Praticamente perfetto sotto ogni aspetto

di Itsamess
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'ovest è dall'altra parte ***
Capitolo 2: *** La notte degli abbracci danzanti ***
Capitolo 3: *** Chi è loto e ciliegio e chi invece non può ***
Capitolo 4: *** Metodi alternativi di far passare il raffreddore al tuo parabatai ***
Capitolo 5: *** Adagio al chiaro di luna ***



Capitolo 1
*** L'ovest è dall'altra parte ***


L'ovest è dall'altra parte 

Tenersi stretto stretto in tasca il mondo
per poi ridarlo un giorno forse a te
 

Jem aveva seguito con enorme attenzione ogni passaggio della Cerimonia di quella mattina e ormai sapeva a memoria tutte le parole del Giuramento senza dover neanche sbirciare il foglietto su cui se le era appuntate per l’ansia di fare scena muta davanti a mezza Enclave, eppure era consapevole che non avrebbe mai compreso fino in fondo la natura del legame che d’ora in avanti lo avrebbe unito a William Owen Herondale.
 
Non era amicizia, non era alleanza, non era affetto: andava al di là di ogni possibile definizione, pur comprendendole tutte.
Era quasi un legame fisico - una corda che sentiva tesa dentro di sé, come una lenza al cui amo ha abboccato una carpa koi che non ha intenzione di farsi prendere ma neanche di mollare la presa. Sarebbero stati uniti per sempre, o meglio per quel breve sempre che la sua malattia avrebbe concesso loro. Jem non riusciva a capire perché mai Will gli avesse chiesto di essere suo parabatai: uno come lui, abile a combattere e brillante ad elaborare piani di azione, sarebbe stato un buon partner per chiunque, a differenza di Jem, che rischiava di rivelarsi l’anello debole di una catena composta da due sole persone. Forse Will era stato costretto a chiederglielo come penitenza per aver perso una scommessa o forse era semplicemente testardo e avventato… In ogni caso, erano legati ora, anche se in un modo che ancora Jem non capiva.
Neppure il Codice aveva saputo dargli delle risposte precise sulla natura del rapporto fra  parabatai, che riusciva coinvolgere il cuore, la testa, la bocca dello stomaco, il nuovo marchio scuro tracciato sul petto - ogni parte di lui, come se da quella mattina l'altro gli fosse entrato sottopelle.
 
In quel momento, ad esempio, Jem sentiva - sapeva - che Will era sveglio. 
Era solo un’impressione, naturalmente, non poteva esserne certo. 
Non restando sotto le coperte, almeno.

Rabbrividendo un po' quando i suoi piedi nudi toccarono terra, Jem si infilò in fretta la vestaglia da camera a motivi orientali che aveva portato con sé da Shangai e sgattaiolò fuori dalla porta cercando di fare meno rumore possibile.
Il corridoio era deserto, com’era del resto normale essendo notte fonda, eppure una debole luce azzurrina ne illuminava l'ultimo tratto.
Una stregaluce: ci doveva essere qualcuno nascosto dietro l'angolo.
 
I Cacciatori non hanno paura del buio, i Cacciatori non hanno paura di niente.
Jem prese un profondo respiro e si diresse un po’ titubante verso quel flebile bagliore in punta di piedi, eppure l’individuo misterioso nascosto nell’ombra dovette sentirlo, perché declamò con voce solenne: «Chi sei tu che avvolto nella notte inciampi così nei miei pensieri?»
Will.
Chi altri poteva citare Shakespeare con la stessa nonchalance?

Jem non ebbe nemmeno bisogno di voltare l’angolo per sapere che si trattava del parabatai: teneva la stregaluce sotto al mento, apposta per spaventarlo. Jem gli rivolse un’occhiata smarrita, dal momento che le continue citazioni letterarie di Will erano complicate per chi come lui conosceva l'inglese solo ad un livello base e poi ribatté piccato: «È difficile inciampare nei pensieri di uno che non ha cervello! Si può sapere che ci fai sveglio a quest'ora?»

«Vado in missione esplorativa» gli rispose il moro, scrollando le spalle, come se girare per Londra nel cuore della notte fosse la cosa più normale del mondo. Non sembrava in apprensione. Nei suoi occhi blu intenso Jem riusciva a leggere solo adrenalina pura.

Sarà perché il giuramento imponeva dove tu vai io vado, sarà perché era notte e non si lascia vagare un compagno cacciatore da solo di notte, sarà perché Jem tanto non riusciva a dormire, ma gli rispose: «Aspettami, metto le scarpe»
 
---
 
Nonostante il chiarore della luna illuminasse le tortuose vie di periferia attraverso le quali si stavano avventurando, i due parabatai avevano portato con sé anche una stregaluce, giusto per sicurezza. E due pale, anche se Jem non riusciva bene a capire il perché. Poteva solo sperare che Will fosse alla ricerca di un tesoro nascosto e non volesse invece disseppellire qualche cadavere.
Camminavano da quelle che sembravano ore eppure non si sentiva davvero stanco. Gli effetti della presenza del parabatai non smettevano di stupirlo.
«Questa locanda l'abbiamo già vista. Due volte»
 
«Si vede che le stiamo simpatici»

Jem non riuscì a trattenere un sorriso prima di correggerlo: « O forse stiamo girando in tondo... E se chiedessimo indicazioni a quella passante?»
 
Will smise improvvisamente di camminare, piantandosi in mezzo alla via come se avesse appena sentito la cosa più assurda del mondo.
«Jem. Jem, Jem, Jem... Non hai mai sentito l’espressione “l’uomo che non deve chiedere mai"? Ecco, quest’uomo» indicò sé stesso con entrambe le mani, in un gesto che il parabatai trovò assurdamente scenografico e assolutamente inutile «non deve chiedere mai»
 
James Carstairs non era arrivato da molto a Londra, ma era piuttosto sicuro che quell’espressione non fosse relativa all’ambito dell’orientamento spaziale, eppure non disse nulla. Sapeva che contraddire Will era utile come litigare con un cucchiaino, per giunta un cucchiaino testardo.
Piano però gli fece notare «Ma quella vecchietta sembra amichevole-»
 
«Anche le anatre sembrano amichevoli fin quando non ti attaccano in gruppo per cavarti gli occhi a beccate! E poi siamo invisibili ricordi?»
 
E come dimenticarlo? La runa di invisibilità che si erano tracciati a vicenda pizzicava ancora sotto la manica della camicia da notte. Jem doveva ancora abituarsi ai marchi e si domandò se anche a Will dessero fastidio.
 
«Fidati, so quello che faccio, conosco Londra come le mie tasche… Ma se può farti sentire meglio… voilà! Ho una cartina!»

Jem lo osservò estrarre dalla tasca una mappa logora e tutta stropicciata. La carta era ingiallita ma sembrava aver resistito bene al trascorrere del tempo, Aveva i bordi stracciati… come se l'avessero presa da un libro. 
E probabilmente era così.
«Stai tenendo la cartina al contrario. L'ovest è dall'altra parte»
Gli sottrasse la mappa dalle mani e lo ruotò nella posizione corretta. Stava per restituirlo al legittimo comandante della loro spedizione improvvisata quando si accorse di una scritta, sul margine superiore del foglio.
Viaggio al centro della terra
«Will, ci stiamo orientando seguendo le indicazioni di un libro di fantascienza?»

Il parabatai arrossì violentemente, eppure fece finta di niente e disse: «Nel romanzo, Jules Verne afferma che è possibile raggiungere il centro della Terra discendendo il cratere del vulcano islandese Snæffels, ma io ho ragione di credere che Snæffels sia in realtà un nome in codice per Covent Garden»
 
A giudicare dalla sua espressione, diceva sul serio: era davvero uscito dall’Istituto nel cuore della notte per trovare il centro della Terra, armato solo di una pala, una pagina strappata e tanta immaginazione. Aveva detto di essere un maestro nel girare le vie di Londra, eppure il quartiere nel quale erano finiti non assomigliava a Covent Garden, né a nessun’altra zona conosciuta.
«Will, dimmelo sinceramente… Ci siamo persi?»

Il parabatai si morse il labbro «Solo un po'»

Grandioso. Quando Will diceva così, Jem poteva stare certo che non avrebbero rivisto una strada conosciuta prima di molte, molte ore, tuttavia l'idea di smarrirsi in sua compagnia non gli dispiaceva particolarmente. Non c’era alcuna fretta di tornare all’Istituto. Era come se da quella mattina, da quando le loro anime erano state unite dal Giuramento, casa non fosse più un posto, ma la mano del parabatai intrecciata nella sua.
Si erano persi, ma si erano anche ritrovati - un’anima sola in due corpi differenti.
Will continuava a borbottare chissà quale imprecazione in gallese, strizzando gli occhi per leggere le indicazioni della cartina e l’amico non aveva intenzione di peggiorare la situazione lamentandosi, quindi rimase semplicemente in silenzio. Perché Jem era fatto così, era capace di una fiducia incondizionata nel resto del mondo, come se la sua anima non fosse meno pura del colore dei suoi capelli. Dopo qualche istante, con un sorriso sereno, sfiorò il braccio del parabatai e gli chiese dove iniziare a scavare per trovare il centro della Terra.





 
Angolo dell'autrice
Buongiorno a tutti voi, lettori delle Origini e Heronstairs shippers! 
Questa è la prima storia che pubblico su questa serie di libri, quindi spero di non aver fatto troppi danni nella caratterizzazione dei personaggi =) 
L' idea per questa raccolta mi è venuta leggendo, ne La Principessa, la scena in cui Will si presenta a Tessa, che lo scambia con il Magister, sveglia com'è
Sono maestro in molte cose... Nel girare per le vie di Londra, nel ballare la quadriglia, nell'arte giapponese di disporre i fiori e nell'imbrogliare ai mimi... Ma nessuno si è mai sognato di chiamarmi Magister, purtroppo!
Quindi una storia verterà sul tema dell'orientamento, una sulla danza, una sull'ikebana, una sui mimi ed una sarà a sorpresa, secondo il classico schema 4+1.
Il titolo della raccolta è tratto da Mary Poppins e la citazione ad inizio capitolo da L'immenso, dei Negramaro.
Credo davvero sia tutto, se vi va fatemi sapere cosa ne pensate (o anche solo battete un colpo, noi lettori delle Origini dobbiamo restare uniti ahahaha)
Itsamess

Ps: Il mio ringraziamento speciale va a mia cugina Laura, che mi ha introdotta al fandom di Shadowhunters compromettendo la mia già provata sanità mentale con un'altra OTP. In realtà lei shippa Wessa, ma non andiamo troppo per il sottile.
Se stai leggendo queste righe, sappi che sei la parabatai del mio cuore. Ave atque vale
 

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Capitolo 2
*** La notte degli abbracci danzanti ***


La notte degli abbracci danzanti
 
 Io non so ballare,
 ma riesco a sentire farfalle danzare in me
 
 
All'Istituto di Londra i giovani Nephilim ricevevano un duro addestramento volto a migliorarne la forza fisica, l'agilità e la destrezza nel maneggiare armi differenti, studiavano la storia degli Shadowhunters e le Rune contenute nel Libro Grigio e quasi tutte le mattine seguivano corsi di latino, greco e lingue demoniache, tuttavia se c'era una cosa che non era mai stata insegnata loro era come cavarsela con una lezione di astronomia a sorpresa.

Pertanto, quella mattina, quando Henry aveva agguantato due arance e con lo sguardo tutto concentrato aveva iniziato a farle ruotare una intorno all'altra disegnando grandi ellissi invisibili, Jem e Will si erano ritrovati orribilmente impreparati: esausti per una notte passata a ridere e prendersi a cuscinate e incapaci di trovare una scusa plausibile per alzarsi da tavola senza ferire i sentimenti dello scienziato, erano purtroppo stati costretti a rimanere seduti al proprio posto.
Mentre il primo si era pazientemente sforzato di prestare ascolto alla spiegazione più noiosa di sempre, l'altro aveva a malapena soffocato uno sbadiglio, troppo assonnato per concepire un pensiero diverso  da quello che tutto quel roteare di arance gli aveva fatto venire voglia di una spremuta.
Will aveva perso il filo del discorso – ammesso che ce ne fosse uno – ed ora si ritrovava ad una festa in onore del Solstizio d'Estate senza avere una minima idea di ciò che fosse.

Non che avesse poi importanza – come non è necessario conoscere il festeggiato per poter assaggiare una torta di compleanno – ma Will si ripromise di chiedere lumi a Jem, quando mai lo avesse trovato.

A proposito, ma dove si era cacciato?
Quello era il loro primo grande ballo!
Non poteva perderselo restando chiuso in camera sua come faceva sempre più spesso…
Will scacciò con determinazione quel pensiero scuotendo la testa, prima di alzarsi in punta di piedi per scrutare meglio la sala, dal momento che era solo un bambino e la maggior parte degli invitati era più alta di lui. Il suo sguardo si soffermò a lungo sui volti dei vari Cacciatori alla ricerca di quello familiare dell'amico, ma senza successo: Jem sembrava davvero scomparso nel nulla, inghiottito da quella girandola di tulle e maschere e chiacchiere. Sul petto, all'altezza del cuore, Will avvertì una punta di delusione per non aver ancora scorto il parabatai, senza il quale il salone, pur addobbato a festa e stracolmo di gente, gli sembrava stranamente vuoto - come del resto tutta la sua vita.
Con un'occhiata distratta controllò di avere le stringhe degli stivali allacciate, prese un profondo respiro e si lanciò alla ricerca dell'amico.

Non trascurò nessuna stanza, passando dall'Armeria alle cucine, dalle camere da letto alla soffitta, controllando perfino in biblioteca, dove Jem si avventurava solo le volte che veniva ad avvisare Will che era pronta la cena. Sfrecciava da un posto all'altro stando attento a schivare gli invitati sparsi per i corridoi ma senza rallentare per paura di mancare il parabatai di un soffio e di essere costretto a rincorrerlo per tutta la serata, come se lui e Jem fossero stati due pianeti con moti di rivoluzione diversi destinati a non incontrarsi mai - o almeno così aveva afferrato dalla lezione di astronomia di quella mattina.

Alla fine le loro orbite riuscirono in qualche modo a collidere, perché Will trovò l'amico in giardino.
Era seduto su una panchina di pietra piuttosto distante dall'ingresso principale. La musica e le risate, che erano stati quasi assordanti nel salone, echeggiavano sempre più lontane e ovattate come canti di sirene man mano che Will si avvicinava a lui.

Jem stava fissando dritto davanti a sé, le spalle leggermente incurvate e il bastone al suo fianco come un fedele cane da guardia.

Will lo posò a terra quando si sedette accanto a lui.

«Eccoti, ti ho cercato dappertutto! Vieni a ballare?»

Jem e il suo sguardo triste: un binomio indissolubile dal 1861.
«Magari dopo» mormorò riabbassando gli occhi.

La malinconia della sua risposta scalfì appena l'entusiasmo dell'amico, come un sasso che rimbalza sulla superficie del mare: Will si lasciò sfuggire solo un piccolo sospiro di impazienza e ripartì alla carica, non avendo alcuna intenzione di accettare un no come risposta. 
«Qual è il problema? Se non conosci i passi posso insegnarteli io… sono modestamente il miglior ballerino di tutta Londra!»

«Non ne dubito» rispose Jem, abbozzando un sorriso un sorriso incerto, velato di esitazione.

«E allora balla con me!»

«Forse alla prossima canzone…ora non mi va» ribadì lui stancamente, scuotendo la testa.

Nei suoi capelli castani Will credette per un istante di intravedere qualche filo argenteo, ma probabilmente era solo un'impressione causata dalla luce della luna, perché anche se Jem era più grande di lui non era possibile che avesse  già i capelli bianchi: aveva solo tredici anni.
Gli toccò delicatamente la spalla
«Dai, non farti pregare… sarà divertente!»

«Will, non ce la faccio, ok?!» sbottò Jem «Non riesco a reggermi in piedi, figuriamoci ballare!»

Il parabatai perse il sorriso.
Ah già.
La misteriosa malattia di Jem di cui nessuno voleva parlargli.
Da quanto aveva capito origliando le accese discussioni che sorgevano fra Charlotte e Henry ogni volta che la carrozza dei Fratelli Silenti lasciava l'Istituto, si trattava di una specie di incantesimo demoniaco, grave come una maledizione e immune ad ogni possibile iratze. Jem ne era stato colpito da bambino, perché Will ricordava il giorno in cui era arrivato all'Istituto con lo sguardo stanco e le ossa delle clavicole tanto sporgenti da fare male a chiunque lo abbracciasse.

Ora che lo osservava meglio, Will poteva notare una leggera ombra scura intorno ai suoi occhi, appena coperta da un velo di trucco che avrebbe dovuto conferire un aspetto più sano all'incarnato di Jem ma che lo faceva apparire soltanto più grande.
ill gli sfiorò la guancia con affetto. Il fard rosato gli rimase sulle dita.
Sotto, la pelle del Nephilim appariva sottile e semitrasparente come carta di riso. Un tocco meno delicato avrebbe potuto strapparla.

«Io- io non lo sapevo… mi dispiace» mormorò Will esitante, come per paura di ferirlo anche con qualcosa di poco appuntito come delle parole «Vuoi che vada a chiamare Charlotte o Henry o-»

«No, ti prego, non farli preoccupare. Sono solo stanco.»
Jem sospirò piano e tornò a guardare per terra. Aveva gli stivali troppo grandi, sproporzionati rispetto alla sua figura esile. Eppure erano l'unico dettaglio imperfetto in un aspetto altrimenti impeccabile. Jem sembrava un principe delle fiabe, nel suo completo elegante blu notte.

Lo sguardo di Will si soffermò sull'elaborato fiocco fatto alle stringhe, sulla giacca ornata da bottoncini di madreperla e sulle ruches arricciate della camicia: di certo una cameriera lo aveva aiutato a vestirsi, ma qualcosa negli occhi di Jem faceva capire al parabatai che era stato comunque stato faticoso. Però era un peccato essere così eleganti e rimanere seduti in un angolo del giardino quando dentro all'Istituto si stava svolgendo una magnifica festa danzante.
Will sentí un groppo in gola all'idea che l'amico avesse esaurito le forze per prepararsi ad un ballo a cui non si avrebbe mai preso parte.

Quasi gli avesse letto nella mente – il legame fra parabatai comprendeva anche la telepatia? – Jem tutto ad un tratto implorò: 
«Raccontami della festa, Will. Per favore.»

Gesticolando animatamente come faceva sempre quando gli leggeva una fiaba o gli declamava uno dei tanti sonetti di Tennyson che conosceva a memoria, Will gli descrisse i lampadari di cristallo e le piramidi di bicchieri scintillanti, le candele che levitavano sorrette da spirali azzurrine e la musica allegra suonata dall'orchestra di Pixies su un lato della stanza.  Gli parlò dei vestiti pomposi sfoggiati dalle invitate più appariscenti e di come producessero un lieve fruscio ad ogni giravolta di valzer. E infine gli raccontò di come Jessamine si fosse specchiata in ogni superficie lucida del salone - compresi i coltellini da burro - e di quanto gli fosse mancato non averlo lì quando era stato il momento della quadriglia, il suo ballo preferito.

Jem aveva chiuso gli occhi.
La brezza notturna gli accarezzava la testa scostandogli i capelli castani dalla fronte, mentre mormorava: 
«Deve essere bellissimo…»

«Lo è» rispose Will, che in realtà non stava pensando alla festa ma al modo in cui le lunghe ciglia di Jem si muovevano quasi impercettibilmente mosse dal vento.

«Anche se forse è meglio così» sussurrò Jem «Sono un pessimo ballerino... Ti avrei pestato i piedi in continuazion-»

«Dammi la mano»  esclamò Will improvvisamente.

«Will-» gemette debolmente l'amico.

«Andiamo, su, dammi la mano»

Il parabatai si arrese, ben sapendo quanto fosse inutile discutere da Will quando se ne usciva con una delle sue idee geniali, le quali il più delle volte li mettevano in terribili guai, oltre ad infrangere almeno un paio di Regole dell'Enclave.
Tremando per lo sforzo si alzò dalla panchina di pietra.

«E ora?»

«E ora sali sui miei stivali, ti reggo io»

Jem sembrò esitare un istante, perché si morse il labbro inferiore e guardò a terra, ma poi obbedì e salí sui piedi del parabatai.

Era cosí leggero che Will a malapena se ne accorse. Iniziò lentamente a ballare, tenendo stretto a sé l'amico in una specie di abbraccio danzante. Dopo un'iniziale, imbarazzata reticenza, Jem cinse debolmente le braccia intorno al suo torso e appoggiò la testa nell’incavo della spalla di Will. Non sapeva se lo sta facendo per stanchezza o per prolungare il contatto fisico e nemmeno se lo chiedeva, esausto com'era. Si sentiva al sicuro e vivo e salvo.

Restarono abbracciati per un tempo indefinito fino a quando Will domandó tutto ad un tratto:
«Jem... Tu alla fine lo hai capito che cos'è, il Solstizio?»

«È il momento in cui il Sole raggiunge il punto più alto rispetto all’orizzonte, cosicché il numero di ore di luce nell’arco di una giornata è il massimo possibile.  Di conseguenza, questa è la notte più breve dell'anno»

«E perché Charlotte ci tiene così tanto a festeggiarla?» 

«Non lo so… Forse perché le cose brevi hanno più valore, tipo quei fiori che sbocciano solo per poche ore o le eclissi totali. Sono avvenimenti speciali e non se ne puó perdere nemmeno un istante» suggerì Jem.
Nessuno poteva saperlo meglio di lui, che era destinato ad una vita piú breve di quella riservata agli altri e per questo era incline a trattarla con maggiore cura e attenzione. Ballare con il parabatai gli dava la sensazione di poter fermare il tempo, cristallizzarlo per sempre cosí com'era in quell istante, come un insetto imprigionato in una goccia d'ambra. Quella era la notte più breve dell'anno e lui aveva la vita più breve di tutte, eppure si sentiva eterno, lí abbracciato a Will.

«O forse Charlotte cercava solo una scusa per organizzare un ballo!» abbozzò Will ridendo.

«Forse» gli fece eco Jem.

Continuarono a ballare piano sulla musica sincopata e allegra della quadriglia e restarono abbracciati ancora qualche istante anche dopo la fine della canzone, prima che Will commentasse che iniziava a fare freddo e avrebbero fatto bene a rientrare, anche solo per tentare un'ultima volta di assaggiare di nascosto il ponce alcolico che Charlotte aveva severamente proibito loro.

 





 
Angolo dell'autrice
Eccoci giunti al secondo capitolo - scusate il ritardo nella pubblicazione, ho avuto dei problemi con la rete internet.
Ringrazio infintamente le tre fanciulle che hanno recensito il primo capitolo e anche chi sta semplicemente leggendo, che l'Angelo vi protegga.
 
Off topic non richiesto: Mi sono disegnata con l'henne una runa parabatai sul polso abbinata a quella di mia sorella, perchè abbiamo appena finito di leggere Città delle Anime Perdute e siamo troppo troppo prese dalla saga! (anche se per me Le Origini resta migliore)
 
Un abbraccio e vi auguro una bellissima estate
Itsamess
 

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Capitolo 3
*** Chi è loto e ciliegio e chi invece non può ***


Chi è loto e ciliegio e chi invece non può
 
 
Può nascere su terra 
dove non arriva il sole 
Apri il pugno di una mano 
Cambia il senso alle parole
 
 

Era un sollievo colpire senza guanti. 
Il dolore dell'impatto riusciva ad attraversargli il corpo come una scarica elettrica, partendo dal suo pugno chiuso e propagandosi in fretta lungo i muscoli del braccio, contratti per lo sforzo. Quando gli arrivava alla testa, non lasciava spazio per nient'altro: nessun pensiero, nessun ricordo, nessun'emozione che non fosse l'iniezione di adrenalina che solo il dolore fisico sapeva dargli.
Ogni colpo era un istante di puro limbo, in cui non poteva esistere altro che lui e quel male lancinante.
 
Era stato per questo che aveva scelto la boxe.
Nei tre anni di addestramento all’Istituto, Will aveva preferito allenarsi con le spade angeliche, più simili alle armi brandite dagli eroi letterari che amava tanto. Il combattimento corpo a corpo non era mai stato il suo forte. Richiedeva troppa violenza, troppa brutalità… esattamente quello di cui aveva bisogno quel giorno. Dolore per espiare la propria colpa e dolore per poterla dimenticare.
 
Davanti a lui, il sacco da boxe continuava ad ondeggiare avanti e indietro in un rollio nauseante, tuttavia Will non aveva alcuna intenzione di fermarsi. Senza nemmeno aspettare che tornasse verso di sé, assestò con forza un altro colpo. Poi un altro. E un altro e un altro e un altro.
 
Non si fermò neppure quando, con la coda dell’occhio, intravide la sagoma sottile di Jem ferma sulla soglia della Sala degli Addestramenti. Doveva averlo svegliato.
 
«Will…» lo sentì gemere debolmente, mentre si sfregava gli occhi con fare assonnato. «Non è ancora l'alba!»

«Il mattino ha l'oro in bocca.» replicò aspro, senza guardarlo. «E comunque non riuscivo a dormire.»

Anche senza sentirselo dire, Jem lo avrebbe comunque capito dalle ombre scure che il parabatai aveva sotto agli occhi, lucidi di un pianto che non avrebbe mai ammesso. L’espressione aggrottata con cui se la prendeva con quel sacco da boxe non riusciva a nascondere del tutto quella che doveva essere la stanchezza per una notte insonne. Che fosse esausto lo vedeva da quanto distrattamente Will si era fasciato le mani: le bende erano tutte allentate e sporche di sangue. Non avrebbero parato in nessun modo l'impatto.
Allenarsi così significava farsi semplicemente del male.
«Che cosa stai cercando di dimostrare?»

«Non sto cercando di dimostrare nulla. Mi alleno.»

«Questo lo vedo.»

La voce di Will era tagliente come una lama angelica: «E allora lasciami in pace, James.»

Jem tacque per qualche istante, aspettando che quel lampo di rabbia passasse. Non voleva litigare. Si staccò dalla cornice della porta, avvicinandosi piano all’amico: «Stavo pensando che invece potrei allenarmi con te, se vuoi…»  

«Non voglio.»

Will tirò un altro pugno, trattenendo a stento un gemito di dolore.
«Per favore, torna a dormire.»
 
C’era una sfumatura supplichevole nella sua voce, come se il semplice fatto che Jem gli desse ascolto, per una volta, fosse essenzialmente importante. Era evidente che desiderava restare solo, chiuso in quell’impenetrabile bozzolo di dolore, tuttavia il parabatai non poteva proprio accontentarlo: gli voleva troppo bene per sopportare di vederlo cosí.
«Non da solo» gli rispose con dolce fermezza Jem «Ho bisogno che tu sia riposato per la missione di oggi»

Tutto ad un tratto, Will smise di prendere a pugni il sacco e si voltò a guardare in faccia il parabatai.
Sul volto di Jem non poté che comparire un sorriso soddisfatto: era riuscito ad ottenere la sua attenzione, finalmente.
«Quale missione?» chiese Will, pur ostentando disinteresse.

«Se te ne parlo mi prometti di tornare in camera tua?»

Will si asciugò il sudore che gli imperlava le tempie e sfoderò un sorriso arrogante. «Vedremo.»

«Oh, sei davvero impossibile, sai? Comunque… È stata rilevato un picco di energia demoniaca a Kew Gardens, il Giardino Botanico a ovest della cittá. Charlotte ci ha chiesto di andare a dare un'occhiata.»

Will aggrottò le sopracciglia.
«E ci lascia andare da soli?»
 
Jem avvampò. Quell’obiezione lo aveva completamente colto di sorpresa, eppure se la sarebbe dovuto aspettare: lui e Will avevano solo quindici anni e per l'Enclave non si era dei veri e propri Cacciatori prima di compierne diciotto.
E in ogni caso Charlotte non si fidava nemmeno a lasciarli giocare con l’argenteria per paura che evocassero chissà quale antica potenza demoniaca o semplicemente ci lasciassero sopra impronte di ditate… non li avrebbe mai lasciati andare da soli in una serra infestata di demoni, poco ma sicuro.
 Jem fu costretto a sfoderare tutta la propria faccia tosta per mentirgli apertamente: «Charlotte si fida di noi, sa che abbiamo seguito anni di addestramento e che in caso di scontro sapremmo cavarcela senza problemi…»
Fece una breve pausa perché le sue parole si imprimessero bene nella mente dell'amico, poi aggiunse scrollando le spalle: «Ma posso chiedere a Thomas di accompagnarci, se hai paura...»

«Non ho paura» lo interruppe subito Will, punto nell’orgoglio. «Non ho affatto paura. Quando hai detto che partiamo?»

 
---
 
Decisero di partire verso l'ora di pranzo, così che Will potesse recuperare qualche ora di sonno e Jem avesse il tempo di saccheggiare le cucine alla ricerca di provviste per la loro spedizione improvvisata, anche se alla fine il bottino si limitò a due mele e una pagnotta dolce.

Oltre a quelle scarne scorte di cibo, Jem portò con sé solo il proprio bastone ed una cartina - una cartina vera, stavolta, non una pagina strappata da Jules Verne – anche se durante il tragitto la controllò raramente, come se non gli dispiacesse l'idea di perdersi insieme al parabatai, o come se l'intera missione non fosse poi così urgente. Aveva fatto del proprio meglio per fare conversazione, ma Will pareva ancora più scorbutico del solito e aveva per lo più risposto a monosillabi. Jem comunque non si era arreso ed aveva tentato in ogni modo di strappargli un sorriso, giocando a saltare le pozzanghere, indicandogli la colorata vetrina di un cappellaio e insistendo perché accarezzassero i cavalli dei calessi che incontravano per la strada.

Quando infine si erano ritrovati davanti all'enorme Giardino Botanico, con quelle sue pareti di vetro e acciaio smaltato di acquamarina, la malinconia di Will era scomparsa, sostituita da una trepida eccitazione.

«Ecco, dovremmo essere arrivati» gli fece strada il parabatai con la voce emozionata, tenendogli cavallerescamente aperta la porta. Per lo sforzo gli tremò un poco il braccio, ma Will non se ne accorse, grazie all'Angelo, altrimenti si sarebbe rabbuiato di nuovo.

Jem lo prese per mano e lo guidò lontano dal gruppo di visitatori.
Le runa dell'Invisibilità che si erano tracciati a vicenda prima di uscire dall'Istituto li avrebbero protetti dagli sguardi indiscreti dei Mondali, permettendo loro di girare indisturbati per le varie aree del Giardino.

Iniziarono dal famoso roseto, che secondo la guida conteneva più di 6.000 specie.
Will procedeva guardingo, muovendosi con circospezione e lanciando di tanto in tanto occhiate preoccupate al parabatai per controllare che fosse ancora al suo fianco. Da quando erano arrivati non aveva mai staccato la mano dal pugnale angelico che era infilato nella cintura. Stava prendendo la missione davvero seriamente.

Jem provò una punta di rimorso per avergli mentito, eppure sapeva di non aver avuto scelta.
Lo guardò avvicinarsi ad una rosa dalla corolla rosso intenso, screziata da venature più scure.
Will alzò lentamente una mano e con delicatezza – forse per non ferirsi con le spine, forse per paura di rovinarla – ne accarezzò i petali. Vicino al colore carminio del fiore, il sangue rappreso sulle sue nocche risaltò ancora di più e Jem dovette fare appello a tutta la propria forza di volontà per reprimere il desiderio di abbracciare il parabatai, anche solo per fargli sapere che andava tutto bene e che le ferite sulle mani si sarebbero rimarginate e che sarebbe bastato un semplice iratze, se solo se lo fosse lasciato tracciare.

Nonostante ciò, disse nulla, né si mosse di un millimetro. L'equilibrio che si era creato fra lui e Will era troppo fragile per essere rovinato con qualcosa di sentimentale e melenso come un abbraccio nel bel mezzo di un roseto - qualunque cosa significasse – perché Will non amava il contatto fisico e Jem non voleva metterlo a disagio.
Si domandò se esistesse un altro modo per fargli capire quanto significasse per lui, senza per questo costringerlo ad esporsi, se ci fosse qualche gesto o parola per quando i gesti e le parole non sembravano bastare.

Fu come se Will gli leggesse il pensiero, perché con la voce lontana e sognante che aveva sempre quando parlava di libri disse: «Nei romanzi a volte gli eroi utilizzano i fiori per mandare messaggi»

«Come un codice segreto?»  chiese Jem incuriosito, con gli occhi che brillavano come gocce di rugiada.

«Sí, una specie di codice segreto»  sorrise Will «Esistono dei veri e propri dizionari che abbinano fiori e significati e soltanto chi conosce queste corrispondenze può decifrare il messaggio»

«Sembra un sistema brillante…» mormorò l'amico, seguendo Will lungo le varie file di primule, peonie e papaveri di campo – dal momento che a quanto sembrava le piante erano state disposte in ordine alfabetico. Il profumo dolciastro di fiori impregnava l'aria, dandogli quasi alla testa come se si fosse trattato del ponce di Agatha. Si sentiva felice, sereno.
«Mandami un messaggio, Will»

«Sei qui con me.» obbiettò lui.
La sua voce non era aspra, quanto più divertita.

«Per favore» insistette Jem.

Will sbuffò un po' infastidito, ma poi chiuse gli occhi per scorrere mentalmente l'elenco dei fiori che conosceva. Dovevano essere molti, perché rimase immobile per un tempo che sembrò lunghissimo e poi, prima che Jem potesse rendersene conto, corse via.

 
---

 
Il parabatai lo ritrovò solo più tardi, nella sezione delle piante ornamentali, uno scalcagnato fiore viola dalla corolla apertissima in mano e un sorriso soddisfatto sulle labbra.
«Passiflora» disse semplicemente Will.

«E cosa significa?»

«Che ti devi esercitare a lanciare coltelli perché hai una mira scarsissima.»

«Non è vero…»

«No…»  sorrise Will colpevole «Però è vero che hai una mira scarsissima.»

Passarono le ore successive nella sezione dedicata alle piante esotiche, tra enormi fiori dalle corolle coloratissime e piante grasse coperte di spine appuntite che i due ragazzi avevano visto solo nei libri di scienze e che non immaginavano esistessero per davvero e distese di alberi di ciliegio che fecero sentire Jem a casa.

Will lo ascoltò raccontare dell'infanzia a Shangai e dei pomeriggi passati in giardino, ad esercitarsi con il violino.
Sapeva raccontare bene, con calma, prendendosi il tempo di descrivere ogni sfumatura di colore, ogni tono, ogni dettaglio. La sua voce sembrava più calda quando parlava di casa, come se il calore dell'Oriente intridesse anche le sue parole. Jem gli parlò degli alti ciliegi che crescevano sotto alla sua finestra e di come, nelle giornate ventose, sua madre lasciasse apposta tutte le finestre aperte, perché la casa si ritrovasse piena di petali dei loro fiori. «È una pianta delicatissima»

Will annuì «Mi sembra che nel linguaggio dei fiori significhi caducità» 

Lo sguardo di Jem si incupí improvvisamente e Will immaginò che fosse perché il suo inglese non era ancora abbastanza buono per conoscere quella parola e per questo aggiunse «Caducità significa-»

«So cosa significa» lo interruppe Jem, che di solito non interrompeva mai nessuno. «Significa essere destinato a morire presto».
Come me, ma questo non lo disse.
Jem sapeva essere molto cauto nella scelta delle parole, come se ogni lettera fosse uno stelo di rosa da maneggiare con cura perché nessuno si ferisse.
Non voleva ricordare a Will quanto poco tempo gli restasse, non proprio in quel giorno. Quindi tacque per qualche istante, prese un profondo respiro e sorrise al parabatai.

Gli descrisse poi il piccolo stagno in cui si divertiva a nuotare d'estate, galleggiando sul pelo dell'acqua circondato da decine di fiori di loto, che erano simili alle ninfee ma color bianco perla, con i bordi che viravano al rosa intenso. 

«Il fiore di loto significa purezza» aveva sentenziato Will, mentre lo sfiorava la consapevolezza che l'anima di Jem dovesse essere di quel colore, di quel bianco rosa morbido dei fiori di loto e che se mai se li fosse trovati davanti non li avrebbe potuti toccare, come se si fosse trattato di una camicia troppo candida per essere indossata davvero.
Jem invece puro - tutto quell'argento nei capelli e negli occhi e nel cuore era quasi abbagliante -, ma lui no. Non dopo quello che aveva fatto, non dopo tutti gli sbagli fatti per caso e i peccati commessi consapevolmente.

Il senso di colpa dovette mostrarsi troppo chiaramente sul suo volto, perché Jem si voltò verso di lui con aria preoccupata e nessuno dei due notò la canna tesa davanti a loro. Inciamparono entrambi, cadendo l'uno sopra all'altro.

«Ti sei fatto male?!»
La voce di Will era di un ottavo sopra il normale. Non lo sfiorava nemmeno l'idea che premere con il proprio corpo su quello esile del parabatai non fosse d'aiuto: in quell'istante non riusciva a pensare lucidamente.
«Maledizione, Jem, rispondimi! Ti sei fatto male?»

«No» rispose Jem, mentre una risata soffocata gli scuoteva il petto a pochi centimetri da quello di Will.  «No… per niente…»

«Devi fare attenzione!» lo rimproverò Will, prima di abbandonarsi ad una serie di vivaci imprecazioni in gallese che avrebbero fatto impallidire Charlotte, se le avesse sentite. Tornò se stesso quando ridendo aggiunse «E con questi rametti in testa sembri la Regina della Corte Seelie»

Giustamente, invece di toglierglieli glieli sistemò artisticamente dietro all’orecchio, vaneggiando di essere un esperto nella tecnica giapponese di disposizione dei fiori e che se Jem avesse provato a toglierseli non lo avrebbe lasciato andare. E Jem non si mosse, non spostò i rametti, non spostò il proprio corpo.
«Sei il mio migliore amico, Will»

Qualcosa nell'aria si spezzó e Will sussurrò una preghiera ad occhi chiusi «Non dirlo»

«E perché mai? È la verità…» replicò Jem confuso «Sei il mio migliore amico!»

«Smettila di ripeterlo» esclamò l'altro con rabbia, tappandogli la bocca con la mano. Sussultò nel sentire le sue labbra bollenti sotto al proprio palmo, eppure non si spostò di un millimetro. Dopo un attimo quel briciolo di razionalità rimasta gli fece realizzare che forse così gli stava impedendo di respirare e quindi tolse la mano.
«Non. Dirlo» ripeté minacciosamente.

«Ma non capisco perc-cough cough...»
L'accesso di tosse gli impedì di continuare e Will finalmente si spostò per permettergli di alzarsi. Quando finalmente si calmò, mormorò con un fil di voce «È il polline»

Era una bugia e lo sapevano entrambi, perché Will era convinto che fosse una conseguenza della maledizione che puniva chiunque lo amasse, mentre per Jem un fin troppo familiare sintomo della crisi d'astinenza da yin fen, tuttavia non c'era bisogno di dirselo ad alta voce. La giornata era stata cosí bella, sarebbe stato un peccato rovinarla.

 
---



Quella sera, prima di sedersi a tavola per la cena, Jem raccomandò a Will di non fare parola della loro spedizione nella serra, perché probabilmente Charlotte se ne era già dimenticata e non c'era bisogno di farla preoccupare inutilmente. Sarebbe rimasto per sempre un loro segreto, come un fiore dal significato nascosto.
Presero posto l'uno accanto all'altro, di fronte ad una annoiata Jessamine, che giocherellava con i suoi capelli con aria assente. Henry tentò maldestramente di fare conversazione raccontando alla tavolata del marchingegno che stava perfezionando, ma Charlotte lo pregò di tacere con un gesto eloquente della mano. Stava scrivendo una lettera al Console e si mordicchiava il labbro rileggendola fra sé e sé.
Solo alla fine si dovette rendere conto di aver dimenticato la data in alto a destra e a mezza voce borbottò: «Londra… qualcuno sa che giorno è oggi?»

«10 novembre.» rispose Jem in fretta.
Forse un po' troppo in fretta, soprattutto dal momento che esistevano poche persone calme come lui.
Will gli lanciò un'occhiata confusa. Come faceva Jem ad essere tanto sicuro che fosse il 10 novembre? Era una data importante per lui, come del resto lo era per-

Will lasciò cadere la forchetta nel piatto. Era a causa sua se Jem rammentava la data. Doveva aver prestato attenzione a come ogni anno, in quel particolare giorno, Will si chiudesse a riccio, oppresso dal dolore e dal senso di colpa. Per questo aveva organizzato quella finta missione, così come l’anno prima gli aveva insegnato a fare gli origami del cigno e del coniglio. Lo aveva distratto dal suo dolore con la ferma delicatezza con cui si chiudono gli occhi ad un bambino davanti ad una scena troppo violenta.
 
Nonostante non fosse abbastanza per tutto quello che aveva fatto, Will guardò intensamente il parabatai e gli strinse la mano sotto al tavolo, nell'unico modo che conosceva di dire grazie senza parlare. O almeno l’unico in mancanza di ortensie.





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Ciao a tutti,
ecco il terzo capitolo della raccolta, quasi in tempo per l'Heronstairs day che ieri non ho potuto onorare causa connessione internet scadente.
Grazie a chiunque ha letto fin qui e a chi ha commentato le storie precedenti... risponderò a tutti il prima possibile, promesso.
La passiflora significa Le nostre anime sono unite.
Un abbraccio

Itsamess
 

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Capitolo 4
*** Metodi alternativi di far passare il raffreddore al tuo parabatai ***


Metodi alternativi di far passare il raffreddore al tuo parabatai

 
E così fai tu,
 che nascondi piano la tosse e il cuore nella stessa mano,
arrivi tu e sai chi sono
 

«Non farlo affaticare troppo, hai capito?» si era raccomandata di nuovo Charlotte, scandendo una per una le parole. Nonostante non fosse molto alta, aveva comunque preferito chinarsi ai piedi di Will, in modo tale da poterlo guardare dritto negli occhi ed essere così sicura che avesse compreso la gravità della situazione.
«Mi fido di te... Non stancare Jem, niente battute o scherzi stupidi- non stasera, d'accordo?»

«D’accordo» aveva risposto il ragazzo, distogliendo lo sguardo in quello che la donna aveva considerato un gesto di esasperazione e che era invece un misero tentativo di non scoppiare a piangere davanti a lei. La verità era che lo destabilizzava vedere Charlotte con gli occhi lucidi, lei che di solito aveva sempre tutto sotto controllo. Di notti così ce n'erano già state tante, troppe, eppure Will non l'aveva mai vista tanto preoccupata. Al solo pensiero di poter perdere l’amico, il ragazzo avvertì una lancinante fitta al cuore. O meglio, sopra al cuore. La runa parabatai pulsava debolmente sotto al colletto della sua camicia da notte.
 
«Bravo ragazzo»
Charlotte tentò di dargli una carezza sulla testa, ma Will la schivò prontamente neanche si trattasse di una lama angelica. Le manifestazioni d’affetto continuavano a metterlo a disagio - questo gli anni non erano riusciti a cambiarlo. Con un sospiro, raccolse il vassoio che aveva temporaneamente poggiato a terra e lo consegnò tra le mani del ragazzo, indugiando un istante prima di lasciarglielo per timore che facesse cadere, e poi si congedò con un sorriso carico di apprensione.
 
Will la seguì con lo sguardo finché non la vide scomparire dietro all’angolo, poi tornò a fissare la porta della camera di Jem.
 
Si era trovato davanti a quella porta centinaia di volte, eppure non ricordava di aver mai effettivamente bussato, perché le entrate ad effetto riescono meglio quando sono a sorpresa
Will era abituato a piombare nella stanza del parabatai nelle ore più disparate, incurante delle regole della buona educazione e senza farsi annunciare da nient’altro che una battuta pungente, ma quella sera aveva promesso a Charlotte di comportarsi bene, quindi si schiarì la voce e domandò: «Posso entrare?»
 
Senza neanche aspettare una vera e propria risposta dall’interno, diede una forte spallata alla porta e in un istante si ritrovò in mezzo della camera, con un vassoio pericolante in mano e un’espressione di cupa sorpresa dipinta sul volto.
 
Il parabatai era steso sul letto, ma Will dovette fare uno sforzo di immaginazione per vederlo perché era talmente pallido da confondersi con le lenzuola.
Jem era pelle bianca su stoffa bianca.
Le ombre bluastre sotto agli occhi, traccia di sonni agitati, aggiungevano qualche anno al suo viso solitamente puro e infantile. I capelli sembravano ancora più chiari del solito e a malapena si vedevano sul candore del cuscino.
 
In quattro anni di amicizia, Will non lo aveva mai visto in quelle condizioni e nemmeno la sua fervida fantasia aveva mai concepito un'immagine del genere. Charlotte ed Henry preferivano parlare delle salute di Jem a bassa voce e a porte chiuse, dispensando ben informazioni a riguardo. Le frequenti visite dei Fratelli Silenti avvenivano nel cuore della notte e Sophie si lasciava sfuggire solo qualche occasionale invocazione alla pietà dell'Angelo quando parlava di Jem. A causa della loro giovane età, lui e Jessamine avevano avuto solo vaghe notizie di tossi e febbri alte, eppure la malattia dell’amico non era mai stata tenuta nascosta. Will ricordava fin troppo bene che una delle prime cose che gli aveva detto Jem era stato che soffriva di una malattia incurabile e mortale, come se avesse voluto avvertirlo di non affezionarglisi troppo. Di tutta risposta, lui era diventato il suo parabatai, concedendosi il lusso di provare affetto per qualcuno senza temerne le conseguenze: Jem sarebbe morto comunque, indipendentemente dalla maledizione che colpiva chiunque provasse un briciolo di affetto per William Herondale.
 
Però ora che davvero la possibilità che Jem se ne andasse diveniva realtà, Will avvertiva solo un senso di vuoto e dolore.
E di certo la camera del parabatai non gli rendeva le cose più facili.
Un vaso di fiori pieno di margherite selvatiche era l’unica cosa a rendere la stanza meno ospedaliera e più familiare, perché per il resto tutto parlava di sofferenza e notti insonni. C’era una tinozza ai piedi del letto piena di cubetti di ghiaccio ed asciugamani puliti sul ripiano della toeletta. Sul comodino si trovava una scatola che Will pensò essere una cassetta del pronto soccorso, anche se pareva particolarmente lussuosa, con quel suo legno scuro e lucido e la decorazione orientale sul coperchio. I cuscini erano stati disposti come a creare una montagna sulla quale Jem si era stancamente appoggiato, con gli occhi semichiusi e le braccia distese lungo i fianchi.
 
Sembrava fare una fatica enorme per riuscire a pronunciare sommessamente anche poche parole, perché si fermava spesso a fare profondi respiri.
«Will… speravo in una… tua visita»
 
«Sono venuto a vedere come stavi» dichiarò l'altro, anche solo per riempire tutto quel silenzio. Silenzio significava sentire solo il battito del proprio cuore rimbombargli nelle orecchie, intervallato soltanto dal difficoltoso respiro di Jem. Erano suoni troppo terribili perché Will potesse sopportarli. «E ti ho portato la cena»

«È un pensiero davvero gentile da parte tua… ma non ho molta fame» rispose Jem, mentre nascondeva in fretta un fazzoletto macchiato di rosso sotto al cuscino.
Non abbastanza in fretta, però.

Il sangue sulla stoffa era di un rosso vivido come quello degli abiti da cerimonia e infinitamente meno festoso. La sua sola vista bastò a far tornare in mente a Will tutti i romanzi che aveva letto in cui i protagonisti erano malati di tisi: La Signora delle Camelie, Germinie Lacertaux, I Miserabili, La Traviata
Ricordò che la tisi era generalmente chiamata la malattia romantica, perché si credeva che morire di tubercolosi concedesse al malato una sensibilità nascosta e Will si domandò se era per questo che Jem era sempre così attento e buono con tutti. Probabilmente lo sarebbe stato comunque, e non c’era bisogno di morire per dimostrarlo. Non così giovane. Sedici anni a malapena compiuti.
 
«Non morire, per favore» disse impulsivamente, prima di potersi rendere conto della stupidità delle proprie parole.
 
«Faccio del mio meglio» gli sorrise debolmente Jem.

«Il tuo meglio non è abbastanza, allora!» sbottò, incapace di trattenersi. Odiava quella situazione, odiava vedere il parabatai in quel letto, odiava la maledizione che lo condannava a veder soffrire tutti quelli che commettevano l'errore di volergli bene. E Jem- Jem doveva volergliene davvero, visto come era ridotto.
«Scusami. Scusa, è che-  non è giusto» mormorò poi a denti stretti. «Non è giusto. Non dovresti essere tu, a morire… Tu sei buono. Sei la persona migliore che conosca»

«Will Herondale in vena di complimenti! Ed ecco che arrivano le allucinazioni!» scherzò Jem accennando un sorriso sofferto, subito soffocato da un accesso di tosse. Riprese il fazzoletto da sotto al cuscino, scusandosi con lo sguardo con Will come se gli dispiacesse dovergli infliggere uno spettacolo tanto pietoso. Solo quando finalmente si fu calmato sembrò accorgersi che l’amico stava mantenendo una distanza di sicurezza e gli fece segno di avvicinarsi al letto.

Il parabatai appoggiò il vassoio sul comodino, a fianco ad un cero bianco e sottile e ormai quasi completamente consumato. «Ti ho portato del posset. Non te l’ho preparato io, non temere. È stata Agatha. Ricordo che mia madre me lo faceva sempre quando avevo l'influenza...»

«Non è influenza» lo fermò Jem.
Il tono di voce deciso sembrò stonare con la debolezza del suo corpo.

«Lo so» rispose Will, le labbra serrate in una linea bianca «Volevo solo vedere se avevi il coraggio di dirmelo in faccia»

Quasi a dargli ragione e a dimostrargli che non possedeva tale coraggio, Jem distolse lo sguardo da lui. Rimase in silenzio per un tempo indefinitamente lungo, tanto che Will si chiese se non avesse esagerato con le domande: forse Jem non era ancora pronto a confessargli la verità e lui aveva sbagliato ad insistere.

Stava per andarsene quando il parabatai improvvisamente parlò, gli occhi ancora fissi sul pavimento:«Non sono stato sincero con te, Will. Nessuno qui all'Istituto lo è stato. Charlotte ha mentito per me, Henry ha mentito per me, Sophie ha mentito per me… e mi dispiace. Non avrei mai voluto tenerti nascosta la verità. Ma se l'ho fatto è stato solo e soltanto per paura di perderti»

«Che stai dicendo? Niente potrebbe cambiare le cose fra noi»

«Questo sì»

«Almeno lascia che sia io a decidere» replicò Will con dolce fermezza, sedendosi su un lato del letto per abbassarsi e guardare l'amico negli occhi. «Allora, che cosa c'è? Puoi dirmelo. Qualsiasi cosa sia successa nel tuo passato, io sarò dalla tua parte, di qualunque malattia si tratti… a parte la sifilide demoniaca. Giuro che se è quella-»

Jem alzò gli occhi al cielo.
«Non è sifilide demoniaca»

«Ok» rispose Will,  con un tono vagamente deluso «Allora, cosa c'è? »

Le parole fluirono dalle sue labbra come il fiotto di sangue da una ferita, dolorose ma impossibili da fermare, perché una volta iniziato a raccontare Jem aveva intenzione di arrivare fino in fondo. Aveva mantenuto quel segreto fin troppo a lungo e tacerlo a Will, che considerava l’altra metà di se stesso, era stato più difficile del previsto. Era stato un po’ come mentirsi allo specchio. Jem strinse i pugni sulla stoffa del lenzuolo e raccontò tutto, dall’attacco del demone e i disperati tentativi fatti dai suoi genitori per mantenerlo in vita, alla decisione di trasferirsi a Londra, alle crisi di astinenza mascherate da semplici raffreddori.

Alla fine del racconto, non aggiunse nessuna preghiera o giustificazione, ben sapendo che non ce ne potevano essere. Rimase in silenzio, contando mentalmente i secondi che avrebbe impiegato Will prima di iniziare a trattarlo diversamente e domandandosi se nei suoi occhi sarebbe prevalsa la compassione o il disprezzo, tuttavia l'espressione sul volto del parabatai rimase la stessa di quando era entrato nella stanza, eccezion fatta per un sorriso sghembo.

«Alla fine è una fortuna che tu non abbia l'influenza, non dovrai berti questo orribile e triste posset»
Così dicendo afferrò senza troppa grazia la ciotola e ne versò teatralmente il contenuto nel vaso di fiori che era appoggiato sul comodino. 
 
«Perché… perché fai tutto questo?» chiese Jem accigliato.

A Will sembrava piuttosto ovvio.
«Mi piace avvelenare le piante..?»

«No, intendo perché fai tutto questo per me. Dopo quello che ti ho raccontato non ti biasimerei se provassi disprezzo. O peggio, pietà. Tu non sai che cosa significhi sentirsi un peso per tutti quanti qui all’Istituto, un disonore per i Nephilim... Charlotte ha fatto tanto per me accogliendomi lo stesso, ma ogni volta che Sophie mi rimbocca le coperte o Henry manda a chiamare i Fratelli Silenti… leggo nei loro occhi soltanto compassione. E ogni volta che devo andare a prendere altro yin fen mi sento cosi sporco e colpevole-»

«Potrei andare a comprartelo io-» lo interruppe Will, prendendogli la mano. Era pallida e sudata, ma familiare. Tutto del parabatai lo era, come la disposizione dei mobili in una casa in cui abbiamo vissuto per anni. «Non sarebbe un problema per me. Anzi, mi daresti una scusa per girare i quartieri più malfamati di Londra»

«Non sei tenuto a farlo-»

«Lo so. Ma voglio farlo lo stesso...»
 Will si guardò intorno alla ricerca di un briciolo di normalità in una stanza in cui non ce n’era, dove c’erano solo dolore e sofferenza e bende e fazzoletti macchiati di sangue.
«Possiamo comunque giocare, ti va? Mimi? Una volta ho provato a giocarci con i Fratelli Silenti ma sai com'è, mi leggevano sempre nel pensiero!»
 
Jem, che in Cina aveva passato interi pomeriggi fra origami e aquiloni in carta di riso, ebbe bisogno di farsi spiegare le regole. A dire il vero erano piuttosto semplici, perché una persona doveva far capire all’altra che cosa stava pensando solo ed esclusivamente a gesti, senza parole o suoni. Sembrava il gioco perfetto per lui e Will, dal momento che le parole fra loro non erano mai davvero servite. Si capivano benissimo solo con uno sguardo. 

Fece salire Will sul letto, scostando le gambe per ritagliare spazio anche per lui, e chiedendogli di scusarlo in anticipo se non avrebbe giocato al meglio, perché si sentiva un po’ debole. Con un sorriso beffardo Will lo rassicurò dicendogli che tanto avrebbe perso in ogni caso, perché nessuno, sulla faccia della Terra e nelle dimensioni demoniache, aveva mai battuto Will Herondale, maestro nell'imbrogliare al gioco dei mimi.
 
«Che l’Angelo mi aiuti, allora!” rispose Jem, fingendosi spaventato «Comincia tu»

«Ok, è facilissima!»
Will incassò un po' la testa nelle spalle e strinse gli occhi assumendo un'aria minacciosa. Piegò le braccia e le strinse al busto, come se stesse sciando. Ma sciatore non era la risposta esatta, né nessun altro tentativo di Jem.

«Mi arrendo» sospirò «Che personaggio eri?»

«Un’anatra pronta all’attacco»
 
«Cosa?»
Jem ormai conosceva l'inglese come una seconda lingua, ma credette di aver capito male. Will non poteva davvero  aver mimato un'anatra.
 
«Hai presente, no? Quegli uccelli selvaggi e pericolosi…»
 
«Non sembri per niente un’anatra!»
 
«Lo prenderò come un complimento! Ok, ne ho in mente un’altra!»

Jem non indovinò nemmeno quell’imitazione, e neppure quella successiva, perché Will sembrava scegliere apposta oggetti e azioni impossibili da mimare come Amleto e Stregaluce senza impegnarsi particolarmente a renderli riconoscibili. Quando raggiunsero il punteggio di 5 a 0, Will ridendo dichiarò conclusa la partita. «Ma non dire che non ti avevo avvertito, Ti ho detto che ero un maestro nell’imbrogliare ai mimi»

«Pensavo intendessi dire che eri molto esperto, invece sei talmente scarso che è impossibile capire cosa stai mimando!»

«In guerra e nei mimi tutto è concesso» sentenziò Will con la solennità con cui di solito citava Shakespeare.

«Per favore, concedimi una rivincita»

«Ok, soltanto una. Poi mi prometti di andare a dormire? Se Charlotte viene a sapere che ti ho tenuto sveglio fino a quest'ora mi mette in punizione per il resto della vita»

«Promesso» acconsentì Jem, che in effetti iniziava a riavvertire la stanchezza. «Ok, ce l’ho. Due parole. Non è difficile. Anzi, direi che è abbastanza ovvio»

Will osservò il parabatai.
Jem non stava facendo niente di particolare. Sembrava se stesso, semplicemente, con i suoi capelli argentei spettinati sopra alla montagna di cuscini e gli occhi buoni. Will per un attimo pensò che le due parole fossero Jem Carstairs, ma poi rammentò che dopo il turno di Amleto Jem aveva proibito di mimare nomi propri.
Eppure il parabatai restava immobile, lo sguardo fisso su di lui, un lieve sorriso ad incurvargli le labbra pallide.

«Non lo so, mi arrendo. Sei un mimo peggiore di me. E poi stai semplicemente immobile, non vale così»

«Dai, sono solo due parole! E credo anche che possano essere due delle tue parole preferite, almeno se messe insieme»

«Sifilide demoniaca?» abbozzò Will, con gli occhi che brillavano.

Jem scosse la testa.
«Ti amo»
 
Ti amo.
Lo aveva detto con naturalezza, come se non si fosse trattato di parole ma di un respiro lasciato andare. I pugni di Will si chiusero sulla stoffa del lenzuolo. « No» disse,  mordendosi il labbro con forza «No. Non è vero. Dici così perché sei sotto l'effetto di quella tua droga… È un delirio legato allo yin fen»

«Non sono mai stato più lucido in vita mia. Io ti amo, Will»

«Basta. Smettila di dirlo»

«Ti amo. Ti amo. Ti am-»

Anche nei giorni seguenti, Will non riuscì mai a capire se lo fece per zittire Jem o per accontentarlo o semplicemente perché lo desiderava con tanta violenza da non sapersi trattenere: gli prese il viso fra le mani e gli diede un bacio urgente e disperato, mentre lacrime di rabbia gli rigavano il volto e il dolce sapore dello yin fen gli stuzzicava la lingua, sigillando con le proprie labbra, avide di quelle dell'altro, quello che era il suo più grande peccato.





 
Angolo dell'autrice

Questo angolo autrice inizia con una citazione cinematografica che probabilmente non coglierà nessuno, ma che esprime esattamente cosa provo:in Pretty Princess, una giovane Anne Hataway chiede scusa al ragazzo che le piace facendogli recapitare a casa una pizza con sopra degli Smarties che creano la parola SORRY
Ecco, se conoscessi i vostri indirizzi - come una stalker o quantomeno un'aspirante postina - un manderei una ad ognuno di voi. 
Scusate per questo enorme ritardo nell'aggiornare, per il prossimo - e ultimo - prometto di non lasciar passare più di un paio di settimane.
Un ringraziamento a chiunque abbia letto e seguito fin qui (in particolare a fandomsunite, kikichan85, AMidsummerNightmare, Kalisi_81 e flowermoon, perchè hanno lasciato recensioni dolcissime a cui ho risposto terribilmente tardi. Per voi doppia pizza)
Spero che questo penultimo capitolo vi sia piaciuto - finalmente un po' di Heronstairs kisses! - e vi lascio un paio di note:
-In realtà in inglese Will dice di essere un maestro in "lying at charades". Le sciarade sono giochi di enigmistica per cui si deve far indovinare una parola che è composta da due diversi elementi fornendo indizi su di essi. Tipo "ciocco" + "latino" compone "cioccolatino". Era un gioco molto in auge nei salotti Sette-Ottocenteschi, per questo Will lo conosce così bene. Nella traduzione italiana, quando incontra Tessa, si definisce "un maestro nel barare al gioco dei mimi", per cui mi sono tenuta fedele alla versione che conoscevo.
- Il posset, come ci viene ricordato da Sophie nelle Origini, è una bevanda servita calda a base di latte, vino e spezie non mi stupisce che Will l'abbia versata in un vaso
- Lo scambio di battute "Due delle tue parole preferite, almeno se messe insieme" e "Sifilide demoniaca" è tratto dal terzo libro delle Origini, La Principessa
(Jem:“Sfortunatamente, temo tu debba rimandare per un po’ il tuo piano per uccidere tua sorella. Gabriel Lightwood è qui, al pieno di sotto, e io ho due parole per te. Due delle tue parole preferite, almeno se messe insieme.” 
“Completo sempliciotto?” domandò Will. “Inutile villano?”
Jem ghignò. “Sifilide demoniaca.”). 
Qui, surprise surprise, le due parole sono ti e amo. Un po' più romantiche di sifilide demoniaca, a mio parere.

Adesso è davvero tutto.
Ancora grazie a chiunque abbia letto fin qui e un abbraccio fino all'ultimo capitolo

Itsamess
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 5
*** Adagio al chiaro di luna ***


Adagio al chiaro di luna
 
 
Che altri già si amarono non è una novità
Ma questo nostro amore è come musica
Che non potrà finire mai
Che non potrà finire mai
 
 
 
Will sarebbe potuto restare a guardarlo per sempre – fermo immobile sulla porta di una camera che non era la sua, nonostante ci dormisse quasi ogni notte.
 
Jem era in piedi, la testa inclinata sul violino, la mano con l'archetto che si muoveva lenta e costante come un'onda marina. Avanti e indietro, avanti e indietro, in un rollio infinito. Teneva gli occhi chiusi e aveva un sorriso sereno a tendergli le labbra.
 
Will era innamorato di lui e quindi non poteva essere oggettivo nel proprio giudizio, eppure si ritrovò a pensare che fosse il ragazzo più bello che avesse mai visto; lo era per il modo in cui sembrava completamente assorbito dalla musica, come se al mondo non esistesse nient'altro.
 
Per una volta nella sua vita, Will Herondale, che era abituato a presentarsi nella camera del parabatai annunciato da una battuta brillante o una frecciatina sarcastica, sarebbe rimasto in silenzio. Avrebbe perfino trattenuto il respiro, pur di non disturbare. Non gli importava dei propri piedi nudi sul gelido pavimento di pietra, né della stanchezza di un'intera giornata di Addestramento, né del rischio che qualcuno si accorgesse che non si trovava in camera: valeva la pena di restare a guardare se davanti ai suoi occhi gli si presentava uno spettacolo simile.
 
Jem sembrava tutt'uno con il suo violino. Nella penombra della stanza, illuminata soltanto dal bagliore lunare e da una Stregaluce abbandonata con noncuranza sullo scrittoio, Will non era certo di sapere dove finisse uno ed iniziasse l'altro. Qual era il confine fra l'archetto e il braccio che lo reggeva? E quale quello fra la testa argentea e scarmigliata di Jem e la pancia del violino? Sembravano parte di una stessa, perfetta, figura, una sagoma scura stampata sul blu cobalto della notte.
Doveva consistere in questo l'essenza dell'arte, pensò Will, nell'essere tanto in sintonia con lo strumento da non sapersi concepire senza. Una totale e assoluta fusione. Gli venne in mente tutto ad un tratto una storia che aveva letto su un libro di mitologia classica, la leggenda della ninfa Dafne. Il dio Apollo si era innamorato di lei e aveva passato giorni a rincorrerla, tuttavia, non appena era riuscito a sfiorarla, il corpo di lei si era trasformato in lauro. Chissà – forse, in una delle vite precedenti di cui parlava sempre, Jem era stato toccato da un Angelo ed era diventato –
 
«Will»
La voce del parabatai lo destò dalle sue fantasticherie.
«Will, sei tu»

Stavolta non era nemmeno una domanda, come se non potesse essere nessun altro. Infatti non era nessun altro. Non appena i suoi occhi argentei incontrarono quelli blu del parabatai, Jem abbassò l'archetto, sorpreso. «Non pensavo ti piacesse la musica classica»
 
«No, infatti. Ma mi piace guardarti suonare» rispose Will, scrollando le spalle con noncuranza. Si portò la mano all'orecchio e ne estrasse qualcosa di bianco e soffice «Cotone. Sei molto più sopportabile così»
 
Jem non poté fare a meno di scoppiare a ridere. Le innocue offese dei parabatai non erano mai riuscite a ferirlo, così come non c'erano riuscite le spade di carta con cui si allenavano da ragazzini quando non riuscivano a prendere sonno e l'Armeria era già stata chiusa a chiave.
 
«L'idea non è mia, ma di Ulisse. Anche se immagino che il canto delle sirene fosse un po' più piacevole del suono di uno che tortura un violino innocente»
 
Will si staccò dalla cornice della porta e la richiuse dietro di sé. Piano, per non fare rumore. La sua storia con Jem era fatta di questo, di passi fatti in punta di piedi per corridoi deserti e Stregaluci nascoste nella tasca della camicia da notte, di gemiti soffocati e parole dette sottovoce. Era contro la Legge amare il proprio parabatai in quel modo, ma nessuno dei due poteva fare altrimenti. Era come se una forza invisibile li spingesse l'uno verso l'altro, come magneti, ed era stato così da sempre, ma c’erano voluti anni perché se ne rendessero conto o trovassero il coraggio di dirselo.
 
 
 
 
 
Will fece un paio di passi verso il parabatai, annullando in fretta la distanza che li separava, e gli prese il viso fra le mani, attirandolo a sé in un bacio urgente e disperato. Jem aveva ancora in una mano il violino e nell'altra l'archetto, tuttavia alzò comunque le braccia intrecciandole dietro al collo dell'altro, per tenerlo il più possibile ancorato a sé. Complessivamente, si trattava un bacio goffo e piuttosto scomodo (uno di quei baci a cui Cecily avrebbe dato un cinque, se lo avesse visto), ma a nessuno dei due sembrava importare. Dopotutto, avevano solo diciassette anni e un miliardo di baci da recuperare.
 
«Mi sei mancato» sussurrò Will, con la voce roca e le mani ancora premute contro le guance pallide del parabatai. Tutto in lui era chiaro e innocente e lo era stato fin dall’infanzia, quando tutto quel bianco ce lo aveva soltanto nel cuore. Nel corso degli anni, la malattia lo aveva cambiato, colorandogli i capelli di argento come quelli di un elfo delle fiabe nordiche. Perfino le ciglia si erano fatte più chiare, simili a ghirigori di ghiaccio che orlavano occhi argentei anch'essi.
«Mi sei mancato davvero»
 
Jem abbozzò un sorriso. «In realtà sono sempre stato qui…»
 
«Sai cosa intendo» ribattè Will «Odio stare nella stessa stanza con te e non poterti toccare come vorrei, solo perché ci sono altre persone»
 
Jem lo sapeva meglio di lui. Ricordava quante volte lo aveva tenuto per mano sotto alla tovaglia, a colazione, o lo aveva con un abbraccio insolitamente lungo dopo una missione, o ancora gli aveva sfiorato casualmente le dita con la scusa di passagli lo zucchero o una Spada Angelica.
Eppure un contatto così breve non bastava, non bastava mai.
 
«Adesso siamo soli» disse Jem, arrossendo lievemente per l'audacia delle proprie parole.
 
«O quasi» borbottò Will.
 
Church miagolò in assenso.
 
Will non sapeva quanto quel gattaccio sapesse della sua relazione segreta con Jem, né se un animale potesse comunicare telepaticamente con qualche Fratello Silente facendoli scoprire, per cui l'unica cosa che poteva fare era cercare di tenerselo buono, in ogni maniera possibile. Ai gatti normali piacevano il latte e le palline di carta, ma una creatura infernale come Church probabilmente preferiva cose come sangue e topi vivi – e Will ne era sprovvisto, al momento.
 
Non gli restò che inginocchiarsi e allungare una mano verso di lui, a palmo aperto, nella speranza che l'animale accogliesse la sua offerta di pace.
«Vieni qui, da bravo»
 
Il gatto lo ignorò.
Con un balzo saltò sul letto di Jem, mimetizzandosi malamente sull'intrico di lenzuola sfatte in un groviglio di pelo grigiastro.
 
«Sembra che ci sia qualcuno di immune al tuo fascino» commentò Jem divertito, avvicinandosi al letto. Con cura ripose il violino dentro alla custodia che teneva sul comodino e appoggiò l'archetto sopra di esso. Will notò che maneggiava ogni oggetto con enorme premura, come non si trattasse tanto di uno strumento, quanto più di una reliquia: la musica per Jem era sacra quanto una religione ed esigeva rispetto, fede e costanza.
 
«Insegnami» mormorò Will tutto ad un tratto.
 
Jem, che nel frattempo si era seduto su un lato del letto e stava accarezzando pigramente Church, alzò la testa, visibilmente confuso: «Insegnarti a fare cosa?»
 
«A suonare il violino. Magari ho un talento naturale»
 
«O magari chiamerai a raccolta tutti i gatti del vicinato. Già uno ce lo abbiamo»
replicò il parabatai, prendendo ad accarezzare Church sulla testa e ridacchiando delle sue fusa soddisfatte. Abbassò la voce e aggiunse, rivolto direttamente all’animale: «Church, diglielo anche tu che è una pessima idea…»
 
«Davvero non hai intenzione di darmi lezioni?»
 
Jem inarcò un sopracciglio.
«Credevo fossi tu il Magister… Com'è che ti definisci…?»
Finse per un attimo di pensarci su e esclamò: «Ah, sí! Praticamente perfetto sotto ogni aspetto
 
«Molto divertente» commentò Will, per nulla divertito.
 
«Scusa! È solo che non capisco perché hai voglia di imparare a suonare il violino.  Tu odi la musica classica. Ti sei messo del cotone nelle orecchie pur di non sentirla! »
 
Will scrollò le spalle, perché in effetti aveva preso in giro Jem tante di quelle volte che il parabatai in genere smetteva di suonare non appena lo vedeva, giusto per prevenire ogni commento.
«Forse sono soltanto geloso»
 
Jem soffocò una risata: «E di cosa?!»
 
«Del tuo rapporto con la musica… E non provare a ridere di nuovo, dico sul serio! Tratti quel violino meglio di come tratti me… Sai, Shakespeare ha scritto un sonetto a riguardo»
 
«Shakespeare ha scritto sonetti su tutto-» iniziò a brontolare Jem, ma Will scelse di ignorarlo: lo zittì con un gesto teatrale della mano e chiuse solennemente gli occhi. Come attore non sembrava molto credibile, visto che indossava una camicia da notte e non aveva le scarpe, tuttavia la cosa non sembrava importargli più di tanto. Appoggiò una mano sul cuore, un piede sulla sedia della toeletta e iniziò a declamare la poesia, mentre il parabatai lo pregava di abbassare la voce se non voleva farli scoprire da mezzo Istituto.
 
«Quante volte quando, mia musica, musica tu suoni
Su quel fortunato legno il cui vibrar risponde
Sotto alle tue dolci dita, e moduli con grazia
Armoniosi accordi che rapiscono il mio orecchio…»
 
«Maledetto il giorno in cui mi hai chiesto di tracciarti una Runa Permanente della memoria» sospirò Jem, alzando gli occhi al cielo e riprendendo ad accarezzare il gatto. Non era davvero arrabbiato. Jem non lo era mai.
 
«… sui quali le tue dita scorrono con movenza gentile
Facendo il morto legno più felice di labbra vive» aveva continuato a recitare il parabatai, completamente assorto dal suono avvolgente di una poesia che probabilmente avrebbe saputo alla perfezione anche senza bisogno di alcun Marchio. Infine, Will aprì gli occhi e fissò il proprio sguardo in quello del parabatai, mentre pronunciava gli ultimi due versi del sonetto:
 
«Se hanno tanta fortuna quei tasti impertinenti
Dà loro le tue dita da baciare, e a me le labbra»
 
Will li aveva recitati ad un tono di voce più basso e seducente, come se non fosse stato Shakespeare, ma DeSade o Prevert in alcuni componimenti giovanili. Quel tono di voce era quello che con che usava con Jem nelle loro notti clandestine, quando, a luci spente e con la porta chiusa a chiave, gli ripeteva che lo amava, lo amava, lo amava e di non fermarsi proprio in quel momento.
 
Si avvicinò al letto sul quale il parabatai era ancora seduto. Di solito era molto pallido in viso per via della malattia e di una carnagione naturalmente più chiara, tuttavia la sfrontatezza dello sguardo di Will era riuscita a farlo arrossire, spingendolo a distogliere lo sguardo. Will si soffermò a pensare a quanto Jem fosse rimasto lo stesso nonostante il passare degli anni: era sempre il più calmo, il più razionale, il più gentile. Non perdeva quasi mai la calma e non perdeva quasi mai il controllo, per questo una situazione come quella – di completa intimità  e vicinanza fisica – continuava a metterlo a disagio. Will si ritrovò a pensare che Jem fosse l’innocenza dove lui era il peccato, che fosse l’argento in grado di smorzare il rosso che correva invece nelle sue, di vene.
 
Si inginocchiò accanto al letto e gli domandò piano: «Ora capisci come mi sento?»
 
Glielo chiese senza ironia, perché era il tipo di persona che credeva davvero che recitando un brano di un libro o una poesia fosse più semplice dire agli altri cosa si prova, per cui Jem sinceramente rispose: «Credo di sì»
Cercando senza grande successo di concentrarsi su Church e non sulla presenza calda e viva del parabatai, aggiunse con un filo di voce: «Anche se non hai motivo di essere geloso. Amo la musica e amo il mio violino, ma…»
 
«Ma un violino non può fare questo» concluse Will al posto suo.
Jem sentì il sangue andargli alla testa nel vedere Will che, senza troppi convenevoli, iniziava a sbottonargli la camicia la notte.  Era sempre stato più diretto di lui quando si trattava del contatto fisico, tanto che Jem si era chiesto più di una volta se fosse soltanto una questione di spudoratezza o se davvero Will fosse stato in uno di quei bordelli su cui mentiva sempre.
Jem provò a mantenere un minimo di lucidità e scuotendo vagamente la testa balbettò: «No, trattandosi… di un oggetto inanimato non credo che-»
 
«James» lo interruppe cortesemente Will, mentre ammirava soddisfatto il petto nudo dell’amico con uno sguardo che appariva tutto fuorché cortese.
 
«Sì?»
 
«Puoi smettere di parlare per un secondo? Ho una tremenda voglia di baciarti ma le tue labbra continuano a muoversi… è frustrante» gli fece notare Will, inarcando un sopracciglio con evidente disappunto «Gradirei una tua minima collaborazione, al momento»
 
Era difficile controbattere ad un’argomentazione tanto convincente, per cui Jem non poté che trovarsi d’accordo con lui. Con desiderio gli prese il viso fra le mani, facendo scontrare le loro bocche senza grazia, senza calma, senza remore. Avevano aspettato fin troppo. Ripensò a quando, pochi mesi prima, Will aveva scoperto di non essere mai stato maledetto e di come era corso in camera in camera sua solo per dirglielo di persona e rimediare al tempo perduto. Allora, si erano amati con l'intensità di diciassette anni di parole non dette e baci non dati, proprio come stavano facendo ora. La fame che guidava i loro baci non aveva fatto che crescere nel corso della giornata e ora chiedeva di essere soddisfatta.
Nessuno dei due riusciva ad averne abbastanza dell’altro.
 
Sentiva la voce di velluto del parabatai scivolava leggera sulla pelle, mentre Will tornava alla carica: «Andiamo, insegnami. Hai sempre detto che ho le mani da musicista»
 
«Da pianista» puntualizzò Jem «Non è la stessa cosa»
 
«Pignolo… Violino, pianoforte, xilofono… Sempre di strumenti musicali si tratta» brontolò Will direttamente al suo orecchio. Jem rabbrividì nel sentire il suo respiro caldo sulla pelle e mugolò qualcosa in riposta, Will fu più veloce di lui e gli catturò di nuovo le labbra con un bacio, per poi aggiungere con una voce tanto bassa da sembrare quella di un uomo e non di un ragazzo: «E io che pensavo di essere convincente…»
 
«D’accordo, d’accordo. Mi arrendo» concluse Jem, che non aveva mai saputo dirgli di no, che si trattasse di una spedizione notturna per cercare il centro della Terra o di un sorso di ponce, proibito, da una fiaschetta evidentemente rubata ad un adulto. «Però dovrai restare serio, me lo prometti?»
 
Will scrutò la sua espressione per capire se stesse scherzando, ma era evidente che Jem dicesse sul serio. Considerava la musica sacra come una preghiera e come tale richiedeva rispetto.
 
Annuì e chiese, impaziente: «Da dove comincio?»
 
Jem si arrese ad un sorriso che gli smorzò la gravità del volto.
«Per esempio dal violino. Potresti prendermelo? È su comodino, dentro alla custodia»
 
Con pazienza, Jem gli descrisse poi le varie parti che costituivano lo strumento, dalla curva elegante della cassa armonica alla rigida esattezza dell’archetto al voluttuoso ghirigoro alla fine del manico del violino, mentre Will annuiva distrattamente, più concentrato sul parabatai che sul violino in sé.
Poi, dalla teoria si passò alla pratica.
 
«D'accordo prima di tutto il respiro» iniziò Jem, appoggiando il violino sul letto« Devi imparare come prendere fiato correttamente, perché la posizione non è proprio comoda... Dovrai tenere inclinata la testa»
 
«Inclinata?»
 
«Inclinata» ripeté Jem «Non di tanto, solo un po'. Come… come in un bacio, per intenderci»
 
La bocca di Will si piegò in un sorriso sghembo mentre chiedeva con apparente ingenuità: «Non credo di aver capito bene la posizione, non potresti mostrarmel-»

«Oh, sta zitto»
Jem si sporse in avanti per baciarlo, con lentezza ma profondamente, intrecciando le proprie labbra alle sue. Non si sarebbe mai stancato di baciarlo in quel modo, fondendo insieme i loro corpi come del resto erano unite le loro anime. «Ora, appoggia il violino sulla spalla, poggiaci sopra la guancia, qui dove si trova la mentoniera. L’ultima corda, suonala senza tenerla premuta… È un sol»
 
Will fece come gli era stato detto.
Un suono gracchiante e acuto, più simile al lamento di un animale che ad una nota, si diffuse per la stanza.
 
«Dovrebbe essere un sol» si corresse Jem , soffocando un gemito con una risata. Soffriva nel vedere il proprio strumento maltrattato dal parabatai, eppure una parte di lui trovava divertente vedere finalmente Will Herondale alle prese con qualcosa che non sapeva fare. Finalmente un difetto in ciò che ai suoi occhi era sempre apparso perfetto, nonostante tutto.
 
Jem sospirò nel sentire l’ennesima nota sbagliata e decise di cambiare le posizioni: se fino a quel momento erano stati seduti l’uno di fronte all’altro a gambe incrociate, si spostò in modo tale da trovarsi alle sue spalle, cingendogli il busto da dietro. Gli mostrò la corretta posizione delle braccia, manovrandole come se Will fosse stato un suo burattino e il parabatai lo lasciò fare.
Anzi, gemette sfacciatamente nel sentire la pelle di Jem a contatto con la propria.
 
Rimasero in quella posizione per un tempo indefinito, fino a che Will non azzardò una nota particolarmente straziante che disturbò il già tormentato sonnellino di Church. Il gatto alzò la testa e soffiò contro Will, il quale dovette leggerlo come un buon segno perché commentò divertito: «Guarda, Church apprezza la mia musica… non è vero, Church?»
 
 In tutta risposta, il gatto lo graffiò con una zampata.
 
«Si direbbe di no» commentò Jem, facendo cenno al gatto di scendere dal letto per evitare ulteriori liti. Strinse ancora le braccia intorno al torso del parabatai e affondò la testa nei suo ricci scuri, ispirandone a fondo il profumo.
«Suoni in modo davvero terribile, lo sai?»
 
«Sto ancora imparando. E poi devi ammettere che è difficile suonare in queste condizioni, con attaccato alla schiena un ragazzo terribilmente attraente» gli fece notare Will, senza accennare a mettere giù il violino «A pensarci, è tutta colpa tua probabilmente. La tua presenza è un’incredibile fonte di distrazione»
 
 
Jem assestò un ultimo bacio sulle sue vertebre.
«Se vuoi la smetto»
 
 
«No» sussurrò Will, mentre un sorriso di completa e perfetta felicità gli incurvava le labbra «No, non smettere mai»
 
 
 


Angolo dell'autrice
Eccomi giunta all'ultimo capitolo della raccolta, che avevo immaginato molto più breve e invece si è rivelato il più complesso e lungo di tutti. L'unico disclaimer che mi sento di dare è che io non suono il violino, per cui perdonatemi ogni eventuale errore o inesattezza, che sarò lieta di correggere. Il sonetto citato da Will è il numero 128.
Ringrazio chiunque sia arrivato fin qui: recensendo, non recensendo, semplicemente seguendo gli aggiornamenti.
Ho amato profondamente scrivere questa storia, per cui grazie di essere stato lo stimolo a continuare a pubblicare.
Non so se la vedrete come una minaccia o come una semplice promessa, ma scriverò ancora sulla Heronstairs: in questa sezione non hanno il giusto riconoscimento, ma io li trovo bellissimi insieme.

Un abbraccio enorme a tutti e buone vacanze di Pasqua

Itsamess 

 

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