Vento dell’Ovest

di Halley Silver Comet
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Primo - Arrivo del Vento ***
Capitolo 2: *** Capitolo Secondo - Vento di Scoperte ***
Capitolo 3: *** Capitolo Terzo - Vento di Intrecci ***
Capitolo 4: *** Capitolo Quarto - Vento di Sospiri ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quinto - Vento di Incertezze ***
Capitolo 6: *** Capitolo Sesto - Vento di Rivelazioni ***
Capitolo 7: *** Capitolo Settimo - Vento di Pensieri ***
Capitolo 8: *** Capitolo Ottavo - Vento di Dubbi ***
Capitolo 9: *** Capitolo Nono - Vento di Turbamenti ***
Capitolo 10: *** Capitolo Decimo - Vento di Verità ***
Capitolo 11: *** Capitolo Undicesimo - Vento di Attesa ***
Capitolo 12: *** Capitolo Dodicesimo - Vento di Tensioni ***
Capitolo 13: *** Capitolo Tredicesimo - Vento di Quiete ***
Capitolo 14: *** Capitolo Quattordicesimo - Vento di Sospetti ***
Capitolo 15: *** Capitolo Quindicesimo - Vento di Prove ***
Capitolo 16: *** Capitolo Sedicesimo - Vento di Avversità ***
Capitolo 17: *** Capitolo Diciottesimo - Vento di Decisioni ***
Capitolo 18: *** Capitolo Diciassettesimo - Vento di Reazioni ***
Capitolo 19: *** Capitolo Diciannovesimo - Vento di Passaggio ***
Capitolo 20: *** Capitolo Ventesimo - Vento di Cambiamenti ***
Capitolo 21: *** Capitolo Ventunesimo - Vento di Bugie ***
Capitolo 22: *** Capitolo Ventiduesimo - Vento di Malintesi ***
Capitolo 23: *** Capitolo Ventitreesimo - Vento di Misteri ***
Capitolo 24: *** Capitolo Ventiquattresimo - Vento di Azione ***
Capitolo 25: *** Capitolo Venticinquesimo - Vento di Confronti ***
Capitolo 26: *** Capitolo Ventiseiesimo - Addio del Vento ***



Capitolo 1
*** Capitolo Primo - Arrivo del Vento ***


Vento dell'Ovest - Capitolo 1



 - Capitolo Primo -
Arrivo del Vento






T
ra tutti i venti, quello dell’Ovest, detto anche Vento di Ponente, è senza dubbio il più chiacchierino e il più bravo a raccontare storie. Infatti, i suoi fratelli venti e le sue sorelle brezze non aspettano altro che il suo ritorno da qualche lungo viaggio, sperando sempre che abbia in serbo per loro una qualche bella storia che possa intrattenerli.
In particolare, quella che vi sta per narrare è una delle sue preferite, forse quella che ama di più in assoluto, poiché sembra che, nella vicenda, abbia avuto un ruolo quasi da protagonista
. Perciò, mettetevi comodi, perché ai venti piace essere molto dettagliati quando raccontano e odiano che si metta loro fretta...

Era un tiepido giorno sul finire di settembre del 1986 e il Vento di Ponente soffiava pigramente tra le mura degli edifici della Capitale, quando decise di lasciare il centro per muoversi tra i giardini del quartiere pinciano. Si ritrovò, quindi, a soffiare nell’
immenso parco di una villa depoca ben tenuta, con pini altissimi, fiori e arbusti che si stavano ormai preparando al sonno invernale.
Mentre era impegnato a solleticare le bacche non ancora mature di una rosa canina, la sua attenzione fu catturata da una ragazza dal volto delicato e con lunghi ricci scuri che le arrivavano poco oltre le spalle, appoggiata alla balaustra della veranda canticchiando un motivetto allegro: «What a feeling, bein’s believin’, I can have it all, now I’m dancing for my life...1»
«Vittoria, se non te ne fossi accorta, stiamo cercando di finire di lavorare» intervenne, a quel punto, un giovane dalla chioma ribelle biondo dorata seduto ad un tavolo lì accanto, senza alzare gli occhi dagli incartamenti che stava leggendo.
«Sono quasi le sette, non dovreste smettere?» gli fece, però, notare quella, accigliata, smettendo di dondolare la testa a ritmo. «La festa è alle sette e mezza!»
«Se tu la piantassi di distrarci, forse riusciremmo a finire!» la rimbeccò l’altro, seccato. «E, comunque, ti ricordo che sei l’unica di noi tre che smania per andare alla festa di compleanno di Maria Luisa».
Indispettita, la ragazza si alzò in piedi e riservò al suo interlocutore un’occhiata di rimprovero.
«So perfettamente che non ci vuoi andare, Marcellino» affermò, mentre si avvicinava al tavolo cosparso di fogli dove, oltre all’amico, era seduto anche un altro giovane. «Sappi, però, che non presentandoti deluderesti tutte le tue ammiratrici, a cominciare proprio dalla festeggiata».
«Sai, Vittoria, non credo sia questo il modo giusto per convincerlo» si intromise, allora, il ragazzo dai capelli castani, ridacchiando sommessamente.
«Be’, Gerardo, Marcello deve sapere della scia di cuori infranti che lascerà se non andiamo da Maria Luisa!» commentò la ragazza, mettendo su un cipiglio ostinato.
In risposta, il diretto interessato alzò gli occhi al cielo, poiché, in realtà, era fin troppo a conoscenza di ciò che pensavano e dicevano di lui Maria Luisa Foscari e la sua banda di amiche starnazzanti: infatti, lo adocchiavano ormai da troppo tempo, reputandolo un ottimo partito, senza curarsi del fatto che a lui non interessava nessuna di loro.
Reprimendo un brivido, Marcello si riscosse da quei pensieri raccapriccianti e decise, invece, di rivolgersi a Gerardo.
«Potresti ricordarmi qual è stata l’ultima mossa di Lord Carter?» gli chiese, cercando di ignorare le proteste di Vittoria. «Così, forse, riusciremo a mettere il punto a questa faccenda».
«Niente di importante» rispose l’altro, sfogliando distrattamente il plico che aveva in mano. «Qualche piccola contrattazione nello Yemen del Nord, per ottenere più petrolio».
«Chissà perché ha preso in considerazione noi, come possibili partner finanziatori dei suoi grandiosi progetti...» si domandò a voce alta Marcello, prendendo in mano un bicchiere colmo di succo e appoggiandosi con la schiena alla poltroncina di vimini.
«Non ne ho la più pallida idea. Magari, lo scopriremo tra qualche settimana, quando lo incontreremo» osservò cautamente Gerardo, sfregandosi nervosamente il collo.
Trascorse qualche istante di assoluto silenzio, poi, però, Vittoria cominciò di nuovo a sbuffare e ripartì alla carica: «Adesso avete finito? Non voglio arrivare in ritardo!»
Subito, i due si voltarono verso di lei e la osservarono attentamente, sbattendo le palpebre.
«Lo sai che sei davvero irritante?» le fece notare, allora, Marcello, che davvero non aveva voglia di andare da nessuna parte. Purtroppo, però, dopo che la sua amica lo aveva sfiancato con continue e pressanti richieste, aveva ceduto ed ora si trovava obbligato ad accompagnarla. Non gli erano mai piaciute le feste di compleanno, specie quelle dove c’era un’alta probabilità di ritrovare vecchie conoscenze, ma, ad essere sinceri, non amava in generale le occasioni dove c’era troppa gente chiusa nello stesso posto.
Sapeva di non essere una persona molto socievole che preferiva tenersi lontano da ogni forma di agglomerato sociale.
«Dai, Marcellino, lo sai che le feste sono sempre un’ottima occasione per conoscere gente nuova!» insistette Vittoria, lasciando che sulle sue labbra affiorasse un sorriso malandrino. «Magari, questa potrebbe essere la volta buona che conosci una ragazza adatta ai tuoi gusti difficili... e farai felice la tua mammina».
«Io non cerco nessuna ragazza e, soprattutto, non voglio fare felice nessuno!» borbottò in risposta quello, ritrovandosi a chiedere per l’ennesima volta in vent’anni come avesse fatto a diventare amico stretto di quel terremoto vivente che era Vittoria Farnese.
«Dai, lascialo stare» la rimproverò con dolcezza Gerardo, lanciando all’altro un’occhiata solidale. «Abbiamo promesso che ti accompagneremo e così faremo».
«Ecco, tu sì che sei gentile, Gerardo. Mica come lui...» replicò la ragazza, indirizzando un sorriso riconoscente al giovane e mostrando, invece, la lingua a Marcello.
Esasperato, quello decise di porre fine alla questione e si alzò in piedi.
«Ho capito, ho capito, andiamo» sospirò, arreso. Poi, si rivolse a Gerardo: «Noi continueremo domani».
«Certamente» acconsentì quello, annuendo e alzandosi a sua volta.
Allora, con un’espressione trionfante dipinta sul volto, Vittoria fece schioccare la lingua contro il palato; stava per aggiungere qualcosa, quando una presenza
disturbante si materializzò accanto ai tre e la giovane fu costretta a tacere. Infatti, ostentando la sua espressione più impassibile, era appena sopraggiunta la madre di Marcello, bionda come il figlio, ma con occhi scuri e penetranti dai quali traspariva tutto il disprezzo che provava per gli amici del ragazzo.
«Buonasera, signora Claudia» la salutò gentilmente Gerardo, un po’ teso.
«Salve, signora. Noi stavamo per andare via» si affrettò ad aggiungere Vittoria, indietreggiando di qualche passo per allontanarsi da lei, mentre quella li fissava entrambi arricciando appena le labbra. Di fronte ad un simile atteggiamento, Marcello digrignò i denti poiché, anche se aveva ormai smesso da diversi anni di sperare che sua madre potesse prendere in simpatia Vittoria e Gerardo, quella avrebbe almeno potuto mostrare un minimo di educazione nei loro confronti. Soprattutto perché che si vantava di essere una donna raffinata.
«Sì, infatti mi pare una buona idea» rispose la Matrona, come veniva chiamata dalle cameriere della villa, perseverando nella sua ostilità. «Passate decisamente troppo tempo qui. Potrebbe quasi sembrare che non abbiate nulla di meglio da fare... soprattutto tu, Gerardo. Poi, non lamentarti se in giro si dice che è Marcello a sbrigare tutti gli oneri».
«Mamma!» la richiamò il figlio, indignato. «Gerardo ed io siamo soci allo stesso livello e ci dividiamo equamente il lavoro!»
Tuttavia, la donna non rispose a quell’obiezione, limitandosi ad assumere un’espressione così dura che il suo volto perse istantaneamente tutta la sua bellezza, mentre Marcello offriva unocchiata mortificata di scuse allaltro. In risposta, quello scosse la testa, accennando un sorriso.
«Ti aspettiamo fuori dal cancello» disse in fretta Vittoria, intromettendosi e tirando Gerardo per un lembo della giacca, prima che la signora Claudia potesse dare un giudizio negativo anche su di lei.
«Arrivederci, signora!» la salutò in fretta il ragazzo, sparendo con l’amica oltre la porta-finestra.

Rimasti soli, il ragazzo si voltò verso la madre, squadrandola con fare ostile e, non riuscendo più a trattenere il suo risentimento, le sbottò contro: «Devi smetterla di trattare male Gerardo e Vittoria!»
«Sono solo due approfittatori che sfruttano la tua popolarità. Se tu non le avessi presentato lo scultore Bartolomeo Davoli, la Farnese sarebbe ancora una zitella con la lingua troppo lunga e quel Marini non sarebbe nessuno se tu non gli avessi chiesto di diventare tuo socio» gli rispose lei, con una smorfia di disgusto. «Avresti dovuto prendere in considerazione Ascanio Colonna, invece, perché, da quello che sento dire in giro, sembra molto in gamba».
«Mi sarei tagliato la lingua, piuttosto che chiedergli una cosa simile» ribatté, però, Marcello, con un sibilo irritato. Sua madre non aveva il diritto né di mettere bocca nelle sue scelte professionali, né tantomeno di insultare i suoi amici solo perché non li considerava al loro livello, visto che, per lui, i due ragazzi erano come fratelli. Nemmeno per Tiberio, suo fratello di sangue, ma così simile alla genitrice da risultargli insopportabile, provava un attaccamento simile. «Comunque, a parte gettare fango su chi non è nelle tue grazie, devi dirmi qualcosa di importante?» aggiunse poco dopo, vedendo che la donna non sembrava avere intenzione di voler andar via. 
Per qualche secondo, la signora Claudia si soffermò a studiarlo, giocherellando con la collana di perle che portava al collo, per poi cominciare a parlare, molto lentamente: «So che stai andando alla festa di compleanno di Maria Luisa».
Inarcando appena un sopracciglio, curioso di sapere dove intendesse andare a parare la genitrice, il giovane ricambiò l’occhiata e rimase in attesa che l’altra continuasse.
«L’altro giorno, Serena mi ha detto che tu piaci molto alla figlia, pertanto volevo invitarti a prenderla in considerazione come tua possibile fidanzata» spiegò subito dopo, infatti, la donna, aggrottando la fronte e spostando lo sguardo verso l’alto, come se stesse valutando sul serio l’eventualità che quella ragazza potesse entrare a fare parte della sua famiglia.
«Che cosa?!» scattò subito Marcello, impallidendo al solo pensiero. «Mi auguro seriamente che tu stia scherzando, mamma».
«Affatto» ribatté, però, la donna, con estrema convinzione. «La conosco e so che è una ragazza remissiva e ben educata, davvero adatta a te».
Sconcertato, il figlio la guardò come se fosse uscita di senno, cosa che accadeva abbastanza spesso quando si ritrovava a parlare con sua madre. Evidentemente, si era messa in testa che anche con lui avrebbe potuto portare avanti le sue macchinazioni, come aveva fatto con Tiberio quando lo aveva spinto tra le braccia dell’insulsa ed instabile
Ortensia Torlonia, meritevole solo di avere un padre ricco ed essere una discendente di ex marchesi. Qualità che solo una donna retrograda ed arrivista come la Matrona avrebbe potuto trovare allettanti. 
«Io non sono come Tiberio e non accetterò mai un tuo consiglio» replicò, allora, il giovane, non celando il disprezzo che riservava verso di lei e verso il fratello, talmente desideroso di compiacere la madre da aver accettato subito la sua insana proposta. Purtroppo, la signora Claudia considerava i suoi due figli come se fossero sue appendici, a tal punto da sentirsi in dovere di instradarli ad essere a sua immagine e somiglianza, cercando matrimoni vantaggiosi per non perdere il prestigio sociale che lei, da ragazza provinciale della campagna viterbese, aveva guadagnato sposando il padre di Marcello.
«Vuoi forse rimanere scapolo a vita?» gli chiese a quel punto la madre, assottigliando pericolosamente lo sguardo. «Hai già rifiutato tutte le figlie delle mie amiche, facendo addirittura piangere la povera Costanza!»
«Mamma, quella non è una ragazza, è una piovra gigante!» rispose l’altro, rabbrividendo al solo ricordo di quel pomeriggio passato a scappare per tutta la casa, sperando di scrollarsi di dosso quella tipa appiccicosa, nonostante la milza dolente e l’ordine del medico di restare a letto. «E poi, le avevo solo detto di non avvicinarsi perché non ero ancora del tutto guarito dalla mononucleosi... In fondo, mi stavo preoccupando per lei» aggiunse, non riuscendo a soffocare una nota ironica.

«Come ti è saltato in mente di andare a fare il buon samaritano al Bambino Gesù2 con quella sciocca della Farnese!» gli inveì contro l’altra, sbraitando come una di quelle popolane che tanto disprezzava. «Sai benissimo che i bambini sono un ricettacolo delle peggiori malattie!»
A quel punto, il ragazzo si portò una mano alle tempie e contò fino a dieci per non essere costretto a risponderle per le rime.
«Invece, è stata una bellissima iniziativa andare a visitare i bambini ricoverati in ospedale»
le fece notare, dopo qualche secondo che servì a tenere a bada la rabbia che sentiva crescere dentro di lui. «E, comunque, guarda il lato positivo, mamma: non ne verrò più contagiato. Questo significa che, per evitare Costanza, la prossima volta dovrò andare a cercare qualcuno con la varicella»
Poi, Marcello si avvicinò al tavolo per mettere a posto tutti i fogli, impilandoli l’uno sull’altro e strappando quelli inutili. Improvvisamente, però, la signora Claudia, arrabbiata per i suoi commenti, gli si avvicinò come una furia e, preso tutto quello che era sul ripiano, lo scaraventò a terra. 
«Sei impazzita?! Sono documenti di lavoro!» esclamò il giovane, guardandola sbigottito. Tuttavia, quella non sembrò per niente dispiaciuta, anzi, cominciò anche a gridargli contro, gesticolando furiosamente: «Sei solo uno stupido! T
utti i figli maschi delle mie amiche sono sposati e tuo fratello ha perfino una bambina! Sei ormai prossimo ai venticinque anni... davvero credi che riuscirai mai una donna di buona famiglia con sarcasmo e maleducazione?»
Di fronte a quella sfuriata, il ragazzo esaurì anche l’ultimo residuo di pazienza: aveva mantenuto la calma più a lungo che aveva potuto, ma a tutto c’era un limite.
«Te lo dirò ora e poi non lo ripeterò più: a me non interessa sposarmi, soprattutto con una ragazza scelta da te, quindi mettiti l’anima in pace!» esplose.

Ciò, però, non scalfì minimamente la madre che, dopo aver lanciato un’ultima occhiata angustiata al figlio, gli sibilò, minacciosa: «Pensala come vuoi, ma stai pur certo che troverò il modo di farti cambiare idea!»
Quindi, si voltò con uno scatto e si avviò, impettita, verso la porta-finestra.

Per qualche istante, Marcello rimase a fissare con astio il punto in cui era sparita la genitrice, per poi riportare l’attenzione sul disastro che aveva combinato e, richiamando a sé la poca calma rimasta, iniziare a radunare tutti i fogli sparsi. Con suo grande sollievo, notò che, fortunatamente, nessun documento importante si era rovinato.
«Bella serata, non è vero?» gli chiese, all’improvviso, una voce dolce. «Per essere fine settembre, fa ancora parecchio caldo».
«Davvero magnifica, papà» rispose sarcasticamente il giovane, senza alzare la testa, ammucchiando da una parte i resti dei fogli strappati e dall’altro quelli ancora sani.
Incurvando le labbra, quello si chinò a sua volta per dargli una mano: era un uomo dalla figura elegante, i capelli scuri e gli occhi verde chiaro uguali a quelli di Marcello.
Se non avesse avuto almeno un genitore dalla sua parte, avrebbe probabilmente avuto una vita molto più difficile in quella casa, ma, per sua fortuna, lui e suo padre avevano un ottimo rapporto basato sul rispetto e sulla comprensione reciproca.
«Tua madre a volte esagera» commentò pacatamente il padre, mentre gli passava una cartellina rosso spento.
«No, non a volte, lo fa sempre» precisò il giovane, secco. «Con lei non ho mai terminato nessuna conversazione in modo civile. Nemmeno quando ero bambino».
«In effetti, secondo lei sei sempre stato il figlio ribelle» ridacchiò il signor Giancarlo, mentre si tirava su e gli passava la risma di fogli che aveva raccolto. «È davvero così terribile questa Maria Luisa?» domandò, poco dopo, dimostrando di essere già al corrente di ogni dettaglio.
«Non ha nulla di attraente per me» spiegò in poche parole il figlio, rimettendosi in piedi a sua volta. «Ed io le interesso solo per il mio successo professionale, nulla di più».
«E, scommetto, anche perché sei un bel ragazzo» tirò ad indovinare l’uomo, tradendo un sorriso divertito, recuperando tutta la carta straccia per buttarla in uno dei secchi che avevano sulla veranda.
A quell’osservazione, il giovane si accigliò e rispose: «Veramente, non penso sia un vanto. La bellezza, prima o poi, sfiorisce... e poi cosa rimane?»
«Be’, tu hai anche tante altre qualità, Marcello» gli fece pazientemente notare il padre.
«Qualità che non interessano ad una come Maria Luisa, che aspira solo a fare la mantenuta» ribatté, però, lui, tra lo sprezzante e il demoralizzato. «E preferisco restare solo che accollarmi una così!»
A quel punto, il signor Giancarlo gli rivolse un sorriso malinconico e occupò una delle sedie intorno al tavolo.
«
Marcello, nessuno vuole davvero restare solo. Sei troppo giovane per essere così disilluso allidea dellamore» considerò, con una punta di severità. «Vedrai che, prima o poi, troverai una ragazza che ti piacerà» aggiunse qualche istante più tardi, questa volta incoraggiante.
In risposta, Marcello increspò le labbra, ma non disse nulla, limitandosi solo a rivolgergli un’occhiata scettica, poiché, pensando all’impossibile donna che quello aveva sposato, le sue parole gli suonarono decisamente troppo ottimistiche.
«Comunque, spero tu voglia andare lo stesso a questa festa» concluse l’uomo, dopo qualche minuto di assoluto silenzio, mentre si alzava per andare a studiare da vicino il melograno carico di frutti, la cui cima sfiorava appena la balaustra della veranda.
«Ad essere onesto, se questa sera non ci fossero stati con me Gerardo e Vittoria, avrei preferito restare a casa a leggere» gli rispose Marcello, cupo, seguendolo con lo sguardo. «Sai, ho appena iniziato un libro molto interessante che mi ha prestato Gerardo. Parla di Bilbo Baggins, un Hobbit, cioè un mezzuomo, che parte in compagnia di un stregone e tredici nani alla ricerca di un tesoro perduto e...»
«Forse, per questa sera puoi mettere da parte la tua amata lettura e divertirti un po’» lo interruppe, però, l’uomo, lanciandogli un’occhiata eloquente. «D’altra parte, non è detto che una festa che si preannuncia noiosa, non possa riservarti qualche piacevole sorpresa...»
Non del tutto convinto, Marcello inarcò un sopracciglio.
«Oh, sì, certo. Come no!» commentò, ironico, voltandosi verso il tavolo per raccogliere tutti i fogli, così da portarli dentro. «L’unica cosa che potrebbe sorprendermi è se gli invitati dovessero cominciare ad ubriacarsi dopo le dieci, ma conoscendoli, direi che...»
Tuttavia,
non riuscì a completare la frase, poiché, quando si girò nuovamente verso il genitore, quello era scomparso in un battito di ciglia, esattamente come era arrivato.
Allora, corrugando appena la fronte, il giovane emise un sospiro e, infine, si avventurò in casa per cambiarsi in fretta, non volendo far aspettare Gerardo e Vittoria più del dovuto.
***

«Bartolomeo non vuole mai accompagnarmi a queste feste, ma io le trovo perfette per svagarsi!» osservò una saltellante Vittoria, di ritorno da uno scatenato Gioca jouer3. «Per fortuna, posso contare su di voi!»
«Io ancora mi domando come tu riesca sempre ad estorcerci un sì» borbottò, in risposta, Marcello, scrutando dubbioso la calca di gente che si dimenava nel salotto dei Foscari, tramutato per l’occasione in un’improvvisata discoteca, con tanto di sfera specchiata che scendeva dal soffitto.
«
Sai, Marcellino, non credo che quellespressione da misantropo sia sufficiente a tenere alla larga le tue ammiratrici. In realtà, il bel tenebroso è un tipo che piace molto» gli rivelò allora l’altra, con una punta di malizia. Quando, però, notò che l’amico aveva alzato gli occhi al cielo, scoppiò a ridere così fragorosamente da superare perfino la musica che risuonava a tutto volume per tutta la stanza.
«Vittoria, non esagerare» la rimproverò blandamente Gerardo, scuotendo la testa e facendola calmare un po’.
«No, no che parli pure! Anzi, perché non fai ridere anche noi e ci racconti che cosa ci trovi di tanto divertente?» l’apostrofò invece Marcello, stizzito, spostandosi con un gesto nervoso la frangia ribelle dalla fronte, mentre osservava un manipolo di chioccianti ragazze ammassarsi davanti alla console del disc jockey. Il fatto che Maria Luisa potesse permettersi di assumere un dj famoso per animare la sua festa di compleanno aveva fatto sì che fossero presenti non solo quasi tutti gli invitati, ma anche una buona quantità di imbucati. Altrimenti, Marcello non avrebbe potuto spiegarsi il numero spropositato di ragazzi che in quel momento affollava la sala.
«È divertente la tua insofferenza per il fatto di essere il ragazzo più ammirato della festa!» gli spiegò l’amica, alzando la voce per farsi sentire e riscuotendolo da suoi pensieri. Fu proprio allora che, con suo grande disappunto, lui notò che parecchie giovani, molte delle quali note solo di vista o addirittura perfette sconosciute, lo stavano guardando avidamente.
«Secondo me, aspettano solo che ne inviti una a ballare» commentò Vittoria con un sorriso birichino, mentre prendeva da un vassoio appoggiato sul tavolo dietro di lei un cocktail fruttato, decorato con una fetta di arancia.
«Per me possono aspettare e sperare» decretò Marcello, caustico, scrutando con un sopracciglio alzato il folto gruppo che, sotto le luci psichedeliche dei faretti, si era radunato al centro del salotto per storpiare la coreografia di Thriller4. «Io odio tutto questo».
«Non sei l’unico» gli fece eco Gerardo, solidale, 
prendendo una tartina con salsa rosa, insalata e gamberetti da un piatto poggiato sul mobile vicino, ispezionandola accuratamente prima di mangiarla.
Di fronte a quelle due facce sconsolate, Vittoria scosse la testa con un sorriso e si avvicinò a Marcello, proponendogli scherzosamente: «Se non ti piace questa musica, potresti invitare una delle tue ammiratrici a ballare come ha fatto Alexandre Sterling con Sophie Marceau». 
«Siamo un po’ grandicelli per imitare Il tempo delle mele5, non trovi?» grugnì lui in risposta, senza quasi farla finire prima di parlare. Infatti, non si era dimenticato di quando l’amica aveva letteralmente trascinato lui e Gerardo al cinema per vedere quella pellicola che, per giunta, non gli era piaciuta per niente, costringendolo a quasi due ore di lotta incessante contro la noia ed il sonno. Già tollerava a stento i film francesi, figuriamoci quelli sui primi amori e le volubilità dell’adolescenza, argomenti troppo distanti da lui per poterlo interessare.
A quel punto, non avendo ancora ricevuto soddisfazione, Vittoria si voltò verso l’altro ragazzo e, dopo averlo squadrato con attenzione, lo incalzò: «Su, Gerardo, perché non inviti anche tu una ragazza a ballare?»
Immediatamente, quello trasalì e la fissò a bocca aperta.
«
Vitto, lo sai che sono del tutto incapace nel ballo» farfugliò, intimidito. «E poi, non ho lo stesso fascino di Marcello, perciò dubito che qualcuna accetterebbe».
«Secondo me, invece, qualcuna lo farebbe. E al volo!» replicò invece lei, con sorprendente rapidità, indirizzandogli attraverso il bicchiere ormai quasi vuoto un’occhiata così ambigua che stupì non poco Marcello.

Purtroppo, in quel frangente, sopraggiunse tra di loro la festeggiata.
«Ciao, Vittoria! Ciao, Marcello!» li salutò Maria Luisa, gaia, agitando freneticamente la mano come se i due fossero lontani almeno una ventina di metri e non soltanto due passi da lei. Nel complesso, era una ragazza dai lineamenti graziosi, con i capelli castani cotonati e un abitino a palloncino giallo limone con degli inserti neri che, però, secondo Marcello, la faceva assomigliare ad un’ape in formato gigante. Inoltre, aveva le guance parecchio rosse e gli occhi lucidi, anche se il giovane non sapeva se era per il ballo oppure per qualche bicchiere di sangria di troppo, poiché, in quel caso, non sarebbe certo stata la prima volta che eccedeva con gli alcolici.
«Ciao, Maria Luisa. Come stai?» si intromise Gerardo, con un tono tra il risentito e l’amareggiato per essere stato completamente ignorato. Subito, l’altra si voltò verso di lui e sbatté un paio di volte gli occhi, guardandolo trasecolata.
«Oh, ciao, Gerardo. Ci sei anche tu?» domandò, atteggiando le labbra ad una smorfia stupita.
«Be’, sì, mi hai invitato...» tentò di spiegarle debolmente il giovane, ma poi si zittì, deglutendo un paio di volte a vuoto.
Indignato per il suo comportamento, Marcello stava quasi per dire alla ragazza che era solo merito dell’altro se, alla fine, aveva deciso di accompagnare Vittoria e partecipare a quella stupida festa, quando intercettò uno sguardo ironico dell’amica a Gerardo, poco prima che prendesse lei le redini del discorso.
«Carissima, hai trascorso bene le vacanze a Montecarlo?» chiese, infatti, subito dopo, stiracchiando le labbra in un sorriso che aveva qualcosa di artefatto.
«Mais oui!» rispose prontamente Maria Luisa, contenta che qualcuno le chiedesse del suo recente viaggio. «Sono stata ospite di Adèle, una mia lontana cugina. Sapete, quella che ha sposato l’imprenditore veneziano Antonio Della Valle...»
Interdetto dallo strano comportamento di Vittoria e dispiaciuto per l’espressione afflitta di Gerardo, Marcello smise di ascoltare il martellante e vanesio cicaleccio della festeggiata e squadrò entrambi i suoi migliori amici con la fronte appena aggrottata, desideroso di trovarsi quanto prima a tu per tu con loro per capire cosa stesse succedendo.
«...hanno appena avuto il loro secondo bambino e
dovreste proprio vedere che amore è il piccolo Andrea... Per non parlare poi del primogenito! Adriano è davvero un enfant prodige, a soli tre anni riesce già a fare trucchi con le carte come un vero prestigiatore!» stava continuando a dire quella, senza accorgersi che i tre erano immersi nei propri pensieri. Quando se ne rese conto, assunse immediatamente un’espressione indispettita e si rivolse direttamente a Marcello: «Perché non mi stai ascoltando? Sei molto carino, ma in questo momento ti stai comportando un po’ da maleducato».
Riscosso da quelle parole brusche, il ragazzo spostò subito la sua attenzione sulla giovane e, dopo aver notato il suo broncio da bambina capricciosa e le guance ancora più rosse, non ebbe più alcun dubbio che fosse un po’ brilla.
«Mi dispiace, temo di essere un po’ stanco» si scusò sbrigativamente, sperando che fosse sufficiente a liberarsi di lei. Tuttavia, fu tutto vano, perché Maria Luisa si avvicinò rapidamente a lui e lo prese per il braccio.
«Visto che è il mio compleanno, per farti perdonare, dovrai passare un po’ di tempo con me!» decise, animata da un febbrile entusiasmo.
Poi, senza che l’altro avesse avuto il tempo di replicare o di capire cosa stesse succedendo, sotto lo sguardo stupefatto dei suoi amici, venne trascinato via dalla giovane con una forza sorprendente.

E, mentre
la canzone in sala passava da The Final Countdown a I want to brek free6, Marcello si voltò verso i due per chiedere loro silenziosamente di aspettarlo finché non si fosse liberato, ma ciò non fu possibile, poiché l’ultima cosa che vide prima di essere catapultato sulla terrazza lo lasciò sgomento: Gerardo e Vittoria avevano cominciato a discutere.
***

Nonostante la compagnia non fosse delle migliori, Marcello si ritrovò a ringraziare per il cambio di scenario: anche se la terrazza era discretamente affollata, dopo tutto quel tempo passato nell’atmosfera soffocante della sala, con la musica ad altissimo volume, trovò estremamente piacevole respirare l
aria della sera autunnale, così fresca e aromatica. 
«Credo che ci vorrà un po’ per cercare un posticino tranquillo per noi» ridacchiò Maria Luisa, senza lasciare la presa sul suo braccio, facendo cenno alle numerose persone intorno a loro. A quell’affermazione, il giovane aggrottò appena la fronte, preoccupato per le intenzioni della ragazza, visto che lui non aveva alcuna voglia di restare solo con lei, anzi, desiderava solo tornare dai suoi amici il prima possibile. Infatti, voleva assolutamente capire cosa fosse successo tra
Gerardo e Vittoria, poiché, se da una parte era vero che, in passato, era già capitato che litigassero, avendo caratteri diametralmente opposti, dall’altra, quella volta gli erano piuttosto oscure le dinamiche con le quali era iniziato il tutto.
Poco dopo i due ragazzi raggiunsero l’angolo più buio della terrazza, illuminato solo dalla tenue luce dei lampioni del giardino sottostante. Distrattamente, Marcello buttò uno sguardo oltre il parapetto, ma quando scorse tra i cespugli il suo storico rivale Ascanio Colonna, molto indaffarato a palpeggiare una procace biondina, si pentì amaramente di averlo fatto e, disturbato da quella visione, si ritrasse immediatamente.
«Che cosa te ne pare? Non è meraviglioso qui...?» languì Maria Luisa, richiamando la sua attenzione.
Subito, il giovane si voltò verso di lei e notò che gli stava rivolgendo un’occhiata incantata.
«Mmh, sì» bofonchiò, laconico, pensando a quale potesse essere il modo più rapido per defilarsi da quella scomoda situazione.
La ragazza, però, non sembrò curarsi della sua scarsa partecipazione e continuò a parlargli come se niente fosse: «Ho saputo che partecipi ad incontri amatoriali di pugilato, vincendo spesso. Posso venire a vederti? Mi piacerebbe tanto fare il tifo per te!»
Sbattendo le palpebre, l’altro notò che, parola dopo parola, quella si era fatta davvero troppo vicina per i suoi gusti e che, per sua sfortuna, da ubriaca era ancora più loquace del solito.
«A dire il vero, ultimamente non sto partecipando più. E, comunque, sono sempre incontri a porte chiuse, mi spiace» le spiegò, indietreggiando appena, sperando che quella smettesse di protendersi verso di lui, invadendo il suo spazio personale. Non aveva davvero nulla contro di lei. Semplicemente, non era il suo tipo.

«Oh, che peccato...» mugugnò la ragazza, guardandolo imbronciata.
«Eh, già» borbottò lui in risposta, trattenendosi a stento dallo scuotere la testa davanti a quel comportamento così infantile, consapevole che non fosse del tutto dovuto all’alcool.
Per qualche istante, nessuno dei due disse nulla, lasciando che in sottofondo si sentissero solo le risatine della biondina, provenienti dal rododendro che si trovava esattamente sotto di loro.
«Che cosa ne dici, rientriamo?» propose allora Marcello, irrequieto, discostandosi di qualche passo dal parapetto.
«Rientrare? Ma siamo appena arrivati!»
protestò lei, lamentosa, quasi arrivando a battere i piedi per terra. «Se proprio vuoi rientrare, devi prima invitarmi a ballare! E poi, secondo me, Marcello, tu non sai goderti le gioie della vita e lavori troppo, sai? Ascanio fa il tuo stesso lavoro, ma è sempre in giro».
A quell’ultimo commento, il giovane la guardò con ironia, astenendosi dal dire ciò che pensava sul rivale solo perché sapeva che sarebbe stato del tutto inutile, visto che il giorno dopo la ragazza non avrebbe ricordato un bel niente della loro conversazione. Anche se, conoscendo il soggetto, non sarebbe comunque cambiato nulla se l’avesse fatto.
«Grazie per il regalo di compleanno. Ancora non l’ho scartato, ma sono certa sarà bellissimo» mormorò poi la ragazza, tutto a un tratto di nuovo sorridente, cambiando repentinamente argomento e ricominciando ad avvicinarsi.
«Ah, per quello devi ringraziare Vittoria, l’ha scelto lei».
«Davvero?» domandò, così sorpresa che il giovane si chiese se l’altra ricordasse di chi stesse parlando. «Be’, se le cose stanno così... penso proprio che tu dovresti farmi un altro regalo più... personale» aggiunse, fissando le labbra di lui con inopportuna insistenza. 

Avvertendo un brivido gelido corrergli lungo la schiena, Marcello arretrò di qualche passo per sottrarsi a quel bacio non richiesto e, soprattutto, non voluto, addossandosi alla balaustra e bloccandosi ogni via di fuga. Per sua fortuna, Maria Luisa smise improvvisamente di avvicinarsi, scrutandolo accigliata.

«Ti vedo teso, forse hai bisogno anche tu di un cocktail per scioglierti un po’!» gli propose, di punto in bianco, un sorriso ad illuminarle il volto. «Aspettami qui, non ti allontanare! Ti porterò la specialità della serata, un delizioso mix tropicale a base di Curaçao che ho preparato io stessa... cioè, in realtà l’ha creato il barman, ma sono stata io a suggerirgli gli ingredienti!» aggiunse, in un fiume straripante di parole, mentre si affrettava a tornare dentro senza perderlo di vista, per assicurarsi che non si muovesse.
Tuttavia, non appena fu sparita dalla sua visuale, il giovane si lanciò in direzione del salotto, ringraziando la sua buona stella, o chi per lei, per avergli servito su un piatto d’argento l’occasione di scappare a gambe levate da quell’incontro troppo ravvicinato.

Una volta tornato dentro, Marcello prese la direzione opposta a quella di Maria Luisa, dirigendosi a passo sostenuto verso il salotto in cui aveva lasciato
Gerardo e Vittoria, con la seria intenzione di esortarli ad andare via immediatamente. Di tanto in tanto, si guardava furtivamente alle spalle per essere sicuro che la festeggiata, dopo aver recuperato il tanto decantato cocktail, non lo avesse intercettato e fosse decisa a venire a riprenderselo, per obbligarlo a tracannare qualcosa con un tasso alcolico pericolosamente alto.
Immerso nei suoi pensieri, Marcello non si rese nemmeno conto di essere sulla strada di un altro fuggitivo, finendo per scontrarsi con il nuovo arrivato e, per l’urto, ritrovarsi a terra dolorante, con il suo compagno di sventure tra le braccia.
«Ma che cos...» bofonchiò, interrompendosi nello stesso momento in cui venne avvolto da un fresco profumo di lavanda ed incrociò due incantevoli iridi color zaffiro.
«Oh, mi scusi davvero, non lavevo proprio vista!» esalò, mortificata, la ragazza. Sembrava piuttosto accaldata, i capelli di un intenso rosso-rame raccolti nei resti di una coda alta ormai sfatta e la scollatura del suo abitino violaceo che aveva ceduto in più punti, come se fosse stata tirata con violenza. Anche una manichetta le ricadeva sbrindellata su una spalla, mostrando la pelle chiara e liscia. 
Marcello, prima di riacquistare l
uso della parola, deglutì a vuoto un paio di volte.
«Stai... stai bene?» le chiese alla fine, osservandola attentamente: dall’aspetto, non doveva arrivare nemmeno ai vent’anni. Chissà come era finita tra gli invitati, di qualche anno più vecchi.
«Io... io credo... di sì» gli rispose quella, scrutandolo a sua volta e arrossendo leggermente.
Trascorse qualche secondo in cui nessuno dei due parlò
, poi, all’improvviso, come se si fosse resa conto di essere ancora tra le braccia di lui, la fanciulla sobbalzò, esclamando: «Oh, mi scusi, mi sposto subito!»
A quel punto, fece per rimettersi in piedi, ma il ragazzo scosse la testa: «Aspetta, ti aiuto io».
Quindi, si alzò per primo per poi tenderle una mano per agevolarla nel fare altrettanto
.
«Mi deve credere, non l’ho fatto apposta...» riprese l’altra, scusandosi ancora, mentre lanciava un’occhiata nervosa dietro di sé, come se temesse anche lei di essere inseguita.
«Non importa» affermò Marcello, scrollando le spalle, incuriosito, però, da quell’atteggiamento che sentiva affine al suo. «Ciò che conta è che non ti sia fatta male».
«No, affatto. Lei, piuttosto?» domandò, allora, la sua interlocutrice, tornando a guardarlo.
In risposta, il giovane ricambiò l’occhiata ed inarcò un sopracciglio, chiedendosi come dovesse apparire agli occhi di quella ragazzina, vista l’insistenza con cui gli stava dando del lei. Vittoria, infatti, gli ripeteva in continuazione che il suo mantenersi continuamente sulle sue, soprattutto nei confronti degli sconosciuti, lo faceva sembrare troppo austero.
«
Non ti preoccupare, va tutto bene» le disse, lentamente, mettendo da parte per un attimo le considerazioni della sua amica. «E, comunque, anche se sono più grande di te, non sono così vecchio... dammi pure del tu».
Quella proposta dovette piacerle molto, poiché l’altra piegò le labbra in un piccolo sorriso e fece per aggiungere qualcosa, quando fu interrotta da una voce cavernosa e così possente che sembrò riscuotere perfino le pareti. 
«Beatrice, ecco dov’eri finita! Torna subito qui!»
«Oh, no!» gemette la giovane, portandosi una mano alla bocca, inorridita. Poi, si voltò e, non appena vide chi si stava avvicinando, sbiancò allistante.
Sorpreso dalla sua reazione, Marcello spostò a sua volta lo sguardo in quella direzione e rimase ancor più stupito quando si accorse luomo che la stava chiamando a gran voce era una sua vecchia conoscenza, un delinquente che aveva sperato di raggirare lui e Gerardo per ottenere un finanziamento per quella che si era rivelata una spedizione illegale di armi in Unione Sovietica. Se, in un’occasione simile, la presenza di quella ragazza era alquanto bizzarra, la comparsa di quel trafficante d’armi era semplicemente assurda.
Conrado de Navarra era un omone alto e massiccio sulla quarantina, provvisto di una folta barba scura, occhietti porcini profondamente incavati e, a giudicare dal volto fortemente segnato da rughe di espressione, in quel momento doveva essere molto adirato.

Con andatura barcollante,
infatti, lo vide avanzare in direzione della giovane e piantarsi davanti a lei, per poi afferrarle con violenza un polso.
«Ti avevo detto di non allontanarti troppo!» sbraitò, strattonandola, senza rendersi minimamente conto della presenza Marcello, il quale, avvertendo il forte e fetido tanfo dalcool che emanava, ricacciò indietro un conato di vomito. Possibile che a quella festa fossero tutti ubriachi?
Nel frattempo, la ragazza stava cercando con tutte le sue forze di opporre resistenza ai tentativi dell’uomo di portarla via.
«Tu non po comandarmi. Non hai alcun diritto su di me!» esclamò, cercando di divincolarsi.
«Ufficialmente ancora no, ma di fatto sei già mia. Perciò adesso smettila di fare i capricci e vieni con me, dulzura!»
«Ho detto che non voglio!»
Non sopportando i soprusi e disgustato dagli atteggiamenti indecenti e cavernicoli di quell’essere, Marcello, a quel punto, si sentì in dovere di intervenire.
«Sei tornato in città per portare guai, Navarra?» gli chiese, beffardo, augurandosi che, dopo aver saputo che lo spagnolo era di nuovo in circolazione, la Polizia trovasse finalmente qualche motivo per arrestarlo. Purtroppo, finora quel maledetto era sempre riuscito a cavarsela.
Frastornato, quello si voltò verso di lui, lanciandogli uno sguardo offuscato da tutti gli alcolici che gli stavano circolando in corpo. Quando poi, infine, lo riconobbe, sul suo volto comparve un’espressione beota, presto sostituita da un sogghigno ferino.
«Sono tornato per finire ciò che avevo lasciato in sospeso, Tornatore. E, questa volta, non mi metterai i bastoni tra le ruote».
«Stasera non hai nessuno dei tuoi loschi affari da portare a termine?» ribatté, però, il giovane, per nulla intimidito dalle sue minacce. «Oppure sei andato in bianco e cerchi di rifarti allungando le mani sulle ragazzine?»

Inaspettatamente, Navarra scoppiò a ridere in un modo così orribile da far venire la pelle d’oca.
«
Hai messo anche tu gli occhi su questa bellezza? Spiacente, arrivi tardi, è già impegnata con me».
Udendo quelle parole, la fanciulla sgranò gli occhi e sul suo viso comparve unautentica smorfia dorrore.
«Sul serio? E lei lo sa?» replicò Marcello, con un sorrisetto di scherno. In quel momento, gli parve di rivivere una delle scene di Ritorno al futuro7, un film decisamente più interessante di quelli che lo obbligava a vedere Vittoria. Solo che non si trovavano nel parcheggio della scuola per il ballo di fine anno e Navarra non stava tentando di abusare della ragazza. Anche se non ci mancava molto, in effetti.
«Fatti gli affari tuoi! Questa è roba mia!» gli latrò addosso lo spagnolo, digrignando i denti. Poi, tirando la sua vittima per un polso, le urlò: «Ora basta, Beatrice, tu verrai con me!»
«Lei, con te, non va proprio da nessuna parte!» si oppose ancora una volta il ragazzo, piantandosi con spavalderia davanti a lui.

Inferocito, l’uomo prese lo slancio per attaccarlo, ma, invece, cadde come un sacco di patate, giacché non si era accorto che nel frattempo Marcello gli aveva fatto lo sgambetto. Fortunatamente, prima aveva lasciato andare Beatrice, che subito si mise da parte, per non finire schiacciata dalla mole ingente di quel troglodita.

A quel punto, quello si rialzò a fatica, sbuffando come un toro e riservando a Marcello un’occhiata infuriata.
«Tornatore, hai appena firmato la tua condanna a morte!» ululò Conrado, facendo per tirargli un pugno, ma l’altro, che al contrario del suo avversario aveva alle spalle ore e ore di allenamenti in palestra, mandò il colpo a vuoto. Con i riflessi intontiti dallalcool, l’energumeno inciampò nei suoi stessi piedi, perse lequilibrio e cadde a terra con un tonfo; da lì in poi, non si mosse più.
Per qualche secondo, il giovane contemplò la carcassa dello spagnolo e scosse la testa.
«La forza bruta è inutile, se non c’è nessuna tecnica» commentò, citando il signor Nardone, l’ex pugile che si occupava della sua preparazione atletica. Poi, si rivolse alla fanciulla,
la quale era rimasta letteralmente a bocca aperta di fronte a ciò cui aveva appena assistito, chiedendole: «Ti chiami Beatrice, giusto?»
«S-Sì» balbettò lei, timidamente. «E tu sei...?»
«Marcello Tornatore» rispose il ragazzo, senza tante cerimonie.
«Grazie per l’avermi liberata dal mio... corteggiatore troppo insistente. Sembra che non voglia capire che non provo alcun interesse per lui» rispose lei, lasciandosi andare ad un sospiro liberatorio.
«Figurati. Anche perché, a dire il vero, non ho fatto molto» si schermì lui, consapevole di essere stato agevolato dal fatto che l’altro fosse decisamente alticcio. «Non penso si risveglierà tanto presto, ma comunque penso sia meglio se andiamo via, che cosa ne dici?» le propose, quindi, indicandole con un braccio il corridoio che portava al salone principale.
Sorridendo, Beatrice annuì, mentre lui le faceva strada.
«Come sei finita tra le grinfie di Navarra?» le chiese poco dopo Marcello, ancora schifato da ciò che era successo. Infatti, nonostante il giovane sapesse che quello era dedito ai peggiori vizi - vino, gioco d’azzardo e, soprattutto, donne - non avrebbe mai creduto che potesse spingersi ad importunare una ragazzina che doveva avere meno della metà dei suoi anni. Era qualcosa di rivoltante anche solo a pensarlo.
«Diciamo che... conosce i’ mi’ fratello» rispose lei, improvvisamente incupita.
«C’è anche lui stasera?»
«Sì, la stupida idea di imbucarsi qui 
l’è stata sua. E non le sopporto le feste con così tanta gente» borbottò Beatrice, sconsolata, scuotendo la testa e assumendo un’espressione così buffa che Marcello non riuscì a trattenersi dallo scoppiare a ridere.
«Cos’ho detto di tanto strano?» gli domandò subito la ragazza, osservandolo stupita.
«Niente. È solo che non sei l’unica a cui non piacciono» le spiegò, allora, lui, sentendosi non più tanto solo e accorgendosi, per la prima volta da quando aveva lasciato Villa Aurelia, di aver ritrovato un po’ di buonumore. «Dai, andiamo, ti aiuto a ritrovare tuo fratello» aggiunse poi, invitandola a continuare a seguirlo.

«Tuo fratello è... Guido Tolomei?» chiese Marcello, incredulo, non appena ebbero varcato la soglia del salotto più piccolo. «Quello che, dopo quarant’anni di Repubblica, si vanta ancora di essere un conte solo per rimorchiare?» insistette, faticando ad accettare che il giovane impegnato in una conversazione decisamente non verbale con una disinvolta moretta fosse il fratello di Beatrice. Anche fisicamente, sembravano diversi come il giorno e la notte.
«Purtroppo sì» commentò lei, con un misto di imbarazzo e rassegnazione, indirizzando un’occhiata risentita ai due, strettamente avvinghiati su uno dei divani. «Lo conosci, per caso?»
«Per sentito dire» replicò il ragazzo, tagliando corto, risoluto a non rivelarle i commenti decisamente poco lusinghieri che aveva fatto su di lui Vittoria, l’unica di loro tre ad essere aggiornata su tutto ciò che riguardava la vita mondana. 

«Son proprio stata una sciocca a credergli!» sbottò Beatrice, furente. «E dire che m’aveva promesso che lasciando Firenze avrebbe lasciato lì anche le cattive abitudini».
«Sei fiorentina?» le domandò, allora, il giovane, facendole segno di spostarsi in una delle nicchie presenti nella stanza per poter continuare a parlare senza essere di intralcio alle persone che entravano e uscivano.
«Sì. Non te n’eri già accorto?»
«Avevo capito solo che sei toscana. Purtroppo, non sono così esperto da saper distinguere i vari accenti» le confessò, inclinando appena la testa da una parte.
Allora, lei gli concesse un piccolo sorriso, prima di tornare a guardare in direzione del fratello, facendosi di nuovo triste. Nel vederla così abbattuta, con indosso quegli abiti stracciati che lei, nei limiti del possibile, si era risistemata addosso con grande dignità prima di rientrare, Marcello si intenerì non poco. In fondo, come lui, anche Beatrice si era ritrovata a prendere parte a quella festa suo malgrado, senza contare che lei era stata anche vittima di Navarra e del menefreghismo di quell’idiota di Guido.
«Vuoi tornare a casa?» le chiese, di punto in bianco, con una punta di dolcezza nella voce.
A quella richiesta, alzò immediatamente la testa verso di lui, un mesto scintillio ad illuminare i suoi occhi blu.
«Sinceramente? Sì».
«Abiti qui vicino?»
«Abbastanza. Purtroppo, ancora non conosco bene Roma, ma non ci si è messo molto a venire» gli spiegò Beatrice, tirandosi nervosamente una ciocca di capelli. «La mia zia abita in Via Merulana, son sua ospite».
Increspando appena le labbra, Marcello visualizzò il percorso che avrebbe dovuto fare per raggiungere quell’indirizzo, convenendo che, effettivamente, non ci avrebbero impiegato più di un quarto d’ora. Il vantaggio dell’usare i mezzi o andare a piedi risiedeva soprattutto nel conoscere viuzze e scorciatoie che, alla necessità, potevano rivelarsi molto comode; tuttavia, sapeva che, prima o poi, avrebbe dovuto comprare anche lui un’auto e smettere così di chiedere in prestito quella di suo padre o di approfittare dei passaggi di Gerardo. Persino Vittoria, anche lei fedelissima al servizio pubblico, era arrivata alla sua stessa conclusione e aveva cominciato a fare il giro delle concessionarie. 
«Se ti va, posso accompagnarti» le propose con naturalezza, ridestandosi dai suoi pensieri. «Prima che ci... incontrassimo, avevo già una mezza idea di andare via».
«Lo faresti davvero?» le domandò lei, meravigliata.
Annuendo, il giovane si sentì in dovere di precisare: «Solo... ti avviso che siamo a piedi, poiché sono venuto con due miei amici».
«Non fa niente, a me piacciono le passeggiate» ribatté la ragazza, scuotendo la testa e facendo ondeggiare le sue ciocche ramate. «Ma tu come farai a tornare a casa tua?»
«Non è troppo tardi, la Metro A è ancora aperta, posso prenderla a San Giovanni e scendere a Flaminio» le rispose Marcello, con semplicità. «Da lì troverò un bus notturno. L’ho fatto spesso, sono abituato».
Tradendo una certa sorpresa, Beatrice gli scoccò un’occhiata di curiosità ed interesse: «Se’ sempre così organizzato?» s’informò.
«Più o meno» considerò il giovane, con una rapida scrollata di spalle, mentre pensava che non sarebbe stato educato presentarsi da Gerardo e chiedergli di dare un passaggio ad una giovane appena conosciuta. «Prima di andare, però, devo informare i miei amici».
«Certamente» rispose lei, annuendo con un rapido cenno del capo. «A dire il vero, anch’io devo avvisare quello sconsiderato... sempre che riesca a capire quello che gli dirò...» aggiunse, affranta.
A metà tra l’intenerito e il dispiaciuto per la sua situazione, Marcello si soffermò a guardarla per un istante, prima di preoccuparsi di ricordarle: «Prendi anche la tua giacca, così poi potremmo andare via subito».
Non appena lui ebbe finito di pronunciare quelle parole, lei corrugò la fronte.
«Ah, be’, ecco, a dire il vero... non ce l’ho» balbettò, mentre le sue guance si colorivano di un lieve rossore. «Temo che sarò costretta ad andare in giro così» concluse, indicandosi. Quindi, abbassò lo sguardo sul suo vestito e, rabbrividendo per lo stato pietoso in cui si trovava, osservò: «Per fortuna, l’è buio».
Davanti alla sua stoica accettazione, Marcello si trovò 
inconsapevolmente a sorridere e la rassicurò: «Non ce ne è bisogno. Ti presterò la mia».

Procedendo con cautela, sempre attento a verificare prima di ogni passo che Maria Luisa non fosse nei paraggi per riacciuffarlo, il ragazzo riuscì finalmente a tornare nel salotto, ma ciò che trovò ad accoglierlo cancellò un po’ della serenità che aveva ritrovato grazie a Beatrice. Infatti, afflosciato su uno dei divani e concentrato nel fare a pezzi con inquietante minuzia un ombrellino per cocktail,
completamente isolato dalla confusione intorno a lui, c’era Gerardo, terribilmente scuro in volto. Di Vittoria, invece, non sembrava esserci traccia.
«Dove...?» cominciò Marcello, interdetto, senza però riuscire a finire la frase.
«È andata via con Marta e Paolo» gli annunciò l’altro, con una punta di irritazione, gettando in aria i resti della carta e dello stuzzicadenti.
«E perché...?» domandò, allora, il ragazzo, sempre più incredulo. Sapeva bene che Vittoria era una ragazza permalosa, ma non avrebbe mai creduto che sarebbe mai stata capace di lasciare una festa, dopo che aveva tanto insistito per andarci.
«Abbiamo... discusso in maniera abbastanza accesa, dopo che tu sei andato via con Maria Luisa» fece Gerardo, sbrigativo, alzandosi. C’era qualcosa nella sua espressione risentita che, per un secondo, fece credere a Marcello che quello potesse avercela con lui.
«Per quale ragione?» si arrischiò a chiedere, stentando a riconoscere il suo amico.
«Ad essere sincero, per una scemenza. Niente che valga la pena raccontare» minimizzò lui, sollevando un braccio con uno scatto nervoso che tradiva, invece, che le cose non stavano proprio così. «Allora, andiamo via?» chiese poi, con tono improvvisamente neutro.
Spiazzato da quell’atteggiamento, che l’altro assumeva solo sul lavoro quando qualcuno cercava di imbrogliarli, Marcello esitò prima di rivelargli: «Ecco, a dire il vero, ero proprio venuto per dirvi che mi sono offerto per riaccompagnare a casa una ragazza e...»
«Ah!» esclamò Gerardo, stupito, per poi aggiungere, acido: «Però, è proprio vero che alle sorprese non c’è mai fine!»
Domandandosi cosa si fossero detti di così terribile i due amici in sua assenza, da spingere Vittoria ad andarsene con altri e Gerardo a diventare così pungente, il ragazzo scrutò questi con una punta di scetticismo, non riconoscendo come sua quella vena caustica che gli aveva appena mostrato. Doveva anche riconoscere, però, che, negli ultimi tempi, quei due avevano cominciato a discutere troppo spesso e, forse, era stata una grave mancanza da parte sua non interessarsi al vero motivo di quegli screzi, etichettandoli come mero frutto della differenza caratteriale fra i due. Tuttavia, non riusciva proprio a capire cosa stesse cambiando tra di loro, dopo averne passate insieme di tutti i colori.
«Gerardo, ti dispiace se...» iniziò il giovane, incerto.
«No, no, tranquillo» lo fermò l’altro, scuotendo la testa. «In fondo, non posso certo dare la colpa a te per i miei problemi».
Quelle parole, che sembravano estrapolate da un discorso molto più ampio, colpirono molto Marcello, che si sentì ferito da quella mancanza di fiducia. Dopo più di vent’anni di solida amicizia, non credeva che si sarebbe mai trovato ad affrontare un discorso simile con lui.
«Gerardo, se c’è qualcosa di cui vuoi parlare...» riprovò. Inutilmente, visto che venne stroncato per una seconda volta.
«No, no, sto bene, davvero» tagliò corto l’amico. «Cioè, mi passerà. Come sempre».
Poi, senza nemmeno concedergli il tempo o il modo di riflettere sul vero significato di ciò che gli aveva appena detto, Gerardo lo salutò con un cenno del capo: «Allora, buonanotte, Marcello. Ci vediamo lunedì».
L’espressione di pura tristezza che, però, comparve sul suo volto mentre si avviava in direzione dell’ingresso, fu la cosa che più rimase impressa a Marcello, il quale rimase da solo in piedi in mezzo al salotto, la testa piena di dubbi.
***

Vista l’ora tarda, per strada Marcello e Beatrice non incontrarono anima viva, eccezion fatta per un paio di Alfa 75 che viaggiavano pigre per il centro cittadino.
Mentre camminavano fianco a fianco sul marciapiede, i due giovani scambiarono ancora più di qualche parola ed il ragazzo trovò molte conferme alla prima impressione che aveva avuto su di lei: nonostante fosse di qualche anno più piccola di lui, avendone compiuti diciotto appena quattro mesi prima, era indubbiamente molto matura. Gli aveva anche raccontato brevemente del suo recente trasferimento nella Capitale, lasciando trasparire una nostalgia di casa che contrastava con la sua apparente sicurezza. In realtà, che fosse orgogliosa l’aveva già intuito dal modo in cui aveva affrontato Navarra, ma quel particolare servì a rafforzare l’idea che se ne era fatto.
Era molto diversa dalle ragazze che aveva conosciuto fino ad allora, questo doveva riconoscerglielo. Inoltre, parlare con lei fu una piacevole distrazione dalle preoccupazioni per i suoi migliori amici: per venire a capo del loro strano comportamento avrebbe fatto meglio a parlare con loro separatamente, ma non sapeva se ciò sarebbe stato sufficiente a convincerli a dirgli la verità, poiché aveva il presentimento, o forse il timore, che gli nascondessero entrambi qualcosa che non avevano nessuna intenzione di rivelare.

Quando arrivarono all’incirca a metà di Via Merulana, ad un incrocio tra questa ed una stradina privata, Marcello scorse una villetta fatiscente che si sviluppava su tre piani, circondata da alti palazzi eleganti. La ragazza non disse nulla e lui evitò qualsiasi commento, anche se si augurò, per la sua stessa incolumità, che quella catapecchia non crollasse da un momento all’altro come spesso accadeva a vecchi edifici mai messi in sicurezza.
«Grazie d’avermi accompagnata» sussurrò Beatrice, una volta che furono davanti al cancello cadente e male illuminato da un lampione, facendo per togliersi la giacca e restituirgliela. Tuttavia, Marcello la fermò, scuotendo vigorosamente la testa.
«No, tienila. Fa freddo» le consigliò, fermo.
«E quando potrò ridartela?» gli domandò, allora, l’altra, guardandolo perplessa.
Messo davanti a quella giustissima obiezione, il ragazzo la osservò a sua volta, mentre prendeva coscienza del fatto che non gli sarebbe affatto dispiaciuto rivederla.
«Be’, suppongo che potremmo metterci d’accordo per uno dei prossimi giorni» affermò, pratico.
Allora, Beatrice strinse le labbra con atteggiamento pensieroso, come se stesse valutando attentamente che risposta dargli.
«Ecco, Marcello, i’ mi’ insegnante privato è ammalato, pare che abbia un brutto raffreddore che lo costringe a stare a letto» esordì poi, incerta. «Martedì prossimo saremmo dovuti andare a vedere la basilica di sant’Agostino, dov’è custodita la Madonna dei Pellegrini di Caravaggio e...»
«Ti piace il Merisi?»
«Conosci il vero nome di Caravaggio...?» fece lei, sinceramente meravigliata.
In risposta, Marcello annuì senza troppa enfasi, forse dando per scontato qualcosa che, stando agli occhi scintillanti di Beatrice, tanto ovvio non era.
Dopo quella breve interruzione, però, l’altra riprese, dimostrando un certo entusiasmo: «Sai, mi stavo chiedendo se ti piacerebbe accompagnarmi tu, dato che conosci molto bene Roma. Ovviamente, solo se vuoi e non hai altri impegni per la giornata. Così, potrò anche ridarti la giacca».
Gli aveva detto tutto senza quasi prendere fiato, continuando a guardarlo con attenzione, forse temendo di ricevere una risposta negativa. Invece, a lui quella proposta piacque subito, poiché, pensava che, accompagnandola a visitare qualcosa che le interessava, forse avrebbe sentito meno la mancanza di ciò che aveva lasciato a Firenze.
«Hai detto martedì?» le chiese, ripassando a mente tutti i suoi impegni e cercando di ricordare se quel giorno fosse libero oppure no.
«Sì, martedì pomeriggio».
«Mmh, si potrebbe fare. Devo solo accordarmi con il mio socio per organizzarci con il lavoro» commentò Marcello, meditabondo. «Va bene per te se ci incontriamo direttamente lì fuori?»
Aprendosi in un gran sorriso riconoscente, la ragazza annuì, arrossendo appena.
«Certamente, nessun problema. Cosa ne dici delle quattro e mezza?»
«D’accordo» le confermò lui, soddisfatto.
A quel punto, Beatrice tirò fuori le chiavi dalla micro-borsa che portava a tracolla e, dopo qualche tentativo, riuscì a far scattare la serratura del cancello, che si spalancò con un cigolio da perfetto film dell’orrore, mostrando un giardino incolto e disseminato di rottami di ogni tipo. A quella visione, il giovane alzò un sopracciglio e fu certo che se Dario Argento si fosse trovato a passare da quelle parti, avrebbe potuto trarne qualche spunto interessante per i suoi film.
La ragazza, però, ignorando tutto il degrado che la circondava, si voltò verso di lui un’ultima volta per chiudere il battente che pendeva pericolosamente tutto da una parte e, con un dolce sorriso, lo salutò: «Grazie ancora, Marcello. A presto, allora e buonanotte».
«Buonanotte, Beatrice» rispose lui, restando a guardarla finché non risalì i pochi gradini che conducevano al portone e venne inghiottita dal buio della casa.
Una volta rimasto solo, il giovane si avviò con tutta calma verso la fermata della metro, assaporando la tranquillità notturna e concedendosi del tempo di metabolizzare tutti gli avvenimenti di quella bizzarra serata, dallo stravagante atteggiamento di Vittoria e Gerardo, fino all’amarezza malcelata di lui, allo scontro con Navarra e l’incontro con Beatrice. Se sua madre avesse saputo come era fuggito da Maria Luisa per poi accompagnare a casa una ragazzina sconosciuta, non sarebbe stata affatto contenta di lui. D’altra parte, però, da quando lui aveva memoria, la signora Claudia aveva sempre avuto da ridire su qualsiasi sua decisione, pertanto, mentre scendeva i gradini della stazione di San Giovanni, Marcello concordò con se stesso che, in fondo, il problema non esisteva.




***
Per la revisione di questo capitolo ringrazio Lady Viviana per la sua gentile collaborazione e disponibilità.
Come sempre la grafica del titolo non sarà granché ma è opera mia.
Ringrazio anche Anto, che ha letto molto di questo in anteprima e mi ha dato un parere.
***
[N.d.A]
1. What a... life: sono versi tratti dalla canzone What a feeling, facente parte della colonna sonora del film “Flashdance” (1983);
2. Bambino Gesù: è l’ospedale pediatrico di Roma, disposto sotto la direzione e amministrazione della Santa Sede;
3. Gioca jouer: ballo di gruppo portato al successo dal dj Claudio Cecchetto (1981);
3. Thriller: singolo del 1983 di Micheal Jackson;
5. Alexandre Sterling... Il tempo delle mele: film francese del 1980 che narra una storia d’amore tra due adolescenti. Vittoria e Marcello si riferiscono in particolare alla scena della festa dove la protagonista, interpretata da Sophie Marceau, incontra il suo primo amore, interpretato da Alexandre Sterling, il quale le mette a sua insaputa delle cuffie con la nota canzone “Reality”, riuscendo così a ballare con lei un lento, mentre gli altri invitati si scatenano intorno a loro;
6. The Final Countdown... I want to break free: la prima è un singolo degli Europe (febbraio 1986), la seconda appartiene all’album “The Works” (1984) dei Queen;
7. come... Ritorno al futuro: in effetti, nel film del 1985 (uscito in Italia il 18 Ottobre di quell’anno), considerato un’icona degli Anni ‘80, è presente una scena con dinamiche simili tra il padre del protagonista da giovane, la futura moglie e il bullo di turno. Originariamente, la citazione non era voluta, tuttavia, quando mi sono resa conto della similitudine, l’ho inserita nella riscrittura, poiché, essendo il film degli anni in cui è ambientata la mia storia, mi è sembrata molto adatta.
***

Ho sentito l’esigenza di riscrivere i primi due capitoli perché, essendo scritti molto prima rispetto al resto, avevano uno stile diverso e molte pecche a livello di trama, sembrando l’incipit di una storia esclusivamente romantica.
Ribadisco, però, alcune premesse della versione originale, per chiunque si approcci per la prima volta a questo racconto: le lettere in corsivo nelle battute di Beatrice stanno ad indicare laccento toscano (non parla propriamente il dialetto stretto, vedetela più come una sorta di inflessione con la presenza, talvolta, di qualche intercalare dialettale) e sono consapevole di aver messo più di un cliché, ma è tutto voluto, visto che la trama segue lo stampo fiabesco.
Inoltre, se davvero pensate che in tempi moderni (che siano gli Anni ‘80 o i giorni nostri) non ci siano più pressioni sociali/familiari riguardo il fidanzamento/matrimonio, lasciatevi dire che non è sempre così, purtroppo. 

Grazie a tutti quelli che passeranno di qui, vecchi e nuovi lettori.

Halley S.C.

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Capitolo 2
*** Capitolo Secondo - Vento di Scoperte ***


Vento dell'Ovest - Capitolo 2



- Capitolo Secondo -
Vento di Scoperte







Come ogni mattina, dopo essersi vestita e aver preparato la colazione per sé e per gli altri abitanti della casa, Beatrice si mise davanti al minuscolo specchio della sua stanzetta, per concedersi cinque minuti solo per lei, dedicandosi ad un piccolo ma irrinunciabile rituale, che le ricordava uno dei rari momenti di felicità che aveva condiviso con sua madre Elena finché era stata viva: spazzolarsi con cura i lunghi, fulvi e ondulati capelli.
Negli ultimi tempi, però, aveva avuto sempre meno tempo a disposizione per farlo, poiché, ogni giorno che passava, la zia Assunta e la cugina Anna Laura le assegnavano sempre più faccende da sbrigare, con la scusa che lei e suo fratello erano ospiti a casa loro e per questo andavano ripagate per la loro incredibile generosità.
Per quanto potesse essere considerato generoso aver relegato la ragazza in una stanzetta che, fino a qualche mese prima, era stata una stireria: piccola e angusta, fornita solo di un lettuccio, un armadio fatiscente ed un tavolino tarlato posto sotto ad una finestrella che dava ad ovest, garantendo un po di luce solo nelle prime ore del pomeriggio.
L
unico lusso concesso alla ragazza era stato il permesso di tenere con sé un paravento in seta persiana appartenuto alla bisnonna, ora chiuso e addossato alla parete, e la macchina per cucire di sua madre, uno degli ultimi acquisti fatti prima che la famiglia finisse in bancarotta e fosse costretta a chiedere asilo a parenti poco disposti ad offrirglielo.
Infatti, nonostante conoscesse bene l’indole meschina di sua sorella Assunta, Lapo Tolomei aveva messo da parte l’orgoglio
e l’aveva supplicata di accogliere in casa i suoi figli, almeno finché non fosse riuscito a vendere tutte le proprietà e ricavare il denaro necessario a saldare i debiti di gioco di Guido. La donna, vedova da lunga data, aveva acconsentito malvolentieri, non tollerando né la condotta dissoluta del nipote, né che Beatrice eclissasse la cugina con la sua bellezza fresca e genuina.
Per diverso tempo, la ragazza aveva sperato che il babbo tornasse e li riportasse a Firenze, nella loro bella casa nei pressi della chiesa di Santa Maria del Fiore, ma le cose non erano andate come avrebbe desiderato: il dispiacere d
aver venduto la villetta allArgentario e la casa fiorentina, nella quale si era spenta sua moglie, avevano dilaniato e consumato Lapo, tanto da portarlo alla morte senza nemmeno avere occasione di vedere i suoi figli per l’ultima volta. E così, nel giro di un mese, Beatrice si era ritrovata sola, con un fratello maggiore pressoché assente ed una zia e una cugina che la odiavano e la rimproveravano per qualsiasi cosa.
Come se ciò non bastasse, avendo passato da un pezzo l’età dell’istruzione obbligatoria, le parenti le avevano impedito persino di andare a scuola, insistendo che avrebbe potuto investire meglio il suo tempo nelle faccende domestiche. Per fortuna della giovane, era però intervenuto il professor Rossiglione, amico di vecchia data di suo padre, che si era offerto di farle da insegnante senza percepire nessun compenso, contando di portarla alla maturità da privatista.

Improvvisamente, gli schiamazzi di Anna Laura che litigava con sua madre - quel giorno, per sua sfortuna, si erano svegliate prima del solito - provenienti dal piano inferiore, riscossero Beatrice dai suoi pensieri, ricordandole i suoi doveri di sguattera. Così, dopo aver raccolto i suoi capelli in una treccia, si vestì e si affrettò a riordinare la sua stanza, lasciando che la brezza mattutina rinfrescasse l
aria di quel piccolo cubicolo. Fu indecisa se scendere o meno a preparare la colazione a Guido, anche se poi decise di no: laveva sentito distintamente rientrare intorno alle quattro del mattino, ubriaco fradicio, che cantava una canzonaccia, pertanto fu certa che quello stesse ancora dormendo come un sasso.
Mentre cercava di dare un aspetto dignitoso al suo letto sconquassato, la ragazza sospirò: aveva sempre perdonato a suo fratello qualunque guaio combinato, ma chiederle di scusarlo per aver autorizzato quel viscido essere di Conrado de Navarra a provarci con lei, per giunta in quel modo rozzo, era decisamente troppo. Quando Guido le aveva ordinato di essere carina con quel troglodita, Beatrice aveva pensato che scherzasse, per poi ricredersi nello stesso momento in cui
quello aveva casualmente infilato le sue manacce nella scollatura e sotto la gonna. Al solo ricordo, le salì un misto di rabbia e nausea che si accentuò quando lo sguardo le cadde sull’abito lilla, adagiato sulla poltroncina e ormai era completamente rovinato. E dire che ci aveva messo due mesi per confezionarlo, non avendo così nemmeno il tempo per cercare un modello per il cappotto nuovo, ed ora era da buttare!
Sbuffando, stava per uscire dalla stanza già preparandosi mentalmente all’arringa che le avrebbe rivolto Anna Laura per il suo ritardo, quando
intravide il soprabito nero che sbucava dall’anta semiaperta dell’armadio. Magari, se si fosse organizzata, avrebbe potuto portarlo in lavanderia, così da restituirlo a Marcello lavato e stirato a dovere: era davvero il minimo dopo che lui era stato così gentile con lei. Mentre imboccava le scale, al ricordo del misterioso, affascinante giovane che l’aveva aiutata e alla prospettiva di un pomeriggio da passare insieme, un sorriso le affiorò sulle labbra e il suo malumore fu presto mitigato, dandole la forza necessaria ad affrontare i due cerberi che l’aspettavano di sotto.

Non appena Beatrice varcò la soglia della cucina, si trovò davanti Anna Laura che sorseggiava una mistura dall’odore nauseabondo, sfogliando l’ultimo numero di una delle sue riviste scandalistiche preferite e segnando con una crocetta le foto di attori e cantanti che avrebbe ritagliato in un secondo momento.
«Buongiorno Anna Laura» la salutò, sforzandosi di non tapparsi il naso e chiedendosi chissà quale altro intruglio miracoloso avesse comprato la cugina, che aveva una particolare tendenza ad abboccare a qualsiasi televendita che promuoveva bizzarri prodotti che assicuravano un fisico da top model. Non che fosse in carne, ma i promotori erano così convincenti da essere certa che il suo corpo avrebbe comunque ottenuto qualche beneficio. Fossero anche solo capelli più splendenti e voluminosi, invece del suo ordinario caschetto opaco e floscio.
«Alla buon ora!» esordì quella, acida, agitando pericolosamente la mano che reggeva la tazza e aspergendo ancor di più il tanfo in aria. «La contessina ha riposato abbastanza?»
Beatrice si morse la lingua inghiottendo tutti gli improperi che stava elaborando, visto che non aveva alcuna intenzione di farsi perforare i timpani dagli strilli acuti della cugina, che, invece, si divertiva a provocarla di proposito, tirando in ballo le sue lontane origini nobiliari da parte di madre e contrapponendole alla condizione di semi-schiavitù in cui era ridotta. Come se non fosse ovvio che, sotto sotto, Anna Laura avrebbe tanto voluto lei essere la figlia di una qualche contessa. In fondo, anche se i titoli nobiliari non avevano più alcun valore, avrebbe potuto comunque vantarsi e sentirsi superiore rispetto a tutte le sue amiche.
«Dov’è la zia?» chiese, invece, la ragazza, rendendosi conto solo in quel momento che non si era aggiunta nessuna seconda voce ostile.
Dopo averle riservato un’occhiata di sufficienza, l’altra non si lasciò certo sfuggire l’occasione per darle addosso e le spiegò, perfida: «Aveva delle commissioni urgenti da fare ed è uscita. Quando torna dovrai sorbirti i suoi rimproveri per non averle fatto trovare la colazione pronta!»
«Ma un vi siete alzate un po’ prestino, stamani? Poltrite sempre fin’ alle dieci!» borbottò Beatrice, non troppo forte perché la sentisse, ma abbastanza da concedersi un piccolo sfogo. Ripetere quelle parole soltanto nella sua testa non le avrebbe dato la stessa soddisfazione.
Con la coda dell’occhio si assicurò che Anna Laura avesse ricominciato a leggere, smettendo quindi di infastidirla, e cominciò a darsi da fare per preparare la spremuta per lei e il latte e cereali per sé. Tuttavia, la quiete durò solo una manciata di minuti, prima che la cugina riprendesse a punzecchiarla: «Come è stata la festa di quell’oca di Maria Luisa? Non molto divertente, se sei tornata prima di tuo fratello... Credo di aver fatto proprio bene a non voler venire».
«Guido mi ci ha trascinata. Lo sai che non lera possibile dirgli di no» rispose Beatrice, dopo lunghi attimi di silenzio, decisa a tagliare corto.
Anna Laura, però, voleva sicuramente saperne di più, poiché insistette: «È stato quel maniaco di Navarra a strapparti il vestito?»
Stizzita, la ragazza smise di tagliare in due le arance e si voltò quel tanto che bastava a lanciarle un’occhiataccia, certa che, al suo ritorno a casa, la cugina l’avesse spiata prima dalla finestra e poi dal corridoio, come faceva ogni volta. 

«Secondo te?» le chiese, imprimendo in quelle due parole tutta la collera che avvertì in quel momento e chiedendosi come si potesse essere così perfidi da compiacersi delle disgrazie che da un anno continuavano a caderle addosso, una dopo l’altra. Da brava pettegola e abile spiona, anche Anna Laura era al corrente della corte, autorizzata da Guido, che Navarra stava facendo a Beatrice. Sempre che si potessero considerare tali le sconce e rozze attenzioni che lo spagnolo le rivolgeva.

«Ho solo tirato ad indovinare» commentò l’altra, con una pigra alzata di spalle e un ghigno che sottolineava tutto il suo divertimento. «Però, in qualche modo devei essertene liberata, visto che sei tornata con un altro. Magari, è stato proprio lui ad aiutati con Navarra».
Quell’osservazione così precisa lasciò Beatrice interdetta e le fece sospettare che, in realtà, alla festa fosse stato presente un qualche informatore fidato della cugina, ma le bastò ascoltare ciò che quella aggiunse dopo per dissipare ogni dubbio:
«Povera Bea, sei passata da quel cinghiale spagnolo ad un pivellino sfigato... dalla padella alla brace!»
Confusa, la ragazza rimase a fissare a bocca aperta la cugina, che ricambiava malignamente lo sguardo, non capendo dove volesse andare a parare. Almeno finché il ricordo di Marcello non si materializzò nitidamente nella sua memoria.
«Veramente...» cominciò a dire, incerta, prima di venire zittita bruscamente da un gesto dall’altra.
«Solo uno sfigato non ha unauto per riaccompagnare a casa una ragazza» sentenziò con sicurezza Anna Laura, mostrandosi piuttosto compiaciuta di quella sua personale convinzione. «Vi ho visto dalla finestra della mia camera, siete tornati a piedi».
Tremando da capo a piedi per la rabbia e l’indignazione, Beatrice mise definitivamente da parte le arance si preparò ad intimare alla cugina di farsi gli affari suo, ma quella non glielo permise, perché riattaccò con tono fastidiosamente cantilenante:
«Scommetto che era pure acneico! Ah, povera Bea che non ha mai fortuna con gli uomini, devi essere davvero disperata per essergli corsa dietro. Speravi forse in un bacio della buonanotte?»
«A me non l’è sembrato uno sfigato» puntualizzò la ragazza, con uno scatto nervoso della testa. «È stato molto gentile ed educato. E poi, non l’è affatto acneico!» 
L’altra, però, dovette trovare molto divertente la sua reazione, poiché scoppiò in una risata così fragorosa da scuoterla tutta.
«Ah, ah, ah! Sei davvero patetica!» la schernì, tamponandosi le lacrime con il dorso della mano. «Come puoi credere che...»
«Non son una bugiarda!» la zittì Beatrice, il volto arrossato e le orecchie che le ronzavano per la rabbia. «Marcello l’è un gentiluomo e anche un bel giovane! Lui l’è... sul tu’ giornale?!»
Quella rivelazione stupì entrambe al punto che un verso strozzato pose fine alla risata di Anna Laura e nella cucina calò un silenzio di piombo.
«Che cosa hai detto?» gracidò quest’ultima, pallida e sconvolta, spostando di continuo lo sguardo dalla cugina alla pagina completamente crocettata. Tuttavia, Beatrice ammutolì, troppo turbata dalle foto del ragazzo che aveva notato solo allora: non leggeva mai le riviste che circolavano in casa, pertanto ignorava sia che Marcello fosse così famoso. Per giunta, non avrebbe mai creduto che godesse di una tale popolarità da essere immortalato tra gli scatti di certi giornali. Chi era davvero, allora? Un attore di fotoromanzi o forse un cantante di una band emergente?
«Che stupidaggini ti stai inventando, piccola stupida?»
Quell’insulto immeritato la riscosse immediatamente, costringendola ad abbandonare le sue riflessioni per difendersi.
«Un mi sto inventando nulla, l’è tutto vero!»
«Smettila!» strillò Anna Laura, zittendola all’istante, gli occhi fuori dalle orbite e le guance, sempre mortalmente pallide, tinte di una orribile sfumatura violacea. «Sul serio speri che io creda che Marcello Gentilini ti abbia riaccompagnata a casa?!»
«Sì, percl’era Marcello!» ribatté Beatrice, con tono ancor più rabbioso. «Ieri ssera m’ha detto lui stesso come si chiamava!»
A quel punto, tacquero entrambe, squadrandosi in cagnesco.
«Tu vaneggi!»
decretò, infine, la cugina, alzandosi dalla sedia e cominciando a camminare su e giù per la stanza. Percorse l’intero perimetro almeno un paio di volte, gli occhi fissi sul pavimento mormorando tra sé parole incomprensibili, per poi lanciarsi in un appassionato monologo: «Non è assolutamente possibile che Gentilini si sia interessato ad una sciacquetta come te! Tu non lo sai, ma è uno dei più giovani e più scaltri imprenditori della città, schifosamente ricco e maledettamente bello. Forse si tratta dello scapolo più ambito di tutta Roma, quasi impossibile da avvicinare, figurati parlargli!»
Fece una breve pausa per riprendere fiato e concluse con un misto di abbattimento e irritazione: «Peccato che sia un gran misogino e guardi dall’alto in basso le donne come se fossero spazzatura! Frequenta solo quella gatta morta di Vittoria Farnese e davvero non so cosa ci trovi in lei di tanto speciale...»
Da tutto quel fiume di parole che l’aveva investita, Beatrice aveva capito due cose importanti: Marcello non era un personaggio dello spettacolo, ma comunque un uomo di successo, e sua cugina Anna Laura aveva un evidente debole per lui. Inoltre, il ritratto che aveva appena sentito non coincideva affatto con l’impressione che le aveva dato il ragazzo la sera precedente. Ciononostante, si guardò bene dall’insistere, o peggio rivelare che aveva un appuntamento con lui in settimana. 

«Be’, direi che abbiamo chiarito la questione» commentò improvvisamente Anna Laura, richiudendo le riviste e stringendosele al petto. «Quando avrai finito, portami tutto di sopra, ho deciso che voglio fare colazione in camera!» annunciò poi, con uno sdegnoso cenno del capo.
In risposta, Beatrice si chiuse in un determinato mutismo e strinse appena i pugni, ben consapevole che quel capriccio era la sua punizione per aver detto una verità che la cugina non voleva riconoscere. Eppure, si ritrovò a riflettere qualche istante più tardi, forse era meglio non essere stata creduta, almeno nessuno le avrebbe impedito di uscire quel martedì pomeriggio. Improvvisamente, sentì crescere in lei una gran curiosità di capire davvero chi fosse Marcello, se il giovane buono e disponibile che l’aveva aiutata o il freddo e distaccato uomo d’affari che aveva dipinto Anna Laura. 

Mentre tornava ad occuparsi delle arance, recuperando il coltello che aveva lasciato incuneato in una di esse, la ragazza rivolse distrattamente lo sguardo oltre la porta della cucina, in direzione delle scale, dove notò una scena a metà tra l’esilarante e il grottesco: sua cugina intenta a sbaciucchiarsi avidamente un ritaglio di giornale. Scuotendo la testa, Beatrice si rimese al lavoro, chiedendosi con un sorrisetto chi tra le due fosse davvero la più patetica.
***

Quando Marcello richiuse le pagine del quotidiano, subito si sollevò l’odore familiare e pungente dell’inchiostro, che costrinse il giovane ad arricciare le labbra in una smorfia di disgusto. Deluso dall’assenza di una qualche notizia che annunciasse l’arresto di Navarra, gettò il giornale sul divano, il più lontano possibile da lui, per poi accomodarsi sulla poltrona, con l’intenzione di dedicare due o tre ore al libro che aveva lasciato in sospeso, circondato da file e file di volumi che riempivano il rilassante silenzio della biblioteca. In quel momento, dalla finestra appena socchiusa, proveniva il melodioso cinguettio degli uccellini appollaiati sugli alberi limitrofi e, di tanto in tanto, un piacevole soffio del vento di inizio autunno.
Decisamente, era il suo nascondiglio preferito, una delle poche stanze in cui Tiberio, quando veniva a trovare i genitori, non riteneva degna di essere ispezionata. Non appena il giovane aveva visto la macchina del fratello parcheggiata nel piazzale, aveva deciso che avrebbe trascorso il resto del pomeriggio lì dentro, chiedendo alla governante di non far entrare nessuno.
Tuttavia, Marcello ben presto dovette cambiare i suoi programmi, poiché aveva appena appoggiato il segnalibro sul tavolino, quando Vittoria e la sua esuberanza irruppero nella stanza.
«Ciao, Marcellino!» esclamò, gaia, facendo capolino dalla porta.
Non aspettandosi una sua visita così improvvisa, il ragazzo sobbalzò e la fissò qualche secondo, prima di borbottare: «Meno male che avevo detto ad Ottavia di non voler essere disturbato!»
«Sì, me l’ha detto» lo rassicurò lei, veleggiando verso di lui con un sorrisetto sornione, «ma io sono tua amica e per me certe regole non valgono, lo sai».
Istintivamente, Marcello alzò gli occhi al cielo, facendo subito scoppiare a ridere l’altra che, senza indugiare, si accomodò sulla poltrona accanto. A quel punto, avendo capito che i suoi programmi di lettura dovevano essere rinviati, il ragazzo mise via il libro ed accavallò le gambe.
«Come mai sei venuta? C’è qualcosa che non va, per caso?» le chiese, non senza averla prima scrutata attentamente. Infatti, conosceva Vittoria da troppo tempo per non sospettare che, dietro il suo avviso improvviso, si nascondesse qualcosa: fin da bambina, non aveva mai esitato a correre da lui quando aveva un problema.
«Be’, ecco...» iniziò lei, incerta, diventando improvvisamente triste. «A dire il vero, volevo scusarmi con te per essere andata via dalla festa di Maria Luisa senza preavviso e, soprattutto, senza averti salutato».
Perplesso, Marcello corrugò la fronte, stupito da quell’aria fin troppo dimessa per una come Vittoria. In quel momento, gli tornò alla mente la breve discussione avuta con Gerardo e si chiese se l’altra avesse già parlato con lui per fare pace.
«Non preoccuparti, non me la sono presa. Invece, credo che Gerardo ci sia rimasto abbastanza male» commentò, sondando il terreno. Ogni volta che quei due discutevano, si trovava sempre nella scomoda posizione dell’intermediario che doveva stare molto attento a ciò che diceva dell’uno all’altra. 
Mettendo su un cipiglio abbastanza allarmante, l’amica posò lo sguardo su di lui e si sfregò le labbra. 
«Ti ha detto che abbiamo litigato, vero?» domandò, tradendo una certa apprensione.
«Sì, sabato sera stesso» le riferì Marcello, lieto di non dover ricorrere a chissà che giri di parole per farle capire che era a conoscenza dei retroscena. «Ieri mattina mi ha telefonato per dirmi che si sarebbe preso un paio di giorni di ferie. Sembrava ancora piuttosto provato».
«Non è venuto al lavoro..?»
In risposta, il ragazzo si limitò a scuotere brevemente la testa e Vittoria si incupì ancora di più.
«Per caso, ti ha detto anche perché abbiamo litigato?» si informò quest’ultima, con fare circospetto.
«No. Gliel’ho chiesto, ma non mi ha risposto».
Immediatamente, sugli occhi della giovane passò un’ombra di tristezzacosì intensa che Marcello temette fosse successo qualcosa di irreparabile. Stava quasi per chiederle se andasse tutto bene, quando quella attaccò, con una vena di incertezza nella voce: «Be’, ecco... è cominciato tutto per colpa mia».
Si fermò un attimo, per attendere un cenno ad andare avanti da parte del suo interlocutore e, dopo che lo ebbe ottenuto, proseguì: «Vedi, a Gerardo piace Maria Luisa e... No, non fare quella faccia! Davvero non te ne sei mai accorto?»
«Ad essere sincero, no» ammise il giovane, perplesso e sorpreso dalla rivelazione. Si ritrovò allora a considerare che, a conti fatti, non era la prima volta che ignorava una qualche trama amorosa che si intrecciava sotto i suoi occhi. Solo, lo stupì che, in quel caso, si trattasse dell’amico che conosceva da praticamente una vita; tuttavia, era anche vero che Gerardo non gli aveva mai confidato nulla riguardo i suoi innamoramenti, mentre, al contrario, Vittoria gli parlava dei suoi ancor prima che se ne rendesse conto lei stessa.
«Sei sempre il solito» sbuffò la ragazza, tradendo però un sorriso, riportandolo a concentrarsi sulla conversazione. «Comunque, stavo dicendo: a lui piace lei, ma a lei, come ben sai, interessi tu, quindi gli ho solo consigliato di lasciar perdere quella vacca che non lo merita».
Nell’udire quella definizione, Marcello aggrottò le sopracciglia, stupito.
«Gli hai detto proprio così?»
«Le parole non erano queste, ma il senso sì» tagliò corto l’altra, togliendosi i capelli dal viso con un gesto seccato.
«Vittoria, non è da te usare insulti... sessisti» osservò il ragazzo, ponderando bene le parole. C’era qualcosa in tutto quel discorso che non quadrava, come se l’amica gli stesse nascondendo qualcosa di importante, e Marcello lo percepiva non tanto dalle sue parole, quanto più dai piccoli scatti nervosi del corpo o dalle eccessive pause che stava mettendo nel racconto.
«Sì, hai ragione, ma in questo caso sono costretta ad andare contro i miei stessi principi»
puntualizzò Vittoria, lapidaria. «Gerardo non ha tutti i torti ad essersela presa, però, vedi, io volevo solo fargli capire che sbaglia a sottovalutarsi. Non può sottomettersi ad una che lo tratterebbe come uno zerbino».
«Su questo mi trovi pienamente concorde. Gerardo è davvero troppo modesto» approvò il giovane, ben consapevole della scarsa autostima dell’amico, quando, invece, era davvero una persona eccezionale.
«E dovrebbe cercarsi una ragazza che possa apprezzare davvero tutte le sue innumerevoli qualità» rincarò con decisione la ragazza, incrociando le braccia sul petto e abbandonandosi contro lo schienale della poltrona. «Se solo si girasse un po’ intorno...» aggiunse dopo qualche secondo, sottovoce, forse diretta più a se stessa che a lui.
Quella reticenza, però, non sfuggì a Marcello, anzi, lo illuminò perfino sulla possibilità che Vittoria stesse alludendo ad una qualche sua amica interessata a Gerardo. Tuttavia, c’era da dire che lei non sembrava molto contenta e questo gli parve piuttosto strano.
«Comunque, credo che stasera andrò da lui e gli chiederò di fare pace» concluse improvvisamente la giovane, dopo l’ennesima pausa, accompagnando le parole con un gran sospiro. A quel punto, il giovane arrivò alla conclusione che fosse semplicemente preoccupata che il loro amico potesse avercela ancora con lei, pertanto si sentì in dovere di confortarla.
«Mi sembra un’ottima idea» la incoraggiò, sorridendole. Poi, si alzò e le chiese: «Sto andando in cucina per una tazza di tè, ne preparo una anche per te?»
Subito, le labbra di Vittoria si incurvarono all’insù e un po’ di luce tornò a brillare nei suoi occhi.
«
Oh, sì. Molto volentieri» rispose, con la sua solita allegria. «Sai che non dico mai di no ad una tazza di tè. Vuoi una mano?»
«No, non preoccuparti, faccio subito» la rassicurò il ragazzo, già quasi arrivato alla porta.


Marcello gettò nella teiera due filtri di tè e rimase ad osservare l’acqua bollente che si tingeva di un tenue colore rossastro, assumendo tonalià più scure man mano che passava il tempo. Intanto, Vittoria si era protesa verso il vassoio, annusando l’aroma che si espandeva nell’aria, come faceva fin da quando era piccola.
«Leandro non mi manda mai abbastanza Earl Grey, lo finisco sempre prima che mi spedisca il pacco successivo» disse, lasciando che le si increspasse appena la fronte.
«Probabilmente, tuo fratello è d’accordo con me e pensa che tu sia abbastanza vivace, anche senza un abuso di teina».
Indispettita, la giovane riaprì di scatto gli occhi e indirizzò all’amico un’occhiataccia che, però, venne ignorata.
«
Due cucchiaini di zucchero e mezza fettina di limone. Giusto?» le chiese Marcello, versando cautamente il liquido fumante in due tazze di porcellana pregiatamente cesellata.
«Tu sì che mi conosci. Bartolomeo, invece, si ostina ad offrirmi il caffè!» sospirò Vittoria, tornando compostamente seduta sulla poltrona.
«Be’, sono vent’anni che ti sopporto. In fondo, Bartolomeo l’hai incontrato solo l’anno scorso» le fece notare il ragazzo, tra il serio e il divertito, guadagnandosi un’altra occhiata obliqua, mentre le porgeva la tazza. «A proposito, dove si trova in questo momento?»
Prima di rispondere, l’amica si perse ad ammirare gli sbuffi di vapore che stava esalando la sua bevanda, giocherellando pigramente con la fetta dell’agrume.
«Nelle Filippine. Ha detto che sta trovando molti soggetti interessanti per le opere da presentare alla sua prossima mostra» spiegò, con una piccola smorfia. Quel pomeriggio, sembrava essere turbata da gran parte degli argomenti che affrontavano quotidianamente, anche quando con loro c’era Gerardo. Infatti, si affrettò a cambiare discorso: «Che cosa stavi facendo prima che ti interrompessi?»
Marcello masticò lentamente il pasticcino di frolla al cacao e scaglie di cocco che si era appena ficcato in bocca, concedendosi un lungo istante per assaporarlo al meglio. Era tra i migliori che avesse mai mangiato e, più tardi, avrebbe sicuramente fatto i complimenti ad Annetta.
«Volevo concedermi un paio d’ore di lettura, prima di rimettermi a studiare in vista dell’imminente incontro con Lord Carter» le disse, tuffando di nuovo la mano nel piatto dei biscotti.
«Sono un po’ indietro. Io e Gerardo ci siamo divisi il materiale da passare in rassegna, così io mi sto occupando delle Sette Sorelle».
«Le Sette Sorelle? Ma non sono le compagnie petrolifere accusate dell’omicidio di Enrico Mattei? E Lord Carter non è il magnate che gestisce la maggior parte degli impianti idrocarburici del Mare del Nord?» domandò Vittoria, all’improvviso spaventata.
«Già, sono proprio loro e mi chiedo se mai si scoprirà cosa è successo davvero all’aereo di Mattei» fece Marcello, con una sconsolata alzata di spalle. «Per quanto riguarda Carter, hai ragione anche su di lui. Per ora, tutto ciò che sappiamo è che sta facendo la corte alla British Petroleum, partecipando per loro conto alla negoziazione per comprare la Britoil, ma non ci è chiaro che cosa voglia sul serio».
Impallidendo, la ragazza serrò le labbra e si appoggiò in grembo le mani, ancora strette intorno alla tazza.
«Sì, ho capito, ma cosa c’entrate voi con Lord Carter e le compagnie petrolifere? State pensando di comprare azioni o roba simile?»
A quel punto, il giovane prese la teiera e le fece segno all’amica se volesse dell’altro tè, ma quella mosse appena il capo, troppo concentrata su di lui; così Marcello riempì di nuovo solo la propria tazza.
«No, a dire il vero, è stato proprio Carter a contattarci, chiedendoci se volessimo partecipare ad un investimento per la costruzione di una nuova piattaforma per l’estrazione del petrolio» le illustrò, cercando di spiegare la faccenda con parole semplici. «Notevoli interessi assicurati, a suo parere».
Vittoria, invece, non sembrò dello stesso avviso, perché, non appena lui ebbe finito di parlare, subito scattò: «Marcello, so che questo non è il mio ambito e che non capisco nulla di borsa, petrolio o tassi di interesse, ma... se dicessi a te e Gerardo di lasciar perdere, c’è qualche speranza che mi ascoltereste?»
Vedendo che la ragazza sembrava davvero preoccupata per entrambi, Marcello pensò bene di rassicurarla.
«Tranquilla, non abbiamo ancora firmato niente» le disse, appoggiando una mano sulle sue, talmente serrate intorno alla porcellana che avrebbe potuto frantumarla da un momento all’altro. «Inoltre, stando alle nostre ricerche, Carter non ci sembra molto... onesto».
Dopo che le ebbe riferito ciò, il giovane avvertì la tensione di Vittoria ridursi di molto e ne fu sollevato, nonostante si sentì un po’ in colpa per averla fatta inquietare, quando, invece, avrebbe dovuto distrarla dai brutti pensieri che aveva e che, purtroppo, solo in parte aveva condiviso con lui. Ne era certo: come aveva già fatto Gerardo sabato scorso, anche lei gli stava nascondendo qualcosa, tuttavia sentiva che non aveva senso insistere, perciò pensò di passare a parlare di altro.
Gli venne in mente allora l’idea di chiedere all’amica qualche consiglio su cosa portare il martedì pomeriggio a Beatrice, non avendo intenzione di presentarsi a mani vuote. Sapeva che sarebbe stato rischioso mettere al corrente Vittoria della ragazza che aveva conosciuto alla festa, ma, si disse per convincersi, prima o poi lo sarebbe comunque venuto a sapere.
Quindi, preparandosi mentalmente all’interrogatorio che avrebbe subito di lì a breve, esordì: «Vedi, Vittoria, avrei bisogno di un consiglio, diciamo, per... una specie di appuntamento con una ragazza».
L’effetto di quelle parole fu immediato: l’amica drizzò la schiena e spalancò gli occhi, pieni di una curiosità che aspettava solo di essere soddisfatta.
«Chi è, la conosco? Come vi siete conosciuti? Quando sarebbe l’appuntamento?» chiese, senza prendere fiato tra una domanda e l’altra. Travolto da tutta quella esuberanza, Marcello sbatté le palpebre, sbilanciandosi leggermente all’indietro e addossandosi allo schienale della poltrona. Proprio in quell’istante, gli sembrò di aver sentito un rumore provenire dal giardino e si voltò istintivamente verso la finestra. Rimase in attesa, ma quello non si ripeté.
«Non credo tu la conosca, almeno non di persona» considerò, pensieroso, tornando a rivolgersi all’amica, che non sembrava aver notato nulla. «È la sorella di Guido Tolomei».
Non appena ebbe pronunciato quel nome, la giovane contrasse le labbra in una smorfia di disappunto.
«Davvero ha una sorella? Spero non sia come lui».
«Per niente! Anzi, non vedeva l’ora di andaresene da quella bolgia» rimarcò Marcello, secco, quasi offendendosi lui al posto di Beatrice. «Ci siamo scontrati mentre io scappavo da Maria Luisa e lei da Conrado de Navarra».
Per la seconda volta, Vittoria assunse un’espressione disgustata e, agitandosi sulla poltrona, esclamò: «Navarra?! Che cosa ci faceva alle festa di Maria Luisa? E perché ce l’aveva con questa ragazza?» Poi, si fermò un attimo, come se stesse riflettendo su un particolare fondamentale del quale non era ancora venuta a conoscenza e aggiunse:  «A proposito, lei come si chiama?»
«Potresti farmi domande delle quali so la risposta, per favore?» sbottò il giovane, esasperato, sollevandosi con uno scatto nervoso, anche se, alla fine, si rimise seduto. Avrebbe davvero voluto sottrarsi a quell’interrogatorio così accanito, ma poi si ricordò che ancora non aveva ricevuto alcun consiglio, quindi decise di restare dov’era.
«Quanto sei noioso, non sai mai niente di interessante» si lamentò l’altra, per nulla scomposta. «Almeno conosci il nome della tua nuova amica?»
«Si chiama Beatrice».
«Beatrice» ripeté Vittoria sottovoce, concentrata, come se potesse suggerirle qualcosa in più sulla ragazza. «Un bel nome. Sai, io credo che potresti banalmente portarle dei fiori, visto che non passano mai di moda».
«Fiori?» le fece eco il ragazzo, stupito di non averci pensato da solo.
«Be’
, se le piace cucinare, potresti anche optare per un mazzo di cime di rapa» lo punzecchiò l’amica, ridacchiando e prendendo un biscotto con la frutta candita, il primo in tutto il pomeriggio. «Possono tornare utili per un buon minestrone».
Subito, Marcello avvertì le guance avvampare per la stizza, ma non replicò, poiché aveva appena avuto la dimostrazione che Vittoria si era rasserenata al punto tale da esserle tornato l’appetito.
«Comunque, non è un appuntamento amoroso, andremo solo a vedere le opere di Caravaggio nella basilica di Sant’Agostino» ci tenne a precisare lui, rilassandosi a sua volta. «Mentre la riaccompagnavo a casa, mi ha raccontato che le manca molto Firenze, così ho pensato che fosse un gesto carino accompagnarla a visitare qualcosa che le interessa».
«Oh, ma io ho sempre saputo che, da qualche parte sotto quella scorza dura, si nascondeva un lato da tenerone» ribatté istantaneamente Vittoria, un sorriso sornione che andava da una parte all’altra del volto, servendosi un altro dolcetto.


Tra la chiome dei pini filtrava una calda luce aranciata che conferiva a tutto il giardino un particolare alone dorato, facendolo sembrare quasi un bosco degli elfi. Continuando a parlare, Marcello e Vittoria percorsero il viale acciottolato che attraversava una fitta e lussureggiante distesa d’erba fino ai cancelli della villa.
«Posso strapparti la promessa che mi racconterai tutto ciò che succederà con Beatrice?» chiese lei, speranzosa, quando passarono accanto ad una grande fontana circolare di marmo, decorata da graziose ninfee rosa.
«Come no» ribatté il giovane, sarcastico. «Ci sono già i giornalisti che, spesso e volentieri, se ne escono con domande inopportune sulla mia vita privata».
«Per questo hai deciso di rilasciare interviste solo a Il Sole 24 ORE e simili?».
«Esatto».
«Ma io non sono una giornalista, sono la tua migliore amica, quindi...»
Vittoria, però, non riuscì a terminare ciò che stava dicendo, perché venne stroncata dalla Matrona, che si era materializzata dal nulla, sbarrando loro la strada.
«Non avrai proprio un bel niente da raccontare, perché non andrai da nessuna parte!» sbraitò, all’indirizzo del figlio, senza degnare la ragazza nemmeno di una rapida occhiata. Inaspettatamente, da dietro di lei sbucò un sogghignante Tiberio, le gli occhi che brillavano di soddisfazione. Nonstante fossero fratelli, lui e Marcello avevano solo una vaga somiglianza fisica che sarebbe stata riscontrata solo da un osservatore molto attento. Tiberio, infatti, aveva ereditato la media statura, l’atteggiamento prevaricatore e le iridi color caramello della madre; invece, dal padre, solo i capelli castano scuro.
Quando se li trovò davanti sul sentiero, quasi come una bislacca parodia delle fiere dantesche, Marcello
impiegò il tempo di un battito di ciglia per superare la sorpresa iniziale e ricambiare l’occhiata ostile. Incrociò le braccia sul petto e, in tono di sfida, ribatté: «E con quale autorità credi di impedirmelo, mamma? Sai, ho passato i cinque anni da un pezzo, ormai».
«Taci, figlio ingrato!» lo zittì la signora Claudia, puntandogli contro un dito accusatorio. «Tiberio ha sentito cosa stai progettando di fare e mi ha raccontato tutto!»
«Che cos...?» cominciò il giovane, per poi bloccarsi subito. Pian piano, nella sua mente cominciò a farsi strada il sospetto che il rumore proveniente dal giardino che aveva sentito in biblioteca non fosse stato solo frutto della sua immaginazione; la conferma, però, arrivò quando notò il ghigno sulla faccia del fratello che si allargava a vista d’occhio.
«Come hai potuto mettere gli occhi sulla nipote di Assunta Tolomei!» sbraitò la Matrona, richiamando l’attenzione di Marcello e distogliendolo dall’istinto di avventarsi su quel traditore. «La loro è una famiglia disgraziata e, dopo tutto quelo che ho fatto per te, non puoi ripagarmi in questa maniera!»
Dunque, notò con disgusto Marcello, sua madre conosceva talmente bene gli appartenenti alla Roma bene, o sedicenti tali, da non risparmiare nemmeno la zia di Beatrice, chiunque lei fosse. In considerazione di ciò e seccato da quel tono querulo, infimo espediente che usava sempre sua madre quando voleva farlo sentire in colpa, il giovane decise di troncare quella inutile conversazione e di impiegare il suo tempo in maniera più proficua.
«Veramente, ho solo riaccompagnato a casa quella ragazza, non ci ho amoreggiato. E questo è tutto».
La signora Claudia, però, non doveva essere dello stesso parere. Infatti, contrasse il volto in una maschera di collera e, agitando i pugni all’aria, perseverò a portare avanti le sue argomentazioni.

«
Tu non hai idea di quello che ho passato, prima di arrivare qui,» gridò, agitando le braccia freneticamente le braccia, indicando tutto ciò che la circondava, tanto che il figlio si chiese se quell’avverbio si riferisse nello specifico a Villa Aurelia oppure alla posizione sociale che essa simboleggiava, «perché quando sei nato hai trovato la strada per il successo già spianata... da me! Io non ti permetterò di mandare all’aria i miei sacrifici!»
Contando fino a dieci per non espoldere, Marcello si voltò verso Vittoria che, nonostante non fosse certo la prima volta che assisteva alle terribili sceneggiate della Matrona, sembrava piuttosto in difficoltà per essersi trovata in mezzo a quella diatriba familiare. Senza contare, che sia Claudia, sia Tiberio avevano tranquillamente fatto finta di non vederla: anche insultarla, in quella circostanza, era di secondaria importanza.

«Mamma, mi sembra davvero che tu stia esagerando» tagliò corto il giovane, prendendo l’amica per un polso. «Ora, scusami, ma devo accompagnare Vittoria, che ha tutto il diritto di poter tornare a casa!»
Detto questo, la condusse via, superando la madre e sostando accanto al fratello il tempo per sussurrargli, a denti stretti: «Con te facciamo i conti dopo».
«A dire il vero, stavo tornando a casa da mia moglie e mie figlia. Se non ti spiace, possiamo fare un’altra volta, che ne dici?» lo sbeffeggiò quello, di rimando, alzando il mento con fare tronfio. In risposta, Marcello assottigliò lo sguardo e passò oltre, prima che il suo autocontrollo andasse a farsi benedire e cedesse alla voglia di tirare un pugno ben assestato a quella faccia da schiaffi.

Talmente era tanta la rabbia che aveva in corpo, che Marcello marciò fino al cancello senza dire una parola con le orecchie che fischiavano così intensamente da coprire quasi qualunque suono provenisse dall’esterno.
«Scusami per il penoso spettacolo di prima, ma questa casa assomiglia sempre di più ad un circo» disse infine a Vittoria, quando fu certo che i suoi parenti non potessero più sentirlo. Lei, però, scosse la testa.
«Non preoccuparti, tu non c’entri» lo rassicurò, facendo dondolare la borsetta che aveva tra le mani. «Sono anni che li conosco».
In quel momento, calò un silenzio teso, interrotto solo dai rombi e dai clacson delle automobili che trafficavano per la strada poco lontana. Era ormai arrivato il crepuscolo e con esso l’ora di punta.
«Mia madre non accetta che io ascolti i suoi consigli e che non faccia niente per compiacerla» sospirò il giovane, di punto in bianco, lo sguardo che vagava sul prugno ormai ingiallito oltre la spalla della ragazza. «Ma io ho già scelto il genitore da compiacere e non è lei».
Una delle bellezze di un’amicizia longeva e sincera come era quella che lo univa a Gerardo e Vittoria era la possibilità di parlare con loro liberamente, senza dover per forza mettere in piedi assurde giustificazioni al comportamento inopportuno di sua madre o di suo fratello. Poteva confidarsi con loro e ascoltare le loro opinioni, a volte molto illuminanti, come fu proprio quella che espresse la giovane poco dopo.
«Se mi permetti, secondo me, lei ti vede come il figlio davvero vincente, quindi si sente frustrata nel saperti così distaccato. Ecco perché si accanisce contro di te» gli disse, con dolcezza.
«Probabile che sia così, ma non può decidere al posto mio» replicò lui, risoluto. Era inammissibile che la Matrona, ad un passo dai venticinque anni, decidesse chi dovesse frequentare il figlio. Non gli dispiaceva rivedere Beatrice e di certo non si sarebbe lasciato fermare dalle paturnie di sua madre.
«Ci sentiamo domani?» gli domandò la ragazza, toccandogli appena una mano per richiamare la sua attenzione. Ridestato, spostò lo sguardo su di lei ed annuì.
«Be’, allora... buona fortuna con Gerardo. Sono certo che non ti chiuderà la porta in faccia, è troppo buono per farlo» le disse, incoraggiante, ricordandosi dei suoi piani per la serata. Rincuorata da quelle parole, mentre attraversava il cancello, Vittoria gli regalò un sorriso riconoscente.

***

Il pomeriggio del martedì successivo, Marcello si avviò di buon’ora verso la basilica di Sant’Agostino, tra le mani un piccolo omaggio floreale per Beatrice: un
discreto ed elegante mazzetto di gerbere bianche. Anche se non le aveva dato soddisfazione, doveva riconoscere che Vittoria gli aveva comunque dato un ottimo suggerimento.
Ovviamente, quando era uscito di casa, non aveva detto a nessuno dove stava andando, anche se, a giudicare dall’occhiata in cagnesco che gli aveva lanciato la madre quando le era passato davanti al naso, molto probabilmente lo aveva capito. Ciononostante, non aveva detto mezza parola, lasciando alla sua espressione indignata il compito di esprimere tutto il suo disappunto. 
L’idea di passare qualche ora con Beatrice gli aveva infuso una insolita serenità, poiché ricordava quanto era stato piacevole parlare con lei, seppur temeva avrebbe fatto qualche gaffe, dato che era la prima volta che usciva con una ragazza che non fosse Vittoria. Non aveva mai avuto molte occasioni di interloquire con le donne giovani, non perché non volesse scambiare opinioni con loro o perché le reputasse esseri inferiori, come qualche lingua malevola vociferava alle sue spalle, bensì perché non gli era mai capitato di conoscerne di veramente interessanti.  Nell’ambito lavorativo, infatti, aveva a che fare quasi eslcusivamente con altri uomini; la cerchia di persone che si trovava a frequentare alle feste o nel corso di un evento mondano, invece, era sempre piuttosto limitata e popolata per la maggior parte da soggetti come Ascanio Colonna o Maria Luisa Foscari. Non era un tipo molto socievole, questo lo riconosceva, per questo si era sempre fatto bastare Gerardo e Vittoria, qualche vecchio collega dell’università con cui era rimasto in contatto e alcuni dei ragazzi che frequentavano la palestra del signor Nardone.
Perso nelle sue riflessioni, Marcello svoltò meccanicamente l’angolo e si ritrovò in piazza Sant’Agostino, dove la bianca facciata dell’omonima chiesa, prendeva quasi tutta la visuale e, lì sotto, seduta su uno scalino, con lo sguardo rivolto verso il basso, scorse subito Beatrice. Indossava un leggero vestito blu notte e sulle spalle aveva poggiato un maglioncino sottile dello stesso colore; i capelli fulvi, particolare che lo aveva aiutato ad individuarla a colpo d’occhio, le ricadevano lunghi e sciolti ai lati del volto. Senza nemmeno accorgersene, il giovane sorrise e si avviò verso di lei.
«Buon pomeriggio, Beatrice» la salutò, quando le fu abbastanza vicino, domandandosi se fosse stato troppo formale.
Presa alla sprovvista, la ragazza alzò di scatto la testa, ma, quando lo riconobbe, gli sorrise a sua volta.
«Ciao Marcello. Son contenta che tu sia venuto». 
All’improvviso a corto di parole, non sapendo bene che cosa dire, il ragazzo decise di trarsi d’impaccio con una domanda neutra:
«Sono in ritardo, per caso?»
«No, no. Sono io che son venuta prima, visto che non m’andava di restare ancora in casa con la mia cugina» chiosò Beatrice, infastidita, arricciando il naso.
«Non andate d’accordo...?» le domandò lui, cercando di mantenersi sul vago. Sapeva davvero poco della sua famiglia e si augurò che ne avesse una migliore della sua, anche se bastava pensare a Guido per convincersi subito del contrario.
«Be’, l’è un po’... invadente, per uscire ho dovuto rifilarle una scusa» gli riferì la ragazza, lasciando intendere che il resto del parentando non era poi tanto migliore del fratello. «A proposito, mi spiace di non aver potuto portarti indietro il soprabito, ma m’ha tenuto d’occhio finché non son uscita».

Sembrava davvero dispiaciuta; tuttavia Marcello, che comprendeva bene la situazione, vivendone una simile in prima persona, la tranquillizzò: «Non importa, me lo ridarai un’altra volta. Intanto, posso usarne un altro».
In risposta, Beatrice accennò un sorriso di ringraziamento e si alzò dagli scalini, spolverandosi accuratamente la gonna dell’abito.

Mentre la osservava, il giovane avvertì la sensazione di avere qualcosa in mano e si ricordò del mazzetto di genziane.
«Mh, ecco... questi sono per te» le disse, offrendoglieli con un gesto un po’ impacciato.
Sorpresa, lei sollevò il capo e guardò prima i fiori, poi lui, le guance che si tinsero di un discreto rossore.
«Oh, grazie... Non avresti dovuto disturbarti!» si affrettò a dire. «Son bellissime, le gerbere son tra i mie’ fiori preferiti».
«Mi fa piacere» commentò lui, sollevato dalla notizia. Le aveva scelte perché gli erano sembrati dei fiori adatti ad una ragazza molto giovane, ma non avrebbe mai sperato che potessero piacerle fino a tal punto.
Per qualche istante, i due giovani rimasero in silenzio, poi, Marcello pensò che fosse carino fare la prima mossa ed invitarla ad entrare nella chiesa. D’altra parte, nonostante non fosse un veterano in ambito di appuntamenti con le ragazze, poteva sempre affidarsi al buon senso, di cui, per sua fortuna, non era sprovvisto. 
«Allora, vogliamo entrare?» le domandò gentilmente, mostrandole la via con un cenno del braccio. «Prego, dopo di te».
«Oh, certo» rispose la ragazza, stringendo i fiori tra le dita e precedendolo. Marcello la seguì, accorgendosi che stava sorridendo ancora una volta.

Gli interni, sfarzosi ma piuttosto cupi della basilica, così incontrasto con il pomeriggio assolato che si erano lasciati alle spalle, costrinsero i loro occhi ad impiegare un po’ di tempo prima di abituarsi alla penombra; tuttavia, quando si trovarono davanti alla Cappella Cavalletti, Marcello ammise a se stesso che, se non fosse passato per quella momentanea cecità, non avrebbe potuto capire fino in fondo la meraviglia di quel quadro.
Custodito tra due colonne di marmo, il capolavoro di Caravaggio destò subito l’interesse di Beatrice, che osservava il dipinto con reverenziale ammirazione. Ciò non sfuggì al giovane, il quale istintivamente tornò a rivolgere lo sguardo verso la tela ed ebbe la fugace, ma intensa sensazione che le figure avessero preso a muoversi: la Madonna teneva in braccio Gesù Bambino rivolto verso i pellegrini, scalcinati e stanchi, con i piedi visibilmente sporchi e gonfi, particolare che, all’epoca, aveva destato molto scandalo tra gli ecclesiastici. Erano così realisitici da sembrare vivi.
Nonostante Marcello non fosse un grande cultore della storia dell’arte, non avrebbe mai potuto negare l’atmosfera aulica che si respirava lì davanti.
«L’è qualcosa di meraviglioso» sussurrò Beatrice, persa nella contemplazione delle ombre sciolte dalla pennellata di luce caravaggesca. «Un’atmosfera unica. Lo sai come faceva il Merisi a dare quest’effetto?»
Interrompendo la contemplazione del quadro, il giovane si voltò verso di lei
e poi scosse con umiltà la testa: «No, in storia dell’arte sono un autentico ignorante, lo ammetto».
«Dipingeva con pennellate nere ed intense, per poi segnare con il manico del pennello i punti dove avrebbe disegnato i volti e i massimi punti di luce. Obbligava perfino i suo’ assistenti a tenere le fiaccole accese in determinate posizioni per avere il giusto effetto luminoso. Per lui, la luce era tutto» spiegò lei, con un sospiro ammirato, le iridi blu incollate al dipinto.
«In poche parole, era uno schiavista» commentò Marcello, alzando appena un sopracciglio.
«No» rise Beatrice, scuotendo la testa e serrando i fiori contro il petto, «solo un grande artista».
«Ti piace molto Caravaggio?»
«È il mi’ artista preferito. Una personalità affascinante, con tante luci ed ombre, esattamente come i suoi quadri».
Il giovane si concesse un’altra occhiata alla tela, prima di notare: «Ne parli davvero con tanto trasporto».
«Oh, sì. Un altro artista che amo, anche se non quanto il Merisi, è l’altro Michelangelo, il Buonarroti. Un’altra personalità burrascosa e controversa» gli spiegò la ragazza, facendo spallucce.
«Dunque, ti piacciono le persone difficili» replicò lui, accigliandosi.
Beatrice, però, si lascò sfuggire un piccolo sorriso e cominciò a camminare lungo la navata, le dita che accarezzavano i petali delle gerbere.
«
Be’, mettiamola così» iniziò, dopo che ebbero percorso un bel tratto. «Penso d’avere un debole per i bei tenebrosi».
«Non sono persone con cui è facile avere a che fare» ribatté, però, lui, fermandosi all’improvviso, una sottile nota di rimpianto nella voce. Si sentiva parte integrante della categoria, non tanto per il “bello”, quanto più per il “tenebroso”, consapevole di avere un carattere fatto più di ombre, che di luci, esattamente come un quadro di Caravaggio.
Senza smettere di solleticare i fiori, la ragazza si arrestò a sua volta, rivolgendogli un’intensa occhiata indagatrice.
«A volte, però, vale la pena provare, non credi?» gli domandò, con una punta di dolcezza.
«Be’, sì, però... » le rispose, non del tutto sicuro. In quel frangente, una piccola comitiva di turisti francese si frappose tra di loro, interrompendo il contatto visivo. Quando anche l’ultimo fu passato, scusandosi con Marcello in uno stentato italiano, il giovane si rese conto che Beatrice, passando da un quadro all’altro, era quasi giunta all’abside. In confronto alla maestosa architettura, la figura di lei sembrava ancora più piccola, ma i capelli rossi e i fiori arancioni che teneva in mano le permettevano di risaltare sullo sfondo e non fondersi nemmeno con la massa scomposta dei turisti, come se appartenesse ad una dimesnsione a sé. Fu allora che il ragazzo decise che voleva provare.
Animato da un nuovo proposito, la raggiunse in appena una manciata di secondi e, quando le fu accanto, le chiese:  
«Beatrice... ti piacerebbe visitare la Cappella Sistina?»
Meravigliata dalla proposta, la ragazza si voltò verso di lui e lo fissò a lungo, la bocca semi-aperta.
«La Cappella Sistina? Quella Cappella Sistina?»
«Sì, direi che è proprio quella» le confermò, sorridendo di fronte a quel genuino stupore. «Hai detto che ti piace anche Buonarroti, credo sarebbe bello, per te, vedere i suoi affreschi lì conservati. Che cosa ne dici?»
Bastarono quelle poche parole per renderla assolutamente raggiante, da sembrare quasi rischiarare le penombra che li circondava.
«
Oh, ma certo!» esclamò. «Però, che io sappia, non l’è facile riuscire a vederla».
«In realtà non è così impossibile. Basta prenotarsi per tempo» osservò Marcello. «Se chiamo subito, dovrebbero darci l’opportunità di visitarla sotto Natale. Saresti d’accordo?»
L’espressione di pura gioia che si leggeva sul volto di Beatrice rispose per lei.

Nonostante le ripetute opposizioni di Beatrice, che temeva di disturbarlo, il giovane insistette per accompagnarla a casa. Infatti, non avrebbe mai lasciato una ragazza da sola per strada, per giunta all’imbrunire, senza contare che non gli dispiaceva trascorrere un altro po’ di tempo in sua compagnia.
Il clima mite offrì loro una piacevole passeggiata, durante la quale Marcello poté studiare meglio Beatrice e l’entusiasmo che l’animava quando parlava di opere e artisti: sembrava immergersi in un mondo tutto suo, dove l’arte diventava specchio e memoria di tutti i comportamenti umani, positivi o negativi che fossero. Lui l’ascoltava con interesse, colpito dalla sua preparazione e scoprendosi desideroso di sapere di più su quell’universo a cui, chissà per quale ragione, non aveva mai dedicato l’attenzione che meritava.
«Ti dispiace se ci salutiamo qui?» chiese la ragazza, quando ad un centinaio di passi dalla villa, lanciando un’occhiata sospettosa in direzione delle finestre del secondo piano.
«C’è forse qualche problema?» domandò il giovane, vagamente sorpreso.
«Non vorrei che la mia cugina ci vedesse: ha la brutta abitudine di spiarmi» rispose lei, diventando cupa. «Potrebbe farmi domande scomode».
Quel comportamento gli ricordò immediatamente quello che aveva spesso Tiberio con lui, pertanto il ragazzo si limitò a farle un solidale cenno d’assenso.
«Ehm... per la Sistina... ti fai sentire tu?» gli chiese poi Beatrice, quasi sottovoce, torcendosi una ciocca ramata, senza smettere di gettare alla villa sguardi circospetti. Forse, rifletté Marcello, quella ragazza viveva in una condizione perfino peggiore della sua.
«
Ovviamente. Non appena saprò qualcosa, te lo farò sapere» le disse, con dolcezza. «Mi lasci il tuo numero o anche il telefono è sotto sorveglianza?» le chiese poi, con una punta di curiosità. Il giovane voleva cercare di capire quanta libertà avesse, poiché, da ciò che aveva visto e sentito fino a quel momento, non gli sembrava che Beatrice vivesse in una famiglia molto permissiva. Il profondo sospiro al quale lei si abbandonò subito dopo gli confermò quell’intuizione.
«Se chiami di mercoledì mattina, ti risponderò io con certezza. Non c’è nessuno in quel momento, sono sola» gli rispose, stringendo le spalle.
Marcello, allora, prese dalla tasca interna della giacca
la sua agendina e si frugò in quelle laterali per trovare una penna, per poi porgere entrambe alla giovane. Dopo che lei gliele ebbe restituite, il ragazzo fece per rimettere tutto a posto, perciò non si accorse di quanto Beatrice gli si fosse avvicinata. Fulminea, quella si alzò in punta di piedi e gli diede un leggerissimo bacio sulla guancia, lasciandolo un po’ disorientato.
«Grazie, Marcello. Per il pomeriggio, per le gerbere... per tutto» gli sussurrò, arrossendo appena sulle guance, prima di correre via, i lunghi capelli ramati che danzavano nell’aria.
Per qualche istante, Marcello rimase immobile, portandosi inconsciamente le dita nel punto che Beatrice gli aveva sfiorato con le labbra.
Poteva quasi di sentirne ancora il calore.
***

Piena d’entusiasmo per il pomeriggio appena trascorso, Beatrice entrò in casa canticchiando, certa che se Anna Laura avesse saputo con chi era uscita, certamente sarebbe morta d’invidia.
Aveva appena cominciato a salire le scale con passo quasi saltellante, quando incrociò Guido che, tutto contento, scendeva di corsa. Fisicamente non aveva molto in comune con lei: né bello, né brutto, era scuro di capelli, con gli occhi grigi e il viso affilato che non suscitava nemmeno un minimo della dolcezza che, invece, trapelava da quello della sorella. Il suo fascino, poi, era abbastanza discutibile; ciononostante, per un motivo o per un altro, era sempre attorniato da belle ragazze.
«Ciao, Cicci. Come mai sei così felice?» tubò, rivolto a Beatrice.
«Niente di che. Ho solo trovato queste belle gerbere e dei bottoni perfetti per il mi’ vestito nuovo» gli rispose Beatrice, sbrigativa, superandolo.
«Ah, ragazza spensierata! Pensi ai ffiori e ai tuo’ vestiti nuovi! Meno male che ci son io a lavorare per te».
Sorpresa da quell’affermazione, la ragazza si bloccò a metà della rampa, voltandosi verso di lui.
«Per me?» ripeté, corrugando la fronte. «E cosa mai avrai fatto di così eccezionale, Guido?»
«Cicci, ho messo a posto tutto e ho rimediato al tuo pasticcio dell’altra sera!» esordì il giovane, sottolineando l’eccezionalità dell’evento con un ampio gesto del braccio. «Adesso l’è sufficiente solo che tu dica una data! Possibilmente entro i prossimi tre mesi. Sai, prima ti decidi e meglio sarà. Magari, potrei spillargli ancora qualche altra lira...»
«Scusa, Guido, una data per cosa?»
«Ma come per cosa! Ragazza sbadata, ma è ovvio, per le tu’ nozze con Conrado de Navarra!»





***
La revisione di questo capitolo non è stata editata.
La grafica del tititolo è opera mia.
Un grazie speciale va anche alla mia Anto che collabora sempre con entusiasmo.
***


Anche questo capitolo è stato riscritto, per renderlo più fluido e concorde con i successivi.
Halley S. C.

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Capitolo 3
*** Capitolo Terzo - Vento di Intrecci ***


Vento dell'Ovest - Capitolo 3



- Capitolo Terzo -
Vento di Intrecci







Secondo Marcello, il chiacchiericcio dei turisti e gli schiamazzi felici dei bambini, in quella mattina di ottobre inoltrato, rendevano Via della Conciliazione fin troppo caotica e chiassosa. A dire il vero, non è che ci fosse poi chissà che folla; molto probabilmente, era solo il ragazzo ad essere insofferente, per via dell’incontro che avrebbe avuto con Lord Carter, pertanto si sentiva disturbato anche da ciò che, in un’altra situazione, l’avrebbe lasciato indifferente.
«Scommetto che nemmeno durante il recente incontro tra Gorbačëv e Reagan c’è stata tutta questa tensione» esordì Gerardo, con un sorrisetto tirato, mentre svoltavano verso destra, in direzione di Via di Porta Angelica.
«Carter può essere pericoloso quanto la Guerra Fredda, almeno rimanendo in termini di affari» commentò Marcello, tetro.
Prima di proseguire, gettò un’occhiata all’imponente facciata della Basilica: San Pietro dominava la scena e la sua cupola, rifulgente di luce bianca, si stagliava contro un cielo azzurro pastello.
I due ragazzi giunsero poco dopo al Caffè del Borgo1, chiesero ad un cameriere se Lord Carter fosse, per un puro caso, già dentro ad attenderli e, avendo ricevuto risposta negativa, decisero di rimanere fuori.
«Arriverà con mezz’ora buona di ritardo» affermò Marcello, guardando le lancette del suo orologio, puntate sulle dieci e cinque.
«Come minimo» rispose Gerardo. «Ho sentito dire che, talvolta, si è presentato anche diverse ore dopo l’orario stabilito».
«Non credo convenga aspettarsi molto rispetto, da uno come Edward Carter» sentenziò il biondo accomodandosi sul massiccio bordo di una fioriera vuota. L’amico lo imitò e lì attesero entrambi, pazientemente.
Le campane di San Pietro stavano battendo le undici e mezza, quando il miliardario britannico ed il suo segretario fecero la loro comparsa, a bordo di una berlina nera tirata a lustro.
«In perfetto ritardo» borbottò Tornatore, suscitando l’ilarità dell’altro, il quale ben camuffò la risatina con un colpo di tosse.
Carter, accompagnato da un giovane uomo, scese dall’auto, dirigendosi subito verso i ragazzi. Non era stato difficile per loro individuare chi dei due fosse il magnate, giacché era l’unico nella coppia ad aver superato abbondantemente la cinquantina: un uomo dai capelli neri striati di bianco, ordinatamente pettinati all’indietro, un paio di baffetti sottili e piccole rughe intorno agli occhi. Marcello trovò che fosse una plausibilissima versione più matura di Clark Gable in Via col Vento.
«Good Morning» salutò l’imprenditore, stringendo la mano ai due giovani. «Scusate l’inconveniente ritardo, ma sono insorti dei disguidi... Io e il mio assistente siamo stati finora a discutere di affari».
“Perché, con noi devi parlare del tempo?” pensò il ragazzo, infastidito dall’approccio, facendo dell’ironia sulla proverbiale mania degli inglesi di discutere delle condizioni atmosferiche.
«
Sì, eravamo impegnati con affari molto, molto importanti» replicò l’uomo che accompagnava Carter. «A proposito, John Miller, piacere».
I due giovani strinsero la mano anche a lui, poi tornarono a guardare il magnate, che sembrava irritato da qualcosa.

«
Fa veramente troppo caldo qui. Siamo ad ottobre e ancora ci sono queste temperature. E poi, hanno il coraggio di dire che l’Italia ha un clima invidiabile!»
Il biondo increspò le labbra e rimase a fissare Carter in tralice; ogni secondo che passava quell’uomo gli stava sempre più antipatico. Aveva un modo di dire ciò che pensava fin troppo gretto e rozzo, per essere un pezzo grosso dell’economia britannica; stando a quello che aveva detto Vittoria, aveva anche ricevuto l’onorificenza di Sir dalla Regina in persona, in virtù dell’ottimo lavoro svolto nel campo degli investimenti della nuova industria.
Entrarono nel locale, dove un signore sulla sessantina, probabilmente il proprietario, dopo aver profusamente salutato Carter, li fece accomodare in una sala situata al piano di sopra. A giudicare dal comportamento di entrambi, sembrava si conoscessero molto bene.
L’interno era abbastanza luminoso, sebbene la stanzetta fosse davvero piccola: l’arredamento era elegante, ma assomigliava più ad un ufficio che ad una sala da tè. Anzi, la libreria, il tavolo da biliardo e il tavolino quadrato la rendevano molto simile ad una bisca.
Marcello si chiese se non fosse una specie di ufficio che Carter era solito usare, allorquando si trovasse a Roma, per gestire i suoi affari. Legali ed illegali.
Si accomodarono al tavolo ed immediatamente Miller consegnò ai due giovani un plico di fogli, in attesa che il miliardario cominciasse a parlare. Cosa che non tardò ad avvenire.
«Come potrete leggere dalla brochure informativa che vi ha dato John, il progetto per il quale stiamo cercando dei partner finanziatori riguarda qualcosa che guarda al futuro. Vale a dire, una piattaforma per l’estrazione del petrolio, da costruire nel Mare del Nord
» snocciolò Lord Carter, fiero di ciò che stava proponendo.
«
Un progetto ambizioso» commentò Marcello, in perfetto inglese, alzando appena lo sguardo dai fogli. «Ma perché non prendere in considerazione il Medio Oriente? Anche lei è contro il selvaggio sfruttamento delle risorse dei paesi meno industrializzati?»
In realtà, il ragazzo aveva già un sospetto sulla risposta che avrebbe ricevuto, ma doveva mostrarsi un po’ ingenuo se voleva davvero sapere fin dove voleva spingersi il magnate.
«Niente affatto. Ci sarebbe piaciuto aprire un’altro impianto di nostra proprietà in Kuwait... ma già la costruzione del primo ci ha dato qualche problema con l’Unione Sovietica e con gli Stati Uniti, senza contare che entreremmo in conflitto con la British Petroleum2. Così, abbiamo deciso di rivolgerci altrove, anche per offrire all’industria petrolifera uno sbocco in Europa» spiegò l’imprenditore, con un sorriso sottile. «Senza dover elemosinare l’odioso aiuto di altri».
Gerardo lanciò uno sguardo di sbieco al suo amico: evidentemente anche lui stava cominciando a capire che razza di persona fosse l’uomo che avevano davanti.

«Si vocifera che la British Petroleum voglia acquistare la Britoil
» disse Marcello, incrociando le braccia sul petto. «Ovvio che non voglia altri concorrenti, nel momento in cui si sta espandendo. Però, Lord Carter, non capisco una cosa: il Mare del Nord, per quanto ricco di petrolio, non può assolutamente reggere il confronto con i giacimenti del Caucaso e dei Paesi Arabi. Siete sicuri che costruire lì sia un buon investimento?»
«
Abbiamo fatto delle ricerche. I nostri periti hanno stabilito che la zona è più che adatta al nostro progetto» intervenne Miller, alzandosi in piedi, adirato, come se fosse stato toccato un argomento delicato. «Nelle ultime pagine del dossier ci sono i resoconti delle perizie...»
«Non ho una laurea in ingegneria chimica e nemmeno in geologia, non credo di avere le competenze necessarie per capire ciò che c’è scritto. Mi sembra inutile farmelo leggere, non trova?
»
L’assistente prese nuovamente posto, senza staccare mai gli occhi dal ragazzo. Marcello fu sicuro che se avesse potuto l’avrebbe incenerito seduta stante, tuttavia, poiché il suo astio era pienamente ricambiato, forse Miller non avrebbe avuto la meglio.
Entrò, proprio in quel momento, il cameriere di prima, con in mano un vassoio con quattro bicchieri e una bottiglia di vino.
«
Oh! Wrotham Pinot, l’unico vino autoctono inglese!» esclamò Carter.
Il biondo questa volta poté osservare meglio l’inserviente e si sorprese della cicatrice sotto l’occhio che non aveva avuto modo di notare prima, accorgendosi che ogni nuovo particolare che scopriva gli faceva passare sempre di più la voglia di concludere un affare con quei tipi.
Una volta che i calici furono pieni, il signore andò via e Gerardo prese la parola: «Immagino che non saremo i soli a competere per la partnership, vero?
»
«
No, infatti» rispose Miller, pronto. «Già altre società ci hanno fatto diverse proposte. Di solito noi facciamo scrivere e firmare le offerte, quindi le apriamo tutte insieme alla presenza di un notaio e contattiamo il vincitore, ossia chi ha fatto l’offerta più vantaggiosa, con meno interessi».
«Sembra quasi una gara d’appalto» commentò il ragazzo. 
«
Infatti lo è. Lo Stato Britannico collabora per una buona percentuale nel progetto, pertanto ha disposto che sia fatto tutto secondo la legge» ci tenne a precisare l’assistente.
Gerardo e Marcello si scambiarono l’ennesima occhiata e, capendosi al volo, non posero altre domande.
Durante l’ultimo quarto d’ora dell’incontro, John Miller si affannò a spiegare a Gerardo quando e come loro avrebbero dovuto fare l’offerta per finanziare parte della costruzione della piattaforma (ignorò deliberatamente Marcello perché, probabilmente, l’aveva preso in antipatia), mentre Lord Carter, sorseggiando il suo vino, lanciò alcune occhiate inquisitorie ai due giovani, anche se non proferì più verbo.
Intorno all’una e mezza, i due inglesi salutarono i giovani e, sostenendo di avere altri importanti questioni da sbrigare, entrarono nella berlina e l’autista partì a tutto gas.

«Cosa ne pensi?» chiese Gerardo, non appena l’auto, con a bordo il miliardario e il suo assistente, sparì alla loro vista.
«Che non mi piace» commentò Marcello, lapidario. «Abbiamo fatto bene ad accertarci di persona di come stanno realmente le cose. Tuttavia, dobbiamo ammettere che, questa volta, le dicerie sul suo conto erano tutte vere: a quell’uomo interessa solo raggiungere i suoi scopi, non importa come».
«Vuoi dire che dobbiamo guardarci anche dai suoi intrallazzi?» chiese Gerardo, lanciando all’amico uno sguardo di complicità.
«Esatto. Ci sono contraddizioni in ciò che hanno detto lui e quel Miller, non me la contano giusta. Deve esserci sotto qualcosa di molto losco ed è meglio tenersene fuori» affermò con sicurezza il giovane. «Inoltre, credo che sarà lui stesso a sollevarci dall’incomodo di dirgli di no: non vinceremo mai l’appalto».
«Be’, in effetti, non penso proprio che voglia concederci la possibilità di entrare in affari con lui. Non si è mostrato molto ben disposto verso di noi».
«Oh, ci strapperemo tutti i capelli, per il dolore che ci provocherà questo rifiuto» osservò il biondo, con una buona dose di sarcasmo.
Il moro ridacchiò.
«Se ci fosse stata anche Vittoria, ti avrebbe dato man forte. Nemmeno lei ha una buona opinione su Carter» considerò, mentre si avviavano tutti e due sulla via di casa.
«A proposito di Vittoria, ho saputo che è venuta da te perché pensava avessimo litigato».
«Ah sì, è vero» rispose Gerardo, cambiando repentinamente espressione e rabbuiandosi.
«Cosa c’è?»
«Niente».
«Senti, Gerardo...» cominciò Marcello, come se si stesse preparando a sostenere un estenuante seduta per contrattare qualche affare. «Non facciamo inutili giri di parole. Se è per Maria Luisa sai benissimo che...»
«Maria Luisa non c’entra. O meglio, lo sai, mi piace come ragazza, ma la questione è più complicata di quello che è».
«Che vuoi dire?» chiese, fissando interdetto l’altro, il quale, dopo aver ricambiato l’occhiata, si preparò a replicare.
«Be, è vero che l’altra sera sono stato un po’ invidioso di te perché te ne sei andato sottobraccio a lei, tuttavia...»
Il biondo, esasperato, alzò gli occhi al cielo e sbottò: «Ma se ti ho detto poco fa che non mi interessa! Gerardo, non essere ridicolo. Non possiamo mandare a rotoli anni e anni di sincera amicizia per via di una gallina come Maria Luisa!»
L’amico lo guardò e si abbandonò ad un sospiro di stanchezza.
«In realtà, lo so che non ti interessa, ti ho visto andare via con quella ragazza dai capelli rossi...
ma il punto è che tu puoi scegliere con chi stare, io no. Perfino Vittoria, che ci conosce entrambi da tempo immemore, preferisce te a me».
«Vittoria? Ma se ti adora! Ha sempre una buona parola per te! Pensa che si preoccupava che potessi finire sotto il giogo della Foscari!»
Adesso, a Marcello non importava più di insultare quella cornacchia davanti a Gerardo: lo considerava più fratello di Tiberio, pertanto non poteva permettere che finisse sposato con quella lagna ambulante!
«Eh, già. Intanto si è fidanzata con quel carciofone dello scultore, la cara Vittoria!» commentò l’altro, con un misto di amarezza e disgusto.
«Gerardo, non mi piace il discorso che stai facendo» replicò a viva voce il biondo«Ho capito dove vuoi andare a parare: che devi accontentarti di chi sia disposta a sposarti. Ti sembra un ragionamento logico?»
«Forse non lo è, ma tu non puoi capire, Marcello. Io non ho le tue qualità, sei tu quello che eccelleva in matematica a scuola, il primo nelle gare sportive, il più bravo del nostro corso alluniversità, il più acclamato dalle ragazze. Io, invece, non posso aspirare ad una moglie piena di doti».
«Pensi davvero che bastino quelle cose ad affermarsi come persona?» domandò il giovane, incredulo.
Gerardo scosse la testa: 
«No, ma non puoi negare che avere una buona immagine aiuta. Credevo che, dopo essere stata rifiutata da te, con Maria Luisa avessi almeno un’opportunità».
Marcello sgranò gli occhi, dubitando per un attimo di aver davvero sentito bene.
«Non riesco a credere alle mie orecchie! Stai parlando come mia madre! Non dirmi che anche tu credi che uno si debba accasare a tutti i costi, anche se non ama la persona che sta sposando
«Non è proprio così» ribatté l’altro, insistendo sulla sua posizione. «Io vorrei sistemarmi anche perché, così facendo, forse, finirei di pensare alla donna che amo e che non posso avere, dato che è già impegnata».
«Aspetta un attimo. E chi sarebbe?» domandò Tornatore, sempre più confuso.
«Non importa il nome. Importa solo che io per lei sarò sempre invisibile» rispose Gerardo, sorridendo malinconicamente.
«Scusami, ma continuo a non capirti. Hai provato almeno a dire alla Ragazza del Mistero quello che provi per lei?»
«Sarebbe inutile, lascia stare. Anzi, lasciamo stare l’intera faccenda».
Marcello aggrottò marcatamente le sopracciglia, tanto che comparvero rughe profonde sulla fronte. Non riusciva davvero a credere che il suo migliore amico, una persona tanto buona e pacata, fosse arrivata a simili orribili conclusioni, riguardo al prender moglie.
«Dai, non starci troppo a pensare. Siamo amici come prima?» fece il ragazzo bruno, con il chiaro intento di sdrammatizzare, dopo aver osservato il cipiglio dell’amico.
«Ovvio... però... anche tu hai tante qualità. Vorrei che non lo dimenticassi» aggiunse Marcello, preoccupato per ciò che aveva udito.
«Certo, certo» rispose l’altro, facendo spallucce. «Allora ci riaggiorniamo domani, così da decidere come muoverci con Carter. Buona giornata, Marcello».
Il biondo ricambiò il salutò e rimase a guardarlo mentre si allontanava. Non avrebbe mai creduto che il suo migliore amico potesse essere geloso di lui e Vittoria, come se entrambi l’avessero escluso, come se fosse lo scarto del gruppetto. Gli sembrava quasi... risentito. Il solo fatto che Gerardo avesse potuto pensare cose simili, fece capire a Marcello quanto lamico soffrisse ad essere costantemente eclissato da lui. Cosa, per altro, assolutamente non voluta.
Erano cresciuti praticamente insieme, ma mai avrebbe sospettato che ci fossero questi celati dissapori. Gli dispiaceva vedere la persona che considerava al pari di un fratello così affranta e, in certo senso, rassegnata. Sicuro che anche Vittoria fosse del suo stesso avviso, il giovane si ripromise che ne avrebbe discusso anche con lei; magari insieme avrebbero trovato il modo di dissuadere il loro amico dal compromettersi per sempre, sposando Maria Luisa Foscari e le sue perpetue svenevoli lagne. Magari, in futuro, Gerardo avrebbe avuto modo di incontrare una fanciulla dolce e che sapesse apprezzarlo veramente.
Appuntandosi mentalmente il proposito, il ragazzo seguì il corso di Via della Conciliazione, così da prendere la metro e tornare a casa, quando, in una vetrina di una libreria, notò qualcosa che attirò la sua attenzione: un libro sulla vita e l’arte di Caravaggio ed il pensiero di Beatrice si materializzò istantaneamente nella sua mente.
In effetti, si trovava a pochi passi dalla Cappella Sistina e dagli uffici dei Musei Vaticani. Perché non provare a vedere se si potesse prenotare direttamente da lì?
Animato da quell’idea, decise che si sarebbe recato di persona a chiedere informazioni, ma prima voleva assolutamente acquistare quel libro: era certo che Beatrice avrebbe apprezzato il regalo almeno quanto i fiori e, con buone probabilità, persino Vittoria si sarebbe dimostrata soddisfatta della sua iniziativa.
Entrato nel negozio, il ragazzo si diresse immediatamente allo scaffale dove erano riposti i libri d’arte; e fu particolarmente fortunato, perché il volume che cercava era sistemato in una grande pila, segno che il negozio ne aveva copie in abbondanza. Ne prese una, ma, una volta alla cassa per pagare, notò che la cassiera era impegnata in tutt’altre faccende, infatti, stava gaiamente civettando con un giovane, mollemente appoggiato al bancone.
«Ma è veramente oro?» chiese la ragazza, ammirando il bracciale che aveva al polso.
«
Oro. Vero oro, vero come il mio amore per te, ma non abbastanza bello da eguagliare la tua bellezza» languì il ragazzo.
La ragazza emise una serie di snervanti risolini, mentre Marcello avvertì i denti che gli facevano male, certamente per la dose eccessiva di stucchevolezza racchiusa in quelle parole. 
«Signorina, mi scusi, io avrei una certa fretta. Perché non invita il suo corteggiatore a tornare quando non ci sono clienti?
» proruppe il giovane, senza celare il suo disappunto.
La ragazza trasalì e si fece paonazza, mentre l’altro si girava verso il biondo.
«Tornatore, i fatti tuoi non riesci mai a farteli, vero?»
«
No, Colonna. Traggo un particolare piacere dal romperti le uova nel paniere» rispose Marcello, avendo immediatamente riconosciuto nel suo interlocutore una delle persone che meno gradiva al mondo.
Ascanio Colonna sogghignò in maniera cattiva e sibilò: «Verrà il giorno in cui scenderai dal piedistallo che ti sei costruito. Oh, se scenderai
... ed io sarò lì, in prima fila, pronto a deriderti».
«Allora ricordati di prenotare. Quei posti vanno via subito, non vorrei che poi fossi costretto a rimanere in piedi».
Sul volto del giovanotto il sorriso appassì.
«Prima o poi ti passerà anche tutto questa voglia di scherzare, vedrai» sussurrò, sfidando il nemico con lo sguardo. Poi si voltò verso la commessa, dicendo: «Ci si vede, bambola!»
Girò sui tacchi ed uscì dal negozio. Marcello lo guardò allontanarsi, pensando che, anche se il futuro per lui avesse avuto in riserva dei brutti momenti, di certo non sarebbe caduto mai nelle bassezze di cui era capace Colonna.
«Un po’ di gentilezza non fa mai male, sa?» lo rimbrottò la ragazza, indispettita per la dipartita del suo corteggiatore.
«Ha pienamente ragione, ma solo con chi merita» replicò il ragazzo, asciutto. Pagò in fretta ed uscì dalla libreria, lasciando la cassiera particolarmente imbronciata. E si ritrovò a sorridere, pensando a come l’avrebbe presa quella ragazza, se avesse saputo che Colonna si intratteneva abitualmente con almeno altre dieci.
***

Quando Beatrice vide per la prima volta Campo de’ Fiori, subito ne rimase entusiasta. La statua di Giordano Bruno, posta lì in memoria del suo ingiusto rogo, sembrava un po’ fuori luogo tra i banchi dei mercanti, che cercavano di procacciarsi i clienti, declamando a gran voce la bellezza della propria merce.
I colori ed i profumi, però, conquistarono immediatamente la fanciulla, che prese a guardarsi intorno con grande curiosità.
«Stammi dietro e non ti perdere
» la richiamò scortesemente Anna Laura, precedendola di qualche passo. «Non ho intenzione di venirti a cercare, non ho tempo e tantomeno voglia!»
La ragazza si affrettò a seguire la cugina, evitando di ribattere: era talmente contenta di esser potuta uscire a fare acquisti (anche se, in realtà, le compere non erano per lei), che lasciò correre anche i borbottii della parente. Uscire con quest’ultima, però, non era semplice, dato che, per trovare il prezzo migliore, la donna aveva l’insana mania di fare il giro di tutte le bancarelle svariate volte, fermandosi ad ognuna per parecchi minuti, neanche fossero le stazioni della Via Crucis.
«
Qui sembrano avere buoni prezzi» mormorò Anna Laura, sbirciando il cartellino dei geranei.
Beatrice gironzolò attorno alla bancarella, incuriosita dalle buganvillee dai colori sgargianti: le sarebbe piaciuto avere una di quelle piante sulla veranda, magari da lasciar crescere lungo il reticolato, accanto al gelsomino, ma, dopo aver visto il prezzo, cambiò idea.
Forse sarebbe stato più saggio scegliere una piccola pianta da tenere in camera, una di quelle piccole piante grasse in vaso...
«Anna Laura!
»
La fanciulla si voltò, attirata da qualcuno che chiamava a gran voce la cugina. Fece scorrere lo sguardo lungo il corridoio che si era creato tra i banchi di fiori, cercando di capire chi fosse, e vide una ragazza in bicicletta che agitava una mano: stava venendo verso di loro. Non capì, d’impatto, di chi si trattasse, ma la ragazza era certa che non fosse un viso sconosciuto.
«
Oh, no! Quella poco di buono della Farnese!» gracchiò Anna Laura, come se avesse una spina in gola.
Vittoria fermò la bicicletta e scese con grazia, sistemandosi la gonna dell’abito azzurro e il cappello di paglia dall’ampia falda.
Beatrice osservò la nuova venuta e non poté fare a meno di pensare che fosse una ragazza davvero bella e non si sarebbe meravigliata se avesse scoperto che era una modella.
«Anche tu a far compere?» chiese la giovane, mentre posizionava il cavalletto, così da non far cadere il suo velocipede.
«Sì, stavamo dando un’occhiata, ma non c’è mai niente di bello da queste parti, sicuramente andrò da Mastelli, quello sì che è un vivaio».
«
Mastelli? Ma se ha chiuso per rinnovo del negozio!» notò Vittoria, perplessa.
Anna Laura assunse un cipiglio stizzito: «
Vorrà dire che il nostro giardino aspetterà. Solo i migliori possono metterci mano. E tu, Vittoria, come mai sei qui?»
«Cercavo qualcosa per colorare il salotto e ho trovato questo mazzo di tulipani rossi e arancioni, sono arrivati freschi dall’Olanda, guarda che belli!»
«
A me sembrano un po’ kitch» rispose l’altra, squadrando i fiori come se fossero erbacce infestanti.
«
Io invece trovo che siano adorabili» si intromise Beatrice, ingenuamente.
«Nessuno ha chiesto il tuo parere, sciocca ragazzina
».
Vittoria guardò la giovane, accorgendosi della sua presenza.
«
Chi è questa ragazza, Anna Laura?»
«Lei è mia cugina Bea... Scusala, manca di educazione
».
«Educazione? Solo per aver detto la sua su un mazzo di fiori?
» chiese l’altra interlocutrice, stupita. Poi si rivolse direttamente alla fanciulla. «Bea, da Beatrice, immagino. Come la donna amata dal Sommo Poeta».
«Sì, infatti preferisco esser chiamata con il mio nome intero» precisò la ragazza, lanciando un’occhiata risentita alla cugina, la quale ignorò l’osservazione.
«
Trovo che sia un bel nome...» commentò Vittoria, lasciando la frase in sospeso. Rimase a fissare per qualche secondo Beatrice e poi, come se avesse fatto un collegamento, esclamò: «Ora capisco perché hai un viso familiare: sei la ragazza che è andata via con Marcello l’altra sera!»
Anna Laura stritolò tra le mani il portafoglio, mentre la fanciulla spalancò le sue iridi blu.
«Lei conosce Marcello?»
«Oh, cara, non darmi del lei, chiamami solo Vittoria. E sì, conosco molto bene Marcello, siamo amici dall’infanzia!
» rispose la donna, sorridendo.
Beatrice rimase a dir poco sorpresa, come se quella rivelazione avesse un che di fastidioso e deludente. Improvvisamente si sentì molto triste.
«Anna, devi portare anche tua cugina alla mostra di Bartolomeo, assolutamente!
» esclamò Vittoria, avvicinandosi alla sua biclicletta. «Manderò l’invito ad entrambe. Ora scusate se vi lascio, ma devo correre a sbrigare delle importanti commissioni».
«Ma certo, chi vuole... voglio dire, figurati, non ti tratteniamo oltre».
La ragazza guardò Anna Laura con un leggero cipiglio, come se avesse afferrato l’ironia, tuttavia non ci diede peso. Salutò le cugine e ripartì in velocità.
«Oca starnazzante, che bisogno c’era di invitare anche te?
» brontolò la più grande delle due ragazze. «Solo perché hai avuto la fortuna sfacciata di aver conosciuto Marcello! E, comunque, Bea, imparerai che Vittoria Farnese non fa mai nulla per caso: sicuramente ti farà andare per dimostrarti che solo lei può vantare diritti su Tornatore!»
Beatrice guardò l’altra parecchio confusa.

«Cosa stai dicendo?
»
«
Quel Bartolomeo che ha nominato è il suo fidanzato. Ma lo sanno tutti che è una copertura, e che lo terrà solo finché non avrà trovato il modo di far cadere Marcello ai suoi piedi. Maledetta arpia, come se non le bastassero le schiere di uomini che le sbavano dietro! »
«In realtà... vorrebbe Marcello?
»
«Ma non è ovvio? Ah, sei solo una sciocca ragazzina che ancora non sa come va il mondo!
» sbraitò la donna. «E la Farnese non è altro che una bagascia lussuoriosa. Perfino Ascanio Colonna, un altro importante imprenditore, si è messo a farle il filo. Eh, ma Tornatore sarà mio. Lei e la Foscari devono stargli lontane! Vedremo chi la spunterà, dopo questa mostra!»
Beatrice seguì la cugina in silenzio. Sinceramente, a lei Vittoria aveva fatto una buona impressione e non credeva affatto alle maldicenze che erano uscite dalla boccaccia di Anna Laura. Ciononostante, doveva ammettere che una cosa era vera: Vittoria Farnese era amica molto stretta di Marcello Tornatore, e lo stesso ragazzo l’aveva accennato in più di un’occasione. Quindi la possibilità che tra di loro vi fosse del tenero non era poi così recondita.
La fanciulla sospirò forte e si strinse nel giaccone, avvertendo un freddo non avente nulla a che fare con il vento che aveva iniziato in quel momento a spirare.
***

«
La nebbia a gl’irti colli/piovigginando sale,/e sotto il maestrale/urla e biancheggia il mar declamò a gran voce il signor Rossiglione. «Continua tu, Beatrice. Ricordi la lirica di Carducci San Martino, vero?»
Ma la ragazza aveva la testa altrove. Erano trascorse circa due settimane dall’ultimo incontro che aveva avuto con Marcello: era già passata la metà di ottobre e non aveva ricevuto alcuna chiamata da parte del giovane. Magari aveva ragione Anna Laura, e aveva davvero aveva una relazione segreta con Vittoria, oppure si era dimostrato gentile con lei solo perché sarebbe stato sconveniente dirle in faccia che era solo una ragazzina petulante. Ma allora perché accettare il suo invito? Perché uscire con lei? Che l’avesse fatto sempre per cortesia e non perché provava un minimo di interesse nei suoi confronti?
«
Beatrice? Ci sei?» la richiamò il suo precettore, sventolandole una mano davanti agli occhi.
«Uh? Cosa?
» rispose la giovane, palesemente soprappensiero.
«Sono cinque minuti che cerco di attirare la tua attenzione
. Oggi hai la testa tra le nuvole più del solito».
Beatrice fissò il suo insegnante e sospirò: «
Mi scusi. Non sono molto presente».
«Non credo stamattina abbia molto senso proseguire, direi di riprendere domani
. Però cerca di rivederti Carducci, nel pomeriggio. Ricordati che affronterai l’esame di Stato come privatista, saranno molto severi con te» le disse, cominciando a riordinare i libri.
La ragazza era molto affezionata a quell’uomo paffuto e dai modi cortesi perché era stato uno dei pochi veri amici di Lapo Tolomei e, in quanto tale, si era preso la responsabilità di provvedere all’istruzione di Beatrice. Le dispiaceva non potergli confidare il perché delle sue distrazioni, dato che era l’unica figura che potesse somigliare abbastanza a quella di un padre, ma non voleva fare la figura dell’illusa.
Perché era questo, che in quel momento, Beatrice si sentiva di essere: semplicemente una bambinetta stupida, che si era lasciata abbindolare dal pensiero di poter piacere ad un ragazzo come Marcello.

«Sì, lo so, me l’ha già fatto questo discorso. E cerco di metterci tutto l’impegno possibile
» rispose la fanciulla, infastidita dalle considerazioni che aveva appena tratto. 
«
Si vede che ti impegni, Beatrice. Ho promesso a tuo padre che ti avrei aiutato a prendere il diploma e così sarà».
Rossiglione mise i libri e le penne nella borsa di cuoio consunto, la chiuse e se la mise in spalla.
«Ora riposati e cerca di sgomberare la mente dai pensieri molesti» le raccomandò, rivolgendole un sorriso tra il serio ed il divertito. Beatrice si chiese se l’uomo non avesse intuito tutto quanto; d’altra parte aveva più di cinquant’anni, ma un tempo era stato anche lui giovane e aveva perfino due figli, quindi certamente sapeva come fosse complessa la gioventù.
Lo accompagnò fino al cancello e lo salutò, augurandogli buon proseguimento di giornata. Fu solo quando rimase sola che Beatrice si concesse di tornare a torturarsi con i propri cupi pensieri, il suo animo era inquieto e le insinuazioni di Anna Laura, condite dai propri timori, scaturenti dal silenzio di Marcello, non facevano che peggiorare la situazione. Ciononostante, poiché la fanciulla era un tipino risoluto, arrivò alla conclusione che non servisse a nulla stare a rimuginare dentro di sé: doveva accertarsi di persona di come stessero le cose e, per fare questo, avrebbe potuto fare solo una cosa, ossia recarsi di persona da lui.
Rientrando in casa, lanciò un’occhiata nervosa all’orologio a pendolo del corridoio: era l’ora di pranzo, se si fosse messa in marcia subito forse sarebbe potuta arrivare a casa dei Tornatore per il primo pomeriggio.
Sarebbe stata la mossa giusta? Sarebbe stato educato? O sarebbe passata per una sfrontata? Be’, come diceva il detto, sempre meglio un rimorso che un rimpianto. D’altra parte era tutta questione di faccia tosta, no?
Ora che ci pensava, in realtà, aveva anche un plausibilissima scusa per cercare di rivedere Marcello: il soprabito che non gli aveva più restituito.
Corse di sopra, aprì l’armadio, trovò facilmente il capo d’abbigliamento del giovane e lo piegò, così da metterlo nella sua borsa di panno beige, poi si ravviò i capelli e scese di corsa le scale, sperando di uscire prima che rincasasse qualcun altro e la vedesse.
Se non ricordava male, Anna Laura le aveva detto che Marcello viveva in una casa nei pressi del quartiere pinciano e la fanciulla era certa che chiunque, fra gli abitanti del quartiere, avrebbe saputo indicargli la famosa villa. Senza indugiare oltre, aprì il cancello e si mise in strada, convinta che l’unico modo di mettere a tacere le dicerie fosse accertarsene con i propri occhi e le proprie orecchie.
***

Nel rincasare, dopo aver pranzato con alcuni suoi collaboratori, Marcello venne investito da urla acute provenienti dal giardino. Scocciato e affatto preoccupato (poteva, infatti, avere una chiara idea di cosa stesse succedendo, dato che si ripeteva ogni settimana lo stesso copione), decise di andare a dare un’occhiata.
La scena che gli si presentò davanti era tristemente familiare: Ortensia svenuta sul prato, una cameriera che le faceva aria con dei ventagli, un’altra che reggeva tra le braccia la piccola Claudia, Tiberio, inginocchiato al  fianco della moglie, che le teneva una mano e la Matrona che batteva a terra, nervosamente, la punta della scarpa. Con suo sommo sollievo, però, non vide traccia di suo padre.
La commedia popolare, decisamente, non doveva rientrare tra i suoi gusti.
«Insomma, Ortensia,
non puoi farti prendere sempre da queste crisi di nervi!»
«
Mamma, lo sai che non può sentirti» replicò seccatamente Tiberio.
«
Ma è mai possibile che questo psicologo ancora non abbia capito come aiutarla?»
«
Non sono cose semplici, ci vuole del tempo».
Madama Claudia si aggiustò la gonna con un gesto di stizza, come a dire che, secondo lei, la questione dello psicologo era tutta una gran pagliacciata.
«Cosa è successo?
» chiese il signor Giancarlo, sbucando da dietro un cespuglio di rododendri.
«Ah, eccoti! Si può sapere dov’eri?
» lo rimbrottò la moglie, inviperita.
«Ad innaffiare la siepe. I giardinieri non hanno finito
» si difese placidamente l’uomo. «Oh, Marcello, ben tornato!»
«
Buon pomeriggio a tutti» salutò il giovane, avvicinandosi alla scena del crimine. «Stavolta chi è l’assassino?»
Il padre scoppiò in una sana risata, mentre Madama Claudia e Tiberio gli rivolsero sguardi taglienti.
«
Saresti dovuto essere qui un’ora fa!» gli sbraitò contro la madre. «Che fine avevi fatto?»
«
Sono tornato a casa il prima possibile».
La donna stava per aggiungere qualcos’altro ma, proprio allora, la bambina cominciò a piangere e Ortensia riprese i sensi.
«
Era ora!» sbottò Madama Claudia, scansando prepotentemente la cameriera che stava sventolando la nuora. «Be’, cosa fai ancora qui? Torna alle tue mansioni, non servi più!»
La ragazza, paonazza, balbettò qualcosa, fece una maldestra riverenza e si eclissò alla velocità della luce.
«
Ortensia, come stai?» chiese Tiberio, aiutando la moglie a rialzarsi.
«Oh, tramortita... Mi sento tramortita...
» annunciò, con tono teatralmente piagnucoloso. «Ti prego, ho bisogno del dottor van der Meer, portamici subito!»
L’uomo guardò perplesso la moglie, ma annuì.
«
Mamma, noi...»
«Ho capito, ho capito, andate! Anzi, sparite dalla mia vista, prima che venga a me una crisi di nervi!» 
Marcello guardò andare via la cognata che, appoggiata al braccio del marito, aveva un’espressione fin troppo contrita. Il giovane increspò le labbra: non l’avrebbe mai ammesso, ma aveva i suoi sospetti sul perché Ortensia svenisse, puntualmente, quando veniva a trovare la suocera. Guarda caso, quando andava a trovare sua madre, non accadeva niente di tutto questo.
«
Che smidollata!» commentò Madama Claudia. «E che madre snaturata! Ha lasciato, ancora una volta, qui sua figlia!»
In quel momento, nonna e nipote sembrava stessero facendo a gara a chi potesse urlare più forte: emettevano strilli talmente acuti, che presto sarebbero stati captati dai ricevitori degli ultrasuoni.
La Matrona, allora, si avvicinò alla cameriera che teneva la piccola, gliela strappò di mano e la congedò.
«Ortensia sta poco bene, ha lasciato qui la figlia perché sa che con la nonna non le può capitare nulla di male» osservò il signor Giancarlo.
A quest’osservazione, qualsiasi nonna sarebbe stata contenta, anche se Madama Claudia era tutto fuorché una nonna propriamente detta. Si girò verso il marito e gli inveì contro
: «Io? Io sono scossa almeno quanto Ortensia! Non sono in grado di provvedere ad alcuno! Piuttosto, tu e tuo figlio che avete fatto? Niente! Adesso è giusto che vi diate da fare anche voi!»
La donna appioppò malamente la bambina al figlio minore, ammonendolo: «Prenditi cura tu di Claudia finché non tornano! Io ho bisogno di andare a riposare la testa. Credo che andrò al tea party di Clelia».
Si sistemò i capelli con fare impettito e uscì di scena.

La pargoletta, improvvisamente, smise di piangere: era come se gradisse particolarmente essere tra le braccia dello zio. Marcello guardò la nipotina e poi il padre, infine sospirò: «
Almeno si è calmata».
«Sembra proprio in procinto di addormentarsi» commentò il signor Giancarlo, con fare rassicurante. «Se continua così, puoi anche tenerla con te sotto al gazebo, nella sua culletta. Così puoi sbrigare la corrispondenza, mentre io finisco di innaffiare la siepe».
«
Mi sembra un’ottima idea» assentì il giovane. Chiese ad una cameriera di portargli alcuni fascicoli e, poi, scese le scale, per sistemarsi sotto al gazebo. Poggiò delicatamente Claudia nella culla e la coprì con la copertina, dopo di che si posizionò in modo da riparare la bambina da eventuali spifferi di vento, perché, nonostante fosse una bella giornata, era pur sempre ottobre.
Una volta che gli furono portati i documenti che aveva chiesto, si accomodò sulla poltrona di vimini, accavallando una gamba sull’altra e immergendosi nella lettura, mentre si estraniava dal resto del mondo.
***

Nel vedere il nero ed imponente cancello di Villa Aurelia, Beatrice si accorse che la sua idea non era poi così brillante. Ogni passo che l’avvicinava alla residenza dei Tornatore le faceva venire in mente almeno dieci buoni motivi per i quali avrebbe dovuto fare dietro-front e tornare nella sua squallida stanzetta. Aveva appena deciso di allontanarsi il prima possibile, quando si sentì chiamare: «Buonasera, signorina, possiamo fare qualcosa per lei?
»
Beatrice si voltò, notando che il cancelletto pedonale era stato aperto da un uomo che ora la fissava bonariamente.
«L’ho vista titubante. Stava cercando noi?
» proseguì con estrema tranquillità il signore.
La fanciulla si guardò intorno: non c’era nessun altro nei paraggi, di conseguenza non potevano esserci fraintendimenti sul fatto che quelle parole fossero indirizzate proprio a lei.
«Buonasera
» rispose lei con una vocina flebile. «Io... E vorrei solo parlare un attimino con Marcello».
«
Oh, bene, appena rincasato! È fortunata ad essere arrivata ora».
«
Sì, ecco, devo restituirgli una cosa che m’ha prestato, un paio di settimane fa».
«Allora venga, signorina, la condurrò io da Marcello.
Come si chiama?»
Nell’osservare l’uomo, la fanciulla si rese conto che aveva gli stessi, rassicuranti, occhi verdi del giovane. Probabilmente doveva essere suo padre.
«
Beatrice».
«
Che bel nome, come la Beatrice di Dante!» esclamò il signor Giancarlo, entusiasta. «Venga, signorina, per di qua».
La fanciulla venne condotta in quello che, a suo parere, era uno splendido giardino, perfettamente curato. Passò davanti alle fontane di pietra, gorgoglianti d’acqua, ai viali di ciottoli e ghiaia, alle aiuole profumate: le sembrava un’oasi di pace, dove avrebbe potuto trascorrere dei momenti di pura tranquillità.
“Con Marcello” aggiunse il suo inconscio, facendola lievemente arrossire. In fondo, quella era casa del giovane, era il suo giardino, non era mica così strano, immaginarsi a passeggiare lì con lui.
Il signor Giancarlo si fermò all’improvviso, indicandole un gazebo posto sotto ad un tasso.
«Siamo quasi arrivati, come vedi, Marcello è lì
».
Beatrice seguì con lo sguardo la direzione indicatale e, finalmente, lo vide: il ragazzo era così preso dalla lettura di alcuni fogli, che non si era reso conto di essere osservato da ben due persone. Leggeva e sottolineava, girava i fogli, come se fosse in cerca di qualche nozione in particolare, annuiva o aggrottava la fronte.
La giovane sorrise e, seguendo l’uomo, si avvicinò.
***

Marcello sbuffò sonoramente, seccato dal resoconto sconclusionato che si era ritrovato tra le mani: di sicuro, chi l’aveva scritto, o era dalla parte di Carter (e quindi ci teneva a non far capire cosa stesse facendo esattamente il magnate, rendendo il testo incomprensibile), oppure era, semplicemente, analfabeta; dopo qualche minuto, il biondo pensò che forse erano vere entrambe le ipotesi.
Stava giusto per strappare tutto quell’insieme di insulsaggini, quando suo padre lo chiamò.
«Guarda chi è venuta a trovarti!
»
Alzò lo sguardo e si trovò quasi faccia a faccia con la fanciulla.
«Beatrice!
» esclamò, sbigottito. «Come... Cosa ci fai qui?»
«
Non è un modo molto carino di accogliere la nostra ospite!» lo riprese bonariamente il signor Giancarlo. «Falla accomodare accanto a te. Manderò Ottavia o Annetta per portarvi qualcosa».
Il giovane, che era rimasto come pietrificato, annuì distrattamente e poi si rivolse alla ragazza: «
Sì... ecco... ehm, volevo dire, accomodati».
Lei sorrise e, senza farselo ripetere due volte, si accomodò sulla poltroncina di vimini accanto a lui.
«
Magnifico» commentò l’uomo, compiaciuto. «Vado ad informare la governante. Con permesso, ragazzi miei».
Marcello osservò il padre che si allontanava, quindi si accomodò a sua volta.
«Il vostro giardino è meraviglioso
» esordì Beatrice, con ammirazione.
«Mio padre vi dedica molto tempo ed energie. È lui stesso che dirige i giardinieri
» spiegò il giovane.
Seguirono alcuni istanti di imbarazzato silenzio, durante i quali si sentì solo il cinguettare degli uccelli.
«
Non l’è stato difficile trovarti» cominciò la ragazza, incerta. «Sembra che qui intorno tutti sappiano dove abiti».
«
Sì, è un quartiere di pettegoli» commentò Marcello, sprezzante.
«
Credo di doverli ringraziare, però. Son venuta per ridarti questo».
La fanciulla aprì la sua borsa e ne cacciò fuori il soprabito.
«Ah, il mio cappotto. Grazie» rispose il giovane, prendendo l’indumento. «Sarei dovuto passare io ma, conoscendo la situazione che c’è a casa di tua zia, non sapevo quando fosse il momento giusto per farlo».
«
Se m’avessi telefonato, te l’avrei detto».
«Hai ragione, mi ero ripromesso di farlo questo mercoledì. Purtroppo, Gerardo ed io abbiamo avuto molto da fare la settimana dopo che ci siamo visti».
«
E quella dopo?»
«Quella dopo? Che intendi?
»
Beatrice non rispose, limitandosi a corrugare un poco la fronte. 
«
Vuoi dire che sono passate due settimane da quando ci siamo visti l’ultima volta?» domandò Marcello, rendendosi conto della sua scarsa cognizione del tempo.
«Eh, già. Ma lo hai detto tu, hai avuto da ffare. Magari non hai sentito il bisogno di farti sentire
» commentò la giovane, con un tono che aveva un’eco più triste che arrabbiata.
Il biondo avvertì le guance diventare più calde, consapevole della gaffe appena fatta. Aveva pensato molto spesso a lei nelle settimane passate, eppure si era lasciato lo stesso assorbire completamente dal lavoro.
Si rimproverò, per la scarsa capacità di gestire anche gli aspetti della sua vita che non fossero affari, consapevole del fatto che, prima d’ora, non aveva mai avuto modo di interagire in maniera così diretta con una ragazza. A parte Vittoria, ovviamente.
«Io... mi...
» iniziò lui, senza sapere bene come continuare.
«E lei chi è?» domandò all’improvviso Beatrice, indicando la culla dietro a Marcello.
«Ah... Sì. Lei è mia nipote Claudia, la figlia di mio fratello
».
La ragazza si alzò, avvicinandosi alla bambina.
«Oh, com’è carina questa piccina! Biondina come te, ti somiglia!» disse, accarezzandole una guancina con l’indice. «Quanto ha?»
«
Più che assomigliare a me, è la copia in miniatura della nonna. Ha cinque mesi».
«Guarda come l’è tranquilla».
«Mentre dorme, sì. Quando è sveglia, un po’ meno» commentò il ragazzo, incrociando le braccia contro al petto.
«
Come mai l’han lasciata sotto la tu’ custodia?»
«Mia cognata ha avuto una crisi di nervi, o qualcosa di simile».
Beatrice tornò a guardare Claudia, la quale, nel sonno, le prese il dito con la manina e lo strinse.
«
Oh!» esclamò la ragazza, intenerita. «Quando son piccini sono così adorabili. Spero di averne anch’io uno, un giorno».
In quello che aveva detto la fanciulla, non c’era nulla di male, soprattutto se detto con la sua innocenza, ciononostante, Marcello si ritrovò inspiegabilmente ad avvampare, colto da un’improvvisa inquietudine.

Per fortuna, alle loro spalle, giunse Ottavia, la bruna e massiccia governante, con un vassoio carico di dolci, e questo richiamò l’attenzione dei due giovani. Congedata la donna, il ragazzo fece riaccomodare Beatrice e la invitò a servirsi, mentre anche lui prendeva posto, sperando che lei non si fosse resa conto del suo repentino, quanto ingiustificato, imbarazzo.
«
Hanno un aspetto magnificodisse la fanciulla, servendosi un bignè al cioccolato.
«Sì, è vero. Li fa tutti Ottavia
» affermò il giovane, distrattamente. In quel momento, stava pensando alla pessima figura che aveva fatto e stava cercando un modo per porvi rimedio; alla fine, capì che, forse, l’unico possibile era dire la verità.
«Beatrice, mi dispiace di non averti chiamato, non l’ho fatto apposta» iniziò, titubante. «Pensa che ho perfino prenotato la visita alla Cappella Sistina e mi sono dimenticato di dirtelo» ammise il biondo, con una punta di imbarazzo.
«
Oh, Marcello, sei incredibile!» sospirò Beatrice, ma, in realtà, era divertita. «Dai, ti perdono perché c’hai messo la buona volontà. Quando dovremmo andare?»
«Il ventuno dicembre prossimo
».
«Ah. È lontano come giorno
».
«
Vabbè, mica dobbiamo aspettare allora per rivederci» disse il giovane, senza pensarci troppo.
Gli occhi di Beatrice si illuminarono.
«
Ah, a dire il vero, anch’io mi stavo dimenticando di dirti una cosa: ho incontrato la Vittoria!».
«
Vittoria?»
«
Al mercato. M’ha invitata ad una mostra, assieme a mia cugina, anche se l’avrei preferito che non ci fosse» disse la ragazza, sbuffando. «Tu ci sarai?»
«Ovvio, Vittoria è la mia più cara amica
» rispose Marcello, risoluto.
Beatrice lo fissò attentamente, come se volesse essere sicura che fosse sincero con lei, poi disse: «
Ed è anche una bellissima donna. Ho saputo che ha molti corteggiatori».
«Che li abbia è innegabile,» convenne Tornatore, «tuttavia, io non credo di poterla giudicare sotto quel profilo».
«
Come mai?»
«
Perché, per me, è come una sorella».
Lei parve sorpresa dalla risposta e anche un po’ sollevata: se prima aveva irrigidito la schiena, ora si stava rilassando, appoggiandosi allo schienale della poltroncina; e, addirittura, si servì un altro pasticcino. Marcello inarcò un sopracciglio: chissà perché si era inquietata così tanto nel parlare della sua amica. Se Beatrice avesse saputo che, se si era ricordato di portarle dei fiori quando si erano visti, lo doveva solo ai consigli di Vittoria...
Improvvisamente, gli tornò alla mente il libro acquistato in Via della Conciliazione.
«Accidenti, mi stavo dimenticando pure... Ascolta, ho una cosa per te. Se mi aspetti un attimo, vado a prenderla
. Potresti dare un’occhiata a Claudia, nel frattempo?»
La ragazza, rimase un po’ perplessa ma annuì e lui, preso il cappotto, si diresse velocemente verso la villa.
Fu di ritorno poco dopo, con in mano un pacchetto avvolto in carta azzurra.
«
Questo è per te» disse, porgendolo a Beatrice. 
«
Cos’è?»
«Aprilo e vedrai
».
Una volta che lo ebbe in mano, cominciò a scartarlo pian piano, finché non le fu rivelato il contenuto.
«Un libro su Caravaggio! Io... Io...».
La ragazza lo guardò quasi commossa, poi si alzò e
gli diede un rapido, ma intenso, abbraccio. Nel distaccarsi da lui, aggiunse: «Non so come ringraziarti, Marcello».
«Non serve, l’importante è che ti sia piaciuto» rispose lui, sorprendendosi a crogiolare per quel sorriso spontaneo. Non gli era mai successo di sentirsi così al cospetto di una ragazza, forse, perché non si era mai sprecato a sentire cosa avessero da dirgli le sue ammiratrici. O, forse, perché nessuna di loro aveva dimostrato di possedere l’aura serafica di Beatrice.
Un vento leggero cominciò a spirare, come a volergli dire qualcosa che, per il momento, non riusciva a capire; sembrava che ne avesse afferrato il senso, per poi dimenticarlo subito dopo. Per quanto spirasse più forte, sempre il significato del suo soffio gli sfuggiva.
Ma il Vento dell’Ovest non era un tipo da arrendersi subito e, se voi l’aveste sentito, avreste facilmente intuito queste ultime parole: se ora non hai compreso, tranquillo, tornerò per ribadirlo quando potrai capire di più.
***

Era da poco sopraggiunto il crepuscolo e già, dalle taverne dei rioni trasteverini, proveniva il confuso vociare di uomini sfaccendati, decisamente brilli. Guido Tolomei imboccò una viuzza e, giunto davanti alla taverna dall’aspetto peggiore, si guardò intorno con fare circospetto. Dopo essersi convinto di non essere stato seguito, entrò all’interno, ritrovandosi in un ambiente cupo e opprimente, saturo dellodore del fumo e del vino.
L’oste, un uomo corpulento con un folto paio di baffoni, smise di lucidare un bicchiere con uno straccio lercio e gli fece cenno con la testa, indicando il tavolo posto più in fondo al locale. Il giovane ricambiò il cenno e si avviò, facendo attenzione a non urtare nessuno degli ubriaconi che ridevano sguaiatamente, agitandosi sulle sedie: l’ultima cosa che voleva, era gettarsi in una rissa tra brutti ceffi.
«Tolomei, sei in ritardo
» lo apostrofò Navarra, mandando giù un generoso sorso di vino.
«
Ho fatto quel che si è potuto. Ho avuto molto daffare» dichiarò in un sussurro il giovane, accomodandosi su una sedia sgangherata.
«
La prossima volta, di’ alla tua biondina che la porterai a fare un giro dopo che avrai discusso con me».
Guido deglutì.

«
Come fai a sapere...»
«Che era bionda? Che l’hai portata al Caffè Greco, anche se non te lo puoi permettere? Io so tutto di te. Ci tengo ai miei debitori, non voglio che accada loro nulla, non prima che abbiano saldato con me i loro debiti, ovviamente...»
L’oste si avvicinò, portando un bicchiere e un’altra brocca. Il ragazzo, augurandosi che non fosse lo stesso bicchiere che stava pulendo prima, si versò un po’ di vino: aveva bisogno di bere, perché si sentiva la bocca incredibilmente arida.
«
Sono stato a trovare tua sorella, nel pomeriggio. Tua zia mi ha detto che non c’era. O, magari, si è rifiutata di vedermi, ancora una volta» insinuò l’energumeno, scrutando Guido oltre il bordo del proprio bicchiere.
«La zia non ha alcun interesse ad assecondare la Beatrice: se ti ha detto che la mi’ sorella non era in casa, non era in casa» si difese il giovane. «Tu sa’ benissimo che non vede l’ora che lasciamo entrambi la villa».
Navarra alzò una mano per zittirlo.
«Io sono paziente, Tolomei, molto paziente. Non vorrei essere messo a dura prova: Beatrice è molto bella, ma non è l’unica ragazza degna delle mie attenzioni».
«La Beatrice ha quel caratterino indipendente...»
«Ha un carattere focoso: è anche per questo che ho scelto lei, come moglie. Tuttavia, se non fai qualcosa per velocizzare queste nozze, due terzi dei tuoi debiti non verranno mai saldati».
Qualcuno seduto poco distante rise forte, forse aveva vinto qualcosa giocando con i dadi, e fu quello stimolo sonoro a ridestare completamente Guido, aiutandolo a comprendere ciò che aveva appena udito.
«Solo due terzi? Si era detto che non ti avrei dovuto più una lira!»
«
Se tua sorella fosse più gentile con me, potrei anche darti di più» spiegò Navarra, con una calma quasi inquietante.
«
C’è anche la villa dell’Isola d’Elba, l’è intestata alla Beatrice» affermò il ragazzo, sentendosi improvvisamente perso. «Dopo che sarà la tu’ moglie, potrai disporne come vorrai».
«Ah, già c’è anche la vostra villa in Toscana. Mi sono giunte voci che gli uliveti non producono più come prima».
«In effetti è così. Tuttavia, io credo che sia perché non c’è più un padrone che segue il lavoro dei contadini; que’ bifolchi, senza ordini, si stanno lasciando troppo andare alla nullafacenza».
Conrado de Navarra si sbracò sulla sedia, congiunse le punte delle dita e un ghigno mefistofelico sì delineò istantaneamente sul suo volto rubicondo.
«Andrò a valutare di persona, Tolomei, vedremo se quella baracca vale davvero quanto dici. Nel frattempo, vedi di convincere Beatrice ad uscire con me, come lo farai, però, non mi interessa. Altrimenti, dovrai escogitare un modo per trovare tutti i soldi che mi devi. E alla svelta».
Guido, mandando giù la brodaglia disgustosa che gli era stata servita, osservò il suo interlocutore e avvertì il sudore imperlargli la fronte: la situazione stava prendendo una piega inaspettata, si era creduto furbo, ma Navarra lo era stato più di lui. Lentamente, si rese conto dell’effettivo guaio nel quale si era cacciato e del fatto che avesse trascinato nel fango anche sua sorella, condannandola ad una vita infelice. Fu quello il momento in cui prese coscienza di un’altra verità: se Beatrice non l’avesse perdonato, non sarebbe stato capace di biasimarla.






***
[N.d.A]
1. Caffè del Borgo: è un luogo puramente inventato, nessun riferimento ad attività realmente esistenti.
2. British Petroleum: una delle maggiori aziende energetiche mondiali, oggi conosciuta come BP; i riferimenti agli eventi narrati sono solo fini alla trama, seppur è vero che la British Petroleoum acquistò davvero la Britoil nel 1987.
***
Per la revisione di questo capitolo, ringrazio Lady Viviana per la sua gentile collaborazione e disponibilità. 
Ringazio anche la mia Anto per aver letto, ancora una volta, in anteprima.
Come sempre, la grafica del titolo è opera mia.
***


Salve a tutti!
Come prima cosa, mi sembra giusto scusarmi con tutti voi, lettori, per essere tornata a scrivere questo racconto dopo così tanto tempo. In quest’ultimo anno mi è successo davvero di tutto e di più, tuttavia ora posso affermare con una certa sicurezza che gli aggionamenti riprenderanno con ritmo abbastanza costante (dovrebbe esserci una nuova pubblicazione allincirca ogni venti giorni. So che non è molto, ma è quanto mi è concesso dai miei tempi da studentessa; inoltre, scrivendo capitoli abbastanza lunghi mi sembra un buon compromesso, no?).
A dimostrazione della mia buona volontà, vi lascio il link al mio blog dove troverete uno spoiler del capitolo quarto e un sondaggio (chiedo quale orario vi risulta più comodo per i nuovi aggiornamenti; se vi va di partecipare, non dovete fare altro che cliccare sull
opzione che sceglierete).
Ringrazio chi legge, chi ha messo la storia in uno dei suoi elenchi, chi commenta, chi mi darà il suo parere in seguito e chi ha avuto tanta, tanta pazienza nell’attendere che questo racconto procedesse.
Ringrazio anche i nuovi lettori, che si sono lasciati incuriosire ed hanno scoperto la storia solo ora, in occasione della sua ripresa.
Spero che mi farete sapere cosa ne pensate, anche poche parole posso essere un utile e prezioso feedback all
autore.
Vi do appuntamento alla prossima (questa volta non dovrete aspettare il disgelo post era delle glaciazioni, ve lo prometto)!
Saluti,
Halley S. C.


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Capitolo 4
*** Capitolo Quarto - Vento di Sospiri ***


Vento dell'Ovest - Capitolo 4



- Capitolo Quarto -
Vento di Sospiri




Dopo aver rimesso la tovaglia al suo posto, Anna Laura sbatté con forza il cassetto della cucina. Non solo la giornata era stata pessima, si era anche dovuta preparare il pranzo da sola! Dov’era quella buona a nulla di Beatrice? Perché non le aveva fatto trovare l’insalata di arance? Per colpa di quella sciagurata aveva dovuto ingurgitare un panino intero, ossia mangiare carboidrati. E al diavolo la sua dieta!
Sbuffando e brontolando contro la cugina, la ragazza si avviò verso il salotto, con tutta l’intenzione di buttarsi sul divano a leggere uno dei suoi fotoromanzi preferiti, così da dimenticare l’orribile mattinata trascorsa; in realtà, avrebbe dovuto intraprendere una sessione di shopping sfrenato con Ramona, invece quell’idiota della sua amica si era rotta il tarso facendo finta di giocare a tennis, mentre cercava di attirare l’attenzione del suo istruttore.
Per giunta, poiché tutte le altre ragazze erano impegnate con i preparativi per la festa dell’indomani, Anna Laura era tornata a casa prima del tempo e senza lo straccio di un vestito nuovo.
Come avrebbe fatto a far colpo sul dj? Se quella scellerata di Beatrice avesse avuto un po’ di sale in zucca, come minimo, avrebbe dovuto cucire per lei, tutta la notte, un abito all’ultima moda. Che mettesse a frutto la passione che aveva per ago e filo!
Un vociare indistinto catturò l’attenzione della ragazza. Si fermò in mezzo al corridoio che portava alla sala ed invertì il senso di marcia: sembrava proprio che ci fosse qualcuno vicino al loro cancello, forse i soliti adolescenti cretini che venivano a fare gli scherzi.
Arrivata alla finestra che dava sul giardino, Anna Laura scostò un po’ le tende, così da sbirciare senza essere vista dalla strada, e ciò che vide la lasciò di sasso: sua cugina stava parlando e ridendo con Marcello Tornatore.
Proprio così, parlando e ridendo con quell’Adone sceso in terra.
La prima cosa che le venne in mente fu di uscire e mettersi a gridare al ragazzo di smettere di perdere tempo con quell’insulsa di Beatrice, in quanto avrebbe potuto dedicare le proprie attenzioni a donne molto più meritevoli (per esempio a lei). Ciò che la spinse a fermarsi, e a comportarsi con più raziocinio, però, fu il pensiero che le venne in mente subito dopo: avrebbe potuto vendicarsi della parente in maniera molto più lenta e subdola, se solo avesse agito d’astuzia.
Innanzi tutto, avrebbe avvertito il cugino Guido delle scappatelle che faceva quella svergognata, sicura che, per via della storia aperta con Navarra, lui avrebbe messo subito la sorella agli arresti domiciliari; in seconda battuta, ne avrebbe parlato con sua madre, convincendola a caricare Beatrice anche di quei lavori domestici che, comunemente, erano considerati piuttosto pesanti.
Anna Laura rise malignamente, mentre si figurava la cugina intenta a portare in casa cataste di legna da ardere, magari mentre fuori infuriava una tempesta.
Stando attenta a non farsi vedere, si ritirò nella penombra del salotto, pregustandosi il momento in cui Beatrice avrebbe rimesso piede dentro casa, ma non senza prima aver lanciato uno sguardo adorante, con tanto di sospiro, a Marcello.

«Sei sicura che non ci sia nessuno in casa?» domandò il ragazzo, mentre scrutava le pessime condizioni della facciata di Villa dei Salici.
«Guido dovrebbe tornare stasera tardi. La zia Assunta aveva delle commissioni da sbrigare, ha addirittura detto che non sarebbe rientrata per cena, e l
Anna Laura dovrebbe essere in qualche boutique, a scialacquare gli ultimi risparmi» affermò Beatrice, con tono pratico.
«
Ah, be’, meno male» commentò Marcello, sollevato. «Il giorno giusto per chiamare è sempre il mercoledì?»
«
Sì, sempre quello. Se l’impegnatissimo messere riesce a trovare un po’ di tempo» lo punzecchiò la giovane, sorridendogli divertita.
Lui inarcò un sopracciglio, increspando le labbra.
«Il fatto che l’abbia dimenticato una volta, non ne fa una regola. Chiamerò: è una promessa
».
Per esserne certa, Beatrice prese la mano sinistra del ragazzo e vi intrecciò il mignolo con il proprio.
«
Adesso l’hai giurato, quindi devi ricordartene a tutti i costi» esclamò, pentendosene un attimo dopo. Era stata decisamente una mossa infantile e non si sarebbe meravigliata se Marcello non si fosse più fatto sentire: si era comportata proprio come una sciocchina.
Invece, oltre ogni aspettativa, il biondo strinse il dito di rimando, incurvando dolcemente le labbra.
«Sì, l’ho giurato».
La fanciulla avvampò e si ritrovò a pensare che fosse un vero peccato che quel giovane non sorridesse più spesso poiché, quando lo faceva, la sua espressione acquistava una grande soavità, senza contare che diventava ancora più bello. Le dispiacque non poco sentirlo allentare la presa.
«D’accordo. Io vado, prima che tornino tutti: non vorrei essere costretto a dare spiegazioni sulla mia uscita» disse lui, alzandosi il bavero della giacca. «Buona serata, Beatrice. A presto».
La giovane agitò la mano in risposta, un po’ delusa: aveva sperato che Marcello le concedesse un saluto più affettuoso, ma dovette accontentarsi. Magari, si sarebbe sciolto con il tempo e, allora, avrebbe assunto con lei un atteggiamento più confidenziale. 
Sorridendo, la ragazza salì i gradini ed aprì il portone di ingresso.
«
Ciao, Bea» l’accolse, dall’interno, una voce venata di perfidia.
Beatrice si voltò di scatto, sobbalzando allertata.
«
Anna Laura! Mi hai spaventata!» esclamò, portandosi una mano al petto. «Cosa ti è saltato in mente? Non è uno scherzo di buon gusto!»
«Oh, non volevo urtare la tua sensibilità» rispose l’altra, con una finta vocina addolorata. «Ti è piaciuta la passeggiata?»
«
Quale passeggiata? Sono solo andata a...»
«Non mentire!» gridò la donna, pestando i piedi in terra. «Ti ho vista, baldracca! Sei tornata a casa con Marcello!»
La fanciulla sbiancò: lo sapeva, era inutile continuare a mentire, sua cugina sapeva tutto. Alla sua reazione, Anna Laura si quietò e ghignò soddisfatta.
«
Oh-ho, siamo nei guai, cara la mia cuginetta. Vedrai, domani, quando lo saprà mamma!»
***

Allo scoccare delle cinque del pomeriggio, Gerardo guardò con apprensione l’orologio appeso alla parete di fronte. Essendo l’ultimo giovedì di ottobre, fuori avanzava già il crepuscolo, rendendo l’atmosfera ancora più cupa. 
«Carter è di nuovo in ritardo
» affermò, sbuffando d’impazienza. 
Marcello smise di mettere a posto, per l’ennesima volta, i resoconti che aveva portato e disse: «Ti meravigli? Abbiamo capito già da tempo che alla primadonna piace far attendere
».
«Non si tratta così la gente!»
«
Stai tranquillo che non fa aspettare le persone che gli servono veramente».
«
Quindi, sei sempre dell’idea che siamo fuori a priori?» domandò l’amico, accavallando le gambe ed incrociando le braccia.
«
Vuoi la mia sincera risposta? Sì. Scommetto che ha già deciso da chi accettare il prestito e, se continua a fare questa farsa della gara d’appalto, è solo perché c’è di mezzo lo stato britannico» affermò il biondo, sicuro come non mai di ciò che stava dicendo.
«E non credi che questo possa far sperare in almeno un briciolo di legalità?» avanzò l’altro, forse sperando di trovare un barlume di onestà anche in Edward Carter. Era una delle migliori qualità di Gerardo, sperare che in tutti vi fosse del buono, anche se quest’attitudine, in passato, l’aveva esposto a molteplici derisioni. Non che fosse un sempliciotto, ma aveva un’eccessiva propensione a fidarsi del prossimo.
«No, affatto. Tipi come quell’avanzo di galera sanno sempre come aggirare la legge» rispose Marcello, seguendo con il dito una venatura del tavolo particolarmente contorta. «Sempre».
Gerardo si alzò e cominciò a misurare a grandi passi la stanzetta dove li aveva fatti accomodare il cameriere, un giovanotto che non avevano visto la volta precedente, dicendo loro che il magnate sarebbe arrivato molto presto.
Erano già passate quasi due ore.
I ragazzi stavano quasi per alzarsi ed andarsene, quando John Miller entrò nello studio, salutandoli con un sorriso falso come una banconota da trentamila lire.
«
Perdonate il ritardo, eravamo in trattativa con un cliente» esordì, tappezzando il tavolo con i suoi stupidi documenti.
«Gli affari necessitano di tempo e pazienza
» considerò Carter, sedendosi al tavolo. Prima che si potesse cominciare qualsiasi discussione, entrarono due camerieri che apparecchiarono un tavolino accessorio lì vicino, servendo vino e tartine con caviale e paté de foie gras
«
Oggi abbiamo saltato il pranzo, per tanto abbiamo disposto che venisse servito un piccolo rinfresco» addusse il magnate a mo’ di giustificazione, mentre si riempiva il piatto. «Servitevi pure».
«
Grazie della gentilezza, stiamo a posto così» si affrettò a dire Gerardo, scrutando quelle tartine come se fossero veleno.
Marcello non poté che essere d’accordo: non era un accanito animalista e ad una buon piatto di carne non diceva mai di no, tuttavia non riuscì a non provare pietà per oche e anatre, ingozzate a forza per produrre quell’orribile poltiglia. Inoltre, si meravigliò anche del fatto che un sostenitore di prodotti originari dell’Inghilterra come Carter (la volta scorsa aveva vantato l’unico vino autoctono inglese) consumasse cibo di provenienza chiaramente francese. Stranezze da miliardari.
Miller cercò di convincere Gerardo a prendere almeno un po’ di vino, invece ignorò del tutto il biondo, dimostrando di voler seguire la stessa linea che aveva adottato durante il loro precedente incontro. Per fortuna, a Marcello non importava un fico secco né di Carter né del suo pomposo assistente, per tanto decise che sarebbe stato al suo gioco: avrebbe interagito solo con l’imprenditore e solo se l’avesse ritenuto necessario.
Dopo che i due si furono rimpinzati a sazietà, John Miller si dilungò nell’aggiornare i presenti, o meglio chi tra i presenti era meritevole del suo tempo, circa i nuovi sviluppi in merito alla costruzione della piattaforma, sostenendo che i lavori sarebbero iniziati non appena si fosse giunti alla stipulazione del contratto.
«
Una volta stabilita la società che ci darà il minor tasso d’interesse sul prestito, si potrà dare il via ufficiale al progetto» spiegò l’uomo, gonfiandosi come se l’idea fosse stata tutta sua.
«
Esattamente, quante società concorrono per questo... appalto» chiese Gerardo, indugiando sull’ultima parola, come se non fosse completamente convinto che fosse la più giusta da usare.
«Undici
» rispose pronto Miller. «Cinque inglesi, una araba, tre olandesi, voi ed un’altra di Roma».
«
Ah, credevamo di essere gli unici italiani» notò il giovane, senza riuscire a reprimere il proprio stupore.
«La piattaforma sarà un simbolo di progresso energetico, una proiezione verso il futuro
» illustrò l’assistente. «Anche il vostro paese vuole evolversi verso nuove frontiere, il carbone appartiene al passato. Senza contare che non avete giacimenti attivi».
«
Il settore energetico è molto redditizio, bisogna solo avere l’audacia di investire. Nelle vecchie fonti energetiche, ma, soprattutto, nelle nuove...» aggiunse il magnate, lisciandosi i baffetti alla Rhett Butler. «Ed anche in questo caso, peccate molto: avete tre centrali attive ed una in costruzione, pochine, considerando il fabbisogno medio».
«Intende centrali nucleari2, Lord Carter?» intervenne Marcello, non riuscendo a trattenere la domanda.
«Esatto. La sicurezza del futuro comincia da lì
».
«O, forse, dai detriti di Chernobyl
» commentò il giovane, alludendo al recente disastro ambientale che aveva coinvolto tutta lEuropa. 
Il magnate ed il suo assistente (questa volta Miller non poté far finta che non ci fosse) gli lanciarono uno sguardo penetrante: non aveva detto nulla di esplicito, ma la sua affermazione si sarebbe potuta prestare a diverse interpretazioni. Quella reale supponeva che il giovane non avesse affatto fiducia nella coscienza di Carter e, molto probabilmente, i due l’avevano intuito. Tuttavia Marcello non aggiunse altro, volendo avvalersi del beneficio del dubbio.
Al momento di scrivere l’offerta, fu consegnata a Gerardo una cartellina di pelle nera, contenente un foglio bianco e una bustina. Lui estrasse dal taschino interno una penna e scrisse ciò che doveva; quando ebbe finito, firmò la proposta e la mise nella busta di carta, sigillandola per bene, quindi la consegnò a Miller, il quale la intascò prontamente.
«Domani riceveremo l’ultima offerta, perciò, tra non più di una settimana saranno resi pubblici gli scrutini
» disse l’uomo, sorridendo giovialmente al ragazzo e facendo finta che accanto a lui ci fosse solo aria.
Il momento dei saluti fu piuttosto rapido, con due veloci strette di mano ai ragazzi da parte di Carter ed una sola da parte del suo assistente.
«Quando hai nominato Chernobyl, ho pensato che volessero farti fuori
».
«Sì, con una spada da cavaliere Jedi.
Andiamo, quei due sono troppo impegnati a fare progetti con il finanziatore che hanno già scelto, per pensare seriamente a noi» commentò Marcello, radunando i suoi documenti. «Secondo me, credono solo che io sia uno sbruffone, arrogante e presuntuoso, che non arriverà tanto lontano e che ti trascinerà con me nel declino».
«Declino?
» chiese l’altro, sorpreso, mentre lo aiutava a sistemare tutto.
«Be’, anche sui giornali di finanza dicono che non reggeremo a lungo la concorrenza. Lo strano caso degli imprenditori neolaureati da contratti milionari: è così che ci etichettano» spiegò il biondo, con una smorfia di disappunto.
«
E allora dobbiamo impegnarci per smentire queste voci e rimanere a galla il più a lungo possibile! Senza venir mai meno alla coscienza, ovvio» ribatté Gerardo, determinato, battendo un pugno sul palmo aperto. «Alla faccia di Carter e di chi non crede in noi».
«
Ed è esattamente quello che faremo!» confermò il biondo, con un sorriso sottile.
Quando uscirono dal locale, era già calato il buio e l’umidità stava rapidamente aumentando, costringendoli a imbacuccarsi bene nei loro cappotti di panno. Il freddo invernale non avrebbe tardato ad arrivare, l’odore di legna bruciata ed i comignoli fumanti erano segni del fatto che già molte persone avevano acceso i caminetti per scaldarsi.
«
Vieni da Vittoria, dopodomani?» chiese Marcello a bruciapelo, voltandosi verso l’amico.
«Da Vittoria?
»
«Sì, ha chiesto di passare da lei il prima possibile, ed effettivamente è un po’ che non la vediamo. Vorrei proprio sapere come se la sta cavando con i preparativi per la mostra».
Tutto d’un tratto, Gerardo si adombrò: «A me non ha detto nulla. Che tu sappia, c’è ancora il carciofone che transita per casa sua?
»
«
Credo proprio di sì, mi pare che adesso sia qui in città».
Il ragazzo non rispose, chiudendosi in un silenzio cupo. Marcello non aggiunse altro, tuttavia rimase abbastanza turbato dal comportamento dell’amico: perché aveva cambiato così repentinamente umore a sentir parlare di Vittoria e della mostra?
Continuarono a camminare, senza aggiungere altro e, al momento di salutarsi, all’incrocio con Via della Conciliazione, il biondo notò che il suo amico era davvero molto pensieroso e distratto. Un atteggiamento così strano, secondo Marcello, non aveva spiegazioni, a meno che Gerardo non gli avesse tenuto nascosti dei particolari. E se... All’improvviso, ebbe come l’impressione di essere arrivato a comprenderne la causa, per poi sfuggirgli di mente subito dopo, come se fosse stata talmente assurda da non meritare nemmeno d’esser presa in considerazione.
Scrollando la testa, si avviò verso la via di casa.
***

L’oscillazione del pendolo scandiva ogni secondo che passava e Beatrice odiava quel rumore, perché le metteva ansia. Fin da bambina, non aveva mai amato particolarmente sostare nell’ufficio della zia Assunta, pervaso dall’odore della polvere e arredato con tappeti tarlati dalle tarme. Ogni dettaglio conferiva a quell’ambiente un’aria d’abbandono, profondamente diversa dall’immagine che aveva il salotto di casa sua, sempre pulito e ben curato.
Alla contessa Elena, infatti, piaceva lustrare e profumare la casa, anche se da tempo non si poteva più permettere una donna che l’aiutasse con le pulizie, e non mancavano mai fiori freschi a decorare la tavola, un ricordo che strideva tremendamente con il pout-pourri secco e svanito che, in quel momento, aveva davanti la giovane.
La signora Assunta, una tarchiata donna sulla sessantina, sbuffò sonoramente, scuotendo la testa.
«
Sei sempre stata una piaga» commentò, scrutandola con i suoi occhiacci neri.
«
Io non ho fatto alcun male, zia» rispose Beatrice, spostando la sua attenzione dai fiori secchi alla parente. «L’Anna Laura non ha diritto a...»
«Taci!» esclamò la donna, alzando una mano, provvista di unghie lunghe, ricoperte di smalto scheggiato. «Tua cugina è stata fin troppo magnanima! Sicuramente non mi ha raccontato tutto, pur di proteggerti!»
«Proteggermi?
» insorse la giovane, sentendosi oltraggiata. «Ma se ha ingigantito il tutto!»
«Smettila di dire bugie, scostumata! Grazie a mia figlia abbiamo evitato il peggio! Se quel Navarra sapesse che ti diverti con altri ragazzi, non ti vorrebbe più e rimarresti sul mio groppone a vita!»
«Io non mi stavo divertendo con nessuno!»
«Ancora parli? Zitta, bagascia! Sei una donnaccia, esattamente come tua madre!»
Dopo questo insulto, Beatrice tacque: che sua zia si divertisse ad insultare lei, poco le importava, considerata la scarsa stima che aveva nei suoi confronti. Ma non doveva permettersi di infangare la memoria di sua madre, specie se non aveva ragione per insultarla: Elena, infatti, era infinitamente più bella della cognata e, sebbene avesse avuto un fior fiore di corteggiatori, aveva sposato il padre di Beatrice solo per amore.
Assunta si passò una mano tra i capelli grigi ed unti.
«Devo trovare il modo di farti stare al tuo posto... Adesso vedrai! Bettina!
»
Dopo un rumore di passi affettati, una donna di mezz’età comparve sulla soglia, mostrando sul volto i segni dell’ansia.
«Mi ha chiamata, signora?
»
«
Da domani dovrai lasciare il servizio presso di noi» pronunciò freddamente la padrona di casa, come se si trattasse di una sentenza di morte. E alla povera Bettina tale dovette sembrare, perché trattenne il fiato e spalancò gli occhi.
«Ma... ma signora, perché... Ha forse qualche motivo per lamentarsi del mio lavoro?
»
«No, no. Ma non possiamo più permetterci una domestica. D’ora in poi ci penserà mia nipote Beatrice a fare le pulizie
».
La ragazza aprì la bocca per parlare, ma ogni suono le morì in gola: già si occupava della pulizia della casa! Ciò significava che doveva sobbarcarsi, da sola, l’intera manutenzione della villa!
La cameriera continuò, dando voce ai pensieri della fanciulla: «Signora, la casa è grande, a stento io e la signorina Beatrice riusciamo a mettere in ordine tutto.... E poi
lo sa, con tre figli e lo stipendio misero di mio marito non ce la facciamo ad arrivare a fine mese. Io ho bisogno di questo lavoro...»
«
Non sono affari miei» tagliò corto la signora Assunta e, con un gesto sbrigativo, la congedò. «Prego, puoi andare. Ricordati di portare via con te tutti i tuoi effetti personali».
La donna rimase impalata, lì sulla soglia, con le mani strette intorno al piumino che stava adoperando per spolverare.
«
Ti ho detto di andare!» le tuonò la padrona di casa, facendo tremare la vetrinetta con tutti i ninnoli esposti.
Bettina balbettò qualcosa di confuso, quindi fece una maldestra riverenza e richiuse la porta. Beatrice fu certa di aver udito distintamente un singhiozzo, prima che la domestica si allontanasse.
«
Da domattina, prenderai il posto della cameriera. Ricordati che la mia colazione deve essere servita qui, alle sei e mezza. Non un minuto più tardi. Per quanto riguarda le abitudini di Anna Laura, ne parlerai direttamente con lei».
Come se non stesse aspettando altro che quel momento, la ragazza fece il suo ingresso, quasi saltellando dalla gioia.
La fanciulla la scrutò, aggrottando la fronte, e trattenendosi a stento dall’alzare gli occhi al cielo, esasperata da tanta cattiveria e stupidità.
«Eccomi qui, mamma! Allora, Bea, apri bene le orecchie: voglio che mi sia servita a letto, alle otto in punto. Il caffè deve essere tiepido. ma non troppo, con mezza pastiglia di dolcificante; lo yogurt, invece, deve essere quello magro, guarnito con un po’ di frutta di stagione a pezzetti
. Infine, il succo di pompelmo deve essere bello ghiacciato, servito in un bicchiere alto. Capito?»
Beatrice la fissò come avrebbe guardato una psicopatica e, molto probabilmente, era quello che effettivamente era Anna Laura.
«
Tuo fratello, invece, si arrangerà da solo, perché appena noi saremo uscite dovrai pulire da cima a fondo tutta la casa. E se trovo un solo granello di polvere, dovrai ricominciare da capo!» decretò Assunta, incrociando le possenti braccia come un gendarme. Al suo fianco, la figlia sembrava una bambina che aveva appena vinto il più bello dei giocattoli.
La giovane avrebbe tanto voluto dire che, per far tornare a splendere quella topaia, si sarebbe fatto prima a raderla al suolo e poi ricostruirla, ma lasciò perdere per evitare di aggravare maggiormente la sua situazione.
«Prova a ribellarti o a risponderci male e ti garantisco che mi impegnerò io stessa, affinché Navarra ti sposi entro il prossimo Natale!» la minacciò la zia, come se avesse intuito i suoi pensieri.
Infuriata per come la stavano trattando, Beatrice si morse l’interno della guancia fino a farsi uscire il sangue: quelle due arpie l’avevano messa nel sacco e, almeno per ora, stavano avendo la meglio.
***

Novembre avanzava tranquillamente, portando con sé i primi freddi e le prime piogge, ingrigendo il cielo che sovrastava la Capitale e rendendo l’aria più malinconica.
Udendo un tuono in lontananza, Marcello percorse, correndo, l’ultimo tratto che lo separava da casa di Vittoria, facendo scricchiolare le foglie marroni e arancioni degli ippocastani sotto le proprie suole.
Aveva promesso all’amica che sarebbe passato nel pomeriggio a trovarla, per sapere come stessero procedendo i preparativi della mostra, mentre Gerardo era stato irremovibile: essendoci alte probabilità di trovare Bartolomeo in circolazione, aveva preferito dare direttamente forfait.
Il biondo suonò il campanello ed immediatamente venne ad accoglierlo Agnese, l’anziana domestica. La casa di Vittoria sorgeva nella zona dell’Eur, a pochi passi da Via Cristoforo Colombo, ed era comoda perché poteva arrivarci tranquillamente con la metro, senza dover prendere l’auto. 
Nonostante potesse permettersi automobili costose, ancora non si era deciso a prendersene una personale, avvalendosi, alla necessità, di quella di suo padre e rinviava sempre la scelta, dato che amava prendere i mezzi pubblici per spostarsi: gli piaceva stare in mezzo alla gente, immergendosi nel via vai continuo e caotico di Roma. Osservare le persone, condividere con loro anche solo quei pochi istanti di viaggio, lo faceva sentire davvero parte integrante dell’umanità. Era un concetto che aveva sempre cercato di comprendere pienamente da quando lo aveva sentito durante le lezioni di filosofia, nei quali si parlava dei grandi dell’Antica Roma, come Tacito, Seneca, Cicerone, si erano affannati nello spiegare la complessità dell’Umanitas, ovvero di ciò che rende l’uomo simile ad un altro uomo.
Mentre percorreva i corridoi della villa, Marcello si ritrovò a passare accanto a copie d’autore di grandi quadri, come L’Ultima Cena di Leonardo, Le Nozze di Cana del Veronese oppure La Madonna Sistina di Raffaello, tutti capolavori che ben testimoniavano a quali livelli si potesse elevare l’espressività umana.
Agnese lo lasciò davanti alla porta della camera di Vittoria, quindi tornò alle sue occupazioni. Il ragazzo, invece, bussò energicamente, attendendo che l’amica gli venisse ad aprire.
«Sei una persona senza cuore!
» le sentì gridare dall’altra parte.
Accigliato, bussò ancora e, questa volta, la giovane fece la sua comparsa al di là del battente.

«Oh, Marcello! Ti stavo aspettando
» gli disse, sorridendogli.
«Con chi ce l’avevi?» chiese, però, lui, sospettoso, poiché era rimasto talmente sconcertato dalle sue urla furibonde da passare direttamente al dunque, senza nemmeno salutarla.
In risposta, l’altra inclinò da un lato la testa e, perplessa, domandò: «
Per cosa?» 
«
Chi sarebbe la persona senza cuore?»
A quel punto, Vittoria agitò una mano, come a voler sminuire con quel gesto l’entità della cosa e spiegò: «Ah, con nessuno d’importante... era solo Leandro».
La ragazza non nominava spesso il fratello, più grande di lei di diversi anni, che aveva lasciato ormai da parecchio tempo l’Italia, avviando così una brillante carriera da diplomatico. Le sue visite a casa era sempre rare e molto brevi, pertanto Marcello non aveva avuto molte occasioni di conoscerlo di persona, così da capire che tipo fosse, anche se, attraverso i racconti della giovane, non aveva avuto una buona impressione su di lui.
«Cosa voleva?
» le chiese il giovane, a bruciapelo.
«Ha appena ottenuto un importante incarico come consigliere di legazione1 a Dublino, perciò dice di non riuscire a tornare per febbraio, in tempo per la mostra. Ma so bene che, in realtà, è perché non gli interessa» rispose la ragazza, infastidita, invitando l’amico a seguirla.
«Magari davvero non può» azzardò l’altro, più per tranquillizzare l’amica che per difendere il suo fratello.
Tuttavia, l’altra scosse tristemente la testa e si abbandonò ad un mesto sospiro: «
No, lo conosco bene. Per lui, questo evento è solo una perdita di tempo, come il novanta percento delle cose che riguardano sua sorella».
Notando l’espressione avvilita sul volto della sua amica, Marcello decise di affrettarsi a proseguire nella conversazione.
«E così, Leandro è finito in Irlanda?»
«
Sì, dallo scorso agosto, perché la Polonia non gli piaceva. Mirava alla Germania dell’Ovest, ma il posto vacante non era lì» raccontò Vittoria, mentre apriva la porta di uno dei salottini.
La stanza era molto areata e luminosa, ammobiliata con una semplice libreria bianca colma di volumi antichi, un tavolinetto con il ripiano in vetro ed un paio di divani dalla tappezzeria azzurro pastello.
«
Ho detto a Agnese che, quando sareste arrivati, avrebbe subito dovuto mettere a scaldare l’acqua per il tè e preparare la cioccolata per Gerardo. Ma lui non è venuto, a quanto vedo» notò con una punta di delusione lei, accomodandosi su uno dei sofà.
«
L’ho sentito stamane, ha detto di non sentirsi troppo bene».
Vittoria irrigidì la schiena, si mise a braccia conserte e sibilò: «Marcello Tornatore, non sperare che io mi beva una fandonia come questa! Davvero mi ritieni così stupida?
»
«
Non lo sto coprendo, se è questo che stai insinuando. Ti sto solo riferendo quello che mi ha detto».
La ragazza abbandonò tutta la sua rigidità e si accasciò contro i cuscini del divano.
«Lo so che non vuole venire più qui. Da quando Bartolomeo transita in questa casa per allestire la sua mostra, Gerardo non si è fatto più vedere
».
«Non è un mistero che non lo trovi simpatico
» notò Marcello, senza andare tanto per il sottile.
«So benissimo che tra quei due non corre buon sangue. Comunque, oggi Bartolomeo non è venuto, perché doveva rifinire delle cose con la sua fantastica assistente. Perciò, il signorino Preziosino sarebbe potuto venire benissimo, almeno mi avrebbe aiutato anche lui. Non è giusto che ci sia solo tu».
Con una certa sorpresa, il giovane notò un certo astio di Vittoria nei confronti del suo fidanzato, tuttavia verso il loro amico le sembrò quanto mai indispettita, così decise di sondare ulteriormente il terreno, chiedendo: «
Io non ti basto?»
Accigliandosi, l’altra lo guardò, rispondendo solo dopo una breve pausa: «
Be’, con Gerardo saremmo stati in tre, avremmo ragionato meglio. Tu non sai quante cose ancora devo fare per questa mostra! Gli inviti, provvedere al servizio di catering, catalogare le opere, decidere quali sale mettere a disposizione...»
Marcello, nell’osservare la sua amica, fece una smorfia divertita: si vedeva che era agitata e che sentiva la mancanza del terzo componente del gruppo; in effetti, nemmeno secondo il biondo, Gerardo si stava comportando bene verso la ragazza, giacché aveva chiesto aiuto e loro, in qualità di migliori amici, erano tenuti a darglielo, a prescindere dagli attriti personali verso chicchessia.
«
Vittoria, tu credi che Agnese abbia già messo su l’acqua per il tè?» chiese poi il ragazzo, pensieroso.
«Posso chiamarla e chiederle a che punto è. Perché?»
«
Vedi» esordì lentamente lui, lisciandosi il mento, «penso che sia meglio se andiamo a farci una passeggiata e, magari, prendere qualcosa fuori. Tu hai bisogno di distrarti».
A quelle parole, la giovane sorrise, sinceramente riconoscente.
«
Sapevo che avresti capito al volo di cosa ho bisogno davvero» ammise, con dolcezza.

Non volendosi allontanare di molto, Marcello e Vittoria trovarono rifugio, dal vento gelido che sferzava fuori, in un piccolo bar lontano dalla strada. Essendo praticamente vuoto, riuscirono a sedersi subito ed attirare l’attenzione di una cameriera piuttosto rotondetta e dall’aspetto simpatico per ordinare due té con un vassoio di pasticcini.
«Dovresti rallentare i tuoi ritmi, ti vedo molto pallida
» commentò il ragazzo, mettendo di lato la carta delle ordinazioni. 
«
Oh, è che ci sono così tante cose da fare ed io sono sola!» spiegò la sua interlocutrice, giocherellando con i nastrini della sua maglia di lana.
«
Gerardo ed io siamo sempre pronti per aiutarti, lo sai» ci tenne a precisare il biondo, ma, vedendo l’espressione di disappunto comparsa sul volto di lei, si corresse. «D’accordo, Gerardo ultimamente è stato un po’ latitante, ma sono sicuro che non riuscirà a starti lontano ancora per molto».
Meravigliata, Vittoria trasalì e spalancò gli occhi nocciola.
«
Perché, cosa sai? Cosa ti ha detto?» chiese, concitata.
Interdetto da quella reazione, Marcello la fissò per qualche istante, prima di rispondere: «
Non ha detto niente, ma sai benissimo che entrambi ti siamo sempre stati vicini, soprattutto nei momenti difficili, perciò sicuramente anche lui vorrà darti una mano».
Tuttavia, di fronte a tale spiegazione, la giovane parve delusa.
«
Ah, in questo senso? Certo, certo, ovviamente» mormorò, scrollando la testa come a scacciare un pensiero indesiderato.
Sempre più perplesso, il giovane stava quasi per chiederle altre spiegazioni, quando la paffuta cameriera servì loro le bevande che avevano ordinato, accompagnandole con un vassoio contenente una grande varietà di piccole dolcezze: una gioia per gli occhi e, sicuramente, anche per il palato.
«
Non mi hai detto come è andata con Carter» constatò di punto in bianco Vittoria, cambiando argomento e allo stesso tempo facendo rapidamente sparire una crostatina con crema pasticcera e frutti di bosco. «Chiedo a te perché, sai, non posso parlare con gli assenti».
Anche se ora appariva più distaccata, il ragazzo avvertì che, in realtà, l’amica non aveva affatto mandato del tutto giù l’assenza di Gerardo; il modo risentito con il quale continuava a citarlo ne era un indizio e, forse, sarebbe stato prudente parlarne il prima possibile con il diretto interessato, così da evitare un litigio tra i suoi due migliori amici.
«
Non c’è molto da dire» rispose Marcello, servendo prima il tè all’amica e poi a se stesso. «Più che affari, quel tipo sembra che concluda traffici illegali».
«
Ne avete le prove?»
«
No, ma non mi è piaciuto come si è comportato, si è visto che non è interessato ad averci come soci. Voleva semplicemente studiarci e capire se fossimo allocchi raggirabili o meschini come lui».
Dopo una simile affermazione, Vittoria arricciò il naso, come se avesse percepito fisicamente odore di imbroglio: «Quindi le voci sul suo conto sono vere. Da come ne parli, sembra proprio l’essere viscido che tutti descrivono».
«E dovresti vedere il suo assistente, è più viscido del suo principale» commentò il biondo, ripensando con disgusto a quel John Miller, ai suoi toni melliflui e falsamente condiscendenti.
«
Grazie, non ci tengo, ne ho già abbastanza, di esseri viscidi. Sai che Ascanio mi ha mandato un mazzo di rose rosse?»
Il biondo aggrottò la fronte, convinto di aver esaurito le parole per descrivere in maniera opportuna Colonna. Non si era mai fatto scrupoli a corteggiare donne impegnate e, per giunta, Bartolomeo Davoli non era esattamente il prototipo di fidanzato geloso, ciononostante quell’imbecille aveva decisamente toccato il fondo. Non gli bastava fare il cascamorto con le contesse, ai ricevimenti, e con le commesse nei negozi?
«
Mi auguro tu le abbia buttate dritte dritte nell’inceneritore» commentò, pescando un diplomatico al caffè dal vassoio.
La giovane sorrise, per la prima volta in quel pomeriggio.
«
Le ho donate al centro anziani, almeno hanno reso felici le amabili vecchiette alle quali faccio volontariato».
«
Avresti dovuto rifilarle alla cassiera della libreria di Via della Conciliazione, piuttosto!»
«Ah, vero! Vabbè, non è l’unica alla quale Colonna fa il filo.
A proposito di quell’episodio, non mi avevi detto di aver preso un libro per Beatrice? Vi siete rivisti? Glielo hai portato?»
E fu così che venne fuori il nome della fanciulla, un’occasione per fare a Marcello il terzo grado che Vittoria non si lasciò certo sfuggire.
«Sai benissimo che ci siamo rivisti» notò il biondo, sbuffando. «Ti ho già riferito che mi ha detto del vostro incontro e del tuo invito alla mostra, dimentichi?».
«Sì, hai ragione, ma l’altra volta avevo poco tempo e non mi sono soffermata!» esclamò Vittoria, riprendendo un po’ di colore sul suo volto smunto. «Ora, invece, abbiamo tutto il pomeriggio davanti e voglio sapere tutto! Sono anni che sogno di vederti frequentare una ragazza, fuori i particolari!» 
Il giovane alzò gli occhi al cielo, rassegnato. Suppose che quelle fossero le condizioni per aver ridato a Vittoria il buon umore.
«
È venuta lei a cercarmi a casa, per riportarmi il soprabito, otto giorni fa» le riferì, dopo aver inghiottito un altro pasticcino. Poi fu costretto ad ammettere: «Mi sono dimenticato di chiamarla al telefono, seppur gliel’avessi promesso...»
«Ti sei dimenticato di chiamarla?
» chiese l’altra, incredula, interrompendosi mentre portava, cautamente, la tazza fumante alle labbra. «Sei incredibile! Beatrice deve essere molto paziente. Ed anche coraggiosa: lo sa che ha rischiato di trovarsi faccia a faccia con quella megera di tua madre?»
«
No, per fortuna lei era uscita in quel momento. Comunque, non l’ho fatto apposta» si giustificò lui, un po’ in difficoltà, «la vicenda di Carter mi ha assorbito parecchio. Non volevo mancarle di rispetto».
Vittoria sorrise, scuotendo la testa.

«Devi piacerle molto per essersi spinta a tanto. Di solito, le ragazze aspettano che sia l’uomo a farsi avanti. Però è anche vero che, con un pezzo di legno come te, ci vuole inventiva».
«
Pezzo di legno?» esclamò il biondo, risentito, rimanendo con la bustina di zucchero tra le dita. «Mi sono scusato con lei e, a dirla tutta...»
«
Dai, non te la prendere, era una presa in giro bonaria!» si schermì la ragazza, ridendo.
La conversazione, però, gli aveva fatto improvvisamente tornare in mente il fatto che Beatrice, quella mattina, non gli aveva risposto. Eppure gli aveva garantito che il mercoledì era il giorno giusto per telefonarle.

«Marcellino, stavo scherzando! Non c’è bisogno di mettermi il muso per così poco!» esclamò Vittoria, avendo probabilmente notato il suo cambio d’espressione.
«
No, non è per quello. È solo che questa mattina non mi ha risposto, nonostante mi abbia esplicitamente detto di chiamarla il mercoledì» spiegò Marcello, rendendola partecipe dei propri pensieri.
«Magari ha avuto un imprevisto ed è dovuta uscire, riprova».
«
Già. Volevo proporle di vederci anche la settimana prossima» mormorò il ragazzo, sovrappensiero. «Secondo te, aspettare un mese non è eccessivo, prima di poter rivedere una persona che vuoi conoscere meglio?»
«
Se io avessi l’opportunità di uscire con il mio uomo, lo vorrei vedere tutti i momenti» commentò la giovane, malinconica. La particolare enfasi, che aveva impresso alla parola mio, diede al biondo la fugace impressione che lei non stesse alludendo a Bartolomeo. Tuttavia, Vittoria tornò presto alla solita allegria, tanto è vero che insinuò, sorridendo sorniona: «La tua rossa fiorentina deve essere davvero speciale se le riservi tutte queste attenzioni; sarebbe un peccato farla aspettare, non credi?»
Marcello non replicò, limitandosi a fissarla e a sorseggiare il suo té.
***

Guido, seduto al tavolo della cucina, sfogliava annoiato il giornale, rimpinzandosi di patatine al formaggio e sbuffando di tanto in tanto: secondo gli ordini impartiti dalla signora Assunta, avrebbe dovuto sorvegliare la sorella finché non avesse ultimato le faccende e solo allora sarebbe potuto uscire.
Poco più lontano, Beatrice, livida dalla rabbia, stava lavando i piatti, stando attenta a sbatterli con quanta più forza possibile e sperando che si sbeccassero tutti: non poteva sopportare di essere stata schiavizzata ancora di più di quanto non fosse già, senza aver fatto nulla per meritarlo.
La ragazza si scansò, con l’avambraccio, una ciocca di capelli dalla fronte e, approfittando del momento di pausa, lanciò un’occhiata velenosa al fratello.
Questi dovette notarlo, poiché disse: «
Avanti, Cicci, non mi guardare così».
Beatrice gettò la spugna nel lavabo dove stava lavando le stoviglie, facendo schizzare schiuma tutt’intorno, quindi si mise a braccia conserte e, così facendo, si asciugò le mani bagnate sulle maniche: infatti, la cugina non aveva ritenuto necessario farle indossare dei guanti.
Si avvicinò pericolosamente al tavolo e si rivolse al fratello, stizzita: 
«E come dovrei guardarti? Mi stai vietando di mettere piede anche in giardino, stai assecondando i lavori forzati che mi comanda l’Anna Laura e hai organizzato un appuntamento con Navarra, senza avere il mio consenso!»
«Cicci, sai bene che dopo quello che hai combinato era il minimo che potesse accaderti» rispose il giovane, continuando a mangiare patatine.
«
Quello che ho combinato? E cosa avrei fatto di così grave, per meritare tutto questo?»
«
Ti sei vista di nascosto con un ragazzo, uno che non è il tu’ fidanzato. Per fortuna, Navarra è in Spagna a sistemare delle cose, così non saprà niente di questa storia...»
Beatrice tornò al lavabo e prese una padella insaponata, agitandola pericolosamente sotto il naso di Guido.

«E, da quando, di grazia, quello schifoso sarebbe il mi’ fidanzato?
»
Il ragazzo si decise a guardarla in faccia e sbatté le palpebre, rimanendo in silenzio.
«
Non rispondi, vero?» incalzò la ragazza, sbattendo la padella sul ripiano della cucina. «Da quando gl’hai promesso che sarei stata sua in cambio di soldi! Così da poter estinguere il debito che hai con lui
«Bea, lo sai che non ho alternative. Vedrai che Conrado sarà un buon marito
» le rispose il fratello, piegando con cura il giornale e sistemandolo sul tavolo.
La fanciulla scoppiò in una risata isterica.
«
Buon marito? Certo, quando non mi piccherà, violenterà o mi concederà ai su’ luridi amici, potrebbe anchessere un buon marito. Perfino ottimo, nel momento in cui sparirà per concludere qualcuno dei su’ sporchi affari. In fondo, anche Saddam Hussein, quando non è impegnato a bombardare l’Iran, l’è una personcina adorabile».
«Beatrice...»
«Come diavolo hai potuto!»
Guido perse la pazienza e si alzò in piedi, gridando: «
Beatrice, finiscila! Basta!»
L’altra non si ritrasse, anzi rimase a scrutarlo, furibonda; l’unico sentimento che sentiva ora verso il fratello, infatti, era un misto di pietà e disprezzo.
Il giovane dovette percepirlo, infatti abbassò lo sguardo e biascicò: «Io... Scusa... Non volevo alzare la voce con te...»
«
Non importa, Guido. Hai ragione, per stasera basta così» disse la ragazza, rimettendosi a sciacquare le pentole. Guido fece per aggiungere qualcosa, ma rimase con la mano alzata a mezz’aria e la bocca aperta. La richiuse poco dopo, abbassando anche il braccio e allontanandosi mestamente, a capo chino.
«
Ricordati solo una cosa» aggiunse Beatrice, senza voltarsi, «la prossima volta, per sanare i tuoi debiti, impegna solo la tu’ vita e non quella degli altri».
Il giovane si arrestò quel poco tempo necessario ad incassare quelle parole taglienti, poi uscì definitivamente dalla cucina.
La fanciulla fissò il suo riflesso pallido e triste nel vetro della finestra posta sopra al lavandino: si sentiva debole e sola, come se fosse esposta alle peggiori intemperie, senza avere un riparo.
Udì la porta d’ingresso che si apriva e si chiudeva subito dopo: sicuramente era Guido che usciva per ritrovarsi con i suoi balordi amici. Suo fratello combinava i guai, a lei toccava rimediare e lui si prendeva anche la ricompensa: era sempre stato così. Ma questa volta non si trattava di marachelle di bambini, c’era in gioco la sua felicità e la sua vita.
Beatrice sospirò, sentendosi improvvisamente vuota.
Finì di mettere a posto le stoviglie, quasi meccanicamente, poi cominciò a salire i gradini, con tutta l’intenzione di mettersi a letto il prima possibile, un po’ per riposarsi dal duro lavoro, un po’ per porre termine a quella giornata infernale.
Mentre si spogliava per mettersi il pigiama, si sentì come spiata, anche se convenne che doveva essere tutto frutto della sua immaginazione, violentemente scossa dall’ingombrante e minacciosa presenza di Navarra nel suo futuro. 
Quell’essere le faceva ribrezzo e non avrebbe mai potuto rassegnarsi all’idea di diventare sua moglie, soprattutto non dopo aver conosciuto Marcello, per il quale ormai era certa di provare più che una semplice simpatia.
Si mise a letto e tirò fuori, da sotto al cuscino, il libro che le aveva regalato il giovane: meno male che aveva nascosto quel regalo in borsa, prima che lo potesse vedere sua cugina, altrimenti Anna Laura se ne sarebbe appropriata senza fare tanti complimenti.
Sfogliando le pagine, emananti quel buon odore di carta nuova stampata, Beatrice si perse ad ammirare i contrasti di luce e di ombra, tipici della pennellata caravaggesca: contrasti che erano sempre presenti anche nella sua vita, anche se ora, a dirla tutta, sembrava proprio che stesse prevalendo l’oscurità. Si fermò, così da lasciare lo sguardo libero di vagare sulla parete bianca di fronte a lei e divenne improvvisamente molto triste, come se avvertisse di non poter essere più felice.
Aveva una gran voglia di piangere, eppure era troppo stanca anche per quello, per tanto lasciò che fosse la spossatezza a prendere il sopravvento, guidandola nel mondo dei sogni, unico luogo in cui, al momento, poteva sperare di essere più libera.





***
Per la revisione, ringrazio Lady Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la grafica del titolo è opera mia.
Ringrazio la mia Anto che si rivela, ogni volta, un’ottima consulente.

***

[N.d.A]
1. consigliere di legazione: è il secondo grado della carriera diplomatica italiana;
2. centrali nucleari: le centrali nucleari italiane sono state in realtà cinque. Di queste, quella di Montalto di Castro non ha mai funzionato, poiché la sua costruizione non era ancora terminata quando ci fu il Referendum del 1987. Quella di Sessa Aurunca ha smesso di lavorare nel 1982, in seguito ad un guasto. Le altre tre sono Latina, Trino e Caorso, le quali hanno smesso di lavorare tutte in seguito al già citato Referendum

***


Salve a tutti!
Come promesso, questa volta ho aggiornato secondo i tempi previsti! E, per me, è una conquista, considerando che sono riuscita a far passare anche un anno prima di riprendere questa storia.

La buona notizia è che ho già scritto buona parte dei prossimi capitoli e, spero, aggiornerò con costanza.
Scrivendo, mi auguro di non aver preso sfondoni storici: ricordo che questa vicenda è ambientata negli anni 
80, pertanto i riferimenti ai fatti storici citati li ho inseriti per renderla più veritiera, tuttavia mi sto basando su racconti fatte da altre persone, che erano presenti, o resoconti letti qua e là, poiché all’epoca dei fatti non cero ancora.
Se voi doveste notare qualcosa di poco preciso, non esitate a farmelo presente.
Ringrazio chi legge, chi segue in silenzio, chi trova tempo e forza di volontà per farmi sapere la sua, chi ha messo questo racconto in uno dei suoi elenchi, chi mi farà sapere la propria opinione in seguito.
So bene che è una storia da “tè delle cinque”, tuttavia sto cercando di metterci impegno: a mio parere, la semplicità non è una scusante ad un modo di scrivere grossolano.
Il prossimo appuntamento sarà i primi di Novembre; intanto, vi lascio il link al mio blog, dove troverete uno spoiler tratto dal quinto capitolo.
Saluti,
Halley S. C.


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Capitolo 5
*** Capitolo Quinto - Vento di Incertezze ***


Vento dell'Ovest - Capitolo 5



- Capitolo Quinto -
Vento di Incertezze





A
ffacciato alla finestra dell’ufficio, posizionato in un rispettoso stabile di Via del Gambero, un malinconico Gerardo osservava i passanti, affaccendati nel via vai delle spese prenatalizie. Nonostante avesse un carattere molto pacato, in quel momento non poteva fare altro che invidiare tutte le coppie che vedeva passare, cariche di pacchetti.
Ammise a se stesso che gli sarebbe piaciuto molto godersi il centro addobbato a festa, facendo una passeggiata con lei. Non aveva potuto rivelare a Marcello chi fosse la donna di cui era innamorato, poiché non sapeva come l’avrebbe presa; aveva preferito, perciò, che l’amico lo rimproverasse energicamente per la scelta che aveva preso, piuttosto che dire la verità. Comunque non avrebbe cambiato idea: aveva deciso davvero di dichiararsi a Maria Luisa, non appena ne avrebbe avuta l
occasione.
Improvvisamente, si alzò un vento tagliente che gli sferzò le guance, costringendolo a ritirarsi dentro e a chiudere la finestra.
Per un istante, pensò scioccamente che quella folata fosse stata una sorta di punizione per i pensieri poco onesti verso se stesso, avuti qualche momento prima. Si stropicciò gli occhi, concedendosi un secondo per pensare; in effetti, sapeva benissimo a chi apparteneva di diritto il suo cuore, ma doveva ripiegare sull’erede dei Foscari, dato che l’unica donna che aveva mai amato nella sua vita era impegnata. Forse con un bifolco, ma impegnata. E quindi doveva dimenticarla.
Sospirò, colto da un attimo di sconforto, poi si avvicinò alla sua scrivania e prese il telefono, con tutta l’intenzione di chiamare il bar di fronte ed ordinare un caffè.
Mentre componeva il numero, notò una busta aperta, poggiata accanto alla lampada da tavolo, e si ricordò della lettera.
Le lanciò un’occhiata guardinga, come se fosse stata una bestia feroce, in grado di assalirlo da un momento allaltro: Carter, infatti, aveva mandato la sua risposta, una risposta che aveva lasciato decisamente perplesso il povero Gerardo. E a dirla tutta, l’aveva anche leggermente inquietato, tanto che non vedeva l’ora di parlarne con il suo amico.
«Marilena, buongiorno, sono Gerardo... Sì, esatto. Il solito, ovviamente...» disse, senza distogliere lo sguardo da quei fogli. «Ricordati solo di mandarmi anche molto, molto zucchero».

Quando Marcello entrò nell
ufficio, la prima cosa che notò fu il freddo che aleggiava nella stanza; la seconda il colorito terreo del suo socio.
«Buongiorno, Gerardo. Come mai hai quella faccia?» chiese, appoggiando una bottiglietta d’acqua sulla sua scrivania, posta di fronte a quella dell’amico.
Gerardo rispose con una specie di lamento e, alzandosi dalla propria sedia, gli porse alcuni fogli. Con un’espressione interrogativa, il biondo li prese e lesse l’intestazione.
«La raccomandata con la risposta di Carter! Sono stati rapidi».
«È un resoconto molto dettagliato» spiegò l’altro ragazzo, con un tono adatto ad un funerale. «Leggila tutta, per favore. È importante».
Marcello lo fissò incuriosito e, in risposta,
Gerardo lo invitò a proseguire nella lettura con un gesto della mano.
Quando il giovane fu arrivato quasi in fondo all’ultimo foglio, finalmente capì perché il suo socio era tanto agitato.
Ecco, infatti, ciò che trovò scritto:
“Tasso interesse offerta: 5,00%
Tasso interesse selezionato: 4,999%”
Nel vedere quei numeri così stranamente simili, Marcello inarcò marcatamente un sopracciglio.
«Cosa significa quel quattro virgola novecentonovantanove?» chiese, altero.
«
Me lo chiedo anche io» chiese Gerardo, non meno irritato. «Lo scarto tra la nostra proposta e quella che ha vinto è solo dello zero virgola zero, zero, uno. Che accada casualmente è molto improbabile».
«
È come se avessero saputo in anticipo quanto avremmo offerto» convenne il biondo, alzando gli occhi dal resoconto.
«
Ma non è possibile!» esclamò l’altro. «Avevamo scelto l’interesse insieme e solo noi due ne eravamo al corrente. Sono io che ho firmato la proposta e Miller l’ha chiusa e sigillata in una busta davanti ai nostri occhi!»
«Le altre società hanno offerto dal sette al nove percento. Solo l’ultima meno di noi» notò Marcello. Poi lesse il nome del vincitore: Stigliano s.r.l.
«
Stigliano. Mh, il nome mi dice qualcosa, anche se ora non mi viene in mente niente di preciso» mormorò soprappensiero. «Tu la conosci?»
«No, deve essere una società di nuova costituzione
» ipotizzò Gerardo, serrando le braccia contro il petto.
«Be’, magari non ne abbiamo le prove, ma qui mi sembrano molto chiare due cose: la prima è che Carter sapeva perfettamente quanto avevamo intenzione di offrire. La seconda è che ci vuole provocare» continuò Marcello, alzandosi dalla poltrona. Sapeva perfettamente che l’industriale britannico non li aveva mai presi realmente in considerazione, come partners finanziatori, ma non si aspettava una presa in giro tanto plateale.
«
Secondo te, ha riferito a chi di dovere quanto avevamo offerto? Così che il responsabile di questa “Stigliano” potesse regolarsi di conseguenza?» avanzò il suo socio.
«Quel margine irrisorio di differenza è una dichiarazione aperta: ci hanno preso per i fondelli e vogliono farcelo capire».
Gerardo assunse un’espressione indignata: «Che giochetto sadico
».
Il biondo si alzò e si diresse verso la finestra, tenendo le mani dietro la schiena, come era solito fare quando voleva riflettere su enigmi particolarmente difficili.

«Marcello, non te la prendere, poco importa. Tanto avevamo detto che non volevamo avere niente a che fare con Carter e soci».
«Infatti non me ne frega un accidente di aver perso, voglio solo capire come diavolo hanno fatto!»
L’amico alzò le spalle, scuotendo la testa, come a dire che non ne aveva la più pallida idea.
«Non c’erano specchi nella sala, non possono aver visto di riflesso ciò che stavi scrivendo, e Miller ha chiuso e sigillato l’offerta davanti a noi;
» considerò il biondo, mentre riordinava i pensieri, «non è una vera e propria gara d’appalto, non è un’opera pubblica, ma, per la miseria, era presente un notaio! Avrebbe notato una manomissione delle offerte...»  
«Sempre che non fosse corrotto
» suggerì Gerardo.
«C’è di mezzo lo Stato Britannico... No, sono certo che il notaio fosse integerrimo» disse Marcello, tornando verso il suo amico, mentre si stropicciava il mento, nervoso. 
«
Allora non so proprio come possano aver fatto».
«
La soluzione deve essere molto più semplice di quel che pensiamo. Fosse l’ultima cosa che faccio, devo capire come quel maledetto Carter è riuscito a prenderci per i fondelli!»

Nonostante l’avesse cucinata di persona, Beatrice trovò che quella pappa al pomodoro non avesse alcun sapore o, forse, era semplicemente troppo stanca per riuscire a coglierne il gusto.
Erano solo le due di pomeriggio e doveva ancora ripulire tutto il piano superiore, balconi compresi. Le stanze non erano adoperate tutte, ma la zia aveva deciso che 
ogni tanto, le pulizie di primavera vanno fatte in tutta casa.
Già, di primavera: peccato fosse appena iniziato dicembre!
Spezzettò il pane raffermo come meglio poté e lo mise all’interno della ciotolina, affinché si ammollasse un po’ grazie alla zuppa, anche se, oramai, era quasi completamente fredda.
La ragazza strinse le dita intorno al cucchiaio: adesso doveva mangiare sola in cucina, dopo che tutti gli altri avevano finito, come l’ultima delle sguattere. C’è, però, da dire che questo non le dispiaceva più di tanto, visto che significava desinare senza avere davanti la brutta faccia della zia e della cugina; inoltre, non le importava nemmeno di Guido, in quanto rimaneva fuori sia a pranzo che a cena, portando le sue amiche nei migliori ristoranti.
Tanto, debito più, debito meno, la cosa era irrilevante, dato che poteva disporre della sorella come pegno per saldare il tutto.
Quell
ultima considerazione, però, nauseò talmente tanto Beatrice che allontanò da sé la scodella: aveva perso tutto l’appetito. Mise da parte l’avanzo di cibo e, dopo aver lavato il pentolame, si preparò a salire di sopra, così da proseguire nelle pulizie di Pasqua, quando Guido fece il suo ingresso in cucina.
«
Ciao, Cicci, cosa hai fatto di bello oggi?» disse il ragazzo, dirigendosi immediatamente verso il tavolo, dove era posata un’incustodita e succulenta torta al cioccolato.
La fanciulla fece finta di non sentirlo, continuando ad asciugare le posate.
«Non rispondi, Bea? Se rimani così imbronciata, farai presto le rughe!» sghignazzò Guido, esilarato dalla propria battuta.
Irritata da tanta facezia a buon mercato, la fanciulla decise di interrompere il suo ostinato silenzio: «Perché non sposi tu una ricca ereditiera, così da poter pagare tutti i debiti che l’hai con il Navarra?»
«
Perché una zita1 dà più problemi d’un ragazzo scapolo» concluse Guido, servendosi unenorme fetta di torta.
Beatrice trovò la risposta
molto maleducata ed incompleta, con una forte dose di retaggio maschilista; le ricordava una frase che aveva letto su un libro di storia a proposito dei costumi dell’Antica Grecia: un figlio lo si cresce anche se si è poveri, una figlia la si espone anche se si è ricchi2.
«Sembra buona, Cicci. Cosa ci hai messo?»
La fanciulla a
ttese che il fratello addentasse un grosso pezzo di dolce e rispose, candidamente: «L’ingrediente principale è la stricnina».
Preso in contropiede, il ragazzo sputò il boccone, tossendo in preda ai rantoli e tenendosi il collo con entrambe le mani.
«Mi stai avvelenando!
» piagnucolò.
Beatrice lo guardò con fredda compassione, mettendosi le mani sui fianchi.
«Oh, sì, così l’uscirei da questa prigione per andarne in un’altra. Anche se non credo che la galera possa essere peggio» commentò, severa. «Pulisci tu questo schifo, adesso, io sono stata tre ore a lustrare la cucina, ho ancora tutto il piano superiore da mettere a posto».
«Ma come fo! Non so nemmeno la differenza tra il cencio e il detersivo!
» protestò Guido.
«Arrangiati. E, se non lo fai, convinco Navarra a raddoppiarti i debiti, anziché toglierteli
».
Il ragazzo divenne bianco cadaverico.
«Non puoi farlo
La ragazza mise su un cipiglio austero e scandì, muovendo appena le labbra: «Oh, sì, invece. Sei tu che mi stai obbligando a frequentarlo e sposarlo, non ricordi?
»

Una volta giunta al piano di sopra, Beatrice poggiò il secchio e lo straccio sul pianerottolo, cercando di riprendere fiato. Tuttavia, venne prontamente richiamata da Anna Laura: «Sbrigati, sfaticata! La mia camera aspetta da stamattina di essere rifatta!
»
La fanciulla lanciò un’occhiata tagliente alla cugina, la quale rispose con altri insulti: «Prova a guardarmi ancora così e lo dirò a mamma! Allora finirai a pulire anche il camino, diventando lurida e puzzolente di fuliggine: Cenerentola, al tuo confronto, sembrerà niente!
»
La ragazza 
fu sinceramente tentata di far ruzzolare la parente giù per le scale, ma poi pensò che non valeva la pena di sporcarsi le mani così stupidamente. Si costrinse a non rispondere e varcò la soglia della stanza di Anna Laura che, ovviamente, era l’esatto opposto della stanzetta che avevano dato a lei.
Tanto per cominciare, aveva un’ampia finestra, un grande armadio, un letto spazioso e soffice e una quantità industriale di abiti, scarpe e altri inutili fronzoli pacchiani per adornarsi in stile albero di Natale ambulante.
Beatrice si legò sommariamente i capelli in una coda alta e lanciò una veloce occhiata qua e là, al fine di stimare il tempo che avrebbe impiegato per mettere a posto. Ad occhio e croce, contando quell’immenso disordine, ci avrebbe trascorso gran parte del pomeriggio.
Cominciò a riordinare tutti i vestiti che la cugina aveva lasciato sparsi sul pavimento, mettendo in un mucchio quelli che doveva lavare e ripiegando, invece, quelli che dovevano essere rimessi nell’armadio.
«Oggi deve essere proprio la tua giornata fortunata» esordì Anna Laura, che era rimasta impalata sulla porta, senza fare niente, per puro gusto di veder sgobbare Beatrice al posto suo.
«Davvero? Non ho fatto caso all’oroscopo, stamani» rispose lei, continuando nell’ingrato compito che le era stato assegnato. Li avesse almeno rivoltati nel verso corretto, visto che erano tutti al rovescio!

«Avevo deciso che non ti avrei portata con me alla mostra del Davoli, però poi ho cambiato idea» continuò la donna, cantilenando con malignità.
«Oh, come sei altruista» rispose la fanciulla, con malcelato sarcasmo.
«
Non lo faccio mica per te!» fece, pronta, l’altra. «Sarà molto divertente portarti ad assistere al mio trionfo: userò, infatti, tutte le mie tecniche di seduzione e Marcello sarà finalmente mio!»
Beatrice trovava che in quel piano ci fosse più di una falla, a cominciare dal fatto che la cugina non padroneggiava la benché minima “tecnica di seduzione” (non che lei ne fosse esperta, ma almeno non millantava talenti che non aveva), tuttavia si guardò bene dal dirlo.
«Non ti interessa, Bea?»
«Cosa?»
«Vuoi fare l’innocentina con me? Sai bene che mi sto riferendo a Marcello!»
«No, non m’interessa, infatti. Hai ragione tu, figurati se uno come lui guarderebbe mai una ragazzina come me!»
La donna manifestò tutto il suo compiacimento ad una risposta simile: 
«Finalmente l’hai capito! Lui non ha bisogno di mocciose ai quali fare il baby-sitter, vuole una donna vera!»
Anna Laura andò avanti diverso tempo nel declamare tutte le qualità con i quali avrebbe, letteralmente, impressionato Marcello. Mentalmente, la fanciulla si permise di aggiungere dalla paura! e fece uno sforzo impressionante per non scoppiare a ridere.
Molte inutili chiacchiere più avanti, la cugina disse che doveva uscire con delle amiche e, con enorme sollievo della nostra Beatrice, si tolse dai piedi.
Senza l’opprimente presenza della parente, la giovane andò più spedita e finì le pulizie in un battibaleno. Stava giusto per finire di sistemare i cuscini decorativi sul letto, quando, casualmente,
l’occhio le andò sul calendario e notò che, al ventisette dicembre, Anna Laura aveva appuntato qualcosa con un orribile pennarello rosa, contornandolo di cuoricini rossi. Approfittando della sua assenza, si avvicinò e lesse.
Nel rendersi conto di cosa c
’era scritto, ebbe un giramento di testa: era il compleanno di Marcello!
Tralasciando il dubbio modo con cui la cugina aveva segnato l’evento, doveva appurare se corrispondeva al vero. Considerando il basso quoziente intellettivo della donna, e sapendo che le sue letture giornalistiche più evolute si fermavano a Cioè, Beatrice si chiese come fosse riuscita a scoprire una cosa tanto importante. Avevano intervistato Marcello in qualche radio locale? Proprio Anna Laura gli aveva fatto capire che il giovane era abbastanza famoso nel mondo della finanza... In quell’istante le venne in mente il famoso ritaglio di giornale, quello che la parente aveva sbaciucchiato.
Forse c’era scritto qualcosa lì sopra?
La fanciulla sapeva perfettamente che il prezioso ritaglio era conservato in un raccoglitore sulla mensola sopra al letto. Forse avrebbe potuto approfittare del fatto che fosse sola per dare una sbirciatina, così, per curiosità; ovviamente, alla fine, avrebbe rimesso tutto a posto e nessuno avrebbe sospettato nulla.
Con somma cautela, si arrampicò sul letto, stando attenta a non sgualcire le lenzuola (sia per non lasciare tracce, sia per rispetto al proprio lavoro), e prese il raccoglitore, sempre con l’orecchio teso, pronta a cogliere anche il più piccolo rumore.
Tutto tranquillo.
Lentamente, prese a sfogliare le varie bustine trasparenti e comprese che quello era una specie di dossier su Marcello. Chissà cosa ne avrebbe pensato il diretto interessato! Trattenendo una risata di cuore alle spalle della cugina, Beatrice avanzò nella sua ricerca, finché non trovò quello che cercava. Fu così che cominciò a leggere:
“...il proficuo incontro avuto con Johnatan Mitchell e soci, avvenuto lo scorso mese a Villa Adriana, ha confermato Marcello Tornatore e Gerardo Marini come le attuali stelle della finanza locale. I due giovanissimi imprenditori (giovani per davvero, Gerardo è nato il 4 aprile 1961 e Marcello il 27 dicembre dello stesso anno) hanno affermato di voler seguire una propria scala di obiettivi, senza voler strafare. Per ora, i ragazzi hanno di certo cominciato con il piede giusto e sembra proprio che Roma debba aspettarsi molto da loro...

Dunque era vero!
La fanciulla si mordicchiò il labbro, pensierosa. Marcello aveva quasi sette anni più di lei, quindi ciò che aveva detto ad Anna Laura non era poi molto lontano dalla realtà: la possibilità che quel giovane la vedesse solo come una ragazzina invadente non era troppo remota.
Eppure, era stato davvero gentile con lei e le aveva regalato un prezioso libro senza motivo, per non parlare dei fiori che le aveva portato la prima volta che erano usciti insieme... E, anche se per lui era solo una ragazzina, doveva ricambiare le sue cortesie. La fanciulla rimise tutto come l’aveva trovato e uscì velocemente dalla stanza. Sorrise, felice, perché aveva trovato il pensiero che le avrebbe fatto compagnia, in quel pomeriggio dedicato alle pulizie: avrebbe confezionato un pensierino a Marcello, cogliendo l’occasione del suo compleanno e del Natale, ormai prossimo.
Beatrice sospirò. Sempre che fosse riuscita ad evadere da Alcatraz e vederlo per quella data.

Quel pomeriggio, Marcello rientrò a casa con un diavolo per capello, come accadeva sempre quando qualche affare non veniva concluso nel modo sperato.
In realtà, in questo caso, il giovane era molto contento di essersi liberato di Lord Carter e della sua prosopopea, ma non aveva gradito il modo in cui l’industriale li aveva trattati, come se avesse voluto sottolineare che erano soltanto dei sempliciotti.
Mentre rimuginava sul ricordo del pomeriggio in cui avevano firmato l’offerta, tentando di richiamare alla mente particolari importanti per smascherare il magnate, Madama Claudia lo vide passare davanti al salotto e, immediatamente, lo seguì, chiamandolo: «
Marcello, per parlarti devo prendere anche io un appuntamento? Sono giorni che ti intravedo, a malapena, per questi corridoi: corri come un fuggiasco!»
Il ragazzo si fermò, prendendo un sospiro di incoraggiamento per affrontare la madre.
«Non è un bel periodo, d’accordo? Stiamo avendo dei problemi».
«Vuoi dire che non avete concluso nulla con quel famoso milionario?»
«No, mamma. Non abbiamo concluso, anzi la faccenda è abbastanza complicata».
«Ah! Scommetto che la colpa è tutta di quell’incompetente di Marini! Se tu avessi scelto con più attenzione il tuo socio...»
«Gerardo non c’entra niente!» insorse Marcello, irritato dal commento della genitrice sul suo amico. «Il problema sta a monte, ovvero siamo noi che non vogliamo avere nulla a che fare con gli sporchi affari di Carter!»
«Ma sarebbe stato vantaggioso chiudere un contratto con lui! Sai quanto ne avreste guadagnato in visibilità?»
«Come gestisco i miei affari è cosa mia. E su certe cose non scendo a compromessi, lo sai benissimo!»
La Matrona lo guardò, sorridendo beffarda.
«La tua... lealtà
» disse, pronunciando l’ultima parola con tono ironico, «non ti porterà a niente. Guardati: nonostante i miei saggi consigli, sei ancora senza una moglie! A proposito, in biblioteca c’è quella buona a nulla della Farnese, deve parlarti di quell’orribile mostra. Invece di togliere sempre dai guai quella sciacquetta, cerca di far fruttare l’occasione! Per esempio, perché non prendi in considerazione l’idea di invitare Maria Luisa...»
Marcello guardò la madre con tanto disgusto che la donna, nonostante fosse molto sicura di sé, tacque.
«Mamma, basta. Basta, hai capito? Basta. Non voglio sentire una sola parola in più! La devi piantare di dare sempre giudizi gratuiti su quello che faccio e su chi frequento!»
«Ti sembra questo il modo di rivolgerti a tua madre, figlio ingrato?»
«Oggi ho cose più serie alle quali pensare, quindi lasciami stare!»
Il biondo non ebbe modo di sentire quello che continuò a gridargli sua madre dal corridoio poiché, per conservare la propria salute mentale, aveva intenzione di non ascoltare ancora ignobili improperi; entrò in biblioteca e chiuse la porta a chiave, così da evitare spiacevoli irruzioni da parte di parenti molesti.

Fin da quando era piccola, Vittoria aveva sviluppato una particolare predilezione per le poltrone adiacenti alla vetrata sul giardino e fu lì, infatti, che la trovò Marcello, acciambellata a leggere un tomo particolarmente datato, come si poteva vedere dai segni sulla pelle del frontespizio.
«
Buon pomeriggio, Vittoria» la salutò, accompagnando le parole con un cenno del capo.
«
Eccoti qui! Credevo non saresti venuto!» lo accolse la ragazza, calorosa, mettendo da parte Il giro del mondo in ottanta giorni.
«Abbiamo affrontato con Gerardo una questione spinosa
» spiegò il biondo, accomodandosi di fronte a lei. «Sei ancora nella fase di riscoperta di Verne?»
«Certi libri non ti stancano mai» ammise l’amica, accarezzando con lo sguardo la copertina consunta del libro. «Come mai hai fatto così tardi?»
«Carter
» rispose il giovane, asciutto. «Ma ora non ho voglia di parlarne, ho schiumato abbastanza per oggi, a causa sua».
«
Me lo racconterai un’altra volta, allora, anche se ti vedo particolarmente provato» dovette ammettere Vittoria, guardandolo preoccupata.
Il ragazzo fece un gesto con la mano, come a voler allontanare simbolicamente la discussione da sé.
«
Mia madre non ti ha offerto niente?»
«Credo sia già tanto che mi abbia fatta entrare, inoltre ho sentito che stava urlando. Ce l’aveva con te?»
«Come sempre. Abbiamo divergenze di opinioni praticamente su tutto» sbuffò lui, rilassandosi sulla poltrona. Si allentò il nodo della cravatta e se la sfilò.
Vittoria tese la mano per farsela dare e la piegò accuratamente, mentre esprimeva il proprio punto di vista:
«La signora Claudia dice così, ma, sotto sotto, ama il fatto che suo figlio sappia tenerle testa e che abbia una personalità così spiccata. Ti rende un ottimo leader. E nel lavoro che fai, questa è una qualità importante».
«Tu avresti dovuto fare la psicologa su larga scala, sai? Ciò che fai al volontariato è limitato» commentò il giovane, inclinando il capo da un lato.
«Non è proprio così, perché sono proprie quelle le persone che hanno più bisogno» spiegò l’altra, dando prova di grande maturità. «E poi la mia laurea non è sempre d’aiuto. Per esempio, proprio non capisco perché Gerardo continui ad evitarmi! Non lo vedo da settimane... Se mandassero ancora in onda Portobello, potrei chiamare durante Dove sei3 per avere notizie!»
Nello stesso momento in cui Vittoria tirò fuori il nome del loro amico,
Marcello si stava proprio chiedendo quando l’avrebbe fatto, giacché, quando era stato lui stesso a nominarlo poco prima, aveva visto la sua interlocutrice divenire piuttosto irrequieta.
«
Si farà sentire, prima o poi. Almeno spero».
Lei assunse un’espressione stizzita, a sottolineare il fatto che non credeva a quanto udito, e, dentro di sé, il biondo fu costretto a darle ragione, in quanto Gerardo stava davvero tirando troppo la corda. Andava bene non andare a casa di Vittoria per i dissapori con lo scultore, ma avrebbe almeno potuto chiamarla!
«
Però non mi hai ancora detto perché sei qui» proseguì il giovane, nel tentativo di cambiare repentinamente argomento.
La ragazza prese una busta di plastica e ne cacciò fuori una pila di fogli di carta: «Avevo bisogno di qualcuno che mi aiutasse ad preparare gli inviti per la mostra. Guarda, ho anche fatto la lista con i nomi da spuntare, man mano che li imbustiamo
».
Marcello la guardò come se fosse folle.
«Sciroccata che non sei altro, se pensi che io mi presti a questo lavoraccio oggi pomeriggio, hai capito proprio male. Torna domani e potremmo riparlarne» scattò, brusco. A conti fatti, dopo quello che aveva passato in mattinata, il suo desiderio di riposare non era tanto da biasimare.
«Su, su, che un po’ di sano lavoro manuale ti aiuterà a distrarti dalle diatribe lavorative!» esclamò vivacemente Vittoria, battendo le mani a ritmo.
Non vedendo altra scelta, Marcello, rassegnato, si fece consegnare la sua parte di inviti, augurandosi di non dover passare la notte in bianco: essendoci di mezzo Vittoria, ogni cosa era possibile.
Si misero a lavorare di buona lena e, poiché l’amica era molto precisa e meticolosa in tutto quello che faceva, il biondo scoprì, con sommo piacere, che il lavoro era stato davvero ben organizzato. Inoltre, dovette convenire che eseguire gesti meccanici aiutava a distendere i nervi e a far rilassare il cervello. Fu così che gli venne in mente che Beatrice non gli aveva ancora risposto e, approfittando di avere di fronte la sua più cara amica, decise di consultarsi nuovamente con lei sul da farsi.
«
Anche questa settimana Beatrice non mi ha risposto» esordì Marcello, spuntando un nome dalla lista. «Sinceramente, sto cominciando a preoccuparmi: che le sia successo qualcosa? A meno che non voglia più parlarmi, ovviamente».
Vittoria smise di imbustare gli inviti e lo guardò:
«Togliti dalla testa che non voglia più parlarti: una ragazza che arriva a cercare un uomo a casa sua è molto interessata. Se davvero sei preoccupato, vai a casa sua, e accertati che tutto sia a posto».
«
Sì, non c’è altra soluzione» convenne il giovane, chiudendo a sua volta un altro invito.
«
Magari, evita di farti vedere dalla cugina; sai, ho come l’impressione che non aspetti altro che un pretesto per saltarti addosso» insinuò l’altra, con aria di chi la sa lunga.
«Ma si può sapere chi è la cugina di Beatrice? Tu e lei la nominate in continuazione, io, invece, ricordo il nome, ma non riesco a collegarla a nessun viso».
«
Hai presente quella ragazza che ha voluto conoscerti a tutti i costi, all’inaugurazione del ristorante di Michele?»
«
Sì, forse ricordo...» disse Marcello, dapprima socchiudendo gli occhi nello sforzo di richiamare alla mente riferimenti utili, poi spalancandoli per l’orrore. «Santo Cielo, ora sì che ho capito!»
Vittoria, a quella reazione, scoppiò in una fragorosa risata, tanto che dovette cacciare fuori dalla tasca il fazzoletto e cominciare a tamponare le lacrime.
Il giovane cacciò fuori la lingua, esibendo un’infantile espressione di disgusto: «Non ho mai conosciuto una tipa più appiccicosa di quella... Ti divertono tanto le mie disavventure, Vittoria?»
La ragazza, richiamata all’ordine, cercò di calmarsi e di ridarsi un tono.
«
Non è colpa mia» si difese. «Purtroppo, capitano tutte a te. Hai quasi più fan tu di Simon Le Bon
«Peccato che io non sappia cantare» obiettò lui, con disappunto.
«Magari con un po’ di esercizio potresti migliorare. Perché, di aspetto, ci siamo: se ti metto un pizzico di matita nera, ti cotono un po’ i capelli e ti metti vestiti di pelle, potresti essere tranquillamente il sesto Duran Duran!
»
«Proprio in stile Wild Boys4, insomma
» commentò il giovane, increspando le labbra.
Vittoria si rimise ad imbustare gli inviti, continuando a sorridere. Passarono solo alcuni secondi e alzò nuovamente lo sguardo verso l’amico, sogghignando malandrina: «Comunque, non ti avevo mai visto così preso da una ragazza. Anzi, mi correggo, non ti ho proprio mai visto preso da una ragazza: per la tua rossa fiorentina hai davvero preso una scuffia coi fiocchi!»
Marcello rimase in silenzio, ma il tenue rossore che gli aveva colorato le guance rappresentava una risposta più che affermativa, mentre
l’altra scoppiava di nuovo a ridere.
«Non c’è niente da arrossire. Magari, avessi trovato anche io un uomo che si preoccupi un po’ per me
».
A quella malinconica affermazione, il biondo rimase interdetto. Aveva intuito che tra la sua amica e lo scultore non era più tutto rose e fiori da un pezzo, ma non credeva che la situazione fosse precipitata così tanto.
Pertanto decise di informarsi, seppur con discrezione, chiedendole: «Vittoria, so che non dovrebbero essere affari miei, ma... con Bartolomeo va tutto bene?»
La ragazza scrollò il capo, in segno d’incertezza, e si intristì di colpo: «Non proprio. A dirla tutta... non so nemmeno perché mi stia impegnando tanto per questa mostra, mi sento come una bambina che aspetta un premio se si comporta bene. Sai che il pezzo forte di tutta l’esposizione sarà una statua?»
«No, non me l’avevi detto
».
«Una statua, scolpita nel ghiaccio, che dovrebbe rappresentare me. Non me l’ha detto espressamente, ma ho sentito ciò che andava ciancicando: l’ha descritta, infatti, ad uno dei suoi lavoranti, come il ritratto della sua musa ispiratrice».
«E non ne sei contenta?
»
Vittoria alzò le spalle.
«
Sono talmente tante le cose che non vanno più bene tra di noi, che non lo so. Io ci sto mettendo molto di mio per salvare questa storia, però credo che ormai non ci sia più molto da fare».
Marcello temporeggiò qualche secondo, in modo da scegliere accuratamente le parole da dire.
«Se non ti trovi più bene con lui, perché non lo lasci? Vittoria, sarò sincero con te come lo sono sempre stato: ultimamente, ti ho vista molto più assorbita dalla mostra che da lui
».
«Ma è così! Quando l’ho conosciuto, credevo fosse una persona diversa, anche se devo ammettere che non è mai stato il mio tipo ideale. Tuttavia, non pensavo che potesse rivelarsi così dannoso...
»
«Vittoria, cosa intendi per dannoso?»
«
Oh, sai, per esempio, l’altro giorno... » la ragazza si interruppe, esitando. «Prima, però, promettimi che non lo racconterai a Gerardo».
Quella richiesta sorprese non poco Marcello: tra loro tre non c’erano mai stati segreti e il fatto che Vittoria gli stesse chiedendo di non dire nulla al loro amico era alquanto bizzarro.
«Per la miseria, così mi metti in agitazione! Si può sapere cosa è successo?»
«
Prima prometti!» insistette la sua interlocutrice, alzando il tono di voce.
«Prometto, prometto, ma parla adesso!
»
La giovane sospirò: «Era nervoso per via di alcune sculture che non riescono a spedirgli da Leningrado5
, così ho cercato di risollevargli il morale, ma...»
«
Ma?» incalzò il giovane, assottigliando lo sguardo con aria inquisitoria.
«Mi ha... tirato uno schiaffo
» ammise l’amica, a bassissima voce, come se si vergognasse. Marcello poté giurare di averla vista tremare.
«Che cosa?! E ancora non l
hai lasciato?»
Vittoria non rispose, stringendo le braccia contro di sé, come a ripararsi da un freddo insistente, chinando la testa.
«Dovevi troncare subito tutti i rapporti! Un uomo che alza le mani su una donna è una bestia!
» berciò Marcello, scattando in piedi. «L’aveva già fatto altre volte?»
Lei non si mosse, né rispose ed il biondo capì che c’erano stati dei precedenti.
«
Maledetto porco schifoso... non avrei dovuto fartelo conoscere! E Gerardo deve saperlo, è una cosa troppo grave per non riferirgliela!»
«Aspettiamo. Una volta terminata la mostra, ti prometto che lascerò Bartolomeo» disse la giovane, alzandosi a sua volta dalla sedia, inquieta.
«
Secondo me dovresti dirglielo subito, altrochè! E avresti dovuto lasciare quel verme molto prima: Vittoria, sei una ragazza così intelligente, che cosa te lo ha impedito?»
«
Non lo so... Forse, credevo che con l’affetto sarebbe cambiato, invece...» pigolò Vittoria, mentre le lacrime cominciavano a rotolarle giù dalle guance. Marcello, intenerito, le si avvicinò, cingendole la vita con un braccio, e la ragazza gli si strinse contro, continuando a singhiozzare.
«
Se uno è marcio dentro, non cambia» sussurrò lui, accarezzandole la testa. «Sei una ragazza fantastica, meriti di meglio».
La risposta dell’amica arrivò soffocata dalla stoffa della camicia di lui: «
Chi piace a me non mi vuole, guarda solo le altre».
«
Questo tipo non deve essere uno tanto sano di mente, se non riesce a vedere quanto sei in gamba».
Vittoria non disse nulla, continuando il suo pianto liberatorio.

La ragazza si trattenne a Villa Aurelia ancora una mezz’ora, poi se ne andò a casa, dicendo che doveva mettersi a riposare per placare il terribile mal di testa che le era scoppiato.
Marcello l’accompagnò fino al cancello e, al momento dei saluti, si risparmiò ulteriori raccomandazioni, dato che sapeva che la battaglia era persa in partenza: Vittoria aveva una personalità molto ostinata e, nonostante avesse una spiccata intelligenza, a volte preferiva fare l’ottusa.
Nel rientrare in casa, diretto in camera sua, il biondo si augurò solamente che fino alla mostra non succedesse nulla di grave, così da avere almeno il tempo di convincere la giovane a riferire tutto anche a Gerardo, dato che era l’unico del terzetto a non sapere nulla della vicenda, nonostante avesse il diritto di sapere. 
L’obiettivo, che dovevano raggiungere al più presto, infatti, era far sì che Bartolomeo scomparisse dalla vita di Vittoria.
Amareggiato dalle recenti scoperte, il giovane pensò a Beatrice e si chiese se anche a lei fosse capitato qualcosa di brutto e, purtroppo, non lo poteva escludere: se perfino la sua migliore amica era rimasta invischiata in una così brutta faccenda, a maggior ragione sarebbe potuto capitare alla fanciulla, dato che viveva di per sé in una condizione tremenda.
Improvvisamente si ritrovò a temere per la sorte di quella dolce ragazza dai capelli rossi e, non riuscendo a reprimere il brutto presentimento che si era affacciato nel suo cuore, afferrò d’istinto il cappotto e si diresse a casa di lei.

Appena mise piede fuori casa, Beatrice respirò l’aria a pieni polmoni: quasi non riusciva a credere di aver lasciato quelle quattro mura, anche se per poco. Infatti, aveva miracolosamente ottenuto dalla zia il permesso di uscire per recarsi in merceria, al fine di acquistare alcune matassine per il puntocroce.
«Cicci, perché ti sei fermata?
»
«Perché non mi ricordavo più che odore avesse l’aria libera
» rispose la ragazza, tenendo gli occhi chiusi. Sarebbe rimasta così ancora per molto, ma, con suo enorme disappunto, suo fratello le mise fretta.
Purtroppo, non poteva assolutamente uscire da sola e ogni volta che lasciava Villa dei Salici doveva essere scortata da qualcuno, a scelta tra Guido e Anna Laura. Uno meglio dell’altro, insomma.
Ciononostante, a Beatrice mancava talmente tanto avere un contatto con l’esterno che aveva imparato ad apprezzare anche quella misera ora d
aria, pur di riuscire a mettere il naso fuori.
Si avvicinò al grande cancello e lo aprì a mano, poiché la chiusura automatica era rotta e non c’erano i soldi per far venire un elettricista; era talmente contenta di poter finalmente poggiare il piede in strada, che non si accorse subito di lui.
Dovette guardare due o tre volte, prima di rendersi conto che non era un miraggio; quando realizzò che non stava sognando, il suo cuore mancò un battito: dall’altra parte della strada, c’era Marcello.
«
Bea, perché ti se’ fermata di nuovo?» domandò Guido, evitando per un pelo di sbatterle contro.
«Il portafoglio!
» esclamò Beatrice con voce stridula. «Me ne son dimenticata, l’ho lasciato di sopra... Perché non lo vai a prender tu?»
Il ragazzo sbuffò sonoramente.
«Hai sempre la testa tra le nuvole! Va bene, ci vado, ma tu non ti muovere, sai che la zia Assunta non vuole che tu te ne vada a giro da sola
».
«Suvvia, dove vuo che vada, senza una lira in tasca?» fece la fanciulla, pronta. Dopo che si fu accertata che lui fosse rientrato in casa, si voltò nuovamente verso la strada, in direzione di Marcello.
Che sofferenza non potergli correre incontro! Il biondo la guardava con aria interrogativa, restando fermo al suo posto. Forse era davvero un miracolo che Anna Laura e
la zia non fossero in casa, altrimenti avrebbero già scorto il giovane da una delle finestre: non era un mistero, infatti, che fossero delle gran pettegole, sempre a ficcanasare su tutto quello che accadeva nel quartiere.
Beatrice scosse lentamente il capo, senza staccare gli occhi dal ragazzo, sperando che capisse che non si doveva avvicinare.
In risposta, Marcello affermò, con aria condiscendente, e fece un paio di passi indietro, ritirandosi nella penombra degli ippocastani.
La giovane sentì gli occhi che si stavano riempiendo di lacrime: perché il destino con lei si stava rivelando tanto crudele, accanendosi contro di lei? In fondo, chiedeva solamente l’occasione di passare un po’ di tempo con il ragazzo che le piaceva, come una sua qualsiasi coetanea.
La voce di Guido le arrivò lontana: «Cicci, non c’è nessun portafoglio nella tu
camera. Sei sicura di non averlo con te?» 
«
Oh» fece Beatrice, riavendosi dai brutti pensieri, «sì, hai ragione. Non avevo guardato bene nella borsa, è qui».
«
Non per offenderti, Bea, ma ultimamente se’ un po’ svampita» commentò l’altro. «Su, andiamo, che si fa tardi!»
Con un enorme sforzo, la giovane seguì il fratello ma, prima di voltare, forse per sempre, le spalle a Marcello, gli lanciò un ultimo sguardo carico di dolore e di tristezza.

Quando si rese conto che le vetrine cominciavano ad essere addobbate a festa, la giovane realizzò che Natale non doveva essere molto lontano. Amava quella festività, sebbene non l’avesse più celebrata con il dovuto riguardo, da quando era morto suo padre; quell’anno, però, si era davvero illusa di poter tornare a considerare il periodo natalizio con gioia e aveva appena cominciato a crederci sul serio, quando le sue aspettative erano state prontamente dissipate, come fumo al vento.
«Ti aspetto qui fuori, Cicci. Mi raccomando, non metterci troppo, stasera devo uscire con una ragazza, non si può fare tardi
».
«Che novità!» commentò Beatrice, furibonda, giacché non riusciva a togliersi dalla testa l’immagine di Marcello, che la guardava andare via. Probabilmente aveva cercato di chiamarla al telefono e, non ricevendo risposta, si era preoccupato.
Che sciocca era stata a fantasticare su uno scambio di regali natalizi con lui!
Stringendosi nel cappottino di panno, che aveva terminato di cucire con tanta fatica, si avviò per una traversa di Via della Mercede, alla volta della merceria dove si riforniva sempre.
La stizza, che scaturì nel notare che anche la vetrina di quel negozio era addobbata a festa, fu talmente grande che la ragazza fu seriamente tentata di tornare indietro senza aver acquistato nulla. Per fortuna, cambiò idea a breve, lasciando che prevalesse la voglia di finire il suo vestito nuovo, anche se, molto probabilmente, non avrebbe avuto occasione di indossarlo.
Non era una ragazza vezzosa, tuttavia non poteva negare che amava dare sfogo alla sua creatività, realizzando nuovi abiti.

Seduti sulla soglia della merceria, c’erano due bambini, un maschietto ed una femminuccia, che stavano mangiando un gelato quasi più grande di loro. Si somigliavano molto, sebbene l’uno fosse moro e l’altra più castana.
«
Ma non avete freddo?» chiese la fanciulla, guardandoli sorpresa.
«
No» rispose il bambino, «io mangerei sempre gelato al cioccolato. È buono!»
«In effetti, le cose buone son sempre buone» gli disse Beatrice, accorgendosi che aveva ragione.
«Devi entrare?» le chiese la bambina, alzandosi per lasciarla passare.
«Oh, sì. Grazie».
«La nostra mamma ha tutto, vende cose molto belle, sai? Troverai sicuramente quello che cerchi
» aggiunse la piccolina, dando un’altra leccata al suo cono alla crema.
La ragazza le sorrise ed entrò.
L’interno del locale era stracolmo di ogni tipo di stoffa, rotoli e tavole, fili e gomitoli di lana, un tripudio di colori e di materiali diversi. Facendosi largo tra gli articoli che vendeva, la proprietaria del negozio venne ad accogliere Beatrice con un gran sorriso: «
Buonasera, cara, in cosa posso esserti utile?»
Era una donna che doveva aver già superato la trentina, molto elegante con il suo tailleur rosa antico e i capelli legati in un raffinato chignon.
«Buonasera, signora Sofia
» rispose con garbo la fanciulla. «Avrei bisogno di altre due matassine di cotone per il punto croce».
«Colore?»
«Il settecentoquarantasette
» disse, dopo averci pensato un po’ su.
Immediatamente, la donna sparì nel retrobottega. Rimasta sola, Beatrice si guardò intorno, gioendo nel vedere tante stoffe colorate; chissà, se la sua vita fosse stata diversa, forse, sarebbe potuta diventare una stilista o un’arredatrice. Senza dubbio, avrebbe coniugato la sua passione per il disegno e per l’arte con quella per i filati.
I due bambini rientrarono in quel mentre, facendo tintinnare il campanellino che avvisava dell’entrata di un cliente. Fu proprio in quel frangente che lei notò un cartello arancione, appeso alla porta, con su scritto Cercasi personale. Ci volle solo qualche istante, perché la reazione della giovane fu immediata.
Infatti, quando la venditrice riemerse qualche minuto dopo, tenendo in mano quello che le era stato chiesto, Beatrice le chiese: «
Mi scusi, sul serio cercate personale?»
«Esattamente. Cercavo una ragazza che potesse affiancarmi nelle vendite. Mio marito ci ha provato ma, essendo un uomo, non conosce benissimo le differenze che ci sono tra i vari articoli che vendiamo. E non è nemmeno in grado di dare consigli sul cucito, povero caro. Le clienti devono sempre attendere che mi liberi io, per essere servite al meglio
» spiegò la signora Sofia.
«
Che genere di requisiti dovrebbe avere la nuova commessa?»
«In realtà, nulla di speciale. Un’ottima conoscenza dei filati, delle stoffe, dei bottoni... Se magari fosse anche esperta di ricamo e cucito e se la cavasse nei lavori di sartoria, sarebbe meglio. Ogni tanto collaboriamo con le compagnie teatrali ospitate dal Teatro Argentina, sai, per accomodare i costumi...
»
La fanciulla sorrise: che forse avesse avuto, finalmente, un segno divino?
«Potrei andar bene io?»
La donna, che le stava facendo il conto, posò la matita sul bancone e la guardò da sopra gli occhiali.
«
Cara, quanti anni hai? Non sei troppo giovane?»
«
Ho compiuto diciotto anni lo scorso maggio, son maggiorenne» affermò la ragazza, sicura di sé.
Picchiettando leggermente le dita sul legno del banco di vendita, come se stesse pensando, la donna continuò con le domande: «
Come te la cavi con il cucito?»
«Questo» disse Beatrice, volteggiando lentamente su sè stessa, «è un abito che ho cucito interamente da me».
«
Anche il modello?» chiese esterrefatta la sarta, avendo certamente notato la pregiata rifinitura dell’abito di cotone verde.
«Certo, l’ho disegnato io. Potrebbe mettermi in prova, se non dovessi soddisfare le su
aspettative può sempre rimandarmi a casa».
Il tono risoluto della ragazza sembrò convincere la signora Sofia.

«
D’accordo. Allora comincerai domani pomeriggio e lavorerai ogni giorno, domenica esclusa, dalle sedici alle venti. Ti terrò in prova due settimane, dopo di che deciderò se assumerti regolarmente».
«Davvero l’hai fatto tu?»
La ragazza si voltò e notò che la bambina la stava guardando, interessata.

«
Sì, ti piace?» 
«Moltissimo. Se verrai a lavorare qui, me ne farai uno uguale?
»
«Molto volentieri
» rispose dolcemente la fanciulla.
La piccola sorrise
«Come ti chiami? Io sono Valentina».
«
Piacere, Valentina, io sono Beatrice».
«
Io mi chiamo Alessio!» si intromise il bambino, vedendo che stava rimanendo fuori dalla discussione. «Sono suo fratello».
«
Piacere, Alessio».
La signora Sofia si avvicinò: «A quanto pare, hai già conosciuto il resto della squadra!»

Uscita dal negozio, Beatrice si sentiva molto più contenta di quando vi era entrata. Non riusciva a credere che, per una volta, qualcosa fosse andato bene: del resto, era anche ora, dopo tutto quello che aveva subito.
Trovò Guido che l’attendeva appoggiato all’auto; certamente anche il fratello dovette notare la sua contentezza, poiché le domandò:
«Hai trovato i super sconti, Bea? Sembra che tu abbia vinto alla lotteria».
«Oh, ho fatto molto di più!
» rispose la giovane, salendo in macchina.
«Che intendi dire?
»
Beatrice attese che il ragazzo mettesse in moto, così da creare un po’ di suspense: «Ho trovato un lavoro i
n merceria. Farò la commessa».
Guido aggrottò la fronte.
«Credi che la zia te lo lascerà fare?
»
«Non potrà dire di no a ciò che le proporrò: le cederò due
terzi del mi stipendio. Però dovrà riassumere la Bettina, perché lavorando non avrò più tempo a sufficienza per riordinare tutta la casa» spiegò la fanciulla, sospirando. Non era giusto che si privasse, a causa delle parenti malvagie che si ritrovava, dei soldi che avrebbe guadagnato, eppure sapeva benissimo che non ci sarebbe stato altro modo per convincerle. Non aveva altra scelta e, tra i due mali, avrebbe dovuto scegliere il minore.
«
Stando così le cose, potrebbe anche ascoltarti» concordò il fratello, dimostrandosi, una volta tanto, assennato nel dare un parere.
«La Bettina è stata licenziata ingiustamente ed ha bisogno di quel lavoro. Come ho bisogno della mi libertà, non potete tenermi segregata in casa!» rincarò Beatrice, volendo far valere i propri diritti. Guido non rispose, lasciando la sorella libera di interpretare il suo silenzio come meglio credeva, ovvero che era consapevole che fosse anche colpa sua, se lei era costretta a subire tutti quei soprusi da parte di Anna Laura e della zia Assunta.
Senza calcolare la riprovevole corte che le faceva Navarra.
Beatrice ora riusciva a vedere uno spiraglio di luce nella sua vita: se si fosse giocata bene le sue carte, avrebbe presto ripreso a respirare aria pura.






***
[N.d.A]
1. zita: in toscano, zitella.
2. Un figlio... ricchi: la frase è estrapolata da un libro che ho letto il primo anno di liceo, tuttavia non ricordo né autori né titolo, se qualcuno dovesse conoscerlo, me lo faccia sapere così da dare i giusti credits. La citazione fa riferimento alla pratica dell’esposizione, molto usata nell’Antica Grecia, che prevedeva l’abbandono, sulla soglia di casa, dei figli che non si potevano tenere, lasciandoli così esposti alle intemperie, agli animali e ai passanti. Il destino di questi bambini era quindi di morire o, nel migliore dei casi, di essere adottati da altre famiglie.
3. Dove sei: era una rubrica, all’interno del programma tv Portobello, che trattava casi di persone scomparse. Nient’altro che un prototipo dell’attuale Chi l’ha visto? La trasmissione venne sospesa nel 1983 e ripresa, solo per poco, il 20 febbraio 1987, ovvero alcuni mesi dopo gli eventi qui narrati.
4. Wild Boys: qui Marcello sta giocando sul nome di un brano dei Duran Duran, inciso nel 1984. Ovviamente, il citato Simon Le Bon è il cantante della band britannica, molto famosa negli Anni
80.
5. Leningrado: l’attuale San Pietroburgo. Ha conservato il precedente nome fino al 1991.

***

Per la revisione, ringrazio Lady Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la grafica del titolo è opera mia.
Grazie alla mia Anto, per aver letto ancora una volta in anteprima.

***


Salve a tutti!
Che ci crediate o meno, la prima ad essere sorpresa di questi aggiornamenti costanti sono io. Anzi, per essere onesta, considerando il sadico ritmo di studio che mi si prospetta fino a Dicembre, devo ritenermi fortunata ad aver pensato di mettere da parte qualche capitolo già scritto, perché, altrimenti, questo racconto sarebbe andato nuovamente in stand-by.
Essendo - miracolosamente! - arrivati al quinto capitolo, posso dire che la storia ormai abbia preso una piega definita, sebbene ancora non sia stato detto tutto (alcune cose si sapranno solo alla fine, altrimenti leggere questa storia diventerebbe più scontato e noioso di quello che, probabilmente, è).
Ringrazio chi legge questi capitoli chilometrici, chi ha messo la storia in uno dei propri elenchi, chi mi dedica un po’ del suo prezioso tempo lasciandomi un parere, chi verrà allo scoperto più avanti.
Come sempre, se volete leggere un estratto del sesto capitolo (la cui pubblicazione è prevista per il 25 di questo mese), vi lascio il link al mio blog.
Alla prossima!
Halley S. C.

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Capitolo 6
*** Capitolo Sesto - Vento di Rivelazioni ***


Vento dell'Ovest - Capitolo 6



- Capitolo Sesto -
Vento di Rivelazioni




Immerso nei propri pensieri, Marcello era appoggiato con noncuranza al parapetto che dava sul laghetto dell’EUR, impegnato ad osservare le nuvole che si riflettevano sull’acqua, increspata dal vento. Se ciò che aveva dedotto era corretto, Beatrice era sorvegliata a vista e, di conseguenza, ogni tentativo di avvicinarla si sarebbe rivelato inutile.
Chiedere consiglio a Vittoria sarebbe stata una buona mossa, se la ragazza avesse avuto la serenità mentale adatta: ciò che gli aveva confidato il pomeriggio precedente, però, gli aveva fatto capire che l’amica era la prima ad avere bisogno di sostegno psicologico.
D’altra parte, era sempre stata così, abile a nascondere i suoi problemi dietro ad un bel sorriso e a un eloquio vivace.
Il giovane sospirò: doveva trovare un modo per convincere Vittoria, prima di tutto, a lasciare quello zotico violento del suo fidanzato e poi a rivelare ogni cosa anche a Gerardo; tra loro tre non c’erano mai stati segreti, ed iniziare dopo vent’anni di solida amicizia era insensato e stupido.
Improvvisamente, però, qualcuno gli scosse il braccio per richiamare la sua attenzione.
«Buongiorno, disturbo le tue meditazioni filosofiche?» chiese l’amico, appena arrivato. Per essere giunto tanto presto, doveva aver preso, necessariamente, la Linea B della metropolitana ed esser sceso alla fermata EUR Marconi1.
«Buongiorno a te. No, stavo riflettendo su alcune cose» rispose il biondo, distaccandosi dalla ringhiera.
«
Non devono essere piacevoli, hai una faccia...» considerò Gerardo, accigliandosi. «Qualcosa, a casa, non va bene?»
«
Mia madre ha fatto del rendermi la vita impossibile il suo passatempo e si è risentita che non abbiamo concluso l’affare con Carter».
«
Scommetto che avrà pensato che la colpa è mia» commentò l’altro, amaramente. Purtroppo, conosceva molto bene la scarsa stima che nutriva Madama Claudia nei suoi confronti, dato che la donna non si era mai privata di denigrarlo, anche in sua presenza.
«Lascia stare quello che dice mia madre, avrebbe stretto un patto pure con la Banda della Magliana2, se le fosse servito ad arrivare dove voleva
!» commentò duramente Marcello, deplorando la morale della genitrice. «Comunque, non è per quello che sono preoccupato. Ieri pomeriggio, infatti, sono andato a trovare Beatrice e mi sono reso conto che controllano i suoi spostamenti».
«La sua famiglia la tiene rinchiusa?»
«Più o meno. Stava uscendo con il fratello e mi ha fatto segno di non avvicinarmi».
L’altro assunse un’espressione sconcertata: «Da quel che mi avevi detto, avevo capito che quella povera ragazza non viveva una bella situazione, ma arrivare a questo... È crudeltà bella e buona!»
Marcello chiuse gli occhi e, sbuffando, si arruffò i capelli: «Già. Vorrei fare qualcosa per lei, ma ancora non so cosa
».
Gerardo
sorrise e scosse la testa.
«È bello vederti così coinvolto da Beatrice: finalmente anche tu hai dimostrato di non essere immune al fascino delle ragazze».
«Non ho mai sostenuto il contrario» affermò il biondo, aggrottando la fronte. «Semplicemente, le altre non mi interessavano, lei, invece, è diversa e perciò mi piacerebbe conoscerla meglio».
«Comunque, se vuoi, possiamo pensare insieme ad un modo per parlarle. Credo che anche Vittoria sarebbe contenta di dire la sua».
«In questo momento, è la nostra amica comune ad avere bisogno del nostro sostegno e non il contrario» fece il ragazzo, deciso, cominciando a muoversi in direzione della casa della ragazza.
«Perché, il carciofone non l’aiuta?» chiese Gerardo, con un tono dall’eco falsamente casuale.
«Vittoria ha espresso varie volte il desiderio che anche tu l’aiutassi; parlava di te, il carciofone non c’entra. Sei o non sei suo amico?
»
«Sì, che lo sono, ma...» provò a controbattere, prima che la sua obiezione venisse troncata sul nascere.
Infatti, Marcello si bloccò senza preavviso e, voltandosi verso il suo amico, lo freddò con un’intensa occhiata:
«Niente ma, Gerardo. Lei ha bisogno anche di te, ti garantisco che si vedeva quanto le mancavi».
«Anch’io ho sentito la sua mancanza» ammise l’altro, con voce quasi impercettibile, ma non per il biondo, il quale replicò immediatamente: «E meno male, altrimenti quando avresti deciso di tornare a vederla? Tra due secoli?»
L’amico apparve vagamente imbarazzato da quel più che giustificato rimprovero. Avevano appena ripreso a camminare quando chiese:
«Lei lo sa che, stamattina, verrò anch’io?»
«No, le ho detto solo che sarei passato a trovarla, per sapere come stava, dato che ieri aveva mal di testa» spiegò il ragazzo, non accennando a rallentare.
Gerardo, invece, sembrava procedere più piano ad ogni passo: «Spero che prenda bene il mio... ehm... ritorno, sai, Vittoria è un po’ vendicativa. Pensi sia il caso di rimandare la visita?»
«Zitto e cammina!»

La madre di Vittoria, una donna dai capelli scuri e l’espressione gioviale, indirizzò immediatamente Marcello e Gerardo al piano di sopra, sicura che la figlia non fosse scesa nemmeno per fare colazione.
E aveva visto giusto: i due giovani trovarono, infatti, la loro amica accoccolata sul divano della sala lettura, arrotolata intorno ad un caldo pile, mentre sorseggiava un tè dal profumo fruttato.
Un imponente ficus benjamina la nascondeva parzialmente alla vista, ciononostante si capiva benissimo che era intenta a guardare fuori dalla finestra, in silenziosa contemplazione del cielo grigio carico di pioggia.
Si avvicinarono entrambi, ma fu solo il biondo ad avanzare fino a pararsi davanti a lei. Gerardo, probabilmente, stava ancora rimuginando su una probabile vendetta.
«Buongiorno, Vittoria».
«Buongiorno» rispose lei, nient’affatto sorpresa dalla comparsa dell’amico. «Mi stavo proprio chiedendo dove fossi finito».
Si raggomitolò su se stessa, facendogli spazio e consentendogli di sedersi accanto a lei.
«
Come ti senti oggi?»
«Un po’ meglio di ieri, ma questo tempo uggioso non mi piace, mi toglie tutte le energie» sospirò la ragazza, spostandosi i riccioli castani dal viso. «Immaginavo che lui non si sarebbe fatto vedere nemmeno stavolta... Deve essere impegnato a fare la corte a quell’oca giuliva di Maria Luisa».
Con una smorfia di disprezzo, Vittoria appoggiò la tazza sul pavimento; proprio in quell’istante, però, Gerardo decise di farsi avanti.
«
Guarda che sono venuto anch’io!» esclamò, facendo capolino da dietro il ficus.
Immediatamente, la giovane spalancò le iridi nocciola, girandosi di scatto: lì per lì, rimase a fissare l’amico, interdetta, ma poi si riprese subito. Spostò la coperta con gesto brusco e si alzò in piedi, mettendo su un cipiglio severo ed incrociando le braccia contro al petto.
«Oh, ma guarda chi si vede! Hai trovato un po’ di tempo da dedicarmi, nonostante i tuoi numerosi ed improcrastinabili impegni?» chiese, sarcastica, gli occhi che lampeggiavano pericolosamente.
«Non prenderla così, in fondo, eccomi qua, no?» rispose il ragazzo, facendo spallucce.
«Non credere che
ti perdonerò tanto facilmente. Hai disertato per parecchio tempo, come se non ti importasse nulla di me!»
Nel vedere la giovane tanto risentita, Marcello temette il peggio per il suo amico, tuttavia decise di non intervenire, ben sapendo che era una faccenda tra loro due. Anzi, se avesse potuto avrebbe volentieri tolto il disturbo, poiché non amava assistere a discussioni private, anche se si trattava di diatribe tra due persone a lui molto vicine.
«Ho avuto i miei motivi. Credi che, se davvero non m’importasse di te, oggi sarei venuto?» si difese Gerardo, avvicinandosi ancor di più a lei.
«Una telefonata non ti costa un braccio, avresti anche potuto chiamarmi, sai?» continuò la ragazza, inviperita. «Oppure la linea è sempre occupata perché devi tubare con quella gatta morta?»
«Ti pare che io mi metta a chiamare Maria Luisa? A dire il vero, pensavo ti avrebbe dato fastidio una misera telefonata di circostanza...» avanzò lui, tentennando appena.
«Be’, sempre meglio quella che il silenzio più totale!»
«Silenzio? Anche tu sei rimasta in silenzio! Mi avevi chiesto di accompagnarti a vedere il calendario del Teatro dell’Opera e poi... più nulla! Ci sei andata col carc... con Bartolomeo!
»
«Ovvio! Ho aspettato che mi dicessi quando avresti potuto prenderti un giorno libero... ma non ti sei mai deciso a farlo!» replicò Vittoria, stizzita.
Nell’osservare i suoi amici, impegnati a rimproverarsi e a punzecchiarsi, Marcello finalmente capì. Per un instante, fu come se si trovasse di fronte ad una complicatissima equazione, una di quelle piene di parentesi, di elevazioni a potenza, di radici quadrate ed incognite al denominatore che, però, avevano come risultato un semplicissimo uno: Gerardo e Vittoria erano innamorati l’uno dell’altra.
Si domandò come avesse fatto a non arrivarci prima, avendo avuto, proprio sotto il naso, numerosi indizi a sostegno del fatto che i suoi due amici fossero vicendevolmente cotti a puntino, senza saperlo.
«Che ne dite di smetterla?» si intromise lui, improvvisamente, trattenendosi dallo svelare la conclusione alla quale era arrivato. «Adesso siamo tutti qui. Basta discutere e passiamo ai fatti. Vittoria, possiamo fare qualcosa per te?»
In risposta, la ragazza si lisciò nervosamente la gonna e disse:
«Lo sai, ci sono gli inviti da finire di imbustare».
«Perché, allora, non li vai a prendere? Noi ti aspettiamo qui, in tre faremo prima» le consigliò, pacatamente.
Annunedo, lei si diresse verso la tazza per raccoglierla, mentre annunciava con tono sostenuto e senza guardare Gerardo:
«Torno subito, voi accomodatevi pure dove volete».
Non appena fu uscita dalla stanza, Marcello si rivolse al suo amico: «Se avessi aspettato qualche giorno di più, ti sarebbe andata molto peggio».
«Lo so» ammise quello, accomodandosi su una delle sedie imbottite. «Qualche giorno in più sarebbe stato troppo anche per me».
Ci fu qualche istante di silenzio assoluto, poi aggiunse: «Non trovi che, oggi, Vittoria sia più bella del solito?»
«Sinceramente, non noto nulla di diverso in lei» rispose l’altro, scrutandolo di sottecchi. «Ma, forse, dipende dal fatto che io non la sto guardando con l’aria da pesce lesso come te».
Gerardo
arrossì vistosamente: «Che cosa vorresti dire?»
«Che finalmente ho capito: sei innamorato di Vittoria! E non solo, stando a come segui tutti i suoi movimenti, direi che sei in fase di cottura avanzata!»
Il giovane non rispose, ma il colorito vermiglio che aveva assunto parlava per lui.
«Adesso capisco perché non ti facevi vedere... Non volevi incontrare il carciofone perché sei geloso!» continuò Marcello, che aveva tacitamente adottato il soprannome coniato per Bartolomeo.
L’amico, che ora sembrava un pomodoro maturo, gracchiò:
«Sì, è così... ma non glielo dire!»
«
Ovvio che no, dovresti farlo tu».
«Non posso, lo sai che è impegnata».
«
Se fossi in te, me ne sbatterei altamente e glielo direi lo stesso» fu la secca replica di Marcello.
Vittoria rientrò in quel mentre, portando con entrambe le braccia una scatola di cartone piuttosto grande, e Gerardo, muovendosi con una celerità cavalleresca, le andò subito incontro per toglierle delicatamente il pacco dalle mani. Nonostante avesse tradito una certa sorpresa, la ragazza inarcò un sopracciglio e rimase in silenzio, prendendo posto al tavolo con fare sostenuto: ancora non era decisa a dimostrarsi pronta a perdonarlo, anche se si capiva benissimo che l’aveva già fatto da un pezzo.
Quando si furono sistemati tutti e tre, ognuno prese alcuni inviti con le relative buste ed incominciarono a prepararli per spedirli. Nel silenzio del lavoro, il biondo osservò attentamente i suoi due amici, notando - e qui si chiese, ancora una volta, come aveva potuto non farci caso prima - che si scambiavano reciproche occhiate, distogliendo lo sguardo quando erano sul punto di cogliersi sul fatto.
Purtroppo, aveva promesso a Vittoria che non avrebbe detto nulla a Gerardo, riguardo quel troglodita psicotico di Davoli. Ma, se le cose fossero precipitate, avrebbe dovuto ignorare la promessa ed intervenire: non poteva permettere che i suoi due migliori amici si rovinassero la vita con le loro stesse mani, soprattutto perché il ragazzo aveva già espresso la folle intenzione di voler sposare Maria Luisa. E tutto perché pensava che Bartolomeo fosse l’uomo giusto per la donna che amava!
Quanto erano idioti a non parlarsi... Marcello era convinto che non avrebbe trovato altri due così imbranati, nemmeno a mettere un annuncio specifico sui giornali. C’era davvero da uscire fuori di testa, per quanto si stavano complicando la vita, per giunta senza motivo.
«Restate qui, per pranzo?» domandò la giovane, volendo sembrare casuale. «Non credo finiremo prima dell’una».
«Ehm... che cosa ne dici, Marcello?» domandò Gerardo, guardandolo supplice.
Il biondo sospirò, perché conosceva bene il suo amico: se avesse rifiutato, se ne sarebbe andato anche lui, giacché, dopo la lite che aveva avuto con la ragazza, sarebbe stato molto imbarazzante rimanere solo con lei.
«Va bene, ma io non posso trattenermi a lungo, nel pomeriggio devo fare alcune importanti chiamate» rispose, neutro. In realtà, non aveva niente di urgente da fare, ma solo voglia di concedersi una delle sue lunghe passeggiate distensive. «Sentivate la mancanza dei nostri pranzi di gruppo?» 
In risposta, sia Gerardo che Vittoria sorrisero compiaciuti.
***

Mentre lucidava la vetrina del negozio, Beatrice pensò che quel lavoro era almeno mille volte preferibile ai lavori forzati che eseguiva in casa, non solo perché ora era retribuita, ma anche perché non aveva Assunta e Anna Laura che la comandavano a bacchetta. 
Facendo leva sull’avarizia della parente, la ragazza era riuscita a convincere la zia a riassumere Bettina e poco le importava che dovesse rinunciare a quasi tutto il suo stipendio, perché, come un saggio detto suggeriva, la libertà non aveva prezzo.
«
Sta venendo proprio pulita bene» approvò la signora Sofia, avvicinandosi e ammirando il lavoro della ragazza.
«
La ringrazio» rispose lei, mettendo via gli stracci ed il detergente apposito.
«
Se sei così precisa anche nel cucito, il Teatro Argentina non avrà di che lamentarsi».
La fanciulla sorrise: se, da una parte, il nuovo lavoro le consentiva di sbizzarrirsi nella sua creatività, consigliando le clienti sull’acquisto di questa o quella stoffa, dall’altra, le dava l’occasione di cimentarsi anche in piccoli lavori di sartoria, dandole l’occasione di imparare cose nuove.
«Sì, mi aveva già detto che collabora con quel teatro».
«Sono già diverse stagioni che mi chiedono aiuto e ho già lavorato con i sarti di diverse compagnie teatrali. Prossimamente dovrebbero chiamarci, perché stanno cominciando ad allestire il prossimo spettacolo e servono alcune modifiche ai costumi» spiegò la sarta, aggiustando un abito rosso, esposto su un manichino.
«Quando l’andrà in scena questo spettacolo?» domandò la giovane, con sincera curiosità. Il mondo teatrale sapeva essere molto affascinante: curare la messa a punto dei vestiti di scena, per lei, sarebbe stata un’esperienza alquanto entusiasmante.
«Mi hanno detto a metà circa del prossimo febbraio3» disse la donna, tornando dietro il bancone della merceria.
«Non c’è moltissimo tempo, allora
» osservò la fanciulla, seguendola.
«Considerando che gli attori investono molto tempo per provare la parte e poco per provare i costumi... non escludo che dovremmo lavorare di notte, cara. E mi stavo chiedendo se per te non fosse troppo e come farai con la scuola».
«Per superare l’esame di Stato, mi sto preparando da privatista, signora» le spiegò Beatrice. «Devo solo avvisare il mi’ insegnante ed organizzarmi, non ci sono problemi».
«A casa non ti faranno storie?» si informò la sarta, manifestando una certa apprensione.
«Oh, no. Loro sanno quanto l’è importante per me questo lavoro» mentì la ragazza, preferendo tacere che l’unica cosa che importava davvero alle sue parenti era che riportasse uno stipendio e si togliesse dai piedi per buona parte della giornata. Se non altro, alla giovane faceva piacere star fuori casa, lontano dalle loro occhiate maligne.
Il tintinnio del campanello annunciò che Valentina e Alessio erano arrivati: ogni giorno, infatti, il padre li andava a prendere a scuola, li faceva pranzare e li portava al negozio, prima che iniziasse il suo turno di lavoro in fabbrica.
«
Ecco i miei angioletti!» trillò la signora Sofia, alla vista dei figli. «Come è andata oggi a scuola?»
«Io ho preso otto in aritmetica!» esclamò la bambina, contenta.
«Io, invece, cinque in italiano» mugugnò Alessio, cupo. «La maestra dice che i miei temi sono troppo brevi».
La madre sospirò, senza tuttavia essere arrabbiata, e, guardando il bambino, disse: «Sei frettoloso. Quando scrivi devi concentrarti di più».
«Non mi piace scrivere!» protestò lui, imbronciandosi.
«Invece dovresti impegnarti. Hai sentito che ha detto papà? Vuoi che Babbo Natale ti porti i regali, sì o no?» intervenne la sorella, incrociando le braccia e provocandosi un’occhiata indispettita dal fratello.
Per fortuna, prima che i due si mettessero a litigare, la signora Sofia cambiò argomento.

«
Ora basta, va bene così. Su, ora andate a giocare».
Dopo aver sentito questo, i bambini, contenti, si rimisero i cappellini in testa e Alessio corse ad aprire la porta.

«Ricordatevi di non allontanarvi troppo e di rimanete a giocare nei dintorni. E poi voglio che torniate presto, dovete fare i compiti!» li ammonì la madre.
«
Sì, mamma, non ti preoccupare. Andiamo a giocare all’oratorio di San Lorenzo4» rispose Valentina, chiudendosi il cappottino.
«
Prima, però, chiamiamo anche Margherita e Filippo» aggiunse il fratello, correndo già in strada.
«Si fida a mandare i piccini da ssoli?
» si azzardò a domandare Beatrice, che finora non si era intromessa per non sembrare invadente.
«La chiesa non è lontana. E i loro amichetti abitano vicino a Via del Gambero, che è sempre nei paraggi» la rassicurò la sarta.
«
Via del Gambero? Che nome buffo».
«Qui intorno, molte vie prendono nomi da animali. Sai che lì c’è l’ufficio di Marini e Tornatore? Sono due giovani imprenditori, al momento famosissimi. Roma non fa che parlare di loro... Li hai mai sentiti nominare?»
Il cuore di Beatrice perse un paio di battiti: se avesse mai sentito parlare di Marcello Tornatore?
La prima volta che laveva incontrato gli era caduta addosso, finendogli in braccio!
«Mmm, sì. Diciamo di sì
» borbottò, intristita. Se solo la signora Sofia avesse saputo la sofferenza che provava, nel non poter più vedere quel ragazzo, forse avrebbe avuto il buon senso di non nominarlo.
La ragazza aveva già ripreso a svolgere le proprie mansioni, con la testa ormai impegnata a rimuginare sull’orrenda condanna che le avevano inflitto i suoi parenti, quando realizzò una cosa importante: finché avrebbe lavorato nella merceria, non sarebbe più stata sorvegliata a vista, almeno durante l’orario di lavoro.
Perciò, pian piano un’idea, dapprima informe, poi sempre più concreta, prese forma nella sua mente. Si voltò verso la sarta e le chiese: «Posso uscire per un minuto?
»
«
Hai ragione, cara, in questo retrobottega non passa un filo d’aria, con tutte queste stoffe. Vai pure» le accordò la donna.
«Grazie, tornerò tra pochissimo» rispose la fanciulla, grata.
Senza nemmeno indossare la mantella, uscì di corsa in strada, vedendo in lontananza i bambini. Per fortuna, riuscì a raggiungerli in un battibaleno.
«Cosa c’è, Beatrice? La mamma ha bisogno di qualcosa?» chiese Valentina, incuriosita.
«Oh, no, la mamma non c’entra... Son io che devo chiedervi una cosa: me lo fareste un favore, piccini? È molto importante».
I due si guardarono per un secondo, sorrisero e annuirono.
«Conta pure su di noi!» rispose per entrambi Alessio, battendosi un pugno sul petto.
***

Uno spiffero freddo lo costrinse ad alzare il bavero del cappotto di panno nero. Il sole era ormai solo un lontano ricordo quel pomeriggio di inizio dicembre e l’umidità della sera aveva cominciato a strisciare addosso ai passanti, insinuandosi dove riusciva. A Marcello, l’inverno non era mai piaciuto: preferiva di gran lunga l’autunno, a parer suo la migliore stagione per chi amava, come lui, le lunghe passeggiate.
Infatti, di solito, quando voleva riflettere, andava in lungo ed in largo, immergendosi nel via vai di gente che caratterizzava la maggior parte dei rioni romani. Turisti, cittadini, abitanti dei paesi limitrofi erano una grande, unica fiumana di gente che affollava le strade e che lo invitava a cercare di capire da dove venissero quelle persone: per lui era una specie di passatempo, in verità molto curioso, ma che gli ricordava quanto Roma fosse, dopo quasi duemila anni, ancora un importante crocevia di culture.
Tuttavia, quel pomeriggio, non aveva la tranquillità d’animo predisponente a tutto questo: la sua mente, infatti, era affastellata da brutti presagi e perfino la vicenda di Carter, che gli aveva fatto arrovellare parecchio il cervello, gli sembrava lontana anni luce, adesso che era preoccupato per Beatrice.
Senza dimenticare che era in pensiero anche per i suoi due amici, dato che, per colpa delle loro schermaglie amorose, si stavano ingarbugliando l’esistenza.
A Vittoria, infatti, aveva promesso che non avrebbe detto nulla a Gerardo riguardo il suo manesco “fidanzato”; a Gerardo, invece, aveva promesso che non avrebbe detto nulla a Vittoria circa i sentimenti che lui provava per lei.
In quel momento, pensò che era infinitamente più semplice concludere un affare economico, piuttosto che cercare di sistemare gli affari di cuore di quei due citrulli.
Mentre ragionava in questi termini, però, si rese conto di essere finito nei pressi del suo ufficio. Ormai compiva quella strada in maniera talmente automatica, che doveva averla imboccata senza pensarci.
Poco male, avrebbe avuto l’occasione di salire un attimo e prendere dei documenti che aveva lasciato sulla scrivania, così da evitare di recarvisi il giorno dopo: non avendo nulla d’urgente da sbrigare e avendo lavorato anche durante i pomeriggi delle recenti domeniche, si sarebbe concesso un giorno libero. E male non gli avrebbe fatto, considerando il punto di saturazione al quale era arrivato.
Svoltò a sinistra, già con le chiavi in mano, quasi pronto per aprire il portone, quando si trovò davanti due bambini che confabulavano. Parlottavano tra di loro, stazionando proprio davanti allo stabile che ospitava il suo ufficio.
Gettando loro un’occhiata incuriosita, Marcello aprì il portone ed entrò; quando fu sul punto di richiudere il battente, però, il maschietto lo fermò: «No!
»
Sorpreso, il biondo si riaffacciò: «
Ce l’avete con me?»
«Sì!» esclamò la bambina. «Per favore, prima che chiudi la porta, possiamo mettere questo nella cassetta della posta?»
«Questo cosa?»
«Questo biglietto!» fece, agitando il foglietto di carta ripiegata che aveva in mano.
«Per chi sarebbe?» domandò il giovane. Poi rifletté meglio ed aggiunse: «Aspettate un momento, voi non dovreste dare tanta confidenza agli sconosciuti!»
«Ma dobbiamo fare un favore ad una nostra amica! Ci ha chiesto di consegnare questo biglietto a Marcello» spiegò il bambino, dandosi importanza, come se gli avessero affidato una missione per salvare il pianeta.
«A Marcello?» chiese il ragazzo, adesso decisamente colpito. Possibile che cercassero lui?
«Marcello Tornatore» scandì la ragazzina, con tono saccente. «Tu lo conosci?»
Il biondo aggrottò la fronte: be’, ora non c’erano più dubbi che fosse lui il destinatario di quel biglietto.
«
Sì, lo conosco molto bene» rispose, meditabondo. «Voglio dire, sì, sono io».
«Davvero? Oh, che bello, Beatrice sarà contenta!» esclamò la bambina, battendo le mani.
Nell’udire quel nome, Marcello parve destarsi completamente: «
Beatrice? Conoscete Beatrice? Ma... si può sapere chi siete?»
«Come facciamo a dirtelo, se prima ci hai detto di non dare confidenza agli sconosciuti?» notò il maschietto, inarcando le sopracciglia ed assumendo una buffa espressione indagatrice.
«Alessio, dai, sono sicura che è lui» cercò di convincerlo la sorella.
«Saputella, potrebbe anche essere un imbroglione, uno degli uomini in nero che rapiscono i bambini. Dobbiamo essere sicuri» fece, con aria di superiorità. Quindi si rivolse a Marcello, con fare inquisitorio: «Com’è Beatrice?»
«Com’è Beatrice?» ripeté il biondo, incredulo. Di tutte le cose stravaganti che aveva vissuto nella sua vita, quell’interrogatorio, fatto da un bambino sospettoso, era di sicuro la più bizzarra.
«
Se è la stessa che conosco io, è una ragazza giovane, dai capelli rossi e...»
«E molto bella?» suggerì Valentina, romanticamente ispirata.
«Be’, sì...» confermò lui, in palese difficoltà per la domanda inaspettata.
I due ragazzini si guardarono e parlottarono di nuovo tra di loro, senza farsi sentire da Marcello. Quando arrivarono ad una conclusione si girarono di nuovo verso di lui.

«Adesso sappiamo che conosci veramente Beatrice. E ti possiamo rispondere: io sono Alessio e lei è Valentina, mia sorella
».
«Piacere» disse il ragazzo, ancora incapace di capire come fosse finito in una tale situazione.
«Ecco il biglietto!» annunciò la bambina, mettendogli in mano il pezzo di carta.
A quel punto, guardò prima quel foglio, tutto spiegazzato, poi loro. Erano stati carini a voler fare da postini e avevano portato a termine il loro compito, pertanto gli sembrò opportuno ricompensarli: «
Vorrei ringraziarvi per il vostro aiuto. Conoscete la pasticceria giù all’angolo?»
«Eccome, è la mia preferita!» esclamò Alessio, con gli occhi che gli brillavano.
«Allora, domani, andate da Marilena e ordinate quello che volete... a patto che non vi facciate venire mal di pancia, per la troppa crema e cioccolata, daccordo?» precisò il giovane. «Dite che vi mando io».
«Possiamo dire che siamo tuoi amici?
» domandò timidamente Valentina.
«Ovviamente».
«Che bello, grazie!» intonarono all’unisono, sprizzando entusiasmo da tutti i pori.
Dopo averlo salutato con un cenno della manina, i due bambini si avviarono per la loro strada, a tratti correndo, a tratti saltellando. Marcello rimase a guardarli finché non scomparvero alla sua vista, sospirando.
Non era una persona che credeva all’oroscopo, ma sarebbe stato curioso di verificare se, per il Capricorno, in quel mese erano previste situazioni che rasentassero la follia. Perché, decisamente, ne stava vedendo troppe.
Finalmente, scrollando la testa, si decise ad aprire il biglietto che gli aveva mandato Beatrice. Si appoggiò contro il muro del palazzo ed iniziò a leggere:
Caro Marcello,
scusami se l’altro giorno non ti ho potuto dire nulla, ma, come hai visto, la mia famiglia mi tiene sotto stretto controllo. Ho trovato un lavoro come commessa, al numero 38 di Via della Mercede. Sono lì tutti i giorni dalle sedici alle venti, le uniche ore della giornata in cui riesco a respirare.
Se ti va di passare, mi trovi lì. 
Beatrice
Il giovane rilesse quelle poche righe almeno tre volte: i suoi sospetti erano stati confermati, quella povera ragazza non stava realmente passando un bel momento. Avvicinò il biglietto al viso, accorgendosi che la carta era rimasta impregnata del profumo di lei, una sinfonia di mughetto e lavanda. Sorrise impercettibilmente, ripiegando con cura il foglietto e mettendoselo nella tasca interna della giacca: adesso sapeva dove andare.
***

«Beatrice, per favore, puoi andare tu di là? Mi è sembrato di sentire la porta» chiese gentilmente la sarta, mentre finiva l’orlo di alcuni tovaglioli.
«Sì, signora, vado subito» rispose la fanciulla, lasciando da parte la tovaglia che stava imbastendo. Superò agevolmente la montagna di asciugamani, che attendevano di essere ricamati, ed uscì dal retrobottega.
In effetti, qualcuno era entrato nel negozio ma, poiché le dava le spalle, non poté vederlo in viso. Sembrava un ragazzo e stava osservando incuriosito tutta la merce esposta.
«
Buonasera, posso fare qualcosa per lei?» avanzò, cercando di essere cordiale, così da fare una buona impressione: era ancora in prova e aveva tutte le intenzioni di tenersi stretto quel lavoro, dato che ne valeva la sua stessa sopravvivenza.
Nello stesso momento in cui il nuovo arrivato si voltò, Beatrice smise per un istante di respirare.
«Marcello!» esclamò, sorpresa. «Ma come...»
«Buonasera, Beatrice» la salutò il giovane, allapparenza sembrava contento di rivederla. «Ho appena ricevuto il tuo biglietto».
«Di già?» si meravigliò la ragazza, non aspettandosi di incontrarlo tanto presto. Aveva creduto che il biondo avrebbe letto quel foglio solo il mattino successivo, quando si sarebbe recato al lavoro ma, evidentemente, le cose non erano andate così.
«
Sono tornato per caso in ufficio, oggi pomeriggio, ed ho trovato Alessio e Valentina sotto al portone, che si chiedevano come fare a recapitarmi il messaggio» cominciò a raccontare Marcello, il quale sembrava leggermente scioccato al ricordo. Si fermò un attimo e parve riflettere: «Si chiamano Alessio e Valentina, vero?»
La fanciulla annuì, incapace di articolare una frase di senso compiuto: la sorpresa era stata talmente grande che sentì chiaramente il proprio cuore battere velocemente.
«
Tutto bene, Beatrice?» domandò la signora Sofia, sbucando da dietro il paravento che divideva l’area di vendita del negozio dal retro. Poi, notando il giovane, aggiunse: «Buonasera».
«Buonasera a lei» rispose lui.
Per qualche attimo, ci fu completo silenzio, bruscamente interrotto dall’esclamazione della sarta: «
Ma tu sei Marcello! Sei come, anzi, meglio delle fotografie sui giornali!»
«Pensavo che andassero di moda le riviste che parlano di gruppi pop stranieri» notò il biondo, vagamente accigliato.
«Sui giornali locali stanno seguendo tutti la tua impresa...» disse la donna, come se lo conoscesse da una vita. Improvvisamente si bloccò, come se si fosse resa conto di aver commesso un errore: «Oh, mi scusi, volevo dire, la sua impresa. Sa, è così giovane che non viene spontaneo...»
«
Non si preoccupi, mi dia pure del tu» la interruppe garbatamente Marcello, guadagnandosi un sorriso da parte della signora. «E non è solo la mia impresa, siamo in due ad aver iniziato questa scommessa».
«Certamente, si parla molto anche del tuo socio. Possiamo fare qualcosa per te?»
«In realtà, stavo cercando Beatrice» avanzò il giovane, guardando nella direzione di lei. «Avrei bisogno di parlarle qualche minuto».
«Non so se...» esitò la fanciulla, cercando con lo sguardo l’approvazione della sua datrice di lavoro.
Lei le sorrise, materna, e fece, in tono incoraggiante: «
Be’, vai no?»
«E lei come farà da ssola?»
«Come ho sempre fatto, cara. Un’oretta di pausa puoi prenderla, oggi sei venuta ad aiutarmi anche di mattina. Sarebbe un peccato rifiutare un invito di un ragazzo così gentile, per di più veramente bello, non credi?»
A quel commento, Beatrice distolse immediatamente lo sguardo da Marcello, ma la signora Sofia continuò a ciarlare, allegra:
«Devo proprio dirtelo: molte malelingue ti dipingono come un arrogante presuntuoso. Invece sei un ragazzo davvero educato. Certa gente è davvero pettegola: tutta invidia».
La risposta di Marcello fu, però, rapida e concisa: «Bisogna pur passare il tempo, non crede?
»

Una volta usciti dalla merceria, Beatrice cominciò a scusarsi per il disturbo che aveva creato al giovane: «Non volevo che ti precipitassi appena letto il biglietto... Insomma... pensavo che lo avresti letto domani e...»
Ma Marcello scosse la testa con convinzione, interrompendola.
«Non ti preoccupare, ero in pensiero per te e sono stato contento di ricevere tue notizie. Dopo aver visto come ti scortava tuo fratello, avevo capito che ti tenevano quasi prigioniera
».
La fanciulla, che si era imbambolata nell’udire quell’ero in pensiero per te, si riebbe maldestramente e balbettò un:
«Sì, a casa... Be’, non mi trattano benissimo...»
«Ho visto. Ma non capisco il perché di tanto accanimento» fece il giovane, guardandola perplesso. «Cosa mai puoi aver fatto?»
«Io non ho fatto niente! Son la mia zia e la mia cugina che mio odiano! L’Anna Laura è solo invidiosa di noi due e, se sapessi che mi ha combinato quell’idiota del mi fratello...» cominciò a raccontare, concitata, finché, tutto d’un tratto, si sentì molto debole e fu sul punto di svenire; per fortuna il ragazzo se ne accorse prima che cadesse, sostenendola.
«
Beatrice, cos’hai?» le domandò, preoccupato.
«Niente... lè solo un giramento di testa».
«
Sei molto pallida» disse, sfiorandole la fronte per accertarsi che non avesse la febbre.
«Sto già meglio» lo rassicurò lei, arrossendo: non gli era mai stata così vicina a lungo e a quella distanza, pressoché inesistente, la giovane avvertì il un buonissimo profumo che indossava Marcello, una calda fragranza dai sentori arborei, dove prevaleva l’aroma del patchouli; l’aveva riconosciuto con precisione perché adorava tutte le essenze naturali.
«Almeno ti fanno mangiare? Ti vedo molto sciupata dall’ultima volta che ci siamo visti» constatò il biondo, scrutandola con attenzione, mentre le accarezzava la guancia.
«Sì, il cibo non manca, non mi fanno morire di fame: son proprio io che non ho appetito» spiegò la ragazza, abbassando lo sguardo, piacevolmente imbarazzata da quel contatto. «Mi fanno mangiare in solitudine, in cucina. Sai, quando se’ solo e triste, ti si chiude lo stomaco».
Aveva aggiunto quest’ultima cosa con un certa reticenza, poiché temeva che ora sarebbe passata per una depressa in fase cronica. In sua difesa, c’era però da dire che la vita che conduceva era deprimente sul serio.
«Ma devi mangiare, non puoi perdere le forze così!» la riprese lui, severo.
«A volte non mi va proprio, ho quasi la nausea» si difese timidamente la fanciulla.
«Lo credo, quei bifolchi farebbero passare la voglia di vivere a chiunque!» commentò Marcello, ragionando ad alta voce, più rivolto a se stesso che a lei. Poi la guardò e le propose, con grande naturalezza: «Ci verresti a prendere qualcosa con me? Hai un po’ di tempo?»
La ragazza quasi non credette a ciò che le aveva appena detto: l’aveva appena invitata ad uscire con lui, ancora una volta. Allora, forse, non si era stancato di lei.
«Così, magari, mi racconti per bene tutto
» aggiunse il ragazzo, sospirando.
Beatrice strinse le spalle e sorrise.

Guardando meglio le vetrine del centro, la ragazza si ritrovò a pensare che le decorazioni natalizie, sparse qua e là, non erano poi così male. Il buio era sceso da poco, ma le luci colorate sfavillavano in lungo ed in largo, facendo intuire che le festività natalizie erano ormai dietro l’angolo.
Tanta era la contentezza, che avrebbe preso molto volentieri sottobraccio Marcello, ma si trattenne, non volendo passare per sfacciata: si era esposta già troppo e non voleva dargli l’impressione di essere una di quelle ragazze appiccicose ed esasperanti. Una alla Anna Laura, per esempio.
Il biondo la portò all’interno di un caffè molto elegante ma riservato, in Via di Propaganda, così da restare abbastanza vicini alla merceria.
Appena entrata nel locale, Beatrice fu investita da un caldo tepore che la rinfrancò notevolmente: a casa sua, i riscaldamenti venivano accesi di rado, al fine di risparmiare e, al negozio, essendoci via vai di persone, con annessa apertura-chiusura della porta, non si riusciva sempre a mantenere una temperatura ottimale.
Marcello si fece assegnare un tavolo e la fece accomodare, prendendo posto solo dopo essersi accertato che fosse comoda.

«Scegli pure quello che vuoi» le disse, adagiandosi allo schienale della sedia rivestita ed incrociando le braccia.
La ragazza diede una rapida scorsa alla carta e chiese: «Posso ordinare un toast? So che è tardo pomeriggio, ma...»
Il biondo esibì uno di suoi sorrisi sottili, sinceramente divertiti e quasi inconsapevoli, uno di quelli che mostrava raramente e che avevano il potere di incantarla.
«
Be’, mi pare di averti appena detto di scegliere quello che vuoi: devi ordinare quello che ti va. Forse, c’è la possibilità che, stasera, tu riesca a mangiare».
Beatrice annuì timidamente: tutte quelle premure che le stava riservando il giovane, la stavano facendo arrossire non poco e, oramai, il suo colorito doveva essere simile a quello dei suoi capelli, se non addirittura più intenso.
La verità, però, era che non era abituata ad un atteggiamento tanto cortese, nel vero senso della parola, dato che Marcello le stava manifestando un rispetto che credeva esistesse solo nei libri di letteratura antica. Si sentiva una sciocca che non aveva mai visto niente, anche se, in fondo, non era molto lontano dalla verità, considerando come la trattavano in famiglia. Inoltre, non aveva molta esperienza nemmeno in fatto di uomini e, per giunta, quel poco che aveva si riduceva a qualche complimento, elargitole con la speranza - non esaudita - di ricevere un bacio, e alle oscene avances di Navarra.
Un cameriere venne a prendere le ordinazioni, rivolgendosi per primo alla fanciulla.
«Cosa le porto, signorina?»
La ragazza, che si era persa nei suoi pensieri, ricordò per fortuna in tempo cosa avrebbe dovuto dire: era incredibile come, con Marcello seduto lì di fronte, anche dire due parole si stesse rivelando un’impresa titanica. 
«Un toast
» fece, con voce ferma.
«E da bere?
»
«Un succo di frutta» rispose nuovamente, con una certa sicurezza. Almeno per questa volta, ce l’aveva fatta a non fare strafalcioni.
«A quale gusto?»
Come non detto.

«Gusto? Perché esistono più gusti?» chiese, sorpresa. Non ci aveva fatto caso o non c’era scritto.
«Sì, dipende da quelli che hanno» le spiegò il biondo, dolcemente. «Cosa offrite?»
«Pera, arancia, pesca, albicocca» snocciolò il ragazzo, picchiettando la penna a ritmo sul blocchetto.
«
Mh. All’arancia».
«E per lei, signore?»
«Un cappuccino, grazie» rispose linteressato, consegnandogli il menù.
Beatrice si sentì morire di vergogna: per lei il succo di frutta era solo quello alla pesca. In quel momento, più che da Firenze, si sentì come se venisse dalla landa più desolata dell’Antartide, dove al massimo c’erano pinguini e trichechi che offrivano acqua di mare e ghiaccio.
Non riuscendo a guardare il ragazzo, si concentrò sulla stoffa della sua gonna e solo allora realizzò di aver indossato uno dei suoi completi più insulsi, che aveva scelto solo perché era serio e le sembrava adatto al primo giorno di lavoro.
Si spostò i capelli dal viso, nervosa, pensando di avere un aspetto orribile; d’altra parte, quando era uscita quella mattina, non sapeva che avrebbe incontrato Marcello. Tutto d’un tratto, avvertì che la sua autostima stava perdendo punti: in fondo, era solo una ragazzina, ed anche abbastanza mediocre.
«Come ti senti, ora?» domandò il giovane.
«Oh, bene, grazie» mentì spudoratamente, tralasciando le considerazioni che aveva appena tratto. Prima gli aveva già dato modo di pensare che fosse depressa, adesso non voleva fornirgli altri spunti per completare l’angosciante quadretto che doveva aver fatto di lei. 
«
È molto carino qui» continuò Beatrice, in un misero tentativo di tenere viva la conversazione.
«Sì, non è male» commentò Marcello, neutrale.
Brava, Beatrice, che bella figura da sciocca” pensò la ragazza, prendendosela con se stessa e con la sua incapacità.
«
Cosa intendevi prima, quando hai detto che tua cugina è invidiosa di noi due?» 
Beatrice arrossì allistante: nella foga di raccontare quanto facesse pena la sua famiglia, si era lasciata scappare troppo.
«
Oh, ecco... Ci ha visti tornare insieme, qualche settimana fa. È colpa sua se sono rinchiusa, percl’è gelosa del fatto che tu, diciamo, parli con me. Lei ti adora, per esser qui al mio posto, credo che potrebbe impegnare tutto quello che ha. Sai, ogni sera, prima di dormire, sbaciucchia un ritaglio di giornale con la tua foto» raccontò la ragazza, prendendosi una piccola rivincita sulla perfida e patetica cugina.
«Sbaciucchia... cosa?»
Marcello ebbe un brivido di disgusto e la fanciulla pensò con grande soddisfazione che, oramai, la reputazione
di Anna Laura, agli occhi del giovane, era bella che andata a farsi friggere.
Inoltre, notò con piacere, era riuscita a tenere un discorso decente con il suo interlocutore e la sua autostima si rialzò di qualche tacca.
Nel frattempo arrivò il cameriere con i loro ordini, lasciando le vivande sul tavolo con tutto il vassoio.
«Self-service?» commentò il biondo, pungente, all’indirizzo del ragazzo.
«
E ma io devo andare a fare l’ordine di là» balbettò lui, in uno sgrammaticato tentativo di discolparsi, indicando un altro tavolo.
«Vai, vai di là» lo imitò. «Voja de lavora’ saltame addosso».
Quello si volatilizzò all’istante, scarlatto, mentre Beatrice si lasciò sfuggire una risata.
«Poverino. Capisco il tuo punto di vista, ma lo devo ammettere: a volte incuti proprio timore».
«Sì, timore.
I tavoli sono tutti vuoti, non c’è tutto questo gran lavoro».
Le servì il succo ed il toast e trattenne il cappuccino per sé.

«Comunque non capisco una cosa: come è riuscita tua cugina a metterti tutti contro?» proseguì Marcello, dosando un cucchiaino scarso di zucchero.
«La mia zia è gcontro di me. Mi reputa un peso, perché, da quando è morto il babbo siamo venuti a vivere da lei... E non vede l’ora che me ne vada. Per questo teme che, se Navarra dovesse scoprire che tu ed io ci siam visti, non mi vorrà più» gli spiegò la ragazza, con una punta di amarezza.
«Navarra? Quello schifoso ancora ti importuna?» chiese il giovane, inorridendo al solo pensiero.
Beatrice fece un respiro profondo e si decise a raccontare il resto: era giusto che quel giovane sapesse tutta la verità. L’unica cosa che si augurò fu che, alla fine, non provasse compassione per lei, perché non l’avrebbe sopportato.
La compassione si riserva solo a coloro cui non si può dare altro.
«Il mi fratello ama scommettere, ma ha accumulato molti debiti e non riesce a pagarli. Per questo, mi ha promessa a Navarra, come pagamento».
«Ti vuole vendere a Navarra... per pagare i suoi debiti di gioco?» domandò Marcello, sconcertato.
Lei annuì ed alzò lievemente le spalle, vergognandosi al posto di suo fratello.
«Che bastardi!» insorse il ragazzo. «Quel Guido non può farti una cosa del genere! Devi avere il diritto di sposare solo l’uomo che amerai».
«Non so se cambierà idea».
«Sarebbe il caso, che qualcuno desse una bella lezione a tuo fratello».
«Ah, Guido non cambierà mai. L’unica cosa è che spero si ravveda, ultimamente sembra un po’ pentito» fece la ragazza, pensierosa.
«Me lo auguro per lui. Altrimenti non mi farò problemi a venire a dirgliene quattro» replicò invece il ragazzo, alterato, facendola sussultare.
«Davvero lo faresti?»
«Non puoi finire in mano a Navarra. È una cosa abominevole solo a pensarla».
La fanciulla avvertì le guance farsi più calde: se solo Guido avesse avuto metà del giudizio di quel ragazzo, a quell’ora avrebbe potuto sperare davvero in un futuro più roseo, sgombro dalle arpie che si ritrovava per parenti, da quel cavernicolo di Navarra, e da qualsiasi problema matrimoniale.
Chissà, magari, con il tempo, Marcello avrebbe potuto persino innamorarsi di lei...
«Mi sarebbe piaciuto davvero visitare con te la Cappella Sistina» sussurrò, sorseggiando il suo succo d’arancia.
«Chi ha detto che non ci andremo più?» esclamò il biondo, stranito, come se non avesse mai preso in considerazione l’ipotesi di disdire quell’appuntamento.
«E come si potrebbe fare? Sono monitorata a vista!» gli fece notare lei, spezzando in due il suo toast, non più bollente.
«
Un modo lo troveremo. Non sono tipo da arrendermi alla prima difficoltà» fece il ragazzo, incoraggiante. «Anche perché, in caso contrario, con mia madre avrei avuto vita breve: se fosse stato per lei, infatti, avrei già dovuto sposare una delle stranazzanti figlie delle sue amiche».
«E tu non l’hai ascoltata?» domandò, allora, la giovane, avvertendo una piccola fitta allo stomaco.
«Non è mia abitudine cedere ai ricatti» spiegò Marcello, determinato, facendo oscillare con eleganza il rimasuglio di cappuccino nella tazza, per poi portarla alle labbra.
Che quel ragazzo un po’ ribelle le fosse piaciuto fin dal primo istante, ormai l’avevano capito anche i sassi, ma, in quel momento, Beatrice prese consapevolezza di essersi inequivocabilmente - e irrimediabilmente - innamorata di lui.
***

Marcello riaccompagnò Beatrice alla merceria intorno alle diciannove, giusto una decina di minuti prima che venisse a riprenderla il fratello.
Davanti alla porta del negozio, la ragazza lo ringraziò: «Grazie per il bel pomeriggio. Era davvero troppo tempo che non mi sentivo così serena» lo ringraziò lei, stringendosi nella sua mantella color avorio.
«Anche per me è stato molto piacevole» confermò il giovane.
All’improvviso, però, le lacrime cominciarono a rigare le guance di lei.
«Beatrice, cosa...» le chiese, confuso ed allarmato, ottenendo un singhiozzo come risposta. Stava per chiederle se si sentisse ancora poco bene, ma non ne ebbe il modo, poiché la fanciulla gli si buttò tra le braccia, piangendo più forte.
Preso alla sprovvista, il giovane rimase per un paio di secondi incerto sul da farsi, per poi assecondare il suo istinto e ricambiare l’abbraccio: non avrebbe mai pensato che sentir piangere qualcuno potesse smuoverlo tanto.
Senza esagerare, la strinse più forte e, rendendosene appena conto, cominciò a carezzarle la schiena e quel tocco dovette trasmetterle un senso di protezione, perché, nel giro di poco, la ragazza si calmò.
Beatrice si discostò appena e, ancora con le lacrime agli occhi, cercò di mormorare delle scuse, ma Marcello scosse appena la testa. Sfiorandole una guancia, prese una ciocca di capelli ramati e la sfregò delicatamente tra le dita, come per studiarla.
Quando l’avvicinò al proprio viso, riconoscendo subito il profumo che aveva trovato sul biglietto, vide la ragazza sussultare appena.
«Andrà tutto bene» la rassicurò, parlandole dolcemente.
«Io... non riesco più a credere che andrà tutto bene...» mormorò lei, colma di tristezza.
Il biondo non faticò a capire perché la fanciulla avesse tutte quelle riserve, a sperare che la sua vita sarebbe cambiata in meglio, visto che tutti i suoi parenti l’avevano trattata in maniera scandalosa, instaurandole delle paure non indifferenti.
E dire che la famiglia dovrebbe essere il primo rifugio per tutti: la storia di Beatrice, però, testimoniava che non sempre era così.
«
Ti fidi di me?» le chiese, guardandola negli occhi, serio.
Dopo qualche secondo di silenzio, la ragazza disse a bassa voce, ma chiaramente: «Sì».
«Allora non temere» disse Marcello, allontanandosi lentamente e, in ultimo, aprendo le dita per liberare la ciocca.
Rimasero a fissarsi, ognuno in attesa di una mossa dell’altro. Con una certa esitazione, Beatrice si alzò in punta di piedi, protendendosi verso di lui, quando la porta della merceria si aprì di scatto.
Entrambi sobbalzarono, ritrovandosi attorniati dai due bambini.
«Beatrice, sei tornata!» gridò Alessio, irrompendo in strada.
«
E c’è anche Marcello!» aggiunse Valentina.
«Bambini, non uscite senza cappotto, fa freddo!» li richiamò la madre, seguendoli fuori. «Ah, eccoti!» esclamò poi, all’indirizzo della ragazza.
«Ehm, sì» fece lei, incerta.
Il biondo sospirò: per fortuna era già sera e presto quella pazza giornata sarebbe terminata. Certamente, dopo gli ultimi avvenimenti, avrebbe dato un’occhiata all’oroscopo appena tornato a casa.
«
È vero che sembra un principe, mamma?» domandò la bambina, guardando ammirata Marcello.
«
Sì, è vero» confermò la signora Sofia, sorridendo alla figlia.
«Beatrice è la tua principessa?
» gli chiese Alessio, guardando prima lui e poi la ragazza ed entrambi arrossirono lievemente.
«Ecco...» rispose il biondo, con una punta di imbarazzo per la domanda inaspettata.
«Altrimenti, puoi aspettare me che cresco. Anche io sono una principessa, il mio papà me lo ripete sempre» aggiunse la sorella, sognante.
«Ora basta con le domande, andate dentro» intervenne, però, la sarta, indicando con un gesto la porta del negozio. In un primo momento, i bambini tentatono qualche protesta, ma, alla fine, salutarono i due ragazzi ed ubbidirono.
«Ti prego di scusarla, legge troppe favole» fece la donna, rivolgendosi al giovane.
«Si figuri» rispose lui, scrollando le spalle.
Allora, annunedo e con un dolce sorriso sulle labbra, anche la signora rientrò all’interno, lasciando finalmente Marcello e Beatrice di nuovo soli.
«Ancora grazie, di tutto. Se vuoi... Insomma, sai dove trovarmi» disse lei, sorridendogli.
«
Adesso sì».
Al ragazzo sembrò che lei stesse per dire altro, invece, scosse la testa e, con un ultimo saluto, rientrò nella merceria.
Rimase fermo qualche secondo, poi si voltò e si incamminò verso la fermata di Piazza di Spagna. Sarebbe stato difficile esprimere a parole la contentezza che provò nell’aver rivisto Beatrice, sebbene non si potesse dire che stesse bene, visto che l’aveva trovata provata e sbattuta.
Se in un primo momento aveva pensato che il fratello di lei fosse un emerito poltrone incapace, adesso doveva rettificare il proprio giudizio: Guido Tolomei era una sanguisuga approfittatrice e senza l’ombra di una morale e avrebbe meritato i lavori forzati a vita.
La pena di morte, come diceva Beccaria infatti, era inutile: i delinquenti - che a volte si mimetizzavano tra la gente altolocata - andavano educati con metodi duri, che sarebbero stati da monito anche a chiunque avesse fatto un pensierino, sull’eventualità di abbracciare un’esistenza da reietti.
Quella povera ragazza non meritava di finire tra le braccia di Navarra; al sol pensiero, Marcello si sentì ribollire il sangue e, con sua sorpresa, si ritrovò a scoprire che non era solo il suo senso innato di giustizia a parlare. Possibile che fosse geloso?
In effetti, la prospettiva che quel porco toccasse Beatrice gli faceva attorcigliare i visceri, scatenandogli un gran tumulto interiore; un depravato di quel calibro, infatti, non doveva permettersi nemmeno di sfiorarla. 

Preso dai suoi pensieri, si accorse appena di star percorrendo Via Frattina, e dovette ringraziare le appariscenti decorazioni di una vetrina, se riuscì a notare un bellissimo soprabito di un delicato lilla, con una piccola spilla a forma di fiore appuntata all’occhiello. Lo immaginò indosso alla fanciulla e, immediatamente, convenne che le sarebbe stato benissimo.
Senza starci a pensare troppo, aprì la porta della boutique ed entrò: era ora di cominciare a comprare i regali di Natale.






***
Per la revisione, ringrazio Lady Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la grafica del titolo è opera mia.
Ringrazio la mia Anto per tutti i consigli, i pareri e lo scambio di opinioni durante la scrittura.

***
[N.d.A.]
1. EUR Marconi: la fermata alla quale mi riferisco è l’attuale EUR Palasport, prima denominata EUR Marconi. Cambiò nome nel 1990, in seguito all’inaugurazione di un’altra stazione, chiamata appunto Marconi, sempre appartenente alla Linea B.
2. Banda della Magliana: nota e potente organizzazione criminale, attiva negli anni Settanta e operativa in tutta Roma e dintorni, coinvolta in numerose attività delinquenziali. Venne chiamata così dalla stampa dell’epoca, in riferimento al luogo dove risiedevano molti dei suoi componenti, ovvero il quartiere Magliana.
3. prossimo febbraio: lo spettacolo menzionato è Pulcinella, rappresentato per la prima volta al Teatro Argentina il 15 febbraio 1987. Ovviamente la collaborazione è inventata, serve solo all’economia del racconto.
4. San Lorenzo: si tratta della chiesa di San Lorenzo in Lucinia.

***



Salve gente!
Ed eccoci al sesto capitolo. Forse, non è il più cruciale della storia, ma, senza dubbio, è uno dei più movimentati. Voi che ne dite? Secondo voi i guai per i nostri protagonisti sono finiti o capiterà qualche altra cosa?
Il prossimo aggiornamento (previsto per il 15 Dicembre, in pieno clima natalizio) vi darà qualche altro indizio.
Ringrazio come sempre chi legge, chi mi dedica del tempo commentando, chi ha inserito questa storia in uno dei propri elenchi, chi, un giorno, troverà tempo/voglia/coraggio di lasciarmi un parere.
Se volete avere un piccolo spoiler del settimo capitolo, sappiate che è disponibile sia sul mio blog, sia sulla mia pagina facebook, riesumata per chi preferisce le notizie-lampo.

Spero di riuscire presto a finire dei disegni su questo racconto, i quali saranno pubblicati sul mio profilo su DeviantArt. Magari, secondo qualcuno, è una scelta un po’ infantile, ma non mi sento di usare dei prestavolto per i miei personaggi. Anche perché sono talmente complicata, che non troverei ciò che cerco.
Comunque, conto di riuscirci nelle prossime vacanze, quando mi auguro di avere un po’ di tempo libero.
Detto questo, vi lascio - finalmente! - andare.
Alla prossima!
Halley S. C.

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Capitolo 7
*** Capitolo Settimo - Vento di Pensieri ***


Vento dell'Ovest - Capitolo 7



- Capitolo Settimo -
Vento di Pensieri




L
a mattina dell’otto dicembre, lintera famiglia Tornatore si recò alla Basilica di San Giovanni in Laterano, così da assistere alla funzione dellImmacolata. Mentre la Matrona gelava con lo sguardo chiunque si avvicinasse ai primi banchi (e quindi al posto d’onore che si era assegnata da sola), seguita a ruota da Tiberio, Ortensia e la piccola Claudia, suo marito si sistemò a metà navata, facendo notare che, al banco che aveva adocchiato sua moglie, non cerano abbastanza posti. Invece, Marcello rimase direttamente nelle retrovie, aspettando Gerardo e Vittoria, con lintenzione di essere associato il meno possibile alla dispotica genitrice.
Quando la liturgia terminò, più di un’ora e mezza dopo, una moltitudine di gente si riversò nello slargo prospiciente la basilica, disponendosi intorno al grande albero di Natale, addobbato per l’occasione, e formando tanti piccoli capannelli, mentre i bambini della parrocchia venivano richiamati dai catechisti vicino al presepe. Anche Vittoria si mosse in quella direzione e, per superare quel gran vociare, fu costretta urlare ai suoi amici che doveva andare a dare una mano, così da velocizzare la distribuzione dei rametti di agrifoglio ai bimbi.
Il sole brillava, ma, in quella fredda mattinata, non riusciva a scaldare molto, pertanto Marcello si abbottonò il cappotto fino al mento, cacciando le mani nelle tasche ed esponendosi quanto più possibile al tepore solare. Poco distante da lui, c’era Madama Claudia che stava conversando animatamente con alcune sue conoscenze, probabilmente vantandosi di essere stata invitata al concerto augurale di Capodanno
dall’assessore Tinelli in persona; il signor Giancarlo, invece, con una scusa, era riuscito ad evitare quel ridicolo mercato di ciarle ipocrite. Tiberio stava dicendo qualcosa alla moglie, cullando lentamente la bambina tra le braccia, la quale, per essere onesti, si era comportata molto bene durante la celebrazione, continuando a dormire perfino durante l’esecuzione dei canti.
«Tua cognata oggi non ha una bella cera» commentò Gerardo, anche lui al sole, squadrando da lontano una pallida Ortensia.
«Al momento non ha più la scusa delle sue crisi per potersi svincolare da mia madre. A quanto ho capito, non ha più uno psicologo che la segua: il dottor van der Meer adesso coltiva ed esporta tulipani» rispose sbrigativamente Marcello.
Questa rivelazione lasciò l’altro parecchio perplesso.
«Ortensia lo avrà esasperato» commentò, lanciando una triste occhiata alla donna.
«Stando a quello che ha detto Tiberio, è stato esasperato da più di una donna» precisò il giovane, provando solidarietà per l’ex psicologo. «Tanto è vero che è tornato a casa sua nella campagna olandese».
«Ora capisco perché Vittoria non ha voluto aprire uno studio tutto suo e si limita a collaborare con le volontarie dell’Umberto I...» commentò Gerardo, pensieroso. Tuttavia, non aveva fatto nemmeno in tempo a finire di nominarla, che la ragazza apparve nuovamente vicino a loro.
«Ragazzi, scusate, non possiamo ancora andare: oltre all’agrifoglio, bisogna distribuire anche queste pergamene» disse, mostrando loro dei foglietti di carta, simili a delle piccole pergamene. «Sarà davvero bello quest’anno l’albero di Natale, decorato anche con i pensierini dei bambini!»
«Non è già abbastanza addobbato così?» domandò Marcello, lanciando un’occhiata di sbieco all’abete, carico di palline e angioletti di plastica.
«
Marcellino, come sei polemico! Non trovi che sia bello che tutti i bambini possano esprimere i loro desideri per questo Natale?» gli rispose lei, stizzita; poi si rivolse all’altro: «Gerardo, mi riaccompagni tu a casa? Tanto dobbiamo fare un pezzo di strada in comune».
«Oh, sì, molto volentieri» assentì il ragazzo, arrossendo appena. «Nemmeno oggi il car...o scultore è venuto?»
«No, ha detto che sarebbe stato tutto il giorno con Paula, a definire meglio la lista delle opere da presentare» sbuffò la ragazza, abbattuta. Tuttavia, un secondo più tardi, era di nuovo allegra e annunciò, sventolando la mano: «Datemi dieci minuti per finire e sarò da voi! Patti chiari e amicizia lunga, bei giovani: non azzardatevi ad andarvene senza di me!»
Marcello e Gerardo rimasero ad osservare Vittoria che si allontanava nuovamente, entrambi perplessi per quel cambiamento d’umore repentino. Infatti, solo chi la conosceva bene sapeva che lei odiava attirarsi la compassione altrui, preferendo farsi vedere sempre con il sorriso sulle labbra, anche se il suo cuore era tutt’altro che sereno.
In particolare, il biondo, poiché era a conoscenza di cosa stava affrontando in quel momento la sua amica, si trovò a sospirare, affranto, giacché non poteva dire all’altro come stavano realmente le cose: sicuramente, anche lui doveva aver notato, forse influenzato dai pregiudizi che aveva sullo scultore, che
Bartolomeo la stava trascurando, ma non avrebbe mai potuto immaginare che quello zotico era arrivato a picchiarla.
Marcello stava quasi per suggerire all
amico di approfondire con Vittoria il discorso sul carciofone, quando fu richiamato da un urlo stridulo: «Buongiorno, Marcello!»
Sia lui che l’altro si voltarono ed intravidero Maria Luisa farsi largo tra la gente a suon di gomitate a destra e manca. Il ragazzo si ricordò di essere davanti ad una chiesa e si trattenne dall’imprecare sottovoce.
«È tanto che non ti vedo! Dove eri finito?» esordì la nuova venuta, mostrando un sorriso smagliante. Evidentemente, grazie ai postumi dell’ubriacatura aveva dimenticato ciò che era successo alla sua festa di compleanno, quando era stata piantata in asso da Marcello. Oppure, magari, non volendo rinunciare a lui, era disposta a far finta di niente.
«Non ho molto tempo per la vita mondana» la liquidò quello, spiccio.
«Che peccato! Speravo che venissi l’altra sera, al compleanno di Edoardo... Hai ricevuto il suo invito?» insistette, però, lei, riservandogli un’occhiata speranzosa.
«Non mi pare. Ma, forse, l’ho gettato accidentalmente nel cestino della carta straccia».
Di fronte ad un’affermazione del genere, la giovane aprì la bocca e rimase a fissare Marcello con aria sconcertata, quando Gerardo si intromise, salutandola affabilmente: «Buongiorno, Maria Luisa».
«Oh, ciao, Gerardo. Ci sei anche tu? Non ti avevo proprio visto!» esclamò la giovane, falsamente sorpresa, voltadosi appena per poi tornare immediatamente a rivolgersi all’altro ragazzo: «Io, Teresa e Domenico stiamo organizzando, per il quindici, una cena di beneficenza in favore dell’associazione di cui siamo membri. Ti va di venire?»
«Mi dispiace, ma non possiamo, perché saremo a Monaco di Baviera in quei giorni per concludere un affare» replicò lui, secco.
«Almeno posso passare a casa tua, nei giorni seguenti, per raccogliere la donazione?» proseguì Maria Luisa, sbattendo svenevolmente le ciglia e dando prova di non voler mollare l’osso.
Per fortuna, Marcello aveva un buon controllo della mimica facciale, altrimenti non sarebbe riuscito a celare il suo sempre più crescente ribrezzo.
«Abbiamo già deciso che devolveremo la donazione di Natale all’associazione di Vittoria, dato che opera sul territorio regionale. Non abbiamo nulla contro le associazioni internazionali, come quella che sostieni tu, sia chiaro» spiegò Gerardo, intromettendosi nel discorso, «ma preferiamo aiutare chi ci sta vicino. L’incentivo a creare una rete efficiente di servizi locali parte dalle piccole cose».
Maria Luisa lo guardò stralunata, come se non avesse capito una singola parola di ciò che aveva detto e, molto probabilmente, doveva essere proprio così; infatti, dopo un paio di secondi, si rivolse nuovamente al biondo, facendo la domanda che doveva essere il vero motivo per cui lo aveva cercato:
«Insomma, Marcello, non mi dire che non ci sarai nemmeno alla festa di Capodanno che sto organizzando, personalmente, ad Ostia!»
«Temo di no» rispose il ragazzo, algido, guardandola torvo. «Gerardo ed io abbiamo già preso un impegno importante» proseguì, scandendo molto bene il plurale e non tollerando la totale indifferenza della ragazza verso il suo amico; d’altra parte, era una questione di educazione a rivolgersi ad entrambi, considerando che il suo lui la stava gentilmente considerando.
La risposta fu talmente raggelante, che la ragazza rimase a guardarlo inebetita per qualche secondo, prima di salutarlo, dimenticandosi ancora una volta dell’altro giovane. Quindi, si congedò da lui, farfugliando che doveva raggiungere alcune sue amiche.
«Come rinunciare ad un Capodanno sulla spiaggia di Ostia a tracannare Bacardi?» chiese retoricamente Marcello, sprezzante. «Meglio starsene a letto con l’influenza come ho fatto l’anno scorso, anche se avevo la febbre a quaranta».
«Addirittura?» domandò Gerardo, che era palesemente offeso per la maleducazione che Maria Luisa aveva avuto verso di lui.
«Tu preferiresti festeggiare con gente che brinda con te, augurandosi, in realtà, che tu possa fallire quanto prima?»
L’altro, non sapendo come controbattere, data la veridicità della considerazione, tacque.
«Mi meraviglio sul serio di come tu possa volerti dichiarare a quella lì» disse il biondo, indicando con un cenno del capo Maria Luisa, che stava parlando concitatamente con le sue amiche, forse sfogandosi per il due di picche che aveva appena ricevuto. «Per giunta, perdonami la schiettezza, non ti si fila proprio».
«Lo so. Be’, io...» cominciò il suo amico, tentennante.
«Comunque, è vero anche che dici sempre che vuoi dichiararti, però non lo fai mai».
«Non è il momento adatto per affrontare questa discussione...»
«È il momento migliore, invece! Guarda cosa ti stai perdendo!» esclamò Marcello, costringendo l’altro a voltarsi per vedere Vittoria che interloquiva con i bimbi, ammaliandoli con la sua spontanea vivacità.
«Non mi tentare, non è corretto che io ronzi intorno ad una ragazza impegnata» disse Gerardo, che non riusciva, però, a staccare gli occhi da lei.
«Invece, permettere che stia con quel menefreghista del carciofone è correttissimo» sbottò il biondo, ferocemente sarcastico. Purtroppo, aveva promesso all’amica di non rivelare tutta la verità, tuttavia, poteva ribadire ciò che, poco prima, aveva comunicato l’espressione della stessa Vittoria.
«Marcello, ti prego...
» gemette l’altro, supplicandolo. «Mi rendi solo le cose più difficili».
Il giovane stava per rincarare la dose, quando tornò Vittoria, questa volta definitivamente.
«Eccomi qui! Visto che ho fatto presto?» fece notare, sorridendo radiosa. «Di che cosa state parlando voi due?»
«Noi... ecco... vedi... sai...» balbettò Gerardo, preso alla sprovvista.
«Del fatto che la temperatura di oggi sia sopra la media stagionale» rispose Marcello, guardando il suo amico e assottigliando lo sguardo.
La ragazza guardò prima l’uno, poi l’altro; infine, scosse la testa, decidendo di lasciar perdere.
Il giovane alzò le spalle, come a volersi scusare con il suo amico per la propria défaillance e Marcello gli rispose alzando gli occhi al cielo.
«Insomma, si può sapere che avete voi due? Posso saperlo anche io o è un segreto di Stato?» sbottò la giovane, che cominciava ad averne abbastanza di quel muto teatrino.
«La verità è che... Vittoria, hai una foglia di agrifoglio tra i capelli!» esclamò Gerardo, prendendo spunto da quel particolare appena notato, per portare la conversazione su altro. Alzò la mano per togliergliela, ma dovette ripensarci subito dopo, dato che dissimulò il movimento, limitandosi ad indicarla, come se si fosse vergognato al solo pensiero di instaurare un contatto con lei.
«Non avreste potuto dirlo prima, senza fare tanti misteri?» domandò, allora, Vittoria, passandosi delicatamente una mano tra i ricci e recuperando loggetto estraneo. La lasciò cadere in terra e gli scoccò uno sguardo di apprezzamento.
«
Sempre il solito esagerato! Comunque, grazie per avermelo fatto notare» gli disse, dandogli un leggero bacio sulla guancia, per enfatizzare quanto gli aveva appena detto.
«Grazie. No, scusa... volevo dire... prego...» farfugliò lui, diventando rosso come un gambero al vapore.
Marcello seppellì, disperato, il viso nel palmo di una mano, pensando che, più che correggere i complessi esistenziali del suo amico, avrebbe fatto prima a raddrizzare la Torre di Pisa.
***

Beatrice, ogni tanto, alzava la testa dal suo tema su Pascoli, al fine di controllare l’enorme orologio del soggiorno, il quale segnava che mancava un quarto alle undici. Avrebbe dovuto sbrigarsi, se non voleva fare troppo tardi, poiché, l’indomani, avrebbe trovato ad attenderla una lunga giornata di lavoro.
Erano arrivati in negozio alcuni drappeggi scenografici che necessitavano di modifiche, mentre i costumi sarebbero stati consegnati in un secondo momento, essendo richiesta, in quel caso, la collaborazione degli attori: una cosa che, al momento, nessuno di loro poteva garantire, in quanto erano tutti immersi nelle prove.
La ragazza rilesse l’ultimo paragrafo e, trovandolo scorrevole, mise un bel punto, chiudendo la biro: Rossiglioni avrebbe dovuto darle come minimo un bell’otto, se non addirittura un nove.
Si alzò e cominciò a raccogliere i suoi libri, pronta per andare a letto: esausta com’era, non vedeva l’ora di scivolare in un buon sonno ristoratore. Da quando aveva cominciato a lavorare, aveva molto meno tempo per studiare, così aveva imparato ad organizzarsi, non riuscendo, tuttavia, a finire tutti i compiti prima di una certa ora.
Seguendo questi ritmi, non aveva nemmeno potuto pensare, con la dovuta accortezza, a come trovare il modo di andare a vedere la Cappella Sistina con Marcello, senza farlo sapere a Guido, alla zia Assunta e, soprattutto, a quella brutta pettegola invidiosa di Anna Laura.
Trovare un alibi, una scusa convincente per poter restare fuori casa, anche di sera, sembrava impossibile: suo fratello la veniva a prendere sempre puntuale, anzi, talvolta persino in anticipo, mettendole fretta per non arrivare in ritardo a qualche appuntamento galante.
«Cicci, ma sei sempre a studiare?» domandò Guido, entrando in quel mentre nel salotto. Beatrice, che aveva distinto un’ombra nel corridoio che si avvicinava, non diede segni di sorpresa.
«Non voglio mica rimanere ignorante come te, che ti se’ comprato il diploma di geometra» gli rispose, velenosa.
«
Come vedi, non sto facendo quel lavoro, quindi non nuocio a nessuno» ribatté il giovane.
La ragazza avrebbe voluto seriamente obiettare ma, prima che potesse aprire bocca, vide il fratello avvicinarsi all’armadietto dei liquori, aprire l’anta di ciliegio istoriata e tirare fuori due bicchieri e una bottiglia di vetro opaco, contenente forse sambuca.
Non era raro che, a sera tarda, il fratello mandasse giù un sorso di qualche alcolico, quando non usciva ad ubriacarsi con i suoi rozzi amici, ma la cosa che insospettì Beatrice furono i due bicchieri, anziché uno solo. Si stava proprio chiedendo il perché, quando Guido l’anticipò, annunciando:
«Sta venendo qui Navarra, ha espressamente chiesto di vederti».
Alla fanciulla sembrò che il pavimento si fosse messo a tremare, o forse erano solo le sue gambe ad essere diventate, improvvisamente, così malferme. Per non cadere, si aggrappò al tavolo, riuscendo a malapena ad esalare un: «Cosa? Ma non l’era in Spagna, a sistemare i su’ affari?»
«Ha sbrogliato il grosso delle magagne ed ha lasciato a Cordova un su’ uomo di fiducia
. Inoltre, ha detto che non resiste troppo tempo senza vederti» spiegò tranquillamente il fratello, richiudendo l’anta e mettendo bicchieri e bottiglia su un vassoio d’argento.
Lei socchiuse gli occhi, stizzita. Se quel bifolco di Navarra pensava di conquistarla con quel suo romanticismo da quattro soldi, aveva proprio fatto male i conti. E se Guido era della stessa opinione, be’... tanto peggio per lui.
«Io devo andare a dormire, domani devo aiutare la Bettina e andare a lavorare» obiettò Beatrice, lottando contro se stessa per non agitarsi, cosa che in quel momento si rivelò particolarmente difficile.
«Oh, ma non si tratterrà qui per molto tempo. Suvvia, Bea, scommetto che non è così male, dovresti seriamente iniziare a prenderci confidenza» commentò lui, serafico, come se stessero per ricevere un caro e premuroso amico di vecchia data.
«Se ne prende fin troppa, visto che non perde mai tempo per mettermi le su’ luride mani addosso!» esclamò Beatrice, mandando all’aria i suoi propositi di mantenere la calma.
«Cerca di esser gentile con lui».
«Lo sarò, se lui farà il gentiluomo con me!»
«Ti prego, Cicci. Così oltre ad estinguere il debito, magari riesco anche ad entrare in affari con lui».
A Beatrice per poco non caddero le braccia: non contento di quello che aveva combinato, si voleva anche rovinare definitivamente? Entrare in affari con Navarra era un autentico suicidio!
Si sentiva un po’ come la Signorina Else1, costretta a cedere alle turpi richieste del signor Dorsday per evitare la bancarotta della famiglia e salvare il padre dalla depressione; solo che non trovava giusto drogarsi di benzodiazepine fino a morirne, per far valere i propri diritti.
Dopo aver provato la gentilezza ed il rispetto che le dimostrava Marcello, Conrado, ai suoi occhi, era diventato ancor più sordido ed immorale.
«Oh, ma che tu sta’ scherzando? Entrare in affari con il Navarra? Allora è anche per questo che hai deciso di vendermi a que’ lestofante?»
Il fratello la guardò stralunato e aprì la bocca per ribattere, ma non ce ne fu il tempo, giacché qualcuno - con molta maleducazione, considerata l’ora - suonò insistentemente il campanello.
«
Accidenti, sveglierà la zia Assunta!» esclamò il ragazzo, correndo ad aprire.
Beatrice avrebbe voluto scappare lontano, pur di non trovarsi faccia a faccia con Navarra, ma le gambe le erano diventate di piombo e non riuscì neanche a compiere un solo, misero passo. Quando udì la voce del mostro, arrivato ormai nel salotto, trattenne a stento un grido.
«Ciao dulzura2, è un po’ che non ci si vede» fece lui, non appena entrò nella stanza, sorridendole languido.
La fanciulla lo guardò atterrita, stringendo più forte il bordo del tavolo. Perché Guido le stava facendo questo? Che cosa aveva mai fatto di male per meritare quell’orrenda punizione?
«A quanto vedo, la niña è rimasta senza parole. Devo averle fatto proprio una bella sorpresa!» commentò Navarra, abbandonandosi ad una risata cavernosa.
«La Beatrice è emozionata per il tu’ ritorno improvviso. Ti credevamo in Spagna, non si pensava saresti tornato così presto» spiegò Guido, invitando l’omone ad accomodarsi.
Conrado accettò l’invito, stravaccandosi sul divano tarlato e osservando Beatrice con occhi avidi, mentre si lisciava compiaciuto la folta barba nera.
«Ho risolto tutto in fretta, volevo tornare da te al più presto».
Lei, sentendo quello sguardo lussurioso su di sè, non rispose, limitandosi a deglutire, incapace di far scendere il groppo che aveva in gola: non voleva che quell’animale la guardasse in quel modo, non voleva essere oggetto delle sue fantasie perverse. Avrebbe tanto voluto trovarsi in un altro luogo, quanto più possibile lontano da Navarra, mentre a Guido non sembrava minimanente importare il suo stato d’animo: infatti, stava facendo tutti gli onori di casa, adoperandosi per servire al suo ospite il liquore, mentre conversava animatamente, informandosi su come erano andati gli affari in Spagna.
«Tolomei, vai a prendermi del ghiaccio».
L’ordine giunse talmente imperioso che il ragazzo ammutolì immediatamente, fissando l’energumeno come se gli avesse chiesto di dissolversi all’istante. Percependo in quelle parole una possibilità di abbandonare la sala, Beatrice mosse qualche passo in direzione della porta.
«No, non tu, dulzura, dicevo a lui» aggiunse Conrado, indicando Guido con la mano in cui teneva il bicchiere. «Non potrei mai chiamarti per cognome, luz de mis ojos».
«Vuoi il ghiaccio... anche se fa freddo?
» obiettò il ragazzo, meravigliato.
«La sambuca va gustata gelata. Sia d’inverno che d’estate» fu la boriosa risposta di Navarra.
Borbottando qualcosa, il giovane si allontanò, lasciando Beatrice con luomo, che si alzò dal divano e cominciò ad avvicinarsi a lei. Fu allora che il suo sospetto si concretizzò in realtà: a quel troglodita non importava nulla del ghiaccio, era solo un vile pretesto per allontanare suo fratello e rimanere solo con lei.
«
Sei una vera bellezza» le disse, troppo vicino per i suoi gusti, squadrandola con bramosia.
Lei si ostinò a tacere, riservandogli uno sguardo di puro disprezzo.
«
Non mi rispondi, fai la timida? Eppure lo so che sotto questa apparenza da ragazzina, si nasconde una giovenca ribelle da domare».
Se prima Beatrice riteneva che, per la sua amoralità, Navarra dovesse marcire in una cella ammuffita e piena di topi, fino alla fine dei suoi giorni, dopo quel rozzo apprezzamento, avrebbe solo voluto vederlo sul patibolo del boia. 

«Tu meriti molto più di questo letamaio, dulzura» continuò Conrado, perseverando nel suo monologo. «Quando sarai mia, vivrai come una regina, ma dovresti anche collaborare un po’, che ne dici?»
La ragazza strinse le labbra talmente forte, che immaginò fossero sbiancate: avrebbe preferito vivere di stenti tutta la vita, facendo la sguattera o la mendicante, piuttosto che diventare moglie di quel buzzurro.
Resosi probabilmente conto che non voleva cedere, Navarra scattò in avanti, artigliandola in una presa d’acciaio.
«Tu stai giocando con me, niña
» le disse, serrandole il viso tra il pollice ed il resto delle dita.
«
Lasciami subito!» esclamò la ragazza, divincolandosi. Fece per allontanarsi, ma l’energumeno si parò davanti alla porta, sbarrandole il passaggio.
«Ah, ora parli?»
«No, perché non ho niente da dirti! Ed ora lasciami andare!»
La giovane gli voltò le spalle, furibonda, ma lui le afferrò i capelli, che aveva legato in una coda alta, e li strattonò, costringendola ad avvicinarsi a lui; lei gemette per il dolore, ma il nerboruto tirò più forte.
«A me piace giocare con te,» le sussurrò in un orecchio, minaccioso, «ma non devi mai scordare chi è che comanda».
Senza preoccuparsi del fatto che le stava facendo male, Navarra la inchiodò al muro, bloccandola con la mole del proprio corpo, mentre con una mano le teneva la bocca chiusa.
«Che tu lo voglia o no, un giorno sarai mia» le sibilò, ghignando compiaciuto.
Beatrice chiuse gli occhi, come faceva da piccola quando aveva paura che qualche mostro saltasse fuori da sotto il letto. Ma, purtroppo, quello non era un incubo infantile: era la cruda realtà.
L’uomo le si avvicinò ancora di più, immergendo dapprima il volto nei capelli di lei, poi strofinandolo sul suo collo. Con sommo raccapriccio, la fanciulla avvertì la mano libera del suo aguzzino che si adoperava per sollevarle la gonna. Navarra, ridendo, non si risparmiò nel percorrerle con insistenza la coscia e nemmeno nel palpeggiarla ovunque.
Solo la rabbia, il disprezzo, il disgusto che provava verso quell’essere rivoltante le impedirono di farle piangere tutte le lacrime che avrebbe voluto.
«Cosa stai facendo?
» domandò Guido, sbalordito, con in mano il contenitore del ghiaccio, dal quale stava colando acqua sul tappeto.
Conrado si allontanò dalla giovane, consentendole di sfuggire alla sua presa.
«Nada. Stavamo solo giocando un po’, a Beatrice è piaciuto molto» rispose il troglodita, ghignando sardonico.
Umiliata, la fanciulla corse via dal salotto, con l’intenzione di mettere più distanza possibile tra lei e Navarra: l’aveva sbeffeggiata, trattata come una bambola con cui sollazzarsi, insultata e fatta passare per sua complice nelle sue porcherie.
Si fermò ai piedi della rampa delle scale, non più in grado di trattenere i singhiozzi. Avvertendo una presenza dietro di lei, si voltò di scatto.
«Cicci, cosa ti ha fatto? Stai bene?
» le domandò il fratello incupito, sfiorandole un braccio.
Ma Beatrice si sottrasse rapidamente a quel contatto.
«Non mi toccare! Nemmeno tu devi toccarmi!» strillò, come in preda ad una crisi isterica.
Guido sobba
lzò, basito da una simile reazione.
«Ma Bea...»
«
L-Lascia... mi in p-pace!» singhiozzò la fanciulla, scappando su per le scale.
Una volta che ebbe chiuso la porta del suo piccolo cubicolo, si buttò sul piccolo letto sgangherato e diede sfogo a tutta la sua tristezza, pensando alle dolci parole che le aveva detto il suo Marcello, a quanto era stato gentile con lei, a quanto fosse ingiusto che non potesse sperare di avere un ragazzo così tutto per sé.
Lui era lontano ed ignaro di tutto, mentre lei era sola: sconsolata, pianse ogni singola lacrima che aveva, finché, stremata, non crollò, abbandonandosi al sonno.
 
Il pomeriggio seguente, la ragazza si presentò al negozio pallida e con profonde occhiaie, tanto che la signora Sofia si sentì in dovere di chiederle più volte se avesse bisogno di un giorno di ferie, così da rimettersi, ma, nonostante Beatrice ne avesse davvero necessità, rifiutò: passare un lungo pomeriggio alla mercé di Anna Laura non corrispondeva esattamente alla sua idea di riposo.
Inoltre, trascorrendo qualche ora nella merceria, avrebbe avuto anche l’occasione di distrarsi, evitando di ripensare a quanto successo con Navarra la sera prima.
Il solo accenno le faceva venire il voltastomaco.
Pregò che Marcello non passasse a vederla proprio quel pomeriggio, perché, anche se le avrebbe fatto indubbiamente bene passare del tempo con lui, non voleva che la vedesse in quello stato pietoso.
Perfino Alessio e Valentina le chiesero, preoccupati, se stesse bene, intenerendola non poco. Li rassicurò, cercando di nascondere quanto fosse effettivamente scossa, invitandoli a proseguire nella decorazione della vetrina con l’ovatta e i fiocchetti di raso rossi e verdi. 
Scrollando la testa, come a far uscire di prepotenza quei brutti ricordi, così tristemente recenti, la fanciulla cominciò a lavorare, adoperandosi per sistemare tutte le tavole delle stoffe che vi erano state poggiate, così da fare un po’ di ordine sul bancone, dopodiché rimpinguò le scatole dei bottoni, sistemando con cura quelle nuove, arrivate quella mattina. 

«Cara, metti in evidenza la scatola con le novità, in particolare quella con i bottoni dorati,» la istruì gentilmente la sarta, «ne venderemo molti, sotto Natale. Ah, a proposito di merce in arrivo, hai visto che è arrivato il cachemire che avevi ordinato?»
«
Il cachemire? L’è arrivato?»
«Sì, cara».
Che magnifica notizia! Finalmente, avevano consegnato il materiale che le sarebbe servito per confezionare un’elegante sciarpa da uomo, ovvero il regalo di Natale per Marcello.
Rianimata da quel pensiero, ringraziò la signora Sofia e si scusò per la sua sbadataggine, correndo subito a vedere se il colore era uguale a quello della fotografia del catalogo.
Con mano tremante, aprì lo scatolone di cartone, scorgendo una busta di plastica, contenente una ventina di gomitoli di lana grigia mélange. Fu così che ritrovò davvero un po’ di buon umore, convenendo che il colore era anche meglio del previsto.
A quel punto, l’unico problema rimaneva come fare a vederlo e a visitare la Cappella Sistina con lui, senza che a casa ne sapessero niente: ci stava pensando dal pomeriggio precedente, ma lo shock che aveva provato la sera prima, nel venir molestata e volgarmente palpeggiata da quello schifoso di Navarra, l’aveva talmente stordita da farle quasi dimenticare l’urgenza di trovare una soluzione al problema.
«
Oh, che bella! Deve essere anche molto morbida e calda».
«Sì, lo credo anch’io».
«Il tuo affascinante imprenditore gradirà sicuramente».
«Come fa a sapere che il regalo è per Marcello?»
«Intuito» rispose la donna, colpendosi ripetutamente il naso con l’indice. «Sai, l’espressione che avevi mentre sceglievi il tipo di lana sul catalogo, era così bella che mi hai fatto ricordare di quando io stessa ho confezionato il primo regalo di Natale per il mio Renato».
Beatrice sorrise, notando la partecipazione emotiva della signora Sofia al solo nominare il marito, rievocando aneddoti di gioventù.
Tornò a guardare la lana ed estrasse dalla confezione un gomitolo, passandoselo tra le mani, ma avendo l’accortezza di non rovinare la lana: era davvero molto morbido e caldo, l’unica cosa che doveva augurarsi è che il suo pensiero piacesse davvero al ragazzo.
«
Secondo me, verrà un regalo da principe!» disse Valentina, avvicinandosi a Beatrice. «A me hai fatto un vestito da principessa!» esclamò, volteggiando su se stessa e gonfiando la gonna dell’abitino di velluto.
«Marcello dovrà accettarlo per forza, l’hai fatto per lui!» intervenne Alessio, sollevando una nuvola di batuffoli di ovatta. 
«Lo spero» rispose la ragazza, mettendo via la busta. Ora doveva solo trovare i ferri adatti.
«Cara, anche io oggi non ho molta testa: non ti ho detto che dal teatro hanno mandato i primi abiti! Per ora si tratta solo di rammendi e piccoli accorgimenti, però ne avremo per diverse ore. Saranno anche costumi di scena, ma ne hanno davvero una pessima cura!» fece la sarta, indignata. «Purtroppo, nel fine settimana, dovremmo lavorare ben oltre l’orario di chiusura, almeno fino alle ventiquattro, per non parlare delle prossime due domeniche!»
«
Non è un problema, m’aveva già anticipato questa eventualità».
«Contando le ferie natalizie, non abbiamo moltissimi giorni a dicembre. Per evitare che tutto si accumuli a gennaio, dobbiamo organizzarci» spiegò la signora Sofia, contando i giorni sul calendario con l’aiuto di una matita.
«Sì, son d’accordo» concordò Beatrice.
Il fatto che avrebbe lavorato fino a tardi un po’ la preoccupò, poiché avrebbe significato ancora meno tempo per studiare; tuttavia, non poté negare che le faceva piacere essere costretta a passare dentro casa il minimo tempo necessario e sotto questo punto di vista, la sua vita era nettamente migliorata. Peccato che non avesse ancora trovato un modo per riuscire ad uscire con Marcello, senza che tutta la sua famiglia ne venisse al corrente...
Tutto ad un tratto, la ragazza realizzò che la soluzione era proprio sotto al suo naso.
«Signora, potrei chiederle un favore?»
«
Dimmi, cara» le rispose la sarta, lasciando la conta dei giorni di lavoro che sarebbero toccati loro.
«
Potrei avere libera la serata del ventuno? La prego, farò qualsiasi cosa; se vuole, posso anche venire a far la mi’ parte di lavoro dalle cinque della mattina».
«
Hai un appuntamento con quel bel giovane?»
«Sì...» rispose Beatrice, affatto sorpresa che la donna avesse indovinato al primo colpo. Piuttosto, era incerta se raccontare alla signora Sofia tutta la verità, dato che Guido sarebbe senz’altro venuto a chiedere spiegazioni, quando avrebbe saputo che alla sorella era stato prolungato l’orario di lavoro. Ovviamente, non perché si preoccupasse per lei, temendo che si stancasse, ma perché così non sarebbe più potuto rincasare alle quattro di mattina, dovendo venirla a riprendere al negozio a mezzanotte. Sapeva che la sua datrice di lavoro non l’avrebbe tradita, ma era sempre meglio andare sul sicuro.
«La mi’ zia non vuole che lo veda, quindi abbiamo pochissime occasioni per farlo» spiegò lentamente, cercando di delineare la questione il più semplicemente possibile.
«Non vuole che frequenti quel ragazzo così compito?» domandò la signora, sbalordita.
«No, e nemmeno il mi’ fratello, se è per questo» precisò la fanciulla, «ma l’è una lunga storia».
«Tuo fratello ha proprio un bel coraggio! Tra i due, perdonami,
ad avere unaria poco raccomandabile è lui, non Marcello» commentò la donna, forse ricordando l’unica volta che aveva avuto modo di parlare con Guido, quando la sorella aveva cominciato a lavorare e lui laveva voluta incontrare per accertarsi che avrebbe percepito uno stipendio. Certamente, non doveva averle fatto una buona impressione.
Beatrice si limitò a sospirare.
«
Va bene. Non c’è bisogno che tu venga a lavorare dalle cinque di mattina, sarà sufficiente che cominci alle tre, per staccare alle sette. Io arriverò verso le sei e mezza... Ti lascerò le chiavi per aprire il negozio».
La fanciulla le sorrise, riconoscente: non solo la sarta la stava aiutando, ma le stava anche dimostrando una grandissima fiducia, lasciandole in mano la sua merceria.
«La ringrazio, signora
».
«E di che, te lo sei meritato. Finora hai svolto un lavoro eccellente e, anche se non è molto che lavori per me, ho imparato a conoscerti. Mi sembri una ragazza responsabile e credo di poter dire lo stesso di quel giovanotto» le rispose la donna, con tono materno.
Decisamente rinfrancata, la fanciulla ora aveva bene in mente quello che avrebbe dovuto fare e, per prima cosa, chiamò i due bambini.
«Valentina, Alessio, mi fareste il solito favore?»
«Dobbiamo portare un altro biglietto a Marcello?» chiese la ragazzina.
«Sì, piccini».
«Lo consegneremo in un baleno!» esclamò il fratello.
«Un attimo che lo scrivo» disse loro la ragazza, dirigendosi verso il bancone.
Recuperò velocemente una penna e un foglio e scrisse questo messaggio per il biondo:
Carissimo Marcello,
ho trovato il modo per venire a visitare la Sistina, senza destare sospetti: la signora Sofia ha bisogno di me oltre l’orario di chiusura, anche nei giorni festivi, per svolgere alcuni lavori di sartoria. Dirò a Guido che, fino alle ferie natalizie, dovrà venirmi a prendere poco dopo la mezzanotte. Che ne pensi? Credi che potremmo tornare al negozio per quell’ora?
Aspetto tue notizie,
Beatrice
”.
Appena ebbe finito, lo piegò, e lo consegnò ai due bambini e li accompagnò in strada, stringendosi le proprie braccia contro e guardandoli, fiduciosa, mentre correvano via.

Quando il campanello del portone suonò, Marcello alzò sorpreso la testa dalla copia del contratto che avrebbero dovuto firmare durante limminente trasferta a Monaco di Baviera, scambiando un’occhiata interrogativa con Gerardo, a sua volta abbastanza meravigliato.
«
Aspetti qualcuno?» gli domandò il biondo, aggrottando la fronte.
«Io? No, credevo fosse per te. Non abbiamo appuntamenti per oggi ed il postino è già passato» gli rispose l’altro, alzandosi dalla propria postazione.
«Sarà Carter che si è inventato qualcosa per farci arrestare» scherzò Marcello, sfruttando l’attimo di pausa per stropicciarsi gli occhi affaticati.
«Che fine orribile che faremmo, se fosse così!» esclamò l’amico, uscendo in corridoio per andare ad aprire la porta. «Vado a vedere, sperando che non siano visite sgradevoli».
Il ragazzo scosse la testa, augurandosi davvero che non fosse nessuno che avesse a che fare, anche alla lontana, con Lord Edward Carter; inolte, erano settimane che si arrovellava inutilmente il cervello sperando di svelare il mistero dell’offerta.
Eppure, nonostante i suoi numerosi sforzi, Marcello ancora non era riuscito a farsi una precisa idea di come avesse fatto l’industriale a gabbarli così facilmente.
«Ciao Marcello!» lo salutarono, in coro, due voci di bambini.
Riconoscendole all’istante, il giovane girò di scatto la testa e si ritrovò, a poca distanza, due ragazzini che lo guardavano sorridenti.
«Valentina, Alessio! Come avete fatto ad entrare nel palazzo?» domandò loro, stupito.
«Il portone era aperto e abbiamo chiesto ad una signora che scendeva le scale, se poteva dirci dove eri» spiegò la bambina, dando prova di essere molto sveglia. «Avevamo fretta di vederti!»
«Allora è vero che li conosci» commentò Gerardo, lanciando un’occhiata indagatrice al suo amico.
«Sì, sono loro che mi hanno aiutato a parlare con Beatrice» gli rivelò, allora, Marcello, con un piccolo sorriso.
L’amico assunse un’espressione colpita, poi tornò ad osservare i piccoli ospiti, i quali erano rimasti fermi ed infagottati nei loro cappotti.
«Stamattina mi avevi accennato ad alcuni piccoli amici e ammetto che non avevo capito, ma ora mi è tutto decisamente più chiaro».
Marcello annuì e passò velocemente alle presentazioni, dopodiché propose: «
Bambini, che ne dite di spostarci di là, in salotto? Staremo più comodi».
«Sì, chiedo a Marilena di portarci qualche bignè alla panna, che ne pensi?» suggerì Gerardo, incontrando subito l’approvazione dei due fratelli.
«Ottima idea. Alessio, Valentina, venite con me» disse il biondo, rivolto ai due bambini, conducendoli in salotto: era una stanza rettangolare con due divani di pelle avorio, disposti uno di fronte all’altro, e un lungo tavolino di vetro in mezzo. Le pareti erano coperte da due librerie massicce, contenenti alcuni faldoni rilegati, mentre le pesanti tende erano calate, coprendo una probabile finestra; nei due angoli della parete esterna, c’erano delle piante di mangiafumo, non perché i ragazzi fumassero o permettessero ai loro clienti di farlo, ma, semplicemente, perchè rendevano latmosfera più accogliente e necessitavano di pochissima cura.
Nel complesso, il salotto era una stanza indubbiamente più accogliente dell’ufficio vero e proprio.
Marcello, dopo aver preso i loro cappotti ed averli sistemati sull’appendiabiti, sollevò, a turno, Alessio e Valentina, aiutandoli a prendere comodamente posto sul divano, troppo alto per loro; quindi, si sedette su quello di fronte e chiese: «Come mai avevate fretta di vedermi?»
«Abbiamo un altro biglietto di Beatrice per te!» esclamò la ragazzina, estraendo il foglietto ripiegato dalla tasca del maglioncino.
«
Oh, vi ringrazio. Siete stati attenti nel venire qui, vero?» domandò il giovane, avvicinandosi a loro per prenderlo.
«
Ovvio! Mi guardo sempre indietro, gli uomini in nero3 non riusciranno a prenderci facilmente!» rispose Alessio, pavoneggiandosi.
«Ah, be’» fece Marcello, riaccomodandosi, mentre guardava il biglietto, cercando di indovinare cosa c’era scritto. Beatrice doveva avere qualcosa di urgente da comunicargli, poiché, se da una parte aveva trovato un canale di comunicazione diretto con lui, al sicuro da qualsiasi intercettazione non gradita - come sarebbe potuta esserci, per esempio, da parte dei parenti di lei - dall’altra, si stava dimostrando molto parsimoniosa nell’usarlo, sicuramente per non togliere troppo tempo al gioco dei bambini e per non esporli a troppi rischi.
«Che fai, non lo leggi?
» domandò Valentina, sporgendosi un po’ dal divano ed osservandolo con curiosità.
Il ragazzo voltò la testa verso di loro e li fissò entrambi, ricordandosi di non essere solo.
«Se devi rispondere a Beatrice, lo portiamo noi il tuo biglietto. Stai tranquillo, non sbirciamo!»
Stava appunto per rispondere che era ciò che stava per fare, quando Gerardo apparve con un vassoio pieno di bignè alla panna ed una caraffa di cioccolata fumante.
«La merenda per i nostri piccoli ospiti» annunciò, poggiando il tutto sul tavolino di vetro. «Marcello, dove abbiamo le tazze ed i tovaglioli?»
«Nell’armadio del ripostiglio, la donna delle pulizie sistema tutto là dentro» rispose distrattamente l’altro, aprendo il foglio. Riconobbe immediatamente la grafia della ragazza e lesse attentamente il messaggio che gli aveva mandato: a quanto pareva, aveva trovato un modo efficiente per poter visitare insieme la Cappella Sistina.
Di certo, non si poteva dire che quella giovane fosse priva di intuito e logica.
«Bambini, in effetti anche io avrei un messaggio per Beatrice... Potreste consegnarle la mia risposta? Siccome si è fatto buio, vi accompagneremo fino ad un certo punto, però poi entrerete nel negozio da soli, va bene?» disse il biondo, pensando che, a quell’ora, Guido sarebbe stato certamente nei paraggi.
«
Va bene!» esclamarono in coro i due fratelli.
«
Perfetto» assentì Marcello e, approfittando del fatto che il suo amico aveva trovato le tazze e si era messo a servire Alessio e Valentina, si diresse nuovamente nello studio, così da recuperare un foglio, prese la penna dal taschino e compose velocemente una risposta da far recapitare alla fanciulla:
“Cara Beatrice,
penso che possa andare bene. La visita alla Cappella è alle 19,30: per mezzanotte, dovremmo essere di ritorno.
Spero tu stia bene,
Marcello
P.S. In questi giorni devo andare fuori Roma per impegni di lavoro, non credo di riuscire a vederti prima di domenica 21. Passerò a prenderti io, verso le 18,30”.
Rilesse attentamente il messaggio e, reputandolo più che soddisfacente, lo piegò in quattro. Quindi, tornò nel salotto, dove i bambini stavano facendo amicizia con Gerardo.
«
Anche tu hai una principessa, come Marcello?» domandò la ragazzina, curiosa.
Il ragazzo parve sorpreso per la domanda, fatta così a bruciapelo: «Ehm, ancora no».
«Sì che ce l’ha, solo che è troppo timido per dirle che le vuole bene» rivelò il biondo, mentre si avvicinava a loro. L’altro arrossì lievemente.
«I principi devono essere coraggiosi!» notò la bambina, scandalizzata.
«Sì! Devono prendere le loro armi e combattere contro i banditi!» le fece eco Alessio.
«Io sono un principe ranocchio» commentò Gerardo, malinconico. «Sono un po’ rammollito».
«E allora devi chiedere alla tua principessa di darti un bacio!» commentò Valentina, battendo le mani. «Solo così potrai diventare un vero principe».
Il ragazzo, se prima era leggermente avvampato, ora stava andando a fuoco. Evidentemente, doveva essere fuori dalla sua portata d’immaginazione figurarsi Vittoria che lo sbaciucchiava a dovere.
«Prima, però, devi occuparti dei furfanti» notò il ragazzino.
«Oppure dei carciofoni. Questi bambini sono più saggi di te» commentò Marcello, approvando il ragionamento di quelle due simpatiche pesti.
«Oh... non ti ci mettere anche tu!» sbuffò Gerardo, che non sapeva più come nascondere il suo rossore.
Nel vedere il suo impacciatissimo amico che veniva smascherato da due bambini delle elementari, il ragazzo rise di cuore.
«Valentina, Alessio, noi andiamo un attimo di là a prendere delle cose da portare a casa. Voi finite di mangiare con calma, così poi vi riaccompagniamo noi, intesi?» fece poi, all’indirizzo degli ospiti.
«Fa feve» rispose per entrambi Alessio, con la bocca piena.
I giovani si recarono nel loro studio per raccogliere i plichi che avrebbero dovuto portarsi dietro e spegnere le luci, così da cominciare ad organizzarsi per la chiusura serale.
In realtà, quell’oggi stavano uscendo dallo studio un po’ prima, ma la cosa non era particolarmente grave, dato che, la settimana successiva, avrebbero dovuto portare avanti un’estenuante trattativa: tanto valeva risparmiare le energie, per quanto possibile.
Marcello stava proprio pensando a questo, quando un’esclamazione di allerta di Gerardo richiamò la sua attenzione: 
«Oh, no, c’era della carta copiativa sotto a questi documenti... Ho imbrattato anche i fogli puliti!»
Il ragazzo si avvicinò all’amico, verificando come stava realmente la situazione; per fortuna, però, non erano stati rovinati fogli di grandissima importanza, né, tantomeno, contratti firmati da terzi.
«Può capitare, non è nulla di grave» lo blandì Marcello, sicuro che l’amico si sarebbe mortificato oltre il dovuto, per quella disattenzione che sarebbe potuta capitare a chiunque; infatti, lui chinò subito la testa, in evidente difficoltà.
Il biondo stava per aggiungere qualcosa, con tutta l’intenzione di risollevare il morale all’amico, quando ebbe un’improvvisa illuminazione. 
«Gerardo, sei un genio!
» esclamò, al limite dell’euforia, riflettendo sul fatto che è proprio nei momenti in cui si pensa a tutt’altro, che vengono in mente le soluzioni più brillanti ai problemi più macchinosi.
«Perché?» domandò il giovane, sorpreso.
«
Mi hai appena suggerito come ha fatto Carter a sapere quanto avessimo offerto: la soluzione è la carta copiativa! Sapevo che la spiegazione sarebbe stata tremendamente stupida!»
Gerardo lo guardò, non poco perplesso: «Marcello, ti dispiacerebbe spiegare anche a me?»
«Miller deve aver messo della carta copiativa sotto la cartellina,» cominciò a spiegare il ragazzo, «così, quando ci hai scritto sopra l’offerta, hai permesso che si trascrivesse su un foglio sottostante. Poco importava che il foglio originale fosse stato già sigillato in una busta... Loro potevano sapere esattamente l’importo scritto, semplicemente rimuovendo il cartone del fondo!»
A quella rivelazione, l’altro lo guardò sgomento.
«
Questo vuol dire che sono stati loro stessi ad informare i responsabili della Stigliano!»
«Esattamente. E quelli hanno offerto quella cifra ridicola, solo per farci capire che sapevano tutto».
«Ora, però, mi piacerebbe sapere chi c’è dietro questa Stigliano. Molto probabilmente qualcuno che conosciamo» avanzò Gerardo, forse avendo già una vaga idea di chi poteva trattarsi.
«Lo credo anche io» concordò Marcello, pensando che, purtroppo, la loro formidabile scalata aveva dato fastidio a molti concorrenti che contavano sul monopolio del settore.
Ormai, il cerchio stava per chiudersi e, quando sarebbe successo, il giovane aveva il vago presentimento che il risultato non lo avrebbe lasciato affatto stupito.








***
Per la revisione, ringrazio Lady Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la (nuova) grafica del titolo è opera mia.
Ringrazio la mia Anto per aver letto e dato un parere in corso d’opera.
***

[N.d.A]
1. (La) Signorina Else: è una novella di Arthur Schnitzler, scritta nel 1924. Parla di una giovane diciannovenne che, per salvare la sua famiglia dalla bancarotta e dallo scandalo, si impegna a compiacere un ricco amico di famiglia senza morale. L’epilogo della vicenda è molto triste (Else si suicida ingerendo il valium [una benzodiazepina], piuttosto che assecondare totalmente il signor von Dorsday). Ammetto di non aver mai letto l’opera, ma ho assistito ad uno spettacolo teatrale che ne è stato tratto, apprezzando, oltre alle tematiche, anche l’uso che Schnitzler fa del monologo interiore.
2. dulzura: dolcezza, in senso vezzeggiativo, in spagnolo.
3. gli uomini in nero: Alessio nomina spesso gli uomini in nero, indicando (in maniera inconscia, essendo un bambino) malfattori senza una definizione precisa. Ricordo che, negli Anni ’80, era ancora vivo, nella popolazione della Capitale, il ricordo delle malefatte della già citata Banda della Magliana. Inoltre, in quegli anni, molti giovani sono scomparsi in circostanze misteriose. Basta citare, una per tutti, la sparizione di Emanuela Orlandi, avvenuta nel 1983. Quindi, non c’è da meravigliarsi che i bambini rielaborassero, a proprio modo, le informazioni di cronaca apprese qua e là.

***
Ed eccoci qui, sempre sugli stessi schermi, ma con una grafica un po rinnovata. Che ne dite, è meglio?
Per ora il glicine non ha un ruolo specifico nella storia, ma tutto vi sarà più chiaro più avanti.
Tornando a noi, come avete avuto modo di leggere, questo è stato un capitolo abbastanza movimentato, ma, d’altra parte, essendo l’ultimo per quest’anno, bisognava fare un po’ di fuochi d’artificio in stile Capodanno, o no? Tuttavia, le parti migliori (o peggiori, dipende dal punto di vista) devono ancora venire, me le riservo per l’anno nuovo.
A tal proposito, vi dico che il prossimo aggiornamento è previsto per il 5 Gennaio, pertanto vi auguro di passare buon Natale e buone feste in generale.
Ringrazio dal più profondo del cuore chi legge, anche silenziosamente, chi mi dedica una parte del suo tempo commentando, chi ha messo la storia in uno dei suoi elenchi, chi vorrà unirsi ai commentatori e deciderà di lasciarmi una recensione sotto l’albero.
Anche se questa è una storia semplice, spero di essere riuscita a trasmettere tutta la cura e l
attenzione che sto mettendo nello scriverla.
Come sempre, vi lascio il link al mio blog e alla pagina facebook: troverete su entrambi, nei prossimi giorni, una piccola anticipazione del capitolo ottavo.
Ancora tanti auguri!
Halley S. C.

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Capitolo 8
*** Capitolo Ottavo - Vento di Dubbi ***


Vento dell'Ovest - Capitolo 8



- Capitolo Ottavo -
Vento di Dubbi




V
ittoria batteva in terra i piedi per il freddo, scrutando accigliata il treno notte che aveva di fronte e borbottando qualcosa tra sé e sé.
«Non capisco cos’hai da lamentarti tanto, nemmeno dovessi partire tu al posto nostro» commentò Marcello, spazientito da quel continuo brontolio, lanciando una rapida occhiata verso la zona commerciale, in attesa di riuscire a scorgere il suo amico che tornava. A quell’ora di sera, la Stazione di Roma Termini era quasi vuota, non sarebbe stato difficile individuarlo, anche a grande distanza.
«E tu spiegami ancora una volta perché avete deciso di intraprendere questo viaggio della speranza a Monaco
» ribatté lei, guardandolo bieca ed incrociando le braccia contro al petto.
«
Lo sai che Gerardo ha paura dell’aereo» le rispose il ragazzo, spiccio, sfregandosi le braccia con le mani per scaldarsi un po’.
«Che assurdità! Avreste fatto prima e meglio, così domattina sarete in condizioni pietose. Mi chiedo come farete ad affrontare Herr Berger ed Herr Müller» continuò la giovane, gesticolando con fare irritato.
«L’incontro sarà solo dopodomani» precisò Marcello, mantenendo invece un tono calmo, «abbiamo tempo. Considerando che la prima fermata è a Vienna, verso l’ora di pranzo dovremmo essere a Monaco».
Vittoria fece una smorfia dubbiosa, come se tutto quello che aveva sentito non la convincesse nemmeno un po’.
«Comunque, dopo aver affrontato Edward Carter, fare affari con Ludwig Berger sarà una passeggiata» concluse il ragazzo, abbastanza sicuro di ciò che stava dicendo. D’altra parte, bisognava riconoscere che sarebbe stato davvero difficile trovare un altro individuo dotato della sottile malvagità di quel britannico.
La ragazza lo guardò per un secondo, poi sospirò rumorosamente.

«
L’unica nota positiva è che non dovreste avere particolari problemi alla dogana».
«Sicuramente. Se avessimo intrapreso la trattativa con Herr Kohl di Lipsia, ci sarebbero stati dei problemi per ottenere il visto per la Germania dell’Est» confermò il biondo, scorgendo in quel mentre Gerardo che si avvicinava.
«Sembra che la neve non darà problemi. A quanto mi hanno riferito i macchinisti, pare che il passaggio del Tarvisio sia libero» esordì, trionfante. «Il treno partirà!»
«Questa è un’ottima notizia» affermò Marcello, mentre Vittoria sbuffava più forte.
«Nient’affatto! Piuttosto, sarebbe stata un’ottima scusa per prendere l’aereo».
«Veramente, se c
è una bufera di neve non fanno partire nemmeno i voli di linea» la corresse Gerardo.
La ragazza scosse la testa ma, alla fine, dovette arrendersi all’evidenza che i suoi amici sarebbero andati in Germania con il treno.
I due giovani, quindi si adoperarono per portare le proprie valigie nel vagone letto che avevano prenotato; nel giro di poco, però, erano già di nuovo sulla banchina, pronti per salutare Vittoria prima della partenza.
«Ricordatevi di portarmi un bel regalo! Sarei venuta con voi molto volentieri, ma ho i dettagli della mostra da definire».
«Quattro giorni di pausa non ti avrebbero fatto male» le fece notare Gerardo. «Magari ti sarebbero serviti per rilassarti un po’».
Vittoria gli si avvicinò e gli aggiustò per bene la sciarpa ed i capelli, che si erano spettinati nel continuo salire e scendere dal treno.
«
Sentirai la mia mancanza, Gerardo?»
«S-Sì, ce... certo» balbettò lui, evidentemente a disagio. Il biondo alzò gli occhi al cielo, ormai saturo di quelle continue scenette, domandandosi per la milionesima volta perché il suo amico non si sbrigava a dire alla ragazza tutto quello che provava per lei, così da risolvere tutte le questioni aperte nel migliore dei modi: il carciofone sarebbe stato liquidato per sempre e Gerardo e Vittoria sarebbero stati finalmente felici.
«Anche tu sentirai la mia mancanza, vero, Marcellino?» gli chiese la giovane, volgendo lo sguardo verso di lui, ma senza staccare la presa che aveva sui vestiti di Gerardo, il quale doveva avere una tachicardia con i fiocchi.
«Come no? La sento già» fece il ragazzo, ironico.
«Come sei acidulo!» lo redarguì in maniera scherzosa, facendogli la linguaccia. In quel mentre, il capotreno passò accanto a loro, avvisandoli: «I passeggeri sono invitati a salire sul treno, stiamo per partire».
«Oh. È arrivato davvero il momento di salutarci» mormorò la ragazza, abbandonando le risate e diventando di colpo triste.
«Come farò senza di voi?
»
«
Torneremo prima che tu te ne accorga» commentò Marcello.
«G-Già» gli fece eco l’altro con un filo di voce.
Le persone che erano lì accanto cominciarono a salutarsi, anche loro pronti a prendere posto nei vari vagoni. In particolar modo una coppietta, che stava dando grande spettacolo di effusioni amorose, come se il giovane stesse per partire per il fronte.
Nella sua rigidità, il biondo stava per commentare negativamente, quando Vittoria, dopo aver notato Gerardo che osservava imbarazzato la scena, gli chiese:
«Stai prendendo lispirazione per salutarmi? Sono sicura che tu potresti essere molto più elegante».
Il ragazzo si colorì all’istante delle più svariate sfumature del rosso, per poi balbettare qualcosa di sconnesso e scappare di corsa sul vagone, lasciando l’amica non poco sbigottita.
«Ma cosa mai avrò detto per farlo reagire così?
» domandò incredula, sbattendo le palpebre.
Marcello inarcò un sopracciglio, facendo una smorfia di disappunto. Erano entrambi così tonti che non meritavano il suo aiuto ed era davvero propenso a lasciarla cuocere nel suo brodo, quando decise che fosse meglio lasciarle una specie di compito da portare avanti nel corso della loro assenza: chissà, magari al loro rientro la situazione si sarebbe sbloccata.

«Vittoria?
»
«Sì?» rispose lei, pensierosa.
«Nei prossimi giorni rifletti bene».
«Su cosa?
»
«Sull’eventualità di lasciare Bartolomeo prima della mostra. Sai, quando ti diverti a stuzzicare il povero Gerardo...» spiegò il ragazzo, con una voluta reticenza, «la tua espressione dice come stanno veramente le cose».
In quel momento il capotreno fischiò, Marcello salì rapidamente sul treno e le porte si richiusero dietro di lui. Allora si voltò verso la banchina e, attraverso il vetro, fu certo di riconoscere una Vittoria dalle guance scarlatte che lo guardava attonita, poco prima che lei e la stazione cominciassero a scivolare via dalla sua visuale.
***

Approfittando dell’assenza di zia e cugina, Beatrice si sistemò sul divano tarlato del soggiorno, aprendo lo schema esecutivo della sciarpa che avrebbe voluto confezionare per Marcello e adagiandolo davanti a lei. Liberò con cautela un gomitolo dalla propria fascetta e, dopo aver cercato il capo del filo, lo assicurò ai ferri.
Una volta tanto, avrebbe tanto voluto concedersi un pomeriggio di relax, da dedicare a qualcosa che la faceva stare bene e che le impegnava piacevolmente la mente.
Per un bel po’ si udì solo il ticchettio dei ferri da lana che sbatacchiavano tra di loro mentre il filo veniva intrecciato e la fanciulla si perse completamente a seguire quel ritmo sempre uguale a se stesso; quando fu troppo buio, segno che la sera era giunta, si interruppe un attimo per accendere la luce e per ammirare il lavoro che aveva fatto fino a quel momento: stava venendo davvero bene, a Marcello sarebbe piaciuta sicuramente.
Un rumore improvviso dal tinello, però, la fece sobbalzare e la mise in allarme, giacché se si fosse trattato di Anna Laura che era rientrata in anticipo, sarebbe stato un bel guaio se avesse visto a cosa stava lavorando: conoscendo la maligna curiosità della cugina, non se la sarebbe cavata con poco.
Quando, invece, fu Guido a fare capolino oltre la porta, la fanciulla tirò un enorme sospiro di sollievo.
«Ah, sei solo tu».
«
Solo io?» ripeté lui, offeso. Entrò nel salotto e si buttò a peso morto sul divano, sedendosi accanto alla sorella. «Che stai facendo, Cicci? È per me quella sciarpa?»
«Affatto» rispose la ragazza, riprendendo a lavorare.
«Per il Navarra?» tentò nuovamente il giovane.
«L’unica cosa che vorrei vedere intorno al su’ collo è un cappio
» sibilò Beatrice, senza pensarci. Subito dopo si rese conto di essere stata abbastanza sanguinolenta, ma non riuscì a sentirsi in colpa più di tanto, almeno non dopo quello che le aveva fatto quel depravato.
Guido si accigliò, grattandosi la nuca.
«E allora per chi è?»
«Una commissione che mi verrà ben pagata» spiegò la ragazza con grande naturalezza, sorprendendosi da sola per l’abilità che aveva sviluppato nel mentire. Be’, come si dice in questi casi, di necessità, virtù.
«Te l’hanno affidata alla merceria? Meno male che, dopo aver sposato Navarra, potrai smettere di lavorare».
La fanciulla posò i ferri in grembo e gettò un’occhiata di fuoco al fratello.
«Io non lo sposerò mai, chiaro?»
Il giovane scosse nervosamente la testa, giocherellando con un pezzo dell’imbottitura del divano, fuoriuscita da un buco nei cuscini.
«Non sai quello che dici. Mi lasceresti davvero in mezzo ai guai?»
«Te li sei meritati! Quale medico ti ha prescritto di giocarti tutto cche rimaneva del patrimonio?»
Guido si alzò in piedi con uno scatto, mettendosi le mani nei capelli corvini e cominciando a fare su e giù per la stanza.
«Oh, tra l’altro nemmeno saccontenta solo di sposare te... Saremo costretti a dargli anche la villa all’Isola d’Elba!» piagnucolò, perdendo ogni briciolo di dignità.
A quella rivelazione, il cuore di Beatrice perse un battito.
«La casa della mamma?» sussurrò, sgomenta.
«Ecco, vedi, Bea... Ho promesso a Navarra che, dopo che diventerai la su moglie, potrà disporre di quella proprietà come megl...» cominciò a difendersi Guido, ma Beatrice non gli diede il tempo di finire.
«Tu sei pazzo!» gli gridò contro, mettendo da parte la sciarpa e alzandosi in piedi. «Non permetterò mai, e dico mai, che Navarra metta le su zampacce sulla casa della mamma!» continuò, puntando minacciosamente un dito contro il fratello.
Come osava quell’idiota distribuire l’ultimo ricordo che avevano dei bei momenti passati come famiglia, quando ancora facevano entrambi parte di una vera famiglia?

«
Ma, Beatrice, lè un rudere che porta più magagne che vantaggi, pensaci bene» si difese debolmente il ragazzo, guardandola piuttosto spaurito.
La fanciulla lo guardò e, all’improvviso, tutta la collera che provava nei suoi confronti scemò: suo fratello non era mai stato in grado di fare niente di buono e, probabilmente, sarebbe rimasto così per tutto il resto della sua vita.
«Io davvero non so come fai ad esser così insensibile e privo di logica».
Prese con sé la lana ed i ferri e corse fuori, in giardino, sedendosi sugli scalini sotto al vecchio glicine. In inverno sembrava un ammasso rachitico di rami, ma, in primavera, tornava a fiorire florido e splendido, ravvivando il giardino con il colore dei suoi fiori. Le piaceva quella pianta, le ricordava quella che avevano proprio a Villa Paolina, la casa dell’Isola d’Elba che sua madre le aveva lasciato, la stessa casa che suo fratello voleva svendere a quell’animale di Navarra.
Perché Guido era arrivato a tanto? Perché voleva insudiciare il luogo dei ricordi della loro infanzia? La casa di Firenze era stata la prima ad essere venduta e dopo di essa erano andate via, una ad una, tutte le altre proprietà. Perfino i mobili erano stati venduti all’asta per pochi soldi, perdendo miseramente tutto il loro grande valore affettivo.
Beatrice chiuse le braccia intorno alle gambe e poggiò il mento sulle ginocchia: ormai non aveva più lacrime per piangere la felicità perduta.
Dopo un po
, però, si mise in una posizione più comoda e riprese la sciarpa lasciata a metà; forse, faceva ancora in tempo a costruirsi una propria felicità, una che né Guido, né tantomeno Navarra avrebbero potuto distruggere. E pensò a Marcello e a tutti i bei sentimenti che riusciva ad ispirarle, così da poter allontanare la grande tristezza che sentiva dentro di sé e, quindi, riprendere a lavorare alla luce dei lampioni.
***

Essendo ormai prossimo il Natale, Marcello e Gerardo non si meravigliarono di trovare il Weihnachtsmarkt1 allestito di tutto punto, proprio
sotto l’orologio astronomico di Marienplatz: anche a Monaco, infatti, si respirava già una bella aria natalizia che mise i due ragazzi di buonumore. Per giunta, seppur durante la notte la neve fosse caduta in grossi fiocchi, quella mattina era uscito un pallido sole a cercare di riscaldare la fredda atmosfera.
Si erano svegliati entrambi molto presto, ancora provati dalla nottata trascorsa in treno, così, avendo ancora diverso tempo prima dell’incontro con Berger e
Müller, avevano deciso di andare a fare colazione in uno dei caffè della famosa piazza monacense, trovandovi dell’ottimo tè e una succulenta torta bavarese al cioccolato.
Quando il grande orologio batté le dieci, però, decisero di prendere un taxi, per recarsi nella lussuosa
Maximilianstraße, dove si trovava l’ufficio dei due imprenditori tedeschi; avrebbero tanto voluto vedere lo spettacolo del carillon della torre, ma, poiché il meccanismo si attivava solo alle dodici e alle diciassette, si ripromisero di tornare nel pomeriggio.
In compenso, durante il percorso in auto, poterono ammirare le particolarità dell’architettura nordica dei palazzi che fiancheggiavano le strade del centro, dal forte taglio mitteleuropeo, e Marcello si ritrovò inconsciamente a pensare che Beatrice avrebbe saputo certamente spiegargli quali erano le caratteristiche salienti di quelle costruzioni.
Il tassista, probabilmente conoscendo molto bene il posto, lasciò i due giovani proprio davanti al numero trentacinque di 
Maximilianstraße, che corrispondeva ad un alto edificio con un bel portico e tantissime finestre. Rintracciarono subito la targa d’ottone che indicava che Berger e Müller lavoravano proprio lì e, dopo aver suonato, oltrepassarono il grande portone nero, pronti ad incontrare i due pezzi grossi dell’industria automobilistica tedesca.
La prima cosa che notò Marcello, dopo che la biondissima segretaria li ebbe fatti accomodare in un ordinato salotto, fu che quell’ufficio era profondamente diverso da quello suo e di Gerardo: il parquet chiaro, la prevalenza del bianco nel mobilio, le alte finestre che lasciavano passare molta luce e la varietà spropositata di piante grasse messe in bella mostra lo rendevano molto simile ad un’area d’esposizione, piuttosto che ad un locale ad uso lavorativo.
Si voltò allora verso il suo amico e notò che si guardava intorno, meravigliato, come se avesse notato le stesse cose.
Tuttavia, non ebbero modo di commentare, almeno non in quel frangente, poiché due uomini, proprio in quell
istante, fecero il loro ingresso nella stanza; fisicamente, erano diversissimi tra loro, tanto è vero che il biondo li paragonò inconsciamente a Bud Spencer e Terence Hill.
«Guten Morgen!
» li salutò affabilmente il tipo più alto e grosso, con capelli corti e scuri ed un’espressione simpatica. Per fortuna, per proseguire il suo discorso adottò l’inglese, giacché né Marcello, né Gerardo sapevano il tedesco. «Io sono Ludwig Berger, è un vero piacere conoscervi di persona, finalmente!»
Marcello gli porse la mano.
«
Il piacere è nostro, Herr Berger».
L’uomo gliela strinse con calore, il che sorprese non poco Marcello, che credeva che i tedeschi fossero tutti freddi ed inospitali. Mai pregiudizio si rivelò più falso.
L’imprenditore strinse la mano anche a Gerardo, quindi si voltò e presentò il suo socio, un uomo più giovane e più asciutto, dai folti capelli biondi e dalla barba rada.
«Lui, invece, è il mio socio, Matthäus Müller».
«Piacere, Herr Müller» dissero entrambi i giovani, stringendo la mano anche a lui, che ricambiò con energia.
I
ragazzi vennero, quindi, condotti in una grande stanza rettangolare con un lungo tavolo di legno nero e le pareti coperte da maestose librerie da design squadrato. Sull’unico muro libero, che era quello prospiciente la porta d’ingresso, erano appese delle foto in bianco e nero che ritraevano alcuni edifici di Monaco distrutti dai bombardamenti del 1945.
«
Quelle ferite non si sono ancora rimarginate del tutto» disse Berger, avendo probabilmente notato che Marcello era stato incuriosito da quelle gigantografie. «La nostra divisione interna è la ferita più grande».
Il biondo aveva sentito diverse versioni sulla faccenda e voleva scoprire come stessero sul serio le cose, avendo l’occasione di interloquire con una fonte coinvolta in prima persona. Tuttavia, cercò di mantenere una certa delicatezza nel porre le domande.
«Alla frontiera non lasciano passare proprio nessuno?»
«Ci vogliono permessi speciali e ottenerli è molto, molto difficile» spiegò l’industriale.
«La Deutsche Demokratische Republik2 è molto ferrea nei controlli» intervenne Müller. «Mio fratello abita a Berlino Est e non lo vedo da venticinque anni».
«Deve essere atroce...» commentò Gerardo, con tono sommesso.
Calò un breve e triste silenzio, interrotto subito dai due tedeschi che invitarono i due giovani a ad accomodarsi al tavolo: il biondo ebbe il vago sospetto che non volessero alcuna compassione e rispettò la loro fierezza.
Quando ognuno si fu sistemato, cominciarono a parlare dell’affare che avrebbero dovuto concludere. Marcello e Gerardo, infatti, erano intenzionati ad acquistare delle azioni dell’azienda di Berger e Müller e si erano recati sul posto proprio per definire i dettagli della compravendita ed, eventualmente, per firmare il contratto
.
La trattativa di per sé non fu particolarmente pesante; Marcello aveva avuto la sensazione che sia lui che il suo amico fossero risultati in qualche misura simpatici ai due imprenditori, cosa che non era accaduta, per esempio, quando avevano fatto la conoscenza di quei farabutti dei due petrolieri.

«
Fare affari con voi è stato molto, come si dice... ehrlich».
«
Onesto» spiegò l’altro, venendo in soccorso del suo collega.
«Ultimamente ce la siamo vista brutta con quel Carter. Voi lo conoscete?» chiese l’imprenditore tedesco.
«Purtroppo sì» ammise Gerardo
«
Herr Berger, quindi anche lei ed il suo socio siete stati contattati da Lord Carter?» si informò Marcello.
«Ja» rispose l’uomo nella sua lingua, per poi riprendere in inglese, «lui e un certo Miller volevano coinvolgerci in un affare da diversi milioni di marchi, decisamente poco chiaro. Non è vero, Matthäus?»
«Infatti. Abbiamo rifiutato quando abbiamo notato diverse incongruenze
in ciò che ci ha detto» rispose Müller, tamburellando le dita sul plico di fogli che aveva davanti.
A quella rivelazione, dopo aver sollevato entrambi le sopracciglia, Marcello e Gerardo si lanciarono un’occhiata di intesa.
«
Senza contare» proseguì l’uomo, «che voleva convincerci a cedergli delle azioni della nostra società, dicendo che non valgono molto, quando le statistiche lasciano presagire che, tra qualche anno, potrebbe esserci una forte accelerazione dei tassi di crescita3».
«Inoltre sappiamo che ha cercato anche di mettere mani sulle aziende che operano nel bacino della Ruhr che, come saprete, è il cuore della metallurgia europea» aggiunse Berger, adombrandosi repentinamente.
Marcello assottigliò lo sguardo: Lord Carter sembrava davvero avere le mani in pasta negli affari di mezza Europa e quindi c’era davvero da sospettare che facesse parte di qualche complotto economico internazionale.
«
Anche noi non abbiamo avuto una buona impressione di lui» ammise, avendo ormai capito di essere entrato con quei due uomini in un clima abbastanza confidenziale.
«Esatto» confermò Gerardo, dandogli manforte.
Müller scosse nervosamente la testa: «Lui e Miller sembrano tipi pericolosi».
Marcello richiuse la sua stilografica con uno scatto secco del tappo. Se anche altre persone avevano avuto la stessa impressione su quel magnate britannico e sul suo viscido assistente, molto probabilmente l’opinione che si erano fatti non era tanto sbagliata.


Quando uscirono dall’ufficio di Berger e Müller, si resero conto che si era fatta l’ora di pranzo e, ricordandosi di un locale tipico che avevano già notato la sera prima, si fermarono a prendere qualcosa nell’alberata Leopold
straße.
All’interno, la birreria era abbastanza cupa, un po’ per via delle finestre opache e strette, un po’ perché, nell’arredamento, prevaleva ovunque il legno; tuttavia, furono accolti dal saluto di due cameriere brune e altissime, delle quali l’una era intenta a spillare la birra in grandi boccali di vetro e l’altra si stava occupando di eliminare l’eccesso di schiuma in superficie con l’apposita spatola.
Sopraggiunse allora una terza ragazza dai capelli rossicci, la quale fece loro segno di seguirli e, districandosi abilmente tra tavoli e panche già occupati da altri commensali, li condusse al piano di sopra, dove li fece accomodare davanti ad una finestrella e consegnò loro il menù.
«Cosa ne pensi dei nostri nuovi clienti tedeschi?» chiese Gerardo, mentre sfogliava la carta, assorto.
«
Mi sembrano brave persone. Se hanno avuto il coraggio di dire no a Carter, devono essere davvero onesti» commentò Marcello, piacevolmente colpito dalla moralità dei due imprenditori.
«Sono d’accordo. A proposito, hai visto? Quel delinquente ha cercato di espandere il suo dominio anche qui!»
«La cosa non mi meraviglia affatto, abbiamo visto di cosa sono capaci lui e Miller» fece il giovane, tetro, mentre l’amico, ricordando il loro incontro con il magnate del petrolio, non riuscì a trattenere un brivido.
«Non voglio nemmeno pensare a cosa ci sarebbe successo, se fossimo entrati in collaborazione con lui
» commentò.
La cameriera che li aveva accolti giunse a prendere le ordinazioni, riservando un sorriso languido a Gerardo e un’occhiata sospettosa a Marcello, segnando accuratamente tutto e,
nel giro di poco, i giovani si ritrovarono davanti due enormi boccali di Löwenbräu, una delle birre tipiche di Monaco.
Anche i loro stomaci furono grati della celerità del servizio, infatti non passò nemmeno un quarto d’ora che la ragazza servì ciò che avevano ordinato, facendo
l’occhiolino a Gerardo che, però, non sembrò farci caso.
Tuttavia, fu difficile non notare, invece, la grande differenza nella quantità di cibo dei due piatti: quello destinato al moro traboccava letteralmente, mentre
l’altro aveva solo un pezzettino di Schweinshaxe e un misero cucchiaio di Kartoffelsalat4.
«
Due sono le alternative: o ti ha visto deperito» commentò il biondo, sbalordito, «oppure hai fatto colpo sulla cameriera».
«Ma no, che dici» balbettò l’altro, rosso fino alla punta delle orecchie, agitandosi nervosamente sulla sedia.
«Dico che, secondo me, piaci alle tedesche».
«Che sciocchezze vai dicendo... Io non piaccio a nessuna donna».
«Non sembrerebbe» insistette Marcello, afflitto, osservando la miseria che aveva davanti. «E poi, ti ho già detto che non devi gettarti fango addosso in questa maniera».
«Be’, lo sai che sei tu quello che le ragazze guardano sempre, non io» notò con semplicità l’amico. «Comunque, per me è troppo tutto questo, passami il piatto, così facciamo a metà».
Il ragazzo fece come gli aveva detto, ringraziandolo e l
amico gli rispose alzando le spalle, come a dire che non stava facendo niente di che.
«
A me basterebbe piacere solo ad una» sussurrò, diventando improvvisamente malinconico.
«
Se continui a girare intorno a Vittoria senza prendere una decisione, la perderai» rispose il biondo.
«L’unica cosa che non voglio perdere è la sua amicizia. E se lei non mi volesse? Preferisco continuare a starle vicino soffocando i sentimenti nei suoi confronti, piuttosto che rischiare di non vederla più».
«Ma non puoi continuare così!» esclamò il ragazzo, sconcertato dall’ottusa ostinazione dell’amico. «Soprattutto, non potete continuare a discutere perché permettete sempre ad un Bartolomeo o una Maria Luisa di intereferire con le vostre vite. Di questo passo, sarà proprio la vostra amicizia ad essere compromessa».
Gerardo, però, sembrò sordo a tale osservazione, perseverando nel fissare il suo piatto senza dire nulla.
«
Se non vuoi rischiare, forse non la vuoi abbastanza» commentò, a quel punto, Marcello, stizzito da quell’atteggiamento. Tuttavia, non aveva nemmeno finito di pronunciare l’ultima parola, che l’altro scattò su e, incollerito, sbottò: «Tu non puoi nemmeno immaginare quanto io desideri ardentemente Vittoria!»
Non era da lui rispondere in tale maniera e la sua reazione lasciò il giovane letteralmente a bocca aperta.
Quando, però, Gerardo si rese conto di ciò che aveva appena detto, le guance gli si imporporarono come mai in vita sua,
si affrettò a dividere la sua porzione, spostando l’eccesso nel piatto dell’amico, e cominciò a mangiare seppellendo se stesso ed il suo imbarazzo dietro il proprio boccale.
***

Con le festività alle porte, la merceria fu letteralmente presa dassalto dalle signore, le quali cercavano disperatamente idee regalo per familiari, amici, conoscenti e vicini di casa.
Beatrice adorava dare consigli e suggerire gli accostamenti migliori di stoffe e passamanerie, al fine di aiutare le clienti nell’ardua scelta della combinazione perfetta
per la realizzazione di tovaglie e tovaglioli, poi esibiti durante i vari pranzi e cenoni del periodo natalizio; si sentiva utile e aveva la possibilità di mettere a frutto la sua passione per i giochi con i filati ed i colori.
La signora Sofia la lasciava fare, contenta di avere un’aiutante così entusiasta e di spirito, anzi, spesso le faceva seguire di proposito le clienti più esigenti.
Esattamente come fece quella mattina.
«Beatrice, puoi venire qui un attimo? Alla signorina serve una mano
».
«Arrivo!» rispose lei, con voce squillante per dare un cenno di aver sentito, in mezzo a tutta quella confusione. Spostò i vari imballaggi della nuova merce e, con qualche difficoltà, riuscì a farsi strada verso la parte opposta del bancone.
«Buongiorno, cosa posso fare per lei?» chiese, mettendo da parte l’ultima scatola che le ingombrava il passaggio.
La fanciulla rimase per qualche istante a guardare la ragazza che aveva davanti, concentrata nello scegliere una tra le tante varietà di pizzo, avendo la forte impressione di averla già vista da qualche parte e le bastò solo qualche istante di riflessione per capire chi fosse.

«Io ti conosco... Tu se’ la Vittoria, l’amica di Marcello!» esclamò.
La diretta interessata alzò lo sguardo sopra di lei e assunse, a sua volta, un’espressione di autentico stupore.
«Oh, Beatrice, non sapevo lavorassi qui!» 
«Lè già più di un mese che lavoro per la signora Sofia» spiegò lei.
L’altra scosse la testa: «Ah, ecco. Quel lazzarone non me l’ha detto, anche se lo sa, vero?
»
«Be’, sì» rispose lentamente Beatrice, certa che si stessa riferendo proprio a lui. Era rimasta molto colpita dall’epiteto con cui quella ragazza lo aveva chiamato: si percepiva che erano in grande confidenza e questa consapevolezza le causò una fitta interna.
Sebbene avesse avuto le sue conferme, riguardo il fatto che tra Vittoria e Marcello non c
’era nulla di più di una solida amicizia, la fanciulla non poté impedirsi di provare una certa gelosia nei confronti della sua interlocutrice; d’altra parte, già il solo fatto che potesse vedere il ragazzo ogni volta che voleva, senza doversi nascondere, la metteva in una posizione di vantaggio rispetto a lei.
«Ogni tanto viene a salutare» aggiunse, incerta. Le risultava particolarmente difficile non considerare Vittoria come una rivale, poiché le sue paure inconsce stavano avendo la meglio sui fatti: quella ragazza era talmente bella e spigliata che qualunque uomo l’avrebbe preferita a lei, che era solo un’insulsa ragazzina. Le parole che aveva detto Anna Laura, quel giorno a Campo de’ Fiori, le tornarono in mente, ferendola con lame affilate, temendo che potessero essere la triste verità.
Improvvisamente, la giovane donna schioccò la lingua in senso di grande disapprovazione, richiamando l’attenzione della fanciulla.
«Quando tornerà, gliela farò pagare
» affermò, battagliera.
«Dove è andato? Mha detto che sarebbe stato fuori città, ma non ha aggiunto altro» le chiese Beatrice, trovando il coraggio di fare quella domanda, spinta dalla curiosità di sapere dove si trovasse di preciso il giovane.
«In Baviera, a Monaco. Doveva concludere una trattativa in questi giorni. Sono partiti tre giorni fa».
«Partiti?»
Vittoria annuì: «Sì, Marcello è andato con il suo socio, Gerardo Marini. Lo conosci?»
«No, non ne ho ancora avuto modo. Però mi piacerebbe, Marcello ne parla sempre molto bene».
«
È un ragazzo davvero adorabile» fece l’altra, sorridendo con evidente trasporto. Si fermò per qualche istante, come se si fosse persa nei propri pensieri, e poi riprese: «Bene, bene. Vorrà dire che passerò di qui per portarti l’invito della mostra. Se dovessi darli entrambi a tua cugina, potresti non riceverlo».
Beatrice stava per dire che, se fosse stato per la parente, non avrebbe mai dovuto mettere piede fuori di casa, ma lasciò perdere, perché odiava andarsi a lamentare della sua famiglia con persone che non conosceva bene. Pertanto, disse solamente: «In effetti, l’Anna Laura è un po’... inaffidabile».
La ragazza sollevò le sopracciglia, forse pensando che c’era tanto altro da dire su quella donna così irritante, ma nemmeno lei si dilungò in altri commenti.
«
Comunque, cosa posso fare per te?» fece la fanciulla, cambiando argomento e preferendo dedicarsi ad altro.
Vittoria sollevò il pizzo e glielo fece vedere.
«Mi servirebbero due metri di questo
e poi avevo anche intenzione di comprare dello chiffon per rifinire il mio vestito di Natale... Che colore mi consigli?»
***

Il pomeriggio del ventuno dicembre, Marcello uscì di casa poco dopo le quattro, così da non arrivare tardi all’appuntamento che aveva con Beatrice.  
Le ombre si andavano affievolendo, man mano che il crepuscolo avanzava; nella luce del sole morente, che striava di rossastro il tufo grigio e poroso dei monumenti d’altri tempi, il giovane avanzava, in armonia con le sfumature sullo sfondo: era come se la storia si fosse imbevuta di luce.
In una mano, teneva il pacchetto che avrebbe consegnato alla fanciulla, sperando che lei potesse apprezzare il suo contenuto. Infatti, nonostante quello non fosse il primo regalo che le faceva, si ritrovò a nutrire, in merito a ciò, più dubbi di quanti avrebbe dovuto.
Si stava pian piano abituando alla presenza costante di quella ragazza tra i suoi pensieri, consapevole che aveva cominciato a nutrire verso di lei più che un semplice interesse; infatti, se dapprima era stato incuriosito e ammaliato da quella giovane, così profondamente diversa da tutte le altre che aveva avuto modo di conoscere, ora Marcello era certo di essere stato più che conquistato dalla sua indole romanticamente5 orgogliosa.
Tuttavia, parallelamente a questo sentimento positivo, nel suo cuore si era annidato anche un germe di negatività: nonostante la ragazza avesse dimostrato di essere molto matura per la sua età, il giovane sapeva di essere troppo grande, troppo adulto per lei, poiché ai suoi occhi, di fatto, lei restava poco più che una bambina.
Cosa avrebbe potuto offrirle lui? In realtà, poco o niente, conscio di avere un carattere molto rigido e severo, caratteristica che lo faceva sembrare ancor più vecchio dei suoi ventiquattro, ormai più venticinque, anni.
Mentre si angustiava con questi pensieri, si rese conto di star già percorrendo Via della Mercede e, poco dopo, intravide Beatrice, cordialmente intenta a discutere con la sua datrice di lavoro.
Sorrideva e Marcello lo interpretò come un buon segno: evidentemente la signora Sofia doveva essere molto soddisfatta di lei.
Si fermò, indeciso se continuare ad avvicinarsi ed interrompere la conversazione oppure rimanere lì, in disparte, aspettando che terminassero di parlare.
Una lieve venticello arrivò a scompigliargli i capelli e ad accarezzargli la pelle del viso, come se volesse invitarlo a non abbandonare quella posizione privilegiata, dalla quale poteva osservare la ragazza, seguendo i suoi gesti o provando ad immaginare cosa stesse dicendo, semplicemente cercando di interpretare la sua espressione.
Ma il vento non aveva finito di sussurrargli tutto il suo messaggio
, infatti, la cosa più importante l’aveva lasciata per ultima.
Seguendo l’ispirazione di quel delicato refolo, infatti, guardò meglio Beatrice e, tutto d’un tratto, ammise a se stesso il vero motivo per cui aveva quei cupi e brutti pensieri in merito alla loro differenza d’età: si era innamorato di lei.
Sebbene Marcello, in cuor suo, l’avesse già capito da qualche tempo, era stato restio a dichiararlo con voce ferma proprio per tutte le riserve che nutriva nei confronti di una sua possibile relazione con la fanciulla.
Non perché non la volesse, ovviamente, ma perché temeva che lei, un giorno, potesse innamorarsi di un altro, magari di un suo coetaneo o di un ragazzo più allegro.
Da questo punto di vista, capì meglio il punto di vista di Gerardo nel suo approccio con Vittoria, anche se continuava a non approvare la reticenza dell’amico.
In quell’istante, la sarta rientrò nella sua merceria, lasciando la ragazza in strada.
Resosi conto di ciò,
il giovane si riscosse dalle sue meditazioni e, preso un respiro d’incoraggiamento, si avvicinò alla ragazza.
«
Buonasera a te, Beatrice» la salutò, quando le fu più vicino.
«Oh, ciao Marcello!» fece lei a sua volta, radiosa. «Come è andato il viaggio a Monaco?»
«Molto bene...» le rispose lentamente il giovane, domandandosi come facesse la ragazza a sapere con tale precisione dove era andato. Era sicuro di non averlo scritto sul biglietto che le aveva inviato, non perché fosse un segreto, ma perché non credeva che fosse un dettaglio importante.
Beatrice dovette aver catturato la sua perplessità, infatti aggiunse:
«Me l’ha detto Vittoria, è passata in merceria per caso e ci siamo incontrate».
Ora sì che tutto quadrava.
«Sei arrivato proprio al momento giusto, comunque, ho appena finito di parlare con la signora Sofia e ora sono ufficialmente libera!» continuò lei, concedendogli uno dei suoi sorrisi più belli e spontanei.
Marcello pensò che fosse molto carina, avvolta nella mantella color carta da zucchero, per poi sentirsi in colpa subito dopo: era come se, nel suo animo, si fosse innescata la convinzione che non ci fosse nulla di più amorale dell’attrazione che provava per Beatrice.
«Ah, bene» replicò lui, abbastanza dimesso.
La fanciulla, udendo quel tono, mutò immediatamente espressione.
«
C’è qualcosa che non va? Hai qualche altro impegno e non possiamo andare?»
«No, no, va tutto bene, sono in pausa dal lavoro, per ora» si affrettò a risponderle lui, maledicendosi per aver dato voce ai suoi pensieri più opprimenti proprio poco prima di incontrarla.
Per risollevare la situazione, decise di consegnare subito il pacchetto alla fanciulla, cambiando così argomento: «
Questo è per te. So che i regali di Natale non dovrebbero essere dati in anticipo, ma non penso che avrò un’altra occasione di vederti, prima del venticinque».
Le iridi blu di Beatrice si illuminarono.
«Oh, grazie! Se’ sempre così gentile con me... Ti dispiace se lo apro adesso? Ah, no, aspetta un attimo, anch’io ho qualcosa per te!
»
Entrò nel negozio e ne riuscì solo qualche attimo dopo, portando tra la braccia un pacchettino avvolto in carta verde e bianca, con un simpatico fiocco di organza.
«Ecco il mio regalo per Natale e per il tuo compleanno. È il ventisette, vero?» disse la fanciulla, porgendoglielo, con le guance leggermente arrossate.
Il ragazzo la fissò, basito: «Sì, ma... Come fai a saperlo?»
«L’ossessione dellAnna Laura nei tuo’ confronti, a volte, può tornare estremamente utile» rispose lei, con una semplicità disarmante.
Nell’udire il nome della cugina di Beatrice, Marcello decise che era meglio non indagare oltre, dedicandosi invece a scartare il regalo e trovandovi, all’interno, una elegante sciarpa grigia.
«L’ho fatta io. Non sarà perfetta ma... spero che ti piaccia».
Il biondo la dispiegò e ne ammirò la fattura impeccabile, senza fili non intrecciati oppure spanati, scoprendola molto morbida al tocco.
«
In realtà è più che perfetta» ammise.
La fanciulla si fece ancora più rossa, ma, stando al sorriso che aleggiava sulle sue labbra, doveva essere contenta che lui avesse apprezzato così tanto il suo lavoro.
«Fammi vedere se è della lunghezza giusta».
Marcello l’assecondò, indossando la sciarpa e permettendo alla ragazza di sistemargliela per bene. Era molto calda e, avendo una trama priva di decori o punti particolari, era in linea con il suo stile sobrio.
Poi venne il momento in cui toccò a Beatrice scartare il suo pacchetto e, quando si ritrovò tra le mani l’elegantissimo soprabito lilla, rimase letteralmente senza parole.
«Oh, ma è bellissimo... Il lilla è uno dei miei colori preferiti, perché sta abbastanza bene anche con il colore dei miei capelli» considerò, soffermandosi a guardare la spilla appuntata all’occhiello. Lo piegò con cura e lo rimise nella busta, spiegando che l’avrebbe messo al sicuro nel retrobottega e che avrebbe pensato ad un modo per riportarlo a casa, senza che Anna Laura lo vedesse e fosse colta dal malsano desiderio di appropriarsene.
Prima di entrare, però, lanciò a Marcello
uno sguardo riconoscente.
«
Be’, ora che me ne hai regalato uno, non dovrai più prestarmi il tuo».

Una volta entrati nel comprensorio dei Musei Vaticani6, Beatrice e Marcello si inerpicarono su per i gradini di varie scalinate, trovandosi a percorrere un autentico sentiero dell’arte rinascimentale.
Il ragazzo, che non era mai stato particolarmente esperto di dipinti e affreschi, si lasciò alle spalle le preoccupazioni che lo avevano coinvolto poco prima, lasciandosi trasportare dall’enfasi con la quale la fanciulla gli stava descrivendo ogni singola opera d’arte.
Prima di accedere alla Cappella vera e propria, ebbero modo di visitare la Stanza della Segnatura, appartenente a papa Giulio II e affrescata da Raffaello in persona.
Marcello rimase seriamente colpito dall’armonia di colori e forme che regnava nella celebre Scuola di Atene, laddove riconobbe Platone ed Aristotele che si confrontavano sui principi delle loro filosofie, Il Mondo delle Idee e la Metafisica. Beatrice gli spiegò che Raffaello, per quell’opera, aveva usato numerosi presta volto, scelti tra i suoi colleghi artisti, per dipingere i volti dei soggetti, a cominciare da Platone, che aveva preso in prestito le sembianze del grande Leonardo da Vinci.
Ma tutto ciò non era niente in confronto a quello che riservò loro la Sistina.
Non erano nemmeno entrati, che già erano con il naso per aria a fissare il soffitto, poeticamente affrescato dall’abile mano di Michelangelo, dove La Creazione di Adamo sembrava il centro di quel microuniverso.
La sequela di affreschi, che correvano lungo le pareti dell’edificio, mostravano quella che era stata la vera essenza dell’Umanesimo: l’elevazione dell’abilità e dell’ingegno dell’uomo attraverso l’arte e l’architettura.
D’altra parte, non avrebbero potuto non rimanere incantati dinnanzi ad opere come La consegna delle chiavi del Perugino o La vocazione dei primi Apostoli del Ghirlandaio.
Eppure, il pezzo forte si mostrò loro solo quando si voltarono verso la porta da dove erano entrati, la stessa che oltrepassano i cardinali in occasione del Conclave: infatti, si trovarono davanti il Giudizio Universale, con le sagome che volteggiavano nella campitura azzurra, con Gesù Cristo impegnato a dare un ordine a quel vortice, mentre, al suo fianco, la Madonna era stata dipinta avvolta su se stessa, l’unica avvocata7 per le anime.
Entrambi i giovani restarono senza parole, ammaliati nel profondo da tanta espressività.
Quei dipinti narravano un qualcosa che andava oltre il significato religioso che avevano, aprendo un portale di comunicazione tra passato, presente e futuro; erano un messaggio iconografico, narrante la straordinaria capacità dell’essere umano di apprendere e comprendere, di andare oltre i propri confini.
Marcello si voltò verso Beatrice per chiederle se fosse soddisfatta, tuttavia, osservando il sorriso che esprimeva tutto il misto di emozioni che stava provando, decise di tacere, non volendo rovinare quel momento di contemplazione.
Anche perché, a farlo, ci pensò qualcun altro: un signore che, correndo mentre cercava di riacciuffare il figlioletto che scappava qua e là, urtò malamente la fanciulla, facendola quasi cadere.
«Mi scusi!
» le gridò, senza nemmeno guardarla in faccia, agguantando il bambino e trascinandolo via.
Il giovane stava quasi per commentare sulla scarsa educazione che aveva esibito il tizio, quando notò che la fanciulla aveva chiuso gli occhi e si era irrigidita, assumendo una posa come di difesa.
Trovandolo esagerato, nonostante l’entità dell’impatto, Marcello le chiese: «Cosa c’è, Beatrice?»
Lentamente, la ragazza ispirò a fondo e tornò più rilassata, anche se non del tutto: «Nulla, mi dà solo fastidio quando mi toccano gli estranei».
«Ti ha fatto male?»
Lei negò con il capo: «Non è solo quello. Sai, dopo quello che...».
E si interruppe, come se temesse di aver detto troppo, chinò rapidamente la testa e tornò contratta come prima.
Insospettito da quello strano atteggiamento, il biondo insistette: «Dopo quello, cosa?»
Beatrice ci mise qualche secondo per rispondere. Dal canto suo, Marcello attese paziente, non sollecitandola ulteriormente ed ottenendo così l’effetto contrario, giacché aveva tutta l’intenzione di scoprire il perché la ragazza si stesse comportando in maniera così strana.

«Ecciniziò lei, tentennante, «poco più d’una settimana fa, è venuto a trovarmi Navarra e... mi ha... messo le mani addosso».
Le ultime parole sortirono su Marcello un effetto istantaneo: avvertì montare una collera così forte che, se in quel momento avesse avuto davanti quel troglodita, l’avrebbe macellato all
istante come il maiale che era. Anzi, paragonarlo ad un maiale era un offesa, per l’animale, ovviamente.
«Che lurido bastardo!» ringhiò, avvertendo i visceri che si contraevano per la rabbia. La sola idea, che quello schifoso avesse allungato le sue zampacce sulla giovane, doveva avergli fatto schizzare la pressione alle stelle. «Come diavolo si è permesso!»
Solitamente, era un ragazzo che cedeva molto di rado alle passioni dell’animo, privilegiando il raziocinio ai sentimenti, eppure, già quando aveva sentito i tormenti di Vittoria, aveva sentito di odiare profondamente quegli uomini che trattavano le donne come se fossero giocattoli; apprendere quale orrore era toccato alla sua Beatrice non fece altro che amplificare la sua collera.
«Navarra non ha un codice donore, lo sai» gli disse la ragazza, guardandolo tristemente.
«Scommetto che quel coglione di tuo fratello non ti ha protetta» affermò lui, con rabbia, sicuro di ciò che aveva appena formulato.
«No...».
«Immaginavo».
Colto da un’improvvisa inquietudine, fece qualche passo in avanti, tornò indietro e ricominciò un’altra volta, per poi tornare nuovamente al punto di partenza.
«Ma un essere così inetto, come ha fatto durante il servizio di leva?»
Beatrice assunse un’espressione meravigliata: «
Infatti non l’ha fatto... È riuscito ad evitarlo, adducendo la motivazione che ’l babbo era in punto di morte e che il capofamiglia era lui».
Quella risposta non fece altro che peggiorare la bassa opinione che il giovane aveva di Guido Tolomei; se avesse potuto, Marcello l’avrebbe volentieri mandato a scavare in miniera, lontano dalla luce del sole e dall’aria pura.
Forse era giunto il momento di andare a parlare davvero con quell’inetto: non poteva continuare a costringere la sorella a frequentare quel rifiuto umano di Navarra.
Già, gli avrebbe parlato, ma che cosa gli avrebbe detto di preciso? Prima di offrirsi lui come probabilme marito, prima avrebbe dovuto chiedere a Beatrice se fosse d’accordo.
Bastarono quei pochi pensieri per far ripiombare di nuovo Marcello nella sua spirale di dubbi e timori.
A quel punto, la fanciulla, che doveva aver notato l’ombra che era passata sul suo viso, gli sussurrò, mortificata: «Scusa, non volevo deprimerti».
Tuttavia, Marcello scosse la testa, sospirando.
«No, non è per te, assolutamente. Stavo solo pensando
che, prima o poi, tuo fratello dovrà pagarla cara per tutto quello che ti sta facendo».
«Sì, ma non pensiamoci ora. Ti prego, non roviniamoci la serata» lo supplicò lei.
Il ragazzo la assecondò e la seguì, ultimando il tour degli affreschi, anche se, ormai, nella sua testa e nel suo animo, infuriava la peggiore delle burrasche.

Usciti dai Musei Vaticani, Beatrice espresse il desiderio di poter fare una passeggiata per il centro, dato che, da quando era a Roma, nessuno aveva avuto il buon cuore di farglielo vedere; data l’ora e il periodo dell’anno nel quale si trovavano, Marcello pensò che sarebbe stato molto suggestivo portarla a vedere la Fontana di Trevi, circondata dalle luci colorate degli esercizi commerciali circostanti.
Il monumento di marmo si presentò ai loro occhi maestoso e con un’aura quasi titanica, accentuata dai drammatici giochi di chiaroscuro delle statue, rese enfatiche dalla plasticità dei dettagli scolpiti.
Non c’era moltissima gente, a discapito del fatto che fosse quasi Natale, pertanto Beatrice riuscì ad avvicinarsi al complesso senza troppe difficoltà, rimanendo a guardare incantata i curiosi riflessi che l’acqua creava sulla pietra.
Temendo che ci potesse essere nei paraggi qualcuno con le stesse brutte intenzioni di Navarra, il biondo la seguì, per non perderla di vista nemmeno un attimo, sedendosi sul bordo della vasca.
Se già verso di lei aveva sempre provato una sorta di istinto di protezione, alla luce delle nuove dichiarazioni esso si era decisamente esasperato.
Incurante di tali pensieri, la giovane si sporse per guardare meglio il tutto ma, evidentemente, non doveva aver calibrato bene la spinta e fu sul punto di finire dritta in acqua.
Rapido, Marcello la riacciuffò per un soffio, tirandola verso di sé.
«Attenta! Hai voglia di farti una nuotata serale, per caso?» la rimproverò.
«Mi sono lasciata prendere dalla bellezza del posto» si difese lei, abbozzando un sorriso imbarazzato. «E poi, finirti addosso sta diventando un vizio».
Solo allora il giovane si rese conto che aveva la ragazza praticamente in braccio.
«
Già» rispose, avvertendo un piacevole stretta allo stomaco e, subito dopo, un tremendo senso di colpa.
Beatrice, invece, sembrava perfettamente a suo agio e diede un altro sguardo alla statua di Oceano.
«
Se fossi caduta nella fontana, avrei potuto provare anch’io l’emozione di recitare Marcello, come here!» esclamò, ridendo.
«
Cosa?» chiese il giovane che, assorto nello sbrogliamento dei suoi conflitti interiori, non stava affatto seguendo il filo del discorso.
«Ma sì! Come dice l’Anita Ekberg a Mastroianni ne La Dolce Vita».
«
Ah, sì, è vero» replicò lui, distrattamente.
La fanciulla lo guardò accigliata.
«
Come sei serio, la battuta era carina, dai. Mi è venuta spontanea, qui davanti» fece, sorridendogli mentre gli sistemava il bavero del cappotto.
Era così vicina a lui che poteva percepire i suoi capelli fargli il solletico sul viso.
Deglutì a vuoto: quella fu la prima volta in cui comprese cosa significasse provare l’ardente desiderio di baciare una ragazza e, per un secondo di follia, stava quasi per cadere nella tentazione di farlo.
Si alzò bruscamente, rischiando di farla cadere per davvero.
«Marcello, ma... mi dici cos’hai?» domandò Beatrice, sbigottita e irritata.
«Niente, è tutto a posto» le rispose il giovane, distanziandosi di qualche passo e dandole le spalle.
«
Non è vero. Ho capito subito che oggi eri turbato!»
«Sto bene» ribadì lui, secco.
Ne seguì un attimo di pausa, al termine del quale, udì la voce di lei, querula e più lontana di quanto pensasse, che diceva: «Avresti potuto dirlo subito, che non ti allettava l’idea di uscire con me...»
«Non è vero! Cosa stai...» iniziò il ragazzo, voltandosi verso la fanciulla e accorgendosi che non era più accanto a lui. La individuò un secondo più tardi, riconoscendola nella giovane che, mesta, si stava avviando in Via del Lavatore.
«Beatrice, aspetta!» esclamò Marcello, senza ottenere risposta.
Si sentì davvero un idiota ad averla allontanata per le sue paranoie, a tal punto che si sarebbe picchiato da solo. Si rizzò in tutta la sua imponente altezza e, con passo fermo, le andò dietro, raggiungendola nel giro di pochi istanti. Si stava preparando a chiamarla una seconda volta, quando un monito interiore gli suggerì che non era più il momento di parlare, bensì era arrivato quello di passare ai fatti.
Senza strattonarla, le prese una mano e la fece voltare verso di sé, come se volesse farle eseguire un’elegante piroetta danzante, ritrovandosi molto più vicino a lei di quanto avrebbe creduto.
Si concesse di ammirarla solo per un attimo, prima di cedere all’impulso, catturando le labbra di lei con le proprie. Per una volta, Marcello decise di assecondare le sue sensazioni: voleva sentirla più vicina e, per questo, le mise entrambe le mani sui fianchi, attirandola ancora di più verso di sé, mentre assaporava maggiormente quel dolce contatto.
Beatrice, dal canto suo, superati i primi attimi di stupore, gli buttò le braccia al collo, ricambiando il bacio con intensità e trasporto, mentre l’acqua continuava a scorrere nella fontana e i passanti proseguivano nel loro passeggio: il tempo sembrava essersi fermato solo per loro due.
Si discostarono leggermente poco dopo, entrambi restii a lasciarsi andare.
«Non pensavo fossi così... focoso» gli disse piano la fanciulla, piacevolmente sorpresa, dispiegando lentamente le labbra in un sorriso.
«Scusami, io...» rispose lui, lievemente imbarazzato: era il primo bacio che dava ad una ragazza, forse avrebbe dovuto essere meno impetuoso e più delicato?
Ma ciò che aggiunse dopo Beatrice gli fece capire che a lei, in realtà, quell
approccio non era dispiaciuto affatto.
«Ti prego, non dire niente» gli sussurrò dolcemente, accarezzandogli la guancia perfettamente sbarbata. «Ho aspettato fin troppo questo momento».
Marcello sorrise appena, chinandosi nuovamente su di lei: almeno per quel momento, aveva deciso di mettere a tacere tutti i suoi dubbi.






***
Per la revisione di questo capitolo, ringrazio Lady Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la grafica del titolo è opera mia.
Ringrazio la mia Anto per aver letto tutto questo in anteprima.
***
[N.d.A]
1. Weihnachtsmarkt: il tradizionale mercatino di Natale di Marienplatz.
2. Deutsche Demokratische Republik: Repubblica Democratica Tedesca, come veniva identificato lo stato della Germania Est, in contrapposizione alla Bundesrepublik Deutschland, ossia la Repubblica Federale Tedesca (o Germania Ovest).
3. accelerazione dei tassi di crescita: effettivamente, tra il 1988 ed il 1993, l’economia della Germania ha attraversato un ottimo periodo.
4. Schweinshaxe... Kartoffelsalat: stinco di maiale e insalata di patate, piatti tipici della cucina bavarese.
5. romanticamente: il termine deve essere preso nell
accezione affine al movimento filosofico-letterario del Romanticismo, in quanto sottointende che Beatrice è paragonabile ad uneroina romantica perché vuole rivendicare la sua posizione, innanzi tutto, di persona con dei diritti inalienabili.
6. Musei Vaticani: Marcello e Beatrice sono riusciti ad accedere ai musei nel tardissimo pomeriggio, poiché hanno usufruito dell’apertura serale, che cade una volta alla settimana.
7. avvocata: termine volutamente scelto per ricalcare i versi del Salve, Regina!: “orsù dunque, avvocata nostra, rivolgi a noi gli occhi tuoi misericordiosi”.

***


Buon anno nuovo a tutti!
Il caso ha voluto che oggi dovessi aggiornare, proprio in occasione del mio quinto anniversario di permanenza su questo sito. Ovviamente questo non interessa a nessuno, quindi vado oltre.

Vorrei aprire una piccola parentesi sul perché ho scelto di ambientare la trasferta a Monaco di Baviera: punto primo, ci sono stata in vacanza quest’estate, pertanto ero abbastanza sicura di poterla descrivere in maniera veritiera e concreta; punto secondo, come sapete, la Germania è stata la nazione che meglio ha impersonato e risentito della Guerra Fredda, essendo stata divisa a lungo. Siccome ci tengo a dare la parvenza di anni ’80, mi è sembrato che fosse emblematico, ecco.
Ringrazio chi legge, chi ha messo questa storia nelle preferite, ricordate e/o seguite, chi ha commentato lo scorso capitolo.

A questo punto,
lascio il link al mio blog e alla pagina facebook, dove (nei prossimi giorni) troverete uno spoiler del capitolo nono e altre cose.
Saluti e alla prossima, per chi avrà la bontà di continuare a seguirmi.
Halley S. C.

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Capitolo 9
*** Capitolo Nono - Vento di Turbamenti ***


Vento dell'Ovest - Capitolo 9



- Capitolo Nono -
Vento di Turbamenti




A
pprofittando del silenzio e della solitudine che regnavano a Villa dei Salici, quella mattina di metà gennaio Beatrice tirò fuori dall’armadio il regalo che la signora Sofia le aveva fatto per Natale: un elegante abito blu notte, rimasto invenduto perché la capricciosa signora che l’aveva commissionato non l’aveva più voluto. Lo mise sulla sedia e si mise a studiarlo con occhio critico, pensando a come potesse personalizzarlo: certo, non aveva uno stile propriamente giovanile, ma con l’aiuto di un po’ di fantasia e qualche suggerimento preso dalle riviste di moda, che le aveva prestato la stessa sarta, sarebbe riuscita a renderlo sobrio e, allo stesso tempo, adatto ad una ragazza.
Non c’era nessuno in casa e, una volta tanto, la fanciulla aveva l’occasione di dedicarsi un po’ a se stessa; per lei, il 1987 era davvero iniziato sotto una buona stella. Magari Saturno aveva deciso di abbandonare l’ostile contrapposizione a Marte, oppure i suoi parenti erano talmente presi dalle proprie faccende che non avevano il tempo di divertirsi a tormentarla. Il lavoro alla merceria, infatti, le assicurava parecchie ore alla settimana da trascorrere fuori casa, una fonte di guadagno, anche se doveva cederne la maggior parte alla zia, e la possibilità di scambiare qualche parola con Marcello, quando lui riusciva a passare di lì per salutarla.
Il giovane si era fatto ancor più premuroso nei suoi confronti e andava a trovarla molto più spesso, anche se non potevano intrattenersi a parlare per più di una manciata di minuti alla volta.
Beatrice lisciò una piega dell’abito, sorridendo. Più di una volta, mentre faceva i compiti o riassettava la casa, era rimasta a fissare il vuoto con un’espressione trasognata, pensando al bacio che le aveva dato il ragazzo davanti alla Fontana di Trevi.
Quello sì che era stato un bacio, altro che le schifosissime avances di Navarra!
Non poteva certo dire di avere una relazione stabile con lui, ma il solo fatto che la cercasse spontaneamente le faceva ben sperare che, da parte sua, ci fosse del sincero interesse verso di lei.
Marcello, di certo, non era tipo da grandi dichiarazioni, ma Beatrice aveva avuto modo di vedere quanto fosse serio e ciò sembrava suggerire che non la stava prendendo in giro.
Un rumore di portone sbattuto con violenza, proveniente dal piano di sotto, la fece sussultare; piegò alla bell’e meglio il vestito e lo seppellì nei meandri dell’armadio, dopo di che si affacciò alla porta della sua stanza per vedere chi fosse.
«Ho solo vecchie pezze di stoffa e nei negozi non c’è niente di decente!»
La fanciulla roteò gli occhi, riconoscendo immediatamente la voce stridula di Anna Laura.
«Sei un pelandrone, abbiamo ancora i negozi di mezza città da andare a spulciare!»
«
Sono stanco!» piagnucolò Guido. «T’ho promesso che s’anderà nuovamente nel pomeriggio!»
Sì udì rumore di tacchi e poi di nuovo il tono sgraziato della donna:

«
Se Marcello non mi degnerà di uno sguardo, sarà tutta colpa tua!»
«Quel pallone gonfiato del Tornatore non ti guarderà lo stesso.
L’ha troppe passere1 che gl’ stanno attorno
Beatrice socchiuse gli occhi nel sentire il fratello che parlava così del giovane, tuttavia, prima che potesse formulare qualsiasi altro pensiero, le giunse distintamente all’orecchio l’eco di uno schiaffo. Rabbrividì, immaginando che la cugina avesse appena colpito la guancia di Guido con una mano piena di anelli, anche se non riuscì fino in fondo a provare pietà per lui.
«Ahia!
» gemette il malcapitato.
«Non ti permettere mai più di dirmi una cosa del genere! Provaci ancora e tu e tua sorella finirete sotto un ponte!
» sbraitò Anna Laura. Si udì nuovamente il rumore dei tacchi che battevano sul pavimento, ma questa volta esso si affievolì dopo poco, segno che la donna doveva aver cambiato stanza.
La casa ripiombò nel silenzio.
Beatrice tornò di soppiatto in camera sua, chiudendo la porta senza produrre il più piccolo rumore; la fretta che aveva sua cugina era talmente ovvia che avrebbe potuto scommettere che i suoi parenti sarebbero usciti nuovamente molto presto.
Al ricordo della conversazione udita, un sorriso sottile si affacciò sul suo volto: sua cugina non aveva ancora un abito, suo fratello si era preso finalmente un bel ceffone e, con molta probabilità, sarebbe rimasta nuovamente sola nel giro di pochi minuti.
Forse quella era davvero la sua giornata fortunata.
***

«
Spostatelo qui!» gridò Vittoria, indicando una rientranza della parete ai due operai che si stavano occupando di sistemare il tavolo destinato al buffet.
In quel frangente, Marcello entrò nel salone e lo riconobbe a stento: c’erano piedistalli ovunque, piattaforme e panneggi di tutti i colori che avevano trasformato l’ambiente in un’autentica sala delle esposizioni. Nessuno dei mobili che l’arredavano di solito era rimasto al suo posto e sicuramente erano stati spostati in qualche altra stanza.
«
In quale bolgia mi trovo?» esordì il giovane, lanciando all’amica uno sguardo bieco.
«Alla buon’ora, Marcellino!» lo salutò, facendo finta di essere arrabbiata. «È un mese che fai il latitante, capisco che sei impegnato con la tua rossa fiorentina, però...»
«Sono venuto sempre, quando ho potuto» la interruppe lui, schivando un operaio che trasportava un enorme specchio rotondo. «Credo che tu ce l’abbia con me più per il fatto che non ti ho raccontato nel dettaglio gli affari miei, piuttosto».
Indispettita da quell’affermazione, la ragazza incrociò le braccia sul petto e mise
il broncio.
«Colpita e affondata!
» rise Gerardo, avvicinandosi a loro con in mano un bicchiere di succo, che protese verso di lei.
«Grazie» fece Vittoria, prendendolo. «Tu sì che sei gentile, mica come lui!»
Il giovane fece spallucce, ma sorrise, quindi salutò il nuovo arrivato.
«Buondì, Marcello».
Il biondo ricambiò il saluto con un cenno del capo, pensando
che, nell’animo del suo amico, la voglia di stare vicino alla donna che amava doveva essere più forte dell’astio che provava per Bartolomeo.
«Almeno mi puoi dire se state insieme?» continuò lei il suo interrogatorio, imperterrita, forse sperando di carpirgli qualche altra informazione.
A quel punto, consapevole che più avrebbe tergiversato, meno Vittoria non l
avrebbe fatto respirare, il giovane decise di dirle qualcosa per zittirla.
«Non ufficialmente» affermò, evasivo, aggiustandosi la sciarpa grigia di cachemire. In fondo, ancora non aveva trovato il coraggio di chiedere a Beatrice di diventare la sua fidanzata, essendo così tormentato dal problema della differenza di età; daltra parte, non gli piaceva nemmeno l’idea di continuare a frequentarla facendo finta che non fosse successo niente tra di loro, soprattutto, non dopo il bacio appassionato che si erano scambiati.
«E me lo dici così?» fece lei, offesa. «Finalmente hai una ragazza e me lo dici così?»
«Scusa se non ho chiamato la banda cittadina, ma ho pensato che in questa baraonda anche una sola persona in più sarebbe risultata di troppo» commentò Marcello, riprendendosi e ritrovando il suo sarcasmo, mentre spalancava le braccia per indicare la confusione che regnava sovrana nella stanza.
«Quanto sei spiritoso, Marcellino» gli disse la ragazza, mostrandogli la lingua.
«Vitto’, sono cose personali» notò timidamente Gerardo, raccogliendo un drappo di stoffa bianca e ripiegandolo accuratamente.
«Be’, che c’è di male ad ammettere che ti piace una persona?
»
«
Niente, ma...»
«Io penso che sia sbagliato quando non lo si ammette nemmeno a se stessi» considerò Marcello, squadrandoli entrambi con il sopracciglio alzato. I due ragazzi lo fissarono interdetti e poi si cercarono inconsapevolmente con lo sguardo, per poi diventare entrambi scarlatti.
«Porto via il bicchiere» annunciò Vittoria con voce quasi stridula, allontanandosi come se fosse stata inseguita da unorda di barbari.
«Quanti teli da sistemare!» esclamò Gerardo, facendo il vago ed evitando di guadare laltro negli occhi.
«Vero?» domandò l’altro, inarcando un sopracciglio, non facendosi scappare l’occasione di manifestare il suo disappunto.
Il ragazzo smise di trafficare con i panneggi e si abbandonò ad un sospiro affranto, forse consapevole che non aveva più alcun senso mentire e sviare il discorso. Alzò il viso verso il suo amico e ammise: «Sento che sto per impazzire. Non ce la faccio più a saperla di un altro uomo».
«Babbo Natale ti ha portato un po’ di giudizio, per caso?
» osservò il biondo, ironico.
«Marcello, non prendermi in giro! Sai bene quanto mi corroda il fegato sapere che Vittoria sia fidanzata con un altro» fece Gerardo, querulo, gettando i drappeggi a terra, con un moto di stizza.
«Gera’, dacci un taglio con queste lamentele» decretò Marcello, secco, «e passa ai fatti, piuttosto».
«Parli bene, tu. Beatrice non è certo impegnata... Tu come ti sentiresti a corteggiare una ragazza fidanzata?»
A quell’affermazione, il giovane lo guardò con un cipiglio talmente severo che l’amico indietreggiò di qualche passo.
«Non sarà impegnata, ma a
bbiamo sei anni e mezzo di differenza» ribatté il biondo, con tono inquietantemente calmo. «Come ti sentiresti tu a corteggiare una ragazzina, invece? Senza contare tutta la situazione con la sua famiglia e con quel depravato di Navarra».
«Scusami, ti prego, io...» iniziò Gerardo, incerto su come proseguire. Tentennò qualche secondo, come se volesse riprendere il discorso, ma alla fine abbassò lo sguardo, arrossendo.
«Lascia stare, non importa» fece Marcello, sospirando. «In fondo, non posso costringerti a fare quello che, secondo me, dovresti».
«Già
».
Un improvviso tramestio proveniente dal corridoio attirò la loro attenzione, accantonando, per il momento, il discorso che avevano intrapreso. Alcune voci, infatti, si stavano aggiungendo ai rumori di passi che, via via, si stavano facendo sempre più chiari e distinti.
«Chi è?» domandò Gerardo, sporgendosi in direzione della porta.
«Non saprei» gli rispose l’amico, voltandosi a sua volta verso l’ingresso della sala, il quale venne valicato un secondo dopo da tre uomini vestiti di nero: uno di mezza età e due ragazzi rasati, con quel poco di pelle visibile coperta da strani tatuaggi scuri. I nuovi arrivati si guardarono intorno finché non individuarono, in quel gran caos, i due giovani.
«Buongiorno, stiamo cercando la signorina Vittoria Farnese» disse il più anziano.
«Voi chi siete?» domandò Gerardo, accigliato.
«Gli addetti al catering» ciancicò uno dei giovani, lasciando intravedere la gomma da masticare che aveva in bocca.
«Catering?» ripeté, come se gli stessero rifilando una scusa assurda per giustificare il fatto che si fossero introdotti in casa. Quindi, senza aggiungere altro, si avvicinò a quegli individui e cominciò a parlare con loro, gesticolando. Infine, indicò loro la cucina e tornò dal suo amico.
Dal canto suo, Marcello osservò i tre mentre si muovevano con difficoltà nella stanza messa a soqquadro, notando che sembravano davvero individui di dubbia morale. Non aveva i pregiudizi verso i tatuati, ma quelli avevano proprio una faccia poco raccomandabile e sembravano appena usciti da una bisca.
Quello che pensò fosse il capo, inoltre, aveva una sottile cicatrice sulla guancia, particolare che, inconsciamente, lo mise in allarme, giacché aveva l’angosciante sensazione di averlo già visto in circostanze spiacevoli.
«Non ti sembra di averlo già visto da qualche parte?» domandò, non appena l’altro fu a portata d’orecchio.
«Sì, sembra anche a me che abbia un’aria familiare» rispose lui, lanciando un’occhiata guardinga ai tre, poco prima che sparissero oltre la porta secondaria del salotto.
Questo confermò al biondo che neanche Gerardo doveva apprezzare particolarmente quei brutti ceffi e pertanto si sentì inquieto a saperli con Vittoria. D’accordo, c’erano anche i genitori della ragazza con lei (si erano spostati in cucina per imballare alcuni oggetti preziosi da togliere di mezzo), ma non riusciva davvero ad essere del tutto tranquillo. E stando a come batteva nervosamente il piede in terra il suo amico, doveva pensarla allo stesso modo.
Nessuno dei due fiatò finché, dopo quelli che a Marcello parvero anni, i tre uomini più Vittoria riemersero attraverso la porta più piccola. La ragazza annuì energicamente e li salutò, accompagnandoli nell’ingresso.
Finalmente, rassicurati dal fatto che avessero avuto la prova che quella stesse bene, entrambi tirarono un sospiro di sollievo.
«Vittoria, a quale locale hai chiesto di fare il servizio catering?» domandò Gerardo, quando la giovane fu tornata da loro.
«A nessuno. Tre giorni fa è venuto Ascanio Colonna e si è offerto di provvedere al rinfresco» rispose lei, candidamente, alzando le spalle. Poi, spostò un sacchetto, contenente viti e chiodi, dalla poltrona e ci si accomodò, stremata.
«Colonna? E perché?» insistette Marcello, avvertendo che c’era qualcosa che non quadrava. Da quando quel lestofante si adoperava per gli altri?
«Ha parlato con Bartolomeo... L’unica cosa che so è che deve fare un annuncio pubblico e voleva sfruttare l’occasione di questa mostra» spiegò l’amica. «Si sono trovati d’accordo, credo che lo considerino entrambi un ottimo modo per farsi pubblicità».
«Un annuncio? Di che genere?»
«Non ne ho la più pallida idea. Vi ho detto tutto quello che so».
Allora, i due amici si scambiarono una profonda occhiata e socchiusero entrambi gli occhi, chiedendosi cosa stesse macchinando Colonna, ma, soprattutto, perché avesse scelto proprio l’evento a casa di Vittoria per fare una delle sue dichiarazioni alla stampa. I giornalisti delle rubriche “arte e cultura” non sarebbero mancati e, forse, aveva sparso la voce anche fra quelli di gossip e simili. Purtroppo, l’unico modo per sapere esattamente cosa stava bollendo in pentola era attendere il dieci febbraio.
***

Quando Marcello arrivò alla villa, il pomeriggio della fantomatica mostra, già una torma di camerieri stava facendo su e giù dalla cucina, portando sul tavolo del buffet un’enorme varietà di delizie e leccornie.
Trovò la ragazza che si muoveva nervosa per la sala, dando disposizioni a tutti, affinché ogni cosa fosse al suo posto e la sala pronta per ricevere gli ospiti.
«
Se continui ad essere così agitata, non arriverai nemmeno a metà serata» notò il biondo, avvicinandosi a lei.
«E come faccio a non esserlo?» gli domandò, torcendosi nervosamente le mani. Indossava un abito color vinaccia con le scarpe abbinate ed aveva raccolto i capelli sulla nuca, lasciando, però, che qualche ciocca le ricadesse sul collo.
«
Potresti almeno provarci, sai?» le fece notare lui, con i suoi soliti modi spartani.
La giovane s’irritò e fece, ironica: «Come sempre mi sei di grande aiuto!»
Marcello fece spallucce, non comprendendo davvero il perché di tanta ansia. In fondo, le attrazioni principali della mostra erano le sculture del Davoli, ma il problema di Vittoria era che prendeva tutto come un fatto personale.
«
Dov’è Gerardo?» domandò lei, guardandosi intorno con aria smarrita.
«
Ha detto che sarebbe venuto intorno alle sei e mezza, dovrebbe essere qui a momenti».
«Spero che non mi dia buca...» sussurrò, affranta.
«Non temere, quando dà la sua parola la mantiene sempre» la rassicurò il biondo, certo di poter mettere la mano sul fuoco riguardo larrivo del suo amico. Nonostante i suoi dissapori con il carciofone, non avrebbe mai lasciato la ragazza sola in un simile momento.
Infatti, nel giro di due minuti, il giovane fece il suo ingresso nel salone addobbato per la mostra, dando ragione alle supposizioni di Marcello.
«
Buonasera, Vittoria. Come stai?»
La giovane si girò di scatto, sciogliendosi in un sorriso radioso.

«
Gerardo, sei venuto!» esclamò, correndogli incontro e buttandogli le braccia al collo.
Sorpreso da tale slancio, il ragazzo ricambiò goffamente l’abbraccio.
«Non... non sarei mancato per niente al mondo» esalò, visibilmente stordito, non aspettandosi un’accoglienza così calorosa.
Marcello rimase a guardarli, scuotendo la testa: se solo avessero trovato il coraggio di essere più onesti l’uno con l’altro e, prima di tutto, con se stessi, avrebbero trovato anche la felicità.
In quel momento, però, due ragazze si avvicinarono a Vittoria, costringendola a staccarsi da Gerardo, per chiederle dove fossero le liste con gli invitati. Il giovane si fece da parte, ancora abbastanza stordito, lasciando che la padrona di casa, adesso visibilmente più tranquilla, continuasse a dare direttive a tutti i collaboratori.
«
Se non fossi arrivato tu, avrebbe dato di matto» confidò il biondo all’amico.
«Cosa?» domandò lui, trasecolato, con lo sguardo fisso sulla donna.
«Lascia stare
» bofonchiò Marcello, pensando che quei due erano davvero un caso senza alcuna speranza.
In quel mentre, quattro uomini forzuti entrarono, portando a spalla una specie di grande pacco avvolto da numerosi teli e il biondo pensò che dovesse trattarsi del pezzo forte della serata, ovvero la statua raffigurante la musa ispiratrice del Davoli. La conferma gli fu data dall’arrivo dello scultore che si avventò sugli operai come una furia, urlando loro contro ogni genere di raccomandazioni e di improperi, temendo che potessero farla cadere.
Fu infine depositata su un grande piedistallo, posto al centro della sala, collegato ad una specie di frigorifero portatile per mantenere bassa la temperatura e far conservare il ghiaccio.

Dopo tutto il caos che aveva procurato quel carciofone, il biondo si augurò che quell’opera valesse davvero tutta la fatica che aveva investito Vittoria nell’organizzazione dell’evento, anche se gli era bastata una rapida occhiata alle altre sculture per rendersi conto che due pezzi di legno e qualche chiodo non potevano essere propriamente definiti arte.
Il Ready-made2, a suo tempo, aveva avuto un gran successo, ma il dubbio estro del Davoli non avrebbe interessato nemmeno un rigattiere.

Finalmente, intorno alle diciannove e trenta gli
invitati cominciarono ad arrivare, popolando il salone e riempiendo l’aria con il loro gran vociare. Marcello riconobbe numerose personalità illustri, tra cui molte autorità del comune e perfino qualche deputato.
Ogni tanto l’amica si avvicinava sia a lui che a Gerardo per presentare loro qualche ospite di riguardo, prevalentemente critici d’arte abbastanza spocchiosi, come ebbero modo di appurare dopo aver fatto la conoscenza del signor Di Renzo, il quale si profuse in un complesso e quanto mai insensato elogio dell’operato di Davoli. E, ancor di più dopo questa conversazione, Marcello dubitò della sua effettiva competenza in materia. Non si sarebbe affatto meravigliato se avesse stentato riconoscere la differenza tra un Canova e un gessetto per lavagne.

Il biondo si era appena voltato verso il suo amico per dire qualcosa a proposito di quel pomposo omuncolo, quando lo pizzicò completamente perso nell’osservare Vittoria. A quanto sembrava, quella sera non riusciva a staccarle gli occhi di dosso nemmeno per un istante.
«
Stasera è proprio incantevole» commentò lui, rispondendo alla tacita domanda che Marcello gli aveva fatto alzando un sopracciglio.
«
Non mi hai mai detto da quanto tempo sei innamorato di lei» gli fece, scrutandolo attentamente.
«Fin da quando eravamo bambini e lei veniva a giocare al parco con i fiori nelle trecce
» sospirò Gerardo, ammirandola in un modo così dolce che l’altro si sentì come se stesse invadendo la sua sfera privata.
Piuttosto, fu qualcun altro a rompere quella perfetta bolla di sapone.

«
Marini, non credevo potessi essere davvero così patetico, la tua stupidità non si smentisce mai!» esclamò Ascanio Colonna, sogghignando malignamente.
«Hai deciso di lasciare il tuo porcile per venire ad infestare questa casa, per caso?» fece Marcello, piantandosi davanti all’intruso e scrutandolo con un’occhiata velenosa.
Tuttavia, Ascanio continuò a ridere e passò oltre, ignorandolo e avvicinandosi a Gerardo.
«Quella è troppo gnocca per te, cercati una racchia del tuo livello
» gli sussurrò con cattiveria, facendolo deglutire. Un paio di secondi più tardi si distaccò, molto lentamente, sorridendogli sardonico, e lanciando al biondo un’occhiata di sufficienza.
Dopo di che abbandonò i due amici, lasciandone uno schiumante dalla rabbia e l’altro depresso fino al midollo.

«Che gran figlio de mignotta» sbottò Marcello, sicuro che nel suo organismo, in quel momento, stesse circolando più bile che sangue.
Tuttavia, Gerardo negò con il capo, malinconico.
«Non c’è bisogno che ti alteri: ha detto la verità. Le ragazze da dieci e lode come Vittoria non si mettono con quelli da sei scarso come me
».
«Non mi dirai che hai dato ascolto alle parole di quel cerebroleso!» si infervorò l’altro, ottenendo in cambio solo una sterile risposta.
«Io ho bisogno di una boccata d’aria. Ci vediamo tra poco».
Il giovane osservò l’amico dirigersi verso il balcone, aprire l’anta e sparire al di là della soglia. La collera che aveva provato fino in quel momento contro Colonna, di fronte all’ostinazione di Gerardo a non credere che Vittoria potesse mai provare qualcosa per lui, sfumò, sostituita da un forte senso di tristezza.
Lanciò, allora, un’occhiata in direzione della statua coperta, scorgendo Bartolomeo che parlottava fitto fitto con la sua assistente. Era certo che non avesse mai rivolto la parola alla padrona di casa da quando era iniziato l’evento, nonostante fosse stato solo merito della ragazza, se aveva trovato qualcuno disposto ad ospitare lui e le sue opinabili opere.
Si guardò intorno, disgustato: non era mai stato un estimatore dell’arte moderna, ma quelle rozze sculture di legno, senza forma né senso, non potevano essere considerate espressione di un bel niente. Altro che disagio della società!
Il primo disagiato era proprio lo stesso Davoli. Eppure, Vittoria era la sua fidanzata, non di Gerardo.
Marcello afferrò un bicchiere di prosecco dal vassoio di un cameriere in movimento e stava per mandarlo giù tutto d’un fiato quando, anche se si trovava in mezzo ad un chiacchiericcio insistente, sentì qualcuno pronunciare a gran voce il suo nome.
Si girò appena in tempo per scorgere Anna Laura che parlava con una ragazza che lui conosceva solo di vista, alla quale stava chiedendo informazioni proprio sul suo conto, volendo forse sapere se era già arrivato.
Posò il bicchiere sul vassoio di un altro cameriere e si nascose dietro uno dei pannelli che facevano da sfondo a due manici di scopa sfregiati che avrebbero dovuto rappresentare, a detta del titolo, il malessere della gioventù moderna.
Il giovane sapeva che da quella postazione poteva vedere perfettamente la donna, anche se lei non poteva fare altrimenti; rimase, perciò, appiattito contro quella finta parete di compensato, in attesa che ci fosse abbastanza folla tra lui e quell’arpia per poter sgattaiolare indisturbato, anche se sembrava che le chiacchiere di quelle due non avrebbero mai avuto fine.
Per fortuna arrivò Guido a distrarla, facendola voltare dall’altra parte.
Sebbene quello fosse il momento migliore per darsela a gambe, il biondo sapeva che se c’erano Tolomei e sua cugina in giro, Beatrice non doveva essere molto lontana. Infatti non tardò a scorgerla tra la moltitudine di persone, distinguendola grazie alla cascata di capelli rossi che le scendevano lungo le spalle,
avvolta in un abito blu con la base della gonna cosparsa di piccolissime pietruzze luccicanti.
Era davvero bella, ma subito la voce della sua coscienze si animò, perentoria, intimandogli di smetterla di contemplarla; così, si ritirò, appoggiandosi con le spalle contro il pannello: sapeva di averle promesso di vederla alla mostra, ma in quel momento non era più tanto convinto di volerla incontrare.
Con quel bacio, poi, aveva superato già una volta il confine di innocente amicizia e sapeva che quella parte istintiva di lui, la stessa che metteva così spesso a tacere, l’avrebbe rifatto senza esitare, se gli si fosse presentata l’occasione.
Fu allora che decise che si sarebbe allontanato in direzione opposta a quella della fanciulla, evitando di incrociare i loro sguardi. Forse si stava comportando da codardo, oppure, semplicemente, non voleva soffrire, vedendo Beatrice andare via con un altro, perché sapeva che sarebbe successo, presto o tardi. Il suo destino era stare solo.
Aveva appena mosso qualche passo in direzione del corridoio che portava alle stanze superiori, però, quando vide Ascanio che tirava per un braccio Maria Luisa: i due stavano discutendo molto animatamente e questo insospettì Marcello.
Il ragazzo la trascinò all’interno del corridoio ed il biondo, senza indugiare oltre, li seguì per scoprire il motivo di tanta agitazione.

Ascanio e Maria Luisa si diressero oltre la quarta porta sulla sinistra, entrando nella stanza che corrispondeva a quella che Marcello riconobbe come la lavanderia. Si appostò accanto al battente, che per fortuna avevano lasciato aperto, e tese l’orecchio, aspettando di far luce sul comportamento sospetto dei due.
«Ciao Marcello!
» esclamò qualcuno, squarciando quel silenzio carico di tensione.
Il giovane sobbalzò, sentendo di essere vicino all
avere un infarto.
«Shhh!» fece, voltandosi di scatto per zittire il suo molestatore: chi era quel rompiscatole che gli stava facendo correre il rischio di essere scoperto da Colonna? Eppure, quando lo scoprì, le parole gli morirono in gola e il cuore fece una capriola.
Forse era destino che quella sera dovesse venirgli un colpo apoplettico.

«Beatrice!»
«Ho visto che stavi venendo da questa parte. Non ci siamo ancora visti e...»
Il biondo stava per risponderle quando sentì le voci farsi più forti, segno che i due stavano per uscire dalla stanza. Elaborando il tutto in una frazione di secondo, prese la fanciulla per mano e le bisbigliò: «Vieni con me, ti spiego tutto dopo».
La trascinò con sé dietro una delle pesanti tende che coprivano le finestre del corridoio e si preoccupò di fermare quanto possibile il movimento della stoffa, così da non far venire a nessuno la curiosità di scoprire se lì dietro c
era qualcuno o no.
«Stai attenta a non fare rumore
» raccomandò severamente alla fanciulla, tirandola vicino a lui. Era pericoloso mettersi ad origliare quello che stava combinando Colonna, ma non poteva perdere quell’occasione per fare un po’ di chiarezza e, d’altro canto, non voleva essere scoperto, né far finire Beatrice nei guai per colpa sua.
«
Sì» fece lei, piano, stringendoglisi contro per occupare meno spazio possibile e non creare correnti d’aria. Uno strano brivido lo percorse da capo a piedi, ma lo scacciò immediatamente, riportando la sua concentrazione sui due litiganti, ancora impegnati nella loro discussione. Aprì un piccolissimo spiraglio tra due lembi del tendaggio e Colonna e Maria Luisa entrarono subito nel suo campo visivo.
«Devi smetterla di bere come una vecchia baldracca ubriacona!» berciò lui, rimproverando e scuotendo fisicamente la giovane.
«Da quando ti interessi di quello che faccio?» gli domandò lei, acida, allontanandolo con un gesto maldestro; doveva aver alzato il gomito, perché che stava cominciando a perdere la coordinazione motoria. Si mise a frugare nella borsetta e, con grande impaccio, ne estrasse un pacchetto di sigarette, portandosene una alla bocca, ma, prima che potesse farlo, Ascanio gliela tolse e la gettò lontano.
«E devi smetterla anche di fumare!» 
«Non puoi dirmi... quello che devo fare...» biascicò lei, mentre pian piano il suo vigore si affievoliva.
«Piantala, non fare la bambina ottusa! Adesso tu tornerai di là con me e starai buona e ferma, mentre io annuncerò il nostro matrimonio
. È chiaro?»
Maria Luisa lo guardò con occhi vitrei.
«
A te non interessa niente di me».
«Tu porti in grembo mio figlio ed io mi sono offerto di prendermi le mie responsabilità. Anche tu devi prenderti le tue, o con i tuoi comportamenti sconsiderati farai male al bambino!»
«D-Dici co-così solo p-perché ti s-serve un erede
» singhiozzò la ragazza.
Un muscolo della mascella di Colonna si contrasse.
«E anche a te serve qualcuno che finanzi tutti i tuoi capricci. Credimi, Maria Luisa, sposarmi sarà la cosa migliore che potresti fare nella tua vita».
«Io v-volevo s-sposare Ma-Marcello» piagnucolò la giovane donna, ormai completamente sopraffatta dall’alcool.
Ascanio si spazientì e l’artigliò per un braccio.

«Tornatore è un perdente! Lui e quel tordo di Marini non si sono nemmeno resi conto che sono stato io a soffiargli l’affare con Carter!
»
Lei non disse nulla, continuando a piangere sommessamente.
«Adesso finiscila di frignare e seguimi. Lascia parlare me e, soprattutto, ricordati che presto sarai la signora Colonna. Mi aspetto da te un comportamento degno del nostro nome».
Maria Luisa annuì, tirando su col naso.
«Signore, siamo pronti, abbiamo già portato la torta» annunciò in quellistante una voce profonda. Marcello si spostò appena e riconobbe l’uomo con la cicatrice che era venuto a discutere con Vittoria del catering.
In un secondo, tutto gli fu chiaro come il sole: era lo stesso che aveva accolto lui e Gerardo al Caffè del Borgo!
«Molto bene» annuì nervosamente Ascanio. Gettò un’occhiata compassionevole alla sua compagna e aggiunse: «Portate anche un bicchiere d’acqua alla signorina, ha bisogno di riprendersi».
Il cameriere fece un rispettoso inchino e tornò sui suoi passi.
«Vieni» sussurrò il ragazzo, con un tono molto più delicato di quello che aveva usato fino ad allora. Poggiò una mano sul fianco di lei e la guidò nuovamente in sala.
Quando Marcello fu certo che il corridoio fosse di nuovo deserto, uscì allo scoperto e aiutò Beatrice a fare lo stesso.
«Adesso sì che tutto ha un senso...
» valutò, meditabondo, fissando la porta che conduceva in sala, dalla quale filtravano luce e voci indistinte. «E devo subito riferirlo a Gerardo» decise, animato da una febbrile irrequietezza: aveva appena appreso molte informazioni interessanti e non vedeva l’ora di ragguagliare il suo amico in merito ai nuovi sviluppi.
«Hai scoperto qualcosa di importante?» gli domandò la fanciulla, incuriosita.
«Direi proprio di sì» le rivelò lui, annuendo. «Ho trovato una spiegazione agli imbrogli di Carter».
Lei lo guardò, pensierosa, come se stesse cercando di riportare alla mente qualcosa.
«
Ricordo questo nome, me ne hai parlato quando son venuta a casa tua per restituirti il cappotto» disse infine. «Comunque, se è vero che quella ragazza aspetta un bambino, lui non dovrebbe trattarla così».
«Colonna non sa cosa sia la delicatezza» sintetizzò il biondo, con una smorfia disgustata.
«Magari, l’è per questo che quella avrebbe voluto sposare te. Se davvero così gettonato?» domandò Beatrice, guardandolo accigliata ed incrociando le braccia al petto.
«Non ne parliamo. Solo a sentire la voce di tua cugina, prima, mi è venuta l’orticaria».
A quella risposta, la fanciulla sorrise, divertita, ma il giovane, consapevole che non era ancora arrivato il momento di rilassarsi, le disse, guardandola serio:
«Dobbiamo tornare immediatamente di là. Devo sistemare alcune cose».
«Ho capito. Questa sera non c’è verso di stare un po’ insieme» gli fece, però, notare lei, amareggiata.
Marcello aggrottò la fronte, scrutandola attentamente: l’espressione di lei tradiva una certa delusione e lui si sentì molto in colpa, pensando che, in un modo o nell’altro, riusciva sempre a trovare il modo di trascurare Beatrice.
Non era facile per lui gestire quell’aspetto, trovava estremamente difficile coordinare la sua vita sentimentale, considerando che non ne aveva mai avuta una. Ed era quella consapevolezza che, puntualmente, veniva ad intaccare il suo equilibrio, come un tarlo che scava le sue gallerie nel legno: Beatrice avrebbe potuto stancarsi di lui prima del previsto.
«Scusami,
hai ragione, ma non sapevo che ci sarebbero stati questi risvolti» le disse, sinceramente dispiaciuto. Seppur, inizialmente, fosse stato lui il primo ad evitarla, adesso non poteva negare di apprezzare molto la compagnia di quella ragazza e il solo vederla lo rendeva felice. 
In risposta, lei si abbandonò ad un sospiro rassegnato.
«Non ti preoccupare, ho capito che si tratta di qualcosa d’importante
».
Il giovane sorrise e si protese verso di lei per darle un bacio sulla fronte, accarezzandole la guancia.
«
Grazie».
Allora, Beatrice incurvò appena la labbra e lui la prese nuovamente per mano, per poi condurla nuovamente verso la sala.

I due ragazzi si separarono non appena furono di nuovo in mezzo alla confusione: Beatrice, dirigendosi verso cugina e fratello, per giustificare la sua improvvisa scomparsa, e Marcello in cerca dell’amico.
Lo aveva appena trovato, quando Bartolomeo richiamò l’attenzione generale con una serie di fastidiosi fischi.
«
Siamo allo stadio?» commentò Gerardo, contrariato dalla poca finezza del soggetto.
«Vi ringrazio per essere venuti a rendere omaggio alla mia arte» esordì, piazzandosi sotto la statua ancora coperta da un telo scarlatto. «Ma anche io devo fare dei ringraziamenti, perché, senza alcune persone, questa serata non avrebbe avuto senso».
Ci fu uno scroscio di applausi, che lo scultore mise a tacere con un gesto della mano.
«Devo dire grazie ai miei collaboratori, Ottone e Ferruccio, per avermi aiutato nella scelta delle opere da esporre e grazie anche alla mia Paula, per essermi stata vicino durante i momenti difficili» proseguì, indicando due ragazzi che erano rimasti nelle retrovie e che risposero all’elogio alzando pigramente il braccio. «E, ovviamente, grazie al mio amico Ascanio per aver offerto il rinfresco!»
L’espressione sul viso di Vittoria si era mutata in una maschera di triste stupore: dopo tutto quello che aveva fatto per la completa realizzazione del tutto non meritava nemmeno un misero ringraziamento pubblico?
Marcello e Gerardo si scambiarono un’occhiata incredula, mentre
Bartolomeo, incurante di tutto questo, fece qualche passo avanti e si avvicinò a Colonna, dandogli una poderosa pacca sulla schiena: «Avanti, siamo tutti orecchie per il tuo annuncio!»
Ascanio ghignò sottilmente e si schiarì la voce, voltandosi verso il pubblico che, letteralmente, pendeva dalla sue labbra.
«Be’, in effetti ho colto l’occasione di questo evento per dire che io e la mia fidanzata abbiamo deciso che ci sposeremo a maggio!
»
Gli astanti presero a battere le mani in maniera beota, come se fossero stati tanti bambolotti elettronici attivati all’unisono.
«Fidanzati? E da quando?
» chiese Gerardo, allibito, fissando la coppia che, intanto, stava ricevendo congratulazioni da quasi tutti i presenti.
Il biondo scosse la testa, preparandosi ad usare un tono elevato per superare le altre voci: «La cosa è molto più complicata di quello che sembra. Prima ho sentito...
» 
«Anche io devo fare un grande annuncio, ispiratomi dalla mia opera» riprese lo scultore, facendo zittire tutti all’istante: era arrivato il momento tanto atteso, ossia lo svelamento della famosa e misteriosa opera.
Ottone e Ferruccio, allora, presero il telo uno da una parte ed uno dall’altra, aspettando che l’artista desse la sua approvazione per toglierlo. Quando finalmente la ricevettero, lo tirarono via e la folla trattenne il fiato. Marcello e Gerardo, invece, furono paralizzati dall’orrore: quella ninfa seminuda scolpita nel ghiaccio non era affatto la loro amica. Si voltarono rapidamente verso di lei, giusto in tempo per vederla impallidire e accasciarsi al suolo, come se fosse rimasta improvvisamente priva di forze.
«Vittoria!» fecero entrambi all’unisono, raggiungendola e sorreggendola.
«Ecco a voi la mia musa ispiratrice, la mia Paula! La vera essenza della femminilità e della sensualità» esclamò Davoli, prendendo e baciando devotamente la mano della sua assistente. «Mi vuoi sposare?»
Quello fu davvero troppo. Marcello sentì le viscere contrarsi per la rabbia
e reclamare una sanguigna vendetta per l’umiliazione che era stata costretta a subire Vittoria. Tutti sapevano che quello era il suo fidanzato ed in molti, a quella fedifraga dichiarazione, si erano voltati verso di lei, lanciandole sguardi pieni di pena e compassione.
Scrutò quell’essere immondo con tutto l’odio di cui era capace, sentendo di fremere dall’impazienza di conciarlo per le feste: era parecchio che non tirava più di boxe, ma non era mai troppo tardi per ricominciare.
Aveva appena deciso di andare a dire a Bartolomeo finalmente cosa pensasse davvero della sua arte, ma Gerardo fu più rapido.
Mentre tutti, compreso Ascanio e la sua futura consorte, erano rimasti senza parole per la proposta di matrimonio inattesa e per il pianto commosso della giovane assistente polinesiana, Marini si avvicinò alla statua, apparentemente per studiarla; subito dopo, però, scoppiò a ridere e nella sala calò di nuovo il silenzio. Adesso tutta l’attenzione era sul giovane, che, consapevole di questo, si girò verso i suoi spettatori.
«Devi correggere la descrizione, perché non coincide con la statua: c’è scritto Promessa di Paradiso, invece a me sembra solo Tradimento di un bastardo».
Il pubblico rimase a bocca aperta, rapito, come se quella reazione fosse il gradito colpo di scena che mai si sarebbe aspettato.
«Vittoria ha dato anima e corpo per questa mostra, perché credeva in te!» gridò Gerardo, indicando la ragazza, rannicchiata tra le braccia di Marcello. «Che bisogno c’era di tutta questa sceneggiata? Non potevi lasciarla e basta? Ovviamente no, perché altrimenti non avresti più avuto una schiava da comandare a bacchetta!»
Si voltò verso il monolite di ghiaccio e
diede un calcio così ben assestato ad uno dei piedi della base d’appoggio, che questo si spezzò. Trovandosi sbilanciata, la statua oscillò pericolosamente per qualche secondo, poi cadde in terra come un birillo, rompendosi in mille frammenti trasparenti, mentre gli astanti indietreggiavano, spaventati.
«Nooooo, la mia arte!» ululò Bartolomeo, tendendo vanamente le mani verso ciò che restava del suo lavoro.
«Non è una gran perdita, tanto faceva schifo» commentò Gerardo, ammirando soddisfatto quell’ammasso ormai informe di acqua congelata. Qualcuno perfino applaudì.
Immediatamente, lo scultore si avventò su Gerardo, con la faccia deformata dalla rabbia, lanciando un urlo disumano, ma il giovane
 non si mosse, sfidando il suo antagonista con lo sguardo.
Marcello stava per dirgli di togliersi, ma intervenne prima Paula, parandosi davanti a Bartolomeo e dicendogli velocemente qualcosa nel suo idioma. Lui le rispose nella stessa lingua, usando un tono molto più aggressivo, tuttavia, alla fine, sembrò spuntarla lei, perché l’uomo si calmò, limitndosi a fissare il ragazzo con astio.
«Posso farne altre cento, una migliore dell’altra» affermò, superbo. «Ottone, Ferruccio, andiamocene!»
Fu così che, senza sapere bene cosa fosse successo, il biondo vide Davoli e la sua squadra abbandonare la sala, lasciando tutti attoniti.

«Fate bene ad andarvene, tornate nella fogna da dove siete venuti!» gridò dietro loro Gerardo. Poi si rese conto che tutti lo fissavano e sbottò: «Be’, che avete da guardare? La festa è finita, tutti a casa. Sciò, aria!»
Un gran chiacchiericcio eccitato prese il posto del silenzio di tomba che aveva regnato fino a quel momento.
Marcello notò vagamente con la coda dell’occhio i genitori di Vittoria, anche loro visibilmente scossi, occupati a congedare gli ospiti. Quando l’amico gli fu vicino gli lanciò uno sguardo sorpreso al quale quello rispose con una debole alzata di spalle.
«Non ti avevo mai visto tanto furioso».
«Quando si tratta di lei, non rispondo delle mie azioni» replicò Gerardo, osservando tristemente Vittoria. Si chinò sulla ragazza e la sollevò dal pavimento, prendendola in braccio.
«Dobbiamo portarla in camera sua» aggiunse, prendendo in mano la situazione. «Fammi strada, aprimi le porte».
Marcello, ancora frastornato da quel nuovo lato del suo amico, finora sempre nascosto, annuì, scendendo dal palchetto e calpestando i frammenti di ghiaccio.
Mentre camminava, però, si guardò anche intorno con la speranza di vedere Beatrice e riuscire così almeno a salutarla, considerando che la serata aveva riservato sorprese poco piacevoli che li avevano fortemente condizionati. Fortunatamente, riuscì ad individuarla mentre scambiava qualche parola con Anna Laura e la salutò con un cenno furtivo, al quale lei rispose con un dolce sorriso, facendo spallucce. 
Avvertì una profonda fitta di insoddisfazione per non essere riuscito a passare più tempo con lei e la parte di lui che non voleva saperne di lasciarla andare protestò: incontrarla fuori dalla merceria non gli bastava più e non si poteva andare avanti sperando che il caso, tutt’altro che generoso, desse loro l’opportunità di vedersi di nascosto.
Sospirò, mentre le voltava le spalle e lei faceva lo stesso.
Avrebbe dovuto affrontare anche quel dilemma, ma, quella sera, la povera Vittoria aveva la precedenza.


Gerardo entrò in camera della giovane con passo lento ed espressione solenne, come se stesse riportando la salma di qualche valoroso guerriero morto sul campo di battaglia.
Attese che Marcello preparasse il letto e ve l’adagiò sopra, coprendola con cura. Infine, si sedette accanto a lei, accarezzandole appena la testa, mentre il suo amico si occupava di tirare le tende e di accendere la piccola abat-jour.
«Avrei dovuto spaccargli la faccia
» sussurrò il giovane, senza spostare lo sguardo dallamica.
«Non avresti risolto niente
» commentò il biondo, accomodandosi sulla poltrona lì di fronte.
«Mi sarei sfogato» lo corresse Gerardo, tremando dall’ira. L’altro non disse niente, consapevole che ciò che era capitato a Vittoria era qualcosa di abominevole: un pubblico tradimento era qualcosa che avrebbe dato da mangiare ai giornalisti di gossip per mesi e mesi, mentre la notizia del matrimonio di Colonna sarebbe stata eclissata con sorprendente rapidità. Sicuramente neanche lui si aspettava un tale risvolto.
Come se avesse percepito che quel nome era nell’aria, Gerardo si voltò verso di lui e gli chiese: «Tu cosa dovevi dirmi, prima? Sembravi piuttosto agitato».
Marcello si sistemò meglio sulla poltrona e si preparò a raccontare.
«
Beatrice ed io abbiamo scoperto chi è il misterioso socio di Carter».
«Tu e Beatrice?
»
«Sì, si è trovata per caso anche lei a sentire» spiegò il biondo, rimanendo sul vago; non era il caso di caricare il suo amico anche delle sue paranoie in merito a quella fanciulla, quella sera erano successe fin troppe cose spiacevoli.
Gli riferì nel dettaglio tutta la conversazione che aveva ascoltato da dietro la tenda, compresa la parte sulla tresca tra Ascanio e Maria Luisa.
Gerardo lo ascoltò con attenzione, non interrompendolo nemmeno una volta; alla fine del resoconto, non sembrò nemmeno più di tanto sorpreso per le novità appena apprese. Spostò lo sguardo sul pavimento, come se stesse riflettendo ed infine disse: «Non so perché, ma è come se l’avessi sempre sospettato. Piuttosto, cosa centra, in tutto questo, luomo con la cicatrice?»
«Pensaci un attimo: Colonna offre di occuparsi del catering ed il capo dei camerieri è l
uomo con la cicatrice, lo stesso che lavora al Caffè del Borgo, guarda caso il luogo che Carter usa come base, qui a Roma».
L’amico si batté una mano sulla coscia, esultando per aver concluso il ragionamento: «
Ma certo! Scommetto che quel locale è di proprietà del caro Ascanio. Ora che ci rifletto, mi pare che lo Stigliano sia un ramo della famiglia Colonna».
Marcello annuì, aggiungendo: «Quel maledetto ha sempre cercato di ostacolarci. Comunque, se mi dai un attimo, possiamo controllare. E se non ricordo male nella biblioteca cè un libro sugli alberi genealogici di tutte le famiglie più illustri dei dintorni».
Si alzò e l’altro stava appunto per imitarlo, quando la voce della ragazza si manifestò come un debole lamento.

«Non andate via... Gerardo, ti prego, resta con me» li supplicò lei, stringendo tra le dita la stoffa della camicia del ragazzo.
Lui rimase per un momento come tramortito, sorpreso che la giovane, nello specifico, avesse fatto proprio il suo nome.
«
Sono qui, resto con te» riuscì a risponderle, rimettendosi seduto e cingendola con un braccio.
Vittoria, rinfrancata, si accoccolò sul suo petto e chiuse gli occhi.
Non sarebbe stato un problema giustificare ai genitori della ragazza il perché della loro permanenza, li conoscevano fin da bambini e sapevano che erano i due migliori amici della figlia; piuttosto, sarebbe stato più problematico spiegare al signor Andrea il perché avessero bisogno di quel libro, giacché l’uomo era un collezionista incallito e meticoloso di volumi d’epoca.
«Ho capito, vado solo io» disse Marcello, già con una mano sul pomello della porta, sperando che il padre di Vittoria fosse anche lui abbastanza sconvolto da lasciargli prendere ciò che voleva dalla biblioteca. Gerardo gli sorrise, riconoscente.
«Sono proprio un idiota. Ho perso tempo facendo finta di stare appresso a Maria Luisa, che ora aspetta un figlio da Colonna, e non ho prestato attenzione a Vittoria, che ne avrebbe avuto bisogno».
Il biondo non aggiunse nulla, ma lo sguardo obliquo che lanciò all’amico parlava da solo.

Marcello rientrò poco dopo, brandendo tra le mani un pesantissimo tomo. Il caso era stato particolarmente misericordioso con lui, giacché il signor Farnese era già andato a letto, colto da una terribile emicrania, e la moglie, anche lei abbastanza provata, gli aveva dato il permesso di prendere tutti i libri che voleva, perciò sarebbe bastato consultarlo rapidamente e andarlo a rimettere al suo posto prima dell’alba.
Quando entrò nella stanza, trovò Gerardo sdraiato accanto a Vittoria, intento a spostarle alcune ciocche di capelli dal viso, contemplandola con una dolcezza tale che, per la seconda volta nel giro della stessa serata, si sentì come se avesse invaso lo spazio intimo del suo amico. Si schiarì la voce, così da segnalare la sua presenza.
«
Allora?» fece quello, per niente turbato, come se fosse appena sceso dalla sua personale nuvoletta. Il biondo si affrettò ad avviare il discorso, così da poter lasciare quanto prima quella stanza e smettere di sentirsi fuori posto.
Con Gerardo e Vittoria si era sempre sentito come tra fratelli, ma ora che il reciproco interesse tra i due stava uscendo allo scoperto, non era più la stessa cosa.
«Ricordavi bene: Stigliano è un ramo della famiglia di quel deficiente, al quale apparteneva il cardinale Ascanio3, suo avo in linea diretta» esordì, aprendo il libro alla pagina che l’indice dava come l’inizio del paragrafo sui Colonna e mettendolo davanti all’altro ragazzo.
«Quindi c’è sempre stato dietro lui, sin dall’inizio!» notò lui, facendo un’efficace sintesi di tutta quell’oscura faccenda.
«È così. Il giorno che abbiamo incontrato Carter per la prima volta, ho incontrato quel truffatore nella libreria di Via della Conciliazione che faceva il civettone con la commessa. Credevo fosse solo un caso, invece no, era lì perché doveva vedersi anche lui con il britannico» bisbigliò il biondo, temendo di svegliare Vittoria. Finalmente aveva il quadro completo della situazione e ogni tessera del mosaico era andata al suo posto.
«Tutto torna. Per lo meno, adesso sappiamo come stanno veramente le cose».
«Già» affermò Marcello, reprimendo con difficoltà uno sbadiglio. Per quella serata aveva dato anche troppo, ora il resto delle domande e delle congetture avrebbe anche potuto aspettare l’indomani, lasciando al suo cervello qualche ora di meritato riposo. Riprese in mano il tomo e lo chiuse con un colpo secco, sistemandoselo poi sotto il braccio e si avviandosi per uscire fuori dalla camera.
«Ed ora dove vai?» fece il suo amico, allarmato.
«A portare indietro il libro. Non vorrei dare il colpo di grazia al signor Farnese, poi credo che mi sistemerò nella stanza degli ospiti» gli rispose, come se fosse stata la cosa più ovvia del mondo.
«E mi lasci così? Nel letto... con Vittoria?» balbettò l’altro, palesemente a disagio.
«Come se a te dispiacesse» fece Marcello, già con un piede fuori dalla stanza. Dal gemito di imbarazzo che udì, comprese che Gerardo avrebbe passato una lunga notte insonne.
***

Guido uscì dalla porta sul retro, stando attento a non fare rumore, così da evitare di svegliare zia e cugina, perché l’ultima cosa che voleva era una discussione a notte fonda. Già aveva dovuto sorbirsi i piagnistei di Anna Laura sul fatto che, come aveva giustamente preventivato, Marcello Tornatore non l’aveva degnata di uno sguardo. D’altronde, nessun ragazzo l’avrebbe fatto, non almeno con Vittoria Farnese in circolazione, bella anche nella totale disfatta che era stata la serata.
Aprì piano il cancelletto ed una sagoma di notevole stazza varcò la soglia.
«Perché volevi vedermi?
» domandò il ragazzo al visitatore.
«I piani sono cambiati, qualcuno mi ha tradito ed ho la polizia alle costole» grugnì l’uomo, emettendo una fitta nuvoletta di vapore.
Guido registrò lentamente ciò che gli era stato detto e avvertì che un sudore freddo già cominciava a depositarsi sulla schiena. Rabbrividì sotto il gelo di quella notte di febbraio.

«La polizia?
» sussurrò, lasciando che le sue parole si perdessero nell’oscurità.
L’energumeno avanzò, allontanandosi dalla siepe e permettendo che la luce aranciata dei lampioni della strada illuminasse il suo viso contratto dalla rabbia.
«Tolomei, sei davvero stupido come sembri: ho gli sbirri alle costole, devo scappare il prima possibile!»
«E cosa vuoi che faccia per te, Navarra?»
«Devi dire a Beatrice di tenersi pronta. Scapperemo all’estero non appena i miei collaboratori mi daranno il via libera» spiegò lentamente l’uomo, come se pensasse che il ragazzo avesse difficoltà di comprendonio.
Lui non riuscì a dire nemmeno una parola, tanto quella rivelazione l’aveva paralizzato: sentì la terra tremargli sotto i piedi e fu colto da un quanto mai spiacevole senso di nausea.

«A proposito,
» continuò lo spagnolo, cominciando a girargli intorno come una belva che ha appena accerchiato una facile preda, «ho fatto delle ricerche sulla tua villa in Toscana: non vale niente e, per giunta, quest’anno il raccolto è a rischio! Credevi che non me ne sarei mai accorto?»
«Io... non...» gracidò il giovane, non sapendo cosa dire. La sua mente era vuota, una perfetta tabula rasa, dove trovava posto solo la consapevolezza che aveva sbagliato a fidarsi di un delinquente come quello.
Aveva avuto l’abilità di scegliersi il peggiore degli aguzzini, uno che stava affondando e si stava trascinando dietro tutti coloro che avevano avuto la sfortuna di stringere un patto con lui.
«Basta così, le tue chiacchiere mi annoiano. Considerati fortunato, per il pagamento mi cederai solo tua sorella» fece Navarra, secco. «Il tuo debito è estinto. D’ora in poi, dovrai dimenticati di avermi conosciuto».
«Tu vuo forse dire che non la vedrò più?»
«No, perché non ti appartiene più. Sei diventato sentimentale, per caso? Non credevo ti importasse così tanto di lei, visto che non hai esitato a venderla quando ti sei accorto di essere nella melma fino al collo!» esclamò, grufolando come un maiale. Fu solo in seconda battuta che Guido si accorse che Navarra stava ridendo.
Eppure non c’era niente da ridere:
stava per perdere Beatrice per sempre. 





***
Per la revisione di questo capitolo, ringrazio Lady Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la grafica del titolo è opera mia.
Ringrazio la mia Anto per aver letto tutto questo in anteprima.
***

[N.d.A]
1. passere: in dialetto toscano, termine colorito per indicare le belle ragazze.
2. Ready-made: definizione che, in ambito artistico, indica oggetti di uso comune, modificati o meno, che vengono utilizzati per fare arte, molto in voga negli anni 
20.
3. cardinale Ascanio: il ramo Stigliano appartiene davvero alla famiglia Colonna. Il cardinale Ascanio (1560-1608) ne faceva parte. 
***

Salve a tutti!
Come avete avuto modo di vedere la trama s
infittisce. Ribadisco che questa non è solamente una storia romantica, ha tante altre sfaccettature che spaziano in molti ambiti, giacché mi piace creare racconti quanto più variegati e dettagliati. Ma credo che questo si sia abbondantemente capito.
Dal prossimo capitolo sarà presente una nota più di suspence (non credo sia questo il termine giusto, magari me ne suggerirete voi uno più appropriato).
Ringrazio chi ha avuto la gentilezza di recensirmi lo scorso capitolo, dedicandomi tempo ed energie, chi ha messo questo racconto nelle preferite/ricordate/seguite, chi legge solamente, chi viene a dare un’occhiata, di tanto in tanto, cercando di capire dove voglio andare a parare, chi sta avendo pazienza e fiducia in me e nel fatto che, prima o poi, questa storia avrà una conclusione, chi, in un futuro anche lontano, mi farà pervenire un suo parere.
Ho deciso di lasciarvi solo il link alla mia pagina facebook, in quanto credo che sia più pratico e veloce, vi troverete diverse cose e, nei prossimi giorni, uno spoiler del capitolo decimo, previsto per la metà di Febbraio (studio permettendo).
Volevo precisare che non è una pagina dedicata solamente a questo racconto o alle mie storie in generale. In realtà, l’ho ripresa in mano da poco, quindi ancora non è particolarmente attiva, anche se conto di farla diventare più funzionale nel corso del tempo. 
Bene, credo di aver chiacchierato abbastanza per oggi. 
Alla prossima, per chiunque vorrà continuare a seguirmi.
Halley S. C.

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Capitolo 10
*** Capitolo Decimo - Vento di Verità ***


Vento dell'Ovest - Capitolo 10



- Capitolo Decimo -
Vento di Verità




D
opo lo sfacelo della mostra, come era prevedibile, Vittoria era entrata in uno stato di depressione dal quale sembrava non volesse uscire tanto presto; i suoi due amici andavano a trovarla ogni giorno, ma erano più le volte in cui li rimandava indietro, che quelle in cui li faceva entrare in camera e, quando ciò accadeva, non diceva una parola, limitandosi a fissare fuori dalla finestra, sospirando di tanto in tanto. Per loro, che erano abituati a vederla sempre allegra, vitale e con la battuta pronta, quella situazione era davvero surreale.
Purtroppo, non furono risparmiate maldicenze sulla ragazza, sul suo ex fidanzato e sulla relazione clandestina di lui con la propria assistente.
L’unica nota positiva fu che alle orecchie di Vittoria, vivendo così reclusa, arrivarono solo gli ultimi echi, che lei ignorò, non volendo più nemmeno sentir nominare Davoli; inoltre, essendo imminenti le nozze di Ascanio Colonna con Maria Luisa, nel giro di due settimane, l’attenzione degli interessati ai pettegolezzi si spostò su di loro e l’intera faccenda della mostra fu presto archiviata.
Tuttavia, il problema di Marcello restava la situazione dei suoi migliori amici, i quali si trovavano in condizioni uno peggio dell’altra: se, da una parte, la giovane era diventata apatica e indolente, dall’altra Gerardo stava appassendo con lei, risentendo del suo umore e della sua poca voglia di reagire.
Il biondo riteneva che, ora che Bartolomeo era solo un lontano e spiacevole ricordo, il suo amico avesse tutte le carte in regola per farsi avanti con Vittoria, così che entrambi potessero riprendere a vivere. Avrebbe tanto voluto fare qualcosa di concreto per aiutarli, ma non sapeva proprio cosa.
Inoltre, ancora non aveva avuto modo di scusarsi con Beatrice per il suo comportamento durante la mostra, giacché, anche se era andato a trovarla diverse volte alla merceria, nessuno dei due aveva mai menzionato quella sciagurata serata.

Un pomeriggio particolarmente caldo per la stagione, Marcello decise di uscire prima dall’ufficio, così da avere modo di riordinare le idee e scaricare la tensione, avvalendosi dell’infallibile metodo che gli aveva consigliato il comandante dei Vigili del Fuoco, ai tempi del servizio di leva1: prendere a pugni un sacco da boxe.
Ormai febbraio si era tramutato in marzo, dando spazio a giornate più luminose e a temperature meno rigide, e sugli ippocastani del Lungotevere erano già comparse le prime gemme. Il giovane, con in spalla un borsone nero, lasciò presto la strada principale per addentrarsi nelle stradine più interne, fino ad arrivare al numero settantanove di Via del Pellegrino, laddove c’era la piccola palestra gestita dall’anziano signor Nardone, ex campione di pugilato nella classe dei pesi medi.
Era un unico ambiente con due entrate, non particolarmente ricco di attrezzi e nemmeno troppo frequentato a quell’ora: solitamente, c’erano solo tre o quattro ragazzi, frequentatori abituali che Marcello conosceva benissimo e con i quali, talvolta, disputava qualche incontro per mettersi alla prova.

Essendo entrambe le porte aperte, già da fuori si sentiva la canzone che la radio stava passando in quel momento, If You Love Somebody Set Them Free di Sting. Il giovane la riconobbe subito, perché Vittoria gli aveva propinato The Dream of the Blue Turtles2 fino alla nausea, con la scusa di dover ripassare i testi delle canzoni prima di andare al concerto del cantante inglese. Era sempre stata, come la stragrande maggioranza delle sue coetanee, una fan entusiasta delle band musicali straniere e, quando riusciva, non si lasciava sfuggire l’occasione per andarli a vedere dal vivo.
Eppure, in quel frangente, di quella vivace ragazza sembrava che fosse rimasta solo l’ombra.
Marcello scosse la testa ed entrò, salutando il proprietario che, come al solito, era seduto sullo sgabello nell’ingresso. Era un uomo molto alto, con due baffoni bianchi, un cappello blu con la visiera e
un fischietto appeso al collo di cui faceva largo uso per richiamare l’attenzione di chi stava sbagliando qualcosa nell’eseguire gli esercizi.
«Buongiorno, Marcello!» ricambiò Nardone con energia. Il ragazzo gli si avvicinò e notò che aveva il giornale aperto sulla pagina della cronaca estera, la quale ricordava la strage, avvenuta tre giorni prima, dei centonovantatré morti dell’Herald of Free Enterprise3 al largo delle coste del Belgio.
«È un po’ che non ti si vede in giro, dov’eri finito?»
«Abbiamo avuto un po’ di gatte da pelare».
«Lavoro?» s’informò l’uomo, incrociando le braccia sul tavolo e, di conseguenza, sul quotidiano che stava leggendo.
«Già» fece il giovane con una scrollata di spalle.
Nardone lo studiò severamente, mentre si accarezzava il mento coperto da un’ispida barba: «Ragazzo mio, te l’ho detto tante volte: non puoi pensare solo al lavoro!»
«Mi occupa molto tempo, è abbastanza impegnativo» rispose il biondo, sapendo con anticipo dove volesse andare a parare il suo interlocutore: non era la prima volta che lo esortava a trovarsi una fidanzata. Infatti, l’uomo continuò: «Ho capito, ma dovresti distrarti, ogni tanto. Perché non cominci ad uscire con quella ragazza tanto carina e gentile? Quella che viene ad aspettarti spesso alla fine di ogni allenamento».
Ovviamente, la ragazza in questione era Vittoria, la quale si era spesso ritrovata a parlare con l’anziano pugile, considerata la sua spiccata capacità di intavolare una conversazione con chiunque, sassi compresi. Al signor Nardone era sempre stata molto simpatica e aveva espresso da subito la sua propensione a vedere lei e Marcello come una bellissima coppia.
Se il giovane non fosse stato più che certo delle buone intenzioni del suo allenatore, lo avrebbe paragonato senza esitazione alla sua perfida madre.
«Gliel’ho già detto che Vittoria è solo un’amica. Anzi, è come se fosse mia sorella» rispose il ragazzo, pazientemente. «E poi c’è già qualcun altro per lei».
Marcello non se la sentì di aggiungere che, in quel periodo, Vittoria era giù di morale proprio a causa del suo ex fidanzato. D’altra parte non era importante e poi quella ragazza era già stata abbastanza sulla bocca di tutte le pettegole, non c’era bisogno di farle altra cattiva pubblicità, anche perché il ragazzo era certo che lei non volesse la compassione degli estranei.
«
Un bravo ragazzo come te?» chiese l’uomo, dubbioso.
«Anche meglio di me!» esclamò il giovane, seriamente convinto che Gerardo fosse il meglio che la sua amica potesse avere. Dove l’avrebbe trovato un altro così innamorato di lei?
Il problema era solo convincere quei due testoni a parlarsi, ad ammettere di essere reciprocamente persi l’uno per l’altra, a confessarsi i loro sentimenti, sperando che nessuno dei due si facesse prendere da qualche stupida paranoia e mandasse quindi tutto all’aria. Facile a dirsi, un po’ meno a farsi.
Il signor Nardone brontolò qualcosa e riprese a leggere il giornale, mentre Marcello, sorridendo, si avviava verso gli spogliatoi, ricambiando i saluti dei ragazzi che si stavano già allenando.
Mentre indossava fascette e guantoni, rifletté sul fatto che, forse, non era la persona giusta per convincerli a dichiararsi, anzi, il fatto che ancora non fosse riuscito a dire alla sua rossa fiorentina quanto gli piacesse, la diceva lunga sulle sue capacità di esperto in relazioni amorose.
Tuttavia, una soluzione andava trovata ed anche alla svelta, perché non era assolutamente disposto a vedere i suoi due migliori amici sguazzare nella depressione fino alla fine dei loro giorni e, a dirla tutta, voleva almeno giustificare a Beatrice perché, quella sera, l’avesse baciata con tanto trasporto. Non era ancora sicuro che le cose tra loro potessero funzionare, ma voleva dare a quella ragazza le attenzioni che meritava e, magari, farsi perdonare per averla trascurata in occasione della mostra.
Dopo essersi piazzato di fronte all’unico sacco da boxe ancora libero, gli diede una piccola spinta per farlo oscillare avanti ed indietro, concentrandosi sul suo movimento.
E se... la soluzione fosse stata proprio sotto il suo naso? In fondo, Beatrice era una ragazza, quindi doveva essere più predisposta di lui verso le questioni come i sentimenti, gli affetti e così via, pertanto avrebbe potuto dargli un buon consiglio. Senza contare che avrebbe anche potuto cogliere l’occasione per scusarsi con lei.
Marcello fermò il sacco, deciso, prima di colpire. Forse aveva capito cosa fare, sempre che la giovane, dopo tutto, fosse ancora disposta ad ascoltarlo.
***

Nonostante l’illuminazione stradale lasciasse molto a desiderare, il giovane notò che le facciate dei palazzi che davano su Via Merulana erano pesantemente annerite dallo smog: da quando era aumentata la vendita di automobili, il problema dell’inquinamento si stava facendo sempre più evidente.
Superò l’imponente facciata della basilica di Sant’Antonio al Laterano4 e, poco dopo, svoltò per raggiungere la casa dove risiedeva Beatrice. Quel pomeriggio, in palestra, aveva avuto una così chiara visione di quello che avrebbe dovuto fare, che non aveva ritenuto sensato aspettare oltre: era tornato di corsa a casa per farsi una doccia e cambiarsi, per poi uscire di nuovo, stando ben attento ad evitare sua madre e l’interrogatorio che sarebbe scaturito da un loro accidentale incontro.
In effetti, la fanciulla non sapeva ancora che sarebbe passato a trovarla e Marcello sperò che accettasse comunque di parlargli.
Una volta non gli sarebbe passato nemmeno per l’anticamera del cervello di andare a trovare una ragazza a casa sua, soprattutto dopo le dieci di sera, a causa sia della sua apatia cronica nei loro confronti, sia del suo rigore morale, ma, da quando aveva conosciuto Beatrice, aveva imparato ad ascoltarsi di più e a seguire maggiormente il suo intuito. 
Presto, si trovò davanti quella catapecchia di Villa dei Salici e il giovane decise di appostarsi al cancello mantenendosi però lontano dall’entrata principale, poiché, anche se sapeva perfettamente che quel balordo di Guido non rincasava mai prima delle due, si ritrovò a pensare che la prudenza non era mai troppa.
Ora, l’ultima cosa rimasta da fare era cercare di far uscire Beatrice, ma come? Suonare il campanello era fuori discussione, per una serie di ovvi motivi; le stanze da letto, invece, erano tutte al piano di sopra, ma non sapeva quale fosse quella di Beatrice, altrimenti avrebbe potuto adottare il vecchio e caro metodo dei sassolini lanciati contro la grondaia, così da richiamare l’attenzione della fanciulla.
Nella smania di andare a parlare con lei aveva dimenticato questo piccolo, seppur fondamentale, dettaglio. 
Evidentemente, però, qualcuno doveva aver a cuore la sua situazione, perché non aveva nemmeno cominciato a rimproverarsi per non essere stato più attento, che la ragazza, come chiamata, uscì fuori in giardino, con un sacchetto dell’immondizia stretto in una mano.
Scese gli scalini e si diresse verso un secchio di plastica, dove buttò la spazzatura per poi richiuderlo accuratamente, probabilmente per evitare che qualche gatto randagio facesse manbassa degli avanzi e sparpagliasse il resto in giro sul prato e sul mattonato esterno.
Non credendo alla propria fortuna, il biondo la chiamò, senza pensarci due volte: 
«Beatrice!»
Lei si arrestò e si irrigidì di colpo, come spaventata. Voltò lentamente la testa verso la direzione da cui le era parso di sentire la voce e, dopo averlo riconosciuto, rimase ancor più stupita: «Marcello, ma se’ proprio tu?»
«Buonasera» la salutò lui, sorridendole con un velo di malinconia: indossava il pigiama, con sopra una felpa più grande della sua taglia, i capelli raccolti in una coda alta, e sembrava ancora più piccola di quello che effettivamente era.
«Cosa ci fai qui?» gli domandò, talmente vicina che li divideva solo la cancellata: molto tempo prima doveva essere stata verde, mentre ora, invece, era tutta arrugginita.
Marcello non rispose subito, prendendosi un istante per riordinare le idee.
«Avevo bisogno di parlarti, se possibile. Avrei... un consiglio da chiederti e una cosa da dirti».
Beatrice rimase a fissarlo qualche secondo di troppo. Forse pensava che fosse impazzito? Be’, effettivamente, era stato un po’ sconsiderato a non avvisarla prima.
«È successo qualcosa di grave?» chiese lei, visibilmente preoccupata.
«No, niente, ma non sapevo quando sarei potuto passare in merceria, quindi ho preferito venire qui» la anticipò lui, avendo intuito cosa stava pensando. «Non volevo disturbarti».
La fanciulla agitò freneticamente una mano aperta, affrettandosi a rispondere: «No, no, nessun disturbo! Solo... Ammetto d’esser sorpresa, non pensavo ti fidassi così tanto di me da chiedermi un consiglio e...»
«Beatrice» la interruppe lui, severo, «io mi fido del tuo giudizio. Hai dimostrato tante volte di essere una ragazza intelligente».
Lei si bloccò e spostò immediatamente lo sguardo verso il basso, come se quell’affermazione l’avesse imbarazzata. Seguì una piccola pausa di silenzio e poi lei riprese, cambiando argomento:
«Purtroppo non posso aprirti, Guido ha sequestrato tutte le chiavi di questo cancello, lo crede una possibile via di fuga per me».
Marcello osservò le sbarre fatiscenti: se qualcuno avesse voluto davvero scappare, avrebbe potuto benissimo far cadere quel ferro vecchio con un colpo secco, senza bisogno di alcuna chiave. 
«Lo ha fatto perché hai provato a scappare?
» si informò il biondo, osservandola con curiosità.
Beatrice sbuffò, rispondendo:
«No, Guido non brilla per ingegno. Ha un sacco di idee strampalate».
«Pensi che, non vedendoti rientrare, verranno a cercarti?» chiese, allora, il ragazzo, guardando in cagnesco la porta sul retro.
«Ho finito tutte le faccende che m’hanno assegnato. La zia dorme come un ghiro. L’Anna Laura è fuori con le su’ amiche e i’ mi’ fratello a giro, al solito».
«Ah».
La ragazza fece una smorfia, come se ritenesse i comportamenti dei suoi parenti talmente menefreghisti da non poter essere nemmeno commentati.
«
Comunque, cosa volevi chiedermi?»
Marcello, seppur a malincuore, decise di lasciar perdere gli insulti che avrebbe volentieri rivolto a Guido e compagnia, rispondendo alla domanda: «Riguarda Gerardo e Vittoria».
Beatrice annuì, facendogli capire che aveva inteso di chi parlasse e che, quindi, poteva proseguire.

Il ragazzo pensò di esprimere la situazione a grandi linee, sia per essere breve, dato che non sapeva quanto tempo avesse a disposizione prima che rincasasse qualcuno, sia per rispetto nei confronti dei suoi amici.
«Dopo quello schifo della mostra,
stanno passando un brutto momento e sono certo che, se si parlassero tra di loro, starebbero meglio. Solo che ogni volta che Gerardo ed io andiamo a trovare Vittoria, è sempre peggio, adesso a malapena ci fa entrare. Come posso aiutarli?»
Beatrice si fece pensierosa per un attimo, incurvando le labbra in una buffa espressione riflessiva. Lui, nel vederla così assorta, si ritrovò a sorridere, malinconico, prendendo consapevolezza della verità: distaccarsi da quella ragazza, per lui, era oramai diventato davvero difficile.
«E credo che la risposta sia ovvia: devi lasciarli un po’ soli
».
«
Soli?» ripeté il biondo, riflettendo su quella risposta semplice, seppur molto giudiziosa.
«Sì, devono parlarsi e se tu se’ con loro, non credo che si sentan liberi. Se dovessi confidarmi con qualcuno, non vorrei che ci fossero altri con noi, anche se si trattasse d’un amico di vecchia data» spiegò lei, facendo spallucce.
Marcello dovette ammettere che non ci sarebbe stato nulla di più sensato da fare: in effetti, quando Gerardo era andato a trovare Vittoria, lui era sempre stato presente, costituendo involontariamente un ostacolo per i due amici.
«Hai ragione. Noi tre abbiamo vissuto talmente tanto in simbiosi che mi era sfuggita questa cosa così palese
» mormorò, soprappensiero. Poi spostò il suo sguardo su di lei e le sorrise, riconoscente.
«
Grazie».
«Figurati, non ho fatto niente
» si schermì la ragazza. «Invece, qual è l’altra cosa che volevi dirmi?»
Questa volta, Marcello si prese un po’ di tempo in più per organizzare il discorso: non era un semplice consiglio, erano delle vere e proprie scuse e voleva che Beatrice capisse che erano sincere. Sapeva di non essere molto bravo in queste cose, ma cercò di impegnarsi.
Adesso sapeva di tenere molto a quella ragazza e voleva che tra di loro le cose fossero quanto più limpide possibili.
«
Mi dispiace di essere stato così scortese con te, la sera della mostra» le disse, con grande fermezza nella voce.
La fanciulla si sciolse in un dolce sorriso, come se non si aspettasse una simile affermazione.
«Avevi appena scoperto una cosa importante per il tuo lavoro, se’ giustificato
».
«No, non è così. Sarebbe stato più giusto passare del tempo con te» ribadì lui, convinto, non avendo la minima intenzione di liquidare sbrigativamente la faccenda. Era ora di tirare fuori nuovamente l’argomento che aveva evitato fino ad allora, perché era arrivato il momento di mettere le cose in chiaro e cominciare a definire il loro rapporto.
«Beatrice, quello che è successo tra di noi, davanti alla Fontana di Trevi, non è stato solo un capriccio, io non voglio e non ho mai voluto una ragazza solo per divertimento
».
Avrebbe tanto voluto spiegarle che non era mai stato bravo con le parole e che il suo carattere poco espansivo non lo aiutava ad esprimere al meglio tutto quello che provava per lei, perciò decise di compensare con la sincerità l’assenza di una qualche vena poetica o sentimentale.
«
Se ti ho baciata, è perché desideravo farlo».
Non era certo un’appassionata dichiarazione d’amore, ma era pur sempre un punto di partenza sul quale avrebbe potuto lavorare per migliorarsi.
Anche se era piuttosto buio, Marcello fu quasi certo che Beatrice fosse arrossita. Di sicuro, doveva essere rimasta abbastanza stupita, come congelata, stringendosi nella felpa e qui lui si chiese se avesse esagerato.
Tuttavia, non ebbe tempo di rispondersi, perché la risposta della fanciulla non arrivò a tardare: un sussurro lieve, ma deciso nel tono.
«
E se ho risposto al bacio, è perché l’ho voluto anch’io».
Si fissarono per quelli che poterono essere pochi secondi o molte ore, sotto quella fioca illuminazione, separati da un cancello pericolante, in strada lui, in mezzo alle erbacce lei.
Non era giusto continuare a vedersi così, strappando occasioni ad un destino poco condiscendente.
Fu proprio allora che, però, la quiete della notte venne bruscamente interrotta da versi stonati: qualcuno stava intonando uno stornello molto volgare e nessuno dei due ragazzi faticò a capire di chi si trattasse.

«
Sarà meglio rientrare. Anche se ubriaco, Guido potrebbe venire a ficcanasare qui» disse la ragazza, infastidita, lanciando un’occhiata seccata alla finestra della cucina, adesso illuminata da un alone lattiginoso.
Il biondo annuì, non troppo convinto di volerla lasciare andare. Neanche a lei doveva piacere molto l’idea, giacché non si mosse di un millimetro. Però, poi, dopo pochi secondi, sospirò e gli disse:
«Buonanotte, Marcello».
Lui, prima che potesse allontanarsi le prese delicatamente la mano e se la portò alle labbra, posandovi sul dorso un lieve bacio.
«Buonanotte, Beatrice. Grazie di tutto».
La ragazza esitò e solo dopo un lungo, interminabile istante ritirò lentamente a sé il braccio, avvicinandoselo al petto. Gli sorrise timidamente e si voltò per rientrare.
Marcello rimase a guardarla finché non sparì, inghiottita da quella casa che per lei era solo luogo di sofferenze. Quando la porta sul retro fu richiusa con un tonfo, si cacciò le mani in tasca e si incamminò verso casa.
Che senso aveva auto-infliggersi la punizione di starle lontano, adesso che aveva capito cosa provava davvero per lei? E, soprattutto, quanto poteva essere sbagliata una relazione basata sulla propria volontà di veder felice l’altra persona?
***

Gerardo stava fissando il campanello del portone della casa di Vittoria da almeno dieci minuti, indeciso se suonare o meno.
Sarebbe dovuto esserci anche Marcello con lui, ma l’amico l’aveva chiamato verso l’ora di pranzo, dicendo che era insorto un impegno imprevisto che l’avrebbe tenuto occupato fino a sera ed era stato seriamente tentato di evitare di andare a casa della ragazza, data la particolare situazione, poiché ritrovarsi da solo con lei in quello stato lo metteva a disagio, ancor di più che se Vittoria fosse stata quella di sempre.
Ma ora, finalmente si era tolto quel carciofone dai piedi e non solo, alla luce dei nuovi fatti di cronaca che l’avevano visto protagonista qualche giorno prima, le vicende stavano andando di bene in meglio: Bartolomeo e Paula, infatti, erano stati arrestati per traffico di stupefacenti.
Appresa la notizia, Gerardo ipotizzò che dovessero sapere di essere nel mirino della polizia già da tempo, poiché questo spiegava perché, la sera della mostra, lo scultore aveva deciso di dare ascolto a ciò che aveva detto la sua assistente e di non rispondere con le mani all
affronto che gli aveva fatto.
Come se non fosse stato maggiore quello
che quel delinquente aveva inflitto alla sua Vittoria.
Avrebbe dovuto essere contento di tutto quello, eppure non ci riusciva, non con lei in quello stato: lo faceva stare male vederla costantemente sofferente per l’umiliazione subita, un’offesa che non meritava. Ed era stata proprio il desiderio di accertarsi circa il suo stato di salute, che l’aveva spinto ad andarla a trovare quel pomeriggio.
Alla fine, prima di ripensarci per l’ennesima volta, decise di suonare.
I dieci secondi che passarono tra il suo gesto e l’apertura del cancello furono tremendi, giacché il ragazzo valutò accuratamente la possibilità di darsela a gambe. In fondo, poiché nessuno lo aveva visto, avrebbe potuto defilarsi senza timori, se non fosse che il caso non doveva essere dalla sua parte, quel giorno, dato che fu proprio la signora Irene ad aprirgli.
«Oh, ciao Gerardo! Che piacere vederti, sei venuto a trovare Vittoria?» lo salutò allegramente la donna, venendogli incontro sul vialetto di ciottoli grigi.
«
Ehm, sì...» le rispose il giovane, esitante. «Come sta oggi?»
La madre della ragazza scosse la testa, con aria affranta. Era quasi un mese che la figlia non metteva il naso fuori di casa.
«
Come al solito, ma vederti le farà bene» affermò, guardandolo tra il benevolo e lo speranzoso. «A noi non risponde, spero che con te lo faccia».

Il pettirosso che si era poggiato sul ramo del nespolo di fronte la guardava con la testolina leggermente inclinata di lato, come se volesse chiederle il perché della sua tristezza.
Intenerita, Vittoria poggiò una mano sul vetro freddo, quasi a voler avvertire quel piccolo animaletto di starle lontana il più possibile, onde evitare di venir contagiato dalla sua malinconia.
Non le importava nulla dei pettegolezzi feroci che dovevano aver allietato numerosi ritrovi dell’alta società nelle ultime settimane, perché sapeva perfettamente che le altre ragazze la consideravano una poco di buono; non le importava neanche del fatto che Bartolomeo era stato messo in gattabuia e ci sarebbe rimasto a lungo e nemmeno di essere venuta a sapere della tresca tra Ascanio Colonna e Maria Luisa Foscari e delle sue conseguenze.
La partecipazione di nozze che le avevano mandato, infatti, era rimasta dove l’aveva posata sua madre: sulla scrivania, sola e abbandonata a se stessa, esattamente come si sentiva lei in quel momento.
Era stata una stupida a non aver troncato l’insana relazione con Bartolomeo al primo schiaffo che le aveva rifilato, a pensare che il tempo potesse trasformare in amore quello che non sarebbe potuto essere nemmeno stima, mentre negava al suo cuore di star rinunciando all’unico uomo di cui valeva davvero la pena innamorarsi.
Con i ragazzi aveva avuto successo fin dall’adolescenza, peccato che a lei fosse sempre interessato il più schivo e timido dei suoi due migliori amici, gli unici uomini con cui si trovava davvero a suo agio, forse perché non la consideravano una preda, ma una persona con cui avere un rapporto d’affetto alla pari.
In Marcello, infatti, aveva sempre visto il fratello che le sarebbe piaciuto avere e che nell’ambizioso Leandro, che non si era scomodato nemmeno a venire in occasione della mostra, non aveva mai trovato; mentre in Gerardo aveva trovato quello che sarebbe volentieri corrisposto al prototipo dell’uomo della sua vita.
Tuttavia, sebbene la faccia tosta non le mancasse, non aveva mai avuto il coraggio di dirgli che lo amava dal giorno in cui al parco, da bambini, le aveva goffamente regalato una margherita di campo; allora si era innamorata di quel bambino così timido che arrossiva sempre, il quale era diventato l’uomo riservato e rispettoso che era il suo Gerardo. Purtroppo, aveva l’impressione che lui la considerasse troppo frivola e chiassosa per i suoi gusti.
Eppure, con Maria Luisa aveva preso un enorme abbaglio, considerandola una ragazza dolce e posata.
In quel momento, a Vittoria scappò un sottile sorriso di trionfo, mentre lanciava un’occhiata ironica alla partecipazione buttata lì sulla scrivania: la ragazza si era dovuta piegare ad un matrimonio riparatore con Colonna per non farsi svergognare in pubblico, ammettendo di aspettare un figlio illegittimo.
Sinceramente, poco le importava della sorte di quei due, visto che l’unica vera soddisfazione, per lei, era sapere che Gerardo non avrebbe sposato una sciocca viziata come quella, che avrebbe dilapidato le sue finanze nel giro di qualche mese.
Il senso d’oppressione, però, tornò a farsi sentire quando realizzò che il giovane, ormai svincolato da ogni progetto, avrebbe potuto trovare un’altra donna, magari quella perfetta per lui e quel pensiero le causò immediatamente una dolorosa fitta alla pancia che la costrinse a piegarsi in due.
L’avrebbe visto corteggiare un’altra, diventare di un’altra, sposare un’altra...
Fu allora che qualcuno bussò energicamente alla porta, facendola quasi cadere dalla poltrona e spaventando il pettirosso, che volò via con un frullo dali.
La giovane si mise in piedi con qualche difficoltà: aveva passato talmente tanto tempo seduta o rannicchiata, che quasi sembrava aver dimenticato come si facesse a camminare, pertanto impiegò qualche secondo di troppo per arrivare alla porta.
«Mamma, ti ho già detto che non...
»
Ma non era sua madre e nemmeno suo padre: era l’ultima persona che avrebbe immaginato di trovare lì.
«
Gerardo!» esclamò, pensando per un istante che fosse solo un miraggio.
«
Ho provato a chiamarti, ma il telefono...» le cominciò a dire il ragazzo, prima di interrompersi bruscamente. Divenne di colpo scarlatto e poi, fulmineo, le diede le spalle.
«Adesso che c’è?» gli chiese, confusa, domandandosi che cosa avesse potuto fargli per meritare un simile atteggiamento. Sapeva di non essere al massimo della forma, ma nemmeno così ripugnante da non meritare nemmeno di essere guardata negli occhi. 
«Non sei... Insomma, la vestaglia... si vede...» balbettò, allora, in risposta l’altro.
Sempre più perplessa, Vittoria mise su un cipiglio severo e fissò la schiena del suo amico, aprendo appena la bocca per dirgli che non era nella disposizione d’animo per agghindarsi, quando si decise
a guardarsi e comprese il perché di tale comportamento: gli aveva aperto in vestaglia discinta e biancheria intima.
A sua discolpa, la ragazza poteva dire che non sapeva che lui sarebbe passato a trovarla, però, era anche consapevole che, se l’amico avesse voluto avvisarla chiamandola al telefono, l’avrebbe trovato staccato. Infatti, Vittoria aveva deciso di isolarsi per non dover essere costretta a rispondere a tutti i pettegoli che volevano farsi i fatti suoi.
«Oh, hai ragione, io...»
«T-Tu fai co-con calma, c-ci vediamo dopo in salotto!» le fece lui, nervoso, allontanandosi rapidamente.
Stranita per quell’inconveniente, la ragazza lo guardò percorrre a ritroso il corridoio per poi svoltare l’angolo. Certamente, se fosse stato Marcello a vederla in quello stato, non ne avrebbe fatto un dramma e al massimo l’avrebbe guardata con disapprovazione, scuotendo la testa ed esortandola a riprendersi.
Ma, d’altra parte, fu proprio quella considerazione che la portò ad elaborare un’altra teoria e un sorriso birichino si affacciò prepotentemente sulle sue labbra: se l
altro aveva reagito in maniera così esagerata, forse, non gli era tanto indifferente.
***

Nella penombra del salotto, Gerardo passeggiava nervosamente davanti al caminetto acceso, lasciando che le fiamme proiettassero su di lui drammatici riflessi di luce aranciata, in netto contrasto con le zone del volto rimaste nell’oscurità. Non riusciva a sedersi e nemmeno a scacciare dalla sua testa la paradisiaca visione che aveva avuto poco prima, avvertendo le guance che ribollivano ancora per il grande imbarazzo: se già in condizioni normali trovava difficile stare accanto alla ragazza e controllare le sue reazioni, ora sentiva che anche quell’ultimo briciolo di autocontrollo rimasto era andato prontamente a farsi benedire. 

Non voleva sentirsi il pervertito di turno che la guardava famelico, anche se sapeva che il suo modo di guardarla, per quanto desideroso, non sarebbe mai sceso nella volgarità, dato che lei era la donna che amava da ancor prima di capire cosa fosse sul serio l’Amore. Aveva passato anni interi a scrutare disgustato i ragazzi che si mangiavano Vittoria con gli occhi, giacché loro si fermavano solo all’apparenza, alla bellezza e all’allegria con la quale conquistava tutti; solo lui, infatti, conosceva l’altro lato della giovane, quello triste, malinconico e perfino timoroso. Aveva avuto tempo e modo di studiarla a fondo, di imparare a riconoscere i primi segni dei suoi malumori e i suoi silenzi, durante gli interminabili pomeriggi passati con lei e con Marcello.
All’inizio, l’angoscia che il suo amico, più brillante di lui sotto molti aspetti, potesse portargli via la donna dei suoi sogni, era stata talmente forte da impedirgli di mangiare e dormire per settimane; poi, però, aveva capito che il biondo vedeva Vittoria al pari di una sorella e il suo animo, finalmente, si era quietato.
Già era tremendo essere consapevole che lei stesse con degli estranei, andasse al cinema con loro, li baciasse e si lasciasse tenere tra le loro braccia; se poi, al posto di chicchessia, ci fosse stato il suo migliore amico, sarebbe stato veramente troppo da digerire.
L’interesse che Marcello nutriva nei confronti di Beatrice era stata un’ulteriore conferma del fatto che, per lui, Vittoria era solo un’amica, anche se restava da capire se la cosa era reciproca, poiché non sarebbe stato in grado di sopportare l’idea che il suo perfetto amico fosse il vero oggetto del desiderio della donna che amava.
Questi dolorosi pensieri, però, furono interrotti all’improvviso da un fastidioso cigolio, che annunciò che qualcuno era appena entrato nella stanza. Gerardo non si voltò subito; prima, infatti, dovette radunare dentro di sé tutto il coraggio che possedeva per poterla guardare ancora in faccia.
«
Ho detto tante volte a papà di oliare i cardini» esordì la ragazza, sbuffando mentre richiudeva la porta dietro di sé.
«Oh. Ah, sì» le rispose il giovane, trovandosi a fissarla come un baccalà. Si era cambiata ed ora indossava dei leggings blu, una camicia lunga bianca ed un cardigan grigio e ai suoi occhi parve la perfetta incarnazione della sensualità. Gerardo si passò una mano sul viso, inquieto: ecco, d’ora in poi, davanti a lei, avrebbe fatto la figura del broccolo lesso fino alla fine dei suoi giorni.
«Marcello non è venuto?» si informò Vittoria, guardandosi intorno con circospezione.
Il ragazzo decise che sarebbe stato meglio fare finta di nulla, pertanto si ridiede un contegno e si schiarì la voce.
«No, ha detto che aveva diversi impegni
».
Lei lo fissò per qualche secondo, poi sospirò: «Quindi siamo soli
».
«
Ehm, sì» disse lui, piano. Era forse delusa? Magari, avrebbe voluto che ci fosse anche l’altro perché si era segretamente innamorata di lui. Tuttavia, Gerardo scacciò subito quel pensiero dalla sua mente, poiché non avrebbe potuto sopportare una rivelazione simile. Infatti, sarebbe stato il colmo se, adesso che il carciofone era fuori gioco, lei avesse ammesso di essersi innamorata di Marcello. Decisamente, il giovane non avrebbe avuto la forza di accettare l’ennesimo fidanzamento di Vittoria, per giunta con il loro migliore amico.
«Stai bene, Gerardo?» gli domandò la ragazza, accigliata. Probabilmente, a quei pensieri doveva essere sbiancato a tal punto che anche lei se ne era accorta.
«Oh, sì» mentì il giovane, perso nelle sue congetture.
In risposta, Vittoria alzò un sopracciglio con fare dubbioso, poi si avviò lentamente verso il divano coperto da numerosi cuscini di seta color ottanio.
«Allora, che ne dici di accomodarci?
» propose, allora, prendendo posto.
Incerto, lui la imitò, assicurandosi prima che tra di loro ci fosse una distanza adeguata, poiché, in quello stato d’agitazione totale in cui si trovava, si sentiva come uno straccio sbattuto ed imbevuto di cherosene, pronto ad infiammarsi alla minima scintilla. E Vittoria poteva rivelarsi un innesco davvero pericoloso.
Tuttavia, le misure che aveva calcolato non servirono a nulla quando il delicato profumo di lei, dalle soavi note di mughetto e gelsomino, stuzzicò il suo animo già tormentato, suscitandogli bramosie che mai aveva pensato di poter provare. Immediatamente, scattò in piedi, vergognandosi come un ladro per ciò che aveva appena pensato.
«Ed ora perché ti sei alzato?
» gli domandò la giovane, indispettita, seguendolo con lo sguardo.
«
Sto meglio in piedi» le rispose Gerardo, lapidario, voltandosi verso il camino.
Solo lui sapeva quante volte era stato tentato di baciarla ed invece aveva dovuto sbrigarsi ad erigere un muro tra loro due, per evitare che si spingesse oltre ciò che gli era concesso e fare sue quelle labbra che non riusciva a possedere nemmeno con l’immaginazione, tanto si sentiva inferiore al modello di uomo perfetto per lei.
«Tu... stai un po’ meglio?» le chiese, per avviare una conversazione, con la speranza di accantonare per un po’ i propri turbamenti.
«
Abbastanza» disse Vittoria. Seguì una breve pausa di silenzio, poi riattaccò: «Sai, in realtà, dovrei essere contenta di essermi liberata di Bartolomeo».
«Dopo quello che ti ha fatto, è il minimo che potessi dire» notò Gerardo, avvicinandosi alla piccola catasta di legna e prendendo tra le mani un ciocco particolarmente nodoso.
«Quello che ha fatto alla mostra è stato solo il gran finale» sussurrò la ragazza, stringendosi contro le braccia, come a volersi riscaldare, nonostante l’ambiente fosse piuttosto caldo. A quell’affermazione, il giovane alzò di scatto la testa e, fissandola allarmato, le domandò: «Che cosa vorresti dire?» 
A quel punto, lei inspirò a fondo, come se si stesse preparando a rivelargli un terribile segreto: «
C’è una cosa che non sai. L’ho detta solo a Marcello, ma gli ho fatto promettere che non te l’avrebbe rivelata per nessuna ragione».
Il giovane spalancò gli occhi, stupito ed in parte ferito, poiché, nonostante sapesse che Vittoria, quando si trattava delle sue delusioni amorose, cercava solo Marcello, non riusciva a non rimanerci male. Si sentiva escluso e tradito.
«Perché a Marcello sì e a me no?
» chiese, non riuscendo a reprimere il dispiacere e la frustrazione.
«Non sapevo come avresti reagito
» mormorò lei, guardandolo con sguardo colpevole. «Il fatto è che... Bartolomeo, mi ha picchiata. In più di un’occasione».
«Ti ha picchiata?» ripeté Gerardo, sgomento. Incamerò l’informazione con somma lentezza, per poi reagire d’impeto, avvicinandosi al fuoco e scaraventandovi il pezzo di legno che aveva in mano. Si voltò verso di lei, ormai in preda alla collera.
«Come ha osato picchiarti?!»
«
L’ultima volta è successo perché era nervoso per la mostra... ma ci sono stati diversi motivi, per esempio, perché non ci sono voluta andare a letto insieme. Sai, mi sembrava troppo... presto fare un passo del genere, ma non ha accettato il mio rifiuto» gli spiegò, stringendo con forza il bordo del cardigan. «Forse credeva che fossi solo desiderosa di compiacerlo, come la sua assistente».
«Avrei dovuto fracassargli la testa e non soltanto la sua stupida statua!
» berciò lui, fuori di sé dalla rabbia. Se in quel momento avesse avuto davanti quel maledetto l’avrebbe smontato osso per osso con le sue stesse mani e quella sì che sarebbe stata una vera opera d’arte moderna! Collage di un gran bastardo.
Vittoria parve sorpresa.
«
Non dire queste cose, tu sei così tenero...»
«Io non sono l’amico sempliciotto che pensi!» insorse lui, stanco di essere sempre additato come lo stupido o il bonaccione di turno.
Quell
esclamazione, però, sembrò mortificarla, tanto che aggiunse: «Io non volevo dire che sei sempliciotto, non l’ho mai pensato...»
«
Vittoria, tu non puoi capire quanto mi sia distrutto a vederti soffrire per altri uomini e quanto li abbia invidiati».
Ormai le parole gli stavano uscendo da sole, come un fiume in piena che stava straripando oltre la diga e che presto l’avrebbe spaccata, portando l’alluvione a valle. Aveva tenuto tutto dentro di sé troppo a lungo ed ora era stanco di fingere e di vedere la donna che amava tra le braccia di uomini non meritevoli di ricevere tale grazia.
«E sai perché li ho invidiati? Perché con la loro intelligenza, la loro bellezza, il loro ingegno erano meritevoli di starti accanto, mentre io ero solo il tuo mediocre amico di serie B, anche al di sotto di Marcello!»
«Gerardo...» cercò di iniziare la ragazza, ma lui non le diede modo di aggiungere altro, perché proseguì nel suo appassionato discorso. Ora che aveva trovato il coraggio di tirare fuori tutto, non doveva fermarsi, visto che aveva aspettato anni interi di arrivare al quel punto di non ritorno.
«Non sarò particolarmente bello, intelligente, sveglio, carismatico o chissà cosa, però tu, Vittoria, sei sempre stata il mio unico amore e non potrei mai tradirti o umiliarti come hanno fatto quei deficienti. Tu sei importante per me, lo capisci? Dio solo lo sa quanto ti voglio, ti desidero e...» si interruppe, come se fosse appena uscito da uno stato di trance, rendendosi conto di ciò che aveva effettivamente detto e di essere arrivato proprio davanti a dove era seduta la fanciulla, la quale lo guardava stupita, a bocca leggermente aperta.
Tutto questo, però, durò poco, giacché, nel giro di qualche secondo, le labbra di Vittoria si incurvarono in un sorriso malandrino.
Poi, la ragazza si alzò molto lentamente dal divano, avvicinandosi senza mai smettere di sogghignare.
«
Allora è così che stanno le cose» gli sussurrò, maliziosa, vicinissima al suo viso.
Il giovane deglutì, paralizzato, sentendo il suo cuore battere talmente forte da avvertire chiaramente ogni pulsazione. Le orecchie gli ronzavano ed il petto sembrava volesse scoppiargli.
Lei, però, non sembrava affatto turbata, anzi, a giudicare da come lo stava guardando, sembrava addirittura compiaciuta.
«Mi hai detto delle parole bellissime, ma ci vorrebbe una piccola dimostrazione che renda loro giustizia, non trovi?» gli fece, fingendosi imbronciata, e i suoi pochi neuroni superstiti entrarono immediatamente in sciopero. «Mi baci tu o ci devo pensare io?»
«Ba.. b-baciarti?» balbettò lui, convinto che avrebbe perso i sensi da un momento all’altro. Certo, era proprio un’idea intelligente aspettare tutto quel tempo per dichiararsi e poi restare fermo come uno stoccafisso proprio nel momento più importante!
«Non vuoi? Peccato, perché a me piacerebbe molto
».
«N-No... cioè... sì...» trovò la forza di replicare, senza riuscire a staccare gli occhi da quelli appena socchiusi di lei, che subito dopo scoppiò a ridere, riempiendo la stanza con la sua meravigliosa risata argentina.
«D’accordo
, eterno indeciso, ti faccio vedere io come si fa e poi tu lo ripeterai, va bene?»
Quindi, gli si avvicinò con somma delicatezza e, in un attimo, colmò la distanza che c’era tra loro due. Gerardo non aveva mai osato immaginare cosa si potesse provare nel baciare Vittoria e fu contento di non averlo mai fatto, perché non avrebbe mai potuto figurarsi quella celestiale sensazione. Fu come se fuoco liquido avesse preso a scorrergli nelle vene, sanando tutte le sue ferite interiori e bruciando tutte le paure che aveva covato dentro in tutti quegli anni.
Pian piano, abbandonò la rigidità dovuta all’incredulità e si fece più sicuro, alzando una mano ed accarezzandole i capelli, fino ad azzardarsi a sfiorarle il collo.

All’improvviso, la giovane si discostò appena e, senza dire nulla, lo prese per mano e lo guidò verso il divano, dove si sedettero entrambi.
«
Uffa, sei più alto di me. Non ho aspettato tutto questo tempo per baciarti in maniera scomoda!» sbuffò. «E poi ora tocca a te farmi vedere cosa sai fare».
Gerardo, ancora abbastanza stordito, si fece rosso fino alla punta delle orecchie. Ormai tutti i suoi freni inibitori erano saltati, pertanto disse:
«Ma io non sono bravo... Non so baciare...»
Ma lei scosse la testa, zittendolo: «
Lascia che siano i fatti a parlare».
Erano di nuovo molto vicini. Il profumo di lei, così suadente, lo faceva sentire ubriaco; ora come ora, non aveva più nulla da perdere, avendole quasi urlato in faccia tutto quello che provava per lei. Aveva già affrontato i suoi timori e sapeva che era lui il primo a non voler fare altro che baciarla di nuovo, sentirla sua.
Il desiderio che aveva represso così a lungo era finalmente esploso, costringendolo ad assecondarlo, così si avvicinò esitante e posò le proprie labbra su quelle di lei, dapprima con un certo impaccio, poi facendosi via via più sicuro, più bramoso.
Dal canto suo, Vittoria cominciò ad accarezzargli la nuca e lo spinse delicatamente contro lo schienale del sofà, adagiandosi sopra di lui, mentre Gerardo le posò timidamente una mano sul fianco, passandole l’altra dietro la schiena.
Quando, infine, furono sazi dei baci che si erano scambiati, stettero un po’ in silenzio, strettamente avvinghiati, con il sottofondo del crepitio delle fiamme, uniche spettatrici di tutto ciò che era successo tra di loro quel pomeriggio.
«
Tutta la storia con Maria Luisa, allora, era una finzione?» gli chiese lei, interrompendo la quiete e volgendo il viso per guardarlo negli occhi, ma senza alzare il mento dal petto del giovane.
«Era uno specchietto per allodole, per cercare di convincermi che non dovessi pensarti, perché credevo che per te ci volesse un uomo più dinamico» ammise lui, attorcigliandosi un riccio di lei intorno alle dita. «Tu, piuttosto, perché stavi ancora con il carciofone, anche se ti trattava male?»
«Carciofone? In effetti, gli sta proprio bene come soprannome» considerò l’altra. «Comunque, non l’ho lasciato perché ero entrata in una sorta di apatia. Pensavo di essere troppo vivace per te e che tu non mi volessi, quindi qualsiasi uomo mi andava bene».
A quella malinconica confessione, il ragazzo sospirò, stringendola di più e concentrandosi sulla felicità che gli procurava l’avrela finalmente tra le sue braccia.
«Siamo stati proprio degli sciocchi».
«Mi trovi d’accordo» sussurrò Vittoria, giocherellando con i capelli di lui.
La sera stava calando, ma per loro che, finalmente, si erano ritrovati, questo non aveva importanza. Rimasero ancora a lungo a coccolarsi, a sussurrarsi e a confessarsi cose che avevano tenuto nascoste per un tempo infinito, mentre il ciocco nel camino ardeva lentamente.
***

Quel sabato mattina, quando Beatrice aprì le tende della sua finestrella e buttò l’occhio verso il basso, rimase a fissare il giardino, o meglio, il punto dove avrebbe dovuto esserci il piccolo cortile sul retro, a bocca aperta: un banco di nebbia le ostruiva la visuale, dandole l’impressione che, durante la notte, qualcuno avesse costruito un solido muro bianco proprio davanti Villa dei Salici. Credeva che la nebbia fosse solo una prerogativa di città come Milano o Torino, ma, a quanto pareva, doveva ricredersi.
Preoccupata per l’umidità che l’avrebbe investita, una volta in strada, si vestì più pesantemente del solito e corse giù in cucina per preparare la colazione a Guido ma, con sua somma sorpresa, lo trovò già seduto al tavolo, anche se, solitamente, nel fine settimana, non si alzava mai prima di mezzogiorno.
«Buongiorno».
«
Giorno» rispose lui, addentando una fetta biscottata cosparsa di marmellata rosso scuro. Conoscendo i suoi gusti, probabilmente di amarene.
«Com’è che tu se’ già sveglio?»
«Non avevo più sonno» fu la sua sintetica risposta; sembrava stanco e preoccupato, come se fosse stato tormentato da una questione molto importante.
Beatrice corrugò la fronte, dubbiosa che quello fosse il vero motivo della sua levataccia, ma alla fine non disse nulla, adoperandosi per preparargli il caffè. Consumarono la colazione in silenzio, assaporando la pace concessa loro dalla zia Assunta e da Anna Laura, che stavano ancora dormendo della grossa.
La ragazza si affrettò a mandar giù il suo caffellatte, guardando con apprensione il grande orologio a pendolo del corridoio che si intravedeva attraverso la porta aperta: segnava le otto meno un quarto e alle otto sarebbe dovuta essere in merceria.
Rapida, salì di sopra per finire di prepararsi e recuperare la sua mantella, quindi riscese e si catapultò fuori dal portone, quando la voce di Guido la fermò sul cancello.
«Cicci?»
«Sì?» domandò lei, voltandosi e scorgendolo appena oltre la nebbia.
«
Per favore, stai attenta».
Quella raccomandazione le suonò strana tanto quanto lo era stato trovarlo in piedi a quell’ora del mattino, come se avesse qualcosa da nascondere.
«A cosa?» domandò Beatrice, arrotolandosi i capelli sulla nuca e facendoli sparire sotto un cappello di lana.
Guido scese le scale e le si avvicinò, incurante di essere in pigiama.
«
Ecco... in generale».
La ragazza annuì, non troppo convinta, poi uscì e si richiuse il cancello alle spalle, senza degnare Villa dei Salici di un’altra occhiata, sicura che Guido fosse rimasto nel giardino, avvolto dalla fitta coltre biancastra.
L’inquietudine che le aveva messo addosso, però, non si placò nemmeno quando riconobbe i sampietrini di Via della Mercede, gli stessi che calpestava ogni mattina che si recava alla merceria: quell’atmosfera spettrale, causata da quella fitta nebbia, così poco adatta alle viuzze romane, infatti, la opprimeva. Per giunta, sembrava che in strada non ci fosse nessuno.
Di solito, suo fratello non si preoccupava molto di come stesse, se facesse attenzione agli sconosciuti o cose di questo tipo, perché era troppo impegnato ad organizzar i divertimenti nei quali trascorreva le sue giornate per stare attento a sua sorella.
Da quando, invece, era diventato così apprensivo nei suoi confronti?
Un rumore improvviso la fece sobbalzare. Si voltò di scatto in direzione del vicolo dal quale era provenuto, ma vide solo un gatto nero e spelacchiato che si azzuffava con uno molto più grande per un misero pezzo di pesce, rubato nel mercato di chissà quale rione vicino.
Sollevata, riprese a camminare, quando udì un nuovo rumore: questa volta era un fruscio, che aveva qualcosa di umano. Non fece nemmeno in tempo a gridare, che qualcuno le mise un tampone sulla bocca. Provò a divincolarsi, ma sentì le forze che cominciavano a venire meno ed un secondo paio di braccia che la immobilizzava.
«Entonces tenemos... chica»
«
Vamos... él espera»
Mentre la fanciulla si domandava chi fossero e perché non capisse una singola parola di quello che stavano dicendo, la testa cominciò a farsi leggera e le sembrò che il suo spirito stesse abbandonando il corpo, tanto si era fatto pesante.
«
Beatrice!»
In quel turbinio di suoni, sentì qualcuno pronunciare il suo nome. Forse era solo l’ultimo scherzo della sua mente che vagava ormai verso l’incoscienza, o forse davvero qualcuno l’aveva chiamata.
Qualcuno al quale non avrebbe mai risposto.

Valentina e Alessio avevano assistito, atterriti, al rapimento della ragazza: due energumeni vestiti di scuro, infatti, si erano avventati su di lei e, dopo una breve resistenza da parte della fanciulla, uno dei due se l’era caricata in spalla, raggiungendo un’auto pronta poco lontano e gettando il corpo inanimato sul sedile posteriore. Dopo di che, erano saliti in tutta fretta, per poi partire sgommando.
Avevano deciso di aspettarla all’angolo, per salutarla prima di andare a scuola, come facevano ogni mattina, per chiederle magari se anche lei avesse paura di quella brutta nebbia.
Invece, ora lei non c’era più, portata via da due criminali che, nella foga e nella foschia, non avevano notato i due bambini.

«
Hai visto, Valentina? Gli uomini in nero hanno rapito Beatrice!» esclamò il ragazzino, terrorizzato.
«
Dobbiamo avvisare Marcello!» rispose la sorella, pronta, poggiando la cartella con i libri vicino al negozio e cominciando a correre lungo la via.
«
Ma dove vai? Dobbiamo dirlo alla mamma!» le gridò dietro il fratello, buttando anche lui lo suo zaino a terra e lanciandosi all’inseguimento di Valentina.
«Non c’è tempo!» strillò lei, arrivata già alla curva.
Alessio trattenne a stento le lacrime, ripetendo dentro di sé che ormai aveva otto anni e piangere era solo per le femminucce. Se non stava piangendo sua sorella, perché avrebbe dovuto farlo lui?
Non era certo piangendo che avrebbe salvato Beatrice.
Chiuse gli occhi e cominciò a correre più forte, sperando che i due brutti orchi non avessero fretta di mangiarsi la principessa.




***
Per la revisione di questo capitolo, ringrazio Lady Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la grafica del titolo è opera mia.
Ringrazio la mia Anto per aver letto in anteprima.
***

[N.d.A]
1.
servizio di leva: negli Anni ’80, come sapete, era ancora obbligatorio il servizio di leva. Volendo si poteva anche scegliere di svolgerlo in un altro corpo di guardia che non fosse l’Esercito. Per motivi diversi, sia Marcello che Gerardo hanno optato per i Vigili del Fuoco.
2. The Dream of the Blue Turtles: album di Sting risalente al 1985. Effettivamente, il cantante ha tenuto un paio concerti al Palalottomatica di Roma, nel dicembre ’85, durante del suo primo tour da solista.
3. Herald of Free Enterprise: traghetto protagonista di un incidente nautico avvenuto il 6 marzo 1987.
4. basilica di Sant’Antonio al Laterano: nome comune della basilica di Sant’Antonio da Padova all’Esquilino.

***


Salve a tutti!
Sorpresi dal finale cliffhanger? Credevate che il capitolo fosse dedicato solo agli intrighi amorosi, vero? Invece non è così -
risata malvagia.
Sarò noiosa, pedante, pesante e tutto quello che volete, ma non mi stancherò mai di ripeterlo: questa non è una storia solo romantica. Nella mia insana follia non sono capace di scrivere tutto in rosa.
Sarei capace anche di farci scappare il morto (e non è da escludere che non lo faccia).
Finiti i miei deliri, passo a ringraziare chi è che ha avuto la gentilezza di recensirmi lo scorso capitolo, chi ha messo la storia tra le preferite/ricordate/seguite, chi legge in silenzio.
Se siete arrivati fin qui vuol dire solo che avete una grandissima tenacia e pazienza a sorbirvi questi capitoli chilometrici.
Vi lascio, come sempre, il link alla mia pagina facebook, dove troverete varie cose e anche lo spoiler sul prossimo capitolo (che verrà pubblicato i primi di Marzo).
Alla prossima, per chiunque vorrà esserci.
Halley S. C.

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Capitolo 11
*** Capitolo Undicesimo - Vento di Attesa ***


Vento dell'Ovest - Capitolo 11



- Capitolo Undicesimo -
Vento di Attesa




I
l sabato era, fra tutti, il giorno che Marcello preferiva di più, poiché lo considerava come un momento per riflettere e fare il bilancio della settimana appena trascorsa. La domenica, invece, era sacra e andava dedicata al recupero delle energie, mentre il lunedì era il primo giorno lavorativo e il venerdì ancora troppo impregnato di fatica: decisamente, il sabato era il giorno perfetto per le meditazioni, da fare rigorosamente mentre si riordinava.
In quel momento, lui e Gerardo stavano raccogliendo diverse scartoffie in faldoni, così da separare le pratiche concluse da quelle ancora in corso, accompagnati dal cinguettio degli uccellini appostati sul cornicione del palazzo di fronte. Fuori, invece, la nebbia stava cominciando lentamente a diradarsi, segno che il sole aveva cominciato a scaldare l’aria.
Si respirava un’atmosfera di pace e tranquillità, che non lasciava affatto presagire quello che sarebbe successo di lì a poco.
Bum, bum! 
L’eco di due colpi fece sussultare il giovane, a tal punto che lasciò cadere il foglio che stava reggendo con entrambe le mani.
«Cosa è stato?» gli chiese Marini.
«Non sapr...»
I colpi si ripeterono, a cadenza più ravvicinata, seguiti dal suono del campanello.
«Deve trattarsi di qualcuno che ha molta fretta!» osservò Gerardo, avviandosi verso il corridoio. Marcello lo seguì, mentre uno strano presentimento cominciava a farsi largo nel suo animo: chi mai poteva essere, a quell’ora di sabato? L’unica ipotesi che gli veniva in mente era una visita a sorpresa della Guardia di Finanza, ma lo escluse a priori, giacché avevano ricevuto una visita delle Fiamme Gialle meno di un mese prima, con esito assolutamente positivo, poiché sarebbe stato davvero il colmo, per lui e il suo socio, predicare tanto contro l’evasione fiscale e poi esercitarla in prima persona.
E, comunque, anche se si fosse trattato di un controllo da parte dei finanzieri, non avrebbero fatto certo tutto quel baccano per farsi aprire.

Gerardo aprì la porta e, immediatamente, Marcello vide i figli della sarta precipitarsi dentro.
«
Alessio, Valentina, perché siete qui? Non dovreste essere a scuola?» domandò loro, sorpreso oltre ogni dire.
«Ci stavamo andando» spiegò il bambino, cercando di riprendersi dalla corsa, «quando abbiamo visto gli uomini in nero rapire Beatrice!»
«Come sarebbe a dire che gli uomini in nero hanno rapito Beatrice?» chiese l’altro, attonito.
«È la verità! Vieni con noi al negozio della mamma... vedrai che c’è solo lei!» rispose con veemenza Alessio, guardandolo tra l’offeso e l’agitato.
Il biondo si limitò a osservare i due fratelli senza dire una parola, cercando ancora di afferrare in pieno il significato di ciò che gli avevano detto: uomini in nero... rapito... Beatrice.
Quelle parole gli rimbombarono in testa, come se tante mine stessero esplodendo una dietro l’altra, accrescendo la confusione sorta nel momento stesso in cui aveva appreso la notizia.
Vacillò per un instante, quando la voce di Valentina lo strappò violentemente al baratro buio in cui stava per cadere:
«Marcello!»
La bambina gli corse incontro e lo abbracciò all’altezza della cintura - il massimo che poteva raggiungere, avendo solo sette anni - piangendo disperatamente.
Lui si abbassò al suo livello e le accarezzò una guancia bagnata di lacrime.
«Quando è successo?» domandò. La sua voce gli era sembrata estranea e lontana, come se non fosse stato lui a pronunciare quelle parole.
Valentina cercò di trattenersi quanto bastava per rispondere: «Poco fa. Noi stavamo andando a scuola, c’era la nebbia, loro erano lì e... e l’hanno presa!»
E riprese a piangere, buttando le braccia al collo del ragazzo e cercando il suo conforto.
Marcello, allora, spostò lo sguardo, prima su Alessio, che sembrava anche lui sul punto di scoppiare in lacrime, e poi su Gerardo, il quale si limitò a ricambiare l’occhiata con espressione funerea.
«Dobbiamo riaccompagnarli dalla loro mamma» sentenziò, atono, rivolto all’amico.
«Non volete andare dalla polizia? Noi siamo i testimoni!» esclamò il ragazzino, come se si sentisse oltraggiato nel suo ruolo.
«Siete dei bambini, è pericoloso. Ma dopo andremo certamente alla polizia e vedremo. Se dovesse esserci bisogno di voi, verremo a prendervi, d’accordo?» spiegò il biondo, non completamente sicuro di ciò che aveva appena detto. D’altra parte, ancora non riusciva a credere che la sua Beatrice fosse stata rapita. Gliela avevano portata via e lui non aveva potuto far niente.
Anzi, a malapena era venuto a saperlo. Non c’erano ancora indizi, ma Marcello sapeva che dietro tutto quello c’era quel depravato di Navarra, perché solo lui avrebbe potuto spingersi a tanto.
«Vado io a chiamare la signora Sofia, va bene?» propose Gerardo. «I bambini sono scossi e tu non hai una bella cera».
«Sto bene» fece bruscamente il biondo, staccando delicatamente Valentina da sé e mettendosi in piedi.
Ma l’altro non si fece incantare e ribadì: «No, non stai bene. Rimani con loro, io torno subito».
Poi si adoperò affinché i due fratelli fossero sistemati sul divano, al caldo, così da avere modo di cominciare a riprendersi, dopodiché si diresse nella stanza attigua per prendere il soprabito ed il portafoglio.
Marcello accarezzò subito la testa di Valentina, che si stava addormentando per lo stress, e diede un buffetto ad Alessio che teneva per mano la sorella, preoccupato. Il bambino gli sorrise.
Era molto bello vedere come si prendeva cura della sorellina e come vegliava sul suo sonno, anche se era provato a sua volta; benché fossero entrambi ancora molto piccoli, cercava di comportarsi da coraggioso, nascondendo la preoccupazione.
Quel pensiero innescò in Marcello una serie di considerazioni a catena sul concetto di fratellanza, che si conclusero con una considerazione: Guido doveva essere sicuramente al corrente di tutto.
Lasciò perciò un attimo i ragazzini e si affrettò a raggiungere il suo amico prima che uscisse, trovandolo già con la porta aperta davanti a lui.
«
Scommetto che quel bastardo schifoso sa dov’è!» esordì, al suo indirizzo, sicuro di quanto stava affermando.
«Chi?» domandò Gerardo, incuriosito.
«Guido Tolomei
».
L’altro ci rifletté su per alcuni secondi. «Potrebbe. Ma come fai ad esserne certo?»
«Non ne sono certo, ecco perché andrò da lui e mi farò dire cosa sa del rapimento della sorella, con le buone o con le cattive».
«Marcello, dovresti calmati, non ti...»
«Calmarmi?! Tolomei ha venduto Beatrice a Navarra fece il biondo, fuori di sé dalla rabbia. «Trovami un solo motivo per restare calmo ed un altro per non andare da lui a frantumargli le ossa una per una!»
Gerardo, però, doveva essere di tutt’altro avviso, giacché scosse la testa: «Non risolveresti niente prendendotela con lui. Non in questa situazione, almeno».
«
E tu cosa suggeriresti di fare, allora? Sentiamo!»
«Non puoi andare alla polizia, perché non sei un parente stretto di Beatrice e, comunque, anche se ci andasse quel Guido, dovrebbero comunque aspettare le ventiquattro ore prima di dichiarare la scomparsa. E, purtroppo, non credo che le testimonianze di Alessio e Valentina contino molto, visto che sono solo dei bambini» gli spiegò, con calma.
«Quindi?
» incalzò il biondo, sempre più spazientito. Davvero non sapeva come potesse restare impassibile in una situazione del genere: avrebbe voluto vedere come si sarebbe comportato se qualcuno avesse sequestrato Vittoria. Sicuramente non sarebbe rimasto a dispensare consigli con tutta quella tranquillità!
«
Ora vado dalla signora Sofia e pensiamo ai bambini. Poi andremo a parlarne con tuo padre, lui saprà cosa consigliarti, come quando eravamo solo dei ragazzini» affermò con estrema convinzione Gerardo. «So che sei in pensiero per Beatrice, ma dobbiamo muoverci con intelligenza. Tu non sai dov’è Guido, potrebbe benissimo essere anche lui con Navarra e compagnia».
Marcello, superato l’impulso iniziale, dovette ammettere che l’idea del suo amico era la più sensata da seguire, in quel frangente. Se non altro, la grande fiducia che nutriva nei confronti del genitore era un grande incentivo a seguire il suo consiglio.


Diversi minuti dopo, i due ragazzi entrarono letteralmente correndo, nel salotto dove si trovavano il signor Giancarlo e sua moglie, al punto da aver quasi travolto Ottavia all’ingresso, ma limitandosi a gridarle qualche scusa, senza fermarsi.
«Come mai tutta questa fretta?» si informò l’uomo, sollevando gli occhi dal libro che stava leggendo e guardandoli al di sopra delle lenti degli occhiali.
«Sì, Marcello, non si corre in casa. Deve essere la cattiva compagnia che ti sta portando sulla strada sbagliata» disse, invece, la Matrona con disprezzo, senza smettere di ricamare una tovaglietta per la colazione.
Gerardo fece un passo indietro, come mortificato da quel giudizio, ma Marcello lo agguantò per un braccio per impedirgli di allontanarsi ancora.
«È una cosa urgente, papà, ho bisogno di aiuto e di un consiglio da parte tua» annunciò, rivolgendosi esplicitamente all’uomo e tale selettività richiamò l’attenzione della madre, che mise da parte il ricamo e riservando al figlio un’occhiata gelida.
«Il mio parere non conta, dunque?»
Il ragazzo, però, la ignorò, in attesa di un cenno del signor Giancarlo. Anche l’uomo non diede peso alla moglie e, dopo aver messo un segnalibro all’interno del tomo che stava leggendo, mise le braccia in grembo e disse: «Dimmi tutto, Marcello».
Il giovane, allora, chiuse gli occhi ed inspirò a fondo, prima di vuotare il sacco: «
Hanno rapito Beatrice».
«Rapita?» ripeté il padre, mostrando chiari segni di stupore sul viso.
«Beatrice?
» si inserì la donna, riducendo gli occhi a due fessure. «Tu hai frequentato quella mocciosa a mia insaputa?»
Marcello aprì la bocca per rispondere, ma non fece in tempo, giacché la madre lo investì con le sue orrende ingiurie.
«Hai venticinque anni! Non ti vergogni a sbavare dietro ad una ragazzina che ha appena finito di giocare con le bambole?!» sbraitò, accalorata dalla foga, facendo tentennare il ragazzo per un secondo: purtroppo, la differenza di età tra lui e Beatrice era un tarlo che non aveva mai smesso del tutto di tormentarlo.
«Claudia, per favore, non mi sembra né il luogo, né il momento per queste tue considerazioni gratuite» intervenne gentilmente il marito, riprendendola.
«Tuo figlio sta infangando il nostro nome!»
«Mio figlio sta facendo ciò che ritiene giusto» la corresse l’uomo, guardandola con cipiglio severo. «E lo ritengo anche io».
Il viso della signora Claudia, non trovando l’appoggio del consorte, divenne una maschera d’ira; quindi, si alzò con fare impettito e lanciò ai due giovani un’occhiata disgustata, per poi raccogliere il suo cestino da cucito e la tovaglietta, per poi, finalmente, lasciare la stanza senza aggiungere una parola.

«Il dottor Morozov se l’è data a gambe, quando gli ho chiesto se fosse disposto a curare anche tua madre» sospirò il signor Giancarlo, alzandosi dalla poltrona ed avvicinandosi ai due giovani.
«Ah, è per questo motivo che se ne è andato?» chiese Marcello, provando ancora più solidarietà verso l’uomo.
«Sì. Non avrebbe potuto sopportare sia Ortensia che Claudia. Perciò dovrò rivolgermi ad un altro psicologo, oppure direttamente ad uno psichiatra» valutò a voce alta il signor Tornatore, scuotendo la testa.
Poi, si rivolse di nuovo al figlio: «Affari di famiglia a parte, raccontami per bene che cosa è successo a quella dolce ragazza».
In breve, il biondo raccontò cosa e come aveva appreso del rapimento di Beatrice, compresi i sospetti che aveva formulato sulle cause, mentre Gerardo annuiva o aggiungeva qualche dettaglio. L’uomo ascoltò con molta attenzione ogni singola parola e, quando i due ragazzi tacquero, rimase in silenzio per qualche secondo.
«Gerardo, hai ragione, la polizia non potrà mai darci i dettagli che vorremmo. A meno che...
»
«A meno che?» incalzò Marini.
«Potrei chiedere al questore se può fare uno strappo alla regola».
Marcello, stupito, si voltò verso Gerardo, notando che aveva avuto una reazione molto simile alla sua: non avrebbe mai pensato che a suo padre sarebbe venuto in mente di scomodare le alte sfere. E, sinceramente, aveva i suoi dubbi sulla riuscita del piano.
«Vorresti rivolgerti ad Augusto Saltarini?» chiese il giovane, incredulo.
«Sì, penso sia l’unico che possa aiutarci» ribatté il signor Giancarlo, avviandosi con passo spedito verso la libreria. Ne estrasse un libricino che assomigliava ad una rubrica telefonica e cominciò a sfogliarlo.
«Papà, no, non voglio favoritismi!» si oppose il figlio, profondamente contrario a quel tipo di soluzione, nonostante, in cuor suo, sapesse essere l’unico appiglio cui poteva aggrapparsi per sperare di rivedere Beatrice.
«
C’è di mezzo la vita di una ragazza, non sono favoritismi, solo un consiglio ad avviare le indagini prima che sia troppo tardi. Non ti sto raccomandando per farti diventare vice questore aggiunto» spiegò con calma l’uomo, continuando a girare i fogli.
«Ecco, qui. Trovato!» aggiunse dopo poco, esultando. Piegò la rubrica e, con un sorriso stampato sul volto, si avviò verso il suo studio, probabilmente per telefonare a Saltarini, non senza aver prima lasciato loro un’ultima raccomandazione:  «Ah, Gerardo... ti affido questa testa calda: fai in modo che non si faccia prendere dalla voglia di cambiare i connotati al fratello di Beatrice».
Marcello sbuffò e l’amico dovette trattenersi dallo scoppiare in una risata divertita.
A quanto pareva, il signor Giancarlo conosceva bene i suoi polli.
***

La prima cosa che Beatrice avvertì, quando cominciò a riprendere i sensi, fu un forte senso di nausea. Si sentiva pesante, stanca, dolorante in ogni parte del corpo e persino aprire gli occhi le costò un’enorme fatica.
All’inizio, rimase a fissare il soffitto, come in stato catatonico, incapace di muoversi e di parlare: sentiva la lingua attaccata al palato e la sensazione le risultò quanto mai spiacevole.
Nella sua mente, dapprima confusa, cominciarono pian piano a riaffiorare gli ultimi ricordi e fu allora che si accorse di trovarsi in un luogo sconosciuto, mentre una luce rossastra filtrava dalle persiane della finestra di fronte, consentendole di esplorare l’ambiente almeno con lo sguardo: un armadio con un’anta pendente, tende tarlate e cadenti, chiazze di muffa sul soffitto e muri scrostati. Per quanto Villa dei Salici fosse messa male, non era certo in quelle condizioni.
Questa nuova scoperta l’aiutò a scrollarsi di dosso il senso di stordimento e la spronò a cercare di mettersi seduta, anche se invano: non era arrivata nemmeno a piegare il busto, che una fitta tremenda alla testa la obbligò a tornare supina, mentre la nausea aumentava.
Allora, si impose di restare calma, per non peggiorare la situazione e per trovare un minimo di sollievo in tutto quel malessere.
Era certa di non trovarsi a casa, perché non riconosceva quell’ambiente; anche se non si sentiva molto lucida, era più che sicura di non aver mai visto un posto come quello. Dov’era finita, allora?
Ricordava con sicurezza che quella mattina c’era la nebbia e che lei era uscita di casa per recarsi in merceria. Era quasi arrivata, ma poi non si ricordava più nulla, fino al risveglio in quella stanza.
Cercò nuovamente di mettersi seduta, ma il secondo tentativo non andò meglio del precedente. Ricadde sul qualcosa di morbido e, allora, si accorse di trovarsi su un materasso e di avere i polsi e le caviglie legati da pesanti funi.
«C-Che cosa...?» farfugliò, confusa, senza finire la domanda. Persino la sua stessa voce le risultò strana, come arrochita da una brutta tosse, e per un istante si augurò di star facendo solo un brutto sogno.
La realtà, però, le si manifestò crudelmente, quando una risata cavernosa le rimbombò nelle orecchie.
«
Ti sei svegliata finalmente, dulzura».
Si voltò lentamente verso la direzione da cui proveniva il suono, mentre una strana inquietudine si impadroniva di lei: solo una persona avrebbe potuto chiamarla in quel modo.
Infatti, era proprio lì, fermo sulla porta, che le sorrideva sardonico.
«Na.. var... ra» mormorò lei, osservandolo attraverso le palpebre, semichiuse per il dolore alla testa.
L
’uomo, allora, si avvicinò al letto e si sedette accanto alla fanciulla, senza cambiare l’espressione di godimento che aveva stampata sulla faccia.
«
Buenas tardes, niña» la salutò, accarezzandole i capelli.
Beatrice si ritrasse bruscamente, incurante della fitta scaturita dal suo movimento improvviso. Preferiva infliggersi del dolore da sola, piuttosto che farsi toccare da quel mostro.
Di fronte alla sua reazione, però, Conrado rise di nuovo.
«Anche in queste condizioni, non hai perso
il tuo bel caratterino, eh?» le disse, prendendole il mento tra due dita. Poi si avvicinò maggiormente e le sussurrò: «Sei molto eccitante».
La ragazza, nell’udire quelle parole, strizzò gli occhi e avvertì risalire un conato: se avesse avuto qualcosa nello stomaco, probabilmente avrebbe rimesso e, forse, sarebbe stato anche meglio. Invece, non solo doveva sopportare tutto quel malessere fisico, ma anche le porcherie che uscivano dalla boccaccia di Navarra.
«
Felipe e Pablo hanno esagerato, non trovi?» proseguì lui, incurante del ribrezzo che le suscitava. Nonostante si sentisse ancora tramortita, Beatrice gli indirizzò un’occhiata carica di tutto l’astio che provava nei suoi confronti. Come aveva osato farla rapire dai suoi scagnozzi?
«Co...sa m’han... fatto?» domandò, sforzandosi di recuperare il più in fretta possibile tutta la lucidità. Non si sarebbe mostrata debole di fronte a quell’animale. Mai.
«Ti hanno drogata, niña, era l’unico modo per... convincerti a seguirli» le spiegò Conrado, lasciando la presa e cominciando a lisciarsi la barba con fare compiaciuto. «Anche se hanno usato più etere del dovuto, avresti dovuto riprendere i sensi ore fa».
Quindi era così che era andata: l’avevano seguita e presa mentre si recava in merceria.
«Questo vuol dire che dobbiamo aspettare domani, per partire» continuò l’uomo, come se pensasse che la ragazza non vedesse l’ora di essere messa al corrente dei suoi loschi piani.
Tuttavia, con una fitta allo stomaco, dal plurale che aveva usato l’energumeno, Beatrice capì che, volente o nolente, anche lei era stata coinvolta.
«Partire?» chiese, inquieta.
«
Non possiamo più stare qui, la polizia mi sta cercando. Dobbiamo raggiungere Zanzibar in aereo e tu devi essere in grado di poter salire a bordo».
La fanciulla registrò attentamente ogni singola sillaba: se era vero che le forze dell’ordine si erano messe sulle tracce di quel delinquente, forse aveva ancora una piccolissima speranza di cavarsela e di vederlo marcire in gattabuia.
«Da quando ti interessi della mi’ salute?» gli domandò con tono disgustato, non sforzandosi nemmeno di celare i suoi veri sentimenti.
Conrado le sorrise mellifluo e si alzò dal letto.
«
Dulzura, tu sarai mia moglie, è normale che mi stia a cuore la tua salute».
«Se ti sta a cuore, renditi utile: slegami!» esclamò la fanciulla, mostrandogli i polsi. Adesso che si era ripresa quasi del tutto, sentiva che le corde le stavano segando la pelle.
Navarra finse di star prendendo in considerazione l’ipotesi, assumendo l’espressione di chi sta pensando, ma poi negò col capo: «No, quello ancora no. Non vorrei che fossi colta dall’ansia prematrimoniale e ti venisse la tentazione di scappare».
Beatrice distolse prepotentemente lo sguardo da lui, odiandolo con tutte le sue forze. 
«A proposito, ho prenotato i biglietti sotto falso nome e tu sarai la señora Mendez. Spero non ti dispiaccia se, per la compagnia aerea, siamo già sposati» le disse, dandole le spalle e lasciando che la sua risata sguaiata riecheggiasse tra le mura della casa.
***

Sull’imbrunire, quando il cielo aveva già virato al violaceo e le ultime luci del giorno lo striavano di rosso fuoco, Guido rincasò, avvertendo da subito che c’era qualcosa di strano.
Dal salotto, infatti, provenivano le voci stridule della zia e della cugina, come se fossero state alle prese con una conversazione piuttosto animata ed impegnativa, e il brutto presentimento, che aveva avuto nel passare davanti alla cucina, trovandola vuota, crebbe a dismisura: di solito, infatti, rincasando, trovava sempre Beatrice intenta a preparare la cena.
Proseguì quindi lungo l’angusto corridoio, fermandosi alla porta cadente, dalla quale filtrava una lama di luce pallida, e l’aprì, ritrovandosi faccia a faccia con le parenti che, sedute sul divano scolorito, lo guardarono torve.
«Ah, eccoti qui, pelandrone!» lo apostrofò la zia Assunta, linciandolo con un’occhiata inferocita. «Ci devi delle spiegazioni!»
«Dov’è quella buona a nulla di tua sorella? Deve preparare la cena!» esclamò Anna Laura, puntandosi le mani sui fianchi con fare inquisitorio.
«La Beatrice non l’è ancora tornata?» domandò Guido, stolidamente. Sapeva perfettamente qual era la risposta, ma non voleva accettarla, forse, perché avrebbe dovuto ammettere anche di avere una certa responsabilità nell’accaduto.
«No ed io sto morendo di fame! Non posso ordinare una pizza, sono carboidrati ed io devo mangiare proteine!
» si lamentò la cugina, agitandosi sul posto.
«
Tu sai dov’è?» domandò la donna, alzandosi dal divano e avvicinandosi a lui con una lentezza inquietante.
Il ragazzo ne seguì i movimenti senza riuscire ad aprire bocca, paralizzato dalla consapevolezza di ciò che era successo.
La signora Assunta, vedendo che il nipote non si degnava di darle una spiegazione esauriente, non appena gli fu abbastanza vicina lo colpì in pieno viso con uno schiaffo che lo fece arretrare di qualche passo.
«
Rispondi, screanzato!»
Così spronato, Guido si portò una mano alla guancia e pigolò: «Navarra... l’è stato lui. M’aveva detto che sarebbe venuto a prenderla, ma non immaginavo...»
A conti fatti, non sapeva neanche lui cosa effettivamente si sarebbe aspettato. Che le stupide raccomandazioni che aveva rivolto quella mattina alla sorella sarebbero bastate a proteggerla? Che il suo creditore aspettasse ancora un po’ prima di passare all’azione? Oppure che gli rendesse noti, in carta bollata, ora e giorno in cui gli avrebbe portato via Beatrice?
Navarra non era un gentleman, questo era poco ma sicuro, pertanto il ragazzo era quasi certo che lo spagnolo avesse optato per un modo barbaro quanto rapido per appropriarsi della fanciulla: farla portare via all’insaputa di tutti.
«
Idiota, non potevi mandarla via in un altro momento? Ci serviva ancora!» strillò la zia, agitando pericolosamente un pugno in aria e facendo tintinnare i suoi innumerevoli bracciali.
«Non l’ho deciso io...» provò a replicare il giovane, senza successo.
La signora Assunta alzò la mano per colpirlo di nuovo, anche se, alla fine, non portò a termine il gesto, preferendo invece continuare ad urlare:
«Silenzio! Per colpa tua ora siamo senza una sguattera e senza soldi: lo stipendio che portava quella mocciosa mi era molto utile!»
Nel frattempo, nel salotto era calato il buio e la sola luce della lampada, posta sul tavolino di faggio scheggiato, non bastava più. E fu proprio quello l’istante in cui Guido si sentì solo, spaesato, e prese coscienza del fatto che non avrebbe mai più rivisto gli occhi blu di sua sorella guardarlo con sufficienza, dopo la sua ennesima bravata, per poi diventare più condiscendenti e annunciare che lei l’avrebbe comunque aiutato, anche se non lo meritava.
Era profondamente diversa da lui, sia fisicamente, sia caratterialmente. Era bella, Beatrice, era buona e lui, suo fratello, l’aveva venduta ad un animale per trenta denari.
«Se vuoi rimanere qui, comincia a cercarti un lavoro, allora, perché io non manterrò più nessuno» concluse Assunta, annunciando la sua ultima sentenza; poi, fece un cenno alla figlia e si defilò, uscendo dalla stanza come se fosse stata una regina in procinto di ritirarsi nei suoi appartamenti.
Con la coda dell’occhio, il giovane vide Anna Laura che rideva sotto i baffi, particolarmente appagata dalla scena: si sapeva che odiava i suoi due cugini e vedere la miserevole fine che stavano facendo entrambi doveva farla sentire al settimo cielo. Alla fine, comunque, se ne andò anche lei, spegnendo la luce e lasciandolo al buio, continuando a blaterare qualcosa riguardo il fatto che non avrebbe potuto continuare a seguire la sua dieta dissociata, seppur, per potendosi permettere, per una volta, un’eccezione.
A poco a poco, le voci divennero una presenza lontana e la sensazione di solitudine si acuì, mentre Guido stringeva i pugni. Cosa credeva, che Navarra giocasse quando gli diceva che voleva sua sorella? Sul serio pensava che fosse il miglior partito per lei? Non gli aveva nemmeno permesso di salutarla!
Si inginocchiò per terra e si prese la testa tra le mani, incapace di fronteggiare tutto il turbine di pensieri invisibili che lo stava imbrigliando. Chissà se c’era ancora qualcosa che potesse fare per Beatrice, anche piccola... Sapeva qual era la zona che Navarra aveva scelto per il suo nascondiglio, anche se non ne conosceva l’esatta ubicazione.
Era forse il caso di andarlo a dire alla polizia? E se fosse finito anche lui in galera? Davvero la felicità di sua sorella valeva quel sacrificio o, per meglio dire, la sua vita?
L’unica cosa di cui era certo, in quel momento, era che, se cercava l’occasione per riscattarsi, non gliene sarebbe mai più capitata una migliore.
***

Nel tardo pomeriggio, appena aveva appreso la notizia, era giunta a Villa Aurelia anche Vittoria, con la chiara intenzione di fornire supporto morale - ed anche psicologico - a Marcello, i cui nervi saldi cominciavano ad essere messi a dura prova da quella situazione.
Il signor Giancarlo ancora non era uscito dal suo studio e la cosa aveva messo abbastanza in agitazione il figlio, che, abbandonata la sua tipica razionalità, stava cominciando iniziando a pensare al peggio: il fatto che nessuno si fosse degnato di fargli sapere anche la più piccola novità l’aveva reso piuttosto irritabile.
Se qualcuno, esattamente un anno prima, gli avesse detto che avrebbe avuto così a cuore la sorte di una ragazza, non gli avrebbe creduto, anzi, gli avrebbe riso in faccia, dicendogli che lui non era predisposto all’innamoramento e che, anche se fosse esistita una ragazza capace di attirare la sua attenzione, di certo non avrebbe avuto la fortuna di incontrarla.
In quel momento, si ritrovò a pensare che, a volte, la vita sapeva essere davvero imprevedibile.

«Vedrai che la troverai» disse Vittoria, porgendogli una tisana calda, mentre lui se ne stava appollaiato come un gufo sulla poltrona, in posizione perfetta per non perdere di vista la porta dello studio nemmeno per un secondo.
«Grazie» le rispose, soprappensiero, prendendo la tazza fumante con entrambe le mani. Quel calore era piacevole, ma non sarebbe mai bastato a mitigare il gelo che sentiva dentro: non sapeva alcun che sulla sorte della sua Beatrice e questo gli stava logorando il sistema nervoso. Se solo suo padre si fosse deciso a venire fuori da quella benedetta stanza e metterlo al corrente delle notizie apprese! Cosa significava quel silenzio? Era già successo l’irreparabile? No, non voleva neanche pensare a quell’eventualità.
La ragazza gli sorrise e tornò a sedersi accanto a Gerardo, il quale tamburellava nervosamente le dita sopra il tavolino di faggio vicino a lui.
Per un po’ non si udì altro rumore all’infuori di quel ritmico picchiettare, poi, finalmente, la porta si aprì e, dopo quattro ore di penosa attesa, ne uscì il signor Giancarlo, accolto con la stessa suspense riservata ai chirurghi uscenti salla sala operatoria dopo un intervento particolarmente difficile. Aveva un’aria stanca, ma serena, il che prometteva bene.
«Allora, cos’hanno detto?» domandò Marcello, balzando in piedi, incapace di trattenersi oltre.
I suoi amici si avvicinarono a loro volta, pronti ad ascoltare qualsiasi nuova notizia.
L’uomo si stropicciò lentamente gli occhi, poi disse: «Finora non è stata denunciata la scomparsa di nessuna Beatrice Tolomei. Sarebbe plausibile, non essendo passate le canoniche ventiquattro ore, ma non ci sono stati nemmeno tentativi, quindi sembra che nessuno se ne sia accorto».
«Trovo molto più probabile che nessuno se ne sia interessato» commentò il biondo, velenoso, bofonchiando tra sé e sé. Quindi tornò a rivolgersi al genitore: «Cos’altro hai scoperto?»
«Che c’è un mandato di cattura internazionale contro Navarra e che la polizia stava già indagando su una sua possibile permanenza a Roma. Saltarini mi reputa una fonte attendibile, perciò mi ha garantito che intensificheranno i posti di blocco, soprattutto a Fiumicino e sul Raccordo1».
«Un mandato di cattura internazionale?» ripeté Gerardo, come in preda ad un forte shock. «Navarra è pericoloso, ma non fino a questo punto!»
Vittoria guardò il fidanzato, ma non osò prendere la parola, molto probabilmente perché non conosceva bene i dettagli della vicenda e non voleva fare strafalcioni, né dare opinioni senza fondamento, nonostante sapesse bene che il soggetto in questione era tutt’altro che raccomandabile.
«Sono arrivati questi ordini. Non mi ha detto quale sia il governo in questione, ma sembra che Navarra abbia combinato guai seri in qualche stato europeo» rispose pacatamente l’uomo.
Marcello si massaggiò le tempie, certo che la testa fosse ad un passo dallo scoppiargli: nessuna notizia di Beatrice, quel depravato era in cima alla lista dei più ricercati del Vecchio Continente e la polizia pensava che bastassero due volanti e qualche controllo in più a fermarlo.
Il signor Giancarlo, allora, batté una pacca sulla schiena del figlio, cercando di confortarlo: «Stai tranquillo, vedrai che tutto si risolverà nel migliore dei modi».
Lui annuì, esausto, come se non avesse più le forze per controbattere; d’altra parte, era dalla mattina che non toccava cibo, passando il tempo a struggersi nell’attesa che qualcuno gli facesse sapere cosa ne era stato della sua rossa fiorentina.
Quindi, si risedette sulla poltrona e sospirò, mentre suo padre salutava i due ragazzi, dicendo che sarebbe andato a riposare un poco prima di cena. La Matrona, invece, avendo visto che i due migliori amici del figlio erano nei paraggi, aveva pensato bene di fingere una terribile emicrania e rintanarsi nella stanza da letto, così da essere sicura di non essere costretta ad incontrarli e rivolgere loro la parola in nessun modo.
Perciò, dopo pochi secondi, rimasero in salotto solo loro tre, consapevoli che tutto si era concluso con un nulla di fatto.
«Be’, almeno sembra che aumenteranno la sorveglianza» esclamò Vittoria, con la chiara intenzione di sdrammatizzare e allentare così la tensione, quasi fisicamente palpabile.
«Per quanto ne so, potrebbero aver lasciato il paese e tutti quei controlli potrebbero essere più che inutili» commentò Marcello, tetro, affossandosi ancora di più tra i cuscini.
«Non essere cosi negativo!» lo rimprovero lei, puntandosi i pugni chiusi sui fianchi. «Gerardo, di’ qualcosa a Marcello!»
Il ragazzo si avvicinò e, con la sua solita calma, confermò quanto aveva detto la giovane: «Vittoria ha ragione, non devi perderti d’animo».
«Visto?» esclamò l’altra, più che soddisfatta.
Tuttavia, a Marcello quelle considerazioni inutili stavano cominciando a dare fastidio: che cosa potevano sapere i suoi due amici di cosa stava passando lui, dell’angoscia che lo asfissiava? 
«Smettila di chiacchierare a vanvera!» le intimò quindi, irritato, contraendo la mascella.
Vittoria aprì appena la bocca, assumendo un’espressione mortificata.
«Non te la prendere con lei!» insorse, allora, Gerardo, avanzando minacciosamente in direzione dell’amico.
«Altrimenti, cosa pensi di fare?
» lo sfidò il biondo, alzandosi di scatto e dardeggiandolo con uno sguardo fiammeggiante. «È facile parlare, per te! La tua donna è qui, al sicuro!»
La ragazza, non volendosi dare per vinta, si alzò in piedi a sua volta e si frappose tra i giovani, ordinando loro: «Smettetela di litigare, voi due!»
Entrambi la guardarono, arretrando appena e consentendole di finire ciò che aveva da dire loro.
«Gerardo, Marcello è in pensiero per Beatrice, cerca di comprenderlo» fece lei, elargendo al suo ragazzo un’occhiata dolce. «E tu, Marcello, non arrabbiarti con noi, perché fare così non ti porterà da nessuna parte» aggiunse con tono morbido, rivolta al suo amico.
Quello si risedette sulla poltrona per l’ennesima volta, stremato: l’ansia l’aveva ridotto ad un fascio di nervi, logorandolo come se fosse stato ai lavori forzati per giorni. I suoi amici avevano ragione, non aveva senso prendersela con loro, non era certo in quel modo che avrebbe liberato Beatrice, per cui inspirò a fondo e si sfregò delicatamente le palpebre.
«Sì, voi andate pure, non ha senso che restiate qui».
Ma Vittoria scosse la testa e in qualche passo lo raggiunse, accomodandosi sul bracciolo e prendendo così posto accanto a lui.
«Non ci schiodiamo di qui, invece!» esclamò, risoluta, poggiandogli una mano sul braccio. «Anche noi vogliamo che Beatrice torni a casa, vero, Gerardo?»
Anche il giovane si avvicinò, lo sguardo rivolto a terra. Tentennò un attimo, poi si decise a parlare: «Marcello, perdonami. Hai ragione: se io non dovessi sapere dove si trova Vittoria, farei cose peggiori, probabilmente».
Lei, allora, si voltò verso di lui e gli regalò un sorriso riconoscente, al quale il giovane rispose con un timido cenno: il biondo, nell’assistere a quel silenzioso scambio di gesti d’affetto, capì che, in fondo, non era colpa di Gerardo e Vittoria se avevano la fortuna di poter stare insieme, né, tantomeno, avevano colpa se Navarra aveva deciso di comportarsi come il peggiore dei briganti e rapire una fanciulla che doveva sopportare la condanna di avere come fratello un idiota sconsiderato.
Quel Guido l’avrebbe pagata cara, fosse stata l’ultima cosa che avrebbe fatto!
«Non fa niente. Anch’io ti ho aggredito, ma non sapere dove sia e cosa le stiano facendo, mi uccide» rispose, sentendosi in colpa per come si era comportato con il suo migliore amico.
Gerardo, anche in questa occasione, dimostrò la sua vera bontà d’animo e si limitò a scuotere la testa, come a dire che era già tutto dimenticato ed archiviato, facendo, addirittura, il primo passo di riappacificazione, avanzando verso di lui e dandogli qualche pacca affettuosa sulla spalla.
Marcello incurvò leggermente le labbra per rispondere al gesto, poi appoggiò la schiena contro i cuscini della poltrona e chiuse gli occhi, desiderando solo che finisse tutto quanto prima e formulando una muta e intensa preghiera: se mai avesse avuto modo di riabbracciare Beatrice, promise che le avrebbe detto, finalmente, quanto era innamorato di lei.
***

La sera era calata, portando con sé un freddo molto fastidioso e Beatrice, oramai non più sotto l’effetto anestetico dell’etere, lo percepiva appieno, rabbrividendo sotto la rozza coperta di lana che le avevano dato i suoi rapitori, ma, forse, quello che sentiva non aveva niente a che fare con la temperatura esterna.
Da quello che aveva sentito dire dai complici di Navarra qualche ora prima, doveva trovarsi in una casa abbandonata, situata nelle campagne
poco fuori dalla città; in realtà, avuto anche modo di verificare quest’informazione di persona, quando i due scagnozzi l’avevano condotta in un bagno sporco e diroccato, per consentirle di sciacquarsi e sistemarsi e lei, attraverso le persiane bloccate, aveva intravisto un paesaggio campestre.
A dire il vero, di primo impatto, era stata quasi sul punto di rifiutare l’offerta dei due individui, ma poi, davanti all’opportunità di stare per qualche minuto da sola e di sentirsi liberare i polsi e le caviglie, aveva accettato di buon grado anche di lavarsi con l’acqua fredda - e certamente contaminata - contenuta in una vecchia tinozza.

Ora, però, la ragazza sedeva in un angolo del salotto, mentre, alla luce di alcune torce, Felipe e Pablo
nell’angolo opposto del grande salone confabulavano fra loro, cercando di accendere un fuoco, senza tuttavia riuscire a ottenere brillanti risultati a causa di uno spiffero di vento che continuava a spegnere ogni piccola fiammella che riuscivano a generare. Se si fosse trovata ad assistere a quella scena in un’altra circostanza, probabilmente l’avrebbe trovata ridicola, vedendo che due delinquenti come quelli non erano nemmeno in grado di accendere un fuocherello per riscaldarsi e preparare la cena.
Ad un certo punto, senza troppe cerimonie, la giovane si distese sul divano sfondato - unico pezzo di mobilio nella stanza, escludendo un vecchio tavolo - massaggiandosi i polsi: fino a che non avrebbe mangiato, le avrebbero risparmiato i legacci. Su questo erano stati chiari: Navarra stesso aveva dato quell’ordine, prima di sparire nel tardo pomeriggio.
Chissà dove era andato. Essendo ricercato dalla polizia, in teoria, non avrebbe potuto girovagare come se nulla fosse, a meno che non avesse altri complici lì fuori, pronti a difenderlo.
«Secondo me questo posto è infestato!» sbottò Felipe, alzandosi di scatto e dando un calcio ad uno scatolone abbandonato in un angolo.
«Non dire scemenze!» lo rimbeccò Pablo, insistendo ad accendere fiammiferi che, puntualmente, venivano spenti dal refolo dispettoso.
«E allora spiegami perché non riusciamo ad accendere el fuego!» insorse l’altro, gesticolando nervosamente, per poi indicare il fuoco.
Beatrice si trattenne a stento dallo scoppiare a ridere fragorosamente: due delinquenti di quel calibro che si erano ridotti a dare la colpa ai fantasmi, solo perché non erano in grado di fare una cosa così semplice!
Purtroppo, però, la voglia di ridere le passò subito, perché udì una voce cavernosa e tristemente familiare rimbombare nell’ingresso.
«È tornato il capo» commentò Felipe, lasciando da parte la lotta ingaggiata con legna e fiammiferi. Prese una torcia e si diresse verso l’ingresso, sicuramente con l’intento di illuminare il percorso a Navarra, ed evitare così che inciampasse o cadesse, evenienza che, se non altro, avrebbe davvero dato un po’ di soddisfazione a Beatrice.
«Cosa ha detto la espía, Conrado?» domandò Pablo, quando l’imponente e losca figura fece il suo ingresso nel salone.
Nella penombra, la ragazza vide l’uomo grattarsi il mento con fare nervoso: «Ha detto che lo ha già riferito a Lui: non ci aiuterà più, l’abbiamo deluso troppe volte».
«Questo vuol dire que non ci aiuteranno?» gracidò lo scagnozzo: anche se non lo poteva vedere bene in faccia, il tono che aveva usato era inequivocabilmente preoccupato, come se non avesse mai potuto ritenere possibile un’eventualità simile.
Navarra scosse la testa.
«È stata la spia a metterci la policia alle calcagna!» insorse l’altro complice, dando un altro calcio allo scatolone che, probabilmente, conteneva il cibo destinato alla loro cena.
La ragazza si tirò su per sentire meglio, incuriosita dalla piega decisamente interessante che stava prendendo la conversazione: a quanto sembrava, infatti, quel delinquente si era messo in trappola con le sue stesse mani, probabilmente cercando di imbrogliare qualcuno più furbo di lui e che non si era fatto troppi problemi a vendicarsi.
Solo un evidente particolare, però, non tornava a Beatrice: se questo qualcuno era anche lui un delinquente, come aveva fatto ad interagire con la polizia? Magari, era un pentito che aveva deciso di parlare e rivelare i nomi dei suoi complici...
«Almeno, ho il mio premio de consolación» affermò Conrado, voltandosi verso di lei e studiandola con occhi languidi e bramosi.
A quel punto, la fanciulla, accorgendosi di ciò, lasciò da parte le sue congetture e scattò in piedi, adirata: «E non son il premio di consolazione di nessuno!»
Navarra scoppiò a ridere nel suo tipico modo sguaiato, per poi interrompersi e lanciarle uno sguardo ancor più lussurioso di prima.
«Dopo tutto quello che è successo oggi, ho diritto ad un po’ di sano svago, non trovi, dulzura?» chiese, retorico. Quindi si rivolse ai suoi scagnozzi: «Voi due andate ad assicurarvi che tutto sia pronto per domani mattina: non voglio che ci siano altri incidenti di percorso, claro
I due uomini borbottarono parole di assenso in spagnolo e poi uscirono dalla stanza, lasciandola sola con il suo aguzzino.
Beatrice strinse i pugni, mentre un tremito di rabbia la percorreva da capo a piedi: non era assolutamente intenzionata ad assecondare i desideri sconci di quel depravato e, piuttosto che vedere calpestata la sua dignità di donna, avrebbe preferito morire.
«L’hai aspettato così tanto per avermi, non puo’ attendere ancora qualche altro giorno, fino al matrimonio?
» chiese, tenendo il mento alzato e sfidandolo apertamente. Forse, in quella penombra, Navarra non riusciva a vederla bene in faccia, ma le sue parole non potevano essere certo fraintese.
«Ti sembro uno che aspetta? No, niña, decisamente no» fu la sua secca risposta, mentre muoveva qualche passo verso di lei.
Ma la giovane non si arrese e, tirando fuori tutto il coraggio che aveva, non cedette all’impulso di scappare e proseguì: «Be’, con me lo farai! Se vuo’ sposarmi, devi accettare le mie condizioni».
Navarra rise ancora più sguaiatamente, alimentando l’odio che la ragazza nutriva nei suoi confronti: che essere spregevole e disgustoso era! 
«
Altrimenti cosa succederà? Mi ammazzerai nel sonno?» le chiese, canzonatorio.
«No, non l’ucciderò te
» gli rispose Beatrice, molto lentamente, cercando di prendere tempo e di trovare argomentazioni valide, sebbene quella situazione non favorisse certo la concentrazione. «Farò del male a me stessa. Certo, potresti sempre trovarti un’altra ragazza da sposare, ma tu hai pagato, hai estinto l’ingente debito del mi’ fratello pur di avere me».
L’uomo la fissava in silenzio, come rapito dalle sue parole, e la giovane si augurò di avere la sua completa attenzione, almeno per cercare di guadagnare tempo e poter pensare a qualcosa di più convincente.
«E tu non vuo’ ridurre in cenere i tuo’ affari, vero, Conrado?
» continuò, sforzandosi di mantenere un tono fermo e convincente e di non andare nel panico. Non era affatto facile, ma, in quel momento, era l’unica cosa che poteva fare.
Il silenzio allora calò su di loro come una pesante lama, fredda e affilata, tanto che lei rabbrividì, sentendo la mancanza della coperta ruvida che aveva lasciato sul divano.
Dopo qualche istante, però, Navarra parlò, scandendo ogni parola con tono grave: «
Anche se la spia mi ha tradito, io posso ancora vincere molte partite, Beatriz».
Si accovacciò in terra e cominciò a trafficare con i fiammiferi e con la legna, riuscendo dopo pochi secondi laddove i suoi complici avevano fallito; presto, infatti, nella stanza scoppiettò un bel fuoco vivace e si diffuse un piacevole calore che sembrò invitare Beatrice ad avvicinarsi; tuttavia, la ragazza si guardò bene dal cedere alla tentazione, per evitare di trovarsi troppo vicina a quell’energumeno.
Lui, invece, estrasse dalla tasca interna della giacca una sigaretta e l’accese avvicinandola cautamente alla fiamma, poi si alzò e se la mise in bocca, tirando un paio di boccate ed inspirando il fumo senza fretta.
«Questa sera, però, hai vinto tu, niña» le disse, sogghignando. «Ti sei resa molto più desiderabile di quanto già non fossi e ad un acquisto prezioso va sempre riconosciuto il suo valore».
Tuttavia, la ragazza non replicò, come se avesse il timore che, aggiungendo una qualsiasi altra cosa, il suo aguzzino potesse cambiare di nuovo idea, e trattenne il fiato finché non lo vide oltrepassare la porta della stanza.
Navarra, però, si voltò verso di lei un’ultima volta, languendo ironico: «Buonanotte, dulzura. Riscaldati, non vorrei che fossi raffreddata, il giorno delle nostre nozze».
Subito, l’effetto dell’adrenalina cominciò a scemare e le gambe le cedettero, facendola ritrovare seduta su quello scomodo divano: aveva solo guadagnato un po’ di tempo, senza risolvere effettivamente il suo problema. E adesso, cosa avrebbe fatto?
Si rannicchiò, gettandosi addosso la coperta di lana ruvida e riconoscendo che non c’era via d’uscita, se non quella di assecondare Navarra e abbandonarsi ad una vita di infelicità e sofferenze, dove i suoi sogni e le sue aspettative sarebbero rimaste solo un ricordo lontano dell’infanzia.


Don’t say a prayer for me now
Save it ’til the morning after
No, don’t say a prayer for me now
Save it ’til the morning after2

In quel momento, i versi di una delle sue canzoni preferite le rimbombarono in testa, invitandola davvero a pregare per la sua sorte che sembrava così tremendamente segnata. Finalmente, però, ebbe il coraggio di pensare a Marcello e a tutte le cose che non avrebbero più avuto modo di fare, mentre avvertiva un insopportabile dolore al petto, come se qualcuno la stesse opprimendo e le volesse impedire di respirare. Perché doveva soffrire così tanto? Le sarebbe piaciuto portarlo nella sua amata Firenze, a fargli vedere i posti in cui era cresciuta, magari prendendolo sottobraccio e perdendosi nel suo buon profumo. Invece le sarebbe toccato lasciare l’Italia e scappare come una criminale, seguendo Navarra.
Eppure, Beatrice non si rassegnava al fatto che il suo destino fosse soltanto sottomettersi al suo carnefice, ignorando la propria volontà: era nata libera e tale sarebbe rimasta, non si sarebbe certo piegata ad un compromesso tanto subdolo. Cosa sarebbe servito, dopotutto, continuare a vivere, rimanendo assoggettata ad un uomo vile e meschino come Conrado?
Inoltre, non gli avrebbe dato la soddisfazione di sentirla piagnucolare mentre lui abusava di lei. Era una ragazza, era vero, non poteva sperare di competere con la forza fisica di quell’energumeno, ma aveva un altro modo per far valere la propria posizione, per compiere un ultimo atto di libertà.
La stanchezza, però, cominciò presto a prendere il sopravvento e la luce emanata dal fuoco cominciò ad affievolirsi sotto le palpebre che sentiva sempre più pesanti.
Quanto avrebbe desiderato, in quel momento, trovarsi tra le braccia sicure del suo Marcello! Gli occhi le bruciarono e i pensieri si confusero ancora di più, ma non c’era tempo per le lacrime: non avrebbe mai permesso a Navarra di vincere.
Anche a costo di togliersi la vita.






***
Per la revisione di questo capitolo, ringrazio Lady Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la grafica del titolo è opera mia.
Ringrazio la mia Anto per il supporto e la pazienza.
***

[N.d.A]
1. Raccordo: ovviamente, si tratta del G.R.A., vale a dire il Grande Raccordo Anulare.
2. Don’t save... the morning after: si tratta della canzone Save a Prayer dei Duran Duran, appartenente all’album Rio (1982).

***


Salve a tutti!
Anche questa volta - miracolosamente - sono riuscita ad aggiornare secondo i tempi previsti. Come avete avuto modo di vedere, nella storia si sta facendo
sempre più presente la nota “giallistica”, tanto è vero che ho deciso di aggiungere, come ulteriore sottogenere, suspence. A tal proposito vi annuncio che, prossimamente, ritoccherò anche la presentazione, cercando di inserire qualcosa che offra una visione più ampia del racconto (che, come ci tengo sempre a precisare, non è solo una storia romantica).
D’altra parte, per me, gli Anni ’80 sono anche questo: rapimenti, malavita e misteri. Spero che non consideriate tutto questo eccessivamente pesante, anche perché vorrei che tutte le componenti avessero pari dignità, ma senza eccedere nell’uno o nell’altro verso.
Ringrazio chi mi ha gentilmente recensito lo scorso capitolo, ossia Aven, Feynman, Anto e Balder Moon; chi legge in silenzio; chi ha messo la storia tra le preferite/ricordate/seguite; chi mi lascerà un parere in futuro.
Sapere che ci siano delle persone interessate a questa storia, nonostante tutto, mi rende molto felice.
Come al solito, vi lascio il link alla mia pagina facebook, dove troverete, nei prossimi giorni, uno spoiler del capitolo dodicesimo (che verrà pubblicato il 25 Marzo) e altre cose.
Alla prossima, per chiunque ci sarà!
Halley S. C.

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Capitolo 12
*** Capitolo Dodicesimo - Vento di Tensioni ***


Vento dell'Ovest - Capitolo 12



- Capitolo Dodicesimo -
Vento di Tensioni




N
on appena fu in grado di distinguere ogni lettera dello stemma illuminato della Polizia di Stato, Guido capì di essere arrivato troppo vicino per tirarsi indietro. La porta del commissariato Celio I1, incastonata tra mattoncini rossi a pochi passi da lui, rappresentava la sua via di fuga, oppure di eterna dannazione, a seconda della prospettiva da cui si guardava la faccenda, giacché, se avesse detto tutto quello che sapeva agli sbirri, avrebbe, sì, aiutato Beatrice, ma si sarebbe anche inimicato Navarra fino alla fine dei suoi giorni.
Il pensiero che quel delinquente potesse vendicarsi fece vacillare all’improvviso quel poco coraggio che era riuscito a mettere insieme e che l’aveva portato fino a lì, provocandogli un’angoscia mai avvertita prima. Ciononostante, non avrebbe mai potuto abbandonare Beatrice al suo triste destino ed era soltanto colpa sua se la sorella era sparita: molto probabilmente, infatti, l’avevano portata via con la forza quella mattina mentre stava andando a lavorare.
Che fare, dunque?
Tentennò per qualche altro secondo, accennando un passo avanti, per poi farne, subito dopo, almeno due indietro.
Intanto, l’agente piantonato vicino alla porta, un giovanotto che doveva avere circa vent’anni, lo scrutava con sospetto, con gli occhi ridotti a due fessure, come se avesse intuito che stava nascondendo qualcosa. In fondo, era il suo lavoro, ormai doveva aver sviluppato un intuito particolare nel riconoscere al volo chi potesse essere un mascalzone con la coscienza sporca, un potenziale testimone o, come nel caso di Guido, entrambe le cose.
«Ha intenzione di continuare questo ridicolo balletto ancora per molto?» lo apostrofò ad un certo punto, portandosi le mani sui fianchi e incenerendolo con lo sguardo.
«N-No...» balbettò il ragazzo, sobbalzando. Ora che era stato notato, il cuore prese a martellargli nel petto con ancor più forza.
«Se deve entrare, entri! Se invece sta cercando il circo, arriva tardi. Ma può sempre inseguirlo» continuò quello, sfiorando con una mano la fondina dove teneva la pistola.
A quel gesto, il giovane si sentì congelare e le parole gli uscirono da sole: «I-Io vo-voglio s-solo che ri-ritroviate la m-mi’ sorella!»
L’agente rimase a fissarlo, scettico, come se dubitasse della veridicità dell’affermazione, poi inarcò le sopracciglia, facendole quasi convergere fino a formare un angolo acuto.
«Cos’è successo a sua sorella?»
«L-L’han rapita... Stamane... Per colpa mia» disse stentatamente Guido, accasciandosi a terra: si sentiva esausto, ma in parte sollevato, giacché si era finalmente liberato di un peso sulla coscienza che non aveva mai voluto ammettere: il fatto che la responsabilità del rapimento di Beatrice fosse unicamente la sua. Infatti, se non avesse deciso di sfidare Navarra a poker, quella sera lontana, non avrebbe accumulato nessun debito di gioco, arrivando perfino ad impegnare la vita di sua sorella.
Per giunta, la quantità di creditori dello spagnolo era tale da sospettare che quelle carte fossero state manomesse, così da assicurargli di vincere ogni mano: se lo avesse saputo prima, sicuramente ci avrebbe pensato due volte prima di accettare un suo invito a giocare. 
E dire che Beatrice, da sola, era riuscita ad incantare quel ricco sfondato di Marcello Tornatore. Se solo Guido l’avesse lasciata fare, senza impegnarla allo spagnolo, probabilmente si sarebbe sposata con quello scorbutico e anche lui, in qualità di fratello della sposa, ne avrebbe tratto vantaggio...
Intanto, mentre osservava l’asfalto, velato dall’umidità della notte, udì un rumore di passi che si avvicinavano e poi due paia di braccia robuste che lo aiutavano ad alzarsi.
Allarmato, si voltò a destra e a sinistra, scorgendo due poliziotti che lo sorreggevano, mentre quello che gli aveva rivolto la parola lo scrutava diffidente.
«Portiamolo dentro, quest’individuo deve chiarirci molte cose».

La stanchezza della settimana appena trascorsa investì Alberto Molinari nello stesso momento in cui si sedette alla sua scrivania, sfogliando distrattamente il fascicolo che gli avevano consegnato quella mattina e che rappresentava il motivo per cui era costretto a passare il sabato sera in commissariato, piuttosto che tornare a casa dalla sua Angela.
Erano mesi, infatti, che stavano cercando di porre fine ad un commercio illegale di armi dalla Spagna, senza tuttavia avere una pista cui appigliarsi, quando, inaspettatamente, due giorni prima era venuto il questore a comunicargli che c’era stata una soffiata da un testimone molto attendibile che, però, aveva preferito rimanere anonimo.
In quei fogli compariva svariate volte anche Conrado de Navarra, già noto per varie attività illegali e accompagnato da vari complici, sia spagnoli che italiani, sicuramente implicati nel mantenimento della rete di contrabbando.
Molinari si passò una mano tra i corti capelli brizzolati e sistemò la sua lampada da tavolo, inclinandola leggermente, così che la luce non riflettesse sulla carta bianca rendendogli più difficoltosa la lettura; poi, prese una matita ben appuntita dal portapenne davanti a sé e aprì la cartellina azzurra, deciso a mettere un punto alla questione nel minor tempo possibile. Tuttavia, convenne che, prima di mettersi all’opera, aveva proprio bisogno di un bel caffè forte.
Alzò perciò la cornetta del telefono per chiamare il bar dell’angolo, aperto ventiquattro ore su ventiquattro - una vera salvezza per chi doveva sostenere il turno di notte, quando due vigorosi colpi alla porta lo interruppero.
«Avanti» disse l’uomo, contrariato: se i suoi agenti più giovani, anche questa volta, lo stavano disturbando per il solito ubriacone molestatore del sabato sera, li avrebbe sbattuti in cella a fargli compagnia!
Nella stanza, però, entrarono un ragazzo sui venticinque anni e tre poliziotti, due dei quali lo stavano letteralmente trascinando, giacché non sembrava avere la forza per camminare, ma solo quella per emettere una serie di fastidiosissimi lamenti a voce bassa. Il quartetto era poi capitanato dall’agente Tonelli, da poco trasferitosi a Roma, un giovanotto molto capace, ma, a volte, un po’ troppo ostinato nelle sue convinzioni ed eccessivamente pedante nell’analizzare tutti i cavilli della procedura d’ufficio. A volte pensava che, mancando così tanto di senso pratico, forse avrebbe fatto meglio a diventare avvocato o magistrato.
«Commissario, quest’uomo si è presentato qui, dicendo che sua sorella non è rientrata a casa, questa sera» esordì, indicando il ragazzo, il quale aveva l’aria di non sentirsi troppo bene. Molinari sbuffò: ci mancava solo che svenisse nel suo ufficio, come se non avesse già abbastanza cose di cui occuparsi!
«Ebbene? Saverio, puoi occuparti da solo delle denunce di scomparsa. In questo momento sono molto occupato e desidero essere disturbato solo per questioni importanti!» tuonò il commissario, agitando pericolosamente i fogli che stava leggendo.
Tonelli deglutì, ma non si lasciò intimorire più di tanto, perché proseguì: «Commissario, quest’uomo sostiene che la ragazza sia stata sequestrata e che lui stesso ne è coinvolto. Inoltre, non sta collaborando molto...»
L’uomo, nell’udire queste informazioni, abbassò cautamente il plico che stava sbatacchiando sulla scrivania e spostò repentinamente lo sguardo sul ragazzo, all’apparenza più morto che vivo. Che razza di persona era quella che collaborava nel rapimento di un membro della propria famiglia? Sicuramente, un delinquente della peggior specie, senza Dio e senza morale!
Nonostante sapesse che il suo ruolo non ammetteva i pregiudizi, l’integerrimo Molinari non poté fare a meno di biasimare chi aveva di fronte, al punto di abbaiare, imperativo: «Lei! Come si chiama?»
Poiché l’interrogato non rispondeva, sempre in preda ai suoi lamenti, intervenne uno dei due agenti che lo stava sostenendo: «Commissario, ha detto di chiamarsi Guido Tolomei».
«E come si chiama sua sorella?»
«Beatrice. Beatrice Tolomei, di anni diciotto» rispose, questa volta, l’altro agente.
Il commissario chiuse la cartellina e la gettò con malagrazia sulla scrivania, alzandosi in piedi e avvicinandosi a quel Guido. Gli era già antipatico a pelle: che razza di uomo si sarebbe ridotto in quelle condizioni pietose, invece di mostrarsi agguerrito nel cercare di ottenere aiuto ed informazioni per salvare la sorella?
«E chi sarebbe l’artefice del sequestro? Ma, soprattutto, perché sostiene di esserne coinvolto direttamente?» gli sibilò, a pochissima distanza dal viso.
Tolomei sollevò appena le palpebre e, dopo qualche secondo, si mise a piagnucolare: «E non volevo che le facesse del male... Si credeva2 che lui l’avrebbe solo sposata e che sarebbe finito tutto così!»
Molinari si tirò indietro, scrutando il ragazzo con disgusto. Solo sposata? Secondo i giovani ora il matrimonio adesso era forse diventata una formalità o, peggio, una moda? 
Ritornò sui suoi passi e si appoggiò al ripiano della scrivania, poi, sovrappensiero, domandò all’agente alla sinistra di Guido: «Pontori, cosa diavolo sta blaterando? Chi è questo lui
Tuttavia, fu Tonelli a rispondere, con grande diligenza: «Non siamo riusciti a capirlo».
Il commissario si prese il mento con una mano e, dopo aver fatto le sue considerazioni, ordinò ai due poliziotti: «Fatelo sedere qui e sorvegliatelo a vista, non voglio che si sposti di un millimetro! Se necessario, legatelo, inchiodatelo, ammanettatelo o quel che volete, ma voglio trovarlo qui al mio ritorno, chiaro? Ora io ho assolutamente bisogno di un caffè!»
Gli agenti, compreso Saverio, annuirono decisi, ma Molinari non aveva fatto nemmeno in tempo ad abbassare la maniglia della porta, che Guido parve risvegliarsi dal suo torpore e cominciò a strillare come in preda ad un delirio: «No, non m’arrestate, vi prego! E son innocente! Non volevo far del male alla Beatrice... Navarra minacciava di ucciderci tutti!»
L’uomo, nel sentir pronunciare quel nome, rimase come paralizzato: si era sbagliato, o quel fifone aveva appena detto Navarra, come il principale sospettato del resoconto inviatogli quella mattina da Saltarini? 
«Tolomei, lei conosce questo Navarra?»
«Sì, sì, lo conosco! Da quando ho avuto la sventura di perder tutto al poker, Conrado de Navarra mi perseguita!»
«In che rapporti è con lo spagnolo?»
«Non buoni, mi sta prosciugando di ogni lira, m’ha costretto perfino ad obbligare la mi’ sorella a sposarlo!»
Molinari soppesò molto ponderatamente quanto stava apprendendo, certo di aver individuato con buona precisione il bersaglio e più che sicuro che la mossa successiva più opportuna fosse avvisare il questore delle novità. Si voltò verso Tonelli e lo indicò con l’indice, ordinando perentorio: «Tu! Mettimi immediatamente in contatto con il dottor Saltarini. Non c’è un minuto da perdere: se solleva obiezioni visto che è sabato sera, digli che mi prendo io tutta la responsabilità, ma devo parlargli subito».
Il ragazzo strabuzzò gli occhi, osservando il suo superiore come se gli avesse chiesto di arrivare in America a nuoto.
«Commissario, è sicuro? Perché vuole scomodare il questore di sabato sera? Si tratta solo del rapimento di una ragazzina».
«Perché c’è molto di più, sotto» rispose l’uomo, asciutto, ritenendo che non fosse quello il momento di rivelare particolari, dato che, se le sue supposizioni erano esatte, sarebbe stata avviata un’operazione entro l’alba. «Hai ancora molta strada da fare, Saverio. Nel nostro lavoro, non è contemplato il pressappochismo».
Tonelli annuì, non troppo convinto, ma alla fine fece comunque quello che gli era stato ordinato, congedandosi e dirigendosi nell’ufficio adiacente.
Dopo aver lanciato una rapida occhiata oltre le veneziane che dividevano le vetrate dei vari uffici ed essersi assicurato che il poliziotto stesse rintracciando davvero il questore, Molinari tornò a riversare tutta la sua concentrazione sul lamentoso Guido.
«Mi dica, Tolomei, per caso, sa se il Navarra è ancora qui a Roma?»
Il giovane scosse nervosamente la testa: «Non lo so... E speravo che voi m’aiutaste a trovare la Beatrice. So solo che era in partenza e che aveva una base provvisoria in una cascina abbandonata, in zona Roma Est».
«Commissario, abbiamo avuto una segnalazione dalle parti di Torpignattara, qualche giorno fa: una signora ha detto di aver visto movimenti sospetti in una villetta abbandonata da anni» riferì l’altro agente, quello che, fino a quel momento, era rimasto più in silenzio.
Molinari si voltò verso il suo sottoposto con uno scatto, come se fosse stato morso, e dovette trattenersi per non mettergli le mani al collo: perché era circondato da incapaci?
«Ed ora me lo dici, solo ora, Sabatini?! Cosa aspettavi, che questi delinquenti espatriassero e ci mandassero una cartolina dalle Canarie con i loro saluti?»
Quello sbiancò e prese a balbettare: «M-Ma, co-commissario, n-non sapevamo se prenderla per un’informazione veritiera, è stata una signora anziana a contattarci!»
«Sapete perfettamente che siamo sulle tracce di questi criminali da mesi! E avete anche il coraggio di lamentarvi che i cittadini non collaborano con noi: se non li prendete sul serio, è il minimo!» berciò il commissario, davvero alterato, rivolgendosi ad entrambi gli agenti. «Con i vostri atteggiamenti menefreghisti mettete in cattiva luce e in ridicolo tutto il corpo di Polizia! Adesso pretendo che rintracciate la signora e che vi facciate dare altri dettagli, il tutto pretendo che sia fatto prima che arrivi il dottor Saltarini!»
I due poliziotti, davanti a tali rimproveri, sembrarono rimpicciolire per la vergogna, quindi si affrettarono ad uscire di corsa dall’ufficio per portare a termine i loro incarichi.
«E portatemi subito il mio caffè!»
***

Il cinguettio degli uccellini avvertì Marcello che stava albeggiando.
Spostò la testa di poco, quanto bastava per verificarlo, osservando la pallida luce che filtrava attraverso le tende del balcone della sua camera da letto, quindi ritornò supino, le mani intrecciate sullo stomaco e gli occhi intenti a fissare il soffitto, come aveva fatto per tutta la notte, non essendo riuscito a chiudere occhio nemmeno per un misero istante, non sapendo ancora assolutamente niente di Beatrice.
In quel momento, un improvviso fruscio di coperte gli ricordò che non era solo: sollevò appena il capo e vide che Gerardo e Vittoria, abbracciati, stavano ancora dormendo nel divano letto accostato alla parete, poiché non avevano voluto lasciarlo solo, costringendo Ottavia a preparare in fretta e furia un posto per farli dormire.
La Matrona, però, con i suoi modi arcigni, non aveva permesso che venissero preparate le stanze per gli ospiti, ma i due ragazzi non si erano persi d’animo e avevano replicato che dormire tutti nella stessa stanza, come quando erano bambini, sarebbe stato meglio anche per Marcello, in quanto avrebbe percepito meno la solitudine; anche loro, poi, erano in attesa di una buona notizia che, però, non era ancora arrivata.
Il giovane, alla fine, decise di alzarsi dal letto, trascinandosi in bagno per lavarsi la faccia con l’acqua fredda e schiarirsi i pensieri, intorpiditi da quella che era stata una nottata di angosce e sospiri.
Una volta rientrato in camera, osservò Gerardo e Vittoria e provò una piccolissima fitta di irrazionale invidia nei loro confronti: non solo erano insieme, ma sia i genitori dell’uno che quelli dell’altra, avevano fatto letteralmente i salti di gioia, quando avevano detto loro di essersi finalmente fidanzati, tanto che la signora Irene aveva già cominciato a pensare a quando organizzare il matrimonio.
Sua madre, invece, non faceva altro che ricordargli che quella ragazza non era la donna giusta per lui e, in quel frangente di costante incertezza riguardo le condizioni della ragazza, quelle considerazioni, ovviamente, lo facevano solo stare peggio.
Lui stesso, infatti, per primo aveva delle riserve a causa della buona differenza di età che c’era fra di loro, tuttavia era certo che, se era vero che esisteva una sola anima gemella per ciascuno di noi, la sua non sarebbe potuta essere diversa da Beatrice: brillante, spigliata e allegra. Era tutto il suo opposto e, proprio per questo motivo, lo faceva sentire completo.
Poi, dopo l’ennesimo sospiro in quelle ultime ore, decise di andare in cucina, anche se non aveva la benché minima intenzione di fare colazione, perché aveva lo stomaco chiuso da quando gli avevano riferito del rapimento, tuttavia aveva bisogno di un buon tè per recuperare almeno un po’ di lucidità ed energia.
 
Dopo aver inserito il filtro di un tè ceylon in una tazza traboccante di acqua bollente, il giovane aprì la porta-finestra della cucina che, per sua fortuna, aveva trovato miracolosamente vuota, segno che sua madre ancora non si era svegliata e non aveva ordinato la colazione. Quindi, si sedette al tavolino con le gambe in ferro ed il ripiano in mosaico che dava sulla parte più nascosta del giardino, quella prospiciente alla pineta.
Il buon odore della bevanda calda agì come un balsamo temporaneo sulla tensione che Marcello aveva accumulato in corpo, al punto che riuscì perfino a distendere i muscoli e ad abbandonarsi contro lo schienale della sedia, reclinando la testa all’indietro e fissando il cielo che cominciava a farsi azzurro, per poi svuotare la mente da ogni pensiero.
Aveva letto da qualche parte che, in India, avevano l’abitudine di inspirare con il naso, senza l’ausilio della bocca, quando erano alla ricerca di un buon metodo per rilassarsi e ritrovare la concentrazione perduta; quale migliore occasione di tutta quella baraonda che si era animata, quindi, per sperimentare se era vero?
Poggiò perciò il tè sul tavolino e chiuse gli occhi, preparandosi a fare un bel respiro.
«Buongiorno, Marcello» fece una voce assonnata.
Il ragazzo buttò fuori l’aria tutta insieme, mandando al diavolo i suoi buoni propositi di seguire i consigli della meditazione orientale o qualsiasi cosa fosse.
«Buongiorno a te, Vittoria».
Stropicciandosi gli occhi, la nuova arrivata si avvicinò al tavolo e si sedette di fronte a lui.
«Ti ho disturbato?» domandò, reprimendo faticosamente uno sbadiglio.
«No, figurati. Dubito che possa sentirmi più infastidito di così» sbottò il giovane, sarcastico: non ce l’aveva con l’amica, ma davvero cominciava a trovare insopportabile tutta quella scabrosa situazione
A tale risposta, la sua interlocutrice lo fissò sorpresa, ma non aggiunse nulla, probabilmente intuendo l’inquietudine che lo logorava da dentro; ciononostante, Marcello un secondo più tardi si pentì di essersi rivolto a lei in quel modo poco gentile. In fondo, non era certo colpa di Vittoria se quello schifoso di Navarra aveva deciso di sequestrare Beatrice, perciò cercò subito di rimediare, mitigando il tono: «Vuoi anche tu un po’ di tè?»
«No, grazie, magari tra una mezz’oretta, quando mi sarò svegliata per bene» fece lei, poggiando i gomiti sul tavolo e il viso tra i palmi aperti delle mani. «Come ti senti?»
«Uno straccio consumato e strizzato, accanto a me, farebbe un figurone, ma non credo potrebbe essere diversamente» considerò semplicemente il giovane, prendendo la tazza e facendo oscillare la bevanda all’interno, prima di iniziarla a bere a piccoli sorsi.
Vittoria gli rivolse un’espressione dolce e addolorata allo stesso tempo, annuendo. Per qualche istante, l’unico rumore che si udì fu il canto melodioso di qualche uccellino che doveva essersi appollaiato sugli alberi nelle vicinanze, poi, come se avesse preso coraggio, si sporse verso di lui e gli posò una mano sul braccio.
«Andrà tutto bene» lo rassicurò, sorridendo malinconica. «Sono convinta che quest’incubo finirà presto e tu potrai riabbracciare Beatrice».
«In questo momento, vedo solo buio intorno a me» replicò però lui, lapidario. Si sentiva come sospeso a metri da terra, senza sapere se ci fosse o meno una rete di sicurezza sotto ad attutire un’eventuale caduta. «Come ti comporteresti tu, se sapessi che Gerardo potrebbe essere in pericolo?»
La ragazza espirò con forza e chiuse gli occhi, per poi riaprirli con la risposta già impressa nel suo sguardo: «Esattamente come te».
«Già cincischiate di prima mattina?» li interruppe una voce.
Entrambi si voltarono e videro proprio il ragazzo dirigersi verso di loro, i vestiti un po’ stropicciati e l’espressione stanca.
«Sei geloso?» rise lei, punzecchiandolo.
Sospirando, il giovane prese posto accanto alla sua fidanzata.
«Buongiorno, eh?»
«Su, non fare l’offeso, stavo solo cercando di tenere alto il morale di Marcello! Deprimersi non è mai una buona soluzione, anzi, crea solo più problemi».
Subito, il ragazzo lanciò a Vittoria un’occhiata tra lo scettico e lo sconvolto, quindi sembrò decidere di riservare la sua attenzione solo all’amico.
«Ancora niente, vero?» domandò, apprensivo.
In risposta, Marcello negò con un breve cenno del capo, prendendo un altro sorso del suo tè. Poi, aggiunse: «No. Sinceramente, credevo che la polizia potesse esserci di aiuto, ma, evidentemente, mi sbagliavo».
A quel punto, la giovane appoggiò la testa sulla spalla di Gerardo e lui mise una mano su quella di lei, mentre il biondo, dopo aver poggiato la tazza vuota sul tavolino, incrociò le braccia sul ripiano: tutti e tre sembravano in attesa di qualcosa.
E, in effetti, qualcosa accadde davvero: all’improvviso sbucò dalla porta finestra anche la governante, che sembrava particolarmente affannata.
Immediatamente, i ragazzi scattarono in piedi all’unisono, come se avessero intuito che si trattava delle informazioni che avevano a lungo atteso.
«Ottavia!» esclamò Marcello, colpito da quell’inattesa comparsa. «Cosa ti succede?»
«Devi venire subito al telefono! Tuo padre non c’è e mi sembra molto importante...» rispose la donna, evidentemente agitata.
Lo stupore del giovane aumentò ancor di più quando apprese quest’ulteriore notizia.
«Papà non c’è? E dove è andato?»
L’altra scosse ripetutamente la testa, incapace di calmarsi.
«Non saprei, è uscito molto presto... Comunque, vieni subito, è urgente!»
«Ma... Si può sapere chi è che sta chiamando?» domandò lui, stizzito: già si stava capendo poco, almeno che gli fossero rese note le scarse notizie che si avevano!
«Marcello, non ci crederai mai: è la Questura!»
***

Beatrice, seduta su una vecchia panca di legno ammuffito ed incapace a camminare a causa dei legacci alle caviglie, stava osservando Pablo e Felipe che sistemavano delle grosse casse di legno all’interno di un camioncino bianco, domandandosi cosa mai potessero contenere, mentre Navarra urlava ordini senza sosta, insistendo affinché le casse non subissero urti considerevoli e fossero maneggiate con estrema cautela.
La ragazza corrugò la fronte pensando che, allora, dovessero contenere materiale molto delicato e si augurò di cuore che non fossero miscele esplosive o qualcosa simile. Ci mancava solo che quel depravato la facesse saltare in aria!
«Non abbiamo tutto il giorno, forza, muovetevi!»
I due scagnozzi sbuffarono, ma continuarono a lavorare, finché non riempirono tutto il retro del veicolo, poi chiusero il portellone.
«Muy bien!» approvò Conrado, con la sua solita voce cavernosa, mentre si guardava intorno, molto soddisfatto. «Entro sera saremo miglia lontani da qui!»
La fanciulla smise di contemplare i fili d’erba bagnati di rugiada del prato davanti a sé e sollevò lo sguardo su quel colosso, avvertendo una spiacevolissima sensazione: la sera prima era riuscita solo a temporeggiare, ma fare la sostenuta non l’avrebbe salvata in eterno e, per di più, il solo pensiero di non rivedere più il suo Marcello le metteva addosso una smania incontrollabile. Perché le doveva essere negata l’opportunità di vivere una vita felice con l’uomo che amava?
Il sole nascente, nella luce nuova del mattino, le stava facendo vedere le cose con molta più lucidità di quanta gliene avesse concessa la stanchezza di qualche ora prima, perché i suoi caldi raggi del sole stavano sostituendo con una forte rabbia la negatività portata qualche ora prima dall’oscurità. Nel corso dei suoi quasi diciannove anni di esistenza, non aveva ancora avuto modo di assaporare la vita vera; infatti, nonostante fosse stata costretta dalle avversità a maturare prima del tempo, ancora non era diventata propriamente una donna e non voleva che quest’opportunità le fosse negata.
In quel momento, a quel pensiero, il senso di frustrazione la portò molto vicina al piangere, perché non voleva che quel mostro la toccasse e la costringesse a rinunciare alla sua vita, ancora tutta da assaporare. Aveva appena conosciuto Marcello e aveva dovuto aspettare così tanto per trovare un ragazzo così... Se mai fosse riuscita ad uscire da quella situazione orripilante, suo fratello gliel’avrebbe pagata molto cara!
«Sei silenziosa, questa mattina, niña, o sbaglio?»
L’intervento divertito e stuzzicante di Navarra la infastidì non poco: ora non era neanche libera di struggersi in pace per la sua sorte? Per quanto ancora avrebbe dovuto essere costretta a sentire quella voce odiosa?
«Queste corde mi stan facendo venire le piaghe. Liberami immediatamente!» esclamò lei in risposta, freddandolo con un’occhiata gelida.
Lui le lanciò un sorriso sardonico e si sedette sulla panca.
«Te l’ho già spiegato, dulzura: quando saremo all’aeroporto, ti libererò da queste corde, per legarti a me definitivamente con il sacro vincolo del matrimonio» disse, scimmiottando un sacerdote e piazzandole una mano sulla coscia.
La ragazza si staccò bruscamente e, non potendo alzarsi, scivolò più in là lungo il sedile, allontanandosi il più possibile da quel depravato.
«Non mi toccare!» lo redarguì, furibonda. La gioia che avrebbe provato nel vederlo penzolare da una forca sarebbe stata difficilmente quantificabile.
Navarra si alzò e le si avvicinò, agguantandole il viso e stringendole con forza il mento: «Fai la preziosa quanto vuoi, niña. Ma tanto, che tu lo voglia o no, da stasera scalderai il mio letto».
Beatrice si svincolò di nuovo, questa volta volgendo lo sguardo altrove e non girò la testa finché non ebbe sentito i passi di lui allontanarsi. Che essere disgustoso era!
Ogni risata gutturale che le arrivava alle orecchie aumentava sempre di più la sua rabbia nei confronti sia del fratello, che del suo seviziatore, causandole delle fitte alla pancia non indifferenti, tanto era il nervosismo che stava accumulando.
Questa volta, però, le lacrime cominciarono a scendere da sole, finendo sulla gonna dell’abito liso e sporco, non come segno di resa, bensì come simbolo della sua grande disperazione di fronte ad una tremenda situazione, dalla quale non sapeva proprio come uscire.
E fu in quell’istante di grande sconforto e di massima esasperazione che un nuovo rumore spense la risata sguaiata di Navarra: una sirena sempre più forte che sembrava dirigersi proprio verso di loro.

«La policia!» gridò Felipe, proprio nel momento in cui le sirene si spegnevano.
Nel giro di una frazione di secondo si scatenò il caos e, per qualche istante, la ragazza perse la cognizione del tempo e dello spazio.
Avvertì Navarra che urlava qualcosa in spagnolo ai suoi due complici e, subito dopo, degli spari
che rimbombavano nell’aria. Frastornata, si piegò istintivamente su se stessa, temendo di essere colpita da una pallottola vagante: come aveva fatto la polizia a scoprire dove si trovavano quei delinquenti? Erano forse tenuti sotto controllo da tempo?
«Alzati!» le intimò improvvisamente Conrado, artigliandole con violenza un braccio, per poi abbassarsi e tranciare di netto i robusti legacci che le tenevano ferme le caviglie.
«Muoviti!» le ordinò, trascinandosela dietro e obbligandola a correre per i campi, cosa che le risultò molto difficile, giacché, essendo stata ferma ed imbrigliata per molto tempo, aveva le gambe completamente intorpidite.
«Lasciami andare!» esclamò lei, cercando di liberarsi da quella presa d’acciaio, mentre si voltava indietro per assicurarsi che qualcuno li avesse visti e li stesse inseguendo.
Scorse due grandi macchie scure, ma indistinte, proprio dietro di loro e tale consapevolezza la portò a sperare che quel brutto incubo fosse ad un passo dal concludersi.
Felipe, che correva affianco a loro, sparò un paio di pallottole, ma dovette aver sbagliato la mira, poiché nessuno degli inseguitori si accasciò a terra; al contrario, fu proprio il delinquente a soccombere con un gemito: evidentemente, gli agenti dovevano essere tiratori più capaci.
«Maledizioneeee!» ululò Navarra, senza smettere di correre.
«Arrenditi!» gli gridò uno dei due poliziotti. «Ormai sei in trappola!»
«Mai!» fece lui, di rimando. Poi, senza preavviso, si fermò e si voltò verso di loro, sparando un colpo verso ciascuno e mancandoli clamorosamente entrambi. La ragazza stava quasi per approfittare di quel momento di distrazione, in cui lo spagnolo aveva allentato la presa, per tentare di svincolarsi definitivamente, ma, purtroppo, quello capì in tempo ciò che voleva fare e rinsaldò la presa su di lei.
«Non ci provare! » le ringhiò contro, rivolgendole uno sguardo iniettato di sangue; poi, Beatrice si sentì scuotere e strattonare violentemente, per ritrovarsi schiacciata contro l’uomo, il suo braccio stretto intorno al collo e la pistola puntata contro la tempia.
«Allontanatevi o la uccido!»
La ragazza si sentì soffocare e si portò istintivamente le mani alla gola, cercando di allentare la morsa omicida di Navarra, senza tuttavia riuscire a smuoverlo di un millimetro. Le voci le arrivavano ovattate e distanti, come se quella baraonda non la riguardasse.
Il suo campo visivo si era ormai riempito di macchie e le forze cominciavano a venirle meno, ma dalle labbra non le uscì nemmeno un rantolo. Era dunque così che sarebbe finita, senza nemmeno un ultimo addio al suo amato Marcello?
All’improvviso, un boato le esplose nella testa e subito sentì di non essere più tenuta prigioniera, anche se un terribile dolore le s’irradiò presto per tutto il corpo, togliendole definitivamente il fiato.
«Il suo complice è arrivato con un furgone! Stanno scappando!» gridò qualcuno.
«Accidenti, l’ho colpito solo alla gamba!» si aggiunse un’altra voce.
Si udì un motore che rombava, altre grida, poi più nulla.
«Commissario, sta fuggendo!»
«Avvertite tutte le pattuglie in zona, non lasciatevelo scappare!»
Man mano che l’aria tornava a riempirle i polmoni, la ragazza cominciò a recuperare la lucidità, il mondo smise di girarle intorno e si ritrovò a guardare un soleggiato cielo azzurro, incurante di tutto il tramestio che si agitava intorno a lei, come se non la riguardasse.
«Commissario, forse la ragazza è ferita!»
«E cosa stai aspettando ad accertartene, Saverio? Chiama un’ambulanza3, se necessario!»
Qualcuno le si avvicinò e, dopo averla afferrata delicatamente per le spalle, l’aiutò a mettersi seduta.
«Stai bene?»
Beatrice riconobbe una delle voci che avevano gridato contro Navarra e perciò spostò lo sguardo sul giovane poliziotto che le si era accovacciato accanto; sbatté le palpebre più di una volta e aprì la bocca per diverse, prima di riuscire a rispondergli.
A quanto sembrava, il dolore al fianco sinistro non era dovuto a nessuna pallottola, ma solo alla brutta caduta che le aveva fatto fare quello schifoso, sbattendola a terra nella frenesia della fuga.
«Sì, ora sì».
Saverio le sorrise gentilmente e, quando notò le corde ai polsi, tirò fuori dalle tasche un coltellino a serramanico, per poi adoperarsi a recidere il nodo.
«L’esperienza da scout può sempre tornare utile» commentò, buttando i legacci in mezzo al prato e tornando a guardarla. «Va meglio, ora, vero?»
Beatrice annuì stancamente, stringendo le spalle non perché avesse freddo, ma perché desiderava solo ripristinare i propri spazi personali, così barbaramente violati nelle ultime ore.
Strinse le palpebre, respirando più lentamente: quasi stentava a credere che Navarra, finalmente, fosse allontanato da lei e si augurò di non rivederlo mai più. Quando riaprì gli occhi, notò che il giovane era rimasto a fissarla qualche secondo in più del dovuto e si sentì a disagio. Sapeva di non avere un bell’aspetto, ma non era una giustificazione sufficiente ad autorizzarlo a guardarla così insistentemente.
«Ti chiami Beatrice, vero?» le domandò, passandosi una mano sulla visiera del cappello dell’uniforme.
«Sì».
«Saverio, quanto ci metti ad accertarti che la ragazza stia bene? Smettila di fare il cascamorto e vieni qui!» abbaiò quello che doveva essere il commissario, richiamando il suo agente all’ordine.
«Con permesso» si congedò allora il giovane, accompagnando le parole con un cenno del capo.
La fanciulla lo vide allontanarsi e dirigersi verso gli altri poliziotti che tenevano d’occhio un ferito e lamentoso Felipe: buffo come non le desse alcuna soddisfazione vederlo ridotto in quello stato. D’altra parte, la stanchezza stava sopraffacendo l’ansia e l’angoscia provate fino a poco prima e non poté non essere contenta del fatto che, per quel momento, gli agenti la stavano ignorando, lasciandola un po’ in pace. Guardò le piaghe che la corda le aveva lasciato sui polsi, poi rialzò lo sguardo verso il cielo terso di primavera, lasciando che una lieve brezza le scompigliasse i capelli con gentilezza, mentre il suo cuore si riempiva di pace e commozione per essere arrivata sana e salva alla fine del suo supplizio.







***
Per la revisione di questo capitolo, ringrazio Lady Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la grafica del titolo è opera mia.
Ringrazio la mia Anto per esserci sempre.
***


1. commissariato Celio I: è il commissariato più vicino all’abitazione di Guido. A dire il vero, nelle vicinanze, è anche presente la Questura di Roma, ma penso che un personaggio del genere non si sarebbe esposto oltre il dovuto, preferendo un commissariato più piccolo;
2. si credeva: qui sta per credevo. Forma impersonale, tipica del dialetto toscano;
3. chiama un’ambulanza: nei primi Anni ’80, la rete GSM (rete cellulare), nonostante cominciasse a muovere i suoi primi passi, non era ancora all’apice della sua diffusione. Dovete pertanto considerare che la Polizia, in questa storia, si avvale del proprio sistema di trasmissione radio (con frequenza assegnata). 
***

Salve!
Capitolo abbastanza denso, che ne dite? Il prossimo sarà relativamente più tranquillo (direi che i protagonisti ne hanno bisogno) e riserverà qualche momento più dolcioso (?), ma non crediate che le difficoltà siano finite, perché ho ancora molte cose da raccontare.
Ringrazio chi ha recensito lo scorso capitolo e, naturalmente, grazie anche a chi legge in silenzio, chi ha messo la storia tra le preferite/ricordate/seguite, chi mi lascerà un suo commento in seguito.
Ogni segno del vostro apprezzamento verso questo racconto mi fa sempre molto piacere.
In ultimo, vi lascio, come sempre, il link alla mia pagina facebook, dove troverete spoiler, novità e altre cose.
Alla prossima, per chiunque vorrà esserci!
Halley S. C.

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Capitolo 13
*** Capitolo Tredicesimo - Vento di Quiete ***


Vento dell'Ovest - Capitolo 13



- Capitolo Tredicesimo -
Vento di Quiete




M
olinari fissò il fondo della tazzina ormai vuota, pensando che il caffè fosse finito davvero troppo presto: non sapeva di preciso quanti ne avesse bevuti dalla sera precedente, ma di certo doveva aver superato abbondantemente la decina.
Poggiò con cautela la tazza sul piattino e lo spinse via, cercando di scacciare dalla testa quella vocina (sorprendentemente simile a quella di sua moglie), che lo stava rimproverando per l’abuso di caffeina, mentre si giustificava con la consapevolezza che non avrebbe potuto fare altrimenti, giacché aveva aspettato per mesi di poter mettere un punto fermo alle indagini sul contrabbando di armi nella Capitale.
Nonostante Navarra fosse riuscito a fuggire, infatti, la squadra del commissario era comunque riuscita a catturare uno dei suoi complici e, di conseguenza, avrebbero potuto interrogarlo con la speranza che si decidesse a parlare e rivelasse qualche particolare utile per prendere anche il suo capo e, finalmente, mettere fine a tutta quella storia.
L’uomo sospirò e si alzò dalla sedia, trascinandosi verso la porta
e cercando di ignorare il fatto che non dormisse da più di quarantotto ore, conscio che non fosse più un giovincello e che, quindi, non riuscisse a tollerare come una volta le ore piccole.
«Tonelli!» tuonò, mettendo la testa fuori dal suo ufficio e guardando a destra e a sinistra del corridoio, cercando con lo sguardo l’agente che, nel giro di qualche secondo, gli si materializzò davanti.
«Ha chiamato me, commissario?» domandò quello, con tono apprensivo.
«Conosci un altro Tonelli qui dentro, per caso?» gli fece Molinari, infastidito dalla scarsa prontezza del ragazzo.
«No, ci sono solo io».
«Meno male!»
Saverio aprì la bocca per dire qualcosa a sua discolpa, ma l’altro, deciso a non perdere ulteriore tempo, non gli permise di emettere una sola sillaba, incalzandolo con altre richieste: «Hai chiamato l’ospedale?»
«Certo, commissario, e i medici hanno detto che l’operazione è perfettamente riuscita. Presto potremo interrogare Martínez» snocciolò il giovane, con somma diligenza.
«Molto bene. Hai convocato anche la signora Fiorenzi per la deposizione?»
«Sì, commissario, ha detto che sarebbe venuta subito. Preferisce ascoltarla lei o se ne occupa Pontori? Sa, mi sembra un po’ sclerotica...»
Se per una frazione di secondo Molinari si era rilassato, quel giudizio buttato lì dal suo sottoposto lo fece tornare nuovamente contratto.
«Preferisco ascoltarla io» decretò, spazientito. «E, comunque, Saverio, il tuo non è un atteggiamento degno di un bravo poliziotto: devi fare a meno dei commenti personali. Infatti, è solo grazie alla collaborazione di quella donna, se siamo riusciti ad individuare subito in quale caseggiato si nascondesse Navarra».
L’agente incassò il rimprovero e chinò la testa, in segno di rispetto verso l’insegnamento che gli aveva impartito il superiore, mentre il commissario si voltava per rientrare nel suo ufficio. Tuttavia, un nuovo pensiero lo costrinse a tornare sui suoi passi e a rimettere la testa fuori dalla stanza: «Ah, Saverio, dopo la signora Fiorenzi voglio sentire Guido Tolomei ed infine la ragazza, mi pare che si chiami...»
«Beatrice» completò Tonelli, mostrando di essere preparato sull’argomento.
L’uomo, al quale non era sfuggita tale prontezza, inarcò un sopracciglio.
«Esatto» borbottò. «Se fossi in te, però, non mi ci affezionerei troppo».
Il ragazzo lo fissò per un attimo in tralice, per poi affrettarsi a spiegare: «Io? Ma no, si figuri! Le pare che...»
«Il mio è solo un buon consiglio, ecco tutto» tagliò corto il commissario, affatto propenso a discutere oltre. «Ora vai, ti ho dato dei compiti da assolvere e mi aspetto che tu li porti a termine al più presto».
Poi si voltò, prima che l’altro potesse rispondergli, sbattendo pesantemente la porta e tornando di malumore alla sua scrivania chiedendosi perché mai dovesse essere circondato da incapaci. Non poteva credere che adesso i suoi agenti si mettessero a civettare anche con gli interrogati!
Saverio era proprio un ingenuo se credeva di potersi mettere indisturbato a fare il filo a quella ragazzina, ipotizzando che, se Saltarini in persona si era mosso, doveva essere cara a qualcuno dei suoi importanti amici.
Tuttavia, ora che ci pensava, per Molinari c’era ancora qualcosa in quella vicenda che continuava a non tornare: il Questore si era interessato relativamente a come stesse la ragazza, mentre, invece, era rimasto molto deluso dal fatto che Navarra fosse sfuggito. Questo, ad una prima analisi, sarebbe sembrato anche normale da parte di un capo di Polizia, se non fosse stato per le dinamiche alquanto oscure che avevano animato sin dall’inizio l’intera vicenda.
Saltarini, infatti, era venuto a consegnargli il fascicolo contenente il nome di Navarra due giorni prima che fosse rapita la ragazza, senza contare che il dottore l’aveva avvisato solo poco prima che fosse avviata l’operazione della probabile presenza, come ostaggio, di una giovane legata ad una famiglia che conosceva personalmente: era come se si fossero intrecciati due filoni apparentemente distinti con, in realtà, un unico punto in comune, il quale doveva essere lo stesso spagnolo.
Chi era l’informatore anonimo che aveva fatto il nome di Conrado de Navarra? E, soprattutto, quel delinquente stava scappando proprio da lui? Da quel che aveva capito, la ragazza aveva avuto solo la sfortuna di avere per fratello un emerito cretino e non sembrava strettamente coinvolta con i traffici, ciononostante l’avrebbe ascoltata comunque.
D’improvviso, il commissario si riscosse dai suoi pensieri, prese una penna e, come gli aveva insegnato un capace ed abile poliziotto durante il corso di formazione, scrisse su un foglio alcune parole-chiave con annessi punti interrogativi, cerchiandone una in particolare: regolamento di conti.
***

La saletta nella quale avevano relegato Beatrice, in attesa che qualcuno la chiamasse per ascoltarla, era talmente angusta che, per un attimo, le ricordò la stanza che aveva a casa della zia: stretta e buia, aveva tutta l’aria di essere un’intercapedine riadattata a spazio comune, arredata con due file di sedie, un tavolino e una macchinetta per il caffè, che aveva tutta l’aria di essere inutilizzata da tempo.
La ragazza prese tra le dita una ciocca dei suoi lunghi capelli e cominciò a lisciarsela, ancora abbastanza stordita dagli ultimi eventi, che l’avevano letteralmente travolta, a cominciare dal suo salvataggio e dalla fuga di Navarra e di Pablo, i quali erano riusciti a farla franca solo per mera fortuna, visto che la polizia era stata ad un soffio dall’arrestarli entrambi. Tuttavia, la cosa davvero importante era che avesse riconquistato la propria libertà, anche se la consapevolezza che quel delinquente era ancora a piede libero non la rendeva affatto tranquilla.
E se avesse provato a rapirla di nuovo? Ma no, sarebbe stata una follia, giacché il polverone alzatosi intorno all’uomo era tale da non essere certo possibile che fosse dimenticato tanto presto.
Rincuorata da questo pensiero, la fanciulla sospirò e si abbandonò contro lo schienale della sedia, appoggiando la testa contro il muro e rivolgendo gli occhi al soffitto, rilassandosi forse per la prima volta da quando quella brutta storia era iniziata: erano passati solamente tre giorni da quando i due scagnozzi dello spagnolo l’avevano prelevata a forza in Via Merulana, eppure a lei sembrava che fossero passati anni, tanto le vicende erano state dense di sentimenti forti, primo fra tutti la paura.
Socchiuse appena le palpebre, ripercorrendo rapidamente i momenti della sua prigionia e rivivendo con chiarezza il terrore provato, nonostante non si fosse mai arresa e avesse lottato con le unghie e con i denti pur di uscirne sana e salva, anche quando aveva creduto che ogni speranza fosse persa.
Infatti, proprio nel momento di massimo sconforto, erano arrivati a salvarla...
«Preferisci un tè o un caffè?»
Sobbalzando, si voltò nella direzione dalla quale proveniva la voce e, sulla soglia della stanza, riconobbe l’agente che le aveva tagliato i legacci, il quale, se non ricordava male, aveva detto di chiamarsi Saverio Tonelli.
«Scusami, non volevo spaventarti, ho solo pensato che volessi qualcosa di caldo, dopo tutto quello che hai passato» si giustificò lui, scrollando le spalle.
«Oh, son a posto così, grazie» gli rispose, squadrandolo guardinga: non si era certo dimenticata che quel tipo l’aveva fissata troppo insistentemente, mettendola a disagio. Va bene che era provata per la brutta vicenda che aveva vissuto, ma non era certo scema o smemorata.
Saverio annuì ed entrò, fermandosi dietro al tavolo e poggiando le mani sul ripiano.
«Non vuoi nemmeno un panino o un toast? Devi essere affamata».
L’inconscio di Beatrice le riportò alla mente quella volta che Marcello l’aveva portata a mangiare uno spuntino in quel lussuoso bar del centro, facendole spuntare sulle labbra un dolce sorriso: chissà dove si trovava ora il giovane e chissà cosa avrebbe detto di ciò che le aveva fatto Navarra! L’aveva cercata in quei giorni? Era andato a casa sua? Guido gli aveva confessato cosa era successo? Al solo pensiero che aveva rischiato di non poterlo rivedere più, lo stomaco le si contrasse dolorosamente.
«Beatrice...?» la richiamò flebilmente il poliziotto, interrompendo la raffica di domande che le stava affollando la testa.
«Ehm... No, grazie» gli disse, sperando di indovinare la risposta, visto che non aveva sentito la domanda. «Sto bene così, gradirei solo un po’ d’acqua, per favore».
Il ragazzo le sorrise ed uscì, per tornare subito dopo con un bicchiere di plastica pieno di acqua fresca.
«Ecco qua, purtroppo non abbiamo altro».
La fanciulla fece spallucce: in quel momento, l’ultima cosa che la preoccupava era di che materiale fosse il recipiente dal quale poter bere.
Lui si appoggiò nuovamente al tavolo, questa volta tenendo le mani dietro alla schiena, e la guardò, inclinando la testa di lato e serrando le labbra, come se stesse pensando a qualcosa di molto impegnativo.
«Cosa ne diresti di uscire insieme, una sera di queste?»
A quell’affermazione, le andò di traverso l’acqua e tossì talmente forte che le lacrimarono gli occhi.
«Ho detto qualcosa di sbagliato? Non mi dire che non sei mai stata invitata ad uscire da un ragazzo!» 
Beatrice poggiò il bicchiere a terra e si ricompose prendendo un bel respiro, dopo di che lo fulminò con lo sguardo, inviperita: altroché, quelli che aveva avuto con Marcello erano stati degli appuntamenti di tutto rispetto! E quella conversazione alquanto irritante era solo l’ennesima conferma della iella che continuava a perseguitarla: doveva avere una sorta di tendenza ad attirare idioti, perché altrimenti non avrebbe saputo spiegarsi il fatto che continuava ad incontrarne, giacché, tra Guido, Navarra e quel deficiente che aveva di fronte, proprio non sapeva chi potesse essere il peggiore.
«E credo che sian affari miei» gli rispose, acida, senza smettere di guardarlo di traverso.
«Non ti va di uscire con me?» incalzò lui, probabilmente nella speranza di riuscirle a strapparle un consenso.
La ragazza avrebbe tanto voluto dirgli che non avrebbe saputo cosa farsene di lui, quando era già impegnata (per giunta con Marcello), ma, poi, pensò che fosse una risposta maleducata ed indelicata, anche se, con la sua insistenza, quel tipo l’avrebbe più che meritata. Alla fine, decise di mantenere la calma e contò mentalmente fino a tre, optando per un commento più neutro: «Mi avete appena liberata da un sequestro, uscire con un ragazzo non l’è certo la mia priorità».
Riafferrò il bicchiere sul pavimento e prese un altro sorso, cercando di mantenere un contegno distaccato, mentre l’altro assunse un’espressione che mostrava tutto il suo disappunto nell’aver ricevuto un due di picche.
«E, comunque, c’è già un altro» sottolineò ulteriormente lei, così da mettere definitivamente in chiaro le cose, affinché l’agente non si facesse venire altre fantasie o tornasse all’attacco.
«Vuol dire che... sei fidanzata?» domandò Tonelli, mentre il suo viso si trasformava da indispettito ad una maschera di delusione. 
«Sono... impegnata» la buttò lì Beatrice, mantenendosi sul vago. D’altra parte, nonostante ciò che c’era stato tra lei e Marcello, non poteva affermare di essere la sua ragazza a tutti gli effetti: farlo non sarebbe stato veritiero.
«Non è la stessa cosa» puntualizzò Saverio, stizzito, incrociando strettamente le braccia contro il petto.
A questo punto, Beatrice era sinceramente risoluta a lasciar perdere la diplomazia e a dire a quell’odioso invadente cosa pensava realmente di lui, quando l’imperativo - e quanto mai provvidenziale - intervento del commissario Molinari fece tremare le pareti: «Saverio, smettila di fare il civettone o ti spedisco a fare il secondino1! Portami subito la ragazza, voglio parlare con lei immediatamente!»
***

L’ennesima volta che Marcello sia alzò dalla sedia, per poi risedersi quasi subito, Vittoria sbuffò: «Non è facendo così che convincerai i poliziotti a dirti qualcosa, sai?»
«Vitto’, lascialo fare, deve pur sfogare il nervosismo in qualche modo!» le disse Gerardo, osservando preoccupato l’amico, che non aveva sentito nemmeno una parola: da quando gli avevano detto che, in quel corridoio buio e stretto, avrebbe aspettato solo qualche minuto, perché l’avrebbero chiamato presto, erano passate almeno tre ore, senza che nessuno si facesse vivo o gli riferisse le effettive condizioni di Beatrice.
La paura che le potesse essere successo qualcosa di brutto si andava rafforzando ogni minuto che passava, giacché gli era sembrato plausibile che tutto si potesse risolvere in breve tempo, se la fanciulla fosse stata effettivamente bene, ma così non era stato.
Stava quasi per arrendersi allo sconforto, quando l’agente che lo aveva accolto all’ingresso del commissariato sbucò da dietro una delle porte che si aprivano sul corridoio.
«Signor Tornatore, venga, abbiamo quasi finito».
Il giovane scattò in piedi come una molla, sentendosi di colpo molto più sollevato: l’espressione di quel poliziotto sembrava serena, pertanto non sembrava che ci fossero cattive notizie all’orizzonte e c’erano buone probabilità che Beatrice stesse bene.
«Noi ti aspettiamo fuori» disse Vittoria, sorridendogli fiduciosa, mentre Gerardo gli dava una pacca d’incoraggiamento sulla spalla. Lui li guardò entrambi ed annuì, avvertendo dentro di sé una leggera apprensione che, però, decise di ignorare, almeno per il momento.
L’agente lo attese e, una volta che ebbe oltrepassato la soglia, richiuse la porta alle loro spalle. Marcello venne condotto in un altro corridoio, più ampio del precedente, ma ugualmente cupo, dove c’erano un altro giovane poliziotto ed un uomo sulla cinquantina, il quale stava cercando di congedare un’arzilla vecchietta che, invece, non sembrava particolarmente interessata a levar le tende.
«Lo sapevo che in quella casa c’era qualcosa che non andava, era disabitata da anni! Chi mai andrebbe a vivere in un rudere come quello? Solo chi ha qualcosa da nascondere, lo dicevo io!» stava riferendo la signora, agitando il bastone che usava per camminare. «Mi sono detta: “Ida, qui devi chiamare la polizia, perché c’è qualcosa che non quadra”. E ho fatto bene!»
«Ha fatto benissimo, signora Fiorini, il suo aiuto ci è stato davvero prezioso» replicò stancamente l’altro. Non indossava l’uniforme quindi, probabilmente, non era un semplice agente, aveva il viso di chi non dormiva da giorni, stanco e sbattuto, e il biondo pensò che quell’indagine doveva essergli costata molte ore di sonno.
Il poliziotto che l’aveva accompagnato, allora, gli fece segno di accomodarsi su una delle sedie in plastica nera e Marcello ubbidì, restando in silenzio.
«È stato un piacere collaborare con le forze dell’ordine.
Lo sa che mi tengo informata anche sulle persone scomparse, commissario? Spero sempre di poter aiutare qualcuno a tornare a casa. Vorrei che il mio povero marito lo sapesse, diceva sempre che era una perdita di tempo da impiccioni...»
«Signora, perché non torna a trovarci qualche altro giorno per finire il racconto? Purtroppo, ora abbiamo tanto da lavorare e non potremmo darle la giusta attenzione».
La vedova aprì la bocca per protestare, ma il commissario fu più rapido e ordinò: «Sabatini, accompagna questa gentile collaboratrice, poi torna subito qui ché mi servi!» quindi, si girò verso la Fiorini, stringendole rapidamente la mano, e concluse: «Arrivederci, signora, faccia buon rientro».
Le proteste della vecchietta si estinsero non appena il giovane poliziotto l’ebbe scortata al di là della porta, facendo ripiombare il corridoio nel silenzio più totale.
«Qualche giorno finirò in una clinica psichiatrica» brontolò l’uomo, esausto. Poi, notò Marcello e chiese, burbero: «Pontori, questo chi è?»
«Commissario, il signor Tornatore è qui su autorizzazione del dottor Saltarini» rispose immediatamente l’agente.
«Ah, sì. Sì, ora ricordo» fece Molinari, stropicciandosi stancamente gli occhi con due dita. «Fallo rimanere qui, a breve rilasceremo la ragazza. Invece, vai a prendermi Tolomei, voglio risentirlo: ci sono molti elementi nel suo racconto che non mi tornano».
Il giovanotto annuì compostamente e sparì subito dopo; contemporaneamente, un telefono squillò e il commissario abbandonò subito la sua posizione per andare a rispondere, come se aspettasse quella chiamata, lasciando il biondo nuovamente solo.
Tuttavia, questa solitudine durò davvero poco, giacché ben presto Pontori fu di ritorno, spingendo un Guido ammanettato e piagnucolante: non aveva affatto una bella cera, ma dopo quello che aveva combinato era davvero il minimo.
«E non ho fatto nulla!» si lamentò, mentre veniva costretto a sedersi su una delle sedie poste di fronte a Marcello.
«Il favoreggiamento di sequestro di persona è punibile dalla legge, non ci siamo inventati niente di nuovo» gli rispose secco il suo carceriere, non lasciandosi affatto commuovere da quella patetica scena. «Ed ora, non ti muovere: vado a chiamare il commissario!»
Non appena quello ebbe voltato l’angolo, Guido sbuffò, mettendo in tensione i polsi e facendo tintinnare la catena che teneva uniti i due bracciali di acciaio e bofonchiando qualcosa di poco comprensibile, quindi alzò la testa e, quando vide chi aveva di fronte, spalancò le iridi grigio scuro, sbiancando all’istante.
«Da quanto tempo, eh, Tolomei?» esordì il biondo, riversando sul suo interlocutore un’occhiata carica di odio: se avesse potuto, l’avrebbe incenerito all’istante.
«Tornatore... O’ che tu ci fa’ qui?» gli chiese, deglutendo.
«Sono in visita d’istruzione, sai, voglio imparare come la polizia arresta gli stronzi che vendono le sorelle» rispose lui inquietantemente calmo, cercando di rimanere seduto e di non alzarsi per dargliene di santa ragione.
«M-Ma e non ho fatto niente...»
«Niente? L’hai data in pasto a quegli schifosi, mentre tu ti davi alla bella vita!»
«De una fia2, il Navarra minacciava anche me! Non si riusciva a pagar i debiti!» rispose l’altro, assumendo un’espressione infantile e capricciosa, mentre saltava in piedi.
«E per questo hai deciso di scendere a patti con quella feccia, barattando tua sorella? Ma che razza di uomo sei?!» insorse il biondo che, non riuscendo a trattenersi, si alzò a sua volta.
«Suvvia, la Beatrice dimenticherà presto quel che l’è successo. E so che tu le garbi molto, sarà sufficiente che te la spupazzi un po’ e...»
Guido non riuscì a finire la frase che finì addosso alle sedie, rovesciandole e cadendoci sopra, il naso ridotto ad una zampillante fontana scarlatta.
«Ripetilo e ti do il resto, coglione!» ringhiò Marcello, guardandolo furibondo. «Lei non è ’na mignotta come quelle che frequenti tu!»
Aveva provato a reprimere la forte tentazione che aveva di massacrarlo di botte, ma non ci era riuscito, perché quell’essere non si era mostrato minimamente pentito per ciò a cui aveva costretto la sorella. Possibile che non avesse nemmeno il più piccolo rimorso per le atrocità che aveva commesso?
«Cosa sta succedendo qui?» 
Marcello si voltò e vide Molinari, un poliziotto che non aveva ancora visto e quello che l’aveva condotto lì che lo fissavano inquisitori. Non si lasciò affatto intimorire e ricambiò lo sguardo, alzando il mento: che lo mettessero pure in gattabuia, pur di provare quella soddisfazione, l’avrebbe rifatto altre mille volte! Infatti, nonostante appoggiasse sul serio i principi di Beccaria, contrari alla pena di morte, rimaneva dell’idea che una bella ripassata ai rifiuti della società, talvolta, fosse più che necessaria.
Il commissario lanciò un veloce sguardo a Guido, che stava gemendo, contorcendosi a terra, e prontamente ordinò: «Saverio, chiama un medico!»
Tuttavia, alla vista del sangue, il giovane divenne pallido come un lenzuolo e andò giù come un birillo.
Molinari sbuffò sonoramente e aggiunse: «Come non detto. Pontori, occupati di Tonelli, e tu, Sabatini, chiama un dottore per questo campione».
Mentre gli agenti eseguivano celermente gli ordini, l’uomo passò oltre la sagoma gemente di Guido e, senza fermarsi, gli sibilò: «Non dovrei dirlo, ma ti sta bene».
Dopo qualche passo, però, fu davanti a Marcello ed il ragazzo si rese conto che il commissario, nonostante fosse più basso di lui, riusciva comunque ad suscitare un notevole rispetto.
«Quanto a te, testa calda, questa volta te la faccio passare liscia» gli disse, guardandolo fermamente negli occhi. «Ma alla prossima occasione che fai a botte qui dentro, ti sbatto in cella a rinfrescarti le idee, chiaro?»
«Sì, commissario» rispose il ragazzo, fissandolo senza battere ciglio.
«Marcello...»
Quella voce, giunta alle sue orecchie senza preavviso, lo fece voltare di scatto e lì, sulla porta dell’ufficio di Molinari, con il viso stanco e gli abiti lisi, vide Beatrice che lo fissava radiosa.
«Sei venuto a prendermi».
In quel momento, fu come se il grosso peso che opprimeva il petto di Marcello si fosse dissolto all’istante: era proprio lei ed era lì, forse un po’ provata, ma viva.
«Sì» le disse, estraniato da tutto quello: si sentiva schiacciato dalla miriade di emozioni che stava provando in quel momento, incapace di distinguere quale tra le tante prevalesse sulle altre, se gioia, sollievo, commozione o profonda gratitudine per aver rivisto di nuovo la sua Beatrice.
Probabilmente, anche lei doveva essere abbastanza sopraffatta dai moti dell’animo perché, dopo aver riservato al fratello un’occhiata compassionevole, si avvicinò a Marcello, senza tuttavia toccarlo, come se avesse paura di rompere la bolla di sapone nella quale erano immersi.
Molinari si schiarì la voce e richiamò l’attenzione di entrambi: «Signorina, la prego di rimanere a disposizione per i prossimi giorni. Può andare, sperando che ora sia in buone mani».
La ragazza si girò verso di lui e, sorridendogli timidamente, sussurrò: «Adesso sì».
***

Nonostante Gerardo e Vittoria stessero parlottando tranquillamente tra di loro, appena Marcello e Beatrice fecero la loro apparizione sulla soglia del commissariato, si interruppero e si avvicinarono velocemente ai due.
«Beatrice, come sono contenta di vedere che sei sana e salva!» esordì la ragazza, prendendo le mani dell’altra tra le proprie. «Siamo stati tutti in pensiero per te».
«Oh, non volevo darvi noie» replicò la fiorentina, arrossendo al solo pensiero che degli estranei avessero avuto a cuore la sua sorte più dei parenti; infatti, non solo tutto quel disastro era partito da Guido, ma, ormai, era anche palese che né zia né cugina si erano prodigate per avere sue notizie.
«Ma che noie, eravamo preoccupati per quello che sarebbe potuto capitarti» la corresse Gerardo, sorridendole affabile. Lei rimase a guardarlo perplessa per qualche istante: sapeva perfettamente chi fosse, giacché sia Marcello che Vittoria le avevano parlato di lui, ma non si azzardò a presentarsi da sola, perché non voleva passare per maleducata.
Per fortuna, Marcello dovette aver percepito la sua difficoltà, perché si affrettò ad intervenire.
«Beatrice, lui è Gerardo» disse, indicando l’amico. 
«Avevo immaginato» commentò la fanciulla, tendendo la mano al giovane per stringerla.
Lui la prese e ricambiò con gentilezza la stretta, aggiungendo timidamente: «Non avevamo ancora avuto modo di presentarci come si deve».
A questo punto, Vittoria prese nuovamente la parola e, come se avesse letto nei pensieri della giovane, le chiese:
«Immagino tu sia stanca, vuoi che ti accompagniamo a casa?»
«Neanche morta!» insorse Beatrice, inorridita alla sola idea. «Piuttosto, preferisco andare a vivere sotto un ponte!»
Dei tre, l’unico che non parve sorpreso da tale reazione fu Marcello, poiché era il solo che sapesse perfettamente che tipo di rapporti ci fossero tra lei e le sue parenti, mentre gli altri due rimasero perplessi, come se non si aspettassero un tale fervore.
La ragazza, lì per lì, arrossì lievemente, imbarazzandosi per la figura che aveva appena fatto; tuttavia, sapeva che non aveva senso nascondere la verità e perciò decise di spiegare subito anche a Gerardo e Vittoria il motivo del suo netto rifiuto: «Con la mia zia e la mia cugina non andiamo molto d’accordo. Credo che non abbian sentito la mia mancanza».
«Oh, capisco» fece la giovane donna. «Comunque, non c’è bisogno di essere così drastici da scegliere i ponti. Piuttosto, che ne dici di venire a stare un po’ a casa mia? Ne sarei contentissima e mi farebbe davvero piacere conoscerti meglio, Marcellino mi ha parlato molto poco di te».
«Immagino che tu non riesca proprio a capire perché, vero?» le rispose il ragazzo, ironico, fulminandola con lo sguardo, ma lei non raccolse le provocazioni e, anzi, continuò a punzecchiarlo:
«So che avresti preferito che venisse da te, ma non credo che in questo momento sia la scelta migliore. La mammina deve essere avvisata per tempo».
Marcello si trattenne palesemente dall’alzare gli occhi al cielo, quindi si rivolse alla fanciulla: «Tu che ne dici, ti piace l’idea di andare a stare con questa sciroccata?»
Tutta quella scenetta, per Beatrice sarebbe stata molto divertente, se non fosse stato per il fatto che sembrava proprio che il biondo e la sua amica si stessero stuzzicando sotto il suo naso. Subito una fastidiosissima sensazione di vuoto allo stomaco la fece irrigidire, causandole un’improvvisa tristezza.
Vittoria, che non pareva aver gradito l’appellativo, stava per protestare, ma Gerardo la tirò per un braccio, facendole segno di tacere, così che alla fanciulla fosse data l’occasione di rispondere; lei, allora, ricacciò indietro tutti i sentimenti negativi e si costrinse ad esibire un sorriso di riconoscenza: «Sì, sarebbe magnifico, almeno finché non trovo una sistemazione definitiva».
L’altra annuì, soddisfatta: «Certamente. Oddio, se il biondino si decidesse a parlarti, potresti trovarl...»
Tuttavia, la donna non poté finire la frase, visto che entrambi i giovani si affrettarono a tapparle la bocca con una mano, lasciando la fanciulla attonita e a domandarsi di cosa avrebbe dovuto parlarle Marcello.
«Come si è fatto tardi, non trovi che sia ora di andare? Beatrice sarà stanca» disse il giovane, guardando il suo amico con insistenza.
«Già!» concordò con veemenza Gerardo. «Io e Vittoria cominciamo ad andare, voi raggiungeteci pure quando volete».
Beatrice, stupita, rimase ad osservare il giovane che trascinava via la ragazza, mentre Marcello sospirava rumorosamente: «Vittoria parla decisamente a vanvera».
«Se lo dici tu» commentò la fiorentina, pensierosa: invidiava terribilmente la confidenza che c’era tra il biondo e Vittoria, sembravano due fidanzatini sempre pronti a rimbeccarsi e questo la faceva stare male3. Ed ora, per giunta, al danno si era aggiunta anche la beffa, visto che avrebbe dovuto esserle grata dell’ospitalità che le aveva offerto.
«Cos’hai?» domandò lui, scrutandola severamente, come se si fosse finalmente reso conto che si era incupita.
«Oh, niente. Devo ancora riprendermi dalla brutta avventura» gli rispose Beatrice, stiracchiando un debole sorriso.
Lui aggrottò le sopracciglia, dubbioso, ma, per fortuna, non insistette.
«Almeno il commissario ti ha lasciata andare relativamente presto».
«M’ha fatto qualche domanda e fatto firmare un verbale, anche se m’ha chiesto di rimanere disponibile».
«Probabilmente vorrà riascoltarti tra qualche giorno».
I due ragazzi si guardarono per un lungo istante e, in quello scambio di sguardi, la fanciulla ritrovò un briciolo di tranquillità, riuscendo ad assaporare il primo momento dopo la prigionia in cui si trovava sola con Marcello.
«Che cosa ti ha fatto Navarra?» le chiese in un sussurro, accarezzandole la guancia.
«Niente. A parte volermi portare in Spagna e costringermi a sposarlo».
«Che animale!» commentò disgustato, scuotendo la testa. «Gerardo ha ragione, sarai stanca. Per parlare avremo i prossimi giorni, sempre che non succeda qualcos’altro...»
Nemmeno a dirlo, fu proprio così: improvvisamente, una sagoma si stagliò alla sinistra di lei, facendola trasalire.
«Beatrice, hai scordato la tua borsa» spiegò Saverio, agitando il sacchetto di tela bianca sotto il suo naso.
«Ah, sì» replicò freddamente lei, afferrandola con malagrazia e scrutandolo ad occhi socchiusi, seccata.
L’agente le sorrise, poi, accorgendosi della presenza di Marcello, fece un passo indietro e cambiò colorito.
«’sera!» gracchiò, alzando maldestramente il cappello in segno di saluto e allontanandosi a gambe levate, lasciando il giovane visibilmente contrariato.
«Come mai quel poliziotto ti ha chiamata per nome?»
«S’è preso un po’ troppa confidenza, nonostante io non gliene abbia data» gli spiegò, rovistando nella borsa e controllando che ci fosse tutto. Quando ebbe finito, alzò la testa verso di lui e aggiunse, sorridendogli divertita: «Non sarà che tu se’ un po’ geloso?»
«Io?» domandò il ragazzo, con voce un po’ troppo alta, come se fosse stato punto sul vivo. La fanciulla gli riservò un’occhiata eloquente, notando che le guance di lui si era appena colorite, tradendo un certo imbarazzo.
«E se anche fosse? Non ci sarebbe niente di male» ribatté il biondo, cercando di sembrare distaccato, ma con risultati non proprio soddisfacenti.
«Infatti» confermò lei, dolcemente. «E poi, penso l’abbia capito che contro di te non ha speranze...»
***

Quando uscì dal bagno, con ancora i capelli fumanti di vapore, Beatrice pensò che, dopo quei due giorni da incubo, stare ammollo nell’acqua calda per un’ora intera fosse il primo passo per ricominciare a vivere in tranquillità.
Aveva indossato i vestiti puliti che le aveva prestato Vittoria - un paio di leggins e una maglia lunga blu elettrico - cominciando a sentirsi decisamente molto meglio: il solo fatto che non fosse più nelle grinfie di Navarra le procurava una gioia tale che le pareva quasi di rinascere.
La giovane donna, poi, le aveva assegnato una camera confortevole e spaziosa che non aveva nulla a che fare con la sua vecchia stanza: aveva una bella vista sul giardino sul retro ed era provvista di ogni comodità, a cominciare da un orologio a pendolo da tavolo, che in quel momento segnava le due e cinque minuti, passando per un bel letto che sembrava molto accogliente e finendo con un grandissimo specchio con la cornice argentea intarsiata con motivi floreali. Beatrice si avvicinò proprio ad esso, con l’intento di verificare se i suoi timori circa il suo aspetto fossero fondati e così fu: aveva un viso molto provato, anche se le tracce della stanchezza e della preoccupazione cominciavano già ad attenuarsi.
Sospirò, conscia che i segni che avrebbe portato più a lungo su di sé non sarebbero stati quelli fisici, bensì quelli morali, poiché l’esperienza che aveva vissuto non era stata solo traumatizzante, ma anche umiliante e destabilizzante: se solo pensava a quanto lo spagnolo fosse stato vicino all’abusare di lei, si sentiva quasi venir meno dal terrore e non poteva far altro che ringraziare di essersela cavata con così poco.
Si sedette sul letto, ma, rendendosi conto di non voler affatto dormire, si alzò quasi subito: era ancora incredibilmente inquieta ed altrettanto certa che il sonno non l’avrebbe colta tanto presto, pertanto decise di uscire fuori sul balcone e di prendere un po’ d’aria fresca, invogliata anche dal fatto che lì davanti pendesse un rigoglioso glicine, messo molto meglio di quello che c’era a Villa dei Salici e molto somigliante a quello che aveva piantato sua madre all’Isola d’Elba.
A dire il vero, le avrebbe fatto piacere rivedere Marcello, ma, considerato l’orario, doveva aver preferito andare a casa. Peccato, lo avrebbe volentieri ringraziato per il trattamento che aveva riservato a Guido: l’avergli fracassato il setto nasale le aveva dato più soddisfazione dell’arresto vero e proprio.
Allora, si chiese se il giovane potesse averle lasciato detto qualcosa, sperando che, in tal caso, Vittoria l’aggiornasse l’indomani. Non c’erano prove evidenti che nutrisse per il giovane sentimenti oltre l’amicizia, ma il tarlo che tra quei due potesse esserci del tenero non le dava pace.
Beatrice si lasciò cadere su una piccola poltroncina, sbuffando forte: lui era venuto a prenderla al commissariato, si era preoccupato, quindi, forse, un po’ ci teneva a lei, no? Però, perché si era portato dietro la sua amica? Che bisogno c’era di farlo?
Era vero che quella ragazza la stava ospitando e avrebbe dovuto mostrarsi riconoscente verso di lei, tuttavia non riusciva proprio a digerire il fatto che stesse sempre vicina al suo Marcello.
«Se qualcosa non dovesse piacerti, puoi dirlo tranquillamente a Vittoria: non è una che se la prende».
Tale affermazione la lasciò di sasso. Non era possibile, non poteva essere...
E, invece, la luce dei lampioni del giardino, anche se fioca, rivelò che era proprio lui.
«Marcello!» esclamò la fanciulla, con il cuore in gola.
Il giovane si limitò a mostrarle un lieve sorriso, spostando una fronda del glicine che lo celava parzialmente alla vista, e si avvicinò a lei.
«Volevo salutarti prima di andar via, ma non mi è parso educato aspettarti in camera» le spiegò. «Al commissariato è stato tutto troppo confusionario, non trovi?»
Beatrice, che lo stava fissando sorpresa, nell’udire la domanda si affrettò a ricomporsi e ad annuire.
«Come stai?» le chiese, avvicinandosi ancora di più e guardandola preoccupato.
«Ora meglio» gli rispose, sorridendogli timidamente e spostando via una ciocca di capelli dagli occhi.
Un’ombra attraversò lo sguardo dell’altro, il quale le afferrò il braccio che aveva appena finito di muovere, stando attento a non farle male, e rivolgendo la parte interna dell’arto verso di lui.
Colta di sorpresa, la ragazza lo lasciò fare, chiedendosi, incuriosita, cosa mai avesse potuto provocargli una simile reazione.
«Che cosa sono questi?» le domandò, indicando delle orribili linee irregolari e rossastre che le percorrevano la pelle.
«Ah, questi... sono i segni delle corde. Sai, mi tenevan legata» gli rispose, quasi con noncuranza, poiché, ormai, vedersi quei marchi addosso non le faceva più alcun effetto. «L’è stato un vero sollievo quando me li han tolti».
Beatrice vide il giovane serrare saldamente la mascella, infuriato per come l’avevano trattata.
«Non ti arrabbiare, per favore, adesso son qui...»
«Quel porco deve solo augurarsi di non incontrarmi mai più!» sibilò Marcello, non riuscendo ad alzare lo sguardo da quello scempio. «Guarda cosa ti ha fatto!»
«La cosa peggiore è stata un’altra» gemette la fanciulla, avvertendo che le lacrime erano quasi sul punto di uscirle. «Ho avuto paura di non rivederti più!»
Marcello sospirò, addolorato.
«Quando ho saputo che ti avevano rapita, l’ho temuto anch’io».
Poi, le accarezzò piano la pelle marchiata e si portò i polsi vicino al volto, per poi baciarle dolcemente le ferite e guardarla dritta negli occhi: «In quel momento, ho fatto una promessa a me stesso».
«Q-Quale?» farfugliò lei, piacevolmente imbarazzata per il gesto improvviso e così significativo.
«Se fossi riuscito a rivederti, ti avrei detto tutta la verità».
«C-C’è... qualcosa che non so?» domandò, smarrita. Forse le stava per dire che l’aveva frequentata solo per compassione, perché, in realtà, gli piaceva Vittoria?
«Ti prego, non mi far agitare...»
Ma lui scosse appena la testa, come a volerla tranquillizzare e sorrise leggermente, prima di accostarsi al suo viso e sussurrarle ad un soffio dalla sue labbra: «Mi sono innamorato di te».
Immediatamente, Beatrice avvertì una sensazione di vuoto allo stomaco, seguita da una un’ondata di calore che la pervase e le annebbiò quasi del tutto la mente.
«Oh, Marcello... io... ti... ti amo anch’io...» balbettò, trovando davvero difficile mettere insieme parole che avessero una certa coerenza. «E tu non sai nemmeno quanto».
Il giovane sembrò colpito per la dichiarazione ricambiata e, per un istante, tentennò incerto. Poi, però, le spostò una ciocca di capelli dietro all’orecchio e si chinò verso di lei per baciarla; tuttavia, al contatto, qualcosa che Beatrice percepì come diverso la fece arretrare.
«Cosa c’è?» le domandò, disorientato.
«Oggi hai la barba» notò la ragazza, 
alzando lentamente una mano e poggiandogli le punte delle dita sulla guancia per verificare anche con il tatto. «Non l’è molta, ma è un po’ ispida».
Marcello sembrò riflettere per qualche secondo sulla sua considerazione, poi, sospirando, disse: «Già, hai ragione. Avrei dovuta farla stamattina, ma non appena mi hanno detto che ti avevano trovata, mi sono precipitato al commissariato» le spiegò. «Così ho dovuto evitare i vezzi, chiamiamoli così».
«In realtà, ti sta bene, sai?» ridacchiò lei, a bassa voce, non riuscendo a celare la sua approvazione, giacché, dopo quello che si erano appena detti, pensò che fosse ormai inutile negare quanto lo trovasse affascinante; inoltre, 
l’averlo così vicino non l’aiutava di certo a reprimere il trasporto crescente che aveva verso di lui. «Come stai bene in jeans e felpa oppure quando prendi a pugni i fratelli molesti: son tutti particolari che enfatizzano la tu’ aria da bel tenebroso».
Il giovane sollevò un sopracciglio, ma non si mosse, mostrando di non voler riprendere da dove si erano interrotti, al che la fanciulla gli domandò, delusa: «Non mi baci più?» 
«Forse sarà meglio rimandare a dopo che mi sarò rasato di nuovo» considerò il giovane, serio, attorcigliandosi una ciocca fulva di lei intorno all’indice, ma Beatrice non fu d’accordo: aveva passato le pene dell’inferno negli ultimi due giorni e non aveva alcuna intenzione di dover aspettare oltre. Voleva essere coccolata un po’ e non le importò di risultare sfacciata, perché, se doveva osare, quello era il momento più propizio, potendo approfittare del clima di intimità che si era creato tra di loro.
Ciò che aveva provato nelle ultime ore, il dolore, la tristezza, la paura di poter morire e di non rivederlo più, almeno per quella sera, le davano il diritto di azzardare richieste che mai avrebbe osato anche solo pensare.
Lo afferrò con entrambe le mani per il colletto della polo e, con un ardire che non credeva di avere, scandì: «Non ci provar nemmeno!»
Marcello la fissò per qualche istante, sorpreso, e lei si costrinse a non abbassare lo sguardo, poiché, se voleva che prendesse sul serio la sua richiesta, non doveva dargli l’idea di essere solo una bambina capricciosa: desiderava davvero con tutta se stessa che il suo uomo la vezzeggiasse, dopo tutto quello che aveva subito da quello schifoso di Navarra.
Il biondo sorrise lievemente, ricambiando l’intensità dell’occhiata.
«Come vuoi. Allora proverò a fare quest’altro» mormorò, cominciando a baciarle le labbra con delicatezza, premura che non abbandonò nemmeno quando i baci cominciarono a farsi più intensi.
Beatrice insinuò le proprie dita tra i suoi capelli e sentì quelle di lui che le percorrevano il fianco, leggere ma sicure, risalire fino alla schiena e suscitarle una sensazione mai provata prima: sapeva essere gentile, ma non per questo poco deciso nella presa, come dimostrò poco dopo, quando la strinse ancora più forte e cominciò a baciarle il collo, solleticandole la pelle con la barba appena ruvida e facendola rabbrividire di piacere.
L’ebbrezza, causatale dal sentire il corpo di lui, così solido e caldo, addosso al proprio, la riempì di un appagante stordimento: avrebbe volentieri continuato a baciarlo e accarezzarlo tutta la notte, se l’orologio da tavolo non le avesse ricordato che esistevano tempo e spazio, rintoccando le tre del mattino.
I due giovani ritornarono alla realtà con difficoltà; tuttavia, non si distaccarono completamente e rimasero fronte contro fronte, le mani di lui sulla schiena di lei e quelle di lei sul petto di lui, nascosti dalla coltre frondosa del glicine.
«È tardi» sussurrò Marcello.
«Ho sentito» replicò mestamente la ragazza, consapevole di ciò che il giovane le avrebbe detto subito dopo. 
«Io... devo andare».
Lei annuì, sapendo che era giunto il momento, per ora, di separarsi: le aveva detto che sarebbe rimasto solo per poco tempo, anche se avrebbero voluto entrambi che quel momento di dolcezza non finisse mai.
Il biondo la prese per mano e, lasciando la protezione dell’albero, la guidò dentro casa, preoccupandosi di chiudere bene le ante del balcone; quindi, si avvicinò al tavolo dove era poggiato l’orologio.
«Questa è una stanza degli ospiti e non è non molto usata, ecco perché l’hanno messo lì sopra» le spiegò, ruotando una rotellina laterale. «Ecco, ora l’ho spento, altrimenti ti avrebbe svegliato ad ogni ora».
«Grazie» gli rispose Beatrice, scrutandolo malinconica: aveva tanto desiderato poter stare con il suo Marcello, invece doveva separarsi da lui ancora una volta.
Il giovane fece un cenno d’assenso con il capo, ma rimase fermo, come se nemmeno lui avesse molta voglia di andarsene, e ciò spinse la ragazza ad avanzare una richiesta che le veniva dal più profondo del cuore
: «Rimani con me almeno finchè non avrò preso sonno, ti prego. Ho paura degli incubi».
Marcello la squadrò attentamente, come se stesse valutando in maniera molto accurata quale fosse la cosa giusta da fare.
«Va bene, Beatrice» acconsentì, infine, dandole un buffetto sulla guancia.
La fanciulla si sciolse in un gran sorriso, credendo a stento che lui le avesse detto di sì. Avvertendo che, finalmente, il sonno stava per raggiungerla, si mise a letto, mentre il biondo, invece, si sdraiò sopra le coperte accanto a lei, sussurrandole: «Vieni qui».
Beatrice non se lo fece ripetere una seconda volta e si accoccolò tra le sue braccia, lasciando che lui la cingesse e le facesse poggiare la testa sul proprio petto, trasmettendole serenità e senso di protezione. Tranquillizzata, chiuse gli occhi quasi subito, sicura che, ormai, non avrebbe avuto più nulla da temere.
***

Il sottile crack che udì e la sensazione appiccicosa che avvertì sulle dita richiamarono la sua attenzione, facendogli capire che la fetta biscottata, sulla quale stava spalmando la marmellata di ciliegie, non aveva sopportato più la tortura inflittale dal coltello e, dopo un’eroica resistenza durata più di mezz’ora, aveva ceduto.
Marcello gettò ciò che era rimasto nel piatto davanti a sé e si pulì come meglio poteva le mani con un tovagliolo di stoffa, apprestandosi a sorseggiare il suo tè.
«Se fossi in te, me ne fare portare un altro, quello si deve essere raffreddato» si intromise suo padre, senza alzare gli occhi dal cruciverba che stava facendo. «Sono quaranta minuti che sei seduto lì a fissare il vuoto, facendo finta di spalmare marmellata. Quando eri piccolo, però, ti inventavi scuse migliori per non essere costretto a mangiare, come nascondere le verdure nei miei vasi dei gerani, per esempio».
Il braccio del giovane rimase sospeso a mezz’aria, reggendo la tazza, palesemente fredda.
«Oh... Sì, hai ragione» mormorò, facendo oscillare il liquido e accorgendosi che non emetteva più vapore. «Sarà meglio chiederne dell’altro».
Annetta, che aveva sentito tutto, anche se era rimasta nel suo angolo, in attesa di ricevere ordini, si precipitò e portò via sia la teiera, sia i resti della fetta biscottata. Poco dopo, fu di ritorno con tutto il necessario per consentire a Marcello di fare colazione.
Il signor Giancarlo la ringraziò con un sorriso, quindi,
mentre versava l’acqua calda nella tazza pulita e gli passava la scatola di legno dove erano sistemate le bustine dei vari tè, rimproverò bonariamente il figlio: «Sei grande ormai per giocare con il cibo!»
«Già» si limitò a rispondere lui, cupo, evitando di guardarlo negli occhi, poiché, se l’avesse fatto, sapeva che non sarebbe riuscito a mentirgli e non poteva certo raccontargli la verità.
Non riusciva a non pensare a quello che era successo la notte precedente con Beatrice, perché, se aveva adempiuto alla sua promessa di dirle cosa provasse realmente per lei, non avrebbe mai potuto prevedere come si sarebbe evoluta la faccenda. Una volta che si era accertato di come stesse, infatti, avrebbe dovuto andarsene, invece di rimanere su quel balcone per baciarla in modo tutt’altro che casto; poi, come se ciò non bastasse, aveva anche assecondato la sua richiesta, tenendola tra la braccia finché non si era addormentata. Solo allora, recuperando un minimo di lucidità, aveva lasciato in tutta fretta la casa di Vittoria, con la sensazione di aver fatto qualcosa di tremendamente sbagliato.
Come gli era saltato in mente di restare e di lasciarsi andare fino a tal punto? Non avrebbe mai dovuto, soprattutto perché ancora non era chiaro a che punto fosse la sua relazione con Beatrice: in fondo, non erano fidanzati. Lui si era dichiarato e aveva scoperto di essere ricambiato, certo, ma tra questo ed un fidanzamento ufficiale c’era una bella differenza.
Se la sua migliore amica lo avesse saputo, avrebbe sicuramente commentato dicendo che “l’algido Marcello aveva ceduto alla passione” e non avrebbe affatto sbagliato, giacché lui era perfettamente consapevole d’essersi fatto soggiogare dal miscuglio di emozioni derivanti dal fatto che la ragazza fosse finalmente libera e al sicuro. Per quanto ci girasse intorno, era un dato di fatto che aveva permesso ai suoi istinti di prendere il sopravvento, confinando in un angolo della sua mente la razionalità, cosa che non avveniva poi così raramente, quando c’era di mezzo quella fanciulla.
«Dieci minuti. Perfetto4!» fece l’uomo, compiaciuto, poggiando penna e rivista di enigmistica sul tavolo e controllando l’orologio da polso. «Potrei quasi partecipare alle olimpiadi delle parole crociate, se solo ci fossero. Tu che ne pensi, figliolo?»
«Eh?» domandò il giovane, cadendo palesemente dalle nuvole.
«Oh, non importa. Marcello, hai caldo, forse? Sei diventato tutto rosso. Eppure le finestre sono tutte aperte» notò l’uomo, studiandolo attentamente da sopra gli occhiali da lettura.
«Ah, io... Ecco... Non...»
«Immaginavo che c’entrasse quella cara ragazza, credo che non abbia passato dei momenti felici, in mano a quei balordi. Dovresti impegnarti per tirarle su il morale» disse il signor Giancarlo, versandosi a sua volta altra acqua calda e riprendendo in mano la rivista. «E ti consiglio anche di bere quel tè, prima che si raffreddi di nuovo».
Il giovane rimase a fissare il padre, basito: come faceva a sapere che stava pensando a Beatrice?
Poi, senza staccare gli occhi dal genitore, prese un sorso della bevanda e si dedicò a spalmare la marmellata su una fetta biscottata, questa volta senza ridurla a pangrattato.
Mentre mangiava, valutò attentamente l’ipotesi di parlare con lui delle perplessità che lo assillavano circa una sua eventuale relazione con Beatrice, poiché, avendo più esperienza di vita, avrebbe potuto elargirgli un saggio consiglio che lo avrebbe certamente aiutato.
Tuttavia, quest’intenzione fu barbaramente cancellata dall’ingresso in sala della Matrona.
«Lo sapevo che ti eri fatto scappare l’affare del secolo!» strillò, agitando in aria il quotidiano del giorno.
«Cos’hai da urlare di prima mattina, cara?» le chiese il marito senza smettere di riempire le caselle dei cruciverba. «Non fa bene alle tue corde vocali».
Claudia lo guardò per un fugace secondo, poi decise di ignorarlo e di tornare a concentrarsi sul figlio: «Colonna ha acquistato il trenta percento delle azioni legate a quella maledetta piattaforma!»
Marcello aggrottò la fronte e ingoiò l’ultimo boccone, tendendo la mano verso di lei: «Fammi vedere!»
Una volta che fu entrato in possesso del giornale, già aperto alla pagina che riportava l’articolo su Carter e Colonna, il ragazzo lesse velocemente le righe incriminate:
Ancora una volta, Ascanio Colonna centra il bersaglio, avendo acquistato un terzo delle azioni della Omicron Rho, la nuova piattaforma in costruzione che sta facendo concorrenza alla nota Piper Alpha5, situata a poca distanza. Con questa abile mossa, Colonna è diventato a tutti gli effetti il primo socio del magnate britannico del petrolio Edward Carter. I due imprenditori hanno già fissato un incontro con i giornalisti la prossima settimana, nel corso della quale risponderanno a molte domande...
L’articolo continuava per un’intera pagina, ma il biondo non andò oltre, avendo deciso di aver dedicato fin troppo del suo prezioso tempo a Carter e al suo socio.
«Quei due stanno combinando qualcosa di losco e Gerardo ed io non vogliamo averci niente a che fare» fece, asciutto, liquidando la questione in poche parole.
Ma la Matrona non era dello stesso avviso, infatti continuò: «Lo sapevo che c’entrava quel buono a nulla! Scommetto che è stato lui a metterti in testa queste sciocchezze!»
«Affatto».
«Si sente importante solo perché è tuo socio e perché quella gatta morta della Farnese ha accettato di fidanzarsi con lui. Figurarsi! Due sventurati così avrebbero solo potuto prendersi tra di loro!»
Il giovane rinunciò a prepararsi la seconda fetta biscottata ed alzò il viso verso la madre: «Ti dispiacerà saperlo, ma sono davvero innamorati».
«Questo è quello che vogliono far credere loro! Invece sono due buoni a nulla, esattamente come quella che ti ronza intorno».
Marcello serrò la mascella, assottigliando lo sguardo, avendo perfettamente capito dove volesse andare a parare sua madre: stava per tirare in ballo Beatrice, ma lui non le avrebbe permesso di maltrattarla, perché quella fanciulla certo non meritava di essere infangata per bocca di Claudia Mecarini.
«Ti sei fatto scappare Maria Luisa Foscari da sotto il naso, che ora è andata a dare lustro ai Colonna. E tu? Cosa mi hai portato, invece? Una disgraziata che è stata addirittura venduta dal fratello a dei delinquenti, pur di trovare un po’ di soldi».
«Non ti permetto di parlare così di Beatrice!» insorse il figlio, scaraventando il tovagliolo a terra ed alzandosi in piedi.
Annetta e le altre due cameriere, avendo intuito l’antifona, si affrettarono ad abbandonare la sala, lasciando i tre da soli.
«Claudia, non è un atteggiamento corretto, il tuo» obiettò il signor Giancarlo, chiudendo la biro e fissando gravemente la moglie.
Lei, in risposta, scoppiò in una risata isterica.
«Hai anche il coraggio di parlare, tu? Se fosse stato per te, Tiberio sarebbe ancora uno scapolo! Cosa ne sai di quello che ho dovuto architettare perché una Torlonia sposasse mio figlio?»
«Purtroppo, lo so molto bene, invece».
La donna indurì i tratti del viso, come se fosse stata costretta con la forza ad ingoiare un boccone molto amaro. Si voltò verso il tavolino accanto al divanetto e, afferrato un ventaglio, lo aprì e cominciò a sventolarsi con foga, quindi tornò davanti a marito e figlio, esibendo un’espressione alquanto enigmatica.
«Marcello, credo sia il caso di far venire la tua, come dire, amica a pranzo, domenica prossima. Sai, con Ortensia abbiamo organizzato i festeggiamenti per il compleanno di Claudietta».
Il ragazzo spalancò gli occhi e non riuscì a trattenere il suo orrore: «Che cosa?!»
«Non pensi anche tu che sia arrivato il momento di farci conoscere questa ragazza
«Per niente!»
«Peccato, sarebbe un vero peccato se in giro si spargesse la voce che ti diverti con lei, mentre sei impegnato con la baronessa Cardona» continuò la donna, con tono falsamente preoccupato, senza smettere di farsi aria.
«Non puoi ricattarmi. Io me ne sbatto di quello che vai dicendo su di me: non temo il giudizio degli altri» sibilò il giovane, meno che mai deciso a cedere davanti agli stupidi capricci della madre.
«Da quando hai preso questo modo di parlare così gergale? Non ti si addice» gli rispose lei, senza scomporsi minimamente. «Sì, lo so che tu non temi niente e nessuno, ma la tua amichetta ha già accumulato parecchio di cui vergognarsi, senza che si aggiunga quella di amante clandestina».
Marcello aprì la bocca, ma non ne uscì alcun suono: sapeva che sua madre poteva essere molto pericolosa, ma non avrebbe mai pensato che potesse essere capace di una bassezza del genere nei confronti del proprio figlio, perché, se era vero che a lui non interessava cosa si diceva in giro sul suo conto, era anche vero che non valeva la stessa cosa per Beatrice. Non si sarebbe mai perdonato, né avrebbe mai permesso che venissero messe in giro cattiverie false su di lei.
E sua madre aveva centrato in pieno il suo punto debole.
«Poverina, non penso potrebbe sostenere quest’ennesima umiliazione» fece lei, falsamente rammaricata, coprendosi parte del viso con il ventaglio.
Il signor Giancarlo, probabilmente mosso dalla cattiveria della moglie, decise di continuare a prendere le parti del figlio e della ragazza: «I tuoi trucchetti non funzioneranno con lei, Claudia. È molto intelligente».
Tale affermazione cancellò il sorrisetto di trionfo dal viso della donna.
«Mi stai forse dicendo che tu la conosci già?»
«Esattamente».
Tra i due coniugi scese un improvviso gelo e nessuno dei due sembrava intenzionato a permettere all’altro di prevaricarlo.
«In questo gioco, ancora deve venire il momento di mettere la parola fine» sentenziò la Matrona, chiudendo il ventaglio con un colpo secco e dando le spalle ai due, per poi sparire in un fruscio di stoffa rossa.
Ancora fuori di sé dalla rabbia per quanto successo, ma decisamente più reattivo di prima, Marcello esplose: «È uno sporco ricatto, sa bene che sarò costretto a cedere per forza!»
«Se fossi in te, farei come dice» mormorò il padre, raccattando gomme, matite, penne e riviste di enigmistica dal tavolo.
«Papà, sai bene che è un’occasione del tutto inopportuna!» esclamò il ragazzo, concitato. «Beatrice non può essere invitata per la prima volta ad un pranzo con tutta la famiglia, per giunta una come la nostra».
Alzatosi dalla sua sedia, il signor Giancarlo sospirò e, una volta raggiunto il ragazzo, gli mise entrambe le mani sulle spalle.
«Figlio mio, non penso ci sia altra scelta».





***
Per la revisione di questo capitolo, ringrazio Lady Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la grafica del titolo è opera mia.
Ringrazio la mia Anto per il suo grande aiuto.
***
[N.d.A]
1.
secondino: termine oggi spesso sostituito con guardia carceraria o agente di polizia penitenziaria.
2. De una fia: espressione toscana, popolare/volgare rafforzativa.
3. la faceva stare male: spero di essere stata abbastanza chiara nella narrazione, ma, qualora non fosse, volevo precisare che Beatrice non sa nulla delle vicende di Gerardo e Vittoria, né tanto meno che ora i due stanno insieme, essendo stata rapita prima che qualcuno potesse informarla; quindi, penso sia normale che provi ancora molta gelosia riguardo il rapporto che c’è tra Marcello e Vittoria.
4. «Dieci minuti. Perfetto!»: il fatto che il signor Giancarlo sia appassionato di cruciverba, parole crittografate e si cronometri nella loro risoluzione è un mio omaggio ad Alan Turing e al film “The Imitation Game”.
5. Piper Alpha: piattaforma petrolifera operativa nel Mare del Nord, situata a circa 200 Km dalla Scozia. Il 6 luglio 1988 (circa un anno dopo gli eventi qui narrati) scoppierà un tragico incendio, portando a morte 167 su 300 dei suoi lavoratori. Ad oggi, rimane uno dei più grandi incidenti legati al campo marino-petrolifero.
 
***
 
Ringrazio chi mi ha dedicato un po’ del suo tempo, lasciandomi un parere sullo scorso capitolo, ovvero Aven, Anto, DarkViolet92 e Balder Moon; ringrazio anche chi legge soltanto e chi ha messo la storia tra le preferite/ricordate/seguite: è una forma di fiducia che mi date e che sento di tradire quando non riesco a scrivere. Mi dispiace, ma non lo faccio apposta.
Per qualsiasi cosa, chi volesse, sa dove trovarmi.
Halley S. C.

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Capitolo 14
*** Capitolo Quattordicesimo - Vento di Sospetti ***


Vento dell'Ovest - Capitolo 14



- Capitolo Quattordicesimo -
Vento di Sospetti




F
are giardinaggio con Vittoria, dopo la brutta avventura vissuta per colpa di Navarra e Guido, si rivelò per Beatrice una vera e propria terapia distensiva: il tepore del sole di fine aprile ed il profumo del glicine appena sbocciato, sommati alle gentilezze che tutti le stavano riservando, l’avevano messa di buon umore, aiutandola a ritrovare un po’ di serenità.
Infatti, aveva quasi dimenticato la bellezza dello stare all’aperto, senza alcun pensiero negativo e senza l’ansia che qualcuno potesse chiamarla all’improvviso per comandarla a bacchetta: finalmente, si sentiva di nuovo una ragazza di quasi diciannove anni, non più schiavizzata e tenuta sotto scacco dai suoi familiari.
Verso le undici, mentre in sottofondo risuonava Moonlight Shadow1, la signora Irene portò alle due ragazze un cestino di frutta di stagione ed una caraffa di frullato alla fragola con ghiaccio, anche se non si intrattenne con loro, giacché sembrava che avesse molte commissioni da fare.
«Chissà se il signor Rossiglione ha già consegnato tutta la documentazione al liceo... Dovrei proprio andare da lui» disse Beatrice, sfilandosi i pesanti guanti da giardiniere e raggiungendo Vittoria alla fontanella di marmo.
«Ah, è vero,» esclamò l’altra, finendo di lavarsi accuratamente le mani e di rimuovere ogni residuo di terra, «tu devi fare l’esame di maturità!»
«Già, non rimane moltissimo tempo e non so nemmeno quando devo andare a fare gli esami preliminari2» sospirò la fanciulla, prendendo un po’ di sapone liquido dal piccolo dispenser appoggiato sul muricciolo di mattoni.
La giovane donna poggiò l’asciugamano sul lastrone decorativo della fontana e andò a sedersi al tavolo di ferro e mosaico, versando il frullato in due alti bicchieri di vetro opaco.
«Se vuoi, la settimana prossima sono libera e posso accompagnarti» propose.
La ragazza la fissò per qualche secondo, ancora poco abituata a ricevere tanta gentilezza: se fosse stata ancora alla mercé di Anna Laura, non solo questa non l’avrebbe accompagnata, ma, molto probabilmente, ne avrebbe approfittato per chiederle di andare a comprare qualcosa dall’altra parte della città.
«Volentieri, ti ringrazio».
Vittoria sorrise, facendole cenno con la mano di avvicinarsi per servirsi anche lei.
«A quale liceo hai fatto richiesta per essere esaminata?»
«Al “Giulio Cesare”» rispose Beatrice, sorseggiando lentamente il suo frullato e trovandolo dolce e fresco al punto giusto.
«Uno dei migliori per la maturità classica» notò l’altra, piluccando le ciliegie dal cestino. «Che materie sono uscite?»
«Greco per la seconda prova, mentre italiano, filosofia, latino e fisica per l’orale» snocciolò la fanciulla, ripercorrendo mentalmente l’elenco che il Ministero della Pubblica Istruzione aveva reso noto settimane prima. «Tra l’altro, presentandomi da privatista, devo portarle tutte e non solamente due, come il solito».
«Se hai bisogno di aiuto per filosofia, non esitare a chiedere» si offrì la giovane, spostando la sua attenzione sulle fragole. «In teoria, avendo preso la maturità scientifica, dovrei essere in grado di sostenerti anche in fisica e latino, ma queste materie le lascio a Marcello. Io sono molto più incline per la matematica».
«Davvero? E come mai hai deciso di intraprendere gli studi di psicologia all’università, allora?» domandò, incuriosita, ricordando che Marcello le aveva accennato il fatto che Vittoria prestava servizio presso il più grande policlinico di Roma in qualità di psicologa.
«Ti dirò... da piccola, volevo fare l’insegnante di matematica. Ecco perché mi sono iscritta al liceo “Stanislao Cannizzaro”3, con Gerardo e Marcello. Ma poi, durante il terzo anno, mi sono appassionata alla filosofia e agli aspetti sociologici... e ho fatto una scelta diversa da quella che pensavo».
Beatrice corrugò la fronte, faticando davvero ad immaginarla come una possibile professoressa di matematica: tutti gli insegnanti che aveva avuto nella sua vita, infatti, erano stati molto severi e metodici, contribuendo a creare nella sua mente la convinzione che gli appassionati di materie scientifiche fossero dei tipi molto disciplinati e rigidi, stereotipo che si allontanava molto dalla ragazza che aveva di fronte.
«Invece quei due sono andati avanti per la loro strada e si sono iscritti ad economia e commercio4» proseguì lei, aprendosi in un sorriso partecipe.
«Gerardo lo conosco poco, ma invece so che Marcello sa esser molto determinato» fece Beatrice, cercando di rimanere sul diplomatico, ormai distratta dall’espressione che si era dipinta sul volto della sua interlocutrice: perché, ogni volta che si parlava o ci si riferiva al biondo, la sua amica sorrideva in quella maniera? Anche se non era - o perlomeno non ancora - il suo ragazzo, Vittoria doveva aver capito che le piaceva e non le pareva affatto delicato che l’altra manifestasse - in sua presenza - il trasporto che provava per il giovane.
Si trovava davvero bene con lei, ma non poteva permetterle di allontanarla da Marcello, non dopo aver patito tutti quei supplizi per poter tornare da lui.
«Gerardo è meno risoluto, anche se bisogna riconoscere che sa essere tenace: ti basti pensare che per dirmi che mi ama ci ha messo vent’anni!»
In un primo momento, l’ultima frase venne registrata dal cervello di Beatrice in maniera del tutto passiva, poi, quando i suoi neuroni smisero di arrovellarsi su una possibile volontà, da parte di Vittoria, di sedurre Marcello, misero finalmente in ordine tutti gli elementi e riuscirono a decriptarne il significato, fornendo la soluzione ai suoi dilemmi di ragazza innamorata.
«Eh?» squittì, stralunata.
«Incredibile, vero? Per paura di rovinare la nostra amicizia, è stato in silenzio, non sapendo che io lo ricambiavo pienamente» continuò l’altra, sorridendo dolcemente, con gli occhi che le brillavano. «Ora spero solo che non ci metta altri vent’anni per chiedermi di sposarlo, visto che mia madre mi sta già organizzando quasi tutto il matrimonio».
Quella rivelazione aveva dell’incredibile: si era tormentata inutilmente per tutto quel tempo! Ciò che le aveva detto Marcello tempo prima, ovvero che considerava Vittoria solo come una sorella, in quel preciso istante, aveva trovato riscontro anche nelle parole della ragazza: non solo lei non era interessata a lui, ma era perfino innamorata - per giunta, ricambiata! - di Gerardo.
«Quindi... voi... state insieme?» disse Beatrice, esigendo un’ulteriore conferma solo per poter rendere la gioia, dovuta al fatto che non aveva una rivale, ancor più piena e degna di essere assaporata.
«Oh, finalmente sì...» ammise l’altra, arrossendo appena.
La fanciulla dovette lottare contro se stessa per restare seduta, poiché, se avesse potuto, si sarebbe messa a saltare dalla felicità; tuttavia cercò di contenersi, giacché non voleva che la giovane la prendesse per pazza o, peggio, per una sciocca ragazzina che aveva appena appreso di potersi ancora augurare un futuro più dolce.
***

Più Marcello rifletteva sull’idea che Beatrice dovesse essere presentata a tutto il parentado, e più la trovava pessima, poiché, se fosse vissuto in una famiglia come le altre, sarebbe stato più che giusto presentare loro la ragazza che stava frequentando, tuttavia, si dava il caso che i suoi parenti, salvo suo padre, non si potessero definire propriamente normali.
Perciò, doveva assolutamente parlare con la fanciulla e, prima di invitarla, dirle come stavano realmente le cose, soprattutto riguardo alla cattiveria di sua madre: il minimo che avrebbe potuto fare, infatti, sarebbe stato prepararla ai colpi bassi che le avrebbe inflitto, con sommo gaudio, la Matrona.
«Sia Herr Berger che Herr Müller devono aver parlato benissimo di noi a questa società austriaca» proruppe Gerardo, allungandogli un fascicoletto dalla parte opposta del tavolo. «Guarda che offerta vantaggiosa ci hanno fatto!»
Il giovane smise di contemplare a braccia conserte e preso dai suoi pensieri la siepe che delimitava il giardino e si voltò verso il socio.
«Sì, ho letto» commentò, in tono piatto.
«Non sei contento? Abbiamo fatto una buona impressione a quegli imprenditori tedeschi e loro hanno fatto il nostro nome ad altri» spiegò l’altro, come se fosse sicuro che Marcello non avesse afferrato il punto della situazione.
«Molto» continuò lui, senza la benché minima enfasi.
Gerardo, che era rimasto con il braccio proteso verso di lui, ritirò l’arto e, squadrando il suo amico, rimise il plico di fogli nella sua cartellina.
«Stamattina hai la luna storta, per caso?»
«Sono abbastanza di malumore» ammise il biondo, scrollando le spalle con fare seccato.
«È per la questione di Colonna, Carter e la Omicron Rho
«Ma no, figurati! Non mi interessa un accidente di quello che combinano quei due avanzi di galera!» sbottò l’altro, disgustato. «Tanto, presto o tardi, i telegiornali ci informeranno che quella piattaforma è saltata in aria come una mina vagante. Dubito che la stiano costruendo seguendo gli standard di sicurezza».
«Eh, abbiamo capito che Lord Carter non è uno che bada tanto alla legalità e Colonna non è da meno» concordò l’altro, scuotendo la testa.
«Ma non credi che dovremmo provare a fermarli?»
Marcello inarcò un sopracciglio, incapace di credere che il suo socio avesse fatto una proposta così utopistica: «E come? Comprando forse Viale dei Giardini e Parco della Vittoria? Magari, se ci piazziamo sopra due alberghi ed abbiamo un po’ di fortuna, potrebbero capitarci sopra!»
Il giovane arrossì lievemente, avendo sicuramente intuito da quella ironica risposta che, per quanto nobili, i suoi propositi sarebbero stati alquanto irrealizzabili.
«Ah, ehm... Sì, forse hai ragione».
«Carter è troppo furbo e troppo ben ammanicato» commentò, sprezzante. «Comunque, non è la notizia che i nostri amici sguazzano nei loro successi ad avermi contrariato».
«E cosa, allora?» chiese Gerardo, scrutandolo perplesso.
Marcello decise di dire tutto al suo amico, giacché riteneva che fosse perfettamente inutile tirarla per le lunghe, anche perché, come aveva detto il signor Giancarlo, ormai non poteva più tirarsi indietro: «Mia madre vuole conoscere Beatrice e l’ha invitata alla festa di compleanno di mia nipote».
«Ma il compleanno di tua nipote non cade sei giorni dopo il mio, ovvero il dieci aprile? Sono già passate due settimane, tra un po’ è maggio!»
«Ah, non chiedere a me cosa passa per la testa di mia madre e di mia cognata» decretò lui, spazientito. «Il problema è un altro, cioè che vorrei risparmiare a Beatrice la pantomima del pranzo della domenica con tutto il parentado».
«Un bel problema» considerò l’altro, accarezzandosi il mento con fare cogitabondo. 
«Ne hai parlato con Vittoria?»
«No, non ne ho ancora avuto modo».
«E cosa aspetti? Sbrigati, domenica è vicinissima e l’unica che credo possa darti un saggio consiglio è lei!»
Marcello rimase a fissare Gerardo per qualche secondo, non del tutto certo che parlarne con la ragazza fosse la mossa migliore da fare, tuttavia dovette ammettere che il ragionamento dell’amico non facesse una grinza. Era molto probabile che mettere Vittoria al corrente dei suoi problemi gli avrebbe assicurato un interrogatorio con i fiocchi, ma, almeno, forse avrebbe trovato un’ottima soluzione per affrontare quella situazione con meno inconvenienti possibili.
Alleggerito da quel peso, si sentì subito meglio, mostrando addirittura a Gerardo un debole sorriso di riconoscenza, al quale il giovane rispose alzando le spalle: si conoscevano talmente bene che riuscivano a capirsi anche solo con uno cenno.
«Dal profumino che arriva dalla cucina, sembra proprio che oggi ci sia la parmigiana. Gerardo, rimani con noi a pranzo?» domandò il signor Giancarlo, sopraggiunto in quell’istante, con in mano due vasetti di primule.
«Oh, buongiorno!» lo salutò il giovane, che era sobbalzato, non avendolo sentito arrivare. «Ecco, se non disturbo, volentieri».
L’uomo si avvicinò al dondolo e poggiò i vasi a terra, sistemandoli quanto più possibile vicino al muro, forse per evitare che qualcuno, distrattamente, potesse passarvi accanto e farli cadere.
«L’unico a cui potresti dare disturbo è Marcello, perché a me non di certo!» scherzò, sfregandosi le mani per rimuovere i residui di torba.
«Vuoi dire che mamma non c’è?» chiese quello, che aveva capito cosa intendeva suo padre.
«No, è andata con le sue amiche ad uno di quei pranzi che le piacciono tanto».
I due ragazzi tirarono un sospiro di sollievo, ben contenti di poter mangiare in santa pace senza che la Matrona mandasse loro di traverso il pranzo con le sue subdole insinuazioni, che mettevano sempre a disagio Gerardo e facevano innervosire Marcello.
«Allora è un sì? Vado ad avvisare Ottavia di aggiungere un coperto in più, a tavola. Quella parmigiana è troppo buona per lasciarla solo a te, figliolo».
Il giovane si voltò di scatto verso il genitore, facendo cadere due o tre penne dal tavolo, come se gli avesse sentito dire che gli alieni erano appena sbarcati da Marte.
«Tu non la mangi, papà?» domandò, stranito. «Eppure è il tuo piatto preferito!»
«Il dottore mi ha consigliato di mangiare per un po’ in bianco e leggero e non credo che le melanzane fritte grondanti di delizioso sugo al basilico rientrino nella dieta, purtroppo» si giustificò lui, con un sorriso rassicurante.
Marcello osservò l’uomo attentamente, cercando qualche indizio che confermasse che non stesse bene e, in effetti, lo trovò abbastanza pallido, cosa alquanto strana dato che era uscito e aveva passato tutta la mattinata sotto il sole, a scegliere le primule più belle di tutto il mercato, come faceva ogni primavera.
«Va tutto bene?»
«Sì, non ti preoccupare, solo un qualche malessere passeggero» fece il signor Giancarlo, con tono morbido. «Avanti, andate a lavarvi le mani, che tra poco dovrebbe essere pronto».
Gerardo lanciò uno sguardo fugace al suo amico, il quale ricambiò con un’occhiata eloquente, anche se non aggiunse altro. Per quella volta, avrebbe fatto finta di credere al padre, anche se sentiva che qualcosa non quadrava affatto.
***

Come aveva fatto per tutte le fermate precedenti, invece di rallentare e quindi fermarsi, l’autista del tram inchiodò di colpo, facendo quasi cadere Marcello e la signora, carica di buste della spesa, che aveva accanto.
Imprecando sottovoce per l’incapacità alla guida del tramviere, il giovane saltò giù dal mezzo con un balzo, voltandosi per rintracciare la donnina con lo sguardo e intravedendola a malapena, tra la calca di gente che cercava di salire e che la ostacolava: dopo aver condiviso con lei tutte le lamentele su quella corsa così movimentata ed aver scoperto che avevano la stessa destinazione, il minimo che avrebbe potuto fare sarebbe stato aiutarla a scendere.
«Signora, mi dia la mano, così posso aiutarla» si offrì educatamente.
Quel giovedì mattina, infatti, il traffico di Viale Regina Margherita non era certo meno degli altri giorni, rendendo davvero difficoltosa per i passeggeri la discesa dai mezzi pubblici a causa del rischio di esser trascinati via dalla moltitudine di gente che andava e veniva dall’Umberto I o dagli uffici disposti lungo la strada.
«Oh, grazie. Tu sì che sei un bravo giovanotto!» rispose la vecchietta, non facendoselo ripetere due volte.
Agevolata dall’aiuto del ragazzo, la donna riuscì quindi ad abbandonare il tram ed il suo folle conducente, il quale ovviamente ripartì a tutta velocità, sferragliando sulle rotaie.
«Sei stato così gentile che meriti un premio» riprese la signora, tirando fuori dalle buste una mela verde dalla buccia liscia e lucida. «Ecco, prendi!»
Marcello tese la mano ed afferrò il frutto, portandoselo accanto al viso per sentirne l’odore: era asprigno con un sottofondo dolce, come ci si sarebbe aspettati da una Granny Smith.
«La ringrazio, signora. Con questo caldo, una mela fresca è quel che ci vuole» rispose, sinceramente. «Vuole che l’aiuti ad arrivare fino a casa?»
«Oh, no, ho approfittato fin troppo di te, per fortuna sono quasi arrivata».
«Si figuri. Allora, arrivederci, signora».
La donnina annuì con un sorriso composto, dopo di che prese la sua spesa e si allontanò, mantenendo un’andatura spedita, nonostante ogni tanto barcollasse leggermente a causa del peso delle buste.
Persone con una fibra così forte cominciavano ad essere una rarità, bastava guardarsi intorno per rendersi conto che i giovani dell’epoca erano tutti dei rammolliti, come quel Guido Tolomei, che ne era un esempio lampante: ogni volta che Marcello ripensava a quell’inetto e a ciò che aveva fatto a Beatrice, infatti, non riusciva a provare il benché minimo pentimento per avergli rotto il naso, anzi, se avesse potuto, gli avrebbe fratturato qualche altro osso.

Il giovane costeggiò il cancello che racchiudeva il Policlinico e sorpassò l’entrata del complesso in stile neocinquecentista che ospitava il dipartimento di Pediatria e Neuropsichiatria Infantile, facilmente riconoscibile dalla frase che era scolpita nel fregio marmoreo del portone: in puero homo5.
Poi, una volta che fu entrato all’interno, si ritrovò in un dedalo di percorsi che si snodavano tra i vari edifici, ma non si lasciò confondere e proseguì per la sua strada, destreggiandosi fra la fiumana di pazienti, camici bianchi, infermieri e portantini che si muovevano da un complesso all’altro, finché non giunse in un giardinetto interno arredato con panchine in pietra.
Guardò l’orologio e vide che le lancette segnavano le undici meno dieci: se ricordava bene, la fine del turno di Vittoria era imminente, pertanto decise di fermarsi lì ed attenderla.
E, di fatto, così fu: la ragazza gli passò davanti meno di dieci minuti più tardi, borbottando qualcosa tra sé e sé e cercando affannosamente qualcosa nella sua borsa.
«Che gente egoista e menefreghista, come si può essere tanto malvagi!» brontolò, rivolta a se stessa. «Ecco, ci mancava anche questa, eppure ero convinta di aver preso i crackers! Accidenti, dopo questa giornataccia ci manca solo che svenga dalla fame!»
«Contro chi stai imprecando?» le domandò il giovane, affiancandosi a lei, senza che se ne accorgesse.
La ragazza sobbalzò e, tra il basito e lo sconvolto, esclamò: «Marcello, mi vuoi far prendere un colpo?!»
«Mi spiace, non volevo spaventarti» si giustificò semplicemente lui.
«Davvero? Si direbbe il contrario...» notò lei, accigliata. «Come mai sei da queste parti, piuttosto?»
«Avrei bisogno di chiederti un consiglio, ma non credo che sia il momento giusto: ti vedo piuttosto, come dire... irritata».
«Lascia stare, ho un diavolo per capello».
«Si vede, sono più ricci del solito» commentò il ragazzo, lanciando un’occhiata obliqua alla folta chioma dell’amica.
Vittoria, dapprima, rimase a guardarlo in silenzio, poi, però, scoppiò in una risata leggera e liberatoria.
«Oh, sei incredibile! A volte mi chiedo come farei senza Gerardo e senza di te» disse, dolcemente. «Stamattina hanno dimesso una ragazza che non mangia da mesi e soffre di anoressia nervosa. Ma, a mio parere, non avrebbero dovuto farlo, perché è stata la madre che ha fatto pressione sui medici».
«Magari vuole soltanto riportarla a casa in un ambiente più familiare» avanzò lui, anche se non del tutto convinto.
«No, è questo il punto!» scattò subito l’altra. «Non si cura della figlia: quella ragazza potrebbe morire, capisci?»
Marcello increspò le labbra, intuendo che l’amica aveva davvero bisogno di sfogarsi e buttare fuori tutta l’amarezza che si portava dentro.
«Sediamoci un attimo, così mi puoi raccontare con calma, d’accordo?» le propose, prendendola delicatamente per un braccio e guidandola verso una panchina e lei lo lasciò fare, seguendolo senza obiettare.
«Purtroppo, sono solo una volontaria che ancora non ha capito che strada intraprendere, non faccio parte dell’èquipe di psicologi dell’ospedale e... questo mi limita parecchio» sbuffò, non appena si fu seduta.
«Non è colpa tua» cercò di rassicurarla Marcello, accomodandosi accanto a lei.
«Quella ragazzina soffre di scarsa autostima e di disturbi affettivi: padre assente e madre ossessionata dall’aspetto, è chiaro che il problema sta proprio nella famiglia! Cerca attenzioni, ma nessuno dei genitori è all’altezza del suo ruolo6. Ero riuscita a stabilire un dialogo con lei e non mi respingeva come faceva con altri del personale sanitario. Avevo trovato anche un certo grado di empatia, ma sua madre ha rovinato tutto».
Il biondo inclinò da un lato la testa, pensieroso, concludendo il ragionamento: «Quindi vorresti continuare ad aiutarla, ma non sai come fare».
Vittoria chiuse gli occhi per un attimo, ispirando a fondo, per poi riaprirli e buttare fuori tutta l’aria: «Già. Sai, questa piccola esperienza, anche se non retribuita e professionalmente non gratificante, mi ha fatto capire cosa voglio fare: aiutare i giovanissimi nel percorso di crescita e formazione della personalità».
«In effetti, saresti perfetta. Ti ci vedo molto accanto ai giovani».
La giovane lo guardò e, lentamente, dischiuse le labbra in un sorriso, più rilassata.
«Hai detto che la ragazza ha fiducia in te, no? Tu non puoi andare da lei, ma lei sa dove trovarti: se avrà bisogno di te e vorrà aiuto, ti verrà a cercare» considerò Marcello, incrociando le braccia contro al petto e lanciando all’amica un’occhiata rassicurante.
«Non lo so, non è detto. Anche se ammetto che ci spero».
Nel vedere Vittoria così presa dal caso di quella ragazza, il giovane sorrise, convinto che fosse un bene che ci fossero persone così dedite alla loro professione, anche se lei, di fatto, ancora non era una psicologa a tutti gli effetti.
«Cos’è quella?» domandò improvvisamente la giovane, guardandogli la mano.
Marcello la imitò, seguendo la direzione dello sguardo di lei, e si ricordò del dono che gli aveva fatto poco prima quella signora.
«Una mela che mi ha regalato una vecchietta che ho aiutato a scendere dal tram».
«Oh, è una Granny Smith, la mia varietà preferita!» disse, allegra, togliendogliela abilmente di mano. «Be’, grazie, avevo giusto un po’ di fame».
Senza che al biondo fosse dato il tempo di replicare, Vittoria addentò il frutto e, masticando compostamente, anche se di gusto, emise un mugolio d’approvazione riguardo il sapore.
«Ti volevo perfino invitare a pranzo, ma direi che ti sei appena giocata l’occasione» commentò lui, indispettito dal gesto dell’amica che, ancora una volta, aveva dimostrato di avere una rapida capacità di riprendersi.
«Mi vuoi offrire il pranzo? Che gentile!»
Marcello fece per controbattere, ma lei lo anticipò: «Non mi sono dimenticata che vorresti un consiglio da me, ma sai che a stomaco pieno si ragiona meglio? Mi dispiacerebbe molto non poterti essere d’aiuto...».
E il ragazzo alzò lo sguardo al cielo, domandandosi come facesse Vittoria ad averla sempre vinta.

I due ragazzi pranzarono in un caffè sotto i portici che circondavano Piazza della Repubblica7, in compagnia sia dei turisti che si dilettavano nel fotografare la Fontana delle Naiadi, sia dei romani che passeggiavano lì intorno, approfittando dell’arrivo della bella stagione.
«Allora, di che cosa volevi parlarmi?» chiese Vittoria, facendo sparire l’ultimo boccone del suo tramezzino con prosciutto e formaggio.
Marcello smise di osservare il viavai di gente e si voltò verso l’amica.
«Si tratta di Beatrice».
«Immaginavo» disse lei, esibendo un sottile sorriso sornione. «Quando vuoi parlarmi con urgenza, c’è sempre di mezzo la tua rossa fiorentina».
Il giovane increspò le labbra, ma non commentò, limitandosi a scuotere la testa e a bere un sorso d’acqua dal bicchiere che aveva in mano.
«E di mia madre» aggiunse, osservando le bollicine che salivano in superficie.
La ragazza rimase a fissarlo per una frazione di secondo, prima di domandare, con fare circospetto: «Che cosa ha fatto adesso?»
«Vuole che Beatrice prenda parte al pranzo per i festeggiamenti del compleanno di mia nipote, domenica prossima».
«Un pranzo con la tua famiglia... come prima occasione di incontro? Ma non è indicato!»
In risposta, Marcello si lasciò sfuggire un sorrisetto ironico, prima di vuotare il bicchiere e, così, riprendere a parlare: «Vedo che hai afferrato il punto».
«Beatrice come l’ha presa?»
«Non lo sa ancora. Volevo un parere da te, prima di parlare con lei».
Vittoria spalancò gli occhi e poggiò entrambe le mani sul tavolo, non riuscendo a celare la propria sorpresa.
«Non lo sa?! Marcello, oggi è giovedì, domenica è tra tre giorni!»
Purtroppo, l’altro sapeva fin troppo bene il ben misero anticipo con il quale la Matrona aveva imposto il suo dispotico volere e, come era già accaduto con Gerardo, ogni volta che qualcuno glielo ricordava si sentiva ancor più oppresso dalla situazione e dai capricci della sua genitrice.
«Mia madre ha avuto questa brillante trovata martedì: non capisci che l’ha fatto apposta per mettere in difficoltà Beatrice? Se lei non verrà, metterà in giro voci false sul suo conto» sbottò, preferendo mettere subito in chiaro le cose e mettendo così la sua amica al corrente del gioco sporco che c’era sotto quell’invito fuori luogo.
Dal canto suo, la giovane, che conosceva bene quanto potesse essere malvagia Madama Claudia, inclinò il capo da una parte, con fare pensieroso. Dopo poco, parlò, dimostrando di aver capito esattamente gli intenti della donna: «Quindi tiene in pugno anche te, perché è ovvio che non vuoi che quella povera ragazza subisca questo martirio».
Marcello annuì, lieto che Vittoria avesse centrato in pieno il fulcro del suo problema senza troppe spiegazioni o giri di parole.
«Va bene, dai, ora ci ragioniamo su e troviamo una soluzione, d’accordo? Intanto, stasera precipitati da lei per informarla».
«Anche Gerardo mi ha detto la stessa cosa» notò lui, consapevole che i suoi amici gli avevano dato quel consiglio perché era la cosa più sensata da fare.
«Ovvio! Ci tiene a te ed è un ragazzo molto giudizioso» commentò lei, tessendo le lodi del suo fidanzato. «Ritornando alla tua fiorentina, penso che non dovresti risparmiarti sui particolari: più informazioni le darai sull’indole da megera di tua madre, meglio la preparerai a ciò che l’aspetta».
«Mi sembra il minimo» concordò il ragazzo. «Anzi, io direi che... ed ora perché ridi?»
In effetti, la giovane era scoppiata a ridere, di punto in bianco, in maniera così fragorosa, che parecchi clienti del caffè si erano voltati a guardarla perplessi. Persino la cameriera, che aveva appena fatto accomodare due uomini in abito scuro al tavolo accanto al loro, nel rientrare dentro il locale, sicuramente per comunicare alla cucina le ordinazioni, le lanciò un’occhiata incuriosita.
«Ah, ah, ah, la tua vita è molto più complicata di Dallas o Sentieri8. Hai superato la finzione!»
Marcello, però, non era affatto dello stesso avviso, tanto che si indignò per il paragone con quei programmi, da lui ritenuti la spazzatura del palinsesto televisivo, e assunse un’espressione palesemente offesa.
«E lo trovi divertente? Dovresti provare a metterti nei miei panni!» sbottò, innervosito anche dal tramestio di sedie spostate proveniente dai suoi rumorosi vicini di tavolo: possibile non sapessero che, per non disturbare gli altri, era preferibile alzare la sedia per spostarla?
«Ti stavo prendendo un po’ in giro, non ti scaldare!» gli spiegò lei, ancora ridacchiando.
Il biondo incrociò le braccia sul petto, stizzito, fissandola ad occhi socchiusi, domandandosi come avrebbe potuto prendere sul serio i consigli di una persona che si faceva apertamente beffe di lui e della congiura che gravava sulla sua testa.
«Tua madre stava per scoppiare dalla felicità, quando le hai detto di te e di Gerardo. Forse non saresti stata così contenta, se avesse reagito come la mia» puntualizzò, seccato.
«Come sei permaloso!» lo redarguì, scherzosamente. «Comunque, Beatrice è una ragazza intelligente, se le darai apertamente sostegno davanti a tua madre, sono certa che se la caverà».
Lui distorse lievemente le labbra, poiché non credeva bastasse così poco a sistemare la situazione e stava appunto per farlo notare all’altra, quando lei proseguì: «Poi, se non hai già provveduto ad un pensierino per la bambina, credo che dovresti farti consigliare da lei. Pensaci: presentando un regalo scelto insieme, lancerete il messaggio che siete una coppia. Senza contare il fatto che solleverai quella povera ragazza dall’incomodo di portarne uno alla festeggiata, con il rischio che tua madre e tua cognata possano criticare la sua scelta».
Rianimato da quell’ottimo consiglio, Marcello si sentì un po’ più pronto ad affrontare quello che lo aspettava, anche se restava da fare ancora la cosa più importante: informare Beatrice di ciò che l’avrebbe attesa domenica.
Aprì la bocca per ringraziare sinceramente Vittoria per l’illuminante punto di vista, quando captò distintamente alcune parole della conversazione che si stava svolgendo al tavolo alle sue spalle.
«Lord Carter è molto deluso».
«Lo so bene, ma non avrei potuto fare di più».
Raggelato da ciò che aveva appena udito e dalle voci che aveva riconosciuto senza fatica, il ragazzo impiegò qualche secondo per decidersi a voltare leggermente la testa per guardare oltre la propria spalla, riconoscendo nel tizio che era seduto a poca distanza da lui John Miller, mentre il suo interlocutore, di cui vedeva solo la schiena ed i capelli, ma che anche così era facilmente riconoscibile, era Ascanio Colonna.
Quando erano arrivati, non si era accorto che i due uomini in nero erano sue vecchie conoscenze, tanto era stato preso dalla conversazione con Vittoria e in quel momento pregò che anche loro non l’avessero notato, anche se, come il giovane arrivò a considerare un secondo più tardi, se fosse stato così lo avrebbero schernito e si sarebbero fatti spostare subito ad un altro tavolo.
«Cosa c’è?» gli chiese lei, messa in allarme dal suo fare circospetto.
Marcello la zittì con un gesto secco della mano e, stando attendo a non voltarsi per non farsi riconoscere, si sporse leggermente per sentire meglio ciò che si stavano dicendo quei due. La fortuna aveva voluto che, essendo così disposti, gli unici che potevano vedersi in faccia erano Miller e Vittoria: l’uomo non aveva mai visto prima di allora la ragazza, pertanto non avrebbe potuto ricollegarla a né a lui, né a Gerardo.
Lei tacque all’istante, poiché era abbastanza intelligente da capire che c’era sotto qualcosa della massima importanza.
«Di più? Non hai fatto niente, ecco perché non sei riuscito a portare a termine il compito che ti era stato assegnato!» sibilò il britannico, con un’intonazione nella voce che faceva trapelare che, in realtà, era compiaciuto da quel fallimento.
«Ti ripeto che ho fatto quello che ho potuto! Ho chiesto anche la collaborazione di persone molto in alto» si giustificò Colonna, evidentemente seccato.
«Allora hai sbagliato a scegliere di chi fidarti» disse l’altro, continuando nel suo tono sprezzante e, al contempo, canzonatorio. «Come quello scultore che è si è fatto fermare alla dogana dell’aeroporto, perché non aveva nascosto bene la partita di hashish: già, sai davvero come sceglierti amici e collaboratori...»
Colonna rimase in silenzio e Marcello non ebbe difficoltà ad immaginarlo mentre digrignava i denti, come faceva sempre quando qualcosa non andava secondo i suoi progetti.
In quel momento, la cameriera tornò da loro con le due orzate che avevano ordinato e i due rimasero in silenzio finché non se ne andò.
«Ora limitati a portare avanti le compravendite con i partner che ti ho assegnato. Lord Carter si occuperà personalmente di riparare al tuo errore» riprese Miller, marcando con enfasi l’ultima frase.
«Corrompendo anche l’Interpol?» sbottò Colonna, ormai chiaramente irritato: non era certo tipo da subire passivamente tutti quei rimproveri, soprattutto se mossi da un sottoposto del suo socio.
L’uomo fece tintinnare il bicchiere e un improvviso rumore di sedia spostata fece capire che doveva essersi alzato in piedi.
«Impara qual è il tuo posto, se non vuoi fare la stessa fine del traditore o del tuo amico!» disse, poco prima di passare a passo deciso davanti al tavolo di Marcello e Vittoria, allontanandosi in fretta e sparendo presto oltre una delle colonne del porticato.
«Maledetto leccapiedi!» ringhiò Colonna, non abbastanza a bassa voce da non farsi sentire dai suoi vicini di tavolo.
Vittoria lanciò un’occhiata eloquente a Marcello, anche se non si azzardò a parlare, intuendo che il pericolo di essere riconosciuti non era ancora passato.
Dal canto suo, il giovane, impegnato a rielaborare quello che aveva appena sentito, fece segno all’amica di alzarsi e di restare in silenzio; poi i due, cercando di mantenere una certa disinvoltura per non dare nell’occhio, si defilarono verso l’entrata del caffè, così da riuscire ad andare a pagare senza attirare l’attenzione di Ascanio.
«Chi era l’interlocutore di Colonna?» chiese la ragazza, non appena furono in mezzo della piazza, lontani dalla portata d’orecchio del loro nemico.
«John Miller, l’assistente di Lord Carter» spiegò il biondo, mentre finiva di chiudere il portafoglio e lo rimetteva nella tasca interna della giacca.
«Come immaginavo» asserì lei, lisciandosi il vestito e passandosi il manico della borsa da una mano all’altra, inquieta. «Hanno anche fatto implicitamente il nome di Bartolomeo. In quel momento, mi sono vergognata come mai in vita mia: come ho potuto essere così stupida da non vedere con chi ero fidanzata?»
«Non ha senso rimproverarsi per questo» la consolò Marcello, dandole un’affettuosa stretta sul braccio. «Hai già sofferto abbastanza a causa di quel bastardo».
Vittoria annuì, ma non sembrava particolarmente convinta, giacché non doveva aver completamente dimenticato ciò che aveva passato per colpa del suo ex fidanzato, nonostante le attenzioni di Gerardo le stessero facendo conoscere il lato sano e giusto dell’amore.
«Quello che vorrei sapere, però,» proseguì il ragazzo, desiderando distrarla e sentire la sua opinione in merito, «è chi potrebbe essere questo fantomatico traditore. Per scatenare l’ira di Lord Carter, non deve essere certo un ladruncolo da poco».
«In effetti, anche se non conosco i dettagli, ammetto che le minacce di quel tipo mi hanno messo i brividi» concordò l’amica. Poi, improvvisamente, esclamò: «Oh, guarda! Colonna sta venendo da questa parte... e c’è Maria Luisa con lui!»
«Voltati e fai finta di dirmi qualcosa riguardo la fontana» le ordinò Marcello, prontamente. «Magari indicala anche».
«Giochiamo a fare le spie sovietiche? È la seconda volta che origliamo, oggi!» scherzò Vittoria, ma fece comunque quanto le era stato detto.
In quel frangente, i due ragazzi si arrestarono proprio dietro di loro.
«Comincia a fare caldo e mi stanco facilmente» si lamentò Maria Luisa.

«Sai bene che nelle tue condizioni non dovresti uscire di casa» la rimproverò il compagno, asciutto.
Di colpo, Marcello si ricordò una cosa che aveva momentaneamente dimenticato, ossia che la ragazza era in dolce attesa. D’altra parte, essendo molto magra, il ventre di lei era ancora poco prominente: se non avesse saputo con certezza che aspettava un bambino, non se ne sarebbe mai accorto. E questo, di certo, li avrebbe aiutati almeno a salvare le apparenze durante la cerimonia che si sarebbe svolta di lì a due settimane.
«Qualcuno si doveva pur occupare delle bomboniere. Adesso manca solo l’addobbo floreale per la chiesa» replicò Maria Luisa.
«Di questo te ne puoi occupare chiedendo l’aiuto di tua madre».
«Di questo?» fece la ragazza, con voce tremula. «Veramente, ci stiamo occupando noi di tutto. Eppure, tu sei lo sposo, dovresti fare qualcosa».
«Io non ho tempo per queste idiozie. La cosa più importante è il riconoscimento di mio figlio».
Nauseato, Marcello non riuscì a trattenersi dal lanciare un’occhiata obliqua all’indirizzo del suo nemico, il quale era impegnato a trafficare con il suo palmare, anziché guardare in faccia Maria Luisa. Che Colonna non fosse un tipo sentimentale era un qualcosa di più che assodato, ma mai avrebbe pensato che potesse essere così disinteressato verso la sua futura moglie, che vedeva molto probabilmente solo come un mezzo per mettere al mondo un erede. Infatti, lo stralcio di conversazione che udì poco dopo, gli diede la conferma.
«Avanti, ti riaccompagno a casa, non devi stancarti, perché il bambino potrebbe soffrire».
«Potrebbe anche essere una bambina» gli fece notare lei, dolcemente, mettendosi una mano sulla pancia. «Hanno detto che dalla prossima ecografia si potrebbe capire se...»
«Non dire sciocchezze!» la freddò, come se stesse dicendo un’eresia, chiudendo con un gesto secco il palmare. «Sarà un maschio e porterà avanti il mio impero. Adesso andiamo!»
Ammutolita da quest’ultima osservazione, la ragazza lo seguì in silenzio e il biondo poté giurare di aver visto due lacrime rotolarle giù per le guance.
«So che non dovrei dirlo, ma mi fa davvero tenerezza, poverina...» sussurrò Vittoria, visibilmente rammaricata, non appena i due ebbero imboccato via Nazionale. «Anche se era tra le tue ammiratrici più frivole, penso che nessuna ragazza meriterebbe di sposare Colonna».
«Non posso che darti ragione» sospirò lui, provando per Maria Luisa un dispiacere più grande di quello che avrebbe mai pensato di poterle riservare.

Dopo aver raccolto parecchio materiale su cui riflettere, i due giovani camminarono per un po’ assorti nei propri pensieri, diretti verso la stazione della Metro A Repubblica, fin quando Vittoria si lasciò sfuggire un’espressione di stupore e si allontanò a grandi passi verso una vetrina che dava sulla strada.
Incuriosito da ciò che aveva attratto così l’amica, la seguì, notando che si era fermata di fronte ad una gioielleria.
«Non pensavo che ti interessassero queste cose, di solito critichi sempre chi ne fa sfoggio!» le disse a voce alta, affinché lo sentisse.
«Guardare non vuol dire comprare. E, comunque, non si può proprio fare a meno di ammirare questa meraviglia!» gli rispose lei, invitandolo a raggiungerla per dare un’occhiata lui stesso.
Accigliato e borbottando qualcosa tra sé e sé sulla volubilità di molte donne di fronte a qualsiasi cosa che luccichi, Marcello si decise ad avvicinarsi per vedere con i propri occhi, attraverso le inferriate della saracinesca, cosa mai ci fosse di così eccezionale. Tuttavia, quando l’amica gli ebbe indicato, tra tutti quei preziosi, quello che l’aveva colpita, il giovane non poté negare la rara bellezza di quella creazione: era un raffinatissimo ciondolo a forma di farfalla in filigrana dorata e brillanti. Le pietre multisfaccettate creavano giochi di luce così particolari, che sembrava davvero che l’insetto avesse preso vita e stesse sbattendo le ali.
«Non trovi che sia bellissimo?» sussurrò Vittoria, ammaliata.
«Non posso dire il contrario» ammise Marcello che, nonostante fosse un uomo, non riusciva a rimanere insensibile di fronte a una tale dimostrazione di superba arte orafa.
Subito, nella sua mente, lo vide indosso a Beatrice, certo che le sarebbe stato molto bene e che l’avrebbe resa ancora più graziosa. Di lì a qualche settimana sarebbe stato il suo compleanno e non sarebbe stato male avvantaggiarsi con il regalo, pertanto, senza perdere ulteriore tempo, chiese all’altra: «Secondo te, potrebbe piacere a...» 
«Alla tua rossa fiorentina? Certamente! È elegante, ma semplice, perciò secondo me è perfetto per lei» rispose la ragazza con un entusiasmo che, probabilmente, non avrebbe avuto nemmeno se fosse stata lei la destinataria di quel regalo.
Marcello, che, anche se conosceva bene la sua amica e la sua capacità di trarre spesso conclusioni esatte, era rimasto spiazzato da tale prontezza, impiegò qualche secondo prima di annuire. Il risvolto positivo, però, fu l’aver avuto l’ennesima conferma che almeno Vittoria aveva preso in simpatia la fanciulla, cosa che, purtroppo, non si poteva dire altrettanto di sua madre.
«Ora il negozio è chiuso. Non posso comprarlo» borbottò, guardando in tralice la porta sprangata, rabbuiato anche dal ricordo dell’imminente supplizio domenicale e dal fatto che, entro sera, avrebbe dovuto parlarne con Beatrice.
«Potresti venire a prenderlo domattina, prima di andare a lavoro, visto che stasera hai cose più importanti da fare» gli disse Vittoria, come se gli avesse letto nella mente. Poi cambiò tono e, maliziosamente, aggiunse: «Sono certa che Gerardo capirà se farai un po’ di ritardo... D’altra parte, al cuor non si comanda, no?» 
***

L’angoscia provata durante il rapimento, per quanto tremenda, non impedì, però, a Beatrice di essere colta da un altro tipo di ansia, quando si rese conto che la separavano solo due mesi dal suo esame di maturità.
Nonostante fosse già rimasta d’accordo con Vittoria per riprendere contatti con il signor Rossiglione e, quindi, ricominciare a studiare assiduamente sotto la sua guida, la ragazza non se la sentiva di trascorrere in ozio il tempo che sarebbe trascorso fino a quel momento, pertanto decise di farsi prestare alcuni libri e studiare un po’ in autonomia.
Il fresco venticello pomeridiano che dapprima l’aveva invitata a studiare sulla terrazza della sua stanza, ora le stava facendo compagnia mentre cercava di ricordare date e nomi della Seconda Guerra Mondiale, aiutata da una mole di ordinati schemi riassuntivi che racchiudevano l’intero programma di storia dell’ultimo anno: ricordava la grande fatica fatta per cercare di rendere quegli specchietti quanto più esaustivi, ma, nello stesseo tempo, coincisi e ringraziò se stessa per essere stata così previdente, giacché, in quel momento, si stavano rivelando un prezioso supporto.
Era talmente assorta nella lettura che non si accorse che lui si era fermato sulla soglia del balcone e la stava guardando già da alcuni minuti, prima di decidersi a chiamarla.
«Buonasera, Beatrice».
Subito, la ragazza alzò la testa e, trovandosi di fronte Marcello, sobbalzò e arrossì all’istante.
«Ciao, Marcello, scusami, non t’ho sentito arrivare».
«Scusami tu, non volevo spaventarti. Ho bussato, probabilmente non mi hai sentito» le spiegò, tentennante. «La signora Irene mi ha assicurato che ti aveva appena portato un succo di frutta e ti aveva vista studiare, altrimenti non mi sarei mai permesso di entrare senza...»
Ma il giovane deglutì e non terminò la frase: era
evidente che fosse piuttosto in difficoltà, probabilmente sia per non averla avvisata del suo arrivo, sia perché doveva star ancora pensando a ciò era successo tra di loro qualche sera prima. In realtà, però, anche lei era un po’ imbarazzata, ma era decisa a far prevalere i sentimenti positivi su tutto il resto. Per questo si fece coraggio e prese la parola: «Sì, infatti, stavo ripassando qualcosa, ma posso prendermi una piccola pausa. Ti va di sederti?»
«Sì, con piacere» rispose lui, accomodandosi sulla sedia accanto alla sua, mentre Beatrice metteva da parte i suoi schemi.
«Come stai, oggi?» le domandò, con una lieve dolcezza nel tono della voce.
«Bene, grazie» fece lei, sorridendogli. «Comincio ad esser un po’ preoccupata per la maturità, sai, presentandomi da privatista, e credo che non sarò avvantaggiata».
«Con una buona preparazione di base, credo che al massimo possano metterti un po’ in difficoltà, ma di certo non bocciarti».
«Lo spero davvero» mormorò, alzando le spalle. Poi vide il vassoio con le bibite fresche e i bicchieri e gli chiese: «Vuoi del succo di frutta?»
Marcello si voltò verso il tavolino e rimase incerto per qualche secondo, poi rispose: «Grazie, ma non preoccuparti: faccio da me».
Si versò dell’acqua in un bicchiere di vetro blu e tornò a guardarla con aria pensierosa.
«Beatrice, c’è una cosa di cui ti devo parlare...» le disse, con aria molto seria.
Preoccupata da quel tono, la fanciulla si irrigidì, sicura che quello che aveva da dirle non sarebbe stato qualcosa di buono.
«È successo qualcosa di grave?»
«No, ma si tratta di una cosa delicata» proseguì lui, fermandosi un attimo dopo per sospirare. «Mia madre ti ha invitata a pranzo domenica prossima, perché vorrebbe conoscerti di persona».
Beatrice non riuscì a trattenersi dall’assumere un’espressione stupita, con tanto di bocca aperta. Non conosceva la signora Claudia di persona, ma quelle poche informazioni che aveva appreso qua e là non la dipingevano come una di quelle mamme tutte torte fatte in casa e sorrisi, pertanto la notizia la mise abbastanza in agitazione.
«Immagino che non possa rifiutare» disse, ricordando che le era stata descritta come una donna molto autoritaria. Stando a quel che le aveva detto Marcello al bar diversi mesi prima, ovvero che si era messa in testa di cercare lei una ricca moglie al figlio, intuiva di avere ben poche speranze di piacerle. Infatti, non era una ragazza proveniente da una situazione economica agiata; per giunta, gli unici parenti che le erano rimasti non erano né rispettabili, né educati.
«Purtroppo è così. Ti ho già spiegato quanto sia difficile il suo carattere, però vorrei comunque che non ti spaventassi» disse il giovane, soppesando accuratamente le parole.
«Ora, rispetto a questo, la maturità mi sembra una passeggiata» commentò, amara.
Il ragazzo si alzò dalla sedia, inquieto, e cominciò a passeggiare avanti ed indietro.
«So bene che non è questo il modo di comportarsi, essendo la prima volta che vieni a casa. Credimi, ho cercato di dissuaderla, ma non c’è stato niente da fare, anzi, l’unico risultato che ho ottenuto è stato di farla incattivire ancora di più».
Beatrice non osò chiedere cosa intendesse con quel farla incattivire di più. Non la conosceva nemmeno e già aveva le sue riserve su quella donna.
Evidentemente, però, il silenzio teso che scese subito dopo dovette fece a Marcello il grande disagio nel quale si trovava la ragazza, tanto che le si avvicinò e, dopo essersi genuflesso davanti a lei, le prese una mano tra le proprie e le disse: «Comunque, di una cosa puoi essere certa: non le permetterò di trattarti male, perché lei non ha alcun diritto di criticare la ragazza di cui mi sono innamorato. La mia fidanzata non ha bisogno della sua approvazione».
Il gesto e la parola fidanzata ebbero il potere di far colorire le guance della ragazza, che si limitò a guardarlo sbattendo le palpebre. Ora non avrebbe più potuto avere nessun dubbio: Marcello vedeva la sua relazione con lei come qualcosa di ufficiale.
Questa considerazione la portò, inaspettatamente, a vedere la vicenda sotto una prospettiva più lucida, giacché era evidente che, essendo arrivati a quel punto, l’incontro con la suocera, prima o poi, sarebbe dovuto avvenire.
Certo, sempre meglio poi che prima, ma pensò che era anche vero il detto che affermava che il toro va afferrato per le corna.
«Se’ sempre molto carino con me» gli disse, guardandolo intenerita.
Leggeremente in difficoltà, Marcello le lasciò la mano e, tirandosi su, si schermì: «Mi sembra il minimo, non è certo colpa tua se ti sei trovata in questa situazione».
Beatrice lo guardò divertita, consapevole che, visto il suo carattere, quell’oggi il ragazzo le aveva dimostrato fin troppa dolcezza. D’altra parte, se stava accettando di andare nella fossa dei leoni, era soltanto per lui.
Poi, quello si rimise a sedere e, per qualche secondo, si udì solo il canto degli uccellini.
«C’è un’ultima cosa» aggiunse poi lui, improvvisamente. «Domenica festeggeremo il primo compleanno di mia nipote e mi chiedevo se... ecco... domani pomeriggio volessi venire con me, per aiutarmi a scegliere il regalo per la piccola Claudia».
Onorata dalla richiesta, la fanciulla accettò con piacere: «Molto volentieri».
Tuttavia, il clima di ritrovata tranquillità che si era appena instaurato venne interrotto dall’arrivo di una trafelata signora Irene.
«Scusate la brusca interruzione» disse, con il fiatone. «Ma è urgente: Beatrice, devi venire subito nell’ingresso».
I due giovani si guardarono e, senza nemmeno chiedere il perché di tanta fretta, si alzarono e seguirono la donna fino al tinello, dove, ad attenderli, trovarono un agente di polizia dall’aria familiare.
«Saverio!» esclamò la ragazza, stupita. Si ricordava che le avevano detto di restare a disposizione, ma non credeva che l’avrebbero cercata così presto.
«Buonasera, Beatrice» la salutò lui, sorridente, sfiorando appena la falda del cappello. Poi notò Marcello e, cambiando immediatamente tono, fece un cenno di saluto con il capo: «Buonasera, signor Tornatore».
«Il commissario vuol già riascoltarmi?»  
«Affermativo! Sei stata convocata al commissariato martedì prossimo» scandì, con tono solenne. «Ma non da parte del commissario Molinari. Questa volta, vuole ascoltarti il questore in persona».





***
Per la revisione di questo capitolo, ringrazio Lady Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la grafica del titolo è opera mia.
Ringrazio la mia Anto per aver letto tutto questo in anteprima.
***

[N.d.A]
1. Moonlight Shadow: canzone composta dal britannico Mike Oldfield e cantata dalla solista scozzese Maggie Reilly. Venne pubblicata bel 1983;
2. esami preliminari: i candidati privatisti all’esame di maturità, negli anni ’80 (come è tornato in vigore negli ultimi anni), dovevano affrontare un esame preliminare, scritto e orale (di tutte le materie dell’ultimo anno), per mezzo del quale la commisione doveva certificare l’idoneità del canditato a sostenere l’esame di Stato. Inoltre, all’esame orale, bisognava portare tutte le materie delle quattro sorteggiate e non soltanto due come chi aveva frequentato un normale anno scolastico presso una scuola (una scelta dallo studente ed una scelta dalla commissione); le materie che cita Beatrice, sono realmente quelle sorteggiate per la maturità classica del 1987;
3. “Stanislao Cannizzaro”: un liceo scientifico che si trova nel quartiere dell’Eur, dove abita Vittoria; il Giulio Cesare, invece, come saprete, è il più famoso liceo classico della Capitale;
4. economia e commercio: prima la laurea in economia aveva questa dicitura;
5. in puero homo: letteralmente “nel bambino, (c’è già) l’uomo”. Frase di Leonardo da Vinci, invita a riflettere sull’importanza del prendersi cura dei bambini in toto, giacché saranno gli adulti del domani. La frase è tutt’ora incisa su una lastra di marmo, collocata sopra al portone del dipartimento di Pediatria dell’Umberto I;
6. all’altezza del suo ruolo: per il caso della ragazza, mi sono ispirata ad uno realmente accaduto che ci hanno raccontato a lezione. Il tema dei disturbi alimentari - e del coinvolgimento della famiglia nella loro insorgenza - mi sta molto a cuore;
7. Piazza della Repubblica: conosciuta anche con il nome di Piazza Esedra.
8. Dallas o Sentieri: Dallas è una serie televisiva statunitense, trasmessa in Italia a partire dal 1981, famosa per i suoi colpi di scena; Sentieri, invece, è una soap opera, sempre statunitense, trasmessa nel nostro paese dal 1982. Entrambe sono state molto famose e molto seguite, anche dai giovani;
***


Come sempre, ringrazio di cuore chi sta avendo pazienza nell’attendere che questa storia riesca a trovare una conclusione - è tutto nella mia testa, deve solo avere il coraggio di uscire fuori -, chi legge, anche in silenzio, e chi mi ha voluto dare fiducia, mettendo la storia tra seguite/ricordate/preferite.
Grazie anche a chi è stato tanto gentile da recensirmi lo scorso capitolo, ovvero Anto, Lady Moonlight, DarkViolet 92, Aven, Mini GD, 21century e Balder Moon.
In ultimo, vi lascio il link alla pagina facebook dove (presto o tardi) troverete uno spoiler del capitolo quindicesimo e news in tempo reale (se mai doveste chiedervi che fine ho fatto). Vi anticipo che il prossimo capitolo è a metà stesura, pertanto tra Settembre ed Ottobre dovrebbe essere pronto.
Saluti e alla prossima, 
Halley S. C.

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Capitolo 15
*** Capitolo Quindicesimo - Vento di Prove ***


Vento dell'Ovest - Capitolo 15



- Capitolo Quindicesimo -
Vento di Prove




L
e occhiate maliziose che Vittoria, seduta dall’altro lato del tavolo, continuava a lanciargli lo stavano facendo innervosire non poco: forse, solo le insinuazioni prive di fondamento di sua madre avevano il potere di fargli perdere più rapidamente la pazienza. E questo era tutto dire.
«Per quanto hai intenzione di continuare?» la redarguì Marcello, riservandole un’occhiataccia. 

La giovane gli mostrò un sorrisetto divertito, rispondendogli: «Finché mi andrà. Stento a credere che anche l’incontentabile Marcellino abbia trovato finalmente una ragazza che gli va a genio».
Il ragazzo inarcò un sopracciglio, ma non rispose, giacché gli sembrava del tutto superfluo ribadire che era consapevole del proprio carattere non propriamente facile, senza contare che non sarebbe mai stato in grado di stare con una ragazza solo per compiacere sua madre o pur di non stare solo, anche perché aveva il sospetto che, qualunque cosa avesse detto, non avrebbe cambiato la situazione: come suo solito, Vittoria si stava divertendo a stuzzicarlo.
«Io non ci trovo niente di strano. A volte, bisogna solo avere il coraggio di aspettare la persona giusta» osservò giudiziosamente Gerardo.
Il biondo indirizzò al suo amico un cenno di riconoscimento: «Per fortuna, almeno uno di voi due dimostra di essere saggio».
Subito, lei assunse un’aria offesa.
«Cosa vorresti dire?»
«Vittoria, si sta facendo tardi» intervenne il fidanzato, guardando distrattamente il proprio orologio da polso e camuffando palesemente un tentativo di distrarre la sua fidanzata. «Se non ci sbrighiamo, il fiorista chiuderà e non potrai chiedergli ciò che devi».
La giovane lo guardò sorpresa, ma, dopo che ebbe verificato l’orario, convenne che era giunto il momento di andare.
«Oh, sì, hai ragione» fece, prendendo la borsa, poggiata sul bracciolo del divano accanto alla porta. Poi, si voltò verso l’amico e, piccata, gli puntò un dito contro: «Per questa volta te la cavi, ma sappi che la prossima non sarai così fortunato!»
Ed uscì dalla porta, con fare teatralmente offeso.
«Le passerà» commentò Gerardo, rassicurante, preparandosi a seguirla. «Ci vediamo domani, buona uscita».
«Anche a te» gli rispose Marcello, salutandolo con un cenno della mano.
Si ritrovò così solo, anche se non gli dispiacque affatto, giacché aveva talmente tanti pensieri per la testa che aveva bisogno della tranquillità necessaria per affrontarli uno alla volta.
Il fatto che Beatrice fosse ospite in quella casa, infatti, rendeva molto probabile, ogni qualvolta volesse vederla, la possibilità di incappare in Vittoria e nelle sue domande e, per quanto volesse molto bene all’amica, il giovane cominciava a sentire la necessità di portare avanti la sua relazione senza dover informare, minuto per minuto, mezza città.
Per giunta, lo scompiglio portato dal rapimento, dall’arresto di Guido e dai continui interrogatori della polizia aveva poi fatto insorgere ancor di più in Marcello il desiderio di essere lasciato in pace, almeno per ciò che riguardava la sua vita privata.
Inoltre, ogni volta che pensava all’imminente incontro tra la fanciulla e la sua famiglia, si augurava che il tutto passasse nella maniera più veloce ed indolore possibile; infine, il dialogo che aveva sentito tra Miller e Colonna l’aveva preoccupato abbastanza, poiché, nonostante non sapesse verso chi fossero rivolte le ire di Carter, intuiva quanto poco il magnate fosse propenso a perdonare i traditori.
Per la sua fortuna, Beatrice arrivò qualche istante dopo, permettendogli di distrarsi con qualcosa di molto più piacevole: la prospettiva di un pomeriggio da passare con lei.
«Scusa se t’ho fatto aspettare» disse la ragazza, mentre entrava nel salotto, intenta ad abbottonarsi un golfino color panna; con il suo arrivo, l’aria venne rinfrescata da una profumata ventata di lavanda.
«Figurati» le rispose il giovane, alzandosi dalla sedia e avvicinandosi a lei. Si scambiarono un’occhiata intensa e lui si chiese se stessero pensando entrambi alla stessa cosa, ovvero che quella sarebbe stata la loro prima uscita ufficiale, senza più bisogno di sotterfugi o di giocare a nascondino con chicchessia.
«Possiamo andare?»
«Sì, ora son prontissima! Hai già pensato a quale negozio potrebbe andar bene?»
Marcello annuì con rassegnazione, ripensando alla rapidità con la quale Ortensia gli aveva suggerito la boutique per l’infanzia più costosa della città.
«Per non sbagliare, mi sono fatto indicare da mia cognata dove comprano sempre i vestiti ed i regali per la bambina. Tu che ne pensi?» le domandò con gentilezza, sinceramente interessato alla sua risposta.
«E credo che sia un’ottima idea! Per un regalo, l’è sempre meglio sceglier gli stessi negozi del destinatario» approvò Beatrice, con un leggero sorriso.
Rinfrancato dalla sua approvazione, il giovane si rilassò e, con un elegante gesto del braccio, la invitò a precederlo nell’uscire dal salotto.
L’entusiasmo della giovane mitigava senza dubbio la tensione, ma non risolveva certo il problema di fondo: se la Matrona fosse stata diversa, si sarebbero sicuramente potute evitare tante situazioni scomode.

Gli abiti colorati
dei turisti che popolavano Piazza Navona creavano un piacevole contrasto con il freddo marmo della Fontana dei Quattro Fiumi e della facciata di Sant’Agnese in Agone, donando al tutto un’atmosfera allegra e conviviale.
Decisi a raggiungere l’angolo di via Agonale, Marcello e Beatrice si fecero largo a fatica tra la folla chiacchierina, la quale continuamente si voltava ammirata a guardare prima l’una, poi l’altra delle due opere d’arte.
«Guarda la statua del Rio de la Plata: sembra proprio che stia per proteggersi da un probabile crollo della facciata!» esclamò una ragazza, aggrappandosi al braccio di un giovane, così da richiamarne ancor di più la sua attenzione.
«Sì, hai ragione! Bernini voleva dare chiaramente lezioni di architettura al suo rivale» notò l’altro, incrociando le braccia sul petto con beota supponenza.
«Sarebbe una storia perfetta, se il Borromini non avesse iniziato la chiesa dopo che il Bernini aveva già finito la fontana1» bisbigliò Beatrice, con un sorrisetto ironico, rivolgendosi al suo accompagnatore.
Il ragazzo, allora, lanciò un’occhiata distratta ai due, che in quel momento si stavano amabilmente sbaciucchiando, e pensò che, molto probabilmente, si erano voluti impressionare reciprocamente con informazioni sbagliate. 
«Immaginavo che fosse solo una leggenda, i soliti pettegolezzi che si tramandano nella storia» rispose in tono neutro, prendendola per mano e tirando fuori entrambi dalla bolgia di gente accalcata sotto la statua del Nilo, in fila per fare una foto accanto al gigante di pietra.
Una volta che ebbero superato fontana e chiesa, trovarono il passaggio molto più agevole e, finalmente, riuscirono a raggiungere la porta del negozio consigliato da Ortensia senza essere costretti a spintonare nessuno per avanzare.
«C’è qualcosa che non va? L’ho notato da pprima: oggi se’ pensieroso» gli chiese la ragazza, visibilmente preoccupata, mentre lo seguiva senza lasciargli la mano.
«Pensieroso non è l’aggettivo giusto. Direi più... imbestialito» precisò il giovane, arrestandosi proprio davanti alla pesante porta della boutique; si voltò verso di lei e, con tono alterato, proseguì: «Sarebbe stato molto bello presentarti alla mia famiglia, se si fossero comportati normalmente e se fosse stato organizzato tutto nel migliore dei modi. Invece, loro sono terribili e l’occasione, be’... direi che è la peggiore possibile».
A queste parole, Beatrice abbassò lo sguardo, stringendogli la mano, e il ragazzo si rimproverò per essere stato così brusco, visto che la posizione di lei era molto precaria, poiché era chiaro che la signora Claudia le avrebbe dato parecchio filo da torcere. In più, non la conosceva certamente come lui che era pur sempre suo figlio.
«La tu’ mamma non dovrebbe esser attenta all’etichetta?» notò la fanciulla in un pigolio sommesso.
«Mia madre è attenta all’etichetta solo quando vuole lei. Al contrario, quando intuisce che può mettere in difficoltà le sue vittime, non bada più a niente» le rispose, senza cercare di addolcire la pillola. D’altra parte, mentire non sarebbe servito a nulla, anzi, sarebbe stato perfino dannoso per la fanciulla, giacché doveva prepararsi al peggio: quando c’era di mezzo la Matrona, non si poteva mai stare tranquilli.
Tuttavia, scorgendo segni di turbamento sul volto della ragazza, Marcello, nella sua ira, vacillò. Infatti, si era reso conto che, se avesse mantenuto quell’atteggiamento negativo, continuando ad angustiare entrambi, le avrebbe solo fatto del male.
E poi, certamente, non era certo quello il modo giusto per affrontare quella situazione, giacché la negatività non si combatteva con altra negatività: lui non doveva alimentare il tormento, bensì proteggerla e non farle mai mancare il suo appoggio, esattamente come aveva detto Vittoria.
Affrontando insieme le difficoltà, tutto sarebbe stato più facile.
«Scusami, non volevo stressarti, so che hai già altri pensieri» le sussurrò, carezzandole appena una guancia con la mano libera. Lei, allora, rialzò la testa, guardandolo intensamente, come se stesse cercando proprio quel tipo di conforto.

In quel frangente, alcuni clienti uscirono dalla porta, ma i due giovani erano talmente presi che si scansarono appena per farli passare, senza interrompere il contatto.
«Già. Ad esser sincera, sono un po’ in ansia per l’interrogatorio. Senza contare che son preoccupatissima per quel che mi dirà i’ mi’ insegnante, visto che sono molto indietro con il programma!» esclamò, con voce decisamente acuta, cominciando a lasciarsi prendere dal panico.
Questa reazione mortificò non poco Marcello, il quale si rimproverò per non aver realizzato subito che, in quel periodo, Beatrice stava subendo troppi stress.
Immediatamente, si pentì di essere stato così superficiale e di aver considerato solo la punta dell’iceberg di quell’intricata vicenda, e con voce morbida le propose: «Se ti va, posso accompagnarti al commissariato. È lì che ti hanno convocata, vero?»
La ragazza non riuscì a celare un’espressione sorpresa e annuì, all’apparenza leggermente più rilassata.
«Per quanto riguarda lo studio, invece, potrei darti una mano a ripetere qualcosa, se te non ti dà fastidio studiare con qualcun altro».
«Davvero faresti tutto questo per me...?» domandò lei, ora assolutamente esterrefatta.
Con grande piacere, il biondo notò che la tensione era quasi del tutto sparita dal volto di lei e, di riflesso, anche lui si sentì meno contratto e maldisposto, tanto è vero che, abbozzando un sorriso, le disse: «Be’, se mi sono offerto... tu che dici?»
Beatrice sorrise a sua volta, tornando la radiosa ragazza di sempre: «E dico che non posso rifiutare. Non penso sia una proposta che fai tutti i giorni, vero?»

Al contrario di ciò che aveva pensato la fanciulla guardandolo da fuori, l’interno del negozio si rivelò molto luminoso, grazie alla presenza di faretti sparsi sul soffitto e di parquet e mensole in legno molto chiaro.
«Eccomi, arrivo tra un attimo!» disse una voce squillante, proveniente dal retrobottega; evidentemente, la commessa doveva aver sentito il tintinnio dei campanellini appesi alla porta ed aver intuito che era entrato un cliente.
«Faccia con comodo» rispose Marcello, lasciando vagare lo sguardo qua e là.
Beatrice lo imitò, ma, poiché non voleva limitarsi solo a guardare, decise di fare un giro per guardare da vicino gli abitini riposti ordinatamente, piegati o appesi a delle piccolissime grucce.
Le fantasie e i colori delle stoffe erano tutti molto vivaci, ma non eccessivi, perciò li trovò assolutamente perfetti per dei bambini.
«Dovrei dire alla signora Sofia di comprare stoffe di questo genere. Sono allegre e morbidissime!» esclamò, rivolta al giovane, mentre toccava una maglietta per saggiarne la consistenza. «Molte nonne chiedono tessuti pratici e delicati per i loro nipotini».
«A proposito della signora Sofia, Gerardo mi ha detto che ieri sono andati a trovarlo Alessio e Valentina» fece il giovane, come se si fosse improvvisamente ricordato di qualcosa di molto importante. «Hanno detto che vorrebbero riabbracciarti presto».
Il ricordo del sorriso dei due bambini portò la stessa Beatrice a sorridere a sua volta, anche se con una vena di malinconia: da quando era stata liberata, aveva avuto modo di fare solo un paio di telefonate alla sarta e ai suoi figli per rassicurarli e far sapere loro che stava bene. La donna l’aveva rassicurata a sua volta che il posto per lei in negozio ci sarebbe sempre stato e Beatrice ne era stata contenta, poiché ricordava il periodo del lavoro alla merceria come uno tra i più felici della sua vita, contrariamente alla permanenza presso le sue parenti. Infatti, era ben risoluta non voler vedere mai più né la zia, né la cugina; invece, per quanto riguardava Guido, non l’aveva ancora perdonato e non aveva alcuna intenzione di scapicollarsi per andare a trovarlo in carcere. 
«Oh, anch’io non vedo l’ora di rivederli. Non appena avrò sistemato le cose con il professore, andrò da loro. L’è stato tutto così confuso, ultimamente» ammise, pensierosa.
«Non è stato un momento facile» concordò Marcello, con tono pacato e carezzevole.
La ragazza annuì, arrossendo leggermente per la delicatezza che lui le aveva riservato, anche se solo a parole: nonostante non fosse particolarmente espansivo, riusciva sempre a tranquillizzarla, anche solo con uno sguardo rassicurante o con un tono di voce dolce.
Tuttavia, dopo mezz’ora di attesa senza che la commessa desse traccia di sé, la calma del ragazzo venne meno: «Ci sta mettendo un po’ troppo, non ti pare?» sbuffò, appoggiandosi con fare seccato al bancone. «L’altro giorno, mentre passeggiavo con Vittoria, ho visto un negozio per bambini che mi sembrava molto più organizzato di questo».
Per un istante, Beatrice fu alquanto destabilizzata da quest’affermazione, ma la sorpresa durò qualche secondo, perché poi iniziarono ad affollarsi nella mente diverse domande: quando era successo? Perché né lui, né la ragazza le avevano detto che stavano uscendo insieme? Che cosa avevano fatto durante quella passeggiata? Voleva assolutamente avere una risposta esauriente a ciascuno di questi quesiti, eppure dalle labbra le uscì solamente: «Se’ uscito... con la Vittoria?»
«Sì, dovevo chiederle un favore» tagliò corto lui.
La fanciulla si morse l’interno della guancia, dubbiosa. Dopo i chiarimenti ricevuti, non le dava più tanto fastidio che l’amica interagisse con Marcello, ma moriva comunque dalla curiosità di sapere cosa si erano detti e cosa avevano fatto.
D’altro canto, era anche vero che i due ragazzi si conoscevano da quando erano bambini, pertanto era normale che avessero quel rapporto così fraterno, tanto che, pensò Beatrice, l’unica cosa da fare era cercare di fidarsi di entrambi e cercare di placare, una volta per tutte, la propria gelosia.
«Buongiorno e scusate l’attesa, signori, stavo sistemando della nuova merce in magazzino. Allora, cosa posso fare per voi?» trillò la commessa, finalmente riemersa dal retrobottega, con un sorriso che le andava da un orecchio all’altro.
«Stiamo cercando un regalo per mia nipote» rispose Marcello, guardandola scettico, come se temesse per la sua salute mentale.
La ragazza mutò subito la sua espressione allegra, trasformandola in una stupita.
«Ah, non è per voi? Per il vostro bambino?»
Mentre il giovane la scrutava sempre più torvo, Beatrice, arrossendo, si affrettò a dire: «Ehm, no».
«Oh, scusate» continuò la commessa, ridacchiando e portandosi una mano davanti alla bocca. «In effetti, signora, lei non sembra incinta. Anche se, a volte, qualche futuro genitore viene a comprare qualcosa già al primo mese di gravidanza, quando la pancia non si vede».
La fanciulla vide Marcello corrugare la fronte, increspare le labbra e portarsi le braccia dietro la schiena, come se volesse vedere fino a che punto si sarebbe spinta la venditrice: in fondo, lo conosceva abbastanza da capire che non doveva aver gradito la sua invadenza, decisamente poco professionale. Eppure, quella boutique era un negozio dal quale ci si sarebbe dovuti aspettare un certo standard nei servizi.
«Va bene, vorrà dire che ora comprerete per la nipotina e, quando lo avrete, tornerete per il vostro bambino!» proseguì quella, dimostrando di essere convinta che fossero in procinto di diventare genitori.
Beatrice, a disagio, arrossì ancor di più e lanciò l’ennesima occhiata furtiva al biondo, per vedere come stava reagendo e rimase alquanto sorpresa, giacché sembrava che il ragazzo fosse più imbarazzato dalla schiettezza della commessa, che infastidito dall’affermazione in sé. Come se, in effetti, l’idea di creare una famiglia con lei non gli dispiacesse.

Ben presto, però, il bancone fu riempito di vestitini di tutti i colori e modelli e lei fu costretta a focalizzarsi sul motivo per il quale erano lì: trovare un regalo per la nipotina di Marcello.
Mentre la commessa continuava a ciarlare, la ragazza sollevò un paio di abitini dalla pila che si era formata davanti a lei,
guardandone anche il prezzo e intuendo così il motivo per cui, in quel momento, loro due erano i soli clienti.
Poi, ne scartò alcuni perché troppo pomposi, altri perché troppo costosi per quella che, a parer suo, era la qualità offerta ed altri ancora perché di stoffa troppo pesante, considerando che il caldo sarebbe arrivato nel giro di un mese.
«Cosa ne dici di questo? Mi sembra molto carino» disse alla fine, mostrando al fidanzato un vestitino bianco con la gonnellina cosparsa di minuscoli fiorellini. «La fantasia è primaverile e starebbe davvero bene alla tu’ nipotina, biondina com’è!»
Per di più, è uno dei pochi che non costa un patrimonio!” aggiunse mentalmente, contraria al fatto che, per fare il regalo alla nipote, il ragazzo dovesse spendere a tutti i costi una fortuna, pur potendoselo permettere. Lo trovava un inutile spreco di soldi, perché la bambina stava ancora crescendo, quindi, di sicuro, le sarebbe andato bene solo per un lasso di tempo molto ristretto.
«Forse è fin troppo semplice per il gusto di sua madre, ma a me piace» rispose lui, prendendo in mano un lembo dell’abitino e osservandolo con attenzione, davanti e dietro.
La commessa si complimentò: «La signora ha davvero un ottimo gusto, quello è arrivato proprio ieri, fa parte della collezione nuova. Sarà di gran moda!»
«Oh, mi ha colpita appena l’ho visto» spiegò Beatrice, facendo spallucce, «senza contare che sembra molto fresco. L’ho trovato adatto all’estate».
«Sapevo che mi saresti stata di grande aiuto» la ringraziò Marcello. «Meglio se è leggero, così Claudia non morirà di caldo».
Sentendo quest’ultimo commento, la fanciulla sorrise, certa che, nonostante l’apparente severità, quel giovane sarebbe stato un ottimo padre.
***

La fatidica domenica, a parere di Marcello, arrivò davvero troppo presto.
Dopo essersi svegliato all’alba, per giunta di cattivo umore, uscì di casa per andare a seguire la funzione nella Basilica di San Pietro in Vincoli, dove aveva appuntamento con Vittoria, Gerardo e, naturalmente, Beatrice. Aveva invece lasciato, senza alcun rimpianto, che madre, cognata, fratello e nipotina andassero a fare la consueta sfilata tra i banchi del Laterano, al contrario di suo padre che avrebbe certamente scelto, in virtù del suo spirito secessionista, le solite retrovie.
Mentre si avvicinava alla chiesa, notò che molte famiglie si stavano mettendo in auto con pacchi, cestini e barbecue smontabili, di sicuro diretti nei dintorni per fare qualche bella gita fuori porta: il clima abbastanza caldo era un invito troppo appetibile per poter dire di no, specialmente dopo l’inverno rigido appena trascorso. Anche se non era nevicato come nel 1982, infatti, non era mancata qualche gelata di troppo.
Il giovane si ritrovò inconsciamente ad invidiare tutte quelle persone che avrebbero trascorso la domenica in maniera spensierata, incuranti di quello che attendeva invece lui e Beatrice. Decisamente, gli sarebbe piaciuto molto di più portarla a vedere i Castelli Romani, organizzando, magari, un pic-nic nei boschi intorno a Castel Gandolfo, piuttosto che essere costretto ad un tremendo pranzo con i suoi parenti.
Che senso avrebbe avuto avere davanti tutte quelle succulente portate, se poi non ne avrebbe potuta gustare nemmeno una a causa del nervosismo che gli avrebbe causato sua madre? Sarebbe stato meglio persino un semplice panino in una delle fraschette2 di Ariccia, perché almeno avrebbero mangiato tranquilli, godendosi il tempo trascorso insieme; mentre pensava a questo, gli sembrò che la canzone di Al Bano e Romina3 acquistasse finalmente un senso.
Dopo essersi abbandonato ad un sospiro sconsolato, il giovane rifletté sul fatto che, indipendentemente da tutto, l’idea di una piccola gita da fare con Beatrice, nei dintorni di Roma, fosse da prendere seriamente in considerazione: glielo avrebbe proposto senz’altro, appena ne avrebbe avuto l’occasione, sperando di trovarla d’accordo.

Una volta giunto davanti alla chiesa, si rese conto di essere di umore leggermente migliore rispetto a quando si era alzato dal letto e lo prese come un buon segno, giacché avrebbe dovuto fare appello ad ogni traccia di calma rimasta, per fronteggiare le frecciatine di sua madre e, probabilmente, anche di suo fratello.
«Con quale piede è scesa dal letto tua madre, stamattina?» furono le prime parole che gli indirizzò Vittoria, non appena gli fu abbastanza vicina da farsi sentire.
«Non mi sembra proprio il momento adatto per fare la spiritosa» gli rispose lui, seccato, lanciando un’occhiata obliqua a Beatrice: era molto carina nel suo vestito lilla con una larga fascia in vita, ma ciò non sarebbe stato abbastanza per impressionare la signora Claudia, sapendo che la donna non si sarebbe lasciata incantare nemmeno se la fanciulla fosse stata ricoperta d’oro.
«Ciao, Marcello» lo salutò, sorridendogli incerta. Anche se non sembrava particolarmente provata, si intuiva che non era comunque tranquilla. 
«Ciao, Beatrice» le rispose, cercando di mantenere un tono calmo e rassicurante. «Come stai?»
«Abbastanza bene, tu?»
Il ragazzo le avrebbe tanto voluto dire che c’erano stati momenti migliori, tuttavia non gli sembrò opportuno, sapendo che, in una circostanza simile, avrebbe potuto avvilirla di più, pertanto si limitò ad un fugace: «Abbastanza bene anch’io, direi».
Lei alzò le spalle, come per dire che, in qualche modo, era normale sentirsi così; in fondo, si trattava pur sempre della presentazione ufficiale alla impossibile famiglia di lui.
«Vittoria, ricordati di dare la pianta a Beatrice» si intromise Gerardo che, fino ad allora, era rimasto in disparte. «Mi avete fatto cercare in lungo ed in largo per trovarla!»
«Di quale pianta parlate?» chiese Marcello, voltandosi verso i suoi amici.
Vittoria agitò la mano e, con noncuranza, spiegò: «Abbiamo preso un’orchidea da portare a tua madre, per ringraziarla dell’invito. L’etichetta prevede che il giorno dopo l’incontro si mandino dei fiori alla padrona di casa con i ringraziamenti, ma per rendere le cose più semplici ho pensato che una pianta fiorita fosse un buon compromesso».
«Secondo la Vittoria, la tu’ mamma si lamenterà comunque, ma, almeno, io avrò fatto la mia parte» aggiunse Beatrice, sospirando. «Così ci siamo messe a pensare a quale fiore fosse il più indicato per l’occasione ed ho scelto l’orchidea, perché l’è un fiore regale» concluse, probabilmente facendo allusione ai gusti della signora Claudia.
«Ormai abbiamo perso il conto di quante volte Vittoria ci ha salvato in calcio d’angolo» commentò Gerardo all’indirizzo del biondo, scoccando un’occhiata d’apprezzamento alla sua ragazza.
L’altro aggrottò la fronte, scrutando la sua amica seriamente colpito.
«Come diavolo fai a tenere tutto sotto controllo?» domandò alla giovane donna, chiedendosi davvero come avrebbe fatto senza di lei. Ricambiare il saluto di quella vivace bambina con le trecce, quel torrido pomeriggio di giugno di ventuno anni prima, era stata una tra le scelte più felici della sua vita.
«Qualcuno deve pur farlo, no?» fece lei, strizzandogli l’occhio.
***

Non appena ebbero varcato il cancello della villa, Beatrice si fermò, come se un qualche ostacolo fisico le stesse impedendo di avanzare oltre. Aveva abbassato lo sguardo ed incurvato le spalle, stringendo il vaso dell’orchidea e assumendo l’atteggiamento di chi non si sente all’altezza del posto in cui si trova e questo, a Marcello, provocò una fitta di dispiacere, tanto che tornò indietro e le cinse la vita con un braccio.
«Andrà tutto bene, vedrai» le sussurrò, incoraggiante. Dopo tutto quello che aveva passato quella ragazza, la cattiveria gratuita della Matrona era qualcosa di assolutamente superfluo ed immeritato.
A quel punto, lei alzò il capo verso di lui e, a bassa voce, disse: «E se a la tu’ mamma davvero non dovessi piacere?»
Il ragazzo inclinò la testa da un lato, cercando le parole giuste per esprimere ciò che sentiva, giacché non voleva darle false speranze, ma nemmeno permettere che si deprimesse, convincendosi che sarebbe stata una brutta giornata.
«Sinceramente, credi che cambierebbe qualcosa tra di noi?» le chiese, deciso. «Io non cerco l’approvazione di mia madre, non l’ho mai cercata. E a mio padre, invece, piaci già ed anche tanto, direi!»
«Davvero?» domandò Beatrice, piacevolmente sorpresa.
«Sì, è molto contento che io... mi sia interessato a te» le confermò il giovane, lasciando trasparire un leggero sorriso.
La fanciulla sistemò meglio il vaso con l’orchidea fra le mani e, per qualche secondo, parve riflettere sulle ultime rivelazioni, infine constatò: «L’approvazione del tu’ babbo, però, ti interessa».
«Sì, lo ammetto, ma siamo sempre andati d’accordo: lui non mi ha mai deluso ed io altrettanto» affermò Marcello, incurante di aver fatto trapelare chiaramente la preferenza che accordava al padre e la poca tolleranza riservata, invece, alla madre. D’altronde, secondo lui, non aveva senso mentire, soprattutto in un’occasione come quella.
«Sembra davvero una brava persona» concordò lei, di gran lunga più sollevata.
«Lo è» ribadì il giovane, togliendole delicatamente la pianta dalle braccia. «Dai, la porto io. Andiamo!»
Beatrice lo ringraziò con lo sguardo e annuì, affrettandosi a seguirlo su per il vialetto in pendenza, alla fine del quale c’era ad attenderli il signor Giancarlo.
«Siete arrivati in perfetto orario» li accolse, mostrandosi soddisfatto. «Buongiorno, mia cara, come stai?»
«Oh, io bene, signore. Lei?» fece la ragazza, arrossendo appena e tendendogli la mano, che l’uomo prontamente prese e strinse con energia.
«Non c’è male».
«Papà, questo è un pensiero di Beatrice, per ringraziare dell’invito» disse Marcello, consegnando al padre il vaso infiocchettato. Almeno, qualcuno avrebbe gradito il pensiero che avevano avuto la sua ragazza e la sua migliore amica.
«Oh, ma che bella! Sai che non ne abbiamo di questo colore? La prendo in custodia io... Magari, prima la facciamo vedere a tua madre e poi la porterò a far compagnia agli altri fiori» disse il signor Tornatore, sinceramente ammirato. «Sai, Beatrice, che nel retro del giardino, ho una serra dove mi dedico al giardinaggio?»
«Oh, sì, Marcello m’ha detto che si prende cura di ogni piantina che cresce qui» replicò timidamente lei.
«Esatto, lo trovo molto rilassante. Adesso, venite con me, ci aspettano tutti dentro».
La fanciulla si voltò istintivamente verso il giovane, il quale la prese per mano, con l’intento di rassicurarla, mentre la conduceva all’interno della villa.
I venti scalini che portavano dal giardino all’ingresso non gli erano mai sembrati così difficili da salire e, in quel frangente, si sentì davvero come un condannato che avanza verso il patibolo del boia; c’era però da dire che non temeva tanto per se stesso, quanto per Beatrice, non sapendo davvero come avrebbe potuto reagire sua madre, poiché, come aveva avuto modo di apprendere in venticinque anni di vita, quando c’era di mezzo lei, al peggio non c’era mai fine.
Non riusciva proprio ad immaginare come avrebbe potuto accogliere la ragazza, essendo la prima fidanzata che portava a casa e dopo che non si era pronunciata bene nei suoi confronti. L’avrebbe insultata? Oppure derisa?
Purtroppo, ebbe occasione di scoprirlo molto presto, giacché, prima che salissero gli ultimi gradini, la donna, affiancata da figlio e nuora, si parò davanti a loro come una regina davanti alla sua corte.
«Alla buon’ora, Marcello! Si può sapere perché non sei venuto ad assistere alla funzione con noi?» domandò la Matrona, inquisitoria, agitando un enorme ventaglio dal pavese in pizzo e con la base in legno,
alla pari delle ricche señoras delle telenovelas argentine che amava tanto guardare; infatti, anche se si reputava molto raffinata, la signora Claudia aveva dei gusti alquanto discutibili.
Il giovane contò fino a dieci prima di rispondere, cercando di non lasciarsi sfuggire parole poco carine, per rispetto di Beatrice.
«Ieri sera ti avevo detto che sarei andato con Beatrice, Gerardo e Vittoria a San Pietro in Vincoli».
«E perché mai? La Farnese sta raccogliendo fondi per conto di qualche altra miserabile associazione? Sai bene che non dovresti continuare a dare corda a quella perdigiorno».
Marcello avrebbe tanto voluto risponderle per le rime, ma cercò di contenersi.
«Vittoria cerca sempre di rendersi utile» disse di rimando, a denti stretti.
«Claudia, cerca di comprenderlo» cercò di blandirla il marito. «Piuttosto, vieni a conoscere Beatrice! Guarda che bella rag...»
«Certo, certo me lo dirai dopo» fece la donna, interrompendolo, annoiata. Poi, con un colpo secco, chiuse il ventaglio e si voltò, in direzione della porta-finestra. «Ortensia, vai a prendere la bambina e tu, Tiberio, avvisa in cucina che il pranzo deve essere servito».
L’uomo e sua moglie annuirono, poi, senza dire una parola, scomparvero oltre la porta.
Lì per lì, Marcello non fece caso a ciò che era appena successo, tanto era concentrato a reprimere la rabbia crescente, ma, quando incrociò lo sguardo di una stupefatta Beatrice, la realtà si manifestò davanti i suoi occhi in tutta la sua indecenza: suo fratello, sua cognata e, soprattutto, la Matrona avevano ignorato del tutto la fanciulla.
«Claudia, ma... non hai salutato Beatrice!» esclamò proprio in quel momento il signor Giancarlo, tra il disorientato e il deluso. «Ha portato anche questa bellissima orchidea» continuò, mostrandogliela.
La donna si voltò appena, guardandolo come se avesse appena detto qualcosa di assolutamente senza senso, poi, increspò appena le labbra e disse: «Non fare tardi a tavola, un ritardatario basta e avanza».
Senza aggiungere altro, entrò in casa, inghiottita subito dalla penombra dell’ingresso.
Sconcertato, il giovane si avvicinò alla sua fidanzata, non sapendo proprio cosa dire per giustificare un simile atteggiamento.
«Non... non l’è andata tanto male, avrebbe... a-anche potuto insultarmi» sussurrò lei, con voce tremante, forse cercando di farsi coraggio.
«Oh, Beatrice...» fece Marcello, addolorato e spaesato, «credimi, non ho parole per...»
«Tua madre ha fatto una cosa molto grave» disse il signor Giancarlo, severo. Quindi si rivolse alla giovane: «Mia cara, come stai?»
La ragazza provò a parlare, ma non ci riuscì, anzi, si portò immediatamente la mani alla bocca, come se fosse sul punto di piangere e non volesse farlo.
Allora, l’uomo le poggiò una mano sulla testa e le accarezzò i capelli: «Non piangere, Beatrice. Non meritano che una ragazza così forte come te pianga per loro».
Dopo quelle parole gentili, lei ricacciò indietro le lacrime e rimase in silenzio qualche secondo, come per ritrovare il suo equilibrio, mentre Marcello avvertiva per la prima volta il dolore di vederla in uno stato simile per colpa della condotta riprovevole di sua madre. In quel momento, nonostante andasse contro i suoi stessi ideali di tolleranza, promise a se stesso che gliel’avrebbe fatta pagare. E con gli interessi!
«A lei dispiace se frequento suo figlio?» chiese la fanciulla, guardando spaurita l’uomo.
Il giovane, sorpreso da quella domanda, mise da parte i suoi propositi di vendetta e concentrò la sua attenzione sull’espressione del genitore.
Il signor Giancarlo, invece, le scompigliò affettuosamente i capelli fulvi e le rispose: «Assolutamente no! Sono davvero felice che Marcello abbia trovato qualcuno che riesce a sopportarlo».
«Ma... papà!» esclamò il giovane, punto sul vivo.
«A me puoi dirlo, se lo trovi un po’ bacchettone» continuò l’uomo, mettendosi una mano davanti alla bocca, come se volesse essere udito soltanto da lei. «Non glielo andrò a riferire, promesso» aggiunse, ammiccandole.
Beatrice si sciolse in un sorriso sereno e, nel guardarla, il biondo dovette riconoscere che, se non ci fosse stato suo padre, la situazione sarebbe drammaticamente degenerata.
«Ce la fai a venire a tavola? Se te ne vai ora, la darai vinta a mia moglie».
«Sì, credo di sì...»
L’uomo sorrise, per poi rivolgersi al figlio: «Guai a te se ti lasci scappare questo fiore di ragazza!»

Qualche minuto dopo, ignorando le occhiatacce di sua madre, Marcello fece accomodare Beatrice tra lui e suo padre, sfidandola apertamente a contraddirlo. Infatti, se da una parte, essendo solo sei a tavola, le coppie si sarebbero dovute separare, costringendo la fanciulla a sedersi vicino a Tiberio, dall’altra era anche vero che tale regola non si applicava ai fidanzati ufficiali.
La Matrona comunque corrugò la fronte, ma non disse nulla, limitandosi a diventare livida di rabbia, perché non voleva essere costretta a sentirsi dire che suo figlio era ufficialmente fidanzato con quella ragazza.
La bambina, invece, era adagiata nel passeggino, accanto a sua madre e vicina al nonno, impegnata a dormire placidamente e ignorando, come sembravano aver fatto anche gli altri, che l’unica vera festeggiata, quell’oggi, sarebbe dovuta essere lei.
«Gli abitini estivi che hai regalato a Claudia le vanno divinamente» esordì Tiberio, interrompendo bruscamente quel silenzio ostile. «Indovini sempre tutto, mamma».
A tal complimento, la signora sorrise compiaciuta, dando un lieve cenno d’assenso con il capo.
«Marcello, abbiamo ricevuto il tuo regalo. È... carino» si sforzò di dire Ortensia, visto che erano entrati nell’argomento.
Il ragazzo lanciò in risposta alla cognata un’occhiata talmente gelida che la fece sussultare.
«Non è solo da parte mia» precisò, «ma anche da parte di Beatrice, come scritto sul biglietto. Sai, avreste dovuto leggerlo prima di scartare il pacco».
La donna storse appena la bocca, irritata, ma lasciò cadere la questione.
Poco dopo, fu servito l’antipasto e, a quel punto, Tiberio si alzò, prendendo dal contenitore con il ghiaccio alle sue spalle una bottiglia di vino.
«Questo è un Tarquinia rosso secco, eccellente abbinato a sapori decisi come quelli che prevede il menù di carne di oggi» spiegò, roteando il cavaturaccioli per stapparla e sciorinando tutta la sua abilità da sommelier. «L’ho scelto personalmente, cara mamma, e sono certo che saprà deliziare le tue papille gustative».
«A fine pasto saprò dirti. Finora non hai mai sbagliato» gli concesse la madre, condiscendente.
Marcello alzò gli occhi al cielo, esasperato e nauseato: se quella era l’antifona, tanto valeva sperare di arrivare presto alla frutta, così da potersela dare a gambe e dare un senso a quella giornata. Se la fortuna avesse girato dalla sua parte, magari, avrebbe potuto perfino fare una passeggiata solo con Beatrice, prima di riportarla a casa di Vittoria, così da non lasciare nella memoria della fanciulla un ricordo del tutto negativo.
Quando fu servito il primo, il signor Giancarlo le chiese se avesse mai mangiato i porcini colti nei dintorni e lei gli rispose di no, così l’uomo si lasciò andare nel raccontare divertenti aneddoti di gioventù riguardanti una gara con dei suoi amici per scovare il porcino più pesante, riuscendo anche a farla ridere in più di un’occasione.

Se la Matrona mangiava a bocca stretta, Tiberio, invece, cercò di inserirsi più volte nella conversazione, ma fu prontamente ignorato dal padre, con grande soddisfazione di Marcello: forse finalmente avrebbe capito cosa si provava a non essere considerati, anche se il biondo dubitava che il fratello avrebbe fatto comunque tesoro dell’insegnamento.
Il giovane aveva appena accettato il fatto che il pranzo, in quel clima di reciproca indifferenza, non fosse poi così male, quando la piccola si svegliò e cominciò a piangere disperatamente.
«Oh, come mai la piccina piange? Era così tranquilla!» bisbigliò Beatrice all’orecchio del ragazzo.
«Non credo che sia una colica, il pediatra ha detto che dovrebbe averne molto meno, a quest’età».
Ortensia si alzò immediatamente e si diresse verso la bambina, prendendola dal passeggino e mettendosela in braccio.
«Cosa c’è?» le chiese, scuotendola, più che cullandola.
Tiberio si alzò a sua volta, tendendo le braccia per farsi dare la figlia.
«Perché la mia principessa piange? Cosa ti fa male?»
La Matrona, invece, posò elegantemente forchetta e coltello sul piatto e, dopo essersi pulita le labbra con il tovagliolo, chiese alla nuora: «Ortensia, hai fatto mangiare la minestrina a Claudia?»
La donna impallidì e si guardò intorno, smarrita.
«Ecco... veramente... No, non c’è stato tempo. Ma chiederò alla cuoca di prepararne un piattino, quando avremo finito di pranzare».
«La tua cura personale viene prima di quella di tua figlia?»
«No, ma...»
«Niente ma!» gridò la signora. «Tiberio, se tua moglie è un’oca senza cervello, devi supplire tu alle sue mancanze!»
«Mamma, devi sapere che...»
«Silenzio!» strillò, isterica, spaventando la nipotina, che pianse ancor più forte di prima.
Marcello e Beatrice a quel punto si scambiarono uno sguardo accigliato, rimanendo in silenzio.
«Sono circondata da idioti! Mi avete fatto scoppiare mal di testa!» sbraitò, scansando la sedia dal tavolo e alzandosi in piedi. «I miei figli sono due falliti, due poveri falliti! Ne ho abbastanza di voi, oggi, siete stati capaci di mandarmi di traverso anche il pranzo!»
Raccattò quindi il su
o scialle e se ne andò, uscendo dalla sala a grandi passi, proprio mentre Ortensia dava prova delle sue incredibili abilità di attrice svenendo e scivolando al suolo.
Allora il ragazzo, rinunciando alla possibilità di far passare la sua famiglia per normale e conoscendo a memoria il copione, incrociò le braccia sul tavolo e rimase ad osservare, immobile, tutta la sequenza: il pianto di Ortensia, la sua richiesta di essere portata dallo psicologo di turno (finché questi non si stancava di lei e scappava lontano, lasciandola nelle mani di un altro) e Tiberio che, senza salutare nessuno, la trascinava via, lasciando la sua principessa a casa dei nonni, affidata alla cure del caso.
Il signor Giancarlo, invece, che fino a quel momento era rimasto seduto, senza mutare espressione, si versò dell’acqua e la bevve con calma, mentre la nipotina continuava a strillare.
«Ehm... Marcello, non credi che dovremmo, ecco, fare qualcosa?» domandò la fanciulla, preoccupata, non riuscendo a distogliere gli occhi dalla bambina che piangeva.
«Credo sia un’ottima idea» convenne l’uomo. «Marcello, Beatrice, per favore, occupatevi di questa povera piccolina. Chiedete ad Annetta e vi aiuterà a preparare un po’ di pastina, magari aggiungendoci un po’ della carne di oggi, frullata».
Il giovane sospirò, sicuro perché, come al solito, sarebbe toccato a lui prendersi cura di Claudia. Non che gli dispiacesse, ma, oramai, era come se avesse l’adottata.
«Sì, papà, andiamo subito» rispose, appoggiando il tovagliolo sul tavolo ed alzandosi, prontamente imitato dalla ragazza.
«Ecco, bravi. Quando avrete finito, ricordatevi che c’è la mousse al cioccolato, in frigo. Se qualcuno dovesse dirvi qualcosa, be’, riferite che vi ho autorizzato io a mangiarne quanta ne volete!»

Nello stesso istante in cui si accomodò sugli sgabelli della cucina, Beatrice realizzò che, nel bene e nel male, il tanto temuto pranzo era andato, anche se aveva avvertito talmente tante emozioni contrastanti, che ci avrebbe impiegato un bel po’, prima di metabolizzarle. La meraviglia che aveva avvertito nell’ammirare le bellezze della villa, dall’arredamento ai soffitti stuccati, si era infatti tramutata in terrore, quando la Matrona l’aveva bellamente ignorata, per poi evolvere in sollievo davanti alla gentilezza del signor Giancarlo.
Il teatrino finale, invece, l’aveva lasciata perplessa, giacché davvero non si aspettava qualcosa di simile da persone di tale estrazione sociale; sembrava quasi che Marcello e suo padre appartenessero ad un’altra famiglia.
«Prendi il pentolino nel mobile accanto al frigorifero, per favore. Dovrebbe essere il primo sul secondo ripiano» le chiese il giovane, mentre si toglieva la giacca e si arrotolava le maniche della camicia fin oltre il gomito.
La fanciulla ubbidì, trovando ciò che le era stato chiesto senza difficoltà.
«Posso metter già l’acqua sul foco
«Sì, grazie, ma non metterci il sale, la carne frullata è già abbastanza sapida» disse lui, prendendo dal frigorifero un vasetto di vetro e osservandolo in controluce. «Per fortuna, la cuoca ha già ridotto l’arrosto ad omogeneizzato».
«Come mai non c’è nessuno in cucina, piuttosto?»
«Perché mio padre ha detto loro che adesso Claudia doveva mangiare e non dovevano esserci troppe persone nei paraggi» spiegò il giovane, prendendo un altro pentolino e riempiendolo d’acqua, per poter scaldare il barattolo a bagnomaria. «Sparecchieranno più tardi».
«Ah» disse Beatrice in risposta, riaccomodandosi.
Lanciò uno sguardo alla bambina, che stava cercando di afferrarsi i piedini con le mani: sembrava essersi calmata, come se avesse intuito che qualcuno si stava adoperando per farla mangiare. A quel punto la ragazza spostò la sua attenzione sull’intera stanza, notando che era molto più grande della cucina della zia e che tutti gli utensili appesi alle pareti davano l’idea che fosse molto attrezzata; tutt’intorno maioliche finemente decorate e mobilio bianco-grigio con sottili venature più scure.
Non aveva mai visto una cucina così chiara, dato che di solito erano tutte in legno scuro, e si chiese se la signora Claudia non si fosse lasciata influenzare da qualche stile in voga all’estero nella scelta dell’arredamento.
Marcello allora si sedette accanto a lei, osservando la nipote.
«Oggi farai pranzo e merenda con lo stesso pasto» le disse, rassegnato. Poi si rivolse a Beatrice: «Dobbiamo aspettare che l’acqua cominci a bollire».
Lei annuì e Claudia emise uno dei suoi versetti allegri.
«Ancora non parla?» domandò la ragazza, incuriosita.
«No, ma ogni tanto si limita a ripetere qualche sillaba».
«E... cammina?»
«Neanche. Non è adeguatamente stimolata dai suoi genitori e ai bambini bisogna dedicare tempo ed attenzioni, se si vuole che apprendano» sentenziò il giovane, con una smorfia di disapprovazione, manifestando apertamente ciò che pensava del modo in cui suo fratello e sua cognata stavano crescendo la loro figlia.
«Almeno tu ti dedichi a lei» notò la fanciulla, afferrando una manina della bambina e scuotendola in modo giocoso, mentre la piccolina rideva contenta.
«Non basta» disse lui, sconfortato. «A proposito dei miei parenti... Beatrice, mi dispiace davvero per tutto quello che è successo oggi».
«Be’, ad esser sincera, nonostante mi avessi preparata, non credevo che sarebbe stato così... così...»
«Tremendo? Mio fratello e sua moglie si sono comportati malissimo, per non parlare di mia madre... ha dato il peggio di sé!»
«Se l’è presa anche con l’Ortensia, però».
«Ma a lei non piace sua nuora, le va bene solo perché è ricca» spiegò Marcello, alzandosi per andare a controllare le pentole sui fornelli; spense il fuoco del pentolino più piccolo e mise tre cucchiai di pastina all’interno dell’altro, in evidente ebollizione.
«Oggi, avendo deciso di ignorarti, non ti ha potuta insultare e ha scaricato tutta la sua frustrazione su Ortensia. Aveva ragione, certo, ma non era quello il modo di esprimere le sue opinioni» proseguì, prendendo un piatto fondo dalla credenza e mettendolo sul piano di lavoro.
Beatrice rimase colpita dalla precisione con cui il giovane stava cucinando, intuendo che dovesse essere avvezzo a quel tipo di attività e, dopo quello che aveva visto quella mattina, non faticò a capire come stessero le cose: a causa delle mancanze dei genitori, doveva essersi preso cura di Claudia in più di un’occasione.
«C’è la possibilità che la tu’ mamma cambi idea su di noi?» gli domandò, incrociando le braccia sul tavolo e sporgendosi leggermente in avanti.
«No» rispose lui, asciutto, rimestando la pastina, per evitare che si attaccasse al fondo del pentolino. «Ma a me non importa. Per quanto mi riguarda, puoi ignorarla a tua volta, non sarai mai obbligata a frequentarla».
Trascorsero qualche istante in silenzio, durante il quale il giovane scolò l’acqua in eccesso dalla pentola e mise la minestrina nel piatto, mescolandola accuratamente con il preparato di carne per qualche minuto. Dopo di che prese un cucchiaino e ne assaggiò una quantità irrisoria, per verificare che fosse di buon sapore e non troppo calda.
Infine, prese un bavaglino dalla borsa attaccata al passeggino e lo mise alla nipote, facendola sedere sulle proprie ginocchia.
«Adesso, Claudia, apri la bocca, su, fai A!»
Come incantata dalle parole dello zio, la bambina ubbidì senza fare nemmeno un capriccio, ennesima prova del fatto che era abituata ad essere imboccata dal ragazzo.
Beatrice, rapita a sua volta dalla scena, si mise comoda, poggiando prima un gomito sul tavolo e poi una guancia sul palmo aperto.
«L’impeccabile messer Tornatore, imprenditore di successo, che gioca con la nipotina pur di farla mangiare» commentò, sorridendo.
«Be’, non posso certo lasciarla morire di fame» rispose lui, anche se si vide chiaramente che era lievemente arrossito. Tuttavia, non smise comunque di imboccare la bambina.
Le luci filtranti dalla finestra in fondo alla stanza avevano ormai cambiato intensità, divenendo più fioche e suggerendo che il primo pomeriggio doveva essere finito da un pezzo; ciononostante, per la prima volta da quando si era svegliata, Beatrice avvertì distintamente un po’ di serenità.
«In fondo, la giornata sarebbe potuta andare anche peggio, non trovi?»
«Sarebbe potuta andare anche meglio, però» ribatté il ragazzo, spostando per un istante lo sguardo su di lei. Parve riflettere per un attimo e quindi aggiunse: «Ti piacerebbe fare una passeggiata ai Castelli, una di queste domeniche?»
L’idea le piacque così tanto che non esitò a rispondere: «Oh, sì, sarebbe bellissimo se si facesse una piccola gita!»
Marcello fece un cenno d’assenso, poggiando il piatto sul tavolo e prendendo un tovagliolo per pulire la boccuccia della bambina.
«Posso imboccarla io?» si offrì Beatrice, approfittando della pausa. In realtà, avrebbe voluto chiederglielo molto prima, ma non ne aveva avuto il coraggio, temendo che la piccolina potesse stranirsi nel vederli invertirsi di posto.
Il biondo guardò prima lei, poi Claudia ed in ultimo il piatto, quindi annuì e passò quest’ultimo alla ragazza, sistemandosi meglio la bambina in braccio.
«Tieni lontano il piatto dalla sua portata, perché se ci mette le mani dentro, la pastina finirà anche sui muri» si raccomandò.
«Va bene» replicò lei, prendendo il piatto e spostandosi più vicina a loro; prese un bel respiro d’incoraggiamento e disse: «Piccina, ora fai vedere allo zio Marcello che fai la brava anche con me, d’accordo?»
Per un istante che le sembrò interminabile, Claudia non si mosse, poi, aprì molto lentamente la bocca.
Sorridendo di gioia, la fanciulla, con la mano un po’ tremante, avvicinò il cucchiaio e... la bimba mandò giù subito tutto il boccone.
«Abbiamo un’altra candidata all’assistenza nel momento pappa, a quanto pare» commentò Marcello, palesemente interessato ai risvolti che aveva preso la vicenda. «Non è così, zia Beatrice?»
Nel sentirsi chiamare così, la ragazza rimase a bocca aperta e, dopo essersi scambiata un’occhiata eloquente con il ragazzo, ammise che, in fondo, quell’appellativo non le dispiaceva affatto.
***

Come era stato stabilito, il mattino seguente Vittoria e Beatrice si recarono di buon ora a casa del signor Rossiglione.
Da una parte, la ragazza aveva fretta di incontrarlo, giacché era passato molto tempo dall’ultima volta che l’aveva visto e temeva di essersi persa numerose novità riguardo il suo esame di maturità; dall’altra, però, voleva ritardare quel momento il più possibile, perché, una volta saputo come stavano sul serio le cose, non avrebbe più avuto scusanti.
E, a dire il vero, dopo la domenica appena trascorsa, non aveva molta voglia di apprendere cattive notizie.
Per fortuna però, a quel riguardo, Vittoria era stata molto discreta e si era limitata a fare qualche domanda non troppo specifica. In fondo, anche lei conosceva la signora Claudia ed era stata spesso vittima delle sue ingiurie, quindi era certa che l’avrebbe capita, ma non se la sentiva comunque di rivelarle come era stata trattata.
Perfino con Marcello aveva temporeggiato nel raccontargli come la trattavano a casa, proprio perché preferiva prima rielaborare le cose per conto suo e poi confidarle ad altri. Non voleva la compassione di nessuno, anche se era certa che l’amica non l’avrebbe mai trattata con pietà.
Arrivate davanti al portone del palazzo, dove abitava l’insegnante, situato nei pressi del Parco della Caffarella, Beatrice esitò per una frazione di secondo, prima di suonare.
«Cosa c’è?» domandò Vittoria, preoccupata.
«Ho come il presentimento che siano in arrivo brutte notizie» sussurrò la fanciulla, rabbuiandosi.
«Ma non devi pensare a queste cose, altrimenti vedrai tutto in negativo e ti succederanno davvero cose spiacevoli. Su, ora suoniamo!» disse l’altra con il suo solito entusiasmo, premendo il pulsante dell’interno sette.
Dopo qualche secondo, una voce profonda e parzialmente distorta dal microfono del citofono, anche se non abbastanza da essere riconoscibile, domandò: «Chi è?»
«Professore, buongiorno. Son la Beatrice» disse la ragazza, con tono dimesso.
«Beatrice!» rispose l’uomo, chiaramente meravigliato. «Santo cielo, che fine hai fatto? Sali, cara, sali pure!»
Il portone venne aperto all’istante e Vittoria spalancò altrettanto rapidamente il battente.
«Avanti, dopo di te! E non aver paura, nessuno vuole mangiarti!»
Dopo aver percorso qualche rampa di scale, le due giovani trovarono l’insegnante ad aspettarle, in piedi sulla porta del proprio appartamento.
«Oh, eccoti, finalmente! Sono stato anche a casa tua, ma non mi hanno voluto dire dove fossi finita! Cosa ti è successo?» domandò, piuttosto concitato.
«L’è una storia lunga» spiegò Beatrice. «Perfino io stento a credere che sia vera».
Il signor Rossiglione annuì.
«Dai, entra dentro, così mi racconti. Lei è una tua amica?»
«Esattamente» rispose l’altra, tendendogli la mano con fare affabile. «Sono Vittoria, piacere di conoscerla!»

L’uomo fece subito accomodare le due ragazze sul divano dell’ampio e luminoso salotto, offrendo loro da bere e dei biscotti, scusandosi di non poter offrire loro di meglio, poiché sua moglie, anche lei insegnante, era andata in gita scolastica con la sua classe e non c’era nessuno che sapesse fare la spesa come si deve.
Quando si fu seduto anche lui sulla sua poltrona di velluto blu un po’ spelacchiata, la fanciulla poté finalmente iniziare il suo racconto, andando avanti per una buona oretta e mezza. Fu interrotta soltanto da qualche esclamazione del precettore, a volte di rabbia, altre di disgusto o di angoscia.
«Povera ragazza, non avrei mai potuto immaginare che stessi passando tutto questo!» commentò lui, alla fine.
«Non le han detto proprio niente la mia zia e i mi’ fratello?»
«Assolutamente niente e, comunque, ho incontrato solo la signora Assunta. Anzi, è stato già un miracolo che mi abbia permesso di prendere le tue cose!»
«Le mie cose?» domandò lei, confusa.
«Sì, hanno venduto la villa e hanno traslocato al nord, credo vicino a Pavia. Solo per miracolo, quindi, sono riuscito a portare qui le tue cose» spiegò Rossiglione, pulendo gli occhiali con un fazzoletto estratto dalla tasca della giacca. «Non ne sapevi nulla?»
Beatrice guardò smarrita Vittoria e quest’ultima alzò le spalle, altrettanto incredula.
Nel vedere tanto sgomento, l’uomo mise le mani sulle ginocchia e si diede la spinta per alzarsi.
«Venite con me» disse loro, invitandolo a seguirlo.
Furono condotte entrambe in una piccola stanzetta, dove c’erano un asse da stiro ed una cesta di vimini contenente un mucchio di vestiti ancora da stirare e, nella penombra, non riconobbe subito il paravento e la macchina per cucire che erano appartenute alla contessa Elena, tenuti lì in un angolo.
Vittoria chiese qualcosa a Rossiglione e lui le rispose, ma lei non li sentì, frastornata dalle nuove rivelazioni.
Riuscì a mettere a fuoco gli oggetti molto lentamente, precipitandosi solo in un secondo momento ad assicurarsi che tutti i suoi effetti fossero lì, per rendersi poi conto che parecchie cose erano rimaste a Villa dei Salici, sempre che non fossero state vendute dalle parenti.
«Ovviamente, manca il libro...» sussurrò a bassissima voce, non trovando il prezioso regalo che le aveva fatto Marcello. In effetti, lo aveva nascosto sotto la tavola del doppio fondo dell’armadio, dove era certa che nessuno sarebbe andato a ficcanasare, quindi, se la fortuna era dalla sua parte, aveva ancora qualche possibilità di ritrovarlo.
«Meno male che sei venuta tu, perché io non sapevo proprio dove cercarti. Sono andato a scuola e hanno detto che gli esami preliminari sono stati fissati per il quindici maggio» disse l’insegnante, richiamando la sua attenzione.
«Per il quindici? Ma l’è tra poco più di due settimane!» rispose lei distrattamente, continuando a frugare tra le sue cose e facendone mentalmente l’inventario.
«Purtroppo, Beatrice, non è questo il vero problema» continuò lui, grave. «Vedi, il programma di fisica che portano i tuoi compagni, per scelta del loro professore, è molto più ampio di quello che abbiamo fatto noi».
«E quindi?»
«Il commissario d’esame si adeguerà a loro».
All’improvviso, la fanciulla si fermò, capendo finalmente ciò che le era stato appena detto e si voltò lentamente verso Vittoria e Rossiglione, scorgendo sui loro visi espressioni tutt’altro che confortanti.
«A-Aspettate un momento» balbettò, ancor più confusa. «Questo vuol dire che... che... son rovinata!»



***
Per la revisione di questo capitolo, ringrazio Lady Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la grafica del titolo è opera mia.
Grazie mille anche alla mia Anto che mi consiglia in fase di stesura.
***

[N.d.A]
1. se il Borromini... la fontana: la leggenda si basa, infatti, su un forte anacronismo, giacché la statua è stata scolpita tra il 1646 e il 1651, mentre la chiesa è stata iniziata nel 1652.
2. fraschette: non so se qualcuno già le conosce, sono dei tipici locali che si trovano nella zona dei Castelli Romani, abbastanza “rustici”. Qui vengono servite diverse specialità locali, tra le quali spicca il famoso panino con la porchetta;
3. la canzone di Al Bano e Romina: ovviamente, Marcello sta pensando a Felicità, arrivata seconda al Festival di Sanremo del 1982;
***


Salve!
In un modo o nell’altro, questa storia sta procedendo, lentamente, ma procedendo. Purtroppo vivo in funzione dello studio e per la scrittura ho sempre meno tempo, anche se non è assolutamente mia intenzione lasciare incompleto ciò che ho iniziato.
Ringrazio chi mi ha lasciato una traccia del suo passaggio al capitolo precedente e a chi ha messo la storia tra le seguite/ricordate/preferite.
Se tutto va bene, il prossimo capitolo dovrebbe essere pronto per metà del prossimo mese o giù di lì, comunque, se volete rimanere informati con più precisione, vi invito, come sempre, a fare un salto sulla mia pagina facebook, dove riprenderò a pubblicare estratti dei capitoli futuri e altre cose.
Alla prossima, per chiunque continuerà a darmi fiducia (sarete ricompensati e ne vedrete la fine, ve lo prometto) e a seguire questa storia.
Halley S.C.

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Capitolo 16
*** Capitolo Sedicesimo - Vento di Avversità ***


Vento dell'Ovest - Capitolo 16



- Capitolo Sedicesimo -
Vento di Avversità




L’
invitante profumo dei cornetti caldi proveniente dal corridoio aveva ormai saturato l’aria del suo ufficio, ma il commissario Molinari lo ignorò con stoica fermezza: aveva confidato a sua moglie la volontà di mettersi a dieta (nonché di limitare i caffè giornalieri) ed intendeva onorare la sua parola.
Così, con l’intenzione di arginare la tentazione, chiuse la porta ed aprì la finestra - nonostante fossero le undici di sera - per far cambiare l’aria, riaccomodandosi nella sua postazione, proprio nel momento in cui squillò il telefono.
L’uomo girò immediatamente la testa in direzione dell’apparecchio e lo guardò in cagnesco, non volendo essere disturbato in quel momento precario; tuttavia, poiché non poteva ignorare una chiamata sul posto di lavoro e, sopratutto, doveva essere d’esempio per i suoi sprovveduti sottoposti, che avevano deciso di alleggerire il turno di notte con una retata ad una cornetteria notturna, decise di sollevare il ricevitore.
«Qui Molinari!»
Dall’altro capo del telefono, rispose una voce piuttosto concitata: «Commissario, c’è in linea Tonelli dal San Camillo, ecco, riguarda Martínez... sembra urgente!»
«Passamelo subito, Pontori!» ordinò il commissario, spostando la cornetta all’orecchio sinistro, per lasciare libera la mano destra per scrivere, nel caso ce ne fosse stato bisogno. Poi, altrettanto rapidamente, afferrò una penna dal portapenne davanti a sé ed aprì il bloc-notes ad una pagina pulita.
Fu messo in attesa e, quando il segnale telefonico tornò, non perse tempo per abbaiare: «Saverio, cosa c’è?»
«Commissario, deve venire subito, il magistrato è stato già avvisato!» farfuglò il ragazzo.
«Il magistrato?» domandò, stranito l’uomo.
Socchiuse appena gli occhi, insospettito da quello stato di estrema agitazione che sembrava essersi impossessato dei suoi agenti. Cosa mai poteva essere accaduto di così preoccupante?
«Saverio, non farmi perdere tempo e pazienza e spiegati una buona volta!»
Quello, allora, proseguì concitato: «Non sappiamo come sia potuto succedere! Noi eravamo qui, ci siamo dati sempre il cambio, come aveva detto lei...» 
Molinari sbuffò, picchiettando con forza la punta della penna sul foglio.
«Insomma! Vuoi parlare, sì o no?»
«L’abbiamo piantonato giorno e notte, perciò nessuno potrebbe essere riuscito ad entrare senza essere visto, eppure, poco fa, quando l’infermiera è entrata per cambiare la medicazione...»
«Tonelli, basta! Esigo che tu mi dica subito cosa diavolo stai farneticando!» tuonò, a quel punto, il commissario, alzando la mano che stringeva la penna, la quale, nell’udire finalmente cosa era successo, gli scivolò dalle dita, cadendo a terra.
***

La sedia su cui l’aveva fatta accomodare uno degli agenti che già aveva visto in passato era tutt’altro che confortevole. O, forse, era lei ad essere talmente agitata da non riuscire a trovare una posizione comoda.
«Andrà tutto bene» le disse Marcello, stringendole la mano che teneva appoggiata sulle ginocchia.
Beatrice, allora, sospirò ed annuì, non del tutto convinta: di brutte notizie e di essere costantemente sotto scacco, ne aveva davvero le tasche piene. Perché mai il questore l’aveva convocata? Pensava che non avesse detto tutto, quando la polizia l’aveva liberata? Eppure, non aveva niente di nuovo da aggiungere, giacché, per fortuna, non aveva più avuto modo di rivedere Navarra e i suoi scagnozzi dopo ciò che era accaduto.
Subito dopo, il poliziotto di prima uscì dalla porta di uno degli uffici che si affacciavano sul corridoio e si diresse verso di lei con passo fermo.
«Signorina Tolomei, la prego di seguirmi» le ordinò, con una nota dolce nella voce.
Lei scattò immediatamente in piedi, come se la sedia fosse di colpo diventata bollente.
«Certamente» disse, con un filo di voce, per poi voltarsi verso Marcello in cerca di supporto.
«Ti aspetto qui» le sussurrò lui con dolcezza, mentre le lasciava andare la mano, anche se Beatrice avrebbe preferito che non l’avesse fatto. Perché non poteva andare con lei? Che male ci sarebbe stato a far assistere anche il suo fidanzato all’interrogatorio? Non avrebbe potuto inficiarlo in alcun modo, ma, probabilmente, la sua presenza sarebbe stata semplicemente contraria al protocollo.
«Prego, mi segua: il commissario e il questore la stanno aspettando» la incalzò Sabatini, indicandole con il braccio teso la direzione da seguire.
Rassegnata, Beatrice rivolse un ultimo sguardo al giovane e, trattenendo il fiato, si accinse a seguire il poliziotto.
***

Molinari stava picchiettando nervosamente il tappo della penna contro il ripiano della sua scrivania, tenendosi il mento stretto tra due dita della mano sinistra, fuori di sé per quello che si era verificato la notte precedente e per i dettagli in merito che Tonelli gli stava riferendo proprio in quel momento.
«Il decesso è stato stimato intorno alle due di questa notte o, almeno, così ha detto il medico legale» disse il ragazzo, leggendo gli appunti che aveva preso poco prima di lasciare l’ospedale.
«Sospetti sulle cause della morte?» chiese, allora, il questore, riversandosi all’indietro e mettendo in tensione lo schienale della sedia girevole imbottita su cui era seduto, facendola cigolare all’istante.
«Dalle primissime analisi che sono state fatte, risulta esserci una quantità anomala di potassio nel sangue».
«E questo cosa dovrebbe significare?» latrò Molinari, sentendosi sempre più irrequieto. Quel caso si stava complicando sempre di più! Ne avrebbe mai visto la fine?
Felipe Martínez era morto in circostanze ancora tutte da verificare e ciò non aveva fatto altro che aggiungere altra legna ad un fuoco che si alimentava già da sé, poiché, riguardo al caso Navarra, le perplessità e le domande superavano di gran lunga le certezze. E ora che anche l’unico testimone diretto era stato ridotto al silenzio, con molta probabilità, proprio per evitare che spifferasse qualcosa che non avrebbe dovuto, la situazione non avrebbe potuto far altro che peggiorare.
«Da quello che ho scoperto, commissario, il potassio, in determinate quantità, porta all’arresto cardiaco. È utilizzato soprattutto in cardiochirurgia1» snocciolò l’agente, fiero del livello di approfondimento delle proprie ricerche. «Comunque, il medico legale ha detto che ha bisogno di più tempo per fornirci un quadro più preciso».
«Vorrà dire che aspetteremo. Tuttavia, mi sembra sia evidente già da ora che bisogna indagare nell’ambito del policlinico» disse il dottor Saltarini. «Tonelli, questa è la lista di tutto il personale che era di turno questa notte?» aggiunse, sollevando davanti a sé un foglio A4 battuto a macchina.
«Sì, dottore».
«Molto bene, gli daremo un’occhiata non appena finiremo di interrogare la ragazza. Cosa ne pensa, Molinari?»
L’uomo lanciò la penna sulla scrivania, incurante di farsi vedere mentre perdeva le staffe da un suo superiore, e si alzò in piedi.
«Sono assolutamente d’accordo» fece, muovendo qualche passo per smaltire il nervosismo, ma, proprio in quel momento, qualcuno bussò alla porta.
«Questo deve essere Sabatini. Saverio, fai accomodare subito la signorina Tolomei» ordinò, quindi, perentorio il commissario.
Saverio non se lo fece ripetere due volte ed aprì la porta, lasciando che Beatrice, scortata dall’agente che l’aveva accolta, entrasse nella stanza. Poi le sorrise piuttosto impacciato, ma lei gli riservò un’occhiata commiserevole e passò oltre, facendo scuotere la testa al commissario: era proprio un caso disperato.
«Buongiorno, signorina, come sta?» chiese subito il questore, gioviale, alzandosi dalla sedia girevole e tendendole la mano.
La ragazza la prese e, stringendola timidamente, rispose con un flebile Bene, grazie, dopo di che accolse l’invito a sedersi, mentre i due agenti più giovani si congedavano con un gesto di rispetto ed uscivano dall’ufficio.
«Signorina Tolomei, le presento il dottor Saltarini» esordì Molinari, indicando l’altro: era sicuro che la ragazza l’avesse già capito, ma doveva comunque attenersi ai formalismi.
L’uomo le sorrise rassicurante, tuttavia la fanciulla non accennò a voler abbandonare l’espressione tesa che trapelava dal suo volto.
«Ora, so che non deve essere piacevole per lei, ma... dovrebbe ripeter al dottore tutto ciò che ricorda del suo sequestro» riprese il commissario, cercando di mantenere un tono neutro per non agitarla; ciononostante, la vide sussultare.
D’altra parte, come non comprenderla? Solo lei sapeva che inferno doveva aver passato in quei momenti e, certamente, la ragazza avrebbe preferito dimenticare tutto, anziché riportarlo alla mente, ma la burocrazia imponeva che fosse sottoposta a quell’ennesima tortura.
«Durante la prigionia, non ha mai sentito parlare Navarra e i suoi complici di terzi con cui erano in contatto?» le chiese, con calma, cercando di essere chiaro.
Lei ci rifletté un attimo, socchiudendo gli occhi e serrando le labbra, poi rispose: «No, non mi pare. Anche se... oh, sì, ora che ci penso li ho sentiti parlare di un certo lui».
«Un certo lui?» ripeté Molinari, corrugando la fronte.
Beatrice annuì e aggiunse, convinta: «Sì, ma non ho idea di chi potesse essere, non l’han mai nominato con precisione».
Sorpreso dalla rivelazione, l’uomo si voltò allora verso il questore e i due si scambiarono un’occhiata circospetta.
«Signorina, è sicura di non ricordare altro? Vede, ieri notte siamo stati informati che Martínez è stato assassinato, pertanto ogni dettaglio ci potrebbe essere utile» insistette il commissario.
«A-Assassinato?» balbettò la ragazza, sgranando gli occhi per la sorpresa. Li guardò entrambi e poi divenne improvvisamente pallida.
Nel vedere tale reazione, Saltarini non perse tempo e si alzò in piedi, avvicinandosi a lei.
«Signorina Tolomei, sta bene?» le chiese, preoccupato. «Le faccio portare un bicchiere d’acqua?»
«N-No, grazie. È solo c-che...» balbettò lei, destabilizzata, portandosi una mano davanti alla bocca.
«Oh, no, no, non deve scusarsi, si figuri» si affrettò ad aggiungere l’altro, visibilmente preoccupato per lei.
«Ora capisce perché è importante che ci riferisca ogni dettaglio?» la incalzò, invece, Molinari con veemenza.
«Sì,» rispose Beatrice, in stato di evidente agitazione, «ma io davvero non so che dirvi di più! Ho ripreso conoscenza solo la sera ed il mattino dopo mi avete liberata, non ricordo altro!»
Non ne poteva davvero più di rivivere quegli attimi di puro terrore ed ebbe paura che quei due avrebbero insistito ancora, sperando di cavarle qualcosa che, però, lei non era veramente in grado di riferire.
Fortunatamente, a quel punto, il questore si arrese e, con fare paterno, la rassicurò, dandole due o tre pacchette sulla spalla: «Va bene, basta così, stia tranquilla».
Quindi, si rivolse al suo sottoposto: «Commissario, mi sembra evidente che questa povera ragazza non sappia nulla che possa esserci utile, perciò propongo di rimandarla a casa».
«Ma, dottor Saltarini, non...»
«Suvvia, Molinari! Credo che l’unica cosa che voglia fare la signorina Tolomei ora, sia dimenticare questa brutta avventura, giusto?» le domandò, con inaspettata dolcezza, ma Beatrice annuì appena.
«Può andare, signorina, la ringraziamo per essere stata a nostra disposizione».
La fanciulla, allora, si alzò, tentennando, ma, non vedendo l’ora di uscire, si ricompose rapidamente e si affrettò a raggiungere la porta, oltrepassandola e augurandosi di non dover far più ritorno in quella stanza.

«Dottore, perché ha congedato la ragazza? Non pensa che avrebbe potuto darci altri indizi per scoprire qualcosa?» chiese Molinari, quando quella si chiuse la porta alle spalle, guardando dubbioso il suo superiore, giocherellando nervosamente con la matita, facendosela passare tra le dita.
Saltarini, però, scosse con energia la testa, avvicinandosi lentamente alla finestra.
«No, non credo, commissario. Di fatto, non sapeva niente di davvero rilevante ed io sono contrario a mettere in mezzo degli innocenti senza un valido motivo» spiegò. «Soprattutto, in storie torbide come questa».
Molinari smise all’istante di muovere la matita e si alzò, puntando le mani sul ripiano della scrivania.
«Dunque, lei sospetta che dietro ci sia qualcosa di veramente pericoloso?» avanzò, scrutando attentamente il questore, ma questo impiegò qualche secondo di troppo per rispondere, cosa che lo insospettì fortemente.
«Sinceramente, credo che sia ancora troppo presto per mettere tutte le carte in tavola» rispose, infine, l’altro, senza tradire una particolare emozione.
Il commissario assottigliò lo sguardo, ma non aggiunse altro, appuntandosi mentalmente di studiare meglio il comportamento del superiore in futuro, convinto che gli stesse nascondendo qualcosa di estremamente importante su quel caso.
D’altra parte, per quanto lui stesso trovasse disdicevole dover torchiare una povera ragazza di quasi diciannove anni, sapeva che era un elemento importante per la risoluzione del caso, essendo l’unica testimone che aveva avuto a che fare con lo spagnolo fino a pochi istanti prima della sua fuga. Perché Saltarini non aveva insistito un po’ di più?
«Comunque, la prego di tenermi informato, se la sua squadra dovesse mettere le mani su Navarra e i suoi complici. Voglio saperlo subito!» si raccomandò quello, raccogliendo i suoi effetti e prendendo il cappotto che aveva appeso all’attaccapanni, pronto per congedarsi.
«Come vuole, dottore» rispose Molinari, accennando appena un inchino.
***
«Eccoti, finalmente!» esclamò Marcello, incredibilmente sollevato, quando vide apparire nuovamente Beatrice dopo un’assenza durata appena mezz’ora. «Sinceramente, credevo che ti avrebbero trattenuta di più».
«Oh, il commissario avrebbe voluto, nonostante io non avessi proprio nient’altro da aggiungere a quanto già detto,» gli spiegò lei, invitandolo a seguirla fuori con un cenno della mano, «ma il questore l’è stato più clemente e m’ha lasciata andare».
Il giovane annuì e, poiché aveva a cuore la ragazza, sperò che davvero quella brutta questione si fosse risolta una volta per tutte. Infatti, commentò, seccato: «Mi auguro siano soddisfatti, adesso. Anche perché è il loro lavoro mettere insieme gli indizi e dare la caccia ai delinquenti!»
«Eh» sospirò lei, stanca. Poco dopo, però, parve riprendersi, tanto che suggerì: «Poiché abbiamo fatto presto, che ne dici di passare a salutare la signora Sofia? Vorrei tanto rivederla e son sicura che a lei farà piacere vedere anche te!»
Marcello rifletté per qualche secondo sulla proposta, nell’eventualità che avesse dimenticato qualche appuntamento importante della tarda mattinata, poi, essendo certo di non averne, la accolse positivamente. Così, i due si avviarono in silenzio verso il negozio.
 
Mentre passeggiavano, avvicinandosi sempre di più a Via del Corso, al ragazzo sorse un dubbio e ne rese subito partecipe la compagna: «Con gli esami di maturità alle porte, non credo che vorrai tornare a lavorare tanto presto, giusto?»
«Oh, no!» esclamò Beatrice, scuotendo il capo. «Mi dispiace veramente tanto, ma sarò costretta a spiegare alla signora che, ora, dovrò solo studiare. A dire il vero, non vorrei nemmeno approfittare ancora dell’ospitalità della Vittoria, ma non posso fare altrimenti».
«Stai tranquilla, Vittoria non bada a queste inezie,» la rassicurò lui, «anche perché non vivrai per sempre a casa sua, visto che, prima o poi...»
A quel punto, però, Marcello ammutolì di colpo, fermandosi appena prima di aggiungere “andremo a vivere insieme”.
Infatti, nonostante avesse le più serie intenzioni con lei, pensare al loro futuro insieme lo metteva ancora in agitazione, giacché non riusciva proprio a scrollarsi di dosso gli scrupoli che aveva a causa della differenza di età che c’era tra loro e perciò, finché ci sarebbe stato quell’ostacolo, sapeva bene che non avrebbe mai trovato il coraggio di chiederle di sposarlo.
Dal canto suo, la ragazza non sembrò fare caso a quell’interruzione e rispose con tranquillità: «Lo so, sono tutti gentili con me, ma devo trovarmi un piccolo appartamento in affitto, magari, in periferia, dove costan meno. O anche lì i prezzi sono alti?»
«Qualcosa di decente e ad un prezzo ragionevole si trova» commentò lui, cercando di avere un tono il più neutro possibile.
La fanciulla, allora, sorrise, riprendendo a camminare, e lui la seguì, pensando che, se fosse stato un po’ più intraprendente, molte cose sarebbero andate meglio.

Il familiare tintinnio della porta che si apriva fece sorridere Beatrice, la quale già si immaginava l’espressione sorpresa che le avrebbe riservato la signora Sofia, rivedendola dopo tanto tempo. E, in effetti, l’accoglienza della donna fu talmente festosa che le aspettative della ragazza non rimasero minimamente deluse.
«Oh, Beatrice! Sei proprio tu!» esclamò la sarta, congiungendo le mani e avvicinandosi rapidamente alla ragazza. «Come sono contenta che tu sia passata, fatti abbracciare!»
«Anche per me è un piacere, signora» rispose Beatrice, ricambiando l’affettuosa stretta della donna.
Quella, quando si distaccò, si soffermò per qualche attimo a scrutarla a fondo, probabilmente per cercare qualche segno esteriore che le desse informazioni sulla sua salute.
«Vedo che, tutto sommato, stai bene» commentò, infatti, poco dopo. Poi, gettò un’occhiata oltre la sua spalla e fece, contenta: «Oh, ti sei fatta accompagnare! Come stai, Marcello?»
«Abbastanza bene, grazie. Lei?» le rispose il giovane, accennando un sorriso.
«Bene, bene» replicò la donna, sorridendogli a sua volta e tornando a guardare la ragazza. «Mi sembra incredibile che tu sia di nuovo qui. Quando Gerardo è venuto a dirmi cosa ti era successo, ho creduto di morire di pena!»
A quelle parole, Beatrice assunse un’espressione mortificata: «Oh, mi dispiace averla fatta stare in pensiero».
«Non è certo colpa tua se quel lestofante ha deciso di rapirti» sentenziò, però, la sarta, scuotendo la testa. «Ti siamo tutti affezionati e anche Alessio e Valentina erano preoccupati per te. A proposito, saranno qui tra poco e penso che sarebbero felici di rivedervi entrambi!»
Anche i due ragazzi si mostrarono molto contenti di poter incontrare le due simpatiche pesti, pertanto si accomodarono sul divanetto che la signora Sofia aveva destinato al riposo delle clienti anziane in attesa del loro turno.
Quella mattina, però, il negozio era vuoto e la donna aveva appena finito di fare l’inventario dei nuovi filati appena arrivati, così Beatrice decise di approfittare di quel momento di calma per introdurre il discorso sulla sua forzata pausa lavorativa. Si scambiò un’occhiata con Marcello, il quale, avendo avvertito che la questione era nell’aria, annuì per esortarla ad esporre la sua situazione.
«Signora Sofia...» cominciò, tentennante, giacché temeva di passare per sfacciata, «vorrei chiederle una cosa».
«Dimmi pure, cara» la incoraggiò l’altra, sorridendole con il suo solito fare materno.
La giovane, allora, prese un bel respiro e decise di dire tutto insieme, per evitare di bloccarsi a metà: «Ecco, come sa, quest’anno devo sostenere l’esame di maturità e...»
«Hai bisogno di tempo per studiare e quindi vorresti assentarti per qualche mese dal negozio» l’anticipò, però, l’altra, con tranquillità, senza smettere di sorridere. «Dovevi chiedermi questo, per caso?»
Stupita, anche se non troppo, poiché la signora aveva sempre rivelato di avere un ottimo intuito, Beatrice fece segno di sì con la testa.
«Penso che sia giusto che ora ti dedichi allo studio» affermò la sarta, comprensiva. «Tra l’altro, i sei mesi di prova si concluderanno tra qualche giorno. Se poi vorrai tornare tra qualche mese, vedremo come aggiustarci, va bene?»
«Benissimo, direi» disse Beatrice, soddisfatta della proposta, perché sapeva che, durante i mesi estivi, avrebbe dovuto cercare un altro lavoretto per cominciare a mettere da parte qualcosa, se voleva davvero cominciare ad essere indipendente.
«Anche perché suppongo che, poi, vorrai iscriverti all’università e verresti comunque a lavorare solo per qualche pomeriggio a settimana, come hai finora».
Lì per lì, la ragazza rimase a bocca aperta, giacché non aveva mai pensato di poter intraprendere l’università: finché era stata tenuta sotto scacco dalle parenti, non aveva mai creduto che la zia le avrebbe pagato le tasse universitarie, ma ora, visto che era libera di poter scegliere, decise che avrebbe tenuto seriamente in considerazione l’idea.
«Sarebbe semplicemente perfetto».
«Hai già scelto che facoltà prendere?»
«In realtà no, ma non mi dispiacerebbe qualcosa che abbia a che fare con l’arte» rispose, pensierosa.
«Saresti molto portata» intervenne con un sorriso Marcello, che, fino ad allora, non aveva preso parte alla conversazione, mostrando grande rispetto per lei e le sue decisioni.
La ragazza, allora, si voltò a guardarlo e la sua stima verso di lui crebbe ancor di più - ammesso che potesse farlo -, poiché si era dimostrato non contrario all’istruzione femminile.
In quell’istante, il campanello tintinnò per la seconda volta ed i bambini entrarono nel negozio. Non appena notarono Beatrice, buttarono le cartelle in un angolo e corsero ad abbracciarla, arrivando perfino ad ignorare la madre che, però, non se la prese.
«Beatrice, sei salva!» esclamò Valentina, saltellando contenta. 
«Sapevamo che Marcello ti avrebbe salvata!»
«Veramente, io non ho fatto molto, il merito è tutto vostro che ci avete avvertiti, permettendoci di chiamare subito la polizia» precisò il ragazzo, arruffando affettuosamente i capelli dei due fratelli.
«Siamo stati proprio bravi!» si vantò Alessio, gonfiando il petto. Poi, si rivolse alla fanciulla: «Non ti hanno fatto del male, vero? Altrimenti gliela farò pagare!»
«È andata meglio di come sarebbe potuta andare» tagliò corto lei, stirando un debole sorriso per non far capire loro quanto, in realtà, avesse sofferto.
Il ragazzo le lanciò un’occhiata intensa, ma, con suo enorme sollievo, non aggiunse altro. Beatrice, infatti, sapeva di non avergli raccontato proprio tutto, nascondendogli che Navarra aveva tentato di abusare di lei, anche se era cosciente del fatto che, prima o poi, avrebbe dovuto farlo; tuttavia, la paura, la vergogna e l’orrore che aveva provato per quel momento glielo impedivano.
Per fortuna, Alessio la trasse d’impaccio, cambiando argomento: «Tornerai presto a lavorare qui?» le chiese, guardandola.
«Oh, piccino, mi piacerebbe davvero tanto, ma devo studiare» gli rispose subito lei, sinceramente affranta.
«Anche a te danno tanti compiti?» si informò Valentina, pensando a quelli che doveva svolgere lei.
«Abbastanza. Devo affrontare un esame che mi permetterà di finire la scuola».
«Per finire la scuola bisogna fare un esame?!» esclamò il bambino, sconvolto. «Dovrebbero dare un premio, invece, a chi non è scappato prima!»
I due giovani, di fronte a tanta spontaneità, scoppiarono a ridere di cuore, ma poi la fanciulla, ripensando alla propria disastrosa condizione in fisica ed in matematica, convenne che Alessio non aveva affatto tutti i torti.
***

Nello stesso momento in cui Marcello realizzò che un’ambulanza stava uscendo dal cancello nero di Villa Aurelia, inconsciamente, il suo pensiero andò a suo padre, temendo che si fosse sentito male.
Così, allarmato, bruciò in pochi istanti la distanza che lo separava da casa e, una volta nel giardino, quando vide parcheggiata sul brecciolino la Mercedes 560 SL di Tiberio, fu colto da una tremenda sensazione di smarrimento misto a paura, che gli fece salire i gradini della scala di travertino a due a due.
Entrò, quindi, in casa quasi travolgendo Ottavia, la quale stava piangendo con il viso nascosto in un ampio fazzoletto di stoffa.
«Ottavia, cosa è successo?» le domandò, con il fiatone per la corsa e il cuore che batteva furiosamente per l’angoscia.
«Oh, Marcello... il tuo povero papà...» singhiozzò la donna, stravolta.
Se prima il ragazzo avvertiva il sangue pulsargli nelle orecchie, in quel momento gli parve addirittura che avesse perfino smesso di circolargli in corpo.
«Come sta?» riprovò, ma non ricevendo risposta, incalzò: «Santo Cielo, parla! Cosa diamine gli è successo?»
La governante, allora, si mise a piangere più forte, ma alla fine riuscì finalmente a rispondere: «Sor Giancarlo... ha avuto un malore!»
Rinfrancato almeno in parte dal fatto che suo padre fosse ancora vivo, con quel minimo della lucidità che gli era rimasta, il biondo chiese, con un filo di voce: «Ed ora dov’è?»
«In camera sua. Tuo fratello è arrivato...»
Marcello, tuttavia, non seppe mai cosa avesse aggiunto la donna, giacché non perse tempo e si diresse subito dove gli era stato detto, sperando che l’uomo fosse cosciente e non in condizioni gravi.
Sapeva che il padre non stava bene, poiché lo aveva già notato quando si era rifiutato di mangiare il suo piatto preferito, ma non pensava che la situazione fosse già precipitata!
I corridoi della villa non gli erano mai sembrati così lunghi e, ad ogni passo, il terrore di arrivare tardi crebbe sempre di più. Quando, infine, aprì la porta e si lanciò nella stanza, vide solo il signor Giancarlo sul letto, sostenuto da una pila di cuscini, e si mise in ginocchio davanti a lui. Tuttavia, prima che potesse fargli anche solo una domanda, qualcuno cominciò a sbraitare: «Si può sapere dov’eri?!»
Il giovane, allora, si voltò e vide che suo fratello lo guardava con odio misto a disgusto, tenendo la mano di sua madre, seduta sotto shock accanto a lui.
«Non sono affari tuoi!» gli ringhiò contro, ricambiando l’occhiataccia.
«Invece sì, che lo sono!» berciò Tiberio, con occhi fiammeggianti dall’ira. «Papà si è sentito male e non sapevamo dove diavolo fossi!»
«Stavo comunque ritornando!» ribatté con forza Marcello, deciso a non farsi prevaricare dall’altro, che stava meschinamente approfittando di quel momento precario per fare il prepotente.
«Finitela!» intervenne a quel punto la Matrona, muovendo il braccio con un gesto secco. «Nemmeno davanti a vostro padre in queste condizioni avete un po’ di riguardo?»
«Lasciali fare, è il loro modo di scaricare la tensione» mormorò, invece, flebilmente il signor Giancarlo, forse per cercare di sdrammatizzare e di evitare che i suoi figli arrivassero alle mani.
Allora, il maggiore si alzò in piedi e si avvicinò al letto del padre con incedere sicuro, dichiarando perentorio: «Chiamo subito il professor Spadoni, è primario di medicina interna al policlinico Gemelli!»
«No, no, non ti preoccupare, non ne ho bisogno. In realtà...» replicò a fatica l’uomo, ma venne interrotto prima che potesse finire la frase.
«Sciocchezze, papà! Tu hai bisogno di un ottimo medico!» insistette Tiberio.
«Perché non lo lasci parlare?» lo rimbrottò, allora, Marcello, senza celare il suo disprezzo.
Così, l’altro non si lasciò sfuggire l’occasione per attaccare nuovamente il fratello e, dopo averlo incenerito con lo sguardo, latrò: «Ancora hai il coraggio di fiatare? Cosa hai fatto da stamattina tu per nostro padre? Niente! Io sono arrivato subito, io mi sono preoccupato per lui!»
Il biondo aprì la bocca per replicare, ma l’altro non glielo lasciò fare, rincarando invece la dose.
«Sei inutile, basto io! Tu tornatene da quella sciacquetta con cui ti stavi divertendo!» aggiunse e tali parole ebbero il potere di ridestare la signora Claudia dallo stato di prostrazione nel quale era caduta dopo il malore del marito.
Infatti, la donna si sistemò sulla sedia, raddrizzando la schiena e, con le mani in grembo, si apprestò a dare la sua sentenza: «Sul serio eri con lei, Marcello? Non ti è bastata la lezione che ti ho dato? Ancora stai perdendo tempo con quella? È solo una mocciosa, non ti vergogni ad andarle dietro alla tua età
Il giovane, già minato da ciò che era successo a suo padre e, per giunta, colpito nel suo punto più debole, non riuscì a trovare le parole per ribattere e dovette subire l’affondo della madre, senza alcuna possibilità di difendersi. Guardò prima l’uno, poi l’altra, sentendosi montare la collera dentro, ma non riuscì a tirarla fuori e a rispondere loro per le rime.
Tuttavia, tale offesa non passò inosservata.
«Claudia, Tiberio, adesso basta!» tuonò, infatti, poco dopo il signor Giancarlo che, nonostante fosse seriamente provato, dimostrò di avere il polso necessario per rimettere in riga sia la moglie che il figlio maggiore. «Sono in grado di cercarmi da solo un medico come, appunto, ho già fatto! E, comunque, in mia presenza, vi proibisco di insultare quella povera ragazza!»
Madre e figlio maggiore guardarono in cagnesco padre e figlio minore, i quali, a loro volta, risposero con una fredda occhiata. Sembravano davvero quattro statue di sale, ferme e rigide, ma, a quel punto, l’uomo interruppe il silenzio con un annuncio che li sconvolse profondamente.
«Ho un linfoma2» spiegò, voltandosi verso la finestra. «Allo stomaco».
Istantaneamente, nella stanza la temperatura sembrò scendere sotto zero.
Stravolto dall’inquietante rivelazione, Marcello spalancò gli occhi: aveva sentito parlare di quel male, ma non aveva idea di cosa fosse nello specifico e sapeva solo che, se lo avessero trafitto a morte, in quel momento, non ne sarebbe uscita una sola goccia di sangue.
«Perché... perché non ce l’hai detto prima?» farfugliò, senza nemmeno rendersi bene conto di cosa stava dicendo.
«Volevo prima esserne certo» replicò il padre, sorprendentemente tranquillo.
la signora Claudia, invece, pallida come uno straccio, fissava il marito senza realmente vederlo, come se fosse rimasta completamente paralizzata. Infatti, solo Tiberio riuscì ad articolare qualcosa di vagamente sensato.
«Papà, permettimi di chiamare il professor Spadoni, ti garantisco che...»
«Tiberio, no!» disse il padre, con tono fermo. «Ho già parlato con un mio amico, il dottor Conti, che mi ha messo in contatto con il professor Weinberger di Zurigo. L’operazione è già stata fissata».
«Operazione?» ripeté Marcello, che, ad ogni secondo che trascorreva, capiva sempre meno.
Il signor Giancarlo si sistemò meglio i cuscini su cui si era appoggiato e, dopo esservi riadagiato sopra, alzò le spalle per poi spiegare la situazione, come se non lo riguardasse: «La faccenda è seria, perciò bisogna agire piuttosto in fretta».
«Io... io ho bisogno d’aria» gracchiò a quel punto la signora, scioccata. «Tiberio... figlio mio, ti prego... ac...accompagnami fuori».
«E papà?» domandò l’altro, confuso. «Mamma, papà non può...»
«Rimarrà Marcello» propose l’uomo, abbozzando un sorriso in direzione del figlio maggiore. «Tu occupati di tua madre, per favore».
Allora, barcollando, il ragazzo si mosse in direzione della madre e, dopo esser riuscito con grande fatica a rimetterla in piedi, le circondò le spalle con un braccio e la condusse lentamente fuori, mormorandole, di tanto in tanto all’orecchio qualche frase sconnessa.

Incredibilmente, l’unico che in quell’occasione sembrò aver conservato un certo senno, fu proprio quello che sarebbe stato giustificato se lo avesse perso.
«Ti va di sederti qui, come quando eri piccolo?» fece il signor Giancarlo, all’indirizzo di Marcello, indicandogli il punto del materasso dove avrebbe potuto accomodarsi e il giovane, quasi senza rendersene conto, lo assecondò.
Tuttavia, passarono ancora alcuni minuti in silenzio, durante i quali il biondo, fissando il pavimento di marmo grigio, cercò di dare ordine ai propri pensieri, seguendo le venature più scure della pietra per non perdere il filo; talvolta, però, accadeva che una di esse si intersecasse con un’altra, scompigliandoli di nuovo e costringendolo a ricominciare da capo. Si chiese più volte se quello fosse un brutto sogno e se stesse accadendo proprio a lui, dato che gli sembrava una situazione talmente assurda da sentirsi alienato perfino da se stesso. O forse era solo una difesa della sua mente, che voleva allontanarsi da tanto dolore.
«Ecco perché non hai mangiato la parmigiana!» disse ad un certo punto, aggrappandosi ad un ricordo lontano, ma chiaro e ben delineato.
«Sapevo che quel particolare non ti sarebbe sfuggito, non sei certo ottuso come tuo fratello» cercò di scherzare il padre, stiracchiando debolmente le labbra. «Comunque, non facciamone una tragedia prima del tempo. Odio avere intorno musi lunghi, come se fossi già morto!»
Finalmente, sentendo quelle parole, Marcello ebbe una piccola reazione ed alzò di scatto la testa verso il padre, guardandolo negli occhi.
«Ma...» tentò di protestare.
«Preferisco che sia così» concluse l’uomo con un tono che non ammetteva repliche.
Rimasero ancora in silenzio per qualche minuto durante i quali il ragazzo cercò di tornare a seguire le venature del pavimento, ma, questa volta, l’espediente non servì a molto, perché nella sua testa, continuarono a vorticare pensieri senza senso.
Alla fine si arrese, scivolando anche lui nell’apatia, nonostante la parte di lui ancora vigile lottasse con tutta se stessa per spronarlo a stare vicino al padre.
«Dovresti chiederle di sposarti» disse proprio questi all’improvviso e il giovane lo osservò, sbattendo le palpebre.
Di chi stava parlando? Cosa c’entrava lo sposarsi con tutto quello? Pian piano, però, riaffiorò in lui il ricordo di Beatrice e fu come se un po’ di luce fosse entrata in quella stanza cupa: lei era qualcosa di troppo bello per essere mischiato con quella fitta al cuore che continuava a rendergli difficile persino respirare.
Non ricevendo risposta, il signor Giancarlo insistette: «Volevo dirtelo da diverso tempo e, per quanto ti possa sembrare strano, questo è proprio il momento migliore per ricordarti che devi chiederle di sposarti».
Ovviamente, allora Marcello non capì cosa volesse dire suo padre: quelle parole, però, gli sarebbero tornate spesso alla mente negli anni a venire e, poco alla volta, ne avrebbe colto il vero significato.
«È troppo piccola e troppo vivace per me. Inoltre, non si sa come potrebbe andare il tuo intervento» si ritrovò a rispondere, non filtrando più nessuna delle paure che gli si agitavano dentro e dicendo la verità.
L’uomo, allora, gli poggiò una mano sulla testa, sorridendogli in maniera così dolce che il figlio, avvertì un altro taglio sanguinante aprirsi nel suo cuore. Come avrebbe fatto senza suo padre?
«Marcello, in qualunque modo dovesse andare, la mia vita, nel bene e nel male, l’ho fatta» replicò, allora, il signor Giancarlo, con disarmante e semplice serenità. «Qui si tratta delle tua e di quella della tua futura compagna».
Fece appena una pausa, come per essere sicuro che il giovane stesse assimilando le sue parole, poi proseguì: «E non prestare attenzione a quello che dice tua madre, perché tu e Beatrice siete tutte e due abbastanza maturi per decidere del vostro destino
. Promettimi che seguirai il mio consiglio e le chiederai di sposarti, perché non troverai un’altra ragazza così».
Marcello sospirò e, intuendo che c’era davvero qualcosa di saggio in quell’impegno preso, poco prima di abbracciarlo stretto e lasciare che lacrime silenziose gli rigassero le guance, gli sussurrò: 
«Te lo prometto».
***

Ogni singola cosa di quel corridoio, dalle mura bianche e spoglie, al pavimento di marmo crivellato dal tempo, fino alla fioca luce che filtrava da finestre troppo strette, le trasmetteva l’idea di rigore e sterilità.
Beatrice sentì un’improvvisa voglia di scappare, ma, dopo aver supplicato la guardia carceraria di farle vedere Guido nonostante non fosse orario di visita, si trattenne dal fare dietro-front e correre lontana dal carcere. Non riusciva davvero ad immaginare come i detenuti potessero resistere là dentro, anche se dovevano aver fatto 
qualcosa di male per trovarsi lì; e se tra loro ci fosse stato qualche innocente ingiustamente condannato? Avrebbe pazientato di essere assolto e, quindi, scarcerato? E se, invece, la sentenza che lo avrebbe liberato, per un qualche errore umano, non fosse mai arrivata?
A questi pensieri, la ragazza rabbrividì e si affrettò a raggiungere l’agente di polizia che, avendo il passo più lungo del suo, l’aveva distanziata di un bel po’.
Ben presto, arrivarono davanti ad una pesantissima porta scura di metallo e, allora, l’uomo le disse: «Signorina Tolomei, io l’aspetterò qui. Dentro troverà il detenuto e altri poliziotti che assisteranno al colloquio, per ragioni di sicurezza».
Poi, infilò la chiave nella serratura e la fece scattare con un gran frastuono che quasi spinse Beatrice a tapparsi le orecchie.
«Non più di un quarto d’ora» fece la guardia, imperativa. «Abbiamo già fatto un’eccezione».
La fanciulla annuì, balbettando un ringraziamento, ed oltrepassò la soglia, ritrovandosi in una grande stanza con le pareti bianche e spoglie, esattamente come in corridoio. Nel mezzo c’era un lungo tavolo che andava da parte a parte, fissato su un battente e sormontato da una spessa lastra di vetro per impedire qualunque contatto tra i visitatori e i detenuti; accanto ad esso, da entrambe le parti, c’erano anche degli sgabelli, ordinatamente sistemati ed equidistanti l’uno dall’altro.
Beatrice rimase in piedi, in attesa, guardando quell’ambiente come se si aspettasse che, abituandosi, potesse sembrarle migliore, tuttavia, accadde l’esatto contrario e questo le parve sempre più gelido ed alienante.
Guido arrivò dopo qualche minuto, ammanettato e scortato da due uomini in divisa, alti e massicci come due armadi. Vederlo così, però, non le fece molto effetto, anzi, pensò che i due energumeni fossero anche troppo per uno come lui, per nulla pericoloso o incline alla ribellione. D’altra parte, nemmeno il giudice aveva stabilito una qualche disposizione restrittiva, considerandolo, probabilmente, solo un idiota che si era andato ad invischiare in qualcosa più grande di lui. Non che avesse torto, in effetti.
Subito dopo, una delle due guardie tolse le manette al ragazzo e, dopo averlo afferrato per una spalla, lo condusse malamente ad uno sgabello posto più o meno a metà del tavolo, costringendolo a sedersi. Dopodiché, fece un brusco cenno del capo a Beatrice, invitandola ad accomodarsi di fronte al fratello, e fu a tal punto che si rese conto che il naso di lui sembrava guarito. Peccato, Marcello avrebbe potuto fargli più male...
«Tolomei, non fare scherzi, ché poi farai i conti con noi. Hai solo qualche minuto, quindi fallo fruttare bene!» lo minacciò, lasciandolo andare, non senza prima, però, di avergli dato un altro strattone. Poi, si allontanò, prendendo posto accanto al suo collega, senza tuttavia distogliere mai gli occhi da Guido.
Questo, dopo aver lanciato un’occhiata carica di risentimento al suo carceriere, si voltò in direzione di Beatrice e la fissò in cagnesco per qualche secondo, prima di dirle, velenoso: «Ti se’ ricordata d’avere un fratello!»
La ragazza ricambiò l’occhiata con distacco, senza lasciarsi impietosire dalle pessime condizioni in cui versava il giovane: pallido, con profonde occhiaie e piuttosto sciupato.
«Dopo quel che m’hai fatto, dovresti solo ringraziarmi d’esser venuta a trovarti!» replicò lei, seccata da tanta arroganza, poichè lui si trovava in quel pasticcio solo ed esclusivamente per colpa sua. A quel punto, fece per alzarsi, risoluta ad andarsene, ma il ragazzo si alzò in piedi a sua volta, poggiando le mani contro il vetro.
«Tolomei, ritorna al tuo posto!» riecheggiò subito minacciosa la voce della guardia.
Guido, allora, si guardò appena indietro, ma ubbidì e si risedette. Beatrice lo seguì, come se quel comando fosse stato rivolto anche a lei.
«Ti prego, Cicci» la implorò il fratello, divenuto improvvisamente più mansueto. «Scusami, ma qui l’è tutto orribile! L’avvocato d’ufficio che m’hanno assegnato l’è un’incompetente abissale. Ed è anche brutta!»
Infastidita da quel commento superfluo, poiché riteneva che l’aspetto fisico non influisse minimamente sulle capacità di una persona, la fanciulla commentò, acida: «Vedo che star qui non t’ha insegnato proprio niente. Tu sta’ toccando il fondo e ancora t’ostini a giudicar le persone, o meglio, le ddonne, dal loro aspetto!»
Il giovane non ribatté, roteando gli occhi e lasciandosi scivolare addosso quel rimprovero, come se non lo trovasse sensato o pertinente.
Tuttavia, Beatrice non si arrese e continuò a riprenderlo: «Comunque, dopo quel che hai combinato, non potevi certo sperar che fossero tutti clementi con te».
Sentendo quelle parole, lui la guardò, stralunato, e fece, indicandosi: «I’ non ho fatto nulla!»
«Certo che no!» replicò la ragazza, sarcastica. «Infatti, complottare con Navarra alle mie spalle è nulla!»
Guido sbuffò, appoggiando le mani sul ripiano e allontanando il busto da esso, come per dire che Beatrice stava ingigantendo le sue colpe, ma, nuovamente, lei non si diede per vinta e riprese: «Guardati, ora. Tu sei qui e lui è libero: bell’intuizione hai avuto, nel metterti in affari con lui!»
Seguì qualche secondo di silenzio, in cui il ragazzo si mostrò alquanto inquieto, grattandosi la nuca e scuotendo ripetutamente la testa. Infine, si decise a parlare, rivelando qualcosa che la ragazza non avrebbe mai potuto immaginare: «Beatrice, se non esco di qui, perderemo la casa della nostra mamma» mormorò.
La sorella, allora, lo guardò sbigottita, aprendo appena la bocca.
«Cosa?» domandò.
Dopo aver lanciato l’ennesimo sguardo in direzione dei suoi carcerieri, Guido si fece quanto più vicino potesse e, dopo aver abbassato la voce, disse: «Ascoltami bene, Beatrice... L’ultima volta che ho sentito Pierpaolo, m’ha detto che la produzione delle olive era ormai ridotta a zero e che quindi, se non andrò ad aiutarlo, molto probabilmente dovrai vendere la villa ed i terreni in nostro possesso».
La notizia lasciò la ragazza alquanto perplessa, poiché, nonostante non si fosse mai interessata direttamente agli aspetti economici della loro tenuta in Toscana, quella rivelazione stonava alquanto con quello che aveva sempre detto suo padre.
«Finché era in vita il babbo, Pierpaolo è stato un amministratore oculato e i terreni han sempre avuto un’ottima rendita... cosa è successo, adesso?»
«Non so» rispose l’altro, alzando le spalle. «Tra l’altro, da quando sono qui, non ho più avuto modo di sentirlo. Avevo proprio sperato che tu sposassi Navarra, così che potesse aiutarci nel risollevare le sorti dei terreni...»
«Gran bell’aiuto!» commentò lei, sprezzante.
Improvvisamente, Guido appoggiò i gomiti sul ripiano e, fattosi ancor più vicino fino quasi ad incollarsi al vetro, propose: «Perché non chiedi al tu’ innamorato di prendermi un avvocato migliore? Certamente ha le conoscenze ed il denaro necessari».
Indignata da quelle parole e dall’atteggiamento del fratello, Beatrice insorse: «Con quale coraggio mi chiedi queste cose?!»
«Se non mi vuoi aiutare, allora preparati a tornare a Marciana Marina3 come ospite e non più come padrona» cantilenò il giovane, socchiudendo appena gli occhi grigi, che tradivano la (vana) speranza di avere un certo ascendente sulla sorella.
«Altrimenti, ora che tu se’ la passerina del Tornatore, ffatti aiutare da lui, a salvare le proprietà. Non l’è forse il suo lavoro giocare con i capitali?» concluse, rivolgendole un sorriso beffardo.
Beatrice pensò che, se non ci fosse stata quella lastra di vetro a dividerli, gli avrebbe volentieri fatto un occhio nero e, a giudicare dall’inquietudine che si era creata dalle guardie, poteva scommettere che le avrebbero persino dato una mano. Già si era abbassata ad andarlo a trovare, facendo prevalere l’istinto fraterno su tutto il resto, perciò non aveva nessuna voglia di essere insultata in quella maniera. Senza contare che Guido era stato irrispettoso anche nei confronti di Marcello.
«Avrei potuto impiegar meglio il mio tempo, piuttosto che venire qui!» gli sibilò, inviperita. «Nemmeno il carcere ti sta insegnando ad esser più umile!»
Quindi, si alzò, infuriata, e, nonostante le suppliche del fratello perché restasse, uscì in fretta da quell’asettica stanza, lasciando lì lui e le sue stupide scuse.

Mentre si allontanava in tutta fretta da Rebibbia, furibonda per la strafottenza, assolutamente fuori luogo, mostrata dal fratello, Beatrice ebbe modo di riflettere in maniera più accurata su quello che lui le aveva detto in merito alla loro villa sull’Isola d’Elba. Non conosceva i dettagli della loro situazione economica, ma le sembrava davvero strano che, di punto in bianco, le cose stessero andando così male e, sinceramente, riteneva che Guido non avesse le giuste capacità per gestire nessun terreno.
Inoltre, sul ruolo di Pierpaolo, che era stato il braccio destro del conte Tolomei nell’amministrazione delle rendite di Villa Paolina, rimaneva un grande punto interrogativo, poiché non lo vedeva da parecchio tempo e non aveva mai parlato con lui del lato economico della loro tenuta.
Decisamente, a quel punto a Beatrice sembrò che l’unico modo per avere chiara l’intera faccenda fosse recarsi sul posto ed andare a vedere di persona, magari coinvolgendo Marcello, che, in materia, era certamente più scaltro di lei. Ovviamente, non per fare un favore a Guido, quanto perché quella villa rappresentava uno dei pochi luoghi in cui era stata felice e di cui conservava bei ricordi, pertanto le sarebbe davvero dispiaciuto se la situazione fosse precipitata a tal punto da essere costretta a vendere tutto. Fino a prova contraria, l’intestataria dell’intera proprietà era lei, essendo un lascito che le aveva esplicitamente fatto sua madre poco prima di morire e non si sarebbe di certo arresa alle prime difficoltà.
Doveva solo trovare il momento giusto per condividere con lui tutte le sue perplessità, certa che non l’avrebbe abbandonata in quel momento precario. A quel pensiero, sorrise, grata di aver trovato un ragazzo che potesse supplire perfettamente a tutte le mancanze, di qualunque genere, che, invece, le aveva sempre riservato il fratello: Marcello, infatti, si era sempre mostrato partecipe, efficiente e premuroso nei suoi confronti, diventando per lei il punto di riferimento che, dopo la morte dei suoi genitori, le era mancato.
Messa di buon umore da quella considerazione, Beatrice guardò distrattamente l’orologio e, resasi conto di aver fatto piuttosto presto, decise di passare per Villa dei Salici per vedere come fosse ridotta ora che le parenti erano andate via dalla città e, soprattutto, per cercare di recuperare il prezioso regalo che le aveva fatto il suo fidanzato.

L’esterno della villa, ormai svuotata di tutti i suoi inquilini, le sembrò ancor più fatiscente di come lo ricordava, nonostante fossero passate solo poche settimane da quando ancora abitava lì.
Il cancello, arrugginito e cigolante, non si oppose per nulla alla sua spinta e si aprì subito, lasciandole libero il passaggio verso il giardino, ormai pieno di erbacce ed ortiche, che la ragazza fece attenzione ad evitare per non avere spiacevoli incidenti.
Una volta che ebbe salito le scale, si rese conto che la porta della cucina era aperta, segno che la casa era davvero abbandonata, e si chiese se fosse già stata venduta o se qualcuno si fosse incaricato di trovare un acquirente, sempre ammesso che esistesse un tale intenzionato a comprare quella catapecchia. L’interno le si rivelò buio ed umido e le stanze, ormai piene di ragnatele e con la carta da parati quasi completamente scrostata e private di gran parte del mobilio, dato che, ovviamente, i pezzi migliori erano stati portati via, sembravano davvero la scenografia perfetta per un film dell’orrore.
All’improvviso, un rumore proveniente dalla sala la fece sobbalzare e, ad un primo impatto, la ragazza fu sul punto di tornare indietro, ma, alla fine, prevalse la volontà di recuperare a tutti i costi il libro che le aveva regalato Marcello, così, dandosi da una parte della sciocca per non essere fuggita e facendosi coraggio dall’altra, si avvicinò in punta di piedi alla porta del salotto, ripromettendosi di dar solo un’occhiata e di scappare a gambe levate se avesse intuito un qualche pericolo. E, quando entrò, il fatto che le finestre fossero aperte e ci fosse un po’ più di luce, fu preso dalla ragazza come un buon segno.
Infatti, la fortuna volle che, lì, ci fosse una sua vecchia conoscenza, per giunta più che felice di rivederla.
«Signorina Beatrice!» la salutò Bettina, la vecchia cameriera, che stava cercando di pulire alla bell’e meglio il pavimento incrostato, non appena la vide. «Non credevo che l’avrei mai più rincontrata!»
«Oh, cara Bettina!» esclamò la fanciulla, avvicinandosi alla donna per abbracciarla.
«Cosa ci fa qui?» le domandò l’altra, prendendole il viso tra le mani e dandole qualche carezza, probabilmente ricordando che, al contrario delle sue parenti, con lei la ragazza era sempre stata buona.
«Sono venuta a cercare di recuperare delle cose che ho lasciato qui».
«Cerchi pure, signorina, ma non so se troverà qualcosa» mormorò la cameriera, pensierosa. «Lei non può saperlo, ma questa casa è stata venduta ad un ricco proprietario di alberghi che vuole trasformarla in una graziosa pensione esclusiva!»
«Ah» fece Beatrice, sorpresa. Il suo insegnante le aveva accennato qualcosa, ma, evidentemente, non doveva essere al corrente di tutti i dettagli.
«Per questo stavo pulendo» proseguì la donna. «Il signor Maneschi, il nuovo proprietario, mi ha chiesto di dare una sistemata. Sa, la prossima settimana verranno i muratori per iniziare la ristrutturazione e devono trovare un po’ più d’ordine».
La fanciulla stava quasi per augurarle buona fortuna, ma riuscì a trattenersi in tempo.
«Se lei vuole dare un’occhiata in giro, si senta libera di farlo, tanto ci sono solo io. Il suo vecchio letto e il suo armadio non sono stati portati via da sua zia, perché troppo pieni di tarme, ma devo avvertirla che hanno preso tutti i suoi vestiti, vendendoli al mercato».
A questa rivelazione, Beatrice sentì il sangue congelarsi, provando un dispiacere non indifferente nel sapere che la zia e la cugina le avevano tolto anche quello che si era fatta con le sue mani, per di più guadagnandoci. Non che avesse mai creduto che quelle due potessero avere rispetto per il suo lavoro, anzi, poteva immaginare perfettamente i commenti disgustati che dovevano aver fatto mentre saccheggiavano il suo armadio, considerando il ricavato di gran lunga inferiore a ciò che avevano dovuto sborsare per lei. 
«Per fortuna, il signor Rossiglione è riuscito a salvare parecchie cose da quella razzia» commentò Bettina a quel punto, sinceramente contenta che l’uomo si fosse trovato a passare da lì proprio mentre la signora Assunta stava facendo l’inventario delle cose di cui sbarazzarsi, tra le quali, appunto, c’erano molte cose appartenenti a Beatrice.
La fanciulla sorrise appena a quelle parole e, dopo aver ringraziato la donna, la salutò e tornò in corridoio. Poi, salì di corsa le scale, con il cuore in gola, pregando davvero che il suo nascondiglio non fosse stato profanato. Arrivata in camera, aprì con un calcio il vecchio armadio e non le importò nulla quanto l’anta, ormai mangiata dalle tarme, si staccò, cadendo a terra e sollevando un gran nugolo di polvere. Vedere l’interno completamente vuoto, le provocò una stretta allo stomaco: tutto il suo lavoro, i vestiti che si era cucita con tanta gioia non c’erano più e, nonostante Bettina l’avesse avvisata, di fronte a ciò non riuscì a non provare un profondo dispiacere, soprattutto perché, tra la refurtiva, c’erano anche il meraviglioso abito blu che le aveva regalato la signora Sofia e il vestito che aveva indossato la prima volta che aveva incontrato Marcello, dopo l’ennesimo assalto di Navarra.
In quel momento, fu solo il pensiero che il doppio fondo dell’armadio non fosse stato violato ad impedirle di piangere quando, dopo essersi inginocchiata, si adoperò per rimuovere la tavola di legno che celava alla vista il suo nascondiglio segreto.
La gioia che provò nell’accorgersi che sia il libro che il soprabito lilla erano ancora lì, impolverati, ma integri, fu indescrivibile: mentre li prendeva in mano si accorse che stava tremando e, dopo esserseli stretti al petto, rimase così per un quarto d’ora buono.
Fu solo quando sentì di aver recuperato un po’ di stabilità, che si rimise in piedi, sempre stringendo a sé i suoi tesori, senza curarsi del fatto che fossero pieni di polvere, e scese nuovamente le scale; questa volta, però, passò per il giardino sul retro, poiché voleva salutare per l’ultima volta il suo glicine, l’unica cosa che le era mai piaciuta di quella casa.
Tuttavia, ebbe un’altra amara sorpresa: l’albero era stato barbamente tagliato e tutto ciò che rimaneva era solo un povero ceppo spoglio, buttato in un angolo accanto alla siepe di alloro.
Beatrice, intristita, si avvicinò subito ai resti del suo amico, deplorando il nuovo proprietario che, probabilmente, non l’aveva gradito, sbarazzandosene senza il minimo rimpianto.
In quel momento, una fresca brezza primaverile le mosse appena i capelli e si rese conto di non avere davvero più alcun legame con quella villa che, per lei, era stata più simile ad una prigione che una casa ed avvertì che, nel bene e nel male, un capitolo della sua vita si era appena chiuso definitivamente.






***
Per la revisione di questo capitolo, ringrazio Lady Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la grafica del titolo è opera mia.
Grazie anche alla mia Anto, che mi sostiene e supporta anche nei momenti di buio.
***


[N.d.A]
1. il potassio... in cardiochirurgia: il potassio, essendo un inibitore della contrazione cardiaca, viene usato per rallentare i battiti cardiaci e, quindi, agevolare i chirurghi durante gli interventi che vengono fatti direttamente sul cuore (es. sostituzione di valvole).
2. linfoma: il signor Giancarlo è affetto da un linfoma gastrico, un tumore maligno che colpisce i linfonodi di drenaggio dell’apparato digerente (in particolare, dello stomaco). I sintomi sono del tutto sovrapponibili a quelli di un tumore allo stomaco.
3. Marciana Marina: uno degli otto comuni in cui è divisa l’Isola d’Elba e dove si trovano le proprietà della famiglia di Beatrice.
***

Salve a tutti!
A parte scusarmi per le mie assenze prolungate e per la velocità da bradipo con cui aggiorno questa storia, posso provare a promettere di non far passare più cinque mesi tra un capitolo e l’altro, anche perché, parafrasando Manzoni, potrei dire che, ormai, questa storia s’ha da finire. Soprattutto, perché, t
ra gli obiettivi del 2016, c’è anche quello di terminare questo racconto, nonché quello di portare alla luce la prossima long (ambientata, questa volta, ai giorni nostri).
Spero di aver usato tutto il riguardo possibile per trattare la tematica dei malati di cancro, giacché, da futuro medico, non posso non schierarmi contro i (tremendi) cliché della letteratura odierna e poi scrivere qualcosa di peggiore, non trovate? Ergo, se qualcuno dovesse trovare qualcosa da ridire, sa dove trovarmi.
Ringrazio chi ha recensito lo scorso capitolo (Anto, Aven, 21century, Juliet Leben22, McSevenNaught, Chambertin), i pochi superstiti che ancora seguono questa storia, chi l’ha messa tra le seguite/ricordate/preferite, chi mi farà avere un suo parere prossimamente.
Per qualsiasi cosa (info, anticipazioni, estratti, eccetera), vi lascio, come sempre, il link alla mia pagina facebook.
Alla prossima!
Halley S. C.

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Capitolo 17
*** Capitolo Diciottesimo - Vento di Decisioni ***


Vento dell'Ovest - Capitolo 18



- Capitolo Diciottesimo -
Vento di Decisioni




D
all’alto del Gianicolo si iniziarono ad intravedere le prime luci dell’alba che, con le loro tinte dal rosa all’arancio, sembravano risvegliare dolcemente case e monumenti, tra i quali spiccavano le imponenti moli di Castel Sant’Angelo e della cupola di San Pietro.
Marcello era seduto a gambe incrociate su uno dei muretti che delimitavano la strada e guardava dritto davanti a sé, immerso in una sorta di dormiveglia che gli impediva di ammirare l’incantevole bellezza di quel panorama. Infatti, non appena erano rintoccate le quattro di mattina, aveva smesso di fissare il soffitto ed era letteralmente scappato da casa, non volendosi trovare lì quando sarebbe arrivata la telefonata che gli avrebbe comunicato il verdetto dell’operazione di suo padre.

Se non fosse stato tanto presto e la palestra del signor Nardone non fosse stata chiusa, sarebbe volentieri andato a prendere a pugni il sacco da boxe, ma, in mancanza di questa possibilità, aveva deciso di ripiegare su qualcos’altro: correre finché non sarebbe crollato a terra sfinito.

Anche se non sapeva se quel desiderio di fuga e di auto-annullamento era dovuto a codardia o meno, era certo di non essere pronto a ricevere nessun tipo di notizia, buona o cattiva che fosse, poiché si sentiva una mina vagante pronta ad esplodere al minimo urto.
Ancora una volta furono alcune campane a ridestarlo dal torpore in cui era caduto, facendogli riacquistare finalmente sensibilità alle gambe, indolenzite per la scomoda posizione che aveva assunto per tanto tempo. A quel punto, notando che cominciava ad esserci un maggiore via vai di gente, decise di rimettersi in moto e scendere dal colle per raggiungere il Lungotevere in Sassia, affrettandosi a lasciarsi alle spalle la fiumana di gente diretta verso il Santo Spirito1 e sperando che nessuno lo fermasse per chiedere indicazioni, visto che, quella mattina, non era molto ben disposto verso le relazioni interpersonali.
Tuttavia, sentendo il bisogno fisico di stare in movimento, Marcello evitò di prendere mezzi pubblici per tornare a casa, preferendo, invece, costeggiare l’argine del Tevere e farsi così riscaldare dal piacevole sole di metà maggio. Era appena riuscito a recuperare un po’ di serenità, quando la sua attenzione venne catturata da un trafiletto di giornale esposto fuori da un’edicola, che diceva: La Capitale si veste a festa per le nozze dell’imprenditore Ascanio Colonna.
Dopo aver letto il titolo dell’articolo, se da una parte il giovane si trattenne dall’imprecare contro il rivale e le sue idee di grandezza, dall’altra ringraziò di non aver preso parte a quella commedia e di non essere stato tra la torma di sudditi di Colonna che avevano omaggiato quell’unione così precaria. Tuttavia, non aveva nemmeno finito di disgustarsi, che lesse un altro trafiletto, questa volta davvero inquietante: Morto Edward Carter, magnate dell’industria petroliera britannica.
Non credendo ai suoi occhi, il giovane distolse lo sguardo e poi attese qualche secondo prima di tornare a leggere. Le parole, però, non cambiarono, confermadogli che Lord Carter era passato a miglior vita.
Piuttosto stordito da quella notizia, si cacciò immediatamente le mani nella tasca dei pantaloni della tuta, sperando di trovarvi gli spiccioli necessari per comprare il quotidiano, giacché, essendo uscito di casa in fretta e furia, non aveva pensato a prendere il portafoglio. Per fortuna, riuscì a racimolare quel tanto che bastava per acquistare una copia, così, senza indugiare oltre, si fiondò all’interno dell’edicola.

Quando, un quarto d’ora dopo, Gerardo gli aprì in pigiama la porta del proprio appartamento, un’espressione insonnolita dipinta sul volto, Marcello capì che, forse, aveva disturbato davvero troppo presto il suo amico. Sapeva che era tutt’altro mattiniero, soprattutto nei giorni che non doveva recarsi in ufficio, perciò si augurò che le importanti notizie che gli stava portando sarebbero bastate a farsi perdonare per quell’irruzione inattesa.
«Marcello... che cosa ci fai qui, a quest’ora?!» gli domandò immediatamente l’amico, trattenendo a stento uno sbadiglio.
«Buongiorno, Gerardo, e scusa per il disturbo, ma vedi...» lo salutò il biondo, indeciso su come continuare. «Ecco... è piuttosto complicato».
Avvertendo la sua irrequietudine, l’altro aggrottò appena la fronte e lo guardò preoccupato.
«È forse successo qualcosa a tuo papà?» domandò subito dopo, improvvisamente allarmato.
«Oh, no... Cioè, ancora non lo so...» gli rispose quello, piuttosto confuso, rendendosi conto che il sonno arretrato, il timore per la sorte di suo padre e le ultime inquietanti rivelazioni stavano mettendo a dura prova la sua lucidità.
«Come sarebbe a dire ancora non lo so?» ripeté Gerardo, spalancando gli occhi e fissandolo come se avesse perso il senno. E, di fatto, non era poi così lontano dalla verità.
«Ultimamente, ci stai facendo preoccupare parecchio, sai?» continuò, sempre più perplesso. Tuttavia, non passarono pochi secondi che sospirò, all’apparenza rassegnato alle stranezze che Marcello aveva manifestato nell’ultimo periodo. Infine, scuotendo la testa, gli propose: «Dai, accomodati, così mi spiegherai tutto con calma, d’accordo?»
Di fronte a tanta comprensione, il giovane annuì e, dopo aver ringraziato l’amico, si addentrò all’interno, lasciando che lo guidasse nella cucina piastrellata di verde chiaro, dove lo accolse l’invitante odore del caffè appena fatto.
Era già passato quasi un anno, infatti, da quando il suo amico aveva deciso di andare a vivere da solo, lasciando i genitori e acquistando un appartamento piccolo, ma carino, in uno stabile tra Ponte Milvio e Tor di Quinto. Come gli aveva confessato più di una volta, aveva fatto quella scelta perché era arrivato ad un punto della sua vita in cui, dopo aver raggiunto l’indipendenza economica, desiderava qualcosa di più, così aveva deciso di dimostrare a tutti che poteva cavarsela da solo, scrollandosi di dosso quel senso di inadeguatezza che lo aveva sempre accompagnato fin da quando era bambino. E, considerati i passi da gigante che aveva fatto anche nella vita sentimentale, riuscendo finalmente a legarsi a Vittoria, Marcello si ritrovò a sorridere, consapevole di quanti progressi avesse fatto il suo amico negli ultimi mesi.
Nell’accomodarsi su una delle sedie di legno impagliate, il giovane si ritrovò subito in grembo Perla, la gatta bianca che conviveva con Gerardo e che riconobbe nell’ospite una vecchia conoscenza.
«Ben svegliata!» la salutò lui, accarezzandole il lungo pelo del dorso, mentre quella cominciava a fare le fusa.
«Vuole le sue crocchette, la signorina» spiegò l’altro, mentre si adoperava per apparecchiare la tavola, mettendo su di essa tovagliette, tazze, cucchiaini e zuccheriera. «Non so perché, ma anche quando Vittoria si ferma a pranzo o a cena, va da lei a chiedere il cibo».
«Probabilmente, è una gatta che ama mangiare in compagnia» commentò Marcello, sollevando lo sguardo verso il suo interlocutore. «Meno male che ha conosciuto Vittoria sin dai primi mesi allora, altrimenti temo che sarebbe stata gelosa, se la tua ragazza fosse stata un’altra, comparsa all’improvviso!»
«L’ho pensato anche io, sai? Per fortuna, invece, sono diventate grandi amiche» sospirò Gerardo, mentre portava in tavola due scatole di latta dalle tinte pastello, contenenti l’una diversi tipi di biscotti e l’altra fette biscottate. Poi, notando che l’amico aveva capito che stava apparecchiando per due, gli spiegò: «Sto preparando anche per te, perché qualcosa mi dice che non hai fatto colazione».
Il ragazzo lo fissò stupito per qualche istante, meravigliandosi di come sia Beatrice che i suoi amici, negli ultimi tempi, riuscissero ad anticipare le sue necessità. Non che avesse mai dubitato del loro affetto, ma in quella circostanza si era reso davvero conto di quanto fossero disposti ad aiutarlo.
«Hai indovinato, avevo un forte senso di nausea e non sono proprio passato per la cucina» confessò, facendo spallucce, domandandosi se anche lui, con il suo carattere scostante, sarebbe stato bravo come loro a confortarli, se ce ne fosse stato bisogno.
«Immaginavo...» ribatté l’altro, voltandosi verso la cucina per prendere dei tovagliolini di carta da uno degli stipiti posti sopra il piano di lavoro. «Tè o caffellatte?»
«Caffellatte, grazie. Ho bisogno di qualcosa di forte».
Annuendo, Gerardo si avvicinò al frigo e prese il cartone del latte, versando parte del contenuto in un pentolino per poi metterlo sul fuoco.
«Da che ora sei in piedi?» gli chiese, mentre portava la caffettiera in tavola e si accomodava anche lui.
«Non ho proprio dormito» ammise Marcello, stropicciandosi gli occhi con i pugni chiusi. «Dopo due settimane di accertamenti vari, stamattina presto hanno operato mio padre e questo pensiero non mi ha fatto chiudere occhio. Così, alle cinque, non ho più resistito e sono andato a correre lungo il Tevere e sul Gianicolo, per scaricare la tensione».
«Quindi, ancora non sai come sta...» commentò l’altro, scrutandolo attentamente e incrociando le braccia sul tavolo.
Il ragazzo scosse la testa, affranto, sospirando un no. A quel punto, rimasero in silenzio e solo qualche minuto più tardi, Gerardo decise di alzarsi per andare a prendere il cibo per gatti.

Sentendo il rumore dei croccantini che cadevano nella ciotola d’acciaio, Perla alzò la testolina e, in un batter d’occhio, saltò giù dalle gambe di Marcello, trotterellando impaziente verso il suo pasto.

«Comunque, non sono venuto solo per parlare della mia situazione familiare, ma anche per questo» riprese il giovane, poco dopo, ricordandosi del motivo principale che lo aveva spinto a disturbare l’amico così presto. Poi, recuperò il giornale che aveva appoggiato sul tavolo quando si era seduto e lo aprì alla pagina dove si trovava l’articolo sull’industriale britannico, porgendolo all’altro, il quale, immediatamente, lo prese e si buttò a capofitto nella lettura.
«Cosa?!» esclamò dopo pochi secondi, esterrefatto, lasciandosi cadere sulla sedia. «Carter è... morto
«A quanto pare, sì» commentò il ragazzo, alzando le spalle. «E non è tutto, da’ un po’ un’occhiata alla foto del matrimonio di Colonna: indovina un po’ chi era l’ospite d’onore?»

A tale domanda, Gerardo alzò gli occhi dall’articolo e li puntò su Marcello, guardandolo perplesso per qualche secondo, prima di voltare il giornale e studiare attentamente la foto che ritraeva la coppia circondata da tutti gli invitati sui gradini della breve scalinata di Santa Maria Maggiore.
«Miller? Da quando lui e Colonna sono diventati così intimi?» chiese, stupito ed incredulo.
«Me lo sto chiedendo anche io» ribatté il biondo, tamburellando nervosamente le dita sul tavolo. «L’ultima volta che li ho visti erano ad un passo dal voler farsi fuori a vicenda».
Non del tutto convinto da ciò che aveva visto, l’altro si alzò dalla sedia e si diresse verso il piano cottura, spegnendo il fuoco e portando il bollilatte in tavola.
«A giudicare dalla sua espressione, Miller non sembra particolarmente contento» commentò, riempiendo prima la tazza di Marcello e poi la propria, aggiungendo in ultimo in entrambe il caffè.
L’amico lo ringraziò con un cenno prima di allungare il braccio per prendere la scatola dei biscotti.
«Infatti» concordò, mentre l’apriva. «Ma, quello che mi lascia più perplesso, è che il galoppino di Carter stesse banchettando ad un matrimonio pochi giorni prima che lui morisse».
«Qui dice che è stato stroncato nel sonno da un infarto, perciò è morto all’improvviso... Miller non avrebbe potuto saperlo in anticipo!» esclamò Gerardo, zuccherando abbondantemente la sua bevanda.
A quel punto, Marcello smise di disporre nel suo piattino i frollini al cacao che aveva preso e riservò al suo amico un’occhiata sospettosa.
«Questa storia non mi convince affatto, ma ammettiamo per un attimo che sia vera» affermò, prendendo un biscotto e spezzandolo a metà, per poi intingerlo nella tazza. «Perché, allora, non è stato invitato anche Carter? Colonna è un suo partner, non di John Miller».
«Be’, queste sono solo tue supposizioni» gli fece, però, notare l’altro, mentre sbocconcellava pensieroso una fetta biscottata. «Magari, invece, era stato invitato ma, poi, non è andato, mandando l’assistente al suo posto. Può darsi che già si sentisse poco bene».
Tuttavia, tale teoria non lasciò soddisfatto il ragazzo che, anzi, mentre continuava a rimuginarci sopra, facendo sparire un biscotto dietro l’altro, la trovò talmente poco credibile, da convincersi sempre di più che l’assistente di Carter doveva necessariamente avere un qualche ruolo in quella scabrosa vicenda.
«Comunque, ora hai altro a cui pensare, perciò anche la morte di Lord Carter può aspettare» considerò saggiamente Gerardo poco dopo, alzandosi dal tavolo e incominciando a portare nel lavello le stoviglie sporche. «Finisci di mangiare e poi chiama i tuoi da qui, va bene?»
In risposta a tanta risolutezza, il giovane aggrottò la fronte e smise di bere, appoggiando la tazza sul tavolo, stupito dalla sicurezza che l’amico aveva dimostrato di possedere solo negli ultimi tempi; tuttavia, nonostante Marcello fosse contento di un tale cambiamento, non voleva approfittare della sua generosità.
«Da qui?! No, no, non potrei mai» rispose, infatti, sbattendo le palpebre. «È una chiamata internazionale, non so nemmeno quanto costi!»
Le sue proteste, però, furono stroncate sul nascere dall’espressione seccata che si dipinse sul volto di Gerardo, il quale alzò gli occhi al cielo, smise di lavare la tazza e si voltò verso di lui, sbottando: «Che palle, Marce’... che palle! Mettilo da parte, pe’ ’na volta, ’sto senso del dovere verso gli altri!»
Davanti a tale reazione, il biondo rimase letteralmente a bocca aperta, per poi richiuderla nello stesso istante in cui comprese che la situazione in cui si trovava suo padre l’aveva reso ancora più pignolo e pesante del solito. Per fortuna anche in quell’occasione, sia Beatrice, sia i suoi due migliori amici stavano dimostrando una pazienza encomiabile nei suoi confronti.
«Hai il numero dell’ospedale?» gli chiese, allora, l’altro, lanciandogli un’occhiata indagatrice.
«Oh, sì...» mormorò lui, riscuotendosi dai suoi pensieri, «l’ho chiamato talmente tante volte da imparare tutte le cifre a memoria!»
«Perfetto, allora. Il telefono sai dov’è» dichiarò con sicurezza l’altro, tornando ad occuparsi delle stoviglie insaponate. «Sta’ tranquillo che una chiamata all’estero non mi manderà in fallimento, dovessi anche telefonare in Australia!»

Sapendo bene che, in quel momento di smarrimento, aveva proprio bisogno di qualcuno che lo scuotesse, Marcello ringraziò Gerardo con un sorriso, per poi spostarsi in corridoio, dove, tra la porta del bagno e quella della camera da letto, c’era il tavolino con il telefono.
Tuttavia, prima di sollevare la cornetta, la fissò a lungo, incapace di imporsi quel comando tanto semplice, consapevole che, ad attenderlo all’altro capo, c’era la verità. Verità che lui non era sicuro di voler conoscere. Poi, rimproverandosi mentalmente per quell’istante di debolezza, scosse ripetutamente la testa per ritrovare la lucidità e, prima che potesse ripensarci nuovamente, afferrò il ricevitore con una mano e con l’altra si affrettò a comporre il numero del centralino dello Stadtspital Triemli2.
Dopo alcuni squilli, gli rispose in tedesco una voce giovanile di donna, alla quale replicò in inglese, chiedendo di poter parlare con suo padre. Quella, però, non si lasciò minimamente turbare e passò anche lei alla stessa lingua, assicurandogli che gli avrebbe immediatamente passato la stanza che avevano assegnato al signor Giancarlo. E, infatti, dopo averlo messo in attesa per appena una manciata di secondi, il ragazzo sentì che era stato messo in linea con un telefono interno, anche se a rispondergli fu, come immaginava, sua madre.
«Ciao, mamma, come stai?» le chiese, sforzandosi di sembrare gentile e ricordandosi che non la sentiva da qualche giorno, nonostante fosse impaziente di parlare con l’altro genitore.
«Come vuoi che stia? Ho passato tutta la notte in bianco, perché questo non è un ospedale, ma un mercato! E poi, hanno anche il coraggio di dire che gli svizzeri sono discreti...» si lamentò subito Madama Claudia che, come al solito, aveva dimostrato scarsa capacità di adattamento.
«Mamma, è un ospedale pubblico, non una clinica privata» le fece notare il figlio, irritato dal suo comportamento frivolo.
«Infatti!» ribatté lei, insistendo. «Ho provato anche a convincere il professor Weinberger ad operare tuo padre in una clinica con tutte le comodità, ma lui non ne ha voluto sapere!»
«Evidentemente, il professore pensa che tutte le comodità non siano una priorità, in questi casi. Ed anche io sono convinto che gli ospedali pubblici siano meglio, per questi interventi così delicati» cercò di spiegarle, allora, Marcello, sorprendendosi da solo per quella insolita pazienza che non credeva di possedere, soprattutto quando aveva a che fare con sua madre, per giunta più acida del solito.
Dall’altro capo, sentì la donna sbuffare, così, approfittò di quell’attimo di tregua per domandarle: «Come sta papà?»
«Sembra che l’operazione sia riuscita, un’ora fa l’hanno portato in terapia intensiva» fece lei, con un tremolio appena percettibile nella voce, tradendo un certo sollievo: evidentemente, anche se voleva far credere di essere infrangibile, doveva aver temuto seriamente per la vita del marito. «Non capisco come abbiano potuto farci aspettare fino al venti maggio!»
«Avevano bisogno di vedere tutti gli accertamenti, forse» commentò il ragazzo, giocherellando con la spirale formata dal cavo del telefono.
«Comunque, alla buon’ora, Marcello! Perché hai chiamato solo adesso? Tuo fratello, da stamattina, ha già fatto quattro telefonate! Una via di mezzo è forse chiedere troppo?»
Il ragazzo alzò gli occhi al cielo, trattenendosi dal riattaccare il ricevitore solo perché aveva a cuore la salute di suo padre.
«Quando posso chiamare per parlare con papà?» riprese, ignorando la considerazione appena fatta dalla madre, ma avvertendo allo stesso tempo un senso di vuoto per non essere riuscito a parlare con il signor Giancarlo.
«Ah, non lo so, qui non mi hanno detto niente. So solo che, se le sue condizioni resteranno stabili, tra due giorni tornerà in stanza».
A quel punto, il giovane sospirò, consapevole che, nonostante le notizie apprese grazie a quella telefonata l’avessero rasserenato, avrebbe dovuto attendere ancora per parlare con il diretto interessato. Per fortuna, la madre venne prontamente richiamata da un’infermiera che voleva alcune informazioni, così, poco dopo, lo liquidò, ponendo fine alla conversazione, con gran sollievo di Marcello. Se non altro, gli erano state risparmiate altre lamentele da parte della genitrice, delle quali, ad essere onesto, non sentiva affatto la mancanza.
«Allora, come sta tuo papà?» chiese Gerardo, leggermente in apprensione, uscendo proprio in quel mentre dalla cucina.
«Secondo mia madre, sta bene, ma è ancora in terapia intensiva. Per parlare con lui dovrò richiamare» riassunse brevemente il ragazzo.
«Se non ci sono state complicazioni durante l’intervento, penso sia positivo, o sbaglio?» notò l’amico, che sembrava rinfrancato da quel resoconto.
«Sì, credo tu abbia ragione» replicò lui, meditabondo, facendo già i calcoli per capire quando avrebbe potuto richiamare nuovamente. L’altro, allora, nel vederlo così preoccupato, sorrise dolcemente e gli diede una pacca sulla spalla.
«Andrà tutto bene, vedrai».
A quel tocco, Marcello, si riscosse e, dopo aver ricambiato il sorriso, espresse a Gerardo tutta la sua gratitudine: «Grazie. Di tutto».
Quello, però, agitò una mano nel vuoto, come a dire che non stava facendo niente di importante. Il biondo stava per replicare che, per lui, tutto quello era davvero tanto, quando la sua attenzione fu catturata da un telo da doccia celeste con il bordo decorato da margherite ricamate appeso ai ganci a parete del bagno.
«Quello non mi sembra tuo» commentò, stranito, socchiudendo appena gli occhi.
A tale osservazione, l’amico si voltò in quella direzione e spiegò: «Infatti è di Vittoria. L’ha lasciato venerdì scorso, quando è rimasta a dormire qui».
Quando si rese conto di quello che aveva appena detto, però, Gerardo non tardò ad arrossire come un peperone e si affrettò ad aggiungere: «Ehm... abbiamo davvero solo dormito insieme, non è successo altro!»
«Non sono certo affari miei quello che fate quando vi vedete» ribatté prontamente Marcello, con un’alzata di spalle, che ci teneva a chiarire che non voleva entrare assolutamente nel loro rapporto di coppia. Vedendo l’amico così a disagio, stava quasi per ribadirglielo, quando quello, dopo qualche incertezza, riprese a parlare: «Non so che scusa rifili ai suoi genitori, ogni volta che si ferma a dormire da me. Sai, nonostante non siano bigotti, non credo che approvino, anche se mi conoscono da una vita. Da quando stiamo insieme, mi guardano con occhi diversi e si fidano molto meno».
Il biondo, di primo acchito, rimase spiazzato da una simile confidenza, poi, però, capì che tra lui e Gerardo, nonostante la relazione di questi con Vittoria, non era cambiato assolutamente niente e che potevano continuare tranquillamente a parlare e scambiarsi consigli su tutto.
«Be’, conoscendo entrambi, io mi fiderei molto meno di lei, che di te» osservò, a quel punto, Marcello, che sapeva bene che, tra i suoi due migliori amici, era la ragazza ad avere un carattere più esuberante. Infatti, il rossore ancor più intenso che comparve poco dopo sul volto dell’altro, gli fece capire che Vittoria non si doveva essere certo risparmiata nel mettere in difficoltà il suo fidanzato.
Tuttavia, ciò che aggiunse Gerardo qualche istante dopo, gli diede un’ulteriore conferma di quanto fosse maturato.
«In realtà, ho intenzione di chiederle di sposarmi al più presto. Ho già perso troppo tempo e fatto soffrire entrambi, non dichiarandomi subito» fece quindi una piccola pausa e poi riprese: «Non farò più lo stesso errore».
Il ragazzo rimase a fissare l’amico, riflettendo sul fatto che, oramai, era uscito vincitore da molti conflitti interiori e questo gli fece davvero piacere, anzi, Marcello doveva ammettere che, sotto quel profilo, era persino più avanti di lui, che aveva preso la decisione di proporsi a Beatrice solo dopo aver sbattuto ripetutamente la testa contro il muro creato dalle difficoltà di una relazione come la loro.
«Secondo me, Vittoria non aspetta altro» commentò, lanciandogli un’occhiata eloquente.
A quel punto, Gerardo sorrise, un po’ imbarazzato, ma chiaramente contento di aver ricevuto la sua approvazione.
«Oh, a proposito, non ti ho chiesto se volevi farti una doccia, essendo andato a correre!» esclamò, all’improvviso, portandosi una mano sulla fronte. «Mi è passato di mente... Comunque, se ti va, accomodati pure. Magari, poi, ti presterò dei vestiti... dovrei avere qualcosa che potrebbe andarti bene».
«Ti ringrazio, ma faccio prima a tornare a casa» fece, però, il ragazzo, avviandosi verso la porta d’ingresso, «anche perché dubito che i tuoi abiti mi vadano, visto che sono più robusto di te».
Gerardo, allora, inarcò appena un sopracciglio, squadrandolo ironicamente.
«Di sicuro, hai un fisico migliore del mio, non essendo pigro come me!» obiettò, lasciando trapelare una velata invidia.
In risposta, Marcello inclinò appena la testa da un lato e ribatté, increspando le labbra: «Da quel che so, Vittoria ti apprezza comunque, o sbaglio?»
***

La parabola perfetta che seguì il pezzetto di zucchina sfuggito al coltello terminò bruscamente contro la bottiglia dell’olio, facendola tintinnare impercettibilmente. Beatrice sbuffò, raccattando con malagrazia il fuggitivo e gettandolo nella padella con un gesto di stizza: nonostante avesse appreso già da qualche giorno i risultati degli esami di ammissione, ancora non riusciva a digerire la cattiveria con cui era stata trattata. Infatti, ad eccezione del nove in inglese e in storia dell’arte e dell’otto in storia e in filosofia, in tutte le altre materie aveva raggiunto solamente il sei, segno che Bellocchi era riuscito a portare dalla propria parte sia il fratello, che Tavelli. D’altra parte, già durante le interrogazioni questi si erano mostrati recalcitranti perfino ad ascoltarla, come se fossero convinti a priori che non avrebbe mai potuto fare un esame brillante.
Non aveva mai nemmeno dubitato dell’influenza negativa che quell’uomo poteva esercitare sui colleghi, ma rimaneva il fatto che presentarsi con sei in latino, greco ed italiano ad una maturità classica era davvero frustrante. Non le restava, quindi, che confidare nella magnanimità dei commissari esterni, anche se, considerata la sua fortuna, non si aspettava più niente di buono.
E, proprio mentre metteva la padella sul fuoco, la ragazza sentì gli occhi che cominciavano a pizzicarle: avrebbe dovuto essere contenta di star preparando il pranzo per il pic-nic del giorno seguente, ma, invece, si sentiva schiacciata dalla consapevolezza che la sua maturità era già compromessa ancor prima di cominciare. Dopotutto, cosa poteva saperne quel professore di tutto quello che era stata costretta ad affrontare? Come se fosse stato piacevole, per lei, venir sradicata dalla propria e amata città natale, lasciando casa, scuola, compagni e amiche, per trovarsi catapultata in una realtà sconosciuta, ostile e piena di insidie, senza nessuno disposto a proteggerla!
A quei pensieri, le lacrime le appannarono la vista, costringendola a passarsi la manica della maglietta sugli occhi per asciugarseli, mentre cercava di calmarsi e di concentrarsi sull’unica consolazione che le era rimasta: la prospettiva di festeggiare il suo diciannovesimo compleanno con Marcello.
Allora, chiudendo gli occhi e spostandosi una ciocca di capelli dalla fronte, Beatrice inspirò a fondo per farsi coraggio e trovare la forza per affrontare anche quell’ennesima difficoltà; poi, prese una ciotola di vetro e una frusta a mano e si diresse dirigendosi verso il piano di lavoro per sbattere le uova, decisa a non permettere a quel mostro di Bellocchi di rovinarle l’uscita che aspettava da un sacco di tempo. In quel frangente, però, entrò in cucina Vittoria, portando tra le mani una scatolina bianca perlata e canticchiando a ritmo: «We will, we will rock youWe will, we will... rock you
Una volta arrivata davanti al contenitore della pattumiera, la scaraventò all’interno e rimase a fissarla per qualche istante con un’espressione alquanto compiaciuta, per poi voltarsi e notare la fanciulla che la scrutava di rimando con un sopracciglio inarcato, più che mai convinta che quella ragazza, a volte, fosse tanto strana quanto gentile.
«Oh, ciao Beatrice, sei ancora qui? Pensavo avessi finito con le tortine di zucchine e fossi già di sopra!» le fece, elargendole un gran sorriso.
In quel momento, la fanciulla si ritrovò a pensare che non fosse molto carino continuare a guardarla perplessa, così si affrettò a ricambiare il sorriso e a rispondere: «No, ma ho quasi fatto».
Allora, Vittoria gettò una fugace occhiata agli ingredienti sul piano di lavoro e, annuendo, esclamò: «Ah, giusto! Sei talmente ordinata che non avevo notato che stavi ancora cucinando!»
«La tu’ mamma l’è stata così gentile a concedermi l’uso della cucina, che mi sembra il minimo restituirgliela pulita e ordinata» ribatté Beatrice, con un’alzata di spalle. Poi, mentre apriva le uova e ne versava il contenuto nella ciotola, ripensò allo strano oggetto che l’altra aveva buttato con tanta soddisfazione nell’immondizia così, spinta dal desiderio di sapere cosa fosse, decise di indagare prendendo il discorso alla larga: «Se’ una fan de’ Queen, per caso?» domandò.
«Esatto, fin da quando ero un’adolescente!» rispose con entusiasmo la ragazza, accomodandosi su una delle sedie disposte intorno al tavolo di noce. «Gerardo e Marcello mi hanno perfino regalato qualche loro LP3, tra cui, appunto, News of the World».
Beatrice annuì, aggiungendo gli altri ingredienti prima di sbattere il composto, delusa per non essere riuscita a carpire all’amica qualche indizio utile; tuttavia, non passò più di un minuto che Vittoria aggiunse: «Se te lo stessi chiedendo, prima ho buttato era la bomboniera del matrimonio di Ascanio e Maria Luisa».
Nell’udire tale risposta, Beatrice si fermò e si lasciò sfuggire un ah, al quale l’altra rispose con un leggero sogghigno, avendo intuito la sua curiosità.
«Avresti potuto chiedere direttamente, non è un segreto» le disse, infatti, subito dopo, appoggiando il mento sul palmo aperto e guardandola divertita. «Sinceramente, non non l’ho nemmeno aperta e non mi interessa tenerla».
Il tono distaccato con cui la ragazza aveva pronunciato l’ultima frase portò Beatrice a sollevare lo sguardo su di lei: «Non penso tu sia molto amica di questa Maria Luisa» azzardò. 
«Per niente» affermò Vittoria, asciutta, cambiando posizione e mettendosi a braccia conserte. «È una delle tante ragazze che pensano che io sia una donna facile, per dirla con parole carine. Anche se poi è stata lei a dover ricorrere ad un matrimonio riparatore».
A quel punto, si alzò e si camminò fino alla porta, sbuffando: «Almeno Gerardo finirà di guardarla!»
Beatrice, nell’andare a prendere la padella, riservò un’occhiata obliqua all’amica, percependo un pizzico di gelosia nella sua voce e ritrovandosi a sorridere, perché era la conferma che la competizione tra donne non risparmiava nemmeno quelle belle e intelligenti come Vittoria.
«Però devo ammettere che mi dispiace per lei... Quando è passata per portarmi la bomboniera, non mi è sembrata affatto contenta: già era molto magra di suo, ma ora è quasi scheletrica e non si vede nemmeno che è al quarto mese» continuò quella, tornando a sedersi di fronte a lei.
«Be’, io l’ho vista solo alla tua mostra, ma ho capito anch’io che non l’era contenta, visto che avrebbe voluto sposare Marcello» osservò la fanciulla, stizzendosi, poiché, a quanto pareva, era arrivato anche il suo turno di essere gelosa.
«Oh, sì, era una sua affezionata ammiratrice... più o meno come tua cugina!» commentò l’amica, pensierosa. «Anche se non credo che nessuna delle due avrebbe potuto sopportare il caratteraccio di Marcellino come sai fare tu».
Tale considerazione fece colorire lievemente le guance di Beatrice, che si affrettò a finire di mescolare il composto e a versarlo negli stampini di rame, per poi metterli nel forno caldo.
«Beatrice, ma... hai pianto, per caso?» proruppe improvvisamente Vittoria, dopo averla osservata attentamente.
La fanciulla, allora, si voltò immediatamente verso di lei, confusa; a quel punto, però, ricordò ciò che aveva pensato prima che l’altra entrasse in cucina e, non volendo passare per piagnucolona, si affrettò a negare: «No, no, l’è solo...»
«... la cipolla, giusto?» concluse l’altra, ironica, guardandola con cipiglio. «Deve essere particolarmente forte, visto che ti ha fatta lacrimare senza nemmeno essere tra gli ingredienti!»
Incapace di trovare una scusa plausibile, la giovane decise di tacere con un sospiro, accomodandosi a sua volta su una sedia, ma l’amica non si lasciò scoraggiare dal suo silenzio ed insistette: «Ti va di dirmi cosa c’è che non va?»
A quella domanda, Beatrice sospirò di nuovo, poiché c’erano diverse cose che non andavano. Anche se, forse, erano solo preoccupazioni di una ragazzina, la facevano stare male, pertanto decise di aprirsi con Vittoria, con la certezza che non l’avrebbe giudicata.
«Stavo ripensando ai mie’ esami» rispose, alzando lo sguardo su di lei. «Ho paura d’esser bocciata oppure d’essere promossa con un voto bassissimo».
«E perché mai?» chiese l’altra, perplessa. «Non essere pessimista, tu impegnati e andrà tutto bene. Il presidente della commissione correggerà i compiti insieme con i professori e quel Bellocchi non potrà essere troppo cattivo».
Dopo tali parole, la fanciulla si soffermò ad analizzare meglio la sua situazione e si rese conto che aveva considerato il problema da un’ottica parzialmente sbagliata: se per la classe alla quale era stata abbinata la presenza di insegnanti estranei poteva essere uno svantaggio, per lei, invece, era un grande punto a favore, poiché, non conoscendo nessuno di loro, l’avrebbero giudicata alla pari degli altri ragazzi. Tra l’altro, né Bellocchi-bis, né Tavelli facevano parte della commissione interna, mentre era presente la Valenti, la quale si era subito dimostrata benevola nei suoi confronti.
«Oh, speriamo davvero sia così!» replicò lei, rincuorata, intravedendo per la prima volta una possibilità di salvezza e ritrovando, così, lo spirito giusto per godersi al meglio il pic-nic che l’attendeva. «Comunque... grazie, Vittoria. M’ha fatto bene parlare con te, m’hai fatto vedere la situazione da un altro punto di vista».
«Mi sembra il minimo, Beatrice. Dopotutto, sei un’amica» replicò quella, ammiccandole.
«Scommetto che se’ molto brava nel tu’ lavoro. Adesso mi sento davvero più sollevata, sai?» commentò Beatrice, con un sorriso riconoscente, mentre l’altra ricambiava, arrossendo appena.
«Mi fa piacere che tu stia meglio. Vedo ogni giorno l’impegno che metti nello studio e sono certa che ti verrà riconosciuto» osservò Vittoria, annuendo con convinzione. «L’importante è che cerchi di mantenere la calma, d’accordo?»
A quel punto, la fanciulla incurvò di nuovo le labbra e si mise in piedi con rinnovato slancio, dirigendosi subito verso il forno per controllare la cottura delle tortine.
«Credo che ci voglia solo qualche altro minuto» notò.
«Allora possiamo lavare tutto ciò che hai usato, nel frattempo» le propose, allora, la giovane. «Ammetto di essere proprio negata in cucina, ma
posso comunque darti una mano a pulire, così finiremo prima».
«Oh, ti ringrazio, se’ molto gentile».
«Figurati, faccio così anche quando cucina Gerardo, che è molto più capace di me ai fornelli: pensa che è in grado di preparare delle pennette al salmone e vodka uguali a quelle che faceva mia nonna quando ero a pranzo da lei4
La confidenza che le era stata appena fatta lasciò Beatrice molto sorpresa e, ancora una volta, la ragazza non riuscì a reprimere la sua curiosità.
«Non l’immaginavo che Gerardo sapesse cucinare» commentò.
«Sì, se l’è sempre cavata egregiamente» replicò Vittoria, tradendo un certo compiacimento,
mentre raccattava gli utensili sporchi d’impasto e li metteva nella ciotola. «Se fossi più capace, domani sera potrei preparare io la cena, ma, purtroppo, temo che dovremo accontentarci di una pizza d’asporto. Sai, mi ha invitata da lui per vedere insieme Il ritorno dello Jedi, l’ultima parte di Guerre Stellari5...»
«Ah, a lui piace?» si informò Beatrice, prendendo il detersivo per i piatti dal mobile posto sotto il lavandino.
«Sì, è un grandissimo fan ed è solo grazie alla sua passione per questa trilogia che sto riuscendo ad apprezzarla anche io» le spiegò subito l’altra, mettendo tutto ciò che aveva in mano nel lavello. «Ad essere onesta, la prima volta che ho visto i film, è stata solo la presenza di Harrison Ford che me li ha resi guardabili e credevo che anche Gerardo li apprezzasse per via di Carrie Fisher...»
«E invece?» incalzò la fanciulla, mentre versava il detergente sia nell’acqua, sia sulla spugnetta.
«Eh, ho scoperto che sia lui che Marcellino sono devoti al lato oscuro e stravedono per Dart Fener6!» le confessò l’altra, con una smorfia di disappunto, facendola scoppiare a ridere.
Beatrice conosceva solo a grandi linee quella saga cinematografica e si ritrovò a pensare che le sarebbe piaciuto vederla con Marcello, seguendo l’esempio di Gerardo e Vittoria; magari, avrebbero potuto vedere anche altri film al cinema e non le sarebbe dispiaciuto affatto farlo, soprattutto perché era parecchio che non ci andava e, dato che si era liberata dei suoi parenti despoti, poteva riprendere a fare tutte le cose che facevano le ragazze della sua età. Intanto, però, avrebbe avuto modo di apprezzare la gita del giorno seguente, per la quale era perfino riuscita a cucirsi un grazioso vestito a pantaloncino a fantasia fiorata.

Qualche minuto dopo, quando la cottura delle tortine fu terminata, la ragazza si avvicinò al forno e, mentre le tirava fuori, rigonfie e profumate com’erano, domandò all’amica: «Secondo te a Marcello piaceranno? So di non esser bravissima, ma sto facendo del mio meglio».
A quella domanda, Vittoria smise di asciugare e rimettere le posate nel cassetto e la guardò severamente.
«È da oggi pomeriggio che ti stai prodigando per preparargli il pranzo» esclamò, indignata. «Se quel polemico dovesse avere da ridire, penso che potresti benissimo lasciarlo a digiuno!»
***

Le nuvole grigie che si erano allineate all’orizzonte, come un esercito pronto ad attaccar battaglia, non ispirarono a Marcello niente di buono, poiché sapeva benissimo che, puntualmente, ogni aprile e maggio si ripeteva la stessa storia: durante il fine settimana pioveva a dirotto, rovinando qualsiasi progetto di gita fuoriporta.
Mentre borbottava tra sé qualcosa contro le stranezze della primavera romana, il giovane lasciò il terrazzo della biblioteca per rientrare in casa, augurandosi che, se proprio il cielo doveva rannuvolarsi, almeno non piovesse, poiché non voleva che saltasse la gita con Beatrice.
Una volta dentro, si avvicinò al tavolino tra i due divani, dove era poggiata la scatolina contenente il regalo per la ragazza acquistato qualche tempo prima, la prese tra le dita e l’aprì, permettendo ai brillanti che adornavano la farfalla in filigrana di rifulgere in tutta la loro perfezione.
Poi, appoggiò nuovamente il gioiello sul ripiano e, dopo essersi seduto, si soffermò a contemplarlo, sperando di riuscire a farle una proposta di matrimonio di tutto rispetto, nonostante la sua scarsa attitudine al romanticismo. Sarebbero bastati solo i suoi sentimenti sinceri a convincerla?
Ormai si conoscevano da parecchio tempo ed aveva l’impressione che la fanciulla avesse capito, nonché accettato, questo suo limite senza farne un dramma; ciononostante, si ripromise che avrebbe fatto del suo meglio per offrirle la dichiarazione che meritava. Il signor Giancarlo era stato molto fiducioso nelle sue capacità e il giovane si augurò che, anche in questo caso, ci avesse visto giusto.
Al pensiero del genitore, Marcello sospirò, avvertendo l’angoscia che tornava ad impossessarsi di lui ricordandosi di essersi ripromesso di chiamarlo prima di passare a prendere Beatrice, sperando che si fosse ristabilito abbastanza da potergli rispondere di persona. Perciò, titubante, si avvicinò all’estremità del divano e prese il telefono, mettendoselo sulle gambe, prima di sollevare il ricevitore e comporre il numero e attendere. Dopo quelli che gli sembrarono anni, la centralinista riuscì a metterlo in contatto con la stanza di suo padre e, quando riconobbe la sua voce, il giovane si rianimò del tutto.
«Come stai, papà?» gli chiese, tutto d’un fiato, senza preoccuparsi di scandire bene tutte le sillabe.
«Buongiorno anche a te, Marcello. Di solito si saluta, quando si sente una persona dopo molto tempo» gli rispose l’altro, usando, però, un tono scherzoso.
«Oh, sì, scusa» mormorò il ragazzo, parlando più lentamente, «ma non vedevo l’ora di sentirti. Come va?»
«Ad essere onesto, ci sono stati momenti migliori, anche se, tutto sommato, non credo di potermi lamentare» gli rispose l’uomo, apparentemente tranquillo; tuttavia, si tradì qualche istante dopo, dando qualche colpo di tosse stizzosa, che mise immediatamente in allerta il figlio, portandolo a dubitare che quella fosse la verità.
«Sicuro di stare bene?» gli domandò, perplesso.
«Sto benissimo, non ti preoccupare. Anzi, i medici parlano già di dimissioni» cercò di rassicurarlo, l’altro, con voce flebile.
Nell’udire una rivelazione del genere, il giovane rimase talmente sorpreso, che incalzò: «Davvero? Hanno già intenzione di mandarti a casa?»
«Se le mie condizioni continueranno a migliorare, hanno detto che potrei uscire di qui tra una decina di giorni».
Del tutto impreparato ad un’eventualità del genere, il ragazzo si augurò che tutto andasse bene, così da poter riabbracciare il genitore molto presto, poiché cominciava a sentirne la mancanza, la quale, sommata all’incertezza e all’angoscia dovute alla sua situazione, lo stava mettendo a dura prova.
«Questa è un’ottima notizia» mormorò, soprappensiero.
Dopo qualche istante di assoluto silenzio da parte di entrambi, il signor Giancarlo improvvisamente gli chiese: «E tu come stai?»
«Ora che ti ho sentito di persona, decisamente meglio» sospirò Marcello, appoggiando la schiena contro il cuscino del divano e assumendo una postura più rilassata. Tuttavia, non aveva nemmeno finito di adagiarsi, illuminato da quel piccolo spiraglio di serenità, che quello che disse poco dopo il padre lo fece immediatamente tornare contratto.
«E come sta Beatrice?»
«Bene, anche se sta studiando per la maturità, perciò, ultimamente, ci siamo visti di rado e quasi esclusivamente per ripetere qualcosa insieme» rispose il figlio, in leggera tensione, intuendo quale sarebbe stata la domanda successiva, che, infatti, non tardò ad arrivare.
«Le hai chiesto ciò che ti ho suggerito
Quella velata allusione gli fece capire che il genitore non poteva essere più esplicito perché Madama Claudia doveva essere nei paraggi e il giovane non faticò affatto ad immaginarsela, mentre, come un’arpia, al solo captare il nome della fanciulla, svolazzava intorno al marito per cercare di carpire altri dettagli su ciò che si stavano dicendo.
Allora, scuotendo la testa per mandare via quell’immagine raccapricciante, si protese verso il tavolino e prese tra le mani il gioiello, fissandolo intensamente.
«Non ancora...» rispose, dopo qualche istante di pausa, «ma ti garantisco che è solo questione di ore» aggiunse subito dopo, chiudendo la scatolina con uno scatto secco.
***

Dopo aver condotto Beatrice in giro per Castel Gandolfo per farle vedere i suoi elementi più caratteristici, tra cui Piazza della Libertà, il Palazzo Apostolico, residenza estiva del Pontefice, e la vista sul Lago Albano, che poteva vantare di essere il più profondo d’Italia, Marcello decise di farle vedere anche il paesaggio campestre delle zone limitrofe, luogo perfetto per un pic-nic.
In particolare, per trascorrere il resto della giornata, scelse un prato da cui si poteva godere un’ottima visuale sui colli che circondavano il piccolo lago, il cui perimetro quasi perfettamente circolare denotava l’origine vulcanica, certo che sarebbe piaciuto alla ragazza; infatti, non appena quella si trovò davanti quel particolare panorama, circondata da papaveri, malva e avena selvatica, non perse tempo nel manifestare la propria ammirazione.
«Oggi m’hai fatto vedere degli scorci davvero carini. Per non parlare poi di questo posto bellissimo!» esclamò, infatti, guardandosi intorno con aria entusiasta.
«Sì, sono abbastanza caratteristici e turistici» le rispose il giovane, stendendo una coperta a quadri sull’erba e appoggiandovi sopra il cestino di vimini che conteneva il pranzo, lanciando un’occhiata preoccupata all’ombra che le nuvole avevano gettato sul prato, sperando che non cominciasse a piovere da un momento all’altro.
La ragazza, in quel momento, si voltò verso di lui e lo guardò divertita, incrociando le braccia contro il petto.
«Sapevo che l’avresti risposto così» replicò, avvicinandosi lentamente. «Non riesci proprio a non esser diplomatico, o sbaglio?»
A quell’osservazione, Marcello, che si stava accomodando sulla coperta, rimase come bloccato ed inarcò un sopracciglio, provando a ribattere: «Be’, in realtà...»
Tuttavia, poiché non poteva negare che quella era la verità, si sedette e tacque, proprio mentre lei si lasciava scappare un sorrisetto di compiacimento, facendosi scorrere tra le dita un fusto d’avena.
«Di solito, ti sento dire una parola fuori posto solo quando sei molto arrabbiato, ma per il resto se’ sempre... misurato» commentò poi, lanciandogli improvvisamente addosso le spighette che aveva raccolto e alcune si andarono ad attaccare alla stoffa della polo blu scuro di lui.
Il giovane sobbalzò, sbattendo le palpebre e guardandosi istintivamente il petto, per poi affrettarsi a togliersi di dosso i residui della graminacea, mentre Beatrice, divertita dalla sua reazione, scoppiava a ridere; Marcello, invece, dopo aver gettato via l’ultima spighetta, la fissò a lungo, prima di chiederle: «Tutto questo era forse un modo carino per dire che sono noioso e prevedibile?»
Senza smettere di sorridere, lei si accomodò accanto a lui e, facendo spallucce, gli rispose, vaga: «Può darsi».
Intuendo che lei continuava a prenderlo bonariamente in giro, lui increspò le labbra, consapevole della rigidità che gli impediva di godere appieno perfino di momenti come quello. Sospirando, si stava appunto preparando per dirle che gli dispiaceva essere sempre così serio e statico, quando, inaspettatamente, la ragazza gli si fece più vicina e, con dolcezza, commentò: «Oggi ti vedo più sereno. Son proprio contenta che il tu’ babbo stia meglio».
Interdetto da quell’affermazione, che gli aveva confermato ancora una volta quanto poco bastasse a Beatrice per capire il suo stato d’animo, il giovane rimase a fissarla a bocca aperta per qualche istante, prima di riscuotersi e replicare a sua volta: «Anche tu sei più tranquilla, nonostante tutte le disavventure relative alla maturità».
Lei sospirò ed annuì, mentre il suo volto tradiva tutta la stanchezza e lo stress che le stava causando la preparazione dell’esame di Stato.
«Diciamo che per oggi voglio lasciare da parte questi problemi» ammise, stringendo le spalle. Poi, prese il cestino di vimini e, dopo aver tirato fuori tovagliolini, posate e cibarie per allestire il pranzo, si voltò verso Marcello ed aggiunse: «Spero ti piaccia quello che ho preparato, anche se son cosette semplici».
«A me piace molto la semplicità» replicò immediatamente lui, soffermandosi ad osservare due farfalle gialle e nere che le svolazzavano intorno.
Beatrice gli sorrise, contenta, e riprese a sistemare tutto a puntino; improvvisamente, però, lanciò al giovane un’occhiata di sottecchi e, come se stesse cercando le parole giuste, cominciò, esitante: «Marcello, ecco... potrei chiederti una cosa un po’ delicata?»
Il giovane le fece segno di continuare e lei, rassicurata, dopo aver preso un bel respiro, proseguì: «Guido ha bisogno di un altro avvocato d’ufficio. Gl’hanno assegnato una donna e non va bene per uno come lui, visto che pensa solo all’aspetto fisico e non collabora... Se continuerà così, farà una brutta fine. Ci vorrebbe proprio un uomo di polso».
Non appena Beatrice ebbe finito di parlare, l’altro inarcò marcatamente le sopracciglia, squadrandola attentamente. «Beatrice, davvero pensi ancora a quell’idiota, dopo tutto quello che ti ha fatto?» le chiese, incredulo.
«È pur sempre i mi’ fratello» replicò la fanciulla, guardandolo affranta.
Non riuscendo a sostenere quell’espressione e sapendo che non sarebbe mai riuscito a dirle di no, il giovane volse lo sguardo altrove, sbuffando.
«No, sei tu che sei troppo buona!» ribatté, severo, mettendosi a braccia conserte. «Comunque, vedrò che cosa posso fare... forse conosco la persona che fa al caso tuo».
«Chi sarebbe?»
«Ludovico Martelli, un mio vecchio compagno di corso che è passato a giurisprudenza. Ora sta facendo pratica presso uno studio legale, ma fa anche l’avvocato d’ufficio. È molto bravo, Gerardo ed io ci siamo rivolti a lui in un paio di occasioni per alcune consulenze» le spiegò, tornando ad osservarla.
A quelle parole, Beatrice si illuminò, manifestandogli la propria riconoscenza: «Oh, grazie di cuore, Marcello...»
«Sia chiaro, però, che non devi farne parola con quell’idiota, perché non deve sapere che sono stato io ad aiutarlo, visto che lo faccio solo per te» l’ammonì lui, anche se vederla così contenta contribuì ad ammorbidirlo un po’.
All’improvviso, però, avvertì una goccia di pioggia bagnargli la guancia ed istintivamente alzò la testa verso il cielo, rendendosi conto che le poche nuvole presenti si erano rivelate sufficienti a far piovigginare, nonostante il sole, dando vita ad un particolare spettacolo, molto comune in primavera nei dintorni di Roma.
«Sapevo che sarebbe piovuto!» brontolò Marcello, indispettito, tamponandosi una guancia contro la manica della maglietta. «Se non smette, dovremo andarcene!»
«Non fare così...» lo blandì subito dolcemente Beatrice, raccogliendosi i capelli da una parte e chiudendo per qualche secondo gli occhi, lasciando che le gocce le accarezzassero il volto, «in fondo, non l’è così male!» aggiunse poi, elargendogli un sorriso partecipe.
In risposta, il giovane la squadrò, scettico, prima di aprire la bocca per ribattere che era davvero una disdetta che non si fosse mantenuto il bel tempo, ma non ne ebbe alcun modo. Infatti, in quel momento, sentì la fanciulla che gli poggiava la testa sulla spalla, mentre guardava incantata la pioggerellina che aveva formato davanti a loro una coltre argentea danzante, e questo provocò al ragazzo una piacevole sensazione di vuoto allo stomaco, quando, all’improvviso, il malumore dato da quel temporale primaverile scomparve, lasciando spazio ad un languore che non aveva niente a che fare con la fame. D’istinto, allora, il giovane le cinse la vita con un braccio, mentre lei si abbandonava ancor di più contro di lui, completamente rilassata, solleticandogli una guancia con i capelli.
In quell’istante, Marcello avvertì un brivido che gli percorreva la spina dorsale e, ispirato da quel senso di calore che solo lei sapeva trasmettergli e che già da tempo aveva sciolto l’inverno che era in lui, prese tra le dita una ciocca di capelli di lei e cominciò a giocherellarci, sfiorandole, di tanto in tanto, la schiena. Allora, la ragazza alzò lentamente il capo verso di lui e rimase a fissarlo per qualche secondo con un’espressione divisa tra la sorpresa e la curiosità di sapere fin dove avrebbe osato, mentre il silenzio veniva riempito dal rumore delle gocce che cadevano sulle foglie delle querce che li circondavano.
Le labbra appena schiuse di lei erano un invito ad assaporarle fin troppo allettante per non assecondarlo e, infatti, il giovane non esitò oltre, avvicinandosi ad esse con delicatezza per farle sue, proprio mentre la fanciulla gli passava le braccia intorno al collo e si voltava completamente verso di lui, sfiorandogli le gambe con le proprie e facendogli avvertire qualcosa di molto simile ad una scossa elettrica.
Da quando la conosceva, pian piano aveva imparato cosa significasse amare una donna, ma, in quel preciso momento, capì anche cosa si provasse a desiderarla, avvertendo che non poteva fare a meno di baciarla sempre più intensamente, sfiorandole delicatamente la lingua con la propria e accarezzandole la schiena, mentre la faceva sdraiare sulla coperta, spostando tutto il suo peso sul fianco destro. In quel momento, tra di loro si era creata un’intimità senza precedenti, più libera, forse perché, per la prima volta, sapevano entrambi di essere soli, senza il rischio che qualcuno arrivasse ad interromperli o giudicarli. Fu allora che si abbandonarono entrambi alla fiducia reciproca, lui permettendole di passargli le dita tra i capelli e lei di baciarle ogni punto lasciato scoperto dalla scollatura del vestito.

Qualche minuto dopo, furono riportati alla realtà dal canto degli uccellini e dai tenui raggi del sole che accarezzavano la loro pelle, annunciando che aveva smesso di piovere.
«Quindi è vero che almeno un po’ ti piaccio» fece Beatrice, senza mostrare la benché minima voglia di alzarsi, continuando ad accarezzargli le ciocche bionde.
«Dubitavi, forse?» ribatté lui, corrugando appena la fronte e solleticandole il collo, facendola ridere.
«A volte, ho pensato che non mi trovassi abbastanza carina, vista la tu’ reticenza a baciarmi e lasciarti andare» ammise la giovane, ricomponendosi e arrossendo appena.
Marcello, allora, inclinò appena la testa e la fissò intensamente, prima di replicare, serio: «Be’, mettiamola così: se ti trovassi solamente carina, non credo saremmo arrivati a questo punto».
La ragazza abbassò appena lo sguardo, piacevolmente imbarazzata, e lui stava quasi per aggiungere che era la prima a cui aveva riservato quel genere di attenzioni, quando, improvvisamente, si ricordò del ciondolo.
«A proposito... ho una cosa per te» disse, staccandosi momentaneamente da lei e cominciando a frugarsi nelle tasche dei jeans, mentre Beatrice si tirava su e si sistemava il vestito, guardandolo incuriosita.
«Tieni, aprila» la invitò, porgendole la scatolina.
«Che cos’è?» domandò lei, prendendola tra le dita tremanti.
«Il regalo per il tuo compleanno».
«Ma... il regalo non era l’avermi portata qui?»
Il giovane scosse la testa, sistemandosi meglio davanti a lei e spiegandole: «Sono due cose diverse».
Sbattendo le palpebre, confusa, Beatrice spostò lo sguardo da lui a ciò che aveva in mano, prima di dedicarsi all’apertura del suo regalo. Quando ne vide il contenuto, il suo volto si tinse della più sincera meraviglia.
«Oh!» esclamò, rapita dai riflessi policromi delle pietruzze che decoravano la farfalla. «È... è... bellissima... io... grazie, non l’avresti dovuto...»
Davanti a quella reazione, Marcello non poté fare a meno di sorridere e, senza pensarci due volte, le propose: «Se vuoi ti aiuto a metterla».
La fanciulla, allora, lo guardò con le guance rosse e gli occhi lucidi, per poi annuire e dargli le spalle, così che lui potesse aiutarla ad indossare quel magnifico ciondolo.
«Vorrei tanto avere uno specchio!»
«Ti sta benissimo» commentò il ragazzo, pensando che Vittoria aveva avuto proprio ragione, quando aveva detto che un gioiello del genere sarebbe stato perfetto per Beatrice.
A quel complimento, lei arrossì ancora di più e abbassò leggermente il capo, spostandosi da un lato i capelli per poter ammirare quel piccolo capolavoro, mentre Marcello, ormai incapace di trattenersi ulteriormente, raccoglieva tutto il suo coraggio e le chiedeva: «Beatrice... vorresti sposarmi?»
Istantaneamente, l’altra rialzò la testa e, fissandolo sbigottita, esalò: «C-Come, s-scusa..?»
Abbozzando un sorriso leggermente imbarazzato, il biondo esitò un attimo prima di ripeterle la domanda, questa volta cercando di essere più dolce: «Mi daresti una felicità mai provata, se accettassi di diventare mia moglie...»
Per quelli che a lui parvero secoli, lei si limitò a guardarlo, senza spiccicare mezza parola, lasciando che si sentisse solo il sottofondo degli uccellini che, numerosi, cantavano allegri appollaiati sui rami degli alberi lì intorno. Poi, tutto d’un tratto, la ragazza, commossa, gli sussurrò: «Sì... sì... infinite volte sì!»
Il giovane non aveva nemmeno finito di rendersi conto che gli aveva dato una risposta positiva, che lei, di slancio, lo baciò di nuovo, cogliendolo di sorpresa e stordendolo, anche se non abbastanza da impedirgli di prenderla per la vita ed incurvare maggiormente le labbra ad ogni bacio che riceveva.
Tuttavia, quello stato di beatitudine fu bruscamente interrotto quando, nello staccarsi da lei, lui si accorse che i suoi occhi erano velati di lacrime.
«Che cos’hai, Beatrice? Non ti senti bene, per caso?» le chiese, preoccupato e confuso.
L’altra, però, scosse la testa, subito contraddetta dalla lacrima che le scese lungo una guancia. Tuttavia, non volendo forzarla a parlare, preferendo aspettare che fosse lei stessa a rivelargli cosa le provocasse tutto quel dolore in un’occasione che sarebbe dovuta essere di gioia, Marcello si allungò sulla coperta e recuperò un fazzoletto di carta dal cestino, per poi asciugarle premurosamente il volto.
«S-Scusami, non volevo rovinare questo momento... io son davvero felice... l’è solo che m’è tornato in mente quando è stato Navarra a chiedermi di sposarlo» fece tutto d’un fiato, prendendosi poi una piccola pausa, interrotta da un singhiozzo, «anzi, non me l’ha chiesto, me l’ha imposto... e voleva anche violentarmi!»
Tale rivelazione sconvolse talmente tanto il ragazzo che, per qualche istante, rimase come paralizzato, incapace perfino di consolarla.
«Che cosa?!» ringhiò sommessamente, quando ebbe ripreso il controllo di se stesso. Oramai aveva terminato tutte le maledizioni che poteva riservare a quell’animale, ciononostante, si augurò che il destino lo mettesse di nuovo sulla sua strada, così da potergli far scontare tutto il male che aveva causato alla sua Beatrice.
«Perché me l’hai detto solo ora?» le domandò poi, sfregandole un braccio, nel tentativo di farla calmare.
«Mi vergognavo! L’è stato orribile, mi ha fatta sentire sporca!» esclamò lei, nervosa, tremando da capo a piedi. «Come se fossi stata io a provocarlo...»
Nel sentirla così agitata, il ragazzo sentì il cuore che gli si stringeva e, lentamente, le si avvicinò, per poi abbracciarla con delicatezza, facendole poggiare la testa contro il proprio petto e lasciando che sfogasse tutto il dolore che aveva conservato dentro di sé per così tanto tempo.
«T-Ti sporcherò la maglietta.... mi sta colando il mascara...» la sentì mormorare, mentre alzava lo sguardo verso di lui.
«Non ti preoccupare, una volta a casa ci penserà Ottavia» replicò, però, lui, dandole un bacio sui capelli e tornando ad accarezzarla, nel tentativo di tranquillizzarla.
La giovane, nel guardarlo, arrossì e si portò una mano sugli occhi, per poi guardarsi le dita e rendersi conto che, effettivamente, le si era sfatto tutto il trucco.
«Non mi guardare, sono orribile!» fece a quel punto, con una smorfia, cercando di ritrarsi; tuttavia, venne prontamente bloccata da Marcello, che le impedì di allontanarsi.
«No, sei solo buffa» la corresse lui con un sorriso, alzandole il mento per tamponarle delicatamente le guance e la rima inferiore degli occhi.
Allora, Beatrice si arrese e si abbandonò alle sue cure, mentre il vento che aveva cominciato a spirare sopra di loro portava via le nuvole, facendo tornare il sereno.



***
Per la revisione di questo capitolo, ringrazio Lady Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la grafica del titolo è opera mia.
Un sentito grazie va anche alla mia Anto per la sua pazienza nell’assistermi nei miei dubbi.
***
[N.d.A]
1. Santo Spirito: è un ospedale situato nel centro di Roma;
2. Stadtspital Triemli: l’ospedale maggiore di Zurigo. La città si trova nel cantone omonimo, regione della Svizzera in cui si parla tedesco;
3. LP: detto anche Long playing o 33 giri, è un disco di vinile, antenato dei nostri CD, i quali hanno cominciato a diffondersi verso la fine degli Anni ‘80. In questo caso, la canzone We will rock you risale al 1977 e fu pubblicata, per la prima volta, nell’album LP “News of the World” il 28 ottobre dello stesso anno;
4. pennette... lei: negli Anni ‘70, quando Vittoria era più piccola, le pennette con salmone e vodka erano un piatto molto famoso e cucinato in tutto il mondo;
5. Guerre Stellari: per quanto io ami molto chiamare la saga con il nome originale Star Wars, negli Anni ‘80 era di uso comune il nome tradotto in italiano e usare la versione inglese sarebbe un anacronismo;
6. Dart Fener: stessa cosa di prima. Nel doppiaggio della prima trilogia (1977-1983) molti nomi furono cambiati, a cominciare da Darth Vader, che venne tradotto con Dart Fener per motivi di fonetica. Per fortuna, nell’Episodio III e nell’Episodio VII hanno lasciato il nome originale.
***


Eccoci qui.
Questa storia procede lentamente, ma procede e vi posso dire che ho progettato di pubblicare un capitolo al mese fino al prossimo autunno, sperando di riuscire a concluderla entro la fine del 2016.
Ringrazio chi ha la pazienza di attendermi, chi legge, chi ha messo la storia tra le seguite/preferite/ricordate, chi mi ha lasciato un parere allo scorso capitolo (Aven, Anto, StormyPhoenix, AClaudia).
Come di routine, vi lascio il link alla pagina facebook
per anticipazioni, informazioni varie e altro.
Essendo arrivati a giugno, faccio un grande augurio sia a tutti quelli che stanno affrontando la maturità (come Beatrice), sia a chi è un po’ più grande ed è alle prese con gli esami universitari (come la sottoscritta).
Alla prossima,
Halley S. C.

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Capitolo 18
*** Capitolo Diciassettesimo - Vento di Reazioni ***


Vento dell'Ovest - Capitolo 17



- Capitolo Diciassettesimo -
Vento di Reazioni




L
a porta dell’ufficio si aprì dopo le solite tre mandate, svelando un corridoio buio e silenzioso che stupì non poco Gerardo e Vittoria, entrambi certi che avrebbero trovato Marcello, intento a lavorare come il solito.
«Sei sicuro che potessi prenderti questa giornata di libertà? Non è che oggi era il tuo turno, per caso?» chiese dubbiosa la ragazza, precedendo il fidanzato all’interno e dirigendosi subito verso le finestre per aprirle e far entrare un po’ di luce.
«Certo che no!» replicò lui, leggermente offeso. «Marcello ed io eravamo rimasti d’accordo che ieri e l’altro ieri non sarebbe venuto nessuno, mentre oggi sarebbe toccato a lui e lunedì a me, visto che in questo momento possiamo svolgere gran parte del lavoro da casa» spiegò, posando le chiavi sulla sua scrivania e guardandosi poi intorno, come se si aspettasse che l’amico saltasse fuori da un momento all’altro: era andato al lavoro anche con la febbre, come era possibile che si assentasse senza nemmeno farglielo sapere? Era pur sempre il suo socio!
Intanto Vittoria, dopo aver spalancato le persiane, lasciò la finestra socchiusa e si avvicinò al fidanzato con aria pensierosa, come se anche lei stesse pensando la stessa cosa. Infatti, poco dopo, gli domandò: «Davvero non ti ha detto che si sarebbe assentato?»
In risposta, il giovane negò col capo ed alzò le spalle.
«Io ne so quanto te» affermò, perplesso, incrociando poi le braccia. «Magari, ha semplicemente avuto un contrattempo ed arriverà con un’oretta di ritardo».
«È probabile» concordò la ragazza, poggiando una mano sulla scrivania e abbassando il mento fino a toccare la spalla sinistra, assumendo così un atteggiamento meditabondo. «Comunque, tornando a noi, perché siamo venuti qui, anche se oggi avevi promesso di stare tutto il giorno con me
Gerardo notò l’espressione piccata di Vittoria e, non reputandolo un buon segno, si affrettò a rispondere: «Mercoledì mi sono dimenticato di prendere il numero di un collaboratore con cui stiamo lavorado dietro esplicita richiesta di un cliente».
«Qualcuno che conosco?» domandò, allora, la ragazza, incuriosita, alzando la testa.
«Il cliente o il collaboratore?» chiese a sua volta il giovane, sfogliando accuratamente la propria agenda, in cerca dell’appunto che gli occorreva.
«Il collaboratore, ovvio!» esclamò lei, facendo il giro della scrivania per avvicinarsi a lui. «Spero sul serio che non sia Ascanio!»
Il ragazzo, che nel frattempo si era ricordato di aver appuntato il numero su un foglietto ed era passato a cercarlo tra le cartelline che aveva davanti a sé, lasciò perdere per un attimo plichi e bustine di plastica trasparente e la guardò con aria grave.
«Non lavorerei con lui neanche morto!» insorse, infastidito solo dal sentir nominare quell’essere. «In realtà, non penso che tu lo conosca... Sai, lui e la moglie sono tornati in città dall’estero solo qualche mese fa, anche per far nascere qui il loro bambino. Si chiama Lorenzo Corsini e, per quello che ho avuto a che fare con lui finora, sembra una brava persona e un commericalista molto competente».
Vittoria parve soddisfatta di quella risposta e, dopo avergli regalato un sorrisetto compiaciuto, senza chiedere il permesso si accomodò sulla sua poltrona, poggiando i gomiti sui braccioli, apparentemente talmente a suo agio, che lui le lanciava ogni tanto un’occhiata, ritrovandosi a prestarle più attenzione che alla sua ricerca. D’altra parte, però, alla ragazza non sfuggì questo particolare, giacché, dopo essersi voltata nella sua direzione, si abbandonò sensualmente contro lo schienale ed accavallò con naturalezza le gambe, sollevando di qualche centimetro la gonna, mettendole bene in mostra.
«È questo che si prova ad essere un uomo di potere?» gli domandò, inclinando appena la testa da un lato.
A quel punto, pur sapendo di essere il destinatario di quello spettacolo, Gerardo fu vinto dall’imbarazzo e si affrettò a distogliere lo sguardo, arrossendo fino alla punta dei capelli e raddoppiando i suoi sforzi per trovare il famoso foglietto, sperando nel frattempo di non perdere la lucidità.
«Marcello lo è molto più di me, visto che, tra noi due, è lui il più capace» si schermì, riuscendo a parlare solo dopo aver deglutito a vuoto un paio di volte.
«Be’, avrai pure tu fatto qualcosa, no?» si stizzì lei, arricciando il naso. «Da quel che so, vi dividete equamente i compiti, perciò... non sentirti sempre inferiore!» concluse, con una leggera nota di rimprovero nella voce.
Sorpreso da quella reazione, il ragazzo la fissò nuovamente.
«Sono solo obiettivo» le fece notare. «Tuttavia, devo ammettere che il nostro è un lavoro di squadra ed anch’io faccio la mia parte».
«Così va già meglio» commentò lei, ammorbidita.
«Be’, lo sai che funzioniamo solo perché c’è sintonia tra di noi» aggiunse lui, scorgendo finalmente il biglietto e tirandolo fuori da sotto una pila di incartamenti.
«Come tra te e me?» gli domandò, allora, a bruciapelo Vittoria, costringendolo così a voltarsi verso di lei e riservandogli un sorriso malizioso.
Preso in contropiede, Gerardo arrossì per la seconda volta e, mentre si metteva il foglietto nella tasca interna della giacca, evitando di guardarla, cercò di organizzare una frase che avesse un senso: «Oh, ecco... tra Marcello e me c’è un’affinità nel senso di amicizia e... lavorativa, invece tra me e te è più una cosa... diciamo, sentimentale e...»
«D’attrazione?» gli suggerì prontamente la ragazza, protendendosi verso di lui e facendolo deglutire di nuovo. In quel momento, gli sembrò di avere il cervello completamente annebbiato, poiché le esplicite provocazioni di Vittoria non lo lasciavano indifferente, anche se il suo carattere timido gli rendeva molto difficile reagire di conseguenza.
Tuttavia, mentre temporeggiava in cerca di una risposta che non fosse banale e non gli facesse fare la figura dell’idiota, la ragazza spostò lo sguardo sulle scartoffie che erano poggiate sulla scrivania e, di colpo, la sua espressione divenne di pietra. Poi, con un gesto rapido, prese una busta da lettere che spuntava da sotto un fascicolo e gliela mise sotto il naso.
«Questa la conservi come reliquia?» gli domandò, lasciando trapelare dal tono di voce una certa irritazione, mentre il giovane, inebetito, si ritrovò ad osservare la partecipazione di nozze che gli avevano inviato Colonna e Maria Luisa,
maledicendosi subito dopo per non aver seguito l’esempio del suo amico, gettandola via non appena gli era stata recapitata.
«Certo che no!» esclamò, sottraendogliela di mano e stracciandola in innumerevoli pezzi. «Non sapevo dove fosse finita, ecco perché ancora non l’avevo buttata!» spiegò, ma quella risposta non dovette convincere molto la fidanzata, dato che assottigliò immediatamente lo sguardo e lo squadrò con i suoi occhi nocciola, critica e sospettosa allo stesso tempo.
«Quindi, non parteciperai al matrimonio della tua vecchia fiamma?» gli chiese, leggermente minacciosa. «Anche perché, se ci andassi, saresti l’unico di noi tre, sai?»
«Assolutamente no!» si affrettò a rispondere lui, sperando che lei non si ingelosisse per quella svista. «Già ero contrario prima... ma, dopo quel che mi avete riferito tu e Marcello sugli intrighi di Carter, Miller e Colonna, ci ho messo definitivamente una pietra sopra! Anche se ammetto che sono un po’ dispiaciuto per Maria Luisa».
«Ah sì?» fece lei, increspando leggermente le labbra e mostrandogli così tutto il suo disappunto.
«Non si trova in una bella situazione» spiegò allora Gerardo, buttando i coriandoli in cui aveva ridotto la partecipazione nel cestino sotto alla scrivania. «Chiunque con un po’ di sensibilità lo farebbe. E poi, sai bene che l’unica donna che abbia mai amato sei tu» concluse.
A tali parole, Vittoria sorrise intenerita e, dopo essersi protesa nuovamente verso di lui, gli sussurrò: «Sei davvero dolce, ma ciò non basta per farti perdonare, quindi ti suggerisco di inventarti qualcos’altro».
«Ehm, ad esempio?» domandò lui, sbattendo le palpebre e sentendo che il proprio battito cardiaco cominciava ad aumentare, proprio quando lei, divertita dalla sua espressione, lo afferrò improvvisamente per la cravatta e lo attirò a sé.
«Sono sicura che qualche idea ti verrà» mormorò, poco prima di cominciare a baciarlo con trasporto. Da parte sua, Gerardo rimase per qualche secondo intontito; poi, però, riuscì a ricambiare il bacio, arrivando perfino a mettersela in braccio e accomodandosi a sua volta sulla poltrona e cingendole delicatamente la vita.
La ragazza apprezzò talmente tanto l’iniziativa, che non tardò a manifestare la propria approvazione solleticandogli il collo con la punta delle dita e mordicchiandogli leggermente il labbro inferiore. Così stuzzicato, il giovane si sentì diviso tra due sensazioni molto diverse tra loro: da una parte la felicità di trovarsi in atteggiamenti così intimi con lei e
dall’altra la consapevolezza di essere ancora molto impacciato in quei gesti, unita al timore che le desse fastidio il suo essere così inesperto.
Infatti, percepiva l’abisso che c’era tra l’approccio di lei ed il suo, ammettendo anche che non sapeva proprio da dove cominciare per essere all’altezza della sua elegante sensualità.
All’improvviso, però, lei smise di baciarlo, allontanandosi di qualche centimetro.
«Gerardo, che cosa c’è?» gli chiese, scrutandolo a fondo, come se avesse percepito i suoi pensieri, e lui la guardò a sua volta, ma, non riuscendo a sostenere il sguardo dell’altra, abbassò rapidamente il proprio.
«Niente» bofonchiò, malinconico.
Non soddisfatta della risposta, Vittoria gli sollevò il mento ed incalzò: «Non dire bugie, sento che sei distante... non ti piace baciarmi, forse?»
Sorpreso da quella assurda considerazione, il giovane spalancò gli occhi ed esclamò: «Certo che mi piace, anche troppo, a dire il vero!»
La giovane, allora, lo guardò dubbiosa, ma non aggiunse altro, limitandosi a guardarlo con una punta di severità, come se si aspettasse che lui si convincesse a dirle la verità. Cosa che, infatti, accadde qualche secondo dopo.
«In realtà, è proprio questo il problema: io non sono bravo come te, io sono imbranato» sbottò infine lui, intristito, non riuscendo più a mentirle e, a quel punto, Vittoria sospirò, tradendo subito dopo un sorriso divertito.
«A me non dispiace affatto questo lato di te, sai?» gli disse, passandogli una mano tra i capelli e lasciandola poi scivolare lungo il collo. «Però, se ti mette così tanto a disagio, cerca di essere più rilassato: vedrai che il resto verrà da sé».
Annuendo appena, Gerardo sospirò a sua volta, accarezzandole una guancia: la felicità di averla finalmente tra le sue braccia aveva fatto nascere dentro di lui anche l’irrazionale paura che, se avesse fatto qualcosa di sbagliato, lei lo avrebbe lasciato. Tuttavia, non avrebbe potuto continuare a lungo in quel modo, giacché era stato proprio per i suoi timori di essere rifiutato che non le si era dichiarato prima, facendo soffrire entrambi.
«Facciamo così, va bene? Chiudi gli occhi» gli propose inaspettatamente Vittoria. «E promettimi che non li aprirai finché non avremo finito».
«Avremo finito... cosa?» domandò il ragazzo, imbarazzato e confuso.
Lei, però, non soddisfò la sua curiosità, limitandosi a sorridere, birichina, spiegandogli: «Non vale se te lo dico, perciò non credo che tu abbia scelta, se non quella di fidarti di me».
Non del tutto convinto, Gerardo le lanciò un’occhiata perplessa, ma fece comunque come gli aveva detto, senza sollevare ulteriori obiezioni.
Passarono solo pochi secondi prima che il ragazzo avvertisse che riprendeva a baciarlo, anche se, quella volta, lo fece in maniera più dolce, accarezzandogli i capelli, mentre lui, invogliato a ricambiare con la medesima delicatezza, le appoggiò una mano sulla schiena, sfiorandola con gentilezza. Allora, Vittoria approfondì il bacio, passandogli le braccia intorno al collo e Gerardo, come di riflesso, le mise le mani intorno ai fianchi, stringendo leggermente la presa.
Aveva appena cominciato ad assaporare meglio la piacevolezza di quelle effusioni, quando, all’improvviso, lei gli prese una mano e, spostando appena la stoffa della gonna, la mise sulla coscia, mozzando il respiro del giovane e dandogli l’impressione di aver perso le proprie viscere, sprofondate chissà dove.
«Visto che non era tanto difficile?» ridacchiò la ragazza, baciandolo ancora una volta.
Gerardo, a quel punto, si sforzò di non aprire gli occhi pur sentendosi andare a fuoco, mentre il cuore sembrava sul punto di scoppiargli da un momento all’altro; tuttavia, si sorprese quando si accorse di provare anche un forte desiderio di esplorare con il tatto quella parte del suo corpo, tanto che esercitò dapprima una lieve pressione, per poi, man mano che prendeva confidenza, affondare le dita nella coscia soda di lei, la quale, non volendo essere da meno, gli allentò la cravatta fino a sfilargliela e gli aprì i primi bottoni della camicia, accarezzandogli infine il collo ed il petto.
Diviso tra l’imbarazzo dettato dal timore che non lo trovasse attraente per via dei pettorali non particolarmente muscolosi, e l’euforia data da un momento di passione con la donna che amava, il giovane si sorprese a pensare che, alla fine, a Vittoria piaceva esattamente per quello che era.
Allora, schiuse lentamente le palpebre e la trovò, a sua volta, intenta a guardarlo ad occhi socchiusi.
«Non direi che sei poi così imbranato, sai?» commentò lei,
solleticandogli il mento e sorridendogli compiaciuta.
Il ragazzo rispose incurvando le labbra e spostandole i capelli dal collo, per poterlo accarezzare. Trascorsero così qualche minuto, traendo piacere dallo stare l’uno tra le braccia dell’altra.
«Hai deciso se andare a Dublino o no, la settimana prossima?» le chiese poi, ricordandosi con un certo dispiacere che, probabilmente, si sarebbero dovuti separare per due settimane, non potendo lui accompagnarla per via del lavoro.
«Non vuoi proprio che stia lontana da te, eh?» lo provocò lei, ridendo. «Scherzi a parte, non andrò da nessuna parte, perché Leandro non merita la mia presenza alla sua conferenza. Alla fine, non si è minimamente impegnato per venire alla mia mostra, anche se poi è stata un completo disastro».
Poi, si sistemò la gonna e scosse la testa, come per scacciare un pensiero molesto, assumendo l’espressione irritata che compariva sempre sul suo volto, quando era costretta a parlare del fratello. Gerardo sapeva che lui la trattava molto male, reputandola una ragazza sciocca e senza capacità, e questo lo aveva sempre portato a pensare che fosse una vera fortuna per Leandro che non si fossero mai incontrati, altrimenti gliene avrebbe dette certamente quattro.
«Inoltre, ho troppe cose da fare qui, non posso lasciare Beatrice da sola ad affrontare gli esami di ammissione alla maturità e nemmeno quella ragazza con cui ho appena iniziato il percorso terapeutico» aggiunse Vittoria, poco dopo.
«La ragazza che soffre di anoressia? È tornata per chiederti aiuto?» le domandò il giovane, sinceramente incuriosito, ma anche ben contento di poter cambiare argomento, giacché si era sentito in colpa per averla fatta inavvertitamente inquietare.
E, in quel momento, con sua grande sorpresa e piacere, la ragazza parve illuminarsi.
«Oh, sì, e non sai come sono contenta per questo!» esclamò, entusiasta. «Si è ricordata di tutto quello che le avevo detto e che le sarei stata vicino, se lo avesse voluto!»
«Avrà certamente capito che sei una psicologa davvero in gamba e in grado di aiutarla» le disse lui, in risposta, dandole un buffetto sulla guancia.
Sentendo quelle parole, Vittoria sorrise, mostrando compiacimento unito ad un leggero imbarazzo, poi si alzò. Gerardo subito la seguì, riabbottonandosi la camicia e dirigendosi verso lo specchio nel corridoio per rimettersi anche la cravatta.
«È passata quasi un’ora da quando siamo qui, ma Marcello ancora non è arrivato» le disse, in tono abbastanza alto, affinché lei lo potesse sentire dall’altra stanza.
La ragazza, allora, si affacciò in corridoio e, appoggiando una mano sullo stipite della porta, ammise: «L’ho notato anche io e per questo comincio ad essere preoccupata sul serio».
«Chiamiamo a casa, magari riusciamo a parlare con lui e a sapere se è successo qualcosa, cosa ne dici?» propose il ragazzo, raggiungendo in poche falcate il telefono e sollevando la cornetta. Compose subito il numero dell’amico e poi attese che qualcuno, dall’altra parte, alzasse il ricevitore, anche se, purtroppo, non successe; così, dopo una decina di squilli, decise di riattaccare.
A quel punto, alzò lo sguardo su Vittoria e, dopo aver dato una scrollata di spalle, la informò: «Non risponde nessuno».
«Nemmeno Ottavia?» replicò lei, incrociando le braccia sul petto, parecchio incupita.
«No» mormorò Gerardo, strofinandosi il mento con fare perplesso. Non gli piaceva quel silenzio ostinato, soprattutto perché conosceva molto bene l’amico e sapeva che non sarebbe mai sparito nel nulla così misteriosamente. Per giunta, il fatto che a casa sua non rispondesse nessuno portava a pensare che fosse successo qualcosa di veramente grave.
«Vogliamo andare a vedere di persona?» domandò dopo qualche secondo di riflessione il giovane alla sua compagna, non trovando altra alternativa, e lei, avendo compiuto un ragionamento analogo, fu subito d’accordo.
«Sì, credo proprio che non ci sia altro da fare» rispose.
***

Mentre aiutava Tiberio a riporre le valigie nel portabagagli, evitando accuratamente di rivolgergli la parola, Marcello si ritrovò a pensare per l’ennesima volta che non riusciva proprio a credere che quella situazione fosse reale, avendo l’impressione di essersi ritrovato a vivere, suo malgrado, la vita di un’altra persona. Infatti, se da una parte trovava difficile riuscire ad accettare tutto quel dolore, dall’altra riteneva impossibile dare ad esso una spiegazione razionale.
«Mamma, abbiamo finito con i bagagli, possiamo andare!» annunciò proprio in quel momentoTiberio, strappandolo brutalmente da quei pensieri ed avvicinandosi alla Matrona, che aveva dispensato per tutto il tempo consigli su come sistemare meglio le valigie, senza però alzare nemmeno un dito.
«Meno male, cominciavo a temere che avremmo perso il volo!» esclamò lei, alzandosi da una delle due panchine vicino alla scalinata d’ingresso e lisciandosi le pieghe del vestito.
«Impossibile, ho calcolato tutti i tempi, siamo perfino in anticipo!» ribattè il figlio, annuendo con fare saccente, mentre Marcello cercava in tutti i modi di trattenersi dal dargliele di santa ragione: il fratello, infatti, si era offerto di accompagnare i genitori a Fiumicino e lui gli aveva lasciato il ruolo di primadonna senza obiettare, non volendo armare una discussione anche per quello, poiché sapeva bene che meno interagiva con Tiberio, meglio era per tutti.
«Sbrigarsi non è mai uno sbaglio» sentenziò la signora Claudia, avanzando impettita verso l’auto e piazzandosi davanti ad essa, in attesa che il figlio maggiore le aprisse lo sportello per farla accomodare sul sedile posteriore.
Come sempre, Tiberio capì al volo ciò che desiderava e si adoperò per soddisfarla, mentre il signor Giancarlo li osservava con un sopracciglio alzato ed un’espressione perplessa sul volto.
«Marcello, ti dispiacerebbe darmi una mano?» chiese allora, gentilmente, alzandosi a sua volta con grande fatica e cominciando ad avanzare molto lentamente.
«Papà, ti aiuto io!» si offrì, però, l’altro figlio, richiudendo lo sportello e scattando in avanti nel tentativo di anticipare il fratello; tuttavia, il padre lo fermò prima, alzando una mano.
«No, non ti preoccupare, figliolo» gli rispose, pacatamente. «Tu comincia pure ad andare ad aprire il cancello grande, mi aiuterà Marcello».
Dopo queste parole, il ragazzo rimase spiazzato per qualche istante, per poi ricomporsi piuttosto rapidamente ed eseguire, anche se non prima di aver lanciato un’occhiata risentita al fratello, borbottando qualcosa tra sé e sé.
A quel punto, il biondo si affrettò a raggiungere il padre, offrendogli il braccio come appoggio per camminare, tuttavia, l’uomo, prima di accettare quella cortesia, lo osservò attentamente per qualche istante.
«Cosa devi dirmi? Quando mi guardi così devi sempre dirmi qualcosa di importante» gli chiese, gentile.
«Avrei preferito venire anche io» rispose di getto l’altro, sostenendolo saldamente mentre camminava.
«Marcello, ne abbiamo già parlato, mi accompagnerà solo tua madre, perché sarebbe inutile andare tutti. Io tornerò qui con le mie gambe» affermò il signor Giancarlo, mantenendosi fermo nel tono, nonostante l’andatura incerta. «E poi, sai bene che la signorina dell’agenzia ha faticato parecchio per trovare anche solo due biglietti aerei in così poco tempo».
«Almeno, chiama quando puoi».
«Oh, sai bene che tua madre chiamerà sempre, anche quando non potrà» commentò bonariamente l’uomo.
Non dubitando nemmeno per un istante che le cose sarebbero andate proprio così, Marcello sospirò e mormorò, in modo tale che solo il padre potesse sentirlo: «Io voglio sentire te, però».
Quello, allora, si arrestò proprio dinnanzi all’auto e lo guardò, tra il serio ed il divertito.
«Mi sentirai» lo rassicurò, battendogli affettuosamente una mano sulla spalla. «Non ho intenzione di morire prima di aver visto il mio nipotino. O la mia nipotina, ovviamente. Anche se forse sarebbe meglio un maschietto, sai? Una principessina basta e avanza».
Il ragazzo, che si era proteso per aprirgli la portiera, nel sentire ciò si fermò immediatamente e si voltò verso il genitore, con un’espressione alquanto stralunata.
«Ortensia è di nuovo incinta? Perché nessuno mi ha detto niente?» gli domandò, sbattendo le palpebre.
A quel punto, il signor Giancarlo alzò gli occhi al cielo, avvicinandosi alla portiera ed aprendola con qualche difficoltà.
«Fino a prova contraria, non è solo Tiberio che può darmi dei nipoti» notò, dopo essersi accomodato sul sedile anteriore. «Non è forse vero che ho due figli?»
Marcello, avendo finalmente capito cosa intendesse l’uomo, avvampò e fece per ribattere, tuttavia, proprio in quel momento, sopraggiunse Tiberio, che spinse via il fratello e, con fare dispotico, ordinò: «Dobbiamo andare via immediatamente, non abbiamo tempo da perdere!»
Dopo di che, chiuse con un colpo secco lo sportello del padre e fece il giro, per andare a sedersi al posto di guida.
Evitando accuratamente di fargli presente che aveva contraddetto ciò che aveva detto poco prima, l’altro gli lanciò un’occhiataccia; poi, attraverso i vetri dell’auto, augurò buon viaggio ad entrambi i genitori, riservando, però, solo al padre un sorriso pieno di speranza.

Non appena il resto della sua famiglia ebbe lasciato la villa, Marcello sospirò, affranto, per poi andare a chiudere il cancello, mentre una bolgia di pensieri negativi gli scoppiava in testa, offuscandogli la mente: si sentiva come se uno dei pilastri sui quali si era sempre poggiato si stesse sgretolando sotto ai suoi piedi, minacciando l’equilibrio al quale era abituato e gettandolo in una strana agitazione.
Con molta fatica, fissò a terra un’anta del cancello e stava per chiudere anche l’altra, quando si sentì richiamare improvvisamente. Tuttavia, dopo che ebbe rialzato la testa, ci mise qualche istante a mettere a fuoco Gerardo e Vittoria, che lo stavano salutando dall’altro lato della strada.
«Cosa ci fate qui?» domandò loro, perplesso, non appena furono abbastanza vicini da sentirlo senza che alzasse la voce, visto che non aveva né voglia, né forze sufficienti per urlare.
Il tono con cui aveva posto la domanda insospettì subito l’amico, che si soffermò a guardarlo, sulla fronte una ruga che esprimeva tutta la sua preoccupazione.
«Non ti sei presentato al lavoro, allora abbiamo chiamato a casa, ma non ha risposto nessuno» rispose quello, riassumendo tutto in poche parole. «Così siamo passati a vedere come stai».
«Ci è sembrato strano che non rispondesse nemmeno Ottavia» aggiunse la ragazza, anche lei visibilmente in apprensione.
Marcello li guardò entrambi, vedendo riflessa sui loro visi la stessa inquietudine che avvertiva dentro di sé, ma ci mise un po’ per capire davvero quello che gli avevano detto, impiegando pertanto parecchio tempo anche per rispondere.
«Oggi è domenica, perché eri in ufficio?» fu tutto quello che riuscì a dire, appigliandosi all’unico dettaglio che lo aveva colpito.
«No, oggi è sabato» lo corresse l’altro, sempre più preoccupato. «E, per giunta, toccava a te andarci».
Improvvisamente, fu come se nella mente del giovane si fosse acceso un barlume di lucidità, facendogli capire cosa gli avessero effettivamente detto.
«Oh, hai ragione...» mormorò, spaesato, facendo vagare lo sguardo sui suoi amici, ma senza soffermarsi su nessuno dei due in particolare. «Scusami sul serio, Gerardo. La verità è che non ci sto molto con la testa...»
I due ragazzi, nel sentire la sua risposta, si scambiarono un’occhiata nervosa ma, poco dopo, fu solo Gerardo a riprendere la parola: «Figurati, non è successo niente. Piuttosto, stai bene? Sembri molto provato».
A tale affermazione, Marcello chiuse gli occhi e sospirò, consapevole che fosse arrivato il momento di dire loro la verità, nonostante per lui fosse un grandissimo sacrificio dire ad alta voce cosa stava succedendo a suo padre, poiché significava eliminare ogni dubbio sul fatto che quella fosse la realtà. Sapeva bene che quello non era un comportamento razionale, eppure, dopo una lunga riflessione, era arrivato alla conclusione che dovesse trattarsi di uno strano meccanismo innescato dalla sua mente per autoproteggersi.
«Tiberio sta accompagnando mamma e papà all’aeroporto, perché sono in partenza per Zurigo» buttò fuori, tutto d’un fiato, sperando di non dover essere costretto a ripeterlo.
«Per Zurigo?» ripeté Gerardo, stranito.
«Sì, ecco...» ricominciò il biondo, incerto, prima di rendersi conto che quello non era il luogo più adatto per parlare di una questione tanto delicata. Era certo che i suoi amici non avrebbero preso bene la notizia e lui stesso sentiva di aver bisogno di sedersi.
«Marcello, per l’amor del Cielo, sei pallido e sembri stravolto!» esclamò all’improvviso Vittoria, che a quella reticenza non era riuscita più a trattenere la sua inquietudine. «Cosa è successo? Parla!»
Lui la guardò e, finalmente, con tono rassegnato, sussurrò: «Venite dentro. Così saprete tutto».

Le lacrime di Vittoria e lo sgomento di Gerardo resero Marcello ancora più triste, anche se il ragazzo era cosciente che non si sarebbe potuto aspettare una reazione diversa da parte loro, dato che conoscevano il signor Giancarlo da quando erano bambini e gli erano incredibilmente affezionati.
Quando il giovane finì di parlare, erano entrambi seduti sul divano della biblioteca, mentre lui affondava nella poltrona di fronte, raccolto su se stesso, nel tentativo di rassicurarsi da solo.
«Oh, n-non... non p-può....» singhiozzò la ragazza, mentre il fidanzato tentava di consolarla, accarezzandole i capelli. Qualche istante dopo, quello si voltò verso l’amico e, riservandogli un’occhiata mesta, gli chiese: «Però, non è ancora detta l’ultima parola, giusto?» 
L’altro sospirò per l’ennesima volta: trovava molto difficile parlare della malattia di suo padre, ma sapeva che i due ragazzi volevano solo fargli coraggio, come era successo quando avevano rapito Beatrice, e lui non poteva non apprezzare tale gesto, per questo si sforzò di rispondergli: «Sembra che dipenda tutto dall’esito di questo intervento. Ho parlato con il dottor Conti, un amico di papà, ma ammetto che, quando ha cominciato a blaterare di percentuali di sopravvivenza a cinque anni... non ho voluto più sentire altro».
Gerardo annuì, intristito, stringendo più forte a sé Vittoria, la quale era ormai aggrappata a lui, singhiozzando sommessamente.
«Lo s-so che non t-ti aiuto piangendo... scusami, non devo comportarmi come se fosse tutto deciso» disse, a bassa voce, quando riemerse dall’abbraccio del suo ragazzo, forse rivolta più a se stessa che a Marcello. Qualche secondo dopo, però, aggiunse: «
V-Vuoi... che restiamo con te?»
Tuttavia, lui scosse la testa, sorridendo dolcemente: «No, tranquilli. Non ce ne è bisogno».
La ragazza aggrottò appena la fronte, non del tutto convinta.
«Sicuro?» insistette, lasciando definitivamente la presa su Gerardo e voltandosi completamente verso l’amico, il quale rimase a fissarla per qualche secondo, cercando le parole giuste per esprimere ciò che provava. In quel momento, dentro di sé sentiva soltanto una gran confusione e trovava difficile capire cosa lo avrebbe davvero quietato, pertanto non trovava giusto obbligarli a rimanere, sapendo che poi, magari, sarebbe stato colto da una forte smania di voler restare solo e avrebbe intimato loro di andarsene su due piedi. Conosceva il lato tremendamente solitario del suo carattere, soprattutto nel dolore, e sapeva che la possibilità che accadesse non era poi così remota.
«
Apprezzo il pensiero» disse, lentamente, «ma adesso non so nemmeno io di che cosa ho bisogno».
La ragazza annuì, anche se non mancò di aggiungere: «Se dovessi cambiare idea, però, chiamaci, capito? Anche di notte!»
«Vittoria ha ragione, non ti fare problemi proprio ora» aggiunse Gerardo, mostrandosi fermo nell’appoggiare la fidanzata.
Nel vederli così partecipi e attenti, Marcello sorrise, riconoscente. Sapeva di essere davvero fortunato ad avere due amici come loro, pronti a sostenerlo sempre, senza forzarlo, facendogli capire allo stesso tempo che per lui ci sarebbero stati in qualunque momento.
«Grazie».
A quel punto, i due ragazzi si alzarono dal divano ed esortarono l’amico ad accompagnarli alla porta, più per distrarlo e per farlo stare ancora un po’ in loro compagnia, che perché ne avessero effettivamente bisogno, dato che conoscevano a memoria tutti i corridoi e le stanze della villa.
«Beatrice lo sa?» domandò Vittoria all’improvviso, quando giunsero nell’ingresso.
Nell’udire quel nome, la mente di Marcello percepì dei pensieri positivi, abbassò le difese e si dimostrò più collaborante, permettendogli di organizzare una risposta senza troppe difficoltà.
«Non ancora, io stesso l’ho saputo due giorni fa...» spiegò. «Tu, però, non farne parola con lei, voglio essere io stesso a dirglielo. D’accordo?»
«Credo sia anche giusto così» commentò Gerardo.
Pochi minuti dopo si congedarono e, in quel momento, i due abbracciarono entrambi Marcello con trasporto, facendogli percepire ancora una volta quanto ci tenessero a lui e il giovane, nonostante la sua abituale ritrosia a manifestare troppo i suoi sentimenti, ricambiò con vigore, deciso a far capire loro, almeno con i gesti, quanto fosse loro grato, in quell’occasione più che mai, che fossero suoi amici.

Una volta lasciatosi alle spalle la porta chiusa, il giovane avvertì distintamente un velo di malinconia depositarsi su di lui e su tutto ciò che lo circondava, come se una sorta di potente incantesimo fosse sceso su tutta la villa.
Perfino Ottavia, Annetta e le altre tre cameriere, data la situazione, si erano ritirate nelle loro stanze, perciò l’unica compagnia che gli era rimasta era il suo stesso silenzio, che lo seguiva nel suo vagare per i corridoi, poiché non riusciva a pensare ad un’attività che lo avrebbe distratto abbastanza, che fosse accendere la televisione o leggere un libro, a causa della poca concentrazione di cui disponeva. Quando giunse davanti al balcone della sala, quello che dava sul giardino posteriore, lo sguardo del ragazzo si perse nel fitto della vegetazione che, sotto la fioca luce del crepuscolo, sembrava addormentata a sua volta.
Fu proprio allora che capì perché non riusciva a liberarsi di quell’opprimente angoscia che lo perseguitava: per la prima volta da quando aveva memoria, si stava sentendo solo.
Non aveva mai sofferto la solitudine, anzi, era successo molte altre volte che si trovasse solo in casa per parecchi giorni ed era stato benissimo unicamente in compagnia di se stesso; tuttavia, sentiva che quella volta era diverso, giacché l’inquietudine che lo opprimeva era persino più profonda di quella provata quando era stata rapita Beatrice.
Subito dopo, poggiò le punte delle dita contro il vetro, ma quello, nonostante il tepore di fine aprile, gli risultò freddo, costringendolo a ritrarsi immediatamente, mentre avvertiva chiaramente che l’unico modo per spezzare quell’oscuro sortilegio era uscire da quella casa e parlare con qualcuno che avrebbe potuto confortarlo.
Immediatamente, i suoi pensieri si rivolsero alla fanciulla e il desiderio di passare un po’ di tempo con lei cominciò ad alimentare in lui una piccola speranza di trovare un attimo di pace. Infatti, nonostante Gerardo e Vittoria gli avessero offerto il loro aiuto, Marcello sapeva benissimo che l’unica che poteva dargli il conforto di cui aveva bisogno era proprio Beatrice.
Così, rinfrancato dalla prospettiva di rivederla, il ragazzo diede una rapida occhiata all’orologio da polso, accorgendosi che erano solo le nove meno un quarto; allora, tamburellò pensieroso le dita contro il telaio della finestra, facendo un rapido calcolo del tempo che ci avrebbe impiegato per raggiungere la casa di Vittoria e stimando che, prendendo l’auto di suo padre e con il modesto traffico della tarda sera, gli sarebbe occorsa un’oretta.
A quel punto, si chiese se, in quel periodo, Beatrice stesse studiando fino a tardi; se non ricordava male, infatti, la ragazza avrebbe dovuto sostenere gli esami di ammissione alla maturità verso la metà di maggio, perciò, temendo di disturbarla, Marcello tentennò per qualche istante, indeciso.
Tuttavia, si scoprì incapace di rinunciare alla possibilità di vederla, anche solo per qualche istante, così si decise ad andare comunque, ripromettendosi di non distrarla oltre il necessario.
***

Tra gli indubbi vantaggi che gli avevano dato anni di frequentazione di casa di Vittoria, c’era anche quello di conoscere a memoria tutti i punti deboli della recinzione, a cominciare dalle aste di ferro non fissate bene, che potevano costituire un ottimo punto d’accesso senza il bisogno passare dal cancello.
Non appena si era formata nella sua mente l’idea di andare da Beatrice, era sorta contemporaneamente anche l’intenzione di non suonare il citofono, giacché non voleva che gli abitanti della villetta sapessero che era andato lì, desiderando che la sua visita rimanesse privata. Infatti, se nei mesi precedenti era stato stancante vedere la fanciulla di nascosto, adesso dover essere costretto ad informare mezza città, ogni volta che voleva parlare con lei, era anche peggio.
Nonostante il buio, comunque, il giovane si mosse con sicurezza in quel giardino così familiare, procedendo con cautela fino ad arrivare sotto al balcone della stanza di Beatrice, notando che, attraverso la finestra, si intravedeva qualche tenue riflesso luminoso sul muro, segno che la ragazza non stava ancora dormendo. A quel punto, però, gli si presentò il problema di come richiamare l’attenzione di lei senza svegliare l’intero quartiere.
Quando era andato a trovarla nottetempo a casa della zia, infatti, era stato fortunato, poiché lei era uscita per puro caso proprio nel momento in cui era arrivato davanti al cancello, ma sapeva che una tale fortuita circostanza non si sarebbe ripresentata tanto facilmente, pertanto decise di optare per la soluzione più ovvia: arrampicarsi fino al balcone usando il graticcio di legno per il gelsomino come appoggio, sfruttando il fatto che la camera fosse situata soltanto al primo piano.
In realtà, non era la prima volta che si cimentava in una simile impresa, anche se, fino ad allora, lo aveva fatto sopratutto da piccolo, giocando con Vittoria e Gerardo; inoltre, aveva una buona resistenza fisica, così giunse sul balcone in un batter d’occhio. Non appena ebbe poggiato entrambi i piedi a terra, intravide attraverso la finestra la ragazza di spalle, intenta a scrivere qualcosa, soffermandosi di tanto in tanto per pensare senza, però, distogliere la testa da ciò che aveva davanti.
Allora, sorridendo, il giovane decise di bussare subito al vetro con delicatezza, augurandosi che Beatrice, nel vederselo comparire così all’improvviso, non si spaventasse troppo e, per fortuna, fu proprio ciò che accadde.
Infatti, non appena il ragazzo ebbe finito di battere il secondo colpo, la ragazza rizzò la schiena, voltandosi immediatamente nella direzione da cui era provenuto il rumore; nel vederlo, aveva spalancato gli occhi per la sorpresa, ma senza gridare, alzandosi invece in piedi e avvicinandosi al balcone.
«Ciao, Beatrice» la salutò dolcemente Marcello, nello stesso istante in cui lei aprì la finestra.
«Marcello... oh, che tu ci fa’ qui?» esclamò lei, lasciando trapelare tutta la sua sorpresa, facendo saettare di continuo lo sguardo da lui al parapetto, forse domandandosi come fosse arrivato fin lì.
«Volevo vederti» rispose semplicemente il giovane, sussurrando.
«Davvero?» chiese la fanciulla, ancor più sorpresa, arrossendo all’istante. Tuttavia, poco dopo assunse un’espressione confusa e, guardandosi attorno, fece, anche lei a bassa voce: «Ma... perché non se’ passato dalla porta?»
«Perché non volevo che nessuno sapesse della mia visita» replicò lui, sincero. «Sai, non sopporto più di dover rendere conto a destra e manca ogni volta che voglio parlarti!»
Corrugando la fronte, la ragazza lo fissò per qualche secondo, per poi lanciare uno sguardo oltre la sua spalla e, avendo dedotto tutto alla perfezione, esclamò: «Ah, ora capisco come hai fatto, ti se’ arrampicato su per il graticcio!»
L’altro stava per rispondere affermativamente, ma quella non gliene diede modo perché, dimostrando di aver apprezzato particolarmente la sua iniziativa, aggiunse: «Oh, siamo quasi come Romeo e Giulietta!»
«Sì, però, se noi restassimo vivi, sarebbe meglio» commentò, allora, Marcello, che non voleva certo prendere in considerazione l’eventualità che lui e Beatrice facessero la stessa macabra fine degli amanti di Verona.
«Oh, ma l’è ovvio che non intendevo in quel senso!» si difese lei, stizzita. «Come se’ poco romantico!»
A quell’osservazione, lui scrollò le spalle e considerò: «Sai, ho sempre avuto il sospetto di non essere stato il primo della fila, quando distribuivano il romanticismo».
Sconsolata, la ragazza, a quel punto, sospirò e scosse la testa, anche se poi lo invitò comunque ad entrare nella stanza, avvolta dalla penombra; la prima cosa che notò il giovane, non appena vi mise piede dentro, però, fu la gran quantità di oggetti poggiati sulla scrivania: c’erano almeno quattro tra libri e quaderni aperti, illuminati da una lampada da tavolo, diverse penne e matite colorate, alcune gomme per cancellare, una calcolatrice, un bloc-notes e una tazza vuota.
«Stavi ripassando qualcosa, per caso?» si informò, avvicinandosi al tavolo per dare un’occhiata più da vicino.
«Non posso fare altro» ribatté lei, improvvisamente incupita. «Il quindici m’aspettano gli esami d’ammissione, ma non sono tanto quelli a preoccuparmi, quanto più il programma di fisica: ho scoperto solo qualche giorno fa che l’è raddoppiato».
Il ragazzo annuì, poi prese in mano il libro con gli esercizi e cominciò a sfogliarlo per studiarne attentamente il contenuto, trovandolo di livello abbastanza avanzato.
«Come te la cavi in questa materia?»
«Ehm, sinceramente?»
Marcello non rispose, limitandosi ad alzare lo sguardo dal libro per fissarlo su di lei che, dal canto suo, arrossì e chinò la testa, ammettendo con un sospiro: «Un disastro».
Poi ci fu qualche istante di silenzio dopo i quali Beatrice, ormai visibilmente in preda all’ansia, riprese a parlare un po’ troppo velocemente: «E in matematica non vado meglio. Tra l’altro
, la prima prova è fissata per il ventidue1 e, considerando che i privatisti comincian gli orali prima di tutti, ho pochissimo tempo... praticamente poco più d’un mese e mezzo per fare un miracolo! Purtroppo, io odio le materie scientifiche, non sono un asso come te!»
Nel sentirla così agitata, il giovane inclinò appena la testa da un lato, perplesso: se fosse andata avanti così, la ragazza sarebbe caduta nella psicosi, pertanto trovò sensato cercare di rassicurarla. Così, rimise nuovamente il libro sulla scrivania, riportandolo alla pagina cui era prima e si avvicinò alla ragazza, optando per un approccio delicato.
«Immagino sia stata Vittoria a dirti che i numeri non mi dispiacciono» le disse, lanciandole uno sguardo tra l’intenerito ed il divertito. «Comunque, se vuoi una mano, posso aiutarti io».
A quella proposta, Beatrice lo fissò stupita e a lui parve che si fosse già in parte ripresa.
«Lo faresti sul serio?»
«Tu che ne dici?» replicò lui, scrutandola mentre increspava appena le labbra, incrociando le braccia sul petto. «E poi, te l’avevo già proposto tempo fa, non ricordi?»
Non potendo più obiettare, la ragazza gli sorrise, timidamente riconoscente, riprendendo posto alla scrivania, subito seguita da Marcello che, in mancanza di un’altra sedia e non potendo uscire dalla stanza per andare a recuperarne una, fu invitato ad accomodarsi sul letto, posto accanto.
«C’è qualcosa in particolare che non ti è chiaro?» domandò subito lui, riprendendo tra le mani il libro e leggendo il titolo del paragrafo che la fanciulla stava studiando prima del suo arrivo: Differenze e similitudini tra il campo magnetico ed il campo elettrico.
«Sì!» esclamò Beatrice, risoluta, come se non aspettasse altro che quella domanda. «Nella vita, a cosa mi serviranno tutte queste formule?!»
Quella risposta lasciò Marcello talmente basito da restare a fissarla con il libro in mano, sbattendo le palpebre, prima si scoppiare a ridere, sentendo che il peso che portava sul cuore si stava pian piano alleggerendo.
«Be’, forse tu non le userai mai nella vita» le spiegò, ancora con il sorriso sulle labbra, mentre le rimetteva
davanti agli occhi il tomo di fisica, «ma a qualcun altro che, magari, vuole fare l’ingegnere potrebbero tornare molto utili, quindi la scuola deve dare un’infarinatura di tutto».
Lei lo guardò scettica e sbuffò sonoramente, appoggiando i gomiti sulla scrivania e puntando i pugni contro le guance; rimasero a fissarsi così per circa un minuto, alla fine del quale la ragazza cedette e, dopo aver tirato un sospiro di rassegnazione, disse: «Credo che sia meglio cominciare dai vettori di campo».
Annuendo, Marcello si allungò per farsi dare carta e penna, così da poter cominciare a spiegarle quel concetto, per poi passare a formule sempre più complesse, scoprendola un’allieva attenta e partecipe, bloccata solo dalla paura di non essere all’altezza della prova che l’attendeva; quando il giovane ebbe finito di parlare, le consegnò la penna e le fece ripetere tutto quello le aveva spiegato, trovandosi ad intervenire solo un paio di volte per rettificare in minima parte le sue parole.
«Adesso sì che l’è tutto più chiaro» disse ad un certo punto Beatrice, soddisfatta. «Se’ molto bravo nello spiegare».
«Forse non studierai mai ingegneria, ma almeno affronterai la maturità con più serenità» replicò il ragazzo, stiracchiandosi appena per sciogliere i muscoli, un po’ irrigiditi dopo essere stati molto tempo nella stessa posizione.
Quando tornò a guardare Beatrice, la vide ricambiare lo sguardo di sottecchi con un’espressione pensierosa, come se stesse cercando di prendere coraggio per dirgli qualcosa, che, infatti, non tardò ad esprimere poco dopo: «Marcello, io... ecco... lo so che ti chiedo tanto, ma... m’aiuteresti a ripetere fino all’esame? Se mi confrontassi con te, sarei più tranquilla».
Vedendola così tesa, lui si addolcì non poco e
non poté fare a meno di sorridere.
«Se può esserti d’aiuto, molto volentieri».
«Anche con la matematica?»
Aspettandosi che sopraggiungesse anche quella richiesta, il giovane inclinò appena la testa e annuì, ricevendo in cambio un gran sorriso pieno d’entusiasmo.
Osservando la delicatezza con la quale la ragazza si muoveva per mettere a posto le cose sparse sulla scrivania, Marcello si sentì pervadere da un senso di calma che non credeva possibile in quel momento, considerata l’angoscia che si portava dentro: quando si trovava con Beatrice, però, si sentiva davvero bene, era come se avesse raggiunto un nuovo equilibrio che non sarebbe più potuto esistere senza di lei. Pur non sapendolo, lei l’aveva aiutato a sopportare meglio la sua precaria situazione familiare, pertanto pensò che sarebbe stato giusto aiutarla ad alleviare l’angoscia che le stava dando la preparazione per gli esami.
«L’otto maggio è il tuo compleanno, giusto?» le domandò, all’improvviso.
«Oh, te ne se’ ricordato...» fece quella, sorpresa, stringendo tra le mani le matite che stava radunando, mentre le sue guance si colorivano di un rosso tenue, «volevo dire, sì, è l’otto. Perché me l’hai chiesto?»
«Ti ricordi che volevo portarti a fare un giro nei dintorni di Roma? Potremmo farlo in quest’occasione».
«Oh, sarebbe fantastico!» esclamò lei, contenta. «Solo che preferirei fare dopo il quindici, sai, con l’ansia per gli esami d’ammissione potrei rovinare la giornata».
«Mi sembra giusto» le concesse lui, d’accordo.
Stava per aggiungere qualcos’altro, quando, improvvisamente, Beatrice si andò a sedere accanto a lui, puntandogli contro uno sguardo severo.
«Non m’hai detto, però, perché sei venuto qui di fretta» gli disse, poi, con una punta di rimprovero. «Anche se per colpa di questa maturità sto sfiorando l’isteria, mi son accorta che se’ preoccupato, sai? Solo che non m’hai ancora detto perché».
Meravigliato che la fanciulla, nonostante i suoi sforzi, avesse capito che c’era qualcosa che non andava, Marcello rimase interdetto. Tuttavia, ben presto sentì prevalere in lui un forte senso di tenerezza verso di lei e le avvicinò una mano al viso, accarezzandolo.
«Non ti si può proprio nascondere niente» le sussurrò, con dolcezza.
«Come hai visto, no!» ribatté lei, decisa incrociando le braccia sul petto.
A quel punto, il giovane sorrise e si avvicinò ulteriormente a lei, dandole un bacio sulla guancia che, però, lo lasciò insoddisfatto. Avvertendo di desiderare qualcosa di più, si spostò dolcemente all’angolo della bocca ed infine sulle labbra, in un crescendo di intensità, ma, al tempo stesso, assaporando ogni attimo di quella serenità rubata: per qualche misero istante voleva scrollarsi di dosso ogni preoccupazione e ogni ansia. Così, affondò anche una mano tra i capelli ramati di lei, facendo scivolare lentamente l’altra sul fianco.
Dal canto suo, Beatrice gli appoggiò le proprie sulle spalle, ricambiando il bacio con partecipazione e facendogli percepire tutto il suo calore, mentre con delicatezza lo invitava a stendersi comodamente con lei sul letto, senza staccarsi da lui nemmeno per un istante. Lo fecero solo molto tempo dopo, rimanendo però abbracciati a scambiarsi carezze.
«Se mi prometti che questo sarà il premio che mi spetterà per ogni esercizio risolto bene, forse la fisica potrebbe anche cominciare a piacermi...» gli sussurrò Beatrice, strappandogli ancora un bacio a fior di labbra.

Marcello, allora, le spostò una ciocca dal viso, sfiorandola appena e soffermandosi a contemplarla nella sua semplice bellezza. Non voleva caricare d’angoscia anche lei, ma costretto a dirle cosa era successo, sia perché ormai non poteva più nasconderlo, sia perché trovava giusto che fosse lui stesso ad informarla della situazione.
«Due giorni fa ho scoperto che mio padre sta molto male» le disse, ricominciando a passarle una mano tra i capelli.
A tale affermazione, la ragazza spalancò i suoi occhi blu e, incredula, domandò: «Il tu’ babbo? Cos’ha?»
Il ragazzo trovò estremamente difficile ripetere ancora una volta cosa affliggeva il signor Giancarlo, soprattutto perché gli sembrava che, ogni volta, la situazione diventasse più concreta.
«Ha un linfoma gastrico» mormorò, concentrandosi sul movimento delle ciocche di lei tra le sue dita per non cadere di nuovo vittima di orribili pensieri. «Lo sapeva, ma non ce l’aveva detto. Ed ora è a Zurigo, in attesa di essere operato».
«Cosa..?» fece Beatrice, guardandolo con un’espressione sconcertata; poi, inaspettatamente, lo abbracciò forte, senza aggiungere altro, lasciando che lui percepisse semplicemente la sua presenza e la sua vicinanza. Il giovane le fu talmente grato che le avesse dimostrato affetto, anziché compassione, che ricambiò la stretta, affondando il viso nella sua chioma e lasciandosi cullare dal suo profumo di fresca lavanda. Rimase a farsi confortare da lei per più di un’ora e, se fosse stato per lui, non si sarebbe più mosso da quella posizione, ma, purtroppo, sapeva che non era possibile, anzi, era certo di essersi intrattenuto con lei anche più del previsto.
«Forse è ora che vada, devi andare a riposare, visto che domani devi studiare nuovamente» le disse, avvertendo, però, che il suo corpo non la pensava alla stessa maniera, giacché sembrava che ogni singola fibra si rifiutasse di muoversi, malgrado i suoi sforzi.
Lei, allora, si staccò, riservandogli un’occhiata mesta e dolce allo stesso tempo.
«Perché, invece, non... resti a dormire qui... con me?» gli domandò, timidamente. «So che hai un carattere forte, ma, magari, in queste condizioni non vuo’ restare solo in casa...»
Marcello socchiuse appena gli occhi, provando un dolore sordo al petto: avrebbe accettato volentieri, perché gli sarebbe piaciuto farla addormentare tra le sue braccia, ma sapeva che non era possibile.
Infatti, anche se non si sarebbe mai permesso di metterle le mani addosso, rimanere lì non sarebbe stato comunque corretto nei confronti dei genitori di Vittoria, che avevano accolto Beatrice sotto la loro protezione e avevano sempre trattato lui al pari un figlio, fin da quando era piccolo; si era già introdotto in camera furtivamente, pertanto passare la notte lì sarebbe stato troppo, nonostante bramasse la serenità che lei sapeva infondergli come acqua nel deserto.
«Ho detto ad Ottavia che sarei rincasato tardi, ma che sarei comunque tornato. Non voglio farla preoccupare» le rispose, dandole un ultimo bacio sulla fronte ed alzandosi finalmente dal letto, sapendo solo lui quanto gli era costato farlo.
«Ah, va bene» fece la ragazza delusa, mettendosi seduta e stringendo le spalle, mentre il giovane pensò che, ormai, la loro situazione non sarebbe potuta andare ulteriormente avanti in quella maniera, giacché non doveva interessare a nessuno con chi lei passasse ogni notte.
Fu così che, mentre la salutava e usciva fuori sul balcone, prese una decisione ferrea: seguendo il consiglio di suo padre, le avrebbe chiesto di sposarlo.
***

Appoggiata contro il muro accanto alla sala professori, Beatrice fissava pensierosa il pavimento, stringendo tra le braccia il Rocci2, in attesa che la chiamassero per dirle come erano andati gli scritti e per farle il colloquio finale sulla maggior parte delle materie umanistiche, mentre, per matematica, fisica, inglese e storia dell’arte (l’unica ventata d’aria fresca in mezzo a quell’ecatombe) avrebbe dovuto aspettare il giorno successivo.
Purtroppo, quella mattina ancora non c’era stato modo di conoscere i professori della classe alla quale era stata abbinata, giacché sembrava che fossero tutti troppo impegnati per presentarsi e, addirittura, quello di italiano e greco aveva lasciato le tracce delle prove di ammissione alla segretaria, che poi le aveva presentate a lei.
A pochi passi di distanza, c’erano due ragazzi della seconda3 D, uno basso e minuto ed uno decisamente robusto, messi in punizione dal loro insegnante e sfruttati come testimoni durante lo svolgimento delle prove; stavano parlottando tra di loro, come avevano fatto per tutto il tempo, senza rivolgerle la parola nemmeno una volta e facendola sentire più a disagio di quanto già non fosse, mentre era impegnata a rimuginare su quanto aveva fatto durante la mattinata. Infatti, nonostante fosse piuttosto sicura di aver tradotto bene il passo dell’Apologia di Socrate, aveva qualche dubbio sullo svolgimento del tema sulla violenza nella società, perché avrebbe voluto scrivere molte più cose, perciò non era sicura di aver selezionato quelle più importanti.
Mentre si arrovellava il cervello con questi pensieri, passò davanti a lei un uomo alto e molto magro con i capelli brizzolati, che si fermò poco prima di entrare in sala professori, apostrofando i due ragazzi: «Righetti e Noldi, vedo che anche quest’anno avete deciso di soggiornare perennemente in presidenza!» commentò.
«In realtà, professore, saremmo potuti andare via ore fa, ma ci hanno incastrato per fare da testimoni alla privatista» rispose quello basso e minuto, indicando Beatrice con un cenno del capo e lei, sentendosi chiamata in causa, si staccò dal muro, pronta a ribattere che non era colpa sua se, per legge, durante lo svolgimento delle prove dovevano essere presenti due testimoni. Tuttavia, nel vedere l’occhiata piena di superbia che le lanciò l’insegnante, le parole le morirono in gola.
«Ah, sei tu, allora» fece quello, squadrandola con un sorrisetto beffardo. «La signorina che non ha voluto frequentare la scuola come tutti i comuni mortali».
Irritata da quel commento, la ragazza socchiuse gli occhi, ma non osò rispondere per le rime, non sapendo chi fosse e che poteri avesse quell’uomo, poiché, se già aveva quei pregiudizi verso di lei senza nemmeno conoscerla, sarebbe stato poco saggio alimentare quella diffidenza.
«Allora, restate qui. Quando vi chiamerò, entrerete tutti e tre» ordinò poi quello, secco, prima di entrare nella stanza.
Beatrice si riappoggiò subito al muro, corrugando appena la fronte, per nulla rassicurata da quell’insegnante che aveva già mostrato una palese riserva nei suoi confronti, solo perché stava affrontando l’esame di maturità senza aver frequentato l’ultimo anno di scuola come tutti gli altri ragazzi della sua età. Magari, se avesse saputo quanto aveva dovuto faticare per studiare, lottando contro la volontà di quella megera di sua zia, forse non sarebbe stato dello stesso avviso.
«Sei proprio sfigata, rossa» le fece ad un certo punto il ragazzo che aveva interagito con il professore. «Sei capitata nella classe di Bellocchi!»
«E di Bellocchi-bis!» gli fece eco l’altro. «Porti anche fisica, per caso? Anche se ho sentito dire che quest’anno è esterna, quindi forse potresti salvarti».
Non avendo capito granché di ciò che le avevano detto, visto che era la prima volta che metteva piede in quella scuola e non sapeva assolutamente nulla dei professori che insegnavano lì, la ragazza si limitò a rispondere: «Presentandomi da privatista, devo portare tutte e quattro le materie, non solo due».
«Più sfigata di te non si può essere, allora!» commentò il primo che aveva parlato, mettendosi a ridere subito dopo e contagiando l’altro.
Mentre quei due quasi si rotolavano a terra dalle risate, la ragazza li guardò furente, perché non c’era bisogno davvero che le ricordassero quanta poca fortuna avesse avuto, da quando erano morti i suoi genitori. Anche se era vero che l’aver conosciuto Marcello era un risarcimento abbastanza soddisfacente...
«Righetti, Noldi e Tolomei, dentro!» proruppe improvvisamente Bellocchi, richiamandoli tutti e tre per esortarli ad entrare in sala professori.
Beatrice seguì gli altri due in silenzio, ritrovandosi in una sala ampia, circondata da scaffali in metallo pieni di faldoni e cartelline schedate, al centro della quale si trovava un enorme tavolo di legno scuro con diverse sedie intorno. Ad un angolo, erano seduti tre adulti: il professore che aveva appena conosciuto, una donna dai capelli biondi frisè e un uomo panciuto che stava leggendo il giornale.
I due ragazzi si andarono a sistemare sull’unica panca addossata al muro, mentre la donna fece cenno alla fanciulla di avvicinarsi a loro.
«Siediti pure, cara» le disse, sorridendole affabile. «Io sono la professoressa Valenti e assieme al professor Bellocchi e al professor Tavelli, ti farò qualche domanda per verificare la tua preparazione. Ti hanno spiegato come funziona? Se non ho letto male, hai avuto un insegnante privato».
«Oh, sì, il professor Rossiglione» rispose prontamente Beatrice, mentre appoggiava a terra il vocabolario di greco e si sedeva di fronte al terzetto. «Insegna al liceo di Tivoli».
«Ah, sarà per questo che non l’ho mai sentito nominare» commentò l’altra, sempre sorridendo.
«Beatrice Tolomei, la nostra privatista...» esordì allora Bellocchi, con tono di scherno, sbattendo sul tavolo un plico di fogli e sfogliandolo con fare distratto. Poi, lesse sottovoce qualcosa e subito dopo alzò lo sguardo sulla fanciulla, fissandola intensamente. «Che, fino all’anno scorso, ha frequentato il Dante4 di Firenze».
Lei, ricambiando l’occhiata, annuì, ma non si azzardò a far uscire una sola parola dalle labbra.
«Provenendo da un liceo simile e con il nome che porti, come minimo mi aspetto che tu sappia tutta la Divina Commedia a memoria» proseguì il professore, sfoderando un ghigno sottile. «Come mai non sei rimasta a casa tua e sei venuta a concludere gli studi qui, senza degnarti di frequentare una scuola?»
«Ho avuto qualche problema in famiglia» tagliò corto Beatrice, senza staccare gli occhi da quell’uomo che, con il suo atteggiamento di sufficienza, la stava seriamente indisponendo: si sarebbe mozzata la lingua piuttosto che raccontargli la sua storia, anche perché era certa che non le avrebbe mai creduto, anzi, probabilmente avrebbe pensato che gli stesse dicendo un mucchio di frottole per impietosirlo e farsi promuovere.
Bellocchi, allora, socchiuse appena le palpebre, come se avesse percepito l’astio che aveva scatenato nella ragazza, per poi continuare a punzecchiarla crudelmente: «Secondo questo pezzo di carta, risulti regolarmente promossa fino alla seconda classe liceale con voti passabili».
Indignata, la giovane strinse i pugni: passabili? I suoi otto e nove, costati ore e ore di studio, erano passabili?
«Luca, non essere così severo! Beatrice ha un ottimo curriculum» intervenne a quel punto la Valenti, che pareva sinceramente risentita per il comportamento che stava avendo il collega. Poi, si voltò verso Beatrice e la rassicurò: «In storia e filosofia hai degli ottimi voti, perciò sono convinta che andremo d’accordo».
«Dai compiti che ha fatto stamattina, però, non sembrerebbe, Lorena» osservò lui, prendendo i fogli che aveva in mano e buttandoli malamente davanti alla ragazza, la quale, con suo sommo orrore, notò che erano pieni di segnacci rossi e blu.
Passi pure le correzioni sul tema, la cui valutazione rimaneva pur sempre soggettiva, ma aveva imparato la traduzione dell’Apologia quasi a memoria, non poteva averla sbagliata tutta!
«Sei troppo condiscendente con i ragazzi» insistette l’uomo, dubbioso, lanciando alla professoressa uno sguardo commiserevole.
Ci fu qualche istante di silenzio, in cui i due insegnanti si guardarono in cagnesco, facendo percepire a Beatrice che dovesse esserci tra di loro una qualche rivalità più o meno latente, come spesso accadeva tra colleghi di una stessa scuola, per le più svariate ragioni.
Quel momento di tensione, però, fu rotto improvvisamente da un colpo di tosse di Tavelli che, però, riprese subito a leggere il giornale, voltando pagina come se si fosse trovato da solo nella stanza, così Bellocchi, approfittando di quella casuale intromissione, tornò al suo interesse preferito del momento: torchiare Beatrice.
«I miei ragazzi hanno un’ottima preparazione e mi aspetto che tu, anche se non fai parte della terza C, non mi faccia fare brutte figure con i commissari esterni, di qualunque materia. Sono stato chiaro?» le sibilò, velenoso.
«Quanto sei pesante... dovresti incoraggiarla, invece!» sbottò la Valenti, incrociando le braccia sul petto e lanciando all’altro uno sguardo obliquo, mentre Tavelli continuava ad ignorarli tutti, facendosi i fatti propri.
«Io premio solo le eccellenze, Lorena, e questa ragazza si mantiene a malapena a galla» affermò il professore, convinto della sua tesi. Poi, si voltò nuovamente verso Beatrice e, dopo averle lanciato uno sguardo intimidatorio, le disse: «Comunque, domani vedremo il punteggio complessivo, anche se non credo che tu possa essere promossa... Il professore di fisica è mio fratello e non è certo più magnanimo di me».
La ragazza, nell’udire ciò, non fece una piega, essendo ormai abituata ad interagire con persone che non mostravano il minimo rispetto nei suoi confronti e che sembrava traessero un particolare piacere dal prendersela con lei. Pertanto, sostenne lo sguardo di Bellocchi e serrò le labbra, decisa a fargli vedere cosa era in grado di fare: aveva bisogno a tutti i costi di quel diploma e, in un modo o nell’altro, se lo sarebbe preso.






***
Per la revisione di questo capitolo, ringrazio Lady Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la grafica del titolo è opera mia.
Grazie mille anche alla mia Anto che mi sostiene sempre.
***
[N.d.A]
1. fissata per il ventidue: nel 1987, gli esami di maturità si sono svolti davvero il 22 e il 23 giugno (prima e seconda prova), mentre gli orali si sono svolti dal 27 in poi (il 26 per i privatisti);
2. Rocci: per chi non avesse fatto degli studi classici, è così che viene comunemente definito per metonimia il dizionario di greco (scritto da Lorenzo Rocci). Io ammetto che avevo il GI della Loescher, tuttavia, poiché non esisteva negli anni ’80, mi sono adeguata a quello che, nella mente di molti studenti del classico, è l’emblema dello studio (faticoso) del greco antico;
3. seconda: la numerazione delle classi segue quella del liceo classico, quindi sarebbe il quarto anno, come la terza classe sarebbe il quinto anno, eccetera;
4. Dante: è il liceo classico più antico del capoluogo toscano.
***


Bentrovati, dunque.
Vi annuncio ufficialmente che mancano otto capitoli alla fine di questa storia (più l’epilogo).
Ringrazio chi mi ha lasciato un parere allo scorso capitolo (Anto, Aven), chi continua a leggere questo racconto, chi l’ha messo tra le storie seguite/preferite/ricordate, chi mi darà un feed-back (di qualsiasi genere) in futuro.
Come il solito, per chi vuole, lascio il link alla pagina facebook, dove, nei prossimi giorni, troverete un’anticipazione del prossimo capitolo e qualche piccola sorpresa.
A presto!
Halley S. C.

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Capitolo 19
*** Capitolo Diciannovesimo - Vento di Passaggio ***


Vento dell'Ovest - Capitolo 19



- Capitolo Diciannovesimo -
Vento di Passaggio




E
ra una mattina dei primi di giugno quando, in anticipo di qualche giorno rispetto a quanto aveva annunciato, il signor Giancarlo rientrò finalmente a casa.
Nel vederlo comparire in salotto, il figlio, che stava finendo di bere il tè seduto sul divano davanti alla televisione accesa, scattò immediatamente in piedi, per poi rimanere fermo a guardarlo come se si trattasse di uno spettro.
«Buongiorno, Marcello» lo salutò quello, arrancando fino al centro della stanza, appoggiandosi a un bastone.
Il giovane notò subito quel particolare così dopo aver superato l’iniziale sorpresa dovuta a quell’apparizione inattesa, si concentrò meglio sul genitore, trovandolo molto provato, pallido e dimagrito; inoltre, qualche capello bianco aveva cominciato a fare capolino fra la chioma scura.
«Non vieni a salutarmi?» gli chiese l’altro, perplesso, vedendo che se ne stava lì impalato, rigido come uno stoccafisso. «Be’, forse sei ancora mezzo addormentato. In questo caso ti scuso» aggiunse.
«Ma... mi avevi detto che saresti tornato la mattina del sette!» riuscì finalmente a replicare il ragazzo, stralunato, muovendo con incertezza qualche passo nella sua direzione.
Quello, però, si limitò a scrollare le spalle, ribattendo con noncuranza: «Le mie condizioni erano stabili da giorni, così ho suggerito ai medici di liberare il letto per un altro ricovero e loro hanno accettato».
Per nulla convinto da quella versione, Marcello lo guardò trascinarsi fino al divano, con un misto di preoccupazione e angoscia, temendo che, ancora una volta, il padre gli stesse tacendo la verità, esattamente come aveva fatto quando aveva nascosto a tutti la sua malattia.
«Come stai?» gli domandò, cercando di nascondere una punta di tristezza.
«Oh, bene, bene» rispose l’uomo, mentre si adagiava comodamente sui cuscini, appoggiando il bastone da un lato. «L’unica seccatura è la dieta costituita da cibi leggeri e prevalentemente frullati, ma, tutto sommato, credo di poter sopravvivere».
Il figlio, colpito dalla sua prontezza di spirito, mostrata anche in quella drammatica occasione, aprì la bocca per ribattere, ma venne bloccato da un commento dell’altro, che era stato catturato dal telegiornale, il quale stava passando dal servizio sugli scontri in Libano all’aggiornamento sul quadro della politica nazionale in vista delle imminenti elezioni per la X Legislatura1.
«Quasi non mi sembra vero, sai, figliolo? Finalmente un notiziario che non sia in tedesco!» esclamò, infatti, il signor Giancarlo, lasciandolo di stucco, ma il giovane non si distrasse, per nulla intenzionato a cambiare argomento.
«Papà, se c’è qualcosa che non va, devi dirlo» affermò, deciso.
«Marcello, non sono ancora moribondo!» sbottò quello, in risposta, spalancando le braccia e 
spostando l’attenzione sul figlio, anche se, subito dopo, sospirò ed aggiunse, con tono più calmo: «Tranquillo, è la verità. Sto bene».
Mortificato, il biondo si sentì avvampare, rendendosi conto di aver esagerato con la sua insistenza, perché, dopo tutto quello che aveva subito, in quel momento, suo padre aveva bisogno solo di un po’ di tranquillità; pertanto, abbassò lo sguardo e mormorò: «Sì, scusa, hai ragione... Sei appena tornato, non volevo metterti sotto pressione».
Tuttavia, l’uomo scosse la testa e, sospirando, pentito, gli fece: «No, scusami tu. Purtroppo, sono molto... stanco. Credo di aver proprio bisogno di un po’ di riposo...»
A quel punto, sulla stanza cadde il silenzio che, però, venne interrotto quasi subito da urla e improperi provenienti dal corridoio, sempre più acuti e comprensibili man mano che si avvicinavano.
«Basta mancare qualche settimana e qui tutti battono la fiacca!» berciò la Matrona, entrando teatralmente in salotto, puntando in avanti il ventaglio chiuso come se fosse una spada. «La polvere in corridoio è alta due dita, dove sono quelle sfaccendate di Ottavia e Annetta?»
Davanti ad una simile sceneggiata, padre e figlio si limitarono a fissare la donna, quasi compassionevoli, mentre quella proseguiva nella sua invettiva, includendo tra le sue vittime anche il figlio maggiore: «Per non parlare di Tiberio! Quanto gli sarebbe costato portare in casa le valigie, invece di lasciarle sulla ghiaia?»
«Ben tornata, mamma» la salutò, allora, Marcello con un’inflessione volutamente ironica, lanciandole un’occhiata torva.
La Matrona si voltò immediatamente verso di lui ed, essendosi accorta solo in quel momento della sua presenza, rimase spiazzata per qualche secondo, prima di riappropriarsi della sua aria di perenne disgusto e squadrare con disappunto la maglietta ed i pantaloncini che indossava il giovane, per poi criticarlo: «Ah, sei qui? Perché sei ancora vestito per la notte e non al lavoro?» 
«Stavo proprio per andare a prepararmi» tagliò corto lui, evitando accuratamente di dirle che quella mattina se l’era presa comoda, poiché la notte precedente era rimato sveglio fino alle tre per aiutare Beatrice a ripetere fisica, assieme a Vittoria che, invece, le aveva dato una mano in filosofia. Infatti, se sua madre avesse saputo una cosa del genere, come minimo lo avrebbe accusato di concubinato.
Rapidamente, recuperò la tazza, piena fino a metà di tè ormai freddo, e stava proprio per lasciare in tutta fretta il salotto, quando il padre, gentilmente, lo richiamò: «Figliolo, prima di andare, mi accompagneresti in camera? Non vedo l’ora di spaparanzarmi sul mio comodissimo letto».
Preso alla sprovvista, Marcello si arrestò solo dopo qualche passo, prima di voltare il capo in direzione del genitore, realizzando che sarebbe stato imperdonabile se l’avesse lasciato lì, a sorbirsi le lamentele della moglie quando, invece, aveva tutto il sacrosanto diritto di stare in pace.
«Lascialo andare, è già in ritardo!» esclamò, però, proprio la Matrona, puntando i pugni contro i fianchi e scrutando severa il giovane.
«Non ci metteremo molto, Claudia» replicò bonariamente l’uomo, sporgendosi con il busto in avanti e sollevandosi appena con le braccia, per agevolare il figlio, che, ignorando la madre, si era precipitato ad aiutarlo.
Poco dopo, quando era già arrivato sulla soglia della porta, aggiunse candidamente, rivolto alla moglie: «Perché non ti fai dare una mano da Ottavia a disfare le valigie? Così comincerai a vedere un po’ d’ordine e poi sono certo che starai meglio».

Dopo che Marcello ebbe aiutato il padre a sistemarsi nel letto, rimboccandogli anche lenzuola e trapuntino, si sedette al solito posto accanto a lui, soffermandosi a guardarlo, malinconico. Quel mattino, infatti, nella stanza regnava un silenzio surreale, mentre solitamente non era raro che risuonassero dal vecchio giradischi composizioni verdiane, tra le quali la “Marcia Trionfale” dell’Aida, il “Va’, pensiero” del Nabucco oppure il “Libiamo ne’ lieti calici” della Traviata2, canticchiate dal signor Giancarlo mentre era impegnato a farsi la barba nel bagno attiguo.
«Mi hai comprato tutti i numeri che mi sono perso!» esclamò l’uomo,
con un sorriso compiaciuto, notando la pila di riviste di enigmistica che si erano accumulate sul comodino in sua assenza.
«Sì, era un modo per convincermi che saresti tornato a casa... e a fare i cruciverba» ammise il ragazzo, con un sospiro, non sapendo ancora quale santo dovesse ringraziare per quella grazia.
«Be’, almeno avrò qualcosa di intelligente da fare durante la convalescenza» commentò quello, con il suo solito tono scherzoso, prendendole in mano e divertendosi a contarle.
A quel punto, il giovane si lasciò scappare un sorriso sollevato e, alzandosi dal letto, gli disse: «Credo che ora sia meglio che ti lasci riposare».
Tuttavia, il padre, mise subito da parte i fascicoli e, sporgendosi verso di lui, lo trattenne per un braccio.
«No, no, rimani pure qui» gli sussurrò, con tono quasi supplice. «Sono settimane che non abbiamo modo di parlare come si deve, figliolo».
Di fronte a quell’espressione, così piena di sofferenza e dolcezza, il ragazzo non poté far altro che riaccomodarsi, riservando all’uomo un’occhiata intenerita e realizzando per la prima volta da quando lo aveva rivisto che era davvero tornato a casa da lui.
«Anche a me fa piacere parlare con te, papà, ma pensavo che magari preferissi un po’ di tranquillità» spiegò, subito dopo. «Non deve essere stato facile sopportare mamma che si lamentava di continuo di ogni cosa, perfino del cibo dell’ospedale!»
«Le sue lamentele sono solo apparenza» replicò, però, l’altro, abbandonandosi stancamente contro la pila di cuscini e chiudendo per qualche istante gli occhi. «In realtà, tua madre ha sofferto, in questi giorni, e non certo per i pasti insipidi che le hanno servito».
Tuttavia, tale rivelazione non lasciò particolarmente sorpreso Marcello, poiché, dalle conversazioni che aveva avuto al telefono con la genitrice, aveva intuito quanto fosse preoccupata per la sorte del marito, pur senza abbandonare la maschera da donna di ferro che si era costruita, criticando tutto e tutti appena ne aveva avuto l’occasione.
A quel punto, per qualche istante nessuno dei due parlò, finché il giovane, che desiderava sapere qualcosa di più sul vero stato di salute del padre, visto che poco prima, in salotto, era stato molto evasivo, non riprese la conversazione.
«Ti hanno dato qualche terapia da fare nel post-intervento?» chiese, osservandolo con attenzione, così da poter capire dalla sua espressione se stesse dicendo la verità.
«Un po’ di chemioterapia,» rispose quello, con la stessa noncuranza che esibiva quando il medico gli consigliava di prendere un’aspirina per l’influenza, «ma posso tranquillamente essere seguito qui a Roma dal dottor Conti, l’ho già interpellato».
Questa affermazione, però, invece di quietarlo, allarmò
all’inverosimile Marcello che, immediatamente, protestò con veemenza: «Papà, non sminuire la cura che devi fare, la chemioterapia è una cosa seria!»
«Lo so, ma sono dell’opinione che sia inutile fasciarsi la testa prima di essersela rotta. Non credi anche tu?» gli fece notare, allora, il padre, scrutandolo tra il severo ed il divertito. «Ora, però, basta annoiarci parlando dei miei malanni. Tu, invece, che cosa mi racconti?»
La particolare enfasi che il signor Giancarlo aveva messo sull’ultima frase, accompagnandola con un sorriso sghembo, non lasciò al giovane molte possibilità di interpretazione: era fin troppo evidente che avesse insistito per restare solo con lui solo per sapere se aveva fatto la proposta di matrimonio a Beatrice. In quel momento, Marcello si sentì tornare bambino, quando suo padre, sapendo che aveva combinato qualche marachella, riusciva a farlo confessare dopo pochi minuti di interrogatorio.
Anche quella volta, di fronte a quella domanda, il giovane rimase a bocca aperta, sbattendo le palpebre e avvertendo che le guance si stavano tingendo di rosso, per poi richiuderla e ridarsi un contegno, schiarendosi la voce.
«Ecco... io ho... finalmente chiesto a Beatrice di sposarmi» cominciò a raccontare, in leggero imbarazzo. «E lei... mi ha detto di sì».
A tale rivelazione, l’uomo, con gli occhi lucidi per l’emozione, si sciolse in un gran sorriso, riacquistando perfino un colorito più sano.
«Questa sì che è un’ottima notizia!» esclamò, felice.
A raffreddare gli entusiasmi, però, ci pensò una voce gracchiante che, facendogli eco, intervenne: «Per niente!»
Immediatamente, il ragazzo si voltò in direzione della porta e vide sua madre avanzare verso di lui, puntandogli minacciosamente un dito contro e sbraitandogli addosso: «Ti avevo ordinato di stare lontano da quella mocciosa!»
Per nulla intimidito da quell’atteggiamento aggressivo, al quale era fin troppo abituato, Marcello si alzò lentamente in piedi, portandosi le mani ai fianchi e squadrando la madre con gli occhi socchiusi.
«Non ti ubbidivo nemmeno quando ero bambino, non comincerò certo a farlo ora!» affermò, spavaldo, inclinando la testa con tono di sfida.
«Tu sposa quella disgraziata ed io ti diseredo!» ribatté, allora, la madre, avvicinandosi con incedere intimidatorio, il volto ridotto ad una maschera di rabbia e disgusto, ma il giovane faticò a prendere quella minaccia sul serio, poiché sapeva molto bene che la donna aveva già da tempo diviso i suoi averi tra i suoi figli, favorendo nettamente il maggiore.
«Mi diseredi?» ripeté lui, lanciandole un’occhiata incredula. «E di cosa, di preciso? Hai già dato tutto a Tiberio!»
«Rimane questa casa!» berciò lei, spalancando le braccia e alzando gli occhi verso il soffitto.
«Ti ricordo che tu e papà avete la separazione dei beni e che questa casa non è tua, ma sua, visto che l’ha fatta costruire nonno Antonio» rispose, però, il ragazzo con estrema calma, sicuro di ciò che stava dicendo. «Comunque sia, io non aspetterò certo la tua carità. Senza contare che guadagno abbastanza da poter mantenere dignitosamente me stesso, mia moglie ed eventuali figli».
A quel punto, Madama Claudia assottigliò lo sguardo, lasciando che una smorfia di stizza comparisse sul suo volto, giacché cominciava a rendersi conto di star esaurendo gli argomenti a sostegno della propria tesi.
«Forse dimentichi che è rimasta la villa di Viterbo, che appartiene alla mia famiglia da generazioni!» esclamò, all’improvviso, trionfante, come se fosse sicura di avere ancora l’ultima parola e Marcello stava proprio per ribadirle che non avrebbe saputo che farsene di quel vecchio casale che lei si ostinava a spacciare per gran villa, quando, inaspettatamente, intervenne il signor Giancarlo.
«In effetti, mia cara, credo che quella casa serva a noi due» considerò, con dolcezza, rivolto alla moglie, mettendosi le mani in grembo.
A quelle parole, moglie e figlio si voltarono istantaneamente verso l’uomo, convertendo l’ira in sorpresa.
«Come sarebbe a dire..?» domandò il biondo, stralunato, avendo perso momentaneamente le fila del discorso, cosa che, invece, non era accaduta a sua madre, la quale non perse tempo per inveire anche contro al marito, malgrado le sue precarie condizioni di salute.
«Il tuo piano era questo sin dall’inizio!» sbraitò, agitando con foga un pugno chiuso. «Confinarci in campagna, mentre quella pezzente prende possesso di casa mia!»
«Claudia, è giusto che anche nostro figlio minore si faccia una sua famiglia. Tiberio ha scelto la casa di Albano, perciò, se non ricordo male, avevamo deciso che Marcello avrebbe avuto quella di Roma» le spiegò pazientemente l’altro, restando appoggiato ai cuscini con espressione serafica, come se non temesse la sua reazione. «E poi, non ti sto portando in ospizio, ma nella casa che è stata prima dei tuoi genitori e poi di tua sorella, finché è rimasta in vita».
Allora, fissando alternativamente marito e figlio con gli occhi spiritati e i capelli crepitanti di elettricità, la donna si diresse verso la propria toletta e, in un impeto di rabbia, scaraventò a terra sia la boccetta del profumo che quella della cipria, mandandole in frantumi, passando poi a gettare sul pavimento tutto quello che le capitava sotto mano.
Davanti ad un tale raccapricciante spettacolo, Marcello, sbigottito, cercò con lo sguardo suo padre che, però, non mutò espressione, limitandosi a riservare alla moglie uno sguardo compassionevole.

Qualche minuto più tardi, quando non rimase più niente da distruggere, la Matrona espirò a fondo e si voltò verso i due uomini, raccogliendo il ventaglio che era caduto a pochi passi da lei e riappropriandosi della sua aria altezzosa.
«Io non alzerò un solo dito per organizzare questo matrimonio!» sibilò, all’indirizzo del figlio, sollevando lentamente l’indice per enfatizzare quanto detto.
«Che cosa?» esclamò il giovane, indignato, ridestandosi completamente dallo stato di shock in cui era caduto. «Beatrice non ha più la mamma... tocca proprio a te aiutarla con i preparativi, invece!»
«Non mi interessa, visto che vi sposerete contro il mio parere. Per quanto mi riguarda, potete anche andare a mettere le firme in Comune ed in chiesa solo voi due ed i testimoni» ribatté lei, caricando ogni parola di rancore e frustrazione.
«Però, hai aiutato Ortensia, che aveva anche sua madre a guidarla nell’organizzazione!» insorse l’altro, furibondo.
«Certo, perché Tiberio mi ha ubbidito, sposandola! Si è scelto una donna sciocca, è vero, ma ricca e dell’età giusta» replicò ancora la donna, insistendo su quello che, ormai, aveva capito essere il punto debole della difesa del figlio, forse sperando ancora di poterlo portare dalla propria parte.
Tuttavia, il ragazzo, nonostante avesse subito il colpo della madre, lo incassò alla perfezione e rispose, senza esitazione: «Beatrice è molto matura per i suoi diciannove anni».
A tale commento, la donna rimase ad osservarlo in tralice per qualche secondo, prima di scoppiare a ridere con tutta la perfidia di cui era capace.
«Povero Marcello...
in fatto di donne, sei davvero un sempliciotto!» esclamò, con una smorfia, scuotendo lievemente la testa con finto rammarico. «Il fatto che quella sgualdrina sia una ragazza sveglia e... precoce non significa che sia matura, ma solo che ha capito quanto sia facile mettere nel sacco uno sprovveduto come te!»
Dopo quell’ennesima stoccata, il giovane socchiuse gli occhi, fremente dalla rabbia, incapace di accettare altre cattiverie gratuite su Beatrice e su se stesso da parte della madre. Aveva appena aperto la bocca per dirle che non avrebbe cambiato idea nemmeno se lo avesse minacciato di buttarsi dal ponte di Ariccia3, quando, per la seconda volta, fu suo padre ad intervenire.
«Ti ho già fatto presente una volta di non insultare Beatrice in mia presenza» scandì, con voce ferma, puntando negli occhi della moglie uno sguardo che non ammetteva repliche e quella, oltraggiata per la presa di posizione del marito in favore del figlio, ricambiò l’occhiata con freddezza.
«Anche tu sei contro di me? Molto bene!» replicò, con tono sorprendentemente calmo. Poi, si diresse verso lo specchio della toletta e si ravviò i capelli. «Sappiate, però, che non finirà qui!» aggiunse, poco dopo, guardando entrambi un’ultima volta attraverso il vetro, prima di girare i tacchi e dirigersi in tutta fretta fuori dalla stanza, come se avesse appena ricevuto una dichiarazione di guerra e dovesse correre a verificare l’entità dei propri armamenti.

Rimasto solo con il padre, Marcello impiegò qualche secondo per riprendersi da quel diverbio che era certo l’avesse lasciato più spossato che se fosse stato uno scontro fisico. Quando si voltò verso il genitore, però, preoccupato che potesse sentirsi male dopo una tale sceneggiata, non si aspettava di certo che quello gli rivolgesse uno sguardo così malinconico e sconsolato.
«Ora capisci perché ho insistito tanto affinché chiedessi a quella dolce ragazza di sposarti? Vi compensate a vicenda e sono convinto che non esista un’altra che possa renderti felice quanto lo fa lei» fece poi una breve pausa e si abbandonò ad un sospiro afflitto. «Non voglio che tu faccia i miei stessi errori o quelli che non sono riuscito ad impedire che facesse Tiberio».
«Di quali errori stai parlando?» chiese il giovane, confuso e sorpreso per quel discorso inaspettato.
Il signor Giancarlo, però, si limitò a fissarlo in silenzio con aria triste, voltando la testa verso la finestra socchiusa, come quando aveva dato l’annuncio riguardante la sua malattia.
«Quando si concretizzano unioni male assortite, si rischia di non andare d’accordo. Ovviamente, non sto parlando di bisticci o scaramucce tra moglie e marito come quelli ci saranno anche tra te e Beatrice, ma di divergenze di opinioni sulle cose importanti» spiegò, con lo sguardo perso nel vuoto. «In quel caso, a pagarne le conseguenze sono sempre i figli». 
«Tu sei stato un ottimo genitore, papà. È mamma che...» attaccò subito Marcello, infastidito da quell’assunzione di colpa che a lui sembrava del tutto fuori luogo.
«No, Marcello. Non è così» lo interruppe, invece, con voce ferma il padre, tornando a guardarlo negli occhi. «Non sono così perfetto come credi, sai? Per quanto mi sforzi, non riesco ad essere imparziale tra i miei figli e questo non fa altro che alimentare l’invidia che tuo fratello prova per te».
A quel punto, il giovane fece per ribattere, ma, quando capì ciò che aveva detto l’uomo, le parole si bloccarono in gola: in quel momento, fu come se fosse stato scoperchiato un vaso simile a quello di Pandora, solo che, invece di liberare i mali del mondo, questo aveva sguinzagliato le ombre che si aggiravano come spettri tra i componenti della sua famiglia. L’invidia ed il risentimento di Tiberio verso di lui da una parte ed i tentativi poco ortodossi della madre di accasarlo con una ragazza di buona famiglia dall’altra, infatti, sotto quella luce gli parvero più comprensibili, anche se il giovane continuava a non condividere il loro punto di vista. Tuttavia, la cosa che lo lasciò più sgomento fu il rendersi conto che non erano rivelazioni del tutto nuove, che, in fondo, nel suo subconscio, ne era sempre stato consapevole.
Allora, sbattendo le palpebre, Marcello fissò il padre e quello, in risposta, come se avesse intuito i suoi pensieri, aggiunse: «Anche se può sembrarti strano, quella di tua madre, più che cattiveria pura, è un misto di ignoranza ed insicurezza. Sai bene che è convinta che solo con il prestigio sociale e con i soldi si possa acquistare una certa credibilità».
Fece una piccola pausa e si sporse verso il comodino per versarsi un bicchiere d’acqua che poi bevve a piccolissimi sorsi, mentre il figlio lo guardava diviso tra la tenerezza, scaturita dal saperlo non ancora ristabilito del tutto, e la rassegnazione, derivata, invece, dalla consapevolezza che la madre non avrebbe mai accettato il suo matrimonio.
«E tuo fratello non è molto diverso da lei. Perciò, perdona la loro debolezza e la loro superficialità, se puoi» riprese l’uomo, poco dopo, spingendo sul ripiano il bicchiere ormai vuoto, prima di lasciarsi cadere a peso morto sui cuscini, esausto.
Per un po’, nessuno dei due disse nulla, ognuno immerso nei propri pensieri, finché Marcello non si decise a riprendere il discorso sull’eredità di Villa Aurelia.
«Ad essere onesto, questa storia del lasciarmi questa casa non convince neanche me» esordì, pensieroso. «Come farai ad andare a vivere a Viterbo, dovendo sottoporti alla chemio? I grandi ospedali sono tutti qui a Roma e...»
«Punto primo: prima che tu e Beatrice vi sposiate ci vorrà qualche mese, giusto?» lo fermò, però, immediatamente l’altro, prima che potesse andare avanti. «E, punto secondo: mi auguro che ospiterai il tuo povero padre malato, in caso di necessità» concluse, recuperando un briciolo del suo antico spirito.
«Ma che dici, papà!» esclamò il ragazzo, punto sul vivo. «Certo che...»
«Allora, va bene così. La verità, Marcello, è che sono stanco» fece il padre, tagliando corto e abbassando il tono. «Ho bisogno di tranquillità e, in questo momento, solo la campagna può darmi ciò che cerco».
Nonostante si fosse mostrato abbastanza sicuro di ciò che stava dicendo, il giovane rimase alquanto perplesso da quell’affermazione e riservò un’occhiata indagatrice, che, però, non sfuggì al genitore, che, infatti, gli rispose subito: «Non devi pensare a me, perché che io viva ancora altri sei mesi o un anno, o cinque o dieci... non è questo il punto».
«Ma...» tentò di protestare ancora il figlio, che non voleva nemmeno sentir parlare dell’eventualità di una recidiva.
«No, Marcello. Ora devi concentrarti sulla tua vita, che è ancora tutta davanti a te» concluse il signor Giancarlo, deciso, anche se, subito dopo, assunse un’espressione più dolce ed aggiunse: «Però, se nei progetti tuoi e di Beatrice dovesse rientrare anche un nipotino per me, sappi che non mi dispiacerebbe affatto».
A tali parole, il biondo arrossì vistosamente, mentre gli riaffiorava alla mente il ricordo di quando era stata la stessa fanciulla ad esprimere la volontà di avere un bambino; tuttavia, dopo un primo imbarazzo, ricambiò timidamente il sorriso del signor Giancarlo e ammise tra sé e sé che, in fondo, l’idea di diventare padre non gli sembrava poi così male.
***

Le lancette dei secondi passarono per la seconda volta sul sei, facendo capire a Beatrice che era passato più di un minuto da quando aveva cominciato a fissare l’orologio del salotto, in cerca della risposta alla domanda che le aveva fatto Marcello. In teoria, la conosceva perfettamente, ma aveva la testa così piena di formule e definizioni che non riusciva più ad associarle.
«Allora, cosa dice la seconda legge di Ohm, Beatrice?» ripeté il giovane, a braccia conserte, studiandola attentamente dall’altra parte del tavolo.
Giocherellando nervosamente con la matita e spostando lo sguardo sul foglio bianco davanti a sé, come in attesa di un’ispirazione dall’alto, la ragazza strizzò gli occhi, cercando di concentrarsi quel tanto che bastava per ricordare qualsiasi nozione affine a ciò che le era stato chiesto.
«In un conduttore metallico... l’intensità della corrente è... direttamente proporzionale...» cominciò, mentre l’immagine della pagina del libro si materializzava pian piano nella sua mente. Tuttavia, quando colse perplessità nell’espressione di Marcello, ammutolì di colpo.
«Quella è la prima» le fece notare con dolcezza lui, appoggiando le braccia sul quaderno che aveva aperto di fronte, dove era riportato l’infinito programma di fisica. Beatrice riservò ad esso un’occhiata angustiata, per poi tornare immediatamente a guardare il giovane.
«Ti prego, andiamo a fare due passi? Non ne posso davvero più!» lo supplicò, sentendo di avere davvero raggiunto il limite delle sua capacità di tolleranza: era dalla mattina presto che non faceva altro che ripetere, pertanto non le sembrò affatto strano essere arrivata al punto di confondere due argomenti simili. Anzi, era stata fin troppo brava a non citarne uno che non c’entrasse nulla!
In risposta, lui la fissò per qualche secondo, corrugando la fronte, come se stesse valutando i pro ed i contro dell’assecondare quella richiesta, e la fanciulla sperò vivamente che la risposta fosse positiva, perché, nonostante sapesse che mancava ancora parecchio alla conclusione del programma, era altrettanto consapevole del fatto che, se non avesse fatto una pausa, avrebbe rischiato un esaurimento nervoso.
«Accontenta questa povera ragazza!» esclamò, improvvisamente, Vittoria, entrando nella stanza assieme a Gerardo. «Merita un po’ di svago, non sta facendo altro che studiare!»
Marcello si voltò immediatamente verso l’amica aggrottando la fronte e ribatté, piccato: «Il giorno in cui non dirai più la tua opinione senza nemmeno essere interpellata, si congelerà l’Inferno!»
«Addirittura? Sei sempre il solito catastrofico» replicò lei, con un sorrisetto sottile. «Comunque, ho solo detto la verità».
A quella risposta, Beatrice si voltò verso il fidanzato e notò che aveva ridotto gli occhi a due fessure, irritato, mentre Gerardo, in evidente difficoltà, spostava di continuo lo sguardo dalla sua ragazza all’amico.
«Vittoria, ti avevo detto che sarebbe stato meglio bussare» la riprese poi pacatamente, ma con fermezza. Tuttavia, lei si limitò a lanciargli un’occhiata obliqua e a sbuffare, prima che nella stanza calasse un silenzio alquanto imbarazzante, durante il quale Beatrice si ritrovò a pensare che non vedeva davvero l’ora di non sentirsi più ospite in casa d’altri, poiché, nonostante l’amica fosse buona e cara, sentiva che era arrivato il momento di riappropriarsi dei suoi spazi.
«Comunque, sì, facciamo una pausa, perché, a questo punto, continuare sarebbe controproducente» sospirò, infine, il biondo, alzandosi dalla sedia.
«Tra l’altro, oggi si sta benissimo fuori, non fa nemmeno troppo caldo» intervenne, a quel punto, Gerardo, rilassandosi un poco e rivolgendo un sorriso a Beatrice. «Ti farà bene passeggiare un po’, almeno potrai distrarti».
La ragazza si alzò a sua volta e ricambiò il sorriso, avendo l’impressione che, in quelle parole, ci fosse un velato invito ad uscire di casa e restare sola con Marcello; d’altra parte, quel giovane doveva sapere molto bene che la fidanzata, anche senza volerlo, a volte poteva essere alquanto invadente.
Poi, poco dopo, mentre stava radunando tutte le sue cose, la fanciulla sentì l’altra battere le mani una contro l’altra
per richiamare l’attenzione di tutti e tre, come se si fosse appena ricordata di qualcosa.
«Ah, Marcellino, prima che te ne vada, devo riferirti una cosa!» esclamò, avvicinandosi al ragazzo. «Don Marco vuole avere quanto prima i certificati che vi ha chiesto. Sembra essersi ammorbidito un po’, anche se non credo abbia digerito il fatto che vi sposiate senza aver seguito il suo corso per fidanzati, soprattutto perché non si aspettava da te un simile tradimento».
Solo a sentirne il nome, a Beatrice vennero i brividi, poiché non aveva certo dimenticato tutte le innumerevoli difficoltà che aveva presentato loro, rischiando di mandare tutto all’aria, quando si erano recati da lui per prendere accordi per il matrimonio. E anche Marcello non doveva avere un bel ricordo dell’episodio, a giudicare da come reagì.
«Don Marco sa perfettamente perché siamo stati costretti a fare così. Inoltre, ci ha puniti abbondantemente facendoci scegliere tra il prossimo ventiquattro agosto oppure ottobre 1988».
«Ci si augura che non faccia troppo caldo...» aggiunse subito dopo la fanciulla, soprappensiero, preoccupata che l’estate appena iniziata potesse riservare loro temperature da tropici, sapendo che il clima, in quella zona e in quel momento dell’anno, era tutt’altro che piacevole.
«Non ci sperare» replicò, per l’appunto, l’altro, tetro, mentre recuperava il portafoglio e le chiavi dell’auto dal tavolo e se li metteva in tasca. «Posso solo immaginare la litania di commenti sgradevoli che farà mia madre!»
A tale considerazione, gli altri tre tacquero, poiché nessuno di loro, conoscendo la Matrona, se la sentì di controbattere; tuttavia, l’indole allegra di Vittoria non le impedì di tentare comunque di risollevare i toni della conversazione.
«Su, su, pensa al lato positivo: è il periodo migliore per fare il viaggio di nozze!» considerò.
«Se non ci saremo sciolti prima sulla soglia del Laterano, con quaranta gradi all’ombra, ovviamente» le fece, però, notare Marcello, oramai in caduta libera verso il pessimismo più nero, guardandola in tralice.
Nel vedere l’espressione indispettita dell’amica, Beatrice trattenne a stento una risata, poiché la profonda differenza di carattere tra la ragazza ed il suo fidanzato aveva un qualcosa di comico.
«Purtroppo, è l’unica data disponibile in tempi brevi» considerò poi la giovane, non appena fu sicura di non scoppiare a ridere in faccia a nessuno dei due.
«Secondo me non sarà così drammatico...» commentò, invece, Gerardo, calmo. «In fondo, molte coppie scelgono agosto, perché si dice che sia un mese che porta agli sposi molti cambiamenti in positivo».
La fanciulla, allora, voltò la testa verso di lui e si sorprese a pensare che, nonostante parlasse molto meno rispetto ai suoi amici, ciò che diceva era sempre molto confortante. Non aveva avuto molte occasioni per interagirci direttamente, ma le aveva sempre dato l’impressione di essere una persona molto buona e paziente, l’unico in grado di equilibrare il terzetto, limitando gli eccessi di Vittoria e smussando, al tempo stesso, la spigolosità di Marcello.
«E tu come lo sai?» gli chiese, infatti, proprio quest’ultimo, osservandolo tra lo scettico ed il sorpreso.
«Lo dice sempre mia madre. Sai, anche i miei si sono sposati ad agosto» replicò l’amico, facendo spallucce ed incurvando appena le labbra. «E il loro è stato un matrimonio felice».
Quella risposta dovette bastare al biondo, perché perse l’aria torva che aveva assunto, mostrandosi un po’ più rilassato e Beatrice finalmente si ritrovò a sorridere, rasserenata anche lei, giacché non sopportava che il suo fidanzato si incupisse per colpa della megera di sua madre, soprattutto dopo aver saputo che quella donna non li avrebbe aiutati ad organizzare nulla.
Dopo aver avuto occasione di toccare con mano la cattiveria della Matrona, la fanciulla non si aspettava più niente da lei, ma non credeva che avrebbe toccato il fondo, punendo anche il figlio solo perché non approvava la persona che aveva scelto come sua futura moglie.
Ovviamente era a conoscenza del proverbiale attrito tra nuora e suocera, ma lei aveva davvero trovato una delle peggiori e la considerazione che aveva della signora Claudia, dopo quell’ennesimo affronto, aveva raggiunto i minimi storici. Per fortuna, però, Marcello non era affatto uno di quegli uomini perennemente attaccati alle sottane materne e, per giunta, il signor Giancarlo si era dimostrato benevolo verso di lei, facendola sentire, almeno lui, apprezzata e benvoluta.
«Be’, visto che siamo in argomento, avrei da chiedere una cosa ad entrambi» fece poi il biondo, tutto d’un tratto, riservando ai suoi due amici un’occhiata estremamente seria, mentre anche Beatrice, ormai riscossasi dai propri pensieri, si voltava verso di lui, che proseguì: «Vittoria, Gerardo... ecco... mi farebbe molto piacere se foste i miei testimoni».
Non appena Marcello ebbe finito di parlare, la fanciulla vide entrambi giovani rimanere letteralmente a bocca aperta, stupiti, come se davvero non si aspettassero una simile richiesta; poi, visto che tutti e due sembravano aver momentaneamente perso l’uso della parola, il ragazzo aggiunse: «Non ditemi che non ve lo aspettavate! A chi pensate che lo avrei chiesto?»
«A dire il vero non ci avevamo proprio pensato...» mormorò Vittoria che, come era prevedibile, si riprese più rapidamente del fidanzato. Infatti, subito dopo, mostrò un ampio sorriso ed esclamò: «Comunque, non possiamo proprio rifiutare! Giusto, Gerardo?»
«Certo che no...» assentì questi, rivolgendo anche lui un gran sorriso a Marcello. «Anzi, grazie per volerci al tuo fianco anche in questo».
«Mi sembra il minimo, dopo più di vent’anni di amicizia, non trovate?» commentò, allora, l’altro, mantenendo una certa serietà, anche se Beatrice riuscì a cogliere la sua felicità nell’aver ricevuto una risposta così positiva.
La fanciulla aveva sempre trovato molto bello il legame che univa quei tre e, ogni volta che emergeva l’affiatamento che c’era tra di loro, si ritrovava a pensare che sarebbe piaciuto anche a lei avere delle amicizie così consolidate e partecipi. Purtroppo, però, non era stata molto fortunata: quando viveva a Firenze e andava a scuola lì, infatti, aveva avuto qualche amica più stretta, ma il fatto stesso che avessero interrotto i contatti dopo solo qualche mese dal suo trasferimento a Roma la diceva lunga su quanto profondi fossero quei rapporti.
«E i tuoi testimoni, Beatrice? Chi saranno?» le chiese all’improvviso Vittoria, distraendola dai suoi pensieri.
«L’ho chiesto alla signora Sofia e al signor Rossiglione, perché per me sono stati entrambi due guide importanti» rispose lei, stringendo al petto i libri e quaderni che aveva tra le braccia. «Hanno accettato subito tutti e due e ne sono felicissima».
In risposta, l’altra annuì soddisfatta, mentre la ragazza avvertiva una piccola fitta di dispiacere, poiché, se da una parte la sua felicità era reale, dall’altra non poté fare a meno di pensare che, se suo fratello fosse stato diverso e si fosse comportato meglio, avrebbe potuto chiederlo a lui. Invece, non avrebbe neanche potuto assistere alla cerimonia, poiché il giudice non gli aveva concesso il permesso d’uscita nemmeno per le nozze della sorella.
«Be’, ora penso proprio che dovremmo pensare al vestito, allora!» continuò poi Vittoria, lasciandosi trasportare dall’entusiasmo. «Ne troveremo sicuramente uno che ti starà d’incanto!»
A tale esclamazione, però, Beatrice non poté fare a meno di guardarla perplessa, sbattendo le palpebre, non capendo a cosa si stesse riferendo.
«Quale vestito..?» domandò.
«Quale vestito?!» ripetè l’altra, spalancando gli occhi, sconvolta, «ma, ovviamente... l’abito da sposa
Nel ritrovarsi puntati addosso gli occhi di tutti i presenti, Beatrice si sentì avvampare, mentre prendeva coscienza di non aver proprio pensato ad un dettaglio fondamentale, facendo la figura della svampita, come era già capitato in passato.
«Ah, sì... giusto...» farfugliò. «Ehm, volevo dire, sì, magari, ci si penserà non appena l’avrò finito gli esami».
«Sì, hai ragione, una cosa per volta. Questo periodo si sta rivelando troppo impegnativo per te» la rassicurò subito Marcello con dolcezza. «Comunque... che cosa ne dici di andare adesso, Beatrice? Ci siamo trattenuti fin troppo».
Ben lieta che il fidanzato le stesse dando l’occasione per togliersi dal centro dell’attenzione, la fanciulla si affrettò ad annuire e a recarsi in camera sua per riportarvi i libri, ma, mentre saliva le scale, realizzò che non disponeva affatto dei soldi necessari per comprarsi un abito da sposa. Purtroppo, dato che non lavorava più e che aveva dato gran parte dei suoi stipendi passati alla zia, aveva da parte solo una modesta cifra che le avrebbe consentito di comprare, a malapena, un vestito usato.
Proprio in quel momento, però, sentì Vittoria salire a sua volta le scale di corsa, arrestandosi proprio davanti a lei.
«Perdonami per prima, Beatrice, non volevo metterti in difficoltà! Come mi hanno appena fatto notare Marcello e Gerardo a volte mi lascio... prendere troppo la mano» le disse, alzando le spalle e riservandole un sorriso dispiaciuto. «In effetti, credo che sia meglio fare come dici tu: prima finisci gli esami e poi sceglieremo il miglior negozio dove andare».
«Ecco, a dire il vero, stavo proprio pensando a questo» ammise lentamente la ragazza, accarezzando i propri libri. «Io non l’ho molti soldi da parte e non mi posso permettere un granché, perciò preferirei andare a cercare qualcosa in un negozio non troppo costoso».
«Ma è importante per una ragazza...» protestò l’altra; tuttavia, Beatrice si mostrò irremovibile.
«Oh, lo so, ma non tutte posson permettersi abiti da ffiaba. Sai, son grandicella per credere ancora nella fata madrina e non voglio che Marcello spenda una sola lira per me, perché so gche tutto cche riguarderà la cerimonia sarà a su’ carico. Quindi, l’è giusto che io compri il mi’ vestito con i mie’ risparmi» replicò, infatti, con decisione, la ragazza.
La giovane donna rimase a fissarla con un misto di perplessità e delusione, ma non si arrese e tentò di parlare ancora. Tuttavia, ancora una volta, Beatrice non le lasciò nemmeno aprire la bocca. 
«Non ti preoccupare, per me va bene lo stesso. Se l’avessi avuto più tempo, l’avrei cucito io stessa,» disse la fanciulla, portandosi un palmo aperto al petto e battendolo contro di esso due volte, senza, però, riuscire a celare una certa malinconia, «ma è andata così e son convinta che sarà bellissimo lo stesso».
Vittoria si limitò a fissarla con scetticismo per qualche secondo, ma lei si ostinò ad esibire un sorriso stiracchiato, pur sapendo di non esser convinta fino in fondo nemmeno lei; ciononostante, salutò l’amica e salì gli ultimi gradini con una certa fretta, pensando che, se fosse stato tutto perfetto, sarebbe stato irreale, pertanto doveva soltanto gioire di ciò che aveva: la fortuna di poter sposare l’uomo che amava.

Come in un paesaggio ritratto da un pittore impressionista, le chiome dei ciliegi giapponesi erano appena scarmigliate dal sottile venticello che spirava da ponente, animando le foglie sotto la luce del sole al tramonto.
Donati al Parco Centrale del Lago dal primo ministro nipponico nel 1959, quegli alberi rappresentavano una rarità botanica che attirava l’ammirazione di turisti e residenti, compreso Marcello che, infatti, non appena Beatrice gli aveva chiesto dove volesse andare, non aveva esitato a proporglielo.
I due giovani avevano passaggiato per qualche minuto accanto alle siepi che costeggiavano il laghetto dell’EUR, fermandosi poi nei pressi del molo delle canoe, dove erano radunate alcune anatre, talmente impegnate a lisciarsi le piume che a stento notarono il loro arrivo. Fu solo quando la fanciulla estrasse dalla borsa un sacchetto con dei pezzetti di pane raffermo e cominciò a distribuirli che quelle uscirono fuori dall’acqua e le si avvicinarono con la loro andatura barcollante.
«Quando son venuta la prima volta con la Vittoria, mi sarebbe piaciuto dar loro da mangiare, ma non avevo niente perciò son contenta di aver avuto un’altra occasione per farlo» spiegò, voltando la testa verso il giovane, mentre continuava a lanciare briciole ai pennuti. Lui, in risposta, annuì, trovando molto rilassante stare lì ad osservarla mentre sfamava e parlava con le anatre - senza ovviamente ricevere risposta - e, di fronte a quella vivacità che gli piaceva tanto, il biondo non riuscì a trattenere un sorriso.
Quando i pezzetti di pane furono terminati, la ragazza si scrollò le mani e, dopo aver salutato le sue nuove amiche, ritornò da Marcello, esordendo: «Mi son dimenticata di dirti ch’ho sentito Guido per telefono e, adesso, sembra proprio che le cose stiano andando meglio. Il nuovo avvocato lo tiene sotto scacco!» ridacchiò, facendo una piccola pausa, per poi riprendere quasi subito: «Ovviamente, non gl’ho detto che sei stato tu a farmi il nome del Martelli».
«Perfetto!» rispose lui, particolarmente compiaciuto. «Ed è così che devi continuare a fare».
«Grazie, Marcello» gli disse lei, guardandolo teneramente con le sue iridi color zaffiro.
«Non mi devi ringraziare, io l’ho fatto solo per te» replicò lui, burbero, giacché, se Guido non fosse stato il fratello di Beatrice, non lo avrebbe aiutato nemmeno se si fosse trattato di una questione di vita o di morte.
La fanciulla, però, parve intuire i suoi pensieri, poiché ribatté, con un dolce sorriso sulle labbra: «Appunto per questo, grazie».
Davanti a quell’espressione, il giovane deglutì, avvertendo la solita stretta allo stomaco che si manifestava quando era con lei, e gli astiosi pensieri che aveva avuto verso Guido furono presto sostituiti da qualcosa di più piacevole. Infatti, rimase a guardarla a lungo, come ipnotizzato, e lo stesso fece lei con lui finché non finirono a contemplarsi vicendevolmente come se si fossero trovati in un luogo dove c’erano solo loro due.
Improvvisamente, però, la fanciulla assunse un’espressione molto triste e distolse lo sguardo da quello di Marcello, per poi girarsi e cominciare a camminare lentamente verso la sponda del lago.
«Beatrice, che hai?» le domandò subito lui, preoccupato, non appena l’ebbe raggiunta. «Non starai ancora pensando a quel porco di Navarra, spero!» aggiunse, appoggiandole delicatamente una mano su un fianco.
«Oh, no, no!» rispose lei, scuotendo energicamente la testa e facendo danzare sulle sue spalle le ciocche ramate. «La verità è... è che avrei un altro favore da chiederti, ma non voglio disturbarti un’altra volta».
«Si tratta nuovamente di quel cretino di tuo fratello, per caso?» chiese, allora, il biondo, increspando le labbra e ricominciando istantaneamente ad inveire tra sé e sé contro il futuro cognato.
Tuttavia, Beatrice fece nuovamente segno di no ed aggiunse, con aria pensierosa e angosciata: «Per fortuna no, anche se l’è una cosa ancora più seria...»
«E... sarebbe?» la incalzò il giovane, che, a quel punto, non aveva proprio idea di cosa potesse aver fatto cambiare così repentinamente umore alla sua fidanzata. Per conoscere la risposta, però, non dovette attendere molto; infatti, dopo appena qualche secondo di silenzio, quella sospirò e alzò la testa nella sua direzione, guardandolo con aria seria.
«Come sai, qualche settimana fa sono stata a trovare Guido e... non si è solo lamentato della sua situazione, ma m’ha anche detto che ci son dei problemi con le nostre proprietà sull’Isola d’Elba» spiegò, afflitta.
Marcello corrugò appena la fronte, poiché, fino ad allora, Beatrice gli aveva menzionato la sua villa in Toscana solo quando gli aveva raccontato della sua infanzia, senza alcuna allusione ad ulteriori questioni economiche in sospeso. Poi, però, si ritrovò a pensare che era stato davvero sciocco a non prendere in considerazione quell’eventualità, vista la grande incapacità del fratello di lei nel gestire il patrimonio familiare dopo la morte dei loro genitori.
«Che genere di problemi?» si informò, desideroso di vederci chiaro.
«Non l’ho ben capito, a dire il vero, ma pare che il terreno non produca più olive e che, quest’anno, si rischi così di non poter produrre nemmeno una goccia d’olio» spiegò lei, socchiudendo gli occhi, sempre più angustiata. «Si perderebbero un sacco di compratori e...»
«Sono notizie un po’ generiche» commentò, allora, Marcello, riflettendo su quanto gli era stato appena riferito.
«Oh, io non me ne intendo e t’ho detto quanto so» fece lei, in risposta, stringendo le spalle. «Il contabile del mi’ babbo, a detta di Guido, sostiene che non ci sia molto da fare per risollevare la situazione e gl’ha consigliato di... vender tutto a lui».
Il tono con cui Beatrice aveva pronunciato quelle parole avrebbe commosso anche un sasso, tanto erano cariche di tristezza e sconforto, e il giovane, sapendo bene quanto lei fosse legata a quella casa, non faticò ad immaginare che gli avesse raccontato tutto per chiedergli di aiutarla a salvare l’ultima proprietà rimasta dopo che Guido aveva scialacquato tutto il patrimonio in donne e gioco d’azzardo. Inoltre, anche se non conosceva i dettagli, gli sembrava piuttosto strano che qualcuno potesse essere interessato all’acquisto di un terreno messo così male. A meno che, ovviamente, non ci fosse sotto qualcos’altro di cui, in quel momento, loro non erano ancora a conoscenza.
«Ma tu non vorresti, giusto?» le domandò, allora, con dolcezza, stringendo la presa sul suo fianco.
«Certo che no! Non venderei mai la casa della mi’ mamma, dove si è trascorso l’ultimo periodo di felicità tutti insieme» ribatté l’altra, con determinazione.
A quel punto, Marcello, che aveva ben capito tutta la situazione e non voleva certo veder soffrire di nuovo Beatrice a causa dell’inettitudine e della stupidità del fratello, si prese qualche minuto per riflettere e, poco dopo, le propose: «Facciamo così, allora: ti prometto che farò tutto il possibile per capire meglio come stanno le cose e, se necessario, andremo a vedere di persona, va bene?»
L’espressione di pura gioia che si dipinse all’istante sul volto della fanciulla, illuminandolo, portò il ragazzo a sorridere di riflesso e la sensazione di calore che provò fu talmente forte e appagante, che gli venne un’idea ancor migliore.
«Anzi, potremmo andare in viaggio di nozze a Marciana Marina... che cosa ne pensi?»
Come immaginava, tale suggerimento piacque alla giovane ancor più del primo e, infatti, quella non esitò nemmeno un istante a manifestargli la propria entusiasta approvazione.
«Io... non potrei davvero chieder di meglio» gli sussurrò, commossa e felice.
In risposta, il biondo le accarezzò una guancia e la rassicurò ulteriormente, dicendole: «Vedrai che sistemeremo anche quest’altro problema».
In quel momento, però, una fresca brezza riportò la loro attenzione al presente, facendo loro alzare la testa al cielo, giusto in tempo per notare che il sole aveva cominciato a tramontare e che per Beatrice era giunta l’ora di tornare sui libri.

Qualche minuto più tardi, mentre percorrevano Via Cristoforo Colombo, Marcello le chiese se, per quella sera, aveva in programma di ripassare qualche argomento ostico e preferiva che restasse con lei ancora un po’, ma la fanciulla lo rassicurò dicendogli che, dopo cena, si sarebbe rilassata dedicandosi a storia dell’arte.
«Vuoi che ti accompagni, la mattina del ventidue?» le domandò, allora, lui, all’improvviso, pensando che, non avendo amicizie tra i compagni di classe e trattandosi pur sempre dell’esame di maturità, per lei sarebbe stato meglio almeno recarsi a scuola in compagnia.
«Ti ringrazio, ma preferisco di no» gli rispose, inaspettatamente, lei, incurvando appena le labbra. «Sai, anche la Vittoria m’ha chiesto se volessi un supporto, ma credo di sapermela cavare da ssola».
Colpito da tanta fermezza, il giovane non poté far altro che annuire, anche se non mancò di aggiungere: «Come vuoi. Però, se dovessi ripensarci, sappi che puoi farmelo sapere anche la mattina stessa».
In quel momento, arrivarono davanti al cancello della casa di Vittoria e Beatrice, arrestandosi e facendo una giravolta su se stessa, si mise davanti a lui, guardandolo con determinazione.
«Be’, devo andare a sostenere l’esame di maturità, quindi devo dimostrare di esser matura ed in grado di badare a me stessa!»
«Non è questo il punto, Beatrice...» gli fece lui di rimando, perplesso. «Comunque, se vuoi così, rispetterò la tua scelta».
Dal canto suo, la ragazza si limitò a sorridere di nuovo e, voltandosi, si avviò verso l’ingresso, lasciando Marcello momentaneamente indietro a contemplarla a distanza per qualche secondo. Conosceva bene le difficoltà che la giovane stava affrontando, essendosi presentata da privatista, e averebbe fatto qualsiasi cosa per renderle quell’esperienza il meno traumatica possibile. Tuttavia, memore anche di quello che gli aveva detto suo padre, si ritrovò a sospirare, consapevole che, per quanto possa essere forte la volontà di proteggere le persone amate, la decisione finale sulle questioni della loro vita spetta comunque sempre a loro.
***

Per la terza mattina nell’arco della stessa settimana, Beatrice si ritrovò a percorrere Corso Trieste fino a fermarsi davanti all’edificio squadrato del liceo Giulio Cesare. La prima volta che la ragazza si era ritrovata a guardare quella sagoma imponente, si era sentita molto piccola a confronto e, per qualche istante, non era stata più sicura di voler affermare la propria indipendenza, desiderando che ci fosse Marcello al suo fianco. Quel giorno, invece, nonostante non ci fosse la torma di studenti che sostava accanto ai cancelli, come era stato le mattine degli scritti, si sentiva più tranquilla, forse perché, ormai, quel luogo le sembrava quasi familiare.
Inoltre, aveva sofferto molto l’assenza di compagni di classe con i quali condividere quell’avventura, poiché, come aveva immaginato, nessuno degli altri maturandi si era mostrato disposto a fare amicizia con lei, facendola sentire ancora più estranea di quanto già non fosse. Anzi, a dirla tutta, aveva avuto l’impressione che Bellocchi avesse fatto di tutto per caricarli ancora di più di disgusto nei suoi confronti.
Tuttavia, Beatrice aveva saputo rimboccarsi le maniche anche in quel clima di astio ed era riuscita a fare un ottimo lavoro sia nel tema di italiano, sia nella versione di greco4.
Quel giorno, mentre valicava i pilastri a pianta quadrata che sorreggevano il porticato d’ingresso, la ragazza inspirò a fondo, sperando che l’epilogo di quella mattinata fosse positivo e che il professore di italiano, di fronte al resto della commissione, non le tirasse troppi tiri mancini. Quando poi entrò all’interno della scuola, invece, la trovò immersa in silenzio tombale, tanto che il rumore dei suoi passi risuonò nell’atrio, accompagnandola fino all’aula che le avevano indicato come sede del colloquio.
Poiché si presentava come privatista, avrebbe fatto l’esame orale da sola, anche se, come era stato per gli esami d’ammissione, erano stati convocati con lei anche due testimoni, scelti tra coloro che avrebbero sostenuto la prova l’ultimo giorno. E, infatti, furono proprio loro i primi che trovò davanti alla porta scalcinata della seconda B. Quelli, vedendola arrivare, smisero immediatamente di parlottare tra di loro e la fissarono in cagnesco: erano un ragazzo ed una ragazza e, da quello che aveva avuto modo di carpire da alcuni commenti uditi nei giorni precedenti, erano i più bravi della classe, anche se davvero carenti in educazione, visto che non si degnarono nemmeno di rispondere al suo saluto.
Rassegnata a quell’ennesimo atteggiamento ostile, la fanciulla si disse tra sé e sé che sarebbe stato stupido pensare che qualcosa potesse cambiare proprio l’ultimo giorno, pertanto si mise accanto al muro e spostò lo sguardo in basso, in attesa di essere chiamata dai professori che, a giudicare dal vociare che proveniva dall’aula, dovevano essere già radunati all’interno.
Ad un certo punto, però, con sua grande sorpresa, Beatrice vide con la coda dell’occhio la ragazza che si avvicinava verso di lei e, immediatamente, alzò lo sguardo nella sua direzione, fissandola perplessa. Che cosa mai poteva volere?
«I tuoi capelli sono rossi naturali?» le chiese subito quella, indicandoli con un dito e contrando appena le labbra in una piccola smorfia.
«Ehm... sì...» rispose Beatrice, prendendosi tra le dita una ciocca cuprea e avvertendo che ciò che le avrebbe detto dopo non sarebbero stati certo complimenti. «Perché?»
In risposta, la ragazza scoppiò a ridere con cattiveria, scuotendo la propria chioma biondo cenere.
«Sono proprio orrendi! Se fossi in te, mi vergognerei talmente tanto che me li sarei tinti da un bel pezzo!» esclamò, poi, smettendo di sghignazzare e tornando a guardarla con aria di scherno.
«Be’, se tu avessi avuto i capelli come questa sfigata, non ti avrei mai chiesto di uscire, Daria» intervenne, allora, il ragazzo, riservando a Beatrice uno sguardo disgustato.
La giovane, a quel punto, spostò lo sguardo più volte dall’uno all’altra, sconcertata da tanta cattiveria: non la conoscevano nemmeno, perché dovevano prendersela con lei in quella maniera?
«La signorina privatista si crede fortunata solo perché la Valenti è dalla sua parte... ma quella non conta niente, è Bellocchi che vale di più ed è perfino amico di mio padre!» proseguì poi Daria, incrociando le braccia sul petto e scoccando alla fanciulla un’occhiata commiserevole e il giovane rincarò la dose, offrendo a Beatrice altri insulti.
«Roscia5, proprio alla nostra classe dovevi venire a rompere le scatole? Devo ripassare per l’orale e sto perdendo una mattinata per colpa tua!»
«Sono stati i professori a scegliervi, non io!» ribatté la diretta interessata, indignata e furente. Amava molto il colore dei suoi capelli e quei due non avevano alcun diritto di offenderla o usarla come capro espiatorio per sfogare la loro frustrazione. «Se fosse stato per me, non vi avrei voluti di certo!»
Dopo quella sfuriata, entrambi la fissarono stupiti, poi lui assunse un’espressione sofferente e patetica, mentre l’altra la squadrò con gli occhi ridotti a due fessure.
«Tranquillo, Davide, chiederò a mio padre di raccomandare anche te con il prof» disse poi, senza staccare gli occhi da Beatrice.
«Io voglio il mio sessanta6, mi serve per l’ammissione all’università americana!» piagnucolò, allora, Davide, scrollando la testa con vigore. «Non posso rischiare di prendere un voto più basso per te, sfigata che non sei altro!»
A quel punto, Beatrice provò dentro di sé una sensazione così spiacevole, a metà strada tra il disgusto e la rabbia, che, se non avesse già digerito la colazione, avrebbe quasi sicuramente dato di stomaco; quei due erano solo dei figli di papà, meschini e arrivisti, esempio lampante del fatto che essere i primi della classe non significa necessariamente né essere persone rispettabili, né tantomeno intelligenti.
«Tanto sappiamo che sei antipatica al prof, quindi verrai bocciata!» ricominciò Daria, che sembrava aver trovato il modo migliore per scaricare la sua insoddisfazione per l’essere stata costretta a stare lì. «Roscia, perché non rinunci a fare l’esame e te ne torni a casa? Così, magari, anche noi possiamo andare a studiare».
«Io ho diritto a sostenere l’esame come voi, anzi, forse, più di voi, dato che siete solo due stupidi raccomandati!» buttò fuori, allora, la fanciulla sfogando tutta la rabbia che aveva accumulato in quelle settimane a causa delle vessazioni di ogni genere che aveva subito. A quel punto Davide, adirato per quella risposta, cominciò ad avanzare verso di lei con la mano alzata, come per schiaffeggiarla.
Per fortuna, in quel momento, fece la sua comparsa in corridoio la professoressa Valenti.
«Lo Masto!» esclamò, tra il sorpreso e l’indignato. «Stavi forse per picchiare una tua compagna, per giunta una ragazza
«Professoressa, ha cominciato lei!» lo difese subito Daria con una vocetta acuta, mentendo spudoratamente. «Ci stavamo solo difendendo!»
«Difendendo, Lanzi? Alzando le mani?» scandì, però, la donna, puntando le mani sui fianchi e guardando la ragazza con disapprovazione. «Cosa ne penseresti se un ragazzo picchiasse te, invece? A prescindere da chi abbia ragione? La violenza non è mai una soluzione! E quella sulle ragazze è qualcosa di vergognoso
«Professoressa, la privatista ci ha insultati!» insorse il compagno, con voce strozzata e gli occhi fuori dalle orbite, come se fosse sul punto di avere una crisi di nervi, anche se la Valenti non se ne curò minimamente.
«Quindi non sei pentito di ciò che stavi facendo, Lo Masto?» commentò, piena di sdegno. «Molto bene! Se le cose stanno così, per quanto mi riguarda, puoi scordarti il sessanta. E anche tu, Lanzi, visto che sei d’accordo».
Nell’udire quella sentenza, i due giovani strabuzzarono gli occhi e spalancarono la bocca, sbiancando e provando a balbettare qualcosa in risposta che, però, non servì a smuovere la donna.
«Non mi interessa, il compito di un’insegnante è anche quello di educare gli alunni» ribatté, infatti, quella, con voce molto ferma. «Io avrò a disposizione il mio voto e lo esprimerò, non mi interessa cosa faranno i miei colleghi».
Ancora una volta, Beatrice vide i ragazzi tentare un nuovo approccio per dissuadere la Valenti dal suo proposito, finendo, invece, per collezionare l’ennesimo buco nell’acqua, poiché la donna, anziché starli a sentire, si volto verso di lei e, con dolcezza, la invitò: «Vieni con me, Beatrice».
Furibondi per ciò che era successo, Davide e Daria si incamminarono a loro volta, borbottando qualcosa anche contro la professoressa. In particolare, il ragazzo ci andò giù parecchio pesante con le parole, ma quella non si scompose minimamente, anzi, non essendo né stupida, né disposta a farsi mettere sotto i piedi da un suo alunno così presuntuoso, prima di farlo entrare in stanza lo fermò sulla porta e gli fece, con voce carezzevole: «Che cosa c’è, Lo Masto, vuoi picchiare anche me, per caso?»

Il primo volto che Beatrice individuò fra quelli dei professori seduti dietro le due cattedre unite fu proprio quello di Bellocchi, il quale la guardò inespressivo, come se fosse stata la prima volta che la vedeva; ciò che, però, aiutò la giovane a scaricare la tensione, fu notare che almeno gli altri quattro uomini, i membri esterni della commissione, stavano sorridendo.
«Buongiorno» li salutò, leggermente tesa.
A quel punto, il presidente, il professor Arcani, un uomo dal viso rubicondo e un simpatico paio di baffoni castani, le sorrise affabilmente e la invitò a sedersi sulla sedia di fronte a lui, appositamente preparata per lei, mentre la professoressa Valenti tornava al suo, anche lei sorridente.
«E così avrai tu l’onore di aprire le danze!» esordì scherzosamente quella.
«Abbiamo fatto tutti un’abbondante colazione, quindi, stai tranquilla che non ti mangeremo» fece poi Arcani, proseguendo con quel tono faceto, avendo probabilmente notato che la ragazza era in apprensione.
Nel frattempo, dietro quest’ultima, Daria e Davide continuavano a parlottare tra loro - “sicuramente ce l’han con me” pensò, infastidita, Beatrice - e si zittirono solo quando il professor Sallusti, quello di latino, ebbe loro intimato di smettere.
Quando, finalmente, calò il silenzio, la ragazza sentì l’agitazione salire pian piano, ma si impose di restare calma e di non lasciar trapelare nemmeno il più piccolo segno di disagio per evitare che gli insegnanti pensassero che volesse strappar loro la promozione a suon di pianti e sceneggiate, anziché affrontando dignitosamente l’esame. In quel momento, le tornarono utili le raccomandazioni di Vittoria, che le aveva consigliato, in caso di panico, di concentrarsi sulla propria respirazione. Un, due: inspira, respira.
«Presidente, se lei è d’accordo, direi di far vedere alla ragazza gli scritti solo al termine della prova e di cominciare subito l’orale, così finiremo prima» propose, a quel punto, la Valenti, girando la testa in direzione di Arcani, che stava appunto per confermare, quando fu interrotto dall’intromissione di Bellocchi.
«Mi sembra un’ottima idea, presidente. La mia collega ha avuto senz’altro un’intuizione eccellente nel voler agevolare questa ragazza, che è svantaggiata rispetto ai suoi compagni, che hanno seguito un anno di lezioni».
Sia la ragazza che la professoressa si voltarono nello stesso momento verso l’uomo, il quale esibiva un’espressione così composta e apparentemente naturale che chiunque avrebbe pensato che fosse in buona fede; tuttavia, a Beatrice, invece, non sfuggirono le sottili e velate insinuazioni che aveva messo in quelle parole, ma, purtroppo, non fu lo stesso per il capo della commissione.
«Sono d’accordo» fece, infatti, questi, annuendo. Poi, si rivolse agli altri insegnanti: «E voi, professor Sallusti e Modesti? E anche lei, professor Antonioni? Che cosa ne pensate?»
Mentre i docenti di latino, storia dell’arte e fisica esprimevano la loro approvazione, la fanciulla si dedicò a studiare a fondo il volto del suo nemico, scorgendovi il ritratto della soddisfazione.
Che ipocrita!” pensò, essendo arrivata alla conclusione che quell’uomo, molto probabilmente, intendeva accaparrarsi la simpatia del presidente per raccomandare proprio i due cretini che avevano maltrattato lei e chissà quanti altri sfortunati compagni.
«Antonioni, vuole iniziare lei?» chiese improvvisamente Sallusti al collega, membro esterno di fisica che aveva preso il posto di Bellocchi-bis, ridestando immediatamente Beatrice e procurandole una bella tachicardia: perché dovevano cominciare proprio con la materia che le era più ostica? Poi, però, la ragazza rifletté meglio sulla questione e si accorse che, forse, sarebbe stato meglio togliersi di torno il prima possibile le discipline in cui era meno ferrata, anche se iniziare bene l’orale le avrebbe garantito una buona prima impressione.
Antonioni accettò la proposta e subito, passandosi ripetutamente una mano in mezzo ai capelli corvini, meditabondo, mise un foglio bianco davanti alla fanciulla e le porse una penna, scrutando concentrato il ripiano della cattedra, sicuramente pensando a quale domanda farle. Dopo qualche secondo, finalmente, si decise e, sollevando lo sguardo su di lei, parlò.
«Vediamo... perché non ci parli della... seconda legge di Ohm?»
Per qualche istante, la giovane rimase ferma a fissarlo, ancora con la mano con cui aveva preso la penna ancora a mezz’aria, pensando all’ostinazione e alla pazienza che le aveva dimostrato Marcello nell’insistere affinché studiasse bene quell’argomento a cui, a dirla tutta, se fosse stato per lei, avrebbe dedicato il minimo dell’attenzione. Così, mandando un silenzioso ringraziamento al giovane e annuendo all’insegnante, Beatrice appoggiò la penna sul foglio e iniziò.
***

«Vittoria, si può sapere dove stiamo andando?» si arrischiò a domandare Gerardo, dopo più di un’ora di marcia forzata, durante la quale nessuno dei due aveva emesso una sola sillaba.
«Lo scoprirai presto!» replicò la ragazza, senza nemmeno voltarsi indietro, continuando a camminare con passo spedito e sicuro.
Perplesso per quella risposta lapidaria, il giovane si guardò bene dal fare altre domande, limitandosi a seguire la sua fidanzata per le vie del centro cittadino, ignaro di cosa le stesse passando per la testa. Infatti, lei quella mattina l’aveva quasi buttato giù dal letto dicendogli soltanto che avevano una missione da compiere per il bene di Marcello e Beatrice, anche se poi non gli aveva fornito ulteriori particolari, né, soprattutto, quale fosse il suo ruolo.
Tuttavia, quando Vittoria si arrestò davanti alla porta della merceria di Via della Mercede, fu come se le sinapsi del ragazzo si fossero attivate tutte insieme e quello finalmente intuì che la famosa missione riguardava il matrimonio del loro migliore amico.
Non appena i due giovani entrarono nel negozio, il tintinnio della porta richiamò Alessio e Valentina che, ormai in vacanza, trascorrevano quasi tutto il tempo nel laboratorio della madre.
«Gerardo!» lo salutò subito la bambina con un gran sorriso, correndogli incontro.
«Sei da solo? E Marcello dov’è?» gli chiese, invece, Alessio, alzandosi sulle punte e sbirciando dietro di lui, come se si aspettasse che il biondo si fosse nascosto per fare loro una sorpresa.
«Oggi è rimasto in ufficio, aveva molte cose da sbrigare» spiegò il ragazzo, abbassandosi all’altezza dei due e facendo spallucce, «però, non sono da solo» aggiunse, sollevando il capo verso la compagna e i fratelli, seguendo la direzione che aveva indicato loro, scorsero Vittoria, squadrandola per qualche secondo senza parlare.
«Io ti ho già vista» notò poi Valentina, inclinando la testa da un lato e dondolando sul posto.
«Vengo molto spesso a fare acquisti qui» replicò la ragazza, incurvando le labbra con dolcezza. «Anche io vi ho già visto, solo che non ci siamo ancora presentati».
Invece, Alessio, diffidente come il solito, si limitò a scrutarla ad occhi socchiusi, mentre la sorella, più intuitiva, dopo aver guardato attentamente prima l’uno e poi l’altra, si voltò verso Gerardo e gli chiese, con innocente candore: «Lei è la tua principessa?»
A quella domanda, quello si tirò su immediatamente, sentendosi andare a fuoco e, imbarazzato, balbettò un ehm, sì. Tale rivelazione, però, fece cambiare repentinamente espressione ad Alessio, che si avvicinò subito a Vittoria.
«Come ti chiami?» le chiese.
«Vittoria» rispose lei, sorridendogli.
«Hai un nome da regina!» notò lui, ammirato. «A scuola, la maestra ci ha raccontato di una regina d’Inghilterra che si chiamava come te».
«Vittoria, hai già baciato Gerardo?» intervenne, a quel punto, Valentina, che non aveva affatto dimenticato la conversazione che lei ed il fratello avevano avuto con il giovane prima di Natale.
Vedendo però che il ragazzo non rispondeva, esibendosi, invece, nella sua perfetta imitazione di un pesce rosso, la bambina si sentì in dovere di raccontare a Vittoria anche il resto: «Sai, ci ha detto che è un principe ranocchio e solo con un tuo bacio può trasformarsi» spiegò.
A quel punto, quella parve capire tutto e si voltò verso il giovane che, sempre più rosso, ricambiò l’occhiata, sbattendo le palpebre: mai avrebbe immaginato, infatti, che un giorno la sua fidanzata sarebbe venuta a conoscenza di quell’aneddoto e, in quel momento, avrebbe voluto solo sparire nel nulla.
La ragazza, però, fu di tutt’altro avviso, come lasciò intendere quando rispose, intenerita: «Certamente. Anzi, direi che è diventato un principe perfetto!»
A quel punto, con un provvidenziale intervento, la signora Sofia attirò l’attenzione su di sé, permettendo a Gerardo di tirare un sospiro di sollievo.
«Alessio, Valentina, si può sapere chi state importunando?» domandò, severa, avanzando verso i figli con le braccia incrociate sul petto. Poi, però, scorgendo il giovane, assunse un’aria sorpresa.
«Ah, ciao Gerardo! È parecchio tempo che non ti vedo» commentò, scrutandolo pensierosa. Dal canto suo, lui non si meravigliò per la sua reazione, poiché era quasi certo che la donna si era ricordata che l’ultima volta che si erano visti era stata in occasione del rapimento di Beatrice, e rispose, educatamente: «Buongiorno, signora. Sì, è passato qualche mese».
La sarta, allora, aprì la bocca, forse per chiedergli se potesse fare qualcosa per lui, quando notò Vittoria.
«Oh, ciao, cara. Perdonami, non ti avevo vista» si scusò. «Hai un viso conosciuto, o sbaglio? Mi sembra che non sia la prima volta che vieni qui».
«Sì, ha ragione, sono una sua cliente, anche se oggi sono venuta per farle una richiesta un po’ particolare» spiegò subito Vittoria, togliendosi la borsa dalla spalla e posandola in un angolo del bancone.
«Di che cosa si tratta?» chiese, allora, la donna, appoggiandosi a sua volta contro di esso e guardando incuriosita la sua interlocutrice.
«Io ed il mio fidanzato vorremmo fare un regalo speciale ad una coppia di amici» spiegò la ragazza, facendo arrossire nuovamente Gerardo, questa volta sotto l’occhiata interessata della donna. Il giovane, infatti, non aveva ancora imparato a non imbarazzarsi vistosamente ogni volta che veniva presentato o si presentava lui stesso come il ragazzo di Vittoria, poiché gli sembrava ancora troppo bello per essere vero.
«Come saprà, Beatrice e Marcello si sposeranno il prossimo agosto, ma l’orgoglio di quella cara ragazza sta mettendo seriamente a rischio la possibilità che abbia un abito da sposa degno di questo nome» proseguì, intanto, l’altra, dimostrando una particolare delicatezza nel riferire con poche e semplici parole il succo della discussione che aveva avuto con l’amica in merito alle scarse finanze di cui disponeva e alla sua ostinazione a voler fare tutto da sola.
In risposta, la signora Sofia sospirò, portandosi una mano su un fianco e l’altra sulla guancia, in atteggiamento addolorato.
«Quella povera bambina è stata molto sfortunata,» mormorò, quasi tra sé e sé, avendo capito perfettamente la situazione, «perciò, se potrò dare una mano per renderla felice, lo farò volentieri».
 
Dopo una tale risposta, il giovane vide la compagna congiungere di colpo le mani e, a giudicare dal sorriso che si era appena dipinto sul suo volto, capì che doveva aver raggiunto il suo scopo.
«Ero sicura che sarebbe stata d’accordo. Sono convinta che, unendo le nostre forze, potremo regalare a Beatrice un abito eccezionale!» esclamò, felice di aver trovato un’alleata.
Fu proprio allora che anche a Gerardo fu chiaro ciò che aveva architettato Vittoria e dovette ammettere che la ragazza non smetteva mai di stupirlo: si prodigava sempre molto per gli altri, arrivando anche a mettere se stessa da parte, come era accaduto il giorno del suo compleanno che, cadendo poco più di una settimana prima dell’inizio della maturità, aveva preferito passare a casa ad aiutare l’amica, decidendo di rinviare i festeggiamenti al momento in cui anche Beatrice avrebbe potuto prendervi parte.
A quel ricordo improvviso, il ragazzo sorrise, sentendosi fiero di lei.
«Ovviamente, alle spese penseremo noi, vero, Gerardo?» gli chiese proprio in quel momento lei, togliendolo ai suoi dolci pensieri.
«Certo. Non sarò un esperto di vestiti e cucito, ma anche io voglio dare il mio contributo» rispose lui, regalando all’altra un sorriso partecipe e quella, subito dopo aver ricambiato, tornò a rivolgersi alla donna: «Però, lei, in quanto sarta, ci dovrà aiutare con la realizzazione».
«È implicito!» ribatté subito la signora Sofia. «Aspettatemi un attimo, vado a prendere alcuni cataloghi di abiti da sposa, d’accordo?» aggiunse poco dopo, sparendo rapidamente nel retrobottega e riemergendone una manciata di minuti più tardi, con le braccia cariche di raccoglitori e fascicoli con la copertina translucida.
«Sì, che bello, regaleremo a Beatrice un abito da principessa!» fecero i bambini, in coro, cominciando a saltellare per il negozio come caprioli.
«Ecco, a proposito di principesse... la prego di non pensare a nulla di pomposo come i modelli che vanno ora» si raccomandò Vittoria, prendendo un catalogo e cominciando a sfogliarlo, aggrottando la fronte. «Mi spiace per Lady Diana, ma il suo vestito era orrendo... Su Beatrice vedo più qualcosa alla Grace Kelly».
«Oppure qualcosa come questo, simile al modello che l’atelier delle Sorelle Fontana realizzò per Linda Christian7, anche se non è una principessa in senso stretto» propose, invece, la sarta, staccando un pieghevole da un raccoglitore e sottoponendolo all’attenzione della ragazza, che lo prese e cominciò a studiarlo attentamente in tutte le sue parti.
Gerardo, nel guardare la sua fidanzata così presa, non poté far meno di buttare anche lui un occhio su tutte quelle foto e, per quanto sapesse di non essere un esperto di moda, si ritrovò a pensare che la sua Vittoria, con indosso uno di quelli, sarebbe stata davvero bellissima. Tuttavia, si rese anche conto che, prima di portarla all’altare e di vederla vestita di bianco, avrebbe dovuto chiederle di sposarlo...
«Anche noi vogliamo partecipare! Non lasciateci fuori!» protestò in quel momento a viva voce Valentina, mettendo il broncio e annodando le braccia sul petto.
«Sì, Beatrice è anche nostra amica!» le diede man forte Alessio, alzando orgogliosamente il mento.
Divertita da quell’intervento, la giovane si voltò verso quelle due pesti e si chinò verso di loro, appoggiando le palme sulle ginocchia.
«Certamente, bambini» disse loro, facendo l’occhiolino. «Per fare una
sorpresa con i fiocchi... c’è bisogno della collaborazione di tutti!»




***
Per la revisione di questo capitolo, ringrazio Lady Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la grafica del titolo è opera mia.
Come sempre, grazie alla mia Anto e alla sua pazienza.
***

[N.d.A]
1. scontri in Libano... X Legislatura: nel giugno 1987, la Siria intervenne militarmente a Beirut (capitale del Libano) per porre fine agli scontri tra sunniti e sciiti (attivi dal 1975), anche se la guerra civile terminerà solo nel 1990; 14 giugno dello stesso anno, in Italia, si svolsero le elezioni politiche per la X Legislatura;
2. “Marcia Trionfale”... Traviata: forse questa nota è inutile, ma mi sento di dover giustificare gli articoli che ho messo davanti ai vari titoli. La “Marcia Trionfale” perché è sottinteso che è un’aria, il “Va’, pensiero” perché è un coro e il “Libiamo ne’ lieti calici” perché è un valzer. Inoltre, faccio presente che nel Va’, pensiero ho aggiunto l’apostrofo (Va’ è forma apocopata di Vai), nonostante nel libretto orginale la grafia ne fosse priva, perché preferisco la forma più moderna (e più corretta);
3. ponte di Ariccia: si tratta di un monumentale viadotto che collega Ariccia e Albano Laziale. È conosciuto con il nome di ponte dei suicidi, poiché, vista la sua considerveole altezza (60 metri), molte persone si sono gettate da esso per togliersi la vita. Considerato l’alto tasso di morti, l’ANAS, a partire dal 2000, ha disposto delle barricate di contenzione lungo tutto il percorso del ponte, così da ridurre i tentativi di suicidio;
4. tema... greco: tra le tracce della prima prova del 1987, ho pensato che per Beatrice fosse perfetta quella che invitava ad argomentare e commentare una frase di Norberto Bobbio sulla definizione di cultura; invece, la seconda prova del liceo classico fu una versione di Platone;
5. Roscia: nel dialetto di Roma e dintorni, la storpiatura roscio dell’aggettivo rosso (riferito ai capelli) per lo più ha una valenza dispregiativa, in accordo con la credenza popolare che i possessori di capelli rossi portino sfortuna e, addirittura, possano essere creature malvagie;
6. sessanta: ovviamente, negli anni ‘80, la votazione all’Esame di Stato era in sessantesimi, quindi il sessanta rappresenta il voto massimo (e non il minimo, come oggi);
7. un abito pomposo... Linda Christan: Lady Diana si è sposata il 29 luglio del 1981 e lo sfarzoso modello del suo abito nuziale ha influenzato molto la moda delle spose di tutti gli Anni ’80. Invece, i vestiti di Grace Kelly (sposatasi il 19 aprile del 1956) e di Linda Christian (la mamma di Romina Power, sposatasi il 28 gennaio 1949), seppur nella loro ricercatezza,
appartenendo ad altri momenti storici, hanno avuto una linea più semplice.
***

Salve a tutti!
Arrivati a questo punto, posso dire che ci troviamo in un momento di transizione - come già annunciato dal titolo -, poiché la seconda parte di questo racconto è ufficialmente conclusa e, dal prossimo aggiornamento, comincerà la terza ed ultima, in cui tornerà a farsi sentire la componente “poliziesca”.
Prima di passare ai saluti, ringrazio di cuore chiunque sia ancora qui tra i lettori, chi aspetta con pazienza che questa storia arrivi alla sua fine, chi l’ha messa tra le seguite/ricordate/preferite, chi mi ha lasciato un’opinione la scorsa volta (Feynman, Aven, Anto).
In ultimo, vi lascio, come il solito, il link alla mia pagina facebook
, dove presto pubblicherò un estratto dal capitolo ventesimo e altre cinque curiosità sulle mie storie (ho visto che la precedente iniziativa è stata apprezzata da diverse persone).
Alla prossima!
Halley S.C.

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Capitolo 20
*** Capitolo Ventesimo - Vento di Cambiamenti ***


Vento dell'Ovest - Capitolo 20



- Capitolo Ventesimo -
Vento di Cambiamenti




C
ontrariamente a quanto aveva sostenuto Bellocchi, Beatrice dimostrò di possedere una preparazione di gran lunga superiore a gran parte dei suoi studenti e questo, alla fine, le valse un bel cinquantaquattro.
La mattina in cui uscirono i quadri, la fanciulla incrociò per caso proprio il professore di lettere nel corridoio al piano terra e, dall’occhiataccia che questi le lanciò quando le passò accanto, sembrò non aver gradito quel brillante risultato. Non che a lei importasse più di tanto, comunque, visto che non lo avrebbe più rivisto; tant’è che si lasciò subito contagiare dall’entusiasmo di Vittoria, la quale le aveva appena confessato di non essere stata così soddisfatta nemmeno ai tempi del suo esame di maturità.
Infatti, mentre percorrevano Corso Trieste sotto il caldo asfissiante dei primi di luglio per raggiungere la fermata dell’autobus, situata lungo Via Nomentana, quella, cavalcando l’onda dell’entusiasmo, esclamò: «Ero certa che sarebbe andato tutto bene!»
«A dire il vero, se prima degli esami m’avessero detto che l’epilogo sarebbe stato così soddisfacente, non c’avrei creduto!» replicò, invece, la fanciulla, che ancora non aveva realizzato appieno di essere sopravvissuta anche a quell’incubo.
«Perché ti sottovaluti troppo, Beatrice» ribatté, a sua volta, l’altra, fermandosi un attimo per scrutarla severamente. «Se si fanno le cose con impegno e determinazione, quasi sicuramente vanno a buon fine e gli sforzi non vengono ripagati».
In risposta, la ragazza si limitò a sorridere, poiché, di fronte all’evidenza dei fatti, non aveva proprio nulla da aggiungere.
«Adesso non ti resta che scegliere la facoltà che vorrai frequentare, allora» continuò Vittoria, riprendendo a camminare dopo aver spostato la borsa color panna da una spalla all’altra. «Se vuoi, posso accompagnarti a chiedere informazioni sui vari corsi, così potrai fare dei confronti».
Nell’udire quelle parole, Beatrice realizzò improvvisamente che la possibilità di frequentare l’università era diventata una realtà concreta e farlo sarebbe stata una scelta solamente sua, senza che ci fossero parenti invadenti o egoisti a metterle i bastoni fra le ruote: il suo desiderio di emancipazione e riscatto, finalmente, non era più soltanto un sogno.
«Se’ molto gentile, Vittoria, tuttavia, credo di aver già deciso: m’iscriverò a storia dell’arte» le rispose, dopo essersi presa qualche secondo per assaporare quell’invitante prospettiva.
«So che ti piace molto come indirizzo, quindi penso sia davvero quello che fa per te» replicò subito l’altra, sorridendole compiaciuta, e la fanciulla annuì, ricambiando il sorriso.
Certo, ci sarebbe stato il problema dei come pagare le tasse universitarie, ma era convinta che, in un modo o nell’altro, se la sarebbe cavata, come aveva fatto fino ad allora. Infatti, la signora Sofia le aveva lasciato intendere che a settembre l’avrebbe riassunta volentieri e, magari, le cose si sarebbero sistemate da sole, anche perché
non era nelle sue intenzioni fare la mantenuta pesando sulle spalle di Marcello, nonostante fosse ad un passo dal diventare suo marito e non avesse problemi economici.
Come se avesse intuito i suoi pensieri, l’amica propose, tutto d’un tratto: «Che cosa ne dici, Beatrice, se passassimo un attimo in merceria?»
Lì per lì, la fanciulla rimase sorpresa e rispose: «Adesso?»
«Certamente! Non ti farebbe piacere informare la tua benefattrice del tuo brillante risultato?» replicò l’altra, proprio mentre svoltavano in Via Nomentana, lasciando l’ombra protettiva degli edifici e ritrovandosi sotto un sole cocente.
«In effetti, credo che tu abbia ragione, sai? Mi sembra il minimo dopo che ho lasciato il lavoro per prepararmi meglio» notò Beatrice, socchiudendo gli occhi e schermandoli con il palmo della mano per evitare di essere accecata dall’intensa luce del mattino.
Tuttavia, non le sfuggì comunque il largo sorriso di Vittoria, che le fece sospettare ci fosse un altro motivo di tutt’altra natura dietro quella deviazione improvvisa.
Ciononostante, non le fece altre domande e la seguì, affrettandosi a raggiungere la fermata dell’autobus.

Alessio e Valentina videro le due ragazze da lontano e, senza indugiare nemmeno un secondo, corsero loro incontro.
«Beatrice, finalmente sei tornata!» la salutò la bambina, prendendole le mani e cominciando a saltellare allegramente, come se avesse rivisto dopo tanto tempo la sua compagna di scuola preferita.
«Ciao, Vittoria!» le fece eco il fratello, avvicinandosi all’altra.
Quella confidenza inaspettata richiamò subito l’attenzione di Beatrice, che inarcò un sopracciglio e chiese, incredula: «Vi conoscete?»
Il ragazzino si voltò subito verso di lei, guardandola sbattendo le palpebre.
«Sì, è già venuta per...» cominciò a spiegare, prima che la sorella lo zittisse tirandogli un calcetto. Alessio tentò di protestare, ma Valentina scosse la testa, portandosi nel frattempo un indice alle labbra. Il bimbo, allora, cambiò repentinamente espressione ed ammutolì.
Insospettita da una reazione simile, Beatrice scrutò perplessa i due fratelli e stava proprio per chiedere loro spiegazioni, quando intervenne prontamente Vittoria: «Be’, vengo spesso qui a fare rifornimenti di stoffe e bottoni. Non ricordi, Beatrice, che una volta mi hai servita proprio tu?»
Di fronte ad una tale prontezza, la fanciulla si voltò verso l’amica e aggrottò la fronte. Tuttavia, non potendo controbattere la veridicità dell’affermazione, tacque, ma senza abbassare la guardia, intuendo che nessuno dei tre gliela stava raccontando giusta. Comunque, decise di accantonare momentaneamente la faccenda, sperando di ottenere più tardi qualche delucidazione da Vittoria.

Quando, poco dopo, entrò nel negozio, la ragazza lo trovò molto cambiato, con numerosi costumi da bagno appesi un po’ ovunque e colorate borse di paglia da mare disposte con ordine in ogni angolo.
Il solito tintinnio del campanello posto dietro la porta richiamò immediatamente la sarta, che comparve dal retrobottega portando due bicchieri colmi di fettine di pesca per la merenda dei bambini.
Non appena vide Beatrice, però, appoggiò tutto sul bancone e, sorridendo, le andò incontro.
«Cara, che sorpresa!» esclamò, abbracciandola affettuosamente. «Come stai?»
«Molto bene, signora Sofia. E lei?» rispose la giovane, incurvando a sua volta le labbra.
«Bene, bene, non c’è male» fece l’altra, inclinando appena la testa. «Hai finito gli esami?»
Accompagnando le parole con un gran sospiro di sollievo, Beatrice annuì e non perse altro tempo: «Oh, sì, son passata proprio per dirle che stamani ho saputo il risultato: cinquantaquattro!»
«Sei stata bravissima!» si congratulò, allora, la sarta, battendo le mani con grazia. «Anche se, in realtà, non ho mai avuto alcun dubbio sulle tue capacità».
«Che voto sarebbe cinquantaquattro?» domandò, invece, Alessio, entrando nel negozio, seguito dalla sorella e da Vittoria.
Beatrice li fissò per un attimo aggrottando la fronte, rendendosi conto solo in quel momento che quei tre avevano lasciato che andasse avanti da sola, rimanendo fuori a confabulare tra loro e decisamente questo deponeva a loro sfavore, rafforzando i suoi sospetti. Ma che cosa stavano
macchinando alle sue spalle?
«Sarebbe un nove, più o meno» rispose, perplessa, scrutando prima i due bambini e poi Vittoria, cercando di cogliere qualche particolare che l’avrebbe tradita, ma invano: la ragazza sembrava il ritratto della serenità e qualunque cosa avesse architettato, stava riuscendo a dissimulare molto bene il suo coinvolgimento.
«Allora sei stata proprio brava!» commentò Valentina, distraendo la fanciulla dalle sue elucubrazioni. «Chissà se riuscirò anch’io a prendere un voto così alto...» aggiunse, assumendo un’espressione preoccupata. Il fratello, invece, sbuffò e roteò gli occhi.
Divertita dalle precoci preoccupazioni della figlia, la signora Sofia le sorrise e le accarezzò i capelli, rassicurandola: «Per ora non ci pensare, ci vuole ancora un po’ di tempo prima che tu vada al liceo...»
«Peccato, io non vedo l’ora di finire!» saltò su, allora, il bambino, scurendosi in volto e dimostrando ancora una volta di non nutrire verso la scuola lo stesso entusiasmo della sorella.
A quella simpatica uscita, la madre guardò Alessio con dolcezza e scosse la testa, per poi tornare a rivolgersi a Beatrice: «Cara, come procede l’organizzazione del matrimonio, invece?»
«Abbastanza bene, anche se non abbiamo chissà quali grandi preparativi da ffare... Sa, con Marcello si è pensato di fare una cosetta piuttosto semplice» rispose lei, sentendosi subito angosciata al solo ripensare al fatto che la madre di lui non solo aveva negato loro il suo aiuto, ma aveva anche fatto il diavolo a quattro affinché nessuna delle sue conoscenze prendesse parte alla cerimonia: il risultato era che avevano solo una manciata di invitati e ben pochi festeggiamenti da organizzare.
Il fatto, poi, che la donna continuasse a far finta che Beatrice non esistesse, ignorandola ogni volta che si erano ritrovate nelle stessa stanza (e, per fortuna, era successo solo in un paio di occasioni, da quando Marcello le aveva fatto la proposta), aveva contribuito a far nascere nella fanciulla un astio verso di lei pari solo a quello che anutriva nei confronti delle sue parenti e di Navarra. Ma ciò che la amareggiava di più, però, era l’esser certa che, se invece di remare loro contro, la signora Claudia avesse impiegato le sue energie e la sua capacità di persuasione in senso positivo, ne sarebbe venuto fuori sicuramente un matrimonio dignitoso e molto raffinato.
«E... per quanto riguarda il tuo vestito da sposa?» chiese ancora la sarta, distogliendo la ragazza dai suoi cupi e angusti pensieri.
«Non l’ho ancora avuto tempo di andare a provarne qualcuno» le rispose quella, facendo spallucce.
«Gli esami hanno avuto la precedenza» spiegò Vittoria, che fino a quel momento era stata insolitamente zitta. Tuttavia, aveva usato un tono quasi divertito che stupì non poco Beatrice, che per questo cominciò a temere che le stessero organizzando qualche scherzo, nonostante la sua parte più razionale stesse tentando di tranquillizzarla, sostenendo che quella ragazza e, soprattutto, la signora Sofia non erano persone in grado di prendersi gioco di lei. Anche se, d’altra parte, era così evidente che le stavano tenendo nascosto qualcosa...
«Già» mormorò, allora, Beatrice, osservando di sottecchi l’amica, decisa a scacciare quell’inquietudine che si era impossessata di lei. Poi, si ricompose e tornò a rivolgersi alla donna: «A proposito, signora Sofia, lei saprebbe suggerirmi qualche negozio che ne ha di carini, ma a basso prezzo? Andrebbe bene anche... usato».
Non appena ebbe finito di pronunciare quella domanda, nella merceria calò un silenzio pesante e la sarta guardò la fanciulla con un misto di dolore ed incredulità, come se non avesse mai pensato che la sua ex lavorante potesse farle una richiesta del genere. Sotto un tale sguardo, Beatrice si sentì arrossire, poiché non voleva la pietà di nessuno: la faccenda era già abbastanza spinosa, senza che si aggiungesse anche la compassione di una persona che reputava un’amica.
Tuttavia, la donna mutò presto la sua espressione in una di pura gioia e, scuotendo la testa, le rivelò a bassa voce, come se le stesse confidando un importante segreto: «Oh, no, cara. A dire il vero, non credo proprio ce ne sarà bisogno».
Detto ciò, si allontanò con il sorriso di chi la sa lunga stampato sul volto, diretta verso il retrobottega, mentre Alessio e Valentina la guardavano ridacchiando. Sconvolta da un simile atteggiamento, Beatrice si chiese se non fossero ammattiti tutti o se, invece, non fosse prigioniera di una strana allucinazione in cui era finita in una realtà alternativa. Istintivamente, cercò con lo sguardo Vittoria, per poi accorgersi che anche lei stava cercando di trattenersi dal ridere.
Stava proprio per sbottare, stizzita, e chiedere perché si stessero divertendo a trattarla come una stupida, quando la signora Sofia fece ritorno nel negozio, reggendo con una mano una gruccia e con l’altra un enorme sacco di tela bianca che pendeva dal gancio. Non era la prima volta che Beatrice vedeva un oggetto del genere, perciò lo riconobbe subito come una sacca porta-abiti.
«Aprilo, è per te» le disse con dolcezza la donna, appoggiando tutto sul bancone, proprio davanti a lei. «Questo è da parte di tutti noi».
Lì per lì, la fanciulla rimase di stucco, non sapendo proprio cosa potesse contenere quell’involucro di stoffa, tant’è che si limitò a far scorrere lo sguardo su tutti i presenti, i quali la guardavano a loro volta, incuriositi, come se aspettassero di conoscere la reazione che avrebbe avuto nell’aprire quel misterioso regalo.
A quel punto, Alessio e Valentina le si avvicinarono e le si disposero uno per lato, per essere i primi a condividerla con lei e, allora, la ragazza, incoraggiata da quel gesto, afferrò il cursore della chiusura lampo che chiudeva la sacca e, dopo aver preso un bel respiro, lo tirò giù, fin oltre la metà, in un sol colpo, rivelando ben presto un trionfo di seta e pizzo color bianco ghiaccio.
Non riuscendo a credere ai propri occhi, Beatrice si adoperò per liberare immediatamente il vestito e per poterlo così ammirare meglio: infatti, sembrava uscito direttamente da una fiaba, non perché fosse pomposo o particolarmente ricco nei ricami, anzi, era davvero semplice, bensì perché era stato fatto apposta per lei.
«L’è meraviglioso...» riuscì a stento a mormorare, passando delicatamente le dita sulle maniche di pizzo, incantata da ogni particolare.
«Ti piace?» chiese Valentina, osservandola speranzosa.
«Da morire, piccina...» le rispose Beatrice, poco prima di appoggiare con estrema cura l’abito sul bancone e chinarsi sui due bambini per abbracciarli.
«Grazie, grazie mille!» esclamò, commossa, rialzandosi, mentre Alessio gonfiava il petto, orgoglioso per la sorpresa ben riuscita e la sorella batteva le mani, felice. Poi, la fanciulla si diresse verso la signora Sofia e Vittoria, per ringraziare anche loro.
«Ero certa che ti sarebbe piaciuto!» fece l’amica, con un gran sorriso, ricambiando il caloroso abbraccio che aveva ricevuto. «Altro che abito da sposa usato!»
«Davvero, non riuscirò mai a dirvi grazie abbastanza...» sussurrò l’altra che, pur sapendo di avere un’espressione da sciocca dipinta sul volto, non se ne curò, volendo godersi pienamente quel momento di felicità.
«Be’, potresti farlo indossandolo per noi, in anteprima» propose, allora, la donna, ammiccando verso di lei, per poi recuperare dal cestino di vimini che teneva sul bancone un metro da sarta e un puntaspilli. «Così, in caso ci sia qualche piccolo difetto, potrò sistemarlo. Avendoti aiutato a sistemare altri tuoi capi, conosco le tue misure, ma è un’altra cosa vedere un vestito indosso».
A quel punto, Vittoria prese una busta di plastica nera e rigida dietro di sé e ne estrasse quella che aveva tutta l’aria di essere una scatola per scarpe di colore blu cupo.
«Allora, credo sia il caso che provi anche queste, Beatrice» le disse, porgendogliela. «Sono da parte di Gerardo... anche se, a dire il vero, le ho scelte io».
Sbalordita da quell’ulteriore sorpresa, la fanciulla riuscì a malapena a balbettare un ringraziamento per il giovane, che l’altra la sollecitò ad aprirlo, rivelando qualcosa di fondamentale per completare la sua gioia: un paio di décolletées dello stesso colore del vestito.
«Avevano terminato quelle in cristallo» scherzò Vittoria, «ma trovo che anche queste facciano la loro bella figura» aggiunse poi, visibilmente soddisfatta.
La fanciulla, stordita, stava per ricominciare a profondersi in ringraziamenti, quando, tutto d’un tratto, notò che Valentina stava venendo verso di lei, reggendo in mano un cerchietto ricoperto di perline bianche e lucide.
«Questa l’abbiamo fatta noi, perché sei una principessa e devi avere la tua corona!» le spiegò Alessio, mentre la sorella consegnava il loro regalo a Beatrice, la quale rimase a fissarlo per qualche istante, sopraffatta dalle troppe emozioni.
«Ci ha aiutato un po’ la mamma, però» ammise timidamente la bambina, alzando le spalle.
Tra tutti i regali che aveva ricevuto, fu in assoluto quello che la commosse di più: quelle piccole pesti avevano realizzato un regalo con le loro mani perché le volevano bene e la fanciulla sentì che era stato proprio quel gesto, così puro, a cancellare ogni ingiustizia che le aveva fatto la Matrona. Per questo, mentre si inginocchiava davanti ai due fratelli, piangendo e stringendoli dolcemente tra le sue braccia, si sentì incredibilmente fortunata.
***

In piedi, di fronte allo specchio interno al suo armadio, Marcello stava finendo di annodarsi il papillon.
Aveva sempre preferito le cravatte e con quel caldo avrebbe preferito non mettere proprio nulla che gli stringesse il collo, ma non poteva lamentarsi il giorno del suo matrimonio, soprattutto perché c’era già qualcun altro che lo stava facendo per tutti: sua madre. Infatti, la Matrona aveva cominciato fin dalla colazione a sbraitare per ogni piccola cosa, facendo addirittura piangere Elisa, la più giovane delle cameriere, accusandola di aver apparecchiato mettendo i coperti a una distanza eccessiva l’uno dall’altro, mentre il signor Giancarlo, invece, si era limitato a sospirare, scuotendo la testa e lanciando, di tanto in tanto, occhiate esasperate al figlio.
L’unica cosa che si augurò il giovane, perciò, fu che, almeno, la signora Claudia avesse esaurito tutta la sua voglia di urlare prima di entrare in chiesa, altrimenti non si sarebbe certo opposto se Don Marco l’avesse cacciata fuori.
Finito anche quell’ultimo dettaglio, con un sospiro, recuperò la giacca nera dal suo letto e, prima di indossarla, la osservò accuratamente, prendendo coscienza che da quel giorno in poi molte cose sarebbero cambiate. Certamente in meglio, ma era comunque un passaggio importante e non poteva essere che felice di affrontarlo assieme a Beatrice.
A ridestarlo dai suoi pensieri, giunse poco dopo suo padre che, dopo aver bussato alla porta e aver ricevuto l’invito ad entrare, avanzò verso di lui con un’espressione di assoluta gioia ad illuminargli il volto stanco.
«Manca solo questo» gli disse, appuntandogli all’occhiello della giacca un bocciolo di rosa bianca, simile a quello che indossava anche lui. Poi, alzò lo sguardo e lo puntò negli occhi del ragazzo, mettendogli le mani sulle spalle. «Come ti senti?»
Marcello fece una smorfia d’incertezza, impiegando qualche secondo per rispondere.
«Ho lo stomaco in subbuglio, ma, a parte questo, direi... bene» rispose, cercando di apparire più tranquillo di quanto non fosse.
Il padre, però, sorrise e scosse la testa, dandogli una stretta affettuosa sul braccio e rassicurandolo: «Credo che sia normale, figliolo».
In realtà, il signor Giancarlo gli aveva detto appena qualche parola, tuttavia, forse per il tono con cui gli si era rivolto o forse per la sua semplice presenza, il giovane si sentì subito più rilassato, tanto da concentrarsi sugli ultimi preparativi.
«Hai ritirato i biglietti del traghetto?» domandò, a quel punto, il padre, mentre si accomodava sul letto. Il giovane lo vide con la coda dell’occhio mentre era intento ad allacciarsi le scarpe e fu sollevato nel vedere che l’altro si stava riposando: ormai ricorreva all’uso del bastone solo nei giorni in cui si sentiva più stanco o dopo le sedute di chemioterapia, tuttavia era comunque meglio che non si affaticasse.
«Sì, ieri pomeriggio. L’imbarco è alle cinque e mezzo a Piombino, poi attraccheremo a Portoferraio, perciò, sicuramente, arriveremo a tarda sera a Marciana Marina» gli rispose, concedendosi di andare nei particolari, poiché sapeva che al padre avrebbe fatto piacere essere messo al corrente dell’itinerario, avendo girovagato e in largo prima di sposarsi, essendo un amante dei viaggi, delle escursioni e, in generale, delle programmazioni nel dettaglio.
«La cerimonia finirà per le dodici circa, quindi dovreste farcela» concordò, infatti, quello, lisciandosi il mento compiaciuto.
«Per fortuna, la traversata è piuttosto breve, poco più di un’ora e Portoferraio dista da Marciana Marina appena sedici chilometri e mezzo1» aggiunse, poi, Marcello, tirandosi su e ritornando davanti allo specchio per abbottonarsi la giacca e lanciare un’occhiata compassionevole ai propri indomabili capelli: aveva rinunciato in tenera età a pettinarli e, dopo aver dichiarato la battaglia contro di loro persa in partenza, fece spallucce.
L’uomo lo scrutò divertito e, serrando le braccia contro il petto, notò: «È stato un gesto molto carino da parte tua interessarti ai problemi della proprietà di Beatrice, sai? Sono certo che ne sarà molto contenta».
«Sì, anche se la situazione si annuncia piuttosto... complicata» rivelò il giovane, serio, chiudendo l’anta dell’armadio e voltandosi in direzione dell’altro che stava proprio per chiedere ulteriori delucidazioni, quando, purtroppo, la Matrona fece la sua comparsa, ancora in veste da camera e bigodini.
«Quella sgualdrina che stai per sposare non sarà mai mia nuora» dichiarò con enfasi, come se nei mesi precedenti non avesse messo già abbastanza in chiaro il concetto.
Marcello, però, la ignorò, non degnandosi nemmeno di guardarla in faccia e dedicandosi, invece, con particolare concentrazione ad indossare i fermapolsi.
«Claudia, per favore. Non cominciare di nuovo» l’ammonì, al contrario, il marito, osservandola con cipiglio angustiato. «Almeno oggi, cerca di essere felice per nostro figlio».
Tuttavia, quella non fu per niente d’accordo con la sua proposta e, infatti, battendo un piede in terra come una bambina capricciosa, strillò: «Non chiedermi di essere felice per un’unione che non ho mai approvato!»
Nell’udire quelle parole, Marcello sentì montare dentro di sé una collera che, nonostante i suoi sforzi, non riuscì a placare.
«Va bene!» sbottò poco dopo, furibondo, dardeggiando la madre con un’occhiata di fuoco. Poi, in pochi passi, la raggiunse e, fissandola con tutto l’astio che covava da tempo verso di lei, le sibilò: «Faremo come vuoi: Beatrice non sarà mai tua nuora, ma... tu non sarai più mia madre».
Meravigliata ed intimorita, la donna fece per ribattere, ma Marcello alzò una mano, facendole capire che non voleva ascoltare un’altra parola dalla sua bocca. Anzi, senza aggiungere altro, raggiunse a grandi falcate il corridoio, desiderando null’altro che allontanarsi quanto più possibile dalla genitrice.
Gli era dispiaciuto perdere la pazienza davanti a suo padre, soprattutto sapendo che non era al massimo della forma fisica, ma davvero non ne poteva più di quei continui commenti velenosi su Beatrice.
Fin da bambino era stato cosciente di non avere una madre affettuosa e partecipe come tante altre, una figura di riferimento, dolce e pronta a sostenere i figli nelle difficoltà: infatti, la Matrona era sempre stata autoritaria, perennemente insoddisfatta ed eccessivamente critica verso tutto e tutti, rendendosi insopportabile agli occhi del figlio minore che, al contrario del fratello, aveva smesso di cercare la sua approvazione nello stesso momento in cui aveva capito che vedevano le cose in modo troppo diverso.
Quando, finalmente, arrivò in giardino, si fermò a riprendere fiato, appoggiandosi ad un vecchio pino accanto al viottolo di ghiaia e, nel vedere le due biforcazioni che prendevano origine da quest’ultimo, vi lesse una metafora della situazione che stava vivendo in quel frangente.

Quell’ennesima discussione, per quanto breve, era stata davvero la goccia che aveva fatto traboccare il vaso e, in quel momento, il giovane prese coscienza che il suo rapporto con la madre, già ai ferri corti, dopo il matrimonio si sarebbe definitivamente lacerato, per poi deteriorarsi a poco a poco negli anni che sarebbero venuti, senza alcuna possibilità di riavvicinamento.
La signora Claudia, molto probabilmente, non sarebbe stata una nonna affettuosa con i figli suoi e di Beatrice, non avrebbe mai invitato tutta la famiglia la domenica a pranzo e non avrebbe mosso un dito per aiutarli, qualora ce ne fosse stato il bisogno.
Tuttavia, mentre si staccava dall’albero, Marcello considerò che, a conti fatti, non ci sarebbe stata una vera e propria perdita, poiché, effettivamente, non avrebbe potuto sentire la mancanza di qualcosa che non aveva mai avuto.

I banchi del Laterano decorati con tulle e gerbere bianche erano soltanto tre sulla destra e altrettanti sulla sinistra, essendo il numero dei partecipanti alla cerimonia vergognosamente esigui e Marcello si ritrovò a pensare che non era certo un bello spettacolo vedere una chiesa maestosa come quella quasi deserta, mentre osservava Alessio e Valentina che si divertivano a rincorrersi per tutta la navata centrale, facendo riecheggiare i loro passi. A dirla tutta, però, il biondo non ce l’aveva con tutti quelli che avevano declinato l’invito, per lo più parenti alla lontana e conoscenti, poiché non avrebbe mai potuto pretendere che facessero altrimenti, inimicandosi la Matrona, sapendo bene cosa questa era in grado di fare e, ancora una volta, il ragazzo si ritrovò a pensare che sua madre, se non le fosse piaciuto così tanto frequentare i salotti, sarebbe stata un perfetto capo della malavita.
«Avremo modo di festeggiare in un altro momento» gli disse, a quel punto, Gerardo, con tono rassicurante, dandogli una pacca sulla schiena, avendo sicuramente intuito cosa gli stava passando per la testa in quell’istante.
«Già!» sbuffò l’altro, contrariato. «Non sarà mai la stessa cosa, ma con Beatrice abbiamo deciso di invitare a cena quanto prima sia il signor Rossiglione e sua moglie, che la signora Sofia e la sua famiglia. Inoltre, vorremmo organizzare anche un rinfresco per tutti quelli che ci hanno fatto gli auguri, di persona o in altro modo» spiegò poi, come se esprimere a voce alta i propri pensieri, condividendoli con il suo migliore amico, rendesse meno penosa quella situazione.
Sapeva che, probabilmente, non era quello che il Galateo suggeriva di fare in una tale occasione, ma, considerando le condizioni, non aveva senso badare troppo all’etichetta.
«E noi, invece? In quale gruppo saremo inclusi?» domandò, a quel punto, Vittoria, intromettendosi nella conversazione, mentre si sistemava la stola di seta, intonata con l’abito rosa cipria.
«Sai bene che voi sarete i primi ad essere invitati» ribatté immediatamente Marcello, lanciandole un’occhiata obliqua. «Faremo qualcosa insieme non appena torneremo dall’Isola d’Elba».
In risposta, però, la ragazza esibì un sorrisetto enigmatico e replicò, con estrema sicurezza: «Be’, a dire il vero, non è detto che dovremo aspettare così tanto».
Insospettito da quel commento sibillino, il giovane socchiuse appena gli occhi, scrutando severamente l’amica, ma non fece in tempo a farle altre domande, perché venne tirato per una manica da Alessio.
«Marcello, ti possiamo venire a chiamare quando arriva Beatrice?» chiese il bambino anche a nome della sorella, che lo guardava da metà della navata centrale, giocherellando con uno dei nastrini bianchi che aveva tra i capelli.
«Certamente» confermò lui, lasciando da parte per un attimo i suoi tumulti interiori per sorridere al piccolo. Quello ricambiò il sorriso e tornò saltellando da Valentina, per poi cominciare a correre entrambi verso il portale principale. Proprio allora, il giovane udì distintamente sua madre lamentarsi a voce alta dell’eccessiva vivacità dei due fratelli, ma fece finta di ignorarla, non degnandola nemmeno di un’occhiata, non faticando ad immaginarsela mentre sparlava di lui con Tiberio ed Ortensia, seduti accanto a lei, mentre la bambina stava dormendo nel passeggino.
Quello che, invece, reputò più importante fu appuntarsi mentalmente di scusarsi con la sarta appena conclusa la cerimonia. La Matrona stava davvero toccando il fondo e, nemmeno lì, sotto lo sguardo delle statue dei dodici Apostoli, ognuna incassata in una nicchia lungo la navata, stava cercando di trattenersi.
«Avete litigato anche oggi?» chiese proprio in quel momento Vittoria, guardando la signora Claudia in tralice.
«Qualcosa del genere» tagliò corto subito il biondo, alzando lo sguardo verso il soffitto dorato a cassettoni.
«Che pesantezza!» commentò, invece, Gerardo, scuotendo la testa con disapprovazione.
A quel commento, Marcello sorrise per la seconda volta, tornando a guardare i suoi migliori amici e ringraziando il Cielo che di poter sempre contare su di loro, anche nei momenti più delicati e sconfortanti.
A quel punto, giunse da loro Don Marco, con i capelli scuri pettinati all’indietro come di consueto e l’abito talare, pronto per sequestrare i due giovani, il signor Rossiglione e la signora Sofia per fare un ripasso generale delle loro mansioni durante la cerimonia, poiché aveva deciso che non avrebbero fatto solo i testimoni, ma si sarebbero anche divisi le varie letture della liturgia. Quell’intermezzo, però, così in linea con l’ossessiva attenzione per i dettagli del sacerdote, infuse a Marcello una tale serenità, che decise di perdonarlo per tutte le difficoltà che aveva creato a lui e a Beatrice nell’organizzazione del matrimonio, a cominciare dalle sue proteste per la loro scelta di usare l’Ave Maria di Schubert come canto d’ingresso. Infatti, secondo l’uomo, era poco consono ad un matrimonio, poiché il compositore l’aveva ideato pensando all’amante2, notizia che, invece, aveva lasciato i due giovani, davvero poco superstiziosi, del tutto indifferenti. 
«Marcello, Marcello!» lo richiamò, invece, concitatamente Alessio, arrivando da lui trafelato per la corsa, riportando la sua attenzione su ciò che stava accadendo in quel frangente intorno a lui. «È arrivata... è arrivata Beatrice!»
In quell’istante si udì l’attacco dell’organo. Ciò che accadde dopo fu abbastanza confuso, poiché, non appena scorse una figura vestita di bianco percorrere la navata sottobraccio a suo padre, scortata da Valentina che le reggeva il strascico del velo, il giovane rimase in sua contemplazione man mano che la vedeva avanzare verso di lui. Essendo la distanza tra il portale e l’abside davvero notevole, Marcello poté riconoscere i lineamenti della sua sposa solo quando fu abbastanza vicina e per questo fu allora che notò lo splendore che quella emanava nell’abito realizzato con tanto affetto dai loro amici, con i capelli rossi raccolti in un morbido chignon laterale ed il bouquet di gerbere candide e fiori della nebbia.
Finalmente, come risvegliatosi da una specie di torpore, il ragazzo le andò incontro e, non appena la giovane ebbe lasciato il braccio dell’uomo, la prese per mano. Ci fu un rapido e molto significativo scambio di occhiate
tra padre e figlio, dopo di che, i due giovani si guardarono e lui non riuscì a trattenersi dal mormorarle qualche parola.
«Sei un incanto».
Beatrice arrossì all’istante, ma si sforzò di non abbassare gli occhi, seguendolo verso l’altare, mentre Valentina, ormai giunta a termine della sua missione, si andò a sedere al primo banco sulla destra, accanto al fratello.

Per essere una funzione ufficiata da Don Marco, non durò oltre il dovuto. Marcello osservò Beatrice ogni qualvolta ne ebbe l’occasione e lei fece lo stesso con lui, innescando un gioco di sguardi che valsero più di ogni parola e che culminò nel momento dello scambio degli anelli, portati su un cuscinetto di seta da un rigidissimo e nervosissimo Alessio, il quale confidò sottovoce al giovane, mentre prendeva la fede che avrebbe dovuto mettere all’anulare di Beatrice, che aveva avuto paura di inciampare e rovinare tutto.
«Però è andato tutto bene, giusto?» gli sussurrò in risposta il biondo, rassicurante, guadagnandosi immediatamente un sorriso più sereno da parte del bimbo.  
Quindi fu la volta di Beatrice di pronunciare le promesse coniugali: la ragazza recitò la formula con la voce incrinata dall’emozione, ma senza commettere nemmeno un errore e, nel prendere la mano del suo sposo, gli trasmise come una scossa elettrica che lo stordì ancor di più, facendolo sentire felice come non era mai stato.
Al termine di quel momento così solenne, Marcello si rese conto che il signor Rossiglione e Gerardo li guardavano e sia suo padre, che la signora Sofia che Vittoria si erano commossi di cuore. Fu loro grato per il grande affetto che provavano verso la sua compagna, mentre non poté non avvertire una fitta di rabbia nel vedere che sua madre era rimasta pressoché impassibile.
Nemmeno l’apparenza a cui teneva tanto e che, per altro, era l’unico motivo che l’aveva spinta a prendere parte alla celebrazione di un’unione che disprezzava, era stata sufficiente perché si mostrasse un po’ più partecipe. Infatti, se ne stava al suo posto, rigida, come se avesse ingoiato un bastone che le impediva di muoversi, con un’espressione imperscrutabile sul volto.
Evidentemente, le parole che il figlio le aveva rivolto quella mattina e la sua decisione di entrare in chiesa da solo, senza, invece, essere accompagnato da lei, non erano state una punizione sufficiente a piegarla, facendogli capire una volta di più che, ormai, tra di loro, non vi era più alcun punto in comune.
Quando la cerimonia finì, il giovane incrociò volutamente lo sguardo della madre e prese per mano Beatrice, come a sottolineare che, tra le due, aveva scelto lei. Tuttavia, sentendo che, per chiudere una volta per tutte quel conflitto con la genitrice, serviva un segnale d’impatto, dopo averle lanciato un’occhiata di sfida e tra gli applausi dei presenti, fece quello che sentiva essere un gesto inequivocabile: baciò sua moglie davanti a tutti.
***

La macchia verde della vegetazione sul versante est dell’isola creava un contrasto gradevole con il mare azzurro intenso, appena increspato dal vento, leggero e salmastro.
Marcello si lasciò scompigliare i capelli da quella piacevole brezza, mentre studiava con interesse il paesaggio incontaminato che si poteva ammirare dalla terrazza della camera da letto. La parte più urbanizzata di quella zona sorgeva dall’altra parte del piccolo promontorio dove era situata Villa Paolina e il giovane aveva già in programma di visitare presto il paesino di Marciana Marina, avendo avuto occasione di vederlo di sfuggita, quando l’aveva attraversato con l’auto.
«Ti piace?» gli domandò Beatrice, in piedi accanto a lui, anche lei in contemplazione di quella visuale che le era mancata per troppo tempo.
«Molto» rispose lui, osservando un gabbiano che si librava nell’aria un po’ più fresca, essendo la sera ormai prossima. «Non ero mai stato su quest’isola, prima d’ora».
«C’è sempre una prima volta» osservò, allora, la fanciulla, sorridendogli. «Sai, qui l’aria l’è molto pulita e scommetto che farebbe bene al tu’ babbo».
Nell’udire quell’ultima considerazione, Marcello si sentì pervadere da una sensazione di dolcezza per la bontà d’animo che sua moglie sapeva sempre manifestare con delicatezza.
«Lo penso anche io» concordò.
Poi, lei si diresse verso il glicine che, dal basso del giardino, si era inerpicato fin lì. Era coperto quasi solo di foglie, essendo passata da un bel pezzo la stagione della fioritura, tuttavia, lo guardò come se fosse ancora bellissimo e rigoglioso, accarezzandone il tronco sottile.
«Finalmente mi sento a casa» sussurrò, con un velo di nostalgica malinconia nella voce. «E dire che Guido aveva promesso tutto questo al Navarra...»
«Come se impegnare te non fosse già abbastanza!» sbottò in risposta Marcello, furibondo ed indignato come ogni volta che la ragazza si apriva con lui e gli raccontava una malefatta del fratello o di quell’altro delinquente di cui era all’oscuro, mentre si chiedeva quanto male le avessero fatto quei due.
Sospirando, allora, Beatrice si prese una ciocca di capelli non più acconciati tra le dita e se la torturò per qualche istante, nervosa.
«La verità è che il mi’ fratello l’ha messo in mezzo anche questa casa, per tenere buono il su’ aguzzino, visto che io continuavo a respingerlo» spiegò. «Anche se al Navarra eran comunque già arrivate voci sulle difficoltà che ci sono qui».
Davanti a quell’espressione così triste, il giovane si sentì in dovere di intervenire, poiché voleva che capisse, ancora una volta, che non avrebbe più permesso a nessuno di farle del male.
Anche se Beatrice aveva dimostrato molte volte di essere perfettamente in grado di cavarsela da sola, lui, amandola dal più profondo del cuore, l’avrebbe protetta comunque.
«Non assumerti colpe che sono solo di quei vermi schifosi» le sussurrò, accarezzandole una guancia con il dorso delle dita, facendola sorridere sotto il suo sguardo deciso.
Tuttavia, quel momento di tenerezza ebbe vita breve, perché fu presto interrotto dall’arrivo di Lina, l’anziana governante della villa che, non appena aveva rivisto la ragazza dopo anni, era scoppiata in un pianto dirotto. In quel momento, osservandola nuovamente, Marcello poté ancora leggere sul suo viso ancora segni di commozione per aver riabbracciato l’unico membro della famiglia Tolomei che non fosse morto o finito in galera.
A dire il vero, se doveva essere sincero, l’atmosfera che il giovane aveva respirato fin da subito a Villa Paolina gli era sembrata carica di nostalgia, non solo perché, come gli aveva spiegato la ragazza, il nome della casa era un omaggio alla sorella di Napoleone, la quale sembrava avesse soggiornato lì durante l’esilio dell’imperatore, ma, soprattutto, perché sembrava che anche la famiglia di Beatrice fosse stata costretta lontano dalle circostanze. Il ritorno di almeno una dei legittimi proprietari di quella tenuta, infatti, era stato accolto con grande gioia sia dai pochi inservienti rimasti che dai braccianti che lavoravano negli uliveti. Segno che, evidentemente, i genitori della ragazza erano stati molto amati da tutti.
«Beatrice, ci sono alcune visite per te3» annunciò la donna, distraendo Marcello dalle sue riflessioni.
«Visite?» ripeté la giovane, perplessa, come se pensasse di aver capito male.
«Sì, ma sono rimasti di sotto, in giardino» precisò la governante, con un sorriso, non volendo rivelare l’identità di quei misteriosi ospiti inattesi.
A tale rivelazione, che poco aggiungeva a quanto già noto, la fanciulla aggrottò la fronte e si scambiò un’occhiata con Marcello, il quale non tardò a farle un cenno.
«Be’, vediamo di chi si tratta» suggerì.
Annuendo, l’altra lo seguì verso il parapetto di marmo, dal quale subito dopo si affacciarono entrambi, scorgendo sul mattonato sottostante due uomini ed una ragazza bionda che parlottavano tra di loro. Non appena, però, quella si accorse di essere osservata, alzò la testa verso l’alto ed esordì, a voce alta e agitando freneticamente una mano: «Beatrice, da quanto tempo!»
«Fiammetta!» esclamò l’altra, sporgendosi con un tale slancio che il giovane quasi scattò per afferrarla per un braccio per impedire che cadesse giù.
Poi, la giovane guardò meglio i due accompagnatori dell’amica e riconoscendoli subito, salutò anche loro: «Pierpaolo, Giacomo... ci siete anche voi, non immaginavo che v’avrei visto così presto!»
«Appena ci hai detto che saresti venuta abbiam pregato la Lina di farci una telefonata non appena fossi arrivata!» le rispose allegro il più vecchio dei due, piantandosi le mani sui fianchi. Doveva aver passato la cinquantina da poco, i capelli bruni erano striati di bianco sulle tempie, ma, visto da sopra, sembrava piuttosto alto, anche se aveva qualcosa nell’espressione che non convinse del tutto Marcello, il quale preferì spostare l’attenzione sull’ultimo membro del terzetto che, invece, somigliava moltissimo all’uomo, solo in versione più giovane.
«Non avremmo mai potuto ignorare il tuo ritorno» commentò, appunto, quello, elargendo a Beatrice un sorriso lezioso. «Sono anni che non ci vediamo, ma posso dire senza alcun dubbio che sei sempre più bella» aggiunse poi, guadagnandosi un’occhiata torva dalla giovane che era con lui e anche dal biondo che, dopo aver udito quell’affermazione, decise che avrebbe cercato di tenere quel tizio il più lontano possibile da Beatrice. 
Proprio mentre il ragazzo lo fissava come se volesse incenerirlo, Giacomo spostò lo sguardo verso di lui e, quando si incrociarono, rimase alquanto sorpreso, come se si fosse accorto solo in quel momento della sua presenza.
Nel frattempo, Beatrice, che si era limitata a rispondere al complimento con un sorriso di circostanza, replicò: «Dateci un attimo, così scendiamo!»
Quindi, appoggiò una mano su quella di Marcello, nervosamente stretta al corrimano, e gli disse, con tono dolce: «Andiamo? Così ti presento a questi vecchi amici, perché loro non sanno ancora che sono sposata».
Inaspettatamente, quella notizia placò immediatamente l’animo del ragazzo che, immaginando la faccia che avrebbe fatto quel bellimbusto nell’apprendere la verità, avvertì già un piccolo anticipo della soddisfazione che avrebbe provato di lì a poco.
«Con molto piacere» le rispose, staccandosi dalla balconata e invitandola a precederlo.
Poi, mentre scendevano lunga la scala di marmo bianco e rosso, tirata così a lustro da potersi specchiare sopra, la fanciulla gli fece un rapido riassunto della situazione: «Quello è Pierpaolo Landi, l’amministratore del babbo. Giacomo è il su’ figlio e Fiammetta una amica comune d’infanzia. Sai, si son sposati qualche anno fa».
A quel punto, Marcello si arrestò, lasciando che lei scendesse ancora tre o quattro gradini prima di accorgersi che non la stava seguendo.
Quindi, quel tipo era così stupido da fare apprezzamenti diretti ad altre donne con sua moglie presente? Ecco perché Fiammetta gli aveva lanciato quell’occhiata! Eppure, a colpo d’occhio, non gli era sembrata un caso tanto disperato da essere costretta ad accettare la proposta di matrimonio di un idiota simile, a meno che non ci fosse dietro un qualche tipo di accordo.
Alla fine, scuotendo la testa, si affrettò a raggiungere Beatrice, convinto che recarsi lì e controllare l’intera situazione di persona fosse stata la decisione migliore.

Quando il giovane si trovò davanti i tre, li osservò meglio ed ebbe la conferma della prima impressione che aveva avuto osservandoli dalla terrazza: padre e figlio non lo convincevano affatto e la ragazza aveva uno sguardo troppo acuto per aver volontariamente scelto di accollarsi quel Giacomo.
Dopo aver salutato Beatrice con baci ed abbracci, la loro attenzione si spostò su di lui e Pierpaolo fu il primo ad avanzare nella sua direzione, con la mano tesa.
«Pierpaolo Landi» si presentò, stringendo mollemente la mano del biondo. «Lui, invece, è mio figlio Giacomo e lei è la Fiammetta, mia nuora».
«Marcello Tornatore» rispose il ragazzo, ricambiando la stretta di mano di tutti e tre, cercando di trattenersi dal frantumare le ossa di quella di Giacomo, che lo stava guardando in cagnesco, probabilmente chiedendosi chi fosse.
«Credevo che ti avrebbe accompagnata Guido, invece vedo che sei... in altra compagnia» notò, infatti, proprio in quel momento, l’uomo, con una punta di malizia nella voce. «Non mi avevi detto di avere il fidanzato, Beatrice».
Il giovane, che trovava quell’uomo
sempre più odioso ogni secondo che passava, stava per rispondergli a tono, ma la fanciulla lo precedette.
«Oh, no, Marcello non è il mi’ fidanzato» ribatté, decisa.
«Suvvia, a noi puoi dirlo, ti conosco da quando eri una nanerottola che correva per i campi qui dietro» insistette, però, l’altro, convinto di averla sgamata, con un sogghigno che, forse, voleva essere complice. «Non hai motivo di essere in imbarazzo».
«Nessun imbarazzo» replicò la ragazza con fermezza, non facendosi minimamente destabilizzare. «È vero che non è il mi’ fidanzato... perché ora è il mi’ marito».
Le reazioni che i tre ebbero a quella rivelazione furono piuttosto varie: Landi spalancò gli occhi e divenne bianco come un lenzuolo, Giacomo squadrò Marcello dalla testa ai piedi, visibilmente preoccupato, mentre Fiammetta, che fino a quel momento non era sembrata particolarmente interessata al giovane, lo guardò meglio e si illuminò, accennando un sorriso.
«E sarà lui ad occuparsi della tenuta al posto di Guido, d’ora in poi» aggiunse Beatrice, con orgoglio, rivolgendosi specificatamente al più anziano di loro.
«Buona fortuna, allora, Marcello» fece, tutt’ad un tratto, Fiammetta, incrociando le braccia sul petto. «Avrai molto da fare visto che, quest’anno, per colpa di quel microbo che ha attaccato gli ulivi, il raccolto sarà molto scarso».
«Microbo?» ripeté il giovane, colpito.
Pierpaolo, allora, scrutò di sottecchi la nuora per qualche secondo, arricciando le labbra; poi si voltò verso il figlio e gli scoccò una fugace occhiata seccata che, però, non fu abbastanza rapida da sfuggire a Marcello, il quale non ebbe più dubbi che padre e figlio stessero nascondendo qualcosa, abbastanza certo che entrambi non avevano messo in conto che qualcun altro avesse potuto prendere il posto di Guido.
«Sì, secondo più di un botanico che ha visitato gli alberi della zona, tutte le piante stanno morendo a causa del batterio che provoca la rogna degli ulivi4» spiegò, poi, l’uomo, con tono neutro, come se volesse volutamente mantenersi sul vago.
«Secondo alcuni potrebbe addirittura essere trasmessa all’uomo» aggiunse prontamente Giacomo, rabbrividendo.
«Sarebbe interessante poter parlare con almeno uno di questi botanici, allora» commentò, a quel punto, Marcello, non riuscendo a trattenersi dall’essere vagamente sarcastico. Anche se non aveva alcun tipo di conoscenza in botanica o medicina, infatti, gli sembrava abbastanza improbabile che un batterio delle piante potesse attaccare anche l’uomo. Aveva sentito qualcosa di simile nel caso degli animali e esseri umani, ma mai uno in cui fosse coinvolto un vegetale.
«Non credo sarà possibile, al momento sono tornati tutti nei loro laboratori, sparsi in giro per l’Italia» fu, però, la pronta risposta di Pierpaolo, il quale dovette rendersi conto da solo che era davvero troppo vaga, tanto che aggiunse: «Però, potrei recuperare i loro numeri di telefono».
Dubitando seriamente che quei recapiti esistessero, il biondo stava per fare qualche altra domanda su quella strana malattia, quando Fiammetta, con tono indispettito, si intromise nella conversazione: «Comunque, Bea, è imperdonabile che ti sia sposata senza dirmi niente!» esclamò.
Spaesata, la fanciulla sbatté le palpebre e tentò di abbozzare una scusa: «Oh, sai, l’è che abbiam fatto una cosa tra pochi intimi...»
«Be’, devi raccontarmi un sacco di cose, allora!» fece l’altra, in risposta, mettendosi le mani sui fianchi. Poi, si voltò verso il marito e gli chiese: «Giacomo, che ne dici di invitare Marcello e Beatrice stasera a cena?»
Nel ricevere una tale proposta così su due piedi, il giovane restò per qualche istante spiazzato, poi, dopo essersi scambiato un cenno d’intesa con il genitore, concordò.
«Come vuoi, tesoro».
Quella parve davvero molto soddisfatta e, sorridendo raggiante, si avvicinò ai neo sposi.
«Molto bene, è deciso. Vi aspettiamo per le otto e mezzo a casa nostra» disse loro, prima di prendere le mani dell’amica e aggiungere, con entusiasmo: «Cara, la strada la conosci!»
***

L’aria carica di salsedine e lo sciabordio continuo delle onde erano indizi sufficienti a fargli capire che il mare non doveva essere lontano.
Una volta terminata la cena, infatti, Beatrice aveva proposto a Marcello di andare a fare una piccola passeggiata sul breve tratto di spiaggia che faceva parte del territorio della tenuta e lui, intravedendo un’occasione di serenità dopo una giornata così intensa, aveva accettato all’istante.
Mentre seguiva la fanciulla per la pineta percorrendo un sentiero illuminato pressappoco solo dai raggi lunari, il ragazzo ebbe anche modo di riflettere meglio su tutto ciò che aveva appreso dal suo arrivo, arrivando alla conclusione che le informazioni più importanti erano state quelle del pomeriggio, poiché durante il pasto i discorsi erano stati tenuti principalmente da Fiammetta, mentre Pierpaolo e Giacomo sembravano essersi cuciti la bocca, forse perché, alla fin fine, si erano resi conto di aver rivelato più di quanto fossero veramente disposti a fare.
Tuttavia, le occhiate eloquenti che si erano lanciati i due uomini ogni volta che la ragazza citava quella strana epidemia, che sembrava aver colpito ogni pianta di ulivo della tenuta, non avevano fatto che insospettire ancora di più il biondo. Questi, allora, decise che la prima cosa che avrebbe fatto il giorno dopo sarebbe stato studiare i registri degli ultimi anni delle vendite dell’olio e parlare con qualcuno dei lavoranti per cercare di capire qualcosa in più.
«Oggi sarebbe dovuta esser una giornata di festa, invece per te l’è stata più stressante delle altre!» commentò all’improvviso Beatrice, arrestandosi sul limitare della pineta, al confine tra il prato e la spiaggia di ciottoli.
Colto di sorpresa, Marcello non rispose subito, lasciando che per qualche istante si sentisse in sottofondo solo la risacca delle onde, mentre la osservava accomodarsi sul prato e, meccanicamente, la imitava.
«A dire il vero, io...» iniziò, incerto, sentendosi in colpa per essersi adombrato e, di riflesso, aver fatto intristire la ragazza anche nel giorno delle nozze.
«Marcello, me ne sono accorta, sai?» gli fece, però, notare lei, con la sua solita determinazione, mettendosi a braccia conserte. «Stamattina l’eri giù per via della tu’ mamma...» 
«Be’, è stata davvero incivile: non ha detto una parola ed è uscita dalla chiesa non appena è finita la cerimonia» osservò l’altro che, solo al ricordo della genitrice che lo insultava e si ostinava ad ignorare Beatrice, perfino davanti alla Basilica del Laterano, si sentì pervadere dall’irritazione: la cattiveria di sua madre era riuscita ad offuscare anche quello che sarebbe dovuto essere per lui uno dei giorni più belli.
«... e stasera ti se’ arrovellato il cervello su Pierpaolo e Giacomo» concluse la fanciulla, sospirando.
Nonostante l’illuminazione fosse ridotta ad un tenue barlume lunare, Marcello in quel momento poté vedere chiaramente che sua moglie aveva assunto un’espressione mesta e, sentendosi la causa di quel malessere, volle cercare di rimediare, chiudendo in fretta la questione.
«Quei due non me la contano giusta e voglio vederci chiaro» affermò, deciso. «Ho promesso che ti avrei aiutato a risollevare le sorti della tenuta ed è quello che farò».
A quel punto, la ragazza incurvò le labbra, sciogliendo la tensione che si era accumulata sul suo volto e tornando a essere splendida come era stata quella mattina.
«Lo so» gli sussurrò, prendendogli il viso tra le mani. «Però, ho notato che l’eri anche un pochino geloso di Giacomo» aggiunse, poi, birichina.
«Tu dici?» replicò lui, sollevando marcatamente un sopracciglio. «Mi pare il minimo, dopo che ti ha rivolto apprezzamenti che avrebbe potuto risparmiarsi!»
Divertita da quella reazione, Beatrice rise e, per stuzzicarlo ancora di più, si mise a canticchiare: «La gelosia più la scacci e più l’avrai5...»
«Io non ci trovo niente di male nell’essere gelosi» borbottò lui in risposta, leggermente imbarazzato.
La ragazza, allora, sorrise e gli accarezzò i capelli, guardandolo con gli occhi appena socchiusi.
«Nemmeno io» gli sussurrò, prima di iniziare a baciarlo.
Il giovane, allora, la lasciò fare per qualche istante, prima di ricambiare le effusioni ed appoggiarle delicatamente le mani sui fianchi, sentendosi sempre più rilassato: quando era con lei, infatti, riusciva a trascorrere momenti di autentica serenità che non aveva mai provato prima di conoscerla.
«Comunque, come t’ho detto già una volta...» mormorò lei, tra un bacio e l’altro. «Per me, nessun altro ha speranze contro di te».
Allontanandosi appena, il giovane si fermò a contemplarla e le accarezzò dolcemente una guancia, mentre un cupo pensiero gli attraversava la mente: forse aveva un carattere troppo difficile per una ragazza così spontanea e vivace? L’avrebbe resa davvero felice? O davvero meritava un altro genere d’uomo?
«Beatrice, tu sei contenta di avermi sposato?» le domandò, malinconico, intrecciando i suoi lunghi capelli tra le dita.
In maniera del tutto inaspettata, invece di rispondere, la ragazza riprese a baciarlo con più intensità di prima.
«Non credo d’esser mai stata così felice...» le sentì dire, rendendosi che non riusciva più a staccarsi da lei e dalle sue labbra.
Il suo profumo di lavanda lo faceva sentire più ebbro che se avesse bevuto una gran quantità del più forte dei liquori, stordendolo e rendendolo del tutto incapace di smettere di accarezzarla o di baciarle ogni punto di pelle scoperta che riusciva a raggiungere, incurante del fatto che si trovassero a pochi passi dal mare e benedicendo che la villa e la sua spiaggia sorgessero in un posto isolato.
Dal canto suo, la ragazza stava facendo lo stesso con lui, mentre, molto lentamente, aveva cominciato a sbottonargli la camicia. Marcello, allora, nonostante il discreto impaccio, rispose sbottonandole il vestito sulla schiena e sfiorandole con i polpastrelli la pelle nuda, facendola rabbrividire, nonostante il clima di fine agosto, finché, all’improvviso, non la sentì irrigidirsi.
A quel punto, si arrestò completamente, senza muoversi e, per qualche istante, trattenne anche il respiro.
«Beatrice... se non ti va... non devi sentirti obbligata» le sussurrò, con tutta la tenerezza di cui era capace, cercando di farla sentire quanto più possibile a suo agio.
«Oh, no, non l’è quello...» replicò lei, in difficoltà, ma non dubbiosa. «Il problema è che mi sento... imbranata».
«Ad essere onesto, per me è lo stesso... È la prima volta anche per me» ammise, allora, lui, sentendosi avvampare.
Dopo tale dichiarazione, però, la ragazza parve rasserenarsi al punto che appoggiò la sua fronte contro quella del giovane, giocherellando con i lembi inferiori della sua camicia.
«Allora, può darsi che tra du’ imbranati l’uscirà qualcosa di buono» gli disse, sottovoce, sfiorandogli appena le labbra con le proprie e facendolo sorridere, spingendo a mettere da parte ogni timore.
Così, dopo essersi reciprocamente rassicurati, Marcello e Beatrice si abbandonarono entrambi a quella scintilla di fuoco che avevano sentito divampare tra di loro, lasciandosi cullare dal melodico rifrangersi delle onde lontane.





***
Per la revisione di questo capitolo, ringrazio Lady Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la grafica del titolo è opera mia.
Grazie anche alla mia Anto per esserci sempre.
***


[N.d.A]
1. L’imbarco... sedici chilometri e mezzo: ogni distanza e/o tempo di percorrenza citato/a è assolutamente veritiero/a;
2. Ave Maria... amante: ammetto che non so se questa diceria sia vera, ma, poiché me l’ha riferita in prima persona un sacerdote, ho deciso di utilizzare tale versione anche nella mia storia. Ciò che è vero, tuttavia, è che i versi originali tedeschi non sono gli stessi latini che vengono cantati durante le cerimonie in chiesa, poiché Schubert compose questa canzone (il cui titolo originale è Ellens dritter Gesang, ovvero La terza canzone di Ellen) sulla base di alcuni testi del poema “The Lady of the Lake” di Walter Scott. Quindi, nonostante anche originalmente fosse un’inno alla Vergine Maria, il contesto è diverso da quello in cui questa lirica viene proposta oggi;
3. Beatrice... per te: questa nota varrà per tutti i capitoli ambientati a Marciana Marina. Ho deciso di rendere più leggero l’accento di tutti i personaggi che Marcello e Beatrice incontrano sull’Isola d’Elba per due motivi. Il primo è che, dopo averlo sentito, l’ho trovato davvero meno marcato rispetto a quello fiorentino; il secondo è che essendo molti personaggi a parlarlo, la lettura diventerebbe pesante e non gioverebbe alla storia. Spero possiate capire e che non la prendiate come un’imprecisione da parte mia;
4. batterio... rogna degli ulivi: per questo particolare mi sono ispirata ad una vicenda successa l’hanno scorso in Puglia, dove la Xylella fastidiosa ha distrutto migliaia di alberi di olive. Tuttavia, non essendo stata presente in Italia prima del 2013, ho optato per un’altra malattia, la rogna degli ulivi, appunto, che esiste sul serio ed è causata dal batterio Pseudomonas savastanoi;
5: la gelosia... avrai: la canzone citata è Gelosia di Adriano Celentano, appartenente all’album “I miei americani 2” del 1986.
***

Ordunque, bentrovati.
Come potete vedere, sto mantenendo un ritmo di pubblicazione costante e, questa volta, spero proprio di essere sul serio vicina alla fine.
Ci tenevo a spiegare che non ho dedicato molto spazio alla cerimonia nuziale perché, secondo me, la storia di Marcello e Beatrice non ha come fine il matrimonio (anzi, per loro anche in quest’ultima parte ci saranno difficoltà da affrontare, di varia natura). Il cambio d’ambientazione serve anche a questo, ossia ad aprire una nuova strada che arriverà fino alla conclusione di questa vicenda.
Come sempre, ringrazio chi legge in silenzio, chi ha il coraggio e la bontà di cuore di continuare ad attendere che mi decida ad aggiornare, chi ha messo la storia tra le seguite/preferite/ricordate, chi mi ha lasciato un parere allo scorso capitolo (Aven, Anto).
Per conoscere in anteprima un breve estratto del prossimo capitolo vi lascio, al solito, il link la mia pagina facebook.
Grazie a tutti e alla prossima,
Halley S.C.

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Capitolo 21
*** Capitolo Ventunesimo - Vento di Bugie ***


Vento dell'Ovest - Capitolo 21



- Capitolo Ventunesimo -
Vento di Bugie




L
e tende color avorio della finestra della camera da letto si muovevano appena, sospinte dalla brezza mattutina che annunciava l’inizio di una nuova giornata, quando, sotto quella fresca carezza che le blandiva le spalle scoperte, Beatrice si svegliò lentamente, richiamata anche dalla luce del sole che, poco a poco, stava inondando la stanza con la sua coltre dorata.
Fu, però, solo mentre abbandonava definitivamente il torpore del sonno e riconosceva le pareti bianche ed il mobilio scuro della sua vecchia camera, che realizzò che, tornando dalla spiaggia, si erano dimenticati di chiudere le persiane; tuttavia, quando alzò la testa e si ritrovò tra le braccia di Marcello, accoccolata contro il suo petto, non le dispiacque più aver aperto gli occhi prima di lui e poterlo guardare mentre dormiva.
Incapace di resistere alla tentazione di passargli le dita tra i capelli arruffati, la ragazza alzò lentamente il braccio, esitando un attimo prima di sfiorare il giovane, temendo che potesse svegliarsi. Quando lo toccò, quello si mosse appena, continuando a dormire beato, permettendole di spostare anche alcune ciocche bionde dalla fronte e accarezzargli il volto.
Mentre si perdeva nella contemplazione del marito, Beatrice non poté non ripensare alla dolcezza e alla delicatezza che lui le aveva riservato la notte precedente, facendola sentire sempre amata e desiderata.
Fu proprio allora che nel suo animo si fece strada la consapevolezza di essere stata davvero fortunata a poter condividere quel momento così intimo con l’uomo che amava e non con quel mostro di Navarra che, molto probabilmente, avrebbe usato il suo corpo solo come un giocattolo, senza nessun rispetto e, soprattutto, non preoccupandosi se le stesse facendo male o prendendo in considerazione la repulsione che lei provava per lui. Subito, il pensiero della giovane andò a tutte le donne vittime di abusi e violenze, talvolta perfino costrette dalle circostanze a sposare un uomo senza amarlo, ritrovandosi così a vivere una vita infelice e priva della gioia che, invece, avrebbero meritato; si sentì, allora, estremamente solidale con loro, avendo sperimentato, anche se per poco, l’esperienza del sentirsi impotente, in balìa di un essere spregevole e perverso.
A quel ricordo, le salirono quasi le lacrime agli occhi e rabbrividì; per un attimo, la stanza sembrò diventare più cupa e fredda, come se una nuvola avesse momentaneamente offuscato il sole, e Beatrice si strinse ancor di più al marito. Poco a poco,
il familiare e robusto aroma del patchouli esalato dalla pelle di lui la tranquillizzò, ricordandole ancora una volta che il giovane non avrebbe permesso mai più a nessuno di farle del male e, finalmente, l’atmosfera tornò ad essere calda e luminosa come poco prima.
Ritrovata la serenità, la ragazza chiuse gli occhi e ascoltò il ritmico e rassicurante respiro di Marcello; tuttavia, in quel medesimo istante, una contrazione dei muscoli del braccio che aveva intorno alla vita le annunciò che il ragazzo si stava svegliando, ma non si mosse comunque, rimanendo abbracciata a lui.
Pochi istanti dopo, quello schiuse lentamente le palpebre e si guardò un po’ intorno, prima di posare le sue iridi verde chiaro su di lei.
«Buongiorno» lo salutò Beatrice, accompagnando le parole con un dolce sorriso e sfregando appena la propria guancia sul suo petto, mentre gli accarezzava il volto.
In risposta, Marcello la fissò incantato e prese con delicatezza una mano della giovane, baciandole la punta delle dita.
«Buongiorno» le sussurrò, poi, lui dandole un altro bacio, questa volta sul dorso.

Quei gesti fecero avvampare immediatamente la fanciulla che, istintivamente, si raggomitolò su se stessa, pur continuando a mantenere il contatto fisico con lui: svegliarsi tra le sue braccia e nello stesso letto era una sensazione nuova e bellissima, che, però, le procurava allo stesso tempo imbarazzo, piacere e gioia, anche se, comunque, quest’ultima prevaleva di gran lunga su tutte le altre emozioni. 
Nel frattempo, il mattino avanzava, ma nessuno dei due giovani sembrava avere particolare fretta di alzarsi, perché rimasero ancora per un po’ a guardarsi, senza parlare, assaporando l’inizio della loro nuova vita insieme, accarezzati dolcemente dal vento che
sembrava partecipare alla loro felicità.
***

Sul tavolo del giardino, allestito per la colazione, Beatrice fu contenta di ritrovare esattamente le stesse leccornie che avevano allietato le mattinate trascorse a Marciana Marina da bambina: marmellate di fichi e di limoni dell’orto, pane fatto in casa, miele, frittelle di castagne, una torta ed un cestino di frutta mista molto invitante.
«Sono tutti prodotti della zona» spiegò, con un certo orgoglio, Lina, versando a Marcello del tè nero bollente in una tazza del servizio a fiorellini blu con il bordo dorato. «E, sicuramente, molto più genuini di quelli che mangi a casa tua, in città».
«Ne sono certo» rispose, allora, il giovane, sorridendo alla governante. «Comunque, signora Lina, grazie per aver accettato di darmi del tu». 
Quella agitò una mano, come se stesse cacciando una mosca, poi, appoggiò la teiera accanto alla zuccheriera e, dopo aver salutato i due ragazzi, si diresse verso la villa per svolgere le solite mansioni quotidiane. Quando la donna sparì dal suo campo visivo, la ragazza sospirò e, incurvando le labbra, tornò a guardare il marito, impegnato a spalmare della marmellata di limoni su una fetta di pane: conoscendo il suo senso dell’onore, quando Lina gli si era rivolta con un “Buongiorno, signore”, Beatrice aveva immaginato ancor prima che lui aprisse bocca che non avrebbe mai accettato che una rispettabile signora, con quasi il triplo dei suoi anni, gli riservasse tanta formalità. Inoltre, era evidente che i due si erano presi subito in simpatia e questo non poteva che renderla contenta.
«Ti è molto affezionata» le fece notare Marcello, mentre metteva un cucchiaino raso di zucchero nel tè. «Ogni volta che ti guarda, le si illuminano gli occhi».
«La Lina, in un certo senso, ha sempre fatto parte della famiglia» gli rispose la fanciulla, accarezzando la tovaglia bianca di cotone su cui era stata apparecchiata la tavola, spostata per l’occasione sotto ai pini per poter fare colazione godendo della frescura della loro ombra: ogni cosa, insomma, era stata organizzata perfettamente dalla solerte governante.
«Qui si respira un clima molto familiare e mi piacerebbe che anche a casa nostra, d’ora in poi, fosse così» commentò il giovane, prendendo tra le mani la tazza e rivolgendo un’occhiata interessata alla moglie.
Quella, dal canto suo, alzò lo sguardo verso di lui e, contenta di sentirgli dire una cosa simile, gli sorrise, riconoscente.
«Anche a me» sussurrò con un sospiro, versando il latte caldo nella propria tazza. L’idea di essere la nuova signora di Villa Aurelia la emozionava ma, allo stesso tempo, aveva paura di non essere all’altezza: sarebbe stata in grado di coordinare correttamente il tutto? Quelle poche volte che aveva avuto modo di parlare con Ottavia o con sua figlia Annetta le erano sembrate due persone con le quali si potesse collaborare, perciò Beatrice era certa che, svanita una volta per tutte l’influenza negativa ed oppressiva della Matrona, anche in quella casa sarebbe tornata ad esserci un’atmosfera serena. Era giovane, certo, ma decisa a far vedere quanto valeva e non si sarebbe mai comportata come quella donna, anzi, avrebbe cercato di guadagnarsi la stima e l’affetto della governante e del resto del personale della casa comportandosi in maniera esattamente opposta.
«Come immaginavo, il pane toscano è insipido, ma è gradevole con questa particolare marmellata» considerò Marcello, mentre prelevava con il coltello un’altra porzione abbondante di confettura, questa volta di fichi, e la stendeva sulla fettina di pagnotta casareccia che aveva in mano.
«Be’, credo che sia una questione di gusti, io preferisco il pane sciocco1» replicò lei, prendendo la pirofila con dentro le frittelle ancora calde e lasciandone scivolare un paio nel proprio piatto. «A Roma lo fan troppo salato».
«Dici? A me non dispiace» affermò lui, scrollando le spalle.
«Perché, rispetto a me, tu se’ abituato» ribatté, allora, la giovane, pratica. Poi, prese il vassoio con la torta già tagliata a quadretti e lo mise davanti al ragazzo, per fargli
scegliere il pezzetto che preferiva. «Assaggia la schiaccia briaca2, la prepara la Lina in persona, perché sa che è la mi’ preferita e non la fa mai mancare».
L’aspetto curioso ed invitante del dolce non concesse al biondo la possibilità di rifiutare, così, dopo aver servito la ragazza, questi fece lo stesso per sé; prima di mangiarlo, però, si soffermò a sentirne il profumo.
«Oltre ad avere un buon odore, ha anche un buon sapore» concordò, non appena ebbe mandato giù il primo morso.
Contenta che il marito apprezzasse le specialità della sua regione di origine, la ragazza cominciò a mangiare anche lei: quei sapori, così familiari al palato, le risultarono ancora più buoni di come li ricordava, forse perché caricati di nostalgia e desiderio di tornare nei luoghi che l’avevano vista felice, prima che la sua famiglia fosse disintegrata dalla malasorte.
Nel degustare quella prelibatezza, Beatrice si ritrovò a pensare addirittura che non le sarebbe affatto dispiaciuto riprodurre lei stessa quella torta, simbolo della tradizione elbana, dopo aver chiesto la ricetta a Lina e, soprattutto, al marito il permesso di usare la maestosa cucina di Villa Aurelia. 
«Marcello?» lo chiamò, infatti, poco dopo, incerta.
Immediatamente, quello alzò lo sguardo su di lei e, dopo essersi educatamente pulito le labbra con il tovagliolo di stoffa, la invitò a parlare.
«Dimmi, Beatrice».
«Adesso che sono la tu’ moglie...» iniziò, allora, la fanciulla, arrossendo nel pronunciare quella parola, «potrò cucinare anche io, oppure dovrà farlo solo la cuoca? So di non essere molto brava, ma mi piacerebbe tanto...»
«Tu potrai fare tutto ciò che vorrai» la interruppe lui, prendendole la mano appoggiata sul tavolo e stringendone le dita tra le proprie. «I giorni della dittatura di mia madre sono finiti».
Quell’affermazione, così decisa e rassicurante, strappò a Beatrice un sorriso e la tranquillizzò.
«Grazie» gli sussurrò, riconoscente.
Allora, il giovane le sorrise di rimando e, dopo essersi versato un’altra tazza di tè, le chiese, cambiando argomento: «Domani mi piacerebbe andare a fare un giro a Marciana Marina. Ti andrebbe di accompagnarmi?»
«Certamente» rispose lei, entusiasta. «E dobbiamo visitare assolutamente anche Portoferraio. Ci si andava spesso quando l’ero piccina, ma ormai son anni che non ci vado!»
«Sì, hai ragione. In fondo, questo è anche il nostro viaggio di nozze, mi pare giusto che facciamo anche un po’ i turisti» concordò il ragazzo, abbandonandosi pensieroso contro lo schienale della sedia, in attesa che la sua bevanda si intiepidisse.
«Oh, sì! Sarà divertente anche accompagnare Gerardo e la Vittoria, quando verranno».
Corrugando appena la fronte, il giovane spostò lo sguardo sulla moglie e, prendendo la sua tazza, considerò: «Be’, una loro visita non è certo imminente».
A quel punto, Beatrice sospirò, sentendo che era arrivato il momento di rendere partecipe anche Marcello di ciò che aveva deciso qualche giorno prima, mentre raccontava all’amica quanto fosse contenta della meta scelta per la luna di miele. Non glielo aveva detto prima soltanto perché sapeva che avrebbe sollevato pesanti obiezioni e perciò sperò che, in qualche modo, non prendesse troppo male la notizia.
«In realtà, saranno qui lunedì prossimo» rivelò, tutto d’un fiato e, udendo quelle parole, all’altro per poco non andò di traverso il tè.
«Che cosa?!» berciò, appoggiando la bevanda sul tavolo, prima che gli cadesse di mano, e guardando la moglie come se fosse impazzita. «Beatrice, abbiamo fatto i salti mortali per restare finalmente soli e tu che fai..? Inviti Vittoria
In risposta, quella sospirò e scosse energicamente la testa, poiché si era aspettata una reazione del genere, visto che, in fondo, ciò che aveva appena detto l’altro era la pura verità.
«La casa è grande, ci incontreremo a malapena. Inoltre, m’ha detto che le sarebbe piaciuto trascorrere qualche giorno in spiaggia, così le ho chiesto di venire» si difese poi, calma, facendo spallucce. «Resteranno solo una settimana».
«E immagino che lei non abbia esitato a dirti di sì, o sbaglio?» la incalzò, però, l’altro, con un cipiglio severo, serrando le braccia contro il petto. «Adesso capisco che cosa volevano dire le frasi ambigue di quella sciroccata!»
«Per favore, cerca di capirmi, Marcello» riprovò la fanciulla, supplice. «Per me non l’è stato semplice essere ospite da lei per tutti questi mesi, perciò volevo ricambiare la su’ gentilezza».
Infatti, era stata proprio quella fastidiosa sensazione di essere in debito verso Vittoria ed i suoi genitori a spingere Beatrice a proporre all’amica di andare in vacanza a casa sua: per troppo tempo era stata costretta a dipendere da altri ed ora che era rientrata in possesso della sua tenuta aveva tutta l’intenzione di mettersi in pari con la cortesia che la era stata riservata. Inoltre, si augurava sul serio che il marito potesse far qualcosa per recuperare almeno un minimo della vecchia rendita annuale dei terreni, perché quel piccolo guadagno, sommato al discreto stipendio derivato dal lavoro in merceria, le avrebbe garantito una certa indipendenza economica almeno fino a che non si sarebbe laureata e non avrebbe trovato un impiego definitivo. Non aveva aspirato a sposare Marcello per i suoi soldi e non gli avrebbe mai permesso di mantenerla senza far nulla, seguendo l’esempio di sua madre che, nonostante fosse malata, quando le finanze avevano cominciato a scarseggiare, si era data da fare vendendo abiti confezionati da lei. Ed era stato proprio in quel periodo che la fanciulla aveva imparato a cucire, mettendo in pratica quanto appreso realizzando vestiti per le sue bambole di pezza.
Probabilmente, lo sguardo fiero che le avevano ispirato questi pensieri, colpì molto Marcello, il quale, dopo averla scrutata a fondo ed aver recuperato la tazza, dichiarò la sua resa.
«Vorrà dire che, se farà l’invadente come suo solito, la spediremo nel primo albergo disponibile» decretò, prendendo un sorso di tè.
Soddisfatta di essere riuscita a spuntarla, Beatrice si rilassò e cominciò ad inzuppare la torta nel suo latte.
«Addirittura? Non starai un tantino esagerando?» commentò, allora, ammonendo bonariamente il marito e cercando di rimanere seria, malgrado il sorrisetto che le era affiorato sulle labbra.
***

La visita della tenuta, escludendo i terreni sul retro e la rimessa accanto alla spiaggia, richiese tutta la mattinata, impegnando i due giovani fino all’ora di pranzo.
Felice di poter condividere con Marcello i suoi ricordi migliori, la fanciulla, infatti, lo aveva condotto ovunque, mostrandogli tutti gli angoli che erano stati luogo di qualche aneddoto significativo della sua infanzia e lui stette ad ascoltarla con piacere, seguendola passo dopo passo, parola dopo parola senza protestare nemmeno una volta.
Nel pomeriggio, finalmente, i due ragazzi riuscirono ad entrare nella piccola biblioteca: era una stanza piuttosto buia, giacché prendeva luce solo da una finestra stretta, incassata in una rientranza del muro, le pareti ricoperte di armadi in noce con ante istoriate che ne delimitavano il perimetro; al centro, invece, c’era una scrivania di legno scuro ricoperta da un ripiano in vetro, dove erano posati altri libri ed una lampada da tavolo in ottone con il paralume in stoffa.
«Qui dovrebbero l’esserci tutti i registri della contabilità» esordì Beatrice, mentre apriva la persiana e lasciava entrare un po’ d’aria fresca. «Anche se, forse, prima di metterti a cercare, dovremmo chiedere alla Lina di darci una mano a spolverare!» aggiunse, osservando con disappunto la coltre polverosa che si era adagiata ovunque.
Nonostante questo, la giovane sapeva benissimo che Pierpaolo aveva continuato ad utilizzare quella stanza come suo ufficio personale anche dopo la morte di suo padre, non permettendo a nessuno di entrarci, nemmeno per fare le pulizie. Quando l’aveva riferito a Marcello, anche lui aveva concordato che non era certo un comportamento da persona che non ha nulla da nascondere e questo li aveva portati a concludere il giro lì.
«Chissà dove sono i registri dell’ultimo anno...» mormorò il biondo, pensieroso, passeggiando accanto agli armadi e sfiorandoli di tanto in tanto, come se potessero trasmettergli per contatto la risposta alla sua domanda.
«Prova a vedere qui. Il babbo teneva fori il registro dell’anno in corso» suggerì, allora, Beatrice, avvicinandosi al tavolo e battendo delicatamente una mano sopra ai faldoni impilati su di esso.
Voltandosi verso la fanciulla e facendo passare velocemente lo sguardo da lei alla piccola pila che si rifletteva appena sul ripiano in vetro, il ragazzo si mosse nella loro direzione e, dopo aver preso tra le mani quello con su scritto “1987”, slacciò il nastro che lo teneva chiuso, cominciando a scartabellare i fogli che conteneva.
«Sì, hai ragione!» esclamò, appoggiando il tutto sulla scrivania e spingendolo in direzione della moglie, per far sì che potesse vedere anche lei.
«Ma... l’è quasi vuoto!» fece lei, stupita, dopo aver visto Marcello girarsi tra le dita l’ennesimo foglio bianco.
«Per fortuna che hai chiesto a Vittoria e Gerardo di venire» considerò il biondo, mentre gettava a terra quel mucchio di carta straccia, stizzito. «Chiederò a lui di darmi una mano, è l’unico di cui possa fidarmi sul serio».
Sorridendo all’idea che, alla fine, l’arrivo dei due amici fosse addirittura provvidenziale, Beatrice si chinò per raccogliere i fogli e li sistemò nel faldone alla bell’e meglio.
«Infatti, non credo che sarebbe saggio rivolgersi a Pierpaolo» sussurrò, preoccupata. «E nemmeno a Giacomo».
«Da quello che ha detto ieri sera, Landi si aspettava che venissi con tuo fratello» considerò l’altro, scuotendo la testa con rabbia. «Ovviamente, per poter essere certo di riuscire nell’imbroglio! Be’ direi che è gli andata male!»
Poi, si diresse verso la finestra con le braccia incrociate dietro la schiena e, dopo appena qualche secondo di pausa, annunciò, meditabondo: «Comunque, vorrei anche andare a fare qualche domanda ai braccianti, se per te non è un problema».
«Credi che sapranno darti le informazioni che cerchi?» gli chiese la giovane, spostandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio, mentre osservava attentamente la figura del marito in controluce: quei giochi d’ombra e quell’espressione così seria lo facevano sembrare uno di quei personaggi letterari consumati dalle loro disavventure e lei si sentì un po’ in colpa per averlo coinvolto in una faccenda torbida come quella, ben sapendo che si sarebbe impegnato ben oltre le sue possibilità per aiutarla. Le era sempre piaciuta la sua determinazione e, ancora una volta, si scoprì innamorata di lui più di prima.
«Non penso che conoscano i dettagli relativi alla contabilità, ma sicuramente avranno sentito di questa strana epidemia che ha colpito gli alberi» rispose Marcello, facendo spallucce. «Non ho mai sentito di una malattia che dalle piante si trasmette all’uomo».
«In effetti, l’è parecchio strano...» commentò lei, abbandonando le sue dolci considerazioni, inorridita al solo pensiero che davvero potesse scoppiare un’epidemia delle proporzioni di quella di colera che, nel 1973, aveva messo in ginocchio tutta Napoli3. All’epoca, lei aveva solo cinque anni e viveva ancora a Firenze, ma ricordava la grande agitazione sollevata da quell’emergenza.

In quel momento, il loro discorso venne interrotto dall’entrata della governante, seguita da Fiammetta.
«Scusatemi, cari, ero convinta che mi aveste sentita bussare!» esordì la donna, in difficoltà, guardando prima l’uno e poi l’altra, ma subito il giovane le sorrise e si affrettò a rassicurarla.
«Non si preoccupi. A dire il vero, io stavo andando via» annunciò.
Nell’udire tali parole, Beatrice, che stava per salutare la sua amica, rimase spiazzata per qualche istante, poiché non credeva che il marito avesse intenzione di iniziare il suo giro di domande quel pomeriggio stesso. Per giunta, era appena arrivata Fiammetta e sarebbe stato perciò opportuno se fosse rimasto con lei per riceverla nel migliore dei modi.
«Oh, in tal caso non ti tratteniamo oltre» si inserì l’ospite, incurvando appena le labbra, con un tono appena canzonatorio. «Sembri piuttosto di fretta».
«In un certo senso...» mormorò il ragazzo, vagamente accigliato per quella risposta. Tuttavia, non replicò, anzi, senza indugiare oltre, salutò le tre donne ed uscì dalla biblioteca con l’aria di chi è in procinto di affrontare una questione di vita o di morte.
Un po’ delusa da quell’allontanamento che, a suo parere, avrebbe potuto essere rimandato, la fanciulla cercò di non dare a vedere quanto ci fosse rimasta male e, dopo aver congedato Lina, si avvicinò alla sua amica.
«Son contenta che tu sia venuta a trovarmi» le disse, sorridendole. Il fatto che fosse andata da sola era un’ulteriore indizio a sostegno della tesi che il marito ed il suocero si volevano tenere lontani dalla villa, poiché, forse, temevano un interrogatorio da parte di Marcello. Evenienza molto verosimile, in effetti.
«Non ci vediamo da anni, dobbiamo recuperare il tempo perduto!» esclamò, in risposta, Fiammetta, guardandosi intorno con curiosità e aggiungendo, qualche istante dopo: «Quanti ricordi! Sembra sia passata una vita da quando venivamo qui, mentre giocavamo a nascondino».
«Già» sospirò la fanciulla, mentre le riaffioravano alla mente frammenti del suo passato, felice e spensierato come può essere solo il periodo in cui si è ancora bambini. «Vieni, accomodiamoci in salotto: dobbiamo raccontarci parecchie cose!»


Beatrice fissava i cubetti di ghiaccio che galleggiavano nella sua aranciata, chiedendosi da quanto tempo non ne beveva una. Ancora stentava a credere che, nell’ultimo anno, la sua vita era stata un tale susseguirsi di prove e avversità, che anche sorseggiare una semplice bibita era diventato una specie di lusso.
«Tuo marito non sarà molto socievole, ma, in compenso, è un giovane davvero aitante» commentò improvvisamente l’altra, prendendo un biscotto ai pinoli dal vassoio ben assortito che aveva portato Lina.
«Eh?» fece la ragazza, ritornando bruscamente alla realtà. Non aveva sentito la frase per intero, tuttavia cercò comunque di imbastire una risposta sulla base delle ultime parole percepite. «Mmm... sì, abbastanza».
«Abbastanza?!» esclamò, però, Fiammetta, sbattendo più volte le palpebre prima di scoppiare a ridere. «Sul serio, Beatrice, forse non hai idea di quanto sia bello l’uomo che hai sposato, anche se perde molti punti per la sua eccessiva serietà» considerò poi, dando un morso al suo dolcetto.
«Non c’è solo l’estetica» obiettò la fanciulla, raddrizzando la schiena, leggermente indispettita da quella considerazione, giacché era più che certa che si sarebbe innamorata del giovane anche se non fosse stato così avvenente, dato che era stato il suo carisma ad affascinarla fin da subito. Infatti, precisò: «E, poi, Marcello l’ha tante qualità. Certo, oggi l’è stato un po’ fuggitivo, ma è un ragazzo buono e affidabile».
Di fronte ad una tale reazione, la sua interlocutrice corrugò la fronte e strinse con forza il bicchiere che aveva in mano, abbandonandosi poi ad un sospiro sconsolato.
«Di certo, con uno così, Pierpaolo e Giacomo dovranno faticare parecchio per riuscire ad estorcerti la villa ed i terreni» disse allora, scuotendo la testa.
Messa in allarme da una tale affermazione, Beatrice si avvicinò di poco all’amica, guardinga.
«Ti han detto loro di voler acquistare la tenuta?» le chiese, scrutandola a fondo.
«Veramente no, ma ho sentito comunque tutto. Sai, hanno il brutto vizio di mettersi a discutere dei loro affari nella stanza sotto la nostra camera da letto proprio quando io sto cercando di prendere sonno» le spiegò l’altra, con un tono molto difficile da decifrare, guardandola negli occhi. Tuttavia, non passò più di qualche secondo che Fiammetta, improvvisamente, si alzò e prese a passeggiare nel salotto, avvicinandosi alla finestra con aria mesta, per poi voltarsi di scatto verso la fanciulla.
«Beatrice, sta’ attenta!» le sussurrò poi, con voce tremula. «Non permettere a quei due di farti... quello che hanno fatto a me».
Sempre più confusa da quel suo strano comportamento, la giovane rimase in silenzio, non riuscendo a capire se la sua ospite stava dicendo la verità o solo recitando una parte per agevolare quei due impostori.
A dirimere i suoi dubbi, però, bastò ciò a cui assistette qualche attimo dopo: la ragazza, infatti, di punto in bianco scoppiò in un pianto dirotto, tenendosi una mano sulla bocca per soffocare i gemiti d’angoscia.
«Fiammetta, ma... che cosa ti è successo?» domandò, allora, Beatrice, sconvolta da quel repentino cambio d’umore: un minuto prima la ragazza stava prendendo in giro Marcello, ora, invece, si disperava come se le avessero detto che l’avevano condannata a morte.
Ciononostante, la fanciulla si sentì incapace di assistere a quello straziante spettacolo, così, subito dopo, alzandosi di scatto dal divano, si avvicinò all’altra, prendendola per mano e facendola accomodare nuovamente, sperando che in questo modo si calmasse e le spiegasse il perché aveva reagito così. Per fortuna, non dovette attendere tanto, poiché quella, al solo avvertire le carezze di conforto che le stava riservando, pian piano si quietò quanto bastava per riprendere a parlare.
«Dopo che è morta la mamma, io e il babbo ce la siamo cavata da soli per qualche tempo, ma la situazione si è fatta sempre più difficile» cominciò, prima di essere interrotta da un singhiozzo. «Vedi, il babbo è emofiliaco
e ha bisogno di cure molto costose4, ma io non avevo i soldi necessari per fronteggiare tutte le spese. Poi, un giorno, si sono presentati alla nostra porta Pierpaolo e Giacomo, offrendomi la soluzione: vendere tutto a loro e sposare Giacomo».
Nonostante l’importanza di quella rivelazione, Beatrice scoprì di non essere molto meravigliata di sapere come era andata veramente la faccenda del matrimonio di Fiammetta, giacché aveva già immaginato da sola che non era stato un colpo di fulmine con il figlio dell’amministratore ad indurla a fare quel passo.
«Non vedendo altra via d’uscita, mi sono detta che, in fondo, era una soluzione ragionevole, dato che non avevo un fidanzato, né tantomeno ero innamorata di qualcuno. Tra l’altro, Giacomo lo conoscevo fin da piccina, così... ho accettato» proseguì, poi, la ragazza, ritrovando un po’ di coraggio, come se avesse aspettato anni per trovare qualcuno con cui potesse sfogarsi senza essere giudicata oppure, come nel caso di suo padre, dargli un dispiacere, facendolo sentire responsabile di quella scelta. «Non mi trattano male, anzi, mio padre ha tutta l’assistenza di cui ha bisogno, vivo ancora nella casa che è stata dei miei nonni e non mi manca nulla, perciò non è così terribile».
A quel punto fece una piccola pausa e Beatrice ne approfittò per versarle dell’altra aranciata, porgendogliela con delicatezza. L’altra piegò appena le labbra con riconoscenza, quindi, dopo aver bevuto un generoso sorso, riprese a raccontare: «Con il tempo, ho perfino imparato a chiudere entrambi gli occhi sulle scappatelle di Giacomo e... a far sembrare che vada tutto bene» concluse, mentre si asciugava una lacrima con il dorso di una mano, l’altra intorno al bicchiere semivuoto che teneva in grembo. 
Dopo aver ascoltato una storia tanto orribile, la fanciulla non riuscì a trattenersi ed abbracciò di slancio l’amica, cogliendola di sopresa.
«Oh, Fiammetta, mi dispiace tanto...» mormorò, rammaricata. Poteva capire benissimo cosa aveva provato quella poverina: non era forse vero che suo fratello, fino a qualche mese prima, aveva complottato alle sue spalle per farle sposare un troglodita, così da ripagare i suoi debiti? Le loro vicissitudini erano davvero molto simili, ricordava molto bene quando lei l’aveva chiamata per annunciarle la morte di sua madre e quanto si era sentita partecipe del suo dolore, avendone provato uno uguale. L’unica differenza tra di loro era che, per Fiammetta, non era arrivato nessun Marcello ad evitare che fosse immolata sull’altare come vittima sacrificale per un bene superiore.
«Sta’ tranquilla, diciamo che ora va meglio...» rispose, però, quella, ancora stupita e perfino un po’ imbarazzata, non essendo forse abituata ad essere consolata così spontaneamente. «Anche se ammetto che un po’ ti invidio: si vede che tu e Marcello siete molto affiatati. Anzi, scusami per i miei commenti su di lui, è stata la frustrazione per il mio matrimonio infelice a farmi parlare» aggiunse, mentre le sue guance diventavano più colorite.
«Oh, figurati. Da un certo punto di vista, infatti, hai detto la verità!» esclamò Beatrice, mentre l’amica si metteva a ridere e, finalmente, un po’ di tranquillità tornava sul suo volto triste.
In verità, la fanciulla si era sentita in colpa per essersi arrabbiata per le considerazioni dell’altra sul giovane, senza sapere cosa ci fosse effettivamente dietro. Al posto suo, probabilmente, non sarebbe sopravvissuta nemmeno due minuti
ad un’unione con Navarra.
«Ieri sera non potevo parlare molto, ma ho davvero sperato di aver messo la pulce nell’orecchio a tuo marito riguardo alla misteriosa epidemia» disse, poi, Fiammetta, rimettendosi un po’ più composta, riprendendo il discorso della famosa malattia degli ulivi. «Non conosco i dettagli, non mi rendono partecipe delle loro discussioni, ma ho capito che la faccenda non è come vogliono farla sembrare».
Lì per lì, così presa dalle sventure della sua amica, Beatrice faticò a rientrare in argomento, ma, vista la grande importanza che aveva per lei e per le sorti della sua tenuta, fece uno sforzo per concentrarsi a dovere.
«Posso dirti che ci se’ riuscita, visto che è scappato via proprio per indagare meglio» le rispose, ripensando alla rapidità con cui il ragazzo si era dileguato.
«Meglio così» commentò la bionda, decisa, appoggiando il bicchiere sul tavolo e prendendo un altro biscotto, questa volta al cioccolato. «Ultimamente, Giacomo e suo padre confabulano di continuo facendo squallide battute sulla bellezza delle donne spagnole. Sai, mentre riordinavo il salotto, due giorni fa, ho trovato un opuscolo turistico sull’Andalusia».
«Andalusia?» ripeté la fanciulla, perplessa, sentendosi opprimere da una strana e spiacevole sensazione.
«Sì, non ho proprio idea di cosa stiano architettando, ma ho la sensazione che non sia nulla di buono» sospirò Fiammetta, affranta e rassegnata.

Quando abbracciò l’amica, salutandola sotto al glicine, Beatrice si augurò davvero che, in futuro, la vita potesse essere più benevola con lei, visto che trovava profondamente ingiusto che avesse dovuto rinunciare alla sua felicità con un uomo che l’amasse sul serio, per sposare, invece, un delinquente.
Vedendola andare via, si fermò anche a riflettere sul fatto che, in sua assenza, molte cose erano cambiate da quelle parti: la sua allegra compagna di giochi era una moglie triste ed insoddisfatta, Giacomo era diventato un perdigiorno fortemente dipendente dal padre e del buon Pierpaolo, fedele assistente del conte Tolomei, era rimasto solo un involucro di farabutto. O, magari, era proprio quella la sua vera indole.
La conversazione che aveva avuto con la giovane, inoltre, le aveva lasciato addosso una strana inquietudine, per lo più dovuta alla conferma del voltafaccia delle persone di cui, un tempo, suo padre si era fidato. Poi, quando aveva sentito nominare l’Andalusia, il suo cuore era sembrato fermarsi per alcun secondi, in preda ad un terrore talmente radicato in lei che pareva non avere spiegazione razionale, se non per il fatto che si trattava di una regione della Spagna, nazione che aveva imparato ad associare all’essere più sordido che avesse mai conosciuto.
***

Ciò che notò subito Marcello, nonostante non si fosse addentrato nel fitto degli alberi, fu che le piante di olivo sembravano essere in perfetta salute e cariche di frutti in via di maturazione.
Ripercorrendo i propri passi, allora, il giovane tornò sulla stradicciola che collegava la villa ai terreni, lasciando che la sua mente lavorasse frenetica per venire a capo di quell’arcano: se era vero che la produzione di olio era stata messa a rischio da quella terribile malattia, non avrebbero dovuto esserci almeno dei piccoli segni sul tronco, sui rami e sulle foglie, oltre che sulle stesse olive? Non si era avvicinato più di tanto (anche se, oramai, era sempre più convinto che fosse tutta una montatura per tenere lontane dai terreni quante più persone possibile, anche se ancora non ne conosceva la vera ragione), tuttavia si ripromise che sarebbe tornato sul luogo del crimine e avrebbe dato un’occhiata più approfondita con la piena luce del giorno.
Arrivato a circa metà del percorso, notò un ragazzetto sui quindici anni che se ne stava seduto sull’erba sotto un grande eucalipto, intento ad intrecciare cestini di vimini dalla forma circolare e la rapidità e la precisione con cui quel giovane piegava i ramoscelli essiccati, senza spezzarli, spinsero il biondo a fermarsi proprio davanti a lui per osservarlo con curiosità.
«Sei molto bravo e veloce» si complimentò, dopo un po’, sinceramente ammirato.
Quello smise immediatamente di lavorare e sollevò le sue iridi nere sul nuovo arrivato, sobbalzando.
«Mi scusi, non l’avevo notata» ammise, mettendo da parte la cesta per alzarsi in piedi, scrollandosi i pantaloni. «Comunque, grazie, signore».
In risposta, l’altro sorrise, socchiudendo appena gli occhi.
«Credo che Marcello possa bastare. Chiamarmi
signore e darmi del lei, mi fa sentire vecchio» gli disse, arricciando scherzosamente il naso.
«Come vuole... ehm, scusa, volevo dire... come vuoi» balbettò il ragazzo, sfregandosi nervosamente la fronte con la mano. «Tu sei il marito della signorina Beatrice... il nuovo padrone, vero?»
«Oh, no, la proprietà è di mia moglie, io le do solo una mano a sistemare un po’ le cose» precisò, però, il biondo, con una scrollata di spalle.
L’altro, allora, assunse un’espressione incuriosita e si tolse i capelli mossi e corvini dal volto per osservarlo meglio, così Marcello ne approfittò per chiedergli: «Come ti chiami?»
«Leonardo» rispose prontamente quello.
«Stai preparando i cestini per la raccolta delle olive, per caso?» s’informò poi, indicando il lavoro incompiuto che giaceva accanto a loro.
Contento che qualcuno si stesse interessando a ciò che faceva, l’altro sorrise e annuì soddisfatto, prima di spiegare: «Sì, ma sono in anticipo, perché in questa zona non la facciamo mai prima di ottobre, ma allora sarà già ricominciata la scuola. Anche se, quest’anno, non sembra ci sarà molto da raccogliere».
«Per via dell’epidemia?» domandò, allora, il giovane, rendendosi conto che, senza affannarsi troppo, aveva trovato un testimone a cui chiedere informazioni non censurate su ciò che stava accadendo nella tenuta.
«Sì» rispose Leonardo, intristito, recuperando da terra le fascine di vimini e il cesto incompleto e stringendoseli contro il petto. «Il signor Landi ha detto che non ci pagherà se non ci saranno olive da raccogliere e molti braccianti sono preoccupati, perché hanno bisogno di quei soldi. Sono ormai sette o otto mesi che ci terrorizza dicendo queste cose».
«Immagino...» mormorò Marcello, per niente stupito dalle minacce di quella canaglia. «E... in generale, come si comporta Landi con i lavoranti?»
A quella domanda, il giovanotto lo fissò seriamente e smise immediatamente di giocherellare con le estremità dei ramoscelli di vimini, per poi, dopo qualche istante di esitazione, chiedergli sottovoce: «Mi assicuri che non andrai a riferirglielo?»
Il biondo, allora, si fece simbolicamente una croce sul cuore e fece, solenne: «Hai la mia parola».
Rincuorato, l’altro si preparò a raccontare e disse tutto d’un fiato: «È tremendo... è cattivo! Quando è ora di raccogliere la frutta o le verdure dell’orto lui e suo figlio non fanno altro che sbraitare dalla mattina alla sera. L’anno scorso, mentre raccoglievamo le olive, mio padre si è sentito male e Giacomo non ha voluto nemmeno chiamare il dottore!»
«Addirittura?»
«Questo è niente, non sai cosa hanno fatto a Ivano Berti...» proseguì, rabbrividendo, «è stato colpito da questa malattia e loro l’hanno costretto ad isolarsi, nemmeno sua moglie può vederlo!»
«Qualcuno è stato contagiato dalla rogna degli ulivi?» domandò il giovane, sconcertato, rifiutandosi di credere a una cosa del genere. Cosa diavolo si erano inventati quei due farabutti per rendere credibile la loro messinscena?
«Sì! Ivano ha cominciato a comportarsi in maniera strana, l’ho visto io stesso, una mattina, mentre aiutavamo un’altra famiglia a raccogliere l’uva» continuò a raccontare Leonardo, ancora visibilmente scosso dall’episodio. «Ha cominciato a ricoprirsi di bolle e a dire cose senza senso. Ho avuto davvero paura di ammalarmi anch’io!»
Dopo aver udito quelle parole, Marcello increspò appena le labbra, incapace di dare un senso a tutte le informazioni che aveva raccolto fino a quel momento: ormai, era quasi certo che la malattia degli ulivi fosse una pura invenzione dei Landi per coprire qualcosa che stavano tramando alle sue spalle e a quelle di Beatrice, ma il tono e l’espressione così terrorizzati del ragazzo erano troppo spontanei per essere parte di una recita, pertanto ritenne che i braccianti non sapessero come stavano realmente le cose. A quanto sembrava, si erano ritrovati tutti, loro malgrado, ad avere una parte in quello spettacolo da due soldi.
«Il signor Landi non permette nemmeno al dottor Costa di visitarlo» fece poi Leonardo, sovrappensiero, come se anche lui trovasse molto strano un atteggiamento simile.
«Be’, direi che il signor Landi sta davvero esagerando» lo incalzò, allora, il giovane, ora più che mai deciso a smascherare Pierpaolo e Giacomo e mettere fine al loro ridicolo teatrino. Tuttavia, nel vedere il suo nuovo amico così triste e preoccupato, decise di tirargli su il morale rendendosi suo complice.
«Sai mantenere un segreto, Leonardo?» gli chiese, infatti, a voce bassisima, protendendosi appena nella sua direzione.
Quello, sorpreso e contento per quel tono così confidenziale, spalancò i suoi grandi occhi scuri e si affrettò ad annuire, in preda alla curiosità.
«Nemmeno a me quei due hanno fatto una buona impressione».
Dispiegando le labbra in un gran sorriso, Leonardo ripeté il gesto che il biondo aveva fatto poco prima, come a giurare che non si sarebbe mai lasciato scappare con nessuno ciò che si erano appena detti.
«Marcello, sai che mi sei simpatico?» aggiunse, subito dopo. «Perché non rimani tu e mandi via quel prepotente?»
Di fronte ad una richiesta che era perfettamente in linea con quello che aveva appena deciso di fare, il giovane sorrise a sua volta e gli arruffò i capelli, promettendogli: «Farò il possibile».

L’aver parlato con Leonardo si rivelò per Marcello estremamente utile, poiché quel ragazzino aveva rivelato con le sue espressioni e con il suo atteggiamento molto più di quello che aveva fatto a parole: i due Landi si divertivano a tiranneggiare i lavoranti ed il fatto che tenessero il medico lontano dall’unico contagiato era alquanto sospetto.
Perché non volevano che qualcuno curasse quel poveraccio? E, soprattutto, come mai una sola persona era stata colpita, se la malattia era davvero pericolosa come ritenevano?
Molte cose non tornavano in quella faccenda e Marcello si convinse sempre di più di essere sulla strada giusta, contento che Gerardo fosse in arrivo per aiutarlo a sciogliere dell’enigma.
In quel momento, però, percepì con la coda dell’occhio una figura che si muoveva furtiva tra gli olivi, ad occhio e croce a cinquanta metri da lui: non sembrava averlo visto, pertanto decise di giocare su questo vantaggio, nascondendosi dietro ad un castagno che si trovava sul confine tra l’oliveto e la piccola vigna.
Non appena si sentì al sicuro, il giovane si sporse oltre il tronco per studiare meglio l’individuo sospetto e così notò che si trattava di un uomo piuttosto robusto, all’incirca sulla trentina, che si era piazzato proprio davanti ad un ulivo, fissandone la chioma. Ad un certo punto, quello tirò fuori una pipa da una scarsella che aveva appesa alla cintura e, dopo averla preparata con il tabacco, l’accese e cominciò a fumare con aria pensierosa.
Per un po’, non si mosse, lasciando Marcello in compagnia delle mille domande che gli affollavano la mente, per poi, all’improvviso, allungare una mano verso un rametto dell’albero vicino a lui, carico di frutti e di foglie, e spezzarlo con grande facilità; infine, se lo rigirò tra le dita, togliendosi la pipa di bocca giusto il tempo di grattarsi il mento con il cannello, meditabondo.
Corrugando la fronte, il giovane si chiese chi mai potesse essere e perché fosse tanto interessato a quel ramo. Sembrava quasi che lo stesse... analizzando, come se anche lui non credesse ad una sola parola di ciò che si diceva sull’epidemia di rogna, visto che non sembrava particolarmente turbato dal fatto di aver toccato a mani nude una pianta potenzialmente infetta.
Qualche istante dopo, l’uomo misterioso si guardò intorno con circospezione e, non rilevando la presenza di forme di vita degne di interesse, si allontanò con passo pesante, lasciando dietro di sé una scia di sbuffi di fumo come una vecchia locomotiva a vapore.
A quel punto, Marcello si sentì abbastanza certo di poter uscire dal suo nascondiglio in tutta tranquillità e ritornò sul sentiero battuto, fissando il punto in cui, fino a poco prima, c’era stato quell’individuo. Anche se non avrebbe potuto metterci la mano sul fuoco, sentiva che entrambi, in quella contesa, stavano dalla stessa parte e decise che una delle sue prossime mosse sarebbe stata proprio scoprire l’identità di quel tale, quindi trovarlo e andarci a fare una bella chiacchierata.
***

Vittoria non era nemmeno scesa a terra che già sentiva di essersi innamorata dell’Isola d’Elba e, man mano che si avvicinava a Portoferraio, e riusciva a distinguere con sempre più chiarezza i tratti di molti edifici storici che, fino ad allora, aveva solo visto sulle guide turistiche, li trovò molto più belli dal vivo.
Approfittando del fatto che la rotta del traghetto costeggiava per un lungo tratto le coste dell’isola prima di entrare in porto, la ragazza aveva pregato Gerardo di accompagnarla sul piccolo ponte e, con grande contentezza, da lì era riuscita a scorgere il profilo di Forte Stella, arroccato sulla cima del promontorio che dominava da nord l’intera cittadina. Subito dopo, però, la sua attenzione era stata catturata dal faro, la Torre del Martello5, il quale, essendo situato ad un’estremità dell’avamporto, sembrava dare il benvenuto ai nuovi arrivati.
«È stupendo!» gridò al fidanzato, per sovrastare il rumore dei motori e del vento, rapita da quel panorama così suggestivo che aveva risvegliato in lei il suo animo di viaggiatrice instancabile, messo faticosamente da parte negli ultimi anni per concentrarsi sugli studi e sul lavoro.
«Sembra davvero un bel posto!» urlò lui, di rimando, prendendole una mano e tenendola stretta, come se temesse che potesse volare via.
La ragazza, allora, si voltò verso di lui e, spostandosi dal volto i capelli per evitare che le coprissero gli occhi, gli sorrise, felice che fosse con lei: era la prima vacanza che facevano insieme e l’idea di poter passare ben sette giorni con il suo ragazzo in un luogo bello come quello la rallegrava. Anche se sarebbero stati ospiti di Beatrice e Marcello nella villa dei lei a Marciana Marina, in un’altra parte dell’isola, Vittoria era sicura che le sarebbe piaciuto moltissimo anche quel versante dell’Elba.

Una volta messo piede sulla banchina del porto, i due ragazzi si misero subito da parte per lasciar passare la torma di gente che era scesa assieme a loro, così da avere la calma necessaria per decidere sul da farsi.
«Marcello mi ha consigliato di prendere un taxi e di farci portare direttamente alla villa, perché con i bagagli, nonostante il tragitto non sia lungo, sarebbe scomodo prendere l’autobus» spiegò Gerardo, guardandosi intorno, probabilmente alla ricerca del punto di raccolta dei tassisti.
La giovane, allora, avendo intuito i pensieri del suo compagno, intenerita dalla sua espressione corrucciata, lo anticipò, ridendo: «Va bene. Dai, mentre tu vai a rimediare un autista, io resterò qui con le valigie».
Sorpreso da quell’intervento così puntuale, l’altro smise di voltare la testa a destra e sinistra e si soffermò sulla ragazza, guardandola per qualche secondo prima di incurvare le labbra e mormorarle dolcemente: «Sei un tesoro».
Vittoria arrossì all’istante, piacevolmente spiazzata da quel complimento così spontaneo ed inatteso, tanto che nemmeno si rese conto che il giovane si era già allontanato da lei, diretto verso la parte più interna del porto.
A quel punto, ancora un po’ trasognata, la ragazza si accomodò su una bitta senza cavi d’ormeggio, alle spalle di una fila di piccole barchette attraccate lungo la banchina, e chiuse gli occhi, lasciandosi baciare dal sole, impaziente di poter andare in spiaggia per abbronzarsi un po’ e, magari, imparare a nuotare, dato che Gerardo si era offerto di farle da istruttore.
Improvvisamente, però, la sua quiete venne interrotta da due voci che sembravano discutere piuttosto animatamente dietro di lei.
«Sei proprio sicuro che arriveremo in Corsica in sole quattro ore?» domandò qualcuno, con un’inflessione della voce che faceva trapelare un certo dubbio. 
«Ho già portato laggiù altri prima di te: ricordati che sei stato tu a cercarmi proprio per questo» replicò subito risentito il suo interlocutore, che sembrava più anziano. «Piuttosto, voglio che mi paghiate il prezzo pattuito e non una lira di meno!»
«Stai tranquillo, ho parlato con i miei soci e hanno deciso che va bene» ribatté quello che aveva parlato per primo, seccato. «Adesso, vedi di mantenere quello che hai promesso, oppure comincia a pregare tutti i santi che conosci, perché il capo non perdona chi si mette contro di lui!»
Sopraffatta dalla curiosità, la ragazza riaprì gli occhi e si voltò, scorgendo su un piccolo peschereccio azzurro parecchio malandato un uomo anziano con la pelle bruna ed incartapecorita e un ragazzo che doveva avere solo qualche anno più di lei, alto, moro e vestito piuttosto bene.
Aggrottando la fronte, scettica all’idea che quella bagnarola fosse in grado di portare qualcuno fino alle coste della Corsica, Vittoria rimase a fissare il giovane che, dopo aver salutato frettolosamente l’altro, lasciò la barchetta e risalì sul molo con un saltello.
Anche se aveva sentito solo un breve stralcio del discorso, era palese che quei due stavano organizzando qualcosa di illegale e, mentre pensava se fosse o meno il caso di andare a riferire quanto udito alla polizia, il ragazzo alzò la testa verso di lei e i loro sguardi si incrociarono. Trasalendo, la ragazza si affrettò a tornare a guardare davanti a sé, sperando che quel tipo non avesse capito che aveva udito la conversazione tra lui e quello che, probabilmente, era un pescatore convertitosi ad attività clandestine.
Maledicendo la sua incapacità di ignorare i discorsi altrui, rimase immobile a fissare un punto a terra per un minuto o due, ma, proprio quando stava per tirare un sospiro di sollievo, vide un’ombra fermarsi a pochi passi da lei.
«Ciao» la salutò una voce che, purtroppo, non era quella di Gerardo.
Essendo fin troppo certa che quel saluto era rivolto a lei, la giovane si decise a staccare gli occhi da terra con grande riluttanza, trovandosi davanti il ragazzo di prima. 
«Ehm... ciao» rispose, dopo aver deglutito a vuoto, cercando di non apparire troppo nervosa e decidendo che, se lui avesse fatto qualunque insinuazione, lei avrebbe negato con tutta la sicurezza di cui disponeva, nonostante in quel momento la sua riserva fosse piuttosto esigua.
«Sei una turista?» proseguì quello, mettendosi le mani in tasca e spostando la testa da un lato, osservandola con attenzione.
«Mmm... più o meno» mormorò Vittoria, sfregandosi le labbra con apparente noncuranza per sfogare la tensione. Perché doveva essere sempre così maledettamente curiosa?
«Allora, hai bisogno di qualcuno del posto che ti mostri le bellezze della zona» fece, quindi, il giovane, elargendole un sorriso particolarmente lascivo, facendo scorrere insistentemente lo sguardo addosso a lei e indugiando sfacciatamente sul suo seno generoso.
Di fronte ad un atteggiamento così volgare, la ragazza aprì la bocca e lo fissò sconcertata: da una parte era decisamente sollevata che quel tipo non avesse alcun tipo di sospetto su di lei, ma, dall’altra, si sentì irritata da quello che aveva chiaramente riconosciuto come un patetico tentativo di abbordaggio.
«Grazie, ma credo di sapermela cavare da sola» replicò, freddamente, squadrandolo inquisitoria e alzandosi per essere alla sua stessa altezza. In realtà, il suo molestatore la superava di quasi tutta la testa, ma essere in piedi la faceva comunque sentire in posizione meno svantaggiata.
«Una passerina così carina potrebbe essere facile preda di malintenzionati»
proseguì, però, l’altro, per nulla scoraggiato, avvicinandosi di qualche passo. Poi, aprì la giacca color carta da zucchero e, dopo aver estratto un cartoncino dalla tasca interna, glielo porse con fare cerimonioso. «In ogni caso, puoi trovarmi a questo numero, se dovessi cambiare idea».
Non volendogli assolutamente dare la falsa impressione di essere interessata, soprattutto dopo essere stata apostrofata in quella maniera così triviale, la giovane diede al biglietto da visita una scorsa appena sufficiente a leggere il nome che vi era scritto sopra: Giacomo Landi.
«Non penso ci sarà occasione» decretò, secca, fissandolo in cagnesco. «Ecco, sta tornando il mio ragazzo!» aggiunse subito dopo, arretrando con fare altezzoso fino a toccare la bitta con le gambe, incrociando le braccia sul petto. Possibile che non potesse restare sola per più di due minuti senza che qualche marpione la importunasse?
Sollevando le sopracciglia, Giacomo, allora, si voltò e, dopo aver notato Gerardo, che avanzava verso di loro, trionfante, agitando una mano in direzione della ragazza, scoppiò a ridere di gusto, infilandosi nuovamente il biglietto nel taschino.
«Tesoro, non mi prendere in giro: una bambola come te non può stare con un... coso del genere!» esclamò, ancora in preda all’eccesso di risa.
Indignata, la giovane si puntò le mani sui fianchi e, sentendosi affluire tutto il sangue alle guance per la rabbia, sbottò: «Coso sarai tu! Quello è il mio fidanzato e non devi permetterti di insultarlo!»
«Sì, certo, certo... ed io sono il principe Carlo d’Inghilterra» sghignazzò l’altro, scuotendo la testa come se lei gli avesse appena raccontato un’esilarante barzelletta. «Be’, buona giornata e a presto, dolcezza».
«A mai più rivederci, vorrai dire!» ribatté Vittoria, tremante, sentendosi pervadere dall’istinto di mettergli le mani al collo.
Udendo quelle parole, Giacomo, che si era già allontanato di qualche metro, tornò a guardarla, riservandole un sorrisetto beffardo e sinistro.
«Oh, non ci contare, bambolina, perché saprò come ritrovarti e posso scommettere che non ti dispiacerà» dichiarò, con voce bassa ed inquietante. Dopo di che, si abbandonò ad un’ultima, perfida risata e sparì inghiottito dalla folla del porto.

«Con chi stavi parlando?» le domandò Gerardo, non appena fu a portata di orecchio della fidanzata.
Con lo stomaco ancora sottosopra per la paura provata poco prima, poi degenerata in collera, la giovane si prese qualche istante per ricomporsi, prima di rispondere.
«Oh, nessuno di importante, solo un tizio che voleva a tutti i costi che alloggiassimo nel suo albergo» sbuffò, scuotendo infastidita la testa, «ma gli ho detto che siamo ospiti da amici».
«Hai fatto bene, in fondo è la verità» approvò il ragazzo, dirigendosi verso le due valigie, rimaste incustodite sulla banchina. «Dai, andiamo, il tassista ci aspetta. I bagagli li porto io, tu occupati solo della tua borsa» aggiunse poi, elargendole un tenero sorriso.
Nel ricambiare, Vittoria stiracchiò debolmente le labbra, avvertendo un peso sul cuore: si sentiva terribilmente in colpa per non avergli detto la verità, anche se aveva un motivo più che valido per farlo. Infatti, se Gerardo avesse saputo che quel cretino ci aveva provato con lei e aveva deriso lui, si sarebbe arrabbiato, reagendo male e rovinando l’inizio della vacanza.
Autoconvincendosi di aver fatto la scelta giusta, la ragazza, allora, seguì il fidanzato, ripetendosi mentalmente che, così, gli aveva risparmiato solo un’inutile sofferenza.
Tanto, quando mai avrebbe avuto l’occasione di rivedere quell’idiota di Giacomo Landi?




***
Per la revisione di questo capitolo, ringrazio Lady Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la grafica del titolo è opera mia.
Grazie anche alla mia Anto per il continuo sostegno.
***

[N.d.A]
1. pane sciocco: nel dialetto toscano, sciocco significa “senza sale”, da cui deriva anche il significato più ampio di persona ingenua e stupida;
2. schiaccia briaca: dolce tipico dell’Isola d’Elba, a base di frutta secca, uvetta, olio, vino aleatico e alchermes (che dà la tipica colorazione rosata). Ne esiste anche una versione in bianco e con il vino moscato, tipica della zona del comune di Capoliveri;
3. epidemia... Napoli: quest’epidemia si è realmente verificata sul finire dell’estate del 1973, colpendo la zona partenopea. Fu una situazione abbastanza drammatica e la popolazione di Napoli (e non solo) fu sottoposta ad una vaccinazione di massa per evitare il contagio e bloccare quindi la diffusione del batterio responsabile del colera;
4. emofiliaco... costose: l’emofilia è una malattia ereditaria legata al cromosoma X, pertanto colpisce quasi esclusivamente gli uomini. Comporta un’incapacità del sangue di coagulare bene e viene curata con infusione di concentrati di fattori della coagulazione. Negli Anni ‘80, erano disponibili solo fattori provenienti da donatori umani, perciò le cure erano molto costose e poco reperibili (e anche ad elevato rischio di trasmissione di epatite B e C); a partire dalla fine degli Anni ‘90, invece, grazie alle biotecnologie, sono stati prodotti fattori della coagulazione in laboratorio, rendendo la cura meno costosa, più sicura e largamente disponibile;
5. Torre del Martello: nota anche come Torre della Linguella.
***

Rieccoci.
Essere a soli cinque capitoli dalla fine è un traguardo per me importantissimo, considerando che questa storia va avanti dal 2012. Tuttavia, mi sto impegnando affinché possa trovare la sua fine entro il prossimo dicembre, anche perché c’è un nuovo racconto che scalpita per venire alla luce.
Ringrazio sempre chi ancora mi segue, chi legge in silenzio, chi ha messo questa storia tra le seguite/preferite/ricordate, chi mi ha lasciato un parere allo scorso capitolo (Anto, Aven, Balder Moon).
Per dettagli e anticipazioni sul prossimo aggiornamento, come di consueto, vi lascio il link alla mia pagina facebook.
Alla prossima!

Halley S.C.

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Capitolo 22
*** Capitolo Ventiduesimo - Vento di Malintesi ***


Vento dell'Ovest - Capitolo 22



- Capitolo Ventiduesimo -
Vento di Malintesi




I
naspettatamente, l’aver invitato Vittoria a trascorrere qualche giorno a Marciana Marina si rivelò provvidenziale, visto che la ragazza portò a Beatrice il miglior antidoto possibile alla frustrazione dovuta al fatto di vedere suo marito dedicarsi con maggior cura agli interessi della tenuta piuttosto che a lei.
Le due giovani, infatti, si ritrovarono a condividere ben presto una sorte simile, poiché i loro compagni sembravano essersi completamente dimenticati della loro esistenza, barricati in biblioteca da tre giorni senza uscire nemmeno per pranzare,
lavorando senza sosta per ricostruire la contabilità dell’ultimo biennio.
Marcello aveva fatto dello svelare le malefatte dei Landi una priorità e, alla lunga, ciò aveva reso la fanciulla insoddisfatta e annoiata, poiché non era quello il modo in cui aveva immaginato si sarebbe svolto il suo viaggio di nozze. Certo, era ben consapevole dell’indole poco romantica del consorte, ma non avrebbe mai pensato che potesse arrivare a tanto.
Dal canto suo, anche l’altra aveva dato segni di insofferenza dopo essersi ritrovata ad aspettare invano per ore ed ore che il fidanzato la raggiungesse in spiaggia, a metà della loro settimana di vacanza; tuttavia, rispetto all’amica, sembrava tollerare un po’ meglio quell’assenza, anzi, talvolta era talmente persa nei suoi pensieri che pareva vivere fuori dalla realtà. Tant’è che quell’atteggiamento, così strano da parte sua, preoccupò seriamente Beatrice, la quale si ripromise più volte di chiedere all’altra cosa non andasse, senza però trovare mai l’occasione giusta per farlo.
Quando, come da copione, la mattina del quarto giorno, i ragazzi trangugiarono velocemente la colazione per poi scappare in biblioteca e, subito dopo, una sconsolata Vittoria annunciò che sarebbe andata a prendere il sole sulla terrazza più alta per un’ora o due, l’unica cosa che rimase a far compagnia a Beatrice fu il frinire delle cicale.
Amareggiata, allora, la fanciulla spinse con stizza le sue frittelle lontano da sé, mentre le riaffiorava alla mente il ricordo di quando era stata costretta a mangiare da sola a casa della zia, con la differenza che, all’epoca, essendo circondata da persone ostili, era un’evenienza giustificabile.
Qualche minuto dopo, venne Lina per sparecchiare la tavola e la ragazza colse l’occasione per chiederle di portarle tutta l’argenteria che necessitava di essere lucidata, poiché aveva deciso di approfittare delle faccende domestiche lasciate in sospeso per
sfogare su di esse tutta la sua delusione, sapendo quanto le attività manuali erano utili a distendere i nervi.
Tuttavia, proprio mentre stava cominciando a rilassarsi, seduta al tavolo sotto ai pini, sfregando energica candelabri e piatti da portata, udì dei passi sul vialetto. 
«Buongiorno, cara» la salutò una voce e quando alzò la testa per vedere di chi si trattava, si rese conto immediatamente che avrebbe fatto meglio a continuare a lavorare.
«Buongiorno, Giacomo» rispose, infatti, con tono piatto, riprendendo immediatamente a strofinare un panno intorno al porta-caramelle di cui si stava occupando prima di essere interrotta, per nulla intenzionata ad intavolare una discussione con il giovane.
Quello, però, fece finta di niente e si accomodò comunque di fronte a lei, scrutandola con attenzione.
«Posso fare qualcosa per te?» chiese, allora, Beatrice, irritata per la sua insistenza e per il suo silenzio.
«Cercavo Marcello» disse, infine, lentamente e con atteggiamento pensieroso l’altro, come se stesse cercando di inventarsi in fretta una scusa plausibile.
«L’è in biblioteca con un su’ amico» tagliò corto la ragazza, sempre più infastidita dalla sua presenza: dopo quello che le aveva rivelato l’amica, la disgustava anche solo l’essere costretta a sopportare la vista di Giacomo, senza contare che la lontananza di suo marito la indisponeva già ampiamente verso qualunque tipo di relazione interpersonale.
«Siete sposati da poco e già ti trascura?» insinuò subito quello, con tono suadente e sicuro, tradendo un’espressione di grande soddisfazione.
A quel punto, ormai satura, la fanciulla appoggiò l’oggetto che aveva tra le mani sul tavolo e puntò negli occhi del suo interlocutore uno sguardo velenoso, giacché, nonostante l’altro avesse centrato in pieno la situazione, non desiderava minimamente discuterne con lui. Se aveva intenzione di proporle di diventare la sua amante, be’, aveva proprio sbagliato persona per tessere le sue tresche schifose ai danni di Fiammetta.
«Ci son parecchi punti che non quadrano nei conti della tenuta. Qualcuno deve pur mettere a posto le cose, non trovi?» rispose, poi, con calma inquietante, intenzionata a mettere in chiaro la sua posizione fin da subito, oltre a fargli capire che lei era a conoscenza dei giochetti che avevano organizzato lui e suo padre.
Freddato da una risposta così provocatoria, il ragazzo aggrottò appena la fronte, anche se fu più che altro il fremito delle sue labbra a far intendere chiaramente alla giovane di aver capito di essere stato scoperto, poco prima che si alzasse di scatto, allontanandosi dal tavolo di qualche passo.
«Vorrà dire che tornerò quando Marcello sarà più libero» borbottò, alla fine, tra i denti. Tuttavia, non si lasciò sfuggire l’occasione di insistere ancora una volta: «Ricordati, però, che, se dovessi aver bisogno di parlare con qualcuno... qui c’è un vecchio amico pronto ad ascoltarti».
Decisa a cacciarlo letteralmente a calci, la ragazza aveva già puntato i piedi a terra per tirarsi su, quando si rese conto che Giacomo sembrava aver perso ogni interesse verso di lei, impegnato ad osservare con espressione beota un punto imprecisato oltre la sua spalla e la fanciulla non fece nemmeno in tempo a voltarsi per capire di cosa si trattava, che udì la voce di Vittoria.
«Beatrice, alla fine, sono andata in spiaggia, ma...» ma la nuova arrivata non finì la frase, perché si arrestò di colpo, spalancando gli occhi, e la poca abbronzatura che aveva non fu sufficiente a nascondere che era impallidita.
Prima che l’altra potesse anche solo pensare di chiedere all’amica scosa stesse accadendo, però, intervenne Giacomo.
«Bea, non mi presenti la tua ospite?» le chiese, con tono lascivo, lanciando a Vittoria un’occhiata famelica e i
n quel preciso istante Beatrice capì appieno cosa volesse dire l’espressione “mangiarsi qualcuno con gli occhi”.
Incerta se quella fosse davvero la mossa giusta da fare, temporeggiò ancora qualche secondo, prima di decidersi: «Ecco... Giacomo, lei è Vittoria, una mia amica. E... Vittoria, questo è Giacomo Landi, il figlio dell’amministratore dei nostri terreni».
«Non credevo che sarebbe stato così semplice ritrovarti» aggiunse subito lui, sogghignando.
«Inoltre, adesso so anche il tuo nome».
Tuttavia, Vittoria non rispose, limitandosi ad osservarlo con occhi spalancati come se avesse visto un fantasma.
«Vi conoscete... già?» chiese, allora, una sempre più disorientata Beatrice, che faticava a capire il comportamento dell’amica, così diverso dal solito.
«Ci siamo incontrati al porto» spiegò il ragazzo, facendo spallucce, senza staccare mai il suo sguardo bramoso dalla giovane, che sembrava aver perso improvvisamente la parola. «Comunque, si è fatto davvero tardi, belle ragazze, a quest’ora mio padre avrà certamente bisogno di me. Ma non temete, avremo certamente occasione di rivederci» aggiunse subito dopo, sorridendo in maniera sinistra, prendendo congedo da entrambe con un cenno de capo, prima di allontanarsi con una certa celerità.

Non appena se ne fu andato, Vittoria si afflosciò su una sedia, esausta, stringendo convulsamente tra le dita la stoffa del suo copricostume verde acqua.
«Stai bene?» le domandò subito Beatrice, preoccupata, avvicinandosi a lei con una certa fretta e mettendole una mano sulla schiena, come per sostenerla.
«No, per niente!» gemette l’altra, angosciata, scuotendo la testa, sul punto di scoppiare in lacrime da un momento all’altro.
Sbattendo le palpebre, la fanciulla, allora, si accomodò accanto a lei e attese qualche secondo che si calmasse, anche se, in realtà, ogni istante che passava, Vittoria diventava sempre più inquieta, mentre mormorava tra sé e sé frasi sconnesse.
«Ti va di dirmi cosa l’è successo, magari dall’inizio?» riprovò, con dolcezza, sperando di farle sentire con il suo tocco che era disposta ad ascoltare e, quindi, ad aiutarla.
A quel punto, la ragazza fece un profondo sospiro e, non aspettando altro, probabilmente, che l’occasione propizia per buttare fuori tutto quello che teneva dentro e che le stava facendo così male, le raccontò dell’incontro al porto con il giovane Landi e di ciò che ne era seguito. Nell’udire delle oscene avances che quello aveva fatto all’amica, Beatrice si sentì pervadere dall’ira e dal disgusto.
«... e così ho mentito a Gerardo, dicendo che Giacomo lavorava per un albergo che cercava clienti. Davvero, non credevo che l’avrei ritrovato qui!» concluse, alla fine, scuotendo nervosamente la testa.
Notando che l’amica sembrava più sollevata, a Beatrice venne spontaneo paragonarla a Fiammetta, la quale aveva avuto la stessa reazione dopo aver sfogato la rabbia per le malefatte del marito.
«Certo che l’è stata una bizzarra coincidenza che tu l’abbia incontrato a Portoferraio...» mormorò, pensando che quel cretino era davvero una piaga per tutte le donne che avevano la sfortuna di incontrarlo.
«Mi sono lasciata incuriosire da ciò che stava dicendo al pescatore» raccontò, ancora, Vittoria, stringendosi contro le braccia, come per cercare di proteggersi. «Sta organizzando con alcuni complici una fuga in Corsica».
«Corsica?» domandò, allora, Beatrice, stupita da quella rivelazione. «Eppure, la Fiammetta aveva parlato d’Andalusia!»
«Fiammetta?»
«Sì, l’è una mi’ cara amica, nonché la moglie di Giacomo. M’ha detto d’aver trovato in casa una grande quantità di materiale sull’Andalusia, non sulla Corsica» spiegò brevemente, la mente già impegnata ad elaborare quanto aveva appena appreso, chiedendosi quale fosse la vera destinazione di quei due delinquenti e chi fossero gli altri complici citati, senza tralasciare il quesito più importante: perché stavano scappando?
Dopo aver appreso la verità sul suo molestatore ed essere inorridita ancor di più, Vittoria riuscì appena a sussurrare: «Povera ragazza...»
Poi, dopo qualche secondo di silenzio, torno a rivolgersi nuovamente all’amica, con tono supplice: «Ti prego, Beatrice, non dire niente a Gerardo, né di questa mattina, né di quello che ti ho raccontato».
Distolta bruscamente dai propri pensieri, che non riuscivano a trovare spiegazioni soddisfacenti al comportamento dei Landi e ai loro innumerevoli inganni, Beatrice posò lo sguardo sulla sua interlocutrice e, non approvando quella decisione, non tardò ad esprimerle il suo dissenso.
«Scusami se mi permetto, ma credo che dovresti proprio dirgli tutto, invece! Tanto lo verrà a sapere, prima o poi, visto che quell’idiota non rinuncerà di certo a darti fastidio solo percse’ fidanzata». 
«C’è il rischio che Gerardo la prenda molto male, però...» ribatté l’altra, scuotendo vigorosamente la testa, «hai ragione: devo trovare il momento opportuno e raccontargli tutto».
«Son sicura che capirà» la rassicurò la fanciulla, stringendole una mano, augurandosi con tutto il cuore che quel fedifrago, un giorno, pagasse per ciò che aveva fatto alle sue amiche.
***

«Mi pare ovvio, ormai, che i due Landi stiano complottando ai danni di Beatrice» commentò con disappunto Gerardo, rimettendo nel ripiano più basso dell’armadio l’ennesimo faldone pieno di lacune relativo al bilancio dell’ultimo anno. «Li ho visti entrambi di sfuggita e non mi hanno convinto per niente. Evidentemente, vogliono accaparrarsi questa tenuta, perciò stanno simulando il fallimento per indurre tua moglie a vendere tutto a loro».
Marcello, invece, era seduto
su una delle poltrone di fronte alla scrivania, intento a riflettere accuratamente su ogni dettaglio che aveva raccolto nei giorni precedenti, senza che nessuno di essi, per quanto importante, gli desse l’indizio definitivo per capire cosa ci fosse esattamente dietro tutti quei misteri.
«Sono pienamente d’accordo con te» affermò, appoggiando un gomito sul braccio e, quindi, una guancia sul pugno chiuso, «ma la mia domanda è: perché solo ora? Il conte Tolomei è morto da anni e Guido non è mai stato un ostacolo, visto che non è in grado di gestire nemmeno se stesso».
L’altro si tirò su ed incrociò le braccia contro il petto, un’espressione meditabonda sul volto.

«Tra l’altro, stando a quello che so, quel fannullone aveva promesso la tenuta a Navarra come ulteriore pagamento, proprio perché era convinto che non valesse nulla» continuò il biondo, contemplando la fine arte con cui erano state decorate le ante di tutti i mobili della stanza. «Se ci pensi, il fratello di Beatrice non brilla certo per scaltrezza, pertanto non avrebbe mai potuto bluffare un criminale del calibro dello spagnolo. Anzi, credo proprio che non abbia nemmeno le capacità intellettuali per arrivare a pensare una cosa del genere».
«Magari, allora, i Landi potrebbero aver avuto problemi solo in quest’ultimo periodo» continuò l’amico, accomodandosi sulla poltrona libera e mettendosi le mani sulle ginocchia, la schiena ben dritta. 
«Ne dubito» replicò Marcello, diffidente, rimettendosi composto, per poi saltare in piedi, facendo cigolare le molle del cuscino dove era stato seduto. «Ho parlato con un ragazzetto che dà una mano nei lavori agricoli e mi ha riferito che questa storia della rogna degli ulivi è iniziata sette, otto mesi fa» aggiunse, appoggiandosi le mani sui fianchi, lanciando a Gerardo un’occhiata scettica. Quello, dal canto suo, alzò le spalle, consapevole che le loro indagini erano giunte ad un vicolo cieco.
«Effettivamente, ci sono parecchi dettagli che non quadrano in questa vicenda, ma sappiamo comunque dove trovare le prove schiaccianti del tradimento dei Landi» sentenziò, infine.
«Esattamente. Per questo dobbiamo scopri...» riprese l’altro, prima di essere interrotto da una visita inattesa.
«Marcello, Marcello... è successa una cosa terribile!» gridò, infatti, Leonardo, entrando improvvisamente in biblioteca come un piccolo ciclone e facendo cadere a terra una torre di incartamenti che i due giovani avevano momentaneamente depositato dietro alla porta.
«Una cosa terribile?» ripeté meccanicamente il biondo, osservando il piccolo amico tra il sorpreso ed il perplesso. «Riprendi fiato, così mi racconterai tutto».
«Scommetto che questo giovanotto è il tuo nuovo informatore» commentò, invece, Gerardo, avvicinandosi ad entrambi, osservando il nuovo arrivato con una punta di curiosità.
In risposta, l’altro annuì con un sorriso, per poi battere subito dopo un paio di pacche affettuose sulla spalla del ragazzo: «Si chiama Leonardo» lo presentò.
«Piacere, io sono Gerardo, un amico di Marcello» rispose a sua volta Marini, sorridendogli affabilmente, e quello, imbarazzato, sbatté le palpebre e deglutì, nervoso.
«Ehm... Ciao» balbettò, stringendo le spalle come per farsi ancora più piccolo.
«Tranquillo, Leonardo, Gerardo è un mio amico ed è la persona più buona che io abbia mai conosciuto» lo rassicurò rapidamente il biondo, calcando particolarmente sull’ultima parte. «Che cosa volevi dirmi di tanto importante?»
Il ragazzo sobbalzò, come se si fosse improvvisamente ricordato di avere qualcosa di molto urgente da riferire, e cominciò a raccontare in modo molto concitato: «Ivano Berti sta per morire! Il signor Landi l’ha fatto trasportare a casa sua questa mattina e sta impedendo a chiunque di vederlo... La signora Sandra sta impazzendo di dolore!»
A quelle parole, i due giovani si scambiarono immediatamente un’occhiata nervosa, essendo probabilmente arrivati nello stesso momento alla medesima conclusione: Pierpaolo e Giacomo stavano lasciando che un pover’uomo passasse a miglior vita solo per dar credito alla loro stupida messinscena.
«Credo proprio che dovremmo andare a vedere» propose, allora, Gerardo, assottigliando lo sguardo.
«Già, lo penso anche io» concordò Marcello, non meno sospettoso di lui. Poi, con tono gentile, si rivolse al suo giovane collaboratore: «Leonardo, facci strada!»
«Venite con me!» rispose subito quello, felice di poter essere utile, facendo loro segno di seguirlo.

Dalla consistente folla radunata sull’aia si levava un vociare piuttosto concitato: era come se ogni bracciante della zona fosse accorso alla villa dei Neri per verificare la situazione con i propri occhi e dire il suo parere in merito.
Quando furono più vicini, i due giovani intravidero Fiammetta così, dopo aver lasciato che Leonardo corresse dai suoi genitori, si fecero
faticosamente largo tra la gente verso di lei, curiosi di apprendere qualcosa in più su ciò che stava accadendo, approfittando anche della momentanea assenza di Giacomo e Pierpaolo.
Tuttavia, proprio in quel frangente, l’attenzione della ragazza fu catturata da un nuovo arrivo e, seguendola con lo sguardo, Marcello vide che era letteralmente corsa incontro ad uomo piuttosto massiccio, che il biondo riconobbe immediatamente come l’individuo che aveva visto nell’uliveto.
«Dottor Costa!» gridò lei, per sovrastare le voci dei braccianti. «Menomale che è arrivato... Il povero Ivano delira da stamane!»
Dopo essersi scambiati un’occhiata di intesa, i ragazzi, facendosi strada a suon di gomitate, moltiplicarono i loro sforzi per raggiungere la giovane e il suo interlocutore, arrivando proprio nell’istante in cui quello stava dicendo: «Signora Neri, farò il possibile, stia tranquilla».
Sorpreso dal fatto che, contrariamente ai braccianti, il medico avesse chiamato la ragazza con il suo cognome da nubile, Marcello squadrò attentamente entrambi, notando che, dopo quell’intervento, lei sembrava decisamente più rassicurata. Poi, dopo essersi congedato con un garbato cenno del capo, vide l’uomo dirigersi all’interno della piccola dependance dove avevano trasportato il malato.
A quel punto, nonostante le mille domande che gli ronzavano in testa, il biondo fece segno a Gerardo di seguirlo, avvicinandosi a Fiammetta.
«Oh, buongiorno» li salutò questa, con aria stanca, non appena le furono davanti. «Hai saputo anche tu di Ivano?»
«Già» rispose Marcello, grave. Poi, presentò sbrigativamente l’amico, deciso a non perdere troppo tempo con i convenevoli. «La situazione è critica come sembra?»
«Lo è» confermò la ragazza, con un sospiro, mentre stringeva la mano di Marini. «Il dottor Costa è molto bravo e si preoccupa sempre per tutti... Pensate che ogni settimana passa qui per sapere come sta mio padre dopo le trasfusioni1, ma nemmeno lui potrà compiere un miracolo» aggiunse, rassegnata.
«Pover’uomo!» esclamò Gerardo, lanciando subito dopo un’occhiata mesta alla porta della dependance.
«Oh, sì... Anche Pierpaolo e Giacomo sono molto preoccupati e...»
Tuttavia, Fiammetta non riuscì a completare la frase, perché un urlo straziante di donna si levò dalla casupola. Ne seguì un silenzio surreale, rotto qualche secondo dopo da un altro grido, proveniente, però, da un capannello di gente che si era formato sotto il noce che offriva ombra all’aia: «È morto! Ivano Berti... è morto!»
Subito, esplose il caos e molti di quelli che si erano radunati lì corsero via, mentre altri cominciarono a gridare come forsennati, mulinando le braccia nel vuoto; diverse donne, invece, presi in braccio i loro bambini, si allontanarono in tutta fretta, sentenziando che il demonio aveva lanciato una maledizione su quelle terre. Fra di loro vi furono anche Leonardo e la sua famiglia.
Gli unici che non si mossero di un passo, come se tutto quello non li riguardasse, furono i tre ragazzi, che rimasero a fissare la porta in cui era entrato qualche minuto prima il dottor Costa e dalla quale, proprio in quell’istante, ne uscì di nuovo l’uomo, spinto in malo modo da Giacomo e seguito da Pierpaolo che, estratta una pistola dall’interno della giacca, sparò due colpi a salve in aria per riportare la quiete.
«Smettetela di gridare alla maledizione, bifolchi!» tuonò, agitando un pugno con aria minacciosa. «Il colpevole di tutta questa tragedia è davanti ai vostri occhi!»
«È così, gente!» confermò con foga il figlio, additandolo. «Questa belva ha diffuso un miasma tra di noi per i suoi sciocchi studi!»
«Smettila di accusarmi, folle!» si difese immediatamente il medico, ringhiando e riservando al giovane uno sguardo carico d’odio e di ribrezzo. «Siete tu e tuo padre che uccidete degli innocenti per il vostro tornaconto!»
A quelle parole, Pierpaolo scoppiò a ridere con malvagità e Marcello avvertì un istintivo desiderio di farlo tacere per sempre.
«Quest’uomo delira!» insorse l’amministratore. «Chi vorrà farsi curare da un assassino, ora?»
Istantaneamente, i pochi rimasti cominciarono a parlottare a bassa voce e sul dottore si riversarono parecchie occhiate diffidenti, piene di orrore e disgusto, ma lui rimase in piedi, ritto come un fuso, senza lasciarsi piegare da quelle infami calunnie.
«Basta, Pierpaolo!» intervenne, allora, Fiammetta, avanzando a grandi passi in direzione del suocero. «Il dottor Costa non c’entra niente con tutto questo!»
Palesemente infastidito da quell’intromissione, l’uomo la guardò di traverso e borbottò a denti stretti: «E come fai ad esserne certa, cara
Irritata, la ragazza aprì la bocca per replicare, ma qualcuno fu più veloce di lei.
«Finché non avremo indagato, non ci sarà alcuna certezza!» esclamò, infatti, una voce che Marcello non aveva mai sentito prima.
In quel momento, dalla poca folla rimasta emersero tre uomini, di cui i due più giovani erano in divisa da poliziotto ed il terzo, invece, in borghese. Aveva un’espressione molto severa che scaturiva dagli occhi scuri e una massa di capelli ondulati, anche se non troppo lunghi, gli incorniciava il viso dai bei lineamenti sottili.
«Commissario Guardalupi!» lo salutò Giacomo, sorpreso da quell’apparizione, ma non abbastanza da non riprendersi in fretta e correre incontro al nuovo arrivato. Quando lo raggiunse, cambiando completamente tono, gli chiese: «L’hanno già avvisata di ciò che è successo?»
«Abbiamo ricevuto una chiamata molto allarmata da parte di Gerolamo Ricci non più di un quarto d’ora fa» rispose quello, scrutandolo sospettoso. «Ci ha riferito che un uomo è morto a causa della... rogna degli ulivi».
«A quanto pare... sembra proprio così...» farfugliò il ragazzo, gesticolando nervosamente.
Guardalupi socchiuse appena gli occhi e piegò appena le labbra in un’espressione nauseata, come se quello non godesse della sua simpatia. «Nessuno andrà via di qui finché non avremo interrogato tutti!» ordinò, perentorio.
«Molti sono già andati via, in realtà» gli fece notare, però, Pierpaolo, con un sorriso beffardo.
«Grazie dell’interessamento, ma questo è un mio problema, signor Landi» gli rispose, secco, il poliziotto, scoccandogli un’occhiata gelida. «Piuttosto, perché non ci ha riferito di questa... epidemia? Sono venuto a conoscenza di tutto solo questa mattina».
«Non pensavo che fosse così grave...» si giustificò l’altro, con un borbottio infastidito.
Di fronte ad una tale risposta, Guardalupi inclinò leggermente la testa e corrugò appena la fronte.
«Ora che ci è scappato il morto, signor Landi, è più credibile, invece?» fece, sarcastico. Poi, si rivolse ai suoi sottoposti per impartire loro alcune consegne: «Angelini, avvisa la scientifica, voglio che siano fatti tutti i rilevamenti possibili sulle piante malate. Invece, Teani, tu chiama la Questura di Livorno2, esigo che sia fatta l’autopsia sul cadavere».
Prontamente, i due agenti si misero subito al lavoro, obbedendo senza dire nemmeno una parola.
Soddisfatto dell’ottima capacità organizzativa dell’uomo, Marcello e Gerardo si scambiarono un’occhiata compiaciuta, certi che, presto o tardi, grazie al coinvolgimento delle forze dell’ordine, i Landi sarebbero stati messi alle strette.
Tuttavia, i due non dovevano ancora essere soddisfatti, visto che, come dimostrarono poco dopo, avevano ancora la presunzione di voler dire la loro. Infatti, poco dopo, si inserì nella conversazione anche Giacomo, senza essere stato interpellato da nessuno.
«Non credo che ce ne sia bisogno, commissario. La colpa è tutta di quest’individuo, che ha liberato questa piaga per i suoi macabri interessi!»
Il dottor Costa, in risposta, digrignò i denti e strinse convulsamente i pugni.
«Come... osi...» sibilò, trattenendosi a stento dall’avventarsi contro di lui.
«Sono io che do gli ordini e conduco le indagini, signor Landi!» tagliò, però, corto Guardalupi, con tono intimidatorio. «Dottor Costa, lei rimanga a disposizione, invece, ho alcune domande da farle».
Nel frattempo, era arrivato sull’aia anche il padre di Fiammetta e la giovane si era precipitata da lui con l’intenzione di riportarlo in casa, non senza, però, aver prima rivolto un sorriso di incoraggiamento al medico. Giacomo, che, come Marcello, aveva colto quel particolare, contrasse le labbra in una smorfia inquietante e si avvicinò all’uomo, sussurrandogli qualcosa nell’orecchio e facendolo rivoltare come se l’avesse trafitto con un pugnale.
«Non ti azzardare, maledetto, hai capito?!» gli sbraitò contro, allungando le mani per prenderlo, ma l’altro fu più veloce e riuscì ad allontanarsi in tempo, sghignazzando come una iena.
«Piantatela, o vi faccio arrestare!» intimò, allora, il commissario, seccato per essere stato distratto mentre cercava di organizzare gli interrogatori.
A quel punto, Marcello fece segno all’amico di seguirlo e, trovata una rientranza all’ombra del muro della villa, si misero lì. Non potevano andare via, dovendo anche loro essere ascoltati come testimoni, ma avevano entrambi alcuni sospetti e volevano iniziare il prima possibile a scambiarsi le prime impressioni sull’accaduto.
«Finalmente ho scoperto chi è l’uomo che ho visto l’altro giorno aggirarsi tra gli ulivi!» esordì il biondo, lisciandosi il mento, pensieroso. «Ma sono convinto che non sia lui il responsabile» aggiunse.
«Intendi dire che hai riconosciuto il dottor Costa?» domandò Gerardo, inarcando un sopracciglio. «In effetti, a pelle, sento anche io che non è lui il vero colpevole».
«Be’, diciamoci la verità: è il capro espiatorio perfetto.
Quando l’ho visto nell’uliveto, sembrava stesse indagando per proprio conto su questa strana epidemia, ma qualcun altro potrebbe aver frainteso le sue intenzioni, vedendoci del maligno».
«Già. Ho visto che la gente del posto è piuttosto suggestionabile» commentò Gerardo, leggermente soprappensiero, forse ripensando alla reazione che aveva avuto la gente di fronte alla notizia della morte di Ivano Berti, davvero simile a quelle che il popolo manifestava all’epoca della caccia alle streghe. «Che indecenza, Giacomo e Pierpaolo hanno accusato un innocente, dopo aver lasciato morire un povero malcapitato per rendere più credibile la loro farsa!» concluse subito dopo, abbandonandosi ad un gran sospiro.
«Probabilmente, il dottor Costa è vicino al mettere fine a tutto il melodramma e i Landi si sono sentiti minacciati» sintetizzò Marcello, cominciando a passeggiare avanti ed indietro, nel tentativo di mettere in ordine gli indizi che avevano raccolto fino a quel momento. «Ora, mi chiedo cosa faranno quando la scientifica fornirà a Guardalupi i risultati delle analisi, svelando che le piante di ulivo sono perfettamente sane».
«Hanno sicuramente in mente un piano» replicò Gerardo, guardando seriamente l’amico, «e vanno fermati prima che possano metterlo in atto».
***

Vittoria scese la scalinata che portava in giardino come una furia, reggendo tra le mani un mazzo di rose rosse avvolto in una fascetta dorata. A passo di marcia, si diresse verso l’enorme cassonetto verde dove il giardiniere era solito mettere i rametti potati dagli arbusti e le erbacce strappate qua e là e vi gettò lo scandaloso regalo che le aveva fatto Giacomo.
Quel tipo non la convinceva affatto: aveva uno sguardo lascivo e, allo stesso tempo, minaccioso, tanto che non si sarebbe meravigliata se si fosse rivelato affetto da un qualche disturbo mentale di natura sessuale. Nella sua mente, infatti, nonostante all’epoca dei fatti fosse stata solo una ragazzina, era ancora vivo il ricordo delle macabre vicende del massacro del Circeo e del mostro di Firenze3 e, inoltre, la sua deformazione professionale le suggeriva che non sarebbe stato saggio sottovalutare un potenziale maniaco.
Scrollando con forza la testa per far uscire quei pensieri così macabri, Vittoria lanciò un ultimo sguardo schifato ai fiori e richiuse con forza il coperchio del bidone dei rifiuti, come se temesse che potesse riaprirsi e ributtare fuori ciò che vi aveva nascosto, rivelando il suo piccolo e terribile segreto. A quel punto, esausta, si sedette sulla panca sotto al gazebo, appoggiando le braccia sul tavolino e sprofondando tra di esse, in cerca di un attimo di pace: paradossalmente, se si fosse disfatta di un cadavere - soprattutto se fosse stato quello del suo odioso e perverso ammiratore - si sarebbe sentita più in pace con la propria coscienza e meno in difficoltà nei confronti di Gerardo.
Il solo pensiero che il giovane potesse venire a conoscenza di ciò che era successo al porto, infatti, la rendeva inquieta e angosciata, perennemente in bilico tra il senso di colpa per non avergli detto subito tutta la verità e la paura che il suo ragazzo potesse sentirsi tradito e, quindi, decidere di lasciarla.
Sapeva perfettamente che Beatrice aveva ragione quando sosteneva che dovesse raccontargli tutto, ma non era semplice scegliere il modo, il momento e, soprattutto, le parole migliori per farlo. Purtroppo, quando aveva detto quella bugia, non avrebbe mai potuto immaginare che Giacomo si recasse a casa dell’amica così spesso e così una piccola menzogna detta a fin di bene le si era ritorta contro...
«Eccoti, finalmente!» esclamò Gerardo, sbucando da dietro la siepe di alloro e facendola sobbalzare. «Ti ho cercata ovunque, non riuscivo a trovarti».
«Santo Cielo, Gerardo!» esalò Vittoria, con entrambe le mani contro il petto, riprendendosi a stento dallo spavento. «Non puoi farmi prendere un accidente in questo modo!»
Dal canto suo, quello si mortificò subito, assumendo un’espressione dimessa.
«Scusami tanto, non volevo» fece, a bassa voce, rimanendo in piedi in mezzo al prato.
Mordendosi il labbro inferiore, la giovane lo guardò per qualche istante, disprezzandosi da sola: era solo colpa sua se aveva la testa altrove e non riusciva a venir fuori dal pasticcio che aveva combinato, Gerardo non c’entrava nulla e non meritava certo di essere trattato male.
«No, scusami tu...» mormorò, alzandosi dalla sedia per raggiungerlo, «ero solo soprappensiero, tutto qui» si giustificò con una debole alzata di spalle.
«Eppure siamo in vacanza, non dovresti rilassarti un po’?» le chiese subito lui, confuso, avendo colto l’agitazione che permeava le sue parole.
«Mmm, sì».
Non molto convinto da quella risposta titubante, il ragazzo scosse la testa, tuttavia decise di non approfondire il discorso.
«Comunque, ero venuto per invitarti a cena: Beatrice mi ha parlato di un eccellente ristorante che dà sul mare e ho pensato che questa fosse la serata giusta per provarlo, dato che oggi non ci siamo praticamente visti» le propose, prendendola per mano. «È stata una mattinata faticosa, ma forse Marcello ed io siamo vicini al risolvere diversi misteri e devo assolutamente raccontarti cosa abbiamo scoperto».
La giovane, però, non ascoltò nemmeno una parola, presa com’era dalla sensazione della mano di lui nella sua, così calda e affettuosa da farla sentire ancora peggio: Gerardo non meritava di essere tenuto all’oscuro dei tentativi di abbordaggio di Giacomo, aveva il diritto di sapere come l’aveva offeso e come l’aveva molestata, così da potersi far valere la prossima volta che si sarebbero incontrati. Se ciò non era ancora accaduto era solo da attribuirsi al caso, che, certamente, non sarebbe stato clemente in eterno.
«Vittoria, ti senti bene?» le domandò poco dopo lui, preoccupato, accarezzandole una guancia.
Davanti a quelle attenzioni così dolci, la ragazza non poté fare a meno di concedergli una tenera occhiata, sentendo di non meritare tutte quelle premure.
«Oh, sì, è solo stanchezza, non preoccuparti» sussurrò, abbozzando un lieve sorriso. Lui, però, non si lasciò convincere e volle controllare di persona.
«Non mi sembra che tu abbia la febbre» considerò, dopo che le ebbe appoggiato il palmo aperto sulla fronte e sulle tempie, per verificarne la temperatura. «Però, se non ti va di andare stasera, possiamo fare un altro giorno».
Vittoria scosse la testa, sottraendosi a quel contatto che le provocava una fitta di tristezza al solo pensiero che potesse essere uno degli ultimi.
«No, tranquillo, per me va bene».
Aggrottando appena la fronte, Gerardo scrollò le spalle, arrendendosi di fronte allo strano comportamento della fidanzata.
«Allora, vai a prepararti, così ci possiamo avviare, d’accordo?» le suggerì, poi.
In risposta, la ragazza annuì, sforzandosi di sembrare tranquilla, ma, senza che potesse evitarlo, prima che andasse via, il suo sguardo cadde ancora una volta sul bidone verde poco lontano.
***

Lo stretto corridoio, invaso dalle tende delle finestre sospinte dal vento, apparve a Marcello come un percorso ad ostacoli di quelli che si trovavano talvolta al parco giochi. Impaziente di riferire alla moglie tutto quello che aveva appreso nel corso della mattinata, mentre attendeva di essere interrogato dallo scrupoloso commissario Guardalupi, il giovane salì i gradini a due a due, diretto nel salottino di cui Beatrice stava rinnovando pian piano l’arredamento, certo che l’avrebbe trovata lì.
Infatti, la scorse già dal disimpegno antistante la stanzetta, mentre, raggomitolata sul divano, disegnava il modello di un abito sul suo blocco di fogli bianchi.
«Buonasera, Beatrice» la salutò, con tono dolce, intenzionato ad accompagnare quelle parole con un bacio. Tuttavia, fu freddato immediatamente dal distaccato atteggiamento di lei, la quale non proferì verbo, limitandosi ad alzare la testa per qualche istante, appena il tempo di lanciargli uno sguardo inespressivo, prima di rimettersi a lavorare al suo progetto.
Stupito da una reazione simile, il giovane si accomodò comunque accanto a lei e si prese qualche istante prima di riprendere a parlare, non riuscendo davvero a capire il perché di tanta ostilità da parte sua.
«Gerardo ed io siamo arrivati ad un punto di svolta» le annunciò, certo di comunicarle una buona notizia.
Beatrice, però, non sembrò dello stesso avviso, tanto è vero che lo liquidò con uno sbrigativo: «Buon per voi».
Sempre più stranito, l’altro decise di non perdere la calma e di riprovare ancora una volta con le buone, sperando di capire il perché di un simile trattamento.
«A dire il vero, credo che questo riguardi anche te» le fece notare.
La fanciulla, però, non sembrò essersi minimamente pentita, anzi, cominciò a tratteggiare il suo modello con talmente tanta foga che, di lì a poco, avrebbe certamente bucato il foglio con la punta della matita.
«Oh, non credo proprio» sbottò, acida.
A quel punto, anche Marcello decise di accantonare la diplomazia e, dopo essersi messo in piedi, si portò le mani sui fianchi e scrutò la moglie con gli occhi ridotti a due fessure, intimandole: «Beatrice, vuoi spiegarmi cosa ti è preso?»
«Assolutamente niente» fu la secca risposta della ragazza, sempre più inviperita.
«Allora, potresti anche smetterla di fare la bambina imbronciata, sai?» la rimproverò, assumendo un tono che, però, sarebbe più stato adatto ad un padre che ad un marito.
Si era appena reso conto del suo madornale errore, quando la fanciulla gettò sul divano, alla rinfusa, matita e blocco, scattando in piedi e trafiggendolo con uno sguardo gelido.
«Bambina imbronciata?!» ripeté, indignata. «Son giorni che mi ignori e siamo in viaggio di nozze! Come puoi pretendere che io faccia finta di niente e ti accolga a braccia aperte quando ti degni di ricordarti di me? Non sono una mocciosa che si deve accontentare di poco!»
In quel momento, una parte del giovane avrebbe davvero voluto chiederle scusa per quella frase infelice, tuttavia, dopo una breve lotta, in lui prevalse l’amor proprio, che gli fece buttare fuori le parole, senza che se ne rendesse nemmeno conto: «Be’, forse ti è sfuggito qualche dettaglio, ma sto lavorando per risolvere i problemi delle tue proprietà».
«Sì, certo» sbottò lei, agitando una mano come se fosse qualcosa di poco conto. «Marcello, non ti nascondere dietro ad un dito: l’ho capito che di me, in realtà, non te ne importa proprio nulla!»
«Come, scusa? Potresti ripetere?» sibilò lui, oltraggiato.
«Tu se’ sposato con il tu’ lavoro» lo incalzò ancora, ormai incapace di trattenere dentro tutta l’amarezza che aveva covato in quei giorni. «Con me hai solo voluto legalizzare l’unione, per portarmi a letto senza sentirti in colpa o senza infangare il tu’ maledetto onore!»
Se, invece di riversargli addosso quelle parole, lo avesse schiaffeggiato a più riprese, probabilmente a Marcello avrebbe fatto meno male. Gli parve, infatti, che gli fosse caduto addosso un pesantissimo telo di cui non riusciva a liberarsi e che lo stava soffocando poco a poco: non meritava quelle spregevoli calunnie, non lui che aveva sempre trattato Beatrice con rispetto.
«Dunque, è questo quello che pensi di me?» mormorò, mentre, lentamente, il dispiacere di essere stato etichettato così proprio da sua moglie lasciava il posto alla rabbia e alla ferma convinzione di essere decisamente meglio del ritratto che lei aveva appena dipinto. «Molto bene, basta dirle in faccia certe cose».
Incollerito, forse più con sé stesso per come aveva e stava gestendo la situazione, che con Beatrice, il ragazzo avvertì di star ascoltando, ancora una volta, il suo orgoglio e raggiunse in pochi passi la porta della stanza, intenzionato ad allontanarsene il prima possibile.
«Ed ora dove stai andando?» gli chiese la ragazza, però, con voce appena incrinata.
Ignorando quella piccola manifestazione di pentimento da parte di lei, il biondo si voltò e le riservò un’occhiata scettica.
«Non penso ti riguardi, Beatrice» le sussurrò, distaccato.
Stroncata da una risposta del genere, Beatrice indurì i tratti del volto e, prima che potesse ritornare sui suoi passi, rincarò la dose: «Sì, forse l’hai ragione, sai? La cosa buffa è che ci siam dovuti sposare per capire che non siam altro che due estranei!» 
«Infatti» approvò lui, sentendo le proprie viscere farsi sempre più contratte, forse ormai ridotte ad un unico ed enorme nodo. «E, visto che almeno su questo siamo d’accordo, credo che non abbiamo proprio nient’altro da dirci» aggiunse, furente, voltandosi, per poi farsi inghiottire dall’oscurità del corridoio.




***
Per la revisione di questo capitolo, ringrazio Lady Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la grafica del titolo è opera mia.
Grazie anche alla mia Anto per leggere sempre in anteprima tutto ciò che scrivo.
***

[N.d.A]
1. trasfusioni: per trasfusione non si intende solo di sangue, ma anche di tutti i suoi derivati. In questo caso, fattori della coagulazione;
2. Questura di Livorno: il territorio dell’Isola d’Elba dipende dalla provincia livornese;
3. ricordo... Firenze: le vicende del massacro del Circeo e del mostro di Firenze sono due avvenimenti di cronaca nera che risalgono, rispettivamente, al 1975 (il primo) e al periodo che va dal 1968 al 1985 (il secondo), ovvero quando Vittoria era bambina/adolescente. Entrambi sono stati caratterizzati da efferatezza, violenza e crudeltà a danno di donne. Le vittime del massacro del Circeo (una località in provincia di Latina) furono due ragazze della Roma bene, mentre, per quanto riguarda il mostro di Firenze, i delitti interessarono varie coppie appartatesi in campagna. Tuttavia, gli scempi e gli sfregi nel post-mortem furno compiuti principalmente sui corpi delle donne. Per chi fosse interessato, sul web ci sono numerose pagine che trattano di questi casi nel dettaglio, cosa che io ho deciso di evitare per vari motivi.
***


Bentrovati.
Prima che decidiate di linciarmi per l’immenso ritardo e per gli sviluppi di questo capitolo, ci terrei a precisare che mi è dispiaciuto tantissimo far litigare Marcello e Beatrice, ma, poiché tengo molto al realismo, volevo far vedere che anche nelle coppie più consolidate e ben assortite ci sono dei dissapori/momenti di crisi. Quindi, non è assolutamente un risvolto messo a caso oppure per allungare il brodo (anche perché questa storia è infinita già di suo).
Comunque, nel corso dei prossimi aggiornamenti avrete modo di vedere come si evolverà la faccenda.
A tal proposito, mi scuso davvero per le promesse non mantenute circa la cadenza regolare degli aggiornamenti, ma, purtroppo, in questi ultimi mesi me ne sono successe davvero di tutti i colori. Ciononostante, ho tutte le intenzioni di portare a termine questa storia a tutti i costi, anche perché manca davvero poco alla fine.
Come sempre, ringrazio chi è ancora qui, chi legge - anche in silenzio -, chi ha messo la storia tra le preferite/ricordate/preferite e chi mi ha lasciato un parere allo scorso capitolo (Aven, Anto, Balder Moon). In ultimo, vi lascio il link alla mia pagina facebook, dove potrete venire a dare un’occhiata qualora vi chiediate dove sia finita.
Auguri di buone feste e appuntamento a Gennaio 2017!
Halley S.C.

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Capitolo 23
*** Capitolo Ventitreesimo - Vento di Misteri ***


Vento dell'Ovest - Capitolo 23



- Capitolo Ventitreesimo -
Vento di Misteri




Q
uando Gerardo si era offerto di darle la prima lezione di nuoto, Vittoria si era rallegrata a tal punto da dimenticarsi completamente di Giacomo.
Qualche giorno prima, infatti, Beatrice le aveva parlato della spiaggia di Redinoce1, dipingendola come una località perfetta per imparare a nuotare, visto che si trovava in una posizione più isolata e, pertanto, meno frequentata dai turisti. Così i due giovani, dopo essersi riforniti di tutto l’occorrente, lasciarono la villa di buon’ora per recarsi a prendere la piccola e poco affollata navetta che li avrebbe portati a destinazione.
Una volta scesi dal mezzo, Vittoria riconobbe facilmente i punti di riferimento che le aveva citato l’amica: l’indicazione per l’isolotto della Paolina e, subito dopo, la strada sterrata circondata da piante di lentisco. Per giunta, anche altre tre persone che avevano fatto il viaggio con loro si avviarono in quella direzione, confermandole che stava procedendo correttamente.
Con un gran sorriso, la ragazza invitò subito Gerardo a seguirla, pregustando la deliziosa giornata che aveva davanti.
«Non avevo mai visto il mare di questo colore!» esclamò poi, quando, una volta raggiunto l’ultimo tratto dello scosceso viottolo, 
intravide tra la vegetazione quella meravigliosa oasi.
«Direi che Ostia non può assolutamente reggere il confronto» commentò, invece, il giovane, anche lui rapito dalle sfumature che dal verde acqua viravano al blu verso l’orizzonte.

Tra la spiaggia libera ed il minuscolo stabilimento balneare non si contava più di una dozzina di bagnanti, proprio come aveva previsto Beatrice, anche se Vittoria sperò che quell’esiguo lembo di terra rimanesse tale anche dopo le dieci o, peggio, nel pomeriggio.
I due ragazzi si sistemarono non molto distanti dalla battigia, stendendo entrambi due asciugamani uno sopra l’altro per attutire quanto più possibile il contatto con la dura ghiaia.
«Oggi il mare è perfetto per fare qualche bracciata» considerò il giovane, notando la completa assenza di onde.
«Questo mi rende più tranquilla» commentò lei, poco convinta, mentre estraeva una confezione di lozione solare dalla sua borsa di paglia e la porgeva al fidanzato. «Gerardo, mi aiuteresti a mettere la crema, per favore?» gli chiese, accompagnando le parole con un sorriso sottile.
Quello, di primo acchito, si limitò a sbattere le palpebre, per poi diventare più rosso del costume a pantaloncino che indossava. Tuttavia, anche se con una certa esitazione, alla fine non si sottrasse a quella richiesta e, dopo aver preso il flacone, si avvicinò a lei, che, nel frattempo, aveva slacciato il pareo, esponendogli la schiena nuda.
Il tocco delicato ed incerto di lui, benché tradisse il suo imbarazzo, le procurò subito un dolce piacere, mettendola di buonumore, poiché le suscitava un’incredibile tenerezza pensare che stava lottando contro se stesso per lei. 
Infatti, era l’unico uomo, oltre a Marcello, che riusciva a farla sentire a suo agio anche mentre era in due pezzi davanti a lui, poiché da anni Vittoria aveva rinunciato a frequentare le spiagge nei giorni e, soprattutto, nelle ore più affollate a causa delle battutine piccanti dei ragazzi e quelle velenose delle ragazze sulle sue curve naturalmente prosperose. Ovviamente, non aveva mai badato troppo ai commenti altrui, ma non sopportava comunque di essere oggetto di fantasie perverse o di insulti invidiosi a causa di un fisico che non aveva chiesto lei di avere. Anzi, quando era più piccola avrebbe preferito essere come le sue compagne di classe, che potevano permettersi di mettere magliette più aderenti o scollate senza sentirsi dare della poco di buono; poi, con il tempo, aveva impararato ad accettarsi.
«Appena avrai finito, ricambierò il favore» propose lei ad un certo punto e subito l’altro si bloccò, facendola ridacchiare al solo immaginarsi l’espressione sulla sua faccia.
Purtroppo, però, quei momenti di quiete terminarono presto, quando un fischio acuto trapassò l’aria e congelò Vittoria: aveva già udito molte altre volte quel suono così volgare, ma, in quel contesto, conosceva una sola persona che avrebbe potuto importunarla così. Un paio di secondi dopo, nel sentire una voce tristemente nota, ebbe conferma di ciò che più temeva.
«Ciao, bellezza» la salutò Giacomo, avanzando verso di lei con passo baldanzoso.
Irritato da quell’approccio, Gerardo chiuse con un colpo secco il tappo del flacone che aveva in mano e lo gettò su un asciugamano, per poi frapporsi tra la fidanzata e il nuovo arrivato.
«Fischia di nuovo alla mia ragazza e ti ritroverai con qualche pezzo in meno!» lo apostrofò, guardandolo in cagnesco. «Non ti bastano i guai che hai causato a tutta quella povera gente?»
Per nulla intimidito da tali parole, l’altro lo degnò appena di uno sguardo compassionevole, per poi spostare subito tutta l’attenzione sulla ragazza, che lo guardava senza riuscire ad emettere una sola sillaba, incapace di capire cosa avesse fatto di male perché quel depravato venisse a rovinarle una giornata che si annunciava perfetta.
«Non ti scaldare, le stavo solo esprimendo il mio apprezzamento, così, magari, riesco a convincerla a darmi una possibilità...» ribatté Giacomo, con estrema calma, sorpassando Gerardo e avvicinandosi sempre di più a Vittoria, «visto che è davvero sprecata per un cesso come te».
Il giovane si voltò appena, ma non rispose, aprendo e chiudendo spasmodicamente le mani, tremando da capo a piedi; Vittoria, invece, quando realizzò che il suo peggiore incubo stava per diventare realtà, si sentì mancare. Come aveva fatto il suo molestatore a scoprire dove si trovava quella mattina? Si era forse appostato fuori dalla villa per monitorare tutti i suoi spostamenti con l’intenzione di pedinarla non appena fosse uscita?
«Allora, bambola, hai pensato all’offerta che ti ho fatto quando ci siamo conosciuti?» esordì, infatti, subito dopo quello, piazzandosi davanti a lei e osservandola con una brama tale che lei ebbe la spiacevole impressione che la stesse spogliando con lo sguardo.
«Offerta?» ripeté meccanicamente Gerardo, stranito e sorpreso.
«Gerardo, io...» pigolò la ragazza in risposta, senza, però, riuscire a finire la frase.
«Un’offerta da non rifiutare» continuò, infatti, Landi, increspando le labbra in un sorriso sardonico. «Tour completo di Portoferraio, cenetta esclusiva e intrattenimento notturno compreso nel prezzo» snocciolò, con evidente compiacimento.
Disgustato, il ragazzo riservò alla sua compagna un’occhiata carica di rabbia e delusione che la freddò all’istante.
«Tu sì che hai il senso degli affari» affermò, invece, subito dopo, con tono lievemente ironico, rivolgendosi a Giacomo. «Davvero un’ottima proposta per promuovere il turismo, da vero responsabile d’albergo» sottolineò, lasciando intendere che non solo aveva riconosciuto il misterioso interlocutore di Vittoria al porto, ma che si era anche ricordato di ciò che lei gli aveva raccontato quando si era allontanato.
«Gerardo, non è come credi, io...» iniziò lei, tentennante, avvertendo di aver incominciato a tremare da capo a piedi, «p-posso spiegarti...»
«No, hai ragione» la interruppe l’altro, ormai rosso, ma in quel caso di rabbia. «Io credo sempre alle cose sbagliate, a cominciare dal fatto che tra te e me potesse funzionare sul serio!»
«N-No, non...»
«Per te sono solo un sempliciotto che può essere raggirato a piacimento, ecco qual è la verità!» continuò, furibondo, raccattando nel giro di pochi secondi tutti i suoi effetti personali, mentre la giovane avvertiva che il suo cuore, gonfio di dolore, stava per dividersi in due.
«Divertiti, Vittoria» concluse, prima di voltarle sdegnosamente le spalle. Tuttavia, prima di allontanarsi definitivamente, si fermò vicino a Giacomo e gli sussurrò con voce appena percettibile:
«Meglio essere un cesso che un morto di figa come te».
Quest’ultima provocazione lasciò sia il suo destinatario che la ragazza sorpresi, anche se per motivi diversi: il primo perché, probabilmente, non si aspettava una reazione così da parte sua, la seconda perché aveva capito che, per essere arrivato a tanto, il suo fidanzato doveva aver percepito la situazione come un vero e proprio tradimento.
«Gerardo, non mi lasciare sola!» gridò, allora, Vittoria, cercando di corrergli dietro, ma, prima che potesse fare qualsiasi altra cosa, fu prontamente fermata dal Landi.
«
Vuoi andartene proprio ora che nessuno ci disturberà più?» le chiese, stringendole con forza la presa intorno al polso.
«Non mi toccare!» gli ordinò lei, sibilando e cercando di divincolarsi, ma quello non sembrò aver sentito, perché rinsaldò la presa, facendola gemere di dolore. A quel punto, la furia omicida che aveva covato dentro di sé per tutto quel tempo esplose dirompente e la ragazza gli tirò un pugno in piena faccia, esattamente come gli aveva insegnato il signor Nardone, durante le lezioni che le aveva impartito ogni volta che Marcello aveva tardato nel terminare gli allenamenti.
La boxe non è uno sport solo per uomini, anche le ragazze devono essere in grado di difendersi” aveva saggiamente sostenuto più volte il vecchio pugile e Vittoria, dopo quanto accaduto, si ritrovò perfettamente concorde.
L’impatto fu talmente violento che Giacomo lo incassò malamente e barcollò, lasciando il polso della giovane e cadendo all’indietro, rotolando poi su se stesso, gemente.
«Ben ti sta, stronzo!» gli gridò dietro lei, incurante delle nocche dolenti, affrettandosi a ficcare tutti i suoi averi nella borsa di paglia e a riallacciarsi addosso il pareo lilla, per poi lasciare la spiaggia senza curarsi dei bagnanti che avevano assistito a quel grottesco spettacolo.
Sfortunatamente, quando arrivò sulla strada sterrata, la giovane si rese conto che, ormai, di Gerardo non c’era più la più piccola traccia: doveva essere già arrivato alla fermata della navetta e aver preso il bus per tornare a Marciana Marina.
Abbandonandosi ad un sospiro di dolore, allora, Vittoria rimase per qualche istante a fissare il terreno del viottolo, inaridito e spaccato dal sole, così simile alla sua anima in quel momento: il dolore che la stava dilaniando era tale, che non aveva nemmeno la forza di piangere.
Fu allora che avvertì il senso di colpa prendere il sopravvento sul suo cuore: se solo avesse avuto il coraggio di seguire il consiglio di Beatrice e confessare tutto a tempo debito, forse l’epilogo non sarebbe stato così amaro.
***

Sotto i riflessi rosati dell’aurora, Marcello osservò il sasso che aveva scagliato rimbalzare tre volte sul pelo dell’acqua, prima di affondare tra le onde come un naufrago, similitudine con la quale trovava una certa affinità. Infatti, era proprio così che si sentiva in quel momento, spaesato e sconsolato, in balìa di eventi sui quali non aveva potuto avere pieno controllo.
Per questo, dopo la seconda notte insonne trascorsa a rimuginare senza sosta nella stanza degli ospiti, non appena il cielo aveva assunto le tinte dell’indaco, il giovane aveva deciso di scendere in spiaggia e fare quattro passi accompagnato dalla brezza mattutina. Tuttavia, nemmeno l’aria mite era riuscita a lenire la mancanza di Beatrice e, così, l’unica cosa che gli era rimasta era starsene seduto sui ciottoli a guardare l’eterno infrangersi delle onde sulla battigia, deplorando il comportamento che aveva avuto nei confronti della ragazza. Infatti, sapeva di non aver tenuto una condotta esemplare, lasciandola sola per gran parte della giornata, mentre dava la caccia agli indizi per inchiodare i due Landi: si era lasciato prendere la mano, accecato dal desiderio di vedere quelle due piaghe marcire in galera per il resto dei loro giorni.
Ripensando a quei deficienti, il ragazzo sbuffò e raccolse da terra un altro sassolino, scagliandolo lontano con tutta la rabbia che aveva in corpo, anche se presto si rese conto che sfogarsi in quella maniera non giovava affatto al suo umore, poiché l’unica cosa che davvero l’avrebbe reso felice sarebbe stato fare pace con sua moglie.
Si chiedeva continuamente come stava, se anche lei stava soffrendo, se sarebbe stata incline a perdonarlo. Dal canto suo, Marcello
l’aveva già fatto, perché era più che certo che ciò che gli aveva urlato contro era stato dettato dalla rabbia e dalla delusione, esattamente come era successo a lui, che aveva permesso al suo orgoglio di avere la meglio su tutti i buoni, forti sentimenti che provava per Beatrice.

Sospirando, ad un certo punto il ragazzo si alzò in piedi e si scrollò la polvere dai pantaloni, senza, però, interrompere le sue riflessioni. Anzi, si ritrovò a pensare a quanto gli sarebbe piaciuto telefonare a suo padre per chiedergli consiglio, mentre la sua coscienza, invece, gli suggeriva che, quella volta, avrebbe dovuto cavarsela da solo.
In fondo, il signor Giancarlo gli aveva preannunciato, in maniera più o meno velata, che ci sarebbero state incomprensioni e bisticci, perché lo conosceva bene, senza contare che aveva alle spalle parecchi anni di matrimonio, per giunta con una donna che avrebbe fatto esaurire la pazienza del più mite degli uomini.
All’improvviso, però, un gemito soffocato lo distolse dai suoi pensieri, facendolo sobbalzare. Allarmato, si guardò intorno per cercare di capire la fonte di quel suono inquietante, ma fu solo aguzzando la vista che scorse in lontananza una figurina bianca che vagava senza meta nella pineta: sembrava in tutto e per tutto un fantasma e, se Marcello fosse appena meno coraggioso e razionale, sarebbe scappato a gambe levate. Invece, rimase immobile a fissare con curiosità quell’entità poco definibile, finché, quando quella inciampò e cadde rovinosamente a terra, svelando una cascata di capelli ricci, capì che si trattava di una persona in carne ed ossa e che somigliava tremendamente a...
«Vittoria!» esclamò il ragazzo, nel riconoscere l’amica, per poi affrettarsi a raggiungerla per aiutarla a rialzarsi dal suolo inumidito dalla rugiada notturna.
A quel richiamo, però, lei non si mosse e quando Marcello le fu abbastanza vicino si rese conto che era avvolta in un lenzuolo leggero e stava tremando.
«Per la miseria, che cosa ti è successo?» le chiese, prendendola per le braccia e sollevandola di peso per rimetterla in piedi, mentre la giovane alzava la testa e lo guardava inespressiva, sul volto i segni di un recente pianto. Dal canto suo, quella non rispose subito alla domanda, anzi, fece passare diversi istanti prima di decidersi ad aprire bocca.
«Gerardo non vuole più vedermi» sussurrò, infine, trattenendosi visibilmente dallo scoppiare in lacrime di nuovo.
«E perché mai?» domandò il giovane, stupito. «Avete litigato anche voi, per caso?»
«Sì, è successo ieri e...» Vittoria, però, si interruppe improvvisamente e fissò l’amico tra l’interrogativo e l’incredulo. «Come sarebbe a dire “anche voi”?»
A quel punto, il giovane sospirò rumorosamente e ammise: «Ho avuto una... piccola discussione con Beatrice».
In risposta, l’altra lo fissò, stralunata.
«Ah» si lasciò sfuggire.
«Oltre ad essere la villa degli esuli, allora questa è anche la dimora della discordia» commentò il biondo, concedendosi una stizzita alzata di spalle.
«Villa degli esuli?» ripeté l’amica, confusa, sbattendo le palpebre.
«Lascia stare, ti spiegherò tutto dopo» tagliò corto, però, il ragazzo. Poi, notando che l’altra stava ancora tremando, anche se era fine agosto, aggiunse: «Dai, vieni con me, hai bisogno di un tè per scaldarti, così mi potrai raccontare tutto».

Nonostante il forte desiderio di fare pace con i rispettivi partner, né Marcello, né Vittoria si sentivano emotivamente pronti ad affrontare Beatrice e Gerardo, così i due decisero di andare a fare colazione in un grazioso bar con gli ombrelloni verde scuro situato in piazza Vittorio Emanuele, poco distante dal litorale.
Essendo gli unici due clienti, ebbero anche la possibilità di scegliere il tavolino, optando per quello più vicino alla chiesa di Santa Chiara, che, con la sua facciata contornata da marmo rosa, dava allo slargo prospicente un’aria molto elegante.
«Comincia tu» fece la ragazza, tenendo le mani a coppa intorno alla tazza, dopo essersi rifocillata con qualche focaccina al miele e diversi sorsi di tè nero caldo.
«Be’, la mia situazione è molto semplice» cominciò lui, osservando una coccinella che correva sul tavolo di legno bianco. «Beatrice si è arrabbiata perché l’ho trascurata. Io le ho dato della bambina e lei mi ha rinfacciato di averla sposata solo per portarmela a letto».
«Sintetico fino all’osso, come sempre!» sbuffò Vittoria, incrociando le braccia e lanciando all’amico un’occhiata indispettita. Poi, però, si ammorbidì e commentò: «Comunque, non credo che lo pensi veramente».
Non del tutto convinto da quella risposta, il giovane inarcò un sopracciglio.
«Come fai ad esserne sicura?»
«In questi giorni, visto che eravamo da sole, ho avuto modo di conoscerla ancora meglio. Si capisce che ti ama moltissimo, ma è rimasta delusa dal tuo atteggiamento, che, per inciso, non è stato certo dei più affettuosi» spiegò lei, facendo una piccola smorfia.
«Sai bene perché mi sono comportato così» ribatté subito Marcello, convinto che non avrebbe potuto fare altrimenti. Tuttavia, quello che replicò l’amica lo fece tentennare.
«Ciò non toglie che avresti potuto organizzarti diversamente, perché il viaggio di nozze è importante per una coppia: è il momento per eccellenza in cui ci si scambiano coccole e tenerezze!» osservò, infatti, l’altra. «Per come la vedo io, Beatrice si è sentita ferita ed ha voluto, in un certo senso, vendicarsi, colpendoti nel tuo punto debole: l’onore».
A quel punto, ci fu un lungo silenzio, durante il quale il ragazzo si soffermò a pensare a quanto appena udito, finendo per concordare con l’amica: anche se non l’aveva fatto con cattive intenzioni, aveva anteposto il lavoro a sua moglie, lasciandola sola per troppo tempo.
«Voleva solo che reagissi e che le dimostrassi quanto l’ami» continuò, infatti, quella, inclinando la testa da un lato.
«Be’, tutto quello che ho fatto, è stato solo per lei... è ovvio che la amo...» borbottò lui, sempre più consapevole delle sue mancanze verso la consorte.
«Oh, Marcello, sei così inesperto di ragazze che mi fai tenerezza!» rincarò, allora, la dose Vittoria, trattenendo a stento un sorrisetto. «Sai, a quasi tutte piace che il partner riservi anche un altro tipo di attenzioni, come ad esempio, passare del tempo insieme. Beatrice non pretende chissà cosa, quindi potresti anche cercare di impegnarti un po’ di più» gli spiegò poi, lanciandogli un’occhiata eloquente.
«Se mi darà l’opportunità di rimediare ai miei sbagli, volentieri» sospirò lui, abbattuto. «Chissà che sarà di noi...» aggiunse, poi citando inconsciamente Battisti2.
«...lo scopriremo solo vivendo!» ribatté l’altra, canticchiando il verso successivo della nota canzone. «Sposarsi non è un punto di arrivo, ma solo l’inizio di tutto, di un nuovo percorso di crescita a due».
Colpito dalla semplice veridicità di quell’affermazione, Marcello comprese la vera natura del suo sbaglio e quale insegnamento prezioso ne avesse tratto; mentre faceva propria quella nuova consapevolezza, lasciò vagare per qualche istante lo sguardo sulla piazza, per poi tornare a concentrarsi sulla sua interlocutrice.
«Già, hai ragione» ammise.
«Una storia siamo noi, con i miei problemi e i tuoi, che risolveremo e poi...3» intonò, allora, Vittoria, facendo finta di avere in mano un microfono ed imitando Tiziana Rivale. Di fronte a tanta teatralità, il giovane alzò gli occhi al cielo.
«Quasi quasi ti propongo per condurre la prossima stagione di Discoring4» le fece. «Almeno canalizzeresti meglio il tuo estro canoro».
«Quanto sei antipatico!» ribatté subito lei, mostrandogli la lingua. «Prendimi pure in giro, ma ricordati che, senza i miei consigli, molte volte saresti stato perso!»
Non potendo negare, ma non essendo nemmeno disposto a dargliela vinta, il biondo si limitò a fissarla inarcando un sopracciglio ed increspando le labbra, mentre lei scoppiava a ridere. Tuttavia, di punto in bianco, il riso si trasformò in lacrime.
«Ed ora, perché stai piangendo?» domandò, sconcertato da
un cambio d’umore così repentino.
«Perché i fatti hanno dimostrato che i buoni consigli so darli solo agli altri!» gli rispose l’altra, disperata. «Nonostante il mio lavoro, non sono stata capace né di proteggermi dai miei ex, né di tenermi stretto l’amore della mia vita... che ora mi odia!»
E fu così che, incapace di trattenersi oltre, Vittoria raccontò a Marcello quello che era successo, dal nefasto incontro con il giovane Landi a Portoferraio, fino alla lite che aveva avuto in spiaggia con Gerardo il giorno prima.
Nella foga, parlò molto velocemente, mangiandosi anche qualche parola, ma lui non la interruppe nemmeno una volta, poiché non faticò ad immaginare come fossero andate le cose, essendoci Giacomo di mezzo. Alla fine, dopo aver ascoltato il doloroso racconto dell’amica, si alzò immediatamente e, facendo il giro del tavolino, la raggiunse, cingendole le spalle e stringendola affettuosamente.
«Gerardo non ti odia» le sussurrò, asciugandole una lacrima con il dorso della mano. «Non sarò uno psicologo, ma io penso che se la sia presa perché gli hai mentito, non per le avances di quella chiavica».
«Come se io fossi contenta di attirare l’attenzione di soggetti disturbati!» sbottò lei, tirando su col naso e spostandosi un ricciolo dalla fronte. «Sai bene quanto ho sofferto quando le nostre compagne del liceo mi chiamavano Vittroia, perché convinte che mi mettessi in mostra con i ragazzi».
«Già» mormorò lui, ricordando perfettamente le cattiverie che la ragazza aveva subito dalle coetanee fin dai tempi della scuola. In effetti, a pensarci bene, Marcello si rese conto che l’unica sincera amicizia femminile che aveva Vittoria era quella nata con Beatrice e lui, da uomo, si accorse che non riusciva davvero a comprendere come alcune donne potessero trarre piacere da pettegolezzi e maldicenze senza fondamento ai danni di altre esponenti del loro sesso.
«Quando ho sentito Giacomo parlare della fuga in Corsica, avrei dovuto far finta di niente!» esclamò la giovane, scuotendo la testa e richiamando l’attenzione di Marcello, che mise da parte i suoi pensieri per concentrarsi su quel nuovo indizio.
«Corsica?» ripeté, sorpreso.
«Sì, quell’idiota stava prendendo accordi con un pescatore per il trasporto, suo e di altri soci» spiegò subito l’altra, voltandosi appena per guardarlo negli occhi. «Anche se, in base a quanto ha riferito Fiammetta a Beatrice, i Landi, in realtà, stanno progettando una vacanza in Andalusia».
Animato da quelle interessanti rivelazioni, Marcello si tirò su di scatto, la mente già intenta a mettere insieme, una volta per tutte, le tessere di quel complicato puzzle. Prima di riappacificarsi con sua moglie, perciò, doveva trovare tutte le prove che le avrebbero consentito di riappropriarsi della tenuta, così, forse, sarebbe stata più incline a perdonare le sue mancanze.
«Credo sia arrivato il momento di andare a parlare con il dottor Costa» disse, lentamente, sempre più convinto che quell’uomo fosse l’unico in grado di fornire gli ultimi dettagli mancanti. D’altra parte, anche se non ne era certo, c’erano anche buone probabilità che il medico, indagando per proprio conto, avesse scoperto qualche altro misfatto di Pierpaolo e suo figlio e che, proprio per questo motivo, quei due si erano decisi a far ricadere su di lui i sospetti.
«Il dottor Costa?» domandò Vittoria, perplessa, alzandosi a sua volta.
«Sì, te ne parlerò strada facendo» gli rispose il biondo, sbrigativo, togliendo due banconote da diecimila lire dal portafoglio per metterle sotto al piattino del suo cappuccino.
«Sai dove abita?»
«Me l’ha detto Leonardo».
Dall’occhiata stralunata che gli rivolse l’amica, Marcello capì che Gerardo non le aveva raccontato molto e che sarebbe stato compito suo ovviare a quelle lacune.
«Ti racconterò anche di lui» si affrettò ad aggiungere, prendendola per mano e trascinandola dietro di sé. «Ora, però, andiamo!» la incitò, prima di correre via.
***

La casupola in cui viveva il dottor Costa sorgeva ai limiti della frazione abitata di Marciana Marina, un po’ in disparte rispetto ai complessi residenziali; era circondata da una recinzione arrugginita e un orto ben coltivato, ricco di piante ed alberi da frutto, tra i quali spiccava un grande castagno che sovrastava la piccola aia, dove passeggiavano indisturbate alcune galline.
I due giovani si avvicinarono al cancello malandato, ma, nonostante fosse aperto, esitarono nel procedere oltre.
«Non c’è il campanello» notò Vittoria, soffermandosi ad osservare la targa di legno su cui era stata pirografata la dicitura Dott. Mattia Costa - medico chirurgo, unica presenza su quei pali di metallo consumato. «Credi che dovremmo entrare e bussare direttamente alla porta?»
«Tecnicamente, è violazione di proprietà privata» rispose Marcello, spostandosi per verificare se l’uomo fosse nei paraggi, «ma non credo che abbiamo alternative» aggiunse, già con un piede dentro il cortile.
«Forse avremmo dovuto telefonare» osservò giudiziosamente la ragazza. «È un medico, qualcuno dovrà pur avere il suo numero!»
«La buona educazione è un lusso che, in questa situazione, non possiamo permetterci» sentenziò, però, l’altro, asciutto, avanzando deciso. Tuttavia, venne bruscamente fermato dall’amica, la quale lo trattenne con forza per un braccio.
«Vittoria, mi vuoi spiegare cosa ti prende?!» le domandò, sorpreso.
«Non puoi entrare in casa di uno sconosciuto senza sapere da che parte sta effettivamente.
In questo posto, io non mi fido più di nessuno» mormorò lei, lanciando alla casetta un’occhiata carica di sospetto. «Doveva essere la prima vacanza con Gerardo e, invece, è diventata un incubo!»
«Be’, ti ho raccontato quello che so sul dottor Costa, per cui...» iniziò lui prima di essere bruscamente interrotto con un gesto della mano.
«Certo, certo! Da quel che mi hai raccontato, sembra anche a me una brava persona, ma come fai ad essere certo che non sia in combutta con i due Landi? O, peggio, che non sia tutta opera sua?»
«Come prova, temo di avere solo la mia parola, signorina» rispose una voce. «Quindi, sta lei decidere se credere a me o alle calunnie di quelle serpi».
Immediatamente, i due si voltarono e, sotto il castagno, scorsero il medico che li fissava, reggendo in mano un cestino pieno di melanzane e peperoni gialli e rossi.
«Buongiorno, dottor Costa» lo salutò Marcello, mentre Vittoria, invece, gli riservava uno sguardo torvo. L’uomo, però, non si scompose, anzi, appoggiò il raccolto sul davanzale della finestra per andare loro incontro.
«Cosa posso fare per voi?» domandò gentilmente, guardando prima uno e poi l’altra.
«Avremmo bisogno di parlarle» rispose subito il biondo, pronto.
«E di cosa?» lo incalzò il medico, socchiudendo appena gli occhi.
«Vorremmo chiederle di darci alcuni chiarimenti riguardo... la rogna degli ulivi».
Nell’udire ciò, quello sollevò un sopracciglio e la sua espressione si indurì, scrutandoli a fondo, come se stesse valutando se assecondarli o meno. Rimase in silenzio per qualche secondo, poi, alla fine, scuotendo la testa, cedette.
«Venite in casa. È meglio discuterne dentro».
Così, dopo essersi scambiati un’occhiata d’intesa, Marcello e Vittoria oltrepassarono il cancelletto sconquassato.

L’interno della casetta era costituito da un unico grande ambiente comprensivo di una cucina in muratura, un tavolo con quattro sedie di legno scuro e due sofà posti accanto al caminetto. Le finestre semiaperte erano coperte da tende a motivi alpini bianchi e rossi, dettaglio che, assieme alla targa e al mobilio, rafforzò in Marcello la convinzione che il dottor Costa non fosse originario dell’Isola d’Elba, come sospettava dalla prima volta che aveva sentito il suo accento, che non era certo quello della zona.
«
Siete stati fortunati a trovarmi, il giovedì di solito sono in ambulatorio solo nel pomeriggio» spiegò, avvicinandosi al lavabo. «Accomodatevi pure» li esortò poi, indicando loro i divani, mentre svuotava il cestino nella vasca d’acciaio, già piena d’acqua.
I due non se lo fecero ripetere e presero posto l’uno accanto all’altra, in modo da poter seguire entrambi i movimenti del medico.
«Preferite un tè freddo al limone o un caffè?» domandò quello, preparando sul tavolo un vassoio e appoggiandovi sopra un piatto colmo di cantucci e amaretti.
«Per me niente, grazie» rispose secca Vittoria, che continuava a squadrarlo con diffidenza.
«Se volessi ucciderla, signorina, non si preoccupi, non l’avvelenerei in maniera tanto maldestra!» replicò subito il dottor Costa, voltandosi verso la credenza per prendere tazze e bicchieri.
Indispettita, la ragazza incrociò le braccia e sbuffò, mentre il giovane si lasciava scappare un sorriso divertito.
«Il tè freddo andrà benissimo» rispose, «anche per la mia amica».
Non passò molto che l’uomo li raggiunse nuovamente, portando i dolci, una brocca piena di un liquido ambrato e tre bicchieri di vetro decorati con disegni di frutti vari, poggiando il tutto su un tavolinetto coperto da un centrino color crema.
«Lei deve essere il marito della contessina Beatrice Tolomei» disse, rivolto al giovane, mentre si sedeva sul divano di fronte a loro.
«Sì, esatto, sono Marcello Tornatore» confermò lui.
«L’ho intravista l’altro giorno, alla villa dei Neri» proseguì l’altro, versando il tè ad entrambi. All’improvviso, però, alzò lo sguardo sulla giovane e rimase a fissarla finché lei, con estrema riluttanza, non si decise a presentarsi.
«Vittoria Farnese» borbottò a mezza voce.
Tuttavia, al medico dovette bastare, perché non fece alcuna osservazione sulla palese ostilità della ragazza nei suoi confronti; anzi, passò oltre.
«Cosa volete che vi dica di preciso?» chiese, guardando alternativamente i ragazzi, mentre si metteva più comodo, sprofondando tra i cuscini.
«Ecco, dottore, in realtà... vorrei sapere quando è cominciata tutta questa storia» avanzò Marcello, ponderando bene la scelta delle parole, visto che la possibilità di tirare le somme sulle sue indagini dipendeva dalle informazioni apprese durante quell’incontro.
«Lo ricordo come fosse ieri» cominciò l’altro, «era la seconda domenica di gennaio quando Pierpaolo Landi si è presentato da me chiedendomi di comunicare agli abitanti di Marciana Marina la pericolosità dell’epidemia che aveva colpito gli ulivi della tenuta dei Tolomei, espandendosi poi anche alle piante dei poderi limitrofi».
«E lei?»
«Ovviamente, non l’ho fatto, sia perché non avevo le prove, sia, soprattutto, perché Landi e suo figlio non mi sono mai piaciuti» spiegò, facendo una smorfia di disgusto.
Quelle nuove rivelazioni, che cozzavano con ciò che l’amministratore aveva sempre detto a Guido, suggerirono al biondo che, in realtà, Pierpaolo e suo figlio stavano tramando alle spalle di Beatrice e della sua famiglia da parecchio tempo.
«Un’altra cosa: che lei sappia, la proprietà di mia moglie era in difficoltà, prima che cominciasse questa vicenda?» domandò, allora, il giovane, sentendo che quella era la direzione giusta verso cui procedere.
«Affatto» rispose senza esitazione l’uomo, socchiudendo le palpebre. «Dopo ogni raccolto, il Landi riportava dal frantoio una quantità d’olio che tutto il paese avrebbe potuto farci il bagno per un anno intero».
Quella risposta appianò definitivamente qualsiasi perplessità, facendo, però, esplodere nella mente del ragazzo un’infinità di spiegazioni alle menzogne di Pierpaolo, prima fra tutte la volontà di appropriarsi indebitamente di gran parte della rendita annuale di Villa Paolina, approfittando dell’inettitudine di Guido. Tuttavia, ogni ragionamento venne prontamente interrotto da un’inattesa richiesta del dottore.
«Ora, invece posso farle io una domanda, signor Tornatore?» esordì, infatti, di punto in bianco, osservandolo severamente. «Come mai è venuto da me a chiedere queste informazioni accompagnato da una... amica, anziché da sua moglie, la legittima proprietaria?»
«Dottor Costa, non le permetto di fare simili insinuazioni!» insorse immediatamente Vittoria, indignata, scattando in piedi. «Noi non siamo amanti, io sono innamorata di un altro uomo e Marcello non potrebbe mai tradire Beatrice!»
«Sì, è così» confermò il ragazzo, notando il repentino imbarazzo del suo interlocutore, segno che quel rimprovero era stato più che sufficiente a mettere in chiaro le cose; pertanto, prese l’amica per un braccio e la costrinse a sedersi di nuovo.
«Sono certo che il dottore non voleva essere scortese» le disse, con dolcezza, cercando di placarla, ben sapendo quanto, in quel momento, fosse suscettibile a qualsiasi allusione alla sua infedeltà verso Gerardo.
«No, no, assolutamente. Anzi, scusate l’invadenza, in fondo non sono affari miei» ammise, infatti, subito dopo l’uomo, scuotendo nervosamente il capo e lasciando intuire quanto si fosse pentito di essersi eccessivamente sbilanciato nei giudizi.
«Appunto!» convenne lei con veemenza, agitandosi sul posto. «Io non potrei tradire il mio uomo nemmeno sotto minaccia!» continuò, alzandosi di nuovo in piedi, così che il biondo dovette costringerla a riaccomodarsi una seconda volta.
«Non tutti sono devoti come lei, signorina Farnese» commentò, allora, Mattia Costa, assumendo un’espressione addolorata e Marcello ebbe l’inspiegabile, ma istintiva sensazione che si stesse riferendo a Giacomo.
«Comunque, tornando a noi, credo che io e lei siamo arrivati alla stessa conclusione: gli ulivi sono in perfetta salute» intervenne lui, per cercare di riportare il discorso sul motivo principale della loro visita. «L’ho vista giusto qualche giorno fa, mentre staccava un rametto da un albero».
Di fronte a tale affermazione, il medico non sembrò affatto stupito, perché si limitò ad osservare attentamente Marcello; poi, si alzò e si diresse verso la mensola del camino per prendere la scarsella e la pipa. La preparò con grande cura e solo quando fu pronta tornò a rivolgersi ai suoi ospiti.
«Ho fatto alcune analisi sulle piante che dovrebbero essere infette e i risultati hanno confermato tutti la stessa cosa: non c’è la più piccola traccia di malattia» disse, con il cannello tra i denti, mentre si frugava nelle tasche per cercare la scatola con i fiammiferi.
«Come spiega, allora, la morte di quel bracciante?» gli chiese, allora, il biondo, seguendo i suoi movimenti con lo sguardo.
«Mio nonno era un medico condotto5 e mi ha insegnato a familiarizzare con gli assistiti» rispose quello, aspirando e soffiando per alimentare la combustione del tabacco, mentre nell’aria cominciava ad espandersi un odore pungente. «Conoscevo bene Ivano Berti, spesso ci ritrovavamo al bar a fine giornata assieme agli altri lavoratori. Inoltre, meno di un mese fa, la figlia più piccola ha avuto una severa bronchite, perciò negli ultimi tempi mi sono recato a casa loro quasi ogni sera, per accertarmi che la bimba si stesse riprendendo».
A quel punto, fece una pausa per concedersi alcune boccate di fumo più profonde, mentre i due giovani aspettavano in silenzio, senza osare muovere nemmeno un muscolo.
«Durante la mia ultima visita, mi ha chiesto un consiglio per un male che lo affliggeva, un dolore tremendo alla schiena, caratterizzato, inoltre, dalla comparsa di vescicole sulla pelle del dorso» riprese, poi, il dottor Costa, con calma, rimettendosi seduto.
«E... quindi?»
lo incalzò il giovane, impaziente di vederci chiaro una volta per tutte.
«Ovviamente, non è stato contagiato da nessun ulivo» affermò l’altro. «Ciò che penso, invece, è che Ivano Berti sia morto per un’encefalite da herpes zoster».
Per qualche istante si udì solo il chiocciare delle galline che razzolavano nell’aia.
«E sarebbe..?» domandò Marcello, corrugando la fronte.
«Oh, certo...» fece il dottore, togliendosi la pipa dalla bocca e scuotendo la testa, consapevole del suo eccessivo tecnicismo. «Ecco, avete presente il fuoco di Sant’Antonio
«Se non sbaglio, è una specie di recidiva che può colpire chi ha avuto la varicella6, presentandosi dopo diversi anni dalla malattia» intervenne, inaspettatamente, Vittoria, che da quando si era difesa non aveva aperto più bocca. Sorpreso, Marcello si voltò e la fissò, inarcando un sopracciglio, ma lei, in risposta, si limitò ad alzare le spalle, così il giovane arrivò alla conclusione che doveva aver appreso quelle informazioni in qualche corsia dell’ospedale dove lavorava.
«Esatto!» confermò l’uomo, annuendo. «È davvero raro che il virus si estenda fino al cervello, tuttavia è possibile. E, in tal caso, può casuare un’encefalite, che si manifesta con disorientamento, alterazione della personalità, allucinazioni. Ho sentito io stesso Ivano mentre vaneggiava».
Ci fu un altro momento di silenzio, durante il quale i ragazzi rielaborarono ciò che avevano appena sentito, prendendo coscienza di cosa significasse.
«In poche parole, ci sta dicendo che i Landi hanno lasciato senza cure quell’uomo, sfruttandone la morte a proprio vantaggio?» riprese il biondo, lentamente, orripilato, dando voce ai pensieri di entrambi.
«Purtroppo... sì».
In realtà, Marcello sapeva già da prima come stavano davvero le cose, ma era come se, dopo averne ottenuto la conferma, ai suoi occhi il crimine di Pierpaolo e Giacomo risultasse ancora più efferato.
Destabilizzato, fu riportato alla realtà solo dalla voce di Vittoria che, tremante, chiedeva al medico: «E se, invece... l’avessero portato in ospedale... avrebbe potuto salvarsi?»
«Su questo non mi posso pronunciare con certezza, signorina» rispose, però, l’altro, con una debole alzata di spalle, «ma Ivano avrebbe sicuramente sofferto meno. I Landi lo hanno isolato solamente per fomentare la paura nelle persone ed evitare un contagio di varicella tra i braccianti che avrebbe smascherato il loro piano».
Tuttavia, quella risposta non alleviò affatto l’angoscia dei due ragazzi, che non riuscirono a trovare parole per esprimere il loro stato d’animo.
«Dottore, lei ha riferito tutto questo alla polizia, dopo essere stato accusato?» domandò, infine, Marcello, riuscendo a malapena ad articolare la frase.
«Non ancora, ma non credo sia fondamentale, visto che il commissario ha richiesto l’esecuzione dell’autopsia» rispose quello, molto lentamente, incerto se aggiungere altro o meno e decidendo solo dopo qualche tentennamento di proseguire.
«Per giunta, Giacomo Landi sa cosa ho scoperto e mi ha minacciato: se avessi parlato, avrebbe fatto del male alla signora Neri, come se non l’avesse maltrattata abbastanza da quando l’ha sposata!» ringhiò, stringendo forte il fornello della pipa.
«E non trova, invece, che sia proprio questo il motivo principale per cui dovrebbe dire tutto quello che sa?» intervenne, allora, Vittoria, piegando appena la testa e rivolgendogli un’occhiata critica. «Quei due stanno rovinando la vita di quella povera ragazza e di un intero paese, senza contare che stanno organizzando una fuga all’estero e vanno fermati! Quando arriverà quel referto, potrebbe essere troppo tardi!»
Sorpreso da quelle informazioni, l’uomo sembrò combattere una breve battaglia interiore, che si concluse con un sospiro.
«Se le cose stanno così, non posso indugiare» acconsentì. «Spero solo che non accada niente alla signora Neri, altrimenti non potrei mai perdonarmelo».
Improvvisamente, complice l’insistente preoccupazione del medico per Fiammetta, Marcello colse il vero significato di ogni gesto e parola dell’uomo nei confronti della ragazza, a cominciare dal fatto che si ostinasse a chiamarla con il suo cognome da nubile: aveva un debole per lei. E il marito della giovane doveva esserne a conoscenza, visto che doveva averlo minacciato proprio quando gli si era avvicinato sull’aia, scatenando la violenta reazione dell’altro.
«Forse, dovrei raccontare alla polizia anche della dependance...» mormorò, poi, il dottor Costa, soprappensiero.
«Dependance?» ripeté Vittoria, sbattendo le palpebre, perplessa, mentre Marcello veniva richiamato nuovamente alla realtà.
«Sì, ogni volta che vado a trovare il signor Neri per sapere come sta dopo le trasfusioni, vedo Giacomo e suo padre che portano cassette piene di viveri in quella catapecchia che hanno dietro casa» le spiegò l’uomo, sospirando. «Poiché i magazzini sono da tutt’altra parte, ho sospettato che stessero tramando qualcos’altro e che... nascondessero qualcuno».

Qualche minuto dopo aver salutato e ringraziato il dottore per la sua disponibilità, i due giovani lo lasciarono con la sua rassicurazione che sarebbe andato immediatamente dal commissario. Marcello e Vittoria si ritrovarono, così, sulla strada di casa, intenti a tirare le fila del discorso.
«Dobbiamo scoprire chi si nasconde nella dependance della villa dei Neri!» concluse lui, infervorato dai fruttuosi risvolti che aveva avuto l’incontro appena concluso.
Tuttavia, Vittoria scosse il capo, per niente allettata da quella proposta.
«No, Marcello!» fece, ferma. «Lascia fare al dottore e alla polizia, noi ci siamo esposti fin troppo».
«Se tu non vuoi venire, non sei obbligata, ma io sento di doverlo fare» ribatté con forza l’altro, senza rallentare la propria andatura, mentre lei faticava per riuscire a stargli dietro.
«Sento che è pericoloso. Ti prego, lascia stare!» insistette ancora, ma invano.
«No, non posso, sono troppo vicino alla verità per tirarmi indietro» replicò di nuovo lui, sempre più determinato a scoprire a tutti i costi chi fossero i complici di Giacomo e Pierpaolo, anche perché aveva l’impressione che ci fosse un qualche collegamento con qualcuno che conosceva da ben prima di approdare sull’isola, ma che continuava a sfuggirgli. «E poi, si tratta solo di dare un’occhiata, senza contare che per i Landi è ormai finita: non appena Guardalupi ascolterà il dottor Costa, li farà arrestare immediatamente».
Davanti a tanta sicurezza, Vittoria si fermò in mezzo al campo che stavano attraversando e assunse un atteggiamento meditabondo, sfregando la punta della scarpa di tela blu sul terreno polveroso.
«Be’, forse hai ragione...» mormorò. Poi, alzò di scatto la testa e sorrise, lasciando intendere che aveva cambiato idea e che la curiosità aveva avuto la meglio sulla prudenza. «Siamo arrivati fin qui, sarebbe un peccato lasciar perdere ad un passo dalla fine, no?»
Marcello ricambiò il sorriso e, con un cenno del capo, la invitò a seguirlo ancora una volta.
«Allora andiamo!»
E così, entrambi ripresero la marcia con passo sostenuto, ignari, però, dell’ombra nascosta tra i cespugli di ginepro che li seguiva da lontano.
***

Erano appena le dieci di mattina, ma già Alberto Molinari non ne poteva più del sole ustionante, degli schiamazzi dei bambini, delle pietre che gli perforavano la pelle e della salsedine che gli si era depositata addosso.
Quando aveva accettato il consiglio di portare la consorte in vacanza a Marciana Marina, ascoltando i consigli del questore che glielo aveva descritto come un paesino tranquillo, non avrebbe mai immaginato che avesse una spiaggia così caotica.
«Qualcosa ti infastidisce, caro?» gli chiese, infatti, con dolcezza la moglie, richiamata dai continui borbottii di lui, alzando appena la testa dal lettino.
In risposta, l’uomo emise un grugnito e strinse ancor di più le braccia contro il petto, non cercando nemmeno di celare il suo disappunto, cosicché la donna sospirò e tornò ad occuparsi della sua tintarella.
Tuttavia, proprio quando la noia sembrava che stesse raggiungendo il culmine, un grido d’allarme richiamò l’attenzione dei presenti: «Al ladro! Al ladro!»
Immediatamente nell’abbacchiato commissario si risvegliò il senso di giustizia e questi scattò in piedi, guardandosi intorno per scorgere il potenziale furfante, individuandolo poco dopo in un ragazzo che correva nella sua direzione, stringendo contro il petto un oggetto piccolo e rosso, che, aguzzando la vista, non tardò a riconoscere.
«Un portafoglio!» esclamò. Poi, in una frazione di secondo, elaborò la strategia migliore possibile per fermare quel piccolo delinquente e la mise in atto: intercettò la sua traiettoria e gli fece lo sgambetto nel preciso istante in cui quello gli passò davanti.
Come aveva previsto, nella fretta della fuga, il ragazzo non notò il tranello ed inciampò, finendo dritto per terra, mentre il portafoglio rosso volava in una buca in prossimità della riva, spaventando i due bambini che la stavano scavando.
«Angela, vai a recuperare la refurtiva!» ordinò, imperioso, Molinari alla moglie come avrebbe fatto con i suoi sottoposti, mentre torceva malamente le braccia dietro la schiena del giovane e lo spingeva a terra, facendolo gemere.
Nel frattempo, dall’ammirato capannello di gente che si era riunito intorno a lui, qualcuno gli fornì dei lacci da scarpe con cui legare provvisoriamente le mani del ladruncolo.
«Adesso io e te andiamo a fare una bella visita al commissariato!» gli intimò, completata l’operazione, prendendolo per le spalle e tirandolo su con poca grazia, ignorando le sue proteste.
«Ecco qui, tesoro» gli disse la signora Angela, sopraggiungendo in quell’istante con in mano la refurtiva, proprio mentre arrivava anche la proprietaria della stessa.
«Grazie, grazie mille, signor...» annaspò quella, una donnina molto magra e dai corti capelli neri, senza fiato per la corsa.
«Sono il commissario Molinari, signora» la interruppe l’uomo, con tono fermo e risoluto, «e sarebbe il caso che ci seguisse anche lei, così da poter sporgere denuncia» le suggerì, torcendo ancora un po’ i polsi del malcapitato, facendolo ululare dal dolore.

Non appena Molinari entrò nel piccolo commissariato di Marciana Marina7, ebbe subito l’impressione che sarebbe stato il posto ideale in cui lavorare, poiché, nonostante fossero solo in servizio solo tre poliziotti, l’ordine e la diligenza con cui lavoravano costituivano un ottimo biglietto da visita: un agente, infatti, era impegnato a battere a macchina alcuni fogli, mentre un altro stava rimettendo a posto dei faldoni sugli scaffali ed un terzo, dai capelli biondo cenere, in borghese, era impegnato a studiare una cartina. Tuttavia, non appena si rese conto della presenza dei nuovi visitatori, quest’ultimo non esitò ad alzarsi per accoglierli.
«Buongiorno, sono l’ispettore Baccari» si presentò, con fare gentile. «Cosa posso fare per voi?»
«Buongiorno, sono il commissario Molinari» rispose in maniera distinta l’uomo, indicando la donnina e spingendo in avanti il ragazzo. «Qui ci sono la signora Ricci e questo farabutto che avrebbero qualcosa da raccontavi».
«Un collega!» esclamò Baccari, subito cordiale. «Molto bene. Prego, signora, si accomodi» aggiunse, mostrando alla donna una sedia vuota di fronte alla sua scrivania.
«Grazie mille» trillò quella, accomodandosi immediatamente.
«Pacini, occupati del ragazzo finché non avremmo capito cosa ha combinato» ordinò, poi, il poliziotto all’agente che stava rimettendo in ordine i faldoni, il quale, senza fiatare, eseguì prontamente, ammanettando il giovane e prendendolo in custodia, mentre quello, ormai rassegnato, non provava nemmeno a protestare.
Tutta quell’efficienza piacque moltissimo a Molinari, che si ritrovò a desiderare che Saverio avesse almeno un briciolo della diligenza del metodico ispettore.
«Chi è il commissario qui?» domandò, dando un’occhiata in giro, compiacendosi anche per come era ben tenuto l’ufficio, pulito e ricco di piante verdi.
Baccari, che si stava preparando a stendere la denuncia della signora Ricci, alzò la testa dalla macchina per scrivere e, prima di rispondere, si sistemò meglio gli occhiali.
«Vede, è il...» iniziò, interrompendosi subito. «Commissario, già di ritorno?»
Intuendo che già di ritorno non potesse essere certo il cognome del suo fortunato collega, Molinari si voltò verso la porta, scorgendo due uomini sulla trentina, di cui uno con un’aria molto familiare.
E fu proprio lui a parlare per primo: «Sì, a quanto pare, il dottor Costa stava venendo a trovarci di sua volontà».
«Giorgio?» domandò Molinari, incredulo, squadrando l’altro ufficiale di polizia da capo a piedi.
Quello, a sua volta, ricambiò con uno sguardo indagatore, socchiudendo le palpebre.
«Commissario Molinari?» chiese, infine, spalancando gli occhi, attonito.
«Che sorpresa trovarti qui!» commentò l’uomo, piacevolmente stupito. «Non sapevo che ti avevano già assegnato un commissariato tutto tuo... d’altra parte, già in accademia promettevi molto bene».
«È piccolino, ma ha il suo daffare» affermò Guardalupi, senza nascondere una certa soddisfazione. Poi, si rivolse al dottor Costa e lo invitò ad accomodarsi, sostenendo che sarebbe tornato da lui molto presto, quindi assegnò a ciascuno dei suoi sottoposti un ordine, per poi tornare a rivolgersi a Molinari.
«Commissario, se non le dispiace, potrei chiederle un parere su un caso abbastanza recente e piuttosto... complicato?»
«Certamente» rispose l’altro. «Di che cosa si tratta?»
«Mi segua nel mio ufficio, è una faccenda lunga da spiegare che sta mettendo a soqquadro tutto il paese» replicò Guardalupi, facendosi improvvisamente serio. 
Incuriosito e allettato da quelle premesse, Molinari lo seguì, certo di aver trovato un’interessante e fortuita alternativa ad un’altra tediosa mattinata sulla spiaggia.




***
Per la revisione di questo capitolo, ringrazio Lady Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la grafica del titolo è opera mia.
Grazie anche alla mia Anto per aver letto in anteprima.
***
[N.d.A]
1. Redinoce: è una piccola località situata sul versante nord dell’Isola d’Elba, a pochissima distanza da Marciana Marina. Ha una bellissima e piccola spiaggia, oggi dotata di stabilimenti balneari (anche se non molti), ma, all’epoca del racconto, era molto meno frequentata;
2. citando... Battisti: citazione di Con il nastro rosa di Lucio Battisti, appartenente all’album Una giornata uggiosa (1980);
3. Una storia... poi: citazione di Sarà quel che sarà di Tiziana Rivale, vincitrice del Festival di Sanremo del 1983; Vittoria canticchia questa canzone perché il titolo ed alcuni versi fanno assonanza con quelli di Battisti;
4. Discoring: si tratta di un programma musicale, andato in onda dal 1977 al 1989, durante il quale c’erano esibizioni di cantanti e classifiche dei brani più ascoltati della settimana;
5. medico condotto: fino alla legge del 1978, l’assistenza sanitaria di base non era appannaggio del cosidetto medico di famiglia, bensì del medico condotto, il quale aveva diverse competenze oltre a quella strettamente medica e, in taluni casi, poteva rivelarsi una vera e propria figura di riferimento per gli assistiti;
6. complicanza della varicella: l’herpes zoster non deve essere confuso con l’herpes comune, in quanto causato da un virus diverso (Varicella Zoster Virus vs Herpes Simplex Virus). La famiglia di appartenenza, però, è comune (sono tutti virus herpetici). In alcune persone, tra quelle che hanno già avuto la varicella, - per diversi motivi che che qui ometto per semplicità - può verificarsi la riattivazione del virus e, quindi, la comparsa di quello che viene popolarmente chiamato Fuoco di Sant’Antonio (molto doloroso e non scevro da possibili complicanze gravi, tra le quali, appunto, l’encefalite);
7. commissariato di Marciana Marina: ovviamente si tratta di un luogo di fantasia, visto che l’unico commissariato dell’Elba si trova a Portoferraio. Perdonate la “licenza poetica”, ma ho immaginato il commissariato di Guardalupi talmente nei dettagli da volerlo inserire a tutti i costi.
***


Innanzi tutto, buon inizio 2017 a tutti.
Come promesso, sono riuscita a pubblicare il nuovo capitolo e vi avviso che siamo ufficialmente a meno tre dalla fine. Vi anticipo che, nonostante cercherò di fare il possibile per fare prima, il prossimo aggiornamento cadrà a Marzo, visto che sono nel pieno della sessione invernale. Mi scuso con tutti voi, ma gli esami hanno sempre la priorità, purtroppo.
Ringrazio sempre chi legge in silenzio, chi con grande pazienza segue ancora il mio racconto, chi mi ha lasciato un parere allo scorso capitolo (Aven, Anto), chi ha messo la storia tra le preferite/ricordate/seguite, chi mi fa sapere cosa pensa di ciò che scrivo attraverso altre vie.
In ultimo, vi lascio come da routine la mia pagina facebook, dove presto troverete una piccola anticipazione del prossimo capitolo oppure potete usarla per tenermi semplicemente d’occhio, accertandovi che non sparisca nel nulla (come è accaduto troppo spesso).
Alla prossima!
Halley S.C.

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Capitolo 24
*** Capitolo Ventiquattresimo - Vento di Azione ***


Vento dell'Ovest - Capitolo 24



- Capitolo Ventiquattresimo -
Vento di Azione




L’
assenza di Marcello in ogni angolo della villa preoccupò non poco Beatrice che, dopo aver vagato in lungo e in largo per ben due ore alla sua ricerca, si sedette sotto ai pini con i gomiti poggiati sul tavolo e il mento tra i palmi aperti: suo marito sembrava essersi letteralmente volatilizzato.
Fu allora che, nella quiete della prima mattina, la ragazza si sentì ancora più sola ed in colpa per tutto ciò che gli aveva detto, ritrovandosi a riflettere sul fatto che stesse imparando sulla propria pelle quanto la rabbia e la delusione potessero essere le peggiori consigliere, rendendola cieca ed insensibile.
Improvvisamente, mentre se ne stava lì, meditando su dove potesse essere il suo consorte, udì una voce che la salutava: «Oh, ciao, Beatrice».
Subito, la giovane alzò appena la testa, distogliendosi dai suoi tristi pensieri e scorgendo Gerardo che si avvicinava a lei, sul viso un’espressione non molto dissimile dalla sua.
«Ciao» rispose, osservandolo mentre si accomodava anche lui al tavolo e si guardava intorno con fare rassegnato.
«Stai cercando la Vittoria, per caso?» gli chiese poi, intuendo che ci fosse qualcosa che non andava. Infatti, si accorse proprio in quel momento che, nel suo girovagare per la villa ed il giardino, non aveva incrociato nemmeno l’amica, nonostante a quell’ora fosse solitamente di ritorno dalla sua oretta di bagno di sole.
Prima di replicare, l’altro incrociò le braccia e vi sprofondò il viso. 
«Sì» fece la sua voce, soffocata, benché fosse abbastanza chiara da svelare la nota d’afflizione che la impregnava. «Sembra essere sparita nel nulla».
«Come Marcello» commentò Beatrice, cupa.
Per qualche minuto rimasero ognuno concentrato sui propri pensieri, lasciando che si udisse solo il cinguettio degli uccellini, dispersi tra i rami degli alberi. Poi, senza preavviso, Gerardo riemerse dal suo nido di depressione e puntò lo sguardo negli occhi blu della sua interlocutrice.
«Avete... litigato anche voi?» si azzardò a domandare, non senza un certo imbarazzo. 
In risposta, quella sospirò, annuendo, e il giovane decise di non indagare oltre, dimostrando ancora una volta la sua discrezione. In quel frangente, Beatrice si ritrovò ad osservarlo attentamente e a pensare che, prima di allora, non aveva mai avuto l’occasione di restare sola con lui a parlare di argomenti molto personali; ciò che la stupì, però, fu la sensazione di sentirsi completamente a suo agio, come se ce ne fossero state molte altre.
«Tu sapevi di Giacomo?» domandò tutt’ad un tratto il ragazzo, richiamando la sua attenzione.
«Sì» rispose lei, cominciando lentamente. «Per questo ho consigliato alla Vittoria di parlartene».
«Be’, non l’ha fatto» ribatté istantaneamente lui, guardandola torvo. «Ho scoperto che cosa era successo solo quando quello si è presentato in spiaggia e mi ha sbattuto in faccia quanto si sia divertito alle mie spalle» aggiunse, stizzito, allontanandosi dal tavolo con tutta la sedia e voltando la testa dall’altra parte.
Percependo più delusione e dispiacere che rabbia, la giovane tentennò per qualche istante prima di esprimere la sua opinione: «La Vittoria ha sbagliato, l’è vero, ma è stato solo percl’aveva paura di perderti».
«Mi sono sentito preso in giro» ribatté lui, piuttosto risentito.
In risposta, Beatrice indurì lo sguardo, sentendosi in dovere di prendere le difese della sua amica, non approvando la scarsa considerazione manifestata da Gerardo verso i sentimenti di lei.
«L’è stata molto male, sai? Non le fa certo piacere essere importunata dovunque vada» sbottò.
Tuttavia, il ragazzo non mostrò alcun mutamento, perché replicò: «Appunto per questo avrebbe dovuto parlarmene, non trovi?»
«Potresti anche cercare di metterti nei suo’ panni, per una volta!» insorse, allora, la fanciulla, scoccandogli un’occhiata di disapprovazione. «Non l’è facile come pensi, sai? Vorrei proprio vedere se ci fossi stato tu al su’ posto! Davvero credi che saresti stato così sicuro?»
A quel punto, la conversazione precipitò in un silenzio teso e i due giovani si scrutarono, immobili, per parecchio tempo. Perfino gli uccellini smisero di cantare, come se fossero anche loro in attesa di qualcosa.
Quel muto e statico scontro, però, si concluse presto con la resa di Gerardo, il quale chiuse gli occhi e sospirò, lasciando trapelare tutta la malinconia che, fino a quel momento, aveva confinato in fondo al suo cuore.
«No, anzi, penso proprio che sarei stato in difficoltà» ammise, finalmente, abbassando lo sguardo.
Sorpresa, Beatrice si sentì un po’ in colpa per essere esplosa in quella maniera, sapendo di aver esagerato.
«Mi spiace, non volevo essere scortese» si affrettò a dirgli, «ma ho visto quanto la Vittoria ha sofferto e so che non c’era malizia nel tenerti nascosta una cosa simile».
«Hai ragione tu» mormorò a sua volta il ragazzo, mesto. «La verità è che sono stato a contemplarla in disparte per così tanto tempo che non mi sembra vero che adesso stiamo insieme. Inoltre, mi sento così inferiore a lei che ho sempre paura che qualcuno possa portarmela via».
Poi, fece una piccola pausa, durante la quale ne approfittò per togliere due aghi di pino che erano caduti sul tavolo, gettandoli a terra. «Vorrei chiederle scusa, ma non so dove sia. Anche se penso che sia con Marcello» aggiunse, più rivolto a se stesso che alla sua interlocutrice.
«Dici?» intervenne, però, Beatrice, incuriosita da quel particolare.
«Oh, sì. Quando Vittoria aveva qualche problema sentimentale, cercava sempre lui ed io lo invidiavo da morire per questo» spiegò l’altro, con un’alzata di spalle, tornando a guardarla. «Solo recentemente, infatti, ho capito perché non sceglieva me».
In quel momento, tutta la tristezza per la lontananza del marito tornò a farsi sentire e la giovane pensò che Gerardo non era il solo a doversi scusare con qualcuno.
«Secondo te, Marcello riesce a perdonare chi l’ha ferito nell’orgoglio?» gli chiese, all’improvviso, serrando nervosamente le mani tra di loro. «Temo d’esser stata un po’ troppo... severa con lui».
Inaspettatamente, invece di risponderle subito, Gerardo la fissò per qualche secondo, immobile, prima di sciogliersi in un tenero sorriso.
«Se lo conosco bene come penso, ti ha già perdonata» le rivelò, dolcemente. «Probabilmente, ora è in un angolo a leccarsi le ferite, ma tornerà presto da te, ne sono certo. Anche se non sembra, non riesce a starti lontano troppo a lungo».
«Oh!» esclamò lei, arrossendo. Per un po’, rimase zitta, ma poi, avvertendo l’impellente bisogno di sfogare le sue angosce con qualcuno, proseguì: «Non l’avrei dovuto dirgli quelle cose brutte, ma mi sono sentita abbandonata e... non sono riuscita a trattenermi».
Il giovane tentò di rassicurarla, gentile: «Quando si butta sul lavoro, non c’è per nessuno. Tuttavia, si vedeva quanto teneva a risolvere l’intera faccenda al meglio solo per farti felice. Devi avere un po’ di pazienza con lui e vedrai che, per amor tuo, cambierà».
Abbastanza rinfrancata da tali parole, Beatrice si sforzò di sorridergli a sua volta, contenta di essersi aperta con lui e di aver intravisto, grazie alle sue parole, una speranza di poter ricucire il suo rapporto con Marcello.
***

La dependance di cui aveva parlato il dottor Costa si trovava in un boschetto di querce, non molto distante dalla villa dei Neri. Dall’esterno, sembrava una casetta di legno abbastanza malmessa: quasi tutte le assi delle pareti erano crivellate dalle tarme e i vetri delle finestre erano opachi e scheggiati; in un angolo, erano ammucchiate le cassette di plastica nera che sarebbero dovute servire per la raccolta delle olive.
I due giovani erano rimasti per un po’ nascosti tra gli alberi, ad osservare il circondario, pronti a rilevare anche il più piccolo movimento sospetto o rumore proveniente dalla catapecchia, senza tuttavia riportare alcun risultato.
«Non sembra una dimora molto accogliente» commentò Vittoria, lanciandole uno sguardo compassionevole. «Secondo me, ammesso che ci sia stato qualcuno, deve essere andato via il prima possibile».
«Avviciniamoci con cautela, che ne dici? Solo così potremo scoprire se è davvero abitata» suggerì, allora, Marcello, lasciando il suo nascondiglio e procedendo verso quell’ammasso di vecchio legname. «Stai dietro di me» ordinò poi a Vittoria, afferrandola per un polso e costringendola a mettersi alle sue spalle.
Si sentiva responsabile nei suoi confronti e sapeva che, se le fosse successo qualcosa, Gerardo non glielo avrebbe mai perdonato, anche se, ovviamente, sarebbe stato lui il primo a sentirsi in colpa.
Avanzarono lentamente, con estrema cautela, attendendo diversi secondi tra un passo e l’altro, in costante allerta, ma, per fortuna, non accadde nulla e riuscirono a raggiungere senza intoppi la baracca.
«L’interno è buio ed i vetri sono sporchi» bisbigliò la ragazza, dopo aver lanciato una rapida occhiata, dondolando sul posto per cercare di vedere meglio.
Marcello stava per replicare che, forse, non c’era davvero nessuno, quando si udì un tonfo, seguito da un orrendo, cavernoso grugnito: «Basta con questi peperoni, Landi! Siamo su un’isola e non riesci a rimediare dei camarones
«Non è così facile pescare dei gamberetti, sai?» replicò, immediatamente, la voce di Giacomo.
A quel punto, i due giovani si guardarono e, capendosi senza proferire mezza parola, si sporsero quel quanto che bastava per avere una panoramica del piccolo porticato della casetta, senza essere visti. Fu allora che Marcello ebbe la conferma che, a pochi passi da lui, c’era l’uomo che più odiava al mondo e che aveva a lungo sperato di incontrare nuovamente.
«Questo passa il convento, Navarra» lo rimbrottò il giovane Landi, gettando ai piedi dell’altro il cestino colmo di vegetali, che si rovesciarono, spargendosi sul terreno spoglio.
Subito dopo, sbucò dalla casetta anche Pablo, puntando addosso al ragazzo la sua pistola. Quello, però, rimase impassibile e, anzi, attaccò di nuovo: «Non ti conviene ordinare al tuo scagnozzo di farmi fuori, Navarra. Sono l’unico che può aiutarti a lasciare l’Elba e farti tornare a casa».
«Certo! Lasciare questo sputo di terra per portarmi su un’altra isla!» berciò l’altro, tirando un calcio ad una cassetta di legno marcito, sfasciandola.
«Ti ho già spiegato» cominciò stancamente il ragazzo «che l’unico modo per rallentare la polizia è fare scalo in un altro paese, prima di raggiungere la Spagna. È una fortuna che ci troviamo a così poca distanza dal suolo francese».
L’uomo alzò lo sguardo su di lui, ma non replicò, fissandolo per qualche istante.
«Ecco come stanno le cose...» mormorò, allora, Marcello a Vittoria, mentre anche gli ultimi dettagli trovavano la loro collocazione all’interno del complesso quadro. Dal canto suo, lei si limitò a scuotere la testa, concentrata sui malviventi.
Trascorse qualche altro momento di esitazione, poi, alla fine, lo spagnolo fece segno a Pablo di mettere giù l’arma.
«Questa notte andremo via» annunciò Giacomo, accomodandosi su una vecchia sedia sgangherata, posta proprio accanto ad un palo di sostegno del porticato.
«Se così non dovesse essere, non ti risparmierò» decretò secco Navarra, spronando con un cenno del capo il suo collaboratore a rientrare in casa.
«La nostra parola non ti basta, forse?» domandò l’altro, provocatorio, assottigliando lo sguardo.
In risposta, lo spagnolo fece schioccare la lingua contro il palato e misurò a grandi passi lo spazio prospiciente la casetta.
«Mi avevate promesso molto, quando sono venuto qui lo scorso gennaio» esordì, parlando molto lentamente. «Il mio silenzio sui vostri imbrogli negli affari dei Tolomei in cambio di una bella quantità d’olio da rivendere come aceite verde de Andalucìa1. Peccato che non abbiate rispettato gli accordi».
«Frode alimentare!» esclamò Marcello, abbassando subito dopo il tono di voce, allarmato, sperando di non essere stato sentito dai due. «Cos’altro diavolo hanno in mente?»
Tuttavia, non ebbe modo di dire altro alla sua compagna, giacché il Landi si alzò in piedi e, piantandosi davanti allo spagnolo con le mani in tasca ed un’espressione strafottente sul volto, non tardò a dire la sua.
«Sai bene che abbiamo fatto di tutto affinché quell’uomo morisse la settimana prossima, perché così
avremmo avuto il tempo di organizzarci meglio» scandì. «Non è certo colpa nostra se ora abbiamo quel mastino di Guardalupi alle calcagna!»
«Una settimana in più non avrebbe comunque risolto il problema, le aceitunas non sono ancora mature» ribatté Navarra, accarezzandosi la barba e guardando minaccioso il suo interlocutore.
«Avrei lasciato delle istruzioni dettagliate a Fiammetta su come far arrivare le olive a Cordova» spiegò l’altro, scuotendo la testa con noncuranza. «Una volta convinti i braccianti che le piante erano infette, sarebbe stato un gioco da ragazzi farle raccogliere da gente fidata e appropriarsene».
A quel punto, Conrado estrasse da una tasca dei pantaloni un pacchetto di sigarette, mettendosene una tra le labbra. Poi, prese un accendino di latta e ne fece scattare il coperchio a poca distanza dal volto di Giacomo. La fiammella gli divampò davanti, ma quello non si mosse, anche se il suo volto tradiva la preoccupazione che lo tormentava dentro.
«Da quel che so, tu esposa non è dalla tua parte» commentò malignamente Navarra, accendendosi la sigaretta e sbuffando in faccia all’altro il fumo.
«Pur di non far morire il suo dottorino, avrebbe fatto qualunque cosa» replicò il ragazzo, tossendo e agitando una mano per dissipare velocemente la coltre grigiastra.
Allontanandosi di poco, lo spagnolo tirò qualche altra boccata, tenendo una mano in tasca mentre osservava con un ghigno ironico Landi, prima di replicare.
«Ho fatto bene a venire di persona ad accertarmi delle condizioni della tenuta dei Tolomei, ma non a fidarmi di voi» sentenziò, irritato.
«Be’, in fondo, il piano non era male» si giustificò il ragazzo. «Ti avrebbe aiutato anche a vendicarti di Tornatore, che ti ha soffiato la contessina».
Nel sentirsi tirare in ballo, Marcello si appiattì ancor di più contro la parete della casetta e sbatté le palpebre, scambiandosi subito dopo uno sguardo stupito con Vittoria, piuttosto agitata. Uno schianto, però, attirò nuovamente la loro attenzione: con un violento calcio, lo spagnolo aveva distrutto un’altra cassetta.
«Quel maldito!» latrò, digrignando i denti come una belva pronta a fare a pezzi la sua preda. «Se non fosse stato per lui, avrei avuto tutto questo e la bella Beatriz
Giacomo, però, non dovette essere d’accordo, poiché non perse tempo nell’esprimere il suo parere su un
argomento di cui si sentiva molto esperto.
«Non capisco davvero come faccia a piacerti quel pallido spaventapasseri dai capelli rossi» commentò, inconsapevole che Marcello, fremente di rabbia, fosse in ascolto. «Mio padre mi ha obbligato a far finta di farle la corte per portare zizzania tra lei e suo marito, ma, a dirla tutta... io preferisco di gran lunga la sua amica» aggiunse, infine, negli occhi un luccichio sinistro.
«Mi è arrivata la voce che anche Victoria Farnese è qui» affermò, allora, Navarra, piuttosto annoiato, scagliando il mozzicone nel fitto della boscaglia. «La conosco. La sua bellezza è all’altezza della sua fama, ma è una di quelle mujeres che hanno più tetas che cervello».
«Sì, è davvero ben fornita» confermò l’altro, sogghignando e gesticolando volgarmente per alludere alle forme della ragazza. «
Comunque, intelligente o meno non importa, visto che me la devo solo spupazzare un po’ prima di andarmene».
Indignata da quel disgustoso scambio di battute, Vittoria saltò su e si sarebbe fatta scoprire, se l’amico non l’avesse prontamente afferrata per un polso e costretta a tornare al suo posto.
«Lasciami!» soffiò, divincolandosi come una gatta imprigionata. «Devo andare a cavare gli occhi a quei due porci!»
«Ferma!» la riprese il biondo, cercando di bloccarla senza farle male. «Sei impazzita, per caso?! Vuoi farti uccidere?»
«Mi stanno insultando!»
«Lo so, ho sentito» bisbigliò lui, guardandola negli occhi con decisione. «E ti assicuro che pagheranno per ogni parola di troppo che hanno usato verso di te o Beatrice, ma ora, ti prego, calmati».
Dopo qualche secondo di esitazione, finalmente, lei smise di agitarsi, pur continuando a tremare per la frustrazione ed il ribrezzo.
«In questo momento non possiamo farci scoprire, ma non la passeranno liscia, te lo prometto» le disse ancora lui, con dolcezza, accarezzandole una guancia. Poi, tornò a concentrarsi sui due malviventi che, a pochi passi da loro, ridevano sguaiatamente delle loro sconce osservazioni e, nauseato, mormorò: «Dovremmo informare immediatamente il commissario Guardalupi...»
«Posso andarci io!» esclamò all’improvviso una voce, facendoli sobbalzare entrambi.
«Leonardo!» fece Marcello, convinto di essere prossimo ad avere un infarto. «Che cosa ci fai qui?!»
«Ti ho visto uscire dalla casa del dottor Costa e ti ho seguito» spiegò innocentemente il ragazzino, che non poteva immaginare di aver inconsapevolmente attentato alla vita dei due giovani.
«Così, lui è Leonardo...» commentò Vittoria con un filo di voce, ancora piuttosto provata.
«Sì, sì, le presentazioni a dopo» tagliò corto il biondo, riprendendo fiato appoggiato con la schiena alla catapecchia, attento a non far scricchiolare le vecchie assi di legno. «Comunque è una buona idea» se ne uscì dopo alcuni secondi.
«Quale?» chiese l’amica, lasciandosi cadere a terra, esausta, come se lo spavento preso fosse stato il colpo di grazia.
«Leonardo andrà alla villa ad avvisare Beatrice e Gerardo, mentre tu andrai dal commissario» espose Marcello, con sicurezza, guardando prima l’una e poi l’altro.
«E tu?» domandò lei, confusa.
«Io resterò qui» asserì lui. «Per quanto ne sappiamo, questi individui potrebbero lasciare presto il loro nascondiglio e non possiamo assolutamente perderli di vista».
«È una follia!» protestò la ragazza, recalcitrante, scuotendo la testa con vigore. «Come puoi pretendere che ti lasci da solo? E se ti dovesse succedere qualcosa?»
«Tranquilla, non mi succerà niente».
«È arrivato Highlander2!» replicò Vittoria, ironica, accompagnando le parole con una smorfia di disappunto. «Davvero credi di essere invincibile? E se dovessero spararti?»
«Prima andrai da Guardalupi, prima ridurrai le possibilità che mi spediscano al Creatore» ribatté, allora, il ragazzo, scoccandole un’occhiata risoluta.
Nel frattempo, Leonardo, in silenzio, aveva spostato lo sguardo alternativamente fra i due, seguendo interessato tutto il discorso, e proprio in quel momento si decise ad intervenire.
«Anche io voglio mandare in prigione quei brutti ceffi!» fece, contento.
«Molto bene, allora ti affido Vittoria, assicurati che raggiunga Marciana Marina, d’accordo?» gli disse Marcello, scompigliandogli i capelli.
Il ragazzetto, allora, lo prese in parola e diede la mano alla giovane ancora riluttante, invitandola ad alzarsi, anche se lei non sembrava troppo convinta.
«Marcello... stai attento» lo supplicò, infatti, guardandolo con malinconia e apprensione.
In risposta, quello incurvò appena le labbra, sapendo bene di non avere altra scelta.
«Adesso andate, non c’è tempo da perdere!» li incoraggiò lui, restando a guardarli mentre entrambi si allontanavano alla chetichella, accompagnati da un sottile venticello che sembrava spronarli a correre più veloci.
***

Molinari archiviò l’ennesima deposizione inutile, stropicciandosi gli occhi stanchi.
Aveva accettato di buon grado di aiutare Guardalupi a sciogliere i numerosi enigmi alla base di quella contorta indagine, tuttavia le numerose falle nella ricostruzione degli eventi stavano rendendo vano ogni suo tentativo di tirare le fila del discorso.
Dopo un lungo sospiro, lanciò un’occhiata angustiata al suo fedele block-notes e all’ordinata grafia con cui aveva preso qualche appunto, grattandosi una guancia con fare perplesso.
«C’è qualcosa che non va, commissario?» domandò il collega più giovane, smettendo di applicare le graffette ai numerosi fascicoletti che aveva davanti.
«Si tratta di un caso molto strano» commentò l’altro, versandosi un bicchiere di succo alla pesca, per poi cominciare a sorseggiarlo poco alla volta, passando ad un’altra deposizione. «Sembra, infatti, che non ci siano dubbi su chi siano i colpevoli, ma che, al tempo stesso, non vi siano le prove sufficienti per richiedere un mandato d’arresto».
Guardalupi confermò, annuendo brevemente.
«Sì, è proprio così».
«Quando hai detto che sarà pronto il referto dell’autopsia, Giorgio?» gli chiese, allora, Molinari, tracciando una linea divisoria perfettamente orizzontale sul foglio delle annotazioni.
«Ho parlato stamane con il medico legale e mi ha assicurato che farà di tutto per farmelo avere al massimo entro domani» gli rispose quello, con tono di voce sicuro.
«Però, secondo il dottor Costa, i due Landi stanno progettando una fuga che, per quanto ne sappiamo, potrebbero attuare prima della prossima alba» gli fece notare l’altro, tornando ad immergersi nelle sue letture. Era quasi convinto che, anche quella volta, avrebbe fatto un buco nell’acqua, quando lesse il nome del sottoscrivente del documento.
In quel momento, come un lampo rischiaratore nella notte, ebbe un’illuminazione e si tuffò immediatamente sul faldone che raccoglieva tutti i documenti sul caso, cercandone un altro. Quando lo ebbe trovato, si diede mentalmente dello sciocco per non averci fatto caso prima e per non aver prestato maggiore attenzione ad un dettaglio tanto rilevante: evidentemente, il suo cervello stava protestando per essere costretto a lavorare anche in vacanza.
«Che rapporti hanno il signor Tornatore e la signorina Tolomei con questa vicenda?» domandò, di punto in bianco, al suo collega, desideroso di avere un sunto di informazioni prima di procedere con i suoi ragionamenti.
«Lei è la proprietaria della tenuta dove ha avuto origine il focolaio epidemico. Lui, oltre ad essere suo marito, era presente al momento del decesso di Ivano Berti» snocciolò sinteticamente Guardalupi, accigliato. «Perché me lo chiede?»
«Sono mie vecchie conoscenze» fece l’uomo, accarezzandosi il mento, vagamente sorpreso nel ritrovare lì i due giovani. «Qualche mese fa la ragazza è stata rapita da un noto trafficante d’armi, un certo Conrado de Navarra».
«Sì, ne ho sentito parlare» affermò, allora, l’altro poliziotto, con una rapida scrollata di spalle. «Se non sbaglio, è ricercato in tutta Europa».
«Già» mormorò Molinari, soprappensiero. «È una coincidenza molto... buffa».
«Una volta, lei mi ha detto che non esistono le coincidenze» replicò subito il giovane commissario, inclinando la testa da un lato e puntandogli addosso la penna che aveva in mano.
«Sì, è vero» fece l’altro, sinceramente meravigliato da quell’osservazione. «Ricordi ancora quel corso d’addestramento ad Olbia con l’ispettore Jackson?»
«Certamente. Le sono molto riconoscente per i suoi insegnamenti» disse Guardalupi, sorridendo appena e senza la più piccola traccia di ruffianeria nella voce. «Mi sono stati molto ut...»
Tuttavia, non riuscì a terminare la frase, perché Baccari irruppe come una furia nel piccolo ufficio, travolgendo maldestramente il vaso della begonia che era accanto alla porta che si rovesciò, spargendo la terra sul pavimento.
«Scusi l’interruzione, commissario, ma è arrivata una ragazza che dice di avere informazioni importanti per le nostre indagini sul caso della rogna!» esclamò, concitato.
Lì per lì, Guardalupi lo fissò stralunato, ma presto superò il disorientamento ed incalzò il suo sottoposto a fornire ulteriori dettagli.
«Che cosa ha detto di preciso?» 
«I due Landi stanno per lasciare l’isola» rispose quello, pronto.
«Maledizione, vanno fermati immediatamente!» ruggì Molinari, scagliando con violenza la matita contro il blocco.
L’ispettore li guardò entrambi ed esitò, prima di proseguire: «Commissario, non è tutto... A quanto pare, con loro ci sono altre due persone pronte a salpare dall’Elba».
«E chi sarebbero?» domandò il superiore, sempre più meravigliato.
«Ecco, all’inizio mi è sembrato strano che fossero proprio loro, perciò ho fatto un paio di telefonate e...» cominciò il ragazzo, per poi fermarsi bruscamente e deglutire un paio di volte.
«Baccari, non abbiamo tempo da perdere!» gli abbaiò addosso Molinari, spazientito dalla lentezza della giovane recluta. «Dicci di chi si tratta!»
Scosso dal rimprovero, l’altro sobbalzò e si affrettò a dire tutto quello che sapeva.
«Sono due individui su cui pende un mandato di cattura internazionale: Pablo Cabrera e... Conrado de Navarra».
Nell’udire quei nomi, entrambi i commissari spalancarono gli occhi e si scambiarono un’occhiata incredula, per poi tornare a rivolgersi al loro sottoposto.
«Baccari, portaci subito la ragazza!» ordinarono all’unisono, perentori.
***

L’afa di mezzogiorno aveva reso incandescente la fatiscente casetta di legno, facendola sembrare molto simile ad una grossa fornace accesa, pertanto, dopo aver cercato di resistere, Marcello dovette arrendersi e cedere, accovacciandosi accanto alle cassette impilate davanti a lui, con la speranza di essere ben nascosto.
Da quanto erano andati via Vittoria e Leonardo non era successo niente di rilevante: Navarra aveva continuato a studiare quella che sembrava una cartina, seduto vicino a Pablo che intaccava pigramente alcuni rami con un coltello a serramanico. Di tanto in tanto, si erano detti qualche parola nella loro lingua che, però, il giovane, vista la lontananza e la sua scarsa conoscenza dello spagnolo, non aveva ben compreso.
Intanto, Giacomo era tornato un paio di volte alla villa per prendere bottiglie d’acqua fresca e cestini di frutta da servire agli accalorati ospiti e, magari, anche con l’intento di farsi vedere da Fiammetta e rendere così la sua assenza meno sospetta.
Tuttavia, proprio quando il biondo, considerata la situazione di indolenza generale, stava pensando di allontanarsi a sua volta e raggiungere l’amica al commissariato, giunse Pierpaolo, agitando una mano.
«Ottime notizie! Ho parlato con Ettore e mi ha confermato che è tutto pronto!» comunicò agli altri, gaio. «Ci aspetta a mezzanotte, al solito posto. Dopodiché, salperemo per Bastia».
Non avendo mai sentito prima parlare di quell’Ettore, Marcello ipotizzò che si trattasse del famoso pescatore menzionato da Vittoria, quindi abbandonò il proposito di andarsene e, incuriosito, rimase in ascolto.
«Muy bien» commentò, soddisfatto, Navarra, ripiegando la cartina e gettandola alla rinfusa sul rozzo tavolino. «Una volta a Cordova potrò smettere di nascondermi e mi vendicherò prima della espía e poi... di lui
«Sul serio vuoi metterti contro... quello?» fece Giacomo, impallidendo. «Non ti basta che ti abbia messo la polizia di mezzo mondo alle calcagna? Non hai visto che non si ferma davanti a nessuno?»
«Lo fermerò io» decretò lo spagnolo, spavaldo, gonfiando il petto.
«Secondo me, hai sbagliato ad inimicartelo. Non è stata una mossa molto furba cercare di imbrogliare uno come lui» insistette il ragazzo, rabbrividendo.
Nonostante Marcello sospettasse da tempo che Giacomo non fosse un cuor di leone, le sue reazioni di terrore lo lasciarono parecchio perplesso, soprattutto perché non riusciva a capire perché non chiamassero per nome l’uomo di cui stavano parlando. Certamente, doveva essere un tipo piuttosto pericoloso ed influente, se era riuscito a far diventare Navarra un ricercato internazionale.
«Ha fatto uccidere Felipe per essere sicuro che non parlasse!» latrò, allora, l’omone, facendo tremare la terra intorno a lui e richiamando l’attenzione del giovane. «Sarà la prima cosa che gli farò pagare!»
Fomentato da quelle rivelazioni sulla verità sulla morte del suo scagnozzo, Marcello drizzò la schiena e, nel farlo, urtò inavvertitamente una cassetta, facendola cadere con un tonfo su un’altra posta più in basso. Trasalendo, trattenne il fiato per qualche secondo, convinto che quei delinquenti gli sarebbero stati addosso in un batter d’occhio, ma così non fu.
Anzi, Navarra e Giacomo sembrarono non essersi accorti nemmeno del rumore, continuando a discutere come se nulla fosse.
«L’importante è che non parlerai di noi, quando ti troverai faccia a faccia con lui» intervenne, ad un certo punto, Pierpaolo, alzando la voce. «Ti stiamo aiutando, ma non vogliamo avere altri problemi, visto che è solo questione di tempo prima che la polizia scopra il nostro gioco con gli ulivi».
«Avete davvero poca spina dorsale» li canzonò lo spagnolo, mostrando loro un sorriso beffardo. «Ma non temete, amigos, perché sarò io a vincere e allora li ucciderò come bastardi!»
A quel punto, i due Landi si scambiarono un’occhiata nervosa, arretrando di qualche passo e mettendosi a parlottare tra di loro, mentre Navarra tornava ad occuparsi della sua cartina. All’improvviso, però, Marcello si rese conto che Pablo non era più seduto alla sedia, rimasta vuota in mezzo ad un mucchio informe di trucioli e schegge.
Fu in quello stesso momento che il ragazzo avvertì la spiacevole sensazione di avere qualcosa di freddo e metallico puntato tra le scapole.
«Muoviti o grida e sei muerto» gli intimò una voce bassa e gutturale, mentre qualcuno che lo agguantava malamente per una spalla e lo costringeva violentemente prima a mettersi in piedi e poi a voltarsi verso di lui.
«Conrado sarà muy felice de rivederti» continuò, facendo schioccare le labbra e atteggiandole a un sorriso sardonico.

Non appena Navarra vide spuntare Marcello da dietro la catapecchia, si concesse per qualche istante di assumere un’espressione alquanto sorpresa, mutandola poi in un autentico ghigno di compiacimento.
Giacomo e Pierpaolo, invece, strabuzzarono gli occhi e, consapevoli che ormai le loro trame erano state definitivamente svelate, si guardarono, preoccupati.
«Ho trovato questo ficcanaso che si godeva lo spettacolo!» annunciò Pablo con la sua pronuncia sibilante, spingendo senza riguardi l’ostaggio davanti al suo acerrimo nemico.
«Bene, bene, guarda chi si vede» fece quello, contraendo la bocca in una smorfia terribile. «In effetti, non è strano trovarti qui, visto che ti sei appropriato indebitamente della mia donna e di tutto quello che mi spettava».
Il giovane aprì la bocca per rispondergli che Beatrice non era affatto sua e che non lo sarebbe stata nemmeno se l’avesse ucciso, quando vide l’altro estrarre la pistola dalla fondina attaccata alla cintura e puntargliela contro.
«Tornatore, hai già detto le tue ultime preghiere?»





***
Per la revisione di questo capitolo, ringrazio Lady Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la grafica del titolo è opera mia.
Grazie anche alla mia Anto che legge sempre con interesse tutte le anteprime.
***

[N.d.A]
1. aceite verde de Andalucìa: si tratta dell’olio verde di Andalusia, specialità molto rinomata e provvista di certificazione DOP (Denominazione di Origine Protetta), pertanto, per essere tale, deve essere prodotto in questa r
egione a partire da olive locali;
2. Highlander: riferimento al film cult del 1986 “Highlander - L’ultimo immortale” e al protagonista Conner MacLeod (interpretato da Christopher Lambert), facente parte degli immortali, una stirpe di guerrieri destinata a rimanere sempre giovane. L’unico modo per ucciderli era la decapitazione con la spada.
***


Salve a tutti!
Non odiatemi, io amo i finali cliffhanger e credo che riservarlo al penultimo capitolo (ne manca uno solo, poi ci sarà l’epilogo) sia un accorgimento utile per lasciare un po’ con il fiato sospeso - come se non vi avessi lasciato abbastanza in sospeso, trascinando la pubblicazione di questa storia per ben cinque anni.
Come sempre, ringrazio chi legge, anche in silenzio, chi mi ha fatto sapere la sua sul precedente capitolo, chi ha messo la storia tra le preferite/ricordate/seguite.
Per leggere in anteprima un estratto del work in progress, mi trovate, al solito, sulla mia pagina facebook. Il prossimo aggiornamento dovrebbe arrivare tra fine Aprile/inizio Maggio, quindi abbiate fiducia.
Saluti e a presto!
Halley S.C.

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Capitolo 25
*** Capitolo Venticinquesimo - Vento di Confronti ***


Vento dell'Ovest - Capitolo 25



- Capitolo Venticinquesimo -
Vento di Confronti




D
al corridoio in cui si trovavano i due commissari proveniva un borbottio sommesso e incomprensibile che Beatrice aveva cercato più volte di decifrare, ottenendo, invece, come risultato solo un peggioramento del suo mal di testa. Avvertendo improvvisamente anche un fastidioso formicolio alle gambe, si alzò dalla sedia e mosse qualche passo, sperando di riattivarne la circolazione e di sfogare almeno in parte la sua inquietudine.
A poca distanza da lei, seduti l’uno accanto all’altra, c’erano Gerardo e Vittoria, entrambi
inespressivi, i volti terrei. Ogni tanto si scambiavano qualche parola, ma si vedeva che erano tesi, sia per la situazione precaria in cui si trovavano, sia per le loro discussioni irrisolte.
Dall’altra parte della stanza, invece, stretto tra i suoi genitori, 
c’era Leonardo, anche lui preoccupato per Marcello e unico tra tutti i presenti ad avere ancora il fiato per chiedere a voce alta, senza però ottenere risposta, come stesse il suo amico e se fosse in pericolo.
Quando il ragazzino era giunto alla villa, trafelato, annunciando cosa era successo, Beatrice si era sentita estraniata dal suo corpo, come se il suo peggiore incubo - il ritorno di Navarra e suo marito in pericolo di vita - fosse diventato realtà.
Pertanto, temendo di impazzire, aveva messo a tacere tutti i brutti pensieri
e, non volendo pensare alle conseguenze peggiori, iniziò ad autoconvincersi che il ragazzo sarebbe tornato da lei sano e salvo il prima possibile, perché, in caso contrario, non avrebbe sopportato che gli potesse accadere qualcosa senza aver prima fatto pace.
Istintivamente, mentre cercava di concentrarsi su quel poco di positività rimasta, si portò una mano al pendente a forma di farfalla, proprio mentre
il commissario Molinari giungeva a rompere quel clima di silente disperazione.
«Ciò che ci ha detto è stato molto utile» disse al dottor Costa, che lo seguiva, invitandolo ad accomodarsi assieme agli altri. Quello subito ubbidì, prendendo posto a tre sedie di distanza da quella occupata dalla fanciulla, anche lui tutt’altro che allegro. 
Poi, il poliziotto passò oltre e si avvicinò proprio a lei che, nel sapere che era lì si sentì subito più sollevata, poiché era convinta che fosse l’unico davvero in grado di arrestare lo spagnolo. Ovviamente, era rimasta parecchio sorpresa dal ritrovarlo a Marciana Marina, ma, vista la delicatezza della circostanza, non poteva esserne che contenta.
«Signora Tolomei, ha bisogno di qualcosa?» le chiese quello, preoccupato, non appena le fu davanti.
«No, no... sto... va bene così» esalò appena Beatrice, cercando di non far trapelare troppo la sua angoscia.
Per qualche istante, l’altro la squadrò attentamente, ma, alla fine, annuì, ritornando sui suoi passi.
«Perdoni la considerazione, ma... sembra quasi che lei e suo marito vi facciate sequestrare a turno» commentò, pensieroso. «Però, non si preoccupi, le garantisco che faremo di tutto per farglielo riabbracciare tutto intero al più presto».
Rincuorata dalla sicurezza dell’uomo, Beatrice abbozzò un sorriso, costretta ad ammettere con se stessa che, in effetti, viste dal di fuori, le loro vicende dovevano risultare alquanto bizzarre.
In quel frangente, arrivò Baccari, agitando un foglio di carta stampata.
«Commissario Molinari, sono appena arrivati i risultati della scientifica e da Livorno hanno dato il via libera: il mandato d’arresto arriverà, quindi possiamo agire!» esclamò, trionfante, l’ispettore. «Tuttavia, il commissario Guardalupi vorrebbe consultarsi con lei prima di entrare in azione e...»
«Resto sempre dell’opinione che la signora Neri non vada assolutamente informata, se non vogliamo compromettere la riuscita dell’operazione» lo interruppe il superiore, secco, mentre il dottor Costa, invece, sobbalzava sulla sedia. Dal canto suo, Beatrice aveva sentito il proprio cuore fermarsi, come se il pericolo fosse diventato improvvisamente più concreto.
Tuttavia, nessuno parve accorgersi dello sconforto dei due e, così, il giovane agente annuì con vigore, dileguandosi all’istante. Poi, Molinari si avvicinò ai genitori di Leonardo.
«Signori Foresi, voi potete andare» disse loro, con tono calmo. Quelli, però, lo guardarono perplessi e, allora, l’uomo aggiunse: «
Non c’è motivo per cui rimaniate qui. Nel caso dovessero essere ancora necessarie le vostre testimonianze, vi richiameremo».
«Io voglio solo sapere se Marcello sta bene...» intervenne, a quel punto, il ragazzino, alzandosi dalla sedia e osservando il poliziotto che, improvvisamente, si illuminò, capendo il motivo della loro ostinata presenza.
«Ti prometto che lo rivedrai» lo rassicurò, ammorbidendo l’espressione. «Ora, però, devi tornare a casa, perché, tra poco, questo commissariato pullulerà di delinquenti».
«Li metterà in prigione?» domandò Leonardo, spalancando i grandi occhi scuri, pieno di speranza.
Molinari annuì e affermò, con fare deciso: «Puoi contarci».
Allora, l’altro sorrise e, dopo essersi avvicinato ai genitori, disse loro appena qualche parola per farli alzare. Quindi, i due adulti salutarono l’ufficiale di polizia, per poi avvicinarsi a Beatrice e salutarla mestamente; al contrario, Leonardo, invece di trotterellare dietro ai suoi, tornò indietro e la abbracciò di slancio, staccandosi da lei solo al richiamo del padre, già fuori la porta.
La ragazza, dopo aver ricambiato la stretta come un automa, lo osservò allontanarsi, avvertendo che il calore che quello le aveva trasmesso si stava già dissipando nell’aria. Q
uell’attesa così snervante le stava prosciugando tutte le energie, facendola sentire sempre più stanca e provata ogni minuto che passava.
«Se volete, voi potete restare» disse, a quel punto, Molinari, attirando l’attenzione dei presenti. «Non devo farvi altre domande, almeno per oggi, ma penso proprio che non vogliate schiodarvi da qui, giusto?»
«Finché non sapremo come sta Marcello, non ci muoveremo!» esclamò subito Vittoria, seguita da Gerardo che, però, si limitò ad annuire.
Dopo aver fatto scorrere lo sguardo sui tre ragazzi, l’uomo si voltò verso il medico e, gentilmente, gli chiese: «E lei, dottor Costa, cosa ha intenzione di fare?»
Quello lo fissò con espressione vuota, come se non avesse capito, e fu solo dopo qualche istante che si decise a rispondere, con voce roca: «Io... vorrei rimanere».
Sospirando, l’altro fece una breve alzata di spalle in segno di approvazione. Tuttavia, aveva appena mosso qualche passo per tornare dai colleghi, quando fu richiamato dal dottore.
«Commissario, la prego... faccia in modo che non accada niente alla signora Neri».
Nell’udire tale richiesta, così apparentemente insolita, Molinari si fermò e riservò all’interlocutore uno sguardo indagatore; non fece, però, altre domande, anzi, in quel momento le rughe sul suo viso parvero distendersi.
«Non permetterei mai che rimanessero coinvolti civili innocenti» lo rassicurò. «Si fidi di me».
Allora, il medico chiuse gli occhi, espirando lentamente con la testa appoggiata al muro e il commissario, finalmente, uscì dalla stanza, la quale fu avvolta da un silenzio denso di inquietudine.
Beatrice lo trovò piuttosto spiacevole, giacché quella falsa tranquillità sembrava fomentare i pensieri negativi che, oramai, le stavano monopolizzando la mente.
«Non avrei dovuto lasciare Marcello da solo...» 
mormorò, all’improvviso, Vittoria, con voce frammentata, il busto rivolto in avanti, quasi a volersi rannicchiare su se stessa.
«Ti ha mandata via per proteggerti» le rispose Gerardo, talmente piano che le sue parole furono appena percepibili. «E sarebbe dovuto scappare anche lui».
«Son certa che andrà tutto bene» sussurrò, invece, Beatrice, forse più a se stessa che agli altri, avendo meccanicamente registrato ciò che era stato appena detto dai suoi amici. Poi, all’improvviso, si alzò in piedi e, sotto lo sguardo spento degli altri, si diresse nel piccolo giardino del commissariato.
Fu solo lì, all’aria aperta, una leggera brezza che le accarezzava le guance, che poté permettersi di piangere lacrime di sconforto e rabbia, rivolta sia verso di sé, per essere stata tanto infantile, sia verso suo marito e la sua tremenda caparbietà.
***

Marcello era seduto su una sgangherata cassa di legno ammuffito, talmente malridotta che il giovane, da quando l’avevano costretto a sedervisi sopra, non aveva smesso nemmeno un istante di chiedersi quanto potesse resistere prima di farlo capitombolare a terra. Infatti, nonostante non fosse in sovrappeso, non era certo una piuma, come gli ricordava puntualmente il signor Nardone ogniqualvolta lo iscriveva ad un incontro nella categoria dei pesi mediomassimi1.
Intanto, sotto il pergolato, Navarra e i due Landi stavano discutendo animatamente sulla sua sorte, apparentemente incapaci di mettersi d’accordo.
«Io propongo di portarlo con noi, ucciderlo non appena avremo preso il largo e poi disfarci del cadavere in mare aperto» propose Giacomo, lanciando al giovane un’occhiata astiosa.
«In tal caso, però, dovremo tenerlo nascosto per bene fino alla partenza» gli fece notare subito lo spagnolo, «visto che la polizia potrebbe venirlo a cercare».
«In Italia, la polizia non può fare niente finché non passano ventiquattro ore dalla scomparsa» si sentì in dovere di precisare Pierpaolo. «Per allora saremo già lontani».
«Se le cose stanno così, direi che avete ragione: non conviene ucciderlo subito, anzi... potrebbe perfino tornarci utile aiutandoci a trasportare qualcosa sulla barca!» sentenziò alla fine Navarra, ridacchiando, decretando la chiusura della questione e suggellandola con un ghigno mefistofelico.
In risposta ai macabri progetti che lo riguardavano, Marcello inarcò un sopracciglio e cominciò a guardarsi intorno per cercare qualcosa con cui recidere le corde che gli legavano i polsi dietro la schiena, poiché, nonostante fosse sicuro che Vittoria avesse già dato l’allarme, non ne poteva più di essere legato come un salame.
Così, mentre passava in rassegna tutto ciò che c’era nel suo campo visivo, notò, appesa alla parete anteriore della casetta, una vecchia falce arrugginita che, forse, non aveva perso del tutto l’antica affilatura. Certo, sarebbe stato difficile prenderla, senza contare i rischi che avrebbe comportato il tagliarsi con della ferraglia in quello stato pietoso, ma per quest’ultimo aspetto si augurò di essere ancora sotto la copertura della vaccinazione anti-tetanica.
Tuttavia, i suoi piani di fuga furono interrotti dalla risata cavernosa di Navarra, il quale si stava avvicinando a lui, sul volto una smorfia alquanto sinistra.
«Deve essere il mio giorno fortunato» disse, piantandosi davanti al giovane e sovrastandolo con la sua stazza massiccia. «Ho sempre sperato di poterti incontrare di nuovo, così da poterti spedire all’infierno».
«Sai, è parecchio strano, perché io potrei dire lo stesso di te» rispose subito Marcello, piegando le labbra in un sorriso strafottente.
A quelle parole, l’energumeno serrò la mascella e scoccò al ragazzo uno sguardo di fuoco, puntandogli contro la sua Colt .452.
«Ti sei preso gioco di me troppo a lungo» ringhiò, impugnando più saldamente l’arma e facendo scattare la levetta della sicura.
«Non puoi ucciderlo ora!» intervenne, però, repentinamente Pierpaolo, agitando freneticamente le braccia. «Qui intorno è pieno di bifolchi al lavoro che, appena sentiranno lo sparo, si precipiteranno a vedere che cosa è successo!»
Fortunatamente, quel richiamo fu sufficiente a fermare lo spagnolo che, dopo aver riflettuto per una manciata di secondi, abbassò il braccio. Poi, fece per andarsene, ma, inaspettatamente, si voltò nuovamente verso il biondo, avventandosi su di lui come una belva e colpendolo violentemente con il calcio della pistola.
Preso alla sprovvista, il ragazzo si ritrovò piegato in due, tramortito, e così rimase per qualche secondo, prima di sentirsi tirare bruscamente per i capelli.
«
Stai scherzando con la persona sbagliata, Tornatore» gli fece notare Navarra, mentre l’espressione ferina sul suo volto si dilatava.
Con la testa che gli pulsava, Marcello tossì, avvertendo un rivolo caldo che gli colava dall’angolo della bocca e gocciolava sulla maglietta bianca, chiazzandogliela di rosso.
«Ancora non posso ammazzarti, ma, nell’attesa, posso sempre torturarti» rincarò l’uomo, strattonandogli con forza le ciocche che aveva strette in pugno. «E lo farò lentamente. Beatriz faticherà a riconoscere i tuoi resti, se mai ti ripescheranno dal fondo del mare!»
A quel punto, con la coda dell’occhio, il giovane vide Pablo avvicinarsi e ridere con cattiveria alle parole del capo, mentre i due Landi, bianchi come due cenci, facevano saettare continuamente lo sguardo da lui allo spagnolo.
«Poi, quando le acque si saranno calmate, la farò rapire e così, finalmente, sarà mia! Sai, comincio a sentirmi solo, la noche» proseguì il malvivente, sogghignando, prima di strattonare un’ultima volta i capelli di Marcello e poi lasciarli andare. 
Dopo aver scosso la testa per schiarirsela, il giovane raddrizzò la schiena e riservò all’altro un’occhiata di odio, mentre, con atteggiamento di sfida, si passava la lingua sulla ferita, leccando via il sangue.
«Se oserai anche solo sfiorare Beatrice, tornerò dall’oltretomba e ti perseguiterò finché non morirai» sibilò, incapace di
reprimere l’impulso di fare a pezzi il suo carnefice, pur sapendo che avrebbe fatto meglio a tacere per non istigarlo ulteriormente. Sua moglie era abbastanza in gamba da potersela cavare anche senza di lui, tuttavia, se si fosse fatto uccidere, avrebbe tradito la sua fiducia, lasciandola sola di nuovo e questa volta per sempre.
Dal canto suo, l’altro, dopo essersi soffermato a guardarlo con aria di finta compassione, ghignò, beffardo, come se avesse aspettato solo un’altra provocazione prima di passare ai fatti.
«Allora, sarà il caso di spararti subito, così potrai cominciare a cercare la via d’uscita, non trovi?» gli disse, visibilmente compiaciuto, alzando il braccio armato.
A quel punto, Marcello deglutì, consapevole di essersela andata a cercare. Non si sarebbe mai umiliato supplicando il suo aguzzino di risparmiarlo, ma al contrario si augurò che Beatrice, un giorno, sarebbe riuscita a perdonarlo.
Istintivamente, allora, chiuse gli occhi per non vedere il trionfo di Navarra e, una frazione di secondo dopo, udì il fragore di uno sparo. Non passò molto tempo che ce ne fu un altro, al quale, però, come nel primo caso, non seguì il dolore causato da una pallottola conficcata nel petto.
Stordito, il giovane schiuse lentamente le palpebre, per poi aprirle di colpo quando si rese conto che Pierpaolo e lo spagnolo si stavano rotolando sul terreno, il primo che cercava di disarmare il secondo.
«Non erano questi i patti!» grugnì il Landi, cercando invano di contrastare la forza bestiale dell’avversario. «Adesso chiameranno la polizia e ci sarà addosso, abbiamo perso ogni vantaggio che ci restava!»
Nello stesso momento, poco dietro i due che lottavano, Pablo stava prendendo di nuovo la mira e, questa volta, non sbagliò il colpo, colpendo Pierpaolo alla spalla, il quale lanciò un grido straziante.
«Papà!» esclamò Giacomo, rimasto inerme per tutta la durata dello scontro, scattando verso il genitore, prima di venir bloccato dallo scagnozzo, che gli si era minacciosamente parato davanti.
Intanto, sotto lo sguardo incredulo e sempre più confuso di Marcello, Navarra si era rimesso in piedi. Soffiando come un mantice per l’affanno, l’uomo si affrettò a raccogliere la Colt per poi puntarla contro Pierpaolo, il quale, steso a terra, si lamentava, tenendo una mano insanguinata sulla ferita.
Improvvisamente, però, qualcuno tuonò: «Fermi, polizia!»
Fu un attimo: come se fosse stato lo spettatore di un film d’azione, il biondo vide i poliziotti addosso a Navarra, Pablo e Giacomo, inchiodandoli tutti a terra.
«La tua latitanza finisce qui, Conrado de Navarra!» sentenziò una voce estremamente familiare. Scuotendosi, il giovane mise a fuoco la figura che stava ammanettando l’energumeno e, con sua grande sorpresa, riconobbe il commissario Molinari. Il delinquente tentò invano di opporsi, ma l’altro strattonò verso il basso le braccia bloccate dietro la schiena, facendogli emettere un verso animalesco.
«Prova a ribellarti e ti spezzo i tendini!» lo redarguì, minaccioso.
«Vi ammazzerò tutti!» latrò in risposta lo spagnolo, livido in volto e con gli occhi fuori dalle orbite, agitandosi come una belva imprigionata.
Tuttavia, Molinari non si scompose minimamente, riservandogli, anzi, lo stesso trattamento di poco prima, ma questa volta imprimendo più forza.
«Grida ancora e ti staccherò le braccia!» gli intimò, sovrastando i suoi lamenti, prima di spintonarlo per farlo camminare.

«Qualcuno si preoccupi del ferito!» vociò a quel punto Guardalupi, mentre si occupava personalmente di Pablo e faceva segno ad un agente di portare via uno stravolto Giacomo.
Ancora piuttosto stordito, Marcello sentì qualcuno che armeggiava intorno ai suoi polsi in maniera decisamente più delicata rispetto a come era stato trattato fino a poco prima.
«Signor Tornatore, sono l’ispettore Baccari» gli disse con tono calmo e gentile il suo misterioso salvatore. «Qualche attimo di pazienza e sarà libero».
Nel giro di qualche minuto, il ragazzo avvertì le corde cedere e allora, finalmente, poté massaggiarsi le giunture dolenti e far roteare un poco le spalle per scioglierle. Infine, barcollando, si mise in piedi.
«Come si sente? Ha bisogno di un dottore?» gli domandò il poliziotto, sistemandosi gli occhiali sul naso e osservandolo attentamente.
«No, grazie... credo di potercela fare» rispose lui, anche se poco convinto.
In risposta, l’altro annuì e sorrise, prima di congedarsi e raggiungere i suoi superiori, impegnati nel distribuire ordini per concludere nel modo giusto quella delicata operazione.
Rimasto solo, Marcello prese coscienza solo in quel momento di ciò che era veramente successo e, strofinandosi la guancia con il dorso della mano per cercare di rimuovere il sangue coagulato, ringraziò Vittoria, Leonardo e il tempismo della polizia per avere ancora l’opportunità di fare pace con Beatrice.
***

Non sapeva per quanto tempo era rimasto ad osservare un ricciolo attorcigliato intorno ad un orecchino di Vittoria, ma, a giudicare dalla fievole luce che entrava attraverso le inferriate della finestra e si rifletteva sui muri bianchi della stanza, doveva esserne trascorso parecchio. L’ultima volta che aveva controllato l’orologio erano le cinque e, nel dargli una rapida scorsa, ebbe la conferma che erano da poco passate le sei e mezza del pomeriggio.
Ormai erano ore che lui e le ragazze aspettavano di poter parlare con Marcello, dopo aver ricevuto solo una rapida rassicurazione dall’ispettore Baccari riguardo le sue condizioni, e al fatto che, prima di poter andar via, avrebbe dovuto rispondere ad alcune domande.
Inoltre, il fatto che Molinari si fosse incaponito di far trasferire immediatamente Navarra e il suo sgherro a Rebibbia, così da potersi occupare personalmente del latitante cui aveva dato la caccia per mesi, aveva rallentato un po’ il lavoro di tutto il commissariato, poiché la Questura di Livorno, invece, aveva reclamato i due arrestati ed il diritto di condurre le indagini, finché non era intervenuto il questore Saltarini in persona, riuscendo miracolosamente a sbloccare la situazione.
Nel frattempo, a causa di una gravissima emorragia in corso, Pierpaolo era stato portato urgentemente agli Spedali Riuniti3.
In realtà, Gerardo non aveva capito granché di cosa era successo e le poche informazioni che aveva carpito dai dialoghi dei poliziotti gli avevano fornito un’idea molto generale della situazione, perciò era impaziente di riabbracciare Marcello anche per scoprire qualcosa di più al riguardo.
Stanco di aspettare, alla fine, il giovane diede una rapida occhiata a Vittoria, stravolta quanto lui, e poi passò a Beatrice, il cui pallore si era leggermente attenuato solo alla notizia che suo marito era ancora vivo e che Navarra, criminale destinato ad un reparto di Alta Sicurezza, sarebbe stato portato immediatamente a Livorno, senza transitare per quel commissariato.
L’unico rumore, perciò, era il lieve brusio di sottofondo, dovuto a Fiammetta e al dottor Costa che parlottavano in un angolo.
«Secondo te, quanto lo tratterranno ancora?» gli sussurrò, tutto d’un tratto, la fidanzata e Gerardo, non volendo dare a vedere la sua sorpresa, si prese un po’ di tempo prima di rispondere. 
«Spero non molto» sospirò, infine, voltandosi verso di lei ed alzando le spalle. La ragazza si soffermò a scrutarlo per qualche istante, ma, quando entrambi si resero conto che era la prima volta che si guardavano negli occhi da quando avevano litigato, si affrettarono a distogliere lo sguardo, imbarazzati.
Tuttavia, quel momento di disagio durò poco, perché presto si trovò a transitare per la stanza Giacomo, ammanettato e scortato da Baccari e dall’agente Teani, che lo teneva saldamente per un braccio. Il ragazzo sembrava preoccupato, forse per suo padre, per la sua situazione o per entrambi, ma ciò non gli impedì, quando scorse Vittoria, di fermarsi e tentare un ultimo, squallido approccio.
«Bambola, dovrai aspettare un po’ per il nostro prossimo incontro» le sussurrò, infatti, lascivo.
Immediatamente, l’ispettore lo strattonò indietro e lo ammonì: «Chiudi la bocca e cammina, perché i colleghi di Livorno non possono aspettare i tuoi comodi!»
Quello, però, rimase ben piantato ad osservare la ragazza che, a sua volta, ricambiava lo sguardo, sbigottita e scossa da un leggero tremore. A quel punto, Gerardo, accecato dalla rabbia, si alzò in piedi e si avvicinò all’altro a passo di carica.
«Adesso mi hai proprio stancato!» latrò, prima di sferrargli un pugno allo stomaco, talmente forte da farlo accasciare su se stesso. «Avvicinati ancora alla mia ragazza e ti farò ingoiare tutti i denti!»
«Si calmi!» intervenne subito Teani, tirando nuovamente su Giacomo senza alcun riguardo. «La giustizia farà il suo corso e quest’essere presto marcirà in galera».
«Ma la soddisfazione è un’altra cosa» replicò, allora, Fiammetta, giunta anche lei davanti al marito, assieme al dottor Costa, che rivolse al prigioniero uno sguardo disgustato. In quel preciso istante, calò il silenzio e nemmeno i due poliziotti osarono replicare.
«Ci sei anche tu? Non ti avevo vista» commentò Giacomo, deglutendo, prima di mostrare alla giovane un sorrisetto beffardo.
«Che novità!» insorse lei, furibonda. «È da prima di sposarmi che non mi vedi, preferendo la compagnia di altre donne!»
«Be’, direi che hai trovato la tua consolazione, però!» le rispose l’altro, indicando il medico con un astioso cenno del capo.
Adirata da quella considerazione, Fiammetta si mosse rapida e, senza che nessuno potesse impedirglielo, schiaffeggiò il ragazzo con tutte le sue forze, lasciandogli sulla guancia l’impronta della mano.
«S-Signora Neri...» balbettò Baccari, meravigliato da tanta foga, dando voce ai pensieri di tutti i presenti.
Lì per lì, Giacomo rimase intontito e, approfittandone, la ragazza gli urlò contro: «Questo è niente in confronto a tutto quello che tu e tuo padre mi avete fatto!»
Poi, trattenendo a stento le lacrime, indietreggiò e lasciò che il dottor Costa la prendesse tra le sue braccia per rassicurarla.
Allora, finalmente, i due poliziotti riagguantarono il giovane e, senza dire altro, lo portarono via.

Dopo la dipartita di Giacomo, Fiammetta e il medico decisero che era giunto per loro il momento di tornare a casa e, dopo pochi minuti, si congedarono.
Non appena furono andati via, Gerardo si voltò verso Vittoria, guardandola deciso. Lei se ne accorse subito e le sue guance si colorirono appena, anche se non cercò in alcun modo di evitare il contatto visivo.
«Lo so che Marcello è ancora dentro... ma non posso più aspettare. Dobbiamo parlare» affermò lui, serio, non volendo rinviare ulteriormente quel confronto incapace di essere in lite con lei. «Non penso che si dispiacerà se ci allontaniamo per qualche minuto».
«Ma... non possiamo lasciare sola Beatrice!» gli fece notare l’altra, sbattendo le palpebre, perplessa.
Proprio in quel momento, però, la fanciulla si mise in piedi e si avvicinò a loro, camminando ritta, un’espressione di dignitosa fierezza sul viso e Gerardo, nel vederla, si ritrovò a pensare che se non aveva preso parte all’alterco contro Giacomo doveva essere per pura stanchezza, non per paura.
Parlando con lei quella mattina, infatti, aveva capito che solo una donna della sua tempra avrebbe potuto catturare l’interesse del suo incontentabile amico.
«Non preoccupatevi per me, anch’io ho bisogno di prender una boccata d’aria» sospirò. «Se Marcello dovesse uscire, gli riferirò che lo avete aspettato».
«Grazie, Beatrice» le fece il giovane, riconoscente e quella, in risposta, abbozzò appena un sorriso.
A quel punto, Gerardo si rivolse a Vittoria, indicandole elegantemente la porta, per invitarla ad uscire e l’altra, dopo un breve cenno d’assenso, lo precedette.
***

Un gabbiano planò dolcemente sulla spiaggia di ciottoli, a pochi passi da Gerardo che, seduto su uno scoglio, osservava Vittoria passeggiare sulla battigia, immersa nel mare fino alle caviglie, tenendosi i capelli
con una mano per evitare che il vento, seppur leggero, glieli mandasse davanti agli occhi.
Non era stato facile trovare un posto tranquillo e solo il caso aveva voluto che quel piccolo lembo di litorale fosse rimasto incontaminato dal fermento che aveva investito Marciana Marina, in seguito alla recente retata alla villa dei Neri.
«A quest’ora l’acqua è caldissima» commentò la ragazza, tentennante, una volta che si fu seduta accanto a lui. «Sai, dovresti... provare anche tu».
Il giovane apprezzò il suo tentativo di approcciare un discorso e, incurvando le labbra, si voltò verso di lei.
«Possiamo tornare domani alla stessa ora per... la tua prima lezione di nuoto» la buttò lì. «Sempre che tu voglia ancora».
«Mi piacerebbe molto» rispose subito l’altra, abbozzando un timido sorriso incoraggiante.
Per un po’ rimasero entrambi in silenzio, assaporando quel clima di ritrovata serenità, avvolti dalla luce rosso-arancio del tramonto, così in contrasto con l’indaco del mare davanti a loro.
«A dire il vero, due giorni fa Beatrice mi ha chiesto se vogliamo restare qualche altro giorno, visto che la settimana appena trascorsa non è stata propriamente una vacanza» riprese Vittoria, lasciando diverse pause tra una parola e l’altra, come se ciò che stava dicendo fosse frutto di una lunga riflessione non ancora conclusa.
«Già» sospirò l’altro, in risposta, non potendo che concordare.
A quel punto, con uno scatto inatteso, la ragazza si mise in ginocchio sullo scoglio di fronte a lui e, dopo aver preso un bel respiro, si liberò di tutto quello che aveva dentro: «Gerardo, io... mi dispiace per quello che è successo. So che avrei dovuto raccontarti tutto, ma avevo paura che ti saresti arrabbiato... anche se poi è successo ugualmente».
Intontito da quella confessione impetuosa ed improvvisa, così tipica di lei, il giovane impiegò appena qualche secondo per rendersi conto che non solo l’aveva perdonata da un pezzo, ma che sentiva anche il crescente bisogno di scusarsi a sua volta.
«Ho sbagliato anche io. Non avrei dovuto aggredirti, soprattutto perché, dentro di me, in realtà ero certo che non avessi incoraggiato quell’idiota» ammise, infatti, subito dopo.
«Certo che no!» esclamò l’altra, intristita. «Sapessi cosa mi hanno detto alle spalle lui e Navarra, questa mattina!»
«Posso immaginare» bofonchiò tra i denti lui, e, rimpiangendo di essere stato fin troppo magnanimo nei confronti di Giacomo, aggiunse: «Peccato che gli ho rifilato solo un pugno!»
Quella risposta alleggerì immediatamente l’atmosfera e divertì talmente tanto Vittoria che, ormai completamente distesa, scoppiò a ridere. Nell’udirla, Gerardo si sentì sciogliere e, avvertendo il forte desiderio di baciarla, le accarezzò una guancia.
Finalmente rasserenata, la giovane si ricompose e si soffermò a guardarlo ad occhi socchiusi.
«Sai che mi piaci da morire quando mostri il tuo lato oscuro?» gli sussurrò, con una punta di malizia, dimostrando di essere tornata la ragazza di sempre, e lui si chiese come avesse fatto a restare per così tanto tempo senza di lei.
«Vittoria, quando qualcuno ti importuna, per favore, dimmelo senza aspettare, d’accordo?» le disse il ragazzo, guardandola con dolcezza. «So che sai difenderti benissimo da sola, ma mi piacerebbe tanto essere un tuo... alleato, per una volta».
Alla giovane dovette piacere quella definizione, poiché, dopo averci riflettuto su per qualche istante, dispiegò le labbra in un sorriso radioso.
«Gli alleati non sono mai troppi» considerò, avvicinandosi a lui, il quale, affondando una mano tra i suoi ricci scuri, l’attirò delicatamente a sé per baciarla.
Subito, l’altra gli buttò le braccia al collo, come se anche lei non avesse aspettato altro che quel momento, e Gerardo le mise la mano libera sul fianco, trovando estremamente piacevole il contatto con la pelle fresca di lei, lasciata scoperta dalla corta canottierina. Intrigato da quella sensazione, senza mai smettere di riempirla di baci, decise di andare oltre, alzando il resto e sfiorandole la schiena con la punta delle dita,
fino a sfiorarle i laccetti del costume.
La ragazza, allora, emise un piccolo sospiro sulle sue labbra e ricambiò, accarezzandogli i capelli sulla nuca e percorrendogli con dolcezza il collo, facendolo rabbrividire.

Tutte le emozioni provate nel corso della giornata avevano stordito abbastanza il giovane, al punto da renderlo alquanto disinibito rispetto al solito. Tuttavia, ciò non gli dispiacque, giacché, in quell’istante, non voleva avere nessun’incertezza o preoccupazione, ma solo scambiarsi tenerezze con la sua fidanzata. 
«Devo esserti proprio mancata...» ridacchiò Vittoria, staccandosi appena da lui, non riuscendo a smettere di sorridere.
«Parecchio» commentò Gerardo, avvertendo che l’imbarazzo cominciava a far di nuovo capolino dentro di lui. Ciononostante, sentì di non riuscire più a trattenersi e, approfittando di quel momento di euforia e profonda intimità, chiese alla ragazza, tutto d’un fiato: «Vittoria, mi vuoi sposare?»
Per qualche istante, lei si limitò a fissarlo a bocca aperta. Poi, arrossì di colpo e deglutì a vuoto, aggrappandosi ancor di più alle spalle di lui.
«Sono... mesi che aspetto che tu me lo chieda» mormorò, alla fine, visibilmente commossa. «Tanto che avevo deciso di farlo io, non appena tornati a casa, perciò... certo che voglio sposarti!»
«D-Davvero?» domandò l’altro, imbambolato. «Vuoi essere... mia moglie?»
In risposta, Vittoria sorrise, felice e il giovane, sentendosi avvampare con la sensazione di essere sul punto di sciogliersi, si affrettò ad aggiungere, nonostante non sapesse bene cosa stesse dicendo: «Scusami se ci ho messo tanto a chiedertelo, ma, ecco, sai che sono un po’... lento». 
«Meglio tardi che mai, non trovi?» commentò, però, la ragazza, guardandolo intenerita. «E, comunque, sei perfetto così» concluse, prima di accoccolarsi di nuovo contro di lui.
***

Nel momento in cui tacquero le voci dei poliziotti provenienti dalla stanza attigua, Marcello avvertì la propria emicrania attenuarsi leggermente, segno che, forse, l’aspirina offertagli gentilmente dall’ispettore stava cominciando a fare effetto e il ragazzo sperò seriamente che fosse così per non dover consultare il dottor Costa.
Aveva appena cominciato a rilassarsi, quando una considerazione di Molinari, facilmente riconoscibile dal timbro di voce, richiamò la sua attenzione: «Voglio assolutamente occuparmi io di Navarra. Per fortuna, è intervenuto il dottor Saltarini ed è riuscito ad ottenere il trasferimento di quel delinquente a Roma. Sinceramente, non credevo che avrebbe accolto con una prontezza simile la mia richiesta».
«Evidentemente, ha grande fiducia in lei» rispose, allora, Guardalupi. Fece una breve pausa, quindi aggiunse: «Invece, i due Landi non supereranno i confini della Toscana».
«Certo! Per quanto machiavellici, sulla loro testa non pende un mandato di cattura internazionale» spiegò l’altro. «Navarra è pericoloso, non è un malvivente qualunque, anche se, finalmente, ora è nelle mani della giustizia».
Nell’udire quelle parole, il giovane sospirò, augurandosi che lo spagnolo avesse finito una volta per tutte di creare problemi a lui e a Beatrice. Poi, nel corridoio, riecheggiò un rumore di passi che sembravano farsi sempre più vicini e Marcello sperò che i due venissero a comunicargli che poteva tornare a casa.
«Sono davvero contento che le circostanze l’abbiano portata da queste parti, commissario Molinari, visto che abbiamo formato proprio una bella squadra... Elba Squadra Cinque Zero4» commentò Guardalupi, soddisfatto, mentre entrava nel suo ufficio, assieme al suo collega.
«In effetti, questo caso intricato sarebbe perfetto per un telefilm poliziesco» ribatté quello, incrociando le braccia sul petto. Poi, come se si fossero ricordati della presenza del ragazzo, seduto sul divanetto in fondo alla stanza, i due si voltarono verso di lui.
«Signor Tornatore, ci dispiace di averla fatta attendere» esordì il più giovane, aprendo appena le braccia in atteggiamento di scusa. «Dovevamo sbrigare un po’ di burocrazia, prima di poterla congedare».
«Non importa» rispose Marcello, ben felice di alzarsi, impaziente di uscire da lì. «Ora, però, posso andare?»
«Se l’ispettore Baccari le ha fatto firmare tutto quello che doveva, non abbiamo motivo di trattenerla» rispose Molinari, annuendo. «Abbiamo il suo recapito, perciò, eventualmente, sapremmo come contattarla. Anche se, spero che questo sia l’ultimo caso in cui la vedo coinvolta».
«Lo spero anche io» commentò il biondo, con un sospiro.
A quel punto, i tre si salutarono e Guardalupi chiamò l’agente Angelini per ordinargli di accompagnare il ragazzo alla porta. «Se non sbaglio, c’è sua moglie ad attenderla in giardino» disse il commissario al giovane, prima di lasciarlo andare definitivamente. «Direi che ha aspettato fin troppo, povera ragazza!»

Non appena Marcello mise il piede fuori dal commissariato, trovò conferma a ciò che gli aveva detto Guardalupi. Infatti, a poca distanza da lui e seduta su un massetto di cemento, c’era Beatrice, intenta a giocherellare con l’orlo del vestito.
Quella scena provocò al ragazzo una fitta allo stomaco, poiché fu solo allora che realizzò quanto avesse seriamente rischiato di non poter più vedere sua moglie.
«Beatrice!» la chiamò, istintivamente.
Quella alzò di scatto la testa e, nel vederlo, spalancò gli occhi. Allora, il giovane cominciò ad andarle incontro, aspettandosi che lei facesse lo stesso. Con sua grande sorpresa, tuttavia, la fanciulla rimase immobile. Perplesso, il ragazzo si arrestò e stava proprio per chiederle se si sentisse bene, quando, lasciandolo di sasso, l’altra si mise in piedi e, senza alcun motivo apparente, scappò via.
***

Dopo la giornataccia che aveva trascorso (e che non sembrava ancora finita) correre a perdifiato per le stradicciole di Marciana Marina, per Marcello, si rivelò il colpo di grazia.
Infatti, nonostante fosse ben allenato, arrivò a Villa Paolina con il fiatone e la testa ancora più dolente. In tutta onestà, non si era aspettato che, ovviamente, dopo tutto quello che era successo, la moglie lo accogliesse a braccia aperte, ma nemmeno che fuggisse da lui, scegliendo stradine nascoste per seminarlo.
Il giovane aveva capito perfettamente che Beatrice era ancora molto arrabbiata, ma la loro lontananza era durata fin troppo e riteneva, perciò, che l’unica cosa da fare fosse trovarla e sperare che gli concedesse la possibilità di spiegarsi, anche a costo di supplicarla.
Dopo lunghi minuti, con le mani sui fianchi ed il respiro più regolare, Marcello finalmente alzò la testa e si guardò intorno alla ricerca di qualche indizio che potesse suggerirgli dove si fosse nascosta la fanciulla, quando, inaspettatamente, il vento cominciò a spirare in direzione del balcone della loro stanza da letto, il marmo del corrimano appena arrossato dalla luce del tramonto.
Dentro di sé, allora, il ragazzo comprese il significato di quel suggerimento e lo seguì, precipitandosi su per le ripide scale della villa due gradini alla volta, cercando di fare ordine nei suoi pensieri per scegliere accuratamente le parole da rivolgerle. Tuttavia, ogni sforzo fu vano, poiché, non appena uscì sulla terrazza e la vide, tutto ciò che aveva preparato gli sfuggì di mente: era lì, davanti a lui, incorniciata dalle fronde del glicine, i capelli rossi leggermente arruffati e le iridi blu che lo squadravano severe. In quel momento, fu come se tutte le emozioni che il giovane aveva cercato di controllare fino a quel momento lo investissero con tutta la loro forza, confondendolo e inibendolo, tanto che gli sembrò strano udire la sua voce che diceva: «Beatrice, perché scappi da me?»
Quella però, non rispose, limitandosi a fissarlo per qualche altro secondo. Poi, cominciò ad avvicinarsi lentamente, sempre senza aprire bocca, fino a quando non gli fu quasi addosso.
Sotto quello sguardo di rimprovero, Marcello si sentì ancora più in difficoltà e stava proprio per scusarsi, quando, inaspettatamente, la ragazza cominciò a colpirlo al petto.
«Beatrice, ma... che cosa ti prende?» domandò lui, arretrando, talmente basito che non provò nemmeno a difendersi.
«Che cosa mi prende?!» esclamò l’altra, inviperita. «Sparisci per due giorni senza dire nulla e poi vengo a sapere dalla Polizia che stavi giocando all’eroe, rischiando di farti ammazzare!» rincarò, continuando a colpirlo.
A quel punto, il giovane prese per i polsi e la bloccò, stando comunque attento a non farle del male.
«Calmati... ti prego, calmati!» le intimò, preoccupato per quella reazione. Lei, dal canto suo, cercò di divincolarsi ancora per qualche istante, poi, però, si arrese e rimase a guardarlo in un modo che, nel complesso, aveva qualcosa di buffo: sembrava, infatti, più imbronciata che arrabbiata.
«Adesso posso lasciarti senza che tenti di farmi a pezzi?»
«A tu’ rischio e pericolo» gli rispose lei, battagliera.
«Rischierò» decretò Marcello con un sospiro, lasciando lentamente la presa.
Per alcuni secondi si studiarono a vicenda e, in quel frangente, il giovane si chiese se la moglie avrebbe ripreso a picchiarlo, tuttavia, quella alla fine si mise a braccia conserte e sbuffò.
«Cos’hai fatto all’angolo della bocca?» gli chiese, vagamente accigliata.
Interdetto, Marcello si portò una mano nel punto che gli aveva indicato, rendendosi conto che era tumefatto e dolente, e, improvvisamente, ricordò quello che era successo.
«Un regalino di quel bastardo di Navarra» le rispose con una smorfia, guardandosi le dita per controllare che non si fossero imbrattate di sangue.
A quel nome, un’ombra passò sul volto di Beatrice che, con uno scatto, distolse lo sguardo.
«Per fortuna, ora l’è in galera» commentò, inquieta. «Vo’ a prendere il disinfettante e il cotone» aggiunse subito dopo, rientrando in casa.
Un paio di minuti più tardi, la fanciulla fu di ritorno con tutto l’occorrente ed invitò il marito a sedersi sulla panchina sotto al glicine, prima di prendere posto accanto a lui.
«Sai... a dire il vero, non so se curarti o darti il resto» commentò, caustica, mentre impregnava un batuffolo di ovatta con l’acqua ossigenata.
«Se proprio devi, aspetta almeno che mi sia ripreso» replicò l’altro, con una scrollata di spalle. «Malridotto come sono, non credo avresti molta soddisfazione».
In risposta, Beatrice scosse la testa e cominciò a tamponargli delicatamente la ferita, pulendo anche la guancia dai residui di sangue incrostato, mentre lui la lasciava fare, avvertendo solo un lievissimo bruciore.
Approfittando del fatto che la moglie fosse impegnata, il giovane provò a cercare nuovamente le parole adatte per scusarsi, poi, sperando che lei non riprendesse a colpirlo, decise di cominciare nel modo più semplice.
«Mi dispiace» le sussurrò con un velo di malinconia.
«Per che cosa?»
«Per... tutto» aggiunse, incerto e facendosi via via sempre più sicuro. «Per averti trascurata, per averti lasciata sola, per averti fatta preoccupare».
Di fronte a quella confessione, la fanciulla smise di medicarlo e lo fissò tra il severo e l’intristito.
«Sai bene che tu se’ l’unica persona che ho» mormorò, vicina alle lacrime. «Mi hanno già abbandonata in troppi».
«Hai ragione» ammise, sinceramente addolorato, accarezzandole una guancia. «Sono stato un... irresponsabile».
«Parecchio» sbuffò lei, corrucciata, tirando su col naso ed evitando di guardarlo negli occhi. Davanti a quell’espressione, che aveva un qualcosa di tenero, Marcello non riuscì a trattenersi dal sorridere e, prendendola per il mento, le diede un leggero bacio.
Arrossendo per quel gesto inatteso, Beatrice alzò lo sguardo su di lui e, riappropriatasi del suo cipiglio, lo interrogò: «Almeno, dopo tutta questa baraonda, se’ riuscito a sistemare tutte le magagne?»
«Sì, ora è tutto risolto».

Per un po’, allora, tacquero entrambi, restando in ascolto dell’aspro frinire delle cicale che ben presto sarebbe stato sostituito da quello notturno e più armonico dei grilli.
«Grazie... per aver salvato questa casa» disse poi, all’improvviso, la ragazza, abbandonando finalmente ogni traccia di severità e rivolgendogli un’occhiata colma di gratitudine.
Sollevato da quel cambiamento, il giovane si rilassò un poco, intuendo che non sarebbero rimasti in lite ancora per molto.
«So quanto ci tieni» si schermì, guardandola con dolcezza.
«Sì, è così» confermò lei. Quindi, si prese una piccola pausa, emettendo un piccolo sospiro. «Anch’io ti devo delle scuse... non avrei dovuto dirti tutte quelle cattiverie, perché sapevo che stavi lavorando per aiutarmi» aggiunse subito dopo, decretando finalmente la fine di tutte le ostilità.
«Non importa» la interruppe lui, ben consapevole di quali fossero le sue colpe. «In fondo, non avevi tutti i torti. Dovrei imparare ad essere meno... inquadrato».
«Ah, sì?» fece, osservandolo incuriosita. «Be’, potresti cominciare già da ora» gli suggerì poi, accorciando la distanza che c’era tra di loro.
«Ottima idea» approvò il giovane, spostandole via i capelli dal viso, poco prima di appropriarsi delle sue labbra. In un primo momento, Beatrice si lasciò completamente andare, poi, però, si distaccò e gli chiese, preoccupata: «Ti fa male la ferita?»
«Niente di insopportabile» la rassicurò lui, riprendendo a baciarla subito dopo. Gli era mancata così tanto che non sarebbe certo bastato l’indolenzimento generale a trattenerlo, anche perché essere lì con lei a lasciarsi inebriare dal suo profumo di lavanda era una ricompensa più che sufficiente.
Per stare più comoda, la ragazza, allora, si sedette in braccio al marito, continuando ad accarezzarlo con delicatezza, come se così facendo volesse cancellare i segni che gli aveva lasciato lo spagnolo.
Dal canto suo, Marcello, appagato da tutte quelle tenerezze, la strinse a sé, desideroso di sentire il corpo di lei contro il proprio, deliziandosi a baciarle il collo con intensità e lentezza, così da poter carpire tutto il piacere che quelle effusioni gli procuravano.
«Dovresti lasciare questo filo di barba più spesso, sai?» gli fece notare Beatrice, con un sorriso birichino, sfiorandogli la guancia e poi le labbra con la punta delle dita. «Magari, senza che ci sia un rapimento di mezzo».
«Vedrò che cosa posso fare» le rispose il ragazzo, chiudendo gli occhi, prima di sprofondare dolcemente il volto nel delicato seno di lei, lasciando scivolare le mani sulle cosce, solo parzialmente coperte dal vestito, mentre lei gli circuiva le spalle con le braccia e appoggiava la guancia sui capelli di lui.
Allora, confortati dal calore reciproco, i due giovani, finalmente, assaporarono appieno la sensazione di pace ritrovata, circondati dalla quiete della sera e nascosti al mondo dalle foglie del glicine, appena mosse dal vento.




***
Per la revisione di questo capitolo, ringrazio Lady Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la grafica del titolo è opera mia.
Grazie anche alla mia Anto per seguirmi sempre.
***
[N.d.A]
1. pesi mediomassimi: nel pugilato a carattere dilettantistico (diverse sono le regole per i professionisti), questa categoria comprende gli atleti di peso tra i 75 e gli 81 Kg;
2. Colt .45: sarebbe la Colt M1911, una pistola semiautomatica molto diffusa durante le due guerre mondiali e usata come arma d’ordinanza nell’esercito degli Stati Uniti dal 1911 al 1985. Ho scelto questa per diversi motivi: si prestava al modello che avevo in mente per Navarra, ne esiste una versione prodotta in Spagna ed è tutt’oggi in uso presso l’esercito spagnolo;
3. Spedali Riuniti: è la principale struttura ospedaliera di Livorno;
4. Elba Squadra Cinque Zero: è un riferimento alla serie tv poliziesco-giudiziaria Hawaii Squadra Cinque Zero (in originale Hawaii Five-O), trasmessa negli Stati Uniti dal 1968 al 1980 (In Italia a partire dal 1971). Forse, qualcuno di voi conoscerà il riavvio di questa serie, prodotto dal 2010 e ambientato ai giorni nostri, intitolato Hawaii Five-0. Guardalupi la cita perché, oltre ad essere una serie della sua gioventù, si svolge in un ambiente isolano.
***


Salve a tutti!
Come sempre, non faccio mancare un po’ di ritardo rispetto a quanto promesso (purtroppo, organizzo il mio tempo in funzione degli esami).
Sembra strano da scrivere, dopo aver passato quasi cinque anni a lavorare su questa storia, ma è vero: il prossimo capitolo sarà l’ultimo, nel quale verranno svelati gli ultimi enigmi lasciati irrisolti. È già in lavorazione, quindi spero di non metterci troppo tempo a finirlo.
Comincio ad anticipare già da adesso che questo racconto non avrà seguiti, se non in forma un po’ diversa dai canonici sequel, ma di questo ve ne parlerò meglio la prossima volta.
Ringrazio, come sempre, chi legge, anche in silenzio, chi ha messo la storia tra le preferite/seguite/ricordate, chi mi ha lasciato un parere allo scorso capitolo (Anto, moet et chandon, Aven).
Per leggere in antepirma un estratto di ciò che vi aspetterà nell’epilogo, vi lascio il consueto link alla mia pagina facebook.
Alla prossima!
Halley S.C.

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Capitolo 26
*** Capitolo Ventiseiesimo - Addio del Vento ***


Vento dell'Ovest - Capitolo 26



- Capitolo Ventiseiesimo -
Addio del Vento 




U
no degli insegnamenti più importanti che Molinari ricordava dalla frequentazione della Scuola Superiore di Polizia era una citazione di Agatha Christie molto cara al Funzionario d’Ufficio che si era occupato del suo addestramento: “Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova”.
E, dopo aver provato la tisana al miele e camomilla, l’infuso di rabarbaro e zenzero e perfino il decotto alle bacche di sambuco, poté confermare che non aveva bisogno di un quarto tentativo per avere la prova che il caffè era insostituibile.
Così, rassegnato all’idea che avrebbe deluso le aspettative di sua moglie, tradendo anche i suoi buoni propositi per il 1988 appena iniziato, il commissario chiuse la scatola di legno che quella gli aveva regalato per Natale con un’infinità di bustine aromatizzate e la mise nell’ultimo cassetto della sua scrivania, pensando a chi potesse rifilarla. D’altra parte, nonostante avesse capito che le tisane non facevano per lui, gli sarebbe dispiaciuto gettare via un dono di Angela.
Stava proprio per uscire in corridoio con l’intenzione di andare al bar a prendersi un bel caffè macchiato,
interrompendo un’astinenza durata oltre una settimana, quando, nell’aprire la porta, inaspettatamente, si ritrovò davanti il questore Saltarini.
«Buonasera, dottore» lo salutò, riprendendosi subito dalla sorpresa. «Non aspettavo una sua visita, è successo qualcosa di grave, per caso?» aggiunse, perplesso.
«Buonasera a lei, Molinari» rispose quello con un sorriso rassicurante, ricambiando il saluto. «Non si preoccupi, è stata una decisione... improvvisa. Stava uscendo?»
«No, avevo solo voglia di fare quattro passi e di prendere un caffè al bar. Mi fa compagnia?»
«Molto volentieri, ma, prima, se non le dispiace, vorrei discutere con lei di questioni piuttosto... urgenti» replicò l’altro, con una breve scrollata di spalle.
Insospettito da tutte quelle reticenze e dall’atteggiamento alquanto strano del suo superiore, il poliziotto lo guardò aggrottando appena la fronte, senza ulteriori commenti; anzi, lo invitò ad accomodarsi e quello, dal canto suo, non se lo fece ripetere, prendendo posto su una delle poltroncine antistanti la scrivania.
Allora, Molinari fece subito per imitarlo, quando venne interrotto dallo squillo del telefono. 
«Risponda pure» lo invitò Saltarini, indicando l’apparecchio con la mano aperta, sempre con il solito sorriso che, sotto la luce della lampada da tavolo, unica fonte di illuminazione accesa in quel momento, assunse un’aria inquietante.
Non riuscendo a capire se fosse solo frutto della sua immaginazione o se davvero il suo interlocutore si stesse prendendo gioco di lui, l’uomo alzò molto lentamente il ricevitore e, senza staccare gli occhi dal questore, lo avvicinò all’orecchio.
«Qui Molinari».
Ciò che udì subito dopo da un agitatissimo Tonelli gli fece immediatamente accapponare la pelle, facendogli arrivare a dubitare che fosse accaduto sul serio.
«Ma... non è possibile!» esclamò, sgomento. «Il direttore del carcere mi aveva assicurato che era una sistemazione sicura!»
Mentre Molinari si affannava al telefono, sforzandosi di mantenere la lucidità, notò con la coda dell’occhio che Saltarini lo stava fissando molto attentamente, accavallando poi una gamba sull’altra con le mani giunte sotto al mento, come se lo stesse studiando.
Quando il suo agente gli ebbe comunicato tutti i dettagli, con la gola riarsa, il commissario bofonchiò qualcosa in risposta e chiuse la chiamata, senza staccare gli occhi dal questore.
Per qualche secondo i due si guardarono in tralice, poi il poliziotto si schiarì la voce e fece per parlare, ma venne bruscamente interrotto.
«So già cosa le hanno detto e, se mi permette, le consiglierei di... lasciar correre» commentò l’altro, tranquillo, rimettendo entrambi i piedi a terra ed alzandosi dalla sedia.
Infastidito dall’ennesima pausa del suo superiore, Molinari assottigliò lo sguardo, ormai convinto che l’altro fosse fin troppo coinvolto nella faccenda. Senza timore delle conseguenze, perciò, appoggiò le mani sul ripiano della scrivania ed alzò fieramente la testa.
«Lei sa che questo è un caso che non può essere semplicemente archiviato» cominciò, molto lentamente. «Perché mi sta chiedendo di ignorare la necessità di aprire un’indagine?»
In risposta, Saltarini rimase in silenzio per qualche minuto, al termine dei quali, lasciando basito il suo interlocutore, scoppiò in una risata sinistra.
Davanti ad una simile reazione, il commissario rimase congelato, f
aticando a riconoscere la stessa persona con cui aveva collaborato in tanti anni. Man mano che prendeva consapevolezza della situazione, nella sua mente cominciò a vorticare un insieme confuso di pensieri, nessuno dei quali, però, in grado di aiutarlo a decidere come comportarsi in quel momento, soprattutto perché non riusciva a capire fino in fondo quanto il questore fosse complice in quella losca faccenda.
Poi, improvvisamente come aveva iniziato, Saltarini smise di ridere e riservò all’altro uno sguardo quasi benevolo.
«Molinari, che ne dice di andare a prendere quel famoso caffè?» gli propose, estremamente calmo. «Ovviamente, offro io, quindi sarebbe davvero scortese rifiutare, non crede?»

La luce delle poche decorazioni del Natale appena trascorso connotava l’atmosfera con quella malinconia tipica di gennaio, mese in cui riprendevano le attività lavorative nel rigore dell’inverno, senza che, però, ci fosse più la prospettiva dell’allegria delle festività a mitigarlo.
Seduto nell’angolo più nascosto di un piccolo e cupo bar di via Capo d’Africa, Molinari scrutava oltre il vetro leggermente appannato il buio della strada, appena rischiarato dalle sporadiche luminarie, chiedendosi se sarebbe sopravvissuto a quell’incontro, poiché aveva capito da un bel pezzo che il questore non l’aveva certo invitato lì per cortesia.
«Ha fatto un ottimo lavoro all’Elba, ero sicuro che non mi avrebbe deluso» esordì all’improvviso quello, prendendo il suo succo d’arancia ed inclinandolo verso di lui prima di berlo, come se volesse brindare alla sua salute.
Richiamato, il commissario si voltò molto lentamente, riservandogli uno sguardo scettico.
«Catturare Navarra era nell’interesse di tutti».
«Sì, ha perfettamente ragione» replicò Saltarini con un sorriso ambiguo, appoggiando il bicchiere sul tavolo. «Per questo mi sono assicurato che lei fosse sul posto, quando sarebbe scattata l’operazione che avrebbe portato all’arresto dello spagnolo».
«Mi sta forse dicendo che, quando mi ha parlato dell’Isola d’Elba come il posto perfetto dove portare mia moglie in vacanza, non era solo un consiglio?» ribatté aspramente il poliziotto.
«Temo di no».
Irritato da quella rivelazione, che lo fece sentire come una marionetta priva di qualsiasi forma di volontà, Molinari aggrottò la fronte e spinse via da sé la tazzina di caffè ancora mezza piena.
Notando quel gesto, il suo superiore cambiò espressione e sembrò quasi addolcirsi; poi, si sporse verso di lui e, a bassa voce, gli confidò: «Vede, Molinari, credo di sapere come si sta sentendo: una pedina in un’immensa scacchiera senza sapere chi sia a fare le mosse. E, detto fra noi, è un bene che lei non lo sappia».
A parere del commissario, quella similitudine calzava ancor più della sua, tuttavia ciò che lo colpì maggiormente fu l’ammissione spontanea del questore che, dietro il suo atteggiamento ed il suo operato c’era, in realtà, qualcuno di ancora più importante ed influente.
«Dietro l’arresto di Navarra c’è molto più di quello che mi ha detto, non è vero?» domandò, allora, intenzionato a scoprire una volta per tutte quale fosse la verità.
«È corretto» gli concesse l’altro, scrollando appena le spalle.
«Quindi, ora potrebbe spiegarmi anche perché la soffiata e le prove che incastravano Navarra come responsabile dei traffici d’armi verso l’Unione Sovietica sono spuntate in concomitanza con il rapimento di Beatrice Tolomei» lo incalzò Molinari, assottigliando lo sguardo. Si sentiva lacerato tra la rabbia di essere stato usato a piacimento da altri e il profondo desiderio di ottenere delle risposte a tutte le domande che gli affollavano la mente. «Gli stavamo addosso da mesi senza aver ottenuto nemmeno un riscontro, poi arriva lei, dottore, tirandole fuori dal cilindro come se niente fosse...
perché non le ha condivise prima?» rincarò, incrociando le braccia sul petto ed inclinando la testa da una parte.
«La verità ha un prezzo, Molinari» affermò, in risposta, Saltarini, assumendo all’istante un’espressione rammaricata. «Lei lo sa, vero?»
«Anche fin troppo bene» ribatté il poliziotto, risoluto a non cambiare atteggiamento, poiché non riusciva a sopportare di essere vissuto nella menzogna così a lungo.
A quel punto, ci fu una lunga pausa, durante la quale si udì in lontananza il brusio dei baristi che, approfittando della scarsa clientela, stavano fumando una sigaretta sulla porta del locale. L’odore del tabacco si mescolò a quello del caffè rimasto nella tazzina, creando uno sgradevole connubio che nauseò Molinari, già teso per la situazione.
«L’ho portata fuori dal commissariato proprio per poterle spiegare alcune cose, ma, per la sua stessa sicurezza, la prego di non chiedere ulteriori informazioni rispetto a quelle che le darò. Le è chiaro?» 
Ancora troppo concentrato sul suo malessere, l’uomo impiegò qualche secondo per realizzare che il suo interlocutore aveva parlato, tant’è che, in un primo momento, rimase a fissarlo sbattendo le palpebre, per poi riscuotersi e annuire. Con quel cenno, Saltarini capì che il commissario era in ascolto e, dopo aver sospirato brevemente, riprese:
«Navarra è rimasto solo un sospettato finché non ha pestato la coda di qualcuno molto in alto. Quando lo spagnolo è diventato un intralcio, è diventato necessario eliminarlo».
«E cosa c’entra questo con il rapimento della signora Tolomei?» domandò Molinari, perplesso, dato che ancora faticava a far combaciare tutti i pezzi di quel confuso mosaico, pur avendo sospettato fin da subito che dietro alla soffiata su Navarra ci fosse un regolamento di conti.
«Be’, si sa che i malviventi, messi sotto pressione, tendono a fare qualcosa di stupido... che, però, può diventare una buona occasione per arrestarli» gli spiegò il questore, a bassa voce, come se temesse che qualcuno che non avrebbe dovuto sentirli fosse nelle vicinanze. «Si ricorda quando ho insistito per far andare via quella ragazza, anche se non aveva finito di deporre? Non volevo semplicemente coinvolgerla ulteriormente in qualcosa che sarebbe potuto diventare pericoloso».
«Capisco...» mormorò l’ufficiale, adattandosi inconsciamente a quel tono di conversazione insolitamente basso.
«Sa, mi ha ricordato mia figlia Annalisa, così giovane, con ancora tutta una vita davanti...» proseguì l’altro, mentre gli occhi gli diventavano improvvisamente lucidi e fu proprio in quell’istante che, finalmente, Molinari capì l’effettivo coinvolgimento del suo superiore: molto probabilmente non aveva agito per suo tornaconto personale, bensì perché ricattato dal giocatore di scacchi che doveva aver minacciato di far del male alla ragazza.
Alla luce di quest’ultima rivelazione, tutta la rabbia che aveva provato nei confronti dell’altro si attenuò e, anzi, si ritrovò improvvisamente a giustificarlo. Infatti, nonostante non avesse figli e fosse fiero della sua integrità morale, non era del tutto certo che, al posto del questore, si sarebbe comportato diversamente.
«Che cosa vuole che faccia, allora? Non posso ignorare la telefonata ricevuta poco fa» gli chiese, aggrottando la fronte.
«Indaghi, però senza scrostare troppo la superficie, faccia ciò che non farebbe in altri casi, si accontenti delle apparenze... e metta la parola fine a questa catena di sangue» lo supplicò Saltarini, giungendo le mani come in preghiera.
«Lei sa benissimo che il medico legale smentirà l’ipotesi di suicidio».
«Il medico legale scriverà sul referto autoptico quello che io gli dirò» replicò quello, indurendo lo sguardo. «Mi creda, Molinari, chiudere la questione senza farsi domande è l’unico modo per uscirne tutti vivi».
In quell’istante, il commissario si rese conto di avere le mani pressoché congelate e si domandò tra sé se fosse a causa del riscaldamento mantenuto troppo basso per risparmiare, oppure se fosse ciò che aveva appena udito ad avergli arrestato la circolazione.
«Mi tolga un’ultima curiosità...» avanzò, incerto su come porre la domanda, mentre si sfregava le nocche contro la stoffa dei pantaloni, per riscaldarle un po’ «come faceva a sapere che Navarra era a Marciana Marina? I collegamenti con Beatrice Tolomei e Marcello Tornatore erano palesi, certo, ma...»
«Navarra aveva qualcuno di molto vicino che ha fatto a lungo il doppio gioco, informandomi su tutti gli spostamenti»
rispose subito l’altro, senza nemmeno fargli finire la domanda. «La stessa persona che ha fatto la soffiata e che oggi ha ottenuto una cella in isolamento».
Sconcertato, il commissario si paralizzò, spalancando gli occhi per la sorpresa.
«Pablo Cabrera!»
Sorridendo malinconico, Saltarini si curvò sul tavolino, avvicinandosi a lui.
«Mio caro commissario, lei è sempre stato molto acuto».
***

Man mano che saliva le scale buie verso il secondo piano del Caffè del Borgo, Saltarini sentiva le gambe farsi sempre più pesanti ed un nodo stringergli la gola. Ogni volta che aveva un appuntamento con quell’uomo, veniva puntualmente assalito dall’angosciante dubbio di non riuscire a rimanere vivo fino alla fine dell’incontro con la speranza di arrivare al successivo.
Sapeva che, in quanto funzionario dello Stato, non avrebbe dovuto cedere alle minacce di quei malviventi che, all’apparenza, sembravano cittadini per bene, tuttavia era anche cosciente del rischio che correva sua figlia, troppo piena di gioia di vivere per morire brutalmente nel fiore della sua adolescenza.
Arrivato alla fine del corridoio, perciò, bussò alla porta e, senza attendere una risposta, l’aprì, trovandosi davanti due uomini seduti su eleganti poltroncine a discutere affabilmente, mentre sorseggiavano un bicchiere di prosecco davanti al camino scoppiettante.
«Buonasera, questore» lo salutò John Miller, con una smorfia beffarda, facendo oscillare il vino nel calice. «Quali notizie ci porta? Io ed il signor Colonna ci stavamo proprio chiedendo quando sarebbe arrivato».
«Ho dovuto sistemare ciò che mi ha chiesto» rispose in un sussurro Saltarini, la fronte imperlata di sudore e non certo a causa del poco calore diffuso nella stanza.
A quel punto, Miller fece segno al socio di andare a chiudere la porta e quello ubbidì prontamente, per poi prendere il questore per un braccio e trascinarlo verso una terza poltrona disposta davanti alle altre due.
«Prego, si sieda» gli intimò il britannico, con un tono tutt’altro che amichevole. A quel punto, le ginocchia dell’altro cedettero e quello si lasciò cadere sul duro cuscino di pelle bordeaux.
«Come è andato il suo colloquio?» lo incalzò Colonna, riprendendo posto senza togliergli occhi di dosso.
«H-Ho...» cominciò l’uomo, tentennante. Poi, rendendosi conto di avere la voce impastata, si fermò un attimo e se la schiarì, prima di proseguire: «Ho parlato con il commissario Molinari, convincendolo a chiudere le indagini quanto prima».
«E non si è insospettito?» domandò Ascanio, fissandolo con fare dubbioso.
«Molinari ha fiducia in me e non contravverrà agli ordini» ribatté il questore, cercando di essere il più sicuro possibile. «Ma vigilerò comunque sul suo operato, intervenendo subito se dovessi notare qualcosa che non va».
«Sa cosa l’aspetta, se così non dovesse essere» intervenne, allora, Miller con un sottile ghigno. «Che cosa ci dice, invece, sulla guardia carceraria che ha collaborato con i miei sicari?»
Intuendo che il suo interlocutore aveva fretta di avvicinarsi al vero motivo di quella convocazione, Saltarini si prese il suo tempo per capire come dovesse esporre i fatti evitando altre vittime.
«Non appena sarà finita l’indagine, lascerà Roma. Mi ha assicurato che, con il lauto compenso che lei gli ha offerto, sarà ben contento di fuggire alle Seychelles».
«Molto bene» affermò in risposta il britannico, alzandosi dalla sedia e avvicinandosi al tavolino posto sul fondo della stanza, dove erano appoggiate alcune bottiglie. «So che si è occupato personalmente anche dei Landi, assicurandosi il loro silenzio, così come ha fatto con Cabrera».
«L’isolamento è la soluzione che preferiscono molti detenuti, per la loro stessa tutela, perciò il mio collega di Livorno non ha battuto ciglio quando gliel’ho proposto» gli riferì il questore, mentre quello si versava dell’altro vino, con un sorriso sadico che gli fece accapponare la pelle.
«A questo punto, direi che il problema è più che risolto» intervenne Ascanio, accavallando una gamba sull’altra, spostando lo sguardo sul suo socio. «Navarra era l’unico che, per vendetta, avrebbe potuto rivelare il suo segreto, ma ora non ci darà più problemi».
«Esattamente. Inoltre, ha avuto quello che meritava per aver tentato di prendermi in giro, negando di aver venduto le sue armi giocattolo ai sovietici per sabotare la costruzione del mio oleodotto in Medio Oriente» considerò il magnate, ripercorrendo i suoi passi e tornando a sedersi sulla poltrona. «Credeva di essere molto furbo, invece è stato il peggiore idiota che abbia mai conosciuto... Chi spera di raggirarmi, o peggio, di non ubbidirmi, paga con la vita!» concluse, finendo in un unico sorso tutto il prosecco che era rimasto nel bicchiere.
«Come quel povero diavolo che le faceva da copertura!» aggiunse Colonna, ridendo malvagiamente. «Devo ammettere che, quando ho capito come stavano realmente le cose, Lord Carter, ho trovato il suo piano per depistare i nemici semplicemente geniale».
Compiaciuto da quel commento, l’industriale piegò le labbra in una smorfia soddisfatta.
«Io non faccio sconti a chi si mette contro di me e Miller si era calato eccessivamente nella parte».
Desiderando solo allontanarsi il prima possibile da quell’essere mostruoso che lo teneva in pugno, Saltarini si alzò e, dopo aver deglutito a vuoto, si fece coraggio e gli chiese: «Lord Carter, con me ha finito?»
In risposta, quello gli puntò contro i suoi occhi plumbei e malvagi che sembravano avere la capacità di leggergli nel più profondo dell’animo e nutrirsi del terrore che ispiravano.
«
Sì, per ora, sì. Verrà informato a tempo debito sul prossimo lavoretto che dovrà svolgere per me» gli rispose stancamente, congedandolo con un pigro gesto della mano. «Continui ad eseguire tutti i miei ordini e continueremo ad andare d’accordo... non vorrei mai che alla piccola Annalisa succedesse qualcosa di tremendamente spiacevole».
A quelle parole, il questore sentì il proprio cuore arrestarsi, tuttavia, avendo ormai imparato a dissimulare le sue reazioni per la sua stessa sopravvivenza, atteggiò la sua espressione ad una maschera di indifferenza. Quindi, omaggiò i due uomini con un inchino piuttosto rigido e contenuto e lasciò la stanza.

***

Avvolti nei loro caldi cappotti di panno blu scuro, Marcello e Gerardo stavano percorrendo una Via della Conciliazione pressoché deserta, entrambi desiderosi di rientrare a casa prima di diventare due ghiaccioli, lasciandosi alle spalle
la cupa sagoma del grande abete natalizio che aveva decorato la piazza, ormai spoglio e in attesa di essere rimosso, in contrasto con la cupola di San Pietro, rifulgente nell’oscurità della sera.
«Sembra che il vento stia cambiando» osservò il biondo, alzando gli occhi verso il cielo e aggiustandosi la sciarpa grigia di cachemire per proteggersi dagli spifferi freddi. «D’altra parte, l’inverno è cominciato già da un pezzo».
L’altro, però, non diede segno d’aver sentito, anzi, continuò a camminare con lo sguardo rivolto a terra, immerso in chissà quali pensieri; dal canto suo, Marcello non insistette, giacché aveva notato che il suo amico era piuttosto assente da parecchio tempo e, sapendo che sarebbe stato inutile forzarlo a parlare, stava aspettando che fosse lui a farlo spontaneamente.
E quel momento doveva essere finalmente arrivato perché quello
si arrestò di colpo proprio accanto al basamento in marmo di uno degli imponenti lampioni che illuminavano il marciapiede, dando finalmente voce ai propri tormenti interiori.
«Mia madre è disperata, dice che se continuerò così arriverò al giorno del matrimonio senza il vestito!» sbottò.
Sorpreso, l’amico si voltò verso di lui, inarcando appena un sopracciglio.
«Ecco svelato il motivo per cui sei intrattabile da giorni!» commentò, vagamente ironico.
In risposta, Gerardo gesticolò nervosamente ed ammise, frustrato: «Non riesco a trovare il tempo per organizzarmi...»
«Be’, hai ancora un po’ di tempo, dato che mancano ancora quattro mesi» gli fece, però, notare, pacatamente, Marcello, cercando di calmarlo, poiché sapeva bene che l’amico, quando era sotto pressione, tendeva a perdere molto facilmente la lucidità. «Inoltre, da domani, potrai prenderti quanti giorni di ferie vorrai, visto che, finalmente, abbiamo concluso la trattativa con i clienti svizzeri» aggiunse.
Non del tutto convinto, l’altro sospirò e, abbastanza preoccupato, confessò: «A dire il vero, Vittoria ed io abbiamo ancora diverse cose da scegliere, a cominciare dalle bomboniere. Per colpa dei miei impegni, infatti, stiamo andando a rilento».
Di fronte a tanto scoraggiamento, sentendosi in dovere di spendere qualche parola di conforto per risollevare il suo migliore amico, il biondo gli si avvicinò e gli diede una pacca affettuosa sul braccio.
«Non pensare che ci voglia chissà quanto per comprare un abito da cerimonia. Io ho preso il primo che ho provato!» commentò, con una scrollata di spalle.
«Be’, grazie tante, è stata Vittoria a selezionarlo tra tutti i modelli!» sbuffò, inaspettatamente, Gerardo, mostrandosi piuttosto risentito. «E poi, sai bene che non è la stessa cosa, visto che addosso a te starebbe bene anche un sacco della spazzatura».
In un primo momento, spiazzato da una reazione simile, Marcello fissò l’altro con un misto di incredulità e sorpresa; tuttavia, si riebbe piuttosto rapidamente e, scoccandogli un’occhiata inquisitoria, lo apostrofò: «Perdona la schiettezza, ma devo proprio dirtelo: sembri una ragazzina isterica!»
Colpito da quelle parole, l’altro rimase a bocca aperta e rimase a guardarlo con espressione stralunata.
«Questi continui paragoni tra te e me sono perfettamente inutili, perché servono solo ad alimentare le tue insicurezze» proseguì il biondo, sempre con tono di rimprovero, cercando al tempo stesso di non essere troppo severo. Infatti, concluse dicendo: «Concentrati, invece, sui tuoi lati positivi... per esempio che sei la persona più buona e leale che conosco e tra le uniche tre che reputo degne di completa fiducia».
«Le altre due sarebbero Vittoria e Beatrice, per caso?» domandò Gerardo, sbattendo le palpebre.
«Secondo te?»
Per qualche secondo, tacquero entrambi. Poi, dopo un’attenta riflessione, quello strinse le spalle e, un po’ imbarazzato, ammise: «Scusami, mi sono lasciato prendere dall’agitazione... purtroppo, la verità è che ho paura di far sfigurare Vittoria».
«Vi conosco entrambi da una vita e tu sei l’unico uomo che la merita, perciò non credo che potresti mai farle fare brutta figura» replicò immediatamente l’altro, deciso. «Comunque, se pensi che possa aiutarti, per il vestito chiedi consiglio a Beatrice. Io non capisco niente di moda e sartoria, invece lei è bravissima e sarà molto contenta di darti una mano» aggiunse, sperando di essergli stato utile.
A quel punto, quello sembrò illuminarsi e mutò repentinamente espressione, mostrandosi molto sollevato.
«Hai ragione...» mormorò, soprappensiero. «In effetti, mi sento abbastanza stupido a non averci pensato prima da solo».
«Be’, in fondo gli amici servono anche a questo, non trovi?» osservò Marcello, sorridendo e, di riflesso, l’amico fece altrettanto.
Quindi, rasserenati, i due ripresero a camminare, giungendo fino all’incrocio con Via San Pio X.

«Come sta tuo papà?» chiese improvvisamente Gerardo, aspettando che il semaforo diventasse verde, così da poter attraversare Ponte Vittorio Emanuele II e portarsi sull’altra sponda del Tevere, dove avevano parcheggiato le auto.
«A volte meglio, a volte peggio» spiegò il biondo, con una punta di rassegnazione nella voce. «Purtroppo, i cicli di chemioterapia lo spossano parecchio. Tuttavia, il lato positivo della vicenda è che mia madre sta apprezzando le gioie della vita di campagna e questo rende mio padre molto felice».
Non riuscendo a trovare una risposta appropriata, l’amico si limitò ad annuire. Quella domanda, però, aveva risvegliato in Marcello le paure che aveva deciso di tenere confinate per non vivere bloccato nell’angoscia, ma, anzi, per avere verso il genitore un atteggiamento propositivo e speranzoso, come lui stesso aveva chiaramente detto di preferire.
«Ciò che mi spaventa è che i medici non escludono ancora il rischio di una ricaduta...» aggiunse, infatti, il ragazzo in un sussurro, tremando solo a pronunciare quelle parole.
«Cerca di non pensare al peggio, perché sono convinto che essere positivo possa essere d’aiuto sia a lui che a te» lo confortò, allora, con dolcezza l’altro.
Grato di poter sempre contare sulla preziosa amicizia di Gerardo, il biondo scosse la testa e, piegando appena le labbra, commentò: «Sai, credo che tu e Vittoria andrete molto d’accordo: entrambi sapete dare ottimi consigli agli altri, ma, quando si tratta di voi stessi siete un completo disastro».
«Già» ammise l’altro, sciogliendosi in un sorriso sincero, contento di condividere quel particolare con la donna che amava. «A proposito, la prossima volta che tuo papà viene a Roma senza dover andare in ospedale, se per lui non è un problema, a me e Vittoria farebbe piacere venirlo a trovare».
«Sicuramente ne sarà contento, gliene parlerò appena lo chiamerò di nuovo» affermò Marcello, lieto che i suoi amici non perdessero mai occasione per manifestare il proprio affetto nei confronti di suo padre.

Avevano appena messo piede sul marciapiede del Lungotevere dei Fiorentini, quando un’elegante berlina nera li superò, svoltando in Piazza Pasquale Paoli, esattamente dall’altra parte della strada. Nonostante le ruote non si fossero ancora completamente fermate, entrambi gli sportelli posteriori
si aprirono e ne uscirono due uomini più o meno della stessa altezza, i quali si avvicinarono e si strinsero la mano, come se si stessero salutando. E fu allora che, sotto la fioca luce dei lampioni, i ragazzi riconobbero due loro vecchie conoscenze.
«Guarda un po’ chi si vede: Colonna e Miller!» esclamò Marcello. «Devono appena aver finito un incontro al Caffè del Borgo».
«A quanto pare, sono diventati inseparabili» notò Gerardo, sospettoso. «Eppure, fino a qualche tempo fa si sopportavano a stento».
Concordando con l’amico, il biondo annuì brevemente e assottigliò lo sguardo, risoluto a non perdersi nemmeno una mossa di quei due. 
«Da quando Carter è morto, Miller sembra molto contento di aver preso il suo posto. Sono sempre più convinto che sia stato lui ad ucciderlo» borbottò.
«Anche se fosse così, non credo che possiamo farci niente» commentò saggiamente l’altro. «Accontentiamoci, invece, di non essere più costretti ad interagire con lui o con Ascanio».
Tuttavia, Marcello, nel vederli confabulare fitto fitto come stavano facendo, non riuscì a zittire la sua curiosità, pertanto, senza indugiare oltre, propose al suo socio: «Approfittiamo del buio e del discreto traffico per avvicinarci a loro senza farci vedere, che ne dici?»
Altrettanto interessato agli intrallazzi del rivale e del suo nuovo partner, quello fu subito d’accordo; così, con molta discrezione, i giovani attraversarono la strada e si appiattirono contro il muro dell’edificio che faceva angolo, ringraziando che i due uomini fossero abbastanza vicini da riuscire a cogliere gli ultimi stralci della loro conversazione.
«È un vero peccato, signor Colonna, che non possa trattenersi fino a cena. Avrei voluto presentarle alcuni collaboratori molto influenti» disse Miller, troppo sussiegoso per sembrare sinceramente rammaricato.
«Conoscerli sarebbe stato molto interessante, ma devo andare da mio figlio, perché la baby-sitter ha quasi finito il suo turno» gli rispose Ascanio, con un tono che confermava la sua fretta.
«Il moccioso non è ancora autosufficiente?» domandò, allora, il britannico, senza celare il proprio disgusto, come se ritenesse che i bambini piccoli fossero qualcosa di immondo.
«Ha appena compiuto cinque mesi!» protestò vivamente Colonna, indignato.
«Non può occuparsene la madre?»
«Quell’alcolizzata non sa badare nemmeno a se stessa e sono stato costretto a rinchiuderla in una clinica per convincerla a disintossicarsi» replicò il ragazzo, con un misto di compassione e disprezzo. «Anche se è buffo pensare che, se non si fosse ubriacata lo scorso Capodanno, a quest’ora non avrei nessun erede».
«Le donne non servono a nulla, ma, almeno, quell’inetta di sua moglie le ha dato un maschio» osservò Miller, concentrando in poche parole tutta la sua misogina e arretratezza mentale. «C’è qualche speranza che, un giorno, potrà essere qualcuno».
«Oh, ma di questo sono certo: mio figlio arriverà anche più in alto di me, perché sarà il primo in tutto!» esclamò l’altro, fomentato. «Per questo l’ho chiamato Massimo».
Nauseato da quanto udito, Marcello si scambiò un’occhiata con l’amico, che non tardò ad esprimere la propria repulsione verso i due, scuotendo schifato la testa.
In quel momento, si udirono brevi saluti e rumori di portiere che venivano chiuse con forza, quindi il rombo di un’auto che partiva. A quel punto, i ragazzi si decisero ad affacciarsi verso la piazza e trovarono solo Ascanio che, dopo aver lanciato uno sguardo fugace verso Castel Sant’Angelo, si incamminava in quella direzione.
«Tu sapevi che Maria Luisa si trova in una clinica?» chiese Gerardo, perplesso, non appena fu certo che il loro antagonista fosse abbastanza lontano. «Credevo fosse a Montecarlo dai suoi parenti».
«Così ha fatto credere Ascanio» rispose l’amico, cupo. «Non pensavo che la situazione fosse così grave».
«Sapere che quel bambino crescerà solo con il padre mi mette i brividi» considerò l’altro, contraendo il viso in una smorfia d’orrore.
«A chi lo dici...» concordò Marcello, con un piccolo sospiro, pensando all’inevitabile destino del piccolo Massimo: diventare uguale ad Ascanio, se non addirittura peggiore.
***

La voce di Beatrice, intenta a ripetere per l’esame imminente, lo accolse non appena imboccò il corridoio che portava in sala da pranzo e, inconsciamente, gli fece incurvare le labbra all’insù.
La trovò, infatti, seduta al tavolo della sala immersa in diversi libroni, sparsi davanti a lei; ce ne erano anche diversi piuttosto consunti, probabilmente presi in prestito dalla Biblioteca Nazionale, dove spesso la ragazza andava a studiare con le nuove amiche che aveva conosciuto all’università. 
«Ciao, Beatrice» la salutò, appoggiando una mano sullo schienale della sedia imbottita e chinandosi su di lei per darle un bacio sulla tempia. «Com’è andata oggi?»
«Bentornato!» lo accolse con un sorriso lei, dopo aver alzato la testa nella sua direzione. «Molto bene. A te, invece?»
«Una giornata tranquilla, come sempre» le rispose, facendo spallucce ed evitando di riferirle ciò che aveva appreso su Maria Luisa, come se fosse un pettegolezzo fresco. Sicuramente, ci sarebbe stata un’occasione più consona per parlarle delle malefatte di Ascanio Colonna.
«Sai, oggi m’ha chiamato la Fiammetta e ha detto che, la settimana prossima, verrà a Roma con il dottor Costa. Vorrebbero passare a trovarci» gli annunciò la ragazza, chiudendo con grazia un tomo ingiallito e dalla copertina semi-cadente. «La Sacra Rota1, infatti, sembra ben intenzionata ad annullare il matrimonio con Giacomo, visto che quella poverina è stata ingannata e costretta a sposarlo» spiegò, mettendosi in piedi davanti al marito.
«Sarebbe anche ora» commentò, in risposta, Marcello, aiutandola ad impilare tutti i volumi e i quaderni, mentre lei si dedicava a rimettere le penne colorate nell’astuccio.
«Con l’Ottavia, invece, abbiam avviato la cena e sarà pronta tra poco» aggiunse poi, spostando i libri su un tavolino più basso.
«Molto bene, così ho tempo di dare un’occhiata al notiziario» affermò lui. Poi, dopo essersi assicurato che la moglie non avesse più bisogno del suo aiuto, si andò a sedere sul divano, accendendo la televisione. Il telegiornale era già iniziato da un pezzo, tuttavia a Marcello non dispiacque aver saltato la rassegna politica e trovarsi già alla sequenza sui fatti di cronaca locale ed estera.
A quel punto, Beatrice lo raggiunse, accomodandosi sulle sue gambe, e il giovane le passò istintivamente un braccio intorno alla vita. Fu in quell’istante che il giornalista introdusse una notizia che li lasciò entrambi esterrefatti: «Questo pomeriggio, il noto trafficante d’armi Conrado de Navarra, arrestato alla fine dell’agosto scorso, è stato trovato impiccato nella sua cella del carcere di Rebibbia. Per ora, l’ipotesi delle autorità è che si tratti di suicidio».
Per qualche istante, i due ragazzi rimasero come pietrificati davanti allo schermo, per poi scambiarsi un’occhiata di puro sgomento, mentre, nella mente di Marcello si materializzava l’inquietante immagine di Navarra penzolante da una corda attaccata al soffitto, totalmente in contrasto con la personalità dello spagnolo. Infatti, per quanto sapesse di non possedere le competenze adatte, non pensava che quello potesse essere incline al suicidio, soprattutto dopo le minacce che gli aveva sentito indirizzare a Molinari. Era molto più probabile, invece, che il famoso lui avesse ordinato la sua morte e, nonostante il giovane odiasse profondamente Navarra per quello che aveva fatto a sua moglie, nel figurarsi un’esecuzione capitale per impiccagione, rabbrividì.
Scuotendo la testa per scrollarsi di dosso quell’orribile sensazione, allora, si voltò verso la ragazza e vide che era impallidita.
«Beatrice, stai bene?» le chiese, preoccupato, accarezzandole teneramente una guancia.
«S-Sì...» balbettò lei, riprendendosi dallo shock. Poi si mise in piedi, anche se con qualche difficoltà. «Vo’ a controllare la cena...» farfugliò poi, muovendo qualche passo incerto, confusa.
Preoccupato, il biondo la seguì con lo sguardo finché non scomparve dal suo campo visivo, poi, tornò a guardare la televisione, ma senza vederla sul serio, ancora troppo scosso da quello che aveva sentito. Diverse, infatti, erano le domande che lo tormentavano, anche se, d’altra parte, una vocina interiore gli suggeriva di dimenticare quanto prima l’intera faccenda, poiché c’era sicuramente dietro qualcosa che sarebbe stato meglio continuare ad ignorare.
Improvvisamente, un tonfo che sembrava provenire dal salotto attiguo alla sala da pranzo lo distrasse bruscamente dai suoi pensieri.
«Che cosa è caduto?» chiese a gran voce, per farsi sentire dalla moglie. Non ottenendo, però, risposta, riprovò, chiamandola per nome: «Beatrice...?»
Insospettito dal persistente silenzio, il giovane, allora, si alzò e si diresse nell’altra stanza, oppresso da un brutto presentimento che, purtroppo, si rivelò fondato quando trovò la ragazza sul tappeto, svenuta.
«Beatrice!»
Immediatamente, Marcello si precipitò da lei e nello sfiorarle la pelle, si rese conto che era fredda. Allora, appigliandosi ai vaghi ricordi che aveva sulle pratiche di primo soccorso, la sollevò da terra, prendendola in braccio, e la portò sul divano, adagiandovela infine con grande delicatezza.
«Tesoro mio, apri gli occhi...» la supplicò, angosciato, stringendole una mano e spostandole i capelli dal volto. Era già pronto a precipitarsi al telefono per chiamare un’ambulanza, quando, finalmente, la giovane riprese i sensi.
«Mmm» mugolò, intontita, guardandosi intorno, spaesata; poi, cercò di mettersi seduta, ma si bloccò subito. «Mi gira la testa...»
«Fai piano, non alzarti di scatto» le sussurrò Marcello, dolcemente, sorreggendole saldamente la schiena con una mano mentre con l’altra sistemava meglio i cuscini, per poi aiutarla a distendersi nuovamente.
«Come son finita sul divano?» chiese lei, frastornata.
«Sei svenuta» le rispose lui, sospirando. «Ora non muoverti, vado a prepararti acqua e zucchero».

Non erano passati nemmeno due minuti, che il ragazzo tornò dalla cucina reggendo in mano un bicchiere colmo quasi fino all’orlo.
«Ecco qui, ora bevilo lentamente» ordinò alla giovane, porgendoglielo. «Scommetto che non hai pranzato oggi, giusto?»
«Sì, ho preso un panino con altre colleghe del corso» rispose quella, cominciando a sorseggiare la mistura, senza trattenere una piccola smorfia per il sapore stucchevole.
«Penso che dovresti mangiare qualcosa di più sostanzioso, sai?» le fece notare il marito, tra il severo ed il preoccupato, sedendosi accanto a lei. «Anche se penso che la notizia di prima ti abbia scossa molto».
Sbattendo le palpebre, Beatrice rimase con il bicchiere a mezz’aria e lo guardò sorpresa.
«Quale?»
«Quella della morte di Navarra» le spiegò lui, perplesso, chiedendosi se fosse possibile che, restando turbata, avesse già rimosso quell’informazione. «Non ti ha suggestionata?»
«Oh, certo che no, non son così impressionabile!» esclamò lei, quasi offesa. «Non posso dire di esser contenta, ma mi sento sollevata che non possa più darci fastidio».
Stupito da quell’irritazione, Marcello si limitò ad annuire e tacque, non sapendo bene cosa dirle per il timore che si infervorasse e che potesse avere un altro mancamento. Anche perché, aveva avuto modo di verificare in prima persona quanto sua moglie, se indispettita, potesse essere infiammabile.
«Non son svenuta per quello» ammise, a quel punto, Beatrice in un sussurro, terminando ciò che restava dell’acqua zuccherata.
Di fronte ad una rivelazione simile, il ragazzo rimase ancor più stupito e, subito, fu assalito dalla tremenda sensazione che la moglie gli stesse nascondendo qualcosa di importante, proprio come aveva già fatto suo padre.
«Allora, sai il motivo...» mormorò, avvertendo una fitta allo stomaco.
«Be’, ecco... sì. Avrei voluto dirtelo stasera a cena...» cominciò lei, incerta. «Stamani sono andata a ritirare le analisi e...»
Alla parola “analisi”, Marcello sentì il buio calare su di lui, poiché, ormai aveva imparato ad associare a quel vocabolo solo angosce e timori.
«Che cos’hai? Perché non mi hai detto niente?» le chiese, allarmato, convinto che la situazione gli fosse già sfuggita di mano.
«Perché non ne ero sicura!» replicò l’altra, senza scomporsi, appoggiando il bicchiere vuoto sul tavolino lì accanto. «A volte, può capitare che...»
«Beatrice, io sono tuo marito ed esigo sapere sia quando stai bene che quando stai male!» la interruppe lui, dando uno stizzito colpo al cuscino su cui era seduto, infastidito per essere stato estromesso da un aspetto importante della vita di sua moglie.
A quel punto, lei lo guardò sbigottita per qualche istante, prima di scoppiare a ridere.
«Ma no, Marcello, non son malata!» esclamò, gioiosa. «Sono solo... incinta!»
Tra i due calò immediatamente il silenzio, che servì al giovane per capire cosa gli avesse effettivamente appena detto sua moglie.
«... incinta?» ripeté, stralunato, come se, ribadendo il concetto, questo potesse acquisire più significato.
Con un timido sorriso, la ragazza annuì e Marcello, rigido come un baccalà, si limitò a fissarla, deglutendo a vuoto: c’era un bambino in arrivo... avrebbe avuto un figlio!
A quel pensiero, si ritrovò ad arrossire per la figuraccia appena fatta con Beatrice, essendosi dimostrato, come suo solito, incline a trarre conclusioni catastrofiche, anche nei momenti meno indicati.
«Perché non dici niente?» gli chiese l’altra che, notando il suo mutismo, s’intristì. «Forse non sei contento?»
Smosso da quel tono ferito, Marcello si voltò verso la consorte e, finalmente, dispiegò le labbra in un gran sorriso.
«Ma certo che lo sono...» le disse, prendendola per i fianchi e avvicinandola a sé. «È la gioia più bella che mi hai dato, dopo aver accettato di sposarmi» le sussurrò poi, prima di darle un bacio alquanto appassionato.
In risposta, Beatrice, rasserenata, lo assecondò con la stessa intensità, sfiorandogli il volto e i ciuffi della frangia con la punta delle dita.
«So che sarà molto impegnativo, con l’università, il lavoro part-time alla merceria e tutto il resto, però...» considerò, tra un bacio e l’altro, pensierosa.
«Però, non sei sola. Ti aiuterò io, visto che è anche mio figlio» gli fece notare il ragazzo, premuroso, distaccandosi da lei quel tanto che bastava per guardarla negli occhi. «Basterà solo organizzarsi».
Sorridendo, felice, la giovane appoggiò la propria fronte contro quella del marito, lasciandosi coccolare dalle sue carezze.
«Sai già quando nascerà?» le chiese poi Marcello, desideroso di saperne di più.
«Oh, no, la dottoressa non ha detto molto, voleva prima accertarsi che fossi davvero incinta» spiegò la moglie, concitata, torturandosi una ciocca di capelli per sfogare l’agitazione del momento. «Inoltre, mi piacerebbe che andassimo insieme alla visita, soprattutto alla prima ecografia...»
«Ma certo che andremo insieme, anche io voglio vedere il nostro bambino! O bambina, ovviamente» la rassicurò lui, prendendole la mano libera e baciandole il dorso. Sapeva bene che, essendo solo l’inizio della gravidanza, si sarebbe visto ben poco, però era certo che sarebbe stato comunque emozionante.
«La Vittoria ha detto che ci siam fatti un regalo di Natale molto originale» commentò, inaspettatamente, l’altra, non riuscendo a nascondere un sorriso divertito. Marcello, però, non appena udì quel nome, non fu dello stesso avviso.
«Vittoria?» le domandò, infatti, augurandosi di aver capito male, pur sapendo quanto, purtroppo, fosse poco probabile. «Che cosa c’entra lei, esattamente?»
«L’ho incontrata fuori dal laboratorio analisi, oggi l’era il suo turno in ospedale» gli raccontò Beatrice, alzando le spalle con fare innocente.
«Quindi, l’ha saputo prima di me» osservò il giovane, infastidito, domandandosi come facesse la sua amica a trovarsi sempre nel posto sbagliato al momento sbagliato, anche se, forse, lei avrebbe detto l’esatto contrario.
«Sì. Però, m’ha promesso che non lo dirà a nessuno, nemmeno a Gerardo, perché preferisce che siamo noi a dargli la notizia».
«Eh, certo!» borbottò Marcello, ironico, inarcando un sopracciglio. «L’importante è che lo sappia lei, mentre quel poveraccio è l’unico a non esserne al corrente!»
«M’ha fatto anche capire che le piacerebbe molto essere la madrina» aggiunse la ragazza, infine, sembrando perfino gradire l’idea.
A quel punto, il giovane decise di prendersi un paio di secondi per calmarsi ed evitare che l’invadenza senza speranza di Vittoria gli rovinasse quel bel momento.
«D’accordo, d’accordo» sospirò, sforzandosi di non inveire contro l’amica. «Allora, vorrà dire che inviteremo sia lei che Gerardo domani sera a cena, così avremo modo di dirlo anche a lui e chiedergli di fare da padrino al nascituro».
A Beatrice piacque molto la proposta e fu subito d’accordo, tuttavia, trovandosi in argomento, il ragazzo pensò bene di aggiungere: «Per quanto riguarda gli altri, a cominciare da mia madre, penso, invece, che possiamo anche aspettare qualche mese prima di dare l’annuncio».
«E tuo papà?» chiese istintivamente la ragazza, aggrottando appena la fronte. «Marcello, sai bene che è in una situazione... precaria. Son certa che saprà mantenere il segreto».
Messo di fronte a quell’obiezione, il giovane dovette riconoscere che sua moglie aveva assolutamente ragione, poiché, nonostante il signor Giancarlo non sembrasse in imminente pericolo, i medici non avevano certo taciuto i loro dubbi in merito. Una parte di Marcello, quella più razionale, infatti, era consapevole del fatto che il destino di suo padre fosse in bilico e fu la stessa che in quell’istante si ricordò di quello che gli aveva detto Gerardo poche ore prima.
«Anche perché credo che non avremmo potuto farlo più contento
, visto che desidera molto un altro nipotino o nipotina» considerò il giovane, meditabondo, augurandosi che, sapere che sarebbe stato presto di nuovo nonno, avrebbe aiutato l’uomo ad avere una ragione in più per farsi forza.
Regalandogli una carezza di conforto, Beatrice, a quel punto, richiamò la sua attenzione: «A proposito, si deve scegliere il nome!»
«Di già?» chiese il ragazzo, stupito. «Non è presto?»
Ma la moglie scosse la testa.
«Be’, possiam cominciare a farci un’idea. Anche se, a dirla tutta, questa è l’unica cosa che vorrei tener segreta fino all’ultimo».
Pensando che potesse essere un buon compromesso, il giovane annuì e, sistemandola meglio tra le proprie braccia, si preparò ad ascoltare quali opzioni aveva in mente.
«Se dovesse essere una bambina» esordì, «ti piacerebbe se la chiamassimo Elena, come mia madre?»
«È un bel nome» confermò l’altro. «D’altra parte, non la chiamerei Claudia nemmeno se non ci fosse già l’altra nipote».
Soddisfatta per la risposta ottenuta e per la sintonia che c’era con il consorte, Beatrice sorrise e proseguì: «Invece, se sarà un bambino, che ne dici di...»
Si fermò per un istante, concedendosi un sorriso, e poi si avvicinò di più a lui, sussurrandogli qualcosa all’orecchio.
«Ne sei sicura?» chiese Marcello, piacevolmente colpito.
«Non potrebbe esserci scelta migliore» decretò lei, serena.
All’improvviso, la finestra sulla parete in fondo si spalancò e una lieve brezza si insinuò nella stanza, giocando con le tende, gonfiandole, e solleticando i cristalli del lampadario, facendoli tintinnare. Accarezzò anche i due giovani, scompigliando con dolcezza i loro capelli.
«Eppure, l’ero convita di averla chiusa!» esclamò la ragazza, incredula, non riuscendo a capire come l’anta potesse essersi aperta, soprattutto con un venticello debole come quello.
«Tranquilla, ci penso io» affermò il giovane, aiutandola a rimettersi in piedi prima di alzarsi a sua volta.
Una volta che la finestra venne richiusa, il Vento dell’Ovest seppe che per lui era arrivato il
momento di congedarsi da Marcello e Beatrice e ricominciare il suo viaggio. Come ultimo saluto al parco di Villa Aurelia, che lo aveva accolto in quella lontana giornata autunnale, lo percorse in lungo e in largo, facendo vibrare ogni ramo e vorticare le foglie cadute in terra. Quindi, si librò in aria, sempre più in alto, fino alle nuvole, portandole con sé verso altri luoghi da esplorare, altre persone da conoscere e nuove storie da raccontare.



***
Per la revisione di questo capitolo, ringrazio Lady Viviana per la sua gentile collaborazione; come sempre la grafica del titolo è opera mia.
Ringrazio la mia Anto per seguirmi sempre.
***
[N.d.A]
1. Sacra Rota: nome popolare per il Tribunale della Rota Romana, tribunale ordinario della Santa Sede. Tra le varie attività, si occupa anche di valutare i casi di richiesta di annullamento dei matrimoni celebrati secondo il rito cattolico.
***

Devo ammettere che, nell’arco di questi cinque anni, ci sono stati dei momenti in cui ho temuto che non sarei mai arrivata a questo punto.
Ho deciso di lasciare questo finale un po’ incompiuto, soprattutto per la parte poliziesca, perché tra gli anni ‘60 e ‘80 ci sono state moltissime vicende di cronaca - anche politica - irrisolte e volevo essere coerente con i tempi.
Come già ho anticipato, questa storia non avrà sequel canonici, tuttavia è vero che Marcello e Beatrice hanno un piccolo ruolo in un’altra mia storia, scritta qualche anno fa, e avranno un cameo nel racconto che ho in cantiere, dove compariranno anche Gerardo e Vittoria. 
Come ultimo “promemoria”, vi avviso che nelle prossime settimane revisionerò massicciamente i primi due capitoli di questa storia (le ragioni saranno spiegate a revisione ultimata).
Ringrazio di cuore chiunque mi abbia sostenuta: chi ha letto tutta la storia, anche silenziosamente; chi l’ha messa tra le preferite/ricordate/seguite; chi, in passato, mi ha fatto sapere la sua; chi mi ha lasciato una recensione allo scorso capitolo (Aven, StormyPhoenix).
Per seguire gli aggiornamenti sui miei prossimi lavori, vi lascio il solito link alla mia pagina facebook. Se, invece, volete avere una panoramica di tutte le trame connesse a questa, troverete sul blog una sorta di indice.
Grazie mille per essere rimasti fino alla fine e per aver atteso, pazientato, creduto di poterci arrivare.
Halley S.C.

P.S. Come bonus-premio per tutti voi temerari, ho cominciato a lavorare su alcuni disegni. Gerardo e Vittoria sono solo da colorare, Marcello e Beatrice sono in realizzazione. Appena finiti, saranno resi pubblici sulla mia pagina DeviantArt.

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