L'Incantatrice di Travale

di ToscaSam
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** fiamme nella culla ***
Capitolo 2: *** l'amuleto della cornacchia ***
Capitolo 3: *** le mamme di Elena ***
Capitolo 4: *** servus servorum dei ***
Capitolo 5: *** le vergogne ***



Capitolo 1
*** fiamme nella culla ***


Questa è la storia di Elena da Travale, detta l’Incantatrice. Giovane donna realmente esistita, che visse in Toscana nel XV secolo. La fantasia vuole qui avviluppare quel che la storia ha lasciato a pezzi e bocconi, vuole ricucire una trama bucherellata dalla quale tuttavia si percepisce un disegno intrigante e misterioso.
 
 
Ripamarrancia 1, 1400
 
Il sole splendeva caldo sui  celi di un piccolo borgo che affondava le sue radici in una meravigliosa collina della Toscana. Le mura di pietra delle case sembravano chiedere al sole di non staccarsi mai da quell’abbraccio rovente ed emanavano un senso di fuoco che accentuava ancora di più l’aria estiva.
Si sarebbe detto che non avrebbe potuto esserci nemmeno una goccia d’acqua e che le gole degli abitanti fossero costrette a rimanere arse e asciutte fino all’arrivo della stagione più fresca; eppure, in gran fermento, una donna tarchiata rivestita di cenci sudati, correva con un secchio in mano.
Gridava: « Fate passare! Fate passare! ». I pochi coraggiosi che si erano addentrati nel rogo delle strade si scansavano chiedendosi il perché di tanto chiasso.
« Nasce ora ora il figliolo di madonna Eunice» biascicava la poveraccia fra i sospiri della furia.
Tutta la folla si trasformò in un brusio di assenzi monosillabici e la donna corpulenta fu fatta passare senza indugi, così da farla giungere più velocemente alla sua destinazione.
Dovette percorrere diversa parte del paese prima di poter attingere alla cisterna dell’acqua e ovunque la sua marcia forsennata incontrasse sguardi curiosi, la povera affaticata si affrettava senza fiato a raccontare che la sua padrona stava partorendo.
Intinto il secchio nella grande pozza d’acqua che, vista in controluce pareva ricoperta da un mantello polveroso, prese un caldo respiro e i suoi bronchi intasati dall’afa e dall’affanno si concedettero una sorsata di ossigeno leggermente più abbondante.
Quando il secchio fu pieno, la serva riprese la sua marcia, ora affaticata dal peso maggiorato che gravava sul suo braccio largo e traballante.
Aveva assunto una consistenza scivolosa e lucida, quasi gommosa, simile alla pelle di una lucertola. La sua grossa persona respirava con toni pesanti e mucosi, provata dalla frusta del sole e dall’ansia di dover aiutare una buona donna.
Finalmente quella zoppicante figura trasse un qualcosa di simile a un sospiro di sollievo, sempre nella sua tossicchiante maniera, quando davanti ai suoi occhi comparve la nota sagoma di un arco antico di pietra.
L’ombra della donna sparì dentro una porticina secondaria incastrata al fianco della vecchia struttura. Dall’interno, la donna seguì i gridi di dolore della sua padrona, partoriente.
« Quartilla, ce l’hai fatta?!»
« C’era gente che chiedeva un monte di cose, e poi un caldo, madonna! Come mai ce n’era stato in questi giorni»
La sua voce rauca era l’esasperazione della sete e della gola secca.
Affidando il secchio a una giovane donna con i capelli raccolti dentro un velo grigio, Quartilla si abbandonò su una pancaccia vicino alla parete.
« Su, madonna. Ce la farete, com’hanno fatto tutte le donne di questo mondo, come fece vostra madre per far nascere voi!»
Disse la giovane, inzuppando uno straccio bianco nell’acqua e posandolo poi delicatamente sulla fronte della donna sudata, sdraiata sul letto, che gridava.
« Avete sentito che fresca che è? Quartilla è stata brava, via… »
Parlava sorridendo con le piccole labbra minute, sperando di mettere di buon umore colei che soffriva e gridava.
Quartilla guardava il secchio con avido scoraggiamento: era l’unica acqua disponibile in casa e in quel momento le veniva insudiciata sotto gli occhi da uno straccio sudato e mezzo insanguinato.
L’unico modo per poter bere, pensò fra sé, era quello di ritornare alla vasca.
Disperata, lasciò cadere la pesante testa su una spalla e si raschiò un po’ la gola, sperando di dissetarsi con la sua stessa saliva.
D’un tratto gli strilli di madonna Eunice e le premure della levatrice Alina alzarono di tono e, sobbalzando sulla panca, Quartilla dette una sbirciatina verso la porta del mondo.
« Guardate, si vede un capino!»
Esultò, con lo sguardo ora fisso fra le gambe della partoriente, per vedere la creatura che ne sarebbe uscita.
« Brava, madonna! Brava che siete! Spingete un altro pochino e la creatura manda fuori il capo! Uscito quello è facile, madonna, via! »
La giovane levatrice con il velo grigio si spostò, lasciando la pezza bagnata sulla fronte di Eunice, e si posizionò ad aiutare la creatura ad uscire.
Quartilla allora intese che era il suo turno di fare coraggio alla signora e si precipitò a tamponarle la fresca pezza sul capo.
Alina armeggiava con il neonato, mormorando  piccoli incitamenti e grandi complimenti. Aveva lunghe braccia esili con i gomiti sporgenti e i suoi movimenti risaltavano come figure in sbalzo in uno sfondo fatto su una lamina di rame.
« si vedono dei capelli rossi rossi!»
Disse Alina verso madonna Eunice, che non la smetteva di mandare grida.
Dopo alcune ore di travaglio, uscì a vedere le sue prime luci una splendida bambina.
Aveva un viso tondo, con le guance sporgenti come fossero due borracce piene d’acqua. Il corpicino era sporco, ma anche dopo averla immersa e lavata, alla bimba rimasero i capelli di un rosso infuocato.
Quartilla e Alina sorridevano gioiose alla loro padrona, che intanto aveva chiuso gli occhi per riposarsi dopo la grande fatica, ma sentivano in loro una crescente preoccupazione.
Guardavano alla creatura grinzosa e striminzita che piangeva e si dimenava come un uccellino e aggrottavano le sopracciglia. La posero in un morbido panno pulito che era stato precedentemente preparato, poi la posero accanto alla madre.
 
«Che nome le darete, madonna?»
Eunice aprì gli occhi e vide sua figlia.
La guardò così intensamente che pareva mangiarla con le pupille. La bimba percepì la presenza della madre e fu catturata dal suo sguardo magnetico, smettendo di piangere.
Si guardarono entrambe, poi Eunice alzò debolmente una mano e con il dorso accarezzò la minuscola guancia della figlia, poi con il palmo ve la poggiò, sentendo la morbidezza che quella bella e rosea gota aveva in sé.
Quartilla si fece un po’ più vicina a Eunice e, credendo che la padrona non avesse udito le sue parole, ripeté con un po’ più di tono:
«Madonna, come la chiamate?»
Alina alzò gli occhi al cielo, lamentandosi dentro di sé per la scarsa sensibilità di Quartilla.
Eunice non staccò gli occhi dalla bimba, ora così pacifica da sembrare finta.
«Si chiama Elena. Come voleva suo padre, che presto raggiungerò»
Disse con un filo di voce.
A Quartilla venne un brivido e agitando le sue grosse braccia verso il cielo per poi farsi il segno della croce, agitò con sé tutta la sua figura corpulenta.
«Madonna! Che dite? Siete solo stanca, è andato tutto bene!»
«Madonna, non dite così! Il Signore vi sente!»
«E che senta. Io so quello che devo fare. Una vita per una vita. La natura chiede la mia in cambio di quella della creatura speciale che è Elena. Fatele sapere che io l’ho amata più di me stessa e di tutto l’universo.»
Così dicendo, Eunice si avvicinò alla figlia e le dette un bacio sulla fronte.
La piccola Elena incominciò a piangere forte dopo il bacio della madre.
Alina e Quartilla continuavano a guardare quella creatura con timore: speravano che i capelli della nascita, una volta caduti, lasciassero posto a capelli di un altro colore, magari biondi come quelli della madre, ma non di quel rosso così acceso. Non era rimarchevole per una fanciulla avere quelle fiamme del demonio in testa, la gente avrebbe iniziato subito a mormorare. Era un segno che non piaceva mai a nessuno.
Quella sera Eunice, accingendosi a dormire pacificamente come aveva sempre fatto, spirò.

 
 
Note
( 1 ) Oggi Pomarance. L’origine del nome è incerta ma probabilmente significa “riva sinistra” (ripa: riva marancia: sinistra), poiché il paesino sorge appunto nei pressi del fiume Cecina. Porre in questo luogo la nascita di Elena è un dato di pura fantasia.

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Capitolo 2
*** l'amuleto della cornacchia ***


Ripamarrancia 1406
 
In quei rami annodati c’era sempre stata un’aria diversa dal resto della campagna.
Se gli alberi erano cresciuti ovunque diritti e sani, lì invece erano storti e bitorzoluti. In un’epoca imprecisata, qualcuno aveva costruito attorno a quegli strani alberi, una recinzione di pietra, circolare; un muretto alto mezzo metro, come a indicare che quel che risiedeva dentro il suo perimetro non aveva niente a che fare con quel che ne restava fuori.
Anche il colore dei tronchi e delle foglie era dissimile dal resto della vegetazione: quelle erano querce, scure, larghe, nodose. Anche quando il sole sprigionava tutta la sua luminosità e il suo calore, quel cerchio magico era un’oasi fresca e un riparo dalla luce.
Non piaceva molto alla gente, quel posto.
Non piaceva soprattutto perché era attraversato da un crocicchio .
E i crocicchi significavano malocchio; significavano streghe.
Ebbene, il muro circolare accoglieva al suo interno una divisione in quattro zone, apparentemente naturale, ma intellettualmente inconcepibile. Le querce si diradavano e la terra formava due piccoli solchi che si incrociavano nell’esatto centro del piccolo bosco nel bosco 2.
L’intero boschetto non era più grande della base di un fienile e le strade avrebbero a fatica consentito a un mulo il passaggio, eppure molta gente sapeva che quel posto c’era e stava ben attenta a non passarci nemmeno vicino.
Nell’autunno dell’anno del Signore 1406, tuttavia, qualcun altro univa la sua voce al coro degli uccellini che cinguettavano fra la boscaglia.
Una bambinetta minuta sedeva a cavalcioni su un ramo di una grande quercia del boschetto e canticchiava inventando melodie seguendo il tono degli uccelli. Nessun uccellino entrava nel boschetto scuro, stavano tutti ben al sicuro sui rami biancastri degli arbusti circostanti.
Verso mezzogiorno il sole si era posizionato nella sua solita collocazione regnante ed era sempre abbastanza caldo da far tornare alla mente i rimasugli estivi, ormai passati.
I pochi coraggiosi raggi che riuscivano –o osavano- a penetrare fra le foglie larghe e verdi si riflettevano su una superficie particolarmente brillante e atipica: rossi e increspati ricci, che ciondolavano dal capo della bambina.
La piccola Elena –era infatti proprio lei!- si stava impegnando ardentemente a non stonare sulle melodie degli uccelli canterini, ma le loro imprevedibili note parevano coglierla sempre alla sprovvista.
D’un tratto una voce di donna, da lontano, ruppe anche quel poco legame che la bimba aveva sperato di creare con quel luogo così arcano.
 
« Elena!»
La piccola strizzò gli occhi, come sperando di aver sognato quel rumore sgradito.
« Elena, demonio di bambina! Vieni fuori da lì dentro che io non ti ci vengo di certo a prendere!»
Elena non rispose e valutò bene se  dar retta alla voce oppure fingere di non essere lì.
Sapeva bene che chi la stava cercando l’avrebbe battuta con una verga se avesse tardato ancora a rientrare, e ancora meglio sapeva che il suo nascondiglio per quanto magico non era affatto segreto.
I suoi occhi verdi brillarono  nella vegetazione ombrosa e indugiarono oltre i possenti tronchi annodati, verso dove proveniva il richiamo.
« Elena! Se non vieni subito qui ti prometto che invece del pane bianco oggi ti darò dieci vergate!»
C’era una punta di isteria nella voce della donna.
Dopo una manciata di secondi apparve da dietro un fusto magrolino la capigliatura rossa spettinata della piccola Elena. Si teneva ancora a distanza di sicurezza, pronta a tornare nel suo cerchio sicuro, dove nessuno si sarebbe inoltrato mai per prenderla con la forza.
« C’hai davvero il pane bianco?»
Disse muovendo lentamente le sue labbra incolori. Si mossero in contemporanea anche le guance tonde che addolcivano quel viso, altrimenti acuto e vispo come quello di un felino.
« Si che ce l’ho»  rispose la vecchia signora che, a braccia conserte, aveva assunto un’aria veramente scocciata.
Indossava un lungo vestito giallo, scolorito e sporco all’altezza delle caviglie. Sulle spalle, per ripararsi dai primi freddi, portava una mantella nera, chiusa da una piccola catena arrugginita.
« Non è vero» riprese Elena, fissando i suoi occhi verdi dentro quelli della vecchia.
« Non essere insolente, demonio! T’ho detto che ce l’ho e se te lo dico è vero. Le gambe, la tua sciagurata mamma te l’ha fatte apposta per camminare. Quindi ora torna a casa oppure ti aspetteranno il digiuno e le vergate»
« Per piacere, madonna Altruda. Per piacere! Fatemi tornare un secondo solo a prendere una cosa che ho lasciato».
Gli occhi della bimba erano sempre fissi ma avevano assunto un’aria supplichevole.
Altruda, per quanto severa e anziana, per un secondo trasse un piccolo sospiro e si addolcì.
« E va bene. Ti aspetto qui. Ma devi tornare immediatamente»
« Si, si madonna! Grazie!»
La piccola Elena non sapeva veramente neanche lei che cosa volesse prendere; sapeva solo che il suo divertimento era stato interrotto prima del tempo e un equo prezzo per la pena doveva pur essere trovato. Rientrò da un punto in cui il muro antico era franato e si inoltrò seguendo il percorso del crocicchio. Mentre i curiosi occhi della bambina vagavano alla ricerca di qualcosa da portar via in pegno della sua mancata presenza, sentì un rumore che non si aspettava: un piccolo scalpiccio che smuoveva il tappeto di fogliame sottostante. Lo sguardo di Elena si posò involontariamente nel centro esatto del bosco, richiamata dall’insolito movimento e vi trovò con sua estrema gioia e sorpresa una creatura viva: una cornacchia che si spostava a scatti, reclamando i vermiciattoli che si nascondevano nel terriccio.
L’animale si accorse della presenza sgradita di un essere umano, quindi in un arruffo di penne volò via.
Fu abbastanza: la gioia di Elena era colmata.
Si avvicinò di corsa per raccogliere una piuma nera e lucida, abbandonata dalla fretta del pennuto, poi guardò in alto, verso dove la cornacchia era scappata.
« Grazie! Hai visto che non c’è niente da avere paura? Vallo a dire anche agli altri uccellini! Mi ricorderò di te, che sei la più coraggiosa! Ti chiamerò Bella, perché sei nera come il seme delle Belle di Notte! La tua piuma è un mio amuleto, ora. Servirà per il coraggio!»
« Elena!»
Il richiamo di Altruda giunse alle orecchie della bambina che, ridente del suo gioco, si allontanò di corsa da quella che sentiva essere casa sua.
« Che hai raccattato, sciagurata bimbetta?»
« Guardate monna! È un amuleto per il coraggio!»
La reazione dell’anziana fu del tutto inaspettata dinnanzi alla piuma or ora raccolta: spalancò i grandi occhi opachi come succedeva quando le si posava addosso un insetto che le faceva orrore, digrignò i pochi denti anneriti che coronavano ancora le sue gengive e iniziò a strillare strattonando il braccio della povera Elena:
« Buttala via! Via! Maledetta che sei! Sei una serpe te, ecco che sei! Da dove t’ha partorito la tua sciagurata mamma? Dalla lordura di Satanasso! Con quei capelli! Dalla nascita sei un diavolo! Buttala via! E non farti vedere!».
Assestò a Elena una doppia porzione di schiaffi ben sonori su quelle stesse gote tonde che parevano fatte apposta per essere suonate come tamburi oppure venire accarezzate come a un gatto. La bimba scoppiò naturalmente a piangere e i suoi singhiozzi innervosivano ancora di più la vecchia zitella, che la continuava a percuotere su tutto il corpo mentre la strattonava via. L’amuleto della cornacchia le venne strappato di mano e buttato al vento, che lo trasportò velocemente verso qualche irraggiungibile destinazione. Questo dispiacere fu così forte per Elena che sempre lo portò nel suo cuore, nonostante il tempo e le condizioni, le cancellarono dalla memoria gran parte dell’intera vicenda.
 
Il paese di Ripamarrancia era costruito su un antichissimo insediamento etrusco, ma anche dall’inizio tempi più bui era stato brulicante di vita. Si estendeva su un colle verde e rigoglioso, ombreggiato da folta macchia e ulivi inselvatichiti. Lo divideva dalla sovrana cittadina di Volterra un piccolo fiume chiamato Cecina e proprio per la sua posizione sulla riva sinistra di tale corso, il paese aveva preso il suo nome. I Vescovi e il Comune di Volterra a quel tempo, si stavano contendendo il piccolo castello e il Comune pareva avere la meglio. La giurisdizione stava appunto passando a loro favore, ma gli abitanti di Ripamarrancia non erano convinti di questa dipendenza dalla cittadina.
Il clima non era uno dei migliori per vivere: una carestia locale della fine del quattordicesimo secolo aveva decimato i raccolti e le speranze di sopravvivenza. Da Volterra andavano e venivano contingenti di soldati per le continue discordie con Firenze sul dominio dei castelli vicini.
Oltretutto, da ormai un secolo la Chiesa, attraverso la bolla Super Illius Specula emanata da papa Giovanni XII°, sosteneva che le pratiche divinatorie, magiche e malefiche erano da considerarsi idolatre e quindi eretiche: vicari ed esorcisti vagavano per i villaggi alla ricerca dei presunti stregoni per giustiziarli in nome di Dio.
Quando Elena fu portata a spintoni nella casa della filatrice Altruda, vecchia magnanima ma dura, che aveva preso la bimba con sé quando nessuno la voleva a causa dei suoi capelli rossi, c’era qualcosa di diverso dal normale: ad attenderla, Elena vide un sacco annodato su sé stesso e un giovane uomo sulla soglia di casa che la fissava.
Cacciando via le lacrime, la bimba rivolse il suo sguardo più indagatore verso la sua padrona.
Quella sbuffò: « Non fare quella faccia. Ti ho anche comperato il pane bianco, m’è costato un occhio della testa, sciagurata bambina. È lì dentro e t’ho messo un po’ di cacio salato e bada bene, anche una fetta di lardo. Fatti bastare questo bendiddio e non ti azzardare a tornare indietro o a far confondere il tuo nuovo padrone».
Elena spalancò gli occhi, terrorizzata. Il suo primo istinto fu quello di rifugiarsi nella gonnella di Altruda, unica donna quasi alleata di cui avesse memoria nella sua vita, unico appiglio per la sua sopravvivenza. Ripensò però all’amuleto della cornacchia e alla ferita ancora sanguinante che portava impressa nella memoria. Ricacciò l’istinto e rimase immobile, seria, al centro della piccola stanza.
Altruda la fissava con noncuranza: « Guardala, fa le facce come se avesse grandi pensieri per il capo. Sciocca bambina! Guarda che muso a cane vergato, guarda che pensieri che ha! Lei trama una vendetta, la vedo da qui e il diavolo mi porti se non la conosco. È un demonio, Nanni, un demonio. C’ha Satanasso nello spirito, guarda che occhi che fa! Levamela di torno e se muore non venire certo qui a riportarmi il suo corpicino indiavolato. Alla larga Satanasso! ».
 
E un paio di braccia possenti attanagliarono Elena, ancora immobile.
Quel che la bimba percepì poi, fu un aggroviglio di voci, suoni, rumori, polvere e voci sconosciute, che la mandarono in confusione e parevano soffocare i suoi strilli spaventati.
Quando il torpore della confusione e della rabbia la fecero risvegliare, si trovava in cammino, in mezzo a boschi senza sentieri e in una lunga fila di gente.
Ora, va detto che Elena in futuro non si ricorderà mai di preciso tutto questo, ma qualche nebulosa immagine galleggerà abbastanza nella sua memoria per farle rimembrare quale fosse stata la sua infanzia.
A Elena nessuno dirà mai che Altruda la filatrice aveva stipulato un contratto di matrimonio con un vecchio possidente caduto in disgrazia, ma che aveva conservato il giusto che gli permettesse di campare. E assieme a una vecchia zitella risparmiatrice avrebbe campato anche un po’ meglio.
Altruda non ne volle più sapere di avere fra i piedi quella piccola creatura, così speciale quanto strana. Non aveva tempo e voglia per dedicarsi alle cure di un essere fuori dall’ordinario.
L’aveva raccattata quando aveva due anni, morente, sul ciglio di una strada, tutta avvolta in un panno sudicio. Raccontavano che la sua madre era morta dandola alla luce e che da quel momento in poi nessuno l’aveva voluta. La levatrice, dicevano, era scappata a gambe all’aria e aveva finto di non avere nemmeno assistito a quel parto. La domestica della madre deceduta aveva chiesto il latte a una comare che aveva partorito e aveva pagato con il suo misero stipendio una vecchia cieca perché allattasse l’infante. La domestica era morta quando la creatura aveva appena un anno e quello accrebbe le maldicenze sulla bambina: era nata con i capelli rossi,ricci e il viso coperto di lentiggini, tutti indizi che adducevano a guardarla come un’arpia, una portatrice di malocchio, una strega.
Per di più c’era quell’episodio della domestica morta e da allora non ci fu nessun dubbio fra le dicerie nell’attribuire la colpa all’infante.
Venne poi una madre compassionevole, che aveva perduto il figlio durante il parto; prese con sé Elena, considerando un segno del destino il fatto di essere una senza figlio, l’altra senza madre.
Appena un anno dopo, visto che nessuno osava più avvicinarla e che il prete non la faceva entrare più in chiesa, aveva gettato la creatura sul ciglio della strada ed era fuggita.
Tutti dicevano che era morta e che l’influsso malefico della bambina l’aveva portata al suicidio. Ma nessuno seppe mai niente di lei né lei si fece più vedere.
Arrivò così la vecchia Altruda, filatrice appassita e acida a causa di una vita solitaria e passata a seguire rigide regole come una monaca. Una regola che aveva sempre odiato ma che i suoi genitori le avevano inculcato nella morale, era quella di pensare al prossimo come se si pensasse a sé stessi. Storcendo il naso, Altruda aveva accolto Elena nella sua casa, disprezzandola sempre per quel suo aspetto selvaggio e demoniaco. Le aveva dato il suo cibo, non mancando mai di ricordarglielo.
Ma soprattutto, Elena non avrebbe scordato quel dolore mai e poi mai, le aveva strappato di mano l’amuleto della cornacchia.
La piccola Elena si trovava ora immischiata in un gruppo di pellegrini che raggiungevano chi Volterra, chi altri castelli più lontani. Nanni era un ragazzo di ventinove anni; veniva da Siena e andava non si sa dove. Altruda gli aveva offerto dei soldi per prendersi con sé Elena e lui aveva accettato.
A chi cammina nei boschi non importa niente se una bambina ha i capelli rossi e le attitudini selvagge. Nel bosco si cammina e basta.
E da qui in poi Elena comincerà a ricordare. Ricordare distintamente il dolore dei piedi e le sagome delle foglie secche cadute a terra che si schiacciavano sotto l’incessante movimento della marcia.
 
 
Note:
(2)  si tratta di un boschetto tutt’ora esistente e con le medesime caratteristiche.

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Capitolo 3
*** le mamme di Elena ***


Foresta 1410
 
« Elena, che fai bambina? Vieni a salutare la vecchia Barbara. Che t’ha voluto bene!».
La ragazzina dai folti e ricci capelli rossi stava esaminando il terreno umido con le manine ora tutte annerite.
Una signora corpulenta dallo sguardo amabile l’attendeva a braccia aperte sul ciglio di un sentiero. Erano nella foresta aperta, ma abbastanza vicini al piccolo castello di Gerfalco. Qualche pellegrino era giunto a destinazione ed era il momento di dirsi addio.
« Un momento mamma cara, fammi trovare un regalo per te. Ecco, ecco mamma! Guarda, questa penna è una penna coraggiosa. Ora prendo un po’ d’acqua dalla borraccia e ce la tufo dentro. È un infuso di coraggio mamma Barbara, ti servirà a Querceto».
Mentre parlava –velocissima, quasi impercettibile da capire- Elena armeggiava con una piuma nera che aveva trovato per terra e nello stesso momento si sganciò una piccola borraccia di stomaco di cervo dalla cintura. Stava per creare il giocoso filtro, quando la buona Barbara, sorridendo, le prese con gentilezza di mano la penna di cornacchia.
« Per me va bene così. Mi basta questa, non farmi l’intruglio. C’e abbastanza coraggio qui» e si mise l’oggetto in seno, assicurandolo con una stretta dei lacci della maglia.
Elena rise di gioia mostrando i denti candidi come la sua pelle tutta macchiata di lentiggini scure.
« Non la perdere eh!»
« Giammai, piccola mia. E ora debbo andare. Sai che sono al sicuro con quest’amuleto. Abbi cura di te, stai sempre con Nanni e le altre mamme buone».
Dopo un lungo abbraccio quasi soffocante, Barbara prese una via diversa da quella dei pellegrini, che per il momento erano seduti a bivaccare attorno a qualche fuoco acceso.
Ci furono gli ultimi schiamazzi, le ultime mani alzate, poi chi si era allontanato sparì definitivamente dalla vista.
 
« Lena, che fai, bambina?» .
La voce di Nanni fece sobbalzare Elena, che trafficava con una boccettina vuota.
Sentendosi chiamata in causa, fece finta di nulla e tappò la boccetta come se niente fosse.
Nanni la guardò alzando un sopracciglio: « Cosa c’hai messo dentro? »
« Niente»
« Su, vieni qui e raccontami che amuleto è questo …»
Nanni ridacchiò e si sedette su un telo dell’accampamento. Elena, che in realtà moriva dalla voglia di raccontare tutto, si precipitò dal suo padrone a dirgli che aveva catturato le proprie lacrime e che essendo lacrime di addio, possedevano una grande forza.
In tutto questo Nanni la guardava ed Elena non sapeva mai fino in fondo se la ascoltasse oppure no. Non sapeva nemmeno se Nanni le andasse a genio o meno. Era un tipo un po’ strano: certe volte amichevole e disponibile, altre sempliciotto e scontroso. A Elena non piaceva quando beveva fino ad ubriacarsi quel vino sudicio che comperavano dai briganti della foresta. Diventava incomprensibilmente irritabile o anche troppo amichevole.
In definitiva, le piaceva avere un punto di riferimento, ma come persona non le ispirava poi così tanta fiducia.
Dopo che ebbe raccontato a Nanni del suo nuovo portafortuna, vedendo che l’interesse che sperava non era stato riscosso proprio al massimo, decise di scendere dalle gambe del padrone, dove s’era acciambellata, e di andare da qualcuna delle sue altre mamme.
Sentì un po’ di tristezza nel constatare che Barbara non c’era più; era senza dubbio la sua mamma preferita. Sentendosi improvvisamente presa dallo sconforto si strinse a sé la boccetta contenente le lacrime. Si immaginò con fervida speranza l’energia magica che si irradiava dal piccolo contenitore e mestamente continuò la sua ricerca fra l’affollato gruppo.
Le mamme di Elena erano pellegrine molto buone e simpatiche, a detta della bambina, ma sarebbero state giudicate pezzenti, sudice e sgualdrine da un qualsiasi abitante di un  paese rispettabile.
Quella bimba un po’ speciale, era benvoluta in quel gruppo di pellegrini. Non le volevano male come sempre era stato nel paese da dove veniva. Perché? Erano tutti reietti e poveracci che camminavano verso una speranza di vita migliore. Non cedevano ancora al brigantaggio, anche se qualcuno dei viaggiatori non era poi molto raccomandabile.
Elena era cresciuta fuori dai pregiudizi e dalle maldicenze che possono avere le comari paesane; a dire il vero era parte integrante di una maldicenza e di un pregiudizio, quindi non poteva scindere da se stessa e odiare quel che era. Non sapeva nemmeno di essere amalgamata a quello strato sociale, per lei quelle erano persone buone e basta. Finché non si fosse sentita oppressa, i suoi occhi verdi avrebbero riflesso la sua tranquillità d’animo.
Non aveva la minima idea che un giorno sarebbe toccato anche a lei abbandonare quella vita. Di solito erano gli altri, come Barbara, che se ne andavano. Le si era come innescato il pensiero che lei e Nanni sarebbero rimasti gli ultimi, a vivere in eterno protetti dalle braccia degli alberi, una volta che gli altri pellegrini avessero raggiunto le loro destinazioni. Che destinazione avevano loro? Anzi, ne avevano una? Elena non si poneva queste domande. Tutto questo però contribuì a crearle un carattere schivo, riflessivo, e selvatico tanto che i suoi tratti felini si conformarono e aderirono sempre di più alla sua personcina.
Mentre girovagava in cerca di una qualche mamma, un gemito sguaiato seguito da una risata, fu il segnale che fece capire ad Elena di aver portato a termine la sua ricerca. Aveva trovato una mamma e con lei sarebbe rimasta per tutta la notte, perché per quel giorno ne aveva abbastanza di Nanni.
Si sedette ben lontana dalla tenda dalla quale si era levato il sospiro. Aveva imparato che quando sentiva quei rumori doveva rimanere a una certa distanza e poi, quando l’uomo fosse uscito, avrebbe potuto raggiungere la mamma.
Non le importava scoprire cosa accadesse dentro le tende. Ci aveva rinunciato dopo che un pellegrino l’aveva vista sbirciare ed era uscito per menarla ben bene.
L’istinto felino di Elena le suggerì dunque di infischiarsene anche stavolta e di aspettare seduta su un sasso. Sentì, come ogni volta, i gemiti crescere di intensità e poi il silenzio.
Aguzzò le orecchie e udì distintamente il rumore di qualcuno che si alzava e si faceva largo.
Felice che nessuno l’avesse notata (e tantomeno picchiata), Elena si intrufolò nella tenda dove aveva riconosciuto la voce di una sua mamma.
 
« Mamma Clorinda!»
Una donna sui trent’anni, con capelli biondo cenere tutti spettinati e guance rosse come il fuoco, stava sdraiata in mezzo al fieno che la tenda riparava. C’era uno strano odore di bagnato, sterco di animali e altre cose che Elena non si curò di identificare, ma che rendevano sgradevole lo star lì.
« Elena, amorino! Che ci fai qui?» Il tono di Clorinda era concitato ma comunque molto smielato, cosa che la rendeva particolarmente simpatica a Elena.
La bimba rispose con un’alzata di spalle e Clorinda allora le donò un largo sorriso, invitandola ad abbracciarla. Elena corse da lei e si tuffò in quel mare morbido che era il seno di quella sua affettuosa mamma.
« Vieni qui con la tua mamma, piccolo tesorino. Raccontami un po’ dove sei stata oggi, amore caro»
« Mamma Barbara è andata via, oggi»
« Oh, tesoro. Mi dispiace, ma devi sapere che ora lei andrà a vivere in un paese bello, con una casa vera! Ci sono sempre io qui con te, topolino! E tutte le altre … ti è dispiaciuto così tanto che Babara se ne sia andata?»
Elena annuì sentendosi riaffiorare i lucciconi. Queste lacrime però, sentiva che non erano preziose e poteva benissimo liberarsene.
Le affidò quindi al seno sudato di Clorinda, che la coccolò con amore.

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Capitolo 4
*** servus servorum dei ***


La vita negli accampamenti fu per Elena più breve di quel che in effetti si aspettasse.
Una mattina particolarmente fredda, quando la brina ancora ricopriva le foglie e l’aria entrava pungente dentro al naso, Nanni svegliò Elena con uno scossone non troppo  brusco ma neanche gentile.
Lei si era dunque alzata ancora assonnata con la schiena che le doleva per aver riposato al contatto diretto con le foglie umide e il terreno. Senza ben capire cosa stesse accadendo, aveva preso la mano di Nanni e l’aveva seguito attraverso il sentiero scivoloso dove lui la conduceva.
Aveva lanciato, così, per caso, un’occhiata alle sue spalle, verso l’accampamento ancora addormentato e non sapeva che sarebbe stata l’ultima volta per sempre. Si era immaginata una qualche gita temporanea, un qualche allontanamento momentaneo. Non le era entrata nemmeno lontanamente in quella rossa testolina l’idea che quella levataccia avrebbe segnato il suo eterno addio alla parte più bella della sua vita. Si, quegli anni confusi erano stati la miglior parte della vita di Elena: l’unico momento in cui tutti erano reietti al suo pari e nessuno osava giudicarla.
Quando le foglie umide e fredde che si schiacciavano sotto i piedi amalgamandosi con la terra fangosa cominciarono a diventare più rade per dare spazio ad acciottolati sempre più regolari, Elena iniziò a domandarsi che cosa stesse succedendo.
Strinse le sue piccole dita attorno alla mano di Nanni e lui la guardò. Elena non aveva mai capito quello sguardo. Nanni la guardava in maniera incomprensibile, quasi apatica, quasi lontana. Sembrava che la guardasse ma che stesse pensando completamente ad altro, eppure era l’espressione che assumeva esattamente quando la sua attenzione si posava su di lei.
 
« Che succede, Lena? Sei stanca?» Le chiese dopo averla scrutata al suo modo.
Elena sospirò. Si voltò indietro e guardò verso la foresta, ormai adeguatamente distante.
« Lena, lo sapevi che prima o poi bisognava arrivare. Abbiamo traccheggiato anche troppo. Sono quattro maledetti anni che vivo in quella accidenti di foresta. E non t’ho mai fatto mancare nulla, eh, guai a te!»
Si stava arrabbiando, lo faceva sempre quando qualcosa non gli tornava.
Elena aveva maturato un carattere piuttosto difensivo, ma sapeva ben graffiare e attaccare quando sapeva che aveva speranze di vittoria. Ribatté dunque con foga: « È vero, però non mi hai nemmeno fatto salutare nessuno! e non ho salutato nemmeno mamma Clorinda e mamma Giuseppina e neanche mamma Roberta!».
Nanni la guardò di nuovo e sembrò trattenersi dal colpirla. Certe volte l’aveva picchiata soprattutto in faccia, su quelle belle guance rosse e coperte di lentiggini marroni.
Stavolta si trattenne e si limitò a strattonarla verso le alte mura di pietra che circondavano il paese di Travale, dove erano diretti.
Nanni era diretto lì perché una sua zia dopo il matrimonio con un venditore di stoffe vi si era trasferita. Non sapeva nemmeno se fosse sempre viva, e anzi sperava quasi nella sua dipartita desiderando avere qualche diritto sulle proprietà della parente.
Il piccolo borgo si estendeva ai piedi delle Colline Metallifere grossetane. Appariva come immerso in un oceano verde dalle sfumature fredde siccome l’aria pungente che graffiava le guance della nuova arrivata.
Elena non voleva appartenere a quel luogo, non voleva che quei verdi mostri la attanagliassero.
La sua fantasia vide i lunghi cipressi abbassarsi come becchi di aquile malvagie, pronti ad inglobarla. Con sguardo di sfida puntò prima Nanni, poi nuovamente i becchi affilati; cercò con la mano nella tasca la sua boccetta contenente l’amuleto di lacrime e lo strinse forte, certa della sua utilità.
 
Non disse più una parola e si lasciò trascinare dal suo padrone nelle viscere di quel mostro che sarebbe diventato la sua casa. Elena aveva scoperto che gli alberi non erano aquile guardiane del paese, ma il paese stesso era un gigantesco essere demoniaco e quei becchi appuntiti erano le sue infinite teste. Seppe che non si sarebbe mai più liberata dallo sguardo di quel posto, perché quantunque si fosse allontanata, le punte dei cipressi l’avrebbero sempre raggiunta. Sentiva quasi l’immaginario fetore delle budella del mostro dentro cui si stava muovendo. Questo pensiero le provocò un improvviso brivido.
Fu felice che Nanni non se ne fosse accorto, perché non poteva parlare in quel momento. Era impegnata a mantenere il controllo dei nervi stringendo con forza la piccola boccetta all’interno della sua tasca. L’influsso benefico di quella magia le dava molto coraggio e d’ora in avanti, si disse Elena, non sarebbe mai uscita senza un amuleto che la proteggesse.
Subito Travale si trasformò nel Mostro e lo fu definitivamente. Dentro il Mostro non si poteva viaggiare senza protezione benevola, o si finiva per esserne inglobati, mangiati e digeriti. Questa fu la prima regola che Elena si infisse nella mente.
Sorrideva soddisfatta mentre fissava queste clausole ed era certa di essere l’unica a conoscenza di trovarsi dentro un Mostro.
Lanciò un’occhiata di sfida alle teste appuntite che si estendevano per tutte le alte colline nei dintorni, che speravano di averla imprigionata. Che stupido, questo Mostro. Pensava di potersi liberare così facilmente di lei?
Sarebbe stata una sfida e lei avrebbe vinto, perché era furba e più forte.
Aveva sempre amato i posti che gli altri evitavano, dunque qui sarebbe stata lei stessa il posto da evitare in mezzo a un grande intestino di Mostro che la gente amava.
 
I complicati tasselli che Elena forgiava con la sua fantasia furono interrotti bruscamente quando Nanni bussò forte a una porta.
« Chi è là?»  rispose qualcuno dall’interno.
« Un buon uomo vostro servitore e debitore » disse Nanni con una voce untuosa tanto da far storcere il naso a Elena. Ma quando mai Nanni si esprimeva in quel modo?
La bimba dai capelli rossi continuò il suo riluttante sguardo verso l’accompagnatore finché la porta alla quale avevano bussato non si aprì; allora posò i suoi occhi sulla figura dinoccolata e grinzosa che si era esposta alla luce mattutina.
« Servitore e debitore di Dio, vorrei sperare, forestiero. Io non sono che un Suo umile, devoto e contrito uomo»
« Ma certamente, buon uomo. Servus servorum dei».
Il chierico assottigliò i suoi occhi lattiginosi su Nanni. A detta di Elena sembrava una vecchia tartaruga, impolverata e rugosa.
A qualunque esame il reverendo stesse sottoponendo Nanni, il risultato parve essere positivo, poiché gli angoli di quella sua antica bocca si distorsero in una specie di sorriso cordiale.
« Siete il benvenuto a Travale, forestiero. Che non si dica di me che manco dei doveri di ospitalità nei confronti di un figlio di Dio. Che la mia casa sia la vostra per tutto il tempo che desiderate e che la mia parca mensa possa soddisfare il vostro stomaco … » mentre parlava con toni monotoni ma dall’aria importante, si accorse che nascosta dall’ombra di Nanni stava anche un’altra creatura. Il sorriso decrepito divenne un poco più tirato e gli occhi si fecero sdegnosi, quando alla sua vista giunsero gli intrecci rossi e le lentiggini di Elena.
« … Spero comunque » continuò, facendosi un po’ più di ingombro sulla soglia di casa, così da impedire il passaggio: « … che voi siate devoti al Dio uno e Trino, al Cristo Redentore e alla Santa Chiesa Cattolica»
« Sul mio onore, reverendo »
« E quella bambina?» disse dunque, più direttamente.
« È mia protetta, reverendo. Un’orfanella che ho accudito secondo la buona ispirazione del Cristo»
A Elena scappò una piccola risata che il reverendo notò all’istante. Lei serrò furtivamente le labbra e distolse gli occhi da Nanni, ma quel suo modo così falsamente cortese la faceva ridere.
Si ricordò di non mollare la presa dal suo amuleto, e immaginò che il reverendo dovesse essere parte integrante del Mostro. Si sforzò quindi di non farselo né amico né nemico, per adesso, ma di stare al gioco che Nanni le imponeva.
Assunse un’aria grave per quanto le fu possibile.
« Vedo bene.» concluse il reverendo, con estrema ritrosia. A stento fece passare Nanni per la porta di casa e non staccò per un solo istante gli occhi dalla figurina scompigliata di Elena, tanto che anche quand’era di spalle, alla bimba pareva di sentir prudere la nuca sotto l’influsso degli occhi indagatori del prete.

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Capitolo 5
*** le vergogne ***


le vergogne
 
Il sole sorgeva di nuovo sul piccolo paese di Travale.
Una scia dorata, leggermente rosea, pitturava il contorno di alte chiome d'albero, tutti arrampicati per i colli alti e scoscesi. I tetti delle case facevano ombra sulle strade, mentre alle loro spalle la luce prendeva sempre più campo.
Non c'erano molte anime già in piedi, a quell'ora. Erano circa le sei del mattino e per quanto quel numero fosse stato usato come minaccia per punire una certa persona, questa persona lo trovava affascinante.
 
« Buongiorno grande disco dorato padrone del cielo, cui gli uomini hanno dato il nome di Sole»
disse una ragazzina magra, sui quattordici anni.
Se ne stava appollaiata sulla finestra del campanile: c'era una rientranza di pietra molto spaziosa – e parimenti polverosa – che consentiva ad una bambina esile di entrarci comodamente.
Il suo vestitino grigio era semplice, più volte rattoppato e con molti fori.
Per terra, segno di un lavoro abbandonato e dimenticato, giacevano una scopa di saggina, un secchio d'acqua e un libro buttato a rovescio.
Il sole rispose al saluto della giovane, impigliandosi fra i suoi ricci rossi, dorandoli come una giovane fiamma lucente e risplendendo nei suoi occhi verdi come lucertole.
« Oh, si, lo so che ti sorprendi a vedermi qui» continuò la bambina, parlando con voce soave e sussurrata « È molto presto, vero? Sei arrabbiato perché non sei stato il primo a svegliarti? Oh, non preoccuparti, Sole. Anche se ero in piedi si può dire che dormivo. Sai che il prete mi ha fatto dire le lodi dalle quattro alle cinque di stamani? Quindi, ti prego. Accetta le mie scuse per essermi svegliata prima di te? Prometto che ti troverò un tributo adeguato e che te l'offrirò. Buona risalita del cielo, mio luminoso amico e sovrano. Non durare troppa fatica, eh».
Mentre parlava, Elena faceva cerchietti con il dito nella polvere; era troppo difficile guardare sempre il sole , le lacrimavano gli occhi.
« Scusami anche se non ti fisso, come si dovrebbe fare coi re. È che mi rimane tutta una macchia strana negli occhi. L'ombra è più bella. Oh, no! Non offenderti, Sole caro! Lo so che tutte le notti tu devi combattere con il buio. Ma ci riesci sempre, a vincere, no?»
« Chi c'è lì?»
Tuonò una voce, amplificata dalle scale di pietra.
Elena si rizzò ad una velocità estrema, sapendo che comunque non ce l'avrebbe mai fatta a raccattare gli oggetti che prima aveva buttato in terra.
« Elena? Sei te? Che ci fai lì?»
Continuò la voce grinzosa del parroco.
Anche prima di vederlo, anche prima di sentirne la voce, Elena era certa che casomai qualcuno in quel momento avesse risalito la torre campanaria, quello era il parroco. Tutta la sua persona era incartapecorita: appena sbucò dall'ultimo spiraglio di muro, ecco che le mani ossute e antiche entravano nel raggio visivo di Elena, insieme alla faccia con la pelle calante.
« Come hai fatto a salire quassù, in nome del cielo?»
Con aria indignata, quasi spaventata, si portò una di quelle mani vecchie all'altezza del cuore.
Elena spiegò, cercando di nascondere la polvere che aveva sul vestito:
« Signore, la chiesa era troppo grande per me sola a quell'ora di mattina. E poi avevo paura di Gesù»
Il prete sgranò gli occhi:
« Avevi paura di Gesù ?!»
« Signore, era lì sulla croce, morto, con il sangue che colava. Era tutto buio e i lumini lo facevano sembrare un fantasma. Anzi, sembrava uno di quei demoni delle storie che mi raccontavano quando ero nella foresta. Una volta una donna si era macchiata tutto il vestito di sangue. L'aveva perso da laggiù. Mi dissero che era una cosa del diavolo. Quella statua di Gesù mi ricordava il diavolo. Ho avuto paura.»
La sincerità che era costata a Elena anche un po' di fatica – confessare di aver avuto paura non rientrava nella lista di ciò che preferiva fare – fu ricambiata con uno strillo scandalizzato:
« Cristo santo! Perdona questa bambina, perché non sa ciò che dice! Vieni subito qui!».
Elena sgranò i grandi occhi verdi e pensò di non essersi spiegata bene, perché quel che aveva da dire non meritava nemmeno lontanamente una punizione:
« Ma no, signore! Sono salita qui perché era più piccolo e buio. Non c'erano i lumini! Ho aspettato la luce del sole, che non fa paura. Lo so che Gesù è bravo, erano solo i lumini e il sangue che lo facevano sembrare un diavolo!»
Il prete non volle sentire altro; si avvicinò a grandi passi a Elena e la tirò per un orecchio verso il muro polveroso della piccola stanza delle campane.
« Ora alza la gonnella, e che il Signore mi sia testimone. Santo cielo! Che hai fatto al tuo vestito?»
il prete alzò la gonna impolverata con le sue mani e così vide anche tutti i buchi mal rattoppati.
« Non hai ricucito il tuo abito?»
« Ci ho provato, ma non mi riesce!» ribatté Elena, stizzita. Non era più una marmocchia cui un adulto potesse alzare la gonna! Era grande! Un prete non poteva farlo!
« Non hai ascoltato la lezione di suor Teudigia?»
« Si che l'ho ascoltata, ma si arrabbia quando non capisco!»
« Ci credo che si arrabbia, demonio di bambina! Vieni qui per imparare quello che una donna deve saper fare nella vita. e non stai ottenendo progressi. Se non ricordo male, la tua punizione per non essere riuscita a svolgere i tuoi compiti prevedeva un'ora di laudi mattutine e la pulizia della chiesa. L'hai fatto?»
Elena si infuriò drasticamente, picchiando i piedi: « Ma se vi ho detto che avevo paura! Sono salita qui!».
Il prete si abbassò per raccogliere la scopa e ordinò di nuovo che Elena si alzasse la gonna.
Vedendo l'impossibilità di un rifiuto, la bambina obbedì e giurò a sé stessa di non piangere o gridare, mentre le venivano sferrati secchi colpi sulle natiche e sulle cosce.
La saggina bruciava e graffiava come un coltello le carni tenere da ragazzina di Elena. Pensò a tutte le maledizioni che potesse scagliare contro il prete. Chiese aiuto al Sole, offrendogli come tributo la vita del prete. È tuo, pensava. Prendilo, è un sacrificio che ti offro.
Ma il Sole non la aiutò e le vergate sulle natiche le fecero così tanto male che non fu in grado di scendere le scale della torre campanaria per tutta la mattina.
Immaginò che il parroco non avesse detto a suor Teudigia dell'accaduto e che quindi non fosse esentata dal frequentare la lezione di cucito.
 
Dopo che l'indignazione per l'offesa subita e l'impossibilità di muoversi si furono attenuate, Elena azzardò alcuni passi. Arrivare fino alla porta di pietra che dava sulle scale a chiocciola fu un'impresa. Ad ogni passo sembrava che un diavolo le graffiasse le cosce per trascinarla nell'inferno.
La giovane Elena strinse i denti.
Si appoggiò al muro, per poi sbirciare fuori dalla porta: era sola.
Aveva sentito che il prete, prima di andarsene del tutto, si era soffermato un poco dietro la soglia di pietra, per sentirla piangere. Non ce l'aveva fatta a trattenersi oltre, la povera Elena: aveva giudicato che la sua promessa di silenzio potesse finire una volta che il prete fosse andato via. Si era accorta che egli era rimasto un poco sulle scale, ma a quel punto le lacrime non ce l'avevano più fatta a rimanere dentro gli occhi.
Elena era fiera di non aver comunque fatto rumore: giusto gli inevitabili singhiozzi smorzati che uno che vuol piangere in silenzio non è umanamente in grado di contenere.
Ma ora … ora era sola per davvero e l'urlo di fuoco bruciava nella sua ugola, vibrava, desiderava la libertà.
Elena gliela concesse. Prese fiato, tutto quello che la sua bocca dalle labbra chiare riuscì ad ingerire, poi gridò nella tromba delle scale:
« Vai all'inferno, prete del diavolo! Vai e marcisci! Ti odio! Ti odio! Che il diavolo ti porti! Hai capito?! Voglio che tu muoia! Che tu crepi subito! Crepa all'inferno!! ti maledico!!».
Mentre Elena urlava e le scale a chiocciola dagli spessi muri davano potenza al suo grido, proava una gioia immensa. Che piacere sublime e sinistro! Quel posto era fantastico per lanciare maledizioni, per sfogarsi contro i prepotenti, per non farsi avvicinare da nessuno.
Quando l'ultima “o” di “maledico” fu svanita nella magia dell'eco, Elena sogghignò. Il sorriso non le stava più negli angoli della bocca, così decise di aprirla e digrignare i denti.
Sorrise così per molto tempo, tutto quello che occorse al sentimento di vendetta ripagata di fluire nelle sue vene.
Borbottò fra sé ancora un po', compiacendosi del rimbalzo che la sua voce compiva sulle pareti di pietra. Decisamente, quello era il posto migliore che le fosse mai capitato per uno scopo simile.
Aveva sempre pensato che le sue maledizioni fossero poco potenti: una volta voleva scagliare qualche maleficio su Nanni, che la importunava con domande strane o con sguardi incomprensibili, e gli aveva urlato di andare al diavolo; non si era sentita molto potente, anzi, intimorita. Un'altra volta avrebbe volentieri urlato contro suor Teudigia, che la rimproverava di non saper nemmeno fare il nodo al filo, mettendola in ridicolo davanti le altre bambine. Quella volta non riuscì nemmeno a prendere fiato. Si sentì debolissima.
Ma ora .. ora aveva scoperto il luogo perfetto per lanciare i malefici. Ogni volta che qualcuno l'avesse offesa, Elena giurò che sarebbe salita sulla torre campanaria e avrebbe urlato insieme alla potenza della tromba delle scale.
 
Quello sfogo di odio le aveva donato una placidità che Elena stessa non si aspettava.
Decise che il ritardo alla lezione di cucito era ormai troppo e che fosse ora di scendere da quel luogo magico.
Facendo attenzione ad ogni passo, dato che le unghie dei diavoli tiravano la sua pelle graffiata, scese le scale arricciolate. Le parvero lunghissime.
Durante il tragitto faticoso pensò a quello che avrebbe detto a suor Teudigia. Di certo non si sarebbe sorbita la verità, perché le persone cattive – ma che sembrano buone a tutti – non accettano mai la vera versione dei fatti. Il prete si era appena arrabbiato perché Elena aveva avuto paura di Gesù … di certo anche la suora avrebbe reagito allo stesso modo.
Pregando il Signore con tutto il cuore, Elena sperò di non dover subire altre frustate nelle gambe … quelle non le avrebbe potute sopportare.
Allora che dire? Facilissimo: solo quello che la suora voleva sentire; quella parte di verità che a Elena sembrava così marginale, ma che alla suora sarebbe piaciuta come un biscotto al miele.
E infatti fece così: arrivata alla porta dell'oratorio, oltre cui le sue compagne avevano già frequentato un'ora di lezione di cucito, Elena disse che il suo ritardo era dovuto alle vergate che il prete le aveva dato. E come mai, voleva sapere suor Teudigia, già pregustando il piacere della ragione? Perché non aveva detto le lodi, come le era stato imposto e non aveva pulito la chiesa, ma anzi, si era andata a rifugiare nella torre campanaria a farsi i fatti suoi.
 
« Che insubordinazione!» esclamò la suora, gonfiandosi tutta.
Elena si compiacque amaramente con la propria perspicacia.
« Che debbo fare con te, disgraziata? Ti metto in punizione perché sei una testa dura e non riesci ad inserire il filo nell'ago per ricucirti i vestiti, e tu che fai? Te ne infischi. Sento che potrei anche condannarti a morte, ma ho l'impressione che il diavolo farebbe diventare l'ascia un cumulo di piume, per te!»
Le altre ragazze scoppiarono a ridere, mentre Elena alzò un sopracciglio: se il diavolo poteva fare queste cose, perché mai dovrebbe essere considerato cattivo?
« Vai al tuo posto e vedi di stare seduta composta! Non mi interessa se ti dolgono le gambe per le vergate. Te le sei meritate tutte, dalla prima all'ultima».
Suor Teudigia aveva ragione: la sedia fu una tortura ben peggiore della discesa delle scale.
Le cosce frizzavano da morire e oltretutto Elena non voleva farsi vedere a disagio dalle sue compagne. Erano tutte spocchiose, odiose e sapientine, certo; non le importava un fico secco di loro. Però la sua dignità era già stata strapazzata abbastanza, per quella mattina.
 
*
 
« MalElena?» sussurrò Orsola, che le era accanto.
Elena la ignorò, concentrandosi sulla camicia che stava cucendo – rovinando – per Nanni.
« Elenaccia?»
continuò Orsola.
Elena si concentrò sul viaggio che il suo piccolo ago compiva al di sopra e al di sotto della stoffa della camicia.
« Elenaccia stregaccia?» ridacchiò Orsola mentre per la terza volta si rivolgeva alla ragazzina al suo fianco.
« Cuciti la bocca» rispose finalmente quella dai capelli rossi e arricciati. Dentro di sé pensava già a tornare sulla torre e gridare che Orsola poteva benissimo morire subito e malamente.
« E te cuci quella camicia, perché la stai distruggendo» rise la persona cui molte maledizioni stavano già venendo lanciate in silenzio.
Orsola veniva considerata da suor Teudigia molto bella e molto raffinata per quel buco di paese che era Travale. La lodava spesso dinnanzi alle altre e mostrava l'infinita bellezza, predicendole un matrimonio con un principe o un re.
Elena aveva capito subito che non poteva trattarsi di un pensiero autentico, poiché Orsola di straordinariamente bello aveva ben poco: certo, i capelli erano di un castano chiaro, con qualche riflesso biondo . Eccetto quelle trecce dorate, che parevano di grano, non aveva nessun'altra particolarità estetica.
Un viso lungo, da faina, con un naso secco a forma di becco di pettirosso; occhi marroni, banali, come quelli di quasi tutte le altre persone che Elena conoscesse.
L'unico vantaggio di Orsola, Elena aveva capito, era quello d'esser figlia di qualcuno che elargiva donazioni all'oratorio. Probabilmente proprio quei i corsi di cucito li finanziava il babbo di Orsola.
« Lo sai che c'hai tutto il vestito macchiato? Sul culo! Sono le frustate o sei nel periodo della vergogna?»
continuò a ridere Orsola dai capelli di grano.
Ecco, pensò Elena; di nuovo quell'espressione.
Da un po' di tempo aveva cominciato a sentire le sue compagne parlare di “vergogna”, “periodo della vergogna”, di “cose segrete”.
Non aveva la minima idea di che cosa potesse essere ma, dato che le altre parevano capire perfettamente, lei non aveva mai chiesto.
« Vergognosa sarai te. T'avrei voluto vedere, a prendere le frustate, se ti rimaneva il culo pulito!»
rispose Elena con voce graffiante. Sentiva che aveva bisogno del suo luogo delle maledizioni molto alla svelta.
« Sei una pezzente!» si indignò Orsola.
Il destino, nemico infausto, volle che suor Teudigia ricevesse una chiamata urgente dal parroco, che l'abbisognava per non si sa che affare impellente. Entrò, salutando le bambine e lanciando un nuovo avvertimento ad Elena. Chiese alla suora se Elena avesse raccontato l'accaduto e si compiacque di sentirsi ripetere le sue gesta da suor Teudigia.
Le ragazze furono quindi congedate con un po' di anticipo, prima del pranzo, per poi essere nuovamente aspettate ai lavori pomeridiani.
Per questo il destino fu crudele: Orsola avrebbe gettato via la sua voglia di punzecchiare Elena, dinnanzi alla libertà di tornare a casa. Peccato che il prete avesse risvegliato nella classe l'interesse verso quel fatto delle vergate avvenuto in mattinata.
Erano già quasi tutte nel cortile, quando Orsola disse a voce alta:
« guardate tutte il culo di Elena, che è sporco di sangue! È una svergognata!»
Le altre compagne si misero ad osservarla e a ridere. Elena si portò le mani sul sedere e gridò:
« Perché non vi fate i fattacci vostri?»
« Stai zitta, indiavolata!»
« Ti dovevano bruciare appena nata, a te!»
« Non ti vergogni con quel vestito tutto bucato?»
« Zitte un po'» disse a un certo punto una delle ragazze più grandi, Luchina, che aveva sedici anni e fra poco si sarebbe sposata: « magari le è arrivato il periodo della luna» sussurrò.
« Elena, sono le frustate o è … quella cosa?».
Elena arrossì e guardò con occhi sbiechi Luchina, che le si era avvicinata.
Questa della luna non l'aveva mai sentita. Aveva un nome più carino di quello della vergogna; forse era una cosa diversa.
« E che cos'è?» chiese dunque, con coraggio.
Lo scoppio di risate che ne seguì fu irritante come non mai. Le ragazzine si sbellicavano e anche Luchina le rise in faccia con incredulità.
« Elena, non sai niente
« Si! Si ! So tutto!!» sbraitò lei: « Lo so cos'è quella cosa della vergogna! Lo so! Smettetela!»
« Ma almeno come nascono i bimbi lo sai?» chiese Orsola, che aveva le lacrime agli occhi.
Elena fu spiazzata. Non se l'era mai domandato. Che c'entravano adesso i bambini? Oddio, in effetti, come nascono i bambini? Come entrano nella pancia delle donne incinte?
Gli occhioni verdi sgranati furono una risposta eloquente per le giovani ragazze della scuola di cucito. Era un divertimento inaspettato, troppo impensabile per essere vero: possibile che quella Elena, quel demonio della natura con quei capelli rossi arricciolati e selvatici, non sapesse nulla delle vergogne?
Che ghiotta occasione per ridere di lei! Ormai era un gioco consolidato e noioso, prenderla in giro per il colore dei capelli, per i suoi modi strani o per l'incapacità nel cucire.
 
« Luchina spiegaglielo te, che stai per sposarti!»
« Elena, cosa credi che farà Luchina la notte dopo che si sarà sposata?»
Elena non ne aveva la benché minima idea e tutto il discorso le parve senza senso. Tutto stava prendendo una piega stranissima.
« Che dici? Glielo fai a Luchina un talismano per farglielo piacere, quello che deve fare?»
« Un talismano per cosa?!» gridò Elena, rossa in volto come i capelli, odiando ogni minuto che quella conversazione andava avanti.
Risate, risate e ancora risate.
« Fattelo spiegare da Nanni» disse una bambina coi capelli neri e le sopracciglia folte: «o non è il tu padrone? Vedrai che te lo spiega!»
Giudicando effettivamente una buona idea il fatto di ritornare a casa, Elena fuggì dal cortile dell'oratorio.
Liberò per la seconda, maledetta volta, tante di quelle lacrime che pensò di diventare appassita come l'uva schiacciata.

*
 
Erano passati alcuni anni da che Elena e Nanni erano riusciti a trovare una sistemazione: una casetta piccina, vicino a un campo molto grande. Elena aveva capito che il patto consisteva in questo: Nanni doveva lavorare la terra e dare i ricavati più belli al parroco.
A lei piaceva molto quella casa, nonostante le quattro mura fossero più che altro simili ad una prigionia. Però c'era quel campo meraviglioso. La parte che Nanni lasciava incolta si riempiva di tantissimi fiorellini, di insetti e serpenti. Elena adorava rotolarsi nell'erba alta e scovare tesori: raccoglieva i fiori, li faceva essiccare e li metteva in boccettine per farci i filtri. Una volta aveva trovato una vipera morta; che gioia! Un regalo inaspettato. Aveva benedetto il corpo in putrefazione dell'animale e con cautela ne aveva esaminato la bocca, prelevandone un liquido che sperò tanto fosse il famigerato veleno.
Si era sentita così ricca, quando aveva posseduto quel veleno!
Adesso però non ce l'aveva più: visto che con l'estate si andava asciugando, Elena l'aveva versato sul muro della finestra e aveva constatato con piacere che le zanzare non erano più entrate. O meglio, erano entrate, ma un po' meno.
 
Sbattendo la porta di legno, Elena vide Nanni con la zappa in spalla, evidentemente appena rientrato dal campo.
« Bada la piccola Lena. Sei tornata prima eh?»
« Si» rispose lei secca.
« O brava. Vammi a preparare il mangiare, che ho fame»
Esclamò il padrone, poggiando la zappa dietro lo stipite della porta e sedendosi sul pancale di legno dell'ingresso.
Appena Elena lo sorpassò per andare a preparare il pranzo, Nanni emise una specie di rantolo di sorpresa:
« Bimba, o che hai fatto? È arrivata l'ora, finalmente?»
Elena si voltò, timorosa:
« L'ora di che?»
Nanni aveva di nuovo quell'espressione che lei odiava: uno sguardo incomprensibile, sempre lo stesso, e una propensione a fare domande strane (come quella appena fatta, appunto).
« Eh … Elenina. L'ora di diventare donna. Sarebbe anche l'ora … quanti anni hai, te?»
« Quattodici, mi sa. Perché?» chiese, sempre più nervosa. Poi aggiunse, in cerca di consolazione: « Nanni, è stato il prete! Stamani avevo paura del buio e non ho pulito la chiesa. Lui si è arrabbiato! E mi ha vergato con la scopa!».
Si voltò e tirò su la gonna, mostrando le cosce ferite al suo padrone.
« Guarda! Guarda cosa mi ha fatto!»
Nanni non perse la sua stranissima inclinazione. Perché fa così proprio adesso? Pensò Elena, che aveva solo bisogno di essere consolata.
Nanni parlò con una strana voce strascicata: « Elenina, Elenina. Guarda che sei grande per far vedere il culetto a un prete»
Elena si trovò d'accordo.
« Lo so!! Mi ha alzato la gonnella e poi m'ha vergato!»
« Lena, bella bimba, bada lì. Ti sei fatta quasi donna, eh? Sapessi quant'è che l'aspettavo»
Elena rimase interdetta.
Perché tutti quei discorsi strani, quel giorno?
« Perché l'aspettavi?» chiese.
« Lena bella, c'ho i mi pensieri»
Sempre più stordita e vagamente imbarazzata, Elena si tirò giù la gonna e andò a prendere un secchio per lavare il vestito. Nanni avrebbe pranzato fra un pochino; dopotutto era tornata a casa prima e poteva permettersi di farlo aspettare.
Da quando il suo seno era cominciato a gonfiare, non lavava più il vestitino nuda. Gliel'aveva fatto capire Nanni, che era una cosa che non si doveva fare. Non avendo un ricambio, Elena si metteva la consunta camicia da notte.
« Quando ti uscirà il sangue , ma non per le vergate, Elenina, dimmelo. Perché sarà l'ora che si faccia un cambiamento» le disse dall'ingresso.
Elena armeggiò con il secchio e pensò molto a quella frase, senza capirne una parola.

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