at last.

di Elphie94
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** i. ***
Capitolo 2: *** ii. ***
Capitolo 3: *** iii. ***
Capitolo 4: *** iv. ***
Capitolo 5: *** v. ***
Capitolo 6: *** vi. ***
Capitolo 7: *** vii. ***
Capitolo 8: *** viii. ***
Capitolo 9: *** ix. ***
Capitolo 10: *** x. ***
Capitolo 11: *** xi. ***
Capitolo 12: *** xii. ***
Capitolo 13: *** xiii. ***
Capitolo 14: *** xiv. ***
Capitolo 15: *** xv. ***
Capitolo 16: *** epilogo. ***



Capitolo 1
*** i. ***


Ad Elvira,
senza la quale non sarei qui.



Scena I.
[ I due personaggi si trovano in uno studio dall'aria confortevole. La prima, una donna sui quaranta, vestita con pantaloni e camicia casual, accavalla le gambe su una poltrona che ha visto tempi migliori. La seconda, drappeggiata in abiti neri che la fanno sembrare più intimidatoria di quanto sia in realtà, è seduta a gambe divaricate su un divano rosso, la schiena appoggiata a morbidi cuscini di velluto. È chiaro che sono a loro agio nel parlare l'una con l'altra. In questo momento discutono di una questione che sembra dividerle. ]

DOTTORESSA LAURENT: È un'ottima idea.
MEG: (aggrottando la fronte) No, è una pessima idea.
DOTTORESSA LAURENT: Il miglior virtuoso del mondo. È un'occasione da non perdere. C'è chi pagherebbe oro pur di avere un'opportunità come la tua.
MEG: Beh, io non sono chiunque, quindi… La risposta è no. (si ferma a rosicchiarsi un'unghia smaltata di nero, accigliandosi dinanzi a una pellicina molesta) È ridicolo. Non ho bisogno di un baby sitter.
DOTTORESSA LAURENT: Non si tratta di un baby sitter. Fa parte della terapia, Meg. E in quanto tale faresti bene ad accettarla.
MEG: (bofonchia qualcosa che assomiglia pericolosamente ad uno scimmiottio delle parole dell'altra donna) Mpfh.
DOTTORESSA LAURENT: Tua madre ha avuto un'idea brillante. Beh, è una donna brillante, non c'è da meravigliarsi se… (si ferma, ponderando le parole) Lo farai? Almeno provaci. Conoscerai un grande artista.
MEG: Non si sa nulla di lui. È un recluso da vent'anni, da quando praticamente ha iniziato la sua carriera. Sarà uno di quei vecchi con la puzza sotto il naso. Non mi faccio fare da tutor da un vecchio altezzoso, io.
DOTTORESSA LAURENT: É vecchio?
MEG: Nessuno lo ha mai neanche visto in faccia. Non si sa niente di lui. Se non che non dà concerti… Un egoista, a mio parere. Uno non può creare musica del genere e poi… (fa un gesto vago con le dita piccole e magre) Puf. Scomparso dalla circolazione.
DOTTORESSA LAURENT: Quindi hai ascoltato le sue opere.
MEG: Certo che sì. Chi non lo ha fatto? Forse solo qualche adolescente brufoloso che si spara immondizia tecno nelle orecchie. (fa una smorfia) Comunque sia, continua a sembrarmi un'emerita puttanata. (non si scusa per il termine volgare)
DOTTORESSA LAURENT: (trattenendo a stento un sospiro — Dio solo sa quanti pazienti cocciuti ha seguito negli anni, ma questa in particolare…) Meg, ricorda quello che abbiamo detto tante volte riguardo al rischiare. Tu sei sempre troppo impaziente di provare le cose. Ti getti nella mischia senza pensare. A volte può essere un difetto… (Meg emette un lieve sbuffo sarcastico) ma d'altro canto è qualcosa che non possiamo ignorare. E quel qualcosa mi dice che muori dalla voglia di saperne di più.
MEG: Su cosa, esattamente?
DOTTORESSA LAURENT: Su di lui. Sul mistero che lo circonda. Da quanto tempo ci conosciamo, Meg?
MEG: Da prima che avessi Dany.
DOTTORESSA LAURENT: Fidati di me, allora. Vedila come un'avventura.
MEG: Sono troppo grande per le avventure. Ne ho avute abbastanza per una vita intera, e non erano come mi aspettavo da bambina.
DOTTORESSA LAURENT: Questa volta è diverso. Credo fermamente che nella musica ci sia un potere di guarigione per l'anima che le medicine non possono offrire. Pur con tutta la nostra scienza, noi medici ci troviamo disarmati davanti alla vera bellezza. All'arte. (una breve pausa, in cui osserva con occhi acuti quelli scettici della sua paziente) Sei convinta, adesso? Prendila come una sfida.
MEG: E che io sia dannata prima di tirarmi indietro davanti a una sfida.
DOTTORESSA LAURENT: (sorride) Esatto.



i.


Non sa cosa lo sveglia, se il ronzio nelle orecchie o il rombo del cuore nel petto. Si puntella sui gomiti e si sfila di dosso le lenzuola, divenute ingombranti, asciugandosi il collo sudaticcio con un asciugamano che tiene sempre a portata di mano sul comodino. Il sangue che gli pulsa nei timpani è a dir poco fastidioso. China la testa tra le ginocchia e respira lentamente, il movimento dei polmoni ben palpabile sotto la pelle. Inspira, espira. Così gli ha detto il terapista da cui andava anni fa. Non che andarci sia servito a tanto. Solo un'inutile perdita di soldi — ma di soldi ne ha da spendere, lui, quindi non ci fa caso. Inspira, espira.
Mi chiamo Erik Danton, ho quarantacinque anni e sono francese. Si ripete questo segmento di pensiero più e più volte, per ricordare a se stesso chi è e dove si trova. Sono nella mia stanza, a casa mia. Appena fuori Parigi. Sono al sicuro. Al sicuro dalla morte, dal sangue — sulle mie mani e su quelle degli altri. Al sicuro da tutto.
Si passa le lunghe dita ossute tra i capelli umidi e controlla la sveglia. Sono le quattro e mezza del mattino: un orario un po' atipico per farsi una doccia, ma è abituato a stranezze ben peggiori. Sa che alle otto precise riceverà una chiamata dal Daroga, che lo vorrà sveglio e pronto invece che a dormicchiare spaparanzato sul letto disfatto. Poi la cameriera, la signora Giovanna. Sì, non può farsi vedere in questo stato. Con un sospiro quasi doloroso, si tira su dal letto. Un ultimo sguardo di nostalgia alle lenzuola calde e accoglienti, e poi dritto nella doccia. Anche lì, nel bagno, non ci sono specchi.
Naturalmente.


«Dovrebbe mangiare di più, signore.»
Giovanna è una sessantenne piena di energia che ogni sabato gli rifila una porzione di lasagne fatte in casa che potrebbe sfamare un'intera famiglia, non certo uno stomaco ristretto come il suo. A suo tempo, quando girava per il mondo, ha imparato a vivere di poco. Anche dopo anni di agio, tutto quel lusso lo disorienta.
Sorride sotto la maschera che indossa — sempre — e fa cenno alla donna di non preoccuparsi. Giovanna viene da una famiglia italiana di antiche tradizioni: da qui le lasagne per il datore di lavoro. Non sa se sia così gentile con lui perché la paga tanto da fare invidia a tutte le domestiche del mondo o perché è sinceramente cortese e apprensiva. Una miscela di entrambe le cose, sospetta. Il denaro rende gentile chiunque, se necessario.
Quando la domestica ha ormai terminato le sue pulizie e lo ha edotto abbastanza sulla cucina italiana da saziare una mandria di buoi, lui si dedica ad un altro tipo di pulizia: quella personale. D'altronde, oggi ha appuntamento con una donna.
Nulla di galante, naturalmente. Al pensiero, quasi sogghigna — con l'usuale amarezza. Non ha mai avuto a che fare con appuntamenti galanti, lui. Conosce molti modi per uccidere un uomo, e nessuno può — o poteva — superarlo nell'uso del laccio del Punjab, ma non ha mai capito nulla delle donne. A parte Giovanna, la domestica peso massimo che si ostina a chiamarlo “signore” nella sua lingua d'origine, e non “Monsieur”, non c'è nessun’altra nella sua vita. Nessuna, a parte una vecchia conoscenza: Antoinette Giry.
Infelicemente vedova da tredici anni, di una manciata d'anni più anziana di lui, è istruttrice integerrima di danza all'Opera Garnier. È lì che l'ha conosciuta, quando gli riservava il palco numero 5 perché…
No, meglio non pensare al passato. Certe ferite sono ardue da rimarginare, e lui ha troppe cicatrici sulla pelle anche solo per contarle.
Indossa il suo completo Armani con un'eleganza che gli è quasi naturale. Si fa recapitare giacche, cravatte, camicie e pantaloni di pura seta dalle migliori aziende di moda, da tutte le capitali di stile del mondo — Milano, Londra, New York, la stessa Parigi. È sempre stato un suo… vizio, l'eleganza. Non per apparire più attraente — senza la maschera che indossa costantemente, o almeno quando non è solo in casa, sarebbe più facile far sembrare mansueto un leone affamato — ma per sentirsi più sicuro di sé. L'eleganza ha il suo perché, dopotutto.
Non gli importa di spendere tutto quel denaro in completi e scarpe e cappelli che chiunque altro non potrebbe permettersi. Il Daroga è ostinato nel ricordargli che i soldi non sono eterni, ma lui non è stupido, e sa amministrare le sue spese. Sapeva risolvere le divisioni a tre anni. Si limita a godersi quel poco che può: non c'è peccato in questo, assolutamente.    
Ritornando ad Antoinette, si tratta di un favore con cui deve ripagarla  per tutto ciò che lei ha fatto per lui negli anni dell'Opera. Non sia mai che si dica che Erik non paga i propri debiti. È molte cose, ma non è un ingrato, per quanto il Daroga lo accusi spesso di questo peccato — ti ho salvato la vita, Erik, e tu mi tratti come fossi lo zerbino di casa tua! Dammi retta invece di annegare nel vino come fai di solito. Continua così e ti rivedrò in un centro per alcolisti anonimi. E così via. Gli sembra di avere sul collo il fiato di un genitore iperprotettivo. Ma cosa ne sa, lui? Non ha mai avuto dei genitori veri.
Rumore di ruote sul viottolo. Ah, eccola che arriva. Il suo debito da ripagare. Erik si aggiusta il nodo alla cravatta, lanciando un'occhiata fuori da una delle grandi finestre nel salotto. Uno dei salotti, a dire il vero — beh, non ha importanza. Scorge una figurina vestita di nero a bordo di una motocicletta grossa il doppio di lei. Erik aggrotta la fronte dietro la maschera. Se lo avesse saputo, le avrebbe prenotato un taxi, con quel freddo.
Bussano alla porta. Non può dire di non essere un tantino nervoso. Non ha rapporti con le persone — eccetto il Daroga e Giovanna e pochissimi altri — da anni. Quel che gli serve se lo fa recapitare a casa via posta, o grazie ad Internet. Con quest'ultimo può tenersi aggiornato sul mondo anche se non vi vive davvero. Un'invenzione assai utile, a suo giudizio.
Erik attraversa il grande atrio e apre la porta.
Non sapeva cosa aspettarsi, ma quello che si trova davanti non è… facilmente immaginabile. Una ragazza — potrà avere sui diciannove, forse vent'anni al massimo — con disordinati capelli neri, pelle olivastra e un viso che non si può dire grazioso, ma passabile. (Beh, di certo lui non è tipo da giudicare una persona per il proprio aspetto. Nei suoi anni di convivenza con un volto deforme e una pelle fatalmente diversa, ha imparato a non farlo mai. L'apparenza inganna.) Lunghe ciglia scure incorniciano occhi di carbone e onice. È vestita nel modo strano in cui si abbigliano certi giovani: giubbotto di pelle, stivali anfibi dal tacco pesante, jeans strappati. In più, matita da sguardo letale intorno agli occhi allungati e lucenti. Tutto rigorosamente nero. Sembra uscita da una rivista di moda controcultura di scarsa qualità.
La giovane si toglie le cuffie dalle orecchie e gli offre una mano, guantata — sempre di nero.
«Meg Giry. Mi aspettavi?»
Sembra notare solo adesso che lei è vestita praticamente di stracci e lui sfoggia un completo impeccabile. Non ne arrossisce minimamente. Si apre in un sorrisetto e chiede di entrare.
«Prego» dice lui, e le fa cenno di accomodarsi. La vede mordersi un labbro, e sa perché. La sua voce è sempre stata suadente alle orecchie degli altri, e questo deve averla disorientata. Non era intenzione di Erik, comunque. Meg si riprende in fretta, guardandosi intorno con una curiosità che sfiora la maleducazione.
«Cazzo. Bella casa.»
A queste parole, Erik già sa che il suo compito di insegnante sarà ben più difficile del previsto. Cominciamo bene.


Le offre di accomodarsi in salotto, e lei si siede sul bordo di uno dei lussuosi divani in pelle, sempre lo sguardo attento ad ogni dettaglio che la circonda.
«Un bicchiere di Chianti?»
«Di che?»
Erik si schiarisce la gola. Non può impedire al suo tono di voce di assumere una sfumatura arrogante.
«Di Chianti. Un vino italiano. Un'ottima annata.»
«Preferisco la birra al vino.»
«Ah. Pardon, ma non ho birra.»
«Un appunto per la prossima volta. Se hai in casa altro alcol, però — whisky, vodka, gin — ne prendo un cicchetto volentieri.»
Si dà il caso che conservi una bottiglia di vecchio saké in cantina, e ne offre un "cicchetto" all'amabile ragazza seduta sul divano di casa sua. A gambe divaricate, poi, completamente a suo agio, almeno all'apparenza.
Si scola lo shot di saké in un fiato, umettandosi le labbra con l'eterno sogghigno. Di certo non è vergine al sapore dell'alcol. È quasi inquietante, ora che la osserva meglio, quanto assomigli alla madre e allo stesso tempo abbia l'aria di una persona con cui Antoinette Giry non potrebbe mai essere imparentata. Ha la stessa forma degli occhi e i capelli neri, ma è piccola e magra quanto la madre è alta, e scura di pelle quanto l'altra ha la carnagione di porcellana. Immagina che siano i colori del padre. Doveva avere una qualche origine africana, suppone.
Ha sentito parlare di Claude Giry, naturalmente. Pianista talentuoso, marito e padre esemplare, rinomato nell'ambiente musicale parigino. A questo, è succeduto un ricovero in un istituto di igiene mentale, fino al suo tragico suicidio avvenuto tredici anni prima. Una storia che urla dramma da tutti i pori.   
«Mia figlia non ha più continuato a suonare il pianoforte dopo che…» Questo gli ha detto Antoinette al telefono, quando lo ha contattato per proporgli per la prima volta la sua offerta. Non sa ancora come si sia procurata il suo numero, anche se è certo che ci sia di mezzo il Daroga. Lui è ancora un frequentatore dell'Opera, e tutti sanno che è vicino al misterioso e geniale musicista Erik Danton.
«Vorrebbe riprendere?» aveva chiesto lui, con la sua voce più vellutata. Antoinette aveva sospirato.
«Si è convinta, alla fine. Le farebbe bene. Non ha mai superato davvero la morte del padre, e questo… questo potrebbe aiutarla a riavvicinarsi alla sua memoria in un modo che le ispiri amore e dolci ricordi, e non amarezza.»
Lui aveva alzato un sopracciglio. «Capisco. Madame, siete certa che io sia la persona adatta?»
«Sì. Non conosco musicista più talentuoso di voi, Erik.» Un sospiro. «Si tratta di un esperimento, capite. Abbiate pazienza con lei. Ha avuto un vissuto problematico.»
Posso solo immaginare, pensa mentre la guarda masticare rumorosamente una cicca e tamburellare il piede sul pavimento di marmo lustrato — opera di Giovanna, ovvio; quella donna è sempre diligente nel tenere la grande villa Danton ben pulita e ospitabile, sebbene i visitatori siano ben più che rari.
Ma ora Erik si è impelagato in questa situazione, e non può uscirne fuori. Non vuole, d'altronde. Sembra una sfida interessante. Fare di quella ragazza una brava pianista… Magari ha davvero talento. Il padre doveva pur capirne qualcosa.
«Perché la maschera?» chiede Meg all'improvviso. Erik nota che la sua voce è roca e bassa, non certo il soprano delicato e argentino di…
No, non devo pensarci. Non adesso. Non a lei.
Si concentra sulla giovane donna che siede dinanzi a lui. Non ha alcuna vergogna nel chiedergli quello che di solito la gente ha troppo timore di sputargli in faccia.
Perché la maschera, Erik? Ne indossa una di porcellana nera, che gli copre la maggior parte del viso. Solo il labbro inferiore è lievemente scoperto, così che si nota quando sorride o fa una smorfia. Ora è il momento di fare una smorfia.
«Un incidente?» chiede di nuovo Meg, senza attendere che lui risponda alla sua prima domanda. Erik si schiarisce la gola.
«Un incidente di nascita, ti correggo.»
Lei alza le mani, lievemente sgomenta. «Non lo sapevo. Mi dispiace.» Sembra sincera dalla prima volta che ha messo piede in casa sua. Se solo non continuasse a masticare rumorosamente quella cicca…
«Niente di cui tu debba preoccuparti.» Una pausa. «Sono inutili le presentazioni, suppongo.»
«Su di te so quel che sa il resto della gente.»
Erik sorride, sardonico. «La gente presume molto, di solito. Cosa sa?»
«Il tuo talento è… ineguagliabile. È risaputo.» Non lo dice per ingraziarselo: è un dato di fatto, molto semplicemente. Non sbatte neanche le ciglia. «Cantante lirico e non, compositore, musicista — suoni una miriade di strumenti, e…» Si ferma per versarsi dell'altro saké. «Non ti sei mai fatto vedere in pubblico. La gente conosce il tuo nome, ma non la tua faccia. E ora so perché.» Si scola un altro bicchierino. Deve vantare una buona resistenza all'alcol, perché quando ha finito è ancora lucidissima.
«Io invece di te non so molto, se non che sei una ballerina nella compagnia dell'Opera di Parigi. Un ruolo ambizioso.» Non le dice che sa anche come è morto suo padre, o che sua madre è sinceramente preoccupata per lei. Non deve — non vuole — immischiarsi.
«Sono tutti convinti che queste dannate lezioni mi farebbero bene. Sono qui per dimostrare il contrario.» Gli sogghigna in faccia. Osa sogghignargli in faccia. Ma bene.
«Tua madre deve pur averti insegnato l'educazione.»
Lei s'incupisce. «Perché mi dici questo?»
Lui le sventola un indice sotto il naso. «Prima di tutto, per te è Monsieur. Secondo, non sono qui per giocare.»
Lei distorce le labbra sottili in una smorfia — un'altra. «Io ti chiamo come mi pare.»
Erik sospira. Quella ragazza lo sta facendo avvicinare pericolosamente al punto di ebollizione. «Un po' di rispetto sarebbe dovuto.»
«Perché sei un vecchio recluso? Uno il rispetto se lo deve meritare da me, ecco tutto. E se tu mi apostrofi in questo modo…»
Iniziamo male. Molto male. «Ragazza, non ti chiedo niente.»
Lei si infiamma. «Il mio nome è Meg. Non ragazza
«Non avevi detto che potevi chiamarmi come più ti piaceva? Ebbene, farò la stessa cosa anch'io.»
Lei si morde un labbro. Sembra sul punto di alzarsi e prenderlo a pugni, ma non lo fa.  In qualche modo, si controlla.
«Ti hanno mai detto che sei uno stronzo arrogante?»
«Molte volte.» Ora sorride, serafico. «Cominciamo la lezione?»


Ha bisogno di accertarsi sulla sua preparazione. Che c'è, solo che è arrugginita, decisamente arrugginita. E poi c'è qualcos'altro che la blocca… Qualcosa a cui non sa dare nome. Sa solo che, quando vede il lucido pianoforte a coda nella stanza della musica, ne rimane impietrita per un attimo. Non stupita dalla sua bellezza, no: proprio raggelata. Quasi impaurita. Svanisce in un secondo, comunque, e ritorna spudorata come sempre. Si guarda intorno masticando la cicca. La sala della musica è l'orgoglio di Erik, riempita di ogni strumento possibile, libri di spartiti e una stanza adiacente che è un vero e proprio studio di registrazione.
Erik la invita a sedersi sullo sgabello dinanzi al pianoforte, al centro della camera.
«Non ho portato uno spartito. Avrei dovuto?»
«No. Scegline uno da quella cartella.»
Inizia con un semplicissimo valzer, ma s'intoppa sul più bello. Ci vogliono due ore intere di esercizi perché riesca a suonarlo in modo tale da non fargli sanguinare le orecchie. Dopo interminabili minuti di digrignar di denti e maledizioni sussurrate, Meg ce la fa, ed Erik ha compreso pienamente da dove cominciare con lei. Ossia, quasi daccapo.
Conosce le basi, ma la tecnica è scarsa. Si premura di informarla al riguardo, non senza quel tono di superiorità che lo contraddistingue, ed è forse per questo che lei si rabbuia e fa per prendere lo spartito e scagliarglielo in testa. Alla fine non fa nulla, il che è un bene. Erik non è tipo da accettare con beneplacito che qualcuno gli lanci la sua roba (concernente la musica, per altro) sulla propria testa mascherato.
Come compiti per casa, le assegna diversi esercizi di solfeggio. Lei distorce le labbra, disgustata.
«Pensavo che la pratica fosse più importante.»
«Lo è anche la teoria.»
«Beh, si dà il caso che a me non piaccia. Non mi è mai piaciuta.»
«Fattela piacere a forza. Non vi è altro modo.»
Meg gli riserva uno sguardo fulminante. Si accordano per la lezione successiva — sabato prossimo, alla stessa ora del pomeriggio — dopodiché Meg fa per andarsene con il nuovo plico di spartiti sotto il braccio.
«Ripassa bene quel che ti ho insegnato oggi. Non dimenticare: il solfeggio è—»
«La base della pratica. Sì, lo so.» Gli dardeggia contro uno sguardo acceso da sotto le folte ciglia scure. «Questa lezione è ridicola. Anzi, questa idea è ridicola.»
«Senti un po', piccola scost—»
E prima che Erik possa concludere, lei scompare lungo il viottolo, mette in moto l’Harley Davidson — nera anche quella, bella potente — e si dirige senza casco per la via di casa. Se avesse qualcosa in mano, Erik glielo lancerebbe contro.
In cosa mi sono immischiato? Questa ragazza è terribile. Senza contare che gli ha dato dello stronzo arrogante pochi minuti dopo averlo conosciuto. Non sa se essere più offeso o stupito perché, sorprendentemente, ci ha azzeccato in pieno.



Note dell'autrice: Eccomi tornata con una nuova E/M! Chi ha letto l'altra mia long fic - Mon coeur s'ouvre à ta voix - avrà già familiarità con i personaggi e la coppia. Questa fic è una sorta di AU, ma non è necessario aver letto l'altra per capirla - sono sconnesse tra loro. Inoltre è molto più leggera, meno tragica e assai meno lunga della "collega". E' senza pretese, e spero vi faccia sorridere. Aggiornerò regolarmente, dato che l'ho già conclusa.
Bye :)

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Capitolo 2
*** ii. ***


Scena II.
[ Studio medico, confortevole, dai colori autunnali. I due personaggi siedono in un placido silenzio, che la più giovane infrange con un'esclamazione poco signorile. ]

MEG: Che cagata.
DOTTORESSA LAURENT: Meg.
MEG: Non potete capire la frustrazione. Frustrata, sì, ecco come mi fa sentire quel tizio. Non c'è alcuna armonia tra noi.
DOTTORESSA LAURENT: Forse il primo incontro può non essere andato come speravamo, ma non deve essere un punto d'arrivo. Vediamo se le cose cambiano col tempo. Cerca di essere più paziente. È solo l'inizio, Meg.
MEG: È proprio questo che mi preoccupa.



ii.


Le lezioni si susseguono tranquillamente — per modo di dire — per un mese, tre ore a settimana. Erik sa che Meg ha un lavoro difficile, un'arte a cui dedicarsi, ma semplicemente non svolge i compiti a casa. Non vi versa impegno né volontà, e questo è inaccettabile. Sì, il loro non è stato un inizio propizio — lei gli ha dato dello stronzo, lui non si è dimostrato diverso. E lei continua a masticare cicche, vestirsi in quel modo orribile (è come se gli lanciassero dell’acido negli occhi ogni volta che le guarda gli anfibi che ha ai piedi), fumare sigarette in casa sua — hanno avuto un violento battibecco in proposito — e ad essere una irresponsabile ragazzina so–tutto. Quel che Erik non vede è che anche lei lo definirebbe un vecchio so–tutto, e lo fa spesso e volentieri con la sua terapista.
«Non so suonare Chopin. È troppo difficile.»
«Sapresti farlo se ti esercitassi a dovere.»
«Non ho tempo, cazzo.»
«Smettila di imprecare!»
«Ma chi ti credi di essere, per darmi ordini come se nulla fosse, eh?»
E così via. Ogni volta finisce con lei che se ne va sbattendo la porta e rovinando la ghiaia sul viottolo con le ruote rombanti della moto. È una situazione insostenibile.
Nadir, il Daroga, è il solo con cui possa sfogarsi al riguardo.
«Quella mocciosa è terribile. Terribile. Non possiede un briciolo di tatto, né disciplina…»
«Sono certo che di te lei non abbia un'opinione migliore.»
«Oh, questo è sicuro.»
Nadir sorseggia il caffè che Giovanna gli ha preparato — vero caffè italiano — mentre lei passa l'aspirapolvere al piano di sopra. È un bell'uomo, sui cinquantacinque, gli occhi verdi splendenti che contrastano con la carnagione scura e i capelli ingrigiti alle tempie. Affascinante e cordiale come Erik non è mai stato. Ma gli salvato la vita, in passato, quando lui non era che un se stesso deforme e maledetto quanto la sua faccia, e questo in qualche modo li ha legati.
«Tuttavia, nessuno dei due interrompe le lezioni.»
Erik si ferma a riflettere. È vero. Gli è passato per la mente, ma non vi ha dato peso. E in qualche modo, spera che lo stesso valga per Meg.
«É ribelle e impudente, sì» prosegue Nadir con voce placida. «Ma non ti ricorda Christine. E allo stesso tempo te la riporta alla memoria.»
Il nome di lei scagliato così nell'aria come un petardo pronto a esplodere lo fa rabbrividire. «Daroga, non osare mai più pronunciare il suo nome. Lo sai.»
«Erik, devi affrontare la realtà. Lei―»
«Niente, Daroga. Niente. Non parliamone più.»
«Come desideri. Ma sappi che per me stai commettendo un errore.»
Lui scuote il capo. «Non ti pago per essere il mio terapista a tempo perso.»
La ferita che Christine gli ha inferto — col suo amore, la sua bontà — è dolorosa e allo stesso tempo ha il tocco degli angeli. Paragonarla a quella ragazza, la sua nuova allieva indisciplinata e molesta, è una bestemmia.
In realtà sa perché la tiene con sé — Meg, intende. Perché è una sfida, e lui adora le sfide. Perché è rozza, non sa zittirsi quando dovrebbe e lo contrasta in ogni modo possibile, e a lui mancava da troppo tempo la frizione della lotta. Gli ricorda se stesso in un modo che lo spaventa. Si chiede cosa pensi lei di tutto questo.
«Avverto qualcosa in lei, Daroga. Non so spiegarlo.» Non si sfila la maschera per bere il caffè, anche se gli farebbe bene un sorso di quel liquido caldo e amaro. «É spaventata da qualcosa. Se solo sapessi cosa… forse potrei aiutarla.»
«Vuoi?»
Le parole del Daroga rotolano a terra, polverose. Erik non le raccoglie.



Note dell'Autrice: Ed eccoci a un nuovo aggiornamento. Dal prossimo in poi i capitoli saranno più lunghi, non temete. Ora è solo l'inizio. Recensite, vi raccomando! Anche solo per sapere se ci sono errori o qualcosa di simile. Naturalmente, fingiamo che Erik, con tutti i soldi che ha adesso, non possa farsi una plastica facciale in tempi moderni. Fingiamo perché altrimenti non avrebbe senso.

debbythebest: Cara, che bello ritrovarti anche qui! Ci sono somiglianze con la mia precedente fic, come hai notato e come io stessa ho precisato nel capitolo precedente, ma più in là vedrai che la storia prenderà una piega molto diversa. Meg… beh, non cambia mai. XD Spero che quest'aggiornamento ti piaccia. Un bacio <3

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Capitolo 3
*** iii. ***


Scena III.
[ Studio medico. I due personaggi si fronteggiano. Meg divora senza grazia un dolcetto. ]

MEG: È insopportabile. Sono seria! Ora capisco perché passa la vita da eremita — scommetto che nessuno lo vuole.
DOTTORESSA LAURENT: Credo che abbia più a che fare con la sua deformità.
MEG: Quello che è. Poi, con tutti i soldi che ha, non potrebbe permettersi una plastica facciale?
DOTTORESSA LAURENT: Forse la sua malformazione al viso è tanto grave che gli ha reso impossibile anche questa opzione. Potrebbe essere diffusa anche ad altre parti del suo corpo.
MEG: Che schifo.
DOTTORESSA LAURENT: (in tono di rimprovero) Meg.
MEG: (vergognosa) Sì, lo so. Non è il suo aspetto che mi preoccupa, davvero. Ma se continua così commetterò un omicidio. O sarà lui ad uccidermi per primo, chissà.
DOTTORESSA LAURENT: Non hai ancora interrotto le lezioni, però.
MEG: Siete voi a ripetermi che non devo interromperle.
DOTTORESSA LAURENT: E tu sei famosa per dare ascolto agli altri, certo.
MEG: Non so. È che riprendere a suonare il pianoforte dopo tanto tempo… mi ridà vigore. Vita. Gli incubi sono passati — certo, anche grazie alla terapia, ma… In quei momenti, quando suono il piano, ricordo com'era suonarlo con mio padre, e non con quel demente mascherato. E mi viene da piangere, ma non ci riesco — non riesco a versare una lacrima, perché so che devo essere forte, per mia madre e per Dany, ma…
DOTTORESSA LAURENT: Meg, era proprio questo lo scopo delle lezioni: farti riscoprire il rapporto con tuo padre. Ti sentiresti di andare a trovarlo al cimitero, adesso?
MEG: Mia madre lo vorrebbe. Ma… (si irrigidisce) Oh, non so.
DOTTORESSA LAURENT: Troverai in te stessa la risposta. (Meg finisce di mangiare il dolcetto e sospira.)



iii.


Il culmine arriva circa due mesi e mezzo dopo il loro primo incontro. Lavorano su un brano di Mozart da circa tre settimane, ma non esce fuori che un aborto malformato di quella che dovrebbe essere la Marcia Turca. Ed Erik è stanco: non è mai stato una persona paziente, e oggi lo dimostra.
«Ti avevo detto di esercitarti» le ricorda con voce grezza e un indice puntato sul suo viso piccolo e scuro. Le guance di Meg si gonfiano di rabbia e qualcos'altro — vergogna.
«L'ho fatto» mente la spudorata.
«Non è vero.»
«Sì che è vero!»
«Se lo fosse, non saremmo qui a parlarne. Se ti fossi esercitata invece di ascoltare quella oscenità che chiami mus—»
È il turno di lei di alzarsi in piedi. È esasperata, nervosa e piena di risentimento, questo lo può vedere. Erik non lo sa, ma ha una carriera da ballerina da mandare avanti e una figlia piccola di cui occuparsi, e non può perdere tempo con un insegnante fin troppo pedante e scontroso.
«Non è un'oscenità, è heavy metal. E tu sei solo un frustrato» ribatte Meg, e questa volta è lei a puntargli contro un indice. Le cuffie le ballonzolano dalla tasca dei jeans, le stesse con cui ascolta quella roba infernale che lei definisce musica.
«Io sarei cosa
«Sei solo, annoiato e ti serve qualcuno su cui riversare il tuo rancore verso Dio e l’universo intero, ma io non sono una terapista, chiaro? E non sono nemmeno tua allieva. Mia madre mi ha detto che sai la vera ragione per cui sono qui — pensava che ti saresti comportato con delicatezza nei miei riguardi, vista la situazione, e invece ti sei dimostrato lo stronzo che sei. Deve essere questo il motivo per cui lei ti ha abbandonato, alla fine.»
Erik sussulta. I nervi gli si tendono fino allo spasimo. «Cosa?» chiede in un sibilo.
«Sai benissimo di chi parlo. Christine Daaé, la nuova Margherita come è stata definita al suo debutto nel Faust, protetta del Mozart del nuovo secolo… sposa del suo amico d'infanzia e visconte Raoul de Chagny.» Incrocia le braccia al petto; una posa decisamente arrogante e velenosa che lo fa infuriare ancora di più.
«Ho fatto delle ricerche su di te, sai? Mia madre era l'unica a sapere dello scambio morale tra te e la Daaé. Ti faceva riservare il palco numero 5 dalla direzione ad ogni sua esibizione all'Opera. E ora lei è felice in Svezia, la sua terra natia, senza te che le fai da stalker — perché questo eri per lei, vero? Un'ombra maligna. Si è liberata di te, e all'inizio, prima di conoscerti, non mi sembrava concepibile: lui è il più grande musicista del nostro tempo, mi dicevo, come può aver infranto ogni rapporto con lui? E poi ho capito. Sei un bastardo, ecco perché. Non so bene cosa provassi per lei, anche se lo posso immaginare, ma sai che ti dico? Tu non la meritavi!»
Entrambi tremano in un singulto silenzioso: lei di rabbia, lui di dolore e furia e una miscela esplosiva di altre emozioni che non sa decifrare. Quante volte si è ripetuto queste parole tra sé e sé, in quindici anni? Quante volte la sua adorazione per una donna sposata lo ha fatto vacillare sull'orlo della follia?
Christine, Christine…
Neanche il Daroga gli ha mai rivolto una strigliata di tali proporzioni, perlomeno non su di lei, perché sapeva che alla fine lui aveva capito il motivo per cui la pupilla aveva abbandonato il maestro, per cui aveva voluto tornare in Svezia e non rivederlo mai più, se possibile. Un desiderio che Erik le aveva accordato, comprendendolo solo alla fine, e col più grande rimpianto.
E alla fine arriva questa— questa— questa ragazzina a sputargli tutto in faccia, la sua faccia da demonio, come nulla fosse. E lei non sa niente, niente del dolore, della gelosia, della pazzia a cui quell'amore a senso unico per Christine lo stava conducendo…
«Non osare pronunciare il suo nome, tu, mocciosa senza cuore—»
«Non sono una mocciosa! Ho ventiquattro anni e una figlia a cui badare!»
Lui rimane travolto. Questo non lo sapeva, e gli si legge chiaro in viso, anche con la maschera.
Meg sbuffa, sardonica. «Mia madre non te l'ha detto, quando ti ha parlato di me? Ebbene sì, ho una figlia. Io vivo nel mondo reale, Erik, non quello delle fantasie, come fai tu. Non posso crogiolarmi nel ricordo del passato, non più; c'è il presente di cui devo occuparmi.»
É la prima volta che lei pronuncia il suo nome, e rabbrividiscono entrambi.   
«Adesso prendo le mie cuffie e me ne vado. Sei un genio, Erik, ma non nell’ambito sociale. E neanche io. Il comportamento di entrambi è stato… Semplicemente questa stronzata non funziona, e fanculo il ricordo di mio padre, la mia terapista e Maman che mi hanno convinta a farlo.» Meg borbotta mentre raccoglie le sue cose. Lui è ancora di fianco al pianoforte, in piedi, impietrito. Non riesce a muoversi, né a parlare. Vorrebbe dirle di restare, di non andarsene — non come lei, non come Christine — perché non è la stessa cosa, lui non è lo stesso uomo di quindici anni prima, e…
Nulla. Meg ha le lacrime agli occhi quando si chiude con furia malcelata la porta d'ingresso alle spalle, ed Erik è convinto — ode sulla distanza il motore che fa i capricci per accendersi — che non la vedrà mai più. Aspetta, vorrebbe dirle, ma la voce gli è rimasta incastonata tra i polmoni e la trachea. Affonda il viso mascherato tra le mani.
Che cosa ho fatto?

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Capitolo 4
*** iv. ***


iv.


Il giorno dopo è Nadir che deve tirarlo fuori dal letto, praticamente di forza.
«Erik, svegliati!» Mormora qualche imprecazione in farsi, la sua lingua natia, e lo solleva di peso aiutandolo a infilarsi nella doccia. Vestito. Non è comunque un bello spettacolo, perché non ha indosso la maschera.
«La masch—» farfuglia con l'alito che sa di vino.
Nadir scuote il capo. «A quella pensiamo dopo, d'accordo? Prima ti riprendi dalla sbornia e ti concedi un aspetto vagamente umano, poi ne riparliamo.»
Il getto d'acqua sulla faccia gli rischiara la mente annebbiata dall'alcol. Con gesti lenti e maledizioni sussurrate, si sfila gli abiti ormai bagnati e, dopo qualche altro minuto di benessere sotto la doccia fredda, esce e si stringe nell'accappatoio. Poi corre in camera e si infila la maschera sul viso, come una prigione di cuoio dietro le cui sbarre lui si rinchiude volontariamente. Nadir lo ha già visto senza, e più di una volta, ma lui odia ricordare agli altri la dannazione della sua esistenza. È uno dei motivi per cui, dopo tanti tentativi, ha rinunciato ai cinquantamila interventi che sarebbero stati necessari per rendergli la faccia vagamente rassomigliante a quella di una persona normale. Non ci sarebbe stato altro da fare, comunque — ha studiato un po' di anatomia in gioventù, e lo sa anche lui. No, non c'è mai stata soluzione a quello.
Nadir gli concede sufficiente spazio per vestirsi da solo — in caso contrario sarebbe oltremodo imbarazzante — ed Erik è contento di aver dormito senza coltello sotto il cuscino, quella notte. Lo fa sempre, da quando in gioventù è andato in guerra come mercenario… per poi diventare molto peggio.
Non pensarci, non pensarci, si ribadisce con veemenza. Nadir è comunque lì per aiutarlo a reggersi in piedi mentre scende le scale — già se la immagina, l'intestazione sui giornali: “Deceduto genio musicale, caduto dalle scale di casa sua, vittima dell'ubriachezza” — e lo fa sedere in cucina, dove ha preparato una tazza di tè e disposto l'usuale mostra di pillole per il mal di testa.
«Dovrei pagarti per farmi da badante» ha la forza di dire Erik, strascicando le parole mentre si siede, massaggiandosi le tempie. Ha un'emicrania terribile, e se lo è meritato.
Nadir ignora il sarcasmo e incrocia le braccia al petto in un posa che dovrebbe risultare severa. Sì, è proprio come un fratello maggiore che rimprovera il più piccolo per una delle sue pessime (e usuali) marachelle, per la quale i genitori non daranno più loro caramelle per un mese intero.
«Quante bottiglie di vino ti sei scolato?»
«Una.»
«Non mentire.»
«D'accordo, due. Non un goccio di più.» Si ferma un attimo, pensoso. «Non sono costretto a dirti nulla. Non sei mia madre.» Sogghigna all'idea. Nadir sarebbe comunque una madre migliore di quella che la sorte gli ha destinato in realtà.
«Molto divertente. Erik, cos'è successo? Ti ho chiamato e non rispondevi, e tu di solito rispondi sempre, così sono venuto a dare un'occhiata alla casa, con le chiavi di riserva…»
«Come vedi, non vi ho appiccato fuoco. Le mie tendenze piromane non mi hanno soverchiato.»
Nadir emette un lungo sospiro. «Erik, tu non sei un alcolista. Beh, non tanto da preoccuparmi, se non anni fa, nel periodo in cui—» Arresta il flusso di parole, conscio che Erik sa a cosa si riferisce. Il periodo subito successivo alla partenza di Christine. Erik sogghigna ancora, compiendo un debole gesto con la mano, come per invitarlo a continuare. Nadir aggrotta le sopracciglia.
«Quando lei se n'è andata. Sì, lo so che non è più qui, Daroga. Non sono arrivato al punto da avere allucinazioni di lei che canta gironzolando per casa mia.»
Nadir sembra quasi sollevato.
«In ogni caso, spiegami perché ti sei ubriacato. Hai un'ottima resistenza all'alcol, dunque sospetto che tu l'abbia fatto di proposito…»
Erik scuote il capo. «Volevo solo dimenticare.»
«Cosa? Qualche altro incubo su… beh, uno dei tanti?»
«No, no. È che… sono stato un idiota, Daroga. Un perfetto idiota.»
Gli spiega del litigio con Meg, e Nadir deve farsi forza per non schiaffeggiarlo. «Sei un emerito… Ah, lascia perdere.» L'iraniano scuote la testa, forzandolo ad ingoiare un'aspirina e a trangugiare un po' di tè. 
«E così la tua nuova pupilla ha una figlia.»
«Non è la mia pupilla, per carità. E sì. Immagino che sia piccola… a differenza della mia testa di cazzo.» Erik sorbisce il tè mentre Nadir solleva un sopracciglio, perplesso. Di solito il genio noto a livello mondiale non si lascia andare a simili espressioni volgari. «Così direbbe Meg» precisa lui, con un gesto esemplare delle lunghe dita sottili. A Christine piacevano — diceva che somigliavano in tutto e per tutto a quelle di un pianista, ma Erik le vede diversamente: sono ossute e morte quanto il resto di lui, niente di più.
«Sono stato inutilmente duro con lei. Un vero stupido, a non trattarla da pari, come merita di essere trattata.»
«E allora scusati. Dille ciò che pensi davvero, invece di ubriacarti come un adolescente immaturo.»
«Tu non la conosci. Mi chiuderebbe il telefono in faccia.» Erik già riesce a immaginarlo.
«Provaci» insiste il Daroga con gentilezza e fermezza insieme. Non è suo amico, no — questo Erik lo ha capito da una vita. È il suo badante e baby sitter insieme. Altro che terapista. Questo grillo parlante è pure gratis.


Ci vogliono almeno dieci tentativi prima che Meg risponda al telefono — esattamente come Erik ha predetto. In fondo, ha spesso ragione, e su molte cose. Hai un ego più grosso di Parigi, gli sussurra una vocina malevola all'orecchio che suona tanto come quella di Meg. Erik si limita a sorridere e a ignorarla, per udire la voce della Meg in carne e ossa dall'altra parte della cornetta.
«Che vuoi, stronzo?»
Appunto.
Erik sospira. Deve prendere a calci il suo orgoglio per questo, ma ce la può fare. Se lo ripete mentalmente: ce la posso fare. «Dirti che sono un imbecille.»
«Ah, finalmente ti esce di bocca qualcosa di intelligente.»
«No, io — Intendevo dire, con te in particolare mi sono comportato da stupido. E l'heavy metal non è un'oscenità musicale.»
«Cosa ti importa?» sussurra Meg, e sembra seria, non furiosa, dalla prima volta che ha sollevato la cornetta per rispondergli (metaforicamente, visto che sta utilizzando un cellulare. Con ogni probabilità ha il suo numero registrato nella rubrica come Grande stronzo o qualcosa di simile).
«Mi importa. Penso che tu abbia talento, Marguerite. E non farmelo ripetere.»  
«No, aspetta, cosa? Non ho afferrato.»
«Hai afferrato benissimo. Penso anche che tu sia la persona più insopportabile, sfacciata, maleducata che io abbia mai avuto la sfortuna di incontrare—»
«Ehi, ora datti una calmata!»
«E anche intelligente, affascinante, brillante…»
«Ecco, bravo. Ora puoi continuare.»
Erik sorride. «Stavo parlando di me.»
«Sei proprio un cretino.» Meg ha capito che sta scherzando, e il suo tono divertito lo dimostra.
«Non sapevo avessi una figlia piccola.»
«Sì, lunga storia. Un giorno te la racconterò.»
«Deve essere un piccolo demonio, se ha i tuoi geni.»
«In realtà ha preso dal padre, quindi è un angelo, ma tu sta' ben attento a ciò che dici.»
Erik ridacchia con voce sommessa e — lo sa — suadente. Non sa corteggiare una donna, (non saprebbe nemmeno da dove iniziare), ma è in grado di farla liquefare sul pavimento con la sua voce da serafino. Sente Meg brontolare qualcosa come subdolo dall'altro lato della cornetta.
«Ascolta» abbozza lei, ed è chiaro da quest'unico, esitante appello che è a suo agio quanto lui nel mostrarsi più accomodante — ossia, per nulla. «Anch'io sono stata… crudele. Ero molto restia alle lezioni fin dal principio, e la tua accoglienza lasciava piuttosto a desiderare.» Emette un piccolo sbuffo, e per un attimo è di nuovo la Meg che ha imparato a conoscere in quelle settimane. «Ma… tu non sapevi nulla della mia vita, come io della tua, e le mie accuse—»
«Non avevi tutti i torti» concede Erik.
«Ero stressata, e arrabbiata, e… Suppongo che per te non fosse diverso.»
«Supponi bene.» Erik si ferma a ponderare le parole più adatte, reggendosi il mento con una mano in una posa piuttosto cliché, ma che lei non potrebbe comunque vedere. «Cerchiamo di far funzionare questa cosa. So perché tua madre ha avuto per prima l'idea di farti venire qui. Hai menzionato anche una terapista, l'altra volta.»
«Sì. Idea brillante. Perché proprio te, tra i tanti? Non era disponibile uno meno irritante?»
Erik decide di ignorare la frecciatina. «Perché non c'è confronto tra me e i tanti. Inoltre, dovevo un favore a tua madre, e anche uno di una certa portata. Non mi dispiace ripagare i debiti ad Antoinette, è un'ottima persona. E tiene a te.»
«Lo so.» Meg sospira. «A volte anche troppo, per il suo bene. Mi chiedo quante volte le abbia fatto alzare la pressione sanguigna negli anni.»
«Immagino, sì. Ma non sentirti in colpa per questo.»
«Grazie… ma rimani un po' stronzo, non si può negare.» Lo dice quasi con affetto. Erik sbuffa, ma stranamente non è offeso dall'ennesima volgarità.
«Allora possiamo ritentare.» Erik può quasi percepire il suo sorriso sghembo, seppure in lontananza. «Solo che la prossima volta mi offri una pizza.»
«Prego
«Porto un DVD, così non mi abbuffo mentre tu te ne stai lì a guardarmi senza volere — o potere — toglierti la maschera. Non so se l'hai notato, ma hai un fantastico schermo a cristalli liquidi nel tuo salotto. È un peccato lasciarlo impolverato.»
«In realtà mi ha convinto il Daroga a comprarlo. Io non lo volevo neanche, un televisore di quella qualità.»
«Chi sarebbe il Daroga?»
«Te ne parlerò sabato sera.»
E così è tutto accordato. Perfetto.


Il ragazzo della pizza lancia a Meg un'occhiata spiritata — quasi avesse avuto un'esperienza religiosa della portata dei tre pastorelli di Fatima — quando le consegna ben due cartoni di pizza fumante ai peperoni che la giovane donna ripaga con i soldi di Erik e un sorriso. Il ragazzo di certo non ha mai fatto consegne in una villa così splendida e isolata dal mondo civile.
Poi Meg si dirige nel salotto di casa Danton e poggia sul tavolino i cartoni con la birra che il geniale e deforme virtuoso ha fatto comprare da Giovanna, che gli fa la spesa, appositamente per lei. Dopodiché fa partire il lettore DVD e si siede a gambe incrociate sul costoso divano in pelle nera, scalciandosi via gli anfibi dai piedi minuscoli e delicati, da ballerina — ma Erik scommette che un loro calcio farebbe male sul serio. Ha gambe magre e ossute, ma muscoli nervosi e rifiniti. Non dovrebbe notarlo, ma lo nota, e questo lo turba.
«Cosa sarebbe questo… come si chiama?»
«Il trono di spade. È un telefilm.»
«E di cosa parla?»
«Sangue e tette, per la maggior parte. I libri sono migliori.»
Erik sbatte le palpebre, fingendo di non capire. «Cosa stai cercando di farmi guardare, stasera?»
Meg sogghigna, addentando una generosa porzione di pizza. «Roba interessante.»
Dopo qualche minuto del primo episodio, già compare la prima donna nuda. Erik emette un singulto e si copre gli occhi. «Ma è osceno!»
«Sei così pudico» scherza Meg, pizzicandogli un braccio. «Proprio un bravo ragazzo.»
«Ma smettila.» Lui scuote la testa. Se sapesse di cosa è stato capace negli anni passati, non lo definirebbe più tale, certamente.
Le scene di violenza non lo toccano affatto, ma quelle di nudo sì, pertanto chiude gli occhi ogni volta che compare un seno più o meno generoso sullo schermo. Si chiede come faccia Meg a non scandalizzarsi, soprattutto quando il primo episodio si conclude con una scena di incesto e un bambino che viene gettato giù da una torre.
«Ma che razza di fantasy è mai questo?»
«Molto diverso da Il signore degli anelli
Erik non è un esperto del genere, ma quella particolare opera la conosce, e gli va persino a genio. «Come si chiama la saga di libri da cui è tratto il telefilm?»
«Cronache del ghiaccio e del fuoco. Bella roba. Io ho cominciato a leggerla dopo aver divorato la prima stagione in TV, altrimenti non sarei mai arrivata a comprare dei libri così enormi.» Si ferma per un attimo, pensosa, la lingua tra i denti. «In realtà non leggo molto. Solo Harry Potter. Qualche horror, a volte.» Ride nervosamente. Sembra consapevole di star parlando di libri per ragazzi con un uomo adulto, colto e letterato, e questo la imbarazza un po', anche se non lo ammetterebbe mai. Erik se ne rende conto, perché le sorride gentilmente — per quanto il suo sorriso possa essere gentile, perlomeno — e dice: «La trama sembra interessante. Mi procurerò il primo volume.»
Al che Meg risponde con un'espressione radiosa che le illumina il viso, e per un attimo gli appare bellissima e deve sbattere le palpebre per non rimanerne accecato. Sì, è davvero graziosa quando è felice in quel modo. Vorrebbe essere capace di renderla tale per molto tempo, ma sa che non è possibile. Ogni cosa che lui attrae a sé si distrugge, quasi il suo tocco sia un'eco imprendibile di morte e decadimento. Così è stato per sua madre, così è stato per Christine, e così sarà anche per Meg, se sarà tanto stupido da cadere preda di quel sorriso e affezionarvisi troppo.
 

Le lezioni continuano per qualche settimana. Meg è testarda ma capace, ed Erik è autoritario ma più paziente di quanto pensasse di poter mai essere. Sembra quasi che sappia esattamente come operare sulle sue abilità arrugginite da anni di dolore e ricordi di polvere, e Meg si lascia guidare più facilmente, questa volta. Erik non pretende molto, se non l'attenzione necessaria durante le lezioni. Sa che ha una vita al di fuori del loro mondo di musica e note, e non la biasima per questo. Anzi: quando lei aumenta il numero delle lezioni a due volte a settimana, quasi si spaventa, e arretra. Questo vuol dire che le piacciono. E che piacciono anche a lui — non può negarlo. Quell'unica serata trascorsa insieme, sul divano di casa sua, è stata la migliore da… beh, da una vita intera. È così facile parlare con lei, per quanto possa essere grezza e poco sensibile; d'altronde neanche lui è un maestro di tatto. Si somigliano in modo pauroso, malgrado le apparenze. Erik lo nota dalle difficoltà che Meg ha nel parlare del suo passato, anche se gli racconta volentieri di sua figlia, Dany. All'inizio non riesce a credere che abbia soprannominato la piccola Danielle in quel modo per via di una saga fantasy, ma sarebbe così da lei — sono una nerd senza speranza, gli dice con un sorriso nella voce durante una delle loro lunghe chiacchierate al telefono. Trascorrono circa un paio d'ore a parlare in quel modo, dopo che Meg ha messo a letto la bambina ed è pronta lei stessa per andare a dormire. Poi sgattaiola nella sua stanza e gli augura la buonanotte via WhatsApp (glielo ha appena fatto installare sull'Iphone nuovo di zecca e mai davvero usato). E così cominciano interminabili discussioni sugli argomenti più disparati.
«Avevo diciott'anni quando ho avuto Dany» gli spiega durante una di queste telefonate. La sua voce roca è calda e… seducente, in un certo senso. Non come quella di Erik, capace di far piangere gli angeli — assolutamente no. Ma ha un suo perché. Lo si apprende solo dopo che la si conosce bene, con le intonazioni che Erik nota subito — gli alti e bassi della sua vita. («Frutto di un'adolescenza trascorsa a fumare come un turco, senza farsi beccare da Maman prima dei diciotto. Dopo, non ha potuto fare altro che accettare» gli spiega con le braccia incrociate al petto, dopo avergli chiesto il permesso di farsi una cicca, come dice lei, in veranda. Almeno questa volta ha chiesto il permesso.)
«Non eri minorenne, dunque» costata Erik.
«No, ma ero comunque fottuta. Non potevo avere una figlia se volevo sperare di entrare nella compagnia dell'Opera. Mia madre lavorava a tempo pieno, e non poteva prendersi cura di lei. Mio padre… beh, lo sai.» Grugnisce qualcosa di incomprensibile.
«Non credo avrei continuato la gravidanza se non fosse stato per la promessa di Luc.»
Luc era il suo… scopamico, come lo definisce Meg, sebbene Erik si senta sempre a disagio con quei termini ai quali è così poco abituato. Sa tutto di musica, architettura, letteratura e arte, è fluente in innumerevoli lingue e ha eseguito numerosi esperimenti scientifici, ma di sesso… neanche a parlarne. Al solo pensiero gli viene da piangere, il che è patetico.
«Conosco Luc da prima che mio padre morisse. La prima volta che l'ho incontrato ci siamo presi a pugni, ma stringemmo in fretta amicizia. Lui non mi rideva in faccia se volevo giocare a calcio o mi sporcavo il vestito di fango o mi sbucciavo le ginocchia o mi disfacevo le trecce. Ho avuto non poche avventure — e disavventure — prima e dopo di lui, ma Luc è sempre stato speciale. Solo che non ne sono mai stata innamorata.» Ride, ma qualcosa nella sua risata è freddo e lo paralizza. Non è mai stata innamorata e basta, comprende. «Sono contenta che Luc sia il padre di Dany, però. È un ottimo genitore, le sta accanto, le vuole bene. Dany passa il giorno con lui, dopo la scuola, e la sera da me, se non ho degli spettacoli. Qualche weekend la tengo con me, in altri è con lui. È molto presente e premuroso, e tiene a entrambe. Non potevo chiedere di meglio per mia figlia. Da quando è nata… l'ho amata istantaneamente. Se mai ho amato qualcosa, è la mia famiglia.»
E suo padre, il suo tragico padre suicida, a cui non accenna quasi mai, nemmeno per sbaglio. C'è qualcosa che non gli ha detto, al riguardo. Un segreto celato nell'anima come un peccato di chi si vergogna troppo per confessare.
Ma Erik non la pungola inutilmente. Gli piace sentirla parlare. Gli piace un po' troppo.
«Stai diventando sentimentale» lo redarguisce il Daroga, e ha ragione. L'ultima volta che si è affezionato a qualcuno è stato un disastro. Ma per ora va bene così. Le lezioni vanno alla grande, come direbbe Meg nel suo gergo giovanile, e anche le loro chiacchierate. Battibeccano in continuazione, ma è divertente per entrambi. Erik non ha mai avuto un'amica in vita sua — forse questa è la volta buona. Forse.



Note dell'Autrice: 1Dany: Il nomignolo di Daenerys Targaryen, uno dei personaggi principali de Il trono di spade.
Eccomi tornata con un nuovo capitolo. Avevo promesso che i nuovi aggiornamenti sarebbero stati più lunghi. In realtà, questa storia è un racconto, non una long fic, ma essendo comunque piuttosto… sostanziosa, non potevo pubblicarla senza dividerla in capitoli. E così eccoci qua.
Per ora sembrare tutto filare liscio tra i due idioti protagonisti – che la tensione si sia placata? Vi avverto che presto ci sarà un po' di draMMMMa. Beh, perché in fondo si parla di Erik, e io adoro l'angst. Ma non sarà eccessivo, non temete.

debbythebest: Non preoccuparti per il ritardo, cara, anzi, è un piacere leggere le tue recensioni. Spero che questo nuovo sviluppo ti sia gradito.
Erik e Meg si scontrano perché hanno entrambi una terribile tempra – in questo senso sono simili – e sì, un passato tragico, soprattutto nel caso di Erik, è ovvio. Ma non voglio neanche sminuire i trascorsi di Meg. Nel prossimo capitolo vi sarà un chiarimento sul passato del nostro uomo mascherato, e la reazione di Meg sarà… Beh, non posso dirlo. Ti lascio sulle spine. :)
Ah, mi fa piacere che Meg ti faccia ridere con il suo sarcasmo becero. XD Un bacio <3

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Capitolo 5
*** v. ***


v.


Accade quattro mesi dopo il loro primo incontro. Ormai è pieno Aprile, le foglie cristallizzate di rugiada sugli alberi riprendono colore e cominciano a sbocciare i primi tremuli fiori primaverili. È una stagione che Erik ha sempre apprezzato, per la sua dolce calma. In passato, gli ricordava Christine. Se invece dovesse paragonare Meg a una stagione, sarebbe l'estate: calda, quasi torrida, un uragano di cambiamenti atmosferici. E lui? Lui sarebbe l'inverno: gelido e insidioso e duro come le montagne dalle vette innevate. Freddo come la pioggia e la roccia infrangibile.
«É il mio debutto da solista. Ci sarai?» La voce di Meg ha un fondo d'incertezza, arduo da percepire se non per i sensi affinati di Erik. Questi annuisce: Meg debutterà come Regina delle Villi in Giselle. È solo una sostituta, ma alla sua età è un grande progresso.
«Sarò nel mio solito palco» le assicura.
«Ma certo, il palco numero 5. Mia madre te lo faceva riservare appositamente dalla direzione.» Meg si ferma, come per ponderare qualcosa che le ha attraversato la mente solo in quell'istante. «Eri tu!» Lo indica con un dito accusatore e la bocca a forma di oblò per la sorpresa. Probabilmente si chiede come abbia potuto non intuirlo prima.
Erik sorride, serafico. «Io cosa?»
«Tu, dannato!»
«Chi?»
Meg dà in un grugnito di insoddisfazione. «Il fantasma dell'Opera! Ma certo. Il palco del fantasma… Tutte noi allieve ballerine ci chiedevamo a chi appartenesse, visto che rimaneva sempre vuoto… E qualcuno che giurava di essere stato testimone di eventi paranormali diffuse in giro la voce che si trattasse di uno spettro. Io ovviamente non ci credevo, e prendevo in giro le mie compagne e le allieve più piccole con raccapriccianti storie sul famigerato fantasma…»
«Come la peste che sei.» Le arrufferebbe i capelli in un gesto di affetto, ma si limita a scuotere il capo, divertito.
«Quindi eri proprio tu.»
«Sì.» Erik non può fare a meno di sogghignare con aria saputa.
«Stronzo!» dice lei, e gli colpisce piano un braccio con il libretto degli spartiti. Lui sobbalza, ma è divertito.
«E questa cortesia a cosa è dovuta?»
«Scommetto che adoravi terrorizzare noi ragazzine alle nostre spalle.»
«Ebbene sì, mi hai scoperto. Ma tu non ti saresti comportata diversamente.»
Meg borbotta qualcosa di simile a una maledizione. Erik ride, con la sua risata che — lo sa — è incantevole all'udito. Non fa altro che irritarla di più, lungi dall'essere uno strumento di seduzione con lei.
«Ti notavo, sai.»
Meg è ora immobile, trasognata. «Come?»
«Eri la più mingherlina e bassa della compagnia. Ma anche quella che ballava con maggior tenacia.»
«Sapevi che ero la figlia di Antoinette Giry?»
«Ti ho individuata subito. Le somigliavi, ma portavi nella carnagione l'impronta indelebile di tuo padre…» Erik si ferma, ma l'accenno al genitore defunto non sembra toccare Meg, che lo guarda ancora con aspettativa.
«Verrai, sabato? Ti farò conoscere mia figlia. Spero solo che la maschera non la inquieti.»
«Non ho bisogno della maschera per uscire.»
Meg sbatte le palpebre. «No?» chiede, curiosa.
«Vedrai» risponde lui con un sorriso segreto. Poi ritornano alla loro lezione.


La sera del debutto di Meg come solista, Erik si sistema sulla faccia la protesi nasale, gli enormi occhiali da sole che gli nascondono gli occhi infossati e dorati, la sciarpa intorno alla bocca e il cappello ben calato sulla fronte. Per il resto, è vestito come sempre: giacca e cravatta, scarpe firmate e camicia di seta. Sì, è quasi presentabile, se non assomigliasse a un malfattore per quanto è coperto. Ma i malfattori non vanno in giro con guanti di camoscio nero, e così esce di casa per la prima volta dopo tanto tempo e prenota un taxi, diretto all'Opera Garnier.


Al termine dello spettacolo, stuoli di fan adoranti si raggruppano attorno alla Sorelli, la prima ballerina, ma anche Meg ha i suoi elogi. Con un sorriso raggiante e il trucco che ancora le illumina il volto, accetta i fiori con profusi ringraziamenti, arricciando stranamente il naso. Poi lo scorge, un'ombra alta e magra appostata vicino a un lampione. Stringe gli occhi, come per assicurarsi che sia proprio lui; poi fa un cenno alle sue eccitate compagne e si allontana da loro, le suole delle comode sneakers che scricchiolano mentre lo raggiunge con la maggior flemma di cui è capace (che non è molta).
«Questo è quanto di più vicino alla mia faccia potrai mai vedere nella tua vita.»
La sua voce melodiosa la fa sospirare. Sì, è proprio il suo insopportabile maestro.
«Interessante. È finto, quel naso, mi chiedo?»
«Sì. Ma non dirlo in giro.»
Lei si apre in un sorrisetto, ed Erik la sorprende con un mezzo inchino; Meg sbatte le palpebre come un animaletto catturato sotto la luce del lampione.
«Sei stata regale, sul palco.»
Meg dissimula il rossore che le invade le guance incavate con una risata leggermente frettolosa e roca. «Oh, grazie mille.» Poi aggiunge, in un sussurro complice: «Non dirmi che mi hai portato dei fiori.»
«No, sfortunatamente. Avrei dovuto, lo so, ma…»
«Oh, grazie a Dio.» Meg sospira di sollievo. «Ne ho talmente tanti ora da riempire per intero il mio camerino.»
Erik sorride. «Sei una strana ragazza, Meg Giry.»
«Da che pulpito. Probabilmente le mie amiche si chiederanno chi sia l'alto e tenebroso  sconosciuto con cui sto intrattenendo una conversazione tanto interessante.»
Si avvicina, e lui deve inghiottire il bisogno istintivo di fare un passo indietro — o di accostarsi a lei ulteriormente. Entrambe le ipotesi suscitano in lui domande spaventose.
«Rapiscimi.»
Erik sbatte le palpebre. «Come?»
Meg ridacchia e scuote il capo. «Non voglio affrontare la festa con le mie amiche e le altre che non lo sono ma che fingeranno di esserlo solo per questa sera. Non mi piacciono i convenevoli.»
«Sarai gradevole come sempre.»
«Questo non mi rassicura affatto.» Poi aggiunge, sempre in quel tono complice: «Portami via di qui. Ti concedo il mio sacrosanto permesso. Mia figlia è con mia madre, loro torneranno a casa perché è troppo tardi — ma noi due potremmo…» Qui si ferma, ponderando. «Non so. Andarci a fare una bevuta insieme. Guardare nuove puntate de Il trono di spade a casa tua. Non sarebbe male.»
Erik si raggela. «Io—»
«Come amici» dichiara subito Meg con serietà. È ancora rossa in volto, però. «Ti prego, portami via da questo mortorio.»
Lui arretra, questa volta sul serio. Come amici. Come… «Non posso, Meg. Mi dispiace. E non posso neanche conoscere tua figlia. Non — non dovrei…»
«Ah.» Meg non fa trasparire la delusione, ma è comunque chiara ai sensi di Erik. Voleva trascorrere quella sera con lui. Come amici. Non sa che lui non ha mai avuto amici in vita sua, e l'unico che possa rientrare in questa definizione — il Daroga — in realtà lo tiene più d'occhio che altro, pentito (di questo Erik è certo) di avergli salvato la vita tanti anni prima. Di aver risparmiato il mostro.
«Perché?» Meg si stringe nel giubbotto di pelle, l'ombretto sulle palpebre che luccica alla luce del lampione. «Non capisco.»
«Perché…» Il cuore gli si stringe in petto, quel cuore saturo d'oscurità che si cela dentro. «Non dovrei essere tuo amico. Il tuo insegnante, d'accordo. Quello è possibile. Ma niente di più.»
«Perché?» sibila ancora Meg, e questa volta la rabbia gocciola via dalla sua voce come pioggia calda d'estate.
«Non vuoi un amico come me, credimi. Non lo vuoi. Non sono… la persona che credi.»
«Perché, cosa credi che io pensi di te? Sei un insopportabile so–tutto. Sei arrogante e freddo, ma…» Meg china lo sguardo sui suoi stivali anfibi, ed Erik vorrebbe abbracciarla, stringerla a sé come l'uomo che non è e non sarà mai, non per lei, non per nessun altro.
«Sei anche il miglior insegnante che si possa desiderare. Lo dico sul serio, e mi costa, ma non importa. Fanculo l'orgoglio.»
«Non posso.»
Lui si volta, desolato, pronto a rientrare nel caldo abitacolo del taxi. Lei lo afferra per un gomito ossuto. «Aspetta.»
Erik si irrigidisce al tocco. Non vi è abituato; solo al Daroga a volte è permesso toccarlo, o meglio sfiorarlo. E non sfiora una donna da eoni.
«Mi spiegherai la vera ragione, dopo la prossima lezione?»
«Sì» le promette, e glielo deve. Nella sua voce risuona una nota di angoscia, limpida e cupa come quella notte. Sa che, insieme alla verità, giungerà la fine di questa strana amicizia. È un pensiero che odia, ma è meglio per lei. Lo è, davvero. Farebbe di tutto perché quella ragazza abbia il meglio. E lui non fa parte di quel meglio, assolutamente.
«Ci si vede, allora.»
Erik non sa se sente queste parole per l'ultima volta oppure no.


La tazza di tè gli riscalda le dita, come al solito gelate. Meg ne ha preparato un po' perché, appena entrata in casa e posato gli occhi su di lui, ha notato il suo bizzarro tic. Lo ha costretto a sedersi in cucina e a indicarle la pentola per il tè e le foglie verdi, e ha lasciato bollire il tutto divorando biscotti glassati con l'usuale fame rabbiosa. Se mangia in quel modo, si chiede perché sia così magra.
«Meglio, vero? Ora puoi parlare.» Meg gli si siede accanto, lanciando un ultimo sguardo nostalgico ai biscotti, e prende a sorseggiare il suo tè. Erik non solleva i bordi della maschera per sorbire la calda bevanda. Stringe solo la tazza tra le mani, così forte che teme andrà in pezzi.
Inizia il racconto della sua vita con un filo di voce. «Io non sono… una brava persona, Meg. Non nel senso che s'intende normalmente. Nella mia vita ho compiuto azioni che…» Scuote il capo, addolorato. Lei non scosta lo sguardo dal suo, oro contro carbone. È lì per avere una risposta, e ne ha tutto il diritto. «Tu non hai la minima idea di quello che ho fatto. Di cosa mi hanno… spinto a fare. Ma il biasimo è mio, solo mio. Avrei potuto scegliere un'altra vita e non l'ho fatto — perché ero così pieno di rabbia… L'odio e la rabbia mi nutrivano. La mia natura è oscura e contorta, ecco tutto.»
«E ti sentivi così perché…?» domanda Meg, serissima. Non l'ha mai vista tanto seria. È chiaro che lo sta prendendo in parola, ed è preoccupata.
Lui non risponde.
«Cosa sei di tanto terribile? Uno stupratore seriale?»
Erik sbatte le palpebre. La sua bocca — la sua specie di bocca — si contorce in una smorfia di disgusto e orrore. «Cosa…? No, per Dio, no!»
«Sei un serial killer?»
Lui rabbrividisce. Lei scatta in piedi, terrorizzata da quel silenzio quasi quanto lui.
«Sei davvero un serial killer?»
«No — no, santo cielo. Ma ci sei quasi arrivata.»
Lei comprende dopo una pausa gravosa. «Sei un killer. Un sicario.»
«Una sorta.» Erik si contorce le dita, abbandonando la tazza di tè sul tavolo. «Ero un mercenario all'ordine di alcuni servizi segreti mondiali… Ho lavorato per l'URSS, per l'Iran. Per gli Stati Uniti, naturalmente. Sono sceso in guerra molte volte. Ho anche ucciso. Per sopravvivere, principalmente, e poi per il mio lavoro. E non ti nascondo che non mi piaceva, non mi piaceva affatto. Ero il relitto e il vampiro di me stesso. Mi consumavo da solo nell'oppio, sperando di dimenticare a cosa la natura mi aveva destinato…» Fa un cenno al suo viso mascherato.
«Ad essere un mostro» conclude lei per lui, ed è incredibile come legga i suoi pensieri in modo rapido e profondo — che le loro menti siano collegate? Non ha mai conosciuto una tale connessione intellettuale con nessuno. Pensa alle affinità elettive di Goethe, e si morde un labbro a sangue.
«Cosa mai ti hanno fatto perché tu abbia scelto di percorrere un sentiero simile?» dice lei, ed Erik si irrigidisce, preda dei ricordi.
«Mi hanno tolto la libertà» risponde semplicemente. Si gratta i polsi dove ancora sopravvivono le cicatrici di quando, quarant'anni prima…
E le parla. «Nacqui in un villaggio di campagna e poche anime vicino Rouen. Non conobbi mai mio padre, morì prima della mia nascita. Mia madre mi costringeva ad indossare la maschera; senza, non riusciva nemmeno a guardarmi in volto. Non uscivo mai di casa, ma lì imparai a suonare il pianoforte e il violino, a cantare, le prime basi dell'architettura… Non piacevo alla gente del villaggio. Di notte fuggivo di casa per sgattaiolare nella chiesa del paese e suonare l'organo — un vero organo — ma quando la plebaglia cominciò a spettegolare al riguardo, a mia madre dissi che il colpevole era un fantasma, non io. Quante volte mi picchiò per le mie fughe notturne? A me non importava. Quando il sacerdote — Padre Mansart, l'unico che fosse rimasto vicino a mia madre dopo che ebbe partorito me — mi consolò per la morte prossima di Sasha, la mia unica amica (il cane), mi rivelò anche che non l'avrei più rivista, perché gli animali non hanno un'anima. Fu un colpo tanto duro per me che esplosi in una crisi di rabbia isterica di cui fino ad oggi non ho mai compreso la natura. Ruppi tutti i soprammobili del salotto, agitai l'attizzatoio contro mia madre e il sacerdote… Mi mandarono in manicomio. Alla fine guarii. Non avevo più attacchi di follia, momenti nei quali perdevo il controllo di me stesso. Ma in cambio divenni un morto vivente. Fu estremamente doloroso. Sai, allora non esistevano le cure di adesso… E io ero solo un bambino. Frattanto, continuavo i miei studi — musica, arte, letteratura, scienza, architettura — tutto quel che volevo era a portata di mano. Pensavano che un orrore come me sarebbe rimasto chiuso lì dentro per sempre, in isolamento. Si sbagliavano.»
«Sei cresciuto in un manicomio?» Nella voce di Meg vige l'orrore.
Erik annuisce. «Ma presto scappai. A nessuno importava del mio avvenire, avevano tutti orrore di me. I medici volevano scoprire cosa c'era dietro la mia deformità; dicevano che ero un genio, e che in qualche modo quel genio sarebbe uscito allo scoperto, prima o poi… Non avevano torto. Quando mi resi conto delle mie potenzialità, fu una liberazione. Una nuova nascita. Scappai e viaggiai con una compagnia di circensi che mi accettò tra le loro schiere, a patto che suonassi e cantassi per i loro spettacoli. Facevo quello e molto altro: ero un quattordicenne prodigio, un grande illusionista, e cominciai ad essere noto come “la Morte Vivente”… per il mio aspetto, capisci. Vivevo così, nei circhi, come artista di strada. Ero conosciuto nell'ambiente. Poi vennero i russi.»
Qui Erik si apre in un sorriso triste che è come una ferita sanguinante sulla sua pelle livida. «Avevano sentito delle mie singolari abilità. In particolare, col laccio del Punjab.»
«Il cosa?» Meg a quel punto è quasi senza voce.
«Il laccio del Punjab. È un elastico simile a una garrota, ma più lungo. Un'arma che imparai ad usare magnificamente durante un viaggio in India. Mi promisero che, al loro servizio, sarei stato potente. Fu questo a farmi accettare la proposta: da troppo tempo mi sentivo debole, senza controllo sulla mia vita. La natura o Dio o chi per Lui mi aveva plasmato senza che io potessi far nulla per contrastare il mio destino. O così credevo.» Fa di nuovo un cenno verso la maschera. Meg è paralizzata, ma continua ad ascoltare.
«Mi addestrarono. Divenni un soldato modello. Le mie naturali abilità fisiche progredirono. Ero rapido, forte, implacabile. Cominciai a lavorare per i servizi segreti russi, a diciott'anni. E per altri regimi e governi. Per qualche tempo divenni una macchina da guerra, sebbene con un codice severo e tutto mio. Nell'ambiente mi guadagnai un nome; o meglio, me lo affibbiarono, poiché io avevo ormai da tempo cambiato nome. Dicevano che ero un fantasma, imprendibile. Fu il Daroga a fermarmi: durante una missione segreta per l'Iran — lui era a capo della polizia, lì — fui gravemente compromesso. Mi avevano avvelenato; me lo dovevo aspettare. Sapevo troppe cose, ero a parte di troppi segreti. Nadir Khan mi salvò la vita, mi risparmiò, a patto che non commettessi più delitti. Accettai. Non desideravo più quella vita. Avevo dimenticato chi ero, e ora stavo riacquistando la mia identità. Non volevo essere… un mostro. Non volevo morire come tale. Così tornai in Francia insieme al Daroga, che mi convinse a pubblicare alcune delle mie composizioni, a registrare la mia voce e le mie sonate in studio. Lui aveva dei contatti… Ovviamente, nessuno poteva vedermi in viso. Acquistai la fama di genio recluso e poi, sei anni dopo il mio ritorno alla vita, qui a Parigi, dove mi ero costruito una casa tutta mia…»
Gli si incrina la voce. Si prende la testa fra le mani. «Tua madre mi riservava un posto tra i palchi dell'Opera Garnier, cosicché ogni tanto vi facevo visita per assistere ad alcune delle mie opere preferite. Fu su quel palco che udii cantare Christine Daaé per la prima volta.» Erik prende lentamente fiato. Inspira, espira. Adesso viene il peggio. «Chi era quell'angelo? M'innamorai di lei all'istante. La sua voce era serafica, ma cantava senza passione! Cantava come una di quelle graziose bambole con una chiave conficcata nella schiena: a comando. Con umiltà, la incontrai e le proposi di darle lezioni di canto. Lei, conoscendo la mia fama, ne fu onorata. Si stabilì un rapporto di grande intimità tra noi due: lei mi raccontò che dalla morte di suo padre non riusciva più a godere della musica come una volta. Che Monsieur Daaé le aveva detto che, dopo la sua scomparsa, l'Angelo della Musica le avrebbe fatto visita. Che amabile sciocchezza. “Siete voi il mio angelo, Erik” mi diceva lei, e mi riempiva il cuore. Furono i mesi più belli della mia vita, almeno fino ad allora.
Poi venni a saperlo.
Christine aveva compreso i miei sentimenti per lei e non desiderava ferirmi, ma non poteva proteggermi per sempre. Era fidanzata da anni con un certo visconte de Chagny, Raoul, di cui era innamorata fin dall'infanzia, e presto sarebbero convolati a nozze. Ero maledetto: amavo la donna di un altro! Allora le feci atroci scenate di gelosia. Le dicevo che avrei smesso di darle lezioni se si fosse sposata, e lei mi pregava, con le lacrime agli occhi, di restare al suo fianco. Era chiaro che non potevo essere un uomo normale per lei, né ero suo padre: ma potevo essere il suo angelo. Evidentemente mi associava al ricordo del genitore defunto, ed ero un amico prezioso: nient'altro. Il peggio arrivò quando decise di togliermi la maschera. In realtà, come compresi in seguito, non fu da parte sua una decisione deliberata, poiché era ipnotizzata dalla mia voce: cantavamo un duetto dell'Otello di Rossini, ed era così presa dalla musica che il suo desiderio di conoscere il volto dell'angelo la sopraffece. E così mi sfilò la maschera e…»
Erik seppellisce il viso tra le mani.
«Le urlai contro maledizioni e deliri. Andai su tutte le furie. Ora che aveva visto la mia faccia, non avrebbe più voluto restare con me! Ed io sapevo che una parte di lei, fino a quel momento, lo aveva voluto. Lei era ai miei piedi, piangente… e anch'io singhiozzavo, mentre in me sentivo rinascere quell'odio che non percepivo più scorrermi come fiele nelle vene da tanto tempo. Questa volta era indirizzato verso l'innocente e ignaro visconte. Minacciai Christine che lo avrei ucciso — e lo avrei ucciso davvero, se me lo fossi ritrovato davanti in quel momento! Lo avrei ucciso, se lei non fosse rimasta con me. Cosa sceglieva? La sua vita o quella del fidanzato? Lei era furiosa, piena di una passione e una rabbia e una tristezza che non avevo mai visto in lei. “Mi hai tradita, mi hai ingannata!” Poi, piangendo: “Io mi fidavo di te!.” Le dissi che doveva compiere una scelta, e al più presto. Dopodiché la sentii mormorare queste parole: “Povera creatura… Cosa mai ti hanno fatto per arrivare a tanto? Dio, ti prego, dammi coraggio… Perché non sei solo, Erik. Non sei solo.” E mi abbracciò, e mi baciò sulla fronte — su questa mia fronte di morto! E piangemmo insieme. Capisci? Pianse con me, su di me, le sue lacrime sulla mia bistrattata faccia… e l'odio aveva cessato di pulsare. Allora la lasciai andare. Le dissi di ricordarsi del “povero Erik”, come mi aveva chiamato pochi istanti prima nella mia angoscia, e di essere felice col suo innamorato. Di non piangere più, e di vivere la sua vita. E così lei fece. Se ne andò. Venni a sapere che si sposò poche settimane dopo — un matrimonio modesto per una viscontessa — e che tornò con De Chagny nella sua patria d'origine. Poi più nulla; mi disinteressai a lei. Era meglio così. Ma non ho mai cessato di amarla.»
Erik inspira profondamente. Meg è raggelata al suo fianco, e non proferisce parola. «Capii di amarla davvero solo quando la lasciai andare: fu l'unico atto d'amore, di compassione, della mia esistenza. Lei avrebbe dato la sua vita per quella di Raoul. Quello — mettere la felicità di un altro al posto della propria, l'altruismo cieco di Christine — quello era amore. Ed era amore anche la sua compassione per me, perché sapeva che soffrivo, e che era la mia sofferenza a guidarmi verso il delirio. Il mio amore per lei era stato egoista, le aveva negato la sua libertà. Come avevo potuto essere tanto folle, tanto ottuso? L'avevo persa per sempre, e non avevo ricevuto che lacrime da lei…»
Il racconto è finito, e Meg sembra percepirlo. Ha orrore di lui, si chiede? Una mente logica ne avrebbe. Meg arretra, quasi inciampa sui propri piedi calzanti i soliti anfibi. Erik fa per afferrarla in tempo, ma lei si scosta dal suo tocco.
«Non… non toccarmi.» Non le fa orrore, no: prova disgusto. La guarda andarsene senza dire una parola, senza pregarla di restare come il suo cuore gli implora di fare. È giusto così.
Crolla di peso sulla sedia, facendola oscillare. Forse è ora di bere qualcosa di più forte del tè. È l'unica consolazione che gli sia rimasta.



Note dell'Autrice: Ops, ecco il draMMMa. Beh, dato il protagonista maschile, non poteva non esserci. Che ne pensate del passato di Erik? Ho preso qualche spunto per la sua infanzia dal Phantom di Susan Kay, come avrà notato chi lo ha letto. Per il resto, è mia fantasia – una versione moderna delle “ore rosa di Mazenderan” descritte da Leroux. In realtà, ora che ci faccio caso, somiglia vagamente alla storia del Soldato d'Inverno. Mmm.
Per quanto riguarda la reazione di Meg, mi pare totalmente giustificata. Se qualcuno mi confessasse (pur con tutte le buone intenzioni del mondo) di essere stato un sicario e uno stalker, io scapperei a gambe levate. E, credo, anche chiunque altro. Ma scoprirete di più nel prossimo aggiornamento. Ci tengo però a dire che Erik è mutato totalmente dopo il gesto d'amore di Christine (un po' come Paolo sulla via di Damasco), ed è sul sentiero della redenzione, come mostra spiegando la verità a Meg; non si sente meritevole dell'amicizia di quest'ultima in quanto ben consapevole delle sue cattive azioni passate.
Solo… per chi sta leggendo la fic, se c'è effettivamente qualcuno là fuori (mi sentite? Toc toc?), vi prego, recensite. Non perché sia ingorda, ma solo per sapere se ci sono delle critiche da smuovere, qualcosa che non va, anche eventuali errori di grammatica. Altrimenti mi sento più scoraggiata a postare, è naturale. Capisco che alcuni vogliano aspettare la fine per dare un giudizio, però. Apprezzo comunque che qualcuno legga, non sentitevi in obbligo.
Alla prossima! :)

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Capitolo 6
*** vi. ***


Scena IV.
[ Studio medico. Un silenzio di piombo grava nell'aria tra le due donne che si fronteggiano. ]

MEG: Non ci posso credere. Stavo per fargli conoscere mia figlia. Mia figlia, capite? (scuote il capo dolorosamente) Mi fidavo di lui. Grazie al lavoro che svolgevamo insieme, mi sono tornati in mente i bei momenti vissuti con mio padre. Suonare il pianoforte era un balsamo dolce e amaro al contempo.
DOTTORESSA LAURENT: E tuttavia ti ha detto la verità. Questo dovrà pur significare qualcosa.
MEG: Che è un uomo diverso, ora? Io non lo credo. Non credo che la natura di una persona possa cambiare così, senza preavviso.
DOTTORESSA LAURENT: Forse l'amore ha il potere di farlo. È stata sicuramente un'evoluzione lenta, la sua… E poi, era davvero quella, la sua natura? (si ferma, ma Meg non la interrompe. Rimane lì a fissarla con occhi vitrei) La terapia stava funzionando, Meg. Non hai più incubi, vero?
MEG: (farfugliando) No, sono diminuiti di molto. Poi penso a tutte le cazzate che ho fatto in vita mia e che ho Dany, adesso, e mi ripeto che devo essere forte. Ma sono stanca, così stanca.  
DOTTORESSA LAURENT: Credo sia inutile proporti di cambiare insegnante. Non c'è nessuno al mondo migliore di lui, ed eravate… (cerca la parola giusta) affiatati.
MEG: Battibeccavamo in continuazione.
DOTTORESSA LAURENT: Appunto. Tutto ti ricorderebbe lui, vero?
MEG: (vagamente esitante) Me lo ricorda già. E io che ero sul punto di… di… Ah! (si prende la testa fra le mani, quasi le dolga) Aiutatemi a dimenticarlo. Aiutatemi.



vi.


Ad Erik non piace essere osservato, e per un buon motivo. Conciato in quel modo, tuttavia, attira come un magnete gli sguardi della gente, che si ritrae dinanzi alla sua figura imponente, rivestita di nero. Sembra un uomo invisibile, un uomo senza faccia — Dio solo sa quanto ha desiderato diventarlo davvero, invisibile, dal fatale giorno in cui vide per la prima volta il suo viso, se tale si può definire, allo specchio. Con un gesto quasi istintivo, si sfiora i polsi su cui porta ancora le cicatrici del ricordo…
Accomodata sul divano dinanzi al suo, nella sala d'attesa, c'è una coppia di giovani sposini che fa di tutto per evitare il suo sguardo. Portano con loro una peste di infante, e quella vista gli ricorda ciò che non potrà mai avere: una famiglia tutta sua. È un pensiero deprimente, ma ormai si è rassegnato al suo destino. Il bambino lo guarda fisso e poi sussurra alla madre, senza preoccuparsi di abbassare la voce — ah, l'innocenza infantile: «Mamma, cos'ha alla faccia?»
Erik fa una smorfia e trattiene a malapena un mugugno di disapprovazione.
La giovane madre fa segno al figlio di tacere, e perlomeno ha la decenza di apparire imbarazzata. Bene.
Quando arriva il suo turno, Erik si alza in piedi di scatto e svanisce oltre la porta che conduce alla sala d'attesa, lasciandosi dietro la scia del suo lungo soprabito nero. Le scarpe italiane ticchettano sul parquet tirato a lucido. La stanza che trova al termine del corridoio è piccola ma confortevole, la luce del sole calante infrange i vetri dell'unica, alta finestra che dà sul cortile del condominio. La donna che lo attende seduta su una poltrona di velluto è all'incirca sua coetanea, trasparenti occhi verdi che gli trapassano il cranio.
«É un onore conoscervi, Monsieur Danton.» Lei gli tende una mano, ma Erik non ricambia. La donna non appare turbata. Gli fa cenno, come nulla fosse, di occupare il posto dinanzi a lei. Non c'è neanche una scrivania a dividerli: sembra in tutto e per tutto un salottino, sui colori del rosso e dell'arancio che spiccano come raggi di sole.
Erik si siede, rammentando la chiacchierata che ha avuto con quella donna il giorno prima, al telefono. Come si sia procurata il suo numero, non lo scoprirà mai, anche se scommette che ci sia sotto lo zampino di Madame Giry.
«Credo che sappiate chi io sia, quindi sono vane le presentazioni.» Hélène Laurent si apre in un sorriso che dovrebbe sembrare rassicurante, ma fallisce nel tentativo. Erik non può sorridere, con la sciarpa a coprirgli metà del volto devastato, e sarebbe comunque uno spettacolo poco attraente, quindi rimane sulle sue.
«A cosa devo l'onore di conoscere la terapista della mia… ex allieva?»
La Laurent cerca di metterlo a suo agio, o almeno ci sta provando — è difficile che Erik lasci cadere quello scudo di diffidenza che si è costruito negli anni.
«Perché sono qui?» incalza lui, già immaginando la risposta.
«Perché il biasimo è vostro se la mia paziente ha interrotto la sua terapia.»
Ma certo, Meg deve averle raccontato di lui. Il segreto professionale della dottoressa è però infrangibile.
«Le ho detto la verità. L'ho salvata
«Da cosa, se mi è concesso di sapere?»
«Da me.» Il troppo amore lo ha già ucciso una volta; non vuole che accada di nuovo.
«Non deve per forza interrompere le lezioni. Può facilmente trovare un altro insegnante.»
«Non come voi.»
Erik scuote il capo in un moto doloroso. «Non sono degno della sua compagnia.» Si guarda fissamente le scarpe.
«Credo che voi stesso abbiate bisogno di aiuto.»
«Non voglio altri medici. Erano tutti più interessati al mio aspetto… bizzarro che alla mia sanità mentale. Per la fragilità di quest'ultima, mi sono lasciato andare ad orribili scenografie di morte… Lasciavo solo distruzione ad ogni mio passo.»
«Poi siete riuscito a uscirne.»
«Sì, ma mi sono serviti anni e anni di penitenza per quanto avevo fatto.» Qui si ferma, pensoso. «Non so se esista un Dio o meno: quel che so è che l'inferno sulla terra esiste, è in mezzo a noi. Cumuli di macerie, odore di polvere da sparo, ossa bruciate e sangue ovunque. Guerra. Non voglio che Meg si perda in questo mondo che non mi ha mai abbandonato.»
«É una decisione che spetta a lei.»
Una pausa terribile. Poi la dottoressa scatta in piedi e gli offre dei biscotti al burro danesi dall'aspetto delizioso. «Prendetene uno.»
«Non posso.»
«Non siate ridicolo.»
Erik sceglie un biscotto, ma non solleva i bordi della sciarpa per mangiarlo. Rimane lì a sbriciolarsi tra le sue lunghe dita — in effetti, troppo lunghe e sottili per essere normali.
«Siete affezionato a quella ragazza. Non è forse così?»
La domanda lo spiazza, e decide di rispondere con fermezza, senza tradire il cuore incrinato nel suo petto. «Non sono io il vostro paziente. Perché mi trovo qui?»
La Laurent non appare affatto intimidita dal gelo nella sua voce.
«Siete qui per assicurarmi che a Meg non venga fatto alcun male. Ne ha passate tante, ben più di quanto voi crediate.»
«Posso immaginare.»
«No, non potete. Io non vi dirò niente — ho un giuramento professionale da mantenere. Se e quando vorrà condividere il suo passato con voi, sarà una sua decisione.»
«Non condividerà niente con me. Ora mi vede come un mostro.»
La donna scuote il capo, divertita in maniera irritante. È come se sapesse qualcosa che lui non sa, e lui odia non sapere. Fin da piccolo, si è immerso negli studi, tra le pagine dei libri, per imparare il più possibile su un mondo che non lo avrebbe mai accettato per com'era veramente. La maschera è un simbolo, tutto qui; dietro di essa vi è un uomo di carne e sangue, e a non pochi accade di dimenticarlo. Talvolta anche lui non riconosce più il proprio corpo, quasi sentisse di non appartenergli.
«Tenete a Meg, come presumo?»
«Presumete molto.»
«Rispondetemi. È importante.»
Un attimo di silenzio in cui Erik raccoglie ogni briciola del suo coraggio. «L'ho lasciata andare. Non diventerò che un fantasma nella sua vita, e non merito altro. Non merito la sua compagnia, la sua amicizia. Pertanto mi sono messo da parte.» Come sono riuscito a fare con Christine solo alla fine di tutto, ed è colpa mia se se n'è andata, andata via per sempre… Meg…
Meg è il nome che gli sale alla labbra in ogni suo sogno — o incubo. Rabbrividisce per le implicazioni che tutto ciò evoca, per quanto questo affetto costerà caro a entrambi.
«Ho risposto bene alla vostra domanda, Madame?»
La dottoressa sorride. «Sì, avete chiarito ogni mio dubbio. A volte lasciare andare una persona che ci è cara è l'unico modo per dimostrarle il nostro amore. Lo sapete bene.» Erik lascia che il biscotto gli si sbricioli tra le dita, dimenticato. Dimenticato come lui.



Note dell'Autrice: Un altro capitolo “di passaggio”, ma qui si capiscono meglio i motivi della “confessione” di Erik. Un altro uomo avrebbe potuto tacere riguardo il suo passato; ma lui – considerato anche l'odio che prova per se stesso – non l'ha fatto. Sembra davvero aver imparato qualcosa dall'altruismo di Christine…

Jessica24: Che bello ritrovarti anche qui! Sono contenta che ti piaccia l'andamento di questa storia e, come nell'altra, sembra che i dialoghi tra i due protagonisti siano il “punto forte” (non me ne stupisco). Spero che continuerai a seguirmi! Un bacio <3

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Capitolo 7
*** vii. ***


vii.


La pioggia ticchetta in maniera oltremodo molesta contro le ampie vetrate della Maison Danton. È seduto — diciamo anche appollaiato — sulla sua poltrona preferita, e legge un libro di architettura con grande interesse, quando il suono del campanello lo fa trasalire. Sono poche le persone che osano disturbare e bussare alla sua porta; persino i monelli della campagna ne stanno alla larga. In cima a un'altura isolata nel mezzo del nulla, si crede sia una casa abitata da fantasmi, il che è ironico.
Chi può essere, dunque? Erik fa un rapido calcolo mentale: c'è il Daroga, che lo tiene costantemente sotto sorveglianza, quasi fosse una bomba pronta ad esplodere; poi c'è Giovanna, che ogni giorno viene a pulire la casa e a portargli la spesa (di certo non può andare in giro per un supermercato — o le stesse strade di Parigi, in particolare di giorno — senza destare occhiate nervose, addirittura ostili). E poi c'era un tempo in cui Christine veniva a trovarlo, ma ora fa tutto parte del passato. E infine…
Raggela quando va ad aprire la porta, il libro dimenticato sulla poltrona.
«Meg.»
Pensava che non avrebbe mai più rivisto il suo viso piccolo e rabbuiato, eppure eccola lì, sulla soglia, con il cappuccio della felpa tirato sulla testa e la solita matita nera e pesante a circondarle gli occhi scurissimi.
Un minuto di spiacevole imbarazzo galleggia tra di loro.
«Sei tornata.»
«Non farti illusioni. Sono qui per le lezioni di pianoforte. Non per te.»
Erik sospira — era più di quanto potesse sperare — e la fa accomodare nella sala della musica, dove ad attenderli c'è il meraviglioso pianoforte a coda su cui Erik ha composto gran parte delle sue opere, riverite in tutto il mondo.
Lei fissa lo strumento con sguardo nostalgico, come un amante perduto. Erik sospira, non sa se di felicità per il ritorno della sua allieva o per la disperazione — ché, malgrado tutto, l'ha perduta. Tutte le donne della sua vita (ben poche, in verità) lo hanno abbandonato, prima o dopo.


La routine — Meg che non gli rivolge la parola per prima, le lezioni sature di tensione, il suo abbrutimento morale — prosegue per altre due settimane. Meg è rigida, poco rilassata durante le lezioni, e soprattutto tace. Un silenzio preoccupante: non è abituato a una Meg tanto disciplinata. Gli mancano le sue battute sarcastiche e velenose; gli mancano gli sguardi elettrici che si scambiavano ogni volta che battibeccavano. Ma non può farci nulla: questo è l'unico trattamento che merita da lei. Anche se non le ha fatto del male personalmente, Erik avverte che la fiducia che pian piano lei andava edificando nel loro rapporto si è incrinata fino a ridursi in schegge di vetro. Vuole evitare un rapporto meno professionale con lui; solo quello di maestro e allieva ha importanza, ora. Erik ha da lungo tempo intuito che le lezioni di pianoforte non sono altro che un modo per lei di riavvicinarsi alla figura del defunto genitore — un lutto che non ha mai davvero elaborato del tutto. Erik nota il modo rabbioso in cui suona: come una fiera in gabbia pronta a spiccare il volo, o forse a fuggire.
«Porca troia.» La sente imprecare sui tasti, le dita esili che martellano senza pietà.
«Il linguaggio» la ammonisce lui di rimando — un monito che gli è sgorgato dalla gola e le labbra malformate con la più disinvolta semplicità. Come ai vecchi tempi.
«Non tendi bene le mani» le fa notare con la maggiore calma possibile. È vicina, così vicina a suonare in modo decente la disgraziata sinfonia di Beethoven, e le si accosta senza pensare, come sempre trasportato dalla musica, l'unica cosa al mondo capace di intrigarlo tanto tra le sue spire da fargli perdere il controllo di sé. Per aiutare la ragazza a raggiungere con le sue piccole mani tutti i tasti che le servono per riprodurre la sinfonia, posa le proprie lunghe dita su quelle minute di lei.
«Così. Ti aiuto io. Adesso prova.»
Ma Meg è immobile, irrigidita dal tocco e dalla voce di miele di lui nell'orecchio. Sono così vicini che potrebbe sentire il suo respiro sul collo…
Qualcosa nella mente di Erik scatta — l'istinto atavico della fuga — ma è troppo tardi: Meg gli afferra le mani prima che possa ritrarle lontano da lei. Infine si volta, lentamente. Il suo sguardo serio e determinato incuterebbe soggezione anche ad un uomo che un tempo era una macchina da guerra all'ordine dei servizi segreti. Si alza, sempre con movimenti misurati, quasi si trovasse dinanzi una fiera affamata. Scioglie la presa dalle sue mani e le porta al viso di lui, come sempre mascherato.
Erik le imprigiona dolcemente i polsi, scuotendo il capo con orrore crescente. Ma Meg è forte.
«Devo capire» dice, e da questo lui comprende che anche per Meg quella impasse è insopportabile. Comprende che vuole dare una svolta alla storia.
Erik chiude gli occhi, già presagendo cosa accadrà. Forse non ti abbandonerà come ha fatto tua madre, pensa. Forse rimarrà — per le lezioni e… e tutto il resto. Lo ha fatto quando ha saputo che vent'anni fa eri un mercenario temibile, lo farà di nuovo. E se pure non lo facesse, chi potrebbe biasimarla? Non certo tu.   
Con un gesto brusco, rapido come un aspide del deserto, la maschera si trova tra le mani piccole — come ha fatto a non notarle prima? Sono così minute, fragili fiori primaverili — di una Meg che alla vista del suo vero viso esplode in un singulto d'orrore.
Erik sa cosa sta vedendo, anche con le palpebre calate. Un volto simile a un teschio, la pelle rinsecchita sull'osso, un buco in luogo del naso, le labbra disgustosamente deformate… La sua dannazione. Ricorda cosa è accaduto con Christine — era stato lui ad urlare di furore in quell'occasione. Ora il silenzio si propaga nell'aria come gocce di veleno.
«Oh, porca puttana
Meg lo infrange con una sequela di imprecazioni volgari, il respiro affannoso. Erik non si azzarda ancora ad aprire gli occhi, troppo codardo per affrontare l'orrore sul viso di lei. Non crede che il suo cuore possa reggere un colpo simile, non di nuovo. Mai, mai più.
«Cerca solo di non vomitarmi sulle scarpe. Sono italiane.» Il monito di Erik è più una battuta sardonica che altro.
Il cuore greve, apre gli occhi.
Meg è lì, la maschera ancora tra le piccole mani, e sul viso sfoggia un bizzarro colorito verdastro e rosso insieme che ha un qualcosa di malsano. Deglutisce pesantemente.
«Hai soddisfatto la tua curiosità. Potresti ridarmi la maschera, adesso?» Erik parla in tono calmo — sono serviti anni di duro lavoro per donare alla sua voce una sfumatura meno minacciosa in occasioni simili — e tende una mano.
Solo in quel momento si rende conto che gli occhi di Meg — profondi, scuri, inossidabili — sono pieni di lacrime. Questa non è una reazione che aveva previsto.
«Così è per questo che…» Meg fa un cenno al suo volto devastato.
Erik annuisce, desolato.
«Mi dispiace. Mi dispiace tanto.»
«Dispiace anche a me.»
Rimangono a fissarsi, muti, ancora per qualche altro attimo. Infine lei avanza di qualche passo, più coraggiosa dinanzi al dolore puro di quanto lui immagini. Gli rimette la maschera. E poi — meraviglie delle meraviglie — lo abbraccia.
Non proprio: più che altro, posa il capo sul suo petto scarno, ed Erik avverte calde lacrime infradiciargli la camicia. Ma non importa, perché il viso di lei non è il solo ad essere umido di pianto, ora.
Erik non ha il coraggio di stringerla tra le braccia come farebbe qualsiasi altro uomo. Ha fallito. Non può rendere uomo nemmeno se stesso.
Rimangono lì a piangere in silenzio per chissà quanto. Da quel momento, sono di nuovo uniti: è impossibile condividere qualcosa di simile con una persona e rimanere indifferenti, o addirittura ostili.
Perdono, pensa lui. È mai possibile?



Note dell'Autrice: Un altro piccolo aggiornamento, ma fondamentale. Dopo settimane di riflessione, Meg riesce a capire e perdonare Erik (e più in avanti si vedrà meglio come – anche se, penso sia ovvio, con l'aiuto della sua terapista). Non è facile, ovviamente: non sto qui a dire quanto sarebbe stato ragionevole e comprensibile per lei non farlo, lasciarlo andare. Tuttavia, decide di dargli una seconda possibilità. (Si è capito che non è tipo da seconde possibilità, ma è un'eccezione.) In nome dell'amicizia che lei non credeva reale, e che eppure è sorta fra loro, e perché capisce la gravità del dolore che lui ha provato e di cui è ancora preda. Erik meriterà il nuovo trattamento? Sembra sincero nel non voler ricadere negli antichi errori e mutato da allora, questo è certo.

Jessica24: Io sono lieta che tu mi segua, allora, mia cara. Comunque sì, Erik già prova, effettivamente, qualcosa per Meg – una certa attrazione e una premura che la Laurent ha percepito. Ma, ancora meglio (o peggio, dipende dai punti di vista), è Meg stessa che, incredula, si sente disgustata dal fatto che proprio lei, prima della confessione di Erik, stava “per…” per innamorarsi di quest'idiota. Beh, non riesce a razionalizzarlo né ad ammetterlo lei stessa. Era probabilmente affascinata dal misterioso genio mascherato, ma ora il loro rapporto muterà, poiché la maschera è caduta e lei ha conosciuto il suo vero volto (anche figurativamente). L'idillio si trasformerà in “vero amore” (cavolo, sembra la pubblicità di una soap opera)? Tu che ne pensi? :) Un bacio, e grazie per la recensione! <3

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Capitolo 8
*** viii. ***


viii.


L'estate si avvicina, ma Erik non avverte la calura insopportabile delle giornate nella polverosa città. Ha installato in casa un sistema di condizionatori che fa circolare aria fresca in ogni stanza, così che possa indossare le sue camicie senza scoprire le braccia livide e ossute, i tendini nervosi sotto la pelle, le cicatrici. Tuttavia, Meg gli svela i polsi con gentilezza inusitata da parte sua, un giorno che sono stravaccati sul divano a divorare la prima stagione de Il trono di spade.
«Queste cosa sono?» chiede lei in un sussurro, quasi si aspetti che l'altro non le risponda. Erik emette un sospiro. L'ora delle mascherate è finita.
«Quando vidi per la prima volta il mio volto allo specchio… lo ruppi in mille pezzi. I cocci infranti si conficcarono nella pelle tenera di un bambino di sei anni che era dissimile da chiunque altro.» Distorce le labbra bianche in un sorriso sghembo, per dissimulare il dolore che quel ricordo ancora gli provoca. Fu sua madre a portarlo davanti allo specchio, infuriata perché lui faceva i capricci come un normale bambino di sei anni al quale viene imposto di indossare una maschera giorno e notte. Eccolo, il vero motivo per cui devi indossare la maschera!, aveva urlato sua madre tra le lacrime. Il grido straziante che riecheggiò nella stanza — l'unica in casa ad avere uno specchio, e il cui accesso pertanto gli era stato proibito fino a quel momento — proveniva però dalla gola di Erik. Quest'ultimo impiegò un po' a capire che era lui ad emettere quel suono angosciante, animalesco. Tanta vita e tanta morte in una sola voce, in un solo viso…
«Tua madre ti ha fatto questo?» chiede Meg con incredulità e un cipiglio poderoso. Erik incrocia le braccia al petto, scostandole dalla presa delicata di lei.
«Mia madre aveva paura. Voleva amarmi, ma non sapeva come… Non riusciva neanche a guardarmi in volto.» Sospira e si massaggia le tempie. «Una volta mi disse che mi odiava. Che le avevo rovinato la vita. Non so se mio padre sarebbe stato diverso, se mi avesse allevato lui. Non l'ho mai conosciuto. È morto prima della mia nascita… Non ha mai visto quel che ha… generato.»
«Che ne è stato di lei? Di tua madre?»
«Dopo la mia sfuriata alla notizia della morte di Sasha, il mio cane e unica amica, il sacerdote del paese le disse che probabilmente ero indemoniato e che mi serviva un esorcismo. La rabbia che contenevo nel mio petto era disumana, a quanto pareva. Il dottore disse che dovevo essere portato in un istituto di igiene mentale il più presto possibile, prima di avere altri scatti feroci e fare del male a qualcuno, o anche a me stesso. Avevo otto anni e un intelletto di gran lunga superiore alla norma. Questo spaventava e sbalordiva mia madre, che diede retta ad entrambi i consiglieri.»
«Fammi capire: ti hanno fatto un esorcismo?» Meg è più che perplessa, ora: è sgomenta, arrabbiata. Era il 1977, non il Medioevo. Ma Erik viveva in un paese di campagna abitato da poche anime, e il pregiudizio lì era assai più radicato che nella moderna Parigi.
«Non fu nulla di speciale, comunque, e ovviamente non funzionò. Ero seduto su una sedia mentre il prete borbottava frasi in latino che io riuscivo a intendere benissimo, dal momento che avevo appreso quella lingua morta, così come il greco antico, da solo.»
«Da solo? A quanti anni, hai detto?»
«Incominciai a studiare a cinque anni.»
Meg sbatte le palpebre. «Cazzo. Voglio dire… Non perdi mai l'occasione, vero?»
«Per cosa?»
«Per provarmi il tuo genio. Guarda che non mi seduci tanto facilmente.»
«Non è mia intenzione.» Erik arrossisce mentre Meg se la ride maliziosamente, la dannata. Ma se la diverte…
«Scusami. Continua, comunque.»
«Così fui mandato in manicomio per una deliziosa vacanza. Da quel giorno non vidi più mia madre. Dopo che mi ebbero “curato”, per così dire, divenni una sorta di morto vivente. Solo la musica e l'arte mi risvegliavano, e pian piano ritornai alla vita… Se di vita si poteva parlare. Non ebbi più notizie di mia madre. Liberarsi di me deve essere stata una gioia, per lei.»
Meg ha uno sguardo vitreo negli occhi, quasi non fosse proprio lì, ma altrove, in un luogo a cui non appartiene. Erik la osserva e ha il coraggio di sfiorarle una spalla  nuda (anche con il condizionatore, Meg percepisce gli effetti disturbanti della calura estiva e indossa un top — nero — minuscolo che mette Erik molto a disagio. Ha troppa pelle scoperta per non farlo arrossire).
«Cosa pensi, mia cara?»
«Già con i nomignoli? Non abbiamo neanche superato la prima frase della nostra relazione.»
«La smetti?»
Lui scuote il capo mentre lei ride con la sua voce roca e bassa che gli fa venire i brividi. E non perché assomiglia a quella di una cornacchia.
«Come vuoi che ti chiami? Tesoro?»
«Finiscila. Non hai risposto alla mia domanda. A cosa pensavi?»
Meg si fa immediatamente più seria, le pupille dilatate da… è paura, quella? Erik si rabbuia: non vuole vederla sul viso di quella ragazza, mai. Fa troppo male.
«Penso che… se Dany fosse nata… insomma…»
«Deforme?» suggerisce lui.
Meg annuisce. «Mi chiedo se avrei avuto il coraggio di amarla lo stesso.»
Bella domanda. Erik medita bene prima di parlare. «Sei una buona madre, Meg.»
«E questo da cosa lo deduci?»
«Dal modo in cui parli di tua figlia. La ami incondizionatamente. Perciò non torturarti con domande che non hanno fondamenta nella realtà.»
Meg annuisce, rasserenata. «Vero.» Si rannicchia sul divano, vicinissima a lui, guardando la Dany sullo schermo mormorare l'iconica frase: “Non era un drago. Il fuoco non può uccidere un drago.” Erik decide che alla fine della prima stagione comprerà l'intera saga di libri, e gli piacerebbe leggerli con Meg — in quella posizione, magari: la testa di lei appoggiata alla spalla ossuta di lui, pelle contro pelle. Sì, crede che potrebbe piacergli. E questo non va affatto bene. Non va bene per niente.


Scena V.
[ Solito studio medico. Due donne si fronteggiano. ]

MEG: (a gambe divaricate, il desiderio di fumarsi una sigaretta che le prude sulla lingua) Non credo si perdonerà mai per ciò che è stato, ma… non è un mostro spaventoso. È solo un uomo profondamente ferito, ed io… Dopo aver visto la sua faccia, ho capito.
DOTTORESSA LAURENT: Cosa?
MEG: Il perché… del suo comportamento passato. Il perché di tutto. E non lo odio, non riesco a odiarlo. L'uomo che è stato un sicario, un mercenario, quello… non è più lui. Ho tanta rabbia dentro di me, ma verso l'altro.
DOTTORESSA LAURENT: Non potresti comunque odiarlo più di quanto lui odia se stesso.              
MEG: Quello che gli hanno fatto è mostruoso, e ha generato un mostro. Ma si può amare un mostro?
DOTTORESSA LAURENT: Solo se sei un po' mostro anche tu.
(Meg, esitante, respira piano.)
DOTTORESSA LAURENT: Ancora non lo sa, vero?
MEG: No, non gliel'ho ancora detto.
DOTTORESSA LAURENT: Non voglio costringerti. La decisione spetta a te.
MEG: Ne sono consapevole. (La voglia di sigarette si fa più prepotente.)



Note dell'Autrice: Ecco il nuovo capitoletto! È più di passaggio che altro, ma ugualmente importante: da qui in avanti ci saranno alcune scene più o meno “carine” che consolideranno il rapporto tra i due idioti protagonisti, senza (spero) togliere nulla ai progressi della narrazione.
Allora, che ne dite – si capisce ora la ragione per cui Meg ha perdonato Erik per il suo passato “discutibile”, vero? Spero di averla resa chiaramente. Il motivo per cui voleva vedere il suo volto smascherato era a causa del bisogno che sentiva di comprendere quanto grave fosse la situazione, e quanto gravemente lo avesse influenzato. (Non la sua faccia di per sé, ma come il mondo esterno reagiva ad essa.) Non credo che Meg lo giustifichi, ma lo comprende sicuramente, e il perdono da parte sua è qualcosa che nessuno dei due si aspetta. Intanto passa un po' di tempo, torna la familiarità tra loro, la confidenza, l'amicizia (e qualcosa di più?). Nell'ultimo dialogo con la Laurent, si capisce che c'è un segreto che Meg nasconde ad Erik, qualcosa del suo passato che le pesa. Non è niente alla Carramba che sorpresa, nel senso che i lettori della mia precedente fic, Mon couer, avranno qualche idea al riguardo. In fondo, è una AU della mia… AU. Sì, sono una nerd senza speranza.

Jessica24: Il finale di questa fic non sarà neanche lontanamente tragico quanto quella della precedente, rassicurati. Non sarà una passeggiata, ma da qui in poi la storia assume una piega meno drammatica (gli ultimi capitoli sono stati una svolta. E ti confesso che credo di averla scritta proprio per riprendermi dalla tragedia che era Mon couer. Volevo che i miei bambini fossero felici, per una volta. Fatemi sognare).
Sì, in effetti quella scena assomiglia un po' a quella che porta al climax del finale nel musical. Christine fa capire ad Erik che il problema non è davvero la sua deformità e gli mostra compassione – la prima volta che chicchessia si sia disturbato a rivolgergli una simile cortesia. (Christine è un angelo, dopo tutto quello che le ha fatto passare, soprattutto nel libro, in cui – a mio dire – Erik è ancora più terribile che nel musical…) Anche Meg gli mostra compassione, in modo diverso, ma lo fa. Di questo gesto, entrambi sono alquanto stupiti, te lo posso assicurare.
Un bacio, alla prossima! <3

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Capitolo 9
*** ix. ***


ix.


Hanno finito di vedere la prima stagione de Il trono di spade da un pezzo, ormai. Ora Meg sta cercando di indottrinarlo a Star Wars, perché è impossibile che non abbia mai visto i film e “quel figo di Harrison Ford nel Millennium Falcon”. Motivo discutibile, ma Erik non si ritrae. Sa perfettamente che non è la persona migliore con cui guardare un film: fa commenti inopportuni e critica senza pietà i difetti della regia, del cast, della sceneggiatura e tutto il resto della produzione. Meg lo colpisce almeno dieci volte con un cuscino per intimargli il silenzio, ed Erik alla fine acconsente, vagamente divertito. Non può non sentirsi un po' chiamato in causa quando scopre che il villain della storia, Darth Vader, indossa una maschera che non gli consente solo di respirare, ma anche di celare il suo volto sfigurato. (E ha una preferenza per il nero; e per strangolare la gente; e alla fine viene redento da un atto di compassione.)
Le lezioni di pianoforte procedono con rassicurante tranquillità: non mancano i frequenti battibecchi, ma ormai sono più un gioco che altro. Una volta si sono sfidati per vedere chi era il migliore a insultare l'altro.
«Imbecille.»
«Cretino.»
«Nana.»
«Cadavere putrescente.»
«Piccola teppista punk–rock.»
E così via. Indovinate chi ha vinto.


Suonano alla porta. Erik non si allarma, perché c'è una sola persona che viene a trovarlo quel giorno, alla solita ora. Solo che questa volta si ritrova ben due individui nell'atrio. Meg e…
«Questa è Dany.» La giovane fa un lieve cenno alla bambina dai fitti ricci neri e la pelle più scura di quella della madre nascosta dietro le sue gambe.
Erik la guarda, perplesso. È una splendida bambina, con gli occhi neri e le ciglia lunghe di Meg.
«Avanti, Dany. Non fare la timida.»
La piccola avanza a passi lenti, poi compie un gesto inaspettato: un sorriso le distende i lineamenti paffuti e corre verso Erik, abbracciandogli una gamba. Erik è talmente stordito che non riesce a proferire parola, mentre Meg sghignazza allegramente, come se ci fosse qualcosa di divertente in quella scena.
«É una tua grande ammiratrice. Si addormenta solo dopo aver ascoltato una delle tue composizioni.»
La bambina rilascia la morsa sulla sua gamba — non gli arriva neanche alla vita — e sorride, rossa in volto:«La mia preferita è Nenia di mezzanotte
«Oh.» A questo, Erik non sa cosa ribattere. È stato riconosciuto che, effettivamente, la sua voce d'angelo calma gli spiriti più inquieti, soprattutto quelli dei bambini. Altre composizioni, come il Don Giovanni Trionfante, registrato in studio da Christine Daaé in persona e da Erik stesso nel ruolo del protagonista maschile, smuovono gli animi della folla come neanche la tragedie di Puccini e Verdi.
Un alone di mistero lo avvolge, poiché nessuno conosce il viso del genio — è stato Erik ad assicurarsene. Dany è la prima piccola fan che incontra a tu per tu, e questo lo rende lievemente nervoso.
Si china sulle ginocchia per non guardare la bambina dall'alto in basso: adesso i loro occhi sono sullo stesso piano, e Dany, più che spaventata, sembra catturata da quelli dorati di lui.
«Lieto di conoscerti. Io sono Erik.»
«Sì, lo so. Me lo ha detto la mamma.» Appare rapita dalle lucciole che sono gli occhi di lui, ma non cerca di sfilargli la maschera. Meg deve averle inculcato nella graziosa testolina riccia tutta l'educazione di cui la madre è sfortunatamente priva.
«Ho sentito la tua musica. Canti come un angelo.»
Siete voi il mio angelo, Erik. Per lui quelle parole — demonio ed entità divina — si giustappongono da una vita intera.
«Ti ringrazio.»
La invita a seguirla in cucina, dove le offre i biscotti glassati e gli amaretti che gli piacciono tanto — e di solito è molto schizzinoso in materia di cibo — e la guarda ingozzarsi allegramente in un modo che tanto somiglia a quello della madre.
È il turno di Meg, ora. «Scusami se non ti ho avvisato prima» dice sottovoce mentre la piccola si abbuffa. «Mia madre aveva un impegno, e in questo caso è Luc che bada a lei, ma oggi non poteva — virus influenzale — e io non sapevo cosa fare. Così l'ho portata qui stasera. E ho anche una sorpresa» aggiunge con un cenno alla borsa che indossa a tracolla sulla spalla, ma non dice altro.
«Chissà cosa ci sarà lì dentro. Devo preoccuparmi?»
«Dipende. Che ne dici di un'altra serata–maratona di film?»
Erik sbatte le palpebre. «Dipende dai film.»
Il sorriso malizioso sul volto di Meg non lo rassicura.


Accompagna le sue ospiti nella sala della musica, dove Dany è invitata a sedersi su una poltrona e ad assistere in silenzio alla lezione di pianoforte. Erik è stupito dalla calma della bambina, rammentando quanto anche lui, alla sua età, fosse affascinato dalla musica a tal punto da rimanerne incantato e ammutolito. Ma in fondo è sempre stato taciturno.
Meg suona molto bene, quell'oggi — si vede che si è esercitata, ed è da quando conosce la verità su di lui, sul mostro che egli è, sia fuori che dentro, che fa pratica con maggiore serietà. Forse vuole compiacerlo, in qualche modo, o è una questione di orgoglio: desidera mostrargli a che livello può arrivare, che può superare l'ombra mai tramontata del padre suicida.
Quando la lezione è conclusa, è la piccola Dany ad avanzare una proposta. «Monsieur Erik…»
«Chiamami pure Erik. Non sono ancora così vecchio.»
Le labbra di Meg si aprono in un sorrisetto. Dany congiunge le manine in segno di preghiera.
«Puoi cantarmi qualcosa? Qualsiasi cosa. Così quando papà non ha più l'influenza posso vantarmi di averti sentito cantare dal vivo.»
«Ah, è per questo, allora?» Erik lancia un'occhiata a Meg, che si tiene lo stomaco nel tentativo di non ridere. È decisamente sua figlia.
«Ogni tuo desiderio è un ordine, principessa» dice lui alla fine, con voce profonda, esibendosi in un lieve inchino. Dany arrossisce e batte la manine, eccitata.
Meg e la figlia sono di fianco al pianoforte, e lui si siede sullo sgabello, regolandone l'altezza — è troppo allampanato perché possa stare comodo sullo stesso livello della sua allieva.
Canta una rilassante aria di Händel che tende le corde del cuore di chi ascolta, ipnotizzato da tanta bellezza. Cessa di suonare con un ultimo accordo e poi si rivolge alle sue giovani spettatrici. Dany ha le guance striate di lacrime e sembra sul punto di mettersi a piangere di nuovo — non per tristezza, ma per meraviglia; Meg ha gli occhi lucidi ed è un tantino più rossa in volto del solito. Entrambe sembrano riprendere il controllo delle proprie facoltà mentali quando lui chiude la bocca.
«Che bello» sospira Dany, scuotendo i riccioli neri — deve averli ereditati dal padre.
«Non montarti la testa, Danton» lo avvisa Meg, ma oltre il suo tono minaccioso riposa un sorriso. Erik lo contraccambia, ma ancora per poco.


Sono stravaccati sul divano del salotto — Dany però è stesa sul morbido tappeto persiano — a guardare cartoni animati. Ebbene sì, Meg ha tutta l'intenzione di far recuperare un po' della sua infanzia perduta ad un Erik assai riluttante, e solo il sorriso entusiasta di Dany ha impedito che trasportasse di peso la giovane madre fuori da casa sua, su quella sua infernale motocicletta.
La maratona è di film della Disney, adesso, iniziando da Biancaneve e i sette nani e finendo con Frozen. Impiegano giorni per terminarla, se non addirittura un paio di settimane, ma secondo Meg ne vale la pena, anche solo per vedere Erik commuoversi durante la scena finale de La Bella e la Bestia.
«Ti sei commosso.»
«Stai vaneggiando.»
«Quindi ti piace.»
«Non puoi presumere nulla del genere.»
Dany diventa una ospite abituale in casa Danton, ed Erik si premura sempre di farle trovare caramelle e dolciumi (tutti scelti con minuziosa arte da un'esperta come Giovanna, che talvolta prepara anche torte, biscotti e pasticcini e non può non essere lieta che il suo padrone stia mettendo su un po' di peso) che può sgranocchiare felicemente mentre guardano tutti insieme l'ennesimo film firmato Disney.
Alla fine, Dany si addormenta sul tappeto e Meg è costretta a svegliarla con la maggiore dolcezza possibile, per quanto sia risaputo che la ragazza ha la grazia di un elefante — eccetto che sul palco e con le scarpette da ballerina ai piedi, il posto a cui appartiene, dove il brutto anatroccolo diventa cigno. È mezzanotte quando se ne va. Erik le osserva allontanarsi in sella alla Harley Davidson (si è premurato che anche Dany indossasse un casco appropriato) e, di nuovo, ha trascorso una serata piacevole come lo sono state poche nella sua bistrattata esistenza. Spera di non avere incubi, quella notte, ma qualcosa gli dice che non ne avrà per un po'.
Non sente i commenti di madre e figlia sul selciato di casa Danton.
«Lui mi piace» sussurra Dany all'orecchio di Meg, quasi tema che l'interessato possa ancora sentirla.
«Piace anche a me» risponde l'altra, e si guarda alle spalle un'unica volta. Basta per farle capire che non vuole mai più non rivedere un certo viso mascherato. Mai più.



Scena VI

MEG: Secondo voi è normale voler trascorrere intere serate con un uomo deforme di mezza età, con un cervello grande quasi quanto il suo spropositato ego, a guardare film della Disney?
DOTTORESSA LAURENT: (sorridendo) Quali sarebbero le altre opzioni?
MEG: Non so. Cosa fanno le persone alla mia età? Io già lavoro in una prestigiosa compagnia di ballo, non posso desiderare di più. Ho una figlia meravigliosa, una madre che mi adora, ma non tanti amici, a parte Luc — so che di lui posso fidarmi — e pochi altri. Insomma… me la cavo. E dopo quello che ho passato, questo è il periodo migliore della mia vita, e confido che il futuro sarà anche migliore.
DOTTORESSA LAURENT: Ti vedo molto ottimista oggi, complimenti.
MEG: (sbuffa) Effetto delle medicine.
DOTTORESSA LAURENT: Sicuramente aiutano. Ma qualcosa è mutato dentro di te. É un progresso naturale.
MEG: Non riesco a stare lontana da lui. Dovrei farlo, forse… Ha vent'anni più di me, è palesemente problematico, ha subito non so quanti traumi in vita sua, ha una faccia orripilante e a volte vorrei colpirlo in testa a badilate, ma… è anche la persona più straordinaria che abbia mai conosciuto. E non voglio perderlo. Non voglio perderlo.



Note dell'Autrice: Salve a tutti! Rieccomi con un nuovo aggiornamento, come ogni giovedì, di questa storia modesta e senza pretese, ma che spero sia almeno simpatica. Sia Erik che Meg sembrano... il termine inglese sarebbe smitten. A quando la collisione? E cosa accadrà a quel punto? Continuate a leggere e lo saprete.
Alla prossima!

P.S. Se vi piacciono le avventure di questi due matti e il modo in cui li caratterizzo, ho pubblicato altri due miei piccoli lavori (io li chiamo “le mie sciocchezze”, alla Jo March) qui su EFP. Uno è ambientato nel mondo del musical – una novità per me – quindi a qualcuno dei miei più vecchi lettori potrebbe interessare…? Non sentitevi in obbligo.

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Capitolo 10
*** x. ***


x.


Sono impegnati nelle loro abituali conversazioni notturne — prima di andare a dormire, Meg lo chiama regolarmente per augurargli la buonanotte via Whatsapp e tutte quelle altre diavolerie tecnologiche che lo affascinano così tanto. Il mondo è pieno di possibilità ancora sconosciute, e lui vorrebbe divorarle tutte, inghiottirle per intero, ma è solo un granello di sabbia nell'universo, con una voce da far piangere gli angeli.
«Cantami la canzone di Frozen
«Dio, no.»
«Dai, Facciamo un pupazzo insieme. C'è Dany qui che vorrebbe tanto sentirla e fare la parte di Elsa.»
«Ciao, Erik!»
«Ciao, principessa. Meg, devo proprio?»
«Dany ci tiene.»
«Oh, per l'amor del cielo…»
«Dai, dai, dai, dai, dai, dai, dai…»
«E va bene. Dovrò mettere da parte la mia dignità.»
Una pausa.
«Sei già sveglia oppure dormi…?»


Meg infila le sue cose nella borsa — sempre di pelle nera, con lo stemma della Harley Davidson cucito sul davanti — un po' alla rinfusa. Erik la guarda meditabondo: non è attraente — non come Christine, con i suoi boccoli biondi e i dolci occhi azzurri — eppure… Più il tempo trascorre tra lezioni di pianoforte e serate cinema (così le chiama lei), più lui la trova… non ci sono parole. Meravigliosa, forse? Sì, magari può andar bene. Si accorge di ogni dettaglio: le fossette sulle guance quando sorride, la frangia nera che le sfiora gli occhi, qualche cicatrice sul viso — residuo di una pelle tormentata dall'acne giovanile — i polsi ossuti da far paura… Gli piace guardarla, anche se non è bella. Per lui lo è più di qualsiasi altra cosa al mondo, adesso.
«É da tempo che volevo chiedertelo.» Lei si volta e gli sorride. O meglio, sogghigna, il che vuol dire che gli sta per proporre una sfida.
«Dimmi pure.»
«Suoni tanti strumenti, giusto? Ma non ti ho mai sentito suonare la chitarra elettrica.»
Ecco. Questa sarebbe una sfida da lei.
«In effetti, ora che ci penso, in certe mie composizioni ho usato la chitarra classica, mai quella elettrica.»
Meg fa un cenno eloquente con le piccole dita. «Mi faresti sentire qualcosa? Dopo il pianoforte, è il mio strumento preferito.»
«Non temi che mi monti la testa, Giry?»
Meg ride. «Più del solito?»
Le labbra di Erik — o quelle che dovrebbero essere labbra sul suo viso morto — si distendono in un sorrisetto. Tira fuori la Fender Stratocaster dalla sua apposita custodia, appartata in un angolo della sala della musica, e la sfiora con mani delicate. Meg la guarda con occhi come piattini mentre Erik comincia ad accordarla.
«Cosa vuoi sentire?»
«Mmm, vediamo… Conosci Sweet child o'mine dei Guns'n'Roses? Ecco, l'assolo. Mi piace molto.»
«Sì, la conosco. È piuttosto semplice. Non la ricordo bene, però.»
«Non ho uno spartito… Potrei cercare su Internet…» Meg già tira fuori il cellulare.
«No, aspetta. Non ce n'è bisogno.» Erik la ferma, posandole una mano sul polso con gentilezza. La giovane sussulta al tocco freddo e improvviso, e lui si ritrae subito, come sfiorato dal fuoco.
«Fammi ascoltare la canzone. Basta anche una volta sola.»
«Dici che poi sapresti riprodurre l'assolo?»
Erik sogghigna. «Mia cara, dimentichi con chi hai a che fare.»
«Sì, e col tuo ego.» Meg sorride, e dopo aver armeggiato per un po' col cellulare, gli fa ascoltare la parte interessante della canzone. Erik stringe il plettro tra due dita e comincia a suonare.
Mozart e Beethoven non mettevano la loro pazzia, la loro malattia nelle loro composizioni, nel modo in cui suonavano; Erik sì. Ci mette tutto il dolore del mondo, che si riflette nei suoi occhi d'oro rosso. È uno spettacolo sempre stupefacente.
Alla fine, Meg rimane a fissarlo a bocca aperta per qualche secondo. Ha la pelle d'oca e gli occhi fuori dalle orbite, tanto è sgomenta. Si cimenta in un applauso d'elogio che Erik accetta con un breve inchino.
«Grazie, Madamoiselle.»
«Sei straordinario, tu.» Lui sa di esserlo, ma il sentirselo dire da lei lo fa arrossire come un adolescente in crisi ormonale. È semplicemente ridicolo.
«Davvero, perfino meglio che sentir suonare Slash in persona. È…» A Meg mancano le parole. Scuote il capo e i suoi capelli diventano ancora più arruffati. «Per un vecchio, sei davvero rock.»
«Non sono vecchio
Lei ride, con la sua usuale risata bassa e rauca. «Certo che sì.»


Imbarazzante. È terribilmente imbarazzante. Non ha altro commento a proposito.
Si soffia quello che dovrebbe essere il suo naso e si limita ad ignorare il contenuto disgustoso nel fazzoletto. Terribile. Meg sta per arrivare e lui si trova in quelle condizioni. Si lava la faccia e indossa nuovamente la maschera — questa volta di un bianco porcellana immacolato. Ha diversi assortimenti di maschere, e le crea tutte lui: è un'artista anche in questo.
«Hai un aspetto spaventoso. Beh, più del solito.»
«Grazie, cara.» La fa entrare con meno cortesia dell'usuale e starnutisce in una mano.
«Dio, dimmi che non mi vomiterai addosso.»
«Perché me lo dici?»
«Hai tutta l'aria di uno che sta per farlo.»
In effetti, ha le iridi cerchiate di rosso e un'aria febbricitante. Meg gli prende una mano, delicatamente — è sempre attenta quando lo tocca, perché sa che per lui il tocco è dolore — e fa una smorfia, cogliendolo di sorpresa.
«Sei bollente.»
«Ho un po' di nausea.»
«Ti ho detto di non vomitarmi addosso.»
«É solo un semplice mal di testa.»
«No, hai la febbre. Devi metterti a letto.»
«Sono perfettamente in salute.»
«Sei perfettamente stupido.»
Meg lo prende per un braccio prima che possa cadere a terra e lo accompagna sul divano. Lui le dice dove prendere le coperte — nell'armadio del sottoscala — e il termometro, che lei gli infila in bocca malgrado le sue attive proteste. Gli si siede accanto e sussulta quando legge la temperatura del termometro.
«Trentanove e mezzo. Ma sei un disgraziato.»
Erik sospira nella coperta. Non può proprio nasconderle nulla.
«Dove sono le medicine?»
«Chiama il Daroga. Ce le ha lui.»
«Certo che quell'uomo ti fa proprio da badante, non c'è che dire. Dovresti pagarlo.»
«Credo tu abbia ragione.»
E così Erik assiste a una conversazione concitata tra il Daroga e Meg al telefono, e lui che viene a visitarlo a casa. Entrambi lo guardano come se non sapessero cosa fare.
«E adesso?»
«Non so, in vent'anni non è mai stato male.»
«Dovremmo chiamare un dottore.»
Erik scuote il capo con la forza che gli resta. È esausto, e sa che prima o poi darà di stomaco (più prima che poi, probabilmente). Preferisce farlo in assenza di Meg, però. Per quanto riguarda il Daroga… già  lo ha visto vittima della sbornia. Non può essere tanto diverso.
«Sono io il dottore di me stesso. Datemi un antibiotico e starò bene.»
Dopo che si sono accordati sulle cure da prestargli, il Daroga se ne va, non poco preoccupato.
«Simpatico, Nadir. E credo tenga a te più di quanto mostri.»
«Non è davvero mio amico. È il mio badante, lo hai detto tu.»
«Perché tu non ti sei mai concesso altro.»
Meg si siede accanto a lui sul divano, rimboccandogli le coperte come fosse un bambino bisognoso di cure.
«Dovresti andartene, Meg. Potrei contagiarti, e hai Dany a cui pensare…»
«Dany starà bene, alla larga da te per qualche giorno. Io non ti lascio qui da solo. Non potevi avvisarmi e rimandare la lezione, dicendo che ti sentivi male?»
Erik arrossisce dietro la maschera. La verità è che voleva vederla a qualunque costo, anche quello di farsi venire la febbre. Per fortuna Meg non aspetta davvero una sua risposta e si limita a scostargli dalla fronte una ciocca di sottili capelli neri.
«Sei proprio un irresponsabile… Un bambino. E poi pretendi che prenda direttive da te? Ma per favore.»
«Hai finito di insultarmi?»
«Toglimi una curiosità. Come fai a starnutire?»
«Cosa?»
«Senza naso. Come fa a…?» Meg fa un gesto eloquente e poi scoppia a ridere, vedendo l'espressione offesa negli occhi di Erik.
«Maledetta ragazza, non smetti mai di prendermi in giro. Non hai pietà di un moribondo?»
«Non avevi detto di stare benissimo?»
No, ma la verità è che si gode le sue cure improvvisate. E la sua nuova infermiera.
«Allora resta. E raccontami qualcosa di interessante.»
«Per esempio?»
«Lavora un po' di fantasia.»
Meg si morde un labbro, dopodiché il suo volto si illumina. «Sai che, da bambina, ho preso anche lezioni di chitarra?»
«Non ti offrirò altre lezioni gratis, se è questo che intendi.»
«No, cretino. Dovevo esibirmi in questo concerto a scuola, con altri marmocchi. Avrò avuto nove anni. Non vidi mio padre tra il pubblico — mi aveva promesso che sarebbe venuto — e mi arrabbiai tanto che improvvisai un assolo davanti a tutti.»
«Dio, no. E come andò?»
«Malissimo. Alla fine avevo le lacrime agli occhi e per poco non sfasciai la povera chitarra in testa all'insegnante.»
«Che blasfemia sarebbe stata. Che ti aveva fatto quel povero strumento?»
«Non era bastato. Papà non era venuto a vedermi neanche al concerto della scuola. Di nuovo.»
«Di nuovo?»
«Qualche volta si è assentato a qualche mio saggio di danza, alla scuola di mia madre.»
«Oh. Mi dispiace.»
«Anche a me.»
Un attimo di silenzio.
«Meg, io so perché tuo padre è morto. Stava male, molto male. Era per questo che non assisteva ai tuoi saggi, qualche volta?»
Lei sospira. «Sì, e io lo sapevo. Mi arrabbiavo lo stesso, allora, ma dopo ho imparato a non fargliene una colpa. Non lo voleva davvero. Semplicemente non era in grado… di recitare il ruolo del mio papà, in quei momenti.»
«Quanti anni avrebbe avuto adesso?»
«Come mia mamma. Cinquantacinque.»
Erik sospira di sollievo. Almeno era più vecchio di lui. Se avesse avuto l'età del padre di Meg… Imbarazzante. E inappropriato.
Ma tanto cosa gli importa? Non è come se…
Meg gli scosta un'altra ciocca di capelli dalla fronte e lui ha un brivido. Gli rimbocca di nuovo le coperte.
«Riguardati, Erik. Non far preoccupare i tuoi fan.»
«I miei fan non sanno nemmeno che faccia abbia.»
«Non ne abbiamo mai parlato, ma secondo me dovresti uscire allo scoperto.»
«Sei impazzita? Per farmi trattare di nuovo come un fenomeno da baraccone? No…»
«Non è detto che ti trattino così. Christine non l'ha fatto. Io non l'ho fatto. E neanche Nadir. Una faccia conta fino a un certo punto. Immagino che non potrai mai fare l'attore…»
«Meg.»
«… o il modello…»
«Meg.»
«Ma il genio della musica sì.»
«Questi non deve per forza avere un volto.»
«Certo che sei cocciuto.» Gli dà un buffetto su una guancia mascherata.
«Chiamami quando starai meglio. O peggio.»
«D'accordo.»
La vede raccogliere le sue cose e andarsene. Vorrebbe dirle di restare, ma davvero non ci sarebbe motivo. Perché dovrebbe volerlo? Sì, perché mai?



Note dell'Autrice: Ehilà, rieccomi con un nuovo aggiornamento. Ora, immaginate Erik canticchiare Facciano un pupazzo insieme. Scoppio a ridere di cuore solo al pensiero, pff. A quanto pare è davvero preso da Meg… Peccato che sia troppo ottuso per capirlo (per ora). Quanto durerà questa impasse?
Non chiedetemi perché proprio i Guns'N'Roses. Ho una fissa per Sweet Child O'Mine, sono molto affezionata a quella canzone. Solo che non capisco nulla di chitarra – suono il pianoforte, non la chitarra – quindi quando dico che l'assolo è semplice, intendo dire che lo è per Erik, alias il Mozart degli anni 2000. Probabilmente si potrebbe pensare che un uomo dai gusti raffinati come lui non possa apprezzare la musica rock, in special modo l'hard rock o l'heavy metal (da vedere come fa lo snob con Meg all'inizio della loro stramba amicizia), che non possa considerare la musica moderna come “vera musica”. In parte sì, è tanto altezzoso da considerare poche cose come vera musica – pensate a come parla di opera a Christine nel libro – ma personalmente credo che sarebbe molto curioso nei riguardi di ogni genere musicale. Nell'800, Erik aveva un impianto di riscaldamento elettrico sottoterra e aveva costruito un automa per lo Shah di Persia – è chiaramente un uomo proiettato nel futuro. O almeno, lo è la sua mente.
A proposito, ho pubblicato una nuova fic – sempre E/M – ispirata da un prompt inviatomi da un'amica straniera su Tumblr. È una breve One Shot, se avete voglia fate un salto nel mio account e leggetela. Magari vi divertirà. È stato… un esperimento particolare.

P.S. Da notare che Erik si preoccupa della chitarra, non della testa dell'insegnante su cui Meg quasi la sfascia. Tipico.

Elisagemma: Oh, una nuova lettrice! Che bello! Grazie per i complimenti. *arrossisce* Sono lieta che “le mie sciocchezze” ti piacciano. No, sono davvero sciocchezze, ma l'amore che ho per questi personaggi mi porta a condividerle. Felicissima che qualcuno apprezzi!
E chi smette di scrivere su Erik? Continuerò a tormentare questo sito fino alla sua (o mia) fine! Spero che mi seguirai, e di non ammorbare troppo nessuno.
Un bacio anche a te! <3

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Capitolo 11
*** xi. ***


xi.

 

Trascorre una settimana prima che si possa sentire meglio, ma una settimana senza vedere Meg già gli basta. La lascia in pace, più che altro, sempre timoroso di disturbarla; è lei a contattarlo per prima su WhatsApp o tramite cellulare, e riesce anche ad avere i saluti di Dany e Madame Giry. Forse appare un po' più freddo del necessario, ma davvero non può permettersi di cadere nell'abisso; c'è di mezzo il suo cuore, e probabilmente la sua salute mentale. Non sopporterebbe un altro colpo: magari vederla sistemarsi con qualcuno come Luc – qualcuno di normale, giovane, che possa renderla felice… E sa che non farebbe nulla per impedirglielo, che non commetterebbe mai, mai più gli stessi sbagli che ha fatto con Christine, anzi. Soffrirebbe se lei non lo volesse più, certo, ma non si opporrebbe. Qualsiasi cosa per renderla felice.

Un'improvvisa scampanellata lo avverte di un ospite casuale. Deve essere il Daroga, perché chi altri, con quella pioggia…

«Meg?»

É infangata dalla testa ai piedi, i capelli madidi appiccicati al cranio e alla fronte bassa, vestita interamente di cuoio nero, dalla giubba agli stivali aderenti. La moto prende acqua in un angolo del selciato. Ha il viso incupito, gli occhi cerchiati di nero, tempestosi, e l'aria di una a cui farebbero bene un bel bagno caldo e un sorso di camomilla.

«Ma che diavolo…?»

«Scusa se mi presento da te in questo modo» dice lei con la voce arrochita dalle sigarette. Sa che non deve fumare, soprattutto perché è una ballerina, ma gliel'ha già detto, non riesce a smettere.

«Entra. Gesù.»

La fa accomodare in casa senza più invocare il Padre Eterno e non le toglie gli occhi di dosso mentre gli cosparge il pavimento di orme di fango. Solo allora, guardandola bene in volto alla luce elettrica dei neon, si rende conto che ha le iridi cerchiate di rosso e il trucco – la solita matita nera – sciolto sulle palpebre, come se avesse pianto. O come se si fosse gettata un secchio d'acqua in faccia, ma quello è meno probabile.

«Cos'è successo? Cosa c'è che non va?»

«Scusami, io…» Si guarda attorno, per un attimo disorientata. «Scusami.»

«Figurati. Che cos'hai? Perché sei qui? Non che mi dia fastidio, ma…»

«Devo parlarti. Posso farmi una doccia, prima?»

«Certo. Sai dov'è il bagno.»

Erik la guarda fare ciac ciac con gli stivali fino al piano di sopra. È confuso, ma soprattutto preoccupato. Cosa ci fa Meg in casa sua, bagnata fradicia, a quell'ora della notte?

È in cucina a prepararle un tè quando sente dei passi felpati avvicinarsi – nessuno può imbrogliare il suo udito da cane – e per poco non fa cadere la tazza a terra quando la vede avvolta solo in un asciugamano, pulita ma fradicia, sulla soglia della cucina.

Santo cielo. È così poco vestita che si scherma gli occhi con una mano – da gentiluomo qual è, gli viene naturale.

«Sì, il tuo fare da gentleman è apprezzato, ma in questo momento non mi serve» risponde lei, mordace ma divertita. «Come vedi, sono compromessa. Sai dirmi dove sono dei vestiti puliti senza fare gesta inconsulte, o…?»

«Sei sicura di non aver organizzato questo bello scherzetto appositamente per mettermi in questa situazione?»

«Quale situazione?» Lei sbatte le palpebre con fare incolpevole.

«Questa.» Lui indica entrambi: lei mezza nuda, lui imbarazzato a morte. Lei scoppia in una risatina diabolica. «Solo un pochino. Volevo vedere che faccia facevi – beh, non facevi, vista la maschera… Ah, non fare il guastafeste, Erik.»

«Sei una peste. Dovrei lasciarti lì a morire congelata. Ma dal momento che non voglio ragazzine mezze nude in giro per casa…»

«Ehi, non sono una ragazzina. Sono una donna fatta.»

«Sì, sì, come vuoi» dice mentre le fa segno di seguirlo di sopra – si sta ancora schermando gli occhi.

«Scusa, sarebbe stato più facile per te se mi avessi visto come una donna adulta e non una specie di bambina troppo cresciuta che per caso ne ha partorito un'altra?»

No, mi avrebbe fatto impazzire. Ma lascia questo dettaglio al silenzio.

«Ehi, pretendo una rispos–…»

Lui fruga nell'armadio della stanza degli ospiti, trova una camicia e una felpa vecchie e gliele caccia in mano, sempre gli occhi chiusi a metà.

«L'asciugacapelli è nel cassetto del bagno a sinistra. Quello in basso. Riscaldati per bene, poi ci tocca una bella chiacchierata. Voglio sapere perché mi hai inzaccherato di melma l'atrio e il corridoio. E la prossima volta presentati al mio cospetto con dei vestiti addosso. Chiaro?»

«Sì, mon capitain» scherza lei, esibendosi in un saluto militare. Ma questo le fa cadere di dosso l'asciugamano sottile che la copre ed è in quel momento che lui, con un gemito d'orrore, si allontana giù per le scale mentre la risata di lei gli rimbomba nelle orecchie.

Diabolica peste. Quella è la figlia del demonio, non c'è che dire.

Quando ricompare in cucina, vestita e asciutta, sembra molto più calma. E più triste. Tutta la sua spavalderia è svanita, come risucchiata da un male innominabile che le tempesta il cervello. Erik ne aveva il sospetto già da un po', ma ora ne ha la conferma. Non sa a che livello si sia spinto il suo male, però.

«Grazie» sussurra lei di rimando quando lui le porge la tazza di tè caldo. Si siedono entrambi sul divano, lei sorbendo lentamente la bevanda rovente, lui che la osserva di sottecchi. Ora che è vestita – la camicia e la felpa le arrivano alle ginocchia, e ci crede, visto che sono sue – è molto più semplice.

«Scusa per il fastidio.»

«Figurati.»

«No, davvero, so che è un fastidio. Credi che Nadir mi abbia visto dalla finestra della casa vicina?»

«Non pensavo ti interessasse il giudizio degli altri.»

«Solo di alcuni.»

«Non preoccuparti, il Daroga non ti giudicherebbe comunque. È il mio badante, lo hai dimenticato?»

Lei scuote il capo. «Piombarti qui in casa conciata in quel modo… Sembravo uscita da una piovosa corsa clandestina di motociclette. Se solo Dany mi avesse visto…»

«Non ti ha visto, spero.»

«No. È per questo che sono venuta qui. Quando sono così, lei non mi deve vedere. Assolutamente. La spaventerebbe. Mi scambierebbe per un fantasma…»

Un fantasma… pensa quietamente Erik. Ha qualcosa di ironico e triste al contempo, che abbiano quell'aggettivo in comune.

«Sono il fantasma di me stessa. Non so che fare.» Lei poggia la tazza sul tavolino e si stringe le ginocchia al petto, il viso tirato e teso. Lui vorrebbe farle una carezza – qualsiasi cosa per tranquillizzarla – ma non si muove. Con il tocco, non ci sa fare. Non sa curare nemmeno se stesso, figuriamoci gli altri.

«Non ti ho detto una cosa. Solo mia madre lo sa, e un paio di persone… Luc, tra gli altri. Qualche mio vecchio insegnante di scuola. La mia terapista mi ha consigliato di rivelartelo, se volevo, poiché tu mi avevi detto tanto di te, del tuo passato… Così saremo stati pari. Ma non ne ho avuto il coraggio… Finora. Oggi è quel giorno.»

Erik aggrotta la fronte dietro la maschera, in attesa di ulteriori spiegazioni. Lei affonda di più nel sofà.

«Mio padre è morto oggi, tredici anni fa. Sai come.»

Lui annuisce, ancora vigile.

«É il giorno in cui sono morta anch'io. O almeno… la mia infanzia è morta. La mia innocenza.» Lo guarda con occhi grandi e lucidi. «Avevo dieci anni. Lui stava male da un bel po'… Un male che si portava dietro da secoli, a quanto pare. Mal curato. Soffriva tantissimo… Si è rinchiuso di sua volontà in un istituto di igiene mentale, lo sapevi?»

Lui annuisce ancora.

«C'erano notti in cui era in preda alla mania più sfrenata e suonava il pianoforte per ore. O meglio, ci strimpellava sopra. E giorni in cui non riusciva ad alzarsi dal letto. Sentiva delle voci e vedeva delle cose che non esistevano. Era spaventato a morte.» Meg si scosta una ciocca di capelli dalla fronte. «Lo hanno ucciso. I dottori, intendo. Per anni sono stata sicura che la colpa fosse loro. Che fosse loro il biasimo se si era…» Prende un respiro profondo e prosegue. «Non è proprio così. Mio padre ha fatto bene a ricoverarsi – ha cercato aiuto, ed è ciò che si dovrebbe fare in questi casi. Solo che non è stato abbastanza.

Quello che non sai è che… l'ho scoperto io, il cadavere. Impiccato. Stavo tornando da scuola prima del solito – lui non lo sapeva, non lo avrebbe mai fatto se solo avesse saputo… Vedi, tutta la mia vita poteva cambiare per quel minuscolo frammento di informazione. Ma così non è stato. E allora… tornai a casa e vidi quello che da quel momento in poi chiamai il pendolo.» Lei sorride, amarissima. Erik rimane a bocca aperta per qualche istante: non sapeva che fosse stata lei a scoprire il corpo del padre. A dieci anni, poi.

«Quando lo vidi scoppiai a urlare e… Fu mia madre a scoprirci. Me che urlavo e il corpo di mio padre. Passai un mese in uno stato catatonico, così dicevano i dottori – non parlavo, non mi muovevo, a stento mangiavo e respiravo. Non ero viva. Davanti ai miei occhi avevo solo l'immagine di mio padre che moriva. Era un'ossessione che non riuscivo a cancellare. Poi mi risvegliai, quando mi resi conto che Maman soffriva e aveva bisogno di me, e…» Lei deglutisce. «Non fui una buona figlia. Per anni, fino al liceo, mi cacciavo nelle risse. Picchiare qualcuno mi aiutava a dimenticare… il pendolo. Vidi psicologi, psichiatri – niente funzionava a lungo. Uscivo tardi la notte, quando mia madre era al lavoro, per andare in discoteca e… beh, puoi immaginare. Il sesso e l'alcol e il fumo mi stordivano – era quello che cercavo, un modo per uscire dall'incubo. Quando avevo sedici anni, tentai di…» Qui si ferma, le lacrime agli occhi. Una le cola sul nasino schiacciato. Erik la raccoglie e le sfiora delicatamente una guancia. Lei gli stringe la mano, fino allo spasimo. «Non riuscivo a cancellare i pensieri che mi ossessionavano. La mia mente era un campo di guerra. Distrutto, rovinato da me stessa. E così tentai di… di uccidermi. Trascorsi un anno in un istituto psichiatrico. Lì conobbi la dottoressa Laurent. Lei mi aiutò, mi aiutò davvero. Quando ne uscii, ricominciai con la scuola, con la danza, con la mia vita. Era come essere nata di nuovo… Mia madre era l'unico raggio di sole nella mia esistenza, l'unica presenza fissa. Poi c'era Luc, naturalmente. Un bravo ragazzo. Credo che mi amasse, ma io non amavo lui allo stesso modo. L'ho fatto soffrire, e mi dispiace. Un anno dopo ebbi Dany, e da quel momento cambiò tutto. Il mio pianeta cominciò a ruotare attorno alla vita che mi cresceva dentro. All'inizio ero devastata e impaurita: pensavo che non avrei più potuto permettermi una carriera da ballerina, ma Luc – come ti ho già detto – mi assicurò che si sarebbe preso cura lui della bambina, quando io non potevo. Che non avrei dovuto sacrificare me stessa. Devo sembrarti egoista, ma per me fu un colpo non indifferente.»

«Lo immagino.»

«No, tu non immagini.» Lei sospira. «Quando ho tentato il suicidio… Mi sono quasi uccisa con un'overdose di farmaci. Mi svegliai in ospedale imbottita di medicinali, flebo, gli occhi di mia madre sopra di me che versavano lacrime… Si incolpava, capisci. Per non avermi aiutata. Ma lei mi ha cresciuto nel miglior modo possibile. Sono io che non le ho dato abbastanza.»

«Non è colpa tua. E comunque, adesso stai meglio.»

«Sì, certo. Mi sono diplomata con due anni di ritardo, ma alla fine ce l'ho fatta. Dopo il mio tentato suicidio, tutto mi faceva paura. Solo la vicinanza di mia madre e Luc mi aiutava, e quella della dottoressa. Ci vollero mesi e mesi di duro lavoro, ma alla fine ne uscii fuori. In parte, dentro di me, temo sempre di ricascarci, in quell'incubo. La morte non si può disfare. Ci sono situazioni che non possono risolversi. Ma potevo risolvere me stessa, come un cubo di Rubik. E così ho fatto. Ecco, non volevo dirti altro.»

«Hai ancora paura?»

«Sì. Sono tormentata dagli incubi, ma da quando prendo le medicine – avevo sedici anni quando ho cominciato ad assumere psicofarmaci, seguita regolarmente da un dottore, e ovviamente dalla mia terapista – sto molto meglio. Ma sì, ho ancora paura. Soprattutto per Dany. Non posso crollare. Per lei, non posso farlo. Non posso farlo…»

Ha ancora gli occhi – gli occhi che Erik ha imparato a trovare così belli, così scuri – lucidi di lacrime non versate. Si stringe a lui, la testa sul suo petto, e questo gli mozza il fiato in gola. Spera tanto che, malgrado la vicinanza, non se ne sia avveduta. Lei respira piano, piangendo silenziosamente. Erik afferra tutto il coraggio di questo mondo e le scosta la frangia dalla fronte bassa e aggrottata, sfiorandole i ribelli capelli neri. Come faceva a trovarli simili a un nido di vespe, un tempo? Sono di una morbidezza e un colore sensazionali. La stringe a sé con dolcezza, in un gesto a cui non è abituato – è un eufemismo. Non ha mai dovuto consolare qualcuno in vita sua. Ciò che più assomiglia a un contatto umano che abbia mai avuto è il pianto di Christine contro il suo – quando si sono abbracciati, lui ai suoi piedi, tanti anni prima. Ora si rende conto che non abbraccia una persona da più di quindici anni. Quello è il suo primo abbraccio dopo una vita di solitudine. Con il Daroga sarebbe stato inopportuno e imbarazzante – non sono davvero amici, per quanto tenga e si preoccupi per lui, per quanto siano legati (in fondo, gli ha salvato la vita).

Meg è la sua prima amica in assoluto.

Christine non conta, perché è stato ossessionato da lei dal momento in cui ha posato gli occhi sulla sua figurina bionda. Quel che prova per Meg non è affatto ossessione: è molto diverso, molto più dolce, molto meno violento, seppur non meno passionale.

Sono spacciato, pensa in un rantolo di paura. No, non può essere. Somiglia a…

Lei si stringe al suo petto e mormora un “grazie” sentito. Lui, per tutta risposta – gli mancano le parole – le sfiora una spalla in un gesto che spera sia di conforto.

Merda, pensa. È proprio il caso di dirlo.

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Capitolo 12
*** xii. ***


xii.


I mesi trascorrono come le foglie che cadono dagli alberi, e l'estate torrida subisce una metamorfosi: come una crisalide che si squarcia adagio, così entra l'autunno nelle case di Parigi, e anche in quella di Erik. Meg si ripara dal freddo incombente col suo solito giubbotto di pelle nera, gli anfibi dello stesso colore al posto dei sandali che le scoprivano i piccoli piedi callosi. Diventa una pianista sempre più abile, e frequenta la Maison Danton più spesso del normale. A volte Dany è con lei, ed Erik è lieto di raccontare alla bambina le meraviglie che ha visto nei suoi viaggi. Ovviamente, non parla della ragione per cui viaggiasse così lontano e così spesso. Dany sa che c'è qualcosa che non va con la sua faccia, e non poche volte, mentre siede sulle sue ginocchia, gli sfiora la maschera come a voler indovinare cosa vi cela dietro.
Ma non lo vedrà mai. Questo è il solo pensiero che sia di conforto ad Erik.
L'autunno scivola via come su una lastra di ghiaccio, e arriva Halloween. Meg costringe Erik a vedere una sfilza di film di Tim Burton, che gli rivela essere uno dei suoi registi preferiti, e davvero Nightmare Before Christmas è molto appropriato al giorno che festeggiano. Erik canticchia Re del blu, re del mai finché Dany non si addormenta sul divano, la testa appoggiata ad una sua gamba magra. La piccola dorme splendidamente, tanto che la madre è restia a svegliarla.
«C'è una cosa che non ti ho mai chiesto.» La voce di Meg è appena un sussurro, attenta a non svegliare la bambina. Le accarezza gentilmente il nugolo di capelli ricci, seduta accanto ad Erik sul divano.
«Cosa mai attira la tua curiosità, Meg?»
«Quand'è il tuo compleanno? Il mio è il tre gennaio, non so se te l'ho mai detto. L'anno prossimo compirò venticinque anni.» Sorride come se avesse raggiunto un traguardo. «E tu?» Corruga la fronte. «É incredibile che non te l'abbia mai chiesto.»
Erik si rabbuia. «È un'occasione a cui preferisco non pensare.»
Meg si fa seria. «Ma è il tuo compleanno. Persino io sono entusiasta all'idea. Quanti anni compi? O è maleducato chiederlo?» Sorride serafica.
Lui sospira. «Quarantasei.»
Lei scoppia a ridere con la sua risata luciferina. «Sei vecchio. Sei proprio vecchio.» Gli dà una spallata amichevole.
«Ma zitta» dice Erik scuotendo il capo. Non vuole pensare alla loro differenza d'età, gli fa venire il mal di testa. «Comunque, è già passato.»
«E non mi hai detto niente? Oh, avanti!» Meg si morde un labbro, improvvisamente contrariata. «Non ti ho fatto un regalo.»
«Meg, davvero, non è importante.»
«Certo che lo è, invece.» Lo guarda di sottecchi. «C'è qualcosa che ancora non mi hai detto? Esiste un motivo per cui odi il tuo compleanno o devo indagare negli anfratti della tua mente labirintica tipo Freud?»
«Sei davvero insistente.» Erik sospira, strofinandosi il naso. Beh, se avesse un naso. In questo caso, ha solo la maschera. «La gente è fortunata ad avere un naso tutto proprio.»
«Che cazzo dici?»
«Lascia perdere. Pensavo ad alta voce.»
«Sono incredibile, lo so, ma neanch'io posso regalarti un naso per il tuo compleanno.» Meg scuote il capo mentre Erik alza gli occhi al cielo. È un argomento che lo urta, e lei è bravissima ad urtare gli altri quando vuole. Questo dovrebbe saperlo.
Lei gli sfiora una spalla, improvvisamente seria. «Cosa c'è? Non ti va di parlarne?»
«No… Sì. Non lo so. Ti ho già detto tanto…»
«Non tutto.»
«Non sei un prete, non sono costretto a confessarmi con te.»
«Divertente.»
«E non sei neanche la mia terapista.»
«Dovresti contattare la dottoressa Laurent. Ti farebbe bene.»
«Tanto ci sei tu che le dici tutto.»
«Ah, certo, ora sono io che parlo troppo. Hmm.»
Meg gli tamburella le dita sulla spalla. Tic tac — sono entrambi troppo magri, riflette Erik con gli occhi socchiusi. Lei è bella, certo, non una creatura orrida come lui, ma gli fa piacere che abbiano in comune almeno questo.
«Il giorno in cui mia madre mi rivelò la mia vera faccia allo specchio… era il mio sesto compleanno.»
Meg rimane per qualche attimo senza fiato, le labbra dischiuse a formare un piccolo oblò. Poi arrossisce di vergogna.
«Non avrei dovuto pungolarti in proposito, non in quel modo. Sono stata insensibile.»
Erik scuote il capo mestamente. «Non potevi saperlo.»
«Voglio rimediare. Me lo permetti?» Lei non attende il suo assenso e si mordicchia un'unghia già rovinata — ah, lo stato delle sue povere cuticole. «Ti farò un regalo.»
«Guarda che non sei costretta.»
Meg non sembra ascoltarlo. «Un regalo speciale. Hai detto che il tuo compleanno è già passato, vero? Deve cadere tra i primi giorni di novembre.»
Lui annuisce, cauto.
«Cos'hai in mente?»
Lei sorride, accarezzando di nuovo i capelli di Dany. «Vedrai.»
«Devo preoccuparmi?»
«Ma no.»  
Nel dubbio, si preoccupa. Con lei, non si può mai sapere.


Come gli spiegherà qualche giorno dopo, lo porta in una pizzeria. Una dove ha organizzato tutto: un'area appartata, non ci sarà nessuno… E conosce il proprietario, beninteso. Quindi non deve essere in pensiero per la sua (maledetta, orrida) faccia.
«Nessuno vedrà nulla, è una cosa privata. D'accordo?»
Lui acconsente, sebbene sia nervoso — non che lo ammetterebbe mai, ovviamente. Non esce fuori da una vita… e non con una donna. Anche se non è un appuntamento, ma solo un piccolo regalo di compleanno.
Quando va a prenderla in taxi — lei lo avverte che per quella sera non userà la solita motocicletta — si stupisce nel vederla uscire dal suo appartamento con un abito rosso e grazioso sotto la pelliccia nera sintetica. È ben truccata e pettinata: i capelli corvini le ricadono sulle spalle in onde morbide che le contornano il viso coperto di fondotinta color bistro. E porta i tacchi. Non le ha mai visto qualcosa di simile indosso, prima. Deve farsi forza per non pensare che si sia abbigliata in quel modo per lui — ma no, la sola idea è ridicola.
Meg sale nell'abitacolo del taxi e riferisce all'autista l'indirizzo della pizzeria. Gli rivolge un bel sorriso, davanti al quale lui si sente sciogliere in modo alquanto ridicolo. «Allora, sei pronto?»
«Parli come se dovessimo fare un giro su delle montagne russe.»
«Anche quello sarebbe piuttosto grandioso, e ho pensato a un lunapark, ma… sai, non sei più un ragazzino. Non so se lo zucchero filato ti farebbe felice. E poi, sulle giostre, il naso finto… chissà, volerebbe via.» Scoppia in quella sua caratteristica risata roca e lui scuote la testa, anche se non è offeso sul serio.
Raggiungono la pizzeria Da Antonio — è italiano? — in poco tempo. È Erik a pagare il taxi, naturalmente — Meg lo lascia fare volentieri perché sa che è molto più ricco di quanto lei potrà mai essere, e ne approfitta — e insieme entrano nel piccolo ristorante. Che, come Meg aveva promesso, è chiuso per la serata eccetto che per loro due.
«Antonio.» Meg fa un cenno del capo alquanto amichevole ad un uomo grosso il doppio di lei, che sembra la mediocre caricatura Hollywoodiana di un boss della malavita. In realtà è una persona perbene, e sembra lieto nell'apprendere che Erik, tra le tante lingue, conosce anche l'italiano. Meg lo guarda ammirata mentre scambia qualche parola con il proprietario, e lui cerca di dimenticare la lucentezza dei suoi occhi neri, incorniciati da lunghe ciglia da gatta — l'eyeliner e il mascara le risaltano di molto lo sguardo, non può fare a meno di notare.
«Puoi toglierti la sciarpa e gli occhiali da sole» lo incoraggia lei sfilandosi il cappotto. Si siedono in un posticino appartato, ma grazioso quanto il corpicino di Meg avvolto nel morbido abito rosso.
«Hmm.»
«Qui sei al sicuro.»
Erik tentenna, ma le crede. Si sfila delicatamente la sciarpa e gli occhiali dal viso deturpato, posandoli a terra. Spera tanto che lei non gli vomiti addosso, ma non ha alcuna reazione.
«Voglio una Diavola. E una birra, assolutamente. E tu?» dice mentre scorge rapidamente il menù. Lui sbatte le palpebre, incerto se sia un sogno o meno.
«Vino. Creda che mi serva del vino.»
Mangiano e chiacchierano e bevono tutta la sera, con in sottofondo della romantica musica napoletana. Troppo romantica, in effetti, per un'uscita con un'amica, ma… a chi vuol darla a bere? È il regalo più bello che abbia mai ricevuto: un pizzico di normalità, ecco cosa gli serviva. E sebbene tremi, la accetta con gratitudine.
Ridono insieme e poi, una volta che Antonio ha portato loro il conto, battibeccano con furia su chi dei due debba pagare.
«Normalmente lascerei pagare te, visto che hai i soldi che ti escono anche dal buco del culo, ma è per il tuo compleanno. No, non ne se parla: è un regalo.»
«Non ti permetto di pagarmi la cena. Sono più vecchio di te e molto più ricco, spetta al sottoscritto.»
Alla fine si accordano per pagare ciascuno la propria metà: è meglio così. Erik si riavvolge la sciarpa attorno alla bocca e si calca il cappello in testa.
«Chiamiamo un taxi?» gli chiede lei, mentre lui l'aiuta ad infilarsi la pelliccia, ma ha un'altra idea. Non sa se sia buona o meno, ma…
«Prima di andare a casa, vorrei portarti in un posto. Una sorpresa.»
Meg sbatte le palpebre. «D'accordo.»
Erik sussurra l'indirizzo al tassista di modo che lei non origli, poi le sorride in modo saputo. «Non è nulla di sensazionale, ma… è un modo per ripagarti.»
«Non devi ripagarmi di nulla. È stato… piacevole. Molto.» Sbaglia, o un vago colorito roseo le si diffonde sulle guance?
Lei ride quando lui si scioglie il nodo alla cravatta e le benda gli occhi — col suo consenso, ovviamente.
«Ma dove mi porti?» chiede divertita. Lui la conduce per mano attraverso un passaggio segreto di sua conoscenza, lungo rampe di scale e corridoi bui.
«Eccoci. Come puoi ben vedere, non era nulla di particolarmente grandioso.»
Lei sbatte le ciglia, aggrottando la fronte. Si volta verso di lui con un sorriso.
«Ma siamo sul tetto dell'Opera Garnier.»
«Sì. Il luogo che più preferisco al mondo, eccetto la mia dimora. Vedi…» appoggia i gomiti sul parapetto, indicandole il paesaggio su cui affaccia. Parigi è uno sfarfallio dorato nella notte. «Sognavo di venire qui, da bambino. Di suonare e di vedere messe in atto le mie opere in questo teatro. Credevo fosse irrealistico e patetico, ma…»
«Eccoti qua.»
«Già.»
Rimangono a guardare il panorama per un po', frastornati da tanta bellezza.
«Danza con me.»
Lei gli tende una mano, ma lui sbatte le palpebre, perplesso, come se non capisse cosa gli stia dicendo.
«Oh, non dirmi che non sai ballare. Un uomo come te… Non posso credere che ci sia anche una sola cosa al mondo che tu non sappia fare.»
«Mi stai sfidando?»
«Secondo te?»
Erik scuote il capo, ma accetta la stretta della mano sottile di lei, che si accinge a sfilare il cellulare dalla borsetta e trovare qualche musica adatta.
«Soul… potrebbe andare. Che ne dici?»
Lui annuisce. Lei sorride e gli prende entrambe le mani: lo fa oscillare leggermente, mentre le note di At last di Etta James gli pulsano nelle orecchie.
«Ah, questa canzone è deliziosa.»
«Sapevo che ti sarebbe piaciuta.»
Si guardano negli occhi per qualche istante. È così piccola in confronto a lui — o è lui ad essere troppo alto? — che quasi non gli arriva alla spalla, malgrado i tacchi. Inutile dire che non ha mai ballato con qualcuno, prima, né qualcuno lo ha mai invitato. Erik sorride e canticchia sottovoce, coprendo il potente strumento di Etta James. Bello, sì, ma mai quanto il suo. Lei gli posa il capo sul petto — gli mozza il fiato in gola, così. Erik deglutisce — spera, non rumorosamente.
«Non avresti mai ballato con me se non avessi indossato la maschera.»
«Come?»
Lei scoppia in una risata roca e calda e gli batte un dito sul petto. «Ma sì. Non mi avresti notata nemmeno. Saresti stato troppo impegnato con qualche bella coscia lunga… Io sarei stata parte delle pareti di questo teatro, e tu un vero Don Giovanni.»
«Non è vero.»
«Sì che lo è.»
«No che non… Ah. E va bene. Sì, è vero, lo ammetto. Sono terribile.»
Lei ride e annuisce con insistenza. «Ammettere i propri difetti è il primo passo per una salutare relazione personale con se stessi, Danton. Bravo.»
«E questo chi te l'ha detto, la Laurent?»
«No, tutto made in Giry
Le ultime note del brano gocciolano via come rugiada dai petali di un fiore, riempiendo i loro timpani di suoni che tendono i muscoli dell'anima con delicatezza innata. Erik non è un uomo paziente… ma la musica esprime per lui i sentimenti a cui non riesce a dare voce.
Terminato l'anomalo lento, Meg lo guarda con un'espressione grave che gli provoca nel petto un subdolo frastuono, come una tempesta, o il palpitare rapido del suo cuore contro la cassa toracica. Sembra ponderare qualcosa, immobile. Dopodiché si divincola dalla lieve presa di lui sul suo vitino sottile e sorride nel suo solito modo saputo.
«I tacchi non mi fanno bene. Non ci ho mai ballato sopra.»
«Andavi in discoteca con gli anfibi?»
«Assolutamente sì.»
«Non hai il minimo senso estetico.»
«Certo che ce l'ho. Solo che, guarda caso, non coincide con il tuo.»
Battibeccano familiarmente fino all'arrivo del taxi — lui le presta il cappotto perché si ripari dal freddo della sera che muta in notte, con una gentilezza di modi che lei non si aspetta. La cosa la fa arrossire lievemente, o forse è un riflesso della luce dei lampioni, chissà. O magari troppo blush sugli zigomi affiliati.
Durante il tragitto in auto, Erik riflette se accompagnarla o meno fino alla porta del suo appartamento. L'etichetta lo vorrebbe, ma… sarebbe come un appuntamento. Uno vero. O forse è lui che è troppo all'antica — di queste cose conosce solo ciò ha appreso dal cinema e dalla letteratura, due fonti non affidabili.
Frattanto, Meg blatera di musica e affini. Di solito il silenzio non turba nessuno dei due, ma lei sembra non avvedersi dello stupido, stupidissimo dilemma interno di Erik.
«Rent1 è un gran bel musical. Dovresti concedergli una possibilità.»
«Lo farò.»
Sono arrivati a casa di Meg. Lui si decide e l'accompagna fino alla porta, mentre lei gli porge il cappotto che le ha prestato.
«Grazie.»
«Nessun problema.»
Ah, ecco giunto il momento dei saluti: critico. Se fosse un vero appuntamento e lui avesse fatto colpo, lei lo inviterebbe ad entrare in casa. Erik arrossisce al pensiero — che cosa ridicola.
«Che dire…» esordisce Meg, contorcendosi le dita. «Ti è piaciuto il tuo regalo di compleanno?»
«É stato ben accetto.» Erik non se la sente di spingersi oltre.
Continuano a guardarsi per qualche attimo fin troppo prolungato, il silenzio come un sudario su di loro.
Finché lei non gli si avvicina e gli posa un bacio delicato su una guancia.
Erik rimane raggelato, muto come una belva addomesticata a cui hanno brutalmente strappato la lingua. Ma per nessuno sarebbe facile domarlo, vero?
Meg gli sorride, imbarazzata.
«Ci vediamo presto. La prossima volta ti faccio ascoltare Rent. Credimi, sono ossessionata.»
«Ci credo» gli assicura lui. Quel bacio è il regalo più bello che potesse fargli: non desidera nulla in cambio, solo la sua amicizia.
Meg lo saluta con un cenno del capo e svanisce oltre la soglia del suo appartamento in un turbinio di tacchi e mascara.
Erik sbatte le palpebre alla luce dei neon, malgrado gli occhiali facciano da scudo ai suoi occhi dorati. La ragazza deve aver bevuto troppa birra, non c'è che dire.



Note dell'autrice: 1Rent: Musical rock del 1996, scritto da Jonathan Larson, ispirato a La bohéme di Giacomo Puccini. Nella versione originale avevo inserito un riferimento ad un altro musical, ma ricorreggendola a circa due anni di distanza posso dire che Rent rientra di più nei gusti e nella personalità di Meg.

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Capitolo 13
*** xiii. ***


xiii.


Erik sposta il peso del corpo da un piede all'altro, per il resto immobile dinanzi all'uscio dell'appartamento. È un'idea ridicola. Davvero ridicola. Neanche Dio sa perché ha accettato… o forse sì, e lui è troppo ostinato per non negarlo a se stesso.
Ne comprende appieno la ragione quando la porta si apre, rivelando una figura esile vestita di rosso, gli occhi brillanti, la fronte bassa coperta dalle ciocche disordinate della frangia scura.
«Non pensavo saresti venuto sul serio.» Meg vuole apparire irriverente e sicura di sé come di consueto, come se la cosa non le importasse davvero, ma non lo inganna. Le sue guance arrossiscono alla vista dell'uomo alto, magro e imbacuccato sulla soglia di casa sua.
«Erik mantiene le sue promesse, quando gli altri se lo meritano.»
Meg a quel punto alza gli occhi al cielo in un gesto di supremo scetticismo e lo invita ad entrare con un cenno della mano.
Giorni prima, lo ha convinto a festeggiare con lei il Natale, assicurandogli che persino sua madre lo avrebbe accolto volentieri, e che Dany ne sarebbe rimasta entusiasta. Erik dubita che il sentimento che ha spinto la suo ospite a proporgli una simile sciocchezza sia differente dalla pietà nei confronti di un uomo che, solo, sarebbe rimasto a comporre freneticamente per l'intera durata della Notte Santa.
«Non sono religiosa» aveva spiegato Meg, sulla difensiva, «ma nessuno dovrebbe rimanere in una solitudine tanto spettrale il giorno di Natale.»
E così quella sera, dopo il caratteristico cenone, Erik si presenta sulla soglia di casa Giry, cercando di dimenticare che lì, l'ultima volta, Meg gli ha baciato una guancia deturpata con le sue labbra colorate di belletto. Il turbinio di sensazioni che una vicinanza simile ha smosso dentro di lui è intollerabile.
Come Meg aveva previsto, Dany corre ad abbracciarlo — Erik si irrigidisce al contatto; deve ancora farci l'abitudine — mentre Antoinette Giry si prodiga in ringraziamenti per l'ottimo lavoro che sta facendo con la figlia e gli offre del caffè. Erik rifiuta con la maggiore cortesia possibile — non ha nessuna intenzione di sfilarsi la maschera — ma si prepara ad affrontare una nuova conoscenza: Luc, l'ex ragazzo di Meg, nonché padre di Dany. È un giovane di bell'aspetto, pelle scura e sorriso caloroso.
«Sono onorato di fare la vostra conoscenza. Meg mi ha parlato molto di voi, Monsieur Danton» gli dice dopo avergli stretto la mano guantata con più emozione di quanta Erik potesse prevedere, una volta accomodati in soggiorno.
«É un tuo grande fan» spiega Meg con un sorrisetto, facendo dondolare sulle ginocchia la piccola Dany.
«Capisco» risponde Erik, e si sente immediatamente molto ottuso. Non ha alcun talento nel relazionarsi con gli altri, ma Luc appare lieto di averlo lì con loro, e tanto basta. Molto probabilmente conosce ciò che cela sotto la maschera, ma non ne fa menzione alcuna. Si limita a un: «Meg ha detto che, prima di diventare il grande musicista che tutti conosciamo, eravate già molto impegnato… un uomo d'azione
Per poco la giovane madre non si fa scivolare Dany dalle ginocchia. Erik le riserva un'occhiata interrogativa. Non ha rivelato nulla sul suo discutibile passato, questo è ovvio; deve aver sviato parecchie domande curiose da parte di Luc, che in quanto suo fan è non poco interessato alla vicenda del misterioso genio della musica.
«Qualcosa di simile, sì» concorda Erik, e non è arrabbiato. L'interrogatorio cessa all'istante e Meg, frattanto, tira un sospiro di sollievo.
Mentre i suoi ospiti preparano la tavola per giocare a Monopoli, Erik si guarda intorno: è un appartamento modesto, ma dall'aria sicuramente più vissuta della sua villa isolata. Addobbato in quel modo per il Natale, crea un effetto di dolce serenità. Erik non ha mai provato niente di simile, neanche nel luogo che chiama casa.
«Nadir non è potuto venire?» gli chiede Meg sottovoce, chinandosi su di lui. La vicinanza lo allarma e gli dà le vertigini al tempo stesso.
«I musulmani non festeggiano il Natale.»
«Sì, lo so. È un peccato che rimanga solo, però.»
Vengono interrotti da Dany, che vuole recitare a tutti i costi la poesia natalizia che ha imparato a scuola. Erik sorride alla bambina e applaude come gli altri, alla fine, neanche avesse declamato un sonetto di Shakespeare. Dany diventa color porpora e si rifugia nell'abbraccio del padre, al che Erik prova un istantaneo fiotto di gelosia. Lui non avrà mai niente del genere — la dolcezza di stringere una propria creatura tra le braccia, e anche… una moglie al suo fianco. Una famiglia.
Il suo sguardo guizza su Meg, che battibecca con Luc su chi dovrebbe amministrare la banca del Monopoli — e alla fine, come sempre, vince lei.
Erik non ha mai avuto l'opportunità di svagarsi con un gioco da tavolo, non con qualcun altro, e si vede. È molto impacciato, in una maniera che non è caratteristica di lui. A quella vista, Meg sorride.
«Finalmente qualcosa che non sai fare.»
È vano dire che è il primo a perdere, ma riscatta il suo orgoglio ferito quando, al pianoforte di casa Giry — uno strumento che dovrebbe essere accordato con maggior cura — suona O Holy Night in una carola tanto intensa che la sua voce fa piangere silenziosamente Dany e inumidisce gli occhi degli altri, traboccante lacrime di diamante puro.
«Siete un vero genio, Erik — posso chiamarvi Erik, vero?»
Luc è il primo a riprendersi dalla malia musicale che Erik ha intessuto per loro. Questi annuisce con un sorriso lieve ma educato.
Quando è ora di andarsene, Dany protesta perché rimanga un altro po' lì con loro,  almeno per l'apertura dei regali. Il che gli ricorda…
Erik saluta tutti con un inchino d'altri tempi, accompagnato da Meg sulla soglia. Dal soggiorno, giunge ancora il frastuono confortante di una famiglia felice.
«Ho qualcosa per te» le sussurra, e Meg sorride del suo fare cospiratorio. Erik ricambia, estraendo da una tasca interna del cappotto quelli che sembrano dei biglietti, e glieli porge.
Meg li osserva, stupefatta, e quando capisce, per poco non emette un grido estasiato — può dirlo dalla luce che le illumina il volto.
«Due biglietti per New York» dice lei, ancora incredula. «E per Rent! Oh, Erik, non ci posso credere!» Il suono della sua risata gli riempe il cuore di una veemente meraviglia che non riesce a sopprimere. Quello stesso cuore minaccia di piroettargli fuori dal petto quando lei, d'istinto, lo abbraccia, mormorando i più sentiti ringraziamenti. Poi si allontana, improvvisamente imbarazzata.
«Perché?» chiede, senza parole.
«É il tuo regalo di Natale. Inoltre, so che fra circa una settimana è il tuo compleanno. Puoi portare con te chi vuoi — tua madre, Dany, una tua amica, il tuo giovanotto…» Erik fa un cenno al soggiorno, da cui giungono ancora le chiacchiere della famiglia Giry.
«Non posso accettare. Saranno costati una fortuna.»
«Ho denaro da spendere in abbondanza.» Qualsiasi cosa pur di farti felice
«Io non ho nulla da darti in cambio.»
«É un dono, non un baratto.»
«Non è che stai cercando di comprarmi?» sogghigna lei, irrisoria.
«Non — era solo un modo per ringraziarti per essermi rimasta amica malgrado…»
«Stavo solo scherzando. Ma voglio sdebitarmi.»
«Svolgi regolarmente i tuoi esercizi di solfeggio e sarò soddisfatto.»
Lei sorride, scuotendo il capo. «Pensavo che… Broadway. New York. Il sogno di una vita.»
«Sì.»
«Ma mia madre preferisce i musical vecchia scuola, a Luc i musical in generale fanno l'effetto di un sonnifero e Dany è troppo piccola. E non ho amici così intimi da portare con me fino a New York.» Si rigira i biglietti tra le dita, attenta a non stropicciarli. «Magari… potresti accompagnarmi tu?»
Suona certamente come una domanda, visto il tono interrogativo. Erik strabuzza gli occhi a quella proposta inaspettata.
«Io?»
«I biglietti li hai pagati di tasca tua.»
«Non è stato un problema, e credimi, non devi sentirti in obbligo con me per…»
«Non è per un senso d'obbligo. Mi piacerebbe semplicemente che tu… mi accompagnassi.» Meg china il capo, arrossendo.
A quella visione, Erik impallidisce sotto la maschera: la spudorata e freddamente sarcastica Meg Giry che arrossisce per lui.
«Non credo sia una buona idea…»
«Perché no?» domanda lei, confusa.
Perché questo mi avvicinerebbe a te più di quanto io meriti.
«Non sarebbe meglio se portassi un amico con te?»
«Tu sei mio amico.»
Erik vi pondera su, in conflitto con se stesso. Quale sarà la sua mossa, alla fine? La più giusta o la più egoista?
«D'accordo. Ti accompagnerò volentieri.»
Sono debole, ecco la verità. Pensavo che il mio cuore fosse fatto di pietra, e invece è più soffice di una piuma.
A quelle parole, Meg sfodera un sorriso di una bellezza mozzafiato e per poco non gli getta di nuovo le braccia al collo. Fortunatamente, si trattiene.
«Tua madre sarà d'accordo?»
«Non prendo ordini da lei.»
Si salutano sulla soglia, e la giovane gli sfiora ancora la guancia mascherata con le labbra. Erik non sa cosa pensare delle viscere che, a quel minimo contatto, gli si avviluppano nel ventre come nella morsa del laccio del Punjab.



Note dell'autrice: In realtà non credo ci fosse una produzione di Rent a Broadway nell'anno in cui questa storia è stata scritta e ambientata, ma fingiamo che sia così. Non sarebbe la cosa meno realistica dell'intera fic. :D

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Capitolo 14
*** xiv. ***


xiv.


Erik accavalla le gambe sulla poltrona, pronto a vincere il suo disagio. Non ti curar di loro, ma guarda e passa… scriveva Dante in un contesto ben diverso. Lui cerca di mettere in pratica questo pensiero, per il bene di Meg, almeno.
La suddetta tamburella le dita sulle ginocchia con grande impazienza, in attesa che lo spettacolo cominci. Lo sbarco a New York è stato più rapido del previsto, ma Erik si è costretto a trattenersi e non dare in escandescenze ogni qualvolta gli altri passeggeri gli lanciavano occhiate curiose, stranite o sospette. Il fatto che, imbacuccato in quel modo, assomigli all'Uomo Invisibile non ha aiutato. I controlli alla dogana sono stati, se è per questo, ancor più severi. Erik si chiede per l'ennesima volta se  abbiano sospettato che fosse un terrorista.
Si è potuto godere le strade di New York solo di notte, quando la sua mascherata sarebbe stata meno in vista, malgrado le luci sempiterne della città. Il fatto che non possa mostrarsi troppo al sole o portare Meg in uno dei ristoranti più celebri della città lo esaspera. Ma alla ragazza non importa: di giorno, rimane in albergo con lui, e consumano i pasti nella camera di Erik. Questi ha prenotato due stanze in uno dei migliori alberghi di New York: inutile dire che Meg è rimasta senza parole dinanzi a tanto lusso, e lo ha giocosamente rimproverato di viziarla troppo.
«Finché sono con te, non ci saranno problemi» gli ha detto quando lui si è scusato di non poter essere per lei un buon compagno di viaggio — il perché è sottinteso.
Quando il sipario si solleva e ha inizio il numero d'apertura, Erik si concede di rilassarsi. Durante lo spettacolo, però, fa più attenzione a Meg, al suo viso arrossato dall'entusiasmo, le labbra che si muovono a tempo per sillabare le parole delle canzoni; l'inglese di Meg è molto rudimentale, ma Erik lo parla perfettamente, quindi non ci sono problemi.
Quella sera, in albergo, Meg gli sventola sotto il naso gli autografi dei principali membri del cast e gli mostra le fotografie che ha scattato all'Empire Building e al ponte di Brooklyn, entusiasta come potrebbe esserlo Dany davanti a una scatola di cioccolatini.
Dopo la cena — rigorosamente in camera — Meg chiede se può restare un altro po' con lui.
«Fa' con comodo.»
Meg sorride e, con indosso solo un pigiama leggero che, a dire il vero, mette Erik piuttosto a disagio, si accoccola vicino a lui sul letto. Per un po' giocherella con il telecomando e cerca di carpire qualche parola dai programmi in TV, ma il suo inglese non è sufficientemente buono, e pertanto si annoia subito.
«Cantami qualcosa.»
«Cosa?»
«Quello che vuoi. Non riesco a prendere sonno, e la tua voce ha un effetto calmante sulle persone — lo sapevi?»
Erik ridacchia — certo che lo sa — e intona una nenia gitana che, con le sue abilità di ventriloquo, risuona direttamente nella testa di Meg. Per un attimo la giovane appare tramortita, poi i lineamenti del suo viso si rilassano e poggia il capo sul suo petto. Mentre canta, Erik non si accorge che lei lo rimira dal basso, come incantata, paralizzata dai suoi stessi pensieri… Una meraviglia che sa di epifania.
«La tua pelle è così fredda…» mormora lei, ancora trasognata. Gli sfiora la gola con le dita, ed è a quel punto che Erik non è più in grado di cantare.
La parte più sana di lui vorrebbe fuggire, o scacciarla via; l'altra — quella che non ha nome — grida di prenderla lì, su quel letto di albergo, di farla sua e di stringerla tra le braccia come lui non è mai stato in grado di fare.
Meg non lo guarda negli occhi. Invece, gli fissa le labbra, e sembra anche lei in conflitto con se stessa. Si avvicina, tanto che Erik potrebbe contarle le pagliuzze negli occhi…
Poi lo bacia.
È un bacio lieve come una piuma, puro come il cristallo. La mano che gli accarezza il volto mascherato trema, mentre lui è talmente raggelato che ogni pensiero logico gli sfugge.
Il bacio si fa più ardito, ed è allora che Erik sente… tutto. Il calore della donna che lo abbraccia, le esili dita tra i suoi capelli che scorrono lentamente fino ad arrivargli al  petto. E fa qualcosa che la ragione gli nega: ricambia il bacio.
Le sue mani sono impacciate sul corpo di lei, che le guida a lambirgli le cosce — sembra argilla che possa plasmare a suo piacimento, come un contorto Pigmalione — mentre si fa sfuggire un gemito e lo attira a sé con fervore. Il sangue gli ribolle nelle vene, il basso ventre in fiamme…
È quando fa per sbottonargli la camicia che Erik capisce cosa sta accadendo, e si arresta all'istante, ponendo una distanza ragionevole tra i loro corpi fin troppo concitati.   
Lei sussulta, come destata da un sogno troppo — troppo per essere reale. Lui balza giù dal letto e deglutisce pesantemente, cercando di calmare il calore che sente circolare in corpo come lava incandescente.
«Maledizione!» impreca, e prenderebbe a calci e pugni qualcosa — qualsiasi cosa — se non si trovasse in un albergo che evidentemente non è di sua proprietà. Sfascerebbe la camera come vorrebbe squassare il suo corpo, e il cuore che non cessa di palpitargli in modo così udibile nel petto.
Meg è sconvolta, ancora accovacciata sul letto, e non accenna a muoversi. Alla fine, percependo la sua aura furiosa — Erik crede sia avvertibile anche a metri di distanza — si porta una mano alla bocca, quasi a liberarsi del sapore, certamente mortuario, delle labbra di lui sulle proprie.
«Io…» balbetta, e sembra una bambina spaventata. Erik non l'ha mai vista in uno stato di tale agitazione, neanche quando si è precipitata a casa sua il giorno (o sarebbe meglio dire, la notte) dell'anniversario del suicidio di suo padre.
«Maledizione, Meg!» ringhia lui, e lei sobbalza, ancor più impaurita. Solo, non per causa sua.
«Perdonami, io…»
Un altro battito di ciglia, poi sgattaiola nella sua camera, senza voltarsi indietro. Codarda come non è mai stata prima.
Erik si culla il capo tra le mani, gli occhi pieni di lacrime. Ma non minacciano di colargli sul viso mascherato: è troppo scombussolato per quello.
«Oh, Signore» dice, e si accascia sul letto, impregnato ancora del profumo di lei.


Il viaggio di ritorno è il più imbarazzante che Erik possa immaginare: fa di tutto per non sfiorarla, anche solo con un dito; lei, in cambio, non gli rivolge la parola.
A casa, è il Daroga a trovare Erik accasciato sul divano di pelle nera, e si avvede immediatamente che c'è qualcosa che non va.
«Mi ha baciato.»
Se avesse qualcosa in mano, Nadir lo lascerebbe cadere a terra per lo sgomento.
«Cosa?»
«Mi hai capito bene.»
Ed è allora che Erik sfoga il nembo mefitico di emozioni che ora ha al posto del cuore. «Difficile immaginarlo, vero? Una donna — una ragazza con quasi la metà dei miei anni che di sua spontanea e completa volontà bacia il mostro invece di lasciare che il cavaliere senza macchia e senza paura lo uccida.»
«Erik, se ti ha baciato… deve pur esserci un motivo.»
«É confusa» ribadisce lui, ostinato. «Sono l'unico uomo con cui abbia mai condiviso una tale sintonia emotiva. E la mia voce…» Scuote il capo. «Voleva che le cantassi qualcosa per farla rilassare. L'ho fatto. E poi lei mi ha…» Fa un gesto vago con le lunghe dita pallide.
«E qual è stata la tua reazione?»
«Prego?»
«Tu che cosa hai fatto?»
Erik rimane per qualche attimo in silenzio, a ponderare. Ricorda le proprie mani sulle sue cosce, sulla schiena, e gli gira la testa. Certo, è stata lei a guidarlo, ma lui ha tacitamente acconsentito.
«Se non mi fossi fermato…» Sarebbe potuto accadere qualcosa di ancora peggiore.
Le tempie gli pulsano dolorosamente. «Indecente. È indecente. Perdere la testa per una ragazza così giovane — alla mia età, poi…»
«Quindi ammetti di aver perso la testa per lei.»
Erik schianta il pugno sul tavolino più vicino, ma Nadir non sobbalza, abituato a scenate di furia ancora peggiori.
«Ogni cosa che tocco si distrugge. Daroga, mi hai guardato bene in faccia?»
Nadir elude quella domanda retorica. «Credo che dobbiate parlarne.»
«E per cosa? Per ricordare a me stesso che razza di mostro io sia? Sono certo che lei sia troppo sconvolta anche solo per discuterne civilmente — cosa in cui, dovresti saperlo, nessuno dei due eccelle.» Si ferma per riprendere fiato. «Il mio destino è guardare la vita da lontano, essere un uomo senza far realmente parte della razza umana. Non posso caricarle questo peso sulle spalle. In più, lei non prova… che affetto e pietà per me. Di quelli che si riversano su un animale domestico. Le faccio soltanto pena.»
«Non dire così.»
«E allora spiegami, Daroga, perché mai una giovane brillante e di gradevole aspetto dovrebbe avere qualcosa a che fare con un mostro di una manciata d'anni più giovane di sua madre!»
Nadir non risponde, meditando per un attimo. «In te c'è molto più di un mostro, Erik.»
«É vero. Sono più di un mostro e meno di un uomo. Più di un morto e meno che vivo.»
A queste parole, Nadir non sa cosa rispondere.
«Chi mi dice che non mi abbia… che non abbia fatto quel che ha fatto per una curiosità morbosa? Deve essere interessante, sapere quel che si prova nel baciare un cadavere vivente…»
«Stai delirando. Meg non lo farebbe mai.»
Una pausa terribile in cui Erik si crogiola nel suo dolore, nei suoi dubbi. Vorrei crederlo. Pensavo di conoscerla, e invece ecco che quella ragazza mi stupisce ancora.
«Adesso lasciami solo, Daroga. Ho bisogno di pensare.»
«Questa impasse non andrà avanti per sempre, Erik. Sarà lei stessa a infrangerla.»
Sì, perché ha capito quel che provo per lei, e di conseguenza ne è ripugnata.
Sulla soglia, Nadir si ferma un attimo per guardarsi alle spalle. «Tu la ami, Erik?»
Questi non proferisce parola, reso muto dal rimorso e dall'angoscia. Per il Daroga, è una risposta sufficiente.



Scena VII

MEG: Non so cosa sarebbe potuto accadere se non mi avesse fermato. Anzi, lo so, ma non voglio pensarci.
DOTTORESSA LAURENT: Cosa provi davvero, Meg? Poniti questa domanda.
MEG: Mi è difficile analizzare le mie emozioni. Illuminatemi.
DOTTORESSA LAURENT: (incrociando le braccia al petto) Quando gli sei vicino… ti sembra forse che… che ogni cellula in te muti in elettricità statica? Che vi sia una corda a legarvi? Come ti sentiresti se questa si spezzasse?
MEG: (con le lacrime agli occhi, si massaggia le tempie quasi le dolessero) Come se avesse spezzato anche me.
DOTTORESSA LAURENT: E allora hai la risposta che cerchi.
MEG: Ma come? La sua faccia è impossibile, ve lo garantisco. Non sembra neanche umana. Ma la sua voce… Mi chiama a sé, e non riesco a resisterle. E non sto parlando solo della sua vera voce, ma anche di quella della sua anima. A New York… (si prende la testa tra le mani) gli avrei concesso tutta me stessa, al diavolo il suo aspetto. E questa cosa mi uccide, perché lui è così problematico, e tanto più grande di me…
DOTTORESSA LAURENT: Dovete chiarire e parlarne.
MEG: Lui ama Christine Daaé, non me. Cosa sono io in confronto? Un anatroccolo sparuto, ecco cosa.
DOTTORESSA LAURENT: Non esserne tanto sicura.

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Capitolo 15
*** xv. ***


xv.   
 

Erik non credeva di serbare tanta pazienza dentro di sé, eppure eccolo lì: tremante di desiderio (per lei) e disgusto (per se stesso) mentre Meg sbaglia per l'ennesima volta un accordo di un brano di Beethoven.
Finché non è stufa e batte un pugno sulla tastiera, così forte che Erik teme che abbia rotto qualche tasto. Ma è il suo viso arrossato dal furore che lo attira, adesso.
«Non so come tu faccia. Sono due settimane — due settimane — che va avanti così. Ora basta.»
Meg si rizza in piedi, sollevando il mento in una posa di sfida. Erik, d'istinto, arretra.
«Come puoi ignorare quello che è successo? Perché è successo. Non lo si può negare. Non puoi sempre nascondere tutto dietro una maschera, Erik!»
Lui fa una smorfia che assomiglia più a un ringhio. «Non mi sembravi meno restia a discuterne, Meg. E non è successo niente
«Per te è stato niente?» L'amarezza stilla dalla voce di Meg.
«E per te, invece?»
Rimangono in silenzio a guardarsi. Dopo qualche attimo di mutismo ostinato, Erik continua: «Non posso darti quello che cerchi.»
«Tu non sai quello che cerco.»
«Di certo non uno con la mia faccia.»
«Non me ne frega un cazzo della tua maledettissima faccia!»
«Dannazione, Meg — ho il doppio dei tuoi anni!»
«E allora? Humphrey Bogart e Lauren Bacall.»
Erik strabuzza gli occhi, confuso. «Cosa?»
«Bogart e la Bacall avevano più anni di differenza tra loro di noi, eppure…»
«Meg, forse ti è sfuggito un piccolo particolare: io non sono Humphrey Bogart.»
«E io non sono Lauren Bacall, per quello che vale.»
Meg china lo sguardo sulle proprie dita intrecciate, quasi in segno di preghiera.
«Dimmelo.»
«Dirti cosa?» La voce di Erik è rauca e stanca, come il latrato di un cane malato.
«Che per te è stato importante. Sii sincero, per una volta. Niente maschere.»
Erik si massaggia le tempie. Potrebbe dirle ora che la desidera come mai ha desiderato qualcuno; che la ama come un uomo può amare una donna, e non un'idea; e quanto sia sbagliato tutto ciò.
Ma lei non sarebbe mai felice al fianco di un mostro. Lei merita il meglio, e lui ha imparato ormai da tempo che non fa parte di quel meglio.
Pertanto, non proferisce parola. Resta muto, il cuore in sintonia con la disperazione che gli scioglie le viscere.
«Capisco.»
Non è un gioco per me, Meg, vorrebbe dirle, ma si arresta in tempo. È per il suo bene, si convince. Ed è pronto a soffrire per questo.
Lei sbatte le palpebre, gli occhi lucidi. «Sì, ho capito.» Infila le sue cose nella solita borsa a tracolla e, ancora in lacrime — e probabilmente furiosa, con se stessa e con lui — fugge via come un uccello migratore.
Torna nelle terre del sole, Meg. È lì il tuo posto.
In un impeto di furore, Erik scaglia a terra tutti gli spartiti che può, un singhiozzo nel petto e la gola stretta. Poi collassa sul divano, sfinito da emozioni che non riesce a decifrare.


È sera tardi quando suonano freneticamente al campanello. Erik si affretta ad indossare la maschera, in maniche di camicia, certo che solo il Daroga abbia ragione di venire a fargli visita ad un'ora così impossibile, con la pioggia e il vento che sbatacchiano le imposte come moniti di déi arrabbiati.
Naturalmente si sbaglia.
La Harley Davidson è parcheggiata sul vialetto di ghiaia; la sua proprietaria gli si staglia dinanzi, simile a un pulcino bagnato rivestito di cuoio nero dalla testa ai piedi. Erik non è sicuro che le gocce d'acqua sulle sue guance siano stille di pioggia.
«Posso entrare?»
Erik non perde tempo e annuisce — non è così rude da lasciare che qualcuno rimanga lì fuori in simili condizioni atmosferiche.
Meg avanza nell'androne di marmo, inzaccherando di fango il costoso tappeto persiano. Se ne accorge, e fa una smorfia. «Chiedo scusa» dice, accennando ai suoi stivali sudici.
«Non importa» le assicura Erik in tono di noncuranza.
Dopo qualche attimo di silenzio in cui lui pondera su come agire, le chiede se ha bisogno di cambiarsi o di una tazza di tè. Meg scuote rigidamente il capo.
«Devo parlarti. E non interrompermi finché non ho finito. Per favore
Erik deglutisce, ma resta in solerte ascolto.
«Devo dirti — e mi costa farlo, ma fanculo l'orgoglio — che sei l'uomo più straordinario che io conosca. Nessuno mi capisce come te, nessuno mi dona un equo senso di pace.» Non lo guarda negli occhi, e questa volta Erik capisce che sta piangendo sul serio. La sua voce si incrina pericolosamente. «Il solo pensiero di te mi consuma in un modo che mi spaventa e mi confonde al tempo stesso. Ti darei il mio cuore — tutta me stessa — se tu lo volessi. Mi hai cambiato la vita, e… cazzo. Cazzo. Credo di amarti. Fanculo, è così. So che non ha senso, ma quando mai qualcosa nella mia vita ha avuto senso? E ti prego di… di accettarmi. Fidati di me quel tanto da capire che non ti sto prendendo in giro; che non si tratta di una curiosità morbosa o di un interesse fatuo. Se non mi vuoi, lo capisco, certo. Non posso sconfiggere un fantasma. Ma se invece…» si porta una mano alla gola, soffocando un singhiozzo, «lasciati andare. Concediti di essere felice.»
Erik vorrebbe dirle tante cose. Vorrebbe dirle che tutte le galassie dell'universo — l'infinito — sono concentrate in lei. Si limita a piangere silenziosamente, le lacrime che gli colano da sotto la maschera nera.
Le si accosta gradualmente, come farebbe con un cucciolo spaurito — e in fondo lui è rimasto il cucciolo d'uomo arrabbiato con Dio e alla ricerca dell'amore che gli è sempre stato negato. Le sfiora una guancia umida di lacrime e pioggia. Non ha mai percepito nulla di più soffice sotto le sue dita. Lei rabbrividisce al suo tocco, e non di freddo o paura.
«Stai gelando.»
«Non sai dirmi altro?»
Lui sorride. La sua Meg è pungente come sempre.
Lei gli accarezza il viso mascherato con un fare lento e delicato che lo stupisce; poi il petto, all'altezza del cuore — palpita con la forza di una supernova in combustione.
«Togliti la maschera.»
Lui si irrigidisce. «Non posso.»
«Solo per un attimo. Voglio provare una cosa. Dopo potrai rimetterla, se vuoi.»
Con dita tremanti, Erik si sfila la prigione che ha sul viso, mostrando ciò che cela. Meg lo conosce e non arretra. Ha la fronte aggrottata e la piccola bocca distorta in una smorfia, ma lo esplora con dita curiose e sapienti, alzandosi sulle punte per baciargli ogni traccia di lacrime sulle guance — se tali si possono definire — e di paura sulla fronte. Infine le labbra: sottilissime, due cicatrici sulla pelle devastata.
Meg bacia senza paura la Morte Vivente, e non muore! Non sta morendo! È perfettamente viva e vegeta e calda tra le sue braccia, e si appoggia a lei, sentendo che le ginocchia gli cedono dall'emozione. Lei sorride, asciugandosi gli occhi gonfi.
«Qualcuno mi ha detto che hai la reputazione di essere un cattivo ragazzo» dice scherzosa.
«Chi?» chiede lui, altrettanto ironico.
«Un brutto anatroccolo con il verso di un angelo. Lui non lo sa, ma è in grado di volare più in alto di tutti, anche se non si trasformerà mai in un cigno. Lo è già agli occhi della irritante cornacchia che lo ha adocchiato.»
Erik sorride all'immagine. «E quindi…?»
«E quindi…» lo motteggia lei di rimando, «hai un letto o dormi in una bara?»
«Divertente.»
Meg soffoca una risata sul suo petto, mentre lui si infila nuovamente la maschera protettiva. Senza preavviso, la prende tra le braccia, e lei emette un pigolio di sorpresa e delizia insieme, aggrappandosi a lui come a un'ancora.
Erik la conduce nella sua camera, chiudendosi la porta alle spalle. Non è più tempo per le parole.

 
Erik trema al tocco di Meg, e si scioglie come cera sotto le sue dita. Lei è uno splendore, seppure zuppa di pioggia e fango — lui le scosta le ciocche incollate al viso minuto e scuro e angoloso con delicatezza. Lei gli permette di esplorare il suo corpo nudo — le imperfezioni, le antiche cicatrici d'acne giovanile — con la pazienza di un archeologo, o l'anatomista che è. Lei si acciglia dinanzi al suo, di corpo, ricoperto di mille cicatrici — sono una reliquia di guerra, le spiega in tono indecifrabile, e lei annuisce senza fiatare.
Poi sono baci e gemiti e — non ha mai creduto di potersi sentire vivo, eppure la trova, la vita, qui, sulle labbra di questa ragazza meravigliosa, quando entra in lei e — Dio, chi pensava che annegare fosse tanto simile a una rinascita? Lei gli resta aggrappata e mormora il suo nome, annebbiata dal piacere.
Rimangono per qualche attimo in silenzio, immoti e ansanti, nelle narici la trasudazione dell'altro.
«Tremi» sussurra Meg, scostandogli dalla fronte una ciocca di capelli. Erik annuisce, poggiando la fronte sui suoi piccoli seni: non ha mai conosciuto un piacere così grande, né ha mai pensato che sarebbe stato possibile per lui provarlo. Meg non è l'angelo o la santa che Christine rappresentava per lui; è complice, amica, compagna, amante.
Così è questo ciò che accade quando due stelle collidono, pensa, rilassandosi su un fianco. Meg lo imita, con le ginocchia strette al petto. Per qualche attimo, il silenzio cala come un drappo benefico su di loro; infine, Meg lo strappa con un inaspettato: «È la prima volta che faccio l'amore con un uomo.»
Erik sbatte le palpebre, dapprima perplesso. Poi scoppia a ridere, divertito.
«Meg, sai che sono inesperto in questo campo, ma sono anche un uomo di mondo, nonché un anatomista. So bene come nascono i bambini, e tu hai una figlia.»
Meg si unisce alla sua risata. «No, volevo dire… Il sesso è una cosa, l'amore un'altra. Non ho mai provato qualcosa di simile, prima.»
«Neanche con Luc?»
«Neanche con Luc.»
Inutile aggiungere che lo stesso vale anche per lui.
«Tua madre mi ucciderà quando verrà a sapere di… di noi, insomma.» È stupito che esista un noi, dopotutto.
«Era sospettosa al riguardo già da un po' di tempo, persino da prima che ti portassi con me a New York.»
«Davvero?»
«Non smettevo mai di parlare di te, tanto che credo di aver fatto impazzire sia lei che Luc. Diceva che mi si illuminava il viso ogni volta che ti menzionavo.»
Erik sorride al pensiero.
«Per quanto riguarda la mia terapista, è stata lei a consigliarmi di… dichiararmi, insomma. Capiva il mio malessere, e mi ha suggerito di andare dritta al punto e scoprire la verità. Non credo immaginasse che saremmo finiti così.» Meg fa un cenno alla loro nudità, ed Erik ride.
«Era sicura che ricambiassi i miei sentimenti. E se la cosa rendeva felici entrambi, allora era giusta, malgrado tu abbia quasi il doppio dei miei anni.»
«E la mia faccia? È un aspetto da non sottovalutare» soggiunge lui, sarcastico.
Lei sorride. «Quello è l'ultimo dei problemi.»
Fanno l'amore di nuovo, quella notte — è come abbeverarsi a una sorgente fresca in un deserto arabo; è come rinascere di nuovo, per lui, e sentirsi alla fine completo. Poi si addormentano l'uno di fianco all'altra, lei con il capo sul suo petto, e lui non riesce a sopprimere dentro di sé la sensazione di meraviglia assoluta che lo pervade nell'accarezzarle i capelli arruffati, quasi assista ad un miracolo.
Non esistono incubi per lui, quella notte, solo visioni di un cielo a malapena sognato e ora finalmente reale.
Sono vivo. Sono vivo sono vivo sono vivo…


Il suono del campanello lo tramortisce, destandolo subitaneamente. Si allontana da Meg, ancora dormiente, con non poca riluttanza. Il suo calore lo rende meno simile a un cadavere vivente, in qualche modo. Afferra i primi abiti che gli capitano sott'occhio e scende di sotto per aprire la porta. Ad accoglierlo è il Daroga, che appare sospettoso dello stato caotico in cui si trova il suo eccentrico amico — non solo nell'aspetto, ma anche nel portamento, quasi avesse assistito a una visione miracolosa di cui resta ancora ostinatamente incredulo. Inarca un sopracciglio.
I due uomini si scambiano i consueti convenevoli, finché Nadir non dice: «C'è la moto di Meg parcheggiata sul vialetto.»
Dannazione! Si erano entrambi dimenticati della moto, presi com'erano l'uno dall'altro.
«Ah. Sì.»
«Come mai è qui a quest'ora del mattino?»
Erik si finge calmo e gelido mentre il suo cervello rigurgita, come un vulcano, lapilli di dubbi e spiegazioni insensate. La realtà è che non sa cosa rispondere.
«Ha dormito qui?»
Le orecchie di Erik assumono uno spaventoso color papavero. Nadir sbatte le palpebre, accigliato.
«Daroga, io…»
«Non sei in obbligo di dirmi nulla. Ho capito. Sono… felice per te, davvero.»
«Quindi approvi?»
«Non mi pare che tu abbia mai avuto bisogno dell'approvazione di qualcuno per fare quello che vuoi.»
«Cosa stai insinuando?»
«É giovane» risponde Nadir, pensando ad alta voce. «Sei sicuro di quello che stai facendo?»
«Non sono proprio sicuro di nulla, ora più che mai. Ma ti avviso, è stata lei a volerlo.»
«Sicuro?»
«Completamente. Per chi mi hai preso?»
Ora Erik è arrabbiato. È molte cose, ma non un seduttore di fanciulle innocenti. Sebbene Meg non possa dirsi esattamente una fanciulla innocente.
«Una donna mi ha baciato. Anzi, più di questo.» Si ferma ai sottintesi. «E non è morta, Daroga! Sono uscito dalla mia tomba sconsacrata e ho finalmente ammirato la luce del sole. Neanche il paradiso del tuo Allah potrebbe rendermi più felice, adesso.»
Seppure ancora vagamente perplesso, Nadir distende le labbra in un sorriso. «Se siete felici entrambi, allora approvo, e con tutto il cuore.»
Gli porge una mano, che lui stringe con un calore che non credeva possibile, prima.
«Congratulazioni.»
Quando se ne va, Meg — vestita della sua camicia — scende a passi felpati la rampa di scale e gli si avvicina da dietro, circondandogli il torso con le braccia ossute.
«Allora, cosa ha detto?»
Quindi ha ascoltato tutto. «Non si origlia.»
«Non potevo certo farmi vedere dal povero Daroga in questo stato indecente.»
«Ora devi affrontare tua madre.»
«E Luc.»
Erik sospira. «Già. Non era un mio fan?»
«Non se vai a letto con la madre di sua figlia.»
Con una smorfia, Erik scuote il capo. «Il richiamo della carne è forte, ma…» dice, seguendo con un dito la curva dei suoi piccoli seni. Meg ha un brivido.
«Ma è molto più di questo» conclude lei con voce resa ancor più roca dall'eccitazione.
«Sì. Ciò che provo, e quanto mi hai detto, lo confermano.»
«A tal proposito, io vado a riscaldarmi sotto la doccia. Se vuoi seguirmi, Monsieur…»
Quando lei, sgusciata via dalla sua presa, risale le scale lasciandosi dietro la camicia, Erik capisce di non avere scelta al riguardo.



Scena VIII

DOTTORESSA LAURENT: Immagino sia stato sconvolgente per tutti.
MEG: Non sapete quanto. Mia madre aveva… molte perplessità riguardo il suo aspetto. Sa che è deforme, sebbene non l'abbia mai visto, e non lo giudica per questo, ma… sa anche che la normalità non è possibile per noi. Si preoccupa. E poi, tremo al pensiero di ciò che farebbe se venisse a conoscenza del suo passato… problematico. In ogni caso, si è arresa al fatto che io lo amo, e che lui ama me. Sebbene lui sia molto più grande…
DOTTORESSA LAURENT: Un problema in più.
MEG: Sono un'adulta consenziente e lui non è un maniaco, su questo non ci sono dubbi. A letto, sono più esperta di quanto lui potrà mai essere: ho già una figlia, mentre Erik… a volte è un tale bambino. È come se la crescita di qualcosa, in lui — diciamo pure il rapporto con il suo corpo e le sue emozioni — si sia fermata ad uno stato pre–adolescenziale. Ma siamo pari in tutto. Non chiederei di meno da una relazione così importante.
DOTTORESSA LAURENT: Se lui ti ama e ti rispetta, neanch'io vedo il problema.
MEG: Ho incontrato tanti giovani che mi vedevano solo come un oggetto sessuale, o una sgualdrina, per la mia… passata promiscuità. Erik non penserebbe mai queste cose di me, perché lui sa cosa significa essere trattati come meno che umani.
DOTTORESSA LAURENT: E Luc?
MEG: Luc è… confuso, ma non sorpreso. È un fan di Erik, lo sapete, oltre che il mio più caro amico, e desidera la mia felicità. Ha scherzato sul fatto che avrei dovuto accorgermi prima di essere innamorata di lui, perché, con una simile voce da Adone, ogni donna cascherebbe tra le sue braccia. Questo ha divertito molto Erik. In realtà, credo che ne fossi innamorata persino da prima che mi raccontasse la verità sul suo passato o che vedessi il suo volto smascherato. Dopo, naturalmente, è cambiato tutto, ma quel sentimento è rimasto, e si è evoluto.
DOTTORESSA LAURENT: Quindi sono tutti d'accordo.
MEG: Più o meno, sì. Finora tengo nascosta la relazione alle mie amiche e compagne nel corps de ballet, ma… se la cosa diventasse più seria…
DOTTORESSA LAURENT: Ci hai già pensato?
MEG: Sì. Questo significherebbe che dovrebbe svelarsi al mondo in quanto mio…
DOTTORESSA LAURENT: Marito?
MEG: (arrossendo) Sì.
DOTTORESSA LAURENT: Lui è disposto a farlo?
MEG: Per amor mio, sì. Ma la maschera rimarrà sempre parte di lui; è il suo scudo più forte, un'armatura che getta via solo con me.



Note dell'Autrice: E siamo arrivati all'ultimo capitolo di questa storiella così modesta! Presto aggiornerò con l'epilogo, guys. Scrivere di Meg ed Erik in un universo contemporaneo è stato davvero divertente. Spero che abbia divertito anche voi!
(La loro differenza di età, a cui è facile arrivare con qualche conto, è di ventun'anni. Che è parecchio, ma poteva essere anche peggio, considerando che Erik nel libro di Leroux ha come minimo cinquant'anni.)
E ora, le recensioni!

Elisagemma: Oddio, cara, se avessi saputo che controllavi ogni giorno per un nuovo aggiornamento, avrei davvero aggiornato quotidianamente! Concordo sul fatto che siano una droga. E anche che sono cocciuti, sì. Che ne dici di questo “capitolo” finale? Finalmente si sciolgono! Quanta dolcezza, eh? A presto per l'epilogo! :*

ondallegra: Grazie mille! Sono contenta che la fic ti piaccia e che tu mi abbia seguito anche in quest'avventura. Alla fine, in questo capitolo siamo arrivati al punto che tutti (?) aspettavano con ansia! Commenti al riguardo? Qualche critica? Sono aperta a tutto. :D
All'epilogo, carissima! <3

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Capitolo 16
*** epilogo. ***


xvi.


[ sette anni dopo ]


Erik è disteso su una sedia a sdraio, il sole che gli riscalda la pelle scoperta (poca) delle braccia dai muscoli nervosi, tirati. Gli occhiali da sole gli schermano gli occhi dorati e indossa, naturalmente, un naso finto.
«No, no — non così. Maman, tu pensa a Virginie. Quel piccolo impiastro…»
Osserva la scenetta familiare che ha dinanzi: una affaccendata Meg Giry stringe tra le braccia un bambino paffuto dai folti capelli neri, che si dibatte nell'acqua della piscina come una papera in uno stagno. Meg gli insegna a nuotare, tutta presa dal timore che affoghi. Erik è abbastanza sicuro che riesca a cavarsela anche senza il suo aiuto, e così la lascia fare, ammirando i riflessi bruni sulla sua chioma di corvo. Madame Giry, frattanto, evita che Virginie ingoi uno scarafaggio, mentre Luc ascolta con pazienza le interminabili descrizioni di Dany sul ragazzo per cui ha una cotta da mesi. Il Daroga, frattanto, è disteso su una sdraio accanto alla sua e si gode il sole francese. Qui l'aria è certamente meno afosa che nel caldo Iran, ma ormai vi è abituato.
Erik si chiede come la sua vita abbia potuto imboccare questo corso inaspettato. Rivanga le memorie del matrimonio con Meg, di come lei sia arrivata in ritardo («Mi ha rubato la moto, quel pezzo di merda. Ah, ma gliel'ho fatta pagare» gli aveva rivelato dopo la funzione), di come lui sia rimasto senza fiato nel vederla splendere in un abito bianco avorio intessuto di perle e preziosi ricami floreali. Aveva davvero creduto che gli venisse un infarto, allora. La cerimonia era stata semplice — pochi intimi, il Daroga e la dottoressa Laurent come testimoni, Dany a portare le fedi agli sposi, la messa nuziale composta, com'è ovvio pensare, da lui stesso. Dal loro matrimonio, sua moglie — sua moglie! Impensabile — si è trasferita stabilmente nella Maison Danton, con Dany al seguito.
Qualche mese dopo, era giunta la notizia: Meg aspettava un bambino. La cosa lo aveva lasciato talmente stravolto che aveva avuto bisogno di un bicchierone di brandy per riaversi.
«Mi avevi assicurato che non sarebbero avvenuti… incidenti di questo tipo.»
«Qualcosa è andato storto — Erik, non farmene una colpa…»
«Non sono arrabbiato. Non con te.» Si era preso la testa tra le mani, in preda a un tale terrore che a malapena era in grado di respirare. Meg gli era rimasta vicina per tutto il tempo, ad ascoltare le sue paure. Avevano già discusso sulla possibilità di avere figli, ma Erik non aveva nessuna intenzione di generare una creatura destinata all'infelicità come lo era stato lui.
«Erik Danton» Meg si era eretta in tutta la sua modesta altezza, ma era comunque inquietante, «come osi pensare che non possa amare questo bambino, quando tu sei, insieme a Dany, la persona più preziosa del mio universo?»
Ma non era del suo amore che Erik si preoccupava.
Il ginecologo aveva presto assicurato ad entrambi che la creatura che cresceva nel grembo di sua moglie non era affetta da alcuna deformità genetica, grazie a Dio. Erik aveva cessato di tremare solo allora, rassicurato dalla stretta di mano di Meg.
«Congratulazioni!» aveva detto loro il dottore con un sorriso caloroso. «Sono due gemelli.»
Erik era rimasto senza parole, la bocca aperta come un pesce in una vasca. Meg, senza preavviso, era scoppiata a ridere.
«Bella questa. Voi e mio marito vi siete messi d'accordo per giocarmi questo bello scherzo, vero?» E aveva continuato a ridere in modo quasi isterico fin quando il dottore, non poco perplesso, aveva aggiunto: «No, Madame, è la verità. Aspettate due gemelli.»
Solo a quel punto Meg si era placata, e la sua reazione era stata un: «Oh, porca puttana» che, se fosse stato più incline al turpiloquio come la sua novella sposa, Erik avrebbe emulato.
Niente aveva potuto eguagliare, però, il momento in cui gli avevano permesso di tenere in braccio i suoi figli: Virginie e Alexandre, splendidi e pronti a scoppiare in pianti striduli alla prima occasione. Allora aveva capito che, per quanto imprevisti, erano sempre stati desiderati.
Sono padre. Non posso credere di essere padre. Io! Io!
(Aveva dovuto convincere Meg a non chiamarli Luke e Leia1, poiché sarebbe stato ridicolo ed eccentrico in un modo per cui sua moglie era invece ben nota.)
Alexandre è timido e impacciato, ma intelligente — ha cominciato a parlare molto presto; Virginie è la più spericolata dei due, e necessita di una vigilanza costante da parte della nonna e dei genitori, nonché della sorellastra. Dany considera Erik come un secondo padre, e lo adora, e pende dalle sue labbra. Assurdamente, Luc non si è dimostrato geloso: la sua natura generosa e spontanea non ha potuto che sorridere dinanzi a quella famiglia allargata, così bizzarra e fuori dalla norma. (E poi, pende anche lui dalle sue labbra, quasi la sua voce fosse ambrosia: è un suo grande fan, d'altronde.)
Ora che è estate, Erik si gode il sole — benché, si sa, lui sia rimasto una creatura dell'ombra — e la compagnia dei suoi cari.
«Ci avresti mai immaginati qui, trent'anni fa?» gli chiede il Daroga, ed Erik può quasi vedere il suo sguardo di giada perforarlo da dietro lo schermo degli occhiali da sole. Scuote la testa: il senso di meraviglia — svegliarsi ogni mattina con la donna amata al fianco, baciare i capelli dei suoi bambini prima della scuola — non si è placato negli anni. Certo, il suo volto non vedrà mai la luce del sole, ma la vita non è più sua nemica: è semplicemente una storia da raccontare, un brano da comporre.
D'un tratto, rammenta i versi della prima canzone su cui lui e Meg hanno ballato: in quell'occasione, erano sul tetto dell'Opera, e lei si stringeva a lui con fare quasi timido, all'apparenza così poco da Meg.


At last
my love has come along
My lonely days are over
and life is like a song2


Sorride tra sé e sé, incrociando lo sguardo di Meg, ancora impegnata ad insegnare ad Alex come usare i braccioli per nuotare in piscina. Nei suoi occhi trova ancora tutte le costellazioni dell'universo.
Dovrebbe comporre un brano sullo spazio, sulle sensazioni che il solo pensiero del vuoto gli dà; di come da buco nero sia mutato in sole ruggente.

(Finalmente va tutto bene. Finalmente.)


FINE



Note dell'Autrice: 1Luke e Leia: I fratelli gemelli Skywalker, tra i protagonisti principali della ben nota saga di Star Wars.

2Finalmente
il mio amore è arrivato
I miei giorni di solitudine sono finiti
e la vita è come una canzone.

 
Ed ecco l'epilogo di questa storiella da quattro soldi che spero sia stata carina e dolce da leggere. È, ripeto, assolutamente senza pretese – voglio dire, è una sorta di commedia romantica, quindi non ha chissà quali temi elaborati XD, ma ehi, non si può sempre scrivere e/o leggere cose Angst™ e deprimenti, vero? (La verità è che non è una fic pretenziosa, ecco tutto. O almeno non era mia intenzione che lo fosse.) Dopo un po' diventa stancante, e a me piacciono anche le cosine felicietbelline come questa. (Bellina, mo'. Sta a voi giudicare!)
Grazie per aver letto. Un bacio e (si spera) a presto!

P.S. La storia dei gemelli è ispirata a un fatto realmente accaduto ai miei genitori. Alla notizia da parte del ginecologo che mia madre aspettava una coppia di gemelli (un maschio e una femmina, come Alexandre e Virginie), lei scoppiò a ridere e pronunciò le stesse parole che Meg dice qui in questo epilogo (eccetto il turpiloquio XD). Al che il dottore e mio padre la guardarono stranita, e lei capì che effettivamente non era uno scherzo.
La mia prima reazione alla notizia – avevo sette anni all'epoca – fu: Ma dove li mettiamo? Perché la nostra casa non era abbastanza grande per cinque persone, all'epoca; infatti poi ci siamo trasferiti.
Cioè, vi pare la normale reazione di una bambina di sette anni a cui viene annunciato che non avrà uno, bensì due fratellini? XD
Naturalmente i miei genitori ed io siamo stati benedetti dalla loro nascita, e siamo felicissimi di essere così uniti. Credo che la famiglia di Meg ed Erik sia un po' simile: ci sono parecchi problemi, ma Amor vincit omnia. È bello il pensiero di un Erik che, redento e ormai una persona migliore, è riuscito a trovare un po' di amore e pace nella sua vita. Dà un po' di speranza a tutti, non vi pare? XD
 
Elisagemma: Oddio, cara, ma sei dolcissima! Certo che continuerò a scrivere fic sui due pazzi, qui. Per esempio, ho in mente da un po' una (credo breve) AU di Elementary – non so se conosci il telefilm, ma è un adattamento di Sherlock Holmes in chiave moderna (a parer mio in certi tratti persino migliore dello Sherlock della BBC). Al fianco di Holmes troviamo una fantastica versione femminile di John Watson, interpretata da Lucy Liu. E no, lei e Sherlock non hanno una storia d'amore – non è che ora si grida all'amore solo perché sarebbe etero – ma il loro rapporto, seppur platonico, è magnifico: c'è una fiducia e un'ammirazione reciproca tra loro che si trova raramente rappresentata in TV tra un uomo e una donna, soprattutto se sono solo “amici”. (No, non ti preoccupare, Meg ed Erik non saranno “solo amici” in nessuna stupida fic che scriverò, anche se di certo l'amicizia è fondamentale per un rapporto di coppia. Un partner romantico deve essere anche un amico, un confidente, altrimenti dov'è la fiducia?)
E quindi sì, ho in mente altre cosine. Adesso sono impegnata nel fandom di Star Wars (non so se lo hai notato dai riferimenti in questa fic, ma sono un po' ossessionata), e ho in mente un importante progetto originale, ma una capatina nel Phandom la faccio sempre. Amo troppo questi due matti per lasciarli.
Grazie per i complimenti, e per aver recensito e letto la storia! Un bacio e alla prossima! <3

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