La trappola 3
A/N Ciao Tartapopolo!
Sono abbastanza consapevole che i “tempi più ragionevoli” entro
i quali avrei dovuto postare l’ultimo capitolo siano diventati in verità più di
un mese. Ergo, voi non potete vedermi ma io al momento ho un sacchetto di carta
calato sulla testa per la vergogna. Mi sento un parassita del vermino
strisciante che mi sentivo l’ultima volta che mi sono scusata… Scherzi a parte,
è un periodo davvero incasinato, e mi dispiace aver fatto una promessa che non
ho potuto mantenere. Scusate.
Grazie alla gentilissima Mellybonf
che mi aveva già perdonato preventivamente (il gioco qui si fa un po’ più
sadico, spero che ti piaccia!), ed alla sempre grande Ladyzaphira, tra le regine e veterane del fandom; te l’ho già detto che, ormai, ogni
volta che in giro vedo qualche gadget di Elsa penso a Ladyzaphira e non a
Frozen? Per dirti quanto alcune di voi amiche di questo sito mi abbiate cambiato
anche la percezione del mondo! Mi inchino anche davanti alla talentuosa NightWatcher96: oscuro dark sarà il mio nuovo meme, cara imoto! Sì, il mio è sempre
stato una versione un po’ più matura del Mikey 2K12, come il tuo una versione
più dolce… Ci manca quello sexy, che sto provando a scrivere (ho una storia
MikeyxAprilxDonnie scritta a metà, chissà se l’argomento può funzionare), ed
avremo praticamente 50 sfumature di Mikey! Abbracci a profusione e grazie a
palate anche alla mia Cartoonkeeper,
sorellina acquisita in modo clonesco sempre disposta a sopportarmi, alla
carinissima Beckyforever (ti
ringrazio, nuova consumatrice di fazzoletti! Spero di farti zampillare ancora
con questo capitolo) ed al gigante ToraStrife
(pfu, Saw l'Enimgmista è un dilettante. Niente rispetto alla mia mente
spargi angst a basso costo!), tornato anche lui nel fandom! Mi commuovo e mi viene
da piangere. A me una vasca…
Detto questo, acqua in bocca (Torastrife, te la rubo) e vi
lascio alla lettura.
Un abbraccio grande come la trappola di vetro. A presto!
“All I know
Time is a valuable
thing”
Linkin Park, In The
End
Svuotare la mente non era mai stato il suo forte. C’erano nella
sua vita tante cose interessanti a cui pensare! Tutto l’universo era sempre
stato una vorticosa giostra intorno a lui. Non riusciva a concentrarsi quando suo
padre gli insegnava a leggere, da bambino, perché le lettere si rincorrevano
sul foglio come se volessero giocare. A volte non metteva a fuoco i movimenti
del suo avversario, quando si allenava con i fratelli nel dojo, perché
pregustava la nuova puntata del suo show preferito in tv, o riviveva le scene
del suo ultimo fumetto, o rimuginava sul fatto che gli scoiattoli fossero proprio
raccapriccianti...
Non aveva mai capito perché, quanto più cercasse di non
pensare ad una cosa, tanto più il pensiero convergesse sempre proprio su quella
cosa lì. Voleva della pizza e non ce n’era? Nella sua testa si focalizza
l’immagine di una pizza fumante e tutti gli altri concetti si facevano
mestamente da parte. Era il turno di qualcuno dei tuoi fratelli per la
televisione? Non c’era niente di più divertente al mondo che avere il
telecomando tra le mani e gli occhi sullo schermo.
Ma per quanto avesse desiderato ardentemente gli
irraggiungibili oggetti del suo desiderio, mai come in questo momento un
pensiero era riuscito ad imprimersi così a fondo nella sua testa.
Adesso che diventava sempre più difficile, minuto dopo
minuto, svuotare la mente e non prestare attenzione ai suoi polmoni, gli
sembrava che non esistesse al mondo niente di più bello, importante, allettante
e desiderabile di un bel respiro.
…
Leonardo stringeva forte il volante dello Shellraiser,
guidando più velocemente di quanto avesse mai fatto prima, oltre ogni limite di
sicurezza, facendo pericolosamente scodare il mezzo in curva e attirando
l’attenzione dei pochi automobilisti notturni e di qualche sparuto passante; al
momento, però, di questo non gli importava nulla. Si sentiva teso e carico di
adrenalina, come in ogni missione, ma agitato più del solito da un’affannosa
premura: ogni minuto che passava sembrava lungo come un’era.
Raffaello stava in piedi dietro di lui, aggrappato con una
mano alla maniglia sul tetto del vagone modificato; l’altra mano accarezzava
nervosamente il manico del suo sai infilato alla cintura. Guardava fisso
davanti a sé, silenzioso. Solo Donatello, seduto al monitor, parlava per dare a
Leonardo indicazioni secche e coincise sulla strada più veloce da prendere.
Parcheggiato lo Shellraiser appena un paio di fabbricati di
distanza dal magazzino, tra alcuni vecchi furgoni in disuso, i tre ninja balzarono
giù, silenziosi, veloci, guardinghi; corsero radente i muri, restando
nell’ombra, nascondendosi al passaggio di qualche furgone dei lavoratori
notturni.
Raggiunsero le serrande chiuse del magazzino; Donatello
controllò sul suo T-phone e confermò con un cenno che il posto era quello,
quindi guardò Leonardo in attesa di istruzioni. Il leader valutò che sarebbe
stato più veloce scassinare una delle serrande, piuttosto che entrare dalle
finestrelle in alto, e comunicò a gesti ai fratelli di procedere così. Donatello
annuì, scrutò il pesante lucchetto che teneva la serranda bloccata contro un
gancio infisso nel cemento, tirò fuori dalla sua borsa un piede di porco e con
poche abili torsioni lo fece saltare via. Raffaello afferrò la pesante serranda
dalla maniglia di ferro e la issò su. Ormai questi rumori avrebbero richiamato
i nemici, ma sembrava non esserci nessuno lì intorno.
Leonardo fu il primo ad entrare nel magazzino, seguito da
Raffaello; Donatello si concesse l’ultima occhiata alla strada e li seguì
dentro.
L’interno era buio e puzzava di polvere e di legno stantio;
casse vuote erano impilate ed ammucchiate un po’ dovunque.
L’unica zona illuminata era quella, al centro del locale, dove
c’era la vasca di vetro.
Dentro di essa, il loro fratello minore scalciava e si
dimenava selvaggiamente, con le mani alla gola.
“Mikey!” urlò Raffaello, inorridito, e si gettò di corsa
verso la teca, seguito immediatamente da Leonardo e Donatello.
Michelangelo stava annegando davanti ai loro occhi.
…
(Poco prima)
Restare concentrato era diventato troppo difficile.
I pensieri guizzavano in testa senza che lui riuscisse più a
chiuderli fuori. Aveva da alcuni minuti smesso di fare segnali con la mano, sia
per tentare di focalizzare l’attenzione in una meditazione sempre più difficoltosa,
sia perché aveva tristemente capito che a quel punto o i suoi fratelli avevano
già visto il messaggio oppure non sarebbe più servito a niente.
Il suo cuore, che era riuscito a rallentare per parecchi
minuti, ricominciò a battere più veloce. Prima a normale frequenza, poi via via
più forte. I polmoni ormai chiedevano ossigeno con insistenza.
La giovane tartaruga mutante riaprì gli occhi. Intorno a
lui, niente era cambiato. Era sempre solo e prigioniero in una scatola di
vetro. Nessuno era venuto.
Ed il suo tempo stava per scadere.
La desolata disillusione fu terribile e lo strinse come un viscido
tentacolo. Ebbe paura. Non lo avrebbe mai confessato ai suoi fratelli, ma la
paura che lo assalì fu sconvolgente. Probabilmente, comunque, non avrebbe mai
più detto niente di niente ai suoi fratelli, poiché non li avrebbe mai più
rivisti.
Forse, verosimilmente, quasi certamente, sarebbe morto qui,
da solo, nella più stupida ed inutile delle morti. Una tartaruga mutante
sarebbe annegata in una grande vasca di vetro. Alla paura si sommò la rabbia,
il forte senso d’ingiustizia: perché? Perché a lui, che era solo un adolescente
ed aveva ancora tante cose da fare nella vita? Perché, se non aveva mai fatto
niente di male?
I battiti del suo cuore accelerarono ancora. La gola si
contrasse in un singhiozzo.
Voleva essere a casa. Voleva la sua famiglia. Non li aveva
neppure salutati! Aveva ancora tante cose da dire, a tutti loro! Che ne sarebbe
stato della sua famiglia? La sua morte li avrebbe rotti? Previsioni tragiche ed
inquietanti presero forma nei suoi pensieri. Raph avrebbe dato di matto,
avrebbe fatto male agli altri ed a se stesso, Donnie si sarebbe chiuso in sé,
Leo sarebbe stato consumato dal senso di colpa. Il suo sensei, suo padre, sarebbe
stato schiacciato dalla perdita di un figlio… A questo punto, poiché non
l’avevano trovato, Michelangelo pregò che i suoi familiari non avessero visto,
né vedessero mai, le immagini che quella dannata camera stava riprendendo.
Che almeno non lo vedessero morire.
Singhiozzò ancora, con un disperato mugolio, che risuonò
amplificato nelle suo orecchie. Voleva piangere, gridare. Strinse forte le
labbra. I battiti tamburellavano sotto il piastrone e il suo corpo consumò l’ultima
molecola di ossigeno; il suo cervello iniziò a risentire dell’asfissia, ed ogni
cosa prese a ruotare intorno a lui.
Un senso di bruciante oppressione gli attanagliò il petto. La
paura, la disperazione divennero ancora più freddi dell’acqua ghiacciata.
Non resisteva più.
Un sussulto corse per tutti i muscoli del corpo. Distese le gambe.
Portò le mani al vetro, artigliò con le unghie la lastra fredda. Un’altra
contrazione gli fece scattare la testa all’indietro, ed una scia di bollicine
salì dalla sua bocca.
Si attaccarono al vetro sul tetto della vasca e si fusero a
quelle che erano già lì, in un brillante arcipelago iridescente, vibrante e
ipnotico. Gli occhi sconvolti guardarono queste piccole sfere di luce:
illuminate dal faretto, sembravano stelle. E Michelangelo realizzò che non
avrebbe mai più potuto guardare le stelle. Che queste quattro pareti ed il
magazzino oltre il vetro sarebbero state le ultime cose che avrebbe mai visto.
Era finita. Non ce la faceva, non ce la faceva più.
Si portò le mani alla gola.
La paura divenne terrore, doloroso e tremendo. Stava per
morire, la sua vita sarebbe finita adesso! Non voleva morire, non voleva!
Oddio, era così orribile!
Forse, avrebbe dovuto volgere la mente ai ricordi dei suoi
fratelli, di suo padre. Dedicare a loro i suoi ultimi pensieri, farsi
accompagnare dai loro volti, dalla loro voce. Ma comprese con orrore che
neanche per questo ci sarebbe stato più tempo.
Il suo corpo iniziò a muoversi da solo, in scatti convulsi,
senza che lui potesse farci niente. I piedi calciarono il vetro, forte, troppo
forte; ma non sentiva nulla, i sensi avevano iniziato ad intorpidirsi.
Scintille bianche e poi nere balenarono davanti ai suoi occhi. Strinse le mani
forti sul collo. Improvvisamente, la voglia di aprire la bocca ed inalare
divenne più potente di qualsiasi altra cosa.
Non poteva più combattere. Doveva respirare. Niente aveva
più importanza.
Quando un sorso d’acqua gelida si riversò nella sua bocca,
nella sua gola, nei suoi polmoni, non era più abbastanza lucido da capire di
aver tirato un profondo respiro, sott’acqua. Il dolore di mille aghi di
ghiaccio gli straziò il petto; si contorse nelle convulsioni. Il terrore
l’aveva completamente avvolto, il suo cervello ed il suo corpo non rispondevano
più.
Nel barlume di coscienza rimasta, sperò solo che l’incubo di
questi ultimi lunghissimi momenti finisse presto.
Tra i sussulti del suo corpo in agonia, quando ormai non era
altro che angoscia senza fine, oltre il vetro che era diventato la sua tomba, i
suoi sensi tentarono con la loro ultima scintilla di vita di percepire
qualcosa.
Una voce disperata che urlava il suo nome.
Figure che si agitavano intorno a lui.
Ma ormai, un’annebbiata rassegnazione aveva finalmente preso
il posto del terrore, ed ogni cosa perse significato in una misericordiosa
pace; tutto si spense.
…
“Mikey!” Raffaello corse verso la vasca, sguainando le sue
armi. Con orrore, guardò il fratello che si dibatteva e si contorceva, con le
mani alla gola, gli occhi ruotati verso l’alto e la bocca aperta come in un
urlo sofferente. “No! Mikey!”
Iniziò a battere i suoi sai contro il vetro, a malapena
consapevole dei suoi fratelli che avevano anche loro raggiunto la vasca. In una
furia di rabbia e panico, portò più e più volte le punte affilate delle sue
armi contro la parete della teca, ma non riuscì neppure a scalfire lo spesso
cristallo.
Anche Leonardo assestò un paio di colpi al vetro con le tsuka delle sue katana, cercò invano di
incuneare le lame nei profilati di ferro, che correvano lungo gli angoli della
vasca, per forzarli via, quindi iniziò a guardarsi convulsamente intorno, alla ricerca di un oggetto pesante.
Vide i grossi tubi che partivano dalla vasca ed iniziò ad accanirsi con le sue
spade contro di essi: la plastica nera era semplicemente il rivestimento di un
altro materiale stratificato in una sorta di tessuto di fili di acciaio e
resina, e le lame lo incidevano ma non riuscivano a tagliarlo. Gettò le sue
inutili armi per terra e si lanciò contro uno dei tubi, iniziando a tirare per
staccarlo dalla vasca, ma nonostante tirasse con tutta la sua forza, grugnendo
e sbuffando per lo sforzo, non riuscì a strapparlo dalla saldatura allo spesso
cerchio di ferro che lo teneva attaccato al vetro.
“Donnie! Fai qualcosa! Donnie!” urlava disperato Raffaello,
continuando a colpire il vetro. I movimenti del mutante con la maschera
arancione si stavano facendo sempre più lenti; le palpebre calavano a chiudere
i grandi e velati occhi azzurri.
Donatello continuò ad ispezionare freneticamente la vasca,
cercando di non guardare il fratello agonizzante all’interno, ormai a pochi
pollici da lui, eppure ancora irraggiungibile.
“Il cristallo è troppo spesso.” Corse concitatamente le mani
sul vetro, esaminandolo, e sui profilati. “Devo forzare la chiusura!”
Il coperchio era fissato alla vasca tramite un bordo di
ferro più largo di quello che correva lungo tutti i bordi, ed in un punto era visibile
la presenza di una serratura.
Donatello si chinò verso la borsa che aveva lasciato lì a
fianco, per prendere i suoi strumenti e salire sul tetto della vasca.
“Mikey…” ansimò Leonardo, che aveva lasciato cadere il tubo,
incapace di staccarlo o romperlo ed inoltre consapevole che a questo punto era
diventato inutile svuotare la vasca e che occorreva piuttosto tirare fuori il
fratello. Appoggiò le mani contro il vetro, quasi paralizzato dall’orrore. Michelangelo
aveva smesso di muoversi e galleggiava a mezz’acqua, le mani si erano staccate
piano dal suo collo e le braccia si erano aperte lentamente, inerti. Il più
giovane dei fratelli Hamato era pallido e floscio, con gli occhi mezzi chiusi,
esanime.
Donatello rovistò con foga nella borsa, gettando via senza
cura ciò che era al momento inutile, e tirò fuori gli strumenti che gli
servivano; fece affidamento a tutto il suo allenamento ninja per impedire alle
sue mani di tremare. Adesso, tutti contavano su di lui. Anche Raffaello aveva
smesso il suo martellare ed era cascato in ginocchio, ansante, rivolgendo a
Donatello un silenzioso appello con gli occhi.
Il mutante mascherato in viola si rialzò in piedi e si riaccostò
al vetro. Doveva fare in fretta. Rifiutò di pensare che Michelangelo fosse
annegato. Doveva tirarlo fuori di lì: poteva ancora salvarlo. Doveva salvarlo!
Mise da parte la sua amata logica, che stava iniziando a calcolare quanto
fossero basse le probabilità che un corpo in quelle condizioni potesse tornare
a vivere, e si concentrò freddamente sull’azione. Con gli strumenti in mano,
fece per salire sulla gabbia, ed aveva quasi poggiato la punta del piede sul
basamento, che sporgeva di un paio di pollici oltre il vetro ed alzava un po’
la struttura dal pavimento.
Ma quella stessa logica improvvisamente urlò al suo cervello
di fermare ogni movimento. Per un secondo restò bloccato, chiedendosi cosa
fosse quella sensazione di sbagliato che stava percependo.
Poggiò nuovamente il piede e terra e si allontanò di un
passo dalla teca, tagliando fuori la presenza dei due fratelli maggiori che riversavano
su di lui l’angoscia dell’attesa in ondate quasi fisiche. Tagliò tutto fuori e
si concentrò a focalizzare il pensiero.
Veloce e metodico, il suo cervello geniale iniziò a
ripercorrere tutti gli avvenimenti di questa tremenda notte, calcolò le
variabili, analizzò l’ambiente.
Inclinò leggermente la testa di lato, guardò ancora la vasca.
“Donnie?” fece Leonardo, esitante, e quindi scambiò uno
sguardo interrogativo con Raffaello e si mosse anche lui per salire sul coperchio
della teca. A questo punto Donatello sembrò riprendersi dai suoi pensieri per
urlargli contro.
“No! Non salire!”
Leonardo congelò ogni movimento, sempre più confuso.
Donatello continuava a non muoversi. C’era qualcosa, qualcosa
di sbagliato, di tremendamente sbagliato, ma cosa?
La sensazione di aver tralasciato un particolare importante,
la stessa sensazione che aveva provato in laboratorio mentre cercava di
rintracciare il magazzino, si era amplificata ed aveva assunto i toni rossi di
un allarme.
Nella sua mente, vorticosi, pensieri e deduzioni presero a
sommarsi, scontrarsi ed infrangersi gli uni contro gli altri. Cercò l’errore,
la falla nel sistema.
Il messaggio sul tetto. La corsa al covo. L’indirizzo IP. La
fonte del segnale, difficilmente rintracciabile. Ma non impossibile, se
sarebbero bastate un paio d’ore ed un modesto computer portatile: lui avrebbe
fatto di meglio ad occhi chiusi. Il cuore prese a battere ancora più forte.
Anche i programmatori di Shredder potevano fare di meglio… Qualcosa non va, qualcosa non va… E se Shredder sapeva che
sarebbero arrivati qui, in poche ore al massimo, perché non c’erano i suoi
uomini ad aspettarli? Quel mostro si sarebbe accontentato di uccidere solo uno
di loro, lasciando gli altri liberi di raccogliere il corpo? Perché? Qualcosa non va …
Poi, improvvisamente, capì.
La comprensione dilagò, violenta e crudele, e lo atterrì.
“Non può essere…” Scosse lentamente la testa, con gli occhi
sbarrati; si riavvicinò alla vasca, girò lentamente intorno ad essa e si gettò
in ginocchio vicino ad una delle pareti.
Raffaello e Leonardo gli furono subito a fianco.
“Cosa diavolo stai facendo? Dobbiamo tirarlo fuori di lì!”
sbraitò il rosso, con lo sguardo allucinato, quasi fuori di sé, indicando
Michelangelo, e fece per agguantare Donatello da una spalla quando Leonardo lo
fermò, bloccandolo per un braccio.
“Che succede, Donnie?” chiese il blu, forzatamente calmo.
Donatello rispose alzando la mano e facendo un gesto con un
dito, di dargli un attimo, e teso in concentrazione prese ad armeggiare per
forzare via la parte laterale del basamento. Voleva essersi sbagliato, voleva
aver avuto un’intuizione errata, dettata dalla scarsa lucidità indotta dal
panico. Mai in vita sua aveva desiderato maggiormente di essere caduto in
errore.
Il pannello di ferro cedette sotto il cuneo nelle mani del
mutante.
Non si era sbagliato.
“No.” Lasciò cadere gli strumenti e portò le mani alle
tempie, agghiacciato. “No no no no.”
Un’apparecchiatura era incassata in un reticolo di sbarre nella
struttura metallica del basamento. Era poco più piccola di una scatola da
scarpe; tre fili neri partivano dalla cassettina verso la parte superiore del
basamento stesso.
Sul congegno, una lucina rossa lampeggiava, ipnotica.
“Una bomba…” Raffaello confermò l’ovvio, con un roco sussurro
angosciato.
Donatello annuì lentamente. “Un sistema a rilascio di
pressione. Si attiverà appena il peso nella vasca diminuisce. Non possiamo tirare
fuori Mikey.”
Leonardo deglutì, la gola improvvisamente troppo asciutta. Per
fortuna non era riuscito a staccare quel tubo. “Puoi… puoi disinnescarla?”
Donatello sfiorò la scatola ed i fili, alzò lo sguardo un
attimo al corpo immobile del fratello minore nell’acqua, ritornò a guardare la
bomba.
“Non posso aprirla, è saldata, ci
vorrebbe troppo tempo… Però
c’è…” Prese un profondo respiro.
“C’è una buona probabilità che tagliando uno
di questi tre fili si escluda il sistema di innesco.”
“Buona probabilità?”
“Quasi sicuro… sì. Sì, uno dei fili interrompe il circuito
senza attivare la detonazione.”
Leonardo si avvicinò a guardare i tre fili neri che
Donatello stava toccando con le dita. Erano identici. Ebbe paura a chiedere.
“Quale dei tre?”
Donatello scosse piano la testa.
“Non lo so. Sono indistinguibili,” mormorò laconicamente, la
voce un sussurro così flebile che era quasi impercettibile.
Per alcuni lunghi, interminabili secondi tutti e tre i
fratelli guardarono in silenzio la funesta lucina rossa. La tensione nel
magazzino divenne pesante come una cappa di piombo.
Poi Donatello si alzò di colpo in piedi e si diresse nuovamente
verso la sua borsa.
“Bene. La carica non dovrebbe essere sufficiente a fare
danni al di fuori del magazzino.” Si chinò e prese un paio di tronchesine. “Tu e
Raph aspettate fuori mentre io taglio uno dei fili…”
“Che cosa? Hai intenzione di tagliare un filo a caso?” lo
interruppe Raffaello, inferocito. “Sei pazzo! Trova un’altra soluzione!”
“Non c’è tempo!” urlò a sua volta il viola, alzando la mano
verso Michelangelo. Si rivolse a Leonardo. “Uscite, vi prego! Adesso!” implorò,
con la voce stridula dalla paura e lo sguardo lucido.
Il blu era rimasto stranamente tranquillo, a fissare la
bomba e quei tre esiziali fili. Annuì e si alzò in piedi anche lui. “Hai
ragione, è l’unica soluzione.”
Poi si volto verso Raffaello e prima che questi, furioso, aprisse
bocca, gli mise una mano sulla spalla.
“Raph, andate fuori di qui.”
“Cosa? No!” Donatello fece istintivamente un passo lontano
da loro.
Leonardo però rivolse tutta la sua attenzione a Raffaello.
Adesso i due fratelli si guardavano negli occhi. I blu del leader, freddi come l’acciaio,
ed i verdi del secondo maggiore, ardenti come fiamme.
“Raph, se perdiamo tempo a discutere, Mikey è morto. Porta
Donnie al sicuro fuori da quella serranda.”
“No, tu…”
“Adesso!” ruggì Leonardo.
Gli occhi di Raffaello, se possibile, si ampliarono ancor di
più di rabbia e spavento. Di urgenza e indecisione. Valutò, in pochi attimi, se
avesse potuto sopraffare velocemente Leonardo e Donatello e portarli entrambi
fuori per tagliare lui quel maledetto filo. Ma sapeva che ci sarebbe voluto
troppo tempo e che Mikey non respirava, Mikey era… era annegato da ormai un
paio di minuti. Non sarebbe servito a nulla neppure sprecare parole per cercare
di convincere Leo a lasciare insieme a Donnie.
Raffaello era focoso, impulsivo, irascibile, ma non era
stupido. Leo non avrebbe ceduto. Mikey non aveva tempo. Doveva fare l’unica
cosa giusta. Tre le uniche possibilità che gli si paravano davanti. Le prime
due, agghiaccianti: la morte di uno o di due fratelli.
Rifiutò di prenderle in considerazioni. L’unica scelta
logica era la terza possibilità: lasciare ora, subito, e sperare, sperare nel filo giusto, sperare che nonostante tutto non
fosse lo stesso inutile per Michelangelo. Donatello avrebbe pensato in termini
di statistica; egli invece ascoltò solo il suo cuore.
Non pensò più a niente. Se avesse pensato ancora, non si
sarebbe mosso di lì. Se avesse indugiato un altro secondo a guardare gli occhi
blu di suo fratello maggiore, ad ipotizzare di non vederli più, a concepire
come sarebbe la sua vita con solo metà della sua famiglia, non avrebbe avuto il
coraggio di lasciare.
Con un movimento repentino balzò verso Donatello. Lo afferrò
per la vita, lo alzò da terra e si mise a correre verso l’uscita. Il mutante
più magro gridò, lasciò cadere le tronchesi per forzare via le braccia del rosso,
lanciò un paio di maledizioni e cercò disperatamente di divincolarsi, ma niente
poté fare contro la presa d’acciaio del fratello più forte di lui, non senza
ferirlo seriamente.
Inoltre, si diede per vinto ancor prima di raggiungere
l’uscita, ben consapevole che a questo punto ostacolare i piani di Leonardo non
sarebbe servito ad altro che a perdere ulteriore tempo prezioso. La rabbia
oscurò per un secondo ogni altra sensazione ma si ridusse subito come la
vampata di un fiammifero: fosse stato in Raph avrebbe fatto la stessa cosa, e
capì che Leo aveva ordinato a Raph di portarlo in salvo e non viceversa solo
perché lui non ce l’avrebbe fatta a prendere così di peso il fratello più forte
e pesante. Questo non toglieva il senso di profondo tradimento ed il
risentimento che provò verso i sui fratelli, soprattutto Leonardo, per averlo
trattato in questo modo. Aveva parlato di lui come se non fosse presente, aveva
preso decisioni per lui come se non fosse un ninja suo pari. Si sentì umiliato
oltremisura.
In ogni caso, adesso questi pensieri lampeggiarono appena e
si fecero subito da parte, sopraffatti dall’orrore dell’ipotesi di perdere due
dei suoi fratelli di lì a qualche secondo. Non oppose resistenza quando,
oltrepassata la serranda, Raffaello svoltò di lato, lo scagliò a terra, contro
il muro esterno del magazzino, e gli si gettò di sopra; soffocato sotto il piastrone
e tra le braccia di Raffaello, trattenne il respiro per quelli che avrebbe
ricordato a lungo come i secondi più lunghi della sua vita.
I fratelli non erano ancora scomparsi dalla sua vista quando
Leonardo aveva già afferrato le tronchesi e si era gettato in ginocchio
dinnanzi all’ordigno. Aldilà della vasca di vetro, la videocamera continuava a
riprendere.
Il suo maestro lo stava guardando.
Probabilmente, avrebbe dovuto alzare almeno lo sguardo,
dargli un cenno rassicurante, un saluto silenzioso che avrebbe potuto essere
l’ultimo.
Ma sapeva che suo padre avrebbe letto nei suoi occhi la
paura che lo stava attanagliando in questo momento. Raffaello lo prendeva
sempre in giro, chiamandolo Senzapaura.
Eppure Leonardo aveva spesso paura. Al momento, non era altro che terrorizzato.
Avvicinò le tronchesi ai fili. La morte aveva due
possibilità su tre. La sua vita sarebbe forse finita in un istante. Peggio
ancora, avrebbe ucciso anche Mikey.
Prese un profondo respiro, ma la gola era stretta. La mano,
inaspettatamente, prese a tremare; il suo istinto alla sopravvivenza era forte.
Circondò con le lame dello strumento il filo più in alto. Chiuse gli occhi e
strinse l’impugnatura. Le lame si congiunsero.
…
Splinter rimase a lungo seduto davanti al monitor che ormai mostrava
solo una statica finestra grigia.
Ma nella sua mente, le immagini ed i suoni della
trasmissione, impressi con forza, si riproponevano più e più volte.
Avrebbe giurato di aver sentito anche il clic prodotto dalle piccole tronchesi
mentre recidevano il filo della bomba. Ma era poco probabile che l’audio della
videocamera avesse potuto catturare anche quel piccolo suono.
Il maturo mutante si alzò in piedi, sorreggendosi al bastone;
si sentiva spossato come dopo una lunga battaglia. Strinse un attimo gli occhi,
prese un lungo respiro.
La videocamera aveva catturato però chiaramente l’intonazione,
ancora vibrante di paura ma forte di sollievo, del grido con cui Leonardo aveva
richiamato i suoi fratelli. E le loro parole frenetiche, gli ordini concitati
di Donatello, mentre avevano aperto il coperchio della trappola e tirato fuori
Michelangelo.
Raffaello si era tuffato nell’acqua gelida, afferrando il
fratello annegato, l’aveva spinto su, verso le braccia tese di Donatello, in
piedi sopra il guscio di Leonardo. Il corpo di Michelangelo si era mostrato
molle e dinoccolato, pallido e tumido, tra le braccia dei fratelli; flaccido e
senza vita.
Splinter non aveva potuto vedere altro che i piedi del
figlio minore, dopo che questi era stato delicatamente adagiato per terra,
fuori dall’inquadratura, per le manovre di soccorso. Il maturo mutante si era
sentito intorpidito, ogni sensazione come avvolta nel ghiaccio. Aveva ascoltato
la fredda diagnosi di Donatello, che non sentiva il battito, le maledizioni con
voce rotta di Raffaello e le preghiere mormorate di Leonardo, mentre i piedi
senza vita nell’inquadratura restavano immobili, durante i lunghissimi, infiniti
minuti durante i quali Donatello aveva praticato le tecniche di rianimazione
cardiopolmonare alla tartaruga inerte. Il tempo si era dilatato in un’irreale
dimensione d’angoscia, ed un padre non aveva potuto far altro che pregare.
Il ratto mutante si allontanò dalla scrivania. Le gambe
erano più stanche di quanto avesse mai ricordato. Forse, pensò, la vecchiaia
non sarebbe venuta dal corpo, dalle ossa, dai muscoli, ma piuttosto dallo
spirito; sarebbe arrivata alle sue spalle, come un’ombra, per sussurrare
nell’orecchio canzoni di morte.
Gli andava bene. Era il naturale corso della vita, l’eterno
fluire dell’esistenza. A patto che la
morte non toccasse i suoi figli.
Quando lo Shellraiser arrivò sui binari davanti alla
serranda del laboratorio, il maestro ninja era già lì, avendolo sentito da
lontano. Le porte si aprirono, col consueto irriverente dling, ed i suoi ragazzi ne uscirono fuori.
Tra Leonardo e Raffaello, che lo sorreggevano, c’era
Michelangelo, avvolto in una coperta isotermica.
Il mutante con le lentiggini era aggrappato ai fratelli, che
lo sostenevano da sotto le braccia, portando la maggior parte del peso; eppure,
camminava con le sue gambe, seppur lentamente. Leonardo teneva con una mano
anche una piccola bombola di ossigeno.
Michelangelo alzò lo sguardo al padre, e da dietro la
maschera d’ossigeno, sorrise. Splinter si domandò se esistesse al momento
nell’universo qualcosa di più meraviglioso; talmente radioso da scaldare all’istante il
suo cuore e rischiarare tutta la loro casa qui nel sottosuolo di New York.
Come se stringessero qualcosa di estremamente fragile e
prezioso, avanzando piano e con attenzione, i due fratelli maggiori condussero
Michelangelo verso il lettino che si trovava nella parte del laboratorio
adibita ad infermeria.
“Fatelo sdraiare” ordinò Donatello, passando davanti.
“Come sta?” gli chiese Splinter, accorso a fianco dei figli.
Insieme, aiutarono Michelangelo a sedersi sul lettino, quindi Donatello con
delicatezza ma con fermezza lo fece distendere.
“Voglio tenerlo sotto controllo e monitorare il cuore per
qualche ora; è tachicardico, ma dovrebbe passare presto. E voglio ascoltare se i
polmoni lavorano come dovrebbero: fosse stato un umano l’acqua avrebbe quasi
sicuramente rovinato gli alveoli; credo lo abbia salvato essere per metà
tartaruga. Se scongiuriamo una polmonite, direi che sì, starà bene. Sarà
dolorante per qualche giorno, ha il piastrone lievemente incrinato… per… umh…”
Donatello rilasciò un profondo respiro, e fece un gesto vago con le mani.
“Inoltre è ancora in ipotermia, l’acqua era gelida.” Si allontanò dal lettino e
prese ad armeggiare nell’armadietto dove teneva le forniture mediche. “Per questo
ha resistito così a lungo senza respirare, il freddo ha rallentato il suo
metabolismo.”
Michelangelo si scostò la mascherina dal viso.
“Nuovo record!”gracchiò, e fece un sorriso furbo. “Quanto
tempo?” chiese, prima di iniziare a tossire violentemente. Nonostante l’aria da
guascone, il suo volto era ancora tirato e stanco.
“Rimetti la mascherina!” gli urlò Donatello da dietro l’anta
dell’armadietto.
Leonardo e Raffaello si guardarono, indecisi su cosa
rispondere, perché no, non avevano proprio contato il tempo e no, Michelangelo
non aveva resistito in apnea, ma vi era proprio morto, almeno per qualche
minuto. Leonardo rabbrividì al pensiero; Raffaello se ne accorse e capì il
perché: si sentiva esattamente allo stesso modo. Anche se il peggio era ormai
alle spalle, la sensazione di sollievo non aveva ancora scacciato del tutto i residui
dell’angoscia provata. Il tremendo ricordo di questa esperienza li avrebbe
accompagnati a lungo.
“Più di mezz’ora, figlio mio. Sei stato molto bravo, sono
fiero di te.” Splinter mise una mano sulla spalla del suo ragazzo più giovane; l’argentata
coperta isotermica scricchiolò.
Michelangelo ridacchio da sotto la maschera.
“Sono incartato come un cioccolatino.”
Raffaello sbuffò, con un sorriso.“Non sarà troppo
l’ossigeno?”
“No, Raph.” Donatello aveva portato alcuni flaconcini e dell’attrezzatura
medica e li stava poggiando sul carrello vicino al lettino. “È una miscela
respiratoria con appena un po’ più ossigeno dell’atmosfera.”
La tartaruga con le lentiggini ridacchiò ancora più forte, e
borbottò qualcosa di incomprensibile su gattini gelato.
“Beh, forse un bel po’ di più” fece il viola, imbarazzato, alzando
le spalle e rimuovendo la mascherina dal volto del fratello; quindi indossò gli
auricolari dello stetoscopio.
…
L’alba riversava la sua luce dorata, fin dalla superficie,
lassù in alto, attraverso la presa d’aria sopra il grande albero del dojo.
Splinter si era già alzato, nonostante non avesse dormito
che un paio d’ore. Era adesso davanti la porta aperta della camera di
Michelangelo.
Per terra, all’interno della stanza, c’era un caotico
agglomerato di materassi, coperte, cuscini e adolescenti mutanti. Splinter
sorrise. Piano, per non svegliare i ragazzi, si avvicinò e sistemò una coperta
scivolata giù dal guscio di Donatello, allontanò di qualche piede le sai che
Raffaello aveva poggiato per terra al suo fianco e osservò ancora una volta
l’occhio nero sul volto di Leonardo; riguardo a questo piccolo infortunio aveva
una sua ipotesi, supportata dagli sguardi bassi ed imbarazzati che Donatello
aveva rivolto all’ecchimosi del fratello dopo che erano ritornati nella tana.
Si accostò infine a Michelangelo. L’adolescente mutante,
senza maschera, respirava rumorosamente dalla bocca socchiusa; aveva
un’espressione così vulnerabile, con i muscoli del viso rilassati dal sonno, le
lentiggini visibili anche nella penombra della stanza. Sembrava ancora un
bambino. Eppure, si era comportato come il vero coraggioso ninja che era, e
Splinter non aveva affatto esagerato, quando gli aveva detto di essere fiero di
lui.
Quasi come se si sentisse osservato, Michelangelo si mosse
nel sonno, mugugnando piano e sistemando la testa sul braccio del fratello più
vicino. Sul collo della tartaruga più giovane erano adesso ben visibili i lividi
che lui stesso si era procurato durante la frenesia dell’annegamento. Il sorriso
sul volto di Splinter si spense.
Qualche ora prima, dopo l’euforia da ossigeno, Michelangelo
era apparso molto provato. Aveva rivolto frasi scherzose a Donatello mentre
questi lo visitava e si era sforzato di mostrarsi allegro con gli altri fratelli
e con il padre, ma Splinter aveva visto chiaramente quanto il figlio fosse
esausto e profondamente turbato dall’esperienza. Durante il racconto di
Leonardo su come si fossero svolti i fatti della serata, lo sguardo azzurro del
mutante più giovane si era perso, vuoto e smarrito, a contemplare il liquido di
una flebo che Donatello aveva ritenuto di dovergli somministrare.
Pensieri funesti, di rabbia, rancore e vendetta,
attraversarono la coscienza di Hamato Yoshi. Ma, con disciplina, li scacciò in
una gabbia in fondo alla sua mente, come draghi ruggenti; il suo animo si
rasserenò ancora una volta, placato dall’amore e dall’orgoglio che provava verso
questi suoi quattro giovani guerrieri.
Silenzioso come le ombre stesse della tana, scivolò fuori
dalla stanza.
La città sopra le loro teste, come sempre ignara, iniziava a
svegliarsi.
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