Questi
personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà
di sir A.C.Doyle, Moffatt, Gatiss BBC ecc.; questa storia è
stata
scritta senza alcuno scopo di lucro per il mio puro divertimento e
spero che non ne ricordi altre, in tal caso non sarebbe voluto, ma
fatemelo sapere!
AMNESIA
L’aria
è leggermente asettica, sembra quasi non abbia alcun odore.
L’uomo disteso nel letto si sente stanco, prova a muovere le
dita della mano sinistra, un movimento impercettibile, un tentativo di
toccare la consistenza delle lenzuola. Sono rigide, per niente
confortevoli, al punto che è sicuro che quando
aprirà gli occhi, saranno bianche e anonime, come quelle di
un letto d’ospedale.
Porta
la mano destra sulla fronte, con fatica, a coprire le palpebre ancora
chiuse finché non sente una voce profonda che lo invita a
svegliarsi; percepisce la presenza accanto a lui e si trova costretto,
finalmente, ad aprire gli occhi e affrontare quello che è
successo.
«
Dott. Watson, buongiorno » esclama quella voce.
L’uomo disteso nel letto cerca di riconoscere il proprietario
di quel suono caldo che lo ha fatto sussultare, ma non ricorda di aver
mai visto qualcuno come la figura che ha davanti. Alto, dai capelli
corvini e ricci, che fanno da piacevole contorno ad un viso
così pallido da essere quasi etereo.
«
Buongiorno » biascica l’uomo nel letto «
Come mi ha chiamato? »
«
I medici mi hanno detto che poteva avere un’amnesia , per
questo sono qui » risponde brusco l’uomo in piedi
« Mi chiamo Sherlock Holmes, consulente investigativo e sono
qui per aiutarla con il suo caso »
«
Il mio caso? » risponde confuso il dottor Watson, guardandosi
attorno stranito. La stanza è eccessivamente bianca ma
comincia a percepire qualche odore, quell’aria sgradevole di
disinfettante, tipica di un ospedale.
«
Ho guardato gli oggetti che aveva addosso quando l’hanno
trovata » afferma facendo un leggero cenno verso una scatola
appoggiata accanto al suo letto « I documenti che aveva nel
portafoglio dicono che si chiama John Watson, medico militare in
congedo. L’hanno trovata ferito in un vicolo, nessun indizio.
La polizia, al solito, brancola nel buio e per questo ha chiamato me.
Lei è in coma da due settimane, credevano non sarebbero mai
riusciti a parlare con lei, per questo mi hanno ingaggiato e vista la
sua amnesia, direi che hanno fatto bene »
John
Watson fissa l’uomo che dice di chiamarsi Sherlock Holmes e
che tutto ad un fiato gli ha versato addosso una valanga di
informazioni che il cervello, provato da settimane di coma, non sembra
recepire del tutto. Si chiama John, era un medico militare, era stato
aggredito.
«
Nessun parente è venuto a trovarmi? » chiede,
sentendo già che la risposta sarebbe stata negativa. Non
riesce a capire perché ma ha l’impressione di
essere una persona molto sola. Sherlock Holmes sembra colpito
dall’affermazione, per un attimo fissa l’uomo con
uno sguardo strano, quasi spaventato, per poi scacciare
quell’espressione che per niente si addice alla sua figura e
riprendere il solito sguardo sicuro ed indagatore.
«
Che io sappia, non è venuto nessuno. Ma la polizia
è lenta, potrebbero non aver rintracciato i suoi parenti
» commenta il detective, portando le mani dietro la schiena
ed iniziando a passeggiare, meditabondo, per la stanza. Sherlock sembra
sul punto di dire qualcosa, una deduzione o qualcos’altro di
più personale, ma ogni pensiero viene ricacciato indietro
dall’arrivo di un uomo ed una donna.
«
Il competente ispettore Lestrade e la simpaticissima sergente Donovan
» fa il consulente investigativo con un cenno del capo in
direzione dei due. John rimane leggermente stupito dal tono
di accondiscendenza dell’uomo, ma non dice una parola.
Lestrade
e Donovan puntano direttamente alla scatola appoggiata sul comodino,
ignorando Sherlock che sfoggia un sorrisetto indisponente mentre si
avvicina alla finestra, come per cercare qualcosa al di là
di quella stanza.
«
Scusate » fa John Watson, quasi timidamente «
Potreste dirmi cosa sta succedendo? »
«
Non possono » ribatte il detective « Non
lo sanno nemmeno loro »
«
Non capisco cosa ci faceva in quel vicolo vicino a Gooding Street
» commenta Donovan, con un tono acido che infastidisce John.
«
Scusate se vi sto arrecando disturbo » commenta
John sarcastico, in risposta, provocando una leggera risata in Sherlock.
Lestrade
alza lo sguardo in direzione di Sherlock e John, poi scuote il capo e
ritorna a controllare l’interno della scatola «
Documento di identità di John Watson, portafogli con 50
sterline, cellulare rotto. Vediamo se Anderson riesce a ricavarne
qualcosa »
«
Anderson? » esclama il detective « E’
già tanto se capirà che si tratta di un cellulare
»
Donovan
si avvicina a Lestrade, occhieggiando in giro « Intanto
sappiamo che non si è trattato di una rapina, ci sono ancora
50 sterline nel portafogli »
«
Scotland Yard è in grande forma oggi » risponde
Sherlock, strizzando l’occhio in direzione di John.
I
due agenti sbuffano, Lestrade porta anche una mano sulla testa,
grattandosela con vigore.
«
Non mi piace questa storia » esclama soltanto voltandosi in
direzione del detective.
«
E’ un caso interessante » ribatte serio Sherlock,
prima di dare le spalle a quelli che considera due incompetenti.
Lestrade
tira fuori dalla scatola un ultimo oggetto, un orologio con una
incisione sulla cassa. Fa una smorfia ma non intende commentare
ulteriormente.
Donovan
prende per un braccio l’ispettore e sembra quasi trascinarlo
fuori dalla stanza « Gli avevo detto di stare lontano da
quello stramboide » sussurra, prima di richiudere la porta
alle sue spalle.
«
E’ normale che non abbia capito niente? » chiede
John, perplesso. Sherlock sorride e il dottore può ammirare
come muti l’espressione di quell’uomo quando regala
un sorriso sincero. Sembra quasi fragile, non così sicuro di
sé come vorrebbe far credere.
«
Si riposi dottor Watson, ci vedremo nei prossimi giorni »
John
vorrebbe gridare che non ha motivo di riposarsi, che vorrebbe soltanto
sapere chi è e cosa sta accadendo. Non ricorda assolutamente
niente, non solo il motivo per cui è arrivato in ospedale,
non ricorda proprio niente del suo passato: dove è nato, la
sua famiglia, le scuole che ha frequentato. Non ha idea di chi lui sia.
Sente di essere una brava persona, ma come potrebbe esserne sicuro?
I
pensieri sono troppo negativi per non farlo sprofondare in un vortice
sempre più pressante, finché non si riaddormenta,
ancora una volta.
Passano
alcuni giorni, prima che Sherlock Holmes riappaia nuovamente nella sua
stanza. John ha sperato tanto di rivederlo, non solo perché
non ha ricevuto alcuna visita, ma anche perché gli sembra
l’unico legame con la realtà, l’unica
persona che in qualche modo si sta occupando di lui.
«
Sta bene? » chiede Sherlock, accomodandosi su una sedia
vicino al letto del dottore.
«
Dov’è stato? »
«
Ho fatto qualche indagine. Lei ha ricordato qualcosa? »
«
Frammenti di cose, niente di nitido. Credo ricordi della guerra
»
«
Mi descriva questi ricordi » risponde il detective,
congiungendo i palmi delle mani sotto il mento e chiudendo gli occhi,
come ad assorbire ogni informazione.
«
Sono cose folli, ricordo degli spari, delle grida, un uomo con la
corona, una donna vestita da sposa »
Il
detective sembra rianimarsi, in particolare il riferimento a due
persone gli fa sperare a qualche indizio sui possibili responsabili
dell’aggressione « Mi descriva queste due persone
»
«
Dell’uomo con la corona ricordo solo un ghigno da squilibrato
mentre la donna vestita da sposa non ha volto. E’ soltanto
una donna, con in mano una pistola »
Sherlock
si volta rapidamente, troppo rapidamente perché John non
possa notare che le informazioni l’hanno colto di sorpresa
« Ho detto qualcosa di sbagliato? »
Il
detective abbandona la sedia con una espressione indecifrabile, il
respiro è leggermente accelerato « John, se lei se
la sente, credo dovremmo uscire da questo ospedale e indagare assieme.
Magari le ritornerà in mente qualcosa »
Il
tono vuole essere autoritario, ma John percepisce una leggera dolcezza
nella richiesta, forse un bisogno di quell’uomo di non
restare da solo. Dopo pochi minuti è vestito e pronto ad
affrontare Londra assieme al nuovo amico.
Dopo
essere stati ignorati da alcuni tassisti, decidono di raggiungere a
piedi il luogo dove John è stato trovato. Il vicolo non
è tanto lontano e secondo Sherlock passeggiare per Londra
è un ottimo modo per recuperare la memoria. Il detective ha
un passo energico e veloce, John fa quasi fatica a stargli dietro per
le vie di quella città che non ricorda e non sa come
dovrebbe essere fatta, mentre l’uomo che sta seguendo con
estrema fiducia, sembra conoscere ogni angolo, anche il più
nascosto.
«
Lei dove abita? » chiede il dottore, accelerando il passo per
restare sempre a fianco al detective.
«
Baker Street »
«
Oh, una zona di lusso. Le serve un coinquilino? » commenta
John, scherzando e il detective sembra accogliere
quell’affermazione come uno schiaffo; non dovrebbe fargli
alcun effetto, invece lo fa e alcuni dubbi cominciano a
prendere ormai sempre più vorticosamente forma nella sua
testa.
Sono
all’altezza del ponte di Waterloo, quando Sherlock blocca con
un braccio il suo nuovo cliente e annusa l’aria perplesso.
«
Cosa succede? Un odore rivelatore? » scherza John.
«
Quale odore sente? Cosa percepisce? » chiede, concentrato su
qualcosa, un pensiero che continua a riproporsi ma continua a
ricacciare indietro.
John
arriccia le labbra, in un’espressione dubbiosa «
Smog e un odore non troppo piacevole dal fiume. Cosa dovrei sentire?
»
Sherlock
mette le mani nelle tasche del cappotto, all’improvviso non
è più tanto sicuro che uscire assieme sia stata
una buona idea « Fame? » chiede soltanto, evitando
lo sguardo del dottore.
«
In effetti mi sembra di non mangiare da secoli. Ho visto un bar qui
vicino » afferma, iniziando a camminare verso il locale,
seguito dal detective, per niente contento di dove le deduzioni lo
stanno portando.
Si
siedono ad un tavolino, il locale è affollato di gente
chiassosa e John non è per niente stupito che dopo
mezz’ora non sia ancora passata la cameriera per prendere la
loro ordinazione.
«
Non ho fame » afferma Sherlock, appoggiando le mani sul
tavolo, quasi in segno di sconfitta.
«
Come dice? » chiede John, mentre cerca di fare un cenno alla
cameriera carina che sta servendo il caffè qualche tavolo
più in là.
«
Ho detto che non ho fame e nemmeno tu, John »
«
Quando siamo passati al tu? » chiede il dottore sorpreso,
anche se trova quasi familiare quel modo di rivolgersi a lui.
Sherlock
sospira, scontento « Devo farti vedere una cosa, John. Non ti
piacerà » aggiunge con tono grave e il dottore
avverte una punta di malinconia, unita alla tristezza. Non sa cosa il
detective voglia mostrargli né perché non gli
piacerà, ma non riesce a farsi travolgere negativamente da
quella affermazione. Non sa perché, né come
descriverlo, ma è certo che quando recupererà la
memoria tutto avrà un senso.
Abbandonano
il tavolo senza aver consumato, John abbozza un sarcastico
“grazie e arrivederci” alla cameriera che non li ha
serviti e segue il detective che a passo svelto sta raggiungendo il
vicolo dove Lestrade aveva affermato che John era stato aggredito.
Costeggiano
il Tamigi, fino a passare davanti all’edificio
dell’MI6 e lì l’espressione di Sherlock
si fa ancora più tirata. John istintivamente appoggia una
mano sulla spalla del detective e per un attimo sente qualcosa di mai
provato prima, o che forse aveva già provato ma a causa
dell’amnesia non riusciva a ricordare.
Sente
calore, e all’improvviso si rende conto che da quando si era
svegliato era sempre stato avvolto nel freddo. Sente un leggero profumo
di tabacco e un altro odore che sa di casa ma non riesce a decifrare.
Lascia
immediatamente la presa dalla spalla del detective e si trova costretto
ad emettere grandi respiri per calmarsi « Noi ci conosciamo?
» chiede, quando gli sembra di aver recuperato un
po’ di lucidità.
Sherlock
non si è mosso di un millimetro da quando John
l’ha toccato; è in piedi, rigido, fissando il
dottore che sembra prossimo ad un infarto « Piano, John.
Presto sarà tutto chiaro. Se te lo spiegassi, non mi
crederesti » risponde, addolcendo l’espressione.
«
Provaci » quasi supplica il dottore.
«
Con amore, William Sherlock Scott Holmes »
«
Cosa? »
«
Questo era inciso sulla cassa dell’orologio che avevi
addosso. Questo ha provocato l’espressione amareggiata di
Gavin »
«
Greg » lo corregge meccanicamente John e Sherlock si trova a
sorridere « Mi dispiace, John »
«
Non capisco » risponde, iniziando a passeggiare
nervosamente avanti e indietro. La testa sembra per esplodere. Ricorda
delle folli corse su e giù per Londra, il suono di un
violino, il caminetto acceso, felicità. Tutto vortica
velocemente davanti, come le immagini di un film, un trailer della sua
vita.
«Gli
indizi sono evidenti. Non ti sembra che il tempo scorra in modo
anomalo? Non sono nemmeno sicuro di dove io fossi quando non ero con te in
ospedale. L’aria è strana, sembra non avere odore.
Lestrade e Donovan non ci hanno mai rivolto la parola direttamente, i
tassisti non si sono fermati, la cameriera non ci ha servito, nessuno
sta parlando con noi due »
«
Sherlock, cosa stai… »
«
John, pensaci. Se togli l'impossibile, quello che rimane, per quanto improbabile deve essere la verità. Anch'io credevo tu fossi soltanto un nuovo
caso, ma poi hai detto tutte quelle cose: Baker Street, un coinquilino,
Mary vestita da sposa, Moriarty con la corona, e ho ricordato tutto. Tu
sai chi sei, solo non vuoi accettarlo. Non vuoi accettare quello che
è accaduto e magari sarà uno shock, ma dobbiamo
raggiungere quel vicolo » concluse concitato.
Tutte
quelle affermazioni schiaffeggiano John, più e
più volte, come un uomo che sta annegando e improvvisamente
riesce ad aggrapparsi ad un tronco.
«
Ci hanno sparato » mormora soltanto John, prima di sedersi a
terra e fissare il lento scorrere del Tamigi. « Prima hanno
colpito te, poi me. Stavamo indagando per conto dell’MI6
» esala, continuando a fissare avanti a sé, mentre
una macchia di sangue prende forma sulla sua camicia.
Sherlock
si siede accanto a lui, anche la sua ferita è visibile ora.
Gli prende una mano, non sa cosa dire, se non che è colpa
sua.
«
Non è colpa tua, sapevo che prima o poi sarebbe finita
così » commenta il dottore, voltandosi a guardare
Sherlock, sentendosi a sua volta in colpa per non aver riconosciuto
subito l’uomo che aveva amato per tutta la vita «
Come ti ho detto quando ti ho sposato, tu hai detto pericoloso e io
sono rimasto, per ben trent’anni. Meglio morire
così che allo ospizio » commenta, cercando di
alleggerire il momento.
Il
detective sorride e appoggia la testa sulla spalla del dottore,
nascondendo il viso nell’incavo del collo «
Già, non sarebbe stata una morte in linea con la nostra vita
»
I
due uomini rimangono seduti sulla riva del Tamigi, finché le
loro figure scompaiono, mentre il Sole tramonta su una Londra orfana
dell’unico consulente investigativo al Mondo e
dell’uomo più saggio che il detective avesse mai
incontrato.
Il
gioco è finito.
Angolo autrice:
Era da un po' di tempo che pensavo ad una raccolta un po' fuori dagli
schemi, che inauguro con questa storia, a metà tra "Il sesto senso", e la
stagione finale di lost. Spero vi sia piaciuta, alla prossima e grazie
a chi leggerà ;)
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