Million reasons

di Athena_89
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Dorchester 1926.
Mr O'Brien non aveva tutte le rotelle a posto, ma era un uomo buono.
Ogni estate, permetteva a Sherlock e Victor di giocare nel suo campo di granturco, luogo piuttosto affascinante per quelli che all'epoca erano solo due bambini. Le lunghe spighe di grano li sovrastavano per quasi un metro ed erano così fitte, ravvicinate tra loro, da risultare un ottimo nascondiglio. Perfette per giocare a rincorrersi e nascondersi, mentre le loro urla e risa riempivano il silenzio della fattoria del vecchio buon O'Brien.
Era rimasto solo cinque anni prima, sua moglie se ne era andata nella notte, silenziosa, senza soffrire. Non se ne era accorto subito, la mattina dopo, al suo risveglio. Mrs O'Brien aveva il volto sereno, con l'ombra di un sorriso a curvarle le labbra, e sembrava semplicemente addormentata.
Da allora gli era rimasto unicamente se stesso, non avevano avuto figli, lui e sua moglie, li desideravano, certo, ma sembrava che non fossero stati scelti per quel ruolo. Purtroppo dopo anni di tentativi avevano rinunciato, rassegnati al fatto che non potessero avere bambini.
Tutti gli altri parenti dell'uomo erano lontani, nell'Irlanda del Nord, da dove lui veniva. Conosceva parecchie leggende di quel suo luogo natio e altrettante ballate che non si stancava mai di cantare ai due bambini, quando nelle ore più afose li invitava a ripararsi sotto il patio a rinfrescarsi con una limonata. Aveva raccontato loro delle fate, li aveva messi in guardia sui Changeling e gli aveva cantato più volte Black Velvet Band, la canzone che i due preferivano tra tutte.
Mr O'Brien credeva davvero a tutte quelle storie, aveva assicurato loro di aver visto le fate, lì in Irlanda, una volta. Raccontava del suo incontro con loro ed ogni volta Victor lo guardava affascinato, la bocca leggermente aperta e la bandana da pirata sull'occhio che iniziava a scivolargli lentamente su una guancia.
Sherlock era invece troppo scettico e razionale, nonostante i suoi sei anni, non credeva nell'esistenza di tali cose, ma non osava contraddire Mr O'Brien per rispetto.
A volte Mr O'Brien raccontava loro della Grande Guerra e quelle erano storie vere, ed entrambi i bambini pendevano dalle sue labbra, con gli occhi pieni di curiosità e domande.
“Siete stati fortunati, voi due, a nascere dopo”, ripeteva sempre.
Il buon vecchio non era solo un pozzo pieno di racconti interessanti, da ragazzo era stato un musicista, uno dei più bravi dei suoi tempi. Aveva iniziato ad insegnare ai due bambini qualcosa, ma Victor non aveva per niente orecchio musicale e si era ben presto stancato di quelle lezioni a cui invece Sherlock non mancava mai. Con il tempo era diventato abile nel leggere il pentagramma ed il solfeggio non aveva segreti per lui. Chiave di basso, chiave di violino, piano, forte, andante, allegro, bemolle e diesis, non c'era niente che alla soglia dei suoi sette anni non sapesse riguardo la musica. Aveva imparato a suonare il pianoforte ed il violino e si era particolarmente affezionato a quest'ultimo migliorando con una velocità impressionante. Mr O'Brien aveva capito subito di non trovarsi davanti ad un bambino come gli altri. Sherlock era più intelligente ed era avido di sapere. Alla sua età aveva già letto libri adatti ad un bambino di dieci anni, sapeva fare calcoli matematici con velocità e precisione e la sua intelligenza mnemonica era più sviluppata del normale.
A volte costringeva il povero Victor a passare giornate nella biblioteca del paese, con la scusa che lì facesse più fresco, quando il sole era alto e picchiava forte sulla testa.
Non c'erano estati troppo calde in Inghilterra, a dire la verità. Ma in alcune giornate le temperature sfioravano i trenta gradi e la pelle pallida dei due si scottava facilmente.
La mattina presto, però, i due si incontravano al solito posto, la casa sull'albero che avevano costruito con l'aiuto di Mr Holmes, pronti per l'ennesima avventura piratesca, armati delle loro spade di legno e i capelli da capitani della nave che Mrs Holmes aveva cucito per loro.
“Non la passerai liscia questa volta, Barbarossa!”
“En garde, Barbagialla!”
Sherlock rientrava a casa sempre sporco di terra e con le ginocchia sbucciate, ma mai stanco, pieno delle energie che solo un bambino poteva avere, ignorando le lamentele della sorella minore, Eurus, per non essere stata resa partecipe al gioco (“Sei corso via senza di me! Ti avevo detto di aspettarmi!”) e le occhiate di superiorità di suo fratello maggiore, Mycroft (“Ancora questo stupido gioco dei pirati. Quando ti deciderai a crescere?”).
 
Una mattina di luglio, dopo aver trangugiato in fretta la sua colazione, si era precipitato fuori casa, ancora una volta inseguito dalle proteste della sorella più piccola, ed aveva lasciato che le lunghe gambe piene di graffi lo portassero al solito luogo di incontro. Si era incrociato con Victor a metà strada e, dopo essersi lanciati una sfida silenziosa, nessuno dei due aveva accennato ad arrestare la propria corsa, cercando di prevalere l'uno sull'altro, in una gara a chi sarebbe arrivato prima alla casa sull'albero.
Ma Victor era decisamente più bravo nelle attività fisiche e ben presto si lasciò l'amico alle spalle, ridendo del suo grugnito contrariato e sapendo quanto detestasse perdere.
Tuttavia non raggiunse l'albero per toccarlo e gridare la propria supremazia su Sherlock, si bloccò, scorgendo una figura che girava attorno al tronco, studiando con curiosità la casetta di legno.
“Un intruso! In guardia, intruso!”, gridò allora Victor facendosi avanti, la spada di legno sguainata e il duro cipiglio da pirata sul viso.
“Uo! Uo! Calma! - esclamò l'intruso alzando le mani in segno di resa - Stavo solo dando un'occhiata”
Avvicinatosi, Sherlock notò che non era altro che un bambino come loro, forse di una manciata di anni più grande (ma non grande quanto Mycroft). L'osservò incuriosito, lasciando vagare lo sguardo sulla sua figura senza alcuna discrezione. C'era un gioco che faceva spesso con Mycroft, l'unico che il fratello maggiore gli concedeva, ma solo per fargli vedere che era più bravo di lui, ed era quello di capire tutto di una persona solo studiandone l'aspetto. Doveva ancora esercitarsi in quel gioco per arrivare ai livelli del fratello, ma era già bravo a modo suo, abbastanza da capire che il ragazzino era di buona famiglia, aveva ricevuto un'educazione rigida e studiava a casa con un tutore privato.
Non era figlio unico ed era un fratello maggiore, ma di questo non era certo.
Sherlock era alto quanto lui, ma essendo più alto per la propria età, deduceva che l'altro bambino dovesse avere almeno nove o dieci anni. Indossava un paio di calzoni fino al ginocchio ed una camicia bianca, immacolata, di ottima fattura. I capelli biondi erano freschi di taglio, ordinati e le scarpe sembravano nuove di zecca, senza nemmeno una macchia, probabilmente comprate il giorno prima. Era certamente nuovo di lì, perché non lo avevano mai visto prima da quelle parti.
“Mi chiamo John. John Watson. - si presentò dopo un attimo di silenzio in cui si erano scrutati tutti e tre - L'avete fatta voi?”, indicò incuriosito la casa sull'albero.
“Ci ha aiutati suo padre - rispose Victor, indicando Sherlock con un cenno della testa - Io sono Victor Trevor”
“Sherlock Holmes - si limitò a dire il compagno di giochi, togliendosi il cappello da pirata dalla testa e incastrando la spada di legno tra la cinta e i pantaloni - Non sei di qui.”
“No, infatti. Sono arrivato ieri con la mia famiglia, da Londra. - John lo guardò attentamente e per un attimo Sherlock pensò che stesse facendo il suo stesso gioco, tanto profondo era lo sguardo che gli stava rivolgendo - Non ho visto molta gente in giro, quindi mi chiedevo se ci fossero altri bambini da queste parti”
“Non molti, siamo in campagna qui e sono poche le case nelle vicinanze. Ci siamo noi due”, disse Victor.
“Ed i miei fratelli, ma te li sconsiglio, specialmente Mycroft - aggiunse Sherlock con una smorfia. - Anche perché lui non ha tempo da perdere con i 'marmocchi', deve studiare, un giorno sarà un uomo importante, sai? Lavorerà a Buckingham Palace, o almeno così dice.”
Un sorriso curvò le labbra di John e nel suo sguardo si accese una scintilla di divertimento.
“Vuoi giocare? - Victor allungò la propria spada verso di lui, porgendogliela gentilmente. - Di solito io sono Barbarossa e lui è Barbagialla”
John esitò, guardando prima la spada finta, poi i due bambini, mordendosi le labbra e dandosi una certa aria di maturità, come se fosse ormai troppo grande, a nove anni, per giocare ai pirati.
“Oppure possiamo andare a giocare a nascondino nel campo di Mr O'Brien – suggerì Sherlock, cogliendo lo sguardo del nuovo arrivato, mostrando un'empatia che non gli era solita – Devi assolutamente conoscerlo, sa un sacco di storie assurde su fate e folletti. Ma anche storie vere sulla guerra.”
Il sorriso affiorò di nuovo sulle labbra di John, che gli rivolse un'occhiata di gratitudine a cui Sherlock rifuggì immediatamente, comportandosi come se non avesse fatto nulla di particolare.
Con un lieve cenno della testa, il nuovo arrivato accettò l'invito e si incamminò con gli altri due bambini, alla volta della fattoria di Mr O'Brien.
 
Divenne un incontro abituale, da quel momento. John non si univa a molti dei loro giochi, ma quando andavano dal vecchio O'Brien li raggiungeva sempre e come Victor e Sherlock, anche lui pendeva dalle labbra dell'uomo, completamente rapito dai suoi racconti.
Quando Sherlock rimaneva per la lezione di musica, si tratteneva anche John. Non era interessato ad imparare alcun strumento, ma gli piaceva starsene seduto su una poltrona ad ascoltare l'amico suonare. A volte Sherlock lo sorprendeva a fissarlo, con lo sguardo profondo e una strana luce nelle iridi, completamente rapito dalla musica e dalle mani del bambino che muovevano abilmente l'archetto sulle corde tese.
“Sarai un ottimo musicista da grande”, dichiarò John, mentre un tardo pomeriggio camminavano verso le rispettive case, di ritorno dalla fattoria.
“Non voglio diventare un musicista”, replicò l'altro, scrollando le spalle e scacciando i riccioli scuri dagli occhi.
“No? E cosa vorresti diventare?”
“Sarò un investigatore”
“Non stento a crederlo”
In quelle settimane, in cui la loro amicizia era andata a rafforzarsi sempre più, Sherlock aveva dato prova delle proprie abilità investigative, seppur legate a piccole cose, ma John ne era rimasto comunque sorpreso.
“E tu? Tu cosa sarai un giorno?”
“Un medico. Come mio padre”, rispose John mentre forzava le gambe a risalire la collina ora che il terreno si era fatto un po' più ripido ed era ancora scivoloso per la pioggia caduta quella mattina.
“Per renderlo orgoglioso di te?”
John lo guardò per qualche secondo interdetto, preso alla sprovvista, e quasi scivolò sull'erba umida dopo aver messo un piede in fallo.
“Voglio aiutare le persone”, dichiarò dopo un lungo silenzio ed aver recuperato l'equilibrio.
Sherlock non aveva replicato, ma non gli era servito molto per capire che John faceva di tutto per attirare l'attenzione di suo padre, che voleva essere disperatamente notato da lui e che, troppo preso dal proprio lavoro e dalle ore passate in ospedale, Mr Watson a malapena realizzava di avere una famiglia. Ma non era solo quello, c'era altro. Sembrava quasi che l'uomo non considerasse John all'altezza di tutto, aveva sempre una parola fuori posto per lui: John non era abbastanza forte, John non era abbastanza alto, John non era abbastanza intelligente.
Ma John intelligente lo era, eccome, e Sherlock non capiva come suo padre non riuscisse a notarlo.
“Sarai un medico fantastico, John”, disse alla fine, sorprendendo il nuovo amico, che non potè fare a meno di guardarlo con le sopracciglia alzate. In quelle poche settimane aveva imparato su Sherlock molto più di quanto l'altro credesse. Una di queste era che al giovane Holmes non piaceva prodigarsi in complimenti, nulla che potesse avvicinarlo troppo agli altri. Il suo era sempre un atteggiamento distaccato, persino con Victor con cui aveva un ottimo rapporto.
“Ci vediamo domani”
Prima che John potesse replicare qualsiasi cosa, anche solo un saluto, l'amico era già corso in casa, richiudendosi la porta alle spalle con un tonfo, quasi stesse fuggendo da quell'incoraggiamento che lui stesso si era lasciato sfuggire.
All'ingresso Sherlock tolse le scarpe sporche di fango, lasciandole accanto a quelle immacolate di Mycroft che sarebbe sicuramente impazzito nel vedere tale vicinanza.
Attraversò il salotto di corsa, raggiungendo la cucina, dove sua madre si affaccendava ai fornelli.
“Per l'amor del cielo, tesoro! Non vorrai sederti a tavola in quelle condizioni!”
“Cos'ho che non va?”, replicò il figlio di mezzo, dopo aver rubato una pagnotta di pane, appena sfornata e tolto una foglia dai ricci ribelli. Aveva chiazze di terra persino sul naso perfettamente dritto che aveva ereditato proprio da sua madre.
“Sherlock, hai decisamente bisogno di un bagno, adesso”, disse lei con calma, tornando ai fornelli.
“Sai, mamma, che è proprio entrando in contatto con l'antigene che gli anticorpi entrano in funzione portando il corpo a svilupparne di più e quindi a renderlo più forte e...”
“Sherlock, vai a lavarti”
Il ragazzino alzò gli occhi al cielo, ma nemmeno lui poteva fronteggiare l'autorità di una madre che non lo avrebbe ammesso alla propria tavola, se non si fosse presentato perfettamente immacolato. Marciò verso le scale, borbottando qualcosa su anticorpi ed antigeni e sul fatto che sua madre non capiva nulla di scienza.
Incrociò nel corridoio Eurus, che da quando era diventata amica della sorella minore di John lo apprezzava molto di più, e lo sguardo critico di Mycroft, che ovviamente non approvava che il fratellino tornasse ogni giorno ridotto in quelle condizioni.
“Anticorpi, Mycroft, anticorpi”, si limitò a dirgli Sherlock, indicando i propri abiti sporchi di terra.
“Chissà quante zecche staranno facendo campeggio tra quei vestiti -, replicò il fratello maggiore con una smorfia di disgusto. - ti ci vorrebbe un miracolo in quel caso, non degli anticorpi”
Il fratello replicò con una smorfia, prima di sparire nel bagno.
 
Quella di Sherlock non poteva definirsi una famiglia normale. I coniugi Holmes avevano avuto la fortuna (o sfortuna) di mettere al mondo tre figli con un quoziente intellettivo più alto della media, che non perdevano mai l'occasione di cercare di prevalere l'uno sull'altro, dimostrando ciò di cui erano capaci e a volte riuscendo persino ad umiliare i loro stessi genitori.
Mrs Holmes era una donna paziente, ma ferrea, che bene o male riusciva a tenere a bada i figli, seppur non fosse affatto un compito semplice. Combattere ogni giorno con tre bambini che la sapevano più di lei era tosta. Persino Eurus, che aveva solo cinque anni, sembrava già un'adulta nei modi di fare e pensare.
A volte, realizzare che i suoi figli erano già troppo più grandi dei loro coetanei, la spaventava. Sapeva quanto fosse difficile inserirsi in una società tanto chiusa, senza contare che vivevano in un piccolo paese dove la mentalità era ancora più ristretta, con un cervello come quello dei tre bambini, agli occhi degli altri così diversi, risultava ancora più complicato.
Specialmente per Sherlock e Eurus, che non avevano alcuna capacità di controllarsi, tenere a freno la lingua.
Non aveva mai chiesto loro di essere come tutti gli altri, non aveva mai imposto loro regole ferree, né che dovessero modellare la loro personalità in base a ciò che la società chiedeva. Ma soffriva nel vederli a volte emarginati. Soffriva nel sapere che Sherlock aveva problemi a scuola, che non sopportava di andarci e soprattutto, Mrs Holmes soffriva nel sentirsi dire dall'insegnante che forse avrebbe dovuto portarlo da uno psicologo, perché mostrava chiari segni di iperattività.
Erano solo dei bambini, ed erano i suoi figli. Come si permettevano degli estranei di giudicare e di dirle cosa fosse meglio per loro?
“Per l'amor del cielo, Sherlock, taci una buona volta -, la voce altezzosa di Mycroft la riportò alla realtà, - non mi sembra il caso di parlarne a tavola!”
“Ma l'ho visto su quel libro di anatomia in biblioteca, il cuore del maiale è esattamente come il nostro. Sarebbe come mangiare una persona!”
Mrs Holmes abbassò lo sguardo sulla pentola piena di stufato di maiale che stava portando a tavola e sospirò.
“Dicono che anche il sapore della carne umana, sia lo stesso di quella del maiale”, intervenne Eurus, piuttosto interessata all'argomento.
“D'accordo, ragazzi, basta così, è ora di mangiare. Potremmo evitare di parlare di cuori e carne umana? Vostra madre ed io ve ne saremmo infinitamente grati”, tagliò corto Mr Holmes, afferrando la brocca d'acqua per riempire i bicchieri dei tre figli e della moglie.
“Sherlock, tesoro, piuttosto che leggere tutti quei libri per adulti, perché non ti concentri più sui compiti per le vacanze?”, azzardò Mrs Holmes, riempiendo i piatti di tutti.
“Noioso -, commentò il ragazzino alzando gli occhi al cielo, - devo proprio tornarci a scuola?”
“Ne abbiamo già parlato”
Con un sospiro contrariato, Sherlock abbassò lo sguardo sul proprio piatto e cercò di concentrarsi unicamente sulla cena. Non parlò più, fino a che non fu concesso loro di alzarsi da tavola. A quel punto si ritirò nella stanza che divideva con Mycroft, andando a chiudersi in se stesso e in qualcuno dei suoi strani libri.
 
Un pomeriggio di fine agosto, sedeva all'ombra di una grossa quercia con Victor e John, ed era intento ad intagliare un piccolo ciocco di legno, con un affilato taglierino che continuava a sfuggirgli di mano.
“E quello dove lo hai preso?”, domandò Victor quando lo vide.
“Casa degli attrezzi in giardino”, replicò brevemente il giovane Holmes, senza alzare lo sguardo, concentrato su ciò che stava facendo.
“Potresti farti male. Forse non è il caso...”, si intromise John.
“Sciocchezze – rispose Sherlock poco prima che il taglierino gli scivolasse di nuovo, andando a colpirlo sul pollice della mano sinistra – oh...”
Il ciocco di legno si macchiò subito di sangue, ma il ragazzino non ebbe alcuna reazione, totalmente preso dalla piccola ferita che si era aperta dalla sua pelle e dal sangue vermiglio che cadeva fuori in gocce.
“Fammi vedere”, intervenne John, afferrandogli la mano, il cipiglio da 'te l'avevo detto'. Sherlock non si oppose e anzi docile abbandonò la mano tra quelle dell'amico, che studiava il taglio con sguardo attento, lo stesso che gli era capitato di vedere sul volto di Mr Watson.
“Non è profondo -, dichiarò poi, quasi con tono professionale, tirando fuori dalla tasca un fazzoletto di stoffa. Ne strappò una striscia, per poi avvolgerla intorno al pollice di Sherlock, legandola stretta. - sopravvivrai”, aggiunse con un sorriso divertito, continuando a tenere la mano dell'amico tra le proprie, per qualche secondo. Si lanciarono uno sguardo, poi Sherlock ritirò il braccio, mordendosi le labbra a forma di cuore.
“Certo che sopravvivrò, sono il pirata più temibile di tutti i tempi”, distolse lo sguardo.
“Sono io il pirata più temibile!”, esclamò Victor saltandogli addosso per ingaggiare una lotta giocosa, “Fammi vedere cosa sai fare, Barbagialla!”
I due rotolarono sull'erba, cercando di atterrarsi a vicenda, tra grugniti vari e scoppiando di tanto in tanto in una risata. John li guardò rassegnato, ma con l'ombra di un sorriso a curvargli le labbra.
I due continuarono per un paio di minuti, mangiando un bel po' di erba a testa, finché non sentirono la madre di Victor chiamarlo da lontano.
“Devo andare a finire i compiti – fece con un sospiro, alzandosi in piedi e liberando Sherlock che aveva appena schiacciato sul terreno con il proprio peso. - ci vediamo domani!”
Rimasti soli, John e Sherlock sedettero l'uno accanto all'altro in silenzio, in contemplazione del paesaggio circostante. Non parlarono per diversi minuti, senza alcun disagio, in quelle settimane avevano imparato a passare il tempo anche in quel modo e John doveva ammettere di trovarlo molto rilassante. Con un sospiro tranquillo, si sdraiò sull'erba, le braccia sotto la testa. Alzò gli occhi verso il cielo sereno, l'azzurro intenso spezzato di tanto in tanto da una nuvola bianca.
“Allora, pronto per il rientro a scuola?”, spezzò poi il silenzio, senza distogliere gli occhi dall'alto.
“Dio, la odio -, sbuffò Sherlock andando a sdraiarsi nella stessa posizione, accanto a lui. I suoi occhi chiarissimi rifletterono gli occhi del cielo, al punto che quasi non si potevano distinguere. - la trovo così noiosa”
“Non ne dubitavo”, John rise.
“Sono tutti così stupidi, anche gli insegnanti. Per fortuna c'è Victor, che alza un po' il quoziente intellettivo di tutta la scuola. E da quest'anno anche tu...”
Si voltarono a guardarsi e perdendosi negli occhi di Sherlock, a John sembrò di non averli mai distolti dal cielo. Arrossì leggermente per il commento dell'amico e si schiarì la voce, dopo qualche secondo, non sapendo cosa dire.
“Pensi che io sia intelligente?”, mormorò dopo un attimo di esitazione.
“Certo che lo sei, John!”
“Grazie”
Sherlock scrollò la testa, tornando a volgere gli occhi al cielo, per poi tirarsi a sedere. Scrollò i ricci con una mano, nel tentativo di rimuovere fili d'erba e foglie, che erano andati ad incastrarsi durante la piccola lotta con Victor. Cadde poi in uno dei suoi soliti silenzi, di nuovo. Joh non vi diede peso, chiuse gli occhi e inspirò gli odori portati dalla lieve brezza che gli accarezzava il viso. A quell'ora l'aria profumava di arrosto e di pane appena sfornato. Era un odore che andava ad unirsi a quello solito dell'erba fresca appena tagliata, dei fiori e dei campi che li circondavano.
Starsene lì, in silenzio con un amico, ad inspirare l'odore di quella che ormai considerava casa, non lo avrebbe mai potuto stancare. A volte riusciva ad avvertire anche l'odore di Sherlock. Era un misto di terra umida, abiti puliti, biscotti appena sfornati e anche del sigaro che Mr Holmes soleva fumare in casa, nonostante i rimproveri della moglie. Sherlock sapeva di scoperte, di cose nuove ed inesplorate.
“Devo andare”, la voce dell'amico lo riportò alla realtà.
John si mise a sedere quasi di scatto, come colto in flagrante nel bel mezzo dei suoi pensieri più segreti. Sherlock lo stava scrutando con gli occhi tranquilli.
“Domani ci vediamo giù al laghetto, ultimo bagno della stagione”, stava dicendo. Il più grande annuì.
“A domani, allora”
“A domani, John”
Sherlock si alzò e gli volse le spalle. John lo guardò correre via con quelle gambe magre e lunghe, lasciate in mostra dai pantaloni lunghi fino al ginocchio, sempre sporche di terra e piene di graffi. Si chiese quanto ancora sarebbero cresciute, se sarebbero diventate chilometriche come credeva.



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Contagiata dalla miriade di fanfiction che sto leggendo in questi giorni e particolarmente ispirata, ho deciso di cimentarmi io stessa nella stesura di una fanfiction. E' la prima che scrivo su Sherlock quindi sono parecchio in ansia. Ho avuto tantissimi dubbi mentre scrivevo questo primo capitolo e ovviamente non sono mancate le autocritiche, per la serie "ma cosa sto facendo? Questa storia è ridicola. Forse dovrei lasciar perdere", ma alla fine ho terminato il capitolo e lo sto anche postando. Insomma, spero non faccia davvero così pena come credo ><
Per adesso Sherlock e John sono solo due bambini, ma ovviamente nel corso della storia cresceranno :)
Athena.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Dorchester 1933
Era uno degli inverni più rigidi che John ricordasse.
Quella mattina del sette dicembre, trovò la neve a ricoprire ogni cosa, al suo risveglio. Era caduta costantemente durante la notte ed ora se ne stava lì, sotto un cielo ormai limpido, resa scintillante dal debole sole. Vedere la campagna in quel modo era uno spettacolo unico e non poté che rimanerne affascinato. A Londra non aveva mai nevicato così e le volte in cui ne era caduta un po' era diventata subito una poltiglia grigiastra agli angoli delle strade.
Ma lì, dove l'aria era più pulita e non c'era l'inquinamento di una città caotica, la neve era candida e sembrava quasi brillare di luce propria.
“Dovrai coprirti bene”, commentò sua madre, quando scese per la colazione, lanciando un'occhiata al di là della finestra, verso il lato dove l'alba rischiarava il cielo.
L'ormai sedicenne John Watson annuì, mandando giù un enorme cucchiaiata di porridge caldo, pensando che fosse scontato che doveva coprirsi bene ma non esponendo ad alta voce il proprio pensiero. In pochi bocconi finì la colazione e lasciò la tavola.
Durante l'estate era cresciuto di qualche centimetro, ma non tanto quanto aveva sperato e non come la maggior parte dei propri compagni di scuola. Sherlock gli aveva detto che era una questione di genetica, che entrambi i coniugi Watson erano più bassi della media, per cui era difficile che John potesse raggiungere l'altezza sperata.
Il giovane Watson lo aveva mandato al diavolo in un lieve borbottio. Parlava facile lui, che a tredici anni era il più alto della sua classe ed aveva anche superato John di diversi di centimetri ormai.
“Non capisco perché tu debba fartene un cruccio”, aveva commentato Sherlock con tranquillità, senza alzare gli occhi dal libro che stava leggendo.
Beh, alle ragazze importava molto dell'altezza, ecco tutto! Erano tutte così maledettamente prese dai ragazzi alti e statuari ed invitarne una ad uscire si stava rivelando arduo.
“Come se ti interessasse davvero frequentarne una. La tua è solo una stupida forma di conformismo.”
Il commento annoiato di Sherlock lo aveva punto sul vivo e la cosa che lo aveva irritato di più era che non aveva saputo replicare. Una parte di lui sapeva che Sherlock aveva ragione: a quell’età tutti i suoi coetanei si interessavano alle ragazze, le portavano fuori a bere un caffè insieme. Alcuni le corteggiavano seriamente e non era inusuale che la relazione diventasse un vero e proprio matrimonio dopo il diploma. Ma John non era davvero interessato a tutto questo, anche se si ostinava a credere che fosse così. La sua curiosità verso il genere femminile era data principalmente dal fatto che aveva sempre frequentato scuole maschili e che lì, nelle campagne di Dorchester, incontrarne una era alquanto difficile. E poi sì, c’era anche del sano e radicato conformismo in John, oltre i continui tentativi di rendere orgoglioso suo padre, che si aspettava che il figlio diventasse un medico come lui e mettesse su famiglia il prima possibile.
Sentiva che doveva trovare una ragazza al più presto, per non essere diverso dagli altri, per non venire meno ai propri doveri.
E come sempre, Sherlock aveva capito tutto questo senza che gliene parlasse, lo aveva capito anche prima di John stesso. Sembrava leggergli dentro, a volte, lo guardava con quei profondi e magnetici occhi azzurri e sembrava quasi che gli stesse frugando nei pensieri più intimi. Spesso lo metteva a disagio. Davanti a Sherlock, John si sentiva nudo, esposto, un libro aperto. Aveva la sensazione di non potergli tenere niente nascosto.
“Ci vediamo oggi pomeriggio!”, gridò dall’ingresso, alla volta della madre ancora in cucina.
Aveva messo in fretta il maglione della divisa ed indossato un paio di stivali di gomma, invece delle solite scarpe nere della scuola, riposte nella cartella a tracolla.
Ben avvolto da una sciarpa, riparato da un pesante giaccone e con quel ridicolo cappello di lana che gli aveva cucito la madre, uscì di casa, avventurandosi nel freddo e nella neve.
Arrancò in tutto quel candore, fino a raggiungere casa di Sherlock. Bussò e ficcò le mani in tasca per tenerle al caldo.
“Oh John, buongiorno caro!”, lo salutò con un sorriso Mrs Holmes, non appena spalancata la porta.
“Buongiorno a lei”, John ricambiò il sorriso con calore.
“Vado subito a chiamare Sherlock, spero sia pronto.”
Lo lasciò all’ingresso, ad attendere, e salì al piano di sopra, chiamando il figlio. Sherlock non era mai pronto quando John passava a prenderlo. Non dormiva fino a tardi, era anzi un tipo mattiniero, ma non ritenendo la scuola importante, perdeva tempo immerso in un libro o chino su un pentagramma, a comporre musica. A volte era nella cucina della povera Mrs Holmes, ancora in pigiama ed intento a fare qualche strano esperimento di chimica ai fornelli.
Quella mattina non lo fece aspettare troppo: dieci minuti dopo, Sherlock stava scendendo le scale, intento ad infilarsi la giacca e con un toast stretto tra i denti. Mugugnò qualcosa che doveva essere un saluto e afferrò dall’attaccapanni un cappello di lana ed una sciarpa, che indossò velocemente, in modo sciatto. I riccioli scuri e ribelli fecero capolino da sotto il berretto, quasi stessero cercando disperatamente di liberarsi. Silenziosamente, Sherlock infilò gli stivali di gomma e mise a tracolla la cartella di cuoio, per poi uscire di casa così in fretta che sembrava stesse fuggendo dalla propria abitazione.
“Arrivederci, Mrs Holmes!”, riuscì ad urlare John, prima di chiudersi la porta alle spalle e raggiungere in fretta l’amico, che aveva già divorato qualche metro con le lunghe gambe.
“Ehi, Sherlock, aspettami!”
John arrancò quasi annaspando nella neve e lo raggiunse. Si incamminarono sul solito sentiero che prendevano ogni mattina per scendere in paese, diretti a scuola. Di solito Victor si univa a loro, ma una brutta febbre lo aveva costretto a letto dal giorno prima.
“Che succede, perché stai scappando da casa tua?”
“Mycroft”, rispose semplicemente Sherlock, guardando avanti a se con le mani riparate nelle tasche.
“È tornato per le vacanze?” Sherlock annuì con una lieve smorfia, rivolgendogli un’occhiata veloce. I suoi occhi sembravano brillare come la neve, con tutto quel bianco attorno a loro risaltava ancora di più il colore tanto intenso.
“Voglio evitarlo il più possibile. È diventato ancora più insopportabile da quando si è trasferito a Londra ed ha iniziato l’università. E mamma non fa che lodarlo e dire quanto sia fiera di lui a chiunque incontri!”
John si lasciò sfuggire una lieve risata, schiarendosi subito dopo la voce per mascherarla.
“E' il suo dovere di genitore, vantarsi del figlio genio e diligente”, commentò poi, divertito.
“Certo, tutto nella norma. Mycroft, il figlio perfetto! Mycroft il genio! Lui e il suo quoziente intellettivo da un milione di punti! - Sherlock allargò le braccia con fare teatrale, parlando al cielo – Peccato che solo io lo veda per quello che è davvero: un idiota.”
“Rivalità tra fratelli, nella norma anche questo”
Il giovane Holmes sbuffò, lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi e scuotendo la testa e John non poté fare a meno di ridacchiare di nuovo. Per lui era difficile, se non impossibile, capire cosa significasse avere un quoziente intellettivo più alto della norma ed avere due fratelli che erano praticamente dei geni quanto te, se non di più. Nella famiglia di Sherlock c'era sicuramente una rivalità continua e nessuno dei tre Holmes poteva vantare anche solo un pizzico di modestia. Per qualche secondo John si ritrovò a compatire i genitori di Sherlock, che da anni assistevano alla continua lotta di cervelli che si svolgeva sotto il loro tetto.
Sherlock era ben consapevole che Mycroft fosse più intelligente di lui. Innanzitutto c'era una differenza di età di sei anni tra i due, che non era da sottovalutare, Sherlock era pur sempre un ragazzino di tredici anni. E poi, a differenza del fratello maggiore, era più istintivo, più informale e certamente più iperattivo. Mycroft aveva dalla sua non solo l'intelligenza, ma anche una certa educazione, un vocabolario formale e aulico non indifferente ed una calma invidiabile.
Detestava sentirsi meno bravo del fratello più grande, detestava mancare in qualcosa.
“Dovrò sopportarlo a cena ogni sera, finché non tornerà nella sua puzzolente tana, finalmente, a chilometri di distanza da me”
“Che ne dici di venire da me stasera?”, azzardò John di getto.
“A cena a casa tua?”
“Sì, a cena con la mia normalissima famiglia. Nessun genio che cercherà di prevalere su di te, nessun tipo di stress.”
“Io non sono stressato”
“Sei in continua rivalità con i tuoi fratelli, certo che lo sei. Allora, vieni o no?”
“Ci sarò”
Entrambi tacquero, guardando ovunque, tranne che l'uno verso l'altro. Senza parlare percorsero la strada che si snodava attraverso la campagna e che li avrebbe condotti fino al paese. I campi innevati che li circondavano erano quasi maestosi, immensi e sembravano avere qualcosa di magico nel loro etereo silenzio. C'era una sorta di malinconia nel vederli così vuoti, senza il raccolto che li caratterizzava in primavera ed estate, ma erano magnifici lo stesso.
A John sembrava quasi di trarne una specie di mistica tranquillità che lo portava ad apprezzare il mutismo in cui erano avvolti.
Si scambiarono poche parole, lui e Sherlock, durante i quaranta minuti di percorso nella campagna. Non c'era alcun disagio, il loro era un silenzio accordato senza dirselo in modo ufficiale, era anche su questo che si basava la loro amicizia. Non avevano bisogno di dirsi grandi cose, stavano bene anche così, soprattutto perché Sherlock si chiudeva spesso in se stesso e appariva quasi infastidito se gli si rivolgeva parola in quei momenti. John aveva imparato a riconoscerli, aveva imparato a rispettarli.
 
Frequentavano entrambi la scuola secondaria di Dorchester, l'unica del paese. Era una scuola cattolica, una grande struttura in pietra, dagli alti tetti spioventi e dalle numerose finestre che lasciavano entrare la luce in ogni aula, tuttavia non rendendola davvero luminosa.
Sherlock odiava ogni cosa di quel posto, a partire da ogni singolo mattone rosso che la componeva, fino ai suoi insegnanti incompetenti. Per non parlare degli altri studenti: un branco di idioti, con il cervello delle stesse dimensioni di una nocciolina, che non trovavano svago diverso dal dare il tormento a quelli che consideravano più deboli. Nonostante la disciplina fosse molto rigida nella scuola, la maggior parte degli studenti più anziani aveva imparato ad eludere la sorveglianza degli insegnanti durante la mezz'ora di pausa. Questo aveva portato molti degli studenti bullizzati a non voler lasciare le aule nella mezzora di ricreazione che era concessa.
Sherlock poteva vantare di non essere tra quelli più presi di mira della scuola, anzi, il più delle volte veniva lasciato in pace perché difficilmente cedeva alle provocazioni e poi perché era sempre in compagnia di Victor, che si era fatto una certa fama per averle date ad uno dell'ultimo anno, nel tentativo di difendere il migliore amico. Capitava anche che venisse visto insieme a John che, nonostante non avesse un aspetto minaccioso, era uno studente dell'ultimo anno e questo portava i suoi coetanei a non infastidirlo.
C'era una sorta di rispetto tra gli studenti dell'ultimo anno, per un chissà quale motivo che Sherlock non capiva e di cui non gli importava nulla.
In effetti erano ben poche le cose che gli importavano riguardo la scuola e tra queste vi erano l'aula di chimica e Mr Jones, l'unico del corpo insegnanti a meritare una menzione d'onore.
Per quanto riguardava il resto, il giovane Holmes era semplicemente nauseato: le divise che li rendevano tutti identici, quasi fossero stati soldati, e i soliti, alienanti gesti di routine quali l'arrivo a scuola; lasciare le proprie cose e le cartelle appesi al proprio posto, lungo i corridoi, e raggiungere l'aula; la preghiera mattutina (un vero tormento per chi come lui non credeva in Dio); l'inchino all'insegnante che entrava in aula, e poi le lezioni.
Le lezioni erano ore di pura agonia per Sherlock. Sapeva già la gran parte degli argomenti trattati e soprattutto li sapeva meglio del professore. Spesso non poteva fare a meno di dire la propria, contestando ciò che l'insegnante di turno stava dicendo. Ne erano nati il più delle volte dei veri e propri dibattiti che finivano quasi sempre con una punizione per lui, in qualità di studente indisciplinato. Aveva perso il conto di quanti colpi aveva ormai ricevuto sui palmi delle mani o sul fondoschiena per la propria lingua lunga e nemmeno gli interessava.
Era più forte di lui, non riusciva a tacere, anche se capitava a volte che si chiudesse nel proprio silenzio e si isolasse dal resto dell'aula. Quelli erano i giorni in cui resisteva fino alla mezz'ora di pausa senza creare danni.
Era stato uno di quei giorni, una volta tanto era filato tutto liscio fino alla ricreazione. Per gran parte della mattinata avevano avuto Mr Jones, dunque non era stato così difficile tenersi lontano dai guai. Al suono della campanella fu il primo a scattare in piedi, sentendo quasi le gambe protestare per quante ore le aveva tenute ferme. Senza guardare in faccia nessuno, si lanciò fuori dall'aula, raggiungendo impaziente la propria cartella. Portava ogni giorno con se il quaderno dove annotava ogni cosa, tutto quello che gli passava per la testa, che fossero esperimenti da fare, deduzioni o osservazioni su chi lo circondava. A volte lo rileggeva, a volte vi aggiungeva qualcosa o, se aveva fatto un dato esperimento, lasciava qualche commento sulla pagina dove si era scritto come promemoria di farlo.
Era piuttosto geloso di quel quaderno e mai lo aveva lasciato leggere a qualcuno, nemmeno a Victor o John.
Fu dapprima con stupore, poi con una sorta di panico che, nell'aprire la cartella, apprese che il suo prezioso quaderno non era lì, esattamente dove lo aveva messo quella mattina prima che arrivasse John. Frugò nella borsa, freneticamente, pur cosciente che non c'era e che non sarebbe apparso per magia così facendo.
“Stai cercando questo?”
Una voce canzonatoria lo portò ad alzare la testa di scatto e a lasciar andare la cartella a terra. I suoi occhi si posarono immediatamente sulla figura familiare e precisa del proprio quaderno, stretto nella mano di uno studente più grande. Per qualche secondo Sherlock lo scrutò in silenzio, sentendo la rabbia per il fatto che qualcuno aveva guardato nella sua borsa prendere il sopravvento. A seguire il panico nel vedere tutti i suoi appunti stretti in una mano tanto indegna e il disagio perché sapeva che ogni suo pensiero era stato letto. Era come se qualcuno fosse entrato nella sua testa e questo non accadeva mai. Di solito era lui ad entrare nelle teste degli altri.
“E' mio”, soffiò poi fuori sulla difensiva, come un gatto minaccioso, pronto a sguainare gli artigli.
“Lo so, l'ho preso dalla tua cartella”
Sherlock serrò la mascella ed i pugni, pur continuando a rimanere fermo, senza accennare il minimo movimento.
L'altro studente sorrise con scherno, sventolando il quaderno. Graham Evans era all'ultimo anno e non era di certo lo studente più brillante della scuola. Aveva origini scozzesi, di cui si vantava non poco, ed era convinto che i suoi capelli rossi e la miriade di lentiggini che gli ricopriva la faccia ne fossero la testimonianza certa. Girava sempre con altri due ragazzi che lui definiva amici ma che Sherlock vedeva più come scagnozzi stupidi. Due scimmioni completamente privi della logica.
Graham Evans era un altro dei motivi per cui il giovane Holmes odiava la scuola. Un borioso ragazzetto che provava gusto nell'infastidire i ragazzini più piccoli, che faceva della sua notevole altezza la propria forza e che attaccava elementi singoli quando lui era in gruppo. In una cosa però era furbo: non aveva mai alzato un dito su uno studente, le sue si limitavano ad essere torture psicologiche, di cui nessuno poteva avere prova dal momento che davanti gli insegnanti si comportava in modo impeccabile.
“Restituiscimelo”, disse con calma Sherlock, allungando una mano verso di lui.
L'altro finse di non averlo sentito e con movimenti lenti prese a sfogliare le pagine.
“Esperimenti del piccolo chimico, Holmes?”
“Nulla che il tuo cervello minuscolo possa capire, Evans. Cosa diavolo vuoi da me?”
“Dov'è il tuo amichetto? Trevor. Non è qui a difenderti? Abbiamo un conto in sospeso.”
“Non è a scuola oggi. Restituiscimi il quaderno.”
Graham scrollò le spalle e scosse la testa, sempre con quel sorriso irritante a curvargli le labbra. Arrotolò il quaderno e lo infilò in una delle tasche dei pantaloni.
“Se ci tieni tanto dovresti proprio venire a riprendertelo”
Gli voltò le spalle, con fare sfacciato, e si incamminò con gli altri due studenti lungo il corridoio, il passo strascicato e la tracotanza di chi era fin troppo sicuro di se.
Stringendo i denti, cercando di non cedere ad alcun sentimento e sapendo di star per cadere nella trappola, Sherlock lo seguì. Evans lo condusse fuori, nel cortile sul retro, il suo posto preferito, quello su cui non si affacciava alcuna finestra e dove gli insegnanti non andavano mai.
Solo quando le sue scarpe affondarono nella neve, Sherlock si accorse di essere uscito senza giacca. Il freddo di quella giornata grigia lo colpì come uno schiaffo in piena faccia, ma cercò di non curarsene. Tutto il suo interesse era concentrato unicamente sul quaderno.
“Allora, quindi è un oggetto molto prezioso per te, dico bene?”, lo canzonò Graham tirando fuori gli appunti di Sherlock dalla tasca e sfogliandoli senza alcuna cura. Una pagina si strappò a metà ed il ragazzino fu certo che non si era trattato di un incidente. A labbra serrate, il respiro ora corto e furioso, continuo a guardare lo studente più grande, non lasciando trasparire alcuna emozione all'infuori della rabbia.
“Oops... spero non fosse una pagina importante. E che non lo sia questa”, ne strappò un'altra, lasciandola cadere sulla neve.
“Qual è il tuo problema, Evans? - mormorò Sherlock con voce atona che non lasciava intendere quello che stava provando al momento - Perché devi prendertela in questo modo con gli altri?”
“E' divertente”, Graham alzò le spalle con fare noncurante.
“O forse ti aiuta a darti importanza perché fuori di qui non sei nessuno. È colpa di tuo padre? Del fatto che ti picchia? Per questo ti senti inferiore ed impotente?”, replicò Sherlock, la maschera impassibile ancora sul suo volto.
“Tu che diavolo ne sai?”, ringhiò l'altro mettendosi subito sulla difensiva.
“So che tuo padre beve troppo, che è spesso ubriaco ma che è bravo a nasconderlo al resto del paese. So che picchia te, tua madre e a volte tua sorella e che nessuno di voi ne fa parola. So che ce l'hai con tuo fratello per essersene andato e che pensi vi abbia abbandonati con quell'uomo orribile.”
“Taci, faresti meglio a chiudere la bocca!”
“E' per questo che te la prendi con chi è più debole. Senti il bisogno di sfogare la tua frustrazione...”
La spinta arrivò forte ed inaspettata. Lo fece cadere indietro nella neve, dove i suoi vestiti divennero immediatamente umidi. Contrariato, si rimise in piedi, scrollandosi i pantaloni con le mani.
“Ti ho detto di stare zitto. Non ho idea di come tu faccia a sapere tutte queste cose, ma ti conviene non dire altro, Holmes. Fossi in te non parlerei troppo senza i tuoi amichetti a difenderti.”, la voce di Graham era incrinata dalla rabbia.
“Non ho bisogno di loro per difendermi”
“No, certo. Lo vedo. - il tono di nuovo canzonatorio – forse puoi provare ad urlare e vedere se qualcuno accorre, prima che faccia a pezzi il tuo stupido quaderno. Sono abbastanza sicuro che non verrà nessuno. A chi importa di te? Non hai amici, sei un maledetto strambo con cui nessuno vuole avere a che fare.”
Sherlock non fece una piega, per nulla toccato da quelle parole. Aveva colpito Graham su un punto vivo, un tasto dolente, la rabbia aveva portato lo studente più grande a ricorrere a miseri insulti nel tentativo di farlo cedere. Abbastanza patetico.
“A parte quei due stupidi di Trevor e Watson. Non capisco cosa ci vedano in te e come facciano a starti vicino. Ma non dovrei sorprendermi, sono due idioti. Specialmente Watson.”
“Sta' zitto, Evans...”
“Davvero quell'imbecille pensa di poter diventare un medico un giorno? È solo uno sfigato, persino suo padre ha capito che non vale nulla”
Il ringhio salì lungo la gola di Sherlock e fu un attimo. Il suo braccio si mosse senza che lui lo avesse deciso o ne fosse consapevole. Si tese in avanti, mentre la mano si chiudeva a pugno e, con tutta la forza, con tutta la rabbia che aveva in corpo, colpì Evans sul naso. Sentì l'osso scricchiolare e cedere sotto le sue nocche, come un biscotto che finiva in briciole. Vide il sangue cadere prima a gocce, poi sempre più abbondante e sporcare la neve. Sentì il gemito di dolore del ragazzo.
Da lì in poi non avrebbe potuto spiegare cosa fosse accaduto. Si accapigliarono, Graham rispose all'attacco e si ritrovarono a rotolare nella neve gelida, tirando pugni e calci. Quando uno degli amici di Evans lo agguantò per la collottola, per tirarlo indietro, Sherlock aveva il labbro e un sopracciglio spaccati. Uno degli zigomi pronunciati era già livido per un qualche colpo ricevuto e bruciava in modo fastidioso. Tuttavia continuò a ringhiare con rabbia e prese ad agitarsi e menare altri colpi nel tentativo di liberarsi dalla presa e lanciarsi di nuovo su Graham, incurante del dolore.
Uno dei due studenti lo bloccò definitivamente, tirandogli le braccia dietro la schiena e costringendolo ad inginocchiarsi sul terreno.
“Stupido moccioso”, sibilò Graham alzandosi in piedi, con il respiro affannoso che gli faceva alzare e abbassare velocemente il petto. Si passò una mano sulle labbra sporche di sangue, grugnendo e si chinò a raccogliere il quaderno che era caduto.
“Te la faccio pagare. Giuro che te la faccio pagare, piccolo psicopatico. A te e al tuo amichetto, Trevor”
Sherlock gli rivolse uno sguardo carico di rabbia e odio, digrignando i denti e cercando ancora una volta di liberarsi, inutilmente. Lo vide frugarsi in una tasca e tirare fuori un inconfondibile pacchetto di fiammiferi. Capì subito quali fossero le intenzioni dell'altro e prese ad agitarsi di più.
Graham accese un fiammifero e lo portò contro il quaderno che teneva per un angolo. Lo tenne sospeso mentre prendeva lentamente fuoco.
“No! No!”, urlò Sherlock divincolandosi. Sentì una fitta dolorosa ad una spalla nel momento in cui riusciva finalmente a liberarsi. Senza ragionare, senza sapere, di nuovo, cosa stava facendo, si lanciò su Graham con un urlo rabbioso.
Ancora una volta le cose si fecero confuse, gli sembrò che fosse passata un'eternità da quando avevano ripreso a rotolarsi a terra fino a quando John intervenne, dividendoli.
“Cosa fate?! Cosa diavolo fate?!”, il grido concitato e quasi ringhiante dell'amico lo riportò alla realtà. Afferrò Sherlock per le spalle, aiutandolo a mettersi in piedi, e lo scosse appena, guardandolo incredulo. Per qualche secondo i loro sguardi si incrociarono e Sherlock fu cosciente di ciò che aveva fatto, di aver ceduto all'istinto dimenticandosi della logica che lo muoveva sempre.
Per un attimo si rispecchiò nella sorpresa di John. Rimase immobile, gli occhi azzurri spalancati ed il respiro veloce.
“Dio mio, Sherlock...”, sospirò John guardando i segni che l'amico aveva sul volto ed il sangue che lo macchiava.
Nel frattempo altri stavano arrivando, qualche curioso attirato dalle urla ed anche un paio di insegnanti, tra cui Mr Jones.
“In presidenza, immediatamente”, la voce dell'uomo era ferma, non ammetteva repliche, né spiegazioni di alcun genere.
 
Il corridoio era silenzioso e sarebbe stato deserto se non fosse stato per i cinque ragazzi seduti su scomode sedie di legno, in attesa, di fianco una porta chiusa, da cui ogni tanto si avvertiva un'esclamazione concitata.
Sherlock teneva lo sguardo basso, le labbra contratte e le mani strette su ciò che rimaneva del suo quaderno: non molto, considerando che più della metà era bruciata ed irrecuperabile. Accanto a lui John non fiatava, ma continuava a lanciargli occhiate di tanto in tanto, cercando di capire la gravità dei segni che Sherlock riportava sul volto.
Graham Evans ed i suoi amici erano a loro volta in silenzio, gli sguardi bassi ma carichi di rabbia.
I genitori di tutti e cinque erano stati immediatamente convocati ed ora erano nella stanza accanto, a discutere di quanto successo, con il preside.
“Non è giusto, tu non hai fatto nulla...”
Sherlock ruppe il silenzio, sussurrando, senza alzare gli occhi dal quaderno mutilato. John scrollò le spalle con un sospiro.
“Cosa ti è saltato in mente, mh? Questo non sei tu, lo Sherlock che conosco io non farebbe una cosa del genere.”, domandò poi.
“Ti ha insultato.”, rispose Sherlock dopo qualche secondo di esitazione, stringendo ancora di più il quaderno tra le dita.
“Oh...”
John tacque ed il più piccolo evitò accuratamente di guardarlo, mentre cadevano in un silenzio pesante ed opprimente, quasi soffocante.
John si passò una mano tra i capelli e si morse le labbra.
“Non avresti dovuto. Erano solo insulti. Io...”
“Non aveva alcun diritto di farlo.”
Nessuno dei due parlò più. I cinque genitori uscirono da quella stanza dopo quella che ai due era parsa un'eternità.
John scattò in piedi, immediatamente, lo sguardo solenne e la testa alta, mentre suo padre lo raggiungeva. La madre di Sherlock era pallida, ma rassegnata, non appariva nemmeno arrabbiata. Lanciò un'occhiata preoccupata al figlio e tentò di prendergli il volto tra le mani, ma lui si scostò subito, allontanandola con un gesto stizzito.
“Prendi le tue cose, tesoro. Mr Watson ci darà un passaggio a casa”
Le gambe di Sherlock si mossero automaticamente, obbedendo a quanto gli era stato detto.
 
Mr Watson possedeva un'auto ed era l'unico in tutto il vicinato ad averla. Era una bella auto, profumava ancora di nuovo ed attirava sempre l'attenzione dei vicini, quando ritornava a casa da lavoro.
Sherlock e John sedevano sul sedile posteriore, in silenzio e senza guardarsi, entrambi con gli sguardi persi sul paesaggio al di là dei finestrini. Nessuno parlò per tutto il tragitto, Mrs Holmes non tentò nemmeno di fare conversazione, come faceva sempre con i vicini di casa. Stonava col suo essere chiacchierona e questo non fece che rendere quel silenzio ancora più pesante.
Durante la mattinata la neve si era sciolta sulle strade, ma l'auto proseguiva comunque piano e con cautela, il rombo sordo del motore era l'unica cosa che accompagnava quel viaggio muto.
Quando finalmente si fermò davanti casa degli Holmes, Sherlock fu il primo a spalancare la portiera. Si lanciò fuori, senza richiudersela alle spalle, senza dire niente a John o suo padre e senza dare il tempo a sua madre di aprire bocca per ringraziare del passaggio.
Si lasciò tutto alle spalle e corse via. Lontano dall'auto, lontano da John, lontano da casa. Corse senza prefissarsi alcuna meta, ignorando i richiami concitati dietro di lui.
Corse più veloce che poteva, le gambe lunghe che divoravano metro dopo metro, senza fermarsi. La campagna prese a scorrere sotto i suoi occhi, mentre l'attraversava lungo i campi gelati. Il vento sferzò i suoi riccioli scuri e gli fece strizzare gli occhi.
Non si fermò nemmeno quando i suoi polmoni iniziarono a cercare disperatamente l'ossigeno, quasi sull'orlo di esplodere. Corse e corse, i denti stretti con rabbia, la furia nello sguardo.
Attraversò il campo ora vuoto di Mr O'Brien e proseguì la sua fuga fino al capanno di quest'ultimo. A quell'ora i braccianti che aiutavano l'anziano erano a pranzo, nessuno lo vide entrare nel granaio semibuio. Nessuno lo vide salire la scaletta di legno che portava sul soppalco e lì finalmente abbandonarsi sulla paglia.
Si lasciò cadere indietro e chiuse gli occhi, con il respiro pieno di affanno. Gli ci vollero diversi minuti, prima di riuscire a tornare a respirare regolarmente. Per qualche secondo non si mosse, poi si portò i palmi sugli occhi e vi premette forte, strofinandoli.
Un verso di rabbia gli risalì lungo la gola, facendosi largo tra i suoi denti serrati. Avrebbe voluto avere Graham Evans tra le mani e colpirlo ancora. Per ciò che aveva detto su John e per ciò che aveva fatto al suo quaderno. E per averlo fatto sentire così umano al punto da aver perso il controllo sulla propria ragione.
Sherlock non era mai stato così vittima delle proprie emozioni come in quel momento ed era una cosa che non sapeva gestire, era una cosa che lo faceva sentire vulnerabile e come tutti gli altri.
Non riusciva a spiegarsi cosa fosse accaduto in quei minuti passati con Graham e nemmeno perché avesse reagito in quel modo. Aveva ragione John, non era da lui reagire in modo fisico.
Ciò che lo spaventava di più era la consapevolezza di essere scattato quando l'amico era stato insultato. Certo, chiunque altro avrebbe difeso l'onore del proprio migliore amico, ma la rabbia provata da Sherlock era stata diversa, più grande e più primordiale. Una rabbia cieca, istintiva, come quella che si prova quando qualcosa che ci appartiene viene minacciato. Era assurdo sentirsi così per un amico.
Rimase sdraiato sulla paglia per minuti che gli sembrarono eternità e perse la cognizione del tempo.
“Sherlock?”
Fu quella voce familiare a riportarlo alla realtà. La voce di John suonò incerta. Nel sentirla, Sherlock si rese conto di avere il volto umido di lacrime che nemmeno sapeva di aver versato. Un altro segno di umanità che avrebbe potuto farlo crollare da un momento all'altro. Si asciugò in fretta le guance e tacque, non osando muoversi, nella speranza che John non lo vedesse e decidesse di andarsene.
Ma l'amico doveva aver intuito dove si stava nascondendo e presto udì la scaletta di legno scricchiolare sotto il peso del giovane Watson che aveva preso a salire.
Sherlock si mise seduto, rigido, lo sguardo immobile sul pavimento che non accennò ad alzare nemmeno quando John lo raggiunse.
“Ehi...”, azzardò il più grande, senza avvicinarsi troppo. “Sherlock?”
“Cosa vuoi?”, replicò brusco, continuando a non guardarlo.
John non rispose, trattenendo un sospiro e rimanendo dov'era. Osservò la figura dell'altro, trovandolo improvvisamente troppo magro, troppo fragile così rannicchiato su se stesso. Fece un passo, con cautela, come se Sherlock avesse potuto dare un pugno anche a lui da un momento all'altro.
“Voglio darti un'occhiata”, disse poi, facendosi ancora più vicino ed inginocchiandosi accanto a lui.
Lanciandogli uno sguardo veloce, Sherlock notò che John aveva portato una valigetta di metallo con se.
“Sto bene”, gli disse in fretta.
“Se potessi guardarti in faccia in questo momento, non diresti che stai bene.”
“D'accordo”, sospirò Sherlock, alzando finalmente lo sguardo su di lui, con le labbra serrate in una smorfia contrariata. John notò gli occhi rossi del ragazzino, ma non disse nulla.
Appoggiò la valigetta sulle proprie gambe e l'aprì, frugandovi poi dentro. Ne tirò fuori del disinfettante, una bottiglietta d'acqua e pezzi di garza bianca.
John aveva un tocco delicato e meticoloso. Fu con pazienza che, servendosi di acqua e garze, ripulì il viso di Sherlock, facendo ben attenzione a non premere troppo sui punti lesi. Per tutto il tempo avvertì gli occhi dell'altro su di se, che lo studiavano con attenzione. Non aveva bisogno di guardarlo per capire che lo sguardo di Sherlock era assorto, profondo e che gli stava leggendo dentro come sempre.
“Fatto”, dichiarò dopo aver disinfettato i tagli e riposto tutto con cura.
“Grazie, dottore”
John abbozzò un sorriso imbarazzato, rivolgendo lo sguardo alla valigetta, come se fosse stata parecchio interessante, all'improvviso.
“Stai bene?”, chiese poi, alzando di nuovo gli occhi sull'altro.
Sherlock annuì con una scrollata di spalle e rimase in silenzio. John tacque a sua volta, seduto accanto a lui, e prese a contemplare il soffitto del granaio.
Nessuno dei due si mosse, a lungo, rimanendo ad ascoltare l'uno i respiri dell'altro.
“Grazie per aver preso le mie difese”
John spezzò così il silenzio, volgendo appena la testa verso Sherlock ed incrociando lo sguardo con il suo. Quegli occhi di un azzurro incredibile sembrarono prendere vita, per qualche secondo, colorandosi dapprima di compiacimento, poi disagio. Infine rifuggirono da quelli di John.
“Torniamo a casa”, tagliò corto, alzandosi in piedi e togliendosi la paglia dai pantaloni ed il più grande fece lo stesso.
Lasciarono il granaio di Mr O'Brien sempre in silenzio e camminarono fianco a fianco, attraversando i campi muti. Il tempo sembrava come essersi fermato tra quelle distese imponenti, così come la natura eterea che le caratterizzava.
A John parve di potervi scorgere l'essenza di Sherlock.












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Ringrazio ancora una volta chi ha recensito il primo capitolo, non me lo aspettavo davvero!
Spero che quest'altro capitolo possa piacere lo stesso.
Qui troviamo John e Sherlock con qualche anno in più ed un'amicizia più solida, in crescita. Conto di fare ancora uno o due capitoli prima di entrare nel vivo della storia, quindi spero di non annoiarvi troppo.
Detto ciò, vi lascio alcune delucidazioni sulla scuola inglese.
Si frequenta solitamente l'asilo (nursery) fino ai quattro anni. A quattro anni e mezzo inizia la scuola primaria (eh già, così presto) che si compone di sei anni, più la Reception (una specie di primina). Dopo di che si passa direttamente alla scuola secondaria, obbligatoria fino ai sedici anni (non ci sono scuole medie di mezzo). A quel punto si può scegliere se continuare gli studi fino ai diciotto anni, andando al college, ed infine c'è l'università.
Sono molto comuni, ancora oggi, scuole prettamente maschili o femminili (le bambine di cui mi occupo vanno in una scuola privata per sole bambine), 
Per quanto riguarda le punizioni che c'erano una volta nelle scuole inglesi, dal momento che ho citato che Sherlock è stato colpito più volte su fondoschiena e mani, si applicava la bastonatura, in inglese caning, e si usava una canna di legno piuttosto flessibile per colpire gli studenti. Solitamente sul sedere, ma non era inusuale nemmeno sui palmi delle mani. In Inghilterra non è più legale, ma purtroppo lo è ancora in altri paesi del mondo.

Questo fine settimana sono stata nel Wiltshire, ad ovest dell'Inghilterra, ed ho visto due villaggi adorabili, uno è Castle Combe e l'altro è Lacock (dove tra l'altro hanno fatto alcune riprese di Harry Potter e la pietra filosofale). Di quest'ultimo ho visitato anche la campagna, mi sono fatta una bella passeggiata di un'ora in mezzo ai campi, anche per farmi un'idea di ciò che effettivamente sto descrivendo in questa storia. Vi posto un paio di foto fatte dal mio ragazzo. E' un posto davvero meraviglioso e tornare a Londra, dopo due giorni nella quiete assoluta, è stata dura, ma purtroppo il lavoro chiamava ç___ç








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