InFAMOUS: Wrong di edoardo811 (/viewuser.php?uid=779434)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sbagliata ***
Capitolo 2: *** Ali di carta ***
Capitolo 3: *** Colpe ***
Capitolo 4: *** Dolce notte ***
Capitolo 1 *** Sbagliata ***
Piccola
precisazione: avevo
già scritto e
pubblicato questa storia con il nome di "Sbagliata". Successivamente
l’avevo rimossa per ragioni mie, ma ora ho deciso di
ripubblicarla con il nome
"Wrong", perché penso che suoni meglio, più
qualche piccola modifica
qua e la. Nulla di troppo drastico, giusto qualche piccolo ritocchino.
Spiegazioni più dettagliate a fondo capitolo.
Nel caso
siate alla vostra prima visione di questa storia, vi dico solamente che
è uno
spin-off di Infamous The Darkness’ Daughter (in cui la
protagonista non sarà
Rachel) e che pertanto sarebbe meglio leggere la storia completa per
poter
capire qualcosa di questa (potete tranquillamente trovarla nella
omonima serie
da me creata o sulla mia pagina autore).
Non voglio
rubarvi altro tempo, buona lettura!
InFAMOUS:
Wrong
I
SBAGLIATA
Era stanca. Stanca di tutto quanto.
Stanca fisicamente,
stanca mentalmente, stanca di tutti quei ricordi che continuavano a
vorticare
nella sua mente senza darle nemmeno un dannato attimo di tregua.
Come faceva a continuare ancora? Come
poteva, una come lei,
riuscire ancora a camminare in quel luogo dimenticato da Iddio, senza
fermarsi
e cominciare a gridare come una pazza, piangere, oppure fare entrambe
le cose
in contemporanea?
Ne aveva quasi bisogno. Il suo corpo,
la sua mente ormai
dilaniata, la imploravano di lasciar perdere tutto quanto e accasciarsi
per
terra, per poi non fare più niente se non lasciarsi
sopraffare da quei
sentimenti che per troppo tempo aveva cercato di tenere rinchiusi
dentro di lei.
Rachel aveva sempre creduto di essere
una specie di mostro
incontrollabile, l’unica che dentro di sé
nascondeva chissà quale essere
indomabile. Beh, non era così; non lo era mai stato. Anche
lei aveva qualcosa
di molto oscuro racchiuso dentro il proprio corpo.
Più il tempo passava,
più sentiva la propria mente pulsare.
Aveva sonno, aveva sete, aveva fame. E, soprattutto, aveva bisogno del
suo
lettore mp3 e della sua compilation degli Slipknot. Necessitava di
ascoltare
quelle canzoni che parlavano di pazzi psicopatici con
personalità multiple.
Anche perché lei si rispecchiava parecchio in quei testi.
Si appoggiò ad un muro,
sfinita. Si massaggiò le tempie,
mugugnando per il dolore e per la fatica. Si guardò alle
spalle. La strada era
deserta, come da quando aveva cominciato a percorrerla. Quel posto, la
zona
industriale di Sub City, le faceva schifo a dire poco. Era un tugurio
pieno di
ruggine, mostri di cemento abbandonati e di... beh,
nient’altro.
Un quartiere gigantesco pieno zeppo
di nulla. Ecco cos’era
quel posto. E in un certo senso... era proprio come lei. Un guscio
vuoto un
tempo pieno zeppo di emozioni contrastanti, e che ora, dominato solo da
rabbia,
rancore e sensi di colpa, cadeva a pezzi.
I suoi pensieri non le davano pace. I
ricordi, nemmeno.
Ormai immobile, vinta dalla stanchezza, ed impossibilitata a combattere
in
tutti i sensi, si lasciò scappare un profondo sospiro e
chiuse gli occhi. Era
inutile resistere. Permise a tutte quelle immagini di apparire nitide
di fronte
a lei. Ognuna di esse fu un tormento insostenibile.
Rivide i suoi fratelli, sconvolti,
che le dicevano che i
loro genitori erano morti. Rivide suo zio nel letto malato. Rivide il
cratere
gigante nel Centro Storico. E, infine, rivide il suo fratellino. Tutto
ciò che
aveva avuto, perso, la sua vita caduta in frantumi e lei era sempre
stata lì,
in prima fila, a godersi la scena senza poter fare nulla per impedire
che le
cose cambiassero.
E sopra tutte queste immagini,
spiccava una figura: una
ragazza, con i capelli rossi come il fuoco e gli occhi verdi come
smeraldi.
Quella stessa persona che le aveva sconvolto la vita da cima a fondo,
che le
aveva sempre impedito di potersi comportare come
un’adolescente qualsiasi. Con
il suo sorriso, la sua presenza, il suo profumo, la sua gentilezza...
Strinse i pugni con forza, un
grugnito infastidito uscì
dalle sue labbra, insieme ad una lacrima che invece scese dai suoi
occhi.
Sbagliata. Ecco com’era
lei. La sua vita, il suo
comportamento, la sua mente. Tutto era sbagliato, in lei. Era una cosa
che si
ripeteva in continuazione e che, ovviamente, non poteva affatto portare
a nulla
di concreto. Aveva perso il conto di tutti gli specchi che aveva rotto,
pur di
non vedere nel riflesso quel volto emaciato che aveva imparato ad
odiare con
ogni fibra del suo essere: perché se doveva assegnare la
colpa a qualcuno per
tutte le sue sventure, quel qualcuno era proprio sé stessa.
E mentre continuava a riempirsi di
critiche, uno dei suoi
tanti ricordi si fece largo tra le immagini, apparendole più
nitido rispetto
agli altri. E ormai era troppo tardi per cacciarlo via.
***
Le
sue mani scivolavano avide sul suo corpo, palpando quasi
con forza tutto ciò che incontravano. La sua lingua le
imitava, assaporando
ogni lembo di carne possibile, pur di saziare la sua fame.
Non
riusciva più a fermarsi, ormai. Più ne aveva,
più ne
voleva. Era consumata del desiderio.
E
anche la sua compagna se ne accorse. «C-Cavolo, v-vacci
piano!» sussurrò, a fatica, mentre lei le
carezzava l’interno coscia con voga.
«Scusa.»
Non era sincera. Non lo era affatto. A lei non le
importava nulla di cosa l’altra avesse pensato. Doveva
placare la sua fame, in
qualche modo, e non sarebbe stata la paura di fare del male a quella
gallina
senza cervello ad impedirle di avere ciò di cui aveva
bisogno.
E
senza dire altro, tornò a cercare con fervore le sue
labbra.
Era
stata un’altra notte di fuoco, quella. Aveva posseduto
quella ragazza fino a quando, ormai sazia, non l’aveva
lasciata addormentare
sul suo letto. Dopodiché l’aveva guardata mentre
era imprigionata tra le
braccia di Morfeo, sfinita da quel lungo amplesso.
Ma
mentre osservava la sua pelle liscia e pallida, i suoi seni floridi,
i suoi capelli castani e lunghi e il suo viso bello e accattivante, non
vedeva altro che il corpo di un’altra ragazza. E non appena
rese conto
di ciò, distolse lo sguardo con un grugnito frustrato,
premendosi le mani sulle
tempie.
E
la sua compagna d’avventura, di cui nemmeno ricordava il
nome, la sentì. Si svegliò, strofinandosi le
palpebre, esausta, per poi
mugugnare: «Che stai facendo? Non... non dormi un
po’?»
«No»
rispose lei, secca, per poi voltarsi e guardarla con
aria glaciale. «Devi andartene da qui.»
E
senza permetterle di dire altro, la fece rivestire e
uscire quasi di peso, cercando di fare il minimo rumore per non farsi
beccare.
Nessuno in casa sapeva che a lei piaceva il genere sbagliato, ed era
intenzionata a mantenere quel segreto a costo di sacrificare anima e
corpo, o
comunque ciò che di essi rimaneva.
Poco
prima di cacciarla sul vialetto, la ragazza castana si voltò
verso di lei, guardandola quasi implorante. «Ma... credevo tu
volessi...»
Non
le permise nemmeno di parlare. Si congedò con
bruschezza, si voltò e se ne ritornò in casa,
abbandonandola la fuori
con la sua frase a metà.
Risalì le
scale. Probabilmente avrebbe dovuto
sentirsi in colpa per averla trattata così, ma la
realtà era ben diversa.
Mentre
puntava verso la sua camera, una porta del corridoio
si aprì all’improvviso, facendola trasalire. Sua
sorella apparve
sull’uscio, con indosso il suo ridicolo pigiama rosa. Che
però riusciva
comunque a starle bene.
La
ragazza arrossì stupidamente quando ebbe quel pensiero,
ringraziando il cielo per la penombra che inondava il corridoio.
Tuttavia,
questa non era stata sufficiente per nasconderla agli occhi della
minore. Se
non altro, si era messa qualche straccio addosso, prima di uscire da
camera
sua, e non era completamente impresentabile.
«Komi,
che... che stai facendo? È tardissimo!» le disse
la
rossa, prima con voce impastata, e poi con più decisione,
quasi con
preoccupazione. Come per dirle, "se mamma e papà ti beccano,
si arrabbieranno!".
Era riuscita a preoccuparsi per lei anche in un momento così
banale.
Lei
la guardò senza sapere cosa rispondere. Aprì e
chiuse le
labbra come un baccalà per diversi istanti, prima di
riuscire a riscuotersi.
Nel modo sbagliato, ovviamente.
«Levati
dai piedi» rispose, scorbutica, passandole accanto e
spingendola verso la porta di camera sua, strappandole un verso
sorpreso. Non si voltò
più. Subito dopo era di nuovo nella sua stanza, appoggiata
contro la porta,
intenta a sospirare rumorosamente, una cosa che faceva da fin troppo
tempo
ormai.
Ma
tanto sapeva benissimo che nessun muro o porta sarebbe
riuscito ad impedirle di vedere l’espressione demoralizzata
che sua sorella
doveva aver assunto dopo la sua sgarbata reazione.
***
Amalia sospirò, riaprendo
gli occhi e guardandosi le
ginocchia. Aveva perso il conto di tutte le sere trascorse in quel
modo,
passate a cercare di dimenticare un desiderio irrealizzabile, facendolo
tuttavia nel peggior modo possibile.
La sua sessualità non era
mai stata un problema troppo grave
per lei. Era una cosa con cui aveva imparato a crescere,
all’inizio con un po’
di stupore e perplessità, in particolar modo quando, mentre
tutte le altre
ragazze sbavavano dietro a chissà quale fotomodello, lei si
ritrovava a fare lo
stesso ma osservando giornaletti dal dubbio gusto raffiguranti
tutt’altra roba,
ma poi con il tempo le cose si erano appianate. Ricordava ancora con una sorta di amaro divertimento i giorni in cui, da bambine, lei e sua sorella guardavano i classici film di principesse alla televisione e Stella, rannicchiata sul divano assieme alla loro madre, raccontava di come da grande avrebbe voluto incontrare un principe azzurro proprio come quello dei cartoni, mentre Amalia, sdraiata a pancia in giù sul tappeto, pensava solamente a quanto bella la principessa fosse.
Non le era mai stato troppo difficile
riuscire a trovare
compagnia per la notte, anche perché per le ragazze era
quasi diventata una
moda essere bisessuali, o quantomeno fingere di esserlo. Sì,
perché nemmeno un
quarto delle ragazze con cui era stata erano davvero convinte di
ciò che
stavano facendo, ma a lei non era mai importato un accidente.
Se quelle erano pronte a fingersi una
persona che non erano
per poter attirare più attenzioni, allora era peggio per
loro. Lei non era così.
Da un lato non aveva mai avuto paura
di ammetterlo, lei era
lesbica. E preferiva che le cose andassero in quel modo, piuttosto che
cambiare
orientamento sessuale in base a come tirava il vento come molti suoi
coetanei
facevano, il tutto, ovviamente, sempre e solo con l’unico
fine di essere più
popolari.
Ma poi la sua sessualità
aveva voluto giocarle un brutto
scherzo. Ed era stato allora che aveva imparato ad odiarsi e a
combinare un
disastro dietro l’altro. Si era allontanata sempre di
più dalla retta via,
dalla propria famiglia, da quei pochi amici che era riuscita a farsi,
aveva
gettato tutto nel cesso. Da allora aveva capito di essere sbagliata.
E poi era successo tutto il resto. La
morte dei suoi
genitori, l’esplosione, la morte di Kori, quella di Ryan.
Tutto quanto era
caduto a pezzi, mentre lei, invece, come se si trovasse
nell’occhio di chissà
quale sadico e cinico ciclone, era rimasta illesa.
Ryan avrebbe potuto trovarsi al suo
posto, Kori avrebbe
potuto, i suoi genitori avrebbero potuto, invece era toccato a lei.
Lei, quella
che meno di tutti se lo sarebbe meritato, era ancora viva. Dopo aver
tradito la
fiducia delle persone che le volevano bene, dopo aver causato loro
sofferenza,
dispiacere, problemi su problemi, era ancora lì, a
rimpiangere tutto ciò che
aveva perso e che mai aveva imparato ad apprezzare come avrebbe davvero
dovuto.
Si sentiva sull’orlo di un
baratro, combattuta tra la paura
di saltare e il desiderio di mettere fine a tutto quanto e farlo. Era
questione
di un attimo, bastavano una pistola ed un proiettile, e lei li aveva
entrambi
proprio nella sua tasca. In questo modo avrebbe potuto finalmente
rimettere
ogni cosa al proprio posto, tutto avrebbe ritrovato il proprio
equilibrio. Ma
allo stesso tempo sapeva, in cuor suo, che quella non era davvero la
soluzione.
Kori non lo avrebbe fatto, tantomeno
Ryan. Per quanto
docili, per certi aspetti loro due erano molto più
agguerriti di lei.
Fare ciò sarebbe stato
l’ennesimo gesto che dimostrava che a
lei, della sua famiglia, non le era mai importato nulla, che preferiva
scegliere la via facile piuttosto che quella difficile. E per quanto la
via
facile la tentasse, era a conoscenza del fatto che non era arrivata
fino a lì
per nulla. Se era sopravvissuta, se era toccato a lei doversi sorbire
la
propria vita mentre veniva distrutta di fronte ai suoi occhi, era
perché c’era
ancora qualcosa ad attenderla. Positivo o negativo che fosse, toccava a
lei
scoprire cosa fosse questo qualcosa. A lei e lei soltanto. Ed era
proprio per
questo che si era staccata dal suo gruppo di compagni di viaggio.
Anche se, sotto certi aspetti, aveva
rimpianto quella
decisione.
«Ma guarda cosa abbiamo
qui!» esclamò una voce
all’improvviso, facendola trasalire.
Sollevò gli occhi di
scatto, per poi trovarsi di fronte un
pick-up fermo, con quattro ragazzi radunati attorno ad esso, ognuno di
loro con
lo sguardo incollato su di lei. Anzi, più che dei ragazzi,
sembravano dei
fenomeni da circo.
Uno di loro era un nano, nel vero
senso della parola, con i
capelli rasati. Un altro, invece, era alto almeno due metri e aveva dei
capelli
ed una barba di un colore arancione carota quasi fastidioso alla vista.
Gli
altri due, un ragazzo afroamericano e un altro pallido con un cappello
rosso,
invece sembravano quasi normali.
«Ti hanno mai detto che sei
proprio uno schianto?» disse il
nano, sorridendole, mostrandole i suoi bei denti ingialliti.
«Che ne diresti di
venire a farti un giretto insieme a noi?»
Amalia si rialzò
lentamente in piedi, digrignando i denti. Era
stata così immersa nei propri pensieri che non si era
nemmeno accorta
dell’arrivo di quei tizi. E, forse, fermarsi sul ciglio della
strada in quel
modo non era stata proprio una grande idea. «Preferirei di
no» rispose, sulla
difensiva.
«Oh, andiamo! È
perché sono basso? Credimi, posso compensare
molto bene questo mio piccolo difetto...» insistette il
piccoletto, ammiccando.
«Ok, forse non mi sono
spiegata bene...» ribatté lei, con
tono calmo, mentre si piantava le unghie nei palmi. «...
levatevi dai piedi.
Immediatamente!»
«Accidenti, sei una che si
scalda facilmente!» sghignazzò
ancora il nuovo arrivato, mentre i suoi compari sorridevano in maniera
inquietante alla mora. «Dimmi... che cosa faresti se invece
restassimo qui?»
Nello stesso momento in cui
parlò, il resto del gruppo
cominciò ad estrarre qualche arma. Komand’r li
osservò; due coltelli e un piede
di porco. Il capo, invece, era disarmato. Intuì comunque che
non l’avrebbero
lasciata andare tanto facilmente. Non che la cosa la preoccupasse,
d’altronde
aveva tappato la bocca a persone molto più minacciose di
quel manipolo di
clown.
Si sfilò il borsone, per
poi sgranchirsi il collo. «D’accordo,
ho capito. Chi vuole essere il primo? O preferite fare tutti
insieme?»
«Se facessimo tutti insieme
dopo non riusciresti più a
camminare» si intromise il colosso, incrociando le braccia.
«Credimi. Io sono una
tosta» ribatté lei, sorridendo
glaciale. «Posso tenervi a bada tutti quanti in
contemporanea.»
«Sentito gente? Questa
sì che è un’esperta!»
tornò
all’attacco il nano. Il gruppo di ragazzi cominciò
a ridacchiare, mentre tutti
loro si avvicinavano a lei. «Scommetto che ha una bocca
fantastica.»
«A tua madre è
piaciuta molto.»
Il ragazzo sgranò gli
occhi, mentre i suoi compagni cambiavano
bersaglio e si facevano beffe di lui. «Che avete da ridere,
idioti?!» protestò
quello, zittendoli, per poi indicare la ragazza. «Prendete
subito quella
putta...»
Komand’r estrasse una
pistola dal retro dei pantaloni un
attimo prima che potesse finire la frase. «Voi non fate
proprio un cazzo,
invece.»
Il ragazzo ammutolì di
colpo, per poi sollevare le mani.
Sorrise incerto. «E-Ehi, coraggio, calmati. Stavamo solo
scherzando.»
«Avete scelto un pessimo
momento per scherzare con me.»
Amalia abbassò il cane, ringhiando di rabbia. «Vi
do tre secondi per sparire.
Dopodiché, non mi assumerò la
responsabilità delle mie azioni.»
«D’accordo,
d’accordo, rilassati. Ce ne andiamo.» Il ragazzo
cominciò ad indietreggiare, imitato dai suoi compagni.
Ma non appena sembrò che
stessero davvero per andarsene,
quello sorrise meschino, dopodiché fece un cenno
all’afroamericano. Costui non
ebbe bisogno di ulteriori chiacchiere: abbassò una mano di
colpo, per poi
puntarla verso di Komand’r.
Un istante prima che lei potesse fare
qualsiasi cosa, un
raggio di luce rosso sfavillante uscì dal suo palmo,
dirigendosi verso di lei.
La ragazza urlò per la sorpresa e si gettò a
terra per schivare il colpo.
Rotolò sul suolo e si alzò in piedi serrando la
mascella, poi risollevò la
pistola. Nello stesso momento, il colosso barbuto urlò e
cominciò a correrle
incontro, mentre i suoi compagni correvano ai ripari dietro al pick-up.
Amalia fece fuoco, ma i proiettili si
conficcarono nel
torace del bestione, perforandolo solo superficialmente e senza causare
danni
ingenti. Colta di sorpresa, Komi venne raggiunta e afferrata per il
collo.
Sgranò gli occhi e la pistola le cadde di mano, mentre il
bestione la sollevava
come una bambola di pezza, per poi stringere la presa attorno alla sua
gola.
La ragazza emise un verso strozzato
per via del dolore, ma
non si sarebbe arresa così facilmente. Mentre con una mano
cercava di allentare
la presa, con l’altra si frugò in una delle tasche
del cappotto, per poi tirare
fuori il coltello a serramanico. Gridò e lo
sollevò, per poi conficcarlo più e
più volte nel polso del suo assalitore. All’inizio
le parve di conficcarlo in
un blocco di legno, ma poco per volta riuscì a scalfire la
pelle e a penetrare
più a fondo, fino ad arrivare a ferirlo.
Il rosso grugnì per il
dolore e mollò la presa, facendola
cadere, per poi afferrarsi il polso insanguinato. Amalia
tossì, rotolò di lato
e si rimise subito in piedi, per poi cominciare a correre; non poteva
affrontare quei tizi da sola. Era evidente che il colosso e
l’afroamericano
erano dei conduit, e molto probabilmente lo erano anche gli altri due.
Non
aveva speranze, non senza armi. Si maledisse per aver perso la pistola
e anche
il borsone in cui aveva nascosto il fucile.
Alle sue spalle sentì gli
schiamazzi del nano, il quale
probabilmente stava incitando la sua truppa ad inseguirla. Lei
svoltò al primo
angolo e si infilò in un vicolo tra una recinzione di ferro,
oltre la quale si
trovavano delle grosse strutture cilindriche, ed una fabbrica. In
lontananza
riuscì ancora ad udire il pick-up di quei quattro accendersi
e partire facendo
fischiare le gomme. Si voltò e vide la macchina svoltare,
per poi inseguirla.
«Cazzo»
ansimò, per poi accelerare.
Il veicolo si avvicinava sempre di
più e il colosso, in
piedi sul vano di carico, la osservava furibondo. Intuendo di essere
nei guai,
Amalia si gettò contro la recinzione e la
scavalcò, per poi saltare dall’altro
lato.
Corse a perdifiato in mezzo a quel
labirinto di cisterne,
passerelle sopraelevate e scalette, mentre, dietro di lei, la
recinzione
saltava in aria e il pick-up continuava ad inseguirla.
Lasciatemi
in pace, bastardi!
Komand’r zigzagò
tra le grosse cisterne, e poco per volta
udì il rumore del motore della macchina dei suoi inseguitori
affievolirsi.
Infine, si fermò per riprendere fiato. Si
appoggiò contro la superficie
metallica di uno di quei cilindri ed inspirò ed
espirò profondamente.
«Ma tu guarda se dovevano
proprio capitarmi dei conduit...»
mugugnò, per poi lasciarsi cadere seduta a terra.
«E oltretutto sono
disarmat...»
Il rumore di quel maledetto pick-up
tornò a farsi sentire
all’improvviso. La ragazza si irrigidì come un
palo, mentre dall’altro lato
della cisterna poteva perfettamente udire la macchina di quei conduit
passare,
per poi fermarsi di colpo.
Amalia trattenne il fiato. Dubitava
che l’avessero trovata, pertanto
non doveva assolutamente farsi notare.
Udì il motore spegnersi e
le portiere aprirsi, per poi
richiudersi con forza. Erano scesi.
«Non può essere
lontana.» Questo era il nano che parlava. «Da
qui andiamo a piedi, così saremo più silenziosi.
Setacciate questo posto e
trovatela. Billy, tu resta qui a fare la guardia. Non sia mai che
quella
puttana ci rubi la macchina.»
«Sì
capo.»
Rumore di passi. Amalia si
appiattì più che poté contro la
cisterna, perle di sudore freddo le scivolavano lungo la fronte. Vide
un’ombra
apparire alla sua destra e si spostò di lato, sempre
strisciando contro la
superficie ferrosa, in modo da fare meno rumore possibile. Il conduit
afroamericano apparve all’improvviso nel suo campo visivo,
facendola irrigidire
ulteriormente. Quello camminò per un breve tratto, mentre
lei continuava a
spostarsi silenziosamente, aggirando la struttura cilindrica,
dopodiché lui si
guardò attorno di scatto, facendo un verso diffidente.
Amalia si morse la lingua e si
fermò di botto. Il ragazzo puntò
gli occhi verso la sua direzione. Nonostante si fosse nascosta in
tempo, la
ragazza pensò di essere ugualmente fottuta. Così
non fu. Dopo qualche altro
istante, l’afroamericano scosse la testa e
continuò a camminare. Komi attese
almeno sessanta secondi prima di respirare di nuovo. Quel tizio non
l’aveva
notata, per fortuna non sembrava molto scaltro. Beh, nessuno di loro
doveva
essere molto scaltro, per lasciarsi comandare da un nanetto con manie
di
protagonismo.
Non notando altre presenze, con il
cuore che pompava nel
petto all’impazzata, decise di uscire lentamente dal suo
nascondiglio. Arrivò
al bordo della cisterna, poi si sporse. Di fronte a lei vide il pick-up
di quei
quattro parcheggiato in mezzo ad altre cisterne, più il
ragazzo con il berretto
a fare il palo.
Komand’r strinse con forza
la presa attorno al coltello.
Poteva scappare, tuttavia... quella macchina la tentava e non poco. E
quel
tizio, Billy, sembrava essere l’unico nei paraggi. E tra
tutti e quattro, forse
era quello da temere di meno. La ragazza annuì a
sé stessa, mentre un
sorrisetto si dipingeva sul suo volto. Quei tizi avrebbero presto
capito con
chi avevano a che fare.
Si mosse di soppiatto, passando da
cisterna a cisterna ogni
volta che Billy non guardava verso la sua direzione. Lentamente, molto
lentamente, si avvicinò al pick-up, fino a quando non si
trovò esattamente
dall’altro lato della cisterna di fronte alla quale esso di
trovava. Strisciò
contro la superficie, accovacciata. Uscì dal nascondiglio ed
andò a
posizionarsi dietro il vano di carico della macchina. Billy, appoggiato
contro
la portiera, sbadigliò.
Era il momento giusto.
Komand’r si frugò tra le tasche e
trovò un caricatore della sua pistola. Lo aprì ed
estrasse un proiettile,
dopodiché se lo rinfilò in tasca. Strinse tra le
mani la cartuccia color
bronzo, poi la gettò contro la cisterna accanto a Billy,
producendo un rumore
metallico. Quello trasalì e si guardò attorno,
sorpreso. Si avvicinò al luogo
di origine del tintinnio per controllarne la provenienza, e le diede le
spalle.
Sei
mio!
Amalia girò attorno al
pick-up e si avvicinò a lui,
dopodiché si alzò in piedi e lo
assalì, afferrandolo da dietro. Billy si
accorse di lei e cercò di gridare, ma lei fu più
rapida e gli tappò la bocca
con una mano. E senza dargli ulteriore tempo, sollevò il
coltello e glielo
piantò nel collo, facendogli emettere un altro
gridò, questa volta di dolore.
«Pessima idea fare il
palo!» sussurrò lei, rigirando il
coltello nella sua carne, facendogli emettere urla sempre
più forti, tuttavia
offuscate dal palmo della mano della ragazza.
Billy cercò di dimenarsi e
di liberarsi, ma nel giro di poco
tempo cessò di lottare e chinò il capo in avanti.
«Sogni d’oro, bastardo.»
Amalia lo lasciò cadere pesantemente a terra, poi si
avvicinò alla macchina per
esaminarla meglio. Dentro il vano di carico, non poté non
notare proprio il suo
borsone. Si illuminò non appena lo vide. C’era
praticamente un pezzo di lei
stessa, lì dentro... beh, non proprio, ma c’era il
suo fucile, ed era quello
l’importante.
Si avvicinò al retro della
macchina per prendere ciò che era
suo, ma un sibilo la costrinse a voltarsi di scatto. Vide una luce
rossa
accecante, e subito dopo si ritrovò a terra a gridare di
dolore a causa di un
terribile bruciore al fianco. Sentì perfino odore di vestiti
e carne bruciata.
«Porca troia,
Billy!» Il conduit afroamericano arrivò di
corsa, per poi chinarsi sul socio, il quale giaceva immobile in una
pozza di
sangue. Lo osservò per un breve momento, poi
drizzò gli occhi su di lei. «L’hai
ucciso! Cazzo, lo hai ucciso, psicopatica che non sei altro!»
Komand’r grugnì
di dolore e cercò di strisciare verso il suo
coltello, che le era caduto quando era ruzzolata a terra, ma un calcio
sul
fianco ferito la fece desistere all’istante.
«E sta ferma, pazza
schizzata!»
Amalia gemette, portandosi una mano
sul fianco ferito. Lo
sentiva andare a fuoco, letteralmente. Era come se l’avessero
ustionata con la
fiamma ossidrica. Ancora una volta si vide costretta a riempirsi di
maledizioni: si era fatta beccare come una stupida.
«Che sta succedendo
qui?!» Un’altra voce, questa volta del
nano. Sia il capo della banda che il gigante erano tornati,
probabilmente
attirati dalle esclamazioni dell’afroamericano.
«Questa stronza ha ucciso
Billy! Gli ha tagliato la gola,
cazzo!»
I due nuovi arrivati osservarono
basiti il loro collega
immobile al suolo, dopodiché il colosso ringhiò
di rabbia e si avvicinò a lei. «Adesso
me la paghi!» La afferrò per i capelli e
cominciò a tirare con forza, facendola
gridare e costringendola a mettersi in ginocchio.
«Volevamo solo divertirci
un po’ con te, ma adesso la
faccenda è personale!» Il rosso la tirò
in piedi, continuando a farla urlare
per il dolore alla testa. Ma non appena fu completamente eretta,
serrò la
mascella e sferrò un poderoso calcio al suo interno coscia.
Quello urlò in
maniera disumana, con voce più alta di un’ottava,
e si portò entrambe le mani
sul luogo martoriato. Amalia cadde di nuovo a terra, poi
afferrò il coltello.
«Mammoth!»
gridò l’afroamericano, mentre il colosso cadeva a
terra, per poi digrignare i denti. «Ora basta, mi
hai...»
Amalia non gli concesse il lusso di
terminare la frase.
Raccolto il coltello, glielo lanciò con tutta la forza che
ancora aveva,
colpendolo ad una spalla. Il ragazzo gridò di dolore e cadde
a sua volta in
ginocchio. Komi boccheggiò, poi si rimise di nuovo in piedi.
Di fronte a lei,
solamente il nanetto. Digrignò i denti non appena lo
notò. Quello intuì il
pericolo, perché prima osservò i suoi amici,
probabilmente in cerca di aiuto, e
poi, realizzando che loro non l’avrebbero salvato,
indietreggiò. «As-Aspetta!»
Lei lo ignorò.
Urlò a perdifiato, poi gli corse incontro. Il
piccoletto sbraitò a sua volta, ma per lui ormai era tardi;
la ragazza gli fece
assaggiare la suola del proprio stivale dalla punta rinforzata,
scaraventandolo
a terra e calpestandogli, letteralmente, il volto, lasciandolo a terra
tramortito. Dopodiché corse. Non si voltò, non
fece nient’altro, non pensò a
nient’altro. Doveva scappare, e al più presto.
Mandò al diavolo la macchina, la
borsa, il coltello; l’unica cosa che contava era fuggire.
Il dolore al fianco non le dava
tregua. Teneva una mano
premuta su di esso per cercare di alleviarlo, ma tra il cappotto e la
canottiera
strappati non sentiva altro che bruciore e sangue.
Questa volta si assicurò
di allontanarsi a dovere da quel
luogo. Le gambe le imploravano pietà, lo stesso valeva per
il fianco, ma lei
non aveva intenzione di fermarsi. Se si fosse fermata e quelli
l’avrebbero
trovata, l’avrebbe pagata molto cara. Non aveva fatto
semplicemente un casino,
poco prima. No, assolutamente no. Quello che aveva fatto rientrava a
pieni voti
nella categoria delle puttanate. E solamente poche volte aveva compiuto
gesta
degne di quel nome.
Le cisterne si trovarono ad un
quartiere di distanza da lei.
Poi a due, poi a tre, quattro, cinque.
Andò avanti fino a quando le gambe non
cedettero, letteralmente. Ruzzolò
a terra, graffiandosi i palmi delle mani sull’asfalto,
gemendo di dolore.
Rimase immobile, sdraiata sulla strada per qualche istante, a cercare
di
riprendere fiato e a lasciare che il cuore smettesse di battere
all’impazzata,
prima di farselo esplodere nel petto.
Continuò a boccheggiare
per quelle che le parvero eternità,
fino a quando un rumore che ormai conosceva troppo bene le fece
sgranare gli
occhi. Sollevò il capo e si voltò, per poi
scorgere in lontananza una macchina
avvicinarsi. Non le fu intuire di quale macchina si trattasse.
Merda!
Si rimise in ginocchio di scatto, ma
quel movimento così
repentino le causo una lancinante fitta di dolore al fianco, che la
costrinse a
cadere di nuovo a terra. «No... devo... farcela...»
Cominciò a strisciare,
letteralmente. Ogni millimetro mosso era un’atroce
sofferenza, ma non poteva
fermarsi. Se quelli l’avrebbero trovata lì,
ridotta in quello stato, sarebbe
stata spacciata.
Puntò ad un vicolo proprio
accanto a lei, che si affacciava
sulla strada. Tuttavia, più si avvicinava ad esso,
più le pareva lontano, più
le pareva difficile continuare muoversi. Perfino respirare
cominciò a causarle
dolore al fianco. Si sentiva come se ce lo avesse arpionato al terreno,
e ad
ogni suo movimento il gancio che la teneva immobilizzata le azzannava
la pelle,
costringendola a fermarsi.
La macchina era sempre più
vicina. Ormai incapace di
muoversi ulteriormente, tese una mano verso il vicolo, poi si
accasciò a terra.
Il dolore continuava a divorarla, non sentiva più le gambe e
anche la testa le
faceva un male cane. Le palpebre si appesantivano sempre di
più al passare dei
secondi. Infine, il veicolo si fermò accanto a lei, e
qualcuno scese. Amalia
gemette e si voltò verso di esso, ma a causa della vista
affaticata non riuscì
a distinguere nulla di nitido. Riuscì a malapena a scorgere
una figura che si
avvicinava a lei, per poi inginocchiarsi.
Qualche strano rumore giunse alle sue
orecchie,
probabilmente erano delle parole, ma non riuscì a
disgiungere nessuna di esse.
L’ultima cosa che
ricordò, prima di arrendersi al suo
destino, fu quell’individuo oscuro accovacciato su di lei.
Sì,
l’ho ripubblicata. Sì, ho
cambiato il titolo. Sì, sono un cretino. Sì, la
finirò questa volta. No, non mi
aspetto che accettiate le mie scuse, perché sono un cretino.
Ma, ehi, la storia
è di nuovo qui quindi urrà! È il
pensiero che conta, giusto? Giusto. Ci sarà qualche
piccola modifica qua e là ma probabilmente nemmeno ve ne
accorgerete, visto
che, comunque, la trama è la stessa della scorsa volta e i
fatti che accadono
sono i medesimi.
Bene,
per chi stia leggendo
questa storia per la prima volta, invece, sì, la
protagonista non è più Rachel,
bensì Amalia, in quanto anche lei è stata un
personaggio molto particolare e
che mi è piaciuto, moltissimo, realizzare, quindi ho colto
l’occasione della
sua fuga come palla al balzo per dedicarle una storiellina tutta sua,
in cui la
sua, molto difficile, personalità possa risaltare al meglio.
Come avrete già
potuto notare, il suo punto di vista è leggermente diverso
da quello di Rachel.
Spero che vi piaccia, dai, io l’ho trovata un’idea
carina la prima volta che la
scrissi... poi l’ho cancellata, ma questo è un
altro discorso. Come ho già
detto, adesso è di nuovo qui, quindi urrà!
Giusto? Giusto.
Bye bye! |
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Capitolo 2 *** Ali di carta ***
II
ALI
DI CARTA
«Per
caso... avete dieci dollari da prestarmi?» domandò
Kori, quasi intimorita, ai
suoi fratelli mentre cenavano nella spoglia cucina del loro zio di
Empire.
Komand’r
non le rispose nemmeno, si limitò a continuare a rimestare
svogliatamente la
zuppa nel suo piatto. Era felice che la sorella fosse tornata a casa
dal
collegio per il weekend, a trovarli? Certo che lo era. Lo dava a
vedere?
Assolutamente no.
«Io dovrei
averceli» rispose Ryan, nel frattempo, disponibile.
Amalia
soffocò un sorrisetto. No, lui non ce li aveva. Non dopo che
lei era passata in
camera sua, una sera, prima di uscire. Il suo caro fratellino avrebbe
fatto
meglio ad imparare a nascondere meglio le sue cose.
«Perché
ti
servono?»
«Per
comprare il biglietto del museo. Domani abbiamo una gita
laggiù. A chi paga la
retta la scuola li ha già dati, però... ho perso
il mio...»
Ryan
sospirò pesantemente, per poi scuotere la testa.
«Ti pareva...»
«Per
favore, Ryan! La scuola non effettua rimborsi, ma sono solo venti
dollari, e
dieci ce li ho già! Ti prometto che te li
restituisco!»
«Ma devi
andare per forza? Insomma... è solo un museo,
cos’ha di così entusiasmante?»
Kori si
strinse nelle spalle. «Beh, nulla a dire il vero,
però... verrà anche Richard,
e mi piacerebbe passare un po’ di tempo con lui anche fuori
dalla scuola...»
«Adesso
capisco tutto...» Il ragazzino sghignazzò.
«Vuoi un po’ di intimità con il tuo
fidanzatino...»
Stella
arrossì violentemente e distolse lo sguardo da lui.
«Dai, smettila...» mormorò
appena, facendo ridacchiare il fratello.
Dall’altro
lato del tavolo, Amalia strinse con forza il cucchiaio, fino a farsi
male alla
mano. Richard. Da qualche mese a
quella parte non si sentiva parlare d’altro, in quella casa.
Anche perché le
uniche volte in cui si parlava era quando tornava Kori, circa una volta
a
settimana.
«Te li do
dopo cena, ok? Ma vedi di non esagerare con Richard...»
«Ryan!»
Il rosso
ridacchiò di nuovo. Amalia, intanto, si rabbuiò
ulteriormente. Sentì una
profonda rabbia montarle dentro. Ma che aveva di così
speciale quel Richard?
Lei non lo conosceva, nemmeno lo aveva mai visto, ma era pronta a
scommettere
tutto quello che aveva che era solo l’ennesimo bamboccio che
si era lasciato
incantare da Kori.
Qual è il problema, Amalia? Sei gelosa?
Komand’r si
alzò di scatto dalla sedia, sopprimendo un urlo, portandosi
una mano sulla
tempia. Nel farlo urtò con le ginocchia il tavolo, facendo
tintinnare posate e
bicchieri.
«Komi,
tutto bene?» domandò Kori, con tono sorpreso,
guardandola quasi preoccupata.
Un’espressione molto differente da quella che aveva invece
Ryan.
Amalia
distolse lo sguardo dalla sorella, imbarazzata. «Sto bene.
Vado in bagno.» E
senza dire altro si diresse verso il corridoio, cercando in tutti i
modi di
ignorare lo sguardo di Stella.
Seduta sul
gabinetto, la mora si torturò i capelli con le mani.
«Ma perché?! Perché questa
storia non vuole finire?!» sussurrò a denti
stretti, per poi grugnire
infastidita.
Per quanto
ancora sarebbe dovuta andare avanti in quel modo? Perché non
riusciva a
togliersi dalla testa quel maledetto problema che aveva? Quante altre
ragazze
avrebbe dovuto portarsi a letto per cancellarsi dalla mente quella
trappola dai
capelli rossi?
Se qualcuno
avesse scoperto che cosa nascondeva dentro di lei...
rabbrividì al solo
pensiero. Riusciva perfettamente ad immaginare la reazione dei suoi
genitori.
Sicuramente l’avrebbero cacciata di casa, gridandole che lei
era solamente
stata un errore. E mentre le indicavano la porta, lei avrebbe visto la
delusione e il risentimento che nutrivano nei suoi confronti nei loro
occhi.
Come
biasimarli.
Quando
erano ancora vivi lei non aveva fatto altro che causare loro problemi.
Problemi
su problemi. Scoprire la sua deviazione mentale probabilmente sarebbe
stata la
batosta decisiva, per loro.
Komand’r si
abbracciò le spalle e singhiozzò contro il
proprio volere. Era troppo chiedere
una vita normale? Perché quando si trattava di lei tutto
doveva essere così
incasinato? Che cosa aveva di diverso rispetto a tutte le ragazze della
sua
età?
Amalia si
prese il volto tra le mani, per poi scuotere con forza la testa.
«Cazzo...»
Qualcuno
bussò alla porta, facendola trasalire. «Komi, sei
ancora dentro?» domandò la
voce squillante di Kori dall’esterno.
«S-Sì,
un
attimo...» biascicò Amalia, per poi alzarsi.
Chissà quanto tempo era rimasta
dentro il bagno. E la cosa migliore era che nemmeno lo aveva usato per
davvero.
Si avviò verso la porta e la spalancò, per poi
ritrovarsi di fronte il volto
sorridente di sua sorella.
«Tutto
bene?» le domandò.
Komi
distolse subito lo sguardo da lei. «Certo, perché
non dovrebbe?» chiese a sua
volta, con tono molto più brusco di quello che avrebbe
voluto utilizzare.
Stella si
strinse nelle spalle, mentre il suo sorriso vacillava. «Non
saprei... volevo...
volevo solo...»
«Sto
bene.»
Amalia uscì dal bagno con prepotenza, costringendo Kori a
spostarsi, dopodiché
tirò dritto verso camera sua, senza nemmeno voltarsi.
La sentì
sospirare profondamente, abbattuta, e di conseguenza percepì
una forte fitta di
dolore allo stomaco. Odiava fare così, odiava trattarla in
quel modo, ma non
poteva farci nulla; o quello, o cedere ai sentimenti. E per quanto
stronza
potesse apparire agli occhi degli altri, tutto era preferibile a come
avrebbero
reagito se avessero scoperto cosa teneva nascosto dentro di lei.
Raggiunse
la sua camera e si chiuse la porta alle spalle, per poi abbandonarsi
contro di
essa inspirando profondamente, esausta. I poster delle sue band metal
preferite
appesi al muro sopra il letto le infusero un po’ di coraggio.
Pensò che
probabilmente sarebbe rimasta in camera a spararsi musica ad alto
volume nelle
orecchie per il resto della sera, ma mentre adocchiava la propria
scrivania per
vedere dove aveva lasciato l’mp3, notò il suo
portafoglio posato vicino al
vecchio computer fisso. Si morse il labbro, mentre sentiva il proprio
stomaco
annodarsi nuovamente.
Kori aveva
chiesto dieci dollari, ma Ryan non poteva darglieli, perché
quei soldi se li
era presi lei, ed ora erano lì, proprio in quel portafoglio.
Non le bastava
solo essere scortese con sua sorella, ora doveva perfino impedirle di
poter
andare in quel museo ed essere felice per un paio d’ore con
quel ragazzo. Come
se lei potesse davvero impedire di frequentare chi voleva, con o senza
gita al
museo. Una volta finito con Richard, ne sarebbe arrivato un altro. E
poi un
altro. E poi un altro ancora.
Era così,
Kori. Era sempre stata così. Era una calamita per ragazzi, e
probabilmente
anche per ragazze. E lei avrebbe dovuto imparare a conviverci, o non
sarebbe
più riuscita ad andare avanti.
Sospirò
profondamente ed afferrò il portafoglio, per poi uscire
dalla sua stanza. Sentì
le voci dei suoi fratelli provenire ancora dalla cucina, quindi dedusse
che
Ryan ancora non le aveva dato niente. Con passo leggero si diresse
verso la
camera di suo fratello, per poi sgattaiolarci dentro. Prese i soldi che
aveva
fregato al minore giorni prima, tra cui anche i dieci dollari che tanto
servivano a Kori, e li rimise dove li aveva trovati, nel portafoglio
nascosto
sotto al cuscino. Poi, silenziosa com’era entrata,
uscì e ritornò a barricarsi
in camera sua, rasserenata dal fatto che, forse, per una volta nella
sua
patetica vita era riuscita a fare qualcosa di buono per sua sorella.
Sperò, un
giorno, di trovare il coraggio per potersi riappacificare con lei. Di
sicuro,
avrebbe provato a comportarsi in maniera migliore. Era sua sorella, la
sua
famiglia, e lei, anche se tendeva a nasconderlo, le voleva bene. Forse
anche
troppo, ma non era quello il punto. Avevano sofferto troppo, in
passato, era
stupido ed inutile continuare a vivere in quel modo. Sicuramente non
sarebbe
cambiata da un giorno all’altro, ma si ripromise a
sé stessa che ci avrebbe
provato. Lo avrebbe fatto per Kori, per Ryan e anche per sé
stessa.
Un piccolo
sorriso si accese sul suo volto. Sì, sarebbe cambiata. Per
un futuro migliore,
per poter essere, un giorno, davvero felice assieme alle persone che
amava con
tutto il cuore, ma che spesso faticava a dimostrare.
Si avvicinò
alla finestra e guardò fuori. Il triste paesaggio del Dedalo
si estendeva di
fronte a lei per chilometri e chilometri, ma quella vista non la
turbò.
D’altronde, il peggio ormai era passato. Erano in una nuova
città, in buona
salute, Kori andava al college, Ryan aveva trovato un lavoro e anche
lei dava
il suo contributo, di tanto in tanto. Per quanto barcollante fosse la
loro
situazione, se la cavavano abbastanza bene.
Per una
volta, pensare ad un futuro migliore non le parve più
un’assurdità colossale.
***
Komand’r riaprì gli occhi di
scatto. Una parete bianca
e sporca come la neve accatastata sul bordo della strada apparve di
fronte a
lei. Si sollevò lentamente a sedere, rendendosi conto di
trovarsi sotto alle
lenzuola di un letto. Mugugnò, portandosi una mano sulla
tempia, poi si guardò
attorno. Un armadio di legno ed una finestra da cui filtrava la luce
del giorno
decoravano la stanza. Nient’altro.
Dove sono?
L’ultima cosa che ricordava era la strada
di
periferia sulla quale si era accasciata, più una figura
oscura accovacciata su
di lei. Che collegamento c’era tra quello e la camera da
letto in cui si
trovava? Quei tizi che la stavano inseguendo non l’avevano
uccisa? O forse
l’avevano catturata e portata in quel luogo come loro
prigioniera?
Si accorse ben presto che il dolore al fianco si
era affievolito. Si sollevò la maglietta strappata e con sua
enorme sorpresa
trovò la parte di corpo dapprima ferita ora fasciata con
delle garze bianche e
pulite. Inarcò un sopracciglio. Decisamente, a prelevarla
dalla strada e a
portarla lì non erano stati i suoi inseguitori. Ma allora
chi?
Scese lentamente dal letto, intenta a scoprirlo.
Si sforzò con tutta sé stessa a non pensare al
suo sogno, se così poteva
chiamarlo. Doveva solo concentrarsi sulla situazione attuale e non
lasciarsi
tormentare dai fantasmi del passato per almeno cinque minuti, tempo di
capire
che cosa fosse successo, e dopo avrebbe potuto benissimo ricominciare a
compiangersi per come aveva pensato che tutto potesse andare per il
meglio
proprio il giorno prima dell’esplosione di Empire City.
Il giorno in cui Kori era morta. Il giorno in
cui tutto era di nuovo finito dritto nel cesso.
Amalia strinse i pugni e serrò la
mascella. No,
non doveva cedere a quei pensieri. Non in quel momento.
Afferrò il giaccone
nero che era rimasto sul fondo del materasso, poi aprì la
porta della camera da
letto ed uscì, ritrovandosi in un piccolo corridoio buio che
conduceva
solamente a tre porte, di cui solamente una con un po’ di
luce che filtrava tra
i vetri. Decise di seguire il corridoio ed andare proprio verso di
questa, con
passo felpato, per non allarmare chiunque l’avesse portata
fino a lì. Anche se
le avevano fasciato la ferita, non poteva fidarsi al cento percento.
Era
vulnerabile, e anche disarmata.
Appoggiò la mano alla maniglia e la
abbassò
lentamente. Non appena il primo spiraglio di luce comparve dalla porta,
un
odore molto più gradevole ai quali si era tristemente
abituata invase le sue
narici, accompagnato da un canticchiare sommesso, ma comunque
melodioso, di una
voce femminile.
La ragazza sollevò un sopracciglio, poi
decise
di aprire la porta con un unico, secco gesto. Il canticchiare
cessò
immediatamente, nel momento in cui la mora fece la sua comparsa in
quella
stanza e la donna di fronte a lei, dapprima girata di spalle e china su
un
fornello elettrico, si voltò per guardarla. Dopo un attimo
di stupore iniziale,
questa sorrise. «Oh, sei sveglia. Entra pure, stavo
preparando qualcosa da
mangiare.» Sollevò il cucchiaio di legno che aveva
in mano come a conferma di
questa affermazione, anche se l’odore di uova strapazzate e
carne era una prova
più che convincente.
Komi avanzò di qualche passo, rimanendo
in
silenzio mentre osservava meglio il volto
dell’interlocutrice. Aveva i capelli
lisci e ben pettinati, di un colore argenteo, che arrivavano appena
all’altezza
del collo. Sul volto portava i segni di una bellezza ormai estinta dal
tempo,
ma comunque ancora percepibile alla vista, a causa di alcune rughe
sotto gli
occhi scuri e le guancie scavate.
«Come ti senti? La ferita fa male? Ho
cercato di
rattopparla come ho potuto, ma forse faresti meglio a farti controllare
da
qualche esperto... sempre se riesci a trovarne uno» disse,
con una punta di
macabra ironia nella voce.
«Sto bene» borbottò
Amalia, secca, osservando
quella donna, il cibo sul fornello e il tavolo apparecchiato con piatti
e
posate per due persone come se tutto quello fosse la cosa
più anormale del
mondo. Cosa vera, tra l’altro. Chi era quella donna?
Perché l’aveva aiutata?
Perché le stava preparando... cos’era, pranzo,
colazione? Non sapeva che fuori
dalle mura di quella casa il mondo era caduto a pezzi? No, lo sapeva,
altrimenti non avrebbe fatto quel commento di poco prima. Ma allora
perché?
Forse avrebbe fatto meglio a chiederglielo
direttamente, ora che ci pensava. Ma prima che potesse aprire bocca,
quella la
anticipò. «Mi chiamo Ursula» disse,
tornando a girarsi sul fornello. «Tu
invece?»
La ragazza esitò. Le pareva azzardato
rivelare
il suo nome in quel modo, ma vista la naturalezza con cui lei, Ursula,
le si
era rivolta, forse era giusto ricambiare. E poi, pensandoci meglio, era
solo un
nome. Mica le aveva chiesto la sua sessualità.
«Amalia» rispose, optando per
rivelarle
direttamente il suo nome tradotto, piuttosto che quello originale.
«Amalia» ripeté
Ursula, facendosi pensierosa per
un momento, per poi guardarla di nuovo con la coda
dell’occhio. «Che bel nome.
Mi ricorda "camelia". Sai, no, il fiore. Hai presente?»
«Sì...» Komi
annuì lentamente, anche se non
aveva idea di cosa stesse parlando.
«No, non è vero»
ribatté la donna, ridendo. «Sei
una pessima bugiarda.»
Komand’r sentì le guancie
andare in fiamme. La
cosa peggiore era che il suono di quella risata era tanto bello quanto
innaturale. Non aveva mai sentito nulla di simile, non in quei mesi,
perlomeno.
Era una risata così... spontanea, sincera, non qualche
risata forzata o da
psicopatico come quelle a cui lei si era abituata, tipo quella di
Dreamer.
Era... così strano sentirla. Le
ricordava quella
di Kori. Quella dei tempi in cui le cose andavano meglio, i tempi prima
della
morte dei suoi genitori. E per certi versi... assomigliava anche a
quella di
Tara, probabilmente l’unica ragazza che avesse conosciuto che
ancora sembrava
possedere un pizzico di fiducia e bontà in quel mondo in cui
erano stati
costretti a vivere.
Non appena ripensò all’amica,
Amalia sgranò gli
occhi. Chissà come stava. Non era passato molto da quando
l’aveva salutata,
eppure era un po’ preoccupata. Con tutta la storia dei suoi
poteri ed eccetera,
temeva per la sua salute. Sperò che se la cavasse, che
Rachel e Rosso la
aiutassero. Perché se lo meritava. Non aveva mai fatto nulla
di male a nessuno
e tutte le volte che l’aveva vista, in passato, le era parso
di vedere un fiore
in mezzo ad un campo di erbacce.
Perché per quanto Rachel e Rosso
potessero
cercare di sembrare i buoni della situazione, non erano molto diversi
da
Amalia. Anche loro nutrivano rabbia, odio, rancore, anche se tendevano
a
nasconderlo, proprio come lei. Tara invece no. Non era l’odio
ciò che la
alimentava. Non agiva per vendetta, o per egoismo. Certo, provava
tristezza,
nostalgia, era molto più tormentata di quanto desse a
vedere, ma non era come
loro. Era come Kori, come Ryan e come pochi altri. Lei era... "pura".
Non sapeva come altro descriverla. Le sarebbe piaciuto un sacco
assomigliarle.
«Ehi, ci sei?» La voce di
Ursula la riportò alla
realtà. Amalia trasalì. «Ehm...
sì, scusa. Stavo... pensando.»
La donna la osservò per un momento,
probabilmente domandandosi se stesse avendo a che fare con una qualche
disagiata mentale, poi annuì, rimettendosi ai fornelli.
«Mh, va bene. Comunque,
la camelia è il fiore degli innamorati, secondo la
tradizione. Dovresti essere
felice del fatto che il tuo nome ricordi così tanto una cosa
stupenda come...»
«Senti, perché mi hai
salvata?» tagliò corto
Amalia, con tono molto più duro di quanto avrebbe voluto
usare.
Così duro che per poco Ursula parve
quasi
offesa, facendo sentire di conseguenza Amalia una stupida di prima
categoria.
La donna si voltò di nuovo verso di lei, posò il
cucchiaio e si strinse nelle
spalle. «Ti ho vista sul bordo della strada, sembravi
piuttosto malmessa e
bisognosa di aiuto, io ho solamente... voluto dartelo. Tutto
qui.»
Le due si osservarono a vicenda dritto negli
occhi. Ursula sembrava nascondere qualcosa, Amalia se n’era
resa benissimo conto,
ma di qualunque cosa si trattasse, non era malvagia. Non era la
malvagità a
spingere una persona a cercare di aiutarne un’altra. Certo,
esisteva la
possibilità che Ursula avesse un secondo fine, ma
probabilmente nemmeno quello
era malvagio. Ora che la osservava meglio... Komi notava una sorta di
malinconia dello sguardo dell’albina. Forse quella di Ursula
era solamente
stata compassione, magari aveva voluto aiutarla perché
nessuno in passato aveva
aiutato lei.
Amalia abbassò lo sguardo, sentendosi di
nuovo
in imbarazzo. «Ti chiedo scusa... non avrei dovuto
risponderti in quel modo...»
«Non preoccuparti.» La donna
abbozzò un sorriso.
«Ho capito che tipo sei. È difficile guadagnarsi
la tua fiducia. E francamente,
non ti posso biasimare.» Con gesto della mano, le
indicò il tavolo. «Vuoi
sederti? Tanto qui è quasi pronto. Nel frattempo possiamo
chiacchierare ancora
un po’. Vuoi?»
La ragazza annuì. «Va bene.
Grazie.»
Si accomodò, mentre Ursula continuava a
controllare il cibo sul fornello. In parte, Komand’r non era
ancora molto
convinta da quella situazione. L’albina sembrava riuscire a
leggere dentro di
lei come se fosse un libro aperto. Non riusciva davvero a spiegarsi
tutto ciò.
Forse in passato era stata una specie di psicologa, magari era anche
per quello
che aveva deciso di aiutarla.
«Che ti è successo ieri
sera?» domandò ancora
Ursula. «Chi ti ha ferita?»
Amalia fece una smorfia, ripensando a quanto
accaduto con quei quattro tizi. «Un conduit...»
borbottò, incrociando le
braccia ed osservando con aria assente il piatto di ceramica di fronte
a lei. «Avevo
camminato per qualche chilometro nella zona industriale e mi ero
fermata a
riprendere fiato, quando questi quattro ragazzi hanno accostato vicino
a me e
sono scesi. Non sapevo cosa volessero, ma a giudicare dalle parole del
loro
capo, credo che stessero solo cercando un po’ di compagnia,
se capisci cosa
intendo... peccato che io non ero affatto in vena.»
Ursula fece schioccare la lingua, scuotendo la
testa in segno di disappunto. «Sì, capisco. Che
schifo. E ti hanno aggredita
perché non hai voluto accontentarli?»
Komi piegò la testa.
«Sì e no. Diciamo che la
prima ad estrarre la pistola sono stata io, anche se non avrei mai
potuto
immaginare che due di loro fossero conduit. Mi hanno attaccata, poi uno
di loro
mi ha aggredita e ha cercato di farmi perdere i sensi. Ho capito che se
glielo
avessi permesso le cose non sarebbero affatto finite bene, per me. Sono
riuscita a liberarmi e sono scappata, e loro mi hanno
inseguita.»
«Io non ti giudico di certo. Forse sei
stata un
po’ avventata, ma anche tu hai solo cercato di difenderti. E
comunque bisogna
essere proprio dei vigliacchi per aggredire in quattro una ragazza
sola.»
«Si, beh... ora sono solo più
in tre» commentò
Amalia, con un sorrisetto malizioso stampato in faccia. Sorriso che
svanì non
appena si accorse dell’espressione basita di Ursula.
«Hai... hai ucciso uno di
loro?» domandò la
donna, a bocca aperta.
Improvvisamente, Komi si sentì minuscola
sotto
il suo sguardo. Non aveva la più pallida idea del
perché, ma si sentiva
parecchio condizionata dal pensiero che l’albina potesse
avere di lei.
«Avevano preso la mia roba»
cercò di
giustificarsi la giovane. «Dovevo riprendermela, ma
c’era questo stronzo di
guardia e io...»
«L’hai ammazzato come il
peggiore dei criminali.
Ho capito» la anticipò Ursula con tono incolore.
Spense il gas e prese la
padella con dentro le uova, per poi versarsene un po’ nel suo
piatto.
«Loro avrebbero ucciso me in ogni caso!
Che
altro avrei dovuto fare?!» domandò a Amalia,
irritata.
«Potevi lasciare perdere. Tanto non mi
pare che
tu abbia riavuto la tua roba. Avevi solo quel giaccone quando ti ho
trovata.»
L’albina prese il piatto della mora, poi cominciò
a riempire anche il suo.
Amalia la osservò, sempre più
accigliata. «Che
ne sapevo io che gli altri tre mi avrebbero beccata?!»
«Non urlare.»
«Non sto urland...»
Komand’r sgranò gli occhi,
interrompendosi di colpo. Si, lo stava facendo. Con le guancie in
fiamme si
portò entrambe le mani di fronte alla bocca, imbarazzata.
Ursula, nel frattempo, andò a prendere
la
padella con dentro la carne. «Non voglio che ti giustifichi
con me per le tue
azioni. Io non sono tua madre, non mi interessa ciò che fai.
Certo, mi da
fastidio sapere di avere aiutato un’assassina, ma sei
comunque una persona. E
in ogni caso non avrei mai potuto abbandonare una ragazza ferita sul
bordo
della strada, alla mercé di chissà quanti
malintenzionati.» La donna posò la
padella sul tavolo, sopra ad uno straccio per non bruciare la tovaglia,
poi
puntò l’indice dritto verso la ragazza.
«Ma voglio che tu sappia che c’è tanta
rabbia dentro di te, e tu stai cercando di tirarla fuori nel modo
sbagliato. E
non credere che io non sappia di cosa sto parlando, perché
io stessa un tempo
ero come te. La rabbia ti consuma, ti senti bloccata in un vicolo
cieco, senza
vie di fuga e l’unica cosa che ti resta da fare è
urlare, mandare tutto a quel
paese, ho ragione?»
Amalia non rispose, si limitò a chinare
il capo.
Quello fu silenzio assenso, per la donna.
«Non si può fuggire da
sé stessi. Non da soli,
almeno. Cercare di farlo... è come volare troppo vicini al
sole con delle ali
di carta. Certo, per un po’ riesci ad andare avanti, ma prima
o poi il calore
te le brucerà. E a quel punto precipitare sarà
inevitabile. E la caduta sarà
dolorosa.»
Komand’r si strinse nelle spalle. Quella
metafora era esattamente ciò di cui non
aveva
bisogno, ma preferì tenere quell’osservazione per
sé. E comunque, era
esattamente così che si sentiva. Stava precipitando, lo
stava facendo già da un
pezzo.
«E come ci si può
salvare?» domandò invece,
quasi con tono implorante. Raramente si era rivolta in quel modo a
qualcuno, ma
quella volta ne aveva bisogno. Aveva bisogno di uscire da quel tunnel
di dolore
e sofferenza in cui da troppo tempo era entrata, aveva bisogno di
liberarsi
dalle sue angosce e dai suoi tormenti. Aveva bisogno di aiuto.
D’altronde, era quello il motivo
principale per
cui aveva deciso di staccarsi dal suo gruppo di compagni di viaggio. Il
suo
obiettivo era riuscire a capire che cosa voleva veramente, doveva
pensare,
riflettere, trovare la sua vera sé. Ed Ursula, forse,
avrebbe potuto aiutarla.
«Qualcuno deve afferrarti al
volo» rispose la
donna, indicandole con il mento la finestra dietro di loro dove, sul
davanzale accanto
ad un vaso per i fiori, si trovava una fotografia.
Raffigurava due giovani donne sorridenti e
strette in un abbraccio, e per Amalia non fu affatto difficile
riconoscere
Ursula. Nell’immagine aveva i capelli a caschetto neri e
lucenti, mentre le
righe del volto erano completamente assenti per lasciar spazio ad una
pelle
abbronzata e priva di imperfezioni. L’altra donna, invece,
aveva i capelli
biondi raccolti in una coda e un paio di occhiali da vista di fronte
agli occhi
azzurri. Era più pallida, ma non per questo meno avvenente
della prima.
Entrambe sorridevano in maniera serena, rilassata, come se al momento
della
fotografia nulla avesse importanza eccetto quel momento.
Un piccolo sorriso nacque sul volto di Amalia
mentre osservava la fotografia in ogni suo piccolo dettaglio.
«Chi è lei?»
domandò, quasi senza rendersene conto. «Una tua
amica?»
Una tenue risatina nacque dalla gola della
donna. «No, non proprio.» Ursula sospirò
quasi nostalgica, mentre Komand’r
spostava lo sguardo su di lei inarcando un sopracciglio.
«Era... la mia compagna.»
La faccia che fece Amalia subito dopo aver
sentito questa affermazione dovette essere davvero sorpresa,
perché non appena
la donna se ne accorse ridacchiò.
«Perché mi guardi così? Non dirmi che
sei
omofoba...»
La ragazza trasalì. «C-Cosa?
N-No, io... no, non
lo sono. È solo che... non me lo sarei
aspettato...»
Ursula annuì. «Sì,
capisco. Beh, vedi, quando
ero giovane io... diciamo che essere omosessuali era quasi
l’equivalente di
essere degli alieni. Non era per niente facile convivere con questa
cosa, per
me. Mi sentivo esclusa, incompresa, non accettata dagli altri. Ero
arrabbiata,
scontrosa, ce l’avevo con tutto e tutti e per sfogarmi
frequentavo locali e
persone non molto raccomandabili.»
Komand’r abbassò lo sguardo
sentendo quelle
parole. Mi ricorda qualcuno..., pensò
amareggiata.
«Ma in cuor mio sapevo che quello era il
modo
sbagliato di comportarsi. Un giorno, poi, ebbi un incidente. Un pirata
della
strada mi lasciò in fin di vita su un marciapiede. Credevo
di essere spacciata,
ma mi risvegliai qualche giorno dopo in ospedale. E qui conobbi un
infermiera.
Lei.» Ed indicò la fotografia.
«Gretchen, che mi spiegò che erano stati degli
omofobi a farmi questo. Cosa di cui non mi sorpresi, visto che gli
episodi di
violenza su di noi erano all’ordine del giorno. Qualunque
omosessuale che
avesse avuto il coraggio di dichiararsi tale apertamente, come me, non
faceva
quasi mai una bella fine. Ma avrei preferito morire, piuttosto che non
essere
libera di essere me stessa. E Gretchen la pensava esattamente come me.
Ed è
stato allora che ho capito di non essere davvero sola. Lei mi ha
afferrata, e
mi ha salvato la vita. Il resto... beh, suppongo che tu possa ben
immaginarlo.
Quindi...»
Ursula riportò l’attenzione su
di lei. «...
credimi, quando ti dico che so bene cosa si prova ad essere arrabbiati.
Non sei
la prima e non sarai neanche l’ultima ad avercela con il
mondo per chissà quale
ragione. Tutto quello che ti serve è qualcuno che sia
disposto ad afferrarti.
Qualcuno che possa ascoltarti, capirti, amarti.»
Amalia soffocò una smorfia sentendo
quelle
parole. Se davvero fosse stato così facile risolvere i suoi
problemi,
probabilmente non si sarebbe trovata lì. Nessuno poteva
capirla veramente. Lei
stessa non riusciva ad accettarsi, come potevano farlo gli altri?
Scosse lentamente la testa, sospirando.
«Nessuno
può capirmi, tantomeno amarmi.»
«Io pensavo lo stesso di me.»
«Ma questa volta è
vero!» protestò Amalia,
sollevando lo sguardo ed inchiodandolo sugli occhi neri di Ursula.
«Io... non
sono normale. Le persone normali non... non avrebbero i pensieri che ho
io.»
«Quali pensieri?»
domandò allora l’albina, con
voce più morbida.
Komand’r si strinse nelle spalle.
«Non... non
voglio parlarne...»
«Perché non vuoi?»
«Perché non voglio vedere...
quello sguardo.»
Ursula sollevò un sopracciglio.
«Quale sguardo?»
«La commiserazione!»
esclamò Amalia, con voce
incrinata. «Non intendo essere guardata dall’alto
verso il basso da nessuno!
Non intendo essere giudicata dagli altri, io stessa mi giudico
già abbastanza!
Io so chi sono, so quello che ho fatto e so che è un
qualcosa che non potrà
essere cambiato in alcun modo, e tutto questo altro non è
che un problema mio!
Non mi serve qualcuno con cui confidarmi, un’altra persona
pronta a liquidarmi
con un "oh, mi dispiace", per poi guardarmi schifata non appena
rivolgo lei le spalle!»
«Se qualcuno farà
così con te allora significa
che non è chi cerchi» rispose Ursula, calma di
fronte al repentino cambio di
umore di Komi. «Anche io all’inizio pensavo che
Gretchen fosse un’altra di quei
bigotti omofobi, ma mi sono sbagliata. Lei mi ha capita, mi ha aiutata,
mi ha
regalato emozioni indescrivibili ed indimenticabili. L’ho
amata come lei ha
amato me, ed insieme eravamo felici. Quando c’era lei, io non
pensavo ad altro
che a noi. Mi ha salvato la vita. Mi ha salvata da me stessa. Ma se tu
non
riesci a capirlo, allora forse meriti davvero di rimanere sola e chiusa
nel tuo
odio.»
L’albina le si avvicinò, per
poi posarle una
mano sul ginocchio. «Io forse non posso capirti come tu
vorresti, ma
rifletti... c’è qualcuno, la fuori, che forse
potrebbe farlo? Qualcuno che
possa aiutarti a dimenticare ciò che hai fatto, che ti aiuti
a voltare pagina? Perché,
credimi, non è affatto facile riuscirci. Soprattutto se si
è soli.»
Amalia si mordicchiò un labbro. Non
voleva
davvero rimanere sola. Ma non voleva neanche essere giudicata. Aveva
paura di
cosa gli altri avrebbero potuto pensare di lei. Rachel,
l’unica persona con cui
si era confidata, e neanche in maniera troppo chiara, non era stata
davvero in
grado di aiutarla. Certo, la sua reazione era stata probabilmente la
migliore
che avrebbe potuto aspettarsi, ma alla fine non aveva cambiato davvero
le cose.
Poi chi altro c’era? Rosso? Probabilmente
nemmeno lui l’avrebbe giudicata, ma l’ultima cosa
che desiderava era apparire
debole dinnanzi ai suoi occhi. Piuttosto che quello, avrebbe preferito
tirare
le cuoia direttamente.
A quel punto restava lei. Tara. L’avrebbe
capita? Probabilmente sì. L’avrebbe giudicata?
Probabilmente no. Ma non voleva
comunque coinvolgerla nei suoi casini. Non era giusto nei suoi
confronti, nei
confronti di quella ragazza che non aveva fatto del male a nessuno e
che aveva
perso comunque tutto ciò che amava. Il suo ragazzo, la sua
famiglia, la sua
vita. Rivolgersi a lei sarebbe stato un atto tremendamente egoista, e
lei non
voleva più comportarsi in quel modo.
La ragazza sospirò.
«Io...»
Un suono stridulo proveniente da fuori dalla
finestra la costrinse ad interrompersi di scatto. Sia lei che Ursula
drizzarono
il capo, sorprese. «Ma cosa...?» domandò
la donna, per poi alzarsi ed andare ad
affacciarsi. Non appena lo fece, spalancò gli occhi.
«Oh no...»
Quella reazione non piacque per niente ad
Amalia. «Che succede?» domandò,
allarmata, alzandosi subito in piedi e
affiancandola. Non appena anche lei vide cosa c’era fuori
casa, rimase sorpresa
tanto quanto Ursula.
Proprio sotto di loro, in strada, un pick-up si
era fermato sul ciglio della carreggiata. Di fianco a lui,
probabilmente scesi
da poco, si trovavano i suoi passeggeri, e tutti e tre stavano
guardando
proprio verso le finestre sopra le loro teste, con l’aria
alquanto corrucciata.
Amalia non poté credere alla propria
sfortuna.
Proprio sotto di lei... si trovavano i conduit che l’avevano
aggredita.
Sì, ho pubblicato in
fretta, ma è solo perché volevo subito togliermi
dalle scatole questi primi due capitoli che tanto ormai conscete bene
(mi riferisco a chi ha già letto Sbagliata), se invece siete
nuovi su questa storia, beh, vi è andata di fortuna. In
genere io non aggiorno così presto. Finalmente, il prossimo
capitolo sarà quello che nessuno aveva ancora avuto l'onore
di leggere, perciò urrà!
Vabbene, alla prossima!
Paper
Wings
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Capitolo 3 *** Colpe ***
III
COLPE
«Dannazione,
di nuovo loro!»
esclamò Ursula, allontanandosi di
scatto dalla finestra, probabilmente per non farsi vedere.
Amalia la
imitò subito dopo, osservandola sorpresa. «Conosci
quei
tizi?!»
La donna
annuì, nervosa. «Sono un gruppo di conduit che
vive in questa
zona e che adora causare problemi, ma credevo che fossero scappati
tempo fa,
quando sono arrivati quegli uomini armati.»
«Gli
Underdog?» chiese ancora Komi, inarcando un sopracciglio.
«Sì,
loro. In genere si occupavano sempre dei conduit che causavano
problemi.»
Allora
non erano poi così inutili..., osservò
Amalia tra sé e sé, con un po’ di
amarezza.
«Perché
sono venuti proprio qui?» domandò ancora la
ragazza, con il
cuore che le batteva all’impazzata nel petto. Una parte di
lei conosceva la
risposta a quella domanda, e il terrore che Ursula potesse trovarsi in
pericolo
per colpa sua era enorme. Al solo pensiero, sentiva i sensi di colpa
divorarla.
Come se non ne avesse già abbastanza, tra l’altro,
di sensi di colpa.
«Non
lo so.» L’albina scosse la testa.
«Probabilmente vogliono
qualcosa da me. In passato sono già venuti ad estorcermi
cibo o medicine. Se
gli darò quello che vogliono probabilmente mi lasceranno in
pace.»
«Ho
paura che questa volta non vogliano solo del cibo...»
commentò
Amalia, cupa, ottenendo uno sguardo perplesso da parte della donna. La
giovane
si sentì tremendamente a disagio sotto quegli occhi scuri
come la pece.
«Che
intendi dire?» le domandò Ursula, incrociando le
braccia.
Komand’r
sospirò profondamente, poi decise di vuotare il sacco.
«Loro...
sono i conduit che mi hanno aggredita.»
Ursula
spalancò gli occhi. «Oh... cazzo...»
sussurrò, dopo un attimo
di silenzio.
«Credi
che ti abbiano vista mentre mi salvavi?» interrogò
ancora la
ragazza, continuando a gettare occhiatine furtive alla finestra.
«Non...
non lo so. Io non ho visto nessuno mentre ti caricavo sulla
mia macchina, ma non devono averci messo molto a fare due
più due.»
Amalia
soffocò una delle sue migliori imprecazioni. «Che
cosa
facciamo?»
«Tu
devi nasconderti» asserì la donna, con sicurezza.
«Se non ti
trovano qui probabilmente lasceranno perdere.»
«Se
sono qui è perché sanno che tu c’entri
qualcosa. Se non trovano
me, faranno sicuramente del male a te.» La giovane si
avvicinò alla donna,
posandole una mano sulla spalla. «Dobbiamo scappare, tutte e
due.»
«E
come? La mia macchina è fuori, vicino alla loro!»
«Merda!»
Questa volta Amalia non si trattenne. Si voltò di nuovo
verso
la finestra e si affacciò appena, per poi scoprire con suo
enorme orrore che i
tre erano spariti. Probabilmente erano entrati e ora stavano salendo.
Il tempo
stringeva. Mise in moto il cervello per trovare una soluzione, anche se
di
scappatoie non ne vedeva molte. L’unica che le veniva in
mente, era quella che
involveva una delle poche cose che aveva imparato a fare in quei mesi
di
sopravvivenza disperata: combattere.
Cercando
di ignorare la voce nella sua mente che le urlava disperata
di non avere speranze contro tre conduit, tornò a guardare
l’albina. «Tu... hai
qualche arma?»
Ursula
parve capire immediatamente quali fossero i suoi pensieri,
perché la guardò allarmata. «Vuoi...
vuoi ucciderli?»
Komand’r
si irrigidì sotto allo sguardo
dell’interlocutrice. Distolse
gli occhi da lei. Proprio non riusciva a spiegarsi il perché
quella donna le
facesse quell’effetto. Si sentiva condizionata da lei, dalle
sue reazioni. Era
quasi come se... non volesse deluderla, e non ne capiva il motivo.
Forse...
era perché le aveva salvato la vita. Ed era stata gentile
con
lei. E, beh, le sembrava davvero una brava persona, e di brave persone
in giro
non ne aveva viste molte, a parte Tara. Le aveva dato una chance,
pensando di
avere a che fare con una ragazza per bene, ed Amalia non voleva che
invece
anche lei dovesse confrontarsi con la persona schifosa che in passato
era
stata. Aveva finalmente l’occasione di cambiare, di essere
una persona migliore
e, soprattutto, di dimostrare davvero di tenere alle persone che la
circondavano. Conosceva Ursula da poco, ma, sì, teneva a
lei. Perché l’aveva
salvata. Perché l’aveva aiutata. E
perché... erano molto più simili di quanto
avrebbe mai potuto immaginare. Non poteva negare di non essere rimasta
colpita
dalla sua storia, dalle sue parole. Il suo coraggio di essere
sé stessa anche
quando i tempi erano altri e come il semplice amore potesse averla
cambiata ed aiutata
ad essere una persona migliore.
Forse era
proprio quello che il destino aveva in serbo per lei: farle
conoscere quella donna. L’unico modo che aveva per scoprirlo,
era rimanere
accanto a lei, proteggerla e soprattutto... cercare di non deluderla.
«No»
rispose, infine. «Non... non voglio farlo. Non se non
sarò
costretta. Ma se loro ci trovano... non avranno pietà.
Dovremo difenderci in
qualche modo.»
Ursula la
osservò attentamente per un momento, sicuramente cercando di
capire se fosse sincera oppure no, ma poi, probabilmente per la
mancanza di
tempo – anche se Amalia preferì pensare che si
stesse fidando di lei – decise
di annuire lentamente. «D’accordo. Il mio vicino di
casa era un cacciatore,
prima che... beh, hai capito. Forse nel suo appartamento
c’è qualcosa.»
Un
bagliore di speranza si accese immediatamente, come un faro, per
Amalia. Forse la sua nave non era ancora destinata ad affondare. La
ragazza
fece un cenno di assenso. «Me ne occupo io. Ora
però dobbiamo uscire da qui,
arriveranno da un momento all’altro.»
Senza
farselo ripetere, la donna albina le diede le spalle e si
diresse verso la porta, seguita dalla giovane. Una volta nella tromba
delle
scale, riuscirono perfettamente ad udire gli schiamazzi di
quell’odioso nano e
i brontolii del colosso, il quale probabilmente non stava gradendo
quella lunga
scalata verso la sua preda. In effetti, Amalia li aveva davvero fatti
penare
per catturarla. Sicuramente sarebbero stati più che felici
di metterle le mani
addosso e saziare tutti i loro bisogni. La mora rabbrividì a
quel pensiero, poi
scosse la testa. Avrebbe preferito morire piuttosto che fare quella
fine. Si
voltò verso Ursula: «L’appartamento,
qual è?»
L’albina
le indicò una porta verso il fondo del corridoio di fronte a
loro. «Però temo sia chiusa.»
«Non
è un problema per me. Tu continua a salire, io li distraggo
e
quando vedi che la via è libera corri alla macchina. Io
vedrò di raggiungerti.»
Non
menzionò nulla sull’eventualità che
quel piano, campato così
grossolanamente all’aria, fallisse. E nemmeno Ursula lo fece.
Semplicemente,
non doveva fallire.
«Ci
vediamo alla macchina» asserì Ursula, per poi
correre su per le
scale. Amalia annuì, chiuse la porta
dell’appartamento per far sì che prima
andassero a cercarle lì e dopodiché si diresse
verso la sua meta.
L’ingresso
era sbarrato, ma la serratura era vecchia ed usurata e la
porta era realizzata con un legno piuttosto scadente. Alla ragazza
bastò
muovere un paio di volte la maniglia per accorgersi di come quella
stesse
ancora chiusa per grazia divina. Prese una leggera rincorsa,
dopodiché con una
spallata riuscì a scardinarla, pregando di non aver fatto
troppo rumore.
Richiuse immediatamente l’ingresso e spazzò via
tutti i trucioli che aveva
creato, tentando di non lasciare tracce. Osservando
l’appartamento si rese
conto che era praticamente identico a quello di Ursula,
perciò non le fu
difficile orientarsi. Non sapeva esattamente cosa cercare fino a quando
non
aprì la porta della camera degli ospiti, dove non
trovò nessun letto bensì
degli armadietti di ferro ed un banco da lavoro.
«Bingo!»
sorrise la ragazza, per poi entrare nella stanza. Ma il buon
umore svanì alla svelta, non appena si rese conto che gli
armadietti erano
tutti vuoti. «No,
no, no!» esclamò,
mentre ne apriva uno dietro l’altro trovandoci dentro
solamente polvere ed
insetti morti. Niente armi, solo un pugno di mosche. Letteralmente.
L’unica
cosa degna di nota fu un mazzo di fascette, ma con quelle,
più che legarsene
una attorno al collo, non sapeva che farci.
La
ragazza imprecò coloratamente, poi sbatté la
porta dell’ultimo
armadietto. «Che diavolo faccio adesso?!» Si
guardò attorno, non ancora pronta
ad arrendersi, e notò qualcosa sul tavolo da lavoro. Si
avvicinò di nuovo colma
di speranza, per poi rimanere delusa per l’ennesima volta.
Una fiamma
ossidrica. «E a cosa può servirmi, invece,
questa?!» sbottò, afferrandola ed
osservandola attentamente. Provò ad accenderla e con sua
enorme sorpresa
funzionò, sprigionando la sua piccola fiamma blu dal
beccuccio.
Amalia
sospirò e la abbassò, dopodiché il suo
sguardo cadde ai piedi
del banco da lavoro, dove, accanto ad esso, notò
qualcos’altro. Si chinò e vide
meglio: una tagliola. La ragazza inarcò un sopracciglio: che
diavolo di
cacciatore era il vicino di Ursula?!
Si
avvicinò all’oggetto per esaminarlo. Era
più ruggine che altro, ma
comunque il meccanismo sembrava ancora intatto. Komi la
afferrò, dopodiché posò
ciò che aveva trovato sul bancone. Un mazzo di fascette, una
tagliola
portatrice di tetano ed una fiamma ossidrica. La ragazza si
passò una mano tra
i capelli. «Sono spacciata...» mugugnò.
Un tonfo
secco la fece sobbalzare e voltare di scatto. Qualcuno aveva
sfondato la porta. La ragazza si irrigidì come un chiodo
quando sentì il rumore
dei passi dello sconosciuto nuovo arrivato ed un parlottare soffuso. Si
infilò
le fascette in tasca, dopodiché afferrò la fiamma
ossidrica, decidendo di
abbandonare, per il momento, la tagliola. Era troppo ingombrante da
prendere e
probabilmente non le sarebbe servita a nulla. Si appoggiò
contro al muro della
stanza e spense la luce, facendola piombare nel buio. La porta del
corridoio si
aprì con un lento cigolio e la ragazza riuscì ad
udire meglio la voce del nuovo
arrivato: era il ragazzo di colore.
«Che
stronzi...» borbottò questo con diverse vene di
irritazione nella
voce, mentre si muoveva nel corridoio. «"Io e Mammoth
pensiamo alla
ragazza, Seymour, a te se vuoi lasciamo la vecchia"»
recitò con voce in
falsetto, probabilmente imitando il proprio capo. «Tsk. Dici
una volta che ti
piacciono le donne stagionate e rimani marchiato a vita...»
Amalia
trattenne un conato di vomito udendo quelle parole. Ma con che
razza di gente aveva avuto il dispiacere di aver a che fare?! Scosse la
testa e
si appiattì contro al muro, stringendo con forza
l’impugnatura della fiamma
ossidrica. Il rumore dei passi si avvicinò. Komi trattenne
il fiato. Un’ombra
penetrò nella stanza. Seymour, il ragazzo,
mugugnò mentre cercava
l’interruttore. «Come se quella schizzata potesse
davvero trovarsi qu...»
Non
finì mai quella frase. Non appena accese la luce,
Komand’r lo
colpì alla tempia con il calcio della sua arma improvvisata.
Il ragazzo gridò
di dolore e cadde a terra, tenendosi una mano sulla testa. Amalia non
perse
tempo e si chinò su di lui, stendendolo con
un’altra mazzata. Il conduit si
accasciò sul suolo con il capo, una chiazza di sangue fresco
che scivolava
sotto l’attaccatura dei corti capelli castani. Amalia
controllò le sue
condizioni e notò che respirava ancora. Tirò un
sospiro di sollievo; per un
momento temeva di averlo fatto fuori, il che avrebbe mandato al diavolo
tutti i
suoi buoni propositi di poco prima, ma fortunatamente così
non era stato. Anche
se, probabilmente, dopo due simili colpi alla testa lo aveva
lobotomizzato.
Beh, almeno
è ancora vivo... è pur sempre un piccolo passo
avanti.
Senza
perdere altro tempo, la giovane afferrò le fascette e
bloccò
polsi e caviglie del conduit. Probabilmente non sarebbero bastate ad
immobilizzarlo a lungo, ma visto lo stato in cui era ridotto era anche
altrettanto probabile che non si sarebbe svegliato poi così
presto. Osservò poi
le fascette, compiaciuta. Alla fin fine, erano davvero servite a
qualcosa.
Soffocando dopodiché diverse imprecazioni,
trascinò il corpo in un angolo della
stanza e lì lo abbandonò. Una fitta di dolore le
colpì la zona in cui era stata
colpita da quello stesso conduit e solamente allora si
ricordò di tutte le sue
fasciature e della sua brutta ferita. Represse una smorfia, sperando
che la
cosa non si rivelasse un problema troppo grave. Mise le proprie armi
nelle
tasche del giaccone, spense la luce e chiuse la porta, abbandonando
Seymour
all’interno. Ed uno era sistemato. Ne mancavano altri due.
La
ragazza tornò nella tromba delle scale, per poi notare la
porta
dell’appartamento di Ursula sfondata. Era ovvio che gli altri
due fossero
entrati. Sperò che Ursula fosse riuscita ad aggirarli e che
fosse sana e salva,
mentre iniziava a scendere di corsa. Più gradini percorreva
e più accelerava,
voleva solamente più andarsene da quel luogo, scappare da
quei folli che la
inseguivano e sperare di non rivederli mai più. Lasciare
direttamente la città,
possibilmente. Tuttavia, quando credeva i essere quasi arrivata,
un’altra
atroce fitta di dolore la fece trasalire e per poco perdere
l’equilibrio. Ebbe
la freddezza di afferrare il corrimano per evitare una disastrosa
caduta, ma
subito dopo si ritrovò piegata su sé stessa ad
annaspare.
«Merda,
merda, merda...» imprecò, portandosi una mano
sulle fasciature
sotto la canottiera. Quel lievissimo contatto le causò
ancora più dolore di
quanto già non ne provasse. Non andava bene, non andava per
niente bene. Sola
contro il mondo, disarmata e perfino ferita. Una situazione decisamente
sgradevole. Sperò davvero che
Ursula
la stesse già aspettando in macchina. Lentamente, riprese a
scendere le scale,
questa volta però senza accelerare il passo e tenendo una
mano sul corrimano. Gradino
dopo gradino, fitta dopo fitta, imprecazione dopo imprecazione, la
giovane
riuscì a raggiungere il piano terra. Zoppicò fino
all’uscita e rientrò in strada,
dove una folata di aria gelida la travolse. Un vero toccasana per il
suo umore.
«Ursula?»
chiamò, incerta, avvicinandosi alla macchina della donna.
«Ci
sei?» Si affacciò sul finestrino, per poi
sbiancare; il sedile era vuoto.
Indietreggiò
di scatto, con un gemito. Cominciò a girare attorno alla
macchina, mentre il panico si insinuava lentamente dentro di lei,
dapprima solo
superficialmente e poi, poco per volta, sempre più
profondamente, fino a
stritolarle il cuore e a contorcerle le interiora. Non c’era.
Ursula non c’era.
«Cerchi
qualcuno?»
Quella
voce la trafisse come una lancia. La ragazza si voltò
lentamente, il terrore di sapere che cosa la aspettasse che si faceva
sempre
più forte, dopodiché ogni speranza di sbagliarsi
fu vanificata. Dietro di lei,
sull’uscio del condominio, il nano ed il gigante avevano
Ursula in ostaggio,
con quest’ultima tenuta per il collo e sollevata da terra di
almeno dieci
centimetri dal braccio di Mammoth.
«Amalia...
mi dispiace...» sussurrò la donna, prima che il
colosso
stringesse la presa attorno al suo collo, facendola gemere di dolore.
Cercò di
liberarsi dalla stretta e scalciò, ma quello non parve
nemmeno notare i suoi
sforzi, perché rimase concentrato ad osservare
Komand’r.
«Pensavate
che fossi nato ieri, eh?!» domandò poi il nano,
attirando
l’attenzione su di lui.
«Vista
la tua statura, sì» replicò Amalia,
suscitando una risatina dal
gigante, il quale venne subito folgorato con lo sguardo dal compare.
Ursula,
invece, si limitò a scuotere la testa, per farle capire che,
forse, non era il
caso di peggiorare ulteriormente la situazione.
«Hai
ucciso il nostro amico, mi hai calpestato la faccia ed ora hai
anche il coraggio di fare battute?!» piagnucolò il
bamboccio, pestando i piedi
per terra. «Mi hai davvero stancato. E che diavolo hai fatto
a Seymour?!»
«Chi?»
«Non
prendermi per il culo!» ululò ancora il moccioso,
estraendo una
pistola che nelle sue mani pareva quasi un giocattolo.
Amalia
sollevò le mani. «Sta facendo un
pisolino» rispose a quel
punto, calma. «È ancora vivo, se è
quello che ti importa.»
«Portami
da lui» ordinò a quel punto il suo interlocutore.
«Ma
è qui so...»
«HO
DETTO PORTAMI DA LUI!»
Komi
sussultò, per la prima volta in assoluto quel tizio
riuscì ad
inquietarla. Annuì lentamente. «O-Ok...
però, lasciate andare lei. Non ha nulla
a che fare con questa storia» disse, accennando con il mento
ad Ursula, la
quale la osservava sempre più spaventata.
Un
sorriso sadico si accese sul volto del nano, a quella richiesta.
«Non
sei nella posizione di dare ordini, puttanella. Adesso tu fai quello
che ti
dico, dopodiché, forse, lascerò andare la tua
amichetta.»
«"Forse"
non è una condizione che mi sta bene...»
mugugnò
Amalia, quasi ringhiando.
«Peccato
che tu non abbia molta scelta» incalzò ancora
quello, agitando
la pistola e continuando a sorriderle. «E adesso, prego,
prima le signore.»
Komand’r
fece una smorfia, poi, con il capo chinato, si diresse di
nuovo verso la porta. Mentre faceva ciò, la sua mente
elaborava la prossima
strategia. Aveva ancora la fiamma ossidrica nascosta nella tasca del
cappotto,
fortunatamente non l’avevano perquisita, ma non aveva la
più pallida idea di
come usarla. Semplicemente, avrebbe dovuto aspettare
l’occasione d’oro. Ma con
il dolore al fianco che non le dava tregua, Ursula tenuta in ostaggio
ed una
pistola puntata alle sue spalle, faticava ad immaginare uno spiraglio
per poter
agire. E il peggio doveva ancora venire: una volta scoperto in che
condizioni
era stato ridotto Seymour, quei due si sarebbero incazzati come iene.
Stava
passando dalla padella alla brace e non aveva la più pallida
idea di che cosa
fare se non riempirsi da sola di insulti per aver abbandonato le
persone più
simili a degli amici che avesse incontrato.
Rachel,
Rosso, Tara... se fosse rimasta con loro non si sarebbe cacciata
in quel guaio. E anche se fosse successo, loro l’avrebbero
aiutata a tirarsene
fuori. Non credeva che avrebbe mai potuto rimpiangere in quel modo la
compagnia
di quei tre, anche se, sotto sotto, doveva ammettere che si era
affezionata a
loro. A Tara, soprattutto.
Tara...
La mora
strinse i pugni. No, non doveva arrendersi. Non ancora. Lei
era Komand’r Anderson. La pazza dal grilletto facile, colei
che aveva ficcato
un coltello nel collo di Deathstroke, colei che aveva fatto fuori quel
sociopatico di Jeff Dreamer. Ne aveva viste di cotte e di crude, aveva
combattuto contro giganti di ferro, uomini armati, psicopatiche
drogate, ed era
la stessa che, già una volta, era riuscita a fregare quei
quattro babbei, ormai
solo più tre, che stavano minacciando lei e la sua nuova
conoscente, una donna
innocente che aveva semplicemente commesso l’errore di
trovarsi nel posto
sbagliato ma al momento giusto. Era stanca di essere la responsabile
dei
problemi altrui. Doveva rimediare, doveva salvarla. E lo avrebbe fatto,
da
sola.
Salirono
le scale, in silenzio. Il dolore al fianco non dava tregua ad
Amalia, ma lei per tutto il tempo si sforzò di ignorarlo.
Infine, si
ritrovarono di fronte all’appartamento in cui aveva lasciato
Seymour. Mentre
entravano, il suo cervello viaggiava a mille chilometri orari,
macinando
pensieri su pensieri nel tentativo di trovare un modo per cacciarsi
fuori da
quella situazione. Infine, si ritrovarono di fronte alla stanza delle
armi.
«Qui
dentro» asserì Amalia, cercando di apparire
più sicura possibile.
«Cosa
aspetti ad entrare, allora?» domandò il nano.
«Coso,
ti prego...» sussurrò Ursula, parlando di nuovo
per la prima
volta. «Deve esserci un altro modo...»
«No,
non c’è invece. E comunque, nessuno ti ha
interpellata, vecchia!»
«Ma
ascolta...»
«Ti
ho detto di tacere!» esclamò Coso, arrabbiandosi
di nuovo, per poi
sollevare la pistola. «O preferisci che...»
«Basta!»
si intromise Amalia, alzando la voce ed ottenendo lo sguardo
di tutti. La ragazza, poi, osservò la donna albina.
«Non preoccuparti, Ursula.
Vedrai che andrà tutto bene.»
«Nei
tuoi sogni, forse » sghignazzò Mammoth.
Komi
represse una smorfia. Si limitò a volgere ad Ursula un cenno
del
capo, poi inspirò profondamente e si voltò verso
la porta. Sapeva cosa fare.
Era rischioso, folle, ed inoltre aveva anche bisogno
dell’aiuto dell’albina, ma
sapeva che quella avrebbe capito. Se davvero erano simili come lei
stessa aveva
detto, sicuramente lo avrebbe fatto. Se così non fosse
stato... beh, erano
comunque spacciate, quindi il risultato finale non sarebbe cambiato poi
così
tanto.
Avvicinò
la mano alla maniglia ed aprì la porta. I quattro entrarono
nella stanza ed Amalia approfittò della penombra per
infilare una mano nella
propria tasca.
Tre...
«Puoi
accendere la dannata luce, per favore?» domandò
Coso, irritato.
La
giovane obbedì, posando un dito sull’interruttore.
Due...
Accese la
luce. Non appena Mammoth e il suo capo videro in che
condizioni Amalia aveva ridotto Seymour, questi sgranarono gli occhi. E
Komi
poté approfittare di quel minuscolo momento di distrazione.
UNO!
«Ma
che diav...» Coso tentò di parlare, ma fu
immediatamente
interrotto dalla legnata che si beccò su una tempia. Il nano
urlò e cadde a
terra, perdendo la pistola. Nello stesso momento, Mammoth si riprese
dallo
stupore per Seymour e si rese conto di quello che stava succedendo.
Urlò di
rabbia, ma qualsiasi cosa volesse fare fu interrotta dal morso di
Ursula, che
conficcò con quanta forza possedesse ancora i propri
incisivi nel polso del
colosso. Questo tramutò così il proprio grido di
rabbia in uno di dolore misto
a sorpresa. Mollò la presa sull’albina, che cadde
pesantemente a terra, ma non
ci mise molto a riprendersi dallo stupore. Sollevò entrambe
le mani e cercò di
avventarsi sulla donna, ma Amalia si frappose tra loro brandendo la
fiamma
ossidrica. Mentre inceneriva la faccia del colosso facendolo sbraitare
come un
condannato alla pena capitale, un sorriso di trionfo si accese sul suo
volto;
Ursula aveva capito, e aveva fatto molto meglio di quello che avrebbe
potuto
aspettarsi.
Un
disgustoso odore di carne bruciata si diffuse nell’aria
mentre
Mammoth cadeva a terra coprendosi il volto, sempre senza smettere di
urlare. La
ragazza a quel punto fece per piombarsi su di lui e finirlo, ma
l’urlo di
Ursula la fece voltare. «Amalia!»
La
giovane vide Coso e l’albina litigare per prendere possesso
della
pistola del primo, il quale si era già rialzato dopo il
colpo subito. Era una
scena quasi surreale, vista la loro elevata differenza di statura, ma
Ursula non
era più una ragazzina, era troppo debole, perfino per uno
come lui. Aveva
bisogno di aiuto. Amalia fece per
correrle incontro, ma qualcosa la afferrò per una caviglia,
facendola cadere
rovinosamente. Gridò di dolore, per la caduta e per
l’ennesima fitta al fianco,
poi si accorse della mano di Mammoth attorcigliata attorno al suo
stivale. Il
conduit la osservava con il volto dilaniato dalle ustioni e dal sangue
raggrumato, un occhio cieco e con un’espressione di pura
rabbia. Komi dimenò il
piede per liberarsi, ma quello non era assolutamente intenzionato a
mollarla. A
quel punto la ragazza urlò di rabbia e con la gamba libera
sferrò un calcio sul
volto del rosso, facendolo grugnire. La presa si affievolì e
a quel punto
Komand’r gliene sferrò un altro, poi un altro e
poi un altro ancora.
Usò
il suo volto come zerbino, letteralmente, udendo perfino lo
scricchiolio delle ossa del suo naso rotte, fino a quando quello non la
lasciò
andare, gridando nuovamente per il dolore ed afferrandosi il volto
ormai
ridotto ad una maschera di sangue.
La
ragazza a quel punto si alzò in piedi, fece per correre ma
un boato
la bloccò all’istante. Vide la scena a
rallentatore. Ursula che barcollava
all’indietro, Coso che invece veniva sbalzato via. Amalia ci
mise un momento
per capire cosa fosse successo, ma quando si accorse della mano di
Ursula
premuta sul proprio addome, più il liquido vermiglio che le
macchiava la
maglia, capì ogni cosa. L’albina avanzò
ancora di qualche passo, poi si voltò
verso la giovane. Le due si guardarono per un breve momento, ma parve
durare
un’ eternità. Fu un semplice sguardo, che
però valse più di qualsiasi altra
parola. Dopodiché, la donna roteò gli occhi e si
accasciò al suolo.
Amalia la
osservò paralizzata mentre il suo corpo si accasciava
esanime sul pavimento con una lentezza straziante.
Dopodiché, quando si fu
capacitata a cento percento di quanto fosse successo, il suo urlo
disperato
giunse fino al fondo della tromba delle scale.
Senza
perdere altro tempo, la ragazza corse da lei. Le si
inginocchiò
accanto dopodiché le prese il volto tra le mani.
«Ursula!» chiamò, ormai
prossima alla disperazione. «URSULA!»
La donna
aveva gli occhi sbarrati, un rivolo di sangue le colava dalla
bocca. Amalia continuò a chiamarla e a scuoterle il capo,
senza nessun
successo. La donna non riapriva gli occhi.
NO, NO, TI
PREGO, NO!!
Amalia
continuò con quel suo tentativo disperato di svegliarla, ma
più
i secondi passavano, più la dura realtà si
abbatteva su di lei con il suo peso
schiacciante. Continuò fino a quando non sentì le
braccia cederle per la
fatica, dovuta anche al continuo ed incessante dolore al fianco. Gli
unici
movimenti che ormai riusciva solo più a compiere, erano
quelli involontari
delle spalle, causati dal suo pianto, di cui nemmeno aveva fatto caso
fino a
quel momento.
Morta.
Ursula era morta. Di fronte a lei. Senza che lei potesse fare
nulla per salvarla. Morta per colpa sua, dopo che lei aveva giurato a
sé stessa
di salvarla.
Era
morta. Morta, come Kori. Morta, come Ryan. Morta, come i suoi
genitori.
Morta.
Per colpa
sua.
Non
l’aveva nemmeno ringraziata per averla salvata, ora che ci
pensava. Nemmeno per aver cercato di aiutarla con i suoi problemi.
Anzi, le
aveva urlato contro. Ed ora era lì, immobile, come una
statua di cera. Proprio
davanti ai suoi occhi.
Se solo
non avesse perso la voce nell’urlo di poco prima, Amalia
avrebbe gridato di nuovo. Invece, si limitò a chinare il
capo sul ventre
dell’albina e a riempirlo di lacrime.
Rivide
Ryan, nella sua mente. Rivide il suo corpo esanime, la sua
figura insanguinata. E dopo rivide Kori, e dopo i suoi genitori. E poi
tutte
quelle persone a lei care che erano morte. Attorno a lei, tutto quanto
svanì.
Si ritrovò immersa nel buio più totale,
circondata da tenebre, senza più alcuna
fonte di luce. Ancora una volta, terra bruciata era stata fatta. Quel
ciclone
che era la sua vita ne aveva spazzata via un’altra, di nuovo.
E lei, come al
solito, era rimasta illesa. Perché, perché quel
proiettile non aveva colpito
lei anziché Ursula?! Perché lei continuava ad
essere viva?! Perché non poteva
esserci lei al suo posto, o al posto di Ryan, o a quello di Kori?!
Perche?
PERCHÈ?!?!
Un rumore
improvviso la fece destare da quello stato di semicoscienza.
Era rimasta così concentrata su quanto appena accaduto che
si era dimenticata perfino
dello scontro precedente. Rivide Coso rialzarsi a fatica, brontolando
qualcosa
di incomprensibile, mentre, alle sue spalle, Mammoth continuava a
piagnucolare
per il dolore alla faccia.
Quando
Coso drizzò lo sguardo e si accorse di Amalia ed Ursula
sgranò
gli occhi. Komi lo osservò, in silenzio, apatica. Il nano
parve apparire sempre
più spaventato man mano che i secondi passavano, come se
avesse intuito lo
stato d’animo della giovane. Si voltò verso la
pistola, probabilmente era stato
proprio lo sparo di quest’ultima a farlo cadere, e si
fiondò su di essa. Ma
Amalia fu più veloce. Il
moccioso mise
mano sul calcio dell’arma, per poi ritrovarsela schiacciata
contro di essa
dalla suola dello stivale di Komi. Quello sussultò, per poi
alzare lo sguardo. Komand’r
non poteva vedersi in faccia, ma sapeva per certo che lo sguardo che
gli
rivolse mai era stato rivolto a qualcun altro.
Uno
sguardo di odio puro, misto a rabbia. Uno sguardo che mai, mai, una deviata mentale come lei
avrebbe dovuto avere.
«As...
aspetta, ti pre...»
Coso non
ebbe il lusso di poter finire quella frase. Il calcio che si
beccò in pieno volto gli fece cadere di netto le parole
dalla bocca, assieme
anche a qualche dente. Il nano fu sbalzato dall’altra parte
della stanza e si
afferrò il naso, facendo diversi versi di dolore.
Komand’r nel frattempo si
chinò per prendere la pistola, dopodiché rimosse
il caricatore e svuotò la
canna. Non voleva che accadessero altri spiacevoli incidenti con
quell’arma e
non voleva nemmeno che le cose si risolvessero così
facilmente. Lasciò cadere
la pistola, dopodiché si diresse verso la fiamma ossidrica,
che le era caduta
di mano quando Mammoth l’aveva fatta inciampare. Il suo
sguardo cadde poi sulla
tagliola per orsi, rimasta in disparte in un angolo della stanza fino a
quel
momento. Subito dopo, la ragazza controllò la tasca; le
fascette c’erano
ancora.
Amalia si
guardò attorno, concentrandosi sui corpi dei due bastardi
che l’avevano trascinata in quella situazione di merda.
Strinse con forza i
pugni, conficcandosi le unghie nei palmi fino a farsi male.
Avrebbero
pagato. Avrebbero pagato fino all’ultimo centesimo, con
tanto di interessi. E quella non era una minaccia, ma una promessa. Una
promessa che, questa volta, era intenzionata a mantenere.
Dopo
averlo immobilizzato con le fascette, si avvicinò al nano,
brandendo la fiamma ossidrica. Questo sollevò lo sguardo,
terrorizzato. Tentò
di supplicarla, con le lacrime agli occhi, ma lei non lo
ascoltò. Non sentì più
nulla.
Mentre
deturpava quel volto odioso con la fiamma ossidrica, non vedeva
altro che il corpo di Ursula mentre si accasciava a terra. Mentre Coso
gridava,
scalciava, piangeva e il sangue colava come una cascata dal suo volto,
Komand’r
vedeva suo fratello Ryan, sua sorella Kori, i suoi genitori, tutti
quanti.
Man mano
che la pelle rosa del nano si trasformava in un mosaico di
ustioni, tagli e liquido vermiglio, la ragazza ripensava al dolore,
alla
sofferenza, alle occasioni perdute. Quei pensieri deviati che le
avevano
distrutto la vita e che non era mai riuscita ad esprimere.
Fu
così persa in quel turbinio di ricordi ed emozioni
contrastanti che
non si accorse nemmeno del momento preciso in cui Coso smise di
gridare, anche
se immaginava che dovesse essere accaduto quando gli aveva aperto quel
buco
talmente grosso sulla fronte da poterci vedere la carne viva
attraverso. Ma
nonostante il nano fosse morto, lei continuò ad infierire,
incurante,
insensibile a tutto e tutti, fino a quando non udì un verso
provenire alle sue
spalle. La ragazza a quel punto mollò sul pavimento
l’ex capo della banda,
ormai irriconoscibile, tuttavia non si voltò.
Udì
la massiccia figura di Mammoth rialzarsi lentamente. Lo udì
muoversi, udì i suoi passi, capì che era diretto
verso di lei, ma non si mosse
ugualmente. Lo sentì ringhiare di rabbia e sentì
anche le sue nocche
scrocchiare, ma rimase, ancora, impassibile. Quello camminò
ancora verso di
lei, fino a quando un rumore metallico non ruppe improvvisamente il
silenzio.
Si udì uno scatto, come quello di un meccanismo che si
attivava. E subito dopo,
le urla strazianti del gigante. Solo a quel punto la ragazza si
voltò, per poi
vedere il conduit stramazzato a terra, intento a tenersi per la
caviglia
dilaniata. Dilaniata dalla tagliola per orsi disposta in precedenza
dalla mora, proprio lì di
fronte al colosso.
Komand’r
si alzò, brandendo fiamma ossidrica e fascette, e si diresse
anche verso di lui. Mentre lo immobilizzava come aveva fatto con gli
altri due,
quello la osservò con sguardo a metà tra il
terrorizzato e il disgustato. Anche
se era difficile intuirlo, viste le condizioni del suo volto.
«Tu
sei... pazza...» sussurrò lui, oramai
impossibilitato a muoversi
anche se lo avesse voluto.
Amalia
sospirò, inginocchiandosi ed osservandolo con aria assente.
«Magari
fosse solo questo» rispose con voce atona, semplicemente.
Quella sensazione,
quella sensazione di vuoto che la assaliva, quel suo non provare
più nulla, la
totale apatia, nei confronti degli altri, nei confronti di
sé medesima, nei
confronti della vita stessa... non era bello. Non era bello
per niente. Non
ricordava di essersi mai sentita così... strana.
Così fuori posto. Così... sbagliata.
Accese la
fiamma. Per la seconda volta di fila, le urla strazianti
della sua vittima le parvero distanti anni
luce. |
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Capitolo 4 *** Dolce notte ***
IV
DOLCE
NOTTE
Amalia
appoggiò il capo contro il muro, sospirando profondamente.
L’odore di carne bruciata pungeva il suo olfatto, mentre
sangue ancora fresco
colava dalle sue mani. Non il suo,
di
sangue, ovviamente.
Qualcuno
stava piangendo. Esattamente di fronte a lei, accasciato
contro il muro dall’altro lato della stanza, Seymour stava
facendo guizzare lo
sguardo da lei a ciò che rimaneva dei suoi due amici.
«T-Ti prego...» stava
dicendo, tra un singhiozzo e l’altro. «Non... non
uccidermi...»
Komand’r
fece una smorfia. Erano minuti interi che andava avanti in
quel modo. Lei ancora non gli aveva risposto. Ed era intenzionata a non
farlo. Comunque
no, non lo avrebbe ucciso. Si era già abbastanza sporcata le
mani, quel giorno.
Anche se quel tizio meritava di fare la stessa fine dei suoi amici per
come si
stava comportando. Lui non avrebbe esitato ad ucciderla, se
l’avesse catturata.
Anzi, già in diverse occasioni l’aveva quasi fatta
fuori, con i suoi dannati
raggi laser. Lui ed i suoi amici erano intenzionati a rapirla,
violentarla e
poi ammazzarla, ed ora quel tizio implorava pietà?
Disgustoso.
Patetico. Inaccettabile.
Dreamer
non aveva pianto quando lei gli aveva puntato una pistola di
fronte alla testa. Lui sapeva che ogni azione aveva una conseguenza e
sapeva
che prima o poi sarebbe toccato anche a lui. E se sotto quel frangente
perfino
un essere abominevole come Dreamer era migliore di quei quattro
perdenti che
avevano cercato di catturarla, allora significava che quei tizi erano davvero ripugnanti. E lui, Seymour,
avrebbe dovuto imparare più cose su come il mondo, il loro
mondo, funzionava
davvero. Ma non da Amalia. Lei non era più in vena di
insegnamenti. Si alzò in
piedi e si diresse verso la porta, lasciandosi alle spalle i corpi di
tutti i
presenti. Spense la luce e chiuse la porta, abbandonando Seymour ai
suoi
piagnistei, sperando che, dopo quella giornata, questo decidesse di
svanire per
sempre dalla faccia della terra. Ammesso e concesso che fosse riuscito
a
superare lo shock e liberarsi dalle fascette.
Komi si
diresse poi verso la camera da letto, dove il corpo di Ursula
la attendeva, sdraiato sopra al letto matrimoniale. La giovane aveva
pulito il
sangue, l’aveva cambiata e l’aveva pettinata.
Sembrava quasi che stesse
dormendo. Una fitta allo stomaco la colpì quando
ripensò a ciò che era successo
alla donna. Scosse la testa, ricacciando le lacrime, poi le si
avvicinò.
«Mi
dispiace...» sussurrò, con voce rotta.
«Riposa in pace, Ursula...
grazie di tutto. Non mi dimenticherò mai di te.»
Con il
peso del mondo ancora sulle proprie spalle, Amalia abbandonò
la
stanza, poi l’appartamento e poi il condominio.
Salì sul camioncino di Coso e
la sua banda e trovò la chiave ancora inserita nel quadro.
Senza esitare la
girò ed avviò il motore. Dopodiché,
iniziò a spostarsi. Non sapeva dove
dirigersi con esattezza, sapeva solo che, ovunque sarebbe andata, i
terribili
ricordi di quella città l’avrebbero seguita.
Tutto le
sembrava assente, irreale e distante, in quel momento. Il
volante che stringeva tra le mani, gli edifici che mano a mano
svanivano da
attorno a lei, la strada che percorreva, le luci dei lampioni accesi.
Nemmeno
si era accorta che era scesa la sera. Era come se nulla avesse
più importanza
per lei, ormai. Si sentiva un guscio vuoto che camminava e che
respirava. Lo
stesso guscio vuoto che era sempre stata.
Non
sapeva più cosa dire, cosa fare, cosa pensare. Le sembrava
di
essere imprigionata in un ciclo infinito in cui tutte le persone che
sembravano
tenere a lei o a cui lei stessa teneva erano destinate a morire. Valeva
davvero
la pena continuare così?
Il rumore
del motore dell’auto che si affievoliva lentamente la fece
destare da quei pensieri. Sentì i giri del veicolo diminuire
ciclicamente, fino
a quando il mezzo non si ritrovò ad avanzare a strattoni. E,
per finire, si
arrestò direttamente. Solo in quel momento la ragazza
notò la spia della
benzina accesa. Chissà da quanto lo era, poi. Amalia
sospirò e scosse la testa.
Quei quattro idioti non avevano fatto il pieno. Anche quando non
rappresentavano più una minaccia diretta riuscivano ad
irritarla.
Soffocando
la milionesima imprecazione di quel giorno, la mora scese
dal veicolo e sbatté la portiera con forza. Si
affacciò sul cassone, sperando
di trovare un’eventuale tanica di benzina, per poi vedere con
enorme stupore il
suo borsone. Komi sgranò gli occhi. Solo in quel momento si
ricordò che quei
quattro gliel’avevano rubato. Ma il sollievo provato nel
ritrovarlo si
trasformò ben presto in rabbia. Si sbatté una
mano sulla tempia, con forza,
digrignando i denti. Se solo se ne fosse ricordata prima, avrebbe
potuto
prendere il suo fucile per salvare Ursula. Anche se, forse, era
più semplice a
dirsi che a farsi. Dubitava che sarebbe riuscita a nascondere il fucile
in
tasca come invece aveva fatto con la fiamma ossidrica.
Sospirò
profondamente. Ormai, era tardi per avere simili pensieri, e
sicuramente non aveva bisogno di torturasi più di quanto
già stesse facendo. Afferrò
il borsone e proseguì per la sua strada a piedi, visto che
di taniche di
benzina non c’era nemmeno l’ombra. Ricevette
diverse fitte di dolore al fianco
mentre camminava, ma era un dolore comunque sopportabile. E, in ogni
caso,
avrebbe anche potuto avere una gamba rotta, se ne sarebbe comunque
andata da
quella dannata città; a piedi, in macchina, strisciando sui
gomiti, non le
importava; doveva andarsene.
Continuò
a camminare, immersa nel silenzio di quella notte,
accompagnata solamente dalle brezze di aria fredda e dalle luci dei
lampioni e
della luna piena. In effetti, la luna era davvero bella quella sera.
Non che la
cosa le importasse più di tanto, però.
Sinceramente,
non le importava più di niente. Voleva solamente
andarsene da quella città e non voltarsi mai più
indietro, anche se sapeva che
non sarebbe stato così facile. Ciò che era
successo giusto poche ore prima...
nulla avrebbe potuto cancellarglielo dalla mente. Le morti di Ursula,
di Coso e
di Mammoth ormai erano ricordi indelebili, marchiati a fuoco nel suo
cervello.
Dubitava che sarebbe riuscita a dormire mai più sonni
sereni, anche se già a
stento ricordava l’ultima volta che davvero era riuscita ad
averne uno.
Un
mostro, un’assassina, una psicopatica e per giusta lesbica,
anche
se quest’ultima cosa non era davvero un problema... se non si
menzionava il
fatto che si fosse presa una cotta per la sua stessa dannata sorella.
Quello
cambiava decisamente tutto quanto.
Aveva
iniziato quel viaggio solitario solamente un giorno prima per
poter riflettere e pensare, e si era ritrovata con ancora
più problemi ed
angosce. Se solo non se ne fosse mai andata, se solo fosse rimasta in
quel
magazzino, se solo non avesse lasciato...
«Tara...»
sussurrò, sollevando lo sguardo mentre una lacrima le rigava
il volto. Osservò la luna piena, con un moto di nostalgia.
Alla ragazza bionda
sarebbe piaciuta quella notte. E a lei sarebbe piaciuto trascorrerla
assieme a
lei. Guardare il cielo, fumarsi una sigaretta, chiacchierare del
più e del meno
senza filtri, senza pensieri, senza preoccupazioni. Quanto avrebbe
voluto
poterlo fare di nuovo. Ma senza Ryan... non sarebbe stata la stessa
cosa.
Dubitava che sarebbe davvero mai più riuscita a sorridere
sinceramente, non con
la consapevolezza di aver perso suo fratello, l’unica persona
cara che le era
rimasta.
Se lui
avesse visto che cosa aveva fatto a quei due...
«Ma
cosa c’è che non va in me?»
sussurrò la ragazza, chinando il capo
e strizzando le palpebre per ricacciare le lacrime. Non poteva mettersi
a
piangere lì, non in quel momento. Non proprio quando era
così vicina al confine
della città. Ormai la zona industriale si era quasi del
tutto diradata e
riusciva perfettamente a scorgere, in lontananza, gli alberi e la fitta
vegetazione del New Jersey. Mancava poco, ormai. Avrebbe lasciato la
città,
trovato un posto per dormire e dopo avrebbe potuto piagnucolare quanto
voleva.
Ma fino ad allora, doveva stringere i denti e proseguire, ignorando il
dolore,
fisico o mentale che fosse.
E
così fece. Più avanzava e più voleva
accelerare il passo. Non ne
poteva più di quelle strade. Il confine si fece sempre
più vicino. La ragazza
pensò quasi di poter finalmente tirare un sospiro di
sollievo, ma un bagliore
improvviso proveniente dalle sue spalle la fece irrigidire di colpo. Si
voltò e
vide una macchina in strada, la quale teneva i fari puntati proprio
verso di
lei. La mora fece una smorfia e socchiuse gli occhi. Chi diavolo poteva
essere?
Qualcun altro che voleva lasciare la città? Altri nemici?
Seymour che cercava
vendetta? Dubitava di quest’ultima eventualità. Ma
allora chi?
L’auto
la sorpassò e proseguì dritta. Per un momento la
ragazza pensò
quasi che avrebbe proseguito in quel modo, ignorandola completamente,
ma
questa, invece, iniziò a rallentare, per poi accostare ad
una ventina di metri
di distanza da lei.
«Altri
guai? Sul serio?!» sussurrò lei, per poi mettere
mano al
borsone. Non aveva alcuna intenzione di farsi fregare di nuovo.
Chiunque ci
fosse dentro quell’auto, avrebbe dovuto tenersi a debita
distanza da lei o
avrebbe assaggiato il suo piombo. Afferrò il fucile e lo
sollevò, dopodiché lo
puntò verso la portiera anteriore, la quale si stava aprendo.
«Vuoi
qualcosa da me? Vieni a prenderlo!» bisbigliò
ancora,
avvicinando il dito al grilletto. Ma non appena il guidatore scese e la
ragazza
vide il suo volto – il suo brutto volto
– illuminato dal lampione sopra di lui, rimase a bocca
aperta.
«Sì,
anch’io sono felice di rivederti» disse quello,
accennando con il
mento al fucile della mora. «Ora però potresti
abbassare quel coso?»
«Non
ci credo...» sussurrò lei, abbassando lentamente
l’arma. Anche
altre due portiere si aprirono, ed altre due persone scesero dalla
macchina.
Rimase esterrefatta. Anche queste si voltarono verso di lei. Ci fu un
breve
momento di silenzio, in cui nessuno disse o fece nulla. Il tempo parve
quasi
fermarsi. Poi, la figura dai capelli biondi, sorrise entusiasta.
«KOMI!»
Si
separò dagli altri e le corse incontro. Amalia la
osservò immobile,
sempre più interdetta, sempre più convinta di
star sognando. Ma quando Tara la
stritolò in un abbraccio, quando vide i sorrisi di Rachel e
Rosso rivolti verso
di loro, quel momento le parve più reale che mai.
«Komi!»
esclamò ancora la bionda, appoggiando il mento sulla sua
spalla. «Non sai quanto sia felice di rivederti!»
«T-Tara...»
sussurrò Amalia, ancora incredula, mentre un piccolo
sorriso si accendeva sul suo volto, allargandosi man mano che il tempo
passava
e realizzava che tutto quello stava accadendo per davvero. Il fucile le
cadde
di mano mentre ricambiava la stretta con quanta forza ancora avesse in
corpo,
ignorando il dolore, la stanchezza, ogni cosa.
«Tara!»
Nemmeno si rese conto delle
lacrime che cominciarono a scenderle dagli occhi. Mentre la vista le si
appannava, non riusciva a ricordare un altro momento della sua vita in
cui si
era sentita così felice di vedere qualcuno. Le lacrime
cominciarono a scendere
in maniera autonoma, dapprima in un segno di sollievo,
felicità, ma ben presto
al sollievo si aggiunsero anche la tristezza, il rammarico, la rabbia.
Ciò
che all’inizio era un semplice pianto di gioia si
tramutò ben
presto in uno sfogo vero e proprio, mentre tutte quelle lacrime che per
troppo
tempo si era tenuta dentro iniziavano a sgorgare senza freni. Pianse
per la
felicità di trovarsi lì, con loro, con lei,
dopodiché pianse per la morte di Ursula, per quella di Ryan,
per quella di
Kori, pianse per essersene andata in quel modo ed essersi cacciata in
quel
guaio enorme, pianse per il mostro che sapeva di essere, pianse
perché sapeva
di essere sbagliata, pianse perché la sua vita era stata un
autentico inferno
e, per finire, pianse perché qualcuno che teneva a lei
ancora esisteva, e,
questa volta, lo avrebbe protetto fino a quando non avrebbe esalato il
suo
ultimo respiro. Affondò il volto nella spalla
dell’amica e lo riempì di
lacrime.
«T-Tara...»
disse ancora, semplicemente. Si sentì tremendamente
stupida, patetica, vulnerabile. E allo stesso tempo, mentre la bionda
le
carezzava i capelli e la schiena e le sussurrava all’orecchio
che ora che erano
di nuovo insieme non doveva più preoccuparsi di nulla, si
sentì la persona più
felice dell’universo.
Era lei.
Era Tara, la sua amica. E l’aveva ritrovata.
***
Komand’r
buttò fuori una nuvola di fumo dalla bocca. Quanto le era
mancato il gusto amaro delle sigarette sul suo palato. Sapeva che ogni
tiro
fatto da quelle cose erano un minuto di vita che se ne andava, ma a lei
non
importava; fumare, ormai, era una delle poche soddisfazioni che le
erano
rimaste.
Anche una
scopata non mi dispiacerebbe...
La mora
sollevò lo sguardo, verso il cielo, dove poté
constatare che
il tempo non era affatto cambiato. Faceva freddo, certo, soprattutto
dove si
trovava lei in quel momento – sul tetto della stazione di
servizio, parecchio
fuori città, in cui si erano accampati per la notte
– però il cielo era sereno,
non c’era nessuna nuvola e la luna piena e le stelle erano
ancora lì, libere di
risplendere quanto volessero. E comunque, anche il freddo aveva smesso
di
essere un problema quando Rachel le aveva prestato una delle sue felpe.
«Così siamo
pari» le
aveva detto. Amalia non aveva nemmeno capito il perché di
tale
affermazione in un primo momento, solamente più tardi si era
ricordata di
quella volta che l’aveva rivestita e messa a dormire nel suo
letto, ad Empire,
in quella notte di pioggia torrenziale. Sembrava passata una vita
intera da
allora. Ne erano successe così tante...
Per
quanto dura fosse stata, quella che aveva vissuto era comunque
stata un’avventura assolutamente degna di un libro, o di un
film. Tra pazzi
maniaci, criminali, assassini, mostri con poteri disumani, ne aveva un
sacco da
raccontare.
Essere di
nuovo con i suoi compagni di viaggio... le sembrava così
strano. Era passato, quanto, uno, due giorni, da quando se n’era andata? Invece le pareva che fosse passato molto più tempo.
Inoltre, era ormai così
convinta di non incontrarli mai più che perfino in quel momento,
ormai ore dopo la
loro riunione, le sembrava tutto surreale.
Tara e
Rachel le avevano detto che era stato grazie a Rosso se
l’avevano ritrovata, che era stato lui a dedurre dove sarebbe
andata, ossia
verso il confine della città. Un sorrisetto si dipinse sul
volto della ragazza
a quel pensiero; sinceramente, il fatto che fosse stato proprio lui il
maggior
responsabile del suo ritrovamento le appariva quasi buffo, in
particolare dopo
tutte le volte che avevano cercato di azzannarsi a vicenda.
Probabilmente
c’erano gli zampini di Rachel e Tara, dietro.
E a
proposito di Rachel, la mora aveva notato una certa intesa tra lei
e Rosso, da quando era tornata. Cioè, un’intesa
molto più forte di quella che
ricordava. Forse alla fine i piccioncini si erano svegliati ed avevano
capito
di essere fatti l’uno per l’altra, forse.
Subito
dopo la sua crisi di pianto, di cui ancora si vergognava
leggermente, il trio le aveva raccontato che cos’era accaduto
in sua assenza, e
la mora doveva ammettere di essere in parte grata di essersi perso il
combattimento con quel conduit impazzito, Domenico, o come cavolo si
chiamava.
Poi, quando Tara le aveva raccontato di essere di nuovo senza poteri,
si era
sinceramente sentita felice per lei. E quando le avevano detto che
erano stati
proprio i poteri di Rachel a "guarire" la bionda, non aveva potuto
non provare un piccolo moto di gratitudine nei suoi confronti e,
sicuramente,
essere grata del fatto che Roth fosse dalla sua parte. Anche
perché,
sicuramente, senza la ragazza corvina non sarebbe mai sopravvissuta a
Sub City.
L’aveva
perdonata per la morte di Ryan, questo già
gliel’aveva detto,
però si era ripromessa di ripeterglielo. Perché
era vero, Rachel non aveva
nessuna colpa. Il responsabile di quell’atrocità
aveva già pagato, ormai, ed
era inutile rimuginarci su.
Ryan...
quanto avrebbe voluto che fosse lì con lei, con loro, in
quel
momento. Quanto avrebbe voluto poterlo rivedere, potergli parlare,
poter
sentire la sua voce... poterlo abbracciare e potergli chiedere scusa
per ogni
cosa. Quanto avrebbe voluto...
«Non
vai a dormire?» Un istante prima che la mora iniziasse a
piangersi nuovamente addosso, la voce di Rosso provenne dalle sue
spalle.
La
ragazza ricacciò le lacrime e si voltò verso di
lui, riacquistando
la solita spavalderia che usava in sua presenza. «Potrei
farti la stessa
domanda...»
«Sì,
ma te l’ho chiesto prima io» replicò il
ragazzo, avvicinandosi e
sedendosi sul bordo del tetto, accanto a lei. «Sarai esausta
dopo quello che ti
è successo. Quattro conduit non devono essere una
passeggiata per nessuno.
Ancora mi chiedo come tu abbia fatto a sopravvivere...»
Un
sorrisetto provocatorio si accese sul volto della mora. «Sono
piena
di risorse.»
«Non
voglio sapere altro...» mugugnò Rosso,
strappandole una risatina.
Il
silenzio scese tra loro per un momento, dopo che il ragazzo tacque.
I due rimasero fermi, ad osservare il cielo e la vegetazione che li
circondava,
entrambi immersi nei propri pensieri. Amalia non sapeva
perché Rosso si
trovasse lì con lei, ma scoprì con una enorme
sorpresa che la sua presenza non
la infastidiva poi così tanto. Del resto, per quanto in
disaccordo potessero
essersi trovati in quei giorni, erano pur sempre una squadra. E
comunque,
grazie a lui Komi poté distrarsi per un poco dai suoi
tormenti.
«Ascolta...»
disse poi Lucas, rompendo il silenzio, tenendo gli occhi
fissi sulle stelle. «... so che io e te abbiamo iniziato con
il piede
sbagliato, e so anche che probabilmente non saremo mai i migliori amici
del
cuore, ma voglio comunque che tu sappia che... che sono felice che tu
stia
bene.»
Komand’r
lo osservò, questa volta con un sorriso perplesso stampato
in
faccia. «Questa è la cosa più carina
che tu mi abbia mai detto, lo sai?»
«Sì,
beh, non farci l’abitudine» rispose lui, voltandosi
verso di lei
e abbozzando un sorrisetto a sua volta. «È solo
che mi sarebbe spiaciuto
vederti tirare le cuoia. E, sicuramente, la cosa sarebbe spiaciuta
anche a
Rachel. E a Tara.»
«Lo
so» convenne Amalia, sentendo le propria interiora
attorcigliarsi
quando la Markov venne nominata. «Ma posso assicurarvi che
episodi simili non
si verificheranno mai più. Non so a cosa stessi pensando
quando me ne sono
andata, ma so che me ne sono pentita fin dal primo istante. Dopotutto,
nel bene
e nel male, noi siamo una squadra.»
«Hai
ragione, lo siamo. Perciò... credo che forse sia il caso di
smettere di litigare, almeno per un po’. Che dici?»
«Vuoi
fare la pace?» domandò Komi, inarcando un
sopracciglio.
Lucas
piegò il capo. «Chiamiamola... tregua.»
Amalia
annuì, ridacchiando sommessamente. «Va bene, ci
sto.»
Rosso
annuì a sua volta, allargando leggermente il sorriso,
dopodiché
si voltò nuovamente. Il suo sorriso, tuttavia, ci mise poco
a vacillare, come
se stesse pensando a qualcosa di non esattamente felice.
Abbassò lentamente lo
sguardo, fino ad osservarsi le ginocchia. Komi si accorse
immediatamente di
quel suo repentino cambio d’umore e si insospettì.
«Che ti prende? C’è qualcosa
che non va?»
A quella
domanda, lui tornò a guardarla. Il suo sguardo
tradì
qualsiasi emozione. Era... triste. La ragazza non riuscì
proprio a spiegarsi il
perché di ciò.
«Ascolta,
Amalia...» iniziò a dire, incerto. Mai lei lo
aveva visto
così, forse solamente quando erano stati catturati da
Dreamer. Ma anche
all’epoca, più che altro le era sembrato
arrabbiato. In quel momento, invece,
sembrava davvero abbattuto. «... c’è...
c’è una cosa che dovresti sapere...»
«Che
cosa? Non vorrai mica dichiararti a me, vero? Scusa ma non sei il
mio tipo» cercò di sdrammatizzare lei, ma lo
sguardo serio di lui non mutò di
una virgola. Anzi, parve quasi non gradire quella battutina.
«Non
c’è da scherzare. Questa cosa riguarda me, te e
chissà quante
altri milioni di persone.»
Dopo
quella frase, la mora iniziò seriamente ad essere turbata.
«Di...
di che cosa stai parlando?»
«Non
è facile da spiegare, ma riguarda noi, persone che non
possediamo
il gene conduit. Vedi, c’è...
c’è una...» Per tutto il tempo Lucas
cercò di
evitare il suo sguardo, ma non appena i loro occhi si incontrarono, il
moro si
interruppe. Amalia lo osservava sempre più perplessa ed
anche preoccupata,
mentre lui, invece, parve impossibilitato a dire altro. Distolse di
nuovo lo
sguardo, apparendo impossibilitato a reggerlo, quasi come un bambino di
fronte
ad un adulto.
«Niente,
lascia stare» disse infine, rialzandosi in piedi e liquidando
la faccenda. «Non è nulla di importante.»
Komi
inarcò un sopracciglio, sempre più basita.
«Davvero? Sei sicuro?»
«Sì,
sta tranquilla. Sei appena tornata e non voglio romperti le
scatole fin da subito. Ne riparleremo un’altra volta, in un
momento più
opportuno, magari.»
«Così
mi metti ancora più soggezione, lo sai, vero?»
«Fidati,
non è niente.» Rosso le diede le spalle e
sollevò una mano. «Meglio
che tu vada a riposarti adesso, domani ci aspetta un viaggio lungo. La
California è piuttosto lontana da qui.»
Komand’r
non era molto convinta, ma annuì ugualmente.
«Sì, hai
ragione. Buonanotte, Rosso.»
«’Notte.»
Rosso
scese dal tetto passando per le scale sul retro. Amalia lo
seguì
con lo sguardo, con la mente piena di interrogativi. Che cosa voleva
dirle
Rosso? Perché le era sembrato così a disagio?
Prima le sorrideva e faceva tutto
il cordiale e subito dopo si tramutava nel bel – per modo di
dire – tenebroso
che ormai aveva imparato a conoscere? E lei che pensava di essere
l’unica pseudo
bipolare...
«Ahh,
al diavolo» la ragazza si massaggiò una tempia,
sbadigliando
rumorosamente. Era troppo stanca per pensarci, e comunque, Lucas aveva
ragione,
un lungo viaggio attendeva tutti loro l’indomani. Avrebbe
fatto meglio a
riposarsi.
Si
alzò in piedi e si diresse verso le scale a sua volta,
sperando che
quella notte di sonno cancellasse i brutti ricordi della giornata.
Sapeva che
non sarebbe mai stato così, però volle comunque
aggrapparsi a quella speranza.
D’altronde, sperare era una delle poche cose che le erano
rimaste.
***
La
ragazza entrò nella stanza sul retro, quella in cui
"alloggiavano" lei e Tara. Vide la bionda dormire ancora
profondamente, avvolta nel suo sacco a pelo. Un piccolo sorriso nacque
sulle
labbra di Komi. La Markov sembrava così tranquilla,
così rilassata, come una
bambina. Ancora una volta, la ragazza mora si rese conto di quanto una
come lei
si trovasse fuori posto in un mondo schifoso come quello. Bastava un
solo
sguardo per capire quanto fragile fosse, sia fisicamente che
emotivamente.
Anche lei aveva sofferto e non poco in quegli ultimi mesi, in quegli
ultimi
giorni soprattutto.
Le
ritornò in mente il giorno in cui gli UDG avevano irrotto
nel loro
vecchio magazzino. Non aveva potuto fare niente per proteggerla; le
avevano
sparato, dopodiché avevano afferrato Tara e
l’avevano portata via di forza. Le
sue urla ed il suo pianto erano ancora vividi nella sua mente. A quei
pensieri,
la mora rabbrividì. Scosse rapidamente la testa, cercando di
allontanare quegli
spiacevoli ricordi, dopodiché si sedette sul pavimento,
accanto all’amica. Se
non altro, ora era al sicuro, assieme a lei. Con un tenue sorriso,
Komand’r
passò una mano fra i capelli di Tara, suscitando un verso di
protesta da parte
sua e facendola rigirare nel suo giaciglio quasi indispettita. Komi
trattenne a
stento una risatina.
Era
così buffa. Così innocente. Così
buona. Così... carina.
Amalia
sospirò, dopodiché si sdraiò sul
pavimento, accanto a lei, e
congiunse le mani sopra al proprio ventre. Osservò in
silenzio i neon spenti
appesi al soffitto sopra di lei, con il solo suono del respiro della
Markov a
riempire la stanza. Un parlottare soffuso arrivava invece da oltre le
pareti.
Rachel e Lucas, sicuramente. Chissà che cosa si stavano
dicendo. Si domandò se
avesse a che fare con la cosa di cui Rosso voleva parlarle. O magari
stavano
solamente tubando un po’... ciò avrebbe spiegato
il perché si erano presi una
stanza tutta per loro. Ma dal tono di voce apparentemente agitato,
quasi
irritato, di lui, scartò ben presto questa opzione.
A quanto
pare era successo qualcosa in sua assenza. Qualcosa di
grosso. E lei, sinceramente, dubitava di voler davvero sapere di che
cosa si
trattasse.
«Mhhh...»
Il verso impastato proveniente dal sacco a pelo di Tara la
fece voltare di scatto. Vide la bionda girarsi nuovamente, questa volta
verso
di lei, per poi aprire lentamente gli occhi. «K...
Komi?» domandò, assonnata.
Komand’r
non poté trattenere un altro sorriso.
«Presente.»
Tara fece
un altro verso, questa volta facendola ridacchiare. «Sono
felice che tu sia tornata...» mugugnò la bionda,
per poi sbadigliare.
«Me
l’hai già detto» rispose Amalia
girandosi su un fianco e
trovandosi faccia a faccia con l’amica.
«Sì,
lo so, però... non ti avevo detto che mi dispiace.»
«Di
cosa?»
«Non
avrei dovuto... lasciarti andare via in quel modo. È stata
colpa
mia...» spiegò la bionda, abbassando lo sguardo.
«Ma
che stai dicendo?» domandò Amalia, quasi basita.
«Sono stata io ad
andarmene, la colpa è solo mia. Non devi assumerti la
responsabilità per le mie
cazzate.»
«Sì,
però... però...» La bionda
singhiozzò. Komand’r sgranò gli occhi.
Stava... stava piangendo?
«Ho
avuto paura... di non rivederti più...»
sussurrò Tara. «Quando...
quando ti abbiamo ritrovata... ero al settimo cielo... ma non appena ho
visto
la tua ferita... io... io...»
«Tara...»
«E
se fossi morta?! Se non ti avessimo più trovata?!»
La bionda alzò
la voce, per un momento Komi temette che Rosso e Rachel potessero
addirittura
sentirle. «E se quei tizi ti avessero... ti
avessero...»
«Tara,
calmati!» esclamò Amalia avvicinando una mano ed
afferrando
quella della bionda. Non avrebbe mai potuto pensare che tenesse a lei
in quel
modo. Certo, sapeva che erano amiche, una specie, perlomeno,
però... era
comunque un qualcosa a cui Komi non aveva mai pensato. Forse
perché mai prima
di allora qualcuno aveva davvero sembrato tenere a lei.
Tranne
Kori. Od Ursula.
Strinse
la mano della compagna. Ripensando alla donna albina, le
ritornarono in mente le sue parole. Da sola non poteva fuggire da
sé stessa,
dai suoi demoni interiori. Ma con l’aiuto di qualcun altro,
una persona fidata,
qualcuno che fosse disposta a capirla, ad accettarla, qualcuno che
davvero
tenesse a lei...
Qualcuno
che la afferrasse al volo. Qualcuno che la salvasse.
Tara...
«Non
fare così, Tara. Ormai siamo qui, no? Siamo insieme. Non
dobbiamo
più preoccuparci di niente.»
«Non...
non mi lascerai più?»
«No.
Non lo farò.»
«Me
lo... me lo prometti?»
«Sì.»
Le due
ragazze si guardarono negli occhi. Nonostante la penombra,
Amalia non sarebbe mai riuscita a non restare incantata di fronte alle
splendidi iridi celesti di Tara. Di fronte a
quell’espressione così... così
dolce, così ingenua, così... buona.
Diavolo,
ma come aveva potuto pensare anche solo per un momento che
scappare fosse la cosa migliore da fare? Restare da sola e separarsi
dall’unica
persona che era riuscita ad avvicinarla e ad andare d’accordo
con lei
nonostante il suo caratteraccio. Certo, anche con Rachel andava
d’accordo, però
con lei non aveva la stessa intesa che aveva con Tara, nemmeno
lontanamente. E
ora che era lì, con lei, in quella stanza, si sentiva come
se potesse
confidarle anche il più oscuro dei suoi segreti.
Fino a
quel mattino aveva pensato che rivolgersi a lei fosse un gesto
egoista e sbagliato, ma in quel momento, di fronte a quello sguardo
apprensivo,
le sembrava l’esatto contrario, perché tanto
sapeva che lei non l’avrebbe
giudicata, mai.
E anche
il dolore, la sofferenza provati per la morte di Ryan, erano
ancora presenti, facevano ancora male, certo, tuttavia erano quasi come
affievoliti. Non credeva che sarebbe mai successo, ma era
così. Era Tara, era
la sua presenza, era il suo calore a permettere ciò. Stando
accanto a lei si
sentiva come all’interno di un confortevole rifugio. E aveva
deciso che quel
rifugio non lo avrebbe più abbandonato. «Non ti
lascerò... mai più.»
Un timido
sorriso si accese sul volto della bionda. Fu la cosa più
adorabile che Amalia avesse mai visto in quegli ultimi mesi.
«Mai...
mai più...» rispose la ex conduit con voce sempre
più flebile,
come la fiamma di una candela pronta a spegnersi. Subito dopo, la
Markov chiuse
lentamente gli occhi. Si riaddormentò di fronte a lei, con
ancora la mano
intrecciata con quella della mora ed il sorriso sul volto.
Le labbra
di Komi si arricciarono verso l’alto di fronte a quella
scena. Probabilmente Tara non si sarebbe nemmeno ricordata di quella
loro
discussione l’indomani mattina. Era stanca, spossata dal suo
precedente
combattimento, era probabile che quello per lei fosse stato solamente
un sogno,
ma Amalia sapeva che non era così. Quella discussione era
accaduta davvero. E
la promessa che le aveva fatto, quella era determinata a mantenerla. Si
avvicinò alla ex conduit e le diede un bacio sulla fronte.
Aveva fallito a
proteggere i suoi fratelli ed Ursula, ma non avrebbe fallito a
proteggere lei,
la sua amica, la sua migliore amica.
Anche se,
sotto sotto, sentiva che quella che stava iniziando a
provare per lei non era più semplice amicizia. Ma la cosa,
anziché
preoccuparla, la faceva sentire bene. Tremendamente bene.
Aumentò la presa
attorno alla mano della ragazza bionda, dopodiché si
avvicinò ulteriormente a
lei, poggiando la fronte contro la sua, e chiuse lentamente gli occhi.
Quella,
fu la notte di sonno migliore che riuscì a trascorrere dopo
anni ed anni.
E con
questo, possiamo dichiarare finalmente conclusa la parentesi spin-off.
C’è
voluto un secolo emmezzo, ma alla fine ce l’abbiamo fatta. Mi
spiace davvero di
non essere riuscito a concludere questa piccola storiellina prima, ma
come già
dissi, non mi stava soddisfacendo abbastanza. Ma con qualche piccola
modifica
qua e là sono riuscito a farmela andare bene.
Vorrei
ringraziare ArkhamTerror
per avermi incitato a scrivere di nuovo,
perché senza di lei probabilmente avrei lasciato il file di
questo spin off
ancora intoccato (per fortuna ho comunque avuto il sangue freddo di non
cancellare i due capitoli che già avevo scritto, altrimenti
sai quanti santi
sarebbero piovuti per riscrivere tutto e lasciare intatta la perfetta
impressione che avevo voluto dare di Amalia).
Quindi
niente, la ringrazio di cuore.
Poi
ovviamente ringrazio Rose
Wilson per
non avermi abbandonato. Non ancora, perlomeno. Hai una bella pazienza,
lasciatelo dire.
Eustass_Sara, che da quando
è ritornata ha saputo benissimo
dimostrarmi tutto il suo supporto, e di questo le sono infinitamente
grato.
Per
concludere, Nanamin ,
che, anche se è davvero una brutta
persona, mi ha fatto capire quanto questa storia fosse importante per
lei e
probabilmente anche per altri.
Tutte
quante hanno scritto a loro volta delle storielline davvero carine sui
nostri
TT, pertanto vi consiglio caldamente di passare anche sul loro profilo
per dare
un’occhiata, perché secondo me meritano molto!
E niente,
per il momento è tutto. Ci becchiamo alla prossima!
Stick
Together
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