Rimettere insieme i pezzi

di AlnyFMillen
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***



Capitolo 1
*** 1 ***


Rimettere insieme i pezzi
richiede dieci volte il tempo che serve per cadere





 
Uno, due, tre; quattro, cinque, sei.

Dieci volte, dicevano. Dieci misere volte. Dieci dannate, infinite volte. Quant'è passato dalla tua, di caduta? Quanti anni, quanti mesi, giorni, ore, minuti.... secondi? Quanto? Vuoi saperlo. Devi, ne hai bisogno. Un bisogno in ugual modo impellente, urgente e dilaniante.
 
Tredici, quattordici, quindici; sedici, diciassette.
< < Alzati Joh' o farai tardi a scuola > >.
Ventinove, trenta; trentuno, trentadue.
< < Gli Hunger Games non aspettano certo che tu cresca > >.
Quaranta, quarantuno.
< < È scaduto il suo tempo, signorina Mason > >.
Cinquanta.
< < Tick-tack, l'arena è un orologio > >.

Il corpo viene tirato indietro, due dita massicce e grassocce tengono ben stretto il collo della donna. 
La presa rimane ferma ancora per qualche secondo, il tempo di accertarsi che sia effettivamente viva, poi scivola verso la base del viso. 
Non sarebbe di certo la prima volta che, in uno di quei giochetti mortali, qualcuno ci rimette la vita a causa di  timer poco precisi. 
Pollice ed indice imprimono ancora una volta  il loro profilo ben delineato, lì dove le ombre violacee corrispondono perfettamente al tocco. Quelle stesse dita che ora torturano, solo poco tempo fa pulivano, truccavano, levigavano, ungevano la sua pelle quasi fosse una regina. 
La seconda mano va ad afferrare il tessuto leggero e stracciato della divisa che ha indosso, raggiungendo l'angolo dell'osso sporgente del bacino. Stringe, un tocco freddo, distaccato, come stesse dicendo che non vuole farle del male.
A Johanna verrebbe da congratularsi con quel tipo, semplicemente per il suo vivace senso dell'humour. L'ironia di quella stretta è così palese che comincia a pensare di dover stare seriamente attenta a non perdere la testa. Sempre che la ragione non l'abbia abbandonata già da un po', si intende. 
Se non fosse così certa — perché lo è  anche  deve ripeterlo continuamente per non scordarlo — che Snow e tutti i suoi seguaci muniti di camice bianco appartengano alla categoria degli esseri più ributtanti sulla faccia della terra, finirebbe per credere che loro le stanno facendo quel che le stanno facendo solo perché è il meglio per lei. 
È un corrodere psicologico, più che fisico. 
Ha sempre badato poco alle parole di chi afferma che “è tutto nella propria testa”, non si è mai fatta di questi problemi: il dolore inventato dalla propria mente per chissà quale squilibrio non può essere  nemmeno lontanamente paragonato a quello reale, tangibile. Persino appena uscita dall'Arena, con le maschere senza volto dei suoi compagni al seguito, ha continuato a credere fermamente nelle proprie idee. Insomma, un'ascia piantata dritta dritta fra le scapole — sgradito souvenir lasciato dal compagno di distretto subito prima di spirare — provoca sicuramente più dolore di quattro fantasmi immaginari. 
Eppure adesso la volontà comincia a vacillare, la realtà e la finzione non sono poi così distanti come li ricordava. C'è, o forse è meglio dire c'era, una stretta ma spessa linea a separarle che ha vacillato la prima volta, se la ricorda, quando i suoi occhi di bambina si sono posati sullo schermo del televisore stranamente acceso. 
A Johanna verrebbe da ridere, tanto perchè trova quei pensieri più che divertenti, ma non lo fa. Vorrebbe, non può a causa della tosse convulsa che le sta attanagliando il petto. 
La prenderebbero per i capelli, se potessero, se gliene avessero lasciati sulla testa. La tirerebbero su con violenza, con lo schiocco di qualcosa che viene riportato in superficie. Le ciocche corvine ricadrebbero fradicie sul suo viso, oscurandole in parte lo sguardo. 
Farebbe più
scena, di certo. 
Eppure non gli interessa più di tener in piedi nemmeno il loro spettacolino, basta che sia lei l'unica spettatrice. Vogliono metterla a nudo, fuori, dentro, ovunque. E ci stanno riuscendo.
 Non ha più niente e loro vogliono che lei lo veda bene, riflesso nella sua immagine a pelo d'acqua mentre un'uomo la costringe a tenere il capo chinato a pochi centimetri dalla vasca, ricordardandole che non ha più alcun potere nemmeno sul suo corpo. Se solo lui volesse immergerla di nuova, potrebbe; se solo lui volesse farla restare lì a fissarsi, potrebbe. 
Ci sono giorni in cui la lasciano semplicemente lì, davanti allo specchio d'acqua, aspettando probabilmente che dia di matto. Ma lei resiste, resiste accumulando l'odio e conservandolo per la battaglia finale che, lo sa, arriverà. Quando finalmente avranno escogitato un modo per poterli portare fuori da quel dannato manicomio tutta l'ira, il rancore covati verso le bestie si potrà riversare fuori dai suoi occhi come un fiume in piena. Almeno, insieme ad esso, espellerà anche l'acqua. 
La pelle entra in contatto con una superficie che sa di freddo e metallo. 
Istintivamente, cerca di ritrarsi con uno strattone mal coordinato ma le sue membra sono troppo deboli per assecondarla. Dov'è Johanna Mason, si chiede. Dov'è la ragazzina sopravvissuta agli Hunger Games, la ragazza sfrontata, la donna forte e temuta, si domanda. La risposta emerge semplice e priva di senso nel buio della mente.

'È morta'
Perchè è così, non può essere altrimenti. Non saresti qui a stringere i denti fino al punto di rottura per evitare di gridare. Non ancora almeno, non nei primi cinque miseri secondi, vuoi credere di avere la forza di resistere, la voglia di combattere. 
Percepisci le ventose -quelle maledette ventose- attaccarsi alle tue tempie, l'una dalla parte opposta rispetto dove si trova l'altra. 
L'impulso di strattonare le cinghie che ti tengono inchiodata alla sedia è forte ma devi trattenerti, i polsi e le caviglie sono già abbastanza mutilati e non serve che tu vi sfreghi sopra del cuoio. 
Inchiodi il capo allo schienale, con la consapevolezza che di lì a poco sotto i piccoli cerchietti di plastica appiccicati su di te vedrà la luce un altro lembo di carne cruda. Senti il sangue scivolare lungo la guancia, non riesci a pensare ad un particolare così stupido come quello che si incrosterà e non riuscirai più a pulirlo. 
Non c'è Finnick ad aiutarti come nell'Edizione della Memoria e se anche ci fosse non sarebbe comunque lì da te bensì da un'altra donna, la cella così attaccata alla tua da poter percepire ogni suo singolo rantolo. 
Che divertimento ci trarranno nel torturare qualcuno di così indifeso? Lo sanno anche loro, le manca qualche rotella. Perchè continuare ad infierire? 
L'hai vista non appena ti hanno sbattuto in quell'Hovercraft, dannata anche lei, e già sembrava fuori di sè nonostante l'avessero toccata nemmeno con un dito. Non stava delirando, non proprio, piuttosto era...
preoccupata. Per chi? Per te e quei due poveracci ridotti in fin di vita? Per lei stessa, temeva per la sua incolumità? Per quello che avrebbero potuto farle? No. Lei era preoccupata, terrorizzata dall'idea che fosse successo qualcosa a Finnick. 
In una situazione normale, le avresti urlato contro le peggio cose, una parte di te lo voleva intensamente. Voi eravate in quel casino, con praticamente due piedi nella fossa, e lei stava dando di matto per una persona che, se non era lì con loro, di certo restava sdraiato comodamente su un bel letto d'ospedale. L'infermità mentale può arrivare fino ad un certo punto, sicuramente non così in là. Eppure non avevi aperto bocca. Forse pensando a come, lontano da Finnick, ogni cosa per lei perdesse significato.
Senti l'ago pungerti il braccio e capisci che di lì in poi qualunque movimento ti sarà impedito. Non che potessi fare granchè, prima. Sforzi i bulbi oculari perchè possano mostrarti ciò che accade alla tua destra, lì dove si è spostato colui cui è stato affidato il compito di occuparsi di te. 

Pic.
La mano si poggia sulla leva ancora una volta.
Swish.
Spinge verso il basso ancora una volta. 
Tack
Ti spezza per la prima volta.


Tredici, quattordici, quindici; sedici, diciassette.
< < Alzati Joh' o farai tardi a scuola > >.
Ventinove, trenta; trentuno, trentadue.
< < Gli Hunger Games non aspettano certo che tu cresca > >.
Quaranta, quarantuno
< < È scaduto il suo tempo, signorina Mason > >.
Cinquanta
< < Tick-tack, l'arena è un orologio > >.


Hai urlato, urlato come non avevi mai fatto in vita tua. E scalciato, graffiato, ti sei dimenata come un'animale in gabbia ma non è servito. A niente. 
Guardi in faccia la realtà, sei rimasta ferma, immobile, impotente, mentre la tua testa si dibbatte per rimanere lucida. Fallendo. 
Sei rotta, ormai. Non funzionerai più bene. 
Per questo hai bisogno, hai davvero bisogno di sapere quanto, se una manciata di attimi oppure due vite intere. Questo per sapere ancora quanto dovrai aspettare, se cento notti oppure migliaia, se un fiume di lacrime o grida strazianti. Per quanto tempo dovrai restare ferma, immobile, incapace, a tremare e sperare, pregare con quell'unica goccia di sangue che ancora ti lasciano scorre placidamente nelle vene.

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Capitolo 2
*** 2 ***


Rimettere insieme i pezzi
richiede dieci volte il tempo che serve per cadere





 
Uno, due, tre, quattro, cinque, sei

Dieci volte, dicevano. Dieci misere volte. Dieci dannate, infinite volte. Quat'è passato dalla tua, di caduta? Quanti anni, quanti mesi, giorni, ore, minuti.... secondi? Quanto? Vuoi saperlo. Devi, ne hai bisogno. Un bisogno in ugual modo impellente, fibrille, urgente e dilaniante.
 
Tredici, quattordici, quindici, sedici, diciassette
< < Alzati Joh' o farai tardi a scuola > >
Ventinove, trenta, trentuno, trentadue
< < Gli Hunger Games non aspettano certo che tu cresca > >
Quaranta, quarantuno
< < E' scaduto il suo tempo, signorina Mason > >
Cinquanta
< < Tick-tack, l'arena è un orologio > >

Non le è mai piaciuta molto la parola rompere, e lo stesso vale per i suoi derivati, aggettivi o nomi che siano. Può sembrare strano, ora che ci pensa: come fa una concezione astratta come l'insieme di più lettere messe perlopiù a caso - o almeno lei la pensa così - suscitare antipatia? E' un atteggiamento insensato, quasi stupido si direbbe, al pari di prendere di mira un elettrodomestico o un oggetto in generale. Forse anche peggio, dato che non si ha nemmeno concretamente la possibilità di averlo sotto gli occhi.
'Non è da Johanna'
Eppure a Johanna succede spesso questa cosa del non sopportare le parole, così come le cose, oltre alle persone. Basti pensare al dannato frullatore senape che tiene in cucina: non ci penserebbe due volte a buttarlo nel primo cassonetto di passaggio, e sempre più spesso si dice che prima o poi lo farà. Sarà il semplice fatto che anche il giallo, la cui colpa è solo quella d'essere un banalissimo colore, rientra nel suo raggio di odio personale, ma prima o poi lo farà. 
Ecco, lo stesso vale per il suo carissimo rompere e i dannati amichetti rotto e rottura. Inspiegabilmente, totalmente, completamente odiosi. Il solo sentirli pronunciare le rabbuia di scatto la giornata, le fa chiudere una o più conversazioni e addirittura sputare i peggiori degli insulti a chi si è preso la briga di inserirli da qualche parte. 
'Tutti idioti, quelli che usano una parola del genere senza aspettarsi delle conseguenze'
Ebbene, lei ce l'avrebbe pure una spiegazione a tutta quest'ostilità, e non è poi di questa difficile intuizione, ma se ne guarda bene dal dirlo in giro. Sia mai che a qualcuno venisse la malsana idea di darle della pazza o, peggio, dell'idiota. Allora si che verrebbero a crearsi seri problemi, e di certo non finirebbe lei per farne le spese. 
La buon vecchia Mason non si sarebbe fatta scrupoli nel dire chiaro e tondo la propria opinione al riguardo, mandando al diavolo chiunque fosse in disaccordo e dandole di santa ragione a chiunque osasse criticarla. 
Non che adesso abbia acquisito poi così tanta diligenza nell'esprimersi, ma cerca di contenere i danni pur di starsene tranquilla per i fatti propri. Insomma: se proprio deve dirla una cosa lo fa, se può benissimo evitare tiene la bocca chiusa. Sta alla sua sanità mentale decidere tra le due opzioni. Che poi nemmeno quella sia più affabile e il solo pensiero che la guerra possa aver ipoteticamente lasciato l'ombra di qualcosa di buono la fa rabbrividire d'orrore, non è il nocciolo della questione. 
Insomma, quelle parole con la r sono in cima alla scala dell'odio, proprio ai primi posti: non le tollera. 
Per questo, quando lo strizzacervelli del Tredici, come piace chiamarlo a lei, le chiede di scrivere su un foglietto quale sia la cosa, o la persona, o qualunque altra entità definibile che più detesta, impiega relativamente poco a decidere. 
'Appunto, relativamente'
Ovvio, c'è stato da pensare a tutto un discorso di pro e contro, perciò non ci ha messo nemmeno poco, e altrettanto sicuramente il suo amico psichiatra - un psicologo sarebbe inutile per un caso grave come il suo - avrà creduto chissà cosa stesse facendo seduta sulla poltroncina grigia del suo studio improvvisato, a fissare la penna stretta tra le proprie mani. Peccato però che non potesse neanche intervenire, col rischio di turbare il tuo equilibro psichico, per cui si limita, proprio come sta facendo in questo preciso istante, a sorriderti con condiscendenza, in un modo che lui crede vagamente incoraggiante. Non sembra accorgersi della parvenza di smorfia assunta da quella sottospecie di sorriso, così vuoto e immobile da parere una mezzaluna spalmata sul volto, a metà tra il mento e il naso.
Sei diventata esperta di sorrisi, ormai. Non che tu sia quel genere di persona che ne prova abitualmente sulla sua stessa pelle, ma sai riconoscere perfettamente tutti i tipi di varietà. Ce ne sono talmente tanti generi che, se non l'avessi associati uno per uno ad ogni persona che conosci, sarebbe piuttosto difficile catalogarli e diverrebbe certo un problema. Credi, per quanto stupido, che dal sorriso si possa capire molto della personalità di una persona. Non stai parlando di quelle stupide smancerie da soap opera strappalacrime, nessuna rivelazione platonica sul senso della vita riflessa sullo smalto dei denti. 
Ecco, per far capire davvero, anche solo in minima parte, ciò che intendi dire, non puoi far a meno di porre qualche esempio.
C'è il sorriso sincero di Finnick, tanto per dirne uno, che ti rivolge ogni volta la determinazione brilla nei tuoi occhi; il sorriso complice di Katniss, quando finalmente trovate un punto d'accordo con qualche bravata; il sorriso folle dei capitolini, in occasione di qualche cena di gala. Il sorriso compassionevole di Peeta, che nonostante sia il più malridotto non ha mancato di rivolgerti; Il sorriso viscido del presidente,  quando ti assegna un lavoro particolarmente sporco; il sorriso timido di Gale, così raro da essere notato solo se si guarda con attenzione.
Se trovi qualcuno con lo stesso modo di sorridere di qualcuno già conosciuto, lo cataloghi subito come simile. Non per questo decidi però di fidarti o meno, ovviamente.
Spesso hai incontrato uomini somiglianti allo psichiatra, primi fra tutti coloro presenti al funerale di tua madre, e i loro sorrisi sono forse i peggiori. Preferisci il silenzio austero degli altri abitanti del distretto, già di per sè ipocrita, a questo.
Devi lottare con tutte le tue forze per non scrivere sorrisi accanto a rompere sul pezzetto di carta, stai quasi per farlo, tanto per la voglia di vedere se l'uomo che ti sta davanti avrà ancora la stessa odiosa espressione stampata in faccia quando avrai finito di spiegargli il perchè di quella scelta. E invece pieghi il foglio in quattro parti ben precise, passando l'unghia dell'indice sull'estremità più alta per appiattirla. 
L'hai sempre fatto con precisione maniacale, non è un effetto collaterale delle torture. Semplicemente, essendo cresciuta nel Distretto Sette, carta e legname, non puoi fare a meno di ricercare un contatto con le tue origini. Può apparire strano a chi non ti conosce, si direbbe quasi tu abbia paura di crescere davvero, di affrontare la realtà nonostante tutto quel che hai passato. Sembra infantile, magari lo è, ma non per questo smetterai di squadrare attentamente il piccolo ritaglio tra le tue mani. 
'Non è da Johanna'
Eppure è proprio Johanna, o quello che ne rimane, a fare una cosa del genere.
Con occhio critico verifichi che i quattro angoli combacino perfettamente, l'uno sull'altro, poi poggi il tuo operato sul tavolino e attendi.
Passa poco tempo prima che la mano lesta dello strizzacervelli lo raggiunga. Stringe il foglietto tra il pollice e l'indice, stringendolo leggermente, lo spiega con lentezza mentre continua a fissarti.
Non ci tieni a vedere la sua espressione appena riuscirà a leggere, con quei suoi occhietti da ratto, ciò che hai scritto, ma ti costringi a mantenere fisso lo sguardo. Questo no, Johanna non è una codarda, non lo sarà mai. Potesse anche cadere il mondo, restasse sfigurata, rotta, rinchiusa in quella camera di torture a vita. Lei, pavida, mai. 
Se continui a ripetertelo, forse potrai ritrovare un briciolo della donna che eri.
E' più difficile di quanto sembri: osservare le dita ossute dello psichiatra stropicciare il rettangolino di carta, le sue labbra raggrinzite stringersi l'una con l'altra, come un professore quando vuole giudicare il compito di un alunno. Durante le sedute non hai mai riflettuto su quanti anni abbia, ma potrebbe benissimo avere la stessa età del tuo odioso insegnate della scuola media.
Da un carnefice a un altro, partendo da un Hunger games, finendo a quello dopo.
Nella testa, lo percepisci nitidamente, la vocina fastidiosa dell'uomo chiede se davvero è così che interpreti le sue sessioni, ed è sicuro che questo non sia normale. 
Le prime volte hai opposto resistenza, più avanti hai compreso quanto fosse inutile. Così ti limiti a fissarlo con una nota di astio nello sguardo, apaticamente fai ciò che dice, attendendo il suono dell'orologio. Quando le lancette sfioreranno le dodici, sarai finalmente libera di andartene e affogare in pace nei tuoi incubi, senza che nessuno annoti sul suo taccuino quante volte tu ti sia svegliata urlando.
L'uomo fa per aprire bocca e parlare, ma finalmente il supplizio finisce e tu scatti in piedi. Senza aspettare di essere congedata, gli strappi il foglietto di mano e ti dirigi a passo di marcia verso la porta con la consapevolezza che non potrà mai aprirsi su null'altro se non su dei corridoi, tanto grigi quanto vuoti.
Pic
La mano si poggia sulla maniglia.
Swish
Spinge verso il basso ancora una volta. 
Tack
Ti spezza per la millesima volta


Tredici, quattordici, quindici, sedici, diciassette
< < Alzati Joh' o farai tardi a scuola > >
Ventinove, trenta, trentuno, trentadue
< < Gli Hunger Games non aspettano certo che tu cresca > >
Quaranta, quarantuno
< < E' scaduto il suo tempo, signorina Mason > >
Cinquanta
< < Tick-tack, l'arena è un orologio > >


Spalanchi l'anta e la lasci chiudere dietro di te, cosciente del fatto che già domani dovrai far ritorno in quella stanza, così come il giorno dopo e quello dopo ancora.
Vuoi che finisca, che la tua testa torni semplicemente a posto e, anche se sai che è impossibile, non puoi far a meno di desiderarlo con tutte le forze rimanenti. Te lo ripeti, ce la farai, ma ti serve un tempo massimo, prima di crollare di nuovo.
Per questo hai bisogno, hai davvero bisogno di sapere quanto, se una manciata di attimi oppure due vite intere. Questo per sapere ancora quanto dovrai aspettare, se cento notti oppure migliaia, se un fiume di lacrime o grida strazianti. Per quanto tempo dovrai restare ferma, immobile, incapace, a tremare e sperare, pregare con quell'unica goccia di sangue che ancora ti lasciano scorre placidamente nelle vene.

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