Innocenza

di Gwen Chan
(/viewuser.php?uid=64793)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Il Dossier ***
Capitolo 2: *** Tra Bugie e Verità ***
Capitolo 3: *** Faccia a Faccia ***
Capitolo 4: *** Con un passo ***
Capitolo 5: *** La Tempesta di Sabbia ***
Capitolo 6: *** La Morte non Discrimina ***
Capitolo 7: *** Cose Rimaste Non Dette ***
Capitolo 8: *** Prevedibile Come Dove Il Fulmine Colpirà ***
Capitolo 9: *** Gli ultimi chilometri sono sempre i più duri ***
Capitolo 10: *** Il Successo Può Essere Amaro, Caro ***
Capitolo 11: *** Si Guarisce in Due ***
Capitolo 12: *** Epilogo. Il Taccuino Blu ***



Capitolo 1
*** Prologo - Il Dossier ***


Prologo – Il Dossier
 
Il primo a scoprire il suo segreto era stato Phichit, quasi dieci anni prima. Era successo durante il caos nella camerata dove dormivano entrambi, l’immediato risultato di una soffiata a proposito di un’imminente ispezione a sorpresa.
Era stato in quella confusione che Phichit si era trovato a sistemare il letto di Yuri e, nel farlo, aveva notato l’angolo di quello che sembrava essere un quaderno sbucare da sotto il materasso. Sul momento non ci aveva fatto molto caso, limitandosi a nascondere l’oggetto per coprire l’amico.
Col passare dei giorni, tuttavia, la curiosità si era fatta sempre più intensa finché Phichit non aveva colto la prima occasione in cui si era trovato faccia a faccia con Yuri, lontano da orecchie indiscrete, per domandare: “Allora cosa nascondi sotto il letto?”
 
Yuri aveva strabuzzato gli occhi da dietro gli occhiali, seduto su quella stessa brandina, e dallo squittio prodotto dall’amico Phichit aveva capito di aver fatto centro. Roba grossa a quanto pareva. Un sorrisone si era allargato sul suo viso, mentre si chinava fino a mettere un braccio attorno alle spalle dell’altro con aria complice.
“E tu come lo sai?” domandò Yuri, con voce a malapena udibile. Phichit fece un gesto della mano come ad indicare che non riteneva la questione importante.
“È stato quando ti ho rifatto il letto prima che il Sergente Cialdini decidesse di farci la predica sullo scarso ordine della nostra baracca. Allora, cosa nascondi?”
“Non sono affari tuoi!”
“Fammi indovinare, riviste sconce? Allora potresti anche condividere. Non vedo una ragazza da così tanto tempo che sto cominciando a dimenticare come sono fatte.”
Yuri rise appena dietro al pugno chiuso. “Pensavo non ti dispiacesse farti le seghe pensando al culo di Leo!”
“Sì, ma alla lunga diventa noioso.”
Phichit sospirò in maniera teatrale, con le spalle che si alzavano in maniera esagerata.
 “No, seriamente, cosa nascondi?”
 
Yuri aveva sospirato. Conosceva Phichit da quando era entrato nell’esercito. Con lui aveva condiviso le umiliazioni e le discriminazioni che spesso colpivano chi come loro aveva gli occhi a mandorla. Si era meravigliato poi della destrezza con cui Phichit sapeva gestire ogni tipo di tecnologia, non importava quando fosse nuova. Scoprire che possedeva una certificazione con una specializzazione in informatica aveva solo fatto aumentare la sua ammirazione per lui. Sapeva anche che quando Phichit si fissava su qualcosa fargli cambiare idea diventava impossibile
 
Questa volta, in particolare, non escludeva che presto, ossessionato dalla curiosità, l’amico avrebbe atteso il primo attimo di distrazione per andare da solo fino in fondo alla faccenda.
“Se te lo dico prometti di non dirlo a nessuno?”
“Sarò muto come un pesce!” assicurò Phichit. Yuri non si sentì affatto rassicurato.
Si inginocchiò sul duro pavimento e infilò un braccio nello spazio tra il materasso bitorzoluto e la brandina in ferro. Quando lo tirò fuori le dita si stringevano sulle coste di un oggetto sottile e rettangolare. Non era, con delusione di Phichit, una rivista porno, ma un-
“Dossier,” commentò l’uomo nell’aprire il quaderno. “E non un dossier qualunque. Un dossier su “
Yuri pregò che fossero tutti troppo impegnati con le loro faccende per sentire il grido di sorpresa di Phichit. “Victor Nikiforov!”
“Abbassa la voce!” sibilò Yuri, agitando le mani come un ossesso. Il quaderno, ora poggiato sulla brandina, si era aperto su una delle prime pagine. Mostrava una serie di appunti in bella grafia che circondavano una foto sgranata presa da un qualche quotidiano. Phichit fece scorrere gli occhi sulle scritte.
“Nome. Data di nascita – fortunato ad essere nato a Natale, secondo te si becca doppi regali? – città natale. Grado. Breve biografia. Missioni. Cavolo, Yuri, non dico che questa roba sia da servizi segreti, ma i russi non sono così generosi con le informazioni che li riguardano, soprattutto in ambito militare. Come caspita hai fatto a mettere insieme tutto questo?”
Yuri si strinse nelle spalle. Nell’accarezzare la copertina giallognola del quaderno provò un sentimento simile all’orgoglio nascere nell’addome.
 
“Non è nulla di così eclatante. La maggior parte sono cose dette qua e là al telegiornale. Victor è troppo un genio perché il suo nome non finisca sui giornali internazionali. E poi lui stesso è meno attento alle informazioni sulla sua persona di quanto l’URSS voglia ammettere. I suoi superiori lo odiano per questo.”
 
Se Phichit avesse aperto ancora di più la bocca, la mascella sarebbe finita sul pavimento. Yuri parlava con voce timida, eppure con sicurezza e nei suoi occhi vi si leggeva quel genere di passione che ti fa restare sveglio la notte.
Poi qualcosa doveva essere passato in quella testa che quando non era impegnata a crackare codici si struggeva pensando a musical tailandesi e ai suoi criceti a casa. Aveva sorriso, dando una pacca sulla schiena dell’amico ed assicurandogli che con lui il suo segreto era al sicuro. Vide un lieve rossore colorare il naso dell’altro, quale conferma dei suoi sospetti.
Yuri Katsuki si è preso una bella cotta per Victor Nikiforov, era stato quello che Phichit aveva pensato.
 
Note: Dunque, la suddetta sarà la ri-traduzione in italiano di una fanfic che ho pubblicato in inglese su AO3. È completa e tolti i primi capitoli che devono essere revisionati in inglese (li avevo pubblicati prima di avere una beta) non tanto per la grammatica ma per l’accuratezza storica e dei dettagli, l’idea sarebbe di fare aggiornamenti settimanali tempo e voglia permettendo. Ma l’importante è che la storia sia finita, quindi nessun rischio di abbandono. Saranno 12 capitoli, di cui dieci di storia, un prologo (questo) e un epilogo (il 12). Siamo agli sgiccioli  della Guerra Fredda e per mia comodità Yuri, Phichit e gli altri personaggi non russi o che non vengono da un Paese nel Patto di Varsavia sono nell'esercito americano.
 
Siccome più si andrà avanti più i capitoli saranno lunghi, penso che userò un programma di traduzione per la prima sgrossatura e poi andrò a trasformare frasi altrimenti senza senso in qualcosa di leggibile.


Traovate qui la fic originale (
http://archiveofourown.org/works/9652415/chapters/21808040​) se volete farvi spoiler. 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Tra Bugie e Verità ***


Tra bugie e verità


Victor Nikiforov era stanco. Con le mani strette su entrambi i lati del lavabo coperto di muffa, sporgendosi in avanti per esaminare il proprio riflesso nello specchio sbeccato, si abbandonò a una certa vanità.

Fu con grande dispiacere che si accorse che l’attaccatura dei capelli cominciava a recedere; nonostante avesse ancora tutti i capelli in testa, il numero di quelli che stava perdendo, vuoi per stress, vuoi per motivi genetici, non accennava a diminuire.
Era in quei momenti che a Victor mancavano i giorni in cui i suoi capelli scendevano ancora lunghi fino ai fianchi. All’epoca aveva sedici anni e sorrideva sotto una coroncina di margherita, mentre Georgi intratteneva il loro piccolo pubblico di adolescenti con una ballata d’amore.
Ora Georgi era il Capitano Popovich, la sua chitarra abbandonata in un passato che sembrava appartenere a qualcun altro. Non era raro incrociare le proprie strade in quei giorni e ogni volta che si trovava faccia a faccia con il suo ex amico, Victor si chiedeva dove fosse finito lo Jora che si dipingeva le labbra di nero e piangeva per la crudeltà del destino.
Chiunque della loro vecchia cerchia se avesse visto Victor ora, avrebbe pensato lo stesso. Si sarebbe chiesto quando il Generale Nikiforov aveva sostituito il Vitya che se ne era andato di casa a quindici anni per inseguire i propri sogni

Rientrando nella stanza, Victor trovò Popovich - Capitano Popovich - già lì, in attesa. Georgi accolse Victor con un lieve cenno della testa e le sue labbra si strinsero in una chiara smorfia di invidia. L’uomo non era una cattiva persona. Victor lo sapeva - o almeno amava pensare che qualcosa del vecchio Jora fosse rimasto dentro l’uomo che ora esibiva un severo taglio a spazzola invece dei morbidi ciuffi castani di un tempo. Tuttavia, sapeva anche che Popovich era il tipo di persona facilmente soggetta a essere consumata dall’invidia. La propensione di Georgi per il melodramma non era scomparsa con l’addestramento militare; aveva solo trovato una nuova valvola di sfogo.
Come eterno secondo, nonostante avesse iniziato la sua carriera nell’esercito più o meno nello stesso periodo di Victor, era rimasto presto indietro. Senza speciali raccomandazioni e non essendo figlio di nessun membro importante del Partito, Georgi aveva dovuto lottare per conquistarsi gli avanzamenti di grado. Aveva combattuto con le unghie e con i denti.
Quando Victor aveva ricevuto la sua promozione a Generale - il più giovane Generale della storia russa - Georgi si era congratulato con lui, ma poi aveva privatamente annegato la propria frustrazione nella vodka.
Non era nemmeno fortunato in amore, pur essendo un uomo premurosa e mentre egli si sforzava per trovarsi una buona moglie, Victor saltava spudoratamente di donna in donna.

“Era ora, stavo cominciando a chiedermi se fossi caduto nella tazza del gabinetto!” sbuffò un terzo uomo, il Capitano di fanteria Yuri Plisetsky. Le sue dita tamburellarono con impazienza sul tavolo di formica.
Non sembrava particolarmente interessato al prigioniero legato alla sedia di fronte a lui. L’uomo, da parte sua, era ancora impegnato a decidere se essere terrorizzato o se far sfoggio di coraggio.
“Yakov?” chiese Yuri, notando l’assenza dell’ufficiale politico che avrebbe dovuto partecipare all’interrogatorio.
“Non si sentiva bene. Ha detto che possiamo fare a meno della sua presenza questa volta."
“Quel vecchiaccio sta cadendo a pezzi!”

Ridendo della sua stessa battuta, Plisetsky fece un gesto in direzione di una quinta persona che fino a quell’istante era rimasta nell’ombra, in un angolo contro il muro: il Tenente Otabek Altin.
“Tenente, hai detto che parli un po’ della sua lingua. Fortunato! Comunque, se sei pronto, io comincerei. Non vedo l’ora di sapere perché questa feccia stava gironzolando nei pressi del nostro campo. Su, chiediglielo!” continuò, abbandonandosi contro lo schienale della sedia, come a mostrare la propria indifferenza. Plisetsky sapeva di aver il coltello dalla parte del manico e, sempre fedele al soprannome che gli era stato dato - la Tigre dei Ghiacci - amava giocare col topo prima di liberarlo o di mangiarlo in un solo boccone, a seconda del suo umore.
Il prigioniero gettò un’occhiata prima verso Plisetsky, poi Otabek, e infine Victor, che sembrava essere capitato lì per caso. Poi, senza alcun avvertimento, Victor si sedette vicino a Yuri e cominciò a giocherellare con la Makarov che si portava appresso. Dopo aver mostrato che era carica, la prese per l’impugnatura e la fece roteare tra pollice e indice. Ignorò l’occhiataccia di Altin.
“Ehi Yuri, pensi che ci vorrà molto tempo?” chiese, non smettendo un attimo di giocare con la pistola. Gettò un’occhiata di traverso al prigioniero.
Compresa l’antifona, l’uomo, un mujaheddin, iniziò a parlare. Otabek tradusse.

“Dice che non ha fatto nulla di male. Dice che era un ... “ Altin attese un momento che il prigioniero ripetesse l’ultima parte della frase. Parlava in fretta, inciampando nelle sue stesse parole, in uno strano miscuglio di inglese e della sua lingua nativa.
“Guida per un gruppo di americani. Una squadra di ricognizione. Sarebbe dovuta essere una missione semplice” continuò Otabek. La sua traduzione era quasi simultanea. Parlava con un forte accento kazako.
“Dice che stavano testando le acque per stabilire una base in un villaggio vicino, un buon posto. Posizione elevata. Ma sono caduti nell’imboscata di un gruppo di banditi.”
“Diciamo pure di qualcuno come lui” commentò Yuri a denti stretti. Gli angoli della bocca di Victor ebbero un sussulto verso l’alto. Georgi rimase impassibile.
Yuri si chinò in avanti sul tavolo. “Sai, non credo a mezza parola di quello che hai detto!” soffiò. “Tenente, diglielo!”
Nel sentire le parole di Altin, l’uomo scosse violentemente la testa, ripetendo “nyet”. Probabilmente era una delle poche frasi in russo che conosceva. Dalla sua bocca sdentata uscì un rapido fiume di parole. Ora Otabek riusciva a malapena a stargli dietro, ma il prigioniero non sembrava incline a rallentare. Un orecchio attento avrebbe tuttavia notato come stesse ripetendo le medesime frasi più volte, quale prova della propria innocenza.
“Giura su Allah non ha fatto nulla di sbagliato. È un brav’uomo; un uomo d’onore.
È un buon musulmano. Dice che non avrebbe mai tradito nessuno. Non è come certe persone. Ma è umano e ha paura, possa Allah avere pietà della sua anima” spiegò Otabek quando finalmente l’uomo si fermò per prendere il fiato.
Yuri scrollò le spalle. Finse di soffocare un sbadiglio annoiato.
“Digli che non credo in garanti che non esistono.”
“Yuri!”
Questa volta, per grande sorpresa di Plisetsky, Otabek non obbedì immediatamente all’ordine, ma le strinse le labbra in una smorfia di irritazione. Il fatto che fosse egli stesso un musulmano era qualcosa di cui poche persone erano a conoscenza, soprattutto nel clima antireligioso che ancora dominava l’URSS. Yuri, tuttavia, era di quei pochi. Al momento, comunque, sembrava un particolare irrilevante.

Un’ora dopo Yuri cominciava a perdere la pazienza. Nell’ultima mezz’ora non avevano fatto progressi col prigioniero. Yuri continuava a insistere sul fatto che l’uomo stesse mentendo, e l’uomo si ostinava ad affermare le sue buone intenzioni, come un disco rotto.
“Cazzo, Tenente, non ne posso più. Davvero non ne posso più. Facciamogli trascorrere qualche giorno in cella e vediamo se questo lo aiuta a chiarirsi le idee.”
Otabek replicò, atono. “Yuri, non capisco perché sei così arrabbiato con lui” osò aggiungere. Yuri diede un pugno sul tavolo, abbastanza forte da fare saltare la pistola che Victor aveva poggiato lì dopo essersi stancato di usarla come passatempo.
“Tenente, un cazzo di mujaheddin viene trovato a girare di notte a meno di dieci metri dal nostro campo, comportandosi in un modo che oserei definire sospetto. Capisci i miei dubbi, vero? Sai cosa succede se lo lascio andare? Ti dico io cosa succede: questo uomo corre dai suoi amichetti americani e dopodomani ci svegliamo con loro che bussano alla nostra porta. Capisci ora perché non credo a una parola delle cazzate che sta dicendo? Georgi, portalo via!"
Senza dire una parola, Popovich si chinò per slegare i nodi che tenevano le caviglia del prigioniero alle gambe della sedia. Quando le braccia furono liberate, l’uomo si massaggiò i polsi. Guardò Otabek per chiedere cosa stava succedendo.
“Capisci? Ti portiamo via!” ripeté Yuri, parlando direttamente con lui. Otabek tradusse. Per sottolineare le sue parole, Georgi strinse la presa sulla spalla del prigioniero per costringerlo ad alzarsi. L’uomo cominciò a gridare, cercando di liberarsi.
“Bambini!” esclamò Otabek. Georgi si bloccò. La sua presa si allentò. Yuri si illuminò di nuovo interesse e anche Victor cambiò espressione.
“Cosa?”
“Bambini. Dice che c’erano dei bambini” spiegò Altin. Yuri si lasciò ricadere sulla sua sedia.
“Cosa ne pensi?” chiese a Victor.
“L’interrogatorio è tuo. Sono qui solo per evitare che le cose degenerino come l’ultima volta, Yura. “
“Le cose non sono degenerate l’ultima volta” rispose Plisetsky. “Comunque, credo ancora che questo tizio non abbia detto una singola parola che fosse vera. Georgi, portalo via!
Questa volta nessuno badò alle proteste del mujaheddin.

***
Più tardi, quella sera, Victor si avvicinò a Yuri per discutere dell’argomento. Si sedette vicino a lui, con una bottiglia di vodka come offerta di pace. Yuri sbuffò. “Dove l’hai presa? Pensavo che ti facesse schifo!”
“Qualcuno l’ha regalata a Yakov, ma bere non gli fa bene alla salute, quindi perché sprecarla? Allora, cosa ne pensi?”
Yuri poggiò le labbra contro l’anello della bottiglia e la sollevò abbastanza perché l’alcool gliele bagnasse. Il liquido che gli scorse giù in gola bruciava.
“Cosa cazzo dovrei pensare? Penso che ci siamo tutti rammolliti. Che vi siete tutti rammolliti! Due lacrimucce e cominciamo a farci venire gli scrupoli!.“
“Yura!”
“No, non usare lo ”Yura” con me”! Non sono più lo Yura che ti seguiva come un cucciolo, sbavando dietro il grande Victor Nikiforov. Sono il Capitano Plisetsky e questa volta non mi farò ingannare.”
Buttò giù un altro sorso, stringendo i denti. Aveva cominciato a bere quando era diventato Tenente, per fingersi più adulto , ma continuava a odiarne il sapore. E poi bruciava da morire. “Come cazzo fa Yakov ad amare questa roba?”
“Se non ti piace, puoi restituirla” scherzò Victor. Yuri strinse la bottiglia ancora più forte.
“Col cavolo! Me l’hai data, ora è mia! “

Rimasero in silenzio per un po’, limitandosi a passarsi la bottiglia di tanto in tanto e a sorbirne sorsi sempre più grandi.
“Yura, ha detto che c’erano dei bambini” Victor riprovò a persuaderlo quando le guance di Yuri cominciarono a diventare rosa e la lingua sembrò più incline a ricordare i vecchi tempi.
Era così strano vederlo con un taglio a spazzola, senza i capelli biondi che scendevano giù a sfiorargli le spalle. Yuri aveva una bellezza quasi androgina. Era sottile, con muscoli ben definiti e Victor sapeva che aveva fatto da modello per un una pittrice russa. Aveva visto uno di quei dipinti. Nell’immagine, Yuri assomigliava a una fata silvestre, con gli occhi color acquamarina che guardavano l’orizzonte e le mani che intrecciavano una ghirlanda di canne.
“Come sta tuo nonno?” chiese Victor d’un tratto. Plisetsky abbassò le braccia e lasciò cadere la guardia.
“Bene, almeno secondo l’ultima lettera”, mormorò, scuotendo la bottiglia ora vuota. Non era un segreto quanto l’uomo amasse il suo nonnino, un ex membro del Partito che aveva combattuto con valore nella battaglia di Leningrado. “Dedushka Kolya è sempre lo stesso. Cucina e si occupa del suo orto."
Victor sorrise con nostalgia. “Allora prova a pensare a quell’uomo come se fosse tuo nonno. Non pensi che avrebbe fatto lo stesso? “
Yuri scansò il tentativo dell’altro di mettergli un braccio intorno alla spalla.
“E allora cosa, Vitya? Se cominciamo ad immaginare ogni nemico come i nostri cari parenti, è la fine. è una guerra! Devo farti un disegnino? È una fottuta guerra!”

“I nostri nemici non sono gli afghani” precisò Victor.
Yuri si morse le labbra. Si alzò e allargò le braccia, la bocca che si muoveva su parole silenziose. “Lo so! Vitya, lo so! Cosa vuoi che faccia? I bambini muoiono, i civili muoiono! Mi dispiace, ma succede! “
“Non se possiamo evitarlo”.
“E cosa succede se, per evitarlo, conduco i miei uomini in una trappola? Sei pronto a prendertene la responsabilità? Perché se sei pronto a correre il rischio, fai pure! “
“Proviamo a metterlo alle strette domani e vedere come reagisce. Poi vedremo” concluse Victor, alzandosi dopo aver dato una pacca veloce sulla schiena di Yuri. Ottenne una mezzo sorriso in risposta.

“Ehi, di’ a Yakov che la sua vodka è terribile!”
“Lo farò.”
Oltre a parlargli di questa faccenda. Victor tenne l’ultima parte per se stesso.
***
Se Yuri sperava che il prigioniero avrebbe cambiato atteggiamento, si sbagliava di grosso. Al contrario, l’uomo divenne ancora più insistente sul coinvolgimento di un gruppo di bambini.
“Cinque bambini, pastori. Dice che li hanno trovati sulle montagne, si erano persi, e che il Sergente de La Iglesia ha deciso di aiutarli. Il Sergente de La Iglesia ha un buon cuore. Non è come gli altri” tradusse Otabek.
Yuri si strofinò la fronte col dorso della mano.
“Qui non andiamo da nessuna parte!”
Si alzò e chiuse il pugno sul pomello, facendo un cenno a Victor e Georgi per seguirlo. Un paio di cadetti di passaggio nel corridoio si bloccarono in loro presenza. Victor li congedò con un gesto della mano.

“Cosa ha detto Yakov?” chiese Yuri senza ulteriori richiami.
“Ti farà piacere sapere che è d’accordo con te. Tuttavia, a differenza tua, ha alcuni utili contatti e si è informato sulla questione."
“E?”
“E grazie alla nostra Mila, sappiamo a tempo di record che gli americani hanno effettivamente perso una squadra di ricognizione vicino al posto indicato dal nostro uomo.”
“Il capo della squadra?” Insistette Yuri.
“Leo de la Iglesia”.
Continuarono a discutere per quelle che sembrava ore.

Quando tornarono nella stanzetta, il prigioniero stava aspettando, legato alla sedia e con Otabek che non era certo la persona più rassicurante. Yuri tagliò corto.

“I miei amici qui sono così scemi da crederti, quindi vogliono darti una possibilità. Ora, sono sicuro che stai sperando che io ti rimandi dai tuoi amichetti americani, ma non sono uno stupido. Sarai la nostra guida e se hai il coraggio di fare qualcosa che può essere considerata anche solo remotamente una minaccia, se hai il coraggio di fuggire, se osi anche sembrare sospetto, ti pianterò una pallottola nel cranio. Ci siamo capiti?”
Mentre Otabek traduceva, Yuri notò che Victor era scomparso ancora una volta da dove si trovava un attimo prima. Neanche il tempo di chiedersi dove cavolo fosse andato, era già di ritorno.
“Che c’è ora?”

“Ho detto a Yakov di chiamare gli americani!”

Yuri Plisetsky giurò che un giorno avrebbe strangolato Victor Nikiforov.

Note: So che le premesse sono improbabili, ma chiamiamola licenza artistica. Anche perché sarà uno dei pochi “sgarri” che mi concederò e comunque i personaggi stessi sono consapevoli della situazione sui generis in cui si stanno per infilare.
Cavolo, a rileggere i vecchi capitoli mi sta venendo nostalgia. Sono ancora tutti così ignari.
Per ragioni di trama tutti i personaggi hanno dieci anni in più.So che i primi capitoli sono corti e lenti, ma vi chiedo di pazientare. Il capitolo sei sarà il giro di boa. Ah, non fatevi ingannare dall'outside POV. Qua Victor è gay come un unicorno arcobaleno, ma negli omofobici anni Ottanta nell'ancora più omofobica Unione Sovietica, meglio tenere un basso profilo.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Faccia a Faccia ***


Faccia a faccia

“Allora, secondo te di cosa si tratta?”
La domanda di Phichit, accompagnata da una lieve gomitata nel fianco, fece sussultare Yuri. Si trovava seduto in una jeep intenta ad attraversare il deserto afgano sotto il cocente sole del primo pomeriggio.
L’uomo sollevò una mano per schermare gli occhi sopra gli occhiali, ben assicurati dietro la nuca da un cordino.
“Non ne ho idea. È assurdo” mormorò con la testa poggiata sulle ginocchia. Tra di esse il suo fucile M16 faceva capolino, tenuto ben stretto in caso di emergenza. Di fronte a lui il Sergente Crispino imprecava sottovoce per la sabbia che continuava ad infilarsi nella sua Colt 1911. Dall’altro lato JJ -Sotto-Tenente Jean-Jacques Leroy - era un po’ troppo entusiasta per quello che doveva sembrargli una semplice gita fuori porta.
Se non avesse fatto così caldo.

Il Maggiore Cialdini non era stato molto prodigo di informazioni con la squadra assemblata in fretta e furia. Alcuni di loro erano stati scelti per capacità individuali e per meriti sul campo. Altri per il legame che avevano con i membri della spedizione dispersa. Non era una novità che sia Yuri sia Phichit fossero molto vicini al Sergente De la Iglesia e al Soldato semplice Ji.
“Voglio dire, russi! Stiamo incontrando i russi!” continuò un eccitato Phichit, muovendo la testa da un lato all’altro, quasi scuotendola. Si alzò per guardare verso l’orizzonte, impaziente di vedere apparire le prime forme del campo sovietico . Yuri gli afferrò un braccio e lo tirò giù.
“Attento! Siamo in territorio nemico!” sibilò, sbirciando verso Cialdini che occupava il posto di guida.
“Come se non li avessimo mai visti i russi!” commentò Crispino a denti stretti. A questo punto sembrava aver rinunciato a tentare di riparare la sua pistola. Yuri si strinse nelle spalle e si limitò a sistemare gli occhiali che continuavano a scivolare sul naso imperlato col sudore salato che scendeva dalla fronte verso le labbra.
“Dannazione. Il caldo non è male, ma cominciano a mancarmi le tormente canadesi!” esclamò JJ all’improvviso. Crispino lo fissò storto.
“Perché non chiedi un trasferimento sulle montagne afgane? Smetterai di lamentarmi del caldo in pochissimo tempo! Cazzo di posto! Arruolati, dicevano. Un sacco di vantaggi, dicevano!”

La situazione era già ridicola di suo. La mattina del giorno precedente erano stati convocati nella tenda del Maggiore Cialdini per una missione speciale. Di cosa si trattasse, però, non era stato specificato, a parte certi vaghi dettagli a proposito dei sovietici e delle spiacevoli conseguenze se avessero mai parlato con qualcuno della faccenda.
“Be’” cominciò Cialdini, quando la jeep si fu fermata sulla spiazzo polveroso che si estendeva davanti al filo spinato che segnava il confine del campo sovietico. Era di medie dimensioni, sviluppatosi attorno al singolo edificio in cemento. Dalla sua struttura pareva essere una ex palazzo governativo o una vecchia scuola. Ora vuoto e in rovina era impossibile riconoscere quale fosse stata la sua funzione originaria.
“I russi ci hanno contattato per la squadra del Sergente De la Iglesia. Voglio dire, un paio di russi ci ha contattato. Abbiamo una tregua con loro, ma non possono garantire per la sicurezza di nessuno dei nostri uomini. Secondo la legge non siete qui. Da parte mia non appartenete più all’esercito americano. Se qualcosa dovesse andare storto, gli Stati Uniti saranno come quel compagno antipatico che nascondeva sempre le mani quando l’insegnante vi beccava.
“Non lo conosco!” È questo che diranno. Comunque, i russi si sono offerti di darvi alcune divise sovietiche quanto prima - “
“Col cavolo!” sputò Crispino, le sopracciglia aggrottate.
“Come stavo dicendo” riprese Cialdini, come se non fosse stato interrotto “si sono offerti, ma ho rifiutato gentilmente.”
“Grazie a Dio!” sospirò Crispino. Non accennò a scusarsi per il suo comportamento.

Yuri si agitò sul suo sedile, a disagio. Strinse la presa sul suo fucile mentre il corpo si tendeva in attesa di ciò che sarebbe accaduto dopo. Sarebbe venuto qualcuno a prenderli o sarebbero semplicemente saltati giù dalla jeep per camminare allegramente verso l’edificio, a testa alta verso chi fino al giorno prima era stato il nemico? Che era ancora il nemico.
La risposta venne da sé, nella forma di un’alta figura che apparve in lontananza. Dapprima fu solo una silhouette sfocata nell’aria tremolante di un torrido pomeriggio afgano, poi i suoi contorni divennero sempre più chiari. Era alto, vestito in una semplice uniforme. Aveva una lunga giacca verde gettata sopra la spalla, come se l’avesse spogliata quando il caldo era divenuto insopportabile. I ricami d’oro e le medaglie su di essa brillarono sotto la luce accecante.
Yuri socchiuse gli occhi per osservare meglio lo sconosciuto, sotto il miraggio del sole. Camminava veloce, il suo passo elastico e marziale.
Aveva un bel corpo, con spalle larghe e gambe lunghe. C’era qualcosa di vagamente familiare in lui. Però, come esiste sempre un divario tra teoria e realtà, la mente di Yuri non riusciva ancora a collegare l’uomo che si stava avvicinando alla persona che aveva spesso visto in foto sgranate.
Tuttavia, quando lo sconosciuto fu abbastanza vicino per salutare il Maggiore Cialdini a pochi metri dalla jeep, ogni dubbio scomparve. Un inconfondibile frangia di un biondo-argenteo si mosse appena quando ricambiò il saluto del Maggiore.
Fu Phichit a dare voce a ciò che Yuri non poté articolare a parole.
“Cristo santo, Yuri, è Victor Nikiforov!”
***

Nella sua vita Yuri Katsuki aveva spesso sognato ad occhi aperti. A volte era l’unico modo per andare avanti quando l’addestramento diventava troppo duro: quando pioveva a dirotto, c’era fango in posti normalmente non esposti al sole, e un Sergente istruttore gridava quanto fosse inutile.
Quando le sue mani cominciavano a tremare e nulla poteva fermarle. O quando sentiva i commenti cattivi fatti alle sue spalle, che dicevano quanto la sua ansia lo rendesse un peso per il resto della truppa.
Yuri sognava scenari pacifici di lui che lasciava l’esercito per tornare a fare il cameriere nel complesso termale che la sua famiglia gestiva in Giappone. Aveva anche sognato scenari di guerra dove, nonostante i suoi attacchi di panico, riusciva a guidare i propri compagni alla salvezza.
In nessuno dei suoi sogni, tuttavia, avrebbe mai immaginato di trovarsi nella stessa stanza con Victor Nikiforov. Stette sull’attenti grazie a un’abitudine ormai ingranata nel suo corpo. I tacchi degli stivali cozzarono l’uno contro l’altro. Il suo cuore cominciò a battere più velocemente del solito.
In teoria sia Yuri sia Phichit erano ancora sotto il comando di Cialdini, quindi non subordinati in alcun modo al Generale russo; eppure, c’era qualcosa sul suo carisma che rendeva difficile per Yuri ricordarsi di un simile particolare.
Nikiforov lo guardò per un po’, quasi sorpreso dal suo comportamento. Poi, come a ricordarsi improvvisamente dei gradi che aveva appuntati sul petto, disse: “Riposo”.
Le spalle di Yuri si curvarono appena. Guardò uno degli altri russi presenti nella stanza.
“E questi è il Capitano di fanteria Yuri Plisetsky” sentì Nikiforov fare una breve presentazione. La sua voce, in un inglese sorprendentemente buono, arrivava come da un’altra dimensione.
“La Tigre dei Ghiacci” mormorò Yuri.
“Cosa, hai un dossier anche su di lui?” domandò Phichit sottovoce, mentre Nikiforov e Plisetsky discutevano in un russo troppo rapido perché Yuri potesse comprenderne qualcosa. Quel vecchio corso accelerato di due settimane non era stato molto utile. Deglutì. Plisetsky avrebbe potuto essere considerato un secondo Victor - sebbene fare un simile confronto in sua presenza avrebbe significato la firma della propria condannata di morte - ma mentre c’era una sorta di giovialità nei modi del più anziano, nulla smussava la durezza del secondo.
“E lui?” chiese Phichit indicando Otabek. Victor lo presentò.
“Tenente Otabek Altin, il nostro prezioso interprete e una delle poche persone in grado di gestire la Tigre.”
“Taci, Victor!” lo rimproverò Plisetsky. Si lasciò cadere pesantemente sulla sedia, accavallando le gambe con arroganza.
“Georgi?” chiese poco dopo. La risposta arrivò da sola sotto forma del Capitano Popovich, seguito da un vecchio che camminava rigido.
“Eccolo. E questo è Yakov Feltsman, il nostro - “
“Ufficiale politico” concluse Plisetsky al suo posto. ”Cose russe”.
Se la stanza era parsa piccola a Yuri senza i nuovi arrivati, ora era quasi soffocante. Strinse i pugni dietro la schiena, mentre l’ansia cominciava ad artigliargli la gola. Tuttavia una goccia di sudore che corse lunga la tempia fu l’unica manifestazione esterna della sua debolezza.
“Beh, credo che possiamo iniziare questa piccola chiacchierata” esordì Nikiforov. Plisetsky fece finta di vomitare. Yakov lo guardò storto.
“Conoscete quest’uomo?” chiese Victor. Una foto color seppia, gettata sul tavolo in una lieve spirale, sottolineò la sua domanda. Mostrava il mujaheddin che avevano interrogato un paio di giorni prima.
Cominciamo a vedere se lo riconoscono . Questo era quello che Yakov aveva detto quando Victor gli aveva spiegato la sua strana e bizzarra idea. Dopo tutto Vitya sarebbe rimasta sempre Vitya.
“Sì” rispose Cialdini. Sia Phichit sia Yuri annuirono, alzando le sopracciglia in un sincero riconoscimento, al contrario di Crispino e Leroy; ma questi ultimi erano stati chiamati in fretta e furia da un’altra base.

Sebbene fosse il più giovane della stanza, fu Plisetsky a continuare l’interrogatorio. Né Popovich né Nikiforov parvero sorpresi o irritati dal comportamento. Al contrario quest’ultimo era quasi divertito, come un padre soddisfatto che ammiri i progressi del proprio figlio.
“E sarebbe dovuto essere la vostra guida in una missione di ricognizione, giusto?” chiese. Cialdini, Yuri e Phichit annuirono nuovamente con un unico movimento della testa. Plisetsky tamburellò sul tavolo.
“Immagino che chiedere dove sia eccessivo. Poco importa.”
Si voltò appena verso Popovich, ponendo una domanda che non fu espressa in parole.

“Ho sentito che siete degli ottimi bugiardi, ma non così bravi quanto sono io a fiutare una balla.”
Una cosa che Yuri aveva immediatamente notato di Plisetsky era che il suo corpo sembrava incapace di restare fermo. Che si trattasse di impercettibili movimenti delle dita o di un lieve agitarsi della testa, Plisetsky non smetteva mai di muoversi.
“Quindi voglio vedere la reazione del nostro uomo nel vedervi. Non vi dispiace, vero?”
Era difficile capire dove volesse andare a parere, cosa si nascondesse dietro quegli freddi occhi di acquamarina. Per un attimo Yuri ebbe l’impressione che Plisetsky non avesse nessuna emozione; che nessuno dei russi avesse emozioni. Giravano molte voci sui sovietici, alcune ancora legate alla “caccia alle streghe” di maccartiana memoria. Tuttavia, in quel preciso istante, alla resa dei conti, Yuri ebbe il dubbio che alcune di quelle storie fossero vere. Altin e Popovich erano così rigidi nella loro postura militare che i loro sguardi si fissavano sul vuoto, su un’altra dimensione. Anche gli occhi di Nikiforov tendevano a vagare, come se fosse capitato lì per caso, salvo poi riaccendersi di nuovo interesse al momento opportuno.
Soprattutto, Yuri sentì l’attenzione di Victor su di lui. Sentiva che lo stava studiando, come durante un incontro di vecchi conoscenti dopo molti anni; come se Nikiforov si aspettasse qualcosa da lui.
“Eccolo!”
Nel frattempo, Plisetsky era uscito e ritornato con il prigioniero, trascinandolo senza troppi complimenti.
L’uomo si illuminò non appena riconobbe Yuri e Phichit. Accennò persino un sorriso con quella sua bocca priva di denti. Yuri ricambiò con un cenno quasi impercettibile, più di educazione che altro. Avevano scelto quell’uomo perché parlava un inglese passabile e aveva già dimostrato di essere una buona guida in passato. Così, quando non era tornato alla base dopo la notizia che la squadra di Leo era andata dispersa, molti erano stati sinceramente preoccupati. Altri, però, avevano urlato “traditore!”
Yuri non era stato uno di quelli.

“Be’, vedo vi conoscete a vicenda” grugnì Plisetsky. Era difficile capire se avesse trovato una riprova ai suoi dubbi o meno.
“Sì” confermò Yuri, solo per essere sicuro.
Il resto della conversazione fu lungo e noioso, mosso sulla sottile e fragile linea della diplomazia internazionale, intrecciata di continue eccezioni. Entrambe le parti avevano motivazioni che erano attente a tenere nascoste e tutti ne erano consapevoli. Quella conversazione non era mai esistita, così come inesistente sarebbe stata la missione in procinto di prendere forma.
A un certo punto Yuri Plisetsky si alzò e batté le mani una volta.
“Bene, chi rimane qui?”
Sollevavano tutti la testa verso di lui, gli occhi che esprimevano una domanda che nessuno osava porre. Non fu necessario.
“Cosa sono quelle facce? Siete così stupidi! Credete che vi avremmo lasciato andare via con questo qui senza una garanzia ?” spiegò il Capitano russo, spostando lo sguardo da uno all’altro. Si fermò su Yuri, che ebbe l’impressione che sarebbe stato scelto se Cialdini non fosse intervenuto.
“Rimarrò io” offrì, con una voce abbastanza ferma da impedire ogni protesta da parte dei russi.
“è un bel gesto” concesse Victor. E per la quarta volta Yuri ebbe la sensazione che non lo stesse osservando solo per pura curiosità.
“Bello, dici? A mio parere, sono fin troppo viziai” disse Plisetsky, roteando gli occhi. Inclinò la testa verso Feltsman, chiedendo: “Allora cosa facciamo con lui, considerando che se qualcuno scopre un soldato americano qui siamo tutti fottuti?”
“Io e il Maggiore Cialdini ci inventeremo qualcosa. Non sta a te, Yura.”
“Bene, meno lavoro! Quindi, vi contatteremo quando la missione sarà finita” proseguì Plisetsky.
“Sta bene” approvò Celestino.
“Meraviglioso, siamo” - Plisetsky contò rapidamente in russo -“Otto. Il prigioniero, quattro americani, tre dei nostri. Non avete portato nessun altro con voi, vero? Non rispondete. Yakov, è un problema se mandiamo un paio dei nostri? No. Perfetto!”
“Quattro” lo corresse Victor, una volta fatti i dovuti conti. Plisetsky gli lanciò un’occhiataccia, del genere che avrebbe potuto uccidere un uomo. ”Non ho dimenticato come si conta!”
“No, ma hai dimenticato me. Vengo con voi” continuò il Generale. ”D’accordo, Yakov?”
“Sarebbe utile dirti di no, Vitya?” sospirò il vecchio, grattandosi la pelata.
Victor scosse la testa, un sorriso soddisfatto ad abbellire i suoi tratti rilassati. ”Nessuno affatto, mi conosci!”
“Troppo bene, purtroppo.”
***

Era già tarda sera quando finalmente venne organizzata una sistemazione in una stanza adattata ad essere un piccolo dormitorio. Ospitava un letto a castello e un paio di brandine singole. Crispino e Leroy reclamarono quest’ultime, gettandovi sopra le loro sacche. Yuri e Phichit preferirono dividere il letto a castello. Erano tutti stanchi, poco inclini a rimanere alzati a chiacchierare come avrebbero fatto normalmente. Consumarono il semplice pasto, quasi disgustoso, che i russi avevano offerto per la cena - un gesto per lo più dotato dalla pietà - in silenzio.
“Erano anni che non dormivo in un letto a castello!” esclamò Phichit, salendo rapidamente la scaletta. Yuri ridacchiò. Phichit non era cambiato molto dai giorni dell’addestramento come reclute, dieci anni prima, a parte il fatto che adesso avesse un grado ben più elevato. Caporale Chulanont. Phichit poteva avere una mira impeccabile e mani affusolate in grado di rompere il collo di un uomo in un secondo, ma in verità era rimasto il solito, vecchio appassionato di criceti e pettegolezzi.
Una pausa e la voce di Phichit ruppe di nuovo il silenzio.
“Non sanno cosa avrebbe dovuto fare davvero Leo” continuò Phichit, la voce appena più forte di un sibilo.
“E non lo dovranno mai sapere” fece eco Crispino. Fino a quel momento era parso essere profondamente addormentato, accoccolato nella coperta verde muffa. JJ, al contrario, russava piano, sprofondato nel sonno non appena la testa aveva toccato il cuscino.
Yuri annuì. Poi, ricordandosi che Phichit non poteva vederlo da dove si trovava, diede voce alla propria conferma.
“Si. Parlare causerebbe solo problemi. Ciò che conta è trovare Leo e gli altri. Penseremo dopo al resto.”
“Finché sono ancora vivi!” grugnì Crispino dal suo angolo. ”Cazzo, li hanno riempiti di sassi?” si lamentò. Si voltò su un fianco e punzecchiò il materasso.
Yuri fece lo stesso col suo. Non poteva negare che fosse scomodo, come minimo. Era pieno di bozzi, più morbido di quelli che era abituato in America; ma, così, tendeva ad imbarcarsi nel centro. Sicuramente avrebbe causato una terribile mal di schiena a chiunque vi avesse dormito sopra.
Per fortuna era così stanco che avrebbe potuto dormire nel mezzo del fuoco incrociato di due carrarmati russi. In ogni caso, sarebbero stati meno rumorosi di Crispino. Yuri seppellì la testa sotto quello che doveva essere un cuscino, cercando di bloccare le proteste altrui.
“Dio Cristo Santissimo! JJ, come puoi dormire quando queste molle potrebbero tagliarti la gola durante il sonno?” Crispino stava invero sibilando, succhiando il polpastrello ferito. ”Tetano. Ci beccheremo tutti il tetano!”
Yuri credeva di essere abbastanza stanco da dormire. Si sbagliava.
La verità era che l’essere tanto stanco gli aveva fatto perdere tutto il sonno. L’adrenalina gli correva nelle vene. Alla fine Yuri si arrese, rotolando fuori dal letto. Si strofinò gli occhi, indossò gli occhiali dopo averli recuperati da una tasca nella giacca e spostò alcuni ciuffi di frangia.

Li avevano avvertiti dei rischi di aggirarsi di notte senza una guida - “Non possiamo garantire nulla circa il comportamento dei nostri uomini” - ma dubitava che una semplice passeggiata fuori dalla porta avrebbe causato problemi.
“Ehi, tu!”
Yuri non aveva nemmeno fatto un solo passo fuori dalla stanza che le sue convinzioni furono confutate. Batté le palpebre nella debole luce del corridoio, proveniente da una misera lampadina. Fece un passo avanti per capire meglio - l’accento russo rendeva quasi impossibile comprendere lo sconosciuto - e si trovò faccia a faccia con Yuri Plisetsky.

C’era qualcosa nella postura di Plisetsky che lo faceva sembrare più alto di quanto non fosse in realtà. A differenze di molti soldati che Yuri aveva incontrato, di struttura tozza e robusta, il suo omonimo aveva un corpo snello e ben proporzionato, più agile che dedito alla forza bruta. Plisetsky puntò un dito sul petto di Yuri. Il suono “tsk” che fece era intriso di disprezzo.
“Stammi a sentire. Se fosse per me, vi manderei tutti a casa con un calcio in culo così forte da farvi saltare l’intero l’Atlantico. Non vedreste il mio prigioniero nemmeno in foto.“
Plisetsky lo esaminò da capo a piedi, l’angolo sinistro del labbro piegato verso alto in un sorriso condiscendente.
“Guardati! Hanno finito i pezzi buoni, quindi hanno mandato te? Soldato semplice! Quanti anni hai? Troppi. Faresti meglio ad andartene! “
Yuri studiò l’altro. L’ombra di un sorriso apparve sulle sue labbra.
Plisetsky lo stava sottovalutando?
Plisetsky mormorò qualcosa in russo, quasi come se stesse sputando fuori un grumo che gli era rimasto incastrato in gola. Poi si voltò di nuovo a guardarlo e vomitò una sfilza di insulti, questa volta in inglese. Nel caos di parole - Plisetsky parlava veloce - Yuri riconobbe termini quali “inutile” e “scemo”.
Sì, Plisetsky lo stava sottovalutando.
Fece spallucce. Ormai ci era abituato. Non era la prima volta che qualcuno si fermava alle apparenze quando si trattava di giudicare le sue capacità. Dopotutto era un errore comune. Yuri era minuto, magro ma con la tendenza a mettere su peso non appena sgarrava dalla dieta; ciuffi di frangia gli coprivano quasi gli occhi castani normalmente nascosti dagli occhiali, perché non sopportava le lenti a contatto. Ciò era diventato specialmente vero ora che si trovava in Afghanistan, dove la sabbia sembrava volersi infilare ovunque. La gente aveva la tendenza a sottovalutarlo perché parlava con voce flebile e preferiva rimanere nell’ombra. A volte balbettava persino.
E c’era la sempre presente nube della sua ansia.
“Beh, non sono io ad aver deciso di venire qui. Sono stati i vostri a chiamarci. Perché non chiedi ai tuoi superiori?! commentò quando Plisetsky gli lasciò uno spiraglio per rispondere. Il russo lo squadrò dall’alto in basso, letteralmente e metaforicamente, mentre torreggiava su di lui di un’intera testa. Plisetsky parve sul punto di ribattere, ma la sua bocca già aperta per articolare una nuova replica si chiuse senza produrre alcun suono. Si limitò a sbuffare, prima di ordinargli di andarsene e camminare via egli stesso. L’unica cosa che Yuri sentì, borbottata sotto voce, fu un commento sul “ficcare l’arroganza di Victor” in un certo posto, “anche se non gli dispiacerebbe, conoscendolo”.
Ma certamente Yuri doveva aver immaginato l’ultima parte. Incolpò la propria stanchezza e si stropicciò gli occhi gonfi di sonno. Era sveglio dall’alba del giorno precedente, notò, mentre si trascinava nel piccolo dormitorio.
Prima di entrare, ebbe l’impressione di vedere Plisetsky con la coda dell’occhio - o doveva essere una forma con la medesima altezza e la struttura fisica - appoggiata ad un’altra ombra. Il gesto era quasi tenero, avrebbe osato dire.
Sì, la stanchezza stava giocando con lui.
Si addormentò senza neppure togliersi gli occhiali.

Note:

Nella tradizione del “salviamo quanti più elementi dal canon possibile”, anche in questa AU c’è stato un “banchetto”, Yuri e Victor si sono già incontrati e Yuri non ricorda una cippalippa.
Inoltre a questo indirizzo (http://gwenchan.dreamwidth.org/1499.html) trovate un master post creato da me per "darmi un tono". Attenzione agli spoiler.

Esercito degli Stati Uniti
- Yuri Katsuki, 34 anni, Soldato Scelto.
- Phichit Chulanont, 31, Caporale.
- Michele Crispino, 33, Sergente.
- Jean-Jacques Leroy, 30, Sotto Tenente
- Celestino Cialdini, 56 anni, Maggiore.

Yuri non ha fatto particolari avanzamenti di grado perché i suoi attacchi di ansia lo hanno reso inadatto al comando. Inoltre pesa sulla sua coscienza una missione andata male che sarà spiegata a tempo debito. Aggiungete anche un po’ di discriminazione e razzismo.
è un caso sui generis, un’eccezione che saprebbe di raccomandazione se non fosse che questo povero giovanotto ne ha viste e ne vedrà di tutti i colori

Esercito russo
- Victor Nikiforov, 38 anni, Generale
- Yuri “Ice Tiger” Plisetsky, 26, Capitano di Fanteria
- Otabek Altin, 29, Tenente
- Georgi Popovich, 37, Capitano
- Mila Babicheva, 29, Ufficiale del KGB (nominata),
- Yakov Feltsmann, 81, Ufficiale politico.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Con un passo ***



Con un passo

La sveglia suonò troppo presto. Il suo trillare giunse insieme al pesante rumore di un paio di stivali militari che sbattevano contro la porta di legno con una violenza che solo una silente rabbia covata per anni avrebbe potuto produrre.
Yuri aprì gli occhi, uscendo dal suo stato di attento dormi-veglia.
Dopo anni nell’esercito era qualcosa che ormai caratterizzava il suo sonno, anche quando la fatica era ai massimi livelli. Fece scivolare un dito dietro le lenti degli occhiali, li raddrizzò e strofinò le palpebre per cacciare lo stordimento dovuto all’alzataccia. Era come una fitta nebbia, qualcosa a cui ormai era abituato. Aveva l’impressione di aver dormito solo pochi secondi.
Di natura Yuri non era mai stato una persona mattiniera. Nemmeno anni di sveglie al sorgere del sole erano riusciti a fargli superare la difficoltà che il suo corpo aveva a svegliarsi la mattina presto.
Sollevò un braccio per guardare l’orologio da polso, socchiudendo gli occhi contro la luminescenza delle cifre bluastre che indicavano le 04:55.
Un gemito sulla sua sinistra gli comunicò che anche Michele si stava alzando, sdraiato sul pavimento perché “meglio questo che beccarsi il tetano”. Sopra di lui, al contrario, Phichit stava ancora russando piano. Un lieve pugno sotto il materasso dell’amico fu sufficiente per farlo schizzare in piedi come una delle molle che cigolavano a ogni loro movimento. Phichit saltò giù dalla branda senza nemmeno usare la scaletta, piegando le ginocchia per attutire l’atterraggio.
In un baleno era già vestito, pettinato, con lo zaino gettato su una spalla. Saltellava da un piede all’altro, con l’eccitazione per l’ignoto che correva sotto la sua pelle bronzea.
Anche Michele si stava vestendo. Si abbottò la giacca dell’uniforme con una mano sola, borbottando sottovoce per il mal di schiena che dormire sul duro cemento gli aveva causato. Con l’altra mano frugò nel suo zaino per controllare di non aver perso o dimenticato nulla.
JJ, da parte sua, sembrava essere ancora profondamente immerso nel regno dei sogni. Il suo russare da alce era l’unico segno che fosse ancora vivo in un’immobilità altrimenti completa.
“Ehi, tu! Hai finito di fare la Bell’Addormentata?”
Tre su quattro si girarono verso la porta. Plisetsky, arrabbiato come se avessero ucciso tutta la sua famiglia, aveva aperto la porta a suon di calci, così forte da far cozzare il pomello contro il muro e causare una cascata di intonaco. Il suo piede, sollevato e pronto a colpire la prima superfice disponibile, ricadde pesantemente a terra.
Una volta, due volte, la suola batté contro il pavimento. Sembrava che Plisetsky vi volesse scavare un buco. JJ, tuttavia, non batté ciglio. La sua espressione addormentata era fin troppo pacifica per la situazione.
“Tu, svegliati, cazzo!” gridò il Capitano russo. Si avviò verso il letto dell’uomo a grandi passi. Calciò via gli zaini di Yuri e Michele sulla sua strada senza troppi scrupoli. Poi afferrò JJ per i piedi e lo trascinò fuori dalle coperte. JJ aprì gli occhi, battendo le palpebre con dolorosa lentezza. Guardò Yuri e sorrise intontito.
“Buongiorno. Sei quasi bello come la mia fidanzata!” esclamò evitando con un salto, stranamente agile per una persona appena svegliata, il tentativo di Plisetsky di prenderlo a calci.
Con le mani chiuse a pugno, fremendo di furia repressa, e le narici che erano sul punto di cominciare a fumare, Plisetsky sibilò: “Partiamo tra mezz’ora. Se non vi vedo arrivare in dieci minuti vi rispedisco in America a suon di calci in culo.”
Annuirono tutti, correndo ciascuno ad afferrare la propria roba con quel miscuglio di velocità e organizzazione che solo anni nell’esercito possono insegnare.
“Il bagno?” domandò Yuri prima che Plisetsky scomparisse nel corridoio.
“Ce n’è uno al primo piano, vicino all’ingresso” gli fu detto.

Tra le varie cose a cui Yuri non si sarebbe mai abituato della vita militare - al punto che era normale chiedersi perché si fosse arruolato in primo luogo e se lo domandava lui stesso, cercando una ragione che dieci anni prima era stata cristallina - c’era una sorta di pigrizia quando si trattava di igiene personale.
Cresciuto fino ai primi anni dell’adolescenza in un complesso termale, era abituato a bagni costanti. L’uomo soffriva ancora per le docce occasionali e il dover trascorrere giorni con acqua appena sufficiente per bagnare il viso quando si era in missione.
Pensò con disgusto alla mania di Leo di non lavare un paio di calzini “fortunati” o alla volta in cui si era verificata un’epidemia di pidocchi. Erano stati tutti rasati a zero, ma avevano comunque trascorso intere settimane a grattare senza sosta un prurito immaginario.
“Simpatici.”
Si girò, con lo spazzolino da denti che pendeva dal labbro inferiore, per ritrovarsi faccia a faccia con Phichit. Anche la sua bocca era piena di dentifricio. Yuri sputò nel lavandino. Aprì il rubinetto, da cui uscì un filo d’acqua giallastra.
“Meglio non toccarla” disse JJ, passando loro accanto per usare uno dei due gabinetti disponibili
“Sì, sarebbe un modo stupido di morire” concordò Michele.
Phichit, sputato il dentifricio e gettato lo spazzolino in una tasca dello zaino, fece segno a Yuri di seguirlo fuori dal bagno. Yuri avrebbe riconosciuto quello sguardo in un attimo, divenuto ormai familiare dopo anni di missioni fianco a fianco.
“Nikiforov” iniziò Phichit.
“Esatto.”
“Victor.”
“Mm.”
“Victor Nikiforov! Riesci a crederci? Andare in missione con Victor Nikiforov. Vuoi che ti dia un pizzicotto per svegliarti?” continuò Phichit. Yuri scansò le dita dell’amico.
“Non osare!” esclamò. Se anche si fosse trattato di un sogno, un sogno stupido e assurdo, non si sentiva ancora pronto a svegliarsi. E c’era qualcosa di strano nel retro della sua mente, come un déjà-vu troppo sfuggevole per essere afferrato. Pensò alle maniere gentili che Victor aveva avuto e alla peculiare attenzione che, nelle poche ore passate insieme, l’uomo aveva mostrato nei suoi confronti. Era quasi come se Victor lo ritenesse più degno della sua simpatia degli altri.
Yuri non capiva il perché.
“Oh, ecco gli altri. Meglio andare.”
Trovarono un giovane in fondo alle scale. Aveva un sorriso gioioso, troppo gioioso, e scattò sull’attenti non appena li vide. Chiaramente, sapeva chi erano.
“Finalmente! Un altro minuto e il Capitano Plisetsky sarebbe esploso. è un’ora che borbotta. Emil Nekola!” si presentò.
Yuri non era ancora ben ferrato in ranghi militari russi come avrebbe voluto, ma ipnotizzò fosse un soldato semplice.
L’inglese di Emil aveva uno strano accento, non russo però. Yuri si sforzò di riconoscerlo. Non che avesse il tempo di pensare alla faccenda, perché Emil stava già camminando giù per il corridoio, non voltandosi nemmeno per controllare che lo stessero seguendo.
“Gli altri sono già pronti” continuò, spiegando che due veicoli li stavano aspettando ai confini del campo. Sarebbero usciti dalla porta di servizio per evitare di essere notati e di causare confusione
“Anche se la sveglia non è ancora suonata.”
“Beati loro” sibilò Michele. Yuri concordò silenziosamente con lui. All’esterno l’alba stava colorando i contorni dei monti afgani, che si stagliavano alti contro l’orizzonte nella nebbia mattutina. Dipingeva le vette con rosa pallidi e strisce di deboli arancioni.
Come annunciato, trovarono due camion di medie dimensioni, uno dei due coperto, ad aspettarli. I veicoli erano già stati caricati con armi, cibo, acqua, carburante e attrezzature varie. Pensando al cibo, Yuri sentì il suo stomaco protestare; a parte la patetica cena della sera precedente, non aveva mangiato quasi nulla nelle ultime ventiquattro ore.
Popovich stava alla guida del camion coperto; il sedile del passeggero era occupato da un soldato che Yuri non riconobbe.
Victor era appoggiato all’altro camion, ignorando Plisetsky che camminava in cerchio attorno ad esso. “Era ora!” li accolse.
“Yura, non essere scortese” lo rimproverò Victor. Sembrava che si fosse appena svegliato da un lungo e riposante sonno di bellezza. Passandogli accanto, tuttavia, Yuri poté notare profonde occhiaie sotto gli occhi azzurri dell’uomo, come se, invece di essersi svegliato fresco e riposato, il Generale non avesse dormito affatto. Dava l’impressione di un uomo che aveva imparato a convivere con una perpetua insonnia.
“Beh, spero che nessuno di voi soffra di claustrofobia. Non che mi importi” commentò Plisetsky.

Il piano era semplice, almeno in apparenza, ma per questo ancora più soggetto a imprevisti. I russi avrebbero guidato fuori dal campo con una scusa - “Spero che tu abbia pensato a qualcosa di plausibile, Vitya” - mentre gli americani sarebbero rimasti nascosti in un qualche modo tra le masserizie. Tirarono a sorte. Crispino e Leroy furono i più fortunati e saltarono sul camion coperto.
Prima di rendersene conto, Yuri si trovò sdraiato supino, incastrato tra una tanica di benzina, tiepida al tatto, e un paio di tende arrotolate alla sua destra e Phichit alla sua sinistra. Le vibrazioni del motore, amplificate dal corpo metallico del veicolo, si diffondevano dal coccige alla nuca, facendogli battere i denti in maniera quasi buffa.
“Questa è una novità” sussurrò Phichit, alitandogli la faccia. Yuri fece una faccia schifata.
“E sono sicuro di averti visto lavarti i denti!”
Dopo un momento di silenzio una scossa comunicò loro che il camion aveva cominciato a muoversi verso l’uscita del campo. Yuri cercò girarsi per avere una visuale migliore. Non ebbe molto successo.
Sentì qualcuno parlare in russo, ma lo spiraglio tra il carico e la ribalta del camion era troppo stretto - e con un pessimo angolo - per vedere qualcosa oltre a una striscia di cielo.
Nonostante ciò Yuri riuscì a comprendere alcune parole, abbastanza per ricostruire il dialogo con un po’ di immaginazione. Victor, Plisetsky e Altin avevano ricevuto il compito di riconsegnare il prigioniero. Avevano bisogno della presenza del Generale Nikiforov in persona? Oh, una priorità alfa. E per quanto riguardava il Capitano Popovich? Una missione di addestramento. Ci fu il fruscio di una lettera che veniva aperta.
“Beh, sembra tutto in ordine.”
E comunque il problema non era quando qualcuno usciva, più quando qualcuno entrava.
Nello stretto spazio in cui Yuri si trovava, per di più senza l’aiuto di una bussola, era difficile capire quale direzione il camion avesse preso dopo aver lasciato il campo, vicino a Herat. Yuri aveva l’impressione che il veicolo si fosse diretto a sud, dopo un breve tragitto est per confondere le loro tracce. Tutto in accordo con quello che aveva detto loro il mujaheddin e le informazioni che Yuri possedeva.
Eppure, solo una volta uscito dal suo nascondiglio avrebbe avuto un’idea più precisa della situazione. Ogni tanto tendeva un orecchio per cogliere frammenti della conversazione tra Plisetsky e Nikiforov o i quei commenti che il prigioniero rivelava a Otabek.
Yuri si ricordava bene dove Leo sarebbe dovuto dirigersi - il nome del luogo era ben stampato nella sua memoria - ma la possibilità che Leo e gli altri avessero deviato dal percorso originale fece capolino nella sua mente. Secondo i russi la squadra di Leo aveva voluto giocare al “buon samaritano” - parole di Plisetsky - e si era trovata invischiata in un’imboscata. Questo era quanto il mujaheddin aveva confessato. Phichit avrebbe detto che un simile comportamento si addiceva di Leo e Yuri sarebbe stato d’accordo con lui senza pensarci due volte. Se c’era una persona con un buon cuore, quella era Leo de la Iglesia.

Era passata almeno un’ora, col caldo sempre più soffocante mentre il sole si alzava nel cielo biancastro quando una voce - Plisetsky - comunicò loro che potevano uscire. Yuri obbedì, con le ossa che schioccarono mentre si stiracchiava in una familiare routine per liberarsi dal torpore. Si mosse nel piccolo spazio disponibile per combattere il fastidioso formicolio che l’immobilità prolungata aveva causato. Aprì e chiuse le dita intorno alla cinghia di un fucile M16. Fu un gesto quasi automatico, reso semplice da anni di pratica. Yuri si mise l’arma in spalla con un movimento fluido. Vicino a lui, Phichit si stava armando a sua volta. Non molto lontano, Crispino e Leroy stavano facendo lo stesso. O almeno Yuri così suppose.

Il sole, ancora basso nel cielo mattutino, feriva già gli occhi, disegnando lunghe ombre sul terreno verde e giallo. C’erano momenti in cui Yuri si rammaricava di non essere in grado di indossare gli occhiali da sole. Purtroppo, non si era mai abituato al modo in cui le lenti scure distorcevano l’ambiente e rendevano difficile distinguere le cose più di quanto non fosse già con la sua miopia.
La valle di Herat era uno di quei luoghi che, senza la macchia della guerra, sarebbero stati un piccolo paradiso. Lo attraversava un fiume grande, lento e possente, che lo rendeva un’oasi di verde in mezzo a deserti e nude pianure. L’altopiano era diviso in campi coltivati, punteggiati qua e là da piccoli boschi di un verde profondo. Nude colline color ocra si sollevavano dal terreno; all’orizzonte: la cima delle montagne che in lontananza si stagliavano per nascondere il cielo. Michele, che aveva trascorso quasi un intero anno laggiù, le aveva descritte come crudeli e sfuggenti. Aveva parlato di burroni avidi, superfici insormontabili e tempeste tanto imprevedibili quanto letali.
A volte comparivano villaggi fatti di fango e pietre, piccole comunità che una volta dovevano essere state vive, ma che ora soffrivano l’abbandono che la guerra porta sempre con sé. Yuri non poté evitare di notare come i nativi corressero a nascondersi, mentre il camion passava. I bambini venivano richiamati. Capre e polli venivano radunati in fretta e furia. Poi, girandosi per guardare quei villaggi un’ultima volta, l’uomo li vedeva ritornare alla vita; solo un po’, come i vermi che sbucano dal terreno dopo una pioggia. Passarono accanto a due nella prima ora.
C’era una profonda malinconia in tutto questo.

Le cifre dell’orologio segnarono le nove. Lo stomaco di Yuri gorgogliò ancora.
“Oh, cielo, cielo!” esclamò Victor, quasi divertito da quel suono - come se la situazione non fosse stat già abbastanza imbarazzante. “Scusate le nostre pessime maniere. Yura, dai loro qualcosa da mangiare!”
Plisetsky incrociò le braccia al petto, facendo un suono di disapprovazione. “Non sono il loro piccolo cameriere, Vitya.”
“Abbiamo qualcosa, non preoccupatevi” rispose in fretta Yuri. Si mise il proprio zaino in grembo e cominciò a frugarci dentro. Era sicuro che ci fossero ancora del cioccolato fuso e un paio di barrette sul fondo, forse tra i calzini di ricambio.
“Patetico” sussurrò il suo omonimo.
“Sciocchezze!” insistette Victor, quasi come se invece di attraversare una fertile vallata che sarebbe stata presto sostituita dal deserto, si fossero trovati tutti in un salotto a Leningrado, a bere tè e mangiare pasticcini. Yuri, seppure indirettamente, conosceva quel particolare lato del Generale Nikiforov. Si diceva che cambiasse umore come il vento cambia direzione. Aveva uno spirito giocoso, ma era anche capace di momenti di estrema serietà. Il suo carattere mutevole, limpido al punto da essere inafferrabile, lo aveva reso un uomo da temere e le sue vittorie rendevano giustizia al suo famoso nome.
A Yuri e Phichit fu offerto un po’ di pane, biscotti e persino un goccio di vodka, che gentilmente rifiutarono. Invece, preferirono un tubo di latte condensato da mescolarsi con il caffè che avevano ancora nelle loro borracce.
“Ne vuoi un po’?” Phichit chiese a Otabek, notando l’interesse che l’uomo aveva nel guardare la bevanda nella tazza di metallo. Il tenente Altin fece finta di riflettere per un momento sull’offerta, ma alla fine accettò. Phichit gli diede la tazza con un sorriso.
“Per favore, non dirmi che lo vuoi anche tu!” Plisetsky sibilò a Victor. L’uomo si accigliò e si voltò verso Yuri, facendo un sorriso così grande e luminoso che Yuri si congelò con la propria tazza a metà strada verso la bocca.
“Ne volete un po’?”
Sapeva che la richiesta silenziosa di Nikiforov era quasi un ordine.
“Non è male, dovresti provarlo, Yura!” disse Victor, dopo averne assaggiato un sorso. Si pulì le labbra con un fazzoletto.
“Per l’amore del cielo, è un caffelatte!”
Ma quando gli fu data la bevanda, non la rifiutò. Fece lo stesso con il cioccolato, non appena Yuri riuscì a recuperarlo dalla sua confezione. La barretta rimasta si era sciolta in un ammasso stantio e appiccicoso, ma Plisetsky divorò la sua parte con frenesia infantile, per il divertimento di Victor.
Nel frattempo, nel camion coperto che avanzava lentamente alle loro spalle, il soldato chiamato “Emil” stava cercando di avviare una conversazione con Michele in ogni modo possibile.
“Oh, chi è lei?” lo sentirono urlare. Michele strappò una foto dalle mani di Nekola.
“Mia sorella, giù le mani” rispose, controllando che la foto non fosse danneggiata. Il caldo e il passare del tempo l’avevano scolorita. I bordi erano usurati, ma la persona raffigurata era ancora ben visibile. Mostrava una donna più o meno dell’età di Michele, con lunghi capelli castano scuro tenuti in uno stretto chignon.
“È carina” commentò Emil, sporgendosi in avanti per sbirciare il più possibile prima che Crispino mettesse via l’immagine, riponendola al sicuro nella tasca dell’uniforme, vicino al cuore.
“Dovrai passare sul mio cadavere.”
Emil si strinse nelle spalle, alzando le mani come a dimostrare le sue complete buone intenzioni.
Anche Yuri stava guardando la foto di una giovane donna. La teneva stretto tra le dita per non lasciarla volare via.
“è la tua ragazza?” chiese Victor, senza nemmeno girarsi, fissandolo nello specchio retrovisore.
Yuri scosse la testa. Al suo fianco Phichit ridacchiò un po’, notando i lieve rossore che si stava diffondendo dal naso di Yuri alle sue guance.
“No, una vecchia amica” rispose, abbastanza imbarazzato. “Ma è sposata”, aggiunse poco dopo per evitare ogni fraintendimento. Plisetsky fece una smorfia. Altin, al contrario, sembrava quasi interessato a sentire il resto della storia.
Nell’ultima lettera che Yuko aveva scritto a Yuri parlava delle sue figlie, tre gemelle, e di come si sarebbero presto diplomate.

Sono cresciute così in fretta, ma sono maliziose come te le ricordi. Loop vuole studiare giornalismo, Lutz si sta allenando duramente per le nazionali giapponesi e Axel si è tuffata negli studi di economia

Yuko Nishigori e suo marito gestivano una piccolo palazzetto del ghiaccio nella città natale di Yuri. Aveva frequentato quel posto da bambino e da ragazzo, prima di trasferirsi in America.
Quando gli altri cadetti avevano scoperto che aveva preso lezioni di balletto durante la sua infanzia, l’avevano preso in giro per mesi. Tuttavia, si erano dovuti scusarsi vedendo come il suo passato da ballerino gli desse un notevole vantaggio nel combattimento corpo a corpo. Era agile, preciso e flessibile, oltre ad avere una grande resistenza.
 
Per mezzogiorno il sole aveva raggiunto il suo zenit. Qualche ora dopo, il caldo divenne insopportabile. Fra tutti, Plisetsky sembrava il più colpito. Si era tolto la giacca macchiata di sudore e l’aveva avvolta intorno alla testa come protezione contro il sole cocente.
Yuri si asciugò la fronte, rimpiangendo di non essere stato scelto per viaggiare sul camion coperto. Lì la cerata sussurrava promesse di una piacevole ombra. Si voltò per controllare il veicolo e vide la silhouette di Georgi, abbandonato sul volante, come se si stesse sciogliendo.
“Cazzo di tempo. Non capisco l’ossessione che le persone hanno per i posti caldi!” grugnì Plisetsky, bevendo a grandi sorsi. Scosse la borraccia verso Otabek, l’acqua che sciabordava contro il metallo; il Tenente rifiutò, così come fece il mujaheddin. Yuri prese mentalmente nota di chiedere il suo nome più tardi. Quei due non sembravano soffrire il caldo come gli altri. Il prigioniero aveva il vantaggio di essere nativo, ma Otabek rimaneva un mistero.
E poi c’era Victor. Aveva spogliato la giacca, ma si comportava come se la calura non avesse effetto su di lui, dando l’impressione che la sua pelle pallida sarebbe stata fredda se toccata.
Yuri si girò ancora una volta, guardando il camion coperto mentre si trasformava in una forma sempre più piccola e vaga. Lo guardò scomparire nell’aria bollente, mentre la distanza con il camion aumentava. Lo vide arrancare sulla strada, sempre più lento.
Quando il camion coperto si ridusse a nient’altro che non un punto sfocato, fu chiaro che qualcosa non andava.
Yuri lo comunicò agli altri. “Dobbiamo fermarci” ordinò. L’urgenza gli fece dimenticare ogni cortesia.
“Che cosa succede?”
Victor frenò e spense il motore. Yuri fece notare quanto il camion coperto fosse rimasto indietro.
“Sì, sembrano avere dei problemi” concluse Phichit, gli occhi incollati al binocolo preso dal suo zaino. Plisetsky gemette come un animale ferito, grugnendo quello che Yuri suppose essere l’equivalente russo del “Perché a me?”
Cercarono di contattare il resto del gruppo via radio, con l’energia statica che interferiva in sottofondo, ma le risposte furono brevi e confuse.
“Niente da fare, dobbiamo controllare” disse Victor.
“Wow, che genio” rispose Plisetsky sarcastico. “Chi va?”
Dopo una breve e animata discussione su chi dovesse essere lasciato dietro su camion - una simpatica variante dell’enigma con le capre e i cavoli - fu deciso che il prigioniero, Otabek e Phichit sarebbero rimasti nel veicolo - “I motori non sono il mio campo“ - mentre gli altri avrebbero camminato fino al camion coperto sotto il sole del pomeriggio.
Prima di muoversi, Yuri controllò che il suo M16 fosse carico e funzionante.
Dei tre, Victor aveva la falcata più lunga ed era difficile stagli dietro. Per ogni suo passo, Yuri doveva farne quasi due.
Trovarono Georgi e JJ piegati sul motore del veicolo, con le teste infilate sotto il cofano. Emil e l’altro soldato semplice stavano bevendo dalle borracce e masticavano strisce di carne secca. I loro fucili, appoggiati lì vicino, indicavano come la loro calma fosse solo apparente. Michele faceva nervosamente la guardia poco lontano.

“Che cosa è successo?” chiese Victor quando furono abbastanza vicini da essere sentiti.
Georgi sollevò la testa, le guance e le dita sporche di grasso. “Non riesco a capire. Qualcosa con il motore” rispose.
“Deve essersi surriscaldato” fu la diagnosi finale di JJ. Il suo suggerimento di aspettare fu accolto da un diffuso mormorio di disapprovazione, ma non c’era molto da fare. Plisetsky lo comunicò Altin via radio. Yuri e Victor diedero il cambio a Michele e Emil.
Mezz’ora dopo la situazione non era migliorata. Georgi girò la chiave dell’accensione, ma il motore tossì invano.
“Fammi provare!” Plisetsky spinse da parte Popovich senza troppi complimenti. Il suo tentativo non ebbe molto più successo.
“Hai controllato il refrigerante?” suggerì Yuri. Stare così fermi ed esposti era una novità per lui e, in quanto tale, lo faceva sentire a disagio. Sentì il sudore colare sui suoi muscoli contratti, pronto a scattare al primo movimento sospetto. I primi segni di paranoia distorcevano rumori altrimenti normali in segnali di pericolo.
Il suo omonimo teneva gli occhi incollati sul camion in lontananza. “La mia mira è molto buona” aveva sussurrato nell’orecchio del mujaheddin. Se non le parole, l’uomo aveva capito il significato.
“Sì” confermò JJ. Si chinò ancora una volta, per un secondo controllo. Il refrigerante sembrava essere a posto, niente da dire.
“La cinghia?” suggerì Michele, sopra il rumore del vento. Ancora una volta JJ si chinò per verificare. “Sì, hai ragione!”
Questa volta ci fu una risposta affermativa. Li chiamò tutti intorno al cofano, indicando la causa del danno. “Vedete? Deve essersi rotto per l’usura. Succede quando si utilizzano veicoli vecchi.”
“Puoi ripararlo?” tagliò corto Plisetsky. Non sembrava disposto ad ascoltare i come e i perché sull’inferiorità dei mezzi rispetto a quelli americani.
“Ad occhi chiusi.”
Michele alzò i propri al cielo. Tuttavia, JJ sembrava essere in perfetto controllo dell’intera faccenda, pienamente consapevole di quello che stava facendo. Era chiaro che il comando era qualcosa che gli veniva naturale, che scorreva nelle sue vene. Yuri aveva sentito che la famiglia Leroy aveva una lunga tradizione in ambito militare e che tutti i fratelli di JJ erano entrati in diversi rami dell’Esercito. Quanto a JJ, che era maggiore, si faceva chiamare “Il Re”, e apparentemente era un soprannome che si era guadagnato. Ancora, erano tutti tesi durante l’attesa, fucili pronti e corpi tremare con anticipazione. Yuri Plisetsky non ha mai perso il sentiero del camion, nemmeno per un attimo. Continuò a comunicare con Otabek per tenerlo aggiornato sul loro progresso.
Yuri avrebbe potuto orientare il suo fucile in una frazione di secondo. Michele aveva i suoi già accennati. Emil e l’altro soldato semplice esaminarono l’orizzonte. Victor sembrava più rilassato, ma Yuri non aveva dubbi che fosse attento quanto ciascuno degli altri, se non di più.
“Fatto, dovrebbe tenere!” JJ annunciò dopo due ore, che parvero durare una vita.
“Speriamo di non avere più problemi”.
Non li ebbero. L’inaspettato danno aveva fatto perdere loro tempo ed energie preziosi, ma riuscirono comunque a coprire circa quaranta chilometri prima che il sole tramontasse e li costringesse a fermarsi. Plisetsky avrebbe voluto continuare di notte, ma Victor e Georgi lo considerarono troppo pericoloso. Otabek concordò con loro. Il prigioniero annuì con fervore.
Alla fine decisero di stabilire l’accampamento quando le ultime tracce di blu scomparvero dal cielo. Michele e Otabek furono scelti per il primo turno di guardia.

“Yura, vieni a mangiare con noi!” Victor invitò il Capitano di fanteria, dando dei colpetti col palmo della mano sulla nuda terra al suo fianco. Aveva estratto le proprie razioni e si era seduto di fronte a Yuri e Phichit, chiedendo: “Vi dispiace?”
Scossero la testa.
Non lontano Emil aveva interrotto l’intenzione di Michele di mangiare da solo e ora stavano chiacchierando animatamente. O, meglio, Emil stava chiacchierando, e Michele gli stava dicendo di tacere.
“Se vuoi frequentarli, fai pure. Io vado a dormire. Beka, aspettami!” gridò Plisetsky, marciando per raggiungere il suo amico. Victor fece un piccolo sorriso di scuse per il suo comportamento.
Yuri piegò le dita attorno al metallo tiepido della tazza di caffè. L’odore della bevanda lo aiutava a calmarsi. Ne sorbì un sorso e il vapore gli annebbiò gli occhiali, nell’aria fresca della sera. Accanto a lui, Phichit fece una smorfia. Il caffè russo era più amaro di quello a cui era abituato.
Victor alitò sulle dita, i gomiti poggiati sulle ginocchia e gli occhi abbassati. Quando sorrise, numerose piccole rughe si formarono intorno ad essi. Sembrava quasi vulnerabile. Sembrava umano.
Yuri chinò la testa.
“Che tipo di persona è questo Leo?”
“Per Guang Hong e Phichit, è il signor Culo Perfetto!” mormorò Yuri. Si scansò lo spazio sufficiente per evitare il gomito dell’amico.
“È un uomo coraggioso, che non si tira mai indietro. Il genere che, non importa quante volte li butti giù, tornano sempre in piedi. Era nostro amico” continuò Phichit.
“È” corresse Yuri. “È.”

Note: Nostalgia portami via. Dunque, la missione è cominciata e anche il treno dell’intera storia si sta lentamente mettendo in moto. È il carrello delle montagne russe che sale lento prima dell’inevitabile discesa.
Nel prossimo episodio: Il passato di Otabek e Yurio; una tempesta di sabbia offre ai nostri eroi l’occasione di superare qualche divergenza.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** La Tempesta di Sabbia ***


La tempesta di sabbia

Otabek Altin amava la notte. Ne apprezzava sia la quiete sia la protezione che l’oscurità offriva a coloro che, come lui, sapevano cogliere tutti i suoi segreti. L’amava perché lo proteggeva; nascondeva il suo viso e gli permetteva di esprimere la parte che tendeva a tenere segreta durante il giorno. La notte parlava di silenzi e segreti, ma anche di musica e danze lontane.
“Mi occuperò di quella parte” lo avvertì il Sergente Crispino. Detto ciò si allontanò, fermandosi al lato opposto del piccolo accampamento che avevano stabilito per la notte.
Le 22:00 erano appena passate.
Otabek rimase immobile, osservando per un po’ la schiena dell’altro, definita dalla luce della luna crescente. Poi il dovere prevalse. Così, si avvicinò a Crispino, afferrandolo per la spalla. Crispino sussultò, girandosi con un movimento brusco. Altin avrebbe ricevuto un pugno sul naso se non fosse stato abbastanza veloce nel bloccare il braccio dell’altro.
“Meglio rimanere insieme”, gli disse in un inglese dal forte accento, allentando la presa. Crispino lo fissò, gli occhi ridotti a fessure, ma alla fine si lasciò cadere a terra.
“Come vuoi.”
Otabek rilassò le spalle e inclinò appena la testa all’indietro per studiare il cielo notturno. Con lo suo sguardo cercò l’Orsa Minore, sperando che fosse visibile a quella latitudine. Quando la trovò, la uso come riferimento per trovare la Stella Polare.
Era qualcosa che gli aveva insegnato suo nonno, come orientarsi usando le stelle, addirittura prima che sapesse parlare.
Mentre guardava la stella, pregò silenziosamente. Era raro trovare un momento abbastanza lungo di calma e di silenzio per pregare. Col poco tempo libero che aveva, il tenente Altin aveva deciso che Allah avrebbe chiuso un occhio se avesse rotto alcune regole. Tuttavia, cercava di rispettare il più possibile gli altri dettami, soprattutto quando si trattava di cibo e bevande.

Quel pomeriggio, durante la tensione dalla fermata forzata, il prigioniero gli aveva detto di essere sorpreso dal rispetto che Otabek aveva mostrato nei riguardi della sua religione. Il tenente non aveva risposto a niente in particolare, ma aveva fatto un vago gesto di gratitudine; l’uomo, però, aveva continuato con cautela a parlare senza dare segno di volersi fermare.
“Sei diverso dagli altri” continuò, indicando i russi che avevano a che fare con il camion coperto in lontananza.
“Perché non sono russo”.
Otabek non aveva approfondito la questione, usando il suo stesso silenzio come uno scudo. Aveva tuttavia sentito una scintilla di orgoglio nazionale nascere nel suo stomaco. Tanto velocemente come era apparsa, si era placata con la stessa rapidità. Otabek non aveva la stessa repulsione per l’URSS di suo padre o, ancor di più, suo nonno; eppure faticava ancora a considerarla come propria Madre Patria.
Gli Altin erano una famiglia di uomini fieri, nobili guerrieri e cacciatori; le donne camminavano con orgoglio a testa alta, veloci come cavalli da corsa e precise come falchi.
La sua era stata una strana infanzia. Non proprio triste o dolorosa, perché era cresciuto avendo più di altri bambini, ma intrisa ugualmente di malinconia. Lo avevano separato dalla sua famiglia, dalla sua famiglia natale. Così era cresciuto in una struttura di rieducazione del governo sovietico, dove i bambini provenienti da famiglie dissidenti avrebbero potuto imparare ad amare il loro Paese. Otabek, tuttavia, non aveva mai completamente dimenticato il suo nome o le sue origini. Troppo piccolo da ricordare la lingua, aveva imparato sia il kazako sia l’arabo da solo da adulto. Lo stesso ha fatto con il Pashtu e il Dari.
All’inizio, le lingue erano sembrate sfuggenti, ingannevoli come falsi amici. Poi, Otabek aveva scoperto come le parole potessero produrre musica, ed era stato come ricevere la chiave dell’universo. Le frasi che aveva lottato per pronunciare un giorno prima cominciarono a srotolarsi con facilità dalla lingua se solo le cantava. I suoni stranieri acquisirono un’inaspettata familiarità. Inoltre, la memorizzazione dei verbi e delle regole di sintassi divenne più facile in quanto non si basava più su un passivo libro di grammatica, ma veniva appresa dall’uso quotidiano.
Stava cantando una melodia silenziosa per se stesso, parole non pronunciate che carezzavano le labbra per rimanere sveglio quando la voce familiare di Yuri Plisetsky si fece strada tra le sue riflessioni.
“Vai a dormire. Ti do il cambio “.
Due ore erano già passate.
Otabek annuì e si alzò. Se fossero stati soli, avrebbe accarezzato quel volto simile a quello di una fata, aspettando che l’altro si abbandonasse al tocco e si facesse tenere. Invece, si limitò ad un pugno neutro e virile sulla spalla di Plisetsky. Nel frattempo, Chulanont era arrivato per sostituire Crispino. “Il russare di JJ così forte che sono sorpreso che nessuno ci abbia ancora trovati. Anche quel tuo amico- “
“Non è mio amico” lo interruppe Michele. Phichit fece finta di non averlo sentito. “Quel tuo amico, qual è il suo nome?”
“Nekola. E non è mio amico. “
“Proprio lui. Anche il suo russare non è uno scherzo “.

Phichit Chulanont, come scoprì presto Plisetsky, non era il tipo di persona da farsi scoraggiare da un volto arrabbiato quando si trattava di fare conoscenza. Per quanto ridicolo poteva essere nella loro situazione. Così, come se fosse stata la cosa più naturale del mondo, Chulanont cominciò: “Quindi ti chiami anche tu Yuri?”
“Non c’è nessun “anche” qui. è il tuo Yuri che si chiama come me! “Plisetsky lo corresse subito. Phichit abbassò la testa nell’oscurità, un impercettibile sorriso sulle labbra. “Forse, ma ho incontrato l’altro per primo.”
“E allora? Questa conversazione è inutile. Sono il Capitano Plisetsky, nessuna confusione qui! “
Capitano Yuri Nikolayevich Plisetsky.
Sua madre era stata una bellissima ballerina del Bolshoi, una delle migliori. Il nome di sua madre era Margarita Plisetskaya. Era un duro lavoro, gli allenamenti e la danza le aveno distrutto i piedi, le caviglie, le ginocchia, ma lei lo amava comunque. A vent’anni conosceva poco dei divertimenti di cui parlavano le ragazze della sua età; ma non avrebbe fatto a cambio per nulla al mondo.
Le ragazze della sua età mangiavano paste dolci con i loro fidanzati, leggevano romanzi d’amore e si preoccupavano per gli esami imminenti. Margarita passava ore a ripassare le basi, i piedi e le gambe che si piegavano, si arcuavano e scivolando in familiari routine.

Era stata una delle candidate a diventare la prossima Prima Ballerina. Invece, aveva incontrato un destino crudele nella forma di uno spettatore ubriaco dopo uno spettacolo. L’aveva seguita mentre tornava a casa, aggredita e violentata.

Fu solo per qualche miracolo se la sua psiche non andò in pezzi; la sua carriera e la sua vita, però, furono distrutte. Come accade sempre in momenti di crisi, molte persone le voltarono le spalle. Quando non poté più nascondere la sua gravidanza, le altre ballerine, con cui era stata in rapporti d’amicizia, le si rivoltarono contro. Il regista del teatro si riempi la bocca di belle parole, ma la buttò fuori, le sue azioni quale specchio dei suoi reali pensieri. I colleghi, che l’avevano sempre considerata loro eguale, cominciarono a comportarsi come se avesse la peste o, peggio, a trattarla con maschile condiscendenza.
Margarita si trovò da sola, senza un soldo, non sapendo fare altro se non ballare. Quel che era peggio era che, nel profondo, Margarita sapeva di essere una donna intelligente, piena di risorse; sapeva che avrebbe potuto reinventare se stessa, ne avrebbe avuto i mezzi. Tuttavia, più la sua pancia cresceva, più ella perdeva la voglia di vivere. A poco a poco smise di muoversi, fatta eccezione per quel minimo richiesto dai bisogni fisici più basilari. Con il tempo cessò di mangiare, divorata dalla spirale che il feto indesiderato aveva creato in lei.
A volte Yuri pensava che sarebbe morto non nato se suo nonno non fosse intervenuto. Preoccupato per non aver avuto notizie di sua figlia da due mesi, Nikolai Plisetsky è andato al suo posto, e lì l’ha trovata, bundle in un vecchio maglione, ventre sporgente contro il panno di lana. Margarita aveva capelli sporchi e si arricciava in un angolo abbandonato, mentre il cibo di un giorno era cresciuto.

Nikolai aveva perso la moglie ancora giovane e aveva cresciuto Margarita da solo. Era stato soldato e nell’esercito aveva imparato a cucire, cucinare, e a gestire tutto ciò che tende a disgustare la gente comune.
Per cominciare, aiutò la donna a lavarsi, con gli stessi gesti calmi di quando era bambina. Non c’era acqua corrente, perciò usò una tinozza. Dopo di che chiamò una vicina di cui si fidava per tenere d’occhio Margarita mentre egli andava al mercato per comprare qualcosa con cui imbastire una cena.
Nei giorni successivi andò dritto al Bolshoi per chiedere spiegazioni.
“Margarita è incinta” gli fu detto come se non lo avesse già notato, come se questo spiegasse tutto. Una donna incinta non poteva ballare e una ballerina che non poteva ballare era inutile. Non c’era spazio per lei nel Bolshoi.
Nikolai non perse nemmeno una parola per insultarli, poiché aveva questioni più urgenti a cui badare. Soprattutto, doveva convincere Margarita a vedere un medico per far controllare il feto. All’inizio la donna non aveva voluto perché considerava che il bambino quasi come un parassita. Era una disgrazia, qualcosa da dimenticare. Con il tempo, però, aveva finito con l’amare la vita che cresceva in lei e ora aveva troppa paura di scoprire che la sua negligenza aveva causato danni irrimediabili per affrontare il problema.
Nikolai aveva dovuto usare tutto il suo potere di persuasione, tutti i trucchi in suo possesso per convincerla. Margarita pianse per tutta la durata della visita. Aspettò il verdetto, annegando nel più completo terrore, l’angoscia che le gelava le viscere.
“Il bambino sta bene.”
E fu proprio in quel momento che seppe di volerlo tenere.

Il terzo turno di guardia fu assegnata a Georgi e Yuri. Non avevano molti argomenti in comune su cui discutere; né erano abbastanza estroversi per forzare l’altro alla conversazione. Pertanto, trascorsero la maggior parte del tempo in silenzio, con gli occhi vigili e le orecchie aperte.
Partirono all’alba.
Il secondo giorno, riuscirono a coprire altri quaranta chilometri guidando quasi senza interruzioni. Non incontrarono grandi ostacoli e si fermarono non lontano da Adraskan. L’ocra e il marroncino delle montagne e delle aree desertiche avevano sostituito i ricchi verdi smeraldo della valle di Herat. Mentre guidavano, gli alberi diventarono sempre più sparsi, e lo stesso avvenne con i campi coltivati.
Il paesaggio cambiò poco il terzo giorno.
Fu appena dopo le cinque del pomeriggio che il vento cominciava a soffiare.
“Cos’è?” chiese Phichit indicando la nuvola di sabbia apparsa in lontananza. Era grande, gigantesca, una secca forma bulbosa. Correva in avanti, muovendosi a spirale attorno al proprio centro. La gente del luogo chiamava quella mostruosa parete di sabbia ‘ haboob’. Otabek fu il primo a dare nome a quello che tutti già conoscevano e temevano.
“Tempesta di sabbia!”
Yuri aveva sempre creduto di amare la sabbia. Nato in una città sul mare, ricordava ancora la sensazione della sabbia bagnata sotto i talloni, con Mari che lo teneva per mano. Con la sabbia aveva costruito castelli e altre goffe strutture; anche dopo essersi trasferito in America la spiaggia aveva sempre avuto un certo fascino. Aveva l’odore di casa.
Ma la sabbia senza il mare era solo una tortura. Quella polvere bollente sfuggiva a qualsiasi forma fissa, strisciava sotto i vestiti, graffiava la pelle e rendeva impossibile vedere.
“Dobbiamo fermaci!” urlò Yuri attraverso il tessuto messo a protezione della bocca.
“Negativo! Siete liberi di fermarvi, non mi importa, ma lo farete senza il camion e senza il prigioniero. Ci stiamo mettendo in pericolo e vi fermate per un poco di polvere!” sputò Plisetsky. “E tu, non provare a fare nulla di strano” aggiunse, parlando al mujaheddin. L’uomo grugnì qualcosa.
“Tenente, che cazzo sta dicendo?”
Otabek fece segno per il prigioniero di ripetere.
“Che è troppo pericoloso avanzare” tradusse. Yuri Plisetsky ringhiò. Guardò Victor come se lo volesse incolpare per quello che stava succedendo. “Con questo ritmo sarà un miracolo anche solo trovare i corpi!”
“Sarà un miracolo trovarli se veniamo seppelliti dalla sabbia” rispose Victor. Nell’urgenza del momento era passato al suo nativo russo. Plisetsky fece lo stesso. Il senso della loro discussione, tuttavia, fu comprensibile.
“Allora sarà la prova che questa missione era condannata fin dall’inizio” gridò Plisetsky sopra il ruggito del vento. La risposta di Victor fu calma, fredda.
“Ci fermiamo, Capitano. Questo è un ordine.”
Plutone sibilò. Morse granelli di sabbia.
“E un ordine.”
“Sì, signore.”

Yuri aveva ricevuto istruzioni su come affrontare le tempeste di sabbia. Prima in una stanza afosa, poi in una tenda, era stato avvertito di quanto fossero pericolose; le lezioni di teoria si erano concentrate su cosa fare e cosa non fare. Eppure la pratica si rivelò ben diversa.
Dopo un rapido scambio con il Capitano Popovich alla radio si decise di trovare riparo nel camion coperto. Saltarono in fretta giù da quello scoperto, scosso con violenza dal vento, e corsero verso l’altro veicolo. Yuri, che era più basso e sottile degli altri, faticava ad avanzare.
Perse l’equilibrio e inciampò in avanti, il corpo istintivamente raggomitolato per attutire la caduta. La tempesta di sabbia vorticava tutt’intorno, una spirale che strappava da terra tutto ciò che non aveva radici abbastanza profonde. La sabbia gli entrò nelle orecchie, nel naso, ferendo la delicata mucosa. Cozzò contro le sue labbra chiuse. Graffiò le lenti degli occhiali, si infilò sotto di loro e ferì i suoi occhi.
Yuri artigliò il suolo, ma non c’era alcun terreno in cui poter ancorare le dita; solo polvere e terra arida e spaccata.
Il vento lo avrebbe spazzato via.
“Katsuki!”
Una voce familiare raggiunse le orecchie lese.
Sentì qualcuno afferrargli il braccio. Fu rimesso in piedi, con quel tipo di forza riservata a momenti di urgenza. Le braccia del Generale Nikiforov lo circondarono e d’un tratto Yuri si ritrovò col suo volto premuto contro il petto dell’uomo; una delle mani di Victor gli protesse la nuca. Victor dava la schiena al vento, che roborava e sibilava, scuotendo tutto ciò che riusciva a raggiungere.
“Tieniti” il Generale gridò l’istruzione. Il suo ordine fu accompagnato da una corda forte legata attorno alla vita di Yuri. JJ e Georgi, che erano i più forti, tenevano l’altra estremità. Riuscirono a riportarlo al sicuro.

La maggior parte della squadra aveva già trovato riparo nel camion coperto. C’era poco spazio con il carico già presente, ma la necessità aguzza l’ingegno. Spostarono alcune cose, ne sistemarono altre e si strinsero nello spazio disponibile. Il vento si scontrava violentemente contro la cerata.
“Generale?” fece Yuri.
Nikiforov sollevò la testa, la sorpreso di essere chiamato col suo rango evidente sul volto. La ragione, tuttavia, era ancora sconosciuta a Yuri. Non riusciva a capire. Sembrava che l’altro lo considerasse una vecchia conoscenza, un vecchio amico e si aspettasse di essere trattato con la stessa familiarità. Ma Yuri, prima di quel giorno, aveva incontrato Victor Nikiforov solo nei suoi sogni e fantasie.
“Spasibo.”
La parola uscì dalla bocca in un maniera goffa ed estranea, con il suo accento che sbatteva contro ogni singola lettera. “Grazie” ripeté.
Nikiforov annuì. “Qualunque cosa per un compagno.”
Yuri tornò a poggiare la testa sulle ginocchia, le braccia che formavano un cerchio intorno a loro. In attesa che il vento si calmasse, c’era poco da fare, se non aspettare. Un po’ di tempo fu usato per esaminare il percorso sulla mappa.
Per lo più trascorsero le ore a guardarsi e studiarsi a vicenda. Yuri, Phichit, e, strano come poteva suonare, Nikiforov avevano formato un gruppo da una parte. Emil continuava a ronzare attorno a Michele, con Georgi a portata d’orecchio. JJ stava spiegando all’ultimo soldato del gruppo le regole di un gioco con le carte, senza le carte.
Otabek e Plisetsky rimasero vicini in un angolo. Fu in quel momento che Yuri si ricordò di quello si era ripromesso di fare. Si alzò in un qualche modo, non senza difficoltà, nello spazio stretto e si avvicinò a loro.
“Tenente Altin?” chiamò. Quando Altin diede segno di averlo sentito, Yuri continuò. Spiegò che avrebbe voluto conoscere il nome del prigioniero, perché fosse più semplice rivolgersi a lui.
“Pensavo lo sapeste” replicò Otabek, aggrottando la fronte per esprimere il proprio dubbio. Yuri comprendeva le sue remore. L’uomo che i Sovietici avevano catturato era stato un aiuto prezioso e quindi un possibile alleato per gli americani. Loro stessi avevano detto di conoscerlo e tale fatto era stato confermato. Eppure Yuri non si ricordava del nome dell’uomo.
Cercò una scusa. In verità, informazioni come il nome del prigioniero non erano qualcosa che erano tenuti sapere. Lo conoscevano di vista. Yuri lo aveva visto gironzolare quando si trovavano ancora alla base e parlare con Leo e la sua squadra. Fino a quel momento era stato solo un volto e un insieme di informazioni utili, da sfruttare per vincere la guerra.
“Allora?” insistette Yuri. Aveva già trascorso abbastanza tempo ad accusare se stesso per le proprie azioni passate senza che qualcun altro aggiungesse ulteriore carico.
“Si chiama Behrooz.”
Yuri ripeté il nome e aspettò che Altin correggesse la sua pronuncia. Lui stessi, aveva problemi a far pronunciare il suo nome correttamente dagli altri, quindi sapeva quanto fosse importante.
“Parlando di nomi, cosa ti chiama tua sorella?” chiese Emil a Michele. La sua curiosità sembrava sincera, senza secondi fini e comunque un nome non avrebbe causato alcun danno. Quindi, Michele si rassegnò a dire: “Sara”.
Sua sorella. La sua gemella.
“La persona che ho più cara” aggiunse, ogni parola densa di significato.
Le parole alludevano a un fratello protettivo, ma che difendeva giustamente la propria signora da possibili cattivi pretendenti.
Sara non aveva mai amato un simile comportamento. In America era cresciuta fiera, forte e indipendente; le sue vacanze estive a Napoli avevano solo affilato il suo carattere e la sua lingua. Michele sapeva che Sara aveva frequentato alcuni uomini di nascosto, anche prima che si arruolasse. Ora solo Dio sapeva cosa stava facendo.
Michele, però, aveva minacciato l’ultimo ragazzo di Sara prima di partire per la missione più recente.
“Se ho anche solo il sospetto che le hai fatto del male, verrò a cercarti.”
“Devi amare davvero molto tua sorella, Sergente” si intromise Georgi, come se avesse letto le emozioni di Michele. I suoi occhi brillavano.
“Oh, guarda chi si vede, il caro vecchio Georgi. Iniziava a mancarmi” echeggiò Victor dall’altra parte del camion.
Georgi lo ignorò. Michele voleva sottolineare ancora una volta come sua sorella fosse totalmente, completamente off-limits. “Soprattutto per Russi inquietanti come voi”.
“Il Capitano Popovich è la persona meno inquietante che esista. Ve lo posso assicurare” lo contraddisse Victor.
Nonostante abbia scritto una canzone per maledire la sua ex-ragazza.

“Anche la Tigre somiglia più a un gattino quando sai come prenderlo.”
Nessuno dubitava che il silenzio di Plisetsky fosse un segno di quanto la Tigre avrebbe voluto strappare la lingua a Victor, se solo il gesto non fosse stato un dannoso atto di insubordinazione.
“Sei ancora arrabbiato per quella storia?” insistette Victor, quando fu chiaro che nemmeno Georgi era disposto ad assecondarlo. La conseguente mutismo fu una risposta sufficiente.
Non importava quanti anni fossero passati, o quante volte Victor avesse insistito nel risollevare la faccenda, Georgi Popovich sarebbe sempre arrabbiato per quella storia; anche se rabbia non era la parola giusta. Certo, c’era stata rabbia. Era seguita alla delusione e aveva preceduto il risentimento. Alla fine tutto era stato sostituito da una sorda apatia. Nel profondo il Capitano Popovich aveva scoperto di odiare Nikiforov; scavando ancora più a fondo aveva trovato la radice del sentimento. Era cominciato molto prima che l’altro causasse la loro rovina.
Da allora Georgi non aveva voluto più prendere in mano una chitarra perché nessuna avrebbe potuto suonare come quella che era stata gettata fuori dalla finestra quel giorno lontano.
L’Armata Rossa era stata una costrizione per entrambi, all’inizio. Eppure Victor aveva brillato anche lì. Un cervello che fino a poco prima era stato immerso nelle arti rivelò una tremenda freddezza. Mani che avevano creato la vita in danza e pittura si rivelarono perfette per maneggiare un fucile. Poteva vedere cose che gli altri ignoravano e i suoi superiori lo odiavano per questo, ma non potevano negare quanto fosse incredibilmente bravo. Victor aveva preso fatto carriera.
Ancora una volta la sua ombra offuscò Georgi, come aveva sempre fatto fin dal giorno in cui si erano incontrati in un appartamento fatiscente di Leningrado.

Per il tempo in cui la tempesta di sabbia si calmò, il sole era già tramontato dietro le montagne. La parte inferiore del cielo era ancora chiara, un misto di blu cobalto e arancione come ultimo promemoria della luce scomparsa. Un blu indaco stava virando al nero nella parte alta del cielo. La luna era sorta, ferma a metà della volta celeste. Ci furono borbottii e proteste sul tempo prezioso che la tempesta aveva fatto loro perdere, ma non ci fu altra scelta se non stabilire il campo per la notte.
Di nuovo Plisetsky decise di sedersi e mangiare per conto proprio, accettando solo la compagnia di Altin. Ancora una volta Victor, che questa volta aveva deciso di sedersi non di fronte, ma accanto a Yuri, chiese informazioni sulla squadra di Leo.
Questa volta Phichit parlò del soldato semplice Guang Hong Ji e del Maggiore Christophe Giacometti. Raccontò di come la faccia da bambino di Guang Hong nascondesse uno spirito ardente. “Si è addestrato nel Genio ed è dannatamente bravo.”
Sia Phichit sia Yuri ricordavano bene la frase che Ji amava ripetere: io non sono un uomo che muore in un fosso.
Victor, invece, sembrava più interessato al secondo nome.
“Christophe Giacometti, hai detto?” chiese. Un barlume di riconoscimento scintillava negli occhi color ghiaccio.
“Sì. Lo conoscete, Generale?” domandò Phichit, con cautela. Il cenno di Victor fu quasi impercettibile. “Ho sentito parlare di lui.”
Non poteva rivelare di aver incontrato Giacometti quando era giovane e di aver fatto amicizia con lui. Il loro ultimo incontro risaliva a quasi venti anni prima.
Victor e JJ ebbero il primo turno di guardia. Phichit e Emil l’ultimo.

Il quarto giorno, per la gioia di Plisetsky, non ci furono eventi inaspettati a rallentare la loro missione. Almeno fino al tardo pomeriggio, quando procedere con i loro veicoli diventò sempre più complicato a causa del terreno. La strada già accidentata si restrinse bruscamente. Procedeva in salita, lo spazio abbastanza grande da permettere il passaggio solo di una persona a piedi o al massimo a dorso d’asino.
“Be’, sembra che dovremo lasciare qualcosa dietro” considerò Victor ad alta voce. In nessun modo i camion avrebbero potuto farcela sul sentiero. Il rischio di cadere giù da un burrone o di rimanere bloccati era troppo alto.
“Un vicolo cieco!” gridò Plisetsky. Otabek fece un gesto per calmarlo. Per quanto strano, Yuri Plisetsky obbedì.
“È l’unico modo. E in ogni caso, il più veloce.”
Stabilito che procedere a piedi era l’unica opzione percorribile, non rimase altro da fare se non dividere il carico. Si decise cosa fosse importante, cosa potesse essere lasciato indietro. Ritennero la maggior parte delle masserizie indispensabili.
“Se ci sbrighiamo, possiamo coprire alcune miglia prima che il sole tramonti.”
Si dispersero in una singola fila. Otabek e Behrooz formavano l’avanguardia. Victor e Jean-Jacques stettero in retrovia. Yuri si trovò in mezzo, dietro Emil e davanti a Michele. Le cinghie dello zaino gli segavano le spalle, ma era qualcosa cui era abituato. Le regolò e si incamminò.

Note
Vi ricordate quando vi ho detto che dal capitolo sei le cose avrebbero cominciato a girare. Be’, siamo al capitolo cinque, quindi vi consiglio di prepararvi.
Nel prossimo episodio: Yuri è sempre più ossessionato da Victor, Michele si ritrova a fare amicizia con Emil suo malgrado, e un momento di distrazione potrebbe rivelarsi fatale per qualcuno.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** La Morte non Discrimina ***


La morte non discrimina


Questa volta fu Yuri a vedersi assegnato il secondo turno di guardia, quello di mezzo. Non era contento del risultato perché il doversi svegliare nel bel mezzo della notte interrompeva sempre i suoi già difficili tentativi di addormentarsi. Tuttavia conosceva abbastanza di dovere, obbedienza e solidarietà tra commilitoni per astenersi dal protestare, sebbene l’idea di chiedere a Phichit di fare cambio gli avesse attraversato la mente.
Il suo amico aveva molti meno problemi ad addormentarsi rispetto a lui. Una volta Yuri aveva chiesto a Phichit quale fosse il suo segreto, un po’invidioso della facilità con cui l’altro riusciva a scivolare dentro e fuori dal reame dei sogni. In risposta Phichit aveva detto qualcosa su tecniche di meditazione e su certi insegnamenti derivanti dalla sua educazione buddista; qualcosa a proposito dell’importanza di respirare insieme a certi trucchi ormai dimenticati per placare la mente. Quando era arrivato il momento di mettere in pratica i suggerimenti dell’amico, Yuri si era trovato più perso che mai. Inoltre, se ciò poteva significare qualcosa, non era mai stato una persona particolarmente religiosa, soprattutto negli ultimi anni. I suoi genitori e la sorella, come la maggior parte degli abitanti della sua città natale, erano scintoisti; quando si era trasferito negli Stati Uniti, Yuri aveva incontrato la grande varietà di religioni che solo una metropoli può offrire. Nessuna lo aveva veramente incantato. Sapeva ancora recitare alcune preghiere dalla sua infanzia, ma erano passati così tanti anni da quando aveva visitato un tempio, che a malapena si ricordava come fossero fatti.

Come se non bastasse, era stato abbinato con Plisetsky, fedeli al modello che la squadra aveva stabilito il primo giorno: assegnare il turno di guardia sia a un soldato sovietico sia a uno americano. Nonostante la loro tregua straordinaria, infatti, erano tecnicamente ancora in guerra tra loro e, come dice il detto, meglio prevenire che curare. L’incidente della tempesta di sabbia li aveva avvicinati un po’, più di quanto avrebbero ammesso nella loro attuale situazione, ma la posta in gioco era troppo alta per lasciare cadere la guardia.
In ogni caso, nemmeno Plisetsky non sembrava felice dell’abbinamento.

A parte la breve conversazione che avevano avuto alla base russa, il giorno dell’arrivo degli americani, Yuri non aveva avuto nessuna possibilità di confrontarsi faccia a faccia col suo omonimo. In verità aveva cercato di avviare piccole conversazioni durante le fermate obbligatorie per mangiare; aveva usato semplici parole diplomatiche che non avrebbero fatto male a nessuno, stando attento a rimanere lontano da qualsiasi cosa che avrebbe potuto essere percepito come un tentativo di spiare i segreti sovietici. I suoi tentativi, purtroppo, avevano sempre cozzato contro uno spesso muro di rifiuto. Fedele a ciò che Victor aveva detto loro, Yuri Plisetsky sembrava accettare e apprezzare solo della compagnia del tenente Altin. Il suo comportamento cambiava bruscamente nella presenza dell’altro.
Nella speranza di dormire un po’, Yuri si era ritirato prima del solito quella notte. La temperatura era diminuita notevolmente rispetto al torrido giorno. L’aria fredda si intrufolava sotto i vestiti, che parevano ora un po’ troppo leggeri. Yuri non si era mai abituato al freddo, il bisogno di caldo ben inscritto nei suoi geni. Quando si era trasferito in America il suo primo inverno era stato un’esperienza abbastanza traumatica, con la neve trasformatasi improvvisamente dall’essere un saltuario, esotico e piacevole passatempo in una mostruosa crudeltà.
Gattonò nel sacco a pelo, con l’improvviso pensiero che l’essere stato messo in coppia con Plisetsky non era la cosa peggiore che sarebbe potuta accadere. Sarebbe potuto essere assegnato a un turno di guardia con Victor Nikiforov.
Yuri aveva trascorso una buona parte della sua vita ad ammirare Victor, ad adorarlo. Lo aveva idealizzato Victor in segreto, come un giovane giappo-americano venerante un russo che viveva a chilometri di distanza, che non era nemmeno consapevole della sua esistenza. Aveva accarezzato il volto sfocato di Victor in ogni foto che era riuscito a collezionare, con un misto di riverenza e paura, mentre osava immaginare l’impossibile: parlare con Victor Nikiforov.

Phichit era solito ridere dicendo che Yuri era un amico molto strano. E Yuri si trovava d’accordo con lui; perché , nel silenzio dei suoi sogni, certe fantasie vagavano incontrollate e scoperchiavano desideri così lerci che Yuri non aveva nemmeno il coraggio di definire.
Non riusciva dormire. Si strofinò gli occhi e si mise seduto, slacciando il sacco a pelo per liberare il torso. Si toccò la nuca, sfregando il punto dove Victor lo aveva afferrato solo pochi giorni prima. Poteva ancora sentire il tocco dell’altro, le dita forti che scavavano nel cranio con urgenza, il palmo di Victor che gli cullava la testa nella tempesta. Un brivido corse da quel punto al resto della spina dorsale.
“Sei uno sciocco” si disse, ma aprì completamente il sacco a pelo e afferrò la giacca dell’uniforme. Si gettò anche il fucile in spalla, per prudenza. Scavalcò con cautela la forma addormentata di Phichit e uscì dalla tenda.
La bellezza del chiaro cielo stellato lo gelò sul posto. La mancanza di luce artificiale nel raggio di miglia sottolineava le stelle e la mezzaluna nello scuro cielo di mezzanotte, brillanti nella notte fredda. Un leggero alone circondava la luna, ammorbidendone i contorni.
Sarebbe stato più facile tornare a dormire - o almeno fingere di provarci - ma era come se una forza potente e invisibile lo stesse trascinando dove il suo subconscio desiderava essere: la tenda fronte alla sua, dove stava dormendo Victor.
Yuri si mosse con cautela alle spalle di Nekola e Leroy, impegnati col loro turno di guardia, e, prima che potesse anche solo rendersi conto di quanto stava facendo, entrò nella tenda di Victor.
Si chinò un poco sull’uomo addormentato. Una bolla di saliva tremava all’angolo della bocca, non ancora pronta a scoppiare. Yuri si accovacciò per essere più vicino a quel viso. C’era una ruga verticale tra gli occhi chiusi di Victor, appena sopra il naso. E poi altre linee agli angoli degli occhi e delle labbra, con l’età e la stanchezza che cominciavano a mostrarsi su un volto che presto avrebbe raggiunto i quaranta. Victor non era ancora tecnicamente vecchio, sicuramente non lo era se paragonati ad altri del suo stesso grado, ma non era più nemmeno giovane.
Nel sonno Victor aveva spinto un braccio fuori dal sacco a pelo e adesso lo teneva appoggiato a quasi novanta gradi sul suo ampio petto. La testa era voltata verso la destra e la sua frangia carezzava il suolo.
Yuri tenne le sue dita sospese in aria, solo un tocco di distanza dalla guancia pallida di Victor. Era il sottile spazio di un capello, un desiderio, una scommessa. L’uomo dei suoi sogni era lì, in carne e ossa, a dormire quasi con innocenza. Yuri sentì il respiro bloccarsi in gola. Arricciò le dita e lasciò che le sue nocche passassero lievi contro lo zigomo di Victor. Era un tocco di piuma, più pensiero che azione.
Victor mugugnò nel suo sonno, mormorando con voce impastata.
“Makkachin, fai il bravo, va’ a prendere la palla!”
Il nativo russo era pesane intorno alle sue parole, troppo confuse perché Yuri potesse capirle.
Yuri seppe di aver commesso un errore nel momento in cui compì il gesto. Non solo, era fottuto. Lo sapeva. Avrebbe dovuto sapere che l’azione avrebbe avuto chiare conseguenze; sapeva di non poter scappare. Sapeva che Victor non aveva fatto carriera nell’esercito limitandosi a essere bello e a spargere sorrisi smaglianti qua e là, soprattutto quando gli alti funzionari sovietici non lo avevano in simpatia.

Sapeva che Victor aveva più esperienza sul campo, più di lui senza dubbio. Insomma, seppe che il suo tocco avrebbe svegliato Victor una frazione di secondo prima che accadesse.
Yuri avrebbe potuto giurare di aver udito il rumore delle palpebre di Victor che si aprivano. Era il fruscio di una vela gonfiata dal vento marino, un frullio d’ali di farfalla. Ciglia d’argento batterono contro la pelle mentre Victor apriva gli occhi. Prima che Yuri potesse muoversi, il braccio che giaceva sul petto dell’uomo scattò in avanti e le dita del russo si chiusero intorno al polso di Yuri. In realtà non c’era alcuna rabbia nel gesto, solo sorpresa. Non era un ordine o una minaccia. Era una richiesta.
Yuri, però, era troppo nel panico per accorgersene.
Liberò il polso con uno strattone e cadde sul sedere, le mani dietro di lui. Gattonò all’indietro, non pensando nemmeno a rimettersi piedi; non ne aveva il tempo. Non riusciva a pensare con lucidità, l’imbarazzo che offuscava la razionalità. La sua mente vuota non poté nemmeno pensare a una scusa.
Uscì dalla tenda, pregando che Victor non lo seguisse. L’uomo non lo fece. Quando l’ingresso della tenda si aprì, Yuri trattenne il respiro, ma la figura era più piccola di Nikiforov.
“Oh, sei già sveglio. Ottimo! “ lo salutò Plisetsky.
Giusto, Yuri si ricordò all’improvviso, il turno di guardie guardia. Conficcò le unghie nel palmo per uscire in libertà dallo stato di trance in cui entrava sempre quando accadeva qualcosa di molto stressante; ed essere stato a un fiato da Victor Nikiforov era ben stressante per Yuri.

Pregò anche che non accadesse nulla nelle due ore della sua veglia, perché non si sarebbe mai perdonato se avesse abbassato la guardia perché troppo impegnato a riflettere su un comportamento avventato. Non voleva ripetere la stessa esperienza.
Ebbe fortuna.

La mattina successiva Victor lo salutò con un ampio sorriso, mentre sgranocchiava la colazione. “Dormito bene?” chiese e Yuri annuì, nonostante fosse ben lungi dalla verità. Non aveva chiuso occhio, nemmeno dopo il turn di guardia, troppo occupato rimuginare su quanto aveva fatto per abbandonarsi tra le braccia di Morfeo. Il fatto che Victor non tirasse fuori la questione non aiutava per niente.

Il quinto giorno rotolò via senza che accadesse nulla. Il paesaggio era cambiato molto poco, per quanto non ci fosse davvero il tempo di guardarsi attorno. E comunque un alto livello di attenzione per individuare possibili pericoli era sempre richiesto quando ci si trovava in territori nemici e di guerra. Behrooz si muoveva rapidamente e con facilità, nonostante l’anziano corpo. I suoi passi erano sicuri, il suo respiro stabile, e più di una volta aveva dovuto fermarsi per aspettare gli altri. Yuri suppose che indossare morbidi calzari al posto dei loro pesanti anfibi avesse alcuni vantaggi. Le suole lasciavano tracce nella polvere, che passi successivi o il vento presto cancellavano o confondevano.
Adesso l’area non era nulla se non un miscuglio monotono di ocra, arenaria e ruggine. Proprio davanti a loro le montagne, più altre di quelle che stavano attraversando, bloccavano l’orizzonte; era uno linea spezzata di picchi e ruvidi pinnacoli. Le lontane cime coperte di neve brillavano al sole.

Col tempo avevano cominciato a comprendere i vantaggi e le procedure più adatte per la straordinaria composizione della loro squadra. Se mai si imbattevano in un villaggio, o qualcosa di ancora più piccolo, poco importava da che parte fosse schierato. Si dividevano sempre e lasciavano che solo le persone giuste di volta in volta approcciassero i locali. Ciò rendeva tutto più facile, togliendo parte di un carico invisibile dalle loro spalle.
Avevano appena ricominciato la marcia dopo aver riempito le loro borracce, quando Emil si avvicinò a Michele, scambiandosi di posto con Georgi, e tentò di avviare una conversazione. Michele non era incline a parlare in quel momento, più interessate a risparmiare il fiato per le irte salite, con la bocca secca, la schiena curva sotto il peso dello zaino e le gambe che dolevano in una maniera così familiare da far male. Emil, tuttavia, come Michele aveva ormai notato, apparteneva alla stessa categoria di Phichit o Leo. Irradiava speranza, positività e felicità. Aveva una sorta di purezza interiore che nulla poteva macchiare e gli altri erano semplicemente costretti ad accettarla, come se il restare arrabbiati in sua presenza non fosse possibile.
L’inglese di Emil era appena passabile, e Michele sapeva che nemmeno il russo era la sua lingua madre, perciò la domanda fu ovvia: “Di dove sei?”
Così, una ridicola curiosità. Mentre aspettava l’eventuale risposta, Michele fu colpito dalla consapevolezza di quanto poco tempo avessero. Il tempo scivolava attraverso le dita come sabbia o acqua corrente; un orologio invisibile ticchettava, misurando ogni passo che facevano, ogni pausa, ogni ora persa. Non avevano il tempo di fermarsi più di quanto non fosse umanamente necessario - ed era già un lusso - se volevano trovare qualcuno vivo. Così, non avevano il tempo di costruire alcun tipo di rapporto. Erano sconosciuti, messi sulla stessa strada per caso, e sconosciuti sarebbero rimasti, le loro vie presto destinate e dividersi.

Ma, si disse, mentre osava lasciare cadere un po’ la guardia, si può chiedere a un estraneo da dove viene e dove sta andando.

“Praga!” fu la risposta di Emil. Seguì una filippica di cinque minuti su quanto bella e ricca la città fosse, sulla storia del suo famoso orologio e sulla bontà del suo cibo.
Michele aveva sentito parlare del non proprio fortunatissimo tentativo di liberarsi dal controllo della longa mano dell’URSS nel 1968 e di come il Paese stesse ancora soffrendo l’occupazione sovietica come punizione per il suo comportamento ribelle.
In realtà Emil non era esattamente di Praga, più di un piccolo villaggio nella area dominata dalla capitale; uno di quei posti che nessuno, oltre ai locali, conosce. Il nome sulla bocca di Emil era strano, duro di lettere sconosciute, e Michele riuscì a malapena a comprenderlo
La città natale di Emil fu una cosa che lo rese un po’ più simile a Michele; anche Michele ha avuto difficoltà a spiegare da dove veniva suo padre. Con il tempo aveva preso l’abitudine di dire “Napoli”, troppo stanco per spiegare ubicazione di un villaggio di venti anime.
Lo disse a Emil.

Michele non avrebbe saputo dire esattamente come o perché , ma a un certo punto la conversazione si spostò sulla folle - aggettivo cortesemente offerto da Michele nei suoi pensieri - passione di Nekola per quelli sport che andrebbero classificati sotto la categoria “tentato suicidio”.
Parlarono dei rispettivi paesi di origine, delle famiglie, di Sara e degli hobby. Appunto, hobby. L’hobby di Emil erano gli sport estremi. Parlò con entusiasmo della scarica di adrenalina data all’arrampicata libera o dall’ondata di pura gioia che quella sola esperienza di bungee-jumping gli aveva procurato. Michele scosse la testa, nel modo riservato a una persona le cui parole e le azioni erano al limite della pazzia, ma continuò lo stesso ad ascoltare. Aveva notato, in effetti, che ascoltare Emil parlare aveva il potere di alleviare un po’ la fatica sia dalla mente sia dal corpo. Per un attimo poteva dimenticare il dolore dei suoi arti, e sebbene non abbassasse mai del tutto la guardia, era più rilassato di quanto non fosse stato per giorni.
Emil aveva anche la passione per la fantascienza. Nominò autori di cui Michele non aveva mai sentito parlare. Un certo Ćapek era il suo preferito, insieme ad altri più famosi; Isaac Asimov primo fra tutti.

Si fermarono quando la luce scomparve completamente dal cielo. Era stata una giornata sorprendentemente tranquilla, una benedizione rispetto a ciò a cui erano abituati; l’atmosfera era più leggera del solito. Persino Plisetsky ne era influenzato e, anche se parlò a malapena con qualcuno che non fosse Otabek, afferrò le sue razioni e si sedette con gli altri. Solo Victor, stranamente, non sembrò disposto a indulgere in chiacchiere. Yuri si chiese se avesse qualcosa a che fare con quanto era successo la notte prima. Non ebbe tuttavia il coraggio di domandarglielo.

Con Victor ad avere il primo turno di guardia, Yuri trattene il fiato mentre tiravano a sorte per decidere le coppie. Quando il verdetto fu annunciato, ringraziò gli dèi in cui di solito non credeva. Si sentì solo un po’ colpevole, come una puntura, al triste sorriso di delusione che Victor gli rivolse
Quando si sedette per il suo turno di guardia, il viso di Victor era tornato ad avere un’espressione neutra e pensierosa. La sua apparente distrazione era solo una facciata, la mente sempre pronta anche se usava quel tempo per pensare; e continuò a farlo durante il sesto giorno di marcia.

Da soldato, Victor Nikiforov aveva spesso sentito parlare del fenomeno dell’arto fantasma. A volte si chiedeva se qualcosa di simile non accadesse anche con i capelli tagliati, perché c’erano momenti in cui poteva ancora sentirlo, il lieve solleticare dei capelli sulle guance quando erano più a lunghi. Poteva ancora sentire la pesantezza della sua spessa treccia d’argento che riposava tra le scapole. Ora era la sua treccia fantasma.
La scelta di lasciare crescere i capelli in maniera femminea era stata l’atto di ribellione più importante che il se stesso dodicenne aveva potuto escogitare. Ricordava perfettamente le notti trascorse all’addiaccio, dopo che la porta della casa gli era stata sbattuta in faccia. Quelle immagini erano impresse a fuoco nella memoria. Quando era fortunato c’era una vicina gentile a offrirgli ospitalità. La maggior parte del tempo, tuttavia, doveva lottare per rimanere sveglio e non congelare a morte, finché sua madre non aveva pietà di lui e lo lasciava rientrare. Altre volte trovava riparo a scuola.
Victor sopportava tutto per sfuggire a suo padre e a quelle forbici che sembravano voler tagliare la sua stessa anima. Ricordava tutti i nodi che aveva pettinato con le dita tremanti, mentre si raggomitolava per combattere il freddo.
In certe occasioni trascorreva l’intera giornata a scuola, dove un insegnante lo aveva preso sotto la propria ala protettrice. Alla fine, tuttavia, Victor era stato espulso. Quel giorno era uno di quelli che non voleva ricordare.
Sua madre lo aveva sempre difeso. Era piccola, un poco tozza, ma forte e dura come solo le donne nate in lande invernali sanno essere. Aveva visto la guerra, aveva combattuto nella Resistenza, ed era rimasta intrappolato in un matrimonio che si era rivelato completamente diverso da quello che aveva immaginato. Aveva scelto suo figlio su suo marito senza alcuna esitazione.
Alla fine il padre di Victor rinunciò, in un certo senso. Smise di inseguirlo con le forbici o di picchiarlo, ma non perse mai occasione per commentare tutti i difetti del ragazzo che riusciva a trovare. E poiché non erano molte le lacune di cui parlare, a parte una cattiva memoria, suo padre iniziò ad attaccarlo per altre cose. Lo chiamava debole, femminuccia. Frocio.

E quello che faceva più male era che gli insulti di suo padre avevano un fondamento.
A Victor piacevano le ragazze. Le trovava piacevoli, divertenti. Sapeva anche apprezzarne la grazia e la bellezza. Il suo, tuttavia, era un semplice apprezzamento estetico, nient’altro; lo stesso che avrebbe avuto con un bel fiore o una bella camicetta. Le rispettava profondamente, godeva della loro compagnia, amava chiacchierare con loro di tanto in tanto, ma non gli piaceva in quel senso.
Victor aveva quasi quattordici anni quando baciò un ragazzo per la prima volta e tutto divenne chiaro. Aveva da tempo dimenticato il nome dell’altro ragazzo, per colpa di una memoria che non era mai stata molto buona, ma ricordava il suo volto. Poteva ancora descrivere con accuratezza le guance paffute e chiazzate di rosso del ragazzo, i ricci capelli castani e i suoi occhi azzurro ghiaccio. Ricordava i fiocchi di neve che si fondevano intrappolati tra i ciuffi e sulle labbra del giovane.
Quel primo bacio segreto era stato l’unico. Era stato tuttavia sufficiente perché Victor capisse che le ragazze non avrebbero mai potuto attirarlo allo stesso modo dei maschi.
Due anni dopo aveva gettato alcune sue cose in una borsa ed era scappato via da casa, saltando sul primo treno per Leningrado. Sognava un futuro pieno di arte e di bellezza. La guerra era l’ultimo dei suoi programmi.
A Leningrado aveva conosciuto Georgi, con i suoi occhi tristi e le sue canzoni malinconiche. Avevano condiviso un piccolo appartamento per un po’, prima che Georgi si trasferisse da Anya. Era tornato alla fine, dopo una rottura piuttosto disastrosa. Nel frattempo, Victor aveva adottato un cane randagio per sentirsi meno solo. Fu intorno a quel periodo che conobbe Christophe Giacometti, un ragazzo svizzero con le idee non ancora chiare di cosa fare della sua vita. Anche lui era stato catturato dal fascino di Victor, solo per svilupparne uno egli stesso un paio di anni dopo.
Nonostante ciò che i suoi amici avevano pensato allora, Chris non era stata la sua prima volta; né Victor era stato il primo amante del ragazzo svizzero. Tuttavia avevano giaciuto insieme, con una facile accettazione. Era stato Chris, questo giovane sensuale e senza pudore, ad aiutarlo a accettare chi fosse. Come era nato. Allo stesso tempo Chris lo aveva anche messo in guardia, preoccupato per la sua sicurezza.
Victor aveva trascorso meno di un anno con Chris, ma era stato sufficiente per sviluppare una stretta amicizia, rinforzata dalle lettere che si erano scambiati negli anni successivi. Alla fine, tuttavia, avevano smesso. La posta di Victor veniva passata al setaccio e gli argomenti su cui potevano parlare divennero meno interessanti ogni anno. Aveva inviato una cartolina con gli auguri di Natale all’incirca quattro anni prima, e siccome aveva scordato l’usanza occidentale di festeggiare la ricorrenza il 25 Dicembre, l’aveva mandata in ritardo.
Scoprire che Chris era nella squadra che stavano cercando di salvare era stato uno shock che Victor aveva potuto mascherare solo grazie ad anni di pratica. Costrinse la sua mente a cambiare argomento prima di poter pensare agli scenari peggiori.

Il giorno prima aveva domandato al Tenente Altin quanto fossero distanti dalla loro meta finale. Non poteva essere ancora molto lontana, dato che Behrooz aveva raggiunto il campo sovietico correndo per circa cinque giorni; un risultato impressionante, pur considerando che l’uomo stava fuggendo in preda al panico per salvarsi la vita.
“Un giorno al massimo” era stata la risposta. Lo aveva soddisfatto. Li aveva soddisfatti tutti. Non erano lontani dal Gulestan.

Ora, tuttavia, stava diventando chiaro che avevano festeggiato troppo presto. Secondo Behrooz erano vicini a dove la squadra di Leo era incappata in un’imboscata. Eppure, mentre le ore passavano, nessuna traccia di recente attività umana poté essere trovata per rassicurarli. Il sentiero si era ristretto in un collo di bottiglia, chiuso da entrambi i lati da alte pareti rocciose. Invero, sembrava la posizione perfetta per una trappola, la fuga facilmente bloccata da entrambe le parti, specialmente per soldati non abituati al territorio. Quando uscirono finalmente dal passaggio, il piccolo spiazzo non li rassicurò affatto. Nonostante fosse vero che le pareti rocciose si erano abbassate per mostrare nuovamente il cielo, lo stretto sentiero si snodava tra alte rocce, dietro le quali un gruppo di uomini avrebbe potuto facilmente acquattarsi e attendere.
Tentarono di esaminare il terreno mentre camminavano, cercando tracce di ciò che era accaduto circa un paio di settimane prima; ma il tempo e il passaggio di animali selvatici avevano confuso quasi ogni cosa.

Behrooz suggerì che il Sergente De la Iglesia e i suoi uomini avevano forse trovare rifugio in una grotta non molto lontana, se erano sopravvissuti all’agguato come suggeriva la mancanza di cadaveri. Poi indicò un punto in cui la via si biforcava: un sentiero procedeva in salita verso un buco nella parete del monte. Yuri, Otabek e Leroy andarono ad indagare.
Là trovarono una radio rotta, alcune bende, tracce di sangue e un paio di sandali, di misura infantile. Chiunque fosse stato lì tuttavia, se ne era andato da tempo. Una volta ricongiuntisi col resto del gruppo, Yuri prese Phichit da parte. Rifletté sul fatto di rendere Behrooz partecipe di quanto stava per dire, ma alla fine optò per non farlo. Di certo anche il Tenente Altin si sarebbe avvicinato a loro e ciò che Yuri desiderava discutere con Phichit era classificato nella categoria “cose che i sovietici non dovrebbero sapere”. Neanche il mujaheddin sapeva, la spiegazione che aveva dato ai russi dopo che la sua cattura era stata sincera .
“Immagino che Leo abbia deciso di continuare” sussurrò Yuri a Phichit, muovendo appena le labbra. Phichit annuì leggermente con la testa per manifestare il proprio accordo. La storia secondo cui la squadra di Leo stava facendo una ricognizione per esaminare un villaggio era solo una parte della storia, una facciata. In realtà avrebbero dovuto testare le acque per un incontro con un importante uomo locale. Yuri non aveva dubbi che Leo avesse avuto tutte le intenzioni di completare la missione, anche quando si era trovato senza una guida del posto.
“Se si sono persi, sarà un miracolo ritrovarli” puntualizzò Phichit. Yuri scrollò le spalle.
“Supponiamo per ora che il senso dell’orientamento di Guang Hong sia abbastanza buono. Probabilmente hanno cercato di raggiungere da soli il villaggio” concluse. La sua voce, però, era densa di dubbio. Circa dieci giorni erano già passati dalla scomparsa di Leo e degli altri , senza che ci fosse stato un singolo tentativo di contattare la base. Se avevano davvero trovato il villaggio, perché non avevano cercato di comunicare o di tornare indietro? La radio rotta che avevano trovato un attimo prima chiariva parte dei dubbi di Yuri, ma non abbastanza per calmare il suo battito cardiaco.
“Inoltre, Behrooz ha detto che c’erano dei bambini coinvolti. Questo cambia tutto “.
Limitiamoci a supporre che siano vivi.

Di nuovo alla base della salita, l’intera squadra cominciò a discutere su cosa fare. Yuri espose la propria ipotesi, trovandosi quasi a pregare che gli altri ascoltassero. Più ci pensava, tuttavia, più possibilità produceva la sua mente, ed era terribilmente difficile scegliere una invece di un’altra.
“Hai spiegato un po’ la strada per gli uomini che avresti dovuto guidare?” chiese Victor a Behrooz, sorprendentemente in inglese senza chiedere l’intervento di Altin. L’uomo socchiuse gli occhi e mormorò qualche parola, ma alla fine annuì. “Un po’”
“Ottimo. Sembra chiaro che qualunque cosa ci aspettavamo di trovare non è qui. Andremo al villaggio che il Sergente de la Iglesia avrebbe dovuto raggiungere. Se non li troviamo lì o sulla strada, ciò mette termine la missione” concluse

Ripresero la marcia subito dopo. Camminando, Michele inciampò nei suoi stessi piedi. Incolpò la sua stanchezza. L’ultimo evento imprevisto aveva solo peggiorato le cose. Emil, che procedeva davanti a lui, si fermò per offrirgli una mano. Michele l’accettò, arrivando a ricambiare il sorriso dell’altro.
“Sai, stavo pensando che, forse, potrei venire a Praga qualche volta” esordì, ricordando con quanto entusiasmo Emil ne avesse parlato.

“Sì, sarebbe ...”

“Fantastico” concluse Michele nella sua mente. Ma le parole non lasciarono mai la bocca di Emil. Si fermarono su quell’ultima sillaba, le labbra ancora torte in preparazione di una frase che il giovane non avrebbe mai avuto la possibilità di completare. Rimase in piedi, gli occhi sgranati per la sorpresa; non ebbe nemmeno tempo di comprendere cosa fosse accaduto prima che la gravità arrivasse a tirarlo giù. Cadde in avanti con un solo, brusco movimento, con gli occhi spalancati, le labbra aperte, la tempia rovinata da un sanguinante foro di proiettile.

Note
Welcome naughty children, it’s murder time.

Avevo avvisato che il capitolo 6 sarebbe stato il giro di boa ed eccoci qua. Certo la tensione non rimarrà sempre alta per tutti i capitoli 7-12, ma presi nel loro complesso saranno pieni di feels (o almeno questo sarebbe l’obiettivo).
Il titolo è tratto da Wait for it dal musical Hamilton.
“La morte non discrimina tra santi e peccatori. Lei prende, prende, e prende. E noi continuiamo lo stesso a vivere.”

Nel prossimo episodio: La squadra di Leo è stata dispersa da un agguato. Ora la situazione rischia di ripetersi e per Yuri l’esperienza potrebbe risvegliare brutti ricordi. Plisetsky riflette ancora sul suo passato. E Michele continua a ripetere di stare bene.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Cose Rimaste Non Dette ***


Cose Rimaste Non Dette

Yuri non lo vide arrivare. Lo udì, un distante “pop” accompagnato da un sibilo, quasi un fischio. Si abbassò mentre il proiettile passava appena sopra la sua testa. Non ne attese un altro, l’istinto di lotta-o-fuga che già dettava le sue azioni.
“Al riparo! Distanza duecento metri, ore undici, numero sconosciuto!” Yuri gridò istintivamente la descrizione della posizione nemica.
C’erano alcune grandi rocce sul lato sinistro del sentiero. Corsero a nascondersi dietro di esse.
“Ci divideremo” stabilì Victor una volta in posizione. “Il Capitano Plisetsky, il soldato Katsuki, il Caporale Chulanont e il soldato Yegorov verranno con me. Saremo l’elemento di assalto e libereremo il campo.”
Annuirono. Yuri pensò che fosse strano separare il Tenente Altin da Plisetsky, ma quando si ricordò che Altin era un interprete, ebbe senso. Mentre Victor e il Capitano Popovich discutevano su come muoversi, sentì un brivido freddo correre lungo la spina dorsale, paura ed eccitazione che si mescolavano. Era un incubo e qualcosa di cui essere orgoglioso. Victor lo aveva voluto con lui, ma per la parte più pericolosa. Si domandò in fretta se gli fosse permesso contraddire gli ordini di Victor e lasciare che fosse il Sottotenente Leroy ad andare al suo posto. Yuri accantonò l’idea subito dopo. Non importava quanto Leroy potesse sembrare bravo: non era ancora esperto come lui. Inoltre JJ e Victor non sembravano essere sulla stessa lunghezza d’onda.
Deglutì. Mentre toglieva la sicura del suo M16 ed esaminava l’area in cerca di movimenti nemici, ringraziò gli dei in cui non credeva per la presenza di Phichit al suo fianco.

Fu veloce. Fu lento. Non poteva essere durato più di sette minuti di sicuro, ma la condizione di stress in cui Yuri si trovava rallentò la percezione dell’intero evento. Victor sapeva cosa stava facendo e lo faceva bene. Se Yuri non fosse stato così occupato ad evitare di essere ucciso, si sarebbe limitato ad ammirare lo spettacolo che era Victor Nikiforov in azione. Durante i giorni di marcia aveva avuto un assaggio di quello che sapeva fare il più giovane Generale della storia sovietica, ma questo era completamente diverso. Victor era veloce, freddo e preciso.
Ottenne la conferma della composizione nemica quando si furono abbastanza vicini da vederli.
“Devono essere due” considerò Victor, il fucile armato e puntato. Si voltò. Era innegabile che gli assalitori fossero in condizione di vantaggio grazie alla loro posizione sopraelevata.
“Dobbiamo avvicinarci. Essere sul loro stesso livello o sopra” rifletté Phichit. Victor guardò ancora una volta il ripido pendio, studiandolo in cerca di vie e possibili nascondigli.
“Capitano Plisetsky, sono sicuro che il Tenente Altin ti ha insegnato come scalare una montagna. Ecco cosa faremo.”

Secondo il piano di Victor, Plisetsky e Phichit avrebbero prendere un sentiero in salita e fare del loro meglio per non essere notati. Trovarsi più in alto avrebbe quindi dato loro un vantaggio tattico. Nel frattempo il resto della squadra avrebbe preso una via più breve. “Più velocemente riusciamo ad abbatterli senza un scontro diretto, meglio è.”
Circa un minuto dopo, Yuri era raggomitolato dietro una roccia. Alzando lo sguardo, vide due figure simili a puntini muoversi sulla parete scoscesa. Deglutì di nuovo in attesa un ordine. Dalla sua posizione poteva vedere il primo uomo, il fucile puntato. Il secondo doveva essere nascosto non troppo lontano. Alla sua destra, Victor stava guardando attraverso il mirino del suo fucile. Lo abbassò e sospirò. Yuri capì. Il colpo era sporco, la gravità e il terreno a loro sfavore. Un colpo sbagliato e sarebbe finita. Gli spari erano momentaneamente cessati, con entrambe le parti ignare di dove si trovassero con esattezza i loro avversari.
E loro non aveva avuto il lusso di aspettare che gli altri facessero una mossa sbagliata. Ogni minuto era prezioso, e ne avevano già sprecati troppi.

“Ne potrei affrontare uno in un combattimento ravvicinato. Sono bravo” sussurrò Yuri. Sparare da lunga distanza poteva anche essere la specialità di Phichit, così come la strategia lo era per Victor, ma il combattimento corpo a corpo era il suo campo. Proprio mentre diceva questo, sentì un basso fischio accompagnato da un familiare “pop” e un’eruzione di imprecazioni in una lingua che non comprendeva ma che aveva imparato a riconoscere.
Quanto accadde dopo fu qualcosa che parve essere stato fatto da qualcun altro. Il suo corpo agì da solo. Sotto il fuoco di copertura del soldato Yegorov, scattò in avanti, il corpo abbassato, le mani sul fucile.
I familiari suoni dei colpi gli riempirono le orecchie. Smise di badare a ciò che stava accadendo intorno a lui. L’unica cosa di cui si rendeva conto era il veloce sparare a due tempi, il calore del fucile, l’odore dei proiettili. I bossoli tintinnarono a terra, rimbalzando e rotolando via.
Yuri inciampò. Continuò lo stesso a sparare. Un nemico era ormai molto vicino. Così vicino avrebbe potuto toccarlo. Com’era arrivato così vicino?
Yuri sparò.
E questo fu tutto.

Yuri portò la mano destra sul viso per togliersi i occhiali e ripulirli. Fu in quell’istante che la consapevolezza lo colpì. La condizione simile a una trance causata dall’adrenalina fu sostituita dalla pesantezza della realtà. Gli altri li avevano raggiunti.
Sangue. Sentì del sangue sul viso. Vide del sangue sulle sue mani. Abbassò gli occhi: il sangue gli macchiava i pantaloni. Si voltò e vide Plisetsky chino sul Tenente Altin, un kit di pronto soccorso aperto vicino alle ginocchia. Si voltò di nuovo, dall’altro lato: Phichit, che stava aiutando Victor a rimettersi in piedi, entrò nella sua visuale.
Sangue.
Yuri cercò di alzarsi, ma un peso misterioso lo fece cadere. Guardò di nuovo verso la terra solo per incontrare gli occhi dell’uomo che aveva appena ucciso. I contorni degli oggetti divennero sfocati e confusi. Calciò il cadavere lontano da lui.
Yuri conosceva l’odore di sangue, il suo gusto, l’effetto che faceva sulla pelle nuda. Ne conosceva la sua vischiosità. Conosceva tutto questo, doveva. Eppure, proprio lì, l’unica cosa che seppe era che questo sangue non era diverso da quello di quel giorno, sotto i colpi di un fuoco nemico, con i suoi uomini che chiedevano ordini che non poteva dare.
Questo nuovo sangue rese tutto molto più vivido.
E seppe anche cosa stava per succedere, cosa stava già succedendo. Le unghie morsero la carne mentre riconosceva i così familiari sintomi di un attacco di panico. Tuttavia riconoscerli non servì a niente. Da qualche parte nella sua mente una voce gli disse di fare respiri lenti e profondi. Ma era un ordine che non poteva seguire. Il petto si fece stretto, la gola si chiuse su un grumo invisibile. Cercò di inalare, ma l’aria si rifiutò di entrare in bocca e di raggiungere i polmoni. Ansimò con veloci sibili; un rapido dentro e fuori, accompagnato dal suono acuto di un fischio. Oh Dio, stava iper-ventilando. Sapeva che non era una cosa positiva. Sapeva di dover smettere. Eppure non poteva.
Stava accadendo di nuovo.
I suoi uomini avevano disperatamente bisogno di istruzioni ed egli non riusciva a parlare. Non riusciva nemmeno respirare. Voleva solo rannicchiarsi in un buco e scomparire. La mancanza di ossigeno rese la testa leggera.
“Ehi, cos’ha?” sentì Plisetsky sputare. Che strana cosa. La sua voce proveniva da un posto lontano, sembrava preoccupato. Poco dopo la familiare sagoma del viso di Phichit entrò nel campo visivo di Yuri. Yuri sentì il suo amico prendergli le mani, stringergliele. Non oppose resistenza. Le mani di Phichit erano sudate ma calde. C’erano grossi calli su di esse. C’erano anche macchie di sangue. Sangue.
Phichit tenne le mani di Yuri con una tale gentilezza. Parlò in una voce pacata e costante.
“Yuri, va tutto bene. Cerca di respirare. Respira con me.”
Più facile a dirsi che a farsi. Yuri si costrinse ad inalare ed espirare, con respiri lenti e profondi, seguendo il ritmo di Phichit. Si obbligò a concentrarsi solo sul regolare dentro e fuori.
“Meglio?” Chiese il suo amico quando il respiro di Yuri riacquisito una parvenza di normalità. Yuri annuì. Lasciò che Phichit lo aiutasse a stare in piedi.

I postumi non erano così disastrosi come erano parsi all’inizio, almeno per loro. Ciò, tuttavia, forniva poca o nessuna consolazione. Emil era morto, ucciso all’improvviso perché erano troppo occupati a parlare per badare a quanto stava accadendo intorno a loro. Erano stati avvertiti di quanto fosse pericoloso quel luogo in particolare; erano consapevoli che era stato lì che Leo e gli altri erano incappati in un simile destino. Eppure avevano abbassato la guardia.
Il soldato Nekola non era l’unico caduto in battaglia. Anche il soldato il cui nome Yuri non si ricordava, ma era stato spesso visto nella compagnia del ceco, era stato ucciso.
Yegorov. Soldato semplice Yegorov, giusto.
Una rossa macchia di sangue colorava il panno della sua uniforme, nella parte destra dell’addome. I suoi occhi erano ancora spalancati per la sorpresa, le dita gelate nell’atto di tenere un fucile che gli venne strappato dalle mani e riposto poco lontano. Il Sottotenente Leroy si preoccupò di controllare l’arma.
Michele rimase immobile per terra, le braccia lasciate penzoloni tra le gambe. Otabek lo sollecitò ad alzarsi in piedi, ma quando il Sergente Crispino lo ignorò, dovette afferrare la sua giacca e tirare.
“Dobbiamo fare qualcosa” mormorò Michele, la voce rauca nella bocca secca e appiccicosa. “Dobbiamo fare qualcosa per questo” continuò, sollevando un braccio e indicandolo il cadavere di Emil.
“Lo faremo” assicurò Victor con voce grave, mentre curava le ferite superficiali del Capitano Popovich.
“No, è mio compito” rispose Michele. Si accostò Emil con movimenti robotici. Tenne la testa bassa e gli occhi fissi su ciò che stava facendo. Spogliò con cura il cadavere di tutti gli oggetti che potevano essere considerati utili o troppo importanti per lasciarli in mani nemiche.
Quindi nascosero il corpo tra alcune rocce, calcolarono le coordinate per il futuro recupero e resero omaggio. Fu tutto troppo veloce e superficiale. Fecero lo stesso fatto per il soldato Yegorov.
Riuscirono a marciare per altre due ore prima che il tramonto del sole rendesse troppo difficoltoso avanzare. Prepararono l’accampamento in totale silenzio.

“Mi occupo del turno di mezzo” annunciò Victor. L’apparente gentilezza della sua offerta nascondeva un ordine che non ammetteva repliche. Non che qualcuno avesse voglia di protestare. La recente esperienza li aveva prosciugati fino all’esaurimento. Una folta cappa di intontimento era scesa su di loro, rallentando i pensieri e le speranze nelle loro menti stanche.
Erano tutti abituati a guerra, ai suoi alti e bassi, alla morte. Non era una novità; ma non era qualcosa per cui avessero smesso di soffrire, ognuno a modo loro. Phichit aveva passato l’ultima ora a cercare di sollevare il morale di Michele, aiutato di tanto in tanto dalle pessime battute di JJ. Il Sergente Crispino aveva quindi gridato di lasciarlo in pace da, che stava bene, che non aveva bisogno di sentire una storia divertente su una vecchia signora canadese. Si sedette di nuovo, da solo, l’assenza di Emil ancora più tangibile di quando non lo fosse stata la sua presenza. Dal primo giorno, Emil era sempre stato con Michele, parlando con lui, chiacchierando con lui, rimanendo in silenzio al suo fianco, o tenendogli compagnia.

Plisetsky, al contrario, spargeva rabbia e frustrazione. “Cazzo!” Yuri lo sentì mormorare, la voce costretta a rimanere bassa e alla base della gola. “Cazzo” ripeté, mentre il pugno colpiva il terreno per sottolineare le sue parole. L’inglese presto fu sostituito dal suo nativo russo.
“Avete deciso i vostri turni di guardia?” Il Capitano Popovich chiese ai soldati statunitensi. Si guardarono, prendendo la silenziosa decisione di risparmiare Michele per la notte. Non persero nemmeno perdita di tempo a tirare a sorte. JJ prese l’ultimo turno.
“Allora io prendo quello di mezzo “ continuò Phichit. “E Yuri può prendere -”
“No, la guardia di mezzo è mia” rispose Yuri. Phichit si fermò, il dubbio dipinto sul viso. Chiuse a Yuri se ne fosse sicuro. Lo era. Aveva trascorso le ultime ore a pensarci, riflettendo sulla faccenda nel tentativo disperato di decidere se fosse un semplice capriccio o no.

La morte di Emil aveva improvvisamente reso ancora chiaro come qualunque cosa potesse accadere in qualsiasi momento. Certo, l’idea che Victor Nikiforov venisse ucciso sul campo era più che ridicola; il fatto semplicemente non si addiceva al suo nome. Non suonava bene. Eppure sarebbe potuto essere lui al posto di Emil. Poteva accadere di nuovo e Victor essere la prossima vittima, non importava quanto suonasse ridicolo il pensiero. Yuri non voleva avere altri rimpianti. Ce ne erano già così ad graffiargli la base del cranio.
Yuri aveva trascorso anni ad ammirare Victor, a struggersi, ad averlo ben chiaro in mente. Ora Victor era lì, che viveva e respirava a pochi centimetri di distanza, e di colpo il fatto importava più di quanto non avesse fatto nei giorni precedenti. Prima gli era bastato rimanere vicino a Victor Nikiforov; per Yuri era stato più che sufficiente. Ora ciò non corrispondeva più a verità vero.
Aveva bisogno di parlare con Victor. Doveva dirgli di essere migliore di quanto avesse mostrato. Era migliore di un uomo che non poteva sopportare la vista di un po’ di sangue senza andare in iperventilazione.
“Uno pensa che ci si abituata alla fine” cominciò Yuri appena Victor si fu seduto. “A volte mi chiedo perché ho deciso di arruolarmi. Guardami! Sono uno sciocco. Non riesco nemmeno a uccidere un uomo senza vomitare.”
Una silente risata priva di gioia gli scosse il corpo. Lacrime di vergogna tremarono agli angoli dei suoi occhi. Non sapeva se Victor lo stesse ascoltando o no, ma finché l’altro non lo avesse interrotto sarebbe bastato. Pregò comunque di dilatare quel momento all’infinito.
“Yuri” disse Victor, le mani posate sulle cosce. “Hai ragione. Non credo che questo posto sia adatto per te. Ma questo non significa che tu sia sciocco o codardo.”
Nel dire questo Victor spostò la mano sulla spalla di Yuri. L’uomo ebbe un fremito ma non si mosse. La mano di Victor era pesante, ma in una maniera quasi rassicurante. Le mani di Victor erano state sulla sua schiena, la nuca, il polso e ora la spalla.
Yuri ridacchiò, ma fu un suono senza gioia. Ho iniziato questo per te. Ti ammiravo. Volevo essere come te.
Questo era quello che avrebbe voluto dire a Victor. Sussurrò persino le parole, così sottili Victor non riuscì a sentirle. La sua voce sembrava appartenere ad uno sconosciuto. Le parole non uscivano dalla bocca, ma esistevano già nel tessuto della realtà, apparendo dal nulla.
Tutto questo.
Avrebbe voluto dire tutto a Victor. Lo aveva pianificato; lo voleva. Era pronto. Credeva di esserlo. Non lo era. Non lo fece. Non poté.

Tutto era cominciato quando Yuri aveva quindici, quasi sedici anni. Il complesso termale che la sua famiglia gestiva stava soffrendo gravi problemi economici per colpa di cattivi investimenti e un improvviso calo del turismo nella zona.
I cambiamenti per Yuri e la sua famiglia non erano stati bruschi. I Katsuki aveva sempre condotto una vita semplice e tranquilla, ma Mari aveva di colpo cessato di indulgere in quei piccoli vizi che erano stati la norma solo pochi anni prima. Il cambiamento si era avviato con lentezza.
Erano state le piccole cose: come l’uniforme scolastica di Yuri che avrebbe dovuto essere sostituita dopo che era cresciuto così tanto durante le ultime vacanze estive, ma che invece era ancora la stessa. Era sua madre che parlava con la maestra Minako, chiedendo se avesse potuto continuare a insegnare a Yuri per metà del normale prezzo delle lezioni di danza, in nome della loro passata amicizia. Minako non aveva mai chiesto denaro, a parte una simbolica somma che Hiroko Katsuki aveva insistito a darle finché non era costretta ad accettare. Era Mari che aveva ventidue anni e d’un tratto aveva smesso di parlare di andare in una buona università, di trasferirsi a Fukuoka o persino a Tokyo.
Mari non si era lamentata.
Era la smorfia sul volto di Toshiya mentre esaminava il bilancio mensile con una matita contro graffiava la tempia come se questo avesse potuto aiutarlo a far quadrare i conti. Le uscite superavano sempre le entrate.

Un giorno i suoi genitori lo avevano convocato. Yuri aveva pensato che si trattasse di qualcosa di importante già dal tono delle loro voci. Anche Mari era presente. Furono stranamente diretti. Nessun giro di parole per addolcire la pillola, nessuna via lunga per dire una cosa altrimenti semplice.
“Non è un buon periodo” iniziò sua madre. Parlava mentre si stropicciava le mani grassocce e abbronzate, torcendo i pollici. “E questo mio cugino si è offerto …” disse.
“Può ospitarti per un po’. Finché le cose non cominciano a migliorare” intervenne il marito. Yuri fu informato che questo lontano parente viveva a Detroit. Annuì.
Non aveva davvero una scelta.
Prima di rendersi conto del cambiamento si ritrovò ospite di un lontano cugino, della cui esistenza era stato ignaro finché non gli avevano messo davanti la decisione già presa.

I primi giorni negli Stati Uniti furono uno shock culturale. C’era una sorta di razzismo che ancora resisteva nelle menti di alcune persone, degli vecchi, di quelli che erano vivi ai tempi di eventi come Pearl Harbor. Le persone gli davano buffi nomignoli. Alcuni crudeli adolescenti disprezzavano il modo in cui parlava, andando in giro con le dita all’angolo dei loro occhi per fingere che fossero a mandorla.
A volte la nostalgia era così forte che feriva il petto. Gli annodava lo stomaco. Lo faceva sentire vuoto.
Le chiamate internazionali erano costose e quindi brevi e rare. Yuri attendeva quei giorni con la testa piena di parole e di esperienze che avrebbe voluto condividere con i suoi genitori e la sorella; immaginava il momento in cui avrebbe potuto versare la propria frustrazione e l’eventuale felicità nella cornetta. Eppure tutto quello scompariva nell’istante in cui udiva una voce familiare dall’altro lato. Andava tutto bene. Nulla di cui preoccuparsi. Sì, era felice. Sì, lo zio Takao era molto gentile. Gli affari stavano migliorando? Oh, era una cosa fantastica.
Yuko e Takeshi si erano sposati? Poteva Mari inviare le sue congratulazioni?
Tutto questo mentre le dita sudate lasciavano impronte sulla plastica bianca e nera del telefono. Yuri premeva la cornetta contro l’orecchio come se quello fosse sufficiente per essere assorbito dall’apparecchio e riportato a casa.

Finiva sempre con lo scoppiare piangere nel momento in cui riagganciava. Grandi goccioloni rotolavano lungo le guance, caldi e bagnati, le mani che ancora stringevano il telefono come se ne andasse della sua stessa vita.
Circa tre anni dopo il trasferimento lo zio iniziò ad avere egli stesso problemi economici, la sua condizione finanziaria peggiore di quanto non fosse stata all’inizio. Yuri ricordava bene il proprio desiderio di proseguire gli studi e perseguire un cammino diverso da un destino del cameriere alle terme. Entrare nell’esercito sembrò un piano plausibile.
Ora pareva una cosa talmente stupida.
Victor Nikiforov era già nella sua mente allora. Yuri si abbandonò a quei lontani ricordi. Un giovane Victor figurava già su giornali e televisioni internazionali. Yuri aveva sentito il suo nome sulla radio. Voleva essere come lui.
“Non sono come te” concluse invece, la voce fattasi così flebile da essere appena udibile a causa del suo imbarazzo. Le nocche premute sulla sua bocca soffocarono le ultime parole.
Victor Nikiforov. Era stato come un’illuminazione che gli aveva colpito il cuore, dalla prima volta che lo aveva intravisto durante un veloce servizio sulla situazione in Siria. Victor. Era sempre stato Victor.
Era stato Victor quando Yuri aveva compilato tutti i documenti necessari e si era sottoposto alle procedure per arruolarsi. Era stato Victor quando la vita militare era divenuta la sua realtà. Era stato Victor quando Yuri aveva deciso di rimanere nell’esercito, spinto dal desiderio di dimostrare di valere qualcosa, un desiderio nutrito da ogni volta che un superiore o un compagno lo avevano definito inutile.
Era stato Victor quando Yuri aveva la sua prima esperienza sul campo.
Era stato Victor anche il giorno in cui Yuri era stato degradato.

Il settimo giorno di marcia la squadra si fermò appena. La velocità del loro passo crebbe, l’accuratezza scambiata per il desiderio di raggiungere la loro meta il prima possibile. Era una bella giornata; il cielo di un ricco azzurro, vuoto a parte il sole alto e splendente. Ne registrarono a malapena la presenza, fatta eccezione per il caldo insopportabile che irradiava. Bruciava i loro scalpi sudati, facendo colare gocce di sudore giù dalle spalle e faceva il solletico in punti che non potevano grattare. L’immancabile polvere sfocava i contorti di tutto ciò che si trovava attorno a loro.
Mentre camminavano lungo il ciglio del sentiero, guardando giù, videro quattro piccoli gruppi di abitazioni locali che punteggiavano la valle. Si imbatterono poi in un altro villaggio nel primo pomeriggio, incorniciato dalle montagne. Avrebbero appena notato la sua presenza se non avessero avuto un disperato bisogno di riempire le loro borracce.
Nessuno lamentava la mancanza di pause. Behrooz aveva detto che il villaggio era a tre giorni di marcia, ma aveva aggiunto che il tempo poteva essere ridotto a due giorni se avessero accelerato il passo. Lo fecero. Almeno tentarono. Muoversi su quegli stretti sentieri montuosi stava diventando più facile, i muscoli non dolevano più come i primi giorni e i piedi si erano fatti più stabili. Behrooz doveva fermarsi ad attender chi era caduto ogni giorno di meno. Inoltre il loro gruppo aveva smesso di seguire la tacita regola di alternare nella fila un russo e un americano. Se non altro, l’imboscata era servita ad avvicinarli.
Yuri si mosse in avanti finché non fu dietro Behrooz. Come d’abitudine Otabek era lì, sia come traduttore sia a fare il cane da guardia di Plisetsky.
“Vorrei parlare con lui. Mi piacerebbe se potessi aiutarmi a tradurre se necessario” dsse Yuri. Il Tenente ponderò la richiesta, anche lui gettò uno sguardo verso Plisetsky, ma l’omonimo di Yuri era troppo impegnato a esaminare i dintorni per badare a una piccola chiacchierata.
“Vai avanti” concluse Otabek alla fine.
Yuri inghiottì la saliva. Non aveva mai pensato a questo proposito. “Non sei scappato questa volta” disse. Si sentì orribile nel momento in cui formulò quelle parole. “è stato coraggioso da parte tua”, aggiunse, l’ombra di un sorriso sulle sue labbra secche. “Deve essere stato terribile.”
“Già,” giunse la risposta di Behrooz. Yuri lo guardò, asciugando il sudore dalla fronte impolverata. La bocca aveva perso quasi tutti i denti e rughe profonde segnavano la sua pelle olivastra. Tuttavia non poteva avere più di cinquant’anni. Due occhi intelligenti, blu chiaro, brillavano nelle cavità orbitali, sotto spesse sopracciglia grigie.
“Hai ... hai figli?” continuò Yuri. Secondo i russi, Behrooz era sembrato profondamente preoccupato per un gruppo di bambini smarriti che Leo aveva insistito a voler aiutare. La risposta fu affermativa. Aveva tre figli grandi, due già sposati e una ragazza adolescente che lo sarebbe stata preso. Aveva anche dei nipoti, maschi e femmine; il più giovane beveva ancora il latte dal seno materno, il più vecchio era quasi un uomo fatto e finito. Yuri preferì non chiedersi come la guerra li avesse toccati.
“Questo spetta a noi deciderlo”, giunse una voce familiare. Yuri si voltò. Non aveva notato che Plisetsky era abbastanza vicino da poter origliare. Sebbene non avesse detto niente di minaccioso, nulla che potesse irritare i sovietici, o mettere in pericolo la loro tregua, sentì la gola chiudersi attorno a parole che per fortuna non erano state pronunciate. Il destino di Behrooz non era mai stato discusso apertamente. In pratica era ancora un prigioniero in mani russe. In teoria Yuri era arrivato a credere che i sovietici avrebbero poi lasciato andare alla fine della missione. Non ne era più tanto sicuro.
“Ne discuteremo quando raggiungeremo il villaggio” decise Plisetsky, per grande sorpresa di Yuri.
Yuri Plisetsky fu il primo a essere stupito dalle sue stesse parole.

Plisetsky si ricordò delle parole di Victor di considerare il prigioniero, no Behrooz, come se fosse stato un normale nonno. Ma non lo era. Il suo dedushka era un uomo d’onore. Il suo dedushka non sarebbe mai scappato, abbandonando i suoi compagni. Non avevano niente in comune e mai lo avrebbero avuto.
Per Plisetsky, suo nonno, Nikolai “Kolya” Ivanovich Plisetsky, era stato tutto.

Margarita non si era mai ripresa del tutto dallo stupro. Si era rimessa in piedi, aveva iniziato a cercare con fervore un lavoro - ne aveva trovato uno come cassiera in un piccolo negozio - ma aveva smesso di essere felice, davvero felice. Dopo la nascita di Yuri, Nikolai aveva cercato di convincerla a insistere per essere ri-ammessa nel Bolshoi. Dopotutto in pochi mesi Margarita avrebbe potuto facilmente liberarsi del peso messo su durante la gravidanza, e ci voleva ben più di un anno di pausa perché il suo corpo dimenticasse tutti gli esercizi incorporati nella memoria muscolare. Era ancora giovane, più giovane di venticinque anni, con tutte la possibilità di intraprendere ancora una brillante carriera. Non c’era bisogno di preoccuparsi del bambino, Kolya si sarebbe preso cura di lui mentre Margarita era al lavoro.
Alla fine Margarita aveva accettato di contattare il direttore del Bolshoi. Là aveva insistito di essere ancora flessibile come prima. Le sue gambe erano ancora forti. I suoi piedi erano feriti, rovinati e coperti di cicatrici, con unghie rotte e annerite, ma potevano ben sostenere il suo corpo in una perfetto arabesque. Aveva polpacci forti, ginocchia robuste e cosce d’acciaio. Le chiusero la porta in faccia, sostenendo che adesso era una madre e doveva comportarsi di conseguenza. Il Bolshoi non era più luogo per lei. Nel frattempo un’altra ragazza aveva preso il suo posto come l’eventuale prossima Prima, una ballerina che lei conosceva e con cui era stata in rapporti amichevoli.
“Non ho bisogno di essere un Prima”, supplicò Margarita.
“Va’ a casa”, le fu detto.
Una delle cose che Yuri Plisetsky ricordava meglio dalla sua infanzia, a parte il triste sorriso di sua madre e il modo in cui i suoi occhi si riempivano sempre di lacrime quando un pezzo di musica proveniva dalla finestra di uno dei lussuosi palazzi in cui viveva la società bene di Mosca, era la povertà. Nikolai Plisetsky aveva una piccola pensione militare, sufficiente per vivere con dignità, ma piccola rispetto al quella di altri che avevano fatto più carriera, sia nell’esercito sia all’interno del Partito. Margarita doveva fare gli straordinari e molto spesso era Kolya a prendersi cura di Yuri. Il vecchio fu per il bambino la cosa più vicina a una figura paterna che poté avere. Mescolava mescolato vecchie ninnenanne con canzoni di guerra quando era il momento di mettere Yuri a dormire.
Quando Yuri era un infante, Kolya lo avvolgeva in uno spesso cappotto, una grande sciarpa di lana e morbidi guanti e lo portava a passeggiare per la città. A volte quando la neve che copriva le strade d’inverno era troppo alta, prendeva il nipote sulle spalle. Se passavano davanti a un memoriale di guerra, Kolya gli raccontava storie di guerra dal proprio passato. Yuri ascoltava a bocca aperta, gli occhi eccitati che sbirciavano da sotto un berretto troppo grande per lui.
Yuri aveva dieci anni quando Lilia Baranoskaya lo notò. Si incontrarono per caso mentre Kolya stava accompagnando Yuri a casa da scuola, una mano che teneva quella del ragazzo e l’altra attorno al manico della cartella di pelle. La donna passò loro vicino, lo sguardo incollato all’orizzonte, la testa dritta che la faceva sembrare più alta di quanto già non fosse. Si fermò dopo un metro, girò su se stessa e si avvicinò a loro. Yuri la riconobbe per primo.
Lilia Baranoskaya era una leggenda vivente nel mondo del balletto, il suo nome ben noto a tutte le persone che avevano anche solo una leggera infarinatura della materia. A sessanta anni allenava le giovani generazioni di ballerine, quando non era impegnata a coreografare un programma per una stella nascente nel pattinaggio artistico e nella ginnastica. Si diceva fosse un insegnante di ferro, forte e rigida, inflessibile ed esigente. Ma ne valeva la pena.
“Nikolai Ivanovich”, salutò il nonno di Yuri. “E tu devi essere figlio di Margarita” aggiunse, guardando giù verso Yuri. Nessun affetto ammorbidì i suoi tratti da falco, la severità del suo viso rafforzata dalla stretta crocchia che ne tratteneva i capelli. Yuri la fissò. Dopo una pacca sulla schiena, riuscì a rispondere: “Sì, signora”.
Lilia annuì, visibilmente soddisfatta. Poi si rivolse nuovamente a Nikolai.
“Spero che Margarita stia bene.”
Lilia era perfettamente consapevole di ciò che Margarita Plisetskaya aveva subito, senza che Nikolai dovesse raccontare alcunché. La donna strinse le labbra sottili in disapprovazione. Quando aveva sentito tutta la storia di come il Bolshoi aveva trattato una delle sue ballerine più promettenti, Lilia era stata furiosa. Aveva provato una gelida ira. Se non fosse stato per alcuni ballerini, pieni di potenziale che avevano allenato e che si stavano ancora allenando duramente sotto la sua attenta guida, avrebbe lasciato il teatro.
“Ha la stessa struttura di sua madre. Vedo molto potenziale “commentò Lilia a proposito Yuri. Se la famiglia era interessata, conosceva un buon insegnante di balletto che poteva offrire un prezzo speciale per il talento.
“Ci penseremo.”
Loro fecero. Margarita pregò Yuri di provare almeno una lezione. Yuri non ne era sicuro, il balletto si legava più alla sofferenza che alla gioia nella sua mente. Ma amava anche sua madre e sua madre non era stata così entusiasta in tanto tempo. Promise allora di provare.
Le lezioni di danza non erano realmente per lui e le abbandonò presto, poiché non condivideva quella stessa passione che aveva bruciato l’anima di sua madre. L’esperienza si rivelò comunque utile, perché una famosa pittrice che frequentava il teatro per usare i ballerini come modelli per i suoi quadri notò Yuri durante una delle sue visite.
“Splendido”, esclamò Olga Krylova, indicando Yuri, che stava tenendo una quinta posizione con una mano appoggiata sulla barra. “Vieni qui, ragazzo” chiamò. Yuri guardò l’insegante in attesa del permesso. Quando arrivò, camminò attentamente verso la donna, la schiena dritta e solo i piedi che a malapena toccavano il pavimento di legno. Olga gli girò attorno, esaminando da tutti gli angoli il suo sottile corpo infantile, e lodò i tratti fiabeschi del suo piccolo volto.
“Sei la musa che stavo cercando” dichiarò alla fine del suo esame, per lo sgomento di Yuri.
Nelle settimane successive accaddero due cose. Yuri smise con le lezioni di ballo e Olga Krylova suonò alla porta dei Plisetsky, ribadendo la propria intenzione di usare il bambino come modello per una serie di dipinti. Sarebbe stato il soggetto ideale. Il lavoro sarebbe stato pagato, ben pagato.
Se non l’unica, una delle principali ragioni che spinsero Yuri ad accettare.
La casa di Olga era grande, ma vecchia e puzzava di trementina. Il suo studio era situato dall’altro lato dell’ingresso, perciò durante ogni visita Yuri poteva ammirare un salone elegante, una spaziosa sala da pranzo e un bagno lussuoso. Olga era una pittrice esigente, che esigeva sempre complicate pose di danza e una completa immobilità. Tuttavia era anche gentile e non perdeva mai occasione di viziarlo con un biscotto al burro o una fetta di torta, accompagnata da una tazza di tè caldo, addolcito da latte e marmellata.
Yuri fu il suo modello per quasi quattro anni, gli anni che ricordava con più affetto. Alla fine, tuttavia, arrivò la pubertà. Fu gentile con lui, facendolo crescere altezza senza appesantire troppo il suo corpo magro e del viso da elfo; ma non era più quello di cui Olga aveva bisogno. Giurarono di rimanere in contatto, ma come spesso accade, finirono col perdersi di vista.
Yuri si arruolò a diciotto anni. Aveva due modelli in mente. Il nonno Kolya, certo, e quell’unico Victor Nikiforov, che era già una leggenda.
Posso fare di meglio, si disse, mentre la radio locale lodava ancora una volta le azioni di Victor.
Farò di meglio.
Eppure sfuggire al fascino di Victor era difficile fino ad essere impossibile. Una volta che era venuto a guardare l’addestramento delle reclute, Yuri Plisetsky era tra loro. I complimenti di Victor erano stata freddi, tecnici.
“Hai buone capacità nel combattimento, ma ti muovi troppo. Ed espiri sempre una frazione di secondo in anticipo quando spari” fu la critica di Victor. Yuri strinse i denti e i pugni per la frustrazione, ma ascoltò e si assicurò che il consiglio non sfuggisse dalla sua mente. Odiava Nikiforov per le sue parole e si odiava perché era pronto a prostrarsi ai suoi piedi se ciò significava avere consigli utili. I consigli di Victor gli servivano e questo era insopportabile.
Circa due anni dopo essersi arruolato, Yuri era stato trasferito. Aveva incontrato Otabek subito dopo.
Otabek Altin era appena più vecchio di lui, non parlava molto e aveva occhi affettuosi e intelligenti.
“Hai gli occhi di un soldato” era la prima cosa che Yuri ricordava che Otabek gli avesse detto. “Puoi essere la Fata di Russia, ma hai gli occhi di un soldato.”
Si innamorò subito, una sensazione che all’epoca non poté definire. Non c’era tempo per l’amore nella sua vita, non ora che la gente aveva cominciato a chiamarlo La Tigre dei Ghiacci. Eppure si trovò a desiderare prima la compagnia di Otabek, poi il suo tocco. Più scalava i ranghi, più il suo affetto per il kazako cresceva. Quando il Tenente Altin fu spostato in Afghanistan, circa quattro anni prima, Yuri usò tutti i mezzi a sua disposizione per essere trasferito anche lui. Chiese a suo nonno. Chiese a Yakov Feltsmann, un ufficiale politico, che Yuri aveva conosciuto come ex marito di Lilia.
Chiese a Victor. Ingoiò il proprio orgoglio. Ignorò le suppliche di Otabek di cambiare idea. Corse più velocemente della propria paura.
“La gente fa cose stupide per amore”, gli disse Victor. Yuri rispose che l’amore non aveva niente a che fare con la sua decisione.
“Voi giovani siete così ciechi”.
Victor se ne andò prima che potesse rispondere. A volte la risposta gli stringeva ancora il fondo della gola.
“A cosa pensi?”
La voce di Otabek lo riportò al presente. Buttò giù un po’ d’acqua per cacciare la sensazione di prurito. “ A Niente.”
Quella sera stabilirono l’accampamento, come al solito. Tirarono a sorte per i turni di guardia come al solito. Fecero tutto come al solito, solo che il giorno prima avevano perso due uomini. Phichit provò di nuovo a risollevare il morale a Michele, perché era doloroso vederlo mangiare da solo. Non ebbe molto più successo della prima volta. Nel ripartire la mattina dopo, guardarono in silenzio Michele infilare parte dell’equipaggiamento che era stato di Emil nel proprio zaino .
“Sto bene” disse loro. Era solo un’altra bugia.

Note: Finalmente un po’ d’azione, Michele è in totale fase di negazione, i Victuuri sono l’epitomo dell’incomunicabilità e Yurio potrebbe non arrivare ai trent’anni se continua così. Il prossimo capitolo sarà forse il più lungo di tutti, pieno di avvenimenti, e ve lo dico già con la morte di un altro personaggio. Per chi non ha letto la storia in inglese, si aprono le scommesse (ma vi consiglio di preparare i fazzoletti, il comfort food, i cuscini).
Nel prossimo episodio: Michele comincia ad elaborare il lutto, scopriamo altre cose sul passato di Victor, e un turno di guardia in comune potrebbe essere l’occasione perfetta per confessare i propri sentimenti.
Ma questa è una guerra e mentre la missione si avvicina sempre più alla sua conclusione, ecco che una morte inaspettata rischia di mettere tutto in discussione.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Prevedibile Come Dove Il Fulmine Colpirà ***


Prevedibile come dove il fulmine colpirà

Phichit Chulanont aveva ragione, Emil russava. Per quanto strano a Michele mancava quel rumore.
Dalla morte di Emil aveva cercato disperatamente di non pensarci. Se mai il pensiero appariva nel retro della sua mente, Michele era pronto a soggiogarlo, spostando la proprio attenzione su qualsiasi altra cosa, si fosse trattato anche dei suoi piedi doloranti. Sapeva bene che se avesse indugiato nella terra del lutto anche per un secondo, non avrebbe più potuto proseguire.
Era stupido. Ne era ben consapevole. Conosceva Emil Nekola a malapena, avendo passato con lui solo pochi giorni. Se Emil non fosse morto, le loro strade probabilmente si sarebbero divise solo con qualche vaga promessa come legame ultimo. Eppure non poteva impedire al suo cuore di dolere né alla sua mente di soffrirne. La sua mente soffriva così tanto che gli faceva male il cuore.
Michele doveva ammettere che la natura gioviale di Emil aveva reso la missione un po’ più sopportabile. Il suo gioioso chiacchierare, che Michele era sempre stato così incline a far tacere senza successo, aveva reso il suo zaino un po’ meno pesante.
Dannazione, anche il concentrarsi sul terribile russare di Emil era stato utile per dimenticare il mondo esterno e piombare nel sonno.
La prima lacrima solitaria fu fredda contro la guancia di Michele nell’aria ancora umida del mattino. L’asciugò prima che raggiungesse il mento.
Poi ne seguì una seconda, una perla che tremò sulla congiuntiva. Scivolò giù lungo la pelle olivastra.
Michele l’asciugò col polpastrello, tenendo la testa bassa così che nessuno la notasse. Era una cosa personale, una cosa per lui e solo lui.
Si morse le labbra mentre un singhiozzo si formava in gola, il giusto contraltare dell’improvviso dolore che provò nel petto. Approfittò di un singolo momento di debolezza e risalì dalla profonda voragine in cui Michele l’aveva esiliato.
Il viso di Michele si contorse. Lo tenne ossessivamente chinato. Le lacrime caddero a terra. Sbatté le ciglia per liberarsene. Sfocarono la sua visuale; le asciugò col dorso della mano, in un singolo movimento pieno di rabbia.
La morte di Emil era stata ingiusta. Era stata quel genere di cazzata cui Dio avrebbe dovuto rispondere a tempo debito. E ancora, quale tipo di morte sul campo non era ingiusta?
A Sara sarebbe piaciuta la personalità allegra e frizzante di Emil. Forse l’avrebbe persino amata. Michele non aveva dubbi che ne sarebbe stato geloso e avrebbe lottato per tenere il ceco lontano dalla sorella gemella. Sara lo avrebbe rimproverato, lamentando la mancanza di indipendenza e, senza neanche sapere come, si sarebbero trovati insieme a mangiare in un ristorante economico ma gradevole, poco importava il dove.
“Di autori cechi conosco solo di Kafka dai miei giorni di scuola” aveva detto Michele a Emil, il giorno prima della sua morte. Anzi, il giorno prima che fosse ucciso. Emil non era morto. Un morto se ne sta sdraiato a letto, scivolando in un’altra vita perché il suo tempo su questa Terra è naturalmente terminato. Il tempo di Emil non era finito naturalmente. Non c’era niente di naturale nella morte di Emil.
“Ti è piaciuto? Personalmente credo di essere troppo stupido per capirlo.”
“Ho trovato disgustosa l’idea di svegliarsi come un gigantesco scarafaggio” aveva risposto Michele, il labbro superiore sollevato a mostrare il suo disgusto. Emil aveva riso.
La cosa peggiore era che a volte, quando l’atmosfera si faceva leggera e la mente si rilassava e scivolava nella routine, Michele dimenticava che Emil non c’era più.
Emil, passarmi questo! Emil, veloce! Veloce, ho detto! Solo per ricordarsi Emil non era più lì.
Le lacrime solleticarono di nuovo gli occhi.

La temperatura si raffreddò man mano che l’altitudine aumentava col passare dei giorni. I sentieri lungo le quali Behrooz li guidava erano sempre un po’ in salita, con inaspettati picchi di tanto in tanto. A volte il sentiero scendeva fino ad trovarsi incastonato tra le pareti della montagna, dove sporadici e semi-aridi torrenti correvano prima di scomparire nuovamente nella roccia.
Si muovevano lungo i fianchi del monte o in cresta, prima di scendere nuovamente verso valle. Non c’era dubbio che la possibilità di attraversare l’area in linea retta avrebbe aiutato a risparmiare almeno uno o due giorni di cammino, ma ciò non era possibile. Al contrario erano costretti a seguire il cammino imposto dalla natura; la geografia li piegava alla propria volontà. Le diverse condizioni climatiche dovute all’altitudine, con Yuri e Phichit che lamentavano il loro effetto più di chiunque altro, costringevano la squadra a fermarsi sempre più spesso per riprendere fiato.

Fu durante una di quelle pause che Plisetsky colse Victor a fissare Yuri Katsuki; a fissarlo più del solito, per essere precisi.
Si avvicinò al Generale la sera stessa.
“Perché non gli chiedi di rimanere?” esordì Plisetsky. Victor lo guardò, con gli occhi azzurri sgranati in una sincera sorpresa. Un sorriso triste gli curvò le labbra, creando una griglia di piccole rughe tutt’attorno.
“Non posso.”
“Perché no? E non usare quella cazzata della Cortina di ferro e tutto il resto” lo avvertì Plisetsky, un dito sollevato a sottolineare le proprie parole. Victor sospirò, il mento posato sulle dita intrecciate. Guardò Katsuki che stava chiacchierando con Chulanont a qualche metro di distanza. Aveva il più sorriso luminoso che Victor avesse mai visto. Avrebbe voluto sapere che cosa lo avesse fatto sorridere.
“Lui non ...”
Una voce normalmente così sicura di sé faticò a concludere la frase.
“ti ama” concluse Plisetsky per lui. Victor chinò la testa in accettazione. Per una volta lo Yuri russo non parlò con disgusto, fastidio, o disprezzo, come era solito fare. Le sue parole erano serie, piene di qualcosa che Victor avrebbe anche osato chiamare preoccupazione.
“Già.”
“Allora sei più cieco di quanto pensassi, Victor.”

Si alzò e si allontanò prima che Victor potesse articolare una risposta adeguata, o addirittura una giustificazione. La testa di Victor cadde ciondoloni in avanti. Le spalle si alzarono al ritmo di un sospiro desolato. Tracciò dei cerchi sulle tempie per impedire lo scoppiare di un mal di testa incipiente.
Yuri Katsuki aveva smesso di ridere, ma gli effetti si mostravano ancora sui suoi tratti delicati. Aveva un braccio attorno alla spalla di Chulanont, la mano che dava lievi colpi sul bicipite.
Victor seppellì la testa nel palmo e gemette, frustato con se stesso.

Non era stata la prima volta che qualcuno lo accusava di essere cieco. Era accaduto anche quando era un giovane che vivere felicemente giorno per giorno a Leningrado. Era stato in quel periodo - era fine del gennaio del 1968 - che aveva incontrato una ragazza affascinante con una lingua veloce e, fatto raro, un cervello ancora più rapido. Chiacchierare con lei era un piacere.
Georgi lo aveva avvertito a proposito della ragazza. Victor non aveva ascoltato. Yelena era troppo affascinante e gentile per rappresentare una minaccia.
Poi, una sera, aveva cercato di andare oltre loro soliti giochi di seduzione. Si trovavano nel piccolo appartamento di lei, un paio di piatti ancora mezzi pieni di cibo fumante sul tavolo. Erano seduti: Victor su una sedia; Yelena a gambe incrociate sul pavimento. Il radiatore brontolava e schioccava. Anche se era già fine aprile, faceva ancora freddo, soprattutto di notte.
Ad un certo punto Yelena si era alzata dalla sua posizione e gli si era messa a cavalcioni; le unghie curate avevano sfiorato la camicia di Victor e si erano intrecciate tra i capelli, fili d’argento che cadevano fino ai fianchi dell’uomo. Li liberò dalla costrizione dell’elastico, spingendo una ciocca dietro l’orecchio di Victor.
“Mi piacciono i tuoi capelli. Mi piaci tu” sussurrò nello stesso orecchio, mentre le mani viaggiavano verso sud, disegnando cerchi distratti sul petto dell’uomo. “Mi piaci molto” specificò.
Si era strusciata contro il sesso di Victor, ancora coperto dai pantaloni; gli aveva preso una delle mani poste attorno alla sua vita e l’aveva messa su uno dei suo seni. La bocca aveva quasi sfiorato le labbra serrate di Victor.
“No!” aveva urlato lui, spingendola via. Era piccola ed egli era forte nonostante la struttura snella. La ragazza cadde sul pavimento. Victor si alzò in piedi, indietreggiando verso la porta.
“Mi dispiace. Io non, non posso” balbettò, il disgusto che faceva tremare ogni singola fibra del suo essere. I suoi amici avevano ragione.
La sentì gridare qualcosa mentre si precipitava giù dalle scale senza guardare indietro.

Il giorno seguente bussò alla porta con una sacchetto contro suo petto contenente una singola sladkay bulochka calda . Yelena le adorava.
“Lena!” chiamò dopo cinque minuti di attesa senza che nessuno venisse ad aprire la porta. “Yelena! Mi dispiace!” chiamò ancora, la pasta che si raffreddava sotto le dita. Il sacchetto era unto, ma l’odore paradisiaco. Victor bussò di nuovo, un po’ più forte questa volta, le nocche che battevano contro il legno.
“è inutile!”
Victor si voltò. Sul pianerottolo stava un uomo calvo con una bella barba, con la mano arrotolata intorno al liscio pomello di un bastone da passeggio. Victor lo riconobbe come l’anziano vicino di Yelena, quello che viveva nell’appartamento a destra.
“Mi scusi?” Chiese Victor.
“Se stai cercando Lenochka, è andata via” chiarì il vecchio.
“Via?” ripeté Victor a pappagallo, come se non avesse capito ciò che aveva appena sentito. Il vecchio annuì. “Sì, aveva una piccola valigia con lei”.
“Ha detto a qualcuno quando sarebbe tornata?”
“Per niente.”
“Oh. Be’, grazie. Tenete questa, ho perso l’appetito. “
Diede all’uomo il dolce che aveva comprato per Yelena.

Nei giorni seguenti, nonostante i suggerimenti dei suoi amici di dimenticare la donna o, se non era possibile, di aspettare almeno una settimana prima di bussare nuovamente alla sua porta, Victor prese l’abitudine di chiedere al portiere se Yelena fosse tornata dal suo viaggio o se avesse lasciato un messaggio. La risposta era sempre negativa. A quanto pareva la signorina Lapchenko non aveva intenzione di tornare in tempi brevi. All’affittuario era stato dato il permesso di cercare un nuovo inquilino; poiché l’appartamento era economico e il flusso di giovani studenti che cercavano un tetto non mancava mai, un nuovo inquilino venne effettivamente trovato in fretta.

Circa un mese era passato senza nessuna notizia di Yelena, a parte l’illusione di aver creduto di aver visto un’ombra che le somigliava assai sul ponte Prachechny, quando uno sconosciuto in abbigliamento semi formale si avvicinò a Victor, seduto fuori del teatro Alexandrisky, con le mani infilate nelle tasche dei pantaloni. Una morbida treccia gli teneva i capelli a posto.
“Victor Bastilevich?” chiese lo sconosciuto. Victor sollevò lo sguardo dalle ginocchia agli occhi dell’uomo. Si irrigidì. Normalmente amava incontrare persone nuove, ma negli ultimi giorni era stato vittima di una costante sensazione di essere seguito e osservato.
“Mi manda Yeleva” insistette lo sconosciuto, quando Victor fece segno di aver riconosciuto la domanda.
“Temo di non essere la persona che state cercando” rispose, mettendosi in piedi in fretta e furia, la testa che girava a tutta velocità .C’era qualcosa di sospetto nell’uomo, abbastanza per far desiderare a Victor di mettere qualche metro - no, qualche chilometro - tra loro il prima possibile.
“Ora devo andare” mormorò.

Quando imboccò il primo vicolo secondario si accorse di stare praticamente correndo.
Victor scese alla sua fermata della metro, guardandosi attorno per controllare se l’uomo non fosse più in vista. Non lo era, ma questo fatto non lo rassicurò per nulla. Fece un respiro profondo per calmarsi, le dita che giocherellavano con i capelli mentre correva fuori. Poi, siccome correre avrebbe attirato attenzioni indesiderate, si costrinse a rallentare il passo.
“La mia ragazza sta male” mentì Victor mentre una donna di sulla cinquantina gli lanciava uno sguardo sospetto
Una volta giunto davanti alla porta del palazzone dove abitava, lottò con le chiavi e si precipitò su per le scale.
“Qualcosa non va?” domandò Georgi, dopo che Victor si fu tolto la giacca e si fu buttato sulla sedia più vicina, la fronte imperlata di un sudore freddo non causato dal caldo estivo. Aveva alcuni ciuffi di capelli argentei appiccicati alla fronte. Victor sospirò, spiegando la situazione ancora col fiatone.
“Hai camminato fin qui o hai preso la metropolitana?” domandò Georgi, con un sopracciglio inarcato.
“Metro” rispose Victor. Georgi fece una smorfia.
Quando Victor capì il suo errore, era già troppo tardi. La porta venne buttata giù un attimo dopo.
Un paio di uomini si gettarono dentro con le pistole in mano. Un terzo stette sul pianerottolo. Victor riconobbe lo sconosciuto. La sua mente collegò rapidamente i puntini. La tristezza per il tradimento crebbe nel petto.
Victor aveva sentito storie sulle azioni repressive del KGB contro chi non si conformava, ma aveva sempre considerato ridicola l’idea di rimanere coinvolto in una di esse.
Dietro di lui Tatjana era sdraiata sul letto, appoggiata sul gomito, i seni esposti; Sasha, che teneva un pennello a mezz’aria, strillò. C’era una pila di scatti appena sviluppati sul tavolo vicino, per lo più in bianco e nero con Victor come soggetto preferito. Il più recente, tuttavia, mostrava Tatjana e Sasha in atteggiamenti saffici. Alcuni documenti che contestavano il modo in cui l’Unione Sovietica trattava i propri cittadini erano sparsi un po’ dappertutto, soprattutto sul pavimento; un foglio semi-scritto era ancora sul rullo della macchina da scrivere.
Tuttavia la prima cosa che richiamò l’attenzione dei funzionari del KGB fu una vecchia chitarra appesa al muro. Un adesivo di Superman decorava la cassa acustica, proprio sotto il ponte. Qua e là la vernice era saltata via, mostrando il nudo legno sottostante. Uno degli agenti prese lo strumento dal suo gancio, lo soppesò e poi tenne fuori dalla finestra.
Georgi urlò, lanciandosi in avanti, le mani tesi per afferrare il suo prezioso strumento. Si chiusero sull’aria mentre la chitarra cadeva per due piani e si infrangeva sul duro cemento. Si spezzò nel centro. La corda del re scattò come una frusta.

Victor trascorse i primi giorni di carcere in una cella di isolamento, gli occhi fissi sul soffitto con le dita sepolte nei suoi capelli ormai corti e spettinati. Un livido violaceo si stava formando sotto l’occhio sinistro, che era un po’ gonfio. Faceva male a tenerlo aperto. Un mal di testa martellante faceva pulsare una vena dietro l’orbita.
La tazza doveva essere intasata e l’aria era fetida e stantia. Victor seppellì la metà del volto nella sua maglietta.
Stava dormendo un sonno agitato quando la porta della cella si aprì e una guardia accompagnata da un uomo che chiaramente non lo era, a giudicare dai suoi vestiti, entrò. La guardia costrinse Victor a svegliarsi e uscire dal letto senza tanti complimenti. Poi, visto che Victor continuava a mostrare segni di intontimento, pensò bene di gettargli addosso un secchio di acqua ghiacciata. Victor lottò per trattenere le lacrime.
In un qualche modo venne condotto in un’altra stanza, dove gli unici mobili erano un tavolo d’acciaio e una lampada la cui luce accecante e biancastra ferì gli occhi di Victor.
L’uomo di prima si sedette dall’altro lato.
“Victor Bastilevich Nikiforov” disse l’uomo, controllando un foglio. Victor lo fissò con gli occhi sgranati; le dita si strinsero attorno al bordo del tavolo.
“Figlio di Bastil Dimitrievich Nikiforov” continuò l’uomo, la voce pesante su quel nome che parlava di una famiglia molto patriottica, delle fiamme delle rivoluzione e di un’eredità che Victor aveva tradito. Nato nei primi anni Venti, il padre di Victor era stato uno dei numerosi bambini che avevano ricevuto un nome rivoluzionario per celebrare al meglio la vittoria del popolo contro il vecchio regime.
Il nome parve un piombo fuso nello stomaco. Victor tormentò l’orlo della maglietta. Guardò ancora l’uomo: vedeva la sua bocca muoversi, ma non riusciva a cogliere le parole che stava pronunciando.
“Conosco tuo padre, è famoso. è troppo un brav’uomo per meritare un figlio come te.”
Le parole vennero sputate con disprezzo e disgusto. “Ma non ci saranno più problemi. Tuo padre avrà infine il figlio che voleva, te lo garantisco” gli disse lo sconosciuto. Victor non si preoccupò di rispondere.
Come se la testimonianza fornita da Yelena Lapchenko non fosse stata sufficiente a renderlo sospetto, le prove raccolte dopo un’adeguata ispezione dell’appartamento avevano fornito materiale sufficiente per accusare lui e suoi amici di essere colpevoli di agitazione anti-sovietica, corruzione giovanile e omosessualità.
“Ho sentito che la nostra Siberia è deliziosa in questo periodo dell’anno” lo derise l’uomo. Victor sentì le lacrime riempirgli gli occhi. Suo nonno da parte di madre aveva trascorso dieci anni in un gulag e le storie che aveva portato indietro erano orribili.
“Ma tuo padre è un mio amico e non mi piace mandare il figlio di un amico in Siberia, non importa quanto te lo meriteresti. Quindi ecco una proposta.”
La scelta davanti alla quale fu messo Victor era estremamente semplice, chiara come un lago ghiacciato a metà dicembre. Da un lato, ecco una condanna a vita in un gulag chiamato con un qualche altro nome. “Non sopravvivresti una settimana.”
“Dall’altro lato, puoi unirti al nostro glorioso esercito. C’è sempre bisogno di carne fresca. Allora?”
Victor rimase in silenzio, gli occhi spenti, fissi sulla parete opposta. Qui una condanna a morte a breve termine. Là una condanna a morte a lungo termine. O forse era il contrario.
“Ti do un’ora per pensarci.”
Non appena l’uomo fu uscito dalla stanza, Victor cominciò a tremare, le mani che sussultavano per la tensione. Si rimise in piedi, incerto, cadde in ginocchio e picchiò i pugni contro la parete. Entrare nell’Armata Rossa avrebbe significato tradire quasi tutto quello per cui aveva combattuto. Di recente aveva sentito alla radio come il governo sovietico avesse represso la tentata ribellione a Praga. La memoria lo fece fremere. Se fosse entrato nell’esercito, sarebbe stato complice.
Tuttavia l’esilio in Siberia era qualcosa che non riusciva nemmeno a concepire. Il pensiero di dover lasciare Leningrado o Mosca, città sempre in movimento, i suoi colori e la sua vita e i suoi suoni, artigliò il retro della sua mente.
Victor seppellì il viso nelle ginocchia, sentendo la voce lontana e rotta del padre di sua madre, quell’uomo le cui dita erano cadute per i geloni e che chiedeva una coperta anche a luglio.
Non voleva diventare così.
“Allora?” interrogò l’uomo di prima quando fu passata l’ora. Victor comunicò la sua decisione con la voce di un uomo che si prepara ad essere mandato al patibolo.
Quella notte non dormì.
Giurò che sarebbe sopravvissuto. E, per farlo, doveva essere il migliore. Doveva essere l’uomo da cui aveva sempre cercato di fuggire, l’uomo che suo padre desiderava. Doveva indossare una maschera per conservare il suo vero io: uno spesso muro in modo che non potessero toccare i suoi più intimi sogni e pensieri.
Doveva diventare Victor Bastilevich Nikiforov, se voleva che Vitya sopravvivesse. Andò a dormire ripetendo quel nome completo, un nome che aveva evitato per anni, come un mantra.

L’Armata Rossa fu uno schiaffo in piena faccia. Non c’era arte o musica, tranne l’essenziale per glorificare la Madrepatria. Vitya aveva amato le canzoni rare e allegre che arrivavano di contrabbando dall’altra parte del Muro. Ora odiava i cori marziali che ogni tanto gli altoparlanti diffondevano nell’aria. Col tempo, tuttavia, giunse ad accettarli perché era comunque musica; ed era meglio di niente.
Fu durante uno giorno in cui i soldati erano stati radunati per cantare l’inno nazionale davanti a un qualche dignitario del Comitato Centrale, qualcuno di molto importante nonostante occupasse una carica minore, che Victor notò Georgi. Era nella fila immediatamente avanti.
Quando i soldati ricevettero il permesso di disperdersi, Victor corse verso il suo amico. Una volta abbastanza vicino da essere visto lo salutò, sorridendo educatamente. Attese che la sua presenza fosse riconosciuta. Georgi si limitò ad ignorarlo, voltandosi per chiacchierare con un commilitone. I tentativi successivi non ebbero un maggiore successo e il rapido avanzare di Victor tra i ranghi parve solo peggiorare il problema.
Dopotutto, Georgi - no, Jora - era stato amico di Vitya. Non aveva niente a che fare con Victor Bastilevich Nikiforov. Victor Bastilevich Nikiforov non aveva amici. Non ne aveva il tempo.
“Mi dispiace Vitya, ma se vuoi sopravvivere devi andare da qualche altra parte” sussurrò Victor, mentre il dolore per rifiuto di Georgi cresceva nel petto.
E il giovane Vitya se ne andò da qualche altra parte, per periodi sempre più lunghi, finché non fece più ritorno.

Quando attraversò la soglia nella stanza in cui gli ufficiali americani avevano organizzato una cena semi-formale, con un finito sorriso stampato in volto, Victor Nikiforov aveva da tempo dimenticato come cosa significasse provare vere emozioni. Era il 21 Novembre, la cena destinata a svolgersi immediatamente dopo il vertice che si era tenuto negli ultimi tre giorni a Ginevra. I sovietici erano stati invitati come ospiti speciali per uno “scambio culturale”.
“Ci vogliono solo come animaletti da mettere in mostra!” mormorò Plisetsky, incapace tuttavia di nascondere il piacere di essere stato invitato.
“Sei ancora a tempo a non andare. Sono sicuro che non gli dispiacerebbe “
“Sei pazzo?! Dovranno passare sul mio cadavere.”

Rispetto alle storie che circolavano sugli americani - voci sulla loro mancanza di disciplina e il loro comportamento molto chiassoso - la prima ora della cena fu estremamente noiosa. I sovietici gironzolavano per la sala nello loro pose rigide, spostandosi sempre di più verso le pareti. Poi, man mano che i primi bicchieri di alcool vennero versati, l’atmosfera si alleggerì.
Plisetsky fu tra i primi abbastanza temerari da provare il misterioso liquido che brillava nella grande ciotola sul tavolo principale. Ne bevve un sorso, lo sputò sul pavimento facendo una smorfia e ne sorbì un altro. “Non so se odio o amo questa roba!” disse, esprimendo infine il suo giudizio.
Victor prese un bicchiere, guardandosi intorno.
Un uomo minuto ma ben fatto stava in piedi accanto al tavolo del buffet. I suoi tratti attirarono immediatamente l’attenzione di Victor. Non era comune vedere delle fattezze asiatiche durante simili riunioni.
“Victor Bastilevich Nikiforov” si presentò con un affascinante sorriso sul viso. L’uomo sollevò lo sguardo, le guance appena arrossate.
“Sì, lo so” rispose, con voce tremolante. Balbettò un po’ sull’ultima parola.
“Ma purtroppo, non posso dire lo stesso di te”, osservò Victor. Le sottili dita dello sconosciuto si strinsero intorno al bicchiere. bevve un sorso.
“Katsuki Yuri”.
Victor ripeté il nome sottovoce per memorizzarlo. Katsuki lo guardò da sopra l’orlo del flute, gli occhi socchiusi come se volesse guardargli attraverso. Erano offuscati.
“Quanti bicchieri hai già bevuto?” chiese Victor con tono quasi preoccupato. C’era già almeno un bicchiere vuoto posto vicino alla mano di Katsuki quando la conversazione era iniziata. Poi altri tre erano seguiti nel breve periodo delle presentazioni.
“Non lo so. Cinque. Sei. Non abbastanza.”
Katsuki guardò quello ancora mezzo pieno che stava tenendo. Fece una smorfia, scrollando appena le spalle
“Il grande Generale Nikiforov sta parlando con me. Devo essere già ubriaco” considerò, parlando più a se stesso che a qualcun altro. Ciò detto, buttò giù il resto del liquore gettando la testa all’indietro. Il suo pomo d’Adamo fece su e giù una volta.
“E poiché questo è solo frutto della mia immaginazione, tanto vale indugiarvi” continuò, riempendo di nuovo il bicchiere. Il liquido brunastro in esso scivolò contro le pareti. Katsuki portò il calice alle labbra, ne sorbì un po’ e lo sollevò nella derisione di un brindisi. Il grog distorse i suoi delicati lineamenti.
“Se volete scusarmi, ho delle attività importanti a cui badare.”
Quasi ridacchiò all’ultima parte, la voce densa e impastata. Le parole cadevano dalle sue labbra lucide. Victor annuì, sbalordito.
“Vitya, chiudi la bocca” disse Yakov, passandogli accanto. Victor la chiuse di scatto.
Non si aspettava di imbattersi in Yuri Katsuki una seconda volta. In ogni caso, non nel modo in cui accadde.
Nei - quanto tempo era passato? - dieci minuti trascorsi, Katsuki era riuscito a bere altri dieci bicchieri di qualunque cosa fosse la miscela nella ciotola sul tavolo principale. Era un miracolo che riuscisse ancora a stare in piedi. Le sue gambe sembravano un po’ incerte.

D’un tratto Victor non riuscì a togliergli gli occhi di dosso; ne era fisicamente incapace.
Katsuki continuava a tirare il colletto della propria uniforme, come se fosse troppo stretto. Dietro gli occhiali due caldi occhi coloro nocciola brillavano di ubriaco delirio.
Senza alcun preavviso Katsuki si gettò letteralmente contro di lui, le braccia agganciate intorno al suo collo con innocente entusiasmo. Oh, dio santissimo, aveva il viso più adorabile che Victor avesse mai visto. Era anche più carino di Makkachin, il suo barboncino, e questo diceva molto.
Inoltre Katsuki Yuri non era solo adorabilmente carino, un pesce fuori dall’acqua in una riunione piena di ufficiali la cui età media raggiungeva la cinquantina: era audace; o stupido; o forse entrambi.
Victor si morse le labbra di colpo secche mentre Katsuki faceva strusciare il proprio bacino contro il suo. La bocca calda dell’uomo si avvicinò all’orecchio sinistro, con circa dieci scandalizzati ufficiali come testimoni della scena.
Non che a Katsuki importasse minimamente. Né importava a Victor, più interessato a quelle labbra umide contro la conchiglia dell’orecchio.
Quando Katsuki parlò, lo fece in un miscuglio confuso di inglese e di una lingua che Victor riconobbe come giapponese; il tutto senza smettere un momento di strofinarsi con entusiasmo contro il corpo di Victor.
“Sai. è veramente ingiusto che tu viva in Unione Sovietica. Ti amo e tu vivi così lontano” grugnì Katsuki, voce bassa e impastata, le parole distorte dall’alcool.
“Se fossi una spia, mi prenderesti? Posso essere una spia. Sono una buona spia” ridacchiò, un suono cremoso, le inibizioni completamente andate a causa dell’alcool.
Molte cose accaddero a Victor nell’arco dei secondi successivi. Si gelò sul posto. Nella sua testa cominciò a suonare un allarme immaginario che diceva “pericolo” scritto in rosse lettere cubitali. Si chiese cosa fosse la cosa migliore da fare con Katsuki.
“Riportalo nella sua stanza!” Ordinò la parte razionale del suo cervello. “Lascialo fare, non mi divertivo tanto dal 1968, quando un gatto randagio ha terrorizzato Georgi!”. Rispose l’altra non così razionale.
Il cuore di Victor batté forte contro la gabbia toracica. Sentì una sensazione calda e piacevole fiorire nel petto, aprendosi come un bocciolo in primavera e diffondendosi come un sole nascente.
Notò anche le smancerie dei suoi pensieri. Non sapeva nemmeno che la sua mente fosse capace di simili dolci sciocchezze. Era molto tempo che non provava nulla di simile. L’immagine da tempo dimenticata di un ragazzo dai capelli lunghi che ballava nella neve appena sciolta della Ploshchad Iskusstvgli gli attraversò la mente.
Il cervello di Victor stava già girando a piena velocità per trovare un buon piano per mettere Katsuki KO e spedirlo nel suo appartamento a Leningrado - Mila si sarebbe sicuramente occupata di alcuni minori e spiacevoli dettagli - quando un uomo sulla sessantina si avvicinò. Diede una pacca sulla spalla di Yuri. Katsuki mugugnò, premendo il viso contro petto di Victor.
“Caporale Katsuki” disse il nuovo arrivata, ma la voce era meno minacciosa di quanto fosse non fosse divertita ed esasperata. Yuri bofonchiò di nuovo, strofinando la faccia contro camicia di Victor.
“Caporale!”
Alla fine lasciò andare Victor. L’altro uomo fece un’ imbarazzata espressione di scuse in direzione di Victor.
“Mi dispiace, normalmente non beve così tanto”.
Non esserlo.
“Finalmente” sospirò Yakov, apparendo dal nulla al fianco di Victor. “Americani!” Esclamò, facendo un suono di disgusto per esprimere meglio la sua opinione sulla questione. “Non cambiano mai. Penso che siano peggiorati. “
Si voltò appena in tempo per notare l’espressione sognante di Victor.
“Dimenticati di lui, Vitya. Conosco quella faccia. Non fare niente di stupido. I contatti del KGB sono per questioni importanti “, lo avvertì.
Victor annuì, nella sua migliore impressione di un cittadino ligio e responsabile.
Chiamò Mila comunque.

Quando Victor aveva annunciato la sua decisione di chiamare gli americani, una settimana prima, Yuri Plisetsky aveva aspettato che le orecchie indiscrete si dispendessero prima di trascinarlo con una scusa dove nessuno avrebbe potuto origliare. Una volta soli, Plisetsky smise di dare peso alla gerarchia.
“Victor, non so quello che hai detto a Yakov perché lui assecondasse le tue idee, ma ti chiedo di riconsiderare il mettere in pericolo tutti noi per le tue vane speranze di inseguire una vecchia cotta”.
Victor aveva sbattuto le palpebre. Aprì la bocca. La chiuse.
“Yura, che cosa... io non ...” balbettò. Yuri fece una faccia alla “non cercare di prendermi in giro”. Scomparve in fretta in favore di una sincera preoccupazione quando nessuna espressione d’arroganza giunse a cancellare la confusione sul volto di Victor.
“Davvero non l’hai fatto di proposito”, considerò.
“Naturalmente, perché avrei dovuto?”

Yuri aveva deciso di credergli. Solo per afferrare Victor per l’orecchio ancora una volta quando Yuri Katsuki aveva fatto la propria apparizione. Victor sembrava più che cotto; gli dava il voltastomaco
“Mi avevi detto che non avevi - credevo! Ugh, “esplose, la voce sul punto di urlare. Sollevò un dito accusatorio verso Victor.
“Non l’ho fatto. Sono sorpreso quanto te” lo rassicurò e, Yuri fosse dannato, parve sincero. Il dito fu abbassato.
“Non l’hai fatto?”
“Non l’ho fatto”.
Ancora una volta Yuri Plisetsky aveva scelto di lasciarlo scappare. Dopo tutto era stato Victor che lo ha aiutato attraverso la sofferenza di accettare se stesso e di confessare i suoi sentimenti prima al suo cuore e poi alla persona per cui erano destinati. Lo stesso vittore, che per la prima volta Yuri aveva fatto il segno di conoscere la preferenza sessuale dell’altro, lo aveva afferrato per il polso e ha ordinato di tenere la bocca chiusa nel tono più freddo di voce che Plisetsky aveva mai sentito da lui.

“Allora sei più cieco di quanto pensassi.” era così che Yura aveva detto.
Victor rifletté su chi era Yuri Katsuki, il vero sobrio Yuri Katsuki, i pochi giorni trascorsi insieme. Assente, egli spazzolò le punte delle dita contro la sua guancia destra, dove Yuri lo aveva toccato. Ricordava Yuri, gentilezza, comportamento rigido e la sua timidezza.
Yuri che lo chiama generale Nikiforov. Yuri che lo tratta con tutto il rispetto e la deferenza dovuti a un superiore
L’immagine di Yuri come tutto ciò che ci si aspetterebbe da un soldato ben addestrato; e poi altre immagini di un uomo a pezzi, di un uomo nel posto sbagliato.
Lo sguardo terrorizzato di Yuri mentre Victor lo tiene per il polso, chiedendogli di rimanere. Yuri che scappa via, la faccia in fiamme.
Yuri che lancia delle timide occhiate nella sua direzione di tanto in tanto, gli occhi castani che brillano nella cornice dei suoi spessi occhiali.
La piccola, ma sincera risata di Yuri echeggiò nella memoria di Victor. La risata, rumorosa e malinconica di Yuri lo ferì profondamente.

Si ripropose di prestare più attenzione nell’osservare Yuri questa volta. Si sarebbe impegnato a cercare di conoscerlo meglio, oltrepassando la spessa parete di pregiudizi e aspettative che aveva mantenuto fino a quel momento. All’inizio era stato sicuro che Yuri sarebbe stato lo stesso affascinante disastro che aveva dichiarato con tanta audacia la proria volontà di tradire il suo Paese per far piacere a una cotta. Quando lo aveva visto seduto su una jeep americana, appena fuori dal confine del campo sovietico ad Herat, Victor era stato sicuro che sarebbero ripartiti da dove si erano fermati. Il fatto che tre anni fossero passati dall’accaduto erano parsi irrilevanti.
Invece Yuri Katsuki aveva agito come se lo conoscesse a malapena; come se non lo conoscesse affatto.
Non si ricorda, si disse Victor, con la comprensione che gli torceva il petto e scendeva giù fino allo stomaco. Tutto ciò che Yuri si ricordava da quel summit a Ginevra era probabilmente solo una terribile sbornia, accompagnata da una buona ramanzina sul comportamento da tenere in certe situazioni. Per essere certo decise di chiedere alla persona che sembrava essere la più vicina a Katsuki Yuri: Phichit Chulanont.
“Caporale Chulanont, posso parlarti un attimo?” esordì Victor, avvicinandosi alla persona in questione, quando si fermarono per la sera. Chulanont ebbe un attimo di sorpresa, che fu rapido a celare. Gli rivolse un sorriso ampio ma educato. Più che un sorriso, sembrava un ghigno in verità. Il genere che ti aspetteresti da chi conosce tutti i segreti e le marachelle del proprio amico ed è pronto a dargli corda.
“Certo, Generale. Che cosa c’è?”
Victor andò dritto al punto. “Per caso il Soldato Katsuki vi ha detto qualcosa di un vertice tenutosi a Ginevra nel novembre 1985?”
Phichit fece una smorfia pensierosa, mordicchiandosi il labbro inferiore mentre rughe sempre più profonde gli solcavano la fronte.
“Non che mi ricordi. All’epoca ero in missione, e quando ho finalmente rincontrato Yuri era già fine aprile. Mi ha detto qualcosa sull’aver bevuto troppo, al punto di avere illusioni di parlare e ballare con te “, rispose finalmente Phichit, con un dito che gli picchiettava il mento come se il gesto potesse aiutarlo a ricordare alcuni dettagli.

Quella notte Victor organizzò le cose per avere lo stesso turno di guardia di Yuri.
“Le vie della vita sono strane” considerò, pensando ad alta voce. Yuri mormorò, pensieroso. C’era una ruga di concentrazione in mezzo ai suoi occhi castani.
“Abbastanza strane da far incrociare le nostre strade” ammise.
Le guance di Yuri avevano una certa rotondità, il suggerimento di una vaga morbidezza; liscia e abbronzata pelle avorio illuminata dalla luce della luna. Le guance davano l’idea che si sarebbero adattate perfettamente alla mano a coppa di Victor; il pollice a sfiorare appena il mento; la mascella incastrava nella curva tra pollice e indice; il mignolo a lasciare tocchi di piuma sotto l’occhio di Yuri. Victor si sporse in avanti, solo un po’.
Le labbra di Yuri erano rosa, paffute. Un perfetto arco di cupido ne disegnava il labbro superiore, che di tanto in tanto si sollevava a ritmo di una conversazione per mostrare i denti davanti, bianchi, piccoli e sani. Yuri bevve un sorso dalla propria borraccia, la lingua rosea che saettò fuori per catturare una goccia fuggiasca prima che arrivasse al mento. Victor si ritrovò a fissare.
C’era qualcosa di seducente in Yuri Katsuki, una sensualità innata e una fiamma che bruciava sotto strati di reticenza e di dubbi. Yuri ne era ignaro e ciò lo rendeva un incantatore ancora più pericoloso; e se un bacio avesse potuto rompere l’incantesimo, Victor era pronto ad indugiarvi.
“Hai sentito qualcosa?”
Le parole di Yuri lo fecero tornare alla realtà. Drizzò le orecchie.
“In verità no” ammise, con le sopracciglia alzate.
Yuri sospirò. “Sì, probabilmente non era niente. Mi dispiace, Sono un po’ teso.”
“Lo siamo tutti” lo rassicurò Victor, mentre ripiegava le dita verso il palmo.
Se Yuri Katsuki fosse stato ucciso perché troppo distratto da un sciocco russo che tentava di flirtare, Victor non si sarebbe mai perdonato.
Lasciò cadere la mano.

Il decimo giorno li trovò a qualche chilometro di distanza da Baghran, lo stesso terreno ocra e le montagne dei giorni precedenti e i confini disegnati sulla mappa quale unica indicazione che si erano spostati da una provincia all’altra. Altrimenti Yuri avrebbe appena registrato il cambiamento. Forse guardando attraverso gli occhi di un nativo avrebbe visto la bellezza del luogo, i suoi intimi segreti, ma come era allora, l’unica cosa che gli occhi vedevano era una distesa senza fine di montagne di arenaria e pianure.
“Ecco il villaggio” annunciò Behrooz, con l’indice puntato verso un gruppo di case ancora semi-nascoste dalle rocce in lontananza. Victor guardò attraverso il binocolo, regolandolo secondo le indicazioni di Behrooz. Focalizzò le lenti su un paio di ripari in pietra con due figure - uomini, a giudicare dal loro abbigliamento - che gesticolavano all’esterno. Victor spostò il binocolo, sperando di cogliere alcuni segni del passaggio della squadra di Leo de la Iglesia. Non ebbe alcuna fortuna.
Il sentiero si era allargato, quindi mutarono la disposizione da una fila singola a una colonna. Il trovarsi più vicini alla loro meta faceva correre di eccitazione e aspettativa sotto la loro pelle. Dava loro energia, ma era anche un problema: la sensazione di essere quasi arrivati portava ad abbassare la guardia.
Un giorno, forse meno e Yuri avrebbe potuto abbracciare Leo e gli altri. All’improvviso non ebbe dubbi che fossero sopravvissuti. I giorni appena trascorsi erano stati duri, lunghi e faticosi. In alcune occasioni era sembrato un incubo, ma ora era finita; pochi chilometri, un ultimo campo di notte.

Andò tutto in pezzi in una frazione di secondo.
Un “click” fu sufficiente.

“Ragazzi, penso di avere un problema qui.”
La voce preoccupata di Phichit attirò la loro attenzione. Tutti si congelarono sul posto. Otabek e Plisetsky che erano davanti a Phichit, ma dall’altro lato della strada, si voltarono. Le loro espressioni erano senza speranza. Otabek fissò Leroy, che era proprio di fronte a lui e comunicò un messaggio silenzioso. Rimbalzò indietro fino a Victor.
Yuri fece per correre in avanti verso il suo amico, ma Victor lo tenne per la manica. “Nessuno si muova” ordinò.
“Ci potrebbero essere delle mine” aggiunse. Altre mine.
Un’ondata di nausea torse lo stomaco di Yuri. L’uomo fece cadere lo sguardo verso i suoi piedi, temendo di trovarli vicino o persino sopra una di quelle cose. Non aveva dubbi che tutti gli altri stessero facendo il medesimo controllo.
Perché lì? Come era potuta accadere una cosa simile? Esisteva un modo per risolvere la situazione? Il sentiero era minato anche più avanti?
Era tutta una trappola come Plisetsky aveva avvertito giorni prima?
Non lo sapevano.
L’unica cosa che conoscevano con assoluta certezza era che Phichit Chulanont era salito per errore su una mina.
“Quanto pesi?” chiese Victor, la voce forzatamente calma.
“Sessantasei chili” rifletté Phichit. “è un po’ che non mi peso.”
“è inutile chiederglielo. è una delle nostre, non possiamo disarmarla” replicò Plisetsky, accoccolato per esaminare con attenzione la mina vicino a Phichit che stava sudando copiosamente.
“Aspetta, che vuol dire che non potete disarmarla?” sia JJ sia Michele fecero eco, per una volta in perfetto unisono. Yuri lanciò a Victor un’occhiata supplice. Sei Victor Nikiforov. Sei Victor “nessuna missione fallita” Nikiforov. Fa’ qualcosa. Ma per suo sgomento, Victor sembrava perso come tutti gli altri.
“Sapevo che avrei dovuto portarlo!” borbottò Plisetsky.
Come venne spiegato agli americani, un simile tipo di mina poteva essere disarmato solo usando uno speciale liquido chimico, altamente corrosivo e instabile, che nella maggior parte dei casi si rivelava inutile, uccidendo sia la vittima sia il suo possibile salvatore. Senza tale liquido a portata di mano, ingannare la mina diventava quasi impossibile.
“Possiamo cercare di ingannarla con un altro peso” propose Yuri sull’orlo della disperazione.
“No” rispose Victor, la fronte contratta in un silenzioso calcolo a mente.
Prima che Yuri potesse protestare, Phichit rafforzò il messaggio. “Ha ragione. Avreste bisogno di almeno due, tre zaini, e non potete sacrificarli.
Chinarono le teste in un silenzioso riconoscimento della situazione. In condizioni normali avrebbero potuto sopravvivere con due o tre zaini in meno, essendo vicini al termine della missione e con la possibilità di chiamare un elicottero per essere riportati alla base. Ma in questo caso sarebbero dovuti tornare a piedi, almeno fino a valle, probabilmente prendendo una strada diversa.
La perdita di un zaino e degli oggetti all’interno avrebbe potuto fare una grande differenza.
“E non conosciamo le condizioni di Leo o degli altri” continuò Phichit.
“Posso prendere il tuo posto” si offrì Yuri, la voce tremante e piena di disperazione. “Peso quasi quanto te!”
Phichit scosse la testa. “è un bel gesto, degno di un buon amico come te, ma non puoi” rispose con voce triste. Era la voce rassegnata di un uomo che ha già accettato il suo destino. Fece tremare Yuri. “Non posso permetterlo” aggiunse Phichit.
“Cazzo, guardami” urlò Yuri, facendo già un passo avanti. Ne stava per fare un altro e poi un altro e un altro. Tutti quelli che sarebbero stati necessari per salvare l’amico, ma Victor lo afferrò per la manica e lo tirò indietro. Strinse le sue braccia forti intorno al petto di Yuri. Yuri lottò per liberarsi, piangendo e gridando insulti e suppliche sia a Victor sia a Phichit.
Lasciami andare. Lasciami andare. Lasciamandare. Per favore. Ho ancora tempo. Ha ancora tempo.
“Dev’esserci un altro modo” supplicò Yuri.
“Non c’è” sospirò Phichit.
“C’è sempre un altro modo.”
“Non questa volta.”
Phichit non lo meritava. Era un uomo brillante, un buon soldato e un amico meraviglioso. Aveva una testa piena di sogni che doveva ancora realizzare. Yuri invece era sostituibile; in confronto, non aveva alcuna qualità speciale. Il mondo poteva vivere senza di lui. Non aveva sogni di gloria; proprio come aveva detto Plisetsky: era un vecchio soldato inutile che non sapeva fare niente.
Cercò di liberarsi dalla presa di Victor, approfittando delle sue abilità nel combattimento corpo a corpo, ma l’altro era più alto e più forte e presto Otabek fu lì ad aiutarlo.
Yuri continuò lo stesso a lottare quando tentarono di allontanarlo.
Voglio guardare. Lasciatemiguardare. Dovete restare. Dovete guardare. è colpa vostra.
è colpa mia.
Voleva guardare. Voleva essere testimone del fatto. Voleva che la vergogna venisse impressa a fuoco negli occhi e nella memoria fino a quando fosse stato vivo. Se si fosse voltato, il fantasma di quello che non aveva visto lo avrebbe tormentato per sempre.
Mi perseguiterà per sempre. Per favore, Morte, sii rapida. Non lo merita.

Calde lacrime appannarono i suoi occhiali. Caddero salate sulle labbra.
Phichit era un buon soldato e, da buon soldato, cercò di essere utile ai suoi compagni fino alla fine. Yuri vide il suo migliore amico fargli un sorriso dolce-amaro; sorrise mentre faceva scivolare la sua cinghia dello zaino giù da una spalla, la pressione sulla mina ancora sufficiente per prevenire l’esplosione.
“Di’ a Leo che lo vedrò all’Inferno” gridò Phichit, mentre sganciava lo zaino anche dall’altra spalla con l’intenzione di lanciarlo lontano. Nell’esatto istante in cui lo fece, Plisetsky gli sparò proprio in mezzo agli occhi, una frazione di secondo prima dell’esplosione.
Lo zaino venne sbalzato verso l’alto, in una nuvola di polvere, detriti, fiamme e carne. Atterrò a pochi metri di distanza, un poco bruciacchiato ma perlopiù intatto.
Yuri fece per correre in avanti, ma Victor e Otabek continuavano a tenerlo indietro. Gli dissero che era inutile. Era troppo pericoloso. Gridò. Non gli importava. Desiderò anche avventarsi sulla gola di Plisetsky, colto da una rabbia improvvisa. Gli hai sparato! Aveva ancora la possibilità di sopravvivere! E gli hai sparato.

Mentre la polvere si disperdeva, Victor diede a Georgi l’ordine di prendere il resto della squadra e cominciare a muoversi. !Vai anche tu, Tenente Altin”.
Gli unici che rimasero indietro, oltre a Victor, furono Plisetsky e Crispino. Attesero in un silenzio sconvolto che l’aria si rischiarasse dopo l’esplosione e ne mostrasse le conseguenze.
Il Caporale Chulanont non era più altro che pezzi di carne sparsi dappertutto. L’impatto aveva separato il tronco di Phichit dalle sue gambe, spedendole alcuni metri più in là. Una scheggia si era conficcata nel mento dell’uomo, spappolandogli la testa. Gli mancava un braccio.
Yuri si piegò in avanti e vomitò.

Note:
Phichit era destinato a morire dalla prima bozza e se vi state chiedendo se si sarebbe potuto salvare in quel contesto la risposta è “magari”. Ovvero, anche se non lo avrebbe ucciso sul colpo, la mina lo avrebbe mutilato severamente e date le circostanze le ferite avrebbero potuto essere fatali.
In ogni caso, Victor ha sprecato una seconda occasione ed è venuta voglia pure a me di prenderli a schiaffi. Sarò onesta, avevo pure pensato di infilare un bacio durante la scena del turno di guardia insieme, ma poi Victor si è fatto prendere dagli scrupoli e tanti saluti.

Nel prossimo capitolo: Yuri reagisce alla perdita del suo migliore amico in maniera alquanto strana, scopriamo cos’è successo durante la missione per cui è stato degradato e Yurio raggiunge il suo massimo punto di sopportazione.
E per la missione è arrivato il momento della verità. Si sarà salvato qualcuno o, come predetto da Yurio, non c’è più nessuno da salvare?

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Gli ultimi chilometri sono sempre i più duri ***



Gli ultimi chilometri sono sempre i più duri

“Tieni, bevi questo.”
Mentre sentiva queste parole nuovi conati scossero tutto il corpo di Yuri, costringendolo di nuovo a piegarsi su se stesso. Un sapore amaro gli invase la bocca. Gli ultimi rimasugli del pranzo ancora rimasti nello stomaco finirono per terra. Si asciugò le labbra col dorso della mano. Strisce di acido giallastro penzolarono dal mento. Arricciò il naso per il forte odore.
“Bevi!” Ripeté Plisetsky, agitandogli la borraccia sotto il naso. Yuri la prese con mani tremanti, sorbendone un sorso incerto. L’acqua aveva a malapena raggiunto la sua gola che una nuova ondata di nausea lo costrinse a rigettarla. Yuri tossì, sputacchiando tutt’attorno un miscuglio di acido, acqua e saliva. Sotto lo sguardo di disapprovazione di Plisetsky, afferrò la borraccia e cercò di bere un altro sorso, più lentamente questa volta. Usò l’acqua per sciacquarsi la bocca, facendola passare da guancia a guancia prima di deglutire.
Yuri ripulì le mani sul davanti dei pantaloni. La gola bruciava. Sul suo viso coperto di polvere, le lacrime avevano lasciato due pallide strisce. Crosticine si stavano formando agli angoli degli occhi. Sbuffò. Si soffiò poi il naso sulla manica, ormai così sporca che un po’ di muco non avrebbe fatto alcuna differenza.
Phichit se n’era andato. Era l’unica cosa su cui Yuri potesse concentrarsi. Phichit se n’era andato, e Yuri non poteva fare nulla per cambiare il suo destino. Poteva ancora sentire la risata del suo amico dalla sera prima, l’ appropriata risposta per una storiella stupida che Yuri aveva finito col rovinare; ma Phichit aveva riso ugualmente. La risata di Phichit era stata una panacea. I suoi scherzi erano la corda che Yuri aveva usato per sfuggire al pozzo di depressione in cui era caduto dopo essersi addossato la colpa della morte di tutta la sua squadra.
E ora la corda si era spezzata.
Si lasciò cadere sulle ginocchia. Phichit se n’era andato. L’unica persona che avesse mai creduto in lui era sparita, quindi non c’era più nulla da fare. Era sempre stato un peso. La sua famiglia era stata così veloce a mandarlo via quando le cose avevano cominciato ad andar male, come si fa di solito con un peso. Dopotutto nessuno lo considerava utile, né i suoi compagni, né i russi.
Soprattutto Victor Nikiforov. Yuri aveva visto come lo guardava, la tristezza nei suoi occhi. Aveva visto la disapprovazione nelle sue iridi azzurro ghiaccio; la delusione nascosta sotto la gentilezza.
Plisetsky lo afferrò prima che potesse toccare il suolo.
“Non adesso!” Sibilò e cominciò a camminare, trascinandolo. Il suo passo era veloce; le sue maniere rudi. Apparentemente, Plisetsky non si preoccupava del rischio di dislocargli una spalla, a patto che continuasse a muoversi.
“Ha ragione” rispose Michele, passando dall’altra parte. “Se ti fermi, è la fine.”
“Ma il corpo!” protestò Yuri, lottando contro i due, inutilmente. Nonostante il suo corpo snello, Yuri Plisetsky era un uomo forte. Tirò Yuri mentre Michele lo spingeva, un palmo aperto tra le scapole.
“Per favore risparmiaci lo sforzo di metterti KO e portarti via di peso!” minacciò Plisetsky. Poco dopo aggiunse: “Se ne sta occupando Victor.”
Poi guardò da sopra la spalla per assicurarsi che fosse tutto a posto. Yuri cercò di imitare il gesto, ma Michele glielo impedì, schiaffeggiandogli la nuca.
“Non guardare!” sussurrò, la mano ancora premendo sulla schiena di Yuri.
Ho già visto, voglio guardare, lasciatemi andare..
Lasciatemi qui.
Questo era quello che Yuri avrebbe voluto urlare.
“È inutile” mormorò semplicemente sottovoce. “Potete lasciarti andare” continuò, sentendo le dita di Yuri Plisetsky ancora agganciate attorno al suo polso, come un insegnante avrebbe fatto con un alunno indisciplinato. La sua richiesta rimase inascoltata. Plisetsky lo costrinse ad avanzare finché non ebbero messo un po’ di miglia fra loro e il luogo in cui il tutto si era consumato.
Mentre camminava in una nera voragine di disperazione e intorpidimento, Yuri registrò appena Behrooz che diceva che meno di un giorno di marcia li separava dal villaggio. Le informazioni entrarono da un orecchio e uscirono dall’altro. Ha detto qualcosa?
Quella notte Yuri afferrò le sue razioni e si sedette da solo, lottando contro l’immagine del corpo di Phichit che gli artigliava la mente e gli torceva lo stomaco. Mangiò in minuscole morsi, masticando il cibo secco e odiandosi perché Phichit era morto mentre lui continuava a sentirsi assetato e affamato. Come se nulla fosse accaduto.
Si addormentò per esaurimento. Appena chiuse le palpebre, gli occhi del suo amico cominciarono a perseguitare i suoi sogni, costringendolo a svegliarsi in un bagno di sudore gelato. La notte stellata era bellissima come sempre, la luna lontana e beffarda. Il coniglio sulla luna stava lavorando come aveva sempre fatto da quando la luna era apparsa in cielo.
La mattina dopo trovò Yuri stranamente allegro.
“Buongiorno, bella giornata, nevvero? Se ci muoviamo possiamo coprire dieci miglia prima delle nove” svegliò gli altri, scuotendo leggermente i loro sacchi a pelo per costringerli ad abbandonare il loro sonno.
“Andiamo, stiamo perdendo tempo!” insistette, ripiegando il suo sacco a pelo a tempo record. L’orizzonte non si era ancora tinto delle tonalità rosa e arancione dell’alba. Nella parte superiore della volta celeste persisteva il vellutato blu della notte. Venere brillava in lontananza, mentre la luna sbiadiva a poco a poco.
Dopotutto Phichit sarebbe stato triste se avesse saputo che Yuri aveva pianto. Era come aveva detto Michele: non ci si può fermare.

“Pensi di poter prendermi in giro?”
Mentre sedeva all’ombra - il sole di mezzogiorno li aveva costretti a fermarsi per un po’, specialmente dopo che JJ aveva mostrato i primi segni di un colpo di calore - Yuri sollevò lo sguardo dalla borraccia che stava esaminato in quel momento. Plisetsky stava lì con le mani sui fianchi, l’immagine quasi buffa. Con quella posa sembrava più una casalinga arrabbiata che un soldato.
“Scusa?” rispose Yuri, con voce piatta. Poté giurare di aver visto una vena gonfiarsi e pulsare sulla tempia del suo omonimo. Yuri Plisetsky strinse i pugni. Poi decise di aprire le braccia per sottolineare la propria esasperazione.
“Questo!” pestò i piedi per un massimo effetto drammatico. “Sei stato così disgustosamente pieno di energia da questa mattina. Mi dà il voltastomaco. La gente non reagisce così alla morte di un compagno - “
“Phichit non era un compagno, era un amico” lo corresse Yuri senza esitazione. C’era una profonda freddezza nel suo tono a segnalare quanto gli fosse cara la differenza e che non avrebbe permesso un secondo errore.
Come al solito, Plisetsky non se ne curò. Non lo aveva mai fatto.
“Come vuoi, la gente normale non reagisce così” continuò Plisetsky. Quasi fosse divertito dal suo disagio, le labbra di Yuri si curvarono verso l’alto in un sorriso vuoto che non raggiunse affatto gli occhi.
“Preferiresti che mi mettessi a piangere, che facessi una scenata e fossi un peso?” suggerì Yuri, chiudendo la borraccia senza nemmeno guardarla.
“Non è quello che sto dicendo”.
“Sei sicuro?” Insistette Yuri, rimettendosi in piedi. Era più basso del russo, ma con la schiena dritta e la testa alta poteva apparire più imponente di quanto non fosse. Plisetsky fece un passo indietro.
“Non è questo che stai aspettando per tutto il giorno? Vedermi andare in pezzi? Dimostrare i tuoi pregiudizi? Quale momento migliore di adesso? L’unica persona che credeva in me non c’è più. È solo questione di ore prima che io vada in a pezzi. Qual è la posta, dimmi ? Quanto avete scommesso per questo vecchio soldato? “
Yuri era sul punto di gridare, un fiotto di parole sgorgava dalla bocca con tutto il suo veleno fatto di odio e recriminazioni. “E tu più di tutti. Scommetto che lo hai ucciso per guardarmi cadere” sputò Yuri, ogni parola densa d’accusa. Oh, il sorriso condiscendente di Plisetsky era impresso a fuoco nella sua memoria.
“Di cosa cazzo stai parlando?”
“Gli hai sparato!” esclamò Yuri, alzando la voce. Al diavolo lo stare attenti.
“È stato un atto di pietà!” Sibilò Plisetsky.
“Sarebbe potuto sopravvivere!”
Yuri stava gridando adesso.
Lo schiaffo arrivò dal nulla. Plisetsky lo colpì forte sulla guancia, tanto che la testa di Yuri ruotò di lato mentre cadeva a terra. Sputò un dente. Sangue e saliva macchiarono il colletto della sua divisa.
“Ho tutte le intenzioni di prenderti a pugni finché non avrai ricominciato a ragionare” lo avvertì Plisetsky, i pugni già pronti. “E prenderò a pugni anche voi” minacciò Leroy e Crispino che si erano avvicinati, attratti dallo scontro. C’erano stati quattro americani. Ora il numero era stato ridotto a tre, due dei quali non erano nelle migliori condizioni.
Yuri rimase seduto per un momento a terra, esaminando il dente, il canino sinistro.
“Allora?” incalzò Plisetsky. Yuri non disse una parola. Si limitò a raggomitolarsi portando le ginocchia al petto. Scattò in avanti per restituire il pugno.
Yuri non amava vantarsi, ma poteva affermar con orgoglio e, anche se per lo più a se stesso, di avere un talento nel combattimento corpo a corpo.
Il fatto era che l’essere quello che gli altri bambini avevano preso di mira lo aveva costretto a imparare a difendersi se non voleva che gli rubassero il pranzo ogni giorno. Era stata la danza, per cui gli altri ragazzi lo avevano preso in giro, a dargli forza e agilità.
Si abbassò mentre Plisetsky caricava con un altro pugno diretto alla sua guancia.
Sentì il richiamo preoccupato del Capitano Popovich che li esortava a fermarsi, insieme a quello di Victor di lasciarli fare. “Sarà un’eccezione speciale, Jora.”
Yuri pagò caro il momento della distrazione. Plisetsky, infatti, riuscì ad afferrarlo e farlo cadere in un groviglio di braccia e gambe. Yuri sentì il sapore del sangue. Si sentiva bene questa volta. Fece cozzare la testa contro il mento di Plisetsky. Il cocuzzolo sbatté contro il duro osso. Il russo gemette. Mentre sollevava le mani verso la ferita, Yuri ne approfittò per liberarsi e rimettersi in piedi. L’altro lo imitò.
Si separarono ancora una volta. Avevano entrambi il fiatone. Si aggrapparono l’uno all’altro, con movimenti sempre meno precisi. La stanchezza cominciava a mostrarsi. Ogni pugno era un po’ meno carico di rabbia. Ogni calcio era un po’ meno pieno d’odio. Presto le loro energie vennero meno, rendendo ogni movimento più debole del precedente.
Alla fine giacquero entrambi sulla nuda terra, con i volti coperti di sudore, polvere e sangue. Si guardarono. Due sorrisi crebbero sui loro volti.
“Grazie.”
Yuri fu il primo a rompere il silenzio. Non si sentiva per niente bene, ma il combattere con Plisetsky in qualche modo lo aveva aiutato a sbarazzarsi della falsa allegria che lo aveva tormentato nelle ultime ore. Soprattutto aveva tenuto lontana morte di Phichit e cosa significava per un po’. Si alzò e offrì una mano al russo che alla fine accettò.
“Spero che voi siate soddisfatti “ mormorò Michele, gli occhi pieni di disapprovazione. Sollevò un dito per indicare il sole, già calante all’orizzonte. L’orologio segnalava che le 1300 erano appena passato. “La vostra piccola lotta ci ha fatto perdere tempo prezioso” continuò Michele. La sua ramanzina fu tuttavia troncata sul nascere dall’arrivo di Victor.
“Non è vero, Sergente Crispino. Sono contento che questi due abbiano finalmente chiarito le cose. Se solo le cose potessero essere sempre così semplici” si limitò a osservare il Generale. Fissò Yuri mentre pronunciava l’ultima parte della frase. Gli occhi ebbero una scintilla di consapevolezza. Yuri distolse lo sguardo e le mani si strinsero attorno alle cinghie della zaino. Aveva appena notato che, insieme con il suo, Victor stava portando anche il carico di Phichit.
Per non sprecare il suo sacrificio
“Non sei l’unico che ha sofferto” gli disse Plisetsky non appena Victor si fu rimesso in marcia, pulendosi il naso. “Se non fosse stato per Lilia ...” si interruppe. La sua solita discrezione, insieme all’abitudine di non mostrare alcuna debolezza, gli impediva di aprirsi. Era comunque troppo tardi: la curiosità di Yuri era già stata destata.
“Lilia?”
“Sì, ex moglie di Yakov. Lilia Baranoskaya “.
Yuri si bloccò, metaforicamente almeno. In verità continuò a camminare, ma la sua bocca si spalancò di stupore. Scosse la testa per schiarirla. “Lilia Baranoskaya? L’ex Prima Ballerina del Bolshoi? Quella Lilia Baranoskaya? “
Ora era stato il turno di Plisetsky di essere sorpreso. Si voltò per guardare Yuri. L’irritazione nella sua voce non fu sufficiente per nascondere la sua sincera sorpresa. “Naturalmente, chi altri?” rispose. “Come la conosci?” Chiese subito dopo. Yuri sbuffò, il fantasma di una risata appena udibile.
“Stai scherzando, vero? Tutti nel mondo della danza la conoscono” affermò come se fosse un dato di fatto.
“Tu balli?”
Plisetsky sembrava più confuso che mai; o incuriosito. Era difficile capirlo. Yuri non poté fare a meno di sorridere.
“Sì, balletto. Ma la gente mi prendeva in giro o per questo” risposte. Fu facile condividere quelle informazioni. Quel sottile filo in comune tra lui e il russo fu ben accolta, nonostante fosse stata scoperta nel modo più strano e nel momento peggiore
“Che stronzate!” esclamò Plisetsky.
“E tu?” chiese Yuri con curiosità.
“Un po’, ma non faceva per me”.
Si ritirò ancora una volta nel suo uscio, ritornando in un territorio sicuro e neutro non appena Yuri Katsuki sfiorò un passato a cui pochi avevano accesso. Otabek aveva dovuto aspettare anni prima che Plisetsky si sentisse abbastanza confortevole da aprirsi con lui, dicendogli come la danza fosse stata una benedizione e una maledizione. Apprezzò comunque il fatto che Yuri Katsuki rispettasse il suo silenzio e non tentasse di violarlo prima che egli si sentisse abbastanza a suo agio da farlo.
“Anche Chulanont ti prendeva in giro?” riuscì a chiedere Yuri Plisetsky. Yuri rise un po’, una risata triste e affettuosa, il tipo riservato ad una cara ma vecchia memoria.
“Mai.”
Tutto il contrario. Phichit era stato profondamente affascinato dal corpo flessibile di Yuri e dai movimenti graziosi, felice di trovare una persona capace di comprendere la sua profonda passione per la danza e la musica. “Mia nonna era una ballerina, si muoveva con il vento” ricordava Phichit, prima di immergersi in memorie d’infanzia.
Era nato in Tailandia, in una grande famiglia che viveva in una casa colorata nei sobborghi di Bangkok. Poi suo padre, un famoso panettiere nella zona aveva avuto l’idea di aprire una panetteria negli Stati Uniti e, nonostante tutti i dubbi del caso, tutta la famiglia aveva partecipato a una simile avventura. Purtroppo, l’America si era rivelata molto diversa dalla Terra Promessa che il padre di Phichit si era immaginato. Alla fine, nonostante fosse diventata famosa nel quartiere tailandese, la pasticceria non aveva mai avuto un grande successo. Con una famiglia con quattro figli e due figlie a cui badare, risparmiare denaro divenne un problema. La differenza tra Yuri e Phichit, tuttavia, era che la famiglia di quest’ultima non aveva mai perso la speranza o l’ottimismo ed era rimasta unita quanto più possibile.
Perso nei suoi ricordi, Yuri era rimasto in silenzio. Plisetsky aspettò qualche minuto, ma quando fu chiaro che il giapponese non avrebbe parlato presto, lo lasciò da solo. Era chiaro che una parte della sua mente era fuggita in una terra lontana, un luogo felice e senza dolore. Un luogo da dove non aveva intenzione di tornare se non molto più tardi, come se questo potesse aiutarlo a proseguire.

“Questo non è un posto per lui”.
Questo era ciò che Yuri aveva pensato di Phichit Chulanont la prima volta che si erano incontrati al campo di addestramento a Fort Knox. Senza dubbio il tailandese aveva probabilmente pensato la stessa cosa di lui.
“Chulanont. Phichit Chulanont “ si era presentato l’uomo con una stretta di mano ferra ma amichevole.
A essere onesto Yuri non ricordava il loro primo incontro molto bene, i dettagli persi nel passato e nel turbine che era stato Phichit. Prima di allora, Yuri non si era mai immaginato che una persona potesse parlare così tanto. Era certo, tuttavia, che avevano iniziato a chiacchierare durante il rancio. Phichit era un concentrato di ottimismo.
“Dovevo aiutare la mia famiglia” fu la sua risposta quando Yuri gli chiese perché si fosse arruolato. Quella era stato l’inizio di un’amicizia destinata a durare tutta la vita. La personalità calda di Phichit aveva subito conquistato Yuri, conquistando la sua fiducia e rompendo il guscio della sua timidezza. Aveva sempre una battuta pronta per alleggerire il suo morale dopo una giornata di addestramento particolarmente difficile e, apparentemente, era immune a un sentimento chiamato “odio”.
Phichit aveva un talento naturale nel fare amicizia. In breve avevano acquisito due nuovi amici: Leo de la Iglesia, un mezzo messicano con una passione per la musica e Guang Hong Ji, un immigrante cinese più pericoloso di quanto il suo aspetto lasciasse credere.
“E tu? Come è finito un giapponese del Kyushu nell’esercito americano?” domandò Phichit una sera, quando divenne accettabile fare una domanda simile. Yuri gli raccontò di come la sua famiglia fosse stata costretta a mandarlo via di casa.
“Immagino che si possa dire che mi sono arruolato anch’io per aiutare la mia famiglia” concluse, scrollando le spalle. Stavano lucidando un mucchio di stivali. Chiacchierare li aiutava a sopportare la corvé, soprattutto dopo una giornata di addestramento. Probabilmente si era trattato di una punizione per qualcosa che Yuri non riusciva più ricordare. Tuttavia, ricordava bene l’odore di lucido delle scarpe nelle narici e di come Phichit fosse passato a parlare della sua infanzia al suo film tailandese preferito a quanto amasse i computer.
Yuri non aveva citato Victor Nikiforov al momento, non ancora. Tuttavia, come Phichit avrebbe scoperto presto, essere suo amico significava avere una conoscenza indiretta del Generale russo. Se il nome avesse acceso una lampadina nella testa di Phichit, un vago ricordo delle lezioni di strategia e di analisi del nemico, ora era il segnale che gli occhi di Yuri avrebbero iniziato a brillare e la bocca per parlare senza sosta.
Phichit l’aveva sempre ascoltato.
L’aveva ascoltato il giorno prima, non più di tre ore prima della sua morte.
“La scorsa notte Victor mi ha parlato” esordì Yuri, sapendo che con Phichit non c’era alcuna necessità di introdurre l’argomento. Ciò aveva sempre reso le cose molto più facili. Non prestò molto attenzione al fatto che avesse chiamato il Generale solo col nome di battesimo. Phichit annuì. La lingua che schioccò contro il suo palato era segno che era tutto orecchie.
“Be’, abbiamo già parlato, ma questa volta è stato diverso” specificò Yuri.
“Ha parlato di percorsi scelti dal Fato,” rammentò Yuri, la voce carica di dubbio. Quanto successo la sera prima era per lui tanto assurdo da dubitare che fosse realmente accaduto; come la mano di Victor era stata così vicina al suo viso, poteva quasi sentire il suo calore e il modo in cui il corpo di Victor si era piegato con l’intenzione di appoggiarsi verso di lui, il suo profilo ben delineato dalla luce delle stelle.
Phichit non aveva emesso altro suono se non uno sporadico “mmm” per indicare che stava ascoltando attivamente. Non dovette aspettare molto prima che Yuri riprendesse. La voce aveva una familiare nota di panico.
“Cosa posso fare, Phichit? è qui. è così vicino, e ogni volta che mi guarda sento il mio cuore scoppiare. Lo amo, e non posso nemmeno dirglielo. “
Poiché il suo amico aveva finalmente ammesso ciò che Phichit aveva sospettato sin dal giorno in cui Yuri aveva condiviso il segreto di un dossier, compilato con la passione di una persona che non aveva altro a cui aggrapparsi, Phichit passò dalla modalità commilitone alla modalità “migliore-amico”.
“Diglielo!”
Yuri salì sul posto. La reazione ha provocato un vortice di occhi dardi e mani su fucili. Michele, che camminava proprio dietro Yuri, si fermò bruscamente e si infilò nella schiena, maledicendo.
“Cosa c’è?” Si avvicinò Victor dalla fine della colonna.
“Sì, spero che sia qualcosa di importante”, ribatté Plisetsky dalla parte anteriore. Yuri sentì il volto che bruciava in imbarazzo.
“Niente, falso allarme”, assicurò Phichit, con gli occhi accesi di complicità. Ci fu un’altra pausa carica di dubbio, tutti presi a guardare attorno con una nuova ondata di paranoia, ma non c’era nulla diverso dall’ordinario.


Con l’attenzione non più su di loro, Phichit non perse tempo a tornare alla discussione appena interrotta. Yuri sospirò, comprendendo l’antifona. “Non posso dirglielo. è Victor Nikiforov. è una leggenda, e io sono solo io “ disse, le ultime due parole cariche di tutto il vuoto e il senso di inutilità che sentiva dentro di sé


Probabilmente non gli piacciono nemmeno gli uomini; e se sì, non gli uomini come me.

“Sei più di quello che altre persone possano mai sperare di essere” ribatté Phichit.

“E se non mi volesse? Non può desiderare uno come me. Tutto questo è stupido. Lui è tutto e io non sono niente ... “

Yuri non aveva neanche finito l’ultima frase che Phichit lo aveva tirato a lato della colonna, dicendo a gesti agli altri di non curarsi di loro. Essendo già stati testimoni dell’ansia di Yuri, tutti pensarono semplicemente che si trattasse di un caso simili e li ignorarono, limitandosi a rallentare un po’ il passo. Phichit conficcò le dita sulle spalle di Yuri, fissandolo negli occhi con uno sguardo riservato quando voleva essere molto, molto serio.

“Yuri Katsuki, non dire mai che non vali niente. Sono il tuo migliore amico, e come tuo migliore amico sono autorizzato a prenderti a ceffoni finché la pianti di dire stupidaggini!”

“Ma … Victor!”
“Ascolta. Victor Nikiforov potrà anche essere un grande Generale e tante belle cose, ma se non vede quanto sei bravo, allora sarò felice prenderlo a calci in culo. Gli farò rimpiangere il giorno in cui ti ha ferito “ minacciò Phichit, lanciando un’occhiata significativa al russo.

“Se non ti vuole, non ti merita. Non dimenticarlo mai. Quindi,” riprese, col viso di nuovo ammorbidito in un sorriso di complicità, “ quando pensi di dirglielo? “

“Quando tutto questo sarà finito” Yuri si interruppe, incerto della propria decisione. Phichit non parve essere d’accordo con lui. Secondo la sua opinione, infatti, la fine della missione sarebbe già stati troppo tardi.

“Diglielo domani, non vedo l’ora!” Insistette. Aveva insistito tanto che alla fine Yuri era stato costretto a fare una promessa. Tre ore più tardi, Phichit Chulanont aveva incontrato il suo destino e Yuri abbandonato ogni intenzione di potere confessare i propri sentimenti a Victor Nikiforov.

Soprattutto, Phichit era stato lì per ascoltarlo e sostenerlo quando la vergogna di quella missione fallita era caduta sulle spalle, come una macchia che non poteva essere lavata via.

Yuri lo ricordava come se fosse ieri: la tarda primavera del 1986, in Bolivia, nella regione del Pando.

La missione sarebbe dovuto essere semplice, una rapida incursione in un villaggio invischiato in un traffico di droga, nella cornice di un’operazione più grande che sarebbe passata alla storia come Operation Blast Furnace.


L’aria era talmente umida da dare l’impressione di stare respirando acqua. Le zanzare si posavano senza sosta su ogni centimetro di pelle esposta, pizzicando senza pietà. Presto il solletico causato dei loro minuscoli corpi divenne un fastidio insopportabile. Una goccia di sudore o l’essere sfiorati da una foglia era sufficiente perché gli uomini iniziassero a schiaffeggiare e grattare il punto appena toccato. Si davano manate sulle braccia, sulle gambe e in faccia. Vi era il suono continuo di pelle sudata contro la pelle sudata, i palmi che calavano con un “thumo” e un “thud”.

Finché Yuri non aveva ordinato ai suoi uomini di smetterla, intimando loro di mantenere la presa sui loro fucili. I suoi uomini si erano lamentati. Egli stesso non poteva negare che resistere all’impulso di grattare le punture era in realtà una tortura. Bruciavano e pizzicavano ed erano ovunque.
Di notte, le unghie di Yuri scavavano con gioia nella carne viva. Al mattino, erano sporche di sangue. Ma l’apparente sollievo non durava mai a lungo.
“Ehi, non dovresti esserci abituato?” esclamò uno dei suoi uomini un giorno maledettamente simile a tutti gli altri, tra gli sbuffi e le imprecazioni contro le dannate zanzare e gli scarafaggi e qualunque creatura vomitata dall’inferno si nascondesse tra le foglie e sotto le radici. Non era la prima volta che i suoi uomini facevano commenti sulle sue origini, o anche la giovane età. Il fatto che Yuri dimostrasse dieci anni in meno non aiutava affatto. Di norma, avrebbe lasciato correre, ma il fatto era che era esausto e sul punto di esplodere. Si fermò e ruotò sui talloni, con un inquietante sorriso sulle labbra.
“Si. Fatemi chiarire due cose. So che il mio inglese potrebbe non essere eccelso, quindi parlerò lentamente così da farvi capire. Uno: la mia città natale è sulla costa. Mare. Capito? Sabbia e mare. Non giungla. Non sono di Iwo Jima. Non sono di Okinawa. La mia città natale si chiama Hasetsu. Sul mare? Capito la differenza? “
Gli uomini annuirono. I volti si torsero lentamente in una smorfia di disagio. Yuri continuò a sorridere.
“Punto secondo, sono quasi nove anni che non vedo casa mia, capito?” proseguì Yuri, ora con la bocca distesa in un sorriso a trentadue denti.
Gli uomini annuirono di nuovo, spostando il peso da un piede all’altro e lanciando occhiate qua e là. Yuri fece un passo in avanti, l’espressione fattasi improvvisamente seria.
“Ora” iniziò il suo avvertimento, forzando volutamente l’accento su ogni singola sillaba, “se sento ancora uno di voi sparare cazzate su di me e sulle mie origini, se qualcuno di voi osa ancora mettere in discussione la mia autorità in qualche modo, dovranno ridurre questa fottuta giungla in cenere per trovarvi. Sono stato chiaro?”
Si era sentito strano, ma non in modo cattivo
Non c’erano state ulteriori battute. In retrospettiva, desiderò di non essere stato così duro. La sua minaccia aleggiava ancora nell’aria quando i primi proiettili iniziarono a fischiare sopra le loro teste. Un uomo sulla destra di Yuri gridò e cadde stecchito, una macchia di sangue che si espandeva sul petto.

Il sangue schizzò sul volto di Yuri. Un altro uomo urlò, piegandosi per afferrare la gamba. La sua voce era carica di dolore e di disperazione.

Il cervello di Yuri andò in cortocircuito.

Di colpo non seppe più nulla, oltre alla certezza di essere finito all’inferno, un bruciante Inferno caldo, umido e verde. Anni di addestramento e istruzioni scomparvero con le crescenti grida degli uomini che vengono falcidiati da un nemico nascosto. Oh Dio, qualcuno stava sparando loro contro. Qualcuno stava sparando loro contro. Oddio, il ragazzo alla sua destra era stato ucciso? Quanti anni poteva avere? Venti? Oh Dio, era morto e Yuri non aveva avuto problemi a minacciarlo solo pochi momenti fa.

La testa cominciò a girare, mentre i proiettili arrivavano da ogni parte. Qualcuno gli afferrò il braccio e tirò giù. Yuri registrò appena il fatto. Le orecchie si riempirono del fischio dei proiettili, di grida di dolore, di maledizioni e di parole in una lingua che non capiva.

“Caporale, cosa facciamo?”

Certo, dipendevano da lui. Doveva guidarli. Ne era responsabile. Com’era? C’era uno schema di manovra, ne era sicuro, ma non si ricordava di niente. L’aria era così calda e umida, e tutto era così rumoroso, così, così rumoroso. Oh dio, dio, dio, da dove stavano sparando? Non lo sapeva. Era impossibile capire: quella fottuta giungla sembrava tutta uguale. “Cosa facciamo?”

Di nuovo quella domanda. Non lo sapeva. Non lo sapeva. Sapeva solo che era difficile respirare. Gli faceva male la gola. Yuri cercò di inalare, ma fu inutile. Le urla erano così rumorose. Non poteva respirare. Oh Dio, non poteva stare accade non a lui. Non poteva stare succedendo ora. Credeva di aver imparato a controllare la propria ansia. Ne era stato sicuro. Aveva studiato con cura tutte quelle tecniche di gestione dello stress, combattendo ogni giorno per tenerla sotto controllo. Questo era il suo primo comando, la sua prima missione da solo con una squadra sotto la sua responsabilità. Aveva promesso che sarebbe andato tutto bene.

E ora non poteva respirare. Perché era così difficile respirare? Perché era tutto così sfocato? Dove erano i suoi occhiali? Oh Dio, non i suoi occhiali! Si toccò il viso in preda al panico. No, erano ancora lì; Ma la sua vista non migliorò affatto
Tutto continuò a vorticare attorno a lui.


Per Yuri quello che successe dopo era il lontano ricordo di un sogno appartenente a qualcun altro. Uno dei suoi uomini lo aveva tirato tra alcuni cespugli e là aveva svuotato il caricatore. Poi aveva lanciato un SOS via radio. Erano stati gli unici due sopravvissuti. All’epoca Yuri era stato troppo scioccato per comprendere appieno ciò che era successo, figuriamoci per ricondurli al sicuro. Come erano riusciti a farlo era una risposta che apparteneva a una terra che Yuri non aveva potuto raggiungere per lungo tempo. Tutto quello che aveva voluto fare allora era stato raggomitolarsi a terra e dormire per sempre.

Sono tutti morti. Tutti morti.


Aveva accettato la sua degradazione senza protestare. I suoi superiori erano stati più clementi di quanto meritasse. Cialdini, soprattutto, intercedette in sua difesa. “Succede. Non è colpa tua” cercò di rassicurarlo. Phichit gli disse lo stesso. Yuri, però, sapeva come erano andate le cose. Era colpa sua. Se non fosse stato per la sua ansia, i suoi uomini sarebbero stati ancora vivi.

Victor Nikiforov non avrebbe mai permesso che succedesse qualcosa di simile.
***

Il giorno in cui finalmente arrivarono al villaggio, a circa due chilometri di distanza, si fermarono all’inizio di un sentiero che portava al complesso delle case. Yuri stava lottando con se stesso per continuare a muoversi. Aveva a malapena chiuso occhi le due notti precedenti, troppo stanco e con una mente che continuava a riproporgli l’immagine della morte di Phichit, non importava quanto cercasse di spostare la sua attenzione su qualcos’altro. Gli altri non erano in forma migliore, i volti inebetiti in una smorfia generale di “Ora, che si fa?”

Le speranze di trovare qualcuno dalla squadra del Sergente De La Iglesia erano diventate così sottili che quasi preferivano di indulgere all’ignoranza che non avevano la verità sbattuta in faccia, qualunque fosse stata. Non aiutava affatto che le due persone più ottimiste del gruppo se ne erano andate.

“Allora, adesso cosa?” Plisetsky lanciò un’occhiata, pestando un piede, impaziente.

Dal nulla una ragazzina corse davanti ai loro occhi con una cesta di vimini che rimbalzava contro la schiena ossuta. Un bambino, che non poteva avere più di cinque anni, seguiva a breve distanza. Era scalzo e portava delle fascine tra le braccia magri. Mentre si precipitava in avanti sui suoi piedini incerti, inciampò su una radice esposta, cadde in ginocchio e lasciò che la legna raccolta rotolasse via.

Con le ginocchia sbuccia, cominciò a frignare. La bambina, tuttavia, non sembrava essere in vena di consolarlo. Invece gli diede uno scappellotto dietro l’orecchio e gli ordinò di raccogliere la legna. Il bambino - suo fratello senza dubbio - pianse ancora forte. La cosa gli fece ottenere un altro ceffone sul medesimo orecchio. Tirando su col naso e borbottando ciò che tutti i bambini del mondo borbottano quando i fratelli più grandi fanno i prepotenti, il bambino si rimise in piedi e cercò di raccogliere la legna, senza troppo successo.

Era al suo terzo tentativo, quando sua sorella fu mossa a pietà.

“Da’ qua!” gli disse in pashtun, dividendo il peso. “Ora dammi la tua mano”.

Se il ragazzo protestò o meno la decisione di sua sorella, Yuri non lo seppe. Le parole furono coperte dalle esclamazioni eccitate di Behrooz. Stava indicando dove erano appena stati i bambini, continuavano a ribadire freneticamente la stessa frase.

“Sono loro!”
“Chi loro?” chiese Yuri Plisetsky. Aveva il tono di una persona che aveva raggiunto il suo punto di sopportazione per quel giorno, la settimana e probabilmente tutto il mese.
“I bambini!”

Questa volta fu Yuri Plisetsky ad esplodere. Come spesso accade, lo fece all’improvviso e nel momento sbagliato.

“Basta!” Esclamò, le guance rosse di collera, il sentimento alimentato dalla frustrazione che aveva provato il giorno prima. Behrooz, parlando un poco in inglese e affidandosi un poco a Otabek perché traducesse, cercò di calmarlo, dicendo che aveva riconosciuto due dei bambini che Leo de La Iglesia aveva preso sotto la sua ala. Poteva solo significare che gli altri non erano lontani, dato che il Sergente de La Iglesia non avrebbe mai abbandonato un bambino, ne era sicuro. Plisetsky strinse i pugni.

“Come faccio a sapere che stai dicendo la verità? Piantala con questa farsi. I primi due ragazzini che vediamo e improvvisamente li conosci? “ gridò, l’inglese appesantito dal suo accento

“Yuri, per favore!” Intervenne Otabek.

Gridando che non voleva ascoltare, Plisetsky fece un passo indietro. Un piede non incontrò altro che aria. L’altro scivolò sulla liscia roccia.

Precipitò sotto i loro occhi.

“No!”

Otabek scattò in avanti. Saltò, tendendo il corpo, ma il suo gesto fu inutile. O, arrivò troppo tardi. Qualcun altro aveva già agito.

Behrooz stava disteso sul ventre, la parte superiore del suo corpo sporta all’abisso; Una mano era chiusa attorno al bordo del precipizio, l’altra era stretta intorno al polso di Plisetsky.

“Resisti!”

Ansimò, il viso contorto nello sforzo per sostenere il corpo del Capitano Plisetsky. Plisetsky calciò l’aria, cercando inutilmente di trovare un appiglio sulla parete. Non c’erano sporgenze abbastanza grandi per la punta dei suoi stivali ad adattarsi dentro. Una mano era agganciata a quella di Behrooz. L’altra graffiava alla cieca sulla roccia. Il palmo sudato scivolava contro la parete. Sentì la sua mano diventare scivolosa.

“Cazzo, fa male! Che state facendo? Aiutatemi!” gridò. il tentativo più recente, ma inutile di Behrooz di tirarlo su gli aveva causato una fitta di dolore alla giuntura tra collo e spalla. Del resto Plisetsky era troppo pesante perché un vecchio potesse riportarlo da solo al sicuro.


Come destati dalle proteste di Plisetsky, infine Georgi e Otabek si mossero. Formarono una catena umana. Otabek afferrò Behrooz per la vita e tirò. JJ e Victor vennero presto ad aiutarli. Tirarono di nuovo. Tirarono finché Plisetsky non fu di nuovo al sicuro sul piccolo spiazzo sul bordo del burrone.
Stava ancora maledicendo il mondo a denti stretti, il braccio sinistro che sosteneva il destro. Dopo un po ‘ mosse con attenzione una spalla con un movimento circolare e accolse la scoperta che non era dislocata con un sorriso di sollievo.
Fece un po’ di stretching. Poi notò lo sguardo di Otabek. Si voltò verso Behrooz.
“Ascolta”, cominciò, la testa un po’ china e la voce più incerta del solito. “Grazie di avermi salvato.”
L’uomo rimase in attesa, senza dire una parola. Yuri fece un respiro profondo. Lo sforzo di dover ammettere i suoi errori era ben visibile. Il suo faccia si contorse nel tentativo di reprimere il proprio orgoglio.
“Ero-”
Behrooz alzò il mento come invito a continuare. Yuri conficcò le unghie nei palmi.
“Mi sbagliavo, va bene? Ma avevo i miei motivi e ... “, ma la mano di Otabek sulla spalla lo fece tacere. Comprendendo il messaggio, Yuri Plisetsky respirò nuovamente e si costrinse a scusarsi senza altri se o ma.

“Scusami, ti avevo giudicato male.”

Behrooz non disse nulla per un po’. Rimase lì, con le braccia incrociate e un’espressione soddisfatta sul suo volto. Poi il suo viso rugoso si sciolse in un sorriso. Ebbe un momento di esitazione, prima di allungare una mano perché Yuri Plisetsky gliela stringesse. Il russo lo fece.

“Te l’ho detto, sono un bravo uomo.”
***


Quando Plisetsky si fu calmato dalla paura della caduta, nonostante non lo avrebbe mai ammesso, il gruppo tornò al precedente problema di avvicinarsi al villaggio. Mentre stavano discutendo quante e quale persone fosse meglio inviare in avanscoperta, una voce si alzò sopra le altre. Il tono era di chi pretende di essere ascoltato

“Andrò io .”

Sei teste si alzarono verso JJ. Nei giorni passati la sua presenza era stata utile, ma non essenziale. Yuri doveva ammettere che si era spesso chiesto quali fossero i punti forti del Sotto-tenente Leroy, oltre ad essere in grado di riparare un camion in panne e raccontare orribili barzellette. Si sarebbero pure dimenticati di lui se fosse possibile, con JJ che continuava a ricordare loro quanto fossero fortunati ad averlo vicino. Plisetsky sembrava sempre sul punto di ucciderlo, quando non stava dirigendo il suo odio verso Yuri. Tuttavia, non c’era dubbio che Jean-Jacques Leroy fosse un soldato ben addestrato, proprio come tutti loro, nato e cresciuto in una famiglia con una forte tradizione militare, se Yuri ricordava correttamente.

Inoltre, probabilmente JJ era quello che tra loro stava meglio, almeno psicologicamente. Così, la possibilità di lasciargli il campo libero divenne alquanto allettante.

Dopo un momento di riflessione, Victor convenne: “D’accordo. Ma non posso lasciarti andare da solo.” Si rivolse verso Yuri, quasi meccanicamente. L’uomo provò un’ondata di pensieri e di sentimenti contrastanti, ma li represse con la medesima velocità con cui erano apparsi.

“Hai ragione, Generale. Vado con lui “ si offrì. Contrariamente a JJ e Michele, conosceva Leo e la sua squadra, e possedeva alcune vaghe informazioni sulla loro missione, di cui i sovietici non erano a conoscenza.

Aveva la sensazione che questo avrebbe potuto essere utile.
***

Con le mani sul fucile, Yuri e JJ si diressero verso il sentiero in salita. Il villaggio era ormai chiaramente visibile a occhio nudo. Un gruppo di case color ocra, non diverse da quelle in cui si erano già imbattuti durante il loro viaggio, comparve davanti ai loro occhi.

Due donne stavano camminando nella loro direzione, ognuna con un secchio poggiato contro l’anca. Erano vestiti con modesti abiti, con lunghe tuniche marrone fatte per nascondere qualsiasi forma. Avevano le teste avvolte in hijabs, ma i volti erano esposti. Appena Yuri le notò, afferrò il polso del Sotto-tenente Leroy per trascinarlo dietro alcune rocce. Gli ultimi avvenimenti lo avevano prosciugato di ogni energia. Lo stesso, però, non si poteva dire di JJ. L’uomo si liberò e quasi corse verso le donne.

“No! Aspetta, non possono “

Parlare con gli estranei.

Yuri cercò di avvisarlo.

Troppo tardi. JJ aveva già abbandonato il proprio nascondiglio e ora stava camminando verso le donne, un ampio sorriso che si estendeva sul suo viso. Yuri sbirciò attraverso le dita sperando che il provenire da una famiglia militare avesse insegnato a JJ come affrontare una simile situazione.

“Io e il mio amico” esordì JJ . Yuri represse l’istinto di schiaffarsi una mano in fronte. Col suo nascondiglio ormai rivelato, non ebbe altra scelta se non farsi vedere a sua volta.

Lanciò un’occhiata di supplica a JJ, sperando che il buon senso potesse essere trasmesso attraverso lo sguardo.
“Se potevate aiutarci” continuò JJ, parlando in un rapido inglese con un certo accento canadese. Yuri si domandò se JJ avesse effettivamente considerato la possibilità che le due donne che parlassero la sua stessa lingua.

I suoi dubbi ebbero vita breve. Una delle due donne aveva appena raccolta una pietra e l’aveva gettata contro JJ, strillando. La sua amica la imitò.. Col braccio già sollevato, notò Yuri. Mirò alla testa e lanciò il sasso che colpì Yuri alla tempia, forte. Non fu sufficiente a mandarlo KO, ma lo fece comunque sanguinare. D’istinto Yuri incrociò le braccia sopra testa per proteggersi. Qualunque fosse la ragione - forse avevano offeso le donne senza saperlo, forse le avevano spaventate, forse il villaggio aveva cambiato alleanze nei giorni precedenti - era chiaro che presso quel villaggio loro due non erano i benvenuti

E forse era stato lo stesso per Leo e gli altri. Il primo pensiero, però, che Yuri ebbe fu di afferrare il polso di JJ e suggerire una non-così-velata ritirata.


Mentre Yuri e JJ scappavano dalle due donne, in un modo non tanto virile, dovevano ammetterlo, Victor e Georgi, che si erano separati dal resto del gruppo per esplorare un po’ l’area, si trovavano davanti a un soldato vestito con una polverosa uniforme dell’esercito americano che sembrava avere tutte le intenzioni di sparare a qualsiasi cosa si muovesse.

“Fermi là” gridò lo sconosciuto, il fucile sollevato e puntato verso cuore di Georgi. Victor tolse la sicura al suo fucile. Lo sconosciuto spostò il proprio verso di Victor e di nuovo su Georgi. Gli occhi spuntavano da sopra il pezzo di stoffa che gli nascondevano la bocca. Se aveva riconosciuto Victor dalla sua fama, non mostrò segno di averlo fatto. O, se lo aveva riconosciuto, ciò aveva solo aumentato il suo stato di allerta.

Le sue mani tremavano intorno all’impugnatura del fucile. Il sudore gli imperlava la fronte e il suo piccolo naso. Aveva gli occhi a mandorla, ora strizzati nella luce del sole basso sull’orizzonte. I raggi rossi dipingevano forme astratte su metà del suo corpo.

“Ragazzi, gli abitanti di questo villaggio ...” alle loro spalle giunse una voce familiare

Tutti loro, sconosciuto incluso, sollevarono lo sguardo verso JJ che stava correndo giù per il sentiero. Yuri seguiva a breve distanza, tenendosi una guancia.

“Sono pazzi” JJ concluse la frase. Si fermò bruscamente davanti alla scena che si stava svolgendo sotto i suoi occhi. Al suo fianco Yuri pareva più perplesso che preoccupato, se l’uniforme americana della nuova pedina significava qualcosa. Infatti, sotto lo strato di polvere, i capelli lunghi dello sconosciuto e quel lievissimo accenno di barba erano stranamente familiari.

Gli occhi dello sconosciuto si illuminarono di interesse non appena notò la presenza di Yuri. Abbassò lentamente il fucile. Mormorò un solo nome; solo due sillabe.
“Yuri?” domandò, facendo un passo avanti.
“Guang-Hong?” chiese Yuri, inclinando la testa come a voler vedere la scena da un diverso angolo.
Lo sconosciuto scostò lentamente il pezzo di stoffa, rivelando un volto minuto da bambino. Ciuffi castani coperti di sporcizia cadevano sugli occhi color nocciola.
Annuì. Un attimo dopo Yuri lo costrinse a lasciar la presa sul fucile con un abbraccio spaccaossa.

Note: Gioia e giubilo. Almeno uno della squadra di Leo è vivo. Facciamo le somme: Emil e Phichit sono morti; Michele è andato; Yuri è ancora più andato; Plisetsky per poco non si faceva un volo giù dal dirupo; Victor sta contando i giorni come un condannato al patibolo. Ma almeno Guang Hong è vivo.
Alzino la mano, tra quelli che non hanno letto il capitolo in inglese, che si immaginavano che Yuri si sarebbe azzuffato con Yurio. Nemmeno io.

Yurio intende "compagno" non nel senso di partner, ma nel senso di comrade, secondo l'accezione sovietica.
Nel prossimo capitolo: la missione è conclusa ed è il tempo delle risposte e di tirare le somme. Qual era la vera missione della squadra di Leo? Cosa è andato storto?
La tregua volge agli sgoccioli, le strade stanno per ri-dividersi. Ma Victor potrebbe non essere pronto a dire il suo addio.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Il Successo Può Essere Amaro, Caro ***


Il Successo Può Essere Amaro, Caro

La missione assegnata al Sergente de la Iglesia non era stata etichettata con un alto livello di pericolo. Certo, a Leo e ai suoi uomini era stato raccomandato di prestare attenzione all’ambiente circostante e di non scordare mai che avrebbero attraversato un territorio nemico. Tuttavia la missione era parsa facile, almeno sulla carta.

L’obiettivo era raggiungere un villaggio dove, secondo certe voci la cui fondatezza era parsa sufficiente, il capo avrebbe potuto rivelarsi un utile alleato.
Ma, del resto, quando mai la realtà ha rispettato un piano?

Così, nemmeno quattro giorni dopo l’inizio della missione, gli uomini di Leo si erano imbattuti in cinque bambini che frignavano perché si erano persi. Leo aveva il cuore tenero e prestò poca attenzione a chi sosteneva che avrebbe potuto trattarsi di una trappola. Al contrario ordinò di condividere alcune delle loro razioni con i bambini, affidandosi a Behrooz per scoprire da quale villaggio provenissero. Stabilito che avrebbero potuto aiutare i piccoli a tornare a casa con solo una piccola deviazione, ripresero la loro marcia.

Il giorno seguente la squadra di Leo era incappata in un’imboscata. Un uomo fu ucciso sul posto. Anche uno dei bambini fu ferito. Sarebbe morto poco dopo. Behrooz fu preso dal panico e fuggì. Leo e i sopravvissuti, scappando per non essere falciati, si ritrovarono soli in un territorio crudele e su un sentiero che conoscevano a malapena.
Decidere di aiutare i bambini, però, si rivelò la scelta giusta. La bambina più grandicella, la stessa che Yuri e gli altri avevano visto non molto tempo prima, conosceva molto bene la strada che portava al villaggio cui Leo era interessato. Il suo aiuto, aggiunto ai pezzi di informazioni che Behrooz aveva fornito prima di fuggire, fu sufficiente perché la squadra riuscisse a non perdersi.

Inoltre Leo era così desideroso di concludere la missione e portare ciò che rimaneva della sua squadra al sicuro, che li fece proseguire a marce forzate. Ordinò anche ai suoi uomini di portare i bambini e lo fece egli stesso quando le loro gambe corte non poterono più tenere il passo degli adulti. Soprattutto, nonostante le proteste di Chris, si rifiutò di smettere di ignorare il dolore causato dalla ferita fresca che aveva nell’addome. Quando questa s’infettò, strinse semplicemente i denti e si appoggiò a Guang Hong per avere un sostegno.
Leo de la Iglesia collassò prima che passassero altri tre giorni, cadendo a terra a poche miglia dal paese. Morì nelle ore successive, febbrile e delirante. Gli altri fecero l’unica cosa che poterono: seppellirono il corpo, registrarono le coordinate e procedettero. Era stato detto loro che il villaggio era controllato da una tribù locale che simpatizzava con un gruppo di mujaheddin. Si credeva che avrebbe potuto fornire un supporto valido nella lotta contro i sovietici.
Perciò nessuno tra gli uomini di Leo era pronto a essere accolto da una raffica di proiettili ai confini del paese.
Uno di loro fu ucciso proprio lì, sul posto. Sotto ordine di Chris, i sopravvissuti - tre, esclusi lui e Guang Hong - si ritirarono.
A quanto pareva - come avrebbero scoperto presto - l’ex capo era morto, lasciandosi dietro un figlio troppo debole per conservare il potere. Era rimasto in carica appena un giorno prima di venire ammazzato da una tribù rivale. Dal vuoto di potere un altro uomo aveva preso il controllo. Il nuovo capo auto-nominatosi aveva fatto leva sulla rabbia e l’orgoglio dei paesani per fomentare l’idea che chiunque altro fosse un nemico e incoraggiò la sua gente a chiudersi in un totale isolamento.
Trascorsa un’altra lunga notte di riflessione e di discussione, Christophe aveva deciso di trovare riparo in una caverna che aveva scorto nelle vicinanze, lanciare un segnale di soccorso via radio e aspettare.
Nelle loro condizioni cercare di tornare sarebbe stato un suicidio; erano in un territorio che conoscevano a malapena, soldati americani che non avrebbero dovuto trovarsi lì.
Sarebbe stato un suicidio considerando anche quanto poca acqua e razioni militari erano rimaste; abbastanza per sopravvivere se non si muovevano - Guang Hong aveva scoperto un torrente non ancora secco a poche miglia di distanza - ma troppo scarse per coprire distanze più grandi.

Preoccupati e indecisi su cosa fare, dopo un altro periodo di tormentata riflessione, Christophe decise di mandare i due bambini più grandi ad indagare. Non tornarono. A volte, tuttavia, li si potevano vedere gironzolare in lontananza. Fu almeno qualcosa che fece sperare a Chris che non fossero tenuti prigionieri. Per quanto riguardava i due bambini più piccoli che erano con loro, semplicemente sgattaiolarono via sotto i loro occhi per correre contro le gambe di una donna che in quel momento passava di lì con il proprio figlioletto legato alla schiena. A quanto pareva non tutti gli abitanti del villaggio erano ostili - o forse veniva da qualche altra parte - perché, dopo aver esaminato e ascoltato i bambini, li prese ciascuno per una mano e li condusse via. Chris li seguì con lo sguardo finché non divennero piccoli come puntini sulla carta.
A volte uno dei bambini che avevano mandato la prima volta, l’unica ragazza del gruppo, una sorella dal fare materno che aveva sempre il fratellino attaccato alle gambe, usciva di nascosto dal villaggio e portava loro da mangiare. Tuttavia, ogni volta che cercavano di chiedere informazioni sulla situazione, si scontravano con un silenzio pieno di paura. Eppure sembrava ben nutrita, pulita, e non mostrava alcun segno visibile di essere stato picchiata. E comunque, nella loro situazione avrebbero potuto fare ben poco per aiutarla.
Soprattutto, col passare dei giorni, le speranze che qualcuno venisse a salvarli si riducevano sempre più. Alcuni dei sopravvissuti divennero inquieti.

“Umm, Yuri, non riesco a respirare!”
Era forse la terza volta che Guang Hong cercava di sottolineare questo fatto, alzando la voce a ogni tentativo, ma Yuri non aveva ancora mostrato alcun segno di volerlo lasciarlo andare.
“È qualcosa che fa normalmente?” Chiese Victor a JJ in un sussurro. JJ scrollò le spalle, perplesso tanto quanto Victor.
“Yuri!”
Questa volta l’esclamazione fu accompagnata dalla sottile minaccia di un calcio nei testicoli. Sospirando Yuri liberò Guang Hong. Guang Hong barcollò un poco e si guardò intorno. Un diluvio di domande eruttò dalla sua bocca, un fiume che poteva essere riassunto con un “perché sei qui” e un “perché sei con i sovietici?”
“È una lunga storia” rispose Yuri. Guang Hong annuì. Guardò con avidità la borraccia di Yuri mentre i suoi occhi andavano su e giù. Yuri gliela passò. Guang Hong deglutì l’acqua in lunghi sorsi, ignorando del tutto il consiglio di rallentare.
“Soldato Katsuki, comprendo l’importanza di questo momento, ma non possiamo rimanere qui” intervenne Georgi. Tutti gli altri annuirono il proprio accordo.
“Vero, dobbiamo avvisare gli altri. Hai detto che c’è stato un problema con il villaggio? Dovremo discutere della situazione” riassunse Victor. Mentre la sua voce si riduceva al silenzio, Guang Hong afferrò il braccio di Yuri.
“È quello che penso?” sibilò, camminando lungo il sentiero. Yuri scrollò le spalle.
“Dipende. Cosa pensi?”
“Che Victor Nikiforov ha appena parlato con noi!”
“Allora, sì, è quello che pensi.”

Ci fu una pausa, un silenzio pieno di curiosità repressa, nell’angoscia che impregnava il momento. Certo, avendo trovato qualcuno della squadra di Leo, la missione non si era dimostrata un completo fallimento. Eppure, nessuno osava nemmeno immaginare che fosse tutto finito lì. Soprattutto, considerando come gli abitanti del villaggio avevano trattato Yuri e JJ, soldati in uniforme dell’esercito americano che avrebbero dovuto essere alleati. Tuttavia erano in guerra e le alleanze potevano cambiare rapidamente come il vento. Poi c’erano Yuri, Otabek, e il prigioniero che erano rimasto e con cui il gruppo doveva riunirsi.
Yuri fece un respiro profondo. Un passo alla volta.
E il primo passo, apparentemente, fu quello di rimettere insieme la squadra.
“Rimanere qui non è sicuro. Torniamo indietro!” Ordinò Victor, cominciando a camminare lungo il sentiero. Tutti gli altri lo seguirono in fretta. Yuri si tenne vicino a Guang Hong, felice di vederlo provato, ma vivo e tutto sommato in salute.
“E gli altri?” chiese finalmente Yuri. Guang Hong rallentò il ritmo, una nuova pesantezza nelle sue parole.
“Eravamo otto. Uno è stato ucciso nell’imboscata. Leo è morto pochi giorni dopo, setticemia. Gli altri hanno disobbedito agli ordini di Chris di rimanere uniti e hanno disertato un paio di giorni fa. Siamo solo io e Chris adesso”, riepilogò con voce monotona, come se stesse ripetendo un rapporto militare. Yuri ascoltò in silenzio.
Gli fece perdere contatto con la realtà per una frazione di secondo. Le informazioni, però, erano lontane, come se destinate a qualcun altro. Leo era morto, proprio come Phichit, come Emil, come il soldato Yegorov, come tutti i soldati in quella giungla boliviana. Ma la morte suonava come un sogno, una leggenda in una terra lontana. La morte era solo una parola, un suono e inchiostro su carta. Significava tutto e niente
Leo era morto. Phichit era morto. Guang non aveva chiesto a Yuri notizie sul Caporale Chulanont. Yuri temeva quel momento. Deglutì, indeciso se dire subito a Guang Hong la verità o se aspettare un momento più tranquillo. Non che ci fosse un momento giusto per dire a qualcuno che un caro amico era saltato in aria. Nel ricordare il fatto Yuri sentì lo stomaco torcersi.
Qualsiasi altro possibile pensiero sull’argomento fu bloccato sul nascere dalla voce severa di Plisetsky che li stava aspettando. C’era una familiare rabbia nel suo tono, qualcosa che Yuri aveva imparato ad accettare come parte della personalità dell’uomo. C’era anche una nota di preoccupazione e di sollievo. Ora Yuri non aveva dubbi che Plisetsky si preoccupasse per tutti. I suoi modi bruschi erano solo il suo modo di mostrarlo.
“Per favore, dimmi che non ho aspettato per niente!” sbuffò verso Victor.
L’uomo scosse la testa. “Negativo” e mentre lo diceva, sollevò l’indice verso Guang Hong. Plisetsky strizzò gli occhi.
“Sergente de la Iglesia?” domandò, abbastanza forte perché Guang Hong lo sentisse.
“Soldato semplice Ji” rispose Guang Hong. Plisetsky corrugò la fronte, frugando nei suoi ricordi per associare alcuni dettagli a un nome che non sentiva per la prima volta. Quando ricordò, non più di dieci secondi più tardi, annuì il proprio riconoscimento.
“È...” Victor gli lanciò un’occhiataccia: “Sei l’unico sopravvissuto?” riprese Plisetsky parlando direttamente a Guang Hong. L’uomo ripeté quello che aveva detto a Yuri. Mentre parlava, lo sguardo si muoveva di qua e di là, finché non si fermò su Otabek e Behrooz, in attesa a un paio di metri di distanza. Sentendosi osservati, ricambiarono lo sguardo. Non ebbe nemmeno il tempo di sbattere le palpebre che Behrooz aveva coperto la distanza e ora stava in piedi di fronte a Guang Hong.

Aprì la bocca, ma se fosse per scusarsi di averli abbandonati o per dire qualcos’altro, nessuno lo seppe perché l’intervento di Victor lo interruppe.

“Puoi guidare me e il Soldato Katsuki al Maggiore Giacometti?” Chiese Victor. Guang Hong cominciò a muoversi, gesticolando per invitare il Generale a seguirlo.
“Nel frattempo, confido che il Capitano Popovich e il capitano Plisetsky trovino un piano per condurci tutti al sicuro!” aggiunse.
“Vengo con te!” gli disse Plisetsky. Vittorio accettò senza ulteriori remore, limitandosi a lanciare a Georgi un’occhiata significativa.
Guang Hong li condusse lungo un sentiero secondario fino a una grotta semi-nascosta che egli e Giacometti avevano eletto a loro rifugio. Della cenere indicava i resti di un fuoco acceso di notte per tenerli al caldo o bollire l’acqua. Impronte di stivali erano sparse su tutto il pavimento coperto di sabbia, tra qualche pacchetto di cibo ormai vuoto. Una radio forse rotta ronzava in sottofondo.

Il Maggior Giacometti invece stava aspettando davanti alla grotta, un fucile armato e puntato verso l’esterno. Guang Hong, che aveva detto agli altri tre uomini di aspettare un momento, gli fece segno di abbassarlo. Giacometti lo fece con sospetto nei suoi occhi. Proprio come era accaduto con Guang Hong, stava diventando paranoico.
“È tutto a posto!” lo rassicurò Guang Hong, forzando allegria nella sua voce. “Ci hanno trovato!” continuò. Come se si fosse trattato di un segnale, Yuri si avvicinò. Vedendo la sua uniforme, il viso di Chris s’illuminò.
Poi Plisetsky imitò Yuri - Chris curvò un dito sul grilletto. Yuri spiegò in fretta che i sovietici, in via straordinaria, erano dalla loro parte.
Infine arrivò Victor. Di fronte a un vecchio amico di cui aveva da tempo perso le tracce, Chris si trovò senza parole. Egli e Victor stettero lì, in silenzio.
Christophe fu il primo a romperlo.
“Victor Nikiforov, è passato molto tempo” esordì, avanzando, le braccia incrociate sul petto.
“Davvero molto tempo” ammise Victor, timidamente.
“Venti anni” sottolineò Christophe, le braccia ancora incrociate. “Guardati, dove è andato a finire il vecchio Vitya?”
“Potrei farti la stessa domanda.”
Christophe sollevò un sopracciglio. “Non sono mai andato da nessuna parte. Non dimenticarlo.”
Non mostrò alcun segno di voler districare le braccia.
“Ascolta, Chris, mi dispiace. Volevo scriverti, ma mi conosci. Sai quanto sia pessima la mia memoria” le scuse di Victor suonavano più come una supplica.
“Sì, lo so troppo bene” ammise l’altro. Poi, per grande sorpresa e sollievo di Victor, scoppiò in una risata. Circondò Victor in un abbraccio da orso.
“Mi sei mancato, amico mio” esclamò Chris, dandogli delle grandi pacche sulla schiena. Stava per chiedere notizie sulla sua vita, quando il tossicchiare discreto di Katsuki e le urla più irate di Plisetsky attirarono la loro attenzione.
“Buon Dio. Ora possiamo concentrarci? Non vedo l’ora di porre fine a questo casino” gridò il primo.
Poiché le preoccupazioni di Yuri Plisetsky erano fondate, si affrettarono a riunirsi con chi era rimasto indietro e mettere qualche miglia tra loro e il villaggio.

Tra una cosa e l’altra, il tardo pomeriggio arrivò presto, con il sole che già scendeva sull’orizzonte, lontano nel cielo occidentale. Era stata una giornata piena di eventi, dalla lotta tra i due Yuri a Plisetsky che per poco non si era fatto un volo di cento metri nel vuoto. Senza considerare l’ondata di emozioni causata dal fatto che solo Guang Hong e Chris erano sopravvissuti, mentre Leo non era stato così fortunato. Tutto sommato, a Yuri pareva che fosse più tardi di quanto indicassero davvero le lancette.
“Sai. È stata una sorpresa non vederti con Phichit” iniziò Guang Hong, una mano amichevole sulla spalla di Yuri. Yuri ebbe un sussulto. Sentì la bocca seccarsi e le lacrime pizzicare agli angoli degli occhi
“Voglio dire, eravate quasi inseparabili” continuò Guang Hong, il tono di una persona che finalmente si lascia andare dopo un lungo periodo di tensione.
Yuri si sentì soffocare. Le parole gli si bloccarono in gola. Lo strozzavano
“Il Caporale Chulanont è morto ieri” intervenne Plisetsky. Guang Hong lo fissò. Guardò Yuri come se si aspettasse una confutazione.
“Cosa?” Esclamò, lentamente. Ogni lettera grondava della speranza di una contraddizione.

“Gli ho sparato io” sottolineò Plisetsky. Guang Hong afferrò Yuri per le spalle. Le sue dita agitate scavarono nella carne. Lo scosse.
“Cosa sta dicendo? Perché stai con questi uomini? Cosa sta succedendo?”
C’erano lacrime negli occhi di Guang Hong.
Guardarli faceva male. Ha fatto schiacciare il torace di Yuri. Quando parlò, la sua voce era piatta, come se stesse ricordando qualcosa successo a uno sconosciuto.
“Ha dovuto farlo. È stato per pietà. Phichit aveva calpestato una mina. Non sarebbe sopravvissuto. Lui ...” non poté continuare. Tirò su col naso.

Il tema più pressante era di certo decidere come separarsi e riportare ogni gruppo al sicuro. Siccome l’Armata Rossa era ancora in territorio afghano, imbattersi in soldati americani avrebbe avuto effetti disastrosi. Di ciò erano stati ben consapevoli per tutta la durata della missione. Era quindi indispensabile che gli americani lasciassero il Paese appena possibile.

Il Capitano Popovich, che nonostante la sua animosità verso Victor, aveva effettivamente obbedito al suo velato ordine di pensare a un buon piano per risolvere la situazione, stava ancora discutendo con Otabek e Michele per prepararsi per quanti più eventi imprevisti possibile. Aveva suggerito agli americani di raggiungere il confine pakistano, dicendo che una volta attraversato, sarebbero stati al sicuro; più al sicuro di quanto non fossero allora, almeno. Il problema era come raggiungerlo. Camminare fino al confine era fuori questione. Né potevano usare veicoli militari. Chiamare via radio un elicottero per raccoglierli era un’opzione ancora meno percorribile. Quanto più discutevano, la mappa a portata di mano, più si sentivano perduti. Victor, rimanendo fedele alla sua fama di essere uno stratega, suggerì di usare macchine civili. La proposta fu accolta da un mormorio di assenso. Tuttavia il vero come fu lasciato a ulteriori dibattiti.

“C’è un villaggio neutrale qui a valle. Tre giorni di cammino al massimo. La strada sarà in discesa” intervenne Behrooz ad un certo punto, dopo l’ennesima discussione inutile. Parlò in un inglese incerto, dando a Otabek la responsabilità di tradurre le parti in Pashtu e, così facendo, indicò il percorso sulla mappa.
La promessa di un compenso, forse un pizzico di corruzione, avrebbero garantito loro una macchina o due con cui viaggiare fino al confine. Behrooz continuò poi suggerire ciò che, come locale, considerava la strada più sicura al confine. Ancora una volta l’ha tracciato sulla mappa.
Il sentiero verso la valle fu per Yuri una vago ricordo. Behrooz li guidò su nuove vie, scorciatoie nascoste e rapide, lungo le quali corsero quasi senza interruzioni per due giorni. I muscoli di Yuri gridarono di dolore e i polmoni bruciarono. Sentì l'intorpidimento strisciare sotto pelle.

All’alba del terzo giorno, raggiunsero un punto in cui il sentiero si biforcava. Da un lato scendeva fino alla valle. Dall’altro curvava di nuovo in salita lungo un sul pendio. Come spiegato da Behrooz, riscendeva nuovamente a pochi chilometri di distanza.
“Il villaggio è a circa quindici miglia nell’entroterra” precisò. Yuri annuì. Sovietici e americani si fissarono a vicenda. Il tempo dei saluti era arrivato. Questioni ancora lasciate in sospeso richiesero improvvisamente la loro attenzione. Una di esse era il destino di Behrooz.
Yuri aveva promesso ingenuamente - assicurato - che Behrooz avrebbe rivisto presto la sua famiglia, ma si era trattato di secoli prima. Guardò i sovietici, diventati così familiari in poco più di una settimana. Distolse lo sguardo da Victor perché gli faceva male al petto, saltò Georgi e si fermò sull’altro Yuri.
Rimasero lì in uno scomodo silenzio. Fu Behrooz a romperlo. Fece un passo verso Plisetsky e, mentre lo faceva, Yuri notò come la sorveglianza sull’uomo fosse diventata sempre meno rigorosa di giorno in giorno. Il capitano Plisetsky aveva da tempo smesso di lanciare minacce sulla vita del prigioniero.
Così, quando le loro strade si separarono, Yuri non seppe che tornando alla base sovietica, Plisetsky girò la testa dall’altra parte, mormorando a a Behrooz di correre e non guardare indietro. La storia ufficiale fu che era morto cadendo in un crepaccio.
“Beh, lo so che è strano da dire, ma grazie di tutto” ripeté Yuri, non riferendosi a nessuno in particolare. Né si aspettava una risposta o quel genere di promesse che accompagnano sempre il salutare un buon amico. Infatti, senza dire una parola, Yuri Plisetsky gli diede la schiena e si avviò, il tacito segnale che per gli altri era giunto il il momento di seguire il suo esempio. Presto il Tenente Altin fu al suo fianco, Behrooz un poco avanti. Il Capitano Popovich sembrò ruminare su qualcosa da dire, ma alla fine scartò l’idea che gli aveva attraversato la sua mente.
Solo Victor non si mosse. Al contrario, si avvicinò a Yuri, annunciando che li avrebbe accompagnati fino al villaggio e al confine pakistano. Fece poi orecchie da mercante alle proteste di Plisetsky su quanto fosse pericoloso.
“Sono sotto la mia responsabilità” affermò. La sua voce aveva un suono severo e duro che Yuri aveva imparato a riconoscere, quello dedicato alle occasioni in cui Victor non concedeva alcuna mancanza di rispetto alla sua autorità. Era il tono che aveva usato durante la tempesta di sabbia. Era il tono di quando voleva usare il potere che gli derivava dall’essere il fiore all’occhiello dell’Armata Rossa.
Avrebbe accompagnato gli americani fino al confine e oltre, lasciandoli solo quando era sicuro della loro sicurezza.
“Capisci che non sono dei bambini, vero?” Esclamò Plisetsky. “Non sono cadetti che non hanno mai fatto una missione in solitaria!”
Victor rispose che, sì, era ben consapevole del fatto che Plisetsky aveva così gentilmente sottolineato. Questo, tuttavia, non cambiava nulla. Aveva preso la sua decisione e Yuri Plisetsky era libero di pensare che si trattasse di una supplementare misura di sicurezza, se lo desiderava. Coì Victor gli disse quando l’altro lamentò di dover trovare una buona scusa per giustificare l’assenza di Victor.
“Sicurezza per cosa? Alla base nessuno a parte di Yakov sa di loro,” indicò in fretta Yuri e gli altri - “Sanno solo che siamo partiti per consegnare il prigioniero e fare un po’ di addestramento sul campo.”
“Allora dovrai inventarti qualcos’altro. Hai un sacco di tempo, Capitano “disse Victor, in un tono che non ammetteva repliche. I suoi occhi lanciarono Plisetsky un’occhiata quasi di supplica. Non era il Generale che parlava, ma l’uomo, quel Victor Nikiforov, che si era innamorato nel momento sbagliato con un uomo che non avrebbe dovuto amare. Non aveva detto a Yuri nulla sui suoi sentimenti per dimostrare rispetto verso suo dolore; quell’ultimo viaggio poteva essere la sua ultima occasione. Plisetsky lo accettò in silenzio.
“Bene!” gridò.
“Spero che i camion che abbiamo lasciato siano ancora lì e funzionanti” gli disse Victor. Poi continuò: “Ti manderò un messaggio una volta attraversato il confine.”
Plisetsky sbuffò la sua approvazione.
Per una frazione di secondo, Yuri fu contento per la decisione di Victor per nessun altro motivo se non che avrebbe avuto più tempo per confessare ciò che sentiva il suo cuore. Le sue preghiere silenziose rivolte al vuoto erano state accolte. Poteva avere ancora qualche giorno in più con Victor, godendo anche solo nella sensazione che la sua vicinanza gli provocava. Yuri si sentiva come un morto di fame, e Victor era l’unica cosa in grado di soddisfarlo. Desiderò di poter indulgere in un’altra chiacchierata tranquilla, proprio come quella di poche notti prima e poi un’altra e un’altra ancora. Il suo corpo, le sue mani, il suo volto dolevano per la perdita di quel tocco da cui prima si era schermito.
Poi, mentre Yuri gioiva dell’inaspettata opportunità, ricordò che era stato Phichit a spingerlo a confessare i propri sentimenti. Ricordò che il suo amico non c’era più, quanto orribile fosse la sua morte e tutto il resto. Speranze e desideri crollarono in un opaco nulla. Non aveva alcun diritto di usare il suo tempo supplementare con Victor per i suoi egoistici scopi. L’amore di Victor non era qualcosa di cui fosse degno.
“Non sei così male” l’inaspettato complimento di Plisetsky lo riportò alla realtà. Aveva le mani sollevate a mezz’aria come se non sapesse cosa farci. La mente di Yuri tornò di nuovo al loro primo incontro, quando lo stesso uomo lo aveva preso in giro e dubitato delle sue capacità. Non credeva che Plisetsky fosse completamente cambiato o lo considerasse già un amico, ma certamente qualcosa era diverso. Yuri non sapeva nulla dell’altro, ma lo aveva osservato. Aveva assistito a come Plisetsky era lentamente uscito dal proprio isolamento. Aveva visto il suo muro di reticenza aprirsi a poco a poco.
Negli ultimi giorni, Plisetsky aveva mangiato con loro la sera. Parlava ancora nel suo linguaggio colorito, ma con meno insulti indirizzati a Behrooz o agli americani. La rabbia era mutata in schiettezza e in un forte senso di giustizia. Soprattutto Yuri vide un giovane che teneva la testa e le spalle alte nonostante la grande responsabilità che riposava su di esse.
Qualunque cosa Yuri vide nel suo omonimo, né amico né nemico, non gli impedì di stringere l’altro in un improvviso abbraccio spaccaossa.
“La prossima volta ti farò pagare per questo!” giurò Plisetsky quando Yuri lo lasciò andare.
“Sarò pronto!”
Poi tutto andò avanti veloce.

Siccome era più facile che camminare, praticamente corsero giù per il sentiero, con gli zaini che rimbalzano sulle spalle ad ogni passo. Polvere e piccole rocce saltavano intorno agli stivali quando le suole sbattevano contro il terreno. Essendo i più alti, Victor e Chris erano anche i più veloci. Le loro falcate coprivano quasi due metri alla volta. Per rimanere sul sicuro, si erano disposti in una formazione a colonna, per quanto lo permettessero le dimensioni della strada.
Victor, JJ e Michele coprivano i lati esterni, essendo meno stanchi, almeno rispetto agli altri. Tuttavia, questioni come la formazione da adottare sembravano aver perso importanza quando l’unica cosa che il gruppo desiderava era mettere fine a una missione che, come Plisetsky aveva detto una volta tempo prima, era condannata fin dall’inizio.
Si fermarono a malapena di notte, concedendosi poche ore per prendere il fiato e lasciare che le menti vagassero in uno stato di dormiveglia, ognuno perso nel suo piccolo mondo. Yuri e Guang Hong trovarono conforto nella reciproca compagnia, abbandonandosi ai ricordi di quando erano ancora dei giovani in addestramento, il dolore che si trasformava in malinconia per ogni aneddoto condiviso.
Ti ricordi quando?

Ci furono deboli sorrisi sotto occhi pieni di lacrime.
Non lontano, profili appena visibili nella notte quasi nera, la luna nascosta dietro alcune nuvole di passaggio, Victor e Chris chiacchieravano col calma. Parlarono metà in inglese, metà in francese, con alcune parole russe gettate qua e là come ricordo dei tempi trascorsi insieme a Leningrado durante la loro giovinezza. Non tanto sconosciuti, ma non più amici intimi, tentando ciascuno di raggiungere la persona che l’altro era stato un tempo, cercarono un terreno comune per riempire il divario di vent’anni o ricominciare da capo.
Dove sei stato? Cos’hai fatto? Come siamo finiti così?

Soprattutto c’era una tensione palpabile che crebbe nell’aria a ogni passo, ogni parola. Era la tensione che spesso accompagnava la fine di un compito, quando si osa abbassare la guardia e il disastro colpisce. Quindi, quando il villaggio di cui Behrooz aveva parlato apparve davanti ai loro occhi, iniettati di sangue per il non aver dormito in giorni, nessuno ebbe il coraggio di sentirsi sollevato. Era come una maledizione, l’idea che nel momento in cui avrebbero osato provare gioia, qualcosa sarebbe arrivato a strapparla via.
Scelsero Yuri per approcciarsi agli abitanti del villaggio. Le ragioni dietro a una simile scelta erano molteplici. Dopo Giacometti Yuri era il secondo in ordine di anzianità, non contando Victor, e più esperto di Michele o JJ o Guang Hong.
“Inoltre, hai un talento per gestire la gente”, affermò Guang Hong per rassicurare le sue preoccupazioni inespresse. Forse, aggiunse Guang Hong, era perché Yuri era cresciuto in un resort.
Yuri non ebbe né il cuore né la forza per ricordargli che l’ultima volta che aveva visitato le terme era stato quando aveva diciassette anni, metà della sua età ora. Anche allora tra scuola e le ore trascorse allo studio di ballo, la quantità di lavoro fatto presso il resort era stato minimo.
Eppure Yuri fece un respiro profondo e annuì. Era vero che era stato educato alla cortesia. Anni nel duro ambiente militare non erano stati sufficienti perché Yuri se ne dimenticasse.

Con i locali discusse l’acquisto di due automobili, previa promessa di future compensazioni. Le auto erano vecchie, con la carrozzeria rigata dalla sabbia e una sbuffò fumo nero quando fu accesa. Tuttavia, sembravano funzionare. Yuri negoziò col loro anche per qualche tanica di benzina. Comunicò poi con gli altri via radio per informarli dell’esito positivo della trattativa. Gli abitanti del villaggio furono accoglienti e gentili, così gli altri poterono raggiungere Yuri. Tutti, tranne Victor, perché Yuri ritenne più sicuro non lasciare che gli afgani locali venissero a conoscenza della presenza di un russo nelle vicinanze. Potevano anche essere tranquilli, ma preferiva non rischiare. Quindi Victor fu momentaneamente lasciato indietro, in attesa di essere recuperato una volta che lo scambio per le automobili fu completato. Michele e Chris si assunsero l’onere del primo turno di guida.
Victor nel frattempo aveva riposto la giacca dell’afganka nello zaino per sicurezza. Una volta in macchina, tolse la sicura al fucile, puntandolo verso il finestrino dell’auto, quale ricordo della minaccia che ancora persisteva sulle loro teste.
La cosa che Yuri ricordava di più del viaggio fino in Pakistan fu la sua disperata lotta per non addormentarsi. Sentiva l’esaurimento penetrare fino alle ossa e il detto “troppo stanco per dormire” di certo non si applicava a lui. Al contrario, sarebbe entrato nel dolce abbraccio di Morfeo nell’istante in cui avesse chiuso gli occhi per più di due secondi. I movimenti dell’automobile dalla strada accidentata non lo infastidivano. Invece erano come il dondolio di una culla, che lo ninnava e lo attirava in un sonno a cui non poteva abbandonarsi.
Tuttavia, nonostante i propri sforzi, a volte il sonno aveva la meglio. Allora Yuri si ridestava a ogni buca e roccia con cui l’auto si scontrava. I suoi occhi si aprivano, le mani strette intorno al fucile grazie alla memoria muscolare. Ogni volta che accadeva Yuri si pizzicava le guance e le braccia per tenersi sveglio.
Una volta il corpo di Yuri ondeggiò di lato mentre scivolava involontariamente nel sonno così che la sua testa pesante finisse posata sulla spalla di Victor. Se il Generale sorrise con affetto, Yuri non lo seppe. Si svegliò ancora una volta, scoprendo di avere il viso pressato nell’incavo del collo di Victor, e si profuse in scuse. Si conficcò le unghie nel palmo così forte da far stillare gocce di sangue.
“Non è un problema se dormi un po’ di più” cercò di rassicurarlo Victor, senza successo.
“Dormirò quando sarò a casa” rispose Yuri semplicemente.

Il viaggio durò diversi giorni, guidando quasi senza interruzioni, a parte le soste inevitabili per darsi il cambio per evitare incidenti. Tuttavia, ogni turno durava ore - quello di Yuri fu di sei ore. Durante il viaggio non prestò attenzione ad altro se non alla polvere e alla sabbia sulla strada davanti a lui e alle voci soffocate che venivano dall’autoradio. Talvolta dei villaggi anonimi entravano nella sua visione periferica, ma Yuri si preoccupava poco di loro, più interessato a farsi notare il meno possibile. Ogni volta che un veicolo militare sospetto appariva in lontananza, gli saltava il cuore in gola, solo per ridiscendere nella sua normale sede quando passava il pericolo.
Come se la Dea Bendata avesse finalmente rivolto un occhio gentile su di loro, raggiunsero il confine senza ulteriori complicazioni, sicuri dietro l’apparenza di due vecchie automobili che si facevano gli affari propri nel vasto nulla delle pianure afgane.

Attraversarono il confine in un punto in cui la sorveglianza era più debole. Nel momento in cui passarono la linea immaginaria che divideva i due Paesi, Yuri osò guardarsi indietro un’ultima volta. Poi volse gli occhi davanti a lui, quasi prevedendo una chiara differenza nel paesaggio come prova dell’essere in una nazione diversa. Ma i dintorni non cambiarono affatto: le stesse montagne nude e le colline, le stesse distese coperte di sabbia, gli stessi villaggi e lo stesso filo spinato.
Si diressero verso un aeroporto piccolo e abbandonato non lontano da Quetta, le luci dell’auto che brillavano luminose nella notte stellata. Avevano guidato tutta la notte, il sole stava per salire sull’orizzonte quando finalmente raggiunsero la città. Dopo essere stato seduto per così tanto tempo in uno spazio ristretto, a Yuri facevano male le gambe, tutte un formicolio. Si toccò con attenzione il polpaccio. Il gesto mandò una spiacevole scossa per tutto il resto corpo. Poter finalmente allungare gli arti fu un sollievo. Yuri barcollò nel momento in cui i piedi toccarono l’asfalto.

“Contatterò il Capitano Plisetsky” li informò Victor, dopo aver preso la radio dal baule dell’auto. Piegato sul cofano, con una mappa stesa davanti a lui, tenuta in posizione con il gomito, e una torcia elettrica nell’altra mano, calcolò le coordinate da riferire al superiore dei soldati americani.
“Potete iniziare a trovare un posto dove riposarvi” continuò, puntando un dito verso la struttura in cemento che ospitava il terminal principale dell’aeroporto. Il vecchio parcheggio fuori dall’edificio era ancora metà riconoscibile, le linee sul pavimento sbiadite a causa del sole e dalle piogge occasionali.
L’interno dell’aeroporto era vuoto. Quasi tutto il mobilio era stato portati via o distrutto per l’abbandono e il vandalismo umano. C’erano ancora alcune sedie di plastica attaccate al pavimento dove l’area delle partenze e degli arrivi si era trovata un tempo. Yuri si avvicinò alla più a imitato presto dagli altri. Michele si guardò intorno.
“Pensi che questo posto abbia un gabinetto?” Chiese ad alta voce.
“Be’, è un aeroporto. Dovrebbe.”
“Intendevo un gabinetto che funzioni” chiarì Michele.
Yuri scrollò le spalle. “Penso che tu debba scoprirlo. Non ho grandi speranze, ma sarebbe fantastico. Il mio regno per una doccia “.
Gli altri ridacchiarono.

Il maggiore Cialdini li raggiunse dopo cinque giorni, vestito in semplici abiti civili e guidando una macchina anonima. Sembrava stanco, ma in generale stava bene. Nel vederlo Yuri lasciò che il suo corpo rilassarsi un poco dalla tensione che aveva mantenuto fino ad allora. La possibilità di tornare a casa si diffondeva già in bocca col suo piacevole sapore. Scattò sull’attenti quando il suo superiore si avvicinò. Gli altri fecero lo stesso. Victor si limitò ad annuire.
Il Maggiore si avvicinò, l’espressione indecifrabile. “Vedo che ti sei preso cura dei miei ragazzi!” Disse.
Victor fece una smorfia: “Non abbastanza, temo.”
Più che altro lo feriva vedere il guscio di essere umano che Yuri era sul punto di diventare. I suoi sorrisi stanchi erano vuoti. I suoi occhi erano sempre fissati in un punto lontano come se non volesse affrontare la realtà. Quando rispondeva, lo faceva a monosillabi, gentile ma monotono.

Se una risata sfuggiva mai dalle sue labbra in risposta a una battuta di Guang Hong o Chris, perché anche nel dolore ci può essere spazio per divertimento, una ombra scura calava su di lui nel momento in cui si accorgeva di quello che stava facendo. La tristezza sui suoi tratti era così evidente. Non era la prima volta che Victor vedeva qualcuno nella stessa condizione di Yuri. Sapeva che non era il primo a subire la perdita di un amico, né sarebbe stato l’ultimo. Sapeva anche che un giorno sarebbe guarito, l’immagine del Caporale Chulanont spazzato via da una mina ridotta a un ricordo sbiadito, il profondo senso di colpa trasformato nella volontà di non sprecare la propria vita.
Tuttavia, tale consapevolezza forniva poca consolazione, quando sotto i suoi occhi l’uomo che inconsapevolmente gli aveva restituito la vita stava scivolando lentamente nella profonda fossa della depressione.
Yuri era così diverso dalla persona che si era ubriacata e gli aveva detto ridendo che avrebbe anche fatto la spia per fargli piacere. L’uomo che aveva conquistato l’interesse di Victor era stato un ammasso balbettante che aveva portato luce nel momento più oscuro della sua vita. Era stato una novità e un alito di aria fresca in mezzo a tanti polverosi burocrati. La persona davanti a lui sembrava aver perso la capacità di sorridere. I suoi occhi castani, una volta caldi e scintillanti di vita, fissavano il nulla.
E Victor non era ancora pronto a lasciarlo andare. Alcuni giorni prima, in procinto di attraversare il confine pakistano, Victor aveva abbassato la voce perché Yuri fosse l’unico a sentirlo sul sedile posteriore.
Aveva allungato una mano e l’aveva posata sul ginocchio di Yuri. L’uomo aveva sussultato, ma non aveva né rifiutato né ricambiato il gesto.
“Sai, non devi andare con gli altri. Se vuoi, posso trovare un modo per farti rimanere. Mila lavora per il KGB, posso ottenere un nuovo passaporto, una nuova identità. Posso farti apparire morto. Posso ...” continuò, la voce sull’orlo di una disperata supplica.
Ma Yuri aveva alzato la mano per farlo tacere. Si era agitato sul sedile e aveva distolto lo sguardo. Nonostante i suoi sforzi per nasconderlo, Victor aveva percepito il lieve tremito delle sue membra. Non aveva bisogno di vedere il viso di Yuri per immaginare i denti stretti, i pugni chiusi nell’afferrare la camicia dove batteva il suo cuore. Poteva quasi immaginare quali pensieri stessero vagando nella mente di Yuri.
Gettare via il suo passato per una debole speranza, la vaga illusione che il suo idolo provasse qualcosa per lui. Assurdo.
“Ho una famiglia. Non posso far loro questo” fu la risposta che ricevette alla fine.
Se Yuri aveva mai creduto nei sogni, aveva smesso molto tempo fa, e se era rimasto una scintilla di fantasie, la testa maciullata di Phichit l’aveva spazzata via.
In profondità, Victor non poté che accettare. Pensò alla sua famiglia, a quel padre che lo aveva perseguitato tutta la sua vita e che ora era sottoterra, sotto una lapide uguale a centinaia di altri in un cimitero di Mosca. Pensò alla madre, ancora viva, ma piccola e forte.
“Capisco.”
Non avevano più affrontato l’argomento. Finora
Sapendo di non poter più rimanere in Pakistan, Victor si avvicinò a Yuri quando l’uomo si fu seduto da solo per mangiare alcune razioni. In preda alla disperazione, si chinò vicino a lui e ripeté la propria proposta. Non era il Generale Nikiforov, l’orgoglio dell’Armata Rossa. Era Victor. Era Vitya .Era un uomo innamorato e le persone fanno follie quando sono innamorate.
“Sei sicuro della mia proposta? Abbiamo ancora tempo, se vuoi - "
“Sì, Generale, sono sicuro.”
Victor tacque all’istante. Il fatto che Yuri si fosse rivolto a lui col suo grado quando aveva sperato di essere ormai in confidenza, fu per Victor una doccia gelida.
“Capisco.”
Yuri aveva lo zaino tra le gambe, la tasca anteriore rimasta aperta. Senza dire una parola, Victor fece scivolare un pezzo di carta al suo interno, facendo attenzione a non essere visto da nessuno tranne Yuri.
Yuri non commentò il gesto. Si limitò ad alzarsi e se ne andò senza guardarsi indietro.
“Se non lo avessi visto, non crederei che vi sia saltato addosso, tre anni fa” giunse la voce di Cialdini alle spalle di Victor. Si voltò.
“Neanche io” rispose, distrattamente.
“Sapete, Generale, Katsuki ha sempre parlato di voi. Tenta di essere discreto. Immagino che abbiate notato quanto sia riservato. Ma la sua passione per voi è più visibile di quanto immagini.”
“Sì, l’essere il più giovane Generale nella storia nell’Armata Rossa è una di quelle cose che attira l’attenzione della gente e degli altri soldati” disse Victor. Non c’era emozione nella sua voce.
“Sì, immagino che sia così”.

Victor se ne andò la notte stessa, senza nessun preavviso o ulteriori addii. Avendo informato il Maggiore Cialdini della propria decisione non c’era più bisogno di ritardare la partenza.
“Dov’è Victor?” domandò Yuri il mattino seguente, stropicciandosi gli occhi. Per la prima volta da giorni aveva potuto dormire per otto ore filate e non era abituato a sentirsi intorpidito. Guang Hong stava ancora approfittando degli ultimi minuti disponibili di sonno, mentre JJ e Chris stavano facendo colazione e Michele era al bagno.
“È partito ieri sera” rispose il Maggiore Cialdini. “Sto sistemando le ultime cose per la nostra partenza. Ce ne andiamo domani al più tardi” aggiunse.
Yuri annuì. Poi si scusò per ritirarsi di nuovo nel suo dolore. Dopo il disastro in Bolivia, aveva trovato consolazione pensando che fosse impossibile sentirsi in maniera peggiore di come si era sentito allora. Cavolo se si sbagliava.
Appoggiò la schiena al muro, intontito, poiché il suo cervello ancora immerso nel sonno non riusciva ad afferrare del tutto il senso della partenza di Victor.

“Andato?” ripeté sottovoce, cominciando a vagare per l’aeroporto con la speranza di schiarirsi la testa. Era ovvio che Victor fosse partito, la tempistica era perfetta. Tuttavia nel profondo, Yuri non credeva che sarebbe successo davvero. Una parte di lui era convinta che Victor avrebbe combattuto più per lui. Dopo essere stato una componente immaginaria per metà della sua vita, Victor ne era diventato parte per un caso fortuito. Poi l’aveva abbandonata di nuovo. E nulla era successo.

Victor se ne era andato per sempre. Per sempre fuori dalla portata di Yuri. Aveva avuto l’occasione di una vita e l’aveva sprecata, ma era giusto, era come doveva essere. Non aveva mai avuto alcuna possibilità. Certe persone sono destinate a rimanere sole e Yuri era uno di loro.
Ora Victor era come se fosse morto. Dentro di sé, Yuri non era ancora pronto ad accettare l’idea. Non poteva. Si lasciò cadere sul pavimento, le mani lasciate penzoloni tra le cosce e chinò la testa. Desiderò di poter tornare indietro nel tempo, di poter riavviare tutto ancora una volta, con tutti gli errori e le opportunità sprecate che sfilavano davanti a lui.
Più tardi, in qualche modo, muovendosi come in trance, Yuri salì su un aereo che avrebbe fatto rotta verso casa. Si sedette al suo posto e, con dita tremanti, aprì il foglio che Victor aveva infilato segretamente nella zaino. Era una lettera.
Soldato Katsuki
A: Yuri Katsuki

Mio caro, Caro Yuri,
Spero che mi perdonerai se ti confesso che sono contento di aver avuto la fortuna di trascorrere questi giorni con te. So che potrebbe sembrare inopportuno alla luce degli ultimi eventi - non ci sono parole per esprimere il mio profondo cordoglio- ma questi giorni sono stati veramente i più belli della mia vita dopo un lungo periodo. Li conserverò gelosamente nella mia memoria per tutto il tempo che mi sarà concesso su questa Terra. Sono consapevole che non ti ricordi del nostro vero primo incontro, al banchetto di Ginevra nel 1985, ma lasciami dire che se il prezzo da pagare per quello che la mia vita è diventata era di incontrarti, non cambierei nulla.

Sono un uomo troppo intelligente per confondere l’amore con l’infatuazione e so che gli uomini - soprattutto se vecchi e stanchi come me - amano circondarsi di illusioni per sopravvivere in questo mondo. Ma so anche che l’amore in grado di legare una persona per sempre ad un altro può anche nascere da un infatuazione ben coltivata .
Credo di averti amato sin da notte che ci siamo incontrati.
Purtroppo il Fato non ci aveva concesso le condizioni giuste per coltivare questo sentimento ancora in boccio. Mi rammarica profondamente. Ma il mio amore è stato in ogni piccolo gesto che hai accettato, in tutte le volte in cui hai accolto il mio tocco.

Yuri dovette smettere di leggere perché le parole avevano cominciato a muoversi sulla pagina e la sua vista stava diventando sfocata. Abbassò la testa, portò la lettera al petto, là dove il suo cuore stava battendo più velocemente del solito. Poteva sentirlo pulsare nelle orecchie

Se vivessimo in un mondo diverso, oserei invitarti a cena e sarei già in un aereo diretto in America. O in Giappone. O dovunque tu voglia andare. Invece ci separano una cortina di ferro, una guerra e tanti pregiudizi.

Yuri sentì il suo respiro bloccarsi in gola. Tossì una volta per sbarazzarsi di un groppo immaginario. Poi tossì una seconda volta perché si sentiva la gola stretta. La sensazione era familiare ed estranea allo stesso tempo, come qualcosa che non aveva sperimentato da molto tempo. Yuri portò una mano sotto il mento, sul pomo d’Adamo. Mentre la gola si stringeva, il cuore si faceva pesante. Se la tristezza aveva un sapore, non poteva essere diverso da quello che sentiva in bocca in quel momento.
Subito dopo la morte di Phichit, Yuri aveva provato dolore e disperazione. Ora non aveva altre parole per descrivere la sensazione, se non tristezza. Pura, semplice, necessaria tristezza.

Nella mia arroganza, voglio credere che i miei sentimenti siano ricambiati. Se no, brucia questa lettera e fai di me un ricordo destinato a svanire. Ma se ho ragione, prego di raggiungerti prima che qualcun altro rubi il tuo cuore. Un giorno.
Con affetto,
Victor

Quando infine lesse la firma, Yuri aveva già le lacrime che gli solcavano le guance. Appallottolò la lettera nel pugno. Il suo petto fu scosso da singhiozzi irregolari. Tutte le emozioni che aveva represso nei giorni precedenti, il dolore che aveva cacciato nel profondo dello stomaco, stavano tornando a pieno vigore in quel momento. Fu un’onda che minacciò di annegarlo.
Yuri pianse per Phichit. Piangeva per Leo. Piangeva per Chris e Guang Hong, che avrebbero dovuto imparare a vivere col senso di colpa dei sopravvissuti. Pianse per Emi. Piangeva Michele.
Piangeva per lo straniero che aveva ucciso. Pianse per Yuri Plisetsky e per la sua gioventù rubata. Pianse per Victor, per un destino che era crudele e forse non esisteva neppure, ma era un perfetto capro espiatorio.
Alla fine, pianse per se stesso

Note:
Niente panico, andrà tutto bene.
Quindi la missione è finita, con i suoi alti e i suoi bassi. Qualcuno prova come me una sensazione di nostalgia? Qualcuno sta ripensando ai primi capitoli? Per citare “The Scientist”, “nessuno ha detto che sarebbe stato facile, ma nessuno ha detto che sarebbe stato così difficile.”

Poi ascoltatevi “You are my sunshine” (è un ordine), perché è la colonna sonora perfetta per la fine di questo capitolo.

E il prossimo capitolo sarà l’ultimo prima dell’epilogo. Yuri rimette insieme i suoi pezzi e quando il Destino gli concede una terza occasione è ben intenzionato a non sprecarla.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Si Guarisce in Due ***


Si guarisce in due

Per Yuri la missione gomito a gomito con Victor Nikiforov fu l’ultima della sua carriera militare. Dopo aver trascorso sei mesi in Afghanistan, fu rimandato negli Stati Uniti alla fine della primavera del 1988.
Si preoccupò poco degli eventi che plasmarono quella calda estate. La maggior parte giunse alla sua attenzione tramite persone che parlavano con voci monotone alla radio e alla TV o tramite i titoli dei giornali. Apparentemente, Gorbaciov aveva deciso, tra le altre cose di ritirare le truppe sovietiche dall’Afghanistan.
L’ironia.
Eppure le notizie non ebbero un grande impatto su Yuri. Non che non volesse prestarvi attenzione. Semplicemente non poteva. Lo Yuri Katsuki di quei mesi che seguirono la missione aveva perso la capacità di provare alcunché. Dalla gioia all’ira, dal sollievo al dolore, tutto era stato lavato via da una grigia apatia.
Certo, la politica non era l’unica cosa che faceva chiacchierare e spettegolare la gente.
Dopo le Olimpiadi Invernali di Calgary a febbraio, che Yuri aveva seguito per quanto possibile, il mondo si stava preparando a vedere come Seoul avrebbe ospitato i le Olimpiadi Estive. Per la prima volta dopo anni, entrambe le squadre USA e URSS avrebbero partecipato in presenza dell’altra. Era in effetti un forte atto simbolico, qualcosa che mostrava come il mondo stesse cambiando. Ignorare i disordini nei Paesi sotto il dominio sovietico stava diventando sempre più difficile. Proteste scuotevano la Polonia, sotto la bandiera della Solidarność di Walesa, e la bandiera lettone era stata fatta sventolare nuovamente a Riga per la prima volta negli anni.
Yuri, tuttavia, avrebbe riflettuto su simili questioni molto tempo dopo che ebbero avuto luogo.
Per il momento, i suoi giorni si srotolavano in una beata e noiosa routine fatta di addestramento, altri doveri militari, e sedute obbligatori con uno psicologo come ordinato dai suoi superiori. Durante le prime sessioni Yuri si era chiuso in se stesso, il senso di colpa penetrato fino alle sue ossa. L’insonnia lo tormentava, proprio come facevano gli incubi quando finalmente riusciva a scivolare nell’abbraccio del sonno. Naturalmente, non poteva dire nulla del suo cuore pentito e sanguinante. Le parole che Victor gli aveva scritto, ora sbiadiate dalle lacrime di Yuri e dalle impronte sudate dei suoi polpastrelli, continuavano a danzare davanti ai suoi occhi. Mostravano quello che avrebbe potuto avere se non fosse stato un codardo. Ma del resto, le sessioni non erano destinate a risolvere i suoi problemi d’amore. Anzi non avrebbe proprio dovuto avere problemi di cuore.
Yuri aveva lasciato un pezzo di se stesso in Afghanistan.
Col tempo sarebbe guarito. Tutto è destinato a guarire, se non si muore prima. Con il tempo e con l’aiuto occasionale di alcune pillole, gli incubi e i ricordi si placarono. Proprio come un osso rotto che fa male solo quando piove.

A novembre Yuri fu mandato sul campo ancora una volta, con i dovuti documenti attestanti una passabile stabilità mentale. Neanche un mese nella solita routine Yuri decise di averne avuto abbastanza. Aveva trentacinque anni, il suo compleanno era appena trascorso, e aveva passato quasi la metà della sua vita nell’esercito. Ora sentiva il profondo desiderio di tornare a casa, non negli Stati Uniti, ma nella sua città natale in Giappone. Richiese i documenti necessari per il visto non appena ne ebbe occasione.
Intorno all’aprile del 1989, quasi un anno dopo la missione , Yuri divenne un riservista inattivo con il grado di Specialista. Anche se aveva pensato mentalmente di lasciare gli Stati Uniti il più presto possibile, varie faccende in sospeso lo tennero laggiù per almeno altri tre mesi. Soprattutto, dovette organizzare la spedizione via nave degli oggetti più importanti in suo possesso, soprattutto libri e vari ricordi. Poi ci fu la questione di vendere il suo appartamento a Detroit, dove Yuri aveva vissuto per così poco, che abitarci pareva strano. Infine, il suo passaporto giapponese doveva essere rinnovato, dato che Yuri si era preoccupato poco del problema tra la sua depressione, l’addestramento e il nuovo impiego sul campo.


Yuri tornò a Hasetsu nell’autunno del 1989. Dopo essere stato via per più di quindici anni, finalmente era di nuovo nella sua città natale.
Tutto e niente era cambiato. La città era stata fortemente modernizzata, acquisendo una nuova stazione tra le altre cose. Allo stesso tempo aveva preservato l’atmosfera fiabesca da posto tranquillo lontano dalla pazza folla. I bambini avevano sostituito i loro genitori, ma i gesti quotidiani erano rimasti gli stessi. Il Castello sulla collina attirava ancora visitatori. Gli affari alle terme avevano ancora i loro salti e bassi, ma l’attività dei Katsuki persisteva.
Yuri non andò direttamente a casa. La prima persona a cui fece visita fu la sua insegnante di balletto. Yuri bussò educatamente alla porta del suo vecchio studio di danza. Attutita dalla porta di legno si sentiva la musica proveniente dall’interno.
“Avanti!” La donna gridò sopra le note di un brano che Yuri riconobbe come “la danza delle ore”. Aprì la porta, si tolse le scarpe, un’abitudine che non aveva mai dimenticato, e camminò piano sul pavimento in legno lucido. Gli specchi sulla parete opposta erano lucenti come li ricordava. La barra era invece di un colore più scuro, sostituita alcuni anni dopo la sua partenza. La stessa sorte era toccata al vecchio stereo che Minako utilizzava negli anni Sessanta. Il suo posto era ora occupato da un nuovissimo e brillante apparecchio color argento.
La donna era sul pavimento, una gamba stesa davanti a lei e l’altra piegata sotto il sedere, la schiena leggermente arcuata nel principio di un port de bras. Minako Oukukawa non era invecchiata di un giorno, nonostante avesse già raggiunto la sessantina. Yuri attese che finisse la routine, in religioso silenzio.
“Sei brava come sempre, Minako-sensei” si limitò a complimentarsi quando ella uscì finalmente uscito dalla sua posa finale, un delizioso arabesque.
Minako assottigliò gli occhi. Poi, nell’istante in cui collegò l’uomo in piedi sulla porta al dolce ragazzo a cui aveva insegnato una volta, la bocca si stese in un ampio sorriso.
“Yuri!” Esclamò Minako. Lo invitò a entrare, prima di abbassare il volume della musica. L’età l’aveva resa più bassa, quindi adesso doveva inclinare la testa all’indietro per guardare Yuri negli occhi.
“Sei cresciuto. Comunque, dubito che tu sia qui per una lezione di danza. Posso offrirti un caffè?” Proseguì Minako. Yuri declinò gentilmente l’offerta.
“Ci sono altre persone che devo incontrare” si giustificò.
“Comprensibile. Ricorda che il mio studio è sempre aperto, se vuoi ricominciare le lezioni di balletto."
“Potrei essere troppo vecchio per questo, purtroppo.”
“Lascia che sia io a decidere.”
La seconda visita che Yuri fece fu ai suoi amici d’infanzia. Yuko Nishigori e suo marito, Takeshi, avevano comprato il palazzetto del ghiaccio locale, l’Ice Castle Hasetsu, dal proprietario precedente e da allora avevano speso tutta la propria energia nel rinnovamento della struttura. Anche Lutz era a casa, tornata per una vacanza dopo la sua ultima medaglia, un argento ai Mondiali. A ripensare che, quando era partito Lutz e le altre due sorelle gemelle non erano ancora nate e Yuko e Takeshi erano solo adolescenti, a Yuri si strinse il petto di nostalgia. La città, il mondo, erano andati avanti senza di lui e non poteva fare altro se non cercare di recuperare il tempo perso. Era come essersi svegliato durante un viaggio treno dopo una lunga dormita e non sapere dove si trovasse.
Yuko Nishigori era ancora bello come quando era più giovane. Ora aveva fili grigi nei capelli altrimenti ramati e i suoi fianchi si erano allargati dall’ultima gravidanza. Un ragazzo di cinque anni stava al suo fianco.
Per Yuri entrare nel Ice Castle dopo tanto tempo fu come tuffarsi in un sogno. Nulla era come lo ricordava dalla sua infanzia, eppure tutto era come doveva essere.
“È passato un po’ di tempo, Yuko-San” la salutò.
“Yuri!” Esclamò la donna in risposta. “Sei cresciuto! Hai ricevuto la mia ultima lettera? “- Yuri l’aveva ricevuta, ma non aveva avuto la forza di rispondere – “Comunque, per quanto tempo pensi di rimanere? E chiamami pure Yuu-chan. Dopotutto, siamo stati amici d’infanzia” continuò Yuko, sorridendo con affetto. Suo figlio l’afferrò per la manica della felpa.
“E tu devi essere Salchow!” intervenne Yuri, ricordandosi delle volte in cui Yuko aveva accennato al figlio più giovane nelle sue lettere. Il ragazzo si mordicchiò le labbra, semi-nascosto dietro le gambe della madre. Poi, gentilmente spinto da lei, fece un piccolo inchino.
“Sì. È un piacere incontrarla.”
“Ok, torna pure a giocare. I tuoi pattini sono abbastanza stretti?” Chiese Yuko a Salchow. Il ragazzo annuì, sollevando un piede perché la madre controllasse l’allacciatura. Una volta ricevuto il via libera, scappò via.
“Un altro precoce fan di pattinaggio artistico?” commentò Yuri, guardando il ragazzo scivolare sul ghiaccio con una sicurezza che suggeriva avere indossato i pattini prima ancora di poter camminare.
“Ci puoi scommettere! E tu? Perché non ti unisci a lui?” propose Yuko dal nulla. A volte il modo migliore per ricongiungersi con un vecchio amico è immergersi in un’attività comune.
“Sono anni che non indosso un paio di pattini!” protestò Yuri. “Inoltre sono stanco. Ore di volo, sai” aggiunse, cercando di svincolarsi.
Yuko cacciò via le sue preoccupazioni con un gesto della mano.
“Non ti sto chiedendo di saltare. Puoi ancora stare in piedi senza cadere? “
“Sì. Penso di sì.”
Beh, considerò Yuri sotto lo sguardo insistente di Yuko, forse valeva la pena provare. Dopotutto, forse a causa degli anni nell’esercito, non si sentiva stanco come avrebbe dovuto. Anche considerando che nelle ultime ventiquattro ore non aveva chiuso occhio.
“Porti ancora il 43, giusto?” chiese Yuko, facendo segno di seguirla dove si trovavano i pattini. Dopo aver ricevuto conferma, ne prese una coppia dalla terza mensola.
“Ecco!”
Yuri afferrò i pattini, li indossò - allacciarli non fu molto diverso dall’allacciare un paio di anfibi - e salì sul ghiaccio appena lisciato, le mani strette attorno alla barriera.
Sì, riusciva ancora a stare in piedi. Tenendosi vicino al bordo, accennò lentamente i primi passi, sentendo il modo in cui la lama tagliava la superficie gelata. Era come andare in bicicletta. Presto scoprì che il suo corpo non aveva mai dimenticato i movimenti.
Come sarebbe potuto essere: una vita con lui che continua ad allenarsi sotto la guida di Minako e a pattinare ogni domenica pomeriggio.
Deglutì.
Yuko gli mostrò un semplice esercizio, una serie di figure per imparare il controllo del peso corporeo sui fili. Era noioso e ripetitivo, ma Yuri lo trovò stranamente calmante.
Era già tarda sera quando Yuri trascinò finalmente i piedi fino a casa. Sospirò. Era a casa. Era a casa e aveva ancora la sensazione di essere un ospite.
Fece scivolare di lato la porta d’ingresso, gridando parole giapponesi che sentì familiari, anche se non avevano usato molto la lingua negli ultimi anni.
“Sono a casa!”
La voce rauca di Yuri echeggiò nell’ingresso. Si tolse le scarpe, lasciò cadere la borsa dalla spalla e camminò sul pavimento di legno verso la sala da pranzo. Sua madre corse nella sua direzione non appena lo notò.
Onestamente, Yuri non immaginava che sua madre lo avrebbe stretto tanto forte da essere quasi sollevato.
E Yuri capì. Comprese che i suoi genitori non avevano mai voluto abbandonarlo. Al contrario avevano dimostrato il loro più profondo affetto offrendogli quello che credevano fosse il meglio che avrebbero potuto dare: un futuro migliore. Non potevano sapere che si sarebbe arruolato. Non potevano immaginarlo.
Yuri restituì l’abbraccio.
Sua madre aveva perso centimetri in altezza, ma era rimasta paffuta e rotondetta proprio come Yuri la ricordava. I capelli erano ormai grigi, pettinati nel suo solito caschetto. Dopo averlo abbracciato, si spazzolò le mani contro il grembiule, prese il borsone e invitò Yuri a fare un bagno nelle sorgenti termali. Obbedì con piacere.
Nell’istante in cui entrò nella calda piscina all’aria aperta, ben custodita dalla statua di un’antica divinità tradizionale, una profonda stanchezza cadde su di lui. Le sue membra si fecero pesanti, ma allo stesso tempo il dolore sordo in esse scomparve. Yuri nuotò lentamente fino al bordo della piscina, scivolando fino ad avere l’acqua a sfiorargli il mento. Si abbandonò con la testa gettata all’indietro, usando le braccia come leva, e chiuse gli occhi. Il sudore causato dal vapore gli imperlò la fronte. Passò le dita attraverso i capelli bagnati, spingendoli indietro. Erano cresciuti da quando Yuri aveva lasciato l’esercito.
Dopo il bagno, Hiroko diede a Yuri una ciotola del suo cibo preferito, il katsudon che aveva spesso sognato mentre era lontano. Erano anni che non lo mangiava e divorò la porzione in pochi secondi. Se ne servì una seconda e persino una terza.
Poi, come se il pensiero di essere a casa dopo tanto tempo fosse diventato troppo pesante da sopportare, lasciò cadere le bacchette nella ciotola e di colpo scoppiò in un pianto silenzioso.
“Sto bene” tirò su col naso, allontanandosi dalla madre. Sentì il suo sguardo su di sé, insieme a quelli di suo padre e di sua sorella. Yuri era sempre stata una persona riservata. L’esercito aveva solo amplificato tale caratteristica.
Non importava la cultura o il contesto, gli era sempre stato insegnato che gli uomini non piangono. Soprattutto non piangono davanti a qualcuno. Yuri aveva perso il conto del numero di volte in cui aveva pianto in segreto, per paura, ansia o tristezza. Aveva dimenticato l’ultima volta in cui aveva pianto davanti di qualcun altro. Spinse via la ciotola di riso e si scusò.

La sua camera era ancora più piccola di quanto ricordasse. La maggior parte delle carabattole che una tempo ingombravano la scrivania era stata messa via. Gli scaffali erano vuoti a parte alcuni vecchi libri che non aveva portato con sé negli Stati Uniti. Nessuna foto o poster decorava le pareti. In realtà era una stanza senza vita, dove nessuno entrava da anni, se non per spolverare. Aveva l’odore del passato, mostrando ricordi di un adolescente che leggeva i manga tra un compito e l’altro, sdraiato sul pavimento di legno.
Yuri si sedette sul letto ben fatto. Notò il suo borsone da viaggio poco distante. Sua madre doveva averlo portato lì dopo che egli lo aveva lasciato cadere nel corridoio. Yuri si allungò per afferrarne una cinghia e portarlo tra le gambe. Stava per cominciare a sistemare i vestiti - tutti ben piegati - quando un bussare alla porta gli fece sollevare la testa.
Incrociò lo sguardo con la sorella maggiore. Mari Katsuki stava tenendo una sigaretta fumata a metà tra l’indice e il medio. Una fascia teneva i capelli decolorati lontano dalla fronte. Aveva quasi cinquant’anni. Dopo un matrimonio problematico aveva divorziato ed era tornata al complesso termale per aiutare con la nuova ondata di clienti.
Mari aspirò una boccata di fumo.
“Mamma e papà non hanno capito molto delle tue intenzioni. Vuoi rimanere? “
Yuri aprì la valigia. “Sì. Devo ancora decidere cosa fare, ma non penso di lasciare Hasetsu a breve.”
“Sei cresciuto” continuò Mari.
“Sì, accade con il tempo.”
Ho dovuto.
Il materasso cigolò mentre Mari si sedeva accanto a lui. Lo strinse in un abbraccio laterale. “Sai, mi sei mancato.”
“Mi sei mancata anche tu.”

Intorno al febbraio 1991 una lettera senza indirizzo, ma col nome di Yuri scritto in lettere latine sulla busta, comparve nella casella postale della Yu-topia. Scritta nella piccola e nitida grafia di a Victor recitava:
Mio caro Yuri,
Spero vivamente che questa lettera ti trovi in breve tempo. Confido nella capacità di Mila di trovare chiunque, d ovunque.
Yura dice che sono patetico. Yakov dice che sono troppo vecchio per queste cazzate e che lui è troppo vecchio per ascoltarmi. Immagino che abbia ragione. Ho quaranta anni. Sono un uomo triste in crisi di mezza età che corre dietro a una cotta come un adolescente. Spero che mi perdonerai.
Suppongo che tu abbia sentito parlare della recente caduta del Muro. Ha causato diversi scompigli nei ranghi alti sovietici. Le cose stanno cambiando. Posso sentirlo.
Parlando di te, sperare di ricevere una risposta sembra un sogno troppo grande per essere vero, sebbene i recenti sviluppi mi facciano quasi credere presto non sarà così irraggiungibile. Credevo che una cotta si sarebbe placata col tempo, ma non lo è così. Yuri, non è così.

Victor
A Yuri servì un po’ di tempo prima che potesse riprendere la sua compostezza. A cena inventò una ì scusa per i suoi occhi gonfi e rossi.

Nell’estate dello stesso anno Yuri finalmente raccolse abbastanza coraggio per fare una visita alla famiglia Chulanont.
Aveva mandato un messaggio di condoglianze ai Chulanont circa tre mesi dopo la morte di Phichit, dietro suggerimento del suo psicologo. Dopo aver trascorso un’intera settimana cercando di esprimere i suoi sentimenti - o, piuttosto, di trovare qualcosa da esprimere durante la sua apatia - in una lettera ben scritta, Yuri aveva rinunciato all’idea in favore un anonimo telegramma. In esso si era scusato sia per lo stile del messaggio sia per il destino del caporale Chulanont. Due frasi erano state sufficienti. I Chulanont lo avevano ringraziato con un messaggio ancora più breve. Da quel momento Yuri aveva interrotto i contatti con loro.
Sapeva tuttavia che il corpo di Phichit era stato recuperato - almeno ciò che era rimasto di lui - i suoi resti mandati alla sua famiglia in California e cremati secondo la tradizione buddista.
Yuri non aveva avvisato i genitori di Phichit del suo arrivo. Si ere limitato a controllare che vivessero ancora dove aveva detto Phichit, in un appartamento sopra la panetteria Terra Incognita, nel quartiere tailandese di San Francisco. Il fratello più giovane di Phichit viveva nell’appartamento affianco con la moglie e tre figli e aiutava suo padre glassando torte e con altre decorazioni di pasticceria. Phichit aveva poi altri tre fratelli. Il più anziano lavorava in una fabbrica di dolci a Chicago, quello di mezzo aveva aperto un ristorante fast-food specializzato in piatti tailandesi e il penultimo nato aveva seguito le orme di Phichit.
La sorella maggiore di Phichit era tornata a Bangkok dove lottava per tenere aperto uno studio di consulenza specializzato in questioni domestiche. L’altra sorella aveva il medesimo talento di Phichit per l’informatica e aveva abbandonato l’università durante il suo terzo semestre per unirsi ad alcuni ex compagni di classe nella Silicon Valley. Nel frattempo stava lavorando a un software di animazione per grafica in 3D.
Così, quando Yuri bussò alla porta dei Chulanont, vestita in uno dei suoi migliori completi, i coniugi Chulanont non riuscirono a nascondere completamente la propria sorpresa. Fu la signora Chulanont ad aprire, vestita di un tradizionale sampot chang kben sotto una tunica ricamata, i capelli grigi tenuti in uno chignon basso. Suo marito era seduto al tavolo della cucina. L’odore di funghi fritti impregnava l’aria. La TV stava trasmettendo un programma in tailandese, intervallato dai commenti dei giornalisti televisivi per una partita di baseball tra due squadre minori, a seconda di come il signor Chulanont cambiava canale.
Lawan Chulanont guardò Yuri. Lo riconobbe dalle foto che Phichit aveva spesso mandato a casa e dalle descrizioni con cui aveva riempito le sue lettere.
Yuri non le diede il tempo di dire nulla. Cadde in ginocchio in una dogeza, le mani premute sul pavimento, non appena la porta venne aperta.
“Sono immensamente addolorato per la morte di vostro figlio” cominciò, tenendo la testa china. “Mi scuso per non avervi fatto visita prima. Il Caporale Chulanont era un caro amico. Il mio migliore amico, devo dire. Non c’è un giorno che non mi incolpi per la sua morte. Vi prego di credermi, se potessi farei scambio con lui in qualsiasi momento “.
Attese una risposta, qualunque fosse stata. Non osava sperare per un perdono.
Con la coda dell’occhio Yuri vide Lawan Chulanont accovacciarsi accanto a lui. Gli toccò piano il mento con le vecchie mani, mani forti brave a stendere l’impasto e portare sacchi di farina, costringendolo a sollevare la testa. Aveva occhi profondi e neri, uguali a quelli di Phichit. Suo figlio aveva ereditato la maggior parte dei suoi tratti.
“Non devi scusarsi. Deve essere stata dura per te” disse. Yuri annuì, alzandosi. Gli venne offerta una tazza di tè, per riscaldarsi mentre parlavano. Poiché sarebbe stato scortese rifiutare, Yuri accettò. Dopotutto, il tè era una panacea. E anche se il tè non poteva curare tutto, sicuramente rendeva le cose migliori. Proprio come stava facendo il parlare con il Chulanont. Quando Yuri lasciò la casa, più tardi di quanto avesse immaginato, rifiutando con cortesia l’invito a fermarsi per cena, la sua anima si sentiva più leggera.



Victor scrisse varie lettere a Yuri dal 1991 al 1993. Yuri era abbastanza sicuro che le poche che ricevette, per vie traverse rispetto alle poste tradizionali, erano solo il picco dell’iceberg. Ogni lettera terminava con Victor che esprimeva la propria intenzione di non scrivere più, solo per cambiare idea alla prima occasione. Era una sofferenza non poter rispondere, ma Yuri non aveva né un indirizzo né un numero da contattare.
Le lettere di Victor avevano un effetto calmante. Parlavano di tutto e niente, con alcune informazioni sulla sua vita nell’esercito infilate con cura tra le righe. Apparentemente, dopo il ritiro delle truppe sovietiche dall’Afghanistan, Victor era stato gentilmente costretto ad abbandonare il campo a favore di un lavoro da ufficio di cui non perdeva occasione di lamentarsi.
Purtroppo una delle lettere più importanti di Victor si smarrì da qualche parte tra Mosca e Hasetsu, dimenticata per quasi due anni in un centro di smistamento postale. Quando finalmente giunse a Hasetsu era già il 1993, le notizia che comunicava già vecchie. Era strano leggere quelle parole e immaginare Victor mentre perdeva lentamente la speranza di ricevere una risposta.
C’era anche un’altra lettera, più recente, nella cassetta postale. Yuri l’aprì per prima.

Mio caro Yuri,
Mila dice che devo essere paziente. Probabilmente ti sei trasferito o la mia ultima lettera è stata persa nel caos che è il sistema postale internazionale . è in tempi come questi che mi rammarico di non averti inviato un telegramma.
Sono grato che tu non possa vedermi ora, perché sono un casino totale. Sono anche messo peggio di Jora quando Anya lo ha lasciato. è stato trent’anni fa. Trent’anni. Il tempo vola.
Alla fine c’è il mio nuovo indirizzo – era in codice - . Se tu voglia rendermi l’uomo più felice della Terra o decidere di spezzarmi il cuore, invitandomi a uscire dalla tua vita, ti prego di rispondermi.

Quando Yuri aprì la lettera più vecchia le sue mani tremavano.

Mio caro Yuri, è finita.
Confido che tu abbia letto i giornali, quindi non mi racconto nulla di nuovo. Apparentemente dovrò cominciare a riferirmi al mio Paese come nient’altro se non Russia.
Voglio lasciare l’Armata Rossa il prima possibile. Credo di aver pagato il mio debito e voglio godermi quel poco di anima che mi resta in altri ambienti. Onestamente, non so cosa potrei fare, come reinventarmi, ma forse la pensione sarà sufficiente per garantirmi una vita dignitosa, almeno all’inizio. Siamo in piena crisi economica, quindi le mie speranze non sono poi molto alte.
Yura parla sempre più di aprire un ristorante quando sarà congedato. Te lo immagini? La Tigre dei Ghiaccio ai fornelli. Ti ricordi quel piatto di cui mi hai parlato una volta? Apparentemente Yura vuole infilarlo in un pirozhk . Fino ad ora i suoi esperimenti non hanno avuto molto successo, ma dice che non può essere più difficile dell’attraversare il deserto afghano a piedi.
Jora ha finalmente ottenuto quella promozione a Maggiore che desiderava tanto. Si è anche sposato con una bella ragazza di Odessa. Erano anni che non lo vedevo così felice.
Immagino che tu voglia sapere qualcosa anche del Capitano Altin, siccome ho parlato degli altri due. Be’, da quanto ho sentito, si è candidato a sindaco della sua città natale. Yura dice che si è anche unito uno dei maggiori partiti in Kazakhstan e probabilmente avrà un posto in parlamento se il partito raccoglierò abbastanza voti.

Per favore scrivimi.

Con tutto il mio affetto
Victor
Nel post-scriptum Victor aveva aggiunto l’indirizzo del suo attuale domicilio, le informazioni ancora in codice per motivi di sicurezza. Gridava la sua speranza per una risposta per cui aveva atteso mesi. Doveva aver aspettato, costringendosi a dimenticare e andare avanti, finché non aveva deciso di riprendere in mano la penna ancora una volta, un ultima volta, per scrivere un’altra lettera.

Victor non era l’unico che rimase in contatto con Yuri. Guang Hong gli scriveva almeno una lettera ogni due settimane, sempre lamentando il ritardo di Yuri nel rispondere. Era stato Guang Hong a convincerlo ad abbonarsi a un servizio di posta elettronica. Nel profondo, Yuri era ancora affezionati ai vecchi mezzi di comunicazione, quindi erano più volte in cui riceveva un’e-mail da Guang Hong di quelle in cui ne spediva.
La connessione Internet, installata solo pochi mesi prima, era ancora lenta ad Hasetsu. Contrariamente a quanto accadde a Fukuoka o Tokyo dove l’uso di Internet per scopi privati era già diffuso, a Hasetsu per i primi mesi solo in quattro utilizzarono Internet: il municipio, la scuola, il pronto-soccorso e la Yu-topia Katsuki . L’Ice Castle Hasetsu dei Nishigori fu il quinto a salire sul carro.
Guang Hong, che ora aveva trentacinque anni e aveva fatto carriera fino a essere stato promosso Sotto-tenente, aveva passato gli ultimi sei mesi in Bosnia e presso un’accademia per ufficiali. Nella sua lettera più recente, dibatteva se diventare inattivo o continuare la carriera militare. Quello risaliva a tre mesi fa. Ciò che Yuri sapeva per certo era che Guang Hong al momento scriveva da Pechino, ospitato da alcuni parenti. Si lamentava di quanto si sentisse come un estraneo, senza alcun legame con la patria dei genitori, eccetto i suoi geni e i tratti del suo viso.

Chris era il secondo che scriveva di più a Yuri, sebbene la maggior parte della sua corrispondenza era composta da messaggi brevi che chiedevano come stessero lui e la sua famiglia in occasione delle principali vacanze. Secondo quanto sapeva Yuri, Christophe era diventato inattivo un anno dopo di lui. Aveva rispolverato la sua laurea in Medicina e aveva aperto una clinica vicino a Arlington. Una foto-cartolina lo mostrava in tenuta da sci sulle piste di St. Moritz con un uomo dai capelli castani. Entrambi salutavano agitando le racchette e sorridendo sopra le pesanti sciarpe.

Per quanto riguardava Crispino, l’ultima volta che Yuri aveva avuto notizie su di lui era stato il marzo passato con una breve lettera scribacchiata per accompagnare una biglietto auguti di Pasqua. Congedato nel 1991 con il grado di Sergente di Prima Classe, Michele era entrato nella polizia di New York. La sua amata Sara era diventata una giornalista del New York Times. Victor aveva parlato di lei in una delle poche lettere che Yuri aveva ricevuto.
Ti ricordi il Sergente Crispino? Certo che il mondo è piccolo. Comunque, Mila ha incontrato e fatto amicizia con sua sorella, mentre quest’ultima era a Mosca [...]

Yuri sapeva anche che una volta all’anno i Crispino visitavano il cimitero dove era sepolto Emil, vicino a Praga.
Infine, fra tutti, Jean-Jacques era l’unico ad essere rimasto nell’esercito senza esitazioni, secondo le notizie più recenti che Yuri aveva su di lui. Ora Capitano, la sua ultima missione lo aveva condotto in Kuwait. Si era poi unito ai caschi blu dell’ONU e operato in Tagikistan. Nel frattempo si era sposato con la sua fidanzata storica.

Yuri fissò intensamente la penna che si muoveva appena sopra la carta. Era strano, per non dire assurdo, rispondere in una volta a un gruppo di lettere ricevute nel corso degli anni. Il tempo era passato e Yuri non poteva ignorare il fatto. Non poteva ignorarlo mentre rileggeva per l’ennesima volta la prima delle lettere di Victor giunte a Hasetsu, lisciando tutte le pieghe causate dall’averla maneggiata così tante volte da aver perso il conto.
All’inizio, Yuri si era ripromesso di scrivere un commento per ogni lettera subito dopo averla letta la prima volta. Voleva mettere nero su bianco le sue pure emozioni prima che scivolassero via. Queste frasi sparse, però, non erano mai diventato nulla di più, anche se Yuri le aveva conservate tutti in un cassetto del comodino.

Mio caro Victor,
andrò subito al dunque: quante possibilità pensi che abbiamo? Siamo adulti. Non avremo il tempo dato ai giovani. Te lo dico, il mio cuore è pieno di dubbi - “

Neanche la terza linea e Yuri erano già insoddisfatto della piega che stava prendendo la lettera. Ogni parola parve sbagliata nell’istante in cui passò dalla mente alla carta. Dover scrivere in inglese poi peggiorava solo le cose. L’inglese non aveva tutte le sfumature del giapponese, sfumature che sarebbero state perfette per quello che Yuri voleva esprimere al momento. Eppure, nemmeno il giapponese era sufficiente ad esprimere il suo turbamento.

Cancellò l’intera lettera. l’accartocciò e la buttò sul pavimento. Aspettare ancora per settimane o mesi o addirittura anni per una risposta sembrava ora una tortura che non poteva più sopportare.

“LETTERE RICEVUTE STOP” fu tutto quello che riuscì a scrivere alla fine.

La risposta arrivò entro le due settimane successivi, coperte di francobolli e timbri ad indicare un elevato livello di urgenza. Yuri non dubitava che Victor avesse usato tutti i poteri e i privilegi legati al suo nome per ottenere un trattamento speciale.

“NE SONO FELICE STOP
(812) 093-49-87 STOP “
***

Le telefonate internazionali erano costose, ma per una volta Yuri non se ne curò affatto. Mentre chiamava un numero che aveva ripetuto così tante volte da saperlo a memoria, promise a se stesso che avrebbe pagato la salata bolletta.
Yuri contò cinque squilli. Per calmarsi si concentrò sull’immaginare quello che stava succedendo dall’altra parte della linea: il telefono che interrompeva la quiete di una pigra mattina russa, il destinatario che non correva subito a rispondere, ma aspettava per vedere se la chiamata fosse davvero importante e se valesse la pena alzarsi per sollevare la cornetta. Si immaginò un vecchio telefono che trillava sempre più forte, come un bambino capriccioso in cerca di attenzione, fino a uno sbuffo di rassegnazione, accompagnato da un paio piedi nudi su un pavimento freddo, uno sbadiglio e un orecchio premuto contro il ricevitore.

“Pronto?”
Yuri dovette appellarsi a tutto il suo autocontrollo per non riagganciare. Victor aveva parlato in russo, la risposta sicuramente ingranata nel suo cervello. La sua voce era più bassa di come ricordava Yuri, rauca per un’influenza non ancora guarita del tutto. Strinse la presa sul ricevitore, il respiro caldo e umido contro l’altoparlante.
Pronto?” Ripeté Victor. La stanchezza nella sua voce era di un uomo che non dormiva da giorni. Yuri lo sentiva. Cercò di deglutire, ma aveva la bocca secca. Aveva la gola piena di sabbia.
“Vogliochetuvengaingiappone!” riuscì infine a sputare fuori. Nella fretta parlò in giapponese.
“Cosa? Mi dispiace, non capisco. Se questo è un scherzo, non sono dell’umore ... “
“Voglio che tu venga in Giappone” ripeté Yuri, questa volta in inglese, terrorizzato dalla possibilità che Victor chiudesse la chiamata. La pausa che seguì non durò più che un respiro, ma parve come un’eternità.
“Yuri?”
Un nome. Due sillabe. Eppure tutto.
Non appena udì il proprio nome la consapevolezza che Victor lo aveva riconosciuto fu sufficiente perché Yuri desse libero sfogo a tutte le parole che aveva represso per anni. Tutte le risposte che non aveva potuto dare alle lettere che Victor gli aveva spedito. Parlò come un fiume in piena, un flusso di coscienza privo logica.
“Ti amo. Ti amo da così tanto tempo. Non ne hai idea. Non sai come mi sia sentito ogni volta che è arrivata una nuova lettera e tu mi amavi ancora, anche se sono solo io. Non riesco a capacitarmene. Ho bisogno di vederti, Victor. Ho bisogno di te. Posso pagare un biglietto aereo se serve o posso venire in Russia, ma ti prego di non dirmi di no.”
“Mi fa piacere sentirlo.”

Yuri si sciolse una risata di sollievo. Dietro di lui si sentiva la vivace confusione delle terme. La combinazione di duro lavoro e di denaro, prestato da amici e, occasionalmente, mandato a casa da Yuri, aveva aiutato la struttura a rimettersi in piedi. Mentre altre imprese si sgretolavano sotto il peso della crisi economica che aveva colpito il Paese, la Yu-topia Katsuki ancora resisteva. I prezzi buoni, il servizio perfetto e l’ottima cucina attiravano non solo la persone da Hasetsu, clienti abituali ma anche turisti internazionali. Recentemente l’entrata riverberava di un miscuglio di lingue, inglese misto a giapponese, francese e cinese, spagnolo e russo. Non c’era una notte in cui le stanze degli ospiti rimaneva vuote o le terme senza qualcuno in ammollo.
Ma a Yuri interessava affatto quello che stava succedendo alle sue spalle, completamente immerso nelle parole che l’orecchio premuto contro il ricevitore sentiva.
Quando Victor parlò di nuovo, le gambe di Yuri tremarono tanto che si sentì come uno sciocco adolescente in preda a una cotta.
“Temevo che non avrei mai sentito queste parole da te. Stavo cominciando a perdere la speranza” sussurrò Victor. Anche se Yuri non poteva vederlo, era sicuro che l’uomo con cui stava parlando non era quel Generale Nikiforov che aveva adorato così a lungo. Questo Victor era l’uomo che lo aveva quasi accarezzato in una fredda notte afgana; quello che si era quasi buttato in ginocchio ai suoi piedi, chiedendogli disperatamente di rimanere.
“Se fosse stato in mio potere, avrei risposto già alla tua prima lettera.”
Parlavano di tutto e niente, l’orologio da polso che ticchettava senza sosta. Yuri poteva sentire lo sguardo disapprovato della sorella sulla schiena. Mari Katsuki lo rimproverò.
“Sai, il telefono è per prendere delle prenotazioni!” Sussurrò nell’orecchio libero di Yuri che fece un rapido gesto della mano, mormorando qualcosa nel dialetto di Kyushu sottovoce. Decise insieme a Victor che gli avrebbe telefonato ancora una volta per superare i dettagli per il suo viaggio in Giappone. Poco sapeva all’epoca che ci sarebbero voluti altri sei mesi di preparativi. Sei interi mesi dolcemente riempiti da lettere lunghe dieci pagine.

Quando riagganciò, un sorriso da idiota innamorato gli tendeva le labbra.
“Spero che tu abbia avuto una buona ragione per occupare il telefono per quaranta minuti!” lo sgridò Mari, le braccia incrociate sul petto. Yuri le restituì un sorrisone, la testa fra le nuvole. Il costo di quaranta minuti di telefonata internazionale era un dettaglio irrilevante.
“Certo” rispose, prima di correre su per le scale per controllare una vecchia stanza da pranzo inutilizzata, al secondo piano. Non avrebbe permesso a Victor di dormire in una stanza d’albergo.
Tracciò anche una croce su una casella del calendario.

Il giorno in cui l’aereo di Victor partì tanò da San Pietroburgo, già Leningrado, Yuri si svegliò alle quattro del mattino, nonostante fosse consapevole che il volo sarebbe durato almeno dieci ore, senza contare gli scali. Si vestì, sorseggiò una tazza di caffè forte e si diresse subito in stazione. La notte era ancora pesante su Hasetsu, le strade vuote, tranne che per alcune persone che gironzolavano come fantasmi,
In stazione Yuri pagò un biglietto per il primo treno diretto a Fukuoka, cadde su un sedile accanto alla finestra e lasciò vagare la sua mente fino a riprendere sonno. Aveva una guancia premuta contro il freddo finestrino.
Quando il cartello che accoglieva i visitatori a Fukuoka apparve, il cielo stava virando a un bel viola, con strisce di ricco arancione e di rosso del sole dell’alba. Yuri allungò la schiena e le braccia, portandole alte sopra la testa. Sbatté le palpebre nell’aria umida del mattino. Lanciò un’occhiata al suo orologio, facendo a mente il conto delle ore che avrebbe dovuto ancora aspettare.
L’aeroporto di Fukuoka aveva, come centinaia di altri, l’inquietante vivacità dei non-luoghi, con la gente che arrivava e partita senza un attimo di tregua.

Certi erano appena scesi dai loro voli, le posture rigide e le gambe che formicolavano, e vagavano intorno al carosello dei bagagli, lanciando occhiate speranzose ogni volta che credevano di riconoscere i propri bagagli. Yuri osservò la folla dissiparsi a poco a poco, lasciandosi dietro solo i sfortunati che erano rimasti lì, non ancora pronti ad ammettere che le loro valigie erano andate smarrite.
Alcuni padri portavano sulla schiena i loro bambini addormentati. Le madri cullavano i neonati in lacrime, mentre i figli più grandicelli sbocconcellavano brioches al burro per colazione.
C’erano uomini d’affari e impiegati, ancora nei loro completi spiegazzati e la ventiquattrore, che controllavano senza sosta l’orologio, i cellulari in mano. Appena scesi un volo e pronto a già pronti salire su un altro.
Un poco più in là, un insegnante stava verificando che nessuno della sua classe si perso. Con una penna spuntava una lista per ogni nome che rispondeva all’appello.

Yuri si diresse verso il bar più vicino, dove ordinò il suo secondo caffè della giornata e, dopo un momento di riflessione, un panino perché il suo stomaco aveva cominciato a brontolare.
“In partenza o aspetti qualcuno?” chiese la barista.
“Aspetto” rispose Yuri, perso nei suoi pensieri. Fece un gesto verso l’assenza di bagaglio per sottolineare il fatto. Il panino era un secco, più pane che prosciutto, quindi acquistò una bottiglia d’acqua per mandarlo giù.
Gli ultimi anni a Hasetsu lo avevano viziato con la buona cucina, doveva ammettere, una cosa che il suo corpo ora più grassoccio ben dimostrava. Yuri non aveva mai smesso di fare esercizio fisico, andava a correre almeno quattro volte alla settimana e ogni tanto a pattinare al palazzetto del ghiaccio. Tuttavia, uno morbido di grasso ora ricopriva i suoi muscoli, soprattutto sulla pancia e sulle guance. Dopotutto, aiutare come cameriere e con le finanze della Yu-topia non era certo un duro lavoro. Né lo era aiutare Minako con i bambini classe “3-4 anni” allo studio di danza.

Quando il terzo caffè cominciò a fare effetto, divenne impossibile dormire o addirittura rimanere fermo. Yuri cominciò a passeggiare per l’edificio. Camminò per l’intero perimetro del primo piano, salì al secondo piano e di nuovo giù. Passò rapidamente accanto una serie di anonimi negozi, pieni di persone intenti negli acquisti all’ultimo minuto, che sollevavano magliette con stampe di cattivo gusto e bottiglie di profumi tax-free.
Quando gli altoparlanti annunciarono l’arrivo del volo su cui si trovava Victor, Yuri fu certo di aver creato un solco nell’area di imbarco, con il passo veloce che aveva, cortesia degli anni nell’esercito.

Proprio come Minako, Victor non era invecchiato molto. Il tempo era stato gentile con lui, aggiungendo solo qualche ruga al suo volto. Nonostante la sua paura di diventare calvo, aveva ancora tutti i capelli d’argento, sebbene se l’attaccatura fosse un poco retrocessa. Sotto gli occhi aveva due occhiaie bluastre e camminava con la rigidità di chi è rimasto fermo per ore rimasta. I capelli erano disordinati, appiattiti sul lato contro cui probabilmente aveva dormito. Una leggera curva gli piegava le spalle.
Non aveva altri bagagli, a parte una valigia a mano e un vecchio zaino.
Se Yuri aveva pianificato di rimanere impassibile, la sua volontà crollò nell’istante in cui riconobbe Victor nella folla e quando Victor fece lo stesso.
“Il volo è andato bene? Lo spero. Hai altri bagagli? Sei stanco? Hai fame? C’è un bel posto con dell’ottimo cibo non lontano” blaterò Yuri, gesticolando, non appena Victor fu abbastanza vicino. Era così strano essere finalmente faccia a faccia dopo tutti quegli anni, né amanti né amici, ma nemmeno sconosciuti. Yuri si sfregò la nuca col dorso della mano aspettando una risposta. I suoi occhi non riuscivano a rimanere fissi su un unico punto.
Victor non disse nulla. Si limitò a mettere un dito sulle labbra di Yuri. Il gesto fu inaspettato, ma non sgradito.
Poi Victor prese le guance di Yuri nelle sue mani a coppa, con i pollici appoggiati alla linea di mascella. Si chinò in avanti. Yuri non si mosse.

Le labbra di Victor erano secche e screpolate, ma il bacio fu lento e dolce. Cominciò con timidezza, le labbra che si sfioravano appena. Poi si aprì, piccoli e innocui morsi sui rispettivi labbri inferiori. Era un bacio adatto a persone ancora giovani e appassionate, ma Yuri non se ne curò. Strinse tra le dita alcuni ciuffi d’argento, immergendosi nella sensazione di avere la mano del russo che gli cullava la nuca come era accaduto tutti quegli anni prima, in un vortice di sabbia.
“Non sapevo nemmeno che mi mancava questo” sussurrò Yuri, premendo la fronte contro quella di Victor. Per un solo momento benedetto, smise di essere consapevole dell’affollato aeroporto attorno a loro.
Yuri registrò appena il resto della giornata.

Per l’ora in cui poterono lasciare l’aeroporto, dopo tutti i controlli doganali di rito, era già tardo pomeriggio. Quindi, una volta ad Hasetsu circa un’ora dopo, Yuri si diresse immediatamente al ristorante che aveva menzionato prima. Per quanto volesse dare a Victor un assaggio dei piatti della Yu-topia - Yuri non aveva ancora trovato un katsudon cucinato così bene - sapeva che non avrebbero avuto alcuna intimità nella sala da pranzo delle terme. Un tavolo per due in un bel ristorante sulla costa era invero un preferibile scenario bello. Proprio come molte altre strutture in città, il ristorante era l’unico sopravvissuto della sua categoria. La maggior parte della gente preferiva mangiare in luoghi più economici, come il ristorante ramen vicino al Castello-Ninja o la Yu-topia stessa. Più spesso, soprattutto se giovani, prendevano il treno per Nakasu dove si trovavano tutti i locali alla moda.
Dire che erano così profondamente interessati l’un all’altro da non preoccuparsi del cibo sarebbe un eufemismo. Ma dopo essere stato per più di mezza giornata su un aereo dove il pranzo servito era tutto tranne che commestibile, Victor stava così morendo di fame che si sarebbe mangiato la tovaglia. Anche Yuri doveva ammettere che spizzicare qua e là in aeroporto non aveva affatto riempito il suo stomaco.
Mentre mangiavano Yuri non poté ignorare che gli occhi di Victor su di sé. Sollevò la testa dal piatto.
“Qualcosa non va?” Chiese, le sue bacchette a mezz’aria.
La risposta di Victor fu semplice. “Sei ingrassato” considerò ad alta voce. Yuri lasciò cadere le bacchette nel piatto.
“Oh,” mormorò. “Lo so. È tanto brutto?”
“Niente affatto” lo rassicurò Victor. “Sembri ...” Si interruppe alla ricerca della parola giusta. Aveva un il tic di toccarsi le labbra quando stava pensando, notò Yuri. Proprio come notò i chicchi di riso ancora incollati alla bacchetta di Victor o la goccia di grasso sul labbro inferiore.
“Cosa” insistette, pendendo dalle sue labbra-
“Più felice.”
Era vero. Ma del resto quello era facile.
“Hai questa scintilla negli occhi. È come se stessi brillando” proseguì Victor. Nelle sue lettere non era mai stato parco di complimenti, quindi nessuna sorpresa che non lo fosse anche di persona. Anche i suoi occhi luccicavano di gioia, amore, e adorazione. Le sue parole esprimevano solo il suo profondo bisogno di esprimerli. Yuri avrebbe giurato di aver visto un leggero rossore diffondersi sul naso di Victor, dipingendo la sua pelle chiara con chiazze di rosa. Punzecchiò il proprio cibo.
“Si potrebbe dire che l’esercito non sia mai stato il mio posto” confessò a mezza voce. Incapace di tenere ferme le mani, iniziò a disegnare cerchi intorno al bordo del bicchiere.
“Non sei il solo.”
Yuri alzò lo sguardo. Mentre Victor aveva già espresso la propria insoddisfazione per come stavano le cose nell’Armata Rossa tra le righe delle sue lettere, sentirlo affermare qualcosa di simile ad alta voce fu tutt’altra cosa.
“Credo che tutti noi abbiamo lasciato qualcosa laggiù” affermò Yuri, bevendo un sorso di vino – uno dolce a bassa gradazione alcolica. “La nostra giovinezza” propose.
“O la nostra innocenza” lo corresse Victor. Yuri fece spallucce, ringraziando per la distrazione quando il cameriere portò via i loro piatti ora vuoti .
“Vuoi il dessert?” Chiese a Victor per riportare la conversazione su toni più leggeri
“Volentieri.”
Ordinò due fette di torta al limone calda condite con del gelato del medesimo gusto. Victor si sarebbe mangiato anche le briciole.
Sazi per la cena, ma non ancora assonnato, camminarono su gambe incerte fino all’appartamento di Victor.
Circa un mese prima di lasciare la Russia, Victor aveva chiesto Yuri di cercare un piccolo appartamento dove vivere in. In realtà, le esatte parole che aveva usato al telefono erano state “per noi”, ma si era subito corretto. Yuri ne era stato grato.
Pur sapendo che Victor lo avrebbe presto raggiunto in Giappone, il pensiero di vivere sotto lo stesso tetto come marito e moglie lo spaventava un po’. Per anni il loro amore si era ridotto a nient’altro che struggenti lettere. Il dubbio che avesse amato un’illusione persisteva da qualche parte nel profondo della sua mente. Era la piccola voce crudele che Yuri aveva sentito in varie forme fin dai tempi dell’adolescenza e forse anche prima. Gli diceva che non era abbastanza; che era un codardo; che tutto era colpa sua. Ora stava dicendo a Yuri che la sua storia con Victor non aveva alcuna speranza di durare.
Combatteva ogni giorno per metterla a tacere.
Yuri quindi aveva trovato un bel bilocale nella zona nord di Hasetsu, negoziato con il proprietario per il prezzo e anticipato metà della somma per assicurarsi la vendita. Victor lo aveva rimborsato fino all’ultimo centesimo nelle settimane successive. Il russo avrebbe pagato a rate l’altra metà.
La situazione economica di Victor non era brillante. Con il crollo dell’Unione Sovietica e la conseguente inflazione, la maggior parte della sua ricchezza in liquidità russa si era dissolta nel nulla.
Per fortuna Victor era stato abbastanza intelligente da spostare parte della sua liquidità in più solide banche estere, proprio sotto il naso del governo sovietico. Tuttavia, la crisi economica aveva colpito anche lui. Anche se in patria era benestante, se non ricco, la sua situazione finanziaria non era particolarmente buona nel resto del mondo occidentale. Era una buona cosa che ad Hasetsu i prezzi immobiliari fossero precipitati sotto la pressione della crisi finanziaria che il Giappone stava sperimentando. Inoltre, essi erano stati abbastanza bassi anche prima, in un tentativo di contrastare lo spopolamento della zona.

Non appena chiusero la porta alle loro spalle, Victor prese di nuovo il viso di Yuri tra le mani a coppa. Le sue labbra avevano ancora il gusto della torta al limone che avevano mangiato appena pochi minuti prima. Le dita di Yuri corsero ad ancorarsi alla curva delle spalle di Victor, da usare come leva. Questa volta, dopo un attimo di sorpresa, rispose con fierezza al bacio. Lasciò che la sua bocca si aprisse, mentre le dita afferravano il tessuto della camicia spiegazzata di Victor. Victor odorava ancora di aeroporto.
“Yuri?” ansimò Victor contro le labbra di Yuri, la vera domanda inespressa.
“Sì” rispose in fretta Yuri, prima di manovrare la mascella di Victor per rubare un altro bacio.
“Sei sicuro?”
“Ho avuto cinque anni per pensarci. Sono assolutamente sicuro.”
Yuri diede se stesso un’ immaginario pacca sulla schiena per aver comprato una bottiglietta di lubrificante e un pacchetto di preservativi durante un picco di sicurezza mentre faceva compere per generi alimentari e altri essenziali. Era stato così imbarazzante. Yuri si era sentito osservato fino a casa e durante il tragitto verso l’appartamento dove Victor avrebbe abitato. Ora, però, la rassicurante consapevolezza che tali articoli erano al sicuro ad aspettare nel primo cassetto del comodino ripagava qualsiasi vergogna.
Si spogliarono a tempo di record. Più tardi, con le gambe abbronzate strette attorno alla vita di Victor e Victor ancora dentro di lui, per Yuri fu come se ogni tocco rubato, ogni sguardo non proprio non ricambiato, ogni parola non detta era servita a portarlo lì. Si ricordò di tutte le volte durante la tarda adolescenza e all’inizio dei suoi vent’anni, quando si era masturbato in segreto con un’immagine simile in mente, sognando l’impossibile.
Premette la fronte contro il petto di Victor. Macchie nere e rosa danzarono davanti agli occhi socchiusi, mentre l’orgasmo di Victor scuoteva entrambi i loro corpi. Poi giacquero faccia a faccia.
“Sei qui” mormorò Yuri, allungando un braccio per tracciare il profilo di Victor conl pollice destro. “Sei qui.”
Il corpo di Victor era coperto di cicatrici. Alcuni erano ancora abbastanza recenti, una prova di come la facciata di perfezione che Victor Nikiforov aveva sempre mostrato alle telecamere fosse davvero solo una facciata. Mostravano l’uomo che era stato ferito diverse volte sul campo, l’uomo che era dovuto cadere per spiccare di nuovo il volo.
Altre erano più vecchie, molto più vecchie, e parlavano di un’infanzia travagliata e un padre violento.
“Posso?” Chiese Yuri, con attenzione, le dita sospese sopra il segno perlato di un taglio guarito da tempo. Victor canticchiò la sua approvazione. Fremette comunque sotto il tocco di Yuri.
Yuri tracciò ogni singola cicatrice, non chiedendo come Victor se le fosse procurate, ma limitandosi a crogiolarsi in quel caldo miscuglio di amore e rispetto e timore dato dall’avere Victor sdraiato accanto a lui. Yuri spostò la frangia di Victor per baciarlo sulla fronte, sorridendo contro di essa. Le dita si intrecciarono. Le ginocchia cozzarono le une contro le altre.
“E questa?” chiese Victor, indicando una piccola cicatrice sulla pancia Yuri. Yuri ridacchiò. Contrariamente a Victor, l’esercito era stato gentile col suo corpo tanto quanto non lo era stato con la sua mente.
“Appendicite, nulla di importante” replicò. Victor allora gli premette la schiena contro il materasso, con delicatezza, tenendosi sospeso sopra di lui. Si chinò in avanti, incontrando quella porzione di pelle con le labbra.
“Tutto di te è importante” ribatté. Un rossore si diffuse dalla gola e sul petto di Yuri. Si coprì il viso come una verginella. Victor gli prese i polsi, con tocco gentile ma fermo, e li spostò. Una volta un giornale aveva menzionato gli occhi azzurro ghiaccio del generale Nikiforov come l’epitome della sua freddezza e competenza nel campo. Nulla di più sbagliato. Gli occhi di Victor non erano affatto freddi. Avevano la profondità del mare in estate, la stessa miscela di mistero e tenerezza. E sotto c’era il ricordo di una pericolosità che non andava mai dimenticata.
“Questo è reale?” chiese Yuri, mentre l’ansia sostituiva a poco a poco la beatitudine da post-coitum.
“Sei reale? È un’illusione?” ripeté Yuri, carezzando il volto di Victor.
“E se anche fosse?”
“Non svegliatemi allora.”

Le settimane successive furono piene di attività. Yuri e Victor dovettero reinventarsi e trovare la propria strada a un’età in cui la maggior parte della gente lo aveva già fatto da tempo.

Prima di lasciare San Pietroburgo, a Victor era stato offerto più di un lavoro d’ufficio nell’esercito, senza considerare tutte le proposte di avventurarsi in politica. Tuttavia, come aveva detto sia aa loro sia a Yuri, non poteva più sopportare quell’ambiente.
“Si sono presi abbastanza della mia vita.”
Come disse a Yuri, avrebbe trovato qualcosa. In caso, la sua pensione era sufficiente a garantire loro una vita tranquilla e confortevole. Oppure avrebbe potuto terminare gli studi che aveva abbandonato da ragazzo. Le possibilità sembravano infinite. Yuri di solito non parlava in quei momenti. Si limitava ad apprezzarli e a guardare Victor scintillare di entusiasmo. Era vivo e respirava ed era umano. Questo Victor non era affatto il Generale Nikiforov che il pubblico conosceva

Era il vero Victor Nikiforov, il Vitya che non era mai veramente morto, e di cui Yuri aveva visto porzioni già in Afghanistan.
A volte sembrava ancora irreale, ma poi Yuri aveva il coraggio di afferrare la mano dell’altro e riceveva sempre una stretta in risposta. Una sensazione di pace si diffondeva nel suo stomaco.
C’erano ancora gli incubi. I rumori forti lo mettevano ancora a disagio. Aveva ancora crisi d’ansia nei momenti peggiori. Ma per Victor era lo stesso e potevano trovare conforto l’uno nell’altro. Victor capiva.
Comprarono un grazioso appartamento non lontano da Hasetsu circa un anno dopo che Victor si fu riunito con Yuri in Giappone. Adottarono un cane, un barboncino, proprio come il vecchio cane di Victor. Misero in un cassetto tutto quanto poteva ricordare loro degli anni trascorsi nell’esercito e fecero del loro meglio per dimenticarsi della sua esistenza. Trascorsero intere giornate divertendosi a decorare la casa, acquistare mobili, dipingere le pareti, con la leggerezza di un paio di sposi novelli. Non importava che fossero già sulla quarantina. Victor non perdeva l’occasione per lamentare il proprio rammarico che non si potessero sposare legalmente.
“Beh, forse prima di morire,” Yuri era solito rispondere. Nel frattempo, non avendo altri parenti in vita, Victor aveva sistemato il testamento per nominare Yuri suo erede in caso di morte.
“Sono vecchio, Yuri!”
“Hai solo quarantaquattro anni!”
“Esatto, sono vecchio!”
Ogni volta Yuri finiva per canzonare Victor per le sue parole e baciarlo sulla fronte.
E, una mattina, Yuri si svegliò con lo spazio accanto a lui vuoto ma ancora caldo per il corpo che lo aveva occupato. L’odore di caffè riempiva l’aria, mentre si dirigeva in cucina. La finestra era aperta e una brezza salmastra entrava e smuoveva le tende in mussola. Victor era in piedi davanti ai fornelli, alcune uova friggevano nella padella.
Yuri canticchiò. “Sembrano deliziose, Viten'ka.”
Victor sorrise.
Et même si la route est bien longue à la fin*
Et même si le doute nous fait serrer les poings
L’amour nous rassure, brise les murs
Des incertitudes
J’apprendrais à lire dans ton regard
Je serais le dernier des remparts
Rien ne sera plus comme avant,
Non c’est le début je le sens

Note:
Abbiamo finito! Be’, quasi. Scriverò ringraziamenti, riflessioni, altre cose e tutto nel prossimo e l’ultimo capitolo. Ma per ora la storia è finita. Potete considerarlo un finale felice, ma per me ha un sapore agrodolce. Molto è stato perso e non tornerà più indietro.
Questo capitolo è stato probabilmente il più lungo che abbia mai scritto, ma il flusso era così bello che semplicemente non potevo fermarmi.

L’ultima citazione è dalla versione francese di “Il mio inizio sei tu”. Si adattava così bene con la storia che ho deciso di utilizzarlo.

http://gwen-chan.tumblr.com/post/160411036582/military-au-victuuri-victor-wrote-various

* E anche se la strada per l’arrivo è ancora lunga
e anche se i dubbi ci fanno stringere le mani a pugno
l’amore ci rassicura, rompe i muri dell’incertezza
Imparerò a leggere nel tuo sguardo
sarò il tuo ultimo baluardo
Nulla sarà mai più come prima
No, questo è l’inizio, me lo sento.

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Epilogo. Il Taccuino Blu ***


Epilogo - Il taccuino blu

“Cosa stai facendo?” chiese Yuri, appoggiandosi alla schiena di Victor e allacciando le braccia attorno al suo collo, le dita intrecciate vicino allo sterno. Era un normale pomeriggio di un giorno feriale, pochi mesi dopo essersi trasferiti. Victor stava alla scrivania in camera da letto, completamente concentrato nello scrivere qualcosa.
Yuri sbirciò da sopra le spalle del compagno, cercando di vedere che cosa stesse scrivendo Victor in un ordinato cirillico. Yuri non conosceva abbastanza bene la lingua per comprenderla a prima vista, ma aveva imparato a riconoscere il proprio nome. Mise una mano alla pagina sulla quale Victor stava lavorando per impedire all’uomo di girarla. Poi gli diede un lieve bacio sulla sommità della testa
“Andiamo” scherzò Yuri, mentre Victor cercava di nascondere il taccuino col proprio corpo. “Nessun segreto tra noi. Che cos’è?” continuò.
Ci fu una pausa, con Victor ancora mezzo spalmato della scrivania, il taccuino premuto sotto il petto.
“Be’?” insistette Yuri, facendo scivolare le dita lungo i fianchi di Victor e iniziando a giocherellare con l’orlo della maglietta. Sapeva benissimo quanto Victor soffrisse il solletico in quel punto.
“Sei un uomo crudele, Yuri”, protestò Victor. Tuttavia, si ritrasse lentamente, sospirando.
“Prometti che non riderai, o non lo troverai inquietante?”
Fece ruotare la sedia per fronteggiare Yuri. Yuri sollevò il mignolo.
“Giurin giurello.”
“E croce sul cuore” chiese Victor.
Yuri obbedì, tracciando una croce gigante sul petto.
“E giura” - Yuri aprì la bocca per farlo contento - “in russo!” Precisò Victor.
“Ora stai esagerando! Andiamo!” Yuri lo prese in giro, ma nella sua voce c’era solo affetto.
“Quand’è che il Generale Nikiforov è diventato così pauroso?”
“Ho paura solo quando si tratta di amare” si difese Victor. “Puoi biasimarmi?”

Sotto lo sguardo impaziente di Yuri, si decise infine a portare un braccio dietro la schiena per afferrare il taccuino e consegnarlo a Yuri. La copertina, di un azzurro che un tempo doveva essere stato brillante, era sbiadita. C’era una MADE IN USSR scritto in lettere maiuscole sul retro-copertina, come nella maggior parte degli oggetti di Victor che risalivano agli anni a San Pietroburgo.

Yuri girò un’altra pagina. La sua attenzione fu subito attirata da una piccola foto incollata nell’angolo in alto a sinistra. Raffigurava lui. Più giovane e serio, vestito nella sua uniforme. Si chiese come Victor avesse potuto ottenere una foto simile, ma poi si ricordò dei legami che Victor aveva con alcuni ufficiali del KGB. Yuri non dubitava che la signorina Milla Babicheva fosse coinvolta.

Yuri svogliò rapidamente le pagine, gli occhi che scorrevano i paragrafi che le riempivano. A volte erano spezzati da foto sparse. Il 5 dicembre 1985 era la data più vecchia del taccuino e quella odierna la più recente.
“Hai scritto un dossier su di me?” rifletté Yuri a voce alta. Victor fece un timido sorriso.
“Colpevole” ammise.
“Perché lo stai scrivendo ancora scrivendo adesso?” chiese Yuri dopo un po ‘. Victor scrollò le spalle.
“C’è sempre qualcosa di nuovo da scoprire e quando succede mi piace annotarlo” si giustificò. “Sono patetico, vero?”

Yuri scosse la testa. “Niente affatto” ribatté. Lanciò il taccuino in grembo a Victor.
“Torno tra un minuto” gridò subito dopo, già uscendo dalla stanza.
Il minuto si trasformò presto in un’ora. Tra il trasloco ancora piuttosto recente e il fatto che non lo apriva da tempo, Yuri aveva solo una vaga idea di dove fosse il dossier “Victor Nikiforov”.

Era abbastanza sicuro di averlo visto appoggiato su una delle scatole sparse attorno alla libreria appena montata, ma a quanto pare si sbagliava. Le scatole rigurgitavano ogni tipo di libro, dalla narrativa alla politica, tranne quello che gli serviva.
Poi il flash di un quaderno dalla copertina gialla che sbucava da sotto il giornale lasciato in cucina gli attraversò la mente. Yuri lo seguì, trovando il suddetto giornale, ma ancora nessuna traccia del taccuino.
Gli sovvenne anche dell’abitudine di Victor di afferrare la prima cosa disponibile per spiaccicare le mosche quando svolazzavano per caso. E l’ultimo posto dove Yuri lo aveva visto cercare di schiacciare una mosca era …
“Tombola!” Esclamò. Le dita si curvarono attorno alla costa del quaderno per ripescarlo da dove era finito, in mezzo ai cuscini del divano.

le dita arricciandosi intorno alla spina del notebook per raccoglierla tra i cuscini del divano. Accarezzò con riverenza la data sulla prima pagina

08 marzo 1977

All’epoca aveva ventitré anni, così giovane, così inesperto. Era solo un ragazzo in un ambiente nuovo e spietato, con un taccuino nascosto sotto il materasso della brandina. Ancora così ignaro di quello che avrebbe passato.
La prima parte del vecchio dossier lo investì come un’onda con tutti i ricordi di un giovane diligente e appassionato che ricopiava appunti in bella scrittura, con la concentrazione di un uomo in missione

Le frasi erano concise, lo stile militare.
Quella sezione terminava poche settimane prima dell’infame missione congiunta. La prima data successiva era il 5 maggio 1988 , neanche cinque giorni dopo. Le parole erano rapide e incerte, sbavate e ormai quasi illeggibili. Yuri aveva dovuto far appello a tutta la sua forza per scriverle, un impeto improvviso contro il mare di apatia in cui annegava. L’inchiostro aveva lasciato una grossa macchia sulla carta come una lacrima.
Victor Nikiforov ha detto di amarmi. È possibile?
È possibile tornare indietro nel tempo?

12 febbraio 1991
Victor afferma ancora di amarmi. È possibile tornare indietro nel tempo?

Quando la seconda lettera di Victor era giunta da San Pietroburgo, già Leningrado, a Hasetsu, nelle mani di Yuri, Yuri aveva lentamente cominciato ad accettare la consapevolezza di aver perso l’occasione di una vita. Avrebbe conservato nel cuore i pochi bei momenti che aveva avuto con Victor e sarebbe andato avanti. Non che non fosse pronto ad aspettare, ma non aveva dubbi che Victor, nonostante le sue parole, avrebbe presto trovato qualcun altro.
Così, quando Yuri aveva letto Victor professare ancora il proprio amore per lui, la stanza aveva cominciato a ruotare così tanto che aveva dovuto sedersi sul pavimento. Calde lacrime calde erano cadute sugli occhiali.

19 gennaio 1993
Credo di aver avuto un attacco di cuore. Non sapevo che la sua voce mi mancasse così tanto.
Sembrava così stanco.

Yuri ricordava come Mari si fosse confrontata con lui la stessa notte che aveva telefonato a Victor per la prima volta. La donna chiese se potevano parlare, col tono che usava quando erano bambini per indicare che c’erano questioni tra fratello da discutere. Mari non aveva peli sulla lingua.
“Chi hai chiamato?”

Yuri era arrossito, si era mordicchiato le labbra e aveva cominciato ad agitarsi. Sebbene Mari sapesse qualcosa della quasi ossessione di Yuri per Victor – per il Generale Nikiforov – perché Yuri aveva sempre fatto scivolare qualche informazione nelle lettere che spediva a casa, Yuri trovò difficile spiegare tutta la situazione. Temette un po’ per la vita di Victor, poiché Mari era una sorella molto protettiva.
“Ti ricordi del Victor di cui ho scritto?” esordì Yuri.
Mari sbuffò. “Come potrei?”
Yuri sorrise timidamente. “Be ‘, io, lui ...” Yuri fece un respiro profondo, la lingua pesante.
“Ci siamo innamorati.”

Mari era stata la prima persona con cui Yuri aveva fatto “coming-out”. In verità, non c’era mai stata una dichiarazione ufficiale, un momento nella sua giovinezza in cui aveva raccolto tutto il suo coraggio, si era seduto davanti ai suoi genitori e aveva detto loro che gli piacevano ragazzi e ragazze, ma principalmente ragazzi. E qualche anno dopo, un uomo in particolare. Non era mai avvenuto.
Mari, tuttavia, aveva beccato una volta Yuri che baciava un ragazzo dietro la scuola, poco prima di tornare a casa dopo le lezioni e il turno di pulizia. Era stato verso l’ultimo anno delle medie.
Quindi era stata Mari ad affrontarlo per prima, anche allora, promettendo di non dire nulla ai loro genitori, come aveva supplicato uno Yuri adolescente. Ufficialmente non aveva mai violato la promessa, ma Hiroko Katsuki era una donna molto attenta e una madre: poche cose possono sfuggire a una simile combinazione. Non era nell’atteggiamento, più nei dettagli. Era il modo in cui suo figlio arrossiva per i complimenti di alcuni compagni di classe. Poi arrivarono le lettere, dopo che Yuri si era arruolato, le prime volte in cui Yuri aveva fatto accenno a Victor Nikiforov. I semi di una cotta destinata a crescere in amore pieno erano già lì.
Alla fine Hiroko aveva tutto detto a suo marito, che era un po’ vecchio stile, ma aveva pensato che ci potessero essere cose peggiori.
“Vuoi andare a vivere con lui?” Chiese Mari senza giri di parole. Yuri sospirò, l’idea era ancora troppo nuova per pensarci con la dovuta attenzione.
“Non lo so. Un giorno, magari. Sarebbe bello, suppongo. Non l’ho visto per anni. Sarei felice di non averlo così lontano “.
Un altro problema. “Non lo so.”
Yuri aveva poggiato la testa sulle ginocchia, mentre la tristezza calava su di lui, grande quanto era stata la felicità che aveva sentito prima. Mari gli strinse una spalla.

Non gli aveva fatto alcuna ramanzina, anche se aveva toccato con mano come una relazione potesse andare in rovina. Pur con la diretta esperienza di un matrimonio fallito, Mari si astenne dal versare negatività sulla gioia ancora intatta di suo fratello. In fondo, qualsiasi cosa era meglio del guscio d’uomo che gli Stati Uniti e l’esercito avevano rimandato a casa. Così si limitò a dire: “Credo che prenderai la giusta decisione. Qualunque sia, ti sosterrò “.
“Grazie.”

Yuri era stato grato di avere una sorella come Mari.

9 maggio 1993
Sta per venire ad Hasetsu. Un giorno e sarà qui. Può una persona sentire paura, felicità e dolore allo stesso tempo? Dio, spero che vada tutto bene.

Yuri aveva dovuto usare tutta la sua forza di volontà per non accamparsi in aeroporto dopo che Victor aveva chiamato per comunicargli la data e l’ora del volo.

10 maggio 1993
C’erano kanji rapidi e disordinati, parole scritte nella lingua madre di Yuri nella fretta del momento. La scrittura era confusa.

Mi ha baciato e mi stavo sciogliendo. Mi ha fatto i complimenti. Non riesco a smettere di sorridere.

Poi, poche righe sotto, scritto così in piccolo come se Yuri avesse avuto paura di metterlo su carta.
Abbiamo fatto l’amore.
È qui. È qui.

L’aveva scritto per tutta la pagina.

20 settembre 1993
Victor Nikiforov è il mio ragazzo. L’ex Generale dell’Armata Rossa, orgoglio di Russia, Victor Nikiforov è il mio ragazzo. Non so come sia successo. Non so nemmeno se sia veramente accaduto.
Per favore, non svegliatemi.

Spesso Yuri si chiedeva che nome dare a quello che Victor era per lui. Ragazzo era una parola troppo semplice e banale, buona per adolescenti, non per loro. Victor non era nemmeno suo marito, tecnicamente. Né era il suo amante o il suo promesso. Compagno sarebbe potuto essere una possibilità migliore, ma Yuri non ne era del tutto sicuro.
Una volta aveva fatto menzione del problema con Victor. L’uomo aveva ridacchiato. “È davvero importante?”
Yuri aveva scrollato le spalle. “Non credo.”
Le ultime dieci pagine erano invece tutti i piccoli alti e bassi che derivavano dal vivere giorno per giorno con Victor. Un sorriso pieno d’affetto arricciò le labbra di Yuri mentre leggeva l’ultima frase, qualcosa sull’incapacità di Victor di cucinare del riso senza bruciare tutto.
“Yuri, tutto bene?” La voce di Victor lo riportò alla realtà. Guardò l’orologio sulla parete, sgranando gli occhi nello scoprire che Victor aveva aspettato per quasi un’ora e mezza. Yuri si precipitò da lui, profondendosi in scuse.
“Scusa per l’attesa” disse Yuri. “Stavo cercando questo” spiegò, mostrando il quaderno giallo con la trepidazione di un bambino. Lo offri a Victor. Le mani tremarono quando il russo lo prese. Spostò il peso da piede all’altro, in attesa.
“Oh” sussurrò Victor sfogliando le prime pagine. “Avevi ragione, saresti stato una buona spia” considerò, parlando più a se stesso che con lui. Chiuse il taccuino usando l’indice destro come segnalibro.
“Posso leggerlo?”
“Non te lo avrei dato altrimenti.”
“Giusto. Cos’è quella faccia? “
Il viso di Victor si corrugò in una smorfia, rispecchiando la ruga tra gli occhi di Yuri. Non importava quanto si sforzasse, non era bravo a nascondere le proprie emozioni.
“Qualcosa non va?” Chiese Victor, sollevando una mano per afferrare delicatamente il polso di Yuri. Yuri distolse lo sguardo, fissando un punto imprecisato sul parquet.
“È che … non avrei mai pensato che un giorno lo avresti letto” spiegò Yuri, timido, come se si stesse giustificando.
Senza dire una parola, Victor portò la mano di Yuri alle labbra, premendole leggermente contro la terza nocca dell’anulare. Vedere il rossore diffondersi attorno al naso di Yuri era un così dolce spettacolo.
“Te lo restituisco non appena finito” disse Victor, dando dei colpetti sulla copertina gialla.
“Tienilo” ribatté Yuri. Non ne aveva più bisogno.
“Vuoi leggere quello che ho scritto su di te?” propose Victor poco dopo, quasi come uno scambio, mentre metteva il taccuino giallo nel primo cassetto della scrivania e prendeva nuovamente quello blu. “Posso tradurre, naturalmente.”
L’offerta era dolce, invitante. Non era mai stato facile per Yuri sapere che le persone avevano le loro opinioni su di lui. Il non sapere quali fossero dava terreno fertile ai peggiori scenari che la sua mente poteva produrre. Rendeva giganti difetti altrimenti piccoli, al punto che Yuri non riusciva più a pensare ad altro. Tuttavia, era anche consapevole dell’immaturità di un simile comportamento. Il non poter conoscere ogni singolo parere che altri avevano su di lui non significava che tali opinioni fossero negative. La paranoia era una bestia che andava lasciata morire di fame.
Yuri fece un respiro profondo.
“No, non ne ho bisogno”.
“Sicuro?”
Yuri annuì, sedendosi in grembo a Victor. “Sì” assicurò, “col tempo mi dirai tutto ciò che hai notato su di me.”
Scegliere di non sapere cosa Victor avesse scritto di lui era un atto di fiducia. D’amore. Proprio come lo era dare a Victor uno degli oggetti che aveva più caro. Raccontava la sua fiducia con voce forte e chiara.
“È una lunga lista “ lo avvertì Victor. Yuri non batté ciglio.
“Abbiamo tempo.”
Era buffo come solo un anno prima Yuri non avrebbe mai nemmeno osato immaginare di sedersi sulle cosce di Victor, col braccio sinistro di Victor stretto pigramente attorno alla vita, le dita appena premute sulla pancia che sfioravano il cotone della maglietta.
“Mi piace quando sei così audace” mormorò Victor.
“Audace?” Chiese Yuri.
“Sì. È sempre così inaspettato” continuò Victor. Portò l’indice della mano libera alla bocca, picchiettandosi il labbro inferiore nel cercare la parola giusta.
“E ti piace?”
Lo stuzzicò Yuri, assecondando un’improvvisa ondata di fiducia. Si mosse un poco per cambiare posizione, strusciando le natiche contro l’inguine di Victor, in una maniera che non era affatto accidentale.
“È estremamente affascinante, Yuri, credimi” aggiunse Victor con voce bassa e seducente, catturando le sue labbra.
Il taccuino blu cadde sul pavimento.

Note:
Ok. È la fine. Per la seconda volta.
Forse la risposta è stata minore di quella che mi aspettavo, ma sono ugualmente contenta di tutte le persone che hanno letto e commentato.
Menzione speciale a riiko88 che ha recensito ogni capitolo, puntuale come un orologio svizzero.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3670968