Questi personaggi
non mi appartengono, ma sono proprietà di sir A.C.Doyle,
Moffatt Gatiss BBC ecc.; questa storia è stata scritta senza
alcuno scopo di lucro per il mio puro divertimento
Angolo autrice:
Primo di quattro
capitoli dedicati alle quattro stagioni e a quattro diversi sentimenti.
Iniziamo con inverno e malinconia, poi arriveranno stagioni
più “allegre”. Ho deciso
praticamente di riformulare alcuni pensieri post quarta stagione,
già presenti in due mie os, in modo da dargli più
consistenza e un happy ending.
Spero vi piaccia e grazie a chi
leggerà, un abbraccio!
Inverno
La neve sta
cadendo soffice, imbiancando i tetti della mia Baker Street ed io sono
come ipnotizzato dal lento e perfetto scendere dei fiocchi.
Mi avvicino alla
finestra, rapito da quella danza che mi appare davanti.
C’è tanto silenzio e sembra che la neve stia
inscenando un numero di ballo soltanto per me, che osservo pensieroso.
E’
sicuramente l’ultima nevicata dell’anno, la
primavera si sta avvicinando con tutti i suoi colori e i suoi profumi e
soprattutto il suo clima mite, è l’ultima sferzata
dell’inverno. Questo clima così silenzioso, questo
momento come perso nel tempo, come se improvvisamente
l’appartamento fosse stato chiuso dentro una palla di vetro,
mi riporta malinconicamente ad un inverno di tanti anni prima, quando
complice qualche bicchiere di brandy di troppo, avevo insegnato a John
a ballare il valzer, con soltanto la luce del camino ad illuminare le
nostre sagome e i nostri volti.
« Ma
sta nevicando? »
Avevo quasi dimenticato che John era salito nella sua vecchia camera,
credo in un attacco di nostalgia o forse solo per recuperare le cose
che non aveva mai avuto la forza di portare via dal 221B.
John e la piccola
Rosie vengono a trovarmi sempre più spesso, soprattutto
quando si tratta di ascoltare i clienti o di risolvere i casi stando
comodamente seduti in poltrona. A dir la verità, noi stiamo
comodamente seduti in poltrona, mentre la piccola Watson, degna
figlia di John e Mary, gattona per l’appartamento giocando
con tutto quello che le capita a tiro. Ho dovuto nascondere buona parte
delle mie cose per evitare che si facesse male, rimpiazzati con
peluche, palline e pupazzetti.
Fa male quando i
Watson vanno via; ogni volta mi ritrovo da solo, a fissare la mia
figura nello specchio, circondato dai giocattoli lasciati a terra e da
quel leggero profumo di dopobarba che John non ha mai cambiato, anche
dopo tanti anni.
«
Nevica, incredibile » ripete John sconsolato, avvicinandosi
anche lui alla finestra e per un attimo mi sembra di scorgere uno
sguardo malinconico diretto verso di me. E’ questione di un
secondo, non sono sicuro sia successo davvero, forse voglio soltanto
che mi guardi come faceva una volta, quando eravamo soltanto noi due
senza tutte le cicatrici che ci portiamo addosso.
«Potreste
restare qui, stanotte » Mi trovo a dire senza avere il tempo
di riflettere seriamente su quello che sto proponendo «Solo
finché non smette di nevicare, non credo che troverete un
taxi con questa bufera » aggiungo, mentre la piccola Rosie fa
dei versi dal seggiolone che sembrano confermare che la mia
è una buona idea.
John sussulta per
un attimo, mi guarda alla ricerca di una risposta e poi ritorna a
contemplare la danza della neve. Mi piacerebbe poter dire di aver
finalmente compreso tutte le sfumature dei sentimenti, che tutto quello
che mi è accaduto mi abbia reso “più
umano”, ma sono ancora in balia di situazioni che non
comprendo. No, forse non mi piacerebbe poter dire questo, almeno non
sempre; a volte mi manca filtrare tutto esclusivamente con la logica e
la ragione. In ogni caso, la reazione di John mi lascia confuso,
soppesa la cosa come se non gli andasse di restare nel nostro vecchio
appartamento e non ne capisco del tutto la ragione. Credevo che ormai
le cose tra noi fossero sistemate e superate, che fossimo di nuovo il
detective con il cappello e il dottore che non è mai tornato
dalla guerra, o almeno che questo valesse per lui.
Il silenzio
galleggia ancora, pesantemente, nell’appartamento
finché John non sussurra un “va bene”,
quasi rassegnato, prima di sparire in cucina per preparare la
cena.
Il leggero
zoppicare di John, il rumore di piatti e pentole, l’acqua che
bolle sul fuoco, sono tutti rumori che sanno di casa e di qualcosa che
non c’è più da troppo tempo. Sento
l’immediato bisogno di coprirli con qualcosa che mi rilassi e
mi porti distante, almeno per un attimo. Non me ne rendo nemmeno conto
quando prendo in mano il violino e inizio a suonare una composizione
molto malinconia, qualcosa che rappresenta perfettamente il mio attuale
stato d’animo, come irrimediabilmente spezzato.
Credevo di aver
superato tutto, invece sono qui a lottare per rimettere insieme il mio
mondo in frantumi.
«
Smettila, per favore »
Quella frase,
così perentoria, mi lascia senza fiato. Le mie dita tremano
leggermente sull’archetto mentre mi volto, solo per notare lo
sguardo triste di John, altro dettaglio che non capisco. Mi sembra
sempre che il fantasma di Mary aleggi tra noi; mi ha confessato di
averla vista, in un certo senso, per molto tempo, almeno fino a due
mesi fa, quando si è deciso a confessare tutto quello che
avrebbe voluto dirle in vita.
«
Qualcosa non va? » chiedo.
« Stai
suonando il valzer del matrimonio, Sherlock! »
Lo guardo
stranito « No, John. E’ un valzer ma non
è quello »
« Beh
è molto simile, per favore suona qualcos’altro
»
Mi guardo
riflesso nel vetro della finestra e noto un sorriso triste prendere
forma sul mio viso. Ho scritto il valzer per il matrimonio con estrema
fatica e solo adesso mi rendo conto che non rappresentava
l’amore tra John e Mary ma la mia visione
dell’evento, la tristezza che mi ha accompagnato per tutta la
cerimonia e ciliegina sulla torta, John nemmeno ricorda la
melodia, al punto da confonderla con un’altra.
Appoggio il
violino e torno nuovamente a fissare fuori dalla finestra,
“It is what it is” mi riaffiora alla mente e alla
fine capisco che è questo quello che abbiamo e me lo devo
far andare bene così com’è.
Sono talmente
preso dai miei pensieri che non mi accorgo nemmeno che John è arrivato
alle mie spalle, posso vedere il suo sguardo, malinconico quanto il
mio, riflesso nel vetro della finestra.
«
Scusami, Sherlock »
« Per
cosa? »
« Per
tutto. Mi sono reso conto di non averti mai chiesto scusa per averti
accusato della morte di Mary, per averti picchiato in
obitorio… » la frase resta in sospeso, inconclusa,
mentre il respiro di John accelera leggermente. Mi volto, solo per
dimostrargli che non c’è biasimo né
rancore, non ne ho mai avuto per lui. Ho sempre saputo di non meritarmi
la sua amicizia e ho sempre temuto che avrei fatto qualcosa che
l’avrebbe rovinata, invece lui è ancora qui,
nonostante tutto.
« Non
c’è bisogno che ti scusi, non funziona
così tra noi » rispondo serio, senza traccia di
dubbio nelle mie parole e nel mio sguardo.
« Ti
sei scusato più volte quando sei tornato dalla morte, per te
le regole valgono diversamente? » chiede sarcastico e poi
resta in silenzio, un’altra pausa. Continua a ricordarmi del
salto dal tetto, anche in momenti in cui non ci sarebbe il motivo e mi
chiedo se l’abbia effettivamente superato del tutto.
« Beh,
era un po’ diverso. Dopo due anni le scuse erano
d’obbligo » rispondo, accennando un leggero sorriso
che sembra rallegrare anche il mio dottore.
John ha una vasta
gamma di sorrisi, alcuni più luminosi di altri. Ha un
sorriso di cortesia, non falso ma semplicemente educato. Ha un sorriso
allegro, quando qualcuno dice una battuta o scherza. Ha un sorriso
perfino per quando è arrabbiato, quando trattiene tutta la
furia dietro ad un sorriso tirato, reso ancora più glaciale
dallo sguardo. Ha un sorriso particolare che rivolge soltanto alla
piccola Rosie, quello di un padre felice e orgoglioso e aveva un
sorriso che riservava soltanto a me e non l’ho più
visto dalla sfortunata avventura che ci ha portato da Charles Augustus
Magnussen, se non forse per un attimo, l’ultima volta che ho
indossato il cappello per lui.
Eppure, forse
è stato soltanto per un secondo, o forse lo voglio talmente
tanto che la mia vista è stata ingannata dai miei desideri,
ma mi è sembrato di veder riaffiorare in lui quel sorriso
luminoso, pensato solamente per me.
« In
dispensa avevi solo del riso, dovremo cenare con quello »
cambia argomento, come trattenendosi, come se avesse voluto dire altro
ma alla fine avesse optato per quella frase « Fortunatamente
ho qualche omogeneizzato per Rosie »
«
Perfetto, John » rispondo calorosamente, mentre si volta e
ritorna in cucina, lasciandomi in mezzo al salotto alla ricerca di
risposte a domande che non oso fare.
Qualche ora dopo,
quando finalmente Rosie è crollata dal sonno e siamo
riusciti a portarla al piano di sopra, ci ritroviamo stranamente
rilassati in poltrona, come se il calore del camino stesse sciogliendo
il gelo palpabile fino a qualche secondo prima.
John mi sembra
distante a volte, soprattutto quando è qui, a Baker Street.
Quando il gioco inizia e il campo di battaglia è pronto,
ritorna il vecchio Watson leale compagno di avventure, ma quando
rimaniamo da soli, sento sempre il peso di qualcosa che resta in
sospeso tra noi. A volte vorrei poter soltanto dire qualcosa di stupido
che spezzi la tensione, ma negli ultimi tempi mi sembra quasi difficile.
« La
signora Hudson sarà felice di preparare la colazione per tre
domani mattina » commento, prendendo un sorso del
tè preparato con cura da John.
«
Felice mi sembra eccessivo, l’ho sentita gridare che non solo
non è la nostra governante ma nemmeno la babysitter
» scherza, quasi divertito.
«Eppure
le fa piacere occuparsi di Rosie »
Bevo un altro
sorso di tè, cercando di non perdermi
nell’illusione di John nuovamente in Baker Street, immersi
nella nostra routine. Niente sa più di noi due che essere
seduti nelle nostre poltrone, davanti al caminetto con una tazza di
tè in mano. Eppure, a volte, ho la sensazione che non
abbiamo mai parlato davvero di cose personali; tante volte ho sperato
accadesse come nel mio palazzo mentale, solo noi due, da uomo a uomo,
ma sono sempre stato il primo a evitare questo genere di conversazioni
e di certo non le ho mai incoraggiate.
« Sai,
delle volte sono nel mio appartamento, circondato da mobili che mi
rendo conto di non aver scelto io ma che piacevano a Mary e mi sento
come un estraneo a casa mia » mi confessa ad un tratto,
probabilmente il suo sguardo aveva vagato in giro per il 221B ed era
arrivato a questa particolare conclusione.
«
Potresti prendere altri mobili »
«Anche
qui non ho scelto niente, erano tutti mobili della signora Hudson, ma
non ho mai avuto questa sensazione » Continua con il suo
pensiero, come se la mia interruzione non ci fosse mai stata e in fin
dei conti, credo non stia parlando davvero di mobili.
« Cosa
intendi? »
« Non
lo so, onestamente » mi confida e per un attimo mi
regala davvero il sorriso di John Watson, migliore amico, coinquilino,
blogger.
Questo strano
discorso mi aiuta comunque a prendere coscienza di qualcosa che forse
avrei dovuto capire prima: Baker Street era un porto sicuro per John,
il luogo dove aveva messo da parte l’insoddisfazione di
essere tornato dalla guerra per abituarsi alla vita civile,
dove, spero, si sentisse a casa e poi rapidamente è
diventato un luogo tetro, dove aleggiava ancora il mio spirito, dove
Mary ha confessato di avergli mentito, dove era così
difficile tornare per ammettere che alla fine, anche lui era umano.
«
E’ per questo che non ti piace stare qui? Ti senti in colpa
verso… i tuoi mobili? »
John sorride di
nuovo, anzi accenna quasi ad una risata « In un certo senso
»
Restiamo qualche
minuto in silenzio, prima che John si sieda sul bordo della poltrona e
protenda la schiena verso di me, come per avvicinarsi e per dirmi
qualcosa di intimo forse, sicuramente qualcosa di importante che non
poteva pronunciare nella posizione rilassata in cui si trovava.
«
E’ un nuovo inizio, Sherlock? »
« Uno
dei tanti »
« Non
dire così, non credo di poter reggere il dovermi reinventare
di nuovo, ancora una volta »
Capisco davvero
cosa voglia dire, ho dovuto reinventarmi più volte negli
ultimi anni, cercando sempre di accettare le cose come venivano.
Mi porto
anch’io sul bordo della poltrona e allungo una
mano, tremante, in modo da poter prima sfiorare con le dita la mano di
John, col desiderio di prenderla, come a infondergli un qualche
coraggio, una rassicurazione sul futuro. Sembra sciocco ma sono davvero
preoccupato che all’ultimo la sposti, che mi dica che non
posso in alcun modo promettergli niente, che ho già fallito
in passato; invece non si muove e attende che la mia mano si chiuda
sulla sua.
E’ un
nuovo inizio e presto sarà primavera.
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