Tutto il gin di Calcutta di Old Fashioned (/viewuser.php?uid=934147)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
Grosvenor 1
TUTTO IL GIN DI CALCUTTA
Capitolo 1
Quando il tenente Eldred
Grosvenor riprese i sensi e si trovò a torso nudo, supino su
una
lastra di pietra e incatenato per i quattro arti, capì che
non era
una buona giornata.
Si guardò intorno
ancora
stranito e per un po’ fu quasi convinto di essersi preso la
sbronza
peggiore della sua vita: era in una stanza semibuia, dal soffitto
così alto che si perdeva nell’oscurità.
Le pareti erano un
groviglio di altorilievi di persone e animali, la luce danzante delle
fiaccole creava l’illusione che le figure palpitassero di
vita.
Illuminata dal bagliore sanguigno di due bracieri, incombeva su di
lui la forma gigantesca di una donna con quattro braccia, una collana
di teschi e una cintura di membra recise. Il volto era atteggiato a
un’espressione di ira furente e dalla bocca zannuta la lingua
le
scendeva fino al mento. L’effigie era dipinta in colori
più o meno
realistici e aveva una chioma scomposta di capelli veri che le
scendeva fino alla vita.
L’aria afosa e
appesantita
dagli incensi vibrava del selvaggio frastuono di cembali e tamburi.
Voci roche modulavano un canto cercando di sovrastare gli strumenti.
Deglutì a vuoto e
nonostante il
caldo la pelle nuda del torace gli si increspò in un brivido
ghiacciato. Se le sue scarse conoscenze di induismo non lo tradivano,
quella virago
era la dea Kali.
Il che significava che era
prigioniero dei thug.
Ignorava in che modo e
perché
ciò si fosse verificato. E ignorava altresì
perché i thug, dei
quali aveva sempre sentito parlare come di un fenomeno estinto e
relegato nella leggenda, fossero invece vivi e vegeti.
L’unica cosa che
sapeva per
certo era che entro breve sarebbe arrivato qualcuno con la pretesa di
strangolarlo.
L’attesa in effetti
non fu
lunga: a un tratto la musica tacque e nel silenzio un passo misurato
si avvicinò. Un uomo si piegò su di lui.
Grosvenor lo fissò
e gli occhi
gli si dilatarono per la sorpresa. “Maharaja?”
mormorò
stupefatto. Nonostante non portasse più il prezioso
sherwani* e il
turbante ingioiellato con cui aveva accolto le truppe inglesi, il
nuovo arrivato era indubbiamente Suraj Singh di Barhdaman.
“Vi
prego, ditemi che questa è un’antica usanza di
ospitalità delle
vostre parti,” soggiunse scrutandolo incerto.
L’uomo gli rivolse
un freddo
sorriso. “Che questa sia un’usanza antica non ve lo
nego,”
rispose compito, “ma di certo non si tratta di
ospitalità. Voi
inglesi non siete precisamente quelli che definirei graditi
ospiti.”
“Sì,
ma...” L’ufficiale
pensò che prendere tempo non sarebbe stata una cattiva idea,
anche
solo per capire cosa stava succedendo. “Ma ci avete chiamati
voi
nel vostro palazzo, volevate degli istruttori per i vostri
soldati…
Ecco, non pareva proprio che la nostra presenza vi infastidisse. E
comunque bastava non chiamarci.”
“Non vi abbiamo certo chiamati
in India, giusto?” Gli occhi neri e pesantemente bistrati del
maharaja ebbero un brillio di fanatismo.
“Ammetto che forse ci siamo
presi qualche libertà eccessiva,” rispose
l’ufficiale in tono
conciliante.
“Già, forse un
tantino
eccessiva,” replicò l’uomo con glaciale
calma.
Nel frattempo si udiva il
tramestio di decine di piedi scalzi. Figure a torso nudo, col capo
coperto da un semplice turbante chiaro, stavano lentamente
circondando l’altare.
“Suppongo che liberarmi,
offrirmi da bere e rimandarmi a Calcutta sia fuori
questione?” si
informò con discrezione il tenente.
Il maharaja non si prese
neppure
la briga di rispondergli. Con gesti misurati cominciò a
srotolare la
sottile fascia di seta che teneva avvolta in cintura, poi la strinse
con entrambe le mani e la sollevò solennemente verso la
statua di
Kali. La tese con un gesto rapido, facendola schioccare.
“Aspettate!”
esclamò il
tenente. “Aspettate un attimo, dannazione!”
L’altro si
voltò infastidito
verso di lui. “Non avrete il cattivo gusto di mettervi a
implorare,
spero.”
“Sono rassegnato al mio
destino,” gli assicurò l’ufficiale in
tono grave. “Posso
almeno esprimere un ultimo desiderio?”
Suraj Singh sbuffò
seccato.
Grosvenor stabilì che si trattava di un segno di assenso.
“Venite
più vicino.”
“Cosa?”
“È
sconveniente.”
“Che cosa sarebbe
sconveniente?”
“L’ultimo desiderio.
Voglio
dirvelo in un orecchio.”
Suraj Singh fece schioccare di
nuovo la fascia di seta. Con una certa precipitazione,
l’ufficiale
disse: “Non avrete paura di un prigioniero con le mani e i
piedi
legati, voglio sperare. Che fine ha fatto il vostro leggendario
coraggio?”
Dopo qualche secondo di
esitazione, con gli occhi di tutti i suoi uomini puntati su di lui,
il maharaja si chinò avvicinando il viso a quello di
Grosvenor.
“Ebbene, il vostro ultimo desiderio?”
domandò seccato.
“Questo!”
esclamò l’inglese
buttando la testa in avanti con tutte le sue forze. Colpì in
pieno
il suo antagonista, che emise un grido inarticolato e
barcollò
all’indietro zampillando sangue dalla bocca.
Grosvenor scrollò
il capo e i
due incisivi che gli erano rimasti piantati nel sopracciglio caddero
a terra tintinnando. Il suo sangue si unì a quello del
maharaja
sull’altare.
Si abbandonò
all’indietro con
un sospiro appagato. “Creperò ugualmente, ma
almeno mi sono tolto
una soddisfazione.”
Alla vista di Suraj Singh
ferito,
l’ira dei thug esplose furibonda. Tutti si agitavano e
inveivano,
il tenente fu colpito più volte, uno lo prese addirittura
per i
capelli e gli sbatté la testa contro la pietra
così forte che per
qualche secondo l’ufficiale vide tutto nero, ma nessuno
pareva
intenzionato a mettergli un laccio al collo. Dopo averlo malmenato in
vari modi sciolsero le catene che lo tenevano avvinto e lo portarono
fuori dal tempio. Si scambiarono rapide frasi nella loro lingua, poi
in quattro lo sollevarono alla meglio e lo trascinarono via.
Semisvenuto e dolorante,
l’ufficiale non riusciva a opporre alcuna resistenza.
Arrivarono
all’aperto, la luce forte gli fece sbattere gli occhi.
Percepì il
calore bruciante del sole sulla pelle e un odore di decomposizione
talmente forte da dargli la nausea.
Lo lasciarono cadere a terra
bocconi, poi si scambiarono altre frasi. Sentì il rumore di
una lama
che veniva sfoderata.
Tentò di alzarsi,
ma qualcuno lo
bloccò premendogli un piede sulla schiena.
Poi dietro le sue spalle ci fu
un
grido soffocato, e un corpo gli crollò addosso. Dopo un
frenetico
tramestio, altri due corpi si abbatterono al suolo. Sentì
delle mani
afferrarlo e rivoltarlo sulla schiena, il gesto aveva una certa
connotazione di premura. “Come state, signore?”
chiese una voce.
Grosvenor cercò di
aprire gli
occhi, ma accecato dal sangue e dal sole che gli batteva in faccia,
vedeva solo una sagoma scura con un turbante. L’altro
sembrò
capirlo e si spostò in modo da proiettargli addosso la
propria
ombra.
Il tenente mise a fuoco
l’immagine: a prima vista era un giovane thug. Torso nudo,
turbante
chiaro, pelle olivastra, capelli neri lunghi fino alle spalle, un
accenno di barba e baffi. “Con chi ho
l’onore?...” mormorò
mentre tentava di sollevarsi sui gomiti.
Di nuovo l’altro
intervenne
aiutandolo a mettersi seduto. “Potete chiamarmi Chāyā**.
Come vi sentite?”
“Come una palla da rugby alla
fine della partita. Che cos’è successo? Chi siete?
Perché non mi
hanno fatto secco là dentro? Che cos’è
questo odore terribile?”
L’altro si
guardò rapidamente
intorno, poi disse: “Ora non c’è tempo
per le domande. Visto che
non hanno potuto sacrificare voi, quando avranno finito di purificare
l’altare andranno a prendere un altro prigioniero. Riuscite a
camminare?”
“Direi di
sì.”
“Bene, seguitemi.”
Con una certa fatica, il
tenente
Grosvenor si alzò in piedi. Per terra c’erano i
corpi di tre thug
sgozzati come capretti, il sangue fresco si stava rapidamente
coprendo di mosche. “Siete stato voi a fare
questo?” chiese
meravigliato.
“Non c’era altro da
fare,”
fu la sbrigativa risposta. “Ora muovetevi: dobbiamo salvare
gli
altri inglesi.”
“Dove sono?”
“Seguitemi!”
Per quanto ancora dolorante,
l’ufficiale cercò di tenere il passo svelto
dell’indiano. Si
trovavano in una stretta gola, tra templi dalla struttura poderosa,
composti di più livelli, con le facciate scolpite. Alcuni
erano
talmente massicci da dare l’impressione di essere stati
scavati
direttamente dal fianco della montagna, ma tutti sembravano
abbandonati da tempi immemorabili. Tra essi correvano degli stretti
corridoi che si intersecavano ortogonali. Chāyā
si muoveva con disinvoltura, dando l’impressione di conoscere
il
posto molto bene.
“C’è un
piccolo problema,”
disse il tenente cercando di non rimanere troppo indietro.
“E sarebbe?” chiese
il
misterioso giovane senza nemmeno voltarsi.
“Io sono più
disarmato di un
reverendo.”
“Non preoccupatevi: voi dovrete
solo distrarre il guardiano.”
Chissà
perché, Grosvenor se
l’era immaginato. Il guardiano, che stavano osservando da
dietro
una scultura, era alto un palmo più di lui e largo quanto
lui e
Chāyā messi insieme. Le sue mani davano l’impressione di
poter
stritolare la pietra dei templi come ricotta, un’enorme barba
nera
gli arrivava fino al petto e in cintura oltre al rumal***
aveva una frusta da bestiame. “Che
dite, provo a declamargli qualcosa di Byron?” propose il
tenente
sardonico.
“Dovete
solo distrarlo, al resto penserò io.”
“Non
vorrei che la sua distrazione consistesse nel fare a pezzi il
sottoscritto.”
“Non
abbiamo molto tempo,” gli ricordò Chāyā.
“D’accordo,
d’accordo.”
Il gigante sedeva davanti a un
piccolo tempio che a differenza degli altri aveva sbarre alle
finestre e una porta di legno chiusa da un elaborato lucchetto.
Grosvenor uscì da
dietro la
statua passeggiando come se fosse stato in Trafalgar Square.
“Buon
giorno,” disse affabile al guardiano, “mi chiedevo
se qualcuno
avesse mai visto da queste parti una scimmia a tre teste. Sapete,
sono un naturalista, e così...”
Non fece in tempo a finire la
frase: con imprevista velocità, l’uomo
saltò in piedi e sfilò il
rumal dalla cintura, quindi cominciò a farlo roteare
nell’aria. La
sfera di metallo che ne appesantiva l’estremità
mandava un sibilo
sinistro.
Grosvenor si voltò
per correre
via, ma non aveva fatto il primo passo che già il laccio gli
si
stava avvolgendo intorno al collo. Fece appena in tempo a mettere una
mano tra la gola e le spire di seta poi il peso lo colpì
alla tempia
facendolo cadere a terra.
Pur stordito dalla botta,
cercò
di rialzarsi e liberarsi del rumal, ma il guardiano gli si
buttò
addosso con tutta la sua mole, strappandogli un gemito soffocato.
Si rigirò sulla
schiena, sferrò
un pugno in piena faccia al gigante. Questi si limitò a
scrollare la
testa e a emettere un grugnito di disappunto, poi come se niente
fosse afferrò le due estremità del laccio e
cominciò a tirare come
per chiudere un sacco.
Più che agitarsi
come una trota
presa all’amo, Grosvenor non riusciva a fare: il suo
antagonista
aveva una forza spaventosa, inoltre incassava i pugni come il fianco
di un pachiderma. Per quanto lui cercasse di colpirlo con tutte le
sue forze, l’unica cosa che otteneva a parte farsi male alla
mano
era che l’altro rinsaldasse la stretta sul laccio.
La vista gli si fece nera.
“Signore!
Signore!”
Grosvenor si accorse che
qualcuno
lo stava scuotendo per le spalle. Riemerse faticosamente dal buio per
trovarsi faccia a faccia con Chāyā, che in ginocchio accanto a lui
cercava di farlo rinvenire.
Il tenente tossì,
si passò una
mano sulla gola dolorante. “Alla
buon’ora,” protestò, ancora
afono dopo la recente esperienza di strangolamento, “volevate
godervi lo spettacolo?”
“Alzatevi,
non c’è tempo!”
“Aspettate
un attimo, non so nemmeno se sono ancora vivo.”
“Dobbiamo
fare in fretta, tra un po’ arriveranno!”
“Sapete,
voi mi ricordate tanto il Bianconiglio,” brontolò
l’ufficiale,
puntellandosi su un gomito per rimettersi in piedi, ma Chāyā non lo
stava più ascoltando: era chino sul corpo del guardiano e lo
stava
palpando da tutte le parti. “Eppure ci deve
essere,” mormorò.
Poi alzò gli occhi sull’inglese e a voce
più alta aggiunse:
“Datemi una mano, presto!”
“A
fare che?”
“Dobbiamo
cercare la chiave, so che la porta sempre addosso.”
“Sapete
un sacco di cose, mi pare.”
“È
il mio mestiere. Ora aiutatemi, non abbiamo tempo.”
La chiave era in un posto che
in
qualità di gentiluomo Grosvenor trovò dei
più sconvenienti. Era
anche sudaticcia, e viscida per motivi che il tenente
preferì non
approfondire. “È questa?” chiese
reggendo con due dita
un’elaborata chiave di ottone appesa a una catenella.
“Date
qua,” disse per tutta risposta Chāyā. Fece scattare il
lucchetto,
spalancò la porta e con un gesto che a Grosvenor parve assai
strano
si fece rapidamente da parte.
Un istante dopo
uscì dalla cella
come un treno il sergente Jenkins, con l’uniforme che
sembrava
pronta per un’ispezione e uno sgabello brandito come una
specie di
clava. “Dove sei, sporco mangiacurry?”
inveì guardandosi
intorno. Poi vide il tenente, abbandonò
l’improvvisata arma e
salutò militarmente. “Felice di rivedervi vivo,
signore!” disse
in tono marziale.
“Anch’io
sono felice di rivedervi, sergente. C’è qualcun
altro dei nostri
con voi?”
Uscirono dalla cella anche
Thayes
e Barrett, due soldati del suo plotone. Il primo dovette chinarsi per
evitare di sbattere la fronte contro la porta e si mise un
po’ di
traverso per far passare le spalle. Il secondo, un diciottenne con
l’aria di uno che pensava di andare in seminario e invece si
era
ritrovato nei fucilieri, reggeva con deferenza la sua giacca.
“Grazie,
soldato,”
disse il tenente indossandola. “E ora andiamocene da
qui.”
Al seguito
dell’indiano, i
quattro corsero verso l’imboccatura della gola. Man mano che
procedevano, le pareti del canalone si abbassavano e si stringevano,
e da esse debordava una vegetazione lussureggiante. Di pari passo, il
tanfo di decomposizione che stagnava nell’aria andava
facendosi
sempre più intenso.
Barrett era già
bianco come un
cencio e c’era da scommettere che entro breve avrebbe
cominciato a
vomitare, ma persino il sergente Jenkins, sebbene impassibile, era
piuttosto grigio in faccia.
Alla fine della gola, la
giungla
li accolse come un muro: afa, frinire di migliaia di insetti, piante
di ogni genere che crescevano le une addosso alle altre, bestie in
agguato. Chāyā si infilò risolutamente nella macchia, in un
punto
dove a ben guardare si scorgeva qualche leggera traccia di passaggio.
“Presto!” raccomandò per
l’ennesima volta.
Corsero schivando rami e
saltando
tronchi caduti per un tempo imprecisato, poi la vegetazione parve
diradarsi. Tra le fronde dei ficus e dei banyan apparve un lembo di
cielo caliginoso, nel quale roteavano lente le sagome nere degli
avvoltoi.
Rallentarono.
L’odore era ormai
insopportabile. Prendeva alla gola, impregnava i vestiti. Ogni
respiro era una pena.
Quando la vegetazione si
esaurì
del tutto lasciando spazio a una radura, i quattro inglesi
impietrirono. Barrett si afflosciò direttamente a terra
privo di
sensi e Thayes dovette correre a vomitare. Grosvenor aprì la
bocca
per dire qualcosa, ma si accorse di essere senza parole.
Il sergente Jenkins fu il
primo a
riprendersi: “Per le braghe di Belzebù,”
imprecò, “io ne ho
viste di porcherie fatte dai selvaggi, ma questa le batte veramente
tutte!”
Quella che stavano con orrore
contemplando era una fossa comune. Dentro c’erano decine di
corpi,
tutti maschi, di pelle bianca e nudi. Ognuno di essi aveva il ventre
squarciato, dal quale fuoriuscivano i visceri.
Il caldo soffocante aveva
accelerato i processi di decomposizione e i corpi avevano i volti
enfiati e nerastri, nei quali era ormai impossibile riconoscere i
lineamenti. Tutti avevano il collo segnato da un profondo solco
orizzontale.
Gli avvoltoi saltellavano
sulla
distesa di cadaveri godendosi il macabro banchetto. Nugoli di mosche
ronzavano ovunque.
“Li
hanno strozzati tutti,” disse Jenkins, la voce che fremeva di
sdegno, “tutti quanti.” Alzò lo sguardo
verso Chāyā. “E
perché sbudellarli come bestie al macello? Questo non
è il modo di
trattare dei soldati.”
“È
l’usanza dei thug,” disse il giovane senza
guardarlo, “quando
derubano le carovane lo fanno per evitare che i gas della
putrefazione rivelino dove hanno sepolto i cadaveri.”
“Ma
perché non ricoprirli di terra, almeno?”
“Aspettavano
di buttare dentro anche voi.”
Nessuno si sentì di
replicare.
Thayes rianimò alla meglio il commilitone che giaceva ancora
a terra
svenuto, poi si lasciarono alle spalle la raccapricciante fossa per
ributtarsi nella giungla.
Continuarono a camminare nel
folto della vegetazione, seguendo un sentiero che solo Chāyā era in
grado di scorgere. Andarono avanti senza fermarsi fino al tardo
pomeriggio. Grosvenor era esausto. Era assetato, dolorante
dappertutto e tormentato dagli insetti che si accanivano intorno alla
ferita ancora aperta che aveva sul sopracciglio. Il sudore e il
sangue gli avevano inzuppato l’uniforme, rendendola ruvida
come
carta vetrata. Fossero stati solo lui e l’indiano, gli
avrebbe
semplicemente comunicato che stava per crollare dalla stanchezza, ma
sentiva su di sé lo sguardo di Jenkins e dei due soldati, e
ciò lo
convinse a non aprire bocca.
Col tono più neutro
che riuscì
a tirare fuori, si informò di quanto mancava.
“Non
molto,” rispose Chāyā
Il
tenente non replicò. Il non
molto
di quel tizio non lo convinceva per niente, tuttavia non aveva altra
scelta che farsi bastare quella scarna rassicurazione. Per distrarsi
cominciò a calcolare quanto gin e quanta acqua tonica
sarebbero
stati necessari per estinguere la sua sete una volta rientrato a
Calcutta.
Era ancora immerso nei suoi
conti
quando arrivarono ai margini di uno spiazzo lastricato. In
più punti
il pavimento era sconnesso perché le pietre erano state
sollevate
dalle radici degli alberi, ma era accuratamente pulito. Al centro di
quello spazio così tenacemente conteso alla natura sorgeva
un tempio
di mattoni. La costruzione era antica e mostrava i danni del tempo,
ma aveva una generale apparenza di ordine e decoro. I gradini che
conducevano all’ingresso recavano i segni di innumerevoli
offerte
di gulal**** rosa e viola, ai due lati della scalinata
c’erano
vecchi vasi di terracotta con piante fiorite.
Una donna con un saree
colorato
si stava apprestando a entrare nella costruzione.
Senza uscire dalla macchia,
Chāyā
imitò il verso di un uccello. La donna si voltò
nella sua
direzione. Sembrava che lo vedesse, perché i suoi occhi
erano
puntati con sicurezza verso di lui. Rispose con lo stesso suono.
“Andiamo,”
disse semplicemente l’indiano, muovendosi per raggiungerla.
Imitato
dagli altri, Grosvenor lo seguì.
Il tenente, che pensava di
essere
esausto, dovette ricredersi: non era mai stato così esausto
in tutta
la sua dannata esistenza. Appena la donna gli indicò un
posto dove
sedersi vi crollò sopra, e decise che non si sarebbe
più alzato di
lì nemmeno se a sloggiarlo si fosse presentata la dea Kali
in
persona.
Tentò di
ricostruire gli ultimi
avvenimenti, ma nessun pezzo sembrava combaciare con gli altri.
Tutto
era cominciato con una tigre del Bengala che aveva accidentalmente
dimenticato
nello studio del generale Harris dopo una serata di libagioni. Il
generale non l’aveva presa bene e Wilson, il suo colonnello,
aveva
pensato di aggregare lui e il suo plotone al contingente del maggiore
Shaw, in modo da sottrarlo per un po’ alla vista del
furibondo
superiore.
Il maggiore doveva compiere
una
missione che sembrava quasi una passeggiata, ovvero andare da un
maharaja e fornirgli istruttori inglesi per i suoi soldati, quindi
sarebbe stato un buon modo per tenersi alla larga da Calcutta per un
po’.
Suraj
Singh aveva accolto i militari nel migliore dei modi: bevande
fresche, acquartieramenti ombrosi e ventilati per la truppa, danze e
musiche in onore degli amici
britannici...
E poi si era ritrovato legato
su
un altare in attesa di farsi tirare il collo come una gallina.
A parte i tre che aveva
recuperato, e che probabilmente erano stati tenuti in vita per essere
a loro volta sacrificati, gli altri erano stati ammazzati dal primo
all’ultimo.
“Chāyā,”
mormorò, la voce debole per la stanchezza.
“Signore?”
“Avete
detto che sapere cose è il vostro mestiere. Non disdegnerei
qualche
spiegazione.”
L’altro emise un
sospiro, poi
disse: “Lasciate che Kaur si occupi delle vostre ferite. Dopo
parleremo.”
Nonostante non fosse la dea
Kali,
la donna riuscì a farlo alzare e lo condusse in una specie
di stanza
da bagno. Lo spogliò quanto la decenza consentiva, senza
né un gran
sfoggio di pudicizia né sfrontatezza, poi
cominciò a lavare le sue
varie ferite. “Vi fa male?” chiese picchiettandogli
un panno
umido sul sopracciglio.
“Un
po’,” rispose Grosvenor a denti stretti,
sobbalzando a ogni
tocco.
“Preferite
che lasci stare?”
Sì,
vi prego, mi state facendo un male orribile e voglio solo dormire.
“No, non preoccupatevi.”
Per cercare di distrarsi, il
tenente prese a osservare Kaur. Era una donna di
mezz’età, né
alta né bassa, né bella né brutta,
né magra né grassa, con un
abito né troppo vistoso né troppo dimesso. Il
genere di persona che
nessuno avrebbe guardato una seconda volta.
La prima cosa che gli venne in
mente fu che anche Chāyā era così. Un giovanotto talmente
anonimo
che nessuno l’avrebbe notato, a meno che non fosse stato lui
a
volersi far notare.
Pensò a madre e
figlio, ma i due
non si assomigliavano per niente.
E poi, guardando meglio la
donna,
si accorse che in realtà era molto più giovane e
piacente di quello
che voleva far vedere, e che il saree era drappeggiato in modo da
nascondere il più possibile le sue forme.
“Kaur,
chi siete?” le chiese.
“Nessuno,”
rispose la donna con un vago sorriso, continuando a medicarlo.
“C’era
un tale che diceva di chiamarsi così, ed era famoso per
essere
dannatamente furbo.” Il tenente alzò gli occhi su
di lei. “Mi sa
che voi siete come quel tale.”
L’altra si
schermì con fare
modesto. “Siamo dalla vostra parte comunque.”
“Siamo?
Quanti siete?”
“Chāyā
vi spiegherà tutto.”
Il misterioso giovane si
ripresentò dopo cena. Nel frattempo aveva dismesso i panni
da thug e
indossava una casacca chiara e un paio di pantaloni. In testa aveva
aveva un semplice foulard arrotolato alla maniera dell’Asia
Centrale.
Raccolse una lanterna e un
portasigarette poi disse: “Venite con me, tenente.”
Condusse l’ufficiale
nella sala
principale del tempio, e da quella su per una scaletta di pietra.
Arrivarono a una stanza piccola, arredata con un tappeto, cuscini sul
pavimento e un tavolino centrale. Le tende dell’unica
finestra
ondeggiavano spinte dalla brezza notturna.
Chāyā fece segno al tenente di
accomodarsi, quindi si sedette a sua volta e si accese una sigaretta
sulla fiammella della lanterna. Spinse poi il portasigarette verso
Grosvenor.
I due fumarono in silenzio per
un
po’, ascoltando i rumori della foresta di notte. Le ombre
danzavano
sulle pareti, l’aria era satura di profumi. Il tenente
pensò che
quel posto era come tutta l’India: affascinante, pericoloso e
con
poco alcol. “Ucciderei per un gin tonic,”
sospirò.
“Temo
che per un po’ dovrete farne a meno,” disse
l’altro, poi di
punto in bianco gli chiese: “Cosa sapete del Grande
Gioco?”
L’ufficiale si
appoggiò
all’indietro sui cuscini come chi si appresta ad ascoltare
qualcosa
di molto interessante e se lo vuole godere stando comodo. Il Grande
Gioco era roba forte. “Che è una guerra di spie
tra noi e l’Impero
Russo, principalmente. Che solo i soldati più capaci dei due
schieramenti vi prendono parte.”
“Sapete
il necessario. Conoscete i pandit?”
“So
che esistono, anche se non ne ho mai visto uno.”
“Perché
normalmente non ci facciamo vedere.”
Grosvenor stava per alzare le
sopracciglia in segno di stupore, poi ripensò alla
medicazione di
Kaur e decise di rimanere impassibile. “Questo significa che
voi
siete un pandit?” si limitò a chiedere.
“Esattamente.”
“Si
spiegano molte cose,” considerò il tenente,
pensando all’abilità
nel combattimento che l’anonimo giovanotto aveva dimostrato.
“E
Kaur?”
“Lei
non compie missioni, ma è comunque una nostra
agente.”
Chāyā finì la
sigaretta,
schiacciò il mozzicone sul pavimento e lo
appoggiò da una parte,
poi spazzolò via con la mano ogni traccia di cenere dalle
pietre. Si
accorse che l’ufficiale stava seguendo i suoi movimenti con
lo
sguardo e in tono quasi di scusa disse: “La prima cosa che ci
abituano a fare è non lasciare tracce.”
“Capisco.”
L’altro si morse il
labbro,
giocherellò un po’ con un lembo del foulard che
portava in testa e
finalmente si decise a dire: “Queste sono informazioni
riservate,
che normalmente non rivelerei a nessuno, ma qui si tratta di un caso
di emergenza, diciamo così. Io vi ho aiutati, ma ora voi
dovete
aiutare me, è una cosa della massima importanza.”
Grosvenor sorrise.
“Con il
sottoscritto dovrete accontentarvi un po’, ma farò
del mio meglio.
E ora volete finalmente dirmi le cose che in situazioni normali non
rivelereste a nessuno? Purché che non siano sconvenienti,
però.”
Chāyā ignorò la
battuta, forse
troppo teso per coglierla. Si accese un’altra sigaretta e per
un
po’ fumò dando l’impressione di essere
immerso in pensieri
tormentosi.
Alla fine prese un gran
respiro e
disse: “La spia più abile dei russi è
un uomo di Khiva che si fa
chiamare O’lim*****. Attualmente costui si trova proprio qui
nel
Bengala, e ha la missione di scatenare una rivolta anti-britannica
per indebolire l’Impero e fare in modo che i disordini
interni
rallentino la sua espansione verso l’Asia Centrale. Per
ottenere
tutto questo sta fomentando il fanatismo dei thug e sta finanziando
il movimento indipendentista indiano, che proprio a Calcutta ha la
sua roccaforte. In occasione della Conferenza Nazionale
assassinerà
il Governatore e dopo sarà il caos.”
A quelle sconcertanti
rivelazioni
Grosvenor mostrò l’imperturbabilità di
un Sadhu Ramanandi******.
Solo dopo aver fumato, in mancanza di alcol, un’altra
sigaretta,
nel più puro gergo militare proferì:
“Al tempo.”
“Al
tempo?”
“Intendo
dire, con calma e nel dovuto ordine. Da dove arriva questo
O’lim,
tanto per cominciare?”
“Ve
l’ho detto, è una spia russa.”
“E
voi come fate a sapere che è qui?”
L’altro
sbuffò. “L’ho
seguito.”
“C’è
un motivo per cui non l’avete ancora fermato, se sapete
dov’è e
cosa vuole fare?”
“Sì,
che non ci sono riuscito.”
“Com’è
fatto?”
“Non
avrebbe alcun senso che ve lo descrivessi. Può diventare
quello che
vuole, ancora più di me. Se gli serve essere un bramino
è bramino,
se no sadhu, o sepoy, o persino donna.”
“Anche
vacca sacra?”
Chāyā non poté fare
a meno di
sorridere: “No, vacca sacra no.”
“È
già qualcosa.”
Fra i due calò il
silenzio. Di
nuovo la notte tropicale li avvolse con i suoi mille suoni
misteriosi. La lanterna colorata creava un’atmosfera
ipnotica, che
invitava all’abbandono.
Dopo un po’,
Grosvenor disse:
“Per quello che ne sapevo, il problema dei thug aveva smesso
di
esistere cinquant’anni fa.”
“Dopo
oggi ne siete ancora convinto?”
“Decisamente
no, ma non capisco come mai sono tornati fuori, e perché fra
loro
c’è addirittura un maharaja.”
“I
thug in realtà non hanno mai smesso di esistere, il generale
Sleeman
li solo fatti ritirare nella segretezza. I maharaja li hanno sempre
usati come sicari e assassini prezzolati, e molti potenti erano e
sono thug a loro volta.”
“Ho
capito. E voi cosa facevate oggi al tempio della dea Kali?”
“Seguivo
le mosse di Suraj Singh. So che deve incontrarsi con O’lim
per
ricevere da lui denaro e documenti.”
Grosvenor lo fissò
sorpreso.
“Quindi il nostro maharaja è un traditore al soldo
dei russi?”
“Esatto.
Nello stile dei thug ha drogato e poi ucciso tutti gli inglesi per
evitare che trapelasse la notizia del suo tradimento, e state pur
certo che starà cercando anche voi e i vostri uomini per
farvi fare
la stessa fine.”
“Motivo
in più per non separarci, noi e voi,”
sospirò il tenente. Poi,
dopo una pausa meditativa: “Sono stanco morto, ma vorrei
sapere
un’ultima cosa.”
“Dite.”
“Perché
non mi hanno ucciso nel tempio?”
“Ci
siete rimasto male?”
“Il
contrario
direi. E poi, se mai dovessi essere sacrificato a un dio, ci terrei
che almeno si trattasse di Bacco. Ero solo curioso.”
Come se fosse la cosa
più ovvia
del mondo, Chāyā rispose: “In un sacrificio a Kali non
può
essere versato sangue. Ci sarebbe anche un motivo religioso, ma visto
che siete stanco ve lo risparmio.”
“Voi
siete religioso?”
L’indiano
alzò le spalle. “Sono
un agnostico, più che altro, ma so celebrare le liturgie di
otto
culti diversi. In certe situazioni è molto comodo farsi
passare per
sacerdote.”
“Capisco.”
Il pandit andò alla
ricerca di
un’altra sigaretta, l’accese e domandò:
“Volete sapere
qualcosa del piano per domani?”
Non gli giunse risposta: il
tenente Grosvenor alla fine era crollato e stava dormendo della
grossa. Chāyā gli stese sopra una coperta e uscì portandosi
dietro
la lanterna.
* Abito lungo simile al
britannico frock coat, nato come abito di corte in stile europeo
della dinastia Moghul.
** “Ombra”
in bengalese.
*** Fascia di seta che i thug
usavano per strangolare le vittime.
**** Polvere colorata e
profumata
che si usa come offerta votiva.
*****
“Morte” in uzbeko.
****** Asceti induisti che
dedicano la propria vita all’abbandono e alla contemplazione.
|
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
Capitolo 2
L’umidità della notte si era
condensata in una nebbia che i primi raggi di sole coloravano di rosa
e arancio. Solenne, indistinta nella caligine, la foresta sembrava un
fantasma silenzioso e immanente.
Grosvenor uscì al cospetto di
tanta misteriosa bellezza con la sensazione di aver dormito un decimo
del necessario e dolorante persino in parti del corpo che fino a quel
momento non aveva neppure saputo di possedere.
La sua uniforme, lavata e
asciugata da Kaur durante la notte, aveva riacquistato una parvenza
di decoro, ma il suo aspetto rimaneva quello di uno che ha litigato
pesantemente con un branco di cinghiali.
Jenkins, la cui inappuntabilità
aveva invece come sempre del soprannaturale, lo salutò militarmente
e gli presentò la forza, composta dai soldati Thayes e Barrett.
“Quali sono gli ordini,
signore?” gli chiese, tranquillo come se fosse stato nella caserma
dei fucilieri a Calcutta.
“Oggi ci trasformeremo in
fanteria di marina, sergente. Sembra che dovremo introdurci in un
palazzo costruito sull’acqua.”
“Un palazzo sull’acqua,
sissignore.” rispose Jenkins, all’apparenza per nulla turbato
dalla faccenda.
In quel momento arrivò anche
Chāyā,
che aveva in tutto e per tutto l’aspetto del più umile dei
contadini. Grosvenor lo fissò meravigliato: lo snello giovanotto che
aveva conosciuto il giorno prima sembrava adesso un macilento
omiciattolo di mezz’età, piegato dalla fatica e dalla
malnutrizione. Aveva addosso degli stracci rattoppati e in testa un
pezzo di saree sbiadito a mo’ di turbante. Il fango gli incrostava
le gambe come se fosse appena uscito da una risaia.
“Venite
con me,” disse semplicemente il Pandit.
Stavano per incamminarsi quando
comparve Kaur sulla soglia. “Tenente Grosvenor,” chiamò.
L’ufficiale la raggiunse.
“Signora?”
“Solo
Kaur.” Gli porse alcuni dadi scolpiti nell’osso. “Prendeteli,”
gli disse. “Questi sono un nostro segno di riconoscimento. Chiunque
dei nostri li veda saprà che vi deve aiutare.”
“Vi
ringrazio.”
“E
state attento, i thug sono maestri del trasformismo. Così come noi
siamo dappertutto, lo sono anche loro. Non fidatevi di nessuno.”
“Ci
sarà Chāyā con noi. Lui dovrebbe avere l’occhio allenato, no?”
“Chāyā
è una spia. Obbedisce ad autorità che in ogni momento potrebbero
richiamarlo altrove.” Fece una pausa e lanciò un’occhiata al
giovane indiano. “Oppure potrebbe morire.”
“Iddio
non voglia,” rispose Grosvenor, inorridito al pensiero di rimanere
nel bel mezzo del Bengala inseguito da thug e spie russe con l’unico
conforto di tre militari disarmati.
“Tuttavia
bisogna essere realistici,” rispose asciutta la donna, “quindi
conservate quei dadi e state attento a chi vi sta troppo intorno. E
ora andate.”
Con un cenno di saluto gli girò
le spalle e rientrò nell’edificio. La porta si chiuse dietro di
lei.
Grosvenor per un attimo rimase a
fissare l’anta serrata con l’espressione del naufrago che vede
l’ultima scialuppa allontanarsi, poi si riscosse e tornò dai suoi
uomini. “Siamo pronti, sergente?” chiese, come se avesse avuto
davanti l’intero plotone in assetto di marcia.
“Signorsì.”
“Molto
bene, allora direi che è il caso di muoverci.” Poi, con una
condiscendenza degna del Re Sole, soggiunse: “Siate così gentile
da fare strada, Chāyā.”
Scoprirono che la sera prima
erano entrati nel tempio dalla porta posteriore. Aggirando l’edificio
videro che la facciata aveva degli ornamenti di stucco, aggraziati
anche se scrostati dal tempo, e ai lati della porta invece dei vasi
di fiori c’erano due statue a forma di leone, entrambe multicolori
per il gulal che era stato loro offerto nel corso degli anni.
Da lì si dipartiva un sentiero
lastricato che si addentrava nella foresta.
A differenza dello spiazzo sul
retro, quel percorso era in buone condizioni e battuto da numerosi
passaggi quotidiani.
Tramite quello arrivarono in
pochi minuti a un paese. I primi contadini si stavano preparando per
andare nei campi e le vacche sacre meditavano, assorte nella scelta
dell’orto da depredare.
Chāyā fece cenno di attendere,
poi scomparve e tornò poco dopo con un carretto coperto.
I
militari salirono nel cassone. Nessuno sembrò notare che il veicolo
si allontanava con quattro sahib
a bordo, ma questo non diede alcun conforto a Grosvenor, cui le
parole di Kaur continuavano a risuonare in mente come un sinistro
presagio di sventura: così
come noi siamo dappertutto, lo sono anche loro.
Cercò di distogliere il pensiero
e riprese il calcolo del giorno prima.
Quando furono fuori dal centro
abitato, strisciò verso il pandit che sedeva a cassetta e sottovoce
disse: “Chāyā, vi ripropongo il problema di ieri: senza armi, le
giubbe rosse possono avere al massimo una funzione decorativa.”
L’altro annuì. “Abbiamo
pensato anche a quello.”
“E
a quale conclusione siete giunti?” chiese il tenente, ignorando se
Chāyā stesse usando una sorta di plurale
maiestatis
o se facesse riferimento alla misteriosa organizzazione cui sembrava
appartenere.
“Sotto
il carro,” fu la scarna risposta, poi il giovane tornò a rivolgere
lo sguardo alla strada polverosa.
Passò qualche secondo, ma non
giunsero altre spiegazioni.
“Sotto
il carro,” ripeté allora scettico il tenente, poi si ritirò nel
cassone come una lumaca nel guscio. Incontrò lo sguardo del
sergente, che gli rimandò la sua stessa sfiducia.
Proseguirono per un tempo
imprecisato. Ormai il sole era sorto e nell’aria stagnava il
consueto caldo umido. Grondante di sudore, Thayes fece per slacciarsi
il colletto della giubba, ma venne fulminato dallo sguardo di Jenkins
e abbassò la mano con espressione colpevole.
Cominciarono ad aleggiare odori
di limo e acqua stagnante. Il poco che si vedeva dell’esterno erano
erbe alte e canne palustri. Disturbato dal passaggio del carretto, si
alzò in volo un airone.
“Siamo
vicino a un lago,” constatò il tenente.
“Signorsì,”
approvò Jenkins, che sedeva impettito e con l’aria di ignorare
totalmente le condizioni climatiche.
Il carretto si fermò. Pochi
secondi dopo Chāyā
scostò la tenda che chiudeva il cassone e disse: “Scendete,
presto!”
Ecco che ricomincia a fare il
Bianconiglio, pensò
Grosvenor con un sospiro.
Nel frattempo il pandit stava
estraendo da sotto il veicolo una cassetta di legno che aveva l’aria
di pesare parecchio. La appoggiò al suolo con delicatezza e la
scoperchiò, rivelando una matassa di paglia da imballaggio. Ci frugò
dentro e cominciò a tirare fuori degli involti di stoffa che avevano
un inconfondibile odore di olio per armi.
Tutti presero a fissarlo come
cani che vedono il padrone trafficare con la ciotola del cibo.
Chāyā distribuì un involto a
ciascun militare e ne tenne uno per sé. Con sorpresa di tutti,
continuò a frugare e distribuì a ognuno un secondo involto molto
più piccolo, che aveva più che altro l’aria di un sacchetto con
dentro della ghiaia, solo notevolmente più pesante.
Grosvenor e il sergente si
scambiarono un’occhiata.
“È
quello che siamo riusciti a trovare in una notte,” disse l’indiano
raddrizzandosi. “Comunque sono in ottime condizioni.”
Ufficiale e sottufficiale
reputarono la frase decisamente sospetta.
Jenkins disfò il più grande dei
due involti che aveva ricevuto e ci trovò un cinturone con una
fondina da cui spuntava il calcio di una pistola. Tirò fuori l’arma,
ebbe qualche secondo di sbigottito silenzio e infine proferì: “Che
mi venga un colpo. Ma questa la usavo nella Guerra di Crimea!”
Il tenente diede un’occhiata:
Colt Navy modello 1851 a tamburo. Ricordava di averne vista una in
una vetrina nel salotto del colonnello Wilson, esibita come una
specie di cimelio.
Per sua fortuna, il sergente
stava già provvedendo a istruire le truppe: “Allora, giovanotti!
Io usavo già queste armi quando i vostri padri andavano ancora a
scuola, le conosco come le mie tasche! Primo, sono ad avancarica!
Secondo, niente cariche troppo potenti o vi salta la canna! Terzo, se
becco un cretino che non mette del grasso sul tamburo dopo averlo
caricato, lo faccio arrivare a Calcutta a calci nel deretano!”
Grosvenor stava già pensando con
orrore che nemmeno lui
aveva mai usato
un’arma ad avancarica, ma il sergente, che non aveva certo svolto
trentacinque anni di servizio scaldando una sedia in fureria, col
tono di chi propone la cosa più normale del mondo disse: “Signore,
permettetemi di caricare la vostra pistola, non vorrei che vi
sporcaste con la polvere.”
Tutti procedettero alla
complicata operazione.
Sistemata la propria arma, Thayes
si alzò in piedi e grazie alla sua altezza fu in grado di esclamare:
“Ehi, ma c’è un palazzo in mezzo all’acqua!”
“Dì
un po’,” gli chiese Jenkins in tono severo, “dove hai scovato
la roba per ubriacarti?”
“È
la verità, sergente!” protestò il soldato. “C’è un palazzo
enorme, proprio nel bel mezzo del lago.”
Il sottufficiale si fece strada
fra le canne, guardò oltre e l’unica cosa che disse fu: “Che mi
venga un colpo.”
Grosvenor era curioso come una
scimmia, ma fedele al suo ruolo di ufficiale, con sussiego chiese:
“Che c’è, sergente?”
“Signore,
un palazzo in mezzo al lago, con quattro torri e degli alberi
dentro.”
“Singolare,”
commentò il tenente.
In quel momento arrivò Chāyā,
che arrancava con l’acqua fino alle anche tirandosi dietro una
piccola imbarcazione.
“Ecco che stiamo per diventare
Royal Marines,” disse Grosvenor.
Poco dopo, una barchetta carica
di frutta e verdura si staccò dalla costa. Accovacciato a poppa, un
misero contadino vestito di stracci la spingeva con fatica verso il
palazzo.
Con ogni evidenza, il pover’uomo
aveva intenzione di proporre i prodotti del suo campo alle cucine del
maharaja, e si era mosso di buon mattino per essere tra i primi
fornitori.
Sul fondo della barchetta, ben
nascosti sotto le ceste di ortaggi, i quattro militari facevano del
loro meglio per non dar segno di sé.
Dati i suoi sei piedi e sei
pollici di altezza, sistemare Thayes non era stato uno scherzo.
L’avevano dovuto mettere supino, perché se stava sdraiato sul
fianco le sue enormi spalle creavano una sporgenza del tipico rosso
British Army difficilmente camuffabile. Ai suoi lati c’erano
Barrett e il sergente, con una posizione che ricordava quella dei
fedeli protetti dal manto della Madonna di certi quadri manieristi.
In omaggio al suo rango di
ufficiale, il tenente era sdraiato sopra a Thayes, faccia a faccia
con lui e con un assortimento di cesti e sacchi sulla schiena.
Dopo un tempo che a tutti parve
interminabile, si udì il raschiare della prua contro la pietra del
molo e delle voci accolsero l’attracco del natante.
Chāyā rispose, si accese un
dialogo che rapidamente divenne piuttosto concitato.
Ammucchiati l’uno sull’altro,
gli inglesi potevano solo scambiarsi degli sguardi, che si facevano
sempre più preoccupati man mano che il colloquio saliva di tono.
Ci furono anche dei colpi qua e
là sulle ceste, a Grosvenor parve che qualcosa di duro e appuntito
scavasse fra gli ortaggi.
Faccia a faccia con lui, Thayes
lo stava fissando con espressione di panico. Il sergente, alla sua
destra, era nella fase di impassibilità attenta di chi deve
mantenere il decoro ma sa che è in arrivo qualcosa di profondamente
sgradevole. Solo Barrett, alla sua sinistra, appariva perfettamente
tranquillo. Grosvenor stabilì che l’ingenuo ragazzotto
probabilmente non aveva capito nulla di quello che stava succedendo,
e che chissà da quanto tempo si crogiolava in quella serafica
condizione.
Lo fissò, e lui gli rimandò lo
sguardo pacioso di una vacca sacra.
Pian piano il vociare e il
tramestio cessarono e l’unico rumore che rimase fu il lieve
sciabordio dell’acqua contro i fianchi della barchetta. Dopo un
lasso di tempo imprecisato ma decisamente penoso, finalmente la voce
di Chāyā
sussurrò: “Tutto a posto. Venite, presto.”
Il pandit spostò qualche cesta
permettendo ai clandestini di abbandonare lo scomodo natante.
Grosvenor non aveva ancora fatto
in tempo a rimettere tutte le ossa al loro posto che già l’indiano
ripeteva: “Presto, presto!”
Il tenente si guardò intorno: il
molo conduceva a una grande camera dal soffitto a volta. Il luogo era
chiaramente adibito al servizio e non concedeva nulla all’estetica.
Le pareti una volta bianche erano sporche e in qualche punto
annerite dalla fuliggine, per terra c’erano scarti di verdura e
paglia. In un angolo era appoggiato una specie di carretto a due
ruote a trazione umana.
C’erano porte sui quattro lati,
e al di là si intravedevano corridoi e scale.
Seguendo Chāyā, i militari si
addentrarono per un dedalo di stanze. Ogni tanto il pandit si fermava
con l’orecchio teso e cambiava percorso a seconda dei rumori che si
udivano, scegliendo sempre le vie più silenziose.
L’ufficiale
aveva già perso l’orientamento alla terza deviazione. Ricordava
solo di essere sceso e salito più volte per scale di ogni genere e
di aver percorso corridoi bui e meno bui al seguito di una tremula
luce di candela, ma tutti quei percorsi si sovrapponevano nel tempo e
nello spazio mescolandosi come le carte tra le mani di un croupier di
Montecarlo. Nemmeno
nelle sbronze più orribili sono mai stato così confuso,
pensò.
Chāyā invece si muoveva in quel
labirinto più disinvolto dell’architetto che l’aveva progettato.
Alla fine si ritrovarono in una
stanzetta senza finestre, a porta chiusa, con un’unica smilza
candela a illuminarli. In quella relativa sicurezza il tenente
espresse un dubbio che da un po’ lo assillava: “Abbiamo un
piano?”
Il pandit annuì. “La
situazione è delle più fortunate,” disse, “il maharaja si trova
qui e si incontrerà con O’lim nelle sue stanze, che sono proprio
qui sopra.” Fece un cenno verso l’alto.
“Come
fate a esserne così sicuro?” gli chiese il tenente.
“Abbiamo
una spia nelle cucine, la stessa che ci ha aiutati ad arrivare fin
qui con la barca.”
“C’è
un posto dove non ci siano spie di qualcuno in questo Paese?”
Chāyā mantenne un diplomatico
silenzio.
“Ci
stavate parlando del piano,” lo incoraggiò Grosvenor. Aveva
pensato alla situazione, in effetti, non è che non l’avesse fatto,
ed era giunto alla conclusione che tra padella e brace, sempre di
scottarsi il deretano si trattava. Ovvero: o dispersi nel bel mezzo
del Bengala senza nemmeno un temperino per difendersi, o con quattro
catenacci d’antiquariato e al seguito di una spia del Grande Gioco
per intercettare il suo arcinemico russo. Perlomeno la seconda
opzione sarebbe stata un argomento di conversazione più
interessante.
Il piano venne accuratamente
esposto da Chāyā: “Ora andiamo su, ci nascondiamo e li
aspettiamo. Quando arrivano li facciamo fuori, ci appropriamo dei
documenti che si scambieranno per portarli a Calcutta come prove e ce
ne andiamo.”
“Se
non altro, non rischieremo di dimenticarci qualche particolare di
fondamentale importanza,” sospirò Grosvenor.
“Io
sono abituato a lavorare da solo,” rispose l’indiano. “Di
solito non ho bisogno di spiegare a me stesso i piani che intendo
seguire.”
“Capisco.”
“Una
domanda, signore,” intervenne Jenkins.
“Sergente?”
“Ci
saranno
uomini armati a difesa di costoro?”
“Nel caso, sergente, compito
vostro e dei vostri uomini sarà aiutarli a raggiungere il loro
paradiso, qualunque esso sia.”
“Ammazzarli dal primo
all’ultimo. Tutto chiaro, signore.”
“La vostra capacità di sintesi
è encomiabile, Jenkins.”
“Grazie, signore.”
Se questa è una delle
situazioni più fortunate, non vorrei conoscere quelle decisamente
sfortunate, pensò il
tenente Grosvenor, tirandosi indietro mentre una pallottola faceva
schizzare via schegge di pietra dalla colonna dietro cui si stava
riparando.
Qualcosa era andato storto. Non
era certo quello il contesto più adatto per scoprire in che punto il
trenino della pianificazione aveva deragliato dai binari della
tattica e della logistica, fatto sta che lui, i suoi uomini e il
pandit erano asserragliati intorno al trono del maharaja e impegnati
in uno scontro a fuoco in piena regola.
“Avevate detto che sarebbe
stato facile!” disse a Chāyā,
alzando la voce per sovrastare il rumore degli spari.
“Non
l’ho mai
detto!” replicò piccato l’indiano.
“Quando
si parla di situazioni fortunate, uno si fa l’idea che si tratti di
qualcosa di positivo.”
“Questo
perché voi non avete mai preso parte al Grande Gioco. Altrimenti,
state pur certo che avreste fatto in fretta a rivedere il vostro
concetto di positivo.
Qui perlomeno siamo al coperto, non ci sono dirupi profondi duemila
piedi dietro le nostre spalle e non ci sono trenta gradi sottozero.”
Si alzò e abbatté una delle guardie del maharaja con un colpo di
pistola, poi tornò accanto al tenente.
La pur ampia sala del trono era
ormai invasa dal fumo degli spari, l’aria rimbombava di
detonazioni. A ogni colpo, qualche inestimabile elemento di arte
moghul andava in frantumi spargendo schegge di stucco, vetro o
specchio tutt’intorno.
Chinandosi per evitare una
sventagliata di frammenti di ceramica, Grosvenor chiamò: “Sergente!”
“Signore?”
rispose subito il sottufficiale, che finalmente si trovava nel suo
elemento.
“Sergente,
è giunto il momento di far capire a costoro che errore hanno fatto a
non accettare istruttori britannici per le loro truppe.”
“Sissignore!”
rispose Jenkins. Si calcò in testa con fare risoluto il casco
coloniale, atto che immancabilmente preludeva ad azioni decisive.
Il tenente fece per dire qualcosa
a Chāyā, ma scoprì che nel frattempo il pandit si era abilmente
eclissato. Pronunciò con sentimento la parola di Chambronne.
“Era
pur sempre un mangiacurry, signore,” gli ricordò il sergente, “di
quelli non ci si può fidare.” Poi, a voce più alta: “Thayes, tu
a destra. Barrett, tu a sinistra, lungo le pareti. Io e il signor
tenente vi copriremo. E non sprecate le pallottole, dovete prendere i
mangiacurry alle spalle!”
I due soldati caricarono le
pistole e si prepararono a scattare.
Jenkins e Grosvenor si
scambiarono un’occhiata, poi in sincrono si alzarono e cominciarono
a bersagliare le sagome che sporgevano da dietro le colonne.
Alcuni
tizi vestiti come comparse de Il
ratto del serraglio
caddero a terra e vi rimasero immobili.
“Bel
colpo, signore,” approvò il sottufficiale.
“Grazie,
sergente. Complimenti anche a voi.”
“Grazie,
signore.”
Continuarono a sparare. Le
pallottole ronzavano nell’aria, alle loro spalle il trono di Suraj
Singh di Barhdaman, tripudio di intarsi e legni pregiati, si stava
rapidamente trasformando in assi sforacchiate buone solo per il
camino.
Poi finalmente i due soldati
arrivarono in posizione e a questo punto furono le guardie del
maharaja a trovarsi in una situazione poco simpatica.
Una cosa che Grosvenor notò, ad
esempio, fu che Barrett sterminava pagani peggio dell’arcangelo
Michele: con quel faccino pulito da seminarista e gli occhioni
spalancati sul mondo, ogni colpo che sparava era un tizio che cascava
per terra e ci rimaneva.
Thayes, invece, che da un po’
aveva scaricato la sua pistola e non aveva certo tempo di
ricaricarla, con grande spirito pratico raccoglieva le armi dei
caduti e le usava come corpi contundenti, facendo gli stessi danni
del commilitone.
Non
avevano fatto in tempo a bonificare la sala che già si sentivano le
urla e il tramestio di un secondo contingente in avvicinamento. “Via
tutti!” urlò Grosvenor. Staccò dalla parete un talwar*
dalla lama damascata augurandosi che oltre ad avere l’impugnatura
d’oro tempestata di diamanti fosse anche affilato.
Attraversarono di corsa la sala,
serrarono i battenti della porta d’onore e Thayes vi ammucchiò
contro due enormi statue e un po’ di mobili.
Continuarono a correre come se
avessero il Diavolo alle calcagna. Alle loro spalle già si udivano
urla e tonfi contro la porta.
Grosvenor notò confusamente che
si trovavano in una sala grande quanto la prima, quasi ugualmente
sfarzosa, con ori, stucchi e stoffe pregiate dappertutto. Si accorse
che sul pavimento di marmo bianco c’era una fila di gocce di
sangue.
Le seguirono, imbattendosi ben
presto nel cadavere di una guardia del maharaja che giaceva supina,
con un buco in mezzo alla fronte e gli occhi spalancati.
Le tracce di sangue proseguivano
oltre il cadavere.
Continuarono a seguirle fino a
che il tenente, che correva davanti a tutti, entrò in quello che
sembrava uno studio, con una scrivania e scaffali di libri.
Appoggiato a una parete, il pandit
si stava premendo una mano sul petto. Tra le sue dita contratte
scorreva un rivolo di sangue.
“Chāyā!”
esclamò Grosvenor muovendosi verso di lui.
“Attento,”
lo avvertì l’indiano con voce debole.
Immediatamente un’ombra si
mosse verso di lui, egli vide un baluginio d’acciaio e fece appena
in tempo a indietreggiare per evitare un fendente.
Si voltò e si trovò di fronte
un uomo dai lineamenti vagamente orientali, smilzo, vestito di nero,
che brandiva un kukri** nepalese.
Ripeté mentalmente la parola di
Chambronne.
L’uomo lo studiò dapprima con
sguardo freddo, poi improvvisamente attaccò. Un fendente, l’unica
mossa possibile con il kukri, che però aveva la potenza di un colpo
d’ascia.
Grosvenor lo parò con il talwar.
La lama resse, ma il tenente dovette rinforzare la presa
sull’impugnatura con la seconda mano per non farsi sfuggire l’arma.
Subito dopo tentò un tondo
dritto, ma l’altro scattò indietro con la velocità di un felino e
la sciabola tagliò solo l’aria.
Il tenente ruotò il polso e
incalzò l’orientale con un tondo rovescio, ma fu intercettato
dalla pesante lama del kukri, che subito dopo si levò preparandosi a
calare su di lui dall’alto.
A quel punto, fortunatamente
echeggiò uno sparo e Jenkins irruppe nella stanza.
Vistosi in minoranza, l’uomo in
nero si buttò contro una finestra fracassandone i vetri istoriati.
Si udì il tonfo del corpo che cadeva in acqua.
Grosvenor si voltò verso Chāyā,
che nel frattempo era scivolato sul pavimento e ormai era seduto in
una pozza di sangue. Vide che aveva il volto terreo e imperlato di
sudore freddo.
“Fatemi dare un’occhiata,”
gli disse, chinandosi accanto a lui. Cerò di scostargli la mano che
copriva la ferita.
“Ormai è tardi,” ansò
l’altro. Gli porse una busta che teneva nell’altra mano. “Portate
questa a Calcutta più presto che potete, ci sono dentro le prove del
tradimento di Suraj Singh. Dite che… i thug...” Dovette
interrompersi mentre una fitta di dolore gli deformava i lineamenti.
“Faremo il necessario,” gli
assicurò Grosvenor.
“O’lim… dovete fermarlo.”
“È il tizio in nero che era
qui?”
“Sì, è lui. Fermatelo. Sta
preparando una rivolta, tutti i thug...” Si interruppe di nuovo,
gemette in preda a uno spasmo. “I thug attaccheranno…
dappertutto. Al segnale...”
“Che segnale?”
“Il segnale… la morte del...”
Si afflosciò riverso.
“È andato,” constatò
Jenkins, in piedi alle spalle del tenente.
L’ufficiale si alzò e si girò
verso di lui. “Sarà meglio che ci muoviamo, se non vogliamo fare
la stessa fine. Fatemi solo dare un’occhiata alla scrivania, magari
troviamo qualcosa di utile.” Gli porse la busta: “Questa tenetela
voi, sergente. Siete sicuramente più affidabile di me.”
Poco dopo, i quattro stavano
nuovamente correndo attraverso le stanze del palazzo, con la
differenza che questa volta non avevano una guida.
Un tonfo sordo aveva segnato la
fine del portone d’onore e subito dopo aveva cominciato a risuonare
il sinistro tramestio di decine di piedi al loro inseguimento.
Grosvenor, cui come ufficiale
spettava il difficile compito di condurre la ritirata, aveva scelto
la tattica della lepre, ovvero brusche svolte ad angolo retto per
disorientare gli inseguitori. La cosa purtroppo disorientava anche
lui, e scompaginava ogni volta le poche idee che nel frattempo era
riuscito a mettere insieme sull’architettura di quel dannato
labirinto.
A un certo punto sbucarono in un
giardino interno, dove fanciulle in abiti colorati si dispersero
strillando al loro apparire. Lo attraversarono ignorando i fiori rari
e le fontane zampillanti, mandarono gambe all’aria qualche eunuco e
si trovarono in una sala completamente rivestita di specchi anche sul
soffitto, che nel riflettere le loro giubbe rosse sembrò
letteralmente andare a fuoco. Passarono poi in una stanza di marmo
bianco con delicati intarsi di pietre dure su tutte le pareti, e da
lì, attraverso un corridoio, a una delle torri, dove Grosvenor
scoprì una scala a chiocciola che andava verso il basso.
Gli inseguitori erano stati
distanziati, tuttavia i quattro militari le percorsero con tutta la
velocità che le gambe consentivano loro, arrivando alla fine col
fiatone e la testa che girava.
“Qui è più buio che nel mio
culo di notte,” proclamò la voce di Thayes.
“Modera i termini, giovanotto!”
lo rampognò Jenkins, “Sei in presenza di un ufficiale!”
“Scusate, sergente.”
In effetti era buio pesto.
Muovendosi a tentoni, Grosvenor avanzò su un pavimento di pietra.
L’eco dei suoi passi dava l’idea di un posto piccolo e col
soffitto basso. Nell’aria c’era odore di chiuso e olio per armi.
Procedette fino a che le sue mani
non toccarono del legno: c’era una porta con grossi cardini,
rinforzata da borchie di ferro.
Palpando lì intorno trovò anche
una mensola, sulla quale reperì un acciarino e un mozzicone di
candela.
“Buon Dio!” esclamò quando
finalmente ci fu un po’ di luce.
La porta aveva un finestrino, e
da quello si poteva contemplare una distesa di armi da fuoco di ogni
genere.
Entrarono. Non era robaccia
locale, erano tutti fucili e pistole europei e americani, pezzi di
pregio, rifiniti e personalizzati secondo i gusti del maharaja.
Calcioli d’avorio o di legni rari, incisioni, decorazioni di
smalto…
“Non si fa mancare niente,
questo,” constatò Jenkins, studiando una carabina Winchester
ultimo modello ancora nuova di fabbrica.
Grosvenor fece un gesto degno del
Re Sole. “Prego, signori: approfittatene. E non preoccupatevi, non
è un furto, è una requisizione.
Rilasceremo regolare ricevuta a nome dell’Esercito Britannico.”
Con l’espressione di bambini
che sono riusciti a intrufolarsi dentro una pasticceria, i due
soldati cominciarono a guardarsi intorno, ma subito il sergente
intervenne dicendo: “Piano, razza di cialtroni! Noi siamo militari
britannici, non vi permetterò di andarvene in giro con questa
paccottiglia da mangiacurry!” Indicò con spregio le armi istoriate
e damascate.
“Ma sergente...” protestò
flebile Thayes, che aveva adocchiato un vistoso fucile placcato in
oro e col calcio decorato da intarsi di scene venatorie in
madreperla.
“Molla subito quel ciarpame!
Cercate dei fucili come si deve, piuttosto, che sparino dove mirate e
non attirino tutte le gazze ladre della regione. Sempre che ci siano,
in questo ammasso di roba da effeminati!”
Completato il rifornimento, il
tenente stilò come promesso una dettagliata ricevuta e la firmò con
artistici svolazzi, non dimenticando di includere il proprio grado e
titolo nobiliare. Nella nota era specificato che in cambio delle armi
asportate venivano consegnate quattro Colt Navy 1851 in ottime
condizioni e provviste di adeguato munizionamento. Pose il foglio in
bella vista su un tavolino.
“Ora possiamo andare,
sergente,” concluse infine.
Fecero il percorso a ritroso, ma
quando arrivarono su, il posto non era più deserto come l’avevano
lasciato.
“Dev’essere stata una di
quelle oche,” brontolò fra i denti Jenkins, scrutando dai gradini
le guardie del maharaja che andavano su e giù.
“Che oche, sergente?”
“Quelle del giardino, signore.
Quando siamo passati hanno strillato talmente forte che devono averle
sentite anche a Calcutta.”
“Scendiamo di un piano,”
ordinò Grosvenor, “qui è troppo frequentato e a me dà fastidio
la folla, soprattutto se è composta da gente intenzionata a farmi
secco.”
Ricominciarono ad aggirarsi,
peraltro senza nemmeno il conforto della luce atmosferica, visto che
si trovavano sotto il livello dell’acqua. Barrett era sceso a
recuperare il mozzicone di candela dell’armeria e novello Diogene
precedeva il gruppo reggendo l’incerta fiammella.
“Signore, che posto è questo?”
chiese il sergente dopo un po’ che camminavano. Il piano era
deserto. Avevano attraversato una zona di servizio ed erano arrivati
alla parte di rappresentanza, ma sembrava che l’edificio fosse
abbandonato. Non c’erano mobili nelle stanze, né tappeti o altri
segni di presenza umana.
“Da quello che mi ha detto
Chāyā,
questo dovrebbe essere un palazzo per quando il maharaja va a caccia
di anatre.”
Categorico, Jenkins rispose: “Le
tipiche esagerazioni da mangiacurry, se volete la mia opinione,
signore. Per le anatre basta una botte.”
Dopo un po’ che si aggiravano,
Barrett riuscì a individuare una scala che saliva. Erano di nuovo
nella zona adibita al servizio, e dall’alto proveniva una debole
luce.
Su c’era un camerone simile a
quello che li aveva accolti al loro arrivo. Anche da lì si dipartiva
un molo, cui era attraccata una barchetta rossa carica di fiori. A
prua sedeva un vecchio con un caffettano e un berretto in testa.
Aveva il viso scavato dagli anni e l’espressione mite. Con grande
cura stava sistemando un vaso pieno di giacinti rosa e viola.
I quattro militari si scambiarono
un’occhiata.
Quella era pur sempre una barca,
anche se piuttosto male in arnese, e guarda caso c’era proprio un
lago da attraversare, possibilmente in fretta.
“Seguitemi, uomini,” disse
Grosvenor, e si diresse risoluto verso il piccolo natante. “Buon
giorno, signore,” salutò. “Parlate la mia lingua, per caso?”
Il vecchietto, che peraltro non
aveva dimostrato una gran sorpresa nel vedersi comparire davanti
quattro sahib
in assetto di guerra, fece un sorriso sdentato e si strinse nelle
spalle.
“Temo che sia un no,”
concluse il tenente.
Con stupore di tutti, si fece
avanti Barrett, che pronunciò una frase in perfetto bengalese.
L’uomo sorrise di nuovo, ma stavolta annuì con energia.
I due si misero a parlare come
vecchi amici che non si rivedevano da tempo. Gli altri tre ovviamente
non capivano assolutamente nulla, ma dai gesti intuivano che la
conversazione verteva via via sui fiori, sul tempo atmosferico, sui
massimi sistemi e sulla caccia alle anatre.
La questione si stava facendo
lunga.
“Mio buon Barrett,” si
intromise Grosvenor a un certo punto, “potremmo concludere la
trattativa prima che arrivino qui tutti gli sgherri di Suraj Singh?”
“Sì, scusate, signore,”
rispose il soldato. Scambiò ancora un paio di frasi con il
vecchietto poi disse: “Ha detto che per una rupia a testa porterà
i sahib, ovvero noi, di là.”
“Affare fatto. Si dà il caso
che abbia prelevato un po’ di argent
de poche
– fondamentale
per un gentiluomo –
dalla scrivania del maharaja, e questa mi sembra un’ottima
occasione per cominciare a usarlo.”
Altro scambio di battute fra
Barrett e il fioraio, poi il soldato disse: “Ha detto che ci
porterà uno per volta.”
La barca, in effetti, aveva sul
fondo quattro dita buone d’acqua. “Ci sarà da ridere quando
dovrà traghettare me,” disse Thayes.
“Vedi di non farla affondare,
altrimenti te la fai a nuoto,” lo minacciò il sergente.
Il primo ad approfittare
dell’indigeno Caronte fu Barrett, che con il suo scarso peso non
rappresentò un problema per il barcaiolo.
Successivamente fu traghettato
Thayes, che passò tutto il tempo a remare come un forsennato mentre
il vecchietto sgottava con altrettanta foga. Grazie alla poderosa
propulsione, il tragitto durò fortunatamente solo pochi minuti.
Il terzo a passare fu Jenkins,
impettito come il Washington di Emanuel Leutze.
Grosvenor rimase a guardarlo
mentre si allontanava. Oziosamente considerò che il rosso della
barchetta faceva pendant
con la giubba dell’Esercito Britannico, e che quella vivace
pennellata scarlatta spiccava molto sulla prevalenza di verdi e
azzurri del lago. Sarebbe stato il soggetto ideale per un quadro.
Poi cominciò a sentire dei
rumori alle sue spalle. Un tramestio vago, dapprima, che in breve si
fece sempre più forte, fino a raggiungere l’inconfondibile
cacofonia del furibondo contingente militare che ha finalmente
individuato l’odiato nemico.
Imprecando con sentimento, il
tenente considerò tutte le opzioni che gli si offrivano: scappare di
nuovo nel palazzo e far perdere le sue tracce, posto che ci
riuscisse, finendo chissà dove. Buttarsi a nuoto e mettere alla
prova la mira degli uomini del maharaja con un magnifico bersaglio
rosso fiammante. Arrendersi e finire di nuovo dalla vecchia Kali in
qualità di grazioso omaggio. Trovare il modo di sbarrare la porta e
sperare in un rapido ritorno della barchetta.
Di tutte le alternative, la meno
suicida gli parve l’ultima. Andò a vedere: peccato che non ci
fosse la porta.
Gli uomini del maharaja
arrivarono assieme a un nutrito gruppo di thug con il rumal già in
mano e pronto al lancio.
Rimasero tutti estremamente
delusi: non c’era più nessuno, gli inglesi erano riusciti a
scappare e si stavano allontanando sulla terraferma, si vedevano le
odiate uniformi rosse apparire e scomparire nella vegetazione.
A mollo come una rana, aggrappato
con una mano alle pietre scivolose mentre con l’altra reggeva la
pistola, Grosvenor pregava tutte le divinità di sua conoscenza
fuorché Kali che a nessuno venisse in mente di arrivare alla fine
del molo e dare un’occhiata in basso.
Su, andate via,
pensava intensamente, augurandosi che nel mesmerismo ci fosse qualche
barlume di fondamento scientifico, che
ci state a fare qui? Non vedete che i sahib sono scappati?
Continuava a sentire dei passi
che andavano su e giù, accompagnati da concitati scambi in
bengalese.
Se esco da questa situazione
ci faccio il bagno, nel gin tonic, giurò
a se stesso, così mi
ripulisco da quest’acqua schifosa.
Un ratto di dimensioni titaniche
uscì da un buco fra le pietre, lo annusò, gli camminò
tranquillamente sulla testa con le zampette fredde e si ributtò in
acqua dopo averlo oltrepassato.
Grosvenor pensò intensamente a
quanti galloni di gin e quanti di tonica sarebbero stati necessari
per riempire la vasca. Impegnò la mente sul problema di trovare
anche un adeguato rifornimento di scorze di limone.
Un secondo ratto, più piccolo,
seguì il primo, ma invece di saltare nel lago gli corse sul braccio
fino al polso e rimase a studiare per qualche secondo l’imboccatura
della manica, ponderando se infilarcisi dentro o no.
Pussa via, bestiaccia!
pensò il tenente, ma di nuovo ebbe una dimostrazione
dell’infondatezza delle teorie di Mesmer.
Strinse i denti obbligandosi
all’immobilità mentre il sorcio gli girava qua e là sotto la
giubba.
Finalmente, dopo un tempo
penosamente lungo, gli uomini del maharaja parvero arrendersi
all’evidenza. Grosvenor percepì lo scalpiccio di numerosi passi
che si allontanavano. Le voci pian piano si affievolirono e calò il
silenzio.
Una volta libero delle importune
presenze, l’ufficiale si issò sul molo e per prima cosa assestò
una manata al molesto roditore.
La seconda cosa che fece fu
rallegrarsi di aver affidato le preziose carte a Jenkins. Per
l’argent de poche
non era stato altrettanto previdente, ma per fortuna se n’era
salvata la maggior parte.
Successivamente guardò verso la
costa nella speranza di scorgervi qualcosa di rosso. Inizialmente non
vide nulla, e fu preso dall’orrore al pensiero di doversela fare
tutta a nuoto, poi notò con sollievo che la barchetta si era
staccata dalla sponda e si stava muovendo dolcemente nella sua
direzione.
Al posto dell’anziano fioraio
c’era Barrett, che remava come un battelliere del Volga.
Probabilmente il sergente non aveva ritenuto l’indigeno degno di
trasportare un ufficiale dell’Impero Britannico e l’aveva ipso
facto esautorato
sostituendolo con un più adeguato militare.
Una volta a bordo, Grosvenor si
sedette per non rischiare altri bagni fuori programma e fissò il
soldato: un ragazzotto neanche diciottenne, con le lentiggini sul
naso e un’aria stranamente per bene.
“Come mai parli il bengalese?”
gli domandò.
“Sono nato qui, signore. I miei
hanno una piantagione di tè su in Darjeeling.”
Il tenente fece mente locale.
“Una piantagione? Di loro proprietà?”
“Sì, signore.”
“Quanto è grande?”
Il ragazzo si strinse nelle
spalle. “Non saprei, signore. Da quello che so è una delle più
grandi della zona.”
“E allora tu che ci fai nei
fucilieri, Barrett?
Il soldato arrossì. “Volevano
mandarmi a studiare in Europa, signore, così me ne sono andato di
casa.”
“Nel senso che sei scappato?”
“Sì, signore,” si decise a
rispondere il ragazzo chinando il capo. Dopo qualche secondo di
silenzio, fissò l’ufficiale di sottecchi e cautamente chiese: “Non
è che mi volete rimandare a casa, vero, signore?”
“Finalmente trovo un interprete
che non è un mangiacurry, come direbbe Jenkins, e lo rimando a casa?
Non ci penso nemmeno.”
Il ragazzo sorrise. “Grazie,
signore.”
* Sciabola indiana.
** Coltello di grandi dimensioni,
pesante e affilato, usato dai Gurkha nepalesi.
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
Capitolo 3
Al vecchio signore della barca
avevano dato ben più di una rupia a testa. Grosvenor aveva
preso un
po’ delle banconote requisite
a Suraj Singh e gliele aveva consegnate, causandogli quasi un attacco
cardiaco. Probabilmente il fioraio aveva ricevuto in due ore di
lavoro l’equivalente di circa tre anni di giacinti e
rododendri.
Per tale motivo
s’era
industriato particolarmente ad aiutare i suoi benefattori: avrebbe
voluto invitarli a casa sua e offrire loro da mangiare, ma il tempo
era poco e i rischi molti, per cui i quattro si accontentarono di
qualche informazione pratica e di un passaggio fino in paese sul suo
carretto.
Il piccolo centro abitato, di
nome Mahish Bathan, comprendeva un tempio di mattoni, casupole di
legno e due strade sterrate che formavano un incrocio.
C’erano
bambini e polli che razzolavano in giro, donne che camminavano con
cesti in equilibrio sulla testa e le immancabili vacche sacre che si
aggiravano indolenti. Accanto al tempio sorgeva un vecchissimo e
nodoso banyan pieno di immagini votive, con le radici rosse per le
ripetute offerte di gulal e nastrini colorati legati ai rami.
Un paio di scimmie sedevano
tra
le sue fronde spulciandosi a vicenda.
Grosvenor si guardò
intorno. Un
vecchio che sedeva sulla soglia di una casa si affrettò a
rientrare,
i bambini come per incanto si dispersero.
Il tenente si
scambiò
un’occhiata con Jenkins: la trasognata calma del luogo aveva
assunto connotazioni vagamente sinistre.
“Sono solo dei maledetti
mangiacurry, signore. Abbiamo portato la civiltà e ci
ringraziano in
questo modo,” sentenziò il sergente.
Guardandosi intorno,
l’ufficiale
rispose: “Abbiamo portato anche il gin e l’acqua
tonica, se è
per questo, e abbiamo insegnato loro come mescolarli per ottenere il
nettare degli dei, ma temo che il problema attuale non sia
l’ingratitudine nei confronti della Corona Inglese.”
“E quale sarebbe allora,
signore?”
“Probabilmente sanno che il
maharaja sta cercando quattro sahib e guarda caso noi siamo proprio
in quattro. Non vogliono grane.”
Con la coda
dell’occhio notò
che accanto al tempio c’era una donna vestita con un saree
arancione che li fissava, ma quando si voltò ella era
già di spalle
e si stava allontanando con un recipiente in equilibrio sulla testa.
“Muoviamoci,” disse
il
tenente.
Presero la strada che andava a
nord-ovest, verso una pianura coltivata e punteggiata qua e
là da
qualche albero. All’orizzonte si vedeva la linea scura della
foresta, ogni tanto c’erano dei gruppetti di casupole con
panni
colorati stesi ad asciugare
Era il primo pomeriggio, in
cielo
non c’era una nuvola. Nell’aria immobile, greve di
umidità, non
si sentiva nemmeno il canto di un uccello.
C’era qualche
contadino al
lavoro nei campi, sulla strada passava poca gente. Incrociarono un
uomo che teneva per mano un bambino e una donna con un fascio di erbe
di palude sottobraccio. Furono superati da un carro coperto trainato
da una coppia di buoi. Al tenente parve di scorgervi un lampo di
arancione, ma quando guardò meglio non riuscì
più a ritrovarlo.
Gli scricchiolii delle ruote e lo scalpiccio degli zoccoli si persero
in lontananza.
Grosvenor
approfittò di quella
situazione di relativa calma per ripassare il piano che aveva ideato:
il modo più veloce per arrivare a Calcutta, che distava
circa
settanta miglia, era certamente il treno. Considerato dove si
trovavano, la stazione più vicina era Jotram, più
o meno a dieci
miglia da lì. Per raggiungerla si passava da Moktarpur, dove
peraltro c’era anche una piccola guarnigione inglese che
eventualmente avrebbe fornito ogni appoggio logistico, compresa la
possibilità di telegrafare a Calcutta. Semplicissimo, in
teoria.
Anni di servizio nelle Colonie
gli avevano insegnato molto bene quanto poteva diventare ampio in
certe situazioni il divario tra teoria e pratica.
Mentre stava così
ragionando,
nella caligine dell’orizzonte cominciò a prendere
corpo una sagoma
chiara.
Man mano che si avvicinavano
la
osservò facendosi ombra con la mano e notò che si
trattava di un
edificio in muratura con degli alberi intorno. All’ombra
delle
piante o sotto ripari di fortuna sedevano a gruppetti delle persone.
C’erano anche animali da soma, carri e carretti.
“Si direbbe una
locanda,”
constatò il sergente al suo fianco.
“È quel che ci
vuole,”
rispose Grosvenor, “abbiamo giusto bisogno di bere
qualcosa.”
Jenkins lo fissò
stupito.
“Volete dire qui,
signore?”
“Ho visto anche degli
stagni, lungo la strada, ma sinceramente preferirei un
tè.”
“Non mi sento di darvi torto,
signore.”
Vista da vicino, la cosiddetta
locanda era solo un parallelepipedo di mattoni. I muri, una volta
imbiancati a calce, erano scrostati e sporchi della terra rossa dei
campi. Dal tetto pendevano festoni di peperoncini e mazzi di erbe
aromatiche messe a seccare.
La porta era chiusa da una
vecchia tenda sfilacciata.
C’era un ragazzino
che faceva
continuamente la spola fra dentro e fuori portando vassoi carichi di
teiere ammaccate e bicchieri di lassi*.
Seguito dagli altri, Grosvenor
entrò.
L’interno era
costituito da una
sola stanza tagliata in due da una specie di bancone. Da una parte
c’erano una vecchia cucina economica carica di teiere e una
giara
di terracotta da cui spuntava il manico di un mestolo.
I pochi tavoli erano vuoti: la
gente preferiva la pur modesta ventilazione del torrido esterno
rispetto alla calura di quell’antro soffocante.
Chi si occupava della mescita
era
un uomo ossuto, con una rada barba grigia e un dhoti**
rammendato come unico indumento.
“Buon giorno,” lo
salutò
affabile il tenente, “parlate la mia lingua?”
L’indiano, che aveva
sentito
entrare gente ma era rimasto chino sulla cucina economica,
all’udire
una voce inglese sussultò. Si voltò a guardare e
le quattro
uniformi rosse gli fecero spalancare gli occhi. Cominciò a
frugare
sotto il bancone farfugliando cose indistinte.
“Ehi, che stai
facendo?” gli
chiese il sergente insospettito. Con l’occhio
dell’abitudine,
Grosvenor notò che il sottufficiale era pronto a farsi
scivolare il
fucile dalla spalla e a imbracciarlo.
“Aspettate, Jenkins,”
gli
disse con la più grande tranquillità,
“forse questo bravo
indigeno ha degli ottimi motivi per fare quello che sta
facendo.”
Poi, rivolto all’uomo: “Ripeto, carissimo: parlate
la mia
lingua?”
L’altro si
raddrizzò. “Solo
poco, sahib.” Finalmente tirò fuori quello che
stava cercando: una
scatola di latta con dentro delle carte accuratamente piegate.
“Io
sepoy,” disse, mostrando un foglio di congedo. “Da
giovane.
Sepoy.”
“Se questo qui era un sepoy, io
sono il re degli zulu,” ringhiò il sergente
fissandolo torvo.
Grosvenor recepì
l’informazione.
Fece finta di niente, ma rinunciò a mostrare i dadi che
aveva in
tasca. “Benissimo, avete servito sotto la Corona,”
disse con
l’aria più tranquilla del mondo,
“è una cosa molto bella. Ora
potreste darci un po’ di tè, per favore? Niente
zucchero né
latte.”
“Come minimo ci
sputerà
dentro, quel maledetto mangiacurry,” brontolò
Jenkins, ancora poco
convinto.
Grazie
all’intervento di
Barrett avevano ottenuto un posto sotto un albero ed erano in attesa
che il ragazzino portasse loro il tè e le tazze.
“E non è neppure
stato sepoy.
Io li riconosco a distanza quelli che hanno portato una divisa
britannica.”
“Neppure io penso che lo sia
stato, sergente,” gli rispose Grosvenor, “e il
fatto che abbia
tirato fuori quella balla è decisamente sospetto. Terremo
gli occhi
aperti, ma in ogni caso dobbiamo bere, se non vogliamo che ci venga
un colpo di calore.” Si passò con cautela le dita
sul sopracciglio
ferito. Il sudore gli faceva bruciare il taglio non ancora
completamente chiuso, e in generale gli faceva male tutta la testa.
Senza contare il resto del corpo, ovviamente.
Rivolse per
l’ennesima volta il
pensiero alle inaudite quantità di gin tonic che avrebbe
bevuto una
volta rientrato finalmente a Calcutta.
In quel momento
arrivò il
ragazzino, che lasciò accanto a loro un vassoio con quello
che
avevano chiesto.
A questo punto, Thayes si
rivolse
a Barrett e disse: “Chiedigli dov’è quel
posticino. Non so come
sia possibile con quello che ho sudato, ma devo...”
“Soldato!” lo
chiamò
all’ordine Jenkins prima che potesse pronunciare il verbo.
“Scusate, sergente.
Però mi
scappa.”
Ci fu un breve scambio di
battute
tra Barrett e il ragazzino, poi l’enorme militare si
alzò e si
diresse verso l’edificio.
Fu versato il tè.
Erano tutti molto assetati e
venne vuotato un giro di tazze prima che Jenkins aggrottasse le
sopracciglia e dicesse; “E adesso dov’è
finito quell’impiastro?”
Gli altri realizzarono che in
effetti Thayes non era ancora ricomparso. Si scambiarono
un’occhiata.
In un posto tropicale e lurido come l’India, le occasioni per
avere
improvviso bisogno di un bagno erano molteplici, ma nessuno
pensò a
un’eventualità del genere.
“Sarà meglio che
vada a
controllare,” disse il sergente raccogliendo il fucile. Si
allontanò nella direzione in cui era scomparso il soldato.
Passò appena un
minuto, poi
echeggiò uno sparo. I due superstiti balzarono in piedi e
assieme
alla totalità degli astanti corsero verso le latrine.
Facendosi
largo fra la folla vociante, il tenente vide la seguente scena:
c’era
Thayes addossato alla parete, ansante e pallido come un morto.
Accanto a lui c’era Jenkins con il fucile ancora imbracciato.
Ai loro piedi era steso il
corpo
di un uomo con un turbante chiaro e l’estremità di
un rumal
stretta in pugno.
“Non si può neanche
pisciare
in pace, in questo cazzo di paese,” mormorò Thayes
massaggiandosi
il collo, sul quale si vedeva un largo segno rosso.
Sebbene fossero in presenza di
Grosvenor, Il sottufficiale evitò di riprenderlo per il
linguaggio
sconveniente. “Trentacinque anni di servizio e una cosa del
genere
dovevo ancora vederla,” ringhiò invece, in tono
minacciosamente
basso. “Un fuciliere di Sua Maestà che si fa
sorprendere da un
mangiacurry pidocchioso con l’affare in mano! Ti è
andata bene che
sei grosso, se no facevi la fine delle galline di mia zia. Ne
riparliamo quando saremo a Calcutta.”
“Scusate, sergente,”
rispose
il soldato, le enormi spalle curve in una postura avvilita.
“E voialtri cos’avete
da
guardare?” latrò Jenkins alla folla di indiani.
“Via! Fuori
dalle scatole!”
Gli indigeni si dispersero
senza
fiatare.
La seconda parte della strada
per
arrivare a Moktarpur fu percorsa in modo decisamente più
circospetto.
Avevano comprato un veicolo,
tanto per cominciare. Un carretto coperto trainato da un mulo.
L’avevano pagato probabilmente dieci volte il suo valore, ma
tanto
i soldi provenivano dalla generosa quanto inconsapevole donazione di
Suraj Singh, e con essi il tenente si sentiva più prodigo di
un
mecenate rinascimentale.
Era ormai pomeriggio inoltrato
e
nessuno dei quattro aveva la minima voglia di farsi sorprendere dalle
tenebre al di fuori delle protettive mura di un fortino inglese.
Mentre sedeva in silenzio nel
cassone, Grosvenor ripensava all’incidente, per
così dire, della
locanda. Qualcuno li aveva preceduti. O perlomeno, qualcuno aveva
diramato comunicazioni su di loro a chi di dovere e i thug li stavano
aspettando. In una strada col sole a picco e trentotto gradi, era
facile prevedere dove quattro persone che andavano a piedi e non
avevano con sé acqua si sarebbero fermate, e lì
avevano messo degli
uomini.
Peraltro, quattro giubbe rosse
non erano neppure difficili da notare.
Inutile chiedersi se a parlare
fosse stato il vecchio o la spia dai lineamenti orientali, oppure se
il maharaja avesse semplicemente immaginato che avrebbero cercato di
raggiungere la guarnigione inglese. La faccenda importante era
qualcuno li stava marcando stretti.
Ecco che fra teoria e pratica
cominciava a comparire la prima fenditura.
Moktarpur era un po’
più
grande di Mahish Bathan, il che significava che oltre alle case di
legno aveva alcune case di mattoni, un paio di templi di pietra e un
pozzo nella piazza centrale.
Il forte sorgeva su una lieve
altura un po’ fuori dal paese.
Era una costruzione bianca di
marziale essenzialità, con un portone, un giro di mura e
torrette ai
quattro angoli.
“Che strano,”
constatò
Barrett, che sedeva a cassetta, “non c’è
nessuno.”
Si stava facendo sera, ma il
cielo ancora chiaro permetteva di vedere che i camminamenti di ronda
erano vuoti.
I quattro si scambiarono
un’occhiata. “Fermiamoci un momento,”
ordinò il tenente, poi
si rivolse al sottufficiale: “Voi che ne dite,
Jenkins?”
“Dico che non mi piace per
niente, signore,” fu l’immediata risposta.
Era più o meno
l’ora del
rancio, ma non c’era un camino che fumasse. Da dentro non
proveniva
alcun rumore.
“Sergente, prendete con voi
Thayes e andate a dare un’occhiata,” disse
Grosvenor estraendo il
revolver. Barrett imbracciò il fucile.
Seguito dal soldato, Jenkins
si
avvicinò cauto al portone e diede due colpi con il calcio
dell’arma.
L’anta cedette con un cigolio e si socchiuse.
Il sergente fece un salto di
lato
per evitare eventuali pallottole, ma non successe nulla. A questo
punto fece cenno al soldato di attenderlo ed entrò.
Passarono alcuni minuti, poi
il
sottufficiale uscì. “Sembra che non ci sia
nessuno, signore,”
disse stupefatto.
Grosvenor rimase perplesso.
“Come, nessuno?”
“Vuoto, signore. Non ho visto
anima viva.”
“Andiamo a controllare.
Barrett, porta dentro il carretto, chiudi il portone e dà da
mangiare a quel bravo mulo.”
“Signorsì.”
Intanto era calato il buio e
il
forte deserto aveva assunto un’aria spettrale.
C’era un gran
silenzio, gli edifici venivano pian piano inghiottiti
dall’oscurità.
Abituati alla vita militare, ovvero luci accese e gente che vegliava
a ogni ora del giorno e della notte, i quattro si guardavano intorno
nervosi.
Controllarono in giro.
Sembrava
che qualche magia avesse fatto scomparire all’improvviso
tutti gli
effettivi del forte: i documenti del furiere erano ancora sulla
scrivania, i viveri erano pronti per essere cucinati, i fuochi dei
fornelli erano spenti ma la cenere era ancora tiepida.
Nell’ufficio
del comandante c’era addirittura un vassoio col servizio da
tè
pronto sul tavolo.
Jenkins guardò un
po’ in giro,
poi si chinò a osservare l’apparecchio telegrafico
e disse: “I
fili sono stati tagliati.”
A quelle parole, i quattro si
scambiarono un’occhiata carica di preoccupazione.
Scesero nei sotterranei:
l’armeria era stata vuotata di ogni suo contenuto. Anche
buffetteria, borracce, coperte e altri oggetti di uso comune erano
stati in gran parte asportati, probabilmente con la connivenza degli
inservienti civili e degli abitanti del paese.
“Ma dove sono tutti?”
ruppe
il silenzio Barrett.
Nessuno rispose.
L’atmosfera si
stava facendo man mano più greve, quel luogo fantasma stava
instillando in tutti i più cupi presentimenti.
Alla fine scoprirono anche che
fine avevano fatto gli uomini della guarnigione: erano stati
ammazzati dal primo all’ultimo, compresi il comandante e
l’ufficiale medico. I corpi erano ammucchiati in una cella
gli uni
sugli altri, già irrigiditi e con vistose macchie
ipostatiche.
Tutti avevano la stessa
lesione
intorno al collo.
“Maledetti selvaggi,”
sbottò
Jenkins contemplando l’orribile spettacolo.
Nessuno replicò.
Chiusero la
porta e tornarono su.
Quando furono di nuovo
all’aria
aperta, Grosvenor fece per parlare, ma ancora una volta si rese conto
di non avere parole adatte a commentare quello che avevano appena
visto. Con voce neutra si limitò a dire:
“Barrichiamoci da qualche
parte. Scommetto tutto il gin di Calcutta che stanotte torneranno a
trovarci.”
La notte era silenziosa. I
rumori
della natura si udivano ovattati e solo in lontananza, come se le
bestie in qualche modo riuscissero a percepire l’aura
mortifera che
circondava il forte e se ne tenessero alla larga.
Dopo una lunga disamina con il
sergente Jenkins, il tenente Grosvenor aveva scelto come baluardo le
cucine, per il semplice motivo che avevano acqua corrente, pareti
rinforzate, finestre con le sbarre che davano sulla piazza
d’armi e
botola dei rifiuti, che in caso di estrema necessità avrebbe
potuto
essere usata come via di fuga.
Dopo aver mangiato ed essersi
lavati alla meglio, i quattro vegliavano in silenzio. Approfittando
del momento di relativa calma, Jenkins stava controllando le ferite
del tenente Grosvenor.
“Fa male qui?” chiese
il
sergente. L’ufficiale ebbe l’impressione che
l’altro gli stesse
premendo sul sopracciglio un ferro arroventato. “Un
po’...”
disse sobriamente.
“È piuttosto
profonda,
signore. Come ve la siete fatta?”
“È stata una mia
dimostrazione
d’affetto al maharaja, sergente.”
“Domando scusa,
signore?”
“Data la sua ferma intenzione
di tirarmi il collo, ho pensato di fargli saltare un paio di denti
con una testata. Certo non è un cambio equo, ma in
determinate
situazioni ci si arrangia come si può.”
“Capisco, signore. E vi fa male
se la tocco?”
“Sergente, volete la
verità?
Mi fa orribilmente
male. Se non fossimo in questa deplorevole situazione, sarebbe un
ottimo motivo per sbronzarmi fino a perdere la cognizione di me
stesso.”
“Ci vogliono dei punti,
signore.”
“Non penserete di ricucirmi
come il telo dello spotted dog*** adesso,
spero,” protestò il tenente inorridito.
Jenkins rimase imperturbabile.
“No, ma è mio dovere informarvi che se domattina
saremo ancora
vivi lo farò, signore.”
“Vi ringrazio per queste
parole, che di certo nel malaugurato caso di una nostra sconfitta mi
renderanno più leggero il trapasso.”
L’altro, che stava
per
ribattere, si immobilizzò in ascolto. Rimase con
l’orecchio teso
per un po’, poi sottovoce disse: “Sono qui
fuori.”
Grosvenor arrischiò
un’occhiata
attraverso la finestra. Non vide nessuno, ma condivideva la
sensazione
del sergente, ovvero quell’intuito non spiegabile dalla
Scienza per
cui un soldato riesce a cogliere presenze nemiche pur senza
percepirle direttamente.
Cercò di ragionare
sulla
situazione. Né il maharaja né il famigerato
O’lim potevano
permettersi di lasciarli arrivare a Calcutta. Lo scontro che si stava
preparando, quindi, non sarebbe stato uno stimolante confronto fra
gentiluomini condotto secondo i criteri del più rigido fair
play, ma una battaglia
sanguinosa in cui le alternative sarebbero state vincere a qualsiasi
costo o morire.
Mentre era immerso in quelle
meditazioni, sentì qualcosa rimbalzare contro la porta.
Colse un
inconfondibile sfrigolio.
“A terra!” fece
appena in
tempo a gridare, poi ci fu uno scoppio che sembrò
risucchiargli
l’aria dai polmoni. Il mondo esplose in una nube di polvere e
calcinacci tinta del bagliore aranciato delle fiamme.
Si alzò ancora
rintronato, con
le orecchie che gli fischiavano. La porta era sparita con
metà della
parete che la sosteneva, le sbarre delle finestre dondolavano nel
nulla.
Notò con la coda
dell’occhio
che gli altri tre erano bianchi di polvere, ma in piedi e col fucile
imbracciato. Estrasse la pistola e si sistemò al coperto
dietro un
pezzo di muro.
Alla luce delle fiaccole si
vedevano uomini a torso nudo e col turbante chiaro muoversi furtivi.
Il tenente ipotizzò che il senso pratico avesse infine
prevalso
anche in quella setta di nostalgici, perché la maggior parte
di loro
non aveva in mano un rumal ma un Martini-Henry ultimo modello.
“Sic transit gloria
mundi,”
mormorò fra sé e sé.
“Ragazzi, non voglio vedervi
sprecare pallottole!” disse il sergente alle sue spalle,
“Sparate
solo quando siete sicuri di colpire!”
Il che, peraltro, non era un
problema, perché dai lati del piazzale una torma di thug
urlanti si
precipitò sparando verso quel che restava delle cucine.
Le figure avanzavano nel buio,
illuminate da tergo di una luce sanguigna che rendeva quei corpi
asciutti e legnosi simili a diavoli usciti dall’inferno.
Nell’oscurità si vedeva solo il bianco degli occhi
e dei denti
digrignati. Qua e là si udivano roche invocazioni a Kali.
Non avevano né
addestramento né
consapevolezza di quel che facevano, per cui i primi caddero come
pecore al macello.
Alcuni riuscirono a saltare
sui
cumuli di macerie, ma furono respinti a colpi di baionetta.
Gli altri, vuoi per spirito di
sopravvivenza, vuoi per l’ordine di qualcuno che aveva un
minimo di
cognizione, interruppero il dissennato avanzare e si addossarono alle
pareti.
Le armi tacquero e sulla scena
calò un silenzio rotto solo dai gemiti di qualche moribondo.
Il tenente si voltò
verso
Jenkins: “Non reggeremo a un secondo assalto. Penso sia
meglio
prendere in considerazione una ritirata strategica.”
“Sono d’accordo con
voi,
signore,” rispose il sottufficiale.
Alzarono la botola del
pavimento.
Dal buco, nero come la pece, salì il tanfo di vegetali
fermentati e
carne putrefatta.
Buttarono giù un
pezzo di carta
incendiato e nel breve tragitto che esso compì videro delle
pareti
di mattoni e un fondo indefinito su cui navigavano cascami. Nel lato
che dava sull’esterno c’era l’arco di una
galleria.
Da fuori stavano ricominciando
a
sparare. Arrivò un altro candelotto di dinamite, che
però rimbalzò
lontano ed esplose senza fare particolari danni.
“Dobbiamo muoverci,”
disse
Grosvenor.
Le pallottole dei thug
colpivano
le pareti rimbalzando con rabbiosi ronzii. Barrett e Thayes
cominciarono a rispondere al fuoco per tenerli lontani.
“Andiamo!”
Il tenente fu il primo a
saltare.
Atterrò senza danni e si trovò immerso fino alle
ginocchia in un
liquame fetido. C’era buio pesto, ma tastando
tutt’intorno trovò
l’imbocco della galleria. “Venite!”
urlò.
Il secondo fu Thayes, che
quasi
gli finì addosso. Grosvenor se lo tirò dietro per
una manica e lo
fece entrare nella galleria.
Seguirono poi Barrett e per
ultimo il sergente. Da sopra provenne il boato di
un’esplosione e
una gragnola di calcinacci piovve addosso a Jenkins facendo
imprecare.
Il tenente in testa, i quattro
cominciarono a procedere a tentoni. Dovevano camminare piegati per
non urtare la volta e quasi ringraziavano di non aver a disposizione
una luce, perché ciò impediva perlomeno di vedere
il putridume nel
quale stavano sguazzando.
Il fetore era così
forte che
prendeva alla gola rendendo ogni respiro un ferreo atto di
volontà.
Procedettero così
per un tempo
che parve a tutti interminabile, poi finalmente a Grosvenor
sembrò
che il lume della galleria passasse da un nero pece a un grigio
scurissimo. Allo stesso tempo cominciò anche a udire un
lieve
scorrere di acqua.
Avanzarono ancora un
po’, il
tunnel lentamente si schiariva, il tanfo si faceva meno intenso. Poi
le mani di Grosvenor incontrarono un’inferriata.
“Oh, no,”
gemette il tenente.
“Che c’è,
signore?” gli
giunse la voce del sottufficiale.
“Una grata.”
“Quanto è robusta,
signore?”
“Le sbarre sono grosse come il
mio pollice.”
“Questo non ci
voleva.”
Ci fu qualche secondo di
scorato
silenzio, poi Thayes disse: “Signore, posso dare
un’occhiata?”
“Prego.”
Grosvenor si fece indietro per
consentire il passaggio al soldato.
Questi afferrò le
sbarre con la
sua stretta poderosa e cominciò a scuoterle avanti e
indietro. “Si
può fare,” disse dopo qualche tentativo.
“Cosa si può fare,
Thayes?”
“Posso provare a strapparle
via, signore. Sono mezze marce.”
“Che Dio ti benedica, soldato.
Datti da fare allora.”
Per fortuna le sbarre erano
effettivamente in pessimo stato. “Per una cosa del genere ci
sarebbe da scrivere un rapporto lungo come un Requiem,
signore,”
buttò lì Jenkins, risentito come se la
deplorevole condizione
dell’inferriata fosse un affronto fatto a lui personalmente.
“Sapete quanti mangiacurry potevano infilarcisi
dentro?”
“Pensate a cosa sarebbe
successo se quella grata fosse stata in perfette condizioni,”
gli
ricordò il tenente.
L’altro non rispose.
Erano nel letto di un
fiumiciattolo, apparentemente nessuno li stava seguendo. Stava per
arrivare l’alba e i primi uccelli cominciavano a cantare.
Camminarono per un
po’
allontanandosi dal forte, poi Grosvenor si fermò e disse: “Sarebbe
interessante scoprire dove siamo finiti.” Cercò di
guardarsi
intorno, ma il rigoglio delle piante nascondeva la visuale.
“Barrett, va a dare
un’occhiata,” disse il sergente.
Il ragazzo si
inerpicò su per la
sponda e scomparve. Tornò poco dopo dicendo:
“Siamo vicini a un
tempio.”
“Riesci a vedere il
paese?”
domandò l’ufficiale.
“Signornò.
È ancora troppo
buio, e poi siamo in mezzo alla giungla.”
Grosvenor si
arrampicò a sua
volta. Si erano in effetti addentrati in una foresta di enormi ficus
macrophylla. Il tempio, che sorgeva proprio al centro di un gruppetto
di alberi, nel corso dei secoli era stato inglobato dalle radici
delle piante, diventando alla fine tutt’uno con esse.
Davanti alle statue delle
divinità c’erano offerte di cibo, fiori e gulal,
segno che il
luogo era oggetto di culto.
“Sarà il posto dove
vengono a
pregare dal villaggio,” disse. “Del resto,
Moktarpur non può
essere lontano, non abbiamo fatto molta strada in quel
torrente.”
E a Moktarpur ci sono
duecento
thug e una spia russa che ci aspettano,
pensò.
La questione peraltro non si
esauriva con il paese: se quei tizi erano appena un po’
più
intelligenti di un babbuino, trovando la botola aperta e la grata
divelta dovevano aver immaginato da che parte se n’erano
andati e
probabilmente erano già sulle loro tracce.
“Io credo che tra un
po’
avremo visite, sergente,” disse.
“Lo penso anch’io,
signore,”
rispose Jenkins.
“Come stiamo a
munizioni?”
“Qualche minuto di fuoco,
signore, poi ci restano le baionette.”
Grosvenor stava per rispondere
quando il lieve rumore di un ramoscello spezzato lo fece irrigidire.
“Nascondetevi,” disse sottovoce. Tutti cercarono
riparo tra le
antiche pietre.
Nel chiarore che precede
l’alba
videro arrivare una donna col capo coperto. L’ufficiale
notò che
aveva un saree arancione e la cosa gli comunicò un sordo
turbamento.
Possibile che fosse la stessa persona che aveva visto a Mahish
Bathan? E se lo era, cosa ci faceva lì?
La donna avanzò
adagio. Aveva in
mano dei fiori di loto e qualcos’altro che nella scarsa luce
non si
distingueva. Si inginocchiò davanti a una delle immagini
sacre,
giunse all’altezza del viso le mani decorate con
l’henné e
recitò sottovoce una preghiera, poi appoggiò
sull’altare qualcosa
che mandò un lieve suono metallico.
Fatto questo, si
alzò e si
allontanò, scomparendo lentamente nella lieve caligine che
ammantava
la foresta silenziosa.
I quattro lasciarono passare
alcuni minuti prima di decidersi a uscire dai nascondigli.
Jenkins si volse nella
direzione
in cui si era allontanata la donna, scosse la testa e
brontolò:
“Mangiacurry. Credono che lasciare cibo faccia piacere ai
loro dei.
Farà piacere agli animali, al massimo.”
“Non dispiacerebbe nemmeno a
me, sergente,” borbottò Thayes. “Mi
mangerei un cavallo.”
“Cavallo o no, non provare a
toccare quelle porcherie,” replicò Jenkins, poi
lanciò
un’occhiata all’offerta, sollevo le sopracciglia e
disse: “Che
mi venga un colpo.”
Assieme ai fiori di loto,
sulla
pietra c’erano una grossa chiave di bronzo e un dado
d’osso.
Il tenente raccolse i due
oggetti. Il dado era identico a quelli che aveva in tasca.
“Sergente, controllate se da
qualche parte c’è una serratura,”
ordinò.
“Signorsì.”
Poco dopo gli inglesi erano
nella
costruzione principale del tempio, chiusi a chiave in una stanzetta
semibuia. La porta aveva qualche fessura, attraverso la quale si
vedevano uomini a torso nudo e col turbante chiaro che si aggiravano
stringendo in pugno il rumal.
Qualcuno aveva anche provato a
spingere l’anta, ma trovandola bloccata non vi aveva dedicato
altre
attenzioni.
Poi comparve anche il tizio
vestito di nero. Si muoveva così silenziosamente che se lo
trovarono
davanti alla porta senza nemmeno averlo sentito arrivare.
Provò
anche lui ad aprirla, fece per andarsene ma subito dopo
tornò
indietro. Tentò ancora una volta di aprire. La porta
resistette, ma
la cosa non sembrò convincerlo. Rimase a scrutare,
addirittura lo
sentirono fiutare
l’aria.
Grosvenor trattenne il
respiro.
Non so chi sei, dio
di
questo tempio,
pensava, ma se fai
andare via quel bastardo ti offrirò una bella pinta di gin
appena
torno a Calcutta.
Il bastardo, frattanto, si
trovava probabilmente in un conflitto fra istinto e ragione: il primo
gli diceva che dietro quella porta ci doveva essere qualcosa di
interessante, ma la seconda gli faceva notare che quattro inglesi
precipitosamente fuggiti attraverso le fogne non potevano aver
trovato il modo di aprire e chiudere una porta con la chiave.
Due pinte…
Il tizio tentò di
nuovo di
aprire la porta. Il tenente percepì il tintinnio di piccoli
oggetti
metallici, poi qualcosa cominciò a frugare nella serratura.
Il cuore gli saltò
un battito:
attrezzi da scassinatore! Scambiò un’occhiata col
sergente, che
gli rimandò lo stesso messaggio di allarme.
Va bene, tutto il gin
di
Calcutta.
Si udì un richiamo.
Il tizio
vestito di nero rispose qualcosa, poi abbandonò quel che
stava
facendo e se ne andò.
Passarono diversi secondi
prima
che Grosvenor riuscisse a ritrovare una frequenza cardiaca
accettabile. “Dobbiamo scoprire chi è il dio di
questo tempio,”
mormorò asciugandosi il sudore freddo dalla fronte,
“sono in
debito.”
* Bevanda tradizionale indiana
ottenuta mescolando yogurt, acqua, spezie e talvolta frutta.
** Pezzo di stoffa
rettangolare
che viene legato intorno alla vita e scende fino ai piedi (vedi
Gandhi).
*** Pudding tipico delle Forze
Armate britanniche dell’epoca, che veniva cotto
nell’acqua
bollente dopo essere stato cucito all’interno di un pezzo di
tela.
|
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
Capitolo 4
Quando il bigliettaio della
stazione di Jotram li vide arrivare, rimase a dir poco stupefatto: i
quattro sahib sembravano tirati fuori da uno dei mucchi di cadaveri
di Isandlwana. Erano sanguinanti, malandati e con le leggendarie
giubbe di qualsiasi colore fuorché rosso. Davano
l’idea di aver
passato l’ultima settimana a scappare da un branco di bufali
inferociti in mezzo a una palude.
Dallo scalcinato gruppetto si
staccò un ufficiale. Si presentò allo sportello e
compitissimo
disse: “Buon giorno. Quattro biglietti per Calcutta, per
favore.
Sola andata.”
L’impiegato ci mise
qualche
secondo a riprendersi dallo stupore, tanto che l’altro si
sentì in
dovere di chiedergli: “Va tutto bene, buon uomo?”
“Scusate, sahib.”
L’indiano
si riscosse e gli consegnò i biglietti. Come sempre il
maharaja
provvide al pagamento.
“Sarebbe così
gentile da dirmi
a che ora parte il treno?”
“Alle nove, sahib.”
“Quindi abbiamo
mezz’ora.
Molto bene. Grazie e buona giornata.” Il tenente raggiunse i
suoi
uomini e con la più grande tranquillità disse:
“Abbiamo anche il
tempo di fare colazione.”
Il volto di Thayes si
illuminò.
E fin qui siamo
arrivati,
pensò Grosvenor mescolando assorto la sua tazza di
caffè. Il
tragitto per Jotram era stato singolarmente tranquillo, ma la cosa
non l’aveva rassicurato per niente. Il contrario, se mai.
Assodato che quel tale
O’lim
era tutt’altro che un babbuino, doveva aver capito subito
cosa
avevano intenzione di fare. Quindi perché frugare per mezza
foresta
quando sapeva per certo che sarebbero saliti su un treno? Molto
meglio occuparsi di loro una volta a bordo, dove fra l’altro
non
avrebbero neppure avuto vie di fuga.
Il tenente infilò
una mano in
tasca e ne trasse un paio di dadi. Cominciò a farli rotolare
distrattamente sulla tovaglia bianca.
Aveva avuto non più
tardi di due
ore prima una riprova delle parole di Kaur: c’era qualcuno
che li
teneva d’occhio, non solo tra i thug, ma anche tra coloro che
erano
fedeli alla Corona.
“Bene, uomini. Ora possiamo
andare,” disse alzandosi. Lasciò i dadi sul
tavolo. Era già
voltato verso l’uscita, per cui non si accorse che il
cameriere li
raccoglieva e se li metteva in tasca.
Si spostarono sulla banchina e
dopo poco di udì un fischio, poi da dietro una curva apparve
una
vecchia locomotiva che tra sfiati di vapore e stridore di freni si
fermò.
Rimase a sobbollire mentre gli
addetti cominciavano a rifornirla del necessario.
Scesero parecchi passeggeri,
ma
ne salirono pochi.
Grosvenor li
osservò cercando di
cogliere in essi qualcosa al di fuori dell’ordinario, ma al
suo
occhio di sahib parvero tutti uguali.
Nessuno vietava che
O’lim fosse
salito alla stazione prima, peraltro, visto che il treno per Calcutta
era solo uno, o che salisse a quella successiva.
Sospirò. Gli
sembrava di
camminare bendato lungo il ciglio di un burrone. Ci voleva gente
esperta per fare certe cose, spie del Grande Gioco, soldati di
eccezionali capacità come Frederick Burnaby*. Come
pretendevano che
uno come lui potesse portare a termine una missione del genere?
D’accordo, beati
monoculi in terra caecorum:
anche lui era un ufficiale, sapeva tenere in mano una pistola e una
sciabola. Era pur sempre meglio di niente, ma da qui a fare di lui un
militare addestrato al controspionaggio ce ne passava.
Salirono a bordo. La carrozza
che
avevano scelto era quasi vuota, c’erano solo quattro o cinque
uomini di varie età e un paio di donne con il saree tirato
sulla
testa a nascondere i lineamenti. Sebbene quattro militari malandati
che prendevano il treno in mezzo ai civili rappresentassero uno
spettacolo quanto meno insolito, nessuno li degnò di un
secondo
sguardo.
Si udì un lungo
fischio, poi
sbuffando e ansimando il convoglio si mise in moto e pian piano prese
velocità. Presto subentrò lo sferragliare
ipnotico delle ruote
mentre fuori dai finestrini scorreva un alternarsi di campi coltivati
e foresta. Talvolta qualche scintilla brillava un istante
nell’aria
e poi scompariva, sbuffate di fumo nero accarezzavano i finestrini
come grandi ali.
“Occhi aperti,”
raccomandò
il tenente.
Fece girare lo sguardo
tutt’intorno: uno degli uomini stava fumando e intanto
guardava il
paesaggio, un altro paio sembravano addormentati. Una delle donne o
presunte tali aveva tirato fuori un lavoro di cucito.
A parte la scarsità
di
passeggeri, la situazione non sembrava diversa da qualsiasi viaggio
in treno avesse fatto in India.
Poi improvvisamente gli parve
di
vedere ombre che si muovevano ai margini del suo campo visivo, ma
prima che potesse sincerarsene la luce calò drasticamente e
un
attimo dopo il vagone piombò
nell’oscurità. “Una galleria!”
esclamò nel buio la voce di Barrett.
Si udirono un frenetico
tramestio, il fremito metallico di qualcuno che sfoderava la
baionetta, un sibilo nell’aria, un gemito. Grosvenor
tentò di
alzarsi, ma si sentì afferrare da più parti.
Qualcuno gli mise una
mano sulla bocca, lui ci piantò i denti, stringendo
più che poteva.
Il suo avversario gettò un grido, provò a
divincolarsi, colpì alla
cieca. Altri però lo stavano afferrando, lo tiravano per la
giubba,
qualcuno gli aveva agguantato una manata di capelli e lo strattonava
all’indietro.
Poi il tenente
sentì un dolore
acuto alla tempia e tutto si fece indistinto. Provò ancora a
liberarsi, ma si accorse che stava barcollando e le forze gli
venivano meno.
Crollò a terra.
L’ultima cosa
che sentì furono mani che da una parte frenavano la sua
caduta, ma
dall’altra lo trattenevano per impedire una sua improbabile
fuga.
Riaprì gli occhi in
una
stanzetta dalle pareti di metallo, senza finestre e illuminata solo
da una piccola lampada a petrolio che si trovava su una cassetta
rovesciata. Il rumore e le vibrazioni gli fecero capire che era
ancora sul treno. Aveva le mani legate dietro la schiena, dalla
tempia gli si irradiavano attraverso il cranio fitte di dolore che
sembravano spilloni da fattucchiera.
“Ben svegliato,
tenente,” lo
salutò una voce fredda.
L’ufficiale
scrollò la testa
un paio di volte e si mise faticosamente seduto. Accanto a lui
c’era
l’uomo in nero.
“Avete dormito bene?”
s’informò O’lim.
“Veramente non
tanto,”
rispose Grosvenor, “i vostri uomini sono stati piuttosto rudi
nei
miei confronti.”
L’altro emise un
teatrale
sospiro. “Vi porgo le mie scuse. Non è facile al
giorno d’oggi
trovare un servizio decente.” Poi, cambiando di colpo tono ed
espressione: “Ma ora mi duole dirvi che non ho tempo, quindi
purtroppo dovremo rimandare la nostra discussione sulla
servitù.
Datemi quei documenti.”
Grosvenor tentò di
assumere
un’aria innocente. “Quali documenti?”
O’lim
sfoderò il kukri e lo
mosse adagio facendo brillare il filo della lama. Con voce
minacciosamente bassa, lentamente recitò: “Tu
lo tieni fermo, tu. Io gli becco quei begli occhioni blu.**”
Avvicinò il pugnale al viso dell’inglese fino a
che la punta non
gli graffiò uno zigomo. “Dei vostri begli occhioni
blu, tenente,
quale preferite che vi tolga per primo?”
Grosvenor deglutì a
vuoto.
“Nessuno dei due, se posso esprimere un parere.”
Tentò di
muoversi, ma la punta del kukri gli bucò la pelle,
facendogli
scorrere sulla guancia una lacrima di sangue.
“Faccio appello al vostro senso
dell’opportunità,”
gli disse O’lim, sempre con la sua espressione
imperturbabile, “vi
ricordo che qui non siamo al circolo ufficiali a parlare di caccia
alla tigre.”
“Posso assicurarvi
che l’avevo capito perfettamente.”
“Tenente, è bene che
sappiate
una cosa: non mi reputo un estimatore del celebre humour inglese. In
più in questo momento la fretta mi rende ancora meno
disposto ad
apprezzare le vostre battute. Datemi quei documenti adesso.”
“Non li ho io,”
rispose
Grosvenor, il che peraltro era la pura verità.
La punta del pugnale
penetrò più
in profondità. “Mi basta spingere ancora un
po’ e farò di voi
un emulo dell’ammiraglio Nelson. Se poi vi ostinerete a non
parlare, per rendere più completa la somiglianza vi
asporterò anche
il braccio destro.”
Il tenente strinse i denti.
“Io
mi compiaccio della vostra conoscenza della cultura inglese,”
replicò, “ma sono un fuciliere, e francamente
troverei insultante
essere reso simile a un marinaio, ancorché celebre come il
vecchio
Horatio.”
Si girò bruscamente
su un
fianco, e pur procurandosi un taglio sullo zigomo, sottrasse
l’occhio
alla minaccia del kukri. Approfittando della propria maggiore mole
spinse via da sé O’lim con un calcio e si
alzò in piedi. Fece per
uscire, ma l’asiatico lo afferrò per una spalla e
lo tirò
indietro. Grosvenor si divincolò e con una pedata gli
spedì il lume
a petrolio addosso. Il serbatoio della lampada andò in
frantumi e
lingue di fiamma avvolsero gli abiti della spia russa, che con un
ringhio di dolore mollò definitivamente la presa.
Il tenente cercò
tentoni la
maniglia, la abbassò col gomito e spinse la porta, che per
fortuna
cedette.
Si trovò in un
corridoio, da una
parte proveniva rumore di spari. Corse in quella direzione.
Pochi secondi dopo
cominciò a
percepire alle sue spalle i passi di varie persone. Una mano lo
raggiunse afferrandolo per la collottola, si divincolò con
uno
strattone, aumentò la velocità.
Nel frattempo cominciava anche
a
sentire l’odore della polvere da sparo.
Una voce inconfondibile
ruggì:
“Per tutti i diavoli! Siete fucilieri o scritturali? Ho detto
di
tenere lontani quei mangiacurry!”
“Sergente Jenkins!”
urlò con
quanto fiato aveva in gola. “Sergente!”
Sentì il kukri
fendere l’aria
alle sue spalle.
“Tenente Grosvenor!”
giunse
la risposta del sottufficiale.
La spia gli fu addosso. Con le
mani legate, l’ufficiale non riuscì a parare la
caduta e rovinò
al suolo. Cercò di divincolarsi, ma l’altro gli
gravava sulla
schiena con tutto il suo peso. Il freddo della lama sulla gola lo
fece rabbrividire.
“I documenti,”
ripeté O’lim.
“Vi ho detto che non li ho
io!”
L’altro premette il
pugnale. “E
allora ditemi chi li ha.”
Grosvenor strinse i denti:
Jenkins era sicuramente in arrivo, doveva cercare di prendere tempo.
“Se ve lo dico, che cosa ci guadagno?”
“Che vi ucciderò in
modo
rapido e pietoso.”
“Spiacente. Se mi aveste
parlato di gin e magari anche di acqua tonica avremmo potuto avviare
una contrattazione, ma se comunque morirò, mi prendo almeno
la
soddisfazione di lasciarvi a bocca asciutta.”
La spia fece una fredda
risata.
“Non vi avrei detto così eroico,”
ghignò, “ma forse siete
solo un povero stolto che non ha idea di quel che lo aspetta.”
Arrivarono altre persone, alle
quali O’lim parlò in una lingua che Grosvenor non
conosceva.
Qualcuno lo afferrò per i piedi e cominciò a
trascinarlo indietro.
In quel momento
echeggiò uno
sparo seguito da un grido. Chi lo stava trascinando smise di farlo.
O’lim si buttò a terra con un ringhio di
disappunto.
“Tutti indietro!”
sbraitò il
sergente con il fucile ancora imbracciato, a gambe larghe per tenersi
in equilibrio nonostante gli scossoni del treno. “Tutti
indietro o
salta la testa di qualcun altro!”
La spia afferrò
Grosvenor per i
capelli e gli appoggiò il pugnale sulla gola. “E
se fosse la testa
di questo bel tenentino a saltare?” chiese a Jenkins.
Il sergente rimase
impassibile.
“Quella dopo sarebbe la vostra,” rispose.
In quel momento il treno ebbe
un
violento sussulto, cigolò e sferragliò come se
una mano enorme lo
stesse agitando, il sottufficiale perse l’equilibrio e
sarebbe
caduto giù se non si fosse provvidenzialmente aggrappato a
una
ringhiera, O’lim scivolò in avanti. Il convoglio
stava perdendo
rapidamente velocità.
“Qualcuno ha staccato i
vagoni!” esclamò Jenkins, che essendo in piedi
riusciva a vedere
cosa stava succedendo.
La metà di treno
rimasta
indietro, con loro sopra, si stava lentamente fermando,
l’altra era
ormai già sparita alla vista e a testimonianza del suo
passaggio
rimaneva solo una scia di fumo nero che si andava dissolvendo.
Approfittando
dell’attimo di
smarrimento, il sergente sparò un colpo. O’lim
scattò di lato
come un felino, quindi scomparve alla vista seguito dai suoi uomini.
“Quel maledetto sta
scappando!”
esclamò Jenkins. Fece per sparare, ma il gruppetto era
già
scomparso nella foresta.
“Dannazione,”
brontolò
abbassando l’arma.
Raggiunse il tenente, gli
slegò
i polsi. “Tutto a posto, signore?” gli chiese con
sussiego.
Grosvenor conosceva bene il sergente, e sapeva che quel tono in
apparenza così formale in realtà significava: non
posso lasciarvi solo un momento.
“Dobbiamo andare,”
disse
l’ufficiale ignorando la domanda. “Siamo dispersi
in mezzo al
nulla e intanto quello là starà correndo a
Calcutta per far secco
il Governatore.”
“Sarebbe increscioso,
signore,”
commentò Jenkins. Poi gli porse un fazzoletto
inspiegabilmente
candido nonostante tutto quello che avevano passato e gli
suggerì:
“Pulitevi un po’ la faccia, signore. Sembrate Guy
Fawkes dopo il
processo.”
“Per fortuna siete arrivato in
tempo, sergente, se no rischiavo di sembrare Guy Fawkes dopo
l’esecuzione.”
Raccolsero la loro roba.
Jenkins
informò il tenente che mentre era prigioniero, lui e i due
soldati
avevano dovuto difendersi dall’attacco dei thug. Piuttosto
stupito
aggiunse che alcuni locali, tra cui le due donne della loro carrozza,
erano accorsi a dar loro man forte contro gli assalitori.
“Voi ci
capire qualcosa, signore?” chiese perplesso.
“Sembra che siamo capitati nel
bel mezzo di una guerra di spie, sergente,” rispose
Grosvenor.
Stava per aggiungere altro quando scorse di nuovo la donna col saree
arancione. Era di spalle lungo il binario, la vide imboccare un
sentiero e scomparire nella vegetazione.
“Aspettate!” le disse
saltando giù dal treno, ma quando raggiunse il punto in cui
era
entrata nella foresta, di lei non c’era più alcuna
traccia.
L’unica cosa che
trovò fu un
dado di osso.
“Sergente, da questa
parte!”
disse.
Si misero rapidamente in
marcia e
dopo circa un quarto d’ora arrivarono a un paese. Il centro
abitato
risentiva già della vicinanza della grande città,
aveva case di
muratura, templi e addirittura qualche strada lastricata. Nella
piazza principale, intorno alla fontana, c’era un gruppo di
donne
intente a lavare i panni, i negozianti esponevano la loro merce lungo
le strade. Bambini giocavano qua e là, festoni di erbe e
peperoncini
erano appesi alle finestre.
“Dobbiamo trovare un mezzo di
trasporto,” disse Grosvenor.
“Un carro, signore?”
propose
Barrett.
“Qualcosa di veloce. Dei
cavalli sarebbero l’ideale.”
Il sergente rimase come sempre
impassibile, ma i due soldati si scambiarono uno sguardo sconcertato:
a Barrett i cavalli avevano sempre fatto paura, mica era diventato un
fuciliere per caso, e Thayes era talmente grosso che in groppa a
qualsiasi cavallo sarebbe sembrato Sancho Panza sul somaro.
Inutile dire che la
prospettiva
di coprire l’ultimo tratto della strada per Calcutta in sella
a un
destriero li allettava pochissimo.
Come se gli avesse letto nel
pensiero, il tenente insisté: “Siamo a piedi sia
noi che il russo.
Dobbiamo procurarci un mezzo veloce prima di lui, altrimenti possiamo
pure dire addio al Governatore.”
“Sissignore.” Barrett
interrogò gli indigeni, e il responso fu: “Qui non
ci sono
cavalli, però c’è uno che ha un
elefante da vendere. Hanno detto
di chiedere del signor Jaidev.”
“Adoro gli elefanti,”
rispose
l’ufficiale, “andiamo.”
“Ma signore, dicono
che...”
tentò il soldato.
“Non c’è
tempo, andiamo.”
Il signor Jaidev possedeva una
fattoria ai confini del paese. L’edificio principale era
ancora nel
centro abitato, ma il resto si protendeva verso la campagna.
Il proprietario, dapprima
sospettoso, divenne straordinariamente affabile quando seppe il
motivo per cui i quattro sahib si erano recati a casa sua. Offri loro
del tè, del lassi e dei dolci. Si prodigò in ogni
modo. Disse che
avrebbe aggiunto la bardatura dell’elefante senza chiedere
una
rupia in più.
A questo punto, anche una
persona
entusiasta e noncurante come Grosvenor cominciò a
insospettirsi. “Ha
qualcosa che non va il vostro elefante?” chiese.
“Assolutamente no,
sahib!” si
affrettò a negare l’indiano,
“È molto grande e la sua bardatura
non starebbe a nessun altro. Nessuno me la comprerebbe.”
“Quanto ne chiedete?”
L’uomo disse una
cifra che
avrebbe a malapena pagato una capra, tanto che il tenente si
sentì
in dovere di precisare: “È dell’elefante
che stiamo parlando,
non della bardatura.”
“Ma certo,
l’elefante. Il mio
Sarkesh, la bestia più nobile e possente di tutta
l’India.”
Grosvenor e Jenkins si
scambiarono un’occhiata che la diceva lunga su cosa stessero
pensando, ovvero: questo
sta cercando di smerciarci come elefante un mulo con una manica
legata sul muso.
In quel momento si udirono un
barrito poderoso e rumore di legno che andava in frantumi. Qualcuno
urlò qualcosa. “Hanno detto
‘attenzione’, signore,” tradusse
Barrett, “e poi delle parole che non posso
ripetere.”
Si voltarono tutti verso il
signor Jaidev, che nel frattempo aveva assunto un’espressione
assai
turbata.
“C’è
qualche problema?”
chiese il tenente.
Il problema
arrivò un istante dopo: era un elefante di proporzioni
mostruose, il
più grande che avessero mai visto. Aveva zanne lunghe
quattro piedi
e dotate di un rinforzo metallico sulla punta. La proboscide sembrava
un tronco. La bestia scuoteva la testa sventolando le enormi orecchie
e barriva forsennatamente, il terreno tremava sotto le sue zampe.
Due o tre uomini stavano
cercando
senza alcun successo di arginare la sua furia con delle corde e degli
ankus***. Il pachiderma li ignorò fino a che mantennero una
distanza
di sicurezza, ma appena si fecero troppo sotto ne afferrò
uno con la
proboscide e lo lanciò via come se fosse stato uno straccio.
“Sarkesh! Nā,
nā****!” urlò
il signor Jaidev, col tono che avrebbe usato per redarguire un
pechinese che aveva fatto la cacca sul tappeto.
L’elefante si
girò nella sua
direzione e allargò le orecchie con fare minaccioso. I
puntali di
metallo delle zanne brillavano sotto il sole.
“Sarkesh...” e
già la voce
era meno energica.
La bestia rispose con un
barrito
poderoso. Fece per avanzare verso di lui, ma si accorse che
c’erano
delle presenze nuove. Sempre a orecchie larghe si avvicinò
ai
quattro inglesi, scosse la testa con aria di sfida e alzò la
proboscide per fiutarli. Nessuno osava muoversi.
L’indiano
provò a richiamarlo,
ma l’animale non gli prestò alcuna attenzione.
Faccia a faccia con
l’appendice
che lo studiava, Grosvenor fece un sorriso di circostanza.
“Bell’elefantino,” disse con tono
amichevole. La bestia sbuffò,
scompigliandogli i capelli con la potenza del soffio d’aria
emesso.
Sarkesh annusò
tutti con grande
cura, poi emise un barrito di soddisfazione e circondò con
la
proboscide le spalle del sergente. Sembrava uno che avesse ritrovato
un vecchio amico.
Se lo tirò vicino e
sollevò una
zampa anteriore.
“Vuole farvi salire in
groppa,”
spiegò il signor Jaidev.
Il sergente lo
fissò, senza
parole forse per la prima volta da quando Grosvenor lo conosceva.
“A
me?” disse soltanto.
Sarkesh era sempre fermo con
la
zampa alzata. Addirittura piegò la testa nella sua direzione
per
fare in modo che gli afferrasse l’orecchio più
facilmente.
“Mi sembra che gli piacciate,
Jenkins,” disse il tenente. Poi rivolto
all’indiano: “Lo
prendiamo.”
Il pachiderma intanto si
coccolava l’attonito sergente. Di nuovo gli porse la zampa,
accompagnando il gesto con un brontolio. Lo sospinse con la
proboscide.
“Coraggio, Jenkins”
lo
sollecitò l’ufficiale, “fate contento il
nostro elefante.”
“Che mi venga un
colpo,”
commentò l’altro, poi salì in groppa a
Sarkesh, che emise un
barrito assordante e fece un giro del cortile con l’aria di
chi si
vanta enormemente di avere sulla schiena un vero sergente britannico.
Il signor Jaidev si
girò verso
il tenente e disse: “È un elefante da guerra. Era
del maharaja di
Barhdaman, ma ora non si fa più la guerra con gli elefanti e
lui non
lo voleva più. Troppo cattivo, Sarkesh. Troppo nervoso. E
grosso.
Mangia molto.”
Grosvenor sogghignò
all’idea
che avrebbe ricomprato il pachiderma con i soldi di chi
l’aveva
venduto. Pagò all’uomo il prezzo corrente di un
elefante più una
buona mancia. Così, per simpatia, e perché il
denaro era quello di
chi aveva tentato di tirargli il collo non più tardi di
ventiquattr’ore prima.
* Celeberrimo ufficiale
dell’Esercito Britannico dalla vita avventurosa. Spia del
Grande
Gioco, viaggiatore e schermidore. Era in grado di parlare
correntemente otto lingue ed era famoso per la prodigiosa forza
fisica.
** “Twa
Corbies”, canto
tradizionale scozzese.
*** Bastone di circa 1,5 m che
termina con un uncino. È lo strumento usato dal mahout per
guidare
l’elefante.
**** “No,
no!”
|
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Capitolo 5 *** Capitolo 5 ***
Capitolo 5
Sarkesh adorava il sergente
Jenkins. Anche mentre gli mettevano la bardatura, l’enorme
pachiderma stava con la proboscide sulla spalla del sottufficiale e a
nessun titolo accettava di essere separato da lui.
Aveva capito che Grosvenor e i
due soldati erano amici
del sergente,
per così dire, per cui li tollerava, ma il suo prediletto
rimaneva
senza dubbio Wilford Jenkins.
I motivi di tale smaccata
preferenza erano ignoti. Il tenente aveva cercato di offrirgli della
frutta per ingraziarselo, ma Sarkesh si era rivolto al sergente con
un’espressione che sembrava voler dire: Posso
fidarmi?
“Vecchio mio, puoi stare
tranquillo,” gli aveva assicurato Jenkins, “il
tenente Grosvenor
è un ottimo ufficiale.”
Sarkesh non era rimasto
particolarmente convinto da quella garanzia, ma per come la vedeva
lui, se il sergente gli diceva che poteva stare tranquillo,
significava che non c’era pericolo. Aveva quindi accettato la
frutta.
Provenendo dalle scuderie di
un
maharaja, la bardatura di Sarkesh era un tripudio di gualdrappe
ricamate e ornamenti, ma allo stesso tempo aveva protezioni
metalliche – debitamente sbalzate e damascate – per
tutte le
parti vulnerabili.
Con le mani sui fianchi come
chi
sta contemplando un lavoro particolarmente ben fatto, Thayes
osservò
l’elefante e rivolto al commilitone disse: “Adesso
voglio proprio
vedere cosa faranno quelli là con i loro lacci di
seta.”
“Tu ricordati solo di non
andare al cesso, Steve,” gli rispose Barrett con aria
innocente,
“vedrai che così non corri rischi.”
“Ehi, specie di rospo, se non
la pianti ti ci infilo per la testa, in un cesso!”
“Thayes!”
esclamò il
sergente. L’elefante sottolineò il richiamo con un
barrito.
“Signore, stavolta non
c’entro!” si difese l’altro,
“È stato lui che...” Jay
Barrett lo stava fissando con espressione angelica. Thayes
brontolò
qualcosa di inintelligibile ma poco gentile e tacque. Con
te facciamo i conti poi,
fu la muta promessa del suo sguardo. Il più giovane assunse
una tale
espressione di candore che gli mancava solo l’aureola.
Sulla groppa
dell’enorme
pachiderma, i quattro partirono alla volta di Calcutta. Cavalcioni
sul collo dell’animale, il sergente lo guidava tenendogli le
orecchie come il manubrio di un velocipede. Per quanto non fosse la
secolare tecnica dei mahout* tramandata di padre in figlio, sembrava
che Sarkesh avesse capito abbastanza in fretta il significato dei
comandi.
“Forza, vecchio mio,”
lo
incoraggiò Jenkins, “abbiamo una missione da
compiere.”
Sebbene fosse ormai mattino
inoltrato, la strada non era molto trafficata, e anche i pochi
viandanti si scostavano rapidamente al sopraggiungere di un enorme
elefante da guerra bardato di tutto punto e guidato dalle scarse
competenze un sahib.
Seduto nel palanchino ornato
di
nappe e piume, Grosvenor pensava tanto per cambiare al gin. Sia a
quello che avrebbe bevuto lui debitamente addizionato
all’acqua
tonica, sia a quello che avrebbe offerto alla divinità
tutelare del
tempio in cui si erano nascosti vicino a Moktarpur. Tutto il gin di
Calcutta, la promessa non si prestava a equivoci.
“Secondo me Ganesha ci sta
aiutando,” disse di punto in bianco.
Jenkins si voltò
verso di lui.
“Domando scusa, signore?” L’espressione
aveva l’impenetrabilità
paziente del sottufficiale che deve sopportare le esternazioni un
superiore particolarmente estroso.
“Ganesha, sergente. Il dio
dalla testa di elefante. Scommetto che quel tempio era suo. E poi
guardate qua che ben di dio ci ha fatto trovare: un vero elefante da
guerra. Senza contare che Ganesha è anche il dio della buona
fortuna.”
“Come dite voi,
signore,”
rispose il sergente.
Grosvenor
ricominciò a pensare
al gin e all’acqua tonica.
Non tralasciava, fra una
bevuta
immaginaria e l’altra, di controllare anche
l’ambiente: per
Calcutta c’era solo la strada che stavano percorrendo e treni
non
ce ne sarebbero stati fino all’indomani. Il che significava
che
anche i thug, ma soprattutto O’lim sarebbero passati per di
lì.
Per quanto Ganesha fosse chiaramente dalla loro parte, bisognava
evitare di fare troppo affidamento sulla fortuna e prepararsi a
possibili imboscate.
Stava giusto ragionando su
questa
eventualità quando si udì il rumore di qualcosa
di pesante che
strisciava per terra. Sarkesh stronfiò e scosse la testa con
aria di
disappunto. Aveva una corda impigliata in una delle zampe anteriori.
Non appena realizzò
che
attaccati alle due estremità della corda c’erano
anche degli
uomini che la tenevano tesa di traverso alla strada, emise un tonante
barrito di guerra, ne afferrò uno con la proboscide e lo
lanciò
contro gli altri.
L’incidente si
sarebbe anche
potuto chiudere così, senonché dalle fronde degli
alberi alcuni
thug si lasciarono cadere sulla groppa di Sarkesh, sfoderarono il
pugnale e si gettarono urlando sugli inglesi.
Si scatenò
un’importante
colluttazione: a terra l’elefante barriva e girava su se
stesso
inseguendo coloro che aspettandosi dei cavalli avevano cercato di
tendergli la trappola. Sulla sua groppa Grosvenor, il sergente e i
due soldati si difendevano dall’assalto dei thug. I poderosi
movimenti dell’animale davano ai militari la sensazione di
trovarsi
a bordo di un battello su un mare in tempesta.
L’ufficiale
abbatté i primi
due avversari a colpi di pistola, poi gli arrivò addosso un
tizio
grosso quanto lui, con gli occhi spiritati e la bava alla bocca.
Dall’odore che faceva la lama del suo katara**, doveva averla
spalmata di aglio, cosa che secondo la tradizione impediva alle
ferite di cicatrizzarsi.
Il tenente aveva scaricato il
revolver, per cui si difese con il calcio dell’arma. La testa
dell’uomo fu buttata all’indietro dal colpo, ma
questi era
talmente drogato che probabilmente non aveva neppure sentito dolore.
Non fece altro che scrollare il capo un paio di volte, senza fare
alcun caso al rivolo di sangue che gli scorreva lungo il viso.
Vibrò
un colpo con il katara, squarciando un cuscino accanto alla testa del
tenente.
Questi riuscì a
infilare un
ginocchio tra se stesso e l’assalitore e lo spinse via.
L’uomo
rotolò di lato, si raddrizzò con uno scatto delle
reni e subito
dopo gli si precipitò di nuovo addosso. Con un colpo di
pugnale
riuscì a lacerargli una manica.
L’ufficiale di nuovo
lo spinse
via, e questa volta ebbe cura di farlo cadere a terra. Sarkesh si
occupò della faccenda con la massima competenza.
Ansante, Grosvenor si mise
carponi. I thug superstiti si erano dati alla fuga.
“C’è qualche
ferito?” chiese ricaricando la pistola.
“Jay, signore,” disse
la voce
di Thayes. “Voglio dire, il soldato Barrett,
signore.”
Il tenenente si
voltò: il
ragazzo giaceva tra i cuscini con il volto terreo. Si premeva una
mano su un braccio, il sangue che gli filtrava fra le dita aveva
già
impregnato la manica.
Strappò le tendine
di mussola
del palanchino e ne fece delle strisce, poi disse: “Temo che
dovrò
farti un po’ male, Barrett.”
“È vero quello che
dicono,
signore?” chiese il ragazzo con voce debole.
“Che cosa?”
“Che le ferite di questi
pugnali non si chiudono più e si infettano.”
“Solo se ci si affida agli
stregoni locali. Con un buon medico inglese questo non può
succedere.”
“Davvero, signore?”
“Sul mio onore.”
Tolse
delicatamente la mano che il ragazzo stava premendo sulla ferita e
strappò via la manica mettendo a nudo un taglio profondo.
“Sei
fortunato, un pollice più in dentro e quel bastardo ti
avrebbe
staccato il braccio.”
Sotto lo sguardo attento di
Thayes prese le bende improvvisate e ne fece una compressa che
premette sulla ferita sanguinante, poi prese le strisce di mussola
rimaste, fasciò l’arto e alla fine strinse la
legatura con un
gesto secco. Il soldato emise un urlo che suscitò persino
nell’elefante un barrito indignato.
“Il peggio è
passato,” gli
assicurò il tenente, ma Barrett non rispose: era svenuto.
Grosvenor
si rivolse a Thayes: “La fasciatura ha fermato il sangue. Va
allentata ogni mezz’ora, se no Barrett può dire
addio al suo
braccio.”
Il soldato annui.
Sistemò meglio
il ragazzo sui cuscini e chiese: “Dicevate sul serio, prima,
signore?”
“A che proposito?”
“Che il rospo…
volevo dire
Barrett guarirà, signore.”
“Tra due ore al massimo saremo
in caserma e lì riceverà le cure necessarie.
Inoltre, con tutto il
sangue che ha perso, qualsiasi porcheria ci fosse sulla lama
sarà
finita chissà dove. Vedrai che tra un po’
starà meglio di prima.”
“Grazie, signore.”
“Non devi ringraziare me,
soldato. È Ganesha che ci protegge.”
Thayes lo fissò un
po’
perplesso. “Come dite voi, signore,” si
limitò a rispondere.
Ormai erano già
arrivati ai
sobborghi della città. Che qualcosa non andasse era
abbastanza
chiaro: c’era un’atmosfera cupa, tesa, dappertutto
aleggiava un
silenzio innaturale. Il caos di risciò, carretti, venditori,
mendicanti e bambini che normalmente intasava le strade era quasi del
tutto assente. Qualche perdigiorno camminava per i marciapiedi
deserti, ma non c’erano botteghe aperte né
artigiani al lavoro.
“Cosa diavolo sta
succedendo?”
chiese Jenkins guardandosi intorno sospettoso.
“La Conferenza
Nazionale,”
rispose Grosvenor. “Già qui a Calcutta ci odiano
più che in altri
posti, boicottano le nostre merci e fanno rivoluzioni. Figuratevi
cosa può succedere durante una conferenza organizzata dal
movimento
indipendentista.”
“Indipendentisti,
bah!” disse
il sergente con disprezzo. “Prima che arrivassimo noi, questa
gente bruciava le vedove vive sui roghi dei mariti e faceva i sacrifici
umani. Io dico che è meglio che non siano indipendenti per
il loro
stesso bene, signore.”
Grosvenor non
replicò. Abituato
a destreggiarsi in mezzo alla confusione della città, in
quel
silenzio si sentiva inquieto. Si voltò verso Thayes, che gli
rimandò
lo stesso turbamento.
L’elefante avanzava
solenne al
centro della strada e gli unici rumori che si udivano erano i tonfi
dei suoi passi, lo scricchiolare del cuoio e il tintinnio metallico
dei finimenti.
Dopo un po’ che
procedevano,
cominciarono a sentire un urlio confuso che andava man mano
aumentando. Il vento portò verso di loro una folata di fumo
e
polvere da sparo.
Comparvero oggetti
abbandonati,
pezzi di risciò sfasciati e mercanzie sparse da qualcuno che
aveva
fatto scempio di botteghe incautamente rimaste aperte. Senza
interrompere la marcia, Sarkesh raccolse con destrezza un mazzo di
carote, se lo infilò in bocca e lo masticò con un
brontolio di
soddisfazione.
“Muoviti,
pelandrone!” lo
redarguì il sergente. L’enorme animale
aumentò la velocità, non
tralasciando di raccogliere altre ghiottonerie se gli arrivavano a
portata di proboscide.
Quando raggiunsero il centro
si
imbatterono in una folla sterminata. Gente ovunque, assiepata nelle
vie, arrampicata sui lampioni, abbarbicata alle inferriate, che
rumoreggiava e ondeggiava come una specie di mare in tempesta. Ogni
tanto c’erano dei posti di blocco inglesi, in cui militari
pallidi
di paura stringevano in pugno le armi dietro l’esigua
protezione di
qualche sacco di sabbia e qualche cavallo di Frisia.
Sarkesh avanzò
senza nemmeno
rallentare, aprendo la folla con il semplice impatto delle sue sei
tonnellate rivestite di metallo.
Si fermarono presso una
squadra
comandata da un caporale, il tenente si qualificò.
“Com’è la
situazione?” chiese.
“Lo vedete anche voi,
signore,”
rispose il graduato, “basta che qualcuno dia fuoco alla
miccia e
salta per aria tutto. Non ci hanno mai amati, questo è
certo, ma
prima d’oggi non li avevo mai visti così
incattiviti.”
La folla in effetti aveva un
che
di sfrontato, di provocatorio. Dava l’idea del succube che
finalmente si scopre spalleggiato da un potente. Dai rifiuti sparsi
per terra, Grosvenor capì che i soldati erano stati
bersagliati da
lanci di verdure e uova.
“Dobbiamo raggiungere
immediatamente il palazzo del Governatore,” disse,
“è una cosa
della massima importanza.”
Nel frattempo si chiedeva dove
fosse O’lim, se avesse trovato il modo di raggiungere
Calcutta, se
fosse già arrivato da un’ora e ormai fosse da
qualche parte a bere
un tè mentre il Governatore finiva di
raffreddarsi…
“Auguri, signore,” lo
richiamò alla realtà la voce del caporale.
“Vedete quanto sono
fitti là davanti? Non passerebbe neanche un gatto.”
“Forse un gatto no,”
intervenne Jenkins, “ma un elefante da guerra
sì.” Poi, rivolto
al pachiderma: “Avanti, Sarkesh, e non fermarti nemmeno se
vedi
Visnù a cavallo di una giraffa.”
L’animale
lanciò un barrito
tremendo, e già quello bastò per far
sì che la folla arretrasse.
Successivamente prese ad avanzare come una rompighiaccio nel Mare
Artico, facendosi largo a colpi di zanne e proboscide se trovava
qualcuno che non cedeva il passo di sua iniziativa.
Intorno al palazzo del
Governatore c’era una cintura di terreno sgombro. Sul
perimetro
dell’edificio era stata disposta una protezione di cavalli di
Frisia e sacchi di sabbia, presidiata da un intero battaglione di
fanteria. Grosvenor notò che erano stati portati in
posizione anche
pezzi di artiglieria leggera. Più indietro c’erano
un paio di
squadroni di lancieri.
“Se la devono proprio fare
sotto, quelli là!” osservò Thayes.
Barrett, che nel frattempo
aveva ripreso i sensi, osservava muto lo straordinario spiegamento di
forze.
Il sergente Jenkins
incitò
l’elefante, che di nuovo lanciò un poderoso
barrito e cominciò a
correre facendo tremare il selciato sotto le zampe.
Alcuni dei difensori puntarono
i
fucili, il tenente vide anche un paio di artiglieri precipitarsi
verso un sette libbre e girarlo nella loro direzione.
Agitò un braccio.
“Non
sparate, siamo inglesi!” Poi, rivolto a Jenkins:
“Diteglielo
anche voi, sergente.”
Con la sua tonante voce da
istruttore di reclute, il sottufficiale ribadì la loro
appartenenza
alle Forze Armate Britanniche. L’elefante pensò
bene di
sottolineare il concetto del suo adorato padrone con un altro
barrito.
Grosvenor vide un ufficiale
arrivare di corsa. Questi confabulò rapidamente con un
graduato e i
fucili si abbassarono. Sarkesh, ormai arrivato a una ventina di passi
dallo sbarramento, rallentò fino a fermarsi.
A parte il rumoreggiare
lontano
della folla, l’unico suono che si sentiva era il tintinnio
della
cotta di maglia con cui l’animale era bardato.
In quell’inquietante
silenzio,
Grosvenor salutò e disse: “Tenente Eldred
Grosvenor, 95°
Reggimento Fucilieri. Devo conferire immediatamente con il
Governatore per una questione della massima importanza!”
L’ufficiale
sopraggiunto, un
attempato capitano con un paio di curatissimi favoriti, lo
squadrò
da capo a piedi, fece girare lo sguardo anche sui tre militari che lo
accompagnavano, alzò un sopracciglio e con sussiego
proferì: “Dite
pure a me, giovanotto.”
Il tenente scosse la testa.
“No,
non posso dire a voi. Devo parlare personalmente con il Governatore,
adesso.”
“Non
vorrete presentarvi a Sua Eccellenza con quella tenuta a dir
poco…
fantasiosa.”
“Sentite un po’,
voi,”
replicò Grosvenor, che stava cominciando a perdere la
pazienza,
“visto quello che ho da dire a Sua Eccellenza, io ci vado
anche
nudo, se è necessario. Il maharaja di Barhdaman è
un traditore in
combutta con lo Zar, i thug stanno fomentando rivolte in tutto il
Bengala, il forte di Moktarpur è stato depredato di ogni suo
contenuto e la guarnigione è stata sterminata,
c’è una spia russa
che sta arrivando qui con l’intenzione di uccidere il
Governatore e
forse mentre noi stiamo a discutere come se fossimo al circolo
ufficiali è già dentro il palazzo. Adesso che ne
dite, ci vado
subito da Sua Eccellenza o perdo due ore per farmi il bagno,
pettinarmi come si deve e mettermi l’alta
uniforme?”
“Vi faccio strada,”
fu la
risposta del capitano.
Grosvenor scese dalla groppa
di
Sarkesh e si fece consegnare le carte da Jenkins, che ovviamente le
aveva custodite meglio della Banca d’Inghilterra.
“Occupatevi voi
di tutto, sergente,” disse, il che significava: fate venire
un
medico per Barrett, fate bere l’elefante, fate insomma tutto
quello
che deve essere fatto.
“State tranquillo,
signore.”
All’interno del
palazzo regnava
la stessa calma carica di tensione che Grosvenor aveva percepito
nell’avvicinarsi a Calcutta. I corridoi erano vuoti, i passi
echeggiavano come all’interno di un mausoleo.
“Dov’è il
Governatore?”
chiese il tenente.
“Nel suo studio,”
rispose
l’altro.
“Ci sono guardie con
lui?”
“Sono state tutte spostate
all’esterno.” fu la compiaciuta risposta. Poi, dopo
una pausa:
“Per motivi di ordine pubblico, capite. Nessuno deve
avvicinarsi al
palazzo.”
“Perfetto,”
commentò
Grosvenor con un sospiro. Accelerò il passo ed estrasse il
revolver
per controllare che fosse carico.
Notando quelle manovre, in
tono
categorico il capitano disse: “Vi garantisco che nessuno
è
entrato. È impossibile.”
“Oh, Cristo!”
sbottò il
tenente, “Ma dove avete fatto la guerra, finora? Al Rag*** di
Londra? Abbiamo a che fare con la migliore spia di tutto il dannato
Impero Russo e la prima cosa che vi viene in mente è fare in
modo
che la folla dei rivoltosi non sporchi le passatoie di cocco
camminandoci sopra?”
Genuinamente stupefatto da
tanta
insolenza, l’altro si fermò sui due piedi,
costringendo il tenente
a fare altrettanto. Con ira trattenuta cominciò:
“Sentite un po’,
giovanotto: io vi proibisco...”
Grosvenor non fece in tempo a
sapere cosa stava per essergli proibito: si udì un breve
sibilo,
l’ufficiale sussultò e si accasciò a
terra. Dalla schiena gli
spuntava un dardo di balestra.
Non appena il tenente
realizzò
l’accaduto, si buttò al coperto dietro il
piedistallo di una
statua e da lì rimase a fissare il corpo del collega, sotto
il quale
si stava allargando una macchia di sangue.
A O’lim non
interessa
uccidere me, pensò, è
qui per far secco il Governatore.
La cosa comunque non lo
confortò,
dal momento che la spia russa non avrebbe esitato a eliminare anche
lui, se fosse stato necessario per raggiungere il suo obiettivo.
Cercò di ragionare
su portata e
precisione di una balestra, traendone conclusioni sconfortanti.
L’unico elemento a suo vantaggio era che dopo essere stato
caricato, il revolver aveva a disposizione sei colpi e la balestra
uno solo.
Se non mi becca con
il primo,
forse riesco a uscire dalla sua gittata.
Si buttò fuori
prima che il buon
senso avesse modo di esprimere il proprio parere sul suo piano.
Sentì
un sibilo vicino all’orecchio, resisté alla
tentazione di sparare
un paio di colpi e cominciò a correre più veloce
che poteva.
Non ci furono altri dardi, o
perlomeno non lo raggiunsero.
Corse su per lo scalone
d’onore,
si buttò a perdifiato per il corridoio che gli pareva
più sontuoso.
Cominciò ad aprire tutte le porte, una dopo
l’altra, controllando
cosa ci fosse all’interno. Sorprese qualche stupefatto
contabile,
un inserviente indiano che in barba ai suoi precetti religiosi si
stava mangiando una gamella di Cottage
Pie e infine un paio
di militari, di cui uno a brache calate e l’altro
inginocchiato
davanti a lui, che furono quasi colti da infarto al suo apparire.
“Dov’è lo studio del
Governatore?” chiese loro concitato.
I due lo guardarono
impietriti.
Probabilmente si sarebbero aspettati chiunque, anche il famoso
Visnù
sulla giraffa citato da Jenkins, ma non un ufficiale del loro stesso
esercito.
“Signori,
ho fretta,” fece notare Grosvenor al protrarsi del silenzio.
Quello in piedi, la cui faccia
nel frattempo era virata dal rosso peccaminoso al bianco ricotta, si
raccolse i pantaloni e balbettò: “Al…
al piano superiore… in
fondo al corridoio di destra.”
“Grazie, buon
proseguimento.”
Chiuse la porta con un tonfo e ricominciò a correre.
Arrivò alle scale,
divorò i
gradini a tre a tre, infilò il corridoio. La porta era
proprio
davanti a lui, bastava raggiungerla e…
Qualcosa lo colpì a
mezzo corpo
con la potenza di un maglio, facendolo rotolare scompostamente a
terra e mozzandogli il respiro. La pistola gli sfuggì di
mano.
Si rivoltò
tossendo, fece per
recuperare l’arma, ma un piede gli piombò
brutalmente sul polso
inchiodandoglielo al pavimento.
“Tenente, voi cominciate a
essere piuttosto fastidioso,” disse la voce fredda di
O’lim.
“Non posso che dire lo stesso
di voi,” rispose Grosvenor, stringendo i denti mentre
l’altro gli
premeva il tacco sul dorso della mano.
“Già, ma voi non
siete nelle
condizioni di porre fine al fastidio che vi arreco, io invece
sì.”
Il tenente, che era a terra
prono, si girò e vide che il russo stava caricando un colpo
con una
mazza da cricket. Strappò la mano da sotto il suo piede e si
raccolse un attimo prima che la botta calasse a sfondargli il cranio,
quindi afferrò la pistola con la sinistra, ma prima che
potesse fare
fuoco l’altro gli fu di nuovo addosso. Lo colpì
alla spalla
facendolo sbilanciare. Grosvenor gemette, arretrò cercando
appoggio
contro il muro e sparò. La pallottola mancò
O’lim, ma fece sì
che la porta del Governatore si schiudesse e da essa si affacciasse
un volto dall’espressione preoccupata.
L’ufficiale si prese
un terzo
violento colpo, sentì qualcosa nel torace fare il rumore di
un ramo
spezzato mentre una stilettata di dolore gli mozzava il respiro. La
spia cominciò a correre verso la porta, Grosvenor gli tenne
dietro e
riuscì ad agguantarlo un attimo prima che entrasse.
Rotolarono
dentro avvinghiati, lui aveva perso il revolver, ma anche a
O’lim
era sfuggita di mano la mazza. Cominciarono a prendersi a pugni
rovesciando mobili e suppellettili. Il tenente era più alto
e più
grosso, ma aveva la mano destra ferita, inoltre il russo era molto
più veloce di lui.
Attraversarono in questo modo
una
specie di anticamera, mandando un segretario gambe all’aria,
ribaltando sedie e facendo crollare pile di documenti, poi irruppero
nello studio del Governatore, sorprendendo quest’ultimo
seduto alla
scrivania mentre stava contemplando un piccolo oggetto che teneva in
mano.
O’lim
colpì il tenente con una
pesante lampada di bronzo che aveva recuperato su un mobile.
L’ufficiale vide nero, barcollò e
crollò a terra, ma prima che la
spia potesse assestargli il secondo e definitivo colpo,
echeggiò uno
sparo. Alle loro spalle erano comparsi due soldati. Grosvenor non
poteva giurarci, dal momento che aveva la vista annebbiata, ma gli
sembravano quelli del piano di sotto.
Cercò di alzarsi,
ma la mano
ferita non riuscì a reggerlo e si afflosciò al
suolo. Mentre
qualcuno lo sosteneva prendendolo da sotto le ascelle, sentì
la voce
del Governatore che con surreale calma chiedeva: “Qualcuno ha
visto
la mia bussola? Non riesco a trovarla.”
Poi svenne.
* Persona che si occupa
dell’elefante e lo guida.
** Pugnale indiano tipo daga
creato per portare potenti e rapidi attacchi di punta.
*** Army and Navy Club.
Esclusivo
circolo ufficiali della Capitale inglese.
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Capitolo 6 *** Capitolo 6 ***
Capitolo 6
Il tenente Grosvenor emise un
sospiro di soddisfazione. Alla fine il gin era riuscito a berlo,
debitamente mescolato all’acqua tonica, perlomeno tutte le
volte
che era riuscito a eludere a sorveglianza del dottore che aveva
curato le sue numerose ferite.
L’aveva anche
offerto al tempio
di Sri Ganesha, più o meno nelle quantità
promesse, ma dopo i primi
tre giorni di sbronza collettiva di tutti i sacerdoti e i fedeli gli
era stato fatto sapere che il supremo Vighnesvara* era soddisfatto
della sua donazione e considerava perfettamente ripagato tutto
l’aiuto che aveva ritenuto di fornirgli nel corso della
missione.
Si allungò sulla chaise
longue e ordinò al
cameriere il terzo gin tonic del pomeriggio, già pregustando
il
tintinnio che avrebbe prodotto il ghiaccio nel bicchiere mentre il
ragazzo glielo portava.
Il circolo ufficiali di
Calcutta
era decisamente un posto piacevole. Si trattava di un gioiello di
architettura Moghul del diciassettesimo secolo contornato da
splendidi giardini. Dietro l’edificio principale, proprio al
limitare di una macchia di cespugli fioriti, c’era un
porticato
tutto di marmo bianco, sostenuto da eleganti colonne, con magnifici
archi polilobati che gli avevano sempre ricordato delle fette di
cheddar con l’impronta di un morso.
Quel luogo era prediletto
dagli
avventori in quanto ombroso e ventilato, e spesso attraversato da
refoli d’aria carichi dei profumi del giardino. Ogni tanto
poi
arrivavano dei buffi macachi che cominciavano a strillare e a fare
salti, e se si buttava loro qualcosa da mangiare potevano rivelarsi
molto divertenti.
Normalmente gli inservienti li
scacciavano, ma loro erano furbi e si nascondevano tra le fronde, poi
tornavano fuori una volta passato il pericolo.
“Puoi avere il mango, ma non ti
azzardare a toccare il mio gin tonic,” disse il tenente a una
scimmia che lo stava scrutando da sotto un cespuglio.
L’animale lo
fissò con i suoi
occhi ambrati ed emise un ciangottio interrogativo.
“Mango: sì. Gin
tonic: no,”
chiarì il tenente.
La scimmia si
avvicinò adagio.
Grosvenor prese una fetta di polpa arancione da un piattino e gliela
tese. Il macaco dapprima lo osservò dubbioso, poi
allungò una
zampa, afferrò il frutto e scomparve fra le piante.
“Bravo,”
approvò il tenente,
poi si sistemò meglio la fasciatura sulla fronte. I punti
non glieli
aveva dati Jenkins, ma forse col senno di poi sarebbe stato meglio
che lo avesse fatto. Di sicuro il sergente avrebbe avuto la mano
più
leggera del dannato segaossa scozzese che si era occupato di tutti i
suoi numerosi danni. Ricordava ancora con orrore il momento in cui
gli aveva strizzato il torace come una maledetta cornamusa per
individuare le costole fratturate.
Assorto nei suoi pensieri e
nell’assunzione del gin tonic, si addormentò.
Lo svegliò dopo un
tempo
imprecisato il cameriere scuotendolo gentilmente per una spalla.
“Sahib, il Governatore chiede di voi,” gli disse
sottovoce.
“Il Governatore?”
fece eco
Grosvenor ancora mezzo addormentato, ma il cameriere non ebbe bisogno
di ripetere: l’alto funzionario in persona stava percorrendo
il
porticato per raggiungerlo, in compagnia del colonnello Wilson e di
altri ufficiali superiori che non conosceva. Il generale Harris non
era presente.
Si alzò
faticosamente. Avendo
alcune costole fratturate, ma soprattutto il braccio destro al collo,
non diede di sé il migliore degli spettacoli.
“State comodo,
tenente,” gli
raccomandò Wilson notando il suo disagio, “il
Governatore ci
teneva a ringraziarvi di persona per tutto ciò che avete
fatto.”
Per una volta nella vita che
ne
aveva la possibilità, Grosvenor fece il modesto.
“Oh, beh, niente
di che, in fondo. Una cosetta per rompere la routine.” Poi,
dopo
una pausa: “Comunque mi fa piacere che abbiate
apprezzato.”
“Ragazzo mio, siete stato
eroico,” gli assicurò con calore il funzionario,
stringendogli la
mano sana fra le sue. “Le informazioni che ci avete fornito
sono
state preziose, senza contare che mi avete salvato la via.”
“Oh, no. Davvero niente di cui
valga la pena parlare. E poi abbiamo avuto la fortuna di trovare un
elefante, quello ha facilitato di parecchio le cose. A proposito, sta
bene Sarkesh?”
Il colonnello gli rispose:
“Gode
di ottima salute. Se ne sta occupando il vostro sergente, anche
perché pare che non si faccia avvicinare da nessun
altro.”
“È un animale
piuttosto
selettivo.”
Rimasero un altro
po’ a parlare
della missione e delle informazioni circa i thug e il tradimento del
maharaja di Barhdaman. Mentre stavano conversando, arrivò un
cameriere con vassoio d’argento su cui si trovava un
pacchettino
confezionato come un regalo. “Per il sahib
Governatore,” annunciò
con un inchino.
Il colonnello
aggrottò le
sopracciglia. “Chi l’ha portato?”
“Una memsahib
della Lega per la Temperanza. Ha detto che è un regalo per
il sahib
Governatore.”
Grosvenor arricciò
il naso con
disgusto e fissò la strana confezione senza far mistero del
proprio
sospetto: nulla di buono poteva provenire da chi osteggiava il
consumo di alcol.
Il Governatore aprì
la
scatoletta e subito fece un sorriso. “La mia
bussola!” esclamò.
Il tenente drizzò
immediatamente
le orecchie. Gli tornò in mente l’ultima frase che
aveva udito
prima di svenire: Qualcuno
ha visto la mia bussola?
Con una manata fece cadere a
terra il piccolo contenitore. “Non toccatela!”
urlò.
La bussola rotolò
sul pavimento
in un imbarazzato silenzio. Non successe niente, non esplose e non
emise gas mortali. Rimase lì immobile. Tutti cercavano di
guardare
altrove, il colonnello Wilson tossicchiò a disagio.
Nella generale riprovazione
arrivò una scimmia, vide il piccolo oggetto luccicante, se
ne
appropriò e scomparve con la velocità di un lampo.
“La
bussola…” provò a dire
Grosvenor, non più tanto sicuro di aver fatto la cosa
giusta. “Ne
avevate parlato nel vostro studio...”
La scimmia intanto si stava
arrampicando su un albero con il suo tesoro.
Il Governatore lo
fulminò con
uno sguardo omicida. “Quella bussola era un ricordo di valore
inestimabile!” lo rampognò,
“È, o meglio era l’oggetto
più
caro che possedevo, me l’aveva donato mio padre sul letto di
morte,
e ora grazie a voi è perso per sempre!”
Nel bel mezzo della
reprimenda,
tutti furono distratti da un tonfo seguito dal suono di qualcosa di
metallico che rotolava: si girarono verso la provenienza del rumore e
videro la scimmia morta stecchita sul pavimento. La bussola stava
esaurendo la sua inerzia sulle piastrelle di marmo.
“Era avvelenata!”
esclamò il
colonnello Wilson nel silenzio generale.
Grosvenor assunse la stessa
espressione di Barrett: gli mancava solo l’aureola.
“Non c’è
bisogno che vi scusiate, signore,” disse magnanimo,
“capisco che
il valore affettivo dell’oggetto possa avervi fatto
dimenticare la
cortesia per cui siete famoso.”
Ci fu un secondo giro di
sguardi
imbarazzati, questa volta tutti evitavano di guardare il Governatore.
Il tenente, noblesse
oblige, prese un
tovagliolo, raccolse con quello la venefica reliquia e la
consegnò
al legittimo proprietario, che bofonchiò qualche parola di
ringraziamento.
Riuniti in una bettola per la
bassa forza dall’evocativo nome di ‘Secchio
Sfondato’,
Grosvenor, Jenkins, Thayes e Barrett si stavano godendo alcune pinte
di birra. Dalla finestra ogni tanto entrava la proboscide di Sarkesh,
accomodato nel giardinetto sul retro, con il duplice scopo di
controllare che il beneamato sergente fosse ancora al suo posto e di
pescare qualche ortaggio da un cesto che avevano fatto portare
apposta per lui.
“Non troppi, se no ti viene mal
di pancia,” gli raccomandò il sottufficiale.
Da fuori provenne un brontolio.
I primi momenti di quella
riunione erano stati caratterizzati da un atteggiamento di profonda
serietà: avevano ricordato i compagni caduti e avevano
brindato in
loro onore.
Purtroppo, però,
col protrarsi
dei brindisi il rigore marziale si era pian piano sfaldato e i
quattro erano finiti a scambiarsi battute e pacche sulle spalle come
vecchi amici.
“E quindi, signore, alla fine
quel figlio di buona donna di un russo aveva avvelenato la bussola
del Governatore?” chiese Jenkins.
Grosvenor annuì.
“L’aveva
rubata. Gliel’ha recapitata travestito da donna qualche
giorno
dopo, confezionata come un regalo da parte della Lega per la
Temperanza.”
Tutti manifestarono la loro
disapprovazione, persino Sarkesh. Infine Thayes brontolò;
“Lega
per la Temperanza, puah! Non mi sono mai fidato della gente che non
beve.”
“Nemmeno io,” rispose
Grosvenor, “e credo che questa sia stata la fortuna del
Governatore. Se per caso O’lim avesse scelto come mittente
per il
suo pacco una distilleria di gin, avremmo celebrato le
esequie.”
* “Signore degli
ostacoli”,
uno degli appellativi di Ganesha.
PICCOLO ANGOLO
DELL’AUTORE: E
così siamo giunti alla fine di questa avventura. Ringrazio
tutti voi
che mi avete seguito, chi mi ha commentato, chi mi ha messo in
qualcuna delle sue liste, ma anche chi si è solo fermato a
leggere e
mi ha regalato un po’ della sua attenzione.
È stato molto bello
percorrere
l’India misteriosa insieme a voi seguendo le gesta di quattro
improbabili militari inglesi e un elefante.
E ora vado a bere un gin tonic
anch’io!^^
|
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