cocoa butter kisses

di frown
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** i feel the chemicals kickin' in ***
Capitolo 2: *** Hopscotch ***
Capitolo 3: *** everything I ask for ***
Capitolo 4: *** amor et tussis non celantur ***
Capitolo 5: *** someone new ***
Capitolo 6: *** utopia ***
Capitolo 7: *** still the wrong time ***



Capitolo 1
*** i feel the chemicals kickin' in ***


cocoa butter kisses

(1).

I feel the chemicals kickin' in 

 



Non c'è niente di romantico in un campo di fiori. O in una canzone alla radio. Né nella nuvola a forma di vascello volante.
Ma noi? Cosa c'è di romantico negli sguardi fugaci e introversi che lancio allo specchietto retrovisore, ad intervalli regolari, dove puntualmente incontro i tuoi occhi scaltri e impavidi?
Nella tua auto che odora di agrumi, negli zaini pesanti nel baule polveroso, nei finestrini abbassati, nei biglietti lasciati sul cruscotto, nella mappa che impugno così forte da farmi sbiancare le nocche. Cosa c'è di romantico?
“Sta dormendo” mi lascio stupidamente sfuggire dalle labbra audaci. “C'è qualcosa che vuoi dirmi?”
Le mie ginocchia si scontrano l'una con l'altra quando la tua auto calpesta un ramoscello piuttosto spesso. Lancio uno sguardo a mia sorella rannicchiata sul sedile del passeggero, dorme spensierata con un braccio a coprirle gli occhi e producendo un sottile rumore nasale.
“Cosa?” dice ridendo.
Sorrido, cercando di fare in modo che il mio cuore non si spezzi troppo in fretta.
“Niente” rispondo scuotendo la testa con aria innocente.
“Sei solo la mia migliore amica. Lo sai, vero?”






L'amore della mia vita ho sempre sognato di incontrarlo ad una festa, amico di amici. Il festeggiato è prematuramente ubriaco quando ci presenta e io non mi rendo conto di avere di fronte l'amore della mia vita.
Ci presentiamo, quindi, inconsapevoli.
Magari non rispetta i miei canoni ideali del “Ragazzo Perfetto”: non è biondo come vorrei o forse ha la “r” moscia.
Cominciamo a parlare, a conoscerci. E io quella sera non sono neanche truccata, indosso la camicia di mio fratello sopra al giaccone di mio padre, un paio di jeans sdruciti. Tuttavia, non mi sento nemmeno un po' a disagio, non essendo intenzionata a fare colpo, non mi fingo qualcuno che non sono e chiacchiero liberamente, scoprendo che abbiamo molti interessi in comune.
Ci salutiamo prima di andare a casa e magari mi ritrovo a fantasticare su un bacio che avrei potuto dargli, su una me intraprendente che non sarò mai. Poi, su un nostro futuro insieme.
Ma sono quei pensieri che scacci subito con un sorriso perché in fondo sai che non potranno mai accadere. Quei pensieri che ti accompagnano anche prima di andare a dormire.
Lui lo rincontro in giro per caso. Parliamo ancora, perché a me piace il suono della sua voce, il modo in cui gesticola. Magari ci ritroviamo in biblioteca, scopro che non mi sento in imbarazzo con lui e che i suoi occhi sono belli quanto la sua voce. E non me ne frega niente se non è biondo.
Non ho mai pensato a due persone che senza conoscersi minimamente iniziano a frequentarsi, ci ho sempre visto un'amicizia dietro, ed è così che comincia.
Ed è così che è iniziata con Andreas.




Quella sera, si festeggiava il compleanno di Connor.
Rhett aveva organizzato la festa, che in realtà doveva trattarsi di una festa a sorpresa, ma l'incapacità di Rhett a tenere la bocca chiusa sommata alla curiosità infantile e morbosa di Connor aveva portato tutto in un'unica direzione.
Al mio arrivo Connor era già ubriaco e Rhett cercava di impedire a Lols di vomitare anche nel vaso della pianta che avevano comprato al British Museum.
Connor mi era subito venuto incontro con un sorriso birichino, adocchiandomi varcare la soglia con un pacco regalo ingombrante e una t-shirt che recitava “he is gay” con due frecce che indicavano sia a destra che a sinistra.
Mi aveva raggiunto sudato, ridendo e gridando gioioso, salutando tutti gli invitati con baci volanti. Quando mi fu vicino, mi si gettò addosso improvvisando un abbraccio molto espansivo.
Ed era iniziata così quella maledetta serata, tra schiamazzi, alcool e principi di risse.
A metà serata già non vedevo l’ora che finisse, non credevo avrei sopportato ancora a lungo un approccio di Yunas o un drink ideato e creato da Lola.
Il Cosmopolitan che Lols aveva servito a Nancy le era costato dieci minuti di sessioni di piegamenti sulla tazza del water.
Connor stava giusto per spiegarmi come creare un Cosmopolitan fai-da-te decente quando, un ragazzo con le gambe scandalosamente lunghe fece il suo ingresso. Aveva il volto contorto in una smorfia irrisoria e un ragazzo al suo seguito. “Lysander!” aveva gridato il mio amico arrampicandosi sul corpo del primo ridendo come un matto.
Lysander – come presupponevo si chiamasse – aveva accettato l’esuberanza del mio amico ricambiandola con un paio di pacche sulle spalle.
Il secondo ragazzo aveva, invece, optato per un saluto più anonimo, che tutti giustificammo come timidezza.
“Sono sicuro che ti divertirai” aveva continuato Connor, una volta recuperata un po’ di calma, fissando Lysander un po’ trasognato. “Anche tu Andreas, ti affido a Elle, non è ancora oltraggiosamente ubriaca, conto su di te: quando torno la voglio trovare in coma” e così il mio amico mi aveva presentato quel ragazzo dal sorriso affabile.
Connor aveva a quel punto preso sotto braccio Lysander e trascinato verso un gruppo di persone che l’ultimo arrivato sembrava conoscere.


Andreas era adorabile, neanche un po' saccente o presuntuoso, non mi parlò di sé con fare arrogante narcisizzando la conversazione, anzi, tendeva a basare il nostro dialogo sulle mie osservazioni, sottovalutando la sua vita con esclamazioni tipo “non sono poi così interessante” minimizzando tutte le sue imprese.
Quando rideva due dolci fossette comparivano ai lati della sua bocca. Quando invece vedeva una cosa scocciante, contorceva le labbra arricciandole, assumendo un'espressione infantile. Mentre, quando era sinceramente stupito, spalancava la bocca in una smorfia ridicola, mostrando un dente scheggiato.
Dopo un paio di bicchierini contenenti un liquido verdognolo, aveva preso a cantilenare il mio nome con una lena che mi ricordava una ninna nanna. Era dolce, nonostante il tono quasi di rimprovero. “Eléna, Elèna, Helena” diceva, cambiando a suo piacimento la pronuncia.
Gli raccontai dei cd che mia sorella dimenticava nella mia macchina, del grammofono che avevo in camera mia, dei libri che avrei dovuto restituire alla biblioteca da settimane.
Lui ascoltava, rideva e commentava con altri anedotti.
Mi raccontò di tutti i criceti che gli erano morti da bambino, del gatto antipatico della vicina di casa, di quanto avrebbe voluto avere un cane e della sua allergia alle arachidi.
Quando la serata stava già giungendo al termine, seduti sul divano diroccato al centro del salotto, gesticolavo spalancando gli occhi di tanto in tanto parlando di Amsterdam e della metropolitana coloratissima di Barcellona, lui mi ascoltava ammaliato, seguendo con gli occhi una volte le mie mani, un'altra la mia bocca, un'altra ancora i miei occhi. “Gesticoli come un italiano” aveva detto a un certo punto. Io avevo riso, arrossendo e stringendomi nelle spalle.
A un certo punto, puntò lo sguardo su Lysander che sfidava a Guitar Hero Rhett, mentre Connor esausto, con indosso le tende del bagno e il volto travolto da pennarelli indelebili colorati, annaspava sdraiato sul tavolino di vetro, su cui di solito cenavamo.
“Vorrei rimanere più a lungo, ma, davvero, domani devo alzarmi presto e-”
“Okay” l'avevo subito interrotto, col timore di sembrare disperata o appiccicosa. Si alzò, stiracchiò e iniziò a rassettarsi i vestiti.
Con indifferenza lo imitai, accompagnandolo alla porta grattandomi il gomito
“Tu che fai? Resti?”
“Aspetto che Lols smaltisca la sbornia con il quarto espresso, poi dormo da lei. Abita qui affianco” e gli indicai maldestramente l'appartamento sbagliato. “No, forse era quello” replicai indicandone un altro difronte a quello di Rhett e Connor.
Lui aveva ridacchiato divertito dal mio cattivo senso dell'orientamento, guidato dai bicchieri di Tequila di troppo, passando in rassegna gli altri tre appartamenti sullo stesso piano di quello di Rhett.
Mi salutò – alla fine – scuotendo la manina come un bambino, e sorridendomi mi disse: “E' stata davvero una bellissima serata, Elena. Solo grazie. Per averla trascorsa con me” ed era sparito.

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Capitolo 2
*** Hopscotch ***


Cocoa butter kisses

(2.)


Hopscotch

 


 






Il martedì della settimana successiva, Lols giaceva in stato catatonico sul tappeto persiano del suo appartamento.
“Sono arrivata il prima che ho potuto!” esordii non appena Connor mi aprì la porta.
Il mio amico mi guardò di sbieco, fece spallucce e volse il pollice della mano destra ad indicarmi la mia migliore amica, piagnucolante per terra.
Per lo meno non stava vomitando.
“Hey” la salutai, avvicinandomi a lei. Mi sedetti, incrociando le gambe, prima di allungarle la scatola di cioccolatini piccanti che avevo rubato a mia sorella.
Lola Palmer-Gross non si faceva mai prendere dal panico, anzi, di solito sui suoi fallimenti ironizzava asserendo che una bella risata fosse l’unica cosa che la tenesse lontana dall’eventualità di finire ricoverata in un reparto psichiatrico.
Lei afferrò la scatola quasi immediatamente, prima di imitarmi, spingersi coi gomiti e mettersi seduta. Passò l'indice sotto l'occhio, levando le tracce di mascara e eyeliner che erano colate col pianto.
“La mia vita fa schifo” disse quindi. “Mi gira la testa ho bisogno di stendermi un attimo, sui binari” ruggì.
Dovetti trattenermi dal ridere: anche quando attraversava una crisi esistenziale, Lola non perdeva mai l’ironia.
Lols, Lola Palmer-Gross per l'anagrafe, con gli occhi chiari luccicanti e pieni di lacrime, mi guardava dal basso. Il ritratto dell'angoscia.
La minore della famiglia Palmer-Gross era una ragazza alla mano, una di quelle ragazze che non ha bisogno di sforzarsi per piacere, perché semplicemente piace a tutti. Cordiale e puerile, vendicativa e capace di imitare qualsiasi cosa respirasse.
Ma dietro a una nube di apparenza, Lols affogava dentro a un senso di insicurezza e fragilità piuttosto profondo. Sentimentalmente parlando, è sempre stata problematica; da quando ne ho memoria. Lols tende ad annullarsi, ha sempre avuto bisogno di una persona più solida in grado di reggerla, sostenerla senza dominarla. In sostanza, ha solo un gran bisogno di essere amata.
Risi. “Non è vero, Lols, la tua vita non fa schifo e tu non vuoi morire. Ecco, morire fa schifo” replicai amareggiata.
“Sì che fa schifo, sembra di essere catapultati in quella di Lana Del Rey” commentò, rassettandosi il maglioncino rosa che indossava, per darsi un contegno.
“Nah” si intromise Rhett, uscendo dalla cucina con una scatola di cereali in mano. “Lei è bella e ricca” aggiunse ghignando allegro, per niente turbato dalla scenetta.
Lols tornò a piangere, accompagnando alle lacrime dei gridolini strozzati.
Lanciai un'occhiataccia a Rhett prima di prendere ad accarezzare Lols come se fosse una bambina e a sussurrarle rassicurazioni come “Rhett è un coglione”.
Rhett avanzò imperturbabile verso il divano e ci si buttò sopra a peso morto, dopo essere inciampato su qualcosa.
Allungai il collo e gemetti. Un libro. Un mio libro.
Lasciai Lola a leccarsi le ferite e gattonai fino ai piedi di Rhett.
Feci un gran sospiro e mi chinai per raccogliere il libro, rimuovendo accuratamente la polvere che si era depositata sopra. Il danno era consistente, di certo il dorsetto non sarebbe stato più lo stesso, nemmeno se riparato da mani esperte. Peccato, tenevo molto ad esso e ai suoi illuminanti contenuti: era il mio preferito e lo avevo acquistato in uno di quei mercatini con merce da rigattiere per quarantacinque sterline, un prezzo che ben rendeva la singolare rarità di quell’edizione.
Lols si riprese velocemente – se non frettolosamente. Indicò Rhett con il dito, come se lo stesse per accusare di qualcosa.
“Il mio ragazzo mi ha tradita, ma tu? Cosa mi dici di te, Rhett?!” strillò. “Sei gay, non sei gay? Chi sei?” avrebbe potuto essere una grandissima attrice teatrale. “Stai con Lysander? Con Gerarld? Con Tina o con Nancy?” era proprio una vipera.
Mi leccai le labbra e appoggiai le mani alle ginocchia di Rhett guardandolo dal basso.
Lui non ricambiò lo sguardo, ma riuscì comunque a notare i suoi occhietti incupirsi.
“Sei gay o no?” ripeté. “Puoi dircelo, siamo tutti amici qui” una grandissima vipera ecco cos’era.
Appena pensava che qualcuno ce l'avesse con lei, attaccava con una furia irrefrenabile, si trasformava in una iena, mettendosi a contare sulle dita tutti i suoi difetti, o peggio, beccando proprio la ferita di quella persona, quell’argomento spinoso che non avrebbe mai voluto affrontare.
Rhett ridacchiò per niente scalfito, mentre Connor prendeva a sputacchiare il suo succo all'ananas ovunque.
Oh, Connor.
“Sta’ zitta” la rimproverò Rhett serio. “Non sono gay per Lysander”
Connor quasi cacciò un urlo di frustrazione, prima di far sgusciare fuori dalle labbra un ruggito: “Che significa?”.
Rhett prese un cioccolatino dalla scatola che avevo portato per Lols, mentre si alzava e sedeva affianco a me, per avere Lols-la-stronza difronte.
Lols sembrava improvvisamente così interessata, che aveva smesso di piangere, come se avesse d’un tratto scordato che il suo ragazzo l'avesse tradita.
“Come ‘che significa’?” aveva replicato Rhett. Era tranquillo e il suo volto era il ritratto della quiete e della calma. L'opposto di quello di Connor.
“Tu hai detto 'Non sono gay per Lysander'. Ciò implica che tu sei gay per qualcun altro” spiegò Connor come se stesse parlando a un bambino di sette anni.
Nei suoi occhi la speranza luccicava più di un anello Cartier.
“Questo è... Cosa? Implicito?” Rhett aveva assunto quindi un espressione confusa, un'aria da tonto che tutto sommato gli donava.
“Rhett sei un becero coglione” commentai.
“Se sei gay per qualcuno, sei per forza gay anche per Lysander. Dio, ma l’hai visto?” aggiunse Lola.
Connor strillò come una ragazzina mettendoci a tacere. “Parla, Rhett! Per l’amor del cielo!”
Improvvisamente si udì il suono dello sciacquone del water.
Tutti ammutolimmo.
Dalla porta del bagno dell'appartamento di Lols ne uscì Lysander.
Lysander ci fissava con un sorrisetto sardonico, poi s’impuntò su di me, quasi non aspettandosi di trovarmi lì.
Iniziammo a scrutarci come due animali diffidenti, lui era nel mio habitat e non era stato inviato. Io ero giustificata.
Lui invece mi guardava imperterrito, come se gli dovessi dei soldi, senza temere di risultare maleducato.
Passò qualche secondo in cui nessuno dei due accennò a voler parlare, poi d’un tratto sobbalzai esclamando: “Che ci fa lui qui?” rivolto a tutti e a nessuno in particolare.
“Ho trovato Lola a piangere e a urlare nella biblioteca dell’università, l'ho portata a casa e ho chiamato Rhett” mi spiegò lui, senza distogliere lo sguardo dal mio neanche per un secondo. Rabbrividii e mi affrettai a interrompere il contatto visivo, imputandomi come imperativo categorico di non guardare quelle sue gambe scandalosamente lunghe.
Si andò a sedere sulla poltrona dove il plaid a quadrettoni di Lols giaceva indisturbato.
“Non sono abbastanza per te?” domandò sarcastico allora Lysander, facendoci intendere che aveva ascoltato la conversazione.
Connor arrossì per un secondo, mentre Rhett scoppiava a ridere.
Poi il mio amico mi guardò e mi disse: “Sta scherzando, è assurdamente etero” indicando col mento l’ospite stravagante. Molto più stravagante dell’appartamento e Lola vantava una serie di lampade a forma di fallo, così per dire.
Fu il turno di Lols di parlare. “Cosa che pensavo anche di te” brontolò, ma la sentii solo io.
Ridacchiai silenziosamente.
Rhett puntò gli occhi su Connor che si fissava le scarpe, in attesa di una risposta. “Non ho alcuna idea di cosa tu stia parlando. Tutto ciò che ho detto è che non sono gay...” pausa “per Lysander”.
E scatenò di nuovo il panico.
“L'hai fatto di nuovo!” strillò Connor ricordandomi mia sorella. “Per chi sei gay, Rhett? Per chi?”
Ad interrompere il silenzio che si era creato fu ancora Lysander. Distese le labbra prima di ridere. Una risata elegante e aggraziata, una risata che se fosse un dolce, sarebbe il mio preferito. I macaron al limone o al lampone.
“Comunque, io sarei un grande fidanzato” ammonì scherzosamente Rhett prima di alzarsi e indicare la porta. “Io andrei. Rimettiti, Lola. Era un coglione” e si avviò verso la porta.
Lo salutammo in coro, mentre rimuginavo su fatto che probabilmente non si ricordava nemmeno il mio nome. Maledetto.
Rhett si alzò un secondo dopo. “Lo seguo, mi rintano da Psychoholic, chi mi accompagna?” domandò con un sorriso traballante sul volto.
“Io!” mi offrii alzando freneticamente la mano. “Dovresti venire anche tu, Lols” suggerii.
Ubriacarsi per dimenticare. Che grande adulta che sono.
Lols scosse la testa in negazione. “No, ma... Tu vai pure, io rimarrò qui. Guarderò Sex & The City con Connor”.
Un quarto d'ora dopo eravamo al Psychoholic, un locale situato in mezzo ad edifici imponenti, ma che non lo intimoriscono per niente. Psychoholic era il nostro ritrovo, un locale abbastanza popolare, ma non caotico in modo estenuante. Si componeva in due piani e aveva le finestre alte e larghe, che davano su una strada principale. Il locale era luminoso, se non per alcuni punti, ed era interamente fatto di parquet di legno consumato, un parquet che non scricchiola ma su cui si può sentire il rumore dei tuoi passi se indossi dei tacchi. Le scale che collegavano il piano terra al primo, venivano spesso ridipinte di bianco, mentre i muri erano stati pitturati di un lavanda monocorde. Il locale era riempito da tavolini lasciati alla loro semplice bellezza, in legno chiaro, con un menù nero sdraiato accanto al centrotavola. Le sedie, erano dello stesso materiale e colore. Sulle pareti erano disposti qua e là quadri e raccolte di fotografie. C'era anche una bacheca di fotografie in bianco e nero, scattate all'interno del locale. Sopra alla bacheca delle lettere di legno intagliato recitavano “Love First, Bear After”. Le fotografie raffiguravano tutte le coppie di frequentatori abituali del locale. Quegli scatti rubati si moltiplicavano col tempo.
“E se si lasciano?” aveva chiesto una volta mia sorella Giselle.
“Se si lasciano, possono deciderlo loro, se tenerla o toglierla”.
Rhett aveva subito ordinato una birra chiara e, prima che io potessi parlare, Lysander e Andreas ci furono accanto.
Il primo inespressivo, il secondo sinceramente allegro.
“Sicura di avercela l'età per bere?” mi domandò Lysander, prima di sedersi accanto a Rhett e difronte a me.
Magalì, la cameriera neozelandese sorrise prima di mugugnare:“Torno fra due minuti” captando che avevo bisogno dei miei cinque minuti.
“Certo” rispose per me Rhett. “Ma di solito ordina un frullato o un succo di frutta o un milkshake” spiegò brevemente facendomi arrossire.
Rhett parlava decisamente troppo.
“Perché?” chiese sempre Lysander, mentre Andreas si accomodava affianco a me.
“Già” replicò Andreas. “Con me alla festa di Connor hai bevuto”.
Lanciai un'occhiataccia a Rhett che fortunatamente l'interpretò nel modo corretto, così per autocorrezione si affrettò a rettificare, iniziando ad accavallare storielle, una sopra l’altra. “Alle feste beve, solo non di frequente. Elena non regge l'alcol... Proprio a livello d'organismo... Un casino... O forse no”.
Lysander ascoltò Rhett con attenzione, mentre il mio amico parlava, però, non distaccava lo sguardo da me, che iniziavo a sentirmi sinceramente a disagio. Era come sentirsi sotto la lente d'ingrandimento, come se tutti i miei difetti già abbastanza in rilievo venissero ancor di più evidenziati. Come se fossi sotto esame, un esame per cui non mi ero preparata, un esame che sapevo non avrei superato.
Andreas annuì comprensivo, rivolgendomi un sorriso. “Non vorrei si fosse forzata per farmi compagnia” disse.
“Affatto” mi affrettai a rispondere, prima di accavallare la gambe ed esibire un espressione di finta disinvoltura. “Anzi, appena torna Magalì ordinerò un bel Cosmopolitan” ridacchiai.
Vidi Rhett spalancare gli occhi e borbottare qualcosa di sconclusionato prima di sillabarmi sulle labbra “no” e poi “sei sicura, cazzo?”.
No, che non ero sicura. Io non toccavo mai quell’argomento.
Andreas subito dopo intavolò una conversazione con me sulla rottura fra Lols e Frank, veramente interessato e dispiaciuto. Quando Magalì ricomparì, Lysander parlò per primo. “Allora, Rhett ha già ordinato, ma immagino voglia il bis. Quindi, un altro giro per il mio amico, Andreas vorrà sicuramente una Heineken, mentre per me e la signorina, due frullati ai frutti di bosco” ed ordinò per tutti.
Andreas sembrò cogliere la cacofonia, appena Magalì si allontanò, lo sgridò, dicendogli che volevo un Cosmopolitan.
Lysander fece spallucce, prima di rivolgermi un'occhiata di scuse che Andreas sembrò accettare. “Scusa, volevo un frullato. Solo che lo prendo solo quando qualcun altro mi fa compagnia. Spero non ti dispiaccia” chissà quante balle mi aveva rifilato in quella frase.
Io annuii, ancora più scossa. “Non fa niente” tentai un sorriso, conscia invece di aver prodotto una smorfia. “Anzi, hai casualmente ordinato il mio frullato preferito”
Rhett, in attesa della seconda birra, aveva scolato con un solo sorso la birra rimasta, finendola tutta e macchiandosi un poco il maglione.
“Non casualmente” replicò Lysander, guardandomi d'un tratto con naturalezza. Mi piacque subito il suo modo di parlare, la naturalezza con cui si esprimeva e la cantilena della sua voce densa di un tono canzonatorio e sbeffeggiante.
Sussultai appena, impreparata e sorpresa, prima di rilassarmi istantaneamente.
“Ah no?” chiesi allora, sentendomi un groppo in gola. “E come lo sapevi?”
Sorrise. Un sorriso smagliante e malandrino. “Ho indovinato”.
Passammo la serata a parlare del più e del meno, scoprendomi attratta da ogni osservazione di Andreas – anche quelle più stupide. Non importava se queste erano sul tempo, sulla birra, sui frullati, sul giornale, sulle fashion blogger, sull'hockey o su di me.
Nonostante non gesticolasse e fosse biondo, mi scoprii attratta da lui e dalla sua parlantina vivace e frettolosa, come quella di un neo-adolescente. Oltretutto, era un ragazzo estremamente carino e sexy. Sembrava essere la reincarnazione delle caratteristiche del mio ragazzo ideale, nel tempo libero suonava la chitarra acustica o nuotava nella piscina della palestra vicino al super-market. Era indifferente a quasi tutti gli sport, tranne il nuoto e il tennis.
“E' davvero curioso, no?” disse a un certo punto.
Sorseggiai il frullato quasi giunto al termine. “Cosa?” chiesi simulando innocenza.
Fa’ che si sia innamorato di me, pregai.
“Il fatto che ci siamo rincontrati!” rispose allegro ed un poco esaltato.
Sorrisi lusingata. “Non mi sembra poi così curioso” ammisi.
Andreas aggrottò le sopracciglia e la fronte, prima di scoppiare a ridere di gusto. “Invece sì! Al mondo ci sono così tante persone, ma il caso ha voluto che noi due ci incontrassimo” affermò incredulo.
Rhett ridacchiò. “Elena non crede molto nel caso” commentò facendomi la linguaccia.
“Ah sì?” replicò Andreas, poggiando una mano sul mio ginocchio. “Beh, ti farò cambiare idea” e mi fece l'occhiolino, prima di tornare a ridere.
Arrossii. “Auguri” commentai, cercando di non apparire provata.
“E' saccente, non trovate?” chiese Andreas agli altri due ragazzi.
Per niente offesa o scalfita proseguii: “E tu un gran sbruffone” risi.
Lysander si schiarì la voce e d’impulso mi ritrovai a guardarlo avida, curiosa per quello che avrei scorto se solo mi fossi affacciata di più per capire quel ragazzo.
“Lei avrebbe sorriso senza sorpresa, convinta com'era, come lo sono io, che gli incontri che chiamiamo casuali sono esattamente l'opposto, e che le persone che danno appuntamenti sono della stessa specie di quelle che hanno bisogno delle righe per scrivere sui quaderni, o che spremono il tubetto di dentifricio sempre dal basso” recitò.
Lo fissai allibita. Quel ragazzo sembrava essere uscito da un libro o da un film in bianco e nero di qualche regista francese. Mi accorsi che lo stavo fissando, solo quando lui ricambiò il mio sguardo.
Mi guardò come se non capisse il mio interesse, come se non avesse fatto nulla di speciale, come se avesse detto “magari domani piove” o recitato la sua lista della spesa.
“Julio Cortazar, Hopscotch” dissi pragmatica e, fu il suo turno di restare senza fiato. Sorpreso.
Il silenzio teso, solido e denso, che si era andato a formare, fu soppresso in modo quasi esaustivo dalla risata leggera di Andreas.
“Sei forte” si complimentò con me. “Sei la prima persona che riesce a seguire le citazioni lanciate un po' a caso di Lysander”.
Appoggiò il bicchiere di birra a doppio malto che non aveva ancora terminato, a differenza di Reth che smanettava con il cellulare, disinteressato alla piega della conversazione.
Andreas mi si avvicinò pur rimanendo seduto sulla sua sedia, mi prese la mano, prima di dedicarmi un sorriso innocente. “Sei davvero una ragazza speciale” e sentii il mio cuore esplodere. “Sembri uscita da un cartone animato, magari uno giapponese, anzi, un manga. O una canzone. Te l'hanno mai dedicata una canzone? Hanno mai scritto una canzone che parlasse di te?”
Scossi la testa, in negazione, iniziando a ridere: era ubriaco.
Andreas sbuffò e fu il suo turno di scuotere la testa, ma con un moto più esasperato. “Beh, dovrebbero”.
Scolò il rimasuglio di birra nel bicchiere, si leccò le labbra e richiamò a sé l'attenzione della cameriera.
Mi strinsi nelle spalle con un gesto insofferente e guardai Lysander, mi stava guardando anche lui. Fu questione di pochi secondi, prima che mi rivolgesse un sorriso obliquo, un sorriso obliquo beffardo e sfolgorante. Il sorriso di Lysander era diverso, era un sorriso invadente e che strideva con la location, sembrava essersi espresso nel posto e nel momento sbagliato. E soprattutto rivolto alla persona sbagliata.
Non lo ricambiai, sperando di non apparire indisponente nei suoi confronti.
“Ti va di giocare a ping-pong?” chiese poi a Rhett.
Rhett staccò gli occhi dal cellulare con un sorriso scintillante, prima di annuire con vigore. “Sì, cazzo!”
Rhett e Lysander sparirono in fretta, lasciandomi in balia di Andreas e di conseguenza, dei miei sentimenti verso di lui, confusi e in continua metamorfosi ed evoluzione.
Parlammo per ore e, non appena ci interrompevamo, lui non perdeva un secondo per chiedermi di rivelargli a cosa stessi pensando.
Dopo quell'uscita, iniziammo a vederci sempre più. E ovunque.
In biblioteca, da Khalil il kebabbaro, al supermercato e al centro commerciale. Rhett organizzava serate in cui ci incontravamo ancora, che fosse al pub irlandese o in discoteca.
In discoteca, venerdì sera, ci restai per mezz'ora, prima di uscire quasi di corsa, asfissiata e ansante.
Non passarono più di due minuti, prima che Andreas mi raggiungesse, con gli occhi che luccicavano quasi. Era brillo di già.
Mi guardò stanco, avendo corso per raggiungermi, con i capelli che gli si erano un po' spettinati e che sudati, gli si erano appiccicati alla fronte imperlata. Si fermò un poco per riprendere fiato mentre mi guardava seduta sul gradino basso e sporco del marciapiede.
Quella sera mi aveva fatto un complimento per il vestito e, ora che mi guardava con così tanta attenzione, mi sembrava di essere in una sala operatoria, io il paziente e lui il chirurgo dallo sguardo attento e vispo, il lampione quindi mi sembrava quell'aggeggio che emana luce accecante, quella lampada accecante che si trova anche dall'estetista o dal dermatologo.
Il silenzio ingombrante fra di noi, stranamente non fu interrotto da una delle sue battute agghiaccianti o da una sua classica risata calcolatrice.
Semplicemente, si accese una sigaretta e non la fumò nemmeno, restando in piedi, affianco a me, a guardarmi giocare con il braccialetto attorno al polso.
La cenere della sigaretta iniziava a cadere lenta sulla punta delle sue scarpe, ancora non intenzionato a sedersi affianco a me.
“Che hai?” spezzò il silenzio.
Alzai lo sguardo e dalla quella prospettiva i suoi occhi in attesa mi sembrarono ancora più luminosi e accesi, come i fari delle coste marittime.
Mi sentivo così persa e fuori controllo, come una nave errante che sbagliava la rotta e iniziava un percorso tortuoso che non assicurava a nessun passeggero di raggiungere la destinazione illeso. Anzi, tutt'altro.
“Hai le stelle negli occhi” dissi semplicemente, sorridendo come una bambina.
Andreas si piegò su di me, fino a raggiungermi. Mi guardò negli occhi e immaginai la povera nave sballottata qua e la dal vento impulsivo.
Con il suo volto a una spanna dal mio, acchiappò una ciocca che si era liberata dalla mia coda e la trascinò dietro al mio orecchio con le dita timorose, senza rompere il contatto visivo.
“Io credo che tu abbia solo visto il tuo riflesso”.
Mi stavo innamorando di lui.
E credevo che lui si stesse innamorando di me.
E l'amore non mi sembrava quella cosa pericolosa di cui mi parlavano tutti.









 

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Capitolo 3
*** everything I ask for ***


Cocoa butter kisses

(3).

Everything I ask for


 


 





Erano passati circa due mesi, quando successe il misfatto.
Due mesi trascorsi a guardarlo cambiare, a salutarlo gettandomi in un suo abbraccio caldo in antitesi con il freddo di stagione. Andreas ed io ci vedevamo circa ogni giorno, tutte le volte che potevamo e, le sue notti tormentate le passavamo nel garage di lui, sdraiati sul materasso vecchio e consunto. Io struccata ed inebriata dall'odore di tutti gli Arbre Magique che avevamo appeso alle pareti e al soffitto, lo guardavo fumarsi l'ennesima sigaretta e sorseggiare una pepsi sgasata. C'era la vecchia radio di suo nonno che trasmetteva sempre le solite canzoni e, avevo imparato a canticchiarle in modo poco udibile, ma apprezzabile. I Rolling Stones cantavano la loro Satisfaction mentre lui mi parlava a bassa voce di ogni cosa che gli faceva male, di ciascun dolore lo torturasse e gli impedisse di dormire la notte.
Lui mi raccontava di sua madre e delle pillole che prendeva tutte le mattine, con il latte e un bicchierino di cognac, di suo padre che non tornava a casa e di suo fratello piccolo, intelligente e problematico.
Io suggerivo qualcosa e Andreas sospirava ironicamente alle mie parole stupide. Sorrideva difronte alla mia risata tutte le volte che spuntava fuori senza preavviso.
Erano due mesi, quelli che erano trascorsi con le sue paure e i suoi timori tra i palmi delle mie mani. I miei umori ingestibili venivano riciclati per un altro momento, messi da parte in un cassetto dove c'era ancora spazio. Per quelli trovavo spazio quando tutti dormivano ed io salivo sul tetto. Il panorama da lì è bellissimo, si vedono le ultime luci ancora accese, le rare macchine che sfrecciano veloci incuranti dei semafori ininterrottamente arancioni e i lampioni che illuminano le strade buie e deserte.
Per arrivare sul tetto dovevo fare tutto molto silenziosamente; innanzi tutto, sgusciare fuori dall'appartamento e avvolta dal plaid di Giselle, salire tre piani di scale. Una volta arrivata all'ultimo piano, bastava tirare giù la scala a pioli.
Era il mio posto preferito e non lo conosceva nessuno, nemmeno Giselle, nonostante spesso mi avesse vista rientrare con il raffreddore e assonnata all'alba, dopo aver trascorso la notte sul tetto e dopo essermici appisolata come un'allocca.
La notte è strana. Mia nonna me lo diceva sempre: “accadono cose magiche la notte”.
Erano passati due mesi circa, dunque circa sessanta giorni in cui al mio risveglio, trovavo sempre i messaggi inaspettati e cordiali che mi auguravano una buona giornata di Andreas. Sessanta giorni di racconti sulla vita, sul passato e sul futuro. Mi raccontava le storie che lo avevano fatto crescere e i mali che si portava dietro sdraiati su una mia sciarpa esageratamente grossa in riva al fiume, lanciavamo i cracker ai cigni e io mi divertivo a dare loro un nome. Erano stati sessanta giorni di incoscienza, cambiamenti e di una me che lo teneva stretto - “sul serio, non ti mollo” -. Sessanta giorni di quel posto che “davvero, da oggi è il nostro posto”, dei baci loschi che mi appiccava sul guancia e sulla fronte e, sessanta giorni con la voglia scostante di appiccicare cerotti su quelle zone piene di segni indolori. Sessanta giorni di nuove abitudini, ritualità un po' sceme, strette soffocanti, rassegnazione e sessanta giorni dei miei spasmi accompagnati dalla mia risata un po' ridicola. Sessanta giorni di mie fissazioni e suoi gesti, affetto, mie azioni lasciate a metà e i suoi limiti. I suoi limiti, descritti nelle serate più alcoliche come degli ostacoli alti e di cemento armato. Io sorridevo alla metafora e gli accarezzavo il braccio, lo rassicuravo con parole tenui e pensavo ai sessanta giorni che ci erano voluti per sentirsi improvvisamente cresciuti, pieni. Ci sentivamo improvvisamente così completi e apprezzati, regalandoci strette soffocanti che non facevano mai male a nessuno. Sessanta giorni erano bastati affinché la mia stanchezza iniziasse ad abbinarsi bene e con con complicità al suo viso addormentato sulla mia spalla sulla metropolitana.
Sessanta giorni (circa) che avrebbero dovuto essere buttati, gettati il più lontano possibile per mettermi al sicuro.


 

Il sessantunesimo giorno (circa), Andreas conobbe Giselle.

 


 

Era un martedì o un giovedì mattina, io mi ero svegliata con qualcosa che mi attanagliava lo stomaco. Andreas.
Mi ero fatta una doccia da trentacinque minuti, depilata e mentre mi spruzzavo il deodorante sopra le ascelle, indossando solo dei jeans larghi sui polpacci e il reggiseno, la porta di camera mia si spalancò, facendo entrare una frustrata ragazza dagli occhi grandi e i capelli intrecciati.
“Mi fa male la schiena” mi salutò, prima di gettarsi sul mio letto. Indossava un maglione di mio padre, sotto cui non indossava altro se non le mutandine e gli stivali in eco-pelle marrone.
Giselle era una stangona che passava le sue giornate alternando sessioni di ginnastica aerobica, a maratone in streaming di sfilate di Victoria's Secret e Abercrombie. La sua dieta era composta da insalate russe, lecca-lecca e gomme da masticare, super alcolici e grissini. Andava per locali ogni sera; usciva presto e tornava tardi. Molto spesso tornava la mattina, verso le otto del mattino, la serratura girava e Giselle entrava sfilando per la sua camminata della vergogna, ma senza alcuna traccia di risentimento o imbarazzo sul volto. Il trucco della sera prima sembrava sparito, rimpiazzato da una lavata di acqua e sapone e una passata di mascara e rossetto rosa perla. Sopra al vestito della sera prima indossava una giacca sempre nuova, presa dal ragazzo con cui aveva passato la notte. Consensualmente. La cosa per cui non chiedeva mai il consenso, era l'oggetto che lei rubava dalla casa in cui era stata. Lei lo chiamava “souvenir” e, ne avevamo la casa piena.
Variavano dalle cose più stupide, come cornici con infilate fotografie di famiglie sorridenti o coppie di amici o innamorati, a lampade estrose. Una volta aveva persino preso con sé il tappetino del bagno, mettendolo quindi nel nostro. Le tende per la cucina, un tostapane, una scorta di carta igenica o libri di testo.

“Hai pensato all'università?” le chiesi, iniziando a pettinarmi guardandola arricciarsi i capelli attorno al dito dallo specchio.
Mi ero trasferita dalla casa dei nostri genitori appena finito il liceo, Giselle mi aveva seguita due mesi dopo, inquinando la mia stanza e la mia casa, nonostante lei fosse più grande di me di un anno.

“Sì” rispose concisa. “E non fa per me. Voglio diventare un imprenditrice” mi spiegò sorridendo.

“Ti serve l'università, Elle” sbuffai scocciata.
Spalancai l'anta destra dell'armadio e afferrai una semplice camicia larga e leggera, bianca e semplice.
“Non è vero, pensa a Tyra Banks, a Beyoncè o a tutta la famiglia Kardashian!” esultò mettendosi a sedere.
Giselle era un’idolatrice dello Star Sistem, preferiva la coppia Jennifer Aniston e Brad Pitt alla BradAngelina, venerava Alessandra Ambrosio e Adriana Lima a turni ed era attualmente vegetariana. Nonostante potesse sembrare una persona conformista e frivola, Giselle non era scema.
Certo, non era Heinstein e non sarebbe riuscita nello spelling del suo nome, ma era furba. Furba della furbizia di strada, era cresciuta in fretta, fumando erba e tracannando birra economica con i ragazzi più grandi da quando aveva quattordici anni.
Ricordo una me tredicenne sdraiata sul tappeto persiano a leggere di poeti francesi e maledetti mentre lei fumava chissà cosa con la porta di camera nostra chiusa a chiave e con la finestra aperta a Gennaio, prima di spruzzare ovunque spray all'arancia per l'ambiente e puntarmi un dito contro: “Di qualcosa alla mamma e ti uccido, Elle”.
Era buffo, ci chiamavamo Giselle e Elena, ma tendevamo a soprannominarci entrambe “Elle”.
“Giselle, se ci tieni tanto, gira anche tu un porno come Kim e diventa una... Una... Beh, qualsiasi cosa sia lei” finii.
Inarcai un sopracciglio davanti all'evidente silenzio e mi girai a guardare Giselle .
Giselle, mia sorella maggiore, aveva pochi ma utili talenti. Oltre a un vero e proprio animo da seduttrice, aveva il dono di riuscire sempre a non sentirsi fuori posto. Nonostante avese una risata scomposta ed esagerata, facesse sempre delle strane costruzioni fra posate dopo un pasto e ridendo, le sue spalle iniziavano ad abbassarsi e ad alzarsi in movimenti frenetici.
A Giselle erano stati donati degli occhi caldi e dolci, verdi e circondati da chiazze nocciola, profondi e attraenti. Ed erano quelli gli occhi che mi stavano guardando con disapprovazione.
“Che c'è?” proruppi stanca di chiacchiere futili.
Uscii dalla mia stanza, ora diventata nostra, per entrare in quello che avevo arredato come il mio studio, ma avevo chiamato “santuario” quando Giselle era sbucata sul mio pianerottolo con due valigie troppo grandi e un sorriso troppo entusiasta. Almeno così non mi avrebbe disturbata.
Non era particolarmente grande, ma aveva ampie finestre da cui filtrava sempre poca luce, che andava puntualmente a colpire la scrivania di legno comprata a un mercato dell'usato. Oltre alla scrivania, avevo rimediato una libreria piuttosto ampia e degli scaffali che Lols e Connor avevano attaccato alla parete con non poche difficoltà. C'era anche un vaso cinese, che mi aveva regalato Rhett appena comprata casa, all'interno riposava una grossa pianta grassa. Appeso alla parete c'era un orologio impostato di un ora in ritardo, ma che non decidevo mai di reimpostare.
Giselle mi seguii. Dalle grosse finestre in legno che davano su una strada principale si potevano vedere le fronde degli alberi scuotere nel vento di Marzo.
Per fortuna non pioveva, avevo un libro da ritirare in biblioteca.
Giselle sbuffò, sfregandosi una mano sul viso e passandola poi fra i lunghi capelli dorati, rovinati dall'ultima tinta colorata.
Teneva in mano un mio libro, riuscii a sbirciare il titolo prima che lo chiudesse con disapprovazione, per poi incrociare le braccia al petto e imbronciarsi. “Penso che dovresti lasciarmi questa stanza e spostare la scrivania e la libreria nella nostra attuale camera da letto” si impuntò.
Quasi le risi in faccia. “Non credo seguirò il tuo... Consiglio”.
“Ma che strano!” esclamò lei, posizionandosi le mani sui fianchi come una madre apprensiva. “Tu non mi ascolti mai”
Mi trattenni dall'alzare gli occhi al cielo e arrotolai una manica della camicia attorno al polso, indecisa su come spiegarle la situazione. “Giselle, questa è casa mia. Io ti sto ospitando, non paghi nulla. Né la spesa che compio settimanalmente, né l'affitto, né le bollette. Non pensi sia arrogante quindi volere anche una stanza tutta per te?”
Giselle sfilò dalla tasca posteriore dei jeans chiari un pacchetto di sigarette ridotto male, ne sfilò una e se la infilò tra le labbra sottili. “Potresti almeno rifletterci su” e sparì, andando probabilmente a cercare un accendino.
Mentre pedalavo sulla bicicletta riverniciata da poco, pensai a Giselle e al suo sguardo deluso.


 


 

Quando tornai a casa, Giselle era in soggiorno in mutande, circondata da una quantità disdicevole di vestiti.
Appena mi sentii entrare mi venne incontro saltellando come una scimmietta, euforica e con un sorriso equivoco stampato sulle labbra rosee.
“Non potrai mai crederci” schiamazzò allegra e felice come una pasqua.
“Indovino?” domandai, gettando la borsa per terra. “Cercano una ragazza per lo spot di un dentifricio” e mi piegai a sfilarmi le Oxford bordeaux dai piedi.
“Non essere sciocca” e saltellò di nuovo, accompagnata dal battito frenetico delle sue mani, l'una contro l'altra.
Indossava una maglietta con su scritto “YOUR PUSSY YOUR CHOICE” oltre alle mutande con stampata sull'inguine una serratura. “Ho conosciuto un ragazzo!”
Strinsi le labbra e “Wow” esordii poco convinta. Succedeva ogni giorno con Giselle, non era una novità.
“No, no” e scuotendo la testa mi spiegò che non avevo propriamente capito, così mi prese per mano nonostante le mie proteste e mi trascinò sul divano su cui era sdraiata prima del mio ingresso. Mi costrinse a sedermi e senza lasciarmi le mani, si sedette accanto a me. “Ho conosciuto IL ragazzo”
“Chi?” sgranai gli occhi. “Drake?” quasi gridai.
Giselle scosse benevolmente la testa, come se stesse parlando a una sociopatica. “Sono andata al Pychoholic, quello che piace tanto a te, perché in effetti, cercavo te” ridacchiò.
Mi spostai la treccia oltre le spalle, prima di prendere fiato e fissarla attenta. “Hai incontrato Drake al Psychoholic?”
Giselle sbuffò amareggiata. “Drake non c'entra, Elle”
Adocchiata una mela, poggiata su un tovagliolo giallo sul tavolino, la afferrai. “Quindi?”
“Al bancone c'era un ragazzo, molto carino” iniziò. “Stava bevendo una gin tonic e aveva lo sguardo sofferente e amareggiato” pensai di essere amareggiata e sofferente anche io in quel momento. “Così mi sono offerta di fargli compagnia, per risollevargli il morale. E lui mi ha ignorata” il racconto prima noioso e monotono mi sorprese proprio quando stavo per addentare la mela.
“C-Cosa?”
“Hai capito” disse lei scocciata. “Mi hai rifiutata, in modo anche piuttosto sgarbato” riferì.
“Mi dispiace?” non seppi se era un'affermazione o una vera e propria domanda.
“Non mi era mai successo!” quasi urlò, iniziando a farneticare e a gesticolare.
“Calma, calma” la fermai. Aggrottai la fronte e “Non puoi farci niente, Elle. Succede” sbottai.
Giselle esibì una smorfia frustrata sul suo bel viso angelico. “Beh, io qualcosa l'ho fatta” esordii senza evidenti ripensamenti.
“E...?” la invitai a continuare improvvisamente curiosa.
“Gli ho detto che sono una che non demorde e lui mi ha risposto che a lui sembravo una ragazza... Una ragazza come tante, facile e infantile” s'interruppe quando si accorse che stavo annuendo, d'accordo con le parole del ragazzo.
“Oh, scusa” brontolai. “Questo ragazzo è un idiota, l'hai insultato e te ne sei andata?” chiesi per recuperare.
Mia sorella sorrise tranquilla. “No, gli ho detto che invece lui era una persona presuntuosa e che non guarda mai oltre il proprio naso... La cosa che mi dici sempre tu!” esultò come se fosse una cosa positiva.
Addentai la mela. “E allora è stato lui ad insultarti?” l’apostrofai tornata disinteressata, mi guardai il polso, su cui l'orologio stretto intorno segnava l'ora. Giselle mi acchiappò il braccio e affondò sfrontatamente le unghie lunghe e laccate di smalto nero nella carne del braccio sinistro. “Ascoltami!” mi rimproverò incollerita.
Annuii, gemendo per il dolore al mio povero braccio innocente.
“Mi ha sfidato, mi ha invitato a giocare a carte, nel caso avessi vinto, sarebbe uscito con me e mi avrebbe dato l'occasione di rivalutarmi, se perdevo dovevo ammettere di essere una ragazza scema e vuota” spiegò, schioccando soddisfatta la lingua.
Pensai immediatamente che quel ragazzo fosse un cafone, seduta sul sofà panna, con le ginocchia incollate alla gamba di Giselle.
“Hai vinto?” chiesi tirando fuori dalla tasca anteriore e sinistra dei jeans il cellulare. Iniziai a scorrere sulle notifiche di Whatsapp.
“Elle!” si lamentò scandalizzata. “Non mi presti mai attenzione” sbuffò irritata. Giselle era buona, ma quando s’intestardiva, la sua linguaccia diventava davvero irritante.
Smisi di digitare emoticons random alla chat che condividevo con Lola, per lanciarle un'occhiata offesa. “Non è vero” strepitai.
“Cristo” sbottò quindi lei, alzandosi in piedi. “Non ho vinto” esclamò come se fosse un editto, o il Non Expedit.
Gongolai inconsciamente. “Capita” decretai e addentai ancora la mela.
Mia sorella, si risiedette accanto a me, si allungò per sbirciare sul mio cellulare e mi guardò serissima. “Elle, stasera c'è la nostra partita. Non ho ancora vinto”
“Auguri” replicai alzandomi, la mela in una mano e il cellulare nell'altra. Giselle s'alzò in piedi e mi seguii, mentre io alzavo gli occhi al soffitto incrostato, avrei preferito che la mia uscita glissasse l'argomento, ma mia sorella sembrava di altro parere. Infatti, si inalberò. “Sono senza parole! Ma ce l'hai un misero sputo di coscienza?”
“Che vuoi da me, Giselle?” l'apostrofai scocciata.
Giselle mi esaminò con la coda dell'occhio prima di guardarmi di traverso. “Devi insegnarmi a vincere a poker”
“No” bofonchiai nervosa. “Non posso, Elle. In due ore non posso trasformarti in una arrampicatrice sociale newyorkese cresciuta a Las Vegas”
Giselle sbuffò. “Devi aiutarmi” detto ciò, prese una sigaretta e aprì la porta-finestra del soggiorno per uscire sul balcone a fumare e a fissare imbambolata le luci abbaglianti del traffico pomeridiano-serale.
A quel punto, le diedi le spalle e me ne andai nella mia tana, sperando di non essere disturbata, almeno lì.
Ovviamente, avevo sperato invano. Dieci minuti dopo, Giselle spalancò la porta del mio studio e meditabonda, con lo sguardo perso nel vuoto bofonchiò qualcosa di incomprensibile, le chiesi di ripetere.
“Insegnami a giocare e a barare, Elle” sospirò. “Ti prego, devi aiutarmi, sono tua sorella. Ho bisogno di te, ho bisogno di te, Elena”
La fissai sospirare sconsolata, decisa a conquistare il giocatore di poker molto cafone. “Okay” mi arresi alla fine.
Ci mettemmo subito a lavoro. Trovai le carte da gioco in un cassetto del mio comodino, sotto a una vecchia spazzola e le insegnai le regole e la metodologia di gioco. In un'ora, Giselle seppe giocare a poker, ma nonostante i miei rimproveri sull'espressione che avrebbe dovuto mantenere e degli utili consigli, Giselle restava una pessima giocatrice, nonostante le avessi successivamente insegnato anche dei trucchi, di cui non andavo fiera, Giselle restava una giocatrice mediocre, che non avrebbe mai potuto battere un ragazzo esperto. Doveva essere esperto, dato che scommetteva attraverso il poker. Sospirai sconsolata. “Giselle, non sarà facile batterlo. Anzi”
Giselle sollevò lo sguardo su di me, ignorando le carte ai suoi piedi per pochi istanti. Esibii una smorfia sarcastica e “Ma non mi dire” disse semplicemente.
Stroncando la mia replica, mi guardò di nuovo. “Ho un'idea, terrò i capelli sciolti e indosserò le cuffie, mi suggerirai tutto, capito? Una chiamata e io ti sussurrerò le mie carte, Elena. Non fare quella faccia, dopo ti lascerò in pace, ti scongiuro”
Ovviamene accettai.
Alle nove e un quarto, Giselle era al Psychoholic, mentre io avevo avvisato Andreas che sarei arrivata leggermente in ritardo quella sera.
Giselle avviò la chiamata, pochi istanti prima di entrare nel locale, sentii immediatamente il chiasso del pub e mia sorella brontolare insulti e bestemmie, nervosa come mai l'avevo vista.
“Ciao” la sentii dire. “Pronto a dirmi che sono la donna della tua vita?”
Riuscii a captare una risata sarcastica, mentre seduta sul tappeto, fissavo le carte da poker e addentavo un cracker.
“I commenti lasciamoli per la fine, Judith” scoppiai a ridere dimenticandomi per un istante del fatto che anche Giselle potesse ascoltarmi.
Immaginai Giselle irrigidirsi, tirare una sedia via dal tavolo e sedersi composta, lanciare uno sguardo di sfida solo alla fine. “Giselle” lo corresse.
“Iniziamo, Giselle?” disse il cafone allora. “Mischi tu o io?”
“Mischia tu, Giselle. Come ti ho insegnato” dissi a mia sorella.
Giselle seguii il mio consiglio e le dissi di dire che non si fidava dei giocatori d'azzardo. Lei ripetette tutto come un robot, con la mia stessa intonazione. Il ragazzo sembrò stupirsi e ridere sinceramente.
Tra un cracker e un altro, sentii il frusciare lento e calcolato delle carte, segno che mia sorella stesse mischiando, prima di distribuirle in modo equo, non senza utilizzare un altro trucchetto che le avevo insegnato.
“Non confondere le donne tra di loro, Giselle” le ricordai come una mamma apprensiva.
Rischiammo molto quella sera. Giselle fece la figura di una sciocca perchè Il Giocatore D'Azzardo l'aveva sentita brontolarmi “Di quadri!” esasperata dal mio udito a un certo punto della serata.
“La fortuna è determinante, in questo gioco” le aveva detto lui a un certo punto. Dissi a Giselle cosa rispondere.
Quando mia sorella, sorridente e accattivante come una iena gli rispose “Fortuna e calcolo delle probabilità, osservazione del giocatore e ottime esecuzioni di bluff”, riuscii quasi a sentirlo spalancare gli occhi e arrossire.
Giselle eseguii i trucchi che le avevo insegnato e, con il fato e i trucchi che aveva imparato una me tredicenne dalla nostra parte, la partita filava liscia e controllata. Il suo accompagnatore era in difficoltà con la mia esperienza, ma solo quando Giselle sembrò in vantaggio, vincendo la seconda mano, riuscii ad avvertire la sua paura. “Vuoi rilanciare?” chiese Giselle ironica.
Alle dieci e sette riuscii a sussurrare esausta a una Giselle gongolante di gioia “abbiamo vinto”.
Mi vestii ed uscii di casa, incamminandomi a piedi verso lo Psychoholic.



Trovai fuori dal locale Lysander.
Lo vedi e puoi solo sospirare. Mi intimoriva persino averlo intorno, perchè Lysander era di quella bellezza evidente che non ti permette di distogliere lo sguardo o di distrarti. Se ne stava lì, in piedi, appoggiato al muro del pub. Sicuro di sé e di quello che avrebbe potuto fare –farmi – con un pizzico di determinazione in più. Mi fissò avvicinarmi, mentre accanto a lui una ragazza dai lineamenti asiatici e un ragazzo mulatto e con gli occhiali dalla montatura bordeaux e sottile chiacchieravano divertendosi. Lo guardai dire qualcosa di tanto in tanto, quel poco che bastava a imprimertelo nel cervello. Parla quanto basta, Lysander. Diceva le cose giuste al momento giusto, sorrideva con le mani virili e le vene sporgenti davanti alla bocca sottile, si metteva in disordine i capelli in modo da costringermi a desiderare di passarci le dita in mezzo.

Mi guardò con quella sua assurda bellezza selvaggia ed io ricambiai lo sguardo, percorrendo con i miei occhi stranamente impavidi la sua figura. Era estremamente attraente, più di Andreas, nonostante gravitassi solo intorno a quest'ultimo.
 Era alto e slanciato, dalle spalle ampie e i fianchi stretti, capelli lunghi, scuri e lisci. La carnagione invece era chiarissima e non presentava neanche l'ombra di un imperfezione, pensai alla sua pubertà e a un suo ipotetico volto intriso di brufoli: non ci riuscii.

Mentre mi guardava raggiungerlo, con la mia camminata fanciullesca, alternava un'occhiata a me e ai suoi interlocutori, ma il suo sguardo non differiva, restava malinconico. Bellissimo e malinconico. Lunghe ciglia ombreggiavano dunque i suoi occhi chiari e limpidi, ghiacciati e ardenti. Un dio della mitologica greca o forse norrena, con il portamento di un soldato prussiano. Aveva la postura di un étoile o di un pianista dell'Opèra di Parigi, ma la parlantina di un parlamentare di Strasburgo.
Quando fui a portata di orecchio, sentii la ragazza parlare di una sua possibile malattia mentale, dicendo che presto il neuropsichiatra le avrebbe diagnosticato la paranoia, il ragazzo affianco a lei, la smentii, dicendo che era solo una ragazza ossessiva e intelligente, un'ottima osservatrice.
Lysander sorrise. “I paranoici attribuiscono un'importanza enorme ai particolari più insignificanti del comportamento altrui, quelli che generalmente sfuggono alle persone normali” detto ciò, la guardò quasi con dolcezza.
Posai la mano sulla porta del locale, indecisa sul salutarlo o meno. Ciao mi sembrava banale, buonasera da vecchia. Così finii per arrossire come una bambina, girarmi verso il trio e schiarirmi la voce. Sei occhi puntarono lo sguardo sulla mia figura, che non mi era mai apparsa sciatta quanto allora. “Sigmund Freud, Psicopatologia della vita quotidiana” recitai guardando la mia mano sulla porta, quando ebbi il coraggio di sollevare gli occhi, lo feci con un sorriso sbilenco sul volto, che dedicai quasi in modo esasperatamente infantile al mio diretto interlocutore.
Corsi all'interno del locale un secondo dopo, neanche un passo e Lysander mi fermò con la sua voce fascinosa. “Volevi sorprendermi?”
Mi girai quasi turbata. “Non era mia intenzione...” feci finta di essermi scordata il suo nome.
“Lysander Warhol Lafayette” elencò meccanicamente, superandomi per poi posizionarsi difronte a me.
“Lysander Warhol Lafayatte” sospirai prima di fare un fischio ammirato. “Che sviolinata!”
“Un cognome presuntuoso” ammise.
“Un cognome ingombrante” lo corressi. “Stavamo dicendo?”
Scosse la testa divertito. “Stavolta sono sinceramente impressionato”
“Perché, prima non lo eri?”

Lui non rispose, mi sorrise e basta. Avrebbero dovuto rendere illegale quel suo sorrisetto malizioso. “Sei un bugiardo, Lysander Lafayette Warhol” conclusi io sorprendentemente maliziosa, superandolo e avviandomi verso il bancone, distaccandomi solo per esigenze naturali, quali prendere qualcosa da bere, preferibilmente dissetante.
Lysander mi affiancò ancora una volta. “Stai cercando Andreas?”
Annuii, mentre il barman mi passava una tazza di cioccolata calda. Lysander acchiappò la tazza prima di me. L'annusò per capirne il contenuto, prima di afferrare due bustine di zucchero di canna, aprirle entrambe e gettarne il contenuto nella tazza. Lo guardai ipnotizzata mescolare la cioccolata con studiata attenzione verso i chicchi più restii a sciogliersi. Quando finalmente me la passò, lo fissai accigliata. “Come fai a sapere che utilizzo lo zucchero di canna?”
“Me l'ha detto Andreas” replicò, voltando lo sguardo altrove. Bugia.
“Parlate delle mie preferenze in fatto di zucchero?”
Rise. “No, di te e basta”
Arrossii e, fu il mio turno di voltare lo sguardo altrove. “Dov'è?”
“A conquistare gonnelle, suppongo” rispose sorridendo.
Non diedi peso alle sue parole e lo presi come uno scherzo, o una battuta detta tanto per dire.
Salutai Magalì che iniziava il turno notturno e le chiesi la mela che aveva in mano, probabilmente desiderosa di frullarla per qualche drink. L'addentai e mi girai verso il ragazzo.
“Appoggi il suo metodo?” chiese.
“Quale metodo? Come fa il caffè o il letto?”
Sorrise. “Quando si tratta di uscire con le ragazze, diciamo che ha delle precise regole da rispettare” disse tranquillo e gli permisi di leggere sul mio volto momentanea confusione.
Inarcai un sopracciglio scettica. “Belle, bionde e stupide?” chiesi ironica.
Ero sinceramente curiosa, così osservai i suoi movimenti decisi minuziosamente.
Mi guardò al di sopra del suo bicchiere di Moscow Mule, gli occhi attenti e perspicaci. “Non esattamente: poker”
Quasi soffocai. Come se avesse detto una battuta sporca, lo fissai stralunata, con la bocca socchiusa e gli occhi strabuzzati.
Per ridestarmi dallo stato di trance, addentai di nuovo la mela e Lysander dischiuse le labbra in un sorriso complice che gli illuminò gli occhi. “Accetta di uscire solo con le ragazze che sono in grado di batterlo a poker”
“Che stronzata!” mi animai sudando freddo. Pensai a mia sorella e al suo giocatore d'azzardo, al Psychoholic e a una partita giocata per lo stesso scopo. Senza accorgermi di non aver ancora inghiottito il boccone decisamente troppo grande di mela, mi resi conto troppo tardi che un rivolo di succo mi stava colando sul mento. Lysander mi sorrise divertito ed io mi affrettai a pulirmi la bocca e a mandare giù il pezzo di frutto. Mi maledissi per la pessima figura, mentre lui ridacchiava. Prima che potessi dire qualcosa o scusarmi, lui aveva puntato lo sguardo oltre le mie spalle. Seguii il suo sguardo e girai il collo in tempo per vedere Andreas avanzare tenendo per mano Giselle Jordan. Mia sorella.

La mela mi cadde di mano.

 

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Capitolo 4
*** amor et tussis non celantur ***


Cocoa butter kisses

(4).


Amor et tussis non celantur



 





“Amor et tussis non celantur” recitava Ovidio.
L’amore e la tosse non si possono nascondere; e il dolore? Se dovessimo dar retta al poeta latino, il dolore si potrebbe nascondere, celare, evitare di manifestare. Non credo che quella sera la mia espressione non fosse tinta di dolore, penso che semplicemente nessuno scelse di accorgersi della mia amarezza, del vuoto che mi si stava formando dentro il petto.

E le vertigini...

Avevo consegnato Andreas a mia sorella.

E le vertigini…

La prima cosa che pensai quella sera fu che comprendevo perfettamente quel cavaliere medievale conosciuto come Orlando.
Ed era ironico, come in una situazione del genere, io trovassi la forza o la voglia di pensare ai poemi epici cavallereschi su cui avevo dato un esame il semestre prima.
“Soffrirai” mi disse mia nonna. “Soffrirai ancora, soffrirai sempre” mi ripeteva mentre piangevo. Ed era sempre stata così di conseguenza la mia vita; ad ogni gioia corrispondeva un dolore più grande.
Non seppi mai, se quel giorno, fossi stata davvero arrabbiata con Giselle, Andreas o con me stessa.
Avevo pensato per mesi che io lui fossimo come Rimbaud e Verlaine, ed invece non eravamo nulla.
Guardai Andreas e Giselle incamminarsi verso di noi, Giselle sorridente come una stella e con le movenze di una gazzella.
Bella di quella bellezza che hanno le spose quando escono dalla chiesa. E io non potei non sentirmi una schifezza.
Avrei voluto mettermi ad urlare, strappare tutti i capelli a mia sorella che non aveva ancora notato la mia presenza, a mia sorella che mi aveva portato via il ragazzo dei miei sogni. Il ragazzo giusto per me.
Andreas le disse qualcosa e lei alzò lo sguardo su di noi. Prima posò lo sguardo su Lysander, soffermandosi sulla sua figura e accarezzando maliziosamente il profilo con lo sguardo. Camminava affianco al ragazzo migliore che avessi mai conosciuto e si leccava il labbro come una iena guardando Lysander.
La vidi deglutire con pesantezza, prima di riscuotersi e guardare me.
E si fermò. “Elle?!” gridò come se avessi un'insegna luccicante sopra la testa che recitasse una filastrocca per bambini.
Giselle mi lanciò un'occhiata riottosa, come se non avessi diritto a stare lì. A condividere la sua stessa aria. “Che ci fai qui?”
Avevo dovuto attingere a tutta la forza che avevo in corpo, anche quella che credevo di non possedere. Decisi in quell’istante di soffrire e piangere quell’agonia in silenzio.
“Voi due vi conoscete?” chiesero Andreas e Lysander in contemporanea.
Esibii un sorriso storto e sarcastico, prima di allungarmi sul bancone, afferrare il bicchiere di Moscow Mule di Lysander e scolarmelo come una stripper, gettando il capo all'indietro. Sentii il liquido penetrarmi la gola, graffiandola e non mi pentii di aver bevuto la mia condanna.
“Ciao anche a te, sorellina” mugugnai fra i denti.
Non riuscii né a sentire né a vedere la reazione di Lysander, presa ad assistere a quella di Andreas, il quale sobbalzò sul posto, spalancò gli occhi e balbettò un “cosa?” talmente indignato da infastidirmi più del lecito.
“Che ci fai qui, Elle?” mi riprese lei, per poi schioccarmi le dita davanti al volto per ridestarmi, come se non averle risposto entro venti secondi la infastidisse a morte.
La fulminai con lo sguardo e provai a tacere, ma come avevo previsto non ci riuscì. “Bevo con i miei amici” dissi semplicemente e lanciai un'occhiata a Lysander e ad Andreas.
“Tu non bevi” mi accusò lei, assottigliando lo sguardo.
La imitai, cosciente che fra le due, avrei dovuto essere quella matura. “Cosa ne sai?” sospirai, “tu non sai niente di me”.
Lysander schioccò le dita in direzione del suo bicchiere vuoto ed eseguì il numero due con le dita a Magalì, la quale accorse a preparare due drink.
Giselle mi fulminò con lo sguardo. “Che ti prende, adesso? Non hai alcun motivo di essere sgarbata con me” disse con il tono lamentoso di chi non è bravo nemmeno a fare la vittima.
Gettai un'occhiata alla mia mela caduta al suolo, prima di alzare lo sguardo su Andreas, rosso in volto come un bambino sudato che gioca a pallone.
“E così, esci con la mia sorellina?” gli chiesi sorridendo afflitta e sconfitta.
Andreas aprì la bocca, poi la richiuse. Lo rifece e balbettò qualcosa di incomprensibile.
“Sorella e basta” mi corresse Giselle gelida. “Sono tua sorella maggiore” trafiggendomi con gli occhi truccati e sottili.
Aggrottai la fronte scandalizzata. “Oh, scusami!”
Ridacchiai istericamente, afferrai i successi due drink di Moscow Mule di Lysander e li trangugiai uno alla volta velocemente e avidamente come un buzzurro, per poi asciugarmi la bocca con la manica della cappotto. Lysander sospirò affranto.
“Sapete, ragazzi” iniziai la filippica. “A volte scordo di essere la sorella minore, dato che quella che fa la spesa a casa nostra sono io, quella che mette in ordine sono io, quella che paga le bollette sono io, quella che ha un lavoro sono io” la accusai, come non avevo mai fatto nella mia vita.
Giselle arrossì sinceramente imbarazzata. “Elle, che ti prende? Non sei mai stata così ostile” mi rimproverò con un tono carico di sottintesi e tensione. Andreas annuì, concordando con lei silenziosamente.
Andreas non fece in tempo a cogliere la mia espressione di disgusto che serrai la mascella e le palpebre più tesa delle corde di un violino. “Hai ragione” azzardai. “E infatti mi sono rotta il cazzo” e senza vergognarmi dell'eccessiva temerarietà delle mie parole presi la borsa abbandonata sullo sgabello e diedi ai tre le spalle, piantandoli lì, bruciando la distanza che mi separava dall’uscita come se avessi la peste alle calcagna.
Avrei voluto levarmi i vestiti e buttare tutto all'aria come Orlando, ma mi dispiacque per Magalì, le sarebbe toccato pulire tutto.
Così mi limitai a sfilare come i cattivi nel film, ancheggiando come solo una stronza sa fare.
Mi fermai in prossimità della porta. Mi girai di poco, infilai il pollice e l'indice in bocca e con un movimento di lingua abbinato a un soffio, fischiai fortissimo, come mio nonno mi aveva insegnato, attirando l'attenzione di molta gente. Non mi sentii a disagio, guardai Magalì e le dissi seria e brusca “Portami una bottiglia di assenzio, sono qui fuori” ed uscii. Senza ripensamenti.

Appena fui uscita, scoppiai a piangere come una sciocca.
Piansi il pianto di una bambina ma con la foga di un adulto, con i singhiozzi possenti che si incastravano nella gola. Gli occhi freddi e lacrimosi, le labbra gelate e socchiuse.
Non credevo che bisognasse fare una scenata per attirare l'attenzione delle persone e mentre mi allontanavo quella sera, non potei fare a meno di pensare ancora una volta, non potei non chiedermi perché ogni volta che me ne andavo, nessuno mi seguiva. Perché mi lasciavano sempre andare via?
A un certo punto, con gli occhi ancora pieni di lacrime, sorrisi e scoppiai a ridere sguaiatamente, continuando comunque a piangere finché qualcuno non spinse la porta del pub.
Mi girai di spalle, per asciugarmi gli occhi e le guance, senza smettere di ridere, probabilmente ero già ubriaca e iniziavo a sentirmi male.
Pensai fosse Magalì con la bottiglia di Assenzio che le avevo chiesto, traballante mi girai e scoprii fosse solo Lysander.
Mi fissò con un cipiglio serio e attento.
Avevo improvvisamente caldo, e non era di certo per lo sguardo severo di Lysander sulla mia figura. Avevo caldo nonostante il cappotto leggero e la fronte mi bruciava, così come lo stomaco e i polmoni.
“Sembri davvero molto scoraggiata” mi interpellò Lysander.
Risi. “Lo sono”.
Lui sembrò improvvisamente colto di sorpresa. Come se si aspettasse un patetico e lacrimante “sto benissimo”.
Le persone dicono sempre di stare bene ed ero stufa delle persone che stanno bene, sempre bene, sempre e solo bene.
“Se sto in silenzio nemmeno se ne accorge” esordii.
“Chi?”
“Mia sorella” scossi il capo e presi a guardarmi intorno. “Giselle”
“Non è possibile, Elena” replicò contrariato. “E' praticamente impossibile pensare che qualcuno potrebbe non accorgersi di te”
Risi ancor più forte. “Avevo quattordici anni, Lysander. Avevo quattordici anni ed ero arrabbiata moltissimo, con i miei genitori e” feci un gesto vago con la mano, come se non mi ricordassi il suo nome “Giselle”.
Dopo un pausa ripresi. “Ero molto arrabbiata e, decisi, come se vivessi in un film di una piccola e lentigginosa Lindsay Lohan di fare uno sciopero. Decisi per quello della parola”
“Creativo, sei così magra che puntavo a quello della fame”
“No” bofonchiai sgranando gli occhi. “Stetti zitta per due giorni, Lysander. Stetti zitta, scioperai per poco più di 48 ore, quindi in realtà sarebbero quasi tre i giorni”
Attesi di scorgere una qualche reazione da parte sua. “Non fiatai, non parlai per più di 48 ore e nessuno se ne accorse. Né Giselle, né mio padre, né mia madre. Erano tutti così presi da sé stessi o da Giselle, che non se ne erano accorti. Quando parlai per la prima volta, interrompendo lo sciopero, mia madre mi interruppe quattro parole dopo e sai che mi disse?” domandai.
Lysander scosse il capo.
“Zitta un po', parli sempre tu” imitai la voce di mia madre eccellentemente. “E chiese a Giselle come fosse andato il test di algebra”.
Lysander si schiarì la voce, deglutendo due volte prima di riprendere a parlare. “Gliene hai più parlato? Ai tuoi o a Giselle?”
“No” risposi prontamente prima di ridere di nuovo. “Che senso ha? Che senso ha fare uno sciopero della parola, se la gente nemmeno se ne accorge?”
Lysander annuii e borbottò qualcosa. “Sono degli ipocriti, mi dispiace. Sto parlando dei tuoi genitori e di Giselle, ma è tutto così, così, così. Non lo so. Se succedesse oggi, o domani, o tra una settimana, sarebbe così… così-”
“Utopico?” gli venni incontro con un sorriso sincero sulle labbra interrompendolo.
“Distopico” replicò lui e ricambiò il mio sorriso ebbro.
Mi animai un poco, pensando a quanto sarei stata male a poco e a quanto pare, i frutti dei miei errori si stavano già facendo sentire a giudicare dal bruciore alla fronte, allo stomaco e ai polmoni.
“Non c'è mai stata per me” e il fatto che ciò mi ferisse, mi faceva sentire così debole.
“Cerca di capirla” pensai che Lysander stesse per difenderla, ma “ha dovuto scegliere tra esserci e essere” disse semplicemente.
“Ha fatto la scelta giusta, allora” azzardai sorridendogli mesta.
“Non credo, non è riuscita né ad esserci né ad essere” fece di rimando.
Pensai al calore del pub e tirai fuori dalla borsa dei guanti di lana blu. La testa mi girava e le tempie pregavano soccorso per il dolore. “Devo andare” emanai con tono solenne, staccandomi dal muro e guardando la strada solitaria.
Improvvisamente Lysander si fece ansioso e aggrottando la fronte mi parlò come se fossi una bambina capricciosa. “E per dove, di grazia?”
“Non lo so ancora. La notte fa troppo chiasso nonostante si spengano le luci, sarà qualcosa di invisibile che si vuole far sentire, rendere visibile” esclamai rammaricata.
Lysander non si fece confuso, più che altro interessato alle mie follie notturne da ubriaca. “Vuoi vagabondare per tutta la notte per cercare cosa renda rumorosa la notte?” si informò quindi.
“Tu vuoi aiutarmi” conclusi, non rispondendo alla sua domanda.
“E' una domanda?”
“No. Tu vuoi aiutarmi, ma io voglio cercarla da sola” mugolai, prima di mettermi la borsa in spalla ed iniziare a camminare nella direzione apposta a casa mia.
“Sì? E dove ci rincontreremo?” urlò rincorrendomi.
Mi fermai di colpo, arrossata e barcollante.“Tu vuoi ricontrarmi?”
“Certo. Come farò a sapere se l'hai trovato o no?” domandò seriamente. Pensai fosse bravo a trattare con gli ubriachi.
Sorrisi. “L'utopia è il luogo dove ci rincontreremo” e me andai.


Vagabondai per tutta la notte a piedi, sorridendo agli estranei e cantando alla luna. Pensai al freddo e a quanto mi mancassero le notti d'estate, quelle gonfie di sesso anche se l'aria è spessa e pesante. Pensai al sesso d'estate, con le lenzuola grondanti di sudore e ai colli bagnati e, a quanto mi sarebbe piaciuto farlo sul materasso ad acqua che avevo a casa dei miei genitori con Andreas e mi immaginai le sue mosse fameliche e il suo sguardo greve.
Una strana sensazione di angoscia sembrava appesantirmi ad ogni passo, le ossa sembravano invece muoversi per conto loro, nonostante ciò, continuai a camminare roboticamente.
C'era qualcosa nelle stazioni che mi aveva sempre affascinata. Non erano come gli aeroporti dove ogni angolo era un teatro drammatico di addii commuoventi e ultimi baci. Le stazioni erano un posto per persone sole e, a riempire l'aria c'era sempre un fumo di nostalgia che mi si appiccicava addosso, stringendomi in una morsa affettuosa. Non cambiava nulla, se si trattava di una stazioni dei treni, degli autobus o della metro.
Scesi le scale ripide di una fermata centrale della metropolitana, una stazione, dove scavalcai i tornelli come un adolescente ribelle che pensa ancora ai voti in geometria. Mi sedetti per terra, senza superare la linea gialla e decisi di scrivere una lettera ad Andreas. Dieci minuti dopo era un poema che non rispettava alcuna regola di sintassi.
Venti minuti dopo stavo vomitando di tutto sui binari della metro, oltre la linea gialla. Invece di pensare alla mia stupidità e alla pessima scelta di qualche ore fa in fatto di superalcolici, pensai che se scivolavo e cadevo, sarei morta in modo davvero disgusto, con il mio vomito e il cuore spezzato.
Emettei un gemito di dolore e chiusi gli occhi strizzando forte le palpebre, come se chiudendo gli occhi, potevo cancellare il dolore che mi attanagliava. Un desiderio disperato di dormire e di strapparmi il ventre mi balenò per la testa.
Delle mani grandi d'artista e un corpo slanciato dal profumo intenso vennero in mio soccorso, le mani afferrarono i miei capelli e li raccolsero in fretta, scostandoli dal mio volto arrostato e contratto in una smorfia. Il corpo invece, si piegò con me, assistendo a uno spettacolo poco felice.
Quando ebbi finito, la mano di prima mi diede un fazzoletto, lo usai per pulirmi la bocca mentre il salvatore mi guardava preoccupato. “Ti riaccompagno a casa” proruppe atono.
Lo stomaco mi grugniva addosso imprecazioni, le tempie mi dolevano, la testa mi girava e un dolore ai reni mi prendeva ad intervalli regolari.
Lo fissai ammaliata. “Se avessi il coraggio ti chiederei di guardarmi, di vedermi” gli risposi, guardandolo meglio e arrossendo appena.
Lysander scosse la testa, un sorriso incerto a incorniciarli il volto. “Pensavo fossi una ragazza razionale e con i piedi per terra, poi spari certe frasi che ci resto lì” sussurrò con il respiro inquinato dalla nicotina. Ma resti lì dove?
Il ventre mi si contrasse disperato.
“Dai” spezzò il silenzio di nuovo con tono autorevole. “Ti riporto a casa, Elena”
Io alzai gli occhi prima di puntarli ovunque, tranne che su di lui. Sentii le lacrime iniziare a pungermi gli occhi come spilli e ogni stimolo percettivo esterno sempre più lontano e offuscato.
Presi un respiro profondo, come la dottoressa mi aveva insegnato, respirando a bocca aperta e cercando di scacciare via le lacrime, continuando a sbattere gli occhi.
Lo squadrai per un attimo prima di arricciare le labbra. “Se piango prometti di non dirlo a nessuno?”
 
 
 

 







 

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Capitolo 5
*** someone new ***


Cocoa butter kisses 

(5).

Someone new 

 


 



Quella mattina feci una scoperta decisamente rilevante. Gli esseri umani sono patetici. Pensai a tutte le cose che non avevo detto e fatto e lo ammisi a me stessa.
Ero un idiota, come tutto il resto della popolazione mondiale.
Abbiamo così tanta paura di dire alle persone come ci sentiamo, perché non abbiamo idea di come queste potrebbero reagire.
Non ho superato l'esame,
Penso che questa non sia solo amicizia,
Sei carino,
Ti amo,
Non puoi riprenderti quello che hai detto ed è difficile capire se poi, le cose resteranno le stesse. Così invece di correre un rischio e confessare i nostri sentimenti preferiamo sederci e tirarci indietro, prendere un respiro profondo ed aspettare che tutti i se si riuniscano nelle nostre teste e prendano un tè con con i rimorsi.
Che mi era saltato in mente quando decisi di innamorarmi di Andreas? Che senso ha innamorarsi di persone che sappiamo non avremo mai?
Con il viso ancora schiacciato contro il cuscino emettei un gemito frustrato accompagnato un gridolino esasperato.
Sentii dei rumori in corridoio con il suono dei passi cadenzati di mia sorella sulle piastrelle dell'appartamento e m’affrettai a nascondere il libro sugli artisti impressionisti che stavo consultando, chiusi poi gli occhi quasi dolorosamente, sperando di poter far finta di dormire.
Giselle ovviamente si diresse in camera nostra, dove la porta era socchiusa e accese la luce. Spinse l'uscio quanto bastava per affacciarsi e guardarmi da lì, da lontano.
“Hey” sussurrò.
Nessuna risposta.
“Elena?!” strillò quasi.
Mi schiacciai gli occhi con le dita e grugnii. “Sto dormendo”
“Con una mano che preme sugli occhi?” domandò sarcasticamente.
“Sto pretendendo di dormire, lo so che è un duro colpo, ma puoi lasciarmelo fare?”
Giselle ovviamente mi ignorò e zampettò fino al mio letto, appoggiò una tazza fumante sul mio comodino e si sedette accanto a me. Stanca del giochetto, aprii gli occhi e li puntai nei suoi, a pochi centimetri dai miei.
Lei mi rivolse un sorriso cordiale, prima di allungarsi verso il mio comodino, aprire il primo cassetto ed estrarne una boccetta di smalto.
“Che è successo ieri, Elle?” mi chiese lentamente. Non sembrava arrabbiata, ma sinceramente preoccupata.
Mi stupii e mi sentii ridicola, cattiva e meschina. Mi indispettii, era difficile avercela con una persona che si preoccupava per me e così finii per rattristarmi, oramai ero diventata titolare del mio crollare a testa bassa.
“Scusami” tentai. “Non ero... In me” e tossii.
“Come stai?” chiese allarmata. “Elena, lo sai che non puoi bere alcolici” aggiunse, iniziando a dipingersi le unghie di rosa.
Mi volsi verso di lei e la guardai stralunata. “Ci tengo molto a lui, Giselle, tutto qui” sputai il rospo facilmente.
Ero solo felice che Giselle non m’avesse sentita singhiozzare e che nella sofferenza, risultavo discreta e apprezzavo, d’un tratto, la mia ricerca dell’intimità in momenti fragili come quelli.
Mia sorella annuii assente fissando un punto sulle pareti. “Mi piace molto, non rovinerò tutto come credi tu” dichiarò con aria arcigna.
“Tu non sai tenere nulla sotto controllo” constatai, come per ricordarle che la conoscevo, io.
Lei sbuffò, accertandosi che le unghie fossero perfettamente laccate prima di rivolgersi a me.  “Andreas mi ha detto che sei... Tipo la sua migliore amica” borbottò. “E io voglio diventare la sua ragazza e non mi fermerai solo perché temi che possa rovinare tutto” insinuò.
Giselle era decisamente diversa da me, lei si buttava a capofitto in tutto, io fissavo la vita scorrere come un osservatore passivo.
La cosa che stonava tra me e Giselle era la dissonanza. Tutto, sin dal primo istante, s’è trovato fuori armonia, senza nessuna voglia di rimettersi a posto, senza sapere nemmeno trovare la sua giusta coordinata nell’itinerario delle nostre esistenze. Lei aveva una straordinaria totalizzante voglia, voglia di qualunque cosa: parole, attenzione, certezze, tenerezze, sesso e amore.
Io invece, al massimo volevo la consolazione, fuggire da situazioni soffocanti, da una vita che avevo scelto con la massima cura e risultava comunque disorganizzata e compromessa.
Mi sono ritrovata nell’abisso spaventoso dell’essere umano vuoto e fragile, pronto a farsi riempire da qualunque gesto, da una parola detta con più dolcezza, da una notte di sonno vicini.
“Lui non fa per te” dissi decidendo di tagliare la testa al toro, evitando di guardarla.
Giselle socchiuse gli occhi.
“Sai quel è la cosa più assurda?” esclamò e con un balzo fu in piedi. “Io penso esattamente il contrario, è diverso da tutti quelli che conosco e che ho frequentato e mi piace da matti” si leccò le labbra e sorrise.
“Non puoi tenere sempre tutto sotto controllo, Elena. E' come stringere fra le mani un mucchio di sabbia: qualche granello fra le dita sfugge sempre” aggiunse sorridendomi dolcemente.
Giselle rimase in attesa di una replica che non arrivò. Restava in piedi, a guardarmi come una brava sorella con la sua vestaglia di Victoria's Secret rosa shocking e con le pantofole a forma di coniglio
“Ieri, non appena sei andata via, Lysander ti ha seguita” disse soltanto, poco dopo.
Sbirciai la sua figura per un secondo, prima di rimettermi la mano sugli occhi. “Gentile” biascicai solamente.
“Solo?”
La fissai stranita.
“Solo gentile? Se avessi visto prima lui, avrei accantonato sicuramente Andreas” ammise incrociando critica e pensosa le braccia al petto.
Tirai le labbra e presi un grande respiro. “E' molto bello, se è quello che intendi” ansimai quasi, ricordando la sera precedente.
Giselle spalancò gli occhi e bocca emettendo un fischio prolungato e monocorde. “Molto bello? E' probabilmente il ragazzo più bello che abbia mai visto, è abbagliante” rispose elettrizzandosi.
“Ma a te non piaceva Andreas?” quasi l'aggredii.
Lei annuii. “Certo, ma gli occhi li ho comunque”
Emettei un verso. “Non mi va di parlare di Lysander” biascicai con la bocca ancora impastata dal sonno.
“E perchè?” gli occhi di Giselle si illuminarono. “Io parlerei di lui tutto il giorno” disse maliziosa prima di farmi l'occhiolino.
Prima che potessi lagnarmi, Giselle aveva lasciato la stanza, ma riuscivo ancora a sentirla parlare, "...I suoi occhi! E dio, le sue mani, chissà cosa sa fare con quelle sue bellissime dita affusolate! E le sue gambe, e i suoi capelli saranno morbidi da stringere?".
L'ignorai e filai in bagno, prelevai un elastico dal mio beauty case e raccolsi i miei lunghi capelli annodandoli più volte dietro la nuca in uno chignon disordinato, come se mi preparassi a una battaglia.
Guardai il mio riflesso cupo allo specchio, prima di gettarmi l'acqua fredda sul volto e pensare che tutto sommato, oggi era un altro giorno e Andreas poteva ancora accorgersi che Giselle era una demente e che io era la donna adatta per lui.
 
 
Non cercai nessuno per tutto il giorno, non mi scusai né con Andreas né con Lysander, volendo aspettare il momento giusto.
Quando entrai nel Psychoholic quella sera, ero armata.
Indossavo il miglior paio di skinny-jeans a vita alta che avessi e che secondo Lola mi facevano “un culo da paura” e una camicia corta che arrivava a coprire metà addome, era color cipria e aveva una scollatura generosa. Mi pettinai nel modo più adeguato ritenessi e quando entrai, gioii nel vedere Andreas tentare di non sobbalzare.
Camminai nella sua direzione e lo guardai fare in modo di sembrare non curante. “Hey” sibilai, prima ti togliermi il cappotto ed appoggiarlo sullo sgabello accanto al suo.
Andreas annuì, sentendo l'ansia salirgli alla gola. “Perché stai annuendo?” gli chiesi allora sorridendo.
Andreas scosse la testa, restando muto e sembrando più stupido di quello che fosse.
“Andreas, finiscila” arricciai il naso e alzai un sopracciglio. “Volevo solo scusarmi per il mio comportamento dell'altra sera”
Andreas osservò attentamente le trame della mia camicia e le mie gambe strette negli skinny jeans.
“Ero arrabbiata con Giselle, lei tende... A invadere un po' i territori altrui” spiegai gesticolando.
Andreas tossicchiò e cambiò posizione tre volte, indeciso persino su come restare in piedi e come posizionare le sue mani e le sue braccia.
“Vedendola al tuo fianco ho pensato infantilmente che ti gravitasse attorno solo per infastidirmi. Le ho parlato, le piaci molto” continuai a illustrare, ma non c'era verso.
“Andreas!” strillai. “Puoi dire qualcosa?”
Andreas sobbalzò sul posto, poi sorrise e “Sei bellissima” mugugnò timidamente prima di abbracciarmi, facendomi sorridere a mia volta.
Quando ci staccammo, mi appoggiai al bancone con i gomiti, in modo da offrirgli una buona visuale del mio fondoschiena da dieci e lode. Iniziai a battere le mani sulla superficie di legno, impaziente di mangiucchiare qualcosa.
Quando finalmente Magalì esaudì il mio desiderio, iniziai a ingozzarmi di arachidi e crostini, ignorando le olive. Le detestavo.
Andreas ne prese una e con un gesto che trovai mortalmente sensuale ne gettò una nella sua bocca rossa ed iniziò a masticarla guardandomi intensamente negli occhi, come se volesse provocarmi. Cosa avesse nel cervello quel ragazzo rimarrà per sempre un mistero.
L'arrivo di Lola e Connor spezzò il momento e l'aria tesa che era andata a crearsi.
Lola era imbottigliata in un vestito che sembrava esser fatto di carta pesta, di un verde traslucido, ma era comunque bellissima.
La salutai affettuosamente mentre lei mi abbracciava gioiosa, mi lanciò un'occhiata eloquente, dopo aver notato i miei jeans e la presenza non casuale di Andreas.
Connor invece indossava dei jeans chiari, abbinati a una camicia color panna arrotolata sui gomiti, un gilet scuro e un papillon rosso a pois bianchi. Gli schioccai un bacio rumoroso sulla guancia e gli chiesi di Rhett. “Gli uomini sono dei coglioni” si limitò a spiegare, facendo ridacchiare Lola e Andreas.
Iniziammo allegramente a bere, o almeno, loro bevevano birra ordinando caraffe in modo tale da potersi servire da soli. Io sorridevo al mio frullato ai frutti di bosco sentendo i racconti strampalati sul dentista di Lola che secondo Connor si era preso una cotta per lui.
Ogni volta che la caraffa di birra si esauriva, Lola provvedeva immediatamente a ordinarne una successiva.
Così come facevo io con i salatini e le pizzette.
Ogni tanto Magalì sorridendomi come una gatta mi portava delle patatine fritte che vietava ad Andreas a mangiare.
Lysander arrivò quando Lola mi sfidò ad infilare sette mini hot-dog in bocca. Camminava verso di noi con una mano tra i capelli, infilato in un paio di jeans che sembravano gridare “toglici” e un giubbotto blu scuro.
“Lysander!” strillò Lola sopraeccitata e già ubriaca. “Sei bello come il sole” lo informò facendolo ridacchiare.
“Buonasera Lola” la salutò lui. “Quanto hai bevuto?”
“Molto!” urlò come una matta. “Ma che sei bello lo penso anche da sobria, davvero. Ti posso dedicare un poesia? Io ti vorrei davvero scop-”
Cercai di tapparle la bocca lanciandomi su di lei prima che potesse dire altre stupidaggini di cui il mattino dopo si sarebbe pentita.
Mi ritrovai semi coricata sul suo sofà giallo ocra con il fondoschiena per aria a cercare di calmarla mentre lei sotto di me si dimenava ridendo.
“Dai, Elle” mi spronò a parlare tra i risolini. “Non lo scriveresti anche tu un poema sulle sue gambe? Sulla sua faccia? Sul suo cul-”
“Lola!” strillai, mentre i ragazzi accanto a noi ridevano allegramente.
“Bel culo, Elena” si complimentò Connor con un fischio facendomi arrossire.
Poi si girò verso Lysander che nel frattempo si era seduto accanto al mio sofà e gli sorride sardonico. “Per carità, a me piace moltissimo anche il tuo culo” gli fece sapere.
Lysander annuì come se gli avesse chiesto cosa ne pensasse della situazione drammatica del medio-oriente. “Grazie, Connor” disse semplicemente prima di aggrottare la fronte. “Ma io preferisco il suo” e mi indicò.
Per un secondo finii in un universo parallelo, in un film mentale a luci rosse che iniziava dalla mano di Lysander; la sua bella mano, sul mio sedere.
Andreas iniziò a tossire come un tossico-dipendente e questo mi riscosse dai miei viaggi mentali vietati ai minori, quando mi rialzai da Lola che continuava ad intonare “sei bellissimo!”, vidi Andreas ancora rosso come una tredicenne che incontra per la prima volta il suo idolo Justin Bieber.
Quando mezz'ora dopo Lysander disse di voler uscire per fumarsi una sigaretta, decisi di seguirlo per scusarmi una volta per tutte.
Appena fui fuori dal locale, lo trovai nell'intento di accendersi una sigaretta. Quando alzò gli occhi verso di me, trovai il suo sguardo di natura quasi felina.
Sotto ai lampioni glielo dissi. “Sembri un gatto” constatai, prima di rettificare. “Eri un gatto in una vita precedente?”
“Forse” rispose e fece finta di considerare l'ipotesi. “Ho sempre pensato che sarei stato molto bravo a nascondermi sotto ai mobili e a defecare in una scatola”
Espirai e dopo aver esibito una smorfia disgustata gli mostrai l'ombra di un sorriso.
“Sii serio” replicai quindi, stringendomi le braccia al petto.
“Meow” miagolò e non potei fare a meno di scoppiare a ridere, sorrise anche lui. Ma quando ci zittimmo fu difficile prendere la parola
e scusarmi, ma lo feci comunque.
“Non devi scusarti, capita” provò a tranquillizzarmi.
“Non cercare di farmi sentire meglio, mi sono comportata come una stupida” sbottai aggrottando la fronte. “Spero di non aver detto nulla di sconveniente”
Lysander allora rise. “Sconveniente? Mi hai parlato del perché secondo te Hegel è un ciarlatano e delle teorie di Schopenhauer” spiegò facendomi arrossire come una bambina.
“Poi mi hai parlato della tua bambola che Giselle da bambina ti ha distrutto e mi hai mostrato una foto, che tieni nel portafoglio, dove la stringi sorridendo con un paio di denti in meno del lecito” continuò. “Hai definito Orwell un genio e hai elencato i motivi per cui dovremmo tutti mangiare più legumi, poi mi hai parlato di Victor Hugo e descritto la trama de I Miserabili in francese, poi sempre in francese mi hai descritto un paio di ricette di dolci” quando terminò avrei voluto sotterrarmi.
“Perché a un tratto Lola sembra meno imbarazzante?” tentai di sdrammatizzare, ma lui mi gettò uno sguardo scuro che mi impedì di sorridere. Si era fatto improvvisamente serio.
“Perché sei qui, Elena?”
Non mi feci intimorire. “Perché diciannove anni fa, uno degli spermatozoi di mio padre fu più fortunato degli altri fratelli?”
Lysander sorrise. “Rientra dentro, Elena. Sei senza cappotto”
Annuii d'accordo e mentre spingevo la porta mi accorsi che lui non mi stava seguendo. “E tu? Non rientri?”
Lysander scosse la testa. “Rhett e un altro amico mi hanno chiesto di raggiungerli” mi informò. "Questa luce ti dona" osservò poi, indicandomi con lo sguardo il lampione sotto cui eravamo. 
Gli sorrisi entusiasta e scherzosamente imitai una posa Vogue che gli fece scappare una risatina. "Sono una top model in incognito per conto di Tyra Banks, il programma andrà in onda su Fox a Maggio" scherzai guadagnandomi una spintarella allegra da parte sua.
"Sei completamente fuori, Elena Jordan" commentò la mia posa d'altamoda con una smorfia scettica e una sigaretta sgualcita tra i denti.
“Buonanotte, allora” gli augurai atona. La bolla d'allegria sembrò spezzarsi. 
“Buonanotte, Elena” mi restituì l’augurio senza sorridere o esibire un’espressione particolare.
Mentre spingevo la porta, mi ricordai di chiedergli una cosa. “E se ti cerco?” domandai.
Lui mi guardò con stupore e mi sorrise con dolcezza. “E se mi cerchi sono nei guai” replicò strappandomi una risata.

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Capitolo 6
*** utopia ***


Cocoa butter kisses

(6).

Utopia


 





 

 

“Quindi, hai lasciato l'Hampshire per trasferirti qui?” mi chiese Andreas sorseggiando una cioccolata calda.
“So che ti può sembrare stupido, ma qui mi piace. E' stata la prima città che ho sentito davvero mia, non fraintendermi Londra è bellissima, ma sono nata a Parigi e le città troppo caotiche non fanno per me. Quando a cinque anni ci siamo trasferiti nello Hampshire non mi è dispiaciuto più di tanto, nonostante porti Parigi nel cuore” spiegai, tentando di reprimere la voglia di fargli altrettante domande personali.
Andreas mi aveva mandato un messaggio due ore prima, chiedendomi un appuntamento pomeridiano allo Psychoholic. Ero in biblioteca al momento del messaggio e reprimere la voglia di gridare non appena Andreas mi aveva scritto fu più dura di quanto sembrasse.
Pensai volesse riallacciare i rapporti, dato che da quando aveva iniziato a frequentarsi con Giselle non eravamo più usciti da soli.
L'avevo trovato seduto a un tavolino con lo sguardo immerso in un fumetto coloratissimo. Sembrava stesse leggendo una cosa di mortale importanza, come se fosse la Dichiarazione dei Diritti del Cittadino.
Indossava una felpa che un tempo magari era stata blu, ma dopo dei lavaggi per nulla soddisfacenti, ora era di un azzurro scialbo.
“Elena” mi richiamò con un sorriso incerto stampato sul volto.
Tossicchiai in imbarazzo e con un gesto della mano lo invitai a parlare.
“Se ti ho invitata qui... C'è un motivo” bofonchiò stringendosi nelle spalle, con un evidente segno di disagio.
Lo guardai con scetticismo, mentre il mio cuore iniziava a battere in modo anomalo; vergognosamente patetico. “Quale?” domandai con la gola improvvisamente secca.
“Giselle” borbottò, dicendomi tutto e niente.
Giselle? Giselle cosa? Vi volete sposare? Lasciare? La odi? La ami?
“Che succede con mia sorella?” borbottai sbadigliando.
Andreas si fece improvvisamente pensieroso. Balbettò qualcosa prima di sospirare. “Le devi lasciare il tuo studio” disse infine corrugando la fronte.
Scoppiai a ridere. “C-Cosa?” quasi gridai, facendo voltare Magalì con un sopracciglio scuro innalzato e l'espressione insofferente.
“Stai scherzando, vero?” protestai senza parole. Perfetto, mia sorella aveva deviato il cervello dell'uomo della mia vita.
Andreas sbuffò con un gli occhi incattiviti dal mio commento. Si allungò sulla sedia e mi rivolse uno sguardo di sufficienza. “Farei di tutto per te” esclamò senza nemmeno troppo entusiasmo.
“Farei di tutto per te” ripeté con lo sguardo sempre più austero. “Che ti costa ricambiarmi?”
Bene, avrei voluto dirgli, allora lascia mia sorella e partiamo per il Giappone come ci eravamo promessi un martedì sera dove la luna scheggiata ci sorrideva implorandoci di sfiorarci un poco.
“Mi costa, Andreas” mi lamentai, passandomi entrambi i palmi delle mani sugli occhi. “E perché diavolo me lo stai chiedendo tu?”
L'espressione del mio amico si indurì. “Perché tu hai rifiutato di parlarne con Giselle. E' molto importante per lei” mi spiegò autoritario.
“Andreas” lo richiamai serissima. “Non può chiedermelo lei, non puoi farlo tu e, prima che le venga in mente, non possono nemmeno i miei genitori” spiegai parlando lentamente, come se stessi conversando con un ragazzo soggetto a una paralisi cerebrale infantile.
“Lo so” disse semplicemente. “So che non ti interessa nessuno” sibilò malignamente.
“Andreas, non dire cose di cui potresti pentirti” lo avvisai.
Il ragazzo tamburellò con le dita sul tavolo. “Giselle me l'ha detto. Cito testualmente, se vuoi. ''A lei è sempre solo interessato della musica, dei suoi libri e di Francisco'' ecco che ha detto”.
Il solo sentire il nome di Francisco pronunciato, mi fece percepire gli organi interni rivoltarsi e implorarmi di fare lo stesso.
Strizzai gli occhi incredula. “Non ci credo che ha detto così” ribattei sarcastica. “Non dovrebbe nemmeno nominarlo e mi ferisce molto che sia lei, che tu, Andreas, lo abbiate messo in mezzo” sbottai cercando di non far caso agli occhi che sentivo inumidirsi. Mi alzai, frettolosamente, afferrando la borsa poggiata sulla terza sedia e il cappotto.
“Elena” mi chiamò cercando di fermarmi. “Elena!”
Lo ignorai e me ne andai, incerta se piangere o cacciare a calci nel sedere mia sorella via da casa mia.

 

 

 

L'aria diventava sempre più spessa e greve e, quando nei paraggi comparivano Giselle ed Andreas l'aria s'impregnava del tono gonfio dei risentimenti e quest'ultima, diventava irrespirabile.
Mi svegliavo la mattina, affetta dalla sindrome dell'abbandono, sentendo un odore che il mio naso non aveva mai percepito con l'eco di parole che non avevo mai udito. Il lenzuolo mi ricordava una notte di sesso che non avevo mai avuto e il cuscino odorava del suo shampoo nonostante non ci avesse mai poggiato il capo.
Tuttavia, non capivo come faceva ancora ad interessarmi, dopo che lui si era schierato con Giselle e dopo aver tirato fuori la questione di Francisco.
I giovedì sera ci davamo sempre appuntamento a casa mia, Andreas sedeva tra me e Giselle sul divano di casa nostra e, a turno sceglievamo un film. Giselle i più romantici, Andreas gli horror ed io i più drammatici.
I pomeriggi in biblioteca dove lui sceglieva di sedersi accanto a me diventavano asfissianti, le bevute con Rhett diventavano così melodrammatiche che avrei preferito una nottata sui libri.
Prima di addormentarmi pensavo a lui, ma la cosa mi faceva sentire così in colpa che finivo per macchiare il cuscino di lacrime trasparenti e inodori.
Il misfatto accadde quando mi arrivò un messaggio da un mittente sconosciuto, mi chiese di presentarmi a un indirizzo e mi chiamò “Elena”.
Pensai subito fosse Andreas, come se fosse ovvio, e che volesse scusarsi per lo spiacevole diverbio di alcune settimane precedenti.
Finii con il prendere in mano la situazione e il manubrio rosa della bicicletta viola di Lola e pedalare con le cuffie nelle orecchie a trasmettere la voce elettronica di Google Maps impostato per farmi da navigatore.
Arrivai con quindici minuti di ritardo, scesi dalla bicicletta quando questa sbatté contro una fontanella pubblica goffamente, e finii per poggiarla contro il muro di un negozio luminoso di elettronica.
Mi ci specchiai, guardando accigliata il mio riflesso spettinato e dalle guance imporporate.
Cercai con lo sguardo il numero civico corretto che corrispondeva a un negozietto ad angolo, la porta si trovava alla sommità di sei o sette gradini. Su uno di questi gradini, stava seduto sulla sinistra, la parte più soleggiata, Lysander con gli occhiali da sole calati sul naso. Gli davano quel tocco in più di cui poteva benissimo fare a meno.
Quando mi vide camminare verso di lui strascicando gli anfibi sul cemento, mi rimproverò con lo sguardo ancor prima di salutarmi.
Fece una smorfia quasi compiaciuta e “Sei in ritardo” constatò per niente sorpreso.
Chiuse un libro dall'aria consunta e mi fissò con quella sua aria esistenzialista. “Come hai avuto il mio numero?” chiesi anche se in realtà non mi interessava.
Lysander alzò gli occhi al cielo. “L'ho chiesto ad Andreas” rispose con fare annoiato.
Mi alterai. Fino a prova contraria era stato lui ad invitarmi lì, perché mai avrebbe dovuto fare il borioso stronzo?
“Andiamo?” domandò interrompendo senza permesso il flusso dei miei pensieri, brontolando qualcosa. Probabilmente sul fatto che gli avevo già fatto perdere abbastanza tempo.
Si alzò e notai, oltre che aveva sempre le stesse gambe chilometriche strette come carta stagnola in un paio di jeans neri, che apparivano come una seconda pelle, in più indossava un maglione grigio che gli stava dannatamente bene.
Gli stava così bene che contemplai per un secondo l'idea di sdraiarmi per terra e adorarlo dal basso del marciapiede, ma data l'occhiataccia che mi rivolse notando che non avevo nemmeno raggiunto il primo gradino, pensai non gli avrebbe fatto piacere.
Sbuffò. “Perché hai quella faccia?”
Scossi la testa. “Bel maglione, Lysander” commentai con una tranquillità che non mi apparteneva.
Lysander mi rivolse un'occhiataccia che mi fece pensare che se era sua intenzione rivolgermi altre occhiate del genere, quello sarebbe stato un pomeriggio davvero molto lungo.
L'imbarazzo era così denso e fitto che si sarebbe potuto tagliare a fettine e assaporarlo per il té delle cinque.
“Anche tu stai bene” disse semplicemente con la sua solita aria compiaciuta e sfuggente. “Ma ora basta chiacchiere” mi rimproverò ed avanzò sulla scalinata fino a spingere la porta ed entrare. Affrettai il passo e lo seguii.
“Io non ho detto che stai bene, ho solo detto che mi piac-”
“Sta' zitta” sbuffò con aria truce, irritandomi e facendomi distogliere lo sguardo da lui. Ciò che vidi mi lasciò senza parole.
Mi aveva portata ad una libreria vintage di libri usati, spaziosa ed accogliente. In un angolo c'erano delle poltroncine rosse, dall'aria antica e di velluto, dove a giudicare dai presenti ci si poteva sedere e sorseggiare caffé, té o addirittura vino, con un sottofondo di musica classica o jazz, ad un volume basso e rilassante. 
Gli scaffali di libri si susseguivano formando un labirinto di sapienza. Vecchi e nuovi libri si alternavano, divisi in reparti separati per argomenti e poi per autore. Certi libri erano così vecchi e dalle copertine così rovinate da risultare più belli ed economici.
Ero euforica come una bambina. E a giudicare dall'espressione che esibì Lysander, lui ne era molto soddisfatto.
Quasi gridai e iniziai ad esplorare ogni reparto canticchiando ringraziamenti al mio accompagnatore che mi seguiva con le mani infilate nelle tasche anteriori.
Nella destra posteriore, di tasca, aveva infilato il libriccino che stava leggendo, sbirciai il suo fondoschiena solo per leggerne il titolo. Euripide – Ifigenia in Aulide.
Spesi dieci minuti nel reparto di saggistica, ed altrettanti nel reparto di teatro. Il doppio negli scaffali assegnati ai libri di poesia e finii per implorarlo di portarmi al Bancomat più vicino per ritirare dei soldi.
Prima che potessi andare in cassa, Lysander afferrò un libro e mi trascinò verso un tavolino, dove due poltroncine rosse e vellutate ci aspettavano. Ci venne incontro una donna sulla quarantina che salutò affettuosamente Lysander.
“I signori desiderano?”
“Un bicchiere di vino. Rosso. Grazie, Camille” ordinò Lysander.
“Un bicchiere di vino rosso anche per me” gli feci eco.
Lysander mi scoccò un'occhiata perplessa come per chiedermi “non l'hai ancora imparata la lezione?”.
“Non ascoltarla, Camille” s'intromise lui. “Non ha l'età per bere alcolici”
Mi imbronciai immediatamente. Raddrizzai la schiena e incrociai le braccia sotto al seno. “Senti, di padre ne ho già uno che fa per tre” e con un sorriso da civetta mi rivolsi a Camille. “Un bicchiere di vino” mi impuntai.
Fu difficile trattenere un sorriso per Lysander. Probabilmente il fatto che mi impuntassi come una bambina atteggiandomi come un'adulta lo divertiva e lo invogliava a punzecchiarmi provocandomi. “Non darle retta, Camille, prende un succo d'arancia”.
“Forse non posso bere, ma non ho mica sette anni!” protestai aggrottando la fronte. Sorrisi nuovamente a Camille e le dissi “Prendo un espresso al ginseng”.
La donna spostò lo sguardo corrucciato da me a Lysander e poi da Lysander a me. “Avete finito? E' la vostra risposta definitiva? Sicuri sicuri?”
Quando Camille se ne andò, scoppiai a ridere sinceramente divertita, inclinando il collo poiché lo sguardo stupito di Lysander era troppo pesante da sostenere.
“Non so come ringraziarti” mi decisi a dire. “Questo... Questo posto è splendido” ammisi prima di sorridere.
Lysander annuì. “Figurati, ho pensato volessi staccare un po' dall'Inferno” scherzò senza sorridere.
“Non è proprio Inferno. Lo definirei più Limbo” sdrammatizzai ironicamente gesticolando.
Lysander poggiò le mani sulle ginocchia e alzò la schiena dalla poltrona, su cui era quasi accasciato. Si avvicinò dunque col volto a me ed inarcò un sopracciglio. “E come si sta lì?”
“Si vive bene nel Limbo, siamo tutti muti e rumorosi”
Lysander sorrise.
Lysander mi piaceva davvero e, mi veniva in mente quella storiella sulle rette parallele, vicine ma che non si scontrano mai.
Io e lui eravamo così, geometricamente predestinati a non incontrarci.
Forse, con Andreas la faccenda era simile: due rette incidenti che si sono incontrate nel momento sbagliato.
“So di Andreas” esordì a un tratto lui.
Sobbalzai e lo guardai fintamente confusa inclinando il collo.
“Ecco qui” esclamò Camille comparendo a un tratto e poggiando una coppa di vetro contenente del vino rosso e la mia tazza di caffè.
Stesi le gambe affusolate ed incrociai le caviglie, tentai di coprirmi le ginocchia con la gonna denim a bottoni che indossavo ma fu inutile. Desistetti ed alzai lo sguardo, attendendo una replica.
“So che hai una cotta per Andreas” decretò ancora. 

Saltai su. Per fortuna non avevo in mano la tazza con il caffé fumante, altrimenti avrei avuto un ricordo di quel pomeriggio molto più ustionante.
Lo guardai ad occhi spalancati. “Non essere ridicolo!” strepitai.
“Ah sì?” rise lui. “Vuoi davvero mentirmi, Elena?”
Afferrai una rivista Vogue e ci nascosi dietro la faccia. La tenni in posizione finché Lysander non me la strappò via ridendo. “Era al contrario” si giustificò prima di rimetterla sull'altro tavolino.
“Andreas sta insieme a mia sorella” lo rimbeccai, con una leggera tachicardia. 
“No” mi fermò lui. “Andreas sta insieme alla Supersnob” mi corresse.
Gli rifilai un'occhiataccia. “Non è affatto una snob!” protestai.
“Per Dio se lo è”
“Non lo è!”
“E invece sì. La regina. E' la regina delle Supersnob”
Lo guardai parlarmi annoiato di mia sorella, non sembrando toccato per l'appunto dal fatto che Giselle fosse mi sorella.
“Non la conosci nemmeno, mia sorella” ci tenni a specificare.
Lysander sbuffò per l'ennesima volta e non disse nulla per un paio di secondi. “Per Dio se la conosco!” si difese.
“La smetti di nominare Dio, non distrarlo, penso abbia di meglio da fare che ascoltare la nostra conversazione” protestai debolmente gesticolando furiosamente.
Lui spalancò la bocca apparentemente scandalizzato. “Non essere blasfema, signorina!” commentò ironizzando.
Ridacchiai. “Se la conosci, qual'è il suo nome di battesimo? Nome intero” chiesi sorridendo sadicamente.
Lysander parve rifletterci. “Giselle. Giselle la Supersnob”
Mi zittii allibita dalla sua infantilità e non gli rivelai il suo nome intero. “Perché la detesti?”
Lysander rise. “La detesti anche tu”
 sospirò ed incrociò le braccia, assumendo la tipica espressione di chi vuol dimostrare l’ovvietà delle motivazioni che guidano le proprie azioni.
Boccheggiai basita e senza parole. “Questo non è vero. Io non la odio” chiarii dopo essere arrossita.
Lysander inarcò un sopracciglio e sospirò. “Okay, tutti e due la detestiamo, ma solo io ho il coraggio di ammetterlo”
Ridacchiai divertita scuotendo la testa e presi un sorso del mio caffè.
“Se fosse bella almeno la metà di quello che lei crede, sarebbe già fortunata” la criticò sorseggiando il vino con la fronte aggrottata.
“Tu invece le piaci” fu la mia risposta timorosa di fronte al suo atteggiamento agguerrito.
“Capirai” scandì annoiato. 
“Però pensa che tu sia un borioso arrogante so-tutto-io” aggiunsi ridacchiando.
Lysander spalancò la bocca oltraggiato, trafitto nel profondo. Ovviamente non lo diede a vede. “Quanto mi dispiace. Mi metterei a piangere, guarda” commentò facendomi sorridere.
Un bambino.
“Compiango quel poveretto di Andreas che si deve sorbire le sue diete a base di ossigeno e grissini formato neonati” disse comunque.
Sbuffai. “Per questo dici che è una snob?” domandai con rammarico.
Lysander quasi mi trafisse con lo sguardo. “Lo dico perché ti tratta come un burattino e tratta così anche un mio carissimo amico. So della storia della camera da letto. E dico che è una snob perché dice che in casa nostra ci sono troppo libri. Ti sembra una cosa da dire? Ha fatto una smorfia e ha detto che c'erano troppo libri in casa nostra, quella è matta e snob, dato che non voleva assaggiare il cous-cous che avevo cucinato, perché lei le cose africane non le mangia. Ha proprio detto così. Cose africane. Poi è scesa da Mc Donald's. Non è neanche snob, hai ragione. E' solo cretina”
Scoppiai a ridere e non provai neanche a difenderla, gli chiesi solo di provare a rivalutarla.
“Perché non l'hai detto subito ad Andreas?” domandò come se stesse riflettendo ad alta voce. Non ci fu bisogno di chiedergli cosa.
“Perché sarebbe stato inutile, Giselle gli piace, più di me” dissi francamente senza imbarazzarmi.
“Non te ne penti?” mi chiese a bruciapelo.
“No” azzardai. “Mi piace pensare che quando ci siamo incontrati era il momento sbagliato, doveva succedere molto prima o molto dopo. C'è stato un errore, deve esserci stata qualche confusione di date lassù” spiegai e puntai il dito verso il soffitto.
Lysander rimase immobile con le labbra contratte e arricciate.
“Mi era chiaro che esistesse, anche prima di conoscerlo. Sapevo che c'era, ma non sapevo dove” ammisi, sapendo di poter fare la figura della folle. “Non posso darti altre spiegazioni, non le ho neanche io” m'impuntai.
“Tu lo ami” constatò finendo il vino.
Scossi la testa. “Ci vuole talento per chiamarlo amore” gli confessai, facendolo sbuffare.
Decisi di cambiare atteggiamento e risposta per farlo contento. “Forse, probabilmente” annuii. “Da quando ho memoria di me, io l'ho cercato”
“L'hai trovato per prima” constatò Lysander.
“Sì, ma l'ha preso prima Giselle” gli feci notare.
Pagammo il conto e i libri e nonostante mi fossi impuntata per pagare la mia parte, Lysander fu più autorevole.
Usciti lo ringraziai di nuovo. Mentre scendevo con Lysander affianco le scale gli dissi che gli dovevo un luogo speciale.
“In che senso?” domandò confuso.
“Nel senso che forse la prossima volta potrei decidere io dove andare”
Lysander sorrise ed annuì.
Sul marciapiede rivolsi un'occhiata alla libreria che ci eravamo lasciati alle spalle. Sgranai gli occhi e rilessi più e più volte l'insegna cupa e polverosa della libreria.
“Utopia” lessi ad alta voce prima di tornare a guardare il ragazzo.
“Utopia” ripetei.
“Se lo ripeti il nome non cambia” mi prese in giro dondolando sui piedi.
“Tu ti sei ricord-”
“L'hai detto tu” mi accusò quasi. “L'utopia è il luogo in cui ci rincontreremo” detto ciò mi rivolse un'occhiata che mi avrebbe perseguitate per tutte le mie future notti insonni, senza sorridere e senza un cenno, mi diede le spalle e se ne andò.
Mentre se ne andava pensai che il problema delle rette parallele è che non riescono a smettersi a guardarsi.

 

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Capitolo 7
*** still the wrong time ***


Cocoa butter kisses 
(7).

Still the wrong time.


 






Avevo sempre adorato spazzolare per ore i miei lunghi, scuri e ondulati capelli: mi ricordava quel piccolo momento di felicità che mia madre mi dedicava ogni mattina, da bambina.
Negli ultimi tempi, però, avevo dovuto ridurre drasticamente quel rituale così gradevole poiché Giselle, con la quale dividevo il bagno, si metteva a battere i piedi, strillando che quella era anche casa sua e che io non avevo il diritto di farmi i miei comodi, dato che il diritto di precedenza nell’uso del bagno apparteneva a lei, la regina della casa.
Quella mattina, perciò, per non sentire le urla dell’altra, avevo ben pensato di pettinarmi in quella che era stata adibita a studio, ma che in passato era stata una stireria: una stanzetta piccola e angusta che avevo cercato di rendere il più vivibile e accogliente possibile con i pochi soldi che avanzavano dalle spese mensili.
L’unico lusso che vantava era un paravento in seta persiana, decorato con motivi floreali, appartenuto a chissà chi ed acquistato per una sciocchezza da Jim Borrow, un camionista che guidava furgoni da trasloco che si poteva tenere tutto ciò che i proprietari non desideravano trasferire.
Fatto sta, che dietro al paravento, c’era un vecchio specchio e una vecchia poltrona trascinata dal soggiorno.
Lì avrei riniziato la mia routine e riflettuto sulla piega che stava prendendo la mia vita.
Non buona, pensai banalmente, riflettendo su Andreas. Ogni notte riaccompagnava a casa Giselle, poi sul pianerottolo le dava il bacio della buonanotte e mi sentivo rodere tutti gli organi interni, osservandoli dallo spionicino.



Andreas, un paio di settimane dopo il nostro ombroso litigio, si appostò sotto casa mia, senza alcun avvertimento.
Quando lo incrociai davanti al portone, con il mio giornale in mano e un sorriso incerto sul volto, capii immediatamente che non cercava Giselle. Cercava me.
“Che vuoi?” partii subito in medias res, per evitare giri di parole.
Andreas balbettò qualcosa in una lingua a me incomprensibile.
“Che stai dicendo?” gracidai, non intenzionata a perdere altro tempo.
Andreas, intrappolato in una felpa sportiva senza cappuccio, tese una mano verso il mio viso, intenzionato a sfiorarmi la guancia destra. Mi scostai prima che mi toccasse e con un gesto rude scacciai via la sua mano con la mia.
Andreas la ritirò via scottato. “Sei la mia migliore amica” tentò, pallido e sconvolto. Non si aspettava una presa di posizione come quella.
Lo guardai in volto, rattristita e depressa. Ero così innamorata di lui che mi doleva ogni muscolo o osso solo a guardarlo.
Mi stava difronte in piedi e io mi domandavo come facesse. Non sentiva le gambe tremare e le mani prudere? Gli occhi pungere e la testa girare?
No, lui era lì, in piedi e a suo agio come se non avesse alcun grillo per la testa e anziché baciarlo, desideravo solo schiaffeggiarlo forte.
“Lo so” replicai senza battere ciglio e feci per andarmene, non calcolando il suo piede. Inciampai.
“Stai attenta” m’avvisò un attimo prima di prendermi la vita con entrambe le mani e spostarla di peso per quasi mezzo metro, salvandomi dallo scontro con il vialetto.
Quella presa improvvisa, forte e determinata sui fianchi, fu l’equivalente di una scossa elettrica presa da una presa quando si è a piedi nudi e con i capelli bagnati. M’aggrappai immediatamente ai suoi avambracci sperando che Andreas continuasse a sorreggermi almeno finché le mie facoltà mentali non avrebbero ripreso il corretto funzionamento.
“Grazie” riuscii a dire timidamente e tremolante.
Il fatto che continuasse a gravitarmi attorno come un pianeta attorno al Sole, non faceva altro se non rendermi più frustrata.
Nella mia mente si divaricavano due strade; una mi faceva sperare che tenesse a me in modo intenso e profondo, l'altra mi avvisava che lo faceva solo per mia sorella.
E ciò mi rendeva sempre più miserabile.
Andreas sospirò sorridendo. “Sei proprio maldestra” grugnì.
Arrossii violentemente, prima di schiarirmi la voce e staccarmi lentamente da lui. Pensai al nostro primo abbraccio e alle nostre prime carezze, con i movimenti scoordinati al nostro respiro pesante nel garage polveroso e buio, abbastanza buio da non vederci arrossire e tremare.
“Mi piacerebbe pensare a cosa stai pensando” disse. Il tono ironico mi diede un capogiro.
“N-Nulla” farfugliai.
Andreas mi mise una mano sulla schiena e mi guidò via, percorrendo il marciapiede con un passo leggero tipicamente suo.
“Rilassati. Allontana da te ogni altro pensiero. Lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell’indistinto” e detto ciò, Andreas sfilò dalla tracolla beige che portava alla spalla un foulard che riconobbi come mio. Prima che potessi fiatare me lo legò intorno al capo, comprendomi gli occhi e privandomi di un senso fondamentale: la vista.
“Fidati di me e lasciati guidare” mormorò. Mi prese per mano ed iniziò a correre.
Quella situazione era così ridicola che iniziai a ridere sommessamente e a seguirlo nella sua corsa cieca. Più cieca anche della mia.
Le gambe si muovevano fluide in un percorso che non conoscevano, ma anziché essere titubanti, erano più eletrizzate e temerarie di quanto mi aspettassi.
Corremmo finché Andreas non mi fermò ed iniziò a scendere delle scale che riconobbi come quelle della metropolitana. Mi fece scavalcare il tornello della metro tra le risate e gli insulti biascicati dalla mia bocca impastata e ansante.
Andreas non la finiva più di ridere. Quando salimmo in metro, mi sentii sballottata un po’ ovunque, nonostante il mio accompagnatore incline all’ilarità avesse poggiato la mano su una superficie d’appoggio. Sentii un violinista iniziare a suonare il suo strumento interpretando una canzone di Taylor Swift di cui non ricordavo né il testo né il titolo.
Quando la metro partii, rischiai di cadere all’indietro, tuttavia anziché incontrare il suolo, finii addosso a una persona. Una donna giovane a giudicare dall’odore, dalla presa e dalle risatine. Mugugnai qualcosa prima di percepii Andreas allungare le braccia muscolose verso di me fino ad acchiapparmi e a strapparmi dalle braccia della donna, accompagnando il movimento da un ringraziamento con tono di scuse.
Mi avvolse con entrambe le braccia e mi tastò quando sentii le mie ossa tendersi sotto alla pelle. Andreas, forte di un istinto protettivo nei miei confronti, mi strinse ancor di più contro il proprio petto, prima di poggiare il mento sulla mia testa.
Mi agitai tra le sue braccia finché non mi accorsi che fosse inutile e troppo esausta per la corsa folle, finii per raggomitolarmi meglio contro il suo petto ed aspirare a piene narici l’odore del suo corpo che mi era tanto mancato. Chiusi gli occhi sotto il foulard, cullata dal suo respiro cadenzato e riscaldata dalle sue braccia.
Bastò quello a farmi sentire al sicuro.
Cullata dal suo abbraccio amorevole non mi accorsi della frenata della metropolitana e del movimento percettibile del corpo di Andreas che si staccava dolorosamente dal mio, per poi guidarmi fuori dal vagone.
“Andreas” rantolai, mentre salivamo le scale per riemergere dalla stazione sotterranea. “Andreas” ripetei stremata.
Quando dieci minuti dopo, mi sentii trascinare in una casa, iniziai a far quadrare i conti. Andreas maneggiò con le chiavi per un po', prima di spingermi qua e là per un ambiente un po' più caldo.
Finalmente arrivammo a sederci su una superficie bassa, che ricordava un materasso vecchio.
Quando finalmente sentii le mani calde, in silenzio, tirarmi un poco i capelli, cercando maldestramente di estrarmi il foulard che mi bendava gli occhi, compresi che Andreas mi stava liberando il quinto senso che iniziava a mancarmi dannatamente.
“An-Andreas” sbuffai quando finalmente compresi di essere nel garage umido di casa sua. Una villetta a schiera simile a tante altre in cui si ritirava quando si stufava della vita in compagnia di amici rumorosi e Lysander. La condivideva con una cugina di trentanni circa, che spuntava fuori ogni tanto – seccandolo oltre modo. Tuttavia, avendo passato l'adolescenza a guardare film di fantascienza in quel sudicio garage che odorava di benzina e spray per ambiente alla menta, quel posto lo faceva sentire bene e al sicuro. Il suo angolo.
Dopo aver impostato su una radio dell'anteguerra una canzonetta jazz, tornò a sedersi accanto a me, inginocchiandosi e poggiando le mani sul materasso che affondò un poco sotto al peso. “Elena” snocciolò in una cantilena che aveva un che di erotico.
Non mi girai nemmeno a guardarlo, turbata dalla vicinanza ed arrossendo come una ragazzina.
“Elena, Elena, Elena” canticchiò finché non mi girai. “Sei l'unica persona che ho portato nel mio bunker. Io... Io ti voglio bene da morire e non voglio che tu sia arrabbiata con me” sputò fuori con un'audacia che non gli apparteneva, socchiudendo gli occhi quando si sentiva pronunciare frasi che si era sicuramente preparato mille volte davanti allo specchio del bagno, conoscendolo.
“Andreas, smettila di fare l'idiota. Non sono arrabbiata con te, sono solo ferita” confessai senza imbarazzo, gettando l'occhio sulla radio che funzionava ancora per miracolo.
Il garage puzzava di muffa e ogni oggetto lì presente sembrava urlare “stantio!” a mo' di accusa.
Il materasso consunto era sempre umidiccio, perciò di solito c'era coricato sopra un buffo piumone dei Pokémon.
Andreas scosse la testa quasi con stizza. “No, tu ti senti trascurata” spiegò, puntando uno sguardo maligno nei miei occhi confusi.
Quasi risi per la situazione ridicola. “Sei patetico” puntualizzai, stizzita e disturbata da quelle considerazioni gratuite.
“Puoi ferirmi se vuoi, non devi temere il freddo che ti si staglia dentro” mi accarezzò con la voce e con lo sguardo con una tenerezza quasi paterna, non curandosi di come quelle parole mi facessero stare.
“E' solo l'inverno” cercai di minimizzare, fissandomi le unghie prive di smalto e poi la punta delle scarpe.
“Non è l'inverno, Elle” sbottò. “Io posso amare sia te che Giselle in egual modo” disse senza esitazione.
Strizzai gli occhi incredula per la confessione sciocca. “Che paraculo!” starnazzai scoppiando a ridere istericamente.
“Io ti amo a metà, l'altra metà va a Giselle” continuò in tono polemico.
“Taci” lo zittii. “Non so cosa significhi amare la gente a metà, non è nella mia natura. Il mio affetto è sempre eccessivo ed ingombrante, quasi soffocante! Tu non ne hai bisogno, Andreas. Tu hai Giselle” esclamai indignata.
Cos’era quella storia? Mi offriva delle briciole?
Non mi sarei accontentata ancora, non quella volta.
Lo guardai, dritto negli occhi: è finita, non posso crederci.
 Neanche il tempo di realizzarlo che Andreas mi si gettò addosso facendomi cadere di schiena sul materasso sottile.
Calore. Fu quella la prima sensazione che riuscii a captare. Calore.
Era un calore insinuante; e le mani bianche di Andreas mi tenevano inchiodata a terra per le braccia, con la frenesia di chi cerca di trattenere qualcosa che potrebbe volar via da un momento all’altro. Il materasso senza rivistimento mi pungeva la guancia, la schiena: era ispido, ma non tanto quanto la barba di Ricci, che le sembrava arrivasse dappertutto. 
Se non fosse stato il ragazzo che conoscevo, avrei pensato mi stesse per baciare e poi picchiare. “Taci tu!” sbraitò con i denti digrignati e la fronte aggrottata. Non si preoccupò di schiacciarmi con il suo peso o di mettermi in difficoltà, si chinò e mi baciò il collo dove un neo macchiava la mia pelle chiara. “Sei un insieme di contraddizioni e insicurezze” deglutì, abbassando lo sguardo per un secondo. “Un insieme di contraddizioni e insicurezze che mi piace da morire, quindi taci” e mi baciò di nuovo sullo stesso punto scottante.
Ogni millimetro toccato dalle sue labbra diventava una zona erogena mai scoperta. Quella situazione mi ricordò una trincea della Grande Guerra. Ero in trappola, lo ero sempre stata con lui.
Quando si chinò per la terza volta, sembrava puntare a un altro punto del mio corpo, guardava il mio viso con gli occhi languidi e liquidi – disperato e confuso, dall’aspetto completamente stropicciato, finché la tasca dei suoi jeans non iniziò a vibrare e la sua canzone preferita a suonare.
Si staccò da me, come ripreso da uno stato di trance, e rispose al cellulare senza guardare nemmeno chi fosse il mittente della chiamata. “Pronto?”
Un paio di parole lo fecero arrabbiare e stressare in pochi secondi. “Arrivo” disse infine e riattaccò.
Mi guardò quasi intenerito, mi accarezzò una guancia e mi sorrise per una frazione di secondo. “Dannazione” ruggì un secondo più tardi, quasi ricordandosi di non avere tempo per quelle smancerie. Smancerie tra amici? Gli amici facevano cose così?
Si alzò completamente dal mio corpo e mi tese una mano. “Vieni con me? Non sarà divertente” domandò teso e scalfito.
Risi amaramente. “Cosa lo è?”
 
 
 
 
Capii che qualcosa non andava quando ci ritrovammo sul pianerottolo di casa sua – quella che frequentava per davvero, regolarmente.
Stavamo salendo l'ultima rampa di scale del suo condominio quando Rhett e Jonathan ci urlarono di muoverci con tono poco garbato e con locuzioni poco amichevoli.
Arrivati al pianerottolo, Rhett mi salutò rivolgendomi uno sguardo confuso e un abbraccio intimo e Jonathan con poche cerimonie.
“L'ha fatto di nuovo” iniziò quest'ultimo. Non seguii il discorso, captai le parole che mi bastavano. “Botte”, “Soluzione”, “Deve smetterla”, “Ubriaco”,...
Quando compresi il fattaccio, senza chiedere il permesso entrai in casa. Percorsi il soggiorno disordinatamente cosparso da libri di testo e avanzi di cibo d'asporto, gettai un'occhiata al lavello della cucina carico di stoviglie da pulire e mi avviai per il corridoio dove tre stanze e il bagno si fronteggiavano.
Mi avvicinai alla stanza che mi ispirava di più a livello istintivo, ritenni perciò che quella dovesse essere quella corretta. Difronte alla toilette, la porta socchiusa mi sorrideva maliziosa caricandomi dicuriosità. Raggiunsi la stanza trascinando i piedi sul pavimento come un condannato a morte.
Mi affacciai, inclinandomi per sbirciare all'interno della camera di Lysander.
Lui era lì, sdraiato in una posizione scomoda e che mi permetteva di fissarlo senza che lui se ne accorgesse. Se non l'avessi visto muoversi appena, con i suoi respiri profondi, avrei giurato che fosse morto.
“Sei inquietante” borbottò lui e piegò le labbra in un sorriso quando aprì gli occhi giusto in tempo per vedermi sobbalzare spaventata.
“Hm?” biascicai, con il cuore che scalpitava, le mani che sudavano e le guance infiammate per l'imbarazzo di essere stata colta a spiarlo come una maniaca.
Non ebbi nemmeno il tempo per chiedermi come avesse fatto, che lui sbuffò.
“E' inquietante” ripeté. “Il modo il cui mi hai guardato negli ultimi minuti” si sforzò di aggiungere e specificare.
“Volevo vedere come stavi, tutto qui”
“Da lontano?” ghignò, senza alzare il volto sprofondato per metà nel cuscino.
“Non sapevo di avere il permesso di entrare” risposi, gettando finalmente un'occhiata alla stanza.
“Perché no?” domandò. “Non nascondo nessun cadavere” specificò. “Non qui almeno” concluse e scoppiò a ridere per l'espressione allibita che esibii.
Lo ignorai. “Come stai?”
“Al solito. Non è successo nulla di che, sono sobrio e cosciente delle mie azioni, non mi pento di nulla” snocciolò tranquillamente.
Non trovando una risposta adeguata da dargli, sospirai teatralmente e allungandomi leggermente oltre alla soglia, sbirciai all'interno di quelle quattro mura. Quella era senza ombra di dubbio la stanza più confusionaria nella casa, nonostante non presentasse scatole di riso cinese come il soggiorno. Quest’ultimo, infatti, sembrava essere stato arredato in modo asettico e tutti i cuscini erano ordinati e lisci come se in quel soggiorno nessuno si sedesse sul divano. Quella stanza era vissuta e tutto in lei lo gridava.
Una parete interna ospitava una serie di scaffali di legno che contenevano un ammasso informe di libri, dischi e vinili di musica classica. Sulle altre tre pareti si susseguivano poster e vecchie fotografie, locandine di vecchi film. Notai un posacenere di cristallo pieno di cicche sul davanzale della finestra, il letto in un angolo con sopra un semplice piumone leggero e celeste. E poi matite, pastelli, acquarelli e pennarelli. Delle tempere e una tavolozza erano lasciati sul tappetto colorato che ricordava un quadro di Matisse e poi, una tela appoggiata al muro, disegni sparsi sulle ante dell'armadio, scarpe sotto alla finestra e una scrivania inondata da fotocopie pinzate tra loro e fogli svolazzanti. Le fotografie di polaroid sparse qu e là  mi incuriosivano quanto le locandine dei lungometraggi di Fellini e Quentin Tarantino.
La sua voce mi risvegliò quasi in modo violento, nonostante il tono basso e piatto. “Hai finito la tua ispezione?”
Azzittii i miei pensieri e strinsi i pugni delle mie mani fredde. “I ragazzi sono molto preoccupati per te”
“Non devono” esalò in un fiato, poi si fece forza sui gomiti e si tirò su il busto. “Come stai?”
“Credo bene” risposi. “Andreas oggi mi ha rapita” gli raccontai, sorridendogli come una bambina.
Lysander rise scocciato. “Non è rapimento se sei consenziente” mi rimproverò agitando le mani e sorridendo al soffitto.
“Non lo ero, infatti” confessai, allargando il sorriso e mostrando un sacco di denti. “Non lo sono mai con lui” aggiunsi con un filo di voce.
Lysander mi guardò in tralice, prima di sbuffare. “Non stai bene” e lo disse con un'aggressività che trovai ilare.
Infatti risi. “Grazie!” esordii sarcastica.
“Elena” mi richiamò serio. “Stare bene non è un desiderio, è un'opportunità” mi informò con fare saccente.
Sorrisi al vuoto. “Questa di chi è?”
“Lysander Warhol LaFayette, un brav'uomo” si elogiò.
Scoppiai a ridere e coprii il mio sorriso troppo ampio con il palmo della mano. Mia madre mi diceva di coprire sempre la bocca quando si sorrideva in quel modo, è da arroganti e da sciocchi mostrare la felicità al caso, poi farà di tutto per portarvela via.
Stavo per riaprire bocca quando una mano si poggiò sulla mia schiena e mi superò entrando nella stanza. Quel capolavoro di stanza.
Andreas si piazzò in mezzo a quel capolavoro e guardò il capolavoro sul letto. “Contento ora che anche Elena ti ha fatto una ramanzina?” domandò in tono polemico.
Aveva sentito le risate e ci aveva raggiunti attratto da queste, come una falena.
“Non me l'ha fatta, in realtà” brontolò seccato Lysander ed esibì un falso broncio che mi fece sorridere spontaneamente.
“Non ne vedo la necessità” replicai guardando il ragazzo che amavo alzare gli occhi al cielo con stizza.
Non sembrava affatto felice, anzi.
Andreas si portò le mani ai fianchi come una madre apprensiva. “Vi siete messi d'accordo?” domandò retoricamente.
Non sembrava ironico e infatti ripartì alla carica. “Siete una gran bella coppia” grugnì arrabbiato senza evidente motivo.
Lysander corrugò la fronte. “Già, Thelma e Louise”.
Ridacchiai e Andreas mi fulminò, le sue pupille si restrinsero, suggerendomi che quello che sarebbe successo non mi sarebbe piaciuto affatto. “Tu” e si girò in direzione di Lysander “sei un adulto che crede ancora che fare a botte serva a qualcosa” sussurrò adirato. Poi si rivolse a me. “E tu” mugugnò indicandomi. “Tu, Elena, tu. Ti credi perfetta, per caso? Non lo sei, carina. Anzi no, sei carina. Molto carina fisicamente, bella. Ma come puoi essere una bella persona se non aiuti tua sorella nel momento del bisogno? E hai anche la presunzione di crederti comunque tanto migliore di lei” terminò con la rabbia tenue che ferisce più delle urla.
Lo guardai attonita, che razza di discorso era quello?
Avrei preferito mi avesse colpita. Avrei avuto – almeno – una parte lesa da stringere, ma quelle parole avevano solo il sapore del sangue, sangue che schizzava fuori a spruzzi, dal mio cuore calpestato, a brandelli. Boccheggiai senza emettere alcun suono. Annaspai. Ancora e ancora.
Lysander si tirò a sedere con uno scatto felino e con lo sguardo che ricordava quello di un lupo, si rivolse all’amico. “Grazie Andreas delle tue futili opinioni, ora puoi lasciare la mia stanza” gli ordinò con sufficienza, scacciandolo con un gesto seccato della mano.
Mi guardai attorno, non sapendo dove poggiare lo sguardo e mi strinsi nelle spalle. “Forse dovrei andar-”
Andreas mi interruppe, si allungò afferrandomi per la manica del cappotto e mi tirò al centro della stanza. Quasi inciampai, sotto lo sguardo sottile e attento di Lysander.
“Non mi interessa dei tuoi comportamenti auto-distruttivi, Lysander. Qui si parla di Elena e della mia fidanzata” sbottò il mio aguzzino. “Io la amo e non voglio che si rovini la vita per colpa sua” continuò, il tono inspiegabilmente amaro. Dove era finito l'amore diviso a metà?
“Ma quando ti ricapita di stare zitto e smetterla di prendere opinioni in affitto?” gli chiese Lysander fissandolo negli occhi senza alcun bisogno di urlare.
Andreas alzava sempre la voce quando era arrabbiato, ti faceva rabbrividire. Lysander sussurrava come una vipera e questo ti faceva tremare. Tanto.
Ma quella volta nel suo tono, lo sdegno non era rivolto a me, ma ad Andreas. Lysander mi stava difendendo.
La sua voce era come il tepore di una coperta o un fuoco caldo e una tazza di latte dolce: tutto insieme.
Andreas ruggì invece. “Cosa stai dicendo?!”
“Sto dicendo che farti lobotomizzare da una lobotomizzata è il colmo” insinuò Lysander con stizza, la sua voce era piena di un qualcosa tra il disprezzo e lo sbalordiment.
“Giselle... Giselle non mi ha lobotomizzato” deglutì Andreas stancamente.
Lysander si alzò in piedi. Indossava i pantaloni di una tuta grigia e una t-shirt bianca che aveva sicuramente visto tempi migliori.
Si diresse verso l’amico e non si fermò finché non gli fu a tre spanne di distanza. “E' carino che tu non metta in dubbio invece che lei lo si sia” fece poi, per nulla risentito.
Andreas lo guardò sbalordito. “Lysander... Non voglio litigare con te e-” gesticolò convulsamente.
“Allora, lasciaci in pace” ruggì infine il giovane Warhol LaFayette, spingendo lentamente Andreas fuori dalla stanza. Quest’ultimo non ebbe nemmeno il tempo di reagire, che Lysander gli sbatté la porta in faccia.
 
 
 
 
Sentii il cuore danzarmi in gola eseguendo un giro mortifero di tiptap. Alla fine, esalai : “Lui… è geloso”.
Lysander s’avvicinò e mi ravviò una ciocca dietro la conchiglia bianca di un orecchio, spingendomi con garbo a guardarlo. Compresi immediatamente  che quella spiegazione era insufficiente, e che lui comprendeva perfettamente come non fosse semplice gelosia della mia persona quello che mi aveva turbata così tanto. Quindi, ripresi. “Stava… Stava per baciarmi oggi, Lysander” tentai di spiegare, non sfuggendo al suo sguardo circospetto.
“So che potrò sembrarti matta, ma io credo di piacergli” esalai indicando il punto in cui qualche ora fa mi aveva baciato.
Lysander guardò il punto del collo che stavo indicando senza capire.
“Mi ha baciata qui” spiegai con un filo di voce. “Io gli piaccio…”
Un silenzio denso e col tanfo di parole inespresse ci abbracciò, inglobandoci nel suo tepore denso di sicurezza.
Parlai io per prima.  “Se gli piaccio, perché deve sempre spezzarmi?” scoppiai a piangere.
Mi misi seduta, abbracciandomi le ginocchia e appoggiandovi la testa. Chiusi gli occhi, sentendo lo sfinimento emotivo colpirmi all’improvviso, inchiodandomi le membra al suolo. 
Il peso della mano di Lysander sulla spalla era discreto, e consolante: all’improvviso, mi resi conto di non aver raccontato a nessuno – nemmeno a Lola – quello che stava accadendo tra me ed Andreas. Avevo un degenerato bisogno di sfogarmi. Ma non con Lysander. Non nella sua stanza. Non adesso.
Emisi un suono simile a un singulto, cercando una parola che non arrivò. 
“Non voglio farti la morale, Elena. Spero solo che tu sappia che ricambiare quel bacio non sarebbe stato giusto” domandò, ma la sua voce aveva un accenno amaro.
Sorrisi stanca. “Cos’è giusto in questa faccenda?” chiesi retoricamente. “Niente. E’ tutto sbagliato, vorrei solo togliermelo dalla testa” soffiai.
Lysander si alzò improvvisamente, di scatto, e si diresse alla scrivania. Lo osservai allontanarsi, chiedendomi se l’avessi offeso, e in che modo: poi mi accorsi che cercava qualcosa in un cassetto della scrivania. Ne emerse una fiaschetta d’argento. “Non credo tu voglia davvero dimenticarlo, ci tieni troppo” disse cupo.
Lo vide riempire due tazze scompagnate con qualche dito di liquore e portargliene una, prima di risiedersi nuovamente al proprio posto, accanto a lei.
“Ti ricordi che io non posso…” inziai, indicando con lo sguardo il bicchiere che stavo stringendo.
Lysander bevve un generoso sorso del suo bicchiere, terminandone il contenuto. “Infatti, è per me anche quello” brontolò e me lo sgraffignò dalle mani, per fargli fare la stessa fine del precedente.
 
 

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