at last. di Elphie94 (/viewuser.php?uid=896164)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** i. ***
Capitolo 2: *** ii. ***
Capitolo 3: *** iii. ***
Capitolo 4: *** iv. ***
Capitolo 5: *** v. ***
Capitolo 6: *** vi. ***
Capitolo 7: *** vii. ***
Capitolo 8: *** viii. ***
Capitolo 9: *** ix. ***
Capitolo 10: *** x. ***
Capitolo 11: *** xi. ***
Capitolo 12: *** xii. ***
Capitolo 13: *** xiii. ***
Capitolo 14: *** xiv. ***
Capitolo 15: *** xv. ***
Capitolo 16: *** epilogo. ***
Capitolo 1 *** i. ***
Ad Elvira,
senza la quale non sarei
qui.
Scena
I.
[ I due
personaggi si trovano in uno studio dall'aria confortevole. La prima,
una donna sui quaranta, vestita con pantaloni e camicia casual,
accavalla le gambe su una poltrona che ha visto tempi migliori. La
seconda, drappeggiata in abiti neri che la fanno sembrare
più intimidatoria di quanto sia in realtà,
è seduta a gambe divaricate su un divano rosso, la schiena
appoggiata a morbidi cuscini di velluto. È chiaro che sono a
loro agio nel parlare l'una con l'altra. In questo momento discutono di
una questione che sembra dividerle. ]
DOTTORESSA LAURENT:
È un'ottima idea.
MEG: (aggrottando
la fronte)
No, è una pessima idea.
DOTTORESSA LAURENT: Il
miglior virtuoso del mondo. È un'occasione da non perdere.
C'è chi pagherebbe oro pur di avere
un'opportunità come la tua.
MEG: Beh, io non sono chiunque, quindi… La
risposta è no. (si ferma a
rosicchiarsi un'unghia smaltata di nero, accigliandosi dinanzi a una
pellicina molesta)
È ridicolo. Non ho bisogno di un baby sitter.
DOTTORESSA LAURENT:
Non si tratta di un baby sitter. Fa parte della terapia, Meg. E in
quanto tale faresti bene ad accettarla.
MEG: (bofonchia
qualcosa che assomiglia pericolosamente ad uno scimmiottio delle parole
dell'altra donna)
Mpfh.
DOTTORESSA LAURENT:
Tua madre ha avuto un'idea brillante. Beh, è una donna
brillante, non c'è da meravigliarsi se… (si ferma,
ponderando le parole)
Lo farai? Almeno provaci. Conoscerai un grande artista.
MEG: Non si sa nulla
di lui. È un recluso da vent'anni, da quando praticamente ha
iniziato la sua carriera. Sarà uno di quei vecchi con la
puzza sotto il naso. Non mi faccio fare da tutor da un vecchio
altezzoso, io.
DOTTORESSA LAURENT:
É vecchio?
MEG: Nessuno lo ha mai
neanche visto in faccia. Non si sa niente di lui. Se non che non
dà concerti… Un egoista, a mio parere. Uno non
può creare musica del genere e poi… (fa un
gesto vago con le dita piccole e magre) Puf. Scomparso dalla
circolazione.
DOTTORESSA LAURENT:
Quindi hai ascoltato le sue opere.
MEG: Certo che
sì. Chi non lo ha fatto? Forse solo qualche adolescente
brufoloso che si spara immondizia tecno nelle orecchie. (fa una
smorfia)
Comunque sia, continua a sembrarmi un'emerita puttanata. (non si
scusa per il termine volgare)
DOTTORESSA LAURENT: (trattenendo
a stento un sospiro — Dio solo sa quanti pazienti cocciuti ha
seguito negli anni, ma questa in particolare…) Meg, ricorda quello che
abbiamo detto tante volte riguardo al rischiare. Tu sei sempre troppo
impaziente di provare le cose. Ti getti nella mischia senza pensare. A
volte può essere un difetto… (Meg emette un lieve
sbuffo sarcastico) ma d'altro canto è qualcosa che non
possiamo ignorare. E quel qualcosa mi dice che muori dalla voglia di
saperne di più.
MEG: Su cosa,
esattamente?
DOTTORESSA LAURENT: Su
di lui. Sul mistero che lo circonda. Da quanto tempo ci conosciamo, Meg?
MEG: Da prima che
avessi Dany.
DOTTORESSA LAURENT:
Fidati di me, allora. Vedila come un'avventura.
MEG: Sono troppo
grande per le avventure. Ne ho avute abbastanza per una vita intera, e
non erano come mi aspettavo da bambina.
DOTTORESSA LAURENT:
Questa volta è diverso. Credo fermamente che nella musica ci
sia un potere di guarigione per l'anima che le medicine non possono
offrire. Pur con tutta la nostra scienza, noi medici ci troviamo
disarmati davanti alla vera bellezza. All'arte. (una breve
pausa, in cui osserva con occhi acuti quelli scettici della sua paziente) Sei convinta, adesso?
Prendila come una sfida.
MEG: E che io sia
dannata prima di tirarmi indietro davanti a una sfida.
DOTTORESSA LAURENT: (sorride) Esatto.
i.
Non sa cosa lo
sveglia, se il ronzio nelle orecchie o il rombo del cuore nel petto. Si
puntella sui gomiti e si sfila di dosso le lenzuola, divenute
ingombranti, asciugandosi il collo sudaticcio con un asciugamano che
tiene sempre a portata di mano sul comodino. Il sangue che gli pulsa
nei timpani è a dir poco fastidioso. China la testa tra le
ginocchia e respira lentamente, il movimento dei polmoni ben palpabile
sotto la pelle. Inspira,
espira.
Così gli ha detto il terapista da cui andava anni fa. Non
che andarci sia servito a tanto. Solo un'inutile perdita di soldi
— ma di soldi ne ha da spendere, lui, quindi non ci fa caso.
Inspira, espira.
Mi
chiamo Erik Danton, ho quarantacinque anni e sono francese. Si ripete questo segmento di
pensiero più e più volte, per ricordare a se
stesso chi è e dove si trova. Sono nella
mia stanza, a casa mia. Appena fuori Parigi. Sono al sicuro. Al sicuro
dalla morte, dal sangue — sulle mie mani e su quelle degli
altri. Al sicuro da tutto.
Si passa le lunghe
dita ossute tra i capelli umidi e controlla la sveglia. Sono le quattro
e mezza del mattino: un orario un po' atipico per farsi una doccia, ma
è abituato a stranezze ben peggiori. Sa che alle otto
precise riceverà una chiamata dal Daroga, che lo
vorrà sveglio e pronto invece che a dormicchiare
spaparanzato sul letto disfatto. Poi la cameriera, la signora Giovanna.
Sì, non può farsi vedere in questo stato. Con un
sospiro quasi doloroso, si tira su dal letto. Un ultimo sguardo di
nostalgia alle lenzuola calde e accoglienti, e poi dritto nella doccia.
Anche lì, nel bagno, non ci sono specchi.
Naturalmente.
«Dovrebbe
mangiare di più, signore.»
Giovanna è
una sessantenne piena di energia che ogni sabato gli rifila una
porzione di lasagne fatte in casa che potrebbe sfamare un'intera
famiglia, non certo uno stomaco ristretto come il suo. A suo tempo,
quando girava per il mondo, ha imparato a vivere di poco. Anche dopo
anni di agio, tutto quel lusso lo disorienta.
Sorride sotto la
maschera che indossa — sempre — e fa cenno alla
donna di non preoccuparsi. Giovanna viene da una famiglia italiana di
antiche tradizioni: da qui le lasagne per il datore di lavoro. Non sa
se sia così gentile con lui perché la paga tanto
da fare invidia a tutte le domestiche del mondo o perché
è sinceramente cortese e apprensiva. Una miscela di entrambe
le cose, sospetta. Il denaro rende gentile chiunque, se necessario.
Quando la domestica ha
ormai terminato le sue pulizie e lo ha edotto abbastanza sulla cucina
italiana da saziare una mandria di buoi, lui si dedica ad un altro tipo
di pulizia: quella personale. D'altronde, oggi ha appuntamento con una
donna.
Nulla di galante,
naturalmente. Al pensiero, quasi sogghigna — con l'usuale
amarezza. Non ha mai avuto a che fare con appuntamenti galanti, lui.
Conosce molti modi per uccidere un uomo, e nessuno può
— o poteva — superarlo nell'uso del laccio del
Punjab, ma non ha mai capito nulla delle donne. A parte Giovanna, la
domestica peso massimo che si ostina a chiamarlo
“signore” nella sua lingua d'origine, e non
“Monsieur”, non c'è
nessun’altra nella sua vita. Nessuna, a parte una vecchia
conoscenza: Antoinette Giry.
Infelicemente vedova
da tredici anni, di una manciata d'anni più anziana di lui,
è istruttrice integerrima di danza all'Opera Garnier.
È lì che l'ha conosciuta, quando gli riservava il
palco numero 5 perché…
No, meglio non pensare
al passato. Certe ferite sono ardue da rimarginare, e lui ha troppe
cicatrici sulla pelle anche solo per contarle.
Indossa il suo
completo Armani con un'eleganza che gli è quasi naturale. Si
fa recapitare giacche, cravatte, camicie e pantaloni di pura seta dalle
migliori aziende di moda, da tutte le capitali di stile del mondo
— Milano, Londra, New York, la stessa Parigi. È
sempre stato un suo… vizio, l'eleganza. Non per apparire
più attraente — senza la maschera che indossa
costantemente, o almeno quando non è solo in casa, sarebbe
più facile far sembrare mansueto un leone affamato
— ma per sentirsi più sicuro di sé.
L'eleganza ha il suo perché, dopotutto.
Non gli importa di
spendere tutto quel denaro in completi e scarpe e cappelli che chiunque
altro non potrebbe permettersi. Il Daroga è ostinato nel
ricordargli che i soldi non sono eterni, ma lui non è
stupido, e sa amministrare le sue spese. Sapeva risolvere le divisioni
a tre anni. Si limita a godersi quel poco che può: non
c'è peccato in questo,
assolutamente.
Ritornando ad
Antoinette, si tratta di un favore con cui deve ripagarla per
tutto ciò che lei ha fatto per lui negli anni dell'Opera.
Non sia mai che si dica che Erik non paga i propri debiti. È
molte cose, ma non è un ingrato, per quanto il Daroga lo
accusi spesso di questo peccato — ti ho
salvato la vita, Erik, e tu mi tratti come fossi lo zerbino di casa
tua! Dammi retta invece di annegare nel vino come fai di solito.
Continua così e ti rivedrò in un centro per
alcolisti anonimi. E
così via. Gli sembra di avere sul collo il fiato di un
genitore iperprotettivo. Ma cosa ne sa, lui? Non ha mai avuto dei
genitori veri.
Rumore di ruote sul
viottolo. Ah, eccola che arriva. Il suo debito da
ripagare.
Erik si aggiusta il nodo alla cravatta, lanciando un'occhiata fuori da
una delle grandi finestre nel salotto. Uno dei salotti, a dire il vero
— beh, non ha importanza. Scorge una figurina vestita di nero
a bordo di una motocicletta grossa il doppio di lei. Erik aggrotta la
fronte dietro la maschera. Se lo avesse saputo, le avrebbe prenotato un
taxi, con quel freddo.
Bussano alla porta.
Non può dire di non essere un tantino nervoso. Non ha
rapporti con le persone — eccetto il Daroga e Giovanna e
pochissimi altri — da anni. Quel che gli serve se lo fa
recapitare a casa via posta, o grazie ad Internet. Con quest'ultimo
può tenersi aggiornato sul mondo anche se non vi vive
davvero. Un'invenzione assai utile, a suo giudizio.
Erik attraversa il
grande atrio e apre la porta.
Non sapeva cosa
aspettarsi, ma quello che si trova davanti non è…
facilmente immaginabile. Una ragazza — potrà avere
sui diciannove, forse vent'anni al massimo — con disordinati
capelli neri, pelle olivastra e un viso che non si può dire
grazioso, ma passabile. (Beh, di certo lui non è tipo da
giudicare una persona per il proprio aspetto. Nei suoi anni di
convivenza con un volto deforme e una pelle fatalmente diversa, ha imparato a non farlo mai.
L'apparenza inganna.) Lunghe ciglia scure incorniciano occhi di carbone
e onice. È vestita nel modo strano in cui si abbigliano
certi giovani: giubbotto di pelle, stivali anfibi dal tacco pesante,
jeans strappati. In più, matita da sguardo letale intorno
agli occhi allungati e lucenti. Tutto rigorosamente nero. Sembra uscita
da una rivista di moda controcultura di scarsa qualità.
La giovane si toglie
le cuffie dalle orecchie e gli offre una mano, guantata —
sempre di nero.
«Meg Giry.
Mi aspettavi?»
Sembra notare solo
adesso che lei è vestita praticamente di stracci e lui
sfoggia un completo impeccabile. Non ne arrossisce minimamente. Si apre
in un sorrisetto e chiede di entrare.
«Prego»
dice lui, e le fa cenno di accomodarsi. La vede mordersi un labbro, e
sa perché. La sua voce è sempre stata suadente
alle orecchie degli altri, e questo deve averla disorientata. Non era
intenzione di Erik, comunque. Meg si riprende in fretta, guardandosi
intorno con una curiosità che sfiora la maleducazione.
«Cazzo.
Bella casa.»
A queste parole, Erik
già sa che il suo compito di insegnante sarà ben
più difficile del previsto. Cominciamo
bene.
Le offre di
accomodarsi in salotto, e lei si siede sul bordo di uno dei lussuosi
divani in pelle, sempre lo sguardo attento ad ogni dettaglio che la
circonda.
«Un
bicchiere di Chianti?»
«Di
che?»
Erik si schiarisce la
gola. Non può impedire al suo tono di voce di assumere una
sfumatura arrogante.
«Di Chianti.
Un vino italiano. Un'ottima annata.»
«Preferisco
la birra al vino.»
«Ah. Pardon, ma non ho birra.»
«Un appunto
per la prossima volta. Se hai in casa altro alcol, però
— whisky, vodka, gin — ne prendo un cicchetto
volentieri.»
Si dà il
caso che conservi una bottiglia di vecchio saké in cantina,
e ne offre un "cicchetto" all'amabile ragazza seduta sul divano di
casa sua. A gambe divaricate, poi, completamente a suo agio, almeno
all'apparenza.
Si scola lo shot di
saké in un fiato, umettandosi le labbra con l'eterno
sogghigno. Di certo non è vergine al sapore dell'alcol.
È quasi inquietante, ora che la osserva meglio, quanto
assomigli alla madre e allo stesso tempo abbia l'aria di una persona
con cui Antoinette Giry non potrebbe mai essere imparentata. Ha la
stessa forma degli occhi e i capelli neri, ma è piccola e
magra quanto la madre è alta, e scura di pelle quanto
l'altra ha la carnagione di porcellana. Immagina che siano i colori del
padre. Doveva avere una qualche origine africana, suppone.
Ha sentito parlare di
Claude Giry, naturalmente. Pianista talentuoso, marito e padre
esemplare, rinomato nell'ambiente musicale parigino. A questo,
è succeduto un ricovero in un istituto di igiene mentale,
fino al suo tragico suicidio avvenuto tredici anni prima. Una storia
che urla dramma da tutti i
pori.
«Mia figlia
non ha più continuato a suonare il pianoforte dopo
che…» Questo gli ha detto Antoinette al telefono,
quando lo ha contattato per proporgli per la prima volta la sua
offerta. Non sa ancora come si sia procurata il suo numero, anche se
è certo che ci sia di mezzo il Daroga. Lui è
ancora un frequentatore dell'Opera, e tutti sanno che è
vicino al misterioso e geniale musicista Erik Danton.
«Vorrebbe
riprendere?» aveva chiesto lui, con la sua voce
più vellutata. Antoinette aveva sospirato.
«Si
è convinta, alla fine. Le farebbe bene. Non ha mai superato
davvero la morte del padre, e questo… questo potrebbe
aiutarla a riavvicinarsi alla sua memoria in un modo che le ispiri
amore e dolci ricordi, e non amarezza.»
Lui aveva alzato un
sopracciglio. «Capisco. Madame, siete certa che io sia la
persona adatta?»
«Sì.
Non conosco musicista più talentuoso di voi,
Erik.» Un sospiro. «Si tratta di un esperimento,
capite. Abbiate pazienza con lei. Ha avuto un vissuto
problematico.»
Posso
solo immaginare,
pensa mentre la guarda masticare rumorosamente una cicca e tamburellare
il piede sul pavimento di marmo lustrato — opera di Giovanna,
ovvio; quella donna è sempre diligente nel tenere la grande
villa Danton ben pulita e ospitabile, sebbene i visitatori siano ben
più che rari.
Ma ora Erik si
è impelagato in questa situazione, e non può
uscirne fuori. Non vuole, d'altronde. Sembra una sfida interessante.
Fare di quella ragazza una brava pianista… Magari ha davvero
talento. Il padre doveva pur capirne qualcosa.
«Perché
la maschera?» chiede Meg all'improvviso. Erik nota che la sua
voce è roca e bassa, non certo il soprano delicato e
argentino di…
No,
non devo pensarci. Non adesso. Non a lei.
Si concentra sulla
giovane donna che siede dinanzi a lui. Non ha alcuna vergogna nel
chiedergli quello che di solito la gente ha troppo timore di sputargli
in faccia.
Perché
la maschera, Erik?
Ne indossa una di porcellana nera, che gli copre la maggior parte del
viso. Solo il labbro inferiore è lievemente scoperto,
così che si nota quando sorride o fa una smorfia. Ora
è il momento di fare una smorfia.
«Un
incidente?» chiede di nuovo Meg, senza attendere che lui
risponda alla sua prima domanda. Erik si schiarisce la gola.
«Un
incidente di nascita, ti correggo.»
Lei alza le mani,
lievemente sgomenta. «Non lo sapevo. Mi dispiace.»
Sembra sincera dalla prima volta che ha messo piede in casa sua. Se
solo non continuasse a masticare rumorosamente quella cicca…
«Niente di
cui tu debba preoccuparti.» Una pausa. «Sono
inutili le presentazioni, suppongo.»
«Su di te so
quel che sa il resto della gente.»
Erik sorride,
sardonico. «La gente presume molto, di solito. Cosa
sa?»
«Il tuo
talento è… ineguagliabile. È
risaputo.» Non lo dice per ingraziarselo: è un
dato di fatto, molto semplicemente. Non sbatte neanche le ciglia.
«Cantante lirico e non, compositore, musicista —
suoni una miriade di strumenti, e…» Si ferma per
versarsi dell'altro saké. «Non ti sei mai fatto
vedere in pubblico. La gente conosce il tuo nome, ma non la tua faccia.
E ora so perché.» Si scola un altro bicchierino.
Deve vantare una buona resistenza all'alcol, perché quando
ha finito è ancora lucidissima.
«Io invece
di te non so molto, se non che sei una ballerina nella compagnia
dell'Opera di Parigi. Un ruolo ambizioso.» Non le dice che sa
anche come è morto suo padre, o che sua madre è
sinceramente preoccupata per lei. Non deve — non vuole
— immischiarsi.
«Sono tutti
convinti che queste dannate lezioni mi farebbero bene. Sono qui per
dimostrare il contrario.» Gli sogghigna in faccia. Osa sogghignargli in faccia. Ma
bene.
«Tua madre
deve pur averti insegnato l'educazione.»
Lei s'incupisce.
«Perché mi dici questo?»
Lui le sventola un
indice sotto il naso. «Prima di tutto, per te è Monsieur. Secondo, non sono qui per
giocare.»
Lei distorce le labbra
sottili in una smorfia — un'altra. «Io ti chiamo
come mi pare.»
Erik sospira. Quella
ragazza lo sta facendo avvicinare pericolosamente al punto di
ebollizione. «Un po' di rispetto sarebbe dovuto.»
«Perché
sei un vecchio recluso? Uno il rispetto se lo deve meritare da me, ecco
tutto. E se tu mi apostrofi in questo modo…»
Iniziamo
male. Molto male.
«Ragazza, non ti chiedo niente.»
Lei si infiamma.
«Il mio nome è Meg. Non ragazza.»
«Non avevi
detto che potevi chiamarmi come più ti piaceva? Ebbene,
farò la stessa cosa anch'io.»
Lei si morde un
labbro. Sembra sul punto di alzarsi e prenderlo a pugni, ma non lo
fa. In qualche modo, si controlla.
«Ti hanno
mai detto che sei uno stronzo arrogante?»
«Molte
volte.» Ora sorride, serafico. «Cominciamo la
lezione?»
Ha bisogno di
accertarsi sulla sua preparazione. Che c'è, solo che è
arrugginita, decisamente arrugginita. E poi c'è
qualcos'altro che la blocca… Qualcosa a cui non sa dare
nome. Sa solo che, quando vede il lucido pianoforte a coda nella stanza
della musica, ne rimane impietrita per un attimo. Non stupita dalla sua
bellezza, no: proprio raggelata. Quasi impaurita. Svanisce in
un secondo, comunque, e ritorna spudorata come sempre. Si guarda
intorno masticando la cicca. La sala della musica è
l'orgoglio di Erik, riempita di ogni strumento possibile, libri di
spartiti e una stanza adiacente che è un vero e proprio
studio di registrazione.
Erik la invita a
sedersi sullo sgabello dinanzi al pianoforte, al centro della camera.
«Non ho
portato uno spartito. Avrei dovuto?»
«No.
Scegline uno da quella cartella.»
Inizia con un
semplicissimo valzer, ma s'intoppa sul più bello. Ci
vogliono due ore intere di esercizi perché riesca a suonarlo
in modo tale da non fargli sanguinare le orecchie. Dopo interminabili
minuti di digrignar di denti e maledizioni sussurrate, Meg ce la fa, ed
Erik ha compreso pienamente da dove cominciare con lei. Ossia, quasi
daccapo.
Conosce le basi, ma la
tecnica è scarsa. Si premura di informarla al riguardo, non
senza quel tono di superiorità che lo contraddistingue, ed
è forse per questo che lei si rabbuia e fa per prendere lo
spartito e scagliarglielo in testa. Alla fine non fa nulla, il che
è un bene. Erik non è tipo da accettare con
beneplacito che qualcuno gli lanci la sua roba (concernente la musica,
per altro) sulla propria testa mascherato.
Come compiti
per casa,
le assegna diversi esercizi di solfeggio. Lei distorce le labbra,
disgustata.
«Pensavo che
la pratica fosse più importante.»
«Lo
è anche la teoria.»
«Beh, si
dà il caso che a me non piaccia. Non mi è mai
piaciuta.»
«Fattela
piacere a forza. Non vi è altro modo.»
Meg gli riserva uno
sguardo fulminante. Si accordano per la lezione successiva —
sabato prossimo, alla stessa ora del pomeriggio —
dopodiché Meg fa per andarsene con il nuovo plico di
spartiti sotto il braccio.
«Ripassa
bene quel che ti ho insegnato oggi. Non dimenticare: il solfeggio
è—»
«La base
della pratica. Sì, lo so.» Gli dardeggia contro
uno sguardo acceso da sotto le folte ciglia scure. «Questa
lezione è ridicola. Anzi, questa idea è
ridicola.»
«Senti un
po', piccola scost—»
E prima che Erik possa
concludere, lei scompare lungo il viottolo, mette in moto
l’Harley Davidson — nera anche quella, bella
potente — e si dirige senza casco per la via di casa. Se
avesse qualcosa in mano, Erik glielo lancerebbe contro.
In
cosa mi sono immischiato? Questa ragazza è terribile. Senza contare che gli ha dato
dello stronzo arrogante pochi minuti dopo averlo conosciuto. Non sa se
essere più offeso o stupito perché,
sorprendentemente, ci ha azzeccato in pieno.
Note
dell'autrice:
Eccomi tornata con una nuova E/M! Chi ha letto l'altra mia long fic - Mon coeur
s'ouvre à ta voix - avrà
già familiarità con i personaggi e la coppia.
Questa fic è una sorta di AU, ma non è necessario
aver letto l'altra per capirla - sono sconnesse tra loro. Inoltre
è molto più leggera, meno tragica e assai meno
lunga della "collega". E' senza pretese, e spero vi faccia sorridere.
Aggiornerò regolarmente, dato che l'ho già
conclusa.
Bye :)
|
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Capitolo 2 *** ii. ***
Scena
II.
[ Studio
medico, confortevole, dai colori autunnali. I due personaggi siedono in
un placido silenzio, che la più giovane infrange con
un'esclamazione poco signorile. ]
MEG: Che cagata.
DOTTORESSA LAURENT:
Meg.
MEG: Non potete capire
la frustrazione. Frustrata, sì,
ecco come mi fa sentire quel tizio. Non c'è alcuna armonia
tra noi.
DOTTORESSA LAURENT:
Forse il primo incontro può non essere andato come
speravamo, ma non deve essere un punto d'arrivo. Vediamo se le cose
cambiano col tempo. Cerca di essere più paziente.
È solo l'inizio, Meg.
MEG: È
proprio questo che mi preoccupa.
ii.
Le lezioni si
susseguono tranquillamente — per modo di dire — per
un mese, tre ore a settimana. Erik sa che Meg ha un lavoro difficile,
un'arte a cui dedicarsi, ma semplicemente non svolge
i compiti a casa.
Non vi versa impegno né volontà, e questo
è inaccettabile. Sì, il loro non è
stato un inizio propizio — lei gli ha dato dello stronzo, lui
non si è dimostrato diverso. E lei continua a masticare
cicche, vestirsi in quel modo orribile (è come se gli
lanciassero dell’acido negli occhi ogni volta che le guarda
gli anfibi che ha ai piedi), fumare sigarette in casa sua — hanno avuto un
violento battibecco in proposito — e ad essere una
irresponsabile ragazzina
so–tutto.
Quel che Erik non vede è che anche lei lo definirebbe un vecchio
so–tutto,
e lo fa spesso e volentieri con la sua terapista.
«Non so
suonare Chopin. È troppo difficile.»
«Sapresti
farlo se ti esercitassi a dovere.»
«Non ho tempo, cazzo.»
«Smettila di
imprecare!»
«Ma chi ti
credi di essere, per darmi ordini come se nulla fosse, eh?»
E così via.
Ogni volta finisce con lei che se ne va sbattendo la porta e rovinando
la ghiaia sul viottolo con le ruote rombanti della moto. È
una situazione insostenibile.
Nadir, il Daroga,
è il solo con cui possa sfogarsi al riguardo.
«Quella
mocciosa è terribile. Terribile. Non possiede un briciolo di
tatto, né disciplina…»
«Sono certo
che di te lei non abbia un'opinione migliore.»
«Oh, questo
è sicuro.»
Nadir sorseggia il
caffè che Giovanna gli ha preparato — vero
caffè italiano — mentre lei passa l'aspirapolvere
al piano di sopra. È un bell'uomo, sui cinquantacinque, gli
occhi verdi splendenti che contrastano con la carnagione scura e i
capelli ingrigiti alle tempie. Affascinante e cordiale come Erik non
è mai stato. Ma gli salvato la vita, in passato, quando lui
non era che un se stesso deforme e maledetto quanto la sua faccia, e
questo in qualche modo li ha legati.
«Tuttavia,
nessuno dei due interrompe le lezioni.»
Erik si ferma a
riflettere. È vero. Gli è passato per la mente,
ma non vi ha dato peso. E in qualche modo, spera che lo stesso valga
per Meg.
«É
ribelle e impudente, sì» prosegue Nadir con voce
placida. «Ma non ti ricorda Christine. E allo stesso tempo te
la riporta alla memoria.»
Il nome di lei scagliato così
nell'aria come un petardo pronto a esplodere lo fa rabbrividire.
«Daroga, non osare mai più
pronunciare il suo nome. Lo sai.»
«Erik, devi
affrontare la realtà. Lei―»
«Niente,
Daroga. Niente. Non parliamone
più.»
«Come
desideri. Ma sappi che per me stai commettendo un errore.»
Lui scuote il capo.
«Non ti pago per essere il mio terapista a tempo
perso.»
La ferita che
Christine gli ha inferto — col suo amore, la sua
bontà — è dolorosa e allo stesso tempo
ha il tocco degli angeli. Paragonarla a quella ragazza, la sua nuova
allieva indisciplinata e molesta, è una bestemmia.
In realtà
sa perché la tiene con sé — Meg,
intende. Perché è una sfida, e lui adora le sfide.
Perché è rozza, non sa zittirsi quando dovrebbe e
lo contrasta in ogni modo possibile, e a lui mancava da troppo tempo la
frizione della lotta. Gli ricorda se stesso in un modo che lo spaventa.
Si chiede cosa pensi lei di tutto questo.
«Avverto
qualcosa in lei, Daroga. Non so spiegarlo.» Non si sfila la
maschera per bere il caffè, anche se gli farebbe bene un
sorso di quel liquido caldo e amaro. «É spaventata da qualcosa. Se solo sapessi
cosa… forse potrei aiutarla.»
«Vuoi?»
Le parole del Daroga
rotolano a terra, polverose. Erik non le raccoglie.
Note
dell'Autrice:
Ed eccoci a un nuovo aggiornamento. Dal prossimo in poi i capitoli
saranno più lunghi, non temete. Ora è solo
l'inizio. Recensite, vi raccomando! Anche solo per sapere se ci sono
errori o qualcosa di simile. Naturalmente, fingiamo che Erik, con tutti
i soldi che ha adesso, non possa farsi una plastica facciale in tempi
moderni. Fingiamo perché altrimenti non avrebbe senso.
debbythebest: Cara, che bello ritrovarti
anche qui! Ci sono somiglianze con la mia precedente fic, come hai
notato e come io stessa ho precisato nel capitolo precedente, ma
più in là vedrai che la storia
prenderà una piega molto diversa. Meg… beh, non
cambia mai. XD Spero che quest'aggiornamento ti piaccia. Un bacio
<3
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Capitolo 3 *** iii. ***
Scena
III.
[ Studio
medico. I due personaggi si fronteggiano. Meg divora senza grazia un
dolcetto.
]
MEG: È
insopportabile. Sono seria! Ora capisco perché passa la vita
da eremita — scommetto che nessuno lo vuole.
DOTTORESSA LAURENT:
Credo che abbia più a che fare con la sua
deformità.
MEG: Quello che
è. Poi, con tutti i soldi che ha, non potrebbe permettersi
una plastica facciale?
DOTTORESSA LAURENT:
Forse la sua malformazione al viso è tanto grave che gli ha
reso impossibile anche questa opzione. Potrebbe essere diffusa anche ad
altre parti del suo corpo.
MEG: Che schifo.
DOTTORESSA LAURENT: (in tono di
rimprovero)
Meg.
MEG: (vergognosa) Sì, lo so. Non
è il suo aspetto che mi preoccupa, davvero. Ma se continua
così commetterò un omicidio. O sarà
lui ad uccidermi per primo, chissà.
DOTTORESSA LAURENT:
Non hai ancora interrotto le lezioni, però.
MEG: Siete voi a
ripetermi che non devo interromperle.
DOTTORESSA LAURENT: E
tu sei famosa per dare ascolto agli altri, certo.
MEG: Non so.
È che riprendere a suonare il pianoforte dopo tanto
tempo… mi ridà vigore. Vita. Gli incubi sono
passati — certo, anche grazie alla terapia, ma… In
quei momenti, quando suono il piano, ricordo com'era suonarlo con mio
padre, e non con quel demente mascherato. E mi viene da piangere, ma
non ci riesco — non riesco a versare una lacrima,
perché so che devo essere forte, per mia madre e per Dany,
ma…
DOTTORESSA LAURENT:
Meg, era proprio questo lo scopo delle lezioni: farti riscoprire il
rapporto con tuo padre. Ti sentiresti di andare a trovarlo al cimitero,
adesso?
MEG: Mia madre lo
vorrebbe. Ma… (si
irrigidisce)
Oh, non so.
DOTTORESSA LAURENT:
Troverai in te stessa la risposta. (Meg
finisce di mangiare il dolcetto e sospira.)
iii.
Il culmine arriva
circa due mesi e mezzo dopo il loro primo incontro. Lavorano su un
brano di Mozart da circa tre settimane, ma non esce fuori che un aborto
malformato di quella che dovrebbe essere la Marcia Turca. Ed Erik
è stanco: non è mai stato una persona paziente, e
oggi lo dimostra.
«Ti avevo
detto di esercitarti» le ricorda con voce grezza e un indice
puntato sul suo viso piccolo e scuro. Le guance di Meg si gonfiano di
rabbia e qualcos'altro — vergogna.
«L'ho
fatto» mente la spudorata.
«Non
è vero.»
«Sì
che è vero!»
«Se lo
fosse, non saremmo qui a parlarne. Se ti fossi esercitata invece di
ascoltare quella oscenità che chiami
mus—»
È il turno
di lei di alzarsi in piedi. È esasperata, nervosa e piena di
risentimento, questo lo può vedere. Erik non lo sa, ma ha
una carriera da ballerina da mandare avanti e una figlia piccola di cui
occuparsi, e non può perdere tempo con un insegnante fin
troppo pedante e scontroso.
«Non
è un'oscenità, è heavy metal. E tu sei
solo un frustrato» ribatte Meg, e questa volta è
lei a puntargli contro un indice. Le cuffie le ballonzolano dalla tasca
dei jeans, le stesse con cui ascolta quella roba infernale che lei
definisce musica.
«Io sarei cosa?»
«Sei solo,
annoiato e ti serve qualcuno su cui riversare il tuo rancore verso Dio
e l’universo intero, ma io non sono una terapista, chiaro? E
non sono nemmeno tua allieva. Mia madre mi ha detto che sai la vera
ragione per cui sono qui — pensava che ti saresti comportato
con delicatezza nei miei riguardi, vista la situazione, e invece ti sei
dimostrato lo stronzo che sei. Deve essere questo il motivo per cui lei ti ha abbandonato, alla
fine.»
Erik sussulta. I nervi
gli si tendono fino allo spasimo. «Cosa?» chiede in
un sibilo.
«Sai
benissimo di chi parlo. Christine Daaé, la nuova
Margherita
come è stata definita al suo debutto nel Faust, protetta del Mozart del
nuovo secolo… sposa del suo amico d'infanzia e visconte
Raoul de Chagny.» Incrocia le braccia al petto; una posa
decisamente arrogante e velenosa che lo fa infuriare ancora di
più.
«Ho fatto
delle ricerche su di te, sai? Mia madre era l'unica a sapere dello
scambio morale tra te e la Daaé. Ti faceva riservare il
palco numero 5 dalla direzione ad ogni sua esibizione all'Opera. E ora
lei è felice in Svezia, la sua terra natia, senza te che le
fai da stalker — perché questo eri per lei, vero?
Un'ombra maligna. Si è liberata di te, e all'inizio, prima di
conoscerti, non mi sembrava concepibile: lui
è il più grande musicista del nostro tempo, mi dicevo, come
può aver infranto ogni rapporto con lui? E poi ho capito. Sei un
bastardo, ecco perché. Non so bene cosa provassi per lei,
anche se lo posso immaginare, ma sai che ti dico? Tu non la
meritavi!»
Entrambi tremano in un
singulto silenzioso: lei di rabbia, lui di dolore e furia e una miscela
esplosiva di altre emozioni che non sa decifrare. Quante volte si
è ripetuto queste parole tra sé e sé,
in quindici anni? Quante volte la sua adorazione per una donna sposata
lo ha fatto vacillare sull'orlo della follia?
Christine,
Christine…
Neanche il Daroga gli
ha mai rivolto una strigliata di tali proporzioni, perlomeno non su di lei, perché sapeva che
alla fine lui aveva capito il motivo per cui la pupilla aveva
abbandonato il maestro, per cui aveva voluto tornare in Svezia e non
rivederlo mai più, se possibile. Un desiderio che Erik le
aveva accordato, comprendendolo solo alla fine, e col più
grande rimpianto.
E alla fine arriva
questa— questa— questa ragazzina a sputargli tutto in faccia,
la sua faccia da demonio, come nulla fosse. E lei non sa niente, niente del dolore, della
gelosia, della pazzia a cui quell'amore a senso unico per Christine lo
stava conducendo…
«Non osare
pronunciare il suo nome, tu, mocciosa senza cuore—»
«Non sono una mocciosa! Ho
ventiquattro anni e una figlia a cui badare!»
Lui rimane travolto.
Questo non lo sapeva, e gli si legge chiaro in viso, anche con la
maschera.
Meg sbuffa, sardonica.
«Mia madre non te l'ha detto, quando ti ha parlato di me?
Ebbene sì, ho una figlia. Io vivo nel mondo reale, Erik, non
quello delle fantasie, come fai tu. Non posso crogiolarmi nel ricordo
del passato, non più; c'è il presente di cui devo
occuparmi.»
É la prima
volta che lei pronuncia il suo nome, e rabbrividiscono
entrambi.
«Adesso
prendo le mie cuffie e me ne vado. Sei un genio, Erik, ma non
nell’ambito sociale. E neanche io. Il comportamento di
entrambi è stato… Semplicemente questa stronzata
non funziona, e fanculo il ricordo di mio padre, la mia terapista e Maman che mi hanno convinta a
farlo.» Meg borbotta mentre raccoglie le sue cose. Lui
è ancora di fianco al pianoforte, in piedi, impietrito. Non
riesce a muoversi, né a parlare. Vorrebbe dirle di restare,
di non andarsene — non come
lei, non come Christine — perché
non è la stessa cosa, lui non è lo stesso uomo di
quindici anni prima, e…
Nulla. Meg ha le
lacrime agli occhi quando si chiude con furia malcelata la porta
d'ingresso alle spalle, ed Erik è convinto — ode
sulla distanza il motore che fa i capricci per accendersi —
che non la vedrà mai più. Aspetta, vorrebbe dirle, ma la voce
gli è rimasta incastonata tra i polmoni e la trachea.
Affonda il viso mascherato tra le mani.
Che
cosa ho fatto?
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Capitolo 4 *** iv. ***
iv.
Il giorno dopo
è Nadir che deve tirarlo fuori dal letto, praticamente di
forza.
«Erik,
svegliati!» Mormora qualche imprecazione in farsi, la sua
lingua natia, e lo solleva di peso aiutandolo a infilarsi nella doccia.
Vestito. Non è comunque un bello spettacolo,
perché non ha indosso la maschera.
«La
masch—» farfuglia con l'alito che sa di vino.
Nadir scuote il capo.
«A quella pensiamo dopo, d'accordo? Prima ti riprendi dalla
sbornia e ti concedi un aspetto vagamente umano, poi ne
riparliamo.»
Il getto d'acqua sulla
faccia gli rischiara la mente annebbiata dall'alcol. Con gesti lenti e
maledizioni sussurrate, si sfila gli abiti ormai bagnati e, dopo
qualche altro minuto di benessere sotto la doccia fredda, esce e si
stringe nell'accappatoio. Poi corre in camera e si infila la maschera
sul viso, come una prigione di cuoio dietro le cui sbarre lui si
rinchiude volontariamente. Nadir lo ha già visto senza, e
più di una volta, ma lui odia ricordare agli altri la
dannazione della sua esistenza. È uno dei motivi per cui,
dopo tanti tentativi, ha rinunciato ai cinquantamila interventi che
sarebbero stati necessari per rendergli la faccia vagamente rassomigliante a quella di
una persona normale. Non ci sarebbe stato altro da fare, comunque
— ha studiato un po' di anatomia in gioventù, e lo
sa anche lui. No, non c'è mai stata soluzione a quello.
Nadir gli concede
sufficiente spazio per vestirsi da solo — in caso contrario
sarebbe oltremodo imbarazzante — ed Erik è
contento di aver dormito senza coltello sotto il cuscino, quella notte.
Lo fa sempre, da quando in gioventù è andato in
guerra come mercenario… per poi diventare molto peggio.
Non
pensarci, non pensarci, si ribadisce con veemenza.
Nadir è comunque lì per aiutarlo a reggersi in
piedi mentre scende le scale — già se la immagina,
l'intestazione sui giornali: “Deceduto
genio musicale, caduto dalle scale di casa sua, vittima dell'ubriachezza” — e lo
fa sedere in cucina, dove ha preparato una tazza di tè e
disposto l'usuale mostra di pillole per il mal di testa.
«Dovrei
pagarti per farmi da badante» ha la forza di dire Erik,
strascicando le parole mentre si siede, massaggiandosi le tempie. Ha
un'emicrania terribile, e se lo è meritato.
Nadir ignora il
sarcasmo e incrocia le braccia al petto in un posa che dovrebbe
risultare severa. Sì, è proprio come un fratello
maggiore che rimprovera il più piccolo per una delle sue
pessime (e usuali) marachelle, per la quale i genitori non daranno
più loro caramelle per un mese intero.
«Quante
bottiglie di vino ti sei scolato?»
«Una.»
«Non
mentire.»
«D'accordo,
due. Non un goccio di più.» Si ferma un attimo,
pensoso. «Non sono costretto a dirti nulla. Non sei mia
madre.» Sogghigna all'idea. Nadir sarebbe comunque una madre
migliore di quella che la sorte gli ha destinato in realtà.
«Molto
divertente. Erik, cos'è successo? Ti ho chiamato e non
rispondevi, e tu di solito rispondi sempre, così sono venuto
a dare un'occhiata alla casa, con le chiavi di
riserva…»
«Come vedi,
non vi ho appiccato fuoco. Le mie tendenze piromane non mi hanno
soverchiato.»
Nadir emette un lungo
sospiro. «Erik, tu non sei un alcolista. Beh, non tanto da
preoccuparmi, se non anni fa, nel periodo in cui—»
Arresta il flusso di parole, conscio che Erik sa a cosa si riferisce.
Il periodo subito successivo alla partenza di Christine. Erik sogghigna
ancora, compiendo un debole gesto con la mano, come per invitarlo a
continuare. Nadir aggrotta le sopracciglia.
«Quando lei se n'è andata.
Sì, lo so che non è più qui, Daroga.
Non sono arrivato al punto da avere allucinazioni di lei che canta
gironzolando per casa mia.»
Nadir sembra quasi
sollevato.
«In ogni
caso, spiegami perché ti sei ubriacato. Hai un'ottima
resistenza all'alcol, dunque sospetto che tu l'abbia fatto di
proposito…»
Erik scuote il capo.
«Volevo solo dimenticare.»
«Cosa?
Qualche altro incubo su… beh, uno dei tanti?»
«No, no.
È che… sono stato un idiota, Daroga. Un perfetto
idiota.»
Gli spiega del litigio
con Meg, e Nadir deve farsi forza per non schiaffeggiarlo.
«Sei un emerito… Ah, lascia perdere.»
L'iraniano scuote la testa, forzandolo ad ingoiare un'aspirina e a
trangugiare un po' di tè.
«E
così la tua nuova pupilla ha una figlia.»
«Non
è la mia pupilla, per carità. E sì.
Immagino che sia piccola… a differenza della mia testa di
cazzo.» Erik sorbisce il tè mentre Nadir solleva
un sopracciglio, perplesso. Di solito il genio noto a livello mondiale
non si lascia andare a simili espressioni volgari.
«Così direbbe Meg» precisa lui, con un
gesto esemplare delle lunghe dita sottili. A Christine piacevano
— diceva che somigliavano in tutto e per tutto a quelle di un
pianista, ma Erik le vede diversamente: sono ossute e morte quanto il
resto di lui, niente di più.
«Sono stato
inutilmente duro con lei. Un vero stupido, a non trattarla da pari,
come merita di essere trattata.»
«E allora
scusati. Dille ciò che pensi davvero, invece di ubriacarti
come un adolescente immaturo.»
«Tu non la
conosci. Mi chiuderebbe il telefono in faccia.» Erik
già riesce a immaginarlo.
«Provaci»
insiste il Daroga con gentilezza e fermezza insieme. Non è
suo amico, no — questo Erik lo ha capito da una vita.
È il suo badante e baby sitter insieme. Altro che terapista.
Questo grillo parlante è pure gratis.
Ci vogliono almeno
dieci tentativi prima che Meg risponda al telefono —
esattamente come Erik ha predetto. In fondo, ha spesso ragione, e su
molte cose. Hai un ego
più grosso di Parigi, gli sussurra una vocina
malevola all'orecchio che suona tanto come quella di Meg. Erik si
limita a sorridere e a ignorarla, per udire la voce della Meg in carne
e ossa dall'altra parte della cornetta.
«Che vuoi,
stronzo?»
Appunto.
Erik sospira. Deve
prendere a calci il suo orgoglio per questo, ma ce la può
fare. Se lo ripete mentalmente: ce la
posso fare.
«Dirti che sono un imbecille.»
«Ah,
finalmente ti esce di bocca qualcosa di intelligente.»
«No, io — Intendevo
dire, con te in particolare mi sono
comportato da stupido. E l'heavy metal non è
un'oscenità musicale.»
«Cosa ti
importa?» sussurra Meg, e sembra seria, non furiosa, dalla
prima volta che ha sollevato la cornetta per rispondergli
(metaforicamente, visto che sta utilizzando un cellulare. Con ogni
probabilità ha il suo numero registrato nella rubrica come Grande
stronzo o
qualcosa di simile).
«Mi importa.
Penso che tu abbia talento, Marguerite. E non farmelo
ripetere.»
«No,
aspetta, cosa? Non ho afferrato.»
«Hai afferrato benissimo. Penso anche che tu
sia la persona più insopportabile, sfacciata, maleducata che
io abbia mai avuto la sfortuna di incontrare—»
«Ehi, ora
datti una calmata!»
«E anche
intelligente, affascinante, brillante…»
«Ecco,
bravo. Ora puoi continuare.»
Erik sorride.
«Stavo parlando di me.»
«Sei proprio
un cretino.» Meg ha capito che sta scherzando, e il suo tono
divertito lo dimostra.
«Non sapevo
avessi una figlia piccola.»
«Sì,
lunga storia. Un giorno te la racconterò.»
«Deve essere
un piccolo demonio, se ha i tuoi geni.»
«In
realtà ha preso dal padre, quindi è un angelo, ma
tu sta' ben attento a ciò che dici.»
Erik ridacchia con
voce sommessa e — lo sa — suadente. Non sa
corteggiare una donna, (non saprebbe nemmeno da dove iniziare), ma
è in grado di farla liquefare sul pavimento con la sua voce
da serafino. Sente Meg brontolare qualcosa come subdolo dall'altro lato della
cornetta.
«Ascolta»
abbozza lei, ed è chiaro da quest'unico, esitante appello
che è a suo agio quanto lui nel mostrarsi più
accomodante — ossia, per nulla. «Anch'io sono
stata… crudele. Ero molto restia alle lezioni fin dal
principio, e la tua accoglienza lasciava piuttosto a
desiderare.» Emette un piccolo sbuffo, e per un attimo
è di nuovo la Meg che ha imparato a conoscere in quelle
settimane. «Ma… tu non sapevi nulla della mia
vita, come io della tua, e le mie accuse—»
«Non avevi
tutti i torti» concede Erik.
«Ero
stressata, e arrabbiata, e… Suppongo che per te non fosse
diverso.»
«Supponi
bene.» Erik si ferma a ponderare le parole più
adatte, reggendosi il mento con una mano in una posa piuttosto cliché, ma che lei non potrebbe
comunque vedere. «Cerchiamo di far funzionare questa cosa. So
perché tua madre ha avuto per prima l'idea di farti venire
qui. Hai menzionato anche una terapista, l'altra volta.»
«Sì.
Idea brillante. Perché proprio te, tra i tanti? Non era
disponibile uno meno irritante?»
Erik decide di
ignorare la frecciatina. «Perché non
c'è confronto tra me e i tanti. Inoltre, dovevo un favore a
tua madre, e anche uno di una certa portata. Non mi dispiace ripagare i
debiti ad Antoinette, è un'ottima persona. E tiene a
te.»
«Lo
so.» Meg sospira. «A volte anche troppo, per il suo
bene. Mi chiedo quante volte le abbia fatto alzare la pressione
sanguigna negli anni.»
«Immagino,
sì. Ma non sentirti in colpa per questo.»
«Grazie…
ma rimani un po' stronzo, non si può negare.» Lo
dice quasi con affetto. Erik sbuffa, ma stranamente non è
offeso dall'ennesima volgarità.
«Allora
possiamo ritentare.» Erik può quasi percepire il
suo sorriso sghembo, seppure in lontananza. «Solo che la
prossima volta mi offri una pizza.»
«Prego?»
«Porto un
DVD, così non mi abbuffo mentre tu te ne stai lì
a guardarmi senza volere — o potere — toglierti la
maschera. Non so se l'hai notato, ma hai un fantastico schermo a
cristalli liquidi nel tuo salotto. È un peccato lasciarlo
impolverato.»
«In
realtà mi ha convinto il Daroga a comprarlo. Io non lo
volevo neanche, un televisore di quella qualità.»
«Chi sarebbe
il Daroga?»
«Te ne
parlerò sabato sera.»
E così
è tutto accordato. Perfetto.
Il ragazzo della pizza
lancia a Meg un'occhiata spiritata — quasi avesse avuto
un'esperienza religiosa della portata dei tre pastorelli di Fatima
— quando le consegna ben due cartoni di pizza fumante ai
peperoni che la giovane donna ripaga con i soldi di Erik e un sorriso.
Il ragazzo di certo non ha mai fatto consegne in una villa
così splendida e isolata dal mondo civile.
Poi Meg si dirige nel
salotto di casa Danton e poggia sul tavolino i cartoni con la birra che
il geniale e deforme virtuoso ha fatto comprare da Giovanna, che gli fa
la spesa, appositamente per lei. Dopodiché fa partire il
lettore DVD e si siede a gambe incrociate sul costoso divano in pelle
nera, scalciandosi via gli anfibi dai piedi minuscoli e delicati, da
ballerina — ma Erik scommette che un loro calcio farebbe male
sul serio. Ha gambe magre e ossute, ma muscoli nervosi e rifiniti. Non
dovrebbe notarlo, ma lo nota, e questo lo turba.
«Cosa
sarebbe questo… come si chiama?»
«Il trono
di spade.
È un telefilm.»
«E di cosa
parla?»
«Sangue e
tette, per la maggior parte. I libri sono migliori.»
Erik sbatte le
palpebre, fingendo di non capire. «Cosa stai cercando di
farmi guardare, stasera?»
Meg sogghigna,
addentando una generosa porzione di pizza. «Roba
interessante.»
Dopo qualche minuto
del primo episodio, già compare la prima donna nuda. Erik
emette un singulto e si copre gli occhi. «Ma è
osceno!»
«Sei
così pudico» scherza Meg, pizzicandogli un
braccio. «Proprio un bravo ragazzo.»
«Ma
smettila.» Lui scuote la testa. Se sapesse di cosa
è stato capace negli anni passati, non lo definirebbe
più tale, certamente.
Le scene di violenza
non lo toccano affatto, ma quelle di nudo sì, pertanto
chiude gli occhi ogni volta che compare un seno più o meno
generoso sullo schermo. Si chiede come faccia Meg a non scandalizzarsi,
soprattutto quando il primo episodio si conclude con una scena di
incesto e un bambino che viene gettato giù da una torre.
«Ma che
razza di fantasy è mai questo?»
«Molto
diverso da Il signore
degli anelli.»
Erik non è
un esperto del genere, ma quella particolare opera la conosce, e gli va
persino a genio. «Come si chiama la saga di libri da cui
è tratto il telefilm?»
«Cronache
del ghiaccio e del fuoco. Bella roba. Io ho cominciato
a leggerla dopo aver divorato la prima stagione in TV, altrimenti non
sarei mai arrivata a comprare dei libri così
enormi.» Si ferma per un attimo, pensosa, la lingua tra i
denti. «In realtà non leggo molto. Solo Harry
Potter.
Qualche horror, a volte.» Ride nervosamente. Sembra
consapevole di star parlando di libri per
ragazzi
con un uomo adulto, colto e letterato, e questo la imbarazza un po',
anche se non lo ammetterebbe mai. Erik se ne rende conto,
perché le sorride gentilmente — per quanto il suo
sorriso possa essere gentile, perlomeno — e dice:
«La trama sembra interessante. Mi procurerò il
primo volume.»
Al che Meg risponde
con un'espressione radiosa che le illumina il viso, e per un attimo gli
appare bellissima e deve sbattere le palpebre
per non rimanerne accecato. Sì, è davvero
graziosa quando è felice in quel modo. Vorrebbe essere
capace di renderla tale per molto tempo, ma sa che non è
possibile. Ogni cosa che lui attrae a sé si distrugge, quasi
il suo tocco sia un'eco imprendibile di morte e decadimento.
Così è stato per sua madre, così
è stato per Christine, e così sarà
anche per Meg, se sarà tanto stupido da cadere preda di quel
sorriso e affezionarvisi troppo.
Le lezioni continuano
per qualche settimana. Meg è testarda ma capace, ed Erik
è autoritario ma più paziente di quanto pensasse
di poter mai essere. Sembra quasi che sappia esattamente come operare
sulle sue abilità arrugginite da anni di dolore e ricordi di
polvere, e Meg si lascia guidare più facilmente, questa
volta. Erik non pretende molto, se non l'attenzione necessaria durante
le lezioni. Sa che ha una vita al di fuori del loro mondo di musica e
note, e non la biasima per questo. Anzi: quando lei aumenta il numero
delle lezioni a due volte a settimana, quasi si spaventa, e arretra.
Questo vuol dire che le piacciono. E che piacciono anche a lui
— non può negarlo. Quell'unica serata trascorsa
insieme, sul divano di casa sua, è stata la migliore
da… beh, da una vita intera. È così
facile parlare con lei, per quanto possa essere grezza e poco
sensibile; d'altronde neanche lui è un maestro di tatto. Si
somigliano in modo pauroso, malgrado le apparenze. Erik lo nota dalle
difficoltà che Meg ha nel parlare del suo passato, anche se
gli racconta volentieri di sua figlia, Dany. All'inizio non riesce a
credere che abbia soprannominato la piccola Danielle in quel modo per
via di una saga fantasy, ma sarebbe così da lei — sono una
nerd senza speranza,
gli dice con un sorriso nella voce durante una delle loro lunghe
chiacchierate al telefono. Trascorrono circa un paio d'ore a parlare in
quel modo, dopo che Meg ha messo a letto la bambina ed è
pronta lei stessa per andare a dormire. Poi sgattaiola nella sua stanza
e gli augura la buonanotte via WhatsApp (glielo ha appena fatto
installare sull'Iphone nuovo di zecca e mai davvero usato). E
così cominciano interminabili discussioni sugli argomenti
più disparati.
«Avevo
diciott'anni quando ho avuto Dany» gli spiega durante una di
queste telefonate. La sua voce roca è calda e…
seducente, in un certo senso. Non come quella di Erik, capace di far
piangere gli angeli — assolutamente no. Ma ha un suo
perché. Lo si apprende solo dopo che la si conosce bene, con
le intonazioni che Erik nota subito — gli alti e bassi della
sua vita. («Frutto di un'adolescenza trascorsa a fumare come
un turco, senza farsi beccare da Maman prima dei diciotto. Dopo, non
ha potuto fare altro che accettare» gli spiega con le braccia
incrociate al petto, dopo avergli chiesto il permesso di farsi una
cicca,
come dice lei, in veranda. Almeno
questa volta ha chiesto il permesso.)
«Non eri
minorenne, dunque» costata Erik.
«No, ma ero
comunque fottuta. Non potevo avere una figlia se volevo sperare di
entrare nella compagnia dell'Opera. Mia madre lavorava a tempo pieno, e
non poteva prendersi cura di lei. Mio padre… beh, lo
sai.» Grugnisce qualcosa di incomprensibile.
«Non credo
avrei continuato la gravidanza se non fosse stato per la promessa di
Luc.»
Luc era il
suo… scopamico, come lo definisce Meg,
sebbene Erik si senta sempre a disagio con quei termini ai quali
è così poco abituato. Sa tutto di musica,
architettura, letteratura e arte, è fluente in innumerevoli
lingue e ha eseguito numerosi esperimenti scientifici, ma di
sesso… neanche a parlarne. Al solo pensiero gli viene da
piangere, il che è patetico.
«Conosco Luc
da prima che mio padre morisse. La prima volta che l'ho incontrato ci
siamo presi a pugni, ma stringemmo in fretta amicizia. Lui non mi
rideva in faccia se volevo giocare a calcio o mi sporcavo il vestito di
fango o mi sbucciavo le ginocchia o mi disfacevo le trecce. Ho avuto
non poche avventure — e disavventure — prima e dopo di
lui, ma Luc è sempre stato speciale. Solo che non ne sono
mai stata innamorata.» Ride, ma qualcosa nella sua risata
è freddo e lo paralizza. Non
è mai stata innamorata e basta, comprende. «Sono
contenta che Luc sia il padre di Dany, però. È un
ottimo genitore, le sta accanto, le vuole bene. Dany passa il giorno
con lui, dopo la scuola, e la sera da me, se non ho degli spettacoli.
Qualche weekend la tengo con me, in altri è con lui.
È molto presente e premuroso, e tiene a entrambe. Non potevo
chiedere di meglio per mia figlia. Da quando è
nata… l'ho amata istantaneamente. Se mai ho amato qualcosa,
è la mia famiglia.»
E suo padre, il suo
tragico padre suicida, a cui non accenna quasi mai, nemmeno per
sbaglio. C'è qualcosa che non gli ha detto, al riguardo. Un
segreto celato nell'anima come un peccato di chi si vergogna troppo per
confessare.
Ma Erik non la pungola
inutilmente. Gli piace sentirla parlare. Gli piace un po' troppo.
«Stai
diventando sentimentale» lo redarguisce il Daroga, e ha
ragione. L'ultima volta che si è affezionato a qualcuno
è stato un disastro. Ma per ora va bene così. Le
lezioni vanno alla
grande,
come direbbe Meg nel suo gergo giovanile, e anche le loro
chiacchierate. Battibeccano in continuazione, ma è
divertente per entrambi. Erik non ha mai avuto un'amica in vita sua
— forse questa è la volta buona. Forse.
Note
dell'Autrice:
1Dany: Il nomignolo di Daenerys
Targaryen, uno dei personaggi principali de Il trono di spade.
Eccomi tornata con un
nuovo capitolo. Avevo promesso che i nuovi aggiornamenti sarebbero
stati più lunghi. In realtà, questa storia
è un racconto, non una long fic, ma essendo comunque
piuttosto… sostanziosa, non potevo pubblicarla senza
dividerla in capitoli. E così eccoci qua.
Per ora sembrare tutto
filare liscio tra i due idioti protagonisti – che la tensione
si sia placata? Vi avverto che presto ci sarà un po' di
draMMMMa. Beh, perché in fondo si parla di Erik, e io adoro
l'angst. Ma non sarà eccessivo, non temete.
debbythebest: Non preoccuparti per il
ritardo, cara, anzi, è un piacere leggere le tue recensioni.
Spero che questo nuovo sviluppo ti sia gradito.
Erik e Meg si
scontrano perché hanno entrambi una terribile tempra
– in questo senso sono simili – e sì, un
passato tragico, soprattutto nel caso di Erik, è ovvio. Ma
non voglio neanche sminuire i trascorsi di Meg. Nel prossimo capitolo
vi sarà un chiarimento sul passato del nostro uomo
mascherato, e la reazione di Meg sarà… Beh, non
posso dirlo. Ti lascio sulle spine. :)
Ah, mi fa piacere che
Meg ti faccia ridere con il suo sarcasmo becero. XD Un bacio <3
|
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Capitolo 5 *** v. ***
v.
Accade quattro mesi
dopo il loro primo incontro. Ormai è pieno Aprile, le foglie
cristallizzate di rugiada sugli alberi riprendono colore e cominciano a
sbocciare i primi tremuli fiori primaverili. È una stagione
che Erik ha sempre apprezzato, per la sua dolce calma. In passato, gli
ricordava Christine. Se invece dovesse paragonare Meg a una stagione,
sarebbe l'estate: calda, quasi torrida, un uragano di cambiamenti
atmosferici. E lui? Lui sarebbe l'inverno: gelido e insidioso e duro
come le montagne dalle vette innevate. Freddo come la pioggia e la
roccia infrangibile.
«É
il mio debutto da solista. Ci sarai?» La voce di Meg ha un
fondo d'incertezza, arduo da percepire se non per i sensi affinati di
Erik. Questi annuisce: Meg debutterà come Regina delle Villi
in Giselle. È solo una
sostituta, ma alla sua età è un grande progresso.
«Sarò
nel mio solito palco» le assicura.
«Ma certo,
il palco numero 5. Mia madre te lo faceva riservare appositamente dalla
direzione.» Meg si ferma, come per ponderare qualcosa che le
ha attraversato la mente solo in quell'istante. «Eri tu!» Lo indica con un
dito accusatore e la bocca a forma di oblò per la sorpresa.
Probabilmente si chiede come abbia potuto non intuirlo prima.
Erik sorride,
serafico. «Io cosa?»
«Tu,
dannato!»
«Chi?»
Meg dà in
un grugnito di insoddisfazione. «Il fantasma dell'Opera! Ma
certo. Il palco del fantasma… Tutte noi allieve ballerine ci
chiedevamo a chi appartenesse, visto che rimaneva sempre
vuoto… E qualcuno che giurava di essere stato testimone di
eventi paranormali diffuse in giro la voce che si trattasse di uno
spettro. Io ovviamente non ci credevo, e prendevo in giro le mie
compagne e le allieve più piccole con raccapriccianti storie
sul famigerato fantasma…»
«Come la
peste che sei.» Le arrufferebbe i capelli in un gesto di
affetto, ma si limita a scuotere il capo, divertito.
«Quindi eri
proprio tu.»
«Sì.»
Erik non può fare a meno di sogghignare con aria saputa.
«Stronzo!»
dice lei, e gli colpisce piano un braccio con il libretto degli
spartiti. Lui sobbalza, ma è divertito.
«E questa
cortesia a cosa è dovuta?»
«Scommetto
che adoravi terrorizzare noi ragazzine
alle nostre spalle.»
«Ebbene
sì, mi hai scoperto. Ma tu non ti saresti comportata
diversamente.»
Meg borbotta qualcosa
di simile a una maledizione. Erik ride, con la sua risata che
— lo sa — è incantevole all'udito. Non
fa altro che irritarla di più, lungi dall'essere uno
strumento di seduzione con lei.
«Ti notavo,
sai.»
Meg è ora
immobile, trasognata. «Come?»
«Eri la
più mingherlina e bassa della compagnia. Ma anche quella che
ballava con maggior tenacia.»
«Sapevi che
ero la figlia di Antoinette Giry?»
«Ti ho
individuata subito. Le somigliavi, ma portavi nella carnagione
l'impronta indelebile di tuo padre…» Erik si
ferma, ma l'accenno al genitore defunto non sembra toccare Meg, che lo
guarda ancora con aspettativa.
«Verrai,
sabato? Ti farò conoscere mia figlia. Spero solo che la
maschera non la inquieti.»
«Non ho
bisogno della maschera per uscire.»
Meg sbatte le
palpebre. «No?» chiede, curiosa.
«Vedrai»
risponde lui con un sorriso segreto. Poi ritornano alla loro lezione.
La sera del debutto di
Meg come solista, Erik si sistema sulla faccia la protesi nasale, gli
enormi occhiali da sole che gli nascondono gli occhi infossati e
dorati, la sciarpa intorno alla bocca e il cappello ben calato sulla
fronte. Per il resto, è vestito come sempre: giacca e
cravatta, scarpe firmate e camicia di seta. Sì, è
quasi presentabile, se non assomigliasse a un malfattore per quanto
è coperto. Ma i malfattori non vanno in giro con guanti di
camoscio nero, e così esce di casa per la prima volta dopo
tanto tempo e prenota un taxi, diretto all'Opera Garnier.
Al termine dello
spettacolo, stuoli di fan adoranti si raggruppano attorno alla Sorelli,
la prima ballerina, ma anche Meg ha i suoi elogi. Con un sorriso
raggiante e il trucco che ancora le illumina il volto, accetta i fiori
con profusi ringraziamenti, arricciando stranamente il naso. Poi lo
scorge, un'ombra alta e magra appostata vicino a un lampione. Stringe
gli occhi, come per assicurarsi che sia proprio lui; poi fa un cenno
alle sue eccitate compagne e si allontana da loro, le suole delle
comode sneakers che scricchiolano mentre lo raggiunge con la maggior
flemma di cui è capace (che non è molta).
«Questo
è quanto di più vicino alla mia faccia potrai mai
vedere nella tua vita.»
La sua voce melodiosa
la fa sospirare. Sì, è proprio il suo
insopportabile maestro.
«Interessante.
È finto, quel naso, mi chiedo?»
«Sì.
Ma non dirlo in giro.»
Lei si apre in un
sorrisetto, ed Erik la sorprende con un mezzo inchino; Meg sbatte le
palpebre come un animaletto catturato sotto la luce del
lampione.
«Sei stata regale, sul palco.»
Meg dissimula il
rossore che le invade le guance incavate con una risata leggermente
frettolosa e roca. «Oh, grazie mille.» Poi
aggiunge, in un sussurro complice: «Non dirmi che mi hai
portato dei fiori.»
«No,
sfortunatamente. Avrei dovuto, lo so, ma…»
«Oh, grazie
a Dio.» Meg sospira di sollievo. «Ne ho talmente
tanti ora da riempire per intero il mio camerino.»
Erik sorride.
«Sei una strana ragazza, Meg Giry.»
«Da che
pulpito. Probabilmente le mie amiche si chiederanno chi sia l'alto e
tenebroso sconosciuto con cui sto intrattenendo una
conversazione tanto interessante.»
Si avvicina, e lui
deve inghiottire il bisogno istintivo di fare un passo indietro
— o di accostarsi a lei ulteriormente. Entrambe le ipotesi
suscitano in lui domande spaventose.
«Rapiscimi.»
Erik sbatte le
palpebre. «Come?»
Meg ridacchia e scuote
il capo. «Non voglio affrontare la festa con le mie amiche e
le altre che non lo sono ma che fingeranno di esserlo solo per questa
sera. Non mi piacciono i convenevoli.»
«Sarai
gradevole come sempre.»
«Questo non
mi rassicura affatto.» Poi aggiunge, sempre in quel tono
complice: «Portami via di qui. Ti concedo il mio sacrosanto
permesso. Mia figlia è con mia madre, loro torneranno a casa
perché è troppo tardi — ma noi due
potremmo…» Qui si ferma, ponderando.
«Non so. Andarci a fare una bevuta insieme. Guardare nuove
puntate de Il trono
di spade
a casa tua. Non sarebbe male.»
Erik si raggela.
«Io—»
«Come
amici» dichiara subito Meg con serietà.
È ancora rossa in volto, però. «Ti
prego, portami via da questo mortorio.»
Lui arretra, questa
volta sul serio. Come
amici. Come… «Non posso, Meg. Mi
dispiace. E non posso neanche conoscere tua figlia. Non — non
dovrei…»
«Ah.»
Meg non fa trasparire la delusione, ma è comunque chiara ai
sensi di Erik. Voleva trascorrere quella sera con lui. Come amici. Non sa che lui non ha mai
avuto amici in vita sua, e l'unico che possa rientrare in questa
definizione — il Daroga — in
realtà lo tiene più d'occhio che altro, pentito
(di questo Erik è certo) di avergli salvato la vita tanti
anni prima. Di aver risparmiato il mostro.
«Perché?»
Meg si stringe nel giubbotto di pelle, l'ombretto sulle palpebre che
luccica alla luce del lampione. «Non capisco.»
«Perché…»
Il cuore gli si stringe in petto, quel cuore saturo
d'oscurità che si cela dentro. «Non dovrei essere
tuo amico. Il tuo insegnante, d'accordo. Quello è possibile.
Ma niente di più.»
«Perché?» sibila ancora Meg,
e questa volta la rabbia gocciola via dalla sua voce come pioggia calda
d'estate.
«Non vuoi un
amico come me, credimi. Non lo vuoi. Non sono… la persona
che credi.»
«Perché,
cosa credi che io pensi di te? Sei un insopportabile
so–tutto. Sei arrogante e freddo, ma…»
Meg china lo sguardo sui suoi stivali anfibi, ed Erik vorrebbe
abbracciarla, stringerla a sé come l'uomo che non
è e non sarà mai, non per lei, non per nessun
altro.
«Sei anche
il miglior insegnante che si possa desiderare. Lo dico sul serio, e mi
costa, ma non importa. Fanculo l'orgoglio.»
«Non
posso.»
Lui si volta,
desolato, pronto a rientrare nel caldo abitacolo del taxi. Lei lo
afferra per un gomito ossuto. «Aspetta.»
Erik si irrigidisce al
tocco. Non vi è abituato; solo al Daroga a volte
è permesso toccarlo, o meglio sfiorarlo. E non sfiora una
donna da eoni.
«Mi
spiegherai la vera ragione, dopo la prossima lezione?»
«Sì»
le promette, e glielo deve. Nella sua voce risuona una nota di
angoscia, limpida e cupa come quella notte. Sa che, insieme alla
verità, giungerà la fine di questa strana
amicizia. È un pensiero che odia, ma è meglio per
lei. Lo è, davvero. Farebbe di tutto perché
quella ragazza abbia il meglio. E lui non fa parte di quel meglio,
assolutamente.
«Ci si vede,
allora.»
Erik non sa se sente
queste parole per l'ultima volta oppure no.
La tazza di
tè gli riscalda le dita, come al solito gelate. Meg ne ha
preparato un po' perché, appena entrata in casa e posato gli
occhi su di lui, ha notato il suo bizzarro tic. Lo ha costretto a
sedersi in cucina e a indicarle la pentola per il tè e le
foglie verdi, e ha lasciato bollire il tutto divorando biscotti
glassati con l'usuale fame rabbiosa. Se mangia in quel modo, si chiede
perché sia così magra.
«Meglio,
vero? Ora puoi parlare.» Meg gli si siede accanto, lanciando
un ultimo sguardo nostalgico ai biscotti, e prende a sorseggiare il suo
tè. Erik non solleva i bordi della maschera per sorbire la
calda bevanda. Stringe solo la tazza tra le mani, così forte
che teme andrà in pezzi.
Inizia il racconto
della sua vita con un filo di voce. «Io non sono…
una brava persona, Meg. Non nel senso che s'intende normalmente. Nella
mia vita ho compiuto azioni che…» Scuote il capo,
addolorato. Lei non scosta lo sguardo dal suo, oro contro carbone.
È lì per avere una risposta, e ne ha tutto il
diritto. «Tu non hai la minima idea di quello che ho fatto.
Di cosa mi hanno… spinto a fare. Ma il biasimo è
mio, solo mio. Avrei potuto scegliere un'altra vita e non l'ho fatto
— perché ero così pieno di rabbia… L'odio e la
rabbia mi nutrivano. La mia natura è oscura e contorta, ecco
tutto.»
«E ti
sentivi così perché…?»
domanda Meg, serissima. Non l'ha mai vista tanto seria. È
chiaro che lo sta prendendo in parola, ed è preoccupata.
Lui non risponde.
«Cosa sei di
tanto terribile? Uno stupratore seriale?»
Erik sbatte le
palpebre. La sua bocca — la sua specie di bocca —
si contorce in una smorfia di disgusto e orrore.
«Cosa…? No, per Dio, no!»
«Sei un
serial killer?»
Lui rabbrividisce. Lei
scatta in piedi, terrorizzata da quel silenzio quasi quanto lui.
«Sei davvero un serial killer?»
«No
— no, santo cielo. Ma ci sei quasi
arrivata.»
Lei comprende dopo una
pausa gravosa. «Sei un killer. Un sicario.»
«Una
sorta.» Erik si contorce le dita, abbandonando la tazza di
tè sul tavolo. «Ero un mercenario all'ordine di
alcuni servizi segreti mondiali… Ho lavorato per l'URSS, per
l'Iran. Per gli Stati Uniti, naturalmente. Sono sceso in guerra molte
volte. Ho anche ucciso. Per sopravvivere, principalmente, e poi per il
mio lavoro. E non ti nascondo che non mi piaceva, non mi piaceva
affatto. Ero il relitto e il vampiro di me stesso. Mi consumavo da solo
nell'oppio, sperando di dimenticare a cosa la natura mi aveva
destinato…» Fa un cenno al suo viso mascherato.
«Ad essere
un mostro» conclude lei per lui, ed è incredibile
come legga i suoi pensieri in modo rapido e profondo — che le
loro menti siano collegate? Non ha mai conosciuto una tale connessione
intellettuale con nessuno. Pensa alle affinità elettive di
Goethe, e si morde un labbro a sangue.
«Cosa mai ti
hanno fatto perché tu abbia scelto di percorrere un sentiero
simile?» dice lei, ed Erik si irrigidisce, preda dei ricordi.
«Mi hanno
tolto la libertà» risponde semplicemente. Si
gratta i polsi dove ancora sopravvivono le cicatrici di quando,
quarant'anni prima…
E le parla.
«Nacqui in un villaggio di campagna e poche anime vicino
Rouen. Non conobbi mai mio padre, morì prima della mia
nascita. Mia madre mi costringeva ad indossare la maschera; senza, non
riusciva nemmeno a guardarmi in volto. Non uscivo mai di casa, ma
lì imparai a suonare il pianoforte e il violino, a cantare,
le prime basi dell'architettura… Non piacevo alla gente del
villaggio. Di notte fuggivo di casa per sgattaiolare nella chiesa del
paese e suonare l'organo — un vero
organo
— ma quando la plebaglia cominciò a spettegolare
al riguardo, a mia madre dissi che il colpevole era un fantasma, non
io. Quante volte mi picchiò per le mie fughe notturne? A me
non importava. Quando il sacerdote — Padre Mansart, l'unico
che fosse rimasto vicino a mia madre dopo che ebbe partorito me — mi
consolò per la morte prossima di Sasha, la mia unica amica
(il cane), mi rivelò anche che non l'avrei più
rivista, perché gli animali non hanno un'anima. Fu un colpo
tanto duro per me che esplosi in una crisi di rabbia isterica di cui
fino ad oggi non ho mai compreso la natura. Ruppi tutti i soprammobili
del salotto, agitai l'attizzatoio contro mia madre e il
sacerdote… Mi mandarono in manicomio. Alla fine guarii. Non
avevo più attacchi di follia, momenti nei quali perdevo il
controllo di me stesso. Ma in cambio divenni un morto vivente. Fu
estremamente doloroso. Sai, allora non esistevano le cure di
adesso… E io ero solo un bambino. Frattanto, continuavo i
miei studi — musica, arte, letteratura, scienza, architettura
— tutto quel che volevo era a portata di mano. Pensavano che
un orrore come me sarebbe rimasto chiuso lì dentro per
sempre, in isolamento. Si sbagliavano.»
«Sei
cresciuto in un manicomio?» Nella voce di Meg vige l'orrore.
Erik annuisce.
«Ma presto scappai. A nessuno importava del mio avvenire,
avevano tutti orrore di me. I medici volevano scoprire cosa c'era
dietro la mia deformità; dicevano che ero un genio, e che in
qualche modo quel genio sarebbe uscito allo scoperto, prima o
poi… Non avevano torto. Quando mi resi conto delle mie
potenzialità, fu una liberazione. Una nuova nascita. Scappai
e viaggiai con una compagnia di circensi che mi accettò tra
le loro schiere, a patto che suonassi e cantassi per i loro spettacoli.
Facevo quello e molto altro: ero un quattordicenne prodigio, un grande
illusionista, e cominciai ad essere noto come “la Morte
Vivente”… per il mio aspetto, capisci. Vivevo
così, nei circhi, come artista di strada. Ero conosciuto
nell'ambiente. Poi vennero i russi.»
Qui Erik si apre in un
sorriso triste che è come una ferita sanguinante sulla sua
pelle livida. «Avevano sentito delle mie singolari
abilità. In particolare, col laccio del Punjab.»
«Il
cosa?» Meg a quel punto è quasi senza voce.
«Il laccio
del Punjab. È un elastico simile a una garrota, ma
più lungo. Un'arma che imparai ad usare magnificamente
durante un viaggio in India. Mi promisero che, al loro servizio, sarei
stato potente. Fu questo a farmi accettare la proposta: da troppo tempo
mi sentivo debole, senza controllo sulla mia vita. La natura o Dio o
chi per Lui mi aveva plasmato senza che io potessi far nulla per
contrastare il mio destino. O così credevo.» Fa di
nuovo un cenno verso la maschera. Meg è paralizzata, ma
continua ad ascoltare.
«Mi
addestrarono. Divenni un soldato modello. Le mie naturali
abilità fisiche progredirono. Ero rapido, forte,
implacabile. Cominciai a lavorare per i servizi segreti russi, a
diciott'anni. E per altri regimi e governi. Per qualche tempo divenni
una macchina da guerra, sebbene con un codice severo e tutto mio.
Nell'ambiente mi guadagnai un nome; o meglio, me lo affibbiarono,
poiché io avevo ormai da tempo cambiato nome. Dicevano che
ero un fantasma, imprendibile. Fu il Daroga a fermarmi: durante una
missione segreta per l'Iran — lui era a capo della polizia,
lì — fui gravemente compromesso. Mi avevano
avvelenato; me lo dovevo aspettare. Sapevo troppe cose, ero a parte di
troppi segreti. Nadir Khan mi salvò la vita, mi
risparmiò, a patto che non commettessi più
delitti. Accettai. Non desideravo più quella vita. Avevo
dimenticato chi ero, e ora stavo riacquistando la mia
identità. Non volevo essere… un mostro. Non
volevo morire come tale. Così tornai in Francia insieme al
Daroga, che mi convinse a pubblicare alcune delle mie composizioni, a
registrare la mia voce e le mie sonate in studio. Lui aveva dei
contatti… Ovviamente, nessuno poteva vedermi in viso.
Acquistai la fama di genio recluso e poi, sei anni dopo il mio ritorno
alla vita, qui a Parigi, dove mi ero costruito una casa tutta
mia…»
Gli si incrina la
voce. Si prende la testa fra le mani. «Tua madre mi riservava
un posto tra i palchi dell'Opera Garnier, cosicché ogni
tanto vi facevo visita per assistere ad alcune delle mie opere
preferite. Fu su quel palco che udii cantare Christine Daaé
per la prima volta.» Erik prende lentamente fiato. Inspira,
espira. Adesso viene il peggio. «Chi era
quell'angelo? M'innamorai di lei all'istante. La sua voce era serafica,
ma cantava
senza passione!
Cantava come una di quelle graziose bambole con una chiave conficcata
nella schiena: a comando. Con umiltà, la incontrai e le
proposi di darle lezioni di canto. Lei, conoscendo la mia fama, ne fu
onorata. Si stabilì un rapporto di grande
intimità tra noi due: lei mi raccontò che dalla
morte di suo padre non riusciva più a godere della musica
come una volta. Che Monsieur Daaé le aveva detto che, dopo
la sua scomparsa, l'Angelo della Musica le avrebbe fatto visita. Che
amabile sciocchezza. “Siete voi il mio angelo,
Erik” mi diceva lei, e mi riempiva il cuore. Furono i mesi
più belli della mia vita, almeno fino ad allora.
Poi venni a saperlo.
Christine aveva
compreso i miei sentimenti per lei e non desiderava ferirmi, ma non
poteva proteggermi per sempre. Era fidanzata da anni con un certo
visconte de Chagny, Raoul, di cui era innamorata fin dall'infanzia, e
presto sarebbero convolati a nozze. Ero maledetto: amavo la donna di un
altro! Allora le feci atroci scenate di gelosia. Le dicevo che avrei
smesso di darle lezioni se si fosse sposata, e lei mi pregava, con le
lacrime agli occhi, di restare al suo fianco. Era chiaro che non potevo
essere un uomo normale per lei, né ero suo padre: ma potevo
essere il suo angelo. Evidentemente mi associava al ricordo del
genitore defunto, ed ero un amico prezioso: nient'altro. Il peggio
arrivò quando decise di togliermi la maschera. In
realtà, come compresi in seguito, non fu da parte sua una
decisione deliberata, poiché era ipnotizzata dalla mia voce:
cantavamo un duetto dell'Otello di Rossini, ed era
così presa dalla musica che il suo desiderio di conoscere
il volto dell'angelo
la sopraffece. E così mi sfilò la maschera
e…»
Erik seppellisce il
viso tra le mani.
«Le urlai
contro maledizioni e deliri. Andai su tutte le furie. Ora che aveva
visto la mia faccia, non avrebbe più voluto restare con me!
Ed io sapevo che una parte di lei, fino a quel momento, lo aveva
voluto. Lei era ai miei piedi, piangente… e anch'io
singhiozzavo, mentre in me sentivo rinascere quell'odio che non
percepivo più scorrermi come fiele nelle vene da tanto
tempo. Questa volta era indirizzato verso l'innocente e ignaro
visconte. Minacciai Christine che lo avrei ucciso — e lo avrei
ucciso davvero,
se me lo fossi ritrovato davanti in quel momento! Lo avrei ucciso, se
lei non fosse rimasta con me. Cosa sceglieva? La sua vita o quella del
fidanzato? Lei era furiosa, piena di una passione e una rabbia e una
tristezza che non avevo mai visto in lei. “Mi hai tradita, mi
hai ingannata!” Poi, piangendo: “Io mi fidavo di te!.” Le dissi
che doveva compiere una scelta, e al più presto.
Dopodiché la sentii mormorare queste parole:
“Povera creatura… Cosa mai ti hanno fatto per
arrivare a tanto? Dio, ti prego, dammi coraggio…
Perché non sei solo, Erik. Non sei
solo.”
E mi abbracciò, e mi baciò sulla fronte
— su questa mia fronte di morto! E piangemmo insieme.
Capisci? Pianse con me, su di me, le sue lacrime sulla mia bistrattata
faccia… e l'odio aveva cessato di pulsare. Allora la lasciai
andare. Le dissi di ricordarsi del “povero Erik”,
come mi aveva chiamato pochi istanti prima nella mia angoscia, e di
essere felice col suo innamorato. Di non piangere più, e di
vivere la sua vita. E così lei fece. Se ne andò.
Venni a sapere che si sposò poche settimane dopo —
un matrimonio modesto per una viscontessa — e che
tornò con De Chagny nella sua patria d'origine. Poi
più nulla; mi disinteressai a lei. Era meglio
così. Ma non ho mai cessato di amarla.»
Erik inspira
profondamente. Meg è raggelata al suo fianco, e non
proferisce parola. «Capii di amarla davvero solo quando la
lasciai andare: fu l'unico atto d'amore, di compassione, della mia
esistenza. Lei avrebbe dato la sua vita per quella di Raoul. Quello
— mettere la felicità di un altro al posto della
propria, l'altruismo cieco di Christine — quello era amore. Ed era amore anche
la sua compassione per me, perché sapeva che soffrivo, e che
era la mia sofferenza a guidarmi verso il delirio. Il mio amore per lei
era stato egoista, le aveva negato la sua libertà. Come
avevo potuto essere tanto folle, tanto ottuso? L'avevo persa per
sempre, e non avevo ricevuto che lacrime da lei…»
Il racconto
è finito, e Meg sembra percepirlo. Ha orrore di lui, si
chiede? Una mente logica ne avrebbe. Meg arretra, quasi inciampa sui
propri piedi calzanti i soliti anfibi. Erik fa per afferrarla in tempo,
ma lei si scosta dal suo tocco.
«Non…
non toccarmi.» Non le fa orrore, no: prova disgusto. La guarda andarsene senza
dire una parola, senza pregarla di restare come il suo cuore gli
implora di fare. È giusto così.
Crolla di peso sulla
sedia, facendola oscillare. Forse è ora di bere qualcosa di
più forte del tè. È l'unica
consolazione che gli sia rimasta.
Note
dell'Autrice:
Ops, ecco il draMMMa. Beh, dato il protagonista maschile, non poteva
non esserci. Che ne pensate del passato di Erik? Ho preso qualche
spunto per la sua infanzia dal Phantom di Susan Kay, come
avrà notato chi lo ha letto. Per il resto, è mia
fantasia – una versione moderna delle “ore rosa di
Mazenderan” descritte da Leroux. In realtà, ora
che ci faccio caso, somiglia vagamente alla storia del Soldato
d'Inverno. Mmm.
Per quanto riguarda la
reazione di Meg, mi pare totalmente giustificata. Se qualcuno mi
confessasse (pur con tutte le buone intenzioni del mondo) di essere
stato un sicario e uno stalker, io scapperei a gambe levate. E, credo,
anche chiunque altro. Ma scoprirete di più nel prossimo
aggiornamento. Ci tengo però a dire che Erik è
mutato totalmente dopo il gesto d'amore di Christine (un po' come Paolo
sulla via di Damasco), ed è sul sentiero della redenzione,
come mostra spiegando la verità a Meg; non si sente
meritevole dell'amicizia di quest'ultima in quanto ben consapevole
delle sue cattive azioni passate.
Solo… per
chi sta leggendo la fic, se c'è effettivamente qualcuno
là fuori (mi sentite? Toc toc?), vi prego, recensite. Non
perché sia ingorda, ma solo per sapere se ci sono delle
critiche da smuovere, qualcosa che non va, anche eventuali errori di
grammatica. Altrimenti mi sento più scoraggiata a postare,
è naturale. Capisco che alcuni vogliano aspettare la fine
per dare un giudizio, però. Apprezzo comunque che qualcuno
legga, non sentitevi in obbligo.
Alla prossima! :)
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Capitolo 6 *** vi. ***
Scena IV.
[ Studio medico. Un silenzio di
piombo grava nell'aria tra le due donne che si fronteggiano.
]
MEG: Non ci posso
credere. Stavo per fargli conoscere mia figlia. Mia
figlia, capite? (scuote
il capo dolorosamente) Mi fidavo di lui. Grazie al lavoro
che svolgevamo insieme, mi sono tornati in mente i bei momenti vissuti
con mio padre. Suonare il pianoforte era un balsamo dolce e amaro al
contempo.
DOTTORESSA LAURENT: E
tuttavia ti ha detto la verità. Questo dovrà pur
significare qualcosa.
MEG: Che è
un uomo diverso, ora? Io non lo credo. Non credo che la natura di una
persona possa cambiare così, senza preavviso.
DOTTORESSA LAURENT:
Forse l'amore ha il potere di farlo. È stata sicuramente
un'evoluzione lenta, la sua… E poi, era davvero quella, la
sua natura? (si ferma,
ma Meg non la interrompe. Rimane lì a fissarla con occhi
vitrei) La terapia stava funzionando, Meg. Non hai
più incubi, vero?
MEG: (farfugliando) No,
sono diminuiti di molto. Poi penso a tutte le cazzate che ho fatto in
vita mia e che ho Dany, adesso, e mi ripeto che devo essere forte. Ma
sono stanca, così
stanca.
DOTTORESSA LAURENT:
Credo sia inutile proporti di cambiare insegnante. Non c'è
nessuno al mondo migliore di lui, ed eravate… (cerca la parola giusta)
affiatati.
MEG: Battibeccavamo in
continuazione.
DOTTORESSA LAURENT:
Appunto. Tutto ti ricorderebbe lui, vero?
MEG: (vagamente esitante)
Me lo ricorda già. E io che ero sul punto di…
di… Ah! (si
prende la testa fra le mani, quasi le dolga) Aiutatemi a
dimenticarlo. Aiutatemi.
vi.
Ad Erik non piace
essere osservato, e per un buon motivo. Conciato in quel modo,
tuttavia, attira come un magnete gli sguardi della gente, che si ritrae
dinanzi alla sua figura imponente, rivestita di nero. Sembra un uomo
invisibile, un uomo senza faccia — Dio solo sa quanto ha
desiderato diventarlo davvero, invisibile, dal fatale giorno in cui
vide per la prima volta il suo viso, se tale si può
definire, allo specchio. Con un gesto quasi istintivo, si sfiora i
polsi su cui porta ancora le cicatrici del ricordo…
Accomodata sul divano
dinanzi al suo, nella sala d'attesa, c'è una coppia di
giovani sposini che fa di tutto per evitare il suo sguardo. Portano con
loro una peste di infante, e quella vista gli ricorda ciò
che non potrà mai avere: una famiglia tutta sua.
È un pensiero deprimente, ma ormai si è
rassegnato al suo destino. Il bambino lo guarda fisso e poi sussurra
alla madre, senza preoccuparsi di abbassare la voce — ah,
l'innocenza infantile: «Mamma, cos'ha alla faccia?»
Erik fa una smorfia e
trattiene a malapena un mugugno di disapprovazione.
La giovane madre fa
segno al figlio di tacere, e perlomeno ha la decenza di apparire
imbarazzata. Bene.
Quando arriva il suo
turno, Erik si alza in piedi di scatto e svanisce oltre la porta che
conduce alla sala d'attesa, lasciandosi dietro la scia del suo lungo
soprabito nero. Le scarpe italiane ticchettano sul parquet tirato a
lucido. La stanza che trova al termine del corridoio è
piccola ma confortevole, la luce del sole calante infrange i vetri
dell'unica, alta finestra che dà sul cortile del condominio.
La donna che lo attende seduta su una poltrona di velluto è
all'incirca sua coetanea, trasparenti occhi verdi che gli trapassano il
cranio.
«É
un onore conoscervi, Monsieur Danton.» Lei gli tende una
mano, ma Erik non ricambia. La donna non appare turbata. Gli fa cenno,
come nulla fosse, di occupare il posto dinanzi a lei. Non
c'è neanche una scrivania a dividerli: sembra in tutto e per
tutto un salottino, sui colori del rosso e dell'arancio che spiccano
come raggi di sole.
Erik si siede,
rammentando la chiacchierata che ha avuto con quella donna il giorno
prima, al telefono. Come si sia procurata il suo numero, non lo
scoprirà mai, anche se scommette che ci sia sotto lo zampino
di Madame Giry.
«Credo che
sappiate chi io sia, quindi sono vane le presentazioni.»
Hélène Laurent si apre in un sorriso che dovrebbe
sembrare rassicurante, ma fallisce nel tentativo. Erik non
può sorridere, con la sciarpa a coprirgli metà
del volto devastato, e sarebbe comunque uno spettacolo poco attraente,
quindi rimane sulle sue.
«A cosa devo
l'onore di conoscere la terapista della mia… ex
allieva?»
La Laurent cerca di
metterlo a suo agio, o almeno ci sta provando — è
difficile che Erik lasci cadere quello scudo di diffidenza che si
è costruito negli anni.
«Perché
sono qui?» incalza lui, già immaginando la
risposta.
«Perché
il biasimo è vostro se la mia paziente ha interrotto la sua
terapia.»
Ma certo, Meg deve
averle raccontato di lui. Il segreto professionale della dottoressa
è però infrangibile.
«Le ho detto
la verità. L'ho
salvata.»
«Da cosa, se
mi è concesso di sapere?»
«Da
me.» Il troppo amore lo ha già ucciso una volta;
non vuole che accada di nuovo.
«Non deve
per forza interrompere le lezioni. Può facilmente trovare un
altro insegnante.»
«Non come
voi.»
Erik scuote il capo in
un moto doloroso. «Non sono degno della sua
compagnia.» Si guarda fissamente le scarpe.
«Credo che
voi stesso abbiate bisogno di aiuto.»
«Non voglio
altri medici. Erano tutti più interessati al mio
aspetto… bizzarro
che alla mia sanità mentale. Per la fragilità di
quest'ultima, mi sono lasciato andare ad orribili scenografie di
morte… Lasciavo solo distruzione ad ogni mio
passo.»
«Poi siete
riuscito a uscirne.»
«Sì,
ma mi sono serviti anni e anni di penitenza per quanto avevo
fatto.» Qui si ferma, pensoso. «Non so se esista un
Dio o meno: quel che so è che l'inferno sulla terra esiste,
è in mezzo a noi. Cumuli di macerie, odore di polvere da
sparo, ossa bruciate e sangue ovunque. Guerra. Non voglio che Meg si
perda in questo mondo che non mi ha mai abbandonato.»
«É
una decisione che spetta a lei.»
Una pausa terribile.
Poi la dottoressa scatta in piedi e gli offre dei biscotti al burro
danesi dall'aspetto delizioso. «Prendetene uno.»
«Non
posso.»
«Non siate
ridicolo.»
Erik sceglie un
biscotto, ma non solleva i bordi della sciarpa per mangiarlo. Rimane
lì a sbriciolarsi tra le sue lunghe dita — in
effetti, troppo lunghe e sottili per essere normali.
«Siete
affezionato a quella ragazza. Non è forse
così?»
La domanda lo spiazza,
e decide di rispondere con fermezza, senza tradire il cuore incrinato
nel suo petto. «Non sono io il vostro paziente.
Perché mi trovo qui?»
La Laurent non appare
affatto intimidita dal gelo nella sua voce.
«Siete qui
per assicurarmi che a Meg non venga fatto alcun male. Ne ha passate
tante, ben più di quanto voi crediate.»
«Posso
immaginare.»
«No, non
potete. Io non vi dirò niente — ho un giuramento
professionale da mantenere. Se e quando vorrà condividere il
suo passato con voi, sarà una sua decisione.»
«Non
condividerà niente con me. Ora mi vede come un
mostro.»
La donna scuote il
capo, divertita in maniera irritante. È come se sapesse
qualcosa che lui non sa, e lui odia non sapere. Fin da
piccolo, si è immerso negli studi, tra le pagine dei libri,
per imparare il più possibile su un mondo che non lo avrebbe
mai accettato per com'era veramente. La maschera è un
simbolo, tutto qui; dietro di essa vi è un uomo di carne e
sangue, e a non pochi accade di dimenticarlo. Talvolta anche lui non
riconosce più il proprio corpo, quasi sentisse di non
appartenergli.
«Tenete a
Meg, come presumo?»
«Presumete
molto.»
«Rispondetemi.
È importante.»
Un attimo di silenzio
in cui Erik raccoglie ogni briciola del suo coraggio. «L'ho
lasciata andare. Non diventerò che un fantasma nella sua
vita, e non merito altro. Non merito la sua compagnia, la sua amicizia.
Pertanto mi sono messo da parte.» Come sono riuscito a fare con
Christine solo alla fine di tutto, ed è colpa mia se se
n'è andata, andata via per sempre… Meg…
Meg è il
nome che gli sale alla labbra in ogni suo sogno — o incubo.
Rabbrividisce per le implicazioni che tutto ciò evoca, per
quanto questo affetto costerà caro a entrambi.
«Ho risposto
bene alla vostra domanda, Madame?»
La dottoressa sorride.
«Sì, avete chiarito ogni mio dubbio. A volte
lasciare andare una persona che ci è cara è
l'unico modo per dimostrarle il nostro amore. Lo sapete
bene.» Erik lascia che il biscotto gli si sbricioli tra le
dita, dimenticato. Dimenticato come lui.
Note dell'Autrice:
Un altro capitolo “di passaggio”, ma qui si
capiscono meglio i motivi della “confessione” di
Erik. Un altro uomo avrebbe potuto tacere riguardo il suo passato; ma
lui – considerato anche l'odio che prova per se stesso
– non l'ha fatto. Sembra davvero aver imparato qualcosa
dall'altruismo di Christine…
Jessica24: Che bello
ritrovarti anche qui! Sono contenta che ti piaccia l'andamento di
questa storia e, come nell'altra, sembra che i dialoghi tra i due
protagonisti siano il “punto forte” (non me ne
stupisco). Spero che continuerai a seguirmi! Un bacio <3
|
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Capitolo 7 *** vii. ***
vii.
La pioggia ticchetta
in maniera oltremodo molesta contro le ampie vetrate della Maison
Danton. È seduto — diciamo anche appollaiato
— sulla sua poltrona preferita, e legge un libro di
architettura con grande interesse, quando il suono del campanello lo fa
trasalire. Sono poche le persone che osano disturbare e bussare alla
sua porta; persino i monelli della campagna ne stanno alla larga. In
cima a un'altura isolata nel mezzo del nulla, si crede sia una casa
abitata da fantasmi, il che è ironico.
Chi può
essere, dunque? Erik fa un rapido calcolo mentale: c'è il
Daroga, che lo tiene costantemente sotto sorveglianza, quasi fosse una
bomba pronta ad esplodere; poi c'è Giovanna, che ogni giorno
viene a pulire la casa e a portargli la spesa (di certo non
può andare in giro per un supermercato — o le
stesse strade di Parigi, in particolare di giorno — senza
destare occhiate nervose, addirittura ostili). E poi c'era un tempo in
cui Christine veniva a trovarlo, ma ora fa tutto parte del passato. E
infine…
Raggela quando va ad
aprire la porta, il libro dimenticato sulla poltrona.
«Meg.»
Pensava che non
avrebbe mai più rivisto il suo viso piccolo e rabbuiato,
eppure eccola lì, sulla soglia, con il cappuccio della felpa
tirato sulla testa e la solita matita nera e pesante a circondarle gli
occhi scurissimi.
Un minuto di
spiacevole imbarazzo galleggia tra di loro.
«Sei
tornata.»
«Non farti
illusioni. Sono qui per le lezioni di pianoforte. Non per te.»
Erik sospira
— era più di quanto potesse sperare — e
la fa accomodare nella sala della musica, dove ad attenderli
c'è il meraviglioso pianoforte a coda su cui Erik ha
composto gran parte delle sue opere, riverite in tutto il mondo.
Lei fissa lo strumento
con sguardo nostalgico, come un amante perduto. Erik sospira, non sa se
di felicità per il ritorno della sua allieva o per la
disperazione — ché, malgrado tutto, l'ha perduta.
Tutte le donne della sua vita (ben poche, in verità) lo
hanno abbandonato, prima o dopo.
La routine —
Meg che non gli rivolge la parola per prima, le lezioni sature di
tensione, il suo abbrutimento morale — prosegue per altre due
settimane. Meg è rigida, poco rilassata durante le lezioni,
e soprattutto tace. Un silenzio preoccupante:
non è abituato a una Meg tanto disciplinata. Gli mancano le
sue battute sarcastiche e velenose; gli mancano gli sguardi elettrici
che si scambiavano ogni volta che battibeccavano. Ma non può
farci nulla: questo è l'unico trattamento che merita da lei.
Anche se non le ha fatto del male personalmente, Erik avverte che la
fiducia che pian piano lei andava edificando nel loro rapporto si
è incrinata fino a ridursi in schegge di vetro. Vuole
evitare un rapporto meno professionale con lui; solo quello di maestro
e allieva ha importanza, ora. Erik ha da lungo tempo intuito che le
lezioni di pianoforte non sono altro che un modo per lei di
riavvicinarsi alla figura del defunto genitore — un lutto che
non ha mai davvero elaborato del tutto. Erik nota il modo rabbioso in
cui suona: come una fiera in gabbia pronta a spiccare il volo, o forse
a fuggire.
«Porca
troia.» La sente imprecare sui tasti, le dita esili che
martellano senza pietà.
«Il
linguaggio» la ammonisce lui di rimando — un monito
che gli è sgorgato dalla gola e le labbra malformate con la
più disinvolta semplicità. Come ai
vecchi tempi.
«Non tendi
bene le mani» le fa notare con la maggiore calma possibile.
È vicina, così vicina a suonare in modo decente
la disgraziata sinfonia di Beethoven, e le si accosta senza pensare,
come sempre trasportato dalla musica, l'unica cosa al mondo capace di
intrigarlo tanto tra le sue spire da fargli perdere il controllo di
sé. Per aiutare la ragazza a raggiungere con le sue piccole
mani tutti i tasti che le servono per riprodurre la sinfonia, posa le
proprie lunghe dita su quelle minute di lei.
«Così.
Ti aiuto io. Adesso prova.»
Ma Meg è
immobile, irrigidita dal tocco e dalla voce di miele di lui
nell'orecchio. Sono così vicini che potrebbe sentire il suo
respiro sul collo…
Qualcosa nella mente
di Erik scatta — l'istinto atavico della fuga — ma
è troppo tardi: Meg gli afferra le mani prima che possa
ritrarle lontano da lei. Infine si volta, lentamente. Il suo sguardo
serio e determinato incuterebbe soggezione anche ad un uomo che un
tempo era una macchina da guerra all'ordine dei servizi segreti. Si
alza, sempre con movimenti misurati, quasi si trovasse dinanzi una
fiera affamata. Scioglie la presa dalle sue mani e le porta al viso di
lui, come sempre mascherato.
Erik le imprigiona
dolcemente i polsi, scuotendo il capo con orrore crescente. Ma Meg
è forte.
«Devo capire» dice, e da questo
lui comprende che anche per Meg quella impasse è
insopportabile. Comprende che vuole dare una svolta alla storia.
Erik chiude gli occhi,
già presagendo cosa accadrà. Forse non
ti abbandonerà come ha fatto tua madre, pensa. Forse
rimarrà — per le lezioni e… e tutto il
resto. Lo ha fatto quando ha saputo che vent'anni fa eri un mercenario
temibile, lo farà di nuovo. E se pure non lo facesse, chi
potrebbe biasimarla? Non certo tu.
Con un gesto brusco,
rapido come un aspide del deserto, la maschera si trova tra le mani
piccole — come ha fatto a non notarle prima? Sono così minute, fragili fiori
primaverili — di una Meg che alla vista del suo vero viso esplode in un singulto
d'orrore.
Erik sa cosa sta
vedendo, anche con le palpebre calate. Un volto simile a un teschio, la
pelle rinsecchita sull'osso, un buco in luogo del naso, le labbra
disgustosamente deformate… La sua dannazione. Ricorda cosa
è accaduto con Christine — era stato lui ad urlare
di furore in quell'occasione. Ora il silenzio si propaga nell'aria come
gocce di veleno.
«Oh, porca
puttana.»
Meg lo infrange con
una sequela di imprecazioni volgari, il respiro affannoso. Erik non si
azzarda ancora ad aprire gli occhi, troppo codardo per affrontare
l'orrore sul viso di lei. Non crede che il suo cuore possa reggere un
colpo simile, non di nuovo. Mai, mai più.
«Cerca solo
di non vomitarmi sulle scarpe. Sono italiane.» Il monito di
Erik è più una battuta sardonica che altro.
Il cuore greve, apre
gli occhi.
Meg è
lì, la maschera ancora tra le piccole mani, e sul viso
sfoggia un bizzarro colorito verdastro e rosso insieme che ha un
qualcosa di malsano. Deglutisce pesantemente.
«Hai
soddisfatto la tua curiosità. Potresti ridarmi la maschera,
adesso?» Erik parla in tono calmo — sono serviti
anni di duro lavoro per donare alla sua voce una sfumatura meno
minacciosa in occasioni simili — e tende una mano.
Solo in quel momento
si rende conto che gli occhi di Meg — profondi, scuri,
inossidabili — sono pieni di lacrime. Questa non è
una reazione che aveva previsto.
«Così
è per questo che…» Meg fa un cenno al
suo volto devastato.
Erik annuisce,
desolato.
«Mi
dispiace. Mi dispiace tanto.»
«Dispiace
anche a me.»
Rimangono a fissarsi,
muti, ancora per qualche altro attimo. Infine lei avanza di qualche
passo, più coraggiosa dinanzi al dolore puro di quanto lui
immagini. Gli rimette la maschera. E poi — meraviglie delle
meraviglie — lo abbraccia.
Non proprio:
più che altro, posa il capo sul suo petto scarno, ed Erik
avverte calde lacrime infradiciargli la camicia. Ma non importa,
perché il viso di lei non è il solo ad essere
umido di pianto, ora.
Erik non ha il
coraggio di stringerla tra le braccia come farebbe qualsiasi altro
uomo. Ha fallito. Non può rendere uomo nemmeno se stesso.
Rimangono
lì a piangere in silenzio per chissà quanto. Da
quel momento, sono di nuovo uniti: è impossibile condividere
qualcosa di simile con una persona e rimanere indifferenti, o
addirittura ostili.
Perdono, pensa lui. È
mai possibile?
Note
dell'Autrice:
Un altro piccolo aggiornamento, ma fondamentale. Dopo settimane di
riflessione, Meg riesce a capire e perdonare Erik (e più in
avanti si vedrà meglio come – anche se, penso sia
ovvio, con l'aiuto della sua terapista). Non è facile,
ovviamente: non sto qui a dire quanto sarebbe stato ragionevole e
comprensibile per lei non farlo, lasciarlo andare. Tuttavia, decide di
dargli una seconda possibilità. (Si è capito che
non è tipo da seconde possibilità, ma
è un'eccezione.) In nome dell'amicizia che lei non credeva
reale, e che eppure è sorta fra loro, e perché
capisce la gravità del dolore che lui ha provato e di cui
è ancora preda. Erik meriterà il nuovo
trattamento? Sembra sincero nel non voler ricadere negli antichi errori
e mutato da allora, questo è certo.
Jessica24: Io sono lieta che tu mi
segua, allora, mia cara. Comunque sì, Erik già
prova, effettivamente, qualcosa per Meg – una certa
attrazione e una premura che la Laurent ha percepito. Ma, ancora meglio
(o peggio, dipende dai punti di vista), è Meg stessa che,
incredula, si sente disgustata dal fatto che proprio lei, prima della
confessione di Erik, stava “per…” per
innamorarsi di quest'idiota. Beh, non riesce a
razionalizzarlo né ad ammetterlo lei stessa. Era
probabilmente affascinata dal misterioso genio mascherato, ma ora il
loro rapporto muterà, poiché la maschera
è caduta e lei ha conosciuto il suo vero volto (anche
figurativamente). L'idillio si trasformerà in
“vero amore” (cavolo, sembra la
pubblicità di una soap opera)? Tu che ne pensi? :) Un bacio,
e grazie per la recensione! <3
|
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Capitolo 8 *** viii. ***
viii.
L'estate si avvicina,
ma Erik non avverte la calura insopportabile delle giornate nella
polverosa città. Ha installato in casa un sistema di
condizionatori che fa circolare aria fresca in ogni stanza,
così che possa indossare le sue camicie senza scoprire le
braccia livide e ossute, i tendini nervosi sotto la pelle, le
cicatrici. Tuttavia, Meg gli svela i polsi con gentilezza inusitata da
parte sua, un giorno che sono stravaccati sul divano a divorare la
prima stagione de Il trono
di spade.
«Queste cosa
sono?» chiede lei in un sussurro, quasi si aspetti che
l'altro non le risponda. Erik emette un sospiro. L'ora delle mascherate
è finita.
«Quando vidi
per la prima volta il mio volto allo specchio… lo ruppi in
mille pezzi. I cocci infranti si conficcarono nella pelle tenera di un
bambino di sei anni che era dissimile da chiunque altro.»
Distorce le labbra bianche in un sorriso sghembo, per dissimulare il
dolore che quel ricordo ancora gli provoca. Fu sua madre a portarlo
davanti allo specchio, infuriata perché lui faceva i
capricci come un normale bambino di sei anni al quale
viene imposto di indossare una maschera giorno e notte. Eccolo, il
vero motivo per cui devi indossare la maschera!, aveva urlato sua madre tra
le lacrime. Il grido straziante che riecheggiò nella stanza
— l'unica in casa ad avere uno specchio, e il cui accesso
pertanto gli era stato proibito fino a quel momento —
proveniva però dalla gola di Erik. Quest'ultimo
impiegò un po' a capire che era lui ad emettere quel suono
angosciante, animalesco. Tanta vita
e tanta morte in una sola voce, in un solo viso…
«Tua madre
ti ha fatto questo?» chiede Meg con incredulità e
un cipiglio poderoso. Erik incrocia le braccia al petto, scostandole
dalla presa delicata di lei.
«Mia madre
aveva paura. Voleva amarmi, ma non sapeva come… Non riusciva
neanche a guardarmi in volto.» Sospira e si massaggia le
tempie. «Una volta mi disse che mi odiava. Che le avevo
rovinato la vita. Non so se mio padre sarebbe stato diverso, se mi
avesse allevato lui. Non l'ho mai conosciuto. È morto prima
della mia nascita… Non ha mai visto quel che ha…
generato.»
«Che ne
è stato di lei? Di tua madre?»
«Dopo la mia
sfuriata alla notizia della morte di Sasha, il mio cane e unica amica,
il sacerdote del paese le disse che probabilmente ero indemoniato e che
mi serviva un esorcismo. La rabbia che contenevo nel mio petto era
disumana, a quanto pareva. Il dottore disse che dovevo essere portato
in un istituto di igiene mentale il più presto possibile,
prima di avere altri scatti feroci e fare del male a qualcuno, o anche
a me stesso. Avevo otto anni e un intelletto di gran lunga superiore
alla norma. Questo spaventava e sbalordiva mia madre, che diede retta
ad entrambi i consiglieri.»
«Fammi
capire: ti hanno fatto un esorcismo?» Meg è
più che perplessa, ora: è sgomenta, arrabbiata.
Era il 1977, non il Medioevo. Ma Erik viveva in un paese di campagna
abitato da poche anime, e il pregiudizio lì era assai
più radicato che nella moderna Parigi.
«Non fu
nulla di speciale, comunque, e ovviamente non funzionò. Ero
seduto su una sedia mentre il prete borbottava frasi in latino che io
riuscivo a intendere benissimo, dal momento che avevo appreso quella
lingua morta, così come il greco antico, da solo.»
«Da solo? A
quanti anni, hai detto?»
«Incominciai
a studiare a cinque anni.»
Meg sbatte le
palpebre. «Cazzo. Voglio dire… Non perdi mai
l'occasione, vero?»
«Per
cosa?»
«Per
provarmi il tuo genio. Guarda che non mi seduci tanto
facilmente.»
«Non
è mia intenzione.» Erik arrossisce mentre Meg se
la ride maliziosamente, la dannata. Ma se la diverte…
«Scusami.
Continua, comunque.»
«Così
fui mandato in manicomio per una deliziosa vacanza. Da quel giorno non
vidi più mia madre. Dopo che mi ebbero
“curato”, per così dire, divenni una
sorta di morto vivente. Solo la musica e l'arte mi risvegliavano, e
pian piano ritornai alla vita… Se di vita si poteva parlare.
Non ebbi più notizie di mia madre. Liberarsi di me deve
essere stata una gioia, per lei.»
Meg ha uno sguardo
vitreo negli occhi, quasi non fosse proprio lì, ma altrove,
in un luogo a cui non appartiene. Erik la osserva e ha il coraggio di
sfiorarle una spalla nuda (anche con il condizionatore, Meg
percepisce gli effetti disturbanti della calura estiva e indossa un top
— nero — minuscolo che mette Erik molto a disagio.
Ha troppa pelle scoperta per non farlo arrossire).
«Cosa pensi,
mia cara?»
«Già
con i nomignoli? Non abbiamo neanche superato la prima frase della
nostra relazione.»
«La
smetti?»
Lui scuote il capo
mentre lei ride con la sua voce roca e bassa che gli fa venire i
brividi. E non perché assomiglia
a quella di una cornacchia.
«Come vuoi
che ti chiami? Tesoro?»
«Finiscila.
Non hai risposto alla mia domanda. A cosa pensavi?»
Meg si fa
immediatamente più seria, le pupille dilatate da…
è paura, quella? Erik si rabbuia: non vuole vederla sul viso
di quella ragazza, mai. Fa troppo male.
«Penso
che… se Dany fosse nata…
insomma…»
«Deforme?»
suggerisce lui.
Meg annuisce.
«Mi chiedo se avrei avuto il coraggio di amarla lo
stesso.»
Bella
domanda.
Erik medita bene prima di parlare. «Sei una buona madre,
Meg.»
«E questo da
cosa lo deduci?»
«Dal modo in
cui parli di tua figlia. La ami incondizionatamente. Perciò
non torturarti con domande che non hanno fondamenta nella
realtà.»
Meg annuisce,
rasserenata. «Vero.» Si rannicchia sul divano,
vicinissima a lui, guardando la Dany sullo schermo mormorare l'iconica
frase: “Non era un
drago. Il fuoco non può uccidere un drago.” Erik decide che
alla fine della prima stagione comprerà l'intera saga di
libri, e gli piacerebbe leggerli con Meg — in quella
posizione, magari: la testa di lei appoggiata alla spalla ossuta di
lui, pelle contro pelle. Sì, crede che potrebbe piacergli. E
questo non va affatto bene. Non va bene per niente.
Scena
V.
[ Solito
studio medico. Due donne si fronteggiano. ]
MEG: (a gambe
divaricate, il desiderio di fumarsi una sigaretta che le prude sulla
lingua)
Non credo si perdonerà mai per ciò che
è stato, ma… non è un mostro
spaventoso. È solo un uomo profondamente ferito, ed
io… Dopo aver visto la sua faccia, ho capito.
DOTTORESSA LAURENT:
Cosa?
MEG: Il
perché… del suo comportamento passato. Il
perché di tutto. E non lo odio, non riesco a odiarlo. L'uomo
che è stato un sicario, un mercenario, quello…
non è più lui. Ho tanta rabbia dentro di
me, ma verso l'altro.
DOTTORESSA LAURENT:
Non potresti comunque odiarlo più di quanto lui odia se
stesso.
MEG: Quello che gli
hanno fatto è mostruoso, e ha generato un mostro. Ma si
può amare un mostro?
DOTTORESSA LAURENT:
Solo se sei un po' mostro anche tu.
(Meg,
esitante, respira piano.)
DOTTORESSA LAURENT:
Ancora non lo sa, vero?
MEG: No, non gliel'ho
ancora detto.
DOTTORESSA LAURENT:
Non voglio costringerti. La decisione spetta a te.
MEG: Ne sono
consapevole. (La voglia
di sigarette si fa più prepotente.)
Note
dell'Autrice:
Ecco il nuovo capitoletto! È più di passaggio che
altro, ma ugualmente importante: da qui in avanti ci saranno alcune
scene più o meno “carine” che
consolideranno il rapporto tra i due idioti protagonisti, senza (spero)
togliere nulla ai progressi della narrazione.
Allora, che ne dite
– si capisce ora la ragione per cui Meg ha perdonato Erik per
il suo passato “discutibile”, vero? Spero di averla
resa chiaramente. Il motivo per cui voleva vedere il suo volto
smascherato era a causa del bisogno che sentiva di comprendere quanto
grave fosse la situazione, e quanto gravemente lo avesse influenzato.
(Non la sua faccia di per sé, ma come il mondo esterno
reagiva ad essa.) Non credo che Meg lo giustifichi, ma lo comprende
sicuramente, e il perdono da parte sua è qualcosa che
nessuno dei due si aspetta. Intanto passa un po' di tempo, torna la
familiarità tra loro, la confidenza, l'amicizia (e qualcosa
di più?). Nell'ultimo dialogo con la Laurent, si capisce che
c'è un segreto che Meg nasconde ad Erik, qualcosa del suo
passato che le pesa. Non è niente alla Carramba che
sorpresa, nel senso che i lettori della mia precedente fic, Mon couer,
avranno qualche idea al riguardo. In fondo, è una AU della
mia… AU. Sì, sono una nerd senza speranza.
Jessica24: Il finale di questa fic non
sarà neanche lontanamente tragico quanto quella della
precedente, rassicurati. Non sarà una passeggiata, ma da qui
in poi la storia assume una piega meno drammatica (gli ultimi capitoli
sono stati una svolta. E ti confesso che credo di averla scritta
proprio per riprendermi dalla tragedia che era Mon couer. Volevo che i
miei bambini fossero felici, per una volta. Fatemi sognare).
Sì, in
effetti quella scena assomiglia un po' a quella che porta al climax del
finale nel musical. Christine fa capire ad Erik che il problema non
è davvero la sua deformità e gli mostra
compassione – la prima volta che chicchessia si sia
disturbato a rivolgergli una simile cortesia. (Christine è
un angelo, dopo tutto quello che le ha fatto passare, soprattutto nel
libro, in cui – a mio dire – Erik è
ancora più terribile che nel musical…) Anche Meg
gli mostra compassione, in modo diverso, ma lo fa. Di questo gesto,
entrambi sono alquanto stupiti, te lo posso assicurare.
Un bacio, alla
prossima! <3
|
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Capitolo 9 *** ix. ***
ix.
Hanno finito di vedere la prima stagione de Il trono di spade
da un pezzo, ormai. Ora Meg sta cercando di indottrinarlo a Star Wars,
perché è impossibile che non abbia mai visto i
film e “quel figo di Harrison Ford nel Millennium
Falcon”. Motivo discutibile, ma Erik non si ritrae. Sa
perfettamente che non è la persona migliore con cui guardare
un film: fa commenti inopportuni e critica senza pietà i
difetti della regia, del cast, della sceneggiatura e tutto il resto
della produzione. Meg lo colpisce almeno dieci volte con un cuscino per
intimargli il silenzio, ed Erik alla fine acconsente, vagamente
divertito. Non può non sentirsi un po' chiamato in causa
quando scopre che il villain
della storia, Darth Vader, indossa una maschera che non gli consente
solo di respirare, ma anche di celare il suo volto sfigurato. (E ha una
preferenza per il nero; e per strangolare la gente; e alla fine viene
redento da un atto di compassione.)
Le lezioni di pianoforte procedono con rassicurante
tranquillità: non mancano i frequenti battibecchi, ma ormai
sono più un gioco che altro. Una volta si sono sfidati per
vedere chi era il migliore a insultare l'altro.
«Imbecille.»
«Cretino.»
«Nana.»
«Cadavere putrescente.»
«Piccola teppista punk–rock.»
E così via. Indovinate chi ha vinto.
Suonano alla porta. Erik non si allarma, perché
c'è una sola persona che viene a trovarlo quel giorno, alla
solita ora. Solo che questa volta si ritrova ben due individui
nell'atrio. Meg e…
«Questa è Dany.» La giovane fa un lieve
cenno alla bambina dai fitti ricci neri e la pelle più scura
di quella della madre nascosta dietro le sue gambe.
Erik la guarda, perplesso. È una splendida bambina, con gli
occhi neri e le ciglia lunghe di Meg.
«Avanti, Dany. Non fare la timida.»
La piccola avanza a passi lenti, poi compie un gesto inaspettato: un
sorriso le distende i lineamenti paffuti e corre verso Erik,
abbracciandogli una gamba. Erik è talmente stordito che non
riesce a proferire parola, mentre Meg sghignazza allegramente, come se
ci fosse qualcosa di divertente
in quella scena.
«É una tua grande ammiratrice. Si addormenta solo
dopo aver ascoltato una delle tue composizioni.»
La bambina rilascia la morsa sulla sua gamba — non gli arriva
neanche alla vita — e sorride, rossa in volto:«La
mia preferita è Nenia
di mezzanotte.»
«Oh.» A questo, Erik non sa cosa ribattere.
È stato riconosciuto che, effettivamente, la sua voce
d'angelo calma gli spiriti più inquieti, soprattutto quelli
dei bambini. Altre composizioni, come il Don Giovanni Trionfante,
registrato in studio da Christine Daaé in persona e da Erik
stesso nel ruolo del protagonista maschile, smuovono gli animi della
folla come neanche la tragedie di Puccini e Verdi.
Un alone di mistero lo avvolge, poiché nessuno conosce il
viso del genio — è stato Erik ad assicurarsene.
Dany è la prima piccola fan che incontra a tu per tu, e
questo lo rende lievemente nervoso.
Si china sulle ginocchia per non guardare la bambina dall'alto in
basso: adesso i loro occhi sono sullo stesso piano, e Dany,
più che spaventata, sembra catturata da quelli dorati di
lui.
«Lieto di conoscerti. Io sono Erik.»
«Sì, lo so. Me lo ha detto la mamma.»
Appare rapita dalle lucciole che sono gli occhi di lui, ma non cerca di
sfilargli la maschera. Meg deve averle inculcato nella graziosa
testolina riccia tutta l'educazione di cui la madre è
sfortunatamente priva.
«Ho sentito la tua musica. Canti come un angelo.»
Siete voi il mio angelo,
Erik. Per lui quelle parole — demonio ed
entità divina — si giustappongono da una vita
intera.
«Ti ringrazio.»
La invita a seguirla in cucina, dove le offre i biscotti glassati e gli
amaretti che gli piacciono tanto — e di solito è
molto schizzinoso in materia di cibo — e la guarda ingozzarsi
allegramente in un modo che tanto somiglia a quello della madre.
È il turno di Meg, ora. «Scusami se non ti ho
avvisato prima» dice sottovoce mentre la piccola si abbuffa.
«Mia madre aveva un impegno, e in questo caso è
Luc che bada a lei, ma oggi non poteva — virus influenzale
— e io non sapevo cosa fare. Così l'ho portata qui
stasera. E ho anche una sorpresa» aggiunge con un cenno alla
borsa che indossa a tracolla sulla spalla, ma non dice altro.
«Chissà cosa ci sarà lì
dentro. Devo preoccuparmi?»
«Dipende. Che ne dici di un'altra serata–maratona
di film?»
Erik sbatte le palpebre. «Dipende dai film.»
Il sorriso malizioso sul volto di Meg non lo rassicura.
Accompagna le sue ospiti nella sala della musica, dove Dany
è invitata a sedersi su una poltrona e ad assistere in
silenzio alla lezione di pianoforte. Erik è stupito dalla
calma della bambina, rammentando quanto anche lui, alla sua
età, fosse affascinato dalla musica a tal punto da rimanerne
incantato e ammutolito. Ma in fondo è sempre stato taciturno.
Meg suona molto bene, quell'oggi — si vede che si
è esercitata, ed è da quando conosce la
verità su di lui, sul mostro che egli è, sia
fuori che dentro, che fa pratica con maggiore serietà. Forse
vuole compiacerlo, in qualche modo, o è una questione di
orgoglio: desidera mostrargli a che livello può arrivare,
che può superare l'ombra mai tramontata del padre suicida.
Quando la lezione è conclusa, è la piccola Dany
ad avanzare una proposta. «Monsieur
Erik…»
«Chiamami pure Erik. Non sono ancora così
vecchio.»
Le labbra di Meg si aprono in un sorrisetto. Dany congiunge le manine
in segno di preghiera.
«Puoi cantarmi qualcosa? Qualsiasi cosa. Così
quando papà non ha più l'influenza posso vantarmi
di averti sentito cantare dal vivo.»
«Ah, è per questo, allora?» Erik lancia
un'occhiata a Meg, che si tiene lo stomaco nel tentativo di non ridere. È decisamente sua
figlia.
«Ogni tuo desiderio è un ordine,
principessa» dice lui alla fine, con voce profonda,
esibendosi in un lieve inchino. Dany arrossisce e batte la manine,
eccitata.
Meg e la figlia sono di fianco al pianoforte, e lui si siede sullo
sgabello, regolandone l'altezza — è troppo
allampanato perché possa stare comodo sullo stesso livello
della sua allieva.
Canta una rilassante aria di Händel che tende le corde del
cuore di chi ascolta, ipnotizzato da tanta bellezza. Cessa di suonare
con un ultimo accordo e poi si rivolge alle sue giovani spettatrici.
Dany ha le guance striate di lacrime e sembra sul punto di mettersi a
piangere di nuovo — non per tristezza, ma per meraviglia; Meg
ha gli occhi lucidi ed è un tantino più rossa in
volto del solito. Entrambe sembrano riprendere il controllo delle
proprie facoltà mentali quando lui chiude la bocca.
«Che bello» sospira Dany, scuotendo i riccioli neri
— deve averli ereditati dal padre.
«Non montarti la testa, Danton» lo avvisa Meg, ma
oltre il suo tono minaccioso riposa un sorriso. Erik lo contraccambia,
ma ancora per poco.
Sono stravaccati sul divano del salotto — Dany
però è stesa sul morbido tappeto persiano
— a guardare cartoni
animati. Ebbene sì, Meg ha tutta l'intenzione
di far recuperare un po' della sua infanzia perduta ad un Erik assai
riluttante, e solo il sorriso entusiasta di Dany ha impedito che
trasportasse di peso la giovane madre fuori da casa sua, su quella sua
infernale motocicletta.
La maratona è di film della Disney, adesso, iniziando da Biancaneve e i sette nani
e finendo con Frozen.
Impiegano giorni per terminarla, se non addirittura un paio di
settimane, ma secondo Meg ne vale la pena, anche solo per vedere Erik
commuoversi durante la scena finale de La Bella e la Bestia.
«Ti sei commosso.»
«Stai vaneggiando.»
«Quindi ti piace.»
«Non puoi presumere nulla del genere.»
Dany diventa una ospite abituale in casa Danton, ed Erik si premura
sempre di farle trovare caramelle e dolciumi (tutti scelti con
minuziosa arte da un'esperta come Giovanna, che talvolta prepara anche
torte, biscotti e pasticcini e non può non essere lieta che
il suo padrone stia mettendo su un po' di peso) che può
sgranocchiare felicemente mentre guardano tutti insieme l'ennesimo film
firmato Disney.
Alla fine, Dany si addormenta sul tappeto e Meg è costretta
a svegliarla con la maggiore dolcezza possibile, per quanto sia
risaputo che la ragazza ha la grazia di un elefante — eccetto
che sul palco e con le scarpette da ballerina ai piedi, il posto a cui
appartiene, dove il brutto anatroccolo diventa cigno. È
mezzanotte quando se ne va. Erik le osserva allontanarsi in sella alla
Harley Davidson (si è premurato che anche Dany indossasse un
casco appropriato) e, di nuovo, ha trascorso una serata piacevole come
lo sono state poche nella sua bistrattata esistenza. Spera di non avere
incubi, quella notte, ma qualcosa gli dice che non ne avrà
per un po'.
Non sente i commenti di madre e figlia sul selciato di casa Danton.
«Lui mi piace» sussurra Dany all'orecchio di Meg,
quasi tema che l'interessato possa ancora sentirla.
«Piace anche a me» risponde l'altra, e si guarda
alle spalle un'unica volta. Basta per farle capire che non vuole mai
più non
rivedere un certo viso mascherato. Mai più.
Scena VI
MEG: Secondo voi è normale voler trascorrere intere serate
con un uomo deforme di mezza età, con un cervello grande
quasi quanto il suo spropositato ego, a guardare film della Disney?
DOTTORESSA LAURENT: (sorridendo)
Quali sarebbero le altre opzioni?
MEG: Non so. Cosa fanno le persone alla mia età? Io
già lavoro in una prestigiosa compagnia di ballo, non posso
desiderare di più. Ho una figlia meravigliosa, una madre che
mi adora, ma non tanti amici, a parte Luc — so che di lui
posso fidarmi — e pochi altri. Insomma… me la
cavo. E dopo quello che ho passato, questo è il periodo
migliore della mia vita, e confido che il futuro sarà anche
migliore.
DOTTORESSA LAURENT: Ti vedo molto ottimista oggi, complimenti.
MEG: (sbuffa)
Effetto delle medicine.
DOTTORESSA LAURENT: Sicuramente aiutano. Ma qualcosa è
mutato dentro di te. É un progresso naturale.
MEG: Non riesco a stare lontana da lui. Dovrei farlo, forse…
Ha vent'anni più di me, è palesemente
problematico, ha subito non so quanti traumi in vita sua, ha una faccia
orripilante e a volte vorrei colpirlo in testa a badilate,
ma… è anche la persona più
straordinaria che abbia mai conosciuto. E non voglio perderlo. Non
voglio perderlo.
Note dell'Autrice:
Salve a tutti! Rieccomi con un nuovo aggiornamento, come ogni
giovedì, di questa storia modesta e senza pretese, ma che
spero sia almeno simpatica. Sia Erik che Meg sembrano... il termine
inglese sarebbe smitten. A quando la collisione? E cosa
accadrà a quel punto? Continuate a leggere e lo saprete.
Alla prossima!
P.S. Se vi piacciono le avventure di questi due matti e il modo in cui
li caratterizzo, ho pubblicato altri due miei piccoli lavori (io li
chiamo “le mie sciocchezze”, alla Jo March) qui su
EFP. Uno è ambientato nel mondo del musical – una
novità per me – quindi a qualcuno dei miei
più vecchi lettori potrebbe interessare…? Non
sentitevi in obbligo.
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Capitolo 10 *** x. ***
x.
Sono impegnati nelle
loro abituali conversazioni notturne — prima di andare a
dormire, Meg lo chiama regolarmente per augurargli la buonanotte via
Whatsapp e tutte quelle altre diavolerie tecnologiche che lo
affascinano così tanto. Il mondo è pieno di
possibilità ancora sconosciute, e lui vorrebbe divorarle tutte, inghiottirle per
intero, ma è solo un granello di sabbia nell'universo, con
una voce da far piangere gli angeli.
«Cantami la
canzone di Frozen.»
«Dio,
no.»
«Dai, Facciamo
un pupazzo insieme.
C'è Dany qui che vorrebbe tanto sentirla e fare la parte di
Elsa.»
«Ciao,
Erik!»
«Ciao,
principessa. Meg, devo proprio?»
«Dany ci
tiene.»
«Oh, per
l'amor del cielo…»
«Dai, dai,
dai, dai, dai, dai, dai…»
«E va bene.
Dovrò mettere da parte la mia dignità.»
Una pausa.
«Sei
già sveglia oppure dormi…?»
Meg infila le sue cose
nella borsa — sempre di pelle nera, con lo stemma della
Harley Davidson cucito sul davanti — un po' alla rinfusa.
Erik la guarda meditabondo: non è attraente — non come
Christine, con i suoi boccoli biondi e i dolci occhi azzurri
— eppure… Più il tempo trascorre tra
lezioni di pianoforte e serate cinema (così le chiama lei),
più lui la trova… non ci sono parole.
Meravigliosa, forse? Sì, magari può andar bene.
Si accorge di ogni dettaglio: le fossette sulle guance quando sorride,
la frangia nera che le sfiora gli occhi, qualche cicatrice sul viso
— residuo di una pelle tormentata dall'acne giovanile
— i polsi ossuti da far paura… Gli piace
guardarla, anche se non è bella. Per lui lo è
più di qualsiasi altra cosa al mondo, adesso.
«É
da tempo che volevo chiedertelo.» Lei si volta e gli sorride.
O meglio, sogghigna, il che vuol dire che gli sta per proporre una
sfida.
«Dimmi
pure.»
«Suoni tanti
strumenti, giusto? Ma non ti ho mai sentito suonare la chitarra
elettrica.»
Ecco. Questa sarebbe
una sfida da lei.
«In effetti,
ora che ci penso, in certe mie composizioni ho usato la chitarra
classica, mai quella elettrica.»
Meg fa un cenno
eloquente con le piccole dita. «Mi faresti sentire qualcosa?
Dopo il pianoforte, è il mio strumento preferito.»
«Non temi
che mi monti la testa, Giry?»
Meg ride.
«Più del solito?»
Le labbra di Erik
— o quelle che dovrebbero essere labbra sul suo viso morto
— si distendono in un sorrisetto. Tira fuori la Fender
Stratocaster dalla sua apposita custodia, appartata in un angolo della
sala della musica, e la sfiora con mani delicate. Meg la guarda con
occhi come piattini mentre Erik comincia ad accordarla.
«Cosa vuoi
sentire?»
«Mmm,
vediamo… Conosci Sweet
child o'mine
dei Guns'n'Roses? Ecco, l'assolo. Mi piace molto.»
«Sì,
la conosco. È piuttosto semplice. Non la ricordo bene,
però.»
«Non ho uno
spartito… Potrei cercare su Internet…»
Meg già tira fuori il cellulare.
«No,
aspetta. Non ce n'è bisogno.» Erik la ferma,
posandole una mano sul polso con gentilezza. La giovane sussulta al
tocco freddo e improvviso, e lui si ritrae subito, come sfiorato dal
fuoco.
«Fammi
ascoltare la canzone. Basta anche una volta sola.»
«Dici che
poi sapresti riprodurre l'assolo?»
Erik sogghigna.
«Mia cara, dimentichi con chi hai a che fare.»
«Sì,
e col tuo ego.» Meg sorride, e dopo aver armeggiato per un
po' col cellulare, gli fa ascoltare la parte interessante della
canzone. Erik stringe il plettro tra due dita e comincia a suonare.
Mozart e Beethoven non
mettevano la loro pazzia, la loro malattia nelle loro composizioni, nel
modo in cui suonavano; Erik sì. Ci mette tutto il dolore del
mondo, che si riflette nei suoi occhi d'oro rosso. È uno
spettacolo sempre stupefacente.
Alla fine, Meg rimane
a fissarlo a bocca aperta per qualche secondo. Ha la pelle d'oca e gli
occhi fuori dalle orbite, tanto è sgomenta. Si cimenta in un
applauso d'elogio che Erik accetta con un breve inchino.
«Grazie,
Madamoiselle.»
«Sei
straordinario, tu.» Lui sa di esserlo, ma il sentirselo dire
da lei lo fa arrossire come un adolescente in crisi ormonale.
È semplicemente ridicolo.
«Davvero,
perfino meglio che sentir suonare Slash in persona.
È…» A Meg mancano le parole. Scuote il
capo e i suoi capelli diventano ancora più arruffati.
«Per un vecchio, sei davvero rock.»
«Non sono vecchio.»
Lei ride, con la sua
usuale risata bassa e rauca. «Certo che
sì.»
Imbarazzante.
È terribilmente imbarazzante. Non ha altro commento a
proposito.
Si soffia quello che
dovrebbe essere il suo naso e si limita ad ignorare il contenuto
disgustoso nel fazzoletto. Terribile. Meg sta per arrivare e lui si
trova in quelle condizioni. Si lava la faccia e indossa nuovamente la
maschera — questa volta di un bianco porcellana immacolato.
Ha diversi assortimenti di maschere, e le crea tutte lui: è
un'artista anche in questo.
«Hai un
aspetto spaventoso. Beh, più del solito.»
«Grazie,
cara.» La fa entrare con meno cortesia dell'usuale e
starnutisce in una mano.
«Dio, dimmi
che non mi vomiterai addosso.»
«Perché
me lo dici?»
«Hai tutta
l'aria di uno che sta per farlo.»
In effetti, ha le
iridi cerchiate di rosso e un'aria febbricitante. Meg gli prende una
mano, delicatamente — è sempre attenta quando lo
tocca, perché sa che per lui il tocco è dolore
— e fa una smorfia, cogliendolo di sorpresa.
«Sei
bollente.»
«Ho un po'
di nausea.»
«Ti ho detto
di non vomitarmi addosso.»
«É
solo un semplice mal di testa.»
«No, hai la
febbre. Devi metterti a letto.»
«Sono
perfettamente in salute.»
«Sei
perfettamente stupido.»
Meg lo prende per un
braccio prima che possa cadere a terra e lo accompagna sul divano. Lui
le dice dove prendere le coperte — nell'armadio del
sottoscala — e il termometro, che lei gli infila in bocca
malgrado le sue attive proteste. Gli si siede accanto e sussulta quando
legge la temperatura del termometro.
«Trentanove
e mezzo. Ma sei un disgraziato.»
Erik sospira nella
coperta. Non può proprio nasconderle nulla.
«Dove sono
le medicine?»
«Chiama il
Daroga. Ce le ha lui.»
«Certo che
quell'uomo ti fa proprio da badante, non c'è che dire.
Dovresti pagarlo.»
«Credo tu
abbia ragione.»
E così Erik
assiste a una conversazione concitata tra il Daroga e Meg al telefono,
e lui che viene a visitarlo a casa. Entrambi lo guardano come se non
sapessero cosa fare.
«E
adesso?»
«Non so, in
vent'anni non è mai stato male.»
«Dovremmo
chiamare un dottore.»
Erik scuote il capo
con la forza che gli resta. È esausto, e sa che prima o poi
darà di stomaco (più prima che poi,
probabilmente). Preferisce farlo in assenza di Meg, però.
Per quanto riguarda il Daroga… già lo
ha visto vittima della sbornia. Non può essere tanto diverso.
«Sono io il
dottore di me stesso. Datemi un antibiotico e starò
bene.»
Dopo che si sono
accordati sulle cure da prestargli, il Daroga se ne va, non poco
preoccupato.
«Simpatico,
Nadir. E credo tenga a te più di quanto mostri.»
«Non
è davvero mio amico. È il mio badante, lo hai
detto tu.»
«Perché
tu non ti sei mai concesso altro.»
Meg si siede accanto a
lui sul divano, rimboccandogli le coperte come fosse un bambino
bisognoso di cure.
«Dovresti
andartene, Meg. Potrei contagiarti, e hai Dany a cui
pensare…»
«Dany
starà bene, alla larga da te per qualche giorno. Io non ti
lascio qui da solo. Non potevi avvisarmi e rimandare la lezione,
dicendo che ti sentivi male?»
Erik arrossisce dietro
la maschera. La verità è che voleva vederla a
qualunque costo, anche quello di farsi venire la febbre. Per fortuna
Meg non aspetta davvero una sua risposta e si limita a scostargli dalla
fronte una ciocca di sottili capelli neri.
«Sei proprio
un irresponsabile… Un bambino. E poi pretendi che prenda
direttive da te? Ma per favore.»
«Hai finito
di insultarmi?»
«Toglimi una
curiosità. Come fai a starnutire?»
«Cosa?»
«Senza naso.
Come fa a…?» Meg fa un gesto eloquente e poi
scoppia a ridere, vedendo l'espressione offesa negli occhi di Erik.
«Maledetta
ragazza, non smetti mai di prendermi in giro. Non hai pietà
di un moribondo?»
«Non avevi
detto di stare benissimo?»
No, ma la
verità è che si gode le sue cure improvvisate. E
la sua nuova infermiera.
«Allora
resta. E raccontami qualcosa di interessante.»
«Per
esempio?»
«Lavora un
po' di fantasia.»
Meg si morde un
labbro, dopodiché il suo volto si illumina. «Sai
che, da bambina, ho preso anche lezioni di chitarra?»
«Non ti
offrirò altre lezioni gratis, se è questo che
intendi.»
«No,
cretino. Dovevo esibirmi in questo concerto a scuola, con altri
marmocchi. Avrò avuto nove anni. Non vidi mio padre tra il
pubblico — mi aveva promesso che sarebbe venuto — e
mi arrabbiai tanto che improvvisai un assolo davanti a tutti.»
«Dio, no. E come
andò?»
«Malissimo.
Alla fine avevo le lacrime agli occhi e per poco non sfasciai la povera
chitarra in testa all'insegnante.»
«Che
blasfemia sarebbe stata. Che ti aveva fatto quel povero
strumento?»
«Non era
bastato. Papà non era venuto a vedermi neanche al concerto
della scuola. Di nuovo.»
«Di
nuovo?»
«Qualche
volta si è assentato a qualche mio saggio di danza, alla
scuola di mia madre.»
«Oh. Mi
dispiace.»
«Anche a
me.»
Un attimo di silenzio.
«Meg, io so
perché tuo padre è morto. Stava male, molto male.
Era per questo che non assisteva ai tuoi saggi, qualche
volta?»
Lei sospira.
«Sì, e io lo sapevo. Mi arrabbiavo lo stesso,
allora, ma dopo ho imparato a non fargliene una colpa. Non lo voleva
davvero. Semplicemente non era in grado… di recitare il
ruolo del mio papà, in quei momenti.»
«Quanti anni
avrebbe avuto adesso?»
«Come mia
mamma. Cinquantacinque.»
Erik sospira di
sollievo. Almeno era più vecchio di lui. Se avesse avuto
l'età del padre di Meg… Imbarazzante. E
inappropriato.
Ma tanto cosa gli
importa? Non è come se…
Meg gli scosta
un'altra ciocca di capelli dalla fronte e lui ha un brivido. Gli
rimbocca di nuovo le coperte.
«Riguardati,
Erik. Non far preoccupare i tuoi fan.»
«I miei fan
non sanno nemmeno che faccia abbia.»
«Non ne
abbiamo mai parlato, ma secondo me dovresti uscire allo
scoperto.»
«Sei
impazzita? Per farmi trattare di nuovo come un fenomeno da baraccone?
No…»
«Non
è detto che ti trattino così. Christine non l'ha
fatto. Io non l'ho fatto. E neanche Nadir. Una faccia conta fino a un
certo punto. Immagino che non potrai mai fare
l'attore…»
«Meg.»
«…
o il modello…»
«Meg.»
«Ma il genio
della musica sì.»
«Questi non
deve per forza avere un volto.»
«Certo che
sei cocciuto.» Gli dà un buffetto su una guancia
mascherata.
«Chiamami
quando starai meglio. O peggio.»
«D'accordo.»
La vede raccogliere le
sue cose e andarsene. Vorrebbe dirle di restare, ma davvero non ci
sarebbe motivo. Perché dovrebbe volerlo? Sì,
perché mai?
Note
dell'Autrice:
Ehilà, rieccomi con un nuovo aggiornamento. Ora, immaginate
Erik canticchiare Facciano
un pupazzo insieme.
Scoppio a ridere di cuore solo al pensiero, pff. A quanto pare
è davvero preso da Meg… Peccato che sia troppo
ottuso per capirlo (per ora). Quanto durerà questa impasse?
Non chiedetemi
perché proprio i Guns'N'Roses. Ho una fissa per Sweet
Child O'Mine,
sono molto affezionata a quella canzone. Solo che non capisco nulla di
chitarra – suono il pianoforte, non la chitarra –
quindi quando dico che l'assolo è semplice, intendo dire che
lo è per Erik, alias il Mozart degli anni 2000.
Probabilmente si potrebbe pensare che un uomo dai gusti raffinati come
lui non possa apprezzare la musica rock, in special modo l'hard rock o
l'heavy metal (da vedere come fa lo snob con Meg all'inizio della loro
stramba amicizia), che non possa considerare la musica moderna come
“vera musica”. In parte sì, è
tanto altezzoso da considerare poche cose come vera musica –
pensate a come parla di opera a Christine nel libro – ma
personalmente credo che sarebbe molto curioso nei riguardi di ogni
genere musicale. Nell'800, Erik aveva un impianto di riscaldamento
elettrico sottoterra e aveva costruito un automa per lo Shah di Persia
– è chiaramente un uomo proiettato nel futuro. O
almeno, lo è la sua mente.
A proposito, ho
pubblicato una nuova fic – sempre E/M – ispirata da
un prompt inviatomi da un'amica straniera su Tumblr. È una
breve One Shot, se avete voglia fate un salto nel mio account e
leggetela. Magari vi divertirà. È
stato… un esperimento particolare.
P.S. Da notare che
Erik si preoccupa della chitarra, non della testa dell'insegnante su
cui Meg quasi la sfascia. Tipico.
Elisagemma: Oh, una nuova lettrice! Che
bello! Grazie per i complimenti. *arrossisce* Sono lieta che
“le mie sciocchezze” ti piacciano. No, sono davvero
sciocchezze, ma l'amore che ho per questi personaggi mi porta a
condividerle. Felicissima che qualcuno apprezzi!
E chi smette di
scrivere su Erik? Continuerò a tormentare questo sito fino
alla sua (o mia) fine! Spero che mi seguirai, e di non ammorbare troppo
nessuno.
Un bacio anche a te!
<3
|
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Capitolo 11 *** xi. ***
xi.
Trascorre una settimana prima che si possa sentire meglio, ma una settimana senza vedere Meg già gli basta. La lascia in pace, più che altro, sempre timoroso di disturbarla; è lei a contattarlo per prima su WhatsApp o tramite cellulare, e riesce anche ad avere i saluti di Dany e Madame Giry. Forse appare un po' più freddo del necessario, ma davvero non può permettersi di cadere nell'abisso; c'è di mezzo il suo cuore, e probabilmente la sua salute mentale. Non sopporterebbe un altro colpo: magari vederla sistemarsi con qualcuno come Luc – qualcuno di normale, giovane, che possa renderla felice… E sa che non farebbe nulla per impedirglielo, che non commetterebbe mai, mai più gli stessi sbagli che ha fatto con Christine, anzi. Soffrirebbe se lei non lo volesse più, certo, ma non si opporrebbe. Qualsiasi cosa per renderla felice.
Un'improvvisa scampanellata lo avverte di un ospite casuale. Deve essere il Daroga, perché chi altri, con quella pioggia…
«Meg?»
É infangata dalla testa ai piedi, i capelli madidi appiccicati al cranio e alla fronte bassa, vestita interamente di cuoio nero, dalla giubba agli stivali aderenti. La moto prende acqua in un angolo del selciato. Ha il viso incupito, gli occhi cerchiati di nero, tempestosi, e l'aria di una a cui farebbero bene un bel bagno caldo e un sorso di camomilla.
«Ma che diavolo…?»
«Scusa se mi presento da te in questo modo» dice lei con la voce arrochita dalle sigarette. Sa che non deve fumare, soprattutto perché è una ballerina, ma gliel'ha già detto, non riesce a smettere.
«Entra. Gesù.»
La fa accomodare in casa senza più invocare il Padre Eterno e non le toglie gli occhi di dosso mentre gli cosparge il pavimento di orme di fango. Solo allora, guardandola bene in volto alla luce elettrica dei neon, si rende conto che ha le iridi cerchiate di rosso e il trucco – la solita matita nera – sciolto sulle palpebre, come se avesse pianto. O come se si fosse gettata un secchio d'acqua in faccia, ma quello è meno probabile.
«Cos'è successo? Cosa c'è che non va?»
«Scusami, io…» Si guarda attorno, per un attimo disorientata. «Scusami.»
«Figurati. Che cos'hai? Perché sei qui? Non che mi dia fastidio, ma…»
«Devo parlarti. Posso farmi una doccia, prima?»
«Certo. Sai dov'è il bagno.»
Erik la guarda fare ciac ciac con gli stivali fino al piano di sopra. È confuso, ma soprattutto preoccupato. Cosa ci fa Meg in casa sua, bagnata fradicia, a quell'ora della notte?
È in cucina a prepararle un tè quando sente dei passi felpati avvicinarsi – nessuno può imbrogliare il suo udito da cane – e per poco non fa cadere la tazza a terra quando la vede avvolta solo in un asciugamano, pulita ma fradicia, sulla soglia della cucina.
Santo cielo. È così poco vestita che si scherma gli occhi con una mano – da gentiluomo qual è, gli viene naturale.
«Sì, il tuo fare da gentleman è apprezzato, ma in questo momento non mi serve» risponde lei, mordace ma divertita. «Come vedi, sono compromessa. Sai dirmi dove sono dei vestiti puliti senza fare gesta inconsulte, o…?»
«Sei sicura di non aver organizzato questo bello scherzetto appositamente per mettermi in questa situazione?»
«Quale situazione?» Lei sbatte le palpebre con fare incolpevole.
«Questa.» Lui indica entrambi: lei mezza nuda, lui imbarazzato a morte. Lei scoppia in una risatina diabolica. «Solo un pochino. Volevo vedere che faccia facevi – beh, non facevi, vista la maschera… Ah, non fare il guastafeste, Erik.»
«Sei una peste. Dovrei lasciarti lì a morire congelata. Ma dal momento che non voglio ragazzine mezze nude in giro per casa…»
«Ehi, non sono una ragazzina. Sono una donna fatta.»
«Sì, sì, come vuoi» dice mentre le fa segno di seguirlo di sopra – si sta ancora schermando gli occhi.
«Scusa, sarebbe stato più facile per te se mi avessi visto come una donna adulta e non una specie di bambina troppo cresciuta che per caso ne ha partorito un'altra?»
No, mi avrebbe fatto impazzire. Ma lascia questo dettaglio al silenzio.
«Ehi, pretendo una rispos–…»
Lui fruga nell'armadio della stanza degli ospiti, trova una camicia e una felpa vecchie e gliele caccia in mano, sempre gli occhi chiusi a metà.
«L'asciugacapelli è nel cassetto del bagno a sinistra. Quello in basso. Riscaldati per bene, poi ci tocca una bella chiacchierata. Voglio sapere perché mi hai inzaccherato di melma l'atrio e il corridoio. E la prossima volta presentati al mio cospetto con dei vestiti addosso. Chiaro?»
«Sì, mon capitain» scherza lei, esibendosi in un saluto militare. Ma questo le fa cadere di dosso l'asciugamano sottile che la copre ed è in quel momento che lui, con un gemito d'orrore, si allontana giù per le scale mentre la risata di lei gli rimbomba nelle orecchie.
Diabolica peste. Quella è la figlia del demonio, non c'è che dire.
Quando ricompare in cucina, vestita e asciutta, sembra molto più calma. E più triste. Tutta la sua spavalderia è svanita, come risucchiata da un male innominabile che le tempesta il cervello. Erik ne aveva il sospetto già da un po', ma ora ne ha la conferma. Non sa a che livello si sia spinto il suo male, però.
«Grazie» sussurra lei di rimando quando lui le porge la tazza di tè caldo. Si siedono entrambi sul divano, lei sorbendo lentamente la bevanda rovente, lui che la osserva di sottecchi. Ora che è vestita – la camicia e la felpa le arrivano alle ginocchia, e ci crede, visto che sono sue – è molto più semplice.
«Scusa per il fastidio.»
«Figurati.»
«No, davvero, so che è un fastidio. Credi che Nadir mi abbia visto dalla finestra della casa vicina?»
«Non pensavo ti interessasse il giudizio degli altri.»
«Solo di alcuni.»
«Non preoccuparti, il Daroga non ti giudicherebbe comunque. È il mio badante, lo hai dimenticato?»
Lei scuote il capo. «Piombarti qui in casa conciata in quel modo… Sembravo uscita da una piovosa corsa clandestina di motociclette. Se solo Dany mi avesse visto…»
«Non ti ha visto, spero.»
«No. È per questo che sono venuta qui. Quando sono così, lei non mi deve vedere. Assolutamente. La spaventerebbe. Mi scambierebbe per un fantasma…»
Un fantasma… pensa quietamente Erik. Ha qualcosa di ironico e triste al contempo, che abbiano quell'aggettivo in comune.
«Sono il fantasma di me stessa. Non so che fare.» Lei poggia la tazza sul tavolino e si stringe le ginocchia al petto, il viso tirato e teso. Lui vorrebbe farle una carezza – qualsiasi cosa per tranquillizzarla – ma non si muove. Con il tocco, non ci sa fare. Non sa curare nemmeno se stesso, figuriamoci gli altri.
«Non ti ho detto una cosa. Solo mia madre lo sa, e un paio di persone… Luc, tra gli altri. Qualche mio vecchio insegnante di scuola. La mia terapista mi ha consigliato di rivelartelo, se volevo, poiché tu mi avevi detto tanto di te, del tuo passato… Così saremo stati pari. Ma non ne ho avuto il coraggio… Finora. Oggi è quel giorno.»
Erik aggrotta la fronte dietro la maschera, in attesa di ulteriori spiegazioni. Lei affonda di più nel sofà.
«Mio padre è morto oggi, tredici anni fa. Sai come.»
Lui annuisce, ancora vigile.
«É il giorno in cui sono morta anch'io. O almeno… la mia infanzia è morta. La mia innocenza.» Lo guarda con occhi grandi e lucidi. «Avevo dieci anni. Lui stava male da un bel po'… Un male che si portava dietro da secoli, a quanto pare. Mal curato. Soffriva tantissimo… Si è rinchiuso di sua volontà in un istituto di igiene mentale, lo sapevi?»
Lui annuisce ancora.
«C'erano notti in cui era in preda alla mania più sfrenata e suonava il pianoforte per ore. O meglio, ci strimpellava sopra. E giorni in cui non riusciva ad alzarsi dal letto. Sentiva delle voci e vedeva delle cose che non esistevano. Era spaventato a morte.» Meg si scosta una ciocca di capelli dalla fronte. «Lo hanno ucciso. I dottori, intendo. Per anni sono stata sicura che la colpa fosse loro. Che fosse loro il biasimo se si era…» Prende un respiro profondo e prosegue. «Non è proprio così. Mio padre ha fatto bene a ricoverarsi – ha cercato aiuto, ed è ciò che si dovrebbe fare in questi casi. Solo che non è stato abbastanza.
Quello che non sai è che… l'ho scoperto io, il cadavere. Impiccato. Stavo tornando da scuola prima del solito – lui non lo sapeva, non lo avrebbe mai fatto se solo avesse saputo… Vedi, tutta la mia vita poteva cambiare per quel minuscolo frammento di informazione. Ma così non è stato. E allora… tornai a casa e vidi quello che da quel momento in poi chiamai il pendolo.» Lei sorride, amarissima. Erik rimane a bocca aperta per qualche istante: non sapeva che fosse stata lei a scoprire il corpo del padre. A dieci anni, poi.
«Quando lo vidi scoppiai a urlare e… Fu mia madre a scoprirci. Me che urlavo e il corpo di mio padre. Passai un mese in uno stato catatonico, così dicevano i dottori – non parlavo, non mi muovevo, a stento mangiavo e respiravo. Non ero viva. Davanti ai miei occhi avevo solo l'immagine di mio padre che moriva. Era un'ossessione che non riuscivo a cancellare. Poi mi risvegliai, quando mi resi conto che Maman soffriva e aveva bisogno di me, e…» Lei deglutisce. «Non fui una buona figlia. Per anni, fino al liceo, mi cacciavo nelle risse. Picchiare qualcuno mi aiutava a dimenticare… il pendolo. Vidi psicologi, psichiatri – niente funzionava a lungo. Uscivo tardi la notte, quando mia madre era al lavoro, per andare in discoteca e… beh, puoi immaginare. Il sesso e l'alcol e il fumo mi stordivano – era quello che cercavo, un modo per uscire dall'incubo. Quando avevo sedici anni, tentai di…» Qui si ferma, le lacrime agli occhi. Una le cola sul nasino schiacciato. Erik la raccoglie e le sfiora delicatamente una guancia. Lei gli stringe la mano, fino allo spasimo. «Non riuscivo a cancellare i pensieri che mi ossessionavano. La mia mente era un campo di guerra. Distrutto, rovinato da me stessa. E così tentai di… di uccidermi. Trascorsi un anno in un istituto psichiatrico. Lì conobbi la dottoressa Laurent. Lei mi aiutò, mi aiutò davvero. Quando ne uscii, ricominciai con la scuola, con la danza, con la mia vita. Era come essere nata di nuovo… Mia madre era l'unico raggio di sole nella mia esistenza, l'unica presenza fissa. Poi c'era Luc, naturalmente. Un bravo ragazzo. Credo che mi amasse, ma io non amavo lui allo stesso modo. L'ho fatto soffrire, e mi dispiace. Un anno dopo ebbi Dany, e da quel momento cambiò tutto. Il mio pianeta cominciò a ruotare attorno alla vita che mi cresceva dentro. All'inizio ero devastata e impaurita: pensavo che non avrei più potuto permettermi una carriera da ballerina, ma Luc – come ti ho già detto – mi assicurò che si sarebbe preso cura lui della bambina, quando io non potevo. Che non avrei dovuto sacrificare me stessa. Devo sembrarti egoista, ma per me fu un colpo non indifferente.»
«Lo immagino.»
«No, tu non immagini.» Lei sospira. «Quando ho tentato il suicidio… Mi sono quasi uccisa con un'overdose di farmaci. Mi svegliai in ospedale imbottita di medicinali, flebo, gli occhi di mia madre sopra di me che versavano lacrime… Si incolpava, capisci. Per non avermi aiutata. Ma lei mi ha cresciuto nel miglior modo possibile. Sono io che non le ho dato abbastanza.»
«Non è colpa tua. E comunque, adesso stai meglio.»
«Sì, certo. Mi sono diplomata con due anni di ritardo, ma alla fine ce l'ho fatta. Dopo il mio tentato suicidio, tutto mi faceva paura. Solo la vicinanza di mia madre e Luc mi aiutava, e quella della dottoressa. Ci vollero mesi e mesi di duro lavoro, ma alla fine ne uscii fuori. In parte, dentro di me, temo sempre di ricascarci, in quell'incubo. La morte non si può disfare. Ci sono situazioni che non possono risolversi. Ma potevo risolvere me stessa, come un cubo di Rubik. E così ho fatto. Ecco, non volevo dirti altro.»
«Hai ancora paura?»
«Sì. Sono tormentata dagli incubi, ma da quando prendo le medicine – avevo sedici anni quando ho cominciato ad assumere psicofarmaci, seguita regolarmente da un dottore, e ovviamente dalla mia terapista – sto molto meglio. Ma sì, ho ancora paura. Soprattutto per Dany. Non posso crollare. Per lei, non posso farlo. Non posso farlo…»
Ha ancora gli occhi – gli occhi che Erik ha imparato a trovare così belli, così scuri – lucidi di lacrime non versate. Si stringe a lui, la testa sul suo petto, e questo gli mozza il fiato in gola. Spera tanto che, malgrado la vicinanza, non se ne sia avveduta. Lei respira piano, piangendo silenziosamente. Erik afferra tutto il coraggio di questo mondo e le scosta la frangia dalla fronte bassa e aggrottata, sfiorandole i ribelli capelli neri. Come faceva a trovarli simili a un nido di vespe, un tempo? Sono di una morbidezza e un colore sensazionali. La stringe a sé con dolcezza, in un gesto a cui non è abituato – è un eufemismo. Non ha mai dovuto consolare qualcuno in vita sua. Ciò che più assomiglia a un contatto umano che abbia mai avuto è il pianto di Christine contro il suo – quando si sono abbracciati, lui ai suoi piedi, tanti anni prima. Ora si rende conto che non abbraccia una persona da più di quindici anni. Quello è il suo primo abbraccio dopo una vita di solitudine. Con il Daroga sarebbe stato inopportuno e imbarazzante – non sono davvero amici, per quanto tenga e si preoccupi per lui, per quanto siano legati (in fondo, gli ha salvato la vita).
Meg è la sua prima amica in assoluto.
Christine non conta, perché è stato ossessionato da lei dal momento in cui ha posato gli occhi sulla sua figurina bionda. Quel che prova per Meg non è affatto ossessione: è molto diverso, molto più dolce, molto meno violento, seppur non meno passionale.
Sono spacciato, pensa in un rantolo di paura. No, non può essere. Somiglia a…
Lei si stringe al suo petto e mormora un “grazie” sentito. Lui, per tutta risposta – gli mancano le parole – le sfiora una spalla in un gesto che spera sia di conforto.
Merda, pensa. È proprio il caso di dirlo. |
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Capitolo 12 *** xii. ***
xii.
I mesi trascorrono
come le foglie che cadono dagli alberi, e l'estate torrida subisce una
metamorfosi: come una crisalide che si squarcia adagio, così
entra l'autunno nelle case di Parigi, e anche in quella di Erik. Meg si
ripara dal freddo incombente col suo solito giubbotto di pelle nera,
gli anfibi dello stesso colore al posto dei sandali che le scoprivano i
piccoli piedi callosi. Diventa una pianista sempre più
abile, e frequenta la Maison Danton più spesso del normale.
A volte Dany è con lei, ed Erik è lieto di
raccontare alla bambina le meraviglie che ha visto nei suoi viaggi.
Ovviamente, non parla della ragione per cui viaggiasse così
lontano e così spesso. Dany sa che c'è qualcosa
che non va con la sua faccia, e non poche volte, mentre siede sulle sue
ginocchia, gli sfiora la maschera come a voler indovinare cosa vi cela
dietro.
Ma non lo
vedrà mai. Questo è il solo pensiero che sia di
conforto ad Erik.
L'autunno scivola via
come su una lastra di ghiaccio, e arriva Halloween. Meg costringe Erik
a vedere una sfilza di film di Tim Burton, che gli rivela essere uno
dei suoi registi preferiti, e davvero Nightmare
Before Christmas
è molto appropriato al giorno che festeggiano. Erik
canticchia Re del
blu, re del mai
finché Dany non si addormenta sul divano, la testa
appoggiata ad una sua gamba magra. La piccola dorme splendidamente,
tanto che la madre è restia a svegliarla.
«C'è
una cosa che non ti ho mai chiesto.» La voce di Meg
è appena un sussurro, attenta a non svegliare la bambina. Le
accarezza gentilmente il nugolo di capelli ricci, seduta accanto ad
Erik sul divano.
«Cosa mai
attira la tua curiosità, Meg?»
«Quand'è
il tuo compleanno? Il mio è il tre gennaio, non so se te
l'ho mai detto. L'anno prossimo compirò venticinque
anni.» Sorride come se avesse raggiunto un traguardo.
«E tu?» Corruga la fronte. «É
incredibile che non te l'abbia mai chiesto.»
Erik si rabbuia.
«È un'occasione a cui preferisco non
pensare.»
Meg si fa seria.
«Ma è il tuo compleanno. Persino io sono entusiasta
all'idea. Quanti anni compi? O è maleducato
chiederlo?» Sorride serafica.
Lui sospira.
«Quarantasei.»
Lei scoppia a ridere
con la sua risata luciferina. «Sei vecchio. Sei proprio
vecchio.» Gli dà una spallata amichevole.
«Ma
zitta» dice Erik scuotendo il capo. Non vuole pensare alla
loro differenza d'età, gli fa venire il mal di testa.
«Comunque, è già passato.»
«E non mi
hai detto niente? Oh, avanti!» Meg si morde un labbro,
improvvisamente contrariata. «Non ti ho fatto un
regalo.»
«Meg,
davvero, non è
importante.»
«Certo che
lo è, invece.» Lo guarda di sottecchi.
«C'è qualcosa che ancora non mi hai detto? Esiste
un motivo per cui odi il tuo compleanno o devo indagare negli anfratti
della tua mente labirintica tipo Freud?»
«Sei davvero
insistente.» Erik sospira, strofinandosi il naso. Beh, se
avesse un naso. In questo caso, ha solo la maschera. «La
gente è fortunata ad avere un naso tutto proprio.»
«Che cazzo
dici?»
«Lascia
perdere. Pensavo ad alta voce.»
«Sono
incredibile, lo so, ma neanch'io posso regalarti un naso per il tuo
compleanno.» Meg scuote il capo mentre Erik alza gli occhi al
cielo. È un argomento che lo urta, e lei è
bravissima ad urtare gli altri quando vuole. Questo dovrebbe saperlo.
Lei gli sfiora una
spalla, improvvisamente seria. «Cosa c'è? Non ti
va di parlarne?»
«No…
Sì. Non lo so. Ti ho già detto
tanto…»
«Non
tutto.»
«Non sei un
prete, non sono costretto a confessarmi con te.»
«Divertente.»
«E non sei
neanche la mia terapista.»
«Dovresti
contattare la dottoressa Laurent. Ti farebbe bene.»
«Tanto ci
sei tu che le dici tutto.»
«Ah, certo,
ora sono io che parlo troppo. Hmm.»
Meg gli tamburella le
dita sulla spalla. Tic tac — sono entrambi troppo magri,
riflette Erik con gli occhi socchiusi. Lei è bella, certo,
non una creatura orrida come lui, ma gli fa piacere che abbiano in
comune almeno questo.
«Il giorno
in cui mia madre mi rivelò la mia vera faccia allo
specchio… era il mio sesto compleanno.»
Meg rimane per qualche
attimo senza fiato, le labbra dischiuse a formare un piccolo
oblò. Poi arrossisce di vergogna.
«Non avrei
dovuto pungolarti in proposito, non in quel modo. Sono stata
insensibile.»
Erik scuote il capo
mestamente. «Non potevi saperlo.»
«Voglio
rimediare. Me lo permetti?» Lei non attende il suo assenso e
si mordicchia un'unghia già rovinata — ah, lo
stato delle sue povere cuticole. «Ti farò un
regalo.»
«Guarda che
non sei costretta.»
Meg non sembra
ascoltarlo. «Un regalo speciale. Hai detto che il tuo
compleanno è già passato, vero? Deve cadere tra i
primi giorni di novembre.»
Lui annuisce, cauto.
«Cos'hai in
mente?»
Lei sorride,
accarezzando di nuovo i capelli di Dany. «Vedrai.»
«Devo
preoccuparmi?»
«Ma
no.»
Nel dubbio, si
preoccupa. Con lei, non si può mai sapere.
Come gli
spiegherà qualche giorno dopo, lo porta in una
pizzeria.
Una dove ha organizzato tutto: un'area appartata, non ci
sarà nessuno… E conosce il proprietario,
beninteso. Quindi non deve essere in pensiero per la sua (maledetta,
orrida) faccia.
«Nessuno
vedrà nulla, è una cosa privata.
D'accordo?»
Lui acconsente,
sebbene sia nervoso — non che lo ammetterebbe mai,
ovviamente. Non esce fuori da una vita… e non con una donna.
Anche se non è un appuntamento,
ma solo un piccolo regalo di compleanno.
Quando va a prenderla
in taxi — lei lo avverte che per quella sera non
userà la solita motocicletta — si stupisce nel
vederla uscire dal suo appartamento con un abito rosso e grazioso sotto
la pelliccia nera sintetica. È ben truccata e pettinata: i
capelli corvini le ricadono sulle spalle in onde morbide che le
contornano il viso coperto di fondotinta color bistro. E porta i tacchi. Non le ha mai visto qualcosa
di simile indosso, prima. Deve farsi forza per non pensare che si sia
abbigliata in quel modo per lui — ma no, la sola
idea è ridicola.
Meg sale
nell'abitacolo del taxi e riferisce all'autista l'indirizzo della
pizzeria. Gli rivolge un bel sorriso, davanti al quale lui si sente
sciogliere in modo alquanto ridicolo. «Allora, sei
pronto?»
«Parli come
se dovessimo fare un giro su delle montagne russe.»
«Anche
quello sarebbe piuttosto grandioso, e ho pensato a un lunapark,
ma… sai, non sei più un ragazzino. Non so se lo
zucchero filato ti farebbe felice. E poi, sulle giostre, il naso
finto… chissà, volerebbe via.» Scoppia
in quella sua caratteristica risata roca e lui scuote la testa, anche
se non è offeso sul serio.
Raggiungono la
pizzeria Da Antonio — è
italiano? — in poco tempo. È Erik a pagare il
taxi, naturalmente — Meg lo lascia fare volentieri
perché sa che è molto più ricco di
quanto lei potrà mai essere, e ne approfitta — e
insieme entrano nel piccolo ristorante. Che, come Meg aveva promesso,
è chiuso per la serata eccetto che per loro due.
«Antonio.»
Meg fa un cenno del capo alquanto amichevole ad un uomo grosso il
doppio di lei, che sembra la mediocre caricatura Hollywoodiana di un
boss della malavita. In realtà è una persona
perbene, e sembra lieto nell'apprendere che Erik, tra le tante lingue,
conosce anche l'italiano. Meg lo guarda ammirata mentre scambia qualche
parola con il proprietario, e lui cerca di dimenticare la lucentezza
dei suoi occhi neri, incorniciati da lunghe ciglia da gatta —
l'eyeliner e il mascara le risaltano di molto lo sguardo, non
può fare a meno di notare.
«Puoi
toglierti la sciarpa e gli occhiali da sole» lo incoraggia
lei sfilandosi il cappotto. Si siedono in un posticino appartato, ma
grazioso quanto il corpicino di Meg avvolto nel morbido abito rosso.
«Hmm.»
«Qui sei al
sicuro.»
Erik tentenna, ma le
crede. Si sfila delicatamente la sciarpa e gli occhiali dal viso
deturpato, posandoli a terra. Spera tanto che lei non gli vomiti addosso, ma
non ha alcuna reazione.
«Voglio una
Diavola. E una birra, assolutamente. E tu?» dice mentre
scorge rapidamente il menù. Lui sbatte le palpebre, incerto
se sia un sogno o meno.
«Vino. Creda
che mi serva del vino.»
Mangiano e
chiacchierano e bevono tutta la sera, con in sottofondo della romantica
musica napoletana. Troppo romantica, in effetti, per un'uscita con
un'amica, ma… a chi vuol darla a bere? È il
regalo più bello che abbia mai ricevuto: un pizzico di
normalità, ecco cosa gli serviva. E sebbene tremi, la
accetta con gratitudine.
Ridono insieme e poi,
una volta che Antonio ha portato loro il conto, battibeccano con furia
su chi dei due debba pagare.
«Normalmente
lascerei pagare te, visto che hai i soldi che ti
escono anche dal buco del culo, ma è per il tuo compleanno.
No, non ne se parla: è un regalo.»
«Non ti
permetto di pagarmi la cena. Sono più vecchio di te e molto più ricco, spetta
al sottoscritto.»
Alla fine si accordano
per pagare ciascuno la propria metà: è meglio
così. Erik si riavvolge la sciarpa attorno alla bocca e si
calca il cappello in testa.
«Chiamiamo
un taxi?» gli chiede lei, mentre lui l'aiuta ad infilarsi la
pelliccia, ma ha un'altra idea. Non sa se sia buona o meno,
ma…
«Prima di
andare a casa, vorrei portarti in un posto. Una sorpresa.»
Meg sbatte le
palpebre. «D'accordo.»
Erik sussurra
l'indirizzo al tassista di modo che lei non origli, poi le sorride in
modo saputo. «Non è nulla di sensazionale,
ma… è un modo per ripagarti.»
«Non devi
ripagarmi di nulla. È stato… piacevole.
Molto.» Sbaglia, o un vago colorito roseo le si diffonde
sulle guance?
Lei ride quando lui si
scioglie il nodo alla cravatta e le benda gli occhi — col suo
consenso, ovviamente.
«Ma dove mi
porti?» chiede divertita. Lui la conduce per mano attraverso
un passaggio segreto di sua conoscenza, lungo rampe di scale e corridoi
bui.
«Eccoci.
Come puoi ben vedere, non era nulla di particolarmente
grandioso.»
Lei sbatte le ciglia,
aggrottando la fronte. Si volta verso di lui con un sorriso.
«Ma siamo
sul tetto dell'Opera Garnier.»
«Sì.
Il luogo che più preferisco al mondo, eccetto la mia dimora.
Vedi…» appoggia i gomiti sul parapetto,
indicandole il paesaggio su cui affaccia. Parigi è uno
sfarfallio dorato nella notte. «Sognavo di venire qui, da
bambino. Di suonare e di vedere messe in atto le mie opere in questo
teatro. Credevo fosse irrealistico e patetico, ma…»
«Eccoti
qua.»
«Già.»
Rimangono a guardare
il panorama per un po', frastornati da tanta bellezza.
«Danza con
me.»
Lei gli tende una
mano, ma lui sbatte le palpebre, perplesso, come se non capisse cosa
gli stia dicendo.
«Oh, non
dirmi che non sai ballare. Un uomo come te… Non posso
credere che ci sia anche una sola cosa al mondo che tu non sappia
fare.»
«Mi stai
sfidando?»
«Secondo
te?»
Erik scuote il capo,
ma accetta la stretta della mano sottile di lei, che si accinge a
sfilare il cellulare dalla borsetta e trovare qualche musica adatta.
«Soul…
potrebbe andare. Che ne dici?»
Lui annuisce. Lei
sorride e gli prende entrambe le mani: lo fa oscillare leggermente,
mentre le note di At last di Etta James gli pulsano
nelle orecchie.
«Ah, questa
canzone è deliziosa.»
«Sapevo che
ti sarebbe piaciuta.»
Si guardano negli
occhi per qualche istante. È così piccola in
confronto a lui — o è lui ad essere troppo alto?
— che quasi non gli arriva alla spalla, malgrado i tacchi.
Inutile dire che non ha mai ballato con qualcuno, prima, né
qualcuno lo ha mai invitato. Erik sorride e canticchia sottovoce,
coprendo il potente strumento di Etta James. Bello, sì, ma
mai quanto il suo. Lei gli posa il capo sul petto — gli mozza
il fiato in gola, così. Erik deglutisce — spera,
non rumorosamente.
«Non avresti
mai ballato con me se non avessi indossato la maschera.»
«Come?»
Lei scoppia in una
risata roca e calda e gli batte un dito sul petto. «Ma
sì. Non mi avresti notata nemmeno. Saresti stato troppo
impegnato con qualche bella coscia lunga… Io sarei stata
parte delle pareti di questo teatro, e tu un vero Don
Giovanni.»
«Non
è vero.»
«Sì
che lo è.»
«No che
non… Ah. E va bene. Sì, è vero, lo
ammetto. Sono terribile.»
Lei ride e annuisce
con insistenza. «Ammettere i propri difetti è il
primo passo per una salutare relazione personale con se stessi, Danton.
Bravo.»
«E questo
chi te l'ha detto, la Laurent?»
«No, tutto made in
Giry.»
Le ultime note del
brano gocciolano via come rugiada dai petali di un fiore, riempiendo i
loro timpani di suoni che tendono i muscoli dell'anima con delicatezza
innata. Erik non è un uomo
paziente… ma la musica esprime per lui i sentimenti a cui
non riesce a dare voce.
Terminato l'anomalo
lento, Meg lo guarda con un'espressione grave che gli provoca nel petto
un subdolo frastuono, come una tempesta, o il palpitare rapido del suo
cuore contro la cassa toracica. Sembra ponderare qualcosa, immobile.
Dopodiché si divincola dalla lieve presa di lui sul suo
vitino sottile e sorride nel suo solito modo saputo.
«I tacchi
non mi fanno bene. Non ci ho mai ballato sopra.»
«Andavi in
discoteca con gli anfibi?»
«Assolutamente
sì.»
«Non hai il
minimo senso estetico.»
«Certo che
ce l'ho. Solo che, guarda caso, non coincide con il tuo.»
Battibeccano
familiarmente fino all'arrivo del taxi — lui le presta il
cappotto perché si ripari dal freddo della sera che muta in
notte, con una gentilezza di modi che lei non si aspetta. La cosa la fa
arrossire lievemente, o forse è un riflesso della luce dei
lampioni, chissà. O magari troppo blush sugli zigomi
affiliati.
Durante il tragitto in
auto, Erik riflette se accompagnarla o meno fino alla porta del suo
appartamento. L'etichetta lo vorrebbe, ma… sarebbe come un
appuntamento. Uno vero. O forse è lui che
è troppo all'antica — di queste cose conosce solo
ciò ha appreso dal cinema e dalla letteratura, due fonti non
affidabili.
Frattanto, Meg blatera
di musica e affini. Di solito il silenzio non turba nessuno dei due, ma
lei sembra non avvedersi dello stupido,
stupidissimo
dilemma interno di Erik.
«Rent1 è un gran bel
musical. Dovresti concedergli una possibilità.»
«Lo
farò.»
Sono arrivati a casa
di Meg. Lui si decide e l'accompagna fino alla porta, mentre lei gli
porge il cappotto che le ha prestato.
«Grazie.»
«Nessun
problema.»
Ah, ecco giunto il
momento dei saluti: critico. Se fosse un vero appuntamento e lui avesse
fatto colpo, lei lo inviterebbe ad entrare in casa. Erik arrossisce al
pensiero — che cosa ridicola.
«Che
dire…» esordisce Meg, contorcendosi le dita.
«Ti è piaciuto il tuo regalo di
compleanno?»
«É
stato ben accetto.» Erik non se la sente di spingersi oltre.
Continuano a guardarsi
per qualche attimo fin troppo prolungato, il silenzio come un sudario
su di loro.
Finché lei
non gli si avvicina e gli posa un bacio delicato su una guancia.
Erik rimane raggelato,
muto come una belva addomesticata a cui hanno brutalmente strappato la
lingua. Ma per nessuno sarebbe facile domarlo, vero?
Meg gli sorride,
imbarazzata.
«Ci vediamo
presto. La prossima volta ti faccio ascoltare Rent. Credimi, sono
ossessionata.»
«Ci
credo» gli assicura lui. Quel bacio è il regalo
più bello che potesse fargli: non desidera nulla in cambio,
solo la sua amicizia.
Meg lo saluta con un
cenno del capo e svanisce oltre la soglia del suo appartamento in un
turbinio di tacchi e mascara.
Erik sbatte le
palpebre alla luce dei neon, malgrado gli occhiali facciano da scudo ai
suoi occhi dorati. La ragazza deve aver bevuto troppa birra, non
c'è che dire.
Note
dell'autrice: 1Rent: Musical rock del 1996,
scritto da Jonathan Larson, ispirato a La bohéme di Giacomo
Puccini. Nella versione originale avevo inserito un riferimento ad un
altro musical, ma ricorreggendola a circa due anni di distanza posso
dire che Rent rientra di più nei gusti e nella
personalità di Meg.
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Capitolo 13 *** xiii. ***
xiii.
Erik sposta il peso
del corpo da un piede all'altro, per il resto immobile dinanzi
all'uscio dell'appartamento. È un'idea ridicola. Davvero
ridicola. Neanche Dio sa perché ha accettato… o
forse sì, e lui è troppo ostinato per non negarlo
a se stesso.
Ne comprende appieno
la ragione quando la porta si apre, rivelando una figura esile vestita
di rosso, gli occhi brillanti, la fronte bassa coperta dalle ciocche
disordinate della frangia scura.
«Non pensavo
saresti venuto sul serio.» Meg vuole apparire irriverente e
sicura di sé come di consueto, come se la cosa non le
importasse davvero, ma non lo inganna. Le sue guance arrossiscono alla
vista dell'uomo alto, magro e imbacuccato sulla soglia di casa sua.
«Erik
mantiene le sue promesse, quando gli altri se lo meritano.»
Meg a quel punto alza
gli occhi al cielo in un gesto di supremo scetticismo e lo invita ad
entrare con un cenno della mano.
Giorni prima, lo ha
convinto a festeggiare con lei il Natale, assicurandogli che persino
sua madre lo avrebbe accolto volentieri, e che Dany ne sarebbe rimasta
entusiasta. Erik dubita che il sentimento che ha spinto la suo ospite a
proporgli una simile sciocchezza sia differente dalla pietà
nei confronti di un uomo che, solo, sarebbe rimasto a comporre
freneticamente per l'intera durata della Notte Santa.
«Non sono
religiosa» aveva spiegato Meg, sulla difensiva, «ma
nessuno dovrebbe rimanere in una solitudine tanto spettrale il giorno
di Natale.»
E così
quella sera, dopo il caratteristico cenone, Erik si presenta sulla
soglia di casa Giry, cercando di dimenticare che lì,
l'ultima volta, Meg gli ha baciato una guancia deturpata con le sue
labbra colorate di belletto. Il turbinio di sensazioni che una
vicinanza simile ha smosso dentro di lui è intollerabile.
Come Meg aveva
previsto, Dany corre ad abbracciarlo — Erik si irrigidisce al
contatto; deve ancora farci l'abitudine — mentre Antoinette
Giry si prodiga in ringraziamenti per l'ottimo lavoro che sta facendo
con la figlia e gli offre del caffè. Erik rifiuta con la
maggiore cortesia possibile — non ha nessuna intenzione di
sfilarsi la maschera — ma si prepara ad affrontare una nuova
conoscenza: Luc, l'ex ragazzo di Meg, nonché padre di Dany.
È un giovane di bell'aspetto, pelle scura e sorriso caloroso.
«Sono
onorato di fare la vostra conoscenza. Meg mi ha parlato molto di voi,
Monsieur Danton» gli dice dopo avergli stretto la mano
guantata con più emozione di quanta Erik potesse prevedere,
una volta accomodati in soggiorno.
«É
un tuo grande fan» spiega Meg con un sorrisetto, facendo
dondolare sulle ginocchia la piccola Dany.
«Capisco»
risponde Erik, e si sente immediatamente molto ottuso. Non ha alcun
talento nel relazionarsi con gli altri, ma Luc appare lieto di averlo
lì con loro, e tanto basta. Molto probabilmente conosce
ciò che cela sotto la maschera, ma non ne fa menzione
alcuna. Si limita a un: «Meg ha detto che, prima di diventare
il grande musicista che tutti conosciamo, eravate già molto
impegnato… un uomo
d'azione.»
Per poco la giovane
madre non si fa scivolare Dany dalle ginocchia. Erik le riserva
un'occhiata interrogativa. Non ha rivelato nulla sul suo discutibile
passato, questo è ovvio; deve aver sviato parecchie domande
curiose da parte di Luc, che in quanto suo fan è non poco
interessato alla vicenda del misterioso genio della musica.
«Qualcosa di
simile, sì» concorda Erik, e non è
arrabbiato. L'interrogatorio cessa all'istante e Meg, frattanto, tira
un sospiro di sollievo.
Mentre i suoi ospiti
preparano la tavola per giocare a Monopoli,
Erik si guarda intorno: è un appartamento modesto, ma
dall'aria sicuramente più vissuta della sua villa isolata.
Addobbato in quel modo per il Natale, crea un effetto di dolce
serenità. Erik non ha mai provato niente di simile, neanche
nel luogo che chiama casa.
«Nadir non
è potuto venire?» gli chiede Meg sottovoce,
chinandosi su di lui. La vicinanza lo allarma e gli dà le
vertigini al tempo stesso.
«I musulmani
non festeggiano il Natale.»
«Sì,
lo so. È un peccato che rimanga solo,
però.»
Vengono interrotti da
Dany, che vuole recitare a tutti i costi la poesia natalizia che ha
imparato a scuola. Erik sorride alla bambina e applaude come gli altri,
alla fine, neanche avesse declamato un sonetto di Shakespeare. Dany
diventa color porpora e si rifugia nell'abbraccio del padre, al che
Erik prova un istantaneo fiotto di gelosia. Lui non avrà mai
niente del genere — la dolcezza di stringere una propria
creatura tra le braccia, e anche… una moglie al suo fianco.
Una famiglia.
Il suo sguardo guizza
su Meg, che battibecca con Luc su chi dovrebbe amministrare la banca
del Monopoli
— e alla fine, come sempre, vince lei.
Erik non ha mai avuto
l'opportunità di svagarsi con un gioco da tavolo, non con
qualcun altro, e si vede. È molto impacciato, in una maniera
che non è caratteristica di lui. A quella vista, Meg sorride.
«Finalmente
qualcosa che non sai fare.»
È vano dire
che è il primo a perdere, ma riscatta il suo orgoglio ferito
quando, al pianoforte di casa Giry — uno strumento che
dovrebbe essere accordato con maggior cura — suona O Holy Night in una
carola tanto intensa che la sua voce fa piangere silenziosamente Dany e
inumidisce gli occhi degli altri, traboccante lacrime di diamante puro.
«Siete un
vero genio, Erik — posso chiamarvi Erik, vero?»
Luc è il
primo a riprendersi dalla malia musicale che Erik ha intessuto per
loro. Questi annuisce con un sorriso lieve ma educato.
Quando è
ora di andarsene, Dany protesta perché rimanga un altro po'
lì con loro, almeno per l'apertura dei regali. Il
che gli ricorda…
Erik saluta tutti con
un inchino d'altri tempi, accompagnato da Meg sulla soglia. Dal
soggiorno, giunge ancora il frastuono confortante di una famiglia
felice.
«Ho qualcosa
per te» le sussurra, e Meg sorride del suo fare cospiratorio.
Erik ricambia, estraendo da una tasca interna del cappotto quelli che
sembrano dei biglietti, e glieli porge.
Meg li osserva,
stupefatta, e quando capisce, per poco non emette un grido estasiato
— può dirlo dalla luce che le illumina il volto.
«Due
biglietti per New York» dice lei, ancora incredula.
«E per Rent!
Oh, Erik, non ci posso credere!» Il suono della sua risata
gli riempe il cuore di una veemente meraviglia che non riesce a
sopprimere. Quello stesso cuore minaccia di piroettargli fuori dal
petto quando lei, d'istinto, lo abbraccia, mormorando i più
sentiti ringraziamenti. Poi si allontana, improvvisamente imbarazzata.
«Perché?»
chiede, senza parole.
«É
il tuo regalo di Natale. Inoltre, so che fra circa una settimana
è il tuo compleanno. Puoi portare con te chi vuoi
— tua madre, Dany, una tua amica, il tuo
giovanotto…» Erik fa un cenno al soggiorno, da cui
giungono ancora le chiacchiere della famiglia Giry.
«Non posso
accettare. Saranno costati una fortuna.»
«Ho denaro
da spendere in abbondanza.» Qualsiasi cosa pur di farti
felice.
«Io non ho
nulla da darti in cambio.»
«É
un dono, non un baratto.»
«Non
è che stai cercando di comprarmi?» sogghigna lei,
irrisoria.
«Non
— era solo un modo per ringraziarti per essermi rimasta amica
malgrado…»
«Stavo solo
scherzando. Ma voglio sdebitarmi.»
«Svolgi
regolarmente i tuoi esercizi di solfeggio e sarò
soddisfatto.»
Lei sorride, scuotendo
il capo. «Pensavo che… Broadway. New York. Il
sogno di una vita.»
«Sì.»
«Ma mia
madre preferisce i musical vecchia scuola, a Luc i musical in generale
fanno l'effetto di un sonnifero e Dany è troppo piccola. E
non ho amici così intimi da portare con me fino a New
York.» Si rigira i biglietti tra le dita, attenta a non
stropicciarli. «Magari… potresti accompagnarmi
tu?»
Suona certamente come
una domanda, visto il tono interrogativo. Erik strabuzza gli occhi a
quella proposta inaspettata.
«Io?»
«I biglietti
li hai pagati di tasca tua.»
«Non
è stato un problema, e credimi, non devi sentirti in obbligo
con me per…»
«Non
è per un senso d'obbligo. Mi piacerebbe semplicemente che
tu… mi accompagnassi.» Meg china il capo,
arrossendo.
A quella visione, Erik
impallidisce sotto la maschera: la spudorata e freddamente sarcastica
Meg Giry che arrossisce per lui.
«Non credo
sia una buona idea…»
«Perché
no?» domanda lei, confusa.
Perché questo mi
avvicinerebbe a te più di quanto io meriti.
«Non sarebbe
meglio se portassi un amico con te?»
«Tu sei mio
amico.»
Erik vi pondera su, in
conflitto con se stesso. Quale sarà la sua mossa, alla fine?
La più giusta o la più egoista?
«D'accordo.
Ti accompagnerò volentieri.»
Sono debole, ecco la
verità. Pensavo che il mio cuore fosse fatto di pietra, e
invece è più soffice di una piuma.
A quelle parole, Meg
sfodera un sorriso di una bellezza mozzafiato e per poco non gli getta
di nuovo le braccia al collo. Fortunatamente, si trattiene.
«Tua madre
sarà d'accordo?»
«Non prendo
ordini da lei.»
Si salutano sulla
soglia, e la giovane gli sfiora ancora la guancia mascherata con le
labbra. Erik non sa cosa pensare delle viscere che, a quel minimo
contatto, gli si avviluppano nel ventre come nella morsa del laccio del
Punjab.
Note
dell'autrice: In
realtà non credo ci fosse una produzione di Rent a Broadway
nell'anno in cui questa storia è stata scritta e ambientata,
ma fingiamo che sia così. Non sarebbe la cosa meno
realistica dell'intera fic. :D
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Capitolo 14 *** xiv. ***
xiv.
Erik accavalla le
gambe sulla poltrona, pronto a vincere il suo disagio. Non ti
curar di loro, ma guarda e passa… scriveva Dante in
un contesto ben diverso. Lui cerca di mettere in pratica questo
pensiero, per il bene di Meg, almeno.
La suddetta tamburella
le dita sulle ginocchia con grande impazienza, in attesa che lo
spettacolo cominci. Lo sbarco a New York è stato
più rapido del previsto, ma Erik si è costretto a
trattenersi e non dare in escandescenze ogni qualvolta gli altri
passeggeri gli lanciavano occhiate curiose, stranite o sospette. Il
fatto che, imbacuccato in quel modo, assomigli all'Uomo Invisibile non
ha aiutato. I controlli alla dogana sono stati, se è per
questo, ancor più severi. Erik si chiede per l'ennesima
volta se abbiano sospettato che fosse un terrorista.
Si è potuto
godere le strade di New York solo di notte, quando la sua mascherata
sarebbe stata meno in vista, malgrado le luci sempiterne della
città. Il fatto che non possa mostrarsi troppo al sole o
portare Meg in uno dei ristoranti più celebri della
città lo esaspera. Ma alla ragazza non importa: di giorno,
rimane in albergo con lui, e consumano i pasti nella camera di Erik.
Questi ha prenotato due stanze in uno dei migliori alberghi di New
York: inutile dire che Meg è rimasta senza parole dinanzi a
tanto lusso, e lo ha giocosamente rimproverato di viziarla troppo.
«Finché
sono con te, non ci saranno problemi» gli ha detto quando lui
si è scusato di non poter essere per lei un buon compagno di
viaggio — il perché è sottinteso.
Quando il sipario si
solleva e ha inizio il numero d'apertura, Erik si concede di
rilassarsi. Durante lo spettacolo, però, fa più
attenzione a Meg, al suo viso arrossato dall'entusiasmo, le labbra che
si muovono a tempo per sillabare le parole delle canzoni; l'inglese di
Meg è molto rudimentale, ma Erik lo parla perfettamente,
quindi non ci sono problemi.
Quella sera, in
albergo, Meg gli sventola sotto il naso gli autografi dei principali
membri del cast e gli mostra le fotografie che ha scattato all'Empire
Building e al ponte di Brooklyn, entusiasta come potrebbe esserlo Dany
davanti a una scatola di cioccolatini.
Dopo la cena
— rigorosamente in camera — Meg chiede se
può restare un altro po' con lui.
«Fa' con
comodo.»
Meg sorride e, con
indosso solo un pigiama leggero che, a dire il vero, mette Erik
piuttosto a disagio, si accoccola vicino a lui sul letto. Per un po'
giocherella con il telecomando e cerca di carpire qualche parola dai
programmi in TV, ma il suo inglese non è sufficientemente
buono, e pertanto si annoia subito.
«Cantami
qualcosa.»
«Cosa?»
«Quello che
vuoi. Non riesco a prendere sonno, e la tua voce ha un effetto calmante
sulle persone — lo sapevi?»
Erik ridacchia
— certo che lo sa — e intona una nenia gitana che,
con le sue abilità di ventriloquo, risuona direttamente
nella testa di Meg. Per un attimo la giovane appare tramortita, poi i
lineamenti del suo viso si rilassano e poggia il capo sul suo petto.
Mentre canta, Erik non si accorge che lei lo rimira dal basso, come
incantata, paralizzata dai suoi stessi pensieri… Una
meraviglia che sa di epifania.
«La tua
pelle è così fredda…»
mormora lei, ancora trasognata. Gli sfiora la gola con le dita, ed
è a quel punto che Erik non è più in
grado di cantare.
La parte
più sana di lui vorrebbe fuggire, o scacciarla via; l'altra
— quella che non ha nome — grida di prenderla
lì, su quel letto di albergo, di farla sua e di stringerla
tra le braccia come lui non è mai stato in grado di fare.
Meg non lo guarda
negli occhi. Invece, gli fissa le labbra, e sembra anche lei in
conflitto con se stessa. Si avvicina, tanto che Erik potrebbe contarle
le pagliuzze negli occhi…
Poi lo bacia.
È un bacio
lieve come una piuma, puro come il cristallo. La mano che gli accarezza
il volto mascherato trema, mentre lui è talmente raggelato
che ogni pensiero logico gli sfugge.
Il bacio si fa
più ardito, ed è allora che Erik sente… tutto. Il calore
della donna che lo abbraccia, le esili dita tra i suoi capelli che
scorrono lentamente fino ad arrivargli al petto. E fa
qualcosa che la ragione gli nega: ricambia il bacio.
Le sue mani sono
impacciate sul corpo di lei, che le guida a lambirgli le cosce
— sembra argilla che possa plasmare a suo piacimento, come un
contorto Pigmalione — mentre si fa sfuggire un gemito e lo
attira a sé con fervore. Il sangue gli ribolle nelle vene,
il basso ventre in fiamme…
È quando fa
per sbottonargli la camicia che Erik capisce cosa sta accadendo, e si arresta
all'istante, ponendo una distanza ragionevole tra i loro corpi fin
troppo concitati.
Lei sussulta, come
destata da un sogno troppo — troppo per essere reale. Lui balza
giù dal letto e deglutisce pesantemente, cercando di calmare
il calore che sente circolare in corpo come lava incandescente.
«Maledizione!»
impreca, e prenderebbe a calci e pugni qualcosa — qualsiasi
cosa — se non si trovasse in un albergo che evidentemente non è di sua
proprietà. Sfascerebbe la camera come vorrebbe squassare il
suo corpo, e il cuore che non cessa di palpitargli in modo
così udibile nel petto.
Meg è
sconvolta, ancora accovacciata sul letto, e non accenna a muoversi.
Alla fine, percependo la sua aura furiosa — Erik crede sia
avvertibile anche a metri di distanza — si porta una mano
alla bocca, quasi a liberarsi del sapore, certamente mortuario, delle
labbra di lui sulle proprie.
«Io…»
balbetta, e sembra una bambina spaventata. Erik non l'ha mai vista in
uno stato di tale agitazione, neanche quando si è
precipitata a casa sua il giorno (o sarebbe meglio dire, la notte)
dell'anniversario del suicidio di suo padre.
«Maledizione,
Meg!» ringhia lui, e lei sobbalza, ancor più
impaurita. Solo, non per causa sua.
«Perdonami,
io…»
Un altro battito di
ciglia, poi sgattaiola nella sua camera, senza voltarsi indietro.
Codarda come non è mai stata prima.
Erik si culla il capo
tra le mani, gli occhi pieni di lacrime. Ma non minacciano di colargli
sul viso mascherato: è troppo scombussolato per quello.
«Oh,
Signore» dice, e si accascia sul letto, impregnato ancora del
profumo di lei.
Il viaggio di ritorno
è il più imbarazzante che Erik possa immaginare:
fa di tutto per non sfiorarla, anche solo con un dito; lei, in cambio,
non gli rivolge la parola.
A casa, è
il Daroga a trovare Erik accasciato sul divano di pelle nera, e si
avvede immediatamente che c'è qualcosa che non va.
«Mi ha
baciato.»
Se avesse qualcosa in
mano, Nadir lo lascerebbe cadere a terra per lo sgomento.
«Cosa?»
«Mi hai
capito bene.»
Ed è allora
che Erik sfoga il nembo mefitico di emozioni che ora ha al posto del
cuore. «Difficile immaginarlo, vero? Una donna —
una ragazza con quasi la metà
dei miei anni che di sua
spontanea e completa volontà bacia il mostro invece di
lasciare che il cavaliere senza macchia e senza paura lo
uccida.»
«Erik, se ti
ha baciato… deve pur esserci un motivo.»
«É
confusa» ribadisce lui,
ostinato. «Sono l'unico uomo con cui abbia mai condiviso una
tale sintonia emotiva. E la mia voce…» Scuote il
capo. «Voleva che le cantassi qualcosa per farla rilassare.
L'ho fatto. E poi lei mi ha…» Fa un gesto vago con
le lunghe dita pallide.
«E qual
è stata la tua reazione?»
«Prego?»
«Tu che cosa hai
fatto?»
Erik rimane per
qualche attimo in silenzio, a ponderare. Ricorda le proprie mani sulle
sue cosce, sulla schiena, e gli gira la testa. Certo, è
stata lei a guidarlo, ma lui ha tacitamente acconsentito.
«Se non mi
fossi fermato…» Sarebbe
potuto accadere qualcosa di ancora peggiore.
Le tempie gli pulsano
dolorosamente. «Indecente. È indecente. Perdere la testa per una
ragazza così giovane — alla mia età,
poi…»
«Quindi
ammetti di aver perso la testa per lei.»
Erik schianta il pugno
sul tavolino più vicino, ma Nadir non sobbalza, abituato a
scenate di furia ancora peggiori.
«Ogni cosa
che tocco si distrugge. Daroga, mi hai guardato bene in
faccia?»
Nadir elude quella
domanda retorica. «Credo che dobbiate parlarne.»
«E per cosa?
Per ricordare a me stesso che razza di mostro io sia? Sono certo che lei
sia troppo sconvolta anche solo per discuterne civilmente —
cosa in cui, dovresti saperlo, nessuno dei due eccelle.» Si
ferma per riprendere fiato. «Il mio destino è
guardare la vita da lontano, essere un uomo senza far realmente parte
della razza umana. Non posso caricarle questo peso sulle spalle. In
più, lei non prova… che affetto e
pietà per me. Di quelli che si riversano su un animale
domestico. Le faccio soltanto pena.»
«Non dire
così.»
«E allora
spiegami, Daroga, perché mai una giovane brillante e di
gradevole aspetto dovrebbe avere qualcosa a che fare con un mostro di
una manciata d'anni più giovane di sua madre!»
Nadir non risponde,
meditando per un attimo. «In te c'è molto
più di un mostro, Erik.»
«É
vero. Sono più di un mostro e meno di un uomo.
Più di un morto e meno che vivo.»
A queste parole, Nadir
non sa cosa rispondere.
«Chi mi dice
che non mi abbia… che non abbia fatto quel che ha fatto per
una curiosità morbosa? Deve essere interessante, sapere quel
che si prova nel baciare un cadavere vivente…»
«Stai
delirando. Meg non lo farebbe mai.»
Una pausa terribile in
cui Erik si crogiola nel suo dolore, nei suoi dubbi. Vorrei
crederlo. Pensavo di conoscerla, e invece ecco che quella ragazza mi
stupisce ancora.
«Adesso
lasciami solo, Daroga. Ho bisogno di pensare.»
«Questa
impasse non andrà avanti per sempre, Erik. Sarà
lei stessa a infrangerla.»
Sì,
perché ha capito quel che provo per lei, e di conseguenza ne
è ripugnata.
Sulla soglia, Nadir si
ferma un attimo per guardarsi alle spalle. «Tu la ami,
Erik?»
Questi non proferisce
parola, reso muto dal rimorso e dall'angoscia. Per il Daroga,
è una risposta sufficiente.
Scena
VII
MEG: Non so cosa
sarebbe potuto accadere se non mi avesse fermato. Anzi, lo so, ma non
voglio pensarci.
DOTTORESSA LAURENT:
Cosa provi davvero, Meg? Poniti questa domanda.
MEG: Mi è
difficile analizzare le mie emozioni. Illuminatemi.
DOTTORESSA LAURENT: (incrociando
le braccia al petto)
Quando gli sei vicino… ti sembra forse che… che
ogni cellula in te muti in elettricità statica? Che vi sia
una corda a legarvi? Come ti sentiresti se questa si spezzasse?
MEG: (con le
lacrime agli occhi, si massaggia le tempie quasi le dolessero) Come se avesse spezzato
anche me.
DOTTORESSA LAURENT: E
allora hai la risposta che cerchi.
MEG: Ma come? La sua
faccia è impossibile, ve lo garantisco. Non sembra neanche
umana. Ma la sua voce… Mi chiama a sé, e non
riesco a resisterle. E non sto parlando solo della sua vera voce, ma anche di quella della
sua anima. A New York… (si prende
la testa tra le mani)
gli avrei concesso tutta me stessa, al diavolo il suo aspetto. E questa
cosa mi uccide, perché lui è così problematico, e tanto
più grande di me…
DOTTORESSA LAURENT:
Dovete chiarire e parlarne.
MEG: Lui ama Christine
Daaé, non me. Cosa sono io in confronto? Un anatroccolo
sparuto, ecco cosa.
DOTTORESSA LAURENT:
Non esserne tanto sicura.
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Capitolo 15 *** xv. ***
xv.
Erik non credeva di
serbare tanta pazienza dentro di sé, eppure eccolo
lì: tremante di desiderio (per lei) e disgusto (per se
stesso) mentre Meg sbaglia per l'ennesima volta un accordo di un brano
di Beethoven.
Finché non
è stufa e batte un pugno sulla tastiera, così
forte che Erik teme che abbia rotto qualche tasto. Ma è il
suo viso arrossato dal furore che lo attira, adesso.
«Non so come
tu faccia. Sono due settimane — due
settimane
— che va avanti così. Ora basta.»
Meg si rizza in piedi,
sollevando il mento in una posa di sfida. Erik, d'istinto, arretra.
«Come puoi
ignorare quello che è successo? Perché
è successo. Non lo si può
negare. Non puoi sempre nascondere tutto dietro una maschera,
Erik!»
Lui fa una smorfia che
assomiglia più a un ringhio. «Non mi sembravi meno
restia a discuterne, Meg. E non è successo niente.»
«Per te
è stato niente?» L'amarezza stilla dalla voce di
Meg.
«E per te,
invece?»
Rimangono in silenzio
a guardarsi. Dopo qualche attimo di mutismo ostinato, Erik continua:
«Non posso darti quello che cerchi.»
«Tu non sai
quello che cerco.»
«Di certo
non uno con la mia faccia.»
«Non me ne
frega un cazzo della tua maledettissima faccia!»
«Dannazione,
Meg — ho il doppio dei tuoi anni!»
«E allora?
Humphrey Bogart e Lauren Bacall.»
Erik strabuzza gli
occhi, confuso. «Cosa?»
«Bogart e la
Bacall avevano più anni di differenza tra loro di noi,
eppure…»
«Meg, forse
ti è sfuggito un piccolo particolare: io non sono Humphrey
Bogart.»
«E io non
sono Lauren Bacall, per quello che vale.»
Meg china lo sguardo
sulle proprie dita intrecciate, quasi in segno di preghiera.
«Dimmelo.»
«Dirti
cosa?» La voce di Erik è rauca e stanca, come il
latrato di un cane malato.
«Che per te
è stato importante. Sii sincero, per una volta. Niente
maschere.»
Erik si massaggia le
tempie. Potrebbe dirle ora che la desidera come mai ha desiderato
qualcuno; che la ama come un uomo può amare una donna, e non
un'idea; e quanto sia sbagliato tutto ciò.
Ma lei non sarebbe mai
felice al fianco di un mostro. Lei merita il meglio, e lui ha imparato
ormai da tempo che non fa parte di quel meglio.
Pertanto, non
proferisce parola. Resta muto, il cuore in sintonia con la disperazione
che gli scioglie le viscere.
«Capisco.»
Non
è un gioco per me, Meg, vorrebbe dirle, ma si arresta
in tempo. È
per il suo bene,
si convince. Ed è pronto a soffrire per questo.
Lei sbatte le
palpebre, gli occhi lucidi. «Sì, ho
capito.» Infila le sue cose nella solita borsa a tracolla e,
ancora in lacrime — e probabilmente furiosa, con se stessa e
con lui — fugge via come un uccello migratore.
Torna
nelle terre del sole, Meg. È lì il tuo posto.
In un impeto di
furore, Erik scaglia a terra tutti gli spartiti che può, un
singhiozzo nel petto e la gola stretta. Poi collassa sul divano,
sfinito da emozioni che non riesce a decifrare.
È sera
tardi quando suonano freneticamente al campanello. Erik si affretta ad
indossare la maschera, in maniche di camicia, certo che solo il Daroga
abbia ragione di venire a fargli visita ad un'ora così
impossibile, con la pioggia e il vento che sbatacchiano le imposte come
moniti di déi arrabbiati.
Naturalmente si
sbaglia.
La Harley Davidson
è parcheggiata sul vialetto di ghiaia; la sua proprietaria
gli si staglia dinanzi, simile a un pulcino bagnato rivestito di cuoio
nero dalla testa ai piedi. Erik non è sicuro che le gocce
d'acqua sulle sue guance siano stille di pioggia.
«Posso
entrare?»
Erik non perde tempo e
annuisce — non è così rude da lasciare
che qualcuno rimanga lì fuori in simili condizioni
atmosferiche.
Meg avanza
nell'androne di marmo, inzaccherando di fango il costoso tappeto
persiano. Se ne accorge, e fa una smorfia. «Chiedo
scusa» dice, accennando ai suoi stivali sudici.
«Non
importa» le assicura Erik in tono di noncuranza.
Dopo qualche attimo di
silenzio in cui lui pondera su come agire, le chiede se ha bisogno di
cambiarsi o di una tazza di tè. Meg scuote rigidamente il
capo.
«Devo
parlarti. E non interrompermi finché non ho finito. Per favore.»
Erik deglutisce, ma
resta in solerte ascolto.
«Devo dirti
— e mi costa farlo, ma fanculo l'orgoglio — che sei
l'uomo più straordinario che io conosca. Nessuno mi capisce
come te, nessuno mi dona un equo senso di pace.» Non lo
guarda negli occhi, e questa volta Erik capisce che sta piangendo sul
serio. La sua voce si incrina pericolosamente. «Il solo
pensiero di te mi consuma in un modo che mi spaventa e mi confonde al
tempo stesso. Ti darei il mio cuore — tutta me stessa
— se tu lo volessi. Mi hai cambiato la vita, e…
cazzo. Cazzo. Credo di amarti. Fanculo, è così.
So che non ha senso, ma quando mai qualcosa nella mia vita ha avuto
senso? E ti prego di… di accettarmi. Fidati di me quel tanto
da capire che non ti sto prendendo in giro; che non si tratta di una
curiosità morbosa o di un interesse fatuo. Se non mi vuoi,
lo capisco, certo. Non posso sconfiggere un fantasma. Ma se
invece…» si porta una mano alla gola, soffocando
un singhiozzo, «lasciati andare. Concediti di essere
felice.»
Erik vorrebbe dirle
tante cose. Vorrebbe dirle che tutte le galassie dell'universo
— l'infinito — sono concentrate in lei. Si limita a
piangere silenziosamente, le lacrime che gli colano da sotto la
maschera nera.
Le si accosta
gradualmente, come farebbe con un cucciolo spaurito — e in
fondo lui è rimasto il cucciolo d'uomo arrabbiato con Dio e
alla ricerca dell'amore che gli è sempre stato negato. Le
sfiora una guancia umida di lacrime e pioggia. Non ha mai percepito
nulla di più soffice sotto le sue dita. Lei rabbrividisce al
suo tocco, e non di freddo o paura.
«Stai
gelando.»
«Non sai
dirmi altro?»
Lui sorride. La sua
Meg è pungente come sempre.
Lei gli accarezza il
viso mascherato con un fare lento e delicato che lo stupisce; poi il
petto, all'altezza del cuore — palpita con la forza di una
supernova in combustione.
«Togliti la
maschera.»
Lui si irrigidisce.
«Non posso.»
«Solo per un
attimo. Voglio provare una cosa. Dopo potrai rimetterla, se
vuoi.»
Con dita tremanti,
Erik si sfila la prigione che ha sul viso, mostrando ciò che
cela. Meg lo conosce e non arretra. Ha la fronte aggrottata e la
piccola bocca distorta in una smorfia, ma lo esplora con dita curiose e
sapienti, alzandosi sulle punte per baciargli ogni traccia di lacrime
sulle guance — se tali si possono definire — e di
paura sulla fronte. Infine le labbra: sottilissime, due cicatrici sulla
pelle devastata.
Meg bacia senza paura
la Morte Vivente, e non
muore! Non sta morendo! È perfettamente
viva e vegeta e calda tra le sue braccia, e si
appoggia a lei, sentendo che le ginocchia gli cedono dall'emozione. Lei
sorride, asciugandosi gli occhi gonfi.
«Qualcuno mi
ha detto che hai la reputazione di essere un cattivo ragazzo»
dice scherzosa.
«Chi?»
chiede lui, altrettanto ironico.
«Un brutto
anatroccolo con il verso di un angelo. Lui non lo sa, ma è
in grado di volare più in alto di tutti, anche se non si
trasformerà mai in un cigno. Lo è già
agli occhi della irritante cornacchia che lo ha adocchiato.»
Erik sorride
all'immagine. «E quindi…?»
«E
quindi…» lo motteggia lei di rimando,
«hai un letto o dormi in una bara?»
«Divertente.»
Meg soffoca una risata
sul suo petto, mentre lui si infila nuovamente la maschera protettiva.
Senza preavviso, la prende tra le braccia, e lei emette un pigolio di
sorpresa e delizia insieme, aggrappandosi a lui come a un'ancora.
Erik la conduce nella
sua camera, chiudendosi la porta alle spalle. Non è
più tempo per le parole.
Erik trema al tocco di
Meg, e si scioglie come cera sotto le sue dita. Lei è uno
splendore, seppure zuppa di pioggia e fango — lui le scosta
le ciocche incollate al viso minuto e scuro e angoloso con delicatezza.
Lei gli permette di esplorare il suo corpo nudo — le
imperfezioni, le antiche cicatrici d'acne giovanile — con la
pazienza di un archeologo, o l'anatomista che è. Lei si
acciglia dinanzi al suo, di corpo, ricoperto di mille cicatrici
— sono una
reliquia di guerra,
le spiega in tono indecifrabile, e lei annuisce senza fiatare.
Poi sono baci e gemiti
e — non ha mai creduto di potersi sentire vivo, eppure la
trova, la vita, qui, sulle labbra di questa ragazza meravigliosa,
quando entra in lei e — Dio, chi pensava che annegare fosse
tanto simile a una rinascita? Lei gli resta aggrappata e mormora il suo
nome, annebbiata dal piacere.
Rimangono per qualche
attimo in silenzio, immoti e ansanti, nelle narici la trasudazione
dell'altro.
«Tremi»
sussurra Meg, scostandogli dalla fronte una ciocca di capelli. Erik
annuisce, poggiando la fronte sui suoi piccoli seni: non ha mai
conosciuto un piacere così grande, né ha mai
pensato che sarebbe stato possibile per lui provarlo. Meg non
è l'angelo o la santa che Christine rappresentava per lui;
è complice, amica, compagna, amante.
Così
è questo ciò che accade quando due stelle
collidono,
pensa, rilassandosi su un fianco. Meg lo imita, con le ginocchia
strette al petto. Per qualche attimo, il silenzio cala come un drappo
benefico su di loro; infine, Meg lo strappa con un inaspettato:
«È la prima volta che faccio l'amore con un
uomo.»
Erik sbatte le
palpebre, dapprima perplesso. Poi scoppia a ridere, divertito.
«Meg, sai
che sono inesperto in questo campo, ma sono anche un uomo di mondo,
nonché un anatomista. So bene come nascono i bambini, e tu
hai una figlia.»
Meg si unisce alla sua
risata. «No, volevo dire… Il sesso è
una cosa, l'amore un'altra. Non ho mai provato qualcosa di simile,
prima.»
«Neanche con
Luc?»
«Neanche con
Luc.»
Inutile aggiungere che
lo stesso vale anche per lui.
«Tua madre
mi ucciderà quando verrà a sapere di…
di noi, insomma.» È stupito che esista un noi, dopotutto.
«Era
sospettosa al riguardo già da un po' di tempo, persino da
prima che ti portassi con me a New York.»
«Davvero?»
«Non
smettevo mai di parlare di te, tanto che credo di aver fatto impazzire
sia lei che Luc. Diceva che mi si illuminava il viso ogni volta che ti
menzionavo.»
Erik sorride al
pensiero.
«Per quanto
riguarda la mia terapista, è stata lei a consigliarmi
di… dichiararmi, insomma. Capiva il mio malessere, e mi ha
suggerito di andare dritta al punto e scoprire la verità.
Non credo immaginasse che saremmo finiti così.»
Meg fa un cenno alla loro nudità, ed Erik ride.
«Era sicura
che ricambiassi i miei sentimenti. E se la cosa rendeva felici
entrambi, allora era giusta, malgrado tu abbia quasi il doppio dei miei
anni.»
«E la mia
faccia? È un aspetto da non sottovalutare»
soggiunge lui, sarcastico.
Lei sorride.
«Quello è l'ultimo dei problemi.»
Fanno l'amore di
nuovo, quella notte — è come abbeverarsi a una
sorgente fresca in un deserto arabo; è come rinascere di
nuovo, per lui, e sentirsi alla fine completo. Poi si addormentano
l'uno di fianco all'altra, lei con il capo sul suo petto, e lui non
riesce a sopprimere dentro di sé la sensazione di meraviglia
assoluta che lo pervade nell'accarezzarle i capelli arruffati, quasi
assista ad un miracolo.
Non esistono incubi
per lui, quella notte, solo visioni di un cielo a malapena sognato e
ora finalmente reale.
Sono
vivo. Sono vivo sono vivo sono vivo…
Il suono del
campanello lo tramortisce, destandolo subitaneamente. Si allontana da
Meg, ancora dormiente, con non poca riluttanza. Il suo calore lo rende
meno simile a un cadavere vivente, in qualche modo. Afferra i primi
abiti che gli capitano sott'occhio e scende di sotto per aprire la
porta. Ad accoglierlo è il Daroga, che appare sospettoso
dello stato caotico in cui si trova il suo eccentrico amico —
non solo nell'aspetto, ma anche nel portamento, quasi avesse assistito
a una visione miracolosa di cui resta ancora ostinatamente incredulo.
Inarca un sopracciglio.
I due uomini si
scambiano i consueti convenevoli, finché Nadir non dice:
«C'è la moto di Meg parcheggiata sul
vialetto.»
Dannazione! Si erano entrambi dimenticati
della moto, presi com'erano l'uno dall'altro.
«Ah.
Sì.»
«Come mai
è qui a quest'ora del mattino?»
Erik si finge calmo e
gelido mentre il suo cervello rigurgita, come un vulcano, lapilli di
dubbi e spiegazioni insensate. La realtà è che
non sa cosa rispondere.
«Ha dormito
qui?»
Le orecchie di Erik
assumono uno spaventoso color papavero. Nadir sbatte le palpebre,
accigliato.
«Daroga,
io…»
«Non sei in
obbligo di dirmi nulla. Ho capito. Sono… felice per te,
davvero.»
«Quindi
approvi?»
«Non mi pare
che tu abbia mai avuto bisogno dell'approvazione di qualcuno per fare
quello che vuoi.»
«Cosa stai
insinuando?»
«É
giovane» risponde Nadir, pensando ad alta voce.
«Sei sicuro di quello che stai facendo?»
«Non sono
proprio sicuro di nulla, ora più che mai. Ma ti avviso,
è stata lei a volerlo.»
«Sicuro?»
«Completamente.
Per chi mi hai preso?»
Ora Erik è
arrabbiato. È molte cose, ma non un seduttore di fanciulle
innocenti. Sebbene Meg non possa dirsi esattamente una fanciulla
innocente.
«Una donna
mi ha baciato. Anzi, più di questo.» Si ferma ai
sottintesi. «E non
è morta, Daroga! Sono uscito dalla mia tomba
sconsacrata e ho finalmente ammirato la luce del sole. Neanche il
paradiso del tuo Allah potrebbe rendermi più felice,
adesso.»
Seppure ancora
vagamente perplesso, Nadir distende le labbra in un sorriso.
«Se siete felici entrambi, allora approvo, e con tutto il
cuore.»
Gli porge una mano,
che lui stringe con un calore che non credeva possibile, prima.
«Congratulazioni.»
Quando se ne va, Meg
— vestita della sua camicia — scende a passi
felpati la rampa di scale e gli si avvicina da dietro, circondandogli
il torso con le braccia ossute.
«Allora,
cosa ha detto?»
Quindi ha ascoltato
tutto. «Non si origlia.»
«Non potevo
certo farmi vedere dal povero Daroga in questo stato
indecente.»
«Ora devi
affrontare tua madre.»
«E
Luc.»
Erik sospira.
«Già. Non era un mio fan?»
«Non se vai
a letto con la madre di sua figlia.»
Con una smorfia, Erik
scuote il capo. «Il richiamo della carne è forte,
ma…» dice, seguendo con un dito la curva dei suoi
piccoli seni. Meg ha un brivido.
«Ma
è molto più di questo» conclude lei con
voce resa ancor più roca dall'eccitazione.
«Sì.
Ciò che provo, e quanto mi hai detto, lo
confermano.»
«A tal
proposito, io vado a riscaldarmi sotto la doccia. Se vuoi seguirmi,
Monsieur…»
Quando lei, sgusciata
via dalla sua presa, risale le scale lasciandosi dietro la camicia,
Erik capisce di non avere scelta al riguardo.
Scena
VIII
DOTTORESSA LAURENT:
Immagino sia stato sconvolgente per tutti.
MEG: Non sapete
quanto. Mia madre aveva… molte perplessità
riguardo il suo aspetto. Sa che è deforme, sebbene non
l'abbia mai visto, e non lo giudica per questo, ma… sa anche
che la normalità non è possibile per noi. Si
preoccupa. E poi, tremo al pensiero di ciò che farebbe se
venisse a conoscenza del suo passato… problematico. In ogni
caso, si è arresa al fatto che io lo amo, e che lui ama me.
Sebbene lui sia molto più grande…
DOTTORESSA LAURENT: Un
problema in più.
MEG: Sono un'adulta
consenziente e lui non è un maniaco, su questo non ci sono
dubbi. A letto, sono più esperta di quanto lui
potrà mai essere: ho già una figlia, mentre
Erik… a volte è un tale bambino. È
come se la crescita di qualcosa, in lui — diciamo pure il
rapporto con il suo corpo e le sue emozioni — si sia fermata
ad uno stato pre–adolescenziale. Ma siamo pari in tutto. Non
chiederei di meno da una relazione così importante.
DOTTORESSA LAURENT: Se
lui ti ama e ti rispetta, neanch'io vedo il problema.
MEG: Ho incontrato
tanti giovani che mi vedevano solo come un oggetto sessuale, o una
sgualdrina, per la mia… passata promiscuità. Erik
non penserebbe mai queste cose di me, perché lui sa cosa
significa essere trattati come meno che umani.
DOTTORESSA LAURENT: E
Luc?
MEG: Luc
è… confuso, ma non sorpreso. È un fan
di Erik, lo sapete, oltre che il mio più caro amico, e
desidera la mia felicità. Ha scherzato sul fatto che avrei
dovuto accorgermi prima di essere innamorata di lui, perché,
con una simile voce da Adone, ogni donna cascherebbe tra le sue
braccia. Questo ha divertito molto Erik. In realtà, credo
che ne fossi innamorata persino da prima che mi raccontasse la
verità sul suo passato o che vedessi il suo volto
smascherato. Dopo, naturalmente, è cambiato tutto, ma quel
sentimento è rimasto, e si è evoluto.
DOTTORESSA LAURENT:
Quindi sono tutti d'accordo.
MEG: Più o
meno, sì. Finora tengo nascosta la relazione alle mie amiche
e compagne nel corps de
ballet,
ma… se la cosa diventasse più seria…
DOTTORESSA LAURENT: Ci
hai già pensato?
MEG: Sì.
Questo significherebbe che dovrebbe svelarsi al mondo in quanto
mio…
DOTTORESSA LAURENT:
Marito?
MEG: (arrossendo) Sì.
DOTTORESSA LAURENT:
Lui è disposto a farlo?
MEG: Per amor mio,
sì. Ma la maschera rimarrà sempre parte di lui;
è il suo scudo più forte, un'armatura che getta
via solo con me.
Note
dell'Autrice:
E siamo arrivati all'ultimo capitolo di questa storiella
così modesta! Presto aggiornerò con l'epilogo,
guys. Scrivere di Meg ed Erik in un universo contemporaneo è
stato davvero divertente. Spero che abbia divertito anche voi!
(La loro differenza di
età, a cui è facile arrivare con qualche conto,
è di ventun'anni. Che è parecchio, ma poteva essere anche
peggio, considerando che Erik nel libro di Leroux ha come minimo
cinquant'anni.)
E ora, le recensioni!
Elisagemma: Oddio, cara, se avessi saputo
che controllavi ogni giorno per un nuovo aggiornamento, avrei davvero
aggiornato quotidianamente! Concordo sul fatto che siano una droga. E
anche che sono cocciuti, sì. Che ne dici di questo
“capitolo” finale? Finalmente si sciolgono! Quanta
dolcezza, eh? A presto per l'epilogo! :*
ondallegra: Grazie mille! Sono contenta
che la fic ti piaccia e che tu mi abbia seguito anche in
quest'avventura. Alla fine, in questo capitolo siamo arrivati al punto
che tutti (?) aspettavano con ansia! Commenti al riguardo? Qualche
critica? Sono aperta a tutto. :D
All'epilogo,
carissima! <3
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Capitolo 16 *** epilogo. ***
xvi.
[ sette anni dopo ]
Erik
è disteso su una sedia a sdraio, il sole che gli riscalda la
pelle scoperta (poca) delle braccia dai muscoli nervosi, tirati. Gli
occhiali da sole gli schermano gli occhi dorati e indossa,
naturalmente, un naso finto.
«No,
no — non così. Maman, tu pensa a
Virginie. Quel piccolo impiastro…»
Osserva la
scenetta familiare che ha dinanzi: una affaccendata Meg Giry stringe
tra le braccia un bambino paffuto dai folti capelli neri, che si
dibatte nell'acqua della piscina come una papera in uno stagno. Meg gli
insegna a nuotare, tutta presa dal timore che affoghi. Erik
è abbastanza sicuro che riesca a cavarsela anche senza il
suo aiuto, e così la lascia fare, ammirando i riflessi bruni
sulla sua chioma di corvo. Madame Giry, frattanto, evita che Virginie
ingoi uno scarafaggio, mentre Luc ascolta con pazienza le interminabili
descrizioni di Dany sul ragazzo per cui ha una cotta da mesi. Il
Daroga, frattanto, è disteso su una sdraio accanto alla sua
e si gode il sole francese. Qui l'aria è certamente meno
afosa che nel caldo Iran, ma ormai vi è abituato.
Erik si chiede
come la sua vita abbia potuto imboccare questo corso inaspettato.
Rivanga le memorie del matrimonio con Meg, di come lei sia arrivata in
ritardo («Mi ha rubato la moto, quel pezzo di merda. Ah, ma
gliel'ho fatta pagare» gli aveva rivelato dopo la funzione),
di come lui sia rimasto senza fiato nel vederla splendere in un abito
bianco avorio intessuto di perle e preziosi ricami floreali. Aveva
davvero creduto che gli venisse un infarto, allora. La cerimonia era
stata semplice — pochi intimi, il Daroga e la dottoressa
Laurent come testimoni, Dany a portare le fedi agli sposi, la messa
nuziale composta, com'è ovvio pensare, da lui stesso. Dal
loro matrimonio, sua moglie — sua moglie!
Impensabile — si è trasferita stabilmente nella
Maison Danton, con Dany al seguito.
Qualche mese
dopo, era giunta la notizia: Meg aspettava un bambino. La cosa lo aveva
lasciato talmente stravolto che aveva avuto bisogno di un bicchierone
di brandy per riaversi.
«Mi
avevi assicurato che non sarebbero avvenuti… incidenti di
questo tipo.»
«Qualcosa
è andato storto — Erik, non farmene una
colpa…»
«Non
sono arrabbiato. Non con te.» Si era preso la testa tra le
mani, in preda a un tale terrore che a malapena era in grado di
respirare. Meg gli era rimasta vicina per tutto il tempo, ad ascoltare
le sue paure. Avevano già discusso sulla
possibilità di avere figli, ma Erik non aveva nessuna
intenzione di generare una creatura destinata all'infelicità
come lo era stato lui.
«Erik
Danton» Meg si era eretta in tutta la sua modesta altezza, ma
era comunque inquietante, «come osi pensare che non
possa amare questo bambino, quando tu sei, insieme a Dany, la persona
più preziosa del mio universo?»
Ma non era del suo amore che Erik
si preoccupava.
Il ginecologo
aveva presto assicurato ad entrambi che la creatura che cresceva nel
grembo di sua moglie non era affetta da alcuna deformità
genetica, grazie a Dio. Erik aveva cessato di tremare solo allora,
rassicurato dalla stretta di mano di Meg.
«Congratulazioni!»
aveva detto loro il dottore con un sorriso caloroso. «Sono
due gemelli.»
Erik era rimasto
senza parole, la bocca aperta come un pesce in una vasca. Meg, senza
preavviso, era scoppiata a ridere.
«Bella
questa. Voi e mio marito vi siete messi d'accordo per giocarmi questo
bello scherzo, vero?» E aveva continuato a ridere in modo
quasi isterico fin quando il dottore, non poco perplesso, aveva
aggiunto: «No, Madame, è la verità.
Aspettate due gemelli.»
Solo a quel
punto Meg si era placata, e la sua reazione era stata un:
«Oh, porca puttana» che, se fosse stato
più incline al turpiloquio come la sua novella sposa, Erik
avrebbe emulato.
Niente aveva
potuto eguagliare, però, il momento in cui gli avevano
permesso di tenere in braccio i suoi figli: Virginie e Alexandre,
splendidi e pronti a scoppiare in pianti striduli alla prima occasione.
Allora aveva capito che, per quanto imprevisti, erano sempre stati
desiderati.
Sono padre. Non posso credere di
essere padre. Io! Io!
(Aveva dovuto
convincere Meg a non chiamarli Luke e Leia1,
poiché sarebbe stato ridicolo ed eccentrico in un modo per
cui sua moglie era invece ben nota.)
Alexandre
è timido e impacciato, ma intelligente — ha
cominciato a parlare molto presto; Virginie è la
più spericolata dei due, e necessita di una vigilanza
costante da parte della nonna e dei genitori, nonché della
sorellastra. Dany considera Erik come un secondo padre, e lo adora, e
pende dalle sue labbra. Assurdamente, Luc non si è
dimostrato geloso: la sua natura generosa e spontanea non ha potuto che
sorridere dinanzi a quella famiglia allargata, così bizzarra
e fuori dalla norma. (E poi, pende anche lui dalle sue
labbra, quasi la sua voce fosse ambrosia: è un suo grande
fan, d'altronde.)
Ora che
è estate, Erik si gode il sole —
benché, si sa, lui sia rimasto una creatura dell'ombra
— e la compagnia dei suoi cari.
«Ci
avresti mai immaginati qui, trent'anni fa?» gli chiede il
Daroga, ed Erik può quasi vedere il suo sguardo di giada
perforarlo da dietro lo schermo degli occhiali da sole. Scuote la
testa: il senso di meraviglia — svegliarsi ogni mattina con
la donna amata al fianco, baciare i capelli dei suoi bambini prima
della scuola — non si è placato negli anni. Certo,
il suo volto non vedrà mai la luce del sole, ma la vita non
è più sua nemica: è semplicemente una
storia da raccontare, un brano da comporre.
D'un tratto,
rammenta i versi della prima canzone su cui lui e Meg hanno ballato: in
quell'occasione, erano sul tetto dell'Opera, e lei si stringeva a lui
con fare quasi timido, all'apparenza così poco da Meg.
At last
my love has come along
My lonely days are over
and life is like a song2
Sorride tra
sé e sé, incrociando lo sguardo di Meg, ancora
impegnata ad insegnare ad Alex come usare i braccioli per nuotare in
piscina. Nei suoi occhi trova ancora tutte le costellazioni
dell'universo.
Dovrebbe
comporre un brano sullo spazio, sulle sensazioni che il solo pensiero
del vuoto gli dà; di come da buco nero sia mutato in sole
ruggente.
(Finalmente va
tutto bene. Finalmente.)
FINE
Note dell'Autrice: 1Luke
e Leia: I fratelli gemelli Skywalker, tra i protagonisti principali
della ben nota saga di Star Wars.
2Finalmente
il mio amore è
arrivato
I miei giorni di solitudine sono
finiti
e la vita è come una
canzone.
Ed ecco
l'epilogo di questa storiella da quattro soldi che spero sia stata
carina e dolce da leggere. È, ripeto, assolutamente senza
pretese – voglio dire, è una sorta di commedia
romantica, quindi non ha chissà quali temi elaborati XD, ma
ehi, non si può sempre scrivere e/o leggere cose
Angst™ e deprimenti, vero? (La verità è
che non è una fic pretenziosa, ecco tutto. O almeno non era
mia intenzione che lo fosse.) Dopo un po' diventa stancante, e a me
piacciono anche le cosine felicietbelline come questa. (Bellina, mo'.
Sta a voi giudicare!)
Grazie per aver
letto. Un bacio e (si spera) a presto!
P.S. La storia
dei gemelli è ispirata a un fatto realmente accaduto ai miei
genitori. Alla notizia da parte del ginecologo che mia madre aspettava
una coppia di gemelli (un maschio e una femmina, come Alexandre e
Virginie), lei scoppiò a ridere e pronunciò le
stesse parole che Meg dice qui in questo epilogo (eccetto il
turpiloquio XD). Al che il dottore e mio padre la guardarono stranita,
e lei capì che effettivamente non era uno scherzo.
La mia prima
reazione alla notizia – avevo sette anni all'epoca
– fu: Ma dove
li mettiamo? Perché la nostra casa non era
abbastanza grande per cinque persone, all'epoca; infatti poi ci siamo
trasferiti.
Cioè,
vi pare la normale reazione di una bambina di sette anni a cui viene
annunciato che non avrà uno, bensì due
fratellini? XD
Naturalmente i
miei genitori ed io siamo stati benedetti dalla loro nascita, e siamo
felicissimi di essere così uniti. Credo che la famiglia di
Meg ed Erik sia un po' simile: ci sono parecchi problemi, ma Amor vincit omnia.
È bello il pensiero di un Erik che, redento e ormai una
persona migliore, è riuscito a trovare un po' di amore e
pace nella sua vita. Dà un po' di speranza a tutti, non vi
pare? XD
Elisagemma: Oddio,
cara, ma sei dolcissima! Certo che continuerò a scrivere fic
sui due pazzi, qui. Per esempio, ho in mente da un po' una (credo
breve) AU di Elementary – non so se conosci il telefilm, ma
è un adattamento di Sherlock Holmes in chiave moderna (a
parer mio in certi tratti persino migliore dello Sherlock della
BBC). Al fianco di Holmes troviamo una fantastica versione femminile di
John Watson, interpretata da Lucy Liu. E no, lei e Sherlock non hanno
una storia d'amore – non è che ora si grida
all'amore solo perché sarebbe etero – ma il loro
rapporto, seppur platonico, è magnifico: c'è una
fiducia e un'ammirazione reciproca tra loro che si trova raramente
rappresentata in TV tra un uomo e una donna, soprattutto se sono solo
“amici”. (No, non ti preoccupare, Meg ed Erik non
saranno “solo amici” in nessuna stupida fic
che scriverò, anche se di certo l'amicizia è
fondamentale per un rapporto di coppia. Un partner romantico deve
essere anche un amico, un confidente, altrimenti dov'è la
fiducia?)
E quindi
sì, ho in mente altre cosine. Adesso sono impegnata nel
fandom di Star Wars (non so se lo hai notato dai riferimenti in questa
fic, ma sono un po' ossessionata), e ho in mente un importante progetto
originale, ma una capatina nel Phandom la faccio sempre. Amo troppo
questi due matti per lasciarli.
Grazie per i
complimenti, e per aver recensito e letto la storia! Un bacio e alla
prossima! <3
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