Giochi di potere

di Damnatio_memoriae
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Antefatto ***
Capitolo 2: *** Prologo ***
Capitolo 3: *** In alto gli stendardi ***
Capitolo 4: *** Così in vita, così in morte ***
Capitolo 5: *** Ciò che non sai non ti ferisce ***
Capitolo 6: *** I ricordi delle fate ***
Capitolo 7: *** La città delle bambole ***
Capitolo 8: *** Il sangue che non mente ***
Capitolo 9: *** Dubbio ***
Capitolo 10: *** La malerba ***
Capitolo 11: *** Le ragioni del biancospino ***
Capitolo 12: *** Fra te e la tempesta ***
Capitolo 13: *** Il colore del gladiolo ***
Capitolo 14: *** Finte commemorazioni ***
Capitolo 15: *** Chimera ***
Capitolo 16: *** Campi Elisi ***
Capitolo 17: *** La verità nella menzogna ***
Capitolo 18: *** La menzogna nella verità ***
Capitolo 19: *** Cartina ***



Capitolo 1
*** Antefatto ***



♦♦♦

Nell’antica forgia il fuoco freme
di ferro le strade, i cuori, la fede
che di Ennon fecero l’unico seme,
il rione a cui solo la brace è fedele.
 
Innalza per Nika il tuo blasone
il borgo che ha donato il suo favore
alla vita che nel legno trova pace
e sui cui rami splende un nuovo sole.
 
Fila la lana e con essa i tuoi sogni.
Spada e fuso si incrociano pronti
nello stemma di Tanaro con i ricordi
di come il mestiere li vide discordi.
 
Fu Kalendor del vetro il portatore
e sua la colpa che grida a gran voce
la cupidigia che lo fece precettore
e per vent’anni gli impedì di ritornare.
 
Viso bianco spicca in campo viola
di Morèa la gentilezza che consola,
la contrada per gli artisti la dimora
della ceramica, oggi come allora.
 
Nella cittadella è il Gran Palazzo
del maestro che agli scontri è avvezzo
e decide guerra o pace col suo arazzo
ma ancora non si sa chi paga il prezzo.

♦♦♦

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Capitolo 2
*** Prologo ***


Prologo 
 

Il sole era basso all’orizzonte e una luce rossastra filtrava attraverso le ampie vetrate decorate, allungando le ombre che, così grandi, facevano sembrare più piccole le persone nella stanza. I maestri di Kalendor avevano scelto le tonalità del celeste per pigmentare il vetro dei finestroni, ma ora l’unico colore che questi riflettevano era il cremisi.
L’ultima ad entrare nella camera fu una donna anziana, con i capelli ormai bianchi raccolti in una lunga treccia. I suoi occhi erano così chiari che molti dubitavano fossero ancora in grado di vedere qualcosa, se non contorni sfuocati. Teneva tra le mani uno specchio anticato, tondo, incorniciato da volute di ottone, con la superficie graffiata e impolverata, che non avrebbe più riflesso nulla. Una donna le rivolse un sorriso gentile, anche se gli occhi non sorridevano più, e si scostò per permetterle di passare. La vecchia procedette con fare incerto fino al capezzale e le sue scarpe non fecero alcun rumore sul pavimento marmorizzato. Allungò la mano piccola e rugosa e la posò sulla spalla della ragazza inginocchiata davanti al letto, ma lei non si voltò a guardarla, né dette segno di averla notata. Il viso era stanco e tirato, le labbra screpolate e rotte, ma continuava a morderle; i capelli dovevano essere stati pettinati e curati alla perfezione, ma ora i ciuffi sfuggivano dall’acconciatura e le incorniciavano confusamente il volto; era vestita di tutto punto, come ci si sarebbe aspettato da lei per quella occasione, con un lungo abito austero e accollato, quasi soffocante, come soffocante era quella stanza, quel palazzo, quella situazione, quel dolore sordo che la rendeva apatica e incapace di reagire. Non sapeva più per chi piangere. Strinse la mano della giovane sdraiata sul letto e provò ad incrociare le dita con le sue, senza trovare reazione, anche se ogni volta sperava andasse diversamente.
Dopo qualche minuto di silenzio si decise a dire: «Un funerale al tramonto?».
L’anziana donna scosse la testa. «No, bambina. Quello è il rosso che solo le fiamme possono portare.» spiegò con la sua voce rauca e continuò, rivolgendosi ai presenti «Morèa è caduta. Il Consiglio ne è già stato informato».
Nella sala serpeggiò un brusio di sussurri e lamenti. Alcune signore si coprirono il viso con le mani e piansero, qualche uomo uscì dalla stanza arrabbiato o amareggiato. La donna che prima aveva sorriso si limitò a congiungere le mani e portarle alla bocca, sbiascicando qualche frase. Morèa era stata la sua casa per così tanto tempo e ora sarebbe stata dimora solo di cenere e disperazione. Si coprì il viso con il velo nero e pianse sommessamente.
«Ora più che mai è necessario indire il Torneo. Tanaro è l’ultimo baluardo che ci rimane, ma non potrà resistere a lungo all’assedio. Non possiamo più rinviare» sentenziò la vecchia e chinandosi, per quanto le fosse possibile, sulla ragazza, le sussurrò all’orecchio «Purtroppo non c’è più tempo per commiserare i morti. Bisogna prendersi cura dei vivi».
L’altra volse a malapena lo sguardo. «Non posso lasciarla qui. La sto aspettando.».
«Non dovrai attendere ancora per molto» la rassicurò, accarezzandole la testa «Nemmeno lei può nascondersi a sé stessa così a lungo».
«Mi chiedo se abbiamo fatto la cosa giusta…».
«Forse non era giusta. Ma quando ti rimane una sola scelta, non ha più importanza che sia corretta o sbagliata. Non puoi incolparti per non aver potuto fare altrimenti».
La ragazza si rimise in piedi a fatica e un formicolio le intorpidì subito le gambe. «Lei ripeteva che esiste sempre un’altra scelta» le labbra si stesero in un debole sorriso, ma si incurvarono presto in una smorfia di dolore al pensiero di aver utilizzato il passato.
«Sì» concesse la vecchia «Era molto ottusa.» sollevò lo specchio verso di lei e sfiorò con l’indice affusolato la superficie sporca. La giovane la assecondò riluttante, aspettando di vedere quello che lo specchio aveva da mostrarle. Dopo una manciata di secondi riuscì a distinguere i contorni di una figura in movimento, dei capelli rossi, occhi scuri, uno sguardo sbarazzino, chiare lentiggini; la salutava in groppa al suo destriero morello, le tendeva la mano e le diceva parole che solo lei poteva sentire. Distolse lo sguardo e alzò una mano per allontanare lo specchio.
«Ti prego, basta così» mormorò con voce spezzata, coprendosi gli occhi «Questo non lo posso vedere.».
La vecchia annuì comprensiva e le accarezzò il braccio «Devi essere paziente» le ricordò.
La ragazza finse di non sentirla e chiese: «Sognerà?».
«Spera di no, bambina. Nel mondo dei sogni l’unica cosa che ti è concessa di sognare è la realtà».
Quando giunse dal cortile un suono di tromba, la donna velata di nero si avvicinò a loro.
«Dobbiamo andare» disse, dispiaciuta per aver interrotto quel momento e per la cerimonia a cui avrebbero dovuto partecipare.
La ragazza impiegò qualche istante prima di decidersi ad allontanarsi dal letto. Tirò il fiato, si allungò sul materasso di piuma e scostò la frangetta della sua amica per accarezzarle la fronte. Le prese una ciocca di capelli rossi e se la avvolse intorno al dito, come era solita fare prima di addormentarsi. Si chinò sul suo viso e le sfiorò la pelle con la bocca, percependola immobile e fredda. La guardò un’ultima volta prima di trascinarsi fino alla porta, uscendo a fatica dalla stanza.
«Anche tu dovresti andare, Isolde» disse l’anziana, appoggiando una mano alla testiera del letto per sorreggersi.
La donna allungò un braccio per invitarla ad appoggiarsi a lei. «Forse cerco un modo per rimandare».
«Non si può rinviare l’inevitabile» disse «Ma ne comprendo il bisogno. Era un brav’uomo e un ottimo marito».
«E un padre esemplare» aggiunse l’altra, guardando la porta dalla quale era uscita sua figlia.
«Mancherà a tutti noi, cara». Si voltò per porre lo specchio sul petto della giovane distesa sul letto.
Anche Isolde si avvicinò al capezzale e le accarezzò la guancia diafana con aria affranta. «Tornerà?» chiese.
«Sì, se saprà dove guardare» chiarì, poi aggiunse con voce distante «Il buio è dunque giunto?».
«Temo di sì, Ophelia. Ma non avrei mai pensato che il buio potesse avere il colore del tramonto».  

 

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Capitolo 3
*** In alto gli stendardi ***


Capitolo 1
 
♦ In alto gli stendardi ♦
 
“Dalla fortificazione giunge un messaggero,
del suo annuncio, come gli altri, prigioniero.
Tre anni son passati e si attende il magistero
ma, se sai ascoltare, una novità non è davvero”
 

 
Fuori non era bel tempo e dal cielo, coperto da spesse nuvole plumbee, cadevano incessanti gocce di pioggia che si riversavano per le strade scoscese e acciottolate, creando mille e più rigagnoli che i bambini si divertivano ad evitare con piccoli e goffi saltelli. I lampioni ad olio di ferro battuto, lavorato dagli artigiani del borgo, erano stati spenti quella mattina sul tardi, aspettando senza risultato che un raggio di sole facesse capolino da oltre le nubi per rischiarare la giornata uggiosa.
Nonostante l’atmosfera malinconica, gli abitanti di Ennon erano già tutti intenti a svolgere il loro lavoro, qualunque fosse il mestiere a cui avevano deciso di dedicarsi, e le strade erano chiassose come sempre. Un via vai di carrozze occupava le due strade meridionali, che portavano l’una al rione vicino, il Tanaro, e l’altra alla cittadella fortificata. Dalle case basse, di roccia scura, a ridosso delle strade, provenivano rumori di vita: schiamazzi, risate, pianti di neonati, belati e miagolii. Tuttavia, gli unici suoni che gli abitanti di Ennon riconoscevano propri erano i nitriti dei loro cavalli e il martellare dei fabbri che lavoravano il metallo sulle incudini. Agganciati alle inferriate, fissati alle porte, annodati ai pali, sventolati dai balconi, i vessilli della contrada erano l’orgoglio del popolo, che li esibiva con fierezza, perché nessun altro rione sapeva essere patriottico quanto quello di Ennon, il borgo del Ferro, e lo stemma, una stella di ferri di cavallo in campo azzurro, racchiudeva in un’unica immagine le passioni di quella gente.
Benchè amanti della compagnia, della birra scura e delle taverne, gli uomini di quel territorio erano naturalmente diffidenti nei confronti dei loro vicini e anche se Ennon non gradiva presentarsi come una borgata chiusa, nel senso più ferreo del termine, erano rari i matrimoni misti e, che si sapesse, l’unica eccezione alla regola era rappresentata dal Ministro, che aveva preso in moglie una donna di Morèa. Non che qualcuno ci trovasse effettivamente nulla di male nelle ragazze degli altri paesi, ma in fondo perché andare così lontano? Le signore di Nika erano troppo esili e schive, quelle di Tanaro troppo irruente e irascibili, qualcuno sospettava che quelle di Morèa fossero troppo dolci per non essere anche bigotte, e per Kalendor…portava semplicemente male legarsi con qualcuno di Kalendor, anche se nessuno avrebbe mai osato parlare male della Vecchia Ophelia, un po’ per rispetto, un po’ per timore. D’altronde non poteva esserci il primo senza il secondo.  
Daia si era svegliata presto quella mattina e, nonostante il comodo letto di piume, non era più riuscita a riaddormentarsi. Scostò con cautela le spesse tende di velluto, per fare entrare nella stanza un po’ di luce, ma quando vide che il letto accanto al suo era già vuoto, le tirò fino al bastone e aprì il finestrone, inspirando l’aria umida.
Allora non sono l’unica mattiniera oggi, pensò. Prese l’abito che le avevano lasciato piegato sul baule ai piedi del letto e se lo infilò, faticando ad allacciarlo sulla schiena, ma si rifiutò di indossare anche il mantello. Controvoglia, si pettinò i capelli arruffati e per fare prima li intrecciò sul capo, bloccandoli con un fermaglio decorato, quindi uscì dalla sua stanza. Nel corridoio, Vidia stava istruendo le nuove domestiche. Era una donna non molto alta, paffuta, e anche se ispirava simpatia con quel suo viso tondo, bisognava fare attenzione a non contrariarla.
«Signorina!» le disse quando la vide e si dimenticò di finire la ramanzina che aveva iniziato e liquidò tutte con un gesto veloce della mano grassottella «Ma anche voi così presto?».
«Buongiorno, Vidia» ricambiò lei con un sorriso «La fortuna non arride a chi si sveglia con i polli?» domandò.
«Ho sempre pensato che i galli dovessero dormire di più, signorina» rispose, guardandola di traverso quando notò i capelli acconciati così alla buona e il vestito stropicciato «Potevate chiamarmi» le disse a mo’ di rimprovero mentre si aggiustava la cuffietta in testa e Daia, che aveva imparato a capire i sottintesi nei suoi gesti, si girò diligentemente e lasciò che le mettesse in ordine i lacci dell’abito e i ciuffi ribelli.
«Così va decisamente meglio!» annuì soddisfatta «Cercate Tess? Credo sia in cortile, sentivo gli schiamazzi. E sono sicura che prima o poi lo schiamazzo che sentiremo sarà quello delle sue urla quando cadrà sul sedere per non aver usato le staffe. Diteglielo anche voi signorina, vi dà ascolto!».
Daia rise «Credo sappiamo entrambe che Tess non ascolta nessun parere che non venga dalla sua stessa bocca».
«E’ più cocciuta del ferro» borbottò Vidia e quando la ragazza si allontanò le urlò «Mi raccomando andate in cucina a mettere un po’ di ciccia su quelle ossa! E’ importante il pasto del mattino!» poi si rivolse ad una delle domestiche sotto la sua supervisione «Perché te ne stai lì impalata a guardarmi? Credi che i letti si rifacciano da soli? Vuoi che chiami il Ministro e gli dica di mettersela a posto da solo la camera? Ecco, brava, vai a lavorare, su su!».
Daia scese le scale appoggiandosi al corrimano. I vetri erano tutti rigati dalle gocce di pioggia che si rincorrevano l’un l’altra. Posò una mano sul finestrone e lo sentì freddo sotto i polpastrelli. Al di là del vetro vedeva il giardino e gli artigiani che battevano il ferro per i cavalli e un gruppo di cinque o sei ragazzi che si allenavano insieme al maestro con le lance. Una ragazza stava aiutando a spostare una balla di fieno vicino alla stalla. Portava dei pantaloni sgualciti e una casacca leggera e anche se tirava vento e l’umidità sembrava volesse penetrare nelle ossa, sembrava accaldata, perché si passò una mano sulla fronte. Daia sorrise e scese le scale più velocemente.
«Daianara» la chiamò poi una voce e benchè avesse un timbro dolce e pacato, in quel richiamo vi era anche una sfumatura di ammonimento. Suo malgrado rallentò il passo, perché solo due persone la chiamavano in quel modo, e sceso l’ultimo gradino si trovò in un’ampia sala da pranzo, dove il massiccio tavolo di ferro che troneggiava in mezzo allo spiazzo era apparecchiato solo per metà. Una donna stava seduta composta nel posto di fianco al capotavola, anche se suo marito era assente, perchè le sedie avevano i nomi incisi sugli schienali, così come richiesto dal galateo.
«Buongiorno mamma» la salutò la ragazza, avvicinandosi. Portava un lungo abito stirato e inamidato che faceva risaltare la sua figura slanciata e il tessuto color avorio metteva in risalto la pelle olivastra e i capelli neri. La tipica bellezza di Morèa.
«Come mai così mattiniera, cara?» le chiese con garbo, mentre posava il coltellino da burro sul piatto.
«Non saprei» ammise la ragazza «Forse è stata la pioggia a svegliarmi».
La moglie del Ministro di Ennon allungò la mano, invitando la figlia a sedersi insieme a lei.
«In verità…» iniziò titubante Daia «Io pensavo di andare ad aiutare lo zio e Tess con i cavalli».
L’austera donna sorrise «Theresa» la corresse e continuò «Capisco».
«Sì, Theresa. Quindi posso andare?».
«Non ho detto questo.» le fece nuovamente cenno di sedersi «No, Daianara, non lì, quello è il posto di tuo padre. Ecco, mettiti davanti a me, così ti posso guardare, cara».
Daia ubbidì, ma prima gettò un rapido sguardo alla porta d’ingresso, sperando di fare il prima possibile. «In verità non ho molta fame».
«Almeno un frutto» la esortò Isolde «O un po’ di pane imburrato, per farmi contenta. No cara, non è il coltellino da burro quello» disse, ma quando Daia sospirò di esasperazione, aggiunse «Ma anche il coltello da bistecca può andar bene, sì».
«Grazie».
«Anche Theresa si è alzata all’alba, oggi» iniziò Isolde, facendo conversazione.
Sua figlia annuì «Quando mi sono svegliata il suo letto era vuoto».
«Monta Argo?» domandò, pulendosi le mani nel tovagliolo ricamato.
«In verità l’ho vista mentre aiutava a mettere a posto» spiegò «Forse l’ha già riportato nella stalla».
«E Altea? Tuo padre mi diceva che è da un po’ di tempo che non ti vede cavalcare».
Daia la tranquillizzò «Aspettavo le cambiassero i ferri. Suppongo che per questa settimana saranno pronti. La vado a trovare sempre però».
«Non ne dubitavo di certo, cara».
«Papà dov’è?».
La donna sospirò «Nel suo studio. Crede che oggi arriverà il messo dalla cittadella e vuole finire le ultime cose. Se così sarà, di sicuro lo verremo a sapere: suonano sempre così forte dentro quei corni che è difficile non accorgersi della loro presenza!».
Daia finì quel poco che si era messa nel piatto e si alzò da tavola. «Grazie per avermi tenuto compagnia».
«Figurati cara, io sono sempre qui. Mi dispiace che tu sia rimasta così poco, però. D’altronde sei figlia di tuo padre: andate sempre di corsa, come il vento!».
Daia uscì di casa e imboccò il sentiero che portava al cortile. La terra era battuta e non cresceva l’erba e le oche starnazzavano vicino al pozzo, mentre i polli erano stati chiusi nel recinto. I ragazzi si stavano ancora allenando sotto la supervisione dell’insegnante, nonostante la pioggia e il terreno umido, ma questa volta erano divisi a coppie e si esercitavano con il mazzafrusto. I più bravi riuscivano a farlo roteare sopra la testa senza perderne il controllo, a quelli nuovi era stata preventivamente fatta indossare una corazza di pelle imbottita. Altre balle di fieno erano state ammucchiate all’ingresso della stalla, vicino a due grossi rastrelli, e nell’aria, oltre al clangore dei colpi e dello scalpitio degli zoccoli, si sentivano Ivan e Jheremia battere il ferro e conferirgli la forma voluta, prima di immergerlo nell’acqua fredda. Daia sorrise: erano tutti suoni familiari, suoni di casa.
Si guardò intorno per cercare Tess, ma non la vide. Entrò nella stalla pensando di poterla trovare lì. Anche quella struttura era fatta di legno e ferro, riparato dalle intemperie e reso ignifugo. Oltre l’ingresso, che veniva sempre lasciato aperto di giorno, era stato adibito uno spazio per selle, staffe, briglie e imbragature. Il tavolo di legno, a ridosso della parete, era pieno di fogli, scartoffie, lettere e macchie di ceralacca e nemmeno di zio Donovan, fratello di suo padre, vi era l’ombra. Era solitamente lui che si occupava della gestione del maneggio, anche se aveva sempre preferito insegnare alle reclute il combattimento a cavallo, cosa per cui Ennon ancora sapeva eccellere.
Sulla scrivania, in mezzo a tutto quel disordine, Daia notò cinque statuette in legno chiaro: due stalloni orientali e tre giumente. Ne prese una tra le mani e la tenne con cura, accarezzandone la superfice ruvida con le dita. «Siete nuovi» disse sovrappensiero «Altrimenti mi ricorderei di voi».  
«Sono arrivati questa mattina» spiegò una voce maschile alle sue spalle e subito lei si girò. Donovan era un uomo non troppo alto, ben piazzato e con le gambe allenate. Somigliava molto a suo fratello, con quei capelli scuri e la barba ispida e gli occhi di un colore più scuro della pece.
«Zio» lo salutò Daia «Sono nostri?».
L’uomo scosse la testa «Solo per oggi. Daranno il cambio a quelli dell’araldo, così riuscirà a tornare a Palazzo prima che venga sera».
«Dunque è vero, lo stiamo aspettando».
Donovan appese la sella che portava sulla spalla di fianco alle altre. «Aggiungerei che era anche ora. I totem della cittadella sono irrequieti, diventano nervosi quando non sanno a chi va la loro fedeltà. Specialmente gli animali. Anche Tess ha faticato oggi a tenere Argo. E’ una sensazione di impazienza che pervade l’aria».
Daia posò la statuetta di fianco alle altre «Non mi piace vederli ridotti in questa forma. Dovrebbero essere liberi di muoversi, correre e vedere quello che li circonda» disse.
«Lo so, non entusiasma nemmeno me. Sembra di declassarli poco più che al ruolo di giocattoli».
«Dunque nessuno li ha reclamati?».
«No, possono legarsi solo al mastro artigiano. Quando avremo il nuovo Maestro di Palazzo risponderanno a lui, come molti altri nella cittadella».
La ragazza arricciò le labbra «La loro lealtà è costretta a mutare più velocemente delle stagioni, allora. Sono felice di avere Altea con me. I nostri totem sapranno sempre di chi fidarsi».
L’uomo annuì distrattamente «Sì, ma non dimenticarti mai a chi va innanzitutto la loro fedeltà, Daianara. Credi che tuo padre parteciperà al torneo?».
La ragazza si strinse nelle spalle «Non saprei. Tu gareggerai, zio?».
Donovan si lasciò andare ad una grassa risata «Sai già la risposta, nipote. Io e te siamo simili. Preferisco non immischiarmi nei giochi della politica e non ho imparato l’arte della guerra per fronteggiare i miei fratelli. Mi mancano quei tipi di ambizione e vanagloria che sono diventati il pregio di molti, ormai. No, io e la mia Medea rimarremo qui, ma non mi tirerò indietro se qualcuno verrà a chiedermi dei consigli».
«Quel qualcuno non sarò io, zio» lo rassicurò lei e il viso dell’uomo, prima un po’ corrucciato, si distese.
«Bene. Vorrei che Tess e quei ragazzi» con un cenno del capo indicò i giovani fuori dalla stalla «la pensassero allo stesso modo».
«Tess si sta preparando?» chiese, anche se non si aspettava una risposta differente da quella che si era data.
Donovan si alzò dalla sedia «Già. Riflessi pronti e mente ottusa, nessuna accoppiata fu più letale. A volte mi sembra davvero una ragazza di Tanaro».
Daia si portò un dito alle labbra «Fai in modo che non ti senta mai, zio».
L’uomo bofonchiò qualcosa, poi le fece segno di seguirlo. Quando la sentì avvicinarsi, Altea iniziò a nitrire. Era una cavalla giovane dal mantello color crema e con una piccola infarinatura chiara sulla fronte. Gli occhi erano dolci e curiosi e, per quello che ricordava Daia, era sempre stata il suo totem. Aprì il box e le accarezzò il muso, sussurrandole parole gentili. «Anche tu sei agitata, oggi?» le chiese, mentre Donovan le porgeva briglia e redini. «Vieni piccola, andiamo a sgranchirci le gambe» disse, facendola uscire dalla stalla «No, non mi mangiare i capelli!» rise.
Nel recinto, Tess si stava ancora allenando. Daia rimase per un istante a guardarla. Si era raccolta i capelli rossi, bagnati dalla pioggia, in un’alta coda e gli occhi scuri davano espressione al viso concentrato. Lo conosceva bene quello sguardo, lo sguardo di chi cerca di superare i propri limiti. Cavalcava un destriero dal manto nero, senza l’ausilio della sella e delle staffe, ma sembrava essere più a suo agio così. Impugnava una spada corta di acciaio chiaro e si esercitava a fendere l’aria con dritti, rovesci e montanti.
Daia aggiustò la sella sul dorso di Altea e vi salì, cercando di coprirsi le gambe con le pieghe del vestito. Suo zio le aprì il cancello della recinzione e lei vi entrò. Il terreno sabbioso era umido ma non scivoloso, anche se si sarebbe sentita più sicura se Altea avesse avuto i ferri nuovi per proteggersi gli zoccoli. Tess fece girare Argo e gli accarezzò il collo.
«Era da un po’ che non portavi Altea qui» le disse quando vide la compagna.
Daia si avvicinò «Non resto molto» chiarì «Ma anche lei aveva bisogno di una passeggiata. Ti sei svegliata presto».
Tess si strofinò il naso con il dorso della mano «Non riuscivo a dormire».
«Sì, quando mi sono alzata non c’eri. Emozionata?».
«Forse. Ogni volta è come se fosse la prima. Però mi preparo sempre meglio».
«Lo vedo» le sorrise Daia.
«Donovan dice che ho ancora delle carenze. Pensa che io tenda a lasciare scoperto il fianco sinistro. Forse è dovuto al fatto di essere mancina. Dovrebbe essere un vantaggio contro i destrorsi, comunque».
«Possiamo constatarlo» disse allusivamente l’altra, prima di allungarsi e tastarle il fianco.
Istintivamente Tess ritrasse le redini e Argo indietreggiò di un paio di passi. «Non ci provare».
«Qualcuno qui soffre il solletico. Se al torneo decideranno di vincerti in questa maniera, come ti comporterai? Sconfitta per colpa del riso, non sarebbe una bella nomea».
«Non accadrà» ribattè la rossa, alzando il braccio e puntando la spada nella sua direzione «Prima dovranno trovare una maniera per avvicinarsi. Tu hai intenzione di gareggiare, quest’anno?».
«No, preferisco fare il tifo per te».
«E’ un peccato. Non te la cavi male con la lancia».
«Altea non è portata per i giochi d’arme. E comunque non vorrei mai dovermi battere con te».
«Credi che vinceresti?» chiese con un sorrisino arrogante.
«Credo che non riusciresti a colpirmi» replicò «Non correresti il rischio di farmi male».
«Non correrei nemmeno il rischio di perdere».
«Dunque tutto si riduce a capire qual è la cosa più importante: la vittoria o me».
Tess rise «Perché non lo scopriamo adesso?» e, prima che Daia potesse dire qualcosa, aveva dato un colpo di tallone ad Argo, preparato un’imbroccata e portato la punta della spada alla gola della ragazza. La mora rimase impassibile, ma la sua cavalla indietreggiò agitata e si impennò.
«Dovresti controllarla meglio» la rimbeccò Tess, mentre l’altra sussurrava parole all’orecchio di Altea per calmarla.
«E’ vero che lasci scoperto il fianco» rispose risentita Daia «E comunque non mi hai colpita».
Tess rinfoderò la spada e avvicinò il suo cavallo alla giumenta «Mi impegnerò per risolvere entrambe le cose» le fece l’occhiolino «Andiamo sulla strada alta? Con un po’ di fortuna riusciremo a veder arrivare il messo e a sentire i suoi chiassosi corni».
L’ambasciatore giunse a bussare alla casa del Ministro di Ennon quel pomeriggio presto, quando le due ragazze erano già rincasate, Vidia aveva terminato le sue mansioni, Donovan aveva riportato i cavalli nella stalla ed Isolde aveva dato disposizioni per la cena. Tutto il borgo lo sentì arrivare sulla sua carrozza, accompagnato da bassi eco di corni e flauti che riempivano l’aria di vibrazioni profonde. Al suo passaggio vennero innalzati gli stendardi ed esposti i blasoni, come da cerimonia, e i lampioni di ferro vennero accesi prima del consueto. In molti si radunarono davanti ai cancelli della villa, poco distante dal centro e l’unica casa ad essere stata costruita su tre piani, in modo tale che anche dai boschi di Nika potesse essere vista e utilizzata per ritrovare l’orientamento.  
Quando Zane, il Ministro del rione, uomo sulla cinquantina, uscì in strada per far conoscere l’annuncio che gli era stato riferito, tutti sapevano già cosa avrebbero dovuto fare una volta tornati alle loro dimore. Quella sera, anche Tess e Daia avrebbero preparato le loro valige per mettersi in marcia, la mattina seguente, verso il Grande Palazzo, centro della cittadella fortificata.  

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Capitolo 4
*** Così in vita, così in morte ***



Capitolo 2
 
♦ Così in vita, così in morte ♦
 
“Sfilano distinti e con loro i loro inganni.
Qual è la verità che, svelata, non fa danni?
Sullo stemma insanguinato giurano i tiranni
ma uno è il solo che nasconde i propri panni”
 

 
Tess soffiò sulla candela e la piccola fiamma ondeggiò prima di spegnersi. La stanza, la casa, l’intera contrada, erano avvolte dal silenzio e dall’oscurità e sembrava che una cappa fosse scesa su di loro, rendendo tutto statico e immobile. Anche la pioggia aveva smesso di cadere, come se temesse di fare troppo rumore. La ragazza posò sul mobile il cero prima che colasse, bruciandole le dita. Scostò la tenda tirata a notte quanto bastava per poter guardare fuori dalla finestra. In lontananza i lampi squarciavano il firmamento sopra i laghi di Tanaro, ma nessun rombo di tuono sopraggiunse ad accompagnare quella ribellione del cielo.
Tess era sempre stata innamorata dei fulmini e della loro capacità di rendere catartico qualsiasi momento. Ma in quelle folgori c’era qualcosa di diverso, qualcosa di sinistro nel modo in cui si abbattevano, di minaccioso nel modo in cui illuminavano le terre, quasi volessero distruggerle con la luce, prima di farle ripiombare nel buio più assoluto. Non pensava che fosse un buon auspicio, anche se gli abitanti di Ennon ritenevano che i lampi fossero presagi di vittoria.
Non era il Torneo a preoccuparla, se di preoccupazione davvero si trattava. Di certo la rendeva agitata e frenetica, la pervadeva di un’eccitazione buona, salutare: il desiderio di mettersi alla prova e di far vedere quello che aveva imparato negli ultimi anni, sotto la supervisione di Donovan. In effetti non aveva mai pensato di gareggiare per vincere e non aveva mai realmente creduto di potercela fare. Benchè il tempo passasse anche per loro, i vecchi campioni erano ancora i soli ad essere davvero in lizza per il titolo di Maestro di Palazzo, perché la loro forza non risiedeva solo nella prontezza dei riflessi, nella resistenza dei muscoli o nella forza degli attacchi. E se il loro corpo, andando avanti negli anni, poteva cedere, sciuparsi, indebolirsi, quello dei loro totem non invecchiava, non mutava al volgere delle stagioni, non poteva migliorarsi né degradarsi, immobili com’erano nella loro forma, che sarebbe rimasta tale fino alla fine, se una fine ci fosse stata. Tess si chiese distrattamente cosa volesse dire essere intrappolati in un corpo che non era in grado di cambiare, quando il mondo si trasformava e si evolveva; rimanere fermi mentre tutto andava avanti. Probabilmente non era il destino che avrebbe scelto per sé stessa o per le persone che amava e forse molti altri la pensavano come lei, anche se non lo dicevano, perché non avrebbe fatto loro onore ammetterlo. A volte, comunque, immaginare una vita senza Argo le sembrava difficile e si ritrovava a pensare che, tutto sommato, poteva andare bene anche così; poteva andare bene, se anche loro avessero avuto la possibilità di scegliere a chi essere fedeli: se a sé stessi o ai loro padroni.
In realtà, quello che ora teneva tutti quanti in trepida attesa, era scoprire chi sarebbe divenuto il nuovo Mastro artigiano, o chi sarebbe tornato ad esserlo. Zane, il padre di Daia e Ministro di Ennon, era rimasto in carica per dieci anni ed era stato uno dei governi più tranquilli che i borghi avessero avuto, forse perché il titolo gli era stato riconosciuto unanimemente da tutti i rioni, che avevano ribadito il loro giuramento. Ma ancora in molti si ricordavano la guerra con Kalendor ed il sangue che era corso copiosamente per i campi e per le strade, insozzando fiumi e torrenti, riempiendo l’aria di grida e di accuse di tradimento; e, infine, i falò di addio per i caduti e la messa a ferro e fuoco per il borgo traditore. Ed Ennon aveva aiutato, se non per il fuoco, di sicuro per il ferro.
«Tess…» la chiamò con voce impastata Daia, puntellandosi sui gomiti e stropicciandosi gli occhi ancora pieni di sonno «E’ già ora di alzarsi?».
L’altra lasciò andare la tenda e, con essa, tutti i suoi pensieri «No. Mancano ancora molte ore all’alba».
La ragazza corrugò la fronte «Allora perché non torni a dormire?» chiese.
Tess incrociò le braccia «Ci sono i lampi» spiegò con voce dimessa.
«Ah…» rispose Daia, accennando un sorriso «Certo. Sono belli?».
«Sono…» iniziò, prima che le mancassero le parole. «Sono diversi. Un temporale senza pioggia né rumore. E’ difficile da spiegare. E’ una strana sensazione».
«Non importa se non riesci a raccontarlo. Ma è tutto il giorno che ti vedo turbata e me ne dispiace. Non credo sia soltanto per la gara».
«Forse no».
Daia si mise a sedere sul letto «Ti va di parlarne?».
La rossa sembrò pensarci su, poi scosse la testa «Non molto. In ogni caso non saprei cosa dire» ammise.
«Capisco. Un giorno riuscirò a sapere cosa ti passa per la testa» scostò la pesante coperta, scoprendo il lenzuolo morbido, e fece spazio «Vieni? Come quando eravamo piccole» la invitò dolcemente.
Tess rimase qualche istante ferma, spostando il peso da un piede all’altro, indecisa. «In realtà io…».
«Dai» la interruppe lei, esortandola con la mano «Possiamo ascoltare il silenzio insieme, se ti preoccupa tanto» e vedendola ancora incerta aggiunse «Non essere così restia. Non mordo mica».
Tess fece un profondo respiro e si schiarì la voce «Solo per un po’. Quando ti addormenti torno nel mio letto».
«Come vuoi tu» acconsentì Daia, rannicchiandosi sul bordo del materasso per lasciarle il posto.
L’altra, a piedi scalzi sul pavimento di mattonelle, si avvicinò e a tentoni tastò il materasso. Si sdraiò posando la testa sulla sua parte di cuscino e si girò su un fianco, mettendosi comoda. Daia si rannicchiò contro di lei e Tess la lasciò fare. Sentì che la sua amica si attorcigliava intorno al dito una sua ciocca di capelli.
«Non l’hai ancora abbandonata questa abitudine?» le chiese.
«No» rispose, scuotendo appena la testa «Mi piacciono i tuoi capelli: sono lunghi e hanno il colore del rame scurito. Ti da fastidio?».
«No, finchè non li tiri».
«Presterò attenzione» promise, trattenendo uno sbadiglio. Nonostante sentisse il sonno intorpidirla, si sforzò di tenere gli occhi aperti, per non addormentarsi subito. Di tanto in tanto Tess le chiedeva se fosse ancora sveglia e lei rispondeva con dei flebili mugugni.  Quando Daia sentì che il respiro di Tess si era fatto più profondo e regolare sorrise, facendo attenzione a non muoversi troppo e rischiare di svegliarla. Dopo che ebbe atteso, le cinse con un braccio la vita e nascose la testa nell’incavo del suo collo, respirandone il profumo.
Credo che per questa notte rimarrai qui, pensò felice prima di lasciarsi finalmente andare ai suoi sogni.
 
♦♦♦
 
Gli abitanti di Ennon non furono i soli a mettersi sulla strada prima dello spuntare dei raggi del sole e non furono nemmeno i primi ad arrivare. In compenso, furono i più numerosi, seguiti da Tanaro e Nika. La carrozza del Ministro apriva la fila, trainata da quattro cavalli da parata e sei paggi in livrea azzurra. Come sempre lasciati muovere al ritmo del vento, i gonfaloni avrebbero annunciato il loro arrivo agli uomini di vedetta nelle torri merlate, sempre che prima non avessero udito le voci degli uomini cantare le canzoni delle taverne. Zane, tuttavia, non era affatto partecipe di quella gaiezza e i era tenuto lontano dalla carrozza e dalla sua gente, per non sminuire l’allegria con le sue preoccupazioni.
Avrei preferito non doverti rincontrare così presto, cara la mia vecchia capitale, pensò a malincuore, eppure eccoci di nuovo qui, come due amanti inseparabili.
Per dieci lunghi anni aveva soggiornato in quel territorio così diverso da Ennon, insieme alla sua famiglia. Ovunque ricordava marmi bianchi, oro e vetrate che, al calar del sole, rendevano la Sacra Cittadella un caleidoscopio di colori. La capitale era stata edificata sulla collina più scoscesa, in maniera tale che fosse facilmente raggiungibile in un giorno di viaggio da tutte e cinque le sue contrade. Presentava sì qualche taverna, qualche bettola, qualche falegnameria dimessa, ma più che altro mercati, piazze, fiere, armerie e cattedrali. Soprattutto armerie e cattedrali, forse perché i colpi di spada potevano essere perdonati più facilmente con una ricca veglia funebre.
E pensare che la mia unica ricchezza cavalca di giorno e dorme in piedi di notte, pensò mentre accarezzava il collo di Dedalo, il suo totem, uno stallone dal mantello grigio come il minerale non ancora lavorato. Da quando Ennon l’aveva scelto come proprio Ministro per consigliare il Maestro di Palazzo nelle sue decisioni burocratiche, il suo soprannome era giunto fino alla Cittadella fortificata e ormai tutti lo chiamavano così: Botte di Ferro. Ora, comunque, non vi era più nessuno da poter consigliare e la situazione andava risolta in fretta.
Jheorg era morto e di certo al suo funerale non erano stati in molti a commuoversi, a parte il suo totem o, almeno, quello che una volta lo era stato. Come Mastro artigiano controllava tutti i totem della cittadella e, se avesse voluto, avrebbe sottomesso anche quelli degli altri rioni. Ma quella era stata l’unica ragazza a voler morire insieme al suo padrone. Zane la ricordava bene quella scena e ricordava bene quella ragazza: era stato grazie a lei che Jheorg era riuscito a vincere il torneo e a prendersi il titolo di Maestro di Palazzo. Era una giovane minuscola, poco più che una bambina, e prima che il suo padrone venisse interrato, si era fatta avanti per chiedere ai cinque Ministri di poterlo seguire. Zane aveva creduto che, se avesse potuto versare delle lacrime, lei le avrebbe piante tutte, e anche se quella legge era stata abrogata ormai da tempo, le accordò il permesso. La sua statuetta, una volta trasformata, era di legno di noce, levigata e lucida, e venne posta tra le mani del morto e, con lui, sotterrata. Forse era vero che si rimaneva legati in morte come in vita, anche se lei non sarebbe mai morta veramente in quel modo. Quando il cadavere di Jheorg era stato illegalmente riesumato, la voce era corsa per le strade alte, dalla Cittadella a Tanaro, Morèa, Nika, Kalendor ed Ennon più veloce di una lepre inseguita dai cani. Accanto alla fossa, riempita con disprezzo di carcasse di maiali, il totem era stato bruciato e Zane, con il cuore stretto da una morsa di ferro, aveva sentito Ophelia dire che, ora, era davvero andata insieme a lui.
«Botte di ferro!» lo chiamò una voce dietro di lui. Un ghigno divertito gli si dipinse sulla bocca circondata dalla folta barba: non aveva bisogno di guardare per sapere chi fosse, perché solo lei lo chiamava in quel modo quando era scocciata.
«Si, Tess?» domandò.
La rossa si sbracciò dalla carrozza, impaziente. «Mi sembra di stare su una zattera mal costruita, con tutte queste buche! Siamo ancora distanti?».
«Dall’ultima volta che me l’hai chiesto direi che ci siamo avvicinati circa di tre martelli e un’incudine!» ribattè col modo di dire tipico dei fabbri, per far intendere che non avevano accorciato di molto la distanza.
La ragazza alzò gli occhi al cielo, esasperata. «Non me lo ricordavo così lungo questo viaggio» sbottò, lasciandosi cadere pesantemente sul sedile imbottito.
«Mia cara» la riprese Isolde «Suvvia, un po’ di compostezza».
Tess si stropicciò la faccia con le mani «Daia è composta sufficientemente bene per ovviare anche alle mie carenze. Se solleva ancora un po’ il mento i suoi occhi vedranno direttamente il cielo, ma non saprà dove mette i piedi!».
La mora, tirata in causa, si lisciò la gonna «Si chiama grazia» spiegò con fare altezzoso.
«Se tua madre sapesse quante grazie ti escono dalla bocca quando non stai attenta, non farebbe poi così caso alla postura!».
La cittadella accolse il nuovo corteo quando si videro all’orizzonte gli stendardi celesti, con i consueti suoni di corno, e il cancello nord-occidentale venne sollevato da quattro sguatteri per permettere loro l’entrata. L’avevano appena richiuso alle loro spalle quando gli strumenti a fiato vennero suonati nuovamente, questa volta con un’unica, bassa, lunga nota, per annunciare l’arrivo dei contingenti di Morèa, gli ultimi attesi, che si diressero, come tutti gli altri, verso il Grande Palazzo che torreggiava minaccioso su tutta la capitale, con le sue alte guglie, i gargoyle, le dieci torri campanarie, e i centocinquantasette gradini in marmo che ogni cittadino doveva salire prima di portare la propria petizione di fronte al mastro artigiano, cosa che, forse proprio per questo motivo, avveniva sempre più di rado.
Al tramonto si sarebbero tutti radunati nel Salone degli Stemmi, per accogliere e benedire con tutte le cerimonie del caso gli esponenti di ciascuna borgata e i loro Ministri, i quali, in assenza del Maestro, avrebbero preso la parola in sua vece per indire il banchetto propiziatorio e, con quello, sancire l’inizio del Torneo.
Tess notò che l’immenso salone che li doveva accogliere, con porte di ottone e rifiniture in oro che ne circondavano il perimetro, era di molto cambiato dall’ultima volta che l’aveva visto. Era austero, nonostante gli sfarzi, privo di qualsivoglia decoro, eccettuata la navata centrale, dal cui soffitto cadevano le bandiere ricamate dei rioni; non vi erano scranni, non vi erano tavoli, non vi erano torce o ceri o lampade ad olio e l’unica luce proveniva dal gigantesco rosone posto in fondo alla sala, che gettava bagliori colorati sul pavimento. Le navate laterali erano tutte occupate dai seguiti e dalle scorte, da curiosi, da quelli che spingevano per trovare un posto in prima fila ad una cerimonia che si ripeteva comunque ogni cinque anni e che quindi conoscevano già a memoria. Erano invece pronti a fare il loro ingresso trionfale i Ministri con il loro seguito: paggi, valletti, gonfalonieri, sbandieratori e musici.
Il primo fu Kasimir, di Tanaro. Molti ancora si stupivano che un uomo così giovane fosse riuscito ad arrivare così in alto e così precocemente; quantomeno, si sarebbero stupidi se non fosse nato nel borgo in cui era stato messo al mondo, dove cioè l’ambizione la faceva spesso da padrona e non sempre sottostava di buon grado alle regole. I musici colpirono i tamburi con le loro stecche, ma più che una vera e propria melodia, sembrava il segnale di inizio battaglia, così ritmata e cupa. Appena Kasimir iniziò a camminare, con lunghe e sicure falcate, attraversando la navata, tutti i presenti alzarono gli occhi al soffitto, perché le insegne erano mutate e ora il Ministro poteva essere accompagnato dai suoi stemmi: un fuso e una spada incrociati, in segno di alleanza, in campo bianco. Vi era stato un tempo in cui Tanaro era stato sconvolto da molteplici guerre intestine fra la fazione dei mercanti, abili tessitori che esportavano le loro lane oltre il deserto e il golfo, e la fazione degli uomini d’armi, che non vedevano riconosciuti i propri diritti al sinodo cittadino. Quando i mercanti cessarono di filare lana e iniziarono a tessere morte, il Maestro di Palazzo intervenne con le sue armate per riportare forzatamente l’ordine, abolendo il divieto dei matrimoni misti e sancendo la tregua con quel nuovo emblema araldico.
Quando Kasimir prese il suo posto, alla destra del rosone, insieme ai suoi due totem, spettò ad Hansel fare il suo ingresso. Chiamato anche l’Elfo di Nika, per via della sua figura snella e slanciata e i capelli biondi, rappresentava per il suo aspetto, il suo comportamento, la sua postura, il modello proposto dal borgo del legno. Famoso per i boschi di cedri che lo separavano dalla temeraria Ennon, Nika incarnava lo spirito della natura, selvaggio ma disciplinato, legato alle tradizioni ma pronto al rinnovamento, proprio come gli alberi, che in autunno perdevano le foglie e in primavera ne creavano di nuove. E l’albero spoglio era l’emblema di Nika, e ancora si discuteva, per quella bandiera, su quali fossero le radici e quali i rami. Seguiva Hansel una ragazza, anche lei pallida, con i capelli finemente intrecciati e gli occhi color del ghiaccio. Portava appesa alla cintura di pelle di daino dei falcetti che avevano l’aria di essere molto taglienti e un flauto di legno creato dal ramo dell’albero sacro.
«Savannah» bisbigliò Daianara e continuò a seguirla con lo sguardo mentre procedeva speditamente, aggraziata come sempre, dietro il suo padrone.
«Non cambia mai» le disse all’orecchio Tess e subito si accorse dell’ovvietà di quelle parole.
«Si muove come un felino tra i boschi. Non la senti vicina finchè non è lei a volerlo».
L’espressione di Tess si fece dura «E colpisce con la forza di un leone di montagna» si fermò «Credi che sia vero? Quello che si dice di quei due?» le chiese.
Daia sospirò «Alla gente piace parlare, fino a quando non diventano protagonisti delle loro stesse chiacchiere».
«Pensi sarebbe una cosa così inusuale?» domandò, come se la ritenesse un’ingenua.
«Non dubito certo che qualcuno si abbasserebbe a tanto per rincorrere il proprio piacere. Ma Savannah…ha troppa dignità per sottostare a ricatti come quelli».
Tess trattenne una risata amara «Se glielo ordinasse, lei non potrebbe certo tirarsi indietro».
«No, se glielo ordinasse lei non avrebbe altra scelta».
Sbottò cinicamente «Questa è la forza della lealtà, eh?».
Daia la guardò da sotto le lunghe ciglia. Le prese una mano e la strinse fra le sue «Non avrebbe certo il nome di lealtà o di fedeltà, perché non lo sarebbe. Consisterebbe solo in un bieco ordine, un comando che infrange qualsiasi codice etico o morale».
«Allora dovrebbero vietarlo» insistette sicura la rossa.
Daia le lasciò la mano «Perché? Questa per te non sarebbe un’imposizione altrettanto cieca? Non puoi scegliere chi amare» bisbigliò «E gli altri non sono certamente più competenti per insegnare cosa è giusto e cosa non lo è».
«Non trovo giustizia alcuna nel sottomettere la volontà di una persona».
«Forse la sua non è una sottomissione, ma una scelta» obiettò «Hansel può avere tutte le donne che vuole e non mi sembra un uomo disperato al punto da affidarsi al suo totem».
Tess si strinse nelle spalle «Ho sentito dire da alcuni artigiani che se l’ordine è ben impartito e la persona sufficientemente legata, questa non saprà distinguere la sua volontà da quella del padrone».
«E credi che questo sia il caso di Savannah? Oh, ma per favore…».
Tess fece un rapido gesto della mano per chiudere l’argomento «Basta, non ha senso parlarne. Evidentemente abbiamo due concetti diversi di libertà. No, Daia, davvero» le disse prima che l’altra la interrompesse. Si strinse la radice del naso fra le dita con fare stanco «Mi sembra di averlo discusso già troppe volte questo problema con te, senza trovare una soluzione».
La ragazza assunse un’espressione contrariata «Come vuoi» le diede le spalle «E comunque è la prima volta che ne parliamo».
«Ne dubito, come inizio a dubitare della tua memoria. Ricordi solo le cose che ti tornano utili e le altre fai finta di dimenticarle».
La terza ad attraversare la navata centrale fu Ophelia, Ministro di Kalendor, con il suo immancabile specchio. Anche se nessuno avrebbe mai osato rivolgersi a lei con parole più che rispettose e nonostante fosse amata e ben voluta da tutti, forse per la sua saggezza o per la sua età avanzata, gli abitanti di Kalendor continuavano ad essere guardati con fare sospettoso e nessuno si avvicinava troppo a loro. Le bandiere al soffitto cambiarono nuovamente e al posto dell’albero di Nika comparve una coppa dorata in campo porpora. Il calice, così come lo specchio, rappresentava uno degli artefatti di Kalendor andati distrutti - tutti tranne uno -, in seguito alla rivolta del borgo contro il potere centrale, più di cinquant’anni prima. Che si sapesse, Ophelia era l’unica a conservare l’ultima reliquia incantata.
Zane fu il quarto, e anche l’ultimo, a seguire il percorso cerimoniale, perché il Ministro di Morèa, l’anziano Howel, non sarebbe stato in grado di procedere da solo e non era un uomo così corrotto dal lusso da rifiutare di dividere l’attenzione con uno dei suoi più cari confidenti. La gentilezza e l’altruismo di quel popolo, poi, erano riconosciuti da tutti. In più, non possedendo un totem, non avrebbe avuto nessuno a cui appoggiarsi. Quando i cinque ministri furono riuniti, il sole era calato e, con voce tonante, Zane diede inizio ai festeggiamenti, alzando le mani verso il soffitto del salone, che portava ancora, alternati, i vessilli di Ennon e Morèa, con la sua maschera d’avorio sull’acceso sfondo viola.

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Capitolo 5
*** Ciò che non sai non ti ferisce ***


Capitolo 3
 
♦ Ciò che non sai non ti ferisce ♦
 
“Distolgono lo sguardo, lo chiamano perdono.
In molti questa vita non la reputano un dono.
Non conosce libertà chi siede su quel trono
e a quell’ingiustizia preferisce l’abbandono”
 

 
Ad Ennon, tutti i nonni dicevano ai loro nipoti di confidare nei sogni che venivano intorno alla mezzanotte e di diffidare di quelli che giungevano all’alba, perché se i primi erano fatti di ferro, i secondi erano fatti di stagno e dunque non potevano essere che menzogneri. Anche il banchetto celebrativo venne fatto iniziare allo scoccare della mezzanotte e Tess pensò che fosse un segno di buon auspicio, anche se dubitava che gli abitanti della cittadella sapessero distinguere il ferro dallo stagno. La cerimonia, in verità molto simile alla veglia dei grandi cavalieri delle saghe, sarebbe stata preparata nella torre del Crocevia, così chiamata perché ubicata al centro di un incrocio di tre strade e non era dunque inusuale che quel banchetto fosse passato alla tradizione come il “Convivio del Crocevia” o il “Banchetto del torrione”. Più alta di qualsiasi campanile, alla torre si giungeva costeggiando il sepolcreto e per le vie ammantate di tombe erano state infisse nel terreno morbido delle fiaccole: alle prime luci dell’alba, prima ancora della scomparsa delle costellazioni, il fuoco avrebbe bruciato i vessilli dei rioni e i festeggiamenti avrebbero lasciato posto ai combattimenti.
Ospitati nell’ala nord del castello, le famiglie dei Ministri e le loro cerchie avrebbero riposato prima di prepararsi alla notte che li attendeva; gli altri, accampati lungo le mura, chi nelle tende, chi nelle taverne, chi ospitati dai locali, avrebbero festeggiato nella maniera che avrebbero ritenuto più consona e, una volta vista la fiaccolata in cima alla torre, sarebbe giunto anche per loro il momento di prepararsi al Torneo.
Tess entrò, senza bussare, nella camera di Daia, attigua alla propria, e la vide ancora impegnata a vestirsi dietro il paravento di broccato. La stanza era spaziosa, con il pavimento in mattonelle di marmo e le pareti decorate a mano; un letto a baldacchino, una cassettiera e uno scrittoio erano gli unici mobili con cui era stata arredata.
La ragazza si stropicciò la gonna di raso color cobalto con un’espressione irritata stampata sul viso. «Pensavo che nella capitale le signore fossero tutte sufficientemente smaliziate da non badare a cosa indossare e cosa no, in base a quello che si ritrovano tra le gambe» sentenziò esasperata «Non capisco l’avversione di Vidia per i miei pantaloni».
«A me piacciono i tuoi pantaloni» la consolò l’altra mentre si annodava sul petto l’ultimo laccio.
«Piacevano anche a me, prima di essere costretta a toglierli».
Daia rise, alzandosi in punta di piedi per poterla guardare oltre il separé da camera «Da quando ti fai dare ordini?».
Tess incurvò la bocca in un sorriso furbo «Cosa ti fa credere che abbia ubbidito?» sollevò la gonna fin sopra la vita scoprendo gli stretti pantaloni di tessuto scuro. «Così, se ci viene voglia di evadere da quei festeggiamenti, possiamo andare a prendere Argo e cavalcare per tutta la notte. E che dessero fuoco ai loro perbenismi, piuttosto che alle bandiere!» accompagnò l’augurio con un gesto della mano fin troppo esplicito.
Quando Daianara finì di prepararsi si andò a sedere sullo sgabellino imbottito di fronte alla cassettiera. Tess notò che portava una veste di cotone chiaro ricamata a balze con un piccolo strascico che la faceva sembrare ancora più piccola di quanto in realtà non fosse; si posò sulle spalle una mantella e la chiuse con una spilla di ferro, quindi prese in mano la spazzola.
«Lasciali sciolti» le disse la rossa, avvicinandosi «I capelli, intendo».
«Perché?» domandò, passandosi il pettine sulle punte.
Sollevò le spalle «Mi piaci così» disse solo, fingendo indifferenza. Si sedette accanto a lei sul pavimento «Ti va di pettinare anche me? Sei l’unica che non mi fa male quando mi toglie i nodi».
«Ma certo!» rispose Daia, come se non aspettasse altro, e iniziò a passarle la spazzola tra i capelli lunghi, stringendoglieli in una treccia morbida. Quando Tess piegò il viso, l’amica le stampò un bacio sulla tempia e lei, per risposta, si ripulì con il dorso della mano, il naso arricciato in una delle sue smorfie inconfondibili. Daia non se la prese, limitandosi a dire: «Sei proprio una mocciosa!».
Si incamminarono insieme agli altri al primo rintocco della mezzanotte per la stradicciola che, dal cortile interno, li avrebbe condotti fino al cimitero e, da lì, alla torre del Crocevia. Rispettavano tutti diligentemente il silenzio, anche perché se avessero parlato non sarebbero più riusciti ad udire il flebile suono di liuti che si percepiva in lontananza e che aveva lo scopo di accompagnarli fino al banchetto. Tess pensò che quella musica fosse troppo allegra e ritmata per accordarsi al paesaggio che li circondava: i fuochi gettavano ombre sospette sulle prime file di tombe e, più in là, si intravedevano le entrate ai mausolei, agli ossari e alle catacombe, che dovevano estendersi sottoterra fin oltre le mura cittadine. La ragazza rabbrividì al pensiero che quella, più che un campo santo, somigliasse a una necropoli, e Daianara al suo fianco dovette pensare la stessa cosa, perché le si fece più vicina, guardandosi intorno con circospezione, temendo che le lapidi potessero prendere vita sotto il calore delle torce. Non osò aggrapparsi al suo braccio perché in pubblico sentiva di dover mantenere comunque un certo ritegno e si limitò a stringerle un lembo dell’abito senza farsi notare. Tess la lasciò fare: solo uno stolto avrebbe riso di qualcuno che temeva la morte.
Guardò nervosamente prima a destra, poi a sinistra, perchè aveva l’impressione di essere osservata e in quella posizione mille erano i suoi punti ciechi. Pensò anche di intravedere qualcuno nascondersi tra le fosse, prima di rendersi conto che non si trattava d’altro che delle statue scolpite degli uomini caduti in battaglia.
Avrebbero preferito di certo rimanere in vita, che possedere una scultura da morti, riflettè con ribrezzo leggendo le incisioni. Recitavano: “A Solome, di Nika, caduto in battaglia” o “Per Breàl, di Kalendor, grande uomo prima di divenire un traditore” o ancora “Etzel, l’apostata”. Forse la Cittadella aveva un modo tutto suo di perdonare l’inganno; quantomeno, aveva un modo tutto suo di mettersi la coscienza a posto, come se delle sculture bastassero a lavare le mani dal sangue versato.   
La torre del Crocevia si presentò davanti ai suoi occhi in tutta la sua imponenza quando ancora Tess era intenta a sbirciare nell’oscurità. Le feritoie erano illuminate come tanti puntini dorati ed il perimetro era rischiarato a giorno dalle torce, al punto che guardando il cielo Daia non sarebbe riuscita a scorgere nemmeno una stella brillare sopra la sua testa.
«Voglio tornare a casa…» sussurrò, senza farsi sentire da nessuno, presa da una fitta di nostalgia per tutti quegli ambienti che non le appartenevano nemmeno un po’ e fu felice, per la prima volta da quella mattina, di aver lasciato Altea ad Ennon.
I musici avevano iniziato a suonare con più intensità e, ora che li potevano vedere, notarono che non c’erano solo i suonatori di liuti, ma anche i flautisti e gli amanti delle piccole arpe del sud. Li seguirono all’interno del torrione, fino al pinnacolo, su per le ripide scale di pietra a ridosso del muro, prive di corrimano, con nulla ad impedire la caduta se non la fiducia nel proprio equilibrio. Daia procedette molto lentamente, appoggiando la mano sinistra alla parete ruvida, mentre Tess, davanti a lei, diceva: «Non guardare giù, guarda me. Siamo quasi arrivate, quasi arrivate».
In cima, il piano era stato allestito con tutti gli sfarzi: lunghe tavolate di legno chiaro e scranni con cuscini di velluto ad ogni posto, disposti a semicerchio, in maniera tale che nessuno potesse dare le spalle a nessuno; tovaglie bianche portate da Tanaro, bicchieri in vetro soffiato offerti da Kalendor e servizi modellati con la chiara ceramica di Morèa; oltre il parapetto di merli si sentiva tirare un vento freddo che faceva muovere al suo tempo gli stendardi delle contrade. Ad una tavolata, posta su un piano leggermente rialzato, si sarebbero seduti i Ministri, circondati da mille onori. I giullari intrattenevano con le loro contorsioni gli ospiti, mentre la musica si perdeva in mezzo alle chiacchiere degli invitati.
Zane non aveva abbandonato un secondo il fianco di Howel ed Isolde si era subito messa a parlare con le sue vecchie compagne di Morèa, salutandole e abbracciandole come se fossero sorelle. Tess e Daia si limitarono a guardarsi in giro: conoscevano tutti di vista, ma nessuno di parole. Qualcuno aveva iniziato a ballare intorno alle braci, altri avevano già preso posto a tavola, altri ancora scommettevano su quali sarebbero state le coppie a sfidarsi l’indomani.
Quando Tess vide l’anziana Ophelia aggirarsi col suo passo lento fra i presenti, disse ironicamente a Daia: «Presta attenzione, arriva l’anima della festa!».
L’altra le pizzicò una spalla, ma non potè fare a meno di sorridere e la rossa sorrise con lei.
Ophelia si avvicinò quando incrociò i loro sguardi, il suo immancabile cimelio stretto fra le mani. La superfice era scura, nebulosa e rigata. La accompagnava un uomo alto e magro, con il viso asciutto e il naso aquilino. Portava nel taschino interno della giacca dei guanti inamidati, perché aveva l’abitudine di cambiarli ogni qualvolta toccasse un piano non perfettamente pulito. Le ragazze pensarono che fossero buffi da vedere insieme.
La vecchia si sollevò in punta di piedi per posare la mano tremante sulla spalla di Daia.
«Mia cara» la salutò con la sua voce inconfondibile e lei ricambiò chinandosi per portarsi alla sua altezza e non farla sforzare.
«Il buio si avvicina?» chiese, lo stesso quesito che aveva posto a tutti i presenti e lo stesso che riproponeva ad ogni incontro.
«No, Ministro» rispose paziente Daia, pur sapendo che entro la fine del banchetto l’avrebbe ripetuto altre volte.
Ophelia sembrò essere soddisfatta e si rivolse a Tess. «Il buio si avvicina?» ripetè.
La rossa si portò le mani sui fianchi «Fuori non vi sembra sufficientemente buio?» scherzò.
Ophelia sollevò lo sguardo e spalancò gli occhi, ma non sembrò essere stupita «Vi è più oscurità nella mente delle persone che in una notte senza luna» sentenziò.
Tess fece schioccare la lingua sul palato con fare irreverente «Quanta profondità in un unico pensiero…» bisbigliò, poi fece rivolta a Daia: «Oserei dire quanto il pozzo di casa nostra».
«Theresa!» la riprese l’altra, pronunciando il suo nome a denti stretti, ma la vecchia agitò la mano invitandola a non prendersela.
«Anche le fiamme del fuoco guizzano come la sua lingua, eppure a nessuno verrebbe mai in mente di spegnerle. Coraggio, bambina» sporse lo specchio avvicinandolo al suo viso «Guarda. Raccontami quello che i tuoi desideri vogliono mostrarti».
Tess si chinò quel tanto che bastava per poter vedere materializzarsi i propri sogni; con il naso ad un palmo di distanza dalla superficie polverosa, la ragazza osservò la nebbia al di là dello specchio prendere una forma. Strizzò gli occhi e attese. Percepì un movimento, come le nuvole plumbee che si spostano tirate dal vento, ma non emerse nessuna figura.
Arricciò le labbra «Bhe, Ministro» iniziò trattenendo un riso «Credo abbiate trovato una delle poche persone, qui dentro, che possiede già tutto quello che desidera».
Daia scosse la testa titubante «E’ impossibile. Tutti vogliono qualcosa».
Ophelia sollevò il viso per poter guardare meglio la ragazza di fronte a lei. La scrutò con quei suoi occhi chiari e vitrei. Tess tenne lo sguardo con un certo imbarazzo, fino a quando l’anziana donna non fece un gesto all’uomo dietro di lei. «Andiamo, Levi».
«Certo, padrona» rispose lui, portandosi la mano destra sopra il petto con fare riverente.
Quando la sorpassò, la vecchia bisbigliò alla rossa: «Guardati dai ricordi, forestiera. Non si muore per una lama affilata, ma per quello che si sceglie di lasciarsi alle spalle. L’oscurità possiede molteplici forme...non cercarla nel dolore, poiché è nella felicità che si nasconde».
Tess aggrottò la fronte e incrociò lo sguardo perplesso di Daia. «Vi direi, Ministro, di aver compreso, se non si trattasse di una menzogna. Le frasi sibilline si allontano dal mio concetto di chiarezza».
Ophelia sorrise e Levi intuì che non potesse trattarsi d’altro che di un sorriso malinconico. «Capirai quando giungerà il momento. Ma non servirà comprendere se sarà già troppo tardi per agire».
Tess trasse un profondo sospiro. Si scostò la treccia rossa da una spalla e guardò il Ministro allontanarsi, seguita dal suo totem. «E’ matta come un cavallo» sentenziò quando Daia le si fece più vicina «Vomita parole senza senso».
«Forse il senso lei lo conosce. Non te ne preoccupare ora. Siamo ad una festa».
«Una festa di vivi circondati da morti» rispose lei più bruscamente di quanto non intendesse e infatti aggiunse sommessamente «Questo posto è lugubre e non basterà qualche bel drappo a trasformare un cimitero in un banchetto». Scosse la testa, passandosi una mano sulla fronte.
Daia incrociò le braccia al petto «Saranno tutti morti tentando di scendere le scale» provò a scherzare.
«Tu e la tua vertigine, eh?».
 
♦♦♦
 
«E’ dunque questa la tua decisione?» gli domandò lui, il viso contratto nell’espressione di chi ha appena ricevuto una cattiva notizia.
Howel scosse la mano in un gesto noncurante. Era un uomo gracile, con le sopracciglia folte e anche da giovane non doveva essere stato un maestro nei combattimenti, ma aveva il viso dolce e il tono pacato tipico di coloro che hanno appreso che la violenza e il rancore possono avere un inizio ma non una fine. Portava i suoi ottant’anni con orgoglio, insieme alle sue esperienze e ai consigli che ne aveva tratto ed era l’unico in grado di porre termine ad una disputa senza scontentare nessuna delle parti.
«Oh, ragazzo mio» rispose «Ti ho cresciuto come un figlio. Nessuno meglio di te può capire le motivazioni che sottostanno alla mia decisione. Decisione sofferta ma irrevocabile».
Zane annuì mesto. Seduto alla tavola dei Ministri, i festeggiamenti, le risate e i balli gli sembravano cose lontanissime. «Certamente capisco. Ho sempre conosciuto le tue posizioni e le hai sempre difese strenuamente, perciò quel che tu mi stai dicendo non mi coglie impreparato né sorpreso. Solo, egoisticamente, speravo che il momento giungesse il più tardi possibile. Per tutti noi».
Howel gli picchiettò una mano con la propria, piccola e piena di macchie «Botte di ferro, non ti hanno dato questo soprannome solo per la tua stazza. In tutte queste lune vi ho impartito gli insegnamenti che è bene che i giovani come voi ricevano dai vecchi come me, ma non ho mai disperato della vostra sensatezza e del vostro onore e del vostro impegno. Dimostrate ciò che è giusto venga dimostrato, nei limiti delle vostre capacità: non è buono chi dà tanto, ma chi dà quello che può» bevve un sorso di vino e riprese fiato, perché anche parlare gli costava fatica. «Non è giunto il mio tempo come uomo, ma per la carica che ricopro sì. Soprattutto, è arrivato il momento di dimettermi per le cose che so e che non posso dire e per ciò che conosco e non posso accettare. Zane» abbassò la voce «Non mi è più concesso impegnarmi per qualcosa in cui non credo. So che Hansel e Kasimir non potranno mai condividere il mio pensiero: benchè si sforzino di accettarlo, non lo possono comprendere e non sono da biasimare per questo. Amore porta amore, ma a volte l’amore porta cecità e la cecità offusca l’intelletto. Forse, però, anche tu sei dello stesso parere dei tuoi compagni».
Zane si lisciò la folta barba «Fatico a distinguere persino la mia opinione da quella degli altri, ultimamente».
«Non si conosce il proprio volere fino a quando si esprime bisbigliando. E’ giusto che tu metta in dubbio quello che ti circonda, perché solo uno sciocco non lo farebbe» sospirò «E non farti nemmeno condizionare dagli sproloqui di un vecchio. Che ognuno badi alla propria coscienza, perché è quello il prezzo che verrà chiesto di pagare. Per troppo tempo ho tolto alle persone la libertà di scelta, ponendola nelle mani di chi poteva averne cura o abusarne…non posso prendermi il fardello di decidere anche della loro morte» poi, come se si fosse improvvisamente ricordato di qualcosa, strinse più forte la mano del suo figlioccio e disse «Ed Isolde? Mia nipote…una creatura di Morèa, come me…che ha sofferto tanto la sua perdita».
«Ne soffre ancora» bisbigliò sconfortato Zane e allungò un braccio per cingere le spalle del mentore.
«E’ stata una tragedia».
«Lo so. Roan non avrebbe mai dovuto saperlo. Non è stata la verità a portarlo al suicidio, ma la bugia celata troppo a lungo. Ricorda Zane: una menzogna non diventa verità solo perché la si nasconde sotto la cenere».
«Isolde vorrebbe che Ennon seguisse le orme di Morèa» spiegò.
«Morèa seguirà la propria strada, indipendentemente dalle mie decisioni e da quelle di mio figlio, e non trascinerà nessuno con sé. Non desideriamo divenire la nuova Kalendor, Ophelia lo sa bene, ma difenderemo i nostri diritti» fece correre lo sguardo per la sala «E i loro. Non possono difendersi, se nessuno li difende. E non riesco a trovare giustizia alcuna in questo. Nessun cittadino di Morèa parteciperà al Torneo, né a questo, né ai prossimi, non per un mio ordine, ma per l’ordine che arriva dalla loro morale. Siamo artigiani, ragazzo mio, artigiani e guaritori…non possiamo curare con una mano e togliere la vita con l’altra. Se qualcuno vorrà seguire il nostro esempio sarà il benvenuto, ma non è nostra intenzione imporci su nessuno. E ora, botte di ferro, credo sia giunto il momento di fare il mio annuncio. E’ giusto che sia mio figlio a cenare a questa tavola stasera, in quanto nuovo Ministro di Morèa. Lascia che mi diverta alla mia ultima festa» gli battè una mano sulle spalle possenti e rise. Anche Zane si alzò, per richiamare l’attenzione dei presenti. Avrebbe lasciato parlare Howel, perché non era sicuro che la sua voce, nel dirgli addio come compagno e maestro, non sarebbe venuta meno. Prima di preparare il brindisi vide con la coda dell’occhio Tess e Daia sgattaiolare giù per le scale come due fuggiasche.

 

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Capitolo 6
*** I ricordi delle fate ***


Capitolo 4
 
♦ I ricordi delle fate ♦
 
“Inseguendo i sogni non si trovano risposte,
ma solo indicazioni per le domande poste.
Si tratta di segnali delle voglie più nascoste,
delle onde che impetuose sfrangiano le coste”
 

 
Tess prese per mano Daia e si catapultò giù dai gradini della Torre del Crocevia. Dietro di loro la musica, i canti, i balli continuavano allegri e nessuno sembrò accorgersi della loro assenza. A ridosso del muro, le due ragazze procedevano spedite, la rossa in testa e Daia dietro di lei che si sforzava di tenere gli occhi puntati sulla schiena dell’amica per impedirsi di guardare di sotto le tre rampe di scale che la separavano dall’impatto col pavimento.
«Ci spaccheremo l’osso del collo, lo so!» disse quando vide Tess inciampare e appoggiarsi alla parete per non perdere del tutto l’equilibrio. Un sassolino rotolò oltre le scale e loro lo seguirono con gli occhi fino a quando non lo persero di vista. Le torce appese riflettevano le loro ombre gigantesche e deformate sulla parete e, guardando attraverso una delle tante feritoie, Tess notò il cielo senza luna né stelle, se possibile ancora più cupo di quando erano entrate. Continuarono a scendere i gradini, ma questa volta Daia fece resistenza e la rossa fu costretta a rallentare la corsa.
Fuori due guardie sorvegliavano l’entrata, ma non si preoccuparono delle due ragazze perché erano abituati agli invitati che abbandonavano la festa, prima che gli stendardi venissero incendiati, solo per rifugiarsi insieme negli anfratti più bui e lontani del giardino di Palazzo.
Daia sentì l’aria fredda pungerle il viso e il collo e nell’odore del vento sentì l’arrivo della pioggia; Tess, invece, dovette aspettare che le gocce le bagnassero i capelli per accorgersene.
«E adesso dove andiamo?» le chiese la mora, stringendosi nel mantello per ripararsi dal freddo.
Tess si guardò intorno «Ovunque è meglio di qui».
Quando un corvo gracchiò sopra di loro, subito imitato dai suoi simili, Daia trasalì. «Dobbiamo attraversare il cimitero?» domandò dubbiosa e vide che anche la compagna storceva il naso.
«Sì» disse «Ma non a piedi. Prenderemo Argo e ci lasceremo queste lapidi alle spalle il più in fretta possibile». Le fece un cenno rapido con la testa per invitarla a seguirla dietro il torrione, dove nessuno le avrebbe viste, e Daia ubbidì. Vide Tess gettare l’ennesima occhiata circospetta intorno a loro e capì che quel luogo la metteva a disagio più di quanto non facesse con lei. Armeggiò con la cintura del dell’ampia gonna e la lasciò cadere sul terreno umido, noncurante del fatto che potesse sporcarsi di fango. Lo raccolse e se la smise sgraziatamente in spalla, come una vecchia pezza, e si pulì le mani bagnate sui pantaloni che aveva indossato. Daia notò che alla cintura portava la sua immancabile statuetta di legno di cedro, accuratamente legata per non rischiare di perderla. Tess la prese tra le mani e la posò a terra di fronte a sé, indietreggiando di qualche passo. Lentamente le venature del legno si fecero scure e sembrò che la piccola scultura volesse esplodere come il fuoco quando viene attizzato e a scatti parve muoversi mentre le sue dimensioni si facevano più grandi; l’animale si agitava, imprigionato in quella forma immobile, e con impazienza riprese il proprio aspetto, squarciando il suo involucro, che sparì, lasciando posto ad uno stellone morello dagli occhi scuri. Argo, nitrì e battè con lo zoccolo il suolo e il rumore che fece si perse tra i suoni che provenivano dalla festa.
Daia si avvicinò al cavallo e allungò le dita per accarezzargli il muso. «Mi manca Altea» bisbigliò contrita.
Tess le sorrise. «Lo so. Avremmo potuto cavalcare insieme sotto la pioggia. Ma Argo ci terrà entrambe» sbirciò dietro di sé la bassa recinzione di legno che circondava il perimetro della torre, di legno ormai marcio e scheggiato, ma pensò potesse andare bene. Mosse qualche passo in quella direzione e Argo e Daianara la seguirono. Appoggiò il piede ad un asse e, vedendo che la reggeva, pose il piede anche sull’altro e sollevò la gamba, appoggiando le mani sul dorso dell’animale, dandosi la spinta per salirgli in groppa. Si assestò meglio e disse compiaciuta «Vedi? Al diavolo le gonne. Coraggio, vieni» tese un braccio verso la ragazza «Sempre che tu ci riesca» la provocò.
La mora piegò la bocca in un sorriso malizioso «Io riesco in tutto quello che faccio». Anche lei mise un piede sulla staccionata e, aggrappandosi alla rossa, salì sulla cavalcatura.
«Tieniti» la avvertì Tess, prendendole le mani e stringendosele intorno alla vita. Daia strinse le cosce intorno ai suoi fianchi e poggiò la fronte alla sua schiena. «Andiamo a trovare le fate» sorrise complice, sapendo che solo lei avrebbe capito il senso di quella proposta. Quando Argo partì al galoppo, spronato dalla sua padrona, Daia premette il corpo contro il suo, tenendosi ancora più saldamente alla sua vita, ma non per paura di cadere.
Intorno a loro le lapidi si confondevano e la pioggia aveva iniziato a scendere prepotente sulla Cittadella, spegnendo qualche fiamma e nascondendo i sentieri. I rumori della notte si facevano inquietanti in quella piccola città dei morti e i cadaveri risorgevano, ma non nelle loro tombe, bensì nei pensieri e nelle paure dei vivi, che sembravano temere gli scheletri più dei pugnali dei propri vicini. Daia tenne ostinatamente gli occhi chiusi, perché tutte quelle ombre non le sembravano solo frutto della sua immaginazione. Tess, d’altro canto, non avrebbe potuto fare lo stesso o se anche avesse potuto non l’avrebbe fatto, perché Dominic le aveva insegnato ad essere sempre vigile e attenta.
Quando Argo si impennò spaventato di fronte al nulla, muovendosi per tornare indietro, Tess riuscì a stento a controllarlo. Tirò le redini, ma tutte le parole che gli sussurrò all’orecchio non servirono a tranquillizzarlo. «Ssh…va tutto bene, tutto bene» ripeteva con voce sicura, ma Daia intuiva che non era affatto tranquilla. La rossa tenne fisso lo sguardo davanti a sé ma, anche aguzzando la vista, quello che riuscì a vedere fu solo la strada ancora da percorrere.
«Non c’è nulla» disse Daia, accarezzando il fianco del cavallo.
Tess rispose dopo un lungo silenzio «Aspettami qui».
L’altra spalancò gli occhi. «Scusami? Ti sei forse ammattita?» chiese con voce stridula.
«Non ancora. Voglio solo controllare una cosa».
«Non ti puoi allontanare!».
Tess si voltò per lanciarle un’occhiataccia «Non voglio allontanarmi. Non ti lascerei mai qui da sola».
«Non è per quello!».
«Rimango sul sentiero. Non sono così sciocca, la temerarietà è solo un modo più carino per definire la stupidità» fece per scendere, ma Daia la trattenne.
«Theresa no!».
«Non mi chiamare in quel modo, Daianara» sbottò la rossa.
«Non usare quel tono con me, sai!» rispose risentita, irrigidendo le spalle.
«Altrimenti cosa fai? Sbatti le ciglia e sfoggi il tuo sguardo da cerbiatta?».
«Se serve».
«Non ha mai funzionato con me» disse stizzita.
Daia si sollevò il vestito e un po’ goffamente, perché non era abituata a cavalcare un animale di quella stazza, si lasciò scivolare a terra. «Funziona solo con te» precisò.
«Dove pensi di andare?» fece con voce grossa.
«Oh, tranquilla. “Rimango sul sentiero. Non sono così sciocca, la temerarietà è…” e tutto quello che hai detto dopo e che io non ho ascoltato».
Tess scosse la testa spazientita e si affrettò a scendere dallo stallone «Molto maturo da parte tua, dico sul serio».  
La ragazza sorrise «Entusiasta di vedere che siamo d’accordo su qualcosa».
«Almeno stammi dietro. Sempre che le tue scarpette non si incastrino in qualche buca, principessina».
«Non te l’hanno mai detto che alle principesse si porta rispetto?».
«Evidentemente no, ma sono sicura che mi aiuterai a rimediare a questa ingiustificata mancanza».
Daia aprì la bocca per dire qualcosa, poi la richiuse e infine disse «Certo che sei davvero una delle peggiori…».
Tess la interruppe «Aspetta Daia, stai zitta».
La ragazza si portò le mani sui fianchi «Come, di grazia? Pensi anche di potermi togliere il diritto di…».
«Sul serio Daia, taci!» le tappò la bocca con la mano e rimase in attesa ad ascoltare «Non siamo sole» disse, guardandosi intorno. Anche Daia fece scorrere lo sguardo a destra e a sinistra, spaventata. Argo dietro di loro scalpitò impaziente.
Tess si scostò da lei e si incamminò per il sentiero dal quale erano giunte.
«Io non vedo nulla» sussurrò la mora, portandosi le mani al petto.
«Aspetta». Era stato solo per un attimo, un’ombra fra le ombre, ma era sicura di averlo scorto fra le tombe, le fiamme che gli illuminavano il volto sfigurato da un fuoco di troppo tempo fa, che gli piegava la bocca in un sorriso perenne. L’aveva già incontrato. Si massaggiò le tempie cercando di ricordare, perché un viso così non lo si può dimenticare tanto facilmente. Ma nessuna storia gli venne in mente, nessun uomo, nessun nome, nessun ricordo. Solo una consapevolezza che la scosse, lasciandola confusa: «Non dovresti essere qui, questo posto non è per te…».
«Che cosa hai detto Tess?» chiese Daia.
La ragazza si riscosse «No, nulla». Si guardò un’ultima volta alle spalle. «Devo essermelo immaginato. Andiamocene, sento che mi sta per venire una forte emicrania. Aspetta, ti aiuto a rimontare».
 
♦♦♦
 
Nei dieci anni in cui Zane e la sua famiglia erano rimasti nella Cittadella, Daia e Tess avevano avuto modo di intrufolarsi in ogni pertugio, di scoprire ogni anfratto, di seguire ogni scorciatoia in un dedalo di corridoi che collegavano una stanza all’altra e un’ala del castello a quella opposta. Una di queste innumerevoli esplorazioni le aveva condotte in una parte dei giardini altrimenti inaccessibile, chiusa da imponenti barricate, forse in attesa di essere rimessa a nuovo. Quando erano più piccole, quel luogo era entrato nei loro incubi per via del suo stato dimesso, abbandonato, con le statue rotte, l’acqua stagnante nelle fontane di marmo, gli arbusti incolti, l’edera che si arrampicava minacciosa sulle pareti catturando qualsiasi luce e la totale mancanza di lampioni o torce o candele che potessero mostrare cosa quel luogo nascondesse. Eppure, dopo aver scoperto quell’angolo segreto ma fosco, avevano deciso di ritornarvi ancora e ancora e ancora, fino a quando ogni metro non era diventato per loro familiare e, se qualcosa diventa familiare, non può fare più così paura. Le statue raccapriccianti, scheggiate, annerite, rotte, viste da vicino diventavano bellissime: un cerchio di driadi catturate ognuna in un movimento differente della stessa danza, chi con gli occhi chiusi, chi con le braccia aperte, chi con i capelli sciolti. In mezzo alla fontana, da cui non sgorgava più l’acqua, il busto di un fauno, che aveva terrorizzato Daia con il suo viso incavato, quasi scheletrico, e le grandi corna di caprone, ma che ora sembrava le salutasse con lo sguardo. Era stata Tess a ricordarsi di quella leggenda, del fauno tratto in inganno dalla ninfa che aveva promesso di custodire, per impedirle di abbandonare il suo mondo e raggiungere le terre emerse. Nessuno avrebbe saputo dire come si era conclusa quella storia, perché ogni borgata la raccontava a modo suo, come tutte le fiabe. A Morèa, ad esempio, si diceva che il fauno avesse amato così tanto la fata da decidere di spendere il resto della sua vita a cercarla, pur senza trovarla, e che quando i campi non davano i loro frutti era perché la terra soffriva con lui della sua perdita; gli uomini di Tanaro, molto più pragmatici, credevano che i raggi del sole avessero colpito la ragazza fino ad accecarla e che ella avesse perso la memoria; per Kalendor, invece, il fauno avrebbe chiuso il passaggio fra i due mondi, rimanendo impassibile di fronte alle richieste di perdono della fuggitiva. Ad Ennon e Nika i poeti raccontavano che la ninfa fosse giunta nelle loro terre, insegnando ai loro antenati a modellare il ferro per l’uno e a tagliare il legno per l’altra.
Tess e Daia avevano preso l’abitudine di chiamare quel luogo “La radura delle fate”, perché a sera inoltrata le lucciole si mostravano, illuminando il giardino come tante piccole stelle. Tuttavia quella notte pioveva e nessuna lucciola sarebbe uscita allo scoperto, ma aguzzando bene la vista si potevano ugualmente scorgere dei flebili punti luce muoversi al riparo degli arbusti e dei salici. Tess scese con un balzo dal suo cavallo, attutendo la caduta piegando le ginocchia, poi si mise in punta di piedi e alzò le braccia per prendere Daia e aiutarla a smontare. Si stropicciò gli occhi perchè la pioggia cadeva su di loro a grandi goccioloni e nessuna delle due si sarebbe stupita se da un momento all’altro avesse iniziato a grandinare. Tess legò Argo al tronco del salice e lo asciugò con la gonna che si era portata dietro, mentre Daia stendeva il suo mantello a terra, in mezzo alle radici dell’albero che facevano capolino dal suolo. Si stropicciò il vestito fradicio di pioggia e i capelli e quando Tess ebbe finito con il suo stallone fece lo stesso. Si sdraiò accanto a lei con un sospiro e la mora la guardò.
«Era da un po’ di tempo che non venivamo qui» disse «Mi era mancato questo posto. Anche senza fate, rimane bellissimo».
L’altra si portò le mani dietro la testa, lo sguardo rivolto ai rami che scendevano sopra di loro. «Le vedremo» la rassicurò «Rimarremo sicuramente a Palazzo ancora qualche settimana. Dipende tutto da come andrà domani».
Daia si girò su un fianco «Ormai, più che domani, direi oggi».
«Giusto. Chi lo sa, è anche possibile che io domani non gareggi affatto. Anche se devo ammettere che mi dispiacerebbe: detesto aspettare».
«Lo so bene. Pensa se finissi contro mio padre».
Tess storse il naso divertita. «Non sarebbe male, sto ancora aspettando la mia rivincita!» si fece improvvisamente seria. «No, voglio battere Savannah e toglierle quell’espressione compiaciuta dalla faccia una volta per tutte. Ho pensato ad una strategia, con Donovan».
«Quale sarebbe?».
«Impedirle di prendere quel dannatissimo piffero! Se inizia a suonarlo è la fine, insieme a tutte le loro stupide regole dovrebbero aggiungere il divieto di fare uso di simili arnesi: siamo ai limiti del leale».
Daia si scostò dalla fronte bagnata i capelli «Neanche Ophelia potrebbe usare il suo specchio, però».
«Esattamente! Sinceramente non so bene che cosa faccia, ma non trovo corretto che siano rimasti solo quelli di Ennon a duellare insieme ai propri totem. E’ una penalità».
«Bhe, contro Savannah è un vantaggio: la sua musica non può controllare le persone».
«Lo so. Ma combattere senza Argo non è la stessa cosa, specie se me lo mette contro. Non voglio fargli male».
«Comunque anche Kasimir combatte insieme ai suoi totem» fece notare.
Tess rise. «Sì, i due mocciosi non mi spaventano troppo. Anche se non mi dispiacerebbe incrociare i ferri con il Ministro per vedere se quelli di Tanaro sono così bravi come dicono o se si vantano solo della loro incapacità».
«Di sicuro sei l’unica di Ennon che usa una spada e non una lancia. È pur sempre un asso nella manica, anche se credo che tutti ormai ti conoscano».
La rossa la guardò divertita «Lo prendo come un complimento!».
«Tess…» sussurrò poi Daia, dopo qualche secondo di silenzio «Per favore, presta attenzione».
Lei le fece l’occhiolino «Tranquilla, lo faccio sempre».
«Bhe, fallo di più».
«Ci proverò. Ehi, principessina, stai tremando?» domandò stupita «Hai davvero così tanto freddo?».
«Solo un po’. Si sta alzando il vento».
Tess scosse la testa «Forza, vieni qui. Non mi va di averti sulla coscienza come l’anno scorso».
«Era solo un po’ di febbre!» borbottò l’altra, ma si accovacciò ugualmente contro di lei, lasciando che la coprisse con il mantello.
«Evidentemente i bagni nel fiume non sono il tuo pezzo forte. Sei rimasta a letto per due settimane. Era noioso doverti venire a trovare tutti i giorni, sai? Dormivi per la maggior parte del tempo».
«Nessuno ti aveva chiesto di farlo!».
«Che ci vuoi fare, mi facevi pena» scherzò, stringendola a sé e affondando il naso nei suoi capelli, inspirando il suo profumo. Daia le cinse il fianco col braccio e appoggiò la fronte al suo petto, cercando di ascoltare il battito del suo cuore. Aveva il naso gelato, ma quando lo strofinò sul collo dell’amica, lei non trasalì e non l’allontanò.
Si era quasi addormentata quando Tess le sussurrò: «Hai un odore diverso…».
La ragazza sollevò appena gli occhi per guardarla «In quale senso?».
Si strinse nelle spalle «Di solito sai di fieno ed erba tagliata…Ora addosso hai il profumo che ha la pioggia».
«Non ti piace?».
«No, no» si affrettò a dire «Mi piace anche così. Mi piaci anche così. É solo diverso».  
Daia sorrise dolcemente e quando sentì le palpebre farsi pesanti sui suoi occhi, si lasciò andare al sonno, perché ora non aveva più freddo.
Tess si svegliò agitata dopo un sogno confuso, pieno di immagini e colori accesi, cicatrici e sangue, ali spezzate e segrete silenziose piene di morti che si domandavano perché fossero ancora vivi. E una luce in fondo al tunnel, persone che la guardavano e parlavano come se non fosse presente e una voce, che non era la sua, dentro la sua testa e anche fuori, che tuonava: «Non crederle, non crederle!». Si passò una mano sulla fronte e la sentì sudata, o forse erano le gocce che cadevano dalle foglie del salice. Di fianco a lei Daia dormiva ancora, persa in un sonno placido. Argo si era mosso verso la fontana e aveva provato a bere l’acqua dal colore torbido prima di cambiare direzione.
«Chi ti ha slegato?» domandò Tess, guardandosi intorno, ma rimanevano solo le statue immobili a farle compagnia.
Sentì un respiro affannoso dietro di lei e voltò la testa in tempo per vedere una donna sovrastarla con la sua stazza, i capelli rossi e la pelle ruvida bruciata dal sole. Sollevò l’accetta che teneva tra le mani e la calò sopra la sua schiena con una violenza sordida, spezzandole le vertebre e la spina dorsale.
«Tess! Tess!» la chiamò Daia «Tess, svegliati!».
La ragazza spalancò gli occhi e si sollevò di scatto, il respiro corto che le squassava i polmoni. Si portò istintivamente una mano dietro la schiena, toccandola convulsamente, aspettandosi di trovarla lacerata.
«Tess, cosa c’è?» chiese angosciata Daia, guardandole le spalle e seguendone i movimenti «Ti fa male? Ti fa male la cicatrice?».
La rossa inspirò profondamente prima di buttare fuori il fiato e si lasciò cadere in avanti, la fronte appoggiata alle ginocchia. «No…No, va tutto bene, tutto bene» bisbigliò concitata.
«Ne sei sicura?».
«Si. Era solo un sogno. Un sogno dentro a un sogno…» si disse e quando l’amica la guardò terrorizzata aggiunse «Non essere così superstiziosa».
«Ma Vidia dice che…».
«Lo so cosa dice Vidia, ma non ascolterò una che appena sveglia si getta addosso la cenere del camino per allontanare la sfortuna!».
Daia si morse le labbra «Ma eri così agitata, ti muovevi come in preda alle convulsioni. Mi hai spaventata» le sfiorò la guancia con le dita e Tess le tenne la mano, chiudendo gli occhi per scacciare i pensieri. Le baciò il palmo prima di alzarsi, ancora un po’ barcollante, trovando Argo legato al tronco, esattamente come l’aveva lasciato. «Scusami» sussurrò «Mi sono spaventata anche io».
«Che cosa hai sognato?».
«Non me lo ricordo» mentì. Il sole era ormai alto nel cielo e la rugiada si era già asciugata. «É tardi» tagliò corto «Sarà meglio andare. Tua madre si starà chiedendo dove siamo finite».

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Capitolo 7
*** La città delle bambole ***


Capitolo 5
 

♦ La città delle bambole ♦
 
“Padroni di una vita dominata da catene,
possono morire, se questo a voi conviene.
Non esiste uomo senza sangue nelle vene,
ma uomo lo diventa se prova a far del bene”
 

 
Il lungo corridoio di palazzo era deserto e i raggi del sole che entravano dai finestroni aperti, benchè fuori tirasse un venticello freddo, regalavano un piacevole tepore. Dal soffitto a cassettoni, decorato a foglia d’oro, scendevano dei lampadari impreziositi da piccole gemme provenienti da Kalendor. Tess e Daia, mano nella mano, entrarono trafelate in una delle numerose stanze che si aprivano sul lato sinistro del passaggio, ma dopo essersi accorte che la sala era vuota e priva di mobilia tornarono sui loro passi e corsero verso l’entrata successiva. La porta si apriva sulla sala che era stata preparata per loro e per il Ministro di Ennon, ai piani bassi del Gran Palazzo, poco distante dalla cucine. Si trattava di una stanza molto più piccola delle altre e arredata con mobili semplici, di fattura non pretenziosa, e Daia la preferì perché in qualche modo le ricordava casa. Un tavolo di legno scuro era stato preparato per la colazione e nonostante contasse a malapena sei posti, riempiva quasi per intero lo spazio a disposizione, costringendo tutti gli inservienti a camminare stretti gli uni agli altri a ridosso delle pareti. Il tavolo era carico di cibo, dalla frutta agli sformati dolci, dalle creme alle focaccine lievitate, e miele, latte, burro, infusi, erbe che lasciavano nell’ambiente un odore quasi esotico; i piatti venivano accatastati gli uni sugli altri, perché non vi sarebbe stato spazio altrimenti, eppure i servi continuavano ad andare e venire dalle cucine, attraverso un piccolo passaggio angolare, sempre con qualcosa di nuovo tra le mani. Impettiti, con la schiena retta appoggiata al muro e le braccia distese lungo i fianchi, dei paggi in livrea scura attendevano di ricevere altri ordini e in silenzio osservavano i loro ospiti.
Seduti uno vicino all’altra, Zane ed Isolde avevano quasi terminato il loro pasto, mentre le due sedie di fronte a loro erano ancora vuote. Il Ministro di Ennon alzò il viso quando vide Tess e Daia spingere la pesante porta di ottone e fare capolino nella sala. Alzò una mano per salutarle e, continuando ad addentare il suo dolce, disse: «Iniziavamo a chiederci da quale guaio avremmo dovuto tirarvi fuori, questa volta». Si pulì la barba piena di briciole mentre sua figlia si avvicinava per salutarlo.
«Buongiorno papà» Daia gli baciò la guancia e poi fece la stessa cosa con Isolde. «Buongiorno mamma».
La donna, che aveva già finito la sua colazione, si pulì le mani sul tovagliolo. «Non è buona creanza correre per i corridoi» la riprese, sentendola ansimare.
La ragazza abbassò lo sguardo imbarazzata «Me ne rendo conto» si scusò «Non volevamo farvi attendere oltre».
Isolde mosse la mano in un gesto leggero «Che il ritardo copra un breve o un lungo periodo, sempre ritardo viene chiamato».
Tess alzò gli occhi al cielo «Non eravamo in condizioni presentabili. Nemmeno questo è buona creanza, ma in mezzo ad una lunga lista, veramente lunga lista, di cose che consideri di cattivo gusto, abbiamo pensato di scegliere quella meno riprovevole. Dunque, Isolde, consideri più disdicevole un ritardo o due ospiti che odorano come contadini dopo una giornata passata a radunare capre?».
L’austera donna sollevò appena il viso per guardare Tess e l’occhiata che le rivolse fu sufficiente per metterla a tacere.
Daia prese posto accanto all’amica e aprì il suo tovagliolo, posandoselo sulle ginocchia. Non le occorse molto tempo per capire che l’atmosfera, in quella stanza, non era delle migliori e che la tensione nell’aria era palpabile. Suo padre, solitamente allegro e loquace, era ora mesto e silenzioso; guardava il suo piatto, alzando poche volte lo sguardo e, quando lo faceva, Daianara poteva leggere un velo di malinconia e di preoccupazione nei suoi occhi. Sua madre, invece, appariva irritata e sedeva sul suo scranno con la schiena tesa come la corda di un liuto e guardava ostinatamente fuori dalla finestra, come se ci fosse qualcosa di interessante da vedere oltre all’andirivieni della gente che aspettava l’inizio del torneo. Sebbene solitamente Isolde cercasse il contatto con il marito – un bacio leggero sulla guancia, uno scambio di sorrisi, una carezza sulla spalla –, ora i due sembravano essere più distanti che mai; evitando accuratamente ogni forma di dialogo, rimanevano chiusi ognuno nel proprio silenzio.
Daia posò gli occhi su Tess. Anche lei era strana, quel giorno. Era rimasta distratta da quando si era svegliata così bruscamente dal suo incubo e, anche se non aveva voluto parlarne con lei, Daia capiva che doveva averla scossa in qualche maniera: la sua voce era più dura, i modi più burberi; osservava tutti con circospezione, come una volpe sotto il tiro di un cacciatore, che avverte il pericolo pur non conoscendolo. Quando pensava di non essere guardata, si toccava la schiena, più e più volte, con espressione preoccupata, quasi si aspettasse di percepire sotto il gilet qualcosa di diverso dal solito. Poi riabbassava la mano con frustrazione e tornava ad osservare la sua colazione, senza nessuna intenzione di toccarla.
Dopo minuti di pesante silenzio, Zane si schiarì la voce. «Ieri vi siete allontanate presto dal banchetto».
Theresa alzò le spalle. «Non avevamo fame. Quante danze ci siamo perse?».
«Per vostra fortuna, a sufficienza».
«Mai una novità, vero? Pensavo che almeno la capitale fosse meno monotona».
«In verità una novità c’è stata» puntualizzò Isolde.
La rossa arricciò il naso «Le nascite e i necrologi non rientrano esattamente nel mio concetto di novità, specie perchè tutti nascono e tutti muoiono».
Botte di ferro scosse la testa. «Non si tratta di un necrologio, anche se a suo modo può essere considerato un addio» il tono si fece dimesso «Il Ministro di Morèa ha rinunciato alla sua carica. Ha annunciato la notizia poco prima che gli arazzi venissero incendiati».
Daia spalancò gli occhi, lasciando cadere nel piatto il tozzo di pane che aveva appena iniziato a sbocconcellare. «Howel?» domandò dispiaciuta «Ma…».
«Il Merlino di Morèa?» lo apostrofò Tess «Non credevo che i saggi potessero dimettersi. I sapienti possono diventare abbastanza vecchi da smettere di essere sapienti o diventano solo più saggi?»
Zane tirò un lungo sospiro, non badando troppo a quello che era stato detto. «Era molto vecchio, impossibile negarlo. La sua mancanza si farà sentire, ma se è certo che suo figlio sarà in grado di adempiere alla carica che si è scelto, allora lo sono anche io, come dovremmo esserlo tutti. Il suo giudizio si è sempre rilevato impeccabile e sono sicuro che questa volta non sarà da meno» concluse, anche se Daia notò qualche cenno di esitazione.
«Aron è un uomo di sani principi» continuò Isolde e dallo sguardo che rivolse al marito in molti capirono che quelle parole, così allusive, erano rivolte a lui solo «Ha ricevuto i migliori insegnamenti che Morèa poteva offrirgli. Farà quel che crederà giusto, seguendo la propria coscienza e non quella di una tradizione inventata e ormai troppo datata. E nessuno potrà chiedergli più di questo».
«Gli verrà chiesto più di questo, se le sue decisioni condurranno Morèa allo scontro» ribattè il Ministro di Ennon.
«Credevo vivessimo in un paese in cui almeno la libertà di scegliere a quale morale sottostare potesse essere rispettata, visto che la libertà di decidere della propria vita è evidentemente venuta meno».
«Non serve la libertà quando ti trovi faccia a faccia con la morte».
Isolde fremette «Così come non servono le catene. Se mi venisse negato il diritto di scegliere della mia vita, vorrei quantomeno avere diritto di scelta sulla mia morte».
«Non è così semplice» tagliò corto Zane «E non lo diventerà solo perché il Ministro di Morèa agisce come se lo fosse. Rispetto, come ho sempre rispettato, la volontà di Howel e rispetterò quella di suo figlio. Ma non rispetterò chi porterà nuovamente la guerra civile nel mio paese, specie quando vivono ancora persone che ricordano la tragedia di Kalendor, persone a cui devo la pace e a cui l’ho promessa! E ora basta così. Devo avere a che fare con la politica tutto il giorno e vorrei evitare che diventasse una mia ospite anche a colazione».
Tess aspettò che la tensione si attenuasse, poi ruppe il silenzio che era tornato ad aleggiare tra i commensali e alzò le braccia sopra la testa, stiracchiandosi. «L’unica volta in cui succede qualcosa di eccitante io me la perdo. Se avessi deciso di farlo di proposito non avrei avuto un tempismo migliore».
«Ti rifarai» borbottò Daia, poi rivolgendosi ai genitori chiese: «E i fuochi? Non siamo riuscite a vederli da dove eravamo».
Botte di ferro incrociò le braccia sull’ampio petto. «Purtroppo c’era veramente poco da vedere. Con tutta la pioggia che è caduta, nemmeno le fiamme delle forge di Ennon sarebbero riuscite a non spegnersi. Quelli di Nika non l’hanno affatto considerato di buon auspicio. Non mi stupirei se molti, quest’oggi, si rifiutassero di partecipare al Torneo, nonostante tutta la strada percorsa».
Come se si fosse ricordata qualcosa di importante, Tess battè le mani sul tavolo piuttosto energicamente, facendo sobbalzare Isolde, e per un attimo parve dimenticarsi delle sue preoccupazioni. «Sono già stati estratti gli sfidanti?» chiese eccitata, lo sguardo deciso e gli occhi accesi.
Zane la osservò per un secondo, poi aprì la bocca e rise, ma a quella risata mancavano tutta la forza e la vibrazione che aveva di solito. «Sei proprio un leone di montagna, sempre pronta all’azione. Ma temo dovrai pazientare un altro po’, anche se la pazienza non è mai stata una tua dote. Sarebbero già arrivati gli araldi a cercarti, se fossi stata convocata. Non fare quella faccia, Theresa: dopo l’iniziazione vuoi davvero batterti con persone ancora annebbiate dal vino, stanche e indolenzite?».
«Certo che no» bofonchiò lei risentita, anche se sentiva la necessità di muoversi il più possibile per dimenticare i suoi pensieri e si sarebbe anche abbassata a sfidare un ubriacone dall’equilibrio compromesso pur di tenersi impegnata.
«Lo sospettavo. Non sei mai stata una ragazza incline a divertirsi con le vittorie scontate. Sei una donna di Ennon. Aspetta e usa la giornata per prepararti» le consigliò e attese che le due ragazze finissero il loro pasto, ma non si accorse che nessuna di loro sembrava avere appetito. Prima di alzarsi e congedarsi, il Ministro di Ennon battè le mani rumorosamente, chiamando un nome, «Raven». Uno dei domestici si staccò dalla fila dei paggi per raggiungerlo. Era un uomo di mezza età, privo di barba, dalla carnagione scura e dagli occhi neri, leggermente a mandorla. Non aveva un aspetto appariscente e, a parte un leggero zoppichìo, se qualcuno avesse voluto – o dovuto – descriverlo, si sarebbe presto accorto di non avere parole adeguate per farlo. Eppure, ora che si stava avvicinando, Daia notava una profondità nello sguardo niente affatto scontata e un’espressione furba e beffarda, un sorriso che era quasi un ghigno di stizza. E addosso la fredda sensazione di essere allo scoperto, come se lo sguardo di quell’uomo potesse carpire qualsiasi segreto.
Daianara sentì Tess irrigidirsi accanto a lei ma, quando parlò, nulla nella sua voce tradì agitazione. «Un curioso» disse con una punta di fastidio, abbassando gli occhi per non dover incrociare i suoi. Daia, dal canto suo, iniziò a picchiettare nervosamente le dita sui braccioli, mentre Isolde tornò a chiudersi nel suo silenzio.
La fama delle spie di Palazzo era tristemente nota anche nella più dissestata ed isolata taverna di Ennon. Nessuno sarebbe stato in grado di dire quali delle tante voci che giravano sul loro conto fossero vere ma, nel dubbio, le davano tutte per certe. Si diceva che questi uomini fossero maestri nella manipolazione delle menti, signori nel dissimulare le proprie intenzioni, provetti nel cambio di identità. Un viaggiatore proveniente dai territori al di là del golfo aveva scritto, nelle sue memorie, di essere entrato in contatto con uno di loro: “Non saprei dire se fosse stato un incontro casuale oppure no, giacchè con uomini di simile tempra è difficile che qualcosa avvenga senza il loro volere, ma ciò devo pensare, dato che non possiedo segreti di importanza tale da dover essere scoperti. So che raramente i curiosi si allontanano dalla cittadella fortificata, soggetta alla loro sorveglianza e che, quando questo accade, è per motivi di ingente portata. Ho parlato con quell’uomo, non dissimile dalle centinaia di altri uomini con cui ho parlato, a Tanaro e qualche tempo dopo la ribellione di Kalendor ha infuriato su tutto il paese e non mi stupisco di pensare che forse quella spia già sapeva ciò che sarebbe avvenuto. Ma non credo si tratti, come molti mi hanno suggerito, della capacità di prevedere il futuro. Sono piuttosto dell’idea che una mente sopraffina, bene allenata, capace di cogliere le sottigliezze che ad altri poveri stolti come me sfuggono, sia in grado di prevedere le conseguenze di talune azioni e comportarsi conseguentemente. Ma una cosa ancora la ricordo con una certa soggezione ed è la mia incapacità di fornire una descrizione dell’uomo di cui vi sto parlando. Posso scrivere, ora come allora, che si trattava di un uomo di età media, altezza media, corporatura media, ma nulla di più. La mia non è demenza senile, né sbadataggine, ma la consapevolezza che, fin da subito, nella mia mente, è svanito il ricordo dettagliato di quella figura con cui ho interloquito per ore. Non una particolarità, non un segno mi è rimasto, come a volermi impedire di rintracciarlo, qualora avessi voluto farlo, o di smascherarlo. Suppongo sia questa la più pericolosa e meravigliosa capacità dei curiosi, un’arte di natura, che non può essere appresa e che è solo per pochi eletti. Mi scuserò con il mio lettore, se mai ve ne sarà uno, di queste poche righe piene di dubbi, ma è questo che fanno loro: conservano la verità e regalano incertezza”.
«Una spia?» domandò Daia.
Raven accennò un inchino. «Forse» rispose con voce gracchiante e rivolgendosi a Tess continuò «Potete essere sicura, fino in fondo, del vostro sospetto?».
La rossa corrugò la fronte ma rimase in silenzio.
Lui sorrise. «Come immaginavo. Ma una, fra le tante cose che ho la fortuna, o la sfortuna, di conoscere, mi è più lampante delle altre: siete una ragazza perspicace. Ma la sagacia da sola, credete a me, non vi sarà mai sufficiente».
Daia si passò nervosamente la mano sul collo, come sempre quando si sentiva a disagio. «Mi aspettavo che voi curiosi foste…» cercò la parola.
«Diversi?» concluse per lei Raven, notando che gli occhi della ragazza vagavano sui suoi dimessi vestiti da inserviente «Magari più riconoscibili?» la derise «A volte quello che deve rimanere celato è bene mostrarlo a tutti. È l’evidenza la migliore alleata del segreto».
Tess storse il naso. «Mi chiedo se siate stato istruito da Ophelia e da quelle sue mezze verità, perché le stesse frasi criptiche le ritrovo ora sulla vostra bocca».
Le labbra dell’uomo si piegarono in un sorriso sinistro «No. Ma credo che anche il Ministro di Kalendor sia giunta alla mia stessa conclusione, anche se per vie diverse: non esistono rivelazioni ambigue tranne per chi non è disposto a chiarirle. Ma ascoltatemi quando vi dico che alcune cose è meglio non scoprirle, benchè sia necessario conoscerle» si rivolse a Zane «Dovete chiedere, Ministro, per avere delle risposte».
Botte di ferro guardò le tre donne sedute al tavolo «Ho chiesto a Raven di offrirci i suoi servigi per il periodo in qui rimarremo qui e lui mi ha accordato il suo consenso. Sarà a nostra disposizione per qualsiasi richiesta, fintanto che lo riterrò necessario».
Isolde guardò il marito, risentita per non esserne stata messa a corrente prima, in separata sede «Questo significa che saremo spiati?».
Zane lasciò che fosse Raven a rispondere. «Direi piuttosto osservati. Ma se temete di essere seguita da occhi indiscreti, allora permettetemi di informarvi che i vostri timori sarebbero dovuti cominciare già molto tempo addietro».
«Cosa vorreste insinuare con queste parole?».
«L’insinuazione, mia signora, è per chi non sa quello che dice. Per quanto mi riguarda, posso garantirvi che siete stati seguiti e ascoltati, ma non sapete né da quali piedi, né da quali orecchie. L’unica rassicurazione che vi posso offrire, se deciderete di accettarla, è che non siete i soli. Giungete in un momento poco fortunato: senza il suo Maestro di Palazzo la capitale ribolle e, senza la loro guida, i rioni sono vulnerabili. È opportuno assumere le precauzioni che sono già state prese dagli altri Ministri prima di voi». Raven fece una breve pausa prima di continuare, ma ad Isolde non sfuggì lo sguardo che indirizzò a suo marito «Troppe regole sono state infrante e troppe stranezze sottovalutate. È necessaria un’attenta analisi».
Theresa allontanò il cibo senza neanche averlo toccato «Non trovo saggia la decisione di affidarmi a qualcuno la cui obbedienza va a chi lo paga di più».
Zane la riprese bruscamente «Non è un problema che ti deve competere. Raven conosce tutto di tutti e se la situazione dovesse farsi caotica, ascolterò i suoi consigli e non i tuoi, perché necessito di informazioni che tu non puoi avere».
«E se fosse stato già assoldato da qualcuno? Se cercasse di sabotare il Torneo? Non voglio che spii le mie mosse per andarle a riferire a chicchessia».
Il viso dell’uomo si contrasse in un’espressione di sardonico compiacimento. «Non ho bisogno di conoscere i vostri segreti, specie quando siete voi la prima ad ignorarli».
La rossa si limitò a incrociare le braccia, risentita, e a guardare i due uomini in cagnesco, finchè Raven si portò la mano destra al petto accennando un ultimo, breve inchino. «Dunque posso prendere congedo. Saprò da me quando avrete bisogno del mio aiuto, senza che dobbiate essere voi a cercarmi».
Zane annuì stancamente e la sua spia uscì dalla stanza. Theresa la osservò fino a quando la pesante porta di ottone non si richiuse, nascondendo a tutti la sua figura.
 
♦♦♦
 
I primi scontri erano iniziati quella stessa mattina sul tardi. Numerosi spiazzi, adiacenti al Palazzo, erano stati preparati per questa occasione ma, nonostante tutto fosse stato accuratamente organizzato, non erano numerose le persone che si erano prese la briga di svegliarsi per andare ad assistervi. Sarebbe infatti ancora passato un considerevole numero di settimane prima di assistere a quei famosi duelli che i genitori raccontavano ai propri figli con grande entusiasmo, quegli scontri epici che sarebbe stato un disonore lasciarsi sfuggire, perché in molti lo sapevano – ma nessuno lo diceva – che la scelta degli sfidanti era tutto fuorchè casuale. Ufficialmente i rivali venivano scelti ogni giorno tramite estrazione da una clessidra di vetro soffiato e oro; ufficiosamente venivano scelti a tavolino dagli strateghi della capitale, per fare in modo che l’attenzione degli spettatori durasse il più a lungo possibile. Ufficialmente erano vietate le scommesse sulla vittoria o la sconfitta di quella o di quell’atra contrada; ufficiosamente circolavano saccocce di monete sottobanco, nelle taverne a ridosso delle mura esterne così come nei migliori salotti dei quartieri alti. Ufficialmente erano ammessi al torneo i possessori di totem regolarmente registrati; ufficiosamente qualche conoscenza in più da poter sfruttare tornava utile.  Ufficialmente tutti venivano messi nella condizione di potersi guadagnare il titolo di nuovo Maestro di Palazzo; ufficiosamente nessuno avrebbe permesso che la guida del paese finisse nelle mani di un vaccaro qualsiasi.
Quel giorno l’addetto supervisore aveva riempito la tradizionale clessidra con polvere d’oro, a simulazione della sabbia, e biglietti di papiro, più leggeri del comune cartone, su cui erano stati incisi i nomi dei contendenti. Aveva dunque poggiato il suo strumento su un meccanismo a pompa d’aria, di semplice fattura in realtà, ma di cui molti ignoravano ancora il funzionamento, e lo aveva attivato, aspettando che uno dei biglietti emergesse dai granuli dorati. Il primo ad essere estratto fu un certo Kelgar, di Tanaro, conosciuto solo ai suoi, mentre il secondo fu Collin, di Kalendor, il cui nome a Tess suonava familiare, ma non abbastanza da incuriosirla al punto di assistere al suo scontro. Comunque, se anche avesse deciso per il contrario, sarebbe rimasta delusa dalla qualità di quel duello, durato meno del tempo che le sarebbe stato necessario per salire in groppa ad Argo e raggiungere l’arena. Seppe più tardi della vittoria di Collin e nel pomeriggio di quella di Yoseph, Callindra e Tobias, ma di quei personaggi nulla sapeva e di conseguenza nulla le importava.
Intorno alle quattro, quando ancora il cielo era chiaro ma le strade iniziavano ad essere sgombre, Theresa si incamminò verso le scuderie, accompagnata da una silenziosa Daianara. In sette lunghi padiglioni, tre dei quali chiusi con un complesso sistema di lucchetti, erano stipati tutti i cavalli degli ospiti in visita al Gran Palazzo: i palafreni da parata, i destrieri del corteo dei Ministri, i purosangue – quei pochi che ne erano rimasti – importati dalle terre al di là del deserto e, ovviamente, gli stalloni e le giumente degli uomini di Ennon. Ma di cavalcature ve ne erano anche altre, al momento prive di padrone, che non avrebbero mai visto il mondo al di là della cinta muraria della capitale. I soffitti delle stalle erano molto alti e i box spaziosi. Le pareti erano tappezzate di decine e decine di mensole, tutte occupate da piccole statuette in legno, totem che Tess sospettava non avrebbero mai conosciuto una forma diversa da quella. E ve ne erano a centinaia, in quella e nelle altre scuderie, che non erano probabilmente mai stati utilizzati, ma che sarebbero rimasti lì, per sicurezza, fino a quando non fosse giunto il momento di adoperarli per uno scopo diverso.
Theresa trovò Argo - uno degli ultimi cavalli del secondo padiglione – e lo preparò. In quegli occhi neri, che conosceva da sempre, vide la voglia di correre, galoppare il più lontano possibile da quel posto. Tess allungò la mano per accarezzare l’animale e lui sfregò il muso contro il suo palmo.
«Lo so che non ti piace questo posto» gli sussurrò dispiaciuta «Non piace nemmeno a me». Sollevò il viso e lasciò che gli occhi vagassero su quella moltitudine di piccole sculture che lei sapeva essere vive. Il colore sbiadito, la polvere, il legno graffiato, le pose artificiose in cui quelle bestie erano state rinchiuse, come se fossero state colte di sorpresa, davano l’impressione di un ambiente malato.
«Se Donovan vedesse questo scempio…» pensò ad alta voce Daia, stringendosi le mani nelle mani.
«Gli darebbe fuoco» rispose con durezza Tess, spingendo Argo verso l’uscita «E non sarebbe il solo».
Finalmente in groppa al suo cavallo, la rossa tese la mano all’amica per aiutarla a salire e insieme galopparono, seguendo i sentieri battuti, fino all’altro capo del castello, quindi tornarono indietro. Poco distante da loro, in una delle arene, il combattimento continuava; riuscivano a scorgere il giudice che vigilava sui contendenti, un manipolo di donne e uomini che con l’entusiasmo che era loro rimasto inneggiavano uno piuttosto che l’altro, due sbandieratori che muovevano a ritmo dei tamburelli i vessilli dei due partecipanti (l’azzurro di Ennon e il verde di Nika).
Tess, con un colpo di tallone, fece allontanare Argo da quel trambusto, alla ricerca di un luogo più tranquillo. Si fermò all’entrata del giardino di cedri, sotto la quinta torre campanaria, che ancora per un’ora buona non avrebbe suonato, e da cui si potevano vedere - data la posizione rialzata - le scale marmoree che collegavano il Gran Palazzo alla cittadella, i ponti levatoi e le fucine. La rossa lasciò le redini e con uno scatto scese dalla cavalcatura. Lì il terreno era ancora molle e bagnato per la pioggia caduta la notte prima.
«Fai attenzione» disse a Daia, posandola a terra «Non vorrei ti impantanassi».
La ragazza annuì e Theresa liberò Argo dal morso. Dopo avergli detto di non allontanarsi, lo lasciò scorrazzare tra gli alberi.
«Tutto bene?» chiese a Daianara, inoltrandosi con lei nel giardino.
«Si. Sono solo preoccupata per i miei genitori. Non li ho mai visti così freddi l’uno con l’altra. Non è da loro».
«Già. Era difficile che passasse inosservato. Cosa ne pensi di quella spia? Di quel Raven? Non l’abbiamo mai visto a Palazzo nei dieci anni in cui vi abbiamo abitato, in che cosa potrebbe mai tornarci utile ora?».
Daia chiuse gli occhi «Non lo so e non capisco perché mio padre l’abbia assoldato. Tutti ad Ennon diffidano dei curiosi e mio padre ha sempre cercato di eliminarli come casta, quindi a che pro affidarsi ora ad una persona che è di sua natura inaffidabile? Preferirei non averlo intorno. Ha un’aria inquietante e mi fa venire i brividi. Se poi penso che potrebbe vedermi e ascoltarmi in qualsiasi momento…».
«Ha detto che siamo stati spiati».
«Certo che siamo spiati, chi non lo è in questo posto? Fosse anche solo per la moltitudine di persone che vi entrano. Non ho mai pensato che questo fosse un luogo sicuro, ma non avevamo mai sentito il bisogno di pagare un mercenario. É solo questo che mi spaventa».
Tess ci pensò su, poi, come se avesse scoperto qualcosa che era stato fin dall’inizio sotto i suoi occhi, afferrò il braccio di Daia e la bloccò «Pensi che abbia qualcosa a che fare con le dimissioni del Ministro di Morèa? O con il figlio?».
La mora alzò le spalle «Non saprei dire. In fondo era davvero molto anziano, credo sapessimo tutti che prima o poi se ne sarebbe andato, se non come uomo, almeno come guida. E se Morèa ha scelto Aron…bhe, la carica non è ereditaria, ma non trovo inusuale che il nuovo Ministro sia il figlio del precedente. È questione di fiducia».
«Sì, ma tuo padre ha detto…» cercò di ricordare le parole «Che non permetterà dilaghi una nuova ribellione o qualcosa del genere. Credi che Aron voglia, non so, radunare un esercito, o rendere Morèa indipendente, o qualcosa di simile?».
Daia scosse con sicurezza la testa «No, no, questo proprio lo escluderei. Morèa è l’ultimo posto in cui andrei a cercare se dovessi scovare dei focolai di rivolta, non saprebbero nemmeno da dove cominciare. E se Howel pensasse suo figlio capace di un simile progetto, allora si riprenderebbe immediatamente il potere che gli ha ceduto».
«Ma l’hai detto anche tu che è vecchio».
«É vecchio, non demente, e sicuramente è la persona più intelligente e onesta che io abbia mai visto. No, non farebbe nulla di male. E neanche Aron, è parente di mia madre e lei lo conosce e si fida di lui».  
Tess si portò le braccia dietro la testa. «Suppongo bisognerà aspettare. E io odio aspettare. E odio tutti quelli che parlano per enigmi. Perché in questa città tutti parlano per enigmi?».
«Forse perché sanno che odi gli enigmi» provò a scherzare Daia, ma non le era rimasta molta voglia di sorridere.
Passeggiarono per una ventina di minuti, procedendo sempre dritte, aspettandosi di trovare, prima o poi, la fine del giardino. Ma oltre le fila di cedri non si scorgeva nulla e presto si decisero a tornare sui loro passi, quando un flebile suono, simile a un fischio, le raggiunse. Tess e Daia si guardarono stranite, Argo drizzò le orecchie, e per qualche secondo tornò il silenzio, interrotto solo dal cinguettare degli uccelli e del vento tra le foglie. Quando lo sentirono nuovamente, la rossa fece segno alla compagna di seguirla. Si accorsero presto che non si trattava di un fischio o di un rumore qualsiasi, ma di una melodia fievole, a poche note, e a nessuna delle due venne in mente quale strumento potesse produrre simili toni, lunghi ma un po’ sgraziati, anche se non per questo meno piacevoli.
Daia afferrò la mano di Theresa e la strattonò. «Tess, guarda! Qui!» si nascose dietro il tronco di un cedro e invitò l’altra a fare lo stesso. Si sporse quel tanto che bastava per notare seduto ai piedi di un albero un ragazzo. I capelli riccioluti scuri, ma schiariti dal sole, gli coprivano le spalle e indossava una livrea verde un po’ scolorita, ma pulita e tenuta in ordine; i lineamenti erano quelli fini e dolci, non marcati, di chi ancora deve crescere. Da quello che i suoi occhi le permettevano di scorgere, strizzandoli un po’, Daia vide che teneva qualcosa tra le dita e che se lo portava di tanto in tanto alla bocca.
«Che cos’è?» domandò a bassa voce «Un qualche tipo di flauto? Così minuscolo?».
Tess scosse la testa «La fuliggine di Ennon deve averti annebbiato la vista. Ma non lo vedi? É una foglia!» spalancò gli occhi «Oh, anche io avrei sempre voluto imparare!».
«Ssh!» la riprese all’istante Daia, portandosi con enfasi un dito alla bocca.
Il ragazzo smise di suonare, ma non dette segno di averle viste. Sollevò invece il viso e rivolgendosi ai rami che lo sovrastavano iniziò a dire: «Immagino non debba essere facile per te, orgogliosa come sei».
Il silenzio gli rispose e lui sorrise prima di tornare a soffiare sul suo improvvisato strumento.
Continuò con voce pacata «Da quando ti curi di quello che gli altri pensano di te?».
«Non me ne curo affatto» ribattè una voce femminile, cristallina ma dal tono tagliente «Però non sopporto tutti quegli sguardi e le occhiate critiche di chi pensa di sapere tutto e in realtà conosce solo quello che vede. A volte credo che non sentirei tutta questa differenza, se gli altri non me la facessero pesare».
«Ti sento turbata. Non è da te».
«Perché? Non può essere? O non mi è più nemmeno consentito d’essere inquieta?».
«Sai che non intendevo questo» rispose lui senza scomporsi «Sono l’ultimo a cui è permesso farti un rimprovero e, se anche fossi il primo, non lo farei».
Dopo un istante di riflessione, la voce riprese: «Forse la libertà è un concetto fin troppo sopravvalutato. Eppure ora che so di non possederla, mi sento come un animale intrappolato».
Il ragazzo annuì complice, ma non replicò e riprese a suonare. Questa volta la melodia era diversa, più malinconica.
«Caleb…» lo interruppe nuovamente la voce. Lui alzò lo sguardo verso le fronde dell’albero. «Pensi anche tu che stia facendo un errore?».
Ci pensò su «Hai sempre difeso strenuamente i tuoi sentimenti. Che cosa può essere cambiato?».
«Sono fortunata, non potrei avere di meglio. Eppure a volte penso che vorrei chiedere di più. Non potrà tornare ad essere come un tempo».
Tess posò una mano sulla spalla di Daia «La conosco questa voce…».
«Ti fidi ancora di lui?» chiese Caleb.
«Forse. Ma avrei preferito non scegliesse per me. Non posso fare a meno di domandarmi se sarebbe potuta andare diversamente».
«Non avrebbe potuto fare altro per te. Nè per sé stesso». Non ottenne una risposta immediata, ma dopo una manciata di secondi le fronde si mossero e una ragazza si calò giù dai rami più alti, attutendo l’impatto col terreno piegando profondamente le ginocchia. I lunghi capelli biondi, finemente intrecciati, seguirono l’arco del suo movimento e le nascosero per un istante il viso diafano. Tiratasi sù, si mostrò in tutta la sua altezza, con le gambe lunghe e il tronco affusolato, la vita sottile e il seno piccolo. Gli occhi, di un grigio ghiacciato, parevano inespressivi. Vestita delle pelli degli animali cacciati nei boschi di Nika, portava legati alla cintola numerosi falcetti e il suo immancabile flauto intarsiato.  
«Savannah!» sussurrò Tess e Daia dovette quasi trattenerla per non farla uscire allo scoperto.
«Aspetta!» le ordinò.
La donna del borgo del legno si scostò i capelli dalla fronte con aria seccata e guardando Caleb disse: «Esiste sempre un’alternativa. Esiste sempre un’altra scelta».
«Se avesse saputo che questo ti avrebbe afflitta per il resto della tua vita, e della sua, forse avrebbe trovato la forza di lasciarti andare».
La bionda chiuse gli occhi e i lineamenti del viso si fecero più dolci. Per un attimo, ma solo per un attimo, sembrò la persona più fragile e più malinconica che Theresa avesse mai visto. «Hansel è sempre stato così buono con me…» sussurrò «Non si merita il mio biasimo».
«Tu cosa avresti deciso?».
«Adesso come adesso non lo saprei dire. Gli uomini sono egoisti di natura e io…» si interruppe bruscamente, voltando lo sguardo, scrutando gli alberi con fare sospettoso. Gli occhi chiari tornarono ad essere imperscrutabili. Si fecero torbidi e si fissarono in un punto indistinto tra le centinaia di cedri che li circondavano. Mosse le dita sulle sue armi, ma prima che potesse afferrarne una Tess emerse dal suo nascondiglio.

 

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Capitolo 8
*** Il sangue che non mente ***


Capitolo 6
 
♦ Il sangue che non mente ♦
 
“Cade la maschera mostrando la natura
del suo portatore che, con bravura,
ha nascosto di sé la parte più oscura:
è la mezza verità la realtà che rassicura?”
 

 
Così come il fiume, a sud di Ennon, scorreva impetuoso erodendo la riva per dividere il borgo del Ferro da quello di Tanaro, così i boschi di cedri dividevano a settentrione Ennon da Nika. Nessuno che non provenisse dal rione del Legno avrebbe mai percorso quella strada, limitandosi a seguire la via acciottolata che costeggiava il confine della contrada, ma gli uomini e le donne di Nika conoscevano della selva ogni arbusto, ogni animale, ogni pericolo e ogni bellezza. Ed era proprio in uno di quegli anfratti che Tess aveva visto Savannah per la prima volta, ormai tredici anni prima. Aveva notato qualcosa di affascinante nel suo modo imperscrutabile e critico di osservare il mondo, nella compostezza libera e selvaggia e nella dignità che trasparivano da ogni gesto e parola; non poteva fare a meno di ammirarla e di esserne gelosa, ma di una gelosia sana, che la spingeva a migliorarsi per diventare un giorno, Tess sperava, come lei. Savannah, dal canto suo, era rimasta stranamente incuriosita dalla bambina che si era trovata di fronte, dalla determinazione che riusciva già a leggerle nello sguardo e, perché no, anche dalla sfrontatezza – che generalmente mal tollerava - con cui difendeva le sue posizioni. Rivedeva sé stessa nei suoi occhi, ma una lei di troppo tempo prima, ancora innocente e ingenua, che non si era piegata al volere della società. E Tess le permetteva di notare cose a cui lei, ormai, aveva smesso di prestare attenzione, forse per noia, forse per abitudine. «Guardo il mondo attraverso te, piccola amazzone» le aveva detto una volta.
Savannah l’aveva vista crescere e cambiare, o forse diventare quello che era davvero, come solo una sorella o una compagna di avventure potevano fare, e Tess aveva visto passare decine di stagioni senza che il tempo potesse scalfire il corpo dell’amica, ma non si era accorta che gli anni – che trascorrevano per lei tutti uguali - le avevano corroso lo spirito.
Theresa non aveva mai provato grande stima per il Ministro di Nika, ma sapeva di non poterne parlare apertamente con Savannah, la cui lealtà verso il suo padrone era sincera. Era tuttavia preoccupata del suo attaccamento nei confronti di quell’uomo così introverso, della sua cieca fiducia, della sua totale dedizione, quasi dell’incapacità di pensare con la propria testa, che le risultò difficile non credere alle voci da taverna, alle storie di abusi, alle tragedie che giungevano dalla capitale.
«Non capisco» aveva confessato un giorno «Che senso può mai avere riporre la propria fiducia in una persona che può portarti via la libertà in qualsiasi momento, anche solo per capriccio? Come puoi fare affidamento su chi ti tiene in pugno?».
«Tu non puoi capire» l’aveva interrotta Savannah, voltandole le spalle.
«Perché non scappi? Vieni con me!».
«Non è così semplice».
«Di me ti puoi fidare».
«Dove sta la differenza nel credere a te o a lui o a chiunque altro? Non è sempre un salto nel vuoto appoggiarsi a qualcuno?».
Tess aveva tentennato «Con me non dovresti obbedire agli ordini».
«Non è certo la mancanza di ordini, o di obblighi, o di regole che fa di te una persona libera».
«Potresti essere te stessa».
«Non posso più essere me, senza lui. È questo quello che succede con l’amore: ti rassegni ad avere una parte di cuore nel corpo di qualcun altro».
«Amore?» aveva riso «Ma il tuo non è amore. È quello che vuole farti credere lui».
«Cosa ne può mai sapere una ragazzina viziata come te?».
«So che non può esserci amore quando ci si sente intrappolati».
E da quel momento nulla era più stato come prima. Forse, quando si è abituati ad avere a che fare con persone forti ed integre, anche il minimo segno di debolezza può infastidire.
Il vento si era alzato freddo sulla cittadella fortificata e sulle sommità delle torri, quasi a ritmo con il rintocco delle campane, svolazzavano le bandiere dei cinque rioni. Anche le foglie dei cedri venivano scosse dall’aria che tirava e, mentre Tess incedeva con passo sicuro verso la ragazza che aveva di fronte, qualcuna si staccava dal suo ramo, volteggiando su sé stessa prima di cadere al suolo.
Gli occhi freddi di Savannah la scrutarono e il viso assunse un’espressione cinica «Ah» disse con sufficienza, senza allontanare la mano dalle sue affilate armi «Sei solo tu».
Tess sorrise «Se gli occhi non ti ingannano. Lieta di constatare che non cambi mai». Daia la raggiunse titubante, ma Savannah la degnò appena di uno sguardo.
«Come se potessi».
Tess incrociò le braccia al petto. «Se anche fosse, rimarresti sempre uguale. A certa gente piace ripetere gli stessi errori».
«Nessuno lo sa meglio di te: non hai ancora perso il vizio di origliare le mie conversazioni».
«Quasi speravo ne valesse la pena. Invece non perdi mai occasione per piangerti addosso» abbassò gli occhi sul ragazzo riccioluto, ancora seduto ai piedi dell’albero «Solo che prima lo facevi da sola».
Lui mantenne lo sguardo. «Per quello che può valere, sapevo già che eravate qui. Più voi donne volete essere silenziose, più fate chiasso». Con un balzo si tirò su.
Theresa lo liquidò velocemente «Quando vorrò imparare l’arte del silenzio da un uomo, ti verrò a cercare» si rivolse a Savannah «Potrei dirti che passavo di qua per caso, ma non ci crederesti».
«Conoscendoti? No, certo che no».
«Sono passati tre anni. Sono sufficienti per crescere, sai? Potrei stupirti».
La ragazza sbuffò «Io non mi stupisco più di nulla».
«Io sì. Mi stupisco di doverti sentir rimuginare ancora sulle stesse cose».
«Non ti trattieni mai dal parlare, vero?».
«Forse aspetto ancora che tu mi dia ascolto. D’altronde la speranza è l’ultima a morire».
Savannah scosse la testa, ma non ribattè. Lasciò invece cadere le mani lungo i fianchi e avvicinandosi a Caleb disse «Vieni, andiamo via».
Tess scattò. «Non ignorarmi! Ti sto parlando!».
La ragazza rimase impassibile. «Ne sono consapevole. È solo che non mi interessano i tuoi giudizi, né quelli di chiunque altro».
Daia allungò una mano e la posò sulla spalla dell’amica «Tess, forse dovremmo andare anche noi» sussurrò, vedendola alterarsi. L’altra si scansò «No».
«Dovresti darle retta» le consigliò Savannah, indicando con un cenno della testa la mora «Faresti risparmiare tempo ad entrambe».
«Io e te abbiamo un conto in sospeso».
«No, affatto» iniziò ad allontanarsi.
«Mi devi ancora una rivincita! O vuoi negarmi anche quella, oltre al saluto?».
«Io non ti devo nulla. Se vuoi qualcosa, vieni a prendertela» la provocò.
Theresa non se lo fece ripetere due volte e marciò a passo di carica verso la sua rivale, ma Daia le bloccò la strada, parandosi davanti a lei. «Che cosa stai facendo?» la riprese «Sei forza impazzita? Vuoi essere esclusa dalla gara?».
Caleb si strinse nelle spalle. «La tua amica ha ragione. È contro le regole che due sfidanti si azzuffino prima della competizione. Non saranno ammessi disordini. Non siamo certo in una bettola».
Tess gli lanciò un’occhiataccia «A vedere te, non si sarebbe detto».
«La temperanza è una virtù di pochi ed evidentemente tu non sei tra questi. Dunque è vero quello che dicono di te: sei nata nel borgo sbagliato, ragazza di Tanaro».
La rossa spalancò gli occhi «Che cosa hai detto?».
Daianara la trattenne «No, Tess, lascialo perdere» disse, ma lei non le diede ascolto.
«Sarai sicuramente di Morèa, insulso come sei!».
«Basta» s’intromise Savannah con aria scocciata «Questa è la diatriba più stupida a cui sia stata costretta ad assistere» invitò Caleb a seguirla «Mi stanno aspettando».
«Hey, non ho ancora finito con te!» le urlò dietro Tess.
«Fino a quando ti ostinerai a vedere le cose nel modo che più ti fa comodo, sarò io ad aver finito con te».
«Se davvero non ti interessa quello che gli altri pensano, allora perché ci presti tanta attenzione? Hai forse paura che abbiano ragione? Hai forse paura che io abbia ragione?».
La bionda si fermò. «Pensi davvero ci sia tutta questa differenza fra le persone come me e quelle come te? Siete così ottusi da non rendervi conto dell’evidenza. Dimmi» si voltò per guardarla «I bambini non ubbidiscono forse ai genitori? E i sudditi ai loro sovrani? I discepoli ai maestri, gli apprendisti agli artigiani, i fedeli al confessore, i soldati al generale, gli uomini alla propria coscienza? E tu non segui forse gli ordini di Zane, il Ministro di Ennon, come tutti gli altri? E se una persona a cui tieni ti chiedesse un favore, tu non la accontenteresti?».
«Non è la stessa cosa».
«E del tuo totem?» la incalzò «Cosa mi puoi dire di lui? Potresti ordinargli di buttarsi giù da un dirupo, di sprofondare in un lago e non riemergerne. Potresti torturarlo e ordinargli di non fare rumore, di correre fino a vederlo stramazzare al suolo o gettarlo nel fuoco e dimenticarti di lui».
«Taci! Stai vomitando oscenità» ribattè inorridita «Non farei mai delle cose simili, è l’amico più sincero che ho».
«Lo so. Come vedi, anche tu puoi decidere arbitrariamente della vita altrui e questo non ti rende più meschina di chiunque altro. Avere il potere non significa doverlo usare e poter decidere non significa impedire agli altri di scegliere. E non c’è nulla che ti conferisca il diritto di pensare che il tuo legame sia più sincero e onesto del mio».
«Non dubito certo di te, ma non riesci ad essere oggettiva. Sono solo preoccupata».
«Non esserlo. So chi sono e non ho bisogno del tuo aiuto, come già ti dissi in passato. Credevo avessi capito, ma evidentemente mi sbagliavo. La pensiamo diversamente eppure ancora provi ad imporre la tua idea e a screditare la mia. Non sei tu quella che abusa del suo potere?».
«Cosa? Non sai quello che stai dicendo».
«Nemmeno tu, ma questo non sembra trattenerti dal dispensare giudizi non richiesti».
«Io almeno posso dire di essere una persona libera e di comportarmi come tale».
«Come se il non esserlo dipendesse da me, giusto? Nessuno è libero come crede, Tess. Prima lo capirai e prima vedrai la realtà per quella che è».
La rossa scosse energicamente la testa «Stai navigando in un mare di scuse».
Savannah guardò il cielo «Spera sia così. O aspetta il tuo turno per vedere dove si trova la verità».
Esasperata, Theresa si avvicinò a lei con grandi falcate e l’avrebbe afferrata per le spalle se Caleb non l’avesse preceduta. Lui mosse velocemente una mano per afferrare un falcetto dalla cintura della sua compagna e fendette l’aria davanti a sè. Tess lo schivò, bloccandogli il braccio con il suo. Piegandogli il polso, gli strappò via l’arma, anche se non sembrava che il ragazzo volesse fare resistenza, e gliela avvicinò alla guancia. La lama gli graffiò appena uno zigomo, ma lui non battè ciglio.
«Tess, smettila!» le intimò Daia, avvicinandosi.
La rossa fece un passo indietro e lasciò cadere il falcetto a terra. «Già. Lo sospettavo» disse guardandolo.
Caleb accennò un sorriso, sfiorando con la punta delle dita il taglio. «Questo lascerà il segno» sospirò.
Daia lo osservò interdetta «Non stai sanguinando».
«Io? Ovviamente no. Ma credo lo farei se avessi sangue in corpo» spiegò, ma non sembrava arrabbiato.
«Sei una bambola? Chi è il tuo padrone?» lo guardò meglio. Tutto in lui sembrava normale.
«Non ho un padrone, ora» rispose solo «Ma ne ho avuti molti».
Theresa arricciò il naso «Mi ci è voluto qualche minuto per riconoscere la tua livrea. È da un po’ di tempo che non vi si vede in giro».
Lui si grattò la testa «In verità, da prima che tu nascessi».
«In qualche libro si parla di voi, nelle note a fondo pagina» alzò le spalle «È proprio vero che siete carenti negli scontri ravvicinati».
«Ci limitiamo ad avere una buona mira» rise.
Daia fece scivolare lo sguardo da uno all’altra. «Credo di non seguirvi».
Savannah si scostò i capelli dalla fronte. «Caleb è un gargoyle» disse «Un soldato del corpo dei ballistarii addestrato per difendere il castello».
«Non vi ho mai visti. Eppure ho abitato a palazzo per dieci anni» guardò Tess di sottecchi «Tu come facevi a saperlo?».
«Hey» disse risentita «Non sei la sola ad aver avuto un precettore, principessina. Avresti dovuto prestare maggior attenzione alle lezioni di strategia, piuttosto che a quelle di galateo».
Caleb si schiarì la voce «In verità la tua ignoranza è giustificata. Siamo chiamati ad intervenire in caso di sede vacante e non è un evento che per vostra fortuna si verifica così spesso. La capitale non è sicura, senza il suo Maestro».
«E a chi rispondi adesso?» chiese Daianara.
«Finchè rimango in servizio, a nessuno. Seguo i precetti che mi sono stati impartiti quando mi hanno creato».
Tess sorrise «Preparati ad avere un nuovo padrone, allora. Potrei anche diventare il nuovo Artigiano!».
«No, non credo. Lasci il fianco troppo scoperto. Oh, ma non dare retta a me. “Non sono bravo negli scontri ravvicinati”».
«Ti tengo d’occhio» lo avvertì la rossa, prima di allontanarsi «Sarei proprio curiosa di scoprire se i gargoyle si meritano davvero la loro nomea».
Due giorni passarono così, senza che succedesse nulla che valesse la pena ricordare, senza che succedesse nulla di cui la gente potesse sparlare.
 
♦♦♦
 
Il campo di grano in cui si trovava ricopriva le colline come una calda coperta dorata e nulla si sarebbe potuto vedere, anche sforzando la vista, oltre quelle spighe, che le sembravano così nostalgicamente familiari. Il sole era calato velocemente all’orizzonte, come se non aspettasse altro che cedere il posto alla luna, ma nonostante la sua fretta il cielo era ancora tinteggiato di calde sfumature rosse. E rosse improvvisamente divennero anche le coltivazioni, o forse era la sua mano che toccando il grano lo colorava di sangue, e i chicchi anneriti dal marciume cadevano a terra e tutto intorno a lei diventava spoglio e sterile. Nell’aria prima salubre si sentiva ora il profumo acre della morte, che per lei sapeva di sangue, sudore, terra e carne. Una voce di donna urlava “Zelda, Zelda no!”, ma quando si voltò incrociò solo gli occhi di una bambina sorridente. La indicava saltellando sui suoi piccoli piedi fasciati da scarpette blu e chiamava “Papà, papà”, ma non c’era nessuno accanto a lei. “Papà, papà guarda! Si muove, si muove! È così bella…”. Le mattonelle del pavimento erano fredde e bagnate e nelle segrete rimbombavano voci assordanti. “Te lo prometto: mai. Ti prego, fidati di me: mai!”. “Non crederle, non crederle!”. “Sbarazzatevene”. “No, non puoi!”. “Perché hai dovuto tradirmi?!”, “Sei così bella Tess…te l’ho mai detto?”. Gocce di umidità cadevano dal soffitto e si perdevano nell’aria insalubre. La bambina le si parò davanti, ma lei, accasciata su sé stessa, non riuscì a vedere altro che le sue scarpette blu. «Nessuno ti farà male» sussurrò la piccola, buttandole le braccia al collo «Ci penso io a proteggerti».  
«Proteggermi da cosa?».
«Da me».
Theresa si svegliò di soprassalto, la pelle sudata, il corpo tremante, il fiato mozzato e i polmoni infiammati per il bisogno d’aria. Il cuore sembrava avesse deciso di esploderle nel petto, squarciandole la cassa toracica, e anche se tutto nella sua camera era avvolto dal silenzio placido della notte, nelle sue orecchie rimbombavano ancora il suono sordo dei battiti accelerati e l’eco delle voci che aveva udito, ma non riconosciuto. Gli occhi erano pieni di immagini che non riusciva ad identificare, la maggior parte delle quali stava scomparendo, lasciandole una mente confusa e annebbiata. Si portò una mano alla fronte e la sentì bollente.
«Daia…» sussurrò solo, buttando all’aria le coperte e sgusciando fuori dall’enorme letto. Posò un piede a terra e con difficoltà riuscì a tenersi in equilibrio, ma raccolse ugualmente la lucidità che le era rimasta per ricordarsi di muovere con ordine un piede davanti all’altro per raggiungere la porta della sua camera. Si appoggiò al piccolo comodino, e al tavolo e allo scrittorio e sbattè contro la parete, contro l’angolo, contro lo stipite della porta, ma non se ne curò. In delirio, come se qualcosa la inseguisse più velocemente di quanto lei riuscisse a correre, cercò la maniglia con impacciata fretta e la abbassò, aprendo la porta e richiudendosela alle spalle il più in fretta possibile, girando freneticamente la chiave nella toppa. Corse, o provò a farlo, poggiando una mano alla parete del corridoio per ritrovare l’equilibrio e arrivata davanti alla stanza accanto alla sua sperò con tutte le sue forze che non fosse chiusa a chiave. Spalancò la porta con così tanta cieca forza che questa sbattè contro il muro con un sonoro tonfo e dopo si richiuse cigolando.
Daianara, colta di sorpresa e piena di spavento, si alzò a sedere stringendosi le coperte al petto, ma prima che potesse muoversi per scendere dal letto, Theresa le corse incontro, ancora insicura sulle gambe, ripetendo il suo nome come se fosse un’ancora di salvezza.
«Tess!» la riprese duramente ma con la voce ancora incerta e il cuore in gola «Tess, accidenti, ti sembrano scherzi da fare in piena notte? Mi hai fatta morire di paura!».
La ragazza quasi non le saltò addosso nel tentativo di raggiungerla e una volta salita sul letto le si strinse contro, nascondendo il viso sul suo grembo per non vedere più nient’altro e stringendole la vita con così tanta foga che Daia dovette ripeterle più volte di allentare la presa.
«Mi fai male! Tess!» disse a voce alta, ma quando si accorse che tremava fra le sue braccia si spaventò davvero «Cos’è successo? Tess! Stai bene? Stai bene?» ripetè con maggior enfasi quando non ottenne risposta. Le posò una mano sui capelli e cercò di alzarle il viso per guardarla. «Stai tremando come una foglia…Sei bollente!» esclamò sentendole la fronte «Hai la febbre alta. Tess aspetta, vado a chiamare qualcuno» provò a liberarsi dalla stretta ma la rossa glielo impedì.
«No! Non andartene!».
«Tess, non stai bene!».
L’altra aumentò la stretta «Per favore, non lasciarmi qui. Non lasciarmi da sola».
«Però…» provò ancora a ribattere Daia, ma sentendola così impaurita lasciò cadere qualsiasi obiezione. La coprì con la trapunta e si chinò su di lei con fare protettivo, cingendole le spalle con un braccio e carezzandole i capelli. La tenne stretta a sé, immobile in quella posizione, per un tempo che le parve infinito, perché appena accennava un movimento il corpo di Theresa si irrigidiva e ricominciava a tremare.
Daia avvicinò il viso a quello dell’amica e le chiese a bassa voce: «Tess che cosa è successo? Hai avuto degli incubi?».
Tess accennò un assenso e per Daianara fu sufficiente.
«È per questo posto?» si guardò intorno «Sembra prosciughi la felicità delle persone lasciando solo rabbia e dubbi» pensò ai suoi genitori e a quello che aveva sentito dire a Savannah. Le baciò una tempia «Tess, non ti fa bene stare qui. Non ti ha mai fatto bene stare qui. Ti prego, torniamo a casa nostra».
La rossa alzò il viso per incrociare i suoi occhi e li vide scuri di angoscia. «Si…» rispose, ma con poca convinzione «Si…andremo via presto». Riluttante, si ritirò dall’abbraccio e le si sdraiò accanto. Daia si sforzò di fingere un sorriso rassicurante.
«Posso rimanere qui per un altro po’?».
«Puoi rimanere qui per sempre».
Tess si strofinò gli occhi «Per sempre sembra un tempo davvero troppo lungo per me. Qualche minuto andrà bene».
Il viso di Daia si adombrò e la bocca si arricciò in un broncio. «Ma stai male. Devi rimanere qui. Con me. Per sempre».
«No, non devo».
«Sì. Devi».
Le voci echeggiarono nella sua testa: Non crederle, non crederle!
Tess spalancò gli occhi e scattò a sedere «Daia ma…».
«Non puoi andare via!» la interruppe la ragazza con foga, salendo a cavalcioni su di lei, afferrandole la gola e chiudendola nella stretta delle sue mani.
Theresa le serrò i polsi e provò ad allontanarla «Che cosa stai facendo?!» disse con voce soffocata. Più si contorceva e più il respiro le veniva meno.
La scosse, affondandole la testa nei cuscini ricamati che riempivano il letto. «Non puoi andare via!» ripetè.
«Daia lasciami!». Tess cercò di spingerla via, graffiandole la faccia, tappandole bocca e naso. Quando le girò il mento, scoprendo il collo sottile, vide che lunghi e violacei segni le solcavano la gola. Confusa, provò a colpirle il viso, il petto, la schiena con i pugni, a disarcionarla con ginocchiate e calci, ma per quanto si muovesse, Daia sembrava inamovibile; negli occhi le brillava una luce folle, minacciosa perché imprevedibile, che la terrorizzava ancora di più perché le era completamente estranea. Spinta da un bisogno estremo d’aria, Tess reagì afferrandole il collo e stringendo di più, sempre di più, arrivando a sperare di soffocarla. Una parte remota della sua coscienza si compiacque nel vedere che i lividi che Daia portava sulla gola combaciavano perfettamente con la dimensione delle sue dita.
«Ho ancora i segni…» le disse Daianara, una sfumatura sinistra nella voce ora rotta dal pianto «Non smettono di fare male».
«Non respiro! Fermati!».
In risposta la ragazza aumentò la stretta «Tu non ti sei fermata!».
«Cosa…?».
«Hai già dimenticato? Davvero?» socchiuse le labbra in una smorfia d’orrore «Hai già dimenticato quando hai provato ad uccidermi?».
Con il rumore dei pesanti colpi sferrati alla porta, l’immagine sbiadì davanti agli occhi di Tess, come la nebbia che si dirama allo spuntare del giorno, e lei si trovò nuovamente a fissare il soffitto, circondata dai pochi mobili della sua camera. Sebbene avesse intuito di essere riemersa dal suo incubo, tutto vicino a lei appariva confusamente distorto.
Con la sua stazza da matrona del sud, Vidia aiutò Daia a spalancare la porta della stanza e con il suo piccolo doppiere dorato provò a rischiarare l’ambiente da cui provenivano tutte quelle urla sinistre.
Daia si catapultò nella stanza nonostante i tentativi della governante di trattenerla.
«Tess…» chiamò, facendo correre lo sguardo per tutto l’ambiente, strizzando gli occhi per riuscire a vedere oltre quel buio. Vidia alzò il candelabro e le fiammelle delle candele gettarono la loro luce sul materasso sfatto e sui drappi del baldacchino tirati. Una figura si appoggiava stancamente alle colonne del letto e i suoi profondi ansimi facevano temere per il peggio.
«Tess!» Daia si portò istintivamente una mano alla bocca prima di correrle incontro. La prese fra le braccia e, appena l’ebbe toccata, l’altra le si accasciò addosso, costringendola a piantare bene i piedi per non cadere. «Che cos’hai? Tess?». La ragazza si limitò a respirare affannosamente contro la sua spalla.
«Tess!» atterrita, Daia la chiamò ancora, senza ottenere risposta. Si voltò quel tanto che bastava per vedere Vidia dietro di lei appoggiarsi al muro. «Corri a chiamare qualcuno!» le ordinò e quando vide che la donna, indecisa, rimaneva immobile, urlò: «Vai!». Nella camera tornò presto il buio e fuori dalla porta i passetti veloci e goffi della governante, sul pavimento di marmo, riecheggiarono per il corridoio.
Daia continuò a reggere il corpo inerte dell’amica, anche se le gambe e le braccia avevano iniziato a tremarle, ma non avrebbe saputo dire se per lo sforzo o per la paura. «Che cosa è successo, che cosa è successo?» ripetè e pensò anche che Tess stesse ancora dormendo, colta da una qualche forma di sonnambulismo, fino a quando non le parlò.
«Chi sei tu?» sussurrò al suo orecchio.
Daia corrugò la fronte. «Cosa? Come? Sono io. Tess, sono io» le cercò il viso con una mano «Sono Daia».
La ragazza stese le labbra in un ghigno e disse boccheggiando «No. Non è vero».
«…ma che cosa stai dicendo?» istintivamente si ritrasse dalla stretta, indietreggiando di qualche passo. «Theresa, se questo è uno scherzo non è divertente!».
«Tu non sei reale» rise «È tutto qui» si puntò un dito tremante alla tempia «Nella mia testa. Sì, sì». Si guardò attorno con lo stesso sguardo di un animale braccato prima di avvicinarsi al grosso vaso di vetro colorato al centro del tavolo.
«Che cosa stai facendo?!» gridò Daia quando la vide prenderlo tra le mani e scaraventarlo a terra con tutte le sue forze. I pezzi di vetro si sparpagliarono, taglienti, sulle piastrelle.
«È un sogno…un sogno, tu no, non esisti, devi lasciarmi stare, lasciarmi stare…» bisbigliò frasi senza senso accucciandosi sul pavimento e tastando i cocci rotti con le mani, graffiandosi e tagliandosi.
«Tess, no!» la fermò Daia, sorprendendola alle spalle e provando a bloccarle le braccia lungo i fianchi.
La rossa afferrò una scheggia e si contorse furiosamente per liberarsi «No! No, vattene! Ti uccido, ti uccido!».
«Smettila! Tess, stai ferma! Torna in te!».
«Non sei reale! Stammi lontana!» si divincolò dalla presa in preda alla pazzia.
Daia fece appena in tempo ad arretrare che già Theresa le agitava contro la sua arma, inveendo e sputando parole che non riusciva a comprendere. Cercò di strisciare il più lontano possibile da lei, ma i pezzi di vetro le bucavano le mani. «Tess basta! Basta!».
La rossa le saltò addosso, togliendole il respiro con un pugno alla bocca dello stomaco, mentre le ginocchia le bloccavano le gambe.
Daia boccheggiò senza fiato per qualche secondo e Tess alzò il coccio di vetro per conficcarglielo in gola. Daia le bloccò i polsi a mezz’aria e anche se l’altra era più forte di lei, riuscì comunque ad impedirle di tranciarle il collo. La rossa calò l’arma, cercando di avere la meglio sulla resistenza di Daianara, ma quando quest’ultima le piegò le mani in una posa innaturale, fu costretta a lasciar cadere il pezzo di vetro con un ringhio che aveva qualcosa di selvaggio. Subito Tess si piegò per riprenderlo, ma la ragazza ne approfittò per assestarle una ginocchiata alla pancia. Emise un verso di dolore, ma non si mosse dalla sua posizione di dominio e, prendendo Daia per i capelli, le sbattè violentemente la testa contro il pavimento.
A Daia si annebbiò la vista e tutti i contorni si fecero confusi. Si sforzò di non lasciarsi andare al torpore che la stava assalendo quando l’altra la sollevò per il colletto della vestaglia e aspettò di essere ancora una volta percossa, ma questo non avvenne. Come da una grande distanza udì gli strilli angosciati di Theresa e una voce bassa e imperiosa che intimava: «Adesso basta! Calmati! Calmati ho detto!».
«No! No, lasciami, lasciami! Andate via, andate tutti via!».
«Non costringermi a farti male, ragazza!».
«No, no! Non mi ingannerete! Uscite dalla mia testa!».
Daia fremette e provò ad alzarsi, ma sembrava che il suo corpo non volesse risponderle.
«Corri a cercare Howel! Oh, piccola mia…». Qualcuno la tirò su e le sembrò che ci fosse più luce.
Aprì la bocca per dire qualcosa ma non uscirono altro che rantolii.
«Sssh…» le sussurrò una voce calda.
Lentamente i contorni si fecero più nitidi e i suoni più vicini, anche se un dolore lancinante le martellava in testa. Isolde, sopra di lei, le teneva il capo in grembo.
«Non ti muovere, tesoro».
Si guardò intorno. Botte di ferro torreggiava al centro della stanza, Tess, inginocchiata per terra con le mani intrappolate nella stretta del Ministro di Ennon, la guardava con aria minacciosa, ma l’insania che aveva visto nei suoi occhi sembrava la stesse abbandonando, lasciando spazio a qualcosa di più lacerante della pazzia: il senso di colpa.
Daia si aggrappò alle spalle della madre per tirarsi su. Tutto intorno a lei iniziò a girare convulsamente.
«Che qualcuno mi dica immediatamente cosa diavolo è successo!» proruppe Zane e tutti i presenti sussultarono.
Isolde aiutò Daia a trascinarsi fino a Theresa, mentre una balbettante Vidia raccontava, in modo disordinato, quello che aveva visto prima di cercare aiuto.
«Tess…» sussurrò la ragazza, allungando le dita verso il suo viso, ma fermandosi a metà strada, senza avere il coraggio di toccarla.
La rossa si contorse, ma Zane non la lasciò libera «Ferma dove sei! E anche tu, Isolde, non ti avvicinare!».
Sua moglie scosse la testa «No. È anche lei una mia bambina!» disse in un tono che non ammetteva repliche e il Ministro di Ennon, seppur esasperato, dovette darle ascolto.
Isolde si piegò sulla ragazza che, tremando, si lasciò stringere in silenzio. Le carezzò i capelli con fare materno, sussurrandole nell’orecchio, ma non sembrava la stesse ascoltando.
Con riluttanza, Zane le lasciò liberi i polsi, ma rimase a fissarla, il corpo teso per qualsiasi intervento.
Quando Tess allungò lentamente una mano, nel tentativo di sfiorare la sua, Daia la ritrasse impulsivamente, ma quando vide l’espressione angosciata sul suo volto e le lacrime affiorare agli angoli dei suoi occhi, si protese per abbracciarla e scoppiò in pesanti singhiozzi che temette potessero spezzarla.
«Ti ho fatto male, ti ho fatto male…» disse Tess e non cessò di ripeterlo, la fronte appoggiata alla sua spalla. «Non volevo, non volevo…».
«Va tutto bene, tutto bene» le mentì Daia e non sapeva se con quella bugia volesse rassicurare anche sé stessa.
«No, no…» biascicò Tess e d’improvviso si staccò da lei, esplorandole il collo con le dita «Dove, dove…? Dove sono?».
«Tess, ti prego basta…».
«Li ho visti, erano qui, li ho visti!» tastò ancora convulsamente.
«Che cosa?».
«I lividi…i lividi…te li ho fatti io, te li ho fatti io…!».
Lei si limitò ad abbassare lo sguardo e scuotere stancamente la testa «Quali lividi?».
«Io…io…è stata colpa mia? Sono stata io, io lo so, me l’hai detto!» iniziò ad agitarsi.
«Io non so di cosa tu stia parlando…».
«Prima, prima. Me li hai fatti vedere prima, eravamo sul letto e le mie mani…le mie mani ti hanno…» le si incrinò la voce.
«No, no. Tess…Tess guardami» posò la fronte sulla sua.
«No, no!».
«Ssh…calmati. Calmati» disse Isolde, accarezzandole la schiena.
Daia la strinse fino a quando non sentì il respiro farsi più regolare «È tutto passato. È tutto passato. Ti devo portare via da questo posto infernale. Ci penso io a proteggerti. Ricordi? Ci penso io a proteggerti».
Se fosse stata abbastanza lucida, Theresa le avrebbe domandato: “Proteggermi da cosa?”.

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Capitolo 9
*** Dubbio ***


Capitolo 7
 
♦ Dubbio ♦
 
“In mente l’immagine è della realtà parodia:
non esiste ricordo che imperfetto non sia.
Nel labirinto in cui ogni memoria è follia
rincorri la mia voce: ti indicherà la via”
 

 
gargoyle, con in mano le loro balliste di legno scuro e metallo lavorato, stazionavano sui più alti torrioni del Grande Palazzo, affiancati da guglie, pennacchi e dalle animalesche statue in pietra da cui avevano tratto il loro nome. Da lontano sorvegliavano i cancelli, le mura e le arene, i giardini e i sentieri, le scuderie e ogni pertugio. Benchè rappresentassero per tutti solo una piccola risorsa, se il corpo dei ballistarii fosse caduto, non vi sarebbero stati altri soldati a custodire il Palazzo. E mentre in ogni angolo della capitale non si parlava d’altro che dello scacco di Morèa – e gli abitanti del rione risiedenti nella Cittadella venivano trascinati fuori dalle loro case per fornire spiegazioni -, in ogni angolo del Palazzo non si parlava d’altro che della malattia, a detta di alcuni contagiosa, della figlia adottiva del Ministro di Ennon.
Lasciati i suoi compagni a qualche decina di metri in più d’altezza, Caleb si era seduto con le gambe a penzoloni nel vuoto sul cornicione del secondo piano, poco distante da una finestra lasciata socchiusa da cui proveniva una flebile e lenta nenia che un orecchio meno allenato del suo non sarebbe riuscito ad udire.
«”Canterò ancora una volta per te, prima di allontanarmi. E salirò sempre più in alto per farti sentire la mia voce. Ascolta la mia ultima canzone e deponi le tue armi. Domani sarò ancora qui a cantarti queste ultime parole: un’ultima canzone è tutto ciò che ho da darti”».
Appoggiata alla tastiera del baldacchino, persa fra decine di cuscini che riteneva essere più che superflui, Daia ascoltava Theresa intonare la melodia che le aveva insegnato da bambina.
«Canterò ancora una volta per te, prima di allontanarmi. E salirò sempre più in alto per ricordarti la mia voce. Ascolta la mia ultima canzone e…» Tess si fermò, schiarendosi la gola «E…mhm».
Daia sorrise, vedendola in difficoltà. «Ascolta la mia ultima canzone e prova ad amarmi…» le suggerì, canticchiando a bassa voce, e l’altra riprese.
«Giusto. “Ascolta la mia ultima canzone e prova ad amarmi. Domani sarò ancora qui a cantarti queste ultime parole: per te troverò sempre un’ultima canzone”».
Daianara imitò un piccolo applauso e la rossa tornò ad appoggiare la testa sulle coperte, vicino alla sua mano. Era rimasta seduta accanto al letto per buona parte di quella luminosa mattinata – anche se lei, di luminoso, non vedeva nulla -, mentre la sua amica ancora dormiva di un sonno tranquillo, portato dalle medicine che Howel le preparava ogni giorno. E le era rimasta accanto la mattina e il pomeriggio precedenti e quelli precedenti ancora, in parte perché lì nessuno sguardo e nessuna calunnia l’avrebbero raggiunta e in parte perché sentiva di non potersi muovere da quel letto senza provare rimorso.
Daia guardò fuori dalla finestra quando un soffio di vento fece entrare uno spiffero nella stanza, muovendo le tende sottili.
«Grazie» disse all’amica, scostandole la frangia che era diventata troppo lunga e le copriva gli occhi «La ricordi ancora questa ballata» poi si corresse «O almeno quasi tutta».
Tess ricambiò il suo sguardo «Non posso dimenticarla. Me la cantavi sempre quando stavo male».
Daia si portò una mano alla bocca e rise «È vero. Ti facevi male molto spesso».
«Già. Infatti me la ripetevi in continuazione. Pensavi avesse delle capacità curative».
«Sì» disse con un filo di imbarazzo, passandosi una mano sul collo «Doveva essere una cosa noiosa, immagino».
«No, affatto. Mi piaceva. Mi piace ancora. La preferisco quando la canti tu, comunque» incrociò le braccia sul materasso morbido e vi nascose il volto «Hai la voce più dolce della mia». 
«No, non è vero. Io adoro la tua voce».
Theresa sollevò appena la testa per guardarla da sotto le ciglia.
«Ah, sì?».
«Si» continuò convinta Daia, poi ripensando a ciò che aveva ammesso si sentì avvampare. «Sì, insomma, mi piace, la trovo calda. Confortante. Carina. Ben intonata».
«Accettabile».
«Accettabile. Cioè no, non accettabile. Più che accettabile…» si torturò le mani, distogliendo lo sguardo «Molto più che accettabile…».
«Bene» sorrise Tess, allungando le dita per sfiorare le sue «Sono fortunata allora».
La ragazza si limitò ad annuire sommessamente. «Il tempo non passa mai fra queste quattro mura. Odio non potermi muovere».
«Lo so. Forse non dovrai aspettare ancora molto, Howel sa quello che fa. O almeno dovrebbe» aggiunse scettica.
«Io mi sento già molto meglio» la rassicurò, vedendo i suoi occhi che prendevano una piega triste «È stato solo un brutto colpo».
«Un brutto colpo?» ripetè Tess stizzita, ritirando bruscamente la mano «Davvero? È questo quello che il Ministro di Ennon va ripetendo a chiunque glielo chieda? Che sei accidentalmente caduta dal letto e hai ripetutamente battuto la testa sul pavimento fin quasi a fracassarti il cranio?».
«Mio padre è in una posizione delicata, Tess. Io credo dirà tutto quello che sarà necessario per non sollevare inutili polemiche».
«Si, bhe…» iniziò a dire, sollevandosi di scatto dalla sedia «Nessuno pare voglia dargli ascolto. Lo vedo come mi guardano, tutti si scansano come se avessi il demonio in corpo e potesse saltar fuori da un momento all’altro per ucciderli. Se solo fosse vero…gli darei un aiuto!».
Daia si strinse nelle spalle «Non prestare più attenzione a queste cose di quanta non ne meritino. Parleranno finchè avranno bocche da aprire, o finchè non succederà qualcosa che attirerà di più la loro attenzione e tu sarai soltanto un vecchio pettegolezzo. Non permettere che ti condizionino: non hanno nulla da fare se non guardare duelli e screditare gli altri. Sempre che abbiano finito di screditarsi a vicenda».
«Non mi interessa quello che dicono di me Daia, mi interessa che mi ricordino sempre che tu sei…» la indicò, ma non continuò.
«Che io sono che cosa?».
Theresa sbuffò, camminando avanti e indietro per la stanza «Che tu sei ferma in un letto e io non posso uccidere nessuno per questo, visto che la colpa è solo mia. E che è un miracolo essere riusciti a convincere Zane a lasciarmi da sola con te, perché ha dannatamente ragione a non volere che io ti stia vicina. Non me lo permetterei nemmeno io se fossi al suo posto».
Daia scosse il capo «Tess, è stato un incidente. Per favore, datti pace».
«Ma come faccio a darmi pace se non posso più fidarmi di me?».
«Perché io mi fido ancora di te».
«Non dovresti».
«Ti conosco troppo bene per non farlo e non ho nulla da doverti perdonare».
«Puoi vedere da sola dove ti ha portata la tua fiducia».
«Vedo chiaramente dove ti sta portando la tua diffidenza» ribattè «Guarda le cose per quello che sono, guardati come ti guardo io. È stato un incidente. No, Tess, non interrompermi. È stato un incidente e non puoi biasimarti in eterno per questo. Non hai chiuso occhio da quando è successo, non ti fa bene, devi dormire».
«Non voglio».
«Ma…».
«Ho paura Daia! Io ho paura» scandì.
«Lo so. L’ho visto» sussurrò «Ma non è questo il modo giusto, Tess. Non è questo il modo giusto per risolverlo».
«Non sapevo nemmeno ci fosse qualcosa da risolvere, fino a tre giorni fa».
«Ascoltami, noi…».
«Noi?» la interruppe Theresa «No, qui non c’è nessun noi. Non sei tu quella sbagliata».
Il viso di Daia si scurì «Io pensavo solo che…».
«Allora non pensare. Non devi intrometterti sempre in tutto quello che mi riguarda, sei invadente».
«Volevo solo darti una mano».
«Non mi serve il tuo aiuto» sbottò «Me la cavo da sola, anche senza tutti questi consigli non richiesti».
«Certo» rispose secca l’altra, poi aprì la bocca per continuare, ma si trattenne. Lasciò cadere il discorso con un gesto rapido della mano e risentita posò gli occhi altrove. Sprimacciò il cuscino e tornò a sdraiarsi, avvolgendosi nelle calde coperte. Si girò su un fianco, tirò su col naso e rimase in silenzio.
Tess restò ferma in mezzo alla stanza, spostando il peso da un piede all’altro, per qualche minuto, prima di avvicinarsi. Si sedette sul bordo del letto dandole la schiena, stropicciandosi nervosamente le mani.
«Scusa» disse infine, ma l’altra non rispose.
Le posò una mano sulla spalla e la costrinse a girarsi «Daia…» la chiamò e lei le lanciò uno sguardo torvo, ma non desistette.
«Davvero» disse sconfortata la rossa «Sono solo tesa».
L’espressione della ragazza si addolcì. «Ricordi» iniziò sommessamente, giocherellando con il nastro della veste «Quando eravamo piccole e sei salita su quell’albero? Quando ho insistito per volere quella mela e tu mi hai accontentata?» chiese.
Tess annuì.
«Hai iniziato ad arrampicarti ma io volevo che salissi sui rami più alti, anche se dicevi che avevi paura. E poi non sei più riuscita a scendere. Io ho provato a raggiungerti, ma sei caduta prima che potessi arrivare a prenderti. Non hai ripreso conoscenza fino a sera e io sono morta di paura. Mi sono sentita così tanto in colpa…» le passò una mano sulla schiena «E la tua cicatrice me lo ricorda sempre».
«Eravamo delle incoscienti. Forse un po’ lo siamo ancora. Non è stata colpa tua».
«Lo so. Vorrei capissi anche tu che non è stata colpa tua. A volte si fa tutto il possibile, ma tutto non è abbastanza. E non possiamo odiarci ogni volta che sbagliamo. Tess…» la guardò negli occhi «Io voglio che tu ti dia tregua. Non mi piace vederti così per una cosa per cui non hai colpa. Io non lo so che cosa sia successo, eri così confusa, ma so che non mi faresti mai del male. Io so chi sei. Siamo noi due, lo siamo sempre state. Non importa se hai dei segreti e non vuoi raccontarmeli, ma permettimi di aiutarti. Non tagliarmi fuori in questo modo».
«Non voglio escluderti Daia. Voglio solo…» abbassò gli occhi, cercando le parole «Non voglio metterti nei guai».
«Se mi tagli fuori, chi terrà te lontana dai guai?».
Theresa arricciò le labbra, abbozzando un mezzo sorriso. «Riesci ad essere tremendamente cocciuta a volte» sospirò a mo’ di rimprovero e si allungò sul letto per deporle un bacio veloce sulla fronte.
«È un pregio o un difetto?».
«Ancora non lo so».
«Se mai dovessero chiederti ancora di arrampicarti su un albero, saprai dare la giusta risposta» scherzò.
«Il merito è tutto tuo!» rise.
Daia la guardò lasciarsi andare a quella piccola comicità che, anche se un po’ forzata, sembrava alleviasse davvero le sue preoccupazioni. Poi vide quegli occhi, prima giocondi, incupirsi improvvisamente e l’espressione sul suo viso farsi dubbiosa. Il sorriso a poco a poco le scivolò di dosso e la mascella si contrasse.
«Tess…?» la chiamò titubante quando la vide tornare a darle le spalle.
«Aspetta» sussurrò lei decisa. Si alzò in piedi. «Un incidente?» chiese più a sé stessa che a Daia. Si toccò la schiena.
«Tutto bene?».
«Quando sono caduta, io…» fece una pausa «È stato un incidente?».
«Che cosa intendi dire?».
«Io non sono mai caduta da un albero. Ho imparato da Savannah ad arrampicarmi» si prese il mento tra le dita «No, c’erano i contadini che tagliavano il grano…e io sono inciampata».
Daia preoccupata scosse la testa «Non so di cosa tu stia parlando. Quali contadini?».
La rossa aprì la bocca per rispondere, ma si rese subito conto di non avere alcuna risposta da dare. «Io…non lo so. Forse era un falò. Si, deve essere così, c’era del fuoco».
«Non possiamo più accendere fuochi da quando i boschi di Nika hanno rischiato di finire in cenere».
«Allora forse è successo prima che lo vietassero».
«Non eravamo neanche ancora nate, Tess. Non ci sono mai più stati fuochi ad Ennon».
«Però…» provò ancora ad obiettare. Nella mente si susseguirono immagini diverse: lei che si arrampicava sui rami, la corteccia che la graffiava, Daia che rideva e poi urlava, la sensazione di cadere da un’immensa altezza. Tirò un profondo respiro «Sì. Sì, è vero, sono caduta» rise nervosamente, stropicciandosi gli occhi «Mi dispiace, sono stanca e non so più quello che dico. Non che prima lo sapessi, comunque».
Daia le fece segno di tornare a sedersi vicino a lei «È normale. Hai bisogno di riposo. Possiamo chiedere ad Howel di prepararti qualche infuso se hai…ecco…» si morse le labbra «Paura di svegliarti nel sonno».
Tess si passò stancamente una mano sugli occhi «Va bene» disse distrattamente e lasciò che Daia le parlasse, senza ascoltare veramente quello che le stava dicendo.
«Daia…?» la interruppe ad un certo punto.
La ragazza si fermò a metà del suo discorso «Si?».
«Sei salita anche tu su quell’albero? Insieme a me?» la guardò negli occhi.
La mora non sembrò contenta di essere ritornata a quell’argomento. Annuì «Certo. Non potevo lasciarti lì, così. Mi sono arrampicata quando mi hai detto che non sapevi più come scendere». 
«Ah…» fece Tess, la fronte corrucciata. Prese respiro. «Ma tu soffri di vertigini».
L’altra alzò appena un sopracciglio e gli angoli della bocca si mossero come per un piccolo brivido. «All’epoca no».
«Invece sì. Hai sempre avuto paura dell’altezza».
«Ti stai sbagliando».
«Ma…».
«Non so dove tu voglia arrivare». Lo sguardo di Daia si fece tagliente.
Tess si allontanò da lei e fece per ribattere, ma quando il paggetto aprì la porta di ottone per annunciare una visita, dovette rimanere in silenzio.  
 
♦♦♦

Botte di Ferro procedette lungo il corridoio di marmo trascinando lentamente i piedi, al punto che, nonostante la sua imponente stazza, i tacchetti dei suoi stivali non fecero alcun rumore pestando il pavimento. Avanzava quasi controvoglia verso la Sala del Consiglio, lasciando vagare lo sguardo su qualsiasi pilastro che puntellava il suo cammino e su qualsiasi guardia di Palazzo che si inchinava al suo passaggio. Di fianco a lui, con le mani incrociate dietro la schiena come si confaceva ad un signore della sua età, l’ormai ex Ministro di Morèa teneva fissi gli occhi davanti a sé, forse in realtà senza vedere nulla, perso nei suoi pensieri, ma Zane non avrebbe saputo indovinare quali. Lo vedeva ora più invecchiato, più provato, era come se notasse nuove rughe sul suo viso, o forse erano quelle vecchie che gli avevano inciso maggiormente il volto; Howel non era mai stato un uomo di grande prestanza fisica – mancanza che aveva saggiamente compensato sviluppando l’intelletto – e aveva sempre mostrato più anni di quanti effettivamente non portasse.
Da ragazzi, Zane, Kasimir e Hansel, nel periodo della crescita in cui le lingue corrono più veloci del pensiero e della buona educazione, erano stati soliti dire che il loro mentore non era in realtà mai stato giovane. «È nato vecchio» scherzavano, dandosi sonore pacche sulle spalle. Ma Zane l’aveva sempre saputo che Howel, nell’animo, era rimasto un bambino e quella era l’unica giovinezza che serviva. E anche ora l’ex Ministro di Morèa lo seguiva con un mesto sorriso, gli occhi calmi, le spalle rilassate, come se non ci fosse nulla di cui doversi preoccupare, come se nulla potesse rimanere rotto per sempre. Come se le persone meritassero fiducia.
Howel non gli aveva domandato nulla di sua figlia, e Zane per questo gli era grato, ma si era gentilmente occupato di lei, rifiutandosi di delegare il compito a qualcun altro. L’unico suo quesito era stato per Theresa, ma Ophelia lo aveva messo gentilmente a tacere, posandogli una mano sulla spalla. «Non è il momento» aveva proferito «Non è saggio porre domande a chi non è ancora pronto per rispondere» poi, come se nulla fosse stato, aveva domandato, guardando il suo specchio «Il buio si avvicina?».
Zane aveva scosso la testa con incertezza. Howel aveva risposto: «Se tra noi non verrà prima la luce, temo di sì».
Il corridoio si chiudeva in un massiccio portone intarsiato chiuso da pesanti ingranaggi in ferro, ognuno collegato agli altri da invisibili filamenti. Sulla superficie usurata e irregolare, ancora si potevano vedere incisi i perduti manufatti di Kalendor che torreggiavano su una folla morente, prostrata dall’epidemia e dalla guerra.
Due gargoyle sorvegliavano l’entrata e ad un cenno di Zane si mossero, dando loro le spalle, per far funzionare il meccanismo di cui pochi conoscevano la soluzione. Le ruote dentate si incastrarono tra loro, le catene consumate dalla ruggine combaciarono con uno stridio, i lucchetti si aprirono uno dopo l’altro e dall’interno della struttura emerse un ultimo congegno, una ruota simile ad un timone che il gargoyle fece roteare finchè non si fermò con un sonoro click e il portone si aprì con lentezza.
I due uomini vennero accolti in una sala immensa, pressoché disadorna ma funzionale, occupata solo al centro da un grande tavolo rotondo. I falegnami di Nika vi avevano lavorato per mesi su ordine di Jheorg, il precedente Mastro Artigiano, e alcuni malignamente affermavano che fosse stato il suo unico ordine apprezzabile. Carte topografiche, militari e civili erano state portate, dai vari rioni, alla Cittadella per studiare questo enorme progetto. Il tavolo era stato creato utilizzando uno degli alberi sacri di Nika e sulla sua superficie era stata modellata, nei minimi particolari, la forma di ognuno dei cinque borghi più, al centro, la capitale con il suo Palazzo. Era stata un’impresa ardua riprodurre ogni fiume di Tanaro, ogni grotta di Kalendor, tutti gli alberi della contrada del legno, tutte le botteghe di Morèa e le piccole stradicciole di Ennon, ma ogni dettaglio era stato curato alla perfezione, al punto che, se qualcuno avesse guardato bene, avrebbe riconosciuto la propria casa, o il proprio laboratorio, la taverna in cui era solito recarsi la sera o il panificio di fiducia. La pianta occupava una superficie tale che, anche sporgendosi il più possibile, nessuno sarebbe riuscito ad arrivare a toccare col dito il confine del proprio rione, pertanto erano stati forniti, come supplementi del progetto, lunghe stecche di legno lavorato, una delle quali era, in quel momento, stretta nelle mani del Ministro di Tanaro che la stava usando per grattarsi la testa.
Seduti al tavolo delle trattative, Kasimir, Hansel e Aron li stavano attendendo per iniziare la seconda delle sedute del Consiglio dei Ministri. Appoggiata ad una colonna, Savannah osservava la scena da lontano, mentre i due totem di Kasimir affiancavano il loro padrone. Dorota e Dustan, i gemelli di Tanaro, non sembrava avessero più di sei anni e, in verità, non sembrava fossero nemmeno gemelli: lei con i lunghi capelli rossicci, lui con la sua capigliatura nera e riccioluta; lei con il viso sempre un po’ imbronciato e le guance rosee, lui con gli occhi allegri e l’espressione curiosa; lei sempre composta, nei suoi abitini di piccolo formato, lui sempre un po’ trasandato e mai al suo posto; lei sempre silenziosa, lui pieno di troppe parole.
La porta si richiuse alle spalle di Zane e Howel quando Aron si rivolse a suo padre: «Speravo che Ophelia ci avrebbe raggiunti per contribuire con il suo voto a questa decisione».
Il vecchio si limitò a scuotere la testa divertito «Purtroppo, figlio mio, il Ministro di Kalendor sa meglio di noi che le leggi non si fanno in un unico giorno. Spero comunque potrà raggiungerci più tardi, quantomeno per tenere compagnia all’unico anziano ancora presente in questa sala» si sedette anche lui in uno degli scranni lasciati liberi e subito Dustan si allontanò dal suo padrone per raggiungerlo, tutto contento.
«Oh» lo salutò Howel, prendendolo sulle ginocchia e scompigliandogli i capelli troppo lunghi «Ci sei anche tu».
Dall’altra parte del tavolo Dorota arricciò le labbra e una piccola fossetta le comparve sul mento. Corrucciata, strattonò un lembo del mantello di Kasimir. «Papà…papà guarda Dustan».
Il bambino le fece una linguaccia, ma il Ministro di Tanaro lanciò uno sguardo così torvo che fu sufficiente a rimettere in riga entrambi.
 «Sai» iniziò Howel, facendo finta di abbassare la voce e di sussurrare all’orecchio di Dustan «Loro sono tutti convinti che i bambini non dovrebbero ascoltare le questioni di stato. Io dico che se gli adulti tornassero ad essere un poco bambini, forse non ci sarebbero questioni di stato di cui dover discutere. Ma sarà il nostro piccolo segreto».
«Bene» iniziò Hansel, alzandosi in piedi e prendendo per primo la parola «Come tutti sapranno è stata fatta esplicita richiesta, da parte del Ministro di Morèa, di rivedere i termini del contratto che vincolano il suo borgo a partecipare attivamente al Torneo. In particolare, Morèa e i suoi abitanti desiderano rinunciare a tutti gli onori e gli oneri legati alla nomina del Maestro di Palazzo, ma tengono a precisare che qualsiasi cittadino potrà decidere liberamente per sé stesso in maniera diversa, anche se in questo caso dovrà abbandonare il borgo e richiedere altrove una nuova cittadinanza. Sono inoltre consapevoli che questa loro scelta li porterà all’esclusione da qualsiasi tipo di discussione in merito all’elezione del Mastro Artigiano e che sono consapevoli che questa loro scelta minerà profondamente una delle basi della nostra politica».
«Il mio voto è contrario» lo interruppe Kasimir con voce greve.
Hansel lo guardò «Siamo ancora in discussione amico mio, nessuno ti ha domandato quale sia il tuo giudizio».
«Non vedo la necessità di questi convenevoli» sibilò «Quando in realtà sappiamo tutti che una riforma di questo genere non può essere assolutamente presa in considerazione».
«È la procedura» ribattè con calma il Ministro di Nika.
«Io me ne infischio della procedura!».
«Sì, ne stiamo avendo una conferma».
«Non possiamo permetterci di concedere uno statuto speciale a Morèa! I cittadini sono tenuti a partecipare al Torneo, si tratta di un dovere civile che non può venire meno. È sempre stato così, la nostra politica si basa su questo, se un rione dovesse mai rifiutarsi di presentarsi…come lo spiegheremmo? Quale motivazione potremmo mai fornire? E soprattutto, le abbiamo davvero prese in considerazione le conseguenze di una simile decisione?» si alzò in piedi, poggiando le mani sul bordo del tavolo «Se Morèa non partecipa al torneo, allora non può avere diritti sulla nomina del Mastro Artigiano, il che significa che non sarà nemmeno tenuta a giurargli fedeltà. E questo non solo implica che una contrada rifiuterà il potere centrale, ma che lo stesso potere centrale dovrà fare a meno di un consenso. Arriveremo a ridurre il numero dei Ministri a quattro e nemmeno serve saper fare di conto per capire che in quattro risulterebbe impossibile prendere qualsiasi decisione e tutto si ridurrebbe ad una situazione di stallo! In caso di parità, e senza una maggioranza, come ci comporteremmo?».
«Siamo già in una situazione di stallo» ribattè Aron «Se non è permesso apportare alcune modifiche».
«Modifiche? Vuoi mandare a monte l’intero sistema!».
«E lo farò visto che l’intero sistema è sbagliato!».
«È sbagliato per voi!».
«Affatto, è per voi che è troppo comodo!».
Hansel scosse la testa esasperato «Signori, per favore…» li pregò «Contegno». In risposta il Ministro di Tanaro battè un pugno sul tavolo.
«Per tutti i diavoli, cosa non devono sentire le mie orecchie?!» sbraitò «Siete solo uno stolto e un ingenuo! Oppure siete fin troppo furbo e dietro tutte le vostre belle teorie sull’altruismo e la comprensione, mirate esclusivamente al potere! È questo in realtà quello che volete? Che Morèa diventi uno stato indipendente, con le sue regole, i suoi Ministri, magari il suo sovrano? È dunque l’anarchia?».
«Signore siete voi stolto, e anche sordo, se credete esclusivamente a quello che esce dalla vostra bocca! Non vogliamo sottrarci alla supervisione del Consiglio, ma vogliamo che venga fatta giustizia fra tutto questo scempio! Vi stiamo chiedendo di seguire il nostro esempio e sarà solo vostra la scelta di farci proseguire da soli o meno! Non sarà Morèa ad abbandonare la congregazione, sarete voi ad abbandonare noi!».
«Le richieste che ci avete sottoposto sono improponibili ed impossibili!».
«Sono grandi, non impossibili! Affrontiamo le nostre colpe una volta per tutte e smettiamola di presentarci come fabbricatori di morte!».
A quelle parole gli occhi di Hansel si spalancarono, ma non si sbilanciò, rimanendo in silenzio; Zane si portò una mano sugli occhi e bisbigliò: «È questo il vero dilemma…».
Kasimir si fece rosso in volto. «Io ridò la vita!».
«È una parvenza di vita e sei ancora più ridicolo di quanto non pensassi se credi davvero che due braccia e due piedi che si muovono equivalgano alla vita!».
«Sia maledetto il giorno in cui sei entrato in questo Consiglio, insulso ciarlatano!».
«Guarda le cose per quello che sono oppure taci!».
«Adesso basta, tutti e due!» li interruppe Hansel «Spero non vi aspettiate davvero di giungere ad un qualche tipo di accordo ricoprendovi di insulti!».
Dustan si guardò intorno perplesso, poi chiamò Howel, che lo teneva ancora sulle ginocchia, tirandogli la manica. «Non capisco» esordì «Io sono felice di poter essere tornato insieme al mio papà».
L’uomo tirò un profondo sospiro e gli regalò il sorriso più genuino che possedeva «Lo so. Purtroppo per noi, non possiamo pretendere che siano tutti felici di aver riabbracciato questa vita».
«Perché no? Le persone non amano la vita?».
«Certo. Ma credo amino di più la vita che sono stati abituati a conoscere, che non quella che viene loro restituita. È come per un regalo, o per l’amore: quando te lo portano via possono anche restituirtelo, ma non tornerà mai ad essere la stessa cosa. La vita e il cuore sono le uniche cose che non abbiamo ancora imparato a riparare davvero».
Dustan si strofinò il naso con il dorso della mano «Anche io sono stato riparato?» domandò.
Howel fece per rispondere, ma Kasimir lo precedette «Dustan, vieni qua, subito».
«Ma io…».
«Ho detto vieni qua! Non costringermi a darti ordini!».
Il bambino abbassò il capo, mortificato. Scese dalle gambe dell’ex Ministro toccando il pavimento con la punta dei piedi. In silenzio fece il giro del tavolo e tornò alla destra del suo padrone.
«È sempre colpa tua» gli sussurrò Dorota, sporgendosi oltre lo schienale, ma Dustan questa volta non ribattè.
«Kasimir…» iniziò dolcemente Howel, ma il Ministro di Tanaro non voleva più ascoltare.
«No. Non gli inculcherete simili idee in testa! Loro sono…sono…» aprì le ampie braccia per circondare le spalle dei due bambini.
«Il riflesso di ciò che erano» concluse per lui Howel, una nota di pietà nella voce.
Hansel incrociò le braccia al petto, come a volersi proteggere dalle parole del suo vecchio maestro. «Non è come dici tu, non è così semplice» alzò gli occhi, incrociando in fondo alla sala quelli di Savannah. «Nulla è cambiato» sussurrò, come a volersene convincere. La ragazza mantenne il suo sguardo per qualche istante, in un tacito segno di consenso, ma quando i dubbi tornarono ad attanagliarla distolse lo sguardo. 
«Sono solo menzogne!» urlò Kasimir.
Howel corrugò le folte sopracciglia bianche «Cerca di capire, figliolo» indicò Dorota e Dustan con la mano «Lia non avrebbe voluto questo per i suoi figli».
Istantaneamente la mano dell’uomo corse sull’elsa della spada che portava stretta al fianco «Non osare! Io non potevo! Non potevo lasciar morire anche loro!».
Aron si intromise «E ora li hai costretti a vivere in un mondo a cui non appartengono, un mondo che li rigetterà e li emarginerà, legati con catene invisibili che nemmeno tu puoi più spezzare. Non puoi invertire il ciclo della vita e pensare che quest’azione non ti si ritorcerà contro!».
«Loro ne sono felici!».
«E tua moglie lo sarebbe stata?!» ringhiò «Tua moglie sarebbe stata felice di vederti riesumare le salme dei suoi figli, di vederli distesi su un tavolo e aperti, dilaniati, squarciati con tenaglie da fabbro, di vederli trasformati in giocattoli, ubbidienti e fedeli come capre? Lia era felice quando hai dato in pasto il suo cadavere ai tuoi stupidi artigiani? Ti ha ringraziato quando hai deciso di profanare la sua tomba e di regalarle una seconda morte? Maledico il giorno in cui Lia ha scelto te come marito Kasimir e ringrazio che la malattia l’avesse debilitata a tal punto da rendere inutile qualsiasi tuo tentativo di riportarla in vita, perché altrimenti adesso sarebbe costretta ad assecondare ancora gli sproloqui di un bastardo come te!».
A quelle parole Kasimir sguainò la spada e, accecato dall’ira, cercò di agguantare il nuovo Ministro di Morèa salendo sopra la grande tavola rotonda. «Giuro che te la faccio ingoiare!».
Zane fermò il compagno, serrandolo in una ferrea stretta. «Amico mio, non fare pazzie!».
«Dannazione, lasciami! Lasciami o giuro che dopo farò fuori anche te per avermi impedito di ucciderlo prima!».
«Non ascoltarlo!».
«È riuscito a convincere anche te con le sue insulse chiacchiere? È così?».
«Affatto» lo rassicurò il Ministro di Ennon, senza allentare la presa «Ma devi capire che si tratta di un argomento delicato che non posso trattare a mani nude. Occorre tempo e bisogna ragionarci. Sono tenuto a farlo. Lo devo a Roan e ad Isolde. Non me lo perdonerei se commettessi ancora lo stesso errore».
«È l’amore che parla per te, Kasimir» disse Howel con tono pacato, nel tentativo di riportare la calma nel Consiglio «Ma l’amore ti impedisce di vedere con lucidità ciò che davvero conta».
«Sono vivi, è l’unica cosa che conta!».
Scosse la testa «Questa non è vita. Non è una vita che valga la pena di essere vissuta. Dobbiamo porre fine a questa carneficina. Morèa lo farà, con il vostro consenso o meno».
«È una minaccia? Inneggi alla guerra civile? Il sangue versato da Kalendor non ti è bastato?».
«Oh, non sta certo a te ricordarmi le atrocità che si sono susseguite tra queste mura. Bada bene, Kasimir, che tu sai cose che io ho visto molto prima della tua nascita. Non fare finta di non sapere quale sia la verità, solo perché è stato più facile diffondere la bugia. Io ricordo perfettamente un esercito che non poteva morire schierato contro un popolo che si era già arreso. E ricordo figli che uccidevano le madri, mogli che uccidevano mariti e fratelli che cessavano di essere fratelli solo perché così era stato loro ordinato e non possedevano più la libertà o il raziocinio per scegliere di fermarsi. Questo io ricordo di Kalendor e molto altro, ma non lo condividerò con te fino a quando non avrai intelletto sufficiente per comprendere». 
Quel pomeriggio la seduta si concluse con un voto a favore, tre contrari e uno nullo. 


 

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Capitolo 10
*** La malerba ***


Capitolo 8
 
♦ La malerba ♦
 
“Il rimorso si consuma su un paesaggio devastato,
nei ricordi di quel popolo che è stato maltrattato.
E perdi tempo a domandarti che ne sarebbe stato
se quel giorno in quell’assedio non ti fossi consegnato”
 

 
Raven, dopo essere stato annunciato dal paggio come un legato del Ministro di Ennon, rimase immobile sull’uscio della porta, con un’espressione beffarda cucita sul viso e lo sguardo puntato sulle due ragazze presenti nella stanza, nonostante il galateo imponesse un atteggiamento dimesso e occhi bassi per chiunque non fosse stato invitato ad entrare. Ma ogni curioso era conscio del fatto che la buona creanza, più che un insieme di codici di comportamento, fosse un guazzabuglio di finto perbenismo e moralismo di facciata, e l’unica cosa che poteva fare la differenza era capire con chi potersi permettere di ignorarla e con chi no. E Raven era sempre stato bravo a capire chi si trovava di fronte.
Tess e Daia squadrarono il nuovo venuto, la prima con fastidio, la seconda con sospetto, e solo dopo una manciata di secondi Daianara si decise a congedare il paggio con un gesto incerto, in un tacito invito. La spia si portò una mano al petto in segno di ringraziamento, ma non accennò alcun tipo di inchino e mosse qualche passo claudicante nella loro direzione, fermandosi a debita distanza. Era vestito di semplici abiti scuri e un corto mantello violaceo gli circondava le spalle, ondeggiando ad ogni suo movimento.
«Mi compiaccio di vedere che le vostre condizioni migliorano» iniziò rivolgendosi alla figlia del Ministro, che era tornata a sedersi compostamente sul bordo del letto, le mani in grembo. «Soprattutto» continuò «Mi compiaccio ancora una volta nel constatare come le chiacchiere delle malelingue siano abili nell’inventare i fatti tanto quanto lo sono i carpentieri nel costruire forti. In effetti, giungendo qui, mi sono divertito ad intrattenermi con quanti vi reputavano ormai in fin di vita, irrimediabilmente menomata o anche pazza».
La ragazza storse il naso a quelle parole e quando Tess fece per ribattere la trattenne con un gesto della mano. «E io mi compiaccio quanto voi nel constatare come almeno uno dei due riesca a trarre divertimento da questa situazione».
«Credo solo sarebbe uno spettacolo da non perdere osservare le loro espressioni quando vi vedranno camminare tra loro viva e in piena salute. E aggiungerei con piena padronanza delle vostre facoltà mentali» le sorrise, ma Daia non ricambiò.
«Non credo abbiate allenato i vostri occhi per perdervi alcunché e di certo questo è il posto migliore per assistere a spettacoli simili. Per vostra sfortuna non sono avvezza alle burle e ad Ennon le tragedie non sono gradite, pertanto mi scuserete se non mostrerò interesse alcuno per le reazioni dei cortigiani rispetto alla mia condizione. Lascerò a voi l’onore di osservarle con attenzione, ma spero non sentirete il desiderio di venirmele a riferire».
Il curioso scosse la testa e Tess percepì una nota di sarcastico divertimento in quel suo modo pacato di dimostrare il proprio disaccordo. Sembrava che nulla fosse in grado di indispettirlo o irritarlo e la sua capacità di distaccarsi dal resto del mondo, ignorando qualsiasi forma di biasimo o polemica, aveva un che di invidiabile.
«Accoglierò la vostra richiesta, ma vorrei rifletteste su queste mie parole: scoprirete che non esiste altra verità all’infuori di quella a cui viene data una voce e che i pensieri che rimangono taciuti, per quanto giusti possano essere, si perdono nel vuoto. Potrete certamente ignorare ogni maldicenza, ma nulla uccide un uomo più delle parole che di lui vengono dette. Qui, come altrove, siete ciò che gli altri pensano voi siate, siete come gli altri desiderano vedervi, siete le vostre dicerie e nulla più di questo» gli occhi scuri dell’uomo si fissarono su Theresa «E se vi reputeranno pericolosa, a nessuno importerà la verità. Le maschere che ognuno di noi indossa sono nate dal pettegolezzo ed è questo l’unico strumento che possedete per poter essere ascoltate. Siate furbe. E se sarete più intelligenti di quanti vi circondano, riuscirete a trasformare le loro chiacchiere in armi. In caso contrario, diverranno le vostre più visibili mancanze».
Daianara assunse un’espressione compostamente contrariata, ma non alimentò oltre quella conversazione che le pareva così fuori luogo, specie perché tenuta da un individuo che reputava essere di dubbia moralità. 
«Vi ringrazio per i vostri suggerimenti» disse concisa «Vedrò di farne un uso appropriato».
Raven fece per rispondere con una qualche formula di cortesia, ma Theresa lo prevenne con decisione «Non siete di certo giunto fin qui per renderci partecipi di queste sottili accortezze. Qual è dunque il motivo della vostra visita?».
La spia di palazzo si voltò ad osservarla con aria compiaciuta e incatenò i suoi occhi neri a quelli di Theresa che, per nulla intimidita, mantenne alto lo sguardo.
«In verità devo ammettere che sono venuto qui per voi» accompagnò le parole con un gesto eloquente della mano destra «Vi dissi che mi sarei ripresentato qualora aveste avuto bisogno di me e, per quanto possa immaginare il vostro disaccordo in merito a quanto mi accingo a riferire, non sono un uomo che ha contratto l’abitudine a venir meno alla parola data. Forse vorreste dissentire, e le vostre espressioni manifestano in modo eccellente l’idea che vi siete fatte di me, ma posso assicurarvi che non sono io quello da temere».
Daia lanciò un’occhiata turbata all’amica, che si limitò ad alzare un sopracciglio con fare scettico.
«Cosa volete da Theresa?».
«Solo informarla che l’ultimo scontro a cui ho avuto il piacere di assistere si è concluso e che il giudice ha appena inviato i suoi valletti ad informare voi» si girò verso la rossa «e il vostro sfidante che l’arena vi attende. Mi sono sentito in dovere di precederli».
Tess spalancò gli occhi euforica e in quel momento si sentì solo entusiasta ed eccitata. Ora sembrava non avessero più molta importanza i suoi sogni e le paure che ne derivavano. Era pronta per la sua rivalsa, per mettere in pratica gli insegnamenti del suo maestro, per combattere ancora con Argo e, certamente, per vincere.
«Tocca a me!» strinse fra le sue le mani di Daia, regalandole un enorme sorriso «Finalmente!».
La ragazza contraccambiò la stretta, un po’ meno convinta, ma disse ugualmente: «Sarà un incontro da non perdere».
«Queste giornate prendono una piega che mi piace! E’ ora di aguzzare i ferri!».
«Sarà meglio sbrigarsi» Daianara scese dal letto «Non sono ammessi ritardi in queste circostanze».
Raven, dietro di loro, fece un passo avanti, schiarendosi la voce con un colpo di tosse. «Purtroppo gli ordini di vostro padre, il Ministro di Ennon, sono stati precisi a riguardo e anche le parole del Ministro Howel, seppur più garbate, sono state chiare: voi dovrete rimanere a letto».
«Che cosa?» Daia lo squadrò in malo modo, presa in contropiede.
«Sono venuto per scortare la vostra compagna al torneo e per assicurarmi che le disposizioni di vostro padre venissero rispettate. Dovrete restare qui, almeno fino a quando Howel non deciderà per voi diversamente».
«No» sbottò la ragazza «Io sto bene. Io…».
«Mi rendo conto» la interruppe il curioso «che la situazione non deve essere delle più piacevoli e che la decisione non vi aggrada, ma non può essere altrimenti».
«Voglio parlare con mio padre. Esigo di vederlo!».
 Le labbra di Raven si stesero in un sorrisetto agghiacciante «Me ne rammarico, ma non siete nella condizione di esigere alcunché. Il Ministro di Ennon è al momento impegnato in una riunione del Consiglio, così come il Ministro di Morèa. Rimarrete qui» concluse in un tono che non ammetteva repliche.
«Ma…» Daia cercò con lo sguardo l’amica «Tess, diglielo. Non sono mai mancata».
«Ha ragione» cercò di sostenerla Theresa «Abbiamo sempre fatto questa cosa insieme».
«Non questa volta» tagliò corto Raven e, per porre definitivamente termine alla discussione, invitò con un gesto la sfidante a seguirlo fuori dalla stanza.
«Tess» provò ancora a persuaderla Daia.
La rossa passò lo sguardo prima su di lei, poi sul loro ospite e nuovamente su Daianara. «Mi dispiace» disse, presa tra l’incudine e il martello «Non sarà nulla di speciale, vedrai. Durerà meno del previsto» tentò di essere convincente, ma l’impazienza che sentiva addosso le impedì di dilungarsi ancora in altre spiegazioni «L’importante è che tu ti rimetta. Potrai fare ancora il tifo per me, più avanti».
Fuori dalla camera, Theresa procedette con ampie falcate lungo il corridoio, verso l’arena. Dietro di lei, il curioso avanzava altrettanto speditamente, ma i suoi passi non facevano rumore. Il respiro era regolare, anzi quasi impercettibile, e se la ragazza non si fosse sentita il suo sguardo sulla schiena, probabilmente non avrebbe mai intuito di essere accompagnata.
Le venne spontaneo accelerare il passo per lasciarlo indietro. “Mettiti nella condizione di guardare il tuo nemico” raccomandava sempre Donovan “Se non puoi farlo, metti più distanza possibile tra te e l’avversario. Se non puoi fare nemmeno questo, scappa. Esiste solo una cosa più stupida della fuga ed è morire per orgoglio”.
Non che temesse che lo scagnozzo di Botte di Ferro potesse farle del male o, quantomeno, non in pieno giorno e con i lacchè del giudice in giro per il Palazzo a cercarla. Tuttavia si sentiva in dovere di diffidare di quell’uomo e della sua nomea, e se anche avesse voluto chiedergli aiuto, quei suoi occhi così profondi e l’espressione scaltra di chi cade sempre in piedi non la mettevano a suo agio.
«C’è qualcosa» iniziò Raven senza dare l’impressione di essersi accorto di nulla «Che a mio avviso rende singolare agli occhi dei visitatori il borgo della lana. E non parlo certo dei fiumi, dei rigagnoli e dei canali che solcano le terre di Tanaro, o delle sue paludi, dei suoi laghi e delle sue cascate. Interessanti e degne di attenzione saranno sicuramente le lane pregiate e le spade che lì vengono create con tanta dedizione e con molta più presunzione. Ma nulla rende intrigante un luogo quanto le cose che nasconde e che tutti, nonostante ciò, conoscono. Strana è la legge: vieta l’ovvio, non si esprime sull’incerto e consente la trasgressione».
Le mani di Tess si chiusero in un pugno e la mascella si irrigidì «Le conosco bene le attrattive a cui state così sottilmente alludendo. Tutti gli uomini dei borghi le conoscono e la maggior parte di loro le ha sperimentate. Ennon si è già espressa in merito quando è stata richiesta la sua opinione e, per quanto mi riguarda, è stata anche fin troppo permissiva».
La spia sorrise «E’ ovvio che conoscete la storia. Mi chiedo se siate abbastanza preparata anche sulla realtà».
«Non serve essere informati, è sufficiente non essere ingenui» rispose duramente «Non mi interesserebbe se ogni taverna ospitasse un casino, purchè ogni persona fosse libera di scegliere come usare il proprio corpo. Tanaro non è certo il luogo ideale per manifestare le proprie idee. O le proprie preferenze».
«Propositi ideali, se non fosse che molti potrebbero obiettare che sulle proprietà il diritto di scelta spetta solo al padrone».
«Nessun uomo dovrebbe essere padrone di un altro uomo».
«Dubito che un protettore si senta responsabile dei propri totem, specie se ricorre al sesso mercenario».
«Invece dovrebbe se li crea solo per riempire le proprie case!» obiettò scocciata la ragazza «E’ innaturale il potere che obbliga qualcuno a compiere azioni riprovevoli e a farle passare come volontarie».
Il curioso abbassò lo sguardo «Parlate come se ne aveste avuta una prova».
«Pensavo che voi curiosi sapeste sempre tutto» tagliò corto Theresa e rimase chiusa in un ostinato e lungo silenzio, finchè Raven si rassegnò a non ricevere ulteriori chiarimenti. Superarono un secondo corridoio e scesero la rampa di scale che portava fuori dal Palazzo, ai giardini. A quel punto la rossa, spinta da una immagine che le aveva occupato la mente, parlò. «Non fui io, ma Daia» disse «ad averne conferma. Io sapevo già quello che lei non voleva ammettere: che non tutti gli uomini sono come suo padre, integri e senza macchia. Decise di seguire delle voci circa un bordello ad Ennon, gestito da un magnaccia di Tanaro che aveva pensato di poter ampliare i suoi affari oltre i confini della contrada. Il commercio fantoccio lo chiamavano» precisò con disgusto «Secondo loro non poteva esserci nome più appropriato per la tratta di totem. Quelle donne erano tutte consenzienti e al tempo stesso nessuna lo era veramente. Avevano tolto loro anche la possibilità di discernere ciò che era giusto da ciò che non lo era. Quando Botte di Ferro fece chiudere quello squallore, Daia provò a scuoterle, a persuaderle…ma l’ordine era già stato impartito e la loro vita era stata segnata e se anche lei fosse riuscita a salvarle tutte, nessuna di loro l’avrebbe ringraziata. Fecero quello che era scontato facessero: seguire il loro padrone. E quando lui tornò a Tanaro loro andarono con lui e Zane non potè impedirglielo. C’erano anche delle bambine. Daia ricorda ancora tutti i loro nomi. E’ sempre stata troppo sprovveduta».
«Suppongo che Tanaro abbia un concetto di “donna” differente dal vostro. Specie quando di donne, effettivamente, non si può parlare».
Theresa si fermò di colpo e girò il viso per poterlo guardare negli occhi. «Ed il loro concetto di “donna” è uguale al vostro?» domandò con aria minacciosa. Squadrò l’uomo in attesa di una risposta, ma l’espressione di Raven era impenetrabile.
La spia sorrise enigmatica «Forse lo scoprirete da sola» rispose e la sorpassò.
«Perché avete voluto affrontare questo argomento proprio con me?» domandò sospettosa Tess senza muoversi di un passo.
«Perché pensavo doveste essere informata sul vostro sfidante».
«Chi è?».
«Voi non lo conoscete» premise Raven «Ma a Tanaro è famoso, non di certo per i propri meriti, bensì per quelli del padre. Gli sono stati dati molti nomignoli, nessuno dei quali piacevole, eppure a mio avviso tutti fin troppo leggeri. In ogni caso, nell’arena verrà annunciato come Solome, del borgo dei telai. Il padre è conosciuto per aver gestito una serie di bordelli di bassa lega nella zona dei laghi, in prossimità del porto, dove erano solite sbarcare navi mercantili provenienti al di là del Grande Golfo. Mi pare superfluo aggiungere quale tipo di merci trasportassero le galere. Siete una ragazza perspicace, sono certo lo intuirete da voi. Il punto è che, sebbene ufficialmente il Ministro di Tanaro sia intervenuto con una legislazione appropriata, i porti della sua contrada risultano essere sempre ed immancabilmente protagonisti di un insolito via vai di acquirenti delle più disparate specie. E il padre del vostro sfidante è, insolitamente, sempre il primo della fila. Ma il vostro problema, al momento, non è quel ragazzino un po’ troppo arrogante e viziato, ma il fatto che il giudice di gara sia uno degli ospiti preferiti di queste bettole. E quando viene ospitato raramente dorme solo».
Sul volto di Theresa si dipinse un’espressione nauseata e la bocca si piegò in una smorfia. «Il che, io immagino, dovrebbe farmi dubitare della sua imparzialità».
«Non è mio compito suggerirvi cosa pensare. Io metto a disposizione gli strumenti, che al momento vi mancano, per poter osservare gli eventi nel loro insieme. E’ tutto vostro l’ingrato compito di trarne le deduzioni che riterrete più opportune».
«Sostanzialmente ve ne tirate fuori».
«Non mi è stato chiesto di rimanerne dentro».
«Allora cosa suggerireste di fare?».
Raven alzò gli occhi al cielo «Per vostra fortuna, Solome è al suo primo torneo ufficiale. E’ una grande esperienza. E tutte le grandi esperienze possiedono un denominatore comune: il pubblico. Amici, parenti, compaesani, scommettitori, vecchie antipatie, qualche fiamma…questo gioca a vostro vantaggio».
La ragazza accennò un sorriso, ma fu solo per un momento «Il giudice non si comprometterebbe fino a questo punto, davanti a tutti, solo per mantenere un buon rapporto con un furfante qualsiasi».
«Un furfante ricco» precisò la spia, scendendo l’ultimo gradino della scalinata.
«Quanto è corrotto questo posto?» si domandò Theresa.
«Oh, non immaginate quanto» rispose divertito lui.
L’arena era già pronta ad attenderli, gli spettatori disposti disordinatamente sulle tribune di legno, sufficientemente vicini al campo di gara, abbastanza lontani per sentirsi al riparo. Su una gradinata rialzata, protetto da due gendarmi, il giudice di gara sedeva sul suo scranno come un re assiso in trono, e voltava gli occhi da una parte all’altra del campo, forse annoiato, forse impaziente. Alla sua destra e alla sua sinistra due ragazzetti in livrea gialla tenevano tra le mani l’uno la clessidra del gioco, ancora riempita di granelli dorati, l’altro un cuscino di velluto su cui erano stati poggiati i biglietti di papiro con su scritto, a bella grafia, i nomi degli sfidanti. La toga color vinaccia dell’arbitro e i pesanti gioielli che portava appesi al collo avrebbero permesso a chiunque di riconoscerlo anche tra la folla più numerosa e, di questo, ne andava certamente orgoglioso e non tentava di mascherarlo.
Sugli spalti, le genti delle cinque contrade si erano divise più o meno equamente i posti a sedere e quelli in piedi: il borgo di Tanaro era certamente quello più numeroso e acceso, donne e uomini cantavano all’unisono ballate tradizionali e agitavano freneticamente i loro arazzi; del rione di Kalendor, così come per quello di Morèa, quasi nessuno era giunto ad assistere alla gara e molti se ne erano andati dopo il termine dello scontro precedente; degli abitanti di Nika Tess non riconobbe nemmeno un volto familiare, ma i presenti sembravano tutti attenti e incuriositi, anche se la loro naturale compostezza non lasciava trapelare più del lecito; di Ennon in molti avevano preso posto per supportare la loro compaesana e, quando la videro arrivare, un manipolo di fabbri iniziò a battere il piede del martello sul parapetto dello spalto, mentre un altro battè a terra le lance a mo’ di incitamento. Theresa rispose al loro benvenuto con il segno di saluto e incrociò lo sguardo di Isolde, seduta nelle prime file. La donna, schiena retta e mento alzato, non si scompose come i suoi vicini all’entrata della ragazza, ma scambiò con lei una lunga occhiata e accennò un assenso. Per Tess quel muto incoraggiamento fu più che sufficiente.
Raven si congedò da lei con un veloce e poco sentito inchino e, con la camminata incerta che sempre lo contraddistingueva, rimase in disparte ad osservare e commentare lo svolgersi degli eventi.
Oltre la staccionata di legno scuro che delimitava l’area del campo di combattimento, anche Argo sembrava attendere impaziente l’inizio dello scontro. Il suo manto nero era stato strigliato a dovere dagli scudieri e ora, vista la pioggia che iniziava a cadere dal cielo, sembrava ancora più lucido. Theresa gli corse incontro, concentrata sull’obiettivo della sfida ed entusiasta di poterla affrontare ancora con il suo totem, in una nuova rivincita che, questa volta ne era certa, l’avrebbe appagata completamente. Il cavallo drizzò le orecchie e nitrì quando vide la sua padrona avvicinarsi.
«Ci siamo!» sussurrò trepidante Tess, allungando una mano e tenendola aperta di fronte a sé. Argo poggiò il muso al suo palmo per riceverne la carezza ed entrambi rimasero in quella posizione per un lungo istante, persi l’uno nelle intenzioni dell’altra, ed entrambi si sentirono stretti in un legame indissolubile che trascendeva qualsiasi emozione ed ignorava qualsiasi regola, più forte di tutti i rapporti che si sarebbero mai potuti instaurare tra un uomo e un altro uomo. Era la certezza del “per sempre” più sincero e l’unico a cui Theresa credesse veramente. Ora si sentivano pronti. 
Quando il Giudice di gara si alzò in piedi, sull’arena prima chiassosa scese un discreto, seppur poco duraturo, silenzio.
«Che si dia inizio al ventiduesimo giogo del terzo girone per la nomina a Mastro Artigiano» provò ad urlare l’uomo, rivolgendosi alla platea lì presente. La sua voce era più flebile di quanto ci si potesse aspettare da un individuo della sua stazza. «Come sempre confidiamo in rettezza, rispetto e coscienza. Siamo qui per fare in modo che questi principi vengano rispettati». Pronunciò una formula di ringraziamento a cui tutti i presenti risposero: «Meleth!».
Il primo valletto fece un passo avanti, mostrò la clessidra e la capovolse. Il secondo sporse al suo padrone i frammenti che erano stati precedentemente estratti, affinché potesse rendere noti ufficialmente i contendenti.
«Si schierino indi Solome, del borgo di Tanaro e Theresa, della contrada di Ennon. Gli sfidanti entrino nell’arena».
Il cancello venne aperto e Tess, tenendo Argo per le redini, si mosse a passo sicuro verso il centro del campo da gioco, il tacco degli stivali che leggermente affondava sul terreno bagnato. Anche il suo rivale le venne incontro, ma data la lontananza e quella fastidiosa pioggerella, Tess non riuscì subito a mettere a fuoco i contorni della sua figura. Solo quando furono abbastanza vicini la ragazza riuscì finalmente a riconoscere il suo avversario. Era un ragazzino acerbo, dai vispi capelli rossicci e il viso coperto di foruncoli; non era ancora molto alto, ma gli arti lunghi e sottili suggerivano che nel giro di pochi anni sarebbe cresciuto superando tutti i suoi coetanei di un paio di spanne. Gli occhi chiari sembravano inespressivi, ma l’atteggiamento e il sorriso di scherno che aveva cucito in volto erano gli inconfondibili tratti degli uomini di Tanaro.
Era vestito con abiti di semplice fattura, ma i tessuti erano molto al di là delle possibilità economiche di un cittadino qualsiasi. La stessa cosa non poteva dirsi per la giovane che procedeva mesta alle sue spalle. Il totem di Solome aveva un aspetto dimesso, trascurato; gli abiti erano sgualciti e rattoppati in più punti, ma nonostante fossero così stropicciati, la scollatura troppo pretenziosa, i colori accesi, il trucco un po’ troppo presente per quel viso così dolce e la gonna ampia non lasciavano dubbi circa la condizione di quella ragazza. I capelli, tagliati all’altezza delle spalle, erano lisci e neri, come i suoi occhi, occhi che apparivano assai gentili, ma spenti, privi di qualsiasi guizzo, incapaci anche di riflettere la luce. Tess rabbrividì a quella vista pietosa, ma non diede mostra del suo turbamento.
Quando si trovarono uno di fronte all’altra, la rossa sguainò la sua spada corta dal fodero e la piantò a terra, quindi si inginocchiò. Anche Solome impugnò la sua spada bastarda e ne conficcò la punta nel terreno, ma non si inginocchiò, né accennò alcun tipo di ossequio; quando il suo totem invece abbozzò una riverenza, accompagnata da un timido sorriso, lui la riprese malamente.
«Camària!» sibilò il suo nome, facendole segno di ricomporsi e la ragazza ubbidì all’istante. 
«Da dove provieni forse non insegnano l’educazione?» chiese Tess, rompendo il saluto.
Solome la degnò a malapena di una risposta. «Da dove provengo io il rispetto va portato solo a chi conta davvero».
«Conterò con piacere le tue scuse quando avremo finito qui» sorrise di rimando.
«Ho sentito parlare di te. Sei la figlioccia del Ministro di Ennon, quella che dicono essere nata nel borgo sbagliato. Non gareggi nemmeno con la lancia».
«Fai attenzione ragazzino, la lingua lunga non serve quando non si ha la vittoria in tasca».
Fece spallucce. «Per quello che vale, io credo si sbaglino. Tutti loro. Non sembri avere proprio la stoffa per essere una di Tanaro». 
Prima di allontanarsi e montare su Argo, vide il ragazzo levare la spada e passarla bruscamente a Camària.
«E questa volta vedi di non sbagliare» le intimò, dirigendosi al limitare dell’arena.
Theresa arricciò il naso. «Che vigliacco…» pensò ad alta voce mentre Argo, sotto di lei, scalpitava.
Impugnata la sua spada di acciaio chiaro, la rossa fece roteare il polso, in un blando riscaldamento, e saggiò il terreno sempre più scivoloso facendo muovere il cavallo di qualche passo. Davanti a lei, Camària si era messa sulla difensiva, le spalle incurvate, le gambe pronte a scattare; brandiva l’arma con due mani, ma tutto del suo corpo suggeriva disagio.
Ogni schiamazzo dalle tribune cessò, lasciando spazio solo a qualche mormorio di sottofondo.
La rossa si strofinò gli occhi per pulirli dalle gocce di pioggia, attendendo un attacco della rivale, ma quando fu chiaro che Solome non avrebbe mai impartito l’ordine per la prima mossa, alzò la spada e si preparò alla carica. Con una leggera pressione, Argo partì al galoppo e Camària, anziché spostarsi, scattò verso di loro per iniziare uno scontro frontale. Nonostante la gonna sembrasse ingombrante, la ragazza si muoveva agilmente, con una velocità superiore alla norma, gli occhi fissi sull’obiettivo.
A poca distanza dalla rivale, Tess si sporse dal dorso di Argo per mettere a segno il suo fendente. Solome urlò un ordine e il totem schivò il colpo, come una marionetta mossa da fili invisibili, spostandosi lateralmente con un balzo. Sembrò per un attimo perdere l’equilibrio e Tess ne approfittò, preparandosi per un secondo fendente. Tirò le redini e il cavallo si girò, ma quando fu faccia a faccia con Camària questa raccolse da terra una manciata di sabbia bagnata e gliela gettò sul viso, riempiendole gli occhi. Argo si impennò davanti a quel movimento brusco ed indietreggiò quel tanto che bastava per non essere più alla sua portata.
«Dannazione!» esordì Theresa, strofinandosi gli occhi, cercando di ripulirli il più velocemente possibile «Giochi sporco!». 
«Mi dispiace» rispose Camària, sinceramente contrita. Per un attimo i suoi occhi si accesero di vita, il volto si contrasse e mostrò cenni di espressione, ma fu solo per un attimo.
«Azzoppa il cavallo!» sbraitò Solome «Colpisci adesso!».
All’ordine del suo padrone, lo sguardo della ragazza tornò ad essere vitreo e privo d’intenzione. Si mosse come in trance verso Argo, tenendo dritta la spada davanti a sé.
«No!» urlò Tess e con un colpo di tacco fece allontanare l’animale per poter guadagnare tempo e tornare a vedere chiaramente. Camària, dal canto suo, li seguiva in corsa, ma per quanto potesse essere veloce non sarebbe mai stata in grado di raggiungerli.
Theresa sentiva gli occhi irritarsi e lacrimare e quando tentava di aprirli non riusciva a distinguere altro che macchie di colore senza contorno. Serrò e riaprì le palpebre più e più volte e solo nel momento in cui smisero di bruciare tirò le redini, con l’intenzione di affrontare Camària di petto. La ragazza non si arrestò e continuò a correre verso di loro, la spada alzata, sicura di colpire. Tess attese il momento giusto. Vide il totem rallentare, piegare le ginocchia per prepararsi al salto, alzare le braccia per sferrare un attacco obliquo che avrebbe squarciato il ventre di Argo. Ma aspettò ancora, perchè tutti i conflitti si misuravano in secondi, e sarebbe stata quella frazione di secondo in più a darle maggiori possibilità di vittoria; quell’attimo che avrebbe permesso a lei di giocare sulla sorpresa e che avrebbe impedito all’altra di coprirsi il costato una volta affondata la spada.
All’ultimo secondo, prima che fosse troppo tardi, Argo scartò a destra e mentre l’attacco di Camària fendeva la pioggia, Tess si portò alle sue spalle, roteò la spada e, lasciando libere le redini, afferrò con entrambe le mani l’impugnatura. Prima che Solome potesse intuire la sua mossa e ordinare a Camària di schivare, Tess colpì la ragazza all’altezza delle costole. Il pomello di ferro dell’elsa le schiacciò il costato, togliendole il respiro, e Theresa continuò a colpirla, sulle spalle, sulla schiena, alla bocca dello stomaco, aspettandosi di vederla allentare la presa sull’arma. Dall’altra parte dell’arena, Solome continuava a sbraitare comandi.
L’ultimo attacco che Tess sferrò, quasi snervata, fu di lama e lacerò il fianco di Camarìa. Le stoffe del vestito e della sottoveste si tagliarono di netto e la spada affondò, seppur non in profondità, nel suo corpo. Ma, ovviamente, lei non sanguinò. Si portò istintivamente una mano alla ferita e Tess sfruttò l’occasione per colpirle il polso: girò la spada e le battè la mano col dorso della lama. La ragazza aprì le dita e la sua arma scivolò, a pochi passi da lei. Subito fece per scaraventarsi a terra e riprenderla, ma Theresa la anticipò, saltando giù dalla groppa del suo totem e schiacciandole la mano sotto lo stivale. Con l’altro piede calciò lontano la spada. «Argo!» urlò, facendo segno al cavallo di dirigersi in quella direzione. L’animale ubbidì, nitrendo e sbuffando dalle narici, posizionandosi davanti all’arma come un cane che protegge il suo osso.
Tess indietreggiò, lasciando libera Camària, che rimase a terra, in ginocchio. Dalla platea si levarono le grida di Ennon e gli applausi di Nika, mentre il borgo di Tanaro taceva. Per tutti, lo scontro era finito.
La rossa si asciugò la fronte bagnata con la manica del camiciotto, aspettando che il giudice di gara alzasse le braccia per annunciare il vincitore. Rinfoderò la spada corta, poggiò le mani alle ginocchia e tirò un lungo e profondo respiro. Ma l’unica voce che si udì, chiara e aspra, fu quella di Solome.
«Rialzati!» ordinò, agitando i pugni in aria «Continua! Dannazione, continua!».
«Hai perso!» urlò di rimando Theresa «Arrenditi ragazzino!».
«Mai! Mai contro una come te! Attacca, attacca!».
La mano di Tess corse all’elsa quando Camària si rimise in piedi, il vestito rovinato e sporco di terra. Le gocce di pioggia le scendevano lungo il viso e i capelli bagnati le si appiccicavano al collo.
Anche Argo fece per lasciare la sua posizione, ma la rossa lo fermò. «Rimani lì» disse senza voltarsi a guardarlo «Non deve prendere quell’arma». Lanciò un’occhiata al Giudice, ma non le sembrò che questi avesse intenzione di riprendere il giovane contendente per l’insana ostinazione di cui stava dando mostra.
Camària vacillò, come se non avesse completamente il controllo dei suoi arti, quindi si scagliò contro Theresa a mani nude, sotto gli incitamenti di Solome.
Tess sfilò il fodero dalla cintura e lo usò per proteggersi dagli assalti della ragazza che cercava di graffiarle il viso con le unghie. Alcune volte la veemenza della rivale la costrinse ad indietreggiare, in altre riuscì a colpirla con la custodia. Camària finì a terra altre due, tre, quattro volte. Dopo la quinta Tess cessò di contarle.
Gli uomini di Tanaro, dall’alto delle loro tribune, battevano le mani e agitavano i blasoni; gli altri rioni, per contro, mormoravano disapprovazioni. I pochi di Morèa che erano rimasti ad assistere cominciarono ad inveire, alzare pugni e sputare minacce. Solo allora il Giudice di Gara iniziò a dare segni di ripensamento.
Theresa non avrebbe saputo dire per quanto tempo lei e Camària andarono avanti in quel modo, senza giungere ad alcun risultato. Iniziava a sentirsi stanca, le gambe erano indolenzite, i riflessi rallentati e il terreno si era fatto molto scivoloso. Con un ulteriore sforzo, la ragazza alzò il fodero e lo calò con energia sulla spalla della giovane, che cadde nuovamente in ginocchio davanti a lei. Tess dovette trattenersi dall’estrarre la spada. Se l’avesse usata per trapassarla da parte a parte, o per azzopparla, o per accecarla, l’incontro si sarebbe certamente concluso in maniera incontestabile. E lei era certamente affaticata, provata, snervata, ma per nessuna ragione sarebbe giunta a tanto pur di vincere.
Scosse la testa e scacciò il pensiero. «Per favore» disse, cercando gli occhi della ragazza davanti a lei «Ora basta». Le allungò una mano per aiutarla ad alzarsi «Non voglio continuare così».
Camària alzò lo sguardo e annuì impercettibilmente. Respirava affannosamente, tremava, ogni movimento le procurava dolore. Afferrò la mano che le era stata tesa, ma quando si rimise in piedi il fianco le cedette e Tess dovette sorreggerla.
«Scusatemi…» sussurrò con voce spezzata il totem.
«Che cosa stai facendo?!» abbaiò Solome «Stupido essere! Giuro che questa volta il tuo bel faccino non ti salverà, mi hai sentito? Non ti salverà! Non è finita fino a quando non lo dico io! Vedi di riprenderti, inutile straccio!».
«Basta così» sibilò Tess, le mani chiuse in un pugno. Si lasciò Camària alle spalle e raggiunse il ragazzo di Tanaro, il quale continuava imperterrito ad impartire ordini, senza però che il tuo totem avesse la forza di metterli in pratica. Lei se ne stava così, immobile sotto la pioggia, accennando di tanto in tanto dei movimenti, senza arrivare mai a finirli; gli occhi le si illuminavo e le si offuscavano, come una fiamma in procinto di spegnersi, ma a lui non importava.
Solome indietreggiò quando Tess estrasse la spada corta, buttando a terra il fodero.
«Non ti avvicinare!» urlò, facendo la voce grossa.
Theresa per tutta risposta si lanciò su di lui, afferrandolo per la collottola e strattonandolo. Gli abitanti di Morèa la incoraggiarono con grida e versi. «A me non puoi dare ordini, piccolo gradasso. Mi sono spiegata? Ora che non c’è nessuno ad impedire che i tuoi bei vestitini si sporchino te ne stai con la coda fra le gambe e le orecchie abbassate, come il più codardo dei cani. Ti piace giocare a fare il prepotente? Bene, hai giocato con me e io ho vinto e nessuno salverà te adesso, marmocchio viziato!».
Solome aprì la bocca per rispondere, poi la richiuse. Cercò di spingere via Theresa, ma lei aumentò la stretta. Guardò oltre le sue spalle e urlò ancora: «Vieni subito qua Camària!».
«Lasciala stare!» la rossa alzò la spada, puntandogliela al cuore «Tu prova a parlare ancora, prova anche solo a biascicare un ordine e giuro che la lingua sarà solo l’ultima cosa che ti taglierò».
Solome si divincolò ancora sotto la sua presa e infine Theresa lo lasciò andare, buttandolo a terra. A quel punto lui si piegò per sfilarsi un piccolo pugnale, lungo e sottile, da sotto la casacca e con mano malferma fece per colpire la sua rivale, puntando allo stomaco. Ma i suoi movimenti furono troppo lenti e troppo goffi e la ragazza si scostò ancora prima che lui potesse affondare il colpo. Con un calcio poderoso ai reni, Tess lo buttò nuovamente a terra e gli salì a cavalcioni sulle spalle, per immobilizzarlo. Gli strappò il pugnale dalle mani e piegandosi su di lui sussurrò: «Sei un moccioso patetico. Non te l’hanno insegnato che le armi si mostrano al momento del saluto?».
«L’ho fatto!» si difese subito lui.
«Non ci provare, non mi scordo facilmente di chi tenta di offendere la mia intelligenza. Questo giochetto ti costerà la squalifica». Alzò il pugnale in aria, per farlo vedere a tutti gli spettatori. Poi, fissando il giudice, lo calò sulla testa del ragazzo che, spaventato, contrasse ogni muscolo del corpo e strizzò gli occhi, lagnandosi.
«Spero tuo padre l’abbia pagato profumatamente» concluse e la punta dell’arma gli sfiorò la guancia, graffiandogli lo zigomo, mentre veniva conficcata nel terreno.
 
♦♦♦
 
Sotto la settima torre campanaria, in direzione sud-est, si apriva un modesto giardino recintato, il più dimesso fra tutti i parchi che circondavano il Palazzo della Sacra Cittadella, pieni dei loro alberi rigogliosi, dei loro ruscelli e laghetti artificiali, dei loro fiori così accuratamente disposti. Si trattava di uno spazio che era stato ricavato a ridosso delle alte mura e al di là di queste il chiacchiericcio della folla al mercato e in piazza o il rumore proveniente dalle armerie e fucine si facevano sentire. Pensato probabilmente per ospitare altri padiglioni o alloggi per la servitù, infine il terreno era stato recintato e abbandonato. Il terreno era acciottolato e ospitava solo qua e là qualche ciuffo d’erba; il sentiero che era stato precedentemente tracciato, con grandi pietre tonde e levigate, conduceva al nulla; le panchine, mai state troppo utili, erano coperte di foglie secche e terra. Eppure, nonostante conoscesse altri luoghi certamente più silenziosi e piacevoli, Ophelia non avrebbe scambiato quel giardino con nessun altro al mondo. Non mancava mai di recarsi in quel posto dimenticato da tutti - o forse mai cercato - quando le si presentava l’occasione di sostare a Palazzo e ogni volta che varcava il cancelletto di ferro arrugginito per mettervi piede, il ricordo della sua vecchia casa la pervadeva. Era un giardino abbandonato, trascurato, svuotato, così come lo erano le rovine di Kalendor, e come loro sarebbe presto stato dimenticato anche da chi ne conservava ancora la memoria.
Dopo la guerra, della sua città natale non erano rimaste che le vestigia e i ruderi del borgo si affacciavano ancora sulla strada che portava a Morèa, attraversando campagne ormai sterili e disabitate. Ophelia si era recata spesso alle rovine, insieme a quello che rimaneva della sua gente, ma con il passare del tempo e l’avanzare dell’età le sue visite si erano fatte sempre più sporadiche e brevi, sia perché non erano rimasti in molti a rendere disponibili le proprie carrozze per una simile destinazione, sia perché i ruderi erano divenuti il ritrovo ideale di banditi, tagliagole e malfattori che di notte accendevano i fuochi e davano inizio a losche trattative. Ish-kalei, la città senz’anima. Così veniva chiamata la vecchia Kalendor da quanti parlavano ancora il dialetto del luogo, ma fuori dal borgo nessuno più osava menzionarla e molti non ne sentivano nemmeno il bisogno. I sopravvissuti alla ribellione si erano spostati ad ovest e in mezzo alle colline Kalendor era stata ricostruita con impegno e fatica, ma non possedeva quasi più nulla dello splendore di un tempo. Le grandi finestre pigmentate, gli alti palazzi, le botteghe ad ogni angolo, i chiassosi mercati coperti da pannelli di vetro intarsiato che coloravano l’ambiente di ocra, rosso e arancio, i venditori di pietre preziose, specchi e calici, erano tutti un lontano ricordo.
Ophelia rammentava come fosse andato tutto distrutto all’arrivo delle legioni della Cittadella. I corni della capitale accompagnavano i soldati in fermento, seguiti dai cavalieri di Tanaro, dagli uomini di Ennon e dagli arcieri di Nika e a nulla valsero i fossati, le catapulte, gli sbarramenti quando li circondarono. Dalle feritoie dei forti di Kalendor si scorgevano fila e fila di uomini e nessuno sapeva spiegarsi come fossero riusciti a reclutarne così tanti in così poco tempo, con la carestia e l’epidemia che decimavano la popolazione in ogni dove. Poi la decisione di Ophelia di dichiarare la resa e abbassare il ponte levatoio, come aveva promesso di fare ad Howel, e a quel punto la fine di qualsiasi speranza. Quando le forze di Morèa giunsero a Kalendor era ormai troppo tardi.
«No!» aveva urlato Howel, il più giovane Ministro del reame, scendendo da cavallo «Si erano consegnati! Che cosa avete fatto?».
«Solo quello che era giusto facessimo» aveva risposto altezzosamente l’allora in carica Maestro di Palazzo, tra le mani i ferri arroventati per marchiare i sopravvissuti. I Ministri che lo avevano accompagnato si erano scambiati uno sguardo d’assenso.
«Avete mosso guerra ad un popolo disarmato! Non siete degni del ruolo che ricoprite, né di essere considerati uomini, quando vi comportate come bestie assetate di rivalsa! Avete giurato di proteggere questa gente e ora io mi chiedo, in mezzo a tutte queste macerie e a questo sangue, che fine hanno fatto le vostre promesse?!».
«Nessun voto può essere mantenuto davanti ad una chiara prova di tradimento!» aveva ribattuto il Ministro di Ennon, avvicinandosi a quel giovane allampanato che, vicino a lui, sembrava ancora più smilzo e inerme.
«Siete voi i traditori se giustificate con le menzogne le vostre azioni!».
«Bada bene ragazzino» aveva iniziato, tirandolo per la collottola «Sei arrivato dove ti trovi molto in fretta e altrettanto rapidamente possiamo rimetterti al tuo posto!». Lo aveva scaraventato a terra, la faccia nella polvere, ed Howel era rimasto lì, in ginocchio, con una sensazione d’impotenza a schiacciargli il cuore e ad avvilirgli lo spirito. Ophelia lo aveva guardato struggersi mentre veniva portata via in catene e quella fu l’unica volta in cui lo vide piangere. Ve ne sarebbe stata una seconda, ma questo lei ancora non lo sapeva.   
Ci abbiamo provato, amico mio, pensò Ophelia distrattamente, l’unica colpa che possiamo rimproverarci è quella d’esser stati troppo ingenui. Ma Kalendor ti è riconoscente ed io ti devo tutto. Hai allevato i tuoi discepoli come fossero la tua prole, li hai educati a sentirsi uno il fratello dell’altro, hai insegnato loro a dubitare dei vincitori e a provare pietà per i vinti, per far sì che nulla di quanto accaduto potesse ripetersi. Eppure ora sono divisi, perché l’animo umano non può essere cambiato. Oh caro, vecchio amico mio, ne abbiamo viste troppe per credere ancora di poter disporre del futuro come più ci aggrada. Lascia che sia il tempo a decidere. E se la guerra arriverà, non importerà più tutto l’impegno che avrai speso per evitarla. 
Le sue riflessioni vennero interrotte quando una piccola mano paffuta le strattonò la veste per richiamare la sua attenzione. Il Ministro di Kalendor abbassò lo sguardo e sorrise dolcemente e le rughe intorno alla bocca si accentuarono «Scusa cara, questo posto mi fa tornare in mente tanti ricordi. E si sa, alla mia età i pensieri non corrono veloci come un tempo! Cosa stavo dicendo?».
La bambina fece per rispondere, ma quando suo fratello la sorpassò di corsa, urtandole una spalla, gridò solo: «Smettila Dustan!». Il bambino non diede segno di averla sentita e continuò a girovagare per il piccolo giardino, seguito da Levi che, seppur composto nel suo abito così formale, non gli negava mai il gioco.
La piccola Dorota aggrottò la fronte e le labbra si serrarono in un broncio, ma quando Ophelia le accarezzò una guancia tutta la sua disapprovazione sparì. Il vecchio Ministro la prese per mano e si trascinò con lei fino alla panchina più vicina. Prima di sedersi, Dorota ripulì il legno dalle foglie secche per non sporcare il vestitino che le piaceva tanto.
«Perchè non sei venuta oggi alla riunione?» le chiese noncurante la bambina, facendo dondolare i piedi avanti e indietro. Le sue scarpette non arrivavano a toccare terra.
«Non è ancora giunto il momento» rispose solo «Per ora credo che le mie parole possano essere più utili qua fuori che lì dentro».
Dustan, poco distante da loro, si mise a raccogliere delle pietre, scegliendo accuratamente quelle più tondeggianti. «Papà si è molto arrabbiato» disse sovrappensiero.
Ophelia annuì «Lo so. E’ una cosa che i grandi fanno spesso».
«Tu non ti arrabbi mai?» chiese incuriosita la piccola di Tanaro.
«Ti svelo un segreto» sussurrò Ophelia con aria complice, portandosi un dito alla bocca, e gli occhi di Dorota si fecero vispi e attenti «Da dove provengo, tutte le donne usano intrecciarsi i capelli. Si dice che non esista altro modo per intrappolare i sentimenti cattivi, quelli che sporcano l’animo, se non imprigionandoli nelle ciocche di una lunga treccia. E più saranno le emozioni di cui vorrai liberarti, più code avrà la tua treccia. E chiunque la guarderà saprà quante battaglie stai combattendo…qui dentro» le toccò il petto, all’altezza del cuore.
Il viso pieno di lentiggini di Dorota si illuminò e i suoi occhi vagarono sulla lunga treccia bianca del Ministro di Kalendor. Allungò le dita per toccarle i capelli con aria incuriosita ed Ophelia, intuendo le sue intenzioni, girò il busto per permetterglielo. La bambina sentì i capelli fini e morbidi sotto i polpastrelli e tra le ciocche canute non scorse nemmeno più un filo colorato. Chiese: «Quante code ha la tua treccia?».
«Cinque. Ma ogni giorno possono cambiare».
«Potresti intrecciare i capelli anche a me?».
Ophelia accennò col capo un segno d’assenso e dopo essersi seduta più comodamente, piantando bene i piedi a terra, invitò Dorota a salirle sulle ginocchia. La bambina di Tanaro non se lo fece ripetere due volte e si arrampicò sulla lunga gonna chiara del Ministro, mostrando un’euforia ed una gaiezza che solitamente custodiva più gelosamente. Ophelia lasciò che Dorota si perdesse a guardare nel suo specchio mentre le passava le dita affusolate e rattrappite fra i capelli setosi, facendo attenzione a sciogliere ogni nodo senza farle male. Con dimestichezza, l’anziana donna intrecciò le ciocche ramate della piccola fino alle punte e poi nuovamente, fino a creare una bellissima, piccola treccia dalle molte sfumature rossastre. Dorota, in silenzio, accarezzava la superficie del cimelio di Kalendor e gli occhi castani indagavano il riflesso con rassegnata malinconia. Nessuno sarebbe stato in grado di indovinare l’immagine che in quello specchio si era venuta formando e neanche Ophelia era in grado di vedere ciò che l’animo celava con così meticolosa cura. Eppure le sembrò così ovvia la nostalgia di quegli occhi e di quelle carezze, che subito le disse: «Hai i colori di tua madre tra i capelli. Sono molto belli».
All’inizio Dorota non diede segno di averla sentita, ma dopo qualche secondo annuì con decisione.
«Ti ricordi di lei?».
La bambina scosse la testa. «No. Ma la vedo qui» indicò con il dito un punto vuoto nello specchio «Insieme a papà».
Dustan, poco lontano da loro, smise immediatamente di giocare con Levi e gettò a terra tutte le pietre che aveva accuratamente raccolto. «C’è la mamma?» chiese trepidante e non attese la risposta per raggiungerle di corsa. Con riluttanza Dorota girò lo specchio per permettere anche al fratello di guardarvi dentro e gli occhi del bambino rimasero spalancati fino a quando, sulla superficie impolverata e graffiata, non si delineò la figura di una donna. Era vestita con abiti semplici, anche se sullo sfondo si scorgevano poltrone di velluto e tende ricamate a filo d’oro; la carnagione era pallida, quasi malata, ma lo sguardo era ancora pronto e tutto il viso era costellato di minuscole lentiggini; la bocca sottile era curvata in un sorriso gentile e affettuoso e i lunghi capelli ramati erano lasciati sciolti. Quando la donna nello specchio allungò la mano, Dustan si alzò in punta di piedi per poter avvicinare la fronte e ricevere la carezza della mamma, ma la sua pelle incontrò solo la superficie fredda e dura. Tuttavia non ne fu stupito, perché si era già da troppo tempo abituato a quella mancanza, e forse per questo non ci rimase nemmeno male.
Dorota attese qualche secondo, poi girò nuovamente il cimelio, vi buttò ancora un rapido sguardo e, dopo aver visto materializzarsi il suo desiderio, se lo strinse forte al piccolo petto muovendo leggermente il busto a sinistra e a destra, come se questo potesse accompagnare meglio la sua stretta.   
Dustan la guardò perplesso. «Cosa fai? Piangi?» chiese ingenuamente.
«No. Io non so piangere» spiegò con semplicità la sorella «Non ho lacrime».
Ophelia regalò alla bambina un sorriso mesto e le accarezzò la testa. «Per piangere non sempre servono le lacrime. A volte un sorriso è il più grande dolore che qualcuno possa mostrare» le sussurrò all’orecchio.
Dorota annuì sommessamente, anche se non comprese appieno le parole del Ministro, e si limitò a giocare con la sua nuova treccia.
«Nostro padre diceva che la mamma aveva i capelli più lunghi e belli di tutto il borgo» disse sovrappensiero Dustan.
«E aveva ragione» lo assecondò Ophelia «L’avrebbe riconosciuta anche fra centinaia e centinaia di dame. E non è cosa facile».
«Già…» bisbigliò il bambino «Tutte le donne di Tanaro hanno i capelli rossi…». 

 

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Capitolo 11
*** Le ragioni del biancospino ***


Capitolo 9
 
♦ Le ragioni del biancospino ♦

 
“Sboccia il fiore esprimendo la mancanza
del suo bene più prezioso. E la distanza, 
che porta il cuore a morire di speranza,
davanti al loro impegno non avanza”
 

 
Daia guardò Theresa uscire insieme a Raven dalla stanza per dirigersi all’arena e rimase a fissare la porta anche dopo che questa si fu richiusa alle loro spalle. Si rivolse alle domestiche che suo padre aveva chiamato e chiese loro, nel modo più cortese che conosceva, di poter rimanere da sola. Si sentiva intrappolata nella sua stessa camera, messa da parte senza una ragione e, soprattutto, sola. Sola anche se insieme a Theresa, che quando le stava accanto sembrava persa in un mondo tutto suo. La osservava, quando vi riusciva, con occhi pieni di pietà e rammarico e Daia iniziava a chiedersi per quanto ancora sarebbe riuscita a sopportare quello sguardo così estraneo.
Percepiva tra di loro un imbarazzo e una distanza che non aveva mai conosciuto e ogni conversazione, anche la più leggera, si caricava di pesanti silenzi e frasi di circostanza. E ora Tess aveva colto al volo l’occasione per allontanarsi da lei senza doversi sentire in colpa, perché supportata da una scusa inattaccabile, e poco importava che Daia non avrebbe potuto essere presente a quella sua prima sfida.
Forse tutto si riduceva davvero solo a quello, al fatto che Theresa la percepisse come una presenza superflua, che non sentisse il bisogno di averla accanto a sé in un momento così importante, che non avesse mosso poi troppe obiezioni a riguardo - proprio lei che più di tutti odiava le restrizioni.
Si chiese se Tess si sarebbe guardata intorno, come era solita fare durante i suoi allenamenti, per cercarla tra gli spettatori; se, non vedendola in mezzo a tutti quei volti, avrebbe provato dispiacere. Ma in fondo non era così certa di voler conoscere la risposta. Sapeva solo che avrebbe aspettato il suo ritorno, forse un po’ avvilita, un po’ amareggiata, di sicuro arrabbiata, ma l’avrebbe comunque aspettata.
Tornò al suo letto, a quel materasso che ormai aveva preso la sua forma, e a quella moltitudine di cuscini che la facevano sprofondare. Tirò le coperte, coprendosi le gambe, e prese in mano il ricamo che aveva lasciato in sospeso. Cucì di malavoglia, o almeno provò a farlo, ma all’ennesimo errore e al quarto filo spezzato tornò a perdersi nei suoi pensieri.
Rimase immobile, gli occhi fissi sulle mani incrociate e la testa in fermento, fino a quando un rumore alla sua sinistra non la distrasse. La finestra, prima solo socchiusa, si aprì lentamente e il vento soffiò sulle tende d’organza, facendole gonfiare. Dal piano superiore calò una figura, poggiando i piedi sul davanzale, aggrappandosi alla cornice di pietra per rimanere in equilibrio. Scivolò nella stanza con un movimento fluido, abituato com’era a muoversi agilmente tra pennacchi, torri, merli, a spostarsi senza far rumore, come il vento che soffia ma che nessuno riesce a vedere.
Daia spalancò gli occhi, colta di sorpresa. Il suo primo istinto fu quello di scattare giù dal letto, correre verso la porta e chiamare le guardie, ma quando le tende si gonfiarono nuovamente, mostrandole il volto del visitatore, rimase al suo posto.
Caleb, vestito della sua livrea verde un po’ scolorita e i capelli troppo lunghi lasciati spettinati, la fissò con uno sguardo imbarazzato e forse per questo rimase fermo al suo posto, senza volersi avvicinare, come se si sentisse in colpa per essere entrato senza aver bussato, ma non abbastanza rammaricato da voler tornare indietro.
«Che cosa state facendo?» domandò Daia, tentando di nascondersi dietro le coperte in uno slancio di pudore.
«Scusatemi, non era mia intenzione spaventarvi».
«E quale sarebbe stata la vostra intenzione allora?».
Il ragazzo, fermo in piedi davanti a lei, incrociò le braccia al petto e spiegò con semplicità: «Nessuna in particolare. Sorvegliavo quest’ala del Palazzo, perché è questo il mio compito, e ho potuto ascoltare le vostre conversazioni. Non ho origliato» si affrettò subito a dire, vedendo l’espressione di Daia «Solo, il mio udito è più sviluppato del vostro. Sono stato creato così. Riesco a vedere ad una grande distanza, posso riconoscere i volti dei passanti dietro il muro di cinta e contare gli uomini che si sono seduti negli spalti dell’arena; vedo i mercanti che sbaraccano le loro bancarelle e i giardini, gli alberi, i ruscelli. Quando è brutto tempo riesco a vedere i riflessi nelle gocce di pioggia e la rugiada cadere dalle foglie e…».
«Davvero emozionante» lo interruppe scocciata Daianara «Riuscite anche a vedere la mia disapprovazione per esservi introdotto nella camera da letto di una signora senza essere stato invitato o quantomeno annunciato?».
Lui fece spallucce «Si, certo, ma non servono i miei occhi per vederla».
La ragazza sbuffò sonoramente «Spero che la vostra capacità di camminare sui tetti sia più spiccata dell’acume che dimostrate».
«Spero sinceramente che il mio acume sia più sviluppato della vostra gentilezza».
«Ma…!» iniziò Daia «Quanta sfacciataggine!».
«La verità è sempre un po’ sfacciata» replicò lui con un mezzo sorriso, scostando le tende per sedersi sul davanzale.
«Che cosa volete da me?».
«Darvi una mano. Non credo siate interessata a conoscere quel che avviene oltre il confine del Palazzo, ma se lo desiderate posso raccontarvi quel che avviene nell’arena. Ho sentito che non potete lasciare la vostra stanza, ma di fatto non c’è nulla che vi impedisca di osservare il prossimo incontro, anche se attraverso i miei occhi». 
Daia, anche se colpita da quell’affermazione, continuò a guardare il suo ospite con sospetto, ma lui non diede segno di fastidio.
«Potete davvero vedere Theresa?» domandò infine, la fronte corrucciata.
Caleb girò il collo per poter vedere dietro di sé e abbassò lo sguardo sul sentiero che passava sotto la finestra, qualche piano più in basso «Si. O almeno potrò farlo quando raggiungerà il campo».
«Perché dovreste fare una cosa per me? Non ci conosciamo nemmeno. Cosa volete in cambio?».
Lui scosse la testa «Non voglio nulla. Non è un peccato essere gentili. E a questa altezza, in questa torre, sono solo anche io. E la noia è la miglior amica della solitudine. Ho solo pensato avrebbe potuto darvi sollievo sapere quel che accade laggiù» ma vedendo che Daia non accennava a rilassarsi aggiunse «Non siete una persona che si fida facilmente, vero?».
«Non direi».
«Credo che la solitudine possa essere condivisa. Voi siete rimasta in questa stanza da sola ed io, al momento, non ho nessuno con cui trascorrere il mio tempo».
«Savannah non è con voi?».
«Suppongo che se a farvi visita fosse stata lei, forse voi vi sareste scandalizzata di meno. Ma le sedute dei Ministri si stanno facendo sempre più frequenti e delicate e Savannah sa bene che il suo posto non è vicino a me, ma accanto ad Hansel. Anche se, in realtà, è più facile che i servi facciano amicizia tra di loro che non con il padrone».
«E’ così che vi vedete?».
«No, non proprio. A differenza dei miei compagni, io non nego la mia condizione e tutto sommato sono felice anche così. Mi limito a godere della libertà che ho, senza passare il tempo a domandarmi quando finirà».
«E’ una visione alquanto…bizzarra» commentò Daia.
«Non più di molte altre». Il ragazzo tornò a guardare fuori dalla finestra e strizzò gli occhi «Bhe la vostra amica e il curioso stanno scendendo le scale. Parlano, ma non riesco a sentire quello che dicono».
«Pensavo aveste detto di avere un buon udito» ribattè Daia.
«Nei limiti del possibile. E il vento soffia nella direzione sbagliata. Quindi avete deciso di volere il mio aiuto?».
«Diciamo piuttosto che ho voluto ovviare alla vostra solitudine».
«Però non sono io ad essere stato lasciato da solo in questa camera».
«Theresa non mi ha lasciata» ribattè con veemenza la ragazza «E’ solo che…».
«Solo che cosa?».
«Solo che non sono affari vostri».
«Su questo avete ragione. Ma, come avete detto voi, non servono necessariamente gli occhi di un gargoyle per notare certe cose».
«Cosa volete dire?».
«Conosco Savannah da diverso tempo e lei conosce Theresa da altrettanto. Credo possa farvi ancora un certo effetto vederle insieme. Anche se la competizione è forte ed entrambe hanno qualcosa da rimproverarsi, continuano ad avere un modo di comprendersi che riguarda solo loro e che nessun altro può capire. È un legame sottile, ma ben radicato. Non deve essere facile sentirsi esclusi dal loro mondo».
«Io non mi sento esclusa da niente» rispose a denti stretti Daia.
«Allora forse mi sono sbagliato e quello che c’è stato in passato è già stato dimenticato».
Daianara aprì la bocca per rispondere, ma subito la richiuse. Distolse lo sguardo dal ragazzo, non riuscendo più a sostenerlo, e si limitò a dire «E’ stato molto tempo fa».
«Eppure i cantastorie continuano a raccontare che il primo amore non viene mai scordato».
«Non era amore» concluse la ragazza con tono incerto. Un nodo le si formò alla bocca dello stomaco, pesante come un macigno, e torturandosi le mani aggiunse «Il loro non era amore…».
«Perché dite questo?» domandò il giovane e sul volto gli si dipinse un’espressione contrita, di chi comprende il dolore del prossimo ma non per questo riesce a far tacere la propria curiosità.
Daianara strinse tra le mani le coperte, arruffandone il bordo, come se tutto il rancore potesse uscirle dal corpo con un gesto così semplice. «Loro non possono stare insieme ora, così come non potevano stare insieme in passato. Non sono fatte per stare insieme e Savannah non lo vorrebbe nemmeno. E neanche Tess lo vorrebbe, non l’ha mai guardata in quel modo. E’ stata solo…» si prese del tempo per cercare le parole giuste «E’ stata solo un’infatuazione di qualche mese e null’altro. Un’ammirazione, ecco. La classica ammirazione che una ragazza può provare per una donna più adulta. E Theresa non ci pensa più da allora ormai, è una storia archiviata. E Savannah ha Hansel, così come Tess ha me. Ed io ho lei».
Caleb la guardò fisso, prendendosi le mani nelle mani. «Allora perché, se ne sei tanto sicura, lei non è qui con te?».
La ragazza serrò la mandibola. «Theresa ha…dei compiti importanti da svolgere. Siamo qui per questo. Ed io ho intenzione di supportarla e di appoggiarla in tutte le sue scelte. Perché è così che bisogna fare. Bisogna fare delle scelte. Ed io ho fatto la mia. E lei…farà la sua, quando si sentirà pronta. Ne sono sicura».
Il gargoyle girò la testa per guardare fuori. Sotto di loro, più in là, nell’arena, una ragazza dai capelli rossi stava montando il suo stallone nero. «Io credo che la sua scelta l’abbia già fatta» sussurrò «Così come l’ha fatta Savannah, quando è stato il momento. Spero sia come dici tu».
«Ho bisogno che sia così» tagliò corto Daianara, ma ormai il dubbio si era insinuato nella sua mente.
 
♦♦♦
 
Nella sala del consiglio ancora si tenevano riunioni, ancora si tentava di giungere ad un compromesso, ancora volavano insulti, imprecazioni, minacce e, ancora, non si era arrivati ad alcun risultato. Intorno al gigantesco tavolo di legno intagliato si erano seduti i Ministri, ognuno sul proprio scranno, ma nessuno era riuscito a mantenere la posizione durante l’acceso dibattito che era seguito all’apertura dell’assemblea. Kasimir si era alzato più volte da quello che lui reputava essere il suo trono per accompagnare le invettive con espliciti gesti; Hansel si era limitato a girare per la stanza con passi pesanti, salvo tornare a sedersi e rialzarsi nuovamente trascorsi pochi minuti; Aron, i palmi delle mani appoggiati al bordo del tavolo e il corpo proteso in avanti, gridava ancora le sue ragioni; Botte di ferro, seduto accanto al posto vuoto di Ophelia, ascoltava con attenzione le intenzioni dell’uno e dell’altro, ma dopo tutte quelle estenuanti sedute e nonostante tutto il tempo trascorso nelle ultime settimane a cercare di giungere ad una presa di posizione, ancora non era riuscito a decidersi sul da farsi, diviso com’era. Diviso tra la volontà di sua moglie e quella del suo maestro, dalla necessità di mantenere in vita le tradizioni e di riformarle, dal dubbio di scegliere la cosa più giusta o quella più corretta; da una parte la strada più breve e in salita, dall’altra la più lunga e pianeggiante. E lui lo sapeva meglio di chiunque altro che, tentando di accontentare tutti, non avrebbe fatto altro che contrariarli uno alla volta.
«E’ vostro compito assicurare l’ordine!» accusò Kasimir, puntando il dito.
Il Ministro di Morèa ribattè subito: «E’ mio compito assecondare i principi di una vita, difendere diritti che ho sempre sostenuto andassero protetti, appoggiare i nostri cittadini, tutti, da Tanaro a Kalendor, da Ennon a Nika, affinchè possano avere la facoltà di dar voce alle proprie idee e non bisbigliarle per timore d’esser accusati di tradimento!».
«E’ già tradimento!» sbottò l’uomo, diventando rosso in viso «Una Morèa che si rifiuta di partecipare al Torneo, che scende in strada per ricercare adepti al pari di una setta, che fa blocco all’entrata della Cittadella, che manda il suo Ministro a chiedere, anzi a pretendere, un esonero da tutti gli obblighi e non dai privilegi di…».
«Abbiamo chiesto un’indipendenza che ci è stata negata!» lo interruppe Aron con foga.
«L’avete reclamata!».
«Quale altra possibilità ci avete lasciato?!».
Il Ministro di Nika si schiarì la voce «Avete chiesto a questo Consiglio di analizzare la proposta. Abbiamo preso in carico la vostra richiesta, l’abbiamo discussa e votata e la maggioranza si è espressa. Ora intimate di voler procedere comunque nei vostri propositi, con il consenso o meno di questa assemblea, dunque mai avete avuto l’intenzione di rispettare le nostre volontà, benchè inizialmente le promesse di Morèa fossero state differenti».
«Questo è avvenuto prima della mia elezione» ribattè Aron «E’ vero, mio padre promise di rispettare le decisioni del consiglio, qualsiasi fosse stata la delibera, ma io non ho intenzione di rimettermi a voi, né a nessun altro, per questioni che vanno al di là di me e di voi. Non si tratta di un capriccio, o di strategie politiche o economiche. Gli abitanti di Morèa, e non solo, rifiutano di appoggiare un sistema corrotto, rifiutano di essere partecipi della carneficina che si compie ogni giorno sotto i loro occhi, rifiutano un potere che non li rappresenta. Vi abbiamo chiesto di riformare il sistema e di seguirci in questo percorso e vi siete rifiutati. Vi abbiamo allora chiesto di concederci l’autonomia per non costringerci a scendere a patti con la nostra coscienza e anche su questo siete stati contrari. Siamo dunque in una dittatura?».
«Vi siete limitato a criticare questa istituzione senza fornirne alcuna valida alternativa, per un sistema che va avanti, così com’è, da secoli. E pensate davvero di potervi presentare così, a sentenziar parole vuote, a menar le mani all’aria e suggerire di ridurre tutto in macerie e ricostruirlo, come se non avessimo tentato di fare nulla di buono in tutti questi anni».
«Stiamo parlando di persone!» sbraitò il giovane Ministro «Persone che non sono nella condizione di difendersi, di scegliere, di tutelarsi. Abbiamo mai chiesto loro il permesso di poter decidere della loro esistenza? Abbiamo mai chiesto loro di scegliere da che parte schierarsi? Abbiamo mai domandato, anche solo ad uno di loro, qualora avessero potuto scegliere, cosa avrebbero deciso per loro stessi? No! E’ un abominio quello che è stato perpetrato qui e vi dobbiamo porre fine. E’ nel ciclo naturale delle cose morire, ma tentare di fermare la morte e condannare un individuo ad un’esistenza simile…non equivale certo a restituirgli la vita. Dal sale non potrà mai nascere un fiore. Lasciate la terra ai cadaveri e il cielo ai vivi: non è mai stato saggio confondere le due cose. E se foste sinceri con voi stessi, prima che con gli altri, ammettereste che la legge che impone a chiunque di celare la verità è una sola: la paura di una rivolta. Ammettete che la situazione vi è sfuggita di mano e che l’immensa diga che avete costruito per arginare qualsiasi tipo di problema sta cedendo proprio davanti ai vostri occhi. E che vi state voltando per rifiutare di accettare il vostro fallimento. Parliamo di persone» ripetè e guardando Kasimir negli occhi aggiunse «E se non volete impegnarvi per ciò che sono ora, dovreste almeno impegnarvi per ciò che sono state».
Quando anche quella seduta si concluse - con un voto a favore, tre contrari e uno nullo - i quattro Ministri uscirono dalla sala, che venne chiusa e sigillata dietro di loro dai due gargoyle, nel più totale e gravoso silenzio.
Savannah, ferma nel corridoio in attesa della fine della consulta, si affiancò ad Hansel, scuro in viso, sfiorandogli appena il braccio; i gemelli di Tanaro si affrettarono dietro a Kasimir e, cercando di mantenere il passo del loro padrone, si aggrapparono uno da una parte e una dall’altra al suo lungo e pesante mantello; anche Aron si allontanò veloce dai suoi compagni e nel freddo corridoio di marmo rimase solo Zane, perso a contemplare il cielo azzurro, oltre le grandi vetrate, e a trovarlo così sfacciato in quel momento.
Botte di ferro indugiò qualche istante prima di decidersi a raggiungere l’uscita. Non voleva andare da sua moglie per non dover ancora leggere il biasimo nelle sue espressioni, nei suoi gesti e nelle sue parole; non poteva andare da sua figlia, anche lei incapace di nascondere la propria disapprovazione bene quasi quanto la madre; e non se la sentiva di andare da Howel solo per riversare sul vecchio maestro le proprie inquietudini. Presto sarebbe stato chiamato a prendere delle decisioni e per allora sarebbe stato pronto. Fino a quel momento, tuttavia, si sarebbe preso tutto il tempo necessario per soppesare con cura le sue scelte e, se avesse dovuto pentirsene, almeno nessuno avrebbe potuto accusarlo di leggerezza.
Con le spalle curve e le mani incrociate dietro la schiena, Zane camminò senza una meta precisa lungo il colonnato dell’ala nord, poco distante dalla Sala del Consiglio, ed improvvisamente si sentì come quei vecchi che rimuginano su questioni esistenziali solo per poter riempire le ore vuote della giornata fra un pasto e l’altro.
Se avessi d’un vecchio anche il discernimento, pensò Botte di Ferro, a quest’ora sarei a cavallo…
Giunto al limitare dell’androne, il Ministro di Ennon fece per voltarsi a ripercorrere la strada a ritroso, ma si fermò quando scorse oltre l’ultima fila di colonne una figura. Aron, avvolto nei suoi indumenti scuri, se ne stava appollaiato sulla balaustra come una piccola gazza al riparo dal sole. Il parapetto era molto basso e, se si fosse sporto un poco di più, avrebbe potuto toccare con mano i cespugli da poco fioriti. Ma i suoi occhi erano così stanchi che Zane temette non si sarebbero rallegrati nemmeno alla vista dei primi germogli.
Tutto il suo corpo suggeriva affaticamento, persino abbandono, e sembrava così perso a contemplare il vuoto che non si accorse nemmeno di Botte di ferro fino a quando questi non lo salutò assestandogli una sonora pacca. La spalla ossuta del ragazzo incassò il colpo con difficoltà, ma lui non sembrò aversene a male.
«Zane» ricambiò il saluto con un sorriso sincero ma stentato.
«Come mai ancora qui?» gli chiese l’uomo, appoggiandosi al parapetto «Pensavo stessi raggiungendo Howel». 
«E’ così. Ho solo pensato di fermarmi qualche minuto per concedermi un po’ di tempo per schiarirmi le idee. D’altronde non penso di cogliere di sorpresa mio padre nel riferirgli l’esito di questo consiglio: non credo si aspetti, almeno per il momento, un risultato diverso da quello ottenuto oggi» un sorriso amaro gli si dipinse in volto «E’ anche vero che l’impazienza è sempre stata un suo grande difetto e non vale la pena alimentarla. Anche se mio padre ha ceduto la sua carica spontaneamente, continua a pensare e ad agire come un Ministro e odia essere tenuto all’oscuro. Penso sia stata una vocazione per lui, uno stile di vita, piuttosto che un impegno…e noi tutti lo considereremo sempre come il vero Ministro di Morèa, fino alla fine dei suoi giorni».
«Non è facile prendere il posto di un uomo come tuo padre, lo comprendo. Le aspettative sono molto alte e i paragoni fin troppo facili. Ma non credere che i tuoi sforzi non siano apprezzati. Ammiro il lavoro che stai facendo e la tenacia con cui lo porti avanti, a prescindere dai contrasti che possono sorgere tra noi. Per fortuna» aggiunse Zane «sono ancora in grado di ammirare un uomo senza farmi fuorviare dalle sue opinioni politiche».
«E di questo te ne sono grato. Solo preferirei che il tuo pensiero venisse condiviso da tutti».
Botte di ferro si passò una mano sulla ruvida barba con fare pensoso. «E’ più difficile di quello che può sembrare, cugino. Morèa ha sollevato una questione complessa e i fantasmi che bisogna affrontare sono molteplici. Alcune corde non sono affatto facili da toccare e possono provocare reazioni spiacevoli. Nessuno di noi cerca di renderti difficile questo compito più di quanto non sia per sua natura e posso assicurarti che cerchiamo in tutti i modi di fare del nostro meglio. E se il nostro meglio a volte contrasta con i tuoi propositi, è assolutamente in buona fede».
«Cerco solo di fare ciò che reputo più giusto per la mia gente» rispose Aron, sconfortato.
«Non credere che questo non sia anche la prerogativa di Hansel e di Kasimir. Non c’è nulla, nulla, che più li terrorizzi di una guerra a cui non sono stati preparati e cercano di fare quanto è in loro potere per evitarla». 
Il tono del Ministro di Morèa si fece tagliante «Esasperare un disaccordo è la via più certa per giungere ad una guerra disastrosa. E Kasimir…» pronunciò il suo nome a denti stretti «Lui più di tutti dovrebbe comprendere le mie parole. Eppure non mi stupisce che non ci riesca».
Le folte sopracciglia di Zane si aggrottarono. «E’ stato molto difficile per lui». 
«Non è stato l’unico a piangere la scomparsa di Lia. Tutto quello per cui sto combattendo, tutto quello che ho sognato e sperato…tutte le mie ragioni e tutti i miei sforzi dipendono solo da lei» abbassò lo sguardo «C’è il suo ricordo dietro ogni mio gesto».
Zane gli posò una mano sulla spalla e la strinse benevolmente.
«Lei era speciale» continuò Aron, senza riuscire a guardare il suo interlocutore negli occhi «Lo era davvero. Non si meritava nulla di tutto quello che le è capitato».
«Aron, capisco il tuo rammarico e sai meglio di tutti che le mie parole sono sincere. Ma se Kasimir avesse potuto scambiare il proprio destino con quello di sua moglie, l’avrebbe fatto senza alcun ripensamento. La amava». 
«Anche io!» proruppe il giovane Ministro. Poi, nel tentativo di ricomporsi, aggiunse sommessamente «L’amavo anche io e la amo ancora. Il suo ricordo non mi lascia andare e vorrei davvero ricordarla come la donna stupenda che era, con il suo sorriso, la sua spensieratezza, il suo buonumore… ma Kasimir mi ha tolto questa possibilità. Io la conoscevo, Zane. La conoscevo meglio di chiunque altro e so che non avrebbe mai voluto questo per sé. E se Kasimir l’avesse amata a sufficienza, se lui l’avesse amata più del suo egoismo, allora l’avrebbe lasciata andare. Ora, invece, l’unico ricordo che mi è rimasto di lei è quell’immagine terribile…».
«Non cadere nella cieca convinzione che per Kasimir sia stato semplice. Ha sempre difeso le nostre leggi con caparbietà e quando si è trovato costretto ad applicarle su Lia ne è stato logorato. Ma non è venuto meno a sé stesso e ha fatto ciò che era giusto fare. Si è comportato come lui stesso avrebbe preteso si comportasse chiunque altro nella sua situazione. La legge è una sola e non può cambiare solo per il dolore di un uomo. E la legge non prevede eccezione per i ricaduti» disse Zane, riferendosi a tutti quegli uomini che, una volta morti e costretti a risvegliarsi come totem, disubbidivano agli ordini dei loro padroni. «Su di loro l’innesto non funziona».
Aron serrò le mani in due pugni e la mascella si irrigidì. «Avrebbe dovuto saperlo. Lui avrebbe dovuto sospettarlo. Lia amava la libertà come un’aquila ama le proprie ali e non l’avrebbe barattata per nulla al mondo. Era troppo fiera, troppo forte, troppo indipendente per poter essere sottomessa. Troppo orgogliosa per risvegliarsi e assecondare gli ordini di un qualsiasi burattinaio!».
«Nessuno poteva sapere che non avrebbe ubbidito, una volta risvegliata».
«Io sì!» scoppiò Aron, battendo un pugno sul davanzale «Io lo sapevo! E anche Kasimir lo sapeva, ma era troppo cieco per ascoltare le mie parole! E io l’ho vista bruciare sul rogo per colpa della sua debolezza. E non smetterò mai di detestarlo per averla uccisa di nuovo. Lia se ne è andata odiando tutti noi. Se ne è andata pensando che io l’avessi tradita. Contava su di me, credeva che io sarei riuscito a far rispettare la sua volontà. E invece ho perso la battaglia più importante, l’unica che valeva la pena d’esser combattuta».
Zane guardò fisso il suo compagno per un istante. Lo vide acceso di rabbia, angosciato dal rimorso e sicuro come può esserlo solo chi non ha più paura di perdere nulla. «Ti ho visto crescere alle spalle di Howel» gli disse «E ti ho visto perso per una donna che non potevi avere. E so che l’hai guardata morire e questo ti ha spezzato, perché le leggi degli uomini non possono essere perfette. Ma ora davanti a me vedo solo il Ministro di Morèa e la carica che ricopri ti vincola a proteggere la tua gente, al di là delle tue sofferenze. Arriverà un giorno in cui dovrai rispondere delle scelte che hai preso e in quel momento saranno le azioni del Ministro, e non dell’uomo, ad essere messe in discussione. E nascondersi dietro al ricordo di Lia non sarà più sufficiente, come non lo sarà per nessuno di noi. L’onere di cui ti sei fatto carico è così grande, e in sé così altruista, che non lascia spazio per il tuo dolore e non può essere condizionato dal tuo passato. Separa quel che deve essere separato, stabilisci dei confini, fai in modo di essere irreprensibile: i nostri errori sono la sconfitta di questa amministrazione e la pena di migliaia di persone».
«Lo sai, Zane» rispose avvilito Aron, scuotendo la testa «Tu e mia cugina l’avete già vissuto sulla vostra pelle il fallimento di questa istituzione, e allora perché nemmeno tu riesci a vedere ciò che vedo io?».
«L’unica cosa che distingue il mio dolore da quello di mia moglie è che la sofferenza di Isolde può essere mostrata agli altri. Non ricopro questa carica per poter manipolare la legge a mio piacimento, ma per essere certo che qualcuno faccia il bene dei miei uomini e dei vostri. E sono chiamato, dalla mia morale, a prendere decisioni che rispondono a questo obiettivo e a null’altro. Non provo a dimenticare perché sarebbe impossibile riuscirci, ma valuterò le tue proposte se porteranno più bene che male».
«Che cosa ne pensa Isolde di tutto questo?».
«Conosci già la risposta. Io posso aver perso il mio migliore amico, ma lei…» sollevò lo sguardo e osservò le nuvole rincorrersi «Lei ha perso la sua metà di cielo. E passerà il resto della vita a domandarsi cosa ne sarebbe stato di Roan se lei non avesse deciso di rivelargli la verità».
«Eravate inseparabili, voi tre».
«E lo siamo ancora, a modo nostro. Roan rimane ad oggi l’uomo più grintoso e coraggioso che io abbia mai conosciuto. Abbiamo commesso l’errore di pensare che fosse forte abbastanza, forte a sufficienza per capire che, a sua volta, era stato un uomo, prima di morire. Ma la realtà ha un peso enorme e quel peso lo ha schiacciato. E ora siamo rimasti solamente io ed Isolde e il fantasma di Roan non ci lascia mai soli. Lei lo ama ancora e non potrebbe essere altrimenti: il filo che unisce un totem al suo padrone è così spesso da eludere qualsiasi impedimento, anche la morte. Ed io, amando lei, continuo ad amare anche lui».
Aron incrociò le braccia al petto «Mia cugina non ti appoggerà fino a quando tu non appoggerai Morèa».
«E’ la mia condanna» sentenziò Zane «Ma neanche per lei, questa volta, farò eccezioni».
 
♦♦♦
 
Dovette passare una settimana prima che Theresa potesse nuovamente scendere in campo assieme ad Argo e, quando lo fece, il sole sembrò volerla accompagnare. Era stata una mattinata limpida e solo poche nuvole avevano chiazzato il cielo azzurro, come delle pecorelle sparse su un prato; era soffiato un vento dolce, anche se ancora un po’ freddo per via dell’umidità della notte precedente, ma che faceva venir voglia di respirare a pieni polmoni l’aria un po’ frizzante e di vivere con serenità quell’atmosfera tranquilla. Era una di quelle mattine che portava con sé il brio e la voglia di fare, come nelle giornate d’estate.
L’incontro quella volta si era svolto in un’arena più piccola, in prossimità della scala d’accesso al Palazzo e, infatti, tutti gli uomini e le donne che non erano riusciti a trovare posto nelle tribune o intorno agli steccati, si erano ammassati sugli scalini di metà rampa e, sporgendosi oltre il parapetto di marmo, avevano assistito allo scontro con gli occhi bene aperti ed il cuore entusiasta. Theresa aveva visto alcune mamme tenere in braccio i bambini più piccoli e i papà portare sulle spalle le loro figlie; i ragazzini più grandi si erano sbracciati per poter vedere, altri si erano fatti strada spintonando; qualche bimbo o qualche bimba fortunati erano riusciti ad accaparrarsi una buona visuale ma, non essendo ancora sufficientemente alti, erano stati costretti a rimanere in punta di piedi per tutta la durata della sfida. In molti erano giunti per assistere a quell’incontro, ma Tess non sapeva se tutta quella folla fosse dovuta ai pettegolezzi che ancora la riguardavano, alle voci che erano corse dopo la sua ultima vittoria o, ancora, alla sua nomea. Prima di entrare nell’arena in groppa al suo totem, aveva sentito un uomo dire alla compagna «Guarda! E’ quella la figlia adottiva del Ministro di Ennon», una bambina di pochi anni, certamente del Borgo del legno, strattonare la mano della madre per chiederle con ingenuità «Mamma, mamma, è quella la ragazza pazza?» e un ragazzo fare cenno ai suoi amici per dire «E’ come la mia gatta: una meticcia. Né di Tanaro, né di Ennon».
Qualunque fosse stata la ragione di quell’affluenza, Tess si era sentita galvanizzata. Sugli spalti di legno si erano appostati sia Isolde che Botte di Ferro per darle il loro sostegno. Anche Daia era venuta ad assistere, ormai completamente guarita e libera dalle medicine di Howel, ma Tess percepiva qualcosa di diverso nel suo comportamento, forse un po’ di distacco o un po’ di cruccio, che non si sapeva spiegare se non attribuendolo ancora allo scontento della ragazza per non aver insistito nel portarla con sé il giorno della sua prima sfida.
Lo scontro era stato avvincente e molto sentito, all’insegna della correttezza e del divertimento; d’altronde Theresa conosceva troppo bene il suo sfidante per non aspettarsi qualcosa di diverso. Bryon di Ennon, conosciuto da tutti giù al borgo come Bryon Mezza-brocca per via della sua statura, era stato uno dei fabbri più bravi della contrada prima di ritirarsi e godersi il piccolo gruzzoletto che aveva guadagnato in quarant’anni di lavoro. Non aveva però perso l’abitudine di allacciarsi alla cintola i ferri del mestiere – un po’ in tutti i sensi – e a portarseli in giro per le strade acciottolate di Ennon e alla locanda dei Tre Ronzini, dove ancora passava le lunghe ore del pomeriggio a tracannare birra scura, la più spumosa e forte, a lodare i figli (cinque maschi e sette femmine) e ad inveire contro la moglie (che tuttavia sapeva inveire più di lui).
L’unica cosa che Bryon era certo d’aver amato più del suo lavoro e della sua famiglia era il suo totem, Meridia, una giumenta vivace e testarda dal mantello grigio scuro che non lo abbandonava mai. Certo, insieme formavano una coppia ironica: lui basso e grassoccio, un po’ troppo fumantino; lei piccola e gracilina, alquanto permalosa. Non erano fatti per combattere e di questo Bryon ne era consapevole: non si erano mai allenati e mai ne avevano sentito il bisogno, ma si rallegravano entrambi di potersi mettere ancora alla prova. «L’unica cosa davvero importante è divertirsi» diceva lui «E se per farlo dovrò incappare in brutte figure tanto meglio: per quel che vale, non sono mai stato bello!».
Quando Bryon e Theresa si erano avvicinati per il saluto, nel centro dell’arena, l’uomo, dopo averle mostrato la lancia, si era avventato su di lei per stringerla in un abbraccio stritolatore e sollevarla da terra.
«Mostrami cosa sai fare, ragazza!» le aveva detto infine, assestandole una sonora pacca sulla spalla «Non serve che tu ci vada leggera con me: voglio un po’ di ferro da poter battere!».
In verità non fu Tess a dargli del filo da torcere, ma la sua cavalla, che non sembrava avere alcuna intenzione di competere in uno scontro. Quando Bryon provò a salire in sella, un po’ goffamente vista la stazza, Meridia partì ad un passo abbastanza sostenuto nella direzione opposta e il suo padrone, un piede impigliato in una staffa e l’altro ancora posato a terra, saltellò su una gamba per tutta l’arena, urlando con la sua voce bassa: «Devi stare ferma! Comportati da cavallo, non da somaro!», scatenando il riso di tutti i presenti. Una seconda volta il cavallo si impennò, disarcionando il povero Mezza-Brocca che, impreparato, ruzzolò giù dalla groppa, rotolando sulla sua grossa pancia, ricoprendosi di terra vestiti, barba e capelli. «Lo giuro Meridia» aveva detto con aria minacciosa, indicando la giumenta con l’indice «Ti porterò giù alle cave a trascinare carrette per un mese».
Lo scontro si era risolto com’era prevedibile, in fretta e indolore. Forse non era stato avvincente, ma in tribuna e sui gradini della lunga scalinata gli spettatori si erano divertiti e i bambini degli altri rioni avevano chiesto il permesso ai genitori per poter andare ad accarezzare Meridia.
Tess lasciò il campo insieme ad Argo, diretta alle stalle, proprio mentre Bryon aiutava due bambini a sedersi in groppa alla giumenta, mentre un ragazzino le accarezzava il muso e un altro il fianco.
«Siamo stati bravi, comunque» scherzò la ragazza, accarezzando il collo dell’animale che, in risposta, sbuffò dal naso. Entrò nel grosso capannone di legno che gli stallieri avevano preparato per i cavalieri di Ennon e si diresse verso il box di Argo. Passando davanti agli altri vani vide che alcuni di questi erano rimasti vuoti, mentre negli altri riuscì a riconoscere quasi tutti i totem dei suoi compaesani.
Quando Argo entrò nel suo posto, Tess gli tolse briglie e morso, appendendoli alla parete di fronte, e prese tra le mani il forcone per sistemare la paglia, sparsa sul pavimento.
«Ora ti pulisco…» sussurrò all’orecchio del cavallo mentre gli accarezzava il muso «So che non ti piace quando lo fanno gli altri». Gli strigliò il mantello, prima con una spazzola dura, poi, quando Argo iniziò a dare segni di fastidio, passò ad una più morbida; gli tolse i nodi dalla criniera e dalla coda e con un panno bagnato gli pulì gli occhi e il muso, continuando a parlare, saltando da un argomento ad un altro.
«A volte faccio davvero fatica a capirla…» continuò, riferendosi a Daia «Sembra stia in un mondo tutto suo. Quando decide che deve essere arrabbiata si arrabbia, quando decide che deve essere felice sorride e chiunque deve riuscire a starle dietro. Sarebbe in grado di portare rancore per qualsiasi cosa, per anni, non ho mai conosciuto una ragazza testarda come lei. Non trovi anche tu? Mhm?» lo chiamò e quando non ricevette in risposta nessuna reazione lo chiamò di nuovo. L’animale drizzò le orecchie, ma intorno a loro tutto era silenzio.
«Argo?» chiamò ancora la rossa, perplessa.
Lo stallone iniziò a battere lo zoccolo sul pavimento con fare agitato; nitrì, poi nitrì più forte, indietreggiando, girandosi, girandosi ancora, come a cercare una via di fuga che fra quelle quattro pareti gli era negata.
«Argo, aspetta» cercò di placarlo Tess «Stai calmo, stai calmo, va tutto bene». Gli posò una mano sul dorso e l’altra sul muso per rassicurarlo della sua presenza, ma l’animale non cessò di scalpitare e si impennò. La ragazza, la schiena schiacciata contro la parete di legno per non essere calpestata, provò ancora a tranquillizzarlo da qualsiasi cosa potesse averlo spaventato, ma Argo sembrava più imbizzarrito che mai.
«Che cosa ti prende?» chiese ripetutamente Theresa, ma quando rischiò di essere travolta dalla stazza dell’animale fu costretta ad ordinargli con voce chiara e ferma: «Argo, stai fermo! Stai fermo!».
Lo stallone drizzò immediatamente le orecchie e abbassò la coda; i suoi movimenti si fecero più rigidi, obbligati, come se delle corde invisibili gli si fossero avvolte intorno agli arti e alla testa. Negli occhi marroni, prima spalancati e attenti, brillò una strana luce e poi più nulla, come se qualcuno gli avesse spento tutte le intenzioni, tutta la vita. Il totem emise un ultimo, lungo sbuffo dalle narici, poi rimase immobile.
Theresa riconobbe quello sguardo vacuo, quello sguardo smarrito. L’aveva visto certo molte volte ad Ennon e l’aveva riconosciuto la settimana precedente sul volto di Camària. Il bacio del potere, come veniva comunemente chiamato nei rioni, si dipingeva immancabilmente nelle espressioni di quanti avevano ricevuto un ordine al quale non potevano sottrarsi. E Theresa, quel riflesso che inquinava lo sguardo, lo aveva sempre detestato.
Tirò un sospiro profondo e si avvicinò ad Argo, una mano protesa per accarezzargli con la punta delle dita la criniera scura.
«Mi dispiace amico mio» gli sussurrò preoccupata, dandogli qualche colpettino leggero sul collo. «Che cosa hai visto? Non ti sei mai comportato così…».
Argo scosse leggermente la testa, poi aprì e chiuse la bocca più volte, come era solito fare quando masticava il morso. I suoi occhi tornarono ad essere vivaci, profondi, ma si poteva leggere ancora della confusione nel modo in cui la guardava. Improvvisamente si scostò dalla padrona, sottraendosi alle sue carezze. Gli zoccoli tornarono a battere freneticamente il terreno, i nitriti interruppero il silenzio e il cavallo si erse sulle gambe posteriori con fare minaccioso.
Theresa, colta di sorpresa, impartì di nuovo il suo ordine, scandendo bene le parole, ma quando vide che il totem non le ubbidiva, raggiunse con un balzo la porta basculante dell’abitacolo e la spalancò con un calcio. Il colpo fu così forte che il cancelletto batté contro il proprio stipite, si richiuse e si riaprì.
Tess rimase ferma all’imboccatura della cabina, pronta ad impedire la fuga di Argo, ma l’animale non sembrava essere affatto intenzionato a scappare. Al contrario, lo vide schiacciarsi impaurito lungo la parete opposta, scuotendo la testa, mostrando i denti, le orecchie abbassate e all’indietro, il corpo in sofferenza. Istintivamente la ragazza si voltò e la mano sinistra corse lungo il fodero, ma alle sue spalle non c’era nessuno e gli unici rumori che si sentivano erano i chiacchiericci fuori la stalla e i versi concitati di Argo.
La rossa lasciò cadere la mano lungo il fianco e raddrizzò le spalle. «Non capisco» disse scoraggiata rivolgendosi al totem «Cos’hai? Cosa stai cercando di dirmi? Non capisco» ripetè, prendendosi la testa fra le mani e massaggiandosi le tempie, provando a pensare. «Come hai fatto a…» iniziò a chiedere, ma si interruppe subito quando udì una voce flebile bisbigliarle all’orecchio:
Canterò ancora una volta per te, prima di allontanarmi…per ricordarti la mia voce…ascolta…ascolta la mia ultima canzone…ci sarà sempre un’ultima occasione…”. 
Tess sobbalzò. Un brivido le corse lungo la schiena. Si girò con uno scatto, il cuore in gola, i nervi a fior di pelle, ma alle sue spalle non c’era nessuno e tutto nella stalla era silenzio. Guardò più attentamente a destra, a sinistra, in alto, si girò ancora e ancora. Nessun altro, a parte lei, vicino ad Argo.
«Che razza di posto…!» imprecò a bassa voce, rientrando con circospezione nel box. Ora Argo annusava la paglia fresca che Theresa gli aveva sparso per terra, il corpo rilassato, gli occhi gentili e lo sguardo placido. Sollevò il muso solo quando uno spiffero trascinò con sé alcuni steli secchi, allora guardò fisso davanti a sé, la porta di legno ancora lasciata aperta, poi tornò a smuovere la paglia.   
Fu solo un attimo. In mezzo a quelle travi, a quel fieno, alle selle e ai finimenti, un movimento. Un tocco di colore, una sensazione di inquietudine nell’aria, un qualcosa che stonava in tutto quello spazio, un suono di passi, un ticchettio lontano ma assordante. Delle scarpette blu.
Ferma sull’entrata, stretta nel suo piccolo vestito azzurro, puntinato di fiori bianchi, una bimba la guardava tenendo fra le mani un mazzo di gladioli selvatici, i cui petali erano tinti di un forte color rosso. 
Tess rimase ad osservarla come pietrificata per una manciata di secondi. In sottofondo, urlate da un’immensa lontananza, frasi e parole si accalcarono nella sua testa, voci distinte si sovrapposero.
Corri con me. Prova a prendermi, prova a prendermi!”; “Non dovrà sapere nulla, mai. Lascia che dimentichi, lascia che viva”; “Potrai anche piangere con lei, ma la legge non cambierà solo perché tu l’hai trasgredita!”; “Non è importante quello che diranno gli altri. Io non ti farò del male. E tu non ne farai a me…”; “Dovremo trovarti un nome, ora che fai parte della nostra famiglia”; “Puoi odiarmi, deridermi, evitarmi, maledirmi, a me starà bene. Solo, non dimenticarmi”; “Siamo molto, molto più di questo noi due…molto più di quello che ammetti di vedere”. 
La rossa aprì la bocca per parlare ma l’unica cosa che riuscì a dire fu: «No, non di nuovo…».
«Non ascoltarle» le consigliò la bambina di fronte a lei. Aveva una voce dolce e un accento familiare. «Non ha senso che tu lo faccia se non puoi capirle».
Theresa rimase immobile al suo posto, la fronte corrugata, gli occhi spalancati, incapace di reagire. Squadrò la bambina. Aveva la pelle chiara e le gote rosate, i capelli scuri non troppo lunghi le incorniciavano il viso tondo; gli occhi grandi avevano una piega triste. Stringeva al corpicino il suo mazzo di fiori come se fosse la cosa più preziosa nel suo piccolo mondo. Il vestito le lasciava scoperte le braccia, le ginocchia – un po’ sbucciate – e il collo. Tess osservò i segni violacei che le solcavano la gola.
La bimba seguì il suo sguardo. Alzò una mano e con le dita si toccò i lividi. «Non volevi farmi male» la rassicurò «Io lo so».
«Come? Come lo sai?».
«Lo so perché ti ho voluto bene dal primo momento in cui ti ho vista…».
«Chi sei tu?».
«Ma…» cominciò la bambina, presa alla sprovvista. Gli occhi le si riempirono di sofferenza e un nodo le serrò la voce, che si fece ancora più sottile e malferma. «Ti sei dimenticata di me?».
Theresa si limitò a scuotere la testa. «Non ricordo…».
«Non mi hai creduta. Non mi credi mai. Perché non ti fidi di nessuno?».
«Mi fido di me stessa».
La bambina abbassò gli occhi e la sua bocca si corrucciò. «No, è una bugia. Tu non ascolti, tu non capisci. Se ti fidassi di te stessa ricorderesti… ricorderesti me».
«Perché è così importante?».
La piccola incurvò le spalle a quella domanda, come se avesse ricevuto un forte colpo. Lasciò cadere i fiori che si sparsero intorno a lei sul pavimento. Prese tra le mani un lembo della gonna e iniziò a stropicciarlo. «Perché fa male» spiegò piangendo.
«Cosa fa male?».
«Perderti». I fiori a terra erano morti, le foglie si erano annerite e i petali avevano perso tutto il loro colore, ma la bambina si chinò ugualmente a raccoglierli uno ad uno con attenzione. Sollevò il viso e una lacrima le rigò la guancia, si raccolse in una fossetta e si perse, ma il dolore rimase scritto indelebile nel suo sguardo. «Tu lo sai, Tess? Lo sai quello che si prova a vederti andare via?».
«Ma io non sono andata via» ribattè confusa l’altra.
«E’ il silenzio che si spezza…» disse la bambina, persa in un ricordo lontano.
«Come?».
«E’ il silenzio che si spezza in mille parole…ma non sono mai quelle giuste».
«Io non capisco, non capisco proprio» Theresa si stropicciò gli occhi per risvegliarsi da quello strano sogno, ma quando li riaprì la piccola era ancora ferma davanti a lei. La guardava dal basso, minuta com’era. La guardava come aveva guardato i suoi fiori prima che marcissero ai suoi piedi, con amore e speranza, e per un secondo Tess si sentì il cuore stretto in una morsa e le venne l’impulso di abbracciarla, di stringerla, di portarla al sicuro, ma la diffidenza era tanta e il sospetto lo era anche di più.
«Chi sei?» domandò ancora.
La bambina non le rispose. Un fremito la scosse. Si girò a destra, poi a sinistra, poi ancora a destra. «Lui è qui» annunciò. Guardò Tess con disperazione, si avvicinò a lei di uno, forse due passi. Allungò una mano e la supplicò: «Afferrala». 
La rossa si accovacciò sulle ginocchia per arrivare alla sua altezza e protese le dita, arrivando a sfiorare quelle dell’altra. Le toccò appena i polpastrelli freddi e gli occhi della piccola si illuminarono di sollievo. Poi Theresa ritirò turbata la mano, stringendosela al petto.
«Non posso» spiegò in un soffio.
La bambina tornò a piangere. «Prendi la mia mano».
«No».
«Ti prego…lasciami tornare a casa».
«No».
Intorno a loro l’aria si fece pesante, una spessa coltre di cenere nera scese dal cielo mentre la terra sputava fumo. In lontananza delle rovine, una fila di prigionieri, ognuno con le proprie lapidi; tombe svuotate, richieste di aiuto, corpi ammassati nelle fosse fuori città o in carri lasciati a bordo strada.
La bambina aveva smesso di piangere. I suoi fiori erano tornati rossi e rigogliosi come appena raccolti, ma questo non era più sufficiente a renderla felice. Stringeva la mano di un uomo alto, avvolto in pelli scure, segnato in viso dal fuoco e dall’acciaio. Una grossa cicatrice gli scavava l’occhio, lo zigomo, la guancia, piegandogli a forza la bocca in un sorriso storpio.
«Eri tu la mia casa…» spiegò la bambina a Theresa e il suo tono mal celava un’accusa «Io ho scelto te. E papà ha dato la vita per salvare la tua. Tutto si paga, nulla viene dato per nulla». Un’idea le balenò nella mente e aggiunse subito: «Nulla tranne…».
L’uomo le strinse la mano in una stretta più dura e lei smise di parlare.
«Tranne cosa?» domandò Tess, ma i due erano già spariti. «Nulla tranne cosa? Chi sei tu?» continuò ad urlare alla cenere.
«Theresa…?» la chiamò una voce.
«Dimmelo!».
«Theresa…».
«Che cosa vuoi da me?!».
«Theresa, calmatevi».
Una mano ferma si posò sulla sua spalla e i contorni confusi di quel luogo sconosciuto lasciarono posto ad una figura ammantata, un volto abbronzato, due occhi a mandorla.
Raven, fermo davanti a lei, schiena retta e mento alzato, la scrutava con intensità. La sua espressione non lasciava trasparire nulla, ma gli occhi scuri erano incatenati ai suoi e se fossero stati una lama l’avrebbero trapassata da parte a parte. Tutto intorno a loro era come prima, come l’aveva lasciato, tutto come avrebbe dovuto essere: fuori dalla stalla le voci dei passanti, gli echi lontani di un altro torneo, Argo che nel suo box muoveva annoiato la coda per scacciare le mosche.
Theresa si coprì il viso con una mano e tentò di riprendere fiato. Un senso di vertigine le attanagliò lo stomaco, si sentì mancare la terra sotto i piedi. Con un gesto rapido si asciugò la fronte sudata.
Raven continuava a studiarla in silenzio; Theresa sospettava volesse analizzare ogni sua mossa per andare poi a riferirla al Ministro di Ennon.
«I-io stavo…».
L’uomo la interruppe con voce dura «Non so cosa steste facendo, ma so cosa non dovreste fare ora: mentirmi. Le notti sono lunghe e silenziose e le pareti di questa corte sono troppo sottili per sperare che io non senta la vostra voce e gli incubi che racconta. Parlate, ma nessuno mai risponde. Non so quanti conoscano il vostro segreto fra queste mura, ma se altri venissero a scoprire di questa vostra poca…» cercò la parola più adatta «lucidità, vi sarebbero dei risvolti inaspettati e di certo non graditi».
«Non importa quello che gli altri pensano di me».
«Zane non potrà continuare a difendervi e un nuovo episodio come quello ai danni della figlia di un Ministro non potrà essere insabbiato ancora. Il passo è molto breve, troppo breve, per arrivare ad un incidente diplomatico. Questo non è il luogo ideale per nascondere dei segreti: tutti desiderano che il sole splenda e il più piccolo angolo d’ombra viene visto con sospetto. E i tempi che corrono non sono dei più felici. Avrete sicuramente molte carte nella vostra mano ancora da giocare, ma il matto non deve essere tra queste. Molti occhi sono puntati su di voi, occhi di persone che non aspettano altro che un pretesto per lanciare accuse. E se le accuse saranno fondate o meno, non importerà a nessuno. Siate scaltra, siate furba. Giocate dalla parte sicura del campo».
«Andrete a riferirlo al Ministro di Ennon? Siete qui per questo, vero? Per assicurare che io non faccia male a nessuno».
Raven ritirò la mano «No. A differenza del Ministro non ho ragione di reputarvi un pericolo. Ma siete imprevedibile e il problema dei soggetti imprevedibili è che non possono essere conosciuti a fondo. Non riferirò nulla a Zane, non finchè non ci sarà una ragione per farlo, e non lo farete nemmeno voi. Rendere partecipi gli altri delle proprie debolezze è la scorciatoia più ovvia per essere attaccati. Solo non si saprà come e da chi. Non dite nulla a nessuno. Chiunque abbia detto che la lealtà rende più forti probabilmente non ha mai avuto la necessità di proteggere qualcuno».
L’uomo le voltò le spalle, dirigendosi senza far rumore verso l’uscita, ma Tess lo trattenne.
«Raven…» lo chiamò, la voce incerta.
«Dovete chiedermi qualcosa?».
«In effetti è così» lo raggiunse «Se siete un curioso, allora dovete conoscere molte cose».
«In un certo senso. Conosco tutto quello che avviene nella cittadella».
«Sapete nulla riguardo un uomo segnato in volto da una cicatrice?».
La spia arcuò un sopracciglio «Sapreste essere più specifica?».
Theresa si morse le labbra «Non molto. E’…» provò a ricordare «E’ un uomo giovane. Io credo che sia stato il fuoco, forse un incendio, a rovinargli il viso. E una grossa cicatrice gli taglia la faccia, proprio qui» si aiutò col dito «Sul lato destro».
Raven si prese qualche secondo prima di rispondere «Nessuno che valga la pena ricordare» asserì con distacco «A meno che voi non vi interessiate agli uomini di bettola o ai marinai falliti. O ai morti».
La ragazza sbuffò sonoramente «Allora non è vero che sapete tutto».
«Io conosco tutti quelli che sono giunti alla Cittadella. Non dovreste cercare nei luoghi sbagliati le risposte alle domande giuste».
«Vi state prendendo gioco di me?».
«Affatto. Ma, se mi è consentito, cosa vi angoscia al punto da affidarvi a qualcuno la cui obbedienza, secondo voi, va a chi lo paga di più?».
«Forse per inseguire un cane serve un altro cane».
«Certo» la assecondò «E’ uno degli scenari possibili».
Con un inchino si accomiatò, ma Theresa non aveva ancora finito. Posò lo sguardo prima su Argo poi sul suo interlocutore.
«Un’ultima cosa» disse a voce più alta mentre Raven usciva dalla stalla «E’ possibile che un totem disubbidisca ad un ordine del proprio padrone?».
«No» rispose lui con decisione «Non più».  

 

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Capitolo 12
*** Fra te e la tempesta ***


Capitolo 10
 
♦ Fra te e la tempesta 
 
“Dove stai andando non lo domando mai.
So che è passato il nostro tempo e ormai
la sola cosa che temo è il ricordo che avrai

di noi, quando alle spalle ci lascerai”
 
 
Tutt’intorno a lei il chiacchiericcio confuso di centinaia di persone continuava. Le donne avvolte nei loro abiti dai colori sgargianti sparlavano, gli uomini più anziani discutevano di politica e quelli più giovani si vantavano delle proprie prodezze con i coetanei o, più volentieri, con le dame che li affiancavano. Sopra la sua testa gli uccelli, in folti stormi, migravano, e sotto di lei, qualche metro più in là, il terreno veniva preparato per una nuova sfida.
Seduti sui loro scranni, Zane e Ophelia attendevano pazientemente l’inizio del torneo, ma alle loro spalle la folla che si andava ammassando sembrava tutto tranne che paziente. Gli abitanti di Morèa, solitamente così estranei a quella competizione, ora si facevano spazio sugli spalti, occupando tutti i posti a sedere disponibili e distribuendosi anche nelle tribune vicine. Sopra le loro teste, lo stendardo del rione sventolava caotico, come caotici erano le urla, il comportamento, lo strepito di quel popolo abitualmente mansueto.
Ma Theresa non vedeva nulla di tutto questo e le sue orecchie ascoltavano, ma non coglievano. I suoi pensieri erano rivolti altrove ed erano così pesanti, così pregnanti, così ingombranti da non lasciare posto a null’altro. A malapena era riuscita a percepire l’insolito distacco di Daia, il suo sguardo perso, i modi tiepidi – un po’ scontenti – con cui le si rivolgeva ormai da qualche giorno. Li aveva notati, certo, ma non affrontati, perché non ne aveva il tempo, perché era distratta, perché i suoi pensieri erano rivolti altrove e sembrava la stessero logorando giorno dopo giorno dall’interno e non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione che qualcosa non andasse, che quel posto le fosse completamente estraneo; non riusciva a fare a meno di avere paura la notte quando rimaneva da sola, di sobbalzare a qualsiasi bisbiglio, di temere i suoi incubi e le sue visioni e, allo stesso tempo, di desiderarle per saziare tutti suoi dubbi. E si sentiva strana, sbagliata, paranoica. Si sentiva impazzire. Stava forse diventando matta? Non lo sapeva.
Più di tutto, quella bambina era diventata il suo pensiero fisso e non riusciva a sfuggirne il ricordo. La conosceva, senza averla mai vista veramente. La conosceva, senza sapere chi fosse, senza conoscerne il nome, la provenienza o l’età. La conosceva, senza conoscerla affatto. Ma la conosceva abbastanza da sentirsela dentro, fin nelle viscere, come se qualcuno le avesse scavato a fondo il cuore per farcela entrare a forza. La ricordava ferma davanti a lei, con gli occhi spaventati, i fiori rossi stretti nelle mani, le scarpette blu così familiari e ogni volta la assaliva il desiderio istintivo di proteggerla, e ogni volta una morsa le attanagliava lo stomaco al pensiero di non averlo fatto quando lei glielo aveva chiesto.
La prossima volta, pensò, la prossima volta non sarà così…
«Tess» chiamò Daia, seduta al fianco dell’amica. Le posò una mano sulla spalla. «Mi stai ascoltando?».
La rossa si scosse. «Come? Hai detto qualcosa?».
Daianara aggrottò le sopracciglia. Ritirò la mano, aprì la bocca per rispondere, ma subito ci ripensò e la richiuse. «Nulla» sospirò frustrata.
«Coraggio, dimmi».
«Lascia perdere».
Theresa non insistette. Si passò una mano sulla fronte, scostandosi la frangia troppo lunga dagli occhi. «Evidentemente non era nulla di così importante» concluse.
L’altra girò il viso per cercare il suo sguardo, ma non lo trovò. «Sembra non esserlo mai ultimamente…» bisbigliò tra sé, intrecciando le dita.
Tess prestò poca attenzione a quelle parole e si limitò ad alzare gli occhi al cielo. Si guardò intorno, fra tutte quelle persone e quel rumore. Vide una ragazza raggiungere il padiglione di fronte a loro, con una camminata decisa e uno sguardo circospetto che Theresa sarebbe stata in grado di riconoscere fra centinaia. Si tirò su di scatto per potersi affacciare dal parapetto della tribuna, sporgersi oltre la ringhiera e strizzare gli occhi per vedere meglio. Poi scosse la testa e, così come si era alzata, tornò a sedersi, pensierosa.
«Che cosa stai facendo?» domandò Daia.
«C’è Savannah» le rispose Tess, e se solo l’avesse guardata sarebbe riuscita a vedere il corpo di Daia irrigidirsi e il volto adombrarsi alla pronuncia di quel nome. «Che cosa ci farà qui?».
«Perché ti importa tanto?».
«Non mi importa» ribattè «E’ solo strano che venga ad un incontro come questo, quando non c’è il Ministro di Nika a sovrintendere. A meno che…» si picchiettò nervosamente due dita sulla gamba.
«A meno che cosa?».
«E’ strano vedere Morèa radunata qui. Perché tutta questa gente?».
Daianara tirò su le spalle «Non saprei, forse loro…Tess? Tess, dove stai andando?» domandò e riuscì appena in tempo ad afferrarle un braccio per trattenerla.
«Da Savannah» rispose semplicemente.
«Perché?».
«Qualcosa non va».
«Stai diventando paranoica, Tess».
«Forse è così, ma non ho mai creduto nelle coincidenze. Il mondo è caotico, è vero, ma non è poi così disordinato».
«Bhe, adesso inizia la sfida. Potrai andarci dopo».
«Ma io voglio andare da lei adesso».
«Se davvero qualcosa non andasse, di certo parlare con Savannah non cambierebbe le cose».
«Perché?» cominciò a dire Theresa, innervosendosi «Le cambierebbe rimanendo qui a discutere con te?».
«Cambierebbe per me, se tu decidessi di rimanere qui».
«E come, di grazia?».
«Preferirei che tu non andassi da lei» tagliò corto.
«Perché?».
«Perché sì».
«Non è una risposta, Daia».
«Accidenti, Tess!» proruppe «E’ davvero così grande lo sforzo che ti costa darmi ascolto? Non potresti fare semplicemente quello che ti ho chiesto, senza dover disquisire su ogni singola parola?».
«E dar sempre ascolto ai tuoi capricci? Non sei più una bambina Daianara ed io non sono la tua balia. Ora lasciami andare» strattonò, ma l’altra non lasciò la presa. «Stai iniziando ad infastidirmi».
«Da quando stare con me ti infastidisce tanto?».
«Da quando pretendi di discutere le mie decisioni. Qualsiasi problema tu abbia con Savannah…».
«Io non ho nessun problema con Savannah» la interruppe subito.
«… o con me, ti consiglio di risolverlo in fretta, perché non ho nessuna intenzione di iniziare a giustificarmi con qualcuno, nemmeno con te, delle mie scelte». Così dicendo ritirò il braccio e Daianara fu costretta a lasciare la presa. Theresa si mosse fra i presenti e, con passi rapidi, si allontanò da lei, senza guardarsi indietro.
Raggiunse la ragazza di Nika e ne seguì lo sguardo, rivolto al cielo. Appostati sui tetti, sulle torri, su guglie e su pennacchi, i soldati del corpo dei ballistarii dominavano la zona. Nonostante la distanza riuscì a contarne una trentina, tutti in posizione, sopra le loro teste.
«Che cosa sta succedendo?» la interrogò con irruenza Theresa, senza perdersi in premesse di sorta.
La bionda alzò appena un sopracciglio, ma non si scompose. Incrociò le braccia al petto e con indifferenza rispose: «Scusami?».
«No, non ti scuso».
«D’altronde non sei mai stata brava a farlo».
«E non inizierò di certo adesso. Ma non sono una sprovveduta, Savannah, quindi non trattarmi come se lo fossi. Sento che qualcosa non va» si guardò intorno «Lo sospettavo già prima del tuo arrivo, ma adesso è palese e tu me ne stai dando tutte le conferme».
«Non so di cosa tu stia parlando, Theresa» ribattè scocciata la ragazza. Le diede le spalle, con tutta l’intenzione di evitare quella discussione, e con un gesto appena accennato fece per congedarsi.
L’altra le sbarrò la strada. «Non prenderti gioco di me. Forse potrò non rientrare nelle tue grazie, e di certo la cosa è reciproca, ma che ti piaccia o meno, noi ci conosciamo bene. E nonostante sia passato più tempo di quanto non mi piaccia ammettere, riesco ancora a leggerti come se fossi un libro aperto. La tensione traspare dal modo in cui ti muovi e dai gesti che fai. E da quello che non dici».
«Se sai già tutto questo, perché sei venuta da me per cercare delle conferme che, a quanto pare, non ti servono?».
Theresa ignorò deliberatamente la domanda. «Ti ha mandata Hansel, vero?».
Savannah alzò gli occhi al cielo. «Quando diventi Ministro i compiti che hai da assolvere si moltiplicano e il tempo che ti viene dato a disposizione sembra ridursi di conseguenza».
«Si, ma non è un caso che tutti gli abitanti di Morèa si siano radunati qui, neanche dovessero celebrare la festa di quartiere con tutte le loro urla. Specie contando che nessun seguace di Aron parteciperà al Torneo e il fatto che il borgo non approvi questa tradizione è diventato ormai di dominio pubblico. Allora perché prendersi la briga di venire ad assistere a questo incontro?».
La bionda storse il naso. «Dai per scontato che io conosca la risposta?».
«Sei qui per controllare. Hansel di sicuro sa qualcosa e se lo sa lui, bhe…» la squadrò dalla testa ai piedi e la sua espressione si fece arcigna «Allora è impossibile che non la sappia anche tu».
«Sei sempre stata troppo curiosa, curiosa anche di cose che non avrebbero dovuto riguardarti» disse fredda «Se hai tutti questi dubbi, perché non ti rivolgi a Zane?».
«Perché lo sto chiedendo a te».
«Davvero lo stai chiedendo? A me pare piuttosto tu lo stia pretendendo. E potrai battere i piedi a terra quanto vorrai, se questo ti farà sentire meglio, ma ho l’obbligo di non divulgare nessuna delle decisioni prese dai Ministri e non verrò meno ai miei doveri solo perché una ragazza di Ennon ha deciso di darsi al pettegolezzo».
Theresa serrò i pugni. «E’ stato Hansel ad ordinarti di tenere la bocca chiusa? Potrebbe chiederti qualunque cosa…».
«No, affatto» ribattè a denti stretti Savannah «Sono sufficientemente padrona di me stessa per stabilire da sola cosa ti compete e cosa no. E, per tua sfortuna – e per la mia gioia -, le faccende del Consiglio non ti riguardano».
«Ancora non ti ho sentita dire che mi sbaglio, però».
La bionda fece spallucce e distolse lo sguardo. «Pensala come credi. Tanto lo faresti comunque».
«Che cosa ci fanno i gargoyle lassù?» domandò poi Theresa, sollevando il viso.
«Sorvegliano. È questo il loro compito. Lo fanno sempre, anche quando gli altri non li vedono. Sono in molti a non avere l’abitudine di guardare in alto».
«E hanno l’abitudine di sorvegliare gli spettatori con le balestre puntate? Magari anche caricate?».
«Non saprei» disse Savannah, scuotendo la testa «Tu sei solita cavalcare senza cavallo?».
«Stanno per attaccarci?».
«Ovviamente no».
«Dunque sono in allerta».
«Io non l’ho detto».
«Allora è vero che sta per succedere qualcosa».
«Non ho detto nemmeno questo».
«E quindi che cosa?» sbottò spazientita, a voce troppo alta. L’altra le coprì subito la bocca con il palmo della mano, facendole segno di tacere.
Sbuffò sonoramente, rassegnandosi all’idea che Theresa comunque non se ne sarebbe andata. «Rimani vicina a me e basta. Non fare mosse avventate».
«Io non prendo ordini da te».
«Da adesso sì» rispose in un tono che non ammetteva repliche «Fai come ti ho detto, Theresa».
Dopo aver pronunciato la formula di ringraziamento e aver zittito i presenti, il Giudice lesse i nomi degli sfidanti che avrebbero gareggiato in quell’incontro. Prese tra le mani i fogli di pergamena che i valletti gli avevano consegnato. «Entrino nell’arena Tribeka, del borgo di Kalendor, e Aeriel, della contrada di Morèa» annunciò e i cancelli vennero aperti ai due contendenti e subito un brusìo serpeggiò tra gli spalti. L’uomo e la donna non fecero nemmeno in tempo ad avvicinarsi per il saluto che dal borgo di Morèa si levarono numerose grida.
«Traditore!».
«Sei un vigliacco!».
«Il peggiore dei codardi!».
Uomini e donne si sbracciarono, inveirono, lanciarono improperi e, insieme a loro, anche gli abitanti degli altri rioni che avevano appoggiato le petizioni di Morèa. Alcuni di loro scavalcarono il parapetto e la recinzione e in pochi secondi il loro esempio venne seguito da altri e da altri ancora, fino a quando tutta l’arena non si trasformò in una bolgia.
«Stai facendo il loro gioco!» urlava qualcuno.
«Non sei degno d’essere considerato uno di noi!».
I più si mettevano in salvo e quelli che non volevano essere coinvolti nella rissa si erano già allontanati. Zane, dopo aver messo al riparo Ophelia ed Isolde, tuonò ai suoi di seguirlo e gli uomini di Ennon, insieme ad un manipolo di Nika, cercarono di dividere i rivoltosi. Quando gli abitanti di Tanaro, le spade strette in pugno, si scagliarono a loro volta contro i ribelli (non per arginare le ostilità, ma per prendervi parte) il conflitto si accese. Nessuno, a parte Theresa e Savannah – che avevano fatto sgomberare la tribuna alle loro spalle – si accorse dei dardi che cadevano dal cielo, almeno fino a quando non andarono a segno, colpendo gambe, torace, spalle.
Alcuni gargoyle, imbracciando le loro balestre, si calarono giù dalle torri e dai pennacchi, saltarono da un tetto all’altro, si lasciarono cadere nel vuoto, piegando le ginocchia per attutire una caduta che per qualsiasi essere umano sarebbe risultata mortale; altri si tennero a distanza per ferire i bersagli e nessuno dei loro colpi andava a vuoto.
Dopo due raffiche di dardi, ancora la folla non si era dissipata e anche chi avesse voluto lasciare il campo non ne sarebbe stato in grado, perché le guardie del palazzo li stavano accerchiando velocemente e il panico circolava tra i sovversivi al punto che, tra grida, pianti e spintoni, molti finirono calpestati.
«Daia…!» sussurrò Theresa, gli occhi sgranati, e senza pensarci due volte saltò i gradini tre a tre per raggiungere il padiglione del borgo del ferro.
«No!» urlò Savannah e le si lanciò addosso, aggrappandosi alla sua schiena. Entrambe caddero, rotolando per l’ultima, breve, rampa di scale. La rossa provò a rimettersi in piedi, ma l’altra la tenne ancorata al suolo. «Non ci pensare nemmeno» sibilò.
«Lasciami andare!» sbraitò Theresa, assestandole una gomitata alla bocca dello stomaco e scivolando via.
Estrasse la spada dal fodero e Savannah riuscì appena in tempo a farle lo sgambetto, allungando una gamba per interrompere la sua corsa, e l’altra inciampò. «Non essere avventata!» urlò, mettendosi a cavalcioni sulla sua schiena.
«Savannah, dannazione!» si dimenò, cercando di scrollarsela di dosso «Lasciami andare, lasciami andare!».
«Non essere stupida!» la trattenne e una terza pioggia di dardi si abbatté sui presenti. «Stai ferma!».
«Daia! Daia!» chiamò Theresa e uomini e donne colpiti si accasciarono al suolo davanti ai suoi occhi, in una pozza di sangue.
«Stai ferma!» ripetè Savannah e storse il polso della ragazza per farle cadere la spada.
L’altra urlò di dolore, ma non mollò la presa.
«Mettila giù, Theresa! Mettila giù!» intimò e con la coda dell’occhio vide dirigersi verso di loro un soldato in livrea verde.
Theresa inarcò la schiena e alzò lo sguardo, incrociando quello vitreo, inespressivo e vuoto di Caleb.
Il gargoyle le osservò entrambe per una frazione di secondo, senza poterle riconoscerle, vincolato com’era dall’obbligo che gli era stato impartito troppo tempo addietro e che ora nessuno avrebbe potuto spezzare. Caricò la balestra, puntò l’arma davanti a sé.
In risposta Theresa si accovacciò e trasse a sé la lama. Savannah si mosse, conficcando il ginocchio nella scapola della ragazza e, girando il busto, calciò via la spada.
«Che cosa stai facendo?!».
«Stai zitta!».
Caleb prese la mira, lo sguardo ancora annebbiato, e la bionda si parò davanti a Tess, proteggendola con il suo corpo. Tremarono entrambe e con un sinistro e meccanico click il quadrello venne lanciato, fendendo l’aria.
Il dardo passò sopra le loro teste e si conficcò, vibrando, nelle assi di legno degli spalti.
Savannah guardò Caleb, pronunciò il suo nome, ma lui non la udì. Abbassò l’arma, senza smettere di fissarle.
«Non ti muovere…» sussurrò la bionda all’orecchio di Theresa «Qualsiasi cosa succeda, tu non ti muovere».
Il ragazzo rimase immobile ancora qualche secondo, il busto teso, le gambe divaricate. E Savannah sapeva che, senza le loro armi, Caleb non avrebbe potuto attaccarle, perché non rappresentavano più un pericolo per lui, né per il Palazzo che doveva difendere.
Buttò fuori il respiro che aveva trattenuto fino a quel momento, ma il totem imbracciò nuovamente l’arma e la caricò.
«Ma cos…?» fece appena in tempo a dire Savannah che Caleb si voltò, dando loro le spalle, pronto a colpire.
Davanti a lui Daianara tremava. Guardò prima Savannah e Theresa, distese a terra, abbracciate, poi la spada, a terra, lontana da loro.
Il gargoyle si avvicinò minaccioso e la mora rimase impietrita sotto il suo sguardo tetro. Passò gli occhi dalla spada al giovane, poi di nuovo alla spada e in quell’istante decise di lanciarsi per afferrarla, ma Savannah la prevenne.
«No!» urlò, allungando la mano nella sua direzione «Non farlo».
«Ma…».
«Fai come ti ho detto, Daianara» la interruppe subito «Non ti muovere, non ti muovere».
La ragazza si pietrificò e quando Caleb le fu abbastanza vicino da premerle contro il petto la punta del quadrello, lei tremò.
«Caleb…» lo chiamò, senza ottenere risposta e nei secondi che trascorsero (secondi che a Daia parvero minuti) prima che lui si ritirasse, altri uomini vennero colpiti dai dardi.
Con un bilancio di quindici morti e trentadue feriti, quell’incontro si concluse senza vincitori.
E anche se Daia se ne vergognava profondamente, dopo una settimana dall’accaduto l’unica cosa che ancora le riempiva la mente, nonostante tutte le perdite, tutto il sangue, tutta la paura, tutte le urla, era l’immagine di Theresa e Savannah strette l’una nelle braccia dell’altra. 

 
♦♦
 
La luna era ormai bassa e la luce dei primi raggi del sole iniziava a rischiarare la notte. Sopra di lei, però, il cielo era ancora scuro e nell’aria si poteva annusare l’inconfondibile odore della pioggia.
Seduta sul bordo del letto, le coperte e le lenzuola sfatte, Savannah rimase a fissare la finestra aperta davanti a sé, percependo attraverso la sottile camicia da notte l’aria fredda entrare nella stanza. E in quella posizione rimase, con le mani giunte in grembo, la schiena retta, il mento alzato, fino a quando l’alba non sopraggiunse con tutti i suoi colori, portando con sé il chiacchiericcio di chi, nel giardino di Palazzo, si era alzato per i preparativi del banchetto della Commemorazione.
«Sei così distante, Savannah» sussurrò una voce alle sue spalle, ma lei non si scompose. Una mano si allungò nell’oscurità, posandosi sulla sua schiena per una carezza gentile. Lei percepì le dita sfiorarle le spalle, il collo, seguire il contorno della spina dorsale, senza incontrare nessun rifiuto, ma nemmeno nessun invito. Non ottenendo reazione, Hansel lasciò cadere la mano, sconfortato.
«Non riesco a fare altrimenti» bisbigliò in una scusa Savannah, dopo un troppo lungo silenzio. «Da quanto sei sveglio?».
Il Ministro di Nika si tirò su a sedere «Da un po’. Non riesci a dormire?».
«Chi mai vi riuscirebbe?».
L’uomo abbozzò un sorriso che subito gli morì sulle labbra. «Già…sembra essere la nostra condanna».
Savannah si perse in un lungo sospiro. Girò appena il busto per poterlo guardare e lo vide aggiustarsi la camicia scura, un po’ stropicciata dopo averci dormito.
«Vieni a letto» la invitò lui, accompagnando le sue parole battendo leggermente il materasso nel lato vuoto di fianco a lui.
«Non posso» rispose in un soffio, tornando a guardare di fronte a sé. Un brivido la scosse quando un alito di vento freddo li investì, spalancando una delle ante della finestra.
Hansel tirò via le lenzuola e, afferrata una coperta, gliela posò sulle spalle. La strinse a sé, avvolgendole le lunghe braccia intorno al busto e affondando il naso tra i suoi capelli.
«Mi manchi, Savannah» le sussurrò all’orecchio, inspirando il suo profumo «Dove sei?».
La ragazza abbassò lo sguardo per non dover incrociare i suoi occhi. «Io non lo so…» disse sincera.
L’uomo la strinse più forte a sé, come se la forza potesse cacciargli via dal corpo la sofferenza. «Torna da me».
Savannah sentendo quelle parole si irrigidì e con tono freddo e distaccato ribattè: «Ma io sono già tornata, Hansel». Poi, pensando di essere stata troppo dura, aggiunse «E’ solo che non è servito…».
«Non ci pensare». Il Ministro le accarezzò la testa.
«Come si può non pensarci?».
Lui trattenne il respiro. «Tu mi ami?» domandò e la sua voce tradiva paura. Quando la ragazza non rispose, Hansel le posò una mano sulla guancia e la costrinse a voltare il viso per guardarlo. Fissando i suoi occhi, un po’ tristi, un po’ spaventati, Savannah si sentì in colpa.
«Ti prego» continuò lui «Dimmi che mi ami ancora».
«Non posso farlo. Ho bisogno di tempo, Hansel» aggiunse. Quando l’uomo fece per allontanarsi, lei lo trattenne «No, aspetta».
Lui scosse la testa, gli occhi lucidi. Fece per dire qualcosa, ma Savannah lo prevenne.
«Raccontami» disse tutto d’un fiato «Raccontami di com’eravamo».
Hansel si passò stancamente una mano sul viso, stringendosi fra il pollice e l’indice la radice del naso. «L’ho già fatto. Talmente tante volte che ho smesso di contarle».
«Per favore. E’ l’unica cosa che mi è rimasta di noi».
«Ma noi siamo ancora qui» si oscurò.
No. No, io non ci sono più, pensò lei, ma non diede voce a quelle parole. «Per favore» disse semplicemente.
Il Ministro di Nika fece un profondo respiro e iniziò a parlare, perché non sarebbe mai stato capace di negarle alcunché. «Ti ho conosciuta alla festa del Raccolto. Io ero solo uno dei tanti ragazzi che per farsi rispettare ricorreva alle maniere forti, ma tu... tu eri la cosa più bella che un incosciente come me avrebbe mai potuto vedere. Ti ho guardata e non sono riuscito a resisterti e più ti osservavo più mi rendevo conto che non sarebbe più stata la stessa cosa, per me. Avevi un modo tutto tuo di osservare il mondo, un modo tutto tuo di farti sentire e di porti. Ti ho chiesto di ballare e tu hai rifiutato. Te l’ho chiesto un’altra volta e un’altra ancora e avrei continuato a farlo fino a che tu non avessi acconsentito. Mi hai intimato di lasciarti stare, perché un prepotente come me non sarebbe mai riuscito a conquistare una come te. E allora io…» sorrise «Sono cambiato. Sono cambiato perché tu potessi darmi una possibilità, sono cambiato perché ti volevo così disperatamente e perché da quando ti avevo conosciuta la mia vita sembrava non bastarmi più. Howel mi ha preso con sé e con lui sono cresciuto, sono maturato, mi sono riscoperto. E anche se tu ti eri già scordata della mia esistenza, il tuo pensiero era l’unica cosa che mi permetteva di andare avanti. Sapevo di doverti meritare e quando mi sono sentito pronto, sono tornato a cercarti. Non è stato facile. Eri la persona più diffidente e fredda che io avessi mai conosciuto. E lo sei ancora» sottolineò, storcendo il naso «Ma io non potevo fare a meno di te. E dopo un tempo infinito, ti sei fatta amare. Quando hai acconsentito a sposarmi io mi sono sentito come neanche il più felice degli uomini si sarebbe sentito al posto mio». Lo sguardo di Hansel si fece improvvisamente cupo «Poi, quel maledetto giorno, il ponte ha ceduto. E noi siamo caduti in acqua. Era inverno e la corrente era forte. Ho provato ad afferrarti per metterti in salvo, ma sei rimasta incastrata e sei affondata tra quelle pietre e quelle travi ed io ti ho vista sprofondare sempre di più, sempre di più» la voce gli venne meno. «Quando sono riusciti a trascinarci a riva, tu non respiravi. Ed è stato come se qualcuno mi avesse aperto il petto per smembrarmi il cuore. Eri fredda tra le mie braccia. E non c’era più nulla che io potessi fare».
«Potevi lasciarmi andare…».
Hansel incurvò le spalle come se qualcuno lo avesse colpito. «No, non potevo. Non potevo stare senza di te. Avrei dato tutto, fatto tutto, pur di non vivere quel dolore».
«Sei stato egoista» sussurrò, senza avere davvero intenzione di rimproverarlo.
«L’amore rende egoisti, Savannah» si prese la testa tra le mani «Se avessi saputo che la mia decisione, invece che riportarti da me, ti avrebbe allontanata, allora io…allora io…».
La bionda lo abbracciò quando lo udì piangere e Hansel nascose le proprie lacrime, affondando il volto nel petto di lei, e pensò non si sarebbe mai sentito a casa in nessun altro luogo.
«Tu mi odi. So che è così».
«No» disse Savannah con decisione «No, questo mai. Non ti odio Hansel. Non potrei odiarti nemmeno se lo volessi».
«E allora perché? Perché sei così irraggiungibile per me?».
La ragazza si morse le labbra. «Io…» iniziò, senza avere il coraggio di continuare.
«Ti prego, dimmelo. Io devo saperlo. Fai così male».
«Oh, Hans…» chiamò il suo nome, passandogli le dita fra i capelli e baciandogli la fronte «Io non vorrei fosse così. Ma non ricordo nulla di tutto questo. Io conosco solo quello che tu mi hai raccontato. E mi chiedo se…» deglutì a fatica «Se non sia tutto solo un’invenzione. E un tuo ordine il fatto che io abbia dimenticato la verità».
L’uomo si freddò. «Tu non ti fidi di me?».
«Non mi fido nemmeno di me stessa, come puoi chiedermi di fidarmi di qualcun altro?».
Il Ministro di Nika si allontanò da lei con uno scatto. «Mi credi capace di una cosa così meschina».
«Io non ricordo» spiegò ancora Savannah.
«Ma io si! Io ricordo tutto di noi…ricordo ogni carezza, ogni promessa, ogni bacio, ogni risata. E sto convivendo col fatto che tu mi veda come un completo estraneo, ma non posso accettare questo. Non posso accettare che tu mi veda come un impostore. Non ti sto mentendo. Non ti ho riempito la testa di bugie. Né ti ho ordinato di restarmi accanto contro la tua volontà. Sei libera di andare via, se è davvero questo che desideri. Non ti ho fatta tornare solo per vederti infelice».
Savannah aggrottò la fronte «Liberarmi non mi renderà padrona di me stessa».
«Si riduce a questo tutto quello che provi per me? Un obbligo a cui dover adempiere?».
«Sai che non è così ed è ingiusto che tu lo dica».
Hansel si morse le labbra. «Mi dispiace. Mi dispiace per tutto quello che è successo. Se potessi fare qualcosa per non vedere nei tuoi occhi quello che vedo adesso, lo farei. Farei qualsiasi cosa per riaverti con me, per tornare ad essere quello che eravamo».
Savannah si strinse nelle spalle, abbassò lo sguardo, incrociò le mani, si torturò le dita. «Appoggia Morèa» disse infine e i tiepidi raggi del sole iniziarono a rischiarare la stanza «Non tutti gli uomini sono come te. E un’eternità senza la possibilità di scegliere per sé stessi è il peggiore inferno a cui potresti acconsentire. Guarda me. Guarda quanti morti ci sono stati e pensa a quanti ancora ce ne saranno. Per favore, Hans. Se davvero vuoi salvarci, schierati con Aron».

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Capitolo 13
*** Il colore del gladiolo ***


Capitolo 11
 
♦ Il colore del gladiolo 
 
“La voglia che ho di te mi spinge a rimanere,
ma dopo ci ripenso e desidero scappare.
Guardandoti non riesco ad ignorare il piacere,
guardandomi non posso trascurare il dolore.”
 

Un tempo erano le Arpie, guardiane del cielo, o almeno questo era quello che i rotoli tramandavano, una leggenda copiata, trascritta e tradotta nei centri del continente da così lungo tempo che i più, ormai, avevano smesso di chiedersi da quanto. La storia di Fërun, il regno oltre le nuvole, era impressa in quei fogli e viveva all’interno delle mura delle cappelle, nei pilastri di ogni basilica, nelle vetrate istoriate delle chiese. Prima del sole e della luna, prima di qualsiasi germoglio o goccia d’acqua, erano stati solamente cielo e nuvole e al di sopra di entrambi donne alate rincorrevano il vento e scatenavano tempeste. Fu Kara, del dominio della Serra, a tradire Fërun e ad essere condannata all’esilio. Forse spinta dall’amore, forse dal capriccio, forse dalla curiosità, si spinse oltre il mondo conosciuto, sotto la coltre di nubi che avvolgevano il suo regno. Le ali le vennero allora strappate dalla schiena e il sangue delle ferite colorò il cielo, affinchè tutte le Arpie potessero conoscere la sua colpa e la sua punizione. Privata delle ali, Kara precipitò nel vuoto, ma la sua vertiginosa caduta venne interrotta dalle sorelle giunte in suo soccorso. Afferrata a pochi metri da terra, la guardiana si trovò circondata da lande sterili, terre desolate, fiumi di lava e rocce nude.
Mosse a pietà, le sue sorelle le fecero tre doni: dalle lacrime di Keylin, la Colomba, nacquero mari, laghi e rigagnoli che nutrirono la terra, permettendole di generare frutti; ammaliati dal richiamo di Kenra, l’Allodola, animali di ogni specie occuparono il continente; e infine Kleofe, la Rondine, raccolse le piume di Kara e le incastonò come pietre preziose nel cielo, per fare in modo che di notte le stelle accompagnassero sua sorella nei sogni, permettendole ancora di librarsi in aria. E da Kara nacque una nuova stirpe di Guardiani senz’ali, che non aveva tuttavia smesso di guardare il cielo e desiderare di volare. Ancora adesso i religiosi, osservando il tramonto infuocato, pensavano al sangue versato dall’Arpia traditrice ed erano certi di riconoscere, in quel rosso, il sangue delle sue ali.
Quella leggenda sulle origini del loro mondo si era talmente ben radicata nell’immagine popolare che non stupiva vedere agli incroci delle strade, nelle piazze, nelle case, incise sulle colonne, le figure delle tre sorelle e di Kara, la Fenice, più spesso rappresentate attraverso i loro animali. E loro sculture erano state portate anche nella basilica di Palazzo, gremita di gente, per allestire la sala in onore del banchetto della Commemorazione, l’ultimo grande evento prima che i reami si chiudessero in un rigore ascetico, in memoria della grande epidemia che aveva sconvolto il continente al tempo della guerra civile.
Le pesanti tende cremisi che, in parte, celavano la serie di vetrate sulla lunga parete meridionale; i bacini dorati - posti anche sul piano superiore della basilica - straripanti di gerbere, rose, tulipani, garofani rossi che riempivano l’aria di un dolce profumo; i candelabri e le lumiere che gettavano una luce soffusa sull’intero abitacolo; i musici, con i loro liuti, le arpe, i flauti che davano con le loro allegre ballate inizio alle danze. Ovunque era opulenza, ovunque era sfarzo: negli ori, nei marmi, nei vestiti e nei gioielli delle dame. Era l’incanto di Palazzo. Quello stesso incanto studiato per distogliere l’attenzione dei presenti dai problemi di più urgente rilevanza. E, alcuni dicevano e molti altri condividevano, per tenere a bada il popolo di Morèa e il suo Ministro.
Se gli uomini, nelle loro vesti migliori, facevano orgogliosamente sfoggio degli emblemi che si erano scelti (la Fenice, la Rondine, la Colomba o l’Allodola), le donne – come da tradizione – li celavano ai più, nascondendo i gioielli che li raffiguravano al di sotto delle gonne, all’interno delle maniche, nella scollatura dei corpetti. Solo poche dame mostravano con spavalderia il loro simbolo, in una sorta di linguaggio di corte codificato che Theresa non aveva nessuna voglia di comprendere.
Osservò Daia da lontano aggirarsi tra la folla. Portava un vestito bianco, stretto in vita, e lo strascico seguiva ogni suo passo, come la spuma del mare le onde; un leggero mantello, colorato di un azzurro spento, le copriva la schiena ed era stato fermato sul petto da una fibula dall’intaglio modesto; i capelli erano stati raccolti da Vidia in una elaborata pettinatura lasciata morbida al punto che, ai lati del viso, qualche ricciolo era scappato ai fermagli bronzei.
«E’ bella…» sussurrò al suo orecchio una voce maschile e subito Theresa si voltò.
Caleb la affiancava impettito, la livrea da gargoyle fin troppo riconoscibile fra quello sfarzo.
«Chi?» chiese la rossa, presa alla sprovvista.
Il ragazzo abbozzò un sorriso sbieco, ma sul suo viso di eterno adolescente anche il più malizioso degli sguardi sarebbe risultato gentile. «Daia» spiegò lui, incrociando le braccia al petto. Una spilla, agganciata poco sopra la spalla sinistra, portava il simbolo dell’Allodola.
Theresa non lasciò trasparire alcuna emozione e rispose solamente: «Suppongo di sì».
Caleb fece schioccare la lingua sul palato e con tono canzonatorio commentò «Non riesci proprio a sbilanciarti più di così?».
«Perché mai dovrei farlo?».
«Per le persone, a volte, bisogna compromettersi».
Theresa sorrise «Io almeno non ho provato ad ucciderla». Si fece seria «Ad ucciderci tutti».
Il gargoyle arricciò le labbra e incatenò i suoi a quelli della ragazza. «Ne sei sicura?» domandò, anche se già conosceva la risposta.
Tess aggrottò la fronte e la sua espressione si fece scura.
«Tranquilla» Caleb portò le mani avanti «Era per dire. La gente mormora, in questo posto più che negli altri, ed io ho un buon udito. Per fortuna» aggiunse «Il tuo piccolo incidente è già stato dimenticato. La memoria delle persone è breve quando c’è così tanto su cui spettegolare. E presto» aggiunse «Dimenticheranno anche il mio».
«Si, bhe…» iniziò la rossa, tornando a guardare Daianara «In ogni caso, smettila di fissarla in quel modo o gli inservienti dovranno raccogliere i tuoi occhi dal pavimento».
«Va bene» la accontentò Caleb, divertito «Forse raccoglieranno anche i tuoi».
Savannah seguì il Ministro di Kalendor e il suo totem tra la gente, in una profusione di inchini e frasi di circostanza a cui Ophelia rispondeva sempre cordialmente. Lontani da loro, Hansel, Kasimir e Zane si erano appartati in un angolo e confabulavano concitatamente, ma a bassa voce, senza avere intenzione di godersi il banchetto.
«C’è così tanto da discutere…» commentò la vecchia, rigirandosi lo specchio di Kalendor tra le mani come se fosse la cosa più preziosa «E così poco tempo per farlo. Ma il destino è tiranno: non soggiace ai comandi di nessuno e conosce già la strada da percorrere. Un po’ come il cuore delle persone, che non può essere domato o controllato». Il vecchio Ministro la guardò di sottecchi, con fare allusivo, e nei suoi freddi occhi azzurri Savannah percepì un ammonimento.
«Quando giungerà il tempo» continuò Ophelia, procedendo mesta «Anche tu capirai che la libertà, senza qualcuno con cui condividerla, non è altro che una nera solitudine. Le guerre d’amore sono soltanto un’illusione: distruggono anche i vincitori».
Le labbra di Savannah si stesero in un debole sorriso, ma questo non bastò ad illuminarle il volto.
«Coraggio, cara» le sussurrò l’anziana, allungando le dita per carezzarle la mano e la bionda la lasciò fare, perché solo lei sembrava essere in grado di leggere le sue apprensioni.
Il grande salone si affacciava su un porticato rialzato in marmo, abbastanza ampio da consentire di continuare le danze anche all’aperto. Due ampie scalinate permettevano di raggiungere il giardino, in verità piuttosto spoglio e non troppo bene illuminato. Una sola fontana zampillava acqua al centro dell’immenso spazio e più in lontananza, quasi nascosta dalle fila di alberi, si poteva intravedere la torre del Crocevia.
Daianara distolse lo sguardo dal parco su cui ormai era scesa, troppo precocemente, la sera, e quando Ophelia, accompagnata da Savannah, la raggiunse, accennò un breve inchino, salutando così entrambe. Non molto tempo dopo sopraggiunsero anche Theresa e Caleb e se a quest’ultimo Daia riservò uno dei suoi sorrisi più sinceri, evitò di incrociare lo sguardo dell’amica, fingendo che la sua presenza non le desse turbamento.
«Il buio si avvicina?» domandò come di consueto Ophelia, senza però aspettarsi una risposta diversa dal solito.
«No» le risposero in coro i ragazzi e solo Caleb e Theresa si lasciarono scappare qualche sottile battuta.
Ophelia porse il suo prezioso specchio prima a Savannah, che vi guardò dentro a stento - e subito se ne crucciò -, poi a Caleb, che del riflesso sembrò orgoglioso, quindi a Daia.
«Guarda, bambina» la invitò Ophelia, sollevando l’oggetto verso il suo viso. Sfiorò la superficie offuscata con le dita ossute e Daianara guardò prima il cimelio, poi il Ministro, con fare dubbioso.
L’anziana la incoraggiò. «Nessuno vedrà mai riflesso, qui dentro, qualcosa di cui non è già a conoscenza. Bisogna solo imparare ad accogliere quello che si rifiuta di accettare. I sogni sono ciò che sono» commentò, persa in un ricordo lontano «Possono farci morire dentro, se non sappiamo come affrontarli».
Daianara aprì la bocca per avere delucidazioni, ma poi decise di tenersi le sue domande per sé. Si guardò allo specchio e strizzò gli occhi per vedere, oltre tutta quella polvere e quei graffi, emergere qualcosa. Attese e proprio quando stava iniziando a rassegnarsi, vide delle ombre ammassarsi, dei contorni definirsi, e piano piano, come uscita dalla nebbia, la vide. E già sapeva che sarebbe stata lei. I lineamenti del suo viso si delinearono con chiarezza sotto il suo sguardo attento, e così la bocca, gli zigomi, gli occhi scuri e ridenti, i capelli rossi. Theresa, al di là dello specchio, la cercò, allungò le mani per sfiorarla e Daia, istintivamente, fece lo stesso. La vide sorriderle, socchiudere le labbra, sussurrare parole e sull’ultima frase Daianara si sentì avvampare. Ritirò istintivamente la mano, abbassò lo sguardo e sperò che nessuno lo notasse.
«Basta così…» sussurrò imbarazzata, stringendosi nelle spalle ed indietreggiando di un passo, quasi il suo desiderio potesse uscire dallo specchio e mostrarsi a tutti.
Ophelia corrugò la fronte e la sua espressione si fece interrogativa.
«Sei diventata rossa» commentò Theresa, allungando il collo per guardarla.
«No, non è vero» mentì la mora, evitando i suoi occhi. Non potè vederla, ma lo sguardo di Tess si accese di curiosità.
«Chi hai visto?» domandò subito, una nota divertita nella voce.
«Nessuno».
«Oh, avanti!».
«Smettila, Theresa».
«Di chi ti sei invaghita?» chiese, stupita per non essersene accorta prima. Le venne naturale guardare Caleb, per osservare la sua reazione, ma il ragazzo sembrava imperscrutabile. Solo Savannah, le braccia conserte e lo sguardo cupo, guardava la ragazza con aria di rimprovero.
«Lasciala stare, Tess» la ammonì, ma non ottenne l’effetto sperato.
La rossa allungò una mano e la posò sulla spalla di Daia, costringendola a girarsi. «Su, dimmelo! Lo conosco?».
Fece appena in tempo a finire la domanda che subito Daianara si sottrasse al suo tocco in malo modo, quasi furiosamente, e accaldata sulle guance e sul petto urlò: «Ti ho detto di smetterla!».
Qualcuno, intorno al gruppo, smise di chiacchierare, qualcun altro si voltò ad osservare la scena. Poco più in là, anche Isolde osservò perplessa la figlia e Daia temette di sprofondare, tanta era la vergogna.
Gli occhi di Tess, dopo un primo spaesamento, si indurirono. «Ma si può sapere qual è il tuo problema?».
La ragazza ingoiò il groppo di saliva che le si era formato in gola. Si passò la mano sulla fronte e sugli occhi. «Sei tu il mio problema».
Sentendosi osservata, e per questo ancora più a disagio, Daia si congedò velocemente, prima che l’altra potesse ribattere. «Scusatemi, ho bisogno di un momento» disse impacciata e sgusciò via come il peggiore dei malfattori.
Si diresse, il più velocemente possibile, dall’altra parte del salone, dove erano state allestite tavolate colme di carni, pasticci, dolciumi, vini. Alcuni invitati si stavano servendo del sidro, un paio di ragazzi si stavano sporgendo sulla tovaglia ricamata per raggiungere il vassoio più lontano. Daianara li superò cercando di non farsi notare e, trovato un angolo libero, appoggiò il palmo delle mani al bordo del tavolo, prendendo un profondo respiro. Il cuore ancora in gola, si sentì gli occhi lucidi, ma non avrebbe saputo dire se la rabbia che sentiva montarle dentro fosse dovuta alla sua gelosia – che la faceva agire in maniera così sconsiderata – o a Theresa, che proprio non riusciva a capirla – o forse non voleva.
Prese un bicchiere pulito e, dopo aver trovato una brocca ancora piena, si versò dell’acqua con mano malferma. Si bagnò appena le labbra, perché la nausea che le attanagliava lo stomaco le impediva di buttare giù qualsiasi cosa.
Una mano piccola e bianca le si posò sul polso e Daia trasalì. Per un attimo credette che Tess l’avesse raggiunta, ma quando alzò lo sguardo, incrociando gli occhi chiari di Savannah, non capì se sentirsene delusa o rincuorata.
«Savannah» la chiamò dopo essersi schiarita la voce con un colpo di tosse.
L’altra non rispose e si limitò a fissarla.
La mora si imbronciò e fece per allontanarsi, ma la ragazza la trattenne.
«Non vai bene per lei, Daianara» asserì in un soffio, senza mezzi termini.
Lei si accigliò. «Come, prego?».
«Mi hai sentita».
Daia aprì la bocca per ribattere, ma tutto quello che le uscì fu un poco convincente: «Non so di cosa tu stia parlando».
La bionda non la assecondò e continuò imperterrita. «Siete troppo diverse e a questo non c’è futuro. Io conosco Theresa».
Con uno strattone, Daia si sottrasse alla sua presa. «La conosco anche io».
«Bene. Allora sai che ama la sua libertà, sai che vuole vivere senza costrizioni, sai che detesta qualsiasi forma di imposizione e che rifugge ogni legame. Amerà sé stessa sempre più di quanto amerà te e tu questo non riuscirai a sopportarlo. Perché le persone che vivono in questa maniera possono concedersi solo alle persone come loro. Sono egoiste».
«Stai farneticando» la liquidò con un gesto della mano, ma Savannah non aveva ancora finito. Le afferrò le spalle e incatenò i suoi occhi a quelli della ragazza.
«Tu non sei nulla di tutto questo, Daia. Tu non sei come lei. E non potrai mai capirla fino in fondo» sussurrò e l sua voce sembrava piena di rimorso «Theresa spiccherà il volo da un momento all’altro e tu sarai la sua gabbia. Vuoi un amore incondizionato, ma lo stai cercando nel posto sbagliato».
«Non sai niente di noi, Savannah. Stanne fuori».
«So che Tess ti distruggerà e che tu glielo lascerai fare. E in questo modo distruggerai entrambe. Devi fermarti ora».
«E tu non devi intrometterti».
«Vi state sfaldando e ormai è evidente. Sai che ho ragione. Lasciala libera».
«Ma che cosa diavolo vuoi da me?».
«Voglio che lasci perdere, prima che sia troppo tardi. Qualsiasi cosa tu stia aspettando, qualsiasi cosa tu stia cercando…non forzarla ad essere quello che non è. Non legarla a te in questo modo, non essere la sua catena. Non te lo perdonerebbe mai…e tu non otterresti ciò che desideri. Non sarà mai come tu vuoi che lei sia».
La voce di Daia tremò «La vuoi per te, non è vero? Vuoi portarmela via».
«No, affatto, non è come credi» ribattè con decisione Savannah «Ma che ti piaccia o meno, io e Theresa siamo legate in un modo che tu non potrai mai scoprire. Sei diversa da noi, Daia» sussurrò e guardò oltre la ragazza, incrociando il viso di Hansel «Lo siete entrambi…».
La mora si trattenne dalla voglia di spintonarla e vomitarle addosso tutto quello che fino a quel momento aveva deciso di tenersi dentro. Ma non le avrebbe dato quella soddisfazione.
Voltandole le spalle, disse in modo un po’ ammaccato «Scusami. Vado a prendere una boccata d’aria».

 
​♦​
 
Theresa strinse i pugni con forza e, se le sue unghie fossero state più lunghe, le si sarebbero conficcate nella carne.
Proprio non capiva, non comprendeva. Non ricordava in quale momento la sua amicizia con Daia si fosse incrinata al punto da generare, ormai, solo litigi e incomprensioni. Ma era stanca di essere guardata come se avesse commesso una colpa imperdonabile, stufa di leggere nei suoi occhi solo risentimento e, sopra ogni cosa, scocciata di essere ignorata in quel modo e di vedere ogni suo tentativo di riavvicinamento perdersi nel nulla. Era una tregua l’unica cosa che chiedeva, un armistizio per una faida così stupida, nata da ancora più stupide gelosie. Ma Daianara non sembrava essere affatto propensa ad aggiustare le cose.
Liquidò il gruppo in fretta, con aria seccata, e si rifiutò di guardare nello specchio del Ministro di Morèa quando Ophelia glielo chiese. Evitò anche Isolde, per evitare di doverle dare delle spiegazioni, e fece quello che avrebbe voluto fare fin dall’inizio: isolarsi.
E mentre Theresa si rifugiava ai margini della sala, dove nessuno l’avrebbe importunata, l’orchestra intonò un altro ballo e un altro ancora, fino a mezzanotte e anche oltre, quando la luna ormai era alta nel cielo e tutti si sentivano euforici. Le gonne ampie delle dame si muovevano all’unisono al ritmo dei tamburi, i tacchi battevano sul marmo e rimbombavano, rimbombavano, rimbombavano, e anche le voci riecheggiavano, quasi assordanti, in centinaia di chiacchiere e risate forzate. Tutto era rosso intorno a loro: le tende, le tovaglie, le torce, i fiori. Gerbere, rose, tulipani, garofani che senza la loro acqua appassivano. Gerbere, rose, tulipani, garofani e gladioli. Gladioli rossi e scarpette blu.
Fu un attimo, una frazione di secondo, e su Theresa si abbatté la consapevolezza che ancora una volta avrebbe visto cose che nessuno poteva vedere e udito cose che nessuno poteva capire. Forse nemmeno lei. Eppure quella visione era diversa da tutte le altre, perché si sentiva scorrere nelle vene l’urgenza, percepiva che il tempo a disposizione stava passando e che presto sarebbe tutto finito. Di nuovo.
“E’ il fuoco. E’ il fuoco la risposta. Purifica e cancella ogni traccia della tua esistenza”; “Papà non lasciare che la portino via, non lasciarglielo fare!”; “Pagherai per quello che hai fatto Zane, pagherai per tutte le tue mancanze. E lei…lei morirà con te ed io mi assicurerò che accada”; “Non avevo altra scelta, non mi hai lasciato altra scelta!”.
«Non puoi restare qui, Tess» le disse la bambina preoccupata, scuotendo ripetutamente la testa, e anche se era molto lontana da lei, Theresa riuscì comunque a sentirne la voce nella mente.
In piedi, ferma davanti alla vetrata che si apriva sul terrazzo, la piccola la guardò con sofferenza. Fra le braccia, stretto con forza, il suo mazzo di fiori rossi, che sembrava volesse parlarle di lei.
«Perché? Perché?» domandò Tess e come in trance si fece largo tra la gente per raggiungerla. Allungò una mano per sfiorarla, ma era ancora più lontana, oltre i vetri, fuori dalla sala, in terrazza.
«Non è il tuo posto questo» spiegò semplicemente e come se quelle parole l’avessero dilaniata aggiunse tremando: «Ma vorrei che lo fosse».
«Io ti conosco. So che è così!».
“Hai infranto la nostra promessa. Ed io non potrò mai, mai più fidarmi di te”.
«Mi conoscevi. Ma ora…» sussurrò e la sua voce si ruppe «Ora è tutto così distorto e tu sei così lontana».
«No, no, no» ripetè Theresa, più a sé stessa che a lei «Posso starti vicina. Posso salvarti!». Sentì sulle guance l’aria gelida della notte e le gocce di pioggia che cadevano da quel cielo senza stelle e capì – anche se non le importava – di essere uscita.
«Devi prima salvare te stessa».
“Rimarrai con me, Tess. Rimarrai con me, anche a costo di nasconderti al resto del mondo”.
«Ti prego, dimmi il tuo nome».
«No» pianse la bambina e alla vista di quelle lacrime Theresa si sentì morire.
«Ti prego! Ne ho bisogno!».
«Tu conosci già il mio nome. Ma dimmi…conosci il tuo?».
La ragazza rimase interdetta e si arrestò. «Certo» le rispose, ma il tono della sua voce tradiva un’insicurezza più profonda.
«E’ solo una bugia. Pensaci. Nessuna imitazione può essere perfetta e si sgretolerà davanti ai tuoi occhi, se i tuoi occhi sapranno dove guardare».
«E se non lo sapessero?».
La piccola si morse le labbra e le lacrime si confusero con la pioggia che le stava bagnando entrambe. All’improvviso, come un richiamo lontano, la bambina sollevò gli occhi. Era atterrita.
«Mi troverà…» bisbigliò con spavento e, spaesata, si catapultò giù dalle scalinate ancora illuminate, verso l’oscurità del giardino.
“Nemmeno per lei la legge potrà cambiare”.
«No!» urlò Theresa, provando ad afferrarla, ma quando le sue dita si strinsero sul vuoto, si lanciò all’inseguimento e quasi non inciampò sul primo gradino.
“Quando una cosa è troppo bella per essere vera, probabilmente non è vera affatto”.
La bambina corse e Tess, nonostante l’oscurità che la avvolgeva, impedendole di scorgerla, la sentì ridere. Ridere di gusto, ridere spensierata, o ridere come chi sa che fra poco dovrà morire.
«Prova a prendermi, prova a prendermi!».
«No, smettila. Fermati!».
«Non ci si può fermare Tess. Se ti fermi, cadi nel labirinto».
«Torna da me!».
“Una cosa non diventa reale solo perché lo desideriamo…”.
«Dove sei?!» urlò Theresa, guardandosi intorno, ma tutto improvvisamente si era fatto più nitido, più reale e la sua bambina era sparita. La chiamò ancora e ancora e la sua voce rimbombò, senza ottenere risposta.
«Dannazione!» sibilò, prendendosi la testa tra le mani e scuotendola forte, come se tutta la sua pazzia potesse uscirle dal corpo in quel modo. Il vento scuoteva le fronde degli alberi, in lontananza la musica risuonava, tutte le luci erano ormai troppo distanti e i suoi occhi faticarono a mettere a fuoco i contorni di quel giardino così spoglio. Solo la fontana, più in là, sputava in aria i suoi spruzzi, che si perdevano fra le gocce di pioggia. E accasciata sul terreno umido una figura ne stava sfiorando languidamente con le dita la superficie increspata dell’acqua.
Il vestito di Daia era ormai fradicio e le balze della gonna le si appiccicavano alle gambe; anche i capelli, prima raccolti, le ricadevano ora sul collo, incollandosi alla pelle. Persa fino a quel momento nei suoi pensieri, la ragazza fermò la mano a mezzaria quando si accorse della presenza di Tess, ma non accennò a muoversi. La rossa le lesse negli occhi un’intenzione diversa dal solito, la guardava con sofferenza e rassegnazione, l’espressione tiepida, come se il calore che la avvolgeva di solito si fosse spento in quella notte fredda. La ragazza distolse il viso quando Theresa si avvicinò, guardandosi ancora intorno circospetta, e tornò a giocare con l’acqua della fontana, senza darle attenzione.
«Che cosa stai facendo Daia?».
La mora accennò un sorriso tirato prima di rispondere «Nulla».
«Piove a dirotto».
«Adoro la pioggia…» sussurrò immergendo la mano e l’acqua gelida la inghiottì fino al gomito «Mi ricorda te. Così imprevedibile, così certa, così trasparente. Così necessaria» all’improvviso si fece seria «Fredda e devastate».
«Daia devi rientrare» le disse Theresa, sedendosi sul bordo della vasca, accanto a lei. Cercò il suo sguardo, ma la ragazza sembrava evitarlo. Allora si sporse sulla fontana fino a quando la sua immagine non si delineò, confusa e scura, sulla superficie dell’acqua.
Daia corrucciò la fronte «Lo vedi?» domandò «Nemmeno qui il tuo riflesso mi lascia in pace. Patetico, non trovi?».
«Non penso affatto tu sia patetica».
La mora si morse le labbra e con voce incerta disse «Però siamo belle… siamo belle quando ci troviamo insieme nello stesso riflesso».
«Daia…».
«Almeno qui possiamo esserlo».
«Dobbiamo rientrare» ripetè la rossa e le allungò la mano da afferrare. L’altra la osservò qualche istante, incerta se prenderla o meno, quindi ritrasse la mano dall’acqua e, ancora bagnata, strinse quella dell’amica. Theresa la trasse a sé e, aggiustandole il mantello sulle spalle, la coprì. Daia tra le sue braccia tremava.
«Vieni» la tirò, ma l’altra rimase ferma al suo posto e, come se non avesse desiderato fare altro per tutta la sera, si lanciò verso di lei e le gettò le braccia al collo. Premette il corpo contro il suo, stringendola fin quasi ad inglobarla, affondando il viso nell’incavo della sua spalla.
Theresa sentì l’odore dei suoi capelli e della sua pelle inondarle le narici. «Che cosa fai?» chiese confusa.
«Non lo vedi?» le bisbigliò Daia all’orecchio «Noi non siamo fatte per stare lontane». Si scostò da lei per sfiorarle la guancia con le dita. «Di cosa hai tanta paura?» chiese con occhi tristi.
«Paura? Io non ho paura di nulla» rispose l’altra. Le strinse il polso in una stretta ferrea e le allontanò la mano dal viso, ma non la lasciò andare. Le loro mani rimasero unite, ferme a mezz’aria.
«Allora smettila di allontanarmi, smettila di fuggirmi. Nessun posto sarà mai abbastanza lontano per me, Tess. Nessun posto» ripetè «Finchè mi terrai chiusa qui, con te. Ti ho fatto così tante volte le mie scuse da perderne il conto».
«Scuse per cosa?» domandò la rossa, ma Daia non le rispose.
«Tu ancora non mi hai perdonata. Non è il mio perdono che cerchi Theresa, non è con me che sei arrabbiata».
«E allora con chi?».
Daia accennò un sorriso mesto e socchiuse le labbra «Ancora non capisci Tess…?». Si sollevò in punta di piedi e le sue scarpette blu affondarono nel terreno umido. Le sfiorò il naso con il proprio, abbastanza vicina da sentirne il respiro sul viso, ancora troppo lontana per percepirne il calore sulla bocca. E si fermò così, gli occhi fissi negli occhi, la mente di Theresa annebbiata, inebriata dal suo odore, al punto da non avere più la consapevolezza di quello che succedeva intorno a loro.
«Stringimi» le sussurrò semplicemente Daia e il suo bisbiglio si perse nella pioggia, ma Tess riuscì ancora ad udirlo. La assecondò istintivamente, portando la mano che ancora aveva libera alla sua vita, sotto il mantello, su per le scapole. Sentì sotto i polpastrelli il tessuto ruvido del corpetto ed il calore che emanava il suo corpo, nonostante l’umidità.
«Più forte…» bisbigliò ancora Daia, senza fuggire il suo sguardo. La rossa emise un respiro basso e vibrante e con uno scatto la strinse contro di sè fin quasi a togliersi il respiro. Con una mano le accarezzò la schiena, e Daia si inarcò sotto il suo tocco, mentre con l’altra risalì la spalla, il collo, la nuca, sentì sotto le dita i capelli bagnati. Avvicinò le labbra alle sue e le costò uno sforzo immane non avventarsi sulla sua bocca quando la ragazza la schiuse per lei.
«Tess…Tess ti prego» la implorò Daia, prendendole il viso tra le mani.
«Non posso…» sussurrò Theresa, il respiro affannoso e il cuore in subbuglio «Io con te non posso».
«Non ci pensare» concluse la mora e prima che l’altra potesse replicare le conquistò la bocca, indagandole le labbra con la lingua, saggiandone ogni centimetro. Tess si lasciò trascinare, mordendole il labbro, sentendo sulla propria pelle il suo respiro e quando la sentì pronunciare il suo nome, con la voce spezzata e il fiato corto, si accese. Le tenne ferma la testa per baciarla a fondo, mentre l’altra mano si faceva strada lungo i seni, i fianchi, il ventre. Daia gemette e forti brividi le corsero su per la schiena e a quel punto, per Theresa, non ci fu più nulla da fare, non ci fu più modo di salvarsi e, se anche ci fosse stato, lei non l’avrebbe colto, perché in quel momento Daia sembrava l’unica via di fuga possibile.
Le circondò la schiena con le braccia, la strinse al punto che, con un minimo sforzo, sarebbe stata in grado di sollevarla da terra. La sentiva così piccola, così indifesa in quell’abbraccio, e credette di poter rimanere in quella posizione in eterno, i loro petti vicini, le labbra sulle labbra. Mosse le mani per accarezzare il suo corpo, ma le dita si posarono sul nulla. Tutto intorno a lei era immobile, solo la pioggia incessante continuava a cadere e bagnare la terra. Davanti a lei non c’era più nessuno.
Un’altra visione e nulla più. Solo un’altra beffa della sua mente.
Eppure…Daia. Theresa rimase ferma, nella stessa posizione, davanti a quella fontana solitaria, i pensieri ancora eccitati, il cuore che le martellava nel petto e non accennava a volersi calmare.
«Tess! Tess!» si sentì chiamare da quella che le sembrò una distanza infinita. Volse appena il capo per vedere oltre il giardino, sulle scale dell’edificio, Daianara che le faceva cenno di rientrare.
«Che cosa stai facendo?» continuò ad urlare la ragazza quando Theresa non diede segno di volersi avvicinare «Piove, ti stai bagnando tutta!».
Solo quando Tess la vide scendere i gradini per venirle incontro trovò la forza di muoversi. Mosse un piede davanti all’altro con poca sicurezza, ma non riusciva davvero a vedere dove stesse andando. Sentiva soltanto la voce che la chiamava e il rumore della pioggia e la musica dei liuti che aleggiava nell’aria e il profumo di Daia. Soprattutto il profumo di Daia, talmente familiare. E il ricordo del suo sapore nella bocca.
Daianara, messasi al riparo sotto la stretta arcata che si apriva al di sotto della scalinata - illuminata da una fiaccola troppo timida – vide avvicinarsi l’amica con un andamento incerto, un po’ goffo e vacillante, quasi non fosse certa di avere la terra sotto i piedi a sostenerla. Quando le fu vicina, Daia lesse lo spaesamento nei suoi occhi. Le parlò, le chiese, ma Tess rimase in silenzio a fissarla come se la stesse guardando davvero per la prima volta.
«Tremi» disse Daia un po’ corrucciata, posandole le mani sulle spalle. Con un gesto rapido si sfilò il mantello senza neanche sbottonarlo e lo usò per asciugarle il viso. Theresa rimase inerme sotto il suo tocco per qualche minuto e poi, all’improvviso, parve riscuotersi. Spinse Daia contro la parete e posò le mani ai lati del suo viso, imprigionandola.
«Tess?» chiese la ragazza, confusa.
«Sei reale?» domandò la rossa, guardandola negli occhi, sondando la sua espressione.
«Cosa vuoi dire?».
«Io…» iniziò, ma non terminò quella frase. Scosse con forza la testa a destra e a sinistra, cercando di togliersi un pensiero troppo ben radicato dalla mente. La fissò ancora «No» biascicò, prendendole il volto tra le mani «No, non mi interessa più». Si chinò su di lei e famelica le cercò le labbra, costringendola ad aprirle alle sue.
Daia rimase pietrificata sotto il suo tocco. Provò, con poca convinzione, a divincolarsi dalla sua stretta, senza capacitarsi veramente di quello che stava accadendo. Sentì Theresa staccarsi appena dalla sua bocca, ne percepiva chiaramente il respiro affannoso sulle labbra. La rossa incatenò gli occhi ai suoi e Daia ci sprofondò dentro per un secondo che le parve eterno. In quel momento temette che potesse essere già tutto finito, ma Tess la strinse più forte a sé e attraverso il vestito Daia riuscì a sentire le dita fredde delle sue mani cercarla con impazienza. Senza essere in grado di aspettare oltre, Theresa la baciò con foga e l’altra non oppose resistenza. Aprì le labbra e quando sentì sulla lingua il sapore dell’altra, si sentì avvampare. Le gettò le braccia al collo e ricambiò con più intenzione il suo bacio. Le morse le labbra e, quando Tess fece lo stesso con le sue, divenne euforica. Le toccò il collo, il busto, il seno. Si strusciò sui suoi fianchi.
«Oh, Tess» bisbigliò, mentre la ragazza si staccava da lei per baciarle il collo «Ti ho voluta così tanto…».
A quelle parole, la rossa si irrigidì. Daia le cercò ancora la bocca, ma lei si ritrasse. Indietreggiò di qualche passo, scuotendo la testa, sentendola annebbiata. Si passò una mano sugli occhi. «No, no, no, no» ripeté velocemente.
«Tess…?» la chiamò l’altra, confusa.
«Che cosa sto facendo?» si chiese tra sé e poi, senza avere il coraggio di guardarla, disse «Daia…non so davvero cosa mi sia preso. Non volevo, scusami».
Davanti a lei, la mora sobbalzò. Con le guance ancora arrossate e il cuore scalpitante, emise solo un breve verso strozzato e rimase in silenzio.
«E’ una cosa davvero molto imbarazzante…» continuò a dire Theresa, senza sapere come barcamenarsi.
«Tu…tu non volevi?» chiese Daia.
«No, certo che no! E’ stato un errore» rispose subito lei con veemenza e dalla gola le salì una risatina impacciata che sperò potesse sdrammatizzare la situazione «Per favore, facciamo finta che non sia mai successo, non è davvero il caso di ricordare una cosa come questa». Le si avvicinò e le battè una mano sulla spalla, ma quando la toccò la sentì tremare. Temendo di non averla convinta, continuò: «Non prendiamola sul serio, è una cosa che rimarrà fra te e me. Dopotutto siamo ad una festa, le persone non si controllano mai alle feste. Insomma, lo credi anche tu, no?».
Daianara non rispose subito. Gli occhi bassi, si strinse nelle spalle, circondandosi il busto in un abbraccio mancato, proteggendosi il petto con le braccia. «Riesci sempre a rovinare tutto…» sussurrò, non perché temesse che qualcuno potesse sentirle, ma perché aveva paura che se non si fosse controllata il cuore le sarebbe esploso. «A quale gioco stai giocando?».
«Daia, io non…» iniziò Theresa, ma quando notò le lacrime uscirle dagli occhi si ammutolì.
«Non capisci davvero nulla».
La rossa, titubante, allungò le dita verso di lei, ma Daia con uno schiaffo le allontanò la mano.
«Non mi toccare» sibilò «Non voglio che mi tocchi. Devi starmi lontana!».
«Ma che diavolo ti prende?».
«Vai via!» la spintonò «Tess, vai via!».
«Me ne vado, stai calma! Me ne vado con piacere, puoi starne certa!».
«Bene!» sbraitò.
«Bene!».
«Bene!» ribattè un’ultima volta Daia e quando Theresa, a lunghe falcate, la lasciò sola, ne fu atterrita. Si accasciò contro la parete, piegata in due, una mano appoggiata alle fredde mattonelle del pertugio, l’altra appoggiata sul ventre.
«Quanto sei stupida, quanto sei stupida!» urlò, ma non sapeva se si stesse rivolgendo a sé stessa o a Theresa. E intanto la pioggia continuava a cadere dal cielo e il cuore di Daia piangeva con lui.

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Capitolo 14
*** Finte commemorazioni ***


Capitolo 12
 
♦ Finte commemorazioni ♦

“Nell’assedio di Kalendor tutto andò perduto,
sostituita ogni morale con il dolore più sentito.
E dai portali un esercito avanzava oltre le mura,
morti che ubbidivano a una legge troppo amara”
 

La processione scorreva lenta attorno al perimetro delle mura più esterne. I sacerdoti che aprivano la fila indicavano la strada da percorrere e tra le mani portavano orci di porcellana e vetro dai quali fuoriusciva un vapore denso e profumato d’incenso. Come penitenti, dietro di loro, uomini e donne di Morèa, Tanaro, Nika, Ennon e Kalendor procedevano insieme a testa bassa, in un atteggiamento dimesso, privati dei loro stemmi e vestiti solo di una lunga tunica scura. Perché davanti alla malattia, che quella notte si sarebbe dovuta esorcizzare, qualsiasi ricchezza o appartenenza veniva meno. Insieme recitavano in una melodia malinconica:
 
Che possa il mio canto giungere lontano,
visitando luoghi che non potete più vedere,
cullando il ricordo del vostro sacrificio,
trattando ciascuno come se fosse un capitano.
E non esiste fante, mago, religioso o cavaliere
che non rammenti e pianga il maleficio
della malattia che vi colpì, facendovi cadere.
Moriste tutti come un fiore in balia dell’uragano,
e sentimmo il vostro ultimo respiro fremere.
Oggi ancora ricordiamo, attraverso questo ufficio,
il morbo che invase i nostri regni, lava di vulcano
che brucia ogni speranza e altro non fa credere.
Siete qui sepolti e il nostro canto è l’artificio
che vi permetterà di rinascer come grano
per fare del passato il più bravo consigliere.
 
Le febbri che appena un cinquantennio prima avevano decimato la popolazione del continente, prostrando i borghi, stroncando vite, distruggendo famiglie, non potevano essere dimenticate. Dalla malattia era derivata la carestia e con la carestia la rivolta di Kalendor e la corsa alle armi. Perché dal male nasce male e al peggio, troppo spesso, non c’è fine.
Ophelia e Howel procedevano mesti, con il cuore pesante, ma anche se la schiena era incurvata e la vista non più nitida, l’espressione era attenta e vigile. Theresa li vide lanciarsi occhiate complici e, mentre tutti recitavano, i due anziani ministri aprivano le loro bocche senza emettere alcun suono, quasi non volessero rendersi partecipi di quella commemorazione. Più volte il nuovo Ministro di Morèa si lasciò scappare, a bassa voce, qualche ingiuria, subito stroncata dal padre con un gesto fermo della mano.
«Solo bugie» lo sentì dire Tess a denti stretti «Se solo sapessero la verità…».
La processione continuò fino a quando il gallo non annunciò il nuovo giorno e alle prime luci dell’alba, con i piedi stanchi, i dimostranti si ritirarono. In testa al cupo corteo, il Ministro di Ennon procedeva affiancato dalla sua famiglia, dalla quale Tess, poco più indietro, iniziava a sentirsi esclusa. Non era sicura che Botte di Ferro l’avesse completamente perdonata per aver aggredito sua figlia e, se anche lo avesse fatto, Daia non avrebbe di certo seguito il suo esempio. Dal banchetto della Commemorazione qualsiasi rapporto era cessato, ogni tentativo di riconciliazione era fallito e quello che aveva sempre pensato essere un legame solido era andato in frantumi. Solo più due estranee unite da una passata confidenza e un bacio rubato. Adesso, in mezzo a tutti quegli sconosciuti, in una città piena di inganni, solo i suoi demoni le potevano tenere compagnia. Theresa si sentiva tremendamente sola e spaesata e le voci che sentiva, i ricordi che viveva, gli incubi che prendevano forma nella sua testa, i continui deja-vu, le facevano sospettare di essere ad un passo dal baratro.
Prima di ritornare nella sua stanza per concedersi qualche ora di riposo, provò ancora una volta a fermare Daia, allungando una mano per afferrarle il polso e trattenerla, ma la ragazza non le diede neanche il tempo di muoversi che già si era chiusa a chiave in camera da letto, sbattendole la pesante porta in faccia.
«Daianara!» la chiamò con rabbia, senza però potersi permettere di alzare la voce. «Daianara!» ripetè, questa volta più decisa, sbattendo ripetutamente i pugni contro la porta «Lo so che mi senti. Fammi entrare!».
Nessuna voce le rispose.
«Stupida ragazzina» sbottò infine, lasciando ricadere le mani lungo i fianchi «Non potrai ignorarmi per sempre».
Quando si addormentò, un sole timido aveva iniziato a rischiarare la stanza, ma non fu la luce a rendere il suo sonno così turbolento. Immagini confuse si susseguirono nella sua mente senza sosta: volti sconosciuti, luoghi mai visitati, ricordi dimenticati. In un campo di grano, pieno di contadini intenti a tagliare la legna, una donna dai folti capelli rossi le si avvicinò lenta. La pelle era chiara e lentigginosa, ruvida per il lavoro e scottata per il sole; intorno alla bocca si stavano facendo strada i segni dell’età e gli occhi erano tristi e languidi. Sapeva di conoscerla, anche senza averla mai vista. Ad un passo da Theresa, si arrestò. Alzò la mano tremante e timidamente le sfiorò la guancia.
«Tu…» le sussurrò con voce spezzata «Sei la mia Zelda?».
«No».
«Oh…» si incupì «Lei era così solare, così allegra» una lacrima le corse pesante lungo il viso «Aveva i capelli rossi, proprio come i tuoi. E i miei. E una bocca piccola, dita forti, occhi vispi. La ricordi così tanto».
«Mi dispiace. Se solo potessi aiutarla, io…»
«Puoi restituirmela» la interruppe subito la donna e il suo sguardo si fece di fuoco.
«Non capisco».
«Me l’hanno portata via. Questo corpo non ti appartiene». Improvvisamente la trasse a se, stringendola in un abbraccio soffocante. Le passò le mani sulla schiena con fare frenetico e Theresa riuscì a percepire chiaramente la pelle che fremeva, la carne che si lacerava e la cicatrice che si riapriva.
«Eccolo, eccolo!» esultò la donna con voce distante «E’ il marchio della tua condizione e della mia sconfitta. Perché hai dovuto farle questo? Chi ti ha dato il permesso di portarmela via, chi ti ha dato il diritto di vivere? La mia bambina…ridammi la mia bambina, ridammela!».
Di scatto aprì gli occhi, la fronte sudata, il respiro affannoso, la mente già stanca. Sopra di lei, solo le volte del soffitto. Con un braccio si coprì gli occhi e dentro di lei qualcosa si spezzò. Lo percepì chiaramente nel petto, nel cuore, o forse nella testa, non avrebbe saputo dirlo con certezza. Ma aveva il rumore di una foglia calpestata, o di una goccia che si infrangeva sul pavimento. Aprì la bocca per urlare, ma il suo grido soffocò in gola. Affondò il viso nel cuscino e consumò così il suo pianto più straziante, i nervi a pezzi, ogni certezza svanita, fino a quando anche il piangere non si trasformò in semplice spossatezza. E sperò che nessuno estraesse il suo nome per quella giornata, perché non sarebbe stata in grado di affrontare qualcun altro, se faceva già così fatica ad affrontare se stessa.
Quando anche l’ultima lacrima lasciò la sua macchia sulla stoffa, Theresa si addormentò, e prima di cadere in un sonno senza sogni una voce le rimbombò nel cervello.
Se rimani da sola non sei poi così pericolosa…
 
♦♦♦

«Vorrei» iniziò il Ministro di Ennon, torturandosi le mani callose «Che la nostra legge fosse in grado di far valere i propri diritti o, almeno, che rendesse più difficile infliggere torti. Vorrei che noi, tutti noi, potessimo limitare i danni. Ma sembra tu abbia scelto gli uomini sbagliati per realizzare i tuoi progetti di pace».
Il vecchio Howel si godette l’ultimo tiro della sua pipa, ricavata da un ramo degli alberi di Nika forse ancora prima che il rione divenisse famoso per i suoi legni pregiati. «Io credo» sospirò «Che anche gli uomini più retti possano commettere degli errori, così come dei pessimi strateghi possono vincere una battaglia. Il confine fra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato è troppo labile per riuscire a capire dove finisce uno e dove inizia l’altro. L’unica cosa saggia che ci è concessa di fare è prendere una decisione che faccia soffrire meno persone possibili. È quella, a mio avviso, l’unica correttezza che ci è richiesta e a cui noi dobbiamo ottemperare» alzò la mano nodosa per posarla sulla spalla del suo ragazzo, come aveva fatto per tanti anni addietro, quando era solo un apprendista «Io vi ho scelto tutti, uno per uno, e non rinnegherei la mia decisione per nessuna ragione al mondo, anche se non posso negare che desidererei foste, sia tu che Kasimir, d’accordo con i nostri principi. L’amore è il più grande motore e il più pesante fardello. Il suo fumo annebbia la vista di molti».
«Eppure» ribattè risoluto Zane «E’ per amore che Hansel si è schierato dalla vostra parte».
«”Vostra parte”?» domandò sorpreso «Dunque tu hai già scelto da che parte stare, stabilendo che la nostra causa è diametralmente opposta alla vostra?».
«Io non so cosa fare».
«E questo è coscienzioso. Solo gli stolti blaterano soluzioni senza fermarsi a pensare di non aver capito la domanda».
Il Ministro di Ennon si strinse nelle spalle. Mai nessun gigante sembrò più piccolo. «Vorrei che Roan fosse qui per consigliarmi» un sorriso amaro gli piegò le labbra «Forse lui riuscirebbe convincere mia moglie a non odiarmi».
«Mia nipote non ti odia, Zane. Ma aveva un cuore troppo grande per sopportare la perdita di Roan e ora ha un cuore troppo fragile per permettersi di veder perpetrata oltre questa barbarie. Siamo guaritori, figliolo. La vita è sacra, per noi, in ogni sua forma. Ma sapremo diventare combattenti, se sarà necessario. Anche ai morti bisogna lasciare una scelta».
«Non volevamo far loro del male».
«Gli sbagli sono concessi a chiunque, purchè vi sia la volontà di porvi rimedio. Quanti sono stati gli esperimenti falliti? Pensa a Lia. Pensa a Lia e a Kasimir che non è riuscito a lasciarla andare e pur di non affrontare il dolore ha infranto le leggi della natura, riportandola ad una vita vuota, ad un corpo fatto di acqua, cenere e terra, non più in grado di sentire dolore, freddo, fame, sete. Per cosa? Solo per avere l’ulteriore conferma di come la vita non possa essere manipolata a nostro piacimento. Cosa gli dicesti allora, Zane? Quali sono state le tue parole?».
L’uomo si stropicciò il viso. Un nodo lo prese alla gola. «Gli dissi» sussurrò «Che sua moglie doveva bruciare, perché la legge non ammette eccezione per i ricaduti».
Howel annuì «E Lia è morta di nuovo. Come Roan, dopo che Isolde gli aveva svelato la verità».
«L’avevo implorata di non farlo».
«Lo amava troppo per farlo vivere nella menzogna».
«Se così non fosse stato, sarebbe ancora vivo».
«Non sarebbe mai dovuto esistere» sospirò il vecchio, abbassando la voce «Cos’è un totem se non il risultato dell’orgoglio degli uomini, che giocano a fare gli Dei?».
Per la prima volta in molti, molti anni, Botte di Ferro non trovò le parole giuste per rispondergli.
«Pensa a tua figlia, Zane» gli disse infine l’ex Ministro di Morèa, alzandosi dalla panca su cui si erano seduti, reggendosi a fatica sulle gambe stanche «Pensa cosa le stai costringendo a tacere, pensa a quello che stai nascondendo a tutti, pensa al dolore di Kasimir se dovesse mai scoprirti».
Zane spalancò gli occhi e un brivido di paura gli corse lungo la schiena. Alzò lo sguardo sul suo maestro, ma nei suoi occhi non vide biasimo, solo malinconia.
«Tu sai?» gli chiese semplicemente.
«Il tuo segreto è al sicuro con me» lo rassicurò Howel, accompagnando le sue parole con un gesto benevolo della mano «E non lo userò contro di te per perorare la mia causa. Sei come un figlio per me e Aaron ti considera suo amico e suo fratello. Ma esigo che tu rifletta sulle tue decisioni. Hai infranto le regole perché la tua legge non sembrava poi così giusta, e forse non lo era davvero. L’unica domanda da porsi è: siamo sicuri che tutti preferirebbero una vita immortale, anche se in schiavitù, alla morte?».
 
♦♦♦

Era già pieno pomeriggio quando Theresa uscì dalla sua stanza, dirigendosi al campo d’allenamento, circoscritto da basse recinzioni in legno. Ne scavalcò una con un salto e i suoi stivali affondarono nella terra umidiccia. La spada legata al fianco, osservò gli altri soldati di Ennon sellare i loro cavalli, portarli chi al trotto e chi al galoppo, perdersi in qualche coccola e in qualche pacca. Intravide anche Byrion montare la sua Meridia, prima di ricondurla nelle stalle.
Un garzone la raggiunse per informarla che il suo totem era pronto, fermo dall’altra parte dello spiazzo. In quell’istante Theresa si sentì, se non sollevata, almeno rincuorata, sicura del fatto che una lunga cavalcata le avrebbe schiarito le idee, perché con il suo totem poteva permettersi di essere semplicemente sé stessa, senza maschere, e non la ragazza pazza che si aggirava per i corridoi osservata e additata da tutti. Solo con Daia era riuscita a provare una sensazione simile, ma lei non c’era più e non era affatto sicura che sarebbe tornata. In ogni caso nulla sarebbe potuto tornare come prima, perché Tess non sapeva per cosa doversi scusare e Daianara non sembrava interessata aiutarla.
Argo, il mantello nero appena strigliato, batteva il terreno con lo zoccolo e quando Theresa gli si avvicinò, drizzò le orecchie. La rossa allungò una mano per accarezzargli il muso, ma appena le sue dita si mossero, il cavallo si scostò, sottraendosi al suo tocco. Lo sguardo di Tess si fece perplesso.
«Cosa c’è?» gli domandò dubbiosa, piegando la testa di lato.
«E’ agitato» le spiegò il giovane stalliere, porgendole le redini
La ragazza alzò gli occhi al cielo. Il suo non sarebbe stato un pomeriggio all’insegna della cortesia. «Sì, lo vedo» sbottò «Perché lo avete sellato? Pensavo di essere stata chiara a riguardo».
Il giovane davanti a lei sembrò costernato. Cercò lo sguardo dei suoi compagni prima di risponderle. «Era l’unico modo per farlo uscire dalla stalla» spiegò.
«Oh, ma per favore» lo liquidò in fretta iniziando a togliere sella, staffe e redini. Lasciò l’imbracatura nelle mani dello stalliere, che a stento riuscì a sorreggerla e fu costretto a farsi aiutare dai due garzoni che lo affiancavano.
«Questo lo prendo io» sussurrò Theresa ad Argo, togliendogli il morso, ma il totem continuò a divincolarsi. Nitrì e nitrì più forte, indietreggiando, scuotendo la testa.
Quando la sua padrona gli salì in groppa, il cavallo quasi non la disarcionò, impennandosi e scalciando.
«Fermo. Fermo». Tess ripetè il suo ordine quattro, cinque, sei volte, con voce sicura, scandendo ogni lettera, e sotto il suo controllo il cavallo smise di agitarsi.
«Che cosa ti prende?» gli domandò all’orecchio, posandogli una mano sul collo. Nel campo, gli altri cavalieri avevano iniziato a guardarla.
Lo mandò al passo e al trotto, ma la sua cavalcata era ormai sfumata. Non riusciva a sentire più nessuna confidenza, nessun legame con il suo totem, nulla di quell’intesa che era sempre esistita fra loro due fin dal primo momento in cui si erano incontrati. Si arrestò in mezzo al campo, incurante di ostacolare gli altri soldati.
Si sistemò la giacca, si asciugò le mani sudate sui pantaloni. Le braccia rigide lungo i fianchi, si piazzò davanti al cavallo. «Guardami, Argo» disse semplicemente, ma fu lei, in realtà, a dovergli cercare gli occhi e quando li ebbe trovati li scoprì grandi, limpidi, attenti e vispi, dolci a loro modo. Quei grandi occhi scuri erano per Tess molte cose. Molte cose, ma non familiari.
Non ti fidare, non ti fidare…
«Argo» lo chiamò ancora, aspettando forse un segno, una risposta.
Non cadere nel labirinto, conosci la strada.
La ragazza trattenne a lungo il respiro e quando espirò sembrò che, oltre ai polmoni, si fosse svuotata un po’ anche lei.
Ad un suo segno, i garzoni la raggiunsero.
«Dov’è il mio cavallo?» domandò piatta, senza mezzi termini.
Lo stalliere aprì subito la bocca per rispondere, poi, temendo in una replica troppo avventata, la richiuse. Passò lo sguardo dalla rossa allo stallone. «E’ qui, mia signora».
«Io non sono la signora di nessuno» chiarì «E questo non è il mio totem. Quindi lo chiederò un’altra volta: dov’è il mio cavallo?».
«Io…» titubò «Non credo di capire. Vi ho portato quello che mi avete chiesto».
«Ho detto» sibilò minacciosa, afferrando il ragazzo per il collo della giubba «Dov’è il mio cavallo?».
Alcuni curiosi iniziarono ad avvicinarsi per assistere alla scena da una posizione privilegiata.
«Non abbiamo altri totem di Ennon, vi ho portato il vostro cavallo. Li curo personalmente, potrei riconoscerli ad occhi chiusi!».
«Non mi interessano le vostre qualità, io voglio il mio Argo e tu ora me lo andrai a prendere o non ti saranno sufficienti due gambe per scappare da me».
«Il vostro cavallo è proprio lì, vicino a voi!».
Theresa rise. «Mi avete presa per una stolta? Lo trovate forse divertente? Credete che un cavaliere di Ennon non sappia riconoscere il proprio destriero?».
«Vi prego, lasciatemi andare!» si divincolò lui.
«Non è il mio cavallo! Voglio il mio cavallo, dov’è Argo, dov’è?!».

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Capitolo 15
*** Chimera ***


Capitolo 13
 
♦ Chimera ♦
 
“Lo storpio scaccia ogni dubbio per fingersi audace,
e intanto canta la chimera per placare il suo dolore.
Solo al matto è concesso gridare quanto gli dispiace

dover riempire il vuoto che gli scava dentro al cuore”
 
 
Zane non avrebbe mai potuto dimenticarsi il giorno in cui lo aveva incontrato per la prima volta, anche se avrebbe preferito non doverlo ricordare così spesso.
Era solo un giovane ragazzo di Ennon quando Howel, il più giovane Ministro che Morèa avesse mai avuto, lo aveva portato con sé nella Sacra Cittadella per prepararlo all’arte del comando e istruirlo in fatto di diplomazia. E Roan era stato il suo primo vero amico, in quel luogo pieno di persone dall’accento strano e dai soldi semplici – e dagli intrighi ancora più facili. Lo aveva visto una prima volta accanto alla nipote del suo mentore, una giovane dalla pelle olivastra, tipica del Borgo della ceramica, dal portamento alquanto altezzoso e dall’aria saccente, e una seconda volta da solo, intento a leggere un libro nel giardino di cedri. Era un ragazzo alto ma non troppo robusto, dall’aspetto un po’ emaciato e gracile, ma con uno sguardo vispo e una mente strabiliante. Sembrava sempre in grado di trovare la frase giusta al momento giusto, che fosse seria, sarcastica o leggera.
«Tu devi essere uno degli apprendisti di Howel» gli aveva detto, rivolgendogli la parola per primo quando lo aveva visto avvicinarsi, forse con troppa titubanza «Zane».
«Esatto» gli aveva risposto lui, stupendosi che qualcuno potesse ricordarsi di un semplice allievo «Ma tutti mi chiamano Botte di Ferro».
Aveva riso. «Lo so. E’ un nome che ti si addice. A Morèa nessuno ha un soprannome».
«Da noi è quasi un obbligo. Un modo per far sentire chiunque parte di una grande famiglia».
«Già… suppongo sia una bella tradizione, la vostra».
Zane aveva aperto le braccia «Non sembra che qui ci considerino più di semplici addestra-ronzini».
L’altro aveva agitato la mano con noncuranza davanti a sé, come a voler scacciare un moscerino. «Lasciali perdere. Troverebbero qualcosa di scortese da dire anche su di un angelo, se solo fossero in grado di riconoscerne uno. Non ci dare troppo peso» per un attimo il suo viso si era adombrato, ma subito un grande sorriso bianco era tornato a scaldargli il volto «A voler dare troppa importanza alle cattiverie degli uomini si rischia di annegare con loro. Quello è il tuo totem?» gli aveva chiesto poi con aria entusiasta, avvicinandosi a Dedalo e allungando il palmo della mano per accarezzargli il manto grigiastro. E con grande sorpresa di Zane il suo stallone, solitamente così schivo con gli sconosciuti, non si tirò indietro – e per un uomo di Ennon non poteva esserci garanzia migliore della fiducia che il proprio cavallo riponeva in un estraneo.
«E’ magnifico» aveva continuato Roan, toccandogli il muso e guardando il quadrupede nei grandi occhi chiari «Il vostro rapporto è speciale».
«Tu credi?».
«Lo so con certezza. Riesco a sentirlo».
Solo molto tempo dopo, e per una fortuita coincidenza, Botte di Ferro aveva capito che il corpo di quel giovane non era fatto di carne e sangue come il suo e se ne era stupido, anche se questo non aveva mutato la simpatia che istintivamente aveva nutrito per lui.
«Lei è la tua padrona?» gli aveva domandato, indicando Isolde.
Il totem si era portato le braccia dietro la testa e con espressione tranquilla aveva risposto: «No. Lei è la mia parte di cielo, come io sono la sua. Ma sì, credo che se mi ordinasse qualcosa io dovrei ubbidirle. Ma è tutto molto più colorato di quanto sembri».
«Non volevo essere invadente».
«Non lo sei stato affatto. Un uomo che ama la propria bambola come fai tu sarà sempre in grado di riconoscere l’amore anche negli altri».
«Non dev’essere facile».
«Non lo è per nessuno. Ma è bello avere la certezza di non essere mai soli».
Era stato più difficile, invece, destreggiarsi con Isolde, che aveva ormai preso l’abitudine di osservare Zane con espressione truce, nonostante le risate di Roan, come se lo volesse accusare di starle rubando qualcosa di suo.
Ma, come spesso avviene, il tempo si dimostrò essere la miglior cura ed il miglior collante e alla fine di quell’anno i tre erano già diventati inseparabili: la ragazza, sempre in prima linea, a ringhiare contro chiunque avesse manifestato l’intenzione di far del male ai suoi compagni; Roan sempre attento a tenerli lontano dai guai; e Zane pronto a proteggere l’amore dei due amici, insidiato dalle accuse di molti.
Eppure, nulla di tutto questo era stato sufficiente.
«Dobbiamo dirglielo, Zane» gli aveva detto Isolde una sera d’inverno, la più piovosa degli ultimi anni.
Lui, diventato ormai un uomo, aveva negato fino all’ultimo respiro. «Lo ucciderai».
«Lo sto già uccidendo, giorno dopo giorno, eludendo ogni sua domanda!».
«Ti prego, cambia idea».
«Lo amo troppo per mentirgli».
«Non sarà la verità a fargli trovare la pace che cerca».
«Ma dobbiamo provarci! Siamo tutto quello che ha. Gli dobbiamo delle spiegazioni».
«E’ proibito e lo sai».
«Non lo dirà a nessuno».
«Non lo puoi sapere».
«Invece sì! Io lo amo».
Zane l’aveva afferrata per un braccio, facendole male pur di trattenerla. «E credi che io non lo ami?!».
«No» aveva scosso la testa la donna «Altrimenti verresti con me».
«Ci odierà entrambi per avergli tenuto nascosto il suo passato, odierà te per avergli mentito tutto questo tempo, facendogli credere di essere stato sempre come è adesso!».
Ma i sensi di colpa che Isolde provava erano stati più forti delle spiegazioni di Zane. E la notte successiva una fiamma troppo alta si era accesa nel giardino e Roan ci si era buttato dentro, lasciandosi consumare il corpo dal fuoco, l’unica vera arma in grado di distruggerlo. Ed Isolde gli era corsa incontro piangendo, ma era già troppo tardi, e Zane l’aveva stretta prima che la pira avvolgesse anche lei. E da quell’istante nessuno dei due era stato più lo stesso.
Botte di Ferro bussò alla porta della camera da letto con le grandi nocche ruvide ed entrò come era solito fare, senza attendere il consenso e senza preoccuparsi di riceverlo.
Un baldacchino possente dominava lo spazio luminoso e ai piedi del letto, seduta compostamente su uno scranno imbottito e leggermente scricchiolante, il mento dritto, la postura rigida, se ne stava Isolde.
La moglie del Ministro di Ennon era avvolta da una pesante mantella di lana per proteggersi dalla frescura di quell’ora e nel piccolo camino di fronte a lei le braci si erano già tutte consumate, rilasciando nella stanza un piacevole tepore che non era sufficiente ad allontanarle il freddo dalle ossa. Sul davanzale della finestra il cibo che era stato portato per lei all’ora di pranzo era ancora intatto.
In grembo portava una pezza di tessuto da ricamare, ma il lavoro, anche se molto ben curato, non era che all’inizio, nonostante vi lavorasse ormai da settimane.
Quando Isolde alzò gli occhi su suo marito, Zane li sentì severi e distanti, come distanti erano diventati ormai loro due, incapaci di trovare un accordo su una faccenda tanto complessa.
L’uomo si corrucciò ricordando la donna che aveva sposato, sorridente dopo tante lacrime, forte come la roccia dopo essere stata per troppo tempo debole. La amava come aveva amato Roan, forse di più, perché tra loro non c’erano mai stati segreti e, per ironia della sorte, adesso era proprio la loro schiettezza a lacerarli. Eppure Zane sapeva che da qualche parte, in quegli occhi imperscrutabili, c’era ancora una donna dal cuore grande, troppo grande per un mondo come il loro, che non voleva nient’altro che giustizia fosse fatta, per riparare all’errore che aveva commesso anni addietro e che ancora le infastidiva l’anima.
Botte di Ferro le si avvicinò, scambiando degli impacciati convenevoli a cui Isolde non prestò attenzione. Poi si inginocchiò ai suoi piedi, le strinse le gonne e nascose il viso barbuto contro il suo ventre.
Tutta la misura e l’ordine che la donna ostentava così teatralmente lasciarono il posto ad un’autentica sorpresa ed il ricamo le scivolò di dosso, finendo a terra. Quel gesto così inaspettato l’aveva stupita a tal punto da farle dimenticare persino il suo orgoglio. Alzò una mano e sfiorò la testa del marito, tirandogli leggermente i capelli neri, come era stata sua abitudine fare un tempo.
Il Ministro di Ennon sollevò gli occhi, incrociando le iridi scure della moglie. Non sapeva se farlo per lei, o per sé stesso; magari tutto era nato da sua figlia, dal frutto del loro amore che tanto avrebbe voluto proteggere e che invece – Howel aveva ragione – rischiava di commettere lo stesso errore della madre. O forse era solo la necessità di proteggere i più deboli, di onorare la morte di un amico, di levarsi quel peso dalla coscienza, di impedire che qualcun altro soffrisse come avevano sofferto Kasimir ed Aron, di impedire che i Rioni si spaccassero per un’altra guerra civile. E se tutte queste ragioni si fossero dimostrare sufficienti per non vedere più il rammarico in Isolde, tanto meglio.
Prese un profondo respiro.
Gli si era chiesto di ragionare da Ministro, ma lui non poteva essere solo quello. Era anche un padre, un marito, un uomo, un amico, un soldato, un diplomatico. Vestiva molti ruoli e quei ruoli dovevano essere conciliati. La sua decisione, ormai, era presa.
«Morèa avrà il mio appoggio» disse infine, la voce forte e vibrante, il tono deciso, anche se pure la più profonda sicurezza nasconde dei dubbi.
Gli occhi della donna si fecero grandi e rotondi, le iridi luminose, il viso acceso. Socchiuse la bocca, mostrando un sincero sorriso. Il mento tremò. Si nascose il volto tra le mani e pianse e quei singhiozzi furono il balsamo di cui aveva bisogno.
«Grazie agli Dei, grazie agli Dei!» lo abbracciò, stringendoselo al petto, colma di un conforto che da molto tempo non provava più.
Zane le strinse le piccole guance fra le grandi mani e le baciò la fronte.
«Sono fiera di te» si sentì dire «Mio zio e mio cugino saranno fieri di te. E anche Roan…anche Roan sarebbe orgoglioso dell’uomo che sei diventato».
La seduta del Consiglio dei Ministri, dopo il tramonto, si concluse con tre voti a favore, uno nullo e uno contrario.
Kasimir urlò il suo dissenso più forte che mai.
 
♦♦♦

Il mondo di Theresa sembrava si stesse sgretolando sotto i suoi occhi. Letteralmente.
Gli uomini e le donne che la circondavano parevano senza volto, come delle bambole che si muovevano sul palcoscenico per far sembrare la loro recita convincente. Più aguzzava la vista, più il paesaggio si faceva indistinto, una tela maldipinta di colori appena abbozzati; più tendeva le orecchie, più i suoni si facevano tutti uguali e prevedibili, ripetuti a cadenza regolare: il cinguettio degli uccelli, il vento fra le foglie, le urla del mercato giù in paese, il cinguettio degli uccelli, il vento tra le foglie, le urla del mercato giù in paese, il cinguettio degli uccelli, il vento fra le foglie, le urla del mercato giù in paese…Più ci pensava, più si sentiva come catapultata in una commedia e lei desiderava solamente scendere dal palcoscenico.
Eppure, quando si soffermava su quei dettagli, quando sembrava essere vicina ad una verità primordiale – quasi una parola ferma sulla punta della lingua, pronta ad essere carpita -, Theresa la dimenticava. Qualcosa le sfuggiva, scivolandole di dosso come l’olio. Ma nell’esatto momento in cui riusciva ad avvicinarsi a incastrare gli ingranaggi pezzo dopo pezzo, sentendosi viva di una nuova consapevolezza, tutto si bloccava. E allora ogni essere che aveva vicino si arrestava e sembrava davvero senza volto, un corpo vuoto mosso solo dalla sua immaginazione, che percepiva chiaramente quanto lei fosse fuori luogo.
Era un vitello nascosto da predatore in un branco di lupi e adesso quei lupi si stavano accorgendo della sua presenza.
Era diventata folle?
Forse sì.
Paranoica?
Probabile.
La squalifica dal Torneo arrivò e lei a malapena se ne preoccupò.
Zane la convocò e lei a stento si ricordò le sue parole (qualcosa sul non rendergli la vita più difficile di quanto già non fosse).
Savannah la convinse che era tutto nella sua testa e lei non la ascoltò.
Anche Caleb provò a parlarle, ma Theresa faticò a ricordarsi chi fosse.
L’unica certezza che aveva era la stalla vuota nella quale si trovava in quel momento. Paglia pulita, finimenti lucidati e del suo totem neanche l’ombra. Ma invece un’ombra accanto a lei c’era, zoppicante e vestita di nero. Raven era chiuso nel suo silenzio e così sarebbe rimasto fino a quando non fosse stato interpellato, fino a quando Theresa non gli avesse ordinato cosa fare, come farlo e perché farlo. A trovare le risposte, poi, ci avrebbe pensato lui.
Daianara, oltre la soglia delle scuderie, si strinse le mani nelle mani, indecisa sul da farsi.
Aveva guardato Theresa da lontano, come una mamma il suo bambino, senza avvicinarsi a lei fino a quando non era stato più possibile fare diversamente. L’aveva vista, oltre la staccionata, strattonare quel garzone per farsi portare un cavallo che si trovava proprio di fianco a lei; l’aveva vista urlare contro il cielo a squarciagola, fino a non avere più voce, pur di essere creduta; aveva udito i suoi incubi nella notte, ma aveva avuto paura a raggiungerla temendo che diventassero anche i suoi.
Non era poi nemmeno così certa che, dopo tutto quel tempo passato senza spendere nemmeno una parola, Theresa volesse ora condividere i suoi pensieri proprio con lei.
Avanzò lentamente lungo il corridoio di legno.
La rossa alzò gli occhi scuri su di lei, incrociandone lo sguardo. L’espressione era apatica, una maschera privata di qualsiasi emozione.
«Tess…» la chiamò.
«Vai via» rispose in un sussurro, tornando a fissare il nulla di fronte a sè, quasi si aspettasse di vedere Argo materializzarsi proprio in quel box.
«Theresa».
«Via» ripetè, poi aggiunse «Anche tu pensi che io sia una spostata, una deviata». La guardò per un lungo, lungo istante, sondandone l’espressione, cercando di catturare tutto quello che i suoi occhi volevano trasmetterle. «Non vedi quello che vedo io, non senti quello che sento io. E nemmeno credi che il mio cavallo mi sia stato rubato. Sei come tutti gli altri, solo come tutti gli altri».
«Non è così». Daianara si morse le labbra e abbassò lo sguardo. «Io ti credo…Saprei riconoscere Altea fra centinaia» sussurrò, annuendo lentamente, e la sua voce pareva colpevole. Avrebbe voluto essere più rigida, avere più polso, come se il fatto di provare ancora del rancore nei suoi confronti dovesse impedirle di appoggiarla. Ma per quanto Daianara fosse ancora risentita della poca delicatezza che la ragazza le aveva dimostrato, non sarebbe mai arrivata al punto di negarle tutto l’aiuto di cui necessitava.
Credeva che il loro rapporto dovesse andare oltre questo, anche se non si era dimostrato abbastanza intimo da superare ciò che era accaduto.
«Almeno tu…» scosse la testa Theresa, una punta di sollievo nella voce. Allungò una mano e la posò sopra quella della mora che all’istante si irrigidì. «Devi aiutarmi a ritrovare Argo, Daia. Non mi interessa nulla di questo stupido Torneo, non è importante, ma lui lo è. Mi stanno strappando una parte di me».
«Perché qualcuno avrebbe dovuto farti una cosa simile?».
Curvò la bocca in una smorfia sinistra «Non lo vedi il modo in cui mi guardano tutti? Come se fossi una matta da rinchiudere in qualche scantinato, o alla meglio una paranoica che si diverte ad aggredire le persone» su quelle parole la voce si fece un po’ meno sicura e Theresa non riuscì a sostenere lo sguardo di Daianara «Una folle che parla da sola e non distingue più i sogni dalla realtà. Ma su questo non mi sbaglio. Quello non è il mio cavallo, non l’ho mai visto in vita mia. Tu puoi capirmi». Una lacrima impertinente le sfuggì dalle ciglia nonostante tutti i suoi propositi di autocontrollo. Rapidamente la scacciò con un colpo di mano, voltando il viso per non farsi vedere dalla ragazza che aveva di fronte e solo Daia sapeva più di lei quanto odiasse mostrarsi debole agli occhi di qualcun altro.
La mora finse di non essersi accorta di nulla. Le venne naturale alzare la mano e avvicinarla alla sua guancia. Tess la vide con la coda dell’occhio e rimase immobile. Forse era davvero quella l’unica cosa di cui aveva bisogno in quel momento: che Daia la toccasse, facendola sentire meno spersa. Chiuse le palpebre e attese.
Le dita della ragazza tremarono, ma non arrivarono a sfiorarle la pelle. Daianara desistette dal suo intento con un’espressione affranta, lasciandosi cadere la mano aperta in grembo. Avvicinarsi a tal punto, ritrovare un contatto, un abbraccio, una carezza, avrebbe fatto crollare il muro che aveva alzato tra loro due, un muro che non sarebbe dovuto cadere prima che Theresa avesse compreso perché il suo comportamento le aveva fatto male al punto da spingerla ad allontanarsi. In testa poteva ancora sentire rimbombare le parole che le aveva detto quella notte con così tanta leggerezza: “E’ stato un errore”, “Non volevo”, “Non prendiamola sul serio”. Senza rendersi minimamente conto dell’effetto che avevano avuto su di lei e di quanta fatica le stesse costando adesso guardarla da lontano anziché stringerla e chiederle che cosa la turbasse tanto.
«Allora dimostriamo che non sei quella che credono tu sia» le disse quando la rossa la guardò con aria interrogativa «Ritroviamo Argo e andiamocene da questo posto senza guardarci indietro. Ma Tess…» aggiunse, scandendo ogni sillaba «Questo non cambia quello che è successo tra di noi».
L’altra deglutì a fatica. Non tutto poteva essere aggiustato. Annuì con pesanti cenni del capo, in un tacito accordo. Poi si rivolse al curioso, ancora dietro di loro, e Daianara sobbalzò quando si accorse della sua presenza.
Theresa aggrottò le sopracciglia. Possibile che non lo avesse visto? Era sempre stato lì.
«Rivoglio il mio cavallo» esordì poi, senza mezzi termini «E voglio che tu scopra chi me l’ha portato via».
Raven la guardò profondamente. «Certamente» sussurrò e anche se la sua voce era maliziosa e tagliente come sempre, l’espressione si era fatta tremendamente greve. Theresa venne scossa da un fremito. Fu solo una sfuggente sensazione, ma le sembrò che in quell’uomo vi fosse rinchiuso qualcosa di sé stessa. Un’impressione che aveva avuto solo con Ophelia, quando la guardava con i suoi occhi trasparenti snocciolando frasi che solo lei sembrava comprendere.
«Chiunque sia stato» continuò la spia «E’ molto più vicino di quanto non immaginiate. Sono sempre le persone più fidate ad avere i segreti più ingombranti» alzò uno sguardo su Daia, ma la ragazza si era già voltata e con passo spedito si incamminava verso l’uscita.
Il curioso continuò: «Si celano negli inganni, si nascondono in un ricordo dimenticato. Ma anche un labirinto è di facile soluzione, quando lo si guarda dall’alto. O forse sbaglio?» le domandò ancora, alzando la voce per farsi sentire, poggiandosi al piede sano per non cadere. Quella leggera zoppia non minava in alcun modo la sua sicurezza.
La mora si voltò appena a guardarlo, gli angoli della bocca piegati all’insù. «Pensavo che le spie di Palazzo non sbagliassero mai».
«Infatti».
Lei e Raven si scambiarono un’occhiata che avrebbe potuto mettere a ferro e fuoco l’intera Cittadella e per un momento Tess stentò a riconoscere entrambi.
 
♦♦♦

Sotto il portico che si affacciava su uno dei giardini interni il Palazzo, nell’ala lasciata agli abitanti di Ennon, Theresa procedeva più mesta e mogia del solito. Le luci erano state tutte spente, nemmeno una fiaccola gettava le sue ombre sui muri, ma la luna era alta e piena e tutto il cielo era puntinato di piccole stelle che brillavano una più dell’altra. Con il naso all’insù, la schiena appoggiata ad uno dei pilastri marmorei e le braccia conserte, strette intorno allo sterno, Theresa si godeva quello spettacolo - quasi un calmante per la sua anima agitata - pensando però che dalla finestra della sua camera, ad Ennon, la vista sarebbe stata migliore.
Proprio lei, che negli ultimi tre anni non aveva fatto altro che desiderare di essere a Palazzo per mostrare a tutti di che pasta fosse fatta, ora non vedeva l’ora di tornare a casa.
Storse il naso e rabbrividì quando una folata di vento freddo si alzò, passando fra le foglie degli alberi e investendola con il suo alito. Quanto poteva essere sadico il destino che ti permetteva di raggiungere i tuoi sogni quando questi ormai erano mutati?
La ragazza fece leva sulla superficie del muretto basso e saltò, mettendosi a cavalcioni su di esso. Inutile dirlo, anche quella notte non si sarebbe addormentata, un po’ per i pensieri che le ingombravano la mente, un po’ per la paura di vivere gli incubi dai quali preferiva tenersi ben più che lontana.
Reclinò la testa e tirò un profondo sospiro. Il suo petto si sollevò sotto la camicia e si riabbassò.
Un’altra folata di vento le accarezzò la pelle, questa volta con maggior impeto, staccando le foglie e facendole danzare. Ma queste non si posarono a terra, o almeno Tess continuò a vederle volteggiare, sospese nel nulla, fino a quando non sparirono dalla sua vista. Si erano mosse al ritmo di una lenta nenia, una ninna-nanna dolce che riempiva l’aria col suo motivetto e che forse l’aria aveva portato da lontano, da oltre le mura del Palazzo, giù in strada, o anche oltre la cinta della Cittadella Sacra. Tess non lo sapeva e non le importava. Quel lento movimento riuscì ad attirare la sua attenzione, ad ipnotizzarla e fra tutte quelle giravolte e quelle capriole, fra i colori caldi delle foglie scricchiolanti, lei si perse.
E ogni angolo del suo cervello si riempì di quella melodia.
Ascolta la mia ultima canzone e deponi le tue armi. Domani sarò qui a cantarti queste ultime parole: un’ultima canzone è tutto quello che ho da darti…
Scavalcò il muretto e tornò a posare i piedi per terra. Alzò le braccia, sgranchendosi la schiena, e si portò le mani dietro la testa, muovendo un piede davanti all’altro, in direzione della porta istoriata che l’avrebbe ricondotta al corridoio e da lì alla sua camera. Unì le labbra e le socchiuse, fischiando quelle note che le ronzavano nelle orecchie.
Ascolta la mia ultima canzone, perché già lo sai: mi troverai qui a cantare le mie ultime parole. Per noi ci sarà sempre un’ultima occasione…
Delle gonne si mossero nell’oscurità davanti a lei. Un’ombra camminò sulle mattonelle di pietra senza fare alcun rumore.
Theresa si arrestò.
Delle piccole mani emersero dall’ultimo pilastro, come fuoriuscite dal marmo, e si mossero lungo la colonna.
Il suo fischio si smorzò, ma il motivetto che aveva intonato sembrò aumentare di volume.
Canterò ancora una volta per te, prima di allontanarmi. Sono salita troppo in alto per sentire la tua voce…
Theresa aprì la bocca, ma le sue corde vocali erano come paralizzate e dalla gola non uscì nulla se non un basso gemito. Istintivamente indietreggiò, ma non riuscì a distogliere gli occhi dalla figura che stava affiorando dal nulla, composta di polvere e molecole, e che le si stava parando davanti.
Decise di voltarsi e correre, ma tutto improvvisamente si arrestò. Anche lei.
Il vento si abbassò, il freddo si fece poco a poco meno pungente, sostituito presto da un piacevole tepore. Il canto si fece sussurrato, le parole lasciarono il posto a delle note pulite e rincuoranti, note che Theresa sentiva di conoscere, ma non ricordava di aver udito mai. Intorno a lei tutto si fece più nitido, il chiarore della luna illuminò il passaggio e, come in un incubo che si fa sogno, Theresa non sentì più paura, ma solo sollievo.
Davanti a lei, isolate dal buio della notte ormai inoltrata, delle piccole scarpette laccate di blu batterono la pietra.
«Sei tu…» sospirò Theresa, passandosi il dorso della mano sulla fronte.
La bambina non disse nulla, limitandosi ad annuire. Semicoperta dal pilastro dietro il quale voleva nascondersi, la piccola si stropicciò la gonna chiara con le dita, tirando i lembi prima a destra, poi a sinistra, indecisa sul da farsi. Le ginocchia erano ancora sbucciate e i lividi sul suo collo ancora presenti.
La rossa provò ad avvicinarla, ma dovette desistere quando l’altra diede segni di spavento. «Non volevo impaurirti» disse a mo’ di scusa.
«Neanche io» sussurrò la bambina, gli occhi sempre velati da una profonda tristezza che non sembrava avere fine. «Canti con me la mia canzone?».
«Non la conosco».
Rimase in silenzio, la bocca tremante sul punto di scoppiare in un pianto.
«Andrai via di nuovo?» le domandò Tess, dondolandosi leggermente «Come le altre volte?».
La bambina tirò su col naso. «Tu sai chi sono?».
«Non si risponde ad una domanda con un’altra domanda».
«Non dovresti pretendere delle risposte che non posso darti» ribattè, chiudendosi in un broncio.
«Sono io che sbaglio le domande?».
«Non ho detto questo…».
«Chi sei?».
«Dimmelo tu».
«Io non lo so» iniziò a spazientirsi.
La piccola si strinse nelle esili spalle e si accasciò contro il pilastro. Il corpicino tremò e il silenzio che si venne a creare tra loro due, pesante come un macigno, si ruppe solo con i suoi gemiti.
Il cuore di Tess saltò un battito ma ancora una volta non riuscì a spiegare razionalmente perché il pianto di quella creatura intristisse anche lei a tal punto.
Si passò una mano tra i capelli rossi. «Perché è così importante per te?» le chiese.
«Perché voglio tornare a casa…».
«Mi dispiace. Ma io davvero, davvero non mi ricordo di te».
«Non ci hai neanche provato» la accusò.
Scosse la testa. «Non so chi tu sia» bisbigliò colpevole.
Le sue parole sembravano avessero colpito la bambina più di uno schiaffo.
«Ti prego…» riuscì solo a dire, gli occhi rossi di lacrime, le guance pallide e bagnate.
«Mi dispiace» ripetè.
«Dì il mio nome».
«Vorrei, giuro che vorrei».
«Dì il mio nome, Tess!» le urlò come se ne dovesse dipendere la sua vita.
Un guizzo, un ricordo, una certa familiarità nel suo modo di fare la investirono, ma non furono sufficienti.
La ragazza abbassò lo sguardo, non riuscendo a sostenere il suo, ma quando lo rialzò la bambina stava già scappando via.
«Aspetta!» la rincorse. Nessuno le rispose. «Aspetta! Resta qua!» la inseguì e anche se le sue gambe erano più lunghe e nettamente più veloci, non riuscì a raggiungerla. Allungò le dita nella speranza di afferrarla, ma fu tutto inutile. I contorni delle cose tornarono a farsi indefinite, il colore acceso delle sue scarpette, ormai così riconoscibile, iniziò a perdersi fra le mattonelle; il cuore di Theresa cominciò a galoppare come se avesse corso per chilometri, il fiato le venne meno, la vista si annebbiò, le gambe cedettero, costringendola ad inginocchiarsi sul pavimento freddo.
«Aspettami…» sussurrò ancora, non desiderando altro che trattenerla per capire, per ricordare, per sapere. Un senso di vuoto e di disperazione la inghiottì.
Alzò una mano all’aria, chiudendola a pugno e battendola a terra così forte da farsi sanguinare le nocche. «Fermati!».
La figura della bambina si allontanò sempre di più, assorbita dalle ombre.
Poi un’idea le balenò nella mente, così limpida e logica da pensare che qualcuno gliel’avesse suggerita nelle orecchie, e i suoi polmoni gridarono più forte che poterono: «Maledizione Daia, fermati!».
I piedi della bambina si arrestarono, immobili come in un dipinto.
L’aria smise di essere così pesante e l’atmosfera così opprimente.
Le vertigini che avevano assalito Theresa cessarono e ogni cosa tornò ad essere solida e concreta.
Le spalle della bambina si incurvarono e il suo corpo venne scosso da un ultimo, lungo singhiozzo. Voltò appena il capo per guardare nella sua direzione e quando gli occhi scuri, tondi, umidi, incrociarono quelli di Tess, ancora una lacrima le rigò silenziosa lo zigomo. Ma non vi era più sofferenza sul suo viso, solo stupore.
«Daia…» la chiamò ancora la rossa, prendendo fiato, e quando ripetè il suo nome, come se fosse la cosa più naturale del mondo, la piccola le corse incontro, le pieghe della gonna che svolazzavano, le mani aperte pronte ad abbracciarla. Le si lanciò addosso, gettandole le braccia al collo e stringendola quanto più forte riuscì, nascondendo la faccia nell’incavo della sua spalla, bagnandole la camicia.
Theresa, dapprima interdetta, si avvinghiò a lei e le braccia le cinsero completamente il corpo. La cullò, tenendola stretta a sé, pronta a tutto pur di rimanere così ancora per un poco. Le accarezzò i capelli, le baciò la fronte, le asciugò le palpebre, ma quello che aveva fra le mani non era più il corpo di una bambina. Daianara, accovacciata davanti a lei, le facce alla stessa altezza, le cercò gli occhi con i propri ed erano talmente profondi da catturare la luce.
«Temevo non ti saresti mai ricordata di me» mormorò tesa, sfiorandole il viso con le dita fredde.
Tess aggrottò la fronte. «Io non posso dimenticarti» spiegò semplicemente.
«No, infatti» scosse la testa «Non puoi. Siamo una cosa sola».
«E allora perché adesso siamo così divise?».
La mora le posò una mano sul petto, insinuandosi sotto il cotone e premendo sul cuore. Era davvero possibile che due battiti riuscissero a fondersi in un unico suono? Le baciò la fronte. «Devi farmi entrare qui. Non c’è altra soluzione. Non puoi continuare a farmi soffrire in questo modo» la voce si ruppe.
«Io non voglio farti del male».
«Neanche io». Si morse le labbra e Theresa non riuscì a non abbassare gli occhi sulla sua bocca.
«Ammettilo» sussurrò Daia, facendosi più vicina «Sii più sincera di così, più sincera con te stessa».
«Cosa dovrei ammettere?».
«Che sono il tuo punto debole».
«No» negò subito l’altra, forse con troppa foga, posandole le mani sulle spalle e allontanandola, senza staccarsene davvero del tutto. 
«Puoi fingere se vuoi, ma non con me» la voce era dolce e al tempo stesso ferma. Si guardò intorno «Qui non puoi mentirmi. Io ti ho salvata e tu hai salvato me».
La rossa deglutì prima di sentenziare: «Non ci si può permettere alcuna debolezza».
«Sono le debolezze a renderci forti».
«Questo è un controsenso».
«No, non lo è. Devi avere qualcosa per cui lottare, devi avere qualcuno il cui pensiero ti spinge ad andare avanti, qualcuno per cui rialzarti quando tutto sembra perso. Non si può sempre vincere da soli, Tess. Un egoista non sarà mai più forte di qualcuno che lotta per amore. E fino a quando non amerai qualcuno così tanto da farlo diventare la tua debolezza, allora non potrà essere la tua forza. Hai mai amato fino a questo punto?».
Silenzio.
«Io sì. Io sì. Ed è per questo che sono più forte di te. Lo sarò sempre. È il regalo più grande che tu potessi farmi».
«Ma…» iniziò a domandare, prima di essere interrotta.
«Ti prego» Daia le posò un dito sulle labbra, prevenendo qualsiasi obiezione «Ti prego, fallo ancora».
«Cosa?».
«Guardami».
«Ti sto guardando».
«Non così».
«E allora come?».
Lei socchiuse gli occhi. Avvicinò la bocca al suo viso, baciandole le labbra come se non avesse desiderato fare altro per tutto il tempo che le era rimasta tra le braccia. Seguì ogni suo contorno, quasi a volerglielo ricreare, e ne gustò il sapore, catturandole la lingua. Tess si lasciò toccare, trasportare, mangiare, percependo il suo calore attraverso lo sterno, nello stomaco ormai in subbuglio. Ogni muscolo si tese. Inspirò il suo profumo di erba tagliata e fieno – semplicemente il suo profumo - fino in fondo e quando le mancò il respiro ansimò sulla sua pelle. Le morse il collo e l’odore di quel corpo la invase completamente. Daia le passò le dita fra i capelli, tirandole la coda per costringerla ad alzare il viso. Le stuzzicò ancora le labbra prima di sussurrare: «Così. Guardami così. Come hai sempre desiderato e come non hai mai osato. Non c’è niente di sbagliato in noi. Se quello che proviamo quando siamo vicine è così bello, come può non essere giusto? E se è sbagliato per gli altri, perché dovrebbe esserlo anche per te? Pensi forse che io sia cattiva?».
Theresa scosse la testa «Non potrei pensarlo mai».
«Tu credi di esserlo?».
Titubò e Daia scacciò ogni suo dubbio sfiorandole la tempia con la bocca. «Il tuo cuore è così grande, Tess. Se solo ti lasciassi amare lo vedresti chiaramente, come lo vedo io. Torna da me. Mi manchi troppo. Non hai più tempo, noi non abbiamo più tempo».
«Cosa stai cercando di dirmi?».
«Non devi crederle» le sussurrò all’orecchio e la sua voce si fece improvvisamente roca e affranta «Se davvero mi vuoi, se davvero mi conosci, allora saprai distinguermi. E vedrai le maschere cadere, le finzioni sfumare e capirai perché non ti è più concesso di restare. Raggiungimi. Lo so che sai dove andare, hai già percorso questa strada, devi solo ricordarla. Segui la mia voce e torna. Non posso più aiutarti».

 

 

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Capitolo 16
*** Campi Elisi ***


Capitolo 14
 
♦ Campi Elisi  
 
“Dall’abbraccio più sincero può nascere un amore,
come da una fiamma la sua luce e il suo calore.
Chiedi a te stessa il perdono di cosa ha il sapore
perché a volte può accadere di ferirsi per errore”
 

«Tess» la chiamò una voce preoccupata. «Tess, rispondimi».
Aprì gli occhi ed improvvisamente la sua visione si trasformò in nulla, fumo e cenere nell’aria fredda e umida, gonfia di pioggia. Il buio aveva inghiottito e spento ogni fiaccola e la luna non era più sufficientemente brillante da illuminare i contorni degli edifici, le mattonelle e i pilastri compositi.
Inginocchiata sulle pietre del portico, Theresa si sentiva al contempo riempita e svuotata. Fra le sue braccia non c’era più nessuno, nelle orecchie nemmeno un sussurro accennato, svanito sulla sua bocca il calore delle labbra di quella ragazza. Eppure la pelle fremeva, la fronte era accaldata e sudata, il cuore le galoppava nel petto così velocemente da pensare volesse essere udito da tutti. La rossa si portò un dito sulle labbra e le sentì screpolate e turgide.
«Tess, per favore!» si sentì chiamare più forte e quando, voltandosi, incontrò gli occhi di Daianara uno strano sollievo la pervase.
Vide la sua espressione turbata, la fronte aggrottata e una piccola ruga che faceva capolino fra le sopracciglia; le pupille erano dilatate, le iridi velate di preoccupazione e paura. I piedi erano scalzi su quel pavimento scivoloso e la vestaglia da notte la avvolgeva completamente, coprendole le gambe fino al polpaccio. Tess la guardò per un lungo istante e l’altra rimase paralizzata sotto il suo sguardo.
Il vento si alzò e la mora rabbrividì, scostandosi i capelli dal viso. L’aria portò a Theresa il suo profumo, ma di una fragranza più tenue, più dolce, più effimera di quella che l’aveva travolta solo qualche istante prima. E finalmente riuscì a vederla in un modo che le era stato sconosciuto fino a quel momento.
Era la sua colomba. Semplice di una bellezza genuina e al tempo stesso disarmante, semplice nelle parole, nelle espressioni, nei gesti; semplice nelle pretese, nei desideri, nelle promesse; semplice il modo in cui l’aveva conosciuta e scoperta, in cui l’aveva accettata e protetta, difesa dal mondo e da sé stessa. Solo semplice, come il biancospino e i suoi rovi, le spine mai troppo vistose e mai da sottovalutare. Unicamente Daia, unicamente lei.
La bocca della rossa si incurvò leggermente in un sorriso, il suo corpo si rilassò, i polmoni buttarono fuori tutta l’aria che avevano inspirato – e che non si era resa conto di star trattenendo - e con quella anche gli ultimi dubbi.  
«Con chi stavi parlando?» domandò la ragazza in un sussurro, guardandosi intorno.
«Con nessuno» rispose semplicemente, rimettendosi in piedi e pulendosi le dita sulle maniche.
«Mi spaventi quando fai così…» istintivamente si strinse le braccia intorno al corpo, forse nel tentativo di proteggersi dal freddo, o forse nel tentativo di proteggersi da lei.
Vedendo quel gesto, un nodo serrò la gola di Theresa. Si grattò la testa, imbarazzata. «Non ho mai voluto farti del male» deglutì «Anche se le mie parole non cancellano quello che ho fatto».
Daia si prese qualche secondo prima di rispondere. «E’ stato solo un incidente, ne sono completamente guarita. Non pensarci più. Io ti ho perdonata e lo hanno fatto anche i miei genitori. Non caricarti di colpe inutili».
«Io non stavo parlando di quello».
«Allora non riesco a seguirti».
«Io mi riferivo» continuò in un sussurro «A quello che è successo tra di noi l’ultima volta». Le lanciò uno sguardo allusivo.
Daianara spalancò gli occhi. Le guance e il collo le si colorarono di porpora in uno dei suoi soliti sfoghi. «Lascia perdere» tagliò corto, voltandole le spalle.
«No, non lascio perdere» ribattè duramente «Non questa volta».
«E’ tardi Theresa. Torniamo a dormire. Inizia a fare troppo freddo qui fuori».
«Non m’importa. Daia…» allungò un braccio per posarle la mano sulla spalla, ma l’altra si sottrasse di malagrazia a quel tocco.
«No» ribadì con risolutezza la mora, indietreggiando per aumentare la distanza tra di loro. Sollevò una mano facendole segno di rimanerle lontana. «Per favore. Dimentichiamo quello che è accaduto e andiamo avanti».
«Tu credi davvero di poterlo dimenticare?».
«Ma che cosa vuoi da me?» sospirò esasperata, allargando le braccia.
«Voglio che mi ascolti».
«Oh, ma io ti ho ascoltata eccome. Ricordo ogni parola di quello che mi hai detto quella notte. Non potrei sopportarne delle altre, davvero».
Theresa serrò la mascella. «Ho sbagliato».
«Credi davvero che io voglia sentirmi dire questo? Che hai sbagliato a baciarmi?».
«No» le si fece più vicina «Ti sto dicendo che ho sbagliato a fermarmi».
Daianara aprì la bocca per ribattere senza aver lasciato al suo cervello il tempo di rielaborare quell’affermazione. «Bhe, io…!». Si bloccò. Gli occhi si fecero se possibile ancora più grandi e tondi. Al primo stupore seguì il dubbio. «Mi stai prendendo in giro? Lo trovi divertente?».
«Io non sto ridendo».
«Pensi sia uno scherzo per me? Una curiosità che puoi soddisfare? Tu non hai la più pallida idea di quello che ho provato io quando…» sentì la voce incrinarsi, nonostante tutti i suoi forzi, e lasciò la frase a metà.
«Mi dispiace. Non posso dirti nient’altro che questo».
«Non sembravi dispiaciuta quando mi hai guardata come se il solo sfiorarmi ti facesse venire il voltastomaco, o quando mi hai detto che si era trattato solo di uno stupido errore. Ci tenevi così tanto a dimenticarti di quel bacio che sei arrivata anche a dimenticarti di me».
«Sei ferita. Lo capisco».
«Io sono delusa e amareggiata e disillusa, ma no, non sono ferita. Non lo sono più. Eri riuscita a farmi credere che ti piacesse avermi vicina, che ti piacesse stringermi, che ti piacesse baciarmi» incrociò le braccia al petto «Davvero Tess, c’eri quasi riuscita a farmi sperare di avere una possibilità. C’era mancato tanto così» avvicinò l’indice e il pollice «tanto così per pensare che tu mi desiderassi quanto ti desideravo io. E poi ho visto lo schifo nei tuoi occhi quando ti sei tirata indietro e la risata che hai fatto mentre il mio amore ti scivolava dalle mani. Tutte le parole che hai cercato di tirare fuori per giustificarti mi hanno solo fatto desiderare di sprofondare ancora. Perché non sai quante volte ho immaginato di baciarti mentre tu pensavi a qualsiasi altra cosa tranne che a me. E mi sono dovuta ricredere. Aveva ragione Savannah» sibilò e ogni fibra del suo corpo si contrasse al pensiero di avergliela data vinta «È inutile aspettarti».
«A me non interessa quello che dice Savannah» ribattè duramente, afferrandola.
«Non mi toccare» si divincolò e quando l’altra non accennò a mollare la presa continuò: «Tess, lasciami!».
«Scordatelo».
«Giuro che mi metto ad urlare».
«No, non lo farai. Guardami».
«No!» digrignò i denti in risposta al suo ordine.
Theresa le afferrò il mento, stringendoglielo tra le dita, costringendola a girare il viso nella sua direzione. «Invece lo farai».
«Ti ho già detto che ti aiuterò a ritrovare Argo, ma non sei nella condizione di potermi chiedere più di questo».
«Non ci serve a nulla una tregua, Daia. Voglio che torni da me. Mi manchi» confessò e la sua voce si addolcì.
Per un attimo l’arrabbiatura della ragazza sembrò lasciar posto alla resa, ma la sua perplessità non durò più di qualche secondo. «Già…» sbuffò «Peccato tu non sia credibile».
Theresa si scurì in volto e la sua presa si fece più ferrea. «Ti manco anche io».
«No, affatto».
«Smettila di comportarti così. Sto cercando di dirti la verità».
«La tua verità cambia ogni giorno. Non riesci nemmeno a rimanere coerente con te stessa» si interruppe quando l’altra la spinse contro il muretto che si affacciava sul giardino e per non cadere dovette appoggiare le mani sulla sua superficie gelida. «Che cosa vuoi fare?» domandò, guardandosi indietro.
«Baciarti» disse piena di intenzione.
«Tu sei pazza!».
«Ai pazzi è concessa ogni cosa».
«Non questa. Non sarò di nuovo il tuo diversivo».
«Non lo sei mai stata».
Daia le premette i palmi sulle spalle per spingerla via, ma Theresa sembrava inamovibile.
«Spostati!» sbraitò e si fece ancora più insistente quando gli occhi iniziarono a pungerle.
«No».
«Perché? Perché vuoi giocare a questo gioco proprio con me? Devi smetterla di illudermi!».
«Non è un gioco».
«Io non ti credo più» abbassò gli occhi e due lacrime le caddero sul vestito.
Tess si avvicinò ancora. Posò le labbra sulla sua fronte e la sentì bollente. «Lo so» le sussurrò a malincuore contro la pelle «Lo so».
«Ti prego, lasciami andare, non voglio rimanere qui».
«Io ti sogno Daia…» chiuse gli occhi «Sei dentro la mia testa e non c’è modo di farti uscire. Non so neanche come tu ci sia entrata. Ti ho baciata perché era quello che volevo fare e me ne sono andata perché ho avuto paura. Non pensavo potesse esserci qualcosa tra di noi e non avevo capito che tu provassi…questo» le cercò la guancia con la mano.
«Allora sei davvero cieca».
«Si! Si, lo sono. Quando si tratta di te lo sono. E dovresti averlo imparato, ormai. Tu mi conosci ed io conosco te. E lo so di aver rotto qualcosa e so che non torneremo ad essere le stesse di prima, ma non possiamo andare avanti in questo modo. Non fingerò che va tutto bene». Theresa aspettò di ricevere una risposta, ma Daianara si limitò a scuotere la testa e a fuggire i suoi occhi. «Tu mi vedi» le disse allora «Nello specchio di Ophelia, tu vedi me».
L’altra arcuò le sopracciglia e un sorriso amaro le piegò le labbra in una smorfia piena di risentimento. «E tu non vedi nessuno, quindi non credo ci sia altro da aggiungere».
«So quello che vedo adesso». Piegò leggermente le ginocchia per mettersi alla sua altezza. «Non era ribrezzo quello che provavo quando ti baciavo, non lo era affatto. Voglio sentire ancora quella sensazione».
«È troppo tardi».
«Non lo è. Non lo è fino a quando non lo decido io». Senza pensarci oltre si protese verso di lei e in un secondo la sua bocca fu contro quella della ragazza. Aprì le labbra per sentirla più a fondo e non si arrestò nemmeno quando l’altra rimase rigida sotto il suo tocco. Resistette ai tentativi di Daia di allontanarla e le bloccò le mani, stringendole i polsi e facendo forza per tenerla accanto a sé. Le passò la lingua sulle labbra, inclinando il viso per baciarla completamente e contro di lei sentì il corpo della mora farsi meno rigido, il respiro più affannoso, la pelle più calda. Allentò la stretta su di lei, ma Daia non ne approfittò per scappare via. Si aprì per lei, lasciandola entrare, e quel gesto segnò la sua resa. Lasciò cadere le mani lungo i fianchi e Theresa la tenne per la vita, le dita strette alla sua carne.
Si staccò per riprendere fiato, gli occhi di Daia incatenati ai suoi, la bocca umida, il viso rosso. La cercò di nuovo, questa volta con più urgenza, ma l’altra girò la testa per impedirglielo.
«Non ho finito con te» le bisbigliò Theresa contro lo zigomo.
Daianara sussultò. «Ma io sì» decretò, il respiro corto che lasciava la sua scia nell’aria fredda di quella sera. Si scrollò di dosso le sue mani, ma non riuscì a respingerla completamente.
Le dita della rossa si incrociarono ancora con le sue e quando le tastò la schiena le trascinò con sé. «Anche tu stai diventando poco credibile» le disse sulla bocca.
«E tu reagisci bene per considerarmi “solo un errore”» ribattè fieramente, ma la sua voce tradiva un’emozione che avrebbe preferito nasconderle.
«Oh, taci!» la zittì definitivamente, baciandole la fronte, il naso, imprigionandole le labbra senza più alcuna intenzione di staccarsene. Il profumo di Daia adesso era anche sul suo corpo ed il suo sapore anche sulla sua lingua.
Daianara si lasciò scappare un basso gemito quando Theresa la morse e si liberò le mani per poterla stringere, le dita tra i suoi capelli e sul suo collo.
«Vieni» le disse la rossa, trascinandola per il portico, facendole segno di rientrare, ma quando l’altra non si mosse aggiunse: «Fidati di me. Fidati di me ancora una volta. E se non sarà sufficiente allora faremo a modo tuo».
Richiuse la porta della camera da letto alle loro spalle, le tende tirate per coprire la luce, e vennero entrambe inghiottite dall’oscurità. Daia le si avvicinò, premendo il seno contro il suo, cuore contro cuore; quando Theresa le bisbigliò quanto la volesse, si avventò di nuovo sulle labbra. La bocca si schiuse come una rosa sotto la sua e ne percepì il gusto sul palato e allora ogni barlume di resistenza sarebbe stato superfluo e borioso. Si lasciò accarezzare il collo e Tess scese con le dita fino alla vita e giù per i fianchi. Insinuò una mano sotto il suo vestito e sentì la pelle bollente sui polpastrelli. Daia a quel tocco si lasciò travolgere da un brivido che la scosse tutta, obbligandola a stringersi a lei con ancora più necessità. Gemette sulla sua bocca sentendo che le toccava la carne con forza, ma la voce si perse e Theresa pensò di poter scomparire dentro di lei, nel suo corpo, nelle sue intenzioni, in qualunque modo.
«Aspetta…piano…» la implorò poi, mentre cercava di recuperare un goccio di lucidità in mezzo a tutto quel contatto. Il cuore le stava esplodendo nel petto e se non si fosse fermata in tempo non sarebbe più riuscita a controllarsi. Non con Daia, non con lo sguardo che aveva, non dopo tutto quel tempo.
La mora accennò un debole diniego, gli occhi infuocati ma ancora bagnati. «Non ti fermare, non ti fermare» ansimò, il respiro spezzato. Le portò una mano fra le ciocche, tenendole ferma la testa per baciarla più a fondo. Tess sentì che le divorava con i suoi baci famelici e per quanto la sua mente gridasse di rimanere obiettiva, il desiderio del suo corpo era troppo assordante per riuscire ad ignorarlo. Si abbandonò a lei con un sospiro sofferto e vibrante, quasi un ringhio, e intanto le dita le correvano sulla pelle come se temessero di vederla sparire da un momento all’altro.
Daianara le sbottonò la camicia con impazienza, scoprendole il seno. Ne assaporò con la lingua ogni centimetro e quando l’altra percepì sulla propria schiena le unghie che la graffiavano uno strano piacere la colse. Disperatamente ricambiò il suo bacio, stringendole il labbro inferiore fra i denti, mordendola fino a temere di averle fatto male, ma solo un debole assenso le arrivò alle orecchie.
Sprofondò con lei sul letto, strette in un abbraccio impossibile da spezzare. Daia si posizionò a cavalcioni sui suoi fianchi. Le toccò la pancia, il costato, il petto, le spalle. Intrecciò le dita alle sue, guidando le mani di Theresa sul suo corpo, lungo i seni, lo sterno, le cosce, fra le gambe. Trasalì e in un soffio disse: «Questo è l’effetto che mi fai».
A Theresa occorse tutta la risolutezza che possedeva per ritirarsi. «Dobbiamo fermarci».
«No, ti prego no…ti desidero».
«Oh, anche io, anche io! Ma non ora, non così».
«Non mi lasciare proprio adesso» affondò il viso nel suo seno «Fammi tua. So che lo vuoi».
«È così!» rispose decisa e con un colpo di reni la rovesciò dall’altra parte del materasso «Ma mi serve più tempo, più tempo per abituarmi all’idea di averti in questo modo».
Daia le circondò la vita con le cosce, risoluta. Le toccò il viso, la fronte, il naso, la bocca, il mento. Le morse le labbra fino a quando non sentì il sapore del sangue sulla lingua.
Theresa ritirò la testa di scatto, frastornata. «Ahia…» corrugò la fronte, confusa.
La mora inarcò la schiena sotto il suo peso e i loro petti tornarono a sfiorarsi. «Ti ho fatto male?» le chiese con noncuranza «Lo rifarei. Lo rifarei altre mille volte».
«No. No, c’è qualcosa che non va» biascicò, sgusciando fuori dal letto, inciampando sui suoi stessi piedi.
«E’ tutto come dovrebbe essere».
«Ho la testa che mi scoppia. Cos’è questo rimbombo?».
«Non ci pensare. Torna vicino a me».
«Non posso».
Gli occhi di Daia si fecero gelidi «Sì che puoi. Prendimi. Prendimi come hai fatto la prima volta».
«La prima volta?».
«Te lo ricordi, Tess? Quello che hai provato quando mi hai stretta?».
«Non so di cosa tu stia parlando. Devo uscire da qui, mi manca l’aria».
«Non puoi andare via».
«Non posso rimanere con te».
«Vieni qui».
«No!».
«Tu mi vuoi, mi hai sempre voluta».
«È sbagliato, è proibito, io non…».
«Non ti lascerò andare via questa volta».
«Non puoi obbligarmi a restare».
Una risata macabra rimbombò fra le pareti. «Oh, sì che posso! Sei come un uccellino in gabbia, Tess. E io ti tratterò bene. Sei il mio piccolo amore. Devi fidarti di me, non hai scelta».
«C’è sempre una scelta».
«Non per te».
Non crederle, non crederle!
Theresa si lanciò verso la porta, coprendo la distanza che la separava dall’uscita con quattro balzi appena. A tentoni cercò la maniglia di ottone e la abbassò con trepidazione, sgusciando fuori dalla camera e richiudendola subito dietro di sè. Il corridoio era vuoto e freddo.
Tremante, si accasciò fino a toccare terra, dietro di lei la risata di Daia che l’inseguiva, trafiggendole il cervello e riempiendola di paura. Attraverso le vetrate la luna sembrava più pallida ed eterea.
Da quell’incubo Theresa non sarebbe più riuscita a svegliarsi.
Ascolta la mia voce…
Tre colpi alla porta la fecero sobbalzare. Si alzò di scatto, premendo con tutta la forza che aveva per impedire a qualunque cosa fosse albergato in quella stanza di uscire e raggiungerla.
«Non puoi scappare da me, Tess» le venne detto da una voce che ricordava solo lontanamente quella della sua amica. Sotto le sue dita il marmo iniziò a tremare e si crepò come costretto dalla forza di un terremoto, ma tutto era fermo e pesante.
Canterai ancora una volta per me prima di allontanarti. Salirai sempre più in alto per ricordarti la mia voce.
Contò fino a tre e si catapultò lungo il corridoio senza guardarsi indietro. Ma non aveva bisogno di controllare per essere certa che Daia la stesse inseguendo, perché riusciva a percepire il suo sguardo sulla schiena e sembrava che dietro di lei un grande freddo la stesse per raggiungere.
Svoltò l’angolo, sbattè contro il corrimano.
Incespicò sugli scalini troppo piccoli e alla sua destra una voce calda le indicò la via. Non era certa che seguendola si sarebbe salvata, ma se non le avesse dato retta l’oscurità l’avrebbe inghiottita, imprigionandola in quel Palazzo improvvisamente deserto.
Non dovrà sapere nulla, mai. Lascia che dimentichi, lascia che viva.
Dovremo trovarti un nome, ora che fai parte della nostra famiglia.
Perché vuoi lasciarmi da sola? È davvero questa la libertà che stai cercando?
Spalancò il portone del Salone degli Stemmi, ne attraversò la navata sforzandosi di correre in linea retta. Dietro l’arazzo di Tanaro una voce rise. «Non puoi scappare da te stessa, amore mio».
Non crederle, non crederle…
Theresa spiccò un salto, il più lungo che le riuscì, e continuò a correre, il gelo ormai alle caviglie.
Potrai anche piangere con lei, ma la legge non cambierà solo perché tu l’hai trasgredita!
Papà non lasciare che la portino via, non lasciarglielo fare!
Devi proteggerci dai ricaduti, non si possono controllare!
«Non puoi cercare una verità che non esiste».
Un alito freddo le soffiò sul collo e costrinse le gambe a muoversi più velocemente. Inciampò sulla scalinata maggiore e rovinò a terra, la spalla dolorante. Davanti a lei un fruscio di gonne e una mano tesa. «Smettila di scappare…».
Se davvero mi conosci, saprai distinguermi…
«No!» urlò ad un’ombra senza volto, rimettendosi in piedi sulle ginocchia paralizzate dalla paura.
«Se davvero avessi voluto fuggire, l’avresti fatto molto tempo fa. È questa la tua casa ormai, Tess. È la gabbia in cui ti sei rinchiusa, la prigione in cui ti sei rifugiata. Tu vuoi rimanere. Rimanere farà meno male».
Domani sarò qui a cantarti queste ultime parole: per te troverò sempre un’ultima canzone.
È pericolosa! Nostra figlia non è al sicuro!
E’ soltanto spaventata, diamole una possibilità.
Le gambe di Theresa la portarono lontano, le voci la trasportarono nella giusta direzione. Acqua, alberi, una fontana, delle donne. Statue, statue in circolo, le stelle oscurate e nessuna lucciola.
Davanti a lei si aprì la radura delle fate, ma nessun sbarramento ne impediva l’entrata questa volta. Le driadi erano ora piegate in pose raccapriccianti, gli occhi del fauno erano malevoli e l’edera rampicante oscurava la vista degli edifici.
Solo nell’istante in cui si arrestò Tess si accorse della pelle lucida di sudore, del respiro irregolare e pesante, della quantità di saliva nella bocca e del sapore metallico sulla lingua. Ad Ennon era quello il sapore della paura.
Una driade davanti a lei si mosse, ma non era più una statua e Daianara si portò una mano alla bocca, provando a trattenere un riso. Il corpo era più slanciato, i capelli più lunghi e selvaggi, gli occhi taglienti e il viso scavato.
La rossa indietreggiò, ma nessun sussurro le rimbombò nelle orecchie, nessuna voce le venne in soccorso.
«Oh, Tess…» la chiamò con voce subdola e l’acqua nella fontana tornò a scorrere, riempiendo la vasca e traboccando «Non troverai nulla fuori di qua. Dove vorresti andare?» spalancò le braccia «Hai tutto quello che hai sempre desiderato. Fermati».
«No».
«Perché vuoi rovinarci in questa maniera, senza alcuno scrupolo? Sono qui per te».
«Non so chi tu sia».
Sorrise e delle fossette le bucarono le guance magre «Sono io» disse semplicemente «Quando chiudi gli occhi le somiglio davvero, dico bene? Stessa voce, stesso sguardo, stesso tocco…forse troppo accondiscendente, ma mi hai ricordata così» divenne improvvisamente seria «Non te ne saresti mai accorta, se ti fossi semplicemente accontentata della felicità che avevi. Un sogno è tale solo per chi è sveglio, ma per quelli che dormono? Per loro è la realtà. Che differenza vuoi che faccia, Tess?».
«Io non mi accontento delle mezze verità» digrignò i denti come un cane messo alle strette. Le diede le spalle ma, quando si voltò, Daia era ancora davanti a lei, e anche dietro, in basso, a destra, a sinistra.
Le sopracciglia della mora si corrugarono. «Credi ti saresti ritrovata qui se questo non fosse stato il tuo desiderio più grande? Degli amici, una famiglia, un futuro. Me. E una libertà che non ti spetta. Nessuno ti ha obbligata, amore mio».
«Smettila di chiamarmi così!».
«Detesto quando fai resistenza, non riesco a capire quello che vuoi».
«Voglio che esci dalla mia testa!».
«In verità sei tu che dovresti uscire dalla mia…» le bloccò le braccia e sotto la sua presa Tess si inarcò, perché la stringeva così forte da conficcarle le unghie nella carne.
«Lasciami!».
«Sei soltanto una stupida. Era la nostra unica occasione e tu l’hai gettata via. Ma possiamo ancora rimediare, possiamo ancora rimanere insieme. Torniamo dentro. Andiamo a dormire, lasciamoci tutto alle spalle e…».
La rossa le sputò in faccia.
Negli occhi della donna le iridi sparirono, inghiottite da pupille nere, prive di vita. Daianara la afferrò per i capelli, tirandole la coda, trascinandola fino alla fontana, costringendola ad inginocchiarsi. L’acqua fredda e lucida le bagnò le gambe, le ginocchia, il ventre.
«E’ questo quello che vuoi?!» le urlò nell’orecchio prima di immergerle la testa nell’acqua e continuò a gridare, ma Tess non era più in grado di sentirla. Udiva solo un lento scorrere di parole attutite, vedeva il fondo della vasca marmorea e il muschio nero lungo le pareti.
Daianara le strattonò ancora i capelli rossi, permettendole di respirare. «Perché vuoi soffrire in questo modo? Non ti rendi conto, non sai quello che ti aspetta. Non potrai più tornare!». Le schiacciò la nuca dentro la fontana un’altra volta, con così tanta foga che la ragazza battè la fronte sul fondo. Boccheggiò e le bolle raggiunsero la superficie.
Si dimenò come un’ossessa, cercando ossigeno, costringendosi a tenere chiusa la bocca per non annegare. L’aria nel petto si esaurì, il cuore esplose e Theresa schiuse le labbra quando il suo corpo annaspò per respirare.
Credette di essere spacciata, di aver perso la sua battaglia. Il suo cuore si fermò per un lungo istante.
E poi tornò a pulsare sotto la sua pelle.
L’aria le riempì il petto, ogni singola goccia d’acqua si ritirò nel vuoto, risucchiata nel vortice in cui stava precipitando. Spalancò gli occhi e si tirò su di scatto, sopra di lei un soffitto bianco e tutto intorno la luce del mezzogiorno che filtrava dalle vetrate. Si portò istintivamente una mano alla bocca e tossì, tossì, fino a espellere l’acqua che era convinta di aver ingurgitato, ma sputò solo saliva.
La pelle, i vestiti, i capelli erano asciutti. Delle calde coperte trapuntate la coprivano fino alla vita; le lenzuola erano candide e profumate e così reali da disturbarle il tocco. In grembo, a pesarle sul ventre come una roccia, lo specchio di Kalendor. Opaco, tetro, laido e impolverato, con le sue volute e i suoi inserti in ottone sbiadito. E tutte le conseguenze di un cimelio che sarebbe dovuto rimanere nascosto.
Theresa si rese conto di star balbettando qualcosa, ma le sue parole erano sconnesse e le orecchie si rifiutavano di udirle. Con dita tremanti sollevò il massiccio manufatto e si specchiò. Il riflesso le restituì l’immagine di una ragazza perfetta: la pelle liscia, gli occhi lucidi, i capelli curati. Nulla di quello che si sarebbe aspettata di vedere, anche se già il fatto che riuscisse a vedervi qualcosa la sconvolse. Si sentiva i capelli sporchi e appiccicosi, la pelle accaldata, le occhiaie, le orbite scavate, la bocca rovinata. Si sentiva devastata, rotta, provata. Eppure, non era quello che vedeva.
Tutti i ricordi tornarono a galla come un cadavere rigonfio.
«Tess…». Quella voce fu sufficiente a riscuoterla.
Sollevò lo sguardo e al suo capezzale, seduta al fondo del letto che dominava la stanza, Daianara la osservava. L’espressione era preoccupata, la fronte corrugata, ogni tratto del suo corpo in tensione.
Ma Theresa di lei non ebbe più timore, nonostante le fosse così vicina. E d’altronde come avrebbe potuto? Ora era tutto così lucidamente, schifosamente e maledettamente chiaro.
La ragazza cercò con gli occhi il sostegno di Ophelia, seduta stancamente su uno scranno all’angolo della camera, e vicino a lei, in un atteggiamento indecifrabile, il suo totem e Raven.
Tutti qui, pensò Theresa, a godersi lo spettacolo. Si coprì il viso con entrambe le mani e una risata le uscì dalla bocca senza che lei riuscisse – o volesse – trattenerla.
«Tess…» la chiamò nuovamente Daia e allungò le dita verso di lei, ma qualcosa la trattenne dal sfiorarla.
La rossa rise più forte. «Io mi fidavo di te» sussurrò poi «Io mi fidavo di voi. Di ognuno di voi».
«Theresa, ti prego, io non…».
«Ti sei presa qualsiasi cosa» continuò mordendosi le labbra «Dovevi essere tu. Fra tutti quelli che avrebbero potuto farmi una cosa simile…proprio tu». Si strinse le mani nelle mani, abbassò lo sguardo, ne scrutò i palmi, il dorso, le nocche, le vene. Vene vuote, fredde, dure, finte. Tutto una tremenda finzione. Ma erano forti, così forti da non poter essere scalfite. Chiuse le dita e le riaprì, due, tre volte. Rise di nuovo, le spalle si scossero, la mente si svuotò, lo stomaco si contorse, la bocca si piegò in una smorfia. Quando parlò stentò a riconoscere la sua stessa voce. «Fatti più vicina».
Daia rabbrividì.
L’altra le tese la mano e lei la afferrò, anche se titubante. Tess la tirò a sé con violenza e quasi Daianara non cadde sul materasso, accanto a lei. Con la coda dell’occhio vide il totem del Ministro di Kalendor, Levi, farsi più teso e guardingo, pronto a scattare.
Rimase immobile mentre la rossa le sondava duramente il viso, senza delicatezza, una mano fra i suoi capelli, gli occhi tetri, la mascella serrata.
Theresa respirò pesantemente e il suo seno si alzò e si abbassò lentamente. Avvicinò le labbra al viso della ragazza, ripercorrendo il profilo della sua guancia.
«Daianara…» le sussurrò piano all’orecchio, in modo che solo lei potesse sentirla e il suo tono si era fatto euforico, folle «Giuro che ti uccido. Giuro che ti uccido e questa volta nessuno, nessuno, verrà a salvarti».
Fu un secondo e in un attimo Theresa le si scaraventò addosso, premendola contro le spesse coperte del letto. Le dita le si chiusero intorno al collo, serrandole la gola, stringendo e stringendo. Gli occhi spalancati, Daia si affannava per liberarsi.
«Non lo dovevi fare!» ringhiò ancora, a pochi centimetri dal suo viso «Me l’avevi promesso!».
Ophelia lanciò un ordine e Levi strinse le lunghe braccia intorno al corpo di Theresa, imprigionandola, ma fino a quando le fu possibile la ragazza non lasciò la presa su Daia.
La rossa scalciò e si dimenò. «Ti uccido!» continuò, sbraitando e sputando come un mastino «Mi hai tradita, mi hai tradita!».
 

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Capitolo 17
*** La verità nella menzogna ***


Capitolo 15
 
♦ La verità nella menzogna ♦
 
Salirai sempre più in alto per ricordarti la mia voce.
Ascolta la mia ultima canzone e prova ad amarmi.
Domani sarò qui a cantarti queste ultime parole:

per te troverò sempre un’ultima canzone”
 
 
Tutto intorno a lei era freddo e buio. L’umidità le penetrava nelle narici, le scorreva in corpo, le appesantiva gli abiti logori, lerci, impolverati, stracciati in ogni laccio e cucitura.
In mezzo al nulla che la circondava, nel vuoto in cui si era ritrovata, senza sapere né quando né perché, il rumore delle gocce che cadevano dal soffitto, infrangendosi sul pavimento, era assordante. Un fragoroso e insostenibile tic-tic. E quel tic-tic le stava scavando il cervello con il suo rimbombo, ne prevedeva il suono talmente era distinto e regolare.
Si sentiva inerme, amorfa, apatica. Nessuna immagine nella sua mente, nessun pensiero, nessuna domanda. Un limbo senza inizio e senza fine.
Solo tic-tic.
Tic-tic e il pavimento bagnato su cui era inginocchiata, la testa bassa, i capelli lunghi che le coprivano il viso, le braccia strette intorno allo sterno.
Perché si trovava in quella posizione? Perché non riusciva a muoversi? E, soprattutto, perché non sentiva il bisogno di farlo?
Tic-tic e un rumore di passi davanti a lei, un suono di abiti che strusciavano lungo il corridoio, una fiaccola che con la sua luce opaca iniziava a rischiarare l’ambiente in cui si trovava, o in cui qualcuno l’aveva messa.
Ma non importava. Nulla importava a parte quel lento ed estenuante gocciolio e quell’odore di chiuso e di muffa. Una segreta, o una cantina, o una prigione.
Nel suo campo visivo c’erano solo le sue cosce, piegate e scoperte, le mattonelle grigie del pavimento, le fughe bianche, due scarpette placcate di azzurro.
«Papà! Papà guarda!» qualcuno urlava, una voce acuta, eccitata, allegra. Le scarpette si mossero avanti e indietro, come in un cerchio. «Papà, papà, si muove! Guarda, si muove!».
«Sì, Daia, lo vedo». Una voce profonda, baritonale, calda e morbida in quello spazio invece cupo e insulso.
«E’ così bella…».
«Sì, lo è davvero» rispose con fare accondiscendente «E’ una bella bambina».
«Ma non è una bambina, papà!».
«Ah, no?». Un sorriso.
«No! E’ una bambina grande!».
«Hai ragione, è una bambina grande».
«L’abbiamo salvata? Ora sta bene?».
Un lungo silenzio. «Perché non glielo chiedi tu, Daianara?».
«Posso?».
«Certo. È la tua bambola».
«Oh! Tutta mia?».
«Quando le darai il tuo primo ordine, sì. Coraggio, fatti più vicina».
«Mhmh…».
«Avanti. Hai forse paura?».
In un angolo la stessa goccia, o forse era una nuova, cadeva nel vuoto e si consumava a terra. Un ticchettio più pronunciato, le scarpette blu sempre più vicine.
«Alzati!».
Chiaro, fermo, scandito, incontrovertibile.
Fu come se qualcuno le avesse dato un pugno alla bocca dello stomaco. Un profondo senso di gelo la invase completamente, gli arti si mossero tremando senza che lei riuscisse ad impedirlo, la vista si oscurò per un secondo che sembrò infinito e quando i contorni delle cose tornarono a farsi nitidi, non si sentiva più nemmeno sé stessa. Qualcuno tirava i fili del suo corpo, ogni tendine, nervo, muscolo le doleva, la sforzava, la affaticava, ma a nulla serviva fare resistenza. Sarebbe stato più semplice lasciarsi andare, molto più semplice guardarsi da fuori e attendere che il suo corpo facesse quanto le era stato ordinato, molto più salutare non provare quel dolore, quella voglia di aprire la bocca e urlare, quella voglia di trattenersi mentre fletteva le ginocchia per alzarsi. Tutto più semplice se la sua testa e la sua carne fossero tornati ad essere una cosa sola.
Qualcuno battè le mani. «Guarda papà, guarda! Si muove».
Perché essere felici del suo dolore?
«Adesso è tua, bambina».
Stavano parlando di lei? Perché, perché avrebbe dovuto appartenere a qualcun altro, a parte sé stessa?
«Vieni qua!».
Un’altra sofferenza. Altro dolore che la lambiva mentre vedeva il piede sinistro muoversi senza che lei lo desiderasse.
Perché? Perché avrebbe dovuto farlo?
Una voce urlò. Era roca, incompresa, intermittente, vibrante, straziante. Era la sua voce? Era quella la sua voce? Non la riconosceva.
«Ministro…».
«Papà, cosa sta facendo?».
«Zane…» un’altra voce maschile.
«Aspettate. Aspettate, diamole tempo. Daia…».
«Che cosa succede?».
Sorpresa.
«Parlale ancora, piccola. Continua a parlarle».
«Ma io veramente…».
Paura.
«Daia ascoltami, è importante. Dalle un altro ordine».
«Vieni qua!».
Incertezza.
…tutto molto più semplice se si fosse lasciata trasportare da quelle parole.
Semplice, ma non giusto.
«Ho detto vieni qua!».
«Ministro?».
«Papà, perché non mi ascolta? È rotta?».
Silenzio. Un sospiro profondo e quell’inesorabile tic-tic.
«Sì bambina mia. Temo di sì».
Rimpianto.
«Oh…». Come era possibile che una voce così innocente potesse darle tanto dolore? «Allora posso aggiustarla, posso aiutarla a stare meglio».
«No Daia, non puoi. Sbarazzatevi di lei».
Passi pesanti calpestarono le piastrelle. Due, quattro, sei mani le afferrarono la vita, le braccia, i fianchi. Percepiva la loro morbidezza e il loro calore sulla pelle. Perché la sua carne era invece così fredda e dura?
«Papà, cosa vogliono fare?»
«Mi dispiace tanto. Ci abbiamo provato». Una carezza mancata.
«Però…».
«Non guardare Daianara, girati. Donovan, porta via tua nipote».
«Zane, io non credo che questo sia…».
«Fa’ come ti ho detto. Non possiamo permetterci di tenerla con noi».
«L’hai portata tu qui».
«Credevo di poterla salvare».
«Papà, dove la stanno portando?».
«Donovan, prendi Daia».
«No, no!».
«Daia, smettila».
«Papà non lasciare che la portino via, non lasciarglielo fare!».
«Donovan, accidenti, non restartene lì impalato come un ronzino!».
«Mi dispiace Daia, non possiamo fare altrimenti».
«No, zio no!».
«Portate la legna, preparate il fuoco. La fornace deve essere calda».
«No!». Un pianto, una corsa, aria che si muove e nel suo campo visivo di nuovo quelle scarpette blu.
«Daianara, torna immediatamente qui!».
«Lasciatela stare! Non potete farle del male, non potete!».
La presa su di lei si fece più delicata, sempre più delicata, fino ad arrivare ad essere inesistente. Senza nessun sostegno si sentì cadere, ma qualcuno la reggeva ancora. Delle piccole dita, più calde di quelle precedenti, la tennero per le spalle. Una mano le accarezzò il collo, salì sulla guancia, le spostò i capelli rossi dietro l’orecchio. Ora vedeva.
Si sentì abbracciare e milioni di catene d’acciaio le si strinsero intorno al cuore. Ma ce l’aveva davvero un cuore? Non lo sentiva battere. Perché il suo cuore non batteva? Eppure dentro al petto si mosse qualcosa. Odio e amore, gratitudine e disprezzo, soggezione e sicurezza. Era davvero possibile sentirsi così legati ad una sconosciuta e al tempo stesso detestarla? Era possibile desiderare il suo bene e al tempo stesso volerle male?
Perché?
Chi era quella bambina?
…e lei chi era?
«Nessuno ti farà male» un sussurro nel suo orecchio «Ci penso io a proteggerti».
«Daianara spostati».
Si sentì stringere di più.
«No!».
«Spostati!».
«No! Sei cattivo! Vai via, vai via, non la toccare!».
«Zane, aspetta… dalle un momento».
«Quante possibilità c’erano che proprio lei fosse una ricaduta?».
«Non puoi tornare indietro adesso, fratello. Guardala».
«Non può restare».
«Avresti davvero il coraggio di fare una cosa simile? A lei? A Daia?».
«Ma la legge è…».
«La legge può essere riscritta, ma se adesso la uccidi…» lasciò la frase a metà «Pensa bene a quello che hai intenzione di fare: non è facile convivere con una decisione simile».
«Non ho altra scelta, Donovan!».
«C’è sempre una scelta. Un pezzo di carta non può valere davvero l’amore e il rispetto di tua figlia».
«Con quale coraggio posso fare quello che mi chiedi, sapendo che Kasimir mi aveva implorato di fare la stessa cosa per sua moglie ed io non l’ho ascoltato?».
«Forse questa è l’occasione che il destino ti ha fornito per rimediare ai tuoi errori».
Silenzio.
Sulla guancia sentì la morbidezza di un bacio, i piedi fasciati da scarpette blu che si issavano sulle punte per poterla raggiungere. «Rimarrai con me, te lo prometto. Rimarrai con me, anche a costo di nasconderti al resto del mondo».
 
♦♦♦

Era nata in uno dei tanti villaggi rurali che occupavano il rione di Tanaro lungo i confini a nord-ovest, lontano dalle sorgenti e dalle falde, dai laghi e dalle città. Intorno alla sua casa c’erano solo distese e distese di vivaci e colorate spighe di grano e lei si era sempre divertita a rubarle di nascosto insieme a suo fratello, nonostante i rimproveri della madre e la cinghia del padre. Un fiume artificiale irrigava la terra e giungeva sino ad Ennon, fornendo acqua ai contadini e nutrimento alle piante.
«Zelda!» la chiamava sua madre quando arrivava l’ora di ammassare le spighe insieme agli agricoltori, a mezzogiorno e al tramonto. Ma nuotare nel fiume era più divertente, giocare alla guerra lo era ancora di più e riuscire a sconfiggere i ragazzi più grandi non aveva prezzo.
«Diventerò Maestro di Palazzo!» urlava ai quattro venti e a tutti quelli che ancora la ascoltavano «Governerò sui Rioni e su tutti voi. E vi obbligherò a rispettarmi e ad onorarmi e a portarmi tutto il cibo che desidero».
«Guarda che noi non siamo totem» puntualizzava sempre suo fratello.
«Stai zitto, Zachary!».
«E te ne servirà uno per vincere il Torneo. Dove hai intenzione di prenderlo?» le chiedevano i compagni.
«Da qualche parte!».
«E come lo pagherai?».
«Troverò un modo».
«Non sarebbe ora di tornare con i piedi per terra?».
«Siete solo invidiosi perché vi siete fatti battere da una femmina».
«Se sei una femmina allora perché non posi quel bastone e ti metti a fare figli?».
«Ci ha già pensato tua madre e guarda che bel risultato».
«Hey!».
«Che poi, esattamente, perché le bambole sono tanto diverse da noi? Insomma, come ci sono diventate così?».
Zelda sbuffava. «Sono nati così, lo sanno tutti! Quanto siete stupidi…».
Aveva avuto dei progetti, aveva avuto dei sogni. Aveva avuto una famiglia, degli amici, delle infatuazioni, dei desideri, delle paure, delle passioni. Aveva vissuto tutti i suoi anni con vitalità, allegria, spensieratezza, forza, caparbietà.
Eppure non era bastato.
Non avrebbe mai immaginato che qualcosa potesse andare così storto, che qualcuno le potesse rubare quanto aveva costruito, quanto era suo. Ma suo padre si era indebitato al punto che neanche tutto l’argento di Tanaro sarebbe riuscito ad accontentare gli strozzini. Ma una vendetta sì. Una vendetta avrebbe potuto pareggiare i conti.
L’ultima cosa che ricordava era il suo rientro a casa e la corsa attraverso i campi che il sole calante colorava con il rosso e l’arancio. Sua madre l’aspettava davanti alla soglia, le braccia conserte, bonariamente arrabbiata per il suo consueto ritardo. Zachary alla finestra la prendeva in giro per la sua lentezza e lei rispondeva con delle linguacce, le più brutte che sapeva fare.
Poi il sorriso di sua madre era sparito, le braccia le erano scivolate inermi lungo i fianchi, gli occhi si erano riempiti di paura. Aveva mosso dei passi nella sua direzione, la mano alzata, la voce distorta. «Zelda!» le urlava, ma lei non capiva il perché «Zelda, attenta! No! NO!».
Dopo era stato solo buio. Una lama conficcata nella schiena, una sofferenza alle reni, l’incapacità di rimanere in piedi. Arrivò prima la sorpresa, poi il dolore, la vertigine, le spighe che si piegavano sotto il suo peso, la vita che le scivolava dal corpo e nient’altro.
Ora, oltre la porta della cella, quella bambina le parlava, le parlava, le parlava e non la smetteva più.
Che strazio.
«Tutte le bambine di Ennon hanno un cavallo, sai? Anche io avrei potuto avere un cavallo. Una puledra. L’avrei chiamata Altea» una pausa «Però…io ho scelto te. Non ti sei offesa, vero?». Salì sullo sgabello che si era fatta portare, in maniera tale da poterla vedere attraverso la fessura più alta «Hai i capelli rossi. Mi piacciono i capelli rossi. Non se ne vedono molte qui, come te.  O almeno non credo, non lo so, non esco spesso. Io…» deglutì «Io non ho molti amici. Però ora ho te e tu hai me. Ci vogliamo bene. Dovremo trovarti un nome, ora che fai parte della nostra famiglia. Che ne dici di Fiamma? O Hermintouse? Non ti piace Deandra? No?».
Solo silenzio. Non era viva e non era morta. Sarebbe finita così? Immobile fra quelle quattro pareti spoglie? Non poteva percepire il freddo, ma lo sentiva; non poteva percepire la fame, ma la sentiva; non poteva percepire la stanchezza, l’affanno, il prurito, la sete, ma li sentiva.
Non era altro che una donna a metà.
E quella bambina ce l’aveva dentro, la sua voce le scavava nell’animo. Tutti i ricordi iniziavano a confondersi, a sbiadire, a sovrapporsi, sostituiti in blocco dalla sua piccola figura. Qualcuno le aveva legate, unite, assemblate, ma questo, lei, non l’aveva chiesto e ancora meno l’aveva voluto.
«Mhmh…» continuò Daianara, provando ad instaurare qualche tipo di relazione «Tessa ti piace? Theresa? Tess? Potrebbe piacerti? Non importa, secondo me ti sta bene. Tanto decido io».
Lei aveva alzato gli occhi incrociando il suo sguardo. Non avrebbe saputo dire quale fosse la sua espressione in quel momento, dopo quelle parole. Ma evidentemente era stata più che esaustiva, perché Daia quasi non cadde dallo sgabello. «Però se non ti piace lo possiamo cambiare…».
Così andava meglio.
«Io non voglio che tu resti chiusa qui. Vorrei poterti far uscire, ma non ho la chiave. Papà dice che non è sicuro starti vicina, anche se mamma non è d’accordo. Io credo alla mia mamma. È buona, sono sicura ti piacerebbe. Non ce l’hai con me per questo, vero? Non è colpa mia» tamburellò con le dita contro la porta «Io posso tenerti compagnia. Non voglio lasciarti sola, non si sta bene da soli…io lo so» abbassò lo sguardo «Non è divertente. Ma non ti devi preoccupare di questo».
Tirò un sospiro, più per abitudine che per necessità. Non sentiva aria gonfiarle i polmoni, o sangue scorrerle nelle vene. Era un involucro vuoto. Come aveva fatto a ridursi così? Chi si era preso la briga di decidere per lei?
«Puoi rispondermi, per favore?» le chiese Daia, rimanendo però delusa. «Non capisco quello che vuoi, se rimani in silenzio. Posso cantarti una canzone. A me la canta sempre la mia balia prima di addormentarmi. Se vuoi te la posso insegnare e la possiamo cantare insieme. Che ne dici?».
Tic-tic. Ancora quell’estenuante gocciolio che non la voleva lasciare in pace.
La bambina si stropicciò gli occhi rossi e con voce incerta disse: «Allora…allora posso insegnartela un’altra volta» sussurrò prima di andarsene.
 
♦♦♦

«Tess? Tess, guarda!».
Si riscosse.
Oltre la porta Daia agitava un mazzo di pesanti chiavi intarsiate.
«Guarda cosa ho preso! Tu…tu sai come si usano? No? Non importa, lasciami provare. Ecco…forse è questa…mhmh no. Forse è quest’altra. Ah, ecco!».
La serratura si aprì con un suono sinistro che rimbombò fra le pareti della sua cella e lungo il corridoio. Le torce gettavano ombre lunghe su tutte le pietre e le mattonelle.
Daianara aprì la pesante porta, spingendola con entrambe le mani e mettendoci tutta la forza di cui era capace.
Ora che la guardava meglio poteva notare gli occhi grandi e umidi, il naso piccolo, le labbra screpolate, i riccioli castani disordinati.
«Tess, vieni» le tese la mano, continuando a rimanerle a distanza. «Non vuoi uscire? Possiamo giocare. Posso farti conoscere la mia mamma. Non ti va? Fa freddo qua sotto…» si guardò intorno «E mi fa paura. Lo zio dice che ci sono i mostri». Rimase immobile. «Però…» si sforzò di sorridere «Però se preferisci rimanere qui, allora per me va bene. Almeno per un po’». Lasciò il mazzo di chiavi attaccato all’entrata e le diede le spalle per richiuderla, facendo attenzione a non fare troppo rumore.
«…Non dirlo a nessuno che sono qui, va bene? Papà si arrabbierebbe molto e non riuscirei più a venire a trovarti. Sarà il nostro piccolo segreto. Tess…» sospirò «Tess, parlami». Si stropicciò la gonna «Non vuoi essere mia amica? Io ho tanti giochi, posso dartene qualcuno…». Iniziò ad innervosirsi. «Ti sto parlando!».
Nessuna risposta.
«Non te l’hanno insegnata l’educazione?».
Tic-tic.
Perché qualcuno non le forniva le risposte che le servivano, prima che si dimenticasse anche le domande che doveva fare?
La bambina espirò rumorosamente e alzando il mento per guardarla, assumendo un’aria di sfida, disse: «Ti ordino di rispondermi».
Fu un lampo.
I suoi arti si contrassero, la mente si annebbiò. Un macigno le riempì il petto, sconquassandola dall’interno. Avrebbe fatto qualsiasi cosa, qualsiasi cosa, per non sentire più quel dolore, quell’impotenza, quel gelo.
Prima che se ne potesse rendere conto si era allontanata dall’angolo contro cui era rimasta immobile fino a quel momento. Si era avvicinata a Daia, la gola in fiamme. Nel cervello il rimbombo del comando che la spingeva ad obbedire.
Ma non voleva farlo.
Theresa le si inginocchiò di fronte, gli occhi persi, l’espressione laconica. Le posò una mano sulle spalle: anche così, era più alta di lei.
«Tu…non puoi…darmi…ordini» le sussurrò e ogni parola era come un ago nella sua bocca. Prima che Daianara potesse risponderle, la afferrò per il collo, chiudendo le dita intorno alla sua gola e stringendo. Era così esile da riuscire a completare un giro e a sfiorarsi con le unghie delle mani.
«Tess, mi fai male! Mi fai male! Mi fai…».
Era strano come sentisse piacere e dolore nel vedere la sofferenza dipingersi sul suo volto. Riusciva a percepire ogni sua emozione. Per lei voleva solo il bene, senza saperne spiegare il motivo, ma avrebbe anche desiderato vederla morta.
«Tess!».
«Non puoi…darmi ordini» ripetè, anche se tutto quello che stava facendo andava contro ogni sua pulsione. Una parte di lei la spingeva a continuare, a portare a termine quello che aveva iniziato, a liberarsi di quella sconosciuta una volta per tutte; l’altra parte la implorava di fermarsi e abbracciarla per tenerla al caldo e al sicuro, per allontanare tutte le paure e vederla gioire.  
Gli occhi della bambina si spalancarono, lacrime copiose le sfuggirono lungo il viso, cadendo sul suo collo e sulle sue dita.
E se Theresa avesse potuto piangere con lei, l’avrebbe fatto.
Le guardie accorsero tutte insieme, le lance puntate, gli occhi sgranati. Le aprirono le mani a forza, torcendole le dita, quelle stesse dita che avevano lasciato sul collo di Daia i segni evidenti della sua rabbia. Uno dei suoi carcerieri le incatenò polsi e caviglie al gancio della cella, mentre un altro portava lontano il corpo immobile della bambina.
Non la vide per giorni, o forse furono settimane, mesi. Sprofondò nella più atroce delle agonie al pensiero di aver commesso un abominio, all’idea di averle strappato la vita di dosso, e benchè ormai si fosse rassegnata all’idea di averla davvero uccisa, qualcosa le suggeriva che – se davvero così fosse stato – allora non si sarebbe più dovuta sentire legata a Daianara da un sentimento così soffocante.
Passò quella che le sembrò una vita nel più assoluto e rigoroso silenzio, nella più grigia solitudine e nella sporcizia. Non c’era modo di vedere il cielo, di misurare il tempo trascorso se non dal ferro delle cinghie che si arrugginiva. E il fabbro dovette sostituire le catene due volte prima che a Theresa fosse concesso di uscire alla luce.
La mancanza di Daia si trasformò presto in malattia e la malattia in ossessione e l’ossessione in depressione. Più e più volte Tess tentò di porre la parola fine a quella sua schiavitù, ma per quanto si sforzasse di stringersi il ferro intorno al collo, la morte non sembrava intenzionata a farle visita.
Poi la sentì, fuori dalla cella. Una nenia dalle parole non sempre ben scandite, ma che riusciva ugualmente ad alleviarle il dolore, a regalarle pochi minuti di pace, e se di pace non si trattava, quantomeno di tranquillità.
«”Canterò ancora una volta per te, prima di allontanarmi. Salirò sempre più in alto per farti sentire la mia voce. Domani sarò qui a cantarti queste ultime parole: un’ultima canzone è tutto quello che ho da darti”».
Seduta a terra, nascosta alla sua vista, Daia la andava a trovare ogniqualvolta le fosse possibile. Non la salutava, non aveva il coraggio di parlarle, ma cantava, cantava per lei, e la sua voce rimbombava nelle segrete e sembrava in grado di sciogliere il gelo che Theresa sentiva dentro. A volte recitava bisbigliando, altre si concedeva di cantare più forte; ogni tanto riusciva a rimanere con lei abbastanza a lungo da diventare rauca, più spesso suo padre la scopriva e le impediva di tornare.
«Nostra figlia ha rischiato di morire! Apri gli occhi Isolde, usa la ragione!». Sentì discutere una volta e la speranza che fosse arrivata Daia si trasformò presto in delusione.
«Non le avrebbe mai fatto del male».
«Non lo puoi sapere!».
«Invece lo so».
«Lei non è Roan!».
«E per te questo sarebbe un motivo più che sufficiente per mandarla al rogo».
«Metteresti davvero in pericolo una bambina solo per avere la coscienza pulita? Esci dal passato Isolde! Non possiamo fidarci di questa ragazza, è imprevedibile, è pericolosa!».
«É solo spaventata, diamole una possibilità».
«Una possibilità potrebbe costare cara a me, a te, a Daia e ad Ennon».
«Lo fai per tenere al sicuro la tua famiglia o per non comprometterti la carriera?».
«Che cosa ci sarebbe di così sbagliato nel voler difendere entrambe le cose?».
«Nulla. Ma l’uomo che ho sposato non avrebbe barattato nessuna delle due per un giudizio così avventato».
«Se scoprissero chi è sarebbe la nostra fine e di certo anche la sua. Ma non lo capisci? Non c’è nulla che il Consiglio temi più dei Ricaduti. L’esilio di Kalendor è appena scaduto, Morèa minaccia di rendere pubblica la verità, Tanaro è in costante assetto di guerra e tu mi chiedi di dare asilo ad una…una…».
«Ti sto chiedendo di salvare una ragazza, Zane. Lascia che le parli. Mettiti nei suoi panni per l’amor del cielo: è terrorizzata! Non puoi pretendere di addomesticare un animale tenendolo chiuso in una gabbia».
«Fa’ come credi, donna. Te ne assumerei le responsabilità e i meriti, se mai ce ne saranno».
Quando Isolde andò a farle visita per la prima volta, tutte le attenzioni di Theresa erano concentrate sulla bambina che le si nascondeva dietro le pieghe della gonna. La cella lasciata aperta, la possibilità di scappare, un volto nuovo dopo l’isolamento, ogni cosa passava in secondo piano. Daianara la fissava intimorita, i grandi occhi spalancati che si domandavano se quella ragazza le avrebbe fatto ancora del male. Theresa avrebbe voluto liberarsi delle catene e correre ad abbracciarla, o anche solo dirle che aveva imparato la sua canzone e che, se ancora lo desiderava, potevano cantarla insieme.
«Seguimi» le disse senza preamboli la donna, liberandole piedi e mani. Il suo portamento suggeriva risolutezza, ma il viso era addolcito da un accenno di sorriso. Si diresse verso l’uscita senza attendere una risposta, incurante del fatto che la prigioniera potesse scappare. Theresa rimase perplessa a guardarla, strofinandosi la pelle sui polsi.
Come se avesse intuito i suoi pensieri, Isolde continuò: «Non fuggirai. Non riusciresti ad andartene senza di lei» accarezzò la testa della figlia, sistemandole qualche ciocca di capelli fuori posto. «Vieni, Daia».
«E lei?» chiese preoccupata la bambina, spostando lo sguardo da Isolde a Tess.
«Non ti preoccupare» la tranquillizzò, uscendo all’aria aperta.
Theresa le seguì senza proferire parola, rallentando il passo solo quando Daianara si voltava per accertarsi che non rimanesse indietro. L’aria che soffiava da est era calda e secca, un toccasana dopo il freddo che aveva patito.
«Mia figlia e mio marito ti hanno trovata in riva al fiume» le spiegò Isolde, attraversando il campo d’addestramento, la fucina, il cortile, le stalle. «L’acqua ti ha portata ad Ennon, anche se è il fuoco che hai tra i capelli. Sei una ragazza di Tanaro, o almeno lo eri prima di rinascere come una di noi. È una possibilità quella che Daia ti ha offerto» le sussurrò, osservando la figlia rincorrere le galline che beccavano il mangime «Puoi scegliere se considerarla una maledizione o un miracolo, anche se nessuno ti ha domandato quale destino avresti preferito».
Theresa rimase in silenzio. Stentava perfino a ricordarsi come fosse la sua voce.
Isolde incrociò le braccia sul petto. «Non so immaginare quali possano essere le tue domande, anche se sono certa ne avrai molte. Non dev’essere facile trovarsi catapultata in una vita che non ti appartiene, in un corpo che non riconosci e con lei» spiegò, continuando a tenere sott’occhio Daianara.
«Chi è?» trovò infine il coraggio di chiedere Tess, la voce spezzata «Chi è lei per me?».
Isoldes sorrise dolcemente, gli occhi velati di tristezza. Il ricordo di Roan le occupò la mente. «Lei è la tua metà di cielo».
«E se io non la volessi? Se non volessi tutto questo?».
«Ormai non si può tornare indietro. È un legame troppo profondo per poter essere spezzato, trascende qualsiasi logica, qualsiasi volontà. Puoi decidere di combatterlo o di accettarlo, ma non puoi scegliere di ignorarlo».
«Se è già stato tutto stabilito, che senso ha per me vivere?».
La sicurezza di Isolde sembrò vacillare, ma fu solo per pochi attimi e subito ritornò alla sua usuale compostezza. «Ti mostro una cosa» le disse, invitandola ad entrare nelle stalle e facendo segno a Daia di raggiungerle. La bambina scacciò via le galline battendo le mani, corse verso di loro e affiancò Theresa. La guardò dal basso verso l’alto, allegra, stralunata, curiosa e poi dubbiosa, preoccupata. Allungò le dita piccole per sfiorarle i polsi, là dove il ferro l’aveva graffiata, su una carne che non avrebbe mai più sanguinato ma che sarebbe rimasta segnata a vita.
I cavalli nitrirono e Daianara sobbalzò, allontanandosi dal suo totem per raggiungere Isolde. Theresa allungò subito un braccio per trattenerla, ma era già troppo distante.
«Sono tutti senza padrone» spiegò la donna, le scarpe chiare macchiate di terriccio. Passò davanti al primo e al secondo stallone «Se è una scelta ciò di cui hai bisogno, allora scegli. Dimmi un nome. Sappi che nessuno di loro ti seguirà perché obbligato, ma lo farà solo di sua spontanea volontà. Forse così capirai che esiste un po’ di libertà anche nella costrizione. E presto ne avrai bisogno, avrai bisogno di fare affidamento su qualcuno per non impazzire. E se questo può rappresentare per te una via di fuga, allora imboccala senza paura e non guardarti indietro».
Theresa osservò gli animali uno per uno, con poca convinzione. Da che ne avesse memoria, non aveva mai cavalcato. O forse sì? Iniziava a non ricordare più.
«Il suo padrone, Guyven della Strada, è caduto durante l’incendio di Nika» le spiegò Isolde quando vide la ragazza fermarsi davanti ad uno stallone dal mantello nero «Portava acqua ai feriti, ma le fiamme lo hanno raggiunto troppo presto. Non sappiamo come sia riuscito a tornare ad Ennon senza di lui. Non è un cavallo docile» la mise in guardia «Tende a disarcionare gli sconosciuti».
«Come si chiama?» domandò Tess, sbirciando oltre la porta a doppia anta.
«Argo».
«Sembra…» cercò le parole «Triste. E solo.».
«Anche tu sei triste» le disse Daia, allontanandosi dai pony a cui aveva cercato di fare qualche carezza.
«Davvero?» Theresa si accovacciò, le ginocchia poggiate sul pavimento sporco.
La bambina annuì e dopo aver mosso qualche titubante passo nella sua direzione, si arrestò davanti a lei. Le dita piccole si stropicciavano i fiocchi del vestito, i piedi battevano a terra mostrando tutta la sua impazienza. «Però non sei sola» sussurrò piena di vergogna «Ci sono io, se lo vuoi».
Tess sentì una morsa attanagliarla all’altezza del petto. Forse era dolore, forse era sollievo, molto più probabilmente entrambe le cose. Spalancò le braccia, invitando Daia a raggiungerla, perché non sarebbe più stata completa senza di lei e non c’era nulla che le procurava più dolore che sapere di averle fatto del male.
La bambina tremò, indietreggiando di un passo, l’espressione atterrita. Istintivamente cercò il viso della mamma e Isolde le diede un buffetto sulla spalla, incoraggiandola a raggiungerla. «Vai Daianara» la rassicurò «E’ il tuo totem».
La rossa la strinse a sé con gentilezza, sollevandola da terra e lasciando che poggiasse i piedi sulle sue cosce per restare in equilibrio. «Non volevo, non volevo» ripetè instancabile, cullandola e carezzandole la testa. La sentì poco a poco rilassarsi tra le sue braccia, abbandonandosi contro di lei con piccoli sospiri, e per un attimo si trovò a pensare che se fosse riuscita a tenerla al suo fianco per sempre sarebbe riuscita a colmare la disperazione che quegli uomini le avevano infilato in corpo. «Non volevo farti del male, non volevo farti del male. Mi dispiace così tanto…».
La piccola le circondò il collo con le braccia, nascondendo le mani tra i lunghi capelli rossi. Si staccò dalla sua bambola solo per guardarla negli occhi. «Le bambine grandi non piangono» disse semplicemente, inclinando la testa.
«Io non sto piangendo» rispose confusa Tess «Io non posso piangere».
Daianara non sembrò convinta dalla sua rispose e tornando ad abbracciarla bisbigliò: «Però io lo vedo che piangi. Mamma…» continuò poi «Devo ordinarle di dimenticare?».
Isolde scosse appena la testa. «No, piccola mia. I ricordi svaniranno col tempo, lentamente e senza dolore. O almeno questo è quello che ci dobbiamo augurare. Per lei, per il suo bene. E anche per il nostro».
E così avvenne. Lentamente i ricordi iniziarono a sovrapposi, ad annebbiarsi, a sbiadire, fino a quando non rimase altro che un foglio bianco su cui poter scrivere una nuova storia. Theresa era sempre stata così, era nata così, era stata voluta, pensata e creata così. Era questa la verità che tutti conoscevano, la sola confermata, la sola resa pubblica, ed era anche la sola verità che Daianara le avesse detto.

 

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Capitolo 18
*** La menzogna nella verità ***


Capitolo 16
 
♦ L​a menzogna nella verità
 
 
Canterai ancora una volta per me prima di allontanarti.
Salirai sempre più in alto per ricordarti la mia voce.
Ascolta la mia ultima canzone e prova ad amarmi.
Domani sarò qui a cantarti queste ultime parole:
per te troverò sempre un’ultima canzone”
 

Da che ne aveva memoria, Theresa aveva sempre saputo di essere diversa.
Era una consapevolezza viscerale, completamente illogica, eppure così naturale da essere ovvia. Un mostro si annidava nel suo corpo e nella sua mente, sempre pronto a suggerirle che doveva esserci qualcosa, che doveva esserci dell’altro oltre a tutte le spiegazioni incongruenti che le erano sempre state fornite. I ricordi che aveva accumulato non erano sempre così lucidi e a volte anzi si distorcevano in immagini che lei sentiva familiari, ma che oltre ad essere completamente prive di senso, non avevano nemmeno nulla a che fare con la sua vita. E nonostante il vincolo che la legava a Daia, nonostante tutto l’amore che provava per lei, nonostante tutta la sua vita fosse racchiusa nelle mani di quella ragazza, e anzi forse proprio per questa ragione, non era con Daianara che riusciva a sentirsi veramente libera.
«Mi fa male» aveva confessato una volta a Savannah, tastandosi il petto sotto la giacca di pelle. Al confine tra Ennon e Nika, nel punto in cui iniziavano i rigogliosi e densi boschi del Borgo del Legno, le due ragazze erano riuscite a ritagliarsi un angolo tutto per loro. «Mi fa male quando mi viene dato un ordine. Mi sento soffocare, schiacciare, bruciare, è come se tutto il mio corpo si rifiutasse di obbedire e la testa mi rimbomba, si spacca a metà ed io sento tutto questo improvviso dolore... È come se dovessi morire ogni volta. Ma in realtà non muoio mai». Aveva stretto la mano in un pugno «Avrei così tanta voglia di…di ribellarmi, di disobbedire. Di togliermi di dosso la perenne sensazione di essere ingabbiata e fare a modo mio».
Savannah, la schiena appoggiata al tronco dell’albero, aveva sussultato. «Disobbedire?» aveva domandato con una punta di incredulità che velocemente aveva provato a mascherare.
«Sì. Daianara me l’ha promesso: non mi costringerà mai a fare qualcosa che non desidero. Non potrei sopportarlo, non riuscirei a resistere al pensiero di essere usata come un lurido burattino, senza possibilità di scelta, senza nessuna via di fuga. Un inutile ammasso di carne spostato a destra e a sinistra a seconda del piacere di un estraneo. Non voglio questo per me. Non lo vorrò mai e non sarei in grado di perdonarglielo per nessuna ragione al mondo». Si era seduta a terra giocando con l’erba umida «Anche tu soffri quando ti costringono, vero?».
Senza darle una risposta, Savannah le aveva sollevato il mento per poterla guardare dritta negli occhi. «Theresa…».
«Che cosa stai facendo?» le aveva domandato, impacciata da tutta quella vicinanza. Era una sensazione così diversa da quella che provava quando si trovava vicino a Daianara.
«Dimmi, qual è la prima cosa di cui hai memoria?».
«Eh?».
«Se dovessi pensare al tuo primo ricordo, che cosa vedresti?».
«Ma che domanda stupida!» aveva riso, allontanando la mano dell’amica dal suo viso.
«Rispondimi».
«Ovviamente Daia. Non potrebbe essere altrimenti. E…» alzò gli occhi al cielo «E un campo di grano. Un’immensa distesa di grano al tramonto».
«Grano?».
«Sì, grano!» aveva scandito con uno sbuffo, passandosi una mano sulla treccia rossa.
«Non ci sono campi coltivati ad Ennon».
Lei aveva alzato le spalle, noncurante della constatazione. «È questo quello che ricordo. Probabilmente mi sto confondendo».
«Capisco…». L’espressione della ragazza di Nika si era fatta tetra, ma prima che Theresa avesse potuto domandarle il perché di quel cambiamento, l’aveva abbracciata e tutto il profumo di muschio e foglie che Savannah emanava l’aveva colta e la sorpresa per un gesto così lontano dalla consueta freddezza della ragazza l’aveva spiazzata.
«Davvero una ragazza di Tanaro…» le aveva bisbigliato all’orecchio la bionda, accarezzandole la testa, stringendola ancora più forte e trasmettendole con quell’abbraccio una angosciosa preoccupazione.
«Non sono una ragazza di Tanaro!».
«Devi fare attenzione Tess».
«Che cosa vai blaterando?».
«Nulla» l’aveva lasciata andare all’istante, intenzionata a tornare a rifugiarsi nella boscaglia.
«Lo vedo quando menti, perché mi stai dicendo una bugia?».
«Non è a me che dovresti fare questa domanda».
«Non ti sopporto quando fai così!».
«Mi dispiace, non posso dirti di più».
«Si che puoi!».
Con un sorriso amaro aveva abbozzato: «No, Tess. Io non posso ignorare gli ordini come fai tu».
Convincere Daianara a svelarle la verità - qualunque essa fosse - non fu facile, specie senza conoscere le domande giuste da porre. Con incredibile e sfiancante caparbietà, la ragazza continuò ad eludere per due stagioni i suoi interrogativi, divagando, sviando, pregandola di lasciar perdere tutte le folle voci che aveva sentito. Quando infine, una sera d’inverno, si decise a renderla partecipe del suo segreto, il freddo che si era alzato fuori sembrò nulla in confronto al gelo che riempì il petto di Theresa.  
«Tu non puoi ricordarlo» le aveva confessato Daianara, immobile davanti a lei. Tremava, nonostante il pesante mantello che la avvolgeva, e il capo chino la faceva apparire colpevole di un crimine atroce. «Ma questa non è sempre stata la tua casa. Io e mio padre ti abbiamo trovata al confine delle terre di Ennon, dove ti aveva portata la corrente, e forse sei rimasta sulle rive di quel fiume per giorni prima che arrivassimo noi. Il tuo corpo era immobile, rigido, non respiravi. Non c’era più nulla che potessimo fare per te, tranne provare a salvarti nell’unico modo che conosciamo, con l’unico sistema che abbiamo per sconfiggere la morte: farti diventare una di loro. Un totem. Però tu…» aveva trovato il coraggio di sollevare appena gli occhi nella sua direzione «Tu eri speciale. E pericolosa. La tua coscienza era immutabile, implasmabile, più forte del legno e dell’acciaio. Troppo forte per essere piegata e troppo rigida per poter essere manipolata e alla fine tutto quello che avevamo fatto per salvarti non ti ha salvata affatto.  Non ne conosciamo il motivo, non me lo chiedere. Solamente, alcuni uomini rimangono ancorati così strenuamente al loro passato da rifiutare qualsiasi assoggettamento. Ignorano gli ordini, non possono essere domati né dai loro padroni né - probabilmente - dal Maestro di Palazzo, anche se nessuno di loro è vissuto abbastanza a lungo da scoprirlo… Il Consiglio ha stabilito la morte per i ricaduti e per quelli che li nascondono, senza alcuna eccezione. Avrei dovuto ucciderti, ma…» le si era avvicinata, colmando il vuoto che le divideva, stringendole le mani tra le sue. «Tess, non ce l’ho fatta. Io non ce l’ho fatta. Forse ti amavo già allora, senza saperlo. Non volevo farti del male, speravo solo di salvarti. Mi dispiace, mi dispiace. Ti prego, dimmi qualcosa».
Si sentiva la mente così affollata di pensieri da mettere a tacere qualsiasi emozione. Non si era mai sentita così apatica. «Io…Io ero umana?» aveva trovato infine la voce per chiederle.
«Lo siete stati tutti».
Theresa aveva deglutito a fatica. Le implicazioni di quella confessione arrivarono tutte insieme e la schiacciarono. «Tutto quello che ho sempre sognato di essere…normale. Ce l’avevo. Ce l’avevo e tu me lo hai portato via».
«Ero una bambina. Non volevo fare del male a nessuno. Desideravo solo che la ragazza che avevo trovato tornasse a stare bene. Io non sapevo cosa potesse significare».
«Hai giocato con la mia vita».
«No, no, questo non è vero».
«Lo sapevi» l’aveva accusata, puntandole il dito contro «Tu lo sapevi come mi sono sentita per tutti questi anni. Hai lasciato che io mi convincessi di essere inadeguata, fuori posto, strana, diversa. Tu sapevi del mio tormento e hai lasciato che mi logorasse! Perché hai dovuto farmi una cosa simile?».
«Volevo proteggerti! Nessun totem dovrebbe sapere quello che ti sto dicendo, men che meno tu! Theresa…se ti scoprissero sarebbe la guerra, non si tratta più solo di te. Giustizierebbero me, mia madre, mio padre, mio zio, tutta la mia famiglia – la nostra famiglia – se venissero a sapere che ti abbiamo tenuta in vita. Kasimir non aspetta altro che un pretesto per accusare mio padre, non lasciare che lo trovi. Ne siamo coinvolti tutti. E se dovesse accaderti qualcosa…Tess, io non posso vivere senza di te».
«E allora muori» aveva sibilato, spingendola via e uscendo da quella casa che si era trasformata improvvisamente in una prigione. «Muori, perché io me ne vado».
«Aspetta!» aveva provato inutilmente a trattenerla Daia, seguendola oltre il cortile e i campi di addestramento. Quando l’aveva vista correre verso le stalle la paura l’aveva sopraffatta: la conosceva troppo bene per non intuire le sue intenzioni e sapeva che se Theresa fosse montata su Argo non l’avrebbe più vista tornare.
«Ho aspettato a sufficienza! E tu quanto avresti aspettato ancora prima di dirmi la verità? Avevi la mia fiducia e l’hai tradita, tu mi hai ingannata!».
«Non potevo fare altro!».
«No, tu non hai voluto fare altro! Esiste sempre una scelta. Hai preso la tua decisione, ora pagane le conseguenze».
«Sei la persona più egoista e caparbia e…».
«E cosa? Continua se ne hai il coraggio».
«Se non vuoi capire allora vai! Scappa, ma non troverai là fuori la libertà che cerchi».
«Sei tu che mi hai portato via la mia libertà!».
«Ti ho dato tutta la libertà che potevo e tutto l’amore di cui ero capace. Perché sembra sempre che te ne importi così poco?».
«Se mi avessi amata anche solo la metà di quanto vai predicando, non mi avresti tenuta all’oscuro di una cosa simile! Era la mia vita! Non dovevano esserci segreti tra di noi, come hai fatto a mentirmi per tutti questi anni?».
«Perché è così che funziona l’amore! Ti ho protetta anche se sapevo che se mai avessi scoperto la verità mi avresti odiata!».
Theresa aveva scosso la testa, incredula di fronte ad una spiegazione che per lei non aveva fondamento alcuno. «Non me ne faccio nulla di un amore come questo».
Daia l’aveva superata, spalancando le braccia e bloccandole la strada, le gambe che tremavano come se stesse per essere schiacciata da un peso impossibile da reggere. «Tess…» aveva chiamato ancora una volta il suo nome, piangendo «Non farlo. Siamo molto più di questo. Non gettarci via così facilmente».
«Spostati».
«No».
«Ho detto spostati!».
«No!».
«Tu non puoi capire. Non potrai mai capire!» aveva urlato, cacciandola via con tutta la forza che aveva in corpo, sgombrando il passaggio. «Per me la libertà è amore».
«E io allora? Io cosa sono per te?».
«Per me sei morta» aveva concluso montando sul suo cavallo e facendolo partire al galoppo, sperando così di lasciarsi alle spalle – oltre a Daia – anche la sua rabbia.

 
♦♦♦
 
Si sparse in fretta la voce di un nuovo arrivo nel borgo del Legno, solitamente così restio a qualsivoglia contatto con gli stranieri. Ad Ennon e Tanaro si spettegolò a lungo sulla fuga – alquanto sospetta - della figlioccia di Zane, ipotizzando le ragioni più improbabili, e tutti si domandavano se al prossimo Torneo di Palazzo l’esule avrebbe parteggiato per il Borgo del Ferro o per quello di Nika.
Per Theresa dimenticarsi della vita che aveva vissuto fino a quel momento non fu facile. Dimenticare Daianara, per quanto all’inizio le fosse sembrato arduo, col tempo si rivelò essere un desiderio irrealizzabile. Si era costretta a ignorarne il ricordo, ad eluderne il pensiero, finanche a costringersi a non pronunciarne mai il nome, e nella dimora di Hansel tutti sapevano di dover tacere in sua presenza le notizie che riguardavano la famiglia del Ministro di Ennon.
Passarono due anni in bilico tra la convinzione di aver fatto la scelta migliore e il timore che non le sarebbe bastata una vita – figurarsi qualche vecchio albero – per dimenticarsi della sua vera casa.
«Io credo di amarti» confessò a Savannah un giorno, forse nella convinzione di poter riempire con chiunque il vuoto che Daianara le aveva lasciato.
Il totem non diede segno di volerla prendere sul serio. «Sono convinta che tu lo creda» la assecondò «Ma non è così e in fondo lo sai anche tu. Noi non potremo mai amarci».
«Come? Perché?».
«Le nostre vite sono legate a quelle di altre persone».
«Io non voglio che sia così!».
«Non si tratta di volerlo, Tess. Tu hai Daia. E io ho Hansel. O forse sono loro ad avere noi. Non abbiamo amore da dare ad altri».
«Questo non è giusto!».
«Giusto o sbagliato, quanta importanza vuoi dare ad una cosa che non puoi cambiare? Prima accetterai la realtà per quella che è, prima tornerai a vivere».
Theresa scattò in piedi, più indignata che mai. «Non lo stai dicendo davvero».
«Dico quello che penso, non quello che vuoi sentire».
«Io non ho scelto Daia!».
«Tess, ti è mai venuto in mente che se anche fossi stata libera l’avresti comunque amata?».
«Non esiste una risposta a questa domanda».
«E nel dubbio aggiungi dolore a dolore?».
«Questo cosa diavolo vorrebbe dire?».
«Guardati. Scegliere di fare ciò che ti fa star male non è libertà, è idiozia. Far finta di essere quella che non sei non è libertà, è un suicidio. Sei libera di accendere un fuoco e gettartici dentro, ma il fatto che tu possa farlo non implica che tu debba farlo. La libertà è inutile se la usi per affliggerti. E a chi vuoi che importi se ami qualcuno perché puoi o perché devi, se poi quando non c’è ti senti morire?».
«A me, dannazione! Importa a me!».
«Lo vedo. Ti struggi per le cose che non hai e non gioisci delle cose che possiedi. Se davvero per te la cosa più importante che possa esistere in questo mondo è l’arbitrio, allora rifletti sul fatto che c’è stato chi ha deliberatamente scelto di mettere a rischio la sua vita per salvare la tua. E poi ti ha vista fuggire».
Quando la mancanza che sentiva si trasformò in opprimente ossessione, Theresa iniziò a sgattaiolare fuori dai boschi sacri di Nika, oltre il confine di Ennon, sulla strada alta che tante volte aveva battuto insieme a Daianara e dove sperava di scorgerla, sufficientemente vicina da trovare un po’ di sollievo, abbastanza lontana da non poter essere vista a sua volta. Nascosta dietro ai muriccioli, alle siepi o agli alberi, la notava aggirarsi nelle sue lunghe passeggiate e con gli occhi riusciva a seguirla fino a quado la sua sagoma si faceva troppo piccola e indistinta.
Si sorprendeva sempre un po’ a vedere come il tempo le stesse cambiando i lineamenti, quegli stessi lineamenti che Theresa pensava di aver scolpito nella memoria, ma che in sua assenza erano mutati senza che lei potesse farci l’abitudine. Gli zigomi si erano fatti più pronunciati, la vita più sottile, l’espressione severa; i capelli erano più lunghi e meno increspati, le lentiggini erano sparite, gli occhi vagavano sperduti, in cerca di qualcuno che non sarebbe mai tornato, e anche di fronte allo scherzo più divertente o alla battuta più irriverente la sua bocca non accennava nemmeno un sorriso.
Theresa rischiò di essere scoperta un’unica volta e subito si maledisse per essersi spinta così vicino alla casa di Zane. Si accucciò dietro ad un tronco, immobile e con il fiato sospeso.
«Daia?» sentì chiamare una voce che riconobbe essere quella di Vidia «Cosa fai lì impalata?».
«Io…» la udì balbettare e alcuni passi nella sua direzione le fecero temere di essere infine arrivata alla resa dei conti. E non sapeva se esserne sollevata o terrorizzata. «Ecco, io ho visto…mi è sembrato…».
«Cosa? Un animale?».
Un lungo sospiro. «No… Nulla. Non era nulla».
«Daia, cara, perché piangi? Ti sei forse spaventata?».
«No, no. Solo…voglio tornare dentro».
«Ma siamo appena uscite» provò ad obiettare la donna, senza risultati.
«Vidia, per favore. Si è alzata troppa afa, mi sento soffocare».
Dall’affanno che la prese all’altezza del petto, Theresa capì che era giunto il momento di tornare a casa. Si prese il tempo che le serviva e quando insieme ad Argo passò il pesante cancello in ferro trovò già chi la stava aspettando.
 
♦♦♦

Daianara non ebbe bisogno di scostare le tende e affacciarsi alla finestra per capire le ragioni di tutto quel trambusto e le fu subito chiaro perché quella sera non riusciva a trovare il modo di prendere sonno. Udiva chiaramente i nitriti di un cavallo, il pianto di sua madre, la voce di suo padre, i domestici che salutavano e ripetevano «Bentornata!».
Si sentì pervadere da una inquietudine senza fine, una sensazione molto diversa da quella che si era immaginata di provare quando si perdeva a fantasticare sul ritorno di Theresa, prima di addormentarsi e trovare finalmente un po’ di pace. E adesso che sapeva esserle vicina, che la sentiva salire le scale e avvicinarsi alla porta della sua camera – della loro camera -, non sapeva come comportarsi.
Spalancò la finestra nella speranza di rinfrescarsi le idee, ma l’aria era calda e pesante e non trovò il sollievo che cercava. La porta lentamente si aprì e Daianara riuscì appena ad intravvedere una figura sgusciare all’interno della stanza. Il buio non le permetteva di scorgerne il volto, né di definirne la sagoma, ma non ne aveva bisogno.
«Daia…» bisbigliò Theresa immobile, senza avere l’intenzione di avvicinarsi. Dovette aspettare qualche secondo prima di ottenere una risposta.
«Theresa» ricambiò con tono piatto, incrociando le braccia al petto.
Nessuna delle due pareva intenzionata a continuare la conversazione.
«Ecco, io…» azzardò la rossa dopo un lungo e imbarazzate silenzio, ma venne prontamente interrotta.
«Mi dispiace per non essere riuscita ad accontentarti: come vedi, non sono ancora morta».
«É…è passato tanto tempo, Daia».
«Non serve che me lo ricordi».
«Forse sarebbe il caso di andare avanti».
«Allora dimmi che cosa vuoi e vattene».
Tess titubò per un istante, poi si decise a muovere qualche passo verso di lei e la tenue luce che proveniva dalla finestra bastò per rischiararla. «Sentivo di doverti un ritorno».
Daianara resistette alla voglia di indietreggiare. «Mi dovevi un ritorno molto, molto tempo fa. Adesso non mi devi più niente».
«Lo so che sei ancora arrabbiata. Lo sono anche io».
«Due anni» chiarì «Sei riuscita a starmi lontana tutto questo tempo senza mai guardarti indietro, senza mai avere un ripensamento, senza mai avvertire il bisogno di vedermi o di sentirmi».
«Se questo fosse vero io non sarei qui adesso».
«Risparmiamelo. Mi hai lasciata indietro ad aspettarti inutilmente, senza prenderti la briga di farmi sapere se stessi bene o se qualcuno ti avesse fatto del male. Dimmi come hai fatto a dimenticarti così facilmente della tua famiglia, come hai fatto a cancellarmi così in fretta dalla tua vita e insegnami come si fa, perché da quando sei andata via nessuno di noi è riuscito a trovare un attimo di pace».
«Nemmeno io».
«Lo hai nascosto bene».
«Non è stato facile nemmeno per me stare lontano da casa tutto questo tempo».
«É Nika la tua casa ora».
«Non riesco a sentirmi a casa in nessun posto se tu non ci sei. Mi ci è voluto più tempo del previsto per accettarlo» storse il naso e si corresse «Vorrei non fosse così, ma devo fare i conti con te. Dovrò fare i conti con te per il resto della mia vita. Ho resistito quanto ho potuto. E ancora non mi sta bene, non mi sta bene sapere di essere legata così fortemente a te e non poterci fare nulla, non poter decidere di starti lontana senza morire dentro. Non so se sia giusto o sbagliato amarti e odiarti così tanto. Forse ti avrei amata ugualmente anche se avessi avuto la possibilità di fare diversamente. Io tutte queste cose non le so e il dubbio mi uccide, ma esserti stata lontana mi ha fatto più male. Perché ridi? Lo trovi divertente?».
«Oh, sì. Nulla di quello che dirai potrà restituirmi tutto quello che ti sei portata via di me. Nulla di quello che dirai mi farà dimenticare che non ci sei stata. Hai agito con coscienza, Theresa, non lo puoi negare. Sapevi del dolore che ti stavi lasciando alle spalle e non ti è importato. E ora che sei qui, davanti a me, parli dando per scontato che io ti ami ancora».
«Ed è così? Mi vuoi ancora?».
«Va’ all’inferno» imprecò a denti stretti prima di darle le spalle.
Theresa serrò i pugni. «Ci sono già stata. Mi ci hai mandata tu, ricordi?».
«Ci siamo stati tutti. Non sei la sola vittima di questa storia».
«Eppure sono l’unica che ci ha rimesso qualcosa. La vita, l’arbitrio, la morale, i ricordi, il mio folle sogno di diventare un giorno Maestro di Palazzo».
«Io ho perso te» le rinfacciò «E insieme a te anche me. Come se non fosse stato sufficiente amarti per tutta una vita e vederti comunque infelice. Spero che con Savannah tu abbia trovato quello che stavi cercando. Almeno lei, forse, ti sarà bastata».
«Sarai anche cresciuta, ma continui a rimanere una stupida».
«E tu una meschina».
«Che cos’è che non capisci, Daia? Guardami!».
«Non voglio guardarti!».
«Non è ovvio, non è abbastanza chiaro? Provo ancora così tanta rabbia che non sono certa ci sia spazio per altro dentro al mio corpo. E sono furiosa perché ti amo e odio doverti amare in questo modo. Prova a capirmi! Non è la stessa cosa amarti se sono obbligata a farlo!».
«Per te siamo sempre state soltanto questo: un obbligo. Se solo potesse servire a qualcosa, ti ordinerei di dimenticarmi».
«Non basterebbe e lo sai anche tu».
«Ma è quello che vorresti».
«Questo mai. Mai».
«Puoi dire quello che vuoi Tess, ma sei quello che fai».
«L’ho fatto. Sono tornata».
«Sei tornata troppo tardi».
«Non mi sono mai veramente staccata del tutto da te. Quando potevo ti seguivo da lontano e mi sentivo una stupida ogni volta che ti vedevo passare. Arriverà un momento in cui tu non ci sarai più e io dovrò passare quello che resta di una vita senza fine a soffrire per il tuo ricordo. Temo quel giorno da sempre e so che quando arriverà mi maledirò per ogni istante che non abbiamo passato insieme. Mi hai condannata anche a questo, Daia».
«Ho condannato entrambe. E ora vai via. È la cosa che sai fare meglio».
«Zane ed Isolde mi hanno perdonata, perché non riesci a fare altrettanto?».
«Io non ho nulla da perdonarti. È come hai detto tu, ricordi? Hai fatto una scelta e devi accettarne le conseguenze».
«Ne ho già subito le conseguenze, per quanto vuoi torturarmi ancora?».
«E tu?».
«Non sono tornata per farti star male».
«Allora non saresti dovuta tornare affatto».
«Sono qui per te!» chiarì Theresa con voce indignata, raggiungendola e obbligandola a voltarsi.
«No, sei qui per te! Tutto quello che fai lo fai per te. Il tuo mondo è così piccolo che non c’è spazio per nessun altro».
«Il mio mondo è piccolo perché tu sei troppo ingombrante! E io ti detesto per questo e per quello che mi hai fatto!».
«Anche io ti detesto per quello che mi hai fatto!» le urlò addosso, divincolandosi «Non lo sai e non lo potrai mai sapere quello che si prova a vederti andar via!».
«Io so solo che non posso più stare senza di te».
Dainara abbassò lo sguardo. «Non è abbastanza».
«Se questo non è abbastanza, che cosa lo sarà mai?».
«Io non lo so!».
«Dammi una possibilità». Fece scivolare le mani lungo le sue spalle e sui polsi, cercandole le dita. «Ascolta, dobbiamo…».
La ragazza ritirò le mani, soffocando un singhiozzo ma obbligandosi a rimanere ferma nei suoi propositi. «No».
«Se tu mi…».
«Ho detto di no».
«Almeno riesci a dirlo senza piangere?».
«Piango perché mi fai rabbia!».
«Mi sta bene! Puoi odiarmi, respingermi, urlare, cacciarmi, fai quello che vuoi, ma dopo che l’hai fatto troviamo una soluzione».
«Non si risolve una cosa simile, Tess. Per noi non ci sarà mai una soluzione».
«Bene. Allora la creeremo».
«La devi smettere! Guarda in faccia la realtà: non c’è più nulla. È troppo tardi adesso, siamo finite molto tempo fa».
«Vorrei fosse così, sarebbe tutto molto più facile. Ma ho scoperto che la strada più facile non porta mai da nessuna parte. Abbiamo perso davvero troppo tempo Daia, non sarei in grado di sopportare altri rimpianti. Non mi metterò a pregarti se è questo che ti aspetti da me. Ma voglio dirti che non ho mai, mai voluto farti del male. E nonostante questo ce ne siamo fatte talmente tanto che ora non so come rimediare. Ma dobbiamo, dobbiamo trovare un modo. Credimi. Sarebbe impensabile vivere fingendo di non appartenerci. L’amore non può essere solo questo» aprì le braccia per indicare tutto quello che la circondava «Una stanza buia e due persone che si comportano come se non si conoscessero, come se non si volessero. E se l’amore è davvero solo questo, allora noi siamo qualcosa di diverso, qualcosa di più. Per favore…devi dirmi di sì».
«Non posso. Vorrei, ma non posso. Non ne ho più la forza».
«Allora la mia dovrà bastare per entrambe» concluse e, senza darle il tempo di replicare, la tirò a sé, stringendola tra le braccia, una mano posata sulla schiena e una tra i capelli. Inalò il suo profumo e le sembrò di essere stata lontana da quel calore per una vita e distrattamente si domandò come fosse riuscita a resistere per tutto quel tempo alla voglia di riabbracciarla.
Daianara rimase inerme contro di lei. Non ricambiò il suo gesto, nè accennò ad andarsene, e questo a Theresa, per il momento, sembrò bastare.
«Mi sei mancata» le sussurrò la rossa, stringendola ancora più forte e sfiorandole la fronte con le labbra  «Non importa se adesso non mi credi. Ho tutta una vita per farti cambiare idea».
«Non avrai un’altra possibilità» la ammonì a bassa voce la ragazza.
«Nemmeno tu».

 
♦♦♦
 
La terra possiede una memoria più lunga di quella degli uomini e ricorda distintamente le battaglie, le cicatrici e il sangue che l’hanno deturpata. Così, quando la guerra tornò infine a bussare alle porte della Sacra Cittadella, nessuno si stupì nello scoprire che fosse iniziata proprio nelle rovine di Ish-kalei, la città senz’anima.
Raven riferì ai Ministri di un esercito che procedeva lento ma inesorabile, che non provava né stanchezza né dolore, che ingrossava le proprie fila al termine di ogni nuovo scontro; riferì di un comandante sfigurato dal fuoco, di bambole che si ribellavano ai loro padroni pur di seguirlo, di città che cadevano una dopo l’altra al loro passaggio e fu a tutti tragicamente chiaro perchè la Capitale non fosse stata ancora cinta d’assedio.
«Ci stanno rubando gli uomini!» sbraitò nella sala del consiglio Kasimir «Città dopo città, paese dopo paese, quanto ci metteranno prima di arruolare tutti i totem dei borghi?».
«Solo il Maestro di Palazzo può chiamarli alle armi» ribattè Aaron.
«Non abbiamo un Maestro di Palazzo, Jheorg è morto!».
«Non ho bisogno di te per ricordarlo!».
Il Ministro di Nika li interruppe prima di esser costretto ad assistere all’ennesima, inutile lite. «La Cittadella è sguarnita, i gargoyle non basteranno a difenderla contro un esercito di queste dimensioni. E se davvero non possiamo fare affidamento sulle nostre bambole…chi combatterà con noi?».
Botte di Ferro, chino sull’immensa tavola al centro della stanza, diede voce al pensiero che nessuno dei presenti osava pronunciare. «Dovremo cavarcela da soli».
Kasimir serrò la mandibola «E come? Se i guerrieri di Tanaro non potranno fare affidamento sulla forza dei loro soldati, se quelli di Nika non potranno contare sui loro arcieri, se la cavalleria di Ennon sarà ridotta a un’accozzaglia di fantini malfermi sulle loro stesse gambe, come potremo mai vincere?».
«Non dobbiamo vincere» gracchiò l’unica donna presente. Ophelia si rigirava tra le mani il pesante cimelio di Kalendor, quasi sperasse di vedere riflesso nello specchio la soluzione a tutti i suoi mali «Dobbiamo guadagnare tempo».
«Tempo per cosa?».
«Per indire un nuovo Torneo. Ci serve un Burattinaio che possa riprendere il controllo dei suoi totem. Se non ubbidiscono ai loro padroni, a qualcuno dovranno pur dar retta».
«Come pensate di fermare un esercito colossale se gli uomini migliori sono impegnati a battersi tra di loro per ricevere la nomina?».
«Non serve che restino i migliori» riflettè il nuovo Ministro di Morèa, ma subito incontrò la resistenza di Kasimir.
«Un Maestro di Palazzo incompetente?! È questa la tua soluzione?».
«Allora ci divideremo. Le truppe avranno bisogno dei loro Ministri, non ci nasconderemo dietro queste mura mandando a morire i nostri uomini».
«Io non voglio nascondermi!».
«No, tu vuoi rimanere perché brami la nomina!».
«Se pensassi di avere a che fare con un uomo degno di questo nome, lascerei volentieri il titolo a te!».
«Adesso basta!» li riprese spazientito Zane e il tono perentorio mise a tacere i due rivali «Nessuno dei due merita di diventare Maestro di Palazzo se persino in una condizione drammatica come questa non è in grado di zittire il proprio ego! E le vostre puerili discussioni mi fanno mettere in dubbio che abbiate capito davvero a quale pericolo andiamo incontro. Che mi dici della tua famiglia, Kasimir? E della tua, Aaron? E che mi dite delle famiglie che stiamo perdendo mentre voi vi azzannate come due cani affamati? A chi servirà un Maestro di Palazzo quando non ci sarà più un Palazzo da difendere? Se non siete in grado di proporre soluzioni sensate, allora lasciate decidere noialtri sul da farsi. A causa delle nostre mancanze Kalendor e Tanaro sono già state attaccate e gli abitanti di Nika e di Ennon sono stati costretti a lasciare le loro case. Siamo in guerra e la stiamo perdendo. Hansel» chiamò il compagno «Non possiamo perdere Morèa».
«Non abbiamo abbastanza uomini».
«Dovranno bastare».
«Non basteranno».
«Allora dovremo ritirare le nostre legioni e occupare i confini tra Morèa e Nika».
Aaron scosse la testa «Per farlo…» sussurrò «Saremo costretti a lasciare sguarnita Ennon».
Botte di Ferro abbassò lo sguardo, fissando la mappa che aveva sotto gli occhi. «Così sia» concluse con la morte nel cuore «Ennon è dove si trova la sua gente. Ho giurato di difendere delle persone, non un cumulo di macerie. La nostra offensiva dovrà essere organizzata altrove. Aaron…guiderai tu il nostro esercito. Kasimir, mi servi a Palazzo: se anche Morèa dovesse fallire, avremo bisogno di qualcuno in grado di trasformare la Cittadella in una fortezza inespugnabile. Io e Hansel ci occuperemo degli sfollati. Nessuno verrà lasciato indietro. Nessuno. Non finchè ci sarò io».
Il Torneo di Palazzo venne allestito con urgenza e i suoi preparativi procedettero senza sosta, ma non abbastanza velocemente, e presto il Borgo della Ceramica si trovò ad essere l’ultimo baluardo di una resistenza ormai senza speranza.
Di fronte ad un esercito che sembrava instancabile, Zane radunò gli uomini di Ennon e gli arcieri di Nika in un disperato tentativo di difesa. Eppure quello non sembrava l’unico problema da dover affrontare.
«Non me ne starò qui senza far niente» dichiarò Theresa, ammassando sul pavimento il suo equipaggiamento, pronta a partire la mattina seguente alla volta di Morèa.
«E invece è esattamente quello che mi aspetto da te» la contraddisse Zane, la mano posata sulla spalla di Isolde e, di fronte a lui, una Daianara senza più parole.
«Tess, per favore…» la implorò ancora una volta la ragazza, spossata da una discussione durata tutto il giorno.
«Non farmi sentire più inutile di quanto io già non mi senta».
La voce del Ministro di Ennon si fece più profonda «Non è un gioco, ragazzina».
«Lo so! Ed è per questo che dovresti smetterla di trattarmi come se non comprendessi la gravità della situazione».
«Non la comprendi affatto! Nessun totem potrà esserci di aiuto in questo scontro e coinvolgervi equivarrebbe ad una resa».
«Ma se riuscissi…».
«Ho già preso la mia decisione» la interruppe bruscamente «Non fingere di non averla sentita. Non ammetterò discussioni a riguardo e sarebbe bene che tu te ne facessi una ragione. Non ti sto parlando come padre, ma come Ministro» e aggiunse brontolando «Nemmeno con Dedalo ho dovuto sprecare tanto fiato».
«E’ un cavallo!».
«E riesce ad essere più maturo di te!».
La rossa dovette mordersi la lingua prima di parlare e dopo aver soppesato con attenzione le sue parole disse: «Io non sono una bambola come tutte le altre. Almeno questa volta la mia disgrazia potrebbe giocare a nostro favore. A cosa servo altrimenti, se non posso neanche difendere le persone che amo? A cosa serve tutto questo dolore se non mi permettete di combattere per una causa che reputo giusta?».
«Non illuderti Theresa, non sei speciale come credi» bofonchiò l’uomo, mantenendo il suo sguardo, e in risposta lei cercò con gli occhi il sostegno di Daia.
«Tu dovresti essere dalla mia parte».
«Io sono dalla tua parte. Sempre».
«Ma?».
«Ma non così. Non sappiamo quale male stiamo combattendo, né sappiamo perché i totem si siano rivoltati contro di noi. Riesci ad immaginare la portata di un simile ordine?».
«Non me ne importa un accidente degli ordini! Non ne ho mai seguiti in vita mia».
«Adesso ne seguirai uno» concluse Zane «Non ti muoverai da qua, anche a costo di metterti alle calcagna tutte le guardie di Palazzo. Sai combattere, te lo concedo, ma non ti servirà a nulla fino a quando non combatterai anche con questa» si indicò la testa. «Una morte inutile aiuta soltanto il nemico».
Theresa fremette. Afferrò il fodero della sua spada, se lo legò in vita e dopo aver finto un inchino uscì dalla stanza, sbattendo violentemente la porta.
Botte di Ferro si lasciò scappare un sospiro di sollievo e accennando un sorriso rassicurò sua figlia: «Andrà tutto per il meglio, vedrai».
«Oh, papà» scosse la testa Daia, coprendosi gli occhi con le mani «La conosci così poco…».

 

Nota dell'autrice: Abbiate pietà del mio ritardo perchè la sessione estiva non ne sta avendo.

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Capitolo 19
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