L'Ambra

di Calime23
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Una giornata qualunque ***
Capitolo 2: *** L'incontro ***
Capitolo 3: *** Una vita serena ***



Capitolo 1
*** Una giornata qualunque ***


Mi svegliai come ogni mattina verso le sei, con i teneri raggi del sole che penetravano nella mia piccola stanza.
Presi i miei soliti vestiti stesi sulla finestra. Non cambiavo mai: li lavavo alla sera e al mattino li indossavo. Avevo una maglietta bianca leggermente scollata, un corpetto nero, pantaloni dello stesso colore attillati, degli stivali alti e ovviamente il mio cappuccio rosso. Se durante la mia infanzia la mantella mi scendeva alle caviglie, ora arrivava a circa metà schiena, ma non l'avevo mai abbandonata, tanto che, siccome nessuno ormai ricordava il mio nome e perfino io mi scordai per molto tempo di averne uno, per tutti ero divenuta Cappuccetto Rosso.
Era da anni che ripetevo le stesse azioni: mi svegliavo, mi vestivo, scendevo le piccole scale in legno e preparavo la colazione alla nonna. Pane e marmellata, due fette precise, non potevo sbagliare.
Quando suonava la campanella dalla sua camera dovevo accorrere subito ad aiutarla; non che avesse effettivo bisogno di aiuto per muoversi, semplicemente non ne aveva voglia e trovava più divertente aggrapparsi a me.
La trovavo sempre sdraiata su di un fianco, e, per quanto fossi veloce, le prime parole che sentivo da lei erano: "sei in ritardo" e io, ogni volta, le rispondevo: "tenterò di fare più veloce, nonna", anche se sapevamo benissimo entrambe che solo una lepre poteva accorrere più svelta al richiamo.
Mi avvicinavo al letto, e lei rapidamente si metteva seduta, aspettando di cingere le mie spalle con il braccio ed essere sollevata quasi di peso.
Ogni volta mi ripeteva che ero troppo mingherlina, e che dovevo assolutamente fare più attività fisica se volevo aiutarla. Ed io ogni volta ripetevo che avrei rimediato non appena possibile.
Piano piano arrivavamo al tavolo della cucina. La nonna si sedeva sempre a capotavola con davanti a lei le due fette alla marmellata.
Ogni volta qualcosa era sbagliato. Che fosse il pane troppo duro, o troppo secco, o troppo molle, che fosse la marmellata troppo dolce, troppo densa, troppo abbondante.
Poi, non appena finiva, l'accompagnavo fuori casa, dove c'erano due sedie a dondolo e un piccolo tavolino con impilati tanti libri, una pipa sulla loro sommità e dei dolci.
La nonna occupava quella di sinistra, con due comodi cuscini. Le portavo il tabacco da mettere nella pipa e si metteva a fumare.
Ogni volta io speravo di potermi godere la brezza mattutina sedendomi accanto a lei sulla seggiola di destra, ma sempre mi ricordava che ero in ritardo per il lavoro, così prendevo il cestello in vimini che si trovava davanti all'entrata e mi avviavo.
Facevo tre passi e la nonna mi fermava, chiedendomi che tragitto avrei percorso.
Io le rispondevo che avrei accostato il bosco, come mi diceva di fare la mamma, ma tutte le volte l'anziana mi ricordava che lei era morta da anni e che facevo prima a passarci attraverso.
Non era un problema per me percorrerlo di giorno: la luce lo rendeva meno sinistro e ostile, ma al ritorno, col buio, diveniva spaventoso, soprattutto d'inverno.
Così, quella mattina come tutte le altre mattine, seguii il sentiero che tagliava per il bosco.
Dovevo arrivare in paese, dove lavoravo come panettiera al servizio di una famiglia cui appartenevano madre, padre e due figli.
Ogni giorno contavo i passi: trecentocinquanta. Capitava che perdessi il conto, ma ormai conoscevo il sentiero come le mie tasche e sapevo perfettamente che, giunta ad un determinato punto, avevo fatto un certo numero di passi, e ritornavo a contare.
Arrivata in paese venivo subito investita dal buon odore dei fiori, che proveniva dal fioraio.
Passavo e salutavo i proprietari, una coppia di sposi che lì vivevano da quando ero nata.
Superato il fioraio, ecco alcune case piccole ma estremamente curate. I bambini già giocavano nei giardini. In coro mi salutavano dicendo: "eccoti Cappuccetto Rosso! Dopo ci porti del pane fresco?" io rispondevo che se potevo, glielo avrei portato volentieri. Poi, come mio solito, proseguivo.
Dopo aver superato la strada lastricata e rettilinea, raggiungevo finalmente la piazza. Al centro c'era un enorme pozzo e in circolo, a pari distanza da esso, i maggiori negozi: il macellaio, il fabbro, il sarto e, ovviamente, il panettiere dove io lavoravo.
Salutavo tutti coloro che incontravo, poi entravo.
Solitamente la famiglia era già al lavoro. Io dovevo mettere in forno il pane e crearne altro, prima dell'apertura, che era sempre alle otto. A quell'ora giungeva anche Penelope. Lei era una ragazza della mia età con la quale strinsi subito amicizia: sapeva contare alla perfezione ed era colei a cui tutti si rivolgevano per il pagamento, oppure per sapere esattamente a quanti grammi corrispondessero determinate dosi di farina.
Io e Penelope passavamo sempre il pranzo insieme. Mangiavamo su di un muretto della piazza i panini che prendevamo dai nostri cestini. Parlavamo spesso, ma mai di cose concrete: di quelle eravamo già sature. Parlavamo dei nostri sogni, di cosa avremmo voluto fare, delle nostre speranze.
Un chiodo fisso per Penelope era trovare un marito, possibilmente altolocato per smettere per sempre di lavorare. Io volevo semplicemente uscire dalla monotonia che mi circondava.
Spesso, quando le dicevo che l'amore non era tutto, lei mi rispondeva: "semplice per te dirlo! Il cacciatore viene sempre a trovare te e tua nonna, tutti sanno che presto o tardi ti chiederà di sposarlo. Non sai quanto ti invidio, è il giovane più bello del paese" non rispondevo mai, perché non sapevo cosa dire.
Dopo pranzo la gente andava e veniva fino alle sei. Mezz’ora dopo pulivo il negozio, poi potevo finalmente avviarmi verso casa.
Se i proprietari erano di buon umore oppure c'erano stati pochi clienti lasciavano a me e Penelope delle focacce, o un po' di pane o dei dolci.
Io e lei facevamo sempre un pezzo di strada insieme, poi ci dividevamo. Se avevo qualcosa lo davo ai bambini che trovavo sempre seduti sul ciglio della strada a riposare, sennò chiedevo scusa e proseguivo.
Solitamente andavo verso il bosco e ancora una volta facevo i miei trecentocinquanta passi per arrivare alla mia casupola in legno, dove mi attendevano la nonna e il cacciatore, ma quella volta tutto fu diverso... 

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Capitolo 2
*** L'incontro ***


Avevo ormai percorso duecentodieci passi quando sentii un rumore.
Mi bloccai: probabilmente era un rametto spezzato. Mi guardai attorno per trovare risposta alle mie paure ma, sebbene il sole primaverile fosse ancora alto, non riuscivo a scorgere alcunché sotto l'ombra dei fitti alberi.
Rimasi immobile per qualche istante, poi proseguii: mi preoccupavo sempre eccessivamente.
Ricominciai a contare, ma quando arrivai a duecentoventisette passi udii un fruscio.
Di nuovo mi ferma e, per una volta, decisi di abbandonare il sentiero per andare verso la fonte del rumore. Appoggiai il cestino a terra e avanzai d'un passo verso la fitta vegetazione.
Quando fui a pochi metri da un grande albero, un'ombra indietreggiò: era imponente, ma pareva più spaventata di me. Non ne ebbi timore.
“Ciao” dissi, aspettandomi una risposta, se la misteriosa presenza fosse stata una persona, oppure un rapido strepitio di fuga, se avessi avuto a che fare con un animale, ma nulla accadde. L'ombra non si mosse.
Feci un altro passo, ma fu una mossa azzardata, perché ciò che scoprii essere un enorme bestia mi balzò addosso, gettandomi a terra.
Ora potevo vederlo molto bene: era un lupo dal manto nero come ossidiana, enorme, con occhi grigi e vigili. Non ringhiava, né mostrava aggressività nei miei confronti, tuttavia era sopra di me e il mio istinto ebbe la meglio: afferrai un sasso e lo scagliai sul suo muso con tutta la forza che avevo. Subito quello iniziò a sanguinare e la bestia mi lasciò libera.
Stavo per prendere il mio cestino e fuggire quando lo sentii gemere: “fa un male tremendo” disse.
Mi pietrificai e infine la mia curiosità vinse sulla paura. Mi voltai per osservarlo meglio: sedeva avvilito e con una zampa cercava di tamponare la ferita. Gli avevo causato un ampio taglio sul naso e da esso sgorgava molto sangue.
“Hai appena parlato” borbottai e mi sentii estremamente stupida, perché cercavo d'interloquire con un lupo che facilmente avrebbe potuto uccidermi anziché scappare.
“Certo che sì. E tu sei pazza: spero che non mi rimanga la cicatrice”.
Mi diedi un forte pizzicotto sul braccio, ma non mi svegliai. Pensai che fosse un'allucinazione, ma per quanto chiudessi e riaprissi gli occhi, per quanto male potessi farmi, il lupo restava dov'era.
“Stai bene?” chiesi sperando in un suo cupo silenzio, ma così non fu.
“Ti sembra che stia bene? Fa male!” allontanò la zampa dal muso per osservarmi meglio mentre io indietreggiavo d'un passo, indecisa sul da farsi.
“Tu parli...” borbottai ancora.
“Sei una giovane brillante. Dico sul serio” commentò sarcastico.
“Sei un lupo. I lupi non parlano” continuai e la mia voce era più acuta di quanto desiderassi.
“Infatti è la tua mente ad immaginare tutto questo” mi rispose con estrema serietà.
“Davvero?” domandai senza riflettere. La bestia alzò gli occhi al cielo.
“Sto scherzando, ragazza. Ora datti una calmata” annuì, mantenendo però le dovute distanze.
“Sono calma” assicurai respirando a fondo “ti fa davvero così male?”.
“Non sei molto intelligente, vero? Certo che fa male. Cosa ti è passato per la testa?”.
“Tu mi hai aggredita: io mi sono solo difesa” replicai e dentro me pensavo bizzarramente che, se anche fosse stato tutto frutto della mia immaginazione, di certo si trattava di un'esperienza più interessante della mia vita quotidiana.
“Ti eri avvicinata e pensavo avessi cattive intenzioni”.
“Tu sei un lupo grande e grosso: io dovrei aver paura”.
Il lupo mi guardò ancora: “dipende dai punti di vista”.
Non seppi controbattere, così rimasi ferma per qualche istante, come per capacitarmi di quanto stesse succedendo, poi tolsi un fazzoletto dalla tasca: “aspetta” dissi “ti do una mano, se prometti di non sbranarmi”.
“Ne avrei voglia, ma penso che tu mi uccideresti prima” rispose.
Stavo per raggiungerlo, ma mi bloccai all'udire quelle parole.
“Era una battuta” chiarificò lui alzando ancora una volta gli occhi al cielo.
Sospirai contritamente: non solo era un lupo parlante, ma aveva anche il senso dell'umorismo.
Mi avvicinai e non dovetti abbassarmi molto, perché il suo muso arrivava al mio petto. Con riluttanza tamponai la ferita e ben presto il fazzoletto s'impregnò di sangue. Con sorpresa scoprii che il lupo si lasciava medicare come un docile cucciolo.
“Ti chiedo scusa, ma credevo davvero che volessi uccidermi” ribadii.
“Vale lo stesso per me” ora la sua voce sembrava più cordiale ed alle mie orecchie suonò profonda e bella.
“Chi mai potrebbe uccidere un lupo?” chiesi.
“Chiunque sia armato” rispose come fosse ovvio.
“Ma tu... ecco, tu mangi le persone?” insistetti, ma non appena formulai quella frase mi resi conto di quanto fosse stupida. Ovviamente non avevo mai conversato con un lupo, dunque improvvisavo alla meno peggio.
“Come posso mangiarle, se non riesco neanche a uccidere una ragazzina?” replicò con tono sarcastico.
“Non mi piace il tuo senso dell'umorismo”.
“Eppure sono così simpatico” continuò con sorriso soddisfatto. Sospirai e ripiegai il fazzoletto di stoffa, ormai completamente rosso.
“Vieni, andiamo al ruscello” gli proposi, ma non lo aspettai e m'incamminai dopo aver preso il mio cestino da terra. Ben presto lui mi fu accanto.
“Perché?” chiese lui “non ho sete”.
“Ti pulisco la ferita”.
Finalmente trovai il coraggio di osservarlo meglio: non avevo mai visto un lupo così da vicino, ma capivo chiaramente che quello fosse più grande del normale e che certamente avrebbe dominato un qualsiasi combattimento contro un suo pari, consideratane la grande massa muscolare e le enormi fauci.
“Che ci fai nel bosco?” mi chiese ad un tratto.
“Torno a casa. Tu perché mi seguivi?” ne approfittai per domandare.
“Avevo paura”.
“Di una ragazzina?”.
“Non è certo cosa di cui andar fieri, ma ormai chiunque può cercare di ucciderti e persino riuscire nell'intento, per questo avevo paura di una ragazzina”.
“Dunque, se avevi paura, perché mi seguivi?” insistetti, dando libero sfogo alla mia curiosità.
“Ti vedo sempre passare. Per una volta, desideravo scoprire dove andassi”.
Lo squadrai perplessa mentre la vegetazione si faceva meno fitta man mano che ci avvicinavamo alla sponda del ruscello.
“Non c'è molto da fare nel bosco” rispose al mio sguardo.
“E neppure dove abito io” ammisi. Proprio in quel momento, apparve tra le frasche il piccolo corso d'acqua cristallina.
Aprii il cestino e presi il fazzoletto avvolto sui panini non venduti quella mattina e troppo numerosi persino per i bambini del paese da accettare. Ne bagnai il tessuto e ancora una volta tamponai la ferita del lupo.
“Va meglio?” chiesi.
“Abbastanza”.
Strizzai il fazzoletto e lo sbattei al vento.
“Sei solo?” interrogai mentre lo ripiegavo e riponevo nel cestino.
“Sì. Tu sei sola?” domandò di rimando.
Annuii.
“Perché parli?” trovai finalmente il coraggio di chiedere.
“Non so. Che io ricordi, è sempre stato così. E perché tu parli?” ribatté con evidente tono canzonatorio.
“Le persone parlano. Gli animali, che io sappia, no” commentai.
“Quanta conoscenza hai da infondere” provocò.
Non riuscii a trattenere un leggero sospiro, ma subito chiesi sedendomi accanto a lui sulla riva del ruscello: “hai fame?”.
“Un po'. Perché?”.
Estrassi due panini dal cestino. Iniziai a mangiarne uno e a lui porsi l'altro: il lupo gli si sdraiò accanto e lo guardò titubante.
“Se vuoi me lo riprendo” dissi e di certo il mio stomaco affamato l'avrebbe gradito.
“No...” si zittì, respirò a fondo e cominciò a mangiare. Non compresi le ragioni del suo comportamento, ma francamente, in quel momento, era l'ultimo dei miei pensieri. Restammo in silenzio, poi scattai in piedi accorgendomi del sole che stava già scomparendo dietro le montagne.
“È tardi!” esclamai correndo verso il sentiero.
“Aspetta” urlò il lupo alzandosi a sua volta “come ti chiami?” domandò trotterellando alle mie spalle.
“Capuccetto Rosso” risposi scavalcando una radice. Lui mi squadrò di sbieco, ma non ci feci caso: “e tu?” chiesi piuttosto.
“Lupo” mi disse.
Rallentai per ricambiare il suo sguardo: “se domani ti troverò ancora, mi dirai il tuo vero nome?”.
“Solo se tu mi dirai il tuo”.
“D'accordo” acconsentii “perdonami, ma ora devo davvero andare. A domani”.
“A domani” ricambiò, guardandomi correre via.

Trovai mia nonna e il cacciatore in veranda, abbandonati sulle sedie a dondolo.
“Eccola! Visto, Gared? Non c'era nulla di cui preoccuparsi” esclamò lei, appoggiando la pipa sul tavolino in legno.
“Cappuccetto Rosso” chiamò il ragazzo “stai bene?” chiese alzandosi in piedi per raggiungermi.
“Sì, sto bene” risposi.
“La tua mantella è tutta sporca di terra” notò lui.
“Sono caduta” mentii.
“Ti sei fatta male?”.
“No. Scusa se ti ho fatto preoccupare”.
Gared sorrise. Non potevo negare che Penelope avesse ragione: era bello, coi suoi corti capelli bruni, gli occhi verdi e un corpo tanto giovane quanto allenato.
“Hai portato qualcosa dal lavoro?” s'intromise mia nonna. Annuii, avvicinandomi e porgendole il cestino. Avevo avuto la cortezza di togliere i fazzoletti intrisi di sangue e nasconderli nella tasca dei miei pantaloni.
“Scusate, sono veramente stanca” sospirai a quel punto “preparo la cena e vado a dormire” prima di entrare in casa, però, mi fermai sulla porta, ricordando le più elementari norme dell'ospitalità: “Gared, ti fermi per cena?”.
“Se sono ben accetto, volentieri. Ma lascia che ti aiuti”propose il ragazzo seguendomi e sorridendo cordialmente a mia nonna.
L'anziana donna accettava poche pietanze per cena: minestra, minestra e minestra, quindi non davo mai libero sfogo alla mia fantasia mentre cucinavo e, come ogni altra attività, anche questa diventava tediosa.
Mentre preparavo gli ingredienti, Gared apparecchiava la tavola.
“Come sei caduta?” domandò ad un tratto.
Non volevo dirgli la verità: mi avrebbe presa per pazza, si sarebbe preoccupato eccessivamente o, peggio ancora, sarebbe andato a caccia di quel lupo.
“Mi era sfuggito il cestino di mano e, dopo essermi chinata per raccoglierlo, ho ripreso il cammino senza accorgermi che a terra ci fosse un grosso ramo” improvvisai abilmente.
“Come mai sei così distratta di questi tempi?” mi domandò.
Scrollai le spalle: “sono stanca” dissi semplicemente.
“Effettivamente, ti servirebbe una vacanza. Da tua nonna, dal lavoro...” sussurrò per non farsi sentire da lei. Io non ribattei, concentrandomi sul cibo. Visto che il discorso era arrivato a un punto morto, lui deviò: “voglio parlare col governatore: dovrebbero sistemare la strada che taglia per il bosco, così non capiterebbero più incidenti come quello di oggi”.
“Che vuoi che facciano? Che ne sradichino tutti gli alberi? È stata colpa mia: è inutile scomodare il governatore per così poco”.
“Sai che siamo vecchi amici: non mi direbbe di no”.
Come potevo non saperlo? Non faceva che ripeterlo. Il governatore Leonel, da poco salito in carica, era un giovane ambizioso che non aveva ancora fatto nulla per inimicarsi i cittadini ed era amico d'infanzia di Gared. Quest'ultimo, ogni volta che ne aveva occasione, ci raccontava di come lo batteva nella lotta, vantandosene senza remora.
Una volta era capitato che, volendo andare a trovare Gared ma non trovandolo in casa, il governatore fosse venuto da noi.
Vestiva elegantemente e sorrideva con tanta insistenza che mi chiesi come potessero non fargli male le guance. Aveva sì e no cinque anni in più del cacciatore, ma Gared lo superava in altezza d'una buona manciata di centimetri.
Questo era tutto ciò che ricordavo del governatore: per il resto, ben di rado si mostrava in paese.
“Davvero, la strada è in perfette condizioni. Inoltre, sono l'unica a percorrerla”.
A questo Gared non riuscì a trovare un'obiezione: “d'accordo, ma ricordati di me, se avessi bisogno di una mano”.
Annuii sorridendo, poi gli chiesi di andare a chiamare la nonna, perché la cena era pronta.

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Capitolo 3
*** Una vita serena ***


Il mattino seguente, dopo essermi accertata d’essere a debita distanza dallo sguardo della nonna, chiamai il lupo, ma non ottenni risposta, così proseguii lungo strada.
Onestamente ero delusa: avevo trovato finalmente qualcuno che suscitasse il mio interesse, qualcuno a me sconosciuto e di cui volevo scoprire la storia; avevo così tante domande da porgli, eppure non si faceva vedere.
Solo quando arrivai al passo numero duecentosessantatré le foglie si mossero e il muso del lupo apparve tra i cespugli.
"Sei sempre in orario" mi disse.
"Come sta la ferita?" domandai avvicinandomi cautamente, mentre l'enorme bestia faceva altrettanto.
"Meglio. Non so se odiarti per avermela procurata, o ringraziarti per avermela sistemata".
Sorrisi: "ti ho già chiesto scusa".
"D'accordo, le accetto" disse lui con finto tono melodrammatico "avevi promesso che mi avresti detto il tuo vero nome. Ricordi?".
"Anche tu" replicai.
Il lupo si sdraiò, io mi sedetti a terra. Visto che stava in silenzio, fui io a iniziare: "mi chiamo Ambra".
"E’ un nome singolare. Perché ti è stato dato?" domandò lui.
Come risposta tolsi il cappuccio per fargli vedere meglio i capelli: "fin da bambina sono sempre stati di questo colore e mia mamma diceva che sembravano ambra pura. Da qui il nome. E tu?".
S’alzò e si prostrò in una sorta di inchino mentre io sorridevo leggermente.
"Jonathan, al tuo servizio" poi tornò a sdraiarsi accanto a me.
"Chi ti ha dato questo nome?” domandai.
“I miei genitori” rispose prontamente.
“Hai dei genitori?”.
“Tutti ne hanno”.
“Hai ragione, ma… parlano come te?” chiesi ancora.
“Parlavano. Ora sono morti” specificò cupamente. Capii immediatamente che non ne voleva parlare, così decisi che sarebbe stato meglio cambiare discorso per non infastidirlo.
“Ti piacerebbe della salsiccia? Potrei passare dal macellaio più tardi” proposi.
“Lo faresti veramente? Grazie!” rispose lui entusiasta, sorrisi e stavo anche per chiedergli se desiderasse altro quando le campane della chiesa incominciarono a suonare.
“Sono ancora una volta in ritardo!” borbottai alzandomi di controvoglia e percorrendo rapida il sentiero, mentre Jonathan mi seguiva con lo sguardo “Ci vediamo dopo allora” lo salutai.
“A dopo, Ambra”.
 
Questo fu l’inizio della più strana e duratura amicizia di cui io abbia mai avuto conoscenza.
Jonathan amava parlare del più e del meno, contento che ci fosse qualcuno disposto ad ascoltarlo. Io, del resto, adoravo sentirlo discorrere e seguirlo per i boschi. Conosceva posti straordinari che neppure immaginavo si potessero celarsi in quella piccola macchia di natura inesplorata: mi mostrava fonti e ruscelli mai visti prima, spazi in cui trovare tane di cervi, scoiattoli, talpe, volpi e lepri, indicava piante a me sconosciute e i luoghi in cui trovare bacche e frutti di bosco che raccoglievo per gustarle poi in compagnia di Gared e della nonna.
Dal canto mio, gli portavo ogni giorno cibo in abbondanza e compravo cose che gli potessero tornare utili, come una coperta per la sua caverna, o una spazzola di ferro per pulirgli il pelo, quando un giorno Jonathan si presentò incrostato di fango da cima a piedi.
Purtroppo, potevo intrattenermi con lui solo per un breve tempo, sempre di fretta per andare in paese o tornare a casa, così che non nascessero sospetti in coloro che non sapevano, né avrebbero capito.
Per intanto non avevo dato motivo di dubitare di me e certo mia nonna non mostrava sospetti. Anzi, pareva piuttosto felice. Almeno due volte a settimana, infatti, le portavo un dono, che fosse una nuova vestaglia, un libro o dei dolcetti, e lei apprezzava molto. Capitava perfino che prendessi dei regali per Gared, sebbene più di rado.
Questi gesti di generosità non solo mi fornivano un valido alibi per i miei continui ritardi, ma avevano il magico dono di far sorridere mia nonna e smorzare, anche se di poco, la sua rudezza. Mi diedi della sciocca per non averci mai pensato prima.
Credevo d’essere più felice di quanto mi fosse possibile: avevo trovato un amico che sapeva rendere la mia vita meno tediosa ed ero lieta d’essere per lui un altrettanto apprezzata valvola di sfogo, che lo allontanava dalla solitudine e dai pensieri cupi.
Giunse però un giorno diverso dagli altri e questa strana armonia incominciò a incrinarsi: trotterellavo sulla strada di casa, mentre Jonathan mi seguiva di nascosto tra il fogliame com’era ormai sua abitudine, perché era sempre più curioso di conoscere mia nonna e il cacciatore, che pure gli suscitava timore.
"Eccoti finalmente" disse mia nonna vedendomi di ritorno. Gared sedeva accanto a lei e mi salutò con un sorriso.
"Ciao, nonna. Ti ho portato qualcosa" aprì il cestello e le porsi una nuova pipa, fatta in mogano.
"Mi serviva proprio, la mia è molto vecchia. Sei gentile" replicò.
A quel punto guardai il cacciatore: “e ho notato che il tuo pugnale è poco affilato. Non me ne intendo molto, ma spero che questo sia di tuo gradimento” di nuovo estrassi dal cestello un panno e al suo interno era uno stiletto, riposto in un fodero di cuoio.
Era esposto nella bottega del fabbro e io l’avevo comprato perché, per qualche motivo, ne ero rimasta molto colpita. Quando lo mostrai a Jonathan, subito l’istinto gli impose d’arretrare, ma ben presto la curiosità ebbe la meglio e cominciò ad annusarlo e osservarlo, così commentando: “è di ottima fattura e ben bilanciato. Sono certo che il cacciatore lo apprezzerà molto”.
“Come riconosci la qualità di un pugnale?” gli chiesi perplessa e la domanda lo ammutolì per un istante, il che mi insospettì, perché ben di rado l’enorme lupo rimaneva senza parole.
“Il mio motto è: ‘conosci il tuo nemico ’” rispose infine e, sebbene la questione mi sembrasse assai strana, decisi di lasciar correre.
Ad ogni modo, Jonathan dimostrò d’aver ragione, perché il cacciatore ne fu estasiato: “è perfetto, ti ringrazio” mi rispose impugnandolo. Senza aggiungere altro, mi avviai verso casa, così da preparare la cena, ma lui mi fermò, prendendomi delicatamente per il polso: "Cappuccetto Rosso, potremmo parlare in privato?" chiese e mia nonna già sorrideva soddisfatta, immaginandosi probabilmente una proposta di matrimonio.  
Rimasi in silenzio per pochi attimi, poi gli feci cenno di seguirmi: "certo” acconsentii “andiamo dentro".
Ci sedemmo al tavolo in cucina e io avevo una perfetta visuale della finestra, dalla quale potevo vedere l’enorme lupo nero nascondersi nel folto vicino alla nostra casupola.
"Vuoi che ti offra qualcosa?" domandai al cacciatore.
"No grazie" sorrise col suo naturale charme "sei libera questa domenica?".
"Certo" risposi.
Ero sempre libera di domenica. Tutto ciò che facevo d’inusuale era dormire fino a tardi. Per il resto c’era ben poca differenza con gli altri giorni della settimana, anche se trovavo più tempo per leggere e non andavo a lavoro.
"Bene. Mi chiedevo se ti andasse di andare al fiume. E’ fantastico in questa stagione".
Erano anni che non facevo una gita e certo mia nonna non si sarebbe opposta, se era il cacciatore ad accompagnarmi.
Pensai che anche Jonathan avrebbe potuto seguirci, prestando ovviamente attenzione a non farsi scorgere dal mio accompagnatore.  
"Sarebbe magnifico" accettai senza esitare.
"Ne sono contento” sorrise nuovamente Gared “dunque, come è andata la giornata?".
Scrollai le spalle: "al solito. La tua?" domandai
"Molto bene. Ho preso un paio di fagiani e perfino un cervo. Tua nonna ne aveva tanta voglia... mi ha invitato a cena per mangiarlo con voi”.
"Non mi starete chiedendo di pulirlo, vero?" chiesi subito perché, se c’era qualcosa che non sopportavo, era occuparmi della selvaggina.
"Non temere, ci penso io" ridacchiò il cacciatore.
Sbarrai gli occhi dallo stupore: "dici sul serio?".
"Certamente. Vado a recuperarlo a casa mia e torno."
"Va bene… e grazie."
Attesi che la porta si richiudesse alle mie spalle prima di avvicinarmi alla finestra per dialogare con Jonathan.
"Il cacciatore ha un debole per te" disse prima ancora che io aprissi bocca.
"Se questo significa che cucina al posto mio, per me va più che bene" replicai sorridendo.
"E la gita al fiume?” domandò interessato.
"Da troppo tempo non mi allontano un po’ da qui. Potresti venire anche tu: c’è molta natura in cui nascondersi e faresti qualcosa di diverso dal solito" proposi sedendomi sulla finestra e lasciando penzolare i piedi che quasi toccavano il manto erboso.
"Sarebbe una buona idea per conoscere meglio questo cacciatore".
“Giusto” annuii concorde “domani ti porterò gli avanzi del cervo, d’accordo?” domandai poi cambiando argomento.
“Che domanda è? Certo che sono d’accordo”.
 

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