La trappola di vetro

di LaraPink777
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte prima ***
Capitolo 2: *** Parte seconda ***
Capitolo 3: *** Parte terza ***



Capitolo 1
*** Parte prima ***


La trappola di vetro 1

 

 

“Till it broke up and it rained down

It rained down, like...

Pain!”

Imagine Dragons, Believer

 

 

 

Il ritorno alla coscienza fu lento e poco piacevole.

La tartaruga mutante sbatté un paio di volte gli occhi e poi, a fatica, li aprì del tutto. Tra palpebre aperte e chiuse la differenza tuttavia era poca: con gli occhi aperti vide appena qualche vaga sagoma scura, solo sfumature grigie in un mondo per il resto desolatamente nero.

E poi, appena apparse, le deboli forme scomparvero. Nell’ambiguo regno tra il sonno e la veglia, il tempo di chiedersi se avesse davvero visto qualcosa, quando le ombre si ripresentarono alla vista. E poi tutto fu buio di nuovo…

Ancora stordito, il giovane mutante si sforzò di interpretare ciò che gli occhi stavano cogliendo e di dare un senso logico alle sue percezioni confuse. Non era, evidentemente, a casa nel suo letto, bensì seduto per terra, con le ginocchia piegate e con il guscio appoggiato ad una parete fredda e dura. L’aria stessa era fredda. Nel silenzio assoluto, il mutante non udiva alcun suono al di fuori del suo stesso respiro. Intorno a lui, in uno strano pulsare di nero e grigio, nella penombra intravedeva appena un ambiente del tutto estraneo. Forme squadrate si accavallavano fino in alto; torri corvine contorte si distinguevano a stento, andavano e venivano, in palpiti che inspiegabilmente mostravano e celavano, davanti ed intorno a lui.

Dov’era? Cos’era successo?

Lentamente, alzò una mano e l’avvicinò alla fronte dolorante: con dei tocchi esitanti ispezionò la sua povera testa, dalla fronte alle tempie e poi più indietro; sibilò quando le dita sfiorarono un bozzo sulla nuca che, umido e caldo, sembrava quasi pulsare sotto il suo battito cardiaco.

L’adolescente cercò di distendere le gambe ma, inaspettatamente, incontrò subito un ostacolo. Allungò la mano dinanzi a sé e sentì qualcosa di liscio e duro a poca distanza dal suo piastrone. Si guardò intorno, sforzando ancor di più gli occhi a distinguere qualcosa e girando lentamente la testa, quindi tese anche l’altra mano verso le ombre. Sfiorò nuovamente la fredda superficie liscia.

Sembra vetro.

Sì, vetro o qualcosa del genere. Accarezzò la superficie con i polpastrelli e batté un paio di volte le nocche per accertarsene. A tentoni, ispezionò la parete, correndo con le dita callose fino all’angolo, proseguì alla sua destra e poi portò le mani sulle parete opposta, a sinistra. Quindi controllò alle sue spalle, toccando il vetro dietro al suo guscio.

Si trovava seduto tra quattro pareti di cristallo.

A fatica, adagio, si alzò in piedi; per l’ondata di nausea che ne seguì dovette appoggiarsi con entrambe le mani alle pareti, reprimendo un conato di vomito. Aveva preso proprio una bella botta in testa…

La giovane tartaruga inalò bruscamente una boccata di aria fredda all’improvviso flashback di ciò che era successo. Era stato colpito! Aveva ricevuto un colpo in testa, da un nemico alle sue spalle. Adesso ricordava tutto. Era uscito a prendere la cena da Murakami, quando, su un tetto non lontano dal piccolo ristorante giapponese, si era ritrovato completamente circondato da figure nere.

Stagliati contro il cielo, sui tetti intorno a lui, si erano materializzate decine di bot ninja. Aveva fatto appena in tempo a tirar fuori il t-phone, e comporre il numero di suo fratello Leonardo, quando aveva dovuto usare la stessa mano che reggeva il telefono per fermare una lama diretta dritta dritta alla sua faccia. Beh, meglio il t-phone che la mano, rifletté al ricordo, e per fortuna aveva potuto inviare la chiamata. Con un altro po’ di fortuna suo fratello avrebbe sentito lo squillo e tentato di richiamarlo subito, quindi poi avrebbe provato a rintracciarlo col sistema di rilevamento della posizione.

Aveva sperato anche, nell’ipotesi che Leo non avesse sentito la chiamata, che sarebbe stato magari Raffaello, l’altro suo fratello, a cercare di contattarlo a prescindere; quest’ultimo infatti, quando aveva lo stomaco in attesa della cena, tendeva ad essere molto consapevole del passare del tempo e più di una volta gli aveva telefonato sulla via del ritorno per appena una decina di minuti di ritardo sull’orario previsto dal suddetto stomaco.

In ogni caso, i soccorsi non erano arrivati in tempo e, nonostante l’impressionante abilità ninja di cui era solito autocompiacersi, trovarsi a combattere da solo contro una cinquantina di infaticabili guerrieri meccanici era stato troppo anche per lui. Alla fine, quando aveva decimato gli avversari, ma la stanchezza aveva inevitabilmente iniziato a farsi sentire, un colpo fortunato l’aveva sorpreso da dietro; il giovane mutante aveva sentito un acuto dolore alla testa e subito era arrivato il buio.

Le cose a questo punto non promettevano niente di buono. Adesso non ci sarebbe voluto un genio come il terzo dei suoi fratelli, Donatello, per capire di essere seriamente nei guai.

Michelangelo sospirò e iniziò ad esaminare più attentamente la sorta di teca gigante nella quale si trovava ed il mondo scuro al di fuori di essa. Nell’ambiente al di là del cristallo qualche lieve riverbero di luce entrava, ad intervalli regolari, da delle finestrelle situate parecchi piedi in alto, e permetteva appunto di intravedere delle forme confuse nel suo andare e venire. Forse la gabbia si trovava all'interno di un ambiente molto grande, ma non poteva individuarne i limiti, che sfumavano nel buio totale.

La cassa di vetro, invece, era alquanto piccola, tanto da non riuscire ad aprire completamente le braccia. In basso, su un lato, trovò quattro fori, troppo stretti perché potesse passarci la mano. Non riusciva a vedere se la teca fosse aperta nella parte superiore; sicuramente il pavimento era di vetro anche sotto ai suoi piedi. Per saggiare l'altezza della cassa, provò a fare un saltello. La mano sfiorò il vetro a circa tre piedi dalla sua testa.

Nel forte capogiro che seguì il piccolo balzo, la comprensione gli fece accelerare i battiti del cuore. Era chiuso in trappola. Qualcuno, e per qualcuno intendeva qualcuno degli uomini di Shredder, l’aveva trasportato fin qui e messo in gabbia. Sigillato in una bacheca di vetro come un action figure da collezione. Sperava almeno che i fori in basso servissero per l’aerazione. Li ispezionò infilandoci le dita, ma non sentiva nient’altro che il freddo contatto del cristallo.

La tartaruga mutante adolescente si lasciò sfuggire un altro sospiro. Questa situazione gli piaceva sempre meno. Doveva uscire subito da qui.

Cercò i suoi nunchaku alla cintura, ma, com’era da aspettarsi, non li aveva più con sé. Ispezionò le piccole tasche interne: niente shuriken, presi anche quelli. Stessa sorte alla lama che portava sotto le coperture del polso sinistro. Tutte le armi gli erano state prese. Oh bene, aveva ancora i suoi pugni. Tirò indietro un braccio e prese un profondo respiro.

Stava per iniziare a testare la resistenza del cristallo a colpi di nocche ben assestati, quando, improvvisamente, una luce abbagliante si accese davanti a lui.

Michelangelo chiuse subito gli occhi, accecato; la luce, rosa sotto le palpebre, dava fastidio anche così. Attese qualche secondo per abituarsi, quindi riaprì con cautela gli occhi, schermandoli parzialmente con una mano.

Il mondo intorno a lui si era adesso rivelato.

Si trovava all'interno di un grande magazzino, con alti soffitti in lamiera dotati di piccoli lucernari sporchi. Intorno alla gabbia, centinaia di casse da imballaggio si accastellavano disordinatamente, alcune in alte colonne che sfioravano il soffitto. Diverse serrande di ferro s’intravedevano, chiuse, lungo una delle pareti; delle targhette segnaletiche e delle stampe di servizio marchiavano i muri di cemento. Alcuni muletti giacevano fermi tra le casse di legno.

Il magazzino sembrava completamente deserto.

La sua prigione di vetro era situata nel mezzo del magazzino, lontana dalle pareti e dalle casse, posizionata su una sorta di basamento scuro, forse di ferro, alto una decina di pollici e poco più largo del contenitore stesso. Adesso poteva vedere che, in basso, all’altezza delle sue caviglie, ai quattro fori nel vetro erano collegati all’esterno dei tubi neri che correvano lungo il pavimento polveroso fino a perdersi dietro un mucchio di casse.

Appena fuori la sua piccola cella di cristallo, un faretto si era acceso puntando verso di lui. Lì accanto, su un treppiedi, una videocamera accese la sua lucina rossa.

(Poco prima)

La notte immobile fu tranciata da tre figure che balzavano tra i palazzi, ombre tra le ombre.

Leonardo atterrò sul tetto, un attimo prima dei suoi fratelli. Raffaello e Donatello arrivarono con la stessa agilità, silenziosi, ai suoi fianchi.

“Il posto è questo," disse la tartaruga mutante mascherata in viola, controllando il proprio t-phone.

Raffaello estrasse i suoi sai, procedendo con attenzione sul terrazzo del vecchio edificio fatiscente. Leonardo si inginocchiò, sfiorando con un dito una macchia d'olio. Alzò gli occhi ad incontrare quelli di Donatello, che come lui aveva notato le piccole chiazze di liquido, i detriti metallici e i segni sul cemento del tetto.

“Bot ninja," confermò il viola annuendo. Si accosciò e toccò l’olio. Era tiepido, contro il cemento freddo del tetto. Nell’aria era ancora avvertibile l’odore dei fluidi dei circuiti meccanici tranciati nella lotta.

“Appena pochi minuti fa,” aggiunse. Questa volta fu Leonardo ad annuire.

“Qui!” chiamò Raffaello, facendo segno con una mano e raccogliendo qualcosa da terra. Mostrò ai fratelli accorsi al suo fianco ciò che aveva trovato: il t-phone rotto ed un foglietto di carta. Ai suoi piedi, giacevano incrociati i nunchaku di Michelangelo.

“Era sotto il telefono," disse il rosso porgendo il foglio al leader.

Sulla carta non vi era nient'altro che una doppia serie numerica, su due righe: la prima serie più lunga e divisa in quattro blocchi.

“Cosa significa?” grugnì Raffaello, guardandosi intorno. “Dov’è Mikey?”

Leonardo lesse il foglietto e lo passò a sua volta alla tartaruga mascherata in viola, che iniziò a studiarlo attentamente. I due fratelli maggiori lo guardarono in attesa per qualche secondo, sperando che Donatello potesse capire subito il significato del messaggio, ma evidentemente anche al mutante geniale così su due piedi quei numeri non dicevano niente.

“Diamo ancora un'occhiata in giro, anche sugli altri tetti,” ordinò quindi Leonardo, sforzandosi di suonare più calmo di quanto si sentisse. “Donnie?”

Donatello annuì, alzò lo sguardo dal foglio e si guardò di nuovo intorno, con i grandi occhi nocciola larghi d'ansia, soffermandosi su un pezzetto strappato di tessuto nero attaccato ad una macchia d'olio ai suoi piedi. Deglutì. Guardò un attimo Raffaello, poi Leonardo.Tutti avevano capito, non c’era bisogno di dirlo ad alta voce.

Michelangelo era stato catturato da Shredder.

Nella tana, Splinter sedeva a gambe incrociate nel dojo, sotto il grande albero. Non stava meditando; semplicemente, aspettava.

Quando prima era squillato il telefono di Leonardo, il ratto mutante che era stato Hamato Yoshi stava giocando a scacchi proprio col figlio maggiore. Leonardo si era scusato col padre e maestro, aveva tentato di richiamare più volte il fratello, quindi era andato in laboratorio da Donatello. In pochi minuti, scambiandosi solo qualche direttiva concitata, le tre tartarughe mutanti erano corse subito fuori dalla tana ed il loro sensei era rimasto ancora una volta ad aspettare.

Splinter strinse gli occhi e si concentrò per reprimere sul nascere un sentimento di rabbia e sconforto. Evidentemente, per i suoi ragazzi, anche salire in superficie per prendere la cena non era un'azione priva di rischi.

Un lieve rumore di passi in arrivo attirò la sua attenzione; le grandi orecchie si girarono verso quella direzione ed il maturo mutante si alzò in piedi: i suoi figli erano di ritorno. Splinter arrivò nella grande sala centrale, dove c’era l’ingresso, mentre le tartarughe stavano balzando sui tornelli per entrare. Donatello corse direttamente verso il suo laboratorio, esaminando concentrato il foglio che stringeva in mano; Raffaello e Leonardo si accostarono al loro maestro.

Leonardo prese un profondo respiro ed iniziò a fare la sua relazione in fretta.

“Hanno preso Mikey, Sensei. Ci hanno lasciato un messaggio, un foglietto con dei numeri. Donatello sta cercando di capire di cosa si tratti.”

Il ratto mutante avvertì distintamente i peli della sua pelliccia drizzarsi sulla schiena, ma la sua espressione rimase impassibile.

“Chi…”

“Il Piede. Abbiamo visto su un tetto i segni di una lotta con i bot.”

Splinter annuì, serio, chiudendo appena un attimo gli occhi. Dovette chiedere, sapendo che Leonardo altrimenti avrebbe al momento omesso l’informazione.

“È stato ferito?”

Raffaello abbassò lo sguardo e mormorò una maledizione sotto voce, scuro in volto, con i pugni stretti.

“Non lo so, non abbiamo visto sangue, solo frammenti di corpi dei bot,” rispose il mutante in blu, e deglutì. “Hanno lasciato questi,” aggiunse, tirando fuori i nunchaku dalla cintura. “Ed il suo t-phone rotto.”

“Leo! Sensei!”

Leonardo aveva appena finito di parlare quando la chiamata dal laboratorio fece convergere velocemente tutti in quella stanza. Raggiunsero il viola, che si era seduto davanti al computer.

“È un indirizzo IP!” spiegò Donatello, digitando sulla tastiera. “E questa... molto probabilmente…”

Il padre ed i fratelli gli si strinsero intorno, fissando il monitor, che al momento visualizzava una finestra nella quale la tartaruga in viola stava inserendo i numeri.

“… è la password.”

Donatello premette Invio ed attese.

La finestra accettò il codice.

Per un paio di secondi tutti restarono fermi ed in silenzio, osservando lo schermo.

Poi, un'immagine grigia e tremolante si materializzò. Istintivamente tutti e quattro si avvicinarono al monitor, ma l'immagine era troppo scura per poter distinguere qualcosa. Forse c'era una forma al centro, che si muoveva…

“Cosa diavolo…”

Raffaello non fece in tempo a finire la frase che l'immagine si schiarì di colpo. Inalò rumorosamente.

Sul monitor adesso si vedeva bene Michelangelo che, chiuso in una gabbia di vetro, si schermava con una mano gli occhi dalla luce.

“C’è qualcuno? Gente?”

Il giovane mutante mascherato in arancione avvicinò il volto al vetro, appoggiandolo sulle mani messe a mo’ di visore.

“Ehi?” gridò ancora. “Ah, ho capito! Tartaruga, vasca di vetro… ah ah, divertente.”

Si allontanò dalla parete e fece un gesto sprezzante con una mano.

“E l’acqua e la piccola palma di plastica?”

Adesso, in effetti Michelangelo non è che avesse tutta questa voglia di scherzare. In realtà, se faceva lo spiritoso, lo faceva non perché fosse lo stupido che poteva sembrare, ma per due motivi più che validi. Primo, per distrarsi e calmare la sua stessa paura che iniziava a fargli battere il cuore in modo decisamente più veloce del normale. Secondo, perché dato che ovviamente lo stavano riprendendo, non voleva far trapelare al suo pubblico – ovvero nove su dieci il suo nemico stesso – la paura di cui sopra.

“Sentite, se mi lasciate libero subito prometto di non arrabbiarmi, okay? Vi assicuro che non volete vedermi arrabbiat…”

Interruppe il suo cianciare e si voltò di scatto al rumore che sentì propagarsi alle sue spalle, come un tuono. Si mise istintivamente in posizione di difesa. Ma intorno alla teca non c’era ancora niente. Abbassò lentamente le mani agli inutili agganci vuoti della sua cintura.

Il rombo aumentò d’intensità e sembrava venire dai fori in basso nella parete della gabbia. Michelangelo tese tutti i muscoli e sgranò i grandi occhi azzurri, attento. I tubi di plastica fuori dalla teca si mossero sul pavimento, dimenandosi e contorcendosi come grossi serpenti neri.

Improvvisamente da ognuno dei fori si riversò nella vasca un potente getto d’acqua.

Il mutante sussultò involontariamente quando i quattro spruzzi gelidi investirono le sue gambe. In pochi secondi, la teca si riempì di diversi pollici d’acqua, che entrava schiumando rumorosamente.

“Cosa? Ehi!” Fece un paio di saltelli e si girò nuovamente verso la telecamera. “Scherzavo, sull’acqua! Ehi!”

Urlò per superare il rumore dei getti, che rimbombava tra le pareti di cristallo. “Sto benissimo anche all’asciutto, grazie! E poi è un po’ freddina per il mio habitat!”

Batté un paio di volte i pugni sulle pareti, e poi guardò verso il basso, al liquido che aveva già sommerso completamente i suoi piedi. Prese ancora il cristallo a pugni, con tutta la sua forza: era come colpire una parete di roccia. Oltre a farsi male, non ottenne alcun risultato.

Il cuore gli accelerò ancora sotto il piastrone. Iniziava a capire il significato della sua prigione di vetro. Di questo passo, pochi minuti e sarebbe stato completamente sommerso dall’acqua.

Davanti al monitor, nel laboratorio di Donatello, alla vista dell’acqua che si riversava nella gabbia, tutti e tre i suoi fratelli sussultarono, quasi nello stesso istante in cui lo aveva fatto il loro fratello prigioniero. Splinter rimase immobile, ma strinse il bastone un po’ più forte.

Scoppiò il caos.

“Che diavolo sta succedendo?”

La vasca è chiusa?”

“Sì… Sembra di sì…”

“Quella… è solo acqua, vero?”

“Maledizione, riempiono la vasca d’acqua?”

“Quanto tempo ci vorrà a riempirla?”

“Non so, pochi minuti… Di questo passo direi… cinque, sei.”

“Dove si trova? Cos’è, un deposito? Dove…”

“Donatello, puoi rintracciare da…”

“Posso provare, Sensei…” Donatello aveva aperto una piccola finestra all’interno della schermata un attimo prima che il suo maestro lo chiedesse, ed adesso digitava freneticamente linee di comando.

Raffaello fece un passo indietro, agitato e fremente di rabbia. Cercò gli occhi di Leonardo nello stesso momento in cui il fratello diresse a lui lo sguardo. Gli occhi blu del leader esprimevano chiaramente l’ansia per la peggiore delle sue paure.

Cosa gli stanno facendo?

L’acqua saliva velocemente. Fredda come il ghiaccio, pungeva la pelle delle gambe stringendole come in una morsa; la tartaruga adolescente rabbrividì appena il liquido gelido arrivò al fondo del suo guscio.

Michelangelo aveva mille battute sarcastiche in mente, ma una volta tanto stette zitto, focalizzato sulla necessità di fare qualcosa. Se a quanto pare volevano tenerlo rinchiuso in questa scatola di vetro, avrebbe preferito almeno che ci fosse aria piuttosto che acqua. Si piegò, andando sotto la ribollente superficie del liquido in crescita, tentando di avvicinare una mano ad uno dei quattro fori, ma comprese che la pressione era tale che anche staccando le proprie protezioni alle articolazioni e fasce delle mani e dei piedi non sarebbe riuscito a bloccare con questi l’afflusso dell’acqua. Si rimise in piedi, con l’acqua che era arrivata ormai al busto, ed iniziò a sentire il peso del suo corpo sollevarsi per il galleggiamento. Issò i piedi e si mise di traverso, per cercare di fare forza premendo con le gambe davanti a lui e con le mani alle sue spalle; grugnì per lo sforzo, si tese al massimo, ma senza il minimo risultato. Si rialzò ancora ; l’acqua era già arrivata al collo. I piedi si staccarono dal fondo e la pressione dei getti lo spinse verso la parete opposta. Riprovò a forzare il vetro nello stesso modo con le altre due pareti, spingendo sempre con le braccia e le gambe. La muscolatura tonica si gonfiò, spinse con tutta l’energia che aveva in corpo, fino a sentire dolere i polsi; strinse i denti e gli occhi, le vene sul collo si ingrossarono , ma il vetro non cedette di un millimetro. Nel frattempo il livello era salito ancora e si ritrovò sotto la superficie schiumante. Rimise le gambe in basso e la testa fuori dall’acqua, riprendendo fiato dopo l’inutile sforzo; ormai non toccava più il fondo con i piedi. Restò qualche secondo così, a galleggiare ansimante, quindi batté ancora inutilmente i pugni contro il vetro, prese a calci tutte le pareti, tornò ancora giù, cercando di colpire sui fori, sperando di trovare lì più fragile la struttura, ma il getto dell’acqua smorzava ulteriormente i suoi inutili colpi.

Quando tornò ancora su, la testa toccava adesso contro la parte superiore della vasca; dovette piegare il collo per respirare. Ansimava più forte. L’aria sembrava non bastasse quasi più a soddisfare i polmoni. Tempestò di pugni il tetto di vetro, le mani ormai pulsanti di dolore, le nocche gonfie e rosse.

Si fermò, impotente, ansante.

Tra poco avrebbe dovuto trattenere il fiato. Per quanto tempo? L’avrebbero lasciato così per minuti? Ore? Iniziò ad inalare l’aria sempre più velocemente, ogni boccata adesso preziosa perché non poteva prevedere quanto tempo avrebbe dovuto aspettare prima di poter respirare di nuovo. E il tremendo pensiero che da lì a poco avrebbe potuto prendere il suo ultimo respiro anche in senso definitivo, fece capolino crudele nella sua mente solitamente serena e positiva.

Alla fine, dovette alzare il viso verso l’alto, e qualche schizzo d’acqua gli entrò in gola insieme alle boccate concitate. Tossì, sempre più agitato, sempre più in affanno. Tenere la bocca fuori dall’acqua gorgogliante divenne difficile. Iniziò ad ansimare e piagnucolare, premendo lo zigomo contro il coperchio della teca.

Michelangelo Hamato ora poteva ammettere a se stesso che stava iniziando a farsi prendere dal panico.

Lui era un mutante, un ibrido umano tartaruga. Sia gli uomini che le tartarughe hanno bisogno di respirare aria, per vivere.

Tenuti troppo a lungo sott’acqua, gli uni prima, gli altri dopo, muoiono.

 

 

A/N Ciao Tartapopolo!

Mi scuso con i vecchi amici di questo fandom per la lunga assenza, ma diventa sempre più difficile conciliare la vita con le proprie piccole passioni; siete e sarete sempre uno dei miei pensieri felici. Per chi non mi conosce ancora, ehm, ciao, sono Lara Pink *agita la manina* e mi piace leggere e scrivere di tutto, anche fanfiction. Come questa, scritta un sacco di tempo fa ma corretta soltanto adesso che l’influenza mi sta trattenendo a casa dal lavor… ecchiù.

Ebbene, cosa succederà al nostro Michelangelo? Si vedrà tra qualche giorno, quando pubblicherò il secondo capitolo di questa tree-shot ;)

L’universo è al solito quello 2012, ormai situato tra la prima e la quarta stagione, a causa delle tragiche puntate che andranno in onda tra pochi giorni negli States e che renderanno tutte le nostre storie fuori continuity.

Niente, è incredibilmente bello essere di nuovo qui, dopo tanto tempo. Al solito, spero che vi divertiate voi a leggerla come io mi sono divertita a scriverla. Un abbraccio a tutti!

 

 

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Capitolo 2
*** Parte seconda ***


La trappola di vetro 2

 

“I hope that someone gets my

Message in a bottle”

Machine Head, Message In A Bottle

 

 

 

Ciò che vedeva sul monitor del computer stava facendo a pezzi il cuore ed i nervi di Raffaello, un brandello alla volta.

“Può trattenere il fiato a lungo… Più a lungo di tutti noi,” mormorò il rosso, con la voce un po’ rauca, anche se non era necessario ribadirlo, poiché lo sapevano tutti, avevano fatto tutti allenamenti sulla respirazione e lavorato sull’apnea; inoltre il loro maestro gli stava insegnando ormai da tempo la difficile tecnica che consisteva nel rallentare le funzioni corporee tramite il controllo della mente.

“Se entra in meditazione, quasi venticinque minuti” confermò Leonardo, annuendo. Se riesce a calmarsi… Deve calmarsi… Sapeva che Michelangelo li aveva battuti tutti in resistenza ogni volta che era riuscito a raggiungere il giusto stato mentale: il problema era che questo non succedeva spesso, poiché il mutante mascherato in arancio solitamente faticava ad entrare in uno stato meditativo, anche nel silenzio confortante del loro dojo. Il blu non riusciva a staccare gli occhi dall’immagine di suo fratello che lottava per cercare di tenere la parte superiore del viso fuori dall’acqua.

Michelangelo tendeva il collo, la testa ormai sommersa a metà. Aveva smesso di battere con i pugni, ma continuava a premere le mani ai lati della vasca. Le dita graffiavano inutilmente la superficie liscia; tossendo ed ansimando, tentava spasmodicamente di ingurgitare le ultime boccate d’aria schiacciando il viso contro il tetto di vetro.

Poi, fu completamente sott’acqua.

Per qualche secondo continuò a muoversi forsennatamente, a sbattere i palmi delle mani contro il vetro.

Calmati, Mikey. Calmati. Leonardo ripeteva la preghiera silenziosa nella sua mente, col cuore che batteva furiosamente nel petto. Raffaello respirava rumorosamente, quasi l’aria stessa intorno a lui fosse divenuta più rarefatta, e Donatello sentiva le proprie dita, tese sulla tastiera, rigide e legnose. L’angoscia nel laboratorio, nei quattro mutanti raccolti davanti ad un monitor, era tangibile, quasi corporea, nera e gommosa come la pece.

Infine, la tartaruga con le lentiggini si fermò. Chiuse i grandi occhi azzurri e restò completamente immobile.

Davanti al computer, tutti rimasero in silenzio assoluto, congelati da quello a cui stavano assistendo; solo Donatello continuava a digitare freneticamente sui tasti.

Leonardo e Raffaello, attoniti, mantenevano lo sguardo fisso al monitor: Michelangelo aveva gli occhi strettamente serrati, il viso innaturalmente privo di ogni espressione; braccia e gambe galleggiavano a mezz’acqua, ciondolando sotto il carapace a contatto con il tetto della vasca. Ugualmente paralizzato era Splinter, che solitamente allenato a vincere con la disciplina mentale ogni manifestazione del proprio corpo, adesso non poteva evitare al proprio battito di rimbombare nella testa, nell’amaro silenzio del laboratorio. L’abisso nero della crudeltà del suo nemico sembrava non avere limiti: costringerlo a guardare impotente un figlio che lottava per la propria vita era un atto di una spietatezza che solo un cuore duro come quello di Horoku Saki poteva ideare.

Splinter ed i suoi figli avevano capito che Michelangelo era riuscito ad autoimporsi la totale immobilità, per preservare l’ossigeno, e che stava tentando in questo momento di entrare in uno stato metabolico ridotto. Adesso, era solo una lotta contro il tempo.

“Niente, non posso localizzarlo! Il segnale rimbalza in migliaia di server in tutti il mondo, ci vorranno ore per risalirne all’origine!” sbottò d’improvviso Donatello, con un tono acuto di panico nella voce.

“Che facciamo? Non possiamo restare qui!” sbraitò Raffaello, alzando gli occhi a Splinter e poi girandoli a Leonardo. Il rosso però sapeva benissimo anche lui che non c’era nessun posto, nessuno, dove potessero andare in questo momento: Michelangelo poteva essere ovunque, anche a miglia di distanza! Strinse i pugni fino a sentire le unghie premere dolorosamente contro i palmi: il senso d’impotenza era feroce, la rabbia che gli stava montando dentro, alimentata dalla paura, iniziava ad offuscargli i sensi in un calore rosso.

Donatello e Leonardo alzarono a loro volta lo sguardo al padre, in attesa di un ordine, un’indicazione, qualunque cosa. Ma il topo mutante che era stato Hamato Yoshi si limitò a continuare a fissare lo schermo ed il suo penoso spettacolo.

Lentamente, Leonardo tornò anche lui a guardare il monitor.

Non sapeva cosa fare. Non c’era niente che potesse fare. Un milione di idee, piani, progetti, scintillavano in embrioni nella sua mente, per poi annichilirsi quasi istantaneamente. Se non riuscivano a capire dove fosse tenuto prigioniero, non aveva senso allontanarsi dal monitor. Iniziò ad ispezionare ogni particolare dell’immagine, dalla teca di vetro, al pavimento insignificante, alle ombre sullo sfondo. Al corpo di suo fratello, che dava come unico segno di vita un piccolo movimento con una mano, con le tre dita che si chiudevano lentamente. Nessuna caratteristica rilevante nel vetro né nel piccolo rialzo sotto la vasca: non c’erano segni, né scritte visibili da questa angolazione. Niente che gli desse un indizio di dove suo fratello potesse essere tenuto rinchiuso. E lui al momento poteva solo continuare a guardare.

Donatello si alzò in piedi, sopraffatto anche lui dalla necessità di fare qualcosa. Corse verso un armadio, tirò fuori una cartina arrotolata della città. Si avvicinò al tavolo degli esperimenti, prese un pennarello rosso e lo stappò tra i denti, gettò tutto il resto a terra spazzando il tavolo con l’avambraccio e stese la cartina. Provette e bicchieri di vetro si frantumarono sul pavimento, dove acqua ed altri liquidi inzupparono i fogli di appunti minutamente scritti, ma il viola non ci fece neppure caso.

“Dunque… lui è stato preso qui…” Iniziò a ragionare a voce alta, segnando la cartina con il marcatore. “In circa un’ora e mezza non possono averlo portato più lontano di questa zona, presupponendo che non abbiano usato un elicottero…” Tracciò un cerchio sulla mappa. “Dove… dove…” Alzò una mano a stringere le tempie, alla disperata ricerca di un’intuizione, di un’idea. Acqua… Mentalmente focalizzò la rete dell’acquedotto di New York, tutti i canali, la baia, il porto… Quella linea di pensiero non lo portava da nessuna parte. La vasca di vetro non aveva nulla di particolare. Era situata in uno spazio molto ampio. “Probabilmente un magazzino,” mormorò ancora. Anche questo non restringeva la ricerca.

Intanto quanti minuti erano passati?

Raffaello si avvicinò alla cartina, a passi lenti e pesanti, e si pose vicino al fratello. La disperata impotenza lo pressava come una morsa; lo sguardo era scuro, la respirazione rumorosa dalla rabbia. Poggiò il pugno chiuso sulla mappa. L’area cerchiata con il pennarello dal fratello era vastissima. Ci sarebbero voluti giorni per ispezionare tutta la zona.

“Un faro!”

Il grido di Leonardo lo strappò dai suoi pensieri facendolo involontariamente sobbalzare.

Il blu si voltò verso di loro, gesticolando davanti al monitor.

“Donnie! Cerca un faro!”

“Un faro?” Il viola sbatté le palpebre.

“Guardate.” Leonardo puntò un dito sullo schermo. Tutti si riaccostarono al monitor. “Qui, c’era un riflesso…”

Aspettarono qualche secondo. Come Michelangelo, anche loro adesso stavano trattenendo il respiro.

“Ecco!” fece Leonardo, continuando ad indicare un punto sulla teca di vetro. “Lo vedete?”

Le altre due tartarughe ed il ratto si sforzarono di scorgere ciò che il mutante mascherato in blu stesse indicando, ma a primo acchito non notarono niente. Poi lo videro, proprio dove la punta del dito sfiorava il monitor. Un piccolo riflesso, che apparve e scomparve subito. Un’altra manciata di secondi, ed eccolo di nuovo. Talmente tenue da essere appena distinguibile, da essere notato solo se si sapeva dove guardare, e che sarebbe potuto sembrare una rifrazione della telecamera. Ma la minuscola traccia di luce andava e veniva ad intervalli regolari.

È certamente un faro!” esclamò Donatello e corse nuovamente alla cartina, riacceso dalla speranza di una pista.

“Quanti fari ci sono nella zona?”

“A decine.” La tartaruga mutante mascherata in viola corrugò la fronte. “Quattro solo a Mahanattan, poi il Blackwell, quello della Statua della Libertà, e il Nantucket, ed a Coney Island…” Iniziò a segnare i punti sulla mappa. “Okay, okay, potremmo cominciare limitando la ricerca solo a quelli che hanno dei complessi di magazzini nelle vicinanze…” Si sbatté un paio di volte il fondo del pennarello contro il mento, riflettendo.

Donatello conosceva praticamente a memoria la posizione di tutti i principali luoghi di deposito di New York. Nella sua mente erano archiviate meticolosamente tutte le zone della sua città. La studiava da anni, prima per pura curiosità verso il mondo superiore a loro nascosto, poi sapendo che le sue conoscenze sarebbero potute tornare utili. Anche senza utilizzare il computer, era riuscito a identificare almeno sette zone come possibili luoghi dove poteva essere tenuto prigioniero suo fratello. Ma era mestamente consapevole che stava ragionando sulle probabilità e che il fatto che Michelangelo si trovasse in un magazzino non voleva necessariamente dire che fosse in un’area di stoccaggio. Poteva trattarsi di uno qualsiasi dei migliaia di magazzini in giro per la città, anche solo il deposito di un grande negozio o di una fabbrica. Il fatto quindi ampliava nuovamente la possibilità a tutte le zone dove fosse presente un faro. Praticamente, tutta la baia di New York.

Dopo il momento di euforia, lo sconforto si stava riappropriando di lui. Non aveva senso tentare a caso. Il tempo a loro disposizione sarebbe bastato a malapena per raggiungere solo uno dei possibili punti. Inutile per lo stesso motivo mobilitare i loro amici. Doveva restringere ancora la ricerca, ma come?

Strinse gli occhi, sforzandosi di concentrarsi. Tra l’altro, una spiacevole sensazione si sommava all’ansia ed all’urgenza: qualcosa di fastidioso ed inafferrabile, come il non aver fatto caso ad un particolare importante, o l’essersi dimenticato qualche passaggio. Oppure, più semplicemente, la consapevolezza di sentirsi inadeguato, incapace di usare le proprie capacità per salvare il fratello; capacità che evidentemente aveva sempre sopravvalutato, se nel momento in cui serviva veramente, il suo tanto decantato cervello non riusciva a funzionare come avrebbe dovuto.

Raffaello, al monitor, in piedi dietro a Splinter che si era adesso seduto sulla sedia della scrivania, lanciò uno sguardo da sopra la spalla al fratello alla cartina. Lesse la sua espressione, capì la situazione. Si erano avvicinati a capire dove fosse il loro fratello minore, ma non sarebbe bastato a trovarlo in tempo.

Riportò gli occhi al monitor. La visione di Michelangelo, così tranquillo ed immobile, era qualcosa di sbagliato in ogni modo possibile. Era un’offesa alle leggi stesse della natura. Nella rifrazione dell’acqua, il corpo del giovane mutante appariva diverso, più chiaro, più fragile. La luce che illuminava la teca, infrangendosi, copriva di sinuosi e cangianti riflessi azzurrognoli il corpo inerte. Se non fosse per il lentissimo contrarsi di una mano, sarebbe potuto sembrare… no, Raffaello si rifiutò anche di pensare, quella parola. Mikey sarebbe stato bene. L’avrebbero trovato in tempo. Donnie, Leo e Splinter avrebbero trovato qualche altro indizio. Lui, nel frattempo, poteva fare solo l’unica cosa di cui fosse capace: agire. Adesso aveva una pista, avrebbe potuto iniziare a cercare, anche se era il proverbiale ago nel pagliaio.

Guardò per l’ultima volta il fratello nella vasca, poi si voltò e si avvicinò anche lui alla mappa, memorizzando la posizione dei fari cerchiati da Donnie: avrebbe deciso per strada se tentare di raggiungere il più vicino per iniziare ad ispezionare la zona, oppure se rivolgersi direttamente verso il covo di Shredder, per farsi dire a suon di pugni da quel bastardo in persona dove aveva portato Mikey. O, più probabilmente, per farsi ammazzare nel tentativo.

Fece un paio di passi verso la porta, per lasciare, quando si fermò di colpo ad un’intuizione improvvisa. Riportò lo sguardo al monitor.

Michelangelo adesso aveva iniziato a tremare; ma una contrazione più evidente della mano del fratello minore fece accendere una lampadina in testa al rosso.

“Perché muove la mano così?”

Lui era il campione mondiale di apnea statica nella categoria tartarughe mutanti. Ben ventiquattro minuti e quarantacinque secondi, quasi un minuto più di Leo, che però riusciva a focalizzarsi subito nella meditazione. Certo, questa volta non si era ossigenato abbastanza, il freddo dell’acqua pungeva la pelle e faceva rabbrividire in continuazione tutto il corpo: non riusciva a liberare la sua mente per rallentare i battiti del cuore, come gli aveva insegnato Sensei. Inoltre non poteva farlo bene, se una parte del suo cervello era concentrata a muovere la mano.

Quindi, magari questa volta avrebbe resistito un po’ di meno…

Non era del tutto sicuro se Shredder volesse annegarlo a morte o solo fargli prendere un bello spavento per poi liberarlo in extremis, ma nonostante il suo proverbiale ottimismo, al momento si sentiva più orientato per la prima ipotesi. Quindi, l’unica possibilità di cavarsela consisteva nel fatto che i suoi fratelli arrivassero a tirarlo fuori da lì entro una ventina di minuti. Anzi, ormai un po’ di meno.

Doveva anche sperare che tutte le sue supposizioni fossero giuste. Che la telecamera che lo stava inquadrando stesse trasmettendo le sue immagini in tempo reale e non solo registrando; che i suoi fratelli stessero, chissà come, guardando queste immagini; che comprendessero il messaggio. Una montagna di se, decisamente troppi, per i suoi gusti.

Michelangelo non era il tipo da farsi sopraffare dalla paura e dallo sconforto. Ma in fondo alla sua mente, il pensiero della morte iniziò a prendere forma. Era così orribile, che il giovane mutante mise tutti i suoi sforzi per non focalizzarsi su quel pensiero. Ma c’erano, nella sua unica speranza di salvezza, troppe ipotesi, troppe variabili. Probabilmente, non sarebbe servito a niente. Ma lui non poteva fare altro.

Restare immobile, cercare di rallentare il cuore e muovere la mano.

“Sì, l’avevo notato, una specie di tic nervoso…”

Raffaello si riaccostò per l’ennesima volta al monitor. “No, Leo, sembra…” Indicò, stringendo leggermente gli occhi, in concentrazione.

Splinter si voltò un attimo per dare un’occhiata ai figli in piedi accanto a lui e tornò a guardare il monitor.

Adesso l’attenzione di tutti era focalizzata su quella mano verde, che muoveva le dita lentamente, aprendole e richiudendole leggermente, per quattro o cinque volte di seguito, poi le serrava del tutto ed ancora ricominciava ad aprirle e chiuderle a metà, alcuni movimenti lentissimi, altri un po’ più veloci.

“Vero.” Leonardo piegò un po’la testa di lato. “È come...”

La mano a tre dita, sott’acqua, si contrasse quattro volte, poi una quinta volta più adagio.

“Codice Morse!” esclamò Splinter, alzandosi di scatto dalla sedia.

Anche Donatello era ormai davanti allo schermo, e tutti presero a contare nella loro mente i segni del codice che avevano imparato da bambini. Ogni tre chiusure complete della mano, il pugno si soffermava chiuso un po’ di più: il codice si ripeteva.

Una linea, tre punti… tre punti, due linee… quattro linee, un punto.

“Bi trentanove,” decifrò Leonardo, in un sussurro.

“B39? Cosa significa B39?” chiese Raffaello, rivolto verso il fratello genio.

“Credo sia il contrassegno del magazzino!” esclamò Donatello tornando di corsa al tavolo con la cartina. “Mikey può vedere il numero! Forse è stampato sulle serrande o sulle pareti.” Il viola afferrò il suo portatile da un carrello, l’accese e lo poggiò sul tavolo, quindi si sedette sull’altra sedia girevole ed iniziò a digitare svelto. “Posso capire dove si trova!”

“In che modo? Ci saranno centinaia di magazzini con quel codice!” chiese Raffaello posizionandosi alle sue spalle insieme a Leonardo.

“Così!” Sul monitor del portatile si visualizzò l’immagine azzurrina della piantina della città; poi alcune zone si illuminarono di rosso. “Se c'è un numero, innanzitutto siamo sicuri che ti tratta di uno dei magazzini di una zona di stoccaggio, e non un semplice deposito. Io avevo individuato sette di questi agglomerati vicino ai fari. Adesso dobbiamo solo cercare in queste zone i magazzini con quel codice.” Varie finestre si aprirono sul monitor del computer; proiezioni tridimensionali di vari edifici spiccavano in diversi colori. La tartaruga mascherata in viola muoveva le dita sulla tastiera in modo così veloce che l’occhio faticava a seguirle.

“E conoscendo loro…” Alcuni edifici nelle rappresentazioni sul monitor si evidenziarono in giallo. “E la luce dei fari…” Altre finestre, che mostravano riprese scure da telecamere in diversi punti della città, si soprapposero sullo schermo, rapidamente.

“In che senso la luce dei fari?” domandò il leader in blu.

“Ogni faro produce una luce caratteristica; non ho gli strumenti per esaminare lo spettro luminoso, ma posso misurare l’intervallo di tempo in cui il fascio si ripresenta in un determinato punto. Anche se c’è un ritardo nella trasmissione delle diverse telecamere, a me basta calcolare il periodo tra i due passaggi di ogni fascio luminoso, che è diverso per ogni faro anche solo di poche frazioni di secondo.” Stringhe numeriche e grafici si aggiunsero ai filmati delle telecamere sparse per la baia di New York e all’immagine, in un angolo del monitor, di un particolare della vasca dove si trovava rinchiuso Michelangelo. “Ed appena il computer troverà il faro che coincide col riflesso sul vetro, sapremo quale magazzino, tra i vari nella baia con contrassegno B39, sarà quello giusto.”

Durante la spiegazione concitata di Donatello, i suoi fratelli,  coinvolti dalla sua eccitazione, gli si erano stretti ancora più vicini davanti al computer, e seguivano attenti il frenetico scorrere e sovrapporsi di numeri ed immagini che il monitor rifletteva nei loro occhi. Con un suono, improvvisamente una finestrella si evidenziò sulle altre, lampeggiando.

È qui! È in questo magazzino!” Donatello schizzò in piedi, indicando il monitor. “L’abbiamo trovato!”

“Muoviamoci” ordinò Leonardo, poggiando un attimo una mano sulla spalla di Raffaello e incrociando lo sguardo del suo maestro.

Splinter annuì la sua conferma al primogenito, sforzandosi di trattenersi dal raccomandare ai suoi ragazzi di prestare attenzione, perché sapeva perfettamente che ormai di simili avvertimenti i suoi ninja non ne avevano più bisogno.

Donatello fu l’ultimo ad uscire dal laboratorio, poiché si era attardato ad afferrare il suo borsone degli strumenti. Nei secondi di silenzio che seguirono la partenza dei suoi figli, Hamato Yoshi avvertì un brivido gelido lungo la colonna vertebrale. Aveva girato abbastanza New York, quando era ancora un uomo, da conoscere la distanza che separava il punto dove era tenuto prigioniero Michelangelo dalla loro tana. Se tutto andava bene, se lo Shellraiser non incontrava ostacoli e volava come il vento, ci sarebbe voluto più di un quarto d’ora per raggiungere quel magazzino. Poi bisognava entrare nel locale, aprire la vasca…

Riportò per l’ennesima volta gli occhi al monitor. Il suo ragazzo era sempre lì. Da quanto tempo tratteneva il fiato? Non voleva pensarci. SI rifiutava di pensarci.

La gola gli si strinse in un nodo nero e spinoso d’oppressione, la preoccupazione superò anche la rabbia verso l’essere infame che, non contento di avergli portato via una famiglia, si stava divertendo a far soffrire anche il più giovane, il più innocente dei suoi figli.

Allungò la mano verso lo schermo. Accarezzò il vetro con la punta delle dita mutate; stupito, osservò gli artigli smussati tremare leggermente contro l’immagine del giovane mutante.

Si chiese se non avesse sbagliato, questa volta, a non andare con i suoi figli.

Per essere con loro, quando avrebbero aperto la trappola di vetro.

 

 

A/N Ciao gente!

Chiedo infinitamente scusa per aver ritardato tanto per il secondo capitolo della mia storia. Non era mia intenzione, perdono! Purtroppo ho avuto un po’ di casini con i miei piani per la conquista del mondo…
Mi avete letto in tanti e sapere di avervi lasciato in attesa mi fa sentire un vermino strisciante (seppure un gran bel vermino, eh eh!) Prometto che il prossimo capitolo sarà pubblicato in tempi più ragionevoli. Ringrazio di cuore chi ha letto la prima parte e in modo particolare Cartoonkeeper (so che tu sai che io so che sei favolosa…), NightWatcher96 (sentirti e sapere che sei ancora uno dei pilastri del fandom è davvero una gioia, Imoto!), piwy (bello risentire anche te! Sei sempre gentilissima, grazie) e Mellybonf (grazie per la soffiata! Non ho mai visto “The Cell” ma sembra interessante. Adoro la fantascienza! Sono contenta che tu abbia apprezzato la gabbia con l’acqua, a me l’idea ha sempre intrigato; oltre che ovviamente dagli spettacoli dei prestigiatori, credo di essermi lasciata conquistare dal macabro ed affascinante strumento anche grazie al film “The Prestige” che, se non hai visto, mi sento di suggerire per ricambiare il favore: è stupendo, pur essendo decisamente inquietante.)

Nella terza ed ultima parte vedremo se i nostri arriveranno in tempo per salvare il fratello o se dobbiamo tirare fuori la scorta di fazzoletti. A proposito, ne avete usati molti nel finale di stagione Nickelodeon? Io una camionata… Ma ancora di più ne ho consumati quando è stato reso ufficiale che quella che inizierà a giorni sarà l’ultima stagione e che il prossimo anno vedremo un reboot dai toni più leggeri. Beh, sempre meglio così piuttosto che un'eventuale minestra riscaldata, e poi per mantenere in vita a tempo indeterminato l’universo 2k12 ci saranno sempre le nostre ff!

Un abbraccio a tutti, tartapopolo :*

 

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Capitolo 3
*** Parte terza ***


La trappola 3

 

 A/N Ciao Tartapopolo!

Sono abbastanza consapevole che i “tempi più ragionevoli” entro i quali avrei dovuto postare l’ultimo capitolo siano diventati in verità più di un mese. Ergo, voi non potete vedermi ma io al momento ho un sacchetto di carta calato sulla testa per la vergogna. Mi sento un parassita del vermino strisciante che mi sentivo l’ultima volta che mi sono scusata… Scherzi a parte, è un periodo davvero incasinato, e mi dispiace aver fatto una promessa che non ho potuto mantenere. Scusate.

Grazie alla gentilissima Mellybonf che mi aveva già perdonato preventivamente (il gioco qui si fa un po’ più sadico, spero che ti piaccia!), ed alla sempre grande Ladyzaphira, tra le regine e veterane del fandom; te l’ho già detto che, ormai, ogni volta che in giro vedo qualche gadget di Elsa penso a Ladyzaphira e non a Frozen? Per dirti quanto alcune di voi amiche di questo sito mi abbiate cambiato anche la percezione del mondo! Mi inchino anche davanti alla talentuosa NightWatcher96: oscuro dark sarà il mio nuovo meme, cara imoto! Sì, il mio è sempre stato una versione un po’ più matura del Mikey 2K12, come il tuo una versione più dolce… Ci manca quello sexy, che sto provando a scrivere (ho una storia MikeyxAprilxDonnie scritta a metà, chissà se l’argomento può funzionare), ed avremo praticamente 50 sfumature di Mikey! Abbracci a profusione e grazie a palate anche alla mia Cartoonkeeper, sorellina acquisita in modo clonesco sempre disposta a sopportarmi, alla carinissima Beckyforever (ti ringrazio, nuova consumatrice di fazzoletti! Spero di farti zampillare ancora con questo capitolo) ed al gigante ToraStrife (pfu, Saw l'Enimgmista è un dilettante. Niente rispetto alla mia mente spargi angst a basso costo!), tornato anche lui nel fandom! Mi commuovo e mi viene da piangere. A me una vasca…

Detto questo, acqua in bocca (Torastrife, te la rubo) e vi lascio alla lettura.

Un abbraccio grande come la trappola di vetro. A presto!

 

 

“All I know

Time is a valuable thing”

Linkin Park, In The End

 

 

 

Svuotare la mente non era mai stato il suo forte. C’erano nella sua vita tante cose interessanti a cui pensare! Tutto l’universo era sempre stato una vorticosa giostra intorno a lui. Non riusciva a concentrarsi quando suo padre gli insegnava a leggere, da bambino, perché le lettere si rincorrevano sul foglio come se volessero giocare. A volte non metteva a fuoco i movimenti del suo avversario, quando si allenava con i fratelli nel dojo, perché pregustava la nuova puntata del suo show preferito in tv, o riviveva le scene del suo ultimo fumetto, o rimuginava sul fatto che gli scoiattoli fossero proprio raccapriccianti...

Non aveva mai capito perché, quanto più cercasse di non pensare ad una cosa, tanto più il pensiero convergesse sempre proprio su quella cosa lì. Voleva della pizza e non ce n’era? Nella sua testa si focalizza l’immagine di una pizza fumante e tutti gli altri concetti si facevano mestamente da parte. Era il turno di qualcuno dei tuoi fratelli per la televisione? Non c’era niente di più divertente al mondo che avere il telecomando tra le mani e gli occhi sullo schermo.

Ma per quanto avesse desiderato ardentemente gli irraggiungibili oggetti del suo desiderio, mai come in questo momento un pensiero era riuscito ad imprimersi così a fondo nella sua testa.

Adesso che diventava sempre più difficile, minuto dopo minuto, svuotare la mente e non prestare attenzione ai suoi polmoni, gli sembrava che non esistesse al mondo niente di più bello, importante, allettante e desiderabile di un bel respiro.

Leonardo stringeva forte il volante dello Shellraiser, guidando più velocemente di quanto avesse mai fatto prima, oltre ogni limite di sicurezza, facendo pericolosamente scodare il mezzo in curva e attirando l’attenzione dei pochi automobilisti notturni e di qualche sparuto passante; al momento, però, di questo non gli importava nulla. Si sentiva teso e carico di adrenalina, come in ogni missione, ma agitato più del solito da un’affannosa premura: ogni minuto che passava sembrava lungo come un’era.

Raffaello stava in piedi dietro di lui, aggrappato con una mano alla maniglia sul tetto del vagone modificato; l’altra mano accarezzava nervosamente il manico del suo sai infilato alla cintura. Guardava fisso davanti a sé, silenzioso. Solo Donatello, seduto al monitor, parlava per dare a Leonardo indicazioni secche e coincise sulla strada più veloce da prendere.

Parcheggiato lo Shellraiser appena un paio di fabbricati di distanza dal magazzino, tra alcuni vecchi furgoni in disuso, i tre ninja balzarono giù, silenziosi, veloci, guardinghi; corsero radente i muri, restando nell’ombra, nascondendosi al passaggio di qualche furgone dei lavoratori notturni.

Raggiunsero le serrande chiuse del magazzino; Donatello controllò sul suo T-phone e confermò con un cenno che il posto era quello, quindi guardò Leonardo in attesa di istruzioni. Il leader valutò che sarebbe stato più veloce scassinare una delle serrande, piuttosto che entrare dalle finestrelle in alto, e comunicò a gesti ai fratelli di procedere così. Donatello annuì, scrutò il pesante lucchetto che teneva la serranda bloccata contro un gancio infisso nel cemento, tirò fuori dalla sua borsa un piede di porco e con poche abili torsioni lo fece saltare via. Raffaello afferrò la pesante serranda dalla maniglia di ferro e la issò su. Ormai questi rumori avrebbero richiamato i nemici, ma sembrava non esserci nessuno lì intorno.

Leonardo fu il primo ad entrare nel magazzino, seguito da Raffaello; Donatello si concesse l’ultima occhiata alla strada e li seguì dentro.

L’interno era buio e puzzava di polvere e di legno stantio; casse vuote erano impilate ed ammucchiate un po’ dovunque.

L’unica zona illuminata era quella, al centro del locale, dove c’era la vasca di vetro.

Dentro di essa, il loro fratello minore scalciava e si dimenava selvaggiamente, con le mani alla gola.

“Mikey!” urlò Raffaello, inorridito, e si gettò di corsa verso la teca, seguito immediatamente da Leonardo e Donatello.

Michelangelo stava annegando davanti ai loro occhi.

(Poco prima)

Restare concentrato era diventato troppo difficile.

I pensieri guizzavano in testa senza che lui riuscisse più a chiuderli fuori. Aveva da alcuni minuti smesso di fare segnali con la mano, sia per tentare di focalizzare l’attenzione in una meditazione sempre più difficoltosa, sia perché aveva tristemente capito che a quel punto o i suoi fratelli avevano già visto il messaggio oppure non sarebbe più servito a niente.

Il suo cuore, che era riuscito a rallentare per parecchi minuti, ricominciò a battere più veloce. Prima a normale frequenza, poi via via più forte. I polmoni ormai chiedevano ossigeno con insistenza.

La giovane tartaruga mutante riaprì gli occhi. Intorno a lui, niente era cambiato. Era sempre solo e prigioniero in una scatola di vetro. Nessuno era venuto.

Ed il suo tempo stava per scadere.

La desolata disillusione fu terribile e lo strinse come un viscido tentacolo. Ebbe paura. Non lo avrebbe mai confessato ai suoi fratelli, ma la paura che lo assalì fu sconvolgente. Probabilmente, comunque, non avrebbe mai più detto niente di niente ai suoi fratelli, poiché non li avrebbe mai più rivisti.

Forse, verosimilmente, quasi certamente, sarebbe morto qui, da solo, nella più stupida ed inutile delle morti. Una tartaruga mutante sarebbe annegata in una grande vasca di vetro. Alla paura si sommò la rabbia, il forte senso d’ingiustizia: perché? Perché a lui, che era solo un adolescente ed aveva ancora tante cose da fare nella vita? Perché, se non aveva mai fatto niente di male?

I battiti del suo cuore accelerarono ancora. La gola si contrasse in un singhiozzo.

Voleva essere a casa. Voleva la sua famiglia. Non li aveva neppure salutati! Aveva ancora tante cose da dire, a tutti loro! Che ne sarebbe stato della sua famiglia? La sua morte li avrebbe rotti? Previsioni tragiche ed inquietanti presero forma nei suoi pensieri. Raph avrebbe dato di matto, avrebbe fatto male agli altri ed a se stesso, Donnie si sarebbe chiuso in sé, Leo sarebbe stato consumato dal senso di colpa. Il suo sensei, suo padre, sarebbe stato schiacciato dalla perdita di un figlio… A questo punto, poiché non l’avevano trovato, Michelangelo pregò che i suoi familiari non avessero visto, né vedessero mai, le immagini che quella dannata camera stava riprendendo.

Che almeno non lo vedessero morire.

Singhiozzò ancora, con un disperato mugolio, che risuonò amplificato nelle suo orecchie. Voleva piangere, gridare. Strinse forte le labbra. I battiti tamburellavano sotto il piastrone e il suo corpo consumò l’ultima molecola di ossigeno; il suo cervello iniziò a risentire dell’asfissia, ed ogni cosa prese a ruotare intorno a lui.

Un senso di bruciante oppressione gli attanagliò il petto. La paura, la disperazione divennero ancora più freddi dell’acqua ghiacciata.

Non resisteva più.

Un sussulto corse per tutti i muscoli del corpo. Distese le gambe. Portò le mani al vetro, artigliò con le unghie la lastra fredda. Un’altra contrazione gli fece scattare la testa all’indietro, ed una scia di bollicine salì dalla sua bocca.

Si attaccarono al vetro sul tetto della vasca e si fusero a quelle che erano già lì, in un brillante arcipelago iridescente, vibrante e ipnotico. Gli occhi sconvolti guardarono queste piccole sfere di luce: illuminate dal faretto, sembravano stelle. E Michelangelo realizzò che non avrebbe mai più potuto guardare le stelle. Che queste quattro pareti ed il magazzino oltre il vetro sarebbero state le ultime cose che avrebbe mai visto.

Era finita. Non ce la faceva, non ce la faceva più.

Si portò le mani alla gola.

La paura divenne terrore, doloroso e tremendo. Stava per morire, la sua vita sarebbe finita adesso! Non voleva morire, non voleva! Oddio, era così orribile!

Forse, avrebbe dovuto volgere la mente ai ricordi dei suoi fratelli, di suo padre. Dedicare a loro i suoi ultimi pensieri, farsi accompagnare dai loro volti, dalla loro voce. Ma comprese con orrore che neanche per questo ci sarebbe stato più tempo.

Il suo corpo iniziò a muoversi da solo, in scatti convulsi, senza che lui potesse farci niente. I piedi calciarono il vetro, forte, troppo forte; ma non sentiva nulla, i sensi avevano iniziato ad intorpidirsi. Scintille bianche e poi nere balenarono davanti ai suoi occhi. Strinse le mani forti sul collo. Improvvisamente, la voglia di aprire la bocca ed inalare divenne più potente di qualsiasi altra cosa.

Non poteva più combattere. Doveva respirare. Niente aveva più importanza.

Quando un sorso d’acqua gelida si riversò nella sua bocca, nella sua gola, nei suoi polmoni, non era più abbastanza lucido da capire di aver tirato un profondo respiro, sott’acqua. Il dolore di mille aghi di ghiaccio gli straziò il petto; si contorse nelle convulsioni. Il terrore l’aveva completamente avvolto, il suo cervello ed il suo corpo non rispondevano più.

Nel barlume di coscienza rimasta, sperò solo che l’incubo di questi ultimi lunghissimi momenti finisse presto.

Tra i sussulti del suo corpo in agonia, quando ormai non era altro che angoscia senza fine, oltre il vetro che era diventato la sua tomba, i suoi sensi tentarono con la loro ultima scintilla di vita di percepire qualcosa.

Una voce disperata che urlava il suo nome.

Figure che si agitavano intorno a lui.

Ma ormai, un’annebbiata rassegnazione aveva finalmente preso il posto del terrore, ed ogni cosa perse significato in una misericordiosa pace; tutto si spense.

“Mikey!” Raffaello corse verso la vasca, sguainando le sue armi. Con orrore, guardò il fratello che si dibatteva e si contorceva, con le mani alla gola, gli occhi ruotati verso l’alto e la bocca aperta come in un urlo sofferente. “No! Mikey!”

Iniziò a battere i suoi sai contro il vetro, a malapena consapevole dei suoi fratelli che avevano anche loro raggiunto la vasca. In una furia di rabbia e panico, portò più e più volte le punte affilate delle sue armi contro la parete della teca, ma non riuscì neppure a scalfire lo spesso cristallo.

Anche Leonardo assestò un paio di colpi al vetro con le tsuka delle sue katana, cercò invano di incuneare le lame nei profilati di ferro, che correvano lungo gli angoli della vasca, per forzarli via, quindi iniziò a guardarsi convulsamente intorno, alla ricerca di un oggetto pesante. Vide i grossi tubi che partivano dalla vasca ed iniziò ad accanirsi con le sue spade contro di essi: la plastica nera era semplicemente il rivestimento di un altro materiale stratificato in una sorta di tessuto di fili di acciaio e resina, e le lame lo incidevano ma non riuscivano a tagliarlo. Gettò le sue inutili armi per terra e si lanciò contro uno dei tubi, iniziando a tirare per staccarlo dalla vasca, ma nonostante tirasse con tutta la sua forza, grugnendo e sbuffando per lo sforzo, non riuscì a strapparlo dalla saldatura allo spesso cerchio di ferro che lo teneva attaccato al vetro.

“Donnie! Fai qualcosa! Donnie!” urlava disperato Raffaello, continuando a colpire il vetro. I movimenti del mutante con la maschera arancione si stavano facendo sempre più lenti; le palpebre calavano a chiudere i grandi e velati occhi azzurri.

Donatello continuò ad ispezionare freneticamente la vasca, cercando di non guardare il fratello agonizzante all’interno, ormai a pochi pollici da lui, eppure ancora irraggiungibile.

“Il cristallo è troppo spesso.” Corse concitatamente le mani sul vetro, esaminandolo, e sui profilati. “Devo forzare la chiusura!”

Il coperchio era fissato alla vasca tramite un bordo di ferro più largo di quello che correva lungo tutti i bordi, ed in un punto era visibile la presenza di una serratura.

Donatello si chinò verso la borsa che aveva lasciato lì a fianco, per prendere i suoi strumenti e salire sul tetto della vasca.

“Mikey…” ansimò Leonardo, che aveva lasciato cadere il tubo, incapace di staccarlo o romperlo ed inoltre consapevole che a questo punto era diventato inutile svuotare la vasca e che occorreva piuttosto tirare fuori il fratello. Appoggiò le mani contro il vetro, quasi paralizzato dall’orrore. Michelangelo aveva smesso di muoversi e galleggiava a mezz’acqua, le mani si erano staccate piano dal suo collo e le braccia si erano aperte lentamente, inerti. Il più giovane dei fratelli Hamato era pallido e floscio, con gli occhi mezzi chiusi, esanime.

Donatello rovistò con foga nella borsa, gettando via senza cura ciò che era al momento inutile, e tirò fuori gli strumenti che gli servivano; fece affidamento a tutto il suo allenamento ninja per impedire alle sue mani di tremare. Adesso, tutti contavano su di lui. Anche Raffaello aveva smesso il suo martellare ed era cascato in ginocchio, ansante, rivolgendo a Donatello un silenzioso appello con gli occhi.

Il mutante mascherato in viola si rialzò in piedi e si riaccostò al vetro. Doveva fare in fretta. Rifiutò di pensare che Michelangelo fosse annegato. Doveva tirarlo fuori di lì: poteva ancora salvarlo. Doveva salvarlo! Mise da parte la sua amata logica, che stava iniziando a calcolare quanto fossero basse le probabilità che un corpo in quelle condizioni potesse tornare a vivere, e si concentrò freddamente sull’azione. Con gli strumenti in mano, fece per salire sulla gabbia, ed aveva quasi poggiato la punta del piede sul basamento, che sporgeva di un paio di pollici oltre il vetro ed alzava un po’ la struttura dal pavimento.

Ma quella stessa logica improvvisamente urlò al suo cervello di fermare ogni movimento. Per un secondo restò bloccato, chiedendosi cosa fosse quella sensazione di sbagliato che stava percependo.

Poggiò nuovamente il piede e terra e si allontanò di un passo dalla teca, tagliando fuori la presenza dei due fratelli maggiori che riversavano su di lui l’angoscia dell’attesa in ondate quasi fisiche. Tagliò tutto fuori e si concentrò a focalizzare il pensiero.

Veloce e metodico, il suo cervello geniale iniziò a ripercorrere tutti gli avvenimenti di questa tremenda notte, calcolò le variabili, analizzò l’ambiente.

Inclinò leggermente la testa di lato, guardò ancora la vasca.

“Donnie?” fece Leonardo, esitante, e quindi scambiò uno sguardo interrogativo con Raffaello e si mosse anche lui per salire sul coperchio della teca. A questo punto Donatello sembrò riprendersi dai suoi pensieri per urlargli contro.

“No! Non salire!”

Leonardo congelò ogni movimento, sempre più confuso.

Donatello continuava a non muoversi. C’era qualcosa, qualcosa di sbagliato, di tremendamente sbagliato, ma cosa?

La sensazione di aver tralasciato un particolare importante, la stessa sensazione che aveva provato in laboratorio mentre cercava di rintracciare il magazzino, si era amplificata ed aveva assunto i toni rossi di un allarme.

Nella sua mente, vorticosi, pensieri e deduzioni presero a sommarsi, scontrarsi ed infrangersi gli uni contro gli altri. Cercò l’errore, la falla nel sistema.

Il messaggio sul tetto. La corsa al covo. L’indirizzo IP. La fonte del segnale, difficilmente rintracciabile. Ma non impossibile, se sarebbero bastate un paio d’ore ed un modesto computer portatile: lui avrebbe fatto di meglio ad occhi chiusi. Il cuore prese a battere ancora più forte. Anche i programmatori di Shredder potevano fare di meglio… Qualcosa non va, qualcosa non va… E se Shredder sapeva che sarebbero arrivati qui, in poche ore al massimo, perché non c’erano i suoi uomini ad aspettarli? Quel mostro si sarebbe accontentato di uccidere solo uno di loro, lasciando gli altri liberi di raccogliere il corpo? Perché? Qualcosa non va …

Poi, improvvisamente, capì.

La comprensione dilagò, violenta e crudele, e lo atterrì.

“Non può essere…” Scosse lentamente la testa, con gli occhi sbarrati; si riavvicinò alla vasca, girò lentamente intorno ad essa e si gettò in ginocchio vicino ad una delle pareti.

Raffaello e Leonardo gli furono subito a fianco.

“Cosa diavolo stai facendo? Dobbiamo tirarlo fuori di lì!” sbraitò il rosso, con lo sguardo allucinato, quasi fuori di sé, indicando Michelangelo, e fece per agguantare Donatello da una spalla quando Leonardo lo fermò, bloccandolo per un braccio.

“Che succede, Donnie?” chiese il blu, forzatamente calmo.

Donatello rispose alzando la mano e facendo un gesto con un dito, di dargli un attimo, e teso in concentrazione prese ad armeggiare per forzare via la parte laterale del basamento. Voleva essersi sbagliato, voleva aver avuto un’intuizione errata, dettata dalla scarsa lucidità indotta dal panico. Mai in vita sua aveva desiderato maggiormente di essere caduto in errore.

Il pannello di ferro cedette sotto il cuneo nelle mani del mutante.

Non si era sbagliato.

“No.” Lasciò cadere gli strumenti e portò le mani alle tempie, agghiacciato. “No no no no.”

Un’apparecchiatura era incassata in un reticolo di sbarre nella struttura metallica del basamento. Era poco più piccola di una scatola da scarpe; tre fili neri partivano dalla cassettina verso la parte superiore del basamento stesso.

Sul congegno, una lucina rossa lampeggiava, ipnotica.

“Una bomba…” Raffaello confermò l’ovvio, con un roco sussurro angosciato.

Donatello annuì lentamente. “Un sistema a rilascio di pressione. Si attiverà appena il peso nella vasca diminuisce. Non possiamo tirare fuori Mikey.”

Leonardo deglutì, la gola improvvisamente troppo asciutta. Per fortuna non era riuscito a staccare quel tubo. “Puoi… puoi disinnescarla?”

Donatello sfiorò la scatola ed i fili, alzò lo sguardo un attimo al corpo immobile del fratello minore nell’acqua, ritornò a guardare la bomba.

“Non posso aprirla, è saldata, ci vorrebbe troppo tempo… Però c’è…” Prese un profondo respiro. “C’è una buona probabilità che tagliando uno di questi tre fili si escluda il sistema di innesco.”

“Buona probabilità?”

“Quasi sicuro… sì. Sì, uno dei fili interrompe il circuito senza attivare la detonazione.”

Leonardo si avvicinò a guardare i tre fili neri che Donatello stava toccando con le dita. Erano identici. Ebbe paura a chiedere.

“Quale dei tre?”

Donatello scosse piano la testa.

“Non lo so. Sono indistinguibili,” mormorò laconicamente, la voce un sussurro così flebile che era quasi impercettibile.

Per alcuni lunghi, interminabili secondi tutti e tre i fratelli guardarono in silenzio la funesta lucina rossa. La tensione nel magazzino divenne pesante come una cappa di piombo.

Poi Donatello si alzò di colpo in piedi e si diresse nuovamente verso la sua borsa.

“Bene. La carica non dovrebbe essere sufficiente a fare danni al di fuori del magazzino.” Si chinò e prese un paio di tronchesine. “Tu e Raph aspettate fuori mentre io taglio uno dei fili…”

“Che cosa? Hai intenzione di tagliare un filo a caso?” lo interruppe Raffaello, inferocito. “Sei pazzo! Trova un’altra soluzione!”

“Non c’è tempo!” urlò a sua volta il viola, alzando la mano verso Michelangelo. Si rivolse a Leonardo. “Uscite, vi prego! Adesso!” implorò, con la voce stridula dalla paura e lo sguardo lucido.

Il blu era rimasto stranamente tranquillo, a fissare la bomba e quei tre esiziali fili. Annuì e si alzò in piedi anche lui. “Hai ragione, è l’unica soluzione.”

Poi si volto verso Raffaello e prima che questi, furioso, aprisse bocca, gli mise una mano sulla spalla.

“Raph, andate fuori di qui.”

“Cosa? No!” Donatello fece istintivamente un passo lontano da loro.

Leonardo però rivolse tutta la sua attenzione a Raffaello. Adesso i due fratelli si guardavano negli occhi. I blu del leader, freddi come l’acciaio, ed i verdi del secondo maggiore, ardenti come fiamme.

“Raph, se perdiamo tempo a discutere, Mikey è morto. Porta Donnie al sicuro fuori da quella serranda.”

“No, tu…”

“Adesso!” ruggì Leonardo.

Gli occhi di Raffaello, se possibile, si ampliarono ancor di più di rabbia e spavento. Di urgenza e indecisione. Valutò, in pochi attimi, se avesse potuto sopraffare velocemente Leonardo e Donatello e portarli entrambi fuori per tagliare lui quel maledetto filo. Ma sapeva che ci sarebbe voluto troppo tempo e che Mikey non respirava, Mikey era… era annegato da ormai un paio di minuti. Non sarebbe servito a nulla neppure sprecare parole per cercare di convincere Leo a lasciare insieme a Donnie.

Raffaello era focoso, impulsivo, irascibile, ma non era stupido. Leo non avrebbe ceduto. Mikey non aveva tempo. Doveva fare l’unica cosa giusta. Tre le uniche possibilità che gli si paravano davanti. Le prime due, agghiaccianti: la morte di uno o di due fratelli.

Rifiutò di prenderle in considerazioni. L’unica scelta logica era la terza possibilità: lasciare ora, subito, e sperare, sperare nel filo giusto, sperare che nonostante tutto non fosse lo stesso inutile per Michelangelo. Donatello avrebbe pensato in termini di statistica; egli invece ascoltò solo il suo cuore.

Non pensò più a niente. Se avesse pensato ancora, non si sarebbe mosso di lì. Se avesse indugiato un altro secondo a guardare gli occhi blu di suo fratello maggiore, ad ipotizzare di non vederli più, a concepire come sarebbe la sua vita con solo metà della sua famiglia, non avrebbe avuto il coraggio di lasciare.

Con un movimento repentino balzò verso Donatello. Lo afferrò per la vita, lo alzò da terra e si mise a correre verso l’uscita. Il mutante più magro gridò, lasciò cadere le tronchesi per forzare via le braccia del rosso, lanciò un paio di maledizioni e cercò disperatamente di divincolarsi, ma niente poté fare contro la presa d’acciaio del fratello più forte di lui, non senza ferirlo seriamente.

Inoltre, si diede per vinto ancor prima di raggiungere l’uscita, ben consapevole che a questo punto ostacolare i piani di Leonardo non sarebbe servito ad altro che a perdere ulteriore tempo prezioso. La rabbia oscurò per un secondo ogni altra sensazione ma si ridusse subito come la vampata di un fiammifero: fosse stato in Raph avrebbe fatto la stessa cosa, e capì che Leo aveva ordinato a Raph di portarlo in salvo e non viceversa solo perché lui non ce l’avrebbe fatta a prendere così di peso il fratello più forte e pesante. Questo non toglieva il senso di profondo tradimento ed il risentimento che provò verso i sui fratelli, soprattutto Leonardo, per averlo trattato in questo modo. Aveva parlato di lui come se non fosse presente, aveva preso decisioni per lui come se non fosse un ninja suo pari. Si sentì umiliato oltremisura.

In ogni caso, adesso questi pensieri lampeggiarono appena e si fecero subito da parte, sopraffatti dall’orrore dell’ipotesi di perdere due dei suoi fratelli di lì a qualche secondo. Non oppose resistenza quando, oltrepassata la serranda, Raffaello svoltò di lato, lo scagliò a terra, contro il muro esterno del magazzino, e gli si gettò di sopra; soffocato sotto il piastrone e tra le braccia di Raffaello, trattenne il respiro per quelli che avrebbe ricordato a lungo come i secondi più lunghi della sua vita.

I fratelli non erano ancora scomparsi dalla sua vista quando Leonardo aveva già afferrato le tronchesi e si era gettato in ginocchio dinnanzi all’ordigno. Aldilà della vasca di vetro, la videocamera continuava a riprendere.

Il suo maestro lo stava guardando.

Probabilmente, avrebbe dovuto alzare almeno lo sguardo, dargli un cenno rassicurante, un saluto silenzioso che avrebbe potuto essere l’ultimo.

Ma sapeva che suo padre avrebbe letto nei suoi occhi la paura che lo stava attanagliando in questo momento. Raffaello lo prendeva sempre in giro, chiamandolo Senzapaura. Eppure Leonardo aveva spesso paura. Al momento, non era altro che terrorizzato.

Avvicinò le tronchesi ai fili. La morte aveva due possibilità su tre. La sua vita sarebbe forse finita in un istante. Peggio ancora, avrebbe ucciso anche Mikey.

Prese un profondo respiro, ma la gola era stretta. La mano, inaspettatamente, prese a tremare; il suo istinto alla sopravvivenza era forte. Circondò con le lame dello strumento il filo più in alto. Chiuse gli occhi e strinse l’impugnatura. Le lame si congiunsero.

Splinter rimase a lungo seduto davanti al monitor che ormai mostrava solo una statica finestra grigia.

Ma nella sua mente, le immagini ed i suoni della trasmissione, impressi con forza, si riproponevano più e più volte.

Avrebbe giurato di aver sentito anche il clic prodotto dalle piccole tronchesi mentre recidevano il filo della bomba. Ma era poco probabile che l’audio della videocamera avesse potuto catturare anche quel piccolo suono.

Il maturo mutante si alzò in piedi, sorreggendosi al bastone; si sentiva spossato come dopo una lunga battaglia. Strinse un attimo gli occhi, prese un lungo respiro.

La videocamera aveva catturato però chiaramente l’intonazione, ancora vibrante di paura ma forte di sollievo, del grido con cui Leonardo aveva richiamato i suoi fratelli. E le loro parole frenetiche, gli ordini concitati di Donatello, mentre avevano aperto il coperchio della trappola e tirato fuori Michelangelo.

Raffaello si era tuffato nell’acqua gelida, afferrando il fratello annegato, l’aveva spinto su, verso le braccia tese di Donatello, in piedi sopra il guscio di Leonardo. Il corpo di Michelangelo si era mostrato molle e dinoccolato, pallido e tumido, tra le braccia dei fratelli; flaccido e senza vita.

Splinter non aveva potuto vedere altro che i piedi del figlio minore, dopo che questi era stato delicatamente adagiato per terra, fuori dall’inquadratura, per le manovre di soccorso. Il maturo mutante si era sentito intorpidito, ogni sensazione come avvolta nel ghiaccio. Aveva ascoltato la fredda diagnosi di Donatello, che non sentiva il battito, le maledizioni con voce rotta di Raffaello e le preghiere mormorate di Leonardo, mentre i piedi senza vita nell’inquadratura restavano immobili, durante i lunghissimi, infiniti minuti durante i quali Donatello aveva praticato le tecniche di rianimazione cardiopolmonare alla tartaruga inerte. Il tempo si era dilatato in un’irreale dimensione d’angoscia, ed un padre non aveva potuto far altro che pregare.

Il ratto mutante si allontanò dalla scrivania. Le gambe erano più stanche di quanto avesse mai ricordato. Forse, pensò, la vecchiaia non sarebbe venuta dal corpo, dalle ossa, dai muscoli, ma piuttosto dallo spirito; sarebbe arrivata alle sue spalle, come un’ombra, per sussurrare nell’orecchio canzoni di morte.

Gli andava bene. Era il naturale corso della vita, l’eterno fluire dell’esistenza.  A patto che la morte non toccasse i suoi figli.

Quando lo Shellraiser arrivò sui binari davanti alla serranda del laboratorio, il maestro ninja era già lì, avendolo sentito da lontano. Le porte si aprirono, col consueto irriverente dling, ed i suoi ragazzi ne uscirono fuori.

Tra Leonardo e Raffaello, che lo sorreggevano, c’era Michelangelo, avvolto in una coperta isotermica.

Il mutante con le lentiggini era aggrappato ai fratelli, che lo sostenevano da sotto le braccia, portando la maggior parte del peso; eppure, camminava con le sue gambe, seppur lentamente. Leonardo teneva con una mano anche una piccola bombola di ossigeno.

Michelangelo alzò lo sguardo al padre, e da dietro la maschera d’ossigeno, sorrise. Splinter si domandò se esistesse al momento nell’universo qualcosa di più meraviglioso;  talmente radioso da scaldare all’istante il suo cuore e rischiarare tutta la loro casa qui nel sottosuolo di New York.

Come se stringessero qualcosa di estremamente fragile e prezioso, avanzando piano e con attenzione, i due fratelli maggiori condussero Michelangelo verso il lettino che si trovava nella parte del laboratorio adibita ad infermeria.

“Fatelo sdraiare” ordinò Donatello, passando davanti.

“Come sta?” gli chiese Splinter, accorso a fianco dei figli. Insieme, aiutarono Michelangelo a sedersi sul lettino, quindi Donatello con delicatezza ma con fermezza lo fece distendere.

“Voglio tenerlo sotto controllo e monitorare il cuore per qualche ora; è tachicardico, ma dovrebbe passare presto. E voglio ascoltare se i polmoni lavorano come dovrebbero: fosse stato un umano l’acqua avrebbe quasi sicuramente rovinato gli alveoli; credo lo abbia salvato essere per metà tartaruga. Se scongiuriamo una polmonite, direi che sì, starà bene. Sarà dolorante per qualche giorno, ha il piastrone lievemente incrinato… per… umh…” Donatello rilasciò un profondo respiro, e fece un gesto vago con le mani. “Inoltre è ancora in ipotermia, l’acqua era gelida.” Si allontanò dal lettino e prese ad armeggiare nell’armadietto dove teneva le forniture mediche. “Per questo ha resistito così a lungo senza respirare, il freddo ha rallentato il suo metabolismo.”

Michelangelo si scostò la mascherina dal viso.

“Nuovo record!”gracchiò, e fece un sorriso furbo. “Quanto tempo?” chiese, prima di iniziare a tossire violentemente. Nonostante l’aria da guascone, il suo volto era ancora tirato e stanco.

“Rimetti la mascherina!” gli urlò Donatello da dietro l’anta dell’armadietto.

Leonardo e Raffaello si guardarono, indecisi su cosa rispondere, perché no, non avevano proprio contato il tempo e no, Michelangelo non aveva resistito in apnea, ma vi era proprio morto, almeno per qualche minuto. Leonardo rabbrividì al pensiero; Raffaello se ne accorse e capì il perché: si sentiva esattamente allo stesso modo. Anche se il peggio era ormai alle spalle, la sensazione di sollievo non aveva ancora scacciato del tutto i residui dell’angoscia provata. Il tremendo ricordo di questa esperienza li avrebbe accompagnati a lungo.

“Più di mezz’ora, figlio mio. Sei stato molto bravo, sono fiero di te.” Splinter mise una mano sulla spalla del suo ragazzo più giovane; l’argentata coperta isotermica scricchiolò.

Michelangelo ridacchio da sotto la maschera.

“Sono incartato come un cioccolatino.”

Raffaello sbuffò, con un sorriso.“Non sarà troppo l’ossigeno?”

“No, Raph.” Donatello aveva portato alcuni flaconcini e dell’attrezzatura medica e li stava poggiando sul carrello vicino al lettino. “È una miscela respiratoria con appena un po’ più ossigeno dell’atmosfera.”

La tartaruga con le lentiggini ridacchiò ancora più forte, e borbottò qualcosa di incomprensibile su gattini gelato.

“Beh, forse un bel po’ di più” fece il viola, imbarazzato, alzando le spalle e rimuovendo la mascherina dal volto del fratello; quindi indossò gli auricolari dello stetoscopio.

L’alba riversava la sua luce dorata, fin dalla superficie, lassù in alto, attraverso la presa d’aria sopra il grande albero del dojo.

Splinter si era già alzato, nonostante non avesse dormito che un paio d’ore. Era adesso davanti la porta aperta della camera di Michelangelo.

Per terra, all’interno della stanza, c’era un caotico agglomerato di materassi, coperte, cuscini e adolescenti mutanti. Splinter sorrise. Piano, per non svegliare i ragazzi, si avvicinò e sistemò una coperta scivolata giù dal guscio di Donatello, allontanò di qualche piede le sai che Raffaello aveva poggiato per terra al suo fianco e osservò ancora una volta l’occhio nero sul volto di Leonardo; riguardo a questo piccolo infortunio aveva una sua ipotesi, supportata dagli sguardi bassi ed imbarazzati che Donatello aveva rivolto all’ecchimosi del fratello dopo che erano ritornati nella tana.

Si accostò infine a Michelangelo. L’adolescente mutante, senza maschera, respirava rumorosamente dalla bocca socchiusa; aveva un’espressione così vulnerabile, con i muscoli del viso rilassati dal sonno, le lentiggini visibili anche nella penombra della stanza. Sembrava ancora un bambino. Eppure, si era comportato come il vero coraggioso ninja che era, e Splinter non aveva affatto esagerato, quando gli aveva detto di essere fiero di lui.

Quasi come se si sentisse osservato, Michelangelo si mosse nel sonno, mugugnando piano e sistemando la testa sul braccio del fratello più vicino. Sul collo della tartaruga più giovane erano adesso ben visibili i lividi che lui stesso si era procurato durante la frenesia dell’annegamento. Il sorriso sul volto di Splinter si spense.

Qualche ora prima, dopo l’euforia da ossigeno, Michelangelo era apparso molto provato. Aveva rivolto frasi scherzose a Donatello mentre questi lo visitava e si era sforzato di mostrarsi allegro con gli altri fratelli e con il padre, ma Splinter aveva visto chiaramente quanto il figlio fosse esausto e profondamente turbato dall’esperienza. Durante il racconto di Leonardo su come si fossero svolti i fatti della serata, lo sguardo azzurro del mutante più giovane si era perso, vuoto e smarrito, a contemplare il liquido di una flebo che Donatello aveva ritenuto di dovergli somministrare.

Pensieri funesti, di rabbia, rancore e vendetta, attraversarono la coscienza di Hamato Yoshi. Ma, con disciplina, li scacciò in una gabbia in fondo alla sua mente, come draghi ruggenti; il suo animo si rasserenò ancora una volta, placato dall’amore e dall’orgoglio che provava verso questi suoi quattro giovani guerrieri.

Silenzioso come le ombre stesse della tana, scivolò fuori dalla stanza.

La città sopra le loro teste, come sempre ignara, iniziava a svegliarsi.

 

 

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