un buon periodo, Cowboy: questo è tutto quello che abbiamo. E…”

Si interruppe all’improvviso, fissando un punto oltre la schiena del ragazzo.

Poi parlò una voce strascicata.

“Alza le mani, Biondo. Lentamente.”

Finnick esitò.

“Ho detto… Alza le mani!” ripeté l’uomo, stavolta più minaccioso.

Il ragazzo obbedì, digrignando i denti per la rabbia.

“Ora voltati. Molto lentamente.”

“Direi che è lui, Brutus.” disse un altro uomo.

“È proprio lui. Ne sono sicuro.” fece un’altra voce, più giovane.

Finnick rimase senza fiato quando vide a chi apparteneva. Era Cato. Sentì pulsare la ferita alla gamba.

Provò a studiare la situazione. Sapeva che non erano soltanto tre uomini: dietro di loro ne erano entrati altri due. Non osò guardare nella direzione dei suoi compagni: per il momento era meglio che i suoi nemici pensassero che fosse da solo.

Osservò i suoi aggressori: non gli sembravano affatto gli ultimi arrivati, anzi, avevano un’aria piuttosto temibile. Cato lo guardava con un ghigno compiaciuto.

“Dovremmo portarlo da Snow” bisbigliò Brutus all’uomo alla sua destra.

Ad un tratto, dei rumori inconfondibili dall’altra parte del Saloon attirarono la sua attenzione: gli scatti della sicura delle armi.

Gale e Peeta avevano estratto le pistole e le avevano puntate contro gli uomini di Snow. Haymitch aveva fatto lo stesso con il suo fucile Winchester. Dall’espressione dei nemici, Finnick capì che tutto questo non era nei piani.

La tensione nell’aria era altissima: non si sentiva volare una mosca.

Lo sguardo del ragazzo fu catturato da Brutus: stava per premere il grilletto della sua pistola. Senza preavviso, il fucile di Haymitch esplose un colpo che gliela fece saltare via di mano.

“Oh, no, amico. Mossa sbagliata.” fece Haymitch.

“Maledizione!” imprecò Cato.

Un’altra sicura scattò, questa molto più vicina a Finnick. Si girò, e vide la donna al bancone con un fucile a canne mozze, il quale, si rese conto con sollievo, non era puntato contro di lui.

“Fuori di qui!” intimò agli uomini di Snow, in tono perentorio.

Finnick sapeva di essere in una situazione scomoda. Era il bersaglio principale dei nemici e per di più era completamente scoperto.

“Vi conviene andarvene” disse Gale, da qualche parte alla sua sinistra.

“Non ve lo ripeterò un’altra volta” fece la donna “Vi voglio fuori dal mio locale, subito.

Finnick osservò il volto di Cato, che si stava contorcendo in una terribile smorfia di rabbia. L’inaspettato aiuto li aveva messi in una posizione di vantaggio rispetto agli uomini di Snow.

“Mason, maledetta sgualdrina!” urlò Cato, che si faceva più paonazzo a ogni parola. “Ti assicuro che la pagherai!”

Sputò sul bancone, ma lei rimase impassibile finché i banditi non furono usciti dal Saloon.

Tirando un sospiro di sollievo, Finnick si guardò intorno e non fu sorpreso di constatare che praticamente tutti gli avventori avevano abbandonato il posto. I suoi amici lo avevano raggiunto e stavano stringendo la mano alla donna.

“Johanna Mason” si presentò lei “Se fossi in voi non resterei qui. Quei brutti ceffi non ci metteranno molto a tornare con i rinforzi.”

“Ha ragione” confermò Haymitch “Se hanno impiegato così poco tempo a trovarci, significa che qui pullula di uomini di Snow.”

“Ragazzi” la voce di Peeta era strozzata “I nostri cavalli non ci sono più!”

“Maledizione!” esplose Finnick “Adesso siamo bloccati qui.”

“O forse no…” Gale stava osservando qualcosa al di fuori del Saloon.

Haymitch lo raggiunse. Il soldato lo prese da parte e chiese:

“La vedi anche tu?”

“Certo” rispose lui “Può essere una soluzione.”

Intanto Finnick stava parlando con Johanna.

“Cosa ti faranno quando ce ne saremo andati?” le chiese.

“Sei gentile a preoccuparti per me, Cowboy. Ma non è un problema, proveranno solo a mettermi un po’ di paura” rispose lei, ostentando sicurezza.

“Snow non si farebbe problemi a toglierti di mezzo.”

Sul volto di Johanna passò un’ombra, come se lo sapesse meglio di lui. Quando parlò, sembrava che stesse soppesando con cura le parole. La smorfia sarcastica era scomparsa.

“Sai, non ci sono molte persone disposte a gestire un Saloon in una polveriera come questa. A Snow fa comodo che lo faccia io. Mettiti l’anima in pace, non corro rischi.”

“Finnick, vieni qui un attimo”

Katniss lo stava chiamando dal fondo del locale.

Quando si fu avvicinato, Gale gli spiegò il piano. Il ragazzo dovette ammettere che non era una cattiva idea, ma gli sembrava che ci fosse una qualcosa che non andava.

“Quando uscirai sarai completamente scoperto”

“È vero” ammise il soldato “Ma non credo che gli uomini di Snow mi riconoscerebbero, e in ogni caso potreste darmi copertura dall’alto.”

Sollevò la testa, indicando con lo sguardo le camere al piano superiore.

Finnick soppesò le sue parole, annuendo lentamente.

“Dobbiamo sbrigarci” li incitò Haymitch “Ogni minuto che passiamo qui dentro è un minuto in più che hanno per venirci a prendere.”

“Vado fuori” annunciò Gale.

“Con me, di sopra” esclamò Finnick agli altri, salendo di corsa le scale.

Una volta arrivati al piano superiore, si separarono: ognuno entrò in una camera diversa. Dalla finestra, si aveva una buona visione della strada sottostante. Gale la stava attraversando con fare circospetto, ma non troppo. Finnick imbracciò il fucile e lo appoggiò sul davanzale, cercando la miglior posizione per sparare. Sapeva di dover stare attento alla strada e non al suo amico, ma non riusciva a non tornare a guardare Gale ogni volta. Si era avvicinato ad una diligenza ferma e stava parlando con il conducente. Man mano che il tempo passava, la discussione si faceva più animata.

Finnick sperava con tutto il cuore che si concludesse in fretta. Avvertì una goccia di sudore freddo scivolargli lungo la guancia. Dopo un tempo che gli parve interminabile, Gale estrasse un sacchetto e diede delle monete all’uomo, che si alzò e camminò via con aria soddisfatta. Il soldato rivolse un tacito segnale di esultanza in direzione delle finestre. Prima di andarsene, Finnick lanciò un’ultima frenetica occhiata alla strada. Era completamente libera.

Si precipitò al piano inferiore: Katniss, Peeta e Haymitch erano già lì, pronti per correre fuori.

“Forza, andiamo!” esclamò Peeta, spalancando le ante del Saloon.

Finnick fu l’ultimo ad uscire, ma prima di oltrepassare la soglia. Lanciò un fugace sguardo alle sue spalle, e decise di salutare la donna.

“Addio, Johanna.”

Lei non rispose, ma il ragazzo avrebbe giurato che stesse sorridendo.

Saltò all’interno della carrozza. Katniss chiuse la porta alle sue spalle e, lentamente e non senza scossoni, la diligenza partì, dirigendosi lontano da Bakersfield.

 

 

 

 

 

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Capitolo 10
*** Capitolo 7: L'inseguimento ***


Finnick non si aspettava di certo un viaggio tranquillo, ma gli sarebbe piaciuto riposarsi un po’ dopo le ultime ore, così cariche di tensione. Non era passata neanche mezz’ora dalla fuga, quando udirono Haymitch che da fuori avvertiva: “Arrivano!”

Con cautela, si sporse dal finestrino e guardò indietro: la situazione non era delle migliori. C’erano circa quindici uomini a cavallo che li inseguivano. A guidarli, ancora una volta, era Cato.

“Com’è lì fuori?” chiese Katniss.

Lui si voltò, un’espressione cupa sul viso.

“Sono troppi. Quindici, credo” rispose.

Peeta trasalì quando sentì il numero, ma Finnick proseguì.

“Purtroppo saranno sempre più veloci di noi. Se non riescono a raggiungerci, ci prenderanno per stanchezza. Dobbiamo respingerli noi.”

“Forza, prendiamo i fucili” li esortò Peeta.

“Voi restate qui, io mi apposto di sopra” decise Finnick, che afferrò il suo Winchester e posò il piede sul bordo inferiore del finestrino, ignorando le proteste di Katniss.

Facendo leva, riuscì ad afferrare con una mano un appiglio sul tettuccio della diligenza. Si sollevò più in fretta che poteva e finalmente raggiunse lo spazio normalmente destinato ai bagagli dei viaggiatori. Scostò le provviste che Haymitch aveva caricato e si distese a pancia in giù. Con cautela alzò la testa, cercando di studiare la situazione. Gli inseguitori si erano fatti pericolosamente vicini, così urlò: “Peeta, Haymitch… fuoco!”

Mentre Gale spronava a più non posso i due cavalli, i suoi compagni cominciarono a sparare. I primi colpi non andarono a segno, ma furono sufficienti a rallentare gli uomini di Snow.

Finnick sentiva le pallottole fischiare sopra la testa, ma sapeva di essere ben protetto: una spessa asse di legno, che serviva a tenere fermi i bagagli, gli offriva una valida copertura. Tuttavia, non poteva rimanere fermo in eterno, o quella posizione privilegiata non sarebbe servita a nulla.

Si sollevò facendo leva sui gomiti, dopo di che sistemò alla meglio il fucile. In quel momento l’attenzione degli inseguitori era concentrata su Peeta e Haymitch, il cui fuoco di copertura stava finalmente cominciando a dare frutti, così mirò con tutta calma e premette il grilletto. Dato che si trovava in una posizione scomoda, il rinculo dello sparo lo fece sobbalzare, ma vide chiaramente un uomo cadere scompostamente dal cavallo.

Senza lesinare sulle munizioni, colpì due inseguitori, mentre Peeta e Haymitch ne abbatterono altri tre. Ne rimanevano comunque troppi, e i colpi di Cato, che ormai lo aveva individuato, si facevano sempre più insidiosi, rendendogli difficile anche controllare i nemici.

“Finnick, non va affatto bene così!” avvertì Haymitch, la voce carica di preoccupazione.

Il ragazzo si chiese quanto ancora sarebbero potute durare le ruote della diligenza: non erano certo state costruite per viaggiare a quella velocità. Dovevano trovare una soluzione, e alla svelta.

A quanto pareva, Cato era un formidabile equilibrista: riusciva a ricaricare la pistola agevolmente, nonostante fosse in pieno galoppo. La sua voce stentorea riusciva a superare gli orribili rumori dello scontro. Finnick si accorse che si stava rivolgendo proprio a lui.

“Vieni fuori, Biondo!” strillava “Fammi vedere la tua testolina!”

All’improvviso, però, le sue urla si interruppero bruscamente.

“L’ho preso di striscio!” fece Peeta.

Capendo di avere un’occasione, Finnick si sporse oltre la barriera.

Tutto sembrò svolgersi al rallentatore. Vide il volto di Cato contrarsi in una smorfia animalesca, che ben poco aveva di umano. Il ragazzo avrebbe giurato che stesse ringhiando. Individuò la ferita procuratagli dallo sceriffo, un semplice graffio sul braccio sinistro, che però era riuscito a metterlo in difficoltà. Cato sollevò la pistola, mentre Finnick mirava alla meglio tra gli scossoni della diligenza. Nello stesso istante in cui premeva il grilletto, seppe che avrebbe centrato il bersaglio. Il proiettile colpì Cato in pieno petto.

La Belva, sbalzata all’indietro, cadde dal cavallo, terminando così la sua scellerata esistenza.

Finnick rimase interdetto. Quasi non riusciva a credere ai suoi occhi: Cato, la sua nemesi, era morto. Capì come il fallimento di Hangtown avesse reso cieca la sua rabbia, in qualche modo… selvaggia. Ma si riscosse subito: nonostante avesse eliminato il loro capo, infatti, gli inseguitori avrebbero presto avuto la meglio. Ad un tratto gli venne in mente un’idea. Rischiosa, certo, ma non vedeva altre soluzioni.

“Ragazzi, fuori i fuochi d’artificio!”

 

***

 

 

Katniss non riusciva a credere né alle proprie orecchie né ai propri occhi. All’inizio non aveva compreso l’esclamazione di Finnick, ma ora che Peeta le stava porgendo un candelotto di dinamite le sembrava tutto terribilmente chiaro. Solo che ancora non riusciva a capacitarsi del fatto che avrebbe dovuto farne uso. Quante tranquille Saloon-girl maneggiavano dinamite durante la loro vita?

“Katniss, non abbiamo tutta la vita” la esortò Peeta, sempre impegnato a tenere lontani gli uomini di Snow, ricordandole che da quando aveva deciso di far parte di quella compagnia aveva smesso di essere una tranquilla Saloon-girl. Si chiese se lo fosse mai stata. “Tira quel candelotto!”

Lei deglutì, ma prese lo stesso un fiammifero e lo strofinò sulla parete della carrozza finché non si accese. Cercò di tenere le mani più ferme possibile mentre lo avvicinava alla miccia del candelotto, che prese fuoco in un istante.

Resta calma, resta calma.

Sapeva di dover fare in fretta.

“Finnick, giù!” gridò, sporgendosi dal finestrino. Dopodiché, con la miccia accesa che sibilava a più non posso, lanciò il candelotto, pregando che finisse proprio in mezzo agli inseguitori. Non fece in tempo a vedere dove atterrava, perché la dinamite esplose quasi subito con un gran boato.

“Bel colpo!” si congratulò Peeta, posandole una mano sulla spalla.

Ma Katniss era troppo sconvolta per ricambiare. Tornò a guardare indietro e vide una fitta nube nera levarsi sopra il punto dell’esplosione. Gli inseguitori non si vedevano più, forse feriti, forse disorientati. Magari morti.

“A quanto pare hanno rinunciato” disse Finnick, mentre si calava di nuovo all’interno della diligenza.

Katniss sentì le palpebre farsi sempre più pesanti. La tensione dell’inseguimento l’aveva privata di tutte le forze. Peeta se ne accorse e la tranquillizzò.

“Dormi, se vuoi. Penso che ci tocchi fare ancora molta strada prima di poterci fermare.”

Lei non avrebbe voluto: si sarebbe sentita ancora più inutile. Ma ben presto la stanchezza ebbe la meglio e la fece piombare in un sonno profondo.

 

Quando si svegliò, scoprì che la diligenza si era fermata ai piedi di una collina, poco lontano dalla strada. Era scesa la notte e i suoi amici stavano preparando il bivacco.

Dopo una cena frugale, si sedettero intorno al fuoco.

“Credo sia ora di cominciare a pianificare le nostre prossime mosse” esordì Finnick.

“Entro domani mattina saremo a Yuma” li informò Gale “Il viaggio non durerà più di qualche ora.”

“Cosa faremo una volta arrivati?” chiese Katniss, che non si era mai sentita più inadeguata; non si sentiva affatto in grado di contribuire ai piani dei suoi amici. Si chiese, non per la prima volta, perché avesse insistito per partire con loro. Conosceva benissimo la risposta: Prim. Non sarebbe mai riuscita a rimanere a Hangtown, o quello che ne restava, mentre altri cercavano di salvare la sua sorellina.

“Saremo vicinissimi a Snow” commentò Peeta.

A quelle parole, Katniss scorse un lampo negli occhi di Finnick, come se avesse aspettato tutta la vita quel momento. Forse era proprio così, si disse. Fu proprio lui a proporre la prima idea.

“Io dico di attaccarlo direttamente. Potremmo coglierlo di sorpresa.”

“Potremmo attirarlo fuori dalla sua residenza” disse Gale.

Conoscendo il suo passato nell’esercito, Katniss si sarebbe fidata di qualsiasi tattica lui avesse proposto. Eppure, in quelle parole c’era qualcosa che suonava in modo sinistro.

Come se le avesse letto nel pensiero, l’ex-soldato proseguì: “Ma non so se sarebbe la cosa giusta da fare.”

“No, infatti” intervenne Peeta. “La nostra priorità è quella di salvare gli ostaggi di Hangtown. La mia gente.” Lo sceriffo calcò la parola mia, chiarendo il motivo per cui si era spinto fino lì.

Finnick sbuffò sonoramente.

“Cosa farai, lo chiederai direttamente a Snow?”

“Era proprio quella la mia intenzione” ribatté Peeta. “Sono lo sceriffo della città che ha fatto radere al suolo. Ho tutti i diritti di negoziare con lui.”

“In qualche modo ha senso” fece Haymitch, che fino a quel momento era rimasto in disparte. “C’è una cosa di cui sono sicuro: se uccidessimo Snow, perderemmo ogni possibilità di salvare i prigionieri.”

Katniss si sentì accapponare la pelle al solo pensiero. Non avrebbe mai accettato di non rivedere Prim, dopo tutto quello che era successo.

“Non stiamo parlando di normali Pellerossa, ma dei Piedi Neri” proseguì Haymitch. “Ogni trattativa sarà inutile, con loro. È assurdo, lo so, ma la via più facile è quella di provare a parlare con Snow.”

Finnick era palesemente contrariato. Peeta si voltò verso Katniss.

“È l’unico modo che hai per rivedere Prim” constatò, cercando il suo appoggio.

“Visto che non riusciamo a deciderci, mettiamola ai voti” propose Haymitch.

“Io sono per la soluzione diplomatica” affermò Peeta.

“Io no” ribatté Finnick. “Gale?”

“Ci ho pensato” disse piano lui. “Snow è un serpente a sonagli. Non accetterebbe mai un accordo.”

“Io sono con Peeta” fece Haymitch. “Un attacco diretto non porterebbe a nulla.”

Ci fu un lungo silenzio, rotto all’improvviso da Finnick.

“Siamo due contro due. Katniss, manchi solo tu.”

Lei si sentì gelare. A quanto pareva, il suo voto sarebbe stato decisivo. Nella sua mente le ipotesi turbinarono fino a confondersi. Da quando aveva incontrato Finnick si era sentita legata a lui. Eppure, adesso non riusciva ad avere completa fiducia nell’amico. Le sembrava diverso, era come se fosse accecato dal desiderio di vendetta. Con l’immagine di Prim che si affacciava nella mente, decise.

“Non so quanto possa valere il mio voto” cominciò con voce incerta. “Ma secondo me dovremmo provare a negoziare.”

Peeta annuì soddisfatto.

“Hai fatto la scelta giusta, Katniss” disse. “Domani mattina andrò a parlare con Snow.”

“Un momento” intervenne lei. “Non c’è il rischio che ci riconoscano?”

“Non credo” rispose Haymitch. “E in ogni caso, domani mattina le notizie dell’inseguimento non dovrebbero essere ancora arrivate.”

“Comunque, credo che l’unico viso che ricordino sia quello di Finnick” disse Peeta.

“Può darsi” fece lui. “Ma non ne abbiamo la certezza.”

“Sono pronto ad assumermi ogni rischio” replicò lo sceriffo.

“È una follia!” scattò Finnick, ma Gale lo interruppe.

“Adesso basta. Abbiamo preso questa decisione, ora dobbiamo andare fino in fondo” disse in tono fermo.

“Gale ha ragione” disse Haymitch. “Peeta, hai già un piano?”

“Lascerò a Snow l’uso delle miniere intorno a Hangtown” rispose lui. “Ci ho pensato a lungo: è l’unica possibilità che abbiamo.”

“Questa scelta ci costerà caro” commentò Haymitch. “Ma dopotutto, abbiamo il dovere di salvare quelle vite.”

“Direi che possiamo chiudere qui la discussione” disse Finnick. “Andate a dormire, faccio io il primo turno di guardia.”

A Katniss sembrò molto amareggiato, ma era troppo stanca per riflettere. Seguì il suo consiglio e, trovato un posto confortevole nella diligenza, si raggomitolò e scivolò in un sonno tormentato.

 

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Capitolo 11
*** Capitolo 8: Yuma! ***


La mattina seguente, le ultime ore di viaggio furono silenziose. Man mano che sia avvicinavano a Yuma, i cinque si rendevano conto che non mancava molto alla fine della loro missione, e questo li rendeva estremamente nervosi e taciturni.

Finnick, teso come una corda di violino, si stava mordendo l’interno della guancia fino a farlo sanguinare. Il loro era un piano disperato, lo sapeva benissimo. Ma si rendeva anche conto che, una volta persa la votazione, sarebbe stato controproducente per tutti mettersi di nuovo a discutere.

Inaspettatamente, si ritrovò a pensare ad Annie, che lo stava aspettando da sola nella riserva Apache. Finnick si sentì assalito da una tremenda sensazione di nostalgia e solitudine. Rimpianse il momento in cui era partito, lasciandola con una promessa incredibilmente difficile da mantenere. La sua mente si perse, fantasticando su una tranquilla vita insieme a lei nella riserva, senza pistole, incendi e inseguimenti. Aveva rinunciato a tutto questo per rischiare la vita ogni giorno. Ma in fondo al suo cuore c’era anche l’onore. Anni prima aveva giurato a sé stesso che avrebbe portato a termine quella missione, e sapeva che non avrebbe potuto vivere tranquillo se non l’avesse fatto.

 

Yuma era ancora più grande di Bakersfield e Finnick avrebbe scommesso qualsiasi cosa sulla presenza di manifesti con il suo viso in tutta la città.

A guidare la diligenza era Haymitch, che aveva Peeta al suo fianco. Prima di ripartire, i cinque avevano deciso che sarebbe stato opportuno nascondere anche Gale all’interno della carrozza.

Haymitch fermò la diligenza poco fuori città. I cinque scesero; inevitabilmente tutti gli sguardi erano puntati su Peeta, che si tolse il cinturone con la pistola. Lo porse a Finnick, dicendo: “Tenetelo voi. Non mi servirà, dove sto andando.”

“Peeta, possiamo accompagnarti?” chiese Katniss.

Lui ci pensò un po’ su, poi rispose: “Credo sia meglio che veniate solo tu e Haymitch. E comunque, parlerò da solo con Snow.”

“Certo” rispose Haymitch. “Ti aspetteremo fuori dalla sua villa.”

“Bene” fece lo sceriffo. “Se questo è tutto… addio.”

Si voltò verso gli altri due.

“Finnick” disse, ammorbidendosi. “Non so quale sia la tua missione, ma io devo riportare a casa quelle persone.”

“È tutto a posto, Peeta” rispose lui. “Buona fortuna.”

“Grazie” replicò lo sceriffo. “Ne avrò bisogno.”

E si allontanò insieme a Haymitch e Katniss.

 

***

 

La villa di Coriolanus Snow era un immenso edificio, la cui facciata esterna era di un bianco immacolato, che rifletteva la luce del sole facendo risaltare la casa nel paesaggio. Circondata da una spessa fortificazione in metallo, l’unico accesso visibile era un grosso cancello presidiato da due uomini armati.

“Più che una villa sembra un forte militare…” osservò Katniss, impressionata dallo sbarramento.

“Un attacco diretto sarebbe stato impossibile” rispose Peeta.

“Anche un forte militare può essere colpito” intervenne Haymitch.

“Non da cinque uomini” fu la brusca risposta dello sceriffo.

L’altro non ribatté, ma Katniss notò il disappunto sul suo viso.

Dopo qualche minuto, Peeta ruppe il silenzio che si era creato.

“Credo sia arrivato il momento di separarci” disse, tirando fuori dalla tasca una stella di metallo e sistemandola sulla camicia.

“E il tuo vice?” chiese Haymitch.

“Per fortuna non ne abbiamo solo una” spiegò lo sceriffo.

Katniss sentì all’improvviso un groppo in gola.

“Peeta, fa’ attenzione, ti prego!” disse, sforzandosi di tenere ferma la voce.

“Farò il possibile” rispose lui, prima di prendere da parte Haymitch e sussurrargli qualcosa che Katniss non riuscì ad afferrare.

Rimasta sola con Haymitch, osservò preoccupata Peeta che veniva bruscamente perquisito dagli uomini di Snow, prima che il grande cancello si chiudesse alle sue spalle.

 

***

 

“Una visita per me?” chiese sorpreso Snow.

“Proprio così” rispose serio Thread. “È da qualche ora che aspetta.”

“Fallo salire” ordinò Snow, e l’altro uscì dalla stanza.

Rimasto solo, l’uomo cominciò a riflettere. A quanto pareva, c’era un ragazzino che sosteneva di essere lo sceriffo di Hangtown e voleva parlare con lui.

Anche ammettendo che dicesse la verità, cosa poteva mai volere? Era improbabile che qualcuno riuscisse a risalire a lui per la distruzione della città. Snow si chiese se in qualche modo non avesse lasciato le sue tracce dietro all’accaduto.

I suoi pensieri furono interrotti dal rumore di passi che percorrevano l’ultima rampa di scale. Ad entrare per primo fu un giovane, seguito da Thread, che gli stringeva la spalla con la mano simile ad un artiglio.

“Salve, mister Snow” esordì il ragazzo. “Sono lo sceriffo Mellark e vengo da Hangtown.”

L’uomo lo osservò meglio. Aveva dei corti capelli biondi e penetranti occhi azzurri. Sul viso era dipinta un’espressione dura e risoluta.

“Mi perdoni la domanda, sceriffo Mellark… Non è un po’ troppo giovane per portare quel pezzo di latta?” chiese Snow in tono beffardo.

“La stella era di mio padre. Quando venne ucciso da un ladro di bestiame in città, nessuno voleva prendere il suo posto. Così mi feci avanti io.”

“Una storia davvero commovente, sceriffo” commentò Snow. “Ma cosa vuole da me, esattamente?”

“Di certo una persona importante come lei avrà sentito della distruzione di Hangtown.”

“Sì, qualche voce è arrivata fino qui” rispose l’uomo con noncuranza.

“La mia città è stata attaccata da pellerossa. Piedi Neri, per la precisione” disse il ragazzo.

“E quindi?” chiese ancora Snow, sporgendosi in avanti.

“Quei pellerossa hanno fatto molti prigionieri tra la mia gente. Donne e bambini innocenti” aggiunse lo sceriffo, sottolineando l’ultima parola.

“D’accordo” fece l’altro. “Un gruppo di indiani ha assalito questa cittadina, a più di cento miglia da qui, e ora starà stuprando le sue donne. Ma ancora non vedo come tutto questo possa interessarmi.”

“Mister Snow” proseguì imperterrito il giovane. “Il territorio dei Piedi Neri è a poche miglia da qui. Vista la sua influenza in questa zona, vorrei chiederle, a nome di tutti gli abitanti di Hangtown, se potrebbe aiutarci a salvare gli innocenti che sono stati rapiti.”

Snow rimase in silenzio, riflettendo.

“E a me cosa viene in tasca?” chiese infine.

“In cambio potremmo lasciarle l’uso delle miniere intorno a Hangtown. Siamo disposti a farlo” propose lo sceriffo.

Snow lo fissò a lungo. Qualcosa cambiò nella sua espressione. E all’improvviso proruppe in un’orrenda risata. Una risata che aumentava di intensità, una risata perversa e gorgogliante, che alla fine si trasformò in un terribile accesso di tosse. Snow si pulì la bocca con un fazzoletto, macchiandolo di sangue, poi tornò a guardare il giovane, che era rimasto a dir poco sconcertato.

“Mi perdoni, sceriffo, ma solo ora ricordo tutto. Hangtown, le miniere… ma certo. Mi stia a sentire, sceriffo: non è così che funziona il…”

Fu interrotto da Thread, che era tornato silenziosamente.

“Ci sono notizie urgenti, mister Snow!”

L’uomo cercò di reprimere l’irritazione. Thread non lo avrebbe mai interrotto per delle sciocchezze, ne era certo.

“Sarò da lei tra qualche minuto, sceriffo Mellark” disse con falsa cortesia, dopodiché seguì Thread fuori dalla stanza.

Ad attenderlo al piano terra c’erano cinque uomini, fra cui Brutus, uno dei suoi più fidati tirapiedi. Sembravano tutti molto malconci.

“Ebbene?” chiese Snow.

“Veniamo da Bakersfield, signore” iniziò Brutus. “Avevamo trovato il Biondo, in compagnia di tre o quattro uomini, ma purtroppo è riuscito a sfuggirci. Si è diretto verso Yuma.”

“Quando è successo?” ringhiò Snow.

“Ieri sera.”

“Dannazione, potrebbe essere già qui. Avete notizie di Cato?”

“Signore… Cato è rimasto ucciso durante l’inseguimento.”

“Non può essere…” mormorò Snow, stringendo i pugni. “Non è possibile!”

Aveva fatto tutto ciò che era in suo potere per ridurre la pena che Cato avrebbe dovuto scontare in carcere, al fine di riaverlo al proprio servizio il prima possibile. E ora il suo migliore luogotenente era stato ucciso… Qualcuno avrebbe pagato per questo, decise.

“Avete altre…” si interruppe, folgorato da un pensiero. Una coincidenza, troppo assurda per essere tale.

“Thread, Brutus, con me. Se lo sceriffo prova a scappare, tenetelo fermo.”

Poco dopo, si trovavano tutti e quattro nella stanza. Lo sceriffo sembrava aver notato il cambiamento nel clima.

“Stammi bene a sentire, ragazzino” disse minaccioso Snow. “Ora devi parlare. Dimmi in quanti siete e perché siete venuti qui.”

“Non so di cosa stia parlando, mister…” il ragazzo si interruppe: un violento pugno di Thread lo aveva fatto piegare in due, con le mani che in modo convulso premevano sullo stomaco.

“Non sto scherzando” continuò Snow. “Rivelami tutto quello che sai. Dov’è adesso il Biondo?”

Lo sceriffo rimase in silenzio, sostenendo il suo sguardo, finché, ad un cenno di Snow, Thread lo colpì all’altezza della mascella con un pugno così forte da farlo stramazzare sul pavimento di legno. Rialzato in malo modo dai due tirapiedi, si ritrovò faccia a faccia con Snow.

“Questa è l’ultima possibilità, moccioso. Cosa vuole fare il Biondo?”

L’uomo si era talmente avvicinato al ragazzo da poter sentire il suo respiro affannoso.

“Non ti dirò nulla!” esclamò lo sceriffo, con un rivolo di sangue che gli colava da un angolo della bocca.

Poi, senza preavviso, sputò in faccia a Snow.

Sulla stanza scese un terribile silenzio. L’uomo era rimasto immobile, mentre lo sceriffo continuava a fissarlo con uno sguardo di sfida.

Ma Snow non mostrò segni di rabbia.

“Molto bene. Thread, Brutus, portatelo in cella. Da domani me ne occuperò personalmente. In meno di due giorni ci avrà detto anche quello che non vogliamo sapere” concluse, mentre le labbra sporche di sangue si contraevano in un orribile e sadico ghigno.

 

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Capitolo 12
*** Capitolo 9: Uno sceriffo nei guai ***


Finnick capì che qualcosa era andato storto quando vide che Katniss e Haymitch stavano tornando da soli. La ragazza aveva sul viso un’espressione sconvolta e sembrava sull’orlo delle lacrime.

“Dov’è Peeta?” chiese Finnick, avvertendo un brivido attraversargli la schiena.

Fu Haymitch a rispondere. “Snow l’ha catturato” disse laconico.

Finnick si coprì il volto con le mani, mentre alle sue spalle Gale chiese: “Come fate ad esserne sicuri?”

“L-lo abbiamo visto” rispose Katniss. “Era svenuto... lo hanno caricato su una carrozza e se ne sono andati.”

A quelle parole, un terribile presentimento cominciò a farsi strada fra i pensieri di Finnick, che a voce bassa chiese: “In che direzione sono andati?”

“Verso Est, ne sono sicuro” fece Haymitch.

Gale e Finnick si scambiarono un lungo sguardo.

“Questa non è assolutamente una buona notizia” disse l’ex-soldato. “A Est... c’è il carcere di Yuma. Scommetto che lo stanno portando lì.”

“Ma Peeta non ha fatto nulla!” protestò Katniss.

“Questo è ovvio, ma sono sicuro che Snow abbia un tale potere qui da poter rinchiudere chi vuole in quel posto” spiegò Finnick.

“Non possiamo stare con le mani in mano” disse Gale. “Se Snow ha capito che Peeta è con te, non esiterà a estorcergli tutte le informazioni che può” concluse rivolgendosi a Finnick.

Alle loro spalle, Katniss scoppiò a piangere.

“È colpa mia” disse tra un singhiozzo e l’altro. “È tutta colpa mia!”

“Andiamo, dolcezza, non fare così” provò a consolarla Haymitch posandole una mano sulla spalla.

Ma la ragazza non sembrò apprezzare il gesto e, scostatasi, continuò: “Ho avuto l’ultima parola sulla missione e non ti ho dato ascolto, Finnick” spiegò. “Potevo impedire che lo catturassero. Verrà torturato!”

“Forse no... se lo salviamo prima” la voce di Gale li sorprese.

Haymitch sembrava stupito. “Ho capito bene? Vuoi tirare fuori Peeta dal carcere di Yuma?”

“Perché no?” chiese il ragazzo tra sé e sé. Haymitch non riusciva a capire se stesse parlando con lui.

Finnick, intanto, si era isolato dalla discussione. Si rese conto che la piega che stavano prendendo gli eventi non gli piaceva per nulla. Era arrivato a Yuma, e ora? Gli uomini di Snow lo avevano già trovato due volte, non ci avrebbero messo molto a capire dove fosse adesso. Inoltre il suo nemico era già all’erta: aveva sicuramente intuito la sua presenza. Come se tutto questo non bastasse, Peeta si era fatto catturare e Finnick sapeva bene che il suo compagno di viaggio poteva essere una fonte inesauribile di informazioni. Avrebbe semplicemente dovuto cedere alle terribili torture di Snow, e in poche ore tutti e quattro sarebbero stati trovati e uccisi senza pietà. Era una situazione senza via di scampo.

Finnick perse il filo dei pensieri quando si accorse che gli occhi grigi e pieni di lacrime di Katniss lo stavano fissando. La ragazza sembrava ignorare la discussione tra Gale e Haymitch. E Finnick capì: Katniss stava aspettando lui. Forse si sentiva responsabile per aver deciso la votazione, o forse aveva semplicemente bisogno di conforto, ma ormai il suo punto di riferimento era Finnick stesso.

“Lo andremo a riprendere” proruppe il ragazzo. “Non lascerò nessuno dietro di me.”

“Ho un piano” intervenne Gale. “Dovremo muoverci domani, prima del sorgere del sole. Sarà pericoloso: forse sarebbe meglio se fossimo solo tu ed io, Finnick.”

“Io ci sto” rispose lui.

Haymitch, però, non sembrava del tutto convinto.

“E noi cosa faremo qui?”

Finnick ci pensò un po’ su. “Voi potreste raccogliere informazioni. Potreste girare intorno alla villa di Snow, cercare di capire cosa fanno i suoi uomini. Potreste trovare qualche punto debole da usare quando riavremo Peeta con noi” concluse.

 

 

Quando Finnick e Gale si misero in viaggio, l’unica luce era il lieve chiarore proveniente da dietro la cresta delle colline.

Entrambi rimasero in silenzio. A Finnick restare sulle sue non dispiaceva; anzi, lo aiutava a pensare con lucidità, e negli ultimi giorni non aveva avuto molto tempo per riflettere.

Fu Gale a rompere quel silenzio. “Ehi, Finnick” esordì. “Cosa farai quando tutto questo sarà finito?”

Il ragazzo rimase sorpreso dalla domanda. “Intendi dire se ne uscirò vivo?”

Gale rise. “Già, ammetto che le probabilità non sono esattamente a nostro favore. Però chissà, magari riuscirai davvero a concludere la tua missione.”

Finnick esitò. Da quando era partito dalla riserva era diventato estremamente solitario: un cacciatore di taglie non poteva mai fidarsi di nessuno. Ma con Gale e gli altri, in effetti, era diverso. Le loro strade si erano incrociate e avevano già rischiato di morire diverse volte. Il ragazzo ripensò a quello che era accaduto a Bakersfield: quando era stato trovato dagli uomini di Snow, i suoi compagni avrebbero potuto lasciarlo andare in modo da continuare la missione senza essere riconosciuti. Invece, avevano rischiato la loro vita per proteggerlo.

E così Finnick decise che non c’era nessun motivo per nascondere la sua storia a Gale.

“Tornerò nella riserva Apache” disse. “È quello il mio posto.”

Gale parve sorpreso. “Un bianco in una riserva Apache?”

“Sono stati loro a crescermi. Mi hanno trovato quando avevo cinque anni e mi hanno accolto. Sono diventato uno di loro” concluse il ragazzo, deglutendo.

“Ti hanno trovato... eri solo?” chiese cauto Gale.

“La mia famiglia era appena stata sterminata” disse a fatica Finnick. “Da un uomo che si chiama... Coriolanus Snow” concluse, guardando dritto davanti a sé e serrando la mascella.

“È per questo che vuoi ucciderlo? Per vendicare la tua famiglia?”

“Esatto” rispose Finnick. “Anni fa ho giurato a me stesso che avrei ucciso Snow. Non mi fermerò finché non ci sarò riuscito.”

Solo allora il ragazzo si voltò verso il suo compagno di viaggio, che a sua volta lo stava osservando. Negli occhi grigi di Gale, Finnick scorse una scintilla e capì che l’amico riusciva a comprendere perfettamente le sue motivazioni. All’improvviso il ragazzo fu assalito dalla curiosità. “E tu cosa farai quando avremo ucciso Snow?” chiese a Gale.

“Credo proprio che lascerò tutto e tornerò dalla mia famiglia, a Est. Sono mesi che non li vedo” aggiunse, con una punta di amarezza.

“La tua famiglia è in difficoltà?”

“Da quando mio padre è morto in miniera, mia madre deve badare a tre figli. Non appena mi sono arruolato ho fatto in modo che la mia paga fosse consegnata sempre a loro. Ma da quando ho disertato, dubito che arrivi loro qualcosa.”

Finnick notò con stupore che gli occhi di Gale erano diventati lucidi, ma prima che potesse dire qualcosa, il ragazzo proseguì. “Li ho abbandonati per seguire il mio orgoglio. Se succedesse loro qualcosa non potrei mai perdonarmelo.”

“Io ti ammiro, Gale” disse Finnick. “Solo le persone più coraggiose riescono a non rinnegare i propri ideali.”

“Già, le più coraggiose” ribatté l’altro. “Ma sono anche le migliori?”

 

***

 

La porta della cella emise un lungo gemito quando venne aperta rudemente da Thread.

Serio in volto, Coriolanus Snow entrò nella stanza e prese a guardarsi attorno. Non impiegò molto a trovare ciò che cercava: un corpo rannicchiato in un angolo. Lo osservò più attentamente: Peeta Mellark era cosciente e lo stava fissando. Ad un cenno dell’uomo, Thread lo afferrò per un braccio e lo tirò su in malo modo; il ragazzo non oppose resistenza.

Snow si avvicinò lentamente.

“Forse una notte qui è servita a schiarirti le idee” esordì. “Allora, hai deciso di parlare?”

“Non ti dirò nulla” ribatté l’altro.

“Vedremo se tra qualche ora la penserai allo stesso modo... Thread, portalo nell’altra stanza” ordinò Snow.

Il tragitto fu breve. Lo sceriffo sembrava aver accettato il proprio destino, ma questo non impedì alle sue pupille di dilatarsi, non appena fu entrato nella nuova stanza. Non molto distanti dalla spoglia parete in fondo, due lunghi assi di legno erano fissati in modo da formare una X. Una catasta di legna era sistemata vicino a un camino.

Peeta si fermò di colpo, ma una ginocchiata di Thread nella schiena lo fece stramazzare al suolo, stordendolo.

“Togligli la camicia e legalo” disse Snow.

L’uomo eseguì e in pochi minuti Peeta si ritrovò legato per i polsi e per le caviglie alla bizzarra croce di legno.

Snow afferrò uno sgabello e si sedette davanti al camino; prese un ceppo dalla catasta e un fiammifero e cominciò ad accendere il fuoco.

Senza neanche guardare il ragazzo,iniziò a parlare. “Cominciamo con una domanda semplice, sceriffo Mellark. In quanti siete arrivati a Yuma?”

La bocca di Peeta rimase chiusa, fino a che Thread non lo colpì con un violento calcio.

“A quanto pare il moccioso ha fegato” commentò Snow. “La prossima volta colpiscilo più forte.” Poi continuò, in tono mellifluo: “Forse era una domanda troppo facile per uno come te, sceriffo Mellark. Riproviamo... dove si nascondono i tuoi amici?”

“Non avrai nessuna informazione da me!” esclamò Peeta.

“Thread... procedi pure” sussurrò Snow in tono malevolo.

L’uomo si tirò su le maniche e, divaricate leggermente le gambe, colpì il volto del ragazzo con un pugno. Poi con un altro, e un altro ancora.

“Sembra che sia svenuto, signore.”

“Oh, non è un problema” rispose Snow. “Dopotutto, direi che il fuoco è pronto. Divertiti pure, Thread.”

L’uomo dagli occhi di ghiaccio afferrò un lungo pezzo di ferro, serrando le dita attorno a un’impugnatura di legno, dopodiché lo tenne per qualche minuto sul fuoco, che ora cominciava ad ardere vivace.

Ben presto la sbarra si tinse di un rosso acceso, e Thread, quasi delicatamente, la fece aderire al braccio sinistro del ragazzo, che in pochi istanti cominciò a gemere, fino a quando non ebbe ripreso conoscenza.

“Bentornato fra noi, sceriffo Mellark. Cosa è successo, la nostra conversazione ti ha annoiato a tal punto da farti addormentare?” lo canzonò Snow. “Thread, forse è il caso di... riaccendere il suo interesse.”

Come un automa, l’uomo prese a picchiare il torso nudo del ragazzo con la sbarra rovente. Dopo ogni colpo lasciava il ferro a contatto con la pelle, abbastanza a lungo affinché al dolore del colpo si sostituisse quello dell’ustione.

Ad ogni grido di dolore, il diabolico ghigno sul volto di Snow si allargava sempre di più, finché l’uomo fece fermare Thread e si avvicinò al corpo martoriato di Peeta.

“Avanti, ragazzino, confessa.”

Dalle labbra secche dello sceriffo uscì un sussurro quasi inudibile.

“Cosa hai detto?” chiese Snow, sporgendosi in avanti. “Parla più forte!”

“Ho detto... che sei tu quello che deve confessare” riuscì a dire Peeta, che sembrava provare dolore a ogni parola.

“E cosa dovrei confessare io?” Snow era sinceramente perplesso.

“Io lo so” disse Peeta. “Sei tu il bastardo che ha fatto radere al suolo la mia città. Pagherai per questo.”

L’uomo restò sorpreso per un istante, poi cominciò a ridere. “Oh, ma certo, di sicuro un giorno il buon Dio me la farà pagare. Ma dimmi una cosa, sceriffo: dov’è il tuo Dio adesso?”

La fronte imperlata di sudore, Peeta rimase zitto.

“Thread, riportalo in cella. Dovremo inventarci qualcosa di più doloroso.”

E con un’altra orribile risata uscì dalla stanza.

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Capitolo 13
*** Capitolo 10: La cella della morte ***


Finnick e Gale aspettavano pazienti, senza fare il minimo rumore.

Sapevano bene di dover attendere il momento propizio per agire, ed erano pronti a sfruttare la minima occasione che si fosse presentata loro. Entrambi avevano lo sguardo fisso sul loro obiettivo: il carcere di Yuma. Le alte mura che circondavano l’edificio non lasciavano intravedere quasi nulla, se non le imponenti torri di guardia. Irrompere nel carcere e provocare un’evasione era un’impresa disperata, ma tirarsi indietro era l’ultimo dei loro pensieri.

Ad un tratto, qualcosa catturò la loro attenzione: il minaccioso cancello nero si stava aprendo. Qualche minuto dopo, ne uscì una diligenza circondata da cinque uomini a cavallo; il gruppo imboccò la pista per Yuma e si allontanò.

Finnick e Gale si guardarono.

“Hai visto?” chiese il primo.

“Certo” rispose l’altro. “Finalmente se ne sono andati.”

Finnick tornò con la mente a qualche ora prima, quando l’arrivo della carrozza e della sua scorta li aveva sorpresi e costretti a ritardare l’irruzione.

“E adesso qual è il momento migliore per attaccare?” chiese Finnick.

Gale ci pensò su, stuzzicandosi con le dita il sottile strato di barba incolta sul mento. “Credo subito dopo l’ora del pranzo” disse infine. “In genere tutti ne approfittano per riposarsi.”

L’altro annuì. “Sei ancora sicuro del tuo piano?”

“È l’unica possibilità che abbiamo” ribatté Gale.

Finnick non avrebbe saputo dire se l’ex-soldato stesse cercando di convincere lui o sé stesso.

“Piuttosto, dovremmo cominciare a prepararci” continuò Gale.

“Prepararci?” ripeté Finnick.

“Già… se fossi in te mi toglierei quel cinturone” suggerì l’altro, mentre tirava fuori da una bisaccia una giacca blu dall’aria familiare.

 

Qualche decina di minuti dopo, Finnick cominciava a sentirsi a disagio. L’assenza del cinturone con le pistole lo faceva sentire fragile e indifeso, e la corda che gli stringeva i polsi a mo’ di manette di certo non lo aiutava.

“Non avrai stretto troppo?” azzardò.

“Se la corda fosse più lenta, tutti si accorgerebbero della messinscena” rispose Gale, che era tornato a tutti gli effetti un capitano dell’esercito. “Così, invece, sarai un perfetto prigioniero.”

Il sole brillava alto nel cielo quando i due si misero in cammino verso il carcere.

“Alt!” disse perentoria la sentinella, non appena si furono avvicinati. “Identificatevi!”

“Sono Glenn Stark, capitano dell’unità 401” ribatté Gale senza esitare. “Ho un prigioniero con me.”

La sentinella li osservò per alcuni secondi, che a Finnick sembrarono ore. Il ragazzo si sentì sollevato quando capì che era stato dato l’ordine di aprire il cancello.

Gale lo spinse avanti e i due entrarono, Finnick a passi incerti e l’ex-soldato con un’andatura molto più sicura.

Non appena il cancello si fu richiuso alle loro spalle, si ritrovarono circondati e sotto tiro.

Senza scomporsi, Gale cominciò a parlare. “Quest’uomo è Finnick Odair. Coriolanus Snow lo cerca vivo, e io gliel’ho portato. Ma è un maledetto serpente a sonagli, e non mi sentirò tranquillo finché non l’avremo sbattuto in una cella.”

Le guardie si scambiarono sguardi incerti, ma alla fine quello che doveva essere il più esperto prese la parola. “D’accordo” disse. “Lo porteremo in cella, seguitemi. E voi, tornate sulla torre!” concluse, rivolgendosi agli altri.

I tre attraversarono il cortile e si diressero verso l’edificio principale, una tozza e minacciosa costruzione bianca.

Finnick trasse un sospiro di sollievo quando capì che ad accompagnarli sarebbe stata solo una delle guardie. Mentre incespicava in avanti, alle sue spalle udì i due parlare.

“Io sono Darius Payne” si presentò la guardia. “Come hai detto che ti chiami, ragazzo?”

“Glenn Stark” ripeté Gale. “Vengo da Fort Defiance.”

“È strano… mi sembra di aver già sentito questo nome” disse l’altro.

Finnick resistette all’impulso di voltarsi verso Gale. Perché aveva scelto quel nome?

“Sai, anche io ero nell’esercito, tempo fa” continuò la guardia.

“Probabilmente mi avrai sentito nominare lì, allora” tagliò corto Gale.

Troppo in fretta, pensò Finnick.

“Potrebbe darsi” rispose Darius, in un tono che al ragazzo sembrò tutt’altro che convinto. La guardia si rivolse ancora a Gale. “A quanto pare in questo periodo Coriolanus Snow cerca un sacco di gente” disse ammiccando.

“Cosa vuoi dire?”

“Voglio dire che ieri ha fatto portare qui un altro uomo” fece una pausa, poi si corresse. “Beh, più che un uomo, un ragazzo, direi. Lo ha fatto sbattere in cella e stamattina si è… soffermato ad interrogarlo.”

“Davvero?” chiese Gale, socchiudendo gli occhi.

“Già. Non so cosa abbia fatto quel ragazzino, ma direi che ora ne sta pagando le conseguenze.”

A quelle parole Finnick sentì montare la rabbia dentro di sé. Serrò bruscamente i pugni, ancora legati dietro la schiena.

“Cos’hai, biondino? Hai paura che mister Snow faccia visita anche a te?” lo schernì Payne. “Preparati, perché domani mattina sarà di nuovo qui. Scusatemi un minuto” disse poi, allontanandosi dai due.

“Io lo uccido” sussurrò Finnick, fremendo dalla rabbia.

“Stai calmo” disse piano Gale. “Lui è la nostra chiave per arrivare a Peeta.”

Darius Payne tornò qualche minuto dopo con un grosso mazzo di chiavi. I tre erano ormai giunti al grande portone del carcere, che emise un lungo gemito non appena venne aperto dalla guardia. Darius condusse Gale e Finnick lungo il grande corridoio in penombra. Le buie celle sembravano quasi tutte occupate, ma il silenzio era assoluto, fatta eccezione per i loro passi che riecheggiavano.

“Stai tranquillo, biondino, vedrai che ti troveremo una stanza confortevole” disse beffardo Payne. “Goditela, perché forse domani mister Snow ti sbatterà nella Cella Oscura assieme all’altro ragazzino.”

Finnick strinse i denti, ma non disse nulla e continuò a camminare. Cominciava a chiedersi quando avrebbero dato inizio al piano: il tempo cominciava a stringere.

“Ehi, Darius” disse Gale all’improvviso. “Cosa c’è lì dietro?”

Finnick si voltò: il suo amico stava indicando una porticina socchiusa sulla parete del corridoio.

“È solo un ripostiglio… Cosa pensi di fare con quella pistola?

“Ti auguro una buona permanenza nel ripostiglio” disse Gale. Poi, senza dargli il tempo di reagire, calò con forza il calcio della pistola sulla testa di Darius Payne. La violenta botta lo fece stramazzare a terra, privo di sensi.

“Bel colpo, amico!” si complimentò Finnick con un sorriso. “Ora però slegami. Cominciavo a pensare che ti fossi calato fin troppo nella parte del carceriere.”

“Dovevo aspettare il momento giusto” ribatté Gale. “In effetti sei stato davvero un ottimo prigioniero, ma adesso aiutami con questo tipo.” Si chinò e afferrò Darius Payne per le braccia. Finnick annuì e prese le gambe della guardia.

Insieme trascinarono l’uomo nel ripostiglio, che venne chiuso a chiave da Gale. “Così non disturberà nessuno, quando avrà ripreso coscienza” disse.

“Questo verme ci ha anche detto dove tengono Peeta” disse Finnick. “Ora dobbiamo scoprire dove si trova questa Cella Oscura. Pensi che dovremmo dividerci?”

Gale scosse la testa. “Non credo. Se incontrassimo qualche sorvegliante, in due potremmo metterlo al tappeto più facilmente.”

“Ehi, voi” una voce strascicata li fece trasalire entrambi. Finnick si voltò di scatto: a parlare era stato un uomo nella cella più  vicina. “Già, dico proprio a te, biondino” continuò, sogghignando. “Ho visto che avete steso quel bel tipo, e ho visto anche che avete un mazzo di chiavi dall’aria… invitante.” Il suo sguardo si posò sulla mano di Gale.

Finnick si avvicinò lentamente alle sbarre.

“Abbiamo bisogno di informazioni, amico.”

“Apri questa maledetta porta e ne riparliamo” disse l’uomo in tono minaccioso.

“A me sembra che siamo noi dalla parte giusta delle sbarre” ribatté Finnick senza esitare. “Quindi ti conviene aiutarci: dove si trova la Cella Oscura?”

L’uomo fece una smorfia. “È un gran brutto posto. Talmente brutto che non si trova nemmeno qui.”

“Cosa vuoi dire?” chiese bruscamente Gale.

“In fondo a questo corridoio c’è un’uscita. La Cella Oscura è lì vicino, ma è parecchio sorvegliata.”

“Non ci sarà nessuno quando ci andremo” disse Finnick.

“Cosa stai dicendo, biondino?” chiese l’uomo in tono aspro. “Le guardie si danno il cambio, è sempre sorvegliata!”

Quando rispose, il ragazzo aveva un sorrisetto sulle labbra.

“Non se farete abbastanza confusione.”

 

 

Una decina di minuti dopo, Finnick e Gale guidavano un gruppo di trenta persone, ormai libere dalle loro celle.

“Dovremmo vergognarci per quello che stiamo facendo” disse il primo. “Questi uomini sono criminali e assassini, e noi li stiamo rimettendo in libertà.

“Forse hai ragione” rispose l’altro. “Ma in mezzo a loro ci sono sicuramente dei nemici di Snow. E di certo sono innocenti.”

“Già” convenne Finnick, sospirando. Poi si rivolse agli evasi. “Va bene, ora statemi a sentire tutti quanti. L’ultima cosa che gli sbirri si aspettano è un’evasione di massa. Quindi quello che dovete fare è saltare fuori da questo maledetto posto come se foste dei diavoli appena usciti dall’Inferno. Siete dei pendagli da forca, quindi dovreste saperlo fare abbastanza bene.” Fece una pausa, temendo di avere esagerato, ma negli occhi degli evasi vide solo lampi di eccitazione.

Sono davvero dei pendagli da forca, pensò, prima di continuare a parlare. “Sono stato abbastanza chiaro? Dovrete mettere in corpo a quegli sbirri una paura tale che anziché provare a fermarvi, se ne andranno a cercare la latrina più vicina!”

“Sai parlare bene, biondino” disse uno degli evasi.

“Oh, è solo un piano di evasione” rispose Finnick con noncuranza. “E adesso, mostrate agli sbirri che i veri uomini siete voi, e non dei codardi in divisa. Avanti, diavoli, portate l’Inferno fuori da qui!”

Esaltati dal discorso, gli evasi corsero verso l’uscita proprio mentre una guardia entrava nel corridoio. Gli ormai ex-prigionieri si avventarono su di lui con una tale furia che Finnick dovette distogliere lo sguardo.

“Li hai caricati per bene” osservò Gale con una smorfia.

“Quel poveretto mi rimarrà sulla coscienza” ammise Finnick. “Ma tutto questo ci permetterà di liberare Peeta.”

“Già, dobbiamo muoverci” lo esortò l’altro.

I due attraversarono con cautela il corridoio. Non impiegarono molto per capire quale fosse la porta che dava sull’esterno, ma prima che potessero raggiungerla, una flebile voce familiare attirò l’attenzione di Finnick.

“Lupo… Vendicatore” lo chiamò la voce.

Il ragazzo, incredulo, si avvicinò alla cella dalla quale proveniva il richiamo.

“Thresh?” chiese, incerto. “Sei davvero tu?”

“Finnick, cosa succede?” chiese Gale, impaziente. “Non abbiamo molto tempo!”

“Non posso, Gale!” rispose il ragazzo.

“Peeta ha bisogno di noi!”.

“Non è l’unico” rispose Finnick. “Per favore, Gale, vai avanti. Ti raggiungo subito!” aggiunse, quasi in tono supplichevole. Con suo sollievo, l’ex-soldato acconsentì, non senza riserve, e continuò ad avanzare.

Con le grida degli evasi che si allontanavano sempre più, il ragazzo scrutò all’interno della cella. Lì, appoggiato alle sbarre, c’era un uomo dai tipici lineamenti dei Nativi. Sembrava malconcio ed era emaciato all’inverosimile.

“Thresh!” chiamò ancora.

“Sono io, Lupo Vendicatore” rispose a fatica l’indiano.

“Come sei finito qui?”

“Uomini bianchi… mi hanno fatto prigioniero molte lune fa.”

Finnick ebbe un brutto presentimento. “Erano uomini in divisa?” chiese ancora.

“No” rispose subito l’altro. “Non avevano la divisa.”

Il ragazzo capì che i propri timori erano fondati. Thresh era stato preso dagli stessi uomini di Snow, chissà quanto tempo prima. Perché Falco Nero non gliene aveva parlato? Thresh era il capo dei guerrieri Apache, e la sua scomparsa non era di certo passata inosservata. In ogni caso, doveva portarlo fuori da lì, e alla svelta: Gale poteva già essere in difficoltà.

Con movimenti frettolosi cercò la chiave giusta e, una volta trovata, la infilò nella serratura e girò.

“Ce la fai a camminare?” chiese a Thresh, che non sembrava per nulla sicuro sulle sue gambe.

“Ce la faccio” rispose lui, dimostrando che l’indole del guerriero Apache non lo aveva affatto abbandonato.

“Allora seguimi, svelto!” lo esortò Finnick.

Insieme si diressero verso la porta, che trovarono socchiusa. Gale doveva essere già uscito.

Una volta fuori, la prima cosa che i due udirono fu il rumore degli spari: lo scontro fra gli evasi e le guardie era cominciato.

Lo sguardo di Finnick guizzò in tutte le direzioni: il posto sembrava deserto, finché non riuscì a scorgere Gale che avanzava rasente alla parete dell’edificio. In breve tempo, i tre si trovarono davanti il loro obiettivo. L’ingresso della cella era più stretto rispetto alle altre e sulla pietra che sovrastava le sbarre era incisa un’inequivocabile scritta: «Cella Oscura».

“Sembra che il diversivo abbia funzionato” disse Gale, e senza indugiare scelse la chiave giusta ed entrò nella cella.

Quando ne uscì, Finnick dovette trattenere un gemito: l’ex-soldato sorreggeva Peeta. Il volto dello sceriffo era tumefatto e incrostato di sangue, ma a destare l’orrore del ragazzo fu il suo torso nudo, coperto di lividi  e di ustioni.

Le avrebbero curate in seguito, decise Finnick.

“Dobbiamo andarcene in fretta!” esclamò, rivolto agli altri.

Gale annuì e i quattro si misero in marcia aggirando l’edificio.

Una volta arrivati nei pressi del grande cancello, lo spettacolo che si parava davanti ai loro occhi era terrificante: gli evasi stavano disperatamente cercando di aprirsi un varco verso l’unica uscita possibile, mentre le guardie li respingevano con armi da fuoco; molti corpi giacevano inermi a terra.

Finnick si voltò verso Gale e scoprì che l’ex-soldato lo stava già guardando. I due si erano capiti all’istante: non avrebbero mai aperto il fuoco contro i difensori della prigione.

Alla fine, l’impeto degli evasi ebbe la meglio sulle pallottole delle guardie e i fuggitivi riuscirono ad aprire il cancello. Fu allora che Finnick, Gale, Peeta e Thresh colsero l’attimo e corsero verso l’uscita, unendosi al gruppo degli evasi. I quattro sentivano i proiettili fischiare attorno a loro, ma in qualche modo ne uscirono indenni; senza fermarsi si diressero verso la sommità della collina, dove avevano lasciato i cavalli.

Prima di continuare a scappare, Finnick lanciò un’ultima fugace occhiata alla sanguinosa battaglia e, osservando ancora il massacro che si stava compiendo, si chiese per l’ennesima volta se la sua missione valesse ancora qualcosa.

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Capitolo 14
*** Capitolo 11: Il guerriero Apache ***


Katniss uscì lentamente dallo spaccio. Si guardò attorno, circospetta, squadrando la strada di fronte a lei, finché non si lasciò sfuggire un sospiro di frustrazione. Haymitch l’aveva tormentata con le sue raccomandazioni, ma così facendo le aveva messo una tale ansia che non osava fare due passi senza temere di non avere tutto sotto controllo.

Katniss però si era accorta che c’era qualcosa di strano in quella città. Non era mai stata in un posto grande come Yuma, eppure non riusciva a scrollarsi di dosso la fastidiosa sensazione di essere sempre osservata da qualcuno.

Tenendo il pane appena comprato sotto il braccio, cominciò a camminare. Era sicura che tutto quel guardarsi attorno avrebbe attirato ancora più attenzione.

Eppure, all’improvviso lo vide di nuovo. Dall’altra parte della strada c’era un uomo dalla pelle scura, il volto parzialmente nascosto da un cappello a larghe tese. Era seduto per terra come uno dei tanti medicanti di Yuma e Katniss non poteva vedere con chiarezza i suoi occhi, ma in qualche modo era sicura che la stesse osservando. Ed era altrettanto sicura di averlo già intravisto vicino alla stalla, qualche ora prima. In effetti, c’era un nero dallo sguardo sfuggente anche quando si era fermata a dare un’occhiata all’armeria.

Non era un buon segno, decise Katniss.

Senza quasi volerlo, accelerò impercettibilmente il passo. Tutto quello che voleva era allontanarsi dallo strano mendicante. Più ci pensava, più le sembrava che avesse un’aria familiare.

Smettila, si impose. Qui non ti conosce nessuno.

Ma quei pensieri non le impedirono di camminare sempre più velocemente.

Non voltarti, non voltarti, si ripeté, sapendo che era la cosa peggiore che potesse fare. Non riuscì a dominare quell’impulso e, senza smettere di camminare a passo spedito, si girò.

L’uomo non c’era più.

Presa dal panico, Katniss cominciò a correre: adesso aveva la certezza che l’uomo la stava cercando. Doveva assolutamente andarsene dalla strada principale. Pochi passi più avanti c’era un vicolo, alla sua destra; vi si infilò senza pensarci troppo su.

La stradina era stretta e maleodorante: il suo naso si arricciò in una smorfia di disgusto.

Senza nemmeno voltarsi, cercò di riprendere fiato nella penombra. Nella testa aveva già una mezza idea di raggiungere Haymitch, quando all’improvviso una mano le chiuse la bocca, stringendola in una morsa d’acciaio.

Con gli occhi sbarrati dalla paura, senza poter chiamare aiuto, Katniss si divincolò disperata, inarcando la schiena e scalciando con rabbia. Fu tutto inutile contro i possenti muscoli dello sconosciuto.

“Shh!” fece lui. “Non vorrai mica attirare gli uomini di Snow, vero?”

A quella domanda Katniss rimase sbigottita.

“Ora ti lascio” continuò l’uomo. “Ma tu non devi strillare. Non ti farò del male.” E detto questo, lasciò andare la ragazza, che si voltò di scatto.

Era proprio lui, il falso mendicante dalla pelle scura.

“Mi riconosci, adesso?” chiese.

Katniss lo osservò meglio e alla fine capì. In effetti, il cappello e il vecchio poncho sgualcito celavano bene le sue reali fattezze.

“Io… certo, adesso ti riconosco” balbettò lei. “Eri con Gale a Hangtown.”

L’uomo dalla pelle d’ebano sorrise. “Mi chiamo Boggs” si presentò, tendendo la mano.

“Katniss” rispose lei, stringendola.

“Ti chiedo scusa per averti spaventata” proseguì lui. “Non ero sicuro che fossi davvero tu e non volevo metterti in allarme davanti a tutti. È un posto pericoloso, questo” aggiunse.

A quelle parole Katniss sentì il cuore gonfio di preoccupazione per Peeta e i suoi amici: non aveva idea di come stesse andando la pericolosa missione.

“Già, puoi dirlo forte” rispose, cercando di farsi forza. “Come mai sei qui?” chiese poi, curiosa.

“Il capitano Hawthorne ci aveva ordinato di raggiungerlo a Yuma non appena avessimo finito di dare una mano nella tua città” spiegò Boggs. “L’intera compagnia è accampata poco fuori Yuma.”

La sorpresa di Katniss si trasformò presto in speranza: la ragazza realizzò che con la squadra di Gale avrebbero avuto la possibilità di affrontare Snow.

“In ogni caso, ero venuto in città per cercare il capitano” disse Boggs. “Dove posso trovarlo?”

“Gale non è qui” rispose la ragazza. “Abbiamo avuto qualche… problema.”

“Che ne diresti di parlarne nel nostro accampamento?” propose lui. Katniss si accorse che stava cercando di mascherare la preoccupazione. “Le nostre tende sono più comode di questo vicolo puzzolente” aggiunse.

“Volentieri!” rispose lei sorridendo.

 

L’accampamento della Squadra 451 era situato ai margini del deserto di Yuma, lontano da occhi indiscreti. Katniss era riuscita a contare una dozzina di  tende piantate nel terreno polveroso. C’erano sempre due sentinelle a fare la guardia: Boggs spiegò alla ragazza quanto fosse fondamentale avere sempre qualcuno che sorvegliasse l’accampamento. Dopodiché, la condusse nella sua tenda. Lì, Katniss raccontò la loro avventura, compresi la cattura di Peeta e il tentativo di salvarlo.

“Ho un compagno da recuperare” disse poi, riferendosi a Haymitch. “Ci eravamo messi d’accordo per ritrovarci al tramonto.”

“Nessun problema” la rassicurò Boggs. “Ti farò scortare da quattro persone in gamba. E farete meglio a passare dal vostro accampamento: è più sicuro se vi trasferite da noi.”

 

***

 

Finnick si sentiva sprofondare nella polvere: aveva le gambe talmente pesanti da poter solo trascinare i piedi. Sapeva che Gale provava le stesse sensazioni, lo capiva dagli occhi semichiusi del suo amico. Entrambi stringevano in mano le briglie dei due cavalli; sulla schiena degli animali si reggevano a malapena Peeta e Thresh, mai del tutto lucidi.

Il viaggio di ritorno dal carcere di Yuma si era rivelato una vera odissea. Il solo pensiero che spingeva i quattro ad andare avanti era la consapevolezza di aver quasi raggiunto l’accampamento. Eppure, una volta arrivati, Finnick reagì sgomento a quello che vide: l’accampamento era completamente desolato. Sapeva che Katniss e Haymitch sarebbero dovuti essere lì. Era successo loro qualcosa?

Sentì le forze venirgli meno; lasciò andare la briglia del cavallo e si lasciò cadere sulle ginocchia. Il cinturone che portava alla vita adesso sembrava pesare tonnellate… eppure a cosa serviva un revolver carico e una mano veloce come la sua?

Aveva rischiato la vita per salvare un compagno e adesso ne aveva persi due. Impolverato e impotente, Finnick sfogò tutta la sua frustrazione prendendo a pugni la rovente sabbia del deserto.

E senza alcun preavviso, una voce femminile fece trasalire tutto il gruppo: “Capitano!”

Finnick si voltò di scatto: una donna a cavallo era appena sbucata da dietro una grossa roccia. Aveva lunghi capelli castani e con assoluta naturalezza portava un fucile di notevoli dimensioni sulla schiena. I suoi limpidi occhi verdi stavano fissando Gale, che appariva abbastanza sbalordito da non riuscire a spiccicare parola.

“Jackson…” mormorò il ragazzo. “Cosa ci fai qui?”

“Eseguo i tuoi ordini, capitano Hawthorne” rispose la donna; un sorriso obliquo le attraversava il volto. “Sei stato tu a dire alla Compagnia 451 di raggiungerti in questo maledettissimo deserto, o sbaglio?”

“Credo di sì…” borbottò Gale tra sé e sé. Si portò una mano agli occhi e prese a stropicciarli nervosamente. “Avete preso voi i nostri amici?” chiese infine.

“Sono sani e salvi nel nostro accampamento. Al contrario di me… Boggs mi ha mollato qui a fare il palo, finché non siete arrivati voi e avete cominciato a fare a botte con il deserto. Eh sì, dico a te, biondino” aggiunse, inclinando il capo verso Finnick e sorridendo beffarda.

Lui d’istinto si guardò il dorso delle mani. Le nocche erano terribilmente scorticate e il sangue colava copiosamente dalle ferite fresche.

“Avrai bisogno di una bella fasciatura, lì” riprese Jackson, ammiccando. “Forza, vi porto al nostro accampamento.”

 

Diverse ore più tardi, Finnick sedeva nella tenda più grande del campo. Accanto a lui si era sistemato Gale; di fronte aveva Boggs e Jackson. La donna sembrava non separarsi mai dal suo fucile.

“Snow controlla il carcere di Yuma” esordì Gale. “Lo sospettavamo, ma ora che ci sono entrato ne ho avuto la certezza. Lì dentro ogni guardia risponde ai suoi ordini” concluse, in tono grave.

“Come avete fatto ad uscirne?” chiese Boggs, stupito.

“Abbiamo provocato… un’evasione di massa.” Adesso la voce di Gale si era fatta esitante. A Finnick non sfuggì lo sguardo accigliato di Jackson. “Era l’unico modo per venirne fuori vivi” riprese Gale. “C’erano innocenti, lì dentro. In cella solo per aver ostacolato i crimini di Snow!”

“Non ti preoccupare, capitano. Quella prigione era solo un postaccio da ripulire” lo rassicurò Boggs. Gale abbassò lo sguardo, ma solo per un attimo.

“Come stanno i due che abbiamo riportato indietro?” chiese.

“Oh, lo sceriffo si rimetterà presto” rispose Jackson. “L’indiano, invece… per come è conciato, sarebbe dovuto morire da diverso tempo. Evidentemente ha la pelle più dura del previsto. Ma si può sapere chi è?”

Finnick sapeva che l’amico non poteva rispondere.

“Lui è Thresh, il capo dei guerrieri Apache” si affrettò a spiegare. “ Ed è come un fratello, per me.”

Gale si voltò verso di lui. “E come è finito nel carcere di Yuma?” chiese, sbalordito.

“Non lo so” Finnick scosse la testa. “Forse ce l’hanno portato i Piedi Neri, forse gli uomini di Snow. L’unica cosa che so è che è stato torturato per chissà quanto tempo. Era disperso da mesi… alla riserva lo credevano morto.”

“Non temere, sopravvivrà anche lui” disse Jackson.

Il respiro di Finnick si era fatto pesante. “Vorrei parlare con lui il prima possibile.”

 

Thresh sonnecchiava in una brandina troppo piccola per lui. Dall’altra parte della tenda medica c’era Peeta, anche lui a riposo.

Non appena Finnick mosse un passo verso Thresh, gli occhi dell’indiano si aprirono e un pallido sorriso si fece strada sul suo volto.

“Lupo Vendicatore…” esordì con voce roca. “Sono davvero ancora vivo?”

“Le grandi praterie del cielo dovranno aspettare, prima di poterti accogliere” sorrise Finnick. “Hai ancora delle imprese da compiere, Thresh.”

“Se così vorrà il Grande Spirito.”

Finnick chinò il capo, poi riprese: “Come eri finito nel carcere di Yuma? Alla riserva tutti ti considerano morto. Io stesso non credevo ai miei occhi quando ti ho visto dentro quella buia cella.”

Thresh gli rivolse uno sguardo carico di sofferenza. “Ero a caccia con tre guerrieri, ma degli uomini ci hanno accerchiato. Hanno abbattuto i miei tre fratelli e mi hanno legato.”

Finnick poteva sentire l’altro digrignare i denti.

“E poi, Thresh? Ti hanno portato a Yuma?”

“No, Lupo Vendicatore. Mi hanno portato nell’Inferno dei Piedi Neri” Thresh chiuse gli occhi. “Quei cani mi torturavano… e l’uomo bianco faceva le domande.”

“L’uomo bianco?” ripeté incredulo Finnick.

Thresh annuì. “Faceva domande sulla nostra riserva, domande a cui era impossibile rispondere. Ma lui lo sapeva, Lupo Vendicatore. A lui piaceva farmi torturare. E i Piedi Neri hanno distrutto il mio onore. Mi hanno impresso sul petto il loro sciacallo… adesso non sono più un guerriero Apache.” Thresh tacque, lo sguardo perso nel vuoto.

Finnick rimase interdetto. Doveva fare qualcosa, e alla svelta: conosceva Thresh abbastanza da sapere che per un vero guerriero Apache l’onore e l’appartenenza alla propria tribù erano tutto. E i Piedi Neri gli avevano sottratto entrambe le cose.

“Ehi” lo chiamò, afferrandolo per una spalla. Thresh parve riscuotersi dal torpore. “Tu non hai mai smesso di essere un Apache. Sei rimasto vivo, hai lottato. Alla riserva ci sono i tuoi guerrieri che ti aspettano.”

Con enorme sollievo, Finnick notò che il volto pallido di Thresh stava recuperando un po’ di colore, così continuò a parlare. “E poi, stiamo per affrontare l’uomo che ti ha fatto questo. Lo staneremo e vendicheremo tutti i torti che ti ha fatto. È anche la mia vendetta, Thresh.”

Come rianimato da quelle parole, l’indiano scostò bruscamente la coperta che aveva addosso. Sul possente torso nudo, Finnick distinse chiaramente la sagoma di uno sciacallo impressa sulla pelle. I contorni della figura erano di un tremendo rosso vivo.

“I coltelli dei Piedi Neri sono affilati, fratello” disse Thresh, che aveva perfettamente indovinato i suoi pensieri. Poi si alzò e, anche se un po’ incerto, rimase in piedi.

“Torno alla riserva, Lupo Vendicatore.”

“Non puoi!” protestò Finnick. “Sei ridotto male, non ce la puoi fare ad affrontare un viaggio così lungo da solo!”

“Sono ancora il capo dei guerrieri Apache. E loro mi credono morto” spiegò, ripetendo le parole di Finnick. “Devo tornare da loro. Lo hai detto tu stesso.”

“Hai bisogno di riposo.”

“Non riposerò finché non avremo vendetta.”

Finnick chinò il capo: sapeva che insistere non sarebbe servito. “Fai attenzione. Non voglio perderti un’altra volta.”

“Ce la farò. E ti porterò dei guerrieri” promise l’altro, incamminandosi verso l’uscita della tenda.

“Thresh” lo richiamò Finnick. Improvvisamente aveva la gola secca. “Ecco… salutami Annie, se puoi.” Deglutì.

“Contaci, Lupo Vendicatore” rispose Thresh, stavolta senza l’ombra di un sorriso. E uscì dalla tenda.

 

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Capitolo 15
*** Capitolo 12: Il tranello ***


Nonostante non avesse ancora raggiunto lo zenit, il sole picchiava ferocemente sul deserto di Yuma. Lì, alle soglie di un tozzo e minaccioso edificio di pietra, Coriolanus Snow contemplava il disastro. Il volto impassibile, si aggirava nel cortile esterno di quello che era stato il carcere di Yuma. Già, come si poteva definire un edificio che non conteneva più i suoi prigionieri?

Numerose guardie giacevano senza vita, uccise dai colpi delle loro stesse armi da fuoco o, peggio ancora, trucidate a mani nude dalla peggiore feccia che quel posto avesse ospitato. E se fossero state ancora vive, Snow le avrebbe ammazzate di persona, per essersi fatte sfuggire un’occasione così ghiotta. Finnick Odair che si consegnava nel suo carcere… Snow non era mai stato tanto vicino a mettere le mani sul collo di quel maledetto ficcanaso. Invece ora vagava a piede libero, insieme allo sceriffo. Gli avrebbero causato altri problemi, questo era poco ma sicuro.

Si voltò. Thread era appoggiato al cancello della prigione e si dondolava pigramente su un piede. Evidentemente aveva preferito tenersi a distanza di sicurezza. Snow lo chiamò, facendogli cenno di avvicinarsi.

“Voglio quei cani, vivi o morti” gli intimò.

Lui si limitò a fissarlo per un po’ con i suoi occhi di ghiaccio, poi disse: “Probabilmente sono accampati da qualche parte intorno alla città.”

“Allora fai in modo di trovarli. Manda i nostri uomini in perlustrazione già da stanotte.”

“Sarà fatto.”

“Thread…”

“Mister Snow?”

“Quando li trovi…” Snow fece una piccola pausa. “Spazzali via.”

 

***

 

Katniss si aggirava tra le tende dell’accampamento, incurante dell’accecante sole del primo pomeriggio. Tutto quello che desiderava era allontanarsi il più possibile dalla grande tenda in cui si stavano definendo i dettagli del piano. Aveva lasciato Finnick, Peeta e Gale con le teste che cominciavano a fumare, sia per il caldo che per le difficili decisioni da prendere.

Il loro piano le sembrava completamente folle… come d’altronde era stato il loro viaggio fino a quel momento. Ma ciò che turbava Katniss, in realtà, era il suo ruolo all’interno di quella follia.

«Tu e Haymitch siete assolutamente perfetti per questo compito!», le aveva detto Finnick poco prima. Certo, una ragazza da Saloon e un ubriacone… Per un istante aveva pensato che il pistolero biondo si stesse prendendo gioco di lei, ma poi aveva scorto le facce serie di Peeta e Gale. Non era uno scherzo.

E all’improvviso le tornò in mente Prim, la sua paperella. Katniss si vergognò all’istante della paura che provava: come stava adesso la sua sorellina? Una bambina prigioniera di un branco di selvaggi… la ragazza si coprì il volto con le mani, scossa per un istante da un singulto. Poi si voltò e a grandi passi si diresse di nuovo verso la tenda più grande.

Lo avrebbe fatto.

 

Si mossero nel tardo pomeriggio, quando finalmente il sole cominciava a dare segni di stanchezza.

La carrozza che la trasportava percorse lentamente le strade di Yuma, senza farsi notare. Non appena si fu fermata, Katniss scese con eleganza. Sapeva che il suo obiettivo era mettersi in mostra il più possibile, così sollevò con le mani il suo lungo vestito, in modo da non sporcarlo di polvere, e cominciò a camminare ancheggiando verso l’entrata del Saloon.

“Mia cara, sei assolutamente magnifica!” la accolse Chaff, il rubicondo proprietario del locale. Katniss l’aveva conosciuto poche ore prima, quando si era proposta per lavorare lì, quella sera.

Lo ringraziò facendo una riverenza, quindi Chaff le indicò una porta dietro il bancone. “Puoi andare a sistemarti lì. Ricorda, fra mezz’ora si comincia!” la avvertì, agitando scherzosamente il dito.

Katniss si diresse verso la stanzetta. Una volta dentro, si concesse solo un sospiro prima di cominciare a truccarsi. Mentre si guardava allo specchio, una pioggia di ricordi le invase la mente . Sembravano passati millenni dall’ultima volta che si era vestita così, il giorno in cui Finnick l’aveva salvata dall’ubriaco. In realtà erano trascorsi solo pochi giorni, e nonostante questo, la sua vita era cambiata in modo radicale.

Continuò a truccarsi fino a quando quasi non si riconobbe più nello specchio. Fu allora che si alzò e uscì dalla stanza. Quando ancora lavorava a Hangtown, cercava di mostrarsi il più naturale possibile, ma quella sera sentiva l’irrefrenabile impulso di mascherarsi.

Ben presto il Saloon si fece affollato e la musica cominciò. Katniss cominciò a ballare sotto gli occhi di tutti gli avventori. Fu sorpresa nel sentirsi goffa e impacciata.

Deve essere l’ansia, si disse. Eppure, se avesse continuato in quel modo, la copertura sarebbe saltata. Così chiuse gli occhi e provò a dimenticare tutto quanto. Continuò a tenerli chiusi fino a quando non si sentì di nuovo la Ballerina che infiammava le serate al Saloon di Hangtown, la ragazza misteriosa che sorrideva a tutti e non si concedeva a nessuno, la giovane donna che doveva accudire la sorellina e allo stesso tempo esserle di esempio. Tutto questo la faceva danzare sempre più leggera, finché non le parve di essersi sollevata dal pavimento polveroso e di starsi esibendo a mezz’aria.

E poi, all’inizio ovattati, ma pian piano sempre più rumorosi ed insistenti, si fecero strada nel suo udito i fischi di apprezzamento e gli applausi.

Finalmente aprì gli occhi e quello che vide fu una folla che impazziva per lei. Sorrise radiosa mentre percorreva  con lo sguardo l’intero locale, e fu travolta da un moto di sollievo quando scorse Haymitch seduto ad un tavolo in disparte, con un sorrisetto stampato sul volto.

Finalmente è arrivato, pensò. Haymitch era parte integrante del piano tanto quanto lo era lei, e aveva cominciato a pensare che non si sarebbe più presentato.

Ora doveva solo aspettare il momento giusto.

 

Il momento arrivò poche ore più tardi.

Quando la musica si fermò all’improvviso e un silenzio raggelante scese sul locale, Katniss comprese che era successo qualcosa. Si voltò verso l’entrata del Saloon e capì: degli uomini avevano appena oltrepassato la soglia. Tutti gli avventori li stavano guardando.

Devono essere loro.

Per un istante incrociò lo sguardo di Haymitch, che annuì impercettibilmente.

Gli uomini di Snow si sedettero al bancone e ordinarono da bere. Era questo l’unico punto debole che Katniss e Haymitch erano riusciti a trovare durante il loro tentativo di spionaggio: ogni sera, nulla fermava gli uomini di ronda dall’interrompere il loro lavoro e fare una visitina al Saloon. Solo che quella notte la visita sarebbe stata molto più lunga del solito.

Chaff fece segno al pianista di riprendere a suonare, poi si rivolse a quello che sembrava essere il capo degli uomini. “Il solito, Brutus?”

“Certo” rise l’uomo. “Vedo che hai della nuova merce, qui.”

Katniss ormai non poteva più vederlo, ma era pronta a scommettere che quella frase fosse riferita a lei. Con la coda dell’occhio intravide Haymitch che si alzava dal suo tavolo e si avvicinava al bancone.

Il piano era cominciato. Si costrinse ad attendere diversi minuti, fino a quando la melodia del pianoforte non si interruppe; il pianista le fece segno di volere una pausa, così Katniss decise di cogliere al volo l’occasione. Si avvicinò anche lei al bancone e senza esitazione prese posto accanto a Brutus. Si guardò attorno con noncuranza, senza mai incrociare il suo sguardo. Dopo neanche un minuto fu lui a offrirle da bere.

Katniss osservò preoccupata la bottiglia, che sembrava contenere una Tequila invecchiata dall’aria micidiale. Non poteva permettersi di finire ubriaca, ma d’altronde se voleva entrare in confidenza con Brutus non aveva scelta. Così accettò di farsi riempire il bicchiere e lo vuotò tutto d’un fiato. La bevanda era talmente forte da bruciarle la gola e farle lacrimare gli occhi, ma Katniss riuscì a mascherare le sue reazioni sfoderando un sorriso malizioso con il quale ruppe finalmente il ghiaccio.

I due cominciarono a parlare, ma solo una parte della mente di Katniss era concentrata sulla conversazione: rivolta verso Brutus, poteva finalmente vedere cosa stesse combinando Haymitch. A quanto pareva, aveva offerto da bere al resto degli uomini.

“…ed è così che sono diventato il capo delle guardie di Snow” concluse Brutus, con un’espressione di tronfio orgoglio sul viso. Katniss tornò immediatamente a concentrarsi su di lui.

“E quanto ti paga Snow? Scommetto che ti dà troppo poco” disse, strizzandogli l’occhio. “Secondo me fai bene a prenderti queste… piccole libertà” concluse in tono suadente. Poi riempì di nuovo i bicchieri, quasi inconsapevolmente.

Di colpo, una risata rauca arrivò dall’altra estremità del bancone: uno degli uomini di Snow si stava rivolgendo a Haymitch.

“Reggi bene l’alcool, amico!” esclamò in tono ammirato.

“Lo reggo meglio di tutti voi messi assieme” li sfidò Haymitch.

“Ma sentilo” proruppe un altro. “Forse è già ubriaco.”

Katniss vide le guance dell’ubriacone di Hangtown tingersi di un rosso acceso.

“Davvero?” chiese lui. “Il prossimo giro lo offro io, vediamo chi riesce a starmi dietro!” dichiarò.

La proposta venne accettata a gran voce dagli uomini di Snow.

Brutus si accigliò. “I miei uomini tendono a farsi distrarre quando c’è dell’alcool a poca distanza” spiegò, sospirando. “Forse sarebbe meglio che li richiamassi all’ordine.”

Non posso lasciarglielo fare!

“Lasciali divertire!” proruppe Katniss. Per un istante vide la sorpresa sul volto di Brutus, così continuò. “E poi, mi lasceresti da sola con questa bottiglia da finire?” gli chiese, ammiccando.

Vide Brutus esitare e gli si avvicinò. “Potremmo finirla in un posto tranquillo… la mia stanza, per esempio” sussurrò.

A quella proposta così allettante l’uomo, già brillo, cedette definitivamente. Si alzò dallo sgabello e, nonostante fosse un po’ malfermo sulle gambe, fece cenno a Katniss di andare. Lei afferrò la bottiglia e si alzò a sua volta. La testa le girava, ma in qualche modo riuscì comunque a dirigersi verso le scale. Prima di imboccarle, si voltò verso il bancone: gli uomini di Snow cominciavano già a cantare a squarciagola canzoni oscene, mentre Haymitch rideva di gusto.

Almeno lui sta facendo quello che gli riesce meglio. Io, invece…

Mentre saliva le scale percepiva chiaramente il respiro affannoso di Brutus dietro di lei. La bottiglia di Tequila sembrava farsi più pesante ogni passo che faceva.

Arrivata al piano di sopra, si guardò intorno. Si era perfino dimenticata di prendere una camera! Fortunatamente, una porta aperta attirò la sua attenzione.

Quella sarebbe andata bene, si disse.

Terrorizzata da ciò che sarebbe successo di lì a poco, vi condusse Brutus. L’uomo entrò e si chiuse la porta alle spalle.

E all’improvviso Katniss si sentì sola. In trappola. Non ci sarebbe stato Finnick a salvarla, stavolta.

Non posso farlo, non posso.

Non appena vide l’uomo che si avvicinava, il suo stomaco si rivoltò, facendo sprofondare Haymitch e il piano in un remoto angolino della mente.

Katniss sollevò la bottiglia e, senza emettere alcun suono, la calò con forza sula testa di Brutus, facendola esplodere in una miriade di frammenti di vetro e gocce di Tequila invecchiata.

Guardando l’espressione sorpresa sul volto dell’uomo, che poi stramazzò a terra con un gemito, a Katniss sembrò di vivere in un lontano mondo dei sogni.

Poi si sedette sul bordo del letto e si lasciò andare a una serie di silenziosi singhiozzi disperati.

Finnick, Peeta, Gale… adesso tocca a voi!

 


 

 

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