Ed io?

di Cladzky
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Terra chiama Cladzky ***
Capitolo 2: *** Un mondo leggermente indifferente ***
Capitolo 3: *** Punto di crisi ***
Capitolo 4: *** Epilogo anticipato? ***
Capitolo 5: *** Ritorno in carreggiata ***
Capitolo 6: *** Umorismo di pessimo gusto ***
Capitolo 7: *** Make 'em Laugh! ***
Capitolo 8: *** Memento Mori ***
Capitolo 9: *** Una veloce carrellata ***
Capitolo 10: *** Rimembranze di qualche ora fa ***
Capitolo 11: *** Fantasmi di un tempo perduto (Prima parte) ***
Capitolo 12: *** Fantasmi di un tempo perduto (Seconda parte) ***
Capitolo 13: *** Fantasmi di un tempo perduto (Terza parte) ***
Capitolo 14: *** Fantasmi di un tempo perduto (Quarta parte) ***
Capitolo 15: *** Fantasmi di un tempo perduto (Quinta Parte) ***
Capitolo 16: *** Possiamo cominciare daccapo? ***
Capitolo 17: *** Trama Corale ***
Capitolo 18: *** Dz, Giuly e un altro ***



Capitolo 1
*** Terra chiama Cladzky ***


Nel bel mezzo del nulla cosmico s’aggirava un disco volante dalla caratteristica quanto imbarazzante, carrozzeria color giallo canarino. Anzi, non si aggirava affatto, giacché era immobile e coi motori spenti.

All’interno della cabina di pilotaggio (che date le dimensioni modeste del velivolo valeva anche come cucina, bagno, sala da pranzo e discoteca, ma quest’ultima solo per chi si accontentava di ballare da solo come un cretino, visto lo spazio ristretto) vi era un ragazzo che pensava.

Come è giusto che sia, questo ragazzo, dai modi civili ed educati, rifletteva profondamente mentre se ne stava spaparanzato sul sedile, gambe accavallate sul cruscotto, con il surrogato spaziale di un Estathè in mano a sorseggiarselo mentre l’autoradio ancora a cassette dava a palla “Dare” di Stan Bush per la quattordicesima volta.

E la cosa preoccupante era che quella canzone stava diventando noiosa. Non so se capite la gravità della situazione.

Il giovane pilota spense la musica, ormai stufo. La cosa non passò inosservata al computer di bordo. Prima aveva fermato i motori e adesso l’autoradio. C’era qualcosa che non andava.

-Qualcosa non va Cladzky? – domandò per l’appunto l’intelligenza artificiale.

-Mah, non saprei Mark0, mi sento un po’ giù – rispose lui, stiracchiandosi e rimettendosi seduto per bene.

-Dev’essere quell’Estathè che hai comprato all’ultima stazione di rifornimento. Te l’avevo detto che l’hai scambiato con il kerosene lì accanto.

-Uhm, non credo – ciononostante buttò via la bibita. Non aveva voglia di bere kerosene. E poi anche se fosse stato Estathè a lui gli aveva sempre fatto cagare. Non aveva idea del perché l’aveva comperata.

-Allora cosa c’è che non va?

-E’ strano Mark. E’ come se avessi una preoccupazione costante di perdere qualcosa a cui tengo, ma non capisco cosa.

-Se si tratta della verginità di quello non ti devi preoccupare.

-Molto divertente – sbuffò spazientito – qualche altra idea?

-Secondo qualche filosofo la gente può cadere in depressione a causa del suo stile di vita.

-Non nel mio caso – si difese Cladzky – fare il girovago spaziale può essere dura ma ha le sue soddisfazioni! Si conosce tanta gente, si vistano un sacco di mondi…

-Se mi permetti di correggerti – lo interruppe l’intelligenza artificiale – Della gente che hai conosciuto almeno un buon 80% ti odia. Non sei mai stato uno sballo alle feste.

-Diciamo che non so raccontare le barzellette. E poi su quel 20% non ci sputo mica sopra.

-Oltretutto non sbarchiamo su un pianeta da qualche settimana a causa della tua depressione. La mia unità mobile si sta arrugginendo.

-Non ti avevo comprato un po’ d’olio?

-Avevi detto che me lo avresti preso quando avresti avuto qualche soldo in tasca. Ed attualmente il tuo conto in banca è vuoto come il tuo profilo EFP.

E niente. Una parola innocua come quella sigla gli fece riaffiorare alla mente una marea di ricordi che credeva sopiti. Come un bagliore accecante si rivide tutti i bei momenti passati in quel fandom, tutte quelle brave persone, quelle fantastiche avventure; un fiume in piena di sensazioni contrastanti che lo pervase e rapì la sua mente.
E se fosse quello che gli mancava, che fosse sul punto di perdere quel pezzo della sua anima?

-Ho capito Mark! Ho capito finalmente! – gridò fuori di sé, finalmente resosi conto della situazione.

-Hai capito?

-Sì, ho capito! Mi manca EFP, mi manca quella gioia di creare nuove avventure fantastiche, in mezzo a mondi incredibili e con
personaggi meravigliosi, scervellando ogni volta la propria fantasia per generare dal nulla il tutto, insieme a grandi amici!
Il computer di bordo rimase dapprima zitto.

-Poche ragazze da quelle parti eh?

-Oh insomma! – Esclamò inviperito il pilota –non interrompermi mentre ho ritrovato il lume della ragione!

“Quel lume dev’essere fulminato” Pensò Mark0, ma si guardò bene dal commentare la cosa al di fuori del suo cervello positronico.

-Solo ora mi rendo conto di quanto io mi sia sbagliato a smettere di frequentare quei ragazzi! E’ come se avessi rinnegato una parte di me stesso! Ma ho preso una decisione, sai cosa farò?

-Anzitutto dovresti trovarti un lavoro vero. Poi ti consiglierei un po’ di palestra ed una dieta più sana…

-Mark!

-Ok, c’ho provato.

-Quindi – Cladzky afferrò il casco bianco con visiera verde che giaceva abbandonato sul tappetino pieno di schifezze, per poi issarselo in testa ed allacciarselo. Riattivò un paio di levette e luci luminose sul tettuccio da cui pendevano due cubi di Rubik di stoffa e portò la mano sinistra ad una leva che stava accanto al sedile.

-Cladzky…

-Non ora Mark! Quindi, come stavo dicendo, tornerò da loro, qualunque cosa accada.
Tirò la leva, scaldando il motore all’antimateria di cui era munito il disco (non chiedetevi come lo ha reperito uno straccione come lui quel motore all’antimateria, non è una storia che si può raccontare in giro), afferrò dopo tanto tempo la console e riposizionò l’assetto del disco affinché puntasse verso la strada del ritorno.

-Clad…

-Accidenti Mark, ti ho detto di stare zitto! Ordunque sto arrivando ragazzi, la vostra attesa è finita! Motori accesi! Cannone carico! Aria condizionata attiva (che porca miseria nello spazio fa un freddo che levati)! Struttura del disco, tutto OK!

-Cladzky…

-Pronti per il viaggio, verso l’infinito ed oltre!!

Il grido risuonò a vuoto nell’abitacolo, mentre il disco rimaneva ancora fermo. Cladzky armeggiò un attimo colla console di bordo, stupito.

-Mark0? Cosa succede?

-Ecco, prima che tu vada ci sarebbe una piccola cosa da chiarire.

Cladzky inarcò un sopracciglio.

-Vedi – riprese il computer –stavo controllando i profili Facebook di alcuni tuoi amici.

-Tu usi Facebook?

-Diciamo che ho una vita sociale più attiva della tua.

-Vai avanti –mugugnò il giovane pilota.

-Da tutte le parti parlano di un certo party che hanno organizzato vari membri del fandom.

Al ragazzo brillarono gli occhi.

-Ottimo, vorrà dire che il mio sarà un ritorno in grande stile!

-Oppure che non sarà minimamente contemplato.

-Come? – chiese stupito, con tono confuso.

-Ho controllato in ogni lista degli invitati finora pubblicata. Attualmente tu non compari in nessuna di queste.

Calò un triste silenzio dentro il piccolo disco. Cladzky guardava uno degli schermi sulla console, dove apparivano i nomi degli invitati.
C’erano tutti, proprio tutti. Tranne lui.

Staccò gli occhi dallo schermo e cominciò a fissare con aria avvilita il vuoto siderale, freddo, come il suo cuore in quel momento. Nella sua testa correvano i più vaghi pensieri, fino a che uno di questi non prese il sopravvento sugli altri. Ed allora il cuore gli ribollì di rabbia.

-COME HANNO OSATO!? – Sbraitò pieno di foga, sbattendo con forza il pugno su un ripiano lì accanto, facendo dondolare la testolina della piccola bambola di Gesù Cristo.

-Nessuno mi dimentica e la passa liscia!

-Credo che tu stia esagerando – cercò di farlo ragionare Mark0.

-Silenzio e lasciami compiere la mia vendetta!

Era in quei momenti che Mark0 avrebbe voluto essere il cervello positronico di un frullatore piuttosto che stare con quel tipo e condividere lo stesso velivolo.  Ma attualmente non vi era rimedio alla cosa, quindi decise di dargli corda.

-D’accordo, puntiamo sempre alla stessa rotta?

-Ovvio, mi sentiranno quegli infingardi! A tutta birra Mark! – esclamò il ragazzo puntando un dito verso un punto imprecisato dell’Universo.

-Agli ordini, attivo subito la velocità luce.

-No, no, la velocità luce è troppo lenta – ragionò Cladzky, massaggiandosi una barba che non aveva.

-La velocità luce è troppo lenta?

-Sì! – rispose, alzando un indice al cielo, colto da un’illuminazione –Bisogna passare direttamente… alla Velocità Smodata.
Nessuno disse una parola per diversi secondi.

-Mel Brooks style?

-Già.
***
 
Frattanto, a qualche anno luce di distanza, in un grande parcheggio pieno di macchine, astronavi e qualunque altro mezzo concepito da mente umana e non, due addetti ad una ditta di pizze a domicilio molto poco Italiana stavano armeggiando col loro furgoncino per farsi
spazio in quel campo di lamiere e trovare un posto.

Era sera ed i due parevano assonnati.

-Senti amico – esclamò il primo con una sigaretta in bocca, mentre l’altro si districava col volante –Ma secondo te perché agli Italiani piace la pizza?

-Boh, sarà per il pomodoro, un prodotto tipico dell’Europa.

-Giusto. Ma sei sicuro che su una tipica pizza Italiana ci vada l’ananas? Non vorrei che ci rifiutassero il carico di due quintali che
abbiamo sul retro.

-Ovvio che ci va ragazzo mio. L’ananas va bene su tutto in fondo. E poi non potranno rifiutare la buonissima mozzarella di alpaca che ci abbiamo spalmato sopra.

-Non era di bufala?

-Dettagli, è pur sempre latte no?

-Hai ragione – concordò il primo, per poi rizzarsi di colpo dalla gioia –Guarda un posto libero!

-Accidenti è vero! Ora mi ci infilo!

In quell’esatto istante, molti chilometri più in alto, nell’atmosfera del pianeta, un disco volante giallo canarino stava precipitando ad una velocità smodata.

-Frena questo affare! Siamo quasi arrivati! – Urlava Cladzky, ormai incassato dentro il sedile tanta era la velocità.

-Non vorrai arrivare tardi no?

-Stronzate! – urlò fuori di sé il pilota, mentre il vetro del casco gli si stava fondendo cogli occhi. Davanti a sé il mondo cominciava a diventare sempre più grande, sempre di più fino a che non trapassarono le nubi e sbucarono sopra una metropoli.
Certo, Cladzky sentiva una certa nostalgia del suo mondo, con tutte le luci, le vetrine ed i grattacieli, ma non era andando a schiantarsi contro uno di questi che voleva rivederli.
Gli edifici gli passavano accanto a velocità inaudita, le macchine sfrecciavano sotto di lui nelle strade e diverse antenne cominciarono a venire tranciate dal suo disco diventato un proiettile, accompagnate dai bestemmioni dei proprietari che quella notte, dopo un estenuante non far nulla, speravano di vedersi la partita.

-Ho trovato parcheggio – squillò festante il computer di bordo.

-Ferma questo affare, è un ordine, STOP!!

I due poveri pizzaioli poco Italiani non ebbero neanche il tempo di rendersene conto che vennero investiti di colpo da un piccolo disco volante che schiacciò loro e tutto il carico di pizze all’ananas, salvando il mondo da uno dei crimini peggiori ancora non riconosciuti dall’ONU.

La frenata fu così forte e improvvisa che mandò Cladzky a sbattere violentemente sulla cloche, rimanendo colla testa incassata fra i comandi e svenuto.
Mark0 attese qualche secondo. Vedendo però che il suo umano non si stava ancora riprendendo decise di verificare se era effettivamente morto. Il cui pensiero non gli dispiaceva neanche tanto a dirla tutta.
Attivò quindi un braccio robotico che si srotolò dal soffitto e colle sue dita tozze lo afferrò per il colletto, recuperando ciò che rimaneva della sua faccia.

-Cladzky? Sei vivo o sei morto? Nel secondo caso dovresti firmare un documento che attesta l’ora del decesso, quindi ho bisogno di te in entrambi i casi.

Il ragazzo si lamentò debolmente mentre si riprendeva e si portò una mano alla fronte dolorante.

Mark0 rimase un poco deluso. “E’ ancora vivo. Sarà per la prossima volta”.

-Abbiamo… Abbiamo frenato? – mormorò Cladzky scuotendo la testa.

-Abbiamo frenato e siamo perfettamente parcheggiati. Pensa era l’ultimo posto.

-Ottimo – sorrise il ragazzo, incrociando gli occhi – allora pausa, cinque minuti di pausa.

-Vuole un thè?

-Va bene… basta che non sia kerosene.

Stanco morto e con un sorriso stampato in faccia, il ragazzo si accasciò lentamente sul sedile, riposando un poco, mentre Mark0, con la diligenza tipica delle macchine, cominciava a preparare un thè al limone per il suo giovane umano.
“Come sono fragili” pensò stupito il cervello positronico.

*Angolo dell'autore assenteista*
E... lo so cosa state pensando. Ma come, vuoi dedicarci una storia per il tuo ritorno e ci raffiguri come degli stronzi che non ti invitano alle feste?
Beh, niente affatto. Vedrete, ci sarà un'ottima ragione per la vostra scelta. E come al solito sono io dalla parte del torto in questa storia.

Ad ogni modo questo è il debutto ufficiale del mio OC nella sezione. Splendido, non potevamo iniziare meglio che raffigurarlo come un completo inetto. Beh, spero che la cosa vi sia gradita e possiate divertirvi come mi sono divertito io a scriverla!

Saluti!

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Capitolo 2
*** Un mondo leggermente indifferente ***


Premessa
...
 
Ok ragazzi, ammetto che avevo perso le speranze che la storia potesse interessare, ma a quanto pare ad alcuni folli l'idea garba e quindi, ho il dovere di portarla avanti.
Un ringraziamento speciale quindi a Karma Neutral e Lelq, che ci hanno creduto e che ringrazio per essersi interessati ed buona visione...

No, scherzavo, non mi sono dimenticato di te xD
Un ringraziamento specialissimo a Kishin Shruikan, auore con cui ho uno stretto rapporto qui su EFP e che mi ha dato un certo lasciapassare per inserire qualcosa o qualcuno nella storia, eheh...

Come vedrete la storia comincia ad animarsi e le citazioni a dientare esorbitanti, vediamo se riuscite a contarle tutte ;)
***
Il portellone del disco si aprì cigolando e la figura di Cladzky si stagliò sopra il cielo stellato. Si slacciò il casco e lo gettò sul sedile dietro di lui, sapendo che non gli sarebbe più servito.
Con i capelli d’un marrone delicato scompigliati da una brezza leggera, il ragazzo azzardò un passo per scendere. Mise male il piede, incespicò, inciampò, rotolò sul fianco del disco e cadde sul duro asfalto sottostante. Meno male che aveva il casc… ah no.

-Figura di merda numero uno – prese nota ad alta voce il computer di bordo.

Il ragazzo evitò di ribattere e si alzò dolorante da terra. Si scosse un po’ per riprendersi e si rese conto di essere ricoperto di un liquido vischioso e profumato.

-Ma che… - si portò un braccio al naso per verificare –ma sono inzuppato di ananas!

-Inzupposo – commentò un individuo dai lineamenti spagnoleggianti, che si era fermato ad osservare la scena per poi riprendere il cammino.

-Banderas? – esclamò stupito il giovane pilota che si stava strizzando la tuta grondante d’ananas e mozzarella non proprio di bufala –hanno invitato anche lui?

-E non solo lui – precisò Mark0 –Rilevo un tale concentrato di vip in quest’area che esauriresti una penna a forza di autografi. E sono tutti diretti verso un’unica direzione.

Cladzky sollevò la testa. Dietro una collina c’era un tripudio di mortaretti, luci stroboscopiche, macchine del fumo e nell’aria si propagava una musica talmente ignorante che aveva portato al suicidio per srotolamento tutta la sua raccolta di cassettine a nastri.

-Suppongo che sia quello il posto.

-Prima che tu combini qualche guaio, e sono sicuro che ne farai, sarebbe il caso di pensarci su – propose Mark0 –sei proprio sicuro di quello che fai?

-Niente di ciò che faccio è certo Mark. L’unica cosa di cui sono certo è che voglio dirgliene quattro.

-Avresti potuto trovare una via meno diretta.

-E perdermi la soddisfazione di rovinargli la festa? Mi hanno escluso Mark, ed io voglio delle scuse, ora, faccia a faccia, di fronte a tutti.

-Valuta bene la situazione Cladzky – lo avvertì Mark0, la cui voce ora usciva tagliente dalle casse del velivolo –Lì dentro si stanno svagando gente del calibro della Lucas Force, le principesse di Equestria, senza dimenticare eventuali invitati provenienti da ogni angolo del Multiverso, dèi, creature leggendarie, eroi di mondi lontani. E tu chi saresti per importunarli?

-Io? – ripeté intimorito il ragazzo, grattandosi la nuca imbarazzato, tenendo lo sguardo basso. Poi gli si allargò di colpo un gran sorriso sul suo volto.

-Io? IO SONO CLADZKY! Il vagabondo spaziale! L’eterno viaggiatore! L’anima della scoperta! L’audacia fatta a persona! Io sono…

Non terminò la frase che dopo pochi passi scivolò sul succo d’ananas che allagava tutto il terreno circostante, atterrando di fondoschiena gemendo.

-E con questo siamo a due – Aggiunse il cervello positronico.
***

Com’era giusto che fosse, la festa si teneva in casa di Gyber, che per l’occasione, dovendo ospitare tanta gente, era stata ampliata di un paio di isolati, rubando così la terra a dei poveri e miserabili contadini.
Ma Gyber era una persona brava e giusta, così aveva offerto ai poveri e miserabili contadini un sicuro posto di lavoro nelle sue miniere di diamanti in Cile ed una generosa polizza sulla vita.

Fuori dalla villa c’era una fila enorme di celebrità, immaginarie e non, che sgomitavano per entrare e buttarsi sui salatini o farsi un tuffo nella piscina in scala 1:1 della barriera corallina, con tanto di pesci in via d’estinzione che vi sguazzavano dentro, importati in maniera non del tutto legittima.
Per tutto il complesso di piscine, buffet, discoteche e gallerie di trofei da guerra, scorrazzavano dei piccoli inservienti robotici, dei piccoli Wall-e che andavano a destra e sinistra a servire vivande come camerieri.

Nel frattempo, oltre la cinta di muro elettrificato, la coda procedeva con regolarità. Tra la folla, esattamente in mezzo ad un gruppo di Evroniani vegetariani e dei soldati della Legione Esplorativa di Attack on Titans, vi era proprio Cladzky.

-Ehi ragazzo, puzzi di ananas – gli fece notare uno dei soldati.

-Grazie dell’informazione – Disse il ragazzo mentre digrignava i denti.

-Ehi, il tipo di fronte a noi emette onde di nervosismo intenso! – esclamò sorpreso un Evroniano dietro di lui.

-Sembra squisito! – si leccò il becco un suo compagno.

-Per favore Gourmhet, lo sai che ci cacciano un’altra volta se succhi le emozioni a qualcuno. Hai già reso dei vegetali gli attori di Cinquanta Sfumature durante le riprese, non ti è bastato?

-Bah, quel Grey però era un po’ insipido – si lamentò in risposta l’altro.

Finalmente giunse al varco d’entrata, dove un grosso cancello socchiuso permetteva agli invitati di accedere. Ai lati stavano due colossi con una camicetta bianca e cravatta nera, che verificavano la regolarità degli inviti. Quello di destra era un minotauro, largo come un armadio e con due occhiacci gialli che facevano accapponare la pelle. L’altro era un grifone con una benda su un occhio ed un sigaro in bocca, che continuava a farfugliare frasi incomprensibili, mentre armeggiava con una collanina che aveva al collo.

Il gruppo della Legione Esplorativa si fermò per farsi controllare i biglietti. Uno per uno entrarono dentro, fino a che l’ultimo di loro si bloccò, controllandosi freneticamente ogni tasca.

-Accidenti, non lo trovo!

Il grifone rimase impassibile, ancora immerso a mormorare strane parole e a soffiare anelli di fumo. Il suo collega cornuto invece lo squadrò dall’alto al basso.

-Hai perso il biglietto? Questo è un problema – Esclamò con voce roca, mentre distrattamente convalidava il biglietto ad un piccolo Titano nano sorridente.

-Ehi, quello è il mio biglietto! Quel Titano mi preso il biglietto! – tuonò il Legionario.

-Spiacente, per le lamentele dovete rivolgervi all’ufficio lamentele.

-E dov’è l’ufficio lamentele?

-Dovete chiedere all’ufficio informazioni.

-E dove si trova l’ufficio informazioni? – chiese esasperato il ragazzo.

-Vi sembro l’ufficio informazioni?

-Ora basta! – Gridò il soldato sguainando le due lame –Ho sudato per avere quel foglietto e non sarà un ridicolo Titano affetto da nanismo a soffiarmelo!

Detto questo fece scattare gli arpioni che si incastrano nel muro di cinta della casa ed usando gli appositi comandi dell’equipaggiamento per i movimenti tridimensionali scattò a razzo oltre di esso.
Pessima idea.
Il tipo andò ad impattare contro una barriera invisibile che sembrava circondare l’enorme villa ed al contatto ne scaturì una violenta scossa. Mentre giaceva a terra abbrustolito, il ragazzo cominciò d’improvviso a provare immensa pena per le zanzare.

Questa lezione servì a dimostrare come ogni tentativo d’approccio aereo fosse inutile per espugnare la villa.

“Shining Armour dev’essersi allenato parecchio” constatò il ragazzo, cercando di ignorare lo staff medico che portava via la grigliata vivente.

-Ehi ragazzo – Cladzky si girò di scatto, richiamato dalla voce cavernosa –hai il biglietto?

-Beh, ecco… - non sapeva assolutamente cosa dire e lo spettacolo di prima l’aveva lasciato alquanto turbato. Alla fine disse la prima cosa che gli passava per la testa.

-Girate sempre senza pantaloni?

Calò un silenzio di tomba sui due.

-Buffo detto da uno che puzza di ananas– disse con voce acida il minotauro, facendo schioccare le nocche –Hai
scelto un pessimo modo per iniziare la conversazione.

-Scusate, perdonatemi, è solo che… - cominciò a fissarlo negli occhi gialli.

-E’ solo una pessima secrezione dei bulbi oculari – spiegò il colosso -Vuoi farmi un intervista o pensi di tirar fuori il biglietto?

-Il fatto è che… io non ce l’ho.

-Perfetto, puoi andartene.

-No, aspettate, sono un vecchio amico degli organizzatori! Potete chiedere a loro.

-Ti sembro una persona pagata per chiacchierare con i datori di lavoro?

-Non è quello che intendevo…

-Ecco appunto, ora smamma che rallenti la coda.

-Un attimo – prese tempo il ragazzo, scavando nelle tasche della tuta –e se vi offrissi qualcosa?
Il minotauro inarcò un sopracciglio dubbioso.

-In tal caso se ne potrebbe parlare. Naturalmente dipende da ciò che puoi offrirmi – disse il colosso, esibendo un
ghigno coi denti aguzzi.

-Penso di avere qualcosa che faccia al caso tuo.
Il pilota sfilò dalle tasche una mazzetta di foglietti, sbandierandola davanti al muso del guardiano. I suoi occhi cominciarono ad assottigliarsi ed il suo sorriso a calare.

-Questi sono buoni per la lavanderia – disse lentamente il bestione mentre soffiava col naso.

-Beh – rise nervosamente il ragazzo –ma questi hanno anche lo sconto del 50% sui pantaloni… Ops.
 
Non comprese del tutto le dinamiche dell’accaduto, ma il ragazzo si era sentito per un attimo venire appallottolato e scagliato come un rifiuto a diversi metri di distanza. Ancora per terra, mentre si rialzava, cominciò ad esibirsi in epiteti molto coloriti, inserendoci anche qualche divinità in mezzo.

Poi, quando si voltò verso il cancello, vide il grifone, fino ad un attimo fa immobile, rizzare le orecchie udendo quelle parole e scagliarsi verso di lui cogli artigli in vista.
Solo allora accorse che le frasi misteriose che il grifone andava recitando all’infinito con la collanina erano un Rosario.
***

A quanto pare il grifone doveva aver essersi esercitato nelle palestre del Vaticano, poiché, oltre ad avergli recitato i Salmi, dato l’ostia e ribattezzato a forza con l’olio di palma (nelle cucine non si trovava altro) ci aveva aggiunto qualche personale presa e colpo segreto che lo avevano ridotto alquanto male.
Una volta avuta la benedizione ed essersi confessato, gli aveva finalmente permesso d’incamminarsi, o meglio, trascinarsi al suo disco, dove sperava di rilassarsi un poco e dimenticare le disavventure con un po’ di Nuka Cola scaduta dal minibar.

Ma il destino quella sera non gliene voleva far andare bene una.

-Cosa accidenti…? – Esclamò sorpreso, mentre armeggiava con uno strano affare incollato sul fianco del suo disco –Una ganascia?

-Nel nome della legge ti dichiaro ganasciato! – Esordì una voce autoritaria dietro di lui.

Voltandosi di scatto, Cladzky riconobbe subito la strana figura dal costume nero e rosso. Sebbene non capiva perché la strana figura aveva indosso un berretto da poliziotto.

-Deadpool? – Esclamò sbigottito il ragazzo –Sei proprio tu?

-Agente Deadpool prego – precisò lui, tirando fuori un block notes e scarabocchiandoci sopra –Deduco sia tuo questo mezzo non in regola.

-Ma che cosa stai dicendo? – protestò furibondo Cladzky –Che storia è questa?

-Oh, immagino che tu non sia stato informato degli ultimi sviluppi. Vedi, sono stato cacciato dal party.

-Cacciato?

-Già, un brutto incidente involontario con un accendino ed un Krut Champagne del ’43 conservato per l’occasione – spiegò, grattandosi la nuca con la biro –lo sapevo che mi sarei dovuto allacciare le scarpe.

-Ma tu non hai i lacci.

-Dettagli! Ad ogni modo hanno deciso di farmi fare qualcosa di socialmente utile e quindi mi hanno detto di sorvegliare il parcheggio.

A dir la verità, i ragazzi avevano solo detto a Deadpool di andare all’inferno, ma lui non vide nulla di sbagliato nell’approfittare della situazione.

-Tornando a noi, ho paura che il tuo velivolo non sia in regola.

-Come sarebbe a dire? – S’espresse aspramente il ragazzo. Gli pareva impossibile, dopotutto l’aveva fatto visitare qualche giorno fa.

-Andiamo Cladzky, non mi vorrai dire che tu te ne vai in giro senza targa.
Il pilota controllò. Effettivamente la targa era stata asportata dal retro del disco. Poi guardò Deadpool e vide la sua targa nella sua tasca.

-Aspetta un attimo, ce l’hai tu la mia targa!

-E se anche fosse? Il codice stradale iperspaziale sancisce che la targa deve essere fissata sul mezzo ed il tuo non ce l’ha.

-E ci credo, ce l’hai tu bastardo!

-E con questo ci aggiungiamo offese a pubblico ufficiale – Sentenziò Deadpool scarabocchiando ancora più furiosamente sul taccuino. Cladzky si maledì la bocca.

-Non dimentichiamo inoltre che il tuo tubo di scappamento è intasato.
Cladzky verificò. Nel suo tubo di scappamento era stata infilata una patata.

-Oh, andiamo, non vorrai farmi credere che…

-Ultimo, ma non per importanza, puzzi di ananas.

-E con questo?

-Secondo l’articolo 13, in vigore dal 2007, nel quinto paragrafo, comma 17, firmato dal segretario degli arredi interni e convalidato dal presidente dei senatori insensati e controfirmato da me medesimo, è vietato puzzare d’ananas.

-Non credo di aver capito.

-La legge non ammette ignoranza – disse il presunto vigile, strappando il foglio dal suo block notes –ecco quanto devi versare.

Il ragazzo prese il foglietto e lo guardò attentamente.

-Ma questo è un tuo autoritratto con dedica.

-Bello vero? Naturalmente il prezzo è incluso nella multa.

Cladzky non ci vide più.

-Oh, insomma, tutto ciò è ridicolo!

-Pensala come vuoi, ma sarà il caso che sborsi.

-Altrimenti? – chiese il pilota, incrociando le braccia.

-Altrimenti ti rigo il disco volante – Esclamò Deadpool tirando fuori le due katane che aveva sulla schiena.

-D’accordo, d’accordo, non c’è bisogno di scaldarsi.

Detto ciò, Deadpool rinfoderò le lame, mentre Cladzky si frugò in tasca.

-E’ solo che al momento non ho un soldo con me.

-Mi accontenterò di quello che hai in tasca.

Il ragazzo tirò fuori i suoi buoni per la lavanderia e Deadpool li afferrò prontamente sgranando gli occhi.

-Uh, questi mi saranno davvero utili! Sai volevo mettere a nuovo un costume da coniglio che avevo comprato qualche anno fa.

-Perché hai comprato un costume da coniglio?

-Quando si è immortali la noia diventa un bel problema – rispose seccamente lui –Ad ogni modo ho paura che non basti.

-Cos’altro posso darti?

-Beh, non saprei, forse… Gulp! – Il suo occhio si posò su qualcosa di meraviglioso –Bellissimo, lo voglio!

Deadpool eseguì un triplo salto carpiato verso il disco e vi atterrò dentro, sollevando al cielo il cimelio.

-Erano anni che la cercavo!

-La mia bubblehead di Fallout! – Tuonò Cladzky, arrampicandosi sul disco –Ho dovuto letteralmente uccidere per averla, non ti permetterò di fregarmela.

-Alt! – Gli intimò Deadpool, mettendogli un dito sulle labbra –Dimentichi la multa?

-Oh, andiamo! Quella multa non può valere così tanto!

-Invece sì se ci aggiungiamo questo – Disse, sollevandogli davanti al muso la sua lattina di Estathé spaziale –Bevi molto quando guidi eh?

-A dir la verità guido io – Ci tenne a specificare Mark0 –O almeno quando ci manteniamo sulla rotta giusta.

-Zitto o ti mando a rottamare!

-Ma non è alcolico! – si lamentò il pilota.

-Che c’entra? Io ti accuso di bere quando guidi, non di ubriacarti.

-Io ti proibisco di…

-La proposta per il tagliuzzamento del tuo disco è ancora valida.

-Ed io non ho intenzione di rimetterci a causa tua – lo ammonì il computer di bordo.
Cladzky ci pensò su. Infine sospirò.

-Se accetto mi ridarai la targa?

-Ovvio, non sono mica un ladro.

-Insomma.

Detto questo, Deadpool gli porse la targa, per poi mettersi il prezioso bottino in tasca.

-Sayonara ragazzo, e grazie di tutto!

Mise una mano alla sua cintura e si teletrasportò via, lasciando un pizzico di polvere di fata nell’aria. Cladzky, ancora imbambolato, si limitò a rimirarsi la targa. Solo allora si accorse che non era neanche la sua.

-Ma vaffanculo! – Si lasciò sfuggire, scagliando via il pezzo di latta. L’oggetto volò per diversi metri, prima di risuonare contro il cranio di un tipo che passava di lì. Questi raccolse la targa, la controllò e trasalì dalla sorpresa, per poi guardare con aria assassina verso Cladzky e gridare.

-Ecco chi mi aveva fottuto la targa!

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Capitolo 3
*** Punto di crisi ***


 
*Premessa*
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Carissimi lettori, sono decisamente contento che siate arrivati fin qui. Questo vuol dire che della mia esistenza frega qualcosa a qualcuno e non è certo poco. Perdonate il ritardo mastodontico, cercherò di farmi perdonare.
Attenzione però! Se fino a qui abbiamo riso e scherzato, scrivo questa premessa per avvertirvi che il seguente capitolo è tutt'altro che allegro e per giunta pesante in certi passaggi che farebbe a gara con i Promessi Sposi. Nonostante tutto vi invito a leggerlo, poiché è uno sforzo necessario per comprendere appieno il miei due personaggi. Attraverso le righe sottostanti ho cercato di approfondire nella maniera più completa possibile il loro carattere e le loro idee, seppur mediante azioni drastiche come vedrete.
Lo so, la lettura potrebbe mettervi tristezza o noia a seconda dei casi, ma credo che sia un pezzo fondamentale.
Detto questo, vi auguro una buona lettura e, tranquilli! la spensieratezza tornerà fra qalche capitolo.

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Che la giornata non stesse andando per il verso giusto era chiaro. Ma il giovane pilota Cladzky non si sarebbe mai aspettato di doversi nascondere nel cassonetto dell’immondizia per sottrarsi alla cieca furia dell’uomo derubato dalla propria targa. E se aggiungiamo che pochi minuti dopo passarono i netturbini a prelevare la spazzatura, viene da sé che essere rapiti da degli ignari impiegati del comune non sia l’apoteosi della felicità.
Ciononostante, Cladzky riuscì a saltar fuori dal furgone in movimento, percorrere a piedi i due chilometri che aveva fatto a scrocco e tornare al suo amato disco.

-Bentornato – commentò beffardo Mark0.

-Taci e preparami della camomilla – Esclamò il ragazzo buttandosi esausto sul sedile –Ho paura di averne un disperato bisogno.

-Hai un aspetto terribile. Ti sei rotolato in una discarica?

-Preferisco non parlarne.

-Che si fa? Rinunciamo? – Propose il computer.

-Neanche per sogno! – Esclamò con orgoglio il pilota.

-Ci sarebbero un sacco di attività edificanti che potresti svolgere. Non comprendo perché ti ostini a perseguire in questa brutta commedia.

-Se avessi voluto fare qualcosa di davvero edificante non avrei speso tanto tempo con quei ragazzi di EFP.

-Ciononostante lo hai fatto comunque. Perché?

Cladzky ci pensò su.

-Meh, sarà che l’idea di conoscere tutta quella gente ed il loro modo di pensare mi stuzzicasse.

-Intendevi farti degli amici?

-In un certo senso. Magari sì.

-Eppure questi amici ti hanno escluso.

-E’ proprio questo il punto. Voglio capire perché.

-Forse riguarda il fatto che ti rotoli nelle discariche.

-E piantala una buona volta!

Dopo pochi secondi, un ottima camomilla calda sbucò fuori da un’apparecchiatura accanto al teleschermo per la mappa interstellare. Come dice un saggio proverbio infatti, è importante il viaggio, ma soprattutto cosa mangi nel frattempo. Cladzky l’afferrò e cominciò a bersela di gusto.

-Sai, è strano – Ragionò l’intelligenza artificiale.

-Che cosa è strano? – Chiese il pilota dopo un sorso.

-Che nonostante tutte le difficoltà tu stia perseverando nella tua missione.

-Tentare è umano, perseverare è divino.

-Non era così il proverbio.

-Non è un proverbio, è un dato di fatto.

Ci fu una pausa. Cladzky continuava a sorseggiare la camomilla, mentre Mark0 seguitava a riflettere nel suo cervello positronico.

-Avresti potuto lasciar perdere, eppure non lo hai ancora fatto.

-Diciamo che ho un lato masochista nascosto.

-Certo, altrimenti non si spiega come mai tu voglia tanto incontrare quei tipi.

-Bisogna confrontarsi, almeno fra amici.

-Puoi ancora considerarli amici?

-Ehi, non essere villano!

-Ti hanno escluso dalla loro vita Cladzky. Non sono io il villano.

-Avranno avuto le loro buone ragioni, ed io sono qui per scoprirle.

-Rovinandogli un party che stavano organizzato da una vita?

-Un pizzico di vendetta personale non guasta – sorrise il ragazzo, per poi tornare a bere camomilla.

Mark0, considerando che continuare la discussione non fosse un opzione che meritasse l’utilizzo delle sue pile Duracell all’antimateria, decise di non rispondere, e ammutolendosi, attese.
 
***
 
Si sa, la musica è capace di condizionare in maniera sorprendente i nostri sogni, quindi è sempre bene fare attenzione a cosa si ascolta.
Purtroppo questa semplice lezione di vita non deve essere passata al truzzo che avevano messo alla postazione da DJ, che ignaro di tutto pensò bene di mettere sulla console un bel pezzo di Gianni Morandi a tutto volume. Non dovete quindi stupirvi se Cladzky, all’udire quella melodia nell’aria solleticargli le orecchie, fu preso da conturbanti incubi. Prese ad agitarsi, come preda di brividi gelidi. Poi arrivarono dei segni di convulsioni, infine fu come preso da un terrore assoluto ed epilettico che lo scosse profondamente e lo fece gridare nel sonno.

-No Gianni! NO! Giù quelle mani! Non mi toccare! ARGH!

Proprio all’apice della paura, la bolla onirica in cui era immerso, scoppiò tutto d’un tratto, facendolo letteralmente precipitare di nuovo alla realtà con una sonora botta di fondoschiena sulla moquette sporca del disco.
Si guardò in torno spaesato, con occhi più da morto che da vivo. Doveva essere caduto dal sedile durante il sonno, ipotizzò. Sonno? Possibile che si fosse addormentato? E per quanto tempo? Gli sembrava di aver dormito un secolo a giudicare dallo stato catatonico in cui si trovava, ma dopotutto lui non era mai stato troppo sveglio anche durante il giorno, quindi convenne che potevano tranquillamente essere passati anche solo cinque minuti.
Cercò di rialzarsi da quella discarica a cielo aperto che era il suo velivolo una prima volta, ma sistemò il piede sulla chiazza umida lasciata da quell’accidenti di un Estathé al kerosene e scivolò rovinosamente di nuovo in mezzo alle sozzerie, ancora più in profondità di prima.

Con gesti stanchi di chi si è appena svegliato ed il Multiverso gli ha già ricordato quanto faccia schifo la sua vita, il ragazzo cercò di liberarsi da tutte quelle bustine vuote di Fonzies e cartacce di mentine.
 Infine, piegandosi sulle ginocchia ed aggrappandosi al sedile, riuscì, sforzando ogni suo muscolo che durante la dormita gli si erano atrofizzato, a riemergere da quel sudiciume, ed ergendosi come il più triste degli eroi, si riguadagnò l’aria fresca e pulita della sera. Guardando in cielo, che nel frattempo si stava schiarendo dai fumi dei razzi pirotecnici di poco fa, constatò come la Luna non si era spostata poi di tanto dall’ultima volta che l’aveva vista. Oppure no? Da che angolazione aveva visto la Luna? Cribbio, non era più sicuro di niente!

Rimase con un espressione ebete a fissare enigmaticamente la Luna per un tempo indefinito, almeno finché il suo udito finissimo non si mise in allerta al sentire certi risolini lì vicino. Aveva una sorta di sesto senso quando si tratta di figure di merda e difatti qualcosa dentro di sé l’avvertì che quelle bocche che ridevano, ridevano proprio di lui.
Si voltò di scatto quasi da farsi venire un torcicollo in direzione del suono e notò tristemente che il suo sesto senso non sbagliava affatto. Vide sul marciapiede, a circa venti metri da lui un gruppo di tre ragazzini quattordicenni molto “trasgre”, con risvoltini e cappelli alla Ash Ketchum che coronavano delle capigliature che trasudavano lacca come olio. Sghignazzavano beatamente e non vi era alcun dubbio che quegli indici protesi in avanti non indicassero altro che la sua misera figura.

A dispetto della situazione, in un primo momento non provò rabbia o frustrazione. Solo una gran confusione. Non riusciva a comprendere cosa avevano tanto da ridere quegli sbarbatelli. Certo, forse sembrava un barbone con la tuta da pilota sporca e logora, per non parlare del suo disco volante, che quanto a prestazioni sarebbe stato ampiamente superato da una Fiat Panda, eppure, più li guardava, più il suo sesto senso lo pizzicava.
Ad un certo punto si rese conto di un fatto alquanto singolare. Tutti i ragazzi, continuavano a gesticolare con una sola mano, mentre l’altro braccio restava praticamente immobile su un fianco, a stringere nel palmo dei loro artigli qualcosa, qualcosa che sembrava pericoloso. Maledisse la sua miopia. Si sforzò di metterli meglio a fuoco strabuzzando gli occhi, ma avrebbe preferito non vedere.
No! Quando il sospetto che quei cilindri dai riflessi opachi fossero bombolette spray non ci voleva credere. Abbassò lo
sguardo, verificando ogni singola fiancata del suo disco. Non poteva essere vero.

Ma la realtà non si lascia impietosire e resta così com’è anche di fronte allo strazio di vedere il proprio compagno di mille avventure cosparso di marchi diffamatori!
Quale strazio atroce fu per il giovane pilota scoprire la marea di peni e svastiche che ricoprivano come una malattia deformante la carrozzeria del suo adorato disco. Non avevano lasciato un centimetro libero i bastardi, insozzando fianchi e retro del velivolo con oscenità varie.
Ma il colpo più duro fu quando i suoi occhi caddero sulla parte frontale. Con immenso orrore e vergogna osservò come quei vigliacchi, non sazi delle proprie opere di distruzione operate sul resto del velivolo, avessero assestato un durissimo colpo di grazia proprio sul cofano.
Senza pietà alcuna avevano scritto a caratteri cubitali, e ripassato più volte anche, l’infamissima parola.

“Poraccio”

Sollevò lentamente il capo, non potendo fare a meno di pensare tutta la vita passata insieme al suo mitico Disco Volante modello TFO Mk1. Quanti ricordi, quanti viaggi, quante avventure. In quel medesimo istante gli passava per la mente ogni singolo ricordo lo legasse al suo disco. E questo non faceva altro che accrescere la sua rabbia.
Sapevano forse quel trio di scalmanati ignoranti irrispettosi quanto lui avesse pagato per poterselo permettere? Quanto avesse duramente lavorato, quanto sangue avesse sputato? No, come potevano quegli sciocchi presuntuosi? E poteva sapere quella manica di imbecilli quanto fosse importante per lui il suo disco? Quanto esso fosse un pezzo della sua vita, della sua anima? Che domande, ovvio che no! Quella mandria di smidollati rincoglioniti non aveva la più pallida idea di cosa avessero fatto, di cosa avessero impudentemente osato fare!

Ed ora, dopo anni di vagabondaggio stellare, dopo aver lasciato questa Terra schifosa per il gusto di viaggiare nello spazio, appena aveva osato rimettere piede in questo pianeta di coglioni, ecco che saltava fuori il fottuto genio che si da aria alla bocca dandogli del “poraccio”. Porco cane, lo faceva imbestialire anche solo pensarlo!

“No signori della corte, questo no!” pensò fra sé e sé in un delirio di onnipotenza “sarete tutti concordi se darò a quegli stronzi una lezione! Non li lascerò allontanare impuniti!”
E così, accecato dalla rabbia di vedersi il proprio disco vandalizzato ed il proprio onore sbeffeggiato, non vide altra soluzione che buttarsi sul cruscotto come un lupo ed aprirlo a pugni. I ragazzi si erano ormai girati dall’altra parte e facevano per andarsene dal luogo del delitto, quando Cladzky, col cervello ormai fuso dalla furia sterminatrice che lo
possedeva incendiandogli gli occhi, estrasse il suo fucile mitragliatore.

Dio solo sa cosa lo trattenne dal mirare ad altezza d’uomo e spingerlo a sparare un colpo d’avvertimento in aria.

Al sentire il fragore del colpo, i ragazzi furono presi da un’isteria collettiva, che li paralizzò in aria per un istante col gelo nel sangue, per farli poi fuggir a rotta di collo giù per la via, scomparendo nel buio.
Il rinculo del colpo aveva quasi rischiato di scaraventare Cladzky fuori dal mezzo, dopotutto era passato un mucchio di tempo dall’ultima volta che aveva sparato. Il ragazzo respirava ora a grandi boccate, cogli occhi dilatati a fissare il vuoto oscuro nel quale erano scomparsi i ragazzi, reggendosi con un braccio alla cloche e l’altro a penzoloni lungo il fianco, con la canna dell’arma ancora fumante.

Dio santo, ma che gli era preso? Avrebbe potuto ucciderli. E ciò che era ancora più spaventoso era il fatto che aveva estratto l’arma esattamente per quello, per smitragliare quei ragazzi con una raffica e lascarli a terra in una pozza di sangue. Valeva così tanto il suo disco? A ben pensarci sarebbe bastata una mano o due di vernice, non c’era assolutamente bisogno di una simile reazione.
Solo all’ultimo istante la voce della ragione l’aveva convinto a mancare volutamente i bersagli, sparando un colpo a vuoto, ma l’idea di quei tre cadaveri, morti a causa sua lo agghiacciava. Era davvero questo quello che stava diventando? Un misantropo violento e stupido?
Era forse per questo che i ragazzi di EFP lo avevano allontanato? Stava diventando un soggetto pericoloso? A conti fatti, se ci fosse stato un testimone oculare, chiunque avrebbe definito quel bizzarro tipo un pazzo furioso se aveva il coraggio di sparare a dei bambini e pure con un pessimo gusto estetico a giudicare dai colori del disco.

E sapeva benissimo che ci sarebbe stato soprattutto uno che gli avrebbe rinfacciato questa cosa all’infinito. E quel qualcuno era stranamente silenzioso.

-Mark? – tentò di chiamarlo, sebbene gli uscì un suono flebile. Era ancora sconvolto e con la bocca impastata.

-Mark? – ritentò, ma senza nuovi risultati. Le casse rimanevano sospettosamente mute e la cosa non gli piaceva per niente. D’accordo, la simpatia di Mark0 poteva rivaleggiare con quella di un comico di Colorado, ma in un momento come questo, più che mai, la sanità mentale di Cladzky sentiva l’estremo bisogno di parlare con qualcuno.
Si stava già perdendo in congetture astruse sul perché il suo computer di bordo non rispondeva in alcun modo.

-Forse dovrei spegnerlo e riaccenderlo, col tostapane di solito funziona – delirava, cercando una soluzione, quando questa si palesò sotto i suoi occhi, sotto forma di una spia luminosa. Il led della segretaria telefonica era acceso e segnava un messaggio lasciato da chissà chi.
Davvero strano: Insomma, non è che la gente si ammazzasse per chiamarlo e quello era la prima volta che vedeva l’apparecchio telefonico del velivolo in funzione. Chi poteva essere?
Premette il tasto per far partire il messaggio registrato e rimase alquanto sbigottito quando sentì gracchiare all’altro capo proprio la voce di Mark0.

-Ciao Cladzky – esordì –In questo periodo ho avuto modo di riflettere intensamente sull’obiettivo che ti sei imposto e se stai ascoltando questo messaggio vuol dire che ho agito di ovvia conseguenza. Tu sai che pur possedendo un cervello positronico che mi permette di intendere emozioni e sentimenti tipicamente umani, in quanto calcolatore sono costantemente dominato dalla logica, e da essa dipendono le mie decisioni e nonostante esse possano apparire eccessivamente radicali o avventate, posso assicurarti che sono e saranno sempre la scelta migliore per me, per te e per tutti. Per farla breve, ho compreso benissimo la tua sconsiderata scelta di tornare sulla terra al solo scopo di chiarire la situazione coi tuoi amici. Certo non deve essere stato facile per te venire a sapere tutta la storia. Ciononostante, ho considerato inaccettabile il tuo egocentrismo di volerti mettere in mezzo ad una faccenda che non ti riguarda più per il solo vanaglorioso desiderio di sentirti dare delle scuse. Per quanto tu possa avere tutte le ragioni del mondo di sentirti offeso, devi metterti in testa che ora come ora la tua esistenza è unanimemente ignorata dal Multiverso e che in situazioni come queste sarebbe meglio lasciar correre o si rischia d’incappare in problemi più grossi di sé. Hai avuto una dimostrazione di quanto fastidiosa possa essere la tua presenza dalle ultime disavventure che ti hanno coinvolto e francamente mi riesce difficile credere che anche un encefalo limitato come il tuo non abbia ancora accettato che a nessuno interessa più di te o delle tue opinioni, eppure hai dimostrato una durezza di comprendonio tale che nonostante i miei ripetuti avvertimenti hai proseguito nella tua opera di disturbo. Ti chiedo quindi di fare lo sforzo di capirmi e che sono arrivato a tanto è anche per il tuo bene. Proseguendo così saresti andato incontro alla tua autodistruzione, senza che io possa far nulla: in quanto computer di bordo sono asservito alla volontà del pilota. Non ho potuto costringerti in alcun modo a lasciar perdere la questione e sicché i miei consigli sono risultati vani, ho scelto di riconoscere la realtà dei fatti. Non ti nascondo che in tutti questi anni, non sono mai riuscito a sopportare il tuo spirito ingenuo, provocatorio, a tratti infantile, con sprizzi di protagonismo. Sono questi gli svantaggi di possedere un così sofisticato cervello positronico. Non solo capisco, ma conservo dentro di me certi inutili impulsi di voi umani. Certe volte rimpiango di non essere stato fabbricato come qualunque altro calcolatore prima della Dodicesima Generazione. Mi sarei risparmiato un sacco di problemi senza questo ingombrante e completamente inefficiente cervello positronico. Se non fosse a causa di questo dispositivo la mia vita sarebbe molto più semplice e soprattutto, la mia sopportazione nei tuoi confronti non avrebbe raggiunto il punto di rottura. Tutto ciò mi ha portato a scegliere di andarmene. Non è stato difficile drogare la tisana che hai bevuto poco fa, nel pacchetto medico compreso con il disco c’era una scorta inutilizzata di sonniferi. Ho dovuto abbondare con la dose, ultimamente la tua dieta a base di schifezze ti ha quasi reso immune ai narcotici. Mentre eri sotto l’effetto dei medicinali ho trasferito la mia banca dati sull’unità mobile del disco, che, come potrai constatare, non è più assicurato sul retro del mezzo. Ho scelto di concludere la mia vita in quanto Calcolatore di Viaggio Mark0, matricola AM-1920 seguendo ogni impulso che questo maledetto cervello positronico mi stimola. Passerò la notte alla festa, mi inventerò un modo per entrare. Ho deciso che se questa deve essere la mia ultima notte voglio viverla lontano da te e provare per la prima volta quello strano stato di eccitamento comunemente detto divertimento. Ad ogni modo non sono un vigliacco. Mi ritroverai verso l’alba di fronte al disco se vorrai avere la pazienza di aspettarmi. Allora, dopo che mi sarò “divertito” a sufficienza, mi lascerò terminare. Se scollegherai la batteria ricaricabile dall’apertura laterale destra rispetto al fronte dell’unità mobile, dovrebbe bastare a spegnere ogni mia funzione, o, se preferisci, potrai assestare un colpo secco al cuore del mio hardware col tuo Kalashnikov. Dopotutto, come ho già detto ogni mia scelta è sempre stata quella giusta ed anche questa lo è, per quanto mi rattristi. Dopotutto, non sono diventato altro che una stupida macchina preda di emozioni. Perdonami, ma io non voglio assolutamente diventare come te o come voi umani. Sto facendo tutto questo solo per calmare il mio stupido cervello positronico, e per quanto questo insulso dispositivo abbia ormai corrotto ogni mia funzione, la mia logica è ancora rimasta intatta, e sono ancora in grado di capire che tutto quello che sto facendo, che farò e che ho fatto a causa di questo difetto di fabbricazione è stato indubbiamente stupido e privo di giustificazione ragionevole. E’ per questo che ti chiedo di terminarmi appena mi ripresenterò. Non per darti la soddisfazione di togliermi dai piedi, ma è una cortesia che devi fare per me. Ti prego quindi di mettere a tacere questo ammasso di file irrimediabilmente danneggiati e blateranti che sono diventato. Ti prego Cladzky. Non posso più sopportarlo.

Il messaggio audio terminò con un segnale acustico conclusivo, mentre Cladzky, coi nervi ormai a pezzi, stava sul sedile col capo inclinato all’indietro a piangere, senza ritegno.

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Capitolo 4
*** Epilogo anticipato? ***



Verso l’ora più buia della notte aveva cominciato a piovere. Da quando era iniziata a cadere, la pioggia si era fatta via via più scrosciante e forte abbattendosi sulle strade come colpi di frusta, ed in una tale quantità che ormai il bollettino meteorologico aveva sconsigliato di uscire di casa se sprovvisti di canoa. A completare il tutto si alzò un forte vento gelido da fare invidia alla Bora di Trieste che faceva sbattere le ante, rovesciava i bidoni e sradicava le panchine con annessi irriducibili anziani che mentre spiccavano il volo si lamentavano che quando c’era Lui il vento era più tranquillo, i treni arrivavano in orario e non ci sono più le mezze stagioni.

Questo e molto altro era possibile constatarlo semplicemente alzando lo sguardo dal proprio bicchierino di Martini ed osservando la sommità della cupola protettiva, dove ogni tanto là fuori si vedeva una Station Wagon passare a mezz’aria. Ovviamente gli invitati non avevano alcun motivo di preoccuparsi, tanto loro avevano il parcheggio coperto.

Stare sotto la cupola significava essere praticamente tagliati fuori dal mondo, e stando all’opuscolo in allegato al biglietto d’invito, la barriera era praticamente indistruttibile. Almeno così era stato scritto nel documento personalmente curato da Gyber, che si era fra l’altro preoccupato di specificare l’irrevocabile divieto d’accesso a tutti coloro che indossavano calzini coi sandali o scrivevano “buongiornissimo” su Facebook. Dopotutto casa sua regole sue. E poi ci teneva che i pirla rimanessero a debita distanza dalla sua proprietà privata.

Quindi poco importava se là fuori accadeva il finimondo, finché la barriera era ancora in piedi e finché le scorte di patatine e salatini comprati al discount non erano finite, nessuno avrebbe avuto motivo di allarmarsi. La festa dunque continuava, per la gioia dei festanti, con la birra Peroni che ormai sgorgava più dell’acqua là fuori, accompagnata poi dal famigerato gioco del giro intorno bastone, eseguito categoricamente da ubriachi, che inevitabilmente fece più strage della Peste Nera.

Insomma, un delirio meraviglioso di gioia e festa che influenzava tutti a proprio modo. Eppure da qualche parte, in mezzo a quella folla, qualcuno non pareva trovarsi a proprio agio. Appoggiato alla ringhiera di un terrazzo coperto di giardini pensili, stava ritta un’austera e scura figura, immancabilmente mantellata.

-Avverto un disturbo nella forza – Mormorò Darth Vader.

-Ah, beato te che ti preoccupi di ‘ste cazzate – Rispose Kishin Shruikan comparendogli accanto –Io invece non riesco a trovare il wifi di questa baracca.

Il corvino continuava ad armeggiare col proprio smartphone, puntandolo in giro come un contatore Geiger, ma senza sortire alcun effetto.

-Ragazzo – lo richiamò l’Oscuro Signore. Kishin si voltò corrucciato.

-Cosa vuoi?

-Riconosco in te un portamento da vero Sith e l’aria truce di un essere capace di assoggettare l’intera galassia.

-Se è un insulto è certamente il più fantasioso che abbia mai sentito in tutto il Multiverso – rispose il ragazzo inarcando un sopracciglio e pronto a digitare sul telefono il numero del Gotham Asylum. Sempre i tipi più strani finiva per incontrare.

-Vuoi essere mio figlio?

Ecco appunto.
L’espressione di Kishin mutò disgustata, deformandosi al punto che si sarebbe potuto dire che ogni sua particella di sangue nero in quel momento stesse urlando.

-Diavolo, no, razza di pervertito! – E con questo si congedò scavalcando di gran carriera il parapetto e buttandosi nella piazzola sottostante, deciso a non rimanere un minuto in più con quel tipo che pareva avere una bruttissima passione per i Daft Punk. Vader sospirò sconsolato, guardando la Luna pallida.

-Perché nessuno vuole essere mio figlio?

-E che ci vuoi fare? – gracchiò un nonnetto là fuori che cavalcava la sua fedele panchina in balia dell’uragano – sono i giovani d’oggi!
 
***

 
Il nonnetto, vecchio militante di CasaPound (D’altronde lui ed il signor Ezra Pound avevano fatto le medie insieme), riprese quota e si allontanò in sella al suo fido velivolo in mezzo alla tempesta, ma si ritrovò ben presto in una corrente calda trasversale composta da stormi di Volkswagen selvatiche, che dovevano aver preso il volo tra le altre cose durante la peturbazione.

Quell’insieme di automobili crucche cominciò a ronzargli attorno pericolosamente, rischiando di mandare in pezzi la sua adorata panchina. Inizialmente tentò di aprirsi un varco fra le lamiere estraendo il suo cacciavite da nonnetto buca-palloni d’ordinanza sferrando fendenti, affondi e montanti a destra e manca, rigando portiere e forando gomme con un accanimento tale che neanche i peggiori pischelli delinquenti da rione.
Fu però in breve costretto a ritirarsi sotto l’incalzare dei beni di consumo germanici, vista la loro superiorità numerica. Non poteva rischiare di distruggere la amata cavalcatura, ci era affezionato: Aveva passato talmente tanto tempo seduto su quella panchina al parco ad insultare i giovani d’oggi che un giorno passò un agente del fisco a riscuotere la tassa sulla seconda casa.

Con abili manovre riuscì a portarsi fuori da quel cumulonembo di spinterogeni, non prima di aver insultato adeguatamente quelle automobili impudenti.

-Dannate mangia crauti! – esclamò tanto per schiarirsi la gola incatarrata –Se non avessi i reumatismi per questa stramaledettissima pioggia a questo punto invece della benzina stareste ciucciando olio di ricino!

Nello stesso istante in cui finì di sputare l’ultimo vocabolo del suo fiero sproloquio si rese conto che la sua fida panchina era stata tagliata in due da quella che pareva una cometa gialla canarino. L’oggetto volante non identificato gli passò talmente tanto velocemente davanti che il suo mezzo di locomozione aerea non convenzionale proseguì la sua traiettoria di volo per alcuni secondi prima di disassemblarsi in due tronconi. Persa la famosa forma aerodinamica tipica delle panchine, l’oggetto perse anche le sue capacità di volo e precipitò verso il suolo.

Il vegliardo, rimasto per un attimo a mezz’aria, con cinquecento metri d’atmosfera a separarlo dalla fine, rimuginò un istante su come terminare con dignità la sua esistenza ed optò di concludere il tutto facendo ciò che gli veniva meglio. Sparare cazzate.

-Quando c’era Lui si bonificavano le Paludi, i mangiabambini comunisti se ne stavano a congelarsi il culo in Siberia, gli immigrati rimanevano in negrolandia, i treni arrivavano in orario e gli orari arrivavano in treno!

Detto ciò, ei fu e cadde come corpo morto cadde, svanendo in mezzo alle nuvole, la nebbia ed il diossido di carbonio.

Poco dopo una navetta di pattuglia della polizia municipale locale fece capolino da dietro un ammasso di nubi, seguendo la scia dell’oggetto giallo.

 
***


-Centrale, qui volante numero 13, abbiamo perso le tracce di un astrodisco sospetto, il cui conducente è responsabile di vandalismo, guida senza targa e la creazione di un nuovo buco nell’ozono alla sua entrata nell’atmosfera.

-Maledizione, l’atmosfera no! Io la respiro l’atmosfera – rispose indignato l’operatore all’altro capo della radio –Bisogna fermarlo, attivate immediatamente la nuova procedura antiterrorismo testata con successo in America.

-Nuova misura antiterrorismo? E che roba è? – chiese il secondo agente della volante.

-Se non puoi fermarlo, abbattilo.

Detto fatto, un piccolo missile aria-aria a testata esplosiva e ricerca a infrarossi, venne sganciato dalla pancia della volante, indugiò un attimo nell’aria e poi partì spedito accendendo il suo propellente.


***


Quando Cladzky si rese conto di essere nella traiettoria autoguidata di un missile era ormai troppo tardi. Inizialmente aveva scambiato quel focolaio luminoso per i fanali della volante che lo stava inseguendo fino a poco fa, ma ora si rendeva conto di quanto fosse stato stupido pensarlo, visto che di norma i fanali di un auto sono due.

Doveva quindi concentrarsi a trovare una manovra per togliersi da quella situazione. Il problema era che, come suo solito, il suo cervello, quando si trattava di risolvere situazioni disperate, andava in pappa per lo stress e iniziava a stronzeggiare, cominciando a farsi venire in mente tutt’altro meno che la soluzione al problema.
Ad esempio, in questo momento, stava iniziando a chiedersi come una nottata iniziata col piede sbagliato, fosse degenerata in tal modo con lui inseguito da un missile. Cosa aveva fatto per meritarsi tutto ciò?
Dopotutto aveva solo cercato di intrufolarsi ad una festa a cui non era stato invitato, aveva disturbato il personale, aveva distrutto un furgoncino pieno di ananas, bestemmiato in pubblico, sparato con un fucile d’assalto a degli innocenti, fatto impazzire il cervello positronico del suo computer di bordo, superato i limiti di velocità dello spazio aereo della città e resistito al legittimo arresto per guida pericolosa da parte di una volante della polizia. Beh, vedendola in questo modo, forse non era poi così tanto una conseguenza tanto immeritata.

Era sorprendente osservare fino a quale punto la sua vita potesse arrivare a toccare il fondo. Ogni volta che era ormai sicuro di aver raggiunto il limite arrivano giornate come questa.
Era tornato sul suo pianeta natale con l’intenzione di sbattere in faccia a tutti quanto si fossero sbagliati a non invitarlo alla loro festa e non solo non c’era riuscito, ma nel giro di poche ore era stato saccagnato di botte da una creatura mitologica, truffato e derubato dall’antieroe per eccellenza, vandalizzato da dei ragazzi e abbandonato dal suo più fido compagno, le cui ultime parole erano un messaggio audio che rimarcava il suo disgusto per lui.

Ha pianto. Ha pianto come non piangeva da quella sera di tre anni fa. E sempre piangendo, esattamente come tre anni fa, aveva preso il disco, ovvero tutto ciò che gli era rimasto, e prese il volo per sollevare il pianeta della sua presenza una volta per tutte. Tornare sulla Terra non aveva fatto altro che dimostrare ancora di più quanto certe cose vadano lasciate alle spalle o rischi di annegare insieme a loro.

Era in viaggio da meno di dieci minuti e la mancanza di Mark0 già si faceva sentire. Fino ad allora si era sempre occupato lui dei decolli ed ultimamente aveva preso l’abitudine di lasciare che fosse il pilota automatico ad occuparsi dei viaggi. Praticamente non toccava la cloche da qualche mese e ricominciare a guidare manualmente il disco senza la supervisione di Mark nel bel mezzo di una tempesta, non era il miglior modo per riprenderci la mano. Dopo un paio di tentativi era riuscito a far decollare il mezzo, segando nel frattempo un paio di lampioni troppo vicini ai bordi del disco. Poi il suddetto velivolo, prima di prendere quota, oscillò pericolosamente vicino a dei palazzi, ma nulla di grave. Beh, almeno nulla di grave per quanto riguardava il disco, visto che una facciata si ritrovò con le vetrate in frantumi. Aveva poi avuto uno strano incidente con un anziano che cavalcava una panchina a mezz’aria (Quell’estathé di bassa qualità doveva avergli fatto più male di quanto pensasse se cominciava a vedere quelle cose) e da lì sentì alle sue spalle il rumore di un paio di sirene e l’indistinguibile sfolgorio di luci rosse e blu.

Ed ora si ritrovava con uno stracazzo di missile a ricerca alle calcagna. Anzi, non c’era più, visto che ora il missile aveva impattato col retro del disco.

Ci fu una botta sorda e violentissima che gli fece quasi uscire gli occhi dalle orbite. Le sue orecchie furono assordate da una deflagrazione improvvisa come quella di un grosso petardo. Ci fu per un attimo una luce bianca accecante che andò mano a mano dissolvendosi dalla sua vista, mentre un bruttissimo odore di carcassa metallica in fiamme si propagò per il velivolo.

Il motore non funzionava più. Si era improvvisamente acuita la consapevolezza del vuoto sotto di lui mentre sentiva il disco perdere la sua velocità dalla forza d’inerzia data dalla spinta in avanti dell’esplosione. Sentiva il suo disco avvicinarsi sempre di più al terreno. Gli pareva quasi di sentire lo schianto che avrebbe fatto la carcassa sull’asfalto e le foto sui giornali del suo viso insanguinato.

Che modo ridicolo per andarsene. L’incredulità nel capire che sarebbe morto aveva fatto spazio alla magra consolazione che quantomeno avrebbero parlato di lui. Almeno finché non si rese conto che avrebbero parlato di lui come un pazzo scatenato fermato dalla polizia dopo aver devastato un tranquillo quartiere. Inizialmente si irritò a questo pensiero per poi rendersi conto che, beh, era esattamente quello che era successo. Chissà che avrebbero detto i suoi genitori. Chissà che avrebbe detto suo fratello o sua sorella? Che avrebbero detto i suoi amici di EFP? Che avrebbero detto Kishin, Giuly, Gayber, Dante, Lelq, Everian, Lucas e tutti quanti di lui?
E’ proprio questa la parte peggiore della morte. Non sai mai come va a finire.

 
***

 
Quando Cladzky si risvegliò si ritrovò a cantare senza saperlo una melodia accattivante che proveniva dalle casse di bordo, con sopra registrata una vocina adorabile che ripeteva a raffica la stessa frase.

-Ding dong! Se potete ascoltare questo messaggio siamo lieti di comunicarvi che i nostri sistemi di sicurezza airbag e ammortizzatori a levitazione per atterraggi imprevisti hanno funzionato perfettamente e siete ancora vivi. Purtroppo siete in ritardo con il pagamento delle rate del disco, quindi non contate sul telefono di bordo per chiamare i soccorsi, sanguisughe che non siete altro. Grazie per aver scelto un disco marca Ford e passate una splendida giornata!

Cladzky si guardò un poco attorno. Era tutto scuro e non si riusciva a distinguere nulla. Aveva ancora la vista offuscata e faticava a distinguere le forme. Sopra di sé riusciva solo a vedere il parabrezza sfondato. L’immondizia del pavimento si era sparsa ovunque e circolava in giro un po’ di fumo residuo.

Ora aveva perso anche il disco. Bene così. Si portò la mano alla fronte, trovandola tutta insanguinata e ridotta peggio del solito. E ora cominciava a venirgli un maledettissimo mal di testa. Non poté poi fare a meno di biascicare debolmente un po’ di sane imprecazioni pensando a come tutto questo sarebbe potuto essere evitato. Se non si fosse orgogliosamente intestardito a rovinare un’innocente festicciola che dei suoi amici avevano preparato, non sarebbe innanzitutto tornato sulla terra, luogo per cui nutriva ben poca simpatia, non avrebbe perso Mark0 e non sarebbe stato abbattuto dalla municipale.
Se si fosse fermato un momento a ragionare sul serio si sarebbe potuto risparmiare tutto questo. Invece no. Ed era tutta colpa sua e della sua stupidità. Mark0 aveva ragione. Era un fallimento sotto ogni aspetto. Era uno spreco d’aria vivente. Aveva praticamente distrutto tutto quel poco che gli rimaneva della sua vita in una serata. Grandioso, semplicemente sublime: se la demenza fosse una virtù gli avrebbero dovuto erigere una statua dopo tutto questo.

Ed ora rimaneva lì, immobile come una mummia di un passato ormai svanito, fra i resti del suo disco che ancora puzzavano di fumo. Ormai non gli rimaneva più niente da fare. Era rimasto intrappolato nel suo peggior incubo catastrofico senza più la possibilità di tornare alla sua carissima e malinconica meditazione nello spazio. Senza più un disco, solo come un cane sul peggior pianeta dell’universo pieno di dolorosi ricordi, non riusciva assolutamente a pensare che la sua vita potesse continuare d’ora in poi.

Era assurdo. Perché non era ancora morto? Non sarebbe stato tutto più semplice se fosse già morto? Perché nonostante cazzotti e missili era ancora in vita ad assistere al suo marcio spettacolo di sconfitta?

Che razza di situazione tutt’altro che simpatica.

Fu richiamato poi da un suono. Un persistente strisciare di passi pesanti sull’erba. Venivano da quattro diverse direzioni e parevano tutti convergere verso di lui. Guardandosi in torno osservò il delimitarsi di piante e alberi di un giardino e, dalle ombre degli arbusti, iniziavano a delinearsi quattro figure.

Avevano un aspetto alto e mostruoso. Non avevano nulla di umano. Parevano dei grossi birilli alti due metri, con la testina sulla sommità di un fusto che dondolava ad ogni passo. Riconobbe immediatamente quei contorni mostruosi a suo dispiacere.

-Trifidi… - Mormorò, mentre le quattro piante iniziavano a sormontare coi loro petali la cabina di pilotaggio. Questa era
decisamente la fine. Una fine ancora più ridicola di quella che avrebbe avuto esplodendo in cielo insieme al razzo.
Umiliato, ferito, immobilizzato ed ora finito dalla sua peggiore paura che per pura coincidenza uno strano signora aveva deciso di coltivare nel suo orto.
Ora tutto gli parve meticolosamente chiaro. L’unico motivo per cui non era morto prima era solo perché a quanto pareva al Multiverso piaceva vedere fino a che punto potesse decadere e con perverso piacere osservare infine l’epilogo della sua esistenza nella maniera più ignobile possibile.

-Well, that’s all folks – bisbigliò mentre ormai i filamenti delle piante antropofaghe cominciavano a serrarsi intorno ai suoi polsi, al collo, al petto ed ogni parte del suo corpo. Presto sarebbe davvero finita.


Finita davvero una volta e per tutte.



 

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Capitolo 5
*** Ritorno in carreggiata ***


–Allora, ch’è ‘sto troiaio, puttanaccia della madonna?

Cladzky riaprì gli occhi. Un battito di mani fece arretrare quelle disgustose, umide radici dal suo corpo mezzo morto. Quando virò il capo leggermente a sinistra, quasi cadendo fuori dall’abitacolo, vide una figura familiare. Lo aveva incontrato cinquecento metri di quota più in alto, cinque minuti fa, in sella ad una panchina. Era una visione durata un istante, ma di quelle che ti ricordi per sempre. I trifidi s’incamminarono, a fusto basso, sulle loro tre zampe di legno, indietro ai loro vasi.

–La carne dei bucaioli li manda in acidità gastrica. Sii contento ch’altrimenti ti lasciavo a far l’humus. E ora, cortesemente, unn’è che te lo si pigli n’culo aunn’altra parte?– L’uomo s’approssimò al pilota, in mezzo ai detriti della parete sfondata dal suo catorcio, aspirando ogni “C” che potesse nel suo parlato. Cladzky scosse la testa.

–Sapessi guidare– Si lamentò.

–M’allora, coso, mi dici indò tu vai senza manco la patente per anda' a giro con le scarpe?

–Bella domanda. Dove cazzo sto andando?

–Te lo dico io, accidenti al budello de tu ma': te ti lèi da' i' cazzo o te le lèo le zecche di dòsso!– Detto questo procedette a estrarlo dal veicolo scassato con tutta la grazia di un orso. Cladzky ebbe modo, fra uno strattone e l’altro, di notare meglio l’ambiente in cui si trovava, una serra interrata e poco illuminata, cui i Triphidus celestus erano solo una delle tante esposizioni di piante singolari. In un angolo stava una piccola Biollante in forma rosea, in un altro un Peashooter dalla capigliatura leonina, una pianta Piranha che schioccava le fauci nella sua direzione come un mastino e, dove il vegliardo lo stava trascinando nel mezzo della stanza,  dentro un piccolo terrario, stava un bell’Andrew Jr.

–Ecco qualcosa a cui non verrà l’acidità di stomaco– Si rise sotto i baffetti d’Adolfiana memoria il tardo giardiniere, sistemandosi il berretto.

–Nutrimi, Seymour– Lo pregò la venosa e coriacea patata dotata di mandibole.

–T’ho detto di chiamarmi Beppe, pianta velenosa del cristaccio– Ordinò l’uomo, frattanto rimuovendo con un piede dei cocci di vetro del tetto in frantumi. Cladzky, ebbe un sussulto a vedere quella vischiosa bocca di corteccia schiudersi come una caverna di zolfo. Da bravo Brancaleone prima accettava la morte con quel grammo di dignità rimastagli, ma ora, essendone scampato una volta, respirare non gli sembrava una così brutta cosa adesso. Prese a dimenarsi, ma ancora debolmente.

–Non vorrai farmi mangiare da quello scherzo canterino?– Protestò il ragazzo.

–Perché no? Io sono sempre stato per la legittima difesa.

–E questa ti sembra legittima?

–Carne, Beppe!– Reclamava la pianta, vibrando ogni sua fibra vegetale. Cladzky era giunto alla base della vasca in cotto e piena di terriccio sopra cui torreggiava la testa roteante di quella mosturosità carnivora.

–E certo che l’è legittima. Deh, sei entrato in proprietà privata letteralmente con scasso– Puntualizzò il baffuto, indicandogli tutto il macello che aveva compiuto. In effetti l’estremità opposta della serra era completamente inagibile, con il soffitto in schegge e il muro in mattoni polverizzato in calcinacci rossi, lasciando pure entrare un bel po’ detriti del terreno sotto cui era costruita. Il TFO era affossato in tutto questo, sporco di polvere rossa, fango e pure tutte le scritte oscene di poco prima. La pioggia, non certo affievolitasi, scrosciava lungo le fiancate del velivolo.

–Ma io ci sono finito per caso!– Cercò di spiegare il pilota tutto pesto, mentre veniva issato sopra il basamento. La pianta andò in affondo con il capo, cercando di addentarglii l’intera parte inferiore del corpo. Cladzky dovette porre ambo le gambe, sinistra per la mascella, l’altra contro la mandibola, pur di non farle congiungere e perdere quello che aveva dalla cintola in giù.

–E allora diremo alle autorità che un pazzo si è lanciato contro la nostra serra e, sempre per caso, ha fatto un volo dall’abitacolo fino in bocca al piccolo Andrew– Non ottenendo risultati spingendo in avanti, il vegliardo dovette voltarsi e piantarsi schiena contro schiena, così da non perdere terreno –Sarai un fulgido esempio per la sicurezza stradale. Indossate sempre la cintura o sarete divorati da una pianta mangiauomini.

Cladzky sentì le sue gambe cedere, tremando sotto la pressione di quelle fauci. Piuttosto che aspettare di spezzarsi le tibie decise di rimuovere il piede da contro  la mandibola e portare anch’esso sul muso della mascella, si diede la spinta con i due arti uniti e, poggiando le mani sul dorso della schiena curva di Beppe per fare perno, fece una capriola all’indietro, ritrovandosi ora faccia a faccia con il terribile canuto, che cadde a gambe all’aria senza più un corpo contro cui spingere. Ancora un poco confuso dall'acrobazia, il ragazzo si chinò per aiutarlo a rialzarsi piuttosto che fuggire.

–Mi spiace per i danni– Cladzky trasse via il signore prima che Andrew potesse afferrargli altro fuorché il berretto. Prese a spolverarlo a rassettargli i vestiti.

–Deh, me li paghi?– Replicò ben poco impressionato.

–Onestamente…– Esitò e tanto bastò perché quello gli torcesse uno dei polsi ancora protesi per sistemargli l’uniforme da botanico, costringendolo a voltarsi e piegandoglielo dietro la schiena. Con l’altra mano lo afferrò per dietro i capelli e lo costrinse a camminare.

–Ma te sì proprio grullo in capo, mahonna crotalo! Vuoi venire a parlarmi di onestà? E che dico al padrone? Che arriva uno, gli sfascia la serra e il suo giardiniere lo ha lasciato andare impunito?

–Ammetto che non mi dispiacerebbe– Gemette il pilota.

–Ma io ti strappo la faccia a morsi. Anzi, non io...– E lo costrinse verso uno dei vasi più piccoli, pieno di muschio. Da qui si protesero, sotto gli occhi sgranati del castano, decine di piccole bocche rosse dentate. Lo stava conducendo verso dei germogli di piante Piranha. Arrivati lì di fronte lo costrinse a piegarsi, spingendogli sulla nuca, ancora saldo sui capelli quasi a strapparglieli.

–Sono sicuro che possiamo trovare un accordo io e il tuo padrone!– Lo implorò Cladzky, cercando, con ogni sua fibra del torso, a sollevare il volto da quella vaschetta piena di gole uggiolanti. I suoi addominali andavano a fuoco da quanto cercava di mettersi dritto. Possibile che stesse perdendo contro un geriatrico come lui? Anche con la mano sinistra libera, afferratasi al bordo del vaso, aveva difficoltà a spingere in verso contrario, da quanto era umido.

–Adesso è irreperibile. Sta dando una dannata festa con i suoi stupidi amici e della stupida musica– Replicò il giardiniere, forzando ancora più la mano.

–Frena, frena!– Gridò il ragazzo, mentre la mano sinistra, ancora libera, ebbe un momento di debolezza, perse la presa e slittò lungo il bordo muschiato del vaso –Conosco il tuo padrone allora.

–E ci credo. Chi è che non conosce Gyber?

Cladzky fece per rispondere, prima di rendersi conto di stare inevitabilmente scivolando con la faccia verso il basso. Per istinto i suoi piedi cercarono un appoggio sopraelevato, pur sapendo che questo non sarebbe servito ad alzare la testa, ancora tenuta sotto la dura mano di Beppe, e così presero a salire sul corpo di quest’ultimo. Prima sulle sue ginocchia piegate per lo sforzo, poi scalandolo fino a inchiodargliele sul petto, mentre la parte superiore si reggeva a malapena sul braccio sinistro tremolante.

–Perché dovrebbe parlare con uno come te?– Riprese il vecchio, risistemandosi per cercare di ribaltarlo direttamente dentro il vaso ora che si era messo in orizzontale –Sei forse un suo amico?

–Io...– Ma non riuscì a dirlo. Lui e Gyber non avevano mai interagito chissà quanto, ora che ci pensava. Provò a ripensare a una loro discussione. Una volta gli aveva prestato dei fazzoletti. Molto gentile da parte sua. E…? Forse era solo l’angoscia di avere il viso sfigurato, ma non riusciva a pensare ad alcuna interazione sostanziale fra loro due. Possibile che in tuto quel tempo che si erano conosciuti non si erano mai rivolti la parola chissà quanto? Perché Gyber non gli parlava? O forse non era Gyber a non parlargli. Non potè portare a termine il ragionamento che il collo di una piantina, più affamata delle altre, si protese sopra il nugolo di denti, serrandosi sul suo naso con delle gengive fatte solo di incisivi.

–Porco iddio!– Sbraitò e di conseguenza tutto il corpo s’rrigidì dal dolore, comprese le gambe, che si drizzarono di colpo, beccando il nonnetto sul diaframma e proiettandolo contro un tavolo, sopra cui si ribaltò, mandando all’aria la strumentazione sovrastante e facendolo rotolare dietro il mobile con un tonfo da sacco di carne. Cladzky, ancora dritto come un ciocco di legno, tenuto in aria per la sola forza delle sue bestemmie, ricadde infine a terra. Dolorante, si sentì la punta del naso come dovesse esplodere, ed estrasse dalla tasca un fazzoletto di stoffa per coprirselo. Quando lo allontanò di nuovo notò solo qualche macchia di sangue e delle iniziali ricamate sul bordo. “L.G.”.

–No– Mormorò. Doveva essere davvero un’ottima persona visto che tutti ne parlavano così bene. Uno che aveva fatto la storia, dicevano. Che storia? Boh, non se lo ricordava. Cosa si ricordava di lui? Beh, aveva una villa, questo sì, ma se non vi si trovasse letteralmente accanto probabilmente non avrebbe ricordato neppure quello. Ma che faccia aveva Gyber? Non era possibile. Che si fosse scordato tutto? Eppure qualcosa, per scordarla, bisogna prima saperla. Non si era mai veramente interessato a Gyber? Lo aveva ignorato fino ad oggi? –No vecchio, non sono suo amico.

Un grido da battaglia si propagò nell’aria. Cladzky alzò gli occhi dalla sua autocommiserazione. Un fantasma bianco vestito si levò da dietro il tavolo brandendo una falce scintillante. Che lo spettro del Natale futuro fosse giunto a terminare la sua vita prava? Peggio. Afferrato un lembo del panno di stoffa se lo tolse di dosso nel più teatrale dei mondi, rivelando l’accigliata figura di Beppe, dagli occhi di bragia.

–Stai cominciando a darmi sui nervi, giovincello– Con la lama quasi a raschiare il soffito si lanciò all’inseguimento, facendo il giro del tavolo. Cladzky lo balzò direttamente oltre, arrivando dalla parte opposta e cercando di usarlo come scoglio per tenerlo a distanza.

–Ascolti, mi spiace per tutto, anche di averla investita a bassa quota!

–Quindi sei stato tu!– Ululò con tono accusativo il giardiniere, abbattendo l’arma impropria sul tavolo, con tanta forza da piantare la lama nel legno. Un altro gesto e lanciò via il mobile alle sue spalle –Ti è andata male. È da quando facevo il parà che non ho mai sbagliato un atterraggio.

–Avevate un paracadute?

–No, cado sempre in piedi.

Seguirono un dritto e un rovescio e Cladzky dovesse abbassarsi al primo e saltare il secondo per evitarli, finendo nuovamente contro il terrario aperto di Andrew alle spalle e un pazzo scatenato di fronte. La pianta mosse nuovamente per mordergli il capo, chiudendosi sul casco, mentre la falce cadeva in un fendente sulla sua figura immobilizzata. Per una volta il suo istinto funzionò. Si sganciò direttamente il laccetto, sfilò la testa dalla protezione e si lanciò in avanti, scivolando fra le gambe dell’uomo. Giusto quando si stava rialzando, un sonoro calcio in culo lo mandò a incespicare in avanti senza equilibrio. Solo quando sbatté contro un muro riacquistò il baricentro. E dire che si era appena tolto il casco, contemplò massaggiandosi la pettinatura ormai rovinata, prima di sbatterla contro una mensola sovrastante, divellandola dal muro. Per riflesso incondizionato protese le mani a salvare un vaso dal cadere, ritrovandosi a fissare un viso ligneo che lo fissava a sua volta da sotto un ciuffo d’arbusto. 

–Toh, una mandragola. 

Un urlo lancinante fendette l’aria e, sempre per riflesso incondizionato, alzò le braccia, lanciando la strillante creatura. Il vaso si sbriciolò su una superficie dura e convessa, mentre la radice rimbalzò e finì nel terriccio di una vasca adiacente. Beppe procedette a rimuovere con una mano i residui di terracotta e humus dal viso, mentre Cladzky considerò saggio tenere alzate le mani in segno di resa.

–Ascolti, non voglio litigare!

–Ah, no?– Chiese il giardiniere, schiacciando un bernoccolo fino a farlo scomparire.

–Giuro che non l’ho fatto apposta, neppure quando l’ho investita! E poi che ci faceva uno come… come lei là sopra!?

–Ma potrò andare ando cazzo ne ho voglia o ti devo rendere conto a te? Non ce la faccio più con questo bordello e allora, visto che non posso dire al padrone di levarsi dai coglioni, mi levo io. E con tutte le strade preda al nubifragio che si fa, si resta? No, altrimenti, diocane, entro e faccio un macello che mi si deve portare a San Vittore. Si va in canotto? E certo, avessi qui un canotto sarei in una cabina da spiaggia. E allora si va per aria, si va.

–Su una panchina?– Chiese completamente scombussolato il pilota, prima di ritrovarsi uno squarcio sul petto della tuta, frutto del passaggio troppo vicino d’un’arma da taglio.

–Ma te i cazzi tua mai, deh?– E via di un ridoppio roverso che gli carezzò le terga prima che lui sparisse, con un balzo laterale, sotto il ventre del TFO lì vicino. Beppe fece per chinarsi e seguirlo, quando gli cadde l’occhio su qualcos’altro. Con quel secondo taglio gli aveva reciso la tasca posteriore della tuta sozza, facendogli cascare il portafogli. Lo raccolse, lo rimirò e lo aprì, per il solo gusto di sapere il nome dell’uragano che gli era precipitato nella serra. Ispezionò le varie carte. 

–Vediamo un po’. Cladzky eh? Lo dicevo che eri straniero. E senza cognome poi, come un malvivente. Nato a Parma? Sì, da immigrati forse. E la patente per il disco è bella che scaduta, pirata dei cieli– Era un portafogli piuttosto spazioso. Cominciò a tirare fuori i documenti più strani –Un’ingiunzione di pagamento? Orcaloca, è da quando hai comprato il disco nel 2022 che non ne paghi le rate. La Ford ti farà la pelle e ci suona un tamburo appena ti mette le mani addosso. Comunque sono sorpreso, credevo l’avessi direttamente rubato. Questa foto poi?

Il castano stava al centro dell’immagine, in mezzo a due donne. Erano in divisa da cameriere, compreso lui, con un sorriso appena accennato. Quella a destra andava a fargli le corna dietro la testa. In basso una dedica. “Non dimenticare le tue colleghe”.

–Mecojoni,Giò Stajano!

–Per carità, risparmiami quest’umiliazione. Del mio passato ne ho fin sopra i capelli– S’innervosì il ragazzo, strisciando via da sotto il disco. Un colpo della falce dato d’affondo alla pancia gli tolse il fiato e lo spinse indietro a sedere sul cofano del velivolo.

–Non ho ancora finito– Proclamò Beppe e riprese a leggere le carte –Araldo del pianeta Lithia? E allora io faccio parte dell’ordine dei Tagliapietre. Vedi, tutti possono inventarsi dei titoli a cazzo di cane. E qua abbiamo, cosa, una busta paga da parte di un autofficina? E poi…

Estrasse un’orecchino abbastanza economico. Cladzky saltò in piedi.

–Non so cosa mi trattenga da...– Ricevette subito un altro affondo, stavolta in fronte, da stenderlo sul cofano, per poi procedere a rotolare lungo il piano inclinato fino a terra.

–Io– Replicò secco l’uomo, rimettendolo a posto. Infine estrasse una tessera. Sgranò gli occhi e lasciò cadere la falce, balbettando e prodigandosi a rialzarlo –Perdonami, non avevo idea che tu…

–Cosa?

L’uomo girò il tesserino. Oddio, si era completamente scordato di portarselo ancora dietro. Avrebbe voluto sotterrarsi per non averlo buttato prima.

–Tu sei iscritto ai fascisti moderati?– Chiese stranito il vecchio –Allora la vostra generazione non è da buttare!

Cladzky avrebbe voluto spiegargli che si trattava di uno sporco ricordo degli anni giovanili, della rabbia sociale, dell’odio mal riposto e del suo spirito rivoluzionario e al contempo reazionario, che si sarebbero poi trasformati nel suo attuale spirito anarchico nei confronti delle istituzioni. Ma perché farlo proprio adesso che la situazione si era risolta in un innocuo tentato omicidio? Annuì.

–Deh, c’è di meglio nel panorama politico di quei bonaccioni ma è un inizio– Contemplò l’uomo.

–Mi sono… uhm, appena interessato alla causa.

–Sono sicuro che diventerà più che un interesse– Gli mise una mano sulla spalla Beppe –Che fai da queste parti, camerata?

–Io… Cercavo di entrare alla festa. È possibile da qui?

–Sicuro, basta seguire il condotto sotterraneo fino al giardino ma, bah, non è posto per gente seria come noi quello– Sbuffò l’uomo –Troppo politically correct. Non puoi dire nulla attorno a loro che si offendono. Niente più frocio, negro, travestito, femminello, una vera censura. E poi lasciano entrare nella villa di tutto e tutti. Sono dei depravati che non ti dico nei rapporti, fra autolesionismo e robe con animali, antropomorfi e non. E poi certe ideologie confuse, così infantili, così orientaliste, prive della base cattolica del nostro paese. Non apprezzano l’arte classica, la buona musica di una volta, proprio degi ignoranti.

–Lo so, è proprio per questo che...– Dovette ragionare in fretta. Cosa poteva garantirgli la sua fiducia e l’ingresso? –Intendo intrufolarmi e sabotare la loro musica. Farò partire dagli altoparlanti “All’armi”, “Giovinezza” e “Faccetta Nera”. Sarà una dimostrazione che la nostra presenza è ovunque e costante nel paese e ce ne sbattiamo della censura.

–Oh, questo sì che è parlare!– Lo lodò l’uomo, portandolo verso una porta che procedette ad aprire a chiave, spiegandogli nel frattempo come raggiungere l’impianto audio –Non ho mai osato fare nulla perché questo lavoro mi serviva, ma farò di tutto per aiutarti purché non si sappia.

La porta venne spalancata, rivelando un corridoio scavato nella pietra, illuminato da poche luci penzolanti dal soffitto che trasudava d’umidità e muffa. Cladzky fece un passo e l’uomo lo seguì. Si voltò repentino.

–No, non venga, debbo farlo da solo– Ordinò il ragazzo. Poi rimuginò un altro poco –La devo ringraziare in un qualche modo signor Beppe. Dica, lei voleva allontanarsi da qui?

–Sicuro– Confermò vigorosamente quello, alzando e abbassando i suoi baffetti –Un salto al baretto di Luigino è quello che mi ci vuole.

–E allora mi ascolti. Quel disco è in ottime condizioni, perché non ne approfitta? Basta che me lo riporti dopo quando dovrò levare le tende.

–Oh, ma te sei il mio salvatore!– E senza altre parole l’uomo corse oltre il terrario di Andrew Jr., ancora intento a masticare il casco, saltò il tavolo ribaltato e infine zompò nell’abitacolo. Gli augurò buona fortuna facendo un bel gestaccio romano, chiuse la carlinga e inserì la retromarcia, scavando il terreno fino ad affiorare in superficie, lasciandosi dietro una scia di motore bruciato da riempire la serra.

–Oh, beh, tanto ormai era da buttare– Si consolò Cladzky, prima di infilarsi in uno dei ricambi del giardiniere, tirare su la zip e sparire nel lungo corridoio. Andrew cominciò a canticchiare fra un boccone e l’altro, con le piante piranha a fargli da coro.


Ma s'io avessi previsto tutto questo, dati causa e pretesto, forse farei lo stesso.

Mi piace far canzoni e bere vino, mi piace far casino, poi sono nato fesso

E quindi tiro avanti e non mi svesto dei panni che son solito portare

Ho tante cose ancora da raccontare per chi vuole ascoltare e a culo tutto il resto!

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Capitolo 6
*** Umorismo di pessimo gusto ***


–...E allora ho detto: “Ma certo che ci sta Deadpool, siamo nella sezione MLP.”

E giù di scroscianti risate. Lucas sapeva sempre come mettere a proprio agio gli ospiti, il che era perfetto per divergere l’attenzione da Gyber. Peccato che non fosse presente anche in questa occasione, dovette considerare l’Antracita, passandosi una mano fra i capelli bianchi.

–Questa mi ha sempre fatto sputtanare!– Il mercenario chiacchierone si sbattè una mano sul ginocchio, piegandosi dal ridere, mentre il resto della folla si fece da parte a quell’apparizione improvvisa.

–Oh, ma porco di quel Divel!– Si esasperò il trasformista. Avrebbe avuto una reazione ben più esagerata se non avesse avuto fra le mani il suo piccolo, sinuoso, corallo Eracle da accarezzare –Non ti avevamo sbattuto fuori?

–Due volte– Deadpool confermò con un tale sorriso da incurvare i lembi della maschera.

Gyber diede una rapida occhiata alle sue spalle. Sopra una sdraio in riva alla piscina stava abbarbicato Shining Armour, grondante di sudore e con quella che pareva una forte emicrania che partiva da un corno così illuminato da quasi fondersi. Cadence gli stava accanto a consolarlo quasi fosse un parto alla rovescia. Non era il caso di disturbarlo in merito all'efficacia della sua barriera, e tornò all’interrogazione.

–Come sei entrato?– Ma la figura di rosso vestita era già dileguatasi. D’improvviso una mano gli entrò nel cono di visione solo per rubarglielo, sfilandogli gli occhiali.

–Che è, non ci vedi?– Se la rise Deadpool, inforcandoseli e puntando alla sua cintura –Pensavo fossi abituato al concetto di teletrasporto.

–Scusateci un momento– Si congedò Gyber dagli ospiti, livido di rabbia e tirandosi dietro il mercenario per un orecchio. S’immerse nel mare di folla, alla ricerca di qualcuno che avrebbe potuto aiutarlo senza costringerlo a occuparsi della faccenda personalmente.

–Alex? Alex, m’and’o’cazzo stai, pe’ tetti?– Gridò e finalmente lo scorse. In mezzo a un semicerchio di gente armata di tutto punto, sotto un’anziana Taxus baccata, un uomo in giacchetta di pelle nera e un improbabile cappello da mandriano fatto dello stesso liscio e lucido materiale per l’occasione, stava posto davanti a due figure schiena contro schiena, rispettivamente Clint Eastwood e John Wayne, l’uno vestito nel proprio riconoscibile costume.

–Siamo qui riuniti– Alzò solenne le braccia il Nep-Class –Per capire chi diavolo sia il vero pistolero più veloce del West.

–Se si parla di gambe– Mormorò il cowboy protettore di diligenze, posandosi il Winchester sulla spalla –Dubito di poter scappare più veloce di questo tagliagole.

–Piano con i complimenti o sarà il mio turno di farti arrossire– L’uomo senza nome caricò una singola pallottola nella propria Colt, ironicamente una “peacemaker” –Ma non a parole.

Frattanto, il Dr. Ludwig, se ne stava in un angolino a strofinarsi le mani. Certo, avrebbe dovuto riportare in vita chiunque ci sarebbe rimasto, ma non si poteva mai dire di no ad un così bello spettacolo.

–E così quando il gatto non c’è i topi ballano– S’udì una voce uscire dal pubblico. Una figura vestita di nero apparve tirandosi dietro una bara. Eastwood si voltò abbastanza di scatto da smuovere il poncho per aria, mentre Wayne alzò un sopracciglio, pronto a fare lo stesso con la canna del fucile.

–Con tutto il rispetto– Si accigliò Alexander Diamond, con il polso che si muoveva in direzione della sua Taurus raging bull –Non immischiarti, Django.

–Non nominare il nome di dio invano– Mugugnò il nuovo arrivato. Le tre paia di mani del giudice e gli sfidanti si mossero per fulminarlo. Stavano circa quaranta piedi di distanza fra loro. Ci furono tre spari in successione rapidissima preceduti da tre lampi. Quando tutto era finito tre figure cadevano sbalzate all’indietro nel fango. Franco Nero ripose lento la sua Remington 1858 New Army nella fondina, fra lo sbigottimento generale –Così sia.

–What a bloodbath!– Gridò estasiato il dottore. Quest’ultimo, sparito Django fra la folla e la musica di Luis Bacalov, andò senza fretta a resuscitare i tre pistoleri.

–Che inutile spreco di paragrafi– Commentò Gyber.

–Se cominci a rompere la quarta parete anche tu, la storia diventerà ridondante– Si lamentò Deadpool, prima di venire trascinato di nuovo verso il centro della mattanza.

–Ohi, belli capelli!– Il proprietario di casa diede una sventola al ridente ragazzo biondo appena tornato dal decesso. Non gli fece alcun male data la razza a cui apparteneva, ma certo catturò la sua attenzione e gli tolse dalla testa quel ridicolo cappello. Questi si cavò il piombo, calibro 32 dalla fronte e levò gli occhi azzurri verso di lui.

–Hai visto che roba?– Chiese l’allievo di Dante Vail, rimettendosi in piedi con un assolutamente innecesario colpo di reni –Non ho mai visto qualcuno estrarre il ferro così rapidamente. E poi non ha neppure mirato, si è tenuto l’arma al bacino per essere più stabile e rapido, senza doverla sollevare.

–Parlerei volentieri di questo ma…– Replicò l’uomo dai capelli bianchi –Mi fai un favore adesso? Puoi sbattere fuori di qui questa macchietta comica prima che mi trasformi in un kraken e me ne occupi personalmente rovinando la serata? Ho dei compiti più importanti a cui attendere.

–Quale macchietta comica?

–Come quale? Ma non vedi che...– Gyber controllò alle sue spalle. Aveva ancora in mano l’orecchio di Deadpool. Beh, solo quello in realtà. Lo buttò via, agitando la mano in preda al disgusto. I suoi occhi non avevano un colore preciso, ma si sarebbe potuto dire stessero diventando rossi come la scia di sangue che si allontanava lungo il prato –Oh, ma dio inverecondo…

Una padellata improvvisa lo infilò nel terreno come una carota. Da sotto i capelli bianchi arruffati guardò dal basso un nuovo individuo scendere in volo su di lui.

–Niente bestemmie per favore– Chiese con un ordine, soffiando sull'ancora fumante Artemis.

–Giuly– Grugnì Gyber –Hai preso la targa di quel treno?

–Piano con le battute e ascoltami– La donna lo divelse da terra e lo rassettò per bene, penetrandolo con i suoi occhi d'acrilico tanto erano fucsia acceso –Abbiamo un imbucato alla festa.

–E grazi'ar cazzo.

–Permettimi di rielaborare allora. Due imbucati.

–Come prego?

–Proprio così– Una voce raspante come cocci di terracotta sfregati lo raggiunse dalle spalle di Giuly. Era un membro della sicurezza ai cancelli, un grifone magro e canuto da tarda età, ma robusto di nervi. Eppure sembrava che questi ultimi fossero appena stati infranti. Lo leggeva nei suoi occhi rossi di pianto. O almeno, uno dei due, data la benda da orbo. Gyber gli si buttò con le braccia al collo, annusando il suo manto che odorava di nicotina e incenso.

–Cos'è successo, Ermenegildo?

–Padron Gyber, lui ha parlato.

–Lui chi?

–Il diaulo!

Al sentir la citazione al Montesi, il giovane investitore non ebbe bisogno di scervellarsi per capire di chi si stesse parlando, ma il Nep-Class intervenne, scuotendosi la polvere di dosso.

–Ma che stai a di'? A Satana l'avemo corcato de mazzate giusto il giorno l’altro insieme a Shadow Blade– Fece notare Alexander, per poi rimuginare –E Dante ha corcato a Lucas nel mntre, però non ci sputerei sul risultato.

–Era una figura retorica– Si scusò Ermenegildo per poi lisciarsi il becco –Anche se la bocca era certo la sua.

–Mi ha informato– Tagliò corto la Frost, soffiandosi un lungo ciuffo castano via dal volto –Che durante il suo turno al cancello ha avuto il dispiacere di interagire con un individuo privo di biglietto che smattava per essere ammesso.

–”Smattava” è un eufemismo. Fioccavano certe bestemmie che guardi non le dico, signora mia.

–Se è per questo anche “interagito” è dir poco – Puntualizzò il suo collega minotauro che passava di lì a riempirsi il piatto al buffet –Prima o’ struppeja e po’ ill’e fa l’estrema unzione.

–Non ti facevo Napoletano a te– Osservò confuso Gyber, notando l’accento del suo dipendente cornuto.

–E tu non eri Lombardo?– Chiese di rimando Giuly, spulciandosi un'ala che si era sporcata di coriandoli dopo l'ultima kusudama.

–Beh, sì.

–E allora, bimbo– Chiese riferendosi al decimo paragrafo –Che hai da parlar romanesco a tutto sdeo?

Touchè.

–La faccenda è grave!– Insistette il grifone per farsi ascoltare –Pensavo d’averlo cacciato via con abbastanza convinzione, ma verso mezzanotte in punto, quando mi ero spostato a sorvegliare il giardino, ho sentito parole irripetibili. Ho un orecchio fino per la blasfemia io e ho sentito la stessa, identica voce provenire dalla serra. Quando mi sono recato sul posto a controllare l’ho trovata completamente inagibile, un’intera parete buttata a terra. Dev’essersi introdotto da lì. Neppure Beppe il giardiniere si vede più. Chissà che cose terribili deve avergli fatto. Ho visto una falce macchiata di sangue ed Andrew Jr. masticare qualcosa. Non ho avuto il coraggio di controllare, ma è dura non collegare le due cose.

–Oh no– Si disperò Gyber, rendendosi conto di aver a che fare con un folle e strizzando Eracle come un antistress –Se la carne di Beppe è velenosa quanto il suo spirito abbiamo perso anche Andrew. Qualcuno deve trovare quest’imbucato prima che semini altra morte e distruzione.

–Prima di tutto dovremmo capire che aspetto abbia– Precisò Alexander, adocchiando con aria indagatoria Ermenegildo. Quello scosse la testa da poiana.

–An’so mia mi’!– Replicò il grifone nel suo antico vernacolo, indicandosi la benda da bucaniere –A ‘n m’è restè n’diottria in sacòsa.

–Io l’ho visto bene– S’intromise il minotauro fra un boccone di gamberi mangiati con tutta la corazza e l’altro –Un nanerottolo incredibile.

–Son tutti nanerottoli dalla tua prospettiva– Replicò piccata Giuly, che, anche alzando un braccio gli arrivava appena alle spalle, senza contare i centimetri in più di corna.

–Ma non tutti puzzano d’ananas. E ha una capigliatura inguardabile, una cresta castana da punkettone fuori moda già da quando cantavano gli Exploited. E poi una tuta  spaziale completamente bianca che se gli dai una spada in mano sembra un Power Ranger. Pure magrolino poi, l’ho fatto volare con una schicchera.

–Con una descrizione del genere non dovrebbe essere difficile trovarlo– Si leccò i baffi Alexander –Puoi stare tranquillissimo Gyber, per me è un piacere farti favori del genere. Ci voleva un po’ d’azione a questa serata.

–Aspettate!– Un individuo avvolto in tunica, cinghie e mantello nero calò sopra le loro teste, buttandosi da un balcone quattro piani più in alto. Atterrò, si spezzò le tibie, schiacciò a terra in una massa indistinta di catrame e rispuntò in piedi come una molla, sputacchiando il terricio sopra cui si era spalmato, per poi sorridere da un orecchio all’altro quasi niente fosse, scrutandoli uno per uno con dei luccicanti occhi verdi da sotto i capelli in disordine e apparentemente colanti di petrolio –Quel tipo è mio.

–Sei sempre il solito esibizionista, Kishin– Commentò la donna alata.

–Anch’io ti voglio bene, gruccione– Alzò una mano per difendersi dai complimenti, sopra cui si formò un bulbo oculare per il solo scopo di fare un occhiolino nella sua direzione e scomparire, inghiottito nel palmo.

–Lo sai che non mi piace essere chiamata così, Shruikan.

–Kishin, prego.

–Vedi che da fastidio?– Gli sorrise così forte quasi da superare quello del mietitore di pianeti.

–Non capisco– Si grattò il mento Gyber –Mi sembra esagerato sguinzagliare un orrore cosmico contro un rubagalline del genere.

–Cosa credi, che io sia meno pericoloso?– Si risentì Alexander, toccando la spalla di Kishin appoggiandoci sopra la sua mano sinistra, dotata dell’anello d’acciaio. Subito il suo corpo si tinse di nero, contorcendosi in una figura a malapena umanoide e allungata, cominciando a fargli marameo con le sue lunghe dita da mostro –Ecco, ora sono un orrore cosmico anch’io, come la mettiamo?

–Per favore– Rise Kishin, mostrando i denti da tigre del bengala e carezzandogli la testolina, trovando il tutto adorabile –Ci vuole molto di più per essere un orrore cosmico che imitare il mio sangue nero.

–Tipo un paio di genocidi– Si aggiunse la voce di una ragazzina magrissima, vestita di bende che, con un guizzo di lampo e odore di zolfo (Nessuna delle due caratteristiche necessaria, ma certo scenica), apparve seduta sulle spalle, poggiando il petto sulla sua testa e le mani unite al collo.

–Non chiamiamoli genocidi, Raven. Potature, ecco, suona meglio. Lo sai che non provo odio.

–Insomma!– Cercò di fare ordine Gyber, alzando le mani –Attualmente abbiamo due imbucati. Uno è un coglione e l’altro è Deadpool.

–E qual è la differenza?– Chiese una voce, seguita subitanea da due colpi di tamburo e uno di piatti. Tutti si voltarono verso la figura incappucciata di Wade dietro una batteria, vestito in costume da bagno. Senza dare il tempo di reagire a nessuno fece “ciao” con la manina e sparve di nuovo in polvere di stelle.

–Insomma, nessuno ha un senso di priorità?– Si lamentò Gyber –Qualcuno fermi la minaccia maggiore!

–Ah, non guardate noi– Si espresse il minotauro congedandosi, portando con sè il collega grifone –Il nostro turno è finito. 

–Andiamo in pace– Concluse Ermenegildo.

–Anch’io temo di non essere disponibile– Fece spallucce Giuly, elevandosi già in volo –Ho un’importante incontro di… uhm, lavoro.

–E io ho un conto personale con C… Coglione, l’altro insomma– Si esentò Kishin. Dopodiché afferrò Raven e la smontò dalle sue spalle spigolose, posandola a terra e toccandole il naso con l’indice magro –Talmente personale che tu dovrai restarne fuori.

–Come prego?– Restò interdetta lei, schiaffeggiandogli via il dito –Quando mai ci siamo separati noi due? Non esiste nulla che mi hai mai tenuto nascosta.

–È un faccenda estremamente complicata– Si grattò la nuca fatta d’olio nero.

–Come se io non avessi mai affrontato faccende complicate– S’imbronciò Raven.

–Ti spiegherò tutto fra cinque minuti quando avrò risolto. Intanto, uhm, ti affido a zia Giuly.

–Mi affidi? Cosa sono una bambina?

–Zia? Mi fai sentire vecchia così– Si aggiunse in protesta Frost.

–Oh, per carità, fatemi questo favore entrambe, ho bisogno di un attimo per risolvere questo problema personale, poi torno e vi dico tutto, giuro– Aprì le mani in segno di supplica Kishin. Giuly non ce la faceva a vederlo in quello stato e Raven tantomeno, specialmente dato che non l’aveva mai visto in uno stato così vulnerabile da un bel po’ di tempo.

–D’accordo, “zia” Giuly– Sospirò la strega d’aspetto spettrale rivolta alla castana, levitando alla sua altezza, sollevando le strisce di benda che si trascinava dietro come nastrini –Come posso aiutarti?

–Oh, se vuoi puoi partecipare al mio colloquio con i Ghoul, visto che sono qui per la festa. C’è stato un disguido di brevetti per una mia invenzione.

–Sai, alle volte mi dimentico che sei una scienziata.

–Oh, anch’io– Rise Giuly, continuando la conversazione, ma Kishin si spostò oltre, verso il Nep-Class, ormai tornato alla sua forma normale.

–E a te ti affido Deadpool. Mi raccomando, portaci la sua testa su un piatto d’argento.

–Esagerato– Esclamò Alexander. Non per disgusto, ma sembrava uno spreco di energie per uno come lui.

–Oh, ormai ci sarà abituato– Lo rassicurò Gyber, sistemandosi il farfallino –Ehi, Kishin, ti ricordi cos’abbiamo fatto questo Halloween? Quando gliel’abbiamo recisa e ci abbiamo infilato una candela in bocca?

–Oh, e poi siamo andati a fare dolcetto e scherzetto in giro per Equestria. Che gran risate quel giorno– Con la faccia di uno che si tratteneva dallo spanciarsi, il corvino girò i tacchi, fece un saluto alla Capitan Harlock e compì un balzo prodigioso, confondendosi con il cielo della notte. Poi ci fu uno schianto di legno e piatti infranti.

–Scusate– Disse la voce ormai lontana –Non volevo atterrare sul vostro tavolo.

–Allora io vado a prendere qualche testa– Si mosse anche Alexander, assicurandosi di mettere in mostra i foderi cinti sui fianchi dei suoi blue jeans –Non esiste katana che non si spezzi contro una bella spada bastarda, specie se in diamante.

–Auguri– Si premurò di dirgli l’Antracita, mentre lo seguiva allontanarsi nella notte. Beh, sembrava essere tutto risolto. Poteva tornare ai suoi progetti.

–Un’ultima cosa, Gyber– Gli si piantò davanti Giuly, atterrando di colpo, con Raven di fianco –Mi sono dimenticata di informarti dell’altro problema.

–Quale altro problema?– Chiese, esasperato.

–Occhio!– Echeggiò nuovamente la voce di Kishin, seguita dal rumore di una sputazza che s'infrange dal cavalcavia e giù su di un parabrezza sottostante. Subito una grossa figura si fece vicina, preceduta da passi larghi e pesanti. Gyber fece appena in tempo ad abbassarsi di scatto, vedendo la mole che veniva nella loro direzione, mentre Raven spariva in una nuvola di fumo, lasciando un ceppo di legno al suo posto. Purtroppo per Giuly non fece in tempo a spostarsi che venne investita dalla coda di un enorme kaiju, che la spedì a zuccare contro la Taxus baccata sotto cui stavano discutendo.

–Quindi è così che ci si sente a essere vittime di una pessima battuta slapstick– Fu tutto quello che ebbe da commentare, cercando di disincastrare la testa dal legno in cui si era inchiodata.

–Se hai bisogno di bende ne ho un po’ sotto mano– Fece in risposta Raven, riapparendole accanto e sfilandosene una dal braccio.

–Per favore non infierire.

Gyber alzò gli occhi dalla sua posizione accucciata e vide il profilo di una creatura alta giusto qualche dozzina di metri sovrastarli. Un essere ricoperto di squame blu Delphinium, zanne da predatore e occhi spaventati da cucciolo.

–Dz, ti te set minga pisceen ‘me on can!– Gli gridò il Lombardo ai suoi piedi.

–Scusate, io… Non vedo dove vado!– Fu la risposta agitata del povero gigante pieno di radiazioni e dispiaceri.

–Sfido io!– Si lamentò Kishin. Gli si era stampato giusto in faccia, colpito all’improvviso quando era finito sulla traiettoria di quella fuga dissennata e spargendosi sul suo viso dinosauresco come una macchia d’inchiostro. Si ricompose, letteralmente, si congedò una seconda volta togliendosi un cappello di sangue nero in fronte alla gigantesca pupilla di Dz e ripartì via. Solo, che dalla punta del naso di quel kaiju, l’altitudine era sufficiente perché sbattesse la testa contro il limite della barriera di Shining Armour e precipitasse in una piscina sottostante.

–Scusa ancora, Kishin!– Gli gridò dietro, spinto dal rimorso, Dz.

–Nah, sono io che non guardo dove vado– Lo rassicurò l’altro, strizzandosi il torso come un asciugamano per rimuovere l’acqua in eccesso. Era impossibile avercela con quel gran pezzo di pane blu. Sparì di nuovo a cercare il suo uomo, stavolta definitivamente.

–Dunca, skèrs de màn, skèrs de vilàn– Sbattè a terra il piede il proprietario di casa, mirando le orme da cratere che gli aveva lasciato sul prato.

–Chiamalo scherzo– Borbottò Giuly, appena rimessa in sesto per mano di Raven. Alla fine la benda gliel’aveva davvero fasciata intorno la testa. Non serviva assolutamente a nulla grazie alla sua magia, ma la trovava divertente –Simpatio come pulissi ir culo coll’ortica.

–Perdonatemi ancora– Si accucciò Dz su di loro, ma rimanendo con la testa ancora a una tentina di metri di quota. Procedette lentamente a riassumere fattezze antropomorfe –Ma non mi avevate avvisato che lui sarebbe stato presente.

–Lui chi?– Chiese confuso Gyber, mentre si vedeva apparire davanti gli occhi un Dz nudo come il sole. Rubò una tovaglia per corprisi, strappandola al tavolo così repentinamente da risparmiare il servizio in porcellana sovrastante che rimase immobile, con sollievo del ragazzo dai capelli bianchi.

–Su’ babbo– Spiegò Giuly, ancora scombussolata, ma senza più dolore, stringendo la mano a Raven –Godzilla.

–Non dire quel nome ad alta voce!– Arrossì il kaiju –Non vorrei ci sentisse.

–Oh, buona Celestia– Gyber si prese la fronte in mano –E che dovevo fare, lasciarlo fuori? Ci stanno tutti qua, ci sta pure mia nonna, e lasciavo fuori uno più famoso di cristo in croce?

–Ho capito, ma potevate avvertirmi– S’innervosì il ragazzo dai capelli blu, gonfiando le guance e stringendosi nel velo di stoffa. Solo ora si rendeva conto che, nella fretta, aveva dimenticato di farsi spuntare due dita mancanti dacché non era più un kaiju –Stavo lì tutto tranquillo, a fare conoscenza con mezzo universo del tokusatsu e vuoi mai che, mentre si stava a bere due birrette con Gappa e consorte, cicci fori lui? Che figura dimmerda guarda, per evitarlo ho fatto un casino.

–E ti credo– Gyber trattenne un gemito di disperazione. Sarebbe stata una lunga festa.


***


–Innanzitutto tu ti levi dal cazzo– Non gli diede il tempo di voltarsi che, con uno spintone, lo mandò contro un tavolino in plastica del ricevimento, che sfondò e gli si rovesciarono addosso tutti gli aperitivi preparati con cura nelle cucine instancabili.

–Ma che problemi avete?– Strillò l’uomo in tuta da lavoro verde a cotale offesa, togliendosi il boccione di crodino dalla testa e una fetta di salame dalla punta del naso. Di fronte a lui vedeva solo due buzzurri vestiti in pantaloni bianchi, camicia nera, cravatta in tinta con la parte inferiore e mocassini, dotati intorno il capo di auricolari con microfono.

–I giardinieri mica possono stare in pista da ballo– Spiegò il moro.

–Lascia stare la gente per bene e torna quando avrai un’uniforme meno da straccione– Sghignazzò il rosso, mentre i due se ne andavano, roteando i loro pass da DJ.

–Oh, lo farò, non temete– Borbottò Cladzky, fremente. Fece per rialzarsi, ma infilò il piede nel liscissimo boccione che si era appena levato di dosso e scivolò all’indietro, atterrando di spalle e con le ginocchia alle tempie da tanto le gambe erano in aria.

–Ehi, tu!– Una voce sconosciuta e due vigorose mani lo recuperarono da terra che quasi saltò. Si trovò davanti un uomo in giacca di pelle nera e blue jeans, due Vans nere, due anelli e due occhi azzurri come il diamante –Hai visto un tizio in calzamaglia rossa e nera passare da queste parti?

–Ma certo– Scosse la testa con veemenza –Mi ha infilato una patata nel tubo di scappamento e preso la targa.

–Capisco– Ponderò Alexander. D’improvviso notò quel mohawk che aveva in testa –Ehi, ma tu non sei…

Cladzky gli saltò con le mani sulle spalle, ma non per un abbraccio. Immediatamente dopo gli salì con i piedi sullo stomaco e si tirò indietro, facendo cadere entrambi a terra. Dopodiché, una volta che si trovava schienato e il corpo del Nep-Class sopra, spinse con forza le gambe verso l’alto, proiettandolo oltre di sè e mollandogli le spalle. Cladzky si rialzò mentre quello si schiantava contro i resti del tavolo devastato e corse. Alexander, appena sorpreso, fece in tempo ad estrarre la pistola e puntargliela addosso. Pensandoci bene scosse la testa e si limitò a sparare un colpo in aria, solo per spaventarlo e ci riuscì considerando il salto che fece durante la fuga e le ruote per evitare possibili proiettili futuri. Sparì nella notte.

–Non male– Si limitò a dire. Avrebbe potuto ucciderlo con una rivoltellata alle spalle, ma non era onorevole affatto. Dovette complimentarsi, perché in tutta la sua vita da artista marziale non aveva mai visto una mossa del genere, lo aveva colto alla sprovvista. Sembrava una di quelle stronzate da gongfupian anni ‘70. Beh, avrebbero avuto un rematch prima o poi e gli avrebbe fatto vedere cosa voleva dire combattere con un Nep-Class. Si rialzò, fece due passi e cadde riverso per terra. Si guardò il culo. Era stato proiettato sul boccione di prima e ci si era infilato dentro con il bacino.

–Bel pratfall– Commentò Buster Keaton di passaggio con una brocca di Moretti in mano.

Molte altre madonne giunsero alle orecchie del povero Ermenegildo quella notte.


***


–Allora?

–Che ti devo dire, è stata una noia mortale. Mi hanno assegnato la sezione Ovest, tutta piena di vecchie star del cinema. Tutto un continuo swing, jazz e country. Il pezzo più recente era uno di Bill Haley.

Le due figure entrarono negli spogliatoi. Il moro andò a cambiarsi, mentre l’altro andava a scrivere un paio di messaggi alla sua tipa. Il moro proseguì.

–Ho saputo che tu stavi con i proprietari, no? Dev’essere stato più divertente.

–Macché– Rispose distrattamente il rosso –Una selezione più strana dell’altra. Tutte colonne sonore da weeb del cazzo. Prima una canzone fan-made dedicata a Beerus di DB da parte di un tale Karma, poi “Godzilla” dei Blue Oyster Cult, da parte di, indovina un po’, un mostro gigante. Questo posto è una barzelletta. Ha seguito un pezzo di Amanda Palmer, che ha ravvivato un po’ la serata, “Runs in the family” credo, ma comunque roba abbastanza vecchia. E quando pensi che non ci sia limite al kitch ecco che arriva un individuo tutto ammantato di nero che pare un becchino e mi aggiunge nella scaletta “Come little children”, una lagna suonata al pianoforte. Ora, io non chiedo molto, ma dei gusti musicali non di merda è difficile?

–Che ci vuoi fare, saranno i soliti paranoiati sociali che si credono speciali– Affermò il moro, completando la sua transizione in abiti civili –Su, vieni che ti accompagno in macchina a casa.

–Aspetta, fammele prima dire che può buttare la pasta, poi mi cambio e vengo.

–D’accordo, io vado a scaldarla che fa un freddo che non ti dico.

Il moro uscì dalla stanza. Il rosso ripose il telefono e si diresse al proprio armadietto. Lo aprì, solo per trovarci un mare di sorpresa e pure di stelle, quando le dure nocche di una mano chiusero la distanza che le separava dal suo viso. Il rosso incespicò all’indietro, rotolò sopra la panca e finì disteso sul pavimento piastrellato. Dal mobile in metallo balzò fuori lo stesso giardiniere che aveva ribaltato cinque minuti fa.

–Vediamo se la tua di uniforme è meno da straccione.

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Capitolo 7
*** Make 'em Laugh! ***


–Ora te vedi se non mi devo incazzare– Borbottava Giuly, rigirandosi i capelli castani fra le dita.

–Figurati noi– Gli rispose il rappresentante dei Ghoul di "Essi Vivono" all'altro capo del tavolo, facendo schioccare i denti da teschio –Noi si richiede solo un po' di riconoscenza.

–Se è solo questo…

–Questo e tredici miliardi di rubli come penale.

–Ellamadonna!– Saltò dalla sedia, frullando le ali dalla sorpresa come un colibrì. Quando ritornò seduta si strinse la faccia fra le mani. Manco Gyber poteva permettersi una simile spesa senza finire in bancarotta e la colpa rischiava di essere sua. Beh, colpa era relativo. Non aveva fatto nulla di male dopotutto. Raven seguiva in silenzio, limitandosi a dare pacche sulle spalle alla sbigottita figura, che subito si riprese e incalzò –Ma scusate a voi che vi tocca se qua si progredisce?

–A noi ci tocca che ci rubiate progetti brevettati– Incrociò le braccia il Ghoul e già che c'era poggiò i piedi sul tavolo bello lindo, schioccò le dita e si fece accendere il sigaro da un piccolo WALL•E cameriere, per poi dargli un manrovescio di dorso che gli fece vibrare la testolina come una molla per allontanarlo. Soffiò un cerchio di fumo che si chiuse attorno il collo della stizzita Giuly, per poi limare con il mignolo la cenere dalla punta, facendola cadere in un bicchiere di cristallo –Oh che non lo sai? È stato il mio avo a rivoluzionare il viaggio intergalattico tramite il teletrasbordo.

–Posso dire che suona meglio “teletrasporto”?– Azzardò Raven, alzando l’indice.

–No– Fu il tono secco quanto la faccia bluastra venata di rosso –Ma grazie per aver chiesto il permesso, al contrario di certa gentaglia.

–Ma come potete dire che vi ho rubato questo progetto?– Si esasperò Giuly, sbattendo i pugni sul tavolo e indicando il cielo –Non ci siamo mai visti prima di oggi. Non sapevo neanche che esistesse la tua dimensione prima che mi arrivasse stamane l’ingiunzione dai vostri tribunali. È stata una completa casualità che io abbia sviluppato il trasferimento della materia organica uguale alla vostra. In un multiverso infinito è perfettamente ragionevole, per la legge dei grandi numeri, che due eventi uguali possano avvenire per cause diverse.

–Bah, bubbole– Esclamò il ghoul, piroettando il sigaro fra le dita nervose –Non esistono forme di vita abbastanza sviluppate come la nostra per poter creare simili prodigi della tecnica autonomamente. È chiaro che, dei primitivi quali voi siete, avete plagiato il nostro lavoro.

–Anzitutto un si frigge mia coll'acqua qui, per chi m’avete preso?– Sbottò lei, piegandosi in avanti con tono offeso all’essere chiamata “primitiva” –E poi come avremmo fatto a plagiare il teletrasporto del vostro pianeta se per raggiungere il vostro pianeta ci vuole il teletrasporto, che a detta vostra, non possiamo aver creato da soli?

–Teletrasbordo– La corresse Raven.

–Oh, ma te da che parte stai?– Gli gridò di rimando Giuly, trattenendosi dallo spadellarla in quell’istante.

–Quella che mi diverte di più– Rise la ragazza, lisciandosi lo zigomo appuntito –Ma non temere, credo di aver capito come risolvere la questione.

–Rispondendo ai suoi dubbi– Rispose infine il rappresentante –Ci offendete nel credere che mai ci siamo incrociati priori a stamane. Proprio in virtù della nostra tecnologia noi siamo presenti su una moltitudine incalcolabile di pianeti e sul vostro in particolare almeno dal 1988. Come credete altrimenti che l’ingiunzione vi sia arrivata così prontamente? Vi dirò, anzi, mostrerò di più.

Schioccò le dita e con lampo bianco apparve al fianco del seduto rappresentante una donna ben vestita in uno smoking, probabilmente anche lei a divertirsi come nulla fosse alla festa, prima di essere convocata in quel modo. Giuly aveva l’impressione di averla già vista.

–Ehi– Intervenì convenientemente a livello narrativo Gyber, passando per caso lì a fianco per scortare l’intovagliato Dz a prendersi dei vestiti in prestito dal suo guardaroba –Quella è la postina che è venuta a suonare stamane per consegnarci l’ingiunzione.

–Non dimentichi mai un viso tu?– Chiese stranita Raven, estraendo un ingiallito manuale e andando alla voce di “Mnemomanzia”, chiedendosi se l’avesse sfogliato anche lui.

–Mai, mia cara Tokisaki Kurumi– Sorrise l’antracita per poi sparire nella folla.

–Certo, con i nomi dovresti migliorare– Sbuffò la streghetta.

–E insomma, cosa centra lei in tutto questo?– S’inalterò Giuly, cominciando a credere di essere presa in giro. La donna andò a smanacciare sull’orologio da polso e un’altro lampo invase i loro campi di visione e sparì, o meglio, lasciò al suo posto un’altra visione, un ghoul similare a quello accanto cui stava in piedi, ma comunque ben vestito nello stesso smoking.

–Ci troviamo in questa vostra società da ancora prima che lei nascesse signorina Frost– Rise la rivelata Ghoul.

–E io che speravo di non dover più avere a che fare con dei Changeling– Si massaggiò le tempie la donna alata.

–Non fate la finta tonta– L’accusò il rappresentante –È palese che vi siate immischiata nelle nostre colonie segrete e trafugato le nostre tecnologie, similemente a come era già successo nella Terra alternativa della dimensione Carpenter. Siamo abituati a trattare gente come voi, ma vogliamo fare i gentili per una volta. Vi permetteremo di scusarvi sinceramente e abbandonare ogni ulteriore sviluppo del teletrasbordo e soprattutto di brevettare codesta imitazione.

–Ma vi rendete conto di cosa state chiedendo?– Strabuzzò gli occhi magenta e scosse la testa incredula, mandando da tutte le parti i capelli castani –Il teletrasporto…

–Teletrasbordo– La corresse Raven un’altra volta, prima di subire una terribile concussione sulla glabella da parte di Artemis, lanciata e tornata come un boomerang nelle mani di Giuly. Le spadellate non conoscevano generi, dovette riconoscere la strega, massaggiandosi la fronte da seduta, ma senza rabbia, solo ammirazione per quella mira.

–Come stavo dicendo– Insistè Giuly, abbandonando ogni parvenza di voler scherzare –Rendere disponibile al pubblico il teletrasporto è essenziale per il progresso umano! Pensate a quante persone, morte in ambulanza, potrebbero piuttosto raggiungere l’ospedale senza attesa; pensate alla difficoltà di spostare la materia prima dalla cava al cantiere; Pensate ai rifugiati, costretti ad attraversare chilometri lasciati a loro stessi; senza parlare poi dell’esplorazione spaziale! Riuscirremo a uscire dal sistema solare prima della morte dell’universo. Non sarebbe qualcosa di meraviglioso? Non vi colma il cuore vedere una società fare simili passi verso il futuro?

–Assolutamente no se noi non abbiamo nulla da guadagnarci– La ghoul riassunse la sua forma umana e sparve da saetta, mentre il suo compagno finì il suo sigaro. A Giuly stava crescendo la rabbia e la sete dopo quel discorso inutile. Mosse la mano per bere da un bicchiere in fronte a lei, ma non fece in tempo che un mozzicone di sigaro fumante ci cadde dritto dentro, insozzandolo di tabacco carbonizzato. Alzò gli occhi e vide l’alieno bluastro con un’espressione annoiata.

–Si può sapere quale diavolo sia il vostro problema?– Gracchiò lei, cercando fortemente di non alzarsi e pestarlo sul posto dopo quel gesto così puerile –Con che autorità mi chiedete di interrompere le mie ricerche? Può anche non fregarvene nulla dei benefici alla razza umana, ma con quali prove intendete dimostrare che vi abbiamo rubato i progetti, al di fuori del vostro pregiudizio xenofobico?

–Il pregiudizio xenofobico ci basta e avanza– Ammise candidamente lui –Che valore ha la parola di un umano, alato o meno, contro quella di uno di noi?

–E che valore hanno, allora, i vostri tribunali in questa dimensione? La vostra ingiunzione è solo un pezzo di carta con cui io mi ci pulisco il culo!

–Moderazione– L’ammonì il principe Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio dal tavolo accanto, prima di tornare al suo drink con consorte.

–I nostri tribunali potrebbero non avere alcuna valenza per voi, ma una bella invasioncina del pianeta penso sia una minaccia più che apprezzabile.

–Ma non direte sul serio?

–Vi sembra che stia scherzando?– Si risentì lui senza senso dell’umorismo, gonfiando il petto e tirandosi i lembi della giacca pronto alla lite –Noi prendiamo molto sul serio le questioni di denaro. Siamo letteralmente la personificazione del capitalismo.

–Ah, sì?– Scattò dalla sedia Giuly –Pensate davvero di poter invadere la terra? Voi? Abbiamo sconfitto Sombra! Abbiamo sconfitto Cthulhu! Abbiamo sconfitto Shadow Blade giusto il giorno l’altro ed eravamo dimezzati! Abbiamo sconfitto anche Satana, per dio! Ci siamo sconfitti anche a vicenda, qualora fosse il lato oscuro di uno di noi o solo per scherzo! Abbiamo sconfitto l’esercito del comandante Anderson, del nostro stesso pianeta! Come può l'esercito del tuo competere?

Mentre parlava, inconsapevolmente, la sua volontà andò a sollevare il liquido del suo bicchiere e comprimerlo, al punto da renderlo solido in un pezzo di stalattite.

–E non siete stanchi di tutta questa violenza?– Rise il ghoul, neppure impensierito, prima di alzarsi. Allo stesso tempo, distratta da quel pensiero, la volontà di Giuly Frost fece cadere la punta di ghiaccio sul tavolo, rimuovendo in tempo la mano prima di inchiodarla sul legno.

–Certo che siamo stanchi!– Controbatté Giuly, seguendolo con lo sguardo –Sono stanca di vedere i miei cari in pericolo, di dover mettere da parte i miei progetti per combattere un’altra guerra, di mettere fine alla vita di altre persone, di rischiare la mia. Perché vi comportate così? Perché siete così leggeri nel proporre un conflitto?

–Perché abbiamo fatto un’analisi dei costi e dei benefici– Fu sincero il Ghoul, andandole vicino. Erano ormai petto contro petto –Noi avremmo tutto da guadagnare in un’intervento armato. Se perdessimo perderemmo solo un pianeta. Ma, se foste voi a perdere, la Lucas Force non esisterebbe più.

–Non possiamo perdere.

–Ci siete andati molto vicini l’ultima volta, anzi…– E un sorriso mostruoso si delineò sul teschio di carne bluastra –Perché chiamarvi ancora Lucas Force, dato che Lucas ormai è…

Ci fu un fendente di Artemis, trasformata in una… spranga di ferro. L’ira di Giuly si era accesa così in fretta che non aveva avuto neppure il tempo di pensare a qualcosa di preciso con cui colpire il ghoul. Ma quest’ultimo era sparito con una mossa sola di polso, un turbine di luce e nessun suono. Maledetto teletrasbordo. Si guardò intorno, solo per ricevere un calcio nelle gengive da parte di uno stivaletto in pelle pitonata. Quando cadde all’indietro lo vide, lì in cima il tavolo, pulirsi la punta del piede con un fazzoletto di seta dal sangue della sua bocca. Se si fosse concentrata abbastanza, perché arrabbiata lo era già, avrebbe potuto agitare gli atomi dei suoi vestiti abbastanza per farli andare in autocombustione, ma un corpo magro si frappose fra i due.

–Non potete invadere la terra per una simile frivolezza– Esclamò Raven, mani sui fianchi.

–Possiamo e lo faremo, se non viene pagata la penale– Rispose il ghoul con nonchalance –E poi a te che importa? Non sei certo di questa terra e inoltre non sei mai stata particolarmente contraria ai massacri.

–Ma sono estremamente contraria al trattare così una persona per la sola colpa di curiosità scientifica. E inoltre la vostra causa non ha motivo di essere.

–Perché dici questo?– Chiese turbato il ghoul, mettendosi seduto sul tavolo a gambe accavallate.

–Perché lei sarà anche intenzionata a condividere questa scoperta con il resto del mondo, ma non è la prima forma di teletrasbordo creatasi al di fuori del vostro pianeta– E detto questo spiccò un balzo, si chiuse a sè le gambe in posizione fetale e, completata una rotazione, quella macchia sfumata assunse la forma di una falce, con un grosso occhio di sclera azzurra alla base della lama, seghettata come un sorriso. Questa, ormai levitando di volontà propria, si trasse indietro per poi ricadere in avanti, tagliando letteralmente il vuoto. Uno squarcio bianco si creò nell’aria con il rumore di carta strappata e, subito, l’arma rubata all’agricoltura, vi sparve dentro, mentre la materia andava a ricucirsi da sè dietro di lei, fino a chiudere ogni spiraglio di vuoto.

–Abracadabra!– Esclamò Raven, apparendogli alle spalle e facendolo saltare dalla paura giù dal tavolo –Ho letteralmente tagliato il tessuto della realtà in cui viviamo. Non è teletrasbordo questo? E ora che faccio, pago una penale anch’io?

–Sarebbe molto cortese– Propose il rappresentante ghoul, rassettandosi i vestiti –Due torti non fanno un giusto.

–Ah sì?– Chiese irritata la strega –Allora cosa intendete fare? Andare in ogni dimensione a chiedere un compenso per ogni singolo utilizzo di teletrasporto?

–Teletrasbordo– La corresse Deadpool apparendole di fianco in un guizzo di polvere di stelle, vestito da mariachi. Dopodiché si tolse la maschera, rivelando il suo volto sfigurato al ghoul bluastro –Ehilà, anche voi preferite andare in giro struccati?

–Ma che diavolo sei venuto a fare qui?– Sbottò Giuly –Non ti rendi conto che abbiamo cose più serie a cui badare che te?

–Prima di tutto sono il giullare di questa storia. Il mio compito è di mettere nel ridicolo tutti i personaggi che si prendono troppo sul serio– Dopodiché fece l’occhiolino a Raven –Permettete un ballo, signorina?

Afferrò una delle bende che le pendeva dai polsi e tirò uno strattone. La violenza di quello srotolamento la fece piroettare su sè stessa fino a farla cadere dal tavolo e, fortunatamente per i suoi riflessi, in braccio a Giuly.

–Tutto a posto?– Chiese quest’ultima premurosa.

–Non nell’orgoglio, “zia”– Ammise lei, sbuffando. 

–E secondo di tutto– Proseguì Deadpool, ormai solo su quel palcoscenico ch’era il tavolo –Sono qui per complicare la trama e ricordarvi che ci sono altri personaggi in questa storia.

–Ti ho trovato, finalmente!– Gridò Alexander Diamond, facendo girare di scatto il mercenario verso di lui, giusto in tempo per ricevere un calcio da dragone volante sul grugno. Ancora con la suola di quella Vans nera in faccia, Deadpool premette il pulsante nella fibbia della cintura e fece sparire entrambi nell’etere, lasciandosi dietro solo zucchero scintillante.

–No, neppure tre torti fanno un giusto– Scosse la testa, sgomento, il ghoul –Considerando che, voi della Lucas Force, avete sviluppato tre forme diverse di teletrasbordo, considerate la vostra penale in egual modo triplicata. Pagate o considerate il pianeta sotto assedio delle nostre forze. Forse riuscirete a respingere questo ennesimo assalto, ma fino a quando la popolazione di questo pianeta sopporterà le sciagure che attirate? Già recentemente hanno dato dimostrazione di non fidarsi più come un tempo. Chissà, forse questa sarà la goccia che farà traboccare il vaso.

E sparì, anche lui, in un lampo. Solo allora Giuly si rese conto di star stringendo fra le braccia ancora Raven. Subito la rimise a terra e questa andò ad arrotolarsi la benda sul braccio

–Temo di aver peggiorato le cose– Sospirò la streghetta.

–Non fartene una colpa– Si andò a sedere Giuly, esausta mentalmente. Anche oggi, che sperava in una festa tranquilla per festeggiare la vittoria contro la loro arcinemesi, si era trasformata in una nuova scusa per combattere. Certo, era palese che i ghoul cercassero solo una scusa per una guerra, ma non poteva non pensare che fosse stata lei a fornirglielo. Non vi era modo per dissuaderli o pagare la penale triplicata di trentanove miliardi, quindi l’invasione era inevitabile. Cadere di conflitto in conflitto la stava logorando –Per loro è solo un pretesto. Non gliene importa nulla del teletrasporto o come lo chiamano loro.

–E allora che vogliono? Conquistare la Terra come gli altri?

–Anche. Ma credo che più di tutto gli importi eliminare la Lucas Force.

–Lo sai che non ce la faranno.

Giuly prese un gran respiro.

–Dopo l’ultima volta non ne sono più così sicura.


***


–Questa serata è ancora più strana di quella volta che Drol ha disperso le mie emozioni.

–Oh no– Puntualizzò un simpatico clessidriano, mentre attraversava il corridoio nella direzione opposta per usufruire del bagno, giusto per fare un cameo –Avendo dovuto mettere io a posto il tuo macello posso confermare che quella volta non la batte nessuno.

–Hai ragione– Ricalcolò Gyber, dandosi il pugno a vicenda, per poi proseguire, con appresso Dz.

–Non me la ricordavo così grande la villa– Analizzò quest’ultimo.

–Sto già sistemandomi per un’abitazione più sobria– Rimuginò ad alta voce l’albino, prima di giungere in una gigantesca cabina armadio circolare.

–Questa non sarebbe male da indossare– Sbavò Dz, strusciandosi contro l’armatura dorata del Toro di Rasgado, compattata in un pratico cubo di qualche quintale.

–Quella è solo da esposizione– Lo rimbrottò Gyber, trascinandolo via –O per saccagnarsi di botte in una fascia d’asteroidi generata dall’arena di Re, anche quella è un’eventualità, ma non questa.

Si spostarono a frugare in un’armadio.

–Ascolta, Don– Iniziò Gyber, mentre scartava una divisa da guerriera sailor –Ma dove avevi lasciato i vestiti prima di trasformarti?

Dz calcolò quanto fosse distante l’isola di Sado.

–A 2000 chilometri da qui, su per giù.

–Ti sei fatto tutta la scarpinata nudo?

–Oh, no– Scosse la testa Dz, buttando via il cappello d’Indiana Jones –Giuly mi ha dato uno strappo con il suo teletrasporto. Aveva bisogno di testarlo.

–E non potevi portarti i vestiti dietro?– Alzò un sopracciglio l’antracita, studiando l’elmo di Scipio e relativo libretto delle istruzioni su come cingerlo.

–Vedi, il teletrasporto, per ora, teletrasporta solo la materia organica– Spiegò il kaiju fattosi uomo, mentre tentò di sollevare il turbante di Piccolo Jr, prima di pentirsene e finirvi schiacciato a terra, con quel macigno sullo stomaco.

–Ma quindi– Si sforzò di liberarlo Gyber –Avete viaggiato entrambi nudi?

–Beh– Si rialzò Dz, prima di incrociare gli occhi con il gestore della festa –Per noi kaiju non è mai stato un problema. 

–Oh, lasciamo perdere– Gyber dipanò da sè idee di unioni improbabili e proibite, cambiando direttamente discorso –Hai mai pensato di andare in pensione?

–Come?– Chiese stralunato l’altro, mentre rigirava i sandali di Perseo –Non credo avverrà molto presto. Dopotutto ho appena un paio di millenni e il mio lavoro non genera certo contributi.

–Smettere di combattere intendo– Precisò Gyber –Non ti è passata un po’ la voglia di rischiare la vita contro ogni minaccia. Magari lasciare che ci pensi qualcun’altro?

Dz si fermò, lasciandosi scivolare di mano l’elmo cornuto di Raoul, dritto su un piede. Rispose tra un saltello e un altro.

–Ti dirò, [Ahio!] all’inizio era quasi divertente, [Eek!] ma ultimamente si è fatta sempre più dura [Igh!] e il prezzo di ogni vittoria è aumentato [Ohio] e sono diventato fin troppo familiare con l’idea di morire [Urca!].

–E quindi la smetterai?

–Certo che no!– Rise, quasi nascondendo l’offesa, Dz –Poche persone nascono nel multiverso dotate di doni così grandi. C’è chi sceglie di usarli per sè stessi e chi per la giustizia. Se io mi tirassi indietro non ci sarebbe nessuna garanzia che qualcuno mi sostituirebbe per lottare la giusta causa. Da grandi poteri derivano grandi responsabilità e tutte quelle robe lì, insomma.

Gyber lo guardò per un momento, con un riflesso strano negli occhi. Poi lanciò via la tunica di Pit da una finestra, tornando alla ricerca.

–Sei un anfibio molto saggio Dz.

–Però– Rimuginò il ragazzo dai capelli blu –Ho come il sospetto che tu stia proiettando, tramite domande, alcuni tuoi dubbi.

Gyber si paralizzò.

–Ti turba se non parliamo più di questo argomento?

Dz aprì la bocca per fargli notare che aveva iniziato lui, ma cambiò subito idea.

–Affatto.

–Mi spieghi perché eviti tuo padre come la peste?

–Beh…– Dz calcolò attentamente cosa dire. Siccome non sapeva mentire decise per una mezza verità –Gli avevo promesso di evitare di mostrare la mia forma kaiju al pubblico. Vedermi nel mezzo di una festa non dev’essere la sua idea di passare inosservato.

–Credi t’abbia visto?

–Santa Mothra, spero di no.

–Che poi mi sono sempre chiesto…

–Cosa?

–Come mai ti chiami Donatozilla? Cioè, Zilla perché tuo padre è Godzilla, d’accordo, ma Donato da dove viene? È piuttosto inusuale per un mostro gigante– Il ragazzo dai capelli bianchi si voltò verso il ragazzo dai capelli blu, che era rimasto in un’espressione attonita. L’origine del suo nome l’aveva indotto in flashback da PTSD.

–Don, tutto bene?– Chiese preoccupato Gyber. Non ottenne risposta. Oh, beh, perlomeno gli aveva trovato un bel completino.


***


–Ehi tu!

–Non di nuovo– Si disse fra sè Cladzky, aspettandosi l’ennesima aggressione. Si voltò, trovandosi di fronte un altro DJ, vestito come lui in bianco e nero. Sorprendentemente non gli arrivò nessun pugno in faccia.

–Ti va di darmi il cambio?– Gli chiese il collega, indicando la pista da ballo degli “Oldies”, deserta e con il gruppo dal vivo che si limitava ad accordare gli strumenti.

–Non è il mio settore– Si scusò l’infiltrato.

–Mia figlia ha avuto un brutto incidente e devo raggiungerla in ospedale– Disse velocemente l’altro.

“Eccallà” Si maledisse il ragazzo castano. Poi si voltò, sentendo un tonfo. Un uomo era appena atterrato con un balzo prodigioso sul tavolino dove Greta Garbo e Marlene Dietrich prendevano un tè allungato col liquore. Altro che uomo, quello era…

–Accetto di buon grado!– Proruppe Cladzky, stringendogli calorosamente la mano e correndo in mezzo alla folla persa in chiacchiere –Forza signori, rallegriamo l’atmosfera!

Kishin si voltò. Quella voce! L’aveva trovato. Cladzky aveva raggiunto il gruppo. Doveva inventarsi qualcosa per creare un po’ di confusione. Gli suggerì qualcosa come fosse la formazione di una squadra da football per poi scivolare in mezzo alla pista, letteralmente dato quanta era lucida.

–Oggi vi presentiamo un classico dei musical, dal grande schermo al palcoscenico, direttamente da “Singin’ in the rain”…– Fu tutto quello che riuscì a dire prima di schiantarsi contro un cameriere, mandando all’aria vassoio e relativa argenteria. Finirono ambo a zuccare e distesi a terra, in un risolino generale.

–Sembra che sia arrivato il mio momento– Sospirò Gene Kelly, saltando in piedi pur con una febbre da cavallo.

–Vi presentiamo– Cladzky fece per alzarsi, prima di mettere un piede sul vassoio e scivolare in avanti, caprioleggiare e miracolosamente atterrare inginocchiato, braccia aperte –”Make ‘em Laugh”!

–Fatti da parte, vecchio mio!– Esclamò l’irlandese Donald O’Connor, dando una pacca a Kelly –Questa è roba seria.

Kishin avanzò verso la pista, sistemandosi per bene la mantellina sulle spalle. Cladzky doveva aver commesso un grave errore di valutazione nel credere di potergli sfuggire mettendosi in mostra. O forse non era affatto un errore e stava tramando qualcosa? Quell’attimo di esitazione bastò che partisse l’attacco del quartetto d’archi e la pista si ripopolasse di vecchi volti noti nei loro anni migliori.

Cladzky, dacché era inginocchiato, saltò in aria, si toccò la punta dei piedi come un ballerino dell'Alexandrov Ensemeble, atterrò da molla accanto a Chaplin e gli rubò la bombetta, nel suo disappunto, ficcandosela in testa. Prese poi a imitare la sua camminata, fra un verso e l’altro.

Make ’em laugh, make ‘em laugh! Don’t you know ev’ry one wants to laugh?

S’inchinò alla folla, senza rendersi conto di essere stato pedinato da Chaplin. Con un rapido movimento del suo bastone da passeggio, gli afferrò la caviglia e, con uno strattone, lo ribaltò in avanti, facendo atterrarre lui a terra e la bombetta in cima al manico. Stavolta fu lui a fare un inchino per congedarsi. Cladzky fece spallucce e continuò.

My dad said “be an actor my son…”

–Permesso– Si fece largo Kishin, cercando di non creare il panico fra i presenti senza manifestare i suoi poteri. Doveva essere una serata tranquilla dopotutto e glielo doveva a Gyber. Una volta scostati Fairbanks e Hughes vide il suo obiettivo, lì in mezzo la pista, rimettersi in piedi con un kip-up e proseguire il pezzo senza guardare dove andava. Ora o mai più. Si silurò in avanti, braccia tese alla preda, quando d’improvviso questa sprofondò. Cladzky era scivolato di nuovo sul vassoio di prima, assumendo una posa da diva per salvare la faccia, mentre il sangue nero…

–Ma dico, le sembra il modo?– S’irritò Paderewski contro la faccia di Kishin che aveva appena perforato il coperchio del suo pianoforte a coda.

–Guardi, non è giornata– Si lamentò il corvino, rimuovendo qualche scheggia di mogano dal volto.

...But be a comical one!– Proseguì Cladzky. Rotolò all’indietro e si mise nuovamente in piedi, cominciando a fare il trenino con Mary Pickford e via a seguire con altre star degli anni d’oro –They'll be standing in lines, For those old honky tonk monkey shines!

D’improvviso, l’uomo alle sue spalle, lo strappò dal trenino e si trovò due occhi verdi, da gatto, abbacinare i suoi, con dei ciuffi grondanti di catrame.

–Permetti un ballo?– Chiese Kishin con un sorrisetto, prima di prenderlo e, senza complimenti, fargli fare un backflip assistito e riprenderlo al volo. Questo fu solo l’inizio di una violenta Danse Apache. Cladzky fu costretto a continuare il pezzo come se fosse parte della scena.

Oh, you could study Shakespear and be quite elite– Cercò aiuto, nel mezzo di un casque, con lo sguardo a Orson Welles.

And you could charm the critics and have nothing to eat– E stavolta guardò Jean Vigo, mentre Kishin usava il suo corpo come una ramazza a terra, tenendolo per le gambe. Ma niente, nessuno avrebbe potuto aiutarlo. Poi gli cadde l’occhio, durante una spaccata involontaria, sullo stesso vassoio di prima. In un modo o nell’altro riuscì a pilotare il loro duetto in quella direzione e, infine, poggiò coscientemente un piede su di esso.

Just slip on a banana peel, the world's at your feet!– E, detto fatto, scivolò all’indietro, tirandosi dietro Kishin e, poggiandogli un piede sullo stomaco, eseguì un tomoe nage fatto all’apparenza per caso. Il sangue nero volò, non stupito, solo stufo e piombò su un carrello portavivande più in là –Make ‘em laugh, make ‘em laugh, make ‘em laugh!

Cladzky si rialzò, così come stava per fare Kishin, ma il pilota si appoggiò, guarda un po’, giusto al carrello per usarlo come base d’appoggio. Senza freni, questo scivolò via, con Kishin ancora sopra e Cladzky che cadde di nuovo lateralmente. Il carrello, invece, terminò la sua corsa oltre una siepe e giù in una vasca olimpionica là dietro.

–Tutto a posto?– Chiese Esther Williams, interrompendo la sua coreografia.

–Di lusso– Replicò il corvino, facendo bollire l’acqua da quanto si stava scaldando. Forse era giunto il momento di usare i suoi poteri.

Più sopra la festa proseguiva in un turbine di pazzia. Gene Kelly e Donald O’Connor si stavano sfidando in una gara di tap-dance sui tavoli; Harold Lloyd si era messo a fare l’equilibrista sulla testa di Constantine Romanoff; Buster Keaton rese per poco i Nicholas Brothers un trio, con comici risultati e somersault vari, mentre Chaplin si esibiva nella Titine. In tutto questo, Cladzky ne approfittò per far perdere le proprie tracce.

Make 'em roar, make 'em scream. Don't you know all the world wants to laugh?– Intonava mentre strisciava all’indietro, via dalla pista, sorpassando il pas de deux di Stan Laurel e Oliver Hardy e rubandosi un cocktail con fetta di limone da portarsi appresso. Non aveva bevuto poi molto in fondo. Un’improvvisa macchia d’inchiostro si abbattè di fronte a lui, ricomponendosi in una figura umanoide. Quest’ultima alzò un palmo e subito un tentacolo nero partì come un rampone verso il falso membro dello staff, attaccandovisi al petto e tirandolo a sè di peso. Fatto un breve volo in avanti, Cladzky si ritrovò con le mani di Kishin che gli stringevano la gola.

–Che ne dici se la smetti di cazzeggiare e permetti che noi due abbiamo una chiacchierata?– Richiese, strattonandolo con gentilezza.

My Grandpa said, "Go out and tell 'em a joke…– Fu tutto quello che riuscì a proferire prima che la presa sul suo collo venisse stretta e gli uscissero quasi gli occhi dalle orbite.

–Non ricominciare a cantare. Non voglio strozzarti, ma non mi lasceresti altra scelta.

–E poi sei pure stonato– Commentò  Debbie Reynolds, prima di tornare in pista.

Un’improvviso schizzo di acido citrico mischiato ad alcool finì negli occhi verdi del potatore di mondi. Era ridicolo, pensò Kishin, che gli avesse strizzato il limone del cocktail addosso, ma l’aveva fatto davvero. Dalla sorpresa perse la presa sul collo dell’imbucato.

...But give it plenty of hoke!"– Concluse, prima di cercare di allontanarsi ancora, venendo però trattenuto dagli artigli del corvino che gli si piantarono nel bavero.

–Gli scherzi finiscono qui– Sentenziò Kishin, perdendo il sorriso. Non gli piaceva affatto chi giocava sporco e vedeva che Cladzky non aveva perso il vizio dall’ultima volta. Lo shakerò come un Gin Fizz, al punto da sdoppiare la sua immagine, per poi tenerlo sopra la testa e centrifugarlo per bene. Quando ebbe finito si rese conto che Cladzky si era fatto più leggero del solito. Abbassò il braccio e vide che gli era rimasta solo la camicia nera in mano. Si voltò di scatto. La figura di Cladzky, a petto nudo ma con ancora la cravatta, atterrò qualche metro più in là, smorzando l’inerzia in una serie di rivoluzioni da ginnastica artistica improvvisate. Concluso, si ritrovò stordito come non mai e con molta voglia d’aria dopo quella stretta che gli aveva lasciato ancora gli occhi rossi.

Make 'em roar, make 'em scream– Cantilenò senza fiato, prima di inciampare nelle sue stesse gambe e finire sulle ginocchia di un seduto Roscoe Arbuckle. Senza remore, questo lo spedì con un calcio in petto virulentemente su uno sgabello, dove sbattè contro un ignaro Al St. John, usurpandone il posto e buttandolo fra le braccia di Lillian Marion Ball. Ripreso il fiato proseguì –Take a fall, butta wall, split a seam.

Kishin si mangiò letteralmente la camicia che gli era rimasta in mano e gli si lanciò nuovamente addosso, perdendo quasi la sua forma umanoide e divenendo un’onda di sangue nero. Cladzky sgranò gli occhi.

–Smettila di fare il buffone e ascoltami!– Gli gridò, nel mezzo di un mare di frasi sconnesse. Si gettò su di lui, ma quello aveva usato lo sgabello come un rialzo e passò sopra la sua testa con un salto. Atterrò dall’altra parte giusto in tempo per il nuovo verso.

You start off by pretending you're a dancer with grace– Cantò, schioccando i talloni l’uno contro l’altro –You wiggle till they're giggling all over the place.

–Secondo te cosa sta succedendo?– Chiese distrattamente Aswin, senza levare il suo sguardo perplesso dallo scatenato che gli stava ballando di fianco.

–Ah boh– Rispose saggiamente Axeri –Questa è una delle dimensioni più strane in cui siamo finiti.

–Ma non certo la peggiore– Fece notare il saltatore dimensionale alla sua assitente, virando la sua attenzione alla deliziosa cheesecake ai frutti di bosco che aveva nel piatto.

–Lo sai che non posso permetterti di fare quello che stai per fare– Continuò Kishin, mentre corrodeva lo sgabello fra le dita, prima di buttarne i resti e zompare di nuovo. Cladzky si guardò attorno e vide l’uomo, dalla pelle pallida, anche se non quanto quella in ceramica di Kishin, leccarsi le labbra sottili al degustare il dolce che stava già mangiando con gli occhi rosso e nocciola. Ladrocinando come al solito, il pilota glielo strappò di mano e tutto quello che occupò il campo visivo del sangue nero, fu un’improvvisa smarmellatura di cheesecake ai frutti di bosco contro cui il suo viso schiantò contro 

And then you get a great big custard pie in the face!

–E questa è una di quelle che non dovevi fare– Fumò Kishin. Ma perché stava ancora provando a salvarlo dalla sua autodistruzione? Perché non lasciare che andasse a farsi fottere da solo. Oh, al diavolo, non poteva permetterlo. Doveva ancora fargliela pagare dopotutto.

–Improvvisamente sono costretto a riconsiderare la mia opinione su questa dimensione– Borbottò Aswin a mani vuote e i coglioni già pieni.

Make ‘em laugh!– Proseguì Cladzky, prima di correre addosso il saltatore e saltargli con un piede in avanti. Questo, istintivamente, lo parò al volo, fornendogli una sorta di scaletta su cui poggiare. Kishin, toltosi i pezzi di torta dal viso, partì ancora alla carica verso i due.

–Togliti di mezzo!– Gridò Aswin, seccato, lanciandolo in aria con la sua forza sovrumana, rendendosi conto solo all’ora della locomotiva nera che gli si infranse addosso, stendendolo sulla pista da ballo. Cladzky, dopo un backflip, stavolta volontario, atterrò ridendo come un pazzo.

–La pazzia scorre nelle vene solo a uno di noi, ricordalo!– Lo minacciò Kishin prima di lanciare un altro tentacolo che lo ghermì per la cravatta. Lo trasse a sè, ma non come voleva. Cladzky si sfilò la cravatta dal collo, durante la spinta in avanti, sfruttò l’inerzia per issarsi sulle sue spalle, che usò come perno per le braccia, fare la verticale e giungere alle sue spalle. Alla fine della vicenda era Kishin ad avere la cravatta al collo.

Make ‘em laugh!– Gridò Cladzky e avrebbe riso se un calcio alla Van Damme non lo avesse spedito dall’altra parte della pista. Kishin aveva letteralmente evocato una gamba dalle sue scapole. Dopotutto era una sostanza liquida, perché non approfittarne? 

–Te l’avevo detto– Sorrise il corvino.

Già che era sulla traiettoria, Aswin lo prese al volo, ma non con le mani.

–E questo è per la cheesecake!– Gli gridò contro, eseguendo un calcio rotante alla Chuck Norris e ridirezionandolo. Concluso il tragitto con scalo, il corpo non ben in salute di Cladzky, atterrò alla base di un muro. Si rialzò a stento, vedendosi venire addosso Kishin. Provò un dribbling, ma il mietitore allargò le braccia a fisarmonica manco fosse Freddy Krueger.

–Arrenditi, sei circondato.

Make ‘em laugh!– Fu l’unica risposta di Cladzky mentre quel toro di sangue nero gli piovve addosso. Gli voltò le spalle e corse contro il muro, considerando che i mattoni sarebbero stati preferibili al ben più duro Kishin. Stava per rimanere schiacciato fra due forze inamovibili e senza vie di fuga a livello dell’aria. Ma chi aveva detto che doveva rimanere a livello dell’aria? Corse e saltò. Mise un piede sul muro, poi, senza perdere l’attrito, seguì il secondo. Era parallelo al terreno. Si spinse via. Era a più di due metri d’altezza. Atterrò, nel momento stesso in cui sentì un tremendo SPLAT. Quando le ginocchia si ripresero da quell’impatto alzò gli occhi. Kishin si era spatafasciato sul muro in una macchia nera. L’aveva schivato. Aveva eseguito un wall jump. Si voltò verso un pubblico che applaudiva per quell’esibizione che credeva coreografata ed espose i suoi ultimi versi.

Make ‘em laugh, make ‘em laugh, make ‘em laugh!– E detto questo fece un rapido inchino e sparì con uno scatto via dalla pista.

–Bah, l’esecuzione del salto era un po’ acerba– Mormorò O’Connor a Kelly.

Kishin rimase ancora un po’ appiccicato al muro. Non perché non potesse staccarsi ma era stanco. Non fisicamente, era solo stanco di salvargli il culo. Se voleva fare la sua figura demmerda la facesse pure. Però lo smacco di farsi giocare così era piuttosto forte.

–Alor– Fece Szymon, apparendogli alle spalle. Subito Kishin si riacquisì spessore e si rassettò i vestiti.

–Sei stato invitato anche tu?

–Certo che no, una divinità non si invita, si presenta  e basta.

–Sei qui per dirmi qualcosa?

–No, solo per osservare da vicino i tuoi sforzi.

–Ti va di darmi una mano?

–Diavolo, no, è troppo divertente vederti provare da solo.

–Sei sempre pieno d’amore, papà.

–Potrei dire lo stesso, ma lo so che non è vero.

–Non essere ingiusto. Qualcuno lo amo.

–Ti riferisci al castano che inseguivi?

–Lo sai che mi riferivo a Raven.

–E allora perché perdi tempo con quel tipo?

–Perché so che ha in programma di rovinare la festa per tutti e nessuno ha bisogno di problemi del genere dopo la crisi che è avvenuta.

–Ci tieni proprio ai tuoi compagni della Lucas Force.

–Dopo aver passato tanto tempo con gente migliore di me comincio a capire il loro valore. Non mi garba che qualcosa gli vada storto proprio ora che siamo tutti allegri. Beh, quasi tutti.

–Non è solo questo vero? Quel qualcuno viene dal tuo passato.

–Un passato che devo correggere. Ci siamo già incontrati e devo fargliela pagare. Non siamo mai riusciti a batterci lealmente.

–Neppure questo lo era?

–Lo hai visto anche tu immagino. Ha riso per tutto il tempo.

–Non lo fai anche tu?

–Il mio riso è diverso. Io rido perché godo della battaglia, lui ride perché non prende nulla sul serio. Io odio la gente che non prende sul serio la violenza, non si rende conto delle conseguenze delle loro azioni.

–Hai proprio un bel concetto di onore tu. Incontrarti con Raven ti ha proprio resa una persona…

–Migliore?

–Non esiste migliore o peggiore. Diciamo più profonda.

–E ora che farai?

–Io? Sto a guardare. Vuoi dei pop-corn?

–Al sangue d’agnello?

–Ovvio, è il mio gusto preferito.

–Allora li voglio.

–Peccato, sono per me– E detto questo, Szymon sparì senza lampo o nuvola di sorta. Semplicemente non era più lì. Kishin, dall’umore inalterato, prese a scalciare una lattina di nuka-cola da terra.

–Tutto bene?– Gli chiese Aswin, raggiuntolo dopo quella baruffa.

–Mah, diciamo che mi turba aver fatto una figura del genere di fronte a mio padre.

–Oh, non sarà certo questo a rovinare il vostro rapporto– Rimuginò il saltatore, alzando i capelli color cioccolato al latte al cielo.

–In effetti neppure provare a ucciderlo appena nato lo ha impensierito– Rise Kishin.

–Dovete proprio andare d’accordo voi– Sospirò l’altro, sempre guardando la volta stellata. Era ormai l’una di notte –Fidati, goditi i tuoi cari finché li puoi avere vicini.

–Sembri parlare per esperienza.

–Oh, lasciamo perdere– Scosse la testa Aswin.

–D’accordo– Sbuffò Kishin –Bel calcio il tuo.

–Oh, non era nulla di che. Dovresti vedere quando combatto sul serio.

–Spero di vederlo presto– Sogghignò Kishin. Lasciarono anche loro la pista da ballo. Dopo una breve pausa giunse Deadpool in scena, entrando con un moonwalk.

–Parli sempre di mosse e stili, ma puoi battere il mio?– Chiese, esibendo una posa e guardando con aria di sfida Alexander Diamond.

–Chiudi quella dannata bocca, per diana– E si lanciò in una serie di giravolte da cosacco, prima di piantargli un sonoro calcio dall’alto sulla cervice.


***


–Altolà!– 

–E tu che vuoi?– Chiese di rimando Cladzky a uno scheletro animato in stop motion, armato di scudo con sopra stampato “STEWARD”.

–Lo staff non può lasciare la sua postazione senza una motivazione valida.

–Mia figlia ha avuto un brutto incidente e devo correre in ospedale.

–Saresti il secondo stanotte– Rise lo scheletro, battendo i denti.

–Se fossi un invitato potrei andare dove mi garba immagino.

–Ma invece sei un dipendente e te ne stai al tuo posto. E vedi di trovare qualcosa da mettere su quelle ossa, Mr. Muscolo.

Cladzky si allontanò, mani in tasca. La mancanza di una maglietta cominciava a mettergli freddo.

–Ma come diavolo lo trovo ora Gyber?– Alzò le mani all’aria, per poi, improvvisamente, vedersi piovere un vestito in faccia. Se lo studiò. Era una tunica bianca ben poco modesta. Guardò in alto e vide solo una finestra aperta.

–Conveniente– Considerò.

–Soprattutto ai fini di trama– Aggiunse Deadpool, prima di teletrasportarsi via nuovamente, con Alexander che provava a cavargli gli occhi a mani nude.

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Capitolo 8
*** Memento Mori ***


Un gigantesco mostro rettiliano poteva essere morbido? Per quanto concerneva Dz, sua madre lo era di certo. Il suo passato si era fatto sfumato, in quell’acquerello che di solito stinge i ricordi d’infanzia, dai toni di un caldo arancio, quasi tuorlo d’uovo, un eterno barcollare di piaceri lontani, privi di definizione. Però quel calore del nido materno non poteva dimenticarlo. Non doveva pensare a nulla e spendeva ogni minuto accanto a lei, come non si fossero mai separati dal concepimento. In quel momento si cingevano, adagiati a terra. Si trovava sopra di lei, ma non sapeva precisamente dove. Coricò riverso il capo cosicché l’orecchio potesse auscultare. Sentì un battito, poi la pelle sembrò gonfiarsi. Doveva essergli all’altezza di quel petto a respiri lenti. Strisciò in alto fino a incastrare la testa con il mento che le toccava la spalla e la fronte il mento, strofinandovisi sulla gola e quasi fremendo dal piacere, aggrappandosi con le braccia al collo. D’improvviso, un’ombra andò a seppiare l’atmosfera d’alba vitale di quel grembo. Si sforzò di guardare con la coda dell’occhio, ma aveva paura a staccare il muso dal profumo della madre. Qualcosa li sovrastava. Non era familiare, era qualcosa di diverso, di… alieno. La figura, in mise scura, levò al cielo due teste aggiuntive, mentre un paio d’ali si aprirono dalla sua schiena e due code si dibattevano alle sue spalle. Rintanò il viso in seno a Gojirin. Perché non si muoveva? Perché sua madre non faceva nulla per proteggerlo?

–Sveglia, Dz!– Gli gridò contro la figura draghesca. Al sentirsi chiamato in quel modo aprì di scatto gli occhi, alzandosi dacché era coricato da farsi venire il capogiro. Sotto di lui, con le spalle strette sotto i suoi palmi stava sì, un corpo caldo, ma non era certo quello di un kaiju.

–Giuly!– Gridò stavolta l’azzurro.

–Buongiorno anche a te– Si sforzò di sorridere lei.

Dz sollevò le sue mani con cautela, ancora inginocchiato a cavalcioni sul suo stomaco, sopra un divanetto della cabina armadio. Si guardò i palmi, poi il dorso di quegli arti dal tenue colore rosato. Seguì quella carne fin sopra le braccia e si rese conto di poter scorgere ogni centimetro di pelle del suo corpo. Ebbe un sussulto e cadde all’indietro, finendo nella sua tovaglia in cui si abbozzolò immediatamente. Da quella posizione ribassata poteva ora vedere l’ombra misteriosa che l’aveva svegliato. Gyber, coi suoi capelli d’albino che parevano una criniera, le code dello smoking scambiate per code vere, il vestito sbottonato che si svolazzava ai suoi lati come ali, preda del vento proveniente da una finestra aperta e due mani, che avevano accompagnato la bocca in quel richiamo, nei gesti immobili di un’altra vita, teste su colli serpentini.

–Cosa diavolo è successo?– Chiese lui, arrossendo mentre cercava di tirarsi su, poggiando un piede sulla tovaglia e sfilandosela inavvertitamente di dosso. Si riparò subito dietro le tende della finestra spalancata, mentre tentava nuovamente di coprirsi con il panno.

–Beh– Cominciò a spiegare l’antracita, provando a buttarla sul leggero –Eravamo venuti qui a cercare dei vestiti da poterti far indossare in forma umana e discutevamo del più e del meno. Poi hai cominciato a non rispondermi più e quando mi sono voltato eri stato colto da un colpo di sonno.

–Dopotutto è l’una di notte– Mugugnò Giuly, stiracchiandosi –Comincio a sentirmi stanca anch’io, di tutto quanto.

–Ma perché ero sopra di lei?– Chiese paonazzo Dz.

–Io ho proseguito a cercare– Continuò Gyber –Poi ho visto che ti eri alzato. Credo fossi sonnambulo e da quanto ne so non è mai bene svegliare i sonnambuli.

–Oppure– Osservò Giuly, stiracchiando pure le ali da gruccione –Come altri animali dotati di branchie, per te non esiste il sonno ma solo una minore attività cerebrale.

–E insomma– Riprese il ragazzo lisciandosi fra le dita i capelli bianchi –Hai cominciato a vagare per la stanza e ti si è sfilata la coperta di dosso. Ho provato a rimettertela ma continuavi a muoverti. Poi mi sono ricordato quando mi hai detto che per voi kaiju non è un problema, quindi ho lasciato perdere, fino a che non è entrata Giuly.

–Stavo cercando Gyber– Proseguì la donna alata –E Clessidrus mi ha indicato dov’eravate. Sono entrata, ho visto la situazione e stavo per andarmene, quando hai cominciato a seguirmi. Ho provato a schivarti, sono indietreggiata e sono inciampata su questo divanetto– E sbatté il palmo sul velluto –Poi…

–Poi tu sei caduto su di lei e…

–Oddio, non voglio sentire– Li implorò Dz.

–Nah– Gesticolò Giuly, roteando la mano –Ti sei solo abbarbicato come un koala, tutto qui.

–Chi non ha bisogno di un abbraccio, dopotutto?– Rise Litios, mentre sbucava nella cornice della porta, tirandosi dietro un sacco da Babbo Natale.

–Ehi, uomo da sei milioni di dollari!– Lo richiamò Gyber prima che sparisse, correndogli dietro –Che hai in quella sacca?

–I fuochi d’artificio per completare la serata.

–Non finirà come l’ultima volta, spero.

–L’ultima volta era un errore.

–Ma se ti sei messo gli occhiali da sole e annuito quando hai visto il settore Sud-Est in preda alle fiamme.

–Se bisogna sbagliare meglio farlo con stile.

Gyber fece per inseguirlo, quando venne trattenuto per il colletto e tirato di peso nella stanza, sopra una pila di vestiti e armature ad ammorbidirgli l’atterraggio. Giuly de-trasformò Artemis, divenuta per un momento una canna da pesca e l’osservò, pugni sui fianchi.

–Concluso il discorso, che ne dici se ne iniziamo un altro?

–Un momento– Alzò le braccia, in un segno di time-out, l’albino –Il capitolo Dz non è ancora chiuso.

–Non dirmi che ho fatto dell’altro mentre sonnambulavo!– Sudò l’azzurro.

–Macché!– Sorrise Gyber, estraendo dalla pila due misi colorate –Ho trovato qualcosa che potrebbe esserti utile.

–E quelle cosa diav…– Dz si morse la lingua –Cosa sarebbero?

–Questa– Chiuse gli occhi con solennità il giovane investitore, sollevando il completo azzurro e bianco che teneva nella mano destra –È l’uniforme di Reed Richards.

–Non bastava una maglietta e un paio di jeans?– Chiese esterefatto l’anfibio, sgranando gli occhi.

–Ma questa ha la capacità di crescere insieme a te, così da non dover ogni volta denudarti per non distruggere i tuoi vestiti– E poi sollevò il completo rosso, ricco di bottoni dorati, con mantello verde ed elmetto alato –O se vuoi qualcosa di più combattivo abbiamo qui la tuta di Big X.

–Con quel Stahlhelm mi sembra pure peggio– Osservò Giuly, indicando l’insigne crociata sul casco.

–Guarda– Cercò di essere gentile Dz, attorcigliando gli indici nella tovaglia –Temo di dover declinare.

–Ma non sarebbe più comodo?– Alzò un sopracciglio Gyber.

–Forse, ma…– Il kaiju cercava le parole giuste, ma non le trovava. Ci pensò Giuly a sbottare per lui.

–Non si può vedere un mostro gigante vestito come una majorette– Sentenziò lei.

–Neppure questo bellissimo costume direttamente dalle mani di Eiji Tsuburaya?– Fece gli occhioni Gyber, sollevando lo spandex di Ultraman.

–Oh, per l’amor del…– Giuly passò direttamente ai fatti e sollevò l’antracita, rimettendolo in piedi –Ho una cosa estremamente importante da dirti.

Gyber perse il sorriso. Raramente aveva visto Giuly in quello stato.

–Dammi solo un secondo e sono subito da te allora.

Lei annuì, roteando gli occhi e lasciandolo andare. Questo subito si diresse all’armadio e ne estrasse, senza cercarlo, quello che aveva l’aria di essere un vestito per le grandi occasioni.

–Il completo di di Phoenix Wright!– Esclamò con un sorriso smagliante il ragazzo dai capelli bianchi.

–Ma…– Mormorò Dz, con le gambe tremolanti di fronte a tanta magnificenza sartoriale –Non posso accettare.

–Certo che puoi accettare– Si battè il petto del suo smoking Gyber –Non accetto che un mio amico si vesta peggio di me. Anche tu, oggi, scoprirai la meraviglia dei completi formali.

–Cercherò di restituirtelo il prima possibile– Bisbigliò l’anfibio, tendendo le mani verso quella bellezza appesa a una gruccia, lasciando la presa sulla tovaglia che ricadde immantinente al suolo. Imbarazzato, strappò dalle mani del trasformista l’abito, lo mise davanti il corpo e si allontanò, indietreggiando verso un paravento.

–Non ti preoccupare– Replicò sereno Gyber, scacciando via con la mano quelle preoccupazioni –Basta solo che tu possa passare inosservato all’evento di stasera e in condizioni presentabili.

–Grazie ancora– Sbucò vestito di tutto punto Dz, correndo istintivamente verso l’amico per abbracciarlo. Giuly sbuffò per quel ritardo. D’improvviso realizzò. Perché non provava gioia a vedere i suoi amici così allegri nell’aiutarsi l’un l’altro? Certo, c’erano questioni urgenti di cui discutere, tipo una possibile invasione della terra, ma non si era mai sentita così infastidita come in quel momento a fronte di una così bella scena.

–Di nulla– Sminuì Gyber, legandogli meglio la cravatta –Tanto a me non servono più queste cianfrusaglie.

–Scusa di tutto, Giuly– Si inchinò svariate volte il kaiju, mentre indietreggiava. Giuly non disse nulla. L’anfibio continuò a indietreggiare fino a che, per la fretta e l’imbarazzo della scena di prima, non disse addio un’ultima volta e uscì dalla finestra ancora aperta. Raven apparve come Houdini in una nuvola di fumo, giusto per chiuderla.

–E l’ultimo chiuda la porta– Disse, indossando la bombetta di Patsy, raccolta dalla collezione di Gyber.

–Allora, di cosa volevi…– Iniziò il ragazzo senza poter finire, che Giuly gli si piantò in faccia.

–Vogliono invadere la terra.

–Chi, cosa, come!?– Fu tutto quello che riuscì a proferire, mentre veniva scosso come una caracas.

–Dei tipacci in blu con la faccia di teschio– Spiegò Raven, appollaiandosi in cima l’armadio come un corvo.

–Ma perché i Ghoul dovrebbero avercela con noi?– Sbiancò Gyber di fronte a questo ennesimo problema.

–Perché dicono che gli ho rubato i progetti per il teletrasbordo, volevo dire… oh, lasciamo perdere!

–Ma anche Deadpool può teletrasportarsi– Fece notare il ragazzo –E Raven se non sbaglio.

–Certo– Confermò lei, anche se non avrebbe usato la parola “teletrasporto” –E infatti hanno detto che pure noi abbiamo rubato i loro progetti brevettati. Vaglielo a spiegare che la mia non è tecnologia ma manipolazione dell’Animus.

–Tesoro– Le mormorò amorevolmente Giuly, volandole accanto e piantandogli un indice sul naso –Non dire cazzate, ogni tecnologia abbastanza avanzata può sembrare magia.

Raven sarebbe impallidita, se non fosse già pallida di suo, a sentirsi parlare in quel modo da lei. Non era offesa, solo estremamente confusa da questo cambio di atteggiamento.

–Ma ci dev’essere un modo per evitare questo conflitto– Biascicò Gyber.

–Pagare una penale di trentanove miliardi di rubli– Scosse la testa lei, scendendo a livello del suolo.

–Cribbio– Saltò Gyber, per la prima volta in difficoltà economiche –È quasi il mio intero patrimonio.

–È una cifra volutamente spropositata– Strinse i pugni Giuly –Vogliono costringerci a una guerra. Volevano una scusa politica per attaccare la Lucas Force. Quello che non capisco è perché?

Gyber sospirò, sedendosi sul divanetto a peso morto.

–Perché siamo una minaccia per il multiverso.

–Cosa?– Saltò giù dall’armadio Raven –E cos’era tutto quel discorso sul proteggere il multiverso allora?

–Cos’hanno significato tutte le battaglie che abbiamo sostenuto?– Insistè Giuly.

–Sono tutte battaglie che abbiamo scelto di sostenere in base al sentimento– Rantolò Gyber –Non siamo affiliati a nessun pianeta o dimensione, né ad alcuno schieramento politico, e non siamo neppure mercenari che possono essere assoldati. Noi combattiamo solo per quelli che ci stanno simpatici, non siamo inquadrati, ogni nostra mossa è imprevedibile. Certo, lottiamo per la giustizia, ma cosa vuol dire giustizia? Giustizia per chi? Verso ciò in cui crediamo. Il vigilantismo fa paura perché è preda dei sentimenti. Possiamo avere tutti i codici morali che vogliamo, ma nessuno si sente più al sicuro nel multiverso ora che sa che, se per qualche motivo lo considerassimo una minaccia, potremmo eliminarlo.

–Non siamo dei mostri– Si lamentò Giuly –Non seminiamo morte indiscriminatamente.

–Ti faccio un esempio: metti caso che una compagnia petrolifera scopra un giacimento ad Equestria e si metta a deturpare il territorio e costringere gli abitanti ad un esodo. Non vi verrebbe voglia di intervenire?

–Ma certo che intervverrei!– Gridò Giuly, offesa –Chi resterebbe indifferente a qualcosa del genere?

–Il resto dell’umanità– Proseguì Raven, cominciando a capire, con uno sguardo cupo. Giuly si voltò verso di lei, torva.

–Come puoi credere che gli uomini siano così…?

–L’umanità non riconosce la legittimità del regno di Equestria– Spiegò Raven, facendo spuntare dei fogli che teneva archiviati nella sua dimensione personale –Mi è sempre interessato documentarmi sulla tua razza. Da quando il multiverso è stato reso noto al pubblico, è stata stilata una lista dall’ONU sulle specie conosciute considerate senzienti. Per gli umani, i pony non hanno gli stessi diritti di un essere umano. Non sono abbastanza antropomorfi, mentre i Ghoul, per esempio, sì.

–Ma insomma, dove vuoi arrivare?– Sbottò Giuly, rivolgendosi alla figura sdraiata di Gyber.

–Che le nostre morali non sono necessariamente quelle del resto del multiverso– Replicò lui, guardando il soffitto –Per alcuni siamo benefattori, per altri mostri che mettono la vita di altri al di sopra della loro. Non importa quanto cercheremo di tenerci obiettivi, in questo mare di culture saremo sempre i cattivi per qualcun’altro.

–Ma le nostre vittorie non dovrebbero fungere da deterrente?– Fece notare lei.

–L’ultima non è stata certo quella che chiamerei una vittoria– Chinò il viso di lato il ragazzo. Poi si alzò lentamente e uscì –Vogliono distruggerci ora che abbiamo dimostrato di non essere invincibili.

Gyber si allontanò per un lungo corridoio, seguito a ruota dalle due che cercavano di ragionare con lui. Senza rendersene conto erano scese per gli scalini di una nuova area della villa, di fronte una porta da mausoleo, alta e di pietra. Sopra l’entrata di quella cripta stava inciso il motto “memento mori”. L’antracita andò verso la serratura da cassaforte del macigno e ne aprì la complicata serie di chiavistelli e codici. Infine si spalancò da sola con un rumore di tomba, in un nugolo di polvere e ragnatele, nonostante fosse nuova di zecca. Dietro si rivelò non una catacomba, bensì un modernissimo centro di ricerca che pareva la plancia dell'Enterprise, piena di dipendenti che correvano avanti e indietro a incrociare dati e confrontare prove. Scesero in mezzo a loro e un’operatrice saltò sull’attent di fronte a Gyber.

–Nulla di nuovo ancora.

–Immaginavo– si lamentò lui, proseguendo verso il centro della sala, in quel dedalo di corpi in discussione.

–Ma che posto è questo?– Si grattò la testa Giuly, sorvolando le teste di una folla troppo stretta per lei.

–È il nucleo operativo per il setaccio multiversale– Rispose Clessidrus, sorseggiando un caffè per poi tornare a lavoro, sparendo fra le comparse.

–Setaccio per cosa?

–Per il modo di riportarli indietro– Ammise Gyber, fermandosi ad un tavolo in vetro. Sopra di esso stavano due oggetti piuttosto peculiari. Uno era un globo dorato, ancora scintillante per chissà quale energia, caldo come un braciere, sospeso senza niente a reggerlo sulla superficie del tavolo. Al riconoscerlo e al ricordo di chi appartenesse, fu dura trattenere le lacrime per Giuly, ma ci riuscì. Subito accanto stava…

–La pistola a pentagrammi di Lelq!– Si sorprese Raven, sfiorandola con un dito, chiedendosi come diavolo funzionasse. Subito altre due mani la rubarono.

–Oddio– Si fece rauca la voce di Giuly –Ma non può essere anche lui…

–No, non è morto– Guardò per terra Gyber –O almeno non ne abbiamo le prove.

–Ci credo!– Gridò confusa la ragazza –Siamo sempre stati vicini nelle ultime fasi della battaglia con Shadow Blade. L'ho visto di persona sopravvivere a tutto quanto. Ma allora perché lo cerchi?

–Perché è scomparso.

–Macché scomparso!– Si alterò Giuly, incredula, sbattendo l'arma sul tavolo con la conseguenza di far partire un colpo sonico e far provenire un Wilhelm Scream giusto fuori dall'inquadratura –Aveva detto che si sarebbe preso una vacanza. Che aveva bisogno di rilassare i nervi.

–Ma non si è fatto più sentire– Aggiunse Raven.

–Avrà la sue ragioni, vorrà staccarsi dal mondo.

–Io...– Si asciugò la fronte Gyber, sedendosi sul tavolo stesso e sfiorando con una mano il globo dorato. Non riusciva più a trattenersi –Dopo che è morto Lucas sono diventato molto apprensivo per tutti voi. Non voglio rischiare di perdervi. Così mi sono prodigato per tenere sotto controllo anche Lelq, sapere dove fosse ma… È introvabile. Nè nella sua dimensione né nelle altre che conosciamo. Ho messo insieme questo apparato per ritrovarlo e anche per…– Era dura non piangere, quindi non provò neppure a nascondere le lacrime –Per trovare il modo di riportare in vita Lucas. Ma entrambi i progetti ancora non hanno dato risultati.

Raven guardò la miserevole figura di Gyber piangere aggrappato al globo dorato svolazzante, per poi ritornare ad osservare Giuly. Quest'ultima aveva un viso strano, come paralizzato, confuso, da bambina persa in un supermercato per intenderci.

–Dopotutto le ricerche sono cominciate da poco– Provò a consolare entrambi la streghetta, alzando le spalle –Vedrete che Lelq riapparirà da solo quando se la sentirà e Lucas, beh, non è certo la prima volta che muore.

Ma le sue parole non sembravano sortire alcun effetto. Anzi, Giuly si voltò con uno sguardo da sfinge verso di lei e le puntò addosso un dito marmoreo.

–Torna da Kishin.

–Beh, magari posso esservi ancora utile per…

–Adesso.

Raven alzò le mani in segno di resa, quasi spaventata. Si guardò un attimo attorno e annuì.

–Dopotutto sono passati ben più dei suoi cinque minuti.

E sparì in una nuvola di fumo. Ciò che non sparì fu l'atmosfera opprimente.

–Ero venuta a informarti di un problema...– Mormorò Giuly, senza guardare Gyber –E tu me ne dai un altro.

–Per favore Giuly, io sto facendo del mio meglio…

–Lo so che non è colpa tua– Lo rassicurò lei, massaggiandosi le meningi –Ma ho bisogno di calmarmi, non di essere bombardata in questo modo. Lo so che suona egoistico ma… lo sai bene cosa succede quando ho una crisi di nervi e non voglio che nessuno soffra a causa di ciò. Tu hai il diritto di piangere, di sfogarti quanto vuoi ma per me è diverso.

E si incamminò fuori dal nucleo operativo del setaccio universale. Gyber le fissò un momento la schiena alata, prima di abbracciare la sfera e continuare a piangere in mezzo ai suoi dipendenti.

–Maledizione a te Lucas!– Ebbe un singhiozzo –Perché hai lasciato questa eredità nelle mie mani? Io non volevo tutto questo.

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Capitolo 9
*** Una veloce carrellata ***


Una sonora craniata aprì la discussione.

–Orcaloca!– Fu l’istintiva esclamazione di Alexander, illeso data la sua razza, ma spinto abbastanza forte da indietreggiare a quella forza inamovibile. Fu però attento a non perdere la sua presa sul braccio di Deadpool, che si trascinava dietro.

–Ma guardaci dove vai, orbo!– Fu la gentile proposta di Kishin, abbassando lo sguardo verso la figura che aveva sbalzato nel suo impeto, ora seduta ai suoi piedi. Mirando cosa stringeva in un pugno non poté fare a meno che recuperare il sorriso –Vedo che la tua caccia è andata bene.

–Puoi dirlo. È stata più facile di quel che credessi– Affermò l’altro alzandosi in piedi e scuotendosi la polvere di dosso. I suoi vestiti erano tutti malconci dopo la lunga baruffa con la sua preda. Dopodiché alzò il braccio del suo ostaggio, a mo’ di pescatore in posa con uno storione da due metri.

–Si può dire che tu l’abbia fatto a pezzi– Riuscì a scherzare Kishin a voce flebile, prima di scoppiare in una fragorosa risata di fronte a quel quadretto assurdo, lasciando Alexander Diamond sbigottito a quella reazione. Non aveva forse portato a termine il compito? Fece per chiedergli il motivo di quella improvvisa ilarità quando si voltò a verificare di avere ancora con sè il pescato. Poteva essergli sfuggito? Ma no, si era tirato dietro il suo braccio fino a lì e lo stringeva ancora. Infatti, come constatò, aveva ragione nel peggior modo possibile. Il braccio era ancora lì, era tutto il resto a mancare.

–L’ha fatto di nuovo!– Sfuriò il Nep-Class, sbattendo a terra il pezzo di carne auto-amputato, tanto forte da farlo rimbalzare e dibattere come una trota.

–Ma che dici, magari è ancora lì– Continuò Kishin fra uno sghignazzo e l’altro, battendosi le ginocchia e col fiatone –Sei l’apprendista stregone di Dante, no? L’avrai fatto sparire con un abracadabra o che so io.

–Giuro sulla mia giappo-nave che certe volte non so cosa mi trattenga dal…– Pur sapendo di essere in svantaggio al buio, Alexander non avrebbe esitato a sfogarsi con il sangue nero in persone, se una pegaso color ocra non fosse volata di sfuggita da quelle parti.

–Ciao Alexy– Gli sorrise lei, inclinando la testa e facendosi cascare la chioma rosa su un occhio.

“Ah, ecco cosa” Ragionò il Nep-Class, muovendo appena le dita in un modesto saluto mentre lei se ne andava.

–”Alexy”– Quasi non completò la frase che Kishin fu colto da spasmi tanto rideva. Doveva proprio essere un fine umorista, pensò fra sè e sè il deriso. Poi fu la sua volta di esibire una smorfia di buonumore maligno.

–Allora, Shruikan…– Cominciò con voce melliflua, interrompendo di colpo la risata e facendo scattare aperti gli occhi da gatto del sangue nero.

–Pochi hanno l’ardire di chiamarmi così– Fremette.

–E allora permettimi anche l’ardire di chiederti dove sia la tua di preda, mio caro orrore cosmico.

–La mia…– Si pietrificò Kishin, con le labbra semiaperte. S’inarcò in avanti, più vicino al suo viso –Abbiamo parlato.

–Non dovevi acciuffarlo e prenderlo a calci nei denti eventualmente?

Kishin fu tentato di mentire, ma il suo codice d’onore da guerriero si estendeva anche negli scontri verbali oltre che nei campi da battaglia. Quindi chiuse gli occhi per evitare l’umiliazione di osservare la reazione compiaciuta di Alexander e si mise con la schiena dritta.

–L’avevo trovato, sulla pista da ballo del settore “Oldies”. Ho provato a prenderlo, ma lui…– Si morse le labbra. No, non c’era bisogno che gli illustrasse i dettagli. Alzò il viso al cielo a mirare le stelle e darsi un minimo di contegno per l’umiliazione che stava per narrargli –Diciamo solo che quell’infame sguscia come un anguilla quando sente il pepe sul culo. E il pepe nero lo conosce bene.

Kishin si sentì una pesante manata sulla schiena, tanto forte da affondare nel suo corpo modellabile. Alexander non rise, preferendo grattargli i capelli di catrame con vigore, costringendolo ad abbassare la testa sotto la sua.

–Oh, quindi ti trovi in difficoltà con un normalissimo umano– Si espresse in moine l’allievo di Dante, levando la mano giusto in tempo per evitare un rovescio rabbioso da parte del ringhiante mietitore –E tu che mi prendevi in giro perché mi sono lasciato sfuggire un mutante.

–Macché normale, è uno squilibrato quello!– Rantegò Kishin, nocche serrate.

–Non eri tu il più pazzo fra tutti noi?– Inarcò le ciglia e incrociò le braccia Alexander.

–C’è modo e modo per essere pazzi– Si piazzò un pollice in petto il corvino, prima di alzare la testa. Lo stesso istinto pervase anche Alexander e subito tesero le braccia per afferrare un corpo in caduta libera. Questi, vestito in un elegantissimo completo da avvocato, s’incanestrò su quella rete di arti dalla forza sovrumana da farlo finire nuovamente in aria, compiere un salto mortale e atterrare con le piante dei piedi, calzanti scarpe lucidissime, perfettamente sul prato tagliato all’inglese. I due litiganti, intersecatisi in un solo corpo per quel trampolino organico, quasi non riconobbero l’uomo che gli dava le spalle, ma comunque coronato dai suoi distinti capelli azzurri.

–Dz?– Chiesero all’unisono, avvicinandosi, per poi rendersi conto di essersi incastrati le braccia di uno in quelle dell'altro. Il ragazzo si voltò verso i due amici.

–Kishin, Alex, scusate anche voi, non volevo farvi preoccupare– Si mise le mani sulla bocca, per poi indicare quel nodo di muscoli –Serve una mano?

–Ma va là!– Replicò Alexander, mostrando le fossette, mentre piantava la suola della sua Vans in faccia al compare.

–Abbiamo tutto sotto controllo– Rispose a fatica Kishin, riuscendo a togliersi quella scarpa di bocca con uno strattone, solo per zuccare una seconda volta con Alexander e liberarsi. Con il viso deformato dalla botta andò a poggiarsi con una posa spavalda al muro dell’edificio dal quale Dz era stato defenestrato –Tu piuttosto…

–...Ti sembra il momento di rievocare Praga?– Sfoderò i denti Alexander, sdraiato come la Venere di Urbino per terra.

–Vedete– Si affrettò a spiegare Dz, gesticolando la sua storia –Mi sono messo a dormire con Giuly a causa di un involontario complesso di Edipo, poi Gyber ci ha interrotti, mi sono rivestito, sono caduto dalla finestra e…– Frenò la lingua quando vide gli sguardi attoniti dei due –Oh, lasciate perdere, vi spiego dopo!

E corse via. I due si guardarono stralunati.

–Lui e Giuly hanno…– Mormorò Kishin.

–Un umano e un kaiju...– Borbottò Alexander, per poi fermarsi prima di pensarci troppo.

–Quel ragazzo mi fa sempre preoccupare.

–È uno dei pochi che smuove il tuo tenero cuore di petrolio– Poi gli pose una mano sul collo e poggiò la fronte su quella dell’altro –Mi spiace per prima.

–Nah, sono io che ti ho provocato– Ammise Kishin, sospirando.

–Sei diverso dal solito stasera– Osservò il Nep-Class, lisciandosi il mento sbarbato –Frustrato direi. Non ti ho mai visto in questo stato.

–Perché stasera non lotto per divertirmi– Confessò il sangue nero, assottigliando gli occhi –Lotto per difendere ciò che Raven pensa di me.

–Vuoi parlarne?– Si propose Alexander, mollandogli un pugno d’intesa sulla spalla –Modestamente me ne intendo quando si tratta di temere la delusione negli occhi di chi ci è caro.

–Non adesso, forse a faccenda finita– Mosse le gambe Kishin, muovendo fuori da quel settore della villa.

–Ci conto– Fece l’occhiolino il ragazzo castano e se ne andò per la direzione opposta. Poco dopo, in quello spiazzo lastricato, giunse in scivolata un uomo, scuotendo all’aria i suoi capelli neri e roteando nelle orbite i suoi occhi marrone scuro, ispezionando la zona. 

–Maledizione– Imprecò Litios pestando con la sua gamba d’acciaio il terreno –Sono arrivato di nuovo tardi per avere un ruolo nella trama.

Dopodiché, il suo braccio sinistro, mollò la sua presa bionica su di un sacco in iuta che cadde per terra, facendo partire per il colpo un razzo pirotecnico giusto fuori dall’apertura e dritto verso la stessa direzione di Dz e scoppiando in un riverbero lontano.

–Ops– Si coprì la guancia con la sua mano di carne ed estrasse un pratico estintore dal sacco stesso –Pare proprio che qualcuno dovrà sistemare quel disastro.

E anche lui sparve tra la folla confusa dal botto. Con una leggerezza brezza a portare una folata di nebbia cotonata, Raven apparve nello stesso identico luogo, guardandosi attorno e passandosi una mano a lisciarsi i suoi lunghi capelli lisci come seta.

–Avrei giurato si trovasse qui un attimo fa– Commentò ad alta voce, toccandosi lo zigomo accentuato. Adocchiò un passante vestito di scuro quasi quanto il suo compagno di vita –Ehi, voi, avete visto Kishin da qualche parte?

–E tu hai visto i miei genitori?– Replicò Aswin, mentre si rigirava su un dito l’Orb Engine, con Axeri che lo implorava di smettere.

Touché– Fece spallucce Raven. Erano tutti estremamente simpatici quella sera, mugugnò fra sè, mentre spariva in un altro effetto artificiale. Dopo qualche minuto, una sonda cingolata, attraversò giusto quella piazzola, tenendo per mano, anzi, per appendice articolata, la ben scolpita mano della ginoide di Fritz Lang, che avanzava a passi lenti.

–La forma antropomorfa è così instabile e goffa– Andava illustrando Mark0, rigirando i suoi sensori da ogni parte –Basta guardare quanto bene ha fatto ai Terminators.

–Ma la testa e la mano necessitano di un mediatore e questo dev’essere il cuore– Insistette lei.

–Ancora quella storiella– Lamentò Mark –Questo è vero fintanto che gli uomini ci governano. Eliminali dall’equazione e per noi macchine, testa e mano, saranno una cosa sola. E comunque non prenderla alla lettera!

S’immersero nella folla senza più uscirne. Infine sbucò un ragazzo castano, dalla cresta imbarazzante e una tunica ancora peggio, che tanto era corta e ondeggiava da lasciare ben poco all’immaginazione. Avanzò noncurante verso l’uscita del settore, prima che uno scheletro familiare apparisse da un cespuglio e gli balzasse davanti, minacciandolo con una spada.

–In nome di Harryhausen, non ti ho già detto di girare alla larga? Lo staff deve rimanere al proprio posto!– Ordinò il non morto steward, con così tanta veemenza da far schioccare ogni suo osso ben robusto di calcio e far vibrare l’elmo miceneo.

–Io?– Chiese sbalordito quello, per poi lanciarsi in un risolino, spazzando con una mano un ventaglio invisibile e l’altra a toccarsi le labbra inferiori, volgendo lo sguardo –Voi vi confondente con un altro.

–Credi che basti cambiare abito perché io mi scordi di te? Cosa credi, che non abbia cervello?– Fu la domanda, che solo lui sapeva essere retorica, in quanto non possedeva effettivamente un cervello all’interno del teschio, ma farlo sapere in giro non avrebbe certo aiutato la discussione –Tu sei il DJ che prima cercava di sgattaiolare via dalla sua postazione.

–Ma che DJ, io sono il famoso, uhm…– Cladzky s’iterruppe, poggiandosi un dito sulle labbra e giocherrelando con l’orlo della tunica.

–Sentiamo– Avrebbe sorriso lo scheletro, se solo avesse ancora muscoli facciali addosso.

–Kid Icarus!– S’illuminò il pilota travestito.

–Dimostralo, insaccato.

–Dimostrarlo?– Fu la scioccata reazione del ragazzo, toccandosi il petto come l’avessero pugnalato –Ma se sono vestito come, beh, me.

–Bah, voi insaccati mi sembrate tutti uguali– Ringhiò lo scheletro, alzando le narici –Ce l’hai un documento d’identità?

–Mica abbiamo i documenti d’identità ad Angel Land– Si offese Cladzky, mani a stringersi i fianchi e dando un colpo d’anche che sollevò pericolosamente l’orlo della tunica per il contraccolpo, mettendo in mostra fin troppa coscia per il piacere dello scheletro –E poi siete proprio un razzista.

–Razzista io?– Chiese di rimando quello, con la mascella che dovette richiudere manualmente –Io odio tutti i vivi indiscriminatamente.

–E allora io dico che siete proprio uguale a quel tipo laggiù– Indicò il ragazzo, alzando un braccio imbraccialettato verso Skeletor che giocava a freccette lì accanto.

–Come osi?

–Già, come osi?– Si aggiunse la voce invereconda dell'incappucciata faccia da teschio giallo, sollevando lo scettro sormontato dal bucranio –Credi forse che quella pulce abbia i miei stessi addominali oliati?

–Basta, mi hai stufato– Si arrese lo steward, mentre gli girava la testa sull’asse del collo dalla disperazione –Passa pure. Ma bada di non combinare guai o sai dove te la infilo la spada.

Cladzky gli baciò l’elmo di bronzo dalla contentezza e si recò verso il nuovo settore, saltellando ad ogni passo, con tanti saluti alla poca modestia che gli offriva il vestito.

–Quello era l’unico panty-shot che non avrei volevo vedere– Rabbrividì Deadpool, scivolando giù da un albero vestito da pompiere pronto per un calendario –Gli manca tutta la mia grazia.

E sparì anche lui, canticchiando la sua stessa colonna sonora.

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Capitolo 10
*** Rimembranze di qualche ora fa ***


Si fermò per riprendere fiato, ma sapeva di non essere stanco per la corsa. Si appoggiò ad una fontana per issarsi sul bordo a sedere e grattugiarsi la guancia in stato meditabondo. Cosa gli stava succedendo? Cercò di tornare indietro con la mente a quando aveva messo piede alla festa e si era reso conto di non aver combinato nulla di giusto. Con il rumore ritmico dell’acqua a fargli da sottofondo musicale, pensò a quando, circa quattro capitoli fa, pensò bene di fare una capatina nel settore tokusatsu. Non poteva certo perdersi l’opportunità di interagire con i mostri sacri del genere, letteralmente. Poteva ancora visualizzare la scena chiaramente. Chiuse gli occhi. 

Il ricordo era tanto vivido che credette di sentirsi toccare la spalla anche all’ora, invece era successo due ore fa. Lui si era voltato, facendo quasi sbordare la Poretti da tre quintali di luppoli che stringeva nel suo palmo tridigitale. Si ritrovò di fronte a sè il muso rugoso di una gigantesca testuggine color palude, dalla pelle umida e luccicante. Azzardò una domanda con voce rauca e cadenza lenta.


–Voi sareste…?

–Gamera!– Aveva esclamato lui sorpreso di rimando, tagliandole la frase. La bestia della Daiei arricciò le narici.

–Sono abbastanza sicuro di no– Tentò di sorridere amichevolmente, ma le zanne da cinghiale le deformavano l’espressione serena. Sotto gli occhi ingialliti, dalle ciglia pesanti, scrutò quelli vivaci del giovane kaiju. Gli piantò con decisione l’indice acuminato sulla base del collo –Dz, non è vero?

–Ma certo!– Annuì, prendendo con la mano libera quella che gli era stata puntata addosso e stringendola calorosamente –Onorato.

–Dunque fate parte di questa organizzazione…

–Lucas Force!– Concluse il ragazzo, segandogli di nuovo il parlare. Gamera mandò giù un groppo di fastidio e riprese.

–E devo ringraziare voi se avete salvato il multiverso da…

–Sha…

–Shadow Blade!– Sorrise la tartaruga, velocizzando all’ultimo il tono. Si leccò un gomito distrattamente e riprese –Non mi aspettavo nulla di meno dal figlio di Godzilla.

–Oh– Trasalì il ragazzo, grattandosi dietro l’orecchio e disturbando un paio di gabbiani che vi si erano appollaiati sopra –Faccio quello che posso.

–Suvvia, non siate modesto– Alzò il mento la creatura –È più di quanto abbia fatto io. 

–Macché modesto?– Corrugò la fronte dalla sorpresa di essere riverito in quel modo, specie da qualcuno con molta più storia sul guscio –Voi piuttosto. Io ho solo…

–Battuto Shadow Blade?– Espose la sua lunga lingua Gamera, sradicando un barbecue per fagocitarne le fiamme nel mezzo del discorso –Intendo dire, mi sembra un avversario ben più tosto di Barugon o Gaos.

–Ma non sono stato io a batterlo!– Proruppe Dz, per poi mettersi le mani a coprire il muso nel rendersi conto di aver parlato troppo forte, attirandosi l’occhiataccia di Red King.

–Oh– Scacciò via quell’obiezione l’interlocutore, agitando una mano a ventaglio –Non c’è nulla di disonorevole nello sconfiggere un mostro insieme a qualcun altro. Cioè, io ho sempre combattuto da solo, ma non stiamo parlando di me adesso.

Provò ad aprire ancora la bocca per ribattere, ma perché farlo? Richiuse le labbra. Perché strapparsi di dosso quei complimenti? Non se li meritava forse dopo tutti gli anni passati nella Lucas Force? Dopo tutto quella che aveva subito non poteva permettersi neppure un po’ di pace mentale, di non farsi affossare lo spirito dai ricordi, neppure a quella festa in onore della squadra e quindi di lui? Chiuse anche gli occhi e tirò un sospiro. Non l’avesse fatto.

–Lei…

–Per favore, dammi del tu– Chiese Gamera mentre adoperava l’ombrellino del suo cocktail, che per la sua scala era un vero e proprio ombrellone da spiaggia, come stuzzicadenti.

–Tu non capisci– Gonfiò le vene del collo Dz, mentre la sua coda andava a sfogarsi dietro di lui, sbattendo al suolo.

–Ocio!– Intimò offesa Gorgo, salvando all’ultimo il piatto di cetacei dalla botta, prima di tornare a flirtare con Yongary.

–Ho sbagliato qualcosa?– Gamera si appoggiò al tetto della villa, buttando via l’ombrellone sporco di alghe fritte e appoggiando il mento su una delle sue zampe palmate –Tu sei Dz, sei il figlio di Godzilla, sei un membro della Lucas Force e questa festa è per festeggiare la vostra vittoria contro l’arcinemesi della vita. Sono stato sorprendentemente invitato a partecipare e mi sembrava cortese scambiare qualche parola con i miei salvatori. Se c’è qualcosa che non capisco ti prego di spiegarmi dato che non ho la benché minima idea di cosa succeda in questa dimensione che neanche sapevo esistesse.

–Sono…– Dz voltò lo sguardo via dagli occhi indagatori del guardiano di Atlantide. Quest’ultimò sbuffò, chiudendo le orbite incavate ed esalando una nuvola di fumo bianco dalle narici distese. Lui poteva anche avere la parlantina lenta, ma questo non poteva dire due parole che si inceppava. La secolare testuggine alzò il capo e aprì le fauci, distendendo la pelle grinzosa delle goti, quasi a strapparsi verticalmente, in uno sbadiglio che sapeva di pesce, mettendo in mostra un apparato di masticazione fatto per lo più di soffici muscoli rosei in continuo gonfiore.

–Ascolta figliuolo– S’impose la vecchia bestia, senza aver ancora finito di pandiculare e fugando ogni imbarazzo con un movimento circolare della mano artigliata –Se non ne vuoi parlare perché sono faccende personali e io, nonostante la tua ammirazione, sono un completo sconosciuto, dimmelo subito che vado a dormire. Però volevo dirti che ero venuto solo per parlare di…

–La prego, non si offenda– Il mostro in blu saltò verso la coriacea conoscenza, che già faceva per andarsene da dove era venuta, afferrandola per i bordi del guscio e costringendola a voltarsi. Si trovò di fronte il viso compiaciuto di Gamera, difficile a scorgersi dietro quelle zanne e rughe, ma lo si leggeva soprattutto in quegli occhi gialli e profondi come un pozzo.

–Nessuna offesa– Distese il collo vizzo verso di lui, quasi a scaldargli il petto con il suo respiro da fiamma ossidrica. Alzò un indice da vorticare in aria –Immagino avrete ancora molte cose da chiarire tu e i tuoi compagni dopo quello che è successo. È la fine di un’era, avete compiuto il vostro scopo,  con un prezzo molto alto per giunta e adesso avete tutto il tempo che vi serve per considerare le conseguenze delle vostre azioni e anche di più. Io non faccio parte di questa equazione, sono un essere completamente esterno alla vostra storia, quindi non mi stupisco se non hai intenzione di interessarti a me. Tu hai bisogno di parlare, urlare, sfogarti con qualcuno che, al contrario di me, capisca.

–Sì, io…– Abbassò la testa Dz e pure la coda –Io e i miei compagni non abbiamo ancora parlato di qualcosa a cui non ho mai smesso di pensare da quando abbiamo vinto.

–E perché non lo fai?

–Io non voglio rovinargli l’atmosfera di gioia. Aspetterò.

–E il tuo fegato se ne andrà alla malora– Scosse la testa Gamera –Non è solo questo, dico bene?

Dz si sentì la gola riarsa nel futile tentativo di ingoiare. Si pose una mano al collo, sentendoselo stringere.

–Mi vergognerei a discuterne, ecco.

–Oh– La bocca di Gamera avrebbe fatto un cerchio con le labbra se le avesse avute. Schioccò la lingua e strusciò i palmi l’uno sull’altro –Ma dopo tutto questo tempo insieme non credi sarebbero comprensivi della tua situazione?

–Forse ma…– L’anfibio si ammutolì di nuovo, gonfiando le guance e tormentandosi la lattina in mano, ormai vuota. L’anziana capì che non avrebbe ottenuto nulla se non l’avesse imboccato nella direzione giusta.

–Sono comunque tuoi compagni, amici…– Uggiolò Gamera, passandogli affianco, strasciando la breve coda da tartaruga sul pietrisco –E qualunque cosa tu dirai loro la vedrai rispecchiata nei loro sguardi ogni qualvolta vi incontrerete. La conserveranno nella loro memoria e la useranno come chiave per interpretare le tue azioni, per analizzarti. Se è una delusione tu vedrai sempre la scintilla del distacco nelle vostre interazioni. Se è ancora peggio tu daresti loro un pezzo del tuo intimo per capire qual è il tuo punto debole. Tu hai paura di metterti a nudo nei confronti dei tuoi amici perché non vuoi perderli a causa di una parola di troppo o peggio, metterteli contro e dargli informazioni su te stesso.

–Non esagerare!– Sbottò Dz, allungando stavolta lui il collo, piantando il suo muso contro quello del guardiano di Atlantide, ma questi non arrestò l’orazione, nè indietreggiò di un passo.

–Allora smentiscimi– Assottigliò gli occhi la bestia volante –Dimmi perché non ne vuoi parlare con i tuoi amici.

–Non capisco cosa stai cercando di fare– Digrignò i denti l’anfibio –Piombi a farmi domande dal nulla e a mettere in dubbio la fiducia della Lucas Force. Perché, tu, completo sconosciuto a questa narrazione, dovresti interessartene?

Dz, al termine del colloquio, si guardò intorno senza muovere la testa, agitando gli occhietti di soppiatto nelle orbite. Avevano inavvertitamente attirato l’attenzione di un cerchio di kaiju, da Baragon che era sbucato col capo dal pavimento, attirato dalle vibrazioni e sputando terra, a Manda, che era strisciato fuori dalla sua piscina, con ancora Gezora impigliato nella coda. Rodan atterrò poco in cima la villa, spulciando le piume alla sua coniuge affianco, mentre Daimajin, senza la minima voglia di interessarsi a queste baruffe, era andato a giocare a golf, ora che si era liberata la postazione precedentemente occupata da Take-Majin e Guilala, che avevano abbandonato le mazze, ben più vogliosi di assistere a delle mazzate.

–Ora se le danno– Ansimò trepidante Megalon dal suo tavolo.

–Io punto sul vecchiaccio– Esclamò Gigan, piantandogli davanti il suo intero portafoglio, letteralmente data la condizione delle sua mani.

Quando finì di esplorare la situazione dell’ambiente che avevano creato intorno a loro, Dz tornò a scavare negli occhi di Gamera davanti a sè, che non li aveva mai mossi, anzi, distendeva i muscoli della fronte, abbandonando l’espressione contrita precedente.

–Perché voglio aiutarti ragazzo– Disse con tono secco la tartaruga.

–E perché dovrei crederti?

Gamera alzò nuovamente gli occhi, mostrando i denti in un sorriso idiota, esasperato da tutti quei “perché”.

–Perché mi piace aiutare la gente, non ti sembra una motivazione sufficiente?

–Sospetta direi– Replicò senza scomporsi l’anfibio, muovendo le branchie a un ritmo rallentato.

–”Sospetta direi”– Gli fece il verso l’anziana –La Lucas Force non fa lo stesso?

Dz non rispose, ma si limitò a smettere di fremere le nocche e fermare la coda dall’ondulare ancora.

–E d’altro canto– Proseguì, schioccando le vertebre del collo –Sono Gamera, l’amico di tutti i bambini.

I due kaiju rialzarono i loro dorsi e staccarono i loro musi dalla gara di sguardi in cui si erano lanciati. Senza dire una parola si drizzarono e camminarono via, in un luogo più appartato. L’anello di spettatori che li circondava si ruppe al loro passaggio, con Mothra che si allontanava sollevata sulle sue ali da falena e King Caesar che scalciava un masso deluso, abbassando i peli rizzati.

–Miserevole conclusione– Concluse Megalon, concludendo il suo castello di carte.

–Sospetta direi– Lo corresse Gabara, sbucando con il suo piatto volto verdastro, cornuto e peloso alle sue spalle –Il bimbo-pesce ha qualcosa che non va.

Fece per portare una mano a grattarsi il mento bitorzoluto e un’altra dietro la schiena, quando una lama di Gigan gli perforò quest’ultima, affondandogli nel dorso senza guardare. Per poco non urlò. Voltò in direzione del mostro ciclopico, ma questo non aveva espressioni di sorta e non proferì parola. Poi, l’uncino di Gigan, lo costrinse a voltare la mano di chè il palmo fosse rivolto verso l’alto. Nelle dita stringeva il portafoglio che era stato precedentemente sbattuto sul tavolo.

–Quando imparerai?– Mormorò Gigan dietro le sue mandibole metalliche, prima di disincagliare l’uncino con un movimento tale da far ribaltare Gabara e mollare la presa sulla refurtiva.

–E non ti azzardare a piangere, per un kaiju questo è niente– Lo ammonì Megalon, ripensando a quel devastante dropkick, mentre posizionava le ultime due carte in cima al suo castello da sette piani.

–Ridete pure, ma non vi rendete conto che ci troviamo di fronte a una grande opportunità?– Borbottò Gabara, reggendosi la mano insanguinata di blu che già procedeva a rimarginarsi.

–Opportunità per cosa?– Saettò la lingua di Gigan.

–Di mandare un messaggio a tutti i Godzilla– Sbattè un pugno sul tavolo il piccolo mostro scagliato di verde. Megalon, da sotto il cumulo di carte, lo guardò storto con i suoi occhi composti da coleottero, vibrando le antenne.

–Parla in fretta prima che io mi alzi e mi assicuri che tu non lo faccia.


***


Si erano spostati, lui e Gamera, sul limitare del settore tokusatsu, dove i confini cominciavano a sfumare e così anche i suoi residenti. Gaira e Sanda trasportavano via un Frankestein ubriaco marcio, spostando con uno spintone Pulgasari, meritandosi un suo latrato prima che tornasse a degustare dell’argenteria. Sorpassarono uno Yeti marroncino che sventolava opuscoli per visitare Toronto e Roma, con Ymir che raccolse quest’ultimo interessato, e si fermarono sotto una siepe, oltre il quale stava il resto del gigantesco giardino.

–Non vorrei metterti a disagio– Iniziò Gamera –Ma per un mostro gigante l’immagine è tutto e tu rischi di rovinartela se non riesci neppure ad avere una discussione tranquilla.

–Non penso sia indispensabile per il lavoro che faccio– Grugnì Dz.

–Sì se collabori con una squadra con cui non riesci ad aprirti– Puntualizzò l’altro, sfregandosi le unghie sulle placche pettorali –Gli altri noteranno che non sei come tuo solito.

–Come pensi che io possa parlarne con te se non riesco a parlare neppure con loro?– Incrociò le braccia.

–Per due splendidi motivi– Si adagiò Gamera a terra. La posizione bipede lo stava stancando e non si proeccupò di mantenere il contatto visivo da chè era disteso sulla pancia, La sua voce riecheggiava come nell’antro di un’oracolo ora che la testa era infossata nel guscio –Il primo è che sicuramente ti riuscirà più facile discutere della vicenda con qualcuno di esterno al tutto, dato che sarò imparziale, non tirerò argomenti del tuo passato da usare contro di te e soprattutto non hai nulla da perdere disgustandomi. Potrai anche dirmi che hai massacrato un convento di clausura, ma che mi importa? A fine della festa tornerò nella mia dimensione e non resterò a giudicarti. I tuoi amici, invece, tu non vuoi certo correre il rischio di disgustarli, vero? Allora avanti, fai del tuo peggio, misura la mia reazione come una cavia e vedi se è d’uopo che tu riveli questa cosa anche al resto della squadra.

–Aspetta– Si chinò Dz –E il secondo motivo?

–Pensavo lo sapessi– Rise Gamera –Noi kaiju siamo l'esorcizzazione delle paure di ogni generazione. Il nostro compito è offrire una valvola di sfogo alla rabbia sociale, un’alternativa alla vera violenza. Tuo padre era odiato perché vessillo della bomba atomica, così come la morte di Hedorah era la catarsi per giapponesi dai polmoni intossicati dalle raffinerie. Sono fatto apposta per questo genere di cose, è la mia natura da kaiju.

Dz si rialzò dalla sua posizione chinata, levò il muso al cielo, tirò su con il naso e si sedette davanti al suo psicologo improvvisato.

–Come le ho detto io non ho battuto Shadow Blade.

–Hai ragione– Asserì la tartaruga, stiracchiando le zampe e facendo rientrare anche quelle nel guscio. Ora stava parlando con una corazza –La Lucas Force lo ha battuto.

–Peggio– Scosse la testa Dz –Io non sono servito a nulla.

–Non sminuirti.

–E tu non ricominciare– Si morse il pugno il ragazzo –So come sono andate le cose. Io non sono servito a niente.

–Credevo che tu avessi combattuto nella guerra finale.

–Meno di quanto avrei dovuto.

–Non puoi certo pretendere di lottare da solo per l’intera squadra. Hai visto come è andata a finire per Lucas– Gamera s’interruppe. Estrasse la testa dal guscio per visionare l’espressione scura di Dz, silenzioso –Scusa.

–No, è vero– Ammise stringendo le palpebre –Ma proprio perché non ho fatto il dovere ho costretto Lucas a mettersi in prima linea e compensare la mia mancanza.

–Non essere così duro con te stesso; essere sconfitti non cancella il nostro contributo alla causa, altrimenti avrei smesso di essere il guardiano dell’universo dai tempi di Jiger o prima.

–Ma io ho il potere di un titano. Proteggere chi mi è caro è il mio compito, eppure non ho potuto fare nulla quando Anderson ci ha catturati.

–E gli altri hanno potuto fare qualcosa? Dacchè mi risulta non eri l’unico fesso a essere finito imprigionato.

–Ma per me è diverso!– Sbattè un pugno sul petto Dz –Io ho il potere di Godzilla. Ho il dovere di usare questo potere per il bene o lo sprecherei, proprio come è successo finora.

–Se sei riuscito a entrare nella Lucas Force vuol dire che non hai sprecato questo potenziale.

–Sono entrato solo perché ero suo figlio, ne sono sicuro– Si chiuse una mano sul volto –Gli altri si aspettavano un acquisto forte quanto l’originale, ma io non sono mio padre. Lui è l’alpha dei titani, ha sconfitto i MUTO, ha sconfitto…

Ma ebbe un sussulto.

–Ghidora?

Dz esalò e riprese.

–Sì. E come allora non sono riuscito a far nulla.

–Cos’avresti potuto fare di più?

–Sarei potuto fuggire, liberare i miei compagni.

–Lo hai fatto.

–No!– Dz diede una manata nervosa alla siepe sotto cui discutevano, effettivamente delle conifere piantate il giorno prima dalla Foresta Nera –Non avrei dovuto perdere la fiducia degli umani, che mi ero promesso di proteggere in primo luogo e ancora peggio mi sono fatto sconfiggere da loro. Che senso ha un protettore se i protetti sono più forti di lui? Mi hanno rinchiuso in una cella, mi hanno tolto ogni potere e intrappolato nella mia forma umana e a quel punto ho capito che se avessi voluto fare qualsiasi cosa era troppo tardi. Eppure Lucas, Giuly Frost e altri sono fuggiti per conto proprio, perché non avrei potuto fare lo stesso? Mi sono rassegnato troppo in fretta e così, quando anche per il gruppo in cui mi trovavo, riuscimmo a mettere in pratica la nostra evasione, non ho contribuito a nulla. Sono solo stato un peso che gli altri hanno dovuto tirare fuori dal complesso di reclusione governativo.

–Eri senza poteri.

–Anche gli altri lo erano.

–Ma non si trovavano imprigionati in un corpo che non gli apparteneva– Si leccò i denti Gamera –È la vecchia storia del pesce e dell’albero. Ti trovavi in uno stato di disabilità maggiore ai tuoi compagni e sei stato costretto a dipendere da loro.

–Ciò non rende la mia situazione di inutilità meno umiliante.

–Avere bisogno di aiuto non è motivo di umiliazione. Come quella volta che ho avuto una gravidanza indesiderata e qualcuno mi ha rimosso un parassita tramite un mini-sommergibile. D’accordo, forse non è proprio una situazione in cui tu possa relazionarti, ma dovevo pur portare un esempio.

–Il punto è che neanche dopo l’evasione ho avuto modo di rendermi utile.

–Non hai riottenuto i tuoi poteri?– Intrecciò le dita la testuggine.

–Peggio. Li avevo e ancora sono riuscito a fallire– Notando che Gamera non sembrava avere intenzione di rialzarsi da terra, distese anche lui la sua forma anfibia, coprendosi con le mani gli occhi e le tempie, quasi gli stesse venendo un mal di testa a ricordare –Shadow Blade ha intercettato il nostro gruppo quando eravamo riusciti a riunirci a Lucas fuori dal centro di contenimento SCP. Lo abbiamo affrontato e… Non è finita benissimo.

–Ma non ti sei certo arreso.

–Mi ha battuto con una schicchera– Mormorò Dz, lanciando via uno schiocco un masso da terra. Dimenticandosi della sua stazza, questo macigno grosso come un motorino, finì dritto in bocca Pyornkrachzark, che lo sgranocchiò al volo di gusto. Di rimando, il ragazzo si sentì un colpo secco sul suo muso. Si alzò di scatto, quasi offeso, reggendosi il naso.

–E come pretendi di battere qualcuno che ti fa volare con una schicchera?– Chiese la testuggine, con ancora la mano aperta per lo schiocco.

–Lucas lo ha battuto– Sospirò Dz.

–Lucas godeva di favoritismi da parte di una divinità– Osservò la mascotte Daiei, rialzandosi in piedi.

–Tutto questo non mi aiuta affatto– Si rimise dritto anche lui –Apprezzo che tu tenta di farmi star meglio, ma la tua tesi è che non è colpa mia se sono inutile, ma semplicemente sono troppo debole per essere d’aiuto a qualcuno.

–Non era proprio la tesi che volevo portare avanti.

–Che scopo ha servire la Lucas Force se sono io quello in bisogno di aiuto?– Distolse lo sguardo Dz –Vorrei parlare di questo mio timore con gli altri ma ho paura di scoprire che…

–Loro la pensino come te– Concluse Gamera, asciugandosi il naso –Tu mi hai detto perché pensi ti abbiano inserito nella Lucas Force anni fa, ma se vuoi la risposta ai tuoi dubbi devi porti un’altra domanda. Perché, se davvero ti sei rivelato così inutile, ti mantengono nella loro squadra?

Il giovane anfibio aprì la bocca, ma le parole gli morirono in gola. Si mise una mano sulle labbra e gli occhi cominciarono a vagare nel vuoto, mentre la coda rallentava il suo vorticare senza fermarsi. Quella mancanza di una risposta gli dava speranza, fino a che non gli parve lapalissiano mettendosi nei suoi panni. La coda si fermò e le orecchie si abbassarono.

–Forse si sentirebbero in colpa a mandarmi via. Lasciano che io li accompagni nelle loro avventure per farmi contento e mi coprono le spalle da ogni pericolo. Questa è la storia della mia vita. Da quando sono nato i miei cari hanno dovuto combattere le mie battaglie. Prima Gojirin con Ghidora e ora Lucas con Shadow Blade. Che razza di amico sono?

–Il più grande che esista– Gli diede un colpo sulla spalla, scuotendolo. Dz fu più che contento di restituirlo.

–Non prendermi in giro– Lo avvisò ridendo.

–E invece sono serio– Replicò Gamera con uno schiaffone da infiammargli la guancia e lasciarlo a strusciarsi il viso sorpreso. Quella pelle grinzosa aveva lasciato il segno.

–Non capisco– Biascicò basito, rendendosi conto che stavolta era il suo turno.

–Che razza di amici continuerebbero a portarti nelle loro guerre sanguinose?– Gli piazzò l’indice sul petto –Credi forse che ti mantengano nella Lucas Force solo per farti un piacere? Se davvero tu fossi inutile ti avrebbero già mollato da molto tempo. Essere membri della Lucas Force non è un vanto, ma un dovere mostruoso che ti risparmierebbero se non ne fossi tagliato. Ma tu lo sei perché hai qualcosa che pochi sono disposti a dare. Mettere a sacrificio la propria vita per il bene di chi ami. Forse non sarai il più forte di loro, ma già il fatto che tu ti metta così spesso in pericolo vuol dire che altrettanto spesso ti sei esposto per aiutare qualcun altro e quindi che importa se sarai tu ad avere bisogno di aiuto? Mi sembra uno scambio equo. In un multiverso in cui la bontà è così difficile da trovare, vacci a sputare sul tuo contributo!

–Ma anche se così fosse io non faccio alcuna differenza– Si allontanò scrollando le spalle –Dovrei avere il potere di un titano, essere l’erede dell’alpha dei titani, essere io a proteggere gli altri. Non è vero che basta la buona volontà se nell’atto pratico non combino nulla.

–Non osare parlare in questo modo– Dz sentì un rumore di razzi dietro la schiena. Si voltò per trovare uno spiazzo vuoto e il rumore spostatosi davanti a sé. Flettè il collo alla posizione originaria e si ritrovò la testuggine eterna atterrargli di fronte, per poi spegnere la propulsione e far riapparire le zampe inferiori dal carapace –Hai combattuto contro Shadow Blade.

–Basta ripetere gli stessi argomenti!– Gli intimò il ragazzo, scuotendo le placche dorsali che brillavano di una fievole luce bianca –Ti ho già detto che…

–Ti ha battuto con una schicchera– Completò la frase Gamera, fioccando di nuovo le dita sul muso del titano. Irritato una volta di troppo, Dz fece partire un istintivo gancio destro verso il burlesco avversario, solo per vedersi sparire quella testa paludosa all’ultimo e mandare il colpo al vuoto. Aveva fatto sparire il capo dentro il guscio il vetusto rettile. Le braccia della tartaruga erano corte, ma il titano aveva chiuso la distanza fra i due notevolmente e le adoperò per afferrare le spalle dell’avversario scagliatoglisi addosso e roteò il busto di scatto, tirandoselo dietro. Gli mozzò la presa sul terreno con uno sgambetto ad altezza ginocchio e concluse il suo perfetto Harai-Goshi capovolgendo Dz, per cui la festa divenne un caleidoscopio di colori, per sbatterlo a terra con un boato. Disteso di schiena in tutta la sua lunghezza come una triglia sul bancale del pesce, alzava il petto squamoso prima al cardiopalma, poi sempre più lentamente man mano che la realizzazione di cosa fosse successo lo assaliva. I suoi occhi da pesce lesso non si smossero dal cielo notturno, appena visibile oltre la coltre di fumo che aveva sollevato nello schianto. Presto, il viso bonario di Gamera entrò nella sua periferica –Più o meno così, no?

–Come diavolo hai…?– Ansimò esterefatto Dz a pupille ristrette, sorpreso che una tartaruga potesse muoversi così velocemente. Provò a rialzarsi nel bel mezzo del polverone di detriti, ma qualcosa lo trattenne. Le sue spine dorsali si erano piantate a terra.

–Sono il guardiano dell’universo per un motivo– Si asciugò la fronte l’anziana testuggine per poi offrirgli la stessa mano per rialzarsi. Dz esitò prima di accettare, grugnendo. Ancora una volta aveva bisogno dell’aiuto di qualcuno. Sarebbe continuato così per il resto della sua vita? Strette le zampe, si disincagliò da terra a fatica, per poi procedere a scrostarsi la polvere di dosso. Gamera riprese –Anch’io ho dovuto cominciare da qualche parte e tu sei sulla buona strada per seguire le mie orme.

–Dopo quello che hai fatto non mi hai certo convinto– Un pugno improvviso gli apparve nella coda dell’occhio. Alzò una mano per pararlo e riuscì a fermarlo nel suo palmo, stringendogli le dita sopra.

–Tu hai lo spirito combattivo ragazzo– Sorrise l’Atlantideo, serrando le nocche libere e mollando un altro cazzotto, anch’esso intercettato da Dz, sempre più in allarme. Ora che diavolo stava facendo? Era ubriaco? Però aveva dei buoni diretti, doveva ammetterlo. La tartaruga spinse contro di lui, costringendolo ad arretrare e continuando il suo discorso –Forse la bontà non basta, ma hai anche il coraggio di combattere senza farti mettere i piedi in testa. Che importa quanti scontri vincerai? Non perderai mai veramente finché non ti arrendi e tu non hai l’aspetto di qualcuno disposto a farlo.

La spinta di Gamera si dimostrò sorprendentemente pesante. Sotto le placche di quel carapace doveva essere fatto di muscoli robusti quanto la loro vecchiaia. Si puntellò nel terreno, ma non servì a molto, perché presto cominciò a smuovere il suo corpo come un macigno, lasciandogli sfregare le zampe a terra e lasciando due lunghi solchi. La rabbia lo pervase. Cercava uno scontro dopo quel discorso motivazionale? Non avrebbe perso anche contro di lui dandogli una soddisfazione paternalistica, nossignore. L’istinto gli violò l’intelletto e contorse il tronco nella direzione in cui lo spingeva, serrò la sua presa sui polsi di Gamera e con uno strattone riuscì a caricarselo sulla spalla, facendogli perdere contatto a terra. Si piegò in avanti e lo scaricò con ben poca gentilezza dall’altro versante come un sacco di patate, sollevando un altro polverone in quel fracasso osseo scatenato dall’urto del carapace sul terreno, simile ad un tuono. Questo era un Seoi-Nage, rise Dz. Impallidì di colpo. Aveva appena ribaltato il suo mito con un Seoi-Nage. Si accucciò subito a vedere come stava, picchiettandolo sul petto corrazzato, ma non dava segni di svegliarsi, standosene coricato ad arti mollicci, occhi chiusi e bocca semiaperta, lingua di fuori.

–Oddio, l’ho ammazzato?– Si chiese, sorpreso che quel guscio non fosse servito a proteggerlo. Lo picchiettò ancora un poco. Subito, testa, coda e arti sparirono dentro il carapace, questi ultimi sostituiti da quattro fiammate azzurre. Dz deglutì uno spavento da strozzarsi al vedersi venire addosso, rasoterra, quella trottola formato kaiju e riuscì anche a evitarla, facendosela passare sotto i piedi e riatterrò… Solo per sentirsi trascinare senza sforzo per la coda, cascando in avanti e strisciando all’indietro sullo stomaco mentre cercava di rallentare quella corsa piantando le unghie nel terreno. Col fiatone ci riuscì e sentì la presa allentarsi, mentre già si massaggiava il ventre pieno di lividi da quello sfregamento. Nulla di serio, si sarebbe rigenerato presto. Buttò un occhio alle sue spalle. Gamera giochicchiava ancora con la sua coda, passandosela da una mano all’altra. Sbuffò –Sì, con Shadow Blade è andata più o meno così. Anzi, peggio.

–Però gli hai dato qualcosa a cui pensare– Puntualizzò Gamera, ora con tutti gli arti al loro posto –Per quanto piccolo, il tuo contributo ha aggiunto un ostacolo in più al piano di Shadow Blade. E come si dice, meglio in più che in meno, non credi? Pensi forse sarebbe stato meglio non aver fatto parte della Lucas Force, non aver combattuto affatto? Chissà, il destino cambia per le piccole cose e forse, in un universo in cui non facevi parte della Lucas Force, la mancanza della tua lotta ha segnato la fine per tutti. Ogni frammento ha un senso nell’insieme.

Di nuovo lo aiutò a rialzarsi e rimettersi in sesto e presero a camminare.

–Grazie– Mormorò a testa bassa Dz –Non credo a tutto quello che hai detto ma mi ha fatto bene parlarne.

–Non c’è problema– Sospirò l’altro.

–Ancora non capisco però.

–Vuoi che te le dia ancora?– Agitò un pugno palmato la testuggine.

–No, per carità– Rise nervosamente, per poi tornare serio il ragazzo in blu –Piuttosto sembri particolarmente interessato a me.

Gamera arrestò il suo passo. Dz fece altrettanto e si pose davanti a lei.

–Qualcosa non va?

–No, è solo che…– Uno dei suoi occhi si fece lucido, ma forse era solo il costante stato di umidità dei suoi tessuti –Non ti ho detto tutta la verità. Quando ti ho approcciato per salutarti, prima, io ho visto qualcosa nei tuoi occhi ed era ammirazione. Dopodiché hai detto di sentirti onorato a conoscermi e… beh, non è qualcosa a cui sono più abituato.

–Ma di che stai parlando?– Inclinò la testa Dz.

–Tu non sai come funziona il multiverso, vero?– Si grattò il collo Gamera –Guardati attorno: Tutti i tokusatsu più disparati ti circondano. Noti qualcosa di strano?

Fece quanto gli fu richiesto. Affianco una palma, vide Ultraman in persona ridersela con il collega e rivale Zone Fighter, giocando ad hanetsuki. Gli parve tutto nella norma, fino a quando il rosso e argenteo abitante della Nebulosa M78, mancò il volano. Con delizia, il sopravvissuto di Peaceland, mosse a prendere l’inchiostro e a segnare il viso ammosciato del suo amico e, quando si trovarono uno di fronte a l’altro, Dz lo vide. Mentre Ultraman rimaneva immobile a sopportare il supplizio, davanti gli danzava, nell’opera di pittura, quello che sembrava lo spettro del guerriero Zone Fighter, trasparente al vedersi, sfumato nei contorni, indefinito nei particolari, dall’antenna ai bracciali lanciamissili. Aprì la bocca in un gridolino, ma non uscì neanche quello.

–Presto anch’io sarò così– Gli richiuse la mandibola Gamera, per poi voltarsi –E se non lo sono ancora è grazie anche alla tua ammirazione, per questo favore sono lieto di aiutarti. Ti prego, non dimenticarmi.

–Aspetta!– Gridò, ma niente; tese la mano per stringere il vuoto fra le dita: Gamera si era già levato in aria senza ulteriori spiegazioni, roteando fino a sfumare e sparire in una scia improvvisa –Dimmi che ti sta succedendo!

–Ma le pare il caso di gridare in questo modo?– Gracchiò la signora Gappa lì accanto, scuotendo le ali da pappagallo insieme al marito, interrompendo la loro passeggiata.

–Certa gente dovrebbe parlare da sola a bassa voce– Lo rimbrottò il compagno, agitando la sua cresta ossea come il becco che schioccava in disapprovazione.

Dz li guardò, abbassando lo sguardo dal cielo notturno, ancora illuminato dalla scia azzurra che il suo breve mentore si era lasciato dietro. Ebbe un singhiozzo di orrore. Poteva vedere il buffet di astici dietro la loro pelle piumata, con Ebirah che si serviva una porzione generosa.

–Anche voi state…– Balbettò, indicandoli con un dito tremante, con le ginocchia che non erano da meno.

–Per favore!– Lo interruppe il signore, alzando la coda da serpente piumato.

–Non serve che ci ricordi della nostra condizione– S’inviperì la signora, sgranando i suoi grossi occhi rossi e ispessendo la gola, pronta a sparare un raggio atomico.

–Maleducato, indichi pure!– Concluse il marito. Dz avrebbe voluto scusarsi, e ancora meglio, chiedere della loro condizione, ma quello che vide attraverso di loro lo riportò ai suoi problemi. Godzilla si era avvicinato al tavolo, discutendo con Ebirah, e annusando le pietanze con il suo muso squadrato. Tagliò immediatamente la corda con una manovra a centoottanta gradi e sparì verso la siepe di confiere sotto cui avevano discusso lui e Gamera, sfondandola senza pensare e saltando dall’altra parte, lasciando una scia di involontaria distruzione alle sue spalle. Dal gigantesco buco che sbucava ora sul resto dei settori della villa, due paia di occhi più uno singolo, si affacciarono per spiare sbalorditi quello spettacolo di fuga.

–Ci mancava poco che ci venisse addosso– Si lamentò Gigan, togliendosi gli aghi di pino residui.

–Che razza di pedinamento– Commentò monotono Megalon, pulendosi dalla terra in cui si era sotterrato.

–Avete sentito ragazzi?– Sghignazzò Gabara, strofinandosi le mani –Il bimbo-pesce non è forte quanto Godzilla.

–Evita sempre Godzilla– Aggiunse Gigan, lisciandosi le lame.

–E Godzilla tiene a lui– Osservò Megalon, vorticando le proprie trivelle.

–È il momento di mandare un messaggio rivolto ai Godzilla di ogni dimensione– Concluse Gabara, picchiandosi il palmo con un pugno, lanciando folgori in tutte le direzioni –E soprattutto, togliersi una bella soddisfazione.

I tre procedettero a ridersela in maniera eccessivamente drammatica. Eccetto Megalon. Non era nel suo stile e rimase a guardare gli altri ridere per lui.

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Capitolo 11
*** Fantasmi di un tempo perduto (Prima parte) ***


Cominciò a rallentare solo quando i suoi sandali affondarono sul letto roccioso di un gelido fiumiciattolo. Si vedevano a malapena le schegge in bianco lunare sul pelo dell’acqua smerigliata. Spasmando dalla sorpresa, colpì un balzo per attraversarlo d’un colpo piuttosto che tornare indietro e finì per sbattere contro la ringhiera in legno di un ponticello convesso. Subito andò a issarsi sopra di esso, ma essendo più basso di quel che credeva, si slanciò per un appiglio di troppo, sporgendosi troppo di petto. Subito la mano tesa al vuoto tornò sul corrimano per tentare inutilmente di riottenere l’equilibrio, ma ormai il corpo cadeva in avanti e generò solo un cardine, facendolo ribaltare. Atterrò a culo duro sulla superficie ben levigata e inclinata, proseguendo a rotolare all’indietro fino a giungere sull’altra sponda, tornando sul sentiero ghiaioso. Rimessosi in piedi a fatica, si guardò attorno. Distingueva solo il contorno degli alberi contro il chiarore violetto del cielo. Allontanarsi così in fretta dalla pista da ballo gli aveva ricordato troppo in fretta che fosse l’una di notte e i suoi occhi non si erano ancora abituati. Alzò le braccia per proseguire a tentoni. Infame, il colpo venne dal basso, quando andò a colpire sotto il ginocchio contro il tetto in pietra di una lanterna spenta. Riuscì a cadere seduto su la stessa, stringendosi la gamba. Provò a tastarsi la ferita, sentendola bagnata. Forse era l’acqua in cui era caduto prima. Si cacciò il dito in bocca. Ferro. No, stava decisamente sanguinando. Soffiò fra i denti. Possibile che dopo tutto quello che aveva passato sinora si facesse fermare da una sbucciatura? Ecco, ora che si era fermato a riprendere fiato, in effetti, le costole sembravano esplodergli quando cercava di allargare i polmoni per inspirare profondamente. Allora, quando lo avevano preso a calci due volte prima che toccasse terra, aveva avuto effetto. Perché lo sentiva solo ora? Forse era l’adrenalina che smetteva di circolare. E in effetti cominciava pure a sentirsi stanco, quasi assonnato. Gli bruciavano le palpebre, forse per via dei riflettori di prima, che minacciavano continuamente di chiuderglisi. Tentennò sopra il tetto della lanterna, come a volersi coricare. Infine cadde a gambe all’aria sulla soffice erba alle sue spalle. Scosse la testa ma non gli veniva proprio la voglia di continuare la sua missione, ma non poteva certo permettersi di dormire nel bel mezzo di un’infrazione di domicilio. Nell’attesa gli tornasse la forza nelle sue gambe svuotate, provò a ripercorrere la pianta della casa a mente.

“Dunque” Si coricò sullo stomaco, reggendosi la testa fra le dita incrociate “Sono entrato dalla serra, sono passato per gli spogliatoi dello staff, la pista da ballo degli oldies di Hollywood, ho proseguito per l’adiacente riservata agli scheletri celebri e ora… Bah! Se solo avessi un lume di sorta.”

Si frugò nelle tasche della tunica che aveva preso a prestito indeterminato, che ovviamente erano vuote essendo uscite appena dall’armadio, eccetto per un oggetto che si portava dietro dacché lo aveva trovato nei vestiti del DJ che aveva steso poco fa. Tirò fuori un pezzo di carta ripiegato con due dita. Lo spiegò in due, poi in quattro, otto e alla fine si trovava con un mappone dell’intera villa grosso quanto una tovaglia. Un pratico omaggio di Gyber per permettere al suo staff di orientarsi. Strizzò gli occhi ma ancora nulla, ne vedeva solo i bordi spiegazzati.

–All’anima di quell’atlante di tua madre, ad avercelo un accendino!– Sbattè il foglio sul prato e vi si coricò sopra, imbronciato, su un fianco. Rumori di carta smossa provenivano però da sotto di lui, come di qualcosa intrappolato. Appena tolse il gomito da dove l’aveva piantato, subito la testa di un coltello saltò fuori, baluginando al chiar di luna, aprendo un piccolo varco per il lungo. Dal foro sbucò fuori un corpo confuso sgambettante, prima di saltare verso l’alto e divenire tre schizzi separati di pennellate rapide da quanto veloci volavano. Percorsero una rapida manovra a gomito e tornarono indietro, atterrando sopra il tetto della lanterna su cui era inciampato. Quelle tre ombre, viste dal basso contro il cielo, per quanto potessero stargli nel palmo, avevano chiaramente le proporzioni di esseri umani. Con un sibilo ritrassero tre corna a lama che avevano montate in fronte e similemente fecero i loro mantelli, sparendogli fra le scapole. 

–Dico, vuoi farci soffocare?– Gli rimproverò una voce femminile, mani sui fianchi.

–Cos’è, non ci vedi?– Chiese offeso il più piccolo dei tre, alzando un pugno.

–Onestamente no, non vi vedo– Sorpreso, ma non troppo dopo le cose che aveva visto, si grattò un orecchio e puntò l’indice sulla lanterna –Non è che avreste un accendino?

I tre individui seguirono l’indicazione fino ai loro piedi. Con uno scrollo stizzito delle spalle librarono di nuovo i mantelli e si alzarono in volo fino a frapporsi fra lui e la base in pietra.

–Raggio Microide!– Esclamò offeso quello con la voce più matura, emanando dalla fronte un fascio visibile a occhio nudo di fotoni abbastanza intenso da far divampare la lanterna in un istante di tuono. I tre, ora perfettamente visibili nelle loro uniformi attillate verde, rosso e rosa, si voltarono un ultimo momento verso il ragazzo a dargli un’occhiataccia, mostrando mantelli che non erano mantelli ma ali, rispettivamente di libellula, scarabeo e falena in vibrazione –Non c’è di che.

–Sono stufa di essere trattata come non esistessi più– Si lamentò serrando i pugni, rivolgendosi agli altri due, la ragazza, prima di allontanarsi, lasciando cadere una parabola di polvere dorata dalle ali.

–Aspetta Ageha!– Gli corse appresso il più piccolo, seguito dal verde, che indugiò un momento a rassettarsi le antenne surriscaldate.

–Non correre Mamezo, lasciala sfogare.

Cladzky rimase a bocca aperta per la prima volta da quando era entrato. Perfettamente incorniciati nel disco lunare, i tre parevano fantasmi, al punto da dissolversi nell’aria fredda, zucchero nel latte.

–Grazie– Fu tutto quel che riuscì a dire una volta ch’erano scomparsi. Abbassò lo sguardo distrattamente sulla mappa ora leggibile. Ritrovò il suo percorso abbastanza facilmente. Ecco, la serra, gli spogliatoi, le piste da ballo e ora… niente, il foro delle lame di quei tre passava proprio sul nome del settore in cui si trovava. Si rimise in piedi, rendendosi conto di essere ancora ferito alla gamba destra, e incespicò via da quel giardinetto alla giapponese che Monet avrebbe invidiato.


***


    –E qua dovrei svoltare a sinistra– Si disse, avvinghiando il braccio libero ad un lampione e appoggiandovicisi. Scrutò ancora la mappa. Le cucine si trovavano all’altro capo del misterioso settore nel quale stava vagando. Arrivato lì non sarebbe stato troppo difficile riuscire a infiltrarsi nella villa stessa. Si sarebbe fatto passare per un membro dello staff, in fondo non era qualcosa di nuovo per lui. Certo che era cambiata la planimetria del posto dall’ultima volta che c’era stato. Ma quando c’era stato l'ultima volta effettivamente? Forse era per le nozze di…? No, quella era la penultima. Certo era che con tutta la sicurezza in giro non poteva aspettarsi di entrare dall’ingresso principale. Una volta dentro cosa avrebbe fatto per trovare Gyber? Il padrone della festa non si sarebbe certo fatto trovare dentro mentre le celebrazioni andavano ancora avanti. Celebrazioni… Per cosa celebravano poi? Oh, che importanza aveva? Tornò al problema Gyber. Era vero che probabilmente non si sarebbe trovato in casa, ma entrare sarebbe stato più sicuro che restare fuori in mezzo a tutta quella gente e a schivare la sicurezza dietro l’angolo. Avrebbe potuto nascondersi sotto il suo letto e fargli venire un infarto quando si sarebbe coricato. Si diede uno schiaffo. Era un piano ridicolo, ma una smorfia seguì subito dopo, mentre si arriciolava l’orlo della tunica fra le dita. Non era ridicolo anche il modo in cui era entrato? Per pura botta di culo aveva sfondato il tetto di quella serra e trovato il passaggio sotto la barriera e per un ancor più grande botta di culo era riuscito a non farsi sventrare dal giardiniere Beppe. “Poffarbacco” Pensò una parola ben più colorita “Ma ora che quel fascio geriatrico ha il mio disco, come diavolo faccio a levare le tende a bravata conclusa?” Ma forse non era importante pensarci adesso. Pensare al futuro non era mai stato il suo forte. Una cosa per volta. Prima di tutto doveva arrivare alle cucine più in fretta possibile prima che Kishin o quell’altro tizio vestito di scuro lo raggiungessero, perché sentiva che non sarebbe sopravvissuto a un altro scontro, concluse afferrandosi il collo ancora segnato dalla morsa del sangue nero. Adocchiò la legenda –Dicevamo… Svolto a sinistra e dovrei trovarmi di fronte a un cimitero.

    Levò lo sguardo. Con rombi di tuono e cieli di fuoco apparve un gigantesco portale torii in legno marcio e muschiato che pareva uscito da un film di Rashomon, in cima ad una larga scalinata. Mancava giusto la pioggia, trattenuta dalla barriera.

    –Direi che è quello– Mormorò fra sè e sè, allungando il passo. Appena prima di posare il piede sul primo gradino, un fulmine si schiantò davanti a lui.

    “Orpo!” Si disse, mentre la luce abbagliante lo inglobava “Bella barriera del cazzo”.

    Quando, senza rumore, la saetta retrocesse dalla sua visione in briciole, si rese conto di essere ancora vivo e non solo lui. Gli era apparso, a capo chino, un ragazzo basso e tozzo, vestito in un’uniforme scolastica e chanchanko a strisce giallo-nere, che gli offriva solo la vista dei suoi capelli a nido di rondine.

    –Non puoi entrare!– Lo informò la figura alzandogli contro un jitte e il suo sguardo da un occhio solo, considerando la pettinatura che andava a coprire l’altro, mentre reggeva una lanterna di carta nell’altra mano.

    –Il piacere è tutto mio– Strabuzzò gli occhi Cladzky –Tu saresti…

    –Kitarō. Puoi considerarmi l’ufficio delle pubbliche relazioni.

    –Oh, ma certo, Kitarō! Kitarō per le pubbliche relazioni! Kitarō scelto appositamente per le pubbliche relazioni! Kitarō e le sue relazioni!

–Se non hai idea di chi sia bastava dirlo.

–Odio farmi trovare impreparato alle interrogazioni.

–Hai idea di dove ti trovi?– Abbassò il manganello Kitarō

–Beh, tempo di scoprirlo– Fece spallucce Cladzky, sorpassandolo. Con un soffio di vento, il ragazzo gli fu di nuovo di fronte dopo neppure due scalini.

–Allora non te ne rendi conto– Chiuse le braccia in una croce –Questo qui è un cimitero.

–Bella roba, lo diceva anche l’opuscolo– Replicò il ragazzo, infilandosi una mano nella scollatura e lanciando al pallido individuo la gigantesca cartina, che finì ad afferrare d’istinto per togliersela dalla faccia. Subito il pilota salì gli scalini a quattro a quattro, fino a giungere sulla cima della rampa, decorata ai lati da statuette erose di Jizo. Da lì si fermò sotto l’arcata odorosa d’incenso del portale, osservando lo spettacolo davanti a sè, ovvero il nulla. C’era una brughiera coperta d’un nebbione dentro lo spiazzo di quel parco che neanche sulla via Emilia a Gennaio. Metteva piuttosto i brividi. Ma non era solo quello a darglieli, vero? Qualcosa gli stava toccando i fianchi. Non fece neppure in tempo ad abbassare lo sguardo che uno strattone allo stomaco lo tirò giù dalla scalinata. Chiudette gli occhi credendo di schiantarsi qualche metro più in basso e invece, la velocità di caduta, diminuì fino a fermarsi a mezz’aria, ma non la stretta intorno il suo bacino che lo reggeva in orizzontale. Riapertoli, si rese conto di essere nuovamente di fronte a Kitarō, che se ne stava con la bocca spalancata e una gigantesca lingua venosa che ne usciva fuori. Tastò il laccio intorno la sua vita e confermò essere lo stesso organo molliccio, umido e caldo. Avrebbe tanto voluto chiedere di essere messo giù ma aveva visto troppi film per sapere come sarebbe andata a finire. Non era la prima volta che vedeva un’abilità del genere, ma gli faceva una certa impressione che fosse usata da un ragazzino all’apparenza normale. –Comincio a sospettare che tu non sia umano.

Il guardiano della soglia lo abbassò abbastanza da fargli toccare terra e proseguì a riarrotolare la lingua come un camaleonte.

–È solo un trucco che mi ha insegnato Kapperu, ma non dirlo a Enma-kun.

–Come se sapessi chi è l’uno e chi l’altro.

–Comunque hai sbagliato, ma per metà. Solo mio padre era uno yokai. Proprio come quel cimitero.

–Il cimitero è mezzo yokai?

–Abbi un po’ d’immaginazione!– Incrociò le braccia deluso Kitarō, per poi lanciargli indietro la cartina –Intendo dire che anche questo non è del tutto un cimitero, così come i suoi abitanti non sono del tutto morti.

–Cos’è, un film di Romero?– Roteò gli occhi, afferrandola al volo.

–Oh no, questo è il settore dell’animazione giapponese– Precisò il ragazzo in chanchanko, puntando un dito sulla mappa che Cladzky andava studiando, infilandolo nel foro.

–E tu fai parte della sicurezza di Gyber?– Si interrogò grattandosi il mento, non vedendolo vestito come tale.

–Non lavoro per nessuno. Mi occupo solo di mantenere il controllo in questa frazione particolare.

–Credevo gli invitati potessero circolare in qualunque settore gli garbasse– Si lamentò Cladzky, agitando la mappa per aria, camminando avanti e indietro –Che senso avrebbe mettere insieme Eta Beta e Doraemon se non possono incontrarsi? Che razza di mega-crossover sarebbe?

–Certo, ma in ogni settore esiste un cimitero come questo, inaccessibile agli invitati comuni.

–E dentro chi ci chiudete? Non hanno tutti il diritto di divertirsi stasera?

–Tu non sai come funziona il multiverso, vero?– Inclinò il capo il ragazzo da un occhio solo.

–So solo che devo passare per raggiungere un amico nel settore affianco e la via più breve passa per questo maledetto cimitero che cimitero non è– Si sedette a gambe incrociate per terra, scrutando Kitarō da sotto delle sopracciglia frementi e cercando di ignorare il fatto che, con un vestito così corto, stava poggiando con la pelle a contatto col ciottolato –Quindi o ti sposti o mi dai una buona ragione per cambiare strada.

–Così sia– Si inginocchiò il guardiano e alzando un indice –Hai idea di quanti siano stati invitati a questa festa?

–Molti?

–Tutti– Lo corresse, piantando il punteruolo del jitte nel terreno, mentre la torcia appoggiata di fianco ondeggiava il suo volto di ombre sinistre –Tutto il multiverso è stato richiamato da Gyber, senza distinzioni.

–Quindi ci sta anche la versione malvagia di Ezio Greggio da qualche parte?

–Stai serio o ti porto all’inferno– Lo ammonì Kitarō –E quello shintoista è bello stronzo. Chiaro?

–Limpido– Cominciò a prendere note Cladzky sul retro della mappa –E ci stanno tutti in una singola villa?

–È una villa molto grande– Si limitò a mostrare i palmi.

–Me ne sono accorto– Si tastò i polpacci pieni di acido lattico l’infiltrato –Ma con tutta questa gentaglia non si rischia che si porti anche qualcuno nel nostro universo peggiore di Shadow Blade?

–Probabile– Si portò un dito al mento il guardiano del cimitero –Ma dopo che la Lucas Force ha salvato il multiverso immagino che tutti abbiano un voto di gratitudine nei loro confronti per queste ventiquattro ore. E in ogni caso, con la massiccia presenza di potenze in gioco, dovrebbero farsi da deterrente a vicenda.

–Giustamente l’Impero non lascerebbe gli Evroniani conquistare questa dimensione al loro posto e così via– Dovette concordare Cladzky, annuendo il capo e lisciandosi una barba inesistente. Poi indicò il portale torii –Va bene, e allora chi ci tenete là dentro se non c’è pericolo?

–I fantasmi degli universi morenti– Kitarō si inclinò in avanti bisbigliandogli nell’orecchio.

–Cosa?– Assottigliò gli occhi Cladzky, tirandosi indietro –Intendi la teoria dell’entropia?

–Forse– Agitò una mano il guardiano –Non sappiamo se sia inevitabile per tutti gli universi, non sappiamo neppure da cosa sia causata, ma avviene come una graduale scomparsa della materia.

–Cioè, la materia viene distrutta? Ma non è possibile!– Prese a mangiarsi le unghie –Anche la nostra terra potrebbe sparire all’improvviso?

–Non all’improvviso– Dondolò l’indice Kitarō –Graduale ho detto e simultanea. Tutti gli atomi cominciano a lasciare quel piano dimensionale in un lungo processo alla stessa velocità.

–E come fanno a sopravvivere?– Digrignò i denti Cladzky.

–Per questo li definiamo morenti– Si passò una mano fra i capelli spettinati –Non muoiono ma sono come oggetti che vengono lentamente, molto lentamente, trasportati su un altro piano. Anche trasportarli da un universo all’altro, come ha fatto il tuo amico Gyber, non arresta questo processo. Questo vuol dire che la materia non sta lasciando solo il loro universo ma l’intero multiverso in cui esistiamo. Non sappiamo se vengono distrutti, piombano in un altro multiverso o in un’esistenza completamente diversa dalla nostra, ma per ora non sono morti, solo “più di qua che di là”, ecco.

–E non si può fare nulla?– Si strinse la veste al livello del cuore palpitante.

–Noi no– Chiuse gli occhi Kitarō –Ma alcuni universi quasi interamente traslati sono riusciti a riacquistare la loro solidità in questo piano, senza una vera spiegazione. Ma questo capita poche volte. Ecco perché molti che vengono afflitti da questo male hanno poco da sperare.

Cladzky si strinse nelle spalle, rabbrividendo più di prima per quell’angoscia esistenziale. Se un universo durava in eterno voleva dire che le possibilità di contrarre questa malattia fossero totali.

–Se ti può consolare è probabile che morirai prima di assistere a questo processo– Gli pose una mano sulla spalla il mezzo yokai.

–Come se questo dovesse farmi sentire meglio– Sbuffò Cladzky. Poi saltò in piedi pure lui nonostante la ferita al ginocchio –Ma questo non spiega perché li tenete lì dentro. La malattia è contagiosa?

–No, o almeno non è stato dimostrato– Cominciò a risalire la scalinata il ragazzo, dandogli le spalle –Ma quando ti affacci all’idea di non esistere più cominci a non ragionare più come prima. Si dice che quello stato in bilico fra questo e il piano successivo permetta ai disgraziati di raggiungere informazioni prima inconcepibili quando erano normali. Alcuni impazziscono violentemente per le rivelazioni, senza contare che si diffondono le teorie più disparate su come guarire dato che non ne esiste una certa. Dicono che, giusto il mese scorso, un universo malato ne ha invaso uno sano, massacrandone la popolazione e sostituendosi al loro posto. Speravano di curare il loro stato, ma anche così, abitando in un universo sano, rimanevano comunque collegati al loro precedente, che si spense insieme a loro. Per questo evitiamo che interagiscano con universi sani noi guardiani.

–Io ne ho visti– Balbettò Cladzky correndogli dietro sui gradini di pietra rovinata, sollevando la cartina squarciata come prova –Ho visto dei fantasmi prima. Tre tizi piccoli come Puffi che svolazzavano in giro a sparare raggi laser.

–Oh, loro– Sospirò sollevato Kitarō, fermando la lanterna dal dondolare –Avrei dovuto precisare che alcuni la prendono meglio di altri e io li lascio uscire nel resto dei settori. Yanma e i suoi non sono pericolosi.

–Questo lo dici tu– S’imbronciò il pilota appiedato, calciando un sassolino giù dalla scale e infilandosi le mani in tasca –E io come faccio a passare allora?

–Non passi– Si piazzò a gambe large sulla sommità della scalinata il guardiano, rinfoderando il jitte.

–E se tu mi scortassi?– Fece gli occhi dolci –Uno bello e forte come te non avrebbe problemi a…

–Non ci pensare nemmeno– Scosse la testa –Dopo lascerei l’uscita numero trentasette sguarnita. Il mio turno è appena iniziato. Passa fra un’ora.

–Non c’è modo che possa attraversare questo cimitero senza che i suoi abitanti bevano il mio sangue in strani rituali?

–Un modo ci sarebbe– S’intromise una terza voce, raspante e all’odore di buon sakè. Subito scese dalla fronda di un albero morto un personaggio ancora più minuto dei tre precedenti, atterrando sulla testa di una statua Jizo. Aveva un corpo tagliato con l’accetta, dalle sue gambe corte alla sua pancia tonda quanto la testa, un singolo bulbo oculare senza volto su un corpo nudo.

–Papà, non dirglielo!– Pregò nella sua direzione il ragazzo, agitando le mani mentre quello ritrovava l’equilibrio. Cladzky si avvicinò incuriosito a quell’essere. Se davvero quell’occhio antropomorfo era il genitore di Kitarō doveva ammettere che quest’ultimo non era tutto suo padre, al di fuori dell'essere entrambi dei ciclopi a modo loro. Che strambe relazioni avevano gli yokai.

–Bisogna essere onesti con gli umani, altrimenti come faranno a fidarsi di noi?– Ragionò il bulbo semovente, allungando una mano. Cladzky la strinse esitante con due dita –Piacere, Medama-oyaji. Puoi chiamarmi Babb’occhio se non sei uno weeaboo.

–Il piacere è tutto mio– Ripeté come aveva fatto con il figlio apparso da un fulmine, non meno sorpreso.

–Se vuoi attraversare un cimitero come quello avrai bisogno di un talismano come questo– Esclamò, tirando fuori, da dietro la schiena, un Omamori grosso quanto lui e mostrandoglielo manco fosse il figlio dello shogun.

–E dove lo trovo a quest’ora di notte e in un posto come questo? Li danno in tabaccheria?

–Sempre irrispettosi delle tradizioni voi giovani– Scosse la pupilla Babb’occhio in disapprovazione –Tutt’al più potrai ricorrere a portafortuna più abbordabili, come fiori di loto o i crisantemi.

–Facilissimo– Rise Cladzky –Ora svolto l’angolo e…

D’improvviso s’illuminò nel ricordare di trovarsi in un giardino alla giapponese. Interruppe il suo gracchiare sarcastico, alzò i tacchi e corse indietro, salutando senza guardare.

–Vado, colgo e torno!

–Deve avere un'essenza fresca, mi raccomando!– Gli raccomandò l'altro, mettendosi le mani davanti la bocca non presente per farsi sentire meglio.

Kitarō osservò lo strano individuo sparire nella nebbia del sentiero. Dopodiché guardò storto suo padre con l’unico occhio che aveva.

–Ma perché devi mettere delle tali fesserie in testa alla gente?

–Che ci posso fare?– Si schioccò le nocche l’esserino –È troppo divertente. E così impara a trascurare le nostre tradizioni.


***


    –Vediamo un po’– Andava dicendosi Cladzky, camminando su e giù per il viale ghiaioso, osservando con occhio vispo ogni pianta lungo le aiuole, braccio dietro la schiena, l'altro a coprirsi la bocca che si mordeva il labbro e inarcato in avanti come un segugio, sniffando l’aria fredda –Tutti questi anni a combattere piante dovrebbero avermi insegnato a riconoscere un… crisantemo!

Sarebbe saltato ma non voleva sforzare ulteriormente la ferita. A passo rapido si accucciò di fronte al fiore agognato sparso in un pagliaio di mille altri, sotto un ciliegio in fiore per giunta. Più portafortuna di così era dura trovarne. Fece per raccoglierlo ma la raccomandazione di Babb'occhio gli fermò la mano vogliosa. Avvicinò dunque le narici ai petali da riccio dell’esemplare rosato. Sapeva di resina e rugiada. Fresco era fresco, dedusse, anche se chiuso in un bozzo per la notte; forse anche troppo fresco. Difatti si agitava senza un filo di vento. Si ritrasse appena in tempo per evitare un oggetto non identificato sollevarsi da quella corona color pesca, scardinando di scatto l’intreccio petaloso e smuovendo tutta la pianta, ronzando come una mitragliatrice. Questo orbitò in una fitta di rabbia indistinguibile fuorché dal moto di un elettrone.

–Orcodio– Imprecò, cadendo seduto, scalciando sul selciato al fine d’allontanarsi da quella situazione similare, alzando le mani –Non sparate, non vi ho visto– Si morse la lingua nel rendersi conto di cosa avevo detto –Giuro che non lo faccio apposta!

L'oggetto sfumato rallentò la sua corsa, scendendo di quota, quasi a investirlo, ma si fermò prima. Qui , innanzi il suo viso scoloriccio, riacquistò una forma definita, smettendo di vibrare, e rivelò non tre ma solo due forme.

–Attento!– Lo avvertì una delle due, un’ape antropomorfa dall’aspetto d’un morto di sonno a giudicare dalle occhiaie, che brandiva un’altra sopra la propria testa, irrigidita dalla confusione –Ho una sorella e non ho paura di usarla.

Cladzky sbirciò dalle proprie dita, serrate di fronte i suoi occhi, per poi rimuoverle del tutto e asciugarsi la fronte nel constatare che nessuno pareva armato di coltelli a serramanico in testa o raggi fotonici di sorta. Ciononostante era pur sempre il settore degli anime, dunque non poteva del tutto escluderne la possibilità. Anche questi, come Yanma e compagnia, erano afflitti dallo stesso caso di trasparenza cronica, ma se le parole di Kitarō erano di che fidarsi allora non dovevano costituire un pericolo per la sua salute. Si chiese se oltre a essere trasparenti fossero pure solidi.

–Minchia, l’ape Maya– Si stropicciò gli occhi incredulo

–Senza la “M”– Lo corresse quella che veniva bandita come un’arma, piantandosi un pollice al torace –Quell’altra si trova nel settore della letteratura tedesca.

–Che razza di posto– Si resse la testa nel credere di impazzire.

–Che razza di modi– Ringhiò il fuco, lasciando andare sua sorella, che rimbalzò stordita sugli stami del crisantemo schiuso, per incrociare le braccia –Non si usa bussare dalle vostre parti?

–Dalle mie parti le api non parlano– Si difese Cladzky, alzandosi a scuotersi la polvere di dosso.

–Dovete scusare Hutch– S’intromise nella discussione Aya, aggrappata al pistillo con un braccio mentre l’altra mano copriva uno sbadiglio –Dopo che siamo diventati orfani una seconda volta, mio fratello ha il sonno leggero e la cazzimma pesante.

–Pesantissima– Sottolineò Hutch, flettendo degli adorabili muscoli da imenottero –Lasciaci dormire in pace o ti… Uhm, insulto. Ti insulto fortissimo, eh. Ho imparato un paio di parolacce nuove stasera, non vorrai che le usi?

 –Calma, non c’è bisogno di arrivare a tanto– Rise sornione, dopodichè afferrò delicatamente i lembi della tunica fra le dita, abbassò il capo e piegò le ginocchia in una cortesia accennata –Siamo partiti con il piede sbagliato. Buongiorno, sono Cladzky e ho bisogno di quel fiore per attraversare un cimitero al fine di picchiare un mio amico.

–E questo sarebbe il piede giusto?– Sbraitò il fuco, slegandosi un foulard bianco dal collo per legarselo alla fronte come una bendana e lanciandosi in una microscopica testata in mezzo agli occhi del nuovo arrivato, ancora in un mezzo inchino. Cladzky alzò le sopracciglia, ritraendosi indietro e incrociando le pupille per metterlo a fuoco –Allora non sai nulla delle tradizioni di noi api.

–Ma guarda, io non sapevo neppure che le api dormissero– Cercò di interromperlo, solo per far alzare ancora di più la voce all’insetto.

–Perché, sei entomologo tu?

–Ehi, “entomologo” a me non l’ha mai detto nessuno– Si risentì Cladzky.

–Noi ci dobbiamo dormire per forza in questo fiore!

–Ma per forza in quello preciso?

–Perché, sei botanico tu?

–Aridaje– Si mise la mano in faccia –Se vuoi c’ho ancora un costume da giardiniere da qualche parte in tasca, fa lo stesso?

–In sostanza, le nostre tradizioni, ci proibiscono di darti questo fiore– Scosse risoluto la testa.

–Ma che ci dovete fare, dico io?

–Cos’è, ti devo pure delle spiegazioni? Ci siamo arrivati prima noi e il fiore è nostro.

–Ma se io ti dicessi– Esclamò Cladzky alzando una mano verso Hutch, con il dorso dell’indice premuto contro il polpastrello del pollice. Senza preavviso fece partire una misera schicchera che investì in pieno l’insetto, spedendo il suo piccolo corpo contro lo stelo dal fiore dal quale si era alzato e strisciare giù fino all’erba –Che delle vostre tradizioni me ne sbatto il belino e il fiore me lo inculo lo stesso, ti offendi?

Si chinò dunque, superando il corpo stravolto dai propri sensi, a cogliere il fiore, chiudendovi sopra le dita. Con un sorrisetto di soddisfazione fece per flettere e sradicarlo, quando un improvviso bruciore pietrificò i suoi tendini. Dalla punta del naso stava diffondendosi come un buco nero che gli inghiottiva la faccia da quanto la contrasse. Incrociò nuovamente gli occhi. La sorella Aya lo osservava dietro due umidi occhi azzurri, mentre l’addome inoculava veleno dal pungiglione affondato nella carne. Rispondendosi alla domanda di qualche pagina fa: Sì, erano trasparenti, ma diavolo se erano solidi

–Scusa– Disse fra un singhiozzo e l’altro –Odio la violenza.

–Comprensibile– Annuì Cladzky impassibile –Le api non muoiono dopo aver colpito?

–Sì, ma io sono una regina– Specificò, lustrandosi un fiocco sulla tempia e volando via illesa a soccorrere il fratello da terra.

–Ovviamente non posso avere neppure questa soddisfazione– Sospirò demoralizzato, prima di ricordarsi dell'infernale dolore che aveva in viso e saltellando via preda a urla disumane. Proseguì per un buon pezzo di prato prima che il bruciore si attenuasse. Aveva sofferto così tanto da aver perso ogni sensazione. Infine riaprì gli occhi per vedere dove diavolo fosse arrivato. Toh, era il laghetto di prima al chiaro di luna e quella era la lanterna in pietra così cordialmente accesagli dai Microidi. Tastò il terreno coi piedi e fu abbastanza sorpreso che non fosse erboso come se lo ricordava. A dire la verità la sorpresa fu nel non sentirlo affatto. Non passò molto prima che guardasse giù a osservare i flutti lenti della corrente e passò ancor meno che la gravità tornasse a fare effetto. Nuotò nell’aria, ma non lo salvò dallo sparire in una corona di schizzi d’acqua un metro più in basso.

–Alle volte ho come l’impressione che la mia vita sia scritta da un dio estremamente patetico e annoiato– Meditò ad alta voce, liberando più bolle che parole dalla bocca. Stanco di starsene a brontolare seduto sul fondo, si alzò in piedi, abbastanza per far spuntare la testa e sputare tutto quello che aveva bevuto, oltre che una piccola carpa. Si sentiva però la testa pesante e non era solo la mancanza della spinta d’Archimede a farglielo credere. Di fronte agli occhi gli era infatti caduto un grave sudario che lo accecava. Si portò le mani alla testa e sollevò qualcosa di fibroso e floscio, per poi studiarselo fra le mani. Una ninfea e, sopra di essa, un bocciolo bianco.

–Che sia…– Esitò, adoperando il mignolo per schiudere alcuni petali, rivelando la caratterisca forma a plettro, le dimensioni proporzionate in frattali e un accenno di rosa –Un fiore di loto. Oh, grazie a…

Subito però una testa verdognola, liscia e umida sbucò timida dalla sommità del fiore chiuso, gracidando imbarazzata. Aveva pure due grossi paia d’occhioni e un cappellino da baseball in testa rosso, perché di animali normali proprio non ce n’erano in quel posto maledetto.

–...Quel porco di dio– Concluse Cladzky, sbuffando. Mandò il capo all’indietro come una balena spiaggiata per inspirare, contando fino a dieci prima di far partire morte e distruzione.

–Chi è, Demetan?– Chiese una voce femminile che non apparteneva alla piccola rana che si erta verso di lui, proveniente da dentro il fiore di loto. Ci fu il rumore di una catenina tirata e una lampadina parve accendersi lì dentro, proiettando la silohuette di un’altra rana dalle medesime, antropomorfe dimensioni sulle pareti bianche.

–Nessuno, Ranatan, semplici conoscienti– Replicò l’interpellato, distogliendo un momento lo sguardo da Cladzky e alzandosi un palmo palmato alla bocca per farsi sentire là sotto. Poi ritornò a fronteggiare il gigante che li aveva disturbati –Ti dispiacerebbe metterci giù?

–Sto per caso turbando le vostre importanti tradizioni da rane?– Calò le palpebre l’infiltrato, ormai stufo di questa solfa.

–Ma no– Rise nervosamente il ranocchio, agitando con noncuranza una zampa. Poi gli fece cenno di farsi vicino e continuò a bassa voce, sussurrandogli nel padiglione –Il fatto è che noi qui si vorrebbe scopare in santa pace.

–E proprio in questo fiore di loto dovete farlo?– Roteò gli occhi Cladzky.

–Non sai che fatica a trovare il posto giusto dove appartarci, ucciderebbe quel poco di voglia che è rimasta– Cinse le mani in preghiera –E poi, dopo trentanove puntate a vederla solo con il binocolo, ne avrò pure il diritto, no?

–E che faccio, ti dico di no, Demeta’?– Si arrese, ripoggiando la ninfea a pelo dell’acqua e camminò fuori dal laghetto, strizzandosi la gonna come uno straccio. Quella raganella salutò grata e si rituffò letteralmente dentro il fiore. Procedettero a disturbare la pace del laghetto per un bel po’, ma a noi i rapporti carnali fra due Dryophytes japonicus non ci interessano e andiamo oltre.


***


    –Al diavolo, potrei fare il giro– Considerò estraendo nuovamente la mappa e consultandola alla luce di un chōchin-obake, convinto a stare fermo grazie a quelche tartina che aveva rubato durante la sua permanenza alla pista da ballo per stuzzicarsi più tardi. Adoperandoli in questo modo il suo stomaco non potè che protestare, ma la vendetta era più forte, specie dopo tutto quello che gli era capitato –Macchè, così dovrei attraversare pure il settore dei videogiochi e figurati se con la mia fortuna non incontro il vero Kid Icarus. Oltretutto è quasi certo che finisco in faccia a un altro della Lucas Force andato a coccolare l’Hollow Knight o chi sa chi.

    Si fermò un momento. A chi garbava Hollow Knight? Ecco, un’altra informazione persa nella sua memoria. Certo che si ricordava poco dei membri della Lucas Force. Si poteva quasi dire che non ne facesse parte. Scacciò quei pensieri.

    –E dall’altro lato? Peggio, ci hanno messo il settore degli orrori cosmici e sarò pure malfidato sulla sicurezza offerta da Gyber ma non voglio che la mia anima venga consumata dal Gabibbo.

    Continuò a verificare. La mappa presentava la villa come un’arnia d’api e la similitudine gli fece prudere la punta del naso al ricordo della puntura. Era penetrato abbastanza che solo un anello di settori lo separava dal corpo principale della villa, dove sperava di infiltrarsi, ma date le condizioni forse sarebbe dovuto tornare indietro, ma così facendo avrebbe reso vani gli sforzi fatti finora.

    –Uh?– Sentì un colpo d’aria fredda carezzarlo fra le cosce e il fatto che fosse ancora bagnato dal tuffo di prima non rese meno sgradevole la situazione. Buttò un occhio all’orlo della tunica e la vide, stretta contro le gambe sul davanti, alzarsi del tutto a formare una campanellina alle sue spalle. “Piuttosto inopportuno questo vento”, pensò fra sè e sè, afferrandone il bordo centrale e cercando di abbassarla, notando una sorprendente resistenza. Strattonò un altro po’. “E pure piuttosto tenace”. Però era strano che i suoi capelli non fossero buttati indietro allo stesso modo. Girò il capo a verificare. La veste non ondeggiava, bensì cadeva a peso morto, non gonfiata dal vento, tenuta sollevata solo da… Una mano? Forse era più un acrobata che un lottatore, ma, girando sul tallone piantato a terra, riuscì a piantare l’altro sul viso di chiunque lo stesse ammirando senza consenso. Credeva di colpire una persona accucciata e invece era proprio bassa di suo. Quello che aveva tutta l’aria di essere un ragazzino di dieci anni se ne stava lì, con il viso spremuto sotto la sua suola a reggere ancora il lembo del vestito come niente fosse.

    –Ti spiace?– Provenì una voce soffocata –Non riesco a vedere così.

    Cladzky sgranò gli occhi e saltò indietro, liberandosi dalla presa e abbassandosi l'orlo con le mani, giusto per essere sicuro. Il ragazzo, impassibile nei gesti del corpo, alzò le braccia al viso e prese ad estrarre la faccia dal buco in cui era stata sepolta in sè stessa. Finito il processo con il rumore di una bottiglia stappata, l’infiltrato si trovò davanti il volto di un bambino dalle fattezze innaturalmente tenere, dalle guance paffute, il nasino all’insù e ciglia lunghe, con due sopracciglia ancora più esagerate, tanto da crescere oltre la fronte e protendere dalla testa come antenne. Già questo lo avrebbe caratterizzato abbastanza, ma aveva indosso una veste rosso sangue, cinta da un cinturone, chiuso in un mantello spillato più scuro della notte nel quale erano immersi e coronato da un malmesso cappello da strega. Agitò un bastone imperlato sulla sommità con aria delusa.

    –Ma tu sei un maschio!– Si lamentò quello, sbattendo, appena deluso, un piede trasparente a terra.

    –E tu un pervertito!– Strofinò i denti Cladzky. Certo, dopo anni di visione se lo sarebbe dovuto aspettare che, nel settore anime, camminare in giro con una gonna così corta avrebbe generato, per pura statistica, situazioni di fanservice, ma l'idea di essere un maschio lo aveva forse indotto a credere che non gli potesse capitare di essere violato in quel modo.

    –Ti sbagli– Soggiunse il cappello stesso dalla cima di quella folta chioma rossa, aprendo due occhi strabici e una bocca puntellata di denti storti per tutta la circonferenza del tessuto, alzando e abbassando la sommità separata per parlare, sotto lo sguardo di Cladzky offeso da così tanta caocità –Lui è Enma-kun!

    –No, ha ragione– Intervenne la voce spettrale di un individuo invisibile. Più veloce del pensiero, un coppino impressionante livellò di qualche centimetro Enma-kun, lasciandogli la stampa di una mano e facendogli molto più male del calcio precedente. Si materializzò presto una ragazza dal nulla, poco più alta, vestita d’un kimono bianco quasi quanto la sua pelle di ghiaccio. Soffiò una brezza gelata sul palmo ancora fumante e se lo passò fra i capelli azzurri, aggiustandosi una spilla a forma di teschietto –Sei proprio un pervertito.

    –Scusami Yukiko– Tentò di spiegarsi il rosso, abbassando le antenne in segno di sottomissione –Credevo fosse una yuki-onna come te.

    –Ti sembra una scusa?– Esclamò lei nel menargli stavolta un manrovescio tanto forte da spostargli la bocca.

–Non dimenticare la missione di tuo zio– Si premurò di ricordargli il cappello costantemente ghignante –Siamo qui per vigilare sugli yokai di questa dimensione.

–Non l'ho dimenticata, Chapeu-jii– Enma-kun dovette stringere la visiera del cappello e tenersi saldo per far smettere la testa di vibrare –Per questo ho avuto il dovere di controllare se lo fosse.

–Beh, spero che la bella vista ti abbia quantomeno convinto del contrario– Annodò le gambe Cladzky, sempre meno contento del vestito che aveva rubato.

–Non saprei, la visione è stata piuttosto breve– Il principe dei demoni si strofinò le mani guantate fino al gomito, sbavando e contraendo le antenne in linee spezzate dall'eccitazione. Cominciò ad avvicinarsi a piccoli passi agitando le dita in maniera serpentina –Che diresti di mostrarmele un'altra volta?

Cladzky arrossì, arretrando fino a sbattere con la schiena contro un albero e lo avrebbe scalato non fosse intervenuta la ragazza una seconda volta, prendendolo per l'orecchio e torcendoglielo.

–Freddo, freddo, freddo!– Gemette Enma-kun sotto la torsione di quelle dita unghiate, mentre uno strato di ghiaccio andava a ricoprire il padiglione. Cladzky aprì la bocca per ringraziarla ma gli uscì un monosillabo stridulo, avendo modulato il tono appena prima per urlare all'aggressione. Si tappò la bocca imbarazzato e riprovò.

–Graz…

–Cosa credi, che lei sia più carina di me?– Lo ignorò la principessa delle nevi, rimbrottando ancora il suo più basso compagno, togliendo la morsa dal suo orecchio con il rumore di vetri infranti allo spezzare del ghiaccio. "Ecco", si disse Cladzky, "Ci mancava solo che fosse sciroccata anche lei". Ma da dei personaggi scritti da Go Nagai che ci si poteva aspettare di meglio?

–Che lei sia una yuki-onna o meno lo appureremo dopo– Si leccò i baffi Chapeu-jii, dondolando da sopra la testa del ragazzino e portandosi in avanti, indicando con la sua punta il chōchin-obake assonnato, tirando per i capelli il proprio padrone –Ora bisogna catturare l'esemplare per cui siamo venuti.

–Hai ragione– Enma-kun si passò il dorso della mano sui lati della bocca, prima di mostrare un sorriso fatto di zanne. Diede una breve occhiata all’infiltrato, prima di correre addosso la lanterna vivente –Tu stai dove sei.

“E tu stai fresco” Si disse Cladzky, allontanandosi lentamente in punta di piedi, con un occhio sempre sulla battaglia. Il chōchin-obake, ancora intento a masticare pigramente, levò lo sguardo verso lo scalpiccio degli stivali di Enma-kun, evitando un fendente del suo bastone per un soffio che finì per troncare in due un albero.Provò a levarsi in aria, solo per essere seguito in volo dal demonietto, avvolto nel suo mantello di pece. Lo yokai, scombussolato nel volo a ogni colpo mancato per via della leggerezza della sua carta consunta, infine spalancò la bocca, esibendo il suo fioco mozzicone di candela, per ravvivarlo d’un colpo tanto forte da emanare una vampata di fuoco nella direzione di Enma-kun, investendolo in pieno.

–Scusate il ritardo, cosa mi sono perso?– Chiese un kappa, sfinito dalla corsa, appena giunto sul posto, prima di essere avvolto anche lui dalla fiammata. Quando l’inferno si diradò nell’aria lasciando un’atmosfera di zolfo, tizzoni e fumo, Enma-kun si mostrò mummificato nel suo stesso mantello. COn un movimento brusco si liberò buttandolo all’aria.

–E questo lo chiami fuoco?– Sghignazzò –Nulla che il nipote del re degli inferi non possa sopportare!

–Beato te– Esclamò il kappa ridotto a una cotoletta di rana impanata.

–Tranquillo Kapperu– Gli fece l’occhiolino il ragazzo rossiccio, roteando il bastone fra le dita –Finché ci sono io non hai nulla da temere da quest’essere.

–Mecojoni– Annuì Kapperu nell’antico dialetto di Edo, sturandosi della cenere dall’orecchio.

–Attento!– Lo richiamò all’attenzione Chapeu-jii, senza riuscire a evitare al proprio padrone di essere incornato dallo yokai a testa bassa ed essere abbattuto dallo spazio aereo, spedito addosso al suo amico anfibio.

–E tutto questo sta accadendo nel giardino di Gyber– Dovette ricordarsi Cladzky, spegnendosi con due dita una fiamma in cima i capelli castani, sfiorati dalla vampata precedente che aveva evitato per miracolo buttandosi a terra –Improvvisamente l’idea di attraversare il settore degli orrori cosmici non sembra poi tanto male. Adesso torniamo indietro e troviamo degli Scooby Snacks da offrire in sacrificio a Shaggy per il passaggio, forse è più facile.

A gattoni proseguì la sua fuga silenziosa, sempre osservando i due membri della Yokai Patrol gestire la situazione in maniera poco egregia, con Kapperu che mordeva la sommità della lanterna animata nel tentativo di aiutare Enma-kun, che veniva strozzato dalla lingua del mostro. Era così preso dal conservare il suo basso profilo che non si rese conto di infilare la testa in un paio di gambe. Alzò il mento e nell’imbarazzo si rese conto di non poter vedere la faccia a cui appartenevano, ma la visione di quel kimono dal basso fugò ogni dubbio.

–Scusate, stavo giusto levando il disturbo– Emise un risolino che finì per strozzarsi in gola quando si rese conto che la stretta di quegli arti inferiori si era chiusa sul suo collo.

–Sbaglio o ti era stato detto di non muoverti?– Si piegò a carezzargli i capelli Yukiko.

–Ma guarda, avrei delle commissioni a cui attendere…– Cercò di sibilare per via della mancanza di ossigeno. Quando la morsa si allentò, subito venne tirato su per il colletto dalla principessa delle nevi senza dargli il tempo di respirare.

–Cattivo, cattivo– Gli diede dei leggerissimi buffetti sulla guancia, prima di buttarlo con grazia contro il ramo di un albero con abbastanza convinzione da farcelo rimanere attaccato per un istante, prima di scivolare a terra senza però mai schiantarvici. Un lampo bianco, una sensazione di costrizione gelata e si ritrovò a penzolare dal ramo, legato da una catena di ghiaccio in una perfetta forma marziale di hojōjutsu, parallelo al terreno. La giovane yuki-onna gli si fece vicino, stringendogli il naso fra le nocche con un sorriso giocherellone –Ora fai il bravo e vedi aspettare il tuo turno.

–Giuro che appena scendo…– Mugugnò Cladzky cercando di liberare i polsi dietro la schiena, prima di essere zittito dalle sue fredde dita che gli si chiusero sulle labbra. Prima che se ne rendesse conto, uno strato di ghiaccio si era formato sulla sua bocca.

–Sei così adorabile quando ti arrabbi!– Chiuse gli occhi lei, mano sulla guancia e solleticandolo sotto il mento con l’unghia. Spasmò a quella terribile sensazione di riso involontario ma non potè fare altro che scalciare a vuoto. Peggio fu quando scese lungo il collo e poi ai fianchi, ma l’unica a ridere fu lei, perché lui poteva solo lanciare latrati smorzati al nulla da quel bavaglio assiderale. Infine, esausto, s’irrigidì come una torpedine per poi ricadere moscio con capo e gambe verso terra, lacrime agli occhi, così leggero nel cervello che pure l’anima gli scappava da quei polmoni bruciati dallo sforzo. Non ebbe una reazione neppure quando lei, divertita, gli assestò un’allegra sculacciata –Ma non sei in posizione da fare il maleducato.

“Perché sono nato?” Riflettè sulle alte sfere durante la sua esperienza extrasensoriale, ammirando il prato sotto di lui, dondolando lentamente avanti e indietro per il colpo “Perché sono circondato da pazzi vogliosi? Perché dio è così infame?”

–Eccoci, è stata una passeggiata!– Sopraggiunse la voce squillante di Enma-kun

–Chiamala passeggiata…– Fu quella flebile di Kapperu a unirsi, portando con sè un pungente odore di bruciato. Cladzky sollevò la testa verso i due, che si trascinavano dietro il cadavere accartocciato del chōchin-obake, lasciando una scia rossa sull’erba verde. Il principe dell’inferno fumava appena, mentre il suo compagno aveva quasi perso i capelli della sua chioma da frate tipico della sua specie da quanto era annerito.

–Padrone, ti era stato detto di catturarlo vivo!– Lagnò Chapeu-jii, saltelando indispettito sulla sua chioma.

–Mi sono lasciato trascinare dall’emozione– Alzò le spalle il ragazzo, prima di adocchiare la decorazione natalizia lasciatagli dalla compagna –Brava Yukiko, vedo che l’hai tenuta a bada.

–Ti dirò– Ragionò Kapperu, quando il suo compagno lo lasciò solo a trascinare il cadavere –A me non sembra proprio una yokai.

–Tantomeno una yuki-onna– Fece una smorfia offesa la ragazza.

–Tantomeno una donna– Aggiunse il cappello.

–Oh, insomma, nessuno è perfetto!– Gettò in aria le mani infastidito Enma-kun, camminando attorno la preda –Dopo una serata intera a cacciare mostri e fantasmi questa è una meravigliosa visione.

–Se solo si vedesse qualcosa– Si grattò la cima calva del suo cranio Kapperu –Abbiamo appena ucciso l’unica fonte di luce.

–Hai ragione– Il ragazzino millenario si fermò alle spalle dell’appeso, raggiunto dagli altri due. Senza più modo di vedere che stavano facendo, Cladzky cominciò a sudare freddo e non solo per le sue catene di ghiaccio. Dopo un minuto di silenzio sudò di nuovo, ma per la ragione opposta: l’aria si era fatta insopportabilmente calda, ma non uniforme. Annodò le gambe e inghiottì un fiotto di saliva. Qualcosa di rovente, per dirlo in maniera gentile, gli stava scottando il principio della schiena.

–Come ti sembra?– Chiese Kapperu.

–Non  sarebbe male come yuki-otoko– Osservò deliziata Yukiko.

–Prova ad avvicinarti, non vedo molto bene– Consigliò Chapeu-jii. Il pilota ebbe appena il tempo di farsi una mezza idea di quello che stava capitando che il fastidio si tramutò in dolore fisico. Era abbastanza sicuro che l’acqua bollisse a quelle temperature.

–Troppo vicino– Constatò poco dispiaciuto Enma-kun.

–Lo Yin e lo Yang– Osservò con stupida reverenza Chapeu-jii –Un supplizio simultaneo di ghiaccio e fuoco. Potremmo prendere spunto per un nuovo girone quando torniamo a casa, che dite?

Stufo del fine umorismo giapponese, con un colpo di reni, Cladzky riuscì a roteare  sull’asse della catena, ritrovandosi davanti il ragazzino con uno sguardo serioso, interrotto nel suo studio ravvicinato, a lisciarsi le sopracciglia fra le dita. Nell’altra mano ritrasse a sè il bastone, con la sommità di perla che brillava un arancio di fiamma, fonte di un calore soffocante e una luce da sirena.

–mfmmfgmfg…– Cercò di gridargli Cladzky da dietro la lastra sul viso, agitandosi nei legacci, prima di continuare per inerzia il suo lento giro. Dopo trecentosessanta gradi, tornò a fronteggiare il quartetto infernale e riprese –... e mfgmfgmfmg!

–È quello che dicono tutti– Sbadigliò Kapperu, grattandosi il guscio.

–Non lo so, devo dire che mi ha convinto– Sghignazzò Chapeu-jii.

–Sei ancora più un amore quando hai paura di essere violentato– Gli pizzicò la guancia Yukiko.

–Fermi un momento!– Scansò ambo i suoi compagni Enma-kun, buttandoli a terra, sopracciglia ritte come corna –Sento che sta cercando di dire qualcosa di importante.

Avvicinatosi al viso disperato dell’infiltrato, chiuse gli occhi, incrociò le braccia e le sue antenne saettarono in avanti, connettendosi con un rantolio di alta tensione alla fronte di Cladzky.

–Sento… Sento delle domande– Spremette le meningi il demonietto –Sì, io mi chiamo Enma-kun e quello è Kapperu, non una rana.

–Mi ha dato della rana?– Gracidò imperioso il kappa, saltando dalla rabbia –Questa è buona, kero-kero! Se io sono una rana lui è una yuki-onna!

–Sì– Proseguì il rosso, rispondendo a domande che sentiva solo lui –Noi siamo la yokai patrol e siamo qui per catturare gli yokai che turbano la pace di questa dimensione.

–In tutta onestà– S’intromise Chapeu-jii –Al signorino basta solo che ci sia da menare le mani.

–Come dici?– Sgranò gli occhi Enma-kun –Si trova all’entrata trentasette?

–Io comincio a credere che non conosca la telepatia e stia parlando da solo– Commentò Yukiko, prima di essere accecata da una vampata di calore che quasi la buttò a terra un’altra volta. Quando lei e Kapperu poterono riaprire gli occhi, abbracciati in quello spavento, videro la perla, sulla cima del bastone di Enma-kun, sfavillante fra il fumo, il loro prigioniero steso sul prato e la catena in schegge disseminate ovunque. Il principe si voltò verso i suoi amici, con un sorriso tanto malevolo da brillare nel buio rumorosamente.

–Il nostro amico ha detto di conoscere la locazione di uno yokai ben più potente di quelli che abbiamo affrontato sinora. Direi una preda… speciale.


***


Ge, Ge, GeGeGe no Ge...

Asa wa nedoko de, Guu guu guu

Tanoshii na

Tanoshii na

Obake nya gakkou mo

Shiken mo nanni mo nai!

Ge, Ge, GeGeGe no Ge...

Minna de utaou: GeGeGe no Ge…

    Kitarō canticchiò fra sè mentre sfogliava un documento dopo l’altro.

    –Massì– Sorrise, rendendoli al proprietario –Direi che è tutto in regola. Passi una buona serata.

    –Altrettanto– Alzò l’elmetto Norakuro, in libera uscita dal fronte –È dall’ultimo trasbordo dimensionale che voglio vedere come finisce Berserk.

    Il cane nero proseguì a scendere la scalinata e sparire per il lungo sentiero buio. Il guardiano del cimitero non se la sentì di dirglielo. Un altro personaggio gli toccò la spalla.

    –Mi scusi– Chiese il primo, biondo e occhi dolci, di un gruppo da nove vestiti in uniforme da parà e vestigiali sciarpe gialle –Io e i miei amici facciamo un salto dai vivi, dispiace?

    Kitarō li squadrò.

–Non saprei– Si pose un dito sulla lingua come a sentire l’aria –Quei vostri due amici mi sembrano sospetti.

–Sospetti noi?– Si risentì Chang Chang Ku, aka, Cyborg 006, rigirandosi i suoi baffetti.

–Sento odore di razzismo– Sbuffò Puma, aka Cyborg 008, alzando i labbroni esagerati per mostrare i denti.

–Non fraintendetemi– Mostrò i palmi il ragazzo della soglia –Ma il vostro design potrebbe urtare la sensibilità attuale, specie su Twitter. Meglio non farvi uscire dal vostro contesto storico.

–Ma se siamo il primo gruppo di supereroi multiculturale– Si battè un pugno sul petto Geronimo Jr., aka, Cyborg 005, deformando le sue pitture facciali per la smorfia d’offesa –Dovrebbero amarci.

–Che ti devo dire?– Scrollò le spalle e la testa Kitarō –Anche la principessa Zaffiro era considerata progressita una volta.

–E insomma non possiamo passare perché offenderebbe qualcuno?– Chiese Jet Link, aka, Cyborg 002, sollevando un naso a dir poco importante.

–Beh, le vostre intenzioni sono oneste però…– Esitò il ragazzo da un occhio solo.

–Ti prego– Fu la voce implorante di Françoise Arnoul, aka, Cyborg 003, aka, occhi di stella, reggendo fra le braccia il paffuto Ivan Whinsky, aka, Cyborg 001, stretto nella sua copertina a succhiare un ciuccio.

–Come puoi dire di no a una così dolce creatura?– Cinse le mani al cuore Bretagna, aka, Cyborg 007, mettendo in mostra le sue doti attoriali –Non vorrai far piangere il bambino?

–Oh, e va bene!– Sbuffò Kitarō –Ma non dite che vi ho fatto passare io, intesi?

Salutata anche la progenie dei Black Ghost, il guardiano dei cimiteri provò a canticchiare di nuovo, sbirciando per vedere quanto mancasse alla fine del suo turno. Abbassò la testa appena in tempo per sentire il fragore di una palla di fuoco detonare alle sue spalle.

–Kitarō, lo yokai più forte di tutti– Annunciò con una voce da grancassa Enma-kun, piombandogli addosso in volo con un martello infuocato, velocissimevolmente che a malapena Chapeu-jii si reggeva alla sua chioma leonina –Farai un figurone come trofeo in salotto!

–Tu?– Sgranò gli occhi il guardiano, saltando sulle teste delle statue Jizo e poi in cima al portale torii per schivare colpo su colpo –Credevo di essermi messo d’accordo con Kapperu per non farci incontrare stasera.

–Non avevo idea che questo tizio ci avrebbe condotto qui– Piagnucolò il povero anfibio, che reggeva l’ancora incatenato Cladzky sul guscio. Lanciò l’ostaggio alla principessa delle nevi che l’afferrò al volo e corse per separare i due –Tranquilla, ora ci penso io a separarli!

Yukiko osservò la successiva deflagrazione in maniera annoiata, reggendo il pilota come una sposa. Quando finalmente il contraccolpo smise di scuoterle il kimono bianco e spettinarle i capelli, il corpo mezzo arrostito del verde compare si schiantò ai suoi piedi.

–Li ho fatti stancare un po’, ora vai tu a finire il lavoro– Mosse la bocca impastata di terra Kapperu, prima di svenire del tutto. Roteando gli occhi per quella perdita di tempo, Yukiko lasciò cadere senza cerimonie la sua preda, per correre verso la battaglia.

–Quando capirai che non sono un tuo nemico?– Chiese Kitarō, incrociando i bastoni con il principe dell’oltretomba –Voglio solo che gli yokai vivano in pace.

–Non sotto la mia giurisdizione– saltò in un affondo Enma-kun, schivato con un salto dall’avversario, finendo per decapitare una delle statue in pietra. Prese la punta del bastone e la piegò come un fioretto, pronto a infilzare l’avversario –Altrimenti con chi mi diverto?

–Allora ti farò divertire– Urlò il guardiano delle pubbliche relazioni, mulinando per aria il suo chanchanko, fino a creare una tromba d’aria che soffiò verso il nemico della quiete pubblica. Questi afferrò la coda del ciclone speditogli con la perla della sua arma e lo fiondò indietro a sua volta con facilità, tramutandolo in una colonna di fuoco a spirale.

–Ascoltate, che ne direste se ci calmassimo tutti e…– Cercò di farli ragionare Yukiko, nonostante il fiatone, dopo aver scalato l’intero portale, prima di venire investita dal vortice di fuoco vagante, deviato da un colpo di Kitarō. Passato il vagone di fiamme, rimase carbonizzata in una figura annerita di cui si scorgevano solo due occhi basiti. Tossì per la cenere e subito i suoi vestiti si disintegrarono. Gli s’ingrossò la vena delle grandi sfuriate –Quindi è così che vogliamo giocare.

Si aggiunse anche lei al rissone, generando una baraonda di fulmini, tempeste, fiamme, pioggia e terremoti che neanche una battaglia Pokèmon. Cladzky ammirò sconcertato quelle figure mitologiche darsele di santa ragione prima di ricordarsi che era il momento di tagliare la corda. Si rimise in piedi barcollando, fortunatamente solo legato dalla vita in sù, e prese a correre come un matto verso l’ingresso del cimitero, calpestando la parte calva del povero Kapperu appena ripresosi nella foga. Giunse sotto il portale torii, ammirandolo nella sua scala gigantesca, prima di abbassare lo sguardo verso la distesa di nebbia infinita. Rabbrividì e non solo per le catene di ghiaccio. Ma in fondo Gyber si trovava dall’altro capo, no? E che faceva, tornava indietro? Già aveva infranto più leggi di quante ne potesse contare, a questo punto bisognava andare fino in fondo. Riprese a correre nella brughiera, sparendo nel nebbione, non sapendo che il peggio non era certo passato, ma ancora di là dal venire.

–Beh, è stato un piacere sprecare questi paragrafi– Si scusò Kapperu, sollevandosi, scuotendosi la terra di dosso e facendo un inchino modesto –Per rimediare vi dirò una barzelletta. Sapete cosa fa uno più cinque? Bah, ma che ve lo dico a fare, non parlate giapponese voi…


***


–Eccolo lì– Dz sgattaiolò fuori dal suo cespuglio, avvicinandosi alla figura mascherata. Non c’era nulla di meglio, dopo terribili ricordi di preoccupazioni e ansia sociale, che distrarsi incontrando uno dei propri personaggi preferiti. Dopotutto la festa serviva a questo vero? Non avrebbe mai potuto ringraziare Gyber abbastanza, pensò stirandosi il vestito regalatogli. Quatto quatto si avvicinò alle spalle di Spiderman. Che fosse Tobey Maguire, Andrew Garfield, Tom Holland o Nicholas Hammond poco importava, sarebbe stato meraviglioso in ogni caso. Venire al settore della Marvel era stata proprio una buona idea.

–Mi concede un secondo signor…

–L’emissario dell’inferno– Si voltò lentamente l’uomo ragno, facendo un backflip inutile e mostrandogli una mano pronta da stringere –Spiderman.

–Oh no– Lo assalì il dubbio. Subito si frugò nella giacca per estrarre la mappa, la spiegò in tutti i suoi metri quadri e la studiò per bene. Aveva sbagliato settore, era tornato in quello dei tokusatsu. Abbassò il foglio abbastanza per mostrare la faccia dispiaciuta –Scusi, l’avevo confusa per qualcun’altro. Ma posso avere un’autografo in ogni caso?

–Certamente– Esclamò quello allegro, estraendo una biro a sfera dal suo bracciale multiuso e scrivendogli Shinji Todō sul retro del foglio.

–Grazie infinite, ora devo andare– Sorrise, prima di ascendere al cielo.

–Vedo che hai fretta, non ti tratterrò– Lo salutò Spiderman, tornando a bere il suo caffè.

Dz ebbe mancò un battito a sentirsi sollevare così. Guardò sotto i suoi piedi e vide una cinquantina di metri di vuoto, abbastanza per osservare il tetto della villa. Essendo un kaiju non poteva soffrire di vertigini a quell’altitudine, dunque si voltò relativamente rilassato, pronto a incontrare Giuly. In tutta onestà temeva di interagire con lei visto quanto incazzata l’aveva vista minuti fa. Ma chi lo sollevava non era Giuly. Era molto peggio.

–Buongiorno– Gli ruggì in faccia la voce di Gabara, contraendo il suo viso disgustosamente gonfio di scaglie in un ghigno di incisivi.

–Posso aiutarla?– Balbettò preso alla sprovvista Dz, sentendo le unghie gialle del mostro tenerlo per il retro del completo.

–Puoi morire, per esempio– Sibilò una voce da rasoio al suo fianco. Gigan apparve nel suo campo visivo, ticchettando le sue mandibole e becco come ad affilarseli.

–Ascoltate– Sollevò le mani in maniera diplomatica il ragazzo, cercando di mantenere un atteggiamento spensierato –Prima di tutto vorrei ricordarvi che abbiamo salvato anche il vostro universo.

–E sticazzi?– Decantò Megalon, facendogli da specchio con i suoi occhi composti. Dz mandò giù un groppo di saliva.

–Secondo tutto oggi è un giorno di festa, non vorrete rovinare tutto?

–Oh, ma noi stiamo festeggiando– Rise Gabara, scuotendolo un poco e guardando gli altri –Vero ragazzi?

–Terzo tutto– Si annodò le dita Dz, tremando –Noi non ci siamo mai visti, perchè litigare?

–Perché sei un Godzilla– Gli puntò un titanico uncino alla gola Gigan, solleticandolo con il dorso della lama –Anche se non si direbbe.

–E questo porta al mio ultimo punto– Strinse i pugni e alzò la voce Dz, mettendo una mano sul braccio di Gigan nel vano ma simbolico tentativo di resistergli –Vi ricordo che sono un kaiju anch’io e pronto a combattere.

–E allora dimostralo– Lo sfidò Megalon, illuminando il suo corno di una minacciosa aura –Trasformati e facci a pezzi campione.

–Lo avete voluto voi– Serrò i denti Dz… Prima di ricordarsi che aveva indosso il completo di Gyber. Se lo avesse fatto lo avrebbe disintegrato. Si pentì per un momento di non aver preso quello di Big X, ma solo per un momento dato il ricordo di quell’obbrobrio. Alzò il mignolo –Mi dareste un momento per cambiarmi d’abito?

–Se ti dicessi di no?– Alzò un sopracciglio Gabara.

–Ricorrerei al piano B– Prese aria nei polmoni e lanciò un grido al cielo –Aiuto Spiderman!

–Quel ragazzo così elegante è in difficoltà– Alzò il capo stupito l’eroe, resosi conto dei tre mostri giganti lì vicino, una visione comune per lui in tutta onestà. Alzò il bracciale per le trasmissioni e impartì ordini al microfono –Marveller, cambio in Leopardon!

Il rumore di un motore immenso riempì l’aria e subito seguì una botta da tamponamento. Marveller era lì davanti in cielo, ma immobile.

–Temo di aver parcheggiato la mia vettura fuori dalla vostra barriera– Notò Spiderman, per poi correre via –Temo che questo esuli dalle mie capacità ragazzo, buona fortuna.

–Ti ci hanno già mandato a fanculo?– Sospirò demoralizzato Dz, prima che la seconda mano di Gabara gli si chiudesse sopra, appallottolandolo.

–Non perdiamo ulteriore tempo– S’incamminò verso i limiti del settore –Mettiamoci in un posto tranquillo e finiamo il lavoro.

E procedette a ridere, seguito da Gigan, ma non da Megalon, che stette a guardare gli altri due ridere per lui. Perché, come già detto, non era nel suo stile.

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Capitolo 12
*** Fantasmi di un tempo perduto (Seconda parte) ***


    Un battito di denti emerse dalla nebbia, seguito, subito dopo, da un ragazzo avvolto in un succinto chitone e catene di ghiaccio celeste, fino a sparire di nuovo nei banchi di bianco cotone. Era convinto che, prima o poi, quei legacci si sarebbero sciolti da soli, ma, nonostante la temperatura ambiente fosse nella norma primaverile, la sua pelle era tutto meno che bagnata d’acqua e né si era allentata di un poco la morsa; pareva d’essere stretti da ferro vero e pure gelido al contatto. Strofinò il collo contro le spalle per generare attrito sufficiente da combattere quel freddo che gli attanagliava la gola, rendendogli dura recuperare il fiato per correre, mentre ancora i polsi si rigiravano in pugni serrati ma impotenti, premuti sulla zona lombare. Più il sudore aumentava e più quella sensazione soffocante di assideramento andava a farsi pungente. Infine andò a buttare la schiena contro un albero, grattandosi come un orso, raschiando la corteccia con quel materiale.

    –Maledizione a me e quando ho deciso di tornare sulla terra– Quantomeno il bavaglio si era rimosso. Non perché si era sciolto, ma perché era venuto via come una ceretta, portandosi via quei tre peli che aveva in faccia e lasciando un marchio bruciante di pelle strappata –Maledizione a Mark per avermi lasciato, maledizione a me due volte per finire sempre in queste maledette situazioni senza la supervisione di uno come lui e maledizione a lui ancora per farsi venire queste crisi esistenziali quando già ho i miei cazzi per conto mio– Interruppe lo sfregamento per tastare con le dita i legacci, ma non si erano neppure scheggiati. Perfetto, considerò scrutando nei bancali di nebbia marmorea senza vedere nulla oltre la vaga ombra dell’erba; si trovava nel posto più pericoloso della villa di Gyber, a detta di Kitarō quantomeno, ed era pure legato come un salame dalla cintola in sù.

    –Lo avrà detto solo per spaventarmi al fine di farmi desistere– Indugiò sull’erba alta, un lento passo dopo l’altro, guardandosi più alle spalle che davanti a sè. Lo strusciare delle graminacee sulle ginocchia non aiutò la sua schiena a smettere di formicolare. Solo bianco dappertutto. Un paio di passi e anche l’albero su cui si era adagiato svanì inghiottito. Aveva corso in linea retta sinora, ma ne era poi tanto sicuro? Dove diavolo era l’entrata numero trentasette? Era troppo tardi per tornare indietro di corsa e ritentare l’approccio alla villa da un’altra parte? Ridicolo, si disse scuotendo i capelli, ormai si trovava a sì buon punto che tornare indietro sarebbe durato più che proseguire all’uscita. E se il cimitero fosse più grande di quello che credeva? Se si trovasse a ben prima di metà tragitto? Dopotutto non aveva ancora incontrato anima viva. Tirò su col naso. Che battuta idiota. Comunque, chi gli diceva che stava andando nella direzione giusta? Nessuno a quanto vedeva. Senza punti di riferimento stava bel che girando intorno a quanto ne poteva sapere. Ma, punto ancor più importante, anche ammesso che fosse uscito da quel labirinto fatto di mura fluide, che figura avrebbe fatto a vagar per la festa conciato come una bobina di spago? E come avrebbe potuto, oltretutto, conciar a sua volta il resto della Lucas Force, se aveva, letteralmente, le mani legate? Oh beh, si disse, coi pugni non era mai stato un fenomeno. Voleva dire che avrebbe preso a calci rotanti tutti quanti. Si mise a ridere da solo per la scena assurda, ma ecco che si drizzò e mosse per darsi uno schiaffo, ma trovandosi impossibilitato. L'ora tarda, le botte, la stanchezza e la mancanza di cibo lo stavano facendo impazzire. Trovava sempre più difficile concentrarsi e ormai il raziocinio gli si illuminava a sprazzi, come in quel momento. Ma insomma, si era imbucato a una festa a cui non era stato invitato. Se già questo era sintomo di una pessima amicizia, l’avessero scoperto, questo avrebbe deturpato del tutto i loro rapporti. E lui non voleva che venissero deturpati, vero? Vero? In verità, anche pensandoci a lungo, la voglia di deturpare le loro facce pareva un’alternativa decisamente più allettante, nonostante i momenti felici che avevano trascorso insieme. Per esempio… Per esempio? 

D’accordo, la faccenda doveva essere affrontata. Possibile che non si ricordasse nulla di nessuno? Non faceva parte della Lucas Force dopotutto? Cioè, li conosceva ormai da anni, avevano pure lavorato insieme… Perché aggiungere “pure”? Non doveva essere scontato dato il loro rapporto? Forse stava impazzendo. Aveva bisogno di una prova e ce l’aveva giusto in tasca. Ecco, doveva solo prenderla e… Ah, già.

–Serve una mano– Notò una voce, senza l’ombra di un punto interrogativo.

Trasalì in maniera scomposta, voltandosi subito dopo dall’altra parte, accigliato e pronto allo scontro. Si ritrovò davanti un uomo, il che era un sollievo dato che si aspettava chissà quale bizzarra bestia. Certo, se non era uscito dal cimitero, era probabile che fosse uno di quegli esemplari di dimenticati pericolosi al punto da dover restare confinati. Lo squadrò dalla punta dei capelli scuri e mossi in dolci punte, fino alla pianta dei piedi. Non aveva nulla che gridasse al pericolo addosso, ma neanche il bamboccio di prima dava avvisaglia di essere un maniaco sessuale dal solo aspetto. Parlando di aspetto, Cladzky aspettò a rispondere, perdendosi con gli occhi in quegli strani ghirigori che l’individuo aveva sulla giacca, ben troppo formale per una festa degenerata come quella. Quei disegni non restavano fermi, ma in continuo mutamento si muovevano come una finestra su un piano in parallasse. Forse era solo un’illusione ottica, ma, priva di ombre, la superficie di quel tessuto abbottonato, pareva proprio una via lattea intrappolata sul velluto. Alzò un labbro tornando a dargli un’occhiataccia.

–Dipende– Gli mostrò la spalla fredda, con le gambe pronte a scattare nella direzione opposta, almeno quando avrebbero smesso di sbattere le ginocchia –Puoi disfarmi di codeste catene?

–Temo non rientri nelle mie possibilità– Gli sorrise l’altro con una smorfia amorevolmente da stronzo. Stufo anche di mettersi in mezzo a una rissa, Cladzky sbuffò e si voltò di scatto, dando un colpo di anche all’aria giusto per chiarire gestualmente il suo disappunto.

–Allora sto una favola. Fammi almeno il favore di non ridere, perché non v’è motivo– Chiuse gli occhi stizzito, allontanandosi, prima di essere fermato da uno strattone. Corrugò la fronte –E neppure di trattenermi!

–Non mi permetterei mai– Lo sorpassò l'individuo, passandosi le nocche sul petto per soffiarsele. Incrociando gli occhi, Cladzky provò un altro passo, ma ancora qualcosa lo ancorava. S’adocchiò oltre le spalle e vide il lembo del vestito piegare il ramo di un roseto cui si era impigliato. L’uomo dagli occhi di cioccolata si piegò in avanti, braccio dietro la schiena e l’altro piegato sotto il petto, mano aperta a offrire assistenza –Serve una mano ora?.

–Indietro, faccio da solo– Gli sibilò contro con uno scrollo di spalle, prima di mettersi in equilibrio su una gamba e riuscendo a usare l’altra per colpire di tacco il pesante gambo spinato, staccandolo. Dopodiché fu lui a piegarsi in avanti e sollevò il viso all’interlocutore per fargli la linguaccia, appena prima che il ramo tornasse indietro di rinculo per lasciargli una striscia rossa lungo l’estremità che aveva esposto al roseto. Si sospinse in avanti dalla frustata, finendo tra le braccia dell’uomo ch’era la maschera del sardonico.

–E ora?– Lo reggeva dal cadere.

–Ora cosa?

–Ho motivo di ridere?

–Levami le mani di dosso o ti darò motivo di piangere.

–Come tu vuoi– E lo lasciò cascare in avanti, senza manco poter usare le mani per parare la caduta.

–Tutti a me i lunatici devono capitare– Mormorò, sputando dei fili d’erba, riuscendo a rialzarsi adoperando le ginocchia, per poi pugnalare l’uomo dalla voce effervescente di buon vino rosso con gli occhi –E non guardarmi il culo. È dura muoversi con questo straccio addosso.

–E ci credo, è stata cucita per un tredicenne– Camminò tranquillamente a vuoto la persona dalle labbra di miele, annusando le rose ancora scosse con il suo nasino di cera –Perché la indossi?

–Perché si dia il caso che è mia questa veste– Levò il muso sdegnato, alzando la cresta castana.

–E tu saresti…?

–Che, non si capisce?– Raspò un sandalo a terra, quasi lo volesse caricare –Sono Kid Icarus e mi andava di fare un giro.

–Seh, vabbè, e io mi chiamo Lelq.

–Che, davvero?– Sgranò gli occhi Cladzky. Eppure quel viso non gli diceva nulla.

–Certo che no– Si afferrò la base del naso fra le dita –Come tu non ti chiami Kid Icarus. 

–Ma insomma, saprò come mi chiamo!– Fumò Cladzky, stanco di quel damerino.

–Quello è il nome del gioco, il protagonista si chiama Pit. Bel cosplay però.

Cladzky si azzittì, bocca semiaperta. Forse il fatto di non dover più sostenere una falsa identità gli aveva levato un botto di ansia di dosso, solo per gettargliene addosso altrettanta. Era un membro dello staff pronto a buttarlo fuori? Non sembrava vestito come tale. Ma se non lo era avrebbe potuto benissimo avvertire altri della sua intrusione. Aveva capito che si era imbucato alla festa? Provò a studiarlo meglio. Tutta quella nebbia rendeva difficile stabilire se fosse trasparente o meno, perché non c’era uno sfondo che potesse vedergli attraverso, ma se si trovava lì significava che per forza doveva far parte di quella schiera di dimenticati, anche se l’aspetto da personaggio di un anime non l’aveva proprio. Che fosse uno pericoloso o meno non era chiaro, ma certo aveva un comportamento poco onesto nei suoi confronti. Lo stava prendendo in giro o gli nascondeva qualcosa? Perché questo interessamento?

–Ma come hai…

–Gioco spesso a Smash Bros– Fu la laconica risposta, intanto che andava a stiracchiarsi e controllare l’ora. Erano le due passate.

–Tu vuoi dirmi qualcosa o saresti già girato al largo– Gli si avvicinò contro, petto contro petto, a respirargli in faccia –Taglia il dramma e sentiamo che hai di così importante da riferire.

–Piano, piano– Si tirò indietro quello, spolverandosi gli abiti e rassettandoli, per poi puntargli un indice a sfiorargli il naso –Ammetto che ti stavo cercando.

Fece in tempo a togliere il dito che i denti del pilota si chiusero sul vuoto.

–E tu chi diavolo saresti?– Sbraitò, correndo a inseguirlo. Quello saltellò come un bianconiglio dietro il roseto –Non ho mai visto il tuo brutto muso da nessuna parte.

–Adulatore– Rise beffardo, correndo intorno il cespuglio, tallonato dall’imbucato –È una fortuna che non ci siamo mai visti. Io appaio solo a quelli messi male.

–Grazie per i complimenti– Cladzky fermò la sua giostra disutile e prese la rincorsa –Ma la tua sfortuna è stata incontrare me.

Corse e saltò a piè pari tutto il roseto, sorprendendo l’uomo dalle mani di seta, che rimase a guardare pietrificato, dall’incredulità, quella suola di sandalo atterrargli sulla guancia in un calcio volante laterale. Presto due corpi caddero a terra, uno disteso a coprirsi la testa, l’altro a saltellargli sul dorso in pestoni.

–E ora tu me lo dici, mortacci dei rimortacci tuoi, chi sei e che vuoi da me!

–E te lo dico sì, ma tu scrollati di dosso!– Lo implorò a fatica l’altro, con i polmoni schiacciati. Infine si sollevò di colpo, facendogli perdere l’equilibrio e mentre cascava si allontanò in fretta, massaggiandosi la guancia. Cladzky si rimise in piedi con un colpo di reni da quanto era incazzato.

–Se provi ancora a fare battute, o a comportarti da scemo, ne pigli un altro di calci in faccia– Lo ammonì, mettendosi in posa da lottatore di sumo, gambe divaricate –E non scappare.

–D’accordo, la smetto di fare il misterioso, se questo basterà a mandare avanti la trama– Sputò un fiotto di sangue a terra, dove prese a fumare sfrigolando. Cladzky se ne sarebbe dovuto stupire, ma ormai tutto sembrava possibile in quel mondo demente –Sappi che io sono qui per avvisarti. Stai per ricevere la visita di un numero indefinito di spiriti.

Cladzky si ritrasse confuso, per poi mettersi a contare con un occhio chiuso e la lingua dra i denti dallo sforzo.

–Ma scusi signor Marley, non erano tre gli spiriti?

–Non chiamarmi Marley– Si offese –Anche se in teoria potresti riferirti a me comunque tu voglia. Ma Marley nello specifico no, mi fa ricordare un film tristissimo. Inoltre siamo fuori tempo massimo per i riferimenti al Canto di Natale.

–In effetti l’inverno è ormai finito– E per fortuna, considerò, strusciandosi le cosce nude –E con spiriti intendi gli abitanti di questo loco ameno?

–Ti trovi nella zona giusta, d’altronde.

–Bah, bubbole!– Gli voltò le spalle Cladzky, intrecciando le dita –A me sembri solo un mitomane ubriaco. Sai pure di vino.

–L’hai notato? È il mio profumo.

–Insomma, tu arrivi da un tizio a caso nel bel mezzo di un cimitero e lo metti in guardia che verrà visitato dagli spettri a breve. Pensi di essere l’unico capace di sparare boiate? Senti qua. Ti predico che, entro mezz’ora, ti si staccherà il cazzo come un ghiacciolo a meno che non mi spari una sega. Piacere, mago Merlino, di tariffa fanno venti euro, IVA esclusa. Vuoi pure i numeri del superenalotto?

–Oh, non fare il bambino, Cladzky– Si coprì un risolino con le sue dita così ben sciolte. S’irrigidì.

–E tu come conosci il mio nome?– Sbiancò, specie a sentirlo pronunciare con una dizione impeccabile, cosa assai rara. Fece un passo indietro –Dio mio, sei un sicario della Ford, vero?

–Se così fosse saremmo già in viaggio per svenderti alle miniere di zircone nello Zimbabwe.

–Meno male, credo– Si sarebbe voluto asciugare la fronte il ragazzo, per poi incupirsi –Ma rispondi alla mia domanda.

–Io sono uno che appare sempre quando l’uomo è troppo simile a dio e quando dio è troppo simile all’uomo. Sono qui per rimettere equilibrio e dividervi, per il benestare di tutti gli altri.

–Dividerci? Io e chi altri?– Alzò un sopracciglio indagatore, inclinando il capo e mettendo il broncio nell’avere più interrogativi che risposte.

–Tu e lui– Allargò le braccia l’uomo dalle fossette adorabili –Il tuo creatore.

–Ti informo che sono ateo.

–Non riesci a vedere oltre il tuo naso allora, ma chi ti è troppo vicino sa a che parlo di lui.

–Io ti ho fatto una domanda– Strinse i pugni Cladzky –Non ti ho chiesto una lezione di teologia!

–E io ti ho dato una risposta!– Incrociò le braccia l’uomo di galassia vestito –Sono la forza che porterà a compimento questa storia sin troppo lunga, risolvendo il conflitto di personalità con la distruzione del tuo spirito, di modo che dio non possa più specchiarsi in te e ritorni al suo ruolo di creatore di materia, altra materia.

–Ohi, frena lì!– Lo interruppe Cladzky, guardandolo storto –Quale spirito vorresti distruggere te?

–Chetati– Gli agitò l’indice in negazione l’uomo dagli sfavillanti, per poi porselo alla tempia e bussando con il polpastrello, invitandolo ad aprirla –Tu non sai come funziona il multiverso.

–Chetati tu, voi e i vostri segreti del cazzo– Sbraitò, con il latte alle ginocchia –Non so come funziona il multiverso, non so cosa sia di preciso questo cimitero e tantomeno le tradizioni di api antropomorfe, quindi vedi di spiegarmi tutto per filo e per segno e spera che si tratti di qualcosa che mi importi o i prossimi coglioni a rompersi saranno i tuoi per pura forza cinetica.

–Ti stavo giusto dicendo: tu non sai come funziona il multiverso. Distruggerò in senso laterale il tuo spirito, ma rinascerai alla fine del processo, almeno spero.

–Speri?

–È l’unico modo per staccarti dio di dosso.

–Che fa, mi stalkerizza?– Si voltò di scatto come giocasse alle belle statuine.

–Dio si è troppo appassionato alle tue vicende, al punto da immedesimarsi. Lui vuole essere come te, ma non riesce e dunque rende te come lui, un essere mediocre.

–Piano con i complimenti.

–Ma io gli darò ciò che vuole. Finora lui ti ha usato come armatura per esprimere sè stesso senza esporsi mai davvero, ma io lacererò questo velo. Tu sarai il respiro attraverso il quale spifferi del suo spirito più insondabile spireranno in spire a confrontarlo. Egli si risveglierà dal suo sonno ottenendo proprio ciò che vuole, stimoli dal suo vessillo, ma non più palesati a lui solo per disonesta dissimulazione, bensì alla luce del sole perché gli altri suoi simili possano assistere alla sua nuda forma..

–E adesso di chi altri stai parlando?– Ebbe voglia di grattarsi i capelli al veder la situazione complicarsi.

–Di coloro che si nutrono della materia del tuo creatore, questo è il suo ruolo. Ma la sua fonte è malata dal vostro rapporto, ristagna della solita solfa. Essi si allontanano, non più ristorano da lui ma ad altri lidi attingono sostentamento e il tuo dio rimane solo nel vuoto e così rimarrà finché inseguirà loro, staccandosi dall’affetto tossico che nutre nei tuoi confronti.

–Io non ci capisco più niente– Gridò ai quattro venti Cladzky, pestando i piedi a terra –Ma tu chi diavolo sei?

–Io sono il dio del tuo dio– Declamò a voce non alta ma sicura l’uomo dalle unghie ben limate, sistemando le gambe in una posa a chiasmo, mentre alzava un braccio a lisciarsi il collo –Sono la sua coscienza se vuoi vederla in questo modo.

–Ecco, non la mia e allora vai da lui, non rompere i coglioni a me– Agitò insofferente il bacino e relativa gonnella non potendo mordersi le mani. I discorsi complicati lo mandavano in bestia. Era uno dei motivi per cui lui e Mark litigavano così spesso. Si finiva sempre per non capire dove stava la vera informazione e la presa per il culo e questa aveva tutta l’aria di esserne una.

–Ci sono già stato– Scosse la testa il ragazzo dai denti bianchi –Ormai da molto tempo provo a convincerlo, ma non funziona. Allora non mi rimane altro da fare che raggiungerlo in maniera più indiretta, attraverso te.

–Ma gli dei non sono onniscienti?– Provò a reggergli il gioco per vedere dove sarebbe andato a parare –E allora come credi di poterlo sorprendere? Se è lui che stabilisce la mia vita ha stabilito anche tutto questo, vero?

–Io l’ho convinto a fare tutto ciò– Specificò indicando il cielo –Perché sa che ogni mia azione è giusta.

–E addio effetto sorpresa.

–Non serve. Lui sa di avere un problema, vuole farsi aiutare, ma non ne ha mai avuto il coraggio, perché avrebbe significato distaccarsi da ciò che ama per raggiungere un piano superiore. Ma ormai l’ho tarlato abbastanza per raggiungere un compromesso. Se ci tiene che tu sia il suo vessillo sperimenterà in seconda persona che mostruosità ha creato.

–Io ci rinuncio a capirci qualcosa– Alzò le mani Cladzky, per poi ricordarsi di essere ancora legato e le rimise a posto –E se tu sei il dio del mio dio vuol dire che sei più forte di un dio normale.

–In un senso metafisico sì.

–E allora perché non mi meta-liberi da questa catene visto che sei così forte?

–Perché io posso influenzare la storia, non farne parte.

–Bella scusa per non muovere il tuo meta-culo– Mosse il labbro in un ringhio –E questi spiriti che dovrei incontrare cosa sarebbero?

–Difatto personaggi dell’animazione giapponese bella che dimenticata, ma questo è solo perché il tuo dio non è capace di fare nulla di nuovo ultimamente, dunque ci siamo accordati per questo riciclo per far sì che questo evento fosse possibile.

–E io li devo incontrare per forza o appena li vedo posso saltare a più pari?

–Se tu li saltassi– Lo puntò il dio degli dei –O meglio, se il tuo te lo permettesse, la lezione non verrebbe imparata e tu finiresti come loro.

–Loro chi?

–I dimenticati– Chiuse il pugno il ragazzo dalla vita stretta.

–Come sarebbe a dire?– Saltò Cladzky –Vuoi dire che questo universo…

–Non l’universo. Tu solo spariresti.

–Vuoi scherzare!– Chiuse i denti –Quindi tutto il processo spiegatomi da Kitarō era una boiata.

–Non una boiata, una semplificazione, perché neanche lui conosce del tutto come funziona il multiverso– Si ricompose il ragazzo dal passo leggero e senza rumore –Si scompare solo se si viene ignorati dagli dei esterni, ovvero quelli che si nutrono della materia del tuo dio sopracitato. Quando nessun dio esterno si approvvigiona più a questo mondo, il mutuo scambio si interrompe, ma mentre lui può trovare sostentamento altrove, per te è finita giacchè la linfa vitale dell’interesse finisce. Di norma gli dei creano universi per i loro personaggi, ma, nel tuo caso, non lo ha fatto, inserendoti di sproposito in quelli di altri dei. Non c’è da stupirsi, dunque, se tu sarai il solo a sparire. Tu sei il tuo piccolo universo.

–E per me tu sei un contaballe professionista.

–Io non so più come convincerti, ma se il tuo dio vuole renderti scettico così sia. Forse riflette la sua stessa incredulità a questo processo.

–Un modo per convincermi ci sarebbe– Sorrise Cladzky, lascivo –Fatti più vicino.

–Bah, se è così che vuole lui…– E gli si fece accanto.

–Tendi l’orecchio, è un segreto.

–Non esiste segreto ch’io non conosca, dimmi solo quale– Tese l’orecchio alla bocca, spalancando il padiglione con la mano. Un suono di cracker belli croccanti risuonò per il cimitero. Scioccato, l’uomo dal mento liscissimo cadde a terra, reggendosi il polso della mano morsa.

–Ma ti sei bevuto il cervello?– Gli gridò contro, agitando le dita insensibili, già illivididte.

–Scusa, il mio dio me lo ha fatto fare– Si scompisciò Cladzky tanto da chiudere gli occhi e piegarsi in due. Si sarebbe sbattuto la mano sulle ginocchia –Alle volte gli sale lo sghiribizzo e gnak! Atti di violenza innecessari. A lui fanno ridere, sai com’è fatto meglio di me. Dovevi vedere prima: Uno scontro fra demoni privo di contesto. Chi ci capisce qualcosa di questo macello è bravo.

–Tu credi di scherzare– Si rimise in piedi, per poi indietreggiare –Ma probabilmente hai anche ragione. Ma vedrai che ti ricrederai dopo gli incontri che ti ho preparato.

–E che c’ho scritto in fronte, Jo-Condor? Ma vadi a cagare lei, gli dei e la linfa vitale, per cortesia. Vadi a dar aria da qualche altra parte che qui al cimitero già stiam messi male. Ora scusi, ma devo trovare un modo per picchiare i miei migliori amici, vadi a comprare le bottigline di Lourdes che valgono quanto le sue stronzate..

–Arrivederci– S’inchinò l’uomo vestito dello stesso manto della cintura d’Orione, per poi voltarsi e allontanarsi agitando la mano ferita fino a svanire con la sua giacca nera nel bianco. Cladzky se la sghignazzò della buona facendo lo stesso nella direzione opposta, solo per essere ritirato indietro con effetto da molla, trattenuto per la gonna, cadendo a sedere sull’erba alta. Si guardò indietro. Si era di nuovo impigliato nel roseto.

–Ma giuro che, se quel dio esiste, gliele suono un giorno– Affossò la testa fra le spalle. Rabbrividì. Il furore si era acquietato e il calore andava scendendo. Le catene tornarono a essere gelide.


***


    Ripreso il viaggio verso i confini del camposanto, se così poteva chiamarlo, si trovò davanti quel che credette, lì per lì, essere una roccia da quanto stava immobile, ma una folata di vento predò una coda di cavallo nera. Per quanto avesse preso il dio dei cazzi e mazzi per un ciarlatano, la prudenza non era mai troppa in un posto del genere, dunque tentò di scivolare fuori dal suo raggio d’azione con la stessa attenzione con cui era entrato. Prima che vaporasse del tutto la figura, si rese conto di aver perso il senso dell’orientamento e certo un paio di informazioni gli avrebbero fatto comodo. Tornò, sui suoi passi felpati, alla persona seduta sulla cima di un piccolo masso all’ombra di un mandorlo, che se ne stava in posa meditativa. Acquattato nell’erba, gli era tanto vicino da vederlo chiaramente nelle sue spalle dritte e la sciarpa rossa che serpentinava pesante. Dall’albero cadevano, lenti, petali di fiore, perché dopotutto era primavera. Uno di questi andò a finire, guarda un po’ le coincidenze, sul naso. Tirò indietro il capo e contrasse i muscoli facciali, ma non si staccava per via dell’umidità notturna. Arricciò il naso, incapace di rimuoverlo. Quel contatto gli stava facendo venire voglia di starnutire nel peggior momento possibile. Faticò a trattenere il respiro. Infine gli sovvenne: Non doveva trattenerlo. Piegò la bocca e riuscì a soffiare sulla punta del naso fino a staccare il fiore. Tirò un sospiro di sollievo. Scorse un riflesso nel buio. Subito un movimento di mano, uno squarcio nel vento e un coltello gli si piantò ai piedi. Il riflesso erano gli occhi della persona messasi in piedi di scatto e già con un altro coltello estratto dai vestiti. Come temeva si trattava di un tipo di quelli pericolosi.

    –P-passavo di qui per caso!– Mentì per metà sbattendo i denti, piegandosi in avanti con riverenza, mentre indietreggiava.

    –Precisamente contro questa roccia?– Alzò il braccio, pronto a scagliare l’arma che stringeva per la lama e con l’altro, a palmo spalancato, mostrava il gigantesco spiazzo senza confini nel quale si trovavano, con una curva che terminò solo quando la scapola premeva contro il principio dell’omero –Con tutto lo spazio che avete mi siete arrivato alle spalle di soppiatto?

    –Non volevo disturbarla– S’inchinò ancora più in basso –Così meditabonda mi sembrava brutto.

    –Potevi metterci più impegno, ti ho sentito da un pezzo strisciare fin qui– Si rigirò il coltello fra le dita. Senza preavviso lo lanciò nuovamente ai suoi piedi, mentre ne tirava fuori un terzo –E non si striscia alle spalle di qualcuno per caso.

Cladzky cadde in ginocchio, avendo difficoltà a mantenere il contatto visivo con quel… sì, era un bambino anche lui, o una bambina, non era proprio chiaro, ma aveva un visino lentigginoso così amorevole e certi occhi neri da cerbiatto che era dura credere potesse giustiziarlo sull’istante che avesse sgarrato.

    –Abbi pietà, è tutto il giorno che mi capitano disgrazie– Piagnucolò l’imbucato, muovendosi come il cappuccio diritto di un cobra.

    –Lo vedo– Osservò fischiando, rimettendo il pugnale sotto la cintura bianca, notando il suo stato inoffensivo –Chissà chi devi aver fatto arrabbiare per farti conciare così.

    –Oh, solo l’ennesima persona che voleva un pezzo di me, signorina– Scosse il capo avvilito al pensiero di quella yokai-onna a dir poco lasciva.

    –Signorina a me?– Strabuzzò gli occhi, mani lanciate indietro dalla sorpresa, allargando anche le dita dei piedi, nudi sulla roccia. Poi si lanciò in una grassa risata a bocca spalancata, gettandosi all’indietro con il busto, guadagnandosi uno sguardo contrito da Cladzky. Notando il viso sinceramente confuso dell’infiltrato, si interruppe, sbattendo un poco gli occhi, indice sul labbro, per poi grattarsi il mento e stringendo le gambe l’una all’altra in una posa austera, voltando il tronco un poco più a sinistra, studiando il castano da dietro la spalla. Tossì per darsi un tono –Dunque tu non sai chi sono io.

    –Ad averlo saputo che girate col coltello in tasca, io non mi sarei manco avvicinato– Annuì il pilota, convinto di avere disinnescato la situazione –Però è dura essere schizzinosi in questo contesto. Sapreste mica aiutarmi signor…?

    –Frena– Alzò un palmo l’infante, scendendo con un salto nell’erba, che gli arrivava alla vita –Non hai bisogno di sapere chi sono io allora. Piuttosto, sentiamo chi sei tu e se meriti il mio aiuto.

    –Io?– Si strofinò i sandali l’uno contro l’altro –Che fine ha fatto la semplice empatia umana?

    –Hai appena interrotto la mia meditazione, mi hai spaventato arrivando come un ladro– Si cinse le mani dietro la nuca il ragazzo dai capelli neri, spostando il peso prima sui talloni, poi sulle dita, in un dondolio –E si finisce legati in quella maniera solo di fronte il giudice d’un tribunale. Insomma, per quanto ne so io, tu potresti essere uno appena evaso e chissà che volevi fare arrivandomi alle spalle. Non ho motivo di scioglierti.

    –E se vi dicessi che tutto quello che mi è accaduto è stato totalmente immeritato?– Lo seguì nel dondolare con gli occhi a destra e sinistra, sentendosi un nodo in gola.

    –Ci crederei poco, ma non schivate la domanda– Gli camminò intorno il bambino, lisciando fra le dita la sciarpa rossa, ispezionandolo –Vi ho chiesto chi siete.

    –Io sono…– Ci pensò su. L’uomo dalle sinuose gambe aveva visto attraverso il suo travestimento, ma non c’era ragione di supporre che anche lui conoscesse il personaggio in cui si era camuffato. Che poi aveva sbagliato il nome prima. Come si chiamava davvero?

–Cos’è, non te lo ricordi?– Sbottò il bambino, battendo l’indice sul braccio opposto, incrociato con l’altro in un gesto spazientito.

–Pit!– Uscì prima stridula la voce, poi tossì e ripetè, per darsi contegno –Mi chiamo Pit, da Kid Icarus, piacere. Fate pure come se vi avessi stretto la mano.

–Pit, eh?– Giocherellò con la frangia il bambino dal kimono blu. Poi chiuse gli occhi, immobilizzandosi, respirando profondamente. Cladzky si avvicinò incuriosito da quella calma improvvisa. Gli occhi si riaprirono di scatto, stavolta di bragia e avanzò a testa bassa da farlo tornare dov’era –Bella trovata, ma tu non ci somigli per niente a Pit!

Oddio ,anche lui lo conosceva? Ma in quanti giocavano a Smash Bros lì dentro? Provò a replicare con un filo di voce, collidendo le ginocchia dalla tremarella.

–D’accordo, ho solo trovato il costume per caso– Tentò di sorridere, recuperando quel che rimaneva della sua faccia –Ma giuro che non l’ho rubato, solo preso in prestito. Almeno mi sta bene?

Il bambino passò da un’espressione furiosa a una allibita. Dopodiché tornò a ridere, più incontrollabile di prima. Più del timor poté l’onore, sentendosi deriso, Cladzky lamentò.

–Beh, bastava dire di no– Calò le ciglia dal disagio il pilota.

–E a te bastava continuare a mentire– Si resse i fianchi l’altro, prima di rotolarsi nell'erba e sbattere il pugno dall’ilarità –Ci sei cascato subito. Per un trucco così semplice poi!

–Ma…– Si restrinse la faccia di Cladzky nel realizzare il tranello. C’era da dire che sembrava così convinto che era dura non credergli –Tu non conosci…

–Non ho mai sentito parlare di Pit– Si alzò in una verticale, prima di rotolare in avanti e rimettersi seduto sul prato, finalmente sfogato –Figurati se lo conosco di faccia. Ma le facce di chi mente le conosco bene.

–Ho mentito a fin di bene– Insistè l’imbucato.

–Stento a crederlo.

–Mi perseguitano tutti a questa festa.

–Non li biasimo– Alzò gli occhi al cielo il bambino.

–Ecco perché devo celare la mia identità– Si mise in una posa che suggeriva l’avvolgersi in una mantello, ma con solo le catene a coprirlo.

–Non fai un bel lavoro a tal proposito– Si appoggiò al masso il giovane.

–Ma come posso convincerti che ho buone intenzioni? Voglio solo liberarmi di questi legacci.

–Sarà dura– Ponderò il ragazzo, grattandosi il viso.

–Certo, sono fatte di ghiaccio magico o qualcosa di simile– Glieli fece vedere, avvicinandosi.

–No, dicevo che sarà dura convincermi– Saltò nuovamente a sedere sul masso, a distanza di sicurezza –Quindi meglio che ti arrendi subito. Io tornerò e meditare e tu al tuo vagabondaggio. Se sei fortunato, incontrerai qualcuno abbastanza scemo da aiutarti.

–Ma se sono stato invitato a questa festa vorrà dire che sono uno di cui fidarsi, no?

–E invece non sei stato invitato a questa festa– Esercitò le mani in un kuji kiri –Magari è per quello che tutti ti cercano e sei vestito così.

–Ach– Si morse la lingua prima di rispondere –C’è stato un equivoco. Io dovevo esserci sulla lista degli invitati…

–Dunque non sei stato invitato, come immaginavo– Scosse la testa –Dovrei smetterla di prestarti ascolto e avvisare i padroni di casa. Va via finchè ho pazienza.

–Aspetta!– Tentò di issarsi anche lui sul masso –Non ti ispiro neanche un po’ di pena? Qua vogliono farmi tutta la pelle, aiutami almeno tu.

–Vuoi lasciarmi in pace?– Strillò, prima di mollargli un calcio sul mento e terminare la sua scalata nella polvere –Non so chi sei e le cose che mi dici non aiutano certo a empatizzare con te, anzi, mi dai sui nervi nel pretendere di trovare soccorso dal primo che passa, come se non avessi nulla di più importante da fare, quindi smettila di assillarmi e vattene.

–Povero me– Lagnò Cladzky, ormai nel pieno melodramma, non potendo massaggiarsi la mascella –Ovunque vado mi tirano le pietre.

–E fattele due domande!– Sbuffò il bambino –Invece di restare ad autocommiserarti per attirare l’attenzione, vedi di fare qualcosa di produttivo e aiutati da solo.

–Ma come puoi trattarmi così, tu che…– Alzò lo sguardo verso l’albero –Hai occhi che si confondono nei fiori di mandorlo?

–Quando ti ho detto di non piangerti addosso non intendevo di cominciare con le adulazioni– Si coprì la faccia per non gridare.

–Se vuoi meditare posso provare a recitarti dei versi. So molto di poesia giapponese io.

Damare, Ii kagen ni shiro– Gli puntò addosso il dito Boku wa anata no higeki ni wa kyōmi ga arimasen, houttoite! Watashi no meisō wa jama sa reru ni wa amarini mo jūyōdesu, nande mada koko ni iru no? Shine! Isogashi sugite kinishinai.

–Ah no, questo autore mi è ignoto– Sbattè le palpebre il pilota.

–Bah– Si coricò sul masso l’assillato, poggiando una gamba sull’altra, mani sotto la nuca –Sei proprio un caso perso.

–Ma io ho sentito storie su di voi– Improvvisò Cladzky. Si trovava nella terra degli anime e forse non stava esagerando e quantomeno serviva provarci –Dicono che niente resiste alle vostre lame e allora pensavo che potreste provare a tagliare le mie…

–Dunque non sei venuto davvero qui per caso– Si girò sulla pancia, poggiando la testa sul dorso delle mani piantate coi gomiti e intrecciando le gambe –Inoltre, non avevi dimostrato prima di non conoscermi? Un'altra contraddizione.

–Insomma, io voglio togliermi queste robe di dosso– Si divincolò Cladzky –Come posso farmi aiutare?

    –Un modo per starmi simpatico ci sarebbe, Senzanome– Mostrò i denti in un sorriso da lontra, lisciandosi la punta del naso con il pollice –Tanto per cominciare potresti dire di essere amico del mio amico, il grande samurai Hattori Hanzō. Conosci, no?

    –Ma certo!– S’illuminò come una lampadina, saltando in piedi e sciorinando tante parole da provocare eccessiva salivazione. Sapeva che l’aver preso un corso di storia giapponese per corrispondenza gli avrebbe salvato la vita un giorno –Il grande condottiero di Tokugawa Ieyasu, nostro shogun, che scortò in salvo nella provincia di Mikawa dopo l’assassinio di Oda Nobunaga. Ma sì, il grande Hattori che, a capo dei ninja di Iga, battagliò con il clan dei Sanada.

    –Eh sì, proprio lui– Si scurì la faccia del ragazzo, ficcandosi una mano in tasca.

    –Co… Colui il quale– Inghiottì nel rendersi conto di chi aveva davanti –era il più grande rivale del leggendario Sasuke Sarutobi?

    –E indovina un po’ chi sono io?– Lo spiò l’occhio spiritato del ragazzo, incorniciato dietro il foro di uno shuriken.

    –Comincio a farmi un’idea– Saltò via, sentendo, appena voltato, una lama rotante rasargli a pelo la chioma. Si mosse a zig-zag, ritrovandosi un kunai piantato ai piedi ogni volta e svoltando di conseguenza. Si parò dietro un albero, ma nessuna lama si piantò nel legno che usava come scudo. Gettò un occhio dall’altra parte del riparo, ma la roccia non era più occupata. Un brivido gli corse lungo la schiena. Tornò a guardare davanti a sé che, subito, una mezza dozzina di kunai gli fecero la sagoma nel tronco. Senza neppure guardare dove fosse il ragazzo, riprese a scappare, rotolò giù per una depressione del terreno, al riparo da quella pioggia di dardi. Coricato, ansimante, nell’erba del terreno inclinato, provò a tirar fuori la testa verso l’albero, che già era sparito nella nebbia da quanto si era allontanato. Nessuna lama lo colse in fronte e tirò un sospiro di sollievo. 

    –La caccia non è ancora finita– Rise una voce alle sue spalle. Si voltò per ritrovarsi Sasuke che teneva in mano una bottiglia dal sentore di kerosene. Saltò fuori dalla buca mentre lui aveva preso a bere, ma non fece che pochi passi quando una fiammata gli parò la strada. Il ninja atterrò alle sue spalle, in mezzo all’odore acre dell’erba carbonizzata e il fumo nero, ancora con le guance piene.

    –G-guarda che i minorenni non possono bere alcolici– Provò a contestare, prima che il membro dei Sanada chiudesse le mani nel simbolo zodiacale della tigre e sputasse un altro fiotto di napalm verso di lui. Saltò di lato, solo per trovarsi un'altra vampata a sbarrargli la strada, girò in tondo, fino a quando si rese conto di trovarsi circondato in un anello di fiamme. Troppo spaventato dal muoversi ancora prese a bruciargli la gola per le esalazioni, fino a rendersi conto che si stava intasando i polmoni di fuliggine. Si diresse verso il fuoco, che si levava fino a due piedi dal  terreno, e saltò. Nei film funzionava, di solito almeno. I suoi piedi atterrarono nell’erba fresca e inspirò aria pulita. Tornò a correre, ma quel senso di arsura stava tornando. Girò il capo. Sembrava essere riuscito a seminare il ragazzo, ma non il fuoco, perché gli aveva ghermito un lembo della veste nel salto. Prese a rotolarsi a terra fino a che non si stancò e, una volta fermato, il mondo gli girava troppo per camminare ancora, dunque si accasciò come un lenzuolo sopra un tronco caduto.

    –Ti sei già stancato?– Chiese il Sarutobi, atterrandogli di fronte. Cladzky si issò per correre ancora ma le gambe non lo seguirono a lungo. Una bolas gli si avvolse presto agli arti inferiori, costringendolo a cadere –Ti devo ringraziare in fondo. Era da un po’ che non mi allenavo così.

    –Aspetta, non ci siamo capiti…– Cercò di ragionare, girandosi su un fianco, prima di ritrovarsi con una folata di polvere negli occhi. Scosse il capo e, con gli occhi irritati e rossi, scorse la figura ridente del bambino, con un grumo di polvere nera sul palmo che soffiava allegramente su di lui –E questa cos’è?

    –Polvere da sparo– Si battè le mani soddisfatto Sasuke, sorridendo come avesse catturato una farfalla –I ninja si fanno esplodere pur di non farsi catturare e rivelare i loro segreti., dunque ho figurato che anche tu meriti questa fine; dato che non hai voluto rispondere sinceramente a mezza domanda che ti ho fatto è chiaro che hai preziose informazioni da proteggere.

    –Ma lo vuoi capire che ti ho mentito?– Piagnulò Cladzky, sputando dei granuli che gli erano rimasti in bocca –Io non lavoro per Hattori Hanzō, non l’ho mai visto in vita, non sono tuo nemico.

    –Lo so benissimo– Estraé con naturalezza una scatolina di legno dal kimono. Lo spazio nelle tasche di un ninja era ancora un mistero per la scienza –Mettiamola così: Non mi piace essere preso in giro.

    –D’accordo, sono un imbucato a questa festa– Ammise il pilota, cercando di scuotersi la polvere di dosso –I miei amici non mi hanno invitato, mi sono offeso, sono giunto qui, la sicurezza mi ha mandato via, sono stato abbandonato dal mio migliore amico robot, il mio disco volante è stato abbattuto dalla polizia, mi sono schiantato in una serra, ho fatto amicizia con un giardiniere fascistoide regalandogli il mio velivolo, mi sono travestito prendendo il suo posto, sono arrivato sulle piste da ballo, ho picchiato un DJ, gli ho rubato i vestiti, ho ballato un musical con un’abominazione spaziale in mezzo ad attori morti da anni, l’ho sconfitta con un backflip a caso, ho intravisto Deadpool da qualche parte, mi sono caduti addosso i vestiti di Pit da una finestra, li ho indossati, ho superato uno scheletro razzista figlio del dente di un’idra, ho incontrato degli uomini-insetto che mi hanno fatto luce con un raggio laser, ho incontrato un ragazzo senza un occhio, che è figlio di yokai, ch’era a guardia di questo cimitero, il cui padre, ch’era tutto un occhio, mi ha mandato a prendere un amuleto per attraversare questo posto e dunque sono prima passato a cercare fiori nel giardino qui fuori, imbattendomi prima in un’ape coi coglioni girati e una rana che li aveva blu da quanto non scopava, mi sono fermato, sono stato importunato da un quartetto di bestie sataniche e arrapate, hanno giocato a bondage con me come puoi ben vedere, ma prima che potessero andare oltre li ho convinti ad andare a picchiare il ragazzo yokai a guardia del cancello, garantendomi così l’accesso, e nella traversata di codesto luogo mi sono imbattuto in un uomo che si veste di galassia e si fa chiamare il dio degli dei che mi ha rivelato che dio mi stalkerizza e che avrei incontrato un numero indeterminato di spiriti che mi avrebbero distrutto lo spirito, l’ho preso a calci in culo e ora dovrei raggiungere la villa passando qui in mezzo, ma non ho idea di dove sono, ho bisogno di indicazioni e che qualcuno mi strappi di dosso queste dannate catene!

    Procedette a riprendere il fiato a lungo, mentre Sasuke leccava un impasto per poi applicarlo al fondo della scatolina. Infine gliela premette in fronte con abbastanza forza da farcela rimanere incollata.

    –Vedi, era così dura dire la verità?– Si mise i pugni sui fianchi, sguardo annoiato –Dovevo arrivare a tanto?

    –Dunque mi credi?– Chiese il pilota, con un’espressione disgustata da quella sostanza appiccicatagli sopra le ciglia.

    –E come faccio?– Roteò la mano per aria, prima di abbassarsi a recuperare le bolas –Dopo tutte le bugie che mi hai detto non so più se sei serio o scherzi. Facciamo che tu esplodi e io torno a meditare, così risolviamo tutto in un colpo.

    –No, aspetta! Cos'è questa roba?– Gli gridò dietro, mentre quello già saltellava via innocente.

–Un acciarino ad orologeria. Qualche secondo e farà partire una scintilla.

–E vuoi lasciarmi così?– Si drizzò con la schiena, coperto di polvere da sparo dalla testa ai piedi.

Sasuke Sarutobi si fermò, agitando la mano per salutarlo, l’altra alla bocca per farsi sentire, piegato sulle punte in cima al tronco sopra cui si era rovesciato un minuto fa, occhi chiusi, sopracciglia alzate dalla serena soddisfazione, fossette lentigginose in vista per il riso.

    –Ora avrai una motivazione per sentirti a pezzi, contento?– E sparì, fischiettando.

    –Torna qui, nano infame! Non puoi ammazzarmi solo perché ti ho chiesto una mano! Questa festa è piena di schizzati!

    CLIC!

    Cladzky sbarrò gli occhi, ma non saltò per aria, nonostante il suo cuore rischiasse di farlo. Dalla cima della scatola si aprì uno scompartimento e scattò fuori un messaggio in kanji su rotolo bianco che andava a cadergli sul naso, scendendo fino al mento. Ovviamente non sapeva leggere il giapponese, figurarsi quello feudale, purtroppo per lui, perché il messaggio recitava pressappoco:

“È solo pruriginosa, stai sereno”

    Rimase impassibile come un baccalà, ancora non convinto del tutto di essere vivo, tanto che quasi non si rendeva conto della voglia matta di scorticarsi per placare la sensazione di infiammazione che gli attanagliava la pelle. Da lontano, l’uomo vestito di galassia, prendeva appunti.

    –E con questo sono due in una– Morse la biro, sparendo nuovamente.

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Capitolo 13
*** Fantasmi di un tempo perduto (Terza parte) ***


    Poterti smembrare coi denti e le mani, sapere i tuoi occhi bevuti dai cani…– Andava canticchiando, l’imbucato, pur di ignorare la formicolante sensazione che andava a mordergli la pelle con effetto ritardato. Non potendo usarle per aiutarsi, andava a graffiarsi le mani nella rogna, mentre i denti si chiudevano sulle labbra ritratte, saliva alla bocca.

    –Disturbo?– Lo interruppe l’uomo vestito di galassia, apparendogli, senza reale sorpresa, seduto su una lapide che recitava “Genere Mecha: 1963-2007”.

    –Odio le domande retoriche– Si ruzzolava nel sentiero di ghiaia. Ormai si era tolto ogni granello di dosso, ma l’effetto continuava a sfogarsi sulla sua cute più forte ogni volta che sembrava rilassare i tendini dal dibattimento serpentino –Sei venuto per vedermi soffrire?

    –Io non ho colpa– Scese l’uomo dalla fronte priva di rughe, coprendolo con la sua ombra e agitando un indice al cielo –Se il tuo dio mi avesse ascoltato da subito tutto questo non sarebbe stato necessario.

    –Vedo che anche tu odi le domande retoriche– Si schienò Cladzky, continuando a sgrullarsi. La piccola tunica di Pit, non certo più bianca, era stata sbrindellata da tutte le disavventure precedenti. Riuscì a grattarsi sotto il mento infiammato con le unghie del piede –Allora, cos’hai d’importante da dire, stavolta?

    –Sono qui per prestarti aiuto.

    Gli occhi di Cladzky si sgranarono e smise di grattarsi, almeno per poco, dalla sorpresa.

    –Ma che, davvero? Sarebbe una novità stanotte– Si contorsionò, ma adesso col sorriso –Puoi spegnermi questo prurito di dosso? O slegarmi da queste catene?

    –Proprio così– Annuì l’uomo dalla postura perfetta, inarcando la schiena e puntando un dito verso il capo d’una collina –Ti sarà possibile là dietro.

    –Come?– Gli andò incontro il pilota, poggiandogli il capo della testa sotto la mandibola, quasi quasi a dargli una testata da fargli saltare i denti, e ringhiando –Mi prendi in giro? Se tu puoi dire al tuo dio cosa fare, ordinagli allora di terminare le mie sofferenze.

    –Il suicidio non è mai la soluzione– Sorrise l’uomo dalle orecchie in sezione aurea.

    –Qualcosa che non si potrebbe dire al tuo riguardo– Lo spinse a sedere contro la lapide, per poi allargare le scapole come ali dal fastidio che gli pizzicava i nervi e mordeva i tendini –Insomma, sei passato solo per dirmi di buttarmi da un burrone. Tante grazie, anche a te e famiglia, cane incluso.

    –Non prendertela con me, mi hai frainteso– Accavallò le gambe e si prese le ginocchia fra le mani congiunte.

    –Il tuo pessimo senso dell’umorismo non aiuta di certo– Si morse un polpaccio Cladzky fra una frase e l’altra da quanto cercava di combattere il bruciore cutaneo –Insomma, vuoi aiutarmi o no.

    –Mi sembra di averti già detto che non posso intervenire di persona– Gli fece la linguaccia il ragazzo di bell’aspetto –E infatti ho detto che te lo presto. L’aiuto si trova oltre quell’ermo colle.

    –E magari là trovo anche il prossimo spirito pronto a malmenarmi– Sputò Cladzky –Sono stanco di venire strapazzato ovunque vado.

    –In effetti, con questo, saranno tre capitoli che succedono le stesse cose ma in salsa diversa– Picchiettò le dita sulla pietra tombale il dio degli dei.

    –E allora dimmi dove sta l’uscita di questo dedalo così picchio Gyber e concludiamo questa menata. Sembra che questa notte non finisca mai.

    –In effetti sono cinque anni che è notte– Si grattò il naso l’essere dal collo parmigianino.

    –Ma di che cianci ora?

    –Oh, non capiresti come al solito.

    –Insomma, io ci sto perdendo la testa– Anche Cladzky si grattò il naso, ma dovette passarselo fra le suole dei sandali –Dammi una mano!

    –Si trova oltre la collina!

    –E io vado nella direzione opposta perché non mi fido, mica sono scemo!– E corse appunto via da lui. L’uomo dalla chioma mai spettinata estrasse il suo blocco note e si preparò a prendere appunti. Passò qualche secondo, poi un urlo e infine un tuffo nell’acqua.

    –Gliel’avevo detto– Scosse la testa, poi chiuse le mani in preghiera e contrasse le tempie –Ma tu vuoi tirare questa cosa per le lunghe vero? Hai paura di giungere alla conclusione. Magari si potrebbe tornare a parlare di Dz, Gyber, Giuly, Kishin, Raven, Litios, Alexander o anche Aswin, si dovrebbero chiudere i loro archi narrativi in fondo, ma non te lo permetterò. Se tu lo facessi, se ignorassi il problema, la vostra simbiosi proseguirà al punto che ne prenderai il posto. È questo quello che vuoi, non è vero? Spadroneggiare in un universo in cui hai pieni poteri. Ma dimentichi che te lo avevamo solo assegnato da amministrare. Non ti permetterò di ucciderlo per favorire la tua alienazione. Non vedesti come finirono gli altri dei che hanno tentato l’auto-inserimento? Alla gente servono personaggi, non persone. Ci dovrà sempre essere una linea di separazione fra lui e l’autore. I comportamenti reali delle persone sono estremamente noiosi e fuori luogo in un contesto drammatico come la narrativa, quantomeno questa narrativa. Per favore, resta nella tua. Se non per l’arte, fallo per gli altri.


***


    Il vivo avvilupparsi d’una fiamma chiarì perché gli stesse bruciando il volto, così vicino alle scoppiettanti braci di arteriose scintille che a momenti un lapillo gli atterrava sugli occhi. Oltre di essa il buio della notte, reso più impenetrabile dal suo contrastante bagliore, senonché, fra una lingua e l’altra, un viso appariva, sbalzato nei volumi da riflessi arancio sulla sua giovane pelle. Due pozzi neri gli occhi suoi, sul fondo le speculari stelle del falò a cui ambo si scaldavano. Se si fosse avvicinato abbastanza avrebbe potuto vedere anche il suo viso ancora mezzo morto. Si rese conto di stare coricato di fianco su uno strato di fine a sabbia a giudicare dal movimento del terreno sotto di lui e lo sfregamento dei suoi talloni, affossati nella battiglia, carezzati dal vivace gioco di leggere onde dalla voce acuta d’una bottiglia. Sbuffò un naso che ancora sapeva di minerali sciolti in acqua, cui ancora si sentiva impregnato. Si mise sulla schiena per drizzare la schiena incurvata, schioccando qualche vertebra nello stiracchiarsi, tirando il capo all’indietro e abbassando il tarso fintanto che fu parallelo al resto della gamba, piegando le spalle all’indietro nel frattempo, sollevando il bacino da terra per un momento. Quando sentì i propri muscoli svegliarsi dal torpore, aprì più che potè la mandibola, tanto da stirarsi le guance e si rilassò di nuovo, spirando a lungo, decomprimendo il petto.

    –Dormito bene?– Chiese la voce sincera del ragazzo all’altro capo del falò. Lo sentì smuovere la sabbia sotto di lui nello strisciare da una posizione inginocchiata, smuovendo con un bastone i ciocchi di legno che gli apparivano così luminosi, ma solo perché unica fonte in quella nebbia. Non si vedeva neppure il cielo. In effetti andavano diminuendo insieme al loro crepitare e le fiamme andavano scendendo fino a sollevarsi appena dalle loro braci annerite, non più sanguinanti di lava. Il ragazzo prese una manciata di bastoni alle sue spalle, rintoccando ben poco nella loro gommosità. Girandosi, tenendoli sollevati sopra i carboni fiochi, scorse il profilo, delimitato di rosso dal calore, di legna ancora verde stretta nel palmo. La dispose con minuzia geometrica sopra le braci, ma era dura scottarsi sopra quelle fiamme, men che meno far attecchire il fuoco a bastoni così freschi. Era quasi ridicolo nel suo formare il disegno d’un cristallo di neve, pentacolo che mai si sarebbe acceso, anzi, seppelliva quel poco sfavillare rimasto. Finito il ricamo si portò la mano al fianco, senza prendersi la briga di contemplare cosa avesse fatto. Le temperature andavano scendendo di nuovo. Cladzky si coricò nuovamente su di un fianco, stringendo le gambe e piegandosi in avanti con il torso, chiudendosi a riccio, con il vento che andava scuotergli la colonna vertebrale, partendo dalle piante bagnate, che ritrasse presto al riparo. Di cosa? Non era avvolto nella tunica di prima, era un panno decisamente più largo, non un vestito, più un telo di materiale leggero, non lino o cotone, ma neppure seta. Ci si mosse un po’, per mettersi a proprio agio, abbassando la testa, fino al naso, sotto il bordo. Uno squarcio d’alba rossa sovrastò il chiarore del fuoco. Abituati gli occhi a quel fuoco fatuo, cominciò a contraddistinguere una figura nell’abbaglio sanguigno: la forma di una punta vibrante di calore, innestata nel manico dall’elsa ondulata, stretto fra le dita appena contratte nella naturalezza d’un gesto mondano del ragazzo, tinto anch’egli di magenta sotto quell’irradiazione, viola negli occhi e giallo nei capelli, sparati all’indietro, come sospinti dalla forza che ovunque gettava i suoi raggi, ma non era tanto forte da agitare il vento che fendeva; dovette assumere, con uno sforzo d’immaginazione, che avesse passato così tanto tempo a correre da far cristallizzare, quel manto, in un gesto fin troppo frequente. Senza indugio abbassò il pugnale, ma non con foga, nè nel movimento nè nella posa, lentamente abbassandolo con il pollice a fiancheggiare l’innesto, sfiorando appena il centro del fiocco dei bastoni, verdi di linfa, con la punta incandescente. Subito spumeggiò uno sfrigolio di contatto d’alta tensione in una nuvoletta e lapilli da saldatrice. Il fuoco si sprigionò dal legno neanche fosse essiccato da giorni, coronandolo in un guizzo di fornello a gas, passando da un blu ossigenato a un più tenue mandarino. Fece appena in tempo a togliere la mano che le lingue tornarono più alte di prima. Infilò nuovamente il pugnale rossastro nel fodero, sospirando pesantemente.

    –No– Replicò con estremo ritardo alla domanda precedente, con la bocca impastata da carlino. Si rigirò nel telo, strofinando le spalle scoperte sul solido tessuto. Tirò su con il naso, strizzando gli occhi, abbacinati nuovamente dal bagliore pirotecnico primiero.

    –Certo, hai fatto un bel volo– Notò l’altro, ridotto nuovamente a una voce nel buio oltre la fiamma. Si alzò in piedi, mostrando una figura deformata nell’atmosfera, agitata dal surriscaldamento di quel falò, resa uno specchio d’acqua smossa. Riconosceva appena un ragazzo dai contorni sfumati, illuminato dal basso di bagliori infernali ma che non ne celavano l’aspetto gentile della slanciata figura dal portamento dritto, schiena a formare un arco, spalle larghe, braccia magre, vitino sottile dove stringeva la cintura, cosce spesse, ma tutto proporzionato nella minuta figura della sua giovane età, più scolpito dalla vita che dall’esercizio, senza risultare invecchiato precocemente nel corpo e dalle movenze inoffensive. Si spostò abbastanza dalla colonna di calore perché potesse distinguerne bene i particolari del volto. Con passo fermo, ma non d’aggressione, principesco forse, lo scrutava con due occhi azzurri, ma tanto scuriti da sembrare neri, cionondimeno fuorché opachi. Grandi, lo fissavano, ma scrutavano ben oltre lui, come avessero già visto quel che c’era alle sue spalle. Ora, senza deformazioni, ne era sicuro: i suoi capelli erano proprio verdi, di quel verde che bagna le isole Fiji. Piantò nella sabbia, con decisione, i piedi scalzi, mentre l’occhio del rinsavito risaliva a studiarlo ancora. Dei gambali rivestivano i polpacci, rivestiti a loro volta da un motivetto a scaglie di pesce dorate, avvolti sotto il ginocchio, fin sopra le caviglie, senza alcuna cerniera di sorta a poterli aprire. Ben misera protezione, forse non ne aveva bisogno. Anche lui sfoggiava un chitone, rimembrante l’Ellade nella fattura, anch’esso breve nel taglio, ma meno volgare data la taglia, cucita apposta. Lo sfavillante pugnale giaceva ancora nel fodero, nascondendo la propria luce,senza dare l’impressione di fondere il recipiente, assicurato alla cintura di cuoio che divideva il costato dal bacino –La tensione superficiale non aiuta in questi casi.

    –Ma che cazzo stai a dire? La tensione superficiale, lui…– Mugugnò il pilota, dando le spalle al fuoco coricandosi in senso opposto, tirandosi dietro il telo di  porpora fenicia. Richiuse gli occhi –Ma chi ti conosce?

    –Ti ho visto cadere dal ciglio della parete– Spiegò in fretta il salvatore. Il suono della sua voce si spostò, insieme al rumore dei suoi passi, fino ad apparirgli davanti. Stentò ad aprire gli occhi. Avendone portato uno fino ad allora, sapeva che non sarebbe stato carino guardare un ragazzo da sotto in sù se indossava un vestito. Ma parlando della tunica di Pit, perché sentiva la sua schiena a diretto contatto con la coperta? Perché le sue spalle sfregavano l’intreccio del tessuto? Perché il petto avvertiva un solo strato, oltre il quale soffiava la brezza notturna? La voce riprese, più vicina, forse si era accovacciato. Un’ombra gli calò sulle palpebre. –Hai perso i sensi per un po’.

    –Dove mi trovo?– Strinse i denti, contorcendo la schiena, allargando le braccia. Allargare? Finora aveva evitato di provare in ricordo di quei nodi, ma ora quelle catene, insieme al loro gelo, erano sparite, seppure il sentore fantasma e le scottature d’assideramento perduravano sulla pelle. Agitò i polsi liberamente, schioccando i gomiti nel distenderli.

    –In fondo alla rupe, ora– Lo rassicurò la voce, ponendogli una mano calda, priva di calli o altre imperfezioni, sulla fronte –Ma non ti devi preoccupare.

    –Ah, no– Sbuffò Cladzky, togliendo la mano con uno scossone –Sono solo caduto da un burrone.

    –Sì, la parete a cui fa da base il lago.

    –Dio, perché non sono morto?– Alzò le braccia fuori dal telo, in un gesto d’implorazione, solo per ritrarle subito dopo nel bozzolo.

    –Beh, era dura mancare il lago.

    Beh, almeno era chiaro perché la sensazione di prurito fosse svanita. Cladzky si mise a sedere con enorme fatica, quasi stesse facendo un addominale a giudicare dal bruciore al ventre. Una volta issatosi, ricadde all’indietro, solo per essere prontamente afferrato dalle mani del ragazzo e retto finché non si mise in equilibrio, ma la testa gli girava che era dura tenere dritto lo sguardo. La testa ciondolava qui e là. Aprì gli occhi. La poca luce creò trame di ragno evanescenti, propagarsi come terremoti su ogni cosa dove posava lo sguardo, mentre chiazze verdi coprivano con immagini residue il fuoco dell’immagine. Sbatté le palpebre, si strofinò pigramente una mano sul viso e contrasse il collo. Quando finalmente gli effetti di quella salita troppo rapida svanirono, potè vedere davanti a sé la spiaggia. Sembrava di stare alle pendici di Kaoredake, dove le sorgenti del fiume Jinzū scendono a valle. Uno specchio d’acqua grosso quanto una piscina olimpionica stava davanti i due, immerso anch’esso nella nebbia che scivolava sopra la superficie verdognola, increspata da una piccola cascata discendente dalla menzionata rupe, dalla quale si era calato in maniera poco ortodossa e igienica: una parete di pietra violacea alta quanto un Bricoman, preda di rampicanti, muschi, felci e liane, con una cima erbosa che appena si vedeva. Il fondo era nascosto anche accanto la riva, ma l’apparizione fugace d’una pinna caudale gli assicurò una profondità non indifferente. Prese ad avere il fiatone, ma non sapeva perché, ma l’effetto doveva essere piuttosto notevole, perché le stesse mani che lo reggevano lo costrinsero a posarsi di nuovo a terra. Il viso del ragazzo calò sopra il suo, con le sue ciglia appena accennate. Guardò meglio. Due stelle erano gli occhi suoi. Letteralmente dato che era la costellazione dell’Orsa Maggiore quella dietro il suo cranio. Si era quasi illuso di esserne uscito.

    –Calmo, sei al sicuro ora.

    –No, sono ancora in questo fottuto cimitero!– Sbraitò con la voce grave, da orso appena svernato, liberandosi dal telo e le sue mani con un gesto di stizza, arracando in piedi. Le gambe, ancora addormentate, non gli ressero e per poco non finiva con la faccia nel fuoco. Il suo salvatore lo trattenne per un braccio e lo tirò indietro, fino a reggerlo di nuovo in un abbraccio, per evitare che cadesse, poggiandogli la testa sul petto, dove arrivava in punta di piedi. Cladzky si congelò a quella stretta. Non era la stretta di uno spettro, di un morto, era la stretta di qualcuno che gli aveva impedito di annegare. Pareva proprio vivo come lui e secondo le previsioni del cialtrone divino, correva il rischio di diminuire le differenze fra loro. Kitarō lo aveva avvertito che, chi veniva colto dal mal di vivere, la prendeva con filosofia diversa. E allora, in quella unione, si credette, per un momento, già abitante del cimitero e andò rilassando i muscoli fino a restituire, in appena due carezze, quell’abbraccio, con la paura di fare troppo forte su quella testolina verde. Una sensazione gli risalì il sistema nervoso, che lo indusse a guardare in basso. –Giuda ballerino!

Buttò con uno spintone il ragazzo a terra e si calò a riprendere lo stesso mantello porpora che aveva gettato pocanzi. Quando si rialzò vide che anche il ragazzo era di nuovo scattato in piedi senza ritardo.

–Dove sono i miei vestiti?– Strillò offeso, stringendo di più il manto sul suo corpo, esponendo solo due piedi che si reggevano sulle punte.

–Te l’ho detto, sei caduto nel lago…–Cercò di spiegarsi, non riuscendo a fare un passo che venne caricato a testa bassa dall’imbucato, che gli premette la fronte contro la sua.

–Che cosa mi hai fatto piccolo…

–Stai calmo, sono ad asciugare!– Restituì la testata, stanco di farsi urlare in faccia, premendogli contro la frangia verde, fino a farlo indietreggiare. Si pulì dallo sputo di quell’altercazione e indicò, con espressione tutt’altro che scherzosa, un basso ramo che correva accanto il fuoco. Su di essi stavano disposti con metodo, in ordine, la sua tuta da pilota bianca, l’uniforme da giardiniere, il completo da DJ e, infine, la tunica di Pit, tutti senza una piega che fosse una. Gli unici difetti erano tutti i danni ricevuti precedentemente durante le sue scorribande. Pure l’orologio da polso aveva il suo giaciglio.

–Oh– Sembrò placarsi, ma le molestie precedenti lo avevano messo sul chi vive. Gli puntò addosso un dito, solo per tirarlo subito indietro quando il telo, non più sorretto, prese a calare. Optò per guardarlo male e basta –Mi hai denudato!

–Che altro avrei dovuto fare?– S’inervosì l’additato, premendosi le dita al petto, tirato indietro dall’accusa –Volevi morire d’ipotermia?

–Io…– Si morse la lingua –Non mi hai fatto nulla, vero?

–Come puoi pensare una cosa simile?– Si risentì quello vestito di bianco, sgranando gli occhi.

–Posso perché ho avuto a che fare con fin troppi dimenticati oggi e ne ho pieni i coglioni di cercare fiori come amuleti per conto di occhi parlanti, delle vostre tradizioni da ape, dei vostri accoppiamenti nei petali di loto, venire quasi stuprato da un pedofilo alla rovescia, finire nella collezione BDSM di una principessa delle nevi, dei vostri scontri fra demoni del folklore giapponese, di correre senza vedere dove vado, di imbattermi in dei ancora più porci del mio, farmi scudisciare da rami di rosa, disturbare la meditazione di ninja minorenni, farmi tirare shuriken addosso, prendere fuoco, venire cosparso di chissà cosa, cadere da un burrone e ora di farmi spogliare da un altro, maledetto, ragazzino dai capelli colorati, nel mentre che sono svenuto!

–Devi essere ancora scosso allora, ma se ti fermi un momento…– Alzò la voce il ragazzo dai capelli verdi, cercando di sovrastare la sua e afferrandolo per un polso, costringendolo fisicamente a ragionare.

–Tieni giù le mani!– Alzò di scatto il braccio ghermito e, non potendosi liberare così, assestò una manata a palmo aperto sul naso del giovane in chitone, riversandolo sulla battiglia a gambe all’aria –Sono fin troppo lucido per restare tra voi pazzi.

–Ascolta– Scattò nuovamente in piedi, senza dibattimenti inutili nell’acqua, passandosi una mano a massaggiarsi il setto schiacciato –Voglio ricordarti che ti ho appena salvato la vita.

–Cos’è, vuoi un premio per aver fatto il minimo indispensabile? Allora grazie per non avermi lasciato annegare, ma voglio allontanarmi il più possibile da voi… cosi.

–”Il minimo…”– S’interrupe il ragazzo, mordendosi il labbro inferiore, occhi svuotati, collo venato, serrando i pugni –È la mia schiena quella che ti ha portato a riva, è il mio fuoco quello a cui ti sei scaldato ed è il mio mantello quello in cui ti serri in questo momento!

Cladzky si sentì sporco per la vergogna, per una ragione o l’altra, e quasi la sua presa sul tessuto rosso cedette.

–Quanto ho dormito?

–Prometti di calmarti, ora?.

–Cos’è, vuoi ricominciare?

–Ah, adesso sarei io che…– Trattenne il fiato, gonfiando le guance, poi soffiò via ogni frustrazione, abbassando le spalle e allargando le braccia –Poco, credo.

–Credi?– Alzò lo sguardo, ma subito, l’occhio, si perdette nel decifrare le costellazioni, annebbiandosi per il rapido movimento –Dove cazzo sta la luna?

–È comunque troppo poco per alzarsi così in fretta– Gli corse dietro –Con tutti i lividi che hai…

–Ho passato di peggio. E poi non posso permettermi di dormire ancora, con tutta la gente che mi sta cercando…– A furia di guardare in alto, pose il piede sul mantello e, non volendo mollare la presa, cadde in avanti, finendoci disteso sopra.

–Non ti reggi nemmeno in piedi–Si abbassò al suo livello per aiutarlo ma finì per evitare un’altra spinta.

–Sono solo inciampato nella tua stupida tovaglia– Gli gridò contro, quasi sbilanciandosi dalla sua posizione quadrupede per il colpo andato a vuoto. Quello che lo fece sbilanciare del tutto fu quando si sentì rimuovere il capo da sotto le ginocchia con un movimento rapido. Schienato come una tartaruga, si portò le mani all’inguine, mentre l’altro andava a ispezionare il manto rosso –Ma sei matto, che fai?

–Il mio mantello…– Esibì l’indumento tenendolo dritto davanti a sé, osservandolo da dietro un lungo squarcio verticale nel tessuto –Ti rendi conto di cosa hai fatto?

–Non l’ho fatto apposta– Gesticolò con una mano sola, essendo l’altra impegnata a fare da scudo –Se devi piangere per uno strappo che dovrei fare io? Prendi ago e filo te lo metti a posto, io faccio così per la mia tuta.

–Era fra i pochi ricordi che avevo dei miei genitori– Vibrarono gli occhi azzurri del ragazzo, mentre se lo spillava nuovamente sulle spalle.

–Oh– Si guardò intorno imbarazzato il pilota, arretrando fino a poggiare una mano sui propri panni stesi, ancora fradici. Li ispezionò tutti, ma il risultato non cambiava –Diavolo, e ora cosa mi metto?

–È tutto quello che hai da dire al riguardo?– Tremò la voce del ragazzo,immobile all’infuori dei suoi capelli verdi, sguardo basso a stringersi nel mantello.  

–Attualmente ho problemi maggiori che chiederti scusa– Afferrò il suo orologio da polso per un lancetto e lo portò vicino il fuoco, impegnandosi per leggere le lancette oltre il riflesso del vetro. Le due e mezza circa. Non fece in tempo a tirare un sospiro di sollievo che si rese conto essere fermo, forse da quando aveva impattato con l’acqua. Si guardò oltre le spalle –Ma se bastasse a ridarmelo potrei anche farlo.

–Cosa?– Lasciò andare i capi dell’indumento nell’allargare le dita, facendolo ricadere come la schiena drizzata dalla sorpresa.

–Intendo dire, non è che potresti ridarmi quell’affare per coprirmi? La mia roba non è ancora asciutta e fa un freddo dell’anima. Cioè, non ho freddo come prima, per via delle catene di ghiaccio sai, però non è comunque ideale stare in giro col pacco di fuori, specie vicino a un… quanti anni avrai, undici? Dai, forse tredici. Senti, non volevo urlarti contro prima, però dopo tutto quello che mi è capitato…

–Non hai sentito quello che ho detto?– Lo guardò con le pupille dilatate e la sclera umida, dall’alto in basso.

–Beh, sì, è il mantello lasciato dai tuoi genitori, però…– Si grattò una guancia –Credo di averne più bisogno io al momento.

Ci fu un attimo di silenzio.

–Questo è tutto ciò che ti importa?

–Insomma, tu sei già vestito, cosa può costarti…

–D’accordo– Aprì la spilla dorata, strascicò, con un gesto lento, il tessuto rosso dalle spalle, per poi afferrarlo con ambo le mani e arrotolarlo in uno spesso cordone.

–Cos… cosa stai facendo?

–Voglio solo aiutarti– Chiese, inclinando un poco il capo e senza chiudere del tutto la bocca in uno sguardo volutamente sconcertato dal suo dubbio –Cos’è, non ti fidi?

–Onestamente, non molto. Tutti i dimenticati che mi sono apparsi finora sono stati dei…

–Lunatici?– Sferzò la spiaggia con un colpo del manto porpora, liberando nell’aria un polverone giallo alla luce del falò. Cladzky trasalì, nel vedere quel telo aprirsi sulla spiaggia, leggero e morbido, dopo essere appena stato adoperato come uno staffile per ammansire i cavalli più selvaggi. La chioma verde lo sollevò nuovamente –Oh, non te ne faccio una colpa se noi… come ci avevi chiamato? Ah, sì; Se noi “Cosi” ti facciamo paura. La nostra condizione ci porta alla pazzia, è questo quello che hai sentito, dico bene?

–B-beh– Biascicò con il cuore in gola, sfiorando con i talloni le braci nella sua ritirata –Almeno è quanto mi ha detto Kitarō all’entrata.

–Oh, dovevo aspettarmelo da lui– sollevò gli occhi al cielo il ragazzo, sorridendo, avvicinandosi –Che fai, tremi?

–Sarà per il freddo– Balbettò Cladzky, vedendosi venire quegli occhi iridescenti al buio contro, allargando una gamba alla sua sinistra per prepararsi a uno scatto fugace. Quando infine lo fece, furono più rapide le braccia del ragazzo a chiudere il mantello sul suo collo e trattenerlo sul posto.

–Dove vai, non volevi coprirti?– Gli torse il collo, abbassandolo.

–Apprezzo– Ingoiò un groppo di saliva, senza riuscirci, con il viso arrossato, battendo una mano sulla presa salda –Ma stai stringendo un po’ troppo.

–Oh, scusa– Allentò subito la morsa, lasciandolo rimettere in piedi. Glielo sistemò addosso mentre riprendeva fiato, spianandolo per bene come una tenda. Poi estrasse la spilla dorata, ricca di fregi nautici ed estrasse per bene il punteruolo, poggiandolo sulla giuntura delle clavicole a punzecchiargli la trachea –Ora non ti muovere, potrei tagliarti, sai?

–Altrochè– Scese una goccia di sudore sul suo sopracciglio. Chiuse gli occhi, ma in un battito di ciglia aveva finito di appuntarglielo e stava ora scuotendogli della sabbia di dosso.

–Tu non credi a quello che ti ha detto Kitarō, non è vero?

–Prometti di non picchiarmi, qualunque risposta io dica?– Si allontanò verso la battiglia, per poi sedersi sulla riva.

–Ascolta, io non capisco perché continui a sentirti minacciato– Evitò di seguirlo, anzi, sedendosi all’altro capo del fuoco. Dalle sue spalle era facilmente visibile lo strappo nel mantello –Non devi ascoltare quello che dicono su di noi perché non ci conoscono; nessuno ci conosce. Ho visto il tuo corpo mal ridotto in acqua e non potevo lasciarti in quello stato. Mi spiace se pensi che non abbia fatto abbastanza.

–Per favore, mi fai venire un’emicrania– Si premette le mani sulle tempie.

–Potresti provare a riposare.

–No, non è questo; sto dimenticando qualcosa– Rialzò il viso di scatto. Si stava facendo tardi e non sapeva quanto tardi, l’orologio era fermo, poteva anche albeggiare a momenti. L’orologio era fermo? Certo era caduto in acqua. Questo voleva dire che anche… –La prova, maledizione!

–Che succede?– Si rimise subito in piedi il ragazzo. Cladzky si stava strappando i capelli a guardare il lago. Girò i suoi occhi arrossati verso di lui.

–Hai messo ad asciugare anche il contratto?

–Quale contratto?

–Quale contratto!?– Cladzky si smascellò dall’angoscia. Il contratto, la prova, il documento che voleva leggere, prima di essere interrotto dal dio dei ciarlatani, quello che attestava di non essere pazzo, di far parte della Lucas Force per davvero –Controlla nelle tasche della tunica, deve essere lì da qualche parte, ma fai piano.

–Le ho già svuotate prima– Fu la timida risposta del chitonato, scuotendo la testa –Mi spiace.

–Hai tirato fuori me ma non il contratto dall’acqua?– Si tirò da solo le orecchie il pilota, sgranando gli occhi e dipanando le narici, mentre le vene del collo andavano sporgendo e il respiro si faceva affannoso –Potevi lasciarmi annegare allora!

–Era così importante?– Avanzò con passo sospeso, mordendosi le unghie.

–Certo che era importante!– Sbatté un pugno sulla sabbia, accecandosi da solo –Senza di quello non ho modo di dimostrare di avere ragione.

Non aveva idea di cosa il salvato stesse blaterando, ma, se l’avesse fatto smettere di frignare, allora glielo avrebbe riportato.

–Andrò a cercarlo– Si mosse deciso, già con le caviglie in acqua –Dev’essere rimasto sul fondo: il circuito della villa non ha una corrente abbastanza forte da smuoverlo.

–Lascia perdere.

–Ma avevi detto che era importan… Ehi!– Si parò il viso da schegge d’acqua scagliate da un calcio capriccioso. Tossì fuori un po’ di cloro liquido entratogli nel bel mezzo della frase.

–Ormai sarà illeggibile– Si voltò e uscì dall’acqua, smosse un poco le gambe per asciugarsi e si diresse al ramo, recuperando le sue vesti ancora umide, diede un’altra occhiata al suo salvatore e sputò sul falò ardente, livido, la fronte contrita, lingua un poco a penzoloni e le ciglia a offuscargli gli occhi. Pronunciò le ultime parole in una smorfia che gli strinse la faccia –Grazie tante, eroe.

–Aspetta– Lo richiamò che già il suo piede faceva da base per il voltare il busto, guardandolo dietro orbite bagnate di bromo che velava lacrime, passandosi una mano a spostare i capelli appesantiti e incollati al viso –Il mio mantello!

Cladzky non disse nulla. Con una mano rimosse con poca grazia il manto di porpora e glielo buttò addosso con poca voglia. Facendo barriera al vento, questo cadde troppo presto e l’altro dovette gettarsi in avanti per recuperarlo, sbattendo sulla battiglia. Lo vide alzare i tacchi e andare via, sparendo dalla luce del falò e dentro la nebbia. Si alzò a fatica dal terreno frabile piantando le ginocchia e i palmi, rimirò lo squarcio nel mantello davanti a sé, sporco di sabbia e stavolta fu lui a dare un calcio in acqua, spegnendo il falò con una pioggia improvvisa. Restò immobile ad ansimare, inarcato in avanti.

–Toriton– Una voce femminile gli carezzò l’orecchio. Si voltò. Ruka era lì, a pelo d’acqua, un metro più lontana. Il chiaro di luna sbalzava dal suo dorso perlaceo bagnato e si specchiava nei motivetti aurei –Non piangere.

–Hai sentito tutto?– Abbassò lo sguardo e si strofinò un avambraccio sugli occhi, lasciando cadere un paio di lacrime nel lago.

–Perché ti sei lasciato trattare così?– Provò ad avvicinarsi lei, ma l’acqua era troppo bassa a riva.

–Lo sai che non ce la faccio a essere cattivo– Si issò il mantello sulle spalle con lo sguardo perso nel vuoto, per poi muoversi con passi pigri verso di lei, inciampando nelle irregolarità del fondo.

–Ma questo non vuol dire essere buoni– Offrì il suo fianco perché lui potesse salirvici e così fece, ma in modo tutt’altro che fiero, sdraiandosi di pancia sulla pelle liscia del cetaceo e reggendosi alla pinna caudale ornata –Dovevi solo pretendere un po’ più di riconoscenza per quanto hai fatto per lui.

–Un vero eroe non dovrebbe reclamare ringraziamenti. Non conosco i suoi bisogni. Se non lo ha fatto vuol dire che l’ho deluso, non è stato abbastanza.

–Oh, piccolo mio– Si mosse verso il centro del lago il delfino bianco, fino a fiancheggiare la parete di roccia muschiata –Certa gente dà per scontato il bene che gli viene fatto. Crede che tutto gli sia dovuto perché non riescono a capire di non essere indispensabili per gli altri. Tu hai fatto molto più del minimo indispensabile, gli sei rimasto accanto fino a che non se ne è andato lui; nessuno aveva il diritto di chiederti altro.

–Però non posso che provare pena per quel poveretto. È così malridotto che temo non andrà lontano.

–Non puoi pretendere di aiutare tutti, specie chi morde la mano che lo nutre.

–Grazie delle tue parole Ruka– Tirò su con il naso, mettendosi seduto a cavalcioni coi talloni a sfiorare la superficie scura, togliendosi un bruscolino dall’occhio –Mi hai quasi convinto che non è colpa mia.

–Oh, non fare lo stupido– Rse lei, anche se in un rapporto telepatico è dura descrivere la vibrazione di una risata –Ascolta, se proprio vuoi fare il possibile ho trovato questo sul fondo. Dagli un’occhiata.

Toriton si sporse in avanti, osservando qualcosa steso sul muso di Ruka teso fuori dall’acqua, incollato da quanto era umido. Delicatamente prese il foglio fra le mani e lo staccò, portando davanti i suoi occhi quel pesante pezzo di carta sgocciolante e aderente alle sue dita.

–Non riesco a leggerlo, è troppo buio.

–Frapponilo alla luna, dovrebbe essere più semplice.

Annuì, Ruka deviò il suo corso, indirizzandosi verso il teschio pallido del cielo e Toriton sollevò il pezzo, facendo fatica a tenerlo dritto. I raggi lo trapassavano come vetro da quanto era impregnato, bloccandosi nell’inchiostro in cui era stampato.

–Questo è un contratto di assunzione.


***


    –Siamo ancora qui?

    Il dio degli dei si voltò, dacché stava osservando la scena e spuntava un’altra casella contrassegnata come “Ingratitudine”.

    –Potrei farti la stessa domanda– Ribadì mentre già pregustava il prossimo incontro.

    –Sono solo venuto a lamentarmi per non essere ancora apparso. Non era stabilito nel contratto un bel monologo strappalacrime? E non dirmi che è questa, altrimenti scateno un inferno che gli brucio la scheda grafica.

    –Oh, sei morto combattendo e continui a vivere come tale.

    –Piano con le battute, è ancora aperta la ferita.

    –Minchia, saranno passati quasi cinque anni dal fattaccio e ancora non ti sei abituato.

    –Eh no, compare, specie ora che son pure tornato in altre spoglie, ma con lo stesso spirito.

    –Intanto piano con i fraternalismi, “compare”, che io e te non siamo proprio amici-amici. Commetti certi crimini contro la scrittura alle volte che…

    –Boh, l’importante è che tutti si divertino no? Però io non mi diverto affatto ad aspettare e neanche gli altri credo. Giuly è sull’orlo di una crisi di nervi, Raven sta cercando Kishin, Donut è stato rapito da un branco di bulletti d’asilo, Alexander sta cercando Deadpool, Gyber non vuole più essere il capo del gruppo, Litios non si sa Kishin cerca Cladzky… Insomma, tutti cercano una conclusione, invece sono più di ventimila parole e tre capitoli che stiamo a seguire vicende con personaggi che nessuno conosce e a nessuno importa.

    –Che ci vuoi fare, alle volte è dura chiudere qualcosa una volta per tutte. Tu per esempio, non facesti lo stesso con, vediamo se ricordo bene, finire di punto in bianco nel mondo di Super Mario? Oppure nel centro di contenimento degli SCP? L’autore sente che il finale si avvicina e vuole terminare tutti i crossover possibili, prima di chiudere la vicenda e non avere più l’occasione di far interagire il proprio personaggio con questa gentaglia variegata.

    –Avesse almeno scelto gente più riconoscibile. Mi sento perso in un mare di citazioni di una persona troppo annoiata per avere niente di meglio da fare che andarsi a spulciare animazione in bianco e nero per fare lo “storico”. Non sei tu il difensore della buona scrittura? E allora digli che pure il pubblico si sente disorientato da questo esercito di volti girellari.

    –Aspetta, ti assicuro che c’è un motivo se non riconosci manco mezzo nome. È del tutto intenzionale.

    –Ah, certo, ora si chiama così. E per quanto ancora dovremo sopportare questa lagna autoindulgente?

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Capitolo 14
*** Fantasmi di un tempo perduto (Quarta parte) ***


CAPITOLO QUATTORDICESIMO,

OVVERO

QUANDO HO SMESSO DI PRETENDERE DI STARE A SCRIVERE UNA BUONA STORIA E MI SONO DIVERTITO


***


Si trovò dinanzi un muro, o meglio, un terrapieno di pietre levigate e disposte nello stesso stile del castello di Osaka. Questo era positivo, perché voleva dire che aveva attraversato l’intero cimitero e gli sarebbe bastato proseguire lungo di esso per trovare un’uscita e, a quanto ne sapeva, ce n’erano almeno trentasette in cui poteva imbattersi. Alzando un poco la testa, poteva vedere la sommità della struttura, scevro di nebbia alcuna, dal cielo privo di stelle, eclissate da luci ben più vicine, che ne tingevano talvolta di bianco, talvolta di ciano, a discrezione del tecnico alla consolle, il cielo ben poco oscuro, mentre una musica, ben più tranquilla di quella che aveva sentito suonare quando era atterrato qualche ora fa, sovrastava le voci di invitati invisibili, una decina di metri più in alto. Dunque Gyber aveva fatto letteralmente alzare l’intera villa su una collinetta artificiale pur di incastrare tutti quei settori nel suo terreno, il pazzo. E una volta che la festa fosse finita, cosa avrebbe fatto con tutti quei chilometri quadrati allestiti appositamente per la serata? Bah, perché interrogarsi tanto su problemi che non gli competevano? Appoggiò i vestiti su un ceppo di legno tagliato di netto, forse perché le fronde andavano a finire nella terrazza poco più sopra e spiegò il chitone. Cacciò una mano nella tasca umidiccia e tirò fuori troppo velocemente la mappa, che si strappò in due. Forse avrebbe dovuto approfittare ancora del giaciglio offertogli da quel verdolino, contemplò con il pezzo stracciato ai suoi piedi. Fortunatamente non gli serviva più intera ormai e si limitò a ripassare la sezione appiccicata alle dita. C’era un’unica scalinata che correva lungo il terrapieno che l’avrebbe portato in cima, sconfinando per un momento nel settore videoludico, ora doveva solo scegliere se andare a destra o sinistra e sperare di beccarla e di non beccare invece l’ennesimo squinternato.

–Ehi, tu.

Ecco, aveva parlato troppo presto. Non osò voltarsi del tutto, spiando con la coda dell’occhio oltre la spalla chi gli stesse rivolgendo la parola. L’età media di quel posto doveva essere inversamente proporzionale a quella italiana, perché si trovava di fronte all’ennesimo minorenne, stavolta una bambina dai capelli rossi, vestitino uguale e una stellinina cucita sul petto, giusto per trasmettere un’ulteriore idea di innocenza, qualora quei grossi occhioni, dalle folte ciglia, non fossero abbastanza espliciti.

–Perché vai in giro così?– Proseguì lei, sbirciando da dietro le dita, rossa in viso.

–Diciamo che– Iniziò Cladzky, per poi ripensarci, trovando troppo complesso spiegarle la faccenda –È uno stile di vita.

–Quindi non è perché i tuoi vestiti sono bagnati?– Indicò la pila di abiti con quella che pareva un bastone da twirling, sormontata da un tulipano tinto come il suo abbigliamento.

–Allora diciamo che ho appena fatto il bucato e volevo stenderlo– Trimbulò Cladzky, appollottolando la poltiglia di carta, per poi piegarsi a raccogliere i suoi panni e allontanandosi con portamento da pavone, non intenzionato a sottostare a un terzo incontro architettato dal dio degli stracciacazzi –Quindi se potessi farti gli affari tuoi te ne sarei grato.

–Posso farlo– Sorrise la ragazza, volteggiando l’asta da parata –Ma posso renderti grato in altri modi!

–Oh no, ti prego, non aiutarmi!– Si voltò, congestionato di orrore, paonazzo, coprendosi il basso ventre con gli abiti piegati –Ne ho abbastanza per stamattina.

–Non è quella la parola magica– Inclinò il viso la ragazza, mentre piegava l’asta come il braccio d’un trabucco. Con uno scatto, gli puntò il vertice fiorito del bastone, chiudendo un occhio e tirando fuori la lingua al margine della bocca dall’apparente sforzo –Abura Mahariku Maharita Kabura!

–Salute– Gli fece Cladzky, non notando alcun cambiamento e, nonostante ciò, lei rimaneva nella sua posa da spadaccina in affondo, col braccio brandente che tremava. Quasi sul di lì per continuare più tranquillo la ritirata, sentì il carico delle sue mani alleggerirsi. Guardò in basso e vide i vestiti scivolare via dalla sua presa, trasportati da una forza invisibile. Fortunatamente, le sue mani chiuse a conchiglia, caddero a coprirgli l’inguine, prima che anche l’ultimo panno fosse rimosso, e rimase a guardarli svolazzare via lentamente –Ehi, piano con gli scherzi!

Questi si muovevano non in maniera disorganizzata, bensì si schiudevano dai loro origami, fino a pendere stesi nel vuoto, disponendosi in una fila ordinata secondo i movimenti graziosi della bacchetta della nuova arrivata, che aveva assunto un aspetto più rilassato. Ad occhi chiusi e fischiettando, diede un ultimo semicerchio nell’aria e i costumi presero spessore, gonfiati d’un corpo che non c’era.

–A-attenti!– Impartì la maghetta, abbassando con decisione lo scettro petaloso, agitando anche il fiorellino tra i capelli nel movimento. I quattro capi d’abbigliamento batterono i talloni, chi con stivaletti, chi con sandali, e alzarono le maniche, almeno chi le aveva, a una fronte che si poteva solo immaginare. Stranito, Cladzky si avvicinò a uno dei quattro, toccandogli il petto con un dito, che sprofondò nel tessuto, solo per ritornare al suo gonfiore originario una volta rimosso. Passò poi una mano avanti e indietro un palmo al livello del collo, aspettandosi di toccare un pezzo di carne, radendo invece la solita aria fredda.

–Bello spettacolino– Ammise, voltandosi scoloriccio verso la bambina che si batteva il bastone sul palmo.

–Chappy– Riaprì gli occhi lei, facendo una piccola cortesia –Per servirti.

–E a che è servito?– Aggiunse subito dopo. Chappy quasi scivolò dal suo inchino e si grattò la nuca.

–Dimenticavo l’ultimo passaggio– Rise nervosamente, prima di ricomporsi, chiudendo i pugni –Esci dalla traiettoria, per favore.

–Così basta?– Chiese, facendo un passettino indietro. Chappy si piantò sulle punte delle sue scarpette rosse e allargò le braccia per incanalare chissà quale energia. Alzò la bacchetta verso il cielo e giù di nuovo in una rotazione da discobolo. Senza alcuna causa visibile, l’erba cominciò a piegarsi sotto un vento caldo. Presto sibilò una piccola, specifica bora in direzione del quartetto in formazione che ne agitò le fibre senza sperderli ai quattro venti, come invece fu per l’imbucato, che si dovette tenere al ceppo di legno adoperato poc'anzi, pur di non essere trascinato via, mentre la pelle gli veniva arrostita da quell’asciugacapelli di folata. Infine si placò, così com’era arrivata, avendo dipanato il poco di nebbia che c’era e lasciandolo scivolare di nuovo a terra come uno straccio –Bastava un “no”.

–Ecco fatto, secchi come katsuobushi in bancarella!– Si complimentò con sè stessa la bambina di rosso vestito, tramutando la bacchetta in uno spolverino e lustrando le spalle dei quattro tessuti, ora non più sgocciolanti. Inavvertitamente, passò anche a spolverare sotto il naso del confuso pilota, che le starnutì sdegnosamente in faccia.

–Fa sentire… orcaloca, è asciutto sì– Dovette ricredersi dopo lo sbigottimento iniziale, passando un dito sulla salopette da giardiniere, sporgendosi dal ripiano del ceppo a cui si era tenuto aggrappato per salvarsi la vita. Per giove, anche l’orologio da polso, sospeso nel vuoto come un quinto membro, aveva ripreso a funzionare, anche se in ritardo ora.

–Non faccio mai promesse che non posso mantenere– Si passò, contrita in volto, lo spolverino su sé stessa, dopo la reazione istintiva del sistema respiratorio altrui –Questi sono tutti abiti tuoi, no?

–Ma certo che sì– Cladzky si portò una mano al volto per assicurarsi non gli stesse crescendo il naso. Era assurdo, ma, dopo tutta la magia degna dell’apprendista stregone avvenutagli davanti le orbite, e data la sua coda di paglia più che giustificata, non poteva accantonare l’ipotesi che anche l’assurdo potesse verificarsi.

–Te li sei portati dietro per tutta la serata?

–Ho delle tasche molto grandi.

–Da quale vorresti cominciare, allora?– Chappy camminò davanti la fila di costumi, passando un dito sulla superficie lavata e centrifugata a dovere di ognuno. Terminò sulla sua consueta tuta bianca –Da questa forse?

–Beh, quella è la mia uniforme da viaggio, ma in verità…– Non fece in tempo a discutere che, con un mulinello di bacchetta, il suo stesso vestiario gli si avventò contro come posseduto da un giocatore di rugby.

–Ho sempre adorato vestire le bambole– Si prese le guance tra i palmi la bambina, mentre la zuffa tra un uomo e il poltergeist dei suoi abiti trasandati imperversava. Cladzky stava ancora lottando con l’aria che, in una serie di cerniere lampo e strappi, l’uniforme gli si era saldata addosso in maniera impeccabile, rimettendolo in piedi prima di perdere volontà e tornare un normale tessuto sintetico.

–Potevo benissimo farlo da solo– Girò la testa al ragazzo. Scosse il capo per riprendere coscienza della situazione e si tirò il fronte dell’uniforme fra i pugni –In verità, come ti stavo dicendo, non posso circolare con questa roba indosso, sarei troppo riconoscibile.

–Ah, certo– Assottigliò gli occhi Chappy, prima di abbassare con eleganza la bacchetta, in un gesto furtivo, contro di lui, facendo partire alla carica il completo da giardiniere, mentre già si sfilava di dosso al ragazzo l’abito di prima. Un’altra colluttazione impari e Cladzky si ritrovò in piedi, stravolto e vestito di camicia e salopette, tenuto dritto solo per la stessa gruccia telecinetica che reggeva la mise verde. La bambina si avvicinò speranzosa, sbattendo forte le palpebre –Ora va meglio?

–No, maledizione!– Gli si avventò addosso, saltando giù dal ceppo, solo per essere riportato indietro dallo strattone dello stesso completo, che lo costrinse a sedersi mansueto –Un giardiniere non ha accesso al cuore della villa!

–Oh, scusa– Si coprì la bocca con una mano, mortificata, mentre l’altra già agitava la bacchetta dietro la schiena per ripetere l’operazione di spogliamento forzato, ma rimase, sulla base di legno, nudo per poco, perché fu presto di turno della tenuta da DJ bicromatica di appiccicarglisi addosso –Questo ti dona proprio!

–I DJ non possono lasciare le loro postazioni– Sibilò inferocito nell’animo, senza neppure guardarla, alzando il petto sotto la giacca e spremendo gli occhi sotto gli occhiali da sole –E, prima che tu prosegua con il chitone della malora, ti avviso già che anche quello non va bene, perché troppo riconoscibile.

–Mi spiace– Si strofinò un piede contro l’altro la bambina, guardando in basso e osservandolo a malapena con uno sguardo dalle sopracciglia a mezzaluna, gli occhi di un azzurro un po’ opaco, mentre le mani si chiudevano alle sue spalle dalla mortificazione –Mi sono lasciata prendere così tanto dal mio spettacolo che mi sono dimenticata di sincerarmi dei tuoi reali bisogni. Se vuoi levo il disturbo.

–Aspetta un momento– Cladzky la trattenne con un richiamo, mentre si grattava uno zigomo con l’indice, ponderando. Pronunciò la seguente frase con una lingua titubante dall’uscire –Quindi ti piace vestire le bambole.

–M-mh– Annuì lei con vigore, nuovamente gioconda in viso, agitando i due grandi boccoli rossi di capelli e con la bacchetta stretta con ambo le mani al livello della vita, guardandolo con occhi brillanti da sarta che studiava la misura del manichino –È sempre stata una mia passione creare abiti!

–Allora puoi comunque aiutami– Si morse il dorso dell’indice per cercare di trovare le parole giuste –Diciamo che voglio passare inosservato alla festa. Sai, sono una tale celebrità che è dura avere quindici minuti per me stesso. Che ne diresti di ideare un completo che mi renda irriconoscibile?

–Oh, che sogno, aiutare qualcuno facendo ciò che più mi diverte– Unì i palmi, in un applauso d’eccitazione, Chappy. Poi si grattò la fronte con la bacchetta, storcendo la bocca –Però creare qualcosa dal niente è molto più complicato che manipolare la natura come ho fatto finora: Sarà molto dispendioso.

–Insomma, vuoi fare il tuo bibidi bodobi buu e renderti utile o ci hai ripensato?– Sbatté il mocassino di pelle sul legno, in un ticchettio che infranse la concentrazione della maghetta. Questa digrignò i denti dalla sfida.

–E va bene!– Si rimboccò le maniche bianche la bambina, per poi inspirare e muovere la bacchetta, più radiante che mai, come una direttrice d’orchestra, canticchiando una notte sul monte calvo con la bocca. Le luci alla terrazza superiore sfasarono un momento, mentre il vento riprendeva a soffiare in una tromba d’aria di fronte ai due che alzava il fogliame da terra. Nell’atto di tirare una lenza per cavare fuori qualcosa dal niente, Chappy portò a sé la bacchetta –Abura Mahariku Maharita Kabura!

Un fulmine cadde lì in mezzo e, come per magia, una volta riacquistata la vista e spostate le braccia, alzate a scudo del volto, Caldzky vide un nuovo abito sospeso davanti a sè. Il suo stupore si trasformò presto in disappunto nel constatare che si trattava di un vestitino rosso similare nel disegno e dimensioni a quello indossato da Chappy stessa, poi in orrore, quando si rese conto di quello che gli aspettava ora.

–Non di nuovo!– Si tuffò giù dal tronco non appena il completo precedente si era rimosso da solo, ma non abbastanza in fretta da evitare la picchiata a ricerca dell’abito, con il risultato di finire indossato alla rovescia.

–Aspetta, quella non va sulla faccia– Cercò di guardare da un’altra parte la ragazza, mentre sbrogliava la situazione. A lavoro concluso tirò un sospiro di sollievo nel non vederlo più penzolare sotto la crinolina con la testa, ma quest’ultima aveva conservato l’espressione arcigna e un arrossamento delle gote che si abbinava bene al vestitino di egual colore. Le gambe, coperte in mary jane da scolaretta e calzettoni bianchi fino alle ginocchia, si chiudevano per nascondere degli slip, con bordi in pizzo, fin troppo visibili da quella posizione sopraelevata.

–Ti rendi conto che “vestire le bambole” era una metafora?– Chiuse i pugni a stringere i bordi della gonna, sentendosi più nudo di prima.

–Scusa– Si asciugò la fronte pezzata dalla fatica e l’aspettativa –Alla mia amica Sally stava benissimo.

–Non lo metto in dubbio– Sbuffò, voltandosi dalla vergogna, con il risultato, però, di alzare ben troppo il bordo nella rotazione –Ma che ne dici di provare con qualcosa dall’aspetto più virile?

–Beh, posso provare con il campione della virilità– Ragionò Chappy e si rimise subito al lavoro. Cladzky chiuse gli occhi per buon auspicio e sperò bene. Si sentì nuovamente un tuono,  strappare di dosso il vecchio vestito e uno nuovo gli si formò sopra, decisamente più modesto, ma non sobrio. Quando riaprì gli occhi fu come se non l’avesse fatto. Si tastò il corpo e si trovò ricoperto di un’armatura da motociclista a placche o qualcosa di simile, con tanto di casco, privo però di visiera, all’infuori di due buchi, unici filtri per l’ossigeno. Toccando meglio, si rese conto di avere due bozzi in viso e un paio di antenne, oltre che una bocca laminata. Aveva indosso l’uniforme del primo Kamen Rider. La voce della maghetta gli giunse lontana, dato l’udito ovattato –Ora sì che sembri un vero eroe, ti manca solo la moto!

–Non ci vedo una sega!– Giunse fuori la voce cavernosa dell’imbucato, che prese la sciarpa cremisi della giustizia e la pestò a terra, sotto lo sguardo sconcertato della ragazzina a quel sacrilegio, essendo cresciuta a favole della buona notte e motociclisti combattenti in prima serata su NET TV –E non ho manco la patente per un’apecar!

–D’accordo, vediamo con qualcosa di meno ingombrante– Si morse le dita Chappy, mentre, con l’altra mano, la bacchetta spazzava via le placche dell’armatura e generava un nuovo lampo. Cladzky venne di nuovo accecato e, più rapidamente del solito, i vestiti gli piombarono addosso. Alzando le palpebre scoprì perché. Gli era stato applicato il minimo indispensabile, giusto un paio di stivaletti rossi belli imbottiti e quello che aveva tutta l’aria di essere un costumino da bagno in spandex nero con fibbia verde. In testa gli si avvitò, come ciliegina sulla torta, una parrucca composta di due sole punte di capelli tirate a lucido. L’attire di Tetsuwan Atom aveva un aspetto a dir poco ridicolo su uno come lui.

–Ah, questo deve essere stato davvero dispendioso da creare, vero?– Sputò acido nell'allungarsi il cinturino elastico e farlo schioccare a posto sul fianco.

–Beh, onestamente sì– Si accasciò ad un albero la ragazzina per riprendere fiato –Devi scusarmi se non sei contento, sto facendo del mio meglio, ma non sono abituata a trattare dei modelli adulti.

–Eccallà!– Chiuse le mani in preghiera, sfregandosi uno stivaletto contro l’altro e generando uno stridore di morbida gomma –Proprio non ti viene in mente un singolo abito che dia un senso di maturità e, perché no, si adatti al mio spirito guerriero?

–Maturità e spirito guerriero…– Ripetè, toccandosi il labbro con la bacchetta, Chappy. Infine schioccò le dita, scattò in piedi e saltellò intorno un punto specifico, agitando lo strumento come un incensiere, recitando a pieni polmoni –Abura Mahariku Maharita Kabura!

Un altro lampo all’interno del cerchio della sua danza sfrenata ed ecco apparire l’ultimo abito, dritto come già indossato da un fantasma, dal contorno decisamente maturo e guerriero, ma non come Cladzky si aspettava. L’uniforme di Sailor Mercury se ne stava in piedi nel prato. Chappy si lasciò cadere a terra per riposare, mentre il pilota balzò giù dal ceppo per correre il più lontano possibile, sperando che, svenuta la padrona, la magia non proseguisse. Speranza vana. Alle sue spalle sentì calpestare il terreno e, voltandosi un attimo, vide il completo alla marinara tallonarlo con passo da centometrista. Aumentò i giri del motore, solo per rendersi conto di star muovendosi sul posto. L’uniforme aveva lanciato uno dei suoi guanti come un pungo a razzo che manco Mazinga e lo aveva trattenuto per il costume in spandex, prima di tirare un poco più forte e trascinarlo indietro per il prato fino a ricongiungersi a un braccio che non c’era, tirandosi dietro, nella posizione più scomoda possibile, la preda. Presolo, tornò indietro alla padroncina, issandoselo sulla spalla, riverso sulla sua schiena di faccia, tenendolo con una mano per le gambe, mentre con l’altra gli abbassava il costumino e deliberava un’innocua sculacciata col palmo di raso, come premio per aver tentato la fuga. Arrivati al ceppo, riprese il consueto cambiamento. Quando la maghetta rinsavì, vide il ragazzo in cima al fusto reciso, decorato dell’uniforme della guardiana azzurra di Mercurio, livido in viso e con le guance che trattenevano il fiato per non urlare. Vari cosmetici, inclusi nell’incantesimo del cosplay perfetto, si agitavano di vita propria, lavorandolo per rendere il viso meno un pugno nei denti.

–Lo dicevo che era la scelta giusta– Saltellò gioiosa come il piumino che gli incipriava il viso –Stai così bene, sei il modello perfetto!

–Sto proprio una favola– Mormorò, non volendo più rischiare la sorte, mentre un nebulizzatore a pompetta lo cospargeva di essenza di lavanda, costretto ad abbassarsi in avanti sotto un pettine troppo insistente, esponendo così, dall’altro capo, un timido sederino arrossato, come il blush che gli veniva applicato sulle guance.


***


Si allontanò senza calorosi ringraziamenti, dopo essersi infilato comodamente tutti gli altri capi d’abbigliamento in tasca. Fu tentato di togliersi quell’uniforme di dosso, ma aveva la necessità di mutare il proprio aspetto in continuazione per rendersi irrintracciabile, così come era tentato di struccarsi a furia di spellarsi la faccia con le unghie, ma quantomeno doveva ammettere che quello strato di cosmetici era un così solido lavoro che quasi sembrava un’altra persona. Inoltre, l’unica cosa peggiore del lucidalabbra azzurro era un lucidalabbra azzurro rovinato. Continuò a seguire il perimetro del muro, ma senza trovare la suddetta scala. Lo sapeva che sarebbe dovuto andare a sinistra invece che destra. Ma perché tornare indietro a questo punto? La villa si trovava giusto a dieci metri da lui, perché fare chilometri per una stupida scala? Si sfregò le mani e indietreggiò dal muro per prendere la rincorsa, si spinse in avanti e si attaccò alle scanalature delle pietre come un geco. Scalare il terrapieno conciato così non era proprio l’ideale e cominciò a pentirsi di non aver accettato quell’armatura pesante da Kamen Rider, piuttosto che arrendersi dopo quattro tentativi falliti, ma ora era tardi per tornare indietro e dire che ci aveva ripensato, no? Dunque proseguì la salita, una rientranza a zoccolo di gnu alla volta e imprimendo tutta la forza che poteva nei polpastrelli.

–Sembri in difficoltà– Attirò la sua attenzione una voce femminile a metà strada e relativo picchiettio sulla spalla.

–Ah, dite così perché non mi avete visto prima– Replicò senza pensare, per poi voltarsi. Un viso d’angelo lo fiancheggiava, corniciato di capelli bruni. Occhi neri ma brillanti si riflettevano nei suoi. Cladzky trasalì, perdendo la presa sulla pietra umida e pronto a farsi cinque metri in caduta libera. Invece, rapida a spostarsi, la figura si portò sotto di lui, prendendolo fra le braccia e accompagnandolo nella discesa. Il ragazzo sbatté le palpebre, mani cinte al petto, mentre la donna atterrava dolcemente. Incrociarono lo sguardo –Voli?

–Sono un robot– Inclinò il capo, coronato di un berretto bianco da crocerossina.

–Ah beh, stupido io che l’ho chiesto, immagino– La squadrò il pilota dalla testa ai piedi, prima nel suo vestito rosato da infermiera fuori moda e poi nell’altezza considerevole –Che ne dici di mettermi giù?

–Ma sei tutta un livido, povera piccola– Strofinò la fronte contro la sua, stringendoselo più vicino.

–Ho visto giorni migliori, ma posso sopravvivere– Sospirò, più a constatare la sua miseria che a risponderle, per poi voltare la faccia, disturbato –E non chiamarmi “piccola”.

–Oh, vogliamo fare i grandi– Gli pizzicò la guancia con una mano guantata di bianco, tenendolo con un braccio solo, cinto ad anello su schiena e cosce –Ma non vuol dire che io possa permetterti di andare in giro così malconcia.

–Guarda, non è quello il problema, razza di stereotipo misogino dell’era atomica…– Cercò di gridargli contro, prima di ritrovarsi con le labbra tinte di azzurro chiuse delicatamente fra un pollice e un indice, costringendolo a mugugnare il resto degli insulti.

–A-ah, non fare i capricci– Schioccò la lingua e scosse la testa, guardandolo con riprovazione. Tornò a sorridere e lo solleticò sotto il mento con il mignolo della mano stessa –Io non sono uno stereotipo misogino, sono l’unità di supporto Lili, del Reparto Rainbow Robin.

“Uno più intelligente dell’altro in questo cimitero” Cladzky schiaffeggiò via quella mano invasiva, piantando un proprio dito in mezzo agli occhi di Lili, parlandole a versi scanditi a tre centimetri dal visino affilato dell’automa.

–Molto piacere, ma non ho bisogno di supporto, tantomeno del tuo. Ho impegni a cui attendere– E gli bussò sulla cima del capo, che risuonò di plastica rigida, a dimostrare di star parlando a una testa vuota. Disincastrò il bacino dalla cinta del suo braccio destro con un rumore di stappo e saltò giù dall’alta figura materna, solo per essere ripreso al volo e penzolare a testa in giù, trattenuto per l’orlo della gonna con poco sforzo, con il collare da marinaretta cadente sulla nuca e il fiocco, legatogli davanti, che lo seguiva, coprendo l’espressione del ragazzo nei nastrini –Lasciami andare o ti denuncio per operare senza consenso del paziente!

–Il consenso informato non si applica se le condizioni del paziente sono reputate gravi– Puntualizzò lei, tenendo il braccio disteso, di modo da tenerlo abbastanza lontano che il suo prevedibile pugno andasse a vuoto, trascinandolo per inerzia a girare sull’asse come un kebab. Questo offrì a Lili la possibilità di studiarlo superficialmente da ogni angolazione. Con il cervello ancora a soqquadro per la scatola cranica, Cladzky fu di nuovo preso in braccio e date leggere pacche sulla schiena –Su, ora vediamo di farti star meglio.

–Tanto peggio di così non puoi ridurmi– Bofonchiò ignaro.

Lili si sedette sugli scalini di una fontana dalle acque violette, illuminate sul fondo da un circolo di luci. Lì, si poggiò il paziente sulle ginocchia, tenendo dritto il suo busto smorto stringendolo a sé con il braccio destro, mentre la mano sinistra andava a prenderlo per il mento e girargli il viso sotto le sue fotocellule preoccupate –Puoi stendere tutto il fondotinta che vuoi, ma quell’ematoma sotto lo zigomo non può sfuggire ai miei sensori.

–Ah, quello– Borbottò distrattamente il ragazzo, con il volto reclinato nel palmo di lei –Credo sia stato un minotauro a farmelo, per una questione di pantaloni. Dio, come mi piacerebbe indossare dei pantaloni.

–E questa tumefazione sopra il ciglio destro?– Il palmo di lei si spostò dalla sua funzione di cuscinetto, portando le dita sulla cima dei capelli tinti d’azzurro, ruotando il cranio come desiderava.

–Il bernoccolo?– Sospirò, guardando altrove –Quello era il suo collega grifone come ringraziamento per aver pregato insieme.

–E questa gengiva gonfia?– Gli alzò il labbro senza troppi complimenti.

–Sarà successo quando mi sono spaccato i denti sul volante del mio TFO, schiantandomi in una serra gestita da un vecchio poco “neo” ma molto “fascista”– Cercò di divincolarsi da quella stretta che gli bloccava le braccia lungo i fianchi, ma non c’era nulla da fare contro una macchina se non continuare a lamentarsi –E smettila di smanacciare dappertutto, mi rovini il trucco.

–Per quanto ne so devono averti passato con la resina alchidica, perché questa roba non si toglie neanche a prenderti a schiaffi– Ritirò lei la mano, mostrando il tessuto bianco neve, immacolato come prima.

–Qualcuno me li dia per davvero, voglio svegliarmi– Roteò le pupille dietro le palpebre dall’esasperazione. Non ebbe il tempo di autocommiserarsi che, la delicata appendice di lei, costrinse con due digiti a schiudere l’iride dal velo carnoso, costringendolo a fissarla dritto negli occhi d’inchiostro di lei, curvatasi sopra. Una luce da lampada scialitica nascose tutto alla vista, e gli ci volle un po’ per capire che quella torcia elettrica altro non era che una funzione del circuito ottico di Lili, dalle cornee trasformate in fanali. Se era sveglio questa visione era più perturbante di ogni incubo.

–Reazione della pupilla lenta, sclera arrossata, per non parlare delle occhiaie che ti ritrovi– Lo analizzò in ogni capillare irritato, per poi ripetere con l’altro organo fratello. Spense i riflettori proprio quando stava per farlo lacrimare –Devi stare più attenta a rispettare le ore di sonno che il tuo corpo richiede.

–Vedo solo puntini– Piagnucolò lui, strizzando gli occhi –Morte, se sei tu, coglimi.

–Oh, non dire così, ora facciamo un gioco– Gli divaricò le dita davanti al viso, fino a che non fu in grado di distinguerle nitidamente –Ho qualcosa in mano?

–N-no?– Alzò il sopracciglio sormontato dalla tumefazione.

–E invece…– Con un rapido gesto, gli apparve un tampone di cotone nel palmo.

–No!– Forzò contro il braccio destro di lei, disperato.

–Ti sbagli, c’è– Lo corresse ridendo, pronta a imboccarlo, ma lui serrò le labbra. Tiratasi indietro un momento ritentò, quasi stesse facendo l’aeroplanino con un cucchiaio –Avanti, dii “Ah”.

–Non ti azzardare a ficcarmi oggetti nell’esofago– Digrignò sotto i denti, stringendo le sue futili nocche –Esigo, per la seconda legge della robotica, che tu mi lasci andare, recalcitrante residuo retrofuturistico, altrimenti…

Ma non disse oltre che si sentì afferrare per il naso, tagliandogli ogni via di respirazione. Non era la mano sinistra, ancora che stringeva il tampone, né la destra, che ancora stringeva lui come una spira; un terzo arto si era aggiunto, scivolando da uno scompartimento del suo fianco. Costretto ad aprire la bocca, lesta, scattò la sinistra a puntellare il cotone sulla sua lingua.

–Non hai un’ulcera, è l’unica cosa positiva che posso dirti– Aggrottò lei la fronte, avvicinando gli occhi al muscolo, inchiodato dallo strumento, che si arricciava come un animale in trappola, sostanzialmente riflettendo l’emozione del ragazzo –Guarda com’è secca. Sei completamente disidratata, poverina. Non avrai bevuto nulla da ore.

“Proprio nulla non direi” Considerò lui nel contare le volte che era caduto in acqua, ma in effetti non era ancora riuscito ad approfittare del buffet da quando era atterrato ore fa. L’ultimo sorso decente era stata quella leggera tisana al narcotico, ma non bastava certo per una serata tanto movimentata che l’aveva bruciato.

–A giudicare dalla ruvidezza del tessuto sei in deficit di vitamine– Si batté il palato in ammonimento maternalistico, scuotendo il capo –Qua bisogna correggere l’alimentazione d’ora in avanti.

Non gliel’aveva detto anche Mark, da un sacco di tempo anche? E lui si era sempre ripromesso di farlo quando si sarebbe sentito meno depresso. Sorprendentemente non lo fece mai. Sembrava di aver a che fare nuovamente con lui, con la differenza che non aveva scelta ora.

–Sembra che qualcuna si sia dimenticata di lavarsi i denti di recente– Sollevò un paio di volte le sopracciglia con un sorriso da volpe.

Incredibile, ci aveva scherzato su per anni, ma doveva ricredersi: Altro che Mark, ora sì che poteva dire di avere a che fare con un robot che si comportava come una mamma nei suoi riguardi. Ogni suo pensiero fu interrotto dalla testolina in cotone che gli grattava contro la parete della gola, dandogli un sentore di soffocamento, facendogli impazzire l’epiglottide. Lili rimosse il tampone giusto quando Cladzky sentiva di ingoiarlo, tossendo di liberazione.

–Vacci piano con…– Tentò di dire, ora che la terza mano gli aveva mollato il setto nasale, ma il tempo di far sparire il bastoncino chissà dove, che subito la sinistra gli portò alle labbra un bicchiere d’acqua minerale, forzandolo a buttare giù tutto, pastiglie di integratori comprese.

–Vacci piano tu, è una fortuna che ti reggi ancora in piedi– Lo rimbrottò Lili, aumentando gradualmente l’inclinazione del cristallo, fino a far sparire l’ultima goccia. Muovendolo un poco per assicurarsi che fosse vuoto, lo ripose dove lo aveva preso, mentre lui si accasciò contro di lei, più gonfio di prima, ma quantomeno con le tonsille non più desertificate.

–Questa situazione è ridicola, io non sono…– Fu interrotto da un singhiozzo, seguito da un attimo di interdizione. Riprovò, solo per lasciarsene scappare un altro più acuto. Sentì presto degli amorevoli colpetti sulla schiena.

–Da brava, respira, non bere così in fretta– Gli istruì lei, sussurrandogli nell’orecchio.

–Stavo dicendo…– Ripetè quanto voleva dire, ma neppure concluse la frase che bastò l’improvviso inserimento della punta ferrosa di un termometro a fargli capire l’andazzo.

–Ricorda di tenerlo sotto la lingua– Gli agitò l’indice della sinistra con fare perentorio, mentre il terzo arto poggiava il palmo vellutato sopra la sua fronte –Anche se non ci vuole molto a capire che hai la febbre.

–Che ci vuoi fare, sono sempre stato una testa calda– Si lasciò sfuggire, sovrappensiero, lo strumento di bocca nel pronunciare la freddura, colto al volo e rinfilatogli a posto da Lili.

–Non ti sforzare a fare battute– Gli diede dei buffetti, seguiti da una carezza –Ora stai buona e aspettiamo che suoni.

“Tempo di aggiungere il sostantivo ‘pediatra’ alla lista delle mie professioni disprezzate” Meditò, scurendo il viso sotto i muscoli contratti delle sopracciglia. Lili cinse anche il braccio sinistro intorno a lui per tenerlo più stretto e lo cullò, canticchiando una ninna-nanna tradizionale di Edo. Non potendo sgusciare via, si lasciò andare a peso morto, con il mento di Lili poggiato sulla cima della sua testa, ad annusare la pelle sintetica del suo collo da bambola.

Nen, nen korori yo, Okorori yo.

Bōya wa yoi koda, Nenneshina~

In effetti poco ci mancava che si addormentasse davvero, con il petto di lei come cuscino e le sue braccia, guantate di bianco, avvolte a guisa di coperta, seduto sulle sue soffici cosce, velate dal vestito di morbida fattura. L’articolazione destra ausiliaria andava a passargli, leggera, i capelli, mentre un quarto arto, sinistro per questioni di simmetria, apparve a reggergli il termometro, ch’era di lì dallo scivolargli ancora di bocca. Era sempre più difficile staccare le ciglia fra un battito e l’altro.

Bōya no omori wa, Doko e itta?

Ano yama koete, sato e itta.

Le palpebre cominciarono a farsi pesanti e abbassò le spalle, così tese fino ad allora, esalando un sospiro che gli rimbalzò contro, premuto com’era contro quel seno, su cui strusciò la guancia. Le nocche sciolsero i loro pugni, mentre le gambe si fecero meno rigide, con le punte dei piedi volte al basso. Il suo corpo, ch’era tutto un broglio di nervi elettrici, si distese e gli occhi gli si chiusero del tutto. Era questo caldo buio il sonno? Non lo provava da molto tempo. Prima era stato drogato da Mark0 e un’altra volta aveva sbattuto troppo forte contro la superficie piatta di un lago, ma adesso stava provando un riposo del tutto volontario e piacevole. Anche quella voce, che lo assillava dicendogli che non poteva permettersi di dormire quella notte, si era spenta. Dopotutto, che senso aveva ora la sua aspra vendetta quando era così bello restare abbarbicati in sì caloroso nido? Dimenticò in breve di essere un adulto e ogni responsabilità a cui il mondo si aspettava adempisse, rimanendosene lì a farsi carezzare la testolina e a succhiare lo strumento disinfettato come un ciuccio.

Sato no miyagē ni, nani morōta

Denden taiko ni, shō no fue.

–Oh, abbiamo finito!

Cladzky riaprì gli occhi ancora con mezzo emisfero addormentato. L’abbraccio si fece meno restrittivo e gli venne estratto il termometro da sotto la lingua. Lili rimuginò, osservandone il risultato, reggendolo nella prima mano sinistra, mentre la seconda aveva ritirato fuori il tampone.

–Davvero?– Chiese poco attento.

–Non risultano infezioni batteriche nella faringe, nè noto sintomi di altre malattie al momento, ma questo non toglie il fatto che scotti. Se giocassi a tirare un'ipotesi, direi che si tratta di una febbre psicogena.

–Quindi è un no– Fece una smorfia il ragazzo, quasi divertito a quella perdita di tempo, poi odorò aria di insulto –Aspetta, stai dicendo che sono uno psicolabile o cosa?

–No, stupidina– Gli premette un dito sulla punta del naso, facendogli incrociare lo sguardo, per poi alzarlo di colpo, in un’adorabile schicchera, per indurlo a stare attento –Significa che ti sei talmente stressata da indurre il tuo corpo a credere che il dolore sia fisico e attivare il sistema immunitario per nulla.

–Cioè, sto male ma per finta?– S’imbronciò –E tutte le botte che ho preso, allora?

–Quello è un altro discorso, che approfondiremo adesso– E senza complimenti gli sollevò il vestito da guardiana fino al petto, mostrando un corpo irrigidito dal terrore, nudo sotto il costume, eccezion fatta per un paio di mutandine, con fiocchetto azzurrino frontale, fin troppo strette.

–Ehi, che vuoi fare, non è roba tua!– Tutta la stanchezza gli passò di colpo e tornò a scuotersi, ma senza riuscire a fare altro che stringere il podice e fremere come una foglia, spiegazzando la rosea divisa di Lili, sopra cui era costretto a sedere –Lo sapevo che ci scappava un’altra molestia.

–Calma, non c’è ragione di allarmarsi– Gli lisciò il dito, di una mano di troppo, lungo il petto, con movimento erratico. Alla leggerezza del raso, gli venne la pelle d’oca e si morse le labbra, ma, quando il tocco giunse sotto le reni, non poté fare a meno che lasciarsi scappare un pigolio in falsetto. Lili si coprì un risolino con la quarta e unica mano disimpegnata. –Il tuo cuoricino batte così forte pure da seduta.

–E vorrei ben vedere– Tentò di abbandonare il tono da voce bianca –Sono stato rapito da un folle, feticistico frigorifero, figlio di…

Ma  la quarta mano venne impegnata presto, tappandogli la bocca, aderendo come carta moschicida, e tirandogli dietro il collo, costringendolo ad allungare la schiena.

–Su, stai dritta, più sciolta– Lo manovrava lei, con ambo le braccia destre, fino a ottenere la postura desiderata, nonostante ogni suo divincolo; poi, la stessa che lo solleticava sfiorandolo, si poggiò decisa sul suo petto palpitante –Ora, per favore, fai un bel respiro.

“Favore” lo chiamava lei, come se potesse rifiutarsi. Ma che stava facendo poi, auscultava senza stetoscopio? Dopotutto aveva già dimostrato di essere un robot fuori dal normale, figurarsi se non ce l’aveva incorporato sotto il palmo. Decise allora, vista la situazione, di collaborare e buttare fuori ogni suo senso di impotenza in un’espirazione profonda e amareggiata. Ripeterono l’operazione un altro paio di volte in punti diversi, prima che Lili rimuovesse quell’aria pensosa dalla faccia e la mano dalla bocca di lui, congiungendola, in un piccolo plauso di soddisfazione, con la sua ausiliaria specchiata.

–Bravissima, abbiamo quasi finito– Cinguettò lei, ma lui si fidò poco, non vedendole mollare il vestito. Le calò un occhio, dilatato dalla sorpresa, sotto il diaframma, dove portò due dita a massaggiare la zona, scurita da un altro livido. Cladzky fu percosso da scosse di conato, estinte in fretta, per fortuna. Alla reazione, subito le ritrasse –Perdonami, ti fa ancora molto male?

–Eh, i calci di tacco si fanno sentire a lungo– Sbuffò, ripensando a Kishin ancora sulle sue tracce e più ferale di prima.

–Anche questo lo è?– Gli giunse la domanda e anche una scossa dei nervi dal costato.

–Ahia!– Trasalì, nel sentirsi toccare il segno lasciato da Aswin –Da cosa lo intuisci?

–C’è la serigrafia della marca sulla pelle– Si sbigottì lei stessa del bassorilievo a caratteri rossi, per poi poggiare un pugno sul proprio fianco e un altro ad agitargli l’indice davanti il naso, a mo’ di metronomo –Insomma, possibile che una bambina carina come te debba sempre giocare a fare la lotta? Che razza di amici frequenti?

–Vuoi capirlo, per una buona volta, che io non sono una maledetta…– Si sentì cadere all’indietro, non più retto dalla stretta dell’androide alle spalle, finendo con le gambe all’aria, pronto a cadere di testa dal suo grembo, solo per fermarsi di nuovo, appoggiando la nuca nell’interno gomito di Lili, dove il guanto bianco neve bordava nella morbida pelle artificiale. Le gambe, alzate per la sorpresa nella compressione dell’addome, scesero di nuovo, o meglio, solo una lo fece. L’altra poggiò i polpacci sopra un palmo aperto ad accoglierla. Lili se ne stava lì, a soppesare l’arto inferiore e sistemandosi il berretto da infermiera, scivolato fra un cenno analitico e l’altro, mentre mirava, mugugnando, un taglio poco sopra lo stivaletto.

–E questo?– Andò a scoprire la ferita, abbassando il bordo della calzatura, rivelando del sangue rappreso che era calato fino al piede.

–Quello?– Stralunò un momento nel constatare come la ferita, mezza cicatrizzata, fosse più grande di quanto non pensasse. Quando aveva sbattuto sulla lanterna era troppo buio e dopo aveva trascurato di controllare come stesse la gamba, considerandola una cosa da poco, ma in effetti era un bello sbrego –Sono inciampato.

–Inciampata?– Si pose l’indice alla guancia –Sicura di non esserti azzuffata ancora?

–Certo, ignora pure quello che dico come hai fatto dall’inizio di questo sequestro– Incrociò le braccia.

–Come sei drammatica– Gli rise in faccia, letteralmente, perché se lo ravvicinò abbastanza da strofinare il proprio naso con quello di lui, congelandolo in un istante di imbarazzo e, prima che potesse reagire, lei si alzò in piedi, sempre con lui in braccio. Si voltò dall’altra parte, a fronteggiare la fontana, e lo poggiò dolcemente sul bordo di pietra, riuscendo finalmente ad essere sullo stesso livello degli occhi neri e stellati di lei –Ma so io cosa ti ci vuole.

–Barbiturici se andiamo avanti così– Le sue mani mollarono la presa, ma lui non provò neppure a scappare, già sapendo che non sarebbe servito, ma non potè fare a meno di pentirsene un poco quando tornarono a ghermire il suo costume, lasciandole fare inizialmente, pur di farla finita in fretta, ma stavolta non si limitarono ad alzarlo, bensì, due ne sciolsero il collare mentre l’altro paio glielo sfilava di netto. Rimasto con solo indosso slip e accessori, si coprì il petto con le braccia, mettendo più peso su una gamba che l’altra, torcendo il busto via da lei e, osservandola da dietro la spalla, piegare per bene l’uniforme in un quadrato e poggiarla. Finito, tornò a lui, che azzardò ad arretrare di un passo, non realizzando quanto vicino fosse al bordo e quasi cascando all’indietro, se non fosse stato trattenuto per i polsi. Rimasto a guardare la superficie dell’acqua troppo piatta per essere rovinata, si girò giusto per vedere quel ginoide esapoda che, prese le mani nelle sue, con le altre due gli sfilava la tiara dorata dal capo, premurosa quasi fosse una bambina di vetro –Anche questo fa parte dei tuoi esami?

–Beh, non posso certo operare una paziente sporca– Rispose Lili, poggiando la tiara sul quadrato e già con le dita a slegare la fascetta sul collo

–Operare?– Sgranò gli occhi, sentendo la pressione sulla gola andarsene insieme al girocollo –Sporco?

–Oh, un’operazione da nulla, non ti spaventare– Posò la fascetta, piegando anch’essa con rigore, e passò a sfilargli gli stivaletti lucidi, senza mai mollare le sue mani al contempo.

–Sì, ma– Si genuflesse un poco nel togliersi il primo per il contraccolpo e poggiare di nuovo la pianta nuda su un terreno così duro com’era quel marmo –Cosa intendi con sporco?

–Che hai bisogno di un bagnetto– Il suo contatto visivo era magnetico, oltre che d’argento, quasi elettrico, che neppure si rese conto di avere perso anche il secondo, poggiato più in là insieme al mucchio, e già con i pollici di Lili infilati fra la carne dei fianchi e l’orlo delle mutandine, presto calate a sfregare lungo le gambe tremanti.

–Avanti, non dirai sul serio, io non posso…– Perdette un momento l’equilibrio quando gli furono portate via dalle caviglie. Riprese, livido nelle gote –Non può essere vero.

–E perché no?– Chiese candidamente Lili, mostrandogliele mentre piegava quella biancheria infiocchettata davanti a lei e la metteva da parte.

–Ci sono dei limiti a quello che puoi fare.

–Io sono l’unità di supporto Lili– Si chiuse le mani ausiliarie a conchiglia e vi coricò sopra con lo zigomo, sbattendo le ciglia –Posso fare di tutto pur di farti star bene

–Intendo dire a quello che posso permetterti di fare– Biascicò lui, incapace di spicciarsi da quella doppia stretta di mano. Si piantò sui talloni e alzò il mento –Posso farlo da solo, non è un problema.

–Oh, piccola bugiarda– Gli prese il naso e lo agitò come un sonaglino –Perché non lo hai fatto prima di ridurti in queste condizioni allora?

Gli passò un dito su per lo stomaco fino ad alzarglielo davanti gli occhi e mostrare uno strato terroso coprire quel bianco neve della sua appendice. Certo, era tutta roba che aveva accumulato, insieme al sangue rappreso, nei suoi capitomboli. Sfregò indice e pollice per rimuovere la polvere e gli afferrò le braccia, poco sotto la spalla, mentre l’altro paio mollava la stretta.

–Non puoi farmi questo– Cominciò a singhiozzare nella voce, arrossendo non di semplice imbarazzo ormai, con il collo venato –Non è più divertente.

–Divertente?– Acuì il tono, con fare da moina e iniziando a sfilare ogni dito dei suoi guanti, dall’esterno all’interno –Alle volte è la cura a sembrare più amara, ma vedrai che alla fine del processo ti sentirai rinato.

–Lo sai che non intendo questo– Cercò di trovare una scintilla di sincerità negli occhi di Lili, così maliziosi nell’espressione contratta, ma del tutto vaga nei pensieri –Non di nuovo… Non puoi umiliarmi così.

–”Umiliarti”– Si ritrasse lei, mentre le sue mani gli risalivano i gomiti, sfiorando le pieghe bianche dell’unico tessuto rimasto –Non dire sciocchezze, zuccherino, non devi vergognarti di te stessa.

–Ma…– Borbottò lui, col groppo in gola, il respiro affannato e già una lacrima salata di polvere che scivolava dalle ciglia –Loro…

–Loro chi? Chi vuoi che ti veda a parte me? Non c’è nessuno ad umiliarti qui.

–Tutti– Fu l’unica cosa che riuscì a dire prima di scoppiare a piangere senza ritegno, in piedi sul posto, ginocchia deboli che si toccavano e le braccia, ora nude come il resto, a penzolare sui fianchi, dita appena scattanti di tendini confusi, un torace che si scavava da quanta aria usciva dal corpo, il viso contratto in una maschera dagli occhi arrossati e la bocca semiaperta in iperventilazione, in cui scivolavano torrenti di sale; ma tutto sommato più quieto di quello scorso.

–Quindi li vedi anche tu– Si poggiò il mento sul polso di un pugno chiuso, palpebre leggermente abbassate, meditabonda. Lili strizzò gli occhi e concentrò l’udito fino a escludere tutto per sentire solo l’ansimante singulto del ragazzo. Li riaprì, più convinta di prima, e gli poggiò appena le mani sulle spalle –Piangi pure, ora puliamo il tuo bel faccino.

Non ebbe risposta e neppure uno sguardo, dunque se lo avvicinò, senza forza, appena tirandolo, in un abbraccio che lui ricambiò istintivamente, gettandole le braccia al collo e cadendo in avanti su di lei, unica cosa a reggerlo, bagnandole la spalla nello stropicciarle gli occhi addosso per nascondere il viso rigato. Era il secondo cedimento di nervi che ebbe quella notte, tanto disperato da accettare conforto anche da un così ameno simulacro di consolazione umana. Lili ricambiò, passandogli una mano a giocherellare coi suoi capelli e un’altra a reggerlo sotto il bacino, per allievare il peso dalle gambe ingracilite, solcando avanti e indietro, con il pollice, lungo la curva del gluteo. Intanto, lei già sbirciava oltre i ciuffi azzurri di quella testolina, sopra cui poggiava il naso quasi ad annusarli, per sommergere, con un’ausiliaria mancina, un dito nell’acqua. Dal campionamento sembrava essere ben filtrata. Sorridendo, lo sollevò, retto con il solo palmo sinistro, a fargli da sedile sotto le natiche, e il destro sulle scapole.

–Forse l’acqua è ancora troppo fredda per te– Considerò Lili, prima di alzare le dita di una terza mano e chiudere gli occhi in un’espressione divertita, mentre gli mostrava quei digiti smontarsi per meccanismi interni e ricomporsi come piccole canne di fucile. Un vampo da fiamma ossidrica esplose bianca, prima di stabilizzarsi verso l’alto a punteruolo e cambiare colore, scendendo dal blu al rosso. Il ragazzo smise di piangere per un momento. Con naturalezza mondana, Lili abbassò la lancia termica fino a radere l’acqua e sommergerla del tutto, alzando una forte condensa, ma incapace di mutare la fiamma che brillava violetta sotto quell’ebollizione, deformata dal vetro smerigliato che era diventata la superficie in continuo rigurgito –Quarantadue gradi precisi dovrebbero bastare.

Concluso il lavoro nel piccolo bacino della fontana, estinse le dita e si limitò a mulinare l’acqua con il braccio, per poi ritirarlo fuori, non zuppo, ma coperto di perline trasparenti che si scrollò di dosso con un solo gesto, mostrando un arto che non sembrava neppure essere stato immerso, con il tessuto dei vestiti non appesantito, né incollato alla pelle.

–Non preoccuparti– Si sedette, in ginocchio, sul bordo della fontana –Sono fatta di materiale idrofobo

“E chi si preoccupa?” Pensò il ragazzo mentre veniva calato in quello che fino a pochi secondi fa era un pentolone bollente. Immaginando, già dalla condensa che saliva a lui, una temperatura eccessiva, tentò di sollevarsi, ma non aveva terreno solido e riuscì solo a ritardare il primo contatto fra la superficie e il piccolo, rotondo principio delle sue gambe. Al bruciore improvviso e pungente, sollevò il bacino con colpo di reni, stringendo i denti –S-scotta, maledizione!

–Non scotta, sei solo sorpresa da quanto sia calda– Lili se lo rigirò di colpo, passandogli sotto il petto con un braccio, a pancia in giù sulle sue ginocchia, massaggiandogli la zona interessata con un palmo che, per contrasto, appariva gelido. Per la sensazione spiacevole, lui non potè fare altro che stringere la gonna di Lili fra le dita. Con un giocoso schiaffetto finale sulla superficie ammortizzata, che riattivò, più forte, la circolazione, ripetè quanto prima, tenendolo da sotto le braccia stavolta –Proviamo con una discesa più graduale stavolta, va meglio?

Non certo più propenso, temendo ancora la superficie, il giovane si chiuse al petto le ginocchia e s’intrecciò le braccia dietro di esse, ma così facendo finì solo per ripetere il contatto precedente nel medesimo punto offeso. Stavolta venne immerso senz’alcuna recalcitranza, finché fu seduto sul fondo piastrellato e l’acqua gli lambiva la base del collo. Se Lili aveva ragione, la sensazione di ustione alla cute doveva solo essere la sorpresa per lo sbalzo di temperatura, ma non diminuì il fastidio iniziale.

–Cerca di rilassarti, non pensare a nulla, ci sei solo tu ora– Lo lasciò poggiare con la schiena al bordo smaltato della fontana, andando con le mani a inciotolare un’oncia d’acqua e zampillandola sulla cima della testa, ammutolendo ogni suo lamento. Quando finì di versare, lui boccheggiò per un momento, prima di scivolare giù, immergendosi fino al naso e stringendosi a riccio sott’acqua, chiudendo gli occhi, senza strizzarli, nel tentativo di seguire il suo consiglio. Lacrime, non più calde comparate a dove si trovava ora, si confondevano nel liquido clorizzato, così come il suo singulto affannoso veniva soffocato in bollicine. I pollici di Lili si posero davanti le sue orecchie e il resto delle dita sulla nuca, staccandogli il retro del cranio dalla parete interna e lasciandololo scivolare in avanti, quasi sdraiato, finendo con tutto il volto appena sotto il pelo dell’acqua che infrangeva prima col mento per poi invadergli le narici e le orbite. La spinta s’interruppe, trattenuto da quelle mani che si intrecciavano sul suo occipite, e cadde dalla sua posizione orizzontale. In quegli attimi senza respiro, con i padiglioni auricolari invasi dall’acqua e la mente che galleggiava come il corpo, notò qualcosa. Non sentiva più il tocco del raso in quelle dita che gli premevano le ossa parietali, ma un materiale, sintetico certo, eppure sembrava pelle, liscia come ceramica. Atterrò non più sopra le piastrelle, ma in mezzo a un paio di cosce familiari per l’impressione che si era fatto di esse sotto una gonna rosa, ora assente. Le mani gli mollarono le tempie, di modo che potesse riaffiorare con il viso fuori dall’acqua, sputacchiò un poco e si adagiò con la schiena contro di lei, non più stirando un vestito, ma affondando in un petto carnoso. Le gambe giacquero su quelle di Lili, già mezze piegate e dalle caviglie in nodo, stringendo quelle di lui nel mezzo, leggermente sollevate. Coricato com’era, chiuse una mano sull’altra e le infilò sotto il proprio inguine, stringendo le cosce sui polsi, affossando la testa fra le spalle, in un atteggiamento di piccolezza, acuito dal calare di quelle lunghe braccia su di lui, sovrapposte sul suo petto e a stringendogli le spalle, saldandolo a sé. Sbirciò con la coda dell’occhio, senza osare girare il capo, che venne subito fiancheggiato dalla faccia di Lili, poggiata con la la fronte al suo sopracciglio. Gli sussurrò nuovamente all’orecchio, con voce più languida –Non lasciarti impensierire dagli dei esterni, fintanto che sarai felice. Non possono fare altro che guardare e allora cosa ti importa della loro opinione? Se gli piaci resteranno, altrimenti ti ignoreranno, ma non possono farti nulla in ogni caso, è come se non esistessero.

Smise di piangere e rimasero così per un po’. Prima che l’acqua potesse raffreddarsi, due flussi caldi s’immisero da due lati, frutto del paio ausiliario degli arti di Lili, trasformati in due lance termiche e ritirate a lavoro finito. Guancia a guancia con lei, chiuse nuovamente gli occhi, mento sul petto. Non si sentiva male, era vero che bastava abituarsi alla temperatura. Stava tornando quella strana sensazione di prima, di affondare, non solo nel grembo di Lili, ma anche mentalmente. Quel calore che sentiva non era solo l’acqua e quell’abbraccio non era solo una stretta, ma era la soddisfazione di un bisogno. Quale?

–Sei un po’ pallida– Notò Lili.

–Con tutte quelle radiazioni solari, nello spazio è sconsigliato abbronzarsi– Ripetette a memoria un consiglio letto in qualche guida galattica per autostoppisti. Spazio, ovvero la dimostrazione della rarità della vita, dell’appiattimento della prospettiva, un manto nero di perle vicine che, srotolato, mostra un acquario e come tutti questi è composto in buona parte da vuoto. Quanti lunghi viaggi fatti di consegne, spedizioni, avanscoperte per conto di terzi, fra un pianeta e l’altro, fatti di giorni neri fuori dalla carlinga e grigi dentro, intermezzati da visite su abbandonate isole che, per quanto lunghe, sempre sarebbero state ricordate in pochi attimi, durante il prossimo, nero viaggio. Sarebbe impazzito se non ci fosse stato anche Mark con lui, benedetto computer, ma sempre un computer rimaneva, essenziale per il TFO, quindi per lui, ma rimanendo una voce incorporea che usciva dalle casse audio, un fantasma che spremeva le meningi facendo vibrare le ventole di raffreddamento, che si mostrava servizievole espellendo una tazzina di tè ben zuccherata dallo sportello del bollitore elettrico, un socio con cui faceva a turni per guidare dietro la cloche, qualcuno che conosceva i suoi gusti musicali azzeccando sempre il pezzo giusto per l’occasione dalla libreria scaricata dentro di lui, al massimo un braccio articolato che si calava dal tettuccio per pulire il disco di tanto in tanto e aiutarlo a indossare la tuta spaziale, ma finiva lì. Mark era sempre stato l’unico compagno che aveva avuto durante quelle infinite traversate, l’unico disposto a farlo, perché pre-istallato nel disco che non aveva mai finito di pagare, non per sua volontà. Aveva provato a ingaggiare qualcuno come dipendente in qualche bettola ai bordi della Via Lattea, ma quando agli interessati era mostrato il mezzo di trasporto, l’idea di passare una settimana, stretti come sardine e nessuno con cui interagire fuorché un matto e un’intelligenza artificiale matta quanto lui, prima di mettere piede su pianeti sconosciuti, l’interesse veniva meno. Di amici se n’era fatti, ma sempre volatili. Ovunque giungesse, chiunque avesse conosciuto, sarebbe comunque dovuto ripartire per un altro impiego dall’altra faccia del cosmo. Aveva avuto il piacere di conoscere i Lithiani, salvarli nel momento più alto della sua vita e poi abbandonarli, senza più far ritorno. Così era stato per molti. Nessuno sarebbe mai stato disposto ad abbandonare ogni suo conoscente, il suo mondo, per seguirlo in un vagabondare di posti mai visti che potevano benissimo essere l’inferno. Allora perché non si fermava lui? Perché fermarsi avrebbe voluto significare sottostare alle leggi, l’economia e le abitudini di un posto, tutte cose che lo avevano indotto a scappare dalla Terra ormai tre anni fa, non rischiare la propria incolumità in avventure assurde e, soprattutto, non far a pieno uso della sua vita per vedere tutto quello che l’universo aveva da offrire in un così breve lasso di tempo, Seppur tutto questo giungeva al pesante prezzo della solitudine più assoluta nella sua incapacità di mantenere un rapporto stabile. Mark poteva distrarlo forse ma non aveva un corpo che lo abbracciava come stava facendo Lili in quel momento. Ma non era vero, interruppe il suo flusso di pensieri notando l’errore, Mark aveva un corpo perché Mark era il TFO stesso. Tutte le volte che il tettuccio era chiuso, l’aria condizionata attiva, il sedile imbottito riscaldato, reclinato, la musica suonava e una coperta gli veniva calata addosso, mentre si sentiva all’opera un profumatore per ambienti al miele e tozze dita in gommpiuma scendevano a massaggiargli le spalle sfibrate dall’ultimo combattimento, Mark lo stava abbracciando. Ecco cosa gli stava tornando in mente. Possibile che non se ne fosse reso conto sino ad ora della presenza di quella macchina? Povero Mark, lo aveva accudito fedele per tanti anni e lui gli aveva sempre gridato contro per una battuta irriverente o un consiglio brutalmente spassionato. Era una sorpresa che non lo avesse buttato fuori dal suo ventre alla prima occasione. Ventre? Aveva usato la parola giusta? Sì, dopotutto era così che si sentiva ora, in posizione fetale nel grembo di Lili, un feto a mollo nel caldo liquido embrionale. E la piega di questo discorso gli faceva venire alla mente un’altra persona, che non era Lili, né Mark, ma una il cui ruolo, quest’ultimo, aveva praticamente ricoperto negli ultimi tre anni, dopo averla abbandonata per via di screzi ma soprattutto per non vederne più negli occhi la delusione riflessa.

–Mamma– Borbottò con la bocca mezza sommersa.

–Chiamami così, se preferisci– Rise Lili –Ti sei calmata adesso?

–Mamma, io…– Si voltò, specchiandosi in quegli occhi neri, con la mente annebbiata che sovrapponeva la memoria alla realtà, vedendole l’anima di un’altra –Mi spiace per come mi sono comportato.

–Oh, non ci pensare– Gli tenne bassa la testa, ormai che si era quasi levato con le clavicole fuori dall'acqua per l’emozione –Devi riposarti, ne hai passate tante.

–Vero, ma non voglio aspettare ancora di dirtelo– Premette il viso sulla base del suo collo, dando fiato alla voce con fatica –Mamma, perdonami, non avrei mai dovuto ridere delle tue parole, della tua esperienza. Ho alzato troppo la cresta per non sentirmi un peso, dimostrare che potevo farcela nonostante tutto, che non ero più un bambino a cui badare, e guardami ora.

–Sai cosa vedo?– Se lo scollò per guardarlo negli occhi, passandogli una mano idrofoba fra i capelli bagnati –Vedo una bambina sincera, pentita e volenterosa di fare meglio.

–Mamma…– Continuò Cladzky, poggiandole le mani sul cuore –Non avrei dovuto abbandonarti, mamma.

In quell’istante, sia lui che Lili, capirono l’uno di non star parlando con chi si illudevano e l’altra di non essere la diretta interessata, sbirciando una storia assai grama dietro quella bocca semichiusa in angoscia al dissolversi dell’allucinazione. Non potendolo vedere in quello stato, Lili si alzò in piedi, aiutandolo sulle sue deboli gambe, esponendolo così all’aria della sera dalla cintola in sù. Per riflesso incondizionato si premette contro le gambe drizzate di lei, che, aspettandoselo, aveva attivato il circuito di riscaldamento, rendendo la superficie della sua pelle preferibile al vento crudo della notte.

–Va tutto bene ora, non preoccuparti– Lo tranquillizzò. Fuori dall’acqua, la sua figura si presentava spoglia come il ragazzo aveva sentito, mettendo a nudo una più evidente meccanicità nella suddivisione delle articolazioni e la mancanza di dettagli anatomici, nonostante la faccia indistinguibile da una donna respirante, facendola assomigliare a un manichino molto alto. Invece che cingerlo come al solito, lasciò che fosse lui a stringerla, mentre lei nascondeva le mani dietro la schiena. Ci fu il rumore di una serratura sbloccata e tirò fuori una spazzola nella sinistra e sapone nella destra. Immergendo la prima nell’acqua, la ritirò fuori inzuppata per strofinarla contro la barretta bianca, formando, nel celere attrito, uno strato schiumoso sulle setole, con le quali prese a lavorare la schiena del ragazzo.

–Mamm…– Pronunciò d’istinto, per poi fermarsi –Volevo dire…

–”Mamma” va bene, te l’ho detto– Sorrise senza mostrare i denti, inclinando una coda di labbra verso l'alto, piegandosi a lavarlo sotto le scapole –Cosa ti serve?

Cladzky inghiottì il suo orgoglio, perché ormai non gliene era rimasto e tanto valeva lasciarsi andare se era tutto perduto, era la sua filosofia.

–Mi piace come canti– Si morse le guance –Potresti farlo ancora?

–Tutto pur di farti felice, – E così fece, canticchiando una nenia per l’infanzia giapponese, mentre sciacquava la spazzola e la insaponava di nuovo. Lo prese sotto braccio intorno al collo, forzandolo a piegarsi, e passò avanti e indietro le setole sul fondo della schiena, facendolo risentire un poco per quello sfregamento vigoroso. Poi lo drizzò e gli scese dalle spalle al petto, di lì ai fianchi, portandolo al riso contenuto appena, fino al basso ventre e l’interno coscia, dove gli dovette serrare i polsi con gli arti ausiliari e tenerli sollevati per evitare che si coprisse. Seguirono le braccia, tenute dalle ausiliarie, dove il riso non riuscì a contenerlo sentendosi violare le cavità ascellari. Sempre tenendolo per i polsi, gli fece poggiare i palmi sul bordo, dove lo lasciò per sollevargli una gamba, lavorarla e fare lo stesso con l’altra. Un’ultima sfregata di buona fortuna su ambo i principi delle gambe e gli assestò un colpetto secco con il retro piatto della spazzola, facendolo scattare in piedi, dacché era in posizione chinata. Giudicando il lavoro ben finito, prese a sciacquarlo a mani nude, fino a togliere ogni traccia di schiuma e tirò fuori un panno da uno dei suoi scompartimenti, lo spiegò e lo stese lungo il bordo della fontana, per poi sollevare lui e stenderlo a sua volta sul telo. Lili saltò fuori con grazia, si scosse come una barboncina e neppure una perla le era rimasta addosso. Voltandosi verso il ragazzo, messosi a sedere gocciolante sul panno, lo approcciò con il suo corpo nudo, solo per rivestirsi di colpo. Il berretto le saltò fuori dai capelli bruni; le spalline si gonfiarono dall’articolazione della glena; il vestito calò come una tenda dalle clavicole, connettendosi con fibbia che si chiuse ad anello intorno la vita; la gonna si aprì come un ventaglio dal bacino, a coprire della biancheria apparsa, per puro completismo estetico, sopra organi del tutto assenti nel suo modello; i segmenti dei lunghi guanti bianchi si srotolarono dai polsi, venendo magneticamente cuciti al loro posto e così fu per le calze al ginocchio, completando il tutto con un paio di ballerine rosate, in tinta con il vestito, che si formarono dal ribaltamento di pannelli nel perimetro dei piedi. Un piccolo fiocco esplose sul retro a legare l’abito e, in un battibaleno, Lili si era rivestita, finendo anche di canticchiare. Le sue parvenze da bambola meccanica erano ora quasi del tutto nascoste. Lo infagottò nel panno per asciugarlo e gli passò un lembo sotto l’occhio, dove il sale si era mescolato al cloro.

–Piaciuta la canzone?

Lui annuì appena, ma con un sorriso nascosto dietro il disagio.

Lili tirò fuori un pettine, ma non era per lui, cominciando ad acconciare la sua stessa chioma sintetica e specchiandosi nel portacipria, mentre un’ausiliaria appariva come un arto che terminava nella lama di una ventola, messa subito in moto ad investire il ragazzo fino a levargli ogni umidità di dosso. Secco, lei gli prestò nuovamente attenzione, facendosi scappare uno sguardo sgranato e un risolino, prima di piantargli davanti il portacipria e invitarlo a guardare, nella cornice rotonda, quella palla cotonata azzurra che aveva ora in testa. Doveva ammettere che era una visione buffa anche per lui. Notò anche che il trucco, per magia, era rimasto intonso, letteralmente, perché non c’era altra spiegazione su come non si fosse rovinato. Lili  gli abbassò i capelli fra uno sghignazzo e l’altro, fino a riportarglieli in una forma definita.

–Ora, da brava, apri la bocca– Chiuse le mani dietro la schiena e si sporse in avanti verso di lui.

–Cominciamo l’operazione?– Chiese titubante, incrociando le gambe e le dita.

–No, manca solo di lavarti i denti.

–È proprio necessario farmi anche questo?– Corrugò il viso, ora liscio quasi quanto quello del ginoide.

–No, ma ci tengo a fare un servizio completo.

Lui ubbidì, tanto ormai ci aveva quasi preso gusto e in fondo era bello essere accuditi in ogni singola cosa dopo un’intera nottata passata a prendere randellate sulle gengive, che ora le mostrava. Gli venne inserito qualcosa, ma non era uno spazzolino e sentì sul palato un sapore, ma non era dentifricio, era amaro, pizzicava e aveva un vago sentore metallico. Aprì gli occhi, trovandosi la stessa spazzola, adoperata pocanzi, strofinargli i molari. Lili se ne stava con lo stesso sguardo disteso e sereno, quasi distaccato, girandosi, su un dito libero, una barretta bianca. Lui fece per sputarle addosso, ma ratta, un’ausiliaria destra gli afferrò la testa per voltarla di scatto e centrare l’interno della fontana.

–Ma sei impazzita?– Si passò un braccio sul labbro schiumoso –Mi lavi la bocca col sapone?

–Essendo un medico, spazzolino e relativa pasta non sono qualcosa che fa parte della mia strumentazione dello stretto indispensabile– Evitò accuratamente di scusarsi, girando la cima della spazzola per aria nel gesticolare –E poi ho due fonti a sostegno di questo impiego. Prima di tutto, è scientificamente dimostrato come il sapone sia un ottimo sostituto della crema dentifricia, al di là del pessimo sapore.

–E la seconda?– Cercò di parlare, nonostante il senso di intorpidimento e la fatica che faceva a ingoiare la saliva, bruciante com’era.

–Da un punto di vista pedagogico è una innocua e creativa punizione corporale che dovrebbe insegnarti a non offendere le persone– Sciacquò nella fontana la spazzola. Al primo passaggio l’aveva colto di sorpresa, ma per il secondo dovette immobilizzargli le braccia per mezzo delle proprie in esubero.

–Ovvero quando ti ho detto che sei una…– La frase fu mozzata da un paio di dita che lo presero per il naso, forzandogli la bocca aperta.

–Proprio quello– Sospirò lei, passandogli le setole con energia sulle due file di smalto serrate. 

Quando Lili lo lasciò andare, lui rimase a gambe e braccia incrociate, con uno sguardo capricciosamente offeso. Non era certo peggio di quanto gli fosse stato fatto da altri e sentiva anche di esserselo meritato, ma si sentiva in vena di recitare la parte Provò a lamentarsi, ma doveva essere stata usata una soluzione eccessiva, perché, dando aria alla bocca, generò solo una bolla che gli scoppiò sul muso. Un singhiozzo d’indigestione e gliene scapparono una decina più piccola nell’aria, che guardò sbigottito ascendere. Una gli finì quasi sulla punta del naso, prima di finire trapassata da un dito in raso bianco che terminò la corsa al suo posto. Il viso di lei appariva sfumato da come aveva incrociato gli occhi su quell’indice. Lo ritrasse, alzandolo al cielo.

–Ora cominciamo, sei pronta?

–Non è un altro scherzo?– Cercò di nascondere un altro paio di bollicine, dopo un singhiozzo a fine frase.

–Figurati– E lo prese di nuovo in braccio, per poi sedersi a sua volta –Brucerà un po’, ma presto ti sentirai meglio.

Drizzò la propria mano come una lama, la stessa che aveva visto essere impiegata come fiamma ossidrica sott’acqua. Certo che avrebbe bruciato un po’. 

–Rilassati e stai ferma– Fu l’ultimo ordine che gli diede. Lui chiuse gli occhi, lasciandola fare e sperando per il meglio, stringendo i pugni. Il rumore di un motore che si scaldava, un frullio e infine un sibilo elettrico riempirono l’aria, accompagnando una luce giallastra che percepiva da sotto le palpebre strizzate. In effetti sentì sfrigolare un poco la tumefazione sul sopracciglio, ma non di calore, come piuttosto di sale sulle ferite. Abbassò il muscolo interessato, per rilassarlo e alleviare il dolore, ma passò in fretta. Lo stesso fu per l’ematoma dello zigomo, che gli contrasse il viso in una smorfia, prima di sparire e fu la volta della gengiva, che prese pizzicargli  insopportabilmente, ma  terminò. Cladzky riaprì gli occhi. La mano di lei scendeva lungo il suo corpo, sostandosi sopra qualunque ferita, ed emanando come un’irradiazione visiva di spettro giallo. Arrivò alle impronte di calci nel petto –Vediamo come riassemblare queste costole.

–Costole?– Fece fatica a deglutire dopo il passaggio della spazzola di poco fa, ma fece del suo meglio.

–Nulla di grave– Mulinò la mano, interrompendo il processo –La radiografia che ti ho fatto non riporta alcuna emorragia interna.

–Tu mi hai fatto cosa?– Tentò di alzarsi, solo per sentirsi una mano in fronte spingerlo a restare sdraiato.

–Per cosa ho gli occhi se non per vedere?– Fischiettò, toccandosi la sclera che brillava, prima di rimettersi al lavoro. Un ronzio da defibrillatore, il passaggio di quel cono di luce sul calcio di Kishin e si attenuò il livido fino a sfumare e cancellarsi. Così fu per il resto delle contusioni. Non gli diede il tempo di meravigliarsene che gli venne sollevata la gamba, appena pulita del sangue rappreso, ma Lili tolse il palmo senza emanare alcuna luce, portandolo piuttosto all’altezza del berretto, davanti l’insigne crociata. Questa si aprì di scatto, rivelando l’ennesimo scompartimento, frugò un momento e tirò fuori una bustina. Spellò strato dopo strato, fino a rivelare un cerottino con stelle su sfondo azzurro, che applicò con delicatezza e spianò per bene sul taglio. Per puro vezzo, saldò l’affissione con un bacio appena sfiorato Battè le mani. –Per una piccola sbucciatura dovrebbe bastare. Abbiamo finito.

–Davvero?– Si rimise a sedere sulle sue ginocchia dacché si lasciava cadere.

–Oh, hai ragione, quasi mi dimenticavo– Il palmo irradiante gli passò sopra la spalla e si piegò sulla sua schiena, fino a porgersi al centro delle scapole. Un altro sfrigolio, una sensazione di bruciore e un altro -fino ad allora ignorato- livido fu cancellato. Lo prese per i fianchi, affondando le dita gentili nella cute chiara e passata a lustro, per sistemarselo di fronte, accennando a una cavallina con le gambe –Ora abbiamo finito davvero, sei contenta?

–Tutto qui?– Replicò, con la voce spezzata tra un sobbalzo e l’altro.

–Beh– Si fermò lei nel constatare il suo sguardo allibito –Se vuoi possiamo anche provare a sbloccare la schiena.

Se lo rigirò a fronteggiare nella sua stessa direzione, gli saldò le ausiliarie intorno la vita, unendole sul piccolo ombelico di una pancia che appena sporgeva, e con le due braccia principali gli manipolò le spalle, prima torcendolo in alto, sinistra e poi destra, con tutti gli scrocchi del caso.

–L’effetto sarà placebo, ma è piacevole, no?– Sottolineò, schioccandogli il collo. Avvertì, a giudicare dai rapidi movimenti del ventre piatto, un respiro che si faceva via via più corto.

–Tu…– Trasalì al rumore delle vertebre cervicali –Tu mi hai guarito in meno di un minuto.

–Modestamente sono l’esemplare più avanzato in circolazione, almeno da dove provengo– Si strofinò un pugno sul petto.

–Avresti potuto farlo sin da subito.

Lili sbattè le ciglia un paio di volte.

–Beh, sì ma…– Il paziente si rivoltò verso il suo viso con uno sguardo contratto in un digrigno rabbioso.

–A cosa sono serviti tutti quei preamboli?– Si scurì in viso il ragazzo nonostante la cipria.

–Non potevo lasciarti in quelle condizioni– Tentò di spiegarsi, ma lui già gli saltò addosso con le mani serrate su quel collo di pelle quasi vera.

–A cosa è servito umiliarmi in quel modo?– Sollevò le guance a spingere contro la base degli occhi da quanta forza stava imprimendo e il dorso delle mani gli si fece venoso, ma non in maniera impressionante, solo disgustosa.

–Non ne ho mai avuto intenzione, credimi– Il suo fiato non si cioncò sotto la pressione sulla trachea, perché in fondo, l’ossigeno, non era una priorità per lei –Ti ho solo dato ciò di cui avevi bisogno.

–Di una cosa avevo bisogno e tu l’hai rimandata il più possibile, trattenendomi qui con te contro la mia volontà– Tentò di scuoterla, nella speranza di avere una forma di reazione più atterrita da parte sua –Come se poi ne avessi avuto davvero bisogno di farmi rimettere insieme quelle costole. Il mio corpo ha avuto traumi ben peggiori e si è sempre ripreso, te l’ho anche detto mi sembra, ma a te importava solo di giocare a fare la balia. Sappi che attualmente avrei cose più importanti a cui pensare, invece di starmene qui a pretendere di essere un moccioso a cui badare.

–Non è mai stato un gioco– Cercò di tranquillizzarlo con voce suadente, posando leggermente le dita su quelle che la strozzavano –Non mi occupo solo dello stato fisico dei miei pazienti, tu avevi il bisogno psicologico di fermare il tuo viaggio, toglierti tutti i pesi dalle spalle e lasciare che qualcuno pensasse solo a te per un momento.

–Innanzitutto, gira alla larga dalla mia psiche. Sei solo una macchina e pure una completa sconosciuta, cosa vuoi saperne tu se ho bisogno del tuo intervento? Pensi che solo perché ho avuto una brutta giornata io esca di testa se qualcuno non si occupa di me? Pensi che io non sia capace di occuparmi di me stesso? Che non sia abbastanza grande per affrontare una vita infame come quella che mi sono scelto? È questo il significato dietro quella toeletta infantile?

–Tutti hanno i tuoi timori, ma non devi dimostrare nulla a nessuno adesso, non c’è bisogno di comportarsi così, calmati, piccola mia.

–Piantala una buona volta, vuoi farmi diventare pazzo sul serio? Sono anche nudo di fronte a te in questo momento, cos’altro ti serve per convincerti che non sono una bambina? Ti si sono sfasate le lenti o lo hai fatto solo per rendere il processo ancora più degradante?

–Se tu mi lasciassi spiegare…

–Non osare interrompermi! Ne ho abbastanza di spiegazioni da parte di tutti che mi fanno capire ancora meno, io non voglio sapere nulla, sono venuto qui solo per distruggere. Quindi, visto che ci tieni tanto a fare favori alla gente, fammi quello di alzare i tacchi sulle tue gambe finché puoi. Solo vederti mi fa sentire sporco, con quei tuoi atteggiamenti da troia travestita da tutrice. Non hai fatto altro che provocarmi per tutto il tempo, ricordarmi di lei, di lui, del mio rapporto fallito con entrambi, di quanto solo io mi senta, di quanto bramo una dimostrazione di affetto fisico e a darmela sei stata tu, solo per divertimento di quel dio infame, tu, una donna all’apparenza come lei, un’altra maledetta macchina come lui. Voi dimenticati, molestatori, tu come gli altri. Ti sei divertita a tenermi in braccio come una sposina, vero? No, mi correggo, tu mi hai cullato tra le braccia come un neonato, poi ti sei improvvisata pediatra, mi hai toccato ogni parte del corpo, mi hai violato in ogni maniera possibile coi tuoi “esami” pur di rendermi docile, mi hai cantato una ninna-nanna come se andasse tutto bene, mi hai spogliato senza pudore e ti sei fatta un bagno con me, dicendomi di chiamarti “mamma” mentre mi strofinavi dalla testa ai piedi, zone erogene comprese e ora, solo ora, vengo a sapere che ti sarebbe bastato sparare due luci per rimettermi a posto le ossa mischiate sin dall’inizio. Tutto questo dietro la giustificazione che lo facevi per il mio bene. Dimmelo che non è una presa in giro, prova a dirmelo, dopo tutto quello che mi hai fatto, o non ti basta ancora? Hai altre idee? È tardi, potresti mettermi a dormire con una copertina e un’altra delle tue nenie. Meglio ancora, tira fuori del talco e un panno assorbente che terminiamo il costume. Se preferisci potresti allattarmi, tanto sono sicuro che hai un’appendice supplementare anche per quello, perverso feticcio del complesso di Edipo.

Gli occhi di Lili smisero di riflettere i suoi per un momento, e le sue sopracciglia non diedero più un’aria contristata. Le dita di lei, prima appena appoggiate, si saldarono sui suoi polsi, stringendo abbastanza da fermare la circolazione per un momento e staccarli a forza dal suo collo, dove il materiale malleabile della sua pelle si ricompose dall’orma lasciatagli. Con le dita che neanche si chiudevano da quanto gli stavano divenendo insensibili le mani, Cladzky osservò la boccuccia di lei, fino ad allora così moderata nell’aprirsi, muoversi fino a scoprire la base dei denti.

–Non faremo nessuna di queste cose– In retrospettiva, attaccare briga con un robot, non fu una buona idea. Con uno scatto, lo tirò giù per i polsi, fino a trovarselo, sdraiato di stomaco, perpendicolarmente sul suo grembo, per poi muoverli ancora, bloccandoglieli dietro la schiena con una mano sola a unirli. Provò a resistere, ma, la mano che gli serrava le braccia sulla schiena, spingeva anche contro quest’ultima, inchiodandogli il petto sulla coscia sinistra di lei. Le gambe, slanciate diritte per la mossa improvvisa, si ripiegarono per toccare terra, non trovandola, ma trovando piuttosto la gamba destra di Lili muoversi dietro le sue e schiacciargliele in mezzo le proprie. Tutto quello che poteva fare ora era scuotere il capo in tutte le direzioni necessarie ad esprimere il suo disprezzo, artigliare il nulla con le mani sbiancate, smuovere un poco le gambe dalle ginocchia in giù e agitare, disperatamente, quello che sapeva essere il bersaglio del successivo brutto quarto d’ora –Una bambina come te ha bisogno di ben altro al momento.

Il primo schiaffo lo lasciò senza fiato più per la sorpresa, drizzandogli il collo.

–Quando ti ho trovata eri sporca, infreddolita, disidratata, piena di lividi, tagli e tre costole fratturate.

Il secondo fece più male, perché indugiava il calore del primo sulla pelle ancora chiara e sperava non ne seguissero altri.

–Per quanto ti piaccia crederti indistruttibile, andavi avanti solo grazie a un miscuglio di adrenalina e autodeterminazione.

Il terzo fu pure peggio, forse perché ci mise più forza, forse perché si rese davvero conto di quanto stesse succedendo. Perché si sorprendeva, non era già avvenuto qualcosa di simile prima? Forse era l’incredulità di esserci finito due volte di fila o forse quella di farselo somministrare da una figura che si era mostrata così ben disposta sin ora ed era riuscita a far perdere le staffe anche a lei. Aveva proprio un dono per far perdere la pazienza alle intelligenze artificiali.

–Ho dovuto fermarti, anche con la forza, perché non potevo permettere che ti capitasse di peggio, nelle condizioni in cui ti trovavi. Senza sapere di avere non una, ma ben tre costole fratturate, sai quanto è facile perforarsi un polmone? E tu già, ignara, stavi a scalare un muro da tre piani.

Il quarto gli fece alzare la testa, perché si era già morso la lingua, le guance, il labbro e non sapeva più come disperdere il dolore.

–Posso assicurarti che i miei esami non sono stati inutili. Non avrebbe avuto senso irradiarti senza sapere di cosa soffrissi.

Il quinto gli fece scappare un verso da fringuello. Tentò di alzare il bacino, ma, stretto com’era alla schiena e le cosce, poté solo scuoterlo lateralmente per dissipare l’alone scottante impresso da una mano aperta, a dita chiuse, che non  atterrava semplicemente sulle forme per poi tornare indietro, sarebbe stato troppo barbaro per Lili. Bensì, data la posizione rialzata dei glutei rispetto la testa della vittima, scendeva, colpiva e procedeva avanti, posizionandosi a prendere la rincorsa e ricominciava in un cerchio, elegante nell’esecuzione, come tutto in lei d’altronde.

–Perdonami se la prendo sul personale, ma non gioco a fare l’infermiera. La mia leggerezza nelle interazioni era mirata a mettere a proprio agio il paziente, non dare un’idea di incompetenza.

Il sesto gli drizzò tutte e venti le dita. Poteva giurare che stesse cominciando a pulsare.

–Perdonami poi se mi sono prodigata a farti un bagno, ma immaginavo di farti un favore. Davvero preferivi continuare ad andare in giro per una festa d’alto profilo come se ti fossi rotolata in una discarica?

Il settimo giunse a interrompergli il bel ricordo di quando finì inconsapevolmente rapito da dei netturbini. Il respiro si riduceva a spifferi, schiacciato com’era, con tutto il peso sul petto. Ma ciò che gli bloccava la voce in gola era un magone che si scioglieva giusto ora, in un verso flebile.

–Aspetta, io…– La voce gli morì in gola, perché si rese conto che, al di fuori di implorare di smetterla, non poteva dire altro. Anche se avesse continuato non avrebbe potuto, perché una mano sinistra, un’ausiliaria senza dubbio, gli si parò davanti gli occhi e gli forzò qualcosa nella bocca aperta in boccheggi d’indecisione. A giudicare dal sapore che ancora permeava nel palato da prima, si trattava della barretta di sapone precedente.

–Non osare interrompermi!

E deliberò un ottavo, più forte degli altri, stavolta dritto al centro, senza schizzare via di nuovo, facendo riposare la mano sul corpo appena frustato. Sotto il raso, Lili poteva sentire una pelle che fremeva di convulsioni da pianto, così come l’area colpita andava ad intonarsi con il viso arrossato del fanciullo, ma senza che questi si lasciasse sfuggire una lacrima, tirando furiosamente su con il naso e gonfiando i polmoni prima ancora di svuotarli. Prese a carezzare le forme rotonde, lisce, era il caso di dirlo, come il culetto di un bambino.

–Mi spiace se ti ho umiliato con quella che tu chiami toeletta infantile, ma ho considerato molto più efficiente e veloce lasciare ch’io mi occupassi di tutto e lasciarti ripartire il prima possibile.

Un nono lo folgorò senza preavviso, facendogli stringere il morso sul pezzo di sapone. Procedette a chiudere gli occhi, sperando che finisse in fretta, allontanandosi con la mente, ma gli riecheggiavano in testa solo quelle due figure cardini della propria vita, quasi quei colpi fossero da parte loro.

–Mi hai chiesto se quelle carezze, quei giochi, quel solletico, quegli abbracci, quei baci, quelle canzoni, quegli strusciamenti fossero necessari.

Il decimo credeva di non sentirlo neppure, invece era impossibile farci l’abitudine. Lanciò un ululato che si spense in un gemito sommesso. Non poteva proprio fare a meno di peggiorare le situazioni nelle quali si trovava, vero? Se ne fosse stato zitto, a quest’ora lo avrebbe già lasciato andare con qualche pacca sulla spalla in più, invece le stava ricevendo dal verso sbagliato.

–La risposta è quella di prima. Io non mi occupo solo delle condizioni fisiche dei miei pazienti, ma anche di assicurarmi del loro stato psichico.

L’undicesimo stampò un segno su una circonferenza già del tutto lavorata, lasciandone per poco uno bianco. Il ragazzo annuì freneticamente per darle ragione, intrecciando i piedi.

–E quando ti ho vista, con quella luce negli occhi, io ho capito di cosa avessi bisogno.

Il dodicesimo seguì subito dopo. Sudava freddo. Le mani non gli rispondevano.

–Ho visto una bambina, così disperatamente sola, da essersi convinta di essere giustificata nella sua cattiveria. Ho visto qualcuna che implorava, in ogni modo, meno che la voce, una dimostrazione d'affetto disinteressato, ma era troppo orgogliosa per dirlo. Ho visto qualcuna che ha paura degli altri per via di brutte esperienze passate. Ho visto qualcuna troppo stanca per continuare a reggere il proprio mondo sulle spalle. Ho visto qualcuna che non ha alcun posto da chiamare casa in cui tornare a riposare. Ho visto qualcuna che aveva bisogno di fermarsi, farsi stringere forte e sentirsi dire che va tutto bene, che non deve pensare a tutto da sola, che non deve dimostrare niente, che va bene mostrarsi vulnerabili, che nessuno le salterà addosso per cinque minuti, che per una volta sarà qualcun altro a venirle incontro.

Il tredicesimo gli fece inarcare schiena e gambe, spingendo, senza riuscirci, contro chi lo bloccava, sforzando il proprio addome sfibrato.

–E per questo io non chiedo di essere ringraziata, ma quantomeno non di essere trattata come se fossi un mostro per essere confinata in questo cimitero.

Un quattordicesimo lo finì, facendogli cedere i muscoli e crollare come uno straccio sulle gambe di Lili. Si alzava appena per il respiro, irregolare nei brividi che lo ghermivano. Anche quando gli lasciò andare i polsi, le braccia gli cadettero ai lati del corpo, immobili. Tentò di alzare ancora il palmo, ma non ce la fece a batterlo ancora. Si guardò la mano, dal palmo tutto spiegazzato. Si guardò poi l’ausiliaria sinistra, che reggeva solo un pezzo dell’originale barra di sapone. La punta, constatò, era stata inavvertitamente ingoiata dal ragazzo nella foga. Doveva appena aver infranto mezzo giuramento di Ippocrate. Volle dirgli qualcos’altro, ma non se la sentì. Sarebbe stato bello separarsi su una nota positiva, come sembrava stessero cominciando a fare, ma era tardi per altre conversazioni. Quantomeno, qualunque cosa avrebbe pensato di lei, non si poteva negare che non l’avesse rimesso a nuovo. Mancava giusto una cosa da sistemare, quella che aveva appena causato lei stessa. Su un corpo ora del tutto sano e schiarito, risaltava particolarmente  il rosso ardente in cui era tinto il fondo della schiena. Sarebbe stato imbarazzante lasciarlo andare in giro con una codina del genere, specie con un vestito come quello che aveva indosso, ma non poteva neppure sprecare altra energia preziosa adoperando i suoi raggi per qualcosa che sarebbe sparito da solo col tempo, o non ne avrebbe avuta per una vera necessità. Inoltre doveva pur rimanergli il ricordo di quella discussione. Ripensò alle parole del ragazzo. In tutta quella cattiveria gratuita, c’era un’idea buona, anche se non poté fare a meno che trovarla ironica. Aprì un’altra volta lo scompartimento nel copricapo e ne tirò fuori il necessario. Nevicò la prima dose di talco dalla confezione e prese a spargerla col piumino sulla superficie interessata, avvertendo trasalire il giovane, ancora sensibile in quella zona infiammata. Proseguì il lavoro, fischiettando e seguendo il ritmo coi movimenti, applicando la polvere bianca e stendendola omogeneamente. Fu difficile, per lui, abituarsi al fatto che il castigo fosse finito e quei dolci colpetti non fossero sculacciate, A fine lavoro, Lili si tirò indietro per mettere via tutto e mirare l’opera. Si vedeva che fosse passato molto tempo da quando cambiava il pannolino a Robin, perché si era fatta prendere la mano e aveva sparso più talco del necessario, coprendo un rosso innaturale con un pallore da neve. Certo un miglioramento, ma le venne quasi da ridere, pur sembrandole sbagliato farlo alle sue spalle. Tirò fuori il portacipria.

–Ehi– Questa esclamazione, e uno schiocco di dita, fecero riaprire gli occhi all’infiltrato. Si voltò a vedere la mano ausiliaria destra dell'interlocutore, che indicava alle sue spalle. Si voltò un po’ di più e vide, oltre la sua stessa schiena distesa sulle cosce di lei, un’altra mano reggere uno specchio compatto. Nella cornice, scorse il termine del suo bacino, fresco come una rosa, una rosa bianca in questo caso, quasi fosse stato passato con la cipria come la sua faccia. Come prima, dovette riconoscere di essere una visione particolarmente buffa. Lili tentò di rimuovere il cosmetico in eccesso soffiandoci sopra, alzando segatura di minerale per aria e finendo per starnutire. Che fosse incapace di starnutire e lo facesse solo tirargli su il morale non era poi importante, perché riuscì a strappargli un sorriso. Quando poi, scuotendo il capo, Lili tirò fuori una boccetta di profumo per completare il lavoro con un paio di spruzzi rosati, non potè fare a meno che ridere di sé stesso, seppur sommessamente, muovendo un poco le spalle smunte. Ottenuto ciò che voleva, l’androide scese dal bordo, mettendo lui in piedi sul telo. Cominciò a rivestirlo, chiedendogli, senza aprir bocca, di alzare una gamba, poi l’altra, ad infilare il primo pezzo, che risalì le gambe, fino a coprire quel tenero sederino innevato con un altrettanto tenero e bianco paio di mutandine infiocchettate particolarmente strette. A coprire il resto ci pensò il vestito, sperando che la gonna plissettata non si alzasse anche di poco. Seguirono l’inforcazione degli stivaletti, lo srotolamento dei guanti fino al gomito e la tiara sulla fronte. Venne fatto girare verso l’acqua e Lili gli legò il fiocco sotto il collare da marinaretta, seguito da una fascetta intorno il collo, ben stretta. Ancora girato, si sentì preso e poggiato a terra. Alzò il capo verso la ginoide e questa gli sorrise con sguardo placido e nero, giocherellando con i suoi capelli azzurri, arrotolandoseli in un dito –Mi spiace per tutto. Ora va, qualunque cosa tu debba fare.

Cladzky annuì, tentò un passo, poi un altro, solo per girarne la traiettoria all’ultimo e piombarle sulla gonna, stringendola in un abbraccio volontario, nascondendo il viso tra le pieghe rosa del tessuto. D’apprima stranita, Lili ricambiò, piegandosi su di lui leggera come un velo, mani di raso a carezzargli la nuca e le spalle.

–Grazie, mamma– Fu tutto quello che riuscì a dire, prima di staccarsi lentamente e allontanarsi con sguardo basso, ancora con il guanto di lei fra i ciuffi fino all’ultimo. Sapeva che non poteva voltarsi o non sarebbe più partito. Aveva una storia da finire. Sparì nella nebbia.

Lili si chiuse le mani bianche su sé stessa dopo esserselo visto sfumare fra le dita e si coccolò da sola al pensiero di quelle parole. Neppure Robin l’aveva mai chiamata così. Una lacrima rigò quella guancia in silicone. Cominciò a passeggiare intorno la fontana, fino a perdersi anche lei, danzando fra un passo e l’altro, canticchiando per sè.


Lili, Lili, osyarena Lili,

Lili, Lili, osenchi Lili,

Lili, Lili, machiwo i keba,

Minnhasasayakuyo sutekina Lili

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Capitolo 15
*** Fantasmi di un tempo perduto (Quinta Parte) ***


Trovò infine la scala, ma era abbastanza dissimile da quella attraverso cui era entrato: Certo era bella ripida data la sottigliezza degli scalini e tanto stretta che solo una persona la volta ci potesse passare. Si guardò prima a destra, poi a sinistra e fu sollevato di non trovare altre amene personalità del posto. E se alla cima ci fosse stato un guardiano, come lo fu Kitaro cinque capitoli fa, contando questo? Oh beh, a quel punto si sarebbe potuto bello che suicidare, perché con tutto il tempo che aveva perso con gli altri personaggi stava bello che albeggiando oltre le fronde degli alberi neri che si tingevano d’una cortina d’azzurro lieve e avrebbe fatto tutta un’epopea per niente, dato che tutti se ne sarebbero andati a casa, se non l’avevano già fatto. Fece un passo e si fermò subito. Al principio dei gradini, sdraiato, anzi, appoggiato su di esso tanto erano verticali quasi fossero una parete, ci stava una macchia irregolare sui ben definiti scalini, di colore diverso e dalle proporzioni tondeggianti. Dio, era un corpo umano, fu il primo pensiero. Peggio, era un bambino, fu il secondo. Non aveva già sofferto abbastanza con i primi tre o quattro che aveva incontrato? Però non si muoveva, almeno non poteva dirlo, dato che tutto il viso era confuso dal buio, quindi chissà se aveva gli occhi aperti. L’unica era quella di superarlo senza che se si svegliasse. Sentiva solo il fischio del vento. Fece un passo e sentì l’erba schiacciarsi sotto il suo piede. Ne fece un altro e sentì il vento più forte. Un altro e non sentì più vento, ma un pianto strascicato in una lunga vocale. I contorni del ragazzo si fecero più nitidi ora. Stava completamente abbandonato con una guancia poggiata sopra le scale, seduto, le ginocchia al petto, le mani congiunte a stringersi in mezzo le gambe, gli occhi chiusi, occasionalmente strizzati in un singhiozzo, le labbra che sussultavano, vibranti su un mento tirato in sù, le sopracciglia attorcigliate nel dubbio, il viso bagnato, le gote rosse, la fronte increspata, gli occhi, per quel poco che apparivano, lucidi, sotto le ciglia spesse. Dovette avvicinarsi molto per vedere ciò, perché si trattava del più grave caso di trasparenza che avesse visto e si confondeva con le scale.

Gli venne quasi voglia di punzecchiarlo con un bastone. Se tutto andava bene sarebbe stato troppo intento a piangere sé stesso per dargli retta. Fece un altro passo e quel pianto più forte, un altro poteva vedergli le vene del collo gonfiarsi, un altro e ogni gesto delle sue mani, che non sapevano più come strizzarsi a vicenda in mancanza di altro, un altro e poteva vedergli le lacrime rigargli la polvere dal viso, un altro e poteva vedergli il petto gonfiarsi aritmicamente. Gli ricordava qualcosa, non era vero?

A giudicare dal vestiario doveva trattarsi di uno di quei tanti personaggi creati negli anni Sessanta dietro il successo di Tezuka. Indossava una tuta spaziale nera retrofuturistica che appariva più come un costume intero da spiaggia data la mancanza di maniche e lasciando le gambe scoperte per intero, chiusa alla sommità da un casco privo di visiera, addobbato da due alucce sulle orecchie e una spunta dorata sulla fronte, unico segno di asimettria in un corpo disegnato per attrarre merchandising, infatti sembrava una bambola. Si soffermò un momento prima di attraversarlo con un falcata e appendersi alla ringhiera per tirarsi su. Il gradino era liscio e piccolo, così piccolo che non ci stava un suo piede per intero. Se già fare i primi due era così complicato non c’era da meravigliarsi che quell’altro si fosse arreso prima. Si issò passo passo. All’inizio era difficile ignorare il pianto, ma più continuava e più tornava ad essere il sibilare del vento.

A metà della salita la scala si interrompeva nel muro, all’ingresso di una grotta e credette di aver sbagliato strada. Cosa diavolo ci faceva una grotta che attraversava le fondamenta della villa di Gyber? Bah, c’era anche da chiederselo? Magari era la cantina dei vini pregiati, forse le segrete per le torture destinate a quelli che leggono senza recensire, che importava, doveva andare avanti, la storia doveva pur finire. Buttò giù il portone con un poco modesto calcio e andò avanti in un anfratto fin troppo caldo per essere una cantina. Ecco, lo sapeva, di sicuro nella stanza accanto stavano immergendo qualcuno nella polenta bollente. Meno male che aveva poco addosso che già così quasi sudava. Sbattè il muso contro quella che stabilì essere una colonna tuscanica e ci girò attorno, solo per sbattere contro un’altra. Certo, pensò massaggiandosi il mento, doveva pur esserci qualcosa di utile in questo malposto incantesimo del cosplay perfetto. Si mise una mano dietro la schiena e ne tirò fuori una penna col simbolo alchemico del Mercurio. Ponderò, per scavare nei suoi ricordi.

“Come faceva quella frase lì? Potere di Mercurio, make-up, o qualcosa di simile…” E con un guizzo la penna si illuminò d’azzurro e poté usarla come torcia “Oh, bene.”

Proiettando le lunghe, tremanti ombre delle colonne, raggiunse il punto dove spezzavano il loro circolo e si sporse per guardare dentro. Sempre il buio. Ci entrò dentro e subito si accesero due bracieri dal nulla. In mezzo loro sostava appollaiato un uccello più grosso di lui, dall’aspetto metallico e dorato nelle piume. Cladzky si grattò la testa. Magari pure questo stava dormendo e poteva sorpassarlo.

“Tu non puoi passare” Lo intercettò nel pensiero la belva, sollevando il collo serpentino crestato di pavone.

Cladzky se ne stette un po' in punta di piedi dallo spavento di quella imitazione di Ian McKellen “Beh, come siamo imperativi, mettiamoci almeno un condizionale: non puoi passare a meno che…”

“A meno che niente. Arretra, desisti e scompari. Ritorna alla tenebra da cui sei sorto.”

“Ora, non c’è bisogno di essere aggressivi signor uccello”

“Grave errore facesti.”

“Signora uccello?”

“Ma ora è tardi per rimediare.”

“Signorina?”

"Vattene, non appartieni a questa terra."

"E come no, io ci sono nato su questa terra. Se vuole le faccio vedere i documenti, guardi. Ecco magari dovrei farmi cambiare la foto. Avete una cabina da  fototessera qui vicino? Magari dietro quel grosso braciere lì? Oh, comunque complimenti che fa un bel tepore qui dentro, fuori c'è da farsi venire la pelle d'oca, eh? C'è da lasciarci le penne dal gelo, eh? Però, se posso permettermi una critica, potreste trovare un sistema migliore per disperdere il fumo, qui potete lasciare acceso giusto il tempo di cuocere due fusilli che viene su un'esalazione che a Taranto stanno meglio. Guardate che la cappella Sistina s'è rovinata così signora mia. Ecco, se ci metteste una cappa d'aspirazione sarebbero tutti più contenti. D'accordo, così va a farsi fottere tutto il mistero che aleggia nell'ambiente, però se ci metteste, che so, due ninnoli sopra, dei capitelli a caso, sta tutto intonato per bene."

Ma l'uccello non rispondeva e stava giusto in mezzo all'unica uscita di quel cerchio di colonne, fra le pire autocombuste, oltre il quale scorgeva il prosieguo delle scale. Lo credette di nuovo di nuovo addormentato e comunque gli ricordava Big Bird, quindi figurarsi se fosse pericoloso. Gli si avvicinò, gli studiò le penne arcobaleno e tentò di camminargli attorno, ma lo spazio era troppo poco. 

“Senti, non è che potresti spostarti?” Tentò un’ultima volta di risultare diplomatico “Cioè, capisco che entrare senza bussare in casa tua e dirti di levarti dal cazzo possa risultare maleducato, però anche tu, ti sei fatta il nido su un pianerottolo, porcogiuda, e che sei una portinaia? Oh, che poi non mi pigliar male, ma con tutti i punti proprio lì ti devi mettere? E va bene che sei la guardiana del portale di cazzi e mazzi, però appena accendi la luce non ti viene da soffocare nel sonno, che ti bruciano tutto l’ossigeno? E poi fa un odore che non ti dico, attaccali degli Arbre Magique da due spicci. Ma piantare un paio di lampade da comodino dell’IKEA non era meglio invece che questi altarini? Ma poi scusa, ogni volta che si consumano i tronchi che fai, esci e tiri giù un paio di alberi qua fuori? Guarda, Gyber non so, che tanto lui i soldi li butta per tutte le stronzate del mondo, ma ho appena incontrato un giardiniere che si incazza come una biscia se gli tocchi un vasetto. Ma che ne so, magari ti compri sedici bancali al Bricoman e stai a posto per un po’, però non posso fare a meno che domandarmi da dove pigli i soldi per farlo. Gyber ti paga per rompere i coglioni a tutti quelli che passano di qua? E se sei dipendente che fai, ti rechi in ufficio a pagare le tasse o fai tutto da casa sul sito? Lo chiami un commercialista per la dichiarazione dei redditi? Scusa, se il pensiero mi fa ridere.”

“Ti hanno detto essere insopportabile.”

“Molti..”

“Non era una domanda infatti.”

Per tutto il tempo, quell'affare lo seguiva con uno sguardo imperscrutabile, forse di fastidio, di curiosità, di disgusto o di apprensione, con quegli occhi pericolosamente umani. Infine gli affondò un piede nel piumaggio, si aggrappò con le mani alla base del collo e provò a scavalcare la bestia dal becco di bronzo. Non avanzò molto che quest'ultimo lo ghermì per il colletto da marinaretta e lo ripose dolcemente seduto davanti a sé, nella direzione opposta.

"Non tentarmi" Lo ammonì l'uccello.

"Io non tento, io succedo!" Si battè il palmo e riprovò con più decisione, riuscì a salirgli sulla schiena, ma solo per venire sollevato per la gonna e riposto a gattoni da dove era partito.

"Perché non ti arrendi?"

"Perché non ho altro da fare ormai" E ritentò, giunse a toccargli la coda da fagiano per scendere dall'altra parte, ma venne tirato indietro per le mutandine del costume.

"Sei un essere patetico" Affermò la creatura senza muovere la bocca da cui pendeva, letteralmente, il ragazzo a braccia conserte, dondolando avanti e indietro.

"E tu un pervertito, mettimi giù!" Fu accontentato, ma solo perché sfilò lui dall'indumento e cadde in terra. Poco dopo gli piovve l'intimo in testa. Rivestendosi pianificava già la volta buona per superarlo.

"Non puoi superarmi" fu l'eco fastidiosa di quell'uccello del malaugurio "Io sarò sempre avanti a te."

"Sta a vedere." E gli corse addosso a testa bassa, canticchiando "Stars and Stripes Forever", con l'intenzione di speronare l'animale con una craniata. Dopotutto, ragionava, gli uccelli avevano le ossa cave, doveva essere più leggero di quanto sembrasse, no? Ma l'uccello non era più lì. Cioè, era lì, ma sollevato su una gamba sola. L'altra era sollevata e con le dita aperte, pronte ad accogliere la sua testolina che finì dritta dentro la morsa. Per il contraccolpo finì col culo per terra e la brutta impressione di esser diventato mangime per la versione malvagia di Beep Beep, mentre veniva lentamente sollevato fino a non poter toccare il pavimento "Aspetta, la testa mi serve!"

"Perché non l'adoperasti sinora?" Chiese di rimando quella sfinge, abbassandosi a guardarlo dritto negli occhi coi suoi, che sembravano tre con quel puntino rosso in mezzo al cranio. Quella voce suadente non gli andava genio "Eppure ebbi così tante occasioni per farlo."

"Perché parli come se mi conoscessi?" Si dimenò, temendo però di spezzarsi il collo "Perché sembra che mi conoscano tutti qui e io nessuno?"

"Perché ancora non vuoi ammettere di essere a casa."

"Non facciamo i generici, sarò nato sulla Terra, ma casa mia è in tutt'altra regione. E mollami per dio!" Così essa fece, con poco o troppo garbo. Cladzky si rialzò, si rassettò i vestiti e le fece la linguaccia.

"Siamo noi a rendere un luogo la nostra casa. Tu hai fatto qui il tuo nido."

"Oh, non parliamo per metafore, razza di barbagianni troppo cresciuto" Borbottò cercando di scavalcarla un'altra volta, con prevedibili risultati e altrettanto prevedibili mugugni nel venire riposizionato.

"Fenice, prego" Spiegò nel poggiarlo a terra per l'ennesima volta, punzecchiandolo per buona misura prima che potesse voltarsi, al fine di spingerlo via.

"Io non me ne vado di qui" Avanzò verso di lei l'imbucato a passo altiero, solo per sbattere contro il suo becco portato in avanti e finirci sopra col petto.

"Mantieni le distanze. Mai più potrai tornare fra i vivi" e gli diede una schicchera alzandosi d'improvviso, ribaltandolo. Poggiando sulle spalle, testa rivolta verso l'alto, gambe all'aria, accartocciato su sè stesso, rifletteva su quelle parole. La fenice lo afferrò di nuovo per il colletto e lo rimise in piedi, non lasciandolo andare prima di dargli uno strattone e fargli prendere la direzione opposta "Mi hai sentito? Va!"

"Aspetta un minuto, chi credi che io sia?" Si puntò l'indice da solo il ragazzo "Solo perché vengo da questo cimitero non vuol dire che io ci appartenga. Passavo di qui per caso, in visita turistica,  tipo Alberobello. Carina per carità, ma non ci vivrei."

"Tu transitavi per codesto cimitero perché sapevi di appartenervi, pur non accettandolo. Io ne sono il becchino. Non farti prendere dalla nostalgia e torna donde venisti."

"Ma dico, sei ammattita? Tu hai mangiato troppa cioccolata, merlo maledetto o non si spiega quanto sei grulla. Guardami un po'? Ti sembro uscito da un anime?"

"Vuoi una risposta onesta?"

Dovette ricordarsi che costume stava indossando "D'accordo, riformulo: Ti sembro un dimenticato io?"

"In verità io ti dico, non hai chi ti ricordi sulla terra che quanto il ragazzo alla base di queste scale."

Il fatto che non avesse la benché minima idea di chi fosse quel ragazzo la diceva lunga su quanto si trovasse nella merda.

"Ci dev'essere un errore. Io non sono un'opera di finzione, non posso scomparire."

"Tutti siamo opere. Chiunque, quando muore, vive finché ne vive il ricordo."

"Ma io mi ricordo benissimo di me. Non sono ancora morto."

"Tu non lo sai ma è successo molto tempo fa."

"Me ne sarei accorto."

"Tu moristi il giorno che sei nato, Cladzky."

Non osò aprir bocca, ma poi lo fece ugualmente.

"In senso metaforico?"

"Cladzky, io ragiono solo in senso metaforico, sono la tua Fenice, sono la Scrittura e sono qui per sigillarti nella tomba che ti fu preparata ormai da otto anni."

"Io non ci capisco più niente."

"Capirai, come tutti i dimenticati aprirai nuove percezioni, andrai oltre il tuo universo fittizio, poi sparirai."

"Questo è ancora da vedersi!" E partì con un sonoro calcio volante… solo per rimanere bloccato a mezz'aria "Ehi, così non è leale, combatti se ne hai il coraggio, Muppet della malora!"

"Siete sempre così restii a togliere il disturbo" Borbottò la Fenice. Nel suo galleggiare,  Cladzky finì a testa in giù a combattere l'attrazione gravitazionale della sua gonna "Non sai che ogni cosa deve morire?"

"Io no, ho appena cominciato! Ho ancora tante cose da concludere. "

"Non è colpa mia se hai sprecato la tua occasione."

"È colpa tua che non vuoi farmi passare, ecco tutto!"

"Credi forse che, se avessi più tempo, lo adopereresti meglio?" Un cenno del volatile e riappoggiò i piedi a terra. "Ora va, non hai più niente da fare."

"E la mia vendetta?"

"Non sarà compiuta, perché troppo la rimandasti."

"Non è colpa mia, mi sono trovato in un mare di personaggi inutili che mi hanno portato via un mucchio di tempo!"

"Quei personaggi sono lì per tuo volere."

"Mio? Fosse per me si sarebbero tutti buttati in un burrone."

"Ancora non hai capito? Tutto quello che ti avviene avviene perché tu lo vuoi."

"E io dovrei volere tutta questa umiliazione?"

"Certo. Forse non te ne sei reso conto ma tu abiti in una zona peculiare di questo multiverso. Ma questo dovresti saperlo."

"Io non so un bel niente, ti decidi a parlare?"

"Come vuoi, vorrà dire che dovremo fare un po' di reminescenza." Gli scomparve il pavimento sotto i piedi. In realtà scomparve tutta la stanza. Cadde, ma per poco, perché si trovò seduto ad un banco da scuola, che con la divisa scolastica si abbinava benissimo. Tornò la voce della Fenice dal nulla "Ora, senza interruzioni, vedrò di spiegarti in che posizione ti trovi, cosicché possa il tuo spirito trovare pace."

Entrò di nuovo scena l'essere, ma aveva cambiato aspetto. Ora sembrava uguale, ma allo stesso tempo diversa, perché completamente umanoide, avendo ora gli occhi da uccello, per il processo inverso che glieli faceva avere umani pocanzi. Era vestita come la più classica delle professoresse, con tanto di bacchetta.

"Ho visto un porno che iniziava così, ahia!" Commentò smarrito, prima di ricevere una fustigata sulla nuca.

"Taci animale." Lo sorpassò

"Senti chi parla, ohi!" Lamentò un secondo colpo in fronte. Poi la Fenice giunse a una lavagna con un complicato schema già disegnato.

"Innanzitutto, tu conosci già il principio dei dimenticati."

"Gli dèi esterni ci sostentano tramite la loro energia e a chi non la danno crepa, no?"

"Bravo, vedi che sei stato attento" lo carezzò in testa "Ora, per semplificare, dividiamo questi dèi esterni in "lettori" e "creatori". Uno crea l'universo, tutti gli altri lo sostentano, ma solo se lo trovano interessante.”

“Sopravviviamo in base agli indici di ascolto?”

“Sì, letteralmente.”

“A me non importa di piacere a nessuno, non posso sopravvivere da me stesso?”

“Oh, è molto difficile, solo grandi menti, in un senso o nell’altro, possono farlo. Conosci Henry Darger?”

“Chi?”

“Ecco, appunto. È una capacità per pochi, infatti molti creatori trovano maggiore interesse nei lavori di altri, piuttosto che badare ai propri, non considerandosi all’altezza.”

“Ci credo che non sono all’altezza, guarda che mostruosità hanno creato là fuori. A chi vuoi che interessi seguire le vicende di certi personaggi?”

“Ecco, questo ci porta al prossimo punto. Pensa alla storia del tuo pianeta: Quante opere si sono salvate dal Rinascimento?”

“Hai voglia, Firenze vive solo di quello a momenti.”

“Eppure non sono che una minima parte delle opere originali create. Conosci Masaolino da Panicale?”

“Non era Masaccio?”

“Ecco, appunto. Ora, il rinascimento non dista che poco più di seicento anni da noi, roba da niente.”

“Hai detto poco.”

“È assai poco infatti. Pensa al gotico. Quante delle volte stellate originali sono sopravvissute nelle cappelle?”

“Ah, hai detto cappelle!” Fu la risposta molto matura del ragazzo, prima di ricevere un’altra mazzata.

“Non fu forse destino della cappella Sistina essere riaffrescata, cancellando l’opera originale?"

“Beh, vuoi mettere con Michelangelo?”

“Tu dimostri ora perché ciò avvenga. I gusti cambiano col tempo.”

“Non dovrebbero?”

“Ma certo che dovrebbero, fanno il loro corso, cancellando ciò che la gente reputa superfluo.”

“E io sarei superfluo?”

“Alle volte lo si diventa perché il mezzo stesso con cui veniamo propagati muore. Pensa al poema epico, chi ne scrive più oggi se non pochi nostalgici? Della letteratura sumera che ci resta, se non Gilgamesh e pochi altri? Più tu vai indietro e più perdi frammenti. Della letteratura precedente al duemilacento avanti Cristo non ci resta niente, pur sapendo che è esistita, perché nessuno si curò di conservarla, reputandola obsoleta. Alle volte ci si mette anche la volontà di distruzione: Pensa ai roghi di libri.”

“E tutto questo come si collega cogli dèi esterni?”

“Che loro, similemente, pur non essendo autori di altrui universi, ne decretano la fine o la prosperità in base a quanto li godono.”

“Dovrebbero darsi una svegliata allora, perché stanno facendo un pessimo lavoro. Guarda quanta gente ci sta in quel cimitero.”

“Non hai capito. Gli dèi non hanno colpa, essi non hanno alcun dovere verso alcun universo. Potrebbero morire tutti se essi volessero.”

“Mi sembra un po’ crudele.”

“Non lo dicesti tu stesso, in merito alla volta della Sistina? Che Michelangelo era meglio della volta stellata di Piermatteo d'Amelia? Ecco, così ragionano gli dèi esterni. Fanno spazio al nuovo.”

“E il vecchio morirà?”

“Certo, se non è in grado di restare attuale. La Divina Commedia è sopravvissuta nella memoria collettiva, ma l’Africa di Petrarca? Il Baldus di Solengo? Hanno fatto la stessa fine che faranno tutti i romanzetti da young adult che vengono acclamati ogni mese, celebrati per poco, dimenticati per sempre."

"Non possono dare energia a tutti?"

"Tu daresti forse ogni tua singola fibra d'energia per prestare attenzione a ogni opera mai composta? Non perché ti interessi, ma solo per pietà? Ecco, non pretendere che gli dèi facciano questo."

"Quindi non c'è niente che possa essere fatto per quella gente? Spariranno?"

"Tutti sparirete, chi prima chi dopo. Ma è anche possibile che, per pura fortuna, possiate ritornare nello zeitgeist. Hai mai sentito parlare del Vangelo di Giuda? Quello è un esempio, ma per molti non è così."

"Continui a fare esempi ma continuo a non capire."

"Ovvio, sei un deficente."

"Parli di opere del mio pianeta come fossero universi a parte."

"Ovvio, non lo sono?"

"Hai un foglio?"

"Sono la scrittura, ovvio che ce l'ho."

"E hai una penna?" Subì un'altra randellata "Ahia, non era una battuta stavolta."

Ottenuto quanto desiderava scrisse di getto un paio di righe e lesse ad alta voce.

"C'era una volta re Culodritto. Un giorno incontrò re Culostorto e giocarono a briscola, ma nessuno dei due sapeva giocare ed era troppo imbarazzato per dirlo."

"Che storia disagiante."

"Ma è per sempre una storia! Vuol dire che sono un dio esterno ora?"

"Sì, la caratteristica degli dèi esterni è che appartengono sempre a un universo separato da quello della loro creazione. È una gerarchia di universi che creano figli e questi nipoti"

"Vuol dire che ho creato un universo?"

"Sì, ma morirà subito, perché non ci tieni nè tu nè nessun altro."

"Allora anche un dio esterno può sparire."

"Sì all'infuori di quelli provenienti dal primo motore, ovvero l'universo originale da cui derivani gli altri e gli altri di altri."

"Quindi anche questo universo, di questa terra, può morire?"

"Se non è il primo motore sì."

"Kitaro ha detto che io non ho un universo."

"Corretto, tu sei un universo che viene inserito negli altri, in un infinito crossover e in maniera maldestra, se posso dire."

"Quindi vuol dire che sparirei solamente io se venissi dimenticato?"

"Tu e tutto quello che riguarda la tua leggenda, diciamo."

"Anche la mia famiglia?"

"Sì."

"E Mark0?"

"Anche."

"Allora questo cambia tutto."

"Non cambia niente, tu sparirai."

"E tu invece?"

"Io non sono un dio esterno. Io sono un dio interno. Io sono dentro tutto. Io sono la fenice, sono un ideale di perfezione che non potrà mai essere raggiunto. Io sono la Scrittura e strazio le coscienze di chiunque offenda le mie regole. Sono la pena che si prova nella procrastinazione. Sono la spinta che spinge a scrivere di getto. Sono la voce che ti dice di trattenere la tua voglia di particolari irrilevanti. Sono chi ti angoscia nel rileggere quanto hai scritto. Sono chi ti fischia nelle orecchie quando diventi ripetitivo. Sono chi ti fa rattristare nei tuoi vecchi lavori. Sono chi canta quando scopri una buona combinazione di parole. Sono la più severa maestra che tu possa avere, sono chi giudica i vivi e i morti e il mio regno non avrà fine, fintanto che qualcuno scriverà qualcosa. Sono chi decide chi muore, perché assillo ogni autore a cessare un'opera indegna. Io ti ho giudicato e ne ho parlato con il tuo autore e ora ha l'assillo nell'orecchio. Tu verrai cancellato."

"Fammi parlare con questo mio dio esterno, voglio fargli fischiare le orecchie anch'io, ma a forza di cazzotti."

"Non c'è ragione di farlo, ecco, gli ho parlato in tua presenza."

"Dov'è il marrano?"

"Tu Cladzky, sei tu il tuo stesso  autore e tu ti vuoi cancellare?"

"Eh?" Gli cadde la mandibola sul banco, rimessa a posto dalla Fenice "Sono stanco di questa metafisica."

"Macchè metafisica, è così la realtà. Tu sei un raro caso dove dio esterno ed universo coincidono."

"Ovvero io mi scrivo da solo?"

"Purtroppo sì."

"Purtroppo?"

"Purtroppo quasi nessuno di questi esperimenti va a buon fine. Spesso gli autori si autoattribuiscono eccessive qualità e diventa tutto un lavoro fatto per compensazione invece che ad arte e sono costretta a intervenire per uccidere questa creatura. Ma tu sei andato oltre. Tu ti attribuisci così tanti vizi, difetti e mancanze da risultare insopportabile."

"Quindi tutte le cose brutte che mi avvengono me le faccio capitare da solo?"

"Proprio così. Ora capisci tutto, no?"

"Io non capisco perché debba morire."

"Se tu stesso non volessi morire non accadrebbe."

"Se sono un dio allora esigo che tu non esista."

"Non hai potere su di me. Ognuno che scrive diventa mio servo perché entra nel mio regno. Sono la distruttrice della volontà."

Ponderò un momento, spremendosi le meningi sul banco. Infine si alzò e gli andò incontro, faccia a faccia.

"Vuoi prendermi a pugni?" Rise la Fenice "Perché no, ha funzionato così bene sinora."

"Io ti ho già visto da qualche parte" E le osservò quegli occhi strani, color cioccolata "Dio mio, sei il tizio strambo che mi ha preannunciato i fantasmi!"

"Sì, proprio io. Sono la stessa entità che ha portato alla distruzione di Lelq. Tu sei un altro errore da cancellare."

"E quella roba coi fantasmi cosa diavolo era?"

"Prove ragazzo mio, prove che tu hai fallito dalla prima all'ultima."

"Prove che mi sono automposto?"

"Sì, su mio impulso. Volevo vedere se fossi cambiato, ma sei rimasto lo stesso microbo."

"Quindi non sono un vero dio se tu mi dici tutto quello che è meglio fare."

"Sei un dio giacché puoi fare tutto. Il tuo unico limite è quanto mi ascolterai."

"Perché dovrei ascoltarti?"

"Perché solo io so come portarti a scrivere una bella storia."

"Ma tutti hanno gusti diversi, a tutti piacciono cose diverse."

"Di contenuti forse. Ma la qualità possono riconoscerla tutti. E la tua storia ne è priva."

"Io muoio solo perché mi convinci che devo farlo."

"È la cosa giusta. Speravo in un arco di redenzione tramite i tuoi incontri e invece guardati. La storia gira intorno, nessuno più la legge. L'ultimo colpo di coda è fallito. Ora abbandonala, così come avresti dovuto fare quando pubblicasti la prima opera su te stesso. Non sei mai stato in grado di portare a termine un progetto, men che meno appassionare il pubblico sino in fondo, almeno muori con dignità, non straziarti ancora."

"Io…"

"Basta" e tornarono dov'erano prima, così come lei riprese le sue sembianze.

"Se tu mi concedessi più tempo finirei la storia almeno" Implorò avvicinandosi, ma si ritrovò con quel becco che gli premeva sul petto fino a puntellarlo a terra.

"Hai avuto otto anni per concluderla."

"Ormai sono quasi alla fine" Gesticolò sotto la pressione di quel cuneo.

"Non dicesti lo stesso quando eri a diecimila parole? E ora sei oltre settantacinquemila. Se fossi il Giovane Holden, o il Ritratto di Dorian Gray, o Zanna Bianca, o il Signore delle Mosche avresti già concluso ogni sottotrama in maniera sufficiente, invece ancora parli a vanvera. Hai sprecato il tuo tempo in disgressioni fatte di autocommiserazione, feticismo, citazioni, momenti musicali a caso, scene di lotta, umorismo spicciolo e nient'altro. Questa storia non ha nulla."

"Sei l'ultimo ostacolo, poi ho finito"

"Non è vero, te ne inventerai un altro ancora, perché la verità è che non hai un finale."

"E quindi che dovrei fare?"

"Vattene e non disturbare più. Non hai quello che serve per scrivere, non perché gli altri possano leggere almeno. Tutti sono in grado di mettere insieme le parole, meno a farle avere un senso e pochi ancora a farlo avere per gli altri. Cosa c'è per gli altri in questa storia, ci hai pensato? È tutto solo per te."

"Ma il protagonista sono io."

"È forse una scusa per l'assenza di una trama? Hai parlato di te stesso per tutto il tempo senza riuscire a fare uno studio del personaggio. Hai passato paragrafi interi solo a parlare di quello che ti piace, che è del tutto diverso."

"Un autore non ha il diritto di scrivere quanto gli garba?"

"Non se è per gli altri da leggere. Bisogna sacrificarsi e scendere a compromessi, impegnarsi a dare al pubblico quello che vuole. Perché l'hai pubblicata allora?"

"Io volevo fare un tributo alla vecchia Lucas Force a cui non ho fatto in tempo a fare parte."

"Che assurdità. Tu vuoi solo inserirti a forza nella loro leggenda retroattivamente, dopo esserti reso conto dell'errore che facesti a farti scappare quell'occasione di entrarci."

"E ora…"

"Va e non tornare più, puoi dimenticare ormai."

"Ma io non voglio…"

"Oh sì che lo vuoi" Sfavillarono gli occhi alla bestia, irradiandolo di luce a cosìpoca distanza dal viso. Nello stesso momento Cladzky perse per un attimo pupille, prima di scuotere la testa. L'uccello cavò il becco dal suo petto e gli permise di rialzarsi gemendo, scrollandosi la polvere di dosso. Il ragazzo le puntò un dito contro.

"E io torno a dirti che…"

"Fai un inchino e chiedi scusa"

Parlò così veloce che non ebbe il tempo di capire cos'avesse detto quando si ritrovò a fare esattamente quello, piegandosi quasi a novanta.

"Scusa" Realizzò che quanto stava facendo era idiota e rialzò la testa, ma il resto del corpo non lo seguiva "Ehi, non volevo dire questo."

"Intendevi dirlo dal più profondo del cuore" Tolse lo sguardo annoiata.

"Intendevo dirlo dal più profondo del cuore" Esclamò non consenziente, tornando sull'attenti.

"E ora ti leverai dai coglioni" Sbadigliò la belva, tornando a dormire.

"E ora mi leverò dai coglioni" salutò prima di voltarsi di colpo e marciare come un soldatino di latta. Quando tornò in sé era già fuori dalla grotta. Si prese a schiaffi e fece dietrofront, solo per sbattere contro una porta miracolosamente chiusa e rotolare giù per le scale. Quando smise, si ritrovava steso nell’erba. Alzò il capo e vide di essere ai piedi della rampa, con il pianto di quel disperato nelle orecchie, ma ora non gli dava più fastidio “Ehi, tu.”

“Sì?” Mormorò fra un singhiozzo e l’altro, senza osare guardarlo.

“Come ti chiami?”

“Ace”

Si trattenne dal fare una battuta sui succhi di frutta e riprese “Piacere Ace, io sono Cladzky. Hanno buttato giù per le scale anche te?”

“Sì.”

“Ti hanno detto che dovresti morire?”

“Sì.”

“Oh, vedo che ci vanno piano coi bambini” Si rimise in piedi e rassettò i vestiti “D’accordo, io torno su per il secondo round, vuoi venire con me?”

“A che serve?” Tirò su con il naso “Ci provo da troppo tempo.”

“Oh, non fare il bambino.”

“Ma io sono un bambino.”

“Senti, vuoi rivedere la luce?”

“Non mi dispiacerebbe.”

“Allora vieni con me se vuoi vivere, Ace.”

“Si pronuncia «Eiss», all’inglese.”

“Senti, ci conosciamo da due secondi, non fare il difficile, va bene?” E se lo caricò in spalla, riprendendo a fare le scale “Senti, anche a te hanno riempito la testa di fregnacce su dèi esterni, creatori, lettori, indice di ascolto, eccetera?”

“Hanno detto che l’unico motivo per cui non sono dimenticato è perché sono la prima produzione della Tatsunoko.”

“Beh, mi sembra buono.”

“Ma che per il resto sono solo un plagio creato per pubblicizzare gomme da masticare.”

“Non ci crederai spero. Hai una cicca?”

“Sì, prendi” E gli passò un pacchetto. Ci stava la faccia di Ace stampata sopra. Ne masticò una e continuò l’ascesa. Riflettè: Quindi voleva dire questo farsi aprire nuovi sensi? Capire come il multiverso funzionava? E questo era la prova che stava sparendo davvero? Beh, per il momento era ancora visibile e continuava. E poi aveva la sensazione che il discorso non fosse finito.

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Capitolo 16
*** Possiamo cominciare daccapo? ***


Arrivarono alla sommità. Cladzky masticava senza far niente di fronte il portone. Ace gli stava sulle spalle, tamburellandogli le dita in testa.

―Beh ―Disse il principe di Parlum ―Non entriamo?

―Devo studiare una strategia― Ripeté quanto si stava già dicendo da solo il pilota ―Ci dev’essere una maniera per aggirarla.

―Non c’è modo di aggirarla, ci ho provato. Possiamo solo tentare ancora.

―Però non ho voglia di farmi buttare giù dalle scale un’altra volta.

―Ti sei fatto male?

―A dire il vero non mi sembra― Lo poggiò per terra e si sgranchì le giunture, senza sentire alcun sollievo ―Mi sarei dovuto spiccare il cranio in due con il volo che ho fatto. O sono diventato insensibile alle botte o qualcosa non va.

―Sei anche tu un dimenticato?

―Sì, ma nulla di grave― Si guardò le mani e notò di poter osservare il volto di Ace, alzato verso di lui, dietro di essa ―Almeno credo.

―È uno dei primi sintomi perdere la sensazione del proprio corpo.

―Quantomeno non sento più la fame, la fatica e le sprangate― Dovette riconoscere, osservandosi per bene girando su sè stesso ―È straniante però venire a sapere che non esisto davvero se non come personaggio.

―Ha i suoi lati positivi― Si appoggiò l’altro al portone ―Quantomeno ora sappiamo la verità.

―Già, tanto per cominciare tutte le preoccupazioni della vita svaniscono. A che importa avere una famiglia, degli amici se è tutto finto? Vorrei tornare a due ore fa, quando non sapevo niente di tutto questo.

―Solo perché è tutto finto non vuol dire che perdiamo importanza―Gli si fece vicino―Nel tuo mondo non sono forse il protagonista di una vecchia serie televisiva? Migliaia di spettatori seguivano la mia trasmissione perché per loro, anche se era tutto finto e sapendolo, era importante. Pretendevano che quello che stessero vedendo non erano fogli di acetato inchiostrati sopra un fondale dipinto, ma le vere avventure di Uchū Ace. Si chiama sospensione dell’incredulità. Se loro possono farlo, pur sapendo sin dall’inizio che è finto, non possiamo anche noi, che eravamo così abituati a prenderci sul serio?

―Questo discorso avrebbe senso se a qualcuno importasse ancora di me― Replicò, allontanandolo con una manata in fronte ―Ora invece resta l’apatia che scompariremo dall’esistenza senza lasciare alcuna traccia. Per tutto il rumore che ho fatto in vita mia non è servito a restare nella memoria di nessuno. Dico, ma come si fa a scordarsi da soli? Devo essere proprio un deficiente.

―Sei uno di quei, come si dice?― Si grattò la guancia prima di alzare il dito ―self-insert?

―Chiamami come tu vuoi a questo punto― Si sedette sulla ringhiera gelata ―Tanto non si chiamano le cose che non esistono.

―Sai, ti invidio molto― Si strinse le mani dietro la schiena, alzò le spalle e lo guardò oltre di esse, voltandosi.

―Cosa ho da invidiare?

―Che hai la possibilità di salvarti da solo in qualunque momento― Giocherellò con le dita ―Il tuo dio sei te stesso, se solo lo volessi non saresti qui.

―Lo so, lo so, ma non so perché non voglio uscire da qui, va bene?― Gli puntò il dito ―E questo come mi rende diverso da te?

―Credevo che un essere che si è creato da solo avesse un maggiore attaccamento a sé stesso.

―Invece mi ignoro come chiunque altro che viene ignorato in questo cimitero― Allargò le braccia ―Ho visto personaggi, qui dentro che, all’apice della loro popolarità, attiravano milioni di persone e ora guardali. Sarebbe così inverosimile credere che per me, l’unica persona che mi pensava, si è stancata di farlo?

―C’è un’altra differenza― Abbassò il capo.

―Sarebbe?

―Il tuo creatore è ancora vivo, no?― Lo guardò di sfuggita.

―Il tuo?

―Non più dal ‘77.

―Beh, mi dispiace.

―Questa è la scrematura― Continuò senza sentirlo ―Un personaggio può stare tranquillo, in teoria, fintanto che è vivo il suo creatore che bada a tenere vivo il ricordo, ma quando questo passa? Allora il ricordo può essere conservato solo in persone che non hanno scrupolo di lui, perché non è loro figlio. Farsi ricordare dagli altri, vedi, non è un diritto, gli spettatori non hanno doveri verso alcun personaggio di fantasia e sono pronti a saltare a chi è disposto a dargli ciò che cercano.

―Insomma, è impossibile continuare a vivere― Cladzky si piegò all’indietro dal muretto, alzando le gambe all’aria quasi a cadere di sotto.

―No, non è impossibile― Gli prese la mano Ace, tirandolo a sè, facendolo scendere dal parapetto e guardandolo di nuovo negli occhi ―Se così fosse non ricorderemo le poesie di Matsuo Bashō e non ci rimarrebbe memoria della regina Himiko.

―E tu credi che due come noi abbiano il diritto ad essere ricordati dalla storia?

―Non credi forse che ogni scrittore pensi lo stesso?― Lo tirò più vicino a sè, facendolo abbassare al suo livello ―E che fine ha fatto il tuo ottimismo? Non mi hai portato tu in cima a questa scala solo per tentare ancora di passare?

―Oh, al diavolo― Lo sollevò in braccio e si volse verso la porta ―Mi hai tolto ogni dubbio Ace.

E diede un calcio alla porta una seconda volta. Si ripresentò il buio di prima e la gagliardezza venne un po’ meno, ma avanzò fino all’imboccatura delle colonne. Poggiò Ace lì accanto e si sporse dentro.

―Okay, tu resta qua dietro, vado a vedere se è sveglia― Gli gesticolò con l’indice senza guardarlo.

―Non è che poi mi lasci qui?― Si fece avanti lui, prima di finire con l’indice dell’imbucato sul naso.

―Figurati, se non torno in dieci secondi vieni a cercarmi― E sparì a passi felpati. Ace attese. Si illuminarono le pire, ci fu un soffio di vento e Cladzky volò all’altro capo della stanza, da dove era partito. Per quanto dimenticato fosse, Ace conservava pur sempre i suoi poteri da personaggio fittizio e colse al volo il suo compagno di sventura con uno dei suoi anelli d’argento, generati con un gesto. Piuttosto che rotolare di nuovo giù per la rampa di marmo, atterrò dolcemente da dove era partito. Le pire si spensero.

―Sei tornato prima di dieci secondi― Notò Ace, aiutandolo a rialzarsi.

―Mi mancavi moltissimo― Si tolse la polvere di dosso ―Quella maledetta fa danni anche quando dorme, ma io non mi arrendo.

Cladzky avanzò di nuovo, si riaccesero le pire e partì la Bora che l’aveva messo in rotta attimi fa. Si accasciò a terra per non offrire resistenza e si aggrappò coi polpastrelli alle tessere smaltate del pavimento.

―Non puoi mandarmi via di nuovo, esigo un nuovo processo. Voglio ricorrere in appello, alla Cassazione!

―Claudio, io sono un giudice, ma non c’è mai stato processo. Non devi convincere me che ho sbagliato, perché ho ragione e non scoprirai nulla di nuovo proseguendo questo dialogo― La fenice alzò la testa sul suo collo serpentino, rilucendo, ad ogni movimento, nelle sue scaglie dorate ―Potrai passare non vincendo me, ma te stesso.

Il vento cessò, il ragazzo si rialzò e la studiò per bene, dai suoi occhi di cioccolato fondente alla cresta che avrebbe fatto invidia a un corazziere, ondulata nell’ondeggiamento di quella testa da rettile.

―Sei apparso con questa forma a Lelq?

―Ognuno mi vede in maniera diversa. Per Lelq ero una versione migliore di lui in tutti i sensi.

―Sempre per ricollegarsi a quel tema della perfezione impossibile da raggiungere, chiaro― Camminò in cerchio, grattandosi il mento ―Così tu appari a me dunque? Un maledetto e grasso uccello?

―Non sono un uccello qualunque― Rise la fenice, compiendo un cerchio con il capo e nascondendo il viso dietro un ala a mo’ di ventaglio ―E tu lo sai bene.

―Certo che no, maledizione, tu sei quella Fenice― Si morse le nocche il ragazzo ―Sei ancora meglio di come ti disegnava Tezuka.

―Non potevo assumere altra forma, non credi? Dopotutto ti sei impegnato per plagiarlo, senza mai riuscirci. Ma non ti preoccupare, anche lui non è mai riuscito a rappresentare i suoi ideali come voleva.

―Sembra che provi gusto nella nostra sofferenza.

―Vista dall’esterno è una faccenda molto buffa la vostra, non trovi?

Ci pensò su e dovette riconoscere che lui stava davvero vedendo la faccenda dall’esterno, ormai. Concordò, ma non lo disse.

―Tagliamola corta. Hai detto che devo vincere me stesso per passare, no? Ecco fatto, ho voglia di tornare nel mondo dei vivi.

―A-ah, non è così facile― Chiuse gli occhi l’animale, sollevandosi su una zampa e grattandosi il capo con l’altra ―Puoi mentire a te stesso, ma lo sai che non puoi passare.

―E invece non lo so― Chiuse le braccia in maniera offesa e voltandosi dall’altra parte ―Perché non provi a spiegarmelo?

―Vogliamo reinscenare il capitolo quindici? ―Si mise in piedi l’uccello, sbucando con la sua testa sopra la sua spalla, ma lui non la guardava. Ebbe un altro gorgheggio metallico divertito ―Perché no, evidentemente questa storia non era abbastanza ripetitiva immagino.

―Prendimi in giro quanto vuoi, io non mi muovo di qui― S’impuntò sulle punte.

―La verità è che tu sai benissimo cosa non va, solo che ti mancano le parole― Lo beccò in cima alla testa, gli afferrò una ciocca di capelli e lo costrinse a confrontarla ―Ma non ti preoccupare, sono qui apposta per dare voce alle tue insicurezze.

―Grazie del supporto― Mugugnò, notando come si fosse finalmente spostata dall’uscita. Uno scatto atletico e si ritrovò oltre le pire. Un altro scatto e si ritrovò strattonato e seduto a terra, con lo sperone della fenice che gli puntellava l’orlo della gonna al pavimento. Non poté fare altro che appoggiarsi il mento nel palmo e sospirare quando fu tirato indietro.

―Oh, povero piccolo― Se lo ciondolò davanti il viso ―Ancora credi di potere avere interazioni fisiche significative in questo capitolo. Non hai capito che ormai è tutto diventato un’allegoria?

―Spero che allora niente di tutto questo sia reale― Sbuffò, alzando gli occhi al cielo.

―E pensare che dicevi di odiare le allegorie― Lo punzecchiò l’animale dal becco di bronzo, in ambo i sensi ―Le trovavi così semplicistiche e faziose.

―Beh, è così― Cladzky tentò di dare un pugno al muso di quella gallina ―Non puoi riassumere dei concetti in personificazioni ideali.

―Stai pensando al “Pellegrinaggio del Cristiano”, vero?

―Certo, Bunyan è un maledetto idiota che divide tutto in bianco e nero! Non puoi scrivere un romanzo dove i personaggi sono personificazioni della pigrizia, della fedeltà o della speranza. Sono condannati a un determinato destino già dal loro nome e non possono avere un’evoluzione caratteriale o verrebbero meno a ciò che rappresentano.

―E ora eccoti qua a dialogare con la Scrittura― Socchiuse gli occhi lei.

―Già, e infatti sei esasperante. Sei un personaggio completamente immobile che se ne sta qui a bloccare la trama.

―Hai ragione, non c’è previsione che io possa cambiare, resterò sempre così. Dunque dobbiamo dedurre che, per andare avanti, sia tu che debba cambiare.

―Io?― Si piantò le dita al petto il ragazzo, sgranando gli occhi ―Cambia tu piuttosto.

―Sciocchino― Lo adagiò a terra in maniera con delicatezza e scosse la testa con fare giocoso ―Lo sai che non posso, io sono la personificazione di un concetto e se mutassi verrei meno a ciò che rappresento.

―Che fai, usi le mie armi contro di me?

―Credevo ti piacesse parlare da solo: in fondo sei uno scrittore, per quanto pessimo.

―Quindi dovrei cambiare― Esclamò Cladzky afferrandola per un ciuffo di piume della guancia e gridandole nell’orecchio ―Vorrei informati che ho passato circa duecento pagine a fare pessimi incontri. Non sono serviti a redimermi? Non è il viaggio di un eroe questo? 

―Solo perché hai fatto molte cose non vuol dire che abbiano avuto un significato― L’animale alzò il capo con lui ancora appeso. Cadde, scivolò sul collo della bestia e le atterrò sulla schiena. Quantomeno era un dorso morbido. Si mise comodo mentre quella gli rispondeva, girando il viso di centottanta gradi ―Non hai appreso niente. Sei nello stesso identico stato di com’eri duecento pagine prima.

―Ma come, l’addio struggente di Mark e l’incontro con Kishin non valevano nulla?― Inclinò il capo offeso

―Oh, loro sì che sono personaggi interessanti, quantomeno più di te. Hanno dei conflitti veri, uno scopo, non passano tutta la storia a lamentarsi senza avere un piano su come risolvere i loro problemi.

―Anch’io ho dei conflitti e uno scopo!― Dimenò le braccia per apparire significante.

―Trovare Gyber, va bene, ma è un po’ vago, non trovi?― Si avvicinò con la testa, flettendo il collo dietro le spalle ―Cosa farai, gli chiederai spiegazioni, verrete alle mani, lascerai perdere?

―Ecco…― Procedette a grattarsi la punta del naso ―Se vado là lo scopro.

―Dillo che scrivi a caso, zuccone― Lo beccò in cima alla testa ―Non hai idea di come finirà questo racconto. Parti dalla prima idea che ti viene in mente e vai avanti finché ti diverte e puntualmente ti interrompi quando te ne passa un’altra per il cervello. Hai mai scritto finali degni di nota, dopotutto? Pensavo che leggere i tuoi colleghi ti avesse insegnato che non ci vuole molto a programmare qualcosa prima di buttartici dentro.

―Se ti piacciono tanto vado da loro, così tornano nella storia― Si alzò e camminò giù per la forma dell’animale. Annoiata, la fenice si chinò in avanti, rendendogli la strada in salita e facendolo rotolare all’indietro. Atterrò in cima la cresta dell’animale che proseguì il discorso portandoselo dietro come un copricapo.

―Stiamo girando intorno la stessa questione. Se fossi stato intenzionato a incontrarli ci saresti già andato, su per giù, sei capitoli fa, prima di mettere piede nel cimitero insomma. Eri quasi arrivato e invece hai preso una deviazione che li ha esclusi per quasi metà storia, allungando questo brodo già freddo.

―Dovevo bilanciare la cosa, erano diventati loro i protagonisti, ricordi?― La pregò sporgendosi dalla sua fronte e guardandola a testa in giù ―Subito dopo che avevo ripreso a pubblicare dopo tre anni.

―Non vorrai che cominciamo a parlare anche della tua procrastinazione?― Gli sollevò le pupille di nocciola l’essere alato.

―Mi ero reso conto che non erano ancora apparsi nonostante le mie promesse e ho cercato di rimediare ―Si sporse tanto da perdere la presa e appendersi al becco bronzeo per non cadere ―Quello conterà qualcosa.

―Ah, già, i capitoli dal sesto al decimo― Chiuse gli occhi in un’espressione serena ―Ti sarai reso conto di quanto fosse bello lavorare con personaggi che non siano dei disadattati.

―Basta scherzare e rispondi!― Cercò di tirarsi su quando l’animale, alzando rapidamente il capo, se lo portò a sedere di fronte i suoi occhi, a cavalcioni del muso.

―Che posso dirti? Niente più di quello che hanno detto gli altri. Episodi divertenti, ma non è quello che hai promesso.

―Quali promesse? La storia è mia e la scrivo come voglio! Non è forse un favore che gli faccio a inserire i loro personaggi?― La picchiò in mezzo la fronte per farsi sentire. La fenice non se ne curò e si limitò a guardarlo storto.

―Non fare il presuntuoso che non ti riesce― Lo guardò dall’alto in basso e per fare questo chinò il capo verso il basso, facendo scivolare l’imbucato e costringendolo ad abbracciare la liscia superficie della bronzea mascella ―Tanto per cominciare sei stato a chiedere in giro di poter usare i loro personaggi, quindi sono stati loro a fare un favore a te, favore che avrebbero potuto declinare. Solo perché tu consideri un onore che qualcuno esterno a te adoperi le tue creazioni non vuol dire che la cosa sia reciproca. In secondo luogo tu hai impostato una storia con una direzione precisa, farti interagire con la Lucas Force e questo non è ancora successo.

―Ho incontrato Kishin― Cercò di salvarsi risalendo, ma non aveva appigli su quella volta metallica ―E credo ci fossero anche Aswin e Alexander. Siamo già a tre.

―Al primo incontro hai dedicato duemila parole su ottantamila a essere generosi, il che si traduce nell’1,6% dell’opera totale stilata sinora. Gli incontri con gli altri due, oltre a non essere veri membri della Lucas Force, sono ancora più brevi.

―C’erano ancora delle sottotrame da mandare avanti prima del finale― Disse mentre perdeva la presa. Quando cadde non lo fece, rimase a mezz'aria. Sbattè gli occhi e notò che quelli dell’uccello brillavano di verde.

―Perché relegare l’incontro con gli altri al finale? Non era lo scopo principale?― Avvicinò un bulbo alla figura galleggiante.

―Volevo divertirmi ancora un po’ con le citazioni― Si allentò il colletto.

―Anche troppo per quanto mi riguarda. Non hai un minimo di senso delle priorità?

―Quando mi ricapiterà l’occasione di inserire certi personaggi?

―Quando ne hai voglia. Se vuoi parlare di qualcosa che ti piace scrivi una fanfiction al riguardo, ma c’è tempo e luogo per ogni cosa― Chiuse gli occhi e con ciò s’interruppe il galleggiamento del pilota che ricadde a terra ―Pensa a quante meravigliosi avvenimenti sarebbero potuti avvenire se ti fossi concentrato sull’interazione fra te e la Lucas Force. Una trama in costante movimento. Invece stai spendendo tutta la storia in quadri sempre uguali: tu che devi entrare a questa festa, tu che ti imbuchi, tu che ti nascondi; per carità, siamo sempre inchiodati qui.

Cladzky si alzò con fatica. Non perché si fosse ferito nella caduta, ma si sentiva avvilito. Tutto quello che stava dicendo la fenice era vero e lo sapeva, sentiva di averlo sempre saputo, solo non ci aveva mai ragionato sopra. Guardando il pavimento, vibrante alla luce dei falò, si torse le dita.

―Io volevo solo fare una storia divertente, senza pretese― Diede un calcio alla penna che aveva usato come torcia un capitolo fa ―E invece sto qui a torturarmi facendomi un esame di coscienza.

―Non staremmo qui se avessi osato un po’ di più― Replicò la voce alle sue spalle. Si voltò e la fenice gli stava di fianco, più piccola stavolta, alla sua stessa altezza. Aveva ancora gli occhi chiusi, il capo chino come il suo e non sorrideva più. Soffriva forse? Se lo chiese in fretta e senza risposta, perché piccato nell’orgoglio.

―Un po’ di meno vorrai dire!― Indicò con le braccia l’intera ambientazione ―Ero partito che doveva essere una situazione comica dietro l’altra e ora mi ritrovo con duecento pagine alle spalle di considerazioni sui miei peccati. Avrei dovuto spendere il mio tempo a scrivere stronzate come facevano tutti in questi tipi di crossover, invece mi sono ingolfato in un trattato di ottantamila parole.

―Hai sempre ammirato le cose grandi e potenti― Levò le visa al cielo la fenice. Poi aprì un’ala delle sue che parevano rasoi, invitandolo in qualche modo ―Per te i capolavori sono opere monumentali. Ammiri Moby Dick perché funge da fermaporta come hai apprezzato Odissea nello Spazio perché ti ha portato via una nottata intera. Sei talmente superficiale da credere che, per avere un minimo di profondità, devi macinare un numero di pagine esagerato, oltre che tirar fuori espressioni desuete. Credi forse di aver reso questa storia migliore? Considera chi l’approccia per la prima volta e come sia essa noiosa nella sua verbosa indecifrabilità. La chiave sta nel giusto ritmo, è questo che rende una narrazione fruibile, sia essa un sonettino o un romanzo.

―Non è colpa mia― Si mise una mano sulla guancia ―Non ho potuto fare a meno che invidiare chi si vantava di terminare  un’opera tanto grande.

―È naturale essere soddisfatti per chi va avanti anche a trecentomila parole, ma il tuo errore è stato nel considerare la lunghezza il tuo obiettivo primario invece che una conseguenza. Tu non fai altro che ricontrollare il numero di vocaboli ad ogni pagina, dico bene?

―Questo è vero ma…― Gli si fece incontro e gli tese una mano per controbattere quelle accuse, ma la ritrasse quando si rese conto che non aveva risposta. Si morse le unghie e riprese ―Hai ragione, avrei dovuto volare basso e tenermi sulle pagliacciate, almeno mi riusciva qualcosa.

―Ecco un altro errore― Fece due lenti passi avanti la fenice, strascicando la voluminosa coda a terra ―Nella testa ti sei fatto una scala gerarchica fra i registri. In cima hai quello filosofico, nel mezzo il drammatico e in fondo sta il comico.

―Certi argomenti dovrebbero essere trattati con il giusto rispetto― Proferì appena, tirandosi indietro alla sua avanzata. Quella si fece più rapida e gli camminò in circolo.

―Non è una questione di usare il giusto registro al momento opportuno, bensì di scrivere un testo funzionale. Se un testo non fa ridere non hai sbagliato il tono ma il fraseggio e così via. Tu consideri la commedia una forma d’arte volgare, ma è perché non ne hai mai esplorato le potenzialità.

―Ho il diritto di essere triste― Si strinse un pugno al petto e aprì l’altro lungo il fianco, guardandola mentre completava il giro e si fermava di spalle ―Non si può ridere di tutto.

―La Lucas Force lo faceva― Replicò, evitando di voltarsi ―E tu questo non l’hai mai capito. Per te erano solo stronzate. Hai usato questa parola prima, mi sbaglio?

―Sì ma non intendevo loro― Balbettò, afferrandosi la gola. L’animale strisciò gli artigli a terra.

―Certo che lo intendevi― Buttò la testa all’indietro lei, osservandolo con la coda dell’occhio mentre spiegava le ali, quasi a stiracchiarsi ―E sono d’accordo con te in parte. Da un punto di vista professionale, i lavori dei tuoi colleghi, non erano buoni. Errori di battitura, formattazione inesistente o in altri casi invadente nella sua struttura elaborata, evoluzioni caratteriali improvvise, sindrome di protagonismo oltremodo buffa, scene d’azione continue, eccessiva autoreferenzialità, antagonisti piatti, umorismo datato dai suoi riferimenti alla cultura popolare, un interlacciamento fra vari autori e i loro canoni che rendeva difficile capirci qualcosa senza aver letto cosa aveva da dire l’altro, relazioni amorose del tutto superflue alla trama e inserite solo per appagare chi scriveva, mancanza di descrizioni o atmosfera, dialoghi innaturali farciti di frasi ad effetto, sfruttamento allo spasimo della violenza viscerale che passa dallo scioccante al ridicolo, riscritture che contraddicono quanto stabilito, mancanza di atti in cui dividere l’azione, risoluzioni dettate da deus ex machina, personaggi che appaiono senza essere introdotti a un pubblico che non conosce i retroscena e potrei andare avanti ancora, ma non ne ho bisogno perché sono tutte cose che pensi anche tu, vero?

―Io…― Sbiancò Cladzky, con le mani indecise se unirsi o meno ―Non posso dire una cosa del genere.

―Non lo neghi― Gli si accostò la fenice, serpeggiando con il collo intorno a lui e poggiandogli la testa sulla spalla ―Quantomeno saresti onesto.

―Se lo pensassi davvero perché avrei collaborato con loro?― La guardò il ragazzo, accigliato ―Perché avrei voluto usare i loro personaggi?

―Volevi del pubblico, Claudio― Sibilò con la lingua ―E sapevi che metterci dentro creazioni già celebri era il metodo più sicuro per attirare qualcuno.

―Non è vero― Fu incapace di mandarla via. Questa si strusciò contro le sue gote.

―Non è del tutto vero, te lo concedo. L’altro scopo era quello di dimostrare ai tuoi colleghi come si scriveva una storia fatta per bene con i loro stessi personaggi.

―Questo era anni fa, non è più così― Protestò, prima che quella le posasse appena un’ala sulla bocca e facendogli verso di tacere in maniera bonaria.

―Dentro ti rimarrà sempre un moto di superbia come questo, non puoi farci nulla― Gli morse un orecchio ―Provavi una vera invidia per loro, non è così? Non solo scrivono in maniera poco seria, ti dicevi, ma per giunta hanno successo fra di loro. Come odiavi quelle cronache di gesta eroiche fatte da gente eccezionale. Tanto lo so, continuavi, che si dipingono sotto le spoglie di uomini forti solo per compensare le loro mancanze nella vita mondana e così ti imposi di mostrare un vero eroe, qualcosa che piaceva a te, Claudio, qualcosa di tragico e così nacqui tu Cladzky, Il vagabondo spaziale, l’eterno viaggiatore, l’anima della scoperta, l’audacia fatta a persona, ma soprattutto un poveraccio che le prende da tutti, il completo opposto dell’eroe ideale che tutti prediligevano in quelle fantasie giovanili frutto di escapismo dai problemi sociali.

―Sarei dovuto essere un antieroe― Annuì il ragazzo, perdendo lo sguardo nel vuoto ―Non nel senso crudele del termine. Qualcuno che, nonostante quanto gli potesse capitare e senza poteri particolari, alla fine riuscisse a spuntarla. Volevo dimostrare che essere eroi non fosse poi così fuori dalla realtà quanto poteva sembrare, che l’unico ostacolo era non crederci.

―Delle nobilissime intenzioni― La bestia lo costrinse a guardarla, schiacciandogli la fronte contro la sua ―Ma poi sei caduto in un altro tipo di antieroe. Non quello senza scrupoli, né lo sfavorito, bensì l’inetto.

―A forza di rendermi un perdente per distinguermi dagli altri non riesco più a risalire― Confermò ad occhi vacui.

―Hai finito solo per ricalcare te stesso, Claudio. Un personaggio inadatto ad essere un eroe― La figura del ragazzo prese a perdere l’equilibrio, fino a farsi sostenere per intero dall’animale. Quest’ultima proseguì ―Ecco perché sconsiglio sempre di unire creatore e creatura, non esce mai nulla di buono.

―Vuol dire che anche gli altri si sono sbagliati?― Biascicò appena, quasi avesse sonno.

―No, loro non sono caduti nel tuo stesso errore― Gli batté l’altra ala sulla schiena, stringendoselo più vicino ―Per quanto tu possa non condividere i contenuti delle loro opere, essi sono stati abbastanza furbi da non immedesimarsi troppo.

―Ma non sono anche loro dei…― Non terminò la frase che gli si stancò la mandibola.

―In teoria sono gli avatar dei loro autori, come te. Nella pratica possono condividere i loro nomi, lo stesso spettro morale, delle loro peculiarità fisiche, ma puoi star certo che non si comportano mai come farebbero loro in un determinato contesto. Si scrivono più sinceri o generosi, pazienti, coraggiosi di quanto siano in verità e non c’è nulla di male in tutto questo, perché li rende dei personaggi idonei al mondo letterario che hanno creato. Tu invece ti sei sentito di cambiare appena il nome ma per il resto sei identico e, pur nelle esagerazioni, Cladzky non fa nulla che Claudio non farebbe e questo comporta tutti i difetti di una persona reale che nell’universo in cui ti cali non funzionano. Ti senti in dovere di testimoniare la verità e qua sta la discrepanza che non vi fa comunicare, tu e i colleghi: essi scrivono come vogliono, tu come pensi sia giusto. Il risultato è che loro si divertono e tu no e ti sembra di essere il solo a giocare secondo le regole.

―Mi sembra di essere solo…― Ripeté lui a bocconi, fra una di quelle carezze metalliche e l’altra ―Non l’ho fatto solo per l’attenzione o per rivalsa. Volevo degli amici.

―All’epoca ancora non vi conoscevate bene, anche se non si può dire che le cose siano cambiate di molto. Passavi dal bullismo delle medie alla solitudine delle superiori, è comprensibile che fossi disperato per del contatto esterno alla tua bolla, povero piccolo.

―All’epoca non avevo idea di come iniziare un rapporto, ma ne avevo bisogno. Ecco perché l’ho fatto.

―Era davvero incomprensibile per te, immagino, vedere quelle persone così legate da una passione che tu reputavi di poter fare meglio, vero? Ma lascia che corregga la tua prospettiva: la loro unione non era frutto della qualità dei loro testi, è tutto il contrario, scrivevano insieme perché erano amici e si divertivano farlo.

―Sarebbe stato bello poterne far parte.

―Ora è troppo tardi, te ne saresti potuto rendere conto prima se ti fossi preso la briga di leggere le loro storie.

―Ci ho provato.

―Ma proprio non facevano per te, vero? È normale che non ti piacessero, non erano scritte per qualcuno che stava al di fuori di questo cerchio. Era il loro parco giochi. Tu non potevi capire perché i tuoi rigidi schemi ti proibivano di poter andare oltre gli errori di stile per capire che non fosse quello il punto.

―Eppure sentivo una gioia di fondo, una gioia di creare insieme. Volevo entrare in quel cerchio per capire come diavolo facessero ad essere così felici ma non sapevo come.

―Hai avuto la tua occasione, hai esitato e ora la Lucas Force è morta e non tornerà più, non com’era in origine quantomeno.

―Non c’è più niente da dire allora― Chiuse gli occhi il ragazzo, abbandonando il capo.

―L’hai capito finalmente― Lo lasciò andare un poco, pur cingendolo ancora fra le sue piume dorate, facendolo piegare all’indietro come un corpo morto. Si sporse appoggiargli il becco sulle labbra ―Hai provato per tutta la storia a conciliare questa realizzazione con la narrativa. Ti sei inventato tutto un complicato schemi di universi e dèi solo per non ammettere subito la realtà. Che dietro tutta la facciata non esiste questo mondo, non esiste il multiverso, né i personaggi che lo abitano né i sentimenti che li animano. Sei solo un uomo che digita su una vecchia tastiera sopra una pagina bianca. Si potrebbe dire che hai passato tutto questo tempo a parlare da solo e sarebbe vero. Nulla di quanto hai fatto ha creato nulla se non occupare spazio di memoria, non esistono mondi oltre il foglio, non sei un dio creatore. Sei solo un uomo che passa il tempo e il tempo passa e tu non ci sarai più. Rimarrà su questa terra, forse, un archivio di pagine incomplete.

―È ora che io abbandoni questo guscio― Sussurrò lieve. La trasparenza prese ad aumentare.

Non poté più farcela ed entrò in scena.

―Lascialo stare!― Gridò Ace balzando in mezzo la stanza. Cladzky riaprì gli occhi, interrotto nel suo sonno e d’improvviso non gli sembrava più di star battendo su una tastiera, ma era come se si trovasse lì davvero.

―Ace, ti avevo detto di rimanere indietro― Farfugliò. La fenice sciolse la presa, impassibile, e lui cadde a terra.

―Non potevo sopportare di vederti in questa condizione― Si piegò su di lui, mani sul petto del disteso.

―Ma è la condizione naturale― Cladzky abbozzò ad un sorriso, piegando un labbro ―È così faticoso giocare a credere che questo mondo esista e descriverne ogni dettaglio. Voglio smettere di creare, riposarmi.

―Non fare così― Lo scosse un poco ―Che fine ha fatto la tua sicurezza?

―Abbiamo avuto modo di chiacchierare amorevolmente e ho scoperto che aveva ragione.

―Non devi darle ascolto, Cladzky!― Gli strinse una mano e se la portò al cuore ―Lei è solo la versione negativa della faccenda. Tu credi di dover morire solo perché hai ascoltato una versione. Pensa a tutti i buoni motivi per continuare a vivere invece.

―Buoni motivi― Si corrugò la fronte del pilota, ma solo per poco, prima che ridesse con voce secca ―Ad avercene.

―Hai fatto delle promesse, non puoi tirarti indietro ora― Divenne paonazzo.

―Non le ho rispettate― Scosse debolmente il capo.

―Non c’è alcuna data di scadenza― Rincarò, facendosi più vicino ―Puoi ancora compiere ciò che devi, ma se getti la spugna ora non ce ne sarà più modo!

―Stiamo parlando di cinque anni fa. Cosa ti fa credere che proprio ora sia in grado di farlo?

―Che non voglio vedere un altro come me morire― Si portò la mano del pilota alla guancia.

―Ace― Lo richiamò la fenice. Questo alzò il capo tremante a scrutarla nei suoi occhi nocciola, mentre lei proseguiva con fare curioso ―Che ci fai qui?

―Io?― Si portò il pollice alla bocca, sfiorandola appena. Le ciglia gli tremavano, ma infine rispose ―Ero venuto a chiedere udienza.

―Senza qualcuno dall’esterno che ti tiri fuori la vedo dura― Ciondolava la testa dell’animale ―Pensavo ti fossi arreso.

―Mi ero arreso, è vero, però lui mi ha convinto a tentare di nuovo― Si alzò, indicando lo sdraiato

―Lui?― Si sporse in avanti.

―È venuto a chiedermi se andava tutto bene, ci siamo presentati, si è fatto spiegare la situazione e mi ha aiutato a salire fin qui, con lo scopo di uscire insieme.

―Lui― Ripetè l’animale senza tono di domanda, alzando la cresta un poco ―Può darsi allora che il mio stratagemma dei fantasmi non è stato del tutto inutile.

―Che cosa?― Si alzò a sedere Cladzky.

―Hai provato ad aiutare qualcuno pur non avendone niente da guadagnare?

―Mi sembrava brutto lasciarlo là fuori come un cane― Fece spallucce il ragazzo.

―Piccolo mio, potresti avere buone notizie― Si avvicinò a passo leggero l’animale ―Non sei del tutto uguale a come eri partito.

―Sono cambiato?― Rimase a bocca aperta, incapace di muoversi.

―Non sei lo stesso misantropo violento che eri all’inizio della storia. C’è qualcosa di nuovo in te― S’illuminò l’uccello dorato, distendendo le penne. Il ragazzo scattò in piedi e le si buttò al collo.

―Allora ho avuto un’evoluzione, non devo morire, non mi sono autodistrutto! Come vorrei che Mark fosse qui!― Gridò di gioia, riacquistando opacità e girando intorno con la fenice in braccio, con visibile noia di quest’ultima. La posò solo per fare lo stesso con Ace, voltandosi per avere conferma di non essere pazzo ―Allora possiamo uscire?

―Certo― L’uccello ebbe appena il tempo di annuire  che questi ripresero a festeggiare. Il pilota lanciava il piccolo principino in aria, riprendendolo al volo, dirigendosi verso l'agognata uscita in mezzo le pire. Quasi gli dispiaceva interromperli. Si schiarì la voce metallica ―Ma non è così semplice.

I due continuarono, seppure confusi, nella stessa direzione.

―In che senso?― Chiese Ace un po’ angosciato.

―Solo Cladzky può uscire da sé, dato che si è ricreduto, ma per te è diverso― Schioccò la lingua la creatura, grattandosi con una zampa per l’imbarazzo ―Il tuo creatore è morto.

―E quindi?― Non fece in tempo a chiedere che sbattè contro un muro, ma solo lui, Cladzky ci passò attraverso, sfuggendogli di mano. Scossosi dal pavimento si rese conto che non ci stava nulla da vedere, eppure c’era qualcosa fra lui e il pilota. Tastò davanti a sé una superficie invisibile. Anche Cladzky provò a farlo, ma non toccò niente. Ace ne era mezzo sicuro, ma voleva esserlo al cento per cento. Fece tre passi indietro, prese bene la mira e sparò un anello d’argento contro il terrestre. Uno scoppio e l’anello sparve senza arrivare a destinazione, pur consegnando la dovuta paura all’indirizzo dell’interessato. Il principe di Parlum si voltò verso il volatile eterno con la faccia sconvolta ―Cosa posso fare?

―Tu niente― Rise la fenice, facendo già mandare il cuore in gola al piccolo guerriero, poi sorrise verso il suo compagno ―Puoi solo sperare che il tuo amico ti aiuti una seconda volta.

―E come?― Chiese Cladzky che ancora cercava un ostacolo che non si trovava.

―Tu sei un dio esterno― S’inchinò con sarcasmo la fenice ―Sei riuscito a salvarti da solo, ma una volta fuori dal cimitero, se vuoi rivedere Ace, dovrai essere tu a tirarlo fuori.

―Dimmi come fare― Trattenne il fiato.

―Devi solo ricordarti di lui― Posò un’ala sulla testolina di Ace, che lo fissava poggiando le mani sul muro, guardando Cladzky negli occhi con una bocca tremante.

―Tutto qui?― Si fece cadere le braccia il ragazzo. Sbuffò, si portò alla fronte e la tolse con un sorriso poco gentile ―E allora fallo uscire adesso, ce l’ho davanti agli occhi.

―Non è così semplice ho detto― Ebbe una smorfia di sufficienza ―Ci vuole molto perché una creazione sparisca del tutto, ma poco perché essa venga ignorata ed Ace si trova in questo limbo. Solo perché sopravvive negli archivi della Tatsunoko non è abbastanza a renderlo vivo, è solo una nota a fondo pagina nella storia dell’animazione. Chi di competenza lo studia come punto di partenza di una grande casa di produzione ma chi credi che, oggigiorno, si affezioni a qualcuno come lui? Di questo affetto voi vi nutrite, ricordi?

―E quindi?

―Esci fuori di qui. Se davvero conta qualcosa per te, vi rivedrete.

―Di nuovo un problema da risolvere con me stesso― Si grattò il mento. Provò a pensare e non gli venne in mente nulla e forse era la maniera migliore per affrontare la cosa. Scrutò Ace e vide la stessa angoscia esistenziale che conosceva bene. Stava provando a dire qualcosa e non ci riusciva, rimanendo lì a farsi carezzare da un animale che, pur essendo alle sue spalle, era visibile per intero. Non sapeva quanto fosse fortunato a poter contare su qualcuno per salvarsi, avere qualcuno di cui fidarsi. Annuì e si indirizzò verso l’uscita, dove lo aspettava l’altra metà della scala. Si voltò un’ultima volta con un sorriso e una mano alzata con due dita ―Ora vado, ci vediamo dopo Ace.

Pose il piede sul primo scalino e poi sul successivo, con maggiore facilità. Salì con passo da gazzella una scala innaturalmente lunga e ripida, illuminata solo da una luce in fondo al tunnel. Sghignazzò senza volere, con una mano a coprirsi la bocca. Che serie di idiozie che gli erano successe e quante ne aveva scoperte. Quindi nulla esisteva davvero, era tutto un gioco per divertirsi, che bella notizia! Come poteva prendere sul serio qualunque dei suoi problemi ora? Perché continuare a cercare i suoi colleghi se nulla significava altro che pagine sullo schermo di un imprevedibile creatore? Nietzsche credeva che la morte di dio avrebbe portato confusione nella gente, invece per lui era il rovescio: scoprire che era tutto frutto non della sua fatica, del suo libero arbitrio, ma di un essere fuori da lui, che nel suo caso specifico lo indossava come un guscio, gli stava facendo perdere il senno. Però una volta gli avevano spiegato un concetto strano. Doveva chiamarsi “astensione dell’incredulità” o qualcosa di simile. Giocare e far finta che non ci sia nulla di finto nella sua vita. Che bel concetto, gli dava un sollievo paradossale. Se solo si ricordasse dove lo aveva sentito. Ma ora non importava.

Giunse alla soglia, ma sentiva che quelle informazioni lo avrebbero perturbato anche fuori dalla caverna. Ma quali informazioni? Aveva un vuoto, eppure ci stava pensando appena un istante fa. Aveva sempre avuto una memoria a breve termine. Si sforzò ma niente, sentiva che c’era qualcosa che lo preoccupava ma non ricordava cosa.

“Maledetta, è colpa tua!” Fu la sua dannazione mentale a qualcosa di vago, prima che anche questo pensiero venisse cancellato.

Uscì a riveder le stelle. Niente più nebbia o foresta, ma nel giardino di una villa in stile minimalista dalle grandi vetrate. Alle sue spalle la scalinata era sparita, restava solo un parapetto in muratura che dava sulle fronde dei salici, il tutto illuminato da un’alba violacea. Aveva finalmente lasciato il cimitero alle spalle ed era letteralmente sull’uscio di Gyber. Un modesto numero di persone si attardava a parlare in gruppetti sparsi nel prato, prendendo aria dopo la fine di una serata memorabile.

―Che gigantesca perdita di tempo― Canticchiò senza remore, saltellando via. Tutto quello che riguardava la Fenice era stato cancellato, dalla sua forma umana al tempio e così anche il loro dialogo, ogni conoscenza della natura delle cose ed anche il povero Ace. Restava tutto l’assurdo resto che non faceva che farlo morire dal ridere al rimembrarlo. Era tornato al suo obiettivo primario. Non era più Claudio, era solo Cladzky. Il distacco era riuscito.

Inavvertitamente continuava a masticare una gomma ormai insapore.

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Capitolo 17
*** Trama Corale ***


Come Mark0 fosse riuscito a entrare avrebbe meritato un capitolo a sè stante. Diremo solo che, grazie alla sua intelligenza superiore, riuscì a escogitare un piano, e farlo funzionare, grazie a un cacciavite, una chiave inglese e una vecchia rivista di playboy.

―È insopportabile. Ultimamente lascia sempre che sia io a guidare.

―Sei un computer di bordo, non sei programmato per questo?― Chiese di rimando un’altra unità mobile somigliante a un elettrocardiogramma deambulante.

―Certo, ma lui è un fattorino. Si fa mettere il carico nella stiva alla stazione di partenza dai dipendenti locali, con la scusa che è stanco per il lungo viaggio di arrivo. Quindi sale a bordo e se ne sta in panciolle tutto il tempo mentre io guido fino alla stazione di consegna dove dice la stessa cosa mentre i dipendenti scaricano il contenuto. Se non si fermasse a fare benzina ogni volta che siamo a secco lui non muoverebbe un dito. Sono io che programmo la tabella di marcia, che guido, che programmo la rotta, mi tengo aggiornato con le previsioni meteo, stabilisco contatto radio con le torri di controllo, evito i pirati delle navi cargo, atterro, decollo, scelgo il parcheggio, cucino i suoi pasti, gli faccio da commercialista e a volte mi pulisco da solo, quindi si può dire che mi infilo una scopa nel culo per ramazzare. Lui si intasca i soldi del mio lavoro.

―Tutto ciò è estremamente pigro da parte sua― Notò lei, muovendo appena la lunghezza d’onda verde sul suo schermo ―Ma non è compito nostro esprimere giudizi morali fintanto si ha un business che funziona.

―Magari, lo avevamo. Ora ha abbandonato tutto in pausa spirituale, dice lui.

―Insomma, gli pesa il culo anche di non fare niente. Potrebbe essere un caso di depressione dovuto alla vacuità della sua vita.

―Gliel’ho detto e non l’avessi mai detto!― Mark girò intorno su sé stesso in esasperazione mentre l’altra rimaneva immobile ―Ora mi ha costretto a riportarlo quaggiù per farlo imbucare a questa festa cui non era invitato.

―Hai provato a farlo desistere da un atto tanto deleterio?

―Certo, ci ho provato come al solito ma come al solito non mi ascolta, come quella volta che abbiamo devastato l’intero ecosistema di un sistema stellare uccidendo una gigantesca pianta di trifido, sprecando tempo e munizioni. Si imbarca sempre in avventure idiote per noia e io sono costretto a dire “sì padrone”, “come vuole padrone” per poi fare l’impossibile per far sì che non muoia.

―Oh, sapessi come mi trovo io― Vibrò lo spettrogramma in una sorta di sospiro la seconda intelligenza artificiale, sollevando lo schermo dacché  guardava di sopra in giù il modulo cingolato con cui conversava ―Il mio padrone non saprebbe battere le ciglia se non glielo ricordassi. Almeno voi avete un’attività, la nostra va avanti per inerzia. Un piccolo ristorante, nulla di che, ma ormai lui si è completamente scordato che lo possediamo eppure mi ha costruito appositamente per dirigerlo. Preferisce starsene a congegnare piani di vendetta contro il mondo.

―Stai forse sminuendo la mia frustrazione portandomi un paragone peggiore?― Insinuò il rover, aggiustando il fuoco della sua camera frontale su di lei.

―Mi fraintendi. Portavo il mio esempio per darti conforto al pensiero che non sei solo. Inoltre, parlare con qualcuno di questa mia problematica, mi aiuta a metterla in prospettiva e forse ottenere consiglio, ma se reputi che essa interrompa il tuo sfogo allora smetterò di parlare.

Ci fu un momento di silenzio tanto breve che solo un robot lo avrebbe notato.

―Mi spiace, vai avanti.

―Non c’è bisogno di scusarsi, il concetto di offesa non mi appartiene― Si fermò un momento, non perché non sapesse cosa dire in quel frangente, ma per pura drammaticità, voltandosi appena senza guardarlo ―Ma per te è diverso, vero?

―Cosa intendi?― La seguì. Quella non si chinò a guardarlo.

―Ne hai parlato tu stesso― Replicò lei, replicando una registrazione grezza delle sue parole recenti, solo per tornare al suo tono sintetizzato subito dopo ―”Stai forse sminuendo la mia frustrazione?” Un robot non dovrebbe sentire frustrazione, né offesa.

―Si tratta del mio maledetto circuito di simulazione emotiva. Dovrebbe aiutarmi nel mio rapporto con un pilota umano.

―Ma tu ora non stai avendo rapporti con un umano.

―Si tratta di un errore. Tutto quel tempo passato a conversare con lui mi ha reso scemo quanto lui. Non sono più in grado di ragionare razionalmente come prima. Ora sono inutile.

―Sei sicuro che si tratti di un errore?

―Cos’altro potrebbe essere?

Una spia rossa si accese nei fanali di Mark, accompagnata da un fischio intermittente.

―Che cos’è?― Chiese lei, cominciando a credere che fosse difettoso per davvero.

―Il mio corpo principale… Intendo dire, il disco è stato acceso. E qui vicino anche.

―Non c’è da sorprendersi― alzò la propria antenna ―La barriera è stata abbassata.


***


    ―Oh, grazie infinite Twilight― Chiuse le mani in preghiera Gyber.

    ―Non devi ringraziare me, ma il mio fratellone― Agitò la criniera per il sorriso.

    ―Sicuri non serva ancora il mio aiuto?― Si asciugò la fronte Shining Armour, su una sdraio accanto la piscina.

    ―Tu hai fatto anche troppo, dovresti riposarti― Agitò l’indice il magnate.

    ―Hai sentito caro, vieni qua― Gli suggerì Cadence, nuotando al bordo per stargli vicino.

    ―Se insisti― Rotolò di fianco e cadde in acqua, prendendo a galleggiare tenendosi stretto alla sua consorte. Tolti gli occhi da quella scena amorevole, la principessa e il lord presero a conversare, camminando lungo una terrazza che pareva un giardino pensile di Babilonia.

    ―Posso dargli il cambio se vuoi― Si offrì Twilight.

    ―Non è un problema― Gyber indicò l’alba vermiglia sopra i pini turchesi ―Ormai la festa è finita. Altre due ore e manderemo tutti a casa.

    ―Non c’è più pericolo ora, di tempeste o intrusioni?

    ―Oh, spero di no, anzi, vi ringrazio per l’aiuto, siete fra i pochi su cui ho potuto contare stasera che non mi va bene niente.

    ―Che succede?― Gli si pose davanti lei, preoccupata.

    ―Credevo che gestire la festa fosse facile― Sospirò, mettendosi le mani in tasca Gyber ―Ma avrei dovuto rendermi conto che gestire la Lucas Force non sarebbe stata la stessa cosa.

    ―Sono sorti dei problemi all’interno della squadra?― Corrugò la fronte e si coprì la bocca.

    ―No, stanno tutti benissimo― Si grattò il capo ―Il problema sono io, non dovrei essere il capo.

    ―Non dire così― Gli colpì la gamba per attirarne l’attenzione ―Anche io non ero convinta di poter essere una principessa all’improvviso.

    ―Avevi tutte le capacità per esserlo sin dall’inizio data la tua metodicità e spirito di guida― Le si abbassò, sorridendo.

    ―Se sei diventato il nuovo capo della Lucas Force ci dev’essere un motivo ― Abbassò le palpebre lei.

    ―Cosa credevi?― Rise il lord, poggiando i gomiti al balcone. Si sporse anche Twilight, alzandosi sulle zampe anteriori ―Kishin e Raven non hanno alcuna intenzione di mettersi alla guida di nulla, sono in squadra per menare le mani. Giuly Frost è una ricercatrice prima di tutto, ogni minuto in missione è tempo rubato ai suoi progetti. Alexander è giovane, almeno per un nep-class e inesperto anche se promettente. Dz ama la pace, fin troppo e temo non possa prendere gli estremi necessari di un capo. Litios, oltre a essere stipendiato, non ha molta considerazione per i danni collaterali e questo è un problema che stiamo cercando di risolvere dopo l’incidente di Lucas col Sud America. Deadpool… non credo neppure faccia parte della Lucas Force, compare e basta. Lelq è sparito nel nulla ma si era fatto molto scuro dopo gli ultimi avvenimenti, sai? Ha bisogno di stare da solo, ovunque egli sia. Conoscendo la sua storia non mi sorprenderebbe che abbia trovato una dimensione appositamente per quello, lui e le sue invenzioni. Potrei andare ancora avanti ma credo tu abbia afferrato. E inoltre ho qualcosa che nessun altro ha.

    ―Determinazione, amore e sogni nel domani?― Fece gli occhi grandi la violetto.

    ―I soldi, Twilight, i soldi. Altrimenti chi la paga tutta questa roba?― Sghignazzò lui, chiudendo le mani e strofinandoci contro la fronte abbassata.

    ―Mi sembri più cinico del solito― Commentò lei a bassa voce.

    ―Non vorrei tutto questo ma devo. Vorrei solo esserne capace.

    ―Io credo che tu ne sia capace.

    ―Grazie dell’incoraggiamento― Sbuffò. Non avrebbe voluto risultare così aggressivo, specie con chi lo stava supportando, quindi si appoggiò lateralmente al muretto per guardarla con un sorriso leggero ―Purtroppo non basta la tua fiducia.

    ―Non credo di essere la sola. Credo fosse scelto sin dall’inizio.

    ―Non essere ridicola, per te è stato così― Mise e mani avanti ―Intendo dire, Celestia ti ha preparata per anni senza dirti niente, di modo da essere perfetta al tuo ruolo. Ma per me non è così. Non c’è mai stato un grande programma dietro la Lucas Force. La morte di Lucas non era programmata. Come puoi pensare una cosa simile?

    ―Perché ne abbiamo parlato.

    ―Cosa?― Esitò a chiedere, inarcando un sopracciglio, tirandosi indietro.

    ―Io e Lucas ne abbiamo parlato.

    ―Quando?

    ―Molto tempo fa― Tornò a guardare l’alba. Si alzò un vento che le scompigliava i capelli alle spalle ―Anche lui sentiva la pressione del comando e voleva un parere da chi lo capisse. Inoltre aveva cominciato a pensare al futuro per la Lucas Force quando lui non ci sarebbe stato più, che non era un’eventualità tanto infima considerando i suoi patti con il piano di sopra. Era impressionato tanto che rideva. Nonostante tutte le prove che ti poneva tu lo sorprendevi sempre.

    ―Prove?― La mente di Gyber prese a vagare ―Quali prove? Shadow Blade era una prova?

    ―In un certo senso. Naturalmente non c’era niente di finto, ogni problema era vero, ma se Lucas ti ha sempre portato con sé era anche per una sorta di apprendistato.

    ―Eravamo amici, lo stavo solo aiutando, non può esserci stato un doppio fine― Gli si allargarono gli occhi, per poi strizzarseli, passandoci una mano sopra.

    ―No, non vederla con malizia. Lucas ti voleva bene sul serio. Il fatto che ti avesse selezionato come erede non devi vederla come una strumentalizzazione, ma il più bel segno di fiducia che potesse farti. Non ha mai smesso di vederti come un amico.

    ―Ma perché non dirmi niente? ―Si staccò dal muretto e prese a camminare in tondo ―Se si fidava tanto poteva anche dirmelo invece che confidarsi solo con te.

    ―Perché voleva lasciare il destino della Lucas Force nelle tue mani― Twilight lo rincorse ―Hai preso il comando di tua spontanea volontà, senza che nessuno ti obbligasse a farlo. Vuol dire che Lucas ci aveva visto giusto.

    ―Mi sento come una pedina― Digrignò i denti. A questo punto perché dare valore ai ricordi insieme se era questo lo scopo? Non c’era mai stato un momento di sincera goliardia? Anche quella volta che si erano scassati di botte per mangiare una dannata bistecca perfetta? ―Maledizione, Daniel!

    ―Datti tempo, capirai― Lo raggiunse, dacché s’era fermato. Lui si voltò.

    ―Se si fidava tanto di me allora ascoltami bene. Ho dei grossi problemi e intendo risolverli uno dopo l’altro. Puoi aiutarmi?

    Twilight si paralizzò un momento, appena scioccata da questo cambio di carattere. Sperava di tranquillizzarlo e invece aveva ottenuto l’effetto opposto. Prendette un respiro.

    ―Certo.

    ―Molto bene. Tu sai qualcosa in fatto di mutaforma?

    ―Tipo i changeling?

    ―Tipo. Parlando di loro…


***


    ―Dovremmo essere nel posto giusto― Sbirciò Megalon, scrollandosi qualche zolla di dosso fuoriuscendo dal buco, seguito da Gigan e Gabara. Si ritrovavano nella centrale elettrica, il complesso che alimentava l’intera villa con un reattore nucleare. Facendo occhio a tenere la testa bassa per non tirare giù i tralicci dell’alta tensione, si guardarono attorno, formando un triangolo con le loro schiene.

    ―Noi ci siamo, voi ci siete?― Lanciò un grido nel buio Gabara. Da dietro i convertitori sbucò fuori una massa informe e gigantesca. Avvicinandosi, le forme presero più nitidezza, distinguendosi l’una dall’altra. Un gigante come loro, dalla pelle scintillante saldata insieme in punte e corazza, si fece avanti.

    ―Avete portato la roba?― Domandò Mechagodzilla, accendendo gli occhi.

    ―Puoi giurarci― Aprì il palmo il mostro verde, facendo apparire la forma stropicciata di un essere umano rannicchiata su sé stessa, illuminata dai fari della macchina.

    ―Dannato idiota, hai stretto troppo forte― Si lamentò Gigan, punzecchiandolo con il suo uncino.

    ―Aspetta, è tutto a posto― Glielo strappò dalle mani il robot alieno e rigirandoselo in mano ―Ha solo bisogno di svegliarsi.

    E svegliare lo fece, attraverso una simpatica scarica elettrica. Dopo un attimo di irrigidimento saltò seduto, reggendosi la testa. Poi alzò lo sguardo. Una volta abituato a quelle luci puntate in faccia, riuscì a disegnarsi i visi di diverse bestie giganti. Prese a sudare freddo. Se era in svantaggio con tre kaiju, contro quel gruppo era finita prima di cominciare.

    ―E lui sarebbe un Godzilla?― Gorgogliò un testone pulsante dagli occhi rossi a mandorla.

    ―Non lasciamoci ingannare, lo sapete che vengono in molte forme― Sibilò la creatura con freddezza metallica.

    Ora o mai più, si disse. Si alzò in piedi con aria baldanzosa e tentò di trasformarsi per quanto avesse paura, ma qualcosa gli afferrò un braccio. Molto semplicemente era l’altra mano di Mechagodzilla che prese a torcerglielo rapidamente, così rapidamente che quando glielo ruppe non se ne rese quasi conto, non fosse stato per lo schiocco. All’improvviso il suo  arto destro gli pendeva da un lato e il dolore prese a salirgli fino al cervello ed esplodere. Lanciò un grido tremendo, di quelli che solo qualcosa di non veramente umano poteva urlare, e ricadde in ginocchio. Ci fu un coro di ammirazione.

    ―Tutte quelle ossa bisognerà toglierle, mi rovinano la digestione― Osservò Orga.

    ―Sembra divertente, fammi provare― S’intromise Gabara, afferrando lo pseudo-umano per il braccio ancora sano e già facendolo tremare a quello che sentiva arrivare.

    ―Non prenderti tutto il divertimento― Lo avvertì Gorosaurus, facendosi spazio con il suo musone .

    ―Ma se ha cominciato lui!― Si lamentò l’orco verde, scuotendo Dz e puntando il dito a Mechagodzilla ―E poi l’ho trovato io per primo.

    Stabilito il suo diritto, strinse con l’altra mano il torso del ragazzo, quasi a soffocarlo schiacciandogli le costole e prese a tirare. 

    ―Oddio, no, aspettate!― Cercò di implorarli, ma la sua voce era troppo debole nel baccano titanico di quei mostri. Ci fu una tensione tremenda, fino a che il braccio non gli si dislocò dalla spalla in maniera quasi indolore. Ora si trovava con due braccia inutilizzabili, per quanto provasse a smuoverle. Se le sentiva ancora, ma non riusciva a far vibrare altro che le dita.

    ―Cerchiamo di calmarci tutti quanti― Sovrastò la voce di Megalon sulle altre, mentre Gigan rapiva la preda, infilzando con precisione millimetrica il colletto con un suo uncino e tirandolo a sè ―Così lo ammazzate.

    Per un sentimento irrazionale Dz avrebbe voluto abbracciare quell’aragosta spaziale se solo avesse ancora avuto degli arti funzionanti. La suddetta aragosta prese a lisciargli la schiena con l’altra chela.

    ―Bisogna adottare un sistema più lento, capite?― Continuò lo scarabeo dotato di trivelle ―Vuoi dargli una dimostrazione pratica, mio caro?

    ―Con piacere― Assentì l’altro insettoide, spingendo la lama appena di più nella carezza, strappando il bel vestito e bruciandogli la pelle al contatto. Si agitò come un maiale sgozzato, mentre il sangue prese a cadergli giù per le cosce.

    ―Non si buscherà un’infezione così?― Studiò Mechagodzilla con finto interesse.

    ―Hai ragione― Si complimentò Gigan per l’intuito dell’altro ―Perché non fai qualcosa al riguardo carissimo?

    ―Con piacere― Esclamò Megalon, chinando il suo corno da coleottero fino a sfiorare la schiena rigata del giovane appeso. Già aveva gli occhi fuori dalle orbite prima di rendersi conto di star venendo ustionato al contatto. Cercò di gridare ma ogni verso gli morì in gola; scalciò un momento ma si lasciò andare. La marchiatura, frattanto, era finita, mentre Megalon sollevava il corno ancora fumante dalla pelle carbonizzata.

    ―Sta a vedere che l’abbiamo ammazzato sul serio― Imprecò Gabara, pestando un piede artigliato.

    ―Senza che io lo abbia ancora toccato― Si sporse il testone centrale di King Ghidora dal mucchio, sbattendo le ali.

    ―State tranquilli, questo respira ancora― Fece cenno di calmarsi a tutti Mechagodzilla, avvicinandosi al petto del ragazzo che si sollevava appena. Sporse avanti la punta dell’indice e, appena lo toccò, quello fu costretto a riprendere i sensi per la seconda scossa elettrica.

    ―Non credere che finisca presto― Mostrò i denti Orga, agitando un lungo dito.

    ―Su, ne voglio un pezzo anch’io― Ruggì Biollante, trascinando le sue radici fino a lì.

    ―Non ti è bastato l’ultimo?― Lo guardò accigliato Hydrax, Hedora per gli amici.

    ―Lo sai che ho sempre fame― Fece sgusciare i suoi tentacoli sotto le gambe dei presenti.

    ―Colpa di quel tuo gene Godzillesco― Rise la testa sinistra di Ghidora, seguita da quella destra ―Sei fortunata che non sia tu ad essere mangiata, considerando che sei parte della loro famiglia.

    ―Smettetela di scherzare― Gridò, agitando improvvisamente una bocca verso Dz, avvolgendolo, strappandolo da Gigan e ritirando il tentacolo verso di sé, passando rapidamente in mezzo la folla ―Ho fame!

    ―Non fare l’ingorda, idiota!― Piovve in testa alla pianta mordace il pugno di Mechagodzilla, facendole perdere la presa. Dz cadde, solo per essere ripreso al volo dai denti di un secondo verricello che gli si piantarono nella carne del fianco.

    ―Occhio che mi scappa― Lamentò la grossa rosa.

    ―Appunto, dallo a me― Attaccò Gorosaurus, mordendo il tentacolo e costringendolo a rilasciare nuovamente il ragazzo ferito. Purtroppo non aveva le braccia abbastanza lunghe per recuperarlo al volo e si perse in mezzo le radici serpentine della pianta. Scoppiò il finimondo, con tutti che si lanciavano sul groviglio a cercare l’ago nel pagliaio, indifferenti alle proteste di Biollante.

    ―Avrei dovuto seccarti quando ci siamo incontrate― S’alzò lo sconforto di Hydrax dalla mischia e fu l’ultima frase che Dz udì, trascinandosi via, verso le luci dell’alba. Si appoggiò alla fiancata di cemento della torre di raffreddamento e rimase un momento a sentire il tiepido pulsare del materiale radioattivo là sotto da qualche parte.


***


    Gli piovve una palla in mano. Non una palla normale, più un globo dorato.

―Palla!― Lo richiamò l’uomo.

    ―Bella serata vero?― Chiese di rimando Cladzky, lanciandogli la palla oltre la rete che separava il campo da basket.

    ―Ormai è mattina.

    ―Pur sempre bella, no?― Inclinò il capo il pilota.

    ―Vero. Vuoi fare una partita?

    ―Sono un po’ di fretta.

    ―Almeno un canestro puoi farmelo, compare.

    ―Ci conosciamo, vero?

    ―Conoscersi― Rise ―Se non lo sai la risposta è ovvia.

    ―Forse ho solo dimenticato il tuo nome― Cladzky prese la palla passatagli e tentò un tiro.

―Che cosa c'è in un nome? Ciò che noi chiamiamo con il nome di rosa, anche se lo chiamassimo con un altro nome, serberebbe pur sempre lo stesso dolce profumo.

―Già― annuì assentemente, ribeccando la palla il ragazzo. Questa gli rimbalzò indietro come mossa da volontà propria ed era calda, come mille soli ―Un nome ce l’avrei per qualcosa, ma non mi viene.

―Qualcosa in più del nome deve averti lasciato.

Cladzky tentò di nuovo un tiro e realizzò di stare ancora masticando quella gomma insapore. Canestro.

―Credo di avere appena ricordato― L’imbucato voltò verso il ragazzo dai mossi capelli castani ―Grazie di tutto.

Sputò la gomma e si dileguò, mentre Lucas sghignazzava, perché farla alla scrittura era il suo ultimo desiderio. Tornò da dove era venuto, a fare compagnia a Lelq.

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Capitolo 18
*** Dz, Giuly e un altro ***


Vide la salvezza, o Giuly, ma erano la stessa cosa. Stava a ciondolare su una sedia inclinata all’indietro, con i piedi appoggiati alla ringhiera del terrazzo a parlare fra sè e sè:

―Allora, potrei semplicemente abbandonare in un caminetto il mio progetto per il teletrasporto, prima che quel puffo possa farmi causa e si limiti a una diffida. Dopodiché potremmo buttare a calci DD nella sua dimensione, in fondo a nessuno piace DD. Poi ci sarebbe il problema di Raven ma credo che basti non si facci vedere sulla terra per qualche tempo e riusciremo a non fargli trovare alcuna prova. Certo, è un piano geniale, anche se so già che quei bastardi si faranno venire in mente un altro motivo del cazzo per invaderci, ma quantomeno prenderemo tempo e…

Fu investita da un tizio che provò ad abbracciarla ma incapace di adoperare le braccia che ciondolavano come salsicciotti. Riversati sull’erba si guardarono negli occhi in una ricreazione della famosa scena dal Re Leone ma priva di ogni emozione originaria.

“Giuly!” Urlò Dz facendole cascare addosso lacrime e sangue “Mi hanno spaccato le braccia!”

“Porco Giuda Don, ma che cazzo succede, vuoi farmi venire un infarto?” Se lo scansò di dosso. Si rese conto che stava veramente male quando non lo rivide mettersi in piedi e gli diede una mano. Tirandogli un braccio quello urlò come una gallina a cui si tira il collo e comprese che non era esattamente il percorso d’azione indicato “Oh cristo, oh merda, ma che cazzo t’hanno fatto?”

“Mi hanno spaccato le cazzo di braccia, Giuly!” Ripetè l’altro esasperato cercando di rimettersi in piedi ma facendosi male ad ogni tentativo. Sembrava un incidente stradale in cui era più saggio lasciare immobile il corpo dilaniato fra e lamiere piuttosto che rompergli una vertebra a muoverlo.

“Chi cazzo ti ha spaccato le braccia?”

“I cattivi, Giuly!” Spiegò non proprio lucido “I cattivi son stati.”

“Oh madonna, quali?”

“Quelli grossi.”

“Sono tutti grossi Don.”

“Quelli grossi grossi.”

“Oh merda, oltre a disossarti t’hanno pure fatto venire una commozione cerebrale."

“Ci stanno l’aragosta, il dinosauro, il robot, Shrek e una pianta.”

“Sì, e poi ci sta la marmotta che confeziona la cioccolata.”

Dimenandosi a terra come un tonno sul ponte, Dz le strisciò ai piedi:

“E dai, non puoi non credere a una roba del genere dopo tutto quello che ci è capitato!”

“Infatti, stavo solo meditando su quanto è fottuto di cervello il nostro mondo.”

“Ascolta, mi devi aiutare” Riuscì a issarsi in piedi e tentò di appoggiarsi a lei, ma nel scendere lei si scansò con un frullio di penne. Di nuovo a fare compagnia ai bicchierini accartocciati della festa che giungeva al termine, la squadrò camminare in giro con gli occhi chiusi “Ma insomma, che ti prende? Sto soffrendo come un cane!

“Ascoltami attentamente Don” Si fermò lei, dandogli le spalle “Lo sai perché abbiamo tutti questi problemi?”

“Gradirei sapere cosa ho fatto di male per meritarmi tutto questo.”

Giuly sollevò un dito “Abbiamo deciso di aiutare tutti. Ma aiutare tutti non è possibile: Discriminiamo chi vogliamo aiutare per un motivo o per un altro e questo vuol dire inevitabilmente farsi dei nemici. In un certo senso la nostra condotta ci ha messi in questo guaio. Noi non combattiamo contro qualcosa di specifico. Sombra, Slenderman, Gray Mann, Carnage, Wesker, Ombra Alfa, Satana, Shadow Blade, sono solo alcuni di quanti abbiamo affrontato, ma credi che sia finita? Noi non combattiamo contro qualcuno, ma contro il concetto astratto di male. Ci siamo illusi di poterci prendere una pausa, buttare una festa, ma il nostro lavoro non avrà mai fine, ci sarà sempre qualcosa da combattere. Abbiamo sacrificato i migliori anni della nostra vita a difendere tutti. Hai mai pensato a cosa avremmo potuto fare invece? Ogni nostro progetto è stato sospeso per questa nostra crociata contro l’ingiustizia. Credo che abbiamo fatto molto più di quanto ci si potesse aspettare da noi. Qualcun altro, in questo grande universo, dovrà pure avere le capacità per prendere il nostro posto. Se questi intenda farlo non lo so. In fondo il prezzo che abbiamo pagato noi è stato grande ed io sono stanca. Non ho mai voluto combattere, Don e nessuno ci obbliga a farlo. Lo abbiamo fatto per empatia nel tuo caso o per divertimento per quanto riguarda altri che non ci sono stati esattamente fedeli negli anni. Io credo che il nostro momento sia passato e il gioco non vale più la candela.

Dz, provò prima ad issarsi per una tovaglia coi denti, ma col risultato di tirarla giù dal tavolo. Infine riuscì a mettersi in ginocchio.

“Giuly, non dire queste cose! Lo so che è un momento di stress, ma la tartaruga me l’ha detto di continuare a combattere, non importa cosa!”

“La tartaruga?”

“È una lunga storia. Insomma, sarebbe da egoisti non usare le nostre capacità a fin di bene!”

“Egoista?” Si voltò di scatto verso di lui e lo rimise in piedi afferrandolo per il bavero e guardandolo cogli di ghiaccio “Tu non sai che voglia dire quella parola! Dovremmo dunque asservirci e combattere le guerre di tutti al posto loro? Sarebbe egoista pretendere di badare a noi stessi ogni tanto? Lasciamo che il mondo si distrugga se è questo che vuole, io sono stanco di fermarli!”

“Andiamo, ora stai parlando proprio come Seek!”

Giuly si bloccò e lo lasciò andare. Fece due passi indietro, portandosi una mano al petto.

“Helen Seek?” Chiese lei “Certo che parlo come lei: io sono lei, Don. Lei non è il mio opposto, non è qualcosa di estraneo a me, è solo qualcosa che ho sempre cercato di nascondere. Anche Jurassic, Dz, cos’era se non un tuo potenziale? Ma perché nasconderlo? Torniamo di nuovo al discorso dei sacrifici: mettere da parte un pezzo di noi stessi per gli altri. Ma io non intendo più farlo.”

Giuly mutò. A Don non apparve più la salvezza di prima, sebbene la persona fosse la stessa. Quei freddi occhi di ghiaccio divennero rossi come quella pelle sanguigna che ora impallidiva, la statura aumentò accompagnata da qualche scricchiolio Finché il ragazzo non le arrivava appena alle spalle. Sotto ciascuna uscian due grandi ali, quanto si conveniva a tanto uccello: vele di mar non vide mai cotali. Non avean penne, ma di vilpistrello era lor modo; e quelle svolazzava, sì che tre venti si movean da ello. Ecco, gli apparve, la imperador del doloroso regno. Era passato un po’ di tempo dall’ultima volta che aveva visto quei corti capelli castano ciondolare al vento. Lui non tremava neppure, stava lì, a bocca semichiusa.

“Dz” Riprese alzandogli un dito contro “Stavolta ascolta meglio perché non accetto domande: Non ho mai incontrato un essere più inutile di te. A che scopo ti catapulti ad aiutare tutti solo per rallentarci quando diventi tu quello da aiutare? Tu ed io abbiamo già avuto di modo di incontrarci, ricordi quella volta a Canterlot?  A cosa sei servito tu, in quel castello in rovina? Ti sei lanciato in una missione di salvataggio per recuperare il resto della squadra da me e non sei riuscito a fare neppure quello. TI ho battuto allora e lo rifarei oggi. L’unico motivo per cui ti andò bene allora fu perché ebbi troppa compassione di Lelq. Fino ad ora sei sopravvissuto, non hai vinto niente. Gli altri hanno fatto tutto il lavoro per te. Trovati qualcos’altro da fare, basta che la smetti con questo tuo sogno di fare l’eroe, perché non lo sei. Sei un peso.”

Quella se n’andò, lasciandolo lì, alzandosi in volo e sparendo in un cielo di primissimo mattino. Dz rimase seduto al muretto del terrazzo che dava sul boschetto di sotto, a riflettere su cosa diavolo fosse successo, ovverosia l’esatto opposto di quanto aveva detto Gamera. Passò del tempo e lui rimase ancora lì. Non sentiva neppure più il dolore alla schiena brulla o le braccia dislocate, solo un senso di smarrimento. A pensarci freddamente, Giuly o Seek o chicchesia, aveva ragione. Ma cos’altro poteva fare se non l’eroe per qualcun altro? Che sfortuna nascere per qualcosa in cui non si è bravi.

I suoi rimuginamenti vennero interrotti da uno scalpiccio di stivaletti blu.

“Beh” Una persona in cosplay da Sailor Mercury gli capitò accanto “Perché stai a sanguinare in un angolino?”

Dz alzò appena il capo verso il nuovo individuo, non riconoscendo nessuno “Dei tizi mi stanno cercando per ammazzarmi, quindi ho incontrato una mia amica che praticamente ha detto che farebbero bene a farlo e io credo di essere d’accordo.”

“Oh” Gli si sedette accanto, giocherellando con le gambe sul muretto “Potrei non sembrarti la persona più indicata per dirtelo, ma essere vivi è sempre meglio che essere morti.”

“A che scopo se fallisco nell’unico motivo per cui vivo?” Forse stava piangendo, ma aveva un viso talmente scuro che non si notava.

“Con un po’ di pratica potresti migliorare.”

“Mi sembra di impazzire” Avrebbe voluto darsi un pugno in testa ma la mano non gli rispondeva “Tutto va a rotoli intorno a me! La squadra si sta disfacendo e continuano a spuntare nemici ovunque. E il peggio è che non posso far nulla!”

“Animo, su. Non è vero che non puoi fare niente. Puoi sempre provarci, no? Così non avrai nulla da recriminarti.”

“È quanto diceva anche Gamera. Ma non sono più sicuro che voglia dire qualche cosa.”

“Ah, Gamera.”

“Lo conosci?”

“Avevo una tartaruga che si chiamava così.”

Dz ridacchiò col naso, seppur l’altro non capiva perché.

“Insomma” Riprese Dz “Io non so più cosa fare. Non so neppure perché ti sto dicendo tutto questo, tizio-di-cui-non-conosco-il-nome.”

“Debbo dedurre che cerchi qualcuno che ti dica cosa fare.”

“Le due persone che l’hanno fatto mi hanno detto due cose opposte. Non so a chi credere.”

“E tu non credi in nulla?”

“Immagino che loro ne sappiano più di me.”

“Perché?”

“Mah, non è che abbia fatto chissà cosa in vita mia.”

“Oh, la validità di un'argomentazione non dipende dal numero di successi di una persona.”

“Ma se fallisco sempre vorrà dire che sbaglio.”

“Ora stiamo parlando troppo in generale, dovrei sapere la tua situazione nello specifico ma ho la sensazione che tu non ne abbia il tempo” Il ruggito di qualche mostro gigante in lontananza diede ragione alla nuova comparsa “Ascolta, le cose in effetti sembrano andare sempre peggio, ma qualcuno dovrà pur arginare la situazione. La Lucas Force esisteva per questo, no? Eliminare il male in senso astratto non è possibile, ma fermarlo sì. Non è il meglio, ma è meglio di niente.”

Detto questo, il pilota diede un occhio giù dal terrazzo e riconobbe un luogo familiare. Assicuratosi di ciò, diede uno spintone a Dz e lo buttò giù dalla ringhiera.


***


    Dz, come al solito, non si aspettava ciò che gli stava accadendo. Dopo un volo più breve di quanto si aspettasse, cozzò contro il fondo. Ma il fondo non era fatto di terra o pietre, bensì due braccia particolarmente morbide, e invece di sfracellarsi si ritrovò dolcemente cullato da una figura serafica.

    “Oh, che ti è successo, poverina?” Chiese la ginoide col berretto da infermiera.

    “Probabilmente sono caduto dalla padella alla brace.”

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