Don't tell dad

di Roscoe24
(/viewuser.php?uid=912105)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***
Capitolo 5: *** 5. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


Ciao a tutti e grazie per aver aperto questa mia nuova storia! La trama seguirà principalmente Max e la sua evoluzione, che non avverrà in moltissimi capitoli, ma avverrà! Il racconto non segue gli eventi della serie, in quanto Bobby è ancora vivo, e gli eventi delle stagioni da 1 a 6 sono già avvenuti (anche alcuni tratti del passato dei Winchester sono un po' diversi. Questo si capirà meglio durante la storia ^^). Inoltre non farò riferimento agli eventi accaduti nelle stagioni da 7 a 12 perché li trovo un po' troppo incompatibili con la vita che ho immaginato per i personaggi. Non so ancora con quanta frequenza potrò aggiornare la storia e questo lo dico non per tirarmela ma perché da una parte non ho molto tempo, dall'altra sono tremendamente insicura e controllerò ciò che scrivo almeno dieci volte! (XD) Per questo, mi farebbe anche piacere sapere cosa ne pensate voi: se vi piace, se non vi piace, se la trovate banale o pensate sia noiosa. Esprimetevi! I consigli e le critiche costruttive sono sempre graditi. 
Vi lascio alla lettura del primo capitolo, 
Alla prossima! <3 




Non devi dirlo a papà – gli aveva chiesto. O meglio: l’aveva supplicato. Max non voleva che suo padre sapesse ciò che aveva fatto quella notte del 31 ottobre, quando i suoi compagni di scuola avevano scherzato con entità con le quali non si deve scherzare mai. Lei lo sapeva molto bene. Come avrebbe potuto non saperlo? Dopotutto era una Winchester, certe cose le sapeva benissimo. E proprio perché le conosceva, tendeva ad evitarle. Max sapeva, ma non cacciava. Suo padre gliel’aveva categoricamente vietato.
Non pensarci nemmeno, signorina! Tu avrai una vita normale! – E Castiel sapeva che ogni volta che Dean pronunciava quella frase avrebbe voluto aggiungerci: quella che non ho avuto io. Lo pensava sempre, ma non lo diceva mai. Castiel lo sapeva. Lo stesso Castiel che Max aveva chiamato quella fatidica notte.
“Cas, è successa una cosa, potresti venire ad aiutarmi?” La voce della ragazza era preoccupata, ma non spaventata. Aveva avuto a che fare con queste cose sin da quando era una bambina e, anche se Dean le aveva categoricamente proibito di partecipare all’azione, l’aveva educata e addestrata per proteggersi. Suo padre era ansioso che lei potesse farsi del male, ma non era certo stupido. Sapeva benissimo che essendo sua figlia non avrebbe mai passato una vita tranquilla come lui avrebbe voluto. Ci sarebbe sempre stato un pericolo in agguato, qualcuno, qualcosa, sempre pronto a farle del male per usarla contro di lui. Per questo era meglio che Max fosse preparata, addestrata al combattimento e abituata ad usare il cervello. Sapeva come si disegnava una trappola del diavolo e aveva imparato gli esorcismi – a dire la verità Bobby le aveva insegnato quasi tutto il latino che conosceva ed era diventata piuttosto brava a tradurlo. All’indice sinistro portava un anello ricavato dall’argento e dal ferro, in modo che se qualcuno non fosse appartenuto alla razza umana, se ne sarebbe accorta dallo sfrigolio che la sua pelle avrebbe fatto a contatto con quel piccolo oggetto e, al tempo stesso, se mai avesse dovuto incontrare un fantasma avrebbe potuto allontanarlo. E, per finire, contro le possessioni demoniache aveva lo stesso tatuaggio di suo padre e suo zio, piazzato dietro la spalla sinistra. Dean era talmente paranoico e ossessionato dalla sua protezione che aveva persino chiesto a Castiel di marchiarle le costole, in modo che gli angeli non potessero trovarla, ma lei si era vigorosamente e fermamente opposta a quella richiesta, avanzando l’osservazione che anche Castiel era un angelo e, in quel modo, nemmeno lui avrebbe potuto trovarla, nel caso lei avesse avuto bisogno di lui o avesse anche solo voluto fare due chiacchiere con l’uomo che ormai reputava uno zio. Quell’obiezione aveva trattenuto Dean dall’insistere e dall’impuntarsi come suo solito. Era impossibile farlo ragionare, certe volte. Se lui pensava che una cosa avrebbe garantito la salvaguardia di chi amava, l’avrebbe fatta ad ogni costo, anche se il diretto interessato (o la diretta, in questo caso) non era d’accordo con lui.
Quella notte, comunque, quando Castiel rispose al telefono e sentì la voce di Max che lo invitava a raggiungerla, lui obbedì senza porsi troppe domande. Era quello che faceva da quando l’aveva conosciuta, dopo tutto: aiutarla in qualsiasi circostanza.

Tutto cominciò la mattina del 31 ottobre. Max si era alzata dal suo letto come ogni mattina: per lei Halloween non era speciale. Come diceva zio Sam per loro tutti i giorni sono Halloween, ma a quanto pare, suo padre subiva il fascino di quella festa e ogni anno le regalava un sacchettino pieno dei dolci che le piacevano di più: cioccolata al gianduia, caramelle gommose, caramelle dal ripieno frizzante – quelle erano talmente forti che la facevano starnutire, ma le piacevano moltissimo.
Per un attimo, il pensiero di trovare fuori dalla sua stanza un percorso, fatto con i post-it gialli attaccati al pavimento, che l’avrebbe condotta al fatidico posto dove avrebbe trovato il suo bottino, la fece andare indietro di moltissimi anni, quando, da bambina, papà le comprava un costume e andavano in giro a fare dolcetto o scherzetto. Ogni anno un costume nuovo. C’era stato l’anno della streghetta, quello della piccola zombie e l’anno in cui era stata un piccolo alieno. E ogni anno, lui le stringeva la manina e la portava in giro per le strade, porta a porta a chiedere dolcetti o, in caso contrario, a fare scherzi – che la maggior parte delle volte consistevano nel lanciare carta igienica appallottolata e bagnata contro le finestre. Non era per niente simpatico, se ci pensa. Chissà quanto hanno dovuto ammattire le persone per togliere la carta secca.
Si divertiva in quelle serate dove stava sola con papà, dove lui era tutto per lei. Erano quelle le uniche serate dove Max non rimaneva a casa con Bobby guardando suo padre uscire in piena notte, seguito dallo zio Sam, senza capirne il motivo.
“Zio Bobby,” aveva chiesto una notte, mentre guardava ancora la porta chiusa, dopo che Dean e Sam erano usciti, “papà scappa da me, quando esce con il buio?”
Ricorda come Bobby si fosse chinato alla sua altezza – quella di una bambina di cinque anni – e, dopo averla presa in braccio, le avesse risposto: “No, tesoro. Papà non scappa da te. Se potesse, starebbe con te ogni momento della sua giornata, ma deve andare a lavorare.”
“Che lavoro fa papà?” aveva chiesto, appoggiando la testina sulla spalla di Bobby per mettersi comoda.
“Beh.. diciamo che è una specie di super eroe. Papà e lo zio Sam salvano le persone, ma deve rimanere un segreto, intesi?”
Aveva annuito, dopo aver rialzato la testolina per guardare Bobby con gli occhi eccitati e pieni di stupore infantile, con il cuoricino che esplodeva di gioia e di quello che da grande avrebbe riconosciuto come orgoglio.
“Segretissimo. Non lo dirò a nessuno!”
“Brava piccola. E ora a nanna!”.
Max riusciva ancora a vedere Bobby che saliva le scale di casa e la conduceva in camera di Dean, dove vicino ad un letto grande se ne trovava uno più piccolo, ornato da tre peluche – un ippopotamo, un cagnolino e un orsetto – che Dean le aveva regalato. Erano i suoi preferiti e senza quelli non riusciva ad addormentarsi.
Le mancano quei giorni, quelli dell’innocenza, quelli dell’ignoranza. Quelli della favola della buona notte. Quelli dove non si accorgeva degli amuleti piazzati vicino al suo lettino perché per lei erano solo giocattoli che non si toccano, altrimenti i sogni scappano. Era così che Dean le diceva. Aveva sistemato pentacoli sopra al suo letto e le diceva di non toccarli, altrimenti non avrebbero potuto intrappolare i suoi sogni belli e, se i sogni belli non si catturano, poi non si realizzano. Non sapeva che il suo lettino giaceva sopra ad una trappola del diavolo. Era all’oscuro del fatto che ogni notte, non appena lei chiudeva gli occhi, Dean faceva un cerchio di sale intorno alla struttura del lettino. Non sapeva. Non vedeva. Era troppo piccola ed innocente per capire, ma poi… poi la verità venne alla luce. Troppo presto, se lo si chiede a Dean, che avrebbe voluto tenerla all’oscuro per molto più tempo.
Max, infatti, scoprì l’esistenza di ciò che viveva nell’oscurità quando, dopo aver visto uscire di casa suo padre, Sam e Bobby, la mattina seguente vide tornare solo gli ultimi due. Papà non era tornato. Papà sarebbe stato via molto tempo. Aveva sette anni. Era rimasta a casa con la signora che viveva in fondo alla strada e portava le torte a Bobby. Non ricorda il suo nome, ricorda solo che lei sembrava non dare peso all’assenza di Dean. Ricorda che la vide uscire di casa come se tutto fosse normale, ma lei non vedeva il suo papà. Il suo papà non era tornato insieme al sole e, di solito, quando Dean usciva con il buio, appena tornava il sole, tornava anche lui. Ma non quella volta. Quella volta c’era zio Sam con gli occhi lucidi, incapace di guardarla negli occhi – gli stessi di Dean. Lo vide fuggire e, per la prima volta, Sam non le sembrò grande e coraggioso, quanto piuttosto piccolo e spaventato, proprio come lei. Ricorda che Bobby si chinò alla sua altezza. Lei stringeva l’ippopotamo forte a se – era il primo peluche che Dean le aveva regalato ed era il suo preferito dei tre. Lo stringeva come se dovesse darle forza, come se così facendo avrebbe fatto sbucare suo padre dalla porta, con gli occhi stanchi, la faccia sporca, ma il sorriso felice. Se avesse stretto quel pupazzo era sicura che le sarebbe corso in contro e l’avrebbe sollevata da terra, le avrebbe baciato la guancia e l’avrebbe abbracciata. Lei avrebbe sentito quello strano odore su di lui, un odore estraneo che si mischiava a quello buono che normalmente aveva la pelle di papà. Sarebbe successo, lo sapeva. Doveva solo stringere quell’ippopotamo un po’ più forte e papà sarebbe apparso. Ma non andò così. Stringere quell’ippopotamo di pezza risultò inutile. E lo capì quando Bobby, chino alla sua altezza, le parlò con voce calma, cercando di non andare in pezzi. Era troppo piccola per capirlo, ma quando fu più grande, capì che quel giorno Bobby stava cercando di rimanere integro per lei. Avrebbe voluto urlare tutta la sua frustrazione, avrebbe voluto piangere e disperarsi – dopotutto, aveva perso un figlio – ma l’unica ragione per cui non lo fece era proprio davanti a lui, con il pigiama, che lo fissava con gli occhi grandi e supplicanti.
“Max, tesoro…”
“Dov’è papà?”
Bobby guardò le lacrime gonfiare gli occhi di quella bambina che amava tremendamente, come se fosse sua nipote, e si costrinse a dire la verità.
“Max..” fece una pausa, cercando di ingoiare il magone formatosi in gola, “papà.. papà non tornerà per un po’.”
“Dov’è andato?”
“Lui.. lui è.. lui è andato in cielo, tesoro.” Di certo, non si sentì di dirle che suo padre era stato spedito all’inferno dopo essere stato divorato da dei segugi infernali. Sapeva che prima o poi avrebbe dovuto dirle la verità, ma non era il momento. Lei era così piccola, una bambina innocente. Mentì, omettendo i particolari e sapendo che in quel modo avrebbe capito.
“Con la mamma?”
Quella domanda fu il colpo di grazia che frantumò il cuore di un vecchio cacciatore con la reputazione di essere un burbero uomo temprato dalle avversità della vita. Niente di quello che aveva vissuto fino ad ora faceva male come la perdita di Dean e la domanda uscita dalla bocca di quella bambina.
“Sì, con la mamma.”
Max non disse niente. Si limitò a gettarsi al collo di Bobby e a stringerlo forte. Pianse. Pianse a dirotto tutte le sue lacrime. Bobby rimase a sentirla singhiozzare, impotente, mentre guardava l’ippopotamo gettato a terra. Max l’aveva abbandonato, insieme  alla speranza. Quel pupazzetto era il simbolo delle loro speranze distrutte, della loro memoria addolorata, della sofferenza. Di Dean, adesso, non rimanevano che il ricordo e dei pupazzi di pezza che Max avrebbe stretto giorno e notte per tre mesi consecutivi.
Se lo ricorda bene. Non voleva dormire nella stanza dove dormiva con papà, quindi aveva portato tutti i suoi giocattoli in camera di Bobby per dormire con lui. Mentre zio Sam… be’, zio Sam in quei mesi si faceva vedere poco e, quando compariva, puzzava di un odore strano, un odore che una bambina di sette anni non conosce, ma che un uomo trafitto dalla sofferenza riconosce come l’unica medicina capace di guarire un cuore ferito: whiskey.
Quello fu un periodo difficile per tutti. Max ha ancora un ricordo estremamente vivido di quel periodo, nonostante siano passati dieci anni. Quelli sono stati i mesi più tremendi di tutta la sua vita. Ha scolpito quella sensazione di smarrimento e sofferenza nel cuore. Ancora oggi, se pensa alla possibilità di perdere di nuovo suo padre, le budella le si contorcono e il respiro le manca a tal punto che riesce a sentire chiara e limpida la sensazione di soffocamento.
Ma poi, papà fece ritorno. Era settembre e l’ultima cosa che si aspettavano era di vederlo davanti alla porta di casa Singer, sporco di terra e disidratato. Max ricorda che era stato Bobby ad aprire la porta, intimandole di stare nascosta, ma lei non aveva resistito: appena aveva riconosciuto la voce di suo padre gli era corsa in contro per farsi prendere in braccio e farsi abbracciare. Ma Bobby l’aveva agguantata al volo dicendole di aspettare. Non capì perché e la cosa divenne ancora più strana quando gli lanciò dell’acqua in faccia. Bobby non era forse felice che papà non era più in cielo?
“Bobby sono io.”
“Ti ho seppellito tre mesi fa. Hai fatto un patto, Dean. Come diavolo hai fatto a tornare??”
L’unica cosa che Dean riusciva a guardare, in quel momento, era la sua bambina. Non sentiva Bobby, sentiva solo lo sguardo di sua figlia addosso. Non era cambiata molto, ma per lui era cambiato tutto. Era grato di poterla guardare di nuovo. Esplodeva di gioia all’idea di poter sentire di nuovo la sua vocina che gli fa domande su qualsiasi cosa – in questo, gli ricordava sempre Sam.
“Non lo so. Ma sono io. E..” si gettò su sua figlia. Bobby lo lasciò fare. La strinse forte a se e pianse. Quella fu la prima volta che Max vide il suo papà piangere.
“Sei triste, papà?”
“No, amore. Sono felice di rivederti. A volte si può anche piangere di gioia.”
“Non tornerai più in cielo?”
Dean lanciò un’occhiata a Bobby che gli fece un cenno d’assenso con la testa. Il giovane cacciatore intuì che le avevano spiegato in quel modo la sua assenza.
“No, tesoro. Rimarrò con te.”
“E la mamma? Anche lei tornerà?”
E quello fu il momento in cui tutto venne a galla. In quel preciso momento Dean Winchester, l’uomo giusto che aveva versato sangue all’inferno e aveva inconsapevolmente rotto il primo dei sessantasei sigilli necessari all’inizio dell’Apocalisse, spiegò a sua figlia che le cose brutte esistono davvero, che i mostri esistono davvero. Le spiegò l’esistenza dei demoni – che sono in grado di fare patti con gli esseri umani – e del male nel mondo. Ma le spiegò anche che non doveva averne paura perché papà sapeva combatterli e le avrebbe insegnato a farlo. Può sembrare una cosa crudele, meschina – lui stesso si trovò a pensare che differenza ci fosse, arrivati a questo punto, tra lui e suo padre, l’uomo che non l’aveva mai trattato come un bambino e che l’aveva privato dell’infanzia da quando aveva quattro anni. Per questo decise che conoscenza non significava necessariamente passare all’azione. Conoscere non significava necessariamente cacciare.
Max, per come la vedeva lei, era una specie di letterata del sovrannaturale: sapeva ogni cosa, ma non aveva mai combattuto contro qualcosa. Sapeva sparare, ma gli unici bersagli che aveva colpito erano lattine vuote di birra. Sapeva a memoria ogni incantesimo e quali ingredienti servissero per fare in modo che riuscisse alla perfezione, ma non ne aveva mai fatto uno. Non era difficile capire in che situazione si trovasse, dopotutto. Era un piccolo topo da biblioteca che non era mai uscito dalla tana sicura.
Non appena quella mattina varcò la soglia della sua camera, dopo essersi lavata e vestita – e dopo aver accantonato per un momento i pensieri del suo passato che le vorticavano in testa – trovò esattamente ciò che si aspettava di trovare: una fila di post-it. La seguì con un sorriso perché sebbene pensasse che per loro fosse Halloween tutti i giorni, quello vero capitava una volta l’anno e papà si impegnava tanto per renderlo un giorno speciale e meno macabro rispetto alla loro quotidianità. Paradossalmente per lei Halloween aveva qualcosa di particolare, ma non perché poteva mascherarsi, quanto piuttosto per il fatto che tutte le cose che conosceva, davanti ad una festa che tendeva a ridicolizzare i mostri, diventavano meno spaventose, meno reali e più leggendarie. Insomma, se dietro alla maschera di un vampiro si trovava il viso di un suo compagno di scuola, quel vampiro diventava automaticamente meno terrificante e più.. familiare.
Arrivò alla fine della fila dopo aver sceso tutte le scale, ritrovandosi in cucina dove sul tavolo c’era la sua colazione: pancake ai frutti di bosco e un sacchettino di dolci. Ai fornelli, con un grembiule verde pastello decorato da un bordino a balzette azzurro legato in vita, c’era Dean Winchester.
“Buongiorno!” esclamò facendo sobbalzare suo padre che immediatamente le rivolse un sorriso non appena i loro occhi – estremamente simili, per non dire identici – si incrociarono.
“Buongiorno a te, fiorellino. Hai fame?”
“Fiorellino? Sul serio, papà?”
“Preferisci crisantemo? O magari cactus? Aspetta, riprovo: buongiorno mio piccolo cactus spinoso, hai fame?” la guardò, alzando un sopracciglio con fare divertito, “Che dici, suona più affettuoso?”
Max rise, incapace di trattenersi. Suo padre aveva uno strano senso dell’umorismo, ma chissà come mai riusciva a farla sorridere comunque.
“Sì, sto morendo di fame!” si sedette e cominciò a mangiare la sua colazione, mentre studiava il sacchettino senza però aprirlo.  
“Guarda che mica ti morde!” intimò suo padre, mentre si sedeva davanti a lei. Nel suo piatto uova strapazzate e bacon. Lei guardò quel contenuto con le sopracciglia aggrottate.
“Smettila di fare quella faccia, Max.”
“Dico solo…”
“Lo so cosa dici e se volessi sentirlo dire andrei da tuo zio Sam.” Infilzò le uova e si portò un boccone alla bocca. L’attenzione di Max, adesso, era tutta per lui. Aveva abbandonato per un momento la sua colazione e il suo sacchetto.
“Mangi troppe uova fritte e bacon, papà…”
Nell’espressione corrugata e preoccupata della figlia, Dean riconobbe Abigail e per un attimo provò una fitta dolorosa al cuore. La fissò come se da un momento all’altro Max potesse parlare con la voce della donna che aveva amato e gli era stata portata via troppo presto.
La guardò quasi con la speranza che si voltasse a cercare appoggio dalla madre, perché Dean sapeva benissimo che se Abigail fosse stata ancora qui le avrebbe dato ragione. Magari un po’ lo faceva per quello. Magari tendeva ad assumere dei comportamenti che sapeva l’avrebbero un poco preoccupata per vedere se si sarebbe manifestata, in una forma o nell’altra, per impedirgli di farsi tappare una vena dal colesterolo. Era possibile, no? Forse Abigail sarebbe potuta tornare sotto forma di fantasma e lui avrebbe potuto vederla un’ultima volta, avrebbe potuto cancellare l’immagine di lei che brucia attaccata al soffitto, proprio come aveva fatto sua madre. Avrebbe potuto cancellare dalla sua mente le grida agonizzanti della sua adorata che non era riuscito a salvare. Avrebbe potuto dimenticare l’odore della sua carne che brucia lentamente e la sua voce che non riesce nemmeno a gridare il suo nome per cercare aiuto, troppo impegnata a squarciarle la gola per via delle urla di dolore.  
Ma ciò non era possibile.
(ABIGAIL
Era la sua voce quella che tentava di sovrastare ogni rumore nella stanza. Perché si sentiva impotente, perché si sentiva un incapace. Ma voleva farle sapere che era lì, che stava tentando di raggiungere il soffitto per impedirle di fare la stessa fine di Mary.
Ma non andò così. Lui era maledetto ed era destinato a guardare impotente le donne della sua vita che morivano per causa sua).
Abigail non sarebbe tornata sotto forma di fantasma perché era in Paradiso. Questo lo sapeva, l’aveva chiesto a Castiel e gli aveva fatto giurare di dire la verità.
Te lo giuro su Max, Dean. Abigail sta bene. È in Paradiso ed è serena.
Lei… lei mi ha perdonato?
Non ti ha mai ritenuto colpevole di ciò che è successo, credimi.

Se Castiel arrivava a giurare su Max significava che stava dicendo la verità. In realtà, gli avrebbe creduto anche se non avesse giurato su sua figlia, ma, conoscendo Cas, sicuramente l’aveva fatto per fargli capire quanto fosse profondamente radicato nella verità ciò che gli stava dicendo.
Abigail stava bene.
Abigail non lo riteneva responsabile.
Abigail gli mancava da impazzire. Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto.
Si ricompose, accantonando in un angolo del suo cervello quell’argomento e tornò a concentrarsi su Max.
“Tu mangi pancakes, direi che siamo pari.”
“Bene,” fece lei, allontanando il suo piatto, “smetterò di mangiarli. Tu smetterai di mangiare con così tanta frequenza colazioni simili,” gettò lo sguardo al piatto del padre, “e ci impegneremo a nutrirci di qualcosa di più sano.”
Dean alzò gli occhi al cielo, sentendo ogni fibra del suo corpo che si ribellava a quella richiesta, ma sapeva che era tutto inutile. Non sapeva dire di no alla sua bambina. Se gli chiedeva una cosa che poteva realizzare cercava di impegnarsi per realizzarla.
“Va bene, mangeremo colazioni più sane.”
“Il tuo cuore mi ringrazierà!” sorrise vittoriosa. Quel sorriso era come il suo. Gli angoli della bocca si incurvavano all’insù nello stesso modo in cui lo facevano i propri.
“Certe volte mi domando se tu non sia un mini clone di tuo zio.” Assottigliò lo sguardo, puntandole l’indice contro. Max rise e Dean riconobbe in quel suono la stessa risata di Abigail. Nonostante la nostalgia che gli attanagliava il cuore ogni volta che notava certe somiglianze, era felice di trovare pezzetti di lei nella loro bambina. Ed era ancora più felice quando notava che Max era un perfetto connubio delle loro caratteristiche: gli occhi verdi come i suoi, il naso piccolo di Abigail, la risata della madre e il sorriso di suo padre. Max era la testimonianza della loro unione, del loro amore. Era la perfetta personificazione del ricordo di Abigail, che era scolpita dentro al cuore di Dean in maniera così profonda da fare male. Abigail gli mancava come l’aria. La sua assenza era dolorosa come una costante ulcera perforante. Ma gli bastava guardare Max per sentire il cuore ammorbidirsi. Guardava sua figlia e quel filo spinato che teneva chiuso in un laccio stretto il cuore del cacciatore, allentava la presa e dava pace a quell’organo vitale lasciando che un poco le ferite smettessero di sanguinare. Anche se, purtroppo, non rimarginavano mai. Dean non sarebbe mai guarito, ma amava sua figlia più di qualsiasi altra cosa e non gliel’avrebbe mai fatto capire. Non l’avrebbe mai messa al corrente di quanto profonda fosse la sua sofferenza. 
“Mangia, papà, è meglio!”
Si estraniò (di nuovo) dai suoi pensieri e continuò: “Niente colazione sana?”
“Per oggi no. Faremo i sani domani, ci stai?”
“Brava la mia bambina!”
Max scosse la testa con il sorriso ancora stampato in viso, poi continuò a mangiare la sua colazione.
I suoi occhi tornarono al sacchetto.
“Che fai, quest’anno non lo apri?” Dean alzò entrambe le sopracciglia mentre i suoi occhi rimasero fissi su Max, che indugiava su quel sacchettino.
“Posso?”
“Devi.”
Max sorrise e batté le mani, euforica. La stessa euforia di quando era una bambina. La stessa espressione radiosa di quando era piccola. D’istinto, Dean sorrise.
Non si perse nemmeno un minimo gesto di Max, che scartava il sacchettino con una cura e precisione quasi maniacale. Una volta aperto, rovesciò il contenuto sul tavolo: caramelle di ogni genere e cioccolata.
“C’è quella al gianduia!”
“Perché sembra che la cosa ti sorprenda?”
“Quando smetterai di trattarla come una bambina??” la voce di Bobby interruppe quel piccolo momento padre-figlia. Il vecchio cacciatore entrò in cucina dopo aver lasciato lo studio, dentro al quale stava analizzando gli indizi per un possibile caso. I suoi occhi, notò Dean, erano stanchi e arrossati. La pelle del viso tirata, come se la mancanza di sonno l’avesse fatto invecchiare di cinque anni.
“Mai!”
Bobby alzò un angolo della bocca, in un sorriso intenerito, seppur stanco.
“Ciao, tesoro.” Disse, baciando la testa di Max. Lei chiuse gli occhi, sorridendo. Voleva bene a Bobby, lo reputava il nonno che non aveva mai avuto. Aveva conosciuto suo nonno John, ma era talmente piccola che lei non riesce a ricordarselo. Il loro incontro è testimoniato da una foto che li ritrae insieme, dove Max ha sei, al massimo sette mesi, e John la tiene in braccio – guardando la fotocamera con sguardo impacciato e un sorriso imbarazzato. Avrebbe voluto conoscerlo, nonno John. Così come avrebbe fatto volentieri la conoscenza di sua nonna Mary. Ma chissà, forse se le cose nella famiglia di papà fossero andate diversamente, lei non sarebbe al mondo, in questo momento.
La storia di come si sono incontrati la sua mamma e il suo papà, infatti, gira proprio intorno al lavoro di quest’ultimo. Ma Max non ha mai saputo i dettagli. Quando era piccola e li aveva entrambi con se non le era mai balenata in testa l’idea di chiedergli come si fossero conosciuti e, quando era diventata più grandicella e certe domande le vorticavano in testa, ormai la mamma non c’era più da un pezzo e a papà non piaceva parlare di lei. Max sa che l’argomento mamma è un tabù. È una ferita ancora troppo aperta nel cuore di suo padre e, anche se lui si impegna a non darlo a vedere, Max glielo legge in faccia ogni volta che accenna ad una possibile domanda su di lei, o quando per caso trova in degli scatoloni delle cose che le sono appartenute. Abigail manca anche a lei, vorrebbe sapere di più su sua madre, cercare di avere informazioni su com’era, su ciò che le piaceva, se sapeva cantare o se odiava la musica, cose del genere. Piccoli dettagli che le permetterebbero, in un modo o nell’altro, di conoscere un po’ di più la sua mamma, quella donna che avrebbe dovuto imparare a conoscere nell’arco di tutta la sua vita, ma che, invece, le è stata portata via troppo presto.
Lei non ha avuto tempo per conoscere la sua mamma.
Sentì gli occhi che iniziarono a pizzicare, come succedeva sempre ogni volta che pensava a lei. Di solito quella sensazione era seguita da un groppo in gola e poi da lacrime, che scendevano silenziose e pacate, quasi tranquille. Non facevano mai rumore. Le sue lacrime, discrete e copiose, le dimostravano un devoto rispetto per il dolore che provava pensando alla sua mamma. Era quasi come se la commemorassero con la loro presenza e la rispettassero con il loro silenzio.
Si concentrò sulla conversazione che Bobby e Dean stavano avendo, cercando di scacciare quei pensieri.
“..Dormi troppo poco, Bobby.”
“Vuoi dirmi quante ore dormi tu, ragazzo?”
“È diverso. Tu sei vec-…”
“Non azzardarti a finire la frase o sbatto il tuo sfacciato culo fuori da casa mia!”  
“Non lasceresti mai Max senza una casa!” ribatté il giovane, sicuro di se.
“Infatti, sbatterei solo te fuori di qui!”
L’espressione che si formò sul viso di Dean era dir poco ilare: strabuzzò gli occhi, rischiando di farli uscire dalle orbite, la sua bocca si spalancò, in un chiaro segno offeso. Max si lasciò sfuggire una risata che mise a tacere i malinconici pensieri di poco prima. Sapeva che Bobby non avrebbe mai fatto mancare una casa a papà, ma vederli bisticciare in quel modo le piaceva. Quello era il loro rapporto: entrambi si preoccupavano per l’altro e l’altro, puntualmente, diceva che non c’era nulla di cui preoccuparsi.
“Non lo faresti!”
“Oh, lo farei!”
“..Scusate..” si intromise delicatamente Max, ma nessuno sembrò darle ascolto. I due continuarono a bisticciare sull’importanza che aveva il sonno per un uomo ormai attempato, mentre l’uomo attempato in questione continuava a ripetere che i giovani non sanno più portare rispetto. Max rimase in disparte, finendo i suoi pancakes fino a quando una mano non si posò delicatamente sulla sua spalla. Si voltò, incontrando il viso di zio Sam, che se la stava ridendo di gusto. Max notò che i suoi lunghi capelli erano bagnati. Probabilmente aveva fatto una doccia dopo la sua abituale corsa mattutina perché profumava di shampoo – quello shampoo costosissimo che teneva in un posto segreto, nascosto dalle grinfie di papà(1) perché riteneva che tuo padre ne usa troppo, per avere i capelli così corti. Una volta, prima che Sam imparasse a nasconderlo, Dean gliel’aveva persino finito senza dirgli niente. Quel giorno Sam era stato costretto ad andare fino al supermercato per ricomprarselo, così da potersi lavare i capelli con qualcosa che non glieli facesse assomigliare a del fieno secco.
“Ne avranno ancora per un po’, vuoi che ti accompagni io a scuola?”
“Mmm,” lanciò un’occhiata al piccolo orologio che teneva al polso sinistro, “sì, sarebbe perfetto!”. Erano già le 8.30 e se non fosse partita entro cinque minuti sarebbe arrivata in ritardo.
Raccolse tutto il contenuto del sacchetto, lo chiuse di nuovo al suo interno – aveva intenzione di mangiare qualche dolcetto a metà mattina – e si alzò dal tavolo. Non appena fece cenno di prendere il piatto, ormai vuoto, per portarlo al lavandino i due litiganti tacquero. Entrambi la fissarono.
“Dove stai andando?” le domandò Dean, aggrottando le sopracciglia, come se quel comportamento fosse strano.
“A scuola?” nella punta di sarcasmo usata dalla figlia, Dean riconobbe quella parte caratteriale ereditata da Sam: sarcasmo pungente e intelligenza spiccata. Non che lui si ritenesse uno stupido, intendiamoci, ma la voglia che Max aveva di studiare e la sete che aveva di apprendere non erano certo così radicate in lui, quanto piuttosto in Sam.
“Vuoi andare via senza di me? Devo ricordarti che non puoi ancora guidare?”
“No, ma zio Sam può. E lui non stava litigando con nessuno, perciò…”
“Perciò un corno. Prima che tuo zio guiderà di nuovo la mia piccola passeranno secoli!” si voltò in direzione del fratello, lanciandogli un’occhiata truce. Sam, in risposta, alzò gli occhi al cielo.
“Non fare quella faccia, Sam! Ci vai troppo pesante sui freni(2). Quando la usi poi devo mettermi a sistemarla. Dovresti trattarla con la gentilezza riservata alla più bella e delicata delle donne, invece la tratti come se fosse un miserabile tappeto vecchio da calpestare!”
“Papà….”
“Si, tesoro mio?”
“Ricordi che abbiamo già parlato di questa cosa, vero? L’abbiamo definita esagerazione!”
Dean le rivolse lo sguardo tipico di chi si sente tradito nel profondo dalla persona che conta di più per lui al mondo. Persino sua figlia, il suo tesoro più prezioso, gli stava voltando le spalle!
“Tu quoque, Bruti, filii mi!” assottigliò lo sguardo, puntandole l’indice contro. Max scosse la testa, ridacchiando.
“Muoviti traditrice,” continuò poi il cacciatore, “o farai tardi a scuola!”

                                                                              ***

Dean fermò la macchina esattamente davanti a scuola. Come succedeva ogni mattina, gli sguardi degli studenti che si erano radunati nel cortile che separava il grande edificio scolastico dalla strada cementata si posarono sulla Chevy Impala nera del ’67 che aveva appena finito di ruggire. Ogni volta che suo padre girava la chiave nel quadro per spegnere il motore, a Max sembrava che mettesse a tacere il ringhio gutturale e potente di un leone insaziabile. In effetti, Baby aveva mangiato parecchi chilometri e, con la cura che Dean metteva nell’occuparsi di lei, ne avrebbe mangiati ancora moltissimi. I ragazzi – o almeno quelli che ne capivano di automobili – erano affascinati da quel pezzo di storia, brillante come un gioiello. Le ragazze… be’, loro erano un po’ distratte da chi guidava quel gioiello. Poco importava che l’uomo al volante potesse essere il loro padre perché, in realtà, erano affascinate da ciò che rappresentava: uno stereotipo. Nello stesso modo in cui alcune donne hanno un debole per gli uomini in divisa, che siano agenti di polizia, o militari, o guardie della sicurezza, le ragazze delle scuole superiori sono affascinate da uomini attraenti alla guida di una bella macchina. Non erano attratte da Dean in quanto Dean, erano attratte da lui per ciò che rappresentava. Per questo non se la prendeva più di tanto. Nessuna di quelle ragazze desiderava davvero il suo papà. Avrebbero solo voluto andare a fare un giro su quella macchina che tanto attirava l’attenzione per poi andarlo a raccontare alle amiche, scatenando in loro anche una punta di invidia. Lo sapeva. Lo vedeva nei loro sguardi, nelle gomitate che si tiravano una con l’altra. Lo sentiva nei risolini isterici e soffocati che emettevano quando lui si sporgeva dal finestrino per salutarla un’ultima volta, dopo che si erano già scambiati un saluto. Sentiva i loro sguardi su di se ogni volta che scendeva da quella macchina dopo che papà le aveva baciato la guancia e, non appena le superava, sentiva i loro sospiri sognanti. Quasi come se la invidiassero. Quello dimostrava quanto tutto questo girasse intorno ad una fantasia adolescenziale: nessuna di quelle ragazze, infatti, sembrava rendersi conto che quell’uomo era suo padre. E, di conseguenza, non c’era nulla di poetico, ne tanto meno romantico, in quella che per lei era routine familiare. Ma, di nuovo, a loro poco importava. Tutto girava sull’affascinante, ombroso, uomo alla guida di una bella macchina.
“Un giorno guiderò quell’auto.”
Max trasalì sentendo quella voce alle sue spalle, ancora troppo intenta a guardare papà che si allontanava e Baby che diventava sempre più piccola. Un puntino nero che si perdeva nel confine tra il grigio della strada e l’azzurro del cielo terso del South Dakota.
Max si voltò verso quella voce, incrociando la figura del suo migliore amico, ancora con lo sguardo languido fisso sulla vettura che ormai era indistinguibile. Benjamin Jones, il ragazzo innamorato di Baby quasi quanto Dean.
A Max sfuggì una risata: “Certo, e io un giorno cavalcherò un unicorno!”
Benjamin portò la sua attenzione su di lei, abbassando lo sguardo. Ben era alto quasi quindici centimetri più di Max e la ragazza era fermamente convinta che se avesse continuato a crescere in quel modo, presto sarebbe stato alto quanto zio Sam. La sua altezza, comunque, era uno dei motivi per cui aveva così tanto successo con le ragazze. Non ce n’era una che non gli lanciava un’occhiata incuriosita, al suo passaggio. Ben era quello che si definisce un  tipo bello e dannato. Dava l’impressione di un ribelle, sebbene in realtà amasse la sua routine e le sue regole.
“Questo cinismo di prima mattina è inaccettabile, Winchester. Se sei già così a quest’ora, entro le tre mi sarò rinchiuso in un armadietto nella speranza di non sentire più uscire dalla tua bocca parole che mi feriscono!” Sorrise, con la lingua tra i denti, e le fece l’occhiolino. Ben aveva gli occhi neri come la più scura delle notti e i capelli lunghi che teneva sistemati dietro alle orecchie o, come quella mattina, nascosti sotto ad un cappellino scuro di lana. In realtà, lei preferiva quando li portava dietro alle orecchie per il semplice motivo che in quel modo non venivano nascosti. Le piacevano i suoi capelli, scuri e lisci. Si trovò a pensare da quanto lei non li portasse lunghi. Da piccola li teneva lunghissimi, tanto che le sfioravano il sedere, ma poi, crescendo, aveva sentito papà dire a zio Sam che i capelli lunghi, durante una caccia, possono essere fatali.
“Metti che il mostro in questione non trova altro appiglio che la tua chioma, ti afferra e ti tira a se. Perché dargli questo vantaggio?”
“Andiamo, Dean. I miei capelli non sono così lunghi!”
Zio Sam aveva ragione: i suoi capelli non erano così lunghi da costituire un problema, ma quelli di Max si. E non voleva certo che una qualche creatura le strappasse via i capelli e tutto lo scalpo, se mai ne avesse incontrata una. Perciò aveva deciso di tagliarli.
Li portava corti, adesso. Benji per quel motivo la chiamava Rapunzel, ritenendo che con i capelli tagliati in quel modo e i suoi grandi occhi verdi sembrava proprio la principessa perduta.
Le piaceva che la chiamasse in quel modo. La verità è che le piaceva lui, anche se non aveva mai avuto il coraggio di confessarglielo. Erano così uniti che il solo pensiero di poter corrompere il loro legame con una confessione del genere le faceva provare un tuffo al cuore. Era meglio per tutti mantenere le cose così come stavano.
“Benji, non guiderai mai quella macchina. Mettitelo in testa!”
Il ragazzo si portò le mani sul cuore, tenendone una sull’altra, e contrasse il viso in una teatrale smorfia di sofferenza.
“Hai appena ucciso un uomo.”
“La verità non ha mai ucciso nessuno!”
Benjamin si incamminò verso l’entrata della scuola e Max gli si affiancò.
“Vuoi spiegarmi perché tiene così tanto a quella macchina?”
Max alzò le spalle: “Rappresenta tutta la sua vita, in pratica. Quando lui e mio zio erano bambini, quella macchina apparteneva a mio nonno e ci hanno fatto moltissimi viaggi.”
“Dove andavano?”
A caccia.
“In giro per l’America. Mio nonno aveva questa fissa di vedere gli Stati.”
“Figo. Lo faremo anche noi, appena avrò una macchina.”
La mente di Max fu invasa da un’ondata di immagini. Baby era la casa mobile di papà, lui viaggiava per andare ad uccidere mostri – tranne quella volta in cui un mostro (segugio, Max. Era un segugio infernale, chiama le cose con il proprio nome!) aveva ucciso lui. Non c’era niente di figo in tutto ciò. I viaggi non erano di piacere, erano di morte. Erano rischiosi, angoscianti. Erano viaggi di guerra, di battaglia. Erano incognite. Non si sapeva quando papà sarebbe tornato, in che condizioni l’avrebbe fatto, se fosse stato più o meno ferito. Avrebbe fatto anche lei quella fine? Una parte del suo essere lo desiderava. Sapeva di avere il sangue di una cacciatrice nelle vene e quella parte spesso ribolliva in lei con la stessa intensità di un’esplosione vulcanica. Ma l’altra parte le diceva che doveva avere la vita che papà voleva che lei avesse. Una vita all’insegna della protezione, della tranquillità. Una vita normale fatta di scuola, libri e pensieri per decidere in quale college andare dopo il diploma.
“Dipende cosa vuoi fare da grande, tesoro.”
Già, ma lei non sapeva davvero cosa voleva fare.
Le piaceva la sua vita? Certo. Ma la sentiva incompleta. Non si sentiva del tutto parte di quel family business a cui in casa sua si dava tanta importanza.
C’era quest’idea di mettere la famiglia al primo posto e lei lo faceva. Dio, se lo faceva. Niente per lei era più importante della sua famiglia. Ma a volte, sembrava che la cosa non fosse ricambiata. A volte si sentiva esclusa da quella parte di attività che rendeva i suoi familiari così speciali. Qualcuno potrebbe dire che non c’è niente di speciale nell’avventurarsi in casi dove si rischia la vita, ma la cosa speciale per lei era, in realtà, il fatto di salvare vite. E lei non salvava vite, salvava solo la sua. Era come se non si sentisse una vera Winchester, a volte, o si sentisse tale solo a metà. Era come se stesse sprecando la sua conoscenza.
“Maxie? Sei ancora con me?”
La voce di Benji la estraniò dai suoi pensieri (anzi, la strappò proprio via. Ebbe davvero l’impressione di essere spinta fuori da quel vortice intricato che si era formato dentro la sua testa e fosse stata riportata alla realtà).
Non sapeva perché quella frase le aveva fatto pensare a tutte quelle cose, sapeva solo che erano cose che non diceva ad alta voce. Che non avrebbe mai detto ad alta voce.
“Si, si. Stavo solo… pensando.”
“L’ho notato. E cosa ti preoccupa?”
“Niente, stavo solo..”
“..Pensando, ho capito. Ma la tua faccia era preoccupata. Avanti, sputa il rospo.”
Si fermò nel bel mezzo del corridoio scolastico e Ben con lei. Lo fissò incatenando i propri occhi ai suoi. Gli voleva bene, Dio solo sa quanto voleva bene a quel ragazzo. La capiva. La comprendeva. Lui era uno dei motivi per cui poteva abbandonare l’idea di cominciare a cacciare perché, sapeva, se avesse cominciato a prendere parte attiva nella caccia l’avrebbe perso, in un modo o nell’altro. Poteva finire nei guai, potevano torturarlo, o peggio potevano direttamente ucciderlo. Non avrebbe permesso una cosa del genere e quindi, come succede nei film con i supereroi, avrebbe finito per allontanarsi da lui.
È per il tuo bene, Benji. Non posso permettere che ti venga fatto del male. E lui avrebbe capito e si sarebbero allontanati per sempre.
Questo suo egoismo la faceva riflettere più di qualsiasi altra cosa. Papà aveva rinunciato ad avere una vita tutta sua per proseguire gli affari, così come aveva fatto zio Sam, che aveva rinunciato all’università per portare avanti la tradizione di famiglia. E lei? Lei accettava passivamente la decisione di suo padre solo perché in quel modo avrebbe potuto continuare a vedere e stare con Benji. Non era un tantino da irresponsabili? Non avrebbe dovuto contribuire anche lei alla salvaguardia del mondo? Chi sa, chi ha la conoscenza, non dovrebbe ficcare la testa sotto la sabbia, giusto? Dovrebbe reagire, combattere, affrontare i pericoli (i mostri) e salvaguardare le persone che non conoscono nulla dell’altro mondo, il mondo che ritengono solo frutto di leggende. Dovrebbe farlo anche se questo significa perdere chi amano per il semplice fatto che, allontanandosi da loro per andare a combattere, assicurerebbero ai loro cari una vita migliore, o almeno una vita con meno pericoli. È più facile vivere se bisogna pensare solo (anche se questo solo lo metterebbe tra virgolette) ai normali problemi umani, senza l’aggiunta di qualcosa di sovrannaturale.
“Max, se continui a fissarmi in quel modo senza spiccicare una parola, inizierò a pensare che tu stia impazzendo!”
“Non sto impazzendo, Ben. Sto bene. Nulla di cui preoccuparsi.”
“Sei sicura?” alzò un sopracciglio, come per dare enfasi a quella sua domanda, che avrebbe voluto scavare dentro la testolina iperattiva di Max. A volte, sebbene nella maggior parte dei casi Ben sentiva di capirla, riuscire a captare i suoi veri pensieri era difficile.
“Sicurissima!”
“Ci credo poco,” disse infine, ma poi alzò un angolo della bocca, dando vita ad un sorrisetto furbo, “ma farò finta di essere stato convinto.”
“Grazie.”
“Ne parleremo quando vorrai farlo.”  
Si avvicinò, sovrastandola, e l’abbraccio, tirandola a se. Max gli infilò le braccia sotto le sue e lo strinse, cingendogli la schiena. Gli voleva davvero, davvero, un mondo di bene. Anzi, il bene che gli voleva era così tanto che occupava lo stesso spazio di entrambi i mondi di cui Max era a conoscenza.

----------------------------------------------

(1) e (2) Sono riferimenti all'episodio 12x15 "Between Heaven and Hell" 

Grazie per essere arrivati fino alla fine, 
Un abbraccio! 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** 2. ***


“Volete davvero fare un costume di gruppo?”
Quella era la voce di Zoe Penderghast, amica nonché compagna di vita di Max. Le due si erano conosciute all’asilo e non si erano più separate. Gli antenati di Zoe erano africani ed erano emigrati negli stati del nord per sfuggire alla schiavitù durante la guerra di secessione. Il bene che Max voleva a quella ragazza partiva dalle viscere del suo animo. Si trovava bene con lei, era una specie di forza della natura con la testa piena di treccine, lunghe e spesse, che si agitavano come tanti tentacoli ogni volta che lei muoveva la testa.
Sono una Medusa di colore. I miei capelli, in realtà, sono piccoli serpenti. Fatemi arrabbiare e vi pietrifico!
Le piaceva raccontare quella storia, forse perché proprio come Medusa, anche Zoe aveva un lato mistico, o misterioso. Sicuramente epico. Lei era epica.
“Beh, perché no??”
James Otterton Junior, chiamato dagli amici JJ. Rosso naturale e cinefilo incallito, lavorava nel cinema della città nei weekend e ogni volta che c’era qualcosa di bello, invitava i ragazzi a passare la serata insieme. Un film con lui si doveva guardare in assoluto, religioso silenzio perché l’arte va assaporata con la bocca chiusa e, puntualmente, alla fine di ogni film, JJ raccontava in quanto tempo era stato montato, girato e messo a punto, sapeva tutto sul regista, sugli attori e sugli aneddoti riguardanti quel film. Era un’enciclopedia bipede. A Max piaceva ascoltarlo, visto che anche a lei piacevano i film. Suo padre, il signor James Otterton Senior, possedeva mezza Boston e, per questo, non era quasi mai in città. JJ passava la maggior parte del tempo con sua madre, Camilla Otterton, nata e cresciuta nel South Dakota. Come abbiano fatto i signori Otterton a conoscersi rimane ancora oggi un mistero, nonostante Max conosca JJ dalle elementari. Il ragazzo, semplicemente, non amava parlare della lontananza del padre e quindi non lo nominava quasi mai – evitando così di raccontare particolari riguardanti la sua vita e le sue figure genitoriali. In questo, Max lo sentiva molto vicino. Nemmeno lei sapeva come si erano davvero conosciuti i suoi e, soprattutto, sentiva la mancanza di sua madre, come James sentiva quella del padre. La differenza, stava nel fatto che, almeno periodicamente, il ragazzo poteva vederlo. Lei doveva scovare delle fotografie nascoste per casa per riuscire a vedere il volto di sua madre. Dean, infatti, non teneva nessuna foto esposta per la casa, piuttosto le teneva nei suoi posti segreti, che ormai a Max non erano più tali. Non voleva dimenticarsi il viso di sua madre. Non si sarebbe mai perdonata se l’avesse fatto. Le foto, dunque, l’aiutavano più di chiunque altro in casa sua a far si che ciò non accadesse. Abigail, in casa Singer, era un tabù. Lo sapevano tutti e per questo nessuno si azzardava a nominarla.
“Perché Halloween è stasera e non ci siamo organizzati in tempo? Santo cielo JJ, a volte mi chiedo se sei stupido o semplicemente la fai apposta!”    
“Io direi che è stupido!”
Aaron Walsh, capitano della squadra di football, ricci castani e già in lizza per entrare a far parte di squadre professioniste. L’anno scorso un consulente dei Dallas Cowboys aveva assistito ad una partita dei Dakota Rangers – la squadra del liceo – e, colpito dalle abilità di Aaron aveva detto che se i suoi voti fossero migliorati l’anno successivo avrebbero potuto parlare di un provino serio con i Cowboy di Dallas. Aaron aveva chiesto a Max un aiutino (“Per favore, Max, ho bisogno di qualcuno che mi aiuti a concentrarmi!”) e si era impegnato tanto per raggiungere i risultati richiesti. Questo, diceva Aaron, era l’anno della speranza.
Speriamo non si siano dimenticati di me.
Speriamo si ricordino.
Speriamo che la mia media adesso gli basti.
Speriamo eventualmente di essere all’altezza dei Cowboys.

E cose del genere.
Speranza. Aaron sperava senza rendersi effettivamente conto che aveva tutto ciò che un atleta deve avere: fisicità, talento, gioco di squadra. La cosa a cui dava più importanza erano i suoi compagni: Spiegami perché giocare in squadra, se non dai importanza ai tuoi compagni. Se vuoi fare l’atleta individuale impari a boxare. In quel caso, sei solo tu. Nel football il gioco individuale non ti porta da nessuna parte!
Aaron era un ragazzo buono. Max gli voleva bene. Per dirla tutta, Max voleva bene a tutti i ragazzi seduti a quel tavolo con lei, in mensa. Stavano in cerchio come i cavalieri della tavola rotonda e ogni volta che li guardava a Max veniva in mente ciò che le aveva insegnato Bobby: la famiglia non finisce con il sangue. Loro erano la sua seconda famiglia. E non avrebbe rinunciato a quei ragazzi per nulla al mondo.
“Stupido sarai tu, scimmione palestrato!”
Zoe scoppiò a ridere. Gli insulti gratuiti tra JJ e Aaron ormai erano all’ordine del giorno.
“Ragazzi…” si intromise Benji, “piantatela.”
Max gli lanciò un’occhiata divertita e contrasse le labbra all’interno della bocca per trattenere un sorriso. Benji scosse la testa. Sapeva che trovava divertente il fatto che cercasse sempre di fare da paciere tra i due ragazzi. Ti da un’aria molto matura, diceva e lui gonfiava il petto come un gallo orgoglioso.
“Ci serve un’idea,” continuò Ben, attirando l’attenzione su di se. Il gruppetto si lanciava occhiate, alcuni aprivano la bocca, come se avessero avuto un’idea, ma poi la richiudevano senza aver detto una parola, scacciando a priori quell’idea nata nella loro testa e mai venuta alla luce.
“Ecco perché ci siamo trovati all’ultimo,” brontolò Zoe, appoggiandosi malamente allo schienale della sedia e incrociando le braccia al petto, “facciamo schifo a trovare idee.”
“Non proprio schifo,” Max si protese sul tavolo, tendendo le braccia e ficcandoci la testa nel mezzo, come se fosse semi sdraiata a pancia in giù, “forse direi più schifetto.” La sua voce, nonostante suonasse ovattata dalla sua posizione, risultò chiara ai suoi compagni.
“Schifetto non si può sentire, Max.” la rimproverò Zoe che le ficcò un gomito tra le scapole, giusto per infastidirla e farla rizzare, dritta come un fuso che ha appena preso una scossa elettrica.
Max la fulminò: “Sai che detesto quando lo fai!”
“E secondo te perché mi piace tanto farlo?” Le fece l’occhiolino, sorridendo con la lingua tra i denti.
Max alzò gli occhi al cielo, ma stava ridendo.
“Ragazze, concentratevi!”
“D’accordo, coach Walsh! Vuoi che facciamo anche delle flessioni?”
“Non sei divertente, Zoe. Lo sai?”
La ragazza per tutta risposta gli fece una linguaccia.  
Le loro interazioni vennero interrotte dal suono della campanella che segnava la fine dell’ora di pranzo e la ripresa delle lezioni. Intorno al loro tavolo, un centinaio di studenti si stava alzando per uscire da quella stanza, formando un ammasso che assomigliava ad una nuvola di persone. O un mucchio di formiche. Ma Max scacciò quell’ipotesi in quanto le formiche quando si spostano lo fanno in fila, seguendo un ordine ben preciso e dettagliato. Gli studenti, con i loro passi pesanti, il loro modo sgarbato di spostare le sedie – che graffiavano sul pavimento con i loro quattro piedini – e il loro vociare che andava aumentando sempre di più via via che qualcuno si aggiungeva ad una conversazione, ricordavano sicuramente una nuvola disordinata.
“Che palle, ho storia adesso!” lagnò JJ, tirando indietro la testa e sbuffando sonoramente. “Dovrebbero vietarle materie così noiose dopo aver mangiato. Nessuno ha mai sentito parlare di abbiocco post-pranzo?”
I suoi amici risero e lui si sentì un tantino meglio, come se avesse tratto da quella risata la forza necessaria per affrontare una lezione così pesante.
“Ci vediamo dopo, ragazzi!” li salutò e sparì nella folla. Ad uno ad uno lasciarono quel tavolo: Zoe aveva laboratorio di chimica, Aaron matematica, Benji biologia e Max letteratura. I cinque ragazzi legati da un filo invisibile si persero nella folla. Se qualcuno avesse guardato dall’alto e avesse, per caso, evidenziato quel filo di rosso, avrebbe visto chiare le linee che univano cinque persone diverse. E poteva vederli chiaramente formare una stella.
O un pentacolo. Quello dipende dai punti di vista.

                                                                             ***

Mancavano dieci minuti alla fine della lezione. Max guardava fuori dalla finestra in preda a pensieri che ormai le giravano in testa da un po’. Non ne aveva ancora parlato con suo padre perché non era sicura nemmeno lei ci ciò che veramente voleva fare. Si chiese fino a che punto, per una nata in una famiglia come la sua, sarebbe stato possibile alternare la caccia alla normalità senza finire totalmente inglobata dagli affari di famiglia. Cominciava a chiedersi, raggiunta questa età dove non si è più bambini, se fosse il caso di cominciare a far parte di quello che la sua famiglia chiamava cacciare. Chiunque si immaginerebbe la caccia al cinghiale, o ai fagiani. E magari storcerebbero anche il naso perché una ragazza che imbraccia un fucile e si reca da sola nei boschi per uccidere delle bestie più o meno grandi non è proprio così ordinario. Chissà cosa penserebbero quelle stesse persone sapendo che la ragazza, impugnata una pistola carica di pallottole d’argento, si recherebbe sola nel bosco per uccidere un lupo mannaro che, sopraffatto dalla luna piena e dal suo istinto bestiale, fosse colpevole di aver strappato il cuore dal petto di un ragazzino innocente.
Chissà.
Il fatto è che non è il pensiero della gente, il problema.
Il problema era il pensiero di una sola persona: suo padre.
Dean Winchester era sempre stato piuttosto chiaro su come sua figlia sarebbe cresciuta. E questo, ovviamente, implicava stare lontana da qualsiasi tipo di attività familiare che comprendesse, appunto, andare nei boschi con una pistola per uccidere una creatura alta due volte lei e forte come quattro uomini. Ma lei non sapeva più se tutto ciò le andava bene. Finché era una bambina e non si rendeva conto appieno di ciò che volevano dire i discorsi tra papà e zio Sam, poteva vedere le sessioni di allenamento come un gioco, ma una volta cresciuta… una volta cresciuta le cose erano diverse.
Parole come assassinio, carneficina, possessione demonica, mutilazione, sacrificio divennero estremamente reali e pesanti. Trasudavano tutta la loro natura crudele e sanguinolenta. Tutta la violenza intrinseca dentro al significato di quelle parole si manifestava, nella sua testa, con una concretezza fin troppo chiara, fin troppo limpida. La loro oscurità era chiara ai suoi occhi come se si fosse mostrata alla luce del sole con l’arroganza tipica della malvagità – che non teme giudizio alcuno, consapevole del terrore reverenziale che provoca negli esseri umani. Quanto ancora poteva andare avanti? Quanto ancora poteva conficcare la testa nella sabbia per paura di perdere la parte normale della sua vita (per paura di perdere Benji)?
Quanto ancora poteva fingere di non appartenere a quel mondo in cui suo padre sguazzava ormai da quando era un bambino?
Certe cose, lei, ce le aveva impiantate nel DNA. Impresse, scritte a caldo con una penna indelebile  che le avrebbe sempre ricordato le sue origini, la sua eredità.
Ma aveva paura.
Temeva quel promemoria costante perché era terrorizzata dall’idea di non essere all’altezza. Suo padre era Dean Winchester, l’uomo che era stato all’inferno ed era tornato. L’uomo che aveva resistito a Michele, ribellandosi alla volontà divina.
E poi c’era zio Sam.
Sam Winchester, l’uomo che aveva vinto il Diavolo. L’uomo che era stato posseduto da Lucifero, ma che amava così tanto suo fratello e questa Terra, da riuscire a trovare la forza dentro di se per riuscire a contrastare la potenza dell’arcangelo ribelle.
I Winchester erano conosciuti da tutti i cacciatori, rispettati e ammirati. Si raccontavano storie su di loro che venivano tramandante come le leggende, quasi come se fossero racconti sacri da cui prendere spunto.
Erano i due uomini che avevano sventato l’Apocalisse e si erano ribellati a quel destino celeste (e demoniaco) che era stato scritto per loro e avevano salvato il loro mondo.
Come avrebbe mai potuto competere lei, che fino ad ora aveva solo letto libri e tradotto testi latini?
Sarebbe mai stata all’altezza del cognome che portava? Sarebbe mai stata all’altezza del sangue che scorreva nelle sue vene?
Non ne era sicura.
“Winchester, cosa trovi di tanto interessante fuori dalla finestra?”
Sussultò e la realtà la avvolse come una coperta, o meglio, avvolse i suoi pensieri, nascondendoli in un angolo della sua testa e ricordandole che non era il momento adatto per perdersi nei meandri del suo cervello.
“Niente, signor Dempsey, mi scusi.”
In quel momento si rese conto che l’aula era vuota e lei non aveva sentito il suono della campanella. Il suo professore di letteratura la guardava con curiosità.
“Di solito non ti perdi nemmeno un minuto delle mie lezioni, Max.” il suo tono si addolcì, mentre si incamminava dalla cattedra al banco della ragazza.
“Mi piacciono le sue lezioni.” Confessò, timida.
Il professore sorrise, soddisfatto.
“Ti ringrazio.” Fece  una pausa, guardando dove poco prima stava guardando Max. Vide il cortile, i tavoli sistemati sull’erba verde per poter mangiare, o studiare, all’aperto. Vide gli alberi che oscillavano lievemente trasportati dal venticello leggero e vide il sole, che forte e caldo illuminava quella limitata distesa d’erba rendendola brillante come tanti piccoli smeraldi messi assieme.
“C’è qualcosa che ti preoccupa, Max?”
Lei pensa che potrò mai essere all’altezza del cognome che porto?
“No, signor Dempsey.”
“Sei sicura?” alzò un sopracciglio, come se così facendo riuscisse meglio a scavare nella testa della ragazza.
“Sicurissima.” Annuì con vigore.
Il signor Dempsey annuì a sua volta: “Bene, allora. Penso tu debba andare, il signor Jones ti sta aspettando impaziente fuori dalla porta.”
Non appena Max e il signor Dempsey volsero lo sguardo alla porta, Benjamin si ritirò di scatto, come se volesse nascondersi.
Max ridacchiò e, dopo aver sistemato la sua roba dentro alla zaino, si alzò dal suo banco.
“Arrivederci, professore. E mi scusi per prima.”
“Troverai tutto sul libro di testo. Ma rimani concentrata, la prossima volta.”
“Lo farò.”
Il professore la salutò con un ultimo cenno del capo che lei ricambiò e poi Max uscì dall’aula, dove trovò immediatamente Benji appoggiato al muro che faceva finta di niente.
Gli si piazzò davanti. Si era tolto il cappellino e aveva raccolto i capelli in un ciuffo morbido e anche un po’ disordinato. Lo trovava ancora più bello pettinato in quel modo.
“Mi stai fissando, Maxie.”
“Lo so.”
“E perché lo fai?”
Perché mi piaci, stupido.
“Perché pensavo a quanto faresti schifo come spia!”
“Io.. io..” alzò l’indice per darsi un tono e gonfiò il petto, ma poi si accasciò di nuovo e rise di gusto, “..hai ragione. Farei proprio schifo come spia!” si staccò dal muro e si affiancò a Max, circondandole le spalle con un braccio. Il cuore di lei sussultò, ma non sgusciò da quella presa. In quel modo, riusciva a sentire meglio il profumo di Ben.
E Ben sapeva di normalità. Di sicurezza. Era un elisir che le sgomberava la mente e le faceva credere che tutto era possibile.
Anche far combaciare le sue due vite.
O forse era più appropriato dire la sua vita e quella che una parte di lei si sentiva in dovere di vivere. La cacciatrice che viveva latitante in lei sarebbe venuta fuori, prima o dopo. Di questo era quasi certa. Il problema era capire se era in grado di gestire quel lato della sua vita.
“Andiamo da Zoe, adesso.”
“Ah, sì?”
“Mh-mh. L’ho incrociata prima, mentre venivo da te. Ha detto che andiamo a casa sua per discutere di stasera.”
“Va bene, mi sembra una buona idea.”
Ben annuì e insieme uscirono da scuola. Era tutto così normale che Max decise di accantonare i suoi pensieri per un po’.

                                                                                ***

Rumore.
Rumore assordante, vociare chiassoso.
Persone.
Persone che premono, che saltano, che urlano. Una marea inquieta, quasi violenta, accatastata, prorompente, irruenta.
E Max era parte di questa marea. Era una delle correnti che rendeva agitato il mare di studenti che riempiva la palestra della scuola superiore.
E tutto ciò si tramutava in rumore.
Un rumore sordo. Che ossimoro, ma non avrebbe saputo dirlo meglio. Il suono era così forte che ormai le sue orecchie si erano abituate, cominciando a non sentirlo più, quasi come se fosse diventato silenzioso. Sordo. Ovattato.
Ma era il modo migliore per scacciare i pensieri: bombardarli di musica che li disintegrasse. Vicino alla cassa, Max saltava insieme a Zoe, ballando con l’amica senza seguire dei passi ben precisi, ma lasciandosi solo andare. Era tanto che non lo faceva. Era tanto che non svuotava la testa.
Tutto ad un tratto, i pensieri che le riempivano la mente e le facevano avere l’impressione che dentro di se vivesse almeno una folla di duemila persone tutte intente a dire la propria, tacquero. Nella sua testa non c’era più niente: era sgombra, tranquilla. Si sentiva così leggera. Ci si sentiva così tanto che aveva l’impressione di volare ogni volta che spiccava una saltello cercando di seguire l’insensato ritmo della canzone che il dj aveva messo. Non sapeva nemmeno il titolo, ora che ci pensava.
“Zoe!!” urlò nell’orecchio all’amica.
La ragazza si avvicinò ancora di più per sentire meglio cosa Max avesse da dirle.
“Come si chiama questa canzone?”
Zoe la fissò e Max ebbe l’impressione che sulla sua faccia si fosse formato un enorme punto interrogativo: nemmeno lei conosceva quella canzone.
“Non ne ho idea!” e riprese ad agitare le braccia senza un senso logico.
Max, per un momento, rimase immobile. Non ballava più, adesso. Era spettatrice di qualcosa a suo parere meraviglioso: la spensieratezza che solo gli adolescenti possono avere. Vide facce più o meno conosciute mischiarsi tra di loro in una tavolozza di musica e colori e pensò che non sarebbero mai più stati sereni come lo erano in quel momento. Si trovò a pensare che ognuno di loro con l’avanzare dell’età avrebbe ripensato a quella sera con un sorriso nostalgico, con la malinconia dei giorni passati, giorni in cui potevano permettersi di non farsi sopraffare dalle quotidiane preoccupazioni della vita.
“Sei l’unica che non si muove.” 
Max sussultò, sentendo invadersi l’orecchio di un sussurro caldo e ravvicinato. Si voltò, incrociando la figura di Benji, che si era chinato alla sua altezza per farsi sentire. Le sorrise e lei ricambiò. Avevano optato per mascherarsi come i ragazzi del Breakfast Club e a Benji era toccato il personaggio di John Bender. Aveva lasciato i capelli sciolti e liberi da ogni costrizione (fosse essa un cappellino, o un elastico), indossava un giubbotto di jeans, una camicia a quadri neri e rossi, un paio di pantaloni scuri e degli anfibi neri. Era il più bel John Bender che si potesse vedere. Meglio di quello di Judd Nelson.
“Ho preso una pausa.”
“Andiamo a sederci, allora?”
Max lanciò un’occhiata in direzione di Zoe e notò che JJ e Aaron l’avevano già raggiunta. Tutti e tre si stavano dimenando come dei pazzi. Zoe era vestita da Allison Reynolds, Aaron, per ovvi motivi, era Andy Clark, anche se suo padre non aveva mai trovato nulla da ridire sul suo modo di giocare a football, e JJ era Brian Johnson. A lei era toccata Claire Standish.
Claire la devi fare tu, aveva detto Zoe quando si erano ritrovati a casa sua, sei o non sei Rapunzel? Aveva lanciato un’occhiata divertita a Ben, l’unico a chiamarla in quel modo. Il ragazzo aveva alzato il dito medio all’amica, ma aveva concordato con lei. La principessa del Club deve farla chi assomiglia ad una principessa, aveva aggiunto guardando Max.
Quell’affermazione l’aveva messa parecchio a disagio, ma non le dispiaceva quella scelta. In questo modo, almeno per una sera, avrebbe potuto immaginare che tra lei e Ben sarebbe finita proprio come tra Claire e John alla fine del film.
Magari anche lei gli avrebbe donato un suo orecchino e, forse, anche lui avrebbe alzato il pugno al cielo sulle note di Don’t you forget about me dopo aver avuto la certezza di aver conquistato il suo cuore.
“Mi sembra si divertano.” Commentò e Ben, che era al suo fianco, annuì sorridendo.
“Staranno bene anche senza di noi,” allacciò le dita della sua mano con quelle di Max e la trascinò fuori dalla folla. Il cuore della ragazza aveva cominciato a galoppare, selvaggio e inarrestabile.
Mi verrà un infarto, pensò. Ben non l’aveva mai presa per mano. Erano amici, certo, e si abbracciavano spesso, ma prendere per mano qualcuno in quel modo era un gesto così… intimo. Di certo lo faceva per comodità e non rischiare di perderla nella mischia, questo lo sapeva, non era certo un’illusa, ma si trovò comunque a pensare a quanto fosse inequivocabile quel gesto: se per strada si notano due persone che si stringono la mano in quel modo, automaticamente si pensa che siano una coppia. Non si da altra spiegazione, altro significato, a quel gesto se non quello di immaginare i due come degli innamorati.
Il cuore le accelerò. Adesso sembrava un tamburo impazzito. Ma poi Ben sciolse la presa, lasciandole un senso freddo di assenza. Tra le dita passava di nuovo aria ed era più gelida di quanto non le fosse mai sembrata.
“Qui va bene?” indicò le scalinate. Era un posto all’angolo della palestra, lontano da tutti. A quella distanza non serviva alzare troppo la voce per parlare con chi si aveva vicino.
“Perfetto!”
Ben si mise a lato degli alti gradini e le fece cenno di passare, “Prima le signore”. Max scosse la testa, divertita, e salì per prima. Si accomodò in alto dove riusciva a vedere ogni cosa: le luci che riflettevano i loro colori sul pavimento di parquet, che prima era giallo, poi azzurro, poi verde e poi fucsia; i ragazzi che ballavano, gli insegnati ai bordi della palestra che facevano da supervisori, il tavolo delle bevande.
Ben si sedette vicino a lei, stravaccando le gambe e appoggiando la testa al muro. Chiuse gli occhi un momento. I capelli gli ricadevano sulla fronte, le labbra leggermente dischiuse gli davano un’aria rilassata, quasi serena. Sembrava sul punto di addormentarsi, ma poi i suoi grandi occhi neri come il carbone incrociarono quelli di Max.
“Mi fissi, Maxie.”
L’aveva già detto, durante la giornata. Lui notava i suoi sguardi, ma lei non poteva fare a meno di contemplarlo, di tanto in tanto. E poco le importava che lui se ne accorgesse e glielo facesse notare. Guardarlo in viso era come guardare un faro che illumina l’oscurità. Studiare i suoi lineamenti era come ammirare il più bello dei tramonti. Perdersi nel colore dei suoi occhi, così diverso dal suo, era un modo per ritrovare quella parte di se stessa che, volente o nolente, sentiva di avergli donato e che gli sarebbe appartenuta, probabilmente, per sempre.
“Sembrava stessi per crollare in un sonno profondo, Bella Addormentata. Mi stavo preoccupando.”
“Pensi sia narcolettico?”
“Lo sei?”
“Lo sapresti, se lo fossi.” Si sistemò i capelli dietro alle orecchie, “Ci sono poche cose che non sai di me, dopotutto.” I suoi occhi caddero sulle mani che teneva incrociate in grembo. Cominciò a roteare lentamente i pollici, facendoli collidere tra loro. Li fissava, mentre li faceva girare lentamente.
“Lo dici quasi come se la cosa ti desse fastidio..”
Abbozzò un sorriso, continuando a fissarsi i pollici, “Al contrario, Maxie..”
“E allora che c’è?”
“Niente, pensavo solo che..” trasse un profondo, profondissimo respiro, “..che il liceo non durerà per sempre e non voglio perdervi, ne tu negli altri.” Lanciò un’occhiata in direzione della folla, pensando a JJ, Zoe e Aaron che ancora si stavano dimenando come pazzi.
“Non ci perderai, Benji.”
“Non lo puoi sapere..”
“Invece lo so. So che non ci perderemo mai perché noi siamo legati da qualcosa di speciale, indistruttibile. Siamo come fratelli.”
“I fratelli litigano.”
“Ma sono legati da qualcosa di più forte della morte.”
E il suo pensiero andò a suo padre e suo zio. Dean e Sam Winchester, coloro che avevano letteralmente attraversato l’inferno pur di tornare dal proprio fratello. Pensò a quando papà fronteggiò Morte in persona pur di riavere indietro l’anima di zio Sam. Pensò alle mille volte in cui avevano litigato, più o meno pesantemente, ma erano tornati ogni volta per riappacificarsi. Il loro legame era qualcosa di ultraterreno, qualcosa di sovrannaturale, proprio come ciò a cui davano la caccia. Ma, a differenza delle creature che facevano loro vittime, il loro legame era immortale. Si rafforzava ogni giorno di più, calcificandosi, inspessendosi.
“Devi stare tranquillo, Benjamin Jones. Avrai a che fare con noi per il resto della tua vita.”
Le sorrise, avvicinandosi e appoggiandole la testa su una spalla.
“Lo spero,” disse, “lo spero con tutto me stesso.”
Questa volta fu lei ad allacciare la propria mano alla sua. Fu un gesto spontaneo, delicato. Cominciò con il pollice ad accarezzargli il dorso della mano, con movimenti lenti e rassicuranti: “Da cosa nasce questa preoccupazione?”
Lui sbuffò dal naso, come a cercare un modo per prendere tempo e trovare le parole giuste: “Da queste serate. Dai pomeriggi a casa di Zoe, noi seduti in camera sua a mangiare schifezze per decidere se vestirci a tema. Vederci uscire da casa sua per andare a comprarci la roba che manca, tu che ti provi la blusa rosa che porti addosso, Zoe che si prende quella gonna lunga fino in fondo ai piedi. JJ che si lamenta che vestito in quel modo sarà più che altro scambiato per Steve Jobs. Aaron che fa le facce stupide nello specchio del camerino. Noi cinque strizzati dentro ad una minuscola macchinetta per farci una fototessera. Mi mancherà tutto questo.”
Max gli appoggiò la guancia alla testa: “Sembra quasi che tu stia per andartene e non trovi il modo per dirci addio.”
“Non vado da nessuna parte, testina spiumata. Però prima o poi ci allontaneremo e io…” alzò la testa, cercando gli occhi di Max, “..io non voglio.”
Lei lo fissò, leggendo nel pozzo scuro che erano gli occhi di quel ragazzo, una determinazione accesa dalla fiamma della volontà. Vedeva la fermezza della sua voce riflessa nei suoi occhi, che erano stati posseduti da una ferrea convinzione che loro non sarebbero stati amici solo fino alla fine della scuola, ma fino alla fine della loro vita.
“Ascoltami,” gli disse, afferrandogli entrambe le mani, “abbiamo cambiato varie scuole, no? Eppure ci siamo sempre ritrovati insieme. Elementari, medie e superiori. Così anche dopo la scuola. Prenderemo percorsi diversi, vivremo vite separate, ma saremo sempre una costante nella vita degli altri.”
Lui sorrise. Il suo viso, adesso, era più rilassato. Le strinse le mani e la tirò a se per abbracciarla.
“Come farei senza di te, Winchester.”
“Te la caveresti benissimo lo stesso.”
“No, non credo.”
Rimasero in quella posizione per un po’, intrecciati l’uno nell’altra in silenzio, protetti dalla bolla invisibile che era la loro amicizia. Era un luogo a parte, quello in cui si trovavano Max e Ben, un mondo parallelo alle loro vite, dove loro vivevano e non facevano entrare nessuno. Non lo facevano di proposito, tra di loro c’era la complicità tipica di chi è fatto della medesima sostanza. Era come se le loro anime fossero state estratte dallo stesso materiale e fossero state plasmate per incontrarsi, un giorno. Si appartenevano come mai nessun’altro avrebbe potuto fare. Sapevano che un giorno entrambi avrebbero trovato qualcuno da amare, ma sapevano anche che quel qualcuno non sarebbe mai stato all’altezza di ciò che avevano loro. Per questo Max non si era mai aperta con Ben, riguardo ai suoi sentimenti: aveva paura di perderlo, aveva paura di rompere quel mistico legame che li univa e rovinare tutto.
Non voleva rischiare di buttare via ciò che avevano solo perché aveva capito di amarlo. Se lui non avesse ricambiato, l’avrebbe perso per sempre. Se, invece, fossero rimasti amici, non l’avrebbe perso mai. Sarebbero sempre stati legati da quel filo speciale che unisce i loro cuori e li fa battere all’unisono.
“Maxie, che ne dici se torniamo dagli altri?”
“D’accordo.”
Si alzarono in piedi, Max aggiustò la gonna marrone a pieghe che indossava: le arrivava fino al ginocchio, ma essendosi seduta le si era alzata un poco. Le piaceva, quella gonna. L’aveva comprata con papà l’anno scorso e lui, vedendola uscire dal camerino del negozio, aveva detto: Ti si vedono troppo le gambe. A seguito dell’occhiataccia che Max gli aveva lanciato, però, aveva ritirato quel commento, dicendo invece che le stava molto bene. Era a vita alta e per l’occasione ci aveva infilato dentro la blusa rosa chiaro che aveva comprato quel pomeriggio stesso.
Ben la fece di nuovo passare per prima, ma a metà scalinata le luci si spensero. Max e Benjamin rimasero immobili, sopra agli spalti. Il silenzio regnava e il buio la faceva da padrone. Non volava una mosca e questo era parecchio strano. A Max fece rizzare i capelli dietro alla nuca. Poi un urlo squarciò il buio e ruppe il silenzio in modo così acuto che a Max diede l’impressione che il silenzio stesso stesse sanguinando, come se avesse subito una ferita improvvisa e profonda. Una lacerazione che avrebbe continuato a perdere sangue finché il silenzio non fosse morto.
Da quel momento, cominciò il caos.






---------------------------------
Ciao a tutti e ben ritrovati! :) 
Innanzitutto, ringrazio chiunque abbia letto la storia e l'abbia messa tra i seguiti/preferiti, lo apprezzo molto! 
Venendo al capitolo, è un po' più corto del precedente, questo perché ha una funzione di passaggio e, proprio per questo, all'inizio si apre con una sorta di elenco. Questo perché volevo inserire gli altri personaggi e presentarli dentro ad una conversazione già avviata, mi sembrava il modo più semplice per farlo senza far risultare la lettura troppo pesante. Questa, comunque, era la mia idea, non so se è riuscita bene come speravo xD (nel caso, mi scuso). 
Spero comunque che vi sia piaciuto! :D
A presto <3 


 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** 3. ***


Il primo istinto di Max, fu voltarsi e afferrare la mano di Ben. Quando la trovò, lo trascinò giù per le scale alla ricerca degli altri.
Il vociare continuava a crescere, ma quell’urlo straziante e costante riusciva a sovrastarlo. Max sentiva il cuore martellarle in petto e nelle orecchie. Era diventata sorda a qualsiasi altro rumore che non fosse quell’urlo disumano. La presa sulla mano di Benjamin diventava sempre più stretta ad ogni passo che facevano e la palestra sembrava infinita. Le pareva di essere dentro ad uno di quei sogni dove le gambe sono pesanti e il percorso non finisce mai, dove correre risulta inutile perché si rimane fermi sul posto, nonostante l’immensa fatica dettata dallo sforzo. Sapeva dov’era Ben, ma non sapeva dov’erano gli altri e questo le attanagliava lo stomaco in una morsa di freddo e crudele panico.
Non li salverai.
Sentirai le loro voci levarsi in grida disumane che squarceranno la loro gola e li ritroverai agonizzanti mentre affogano nel loro stesso sangue, una pozza densa e scarlatta che segnerà la fine delle loro vite.

NO! – gridò una voce nella sua testa. Non succederà. Lei non lo permetterà. Non guarderà nessuno morire. Non guarderà i suoi amici morire.
Corse.  
Ben farfugliò qualcosa, ma lei lo tirò dietro a se e gli fece tenere il suo passo. D’un tratto, il panico si fece da parte per lasciare posto all’adrenalina. La paura di poter perdere i suoi amici era più forte di qualsiasi altra cosa e le fece entrare in circolo il coraggio necessario ad intervenire.
“Max, fermati. Dove stai andando?”
“Non lo senti questo grido?”
“Certo che lo sento, e cos-”
Non lo lasciò finire, continuò a tirarlo dietro di se senza allentare la presa. Si faceva spazio tra la folla, alla cieca. Le luci non erano ancora tornate e la voce continuava a gridare. Dolore. Chiunque stesse urlando stava soffrendo. Era arrivata quasi sotto alla cassa, dove sapeva di aver lasciato i ragazzi, quando la luce tornò. Improvvisamente, tutti si fermarono dov’erano e Max vide ad un metro e mezzo da lei i volti dei suoi amici: stavano tutti bene. Si erano rannicchiati insieme: Zoe stava al centro, mentre JJ e Aaron la abbracciavano da entrambi i lati.
“Zoe..” sussurrò Max, notando il viso sconvolto dell’amica. Le corse immediatamente in contro, trascinandosi dietro Benji.
Non appena Zoe riconobbe Max tra la folla, si gettò su di lei: “L’ho visto, Max. L’ho visto!!!” il terrore aveva posseduto la sua voce. La giovane Winchester notò che l’amica stava tremando. Sembrava sotto shock.
“Cosa hai visto?”
“Era… era…” deglutì, il viso tirato e quasi grigio, “..era un fantasma.”
Il cuore di Max ebbe un sussulto, come se fosse saltato giù da un trampolino troppo alto all’improvviso.
“Che altro?”
“Non lo so, è… è… andato verso…” il respiro le divenne affannoso, fino a mancarle. Non era regolare e rischiava l’iperventilazione. Il petto le si alzava ed abbassava troppo freneticamente e se non si fosse calmata avrebbe potuto rischiare un attacco di panico.
“Ok, Zoe, calmati. Ci siamo noi qui con te.” Le disse e poi cercò gli occhi di JJ e Aaron. “L’avete visto anche voi?”
I due scossero la testa. “Non abbiamo visto niente,” aggiunse Aaron.
Max teneva Zoe stretta a se, accarezzandole la schiena per cercare di calmarla.
La folla, intanto, si era concentrata al centro della palestra, formando un cerchio di studenti incuriositi e spaventati allo stesso tempo.
“Si può sapere cosa succede??” sbottò Benjamin.
Max lanciò un’occhiata terrorizzata alla folla. Sapeva cosa poteva essere successo, se si trattava di un fantasma: le varianti andavano dall’omicidio, alle ferite gravi, alle mutilazioni. Chiunque fosse stato la vittima, di certo non se la passava bene. Tutto ad un tratto, le sembrò di sentire bruciare il cellulare che teneva nella tasca della gonna. Sarebbe stato facile. Sarebbero bastate poche semplici mosse: afferrare il cellulare, sbloccarlo, scorrere la rubrica fino a trovare il numero di papà (o digitarlo a memoria) e premere la piccola icona con il telefono verde e lasciare squillare. Papà avrebbe risposto al secondo, massimo terzo squillo.
«Che c’è tesoro, stai male?»
«No, papà… c’è del lavoro da fare.»

Lui avrebbe capito, le avrebbe chiesto che tipo di lavoro e lei avrebbe risposto che si trattava di un fantasma. Dean avrebbe risposto con un suono gutturale di approvazione e avrebbe terminato la telefonata.
«Aspettami, mi occuperò io di tutto.»
Papà sarebbe arrivato dopo venti minuti (dieci, calcando l’acceleratore di Baby al massimo) e avrebbe iniziato a lavorare al caso. E, con ogni probabilità, l’avrebbe risolto nel giro di due ore.
Avrebbe dovuto agire in questa maniera, ma non lo fece. Una parte di lei, quella irresponsabile, molto probabilmente, le gridò che era il momento giusto per mettere in pratica ciò che aveva imparato per tutta la sua vita. Glielo gridò con così tanta convinzione e così forte che Max non riusciva a sentire altre voci al di fuori di quella. Nemmeno quella della sua razionale coscienza che, seppur in maniera più discreta, le stava dicendo che la sua inesperienza avrebbe potuto fare più male che bene.
Ma Max non la sentiva. Max stava già andando verso la folla per capire quali fossero i danni.

La vittima in questione era Kevin Marley, un ragazzo del secondo anno. Max lo conosceva di vista – tutti conoscevano il piccolo prodigio della scuola. Kevin, infatti, era uno dei ragazzi più intelligenti di tutto l’istituto con un quoziente intellettivo sopra alla media e un carattere estremamente estroverso: sapeva di avere delle importanti qualità e questo gli dava una sicurezza in se fuori dal comune per essere così giovane. Non sempre Kevin suscitava simpatia, ma non per questo era una cattiva persona.
Gli insegnati erano tutti accucciati su di lui e stavano provvedendo a lasciare indietro gli studenti curiosi.
“Lasciatelo respirare!” Disse il preside Lex Chapman, un uomo alto e sempre scuro in volto.
Max riuscì a sbirciare da un buchetto formatosi tra due studenti e vide che Kevin sembrava messo male: la sua maglietta era bagnata di sangue sul fianco destro, che il ragazzo continuava a premersi.
Non vedendola nuda non sapeva quanto la ferita fosse profonda, ma il sangue continuava ad uscire, formando una pozzetta sul pavimento. Sarebbe morto dissanguato.
“Portiamolo in infermeria!” gridò, sovrastando il vociare delle persone che erano intorno al ragazzo.
La folla si voltò verso di lei, aprendosi in un varco. Improvvisamente si sentì in mezzo a due fuochi: a destra e a sinistra aveva persone che la fissavano, davanti a lei c’era Kevin che stava ancora sanguinando.
Morirà. Ti prego non morire, ti prego non morire, ti prego, ti prego, ti prego.
“L’ambulanza sta già arrivando, Winchester.” Le rispose il signor Dempsey.
Max avrebbe voluto rivolgergli uno sguardo, ma i suoi occhi non riuscivano ad abbandonare Kevin. Non riusciva proprio a non guardare la maglietta inzuppata di un rosso scarlatto, la mano del ragazzo che continuava inutilmente a premere quella ferita che tanto lo faceva soffrire e il suo viso… Dio, il suo viso: era bianco, gli occhi cerchiati di un blu scuro – come un livido nuovo, fresco – l’espressione contratta in una smorfia di dolore costante.
“Quanto ti fa male?”
Kevin la guardò: “Tanto.”
“Ce la fai ad aspettare l’ambulanza?”
“N-n-on.. n-on.. lo so.”
Max si avvicinò a lui e si chinò al suo fianco, nonostante le fosse stato detto di lasciargli spazio per respirare.
Kevin le afferrò il polso con la mano pulita e la strinse con tutte le forze che aveva. Non erano molte, la giovane lo percepiva, ma quel gesto era un chiaro segno che Kevin la voleva esattamente dove si trovava: al suo fianco. E a lei questo bastava per rimanere in ginocchio vicino ad un ragazzo che era stato brutalmente ferito da un’entità che avrebbe colpito ancora, con ogni probabilità. Doveva provare a fare qualcosa.
“Vuoi venire in infermeria con me?”
“Signorina Winchester,” tuonò il preside Chapman, “si allontani immediatamente. Le è stato già detto che un’ambulanza sta arrivando.”
Il preside Chapman era un uomo insopportabilmente rigoroso, rigido e limitato. Esistevano solo le regole, per lui, e andavano rispettate nell’unico modo possibile: quello stabilito dal regolamento scolastico. Max non era sorpresa che le facesse una richiesta del genere, era convinta che Chapman non vedesse un ragazzo morente, quanto piuttosto una possibile denuncia da parte dei genitori se fosse successo qualcosa al ragazzo. E a quel punto, lui, avrebbe potuto dire che non c’era niente da denunciare, visto che aveva agito secondo le regole dettate dal protocollo scolastico. Qualcuno viene gravemente ferito? Se nelle vicinanze non c’è un medico, allora la prima soluzione è chiamare un’ambulanza.
Il problema è che non esiste un protocollo quando si tratta di attacchi sovrannaturali.
“Vuole che Kevin muoia? Perché è questo che succederà, signor Chapman. Il sangue continua a scorrere e se Kevin dovesse perdere i sensi potremmo non recuperarlo più.”
Lex la fissò come si potrebbe guardare un insetto insolente che non solo ha costruito abusivamente la tana in altrui dimora, ma adesso pretende di ricevere l’affitto dal padrone di casa. Lo stava forse sfidando, quella mocciosetta impertinente che lo fissava colma di risentimento? Lo odiava, forse, perché stava rispettando le regole?
“Il signor Marley non morirà.”
“P-p-portami i-i-in infermeria, M-M-Max.” disse Kevin, tra i rantoli. “La  f-f-f-ferita d-deve essere c-chiusa.”
Kevin fece per alzarsi, ma il fianco lacerato gli impedì il movimento. Max lo afferrò e gli mise un suo braccio intorno al proprio collo.
“Piano, così.”
“Ti prenderai la responsabilità di qualsiasi cosa gli accada, Winchester.” Disse imperioso Chapman. “Mi hai sentito? Qualsiasi cosa.” Ribadì, la sua voce cavernosa che vibrava ed echeggiava nella palestra. La ragazza non lo guardò, focalizzata com’era su Kevin. Si incamminarono a passo lento, con la folla che si apriva al loro passaggio. Max sapeva che stava facendo qualcosa di pericoloso, di impulsivo. D’un tratto, la voce razionale che prima non aveva ascoltato, le rimbombò in testa con la stessa intensità di un’esplosione atomica: con la tua inesperienza lo ucciderai. Chiama tuo padre. Chiamalo, adesso.
Ma l’istinto le diceva che non c’era più tempo, ormai. O interveniva lei, o Kevin sarebbe passato a miglior vita nel giro di poco tempo. Niente più dubbi, niente più ripensamenti. Ormai c’era dentro: doveva (re)agire.

Non appena attraversarono la folla, Benji le si affiancò e afferrò Kevin dall’altro lato. Dietro di loro Zoe, JJ e Aaron avevano creato una piccola riga orizzontale che proteggeva Kevin dagli sguardi che venivano lanciati alle loro schiene da tutti i ragazzi presenti in quella palestra.
“Chapman ti punirà per questo, Maxie.”
La ragazza guardò prima Ben alla sua destra e poi Kevin, che respirava affannosamente. Se fosse riuscita a salvarlo avrebbe accettato tutte le punizioni che Chapman aveva in serbo per lei.
“Che lo faccia, pure. Non mi importa!”
Varcarono la soglia della palestra e si incamminarono verso sinistra: l’infermeria era la prima porta che avrebbero incontrato.

Una volta entrati in infermeria, sistemarono Kevin sopra al lettino che regnava al centro di quella stanza. Era tutto di un innaturale bianco accecante, quasi inquietante. L’odore di disinfettante entrò prepotente nelle narici di Max facendole bruciare il naso. La giovane Winchester percepiva la presenza dei suoi amici dietro di se: si erano sistemati in un angolo della stanza, vicino agli strumenti per sentire il cuore e i  polmoni. La fissavano, lo sapeva. Sentiva i loro occhi che le trafiggevano la schiena, come se fossero desiderosi di sapere cosa stesse succedendo, come mai avesse preso una decisione così drastica, come mai non si era scandalizzata più di tanto quando Zoe aveva nominato un fantasma.
O forse erano solo le sue paranoie che venivano a galla e si tramutavano in quelli che secondo lei potevano essere i pensieri dei suoi amici.
Magari Zoe, Ben, JJ e Aaron stavano solo sperando che un loro compagno di scuola non ci lasciasse le penne e lei era soltanto una paranoide squilibrata.
Chiama tuo padre. Non sei in grado, non te ne accorgi?
No. Era in grado. Lo sapeva.
Ne sei sicura?
Scosse la testa come per far uscire quel pensiero dalla sua testa, lanciandolo fuori attraverso una delle orecchie, e non appena Kevin fu interamente sopra al lettino, Max tirò un enorme sospiro e gli sollevò la maglietta. Sul fianco destro del ragazzo c’era un taglio che lo percorreva in verticale dalle costole fino all’osso del bacino. Era grosso, ma meno profondo di quanto pensasse.
“La ferita è meno profonda di quanto sembra, Kevin.”
“Questo dovrebbe farmi stare meglio??”
“Non è il momento di farsi prendere dal panico.” Gli disse, ma era un’affermazione che stava rivolgendo anche a se stessa. È vero che la ferita non era profonda, ma c’erano tanti modi per ucciderlo, se lei avesse sbagliato qualcosa nel procedimento: l’avvelenamento del sangue a seguito di una mal esecuzione della ricucitura causata da strumenti sterilizzati male, ad esempio. Sentiva il respiro accelerare e le mani che iniziavano a tremare. Quella parte di lei che le aveva già ordinato di chiamare suo padre tornò a farsi viva, gridandole più forte che mai di fare quella telefonata (te l’avevo detto che non eri in grado). Deglutì, sentendo la gola secca, ma fu come tentare di buttare giù una biglia spinata.
Ti. Devi. Calmare.
L’hai fatto un milione di volte con papà, ricordi? Perché adesso dovrebbe essere diverso?

Giusto. Non era diverso. Aveva gli attrezzi e la conoscenza necessaria per ricucire una ferita ancora sanguinante. Primo: avrebbe dovuto pulirla.
Si diresse verso l’armadietto dei medicinali e ne estrasse l’alcol etilico e del cotone idrofilo. Tornò di nuovo vicino a Kevin e gli alzò il braccio sopra alla testa: “Tienilo su così, d’accordo?”
“Max sei sicura di quello che fai? Insomma sembra una cosa seria…” le chiese James e per un attimo le sembrò che il suono della sua voce coincidesse con quello della voce nella sua testa, quando si sentiva dire che avrebbe solo peggiorato la situazione.
“Sì, sono sicura,” abbastanza, per lo meno. Non si voltò a guardare i suoi amici: doveva rimanere concentrata. Se avesse incrociato i loro sguardi ci avrebbe letto apprensione, timore, e lei non voleva che queste emozioni la condizionassero, o distraessero. Altrimenti, si sarebbe fatta prendere dal panico e la possibilità di chiamare suo padre per risolvere la situazione avrebbe prevalso sulla volontà di risolvere la questione da sola. Il cuore le accelerò e si rese conto quanto la situazione la spaventasse, quanto si sentisse inadeguata, quanto, sebbene lei fosse piena di buona intenzioni, questo potesse essere interpretato come il capriccio di una ragazzina confusa che vuole dimostrare al mondo (al padre) che è in grado di gestire la vita parallela che da sempre la sua famiglia vive. Non voleva più tenere da parte il family business, non voleva più essere un topolino da biblioteca, chiuso al sicuro in una casa a prova di mostro, quando in realtà i suoi cari sono partiti in missioni da cui non potrebbero tornare.
La sua mente, per un attimo, andò alle varie volte in cui aveva pulito le ferite di papà. Dean era sempre tornato dalla caccia con ferite più o meno gravi e lei era sempre lì ad aspettarlo per curarlo. Perché quello era il suo compito: occuparsi delle ferite, sistemare le conseguenze delle battaglie – era come un medico di guerra, spettatrice passiva di eventi inevitabili che provocano dolore, quel dolore che lei doveva allietare.
Ne ricordò una in particolare sulla schiena. Era uno squarcio simile a quello di Kevin, formato da quattro linee verticali ugualmente distanti tra loro: gli artigli dei mannari non perdonano. Era una ferita più profonda, quella. Sapeva che doveva ricucirla, così aveva fatto sdraiare suo padre su una superficie rigida e piana, gli aveva sollevato la maglietta, aveva valutato i danni e aveva pensato a come procedere: pulire, disinfettare, cucire. Quella volta ci aveva versato del whiskey nel taglio. L’aria si era impregnata dei ringhi gutturali di suo padre e dell’odore di whiskey mischiato a quello ferroso del sangue.
Questa volta, invece, Max aveva versato dell’alcol etilico che, mischiato all’odore del sangue, dava un aspetto meno rustico alla cosa e più serio, come se lei fosse davvero un dottore.
Kevin urlò: “Perché l’hai fatto??”
“Per pulirla.”
“Potevi avvertire!”
“Se l’avessi fatto, avresti voluto rimandare per non sentire dolore.” Lo disse con una dolcezza comprensiva come se stesse parlando con un bambino. Sapeva che ferite del genere bruciano parecchio e voleva che il dolore passasse più in fretta possibile, così come si fa per i cerotti che è sempre meglio toglierli con un unico strappo.
“Va meglio?”
“Inizia a non bruciare più.”
Max sentì i muscoli del ragazzo rilassarsi sotto ai suoi polpastrelli. Notò che la ferita non sanguinava più, adesso, quindi decise di passare alla seconda fase: disinfettare. Prese il cotone idrofilo e lo bagnò con lo stesso alcol che aveva usato per pulire la ferita. Tamponò delicatamente i bordi per togliere il sangue incrostato nei lati dello squarcio e mentre agiva, decise che era arrivato il momento di chiedere cosa fosse successo.
“Kevin,” cominciò con cautela, “perché non mi dici cosa è successo in palestra?”
Il ragazzo trattenne il respiro, i muscoli tornarono rigidi e il suo volto impallidì all’improvviso. Max, per un attimo, ebbe addirittura l’impressione di percepire il suo battito cardiaco accelerare.
“Io… io…”
“Non cercare di spiegarmelo in maniera razionale, Kevin. Qualsiasi cosa mi dirai, io ci crederò.” Smise di occuparsi della ferita per guardarlo in viso. I suoi occhi non la lasciarono un attimo. Le iridi del ragazzo, sebbene fossero fisse in quelle di Max, saettavano a destra e a sinistra. Kevin era combattuto, Max lo percepiva. Una parte di lui voleva dirle la verità, l’altra parte aveva paura che lei lo prendesse per pazzo e lo deridesse.
Decise di fare lei il primo passo: “So che era un fantasma.”
Il ragazzo sgranò gli occhi e fece per mettersi seduto, ma il dolore al fianco glielo impedì, così tornò nella stessa posizione di poco prima e fissò Max come se fosse una turbata mentale.
“Queste cose non esistono, Max.”
“Non esistono finché non ti aggrediscono in palestra e ti tagliano un fianco.”
Non si fece intimidire da quella recita. Sapeva benissimo che la prima fase che attraversano le vittime è la negazione. Negano che esista qualcosa che razionalmente non riescono a comprendere. Negano che una favoletta usata per spaventarli da bambini esista davvero e li abbia terrorizzati da adulti.
“Io….” Kevin fece una lunghissima pausa. Guardava in basso, incapace di incrociare la figura di Max. La ragazza ebbe la sensazione che non avrebbe parlato subito, così si voltò verso Zoe. Fece un cenno con la testa all’amica, chiedendole silenziosamente di avvicinarsi. Zoe, che in un primo momento non aveva capito quali fossero le intenzioni dell’amica, si avvicinò al ragazzo e afferrandogli la mano, disse: “L’ho visto anche io, Kevin.”
Kevin alzò di scatto lo sguardo, come se fosse stato colpito da una secchiata d’acqua gelida.
“L’hai visto?”
Zoe annuì, “Era…” un lampo di orrore attraversò gli occhi della ragazza, “…era spaventoso.”
“Come vedi queste cose esistono, Kevin,” continuò Max, “adesso ti va di dirmi cosa è successo?”
Kevin annuì, fece un grosso sospiro e cominciò a raccontare. I ragazzi, rimasti in disparte fino a quel momento, si avvicinarono. Quella storia aveva dell’assurdo, ma dovevano sapere. La curiosità prevalse su qualsiasi altra emozione.


Kevin raccontava la sua esperienza e tutti i presenti lo stavano a sentire. Erano incuriositi da qualcosa che scientificamente non esiste, ma che empiricamente era avvenuto. Erano stati testimoni di qualcosa che viene raccontato solo nei film horror. Le case infestate non esistono per davvero, giusto? Sono solo fantasie, servono solo per riempire le trame dei film da guardare ad Halloween, seduti al buio con gli amici con un cuscino a portata di mano da sollevare davanti agli occhi nel momento opportuno, il momento in cui il fantasma esce dal buio, riempie lo schermo con la sua faccia inquietante e ti fa schizzare fuori il cuore dal petto per lo spavento. L’adrenalina, poi, fa si che quella strana sensazione di euforia mista a terrore scorra ancora un po’ nelle vene, rallentando piano piano il battito cardiaco fino a farlo tornare regolare. Ma per il resto, rimane tutto solo ed esclusivamente una fantasia.
Giusto?
A quanto pare no.
A quanto pare, Max parlava di queste cose come avrebbe potuto parlare di animali, o di qualsiasi altra cosa estremamente, fottutamente reale. A quanto pare, non ne era terrorizzata come il resto di loro perché erano cose che masticava da… quando? Tutti se lo stavano chiedendo. Lo pensavano tutti e quattro, mentre la osservavano ascoltare Kevin con lo sguardo attento e concentrato.
“Quello in palestra non era una fantasma a caso, era quello del signor Rufus Kray, il fondatore di questa scuola.” Kevin fece una pausa, deglutì, bianco in volto e sudato in fronte. Max gli stava ricucendo la ferita con delicatezza.
Benjamin si trovò a pensare a quante volte l’avesse fatto, quanti fossero stati i ragazzini ricuciti da lei mentre ascoltava la storia di come si erano feriti.
Quante volte le sue mani esperte si saranno mosse delicate e decise su una ferita come quella?
Chi era Max? Perché tutto ad un tratto gli sembrava di non conoscerla più? Per quale motivo sapeva queste cose?
Al ragazzo vorticavano in testa moltissime domande, ma si rese conto che non aveva il coraggio di pronunciarne nessuna. Temeva che fare una di quelle domande sarebbe stato come lanciare un sasso contro ad uno specchio: avrebbe frantumato il riflesso di ciò che pensava lui e Max fossero e avrebbe mostrato ciò che davvero erano, o almeno ciò che lei era. L’aveva preso in giro, forse? No, questo non vuole crederlo. Anche se la sua migliore amica non gli aveva mai mostrato questo lato di se, non stava a significare che quello che conosceva lui fosse una farsa. Se lo sentiva nel cuore. Lo leggeva in ogni sguardo che lei gli lanciava che ciò che avevano era genuino, reale. E allora perché aveva paura di fare domande? Se era così sicuro che il loro rapporto fosse solido perché non la prendeva da parte e le faceva anche solo una delle domande che si stava ponendo?
“..Il preside Chapman mi ha incaricato di fare un discorso alla fine del secondo semestre perché quest’anno ricorrerebbe il centesimo compleanno del signor Kray e voleva che venisse ricordato.”
“Sei sicuro sia lui?” domandò Max, gli occhi fissi sulla ferita, l’espressione concentrata, la mano estremamente ferma a richiudere l’ultimo lembo di pelle rimasto aperto. Ben si trovò a guardare quella cucitura – che con ogni probabilità sarebbe diventata una cicatrice – grossa come il morso di uno squalo. Max era stata precisissima. La linea non aveva difetti, non quelli che avrebbe dovuto avere se l’operazione fosse stata fatta da una diciassettenne qualsiasi che usa ago e filo per cucire qualcuno (non qualcosa, proprio qualcuno) per la prima volta, ma Max non era una diciassettenne qualsiasi e quella non era la sua prima volta: lei sapeva mettere i punti e parlava di fantasmi con la semplicità e la naturalezza con cui lui, JJ e Aaron parlavano di sport, musica o videogames.
“Sì, sono sicuro. L’ho visto in viso prima che mi colpisse e… era come nella foto.”
“Una foto… raccontami altro, Kevin.” Max gli sistemò una garza sterile sui punti e la attaccò con garbo, facendo attenzione a non compromettere i punti freschi, poi aiutò Kevin a mettersi seduto, “Va meglio?” domandò, uscendo momentaneamente dal discorso.
Kevin annuì: “Grazie, tira un po’, ma va meglio.”
“Perfetto… Allora, stavi dicendo?”
“Giusto… Chapman mi ha dato una serie di documenti per informarmi di più su Kray. Ho letto varie cose, dove è nato, il suo percorso formativo e poi l’idea di costruire una scuola… era un tipo piuttosto tranquillo.”
Max si fece pensierosa, Ben lo notò. Ogni volta che rifletteva su qualcosa aggrottava la fronte e si mordeva l’interno della guancia.
“Hai letto tutto quello che ti ha dato Chapman?”
“No, mi manca ancora qualche foglio.”
“E dove tieni tutta questa documentazione?”
“Nel mio armadietto.”
“Potrei leggerla?”
“Certo.”
“Bene, andiamo!”
Max si avvicinò alla porta, ma prima di mettere la mano sulla maniglia, si voltò verso i suoi amici, che continuavano a fissarla senza proferire parola da quando ormai avevano capito che tutta questa faccenda del fantasma per lei era abituale, se non addirittura normale.
“Ragazzi,” sospirò sentendo di nuovo l’angoscia pesarle sul cuore. Aveva il terrore di perderli e temeva che dopo quella sera i suoi timori si sarebbero tramutati in realtà.
“Vi spiegherò tutto, lo prometto. Ma adesso… adesso devo fare questa cosa, capite?”


Camminavano per il corridoio. Max era in testa, i ragazzi erano dietro di lei. Guardava il corridoio della scuola con una prospettiva diversa, adesso. Lo studiava come un campo di battaglia, come le aveva insegnato papà.
Devi partire dal luogo, innanzitutto. Studialo, leggilo, sentilo. Sarà la tua capacità di fare tuo questo meccanismo a decidere se vivrai o morirai. Pensaci: se conosci bene un posto, conosci anche le sue vie di fuga.
Lei conosceva bene il luogo. Dove si trovavano adesso, appena fuori dall’infermeria, si potevano contare almeno due uscite: quella infondo al corridoio, verso sinistra, che altro non era che l’uscita di emergenza in caso di incendi e, passando per la palestra, che si trovava alla loro destra, si poteva uscire dalla porta con i maniglioni anti-panico che si trovava vicino agli spalti.
Questo primo passo la tranquillizzava un po’, anche se sentiva ancora il cuore nelle orecchie. Non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma era tesa, spaventata; sentiva il suo corpo costantemente in allerta, pronto a scattare al minimo movimento. Questo non era un bene, papà lo diceva sempre.
Devi mantenere la calma. Farsi sopraffare dall’ansia potrebbe portarti a compiere azioni di cui ti potresti pentire. Come uccidere un tuo alleato che sbuca fuori da un angolo, ad esempio.
Inspirò.
Espirò.
Mantenere la calma.
Sembrava tutto tranquillo, per ora. La musica in palestra aveva cominciato a suonare di nuovo, Max riusciva a percepire i bassi ovattati che facevano tremare un poco il pavimento sotto ai loro piedi. Nessuno era ancora venuto a cercarli, o ad assicurarsi che Kevin stesse bene. Probabilmente, pensò, Chapman aveva impedito a chiunque di intervenire per evitare che venisse coinvolto in qualcosa di grave. Se Kevin fosse morto e uno degli insegnanti fosse uscito dalla palestra, sarebbe stato responsabile del suo decesso allo stesso modo in cui lo sarebbe stata lei. E Lex Chapman non avrebbe mai permesso che uno dei suoi docenti venisse accostato a parole come decesso, omicidio, inettitudine sul posto di lavoro. Chapman era un uomo incredibilmente freddo e distaccato e a Max non piaceva granché. Anzi, poteva tranquillamente dire che non le piaceva per niente.
Cercò di rilassarsi, ma quando una mano le strinse il gomito, istintivamente, scattò e per un pelo non colpì Benjamin in pieno viso con un pugno.
Bell’autocontrollo dell’emozioni, pensò tra se.
“Vacci piano, tigre.” Non c’era voglia di scherzare nella sua voce (come avrebbe potuto, dopotutto?) e la vena di sarcasmo pungente che riempiva quella frase le fece gelare il sangue.
“Pensavi di dirmelo, un giorno?” era freddo come una lastra di ghiaccio. Percepiva in lui una sorta di affilato risentimento, come se vivesse tutta questa situazione come un tradimento e quel sentimento gli trasudasse da ogni poro della pelle.
“Cosa, che i mostri esistono? Non mi avresti creduto, Benji.”
Lui strizzò leggermente gli occhi, assottigliando lo sguardo. Era stupito, ferito. Continuava a guardarla come se vedesse un’altra persona, qualcuno che non conosceva. Qualcuno che voleva ferirlo. E, in effetti, fu proprio che quelle parole fecero: lo ferirono. Si sentì vacillare la terra sotto ai piedi. Tutta la stabilità che credeva di avere con Max, a quanto pare, non era corrisposta.
“Come puoi pensare una cosa del genere? Io mi sono sempre fidato di te!!”
“Questo è diverso, Ben.”
“No, Max, è uguale.” Sbottò lui, non riuscendo più a controllare la tonalità discreta della voce. James, Aaron e Zoe, dietro di loro, rimasero in silenzio a fissarli. Era strano vederli su due fronti diversi, per non dire opposti, ma questa volta capirono quanto fosse necessario: c’erano cose non dette che era arrivato il momento di tirare fuori.
Kevin, invece, sentendosi come un estraneo che capita in una lite di famiglia, abbassò gli occhi, guardandosi i piedi per mascherare l’imbarazzo.
Max divenne rossa in viso, bollendo di rabbia: “No che non lo è, Benjamin!!” sputò, iraconda. “Lo pensi adesso perché hai visto con i tuoi occhi qualcosa di strano. Ma se ti avessi detto che esistono creature che abitano nel buio, i mostri, i demoni, mi avresti guardato come una pazza. Avresti pensato che fossi pazza. Perché l’uomo nero non esiste, vero Benji??” si era avvicinata a lui quel che bastava affinché il ragazzo percepisse il suo respiro, accelerato dalla sfuriata, su di se. Le iridi di Max saettavano fuori controllo a destra e a sinistra, nonostante il loro unico bersaglio fosse Ben. Non aveva mai visto quella parte di Max, combattiva, autoritaria. 
“No, Max, non esiste.” Si sentiva così piccolo, adesso. La vedeva grande e imponente, sapendo benissimo che aveva ragione. Razionalmente sono cose a cui nessuno crede. Sì, nella Bibbia si parla del Diavolo e della sua caduta agli Inferi. Nel suo Paradiso Perduto, John Milton descrisse quella stessa caduta, descrivendo Lucifero come l’angelo che preferì regnare all’Inferno piuttosto che servire in Paradiso, ma nessuno ha mai creduto che cose del genere servissero ad altro se non a creare metafore. I demoni non sono mai demoni veri, sono solo quella parte di noi stessi che teniamo sotto ad una teca di vetro seppellita nel nostro io più recondito: solo noi possiamo vederla, solo noi sappiamo cosa ci abbiamo rinchiuso dentro, ma agli altri non la mostriamo mai. Quelli sono i demoni che conosce Ben. Quelli di Max, invece, reali come può esserlo il sole, sono cose a cui, logicamente e razionalmente, non avrebbe mai creduto.
“Quello che ho fatto,” sussurrò più calma adesso, “l’ho fatto per proteggere te.” Portò gli occhi sui suoi amici, “Per proteggere voi. E la faccenda è molto più complicata di così.”
Ben avrebbe voluto chiedere cosa ci fosse più complicato di un mondo in cui esistono i mostri, ma un rumore lo distrasse dalle sue intenzioni.
Avvenne come nei film: un rumore secco di catene cigolanti che venivano strisciate a terra, collidendo e stridendo contro il pavimento. Max trovò la cosa piuttosto ironica e nel momento esatto in cui guardò oltre le sue spalle, Benjamin si voltò di trecentosessanta gradi, così come fecero tutti i presenti. Dietro di loro, a metà del corridoio, fluttuava un fantasma.
“È lui,” sussurrò Kevin. La sua voce fu percepita appena, rauca e strozzata dalla paura. Max superò Ben – i suoi passi echeggiarono precisi e distinti come le lancette di un orologio sulle piastrelle grigio scuro del corridoio e si mischiarono  con i suoi emessi dalla creatura – e si mise tra i suoi amici e il fantasma, come a fare loro da scudo. Fu un gesto istintivo, frutto dell’apprendimento teorico di tutti gli anni passati ad imparare a come gestire una possibile situazione simile. Relegò la paura in un angolo della sua mente e si comportò come la prassi imponeva: mettersi tra le possibili vittime e il carnefice. Difendere coloro che non sapevano farlo da soli.
Continuò ad avanzare, mentre Rufus Kray – o quel che rimaneva di quello che un tempo era stato l’uomo che rispondeva a quel nome – la fissava. Una serie di voci si alzò all’improvviso. I ragazzi cominciarono ad urlare delle frasi alle sue spalle, le loro voci si accavallavano in una supplica angosciata e terrorizzata. Preoccupati com’erano per la sua incolumità, nessuno si domandò se parlare tutti insieme sarebbe stato producente, visto che Max capiva a malapena cosa stesse uscendo dalle loro bocche. Solo Aaron riuscì ad essere il più chiaro, urlando più degli altri. La sua voce acuta, quasi isterica, le risuonò nelle orecchie.
“Max, non devi dimostrare niente a nessuno!”
La ragazza trovò quasi profetico che fosse stato lui a dirlo. Aaron, che aveva dovuto dimostrare di essere in grado di poter entrare in una squadra professionista, cercando di aumentare la sua media scolastica; Aaron Walsh, che aveva perso fiducia in se stesso, ma le cui capacità, talento e imparagonabile bravura erano latenti in lui, pronte ad essere tirate fuori. E Dio, quando aveva dimostrato non solo ai consulenti scolastici, ma anche – e soprattutto – a se stesso quanto valesse, riuscendo a raggiungere la media richiesta nel minor tempo possibile, fu come assistere alla nascita di una stella, l’entusiasmo e la fiducia scorrevano in lui come un’onda gonfia e galoppante, imperiosa ed inarrestabile. Fu come assistere ad un’esplosione di colore e forza, come quando un fiore sboccia impetuoso e irruento dopo mille inverni passati a combattere per non morire congelato. Aaron, sebbene avesse il supporto di tutti i suoi amici, aveva la necessità di dimostrare il suo valore a se stesso. Allo stesso modo, in questo momento, Max sentiva il bisogno di dimostrare a se stessa che era in grado di gestire questa parte della sua vita, che il suo coraggio sarebbe stato più forte, solido, di tutte le sue paure messe insieme. Perciò proseguì. Camminò in avanti, con il naso dritto e lo sguardo puntato sulla creatura che fluttuava in aria e che non le aveva tolto gli occhi di dosso, come un predatore che attende paziente l’arrivo della sua preda.
Quando Max fu abbastanza vicina, riuscì a mettere a fuoco i particolari di Rufus: la testa, da cui mancavano importanti ciocche di capelli – lasciando così scoperta la cute escoriata –, aveva punti in cui, invece, dei capelli erano rimasti e ricadevano sulle sue spalle come alghe morte e bagnate lasciate marcire sulla sabbia. Il suo corpo, alto e imponente, era coperto da vestiti lacerati, dalle cui fessure si poteva notare la carne in putrefazione, consumata così in profondità da far intravedere le ossa. I suoi occhi, colmi di una fredda e vitrea malvagità, erano incavati nel viso privo di carne. Ormai, solo la pelle di un grigio verdastro faceva si che Max non stesse guardando un teschio. Rufus emise un suono, come il respiro mozzato di qualcuno a cui manca ossigeno, un sibilo soffocato, un fischio rauco e regolare. La ragazza sentì un brivido percorrerle la schiena, sintomo che quella paura che aveva accantonato stava tornando in superficie, ma decise di non darci peso. Non fino a quando, almeno, il fantasma, con uno scatto fulmineo, le afferrò la gola e la spinse, sollevandola da terra, contro gli armadietti. Sentì i suoi amici emettere un grido pungente di terrore. Max pregò che stessero fermi e che non le corressero in contro e, per grazia divina, così fecero. La ragazza sentiva il cuore martellarle in petto con così tanta forza che temeva sarebbe stata trapassata dal suo stesso organo. I suoi buoni propositi di tenere a bada la sua paura, le sue emozioni, e di dimostrare solo coraggio, andarono in fumo non appena il fantasma strinse entrambe le mani sul suo collo, che sembrava fragile come un grissino sotto a quella presa ferrea e incredibilmente salda. Il terrore, a questo punto, si fece strada in lei strisciando come un viscido, subdolo serpente velenoso, facendola sentire un completo fallimento. La peggiore delle cacciatrici, la più irresponsabile, la più infantile. Cosa avrebbe dimostrato morendo e facendo uccidere i suoi amici? Un bel niente. Forse suo padre aveva ragione, lei doveva stare fuori dall’attività di famiglia: non era ancora pronta per gestire certe situazioni. Sentì che le lacrime silenziose, che le scendevano dagli occhi calde e copiose, andavano a formare dei solchi sulle sue guance. Pensava che sarebbe morta in quel modo, con le mani fredde, viscide e pustolose di un fantasma strette al collo, con i pollici dell’essere che le premevano sulla gola e il resto delle dita che abbracciava l’inizio della sua colonna vertebrale. Era una fine piuttosto misera, soprattutto considerando il fatto che era dettata dalla stupidità dell’orgoglio testardo di una ragazzina sciocca ed inesperta.
“Dov’è?” gracchiò Rufus, stringendo la presa.
“Dov’è, cosa?” esalò Max, la voce ridotta ad un debole rantolo.
“Lo sai!!” si spazientì il fantasma, avvicinandosi ancora di più e tenendo salda la presa. “Devi darmi quel che è mio, cacciatrice. Dammelo!”
Max non sapeva di cosa stesse parlando, non ne aveva proprio idea. Ma quella strana conversazione, che l’aveva distratta dai suoi pensieri di tragica autocommiserazione, la fece tornare lucida. Sebbene Rufus le faceva provare ribrezzo e disgusto, la paura, adesso, sembrava stesse sciamando. Si ricordò di ogni precauzione che suo padre le aveva fatto prendere da quando era venuta a conoscenza del mondo oscuro e sollevò la mano sinistra per stringere uno dei polsi della creatura. Rufus, sentendosi ardere, portò la sua attenzione sul punto leso e vide la sua pelle sfrigolare.
L’anello di ferro mischiato all’argento che Max portava all’indice stava svolgendo il suo compito alla perfezione: Rufus si dissolse nell’aria in una nuvola di polvere nera e grigia, lanciando un urlo stridulo che assomigliava a quello di un rapace ferito, e squarciò l’aria con la stessa violenza con cui una lama affilata potrebbe squarciare un dipinto su tela.  
Max cadde a terra come un peso morto. La schiena appoggiata agli armadietti, il sudore che le inzuppava ogni centimetro del suo corpo, la gola e la trachea doloranti, ma dalle quali finalmente passava di nuovo aria. Il respiro si stava regolarizzando di nuovo, così come il battito del suo cuore. Si voltò verso i suoi amici, che erano rimasti immobili, come se fossero stati pietrificati.
“Tornerà,” ansimò, “dobbiamo muoverci.” 



---------------------
Ciao a tutti! (: 
Come sempre vorrei ringraziare chiunque legga e abbia messo la storia tra i seguiti/preferiti. 
Vorrei ringraziare anche 
vali_  che trova sempre un momento per recensire le mie storie, lo apprezzo moltissimo! <3 
Questo capitolo è diverso dai precedenti e rientra più nell'ottica della serie, si abbandona, infatti, la normale quotidianità di Max per entrare in quella parte della sua esistenza legata al family business, aspetto che verrà appronfondito nei capitoli successivi: volevo farlo in questo, ma ho notato che il capitolo sarebbe stato troppo lungo e si sarebbe creata sproporzione con i precedenti. Spero comunque che vi sia piaciuto e che troviate la storia di vostro gradimento!
Alla prossima :D 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** 4. ***


Quelle parole smossero il gruppetto rimasto immobile fino a quel momento. Zoe si liberò dalla presa di Aaron che l’aveva stretta a se nell’esatto momento in cui Max era stata afferrata per il collo e aveva capito che le intenzioni della ragazza erano andare in soccorso dell’amica. Si fece strada tra il gruppo e le corse in contro. Max vedeva la sua figura diventare sempre più grande, sentiva le suole delle sue converse nere stridere contro le piastrelle del pavimento; i suoi lunghi capelli, legati in spesse treccine, ondulavano come se stessero galleggiando in acqua. Zoe si inginocchiò al suo fianco.
“Sei pazza, Winchester!” la strinse a se in un abbraccio ferreo e disperato. Max sentiva il suo profumo fresco entrarle nelle narici e immediatamente si rilassò. Nell’esatto momento in cui si sentì al sicuro, tra le braccia dell’amica, cominciò a tremare, come se stesse espellendo tutta l’adrenalina accumulata nel giro di pochi attimi. Si stupì nel constatare quanto fosse doloroso quel processo.
“Tornerà.”
“Ti stava per uccidere!” la sgridò Zoe, sull’orlo di una crisi di pianto, mentre continuava a stringerla a se. “Non farmi mai più una cosa del genere, intesi??”
Max sciolse l’abbraccio per guardare gli occhi scuri dell’amica, erano di un castano intenso, come il cioccolato fondente: “Ci proverò.”
A Zoe tremavano la voce e le labbra. Max non sapeva se era per lo spavento che aveva provato o se fosse per quella punta di rabbia che aveva manifestato nei suoi confronti. Erano entrambi sentimenti giustificati, compresa la rabbia. Max era stata un’incosciente. Se suo padre fosse stato lì, l’avrebbe rimproverata nello stesso modo, se non peggio. E probabilmente le avrebbe impedito per sempre di avere a che fare con quel mondo, allenamenti e trattamenti curativi compresi. Se ci fosse stato zio Sam, invece, dopo averle fatto una bella ramanzina, le avrebbe spiegato come migliorarsi. Perché papà era emotivo e si faceva sempre sopraffare dal suo istinto. Zio Sam, invece, aveva la capacità di rinchiudere le sue emozioni in una scatolina che riusciva a mettere da parte e comportarsi nella maniera più razionale possibile. Lei, ovviamente, era come suo padre.
“Aaron mi ha bloccata,” confessò Zoe con un po’ più di calma, adesso, “altrimenti sarei intervenuta prima.”
Max si immaginò il ragazzo inglobare Zoe tra le sue braccia e imporre la sua forza su di lei, intrappolandola contro il suo petto. Ovviamente, pensò Max, con la sua fisicità imponente e le braccia muscolose, non doveva aver trovato nessun difficoltà a tenere Zoe lontana da quella situazione.
“Devo ringraziare Aaron di avere avuto un po’ di sale in zucca, allora.”
“Avrebbe dovuto lasciarmi andare.”
“Così adesso saremmo in due ad aver rischiato la morte.”
“Ma tu…”
“Niente ma, Zoe. Non mi perdonerei mai se vi succedesse qualcosa per colpa mia,” e della mia impulsiva stupidità aggiunse mentalmente, ma non lo disse ad alta voce.
Le due rimasero qualche secondo a guardarsi, come se volessero percepirsi, come a dirsi siamo ancora vive, siamo ancora insieme e poi si alzarono. Max vacillò, sentendo la testa girare e Zoe l’afferrò al volo circondandola con un braccio. In una volata, Benjamin le raggiunse. Zoe si fece da parte dell’esatto momento in cui il ragazzo strinse Max a se. La giovane Winchester sentì un braccio intorno alla schiena che la tratteneva con forza, mentre l’altra mano era sulla sua nuca, le dita artigliate tra i capelli. Era una stretta bisognosa, come se Ben avesse voluto fondere i loro corpi. Sentiva il suo respiro affannoso sul collo, i capelli lunghi del ragazzo che le solleticavano le guance. Max percepiva la fisicità di Ben su di se, le braccia robuste, forgiate da anni passati a picchiare sulla batteria, il petto saldo, in cui adesso batteva un cuore impazzito, e nel quale l’aveva rinchiusa, come a volerla proteggere, come ad impedirle di allontanarsi da lui anche solo di un centimetro; quell’odore strano, diverso, un misto tra il solito profumo che aveva la pelle di Ben e quello aspro del sudore. Lo strinse anche lei, bisognosa di sentirlo contro di se. Necessitava di percepire il suo corpo caldo contro il suo, voleva sentirlo reale, vero, vivo.
Ben rimase in silenzio. Il ragazzo percepiva il corpicino di Max contro di se, delicato, ma non per questo fragile. Sentiva sotto i polpastrelli, in cui il proprio cuore pulsava dandogli la sensazione di tanti piccoli pizzicotti, i capelli umidi di lei, il calore che emanava il suo collo e fu grato a qualsiasi entità vivesse in cielo di averla ancora con se, di poterla stringere ancora tra le sue braccia e sentire il suo respiro che gli provocava un’ondata di brividi sulla pelle. Si sentì un idiota ad aver pensato che ciò che li legava fosse una menzogna, o una contorsione della realtà fatta da se stesso. Si vergognò come avrebbe potuto fare se avesse camminato per strada nudo in pieno inverno: come poteva aver veramente dubitato di ciò che lo legava alla ragazza che stava trattenendo a se? Come poteva aver dubitato di colei che completava il suo essere ed era diventata il fulcro centrale della sua intera esistenza?
“Sei ancora qui.” Sussurrò così debolmente che nonostante la sua bocca fosse vicina all’orecchio della ragazza, Max fece comunque fatica a sentirlo. Ebbe l’impressione che quella frase fosse più che altro un pensiero che non era riuscito a trattenere ed era uscito dalla sua bocca senza che lui effettivamente volesse.
“Non sapevo che fare,” non la lasciò, il suo viso era ancora nascosto nell’incavo del collo di Max, “eri lì, stavi rischiando la morte e io non sapevo che fare.”
Ben si stava… incolpando. Max sentiva una disperata rabbia nella sua voce, rabbia rivolta solo a se stesso.
“Non è colpa tua. Non potevi farci niente, Benji.” Sciolse la stretta per guardarlo in viso. Le sue mani andarono a chiudersi a coppa sulle sue guance, “Non potevi farci niente.” Ripeté, facendo scorrere i pollici sulla sua pelle, una delicata carezza che provocò al ragazzo un piacevole, leggero brivido.
“Mi hai spaventato a morte, Maxie.”
“Ben, mi dispiace se io…”
Lui la interruppe: “Non dispiacerti di niente. Avevi ragione. Lo stupido sono io.”
“Quello nessuno l’ha mai messo in dubbio,” disse JJ. Lui, Aaron e Zoe si erano avvicinati a loro, raggiungendoli. L’unico che rimase in disparte fu Kevin, che ancora si sentiva pervadere da quella sensazione di estraneità che provava nei loro confronti. Era grato di ciò che stavano facendo per lui, ma non voleva intromettersi tra di loro, in quel legame che li univa e si mostrava sacro anche agli occhi di qualcuno che, come lui, li conosceva poco.
Max sorrise all’amico. Vide il suo volto cereo e gli occhi cerchiati, come se il terrore glieli avesse marchiati a caldo. Lo vide protendersi verso di lei e abbracciarla. La strinse forte, così tanto che a Max mancò il respiro.
“Ci hai spaventati a morte tutti, Max. Non fare mai più una cosa del genere!”
“Mai,” ripeté Aaron per calcare il concetto. “Come hai fatto a scacciarlo?” le domandò poi.
La giovane alzò la mano sinistra mostrando l’anello. “È fatto di ferro e argento. Serve in situazioni di emergenza come queste: il ferro allontana i fantasmi, l’argento, invece, è dannoso su molte creature.”
I presenti studiavano quel piccolo oggetto che avevano sempre avuto sotto il naso con una prospettiva diversa. Il fatto che fosse così scuro, adesso, aveva tutto un altro significato. Se prima pensavano fosse un gusto di Max, adesso capivano che in realtà era una necessità. Improvvisamente sentirono dentro di loro qualcosa di diverso, come se avessero sviluppato una seconda vista che gli permettesse di vedere cose che c’erano sempre state, ma a cui prima non prestavano l’attenzione adeguata.  
“Max, cosa voleva da te quel mostro?” domandò cauto JJ.
“Non lo so. Ha detto che ho qualcosa di suo, ma non so a cosa possa riferirsi.”
“Ha detto la stessa cosa a me,” confessò Kevin, rimasto in disparte dietro di loro.
“Dobbiamo leggere quella documentazione,” affermò Max, “e viste le circostanze, passare un attimo dal mio armadietto.”

I passi del gruppetto risuonavano regolari nel corridoio. Dopo aver recuperato tutte le carte che Kevin aveva con se, si erano diretti all’armadietto di Max. Non appena lo raggiunsero, la ragazza compose la combinazione e, dopo aver sentito scattare la serratura, lo aprì. I ragazzi la guardarono infilare tutto il braccio dentro a quella scatola rettangolare di metallo e trafficare con qualcosa che sembrava una seconda serratura proprio in fondo, dove il metallo si appoggiava al muro.
“Che stai facendo, Max?” le domandò Zoe, sbirciando alle sue spalle.
Max, con la lingua stretta tra le labbra e la fronte aggrottata, rispose: “C’è una seconda parete, nel mio armadietto. L’ho modificato al primo anno, durante le vacanze di Natale..”
“Ma la scuola è chiusa!” la interruppe Kevin, quasi scioccato. Non tanto dal fatto che qualcuno fosse andato a scuola durante le vacanze natalizie, quanto dal fatto che aveva capito come Max fosse entrata. Per un tipo intuitivo come lui, rendersi conto che aveva forzato la porta non fu tanto difficile.
Max gli rivolse un sorrisetto furbo, che celava un pizzico di orgogliosa malizia. Ben notò in quell’espressione una somiglianza con suo padre.
“So entrare in un sacco di posti.” Disse, aprendo lo sportellino del suo fondo, “Non che abbia mai usato questa capacità per fare niente di illegale.”
“Entrare in una scuola pubblica nei periodi di chiusura e modificare un armadietto che appartiene allo Stato è illegale, Max.” le fece notare JJ. “E lo è ancora di più se ci tieni una pistola!” continuò il rosso, gli occhi sgranati e la voce che tradiva la sua ansia.
Max chiuse lo sportello secondario e poi anche quello principale. Le due serrature scattarono una dietro l’altra come un perfetto meccanismo di protezione che adempie fedele al suo compito. Poi, leggendo una più che normale titubanza negli occhi dei presenti (James era quasi verde in faccia) si affrettò a spiegare: “Me l’ha data mio zio Bobby. Per le emergenze. Non è carica e le pallottole,” mostrò dei bossoli che teneva sul palmo aperto della mano, “sono piene di polvere d’argento.”
Il gruppo di avvicinò ancora di più. Guardarono incuriositi l’arma che Max mostrava: piccola, ma dall’aria così letale. Il manico era di un lucente bianco perla su cui erano incisi dei simboli dal significato sconosciuto. La canna, invece, era di un metallo più scuro e opaco.
“Non l’ho mai usata. Se fosse stato per me non l’avrei nemmeno portata qui, sapete che non sono permesse armi a scuola, ma Bobby ha tanto insistito. Diceva che se avessi modificato il mio armadietto, nessuno se ne sarebbe accorto e avrebbe fatto sentire più sereno il mio vecchio.” Max pronunciò l’ultima parola con l’intenzione di far capire che era una citazione. Bobby, infatti, si era espresso proprio in quel modo. Lei non lo chiamava mai vecchio perché non le piaceva. Ricordava quel momento come se non fosse passato nemmeno un giorno.
Si rivide in piedi nella sua stanza mentre sistemava i libri dentro lo zaino. Ricordò la sensazione sgradevole della lana del maglione a collo alto che indossava e che le faceva prudere la pelle, Bobby che bussò discreto alla sua porta e che entrò a passi silenziosi. I passi controllati e leggeri di un cacciatore.
«Ti prepari per l’ultimo giorno?» aveva detto.
Max, chiudendo la cerniera dello zaino aveva annuito: «Non è un vero ultimo giorno, però.»
Bobby soffocò una risata: «All’estate manca ancora molto, eh?»
«Sì.» E Max ricordò di aver pensato che non vedeva l’ora arrivasse, l’estate, almeno avrebbe potuto smettere di sentire il freddo entrarle nelle ossa, come se volesse mangiargliele con i suoi denti aguzzi e affilati, chiudere i maglioni pungenti in un angolo dell’armadio e cominciare a sentire il sole caldo di luglio che faceva bollire il sangue dentro le vene.
«Tua madre amava l’estate,» sussurrò Bobby, come se non volesse farsi sentire. E in un certo senso era così: nessuno parlava mai di sua madre perché sapevano che Dean ne soffriva e, di conseguenza, quando capitava che il vecchio cacciatore dicesse cose come quella, lo faceva piano, per non farsi sentire dal maggiore dei Winchester, evitandogli in questo modo una sofferenza. Ma sicuramente diceva quelle cose per far conoscere a Max un pezzetto di sua mamma. «Questo devi averlo preso da lei.»
La giovane ricordò benissimo che, dopo quella frase, avrebbe voluto chiedergli com’era mamma? ma non ne ebbe il tempo perché Bobby si avvicinò cautamente a lei e sfilò da sotto la camicia un piccolo astuccio di pelle nera consumata. Glielo porse e Max lo aprì d’istinto. La sua prima reazione fu un sospiro sorpreso, seguito da un’espressione confusa.
«Vorrei la tenessi,» spiegò Bobby non appena incrociò i suoi occhi, che cercavano una spiegazione a quel gesto. «Conosco bene la politica di tuo padre, ma difenderti senza armi è impossibile, tesoro mio. Ho pensato che potresti portarla a scuola, dato che è il posto che frequenti più spesso ed è privo dell’adeguata protezione, a differenza di questa casa.»
Max provò a protestare, ma Bobby la interruppe ancora prima che riuscisse a farlo.
«So che non si possono portare armi nelle scuole. Ma se la nasconderai, nessuno scoprirà che ne hai una in tuo possesso.» Fece una pausa, guardandola con un’apprensione che assomigliava tanto alla paura, paura che potesse accaderle qualcosa e lui non fosse lì a proteggerla (perché Dean non era l’unico a volerla sapere al sicuro), «Fai stare tranquillo il tuo vecchio, bambina.»
Max si trovò a dirgli di si, non riuscendo in alcun modo a contraddire una proposta del genere. Bobby non era un tipo che si spaventava facilmente, anzi lui non si spaventava mai, e vederlo in quelle condizioni le faceva pesare il cuore. E dal momento che l’ultima cosa che voleva era farlo stare in pensiero, accettò la sua proposta.
«Non devi dire niente a tuo padre, però.»
Con riluttanza – visto che odiava mentire a suo padre – trovò ad accettare anche quella condizione.
Max fissava l’arma come i suoi amici, sentendo ancora l’eco della voce di Bobby nelle orecchie. Solo una mano su una spalla la portò alla realtà: Benji la stava guardando con aria preoccupata.
“Stai bene?”
“Sì, stavo solo….”
“…Pensando,” concluse lui. “Ultimamente lo fai spesso.” Un sorriso fulmineo guizzò sul suo volto mentre lei gli lanciava un’occhiata complice. Gli si accostò, appoggiando la testa contro il suo petto. Benji le passò un braccio dietro la schiena. Per quanto Max si sentisse in dovere di agire, per quanto le fosse stato insegnato ad essere forte, a reagire, per quanto il suo stesso carattere prediligesse l’indipendenza e la capacità di stare in piedi da sola e con le sue uniche forze, avere il sostegno di Benjamin in un momento simile, un momento di confusione e smarrimento, non le faceva altro che bene.
“Ci sono un sacco di cose che ho in testa.” Confessò.
“Tipo un fantasma assassino che vuole qualcosa che non sappiamo cosa sia?” Aaron parlò con un sarcasmo che di solito apparteneva a James. Evidentemente, passando così tanto tempo insieme, era una caratteristica che aveva acquisito. Max si trovò a pensare che non gli stava affatto male, gli era estraneo, ma non per questo non si fissava bene sulla sua persona. Se avesse dovuto paragonare quella sensazione ad una già vissuta, avrebbe pensato a quella volta in cui Benji gli aveva prestato una camicia di flanella verde e blu: gli stava bene, ma usciva completamente dallo stile di Aaron, che era più il tipo da t-shirt e felpe con il cappuccio. T-shirt che quella volta si era zuppata di gassosa ed era ridotta ad uno straccio appiccicoso e dall’odore dolciastro.
“Tipo quello,” fece eco Max. “Dobbiamo raggiungere la mensa: lì prenderò del sale da mettere nelle pallottole e studieremo il caso.” Il suo linguaggio tecnico uscì senza che lei se ne accorgesse. Non aveva mai partecipato alla caccia, ma aveva partecipato all’organizzazione con Bobby. Molte volte, infatti, mentre suo zio e suo padre erano in viaggio, Bobby le chiedeva di raggiungerlo nel suo studio per insegnarle il modo di pensare e organizzarsi.
“Il caso…” fece Zoe, “Sembri Horatio Caine.”
“L’unico qui che potrebbe essere scambiato per David Caruso è JJ.” Puntualizzò Max.
Il diretto interessato fece una smorfia di disappunto che gli accartocciò tutta la faccia, come se avesse appena succhiato uno spicchio di limone: “Ma David Caruso è vecchio. Non potevate nominare qualcun altro, chessò, Magneto?”
“Ian McKellen o Michael Fassbender? Sai meglio di me che la storia degli X-Men non va data troppo per scontata. Ci sono cose da puntualizzare nell’arco temporale e non pu-”
“Dacci un taglio, Max,” la interruppe James. “Mi riferivo a Fassbender: occhi chiari e capelli rossi.”
“Ma Magneto non risolveva casi,” puntualizzò Zoe, “perché avremmo dovuto parlare di lui in questo contesto?”
“Oh mio Dio, ragazzi, vi prego piantatela!” Aaron roteò gli occhi al cielo, “Non vi sembra una conversazione un tantino fuori luogo?”
I tre si chiusero in un muto, colorato di imbarazzo, silenzio. Aaron aveva ragione e loro si sentirono incredibilmente stupidi.
“Andiamo in mensa.” Disse Max, incamminandosi. I suoi compagni la seguirono in silenzio.

La mensa scolastica puzzava di cibo bollito male e disinfettante gettato in quantità spropositate sul pavimento e nelle stoviglie. Le sedie erano riversate sui tavoli con le gambe rivolte verso il soffitto e l’unico rumore che si sentiva era la musica ovattata e appena percepibile che proveniva dalla palestra. In effetti, si trovò a pensare Max, riusciva a sentire la musica solo perché sapeva che in palestra c’era una festa, altrimenti, non ci avrebbe nemmeno fatto caso. La mensa e la palestra, infatti, erano quasi ai poli opposti di tutto l’edificio scolastico. I loro passi echeggiavano sul pavimento, mentre l’aria increspava la pelle di Max in tanti piccoli brividi che le riempivano le braccia. Le si rizzarono i capelli sulla nuca con il vago presentimento che quel freddo potesse essere dettato da una presenza sovrannaturale, ma quando, di proposito, sbuffò aria dalla bocca e non la vide uscire in una nuvoletta condensata, capì che quella temperatura era dovuta al fatto che, chiunque avesse fatto le pulizie, doveva aver lasciato aperte le finestre per un bel po’. Niente di sospetto, dunque.
Si diresse verso uno dei tavoli e mise le sedie a terra. I ragazzi presero posto intorno al tavolo, mentre Max copriva la superficie di plastica con tutti i fogli di Kevin.
“Bene,” cominciò, “Ce ne sono abbastanza per tutti. Fingiamo sia una ricerca di gruppo e cerchiamo di sbrigarci. Rufus potrebbe tornare da un momento all’altro.” Gettò un’occhiata intorno, costatando che erano ancora soli.
“E se colpisse di nuovo la palestra?” Domandò Ben.
“Dobbiamo sbrigarci per questo: Rufus è convinto che noi abbiamo qualcosa di suo, appena scoprirà che non lo abbiamo cambierà obiettivo. Dobbiamo toglierlo di mezzo prima che ciò accada. Non so se posso gestire una marea di studenti in preda al panico.” Era l’unica rimasta in piedi. La schiena dritta e i muscoli tesi, la posizione di un soldato. Sentiva il collo che le doleva, ma era determinata ad ignorarlo. Lanciò uno sguardo in direzione della cucina, alla sua destra, dopo aver adocchiato l’uscita di sicurezza davanti a loro. Nel caso Rufus si fosse presentato più agguerrito di prima, avrebbe potuto far uscire i suoi compagni da lì. Con ogni probabilità, non avrebbe potuto seguirli e sarebbero stati salvi. Il suo istinto le diceva che qualsiasi cosa legasse Rufus a quel posto, era ancora dentro alla scuola.
“Max..?” la chiamò Benjamin cauto e… incerto. Non l’aveva mai vista così: rigida, con i muscoli che lanciavano tremiti guizzanti di tanto in tanto, come se fossero pronti a scattare in qualsiasi evenienza. Gli occhi verdi scuri e duri come pietre scrutavano quel posto, guardandolo diversamente, come se stessero percorrendo un campo di battaglia e non un luogo nel quale, solo poche ore prima, discuteva rilassata con i suoi amici. Era marmorea come una statua e sembrava imponente come la facciata di una chiesa gotica.
Max lo guardò e i suoi occhi tornarono della solita sfumatura familiare, quella che a Ben ricordava i prati irlandesi, o gli smeraldi.
“Dimmi.”
“Cominciamo?”
Lei annuì, “Devo andare in cucina, torno subito.”
Gli altri cominciarono a prendere un foglio a testa e leggerlo. Benjamin, invece, non staccò gli occhi da Max nemmeno un istante. La seguì per tutto il suo percorso, la gonna svolazzante ad ogni passo accelerato, come una corsa trattenuta, gli stivali che scandivano un ritmo regolare sul pavimento. La guardò fare un balzo e passare, strusciando le cosce, sopra il ripiano di acciaio che divideva la cucina dal resto della mensa. Sentiva il cuore che gli martellava in petto, temendo che da un momento all’altro quel mostro potesse ricomparire e prenderla nuovamente per la gola. Sarebbe intervenuto, questa volta. Non avrebbe permesso che le rifacesse del male. Un istinto di protezione lo inondò come una marea selvaggia e violenta insieme alla consapevolezza che l’impotenza che l’aveva sopraffatto poco prima era stata seppellita nella parte più remota di se. Osservò Max allungarsi verso la dispensa. Anche in punta di piedi, qualsiasi cosa stesse cercando era irraggiungibile. Fece per alzarsi ed andarle in contro per aiutarla, ma in quello stesso istante la vide fare leva sulle braccia, portare un piede sopra al ripiano, seguito dall’altro, ed ergersi in piedi come un’acrobata professionista. Max sapeva cavarsela da sola. Questo lo aveva sempre saputo ed era una delle cose che più le piaceva di lei. Sapeva sostenersi, sapeva contare sulle proprie forze. Ed era una cosa che le aveva sempre invidiato perché alla loro età riuscire a trovare tanta forza solo dentro loro stessi era una cosa rara, se non impossibile. Ma Max ci riusciva. Lei era speciale. Sorrise, guardando la sua schiena che si inarcava mentre si metteva in ginocchio per scendere dal ripiano d’acciaio. Sentì una sensazione di calore scaldargli il petto. Improvvisamente, quella sensazione di calore si trasformò in un alone che gli sembrò percepibile al tatto e risentì il corpo di Max attaccato al suo, il suo braccio intorno alla schiena della ragazza, le sue forme che aderivano al suo petto e gli facevano mancare il respiro. Quante volte l’aveva abbracciata senza che lei si rendesse conto dell’effetto che gli provocavano i loro contatti. Quante volte aveva dovuto asciugarsi di nascosto i palmi delle mani ai pantaloni perché starle vicino lo rendeva nervoso. Quante volte aveva dovuto pregare che non gli si leggesse in viso che ogni volta che lei lo guardava il suo sistema nervoso andava in tilt e le sue gambe diventavano molli come burro al sole.
“Hai intenzione di dirglielo, prima o poi?” una voce lo distolse dai suoi pensieri: Aaron.
Quel ragazzo aveva la sfacciata capacità di leggergli nella testa e di non farsi nessun problema a manifestarlo al mondo. Discrezione stava ad Aaron come i cetrioli stavano al tiramisù. Due universi opposti che non si sarebbero mai incontrati.
“Non so di cosa tu stia parlando.” Borbottò Ben, lanciando un’occhiata in direzione di Max. Si era arrampicata in un altro scaffale. Chissà quanto sale le serviva per riempire le pallottole.
“Invece io credo di sì.”
“Invece io credo tu debba concentrarti sul foglio che hai davanti.” 
“Andiamo, Jones,” sbuffò James, con la voce carica di superiorità, “Ce ne siamo accorti tutti.”
Se Ben fosse stato il tipo che arrossiva, sarebbe stato viola.
“Vi accorgete di cose che non esistono.”
“Come i fantasmi?” incalzò Zoe, il sorriso beffardo di chi la sa lunga. Gli occhi accesi di una sadica consapevolezza. Benji rabbrividì. Tenere a bada Aaron e JJ era una conto, ma Zoe… lei era un altro paio di maniche. Se Aaron era indiscreto, ma gestibile, Zoe era uno squalo onnisciente. Sapeva, vedeva, percepiva, sentiva, ogni dannatissima cosa. E, proprio come uno squalo che, una volta sentito l’odore del sangue, divora la sua preda a morsi, Zoe riusciva ad estorcere ogni minimo pensiero fino a farti cedere e confessare qualsiasi cosa lei volesse sentire. Cercare di nascondere qualcosa a lei era come cercare di nascondere qualcosa alla propria immagine riflessa in uno specchio: impossibile.
“Sta tornando,” li informò Kevin in tono neutro, gli occhi fissi sul foglio e le mani conserte sopra al tavolo.
I quattro si zittirono all’istante.
“Eccomi, ho il sale.” Alzò cinque piccole saliere come se fossero trofei, “Ci sono novità?”
A parte il fatto che tutti i nostri amici hanno capito che sono innamorato di te e faccio schifo a negarlo... “No, nessuna novità.”
Max si sedette proprio accanto a Ben. Prese un foglio e cominciò a leggerlo. Il ragazzo si perse un attimo a seguire la linea del suo profilo: le lunghe ciglia scure che circondavano gli occhi come una gabbia che custodiva gelosamente le gemme più belle di un preziosissimo tesoro, il naso piccolo, tondeggiante, la bocca piena, con una leggera sproporzione tra il labbro superiore – più sottile – e quello inferiore, le lentiggini sulle guance. Il cuore gli balzò alla gola, proprio sotto l’ugola. Pulsava così intensamente che sembrava volesse soffocarlo.
Zoe, davanti a lui, si schiarì la voce in modo un po’ troppo marcato perché risultasse davvero casuale. Lui la incenerì, mentre lei, invece, gli rivolse un’occhiata eloquente che stava a dire: non puoi negare con me, cocco.
Ben alzò gli occhi al cielo e prese un foglio dal mucchio. Tanto valeva darsi da fare.

“La sua passione per l’educazione si manifestò fin dall’adolescenza quando, nel giardino di casa, impartiva lezioni di lettura al fratello minore. Rufus era un ragazzo paziente, dedito al sapere e credeva fermamente nell’importanza di tramandarlo, dote ereditata dalla madre, che fin da bambino lo spinse all’apprendimento.” Benjamin leggeva ad alta voce mentre Max era impegnata a fabbricare pallottole di sale. Il coltello che aveva preso in cucina non era certo il più affilato del mondo, ma in mancanza di altro se lo faceva bastare. Lo stava usando per aprire il fondo delle pallottole e mischiare il sale alla polvere d’argento, già a sua volta mischiata con quella da sparo.
“Partecipò alla costruzione di molte scuole, tra cui la River High School, nel South Dakota – parla di noi! Commentò Ben, – L’istituto fu uno dei suoi lavori migliori. Rufus ne andava molto fiero, tanto che portò la madre all’inaugurazione per mostrarle la creazione di cui andava orgoglioso. – A quanto pare era molto legato a sua madre.”
“Sì,” disse Kevin, “Viene nominata in ogni documento presente.”
Avevano letto ormai tutti i fogli che il preside Chapman aveva assegnato a Kevin, ma apparentemente non c’era niente che potesse mostrare cosa Rufus stesse cercando. Per adesso, Max sapeva che alla sua morte Rufus era stato cremato, quindi non doveva cercare un cadavere da bruciare, bensì un oggetto.
“Era legato a sua madre e a questa scuola,” ragionò Max ad alta voce, “ma questo non spiega davvero perché lui sia ancora qui. Se fosse stato legato alla scuola a tal punto da non averla voluta abbandonare per passare qui il resto dell’eternità, non avrebbe detto che abbiamo qualcosa di suo. Non si può possedere una scuola.” Almeno non nel senso che si era immaginata: da come Rufus aveva parlato, sembrava si stesse riferendo a qualcosa di piccolo, qualcosa che è possibile tenere in tasca, o in borsa – qualcosa da poter tener nascosto con facilità. E una scuola non rientrava certo in questa categoria. Quindi, nonostante Rufus fosse in parte proprietario della River High School, non era la cosa che andava cercando. Ne fu sollevata, onestamente, dal momento che l’idea dare fuoco alla sua scuola più che una cacciatrice di demoni la faceva sentire una piromane squilibrata.
I suoi occhi vagarono sui fogli sparpagliati ovunque. Non erano riusciti a cavare un ragno dal buco e se non avessero sbloccato questa situazione di stallo, avrebbero solo passato dei guai. Rufus voleva qualcosa di suo e non avrebbe smesso di cercarlo. Doveva essere successo qualcosa, di recente, che aveva smosso il suo spirito dormiente. Sicuramente, la soluzione era davanti ai suoi occhi, ma non riusciva a vederla. Era certa che fosse nascosta in quei documenti che celavano il motivo per cui Rufus si era risvegliato e si comportava come qualcuno affetto da disturbo ossessivo-compulsivo a cui è stata rubata la sua cosa più preziosa, il suo tesoro. L’immagine di Gollum le balenò in testa, ma la scacciò via. Era inopportuno e ridicolo fare un’associazione simile in un momento del genere.
“Max riesco a sentire il rumore degli ingranaggi del tuo cervello che collidono tra loro.”
La giovane cacciatrice spostò lo sguardo dai fogli a Zoe.
“Ci siamo vicini. Così vicini che non riesco a vedere.”
“Allora allontanati,” le suggerì la ragazza con un’alzata di spalle.
Max lo fece. Le avevano provate tutte, tanto valeva provare anche quella. Si alzò e guardò dall’alto i fogli, la luce rimbalzava sul bianco lucido, accecandola. Solo una cosa stonava in quell’esplosione di candore: un angolo grigio e scuro che sbucava da sotto quella coltre di carta. Max allungò una mano per estrarlo e realizzò che si trattava di una fotografia in bianco e nero: ritraeva Rufus, gli zigomi erano pieni di carne e la pelle non cadeva a brandelli, gli occhi non erano infossati nel cranio e i capelli erano tutti attaccati alla testa, ordinatamente pettinati all’indietro. Era diverso dal fantasma che l’aveva aggredita, ma era lui. Non aveva dubbi. Era in piedi, dietro ad una donna seduta su un imponente e pomposa poltrona. Lui le teneva una mano sulla spalla, ma lei non ricambiava il contatto in alcun modo. Teneva lo sguardo severo fisso in avanti, il naso aquilino così sporgente che avrebbe potuto uscire dalla fotografia ed entrare nella terza dimensione. I capelli scuri raccolti in maniera così stretta che Max ebbe l’impressione che le sue sopracciglia fossero più in alto del normale. Era una donna austera, altezzosa, composta. Era la madre di Rufus.
Non c’era niente di particolare, in quella foto. Erano madre e figlio, quest’ultimo legato a lei quasi in maniera morbosa, chissà per quale motivo. La donna non sembrava molto affettuosa e quindi Max trovò difficile concepire come si potesse provare una tale venerazione per qualcuno di così… freddo. Ma immaginò che l’amore che si prova nei confronti di una madre è irrazionale e istintivo. La stessa Max sentiva di amare sua madre sebbene di lei avesse solo ricordi sfuocati. Studiò quella foto: la poltrona appoggiata sopra ad un tappeto decorato in maniera esagerata, un quadro appoggiato alla parete dietro di loro che raffigurava un paesaggio di campagna e poi, ovviamente, Rufus e sua madre.
Devi darmi quel che è mio, cacciatrice. Dammelo!
Ma cosa? Cos’è che vuoi Rufus??? – strillò una voce frustrata nella sua testa. Chiuse gli occhi e fece un profondo respiro. Perdere il controllo non l’avrebbe agevolata in nessuno modo. Li riaprì e tornò a concentrarsi sulla fotografia. Parlami, Rufus. Cosa potrebbe farti diventare tanto violento da aggredire una ragazza nella scuola che tanto amavi?
Sentiva le voci dei suoi amici bisbigliare tra loro, ma li percepiva lontani. La sua attenzione era tutta su Rufus e su quella mano appoggiata alla madre. Una figura fondamentale nella sua vita, la donna che l’aveva avviato a quella che sarebbe diventata la sua passione: l’apprendimento e l’insegnamento. Era grazie a quella donna se aveva deciso di costruire delle scuole. E se… se stesse guardando il soggetto sbagliato?
Max venne colpita da un fulmine di consapevolezza: Rufus era morbosamente attaccato alla madre, l’amava più dei suoi edifici, più di questo edificio. L’oggetto in questione, quindi, potrebbe essere qualcosa lasciato da lei, magari dopo la sua morte – un evento troppo difficile da sopportare, dopo una vita passata al suo fianco. I suoi occhi, quindi, guizzarono frenetici dalla figura di Rufus a quella di sua madre. Osservò la donna e… eccolo lì, l’oggetto dannato: la signora Kray portava un anello all’anulare destro. Era discreto, ma la pietra – di un colore scuro – era ben visibile. Era quel genere di oggetto che si tramanda ai figli, se non con un’utilità ben specifica, almeno con l’intento di farsi ricordare. Quell’oggetto era un cimelio di famiglia ed era stato sottratto ad uno spirito dormiente che era stato risvegliato dall’avidità di riavere indietro qualcosa che gli era appartenuto sempre.
“L’anello!” sbraitò Max, la sua voce uscì più squillante di quanto volesse. “Sta cercando l’anello!”
Appoggiò la foto al tavolo, indicando l’oggetto in questione. Cinque teste si avvicinarono, sporgendosi per osservare quella fotografia.
“Non ho visto niente del genere, però.” Fece notare Kevin, “Sei sicura che sia proprio questo ciò che cerchiamo?”
“Per distruggere un fantasma, di solito, bisogna coprire il suo corpo con il sale e dargli fuoco.” Spiegò Max, “In questo modo, tutto ciò che lo lega a questa dimensione terrena viene distrutto, impedendo così anche alla sua parte spirituale di vagare in terra senza pace. Ma quando i corpi sono già stati cremati e i fantasmi abitano ancora nella parte dei vivi, significa che c’è un oggetto al quale sono legati in maniera così profonda da impedirgli il trapasso nell’aldilà. Rufus era attaccatissimo a sua madre, quindi penso proprio che sì, sia quello l’oggetto che stiamo cercando.”
“Bene, ma dove possiamo trovarlo? Se Kevin non l’ha visto…” cominciò Ben e Max fu colpita da una fulminea consapevolezza, come se Thor in persona le avesse lanciato una saetta in testa.
“Chapman,” sussurrò pensando che le uniche persone, prima di loro, ad aver maneggiato con i documenti di Rufus erano stati solo il preside e Kevin. I documenti che avevano in loro possesso  erano originali, tenuti impeccabilmente. La carta, infatti, era soltanto un po’ ingiallita ai lati, quindi dovevano essere stati tenuti rinchiusi chissà dove, magari in una scatola di latta nella cassaforte che si trovava nella cantina della scuola e nella quale, di solito, venivano depositati i fondi scolastici… se così fosse stato, quando per la prima volta Chapman ha trovato i documenti, deve aver anche trovato l’anello e averlo preso. Non suonava un comportamento appropriato per un uomo con la sua rigorosità, ma, si sa, l’occasione rende l’uomo ladro.
“Cosa c’entra adesso il nostro odiosissimo preside, Maxie?”
“Ce l’ha lui l’anello. Pensaci: Chapman e Kevin sono stati i primi a leggere quei documenti, ma se Kevin non ha visto nulla e Rufus cerca qualcosa che ritiene gli sia stato rubato, e sappiamo che nessuno dei due sta mentendo, significa che deve essere stato Chapman a prendere quell’anello.”
“Ha senso,” osservò Ben.
“Certo che ha senso!” esclamò Kevin.
“Dobbiamo andare in palestra,” disse Max, “dobbiamo impedire che Rufus faccia del male a Chapman.”
“Non sarà certo contento di sapere che qualcuno ha giocato con le cose di mammina,” fece JJ, ma il suo tono era cupo e tetro, per nulla sarcastico come avrebbe voluto suonare.
Max all’improvviso sentì le dita di Kray intorno alla gola, come se fosse tornato e le sue mani putrefatte la stessero stringendo di nuovo, questa volta con più forza, ritenendola colpevole quanto Chapman di quel furto, se non in maniera maggiore. Era colpevole di non aver capito prima cosa fosse successo e per questo la puniva. E stringeva, stringeva e la soffocava. Le mancava l’aria, respirare diventava sempre più faticoso. Non riusciva a capacitarsi del perché stesse rischiando di rimanere in apnea senza avere effettivamente qualcosa che le ostruisse le vie respiratorie, ma poi quando due mani le si chiusero sopra al viso, si rese conto che l’unica cosa che non la faceva respirare era un’ondata di gelido ed incontrollabile panico.
“Maxie, calmati.”
Era Ben.
Le sue mani le scaldavano le guance e la sua voce le arrivava forte e chiara, l’unica cosa in grado di sfondare quel muro che l’aveva ingabbiata e separata dalla realtà.
“Non ci riesco.” Boccheggiò.
“Sì, che ci riesci.” Il tono fermo e gli occhi incatenati ai suoi. Erano duri, quasi severi, ma non ci leggeva alcun tipo di rimprovero. Quello era lo sguardo del ci penso io a rimetterti in carreggiata, quello che le riservava nei momenti di debolezza, dove perdeva il controllo di se e l’aiutava a ritrovarlo.
“Non so gestire tutto questo,” la voce le tremò, mentre ricacciava indietro una crisi di pianto.
“Si che lo sai gestire. Sai gestire cose anche più grandi.”
“Non sono mio padre..” gli occhi lucidi e la gola che le bruciava per il pianto trattenuto. La mente vagò alla figura paterna: a Dean che impugnava la pistola e colpiva il bersaglio, al coraggio impavido che leggeva nei suoi occhi ogni volta che lo vedeva partire per una missione. Invidiò la sua sicurezza, la sua ferocia, la sua totale mancanza di paura. Invidiò la sua capacità di gestire le situazioni e la sua intelligenza in battaglia.
“Ciò non vuol dire che tu non sappia affrontare questa cosa.”
“Sono quasi morta, prima, perché non sapevo come comportarmi. E ho rischiato di far uccidere anche voi.”
“Ma adesso sai cosa fare, no? Hai studiato un piano.”
Max abbassò lo sguardo. Non riusciva a reggere quello di Ben, in quel momento, così carico di fiducia nei suoi confronti. Finché dovevano scoprire come fare a distruggere Kray, la cosa era rimasta tutta sul piano teorico e quindi non tanto diversa da quella che viveva a casa, con Bobby. Ma poi, una volta arrivati alla soluzione, questa volta non avrebbe chiamato suo padre per fargli fare il lavoro sporco, questa volta avrebbe dovuto farlo lei. Toccava a lei estrarre la pistola dal fodero e premere il grilletto. Toccava a lei dare fuoco all’oggetto maledetto. Toccava a lei fronteggiare il mostro.
La verità era che non era mai stata in prima linea e la cosa la terrorizzava più di quanto avrebbe voluto ammettere. C’erano molte vite, in gioco, non solo la sua. E se avesse fatto una mossa stupida come quella in corridoio poco prima, le avrebbe compromesse tutte.
Ma che altro puoi fare, Max?
Già, che altro poteva fare se non intervenire?
“Maxie,” Ben si chinò per entrare nel suo campo visivo e allora lei alzò di nuovo gli occhi su di lui. Le iridi erano così scure che si confondevano con le pupille, rendendo i suoi occhi simili ad un pozzo nero e profondo. Avrebbe voluto gettarcisi per sentirsi al sicuro, protetta.
Ma non sarebbe stata al sicuro da nessuna parte, finché non avesse imparato a proteggersi da sola – finché non avrebbe imparato a controllare quella paura paralizzante che l’aveva assalita.
Era il cambiamento, che temeva. L’uscita dalla sua quotidianità e l’entrata negli affari di famiglia. Era un salto che avrebbe dovuto fare prima o poi e adesso, in questo momento, con le mani di Ben ancora chiuse sul suo viso, decise di saltare.
Non sapeva se sarebbe stato un salto definitivo, non era ancora sicura di essere totalmente pronta per cominciare la caccia al sovrannaturale, ma una parte di lei sapeva che era pronta ad abbattere questo ostacolo. Bastava un balzo più intenso e un piano meno impulsivo, doveva solo ragionare un po’ di più.
“È passata, Benji.” Lo strinse a se, affondando il viso nella sua camicia e riempiendosi le narici del suo profumo. 
“Lo sapevo.” Le appoggiò il mento sopra alla testa e chiuse gli occhi. Max era forte, e questo lo sapeva, ma come ogni persona sul pianeta, aveva bisogno di qualcuno che glielo ricordasse. E se è vero che nei momenti di debolezza, come negli scacchi, la regina protegge il re, non vedeva perché anche il re non poteva fare altrettanto con la sua regina.
E Max, anche se lei ne era all’oscuro, era la sua regina e sempre lo sarebbe stata. Di conseguenza, lui l’avrebbe sempre protetta ogni volta che ne aveva bisogno.
“Sei pronta?” le domandò quando lei sciolse l’abbraccio.
“Sì.”
“Allora andiamo.”

                                                                             ***

La palestra brulicava di studenti, ma il morale non era più spensierato come qualche ora prima. Max notava nei visi dei suoi coetanei tensione, ansia e preoccupazione. Alcuni di loro le lanciavano occhiate furtive per poi bisbigliare qualcosa agli amici. Non sapeva cosa dicessero e, in quel momento, nemmeno le importava. Non importava che pensassero che era strana, o pazza, l’importante era che una volta preso l’anello a Chapman, avrebbe distrutto Kray e salvato questi ragazzi.
L’ansia cercò di distruggere la superficie di determinatezza che si era costruita, ma la cacciò ancor prima che le sue crudeli mani artigliate potessero fare anche solo una piccola crepa e disintegrare il suo scudo.
Basta panico. Basta ansia.
L’ostacolo andava abbattuto, al resto avrebbe pensato dopo.
“Non lo vedo, Maxie.”
Ben le stava vicino, una mano che sfiorava la sua. Avrebbe voluto stringergliela, riempire con le proprie dita gli spazi vuoti delle sue, ma non lo fece: doveva avere entrambe le mani libere per reagire più velocemente.
“Nemmeno io.” Adocchiò Dempsey tra la folla e si avviò verso di lui. I suoi amici la seguirono.
L’insegnate le rivolse un’occhiata severa, ma sorpresa. Guardò Kevin e, costatato che stava meglio, si rilassò. Il suo volto teso e bianco riprese colore.
“Dovrei sospendervi per quello che avete fatto!”
“Lo farà?” gli domandò Max.
Dempsey sospirò: “No. Anche se non sta a me decidere. Chapman è determinato a farlo, ma farò leva sul fatto che se non foste intervenuti, Kevin non starebbe bene.”
“Potrebbe obiettare che aveva chiamato un’ambulanza…”
“Su questo hai ragione, Max.”
“È arrivata? L’ambulanza, dico.”
Il professore annuì: “Chapman si è allontanato con un medico qualche istante fa. Penso spiegherà che Kevin è stato portato in infermeria, o qualcosa di simile.”
“Chapman è da solo??”
Il signor Dempsey aggrottò le sopracciglia, tre marcate linee orizzontali gli solcarono la fronte, facendolo sembrare più vecchio di quanto in realtà fosse: “No, Max. È con un medico…” il suo tono traspariva una certa preoccupazione, quel genere di preoccupazione che assale chi dubita del funzionamento delle capacità cognitive di chi ha di fronte.
“Dove sono, adesso?”
“Fuori, nel piazzale degli scuolabus.”
A Max gelò il sangue: se il preside era uscito dalla scuola con l’anello, significava che anche Kray poteva uscire dalla scuola. L’unica cosa positiva a cui riusciva a pensare in quel momento era che almeno in quel modo nessun altro studente sarebbe rimasto coinvolto.
“Grazie, signor Dempsey. Andrò a fare due chiacchere con il preside, sa, per scusarmi del mio comportamento inopportuno. Magari, così facendo, si limiterà solo a punirmi…” indietreggiò e si rese conto di quanto quella reazione potesse risultare sospetta, ma Dempsey si limitò solo a farle un cenno con il capo. Lanciò un’occhiata più che eloquente ai suoi amici, prima di uscire di nuovo da quella palestra.
Si ritrovarono ancora una volta in corridoio nel giro di qualche minuto. Max sapeva che per arrivare nel piazzale degli autobus doveva uscire dall’uscita sul retro, quella che dava anche sul cortile scolastico.
“Ragazzi,” cominciò guardandoli uno ad uno, “ora devo andare da sola.”
Si levò un coro di voci che Max riuscì a distinguere, sebbene tendessero a sovrastarsi.
“Cosa? No!” squillò Zoe con la voce stridula.
“Sei pazza, Maxie?” tuonò Ben secco, la voce colma di disapprovazione.
“Non ti lasceremo andare da sola da quel mostro!” Aaron la guardava con apprensione, la preoccupazione disintegrava i suoi occhi castano-dorati come fa il vetro colpito da una sassata.
“O andiamo insieme, o non vai.” Aggiunse JJ perentorio, “Non costringermi a chiamare tuo padre, Max.”
“Non chiamerai mio padre, Jay. Nessuno di voi lo farà.” Era determinata a non metterli in pericolo. Non questa volta. “Voi dovete badare a Kevin, mentre io mi occupo di Rufus.”
“No.” Ben fece un passo verso di lei, la voce ferma e lo sguardo fisso su di lei. La intrappolò con gli occhi. Il suo tono suonava deciso quanto un ordine. Max sapeva che quello era un tentativo disperato di proteggerla, di provare a persuaderla perché sapeva che Benji la conosceva abbastanza bene da aver captato quella parte di lei cresciuta come un soldato e quindi, forse, il ragazzo pensava che se avesse usato quel tono, lei avrebbe ubbidito. Però Max aveva sempre avuto suo padre sotto gli occhi: lui era un soldato eccezionale, ma non aveva mai preso ordini da nessuno. Aveva sempre fatto valere il suo libero arbitrio anche quando era stato un arcangelo ad avergli ordinato di accettare di diventare il suo tramite. E se suo padre poteva farsi valere contro Michele, l’Arma del Paradiso, lei poteva farsi valere con i suoi amici, che sicuramente sarebbero stati più comprensivi di un arcangelo un po’ fanatico.
Perciò quando Ben si avvicinò con la mano tesa verso di lei, Max si ritrasse. “Non puoi impedirmelo, Benji.”
Gli occhi del ragazzo si fecero lucidi e Max ebbe l’impressione che fosse sul punto di piangere.
“Tu non puoi costringermi ad accettare una cosa del genere,” la voce gli tremò e il tono duro usato poco prima svanì, distrutto dalla consapevolezza che provare a convincerla a fare qualcosa di diverso da ciò che lei aveva deciso di fare era inutile.
“Non posso esattamente come tu non puoi costringermi a portare voi con me.” Avrebbe voluto avvicinarsi a lui, stringergli le mani e dirgli che sarebbe andato tutto bene, ma non lo fece. Non si sentiva di dirgli una bugia. La verità era che non sapeva come sarebbe andata a finire e quindi era meglio tenerlo – tenere tutti  loro – lontano da Rufus Kray e la sua violenta follia.
“Badate a Kevin. Portatelo in cucina, c’è ancora abbastanza sale: prendetelo e fate un cerchio sul pavimento, poi entrateci. Tutti. Se anche Rufus dovesse tornare per completare la sua opera, non potrà attraversare quel cerchio e voi sarete salvi. Io vi raggiungerò.”
“Ma Max…” era Zoe. Gli occhi colmi di lacrime e il viso bagnato da esse. Si stava stringendo in se stessa, le mani appoggiate ai gomiti e le spalle rannicchiate. Sembrava spaesata, oltre che spaventata.
“Andate e fate come vi ho detto. Ci vediamo presto.”
Si voltò e cominciò ad incamminarsi verso il piazzale degli scuolabus.




                                                                         ***

L’aria era insolitamente fredda. Non che di notte, normalmente, facesse chissà quale caldo, ma in quel momento, Max percepiva più freddo di quanto non ne avesse mai percepito. Guardò i brividi percorrerle le braccia con un certo interesse, come se fossero stati in grado di indicarle la strada giusta da seguire – una specie di storia alla Hansel e Gretel, con le bricioline di pane da seguire e tutto il resto. Anche se, onestamente, si sentiva più come Teseo che segue il filo di Arianna per poter uscire dal labirinto dopo aver fronteggiato e sconfitto il Minotauro. Rufus poteva non avere la testa di un toro sopra ad un corpo umano, ma era altrettanto spaventoso, con gli occhi incavati, la pelle consumata e quell’odore nauseante di marcio e putrefazione che lo impregnava da capo a piedi. Max rabbrividì ulteriormente, anche se questa volta l’origine dei brividi non era il freddo, quanto piuttosto il disgusto.
Mentre camminava nell’oscurità illuminata solo da qualche lampione sporadico – gli abbaglianti del campo da football, ovviamente, erano spenti – ascoltava il meccanico rumore dei suoi passi per cercare di non dare peso a quel pungente stato d’allerta che le faceva rizzare i capelli sulla nuca, infilzandola come un pugnale che mandava scosse elettriche a tutta la colonna vertebrale. Il sudore freddo le appiccicava i capelli alla fronte e la maglietta alla schiena. Non voleva pensare all’odore sgradevole che poteva emanare in quel momento. Come non voleva pensare alla matita colata, il mascara impiastricciato e al segno che sentiva formarsi rosso sulla gola, come una collana di sangue secco. In realtà, quella era la cosa che più la preoccupava. Come l’avrebbe nascosta a suo padre? Come avrebbe giustificato una simile escoriazione? Come avrebbe spiegato a suo padre che aveva deciso di fronteggiare un fantasma tutta da sola quando la mossa più logica sarebbe stata, invece, fare una semplice telefonata? Decise che, se mai fosse uscita viva da quella situazione, non avrebbe fatto parola con Dean di nulla. Occhio non vede, cuore non duole. Padre protettivo non sa, padre protettivo non va su tutte le furie. Riusciva persino a vedere il suo sguardo inceneritore su di lei, quello che era in grado di farla sentire minuscola e tremendamente in colpa. Sapeva benissimo che in questo caso suo padre avrebbe avuto tutte le ragioni del mondo per sgridarla, ma non voleva procurargli preoccupazioni inutili. Non voleva che sapesse cosa aveva fatto perché sapeva che non l’avrebbe retto. Non stava scappando dalle sue responsabilità, o da quel principio secondo cui a determinate azioni corrispondono determinate conseguenze che vanno accettate, stava solo trovando il modo di non far soffrire suo padre per una cosa che sapeva gli avrebbe provocato dolore. Come avrebbe fatto a gestire tutto questo, ancora non lo sapeva. L’unica cosa che doveva fare, adesso, era occuparsi di Rufus Kray.
Continuò a camminare fino a quando non notò le sagome degli scuolabus, tutti in fila come tante processionarie. Il loro giallo normalmente acceso, alla luce della luna risultava sbiadito e smorto, dando una strana sfumatura spettrale a tutta la scenografia. Le sembrava di essere finita nel flashback di un film dell’orrore, dove la scena diventa più scura per rendere il tutto più inquietante. La cosa che la spaventava veramente, però, era il fatto che ciò che aveva davanti era reale: non aveva uno schermo che l’avrebbe protetta dall’apparizione improvvisa del mostro, adesso. Le sue gambe si fermarono non appena vide riversata a terra una figura: era un uomo, di questo ne era certa. Cominciò a correre ancora prima che il suo cervello realizzasse che correre era proprio l’unica cosa da fare. Si gettò in ginocchio accanto al corpo e costatò che non si trattava del preside Chapman, ma del medico di cui aveva parlato Dempsey. Era ancora vivo, costatò, misurandogli il polso. Con un sospiro di sollievo, cominciò a guardarsi intorno. Era convinta che l’oscurità non l’avrebbe agevolata nella sua missione, ma si sbagliava. Infatti, riuscì a vedere il bagliore azzurrognolo emanato da Rufus proprio perché tutto intorno a lei era buio. Quando si guarda una lucciola, la sua luce intermittente è molto più facile da distinguere se si è in piena notte. Rufus le dava la stessa impressione: la luce azzurra che emanava aveva una colorazione fredda e distante, come a testimoniare la sua provenienza dall’aldilà e il fatto che il suo corpo non fosse più caldo da un pezzo. Brillava ad intermittenza, illuminando il viso paralizzato dal terrore di Lex Chapman, come una macabra torcia.
“Sei un ladro!” sibilava Rufus, la sua voce suonò squillante ed acuta come una sirena spiegata e le penetrò così a fondo nei timpani che le fece venire voglia di mettersi le mani sulle orecchie per non sentire quel dolore insistente che le si conficcava in testa come tanti spilli. Ma resistette.
“Sei uno sporco ladro!!” il fantasma continuava ad inveire contro il preside, la sua voce si alzava in un grido che andava a mischiarsi con uno strano inquietante sibilo, come se la creatura avesse la gola tagliata e la voce uscisse dallo squarcio vecchio e mai rimarginato.
Max non fece in tempo a sentire la risposta di Chapman perché le bastò leggere nei suoi occhi la paura della morte che aveva preso il sopravvento su qualsiasi altra cosa per decidere di intervenire. Estrasse la pistola dal bordo della gonna e la impugnò con entrambe le mani perché, si rese conto, la sinistra le tremava troppo.
Le balenò in mente l’immagine di Dean che si metteva dietro di lei per insegnarle a mirare bene. Non fu facile per lui insegnarle a sparare con la sinistra, dal momento che era destrorso e la mano con sui agiva era, appunto, la destra. L’addestramento risultò più difficile di quanto si era immaginata. Max ricordava la voce dura di suo padre che le intimava di riprovare ogni volta che lei mancava il bersaglio e si rivolgeva a lui con gli occhi colmi di lacrime di frustrazione perché si sentiva un’incapace.
Devi avere pazienza, Max. Piagnucolare non ti porterà a niente. Non arrenderti e riprovare finché non ci sarai riuscita porterà dei risultati.
All’inizio le sembrava troppo duro e troppo poco comprensivo. Aveva l’impressione che suo padre pretendesse troppo, da lei, ma con il tempo aveva capito quanto la stava spronando a dare il meglio di se, i soldati non si addestrano con le coccole, ma con una rigida disciplina.
Mise nuovamente a fuoco la realtà e con entrambe le mani ben salde sull’arma, prese la mira e sparò. Il colpo andrò dritto alla testa di Rufus che si dissolse nell’aria in tanti coriandoli di polvere scura.
Chapman si voltò verso di lei incredulo. Osservò prima lei, poi la pistola e reagendo esattamente come Max si era immaginata reagisse, esordì: “Una pistola in una scuola non è ammessa, Winchester!”
“Se avessi rispettato le regole lei sarebbe morto, signore.” Si avvicinò al preside. Era grigio in volto, la fronte imperlata di sudore, gli occhi cerchiati ancora dal panico. La scrutava, studiandola, come se si aspettasse da un momento all’altro che potesse sparare anche a lui e in quel momento Max si rese conto di tenere ancora il braccio sollevato, come se avesse intenzione di prendere di nuovo la mira per premere il grilletto per una seconda volta. Lo abbassò con calma, evitando di fare movimenti bruschi che potessero far saltare i già precari nervi dell’uomo che aveva davanti.
“Signor Chapman…” cominciò Max con cautela, “Ho bisogno che lei mi dia quell’anello.”
“Perché?”
Max lo guardò. Il viso tirato dell’uomo era macchiato dalla vergogna, ma sapeva che ormai negare il gesto commesso era inutile. Le fece persino tenerezza, mostrandosi ai suoi occhi, per la prima volta, così vulnerabile. In quel momento, Max si rese conto che se un uomo rigoroso come Chapman aveva commesso un gesto simile, un motivo c’era e doveva essere più che valido.
“A lui non serve… io…” balbettò. Max non l’aveva mai sentito balbettare. Chapman, di solito, echeggiava come il rombo di un tuono, ogni volta che parlava. Era sicuro di se e imponente come una montagna che ogni uomo ha tentato di scalare senza successo, “..Io ne ho bisogno.”
“Perché?” gli domandò flebile, temendo che in qualche modo potesse respingerla.
“Perché è un oggetto di un valore tremendamente elevato, qui, nella nostra città. Il mese prossimo ci sarà un’asta e molti personaggi illustri pagherebbero fior di soldi per averlo. E io ho bisogno di quei soldi, Winchester, o si prenderanno la mia casa.”
Se il preside fosse stato un uomo tendente al pianto, Max era sicura che in questo momento il suo viso sarebbe stato rigato da due sottili fiumiciattoli che uscivano dai suoi occhi. Invece, sebbene la sua voce avesse tremato, crepando la facciata dura dell’uomo, Max notò che il suo viso era asciutto.
“Ci sono altri modi, signore. E poi i soldi non andrebbero a lei…”
“Una parte sì.” La interruppe, “Pensavano che quest’oggetto fosse stato perduto. Gli organizzatori dell’asta hanno annunciato che chiunque ne sia in possesso verrà automaticamente ritenuto anche proprietario e, di conseguenza, riceverà una parte del ricavato.” Infilò una mano nella tasca interna della sua giacca, estraendo l’anello. Era piccolo, con la montatura d’oro e la pietra viola scuro. Brillava come un piccolo polmone sotto la luce flebile della luna. “Una parte di quei soldi per me è più che sufficiente.” Si rigirò l’anello tra le mani. Sembrava ancora più piccolo, mentre Lex Chapman, con le sue imponenti dita robuste lo faceva girare su se stesso.
“Perché ti serve?” le chiese, gli occhi fissi sull’anello e la voce ancora corrotta dal tremito.
“Devo distruggerlo. È l’unica cosa che lega il fantasma di Kray alla dimensione terrena, signore.” Max gli afferrò le mani. Erano calde e ruvide, mentre le sue erano piccole, sudate e fredde. Si vergognò un poco sia del gesto che dello stato delle sue mani, ma non le ritirò.
“Ha visto cosa è successo a Kevin, signore. Non permetta che Kray faccia del male a qualcun altro.”
A quelle parole, gli occhi del preside caddero automaticamente sul collo di Max. Si soffermò sul segno rosso che stava diventando sempre più evidente e marcato. Max lo vide deglutire, prima di riportare di nuovo gli occhi nei suoi.
“Te l’ha fatto lui?”
Max annuì. “Se al mio posto ci fosse stato qualcun altro, sarebbe morto.”
Chapman non volle sapere altro. Non gli interessava, evidentemente, sapere come mai lei non era morta, ma gli bastava sapere che aveva rischiato la vita. E questo non poteva certo permetterlo, così le consegnò l’anello.
“Fai quello che devi fare, Winchester.”
Max annuì e afferrò l’anello che le veniva dato. Ma non appena le sue dita si chiusero intorno al metallo – la sue pelle era talmente fredda che non sussultò nemmeno, toccandolo, vista l’assenza di differenza di temperatura tra lei e l’oggetto – una forza incontrastabile la scaraventò all’indietro, catapultandola contro un albero. L’impatto fu così violento che le mancò il respiro per qualche istante. La vista le si appannò e tutto improvvisamente divenne buio.
Una voce lontana la chiamava, ma non riusciva a sentirla. Non percepiva niente se non la sua testa che girava. Con quanta forza era stata lanciata? Provò l’impulso di vomitare, ma quando ci provò, non uscì nulla dalla sua gola se non un rantolo soffocato.
“Dammelo!”
Rufus.
“No!” gli urlò con tutto il fiato che aveva in corpo. I polmoni le bruciavano e la gola stava andando in fiamme. Si rese conto che il fantasma era di nuovo su di lei, una mano stretta intorno alla gola e l’altra mano era appoggiata al suo petto, all’altezza del cuore. Sentiva le dita di Rufus che le penetravano piano piano nella pelle, lasciando dei crateri di fuoco. Riusciva persino a sentire l’odore acre della sua carne bruciata. Doveva avere paura. Sapeva che doveva averne perché stava per morire, ma quel pensiero, anzi che terrorizzarla, le fece entrare in circolo un’ondata di adrenalina che la spinse ad afferrare il polso del mostro con la mano anellata e farlo sfrigolare di nuovo. Questa volta, però, il gesto servì solo a fargli mollare la presa. Rufus non si smaterializzò. Evidentemente, ora che aveva la certezza che era lei ad avere l’anello, la sua ferocia e la rabbia che provava nei suoi confronti erano più forti di qualsiasi altra cosa.
“Sei una ladra. Una lurida ladra!!” gridò impazzito, la voce stridula. Max era sicura che se Rufus avesse ancora avuto le corde vocali, urlando in quel modo isterico, le avrebbe danneggiate. Si gettò su di lei, ma Max ebbe la prontezza di spostarsi di lato e girarsi appena in tempo per afferrare la pistola e mirare una seconda volta. Il tremito alla mano si fece risentire, ma lo scacciò via, convincendosi che non era il momento adatto per titubare, e sparò. Rufus si dissolse di nuovo in un grido frustrato.
“Max!” gridò una voce e lei automaticamente si mise sulla difensiva, sollevando la pistola pronta all’attacco.  
“Sono io, calmati.” Era il preside. Max si era persino dimenticata della sua presenza. “Stai bene??”
“S-sì, ma tornerà. Devo distruggere…”
“…L’anello,” completò l’uomo per lei, “Dimmi come posso aiutarti.”
Max ci pensò su: “Sa sparare?”
“Sono stato nell’esercito.”
La giovane gli passò l’arma, ritenendo la risposta ricevuta più che sufficiente. “Quando lo vede comparire, gli spari. Intesi?”
Chapman annuì.
“Bene.” Max si accucciò a terra ed estrasse dalle tasche della gonna una piccola saliera e una boccetta d’alcol, che aveva preso quando erano stati in infermeria. Appoggiò l’anello a terra e non appena lo fece sentì Chapman sparare il primo colpo. Ne erano stati sparati tre, fino a quel momento e, di conseguenza, ne mancavano altri tre.
Ricoprì l’anello di sale e ci versò sopra l’alcol. Sentì uno sparo seguito da un’imprecazione: Chapman aveva mancato il bersaglio. Cercò di non concentrarsi su quel particolare mentre tentava di far partire l’accendino rubato dalla cucina, ma quello era talmente arrugginito che non ne voleva sapere. Le tremarono di nuovo le mani, che nel frattempo avevano anche iniziato a sudare, rendendo il tutto estremamente più difficile. L’accendino le scivolava ad ogni tentativo e Chapman aveva ormai solo un colpo a disposizione.
“Sta tornando, Max.”
LO SO! Avrebbe voluto gridare lasciando trasparire anche un po’ dell’isteria che sentiva crescere in se. Era tutto così frustrante che lasciarsi andare in un grido isterico le avrebbe fatto bene.
“Lo tenga sotto tiro.” Disse invece, cercando di risultare il più calma possibile.
Con il pollice premette sulla rotellina di metallo che avrebbe fatto scattare l’accendino e provò a ruotarla. Sentiva il polpastrello bruciarle a causa di tutti i tentativi andati a vuoto fino ad ora, ma questa volta la fiamma si alzò e, sebbene fosse alta meno di due centimetri, a Max sembrò grossa come quella olimpica. Era la luce della sua vittoria. Calò l’accendino sull’alcol appena in tempo: Chapman non dovette nemmeno sparare l’ultimo colpo che Rufus Kray si stava già sgretolando. Lo guardò prendere fuoco e contorcersi su se stesso, mentre le sue grida strazianti squarciavano la notte con l’acutezza di un allarme che penetra ad intervalli costanti nei timpani.
Una volta costatato che Rufus era scomparso una volta per tutte, Max avrebbe avuto voglia di accasciarsi al suolo e dormire per almeno due giorni. La stanchezza e lo stress di tutta quella situazione le gravavano sulle spalle, schiacciandola pesantemente a terra. Ma non poteva permettersi di cedere, non ancora.
C’era un’altra cosa che andava fatta.
Estrasse dalla tasca della gonna il cellulare e compose un numero. Una voce dall’altro capo del telefono rispose dopo due squilli.
“Max, stai bene??”
“Sì, Cas, ma ho bisogno di te. Non devi dire niente a papà, poi ti spiegherò. Puoi venire a scuola?” 



---------------------------------------------------
Ciao a tutti e scusate per il ritardo! Ci ho messo veramente tantissimo a scrivere questo capitolo, ma sono stata presa dal blocco dello scrittore (uso questo termine impropriamente, perché i veri scrittori sono altri, ma passatemelo comunque xD). Non sapevo assolutamente come gestire la storia ed ero assalita da moltissimi dubbi. All'inizio pensavo che questo sarebbe stato il capitolo conclusivo, ma poi avevo paura che, oltre al fatto che sarebbe venuto lunghissimo, avrebbe tolto lo spazio necessario all'inevitabile passaggio nel passato di Max. Quindi ho deciso anzi di dividere le cose e occuparmi in questo capitolo solo della risoluzione del caso. Il prossimo, che tratterà di Max e Dean (finalmente il nostro adorato Winchester tornerà in scena), non so quanto verrà lungo perché, sebbene ce l'abbia in testa, non ho ancora cominciato a scriverlo (shame on me!). Mi scuso ancora per il ritardo e spero che abbiate trovato il capitolo di vostro gradimento! Fatemi sapere cosa ne pensate, se vi va! 
Come sempre, ringrazio chiunque legga/segua/metta tra i preferiti la storia perché mi fa davvero piacere! 
Alla prossima! <3 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** 5. ***


Castiel ricevette quella telefonata mentre si trovava in una tavola calda, poco distante da dove si trovava casa Singer. Non che non si trovasse bene, in quella casa, ma a volte aveva semplicemente bisogno di staccare un po’. Non erano gli abitanti la causa della sua necessità, poiché amava quelle persone come pensava non avrebbe mai amato nessuno – l’amore, almeno come lo provava adesso, era un sentimento tipicamente umano e lui… be’ lui non l’aveva mai provato. Certo, Dio aveva ordinato agli angeli di amare l’umanità e lui aveva obbedito, ma erano due amori diversi: quello imposto da Dio era un amore reverenziale, rispettoso, nato dal fatto che l’umanità veniva amata in quanto creazione del Padre – di conseguenza, come gli angeli amavano Lui, amavano anche tutto ciò che Egli creava, fatta eccezione per alcuni ribelli (e la sua mente vagò a Lucifero, ma immediatamente scacciò l’immagine del fratello). Quello che provava per gli umani, che riteneva ormai la sua famiglia, non aveva niente di reverenziale. Continuava a rispettarli, certo, ma ciò che provava nei loro confronti era viscerale e non nasceva certo da un ordine, quanto piuttosto dall’aver visto le loro anime e averle amate esattamente per come sono. L’affetto che lo legava a quelle persone cresceva giorno dopo giorno ed era qualcosa di imponente. C’erano sentimenti contrastanti, legati a quel genere di bene. Amare qualcuno alla maniera degli umani significava anche – ed essendo stato con Dean e Sam si sentirebbe di aggiungere un soprattutto – arrabbiarsi con lui, gridare, litigare, ma solo perché in questo modo gli si dimostra più affetto. Gridi contro qualcuno che ha fatto qualcosa di stupido solo se gli vuoi bene perché temi che quel qualcosa possa metterlo nei guai. Possa fargli del male, possa ucciderlo. Per questo, adesso, Castiel si trovava ad inveire contro Max, che lo guardava con gli occhi grandi, lucidi e timorosi. La somiglianza con gli occhi di suo padre era quasi spaventosa. Lo stesso colore, la stessa forma, la stessa sorprendente capacità di espressione – quella che faceva intuire a Castiel cosa passasse nella testa di Dean ancora prima che il cacciatore potesse parlare.
“Hai fatto tutto da sola??” La sua voce suonò severa. In Paradiso non gli avevano mai insegnato cosa fosse la preoccupazione: gli angeli per loro natura non la provano. Né per se stessi, né per i propri fratelli. Erano stati cresciuti ed addestrati per servire il Paradiso e nessuna vita era più importante della causa, di conseguenza non vedevano la morte come una cosa di cui preoccuparsi, quanto piuttosto una cosa di cui andare fieri. Servire il Cielo donandogli la propria vita era un modo perfetto per essere ricordati, per venire ricoperti di quella che in ogni libro sacro viene definita gloria celeste. Ma vivendo con i Winchester, la preoccupazione era diventata parte di lui. Si era umanizzato sempre di più e la cosa non gli dispiaceva perché lo faceva sentire completo, più vivo di quanto non si fosse mai sentito. Gli umani provano una vasta gamma di emozioni che li rende sfaccettati, colorati; gli angeli, invece, non dando importanza ad altro che non fossero le loro regole rigide e rimanendo sempre e solo fedeli agli ordini, erano freddi e grigi, come degli automi senza vita.
“Se avessi voluto sentire una ramanzina, avrei chiamato papà!”
“Non parlarmi così, Max.”
La ragazza abbassò lo sguardo, andando a torturarsi una pellicina all’angolo del pollice. “Scusa, è che…” rialzò gli occhi su di lui, “è che avevo bisogno di qualcuno che non reagisse come avrebbe reagito papà, anche se hai tutte le ragioni per farlo.”
“Puoi ben dirlo. È stato un gesto incosciente,” l’angelo sfiorò con lo sguardo il collo della ragazza e Max sentì il cuore che si fermava per qualche istante prima di recuperare i battiti perduti e correre come un forsennato, “Poteva andarti peggio di così, Max.” aggiunse Cas, indicandole il collo con l’indice.
“Lo so, ma…”
Castiel alzò una mano con fare perentorio. Max si zittì all’istante, le labbra ritirate dentro la bocca e i denti che premevano su di esse dall’interno. Sentì un leggero sapore di sangue, perciò smise di torturarsi.
“Ne parlerai con tuo padre…”
“Ma..”
“Niente ma, ragazzina.” Tuonò, più fermo di quanto avrebbe voluto, ma l’idea di Max che rischiava la morte lo turbava più di quanto avrebbe ammesso. “Ti aiuterò, a patto che una volta finito andremo a casa e sarai tu a dirlo a tuo padre.”
Max si arrese a quell’idea: “Mi terrà in punizione da qui alla fine dei miei giorni, e lo sai. Mi vuoi condannare ad un esilio?”
“Vuoi costruire il rapporto che avrai da questo momento in poi con tuo padre su una bugia?”
No, non voleva. Secondo un detto buddista, tre cose non possono essere nascoste: il sole, la luna e la verità. E così come i primi due, anche la terza prima o poi sbuca in cielo sotto gli occhi di tutti, visibile in ogni parte del mondo. Mentire a suo padre sarebbe stato inutile e poi, a dirla tutta, non ne sarebbe stata capace. Non sarebbe riuscita a guardare Dean negli occhi, sapendo che aveva fatto ciò che aveva fatto, e fare finta di niente. I rimorsi l’avrebbero consumata fino a farle vuotare il sacco. Tanto valeva farlo subito. Affrontare le conseguenze delle proprie azioni e sentire ciò che suo padre aveva da dire, anche se una vaga idea ce l’aveva già.
“D’accordo, glielo dirò.”
“Brava,” Castiel le fece un buffetto sulla testa, “Adesso, dimmi cosa vuoi che faccia.”

Il suo piano era relativamente semplice: Castiel grazie ai suoi poteri angelici avrebbe cancellato dalla memoria di tutti ciò che era successo quella sera.
“Non voglio che ricordino niente, Cas. Onestamente, non vorrei essere ricordata come la squinternata che si è caricata Kevin in spalla. Devo passare in questo posto ancora due anni.”
Castiel rise. Max se ne accorse solo per il movimento che facevano le sue spalle, che si abbassavano ed alzavano. Non aveva una risata rumorosa, non l’aveva mai avuta. Forse, pensò la ragazza, il fatto che avesse imparato a ridere come gli umani non bastava a scavalcare la rigidità in cui era stato addestrato e il massimo che poteva fare era quello.
“Lo capisco. Il liceo non è piacevole se in corridoio sussurrano cose alle tue spalle.”
“Sei stato al liceo, per caso?”
“Sono un angelo, Max. Che razza di domanda è?”
“Scusa,” fece spallucce, “chiedevo soltanto.”
“Dobbiamo cominciare con il tuo preside. Dov’è?”
“L’ho rimandato in palestra. Gli ho detto di aspettarmi lì e non di non dire niente a nessuno.”
“Bene. Sarà più semplice in questo modo.”
“Come farai?”
“Entrerò e alzerò semplicemente una mano.”
“Tutto qui?” chiese sbalordita, le sopracciglia sollevate a formare due archi.
“Tutti qui. Per le masse è sufficiente il contatto con la mia energia. Non è necessario che li tocchi o altre cose.”
Max annuì con convinzione. Si fidava di Cas e se lui diceva che sarebbe stato semplice, allora così sarebbe stato. Fece un passo verso di lui e lo abbracciò forte, il viso voltato verso destra per non ovattare la voce: “Grazie Cas. Non saprei come fare senza di te.”
Castiel, che si era affezionato a quella ragazza come mai avrebbe pensato, la circondò con le braccia, ricambiando la stretta.
“Non c’è di che, Max. Sono qui per te.”
Lei lo strinse ancora di più.
Voleva bene a quell’uomo, o meglio a quell’angelo. Non aveva mai dubitato dell’esistenza di un bene superiore, anzi, era fermamente convinta che esistesse qualsiasi entità agli umani piaccia credere per trovare conforto. Dio ha molti nomi, ma viene percepito sempre nello stesso modo. Dio, o come lo si voglia chiamare, è un modo che hanno gli esseri umani di sentirsi protetti, capiti, ascoltati. E quando Castiel era arrivato nelle loro vite, lei aveva capito che quello era il modo che aveva Dio di dirle che la stava proteggendo.
Infatti, era stato Castiel a riportarle il suo papà, facendolo uscire dall’Inferno. Nonostante avesse sette anni, la prima volta che lo vide alla soglia di casa sua, con i capelli corvini arruffati e gli occhi duri come pietre azzurre, la postura rigida di un soldato e la voce profonda, percepì dentro di se un’ondata di calore nei confronti di quello sconosciuto. Sapeva che avrebbe dovuto provare timore perché appunto degli sconosciuti non ci si fida, ma con Cas era stato diverso.
Ricordò come andò verso di lui, quando lo vide la prima volta. Suo padre era di spalle, le gambe aperte, i piedi ben ancorati al pavimento, come se cercasse di rimanere saldo, e le spalle rigide, parlava con Castiel che era appoggiato al lavandino della cucina, le braccia incrociate al petto e il tono di voce duro e severo.
«Portami rispetto, Dean, o tornerai nel luogo da cui ti ho salvato.» Castiel fece un passo verso di lui e sebbene trasmettesse un’aura minacciosa, imperiosa, Dean non si mosse. Rimase esattamente fermo dove si trovava. Max non poteva saperlo, ma Dean lo fece per lei. Non voleva di certo sfidare un’entità ultraterrena, soprattutto perché lo stava minacciando di rispedirlo all’Inferno, ma aveva sentito i passi di Max dietro di sé e l’ultima cosa che voleva era che una creatura sovrannaturale di cui non aveva conoscenza alcuna – era la prima volta che vedeva un angelo – e di cui non si fidava si avvicinasse alla sua bambina. Sarebbe morto prima di farlo avvicinare alla sua piccola.
Ricordò anche che suo padre non ebbe il tempo di rispondere nulla perché lei lo afferrò per una mano e piantò i suoi occhi su Castiel, che abbandonò la durezza nella voce e nello sguardo per guardarla con dolcezza. Dean non si rilassò, mantenendo la sua diffidenza, ma si concentrò sulla sua bambina che sembrava non temere in alcun modo quell’uomo; lei, che di solito per prendere confidenza con le persone ci metteva moltissimo. Era una cosa che l’aveva sempre rassicurato, mentre in quel momento vederla avvicinarsi con tanta naturalezza a quello sconosciuto lo spaventò e non poco. Se per caso, Castiel avesse avuto cattive intenzioni con lei, avrebbe potuto approfittare della fiducia che Max provava nei suoi confronti. Un’ondata di bile investì lo stomaco del cacciatore, il corpo gli tremò, scosso da brividi bollenti, rabbia e istinto di protezione si stavano mescolando in lui.
«Ciao, Max.»
«Ciao. Sei un amico di papà?»

Lui si chinò alla sua altezza, «Si, sono un amico di papà. Come stai?»
«Max»,
Dean si sistemò tra l’angelo e la figlia. Castiel, ancora chinato, alzò gli occhi su Dean, che lo guardava dall’alto al basso, un guerriero pronto a difendere la sua principessa anche a costo della morte; Castiel si rimise in piedi con lentezza e incastrò i suoi occhi in quelli di Dean. Il cacciatore non si mosse di un passo, per nulla intimorito dalla figura angelica. «Vai a giocare con lo zio Sam.»
Lei aveva obbedito ed era trotterellata via.
Era tutto così cambiato, adesso.
Adesso, lo sconosciuto che fissava suo padre con severità, era diventato una delle persone che Max amava di più al mondo e che reputava parte integrante della sua famiglia.
“Andiamo?”
Castiel annuì, “Fammi strada.”

Entrarono a scuola dalla porta sul retro, quella da cui Max era uscita per entrare nel cortile degli scuolabus. Il suo primo istinto fu quello di dirigersi verso la mensa per assicurarsi che i suoi amici stessero bene, ma si rese conto che la priorità andava data alla folla e a Chapman che, anche se si era dimostrato gentile e d’aiuto, aveva pur sempre dei doveri da preside che l’avrebbero spinto a raccontare tutta quella storia, soprattutto la parte di Kevin. Così si diresse verso la palestra. Passarono la sfilza di armadietti, camminando al centro del corridoio. I loro passi echeggiavano tranquilli e lo stato emotivo di Max, adesso, era più rilassato. Non temeva più che qualcuno potesse sbucare dal nulla per aggredirla.
Arrivarono davanti alla porta della palestra, dove la musica arrivava ovattata e faceva tremare il pavimento sotto ai loro piedi.
“Ci siamo Max. Sei pronta?”
La giovane annuì. “Prontissima.”
Max spalancò la porta, sentendola più pesante del solito. I suoi muscoli, che adesso cominciavano a rilassarsi del tutto, iniziavano a sentire i postumi degli sforzi da combattimento di tutta quella nottata assurda. Provò un senso di oppressione al pensiero che il peggio doveva ancora arrivare. Affrontare Dean sarebbe stato faticoso quanto affrontare Rufus. Per non parlare di quanto sarebbe stato doloroso. Ma era pronta. Sapeva che prima o poi, in un punto impreciso della sua vita, lei e suo padre avrebbero dovuto affrontare la situazione a cuore aperto, senza nascondersi dietro alla scrivania sicura di Bobby o ad allenamenti che, ormai, cominciavano a risultare sterili. Doveva passare al livello successivo, se voleva essere in grado di difendersi come si deve e questo significava spingere anche Dean oltre quel confine che avevano segnato e che, ormai, andava attraversato. Non era più una bambina, era una ragazza e in quanto tale, doveva ricevere gli adeguati allenamenti per essere davvero in grado di difendersi da sola.
“Va tutto bene, Max?”
“Sì, Cas, rimuginavo su delle cose.”
L’angelo la scrutò con i suoi occhi blu. Era come guardare l’oceano. Max aveva sempre pensato che Dio avesse preso spunto dagli occhi curiosi di Castiel per creare le profondità marine. Era una teoria, però, che si era sempre tenuta per sé.
“Sei sicura?”
Max annuì, così Castiel distolse lo sguardo da lei per farlo vagare su tutta la folla in movimento. Corpi che ballavano e si agitavano, proprio come quando, solo qualche ora prima, anche Max era lì in mezzo, a far parte di quella marea. Non si erano accorti del loro ingresso, la musica era troppo alta perché sentissero il solito cigolio frusciante della porta pesante che faceva attrito contro il pavimento. Gli occhi di Castiel abbracciarono la folla in tutta la sua interezza. Max lo vide fare un profondo respiro, prima di alzare la mano. Se lei non fosse stata consapevole della presenza dell’angelo al suo fianco, non si sarebbe accorta di niente. Avrebbe semplicemente scambiato quel movimento di luce bianca e accesa per un riflesso di una delle lampadine sulla palla stroboscopica, ma lei sapeva che nessuna luce artificiale poteva essere brillante quanto quella che veniva emessa da un angelo, che ricavava quel bagliore dalla sua stessa grazia. Non esiste niente paragonabile alla sfumatura argentea che assume la luce quando viene creata dall’energia della grazia angelica.
“Non ricordano niente né dell’attacco, né della storia di Kray.”
Max emise un sospiro di sollievo e circondò con un braccio la schiena di Castiel, mentre appoggiava il viso ad un lato del suo fianco. Era molto più alto di lei, anche se vicino a suo padre e a suo zio non sembrava così.
“Grazie, Cas. Davvero.”
L’angelo l’abbracciò a sua volta e Max, anche se ormai avrebbe dovuto averci fatto l’abitudine, si stupì nel non sentire il battito cardiaco di Castiel. Era così umano a volte, che dimenticava che non era nato così, che la sua natura era quella di un angelo e gli angeli non hanno un cuore che batte ritmico dentro ad una gabbia toracica; loro sono energia pura che pulsa eterna e che non è percepibile ad occhio umano, a meno che non si voglia finire con le retine bruciate e i bulbi oculari sciolti.
L’essenza di Castiel, la sua vera forma, i suoi fenomenali poteri, erano rinchiusi dentro ad un minuscolo spazio vitale.
“Smettila di ringraziarmi. Aiutarti è una delle cose che mi sono promesso di fare per te.”
“E le altre quali sono?” gli chiese, curiosa.
“Proteggerti, anche se la cosa ti suonerà estremamente ripetitiva, dal momento che tutta la tua famiglia vuole farlo.”
“Tu sei la mia famiglia, Cas.”
Nonostante tutti gli anni passati insieme, quella frase provocò a Castiel un tuffo al petto, come se improvvisamente gli si fosse materializzato un cuore, i cui battiti sfarfallavano frenetici. Era vero. Non la contraddiceva mai, ogni volta che Max lo includeva nella sua famiglia, perché sentiva di appartenere al suo nucleo familiare, a quelle persone che sarebbero state al suo fianco per sempre e avrebbero fatto di tutto per assicurarsi che lei fosse felice e al sicuro.
“Lo so. Per questo voglio proteggerti.”
Max sorrise, “Ci sono altre cose che ti sei promesso di fare per me?”
“Sì, ma le scoprirai a tempo debito.”
“E quanto sarebbe, esattamente, questo tempo debito?”
“Tutta la tua vita, Max.”
Dio l’aveva mandato sulla terra, ma era stato Castiel a decidere di rimanere con lei. E non l’avrebbe mai lasciata.
“A me sta bene.”
Castiel accennò un sorriso, gli angoli della bocca alzati, ma nessun dente in mostra. Gli occhi si addolcirono, un bagliore azzurro attraversò il blu intenso e rughe d’espressione si formarono ai loro lati. Era cambiato, da quando l’aveva conosciuto. In qualche modo, nella sua immortalità, Castiel era… invecchiato. La sua essenza umana, il suo tramite, a differenza della sua forma angelica, subiva il trascorrere del tempo esattamente come la subiva Dean, i cui lineamenti, con il passare degli anni e delle battaglie combattute, si erano induriti.
“Perché ti sei promesso di fare delle cose per me, Cas?” gli domandò, mentre uscivano dalla palestra, chiudendosi la pesante porta alle spalle. L’angelo la guardò di sfuggita e poi portò gli occhi in un punto imprecisato nel corridoio, dietro la spalla della ragazza.
“Ci sono cose che non sai, Max. Cose che non spetta a me dirti.”
Max lo scrutò. Sembrava che Castiel guardasse ad un tempo passato, lontano, che rivedesse eventi specifici, irrecuperabili. Ebbe l’impressione che, in qualche modo, stesse parlando di sua madre e, spinta da una forza invisibile, da un coraggio che, con ogni probabilità, le era cresciuto dentro in quella sera, lo chiese esplicitamente.
“Parli della mia mamma?”
Gli occhi di Castiel sfrecciarono di nuovo su di lei, vivi ed elettrici. “Sì, Max. Parlo di Abigail.”
“Perché?”
L’angelo emise un lungo, doloroso, sospiro. “Senso di colpa, immagino. Pentimento. La mia croce è, in qualche modo, aver fatto parte di qualcosa che ha contribuito all’omicidio di tua madre.”
Le mancò l’aria. La testa cominciò a vorticare e una fitta allo stomaco glielo chiuse come se un gigante di pietra la stesse stringendo tra le sue mani.
“Anni fa avevo convinzioni diverse, Max. Anni fa credevo che il Paradiso avesse sempre ragione, ma quando ho scoperto cosa avevano fatto alla tua famiglia per raggiungere i loro scopi, beh, io… io non potevo sopportarlo.”
Max deglutì a fatica. Alla mente le balenò l’immagine di un Castiel più giovane, lo stesso che aveva visto in cucina, un soldato obbediente, fiducioso. Una risorsa potente. Nulla è più fruttuoso della lealtà di un soldato che crede ciecamente nella causa che ha deciso di servire. E immaginò lo stesso Castiel sentirsi tradito da quella stessa causa in cui aveva deciso di credere tanto. Lo immaginò infuriarsi, scatenare contro il Paradiso la sua furia celeste, incontrollabile – la stessa ira che lo portò alla ribellione, al rifiuto di seguire ordini ciechi per rivendicare il suo diritto al libero arbitrio. Castiel, che pur avendo un’anima pura, ha percorso, in maniera del tutto diversa, i passi di Lucifero, suo fratello.
“L’hanno uccisa gli angeli?” sussurrò con un filo di voce, così flebile che faticò ad udirsi persino lei. Aveva la gola così secca che le faceva male parlare.
“Non è così semplice, Max. Parlane con tuo padre, d’accordo? Poi tornerai da me, se vorrai, e ti dirò tutto quello che vuoi sapere.” Castiel l’abbracciò, tirandola forte a se. La baciò la fronte, con delicatezza, con il suo modo dolce e impacciato, affettuoso. “Non è così semplice.” Disse di nuovo, questa volta più a se stesso che a lei, mentre le accarezzava la testa con la stessa tenerezza che avrebbe potuto usare suo padre.
Max, aggrappandosi all’impermeabile logoro di Castiel con così tanta forza da far diventare le nocche bianche, cominciò a piangere senza nemmeno rendersene conto.
Lacrime silenziose e invadenti, come il passato, il quale, per quanto si cerchi di evitare, prima o poi torna sempre per presentare il conto, piombando silenzioso e tremendamente invadente, impossibile da ignorare.


Le parole di Castiel ancora le echeggiavano in testa, mentre con l’angelo al suo fianco si dirigeva in mensa.
Avrebbe confessato ciò che aveva fatto quella sera, come aveva promesso a Castiel, e poi avrebbe chiesto a suo padre la storia di sua madre. Ricordava poco di Abigail, a stento ricordava i dettagli del suo viso, o il suono della sua voce. Dean, dopo la sua morte, aveva nascosto tutte le cose che erano appartenute a sua madre dentro a degli scatoloni, comprese le foto. Non le aveva mai raccontato com’era morta, o come avesse fatto a conoscerla – almeno, non nei dettagli, l’unica cosa che sapeva era che il loro incontro era legato alla risoluzione di un caso. E lei non aveva mai fatto domande, all’inizio perché suo padre le bastava, quando poi aveva cominciato a sentire l’assenza di sua madre, aveva capito che fare domande su di lei faceva si che le ferite aperte nel cuore di suo padre cominciassero a sanguinare. Si chiudeva in se stesso per giorni, dopo che lei gliela nominava, mentre Bobby e Sam gli lanciavano occhiate apprensive e preoccupate, come se si aspettassero di vederlo crollare in mille pezzi sotto ai loro occhi da un momento all’altro.
Ma lei doveva sapere.
Era giusto che sapesse.
Abigail era parte di lei, era la sua mamma. Aveva il diritto di conoscerla.
“Siamo arrivati,” comunicò a Castiel, appena riconobbe la porta della mensa. La sua voce risultò roca, persino funerea. Ingoiò il magone che le stava crescendo in gola e appoggiò i palmi delle mani sulla maniglia a spinta della porta.
Accantonata la sensazione di tristezza che tutta quella storia le provocava, spinse con forza e la porta si aprì.

La prima cosa che cercò con lo sguardo furono i suoi amici. Li vide raggruppati dentro ad un cerchio di sale, proprio come gli aveva detto di fare. Fu contenta di vedere che, esclusa la preoccupazione e la paura che solcavano i loro volti, stavano tutti bene. Non appena la videro, Zoe si staccò da Aaron, che la stava tenendo stretta a sé, e fece per andarle incontro – proprio come era successo quando Rufus si era volatilizzato nell’aria in corridoio – ma Ben la bloccò, uscendo dal cerchio, colpendo con la spalla JJ che si trovava alla sua sinistra, e le corse incontro. Il sale ai suoi piedi formò una striscia allungata, uno squarcio di granellini biancastri che si sparsero per tutto il pavimento. Le suole dei suoi anfibi graffiavano le mattonelle, la camicia gli svolazzava intorno, insieme ai capelli, mossi dalla velocità della corsa. Si fermò davanti a lei, il petto si alzava e si abbassava, il respiro ancora ansimante. Di slancio la tirò a se, abbracciandola così forte da farle male.
“Benj-”
Non la lasciò finire. Nell’esatto momento in cui le sue braccia abbandonarono il corpo di Max, le mani del ragazzo si posarono sul suo viso, chiudendosi a coppa. Senza esitazione alcuna, si chinò su di lei e la baciò.
La testa di Max vorticò e le sue orecchie fischiarono per qualche istante prima che si rendesse esattamente conto di quello che stava succedendo. Prima che capisse che ciò che sentiva sulla bocca erano effettivamente le labbra di Benji e lui altro non stava aspettando che una sua reazione, che non tardò ad arrivare. Sorrise, prima di schiudere le labbra e trasformare quel bacio in un vero bacio. Le sue mani andarono ad aggrapparsi alla schiena di lui, essendo troppo bassa per arrivare fino alla sua nuca. Si era immaginata mille volte come sarebbe stato baciarlo, ma nessuna fantasia reggeva il confronto con la realtà, con l’euforia che sentiva crescere dentro, la testa che girava e il cuore che pompava sangue e adrenalina in ogni centimetro del suo corpo. Sentiva le mani di lui salde sul proprio viso, fino a quando una di esse non abbandonò una delle sue guance per posarsi sulla sua schiena e tirarla di più a sé, facendo aderire perfettamente i loro corpi, che si incastrarono sinuosi, come due pezzi di puzzle.
“Volevo farlo da un sacco di tempo,” le sussurrò dopo essersi staccato per tornare a respirare, la fronte appoggiata a quella di lei.
Max, con ancora il cuore che scalciava in petto e le guance rosse, sorda a qualsiasi altro rumore che non fosse quello provocato dallo scontro delle proprie labbra con quelle di Ben, sorrise.
“Avresti dovuto farlo prima.”
“Non pensavo, sai…”
“Così però rovini il momento!” urlò Aaron, alle sue spalle. “Non puoi baciarla in quel modo e poi blaterare come una femminuccia, distruggi il momento macho!”
“Io ti ammazzo, Walsh. Giuro che ti faccio a pezzi!” ringhiò Zoe, al suo fianco, pizzicandogli un braccio. JJ, accanto a loro soffocò una risata, “Sono anni,” continuò la ragazza, “a n n i, che guardo quei due che si sbavano dietro e tu rovini il momento così?”
Max, che a differenza di Benji, vedeva i suoi amici che si erano avvicinati un poco, ma rimanevano comunque a debita distanza, vide Zoe alzarsi sulle punte per dare uno scappellotto ad Aaron.
“Se non lo uccide lei, lo faccio io.” Le disse Ben, che però non si era voltato a guardare l’amico. I suoi occhi neri e profondi, come le acque dell’oceano Artico, erano tutti concentrati su di lei. Le mancò il respiro. Non l’aveva mai guardata in quel modo, o meglio, se l’aveva fatto lei non se n’era mai accorta. In quel preciso istante, le sembrò di essere la cosa più bella e preziosa che l’intero pianeta avesse da offrire. Le si accartocciò lo stomaco.
“Non hai rovinato niente, Ben.” Si alzò sulle punte per dargli un bacio leggero. Si sentiva così euforica che le sembrava di volare su una nuvola. Solo Castiel che si schiariva la gola alle sue spalle la fece ritornare alla realtà. Provò una fitta di imbarazzo che le infiammò il viso, realizzando in quel momento che l’angelo aveva assistito a tutta la scena. Per come la vedeva lei, era quasi come se fosse successo davanti a Dean.
“Stanno tutti bene.” disse Cas, avvicinandosi. Benji, automaticamente, fece un passo indietro. L’angelo incastrò i suoi occhi blu sul ragazzo, studiandolo con attenzione. Le palpebre socchiuse e le sopracciglia aggrottate. “Tu provi delle pulsioni sessuali nei suoi confronti, ragazzo?”
Max si strozzò con l’aria, mentre Benjamin annaspò. Conosceva Castiel come lo zio acquisito di Max, quindi fu una domanda piuttosto imbarazzante. Soprattutto perché la risposta era affermativa, ma non l’avrebbe mai detto ad alta voce. Non davanti a lui.
“CAS!!” gridò Max, guardando l’angelo con gli occhi verdi sgranati. Dal gruppo si sentirono delle risate soffocate.
“È una domanda semplice, non capisco perché ti scandalizzi. Lo sento, comunque, quindi non può mentirmi.”
Ben alzò le sopracciglia confuso: “Lo senti?
“È un discorso complicato, Benji. Possiamo parlarne domani? Ora io dovrei…” la ragazza lanciò un’occhiata a Castiel, che annuì lentamente, “dovrei fare una cosa in famiglia.”
“Ha a che fare con tutto ciò che è successo stasera?”
“Esatto.”
“Certo, ci vediamo domani.”
“Prima però,” cominciò Castiel studiando i volti di tutti i presenti, “devo proporvi una scelta: dimenticare o vivere con la consapevolezza.”
Max in lui vide il leader che era stato seguito durante la guerra civile in Paradiso, l’angelo in cui altri angeli avevano posto la loro fiducia, riconoscendogli la capacità del comando che Cas non aveva mai saputo di avere. Aveva la postura rigida del soldato, la stessa che avevano nella sua famiglia, la stessa che aveva lei. Gli occhi erano fissi sui presenti, due pietre cobalto da cui è difficile staccare lo sguardo, a meno che non si temano. E Max non faticava ad immaginarsi uomini, angeli, amici e ancora di più nemici, abbassare impotenti il proprio sguardo sotto a quello combattivo e intimidatorio di Castiel.
“Io voglio dimenticare.” Kevin uscì dalle spalle degli amici di Max. La voce che tremava e gli occhi cerchiati. “Non voglio ricordare niente di tutto questo.” La paura ancora piegava le sue corde vocali. Max poteva capirlo. Molte volte aveva guardato il viso di suo padre scavato dagli orrori della loro vita e si era chiesta quanto avrebbe voluto non sapere, quanto gli sarebbe piaciuto non essere uno dei migliori nel suo mestiere. La conoscenza costa sacrifici. La fama ha un prezzo così elevato che ha portato suo padre ad avere debiti che non riesce a sanare completamente.
“Ne hai il diritto, Kevin.” Disse quindi Max. “Come ne avete il diritto tutti voi.”
I suoi amici, però, scossero la testa. Ben le afferrò una mano e parlò per tutti: “Non se ne parla, testina spiumata. Noi vogliamo sapere tutto.”
“D’accordo.” intervenne Castiel, “Avvicinati, ragazzo.”
Kevin, tremante e piuttosto titubante, lanciò un’occhiata a Max.
“Fidati, Kevin. Non ti farà del male.”
Il ragazzo obbedì. Si avvicinò all’angelo e, nel momento in cui Castiel alzò la mano, chiuse gli occhi. La luce invase le sue palpebre chiuse, rossastra e calda, e improvvisamente, la sua mente tornò alla palestra. Insieme alla sensazione che era lì che doveva andare. Infatti, senza fare domande o salutare i presenti, si diresse all’uscita della mensa, sparendo dietro la porta.
“Dobbiamo andare, Max.”
La ragazza annuì all’angelo e poi si rivolse ai suoi amici. “Domani vi spiegherò tutto, dal principio.”
“A domani, Max.” la salutò Zoe, abbracciandola forte. I ragazzi si unirono a quell’abbraccio e Max dovette impegnarsi con tutte le sue forze per non crollare in un pianto che racchiudeva al suo interno un mare di emozioni: gioia per averli ancora tutti interi, gratitudine per averli incontrati, felicità per essere amata nello stesso modo in cui lei amava loro. Erano l’altra parte della sua famiglia e mai abbastanza avrebbe ringraziato chiunque muovesse la grande giostra, lassù, per aver fatto incrociare i loro cammini. “Vi voglio bene, ragazzi.” E a quel punto, un’unica lacrima solitaria solcò il suo viso.

*
 
Il viaggio di ritorno, fatto con il teletrasporto, lontano da occhi indiscreti, fu tanto breve quanto sconquassante. Il suo stomaco fece almeno quattro capriole e Max dovette far ricorso ad ogni fibra del suo corpo per non vomitare davanti al portico di casa.
Quando però salì le scale in compagnia di Castiel e si trovò davanti alla porta di casa con tutta l’intenzione di far girare la chiave nella toppa, improvvisamente la voglia di vomitare tornò prepotente, insieme ad un gran giramento di testa e la voglia di svenire.
Avrebbe evitato un sacco di rogne, in quel modo. Suo padre forse si sarebbe impietosito e sarebbe stato più comprensivo. O magari, ipotesi più plausibile, avrebbe girato il coltello nella piaga dicendo che tutto quel malessere era dato dalla caccia di quella notte, andando a calcare il fatto che avrebbe dovuto chiamarlo.
“N-non posso farlo,” sussurrò impercettibilmente. La gola secca e il cuore che la soffocava, come se si fosse improvvisamente spostato sull’ugola.
“Si che puoi. È una tappa, Max. Tu e Dean l’avete rimandata per troppo tempo, ma è necessario che l’affrontiate, adesso. Rappresenta una crescita per entrambi.”
“Ma… ho paura. Non voglio crescere, non in quel senso. Non sono sicura di voler cacciare nella mia vita.”
“E allora non caccerai.”
Max staccò gli occhi dalla porta solo per portarli su Castiel, che già la stava guardando.
“Non è mio dovere farlo? Insomma… ho sempre pensato che tutti se l’aspettassero da me. Sono una Winchester… il family business… e che mi dici del fatto che non posso nascondere la testa sotto la sabbia, mh? So troppe cose, Cas, troppe, per far finta di niente e vivere come una persona qualunque.”
“Il tuo dovere, Max Winchester, è vivere esattamente come Max Winchester vuole vivere. Non devi pensare a cosa gli altri vorrebbero che tu facessi, devi pensare a quello che vuoi fare tu.”
“Ma non è da egoisti?”
“Non è nel vostro DNA essere egoisti. Se tuo padre e tuo zio lo fossero stati un tantino di più, si sarebbero risparmiati molte sofferenze.”
“A volte vorrei avere la sicurezza che ha papà,” sussurrò abbassando gli occhi sui suoi stivaletti. Erano sporchi di terra e impolverati. Dei granelli di sale si erano infilati tra le cuciture delle suole.
“La sua sicurezza deriva da anni di esperienza. Ma lui non ha avuto scelta, la sua esperienza è il peso di qualcosa di doloroso che si porta dietro da anni e che gli è stato imposto. Per questo, qualsiasi cosa vorrai, lui ti appoggerà. Ti ha dato una scelta da quando sei venuta al mondo, anche se non te ne sei mai resa conto.”
Max si lasciò andare ad un debole pianto, ormai troppo fragile, a quel punto della nottata, per riuscire ad erigere le barriere emotive necessarie a fermare la diga dietro i suoi occhi.
“Andrà tutto bene, Max. Parlagli e lo scoprirai.”


Quando Dean Winchester sentì la porta di casa aprirsi, si diresse verso l’ingresso per andare in contro a sua figlia. Aveva intenzione di chiederle se si era divertita, se la serata era andata come sperava andasse, insomma, cose del tutto tranquille, informazioni che erano lontane anni luce da ciò che gli parò davanti non appena i suoi occhi incrociarono la figura della ragazza. Max era in piedi, la porta chiusa alle sue spalle, Castiel al suo fianco. I vestiti impolverati, sporchi, la maglietta aveva uno strappo su un lato, sulla gamba destra di sua figlia abitava un lungo graffio rosso, non sanguinava, ma la pelle era rialzata, come se qualcuno – o qualcosa – l’avesse lesa non troppo in profondità da far fuoriuscire il sangue, ma quel tanto che basta ad irritare l’epidermide. E poi… poi i suoi occhi andarono al collo, dove un segno violaceo, quasi nero, fungeva da macabra collana, un testimone la cui veritiera parola era impossibile da ignorare. Max era stata aggredita. Una cieca rabbia montò alla testa del cacciatore, il cui cuore cominciò a scalciare nel suo petto, rimbombando come un tamburo di guerra. Chiunque fosse il colpevole di tale scempio l’avrebbe pagata cara.
“Amore,” le si avvicinò, preoccupato, allungando una mano per toccarla, ma lei si ritrasse. Dean, a quel punto, la guardò confuso e spaesato e Max avrebbe preferito una pugnalata negli occhi pur di non dover essere la causa del malessere del suo papà.
“Papà..”
“Chi è stato?” ruggì a denti stretti, le mani chiuse a pugno lungo i fianchi.
“N-nessuno, io…” deglutì. Era così difficile reggere quello sguardo angosciato e bellicoso allo stesso tempo. Era un uragano, Dean. Uno spettacolo della natura distruttivo e indomabile, incontenibile. Spazzava via qualsiasi cosa si fosse messo tra lui e la sua famiglia, riservando una ferocia che raramente si poteva vedere in altri uomini. Era la furia dei disperati, la sua. Di quelli a cui è rimasto pochissimo per cui valga la pena vivere e lo difende con le unghie e con i denti, con prepotenza. Dean non avrebbe mai permesso che alla sua famiglia succedesse niente.
“I-io… avrei dovuto chiamarti, lo so.”
Dean aggrottò le sopracciglia. Alle spalle del padre, Max notò la presenza di suo zio e Bobby, entrambi assonnati. Probabilmente stavano dormendo. Probabilmente gli aveva svegliati.
“A-a-a scuola… c’è stato u-un attacco,” deglutì di nuovo, gli occhi tremanti rivolti al padre, bisognosa di cogliere la minima espressione nel viso di quest’ultimo. Ma Dean si stava limitando solo ad ascoltarla.
“Un…un fantasma, papà. Siamo stati aggrediti da un fantasma.” Esalò veloce. il cacciatore sgranò gli occhi e si passò una mano sulla faccia.
“Cosa vuol dire, Max?” cominciò paziente.
“Che un fantasma ha aggredito un ragazzo… l’ho medicato e poi… poi, poi ho risolto il caso.”
“Tu che cosa?”
Eccolo, lo guardo che Max non avrebbe mai voluto vedere in tutta la sua vita: un misto di rabbia, delusione e paura. Il viso di suo padre – improvvisamente invecchiato di cinque anni dopo aver elaborato quella confessione; l’accenno di barba rossa, chiaro indizio che non si radeva da giorni; gli occhi che sembrava avessero perso tutta la loro luce, lasciando che il nero delle pupille ingoiasse il verde delle iridi – sbiancò.
“Ho cacciato, papà.”
“Da sola?”
“C’erano anche i miei amici, con me.”
Dean chiuse gli occhi, il petto che si alzava ed abbassava in maniera frenetica, come se si stesse impegnando a controllare il respiro.
“Quindi, come una perfetta incosciente, non solo hai messo in pericolo la tua vita, ma anche quella dei tuoi amici???” controllare la rabbia nella voce, risultò più difficile, invece. Gli uscì come l’esplosione di un tuono, con la forza dei temporali, un pugno volò contro il muro.
Max si ritirò di scatto, sebbene sapesse che, per quanto suo padre potesse essere arrabbiato, mai le avrebbe messo le mani addosso. Era frustrato, furioso, lo capiva se necessitava di sfogarsi contro qualche oggetto.
“M-mi dispiace, io…”
“Tu cosa, mh?”
Una mano si posò sulla spalla del cacciatore, che sussultò, voltandosi e incontrando gli occhi di Bobby.
“Forse dovresti ascoltarla, senza aggredirla.”
Dean si liberò da quella presa con un gesto brusco. I suoi occhi cominciarono a saettare su Bobby, mentre lo fissava con un espressione colma di tradimento. “Non dovrei sgridarla, secondo te? Hai idea di cosa ha fatto? Hai idea della fortuna che abbiamo avuto?”
Bobby reagì alzando la voce a sua volta. Era l’unico modo che aveva per rimettere Dean dentro i cardini e cercare di farlo ragionare, di fargli fare un passo indietro per ricominciare tutto da principio. “Pensi che si tratti di questo, fortuna? Non credi che tua figlia abbia le capacità per cavarsela da sola?”
“No che non le ha, è una bambina!” urlò, frustrazione e paura grondavano dalla sua voce roca. Si passò una mano sul viso angosciato. “È la mia bambina.” Disse in un sussurro, la rabbia che sciamava, lasciando spazio solo alla preoccupazione, a quella spiacevole sensazione paralizzante di perdita. Aver perso Abbie era stato terribile, ma l’idea di perdere Max era inimmaginabile.
“Non è più una bambina, Dean.” Disse Sam, guadagnandosi un’occhiata truce dal fratello.
“Sì che lo è. Lo sarà finché avrò vita. Non rinuncerà ad una vita normale solo perché ha il mio cognome.” Ringhiò e Sam sostenne il suo sguardo, leggendoci dentro tutte le atrocità che avevano passato. Tutto il dolore che avevano condiviso, dalla morte di Mary, ai natali passati a rubare i regali dalle case degli altri, alla sensazione di non essere mai veramente a casa da nessuna parte, all’assenza di una vera stabilità. Dean non voleva questo per Max, non l’aveva mai voluto. Si era impegnato affinché la sua bambina avesse una vita normale, dandole qualcosa che a lui era mancato. Ma non poteva continuare a fingere che Max non fosse cresciuta e non avesse delle domande che le frullavano nella testa.
“Dean…” cominciò quindi, cercando di far ragionare suo fratello, ma sua nipote lo interruppe, chiedendogli scusa con gli occhi.
“Papà…” si avvicinò al padre, prendendogli una mano tra le sue. Era grande e calda, callosa e ricoperta di ruvide cicatrici, ognuna delle quali rappresentava una battaglia vinta. “So che sei arrabbiato, ma ho dovuto farlo, capisci? Era la cosa giusta da fare. Se ti avessi chiamato, Kevin sarebbe morto nell’attesa. I miei amici sarebbero morti. Non potevo rischiare.” I suoi occhi lo stavano supplicando di comprenderla e Dean, incrociando il suo sguardo, così simile al suo, non poté fare a meno di annuire. Doveva accettare il fatto che Max non era più una bambina, che era cresciuta e riusciva a notare e capire cose al di là dei limiti umani, cose che non poteva più nasconderle, ormai. Avrebbe voluto farlo. Dio, se avrebbe voluto. L’unico suo desiderio era di tenerla al sicuro, lontana da quella vita, dal sangue e dalla morte. Dalla perdita.
Ma era una Winchester e, come aveva detto una volta Sam, loro erano dannati.
“Avresti dovuto chiamarmi comunque. Tu avresti iniziato, io avrei finito.”
“Non me l’avresti lasciato fare, e lo sai meglio di me.”
“Hai ragione. Ti avrei rinchiusa nell’Impala e avrei fatto il culo al figlio di puttana che ha ferito la mia bambina.” Serrò le mascelle, mentre guardava il livido scuro sul collo di Max.
La ragazza accennò un sorriso. “E lo capisco, ok? Anzi, forse te l’avrei persino lasciato fare. Ero così spaventata, papà. Ma… se non l’avessi fatto non mi sarei mai messa alla prova, non avrei mai capito chi sono, o cosa voglio, e saremmo rimasti ad un punto morto.”
Dean si prese del tempo per elaborare quelle parole e, deglutendo a fatica, le domandò: “E cosa vuoi, Max?”
La ragazza percepì il timore nel tono di voce di suo padre. Era raro vederlo o sentirlo spaventato, lui che si mostrava sempre sicuro di sé davanti a chi amava, in modo che potessero contare su di lui – appoggiarsi a lui. “Voglio rendermi utile. Voglio essere parte degli affari di famiglia, ma voglio anche avere una vita normale. E so che è impossibile, ma io…” lanciò un’occhiata a Castiel. «Il tuo dovere, Max Winchester, è vivere esattamente come Max Winchester vuole vivere.» “Io sono entrambe le cose, papà. Sono una Winchester, di conseguenza una cacciatrice, e ne tu ne io possiamo continuare a far finta che non sia così. Ma sono anche Max, solo Max, e non voglio che questa parte di me venga soverchiata dall’altra.”
Dean sospirò. Sentirla parlare in quel modo era più doloroso di quanto avrebbe mai ammesso perché significava che il tempo era inevitabilmente passato e la sua bambina era cresciuta. Era diventata una ragazza giudiziosa, in grado di prendere decisioni da sola – decisioni che lui, più nolente che volente, avrebbe dovuto rispettare. Non voleva certo continuare ad imporle le sue regole, perché aveva visto con i suoi occhi cosa succede quando un Winchester impone ad un altro Winchester uno stile di vita. Se suo padre fosse stato più elastico con Sam, forse suo fratello non li avrebbe mai lasciati. Forse anche Sam avrebbe scelto la strada di Max, quella via di mezzo che permette di camminare tra le due realtà.
“Non so se sarà mai possibile, Max.” le disse, sincero, perché comunque era ciò che pensava. Unire le due realtà era addirittura più difficile che sceglierne una in cui vivere. “Ma se vuoi farlo, ti aiuterò.”
Il viso di Max si illuminò, abbandonando quel cipiglio preoccupato. E a Dean ricordò così tanto sua madre, che quasi si pentì di aver acconsentito a quella richiesta. Abigail era morta proprio perché lui aveva creduto di poter camminare tra le due realtà. Aveva avuto la presunzione di poter essere sia un Winchester che Dean, solo Dean, il ragazzo che lavorava in officina e aggiustava le macchine, mentre la sua ragazza incinta lo aspettava a casa. Serrò la mascella, combattendo delle lacrime che sentiva sarebbero arrivate. Fu inutile: i suoi occhi si inumidirono ancora prima che riuscisse a combattere questa emozione.
“Papà? Stai bene?”
No, non che non stava bene. Aveva appena consentito alla condanna di sua figlia e non poteva tirarsi indietro.
“Sì, tesoro, sto bene.”
“No, invece.” La voce di Castiel, rimasto in silenzio fino a quel momento, riempì le mura di quella stanza. I presenti si voltarono verso di lui, Dean compreso, che lo guardò con un’espressione severa – come a suggerirgli di chiudere quella dannata bocca.
“Devi dirglielo, Dean.”
Il cacciatore si irrigidì. “No che non devo.”
“Sì, invece. Se vuoi che scelga coscienziosamente, deve sapere tutto.
E davvero, in quel momento, Dean lo odiò. Odiò la fastidiosa capacità che aveva Castiel di leggerlo dentro, di capire cosa passasse per la sua testa. Quell’angelo impertinente aveva percepito il filo dei suoi pensieri e adesso lo stava costringendo a tirare fuori una storia che era troppo dolorosa, che doveva rimanere sepolta in un angolo remoto del suo cuore sanguinante. Come poteva chiedergli una cosa simile? Proprio lui, che sapeva ogni cosa.
“Non lo farò, Cas.”
“Allora lo farò io. In un modo o nell’altro, deve sapere.”
I due uomini si guardarono per un attimo che parve infinito, sostenendo entrambi le loro tesi, silenziosamente. Erano testardi, tutti e due, e difendevano a spada tratta le loro convinzioni e i loro punti di vista. Sarebbero rimasti a fissarsi in silenzio, nell’attesa che uno si arrendesse, probabilmente per sempre, se Sam non fosse intervenuto.
“Cas ha ragione. Devi dirglielo.”
Dean lasciò gli occhi cobalto di Castiel per andare ad incontrare quelli di suo fratello. Il viso di Sam era attraversato da quel familiare lampo di dolore che ormai caratterizzava la sua persona, ogni volta che ricordava quel periodo. Era stato il periodo in cui aveva perso Jessica.
“Vuoi davvero che lo faccia? Vuoi davvero che riviva tutto?”
“Non hai mai smesso di riviverlo, Dean. Ti torturi da quattordici anni, ormai. Togliere le sue foto ed evitare di nominarla, non ti ha risparmiato nessuna sofferenza, perché hai continuato a maledirti giorno, dopo giorno, dopo giorno.”
“Cos’altro avrei dovuto fare?” ringhiò a denti stretti. “Non sono riuscito a salvarla.”
“Avresti dovuto perdonarti.” Gli rispose Bobby, nel suo tono paterno.
“Non ho bisogno di perdonarmi. Ho bisogno di lei, nella mia vita. Ma non posso, perché è morta, perché sono arrivato tardi.”
Max guardò suo padre con le lacrime agli occhi, vedendo una fragilità in lui che non pensava potesse avere. “È per lei che mi hai tenuta lontana da tutto questo?”
Dean guardò la figlia. “Ti ho tenuta lontana da tutto questo perché credevo di poter camminare tra le due realtà, Max. Ma ero condannato. Eravamo entrambi condannati,” lanciò uno sguardo a Sam. “Non ci avrebbero mai permesso di essere cacciatori e delle normali persone con vite normali. Dovevamo combattere una guerra che non avevamo voluto e ucciderci a vicenda. E avere una famiglia ce l’avrebbe impedito.”
“Lucifero e Michele?” chiese la ragazza con un filo di voce.
“Lucifero e Michele.” Confermò. 
“Devi raccontarmelo, papà.” Lo implorò e Dean, seppur riluttante a versare del sale su quella ferita aperta, annuì.




---------------
Dopo mesi, letteralmente, sono tornata!
Ho lasciato ferma questa storia davvero per molto tempo, ma l'ispirazione se n'era andata e non sapevo davvero come impostarla. Non so esattamente cosa abbia fatto scattare il ritorno, fatto sta che da qualche tempo continuava a frullarmi in testa l'idea di riprendere questa storia e quindi, niente, l'ho fatto! 
Mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate, se vi va! 
C'è ancora un capitolo, che sto già scrivendo, che sarà quello conclusivo, dove cercherò di spiegare la storia di Dean e Abigail. 
Ringrazio chiunque abbia deciso di riprendere, eventualmente, questa storia e chi ha letto i capitoli precedenti. Lo apprezzo moltissimo!
Alla prossima <3 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3667449