Little Swan Soldier

di Lunaticalene
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. « Io danzo sui quattro cignetti » o devo essere diventato scemo o Victor Nikiforov fa degli scherzi davvero idioti. ***
Capitolo 2: *** 2. Una settimana e un'ora dopo o « Sono finito in un Harmony » o il mio gatto tenta di uccidermi. ***
Capitolo 3: *** 3. Dormiresticonme o I soldati imparano a saltare o due volte grazie. ***



Capitolo 1
*** 1. « Io danzo sui quattro cignetti » o devo essere diventato scemo o Victor Nikiforov fa degli scherzi davvero idioti. ***


« Io danzo sui quattro cignetti » o devo essere diventato scemo o Victor Nikiforov fa degli scherzi davvero idioti.

Una superficie ghiacciata, semplicemente illuminata dalla luce della luna. Qualche punta di stella che, indifferente, ricama sul gelo una trapunta silenziosa. Il rumore, leggero, di una lama contro il ghiaccio.

Raggi d’argento che sfiorano i dettagli di un corpo vestito di piume bianche, che lentamente cresce e muta nella forma e nella dimensione. Un battito d’ali che diventano braccia candide quasi quanto quel cigno, che riflesso nel lago, ridiventa umano. Passi pesanti che giungono dalla foresta, un movimento netto di rami spezzati. Il clangore appena accennato di un’armatura che cozza nei tronchi e si imbatte a tratti nei gusci di noce. Lo sguardo, di smeraldo annacquato, si volta, in una soggettiva distorta nella direzione in cui la foresta si schiude. Il desiderio di un’emozione che si genera piano, che spinge il corpo in quella direzione. Fende la neve, che si sgretola lentamente sotto il filo dei pattini. Un movimento armonico e la genesi di un sorriso. Una risata, diabolica, che fende la notte, invisibile agli occhi. La superficie del lago che si proietta in una ragnatela di crepe. Un passo in avanti e la solidità crolla in un oceano di niente. Un grido spezzato e una mano protesa che da niente viene raggiunta.

Gli occhi si spalancano osservando rigidamente il soffitto della camera da letto. A poco o niente serve dire e ripetere come un mantra che si tratta solo di un stupido sogno. Un training nella testa, nel tentativo di calmare il battito del cuore e la consapevolezza di un peso leggero e peloso acciambellato sul proprio letto, poco sotto l’altezza delle ginocchia. Un movimento appena accennato della mano destra, a ricercare nel buio il cellulare, seminascosto sotto il cuscino. Il filo bianco delle cuffie, sfuggito dalle orecchie che non restituisce nemmeno più la suggestione iniziale del sogno. L’apertura vaga di un social network, alla ricerca di una distrazione, sia pure vaga. Qualunque cosa andrebbe bene in quel momento. Persino la revisione delle cadute più fallimentari della storia del pattinaggio. Il video di un gatto vestito da pompiere. Persino il più stupido dei selfie tailandesi. Il pollice raggiunge oltre il touch la linea di selezione, in modo da poter digitare il nome del pattinatore in questione. Arriva appena ad avvicinarsi alla P quando nella schermata delle foto ne compare una che, istintivamente, attiva il doppio click che genera un cuore. Una smorfia della bocca mentre osserva l’inquadratura di un palazzo randomico, in quella che per lui è una randomica città della Kazakistan. Lo sguardo che scivola in direzione dell’ora di caricamento, segnale che lui non è l’unica persona sveglia, indipendentemente dall’ora che sia. L’apertura di una delle tante applicazioni che permettono la comunicazione a distanza via internet, ottemperando alla distruzione del patrimonio economico di una sim card, di qualunque genere. Quella spia di presenza on-line che distruggere ogni possibilità di spiare dal buco della serratura la presenza di qualcuno.

[ Credevo dormissi ]

Le palpebre si spalancano contro lo schermo del telefono.

[E come lo sai che sono sveglio?]

[….hai messo un mi piace alla mia foto. ]

«Oh.» un sospiro, al buio della camera, mentre il corpo si arrotola su sé stesso, in una pallina simile a quella composta dal gatto che, un poco disturbato dal movimento non autorizzato, muove la propria remora in un “meow” assonnato. La mano sinistra si allunga in direzione della testolina che si arrampica sulle coperte, fino a piazzarsi direttamente davanti allo schermo del cellulare, obbligandolo ad avvicinarlo maggiormente al naso.

[ Dormivo, mi sono svegliato. ] l’indecisione che preme sulle dita [ ho fatto un incubo ]

[ Mi dispiace. Vuoi raccontarmelo? ]

[ Credo che mi avessero appena cosparso di bandierine del Canada con scritto sopra “It’s J.J. Style”. BRRRRRR. ] l’impressione di sentir ridere l’altro lato dello schermo. La quieta realizzazione di voler produrre quella reazione, malgrado la bugia inutile appena dedicata.

[ Decisamente non so immaginare incubo peggiore. Io sto andando a dormire adesso. Domani devo alzarmi presto ]

[Allenamento? ]

[Si. Tu hai deciso i nuovi programmi? ]

[ Ci sto lavorando ]

L’emoticon di un pollice sollevato. E ora è lui a sorridere piano, la guancia contro il cuscino. Un po’ come se vedesse al posto del tratto in discutibile 3D la pelle autentica e vera, correlata a quella persona. Un pensiero un poco assurdo che si accavalla nella mente mentre inizia a prendere di nuovo sonno. L’idea due braccia che nel buio semplicemente lo stringano. Che quelle dita, solo immaginate, sfiorino le spalle. Un respiro regolare, quasi ad abbandonarsi sul corpo invisibile di una presenza amica. L’eco di una buonanotte che non viene digitata davvero. Una risposta mancante mentre gli occhi lentamente si richiudono. Senza memoria di sogni adesso. Solo il vago rumore delle fusa di un gatto.

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«Quindi non hai ancora deciso niente dei programmi nuovi. » una smorfia in labbra lucidate, le mani affondate in un piumino azzurro, tecnico, che permette alla pattinatrice di non somigliare ad una sorta di omino Michelin, come invece accade a Lilia, che li anticipa di qualche passo in quella che alla fine somiglia unicamente ad una passeggiata piuttosto che al principio di una riunione di un qualche genere. Un brick in tetrapack, di un succo di frutta consegnato da suo nonno prima di uscire di casa, portato alla bocca, la piccola cannuccia bicolore appena mordicchiata.

«Non guardarmi con la faccia di chi ha già deciso tutto, vecchia. Sto solo vagliando le varie ipotesi »
Stralci di conversazione interrotta da una piccola mandria di ragazzine, grosso modo della sua età. Nessuno che le ferma, nemmeno Yakov che si limita a borbottare qualcosa sulla celebrità e sul fatto che, portarsi Victor a presso, eviterebbe quella perdita di tempo o almeno la direzionerebbe altrove. Non è abituato ancora a gestirla, soprattutto quando si riflette in un improbabile disegno di lui vestito da fatina. Deglutisce con la peggiore delle smorfie possibili, mentre è proprio Mila a salvarlo in corner, proponendo alla fan – che si definisce la numero uno – una fotografia con il piccolo campione. Anche se il braccio che lo avvolge lo fa sentire scomodo, come un gatto pettinato in contro pelo, uno sguardo, in quella piccola folla, cattura la sua attenzione. È banale e un po’ idiota il suono che esce dalla sua bocca.
« …ma io ti conosco. »
Un sorriso, che si distende su una bocca dalle guance paffute, in quel sovrappeso tipico delle adolescenti che hanno davanti a loro ancora troppo tempo prima di diventare donne. «Eravamo in classe insieme alle elementari » suggerisce lei, scavando in un tempo in cui quella bambina era una creatura rotondetta e lui un soldino di cacio esattamente del pari.
«Tu mi hai prestato i tuoi pattini alla pista di pattinaggio quando i miei si sono rotti » una scena, precisa, che risorge. In quel tempo lei indossava un piumino rosa, il volto circondato da un cappuccio di pelo bianco. Lui aveva i piedi semplicemente troppo piccoli per quelli da poter prendere a noleggio e la sua lama, non troppo buona, si era irrimediabilmente storta. Quella bambina pasciuta aveva semplicemente offerto il suo paio in cambio e lui li aveva presi, senza curarsi troppo delle due farfalline di strass poste ai lati.
«Decisamente tu eri più bravo di me. Io non mi sono mai staccata dalla recinzione della pista- poi insomma, direi che sono stati più utili a te che a me».
Un prestito effettivamente durato quasi un mese, in concomitanza di uno stipendio che permettesse un nuovo acquisto. Si avvicina a lei, adesso che il nero ha preso il posto del rosa. Un cappotto che raggiunge il ginocchio, che copre il corpo e lo nasconde, coordinato ad un enorme sciarpa di lana, che gira più volte attorno al collo non troppo sottile. I capelli, che nella sua memoria avevano una punta di smorto biondo cenere sono colorati di nero, una punta di ricrescita che tenta di fare capolino. Un ciuffo sul viso, come se volesse nasconderlo un po’ di più.
«Grazie » lo ripete a distanza di qualche anno, senza sapere di preciso che cosa aggiungere.
«Di niente. Spero tu possa continuare a vincere.» l’onesta di un sorriso prima che il congedo da lei e dal gruppo venga effettuato. I passi successivi, durante i quali Mila prende a parlare al cellulare con qualcuno di indefinito e di scarso interesse, sono spesi a ricercare quella ragazza nei profili social. Nomi e cognomi che tornano, identici, fino a trovare lei, nascosta dietro l’immagine della sua stessa versione animata. Lentamente scorre la home, senza ancora richiedere effettivamente l’amicizia. Un post, con la foto di una moto, attira semplicemente la sua attenzione, mentre Lilia gli sbraita contro qualcosa, richiamandolo alla realtà e alla minaccia di sequestro di un cellulare. Programma. Il nuovo programma.
«Quanto è banale il lago dei cigni? » propone d’improvviso.
«Quanto il flamenco ballato da uno spagnolo. » replica Mila, distraendosi dalla sua chiamata.
«Decisamente troppo Yuri. » sentenzia Lilia «Ma Bourne insegna quando quel balletto possa non essere banale. »
«Bianco o nero? » domanda scettica Mila, sollevando un sopracciglio.
«I quattro cignetti »
« Eh? » un coro di tre, che si rivolge al lui.
«SIETE DIVENTATI SORDI? HO DETTO IL BALLETTO DEI CIGNETTI »
«Non siamo sordi Yuri, probabilmente sei tu che sei diventato scemo. »

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Come di tutti i movimenti del Lago dei Cigni gli sia venuto in mente proprio quello non ne ha idea. Non è dei più famosi, nemmeno dei più significativi.
Una scelta istintiva, anche banale, a cui riflette mentre l’acqua della doccia lava via i principi di un’improvvisazione di movimenti fuori pista. Il profumo di uno shampoo economico che si impregna nei capelli, incapace ancora di fare attenzione a dettagli come quelli. Poco importano le crociate contro i parabeni di Victor. Lui si accontenta della camomilla basic che, in una parte ostile della sua testa, più che fare bene al biondo lo rende un ragazzino imberbe. Il volto si solleva, accogliendo le gocce calde sulle palpebre prima di frizionare il volto con le mani pulite.
La vaga sensazione di un paio di occhi contro di lui, nonostante lo schermo a cabina della doccia e un paio di piedi, che spuntano oltre la soglia chiusa che rivelano l’effettiva presenza a raggi x.
Si ferma a guardarle, senza che possa riconoscerne il padrone.
«Yuri? Ci sono ospiti per te» è la voce nitida di Victor, che gli fa sollevare un sopracciglio.
«E chi accidenti verrebbe a trovarmi? Cerca un’altra scusa per prenderti la mia doccia tsk» l’eco di un silenzio che fa pregustare una vittoria.
«Yurii » il suono, che con intonazione diversa viene ovviamente rivolto al suo omonimo «Credo che questo significhi che puoi dire a Otabek che può anche non aspettare il nostro gattino, dato che sembra intenzionato a difendere la propria doccia a costo della vita »
Un nome. E la prima replica pungente che muore sostituita dal battito del cuore. La porta che viene quasi sbattuta in faccia al Zar, tornato all’ovile.
«Tsk. So perfettamente che mi stai prendendo in giro. Ma se ci tieni così tanto alla mia doccia fai pure. » mantiene una linea di difesa, camminando lentamente fino alla propria cabina di cambio. L’acqua lasciata a scrociare, quasi per dispetto, per obbligare la giacca del completo di Victor a bagnarsi. Giacca di Completo.
L’idea che quell’affermazione sia reale si fa strada mentre si veste. Il capo scosso di nuovo.
Uno scherzo. Incomprensibile dato che effettivamente Victor non conosce di certo i dettagli della sua amicizia con Otabek. Avrebbe potuto usare suo nonno per obbligarlo ad uscire dalla doccia. Per lamentarsi, a distanza, del suo shampoo dozzinale. L’asciugamano di microfibra friziona i capelli, mentre la tuta, tiepida, lo riveste. La mano destra che corre al cellulare, recuperando immediatamente la conversazione, ferma alla sera prima.

[ Victor è veramente un idiota sai? ] digita, mettendosi a sedere sulla panchina di plastica gialla, incastrata nella cabina prefabbricata. Una qualche realtà sarebbe stata riflessa in un messaggio. Le improvvisate di quel genere funzionano solo nella finzione e in un qualche fotoromanzo ingiallito.
[ Come mai? ]
[ Sostiene che tu mi stia aspettando fuori dagli spogliatoi. Decisamente assurdo vero? ]
[ Abbastanza. Ti darebbe fastidio? ]
[ Cosa? ]
[ Se fossi davvero qua fuori ad aspettarti] La voglia di correre fuori, di verificare il senso di quelle parole. Di vederlo, nella sua giacca di pelle. Un entusiasmo che lo solletica appena, e che desidera smorzare attraverso le parole.
[ Nah. Non così tanto. ]
[ Allora starò qui ancora dieci minuti]
Le pupille che si dilatano. Il cuore che accelera. Una deglutizione a vuoto mentre si perde nei caratteri dello schermo.
«Stai scherzando. Lo so che stai scherzando.» la zip della felpa che viene chiusa. L’asciugamano, ancora bagnato, gettato nel borsone. Un passo, che si finge regolare verso la Hall. L’ombra di un paio di persone oltre il bancone di reception del palazzetto dello sport. Occhi che cercano e registrano un’assenza mentre il cellulare vibra tra le dita, che lo stringono, deluse.
«Ovviamente non ci sono, ma approfitto del tuo tempo per essere sicuro di una cosa.» la voce, a differenza delle dichiarazioni sino ad ora ricevute è reale oltre l’invisibile filo del telefono. «La prossima settimana è il tuo compleanno. Pensavo di venire a trovarti. TI da fastidio sì o no? »
«Se è uno scherzo del cazzo tipo questo ti mando a fanculo senza nemmeno passare dal via.» è una risposta automatica, mentre una sorta di risentimento si genera, assurdo, nella gola.
«…no. Anche se non pensavo di star giocando a Monopoli. Ma immagino che sia una sì.» una pausa «Scusami. Non pensavo che ti saresti arrabbiato»
«Beh, tu non saresti arrabbiato se fossi appena uscito da uno spogliatoio coi capelli bagnati per niente?» Ridi. Una preghiera che si genera piano nella sua mente. Il desiderio che quelle parole generino un vago senso di ilarità più che un rimprovero «Questo implica che sì, puoi venire a farmi gli auguri di persona, ma che mi dovrai aspettare almeno un’ora qui fuori. Per punizione.»
«Ok. »
« No, aspetta, come ok? »
«Ci vediamo tra una settimana Soldato.»
«Beka…»
«Si?»
«Ci vediamo tra una settimana e un’ora»


 


...e ci proviamo di nuovo. In realtà esiste un'altra one shot su questo fandom e forse mi deciderò a pubblicarla. 
Questa viene condivisa dato che il compleanno di Yurio è soon to come ed è l'ambientazione di base di questa storia.
Sono un po' scettica riguardo al risultato perchè - ahimè - non ho più 15 anni da troppi anni. Sob.
Al solito ringrazio AryDubhe per le correzioni e le revisioni <3

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Capitolo 2
*** 2. Una settimana e un'ora dopo o « Sono finito in un Harmony » o il mio gatto tenta di uccidermi. ***


Una settimana e un'ora dopo o « Sono finito in un Harmony » o il mio gatto tenta di uccidermi. 
 

«MA QUANTO POSSO ESSERE IMBECILLE? DIMMELO TU. “CI VEDIAMO TRA UNA SETTIMANA E UN’ORA MA CHE PUTTANATA DA HARMONY HO DETTO?» che poi, ad onor del vero, ignora tassativamente il contenuto di un Harmony, ma anche solo l’impressione che la sua voce abbia avuto quel suono lo lascia disgraziatamente perplesso. Si lancia, quasi, sul letto, la schiena che impatta contro il piumone, evitando il gatto a cui si rivolge e massaggiando gli occhi, laddove le palpebre incontrano il naso.
«No, ma davvero. Il premio coglione dell’anno è tutto mio» continua, in quel monologo, mentre il felino servo muto si arrampica sul suo torace, massaggiandolo sulle unghie e afferrando il gancetto della zip tra i denti. Lo sguardo di nuovo perso sul soffitto, prima di serrarlo. Questioni futili, principi di una qualche organizzazione. La vaga idea di dover già decidere cosa indossare, dove andare. Il pensiero di dover sistemare la camera per farlo dormire. Il labbro inferiore che viene morso all’idea, immediata, di condividere con l’amico lo spazio di quella stanza. Si solleva sui gomiti, con miagolante disappunto del proprio inquilino, andando ad osservare il punto in cui dovrebbe trovare posizione un fatidico letto. Incastrarlo, abbastanza vicino al suo. Recuperare un piumone in più dall’armadio. Aggiungere un paio di cuscini. Un’invasione di spazio vitale che non si ripete da anni. Da quando, proprio la ragazzina incontrata quella mattina, non è stata a casa sua. Era il suo modo di sdebitarsi del suo prestito. Una serata a cena con lui, quando nessuno si scompone a far dormire insieme due bambini, siano pure maschio e femmina. Chiacchere, al tempo apparentemente leggere, tra due esclusi. Lui troppo piccolo, lei troppo grossa. L’immagine, intravista quella mattina sui social che fa capolino di nuovo. Con uno scatto recupera il telefono, guadagnando rancore per le prossime due vite del gatto che finisce a terra, soffiando. Il suo recupero, per fissarla per un attimo. Quella moto, che in realtà non somiglia affatto a quella che lui ricorda. Anche se deve ammettere che per lui, le custom, sono tutte semplicemente uguali.
“Tenetevi il cavallo bianco, il mio principe azzurro deve arrivare su un Harley Davidson” un’aggiunta di lato “-anche un Ducati Monster non mi fa schifo”.

[Beka? Com’è fatto un ducati Monster? ]
Una fotografia compare pochi minuti dopo nella schermata della chat, probabilmente frutto di una ricerca rapida che avrebbe anche potuto svolgere da solo.
[ Perché? ] accenna una didascalia asettica.
[Curiosità. Effettivamente non fa per nulla schifo. ]

 


Un movimento lento e placido, mosso al di sotto delle coperte. Un frammento di calore che viene collezionato nel momento in cui la pelle sfiora appena contro la pelle. È il contatto, appena accennato, di dita che sfiorano dita, intrecciando un frammento di polso scoperto. È il concreto effetto di un respiro placidamente sincronizzato, il vago movimento di una palpebra che si alza perchè un braccio sfiora lo stomaco. Un voltarsi lento, che sbilancia appena il fianco trovando pur l'appoggio di un corpo solido dietro la schiena. La sagoma in ombra di un profilo noto. Il lento risveglio e lo sbattere appena accennato delle labbra. Un velo di sorpresa, per una presenza inattesa e la voglia di arrendersi a quel calore che batte nel petto.

Boom. Il rumore di una pila di libri che semplicemente cade a terra. La ceramica che si frantuma in coriandoli e schegge.

« Cazzo gatto, vuoi farmi morire d'infarto? » il cuore accelerato lo sguardo accusatorio mosso nel buio che si associa ad un “pop” di materasso abbassato e ad un corollario di fusa che lo fissano da vicino. Occhi blu contro il verde impastato di sonno e una mano che si allunga affondando nel pelo chiaro mentre si riappoggia contro il cuscino. «Hai frantumato una tazza vero? Lo sai che occorre molto di più perchè io ti perdoni » accenna, voltandosi verso l'impossibile lato sinistro di un letto ad una piazza, trovandolo vuoto. La mano libera che va a stropicciare gli occhi, incapaci di farsi delle reali domande. La vibrazione del telefono, che richiama la sua attenzione, nel suono ovattato della sveglia. « E che cazzo due volte. » la mano abbandona il gatto, si allunga in cerca del cavo di alimentazione, percorrendolo al ritroso fino allo schermo touch. « ...aspetta. » l'attenzione rivolta di nuovo al gatto, nemmeno gli occorresse un serio interlocutore per gli improperi a venire « Cazzo è il ventotto! » una realizzazione che lo fa saltare giù dal letto, inciampando col piede sui cocci abbandonati al suolo. « io ti scotenno una di queste mattine » lo sguardo di odio che dura il mezzo secondo che occorre al felino a ruotare sulla schiena, porgendo a chi non lo tocca, l'addome. « ...non te la caverai per sempre così, lo sai vero? ».
« Mrao » una risposta, che sembra voler addolcire quel senso di ansia che prende a crescere. Alla fine mancano solo otto ore più una a quel presunto appuntamento di cui ha effettivamente avuto conferma. Un biglietto aereo prenotato. Una paio di informazioni raccolte.
È con quel pensiero che raggiunge la pista, con quel pensiero che pattina, cade e inciampa un paio di volte. Una distrazione di cui nessuno riesce a capire il motivo sebbene qualche commento vago venga speso dai compagni di allenamento senza una domanda diretta.
« Quindi che cosa hai intenzione di fare domani? Oltre finire in ortopedia per esserti rotto una gamba. » l'indice di Mila che accarezza la smorfia prodotta dalle sue labbra « Sarebbe un modo originale per festeggiare il tuo compleanno. Potremmo metterti una candelina sul gesso, sarebbe carino no? »
« Di quale gesso parli vecchia? »
« Di quello che se continui a cadere di farà mettere Yakov dopo averti spaccato un ginocchio. Lo sai che se non ti concentri lui e Lilia la prendono sul personale »
« Ma io sono concentrato! »
« ...e su cosa di preciso? »
« Su un sogno »
Replica piano, prima che sia proprio Lilia a richiamarlo. A costringere la sua attenzione a focalizzarsi sui fondamentali da inserire nel nuovo libero. Cercando di capire per quale motivo, a lei sconosciuto, lui abbia scelto di cimentarsi coi quattro cignetti. Vane le prove di convincerlo a scegliere un altro pezzo, un solo o un pas de deux al massimo. Un pas de quatre, ridotto ad un solo singolo cigno è qualcosa che la sua mente da prima ballerina digerisce solo a tratti. Una sfida coreografica che si è imposta direttamente contro Bourne e che deve passare da un adolescente che in quel momento somiglia a tanti altri.
Quelli capaci di distrarsi pensando a qualcosa o qualcuno. Quelli che dimenticano di aver ipotecato la loro anima per la vita. Confida, da donna d'arte, che sia qualcosa di passeggero. Che sia solo vincolato ad una qualche infatuazione randomica, di qualunque tinta. Amici, compagni. Dettagli persi in un corollario di scarpette rosse che la Fata di Russia, sembra avere difficoltà ad indossare oggi.
Un respiro e un sospiro che accompagnano le sue parole.
« Yuri. » sentenzia al termine di una sequenza « Domani puoi limitare il tuo allenamento ai fondamentali e prenderti il resto della giornata libera. »
Le palpebre che sbattono incerte.
« Come? »
« Hai ospiti per il tuo compleanno no? Sarebbe scortese tenerli a guardarti tutto il giorno. Non puoi permetterti di non allenarti ma per quanto riguarda me puoi riposarti. Anzi, in questo modo avrai il tempo di assimilare la coreografia e iniziare ad interiorizzarla »
Più che un permesso, quelle parole, somigliano ad un compito aggiuntivo a cui non sa se dover davvero dire grazie. È con quel dubbio che si incammina verso lo spogliatoio, che lava via il sudore prima di andare a vestirsi. Victor non c'è. Nemmeno il maiale giapponese. A dire il vero non ha fatto caso alla loro presenza in tutto il giorno. Capita spesso in realtà che Victor si inventi delle cose assurde per il suo personale allenamento. Domande in merito a smesso di farsele.
Quella distrazione continua ad accompagnarlo, fino a quando non raggiunge la reception del palazzetto.
«...sei in anticipo» una voce, che lo richiama e lo rende consapevole del valore acquisito dalle parole di Lilia nella sua mente. È una punizione. Nessun buon gesto. Una punizione per la sua disattenzione. Gli occhi verdi si sollevano sul ragazzo che si alza lentamente da una delle sedie poste all'attesa.
« Come? »
« Avevi detto un'ora. Sono appena passati quaranta minuti. »
«...vuoi che torni dentro per venti minuti? »
« uhm. No. Immagino vada bene anche se sei in anticipo. »
Silenzio mentre lo sguardo si abbassa in direzione della sua figura intera. Una giacca di pelle, un pantalone scuro, degli scarponcini comodi. Lui è in tuta. Non si è nemmeno posto il problema di vestirsi in maniera diversa.
« Vogliamo andare? »
«..aspetta e dove? »
« Non ne ho la minima idea. Sei tu quello che vive qui, non io »

Un dato di fatto, che obbliga il biondo a fare mente locale dei posti di Mosca che più gli piacciono. Quelli in cui merita passare un pomeriggio, festeggiare un compleanno. Ha fantasticato sulla cosa per un po' e poi ha perso quel pensiero, quasi troppo normale, in mezzo agli axel e i lutz.
« Beh, dovremmo prendere un paio di autobus per andare... » principia, per vedere il kazako passargli avanti, avvicinarsi semplicemente ad una moto così simile a quella che l'altro ha inviato in risposta alla sua domanda.
Com'è fatto un ducati monster?
« Ho pensato che avresti voluto vederlo dal vivo a questo punto » commenta semplicemente allungando in sua direzione un casco che rimane per qualche momento sospeso tra le dita. Lo sguardo perso nell'imbottitura interna.
Il mio principe azzurro deve arrivare su un Harley Davidson.
Il capo che viene vigorosamente scosso, quando non capisce per quale motivo quelle parole, così a caso, si generino nel suo cervello.
« Andiamo si. Vai avanti di un paio di km sulla principale poi svolti al terzo semaforo a destra. Poi all'angolo di una libreria svolti a sinistra...»

Indicazioni stradali che vengono comunicate prima che il rombo della moto e il silenzio ovattato del casco lo avvolgano. Le braccia strette contro la schiena che ha davanti, il lato destro del volto poggiato in modo osservare la strada scorrere e cancellarsi da un lato. Il vento contro le gambe, sulle spalle la cinghia stretta del borsone, in modo da non perderlo in corso d'opera. Dita che inseguono le dita, accavallandosi e stringendo un po' la stoffa rigida. Un senso di calma e quella distrazione costante che si svuota. Come se a veder muovere il mondo i contorni del proprio si ridimensionassero fino a raggiungere una densità statica.
La moto si arresta a pochi passi dal cancello in ferro battuto di un parco. I colori d'inverno che fanno a pugni con un retaggio vado di autunno, mescolandosi alla primavera che spinge per arrivare. Parole di vario genere, commenti di ghiaccio e di memorie.
Dettagli futili di colazioni, pranzi, e un vago tentativo di programmazione. Un cellulare che viene fatto scivolare fuori dalla tasca e sollevato. Uno scatto, uno click della fotocamera interna. Una faccia brutta e nel rivederla un sorriso che nasce spontaneo. Un sorriso sincero che esplode e che un click, involontario, cattura. Una memoria che si sigilla nel silenzio dei social. Sfugge alla necessità di condivisione, persino al semplicemente tentativo di rivederla.
Una chiamata ai quei dissociati dei suoi compagni. L'idea, nata per caso di festeggiare sul serio. E una frotta di “si” inaspettata e, sinceramente, gradita. Un passaggio dal dormitorio, una coccola rapida al gatto e la possibilità data all'amico di farsi un bagno e prepararsi mentre lui, semplicemente, può cambiarsi in camera.
Ci mette niente, in un pantalone nero trapuntato di pelo di gatto che invano prova scuotere, e una felpa, dall'intramontabile disegno leopardato. Il profilo della sera, traghettato di nuovo sulle spalle di una moto che scivola sull'asfalto nero.
Il caos di un locale e qualcuno che sostiene che in una qualche legislazione adesso sia perseguibile per legge. Il fatto che altrove invece non possa minimamente toccare l'alcol, che gli viene prontamente e diligentemente sottratto da Victor. In nome della sua salute ovviamente. Battute sciocche, pensieri salati e giochi di parole a danno di un giapponese che, col russo, ancora non ha fatto davvero pace. La presuasione che lo trascinata ad una diretta social, per ringraziare i suoi fan e la ripresa, altrettanto live, delle candeline che vengono spente su una torta bianca. Pacchetti regalo, segno che la sua richiesta alla fine è stata semplicemente una formalità. Il tutto una volta scoccata la mezzanotte, per non anticipare niente. Una lunga sciarpa di Pile leopardata che Mila gli rigira attorno al collo al momento di salutarlo.
« Se ti prendi un malanno poi finisce che è colpa mia. E chi la sente Lilia umpf. E tu fai attenzione alla nostra fatina, altrimenti rischi di morire anche tu, insieme a me. » accenna verso Otabek che sembra non dare segno di capire davvero il senso delle sue parole. Un viaggio in obbligato silenzio fino a quando la moto non si ferma e il casco si abbassa.
« Vuoi andare a dormire? » gli domandano due occhi scuri, accesi solo dalla luce gialla di un lampione.
« Immagino che sia il caso » replica, sollevando lo sguardo verso il cielo, il casco poggiato in grembo.
Una discesa lenta, da quella specie di cavalcatura moderna, prima di restare a fissare la luna.
« Sai, ho scelto la musica del libero » così, apparentemente a caso.
« Davvero? Vuoi dirmi quale? »
« Il pas de quatre del Lago dei Cigni »
Non una risata. Non una mozione contraria.
« Mi piace. È un bel pezzo. »
« Si, non è affatto male. »
« Tu hai scelto il tuo? »
« Si. Ho scelto Lohengrin »
«...ci ha pattinato pure il cosetto con il ciuffo rosso, che è giapponese pure lui no? »
« Si. È una bella musica. È anche una bella storia. »
« é il cavaliere del cigno no? Quello che cavalca il cigno nel lago e arriva a terra e salva la tizia che però non lo deve chiamare per nome ma quella è scema e rompe le palle finchè non lo scopre e tutti morti? »
« ...circa si. »
« Non posso ricordarmi mica tutte le storie che parlano di cigni eh! » rimbecca quasi offeso dal divertimento sotteso a quel “circa”.
« Mai detto il contrario » i palmi delle mani, guantati contro il freddo della guida notturna si sollevando il alto, in un cenno di resa. Un nuovo silenzio, che si traduce in uno sguardo allunga. Occhi negli occhi e sigilli di immobile silenzio.
« Andiamo Elsa » aggiunge allungando la mano destra verso la fata che solleva un sopracciglio scuro.
« E adesso che è? Sono diventato una principessa mestruata in un castello di ghiaccio? »
« No, Elsa è la tizia che non deve chiedere il nome di Lohengrin. »
« ...e quindi tu saresti Lohengrin e io la rincoglionita? »
« Mi auguro di no. O a quest'ora saremmo morti in due. »
La mano porta che viene afferrata piano, lasciando che quelle parole siano davvero un gioco e niente di più o di me. Niente altro che sorrisi, simmetrici a quello di quel pomeriggio.
« Beka. »
« Morto. »
Un sorriso che si accenna un poco di più.
« Grazie. »
« E di cosa? »
« Della moto. Di essere venuto fino a qui solo per il mio compleanno. »
« Ah, a proposito di quello. » un passo nella sua direzione, la mano sinistra che scivola nella tasca, in maniera quasi distratta. «Chiudi gli occhi » un comando, che non appare come un'imposizione ma che costruisce un principio di attesa che lo porta a deglutire, piano, mentre chiude gli occhi.
La sensazione delle punte di pelle che sfiora il collo e qualcosa di gelido che che pizzica la pelle, nascosta sotto al calore della sciarpa. Il movimento leggero, di una mano che scivola sfiorare l'altezza del cuore.
« Buon compleanno soldato » e il leggero tintinnio del metallo di una mostrina che adesso pende, ancora oscura ai suoi occhi, a un frammento di stoffa dal suo cuore.  

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Capitolo 3
*** 3. Dormiresticonme o I soldati imparano a saltare o due volte grazie. ***


3. Dormiresticonme o I soldati imparano a saltare o due volte grazie.
 

Per un qualche motivo sconosciuto il cuore non smette di battere. Al di là delle ovvietà biologiche, si intende. Lo sguardo è appena distratto, sebbene sia fermo ad osservare il piumone, ancora intatto, presente sulla branda che sfiora, per mancanza di spazio, il suo stesso letto.
Una notifica di Instagram che si decide a distrarlo, assieme alle varie sparse sui social, intenti a dichiarargli un mix di amore e auguri che lo terrorizza a sufficienza. Le Yurio's Angels gli hanno dedicato un video, corredato da un gatto che miagola uno straziante “tanti miaguri a te”. Quasi si aspetta di vedere qualcosa di analogo ma la foto che appare nel suo schermo lo lascia a spalancare gli occhi. Non gli serve nemmeno controllare quale sia l'account che lo ha inserito nei tag: sa benissimo che corrisponde a quello della mano sollevata a scattare un selfie. Semplice e banale. Eppure a stupirlo è il sorriso che vede sul suo stesso volto. Un sorriso che appare così sincero e disegnato da apparire come irreale.

«Non ti dispiace se l'ho caricata vero?» una domanda, fatta dalla porta prima di richiuderla alle proprie spalle. Appena scuote il capo in risposta, prima di anticipare le proprie parole.
«No, figurati. È una bella foto. Rido.» osserva, e quella nota appena perplessa non si allontana davvero dalla sua voce.
«Lo dici come se fosse un problema» un sopracciglio che si solleva, quasi rigido.
«No, affatto. È che non sono abituato a ridere»
«Con me ridi spesso» ammette costringendo quegli occhi verdi a sollevarsi verso di lui. Le palpebre che sbattono quasi incapaci di perdersi nelle iridi nere con cui si confrontano. Non una parola mentre il silenzio viene combattuto dal kazako con un movimento che lo porta a sedere sulla branda. Ancora un fiato, un respiro. Il labbro inferiore che viene stretto tra i denti.

«...dormiresticonme?» mugugna, mordendo quelle sillabe come fa con le pellicine sulle labbra.
« Eh? »
«e che cazzo.» sbotta incrociando le braccia al petto «dicevo. Dormiresti con me? Nel mio letto intendo, in camera con me già ci dormi...sempre che tu non voglia andare a dormire nella vasca da bagno, ma mi immagino sarebbe scomodo. Ah, non è un modo per saltarti addosso mentre dormi, quello lo farebbe il depravato di Victor, io semplicemente intendo dire che... »
«Yuri.» le palpebre, che solo adesso si accorge di aver in qualche modo chiuso in quell'oceano di parole nonsense, si riaprono piano, davanti ad una sagoma ormai più vicina «Mi avevi convinto al “dicevo”. Se vai avanti non inizierò a pensare che sei un depravato come Victor, ma piuttosto che soffri di una qualche forma di psicosi. »
«Eh? No. Io sono sano come un pesce!» replica, sentendosi in dovere di prendere seriamente in carico quelle parole, continuando a fissare le spalle dell'alto, avvolte in un anonimo pigiama grigio. Il volto disegna una nota di curiosità e incomprensione nel vederlo fermo, le mani poggiate contro il materasso. Una posizione acquisita per rivolgersi a lui a parità di sguardo, è ovvio. È su quelle dita che finisce per concentrarsi, ritrovandosi più distratto del solito. Quelle stesse dita che ha sentito contro la pelle, prima che quella piastrina di metallo scivolasse al suo collo. Uno di quei rettangoli dagli angoli smussati, bordati di gomma, che ricalcano quelli dei soldati dei film. Il suo nome inciso e la data del suo compleanno. Solo un pensiero che si ritrova a sfiorare con le dita, schiudendo appena le labbra.
«Yuri?» quando per la seconda volta Otabek pronuncia il suo nome, un brivido leggero gli attraversa la schiena, senza motivo, portandolo a deglutire.
«Si?» domanda, convito di avere la bocca inverosimilmente impastata.
«...se vuoi che dorma con te dovresti farmi spazio»
« Ah si. È vero.» osserva, arrossendo appena. Quasi la sensazione fisica di calore che si condensa sulle gote e che non fa altro che generare un senso di vergogna che lo spinge ad augurare una buonanotte rapida e un ancor più rapido spegnimento della luce. Un clack, e tutto è buio. Ogni contorno sparisce ad eccezione della sagoma presente accanto a lui. Vicina al punto di sfiorare il suo corpo, in un contatto ovvio, ad un tempo ricercato ed estraneo. Si riduce nel volume la sua persona, disponendosi sul fianco con il solo effetto di portare la punta del naso a toccare la spalla sinistra dell'altro. Un respiro che gli sfugge di bocca, sfiorando la stoffa grigia. Un senso di rigidità che viene avvertito oltre il buio e il silenzio.
«Scusa. Non volevo darti fastidio.»
«Non me ne hai dato.» la percezione viva di due occhi contro di lui. Si solleva a cercarli, individuando la loro posizione. Un braccio che scivola oltre le sue spalle, invitando il suo corpo ad avvicinarsi, il capo che finisce a contatto con il petto altrui. Il battito del cuore che si percepisce oltre la stoffa. Le sue mani, raccolte contro il torace, incrociate come l'attimo prima di un axel. Lentamente la destra si muove, per spingersi a sfiorare quello stesso cuore che sente. Dita, non sue, che tornano a sfiorare la guancia, ora più calde, quasi più morbide. Che scivolano, lentamente, come in una carezza fatta ad un cristallo, fino a sfiorare il lobo. Deglutisce di nuovo, umettando le labbra in un riflesso spontaneo. Il pollice che sfiora di dorso la bocca, nel tornare indietro. Un movimento che si ripete e la voglia di fare le fusa come un gatto.
«Otabek» soffia, rompendo il silenzio con timore, nella viva percezione di rischia di spezzare qualcosa «grazie di avermi fatto sorridere» un'osservazione stupida. Infantile. Che cerca di uscire fuori con un senso nuovo. Come se fosse, sotto le parole di una gratitudine immatura, un modo per dimostrare quella punta di affetto che il sorriso porta indissolubilmente così. Il timore di vedere il ghiaccio cadere e spezzarsi, come in quel sogno. Il timore, di congelare nel lago gelato, le spine di un mago a trafiggerlo come chiodi. La paura di percepire il nitido suono di ali spezzate e bruciate nel sole.
Un movimento di quel corpo nel suo letto. Il fiato che viene trattenuto quando nessuna risposta lo raggiunge. Il suono del ghiaccio che si fa più netto. Gli occhi che si chiudono, pregando di cadere in un sonno senza sogni, quasi istintivo. Il terrore di avvicinarsi a qualcuno, di lasciarsi sfiorare per poi definitivamente cadere. Annegare. Per questo i cignetti. I cignetti non amano. I cignetti si limitano a riversare loro stessi nel divertissement di un attimo. Belli da vedere, senza tragedie sospese. Senza terrori in divenire. L'improbabile desiderio di scoppiare a piangere. Senza un motivo altro rispetto al silenzio che gli risponde.
La mano sulla sua schiena che lo stringe appena, raggiungendo la spalla. Le dita sul suo volto, che raggiungo il principio del collo, come a sorreggerlo. Un respiro, vicino al suo. E il ghiaccio si spezza. E la mano del cavaliere si getta oltre le lame d'acqua, stringendo il braccio del cigno che cade.
Il battito si spezza e accelera quando il silenzio acquista la forza di una risposta. Non è la prima volta che una bocca sfiora la sua. Non è la prima volta che il pensiero di sfiorarne una lo colpisce. Non è la prima volta che immagina un bacio. È la prima volta che si ritrova a disegnarlo su una tela bianca.
In principio sono solo labbra contro le labbra. Un movimento morbido, appena percettibile. Che nell'allontanarsi catturano appena il labbro superiore, trascinandolo in un leggero e sordo “pick”. Gli occhi si chiudono, dando buio al buio mentre allunga appena il collo, per trovarle di nuovo, arrestando la loro fuga. Tornano e i muscoli si rilassando in un sospiro di labbra socchiuse. Un paio di volte si muovono, indecise e incapaci di schiudersi. Fino a quando qualcosa non cambia e un senso di calore nasce nel retrocassa del cervello. La punta delle lingua fa capolino, finendo per sfiorare le labbra altrui, bloccandole. Come in un gioco di corsa e di rincorsa. Di nuovo quel timore. Di nuovo il gelo che si impossessa delle sue gambe, sigillandole in una morsa. Ma quella che appare come una stasi è la sua esatta nemesi. In quel gelo muove il cavaliere, stringendolo piano.
«Non avere paura soldato. Io non vado da nessuna parte» parole che sembrano indovinare i pensiero altrui, spalancando lo stupore degli occhi nella notte. Parole che vengono ripetute direttamente nella sua bocca quando la lingua la invade. Incapace di capire dove mandare la propria, cosa farne. Trovando quasi difficile seguire quanto le accade. Percepisce quella ricerca, quell'invito ad una danza di cui non conosce i passi. Le labbra ormai aperte, dischiuse in un respiro che suona tremendamente strano alle sue stesse orecchie. Un suono nuovo. Diverso. Che non fa davvero paura. Prima di percepire il corpo farsi più pensate, sovrastato dal carico di un peso non suo, che distende la sua schiena contro il materasso, senza schiaccialo. Le mani che stringono la stoffa, aggrappandosi a quella maglia quasi fosse la pelle che ricopre. Stringendo per tenerla vicina a sé e non farla allontanare. In un bacio che si interrompe, quando il fiato sembra finire.
«Io non ho paura» una bugia, che germoglia nel cuore e nella mente.
«Non ti credo» rimbecca senza cattiveria o protesta «ma grazie»
«Di cosa?»
«Di sorridere con me»
Un nuovo bacio che si condensa sulla bocca prima di scivolare contro il collo. Di sfiorarlo senza veemenza o volgarità. Quasi fosse il Cavaliere ad avere paura. Quasi fosse lui, una volta tratto in salvo il Cigno, a temere di vederlo cadere e spezzarsi di nuovo.
Un gemito. Un sospiro. Il fiato che viene mancare così come la voce.
Le dita che si allontano dal cuore per tuffarsi in quei ciuffi neri.
«Ho paura» ammette piano, mentre sente il sale scivolare lungo le guance. «Ho sognato un lago ghiacciato. Ho sognato di pattinarci sopra e di cadere. Ero un cigno e subito dopo ero io. Sentivo il ghiaccio spezzarsi e cadevo. Sentivo qualcuno che doveva arrivare a salvarmi ma...» sono parole spese in quella scia di carezze di labbra lungo il collo. Quasi fossero capaci di esorcizzare il terrore che lo insegue, dalla radice prima di sé. Si interrompono, mentre lo sguardo torna verso di lui.
«...ma un soldato si salva sempre da solo. Non avere mai paura di te stesso.» una pausa. «Grazie»
«Di cosa?» un movimento per allontanare le mani dal suo volto, per portarlo al proprio, verso gli occhi. Le dita che catturano i polsi, piegandoli verso il cuscino.
«Di piangere con me. I soldati non sono forti perché non cadono. I soldati sono forti perché trasformano una caduta nel più bello dei loro prossimi salti. »
«Beka...mi baceresti di nuovo?»
«Tutte le volte che vuoi, soldato.»
 



NdA.

This is the end, o almeno è la fine di questo frammento che conclude questa FF che non aveva, come le cose che scrivo io del resto, pretesa di lunghezza. Tutto è nato da una fotografia che mi è stata scattata e che mi vede vestire i panni di Yurio - con una discutibile differenza di età - e come una fotografia questa storia voleva restituire semplicemente una raccolta di attimi.
Grazie di essere arrivati fino a qui.
Magari ci rivedremo presto, se mi deciderò a pubblicare la One Shot su Chris. Grazie di tutte le vostre parole, grazie del vostro tempo.
Non sapete quanto mi rendano felice <3

Lene.
 

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