Storia di un burattino e del soldato che gli insegnò a volare

di Jawn Dorian
(/viewuser.php?uid=227825)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. La prima volta che il soldato vide il burattino non lo vide davvero, perché era buio pesto. ***
Capitolo 2: *** Il mondo del burattino era gelido, ed era un mondo che non voleva mostrare ad altri. ***
Capitolo 3: *** 3. Ed è così che cominciò l’amicizia del soldato e del burattino. ***



Capitolo 1
*** 1. La prima volta che il soldato vide il burattino non lo vide davvero, perché era buio pesto. ***


(Se vi state chiedendo il senso di tutto ciò e come mi sia passato anche solo per l'anticamera del cervello, le note a fine capitolo sono quello che vi ci vuole. Se invece siete dei menefreghisti sentimentali come me, godetevi questa roba senza sapere.)




 

 

A Martina, senza cui questa storia non esisterebbe.
A Kaja, che mi fa capire cosa vuol dire volersi prendere cura di qualcuno.
E alla mia Sherlock, che mi ricorda sempre come comincia la storia di un'amicizia

 

Image and video hosting by TinyPic

Image and video hosting by TinyPic


1. La prima volta che il soldato vide il burattino non lo vide davvero, perché era buio pesto.

 
Erano le tre di notte. E nei mesi che seguirono, John si domandò perché accidenti tutte le cose più assurde in quella casa piombavano nella sua vita proprio di notte, quando lui invece avrebbe tanto volentieri dormito. Ma non ci poteva fare niente, perché la sorte l’aveva scelto per vivere tra le anormalità. E quindi erano le tre di notte e John stava scendendo le scale per prendere un bicchiere d’acqua, ma inciampò. E non inciampò sul tappeto mal posato o su un giornale lasciato lì da Sherlock, ma inciampò su un fagotto nero raggomitolato in un angolo della stanza, che appena venne toccato sgusciò all’indietro come un gatto a cui qualcuno aveva pestato la coda. Ma non era un gatto, era decisamente un essere umano, che per qualche motivo se ne stava rannicchiato alla fine della scalinata. John inciampò ma non cadde, e con uno scatto riprese l’equilibrio e afferrò il fagotto con una certa irruenza. «Chi diavolo-» cominciò, e si stupì più che altro di non aver incontrato alcuna resistenza: il fagotto nero si lasciò afferrare ed emise solo un mugolio di disapprovazione ed era estremamente leggero da spostare. Si calmò un poco, perché di chiunque si trattasse sentiva di sovrastarlo fisicamente, ma non mollò la presa. «Chi è?!» tuonò, vagamente scosso dalla sorpresa, e mentre gli occhi si abituavano un po’ al buio, poté notare la sagoma dell’intruso irrigidirsi terribilmente sotto la sua stretta, e poco dopo – riusciva a percepirlo – si mise a tremare. «Sono Elliot.» Non sembrò essere sufficiente per John. Non smise di tenerlo immobile, inchiodato alla parete.
«Come sei entrato?»
«Sherlock» la voce era meno sicura, ora, più rotta e sbiascicata. Sembrava più spaurito di qualunque altro incursore che John aveva avuto modo di affrontare a Baker Street, quindi allentò un poco. «Sherlock mi ha fatto entrare.»
«Chi sei tu?» ripeté John, ancora più confuso di prima, se possibile.
«Sono Elliot...»
«No, intendo— perché Sherlock ti ha fatto entrare? Perché sei qui?»
«Aveva un lavoro per me.»
John Watson non dubitava del fatto che il suo coinquilino avesse fatto qualcosa del genere – e cioè ingaggiare qualcuno per qualcosa senza dirgli un bel niente e non premurarsi di accompagnarlo alla porta una volta che l’opera era conclusa – ma volle fare un ultimo accertamento. Lasciò la presa e aspettò di vedere ricomporsi lo sconosciuto, che sembrava più che sollevato e poi domandò che genere di lavoro gli avesse assegnato. «Io sono un hacker» biascicò la voce dopo un attimo di esitazione «stavo cercando di risalire ad una persona-»
«Perché sei ancora qui?»
Ci furono dei secondi di silenzio, prima che la voce ammettesse stentante: «Non ho un altro posto dove dormire.»
John contò fino a dieci (come la sua analista gli aveva consigliato caldamente di fare ogni volta che sentiva la rabbia montare per via delle mancate norme sociali di Sherlock) poi sospirò, e sebbene fosse ancora molto sospettoso, decise che tra l’ipotesi di un ladro entrato in casa e quella dell’hacker senzatetto ingaggiato da Sherlock – data la sua vita e dato Sherlock – la seconda, in fondo, non era che la più fattibile.  «Perché non ti sei steso sul divano?» chiese quindi al nuovo arrivato. «Sherlock mi ha detto di non toccare nulla» fu l’innocente risposta, e per un secondo John si chiese se lo stesse prendendo in giro, ma non pareva affatto che fosse in vena di scherzi. «Non…non fa niente, stenditi sul divano, ti do io il permesso.»
Elliot – aveva quasi dimenticato che quella sagoma nera aveva un nome - sgattaiolò verso il divano senza dire una parola e riuscì a sentirlo accucciarcisi senza troppi complimenti.
Decise che era il momento di tornarsene a letto. Era troppo stanco anche solo per avere una reazione a tutto…quello. Non poteva fare altro che salire in camera e sperare di non aver davvero lasciato un ladro a piede libero nel loro appartamento. Si consolò, dicendosi che se anche lo fosse stato sul serio avrebbe rimediato solo un teschio o una lente d’ingrandimento e cominciò a risalire le scale lentamente. «Buonanotte» mormorò per pura educazione, non aspettandosi risposta. E infatti non la ottenne.
 
***
 
«’Buongiorno John’ un paio di palle» fu la prima frase che Sherlock Holmes si sentì rivolgere la mattina seguente e francamente, oltre ad essere estremamente volgare, gli sfuggì cosa avesse fatto questa volta per meritarsi una cosa simile di prima mattina, quando per altro lui aveva avuto il garbo e il buon gusto – per una volta – di dire ‘buongiorno’.
«John, temo tu stia passando troppo tempo in compagnia di Lestrade.»
Ma John Watson ignorò la provocazione, armato di una tazza di caffè ed un’aria più sbattuta del solito, e ritornò all’attacco nell’ennesimo vano tentativo di spiegare a Sherlock che in quanto suo dannato coinquilino era suo dovere avvertirlo di ogni eventuale ospite. «’Hey, John, uno dei miei amici senzatetto rimane a dormire’! Dimmi, era così difficile?»
«Elliot non è un senzatetto. Non tutti quelli che lavorano per me lo sono. E poi non ero sicuro avresti approvato.»
John si arrese. Era troppo presto per continuare quella discussione che in ogni caso avrebbe perso. Tempo perso. Abbaiare al vento. Mandò giù il resto del suo caffè e si infilò un biscotto in bocca prima di avviarsi in bagno.
«Quindi non ti infastidirebbe se Elliot rimanesse a dormire altre volte.»
Prima di chiudersi la porta alle spalle, John trovò la forza di ribattere solo con: «Magari la prossima volta assicurati che non si metta a dormire per terra.»
Sherlock si aprì il giornale concedendosi un sorrisetto vittorioso.
 
***
 
Per settimane l’argomento non fu più riportato a galla, e John aveva quasi dimenticato quell’insolito incontro notturno – perché in fondo ormai la sua vita nella sua interezza era più che insolita – e inoltre tutti erano in fermento per un nuovo caso che Sherlock Holmes e il Dottor Watson avevano brillantemente risolto ancora una volta. Sherlock stranamente sembrava davvero compiaciuto di sé stesso e di aver ritrovato quella coppia di coniugi scomparsi. Come al solito aveva chiesto che le attenzioni della stampa non si rivolgessero a lui ma a Lestrade o a Dimmock – che in quell’occasione erano intervenuti entrambi a sorvegliarlo – ma pareva soddisfatto della riuscita, ed ancora non scalpitava reclamando un nuovo caso preso da una crisi d’astinenza. Forse perché quel caso li aveva veramente messi a dura prova entrambi. Fatto stava che, nonostante la sua nomea di anti-festa che aveva raggiunto la fama internazionale, non tentò di protestare quando John andò a fare la spesa in grande per sperimentare in cucina in modo da “festeggiare” il loro successo. Quindi John Watson camminava tranquillo con le sue buste in mano e l’aria un pochino trionfante per il bottino e l’idea di un ottimo spezzatino di patate e manzo. Tutto ad un tratto, quando aveva quasi raggiunto la porta del 221b, si sentì chiamare. «Dottor Watson?»
Si girò con tranquillità e trovò un profilo familiare e due occhi enormi e un po’ agitati che lo fissarono per poco, prima di rivolgersi verso il marciapiede, nascosti dall’ombra di un cappuccio nero. A chiamarlo era stato un ragazzo. Forse per via dello sguardo sfuggente, della felpa nera in cui era infilato o del fatto che teneva le testa incassata nelle spalle e le mani nelle tasche, a John sembrò uno scricciolo. «Sì..?»
Pareva stesse prendendo coraggio, prima di parlare. Respirò impercettibilmente più forte dalle narici e tornò a guardarlo, prima di biascicare: «Scusa.»
«Per cosa— Aspetta…aspetta un attimo» John si avvicinò di un singolo passo riconoscendo quel profilo, ma bastò affinché il ragazzo indietreggiasse terrorizzato «…Elliot, giusto?»
Il giovane annuì velocemente con le labbra serrate, visibilmente spaventato, così John si ricordò che la prima volta che si erano incontrati lo aveva sbattuto contro il muro scambiandolo per un ladro. «Temo di dover essere io a scusarmi per non averti dato tempo di— beh…Sherlock non mi spiega mai— in ogni caso, ti chiedo scusa per l’irruenza.»
Elliot per un attimo sembrò confuso, come non avesse mai sentito qualcuno fargli delle scuse prima di quel momento, ma poi ripeté: «Scusa.»
«Per…cosa, con esattezza?»
Il ragazzo tirò fuori il cellulare con gesto deciso e avanzò di poco verso Watson, mostrandogli il display. Tutto ciò che John vide furono lettere e numeri di cui non capì il reale significato fino a che non scorse una barra che caricava su cui sopra capeggiava il suo nome. «Ti ho hackerato il cellulare» disse Elliot a quel punto chiarendo ogni dubbio, con una tale nonchalance che a John riuscì quasi complicato offendersi. «E…Ehi!» protestò, ma un po’ per le buste in mano, un po’ per i modi stentati di quel ragazzino, un po’ per la consapevolezza che la cosa più imbarazzante nel suo telefono era una sua vecchia foto da piccolo a lezione di clarinetto, si limitò a sospirare e corrucciarsi. «Beh, hai perso tempo. Non c’è un bel niente di top secret nel mio cellulare.»
«Questo lo so. Tu sei un tipo normale» ribatté con naturalezza disarmante. John a quel punto fu pervaso da una strana sensazione di deja vu: una curiosità martellante e una voglia matta di chiedergli per quale motivo allora avesse deciso di hackerare comunque il suo cellulare. Rimase lì imbambolato ed incredulo un altro attimo, che diede il tempo ad Elliot di accumulare altro coraggio per continuare: «Di solito non lo faccio. Non chiedo scusa di persona.»
L’ennesimo sguardo perplesso del medico sembrò invogliarlo a concludere il discorso: «Cerco di lavorare sulla mia ansia sociale.»
«Err— okay…cioè, ottimo. Ottima cosa…grazie per le scuse, allora. Io…vado a preparare la cena.»
«Okay…»
Era sorprendente come molte cose che un tempo avrebbero fatto uscire Watson dai gangheri ora gli provocassero solo un vago fastidio alla base dello stomaco, che comunque in quell’occasione represse con maestria invidiabile. Quel ragazzo era strano ed un po’ inquietante, ma in qualche modo lo trovava simpatico. Gli faceva tenerezza. Probabilmente si trattava di un adulto, ma i suoi atteggiamenti, quegli occhioni strabuzzati e lo zaino in spalla lo facevano sembrare un ragazzino. E poi John apprezzava molto la sincerità. «Uhm, senti…Elliot. Mi dovevi solo dire questo?»
«In realtà» ammise con un po’ di fatica «ero venuto per concludere quel lavoro per Sherlock…forse ho trovato qualcosa ma— insomma, siete occupati, torno un’altra volta.»
E allora John capì che in qualche maniera Elliot aveva fatto un grande sforzo a venire fin lì, e che probabilmente l’ansia sociale non era il suo unico problema e sospirò, sospirò sonoramente perché sapeva che si stava probabilmente facendo fregare da quell’aria sprovveduta e infantile, ma al diavolo. «Non dobbiamo fare nulla di particolare se non cenare. Non preoccuparti, entra pure con me.»
Elliot gli lanciò uno sguardo totalmente confuso, facendo saettare le pupille da una parte all’altra, come se si stesse facendo esplodere la testa con mille domande, e John sentì il bisogno di calmarlo: «Puoi rimanere a cena con noi. Se vuoi. Insomma, lavori per darci una mano, offrirti una cena è…un gesto…ti senti bene?»
Sembrava ancora più confuso di prima, ma annuì. «Okay» mormorò piano.
 
***
John sapeva una cosa o due sui piccoli geni che avevano difficoltà a rapportarsi con le altre persone. Dopotutto, condivideva un appartamento con una delle menti più brillanti di quel secolo che era anche un sociopatico iperattivo. Per questo Elliot Alderson lo incuriosiva tanto: gli ricordava Sherlock, ma allo stesso tempo pareva completamente diverso da lui. Insomma, tra una visita a Baker Street e l’altra John si mise ad osservare involontariamente i suoi atteggiamenti, e notò che l’ansia sociale sembrava la cosa meno problematica nella vita di quel ragazzo. Ogni volta che lo vedeva gli sembrava sempre più magro e malandato. Al di fuori delle sue sporadiche visite a Baker Street non aveva idea di quale fosse la sua vita, e quasi faceva fatica ad immaginarla. Ma la cosa che John era certo di aver capito senza alcun dubbio, era quanto quel ragazzo fosse geniale. Non importava quanto le richieste di Sherlock fossero assurde, esigenti, o deliranti, Elliot abbassava la testa sul suo portatile, e in meno di un minuto avevano quello che stavano cercando. Nomi, indirizzi, informazioni, amanti, password, non aveva alcuna importanza: trovava tutto in poche mosse, senza pretendere nessun grazie e senza donare nessun prego. Era impressionate, e diede la possibilità a John di comprendere un elemento fondamentale di Elliot Alderson: non era abituato alla gentilezza.
«Fantastico!»
John non era solito farsi problemi nell’esprimere il suo entusiasmo di fronte alle deduzioni di Sherlock, e non vedeva perché avrebbe dovuto fare altrimenti con le doti straordinarie di Elliot. Solo che quando ebbe rintracciato il truffatore che stavano cercando da un’intera settimana e John gli concesse quel complimento, Elliot lo guardò come se gli fosse spuntato un terzo braccio. «Fantastico?» biascicò perplesso «Cosa dovrebbe essere fantastico?»
Sherlock, dalla sua poltrona, emise uno sbuffo per poi dichiarare: «Non farci caso, Elliot. I complimenti fuori luogo sono una prerogativa di John.»
E prima che John potesse protestare, il ragazzo ripeté la domanda, con la stessa espressione di un bambino insistente e curioso: «Cosa è fantastico?»
«Ma tu! Il lavoro che hai fatto! Sei stato bravo e io te l’ho— insomma, nulla di fuori luogo, Sherlock esagerava. E’ stato fantastico!» A quel punto Elliot si bloccò. Ancora una volta prese a scrutare John, poi Sherlock, e poi ancora spostò lo sguardo sul portatile e infine, inaspettatamente, arrossì così tanto che la cosa risultò evidente anche da sotto l’ombra del cappuccio. Sherlock aggrottò le sopracciglia di fronte a quella visione oscenamente infantile mentre John, prevedibilmente, trattenne una risata.

 
***
Elemento fondamentale di Elliot Alderson numero due: Elliot non mangiava. O almeno, non abbastanza. E di questo John si era fermamente convinto. Non seppe spiegarsi perché, ma sentiva l’istinto di rimpinzarlo con un buon pasto caldo ogni volta che lo vedeva, perché ogni volta che lo vedeva gli sembrava più sciupato e magro di quella precedente. E se Sherlock aveva cominciato ad inneggiare ad un delirio di mancata paternità dovuto all’andropausa imminente del suo coinquilino, la signora Hudson invece lo sosteneva fermamente in quella convinzione: quel ragazzo era troppo magro, sottopeso, e aveva bisogno di pasti regolari. Per questo quando - nel bel mezzo di una delle sedute di hacking supervisionata da Sherlock e Lestrade - John posò sul tavolino un piatto di uova strapazzate e pomodori al forno, nessuno nella stanza sembrò stupirsi più di molto. Nessuno a parte Elliot. Non fece domande ma spostò lo sguardo sospettoso dal piatto a John che si affrettò a spiegare: «Te lo offre la signora Hudson.»
«Perché?»
«Perché no?»
Il giovane hacker sbatté le palpebre un paio di volte, prima di decidere che non sapeva come rispondere. Quindi prese la forchetta, ed iniziò a mangiare.
***
Elemento fondamentale di Elliot Alderson numero tre: sembrava soffrire di un disagio ben più grave che una semplice ansia sociale. John notò le cose giuste, perché d’altronde era un medico, e finì per domandarsi se quel ragazzo non rientrasse nello spettro autistico. Era piuttosto evidente dal modo in cui evitava lo sguardo, dall’immediato spasmo allarmato che produceva non appena lo si sfiorava appena. Fece un paio di ricerche anche aiutato dalla sua memoria, e tra le varie ipotesi la più plausibile gli sembrò quella della sindrome di Asperger. Molto spesso scherzando l’aveva associata a Sherlock, ma in realtà quella sindrome era molto più complicata. Non era uno specialista in materia, ma gli parve plausibile, dati i comportamenti che aveva avuto modo di osservare in quel ragazzo tanto geniale: un grave disturbo dello sviluppo caratterizzato dalla presenza di difficoltà importanti nell’interazione sociale e da schemi inusuali e limitati di interessi e di comportamento. Quella sindrome, in un certo qual modo, era ancora misteriosa e definita poco precisamente, ma alla mente poco allenata sull’argomento di John quello parve proprio un caso da manuale. Sapeva per certo che Elliot era più che consapevole dei suoi problemi comportamentali, ma finì per domandarsi se il ragazzo – o chi per lui quando era un bambino – avesse provato a dare un nome a tutti i suoi comportamenti inusuali. Fu a quel punto che si rese conto che in definitiva di Elliot non sapeva nulla, mentre lui sapeva sempre tutto su di loro. Famiglia, vita, casa. Che cosa faceva un hacker nella sua vita privata? E cosa bisognava fare per entrare a farne parte?
***
 
«Krista dice che stai cercando di diventare mio amico.»
Accadde presto – come spesso accadeva nella vita di John Watson da un po’ di tempo a quella parte – che quella frase inaspettata rimbombò nel salotto del 221b. Sherlock era fuori per una chiamata urgente (molto probabilmente da Mycroft, considerato il grugno stampato sulla faccia del consulente investigativo e la veemenza con cui aveva sbattuto la porta), e quindi ad assistere all’hackerata mattutina doveva essere John da solo, che di tecnologia era certamente quello che ne capiva di meno, ma qualcuno doveva pur esserci, e John c’era. C’erano solo lui ed Elliot, per una volta. E ben presto il ragazzo alzò la testa dal portatile, tolse le dita dalla tastiera, e rivolse a John quell’affermazione come fosse stato qualcosa su cui aveva lungamente meditato e che ora voleva sottoporre alla sua supervisione. Così come molte altre volte, il povero dottore stilò velocemente una lista di domande nella sua testa e partì subito con la prima, dopo una breve pausa: «Chi diavolo è Krista?»
«La mia strizzacervelli.»
«Tu hai una terapista?»
«Sì..?»
Rimase spiazzato, ma anche piuttosto sollevato da quella scoperta. Almeno poteva essere sicuro che quel ragazzo non stesse affrontando i suoi problemi da solo. «Penso che Krista abbia ragione. Sì, sto cercando di diventare tuo amico.»
E fu così che John scoprì l’elemento fondamentale di Elliot Alderson numero quattro: nonostante non amasse le persone, amava ancora meno la solitudine.
«Che cosa dovrei fare a riguardo?» biascicò a quel punto, tra l’imbarazzato e l’esterrefatto.
John era sinceramente intenerito da quegli occhi strabuzzati e l’aria di chi non doveva aver avuto molti amici prima di quel momento, e decise che valeva la pena tentare di aiutarlo. Avere un amico non avrebbe risolto tutti i suoi problemi sociali, ma magari avrebbe migliorato la situazione e spianato la strada ad un percorso terapeutico più sereno. «Dipende. Ti piace l’idea che io cerchi di diventare tuo amico?»
Elliot si prese un momento per pensarci, guardando altrove. Ma poi, con un guizzo cristallino nelle iridi chiare, tornò a incatenare gli occhi a quelli di John, che quasi si sorprese di tanta audacia. «Sì…credo. L’idea mi piace.»
Un piccolo sorriso – il primo che John vide sul volto di quel ragazzo – sbucò sulle sue labbra. Un sorrisetto innocente, sincero e piuttosto…tenero. John ammise a sé stesso senza troppe cerimonie di avere un debole per quell’espressione, ma la vide svanire quasi immediatamente. Ora Elliot aveva gli occhi inchiodati al pavimento e l’aria incupita. «Però penso che non dovresti. Non dovresti essere mio amico.»
«Perché no..?»
«E’ meglio che tu stia lontano da me.»
***
Sherlock aveva molti giovani amici che bazzicavano le strade a cui chiedere consiglio, ma difficilmente John aveva avuto contatti con loro per lungo tempo. C’era stato Buzz, il writer della pittura gialla per colpa di cui era finito in tribunale per comportamenti antisociali. Si era fatto perdonare a processo concluso con una torta e delle scuse che erano state una cosa tipo: “Ma tanto lo sapevo ti avrebbero assolto, Doc. Hai il faccino troppo da bravo dottore per finire dietro le sbarre.”
Insomma John non conosceva realmente gli elementi che costituivano la rete di Sherlock. Non aveva avuto modo – e spesso neppure la voglia - di familiarizzarci in alcuna maniera. Così Elliot Alderson finì per essere l’ennesima eccezione alla regola della sua vita. Dopo la conversazione che avevano avuto sull’amicizia però, Elliot parve diventare più schivo del solito nei suoi confronti. Decise all’improvviso che non riusciva a lavorare se c’era anche John nella stanza, così il malcapitato dottore doveva sempre aspettare che l’operazione fosse conclusa fuori dalla porta dell’appartamento, poi prese a rifiutare il cibo che gli veniva offerto, finché non arrivò addirittura ad ignorarlo del tutto.
 
***
«Non capisco.»
«Non tutti hanno voglia di essere tuoi amici, sai, John?»
John abbassò il giornale e alzò gli occhi al cielo, mentre il suo coinquilino e ironicamente amico Sherlock Holmes lo derideva dalla sua postazione in cucina, davanti al microscopio. «Elliot ha un animo solitario, non è detto che abbia bisogno della tua amicizia.»
«Esistono tanti animi solitari che hanno comunque bisogno di almeno un amico.»
Su quel punto Sherlock non sapeva come ribattere, perché in effetti lui faceva parte proprio di quella categoria, e dopo l’avventura del mastino di Baskerville, entrambi lo sapevano benissimo.
«Sono solo preoccupato. Mi sembra irrequieto.»
«Ahh, dottore...» un sorriso amaro che cercava di farsi beffe di lui ma non ci riusciva comparve sul volto di Sherlock «non puoi salvare tutti quanti.»
«Sherlock?»
«Mh?»
«Perché ‘salvare’
***
Quando Elliot aveva hackerato John Hamish Watson erano saltati fuori degli elementi piuttosto contraddittori. Per esempio, sembrava essere un tipo semplice che amava vivere giornate tranquille, ma allo stesso tempo non riusciva a smettere di essere presente ogni volta che il pericolo chiamava. Si trattava dell’assistente di Sherlock Holmes, che doveva certamente aver imparato a dure spese che gli esseri umani sapevano essere i peggiori mostri sulla faccia del pianeta, ma comunque sembrava ben disposto verso tutti senza eccezioni. John Watson non aveva fiducia in nessuno, ma allo stesso tempo si fidava di tutti. Era una persona buona ed onesta in modo insolito, consapevole, all’erta di ciò che il mondo gli riservava. Era strano, ed Elliot aveva provato una strana sensazione nel spiare la sua vita. Oltre ad un senso di colpa più forte della maggior parte delle volte in cui frugava nella privacy altrui senza permesso, c’era anche una voglia poco convenzionale per lui di parlargli. E quindi gli aveva chiesto scusa di persona, omettendo ovviamente vari dettagli sulla faccenda dell’hacking. Ma non ci poteva fare molto se era un gran codardo. La faccenda si era complicata quando si era reso conto che parlare con John non lo agitava o faceva sentire a disagio. John rendeva malleabile la conversazione, gli domandava cose su quello che faceva con sincero interesse, lo faceva sentire bravo. Bravo. Di solito non sentiva alcun bisogno di ricevere complimenti sul suo lavoro o sui suoi scarsi progressi in ambito di socializzazione, ma John glieli faceva lo stesso, ogni volta. E non importava che fosse un ‘fantastico!’ dovuto ad un hacking appena compiuto o un ‘bravo!’ per via di un’interazione sociale andata a buon fine, Elliot si sentiva stranamente appagato e dai suoi complimenti, in qualche modo. Aveva confidato a Krista con non poca fatica queste sensazioni, e lei con un sorriso malnascosto gli aveva spiegato che John probabilmente stava cercando di diventare suo amico.
E così all’improvviso, senza che nemmeno se ne rendesse conto, Elliot Alderson aveva un nuovo amico e la cosa lo terrorizzava da morire, perché quel nuovo amico era John Watson, dalla moralità ferrea e la volontà instancabile. Erano praticamente come il sole e la luna, e qualcosa prima o poi sarebbe andato storto.
«Che ci fai tu qui?»
Aveva iniziato ad evitarlo di proposito per frenarlo e per tutta risposta ora John era di fronte alla porta del suo monolocale con una busta della spesa e un’espressione tranquilla.
«Ti sono venuto a trovare.»
«Io non— non ricevo visite, di solito.»
«Posso entrare?»
«No
Se c’era una cosa che Elliot sapeva fare, quella era allontanare le persone da sé. Quel soldatino inglese di buoni principi sarebbe stato un gioco da ragazzi, ne era certo. Ma solo gli stupidi non hanno mai dubbi e – come Holmes aveva sottolineato più volte quando si erano incontrati la prima volta – Elliot sapeva essere un discreto stupido, certe volte. «Posso lasciarti questa?» il dottore gli porse la busta senza cambiare espressione, mentre lui sembrava sempre più confuso. «Perché?» domandò, senza biascicare. «Perché so che non fai pasti regolari.»
Era vero. Decise di allungare la mano e prendere la busta, e mormorare un «Grazie» piuttosto sentito per essere suo. John sorrise a quel gesto e, dopo un breve cenno del capo si girò per andarsene. «Aspetta!»
Elliot non si rese conto di essere stato lui a parlare fino a che non vide il dottor Watson girarsi.
«Vuoi un—»
In quel caso sarebbe stato opportuno offrire un caffè o qualunque altra cosa, ma lui aveva solo…pillole di morfina. Ecco, era certo che John non avrebbe apprezzato.
«…bicchiere d’acqua?»
Sorrise di nuovo e annuì con un altro cenno del capo. Avanzò, ed Elliot, suo malgrado, si scostò e lo lasciò entrare. Era strano che lo avesse fatto. Perché lo aveva fatto, poi? Non aveva senso. Forse le cose non dovevano sempre avere senso.



 

 
 







Note piuttosto lunghe della pazza che si è lanciata in questa avventura
(Se ti piace leggere e basta senza farti troppo domande, saltale pure!)
Salve, straniero. Se sei su questa pagina può voler dire solo che hai cliccato per sbaglio (cosa che personalmente ritengo statisticamente più probabile), oppure che hai letto l’introduzione di questa fanfiction e hai pensato “Sherlock e Mr.Robot?! Cos’è questa roba? Diamo un’occhiata!”
Mi sembra quindi giusto chiarirti le idee con una piccola guida alla lettura (visto che come avrai ben capito ci saranno altri capitoli) e con qualche spiegazione sul come la mia mente sia arrivata a partorire un simile crossover che all’apparenza non ha il minimo senso.
Questa storia trova le sue radici e si ispira ad una role crossover cominciata parecchi mesi fa quasi per sbaglio. Una ragazza che ruolava Elliot Alderson è capitata nel gruppo RPG di Sherlock che frequento. Io ruolavo John, lei ruolava Elliot, mi ha contattato in privato, è iniziata una role e bam: non è più finita. Non so spiegare come e cosa ci abbia portato a continuarla. Essenzialmente ci divertivamo molto, e per qualche motivo le dinamiche tra i due personaggi funzionavano. Presa dall’entusiasmo, ho iniziato a scrivere una storia senza una vera trama in cui John e Elliot si incontrano e nasce un rapporto bizzarro. E niente, sostanzialmente, non riesco a smettere di scrivere. So che la cosa non ha il minimo senso e che è piuttosto dissacrante prendere un personaggio come Elliot Alderson e farlo diventare una specie di cucciolo d’uomo bisognoso di attenzioni, ma non sono davvero riuscita a trattenermi in nessun modo.
Avvisi, che non ho intenzione di ripetere: - E’ possibile che Elliot ogni tanto – come temo abbiate già notato in questo primo capitolo-  risulti OOC. Per me è un personaggio davvero complicato da gestire e mi scuso in anticipo;
-Ho dovuto spostare Elliot da New York a Londra. Mi rendo conto che la cosa non ha senso, perché sono certa che una storia come quella di Mr.Robot può funzionare solo in un paese come l’America e che uno spostamento in Europa non renda, ma mi avvalgo di questa licenza poetica per far sì che questi due possano chiacchierare ogni volta che vogliono;
-Non so quanti capitoli la storia durerà e dove porterà esattamente, si tratta di un pasticcio introspettivo e sentimentale senza capo né coda, prego i lettori di essere pazienti con me, che sono una gran sentimentale;
-Cercherò di incastrare le trame delle due serie per quanto possibile in un ordine cronologico che riesca a risultare logico e non troppo forzato, ma inevitabilmente alcuni dettagli mancheranno, specialmente per quel che riguarda Elliot perché questo benedetto ragazzo non ha un attimo di respiro per godersi la vita, cosa che tenterò di fargli fare in ogni modo;
-Disseminerò citazioni qua e là. Lo stesso titolo della fanfiction è una gigantesca citazione. Citazioni, citazioni, citazioni. Se le saprete cogliere tutte vi giuro che vi premierò in qualche modo. Un biscotto, una coccardina. Non lo so, ma troverò qualcosa, ve lo assicuro.
Spero davvero che qualcuno si diverta a leggere questa fanfiction come io mi sono divertita a scriverla. Solitamente non riesco mai a rispondere alle recensioni per mancanza di tempo, ma questa volta vedrò di essere presente e rispondere a qualunque domanda abbiate intenzione di fare, o a qualunque insulto (meritatissimo) pensiate di dovermi rivolgere.
Grazie infinite a chi ha letto fin qui. Buon 9 Maggio a tutti.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Il mondo del burattino era gelido, ed era un mondo che non voleva mostrare ad altri. ***


Image and video hosting by TinyPic


Image and video hosting by TinyPic


2. Il mondo del burattino era gelido, ed era un mondo che non voleva mostrare ad altri. 


Elliot ricordava ancora quando aveva incontrato Sherlock Holmes di persona per la prima volta. Lo aveva hackerato solo la settimana prima, perché era una di quelle persone che gli faceva sentire quel pizzicore, che faceva scattare come una trappola per topi quella parte della sua mente che lui tentava di sopire inutilmente. Era interessante, e per conoscerlo cercò il lato peggiore di lui, come faceva da sempre per conoscere qualcuno. Ma quell’hacking non rimase a lungo impunito, perché Sherlock Holmes si presentò da lui la settimana successiva, in un bar, munito del suo migliore sorriso di circostanza e di un cappuccino con il cacao. «Elliot Alderson, giusto? Sherlock Holmes. Oh, inutile presentarmi, sai già chi sono. Posso sedermi?» non aspettò alcuna risposta, ma si sedette di fronte ad Elliot prendendo un sorso dal suo cappuccino e facendo sparire il sorriso in meno di un secondo. L’hacker nel frattempo lo guardava, nel panico: lo avevano beccato. Era stato uno stupido, doveva cancellare le sue tracce molto prima. Come aveva potuto sottovalutare Sherlock Holmes? «Oh, non fare quella faccia allarmata. Sì, hai decisamente fatto un errore a sottovalutarmi e sì, rischieresti di finire in prigione e sì, sai essere un discreto stupido, ma per tua fortuna sei un bravo hacker. E a me serve un bravo hacker.»
Boccheggiò per un secondo, il che fece alzare gli occhi al cielo al detective. «Sì, ti sto offrendo di lavorare per me. Nel tempo libero, insomma. Ebbene?»
Non gli aveva lasciato molta scelta. Elliot schiuse le labbra e lo fissò, ma ancora non emise un suono. Holmes, spazientito, aggiunse: «So del tuo lavoretto notturno.»
Il ragazzo si mosse sul suo sgabello, sentendosi improvvisamente molto a disagio: nessuno sapeva che ogni tanto di notte giocava a fare il giustiziere. Il suo desiderio di salvare qualcuno, chiunque, di fare giustizia, non per soldi, ma per pura soddisfazione personale, era una cosa che lo spaventava. Si spaventava da solo, e il fatto che ora qualcun altro ne fosse venuto a conoscenza faceva sembrare le sue azioni più nitide, più reali. Era facile fingere che fosse tutto un sogno finché era il solo a conoscere il suo segreto. Ma ora erano in due. Non era un sogno, non lo era mai stato. Svegliati, Elliot.
«Lo sai» continuò Sherlock, con il tono più incoraggiante che riuscì a produrre «se tu lavorassi per me, mi aiuteresti a mandare in prigione molte persone che infrangono la legge, e a salvare persone innocenti che soffrono.»
Lui voleva salvare il mondo. Dal denaro, dai potenti, dal mondo stesso. Miriadi di persone avevano sofferto quanto lui e Elliot voleva preservarle almeno un po’ da quella sofferenza. Sherlock Holmes era come lui: inseguiva il brivido della caccia e salvava la gente da minacce che solo lui poteva vedere, e che agli altri erano invisibili. Holmes camminava per le strade e scorgeva una guerra perpetuamente in atto. Era proprio come lui. Avevano due modi diversi di operare, ma il risultato era lo stesso. Elliot voleva salvare il mondo. Ed in parte, almeno un po’, così avrebbe potuto farlo davvero. «Ci sto.»
 
***
Elliot doveva solo fare qualche lavoretto per Sherlock Holmes. Senza farsi coinvolgere troppo e senza dare dell’occhio. E invece non solo la sua presenza a Baker Street era ormai nella norma, ma in quel momento John Watson si trovava nel suo monolocale per una visita di cortesia. John Watson. Era surreale, ma allo stesso tempo dava ad Elliot la parvenza di sostare in un limbo sereno. Serenità, una cosa che non ricordava di aver mai provato. Non era semplice quiete, non era la calma piatta da depressione, era serenità. Mentre osservava John che si guardava intorno con aria curiosa e un tantino perplessa, non sapeva come sentirsi. John Watson sarebbe diventato suo amico. Era così che funzionava, vero? Se inviti qualcuno in casa tua, difficilmente lo fai senza volerlo. Era quello che non gli era chiaro: non voleva che John se ne andasse, ma non sapeva il perché. Flipper arrivò nemmeno un istante dopo, sbucando con entrata trionfale da dietro i cuscini e un sonoro guaito di benvenuto per il loro ospite. John si chinò per posarle qualche carezza poco convinta sotto il musetto. «Vivi qui tutto solo?» chiese il dottore, una volta che la cagnetta si fu calmata. Elliot non rispose, si limitò a guardarlo. Domanda stupida. «I vicini sono cordiali?» provò di nuovo. Altra domanda stupida, e che per altro riportava la mente di Elliot allo spiacevole pensiero che l’appartamento di fronte ora era vuoto e silenzioso come un cimitero. «D’accordo, come non detto…»
«Cosa c’è nella busta che mi hai dato?» domandò il ragazzo, posando la busta in questione sul tavolo, senza staccare gli occhi dal suo visitatore. «Oh! Formaggio, uova…un po’ di riso, due o tre carote e qualche patata. Non avevo idea di cosa ti piacesse, sono andato sul sicuro senza prendere la carne…sai, potevi essere vegetariano ed io avrei fatto una pessima figura…»
Elliot sorrise appena. Un po’ per il gesto gentile, un po’ per l’espressione buffa di John mentre gli spiegava con moderato imbarazzo il perché di quella strana lista della spesa. Risero entrambi e all’unisono, ad un certo punto, ma senza un perché. «Grazie» ripeté Elliot, e stavolta lo intendeva in modo del tutto nuovo, arricchito, e sincero. Non diede mai a John il bicchiere d’acqua che gli aveva promesso, ma John rimase comunque a tenergli compagnia per un po’. E quando Elliot lo accompagnò fuori e lo vide andare via davvero, venne pervaso da una strana sensazione di vuoto.
“Ancora” realizzò più tardi, mentre fissava il soffitto “credo di volerlo vedere ancora.”
 
***
John Watson e Elliot Alderson erano diventati amici. Era una cosa che nessuno si aspettava, tanto meno Elliot. E capì presto che non era quel genere di amicizia che poteva avere un uomo qualunque della sua età: non guardavano stupidi film o partite insieme, non si prendevano birre e non organizzavano grigliate, né tantomeno si mettevano agli angoli delle strade per fissare le ragazze. John piombava a casa sua ogni volta che poteva, giocherellava con Flipper e picchiettava sul vetro della vaschetta di Qwerty per salutarlo, lasciava del cibo ad Elliot e gli faceva una moltitudine di domande. Domande molto stupide tipo ‘Come stai?’ o ‘Come ti senti?’ a cui lui rispondeva sempre con poca sincerità. Ma la cosa che non finiva mai di stupirlo era l’espressione di John ogni volta che lui rispondeva ‘bene’. Era l’espressione stanca e un poco rassegnata di chi sapeva perfettamente che il suo interlocutore stava mentendo. E un pizzico di speranza nei suoi occhi: una parte di John che sperava di ricevere una risposta sincera, prima o poi. Ma Elliot non credeva gliel’avrebbe mai data. Difficilmente era capitato che qualcuno cercasse di farsi strada nella sua vita in quel modo, prima di quel momento, e non era nemmeno sicuro di cosa si dovesse fare in quei casi.
«Ragazzo, si può sapere cosa ti prende?»
L’arcade sarebbe stato senza il dubbio il posto ideale per riflettere e starsene un po’ in pace, se non fosse stato per Mr.Robot, che si fece trovare seduto con le gambe rigorosamente poggiate sulla sua postazione e un panino sbocconcellato in mano. «Ehi» Elliot fece finta di niente e si mise seduto ad una scrivania qualunque, ma ovviamente l’altro non demorse: «Ti ho fatto una domanda.»
«Di cosa parli?»
«Lo sai che ti conosco bene. Lo vedo quando ti passa qualcosa per la testa. E’ per via di quel dottore…il dottor Watson, mh?»
A quel punto Elliot si voltò, rassegnato al dover affrontare la conversazione. Incrociò le braccia e si appiattì contro lo schienale della poltroncina girevole. «Come fai a sapere del dottor Watson?»
«Mi piace il suo blog. E’ divertente» alzò le spalle e si servì un altro boccone del panino.
«Ti ho chiesto come sai che ci vediamo.»
«Oh, andiamo. Qui il punto è un altro: perché la cosa ti rincitrullisce in questo modo? Un tizio amico di un altro tizio per cui lavori ogni tanto bussa alla tua porta e ti porta le ricette di nonna Papera, e allora?» disse con la bocca piena e una scrollata di spalle.
«Credo stia provando ad essere mio amico. O a prendersi cura di me. Non lo so. Non capisco.»
Mr.Robot ingoiò il boccone e per un attimo sembrò pensarci su, poi continuò: «Ci pensi troppo. Lasciagli essere quello che vuole, no? Da quando te ne frega qualcosa di queste cazzate?»
«E’ diverso» ribatté quasi piccato «è…gentile senza doverlo essere. Perché è così gentile?»
«Pft, forse vuole portarti a letto, o che trovi una password per scoprire se la sua tipa ha l’amante, o magari è solo un tipo ingenuo.»
A quel punto il ragazzo si corrucciò appena. «Cosa c’entra l’ingenuità?»
«Oh, andiamo…crede che tu sia un povero orfanello solitario e ti vuole salvare, si vede lontano un miglio. E’ convinto tu sia un povero ragazzino maltrattato dai compagni durante la ricreazione che si bagna i cazzo pantaloni. Pensi che ti aiuterebbe se sapesse che sei un piccolo tossico bugiardo?»
Elliot serrò le labbra e guardò il pavimento. John non aveva idea di chi lui fosse davvero, e se l’avesse scoperto avrebbe chiamato la polizia, o comunque sarebbe scappato. Questa era la verità.
 
***
 
La scoperta avvenne presto. Era un giorno di pioggia e ad Elliot faceva male tutto. Uno di quei giorni tremendi dove voleva solo stare immobile e piangere nel solito angolino. Tutto era confuso, spaventoso, e ombre dei ricordi più brutti ballavano il tango nella sua testa: una sigaretta spenta sul suo braccio da sua madre, un schiaffo preso in pieno viso, due occhi verdi spenti per sempre, Shayla. Più o meno come ci si poteva immaginare, aveva finito per abbassare la guardia. Flipper prese ad abbaiare e solo in quel momento Elliot alzò lo sguardo. «Elliot? La porta era aper—»
Stava tirando su la seconda striscia di morfina, mentre John entrò. La cosa gli sembrò surreale, perché non disse nulla. Se ne rimase immobile con una busta in mano, l’impermeabile zuppo e stropicciato, e i capelli umidi. Schiuse solo le labbra, ma non cambiò espressione. Il cane intanto si alzò su due zampe per fare le feste al nuovo arrivato, ma quello non si mosse. E proprio mentre Elliot aprì la bocca per dire qualcosa, qualunque cosa, John si girò e uscì, chiudendosi la porta alle spalle, lasciando Flipper delusa, seduta di fronte all’ingresso. Se ne era andato. Non sarebbe più tornato. Elliot in un primo momento non si mosse neanche lui. La consapevolezza di quello che era appena successo lo investì in pieno, ma non si mosse. L’idea di non rivedere più John lo infastidiva, ma non si mosse. Non si mosse per un minuto intero. Poi portò una mano alla bocca, guardò quell’unica striscia rimasta sul tavolo, e scoppiò a piangere. Non sapeva neppure per quale motivo stesse piangendo di preciso e gli sembrò che passassero delle ore. Una, due, tre ore. Forse quattro.
Il tango nella sua testa intanto andava più veloce, tutto era diventato un turbine nero eterno e psichedelico. La schiena di John e i suoi occhi delusi lo tormentarono in quell’incubo senza fine. Si rannicchiò sul divano, sentendo che i residui di lacrime sulle guance bruciavano terribilmente e la testa gli scoppiava. Si rese conto che la notte era arrivata, ormai era tutto buio. Passò la nottata con la faccia affondata sul divano, le ginocchia al petto, senza neppure riuscire ad emettere un suono o un lamento. Vide la schiena di John tante, troppe volte. Una volta provò a seguirlo, a fermarlo, a tenerlo stretto per un braccio, ma lui si era dissolto, allora tornava indietro a casa, ma lì trovava Qwerty a sgridarlo. La sua voce profonda continuò a ripetersi, nella sua testa, e rimbombava come il suono di una campana: ‘Guarda cosa hai fatto’, diceva. ‘Non sapevo che fare!’ cercò di giustificarsi con il pesciolino ‘io sono solo, io…’ ma quello non sentì ragioni, e sebbene fosse solo un pesce, si girò offeso dall’altra parte della vaschetta con un guizzo. Allora corse di nuovo, stavolta verso Baker Street, ma non c’era più niente. Nessuno avrebbe pianto al suo funerale, sarebbe morto solo in quel buco, e non avrebbe salvato il mondo, non avrebbe salvato neppure sé stesso o le persone che amava. Cosa si ostinava a rincorrere? Non riusciva a tenersi neppure una persona che gli era piombata in casa, neppure chi voleva effettivamente stargli vicino. Non sarebbe stato in grado di farlo rimanere comunque, non era in grado di far rimanere nessuno. Né suo padre, né Angela, o John…né Shayla. Nessuno.
Quando arrivò la mattina, si concentrò su chi fosse e come era finito lì. Aprì gli occhi di nuovo proprio mentre il cane ricominciò ad abbaiare, ma poi se li coprì con le mani. Sentì qualcosa di morbido, caldo e confortevole circondargli le spalle, e quando finalmente rimosse le dita dal suo viso John era chinato su di lui e lo stava coprendo con una coperta.
«Hai…finito di fare quello che stavi facendo, giusto?»
«…John?»
«Sì?»
Il dottore era esattamente come quando se ne era andato: i capelli erano sempre umidi, l’impermeabile sempre stropicciato, il sacchetto ora era per terra vicino a dove si era poggiato e Flipper, tutta felice e scodinzolante, ne stava divorando il contenuto. «Cosa- no, no! Cattivo cane— ehi!» John cercò di tirarla indietro con una mano, ma quella rimase con il muso ben piantato nel sacchetto. Sospirò, decise di lasciarla stare e si dedicò completamente ad Elliot, sistemandogli meglio la morbida coperta sulle spalle con cura. «Vuoi un bicchiere d’acqua?» chiese. Elliot rischiò quasi di strozzarsi con l’aria, mentre pronunciava un sofferto: «Sei tornato…»
«Tornato? Non me ne sono mai andato…ero solo uscito un attimo per— sai, non amo vedere le persone mentre…assumono droghe, insomma. Ho…voluto aspettare che finissi e sono tornato dentro. Ma non sono passati nemmeno venti minuti.»
«…non mentire.»
«E’ la verità» continuò con tono calmo, e in un gesto gli mostrò il display del telefono con data e ora. «Non mi sono mosso da qui fuori.»
Elliot si tirò su a sedere stancamente, passandosi una mano su tutta la faccia. Il fatto che John fosse ancora lì in realtà lo turbava più del fatto che avesse avuto allucinazioni degradanti.
«Perché…la coperta..?»
«Tremavi come una foglia.»
«Perché sei ancora qui— un momento» respirò forte e finalmente alzò gli occhi e trovò il coraggio di incontrare quelli dell’ex militare «tu…lo sapevi. Sapevi che io…»
«Che sei un tossicodipendente? Beh, sì. Lavori per Sherlock Holmes, pensavi davvero che la cosa sarebbe stata un segreto?»
«Lo ha…dedotto?»
«Sì, ma non prendertela. Lo fa con tutti quelli che incontra.»
Calò il silenzio, rotto solo da Flipper che aveva divorato anche l’ultimo biscotto della signora Hudson e che produsse un uggiolio soddisfatto. Elliot non sapeva cosa dire. John non era semplicemente tornato da lui…non se n’era mai andato, era ancora lì. Ma il suo istinto come al solito gli suggerì di correre dalla parte opposta della luce. Perché in fondo c’era conforto nel suo panico e rinunciarci era molto difficile. «Te lo avevo detto…devi starmi lontano.»
«Di che stai parlando?»
John non aveva certamente un’aria contenta o serena, ma neppure sembrava sconvolto, arrabbiato o fuori di sé. E non dava segno di volersene andare o in generale voler interrompere le sue visite in quella casa, soprattutto. «Ti va del tè?» chiese, e non ottenendo risposta se non uno sguardo spiazzato, si fece strada da solo aprendo sportelli casuali, in cerca di un bollitore.
 
***
Elliot non ci aveva capito nulla. Nei giorni seguenti continuò a pensare all’assurdità di ciò che gli era capitato. Quella a cui aveva assistito non era una reazione normale. John lo aveva visto farsi di morfina e fare lo schizzato sul divano e tutto quello che gli aveva detto era stato “vuoi un tè”. La cosa era pazzesca, e più ci pensava più non capiva. Ma non era tutto: dopo avergli fatto il tè si era assicurato per qualcosa come la sesta volta che fosse ben coperto e poi era uscito a portare fuori Flipper prima che la facesse di nuovo sui cuscini. Era tornato ancora più fradicio di pioggia e con l’ennesima busta carica di roba presa al minimarket indiano all’angolo. Gli aveva riempito il frigo, aveva rimesso le tazze e il pentolino al loro posto e dopo un breve saluto se ne era andato davvero, lasciandolo solo con la testa che quasi girava, tanto era piena di dubbi. Non aveva senso. Elliot arrivò a pensare che John Watson in sé, in quanto essere umano, non avesse senso. Era una bug nel sistema dell’umanità, un circuito fuori posto. Ma tanto avrebbe ceduto. Quell’inglesino per bene non era così tosto come credeva, e presto si sarebbe accorto di con chi aveva a che fare. Era solo uno stupido medico militare, convinto di essere un eroe per aver servito lo stesso paese che lo aveva mandato in guerra. Non era altro che un montato che provava al mondo di essere indistruttibile affiancandosi i giocattoli difettosi della fabbrica. Che ne sapeva lui di quanto la società fosse una fottuta trappola? Era un topolino nel labirinto come tutti gli altri. Con quello stupido sorriso gentile stampato in faccia, magari credeva anche di poter salvare quelli come lui che dovevano essere salvati da loro stessi. Non era diverso dagli altri, da tutti gli altri. Se ne sarebbe andato, Elliot ne era più che sicuro. Avrebbe visto il marcio che c’era in lui e avrebbe girato i tacchi, spaventato, deluso. Una crocerossina in fuga, ecco che cos’era. Nulla di più.
Ma poi Elliot pensava alla coperta, e a quegli occhi buoni che avevano visto morire troppi amici, e ai biscotti, e agli sbuffi, e a tutta la delicatezza. Al tocco lieve, alle parole rassicuranti, ad ogni piccolo gesto premuroso. E allora pensava che se ne sarebbe andato ma avrebbe fatto male. Avrebbe sentito male. E non voleva. Ma andava fatto. Meglio essere odiati per ciò che si è davvero, che amati per una cosa che non si potrà mai essere. E quindi Elliot prese una decisione: doveva mostrare a John il peggio di sé, così l’avrebbe conosciuto davvero. E così sarebbe scappato.
 
***
John teneva le cose a mente. Non il genere di cose utili che tutti tenevano a mente come la lista della spesa, i numeri di telefono, gli indirizzi, i percorsi. John teneva tutte le cose a mente sulle persone. Tutte le cose piccole, banali, e stupide che chiunque avrebbe finito per dimenticare, tutti i dettagli e le abitudini. Elliot si era accorto poco alla volta di questo suo talento bizzarro, osservandolo quando era insieme a Sherlock. Era così abile a notare le piccole cose su Sherlock, a ricordarsi quante zollette di zucchero volesse nel tè, a capire immediatamente quando era nervoso o mentiva. Sherlock notava le cose, le osservava, ma se non le considerava rilevanti le gettava via, nel retro della sua mente. John invece le conservava, le lasciava in prima fila, come fossero state informazioni preziose e indispensabili. Se prima aveva solo imparato a godersi quello spettacolo di premure inutili, ora, però, Elliot ne era diventato oggetto. E aveva anche scoperto che gli piacevano da matti.
John ogni tanto gli portava delle patatine fritte, perché sapeva che le adorava, e metteva sempre le salse a parte, perché si ricordava di quanto lui odiasse vedere le salse mischiate sulle patatine.
John gli metteva il miele nel tè, perché aveva tenuto a mente che lo preferiva allo zucchero.
John una volta, quando l’Ispettore Lestrade aveva allungato la mano per dargli una pacca sulla spalla lo aveva fermato, perché sapeva che a lui non piaceva essere toccato.
John ogni volta che qualche agente di polizia impaziente gli diceva di sbrigarsi lo zittiva subito con un ‘chiuda il becco’, ed era uno dei suoi momenti preferiti.
John portava biscottini a Flipper e cercava di non gridarle mai contro, neppure quando abbaiava all’infinito, perché sapeva che lui odiava le urla, specialmente contro un cane.
E ad Elliot tutte quelle minuscole cose piacevano. Ogni tanto se le ripassava tutte in testa, come fossero state una bella playlist di canzoni rilassanti. Ma più lui e John si abituavano l’uno all’altro, più si addomesticavano a vicenda come una volpe e un bambino, più Elliot sentiva crescere una voragine nel petto all’idea di fare ciò che andava fatto. Era piacevole avere un amico, crogiolarsi un po’ nell’illusione di non essere soli, in tutta quella delicatezza. Era bello. Era confortevole. “Solo un altro po’” pensava Elliot ogni volta “solo un ultimo giorno, un giorno soltanto.”
Non c’era droga più dolce di quella.
 
***
«Il tuo nome completo è John Hamish Watson.»
Una mattina all’improvviso Elliot decise che era il momento di farla finita. Aveva rimandato anche per troppo tempo l’inevitabile. Mentre John sistemava sul tavolo una busta di carta ricolma di ogni ben di Dio cucinato dalla sua padrona di casa, Elliot – rimasto in silenzio fino a quel momento – pronunciò quella frase, che non era altro che l’introduzione al finale di quella tragedia. «Tuo padre era un medico, e tua madre era un’infermiera. Tua sorella maggiore Harriet Catherine Watson è sempre stata prepotente con te. Tuo padre è morto in un incidente stradale quando avevi quindici anni, e tua madre lo ha seguito nemmeno dieci anni più tardi per un infarto.»
John si era girato e lo guardava. Lo guardava, in silenzio, con le labbra appena aperte, e il respiro che si faceva sempre più pesante ad ogni parola che pronunciava, ed Elliot era sicuro quella fosse la rabbia che montava. «Tu e tua sorella litigate sempre e in ogni circostanza dal giorno in cui vostra madre è morta, lei ogni tanto ti accusa di avere lasciato sola la tua famiglia quando hai deciso di arruolarti.» A quell’affermazione negli occhi di John si scatenò una tempesta. Tuttavia, solo negli occhi. Il resto del corpo era immobile e teso come la corda di un violino.
«Tua cognata si chiamava Clara Madison Hackey. Tua sorella ha divorziato da lei quando sei tornato dall’Afghanistan, e la cosa ti ha fatto arrabbiare. Ancora oggi quando litigate non fai che nominarla. Le dici sempre che con lei potevi parlare e che ti manca.» John a quel punto si appoggiò al tavolo con una mano e ingoiò a vuoto, ancora senza una parola.
«Quando ti hanno congedato dal servizio in Afghanistan ti sei sentito inutile, vuoto e stanco, come la tua vita fosse finita…finché il 29 Gennaio del 2010 non hai incontrato Sherlock Holmes.»
Fece una pausa, perché sostenere il peso di quegli occhi devastati era troppo, poi continuò imperterrito: «Al funerale di tuo padre non sei riuscito a piangere e tua madre ti ha mandato da uno psicanalista per mesi, e adesso non riesci più ad avere psicoanalisti uomini. Ti piacciono i film di James Bond e i vecchi gialli, e anche i classici romantici, perché ogni tanto li guardavi con i tuoi genitori. Quando tua sorella ha iniziato a bere avevi solo ventun anni e avevi così paura dell’alcolismo che per quasi quattro anni non hai toccato un goccio d’alcol. La prima volta che hai sparato ed ucciso un uomo l’hai fatto per salvare il tuo ex comandate James Sholto, e l’ultima volta l’hai fatto per salvare Sherlock Holmes. Soffri di incubi notturni ogni volta che qualcosa ti agita o ti rende triste. Hai confidato a Sherlock il tuo ultimo incubo dove Jim Moriarty ti faceva saltare in aria senza che tu potessi dirgli addio e—»
«Basta!»
John batté la mano sul tavolo con violenza, e il suo sguardo non espresse biasimo come Elliot si aspettava, era solo…ferito. Era quasi come in cortocircuito. Elliot non voleva. Non voleva, ma sentiva di doverlo fare, sentiva che non poteva fermarsi lì. «Ti ho mentito» biascicò come suo solito fingendo noncuranza «non ho hackerato solo il tuo telefono. Ho hackerato tutto, ogni cosa. Io hackero tutti.»
«E perché?»
Nessuno glielo aveva mai chiesto. Quando le persone lo scoprivano erano sempre troppo occupate ad arrabbiarsi o a cercare un modo per evitare la fuga di informazioni. John invece sembrava solo stanco e ferito, indifeso come non lo aveva mai visto prima, e pensò che moriva dalla voglia di chiedergli scusa, ma non lo fece. Non disse niente. Guardò altrove, come se quella domanda non fosse stata rivolta a lui. John respirò forte dalle narici e sbatté le palpebre, come un bambino che cerca di trattenere le lacrime. Ma non pianse, certo che no. Non urlò. Non fece alcun commento. Con pochi passi e una porta sbattuta fu fuori dal monolocale. E dalla sua vita.
 
***
I giorni che seguirono furono piuttosto duri. Come i primi giorni dall’astinenza di morfina. Quella che visse fu proprio come una crisi d’astinenza. Si trascinava cocciutamente in giro ed era sempre più nervoso e sofferente. Era dura vivere sapendo che doveva evitare John Watson, che doveva vivere senza John Watson. Perché in fondo John era proprio una droga: un qualcosa che gli aveva fatto dimenticare di essere sé stesso, che si era insinuato nelle sue abitudini normalmente e a cui rinunciare non era affatto facile. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore, dicevano. Ma era l’ennesima stronzata che le persone si erano inventate per sedarsi e darsi un contegno, e lui non ci aveva mai creduto. Perché se smetti di vedere qualcosa, è proprio allora che cominci a bramarla ancora più profondamente e follemente fino a che non senti che ti consuma. Ed Elliot si sentiva in effetti vagamente consumato dall’assenza di John. Ci stava provando davvero: stava cercando di reprimere i sentimenti…ma invece i sentimenti stavano reprimendo lui.
«Hai fatto bene, ragazzo.»
Mr.Robot non aveva mai amato le complicazioni. E John Watson, per qualche motivo, stava diventando una complicazione bella grossa. Per questo quella fu la prima cosa che gli disse, mentre lo aspettava di fronte all’arcade.  «Che vuol dire?» gli chiese Elliot, il cappuccio in testa e le occhiaie più marcate del solito. «Vuol dire che il Dottor Watson lavora con gli sbirri, non dimenticartelo. E’ in stretto contatto con Mycroft Holmes - sai, il governo inglese in persona - tutto il tempo, insomma…per me era già un’idea balorda lavorare per Sherlock Holmes, figurati diventare amico di John Watson.»
«Quello per Sherlock Holmes è solo un lavoro. E John…John è solo—»
«Una tua debolezza.»
Mr.Robot aveva questa capacità inquietante di dire ad alta voce proprio i pensieri che lui non avrebbe mai e poi mai esternato. I pensieri che gli facevano più paura, perché erano quelli che corrispondevano maggiormente alla realtà. «Andiamo, a me puoi dirlo: hai un debole per lui, non è così? Il bravo soldatino gentile e onesto. Uno che sta entrando nella tua vita senza chiederti il permesso. E hai un debole per le persone così.»
Un beve frammento di ricordo degli occhi di Shayla la prima volta che si erano incontrati squarciò la linea retta dei suoi pensieri trasformandoli in un quadro di Pollock. Era vero: John era entrato nella sua vita senza chiedere, e rivederlo e chiedergli scusa era diventato il suo chiodo fisso, non era altro che una sua debolezza, un suo desiderio, represso per bene in fondo a sé stesso. In meno di un secondo schegge impazzite di ricordi e buoni propositi che fingeva di capire con Krista gli rimbalzavano in testa, e perfino la voce di Mr.Robot gli sembrò lontana. «Ragazzo, fidati. Hai fatto la cosa giusta, mandandolo via. Non potrebbe mai capire quello che sta succedendo qui. Insomma, una volta che ti starà vicino, per lui inizieranno i guai…non sarebbe la prima volta.»
«Torno domani.»
«Come?»
«Torno domani. Oggi devo fare una cosa.»
Le cose non dovevano sempre avere senso. Elliot si girò e corse. Il cappuccio gli scoprì la testa, ma non importava. Corse come non ricordava di aver mai fatto prima. Verso Baker Street.
 











Angolo della sprovveduta
Forse so dove sta andando a parare questa storia. Il che, francamente, mi fa stupire di me stessa. Da qui in poi cominceranno a comparire elementi e dialoghi che potrebbero far sorgere dubbi: non temete, alla fine sarà spiegata ogni cosa. Vi chiedo pazienza se ci metterò un po' ad aggiornare, ma gli esami si avvicinano imminenti e l'Estate, il caldo, i problemi emotivi che mi prendono sempre un po' alla sprovvista. Per ora sto studiando e rewatchando Lie to Me piangendo ad ogni singola puntata. Spero che anche se siete pochi stiate apprezzando. 
Grazie infinite a chi ha letto fin qui! 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** 3. Ed è così che cominciò l’amicizia del soldato e del burattino. ***


Image and video hosting by TinyPic

Image and video hosting by TinyPic


3. Ed è così che cominciò l’amicizia del soldato e del burattino.

 
Molly Hooper e John Watson avevano molte cose in comune. Il loro affetto per Sherlock Holmes nonostante il suo comportamento antiumano era la più evidente, ma c’erano anche la pazienza, la perseveranza, il tirocinio svolto nello stesso ospedale, l’ilarità provocata da video di gatti che facevano cose buffe e – la meno nota ma la più importante di tutte – l’amore per le crostate. Per questo, quel giorno, dopo l’ennesima visita settimanale al Bart’s alla povera Molly per avere copie varie di documenti di un’autopsia, John decise di invitarla a prendersi un caffè insieme e una fetta di crostata. E Molly accettò. Quando quei due finivano al tavolo di un bar a chiacchierare di qualunque cosa solitamente tutto alla fine conduceva a Sherlock: Sherlock ha fatto questo, Sherlock ha fatto quello, giuro che non lo sopporto più, però è stato grande nell’ultimo caso. Quella volta, invece, John si concesse una piccola variazione: «Se tu scoprissi che…che una persona ha cercato informazioni su di te senza il tuo consenso, cosa faresti?» Molly sgranò gli occhi con aria incredula: «Oh, cielo. Sherlock non avrà mica—»
«Non è stato Sherlock. Anche se non si può dire che non sarebbe da lui.»
La patologa prese un sorso dalla propria tazza e si strinse nella spalle con aria indecisa. «Di che genere di informazioni stiamo parlando?» chiese, inclinando leggermente la testa.
«Cose estremamente private.»
«Andrei dalla polizia..?» tentò Molly, poco sicura.
«No, beh…vorrei…preferirei non dover arrivare a quel punto.»
«E’ perché questa persona è un tuo amico?»
John ci pensò su per un momento. Da quando Sherlock era nella sua vita faceva molta meno fatica ad ammettere di avere una simpatia per qualcuno. Forse perché aveva imparato che perdersi in chiacchiere serviva a poco, o perché la sua fiducia nel prossimo era incrementata. Ma d’altra parte, per lui il titolo di ‘amico’ era una cosa da prendere seriamente, e che avrebbe affidato sempre con la massima convinzione. «Sì…» disse alla fine.
«Ti scegli sempre amici molto strani, John» commentò la dottoressa dopo un attimo di contemplazione «oh- scusa! V-volevo dire—»
«No, Molly…hai ragione» sospirò John con un sorriso un po’ amareggiato «sono una vera calamita per pazzi.»
Molly strinse le labbra e poi ridacchiò appena: «Oh, ma chi sono io, per giudicare? Uno dei miei appuntamenti ha tentato di farti saltare in aria…»
Quella cosa li metteva sempre un po’ in imbarazzo: Molly era uscita con l’unico consulente criminale del mondo – uno psicopatico che aveva attentato alle loro vite – e a quanto pareva avevano fatto una maratona di Glee insieme. John faceva veramente fatica a pensarci, ma in quel momento il ricordo di quell’episodio tragicomico sembrò consolarlo.
Un bip dalla sua tasca lo distrasse. Watson tirò fuori il cellulare e aprì un messaggio rigorosamente firmato ‘SH’ e si rabbuiò con immediatezza, tanto che Molly si sporse in avanti, chiedendo: «Qualcosa non va?»
«Scusami Molly, devo correre a Baker Street.»
La ragazza gli sorrise accomodante. «Sherlock ha bisogno di te?»
«Non Sherlock.»
 
Elliot è qui. Dice che non si muove finchè non torni. SH

 
***
 
John non si stupì nel vedere Sherlock darsela a gambe nell’appartamento della signora Hudson proprio mentre lui saliva le scale per raggiungerlo. Con ogni probabilità doveva aver dedotto che c’era qualcosa di sentimentale – e quindi ‘noioso’ – in atto, e aveva ben deciso di togliersi di torno e di non assistere. L’unica cosa che gli sentì borbottare fu un: «Vedi di farlo ragionare, lo voglio fuori dal mio appartamento!» mentre scendeva di sotto con andatura regale e un poco offesa dalla presenza di una persona infantile quanto lui al piano di sopra. John sospirò – l’ennesimo sospiro solo quella giornata – e si fece strada dentro casa, dove trovò Elliot piantato in mezzo al soggiorno con lo sguardo più spaventato e allucinato che mai. Sembrava non capire come fosse finito lì, eppure a portarcelo erano state proprio le sue gambe. John chiuse la porta d’ingresso senza una parola, poi incrociò le braccia. «Cosa c’è?» domandò con tono seccato, e si concesse di apparire un po’ scontroso, anche se fece davvero molta fatica di fronte a quel visetto spaurito. Ci fu una pausa di qualche attimo, poi Elliot respirò profondamente prima di parlare: «Il mio nome completo è Elliot Alaric Alderson.»
Si fermò per un altro paio di secondi, come per dare a John la possibilità di assimilare quell’informazione e di avere una qualunque reazione, che infatti non tardò ad arrivare: alzò le sopracciglia, genuinamente esterrefatto, ma questo non impedì ad Elliot di continuare. «Avevo una ragazza. Non ho mai avuto una vera ragazza, ma lei sì, era davvero la mia ragazza, le avevo chiesto se voleva esserlo. Si chiamava Shayla. Era la mia pusher. E c’era quest’uomo…»
«…Elliot, non devi—»
«La molestava. Insomma, il suboxone non si recupera così facilmente, e— questo era il genere di merda da reggere, ecco. E allora per farlo smettere l’ho fatto arrestare. Le avevo promesso di non farlo, ma l’ho fatto lo stesso. Ma lui—»
Aveva metabolizzato da tempo quella storia. Si era abituato al fatto che Shayla non ci fosse più, forse era già quasi solo un ricordo. E allora per quale motivo la sua voce si stava spezzando in quel modo? Perché ogni parola usciva strozzata dalla sua gola e sentiva che respirare era quasi impossibile? «Si è vendicato, immagino. Non che ne avesse davvero bisogno, perché ormai lo avevo tirato fuori di prigione— ma non lo so, forse ci sono persone che sentono il continuo bisogno di mostrare la propria fottuta ed inutile supremazia e—»
John non si era mosso. Aveva solo lasciato scivolare le braccia lungo i fianchi e stringeva i pugni.
«Me l’ha ammazzata. E’ morta. Per colpa mia.»
Prese fiato, dopo aver finito, come fosse appena stato in apnea. Dirlo ad alta voce era diverso che pensarlo. Dirlo ad alta voce ad un’altra persona che non era Krista, era John, John Watson, rendeva tutto così reale da essere allarmante. Cercò di calmarsi guardando finalmente John dritto negli occhi, ma invece che la calma che sperava di trovare, c’era uno sguardo furente. «Mi stai dicendo questo perché pensi che così  saremo pari, non è vero?»
«Sì» disse fulmineo Elliot senza pensarci, ma poi si rese conto che sebbene gli fosse costato una fatica immensa, non era come se John all’improvviso sapesse tutto quello che c’era da sapere di lui. «No» si corresse quindi, mortificato. E non sapeva che altro dire. Aveva agito di getto e senza pensare neanche un secondo a cosa sarebbe successo dopo. Lo sguardo di John si ammorbidì all’improvviso, così come la sua postura. Si avvicinò, e poteva essere solo per tirargli un pugno o abbracciarlo, e tutte e due le possibilità terrorizzavano Elliot oltremodo. Ma John non fece niente, se non guardarlo, intensamente, e mormorare: «Mi dispiace tantissimo. Davvero.»
E sembrava dispiacergli sul serio. Come fosse successo anche a lui. Un’ombra negli occhi di John sembrava riflettere esattamente il paralizzante dolore che aveva provato anche lui. Quel dolore lancinante che frammentava ogni pensiero o azione e che mozzava il fiato.
 «Scusami» sussurrò Elliot, perché sapeva che era quello che si faceva in quei casi. Per lui era una cosa naturale, oramai: l’hacking era come un’estensione dei suoi sensi, e non sapeva fino a che punto era davvero pentito di averlo fatto, e quanto poteva promettere di non farlo più. Ma sapeva di aver ferito John e che John non se lo meritava. Per la seconda volta chiese ‘scusa’ a John Watson sentitamente, e John accettò le sue scuse.
 
***
Una delle cose che Elliot detestava con ogni molecola di sé, ma contemporaneamente adorava con ogni fibra del suo essere di John era la sua anima da vecchietto. Nonostante avesse un blog, il dottor Watson sembrava quasi del tutto estraneo al mondo di internet e a quello dei social network: non aveva mai sentito parlare di Instagram, a malapena sapeva cosa fosse twitter, quando Elliot gli nominò tumblr la prima volta John gli rispose ‘salute’, e aveva un profilo Facebook ma l’aveva lasciato a prendere polvere. Non pubblicava nulla, non aveva che pochi amici – compagni di studio di vecchia data – e la stessa immagine del profilo da un secolo. Per lo più John scriveva email, e quasi tutte come fossero state delle lettere. Era un tipo all’antica, insomma, che non era interessato particolarmente a quel genere di socializzazione. Non il tipo che sperava che al mondo fregasse qualche cosa della sua grigliata nel weekend o della sua macchina nuova. Il suo blog e l’email erano la fonte delle sue comunicazione telematiche, e gli bastavano pienamente. La cosa piaceva da morire ad Elliot: John non si era costruito alcuna finta intimità, nessuna bolla, nessuna facciata. John era John. Ma, purtroppo per Elliot, John non ne capiva un accidenti di informatica e quando qualcosa con il suo computer andava a storto, lui veniva inevitabilmente chiamato in causa. Come in quel momento, ad esempio. «Ma che diavolo—»
Elliot dovette trattenere una risata malamente, mentre John vedeva l’ennesima finestra Fatal Error comparirgli davanti. «Elliot..?»
«Te l’ho già spiegato, non puoi risolverlo con un antispyware!»
«Un…un antiche?»
Erano gli unici momenti in cui era John lo sperduto dei due, ed Elliot correva a salvarlo.
«Dammi qua» agguantò il pc del medico senza troppi complimenti e si mise all’opera per risolvere il problema «queste cose le sanno anche i bambini delle medie.»
«Forse i bambini delle medie della tua generazione!» protestò John.
«Fatto» proclamò Elliot, e gli restituì l’apparecchio senza neppure guardarlo in faccia.
«Grazie…»
John ringraziava cortesemente, e ad Elliot quei momenti sembravano sempre avere un che di surreale e paradossale: l’uomo che lo riempiva di premure ogni qualvolta ne aveva la minima possibilità, che lo ringraziava per simili scempiaggini. John voleva proteggerlo. E non perché era il suo lavoro, ma perché sentiva il bisogno di farlo, a quanto pareva. E non poteva proteggerlo, questo Elliot lo sapeva. Ma apprezzava lo sforzo. Lo apprezzava davvero moltissimo.
 
***
«Ma…esci così?»
Elliot guardò John. Poi gettò uno sguardo sulla sua felpa – la solita felpa, sempre uguale, sempre la stessa – e poi tornò a guardare il dottore, corrucciato come non mai. «Sì..?»
«Elliot, tu sei pazzo!»
Doveva ammettere che non era la prima volta che veniva accusato di una cosa simile, ma in quell’occasione non seppe spiegarsi su quale elemento si basasse quell’affermazione tirata fuori con tanta enfasi, così scrutò John di nuovo, sempre più confuso. «Fuori fa freddo! Si congela! Non puoi uscire con questo gelo solo con quella felpa!» sbottò l’altro all’improvviso, e senza neanche dargli il tempo di replicare si era precipitato su per le scale verso la sua camera. Tornò dopo neanche dieci secondi carico come un Re Magio e ancora una volta Elliot non ebbe neppure il tempo di avere la benché minima reazione. John gli legò una sciarpa al collo e gli poggiò una giacca sulle spalle, intimandolo con un «Infilala!» autoritario. Elliot eseguì l’ordine nonostante non si sentisse affatto a suo agio. Ringraziò di tutto cuore ogni dio in cui non credeva, perché almeno John non gli aveva portato un cappello: odiava i cappelli. «Ora sì che si ragiona. Volevi prenderti una broncopolmonite?»
Elliot voleva solo strapparsi tutto di dosso, ma non lo fece. Qualcosa glielo impedì. Nonostante odiasse la sciarpa stretta al collo e l’imbottitura di quella stupida giacca. Non lo fece. Niente con John aveva senso. Niente di niente.

 
***
 Così, con un po’ di sforzi da parte di entrambi, Elliot Alderson e John Watson erano diventati ancora più legati di prima. Da fuori appariva strano. Sherlock continuava ad imputare la colpa alla paternità sopita di John, e non mancava di prenderlo in giro ogni volta che poteva. Ma a John non importava. Non gli importava, e quando ne aveva la possibilità prendeva cibo e coperte e portava tutto a casa di Elliot – quel benedetto ragazzo che aveva il riscaldamento perpetuamente rotto e il frigo costantemente vuoto - e parlavano a lungo. Per lo più era John ad attaccare bottone, naturalmente. Elliot aveva perso l’abitudine di ringraziare, ma John decise saggiamente di non prenderlo come un segno di ingratitudine, ma più come una dimostrazione del fatto che quel ragazzo si stava abituando in fretta alla sua presenza. A volte uscivano. Camminavano senza meta e finivano in posti isolati dove si sedevano, e alternavano lunghi silenzi a conversazioni insensate e perditempo, a cui però nessuno dei due riusciva in alcun modo a rinunciare.
«Ripetilo, se ne hai il coraggio…»
Elliot Alderson sapeva trasformarsi in un bambino di otto anni, quando voleva. E quella ne era la prova: lo fissava con gli occhioni strabuzzanti di un ragazzino pronto a prenderti in giro. John, suo malgrado, a volte non riusciva proprio a dirgli di no, e quindi ripeté: «Mia sorella mi diceva sempre che sembravo un riccio
Elliot si spostò in avanti, e giusto per non rischiare di prendere poco sul serio l’esaminazione in atto tolse le mani dalle tasche della felpa e si sfilò anche il cappuccio con un gesto rapido. Si avvicinò drasticamente al dottore per osservarlo con maggiore attenzione e concluse: «Oh, sì. Proprio un riccio.»
«Beh» replicò John un pochino piccato «tu…sembri un ranocchio!»
Elliot si girò sorpreso, alzando le sopracciglia: somigli ad un ranocchio, una cosa di cui nessuno lo aveva mai accusato prima. «Non sembro un ranocchio…» protestò con poca energia, talmente poca che John non accennò a piantarla con quelle accuse: «Un ranocchietto» puntualizzò.
Gli occhi di Elliot diventarono due pozzi ricolmi della più spiccata confusione, prima che il ragazzo diventasse di un color porpora che John poteva giurare di non aver mai visto prima su nessun essere umano. «Sarebbe un bel soprannome» continuò a provocarlo Watson. «Per niente» sbuffò l’altro, che tornò a mettersi le mani in tasca, imbarazzatissimo. «Perché no? Ranocchietto
«John!»
Elliot aveva imparato a sopportare tutti i lati negativi di John molto prima di quanto avesse mai fatto con chiunque. John aveva imparato a sopportarlo dal primo momento in cui si erano incontrati perché, dopotutto, era abituato a Sherlock. C’era una sorta di armonia. Era strano.
Contrariamente a molti, John sembrava adorare prendersi cura di lui. Come se avesse già dovuto prendersi cura di qualcuno tutta la vita, come una mamma già abituata e rassegnata al trambusto che i suoi piccoli sanno provocare, ma che lo accetta a braccia aperte pur di averli con sé. John sembrava proprio questo: sembrava una persona con una vocazione paterna, già nata per prendersi cura di qualcuno, già abituata a farlo. Era così strano che non avesse figli, ad Elliot sembrava impossibile. John – in sua compagnia, per lo meno – si muoveva come un papà, si prendeva cura di lui come un papà, respirava come un papà. Cominciò a domandarsi se per caso non l’avesse hackerato bene come credeva, e qualche informazione gli fosse sfuggita. Magari un divorzio nascosto, qualche figlio o nipote segreto, un passato nascosto altrove, lontano da lì, lontano dai riflettori di internet, lontano dalle sue email e dal suo blog. Ma era impossibile. Tutto rimane, tutto si registra, tutto si scopre. Forse, semplicemente, come si era sempre ripetuto, con John le cose non avevano senso.
 
***
 
«Ti sta dando alla testa.»
Mr.Robot sapeva incutere un certo timore, quando ne aveva voglia. Elliot si fermò, zaino in spalla e sguardo vigile da sotto il cappuccio. Mr.Robot non era seduto. Era in piedi, ben piantato vicino all’ingresso, per far sì che non lo potesse evitare. «Di che stai parlando?»
«Questa storia del dottor Watson.»
«A te cosa importa?» così dicendo passò oltre, senza guardarlo in faccia, e si sistemò alla scrivania, togliendosi lo zaino dalla spalla e poggiandolo. Mr.Robot sospirò sconsolato e incrociò le braccia, guardandolo con apprensione come un genitore preoccupato. Preoccupato e rompiscatole. «Senti, ragazzino…so che ora per te deve essere molto appagante regredire ai dieci anni e farti comprare zucchero filato e orsi di peluche, ma ti stai dimenticando quel è il tuo obiettivo!» allargò le braccia, come a voler indicare l’arcade «Devi dare priorità a questo, al tuo mondo! Non puoi continuare a gingillarti con quel dottore!»
«Gingillarmi..?» ripeté Elliot «…non sto facendo niente di sbagliato! Ho solo…un amico, adesso.»
«Un amico? Tu?»
Faceva fatica a crederci anche lui, ma era così. Avere qualcuno con cui discutere di cose di poco conto e dilungarsi in silenzi benefici era...bello. Nuovo. Entusiasmante, quasi. Era difficile farne a meno una volta che si era entrati nel meccanismo. Elliot si chiedeva continuamente come aveva fatto a finirci e soprattutto perché proprio con John, però finiva per dirsi che era una cosa bella, ma marginale ed innocente, che non avrebbe cambiato nulla del suo modo di vivere e di essere, nulla di ciò che sapeva di dover fare. Quindi ignorò Mr.Robot e, messe le mani sulla tastiera, si mise al lavoro. Ma l’uomo, imperterrito, gli rivolse un ultimo monito: «Farai meglio a tornare indietro sui tuoi passi, ragazzo, davvero.»
Elliot non ebbe la forza d’animo né la volontà sufficienti per continuare quella conversazione.
 
***
A parecchie fermate di metropolitana da lì, al 221b di Baker Street, la situazione non si poteva dire altrettanto tranquilla. Il marasma conflittuale in atto tra i due coinquilini in quella casa non era una novità per nessuno, ma questa volta sembrava particolarmente più estenuante.
«Ma insomma, si può sapere cosa vuoi da me, Sherlock?»
John si muoveva in cucina, nervosamente, mentre Sherlock, dalla sua poltrona, esibì una smorfia infantile troppo poco celata. «Ti ho mandato tre messaggi. Ci hai messo quaranta minuti ad arrivare. Quarantatré, per la precisione.»
John sapeva, sapeva benissimo che unirsi a Sherlock Holmes non era troppo diverso che unirsi all’esercito, che il consulente detective contava su di lui più di quanto volesse far credere e che – tra le altre cose – poteva trasformarsi in un bambino capriccioso se non si faceva ogni cosa come lui richiedeva. E sì, era arrivato in ritardo sulla scena del crimine e sì, accidenti, era riuscito a far preoccupare Sherlock Holmes, cosa che era sembrata risultare impossibile per chiunque.
«Ti ho già detto che mi dispiace almeno dieci volte!»
«Solo nove» lo corresse Sherlock  in tono acido e arricciando il naso – e poi si alzò di slancio, riabbottonandosi la giacca con gesto fluido, impeccabile come al solito. «Credevo che il nostro lavoro avesse un significato, per te.»
«Lo ha!» si difese John, sull’orlo dell’esasperazione «ti assicuro che lo ha! Ma ero dall’altra parte della città con Elliot!»
«E perché, di grazia?»
«Perché-» esitò, guardando in basso. Non era esattamente una giustificazione inappuntabile, ma non aveva altro «…perché gli ho offerto dei pancakes.»
Sherlock non ebbe nemmeno bisogno di alzare gli occhi al cielo o commentare quella frase, bastò una singola occhiata affilata e un «Oh mio Dio» affinché John capisse in che guaio si era infilato.«John» continuò Holmes senza nemmeno lasciargli il tempo di aggiungere altro «ricordati solo una cosa: Elliot non è tuo figlio.»  
«Lo so» lo interruppe il medico chiudendo gli occhi per un momento, come se avesse dovuto acquisire quella consapevolezza dolorosamente «lo so, ho solo…cercato di aiutare.»
Sherlock continuò a guardarlo, stoico nella sua posizione, occhi penetranti e come al solito lo leggeva e lo comprendeva. «Farai meglio a tornare indietro al più presto» concluse.
 
***
 
C’erano giorni che Elliot e John passavano come fossero gli ultimi che avrebbero passato insieme. In silenzio, su una panchina, uno distante dall’altro. Elliot faceva domande complicate a cui John forniva risposte fin troppo semplici, così semplici che non le capiva minimamente. «Se questo fosse il tuo ultimo giorno» cominciò Elliot quel pomeriggio soleggiato su quella panchina al parco «se potessi vivere solo oggi, cosa faresti? Cosa ne faresti del tempo che ti rimane?» John arricciò le labbra. Si sentiva sempre messo alla prova da quel ragazzo, ma non aveva paura. Elliot gli lasciava tutto il tempo che voleva per rispondere, che fossero cinque minuti o un’ora, in un silenzio confortante che cullava i suoi pensieri fino a raggiungere una risposta che gli sembrava la verità. Non infarciva mai i discorsi con Elliot, non li arricchiva o rendeva più complicati. Sparava la completa verità per quanto sciocca e banale potesse essere: «Lo passerei con le persone che amo.»
Non si guardarono, non ce n’era bisogno. Elliot lo sapeva fin troppo bene, anche senza girarsi: John aveva uno sguardo sincero e limpido che era sempre lì, non l’aveva mai deluso.
«Così semplice?»
«Credo mangerei il mio piatto preferito e poi un bel dolce. E poi mi farei una corsa. L’ultima corsa per Londra con Sherlock…» confessò poi il dottore lasciando vagare lo sguardo.
«Molto semplice…»  Elliot si strinse nelle spalle ma sorrise perché, davvero, non capiva quell’uomo, non lo capiva neanche un po’. Ma era un ‘non capire’ diverso dalla confusione e dal sentirsi perduti che infestavano sistematicamente il suo cervello, erano incomprensioni che lo rendevano più fiducioso e comprensivo nei confronti del mondo che in quelle occasioni gli sembrava un po’ meno fottuto. John era genuino, nonostante vivesse nell’illusione di essere normale, non voleva fingere…non voleva sedarsi. John era avido di verità. Non voleva non farsi male, non voleva evitare il dolore: voleva vedere tutto, tutto. Nella sua immensa bontà e limpidezza ogni ruga di lui, ogni sguardo buono, sembrava gridare di voler vedere tutto il male del mondo per capirlo e fare qualcosa a riguardo. Guerra, sofferenza. Se qualcosa doveva distruggerlo, allora non lo evitava, si metteva esattamente sulla traiettoria della batosta. Si piegava, John Watson, ma non si spezzava, non si spezzava di fronte a niente, e nel farlo riusciva anche a cercare di aiutare tutti quelli che incrociava sul suo cammino. Non sempre la cosa era un successo, ma John ci provava, ci provava sul serio, e con tutte le sue forze. E Elliot non capiva come e neppure perché. Ma gli piaceva.  «E tu?» John lo fece ridestare «come spenderesti l’ultimo giorno della tua vita?»
Il ragazzo ci pensò un po’ su, ma John era molto più impaziente di lui, e presto si girò a guardarlo con quel blu dolce nello sguardo, carico di aspettativa. Elliot non lo sapeva, così alla fine improvvisò con la prima cosa che gli venne in mente: «Credo mi piacerebbe rimanere qua seduto.»




 

 



 

Note della povera pazza. Quindi, abbiamo un capitolo di intramezzo. Uno di quelli in cui effettivamente non succede una cippa, e capisco che visto che ci sto mettendo una vita ad aggiornare non sia il massimo inserirlo, ma a noi il fluff piace, giusto? Comunque, dal prossimo capitolo la trama comincia a farsi un po' più seria e ad infittirsi. Arrivano le sorprese, chiamiamole così. Ringrazio come al solito Martina per le ruolate che mi danno un milione di spunti, e sopratutto chiunque abbia deciso di seguirmi alla volta di questa follia. Scusate se ci sto mettendo parecchio, ma purtroppo i dannati esami bussano alla mia porta. E niente, sentitevi liberi di chiedere come e perché e sarò felice di rispondervi! Grazie infinite a chi ha letto fin qui! Riposo.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3665474