Racconti del mistero

di Lory221B
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Amnesia ***
Capitolo 2: *** Il Gatto Nero ***
Capitolo 3: *** Il reparto ***



Capitolo 1
*** Amnesia ***


Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di sir A.C.Doyle, Moffatt, Gatiss BBC ecc.; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro per il mio puro divertimento e spero che non ne ricordi altre, in tal caso non sarebbe voluto, ma fatemelo sapere!


AMNESIA


L’aria è leggermente asettica, sembra quasi non abbia alcun odore. L’uomo disteso nel letto si sente stanco, prova a muovere le dita della mano sinistra, un movimento impercettibile, un tentativo di toccare la consistenza delle lenzuola. Sono rigide, per niente confortevoli, al punto che è sicuro che quando aprirà gli occhi, saranno bianche e anonime, come quelle di un letto d’ospedale.

Porta la mano destra sulla fronte, con fatica, a coprire le palpebre ancora chiuse finché non sente una voce profonda che lo invita a svegliarsi; percepisce la presenza accanto a lui e si trova costretto, finalmente, ad aprire gli occhi e affrontare quello che è successo.

« Dott. Watson, buongiorno » esclama quella voce. L’uomo disteso nel letto cerca di riconoscere il proprietario di quel suono caldo che lo ha fatto sussultare, ma non ricorda di aver mai visto qualcuno come la figura che ha davanti. Alto, dai capelli corvini e ricci, che fanno da piacevole contorno ad un viso così pallido da essere quasi etereo.

« Buongiorno » biascica l’uomo nel letto « Come mi ha chiamato? »

« I medici mi hanno detto che poteva avere un’amnesia , per questo sono qui » risponde brusco l’uomo in piedi « Mi chiamo Sherlock Holmes, consulente investigativo e sono qui per aiutarla con il suo caso »

« Il mio caso? » risponde confuso il dottor Watson, guardandosi attorno stranito. La stanza è eccessivamente bianca ma comincia a percepire qualche odore, quell’aria sgradevole di disinfettante, tipica di un ospedale.

« Ho guardato gli oggetti che aveva addosso quando l’hanno trovata » afferma facendo un leggero cenno verso una scatola appoggiata accanto al suo letto « I documenti che aveva nel portafoglio dicono che si chiama John Watson, medico militare in congedo. L’hanno trovata ferito in un vicolo, nessun indizio. La polizia, al solito, brancola nel buio e per questo ha chiamato me. Lei è in coma da due settimane, credevano non sarebbero mai riusciti a parlare con lei, per questo mi hanno ingaggiato e vista la sua amnesia, direi che hanno fatto bene »

John Watson fissa l’uomo che dice di chiamarsi Sherlock Holmes e che tutto ad un fiato gli ha versato addosso una valanga di informazioni che il cervello, provato da settimane di coma, non sembra recepire del tutto. Si chiama John, era un medico militare, era stato aggredito.

« Nessun parente è venuto a trovarmi? » chiede, sentendo già che la risposta sarebbe stata negativa. Non riesce a capire perché ma ha l’impressione di essere una persona molto sola. Sherlock Holmes sembra colpito dall’affermazione, per un attimo fissa l’uomo con uno sguardo strano, quasi spaventato, per poi scacciare quell’espressione che per niente si addice alla sua figura e riprendere il solito sguardo sicuro ed indagatore.

« Che io sappia, non è venuto nessuno. Ma la polizia è lenta, potrebbero non aver rintracciato i suoi parenti » commenta il detective, portando le mani dietro la schiena ed iniziando a passeggiare, meditabondo, per la stanza. Sherlock sembra sul punto di dire qualcosa, una deduzione o qualcos’altro di più personale, ma ogni pensiero viene ricacciato indietro dall’arrivo di un uomo ed una donna.

« Il competente ispettore Lestrade e la simpaticissima sergente Donovan » fa il consulente investigativo con un cenno del capo in direzione dei  due. John rimane leggermente stupito dal tono di accondiscendenza dell’uomo, ma non dice una parola.

Lestrade e Donovan puntano direttamente alla scatola appoggiata sul comodino, ignorando Sherlock che sfoggia un sorrisetto indisponente mentre si avvicina alla finestra, come per cercare qualcosa al di là di quella stanza.

« Scusate » fa John Watson, quasi timidamente « Potreste dirmi cosa sta succedendo? »

« Non possono » ribatte il detective  « Non lo sanno nemmeno loro »

« Non capisco cosa ci faceva in quel vicolo vicino a Gooding Street » commenta Donovan, con un tono acido che infastidisce John.

« Scusate se vi sto arrecando disturbo  » commenta John sarcastico, in risposta, provocando una leggera risata in Sherlock.

Lestrade alza lo sguardo in direzione di Sherlock e John, poi scuote il capo e ritorna a controllare l’interno della scatola « Documento di identità di John Watson, portafogli con 50 sterline, cellulare rotto. Vediamo se Anderson riesce a ricavarne qualcosa »

« Anderson? » esclama il detective « E’ già tanto se capirà che si tratta di un cellulare »

Donovan si avvicina a Lestrade, occhieggiando in giro « Intanto sappiamo che non si è trattato di una rapina, ci sono ancora 50 sterline nel portafogli »

« Scotland Yard è in grande forma oggi » risponde Sherlock, strizzando l’occhio in direzione di John.

I due agenti sbuffano, Lestrade porta anche una mano sulla testa, grattandosela con vigore.

« Non mi piace questa storia » esclama soltanto voltandosi in direzione del detective.

« E’ un caso interessante » ribatte serio Sherlock, prima di dare le spalle a quelli che considera due incompetenti.

Lestrade tira fuori dalla scatola un ultimo oggetto, un orologio con una incisione sulla cassa. Fa una smorfia ma non intende commentare ulteriormente.

Donovan prende per un braccio l’ispettore e sembra quasi trascinarlo fuori dalla stanza « Gli avevo detto di stare lontano da quello stramboide » sussurra, prima di richiudere la porta alle sue spalle.

« E’ normale che non abbia capito niente? » chiede John, perplesso. Sherlock sorride e il dottore può ammirare come muti l’espressione di quell’uomo quando regala un sorriso sincero. Sembra quasi fragile, non così sicuro di sé come vorrebbe far credere.

« Si riposi dottor Watson, ci vedremo nei prossimi giorni »

John vorrebbe gridare che non ha motivo di riposarsi, che vorrebbe soltanto sapere chi è e cosa sta accadendo. Non ricorda assolutamente niente, non solo il motivo per cui è arrivato in ospedale, non ricorda proprio niente del suo passato: dove è nato, la sua famiglia, le scuole che ha frequentato. Non ha idea di chi lui sia. Sente di essere una brava persona, ma come potrebbe esserne sicuro?

I pensieri sono troppo negativi per non farlo sprofondare in un vortice sempre più pressante, finché non si riaddormenta, ancora una volta.

Passano alcuni giorni, prima che Sherlock Holmes riappaia nuovamente nella sua stanza. John ha sperato tanto di rivederlo, non solo perché non ha ricevuto alcuna visita, ma anche perché gli sembra l’unico legame con la realtà, l’unica persona che in qualche modo si sta occupando di lui.

« Sta bene? » chiede Sherlock, accomodandosi su una sedia vicino al letto del dottore.

« Dov’è stato? »

« Ho fatto qualche indagine. Lei ha ricordato qualcosa? »

« Frammenti di cose, niente di nitido. Credo ricordi della guerra »

« Mi descriva questi ricordi » risponde il detective, congiungendo i palmi delle mani sotto il mento e chiudendo gli occhi, come ad assorbire ogni informazione.

« Sono cose folli, ricordo degli spari, delle grida, un uomo con la corona, una donna vestita da sposa »

Il detective sembra rianimarsi, in particolare il riferimento a due persone gli fa sperare a qualche indizio sui possibili responsabili dell’aggressione « Mi descriva queste due persone »

« Dell’uomo con la corona ricordo solo un ghigno da squilibrato mentre la donna vestita da sposa non ha volto. E’ soltanto una donna, con in mano una pistola »

Sherlock si volta rapidamente, troppo rapidamente perché John non possa notare che le informazioni l’hanno colto di sorpresa « Ho detto qualcosa di sbagliato? »

Il detective abbandona la sedia con una espressione indecifrabile, il respiro è leggermente accelerato « John, se lei se la sente, credo dovremmo uscire da questo ospedale e indagare assieme. Magari le ritornerà in mente qualcosa »

Il tono vuole essere autoritario, ma John percepisce una leggera dolcezza nella richiesta, forse un bisogno di quell’uomo di non restare da solo. Dopo pochi minuti è vestito e pronto ad affrontare Londra assieme al nuovo amico.

Dopo essere stati ignorati da alcuni tassisti, decidono di raggiungere a piedi il luogo dove John è stato trovato. Il vicolo non è tanto lontano e secondo Sherlock passeggiare per Londra è un ottimo modo per recuperare la memoria. Il detective ha un passo energico e veloce, John fa quasi fatica a stargli dietro per le vie di quella città che non ricorda e non sa come dovrebbe essere fatta, mentre l’uomo che sta seguendo con estrema fiducia, sembra conoscere ogni angolo, anche il più nascosto.

« Lei dove abita? » chiede il dottore, accelerando il passo per restare sempre a fianco al detective.

« Baker Street »

« Oh, una zona di lusso. Le serve un coinquilino? » commenta John, scherzando e il detective sembra accogliere quell’affermazione come uno schiaffo; non dovrebbe fargli alcun effetto, invece  lo fa e alcuni dubbi cominciano a prendere ormai sempre più vorticosamente forma nella sua testa.

Sono all’altezza del ponte di Waterloo, quando Sherlock blocca con un braccio il suo nuovo cliente e annusa l’aria perplesso.

« Cosa succede? Un odore rivelatore? » scherza John.

« Quale odore sente? Cosa percepisce? » chiede, concentrato su qualcosa, un pensiero che continua a riproporsi ma continua a ricacciare indietro.

John arriccia le labbra, in un’espressione dubbiosa « Smog e un odore non troppo piacevole dal fiume. Cosa dovrei sentire? »

Sherlock mette le mani nelle tasche del cappotto, all’improvviso non è più tanto sicuro che uscire assieme sia stata una buona idea « Fame? » chiede soltanto, evitando lo sguardo del dottore.

« In effetti mi sembra di non mangiare da secoli. Ho visto un bar qui vicino » afferma, iniziando a camminare verso il locale, seguito dal detective, per niente contento di dove le deduzioni lo stanno portando.

Si siedono ad un tavolino, il locale è affollato di gente chiassosa e John non è per niente stupito che dopo mezz’ora non sia ancora passata la cameriera per prendere la loro ordinazione.

« Non ho fame » afferma Sherlock, appoggiando le mani sul tavolo, quasi in segno di sconfitta.

« Come dice? » chiede John, mentre cerca di fare un cenno alla cameriera carina che sta servendo il caffè qualche tavolo più in là.

« Ho detto che non ho fame e nemmeno tu, John »

« Quando siamo passati al tu? » chiede il dottore sorpreso, anche se trova quasi familiare quel modo di rivolgersi a lui.

Sherlock sospira, scontento « Devo farti vedere una cosa, John. Non ti piacerà » aggiunge con tono grave e il dottore avverte una punta di malinconia, unita alla tristezza. Non sa cosa il detective voglia mostrargli né perché non gli piacerà, ma non riesce a farsi travolgere negativamente da quella affermazione. Non sa perché, né come descriverlo, ma è certo che quando recupererà la memoria tutto avrà un senso.

Abbandonano il tavolo senza aver consumato, John abbozza un sarcastico “grazie e arrivederci” alla cameriera che non li ha serviti e segue il detective che a passo svelto sta raggiungendo il vicolo dove Lestrade aveva affermato che John era stato aggredito.

Costeggiano il Tamigi, fino a passare davanti all’edificio dell’MI6 e lì l’espressione di Sherlock si fa ancora più tirata. John istintivamente appoggia una mano sulla spalla del detective e per un attimo sente qualcosa di mai provato prima, o che forse aveva già provato ma a causa dell’amnesia non riusciva a ricordare.

Sente calore, e all’improvviso si rende conto che da quando si era svegliato era sempre stato avvolto nel freddo. Sente un leggero profumo di tabacco e un altro odore che sa di casa ma non riesce a decifrare.

Lascia immediatamente la presa dalla spalla del detective e si trova costretto ad emettere grandi respiri per calmarsi « Noi ci conosciamo? » chiede, quando gli sembra di aver recuperato un po’ di lucidità.

Sherlock non si è mosso di un millimetro da quando John l’ha toccato; è in piedi, rigido, fissando il dottore che sembra prossimo ad un infarto « Piano, John. Presto sarà tutto chiaro. Se te lo spiegassi, non mi crederesti » risponde, addolcendo l’espressione.

« Provaci » quasi supplica il dottore.

« Con amore, William Sherlock Scott Holmes »

« Cosa? »

« Questo era inciso sulla cassa dell’orologio che avevi addosso. Questo ha provocato l’espressione amareggiata di Gavin »

« Greg » lo corregge meccanicamente John e Sherlock si trova a sorridere « Mi dispiace, John »

« Non capisco » risponde,  iniziando a passeggiare nervosamente avanti e indietro. La testa sembra per esplodere. Ricorda delle folli corse su e giù per Londra, il suono di un violino, il caminetto acceso, felicità. Tutto vortica velocemente davanti, come le immagini di un film, un trailer della sua vita.

«Gli indizi sono evidenti. Non ti sembra che il tempo scorra in modo anomalo? Non sono nemmeno sicuro di dove io fossi quando non ero con te in ospedale. L’aria è strana, sembra non avere odore. Lestrade e Donovan non ci hanno mai rivolto la parola direttamente, i tassisti non si sono fermati, la cameriera non ci ha servito, nessuno sta parlando con noi due »

« Sherlock, cosa stai… »

« John, pensaci. Se togli l'impossibile, quello che rimane, per quanto improbabile deve essere la verità. Anch'io credevo tu fossi soltanto un nuovo caso, ma poi hai detto tutte quelle cose: Baker Street, un coinquilino, Mary vestita da sposa, Moriarty con la corona, e ho ricordato tutto. Tu sai chi sei, solo non vuoi accettarlo. Non vuoi accettare quello che è accaduto e magari sarà uno shock, ma dobbiamo raggiungere quel vicolo » concluse concitato.

Tutte quelle affermazioni schiaffeggiano John, più e più volte, come un uomo che sta annegando e improvvisamente riesce ad aggrapparsi ad un tronco.

« Ci hanno sparato » mormora soltanto John, prima di sedersi a terra e fissare il lento scorrere del Tamigi. « Prima hanno colpito te, poi me. Stavamo indagando per conto dell’MI6 » esala, continuando a fissare avanti a sé, mentre una macchia di sangue prende forma sulla sua camicia.

Sherlock si siede accanto a lui, anche la sua ferita è visibile ora. Gli prende una mano, non sa cosa dire, se non che è colpa sua.

« Non è colpa tua, sapevo che prima o poi sarebbe finita così » commenta il dottore, voltandosi a guardare Sherlock, sentendosi a sua volta in colpa per non aver riconosciuto subito l’uomo che aveva amato per tutta la vita « Come ti ho detto quando ti ho sposato, tu hai detto pericoloso e io sono rimasto, per ben trent’anni. Meglio morire così che allo ospizio » commenta, cercando di alleggerire il momento.

Il detective sorride e appoggia la testa sulla spalla del dottore, nascondendo il viso nell’incavo del collo « Già, non sarebbe stata una morte in linea con la nostra vita »

I due uomini rimangono seduti sulla riva del Tamigi, finché le loro figure scompaiono, mentre il Sole tramonta su una Londra orfana dell’unico consulente investigativo al Mondo e dell’uomo più saggio che il detective avesse mai incontrato.

Il gioco è finito.


Angolo autrice:
Era da un po' di tempo che pensavo ad una raccolta un po' fuori dagli schemi, che inauguro con questa storia, a metà tra "Il sesto senso", e la stagione finale di lost. Spero vi sia piaciuta, alla prossima e grazie a chi leggerà ;)

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Capitolo 2
*** Il Gatto Nero ***



Il Gatto Nero


5 febbraio 2017

Questo è il mio primo racconto da quando sono tornato a vivere in Baker Street. Non mi dilungherò sugli eventi che mi hanno riportato a condividere l’appartamento con quel pazzo di Sherlock Holmes, i giornali hanno già abbondantemente parlato della mia vita privata in passato. Preferisco superare tutto questo e iniziare con il caso più strano che sia mai capito a me e Holmes.

Stavo trasportando gli scatoloni in cui avevo racchiuso tutta la mia vita matrimoniale lungo le scale del nostro appartamento. La signora Hudson aveva accolto con gioia il mio ritorno e subito si era offerta di fare da baby sitter a mia figlia. Proprio in occasione del mio trascolo, la nostra padrona di casa attirò la mia attenzione su un fatto che avrebbe avuto notevoli ripercussioni nei giorni successivi.

La signora Turner, la padrona di casa dell’immobile accanto al nostro, aveva dato in affitto un appartamento ad una nuova coppia. La cosa che più infastidiva la signora Hudson era il fatto che la coppia avesse con sé un gatto. Niente di strano, se non fosse stato che spesso il micio andava in esplorazione nel quartiere, trovando sempre nuovi modi per entrare nell’appartamento della mia padrona di casa che si era rivelata essere allergica al suo pelo.

Tutta questa vicenda era stata liquidata dal mio coinquilino con un vago agitare della mano in aria, seguito da un commento su quanto fosse inutile il mio divagare su questioni non importanti quando eravamo senza casi stimolanti da settimane. Se non fosse stato così annoiato si sarebbe reso conto che avevamo davanti un caso molto interessante, ma purtroppo, cosa che avevo già avuto modo di constatare in passato, Sherlock Holmes si interessava soltanto delle vicende che apparivano da subito di qualche rilievo e due banali vicini di casa con un gatto non era tra queste.

Devo dire che, nonostante tutto, Baker Street mi era mancata. Più di quanto avessi il coraggio di ammettere. Mi era mancato stare seduto in poltrona a sentire le deduzioni di Sherlock, giocare a Cluedo e persino preparagli il tea, al punto che ogni tanto mi svegliavo di notte chiedendomi se avessi sognato gli ultimi anni della mia vita. Fortunatamente, qualcosa di buono era accaduto da quanto avevo visto il mio migliore amico saltare dal tetto fino al momento attuale: la mia piccola Rosie.

Una mattina come tante entrai in salotto e la situazione che mi si propose davanti mi lasciò interdetto per almeno un minuto. Sherlock era seduto sulla sua poltrona, intento a scrutare qualcuno che aveva occupato impudentemente il mio posto.

« Mi hai sostituito con un gatto? » chiesi, osservando l’animale dal pelo liscio e nero che non aveva mosso un muscolo al mio arrivo, ma anzi, sembrava quasi ignorarmi del tutto. Anche il mio coinquilino non sembrava aver dato peso alla mia presenza e  non seppi dire se fossi più infastidito dell’essere messo da parte per un gatto o dal fatto che avrei dovuto eliminare ogni traccia del passaggio del muovo amico di Sherlock prima dell’arrivo della signora Hudson.

« E’ il gatto dei vicini »

« Stai cercando di ipnotizzarlo o ti sta esponendo un caso? » chiesi, avvicinandomi alla mia poltrona, nella convinzione che il felino si sarebbe spostato avvertendo la mia presenza, invece era ancora lì e sembrava intenzionato a rimanere.

« Secondo la medaglietta si chiama Plutone, la versione latina di Ade, il dio dell’oltretomba »

« Un giorno mi spiegherai come selezioni le informazioni da tenere nel tuo hard disck cerebrale. Terra che gira attorno al Sole: no. Nome divinità latine e greche: sì » risposi ironicamente, guadagnandomi la ben nota occhiataccia di Sherlock.

« E’ un nome curioso da dare a un gatto »

« E’ nero, magari i padroni lo hanno semplicemente associato a qualcosa di oscuro come avveniva ai tempi della caccia alle streghe »

« Mi stai dicendo che i nostri vicini sono due idioti? »

« Spero davvero non ci serva mai dello zucchero in prestito » commentai, immaginando i più improbabili insulti che il mio amico avrebbe rifilato ai due sventurati.

« Perché dovremmo chiedere dello zucchero ai vicini? Se voglio conoscerli mi limiterò a riportargli il gatto » rispose, avvicinandosi piano al felino che si lasciò prendere senza protestare tra le muscolose braccia di Sherlock. Un parte inconscia di me cominciava davvero ad essere gelosa del gatto.

Seguii il mio coinquilino per evitare che causasse incidenti diplomatici con i nuovi arrivati, che avrebbero costretto la signora Hudson a scusarsi per mesi con la signora Turner. Inoltre, devo ammettere, che  una parte di me cominciava ad essere davvero interessata.

Bussammo alla porta, curiosi di vedere chi ci avrebbe aperto. Sapevamo poco della coppia, la signora Hudson ci aveva detto che era sulla cinquantina e a parte che il cognome era Philips non avevamo altre informazioni, ma ero sicuro che Sherlock avrebbe dedotto a breve anche quante volte bevevano il caffè.

Spalancò la porta un uomo dai capelli castani e la faccia noiosamente anonima (sto citando testualmente le parole di Sherlock) ma dai modi educati. Ci ringraziò molto per avergli riportato il gatto e si scusò a lungo per il fastidio che Plutone poteva averci arrecato. Quello che immediatamente notai, per la felicità di Sherlock che fu felice di vedere che dopotutto in sette anni avevo imparato qualcosa (sto citando sempre testualmente le cortesi parole del mio amico) fu che l’uomo, che si era presentato come Howard, cercava in tutti i modi di non farci andare oltre il corridoio d’ingresso, fatto che ovviamente non fermò Sherlock da oltrepassarlo ed entrare in salotto con una scusa.

Risi tra me, osservando la figura dell’uomo che non aveva di certo capito con chi aveva a che fare. Poco dopo fummo raggiunti anche dalla moglie del signor Philips, che scoprimmo chiamarsi Emily. A Sherlock bastò una rapida occhiata per congedarsi rapidamente dalla coppia, seguito da me che pazientemente gli “trotterellavo dietro” (ora sto citando Lestrade).

« Avanti, spara » feci, sapendo perfettamente che moriva dalla voglia di raccontarmi quello che aveva dedotto.

« Sposati da circa vent’anni, infelicemente da almeno cinque. L’uomo è un alcolizzato e quando esagera sfoga la sua frustrazione sulla moglie, cosa evidente dai lividi che cercava maldestramente di nascondere. Avevano altri animali ma è rimasto soltanto Plutone e quell’Howard sembra avere uno speciale attaccamento all’animale. La moglie è attratta dalla filosofia new age, ma non credo si dia a pratiche di stregoneria, almeno non dentro casa »

Avevo smesso da anni di rimanere stupito ed esclamare “fantastico” per le deduzioni di Sherlock, eppure, dentro di me, si smuoveva sempre qualcosa, come un tenero ricordo « Dobbiamo fare qualcosa per la moglie » commentai.

Sherlock mi sorrise e non seppi dire se fosse per la mia preoccupazione nei confronti di una donna in difficoltà o perché aveva compreso il mio stato d’animo relativo alla sua ultima performance deduttiva.

« Lei progetta di lasciarlo, forse una chiacchierata con la signora Hudson è quello che le serve per decidersi » rispose il mio amico.

***** * *****

Quella notte non riuscivo a prendere sonno, continuavo a rigirarmi nel letto in preda a mille pensieri. Attorno alle 2, quando finalmente credevo di essermi addormentato, infatti stavo sognando Sherlock che mi preparava un tea, fatto talmente insolito che doveva essere per forza un sogno,  fui svegliato da un urlo disumano proveniente dall'esterno.

Era un suono stridulo, qualcosa che mi fece rabbrividire e svegliare di soprassalto. Spostai il piumone e scesi dal letto, pronto alla battaglia. Rosie, fortunatamente, aveva un bel sonno pesante e niente riusciva a scuoterla, nemmeno quando Sherlock faceva esplodere la cucina con i suoi esperimenti. Scesi le scale a due a due ma quando entrai in salotto lo trovai al buio. Evidentemente il mio improbabile coinquilino aveva un sonno pesante quanto quello di Rosie. Mi avvicinai alla finestra per vedere se ci fosse qualcosa di strano lungo la via, la sorgente di quel rumore che ancora mi causava un certo scompenso, ma non notai nulla. Cominciai a credere di essermelo sognato e feci per ritornare nella mia camera quando sentii delle urla provenire dall’appartamento dei signori Philips e vidi, riaffacciandomi alla finestra, delle fiamme che stavano divorando la loro casa.

« Sherlock! » gridai, entrando con poca grazia nella sua stanza « Svegliati, c’è un incendio » affermai sempre più concitato e sconnesso, scuotendo il detective che ci mise un po’ ad aprire gli occhi e focalizzare la mia faccia a pochi centimetri dalla sua « Muoviti, c’è un incendio qui a fianco »

« Cosa a spetti ad andare a prendere Rosie? » mi rispose con la voce roca, mettendosi seduto.

Cinque minuti dopo tutti gli abitanti di Baker Street erano in strada, coniugi Philips compresi. Fortunatamente erano riusciti a scappare prima che l’incendio risultasse per loro fatale ma, da quello che mi aveva confidato tra i singhiozzi la signora Philips, il gatto doveva essere rimasto bloccato nell’appartamento. Forse avrei dovuto consolarla, ma erano arrivati gli agenti di Scotland Yard e Sherlock si stava aggirando per  la potenziale scena del crimine con addosso soltanto quello con cui era andato a dormire, ossia un paio di boxer, incurante dei soliti curiosi che lo stavano fotografando con i cellulari e a breve avrebbero diffuso le immagini su twitter.

« Per l’amor del Cielo, Sherlock. Copriti! » esclamai, trascinandolo lontano dai flash.

« Perché ti importa? » chiese, con il solito sguardo indagatore che finiva ogni volta per inchiodarmi al muro.

Boccheggiai per un attimo « Perché ti prenderai un’influenza e non ho voglia di sopportarti quando sei malato » affermai, conscio che la mia affermazione corrispondeva a verità, anche se non era stato il mio primo pensiero.

Sherlock scosse il capo, ma contrariamente a quanto mi sarei aspettato, decise di ascoltarmi, rientrò in casa e ne uscì coperto dal Belstaff.
I rilievi andarono avanti per tutta la notte; la signora Hudson fu così gentile da portare mia figlia nel lettino, lasciando me e Sherlock ad indagare sulle cause dell’incendio.

In realtà notai un certo disappunto nel mio amico, anche lui aveva qualche difficoltà a dedurre cosa avesse provocato le fiamme che avevano devastato l’appartamento dei Philips. Soltanto all’alba decise che avremmo dovuto archiviarlo come uno dei casi non risolti di cui non avrei dovuto parlare nel blog.

Alzai gli occhi al cielo, non capendo come potesse essere ancora così vanitoso riguardo ai suoi insuccessi; dopo tutto il bene che aveva fatto, nessuno lo avrebbe biasimato o considerato da meno perché non aveva risolto un caso. Io di certo non lo avrei fatto e in alcun modo avrei perso stima nei suoi confronti. Troppe volte mi ero chiesto se davvero misurasse il suo valore proporzionalmente ai suoi successi e mi ero ritrovato a preoccuparmi di come mi sarei dovuto comportare per dargli quella sicurezza che evidentemente gli mancava, sotto tutti quegli strati di superbia. La sicurezza che le persone, e in particolar modo io, tenessero a lui indipendentemente dalle sue capacità deduttive.

Ero ancora perso nei miei pensieri quando notai che qualcosa aveva attirato l’attenzione del mio amico.

Su una parte esterna della casa dei Philips il fuoco aveva lasciato una bruciatura quasi spettrale. Lo sapevo che era un po’ come per le macchie di Rorschach e ognuno poteva vederci qualcosa di diverso, magari era solo suggestione, ma a me sembrava un gatto con il cappio al collo.

Mi voltai verso Sherlock che a sua volta sembrava alquanto stranito da quello che stava fissando « Cosa hai detto di aver sentito? » mi chiese.

« Un urlo, un grido, non lo so. Un rumore da brivido comunque » commentai.

« Prima dell’incendio »

« Sì, direi circa dieci o quindici minuti prima »

Sherlock assunse un’espressione indecifrabile e senza aggiungere altro entrò nel nostro portone.

Nei giorni seguenti nemmeno Scotland Yard fu in grado di capire le cause dell’incendio, forse un guasto al sistema elettrico, ma nulla fu appurato.

Non potendo riestrare nell’appartamento, la signora Hudson fu così gentile da ospitare la famiglia Philips nel seminterrato proprio sotto al nostro appartamento, il posto dove anni prima Moriarty aveva nascosto le scarpe di Carl Powers. Non era esattamente un posto idilliaco ma avendo perso ogni cosa era un ottimo luogo di transito per ripartire. Sembrava che dopo l’incendio il signor Philips avesse smesso di bere e di certo non osava alzare le mani sulla moglie quando un detective e un ex medico militare abitavano proprio sopra la sua testa.

Per un po’, pertanto, archiviammo lo strano caso dell’incendio dei Philips e della macchia a forma di gatto, finché un nuovo ospite si presentò al 221B.

Sherlock aveva sentito grattare alla porta e una volta aperto un micio nero era sgattaiolato in casa, accomodandosi sulla mia poltrona. Non era Plutone, non aveva la medaglietta e sembrava più piccolo, eppure era molto simile al precedente gatto nero che era venuto a farci visita settimane prima.

« Fammi indovinare, si chiama Ade? » chiesi, rinunciando a far sloggiare il gatto dalla mia poltrona e accomodandomi su uno dei braccioli di quella di Sherlock. Il mio amico sembrò spiazzato da questa mia inaspettata confidenza e per un po’ non disse niente, finché il micio non si mise a miagolare.

« Credo abbia fame » commentò Sherlock.

« Dici che i vicini hanno preso un nuovo gatto? »

« Non sono ancora in grado di dedurre gli animali » rispose, regalandomi un sorriso allegro.

Stavamo ancora ridendo sul fatto che avremmo dovuto aprire un’agenzia investigativa per animali, quando sentimmo i rumori di qualcuno che saliva le scale, “sicuramente Howard in base all’incedere pesante” commentò Sherlock. Ma non fece in tempo a bussare alla nostra porta che il gatto si diresse verso il terrazzo e scappò per i tetti.

Uno sguardo accigliato del mio amico mi fece capire che qualcosa non andava. Aprì la porta e invitò il nostro vicino ad accomodarsi sulla sedia che riservavamo ai clienti, in maniera quasi cortese ma sapevo che stava recitando.

« Qual buon vento? Ha bisogno di zucchero? » chiese Sherlock che aveva curiosamente preso posto sulla mia poltrona, mentre io ero ancora seduto sul bracciolo della sua.

« In realtà stavo solo cercando il mio gatto. Abbiamo preso un nuovo cucciolo ma sembra essere molto sfuggente, una vera peste »

« Mi spiace ma non lo abbiamo visto » lo liquidò il mio amico « Serve altro? Ho notato che ha ricominciato ad uscire la sera e far tardi » commentò dal nulla, come se l’uomo fosse improvvisamente sotto indagine.

« Non credo siano affari suoi » rispose, irrigidendo la mascella.

« Sì, se picchia sua moglie e fa un rumore tale da svegliare la figlia del mio amico » rispose piccato e dovetti alzarmi per evitare che quell’uomo dalla faccia anonima pensasse di poter mettere le mani addosso a Sherlock e passarla liscia.

Howard Philips si trattenne a fatica ma un lampo passò nei suoi occhi, un lampo di rabbia. Si alzò dalla sedia spostandola rumorosamente sul pavimento « Si crede tanto intelligente, non è vero? » rispose l’uomo prima di sparire dall’appartamento sbattendo la porta.

Stavo ancora elaborando quello che era accaduto quando vidi mutare l’espressione del mio amico, la maschera di sicurezza che cedeva e mostrava tutta la sua fragilità. Poche volte mi era capitato di vederlo accadere ed era sempre stato in frangenti di cui vorrei eliminare il ricordo.

« John, prendi Rosie e traferisciti da tua sorella finché non risolvo la faccenda »

« Cosa? » chiesi.

« Ho appena minacciato un alcolizzato violento che abita sotto il nostro appartamento e come ben sai le porte delle nostre stanze possono essere buttate giù anche solo con una spallata. Non è sicuro per voi »

« Staremo attenti, Sherlock. Pensi non sapessi cosa significava trasferirmi di nuovo qui? E poi non mi sembra un assassino »

« Non costringermi a farti prelevare da Mycroft »

« Spiegami come risolveresti la faccenda allora »

« Niente di grave, dirò alla signora Hudson che è ora che la famiglia Philips si trovi un altro appartamento, ma non sarà immediato e Howard potrebbe non prenderla bene »

« Non ti lascio da solo » mi ritrovai a rispondere senza pensarci troppo.

Litigammo lungamente sulla cosa, ma alla fine un po’ di fortuna venne in nostro soccorso e la signora Philips, qualche ora dopo, ci informò che avevano trovato un appartamento più adatto alle loro esigenze e che presto si sarebbero trasferiti.

Durante tutto il periodo di attesa del trasloco mi ritrovai a dividere la camera da letto non  solo con mia figlia ma anche con Sherlock che aveva recuperato un vecchio sacco a pelo e si era accampato ai piedi del mio letto per avere la certezza che fossimo al sicuro.

Sembrava quasi di essere al campeggio e più di una sera fui tentato di invitarlo a distendersi sulla metà libera del mio materasso, sentendomi tremendamente in colpa per lasciarlo a dormire sul pavimento, ma dentro di me sapevo che non era ancora arrivato il momento per fare un passo che avrebbe annullato un’altra barriera tra noi, non ero ancora pronto.

La fortuna, se così vogliamo continuare a chiamarla, o più che altro un caso, ci portò  via da Baker Street
per un week end e per un po’ non dovemmo più pensare a inopportuni vicini di casa e gatti dall’oltretomba.

Quando facemmo ritorno dalla nostra trasferta nel Dorset, trovammo la signora Hudson ad aspettarci sul pianerottolo. A quanto sembrava, la moglie di Howard aveva lasciato l’appartamento proprio mentre eravamo via e prima del trasloco che sarebbe iniziato proprio quella mattina. La nostra padrona di casa sembrava davvero preoccupata che in realtà le fosse accaduto qualcosa.

Scotland Yard era già stata allertata ma senza prove evidenti, nessun agente aveva intenzione di intervenire. Anche Sherlock, per quanto dubbioso, sembrava ritenere più plausibile che la donna fosse scappata dal marito e, secondo lui, smuovere troppo le acque l’avrebbe costretta a rivelarsi.

Non sapevo cosa pensare, salvo che tutta la vicenda era stata stranamente sinistra fin dall’inizio e non sarebbe stato tanto strano che il marito avesse alla fine ucciso la moglie.

Uno dei pomeriggi seguenti, mentre i mobili acquistati
dai signori Philips dopo l’incendio venivano caricati sul camion dei traslochi, decisi di scendere nell’appartamento e dare un’occhiata per controllare se qualcosa ci fosse sfuggito. Sherlock aveva già perlustrato l’appartamento mentre Howard era via e non aveva trovato tracce che lasciassero pensare ad una fine tragica della signora Philips. Eppure sentivo che c’era qualcosa che non era a posto.

Mi aggirai per le stanze sgombre ma erano solo, appunto, pareti vuote. Sconsolato feci per uscire quando sentii un miagolio. Mi ricordai del secondo gatto che ormai credevo fosse fuggito dal padrone per non fare più ritorno e iniziai a cercarlo. Perlustrai l’appartamento ormai vuoto ma non lo vidi da nessuna parte finché non sentii nuovamente il miagolio.

Ebbi un sussulto quando capii che veniva da dietro una delle pareti. Iniziai a battere contro il muro e sentii i miagolii sempre più forti.

Appoggiai l’orecchio alla parete, preoccupato che fosse uno scherzo della mia mente, invece il miagolio c’era e iniziavo anche a sentir grattare con le unghie. Guardai attorno se ci fosse qualcosa per buttare giù la parete ma non vi era nulla che potesse aiutarmi. Dovevo recuperare qualcosa per salvare il micio e poi lasciare a Sherlock capire come fosse riuscito a infilarsi dietro ad una parete, ma quando mi voltai, trovai davanti a me il signor Philips, un’ascia nella mano destra e un ghigno stampato in faccia.

« Trovato qualcosa di interessante, dottore? Questa è violazione di domicilio »

Feci per rispondere in maniera leggera, cercando di cavarmi da quella situazione che sembrava precipitare di secondo in secondo, ma dalla parere si levò un altro miagolio.

L’espressione dell’uomo diventò di puro terrore, alzò l’ascia nell’intento di colpirmi ma fui più veloce, mi gettai a terra e l’attrezzo si conficcò nella parete. I suoi tentativi di estrarre l’ascia dal muro non fecero altro che aprire uno squarcio nella parete, proprio come era mia intenzione fare.

Mi rialzai ma nuovamente mi sbarrò la strada e fu più che una fortuna che il mio amico, coinquilino e persona più importante della mia vita, fosse arrivato in mio soccorso e con una mazza avesse messo fuori gioco il signor Philips, che cadde a terra ansimante.

« Come sapevi che ero qui? »

« Non lo sapevo. Ma mentre mi dirigevo all’obitorio mi sono reso conto che la mia mente aveva registrato un dettaglio importante riguardo all’appartamento dei Philips e in particolare a questa stanza, ma non gli avevo dato peso. La parete è stata ridipinta di recente, qualcuno deve averla ricostruita per qualche motivo. Vogliamo scoprire quale? » mi chiese, allungandomi la mano che subito afferrai per rimettermi in piedi.

Ci affacciamo alla squarcio nella parete e quello che vi trovammo dentro oltre al gatto che subito saltò fuori e si dileguò dall’appartamento, fu il cadavere della signora Philips. Howard disteso a terra ferito rideva istericamente lanciando improperi contro il maledetto gatto.

***** * *****

« Quindi ha murato il gatto con la moglie morta, senza accorgersene? » chiesi a Sherlock, servendo due tazze di tea e mettendomi comodo in poltrona.

« Credo sia andata proprio così » commentò Sherlock
.

Sapevo che si sentiva terribilmente in colpa per non averlo dedotto prima e non aver evitato la morte della signora Philips ma come gli avevo ripetuto più volte, non era colpa sua e non poteva essere presente ad ogni crimine.

« Sai cosa sembra? » affermai.

« So cosa stai per dire e io sto per riderti in faccia » rispose il mio amico.

« Davvero? »

« Sì, stai per dire che il gatto Plutone è venuto a chiederci aiuto, ci ha dato un caso ma non lo abbiamo aiutato ed è stato ucciso dal sig. Philips. Credo fosse questo l’urlo sinistro che hai sentito, Howard che uccideva il suo gatto. Poi è tornato dall’oltretomba, come il secondo gatto che è venuto a farci visita, per vendicarsi ed essere sicuro che arrestassimo quello squilibrato del suo padrone »

« In realtà stavo per dire “sembra proprio che ci serva una vacanza”, ma il tuo racconto horror è davvero più interessante »

Sherlock fece una debole risata prima di farsi insolitamente serio « Scusa se vi ho messo in pericolo »

Sorrisi a mia volta e mi ritrovai a pensare che era stata davvero una strana avventura ma mai durante il susseguirsi di quegli avvenimenti avevo provato qualcosa per Sherlock che non fosse affetto, stima, ammirazione e forse qualcosa di più che era tempo cominciassi ad ammettere anche con me stesso.

Dopo tanto tempo non c’erano né biasimo né risentimento. Finalmente avevo lasciato alle spalle tutto quello che avevamo passato negli ultimi anni e potevamo cominciare a guardare al futuro.

***** * ****

Angolo autrice:

Ciao a tutti, spero vi sia piaciuta questa storia liberamente ispirata a “Il gatto nero” di Edgar Alla Poe (spero che il suo fantasma non venga a perseguitarmi per questa rivisitazione :-D)
Ho cercato di rimanere nel canon post quarta stagione, con un lieve accenno johnlock.

Un grazie a tutti quelli che leggeranno, alla prossima!



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Capitolo 3
*** Il reparto ***


Il Reparto


Una goccia d’acqua cade dal soffitto e atterra sul pavimento con un tonfo più forte di quanto ci si aspetterebbe da una goccia d’acqua, segno che probabilmente sono stato drogato.

La luce è lieve, il materasso molto duro e la stanza ha l’aspetto di un ospedale psichiatrico. Anzi, ha esattamente l’aspetto di un ospedale psichiatrico. Mi metto a sedere a fatica, mentre d’istinto una mano passa sulla mia nuca per massaggiarmi la testa e scopro con orrore che mi sono stati tagliati i capelli. Sono corti, circa tre centimetri, non di più.

Ho addosso una maglietta azzurra e un paio di pantaloni grigi di tuta, non ci sono altri indizi, nessun segno di violenza, nessun livido. Come sono stato portato qui e perché?

Vedo un’ombra dietro la porta, due piedi che bloccano il passaggio della luce del neon. I piedi diventano velocemente quattro e sento bisbigliare. Vorrei avere tutti i miei sensi al massimo livello, invece sono lento, non riesco a nemmeno a capire dove sono né a ricordare quanto sia accaduto.Vorrei alzarmi in piedi e prepararmi all’imminente apertura della porta della stanza dove mi sono svegliato ma in questo momento non sono nemmeno sicuro che le gambe reggerebbero il mio peso.

Si apre la porta e un uomo in giacca e cravatta e camice medico si affaccia nella stanza, seguito da una donna bionda, in evidente stato di agitazione. Ho la sensazione di averli già visti ma non riesco a ricordare quando, i miei ricordi sono offuscati come nebbia nella brughiera.

« Allora signor Holmes, oggi sarà più collaborativo o spaventerà di nuovo a morte le infermiere? » l’uomo mi rivolge un’espressione di biasimo, prima di fare un cenno nei confronti della donna che timidamente si avvicina a lui.

« Chi siete? » rispondo con un tono che vorrebbe essere duro ma la mia voce esce come ovattata. Vorrei urlare, sono impotente, bloccato in una situazione che non riesco a capire, in balia di persone mai viste e senza alcun ricordo degli ultimi giorni.

« Signor Holmes, ancora? Oh Santo Cielo. Heather, puoi prendermi una sedia? Sarà una cosa lunga » l’uomo prende con noncuranza gli occhiali dalla tasca del camice e inizia a leggere la cartella che la donna chiamata Heahter gli  passa prima di sparire alla ricerca di una sedia.

« Ho detto, chi siete? Chi è lei e perché mi trovo qui? » ripeto, stancamente.

« Va bene, ricominciamo. Io sono il dottor Sheehan e lei e qui perché soffre di una grave forma di psicosi »

« Cosa? »

« Lei ciclicamente mi pone questa domanda, chi sono? Perché sono qui? E come da sette anni a questa parte le rispondo sempre la stessa cosa: lei è William Holmes e abbiamo il piacere di ospitarla alla Clinica Psichiatrica di Northumberland dal 2010 »

Il mio silenzio sbigottito a quell’assurdità è quasi un urlo nella quiete del posto dove mi trovo.

« Non è divertente »

« Infatti non lo è. Quando suo fratello Mycroft l’ha fatta ricoverare qui, sperava avremmo avuto più successo, invece la sua psicosi non fa che peggiorare. Quindi eccoci qui, anche oggi, a sperare in una sua presa di coscienza, com’era avvenuto nel 2012, quando non era ancora sceso in profondità nella sua fantasia »

« La smetta » rispondo stizzito; se è uno scherzo di Mycroft non è divertente, se è qualcos’altro non so cosa possa essere ma devo trovare il modo di uscire. Il dottore non sembra così forte, appena riuscirò a stare di nuovo in piedi lo atterrerò con facilità, il problema è non sapere cosa c’è fuori dalla porta e non riesco a dedurlo.

« Se sta pensando nuovamente di scappare, posso ricordarle che l’ultima volta ha fatto seriamente del male ad alcune delle infermiere? Di questo passo dovremo aumentarle la dose dei medicinali »

Medicinali, ecco cos’è quella sensazione di secchezza in bocca, non droga ma qualcos’altro che sta rallentando le mie funzioni.

Il dottore emette un sospiro frustrato « Signor Holmes, so a cosa sta pensando ma lei non è un genio, è un uomo ordinario che si è inventato un’incredibile realtà alternativa perché non riusciva più  a vivere nella solitaria quotidianità »

Mi sfugge una risata, forse sto soltanto sognando tutto e presto mi sveglierò a casa. E’ più probabile che abbia abusato di qualcosa e queste allucinazioni siano davvero più vivide di quanto mi sia mai capitato prima. Devo solo resistere fino alla fine dell’effetto drogante, mi è già capitato prima di essere così fatto da immaginarmi le persone, è probabile che c’entrino con un caso o con qualcosa che ho notato e non riesco a mettere a fuoco. Devo solo rallentare il battito accelerato di un cuore sottoposto a troppe sollecitazioni.

« Vedo che si è calmato, molto bene. Come le stavo dicendo è qui dal 2010. Si ricorda perché? »

« Me lo dica lei » rispondo annoiato, appoggiando la testa all’indietro contro il muro, mi sembra di esplodere.

« Da un giorno all’altro ha iniziato a raccontare di essere un consulente investigativo, di aver inventato questa professione »

« E’ proprio così, l’ho inventata io » commento frustrato dall’ottusità della mia allucinazione.

« Certo, così ha lasciato il suo lavoro alla facoltà di chimica. Il suo capo, Gregory Lestrade, rimase sconcertato dalla scenata che fece mentre buttava le sue cose in una scatola »

« Lestrade il mio capo? Questa allucinazione diventa ogni secondo più comica »

« Così ha compensato la sua necessità di essere speciale. Ad una professione inventata adatta ad un genio  ha aggiunto un nome inesistente: Sherlock. Ma dopo un po’ ha cominciato a sentire la mancanza di contatti umani, così ha inventato John Watson »

Un lampo di fastidio, c’è un limite alle assurdità che qualcuno, anche una visione, può propinarmi.
Il dottore sorride, sprezzante « John Watson, l’amico perfetto, fedele, leale, onesto, ha sparato ad un tassista solo per salvarle la vita »

« Come, come fa a saperlo? » chiedo, con un filo di panico nella voce. Non lo sa nessuno, nemmeno Mycroft.

« Lo so perché è una storia che ci ha raccontato tante volte »

Idiota, non è una persona reale, è una visione, una mia allucinazione e per forza sa tutto quello che so io.

«E’ evidente che una persona così paziente non può esistere davvero » Continua, ostinato.

« Dottore » e sottolineo la qualifica con una risatina sprezzante « John non è sempre così paziente »

« Perché un John Watson dovrebbe sopportarla, onestamente? Lei lo maltratta, lo usa per i suoi esperimenti, gli da costantemente dell’idiota, dimostra scarsa stima ed è anaffettivo nei suoi confronti. Perché mai una persona come John dovrebbe volerle bene? O di più, lei vorrebbe che l’amasse, non è vero? »

Resto in uno stupido silenzio, sbatto più volte le palpebre ma non riesco a formulare una risposta coerente, in effetti non ho mai capito perché John abbia fatto questa scelta, ho sempre scherzato su quanto fosse matto a seguirmi e in cuor mio mi sono sempre illuso che fosse per quel qualcosa in più che soltanto io potevo dargli, ma non ho mai avuto il coraggio di parlarne apertamente.

« Insomma » continua il dottor Sheehan « Le pare che l’adrenalina sia sufficiente per seguirla come un cagnolino, senza mai protestare per i suoi metodi? »

« Come le ho già detto, John… »

« Cosa? Protestava? Di quando stiamo parlando, prima o dopo del suo ritorno nella realtà? »

Mi siedo più vicino al bordo, stranito, confuso, la testa galleggia ma il dottore non cambia espressione.

« Si ricorda il 2012? Aveva lasciato quel suo straordinario mondo fatto di casi, amici, incredibili capacità deduttive e artistiche, per tornare qui, nella realtà. Mycroft era molto contento, per ben due anni ha vissuto di nuovo semplicemente come William Holmes »

« Il salto dal tetto? » chiedo, quasi meccanicamente.

« Esatto signor Holmes, ha detto addio a quella falsa realtà, “il suicidio di un falso genio” l’aveva definita. Poi, però, la psicosi si è ripresentata » afferma mesto mentre mi trovo a respirare a fatica, quasi dolorosamente, come se avessi ricevuto una serie di colpi nel petto.

« La smetta, è assurdo »

« E’ assurdo? Tutti quei personaggi straordinari: la padrona di casa sposata con il capo di un cartello della droga, la dominatrice del sesso, il genio criminale che la sfida, che si suicida davanti ai suoi occhi e lei che lascia il suo prezioso John guardarla morire. Le sembra possibile? »

Alzo lo sguardo e mi sembra tutto così assurdo raccontato in quel mondo. Di solito leggevo il mondo filtrato dal blog di John, così romantico e avventuroso e mai mi era passato per la testa che potesse essere anche assurdo.

« Non è più probabile che lei abbia inventato John, l’amico ideale? Lei era solo, senza nessuno, incapace di avere amici ed ecco che nel giro di qualche ora incontra un ex medico militare che accetta immediatamente di diventare suo coinquilino. Chi mai lo avrebbe fatto? »

« John è speciale, lui… »

« Lui cosa? Lo sa anche lei che non può esistere, infatti quando è ripiombato nella sua psicosi John era diverso, vero? Baffi, moglie, l’ha presa a pugni quando è tornato, no? Lei avrebbe potuto bloccarlo con facilità, nella fantasia conosce il karate, invece ha lasciato che la colpisse. E’ un segno, è il modo che ha la sua testa per farle capire che quella realtà è falsa. John, l’amico fedele che la prende a pugni, che sposa un’altra. Tutto è precipitato poi, no? Ha provato di nuovo a tornare qui, solo per dieci giorni, lo ricorda? »

« Dieci giorni? Il carcere dopo Magnussen » mi trovo a rispondere, come se non fossi più in grado di tenere i miei pensieri per me.

Il dottore sorride, ma non riesco a capire che tipo di sorriso sia, la mia mente è in tilt. Sento il bisogno di piangere e non so nemmeno il perché.

« Già, poi di nuovo un tuffo nella fantasia, sempre più assurda. La morte della moglie di John, un serial killer miliardario, il suo migliore amico che la prende a calci e pugni. Cosa ha provato? Sa perché è qui cosciente? Perché quella realtà non le piace più »

Ad ogni parola ho dei flash, Mary che cade a terra morta, io che per caso trovo un busto di Margareth Thatcher, John che mi vuole lontano, John che mi butta a terra, John che non si ferma finché non viene bloccato dagli inservienti.

« Io non… »

« Baker Street è saltata per aria, ha riportato traumi? » Butta lì il dottore ed io comincio nervosamente a controllarmi, nella speranza di trovare qualche segno, qualcosa che dimostri che non sono pazzo che è successo tutto davvero, tutto, anche… « Eurus, lei… »

« Chi è Eurus signor Holmes? Una nuova parte della fantasia? »

Se potessi vedermi da fuori, credo che starei fissando due occhi spenti e vuoti, incapaci di distinguere la realtà dalla finzione. Le lacrime, quelle che prima sentivo pizzicare ora scendono senza remore.
Vorrei gridare il nome di John ma ho la sensazione che nessuno accorrerebbe; ha ragione il dottor Sheehan, è molto più probabile quello che sta dicendo.

« La lascio un po’ riflettere, vuole? Quando vorrà parlare basterà premere il pulsante vicino la porta, d’accordo? »

Il pulsante vicino alla porta, un tasto bianco e tondo che prima non avevo nemmeno notato. Prendo alcune boccate d’aria mentre il dottore si alza lasciandomi lì, sul letto, con una luce fioca a farmi compagnia e la goccia che nuovamente cade dal soffitto a sbeffeggiarmi. Sembra tutto così assurdo e così probabile, una vita inventata, un amico inventato.

« John… » mormoro, chiedendomi quante possibilità ci fossero di trovare un amico come lui, non era mai successo in trentaquattro anni di vita « Non era vero, non era reale... »

Afferro la mia testa con entrambe le mani, la sento scoppiare. I capelli così corti mi infastidiscono e sono quasi preoccupato di non riconoscere la mia immagine riflessa in un specchio, se solo ci fosse una superficie riflettente nella stanza.

Mi metto disteso, solo, spaventato, infreddolito.

**** * ****
Rumori, forti, seguiti da una serie di spari. Mi sveglio di soprassalto completamente sudato, cercando di focalizzare se sono ancora in quella stanza psichiatrica o di nuovo a Baker Street.

Pareti bianche, luce fioca, sono ancora nella clinica “di Northumberland”. Stupido!  Come ho fatto a non notarlo? Quinto fucilieri di Northumberland, lo ripeteva così orgoglioso il mio John. Ho un conato di vomito al pensiero di avere una realtà che non esiste nella testa, quando qualcuno tenta di buttare giù la porta della mia stanza. Cerco di concentrarmi ma non riesco, è tutto così buio. La porta si spalanca e non ho nemmeno il tempo di mettere a fuoco la figura che vengo travolto da un abbraccio.

« Sherlock, Sherlock. Stai bene? »

Mani gentili ma forti iniziano a controllarmi, mentre io non assecondo alcun movimento, non so di nuovo cosa stia succedendo, dove io sia.

« Sherlock, guardami. Cosa ti hanno fatto? » E’ John, credo sia John. La sua voce è strana, preoccupata, leggermente incrinata. Perché dovrebbe esserlo? Secondo Magnussen non sono nemmeno tra i suoi punti deboli.

« Sherlock! »Ci guardiamo ed è come fissare il nulla « Cristo, mi dispiace se ci abbiamo messo tanto tempo ma non sapevamo dove ti avessero portato. Tuo fratello per fortuna ha rintracciato questa proprietà appena fuori Londra, ma immagino lo avrai già capito, vero? »

Sento entusiasmo nella sua voce, mentre dolcemente mi accarezza la nuca. Perché non dice niente dei capelli?

Un altro uomo entra nella stanza, sento di nuovo la testa scoppiare, un dolore forte alle tempie.

« Greg, credo lo abbiano pesantemente drogato »

« Sì, Mycroft ha detto che potevano aver usato qualcosa di sperimentale. Meglio che giriamo con un fazzoletto su bocca e naso, John. Sono stati arrestati tutti comunque »

« Ottimo. Hai sentito, Sherlock? Come a Baskerville. E’ per questo che sei strano. Più del solito » Credo stia cercando di farmi ridere ma non posso ignorare il rimando a Baskerville. Come può esistere una base governativa segreta dove fanno esperimenti su conigli fluorescenti?

Sento i loro sguardi trafiggermi, mentre John mi aiuta ad alzarmi. Ora so cosa devo fare, tutto questo deve finire.

**** * ****
Ho chiesto di essere portato a quella che dovrebbe essere casa mia, Baker Street, rifiutando ogni ulteriore cura medica. Nessuno ha fatto storie, altro segnale evidente di una realtà che non esiste, non è possibile che tutti sorvolino sulla mia necessità di essere portato in ospedale solo perché mi comporto da ragazzino viziato.

John sale con me, vorrei chiedergli dove sia Rosie ma è una domanda superflua, presto questa realtà sarà solo un ricordo. Mi incammino stanco verso la mia camera mentre John mi grida dalla cucina che preparerà un tè, come se fosse la soluzione ad ogni cosa.

Ripercorro il corridoio al contrario, con un peso in più e mi preparo a risolvere finalmente la questione, il mio problema finale.

« Eccoti, vuoi latte o… Sherlock? » c’è paura nei suoi occhi e quasi mi viene voglia di desistere, di stare ancora un po’ con lui in questa fantasia, dopotutto le cose sono un po’ migliorate tra noi negli ultimi tempi.

« Sherlock, perché mi stai puntando una pistola? »

« Mi dispiace ma non posso andare avanti con questa follia »

« Sherlock, abbassa la pistola. Sei stato drogato, ne risenti ancora. Non so cosa ti abbiano indotto a pensare ma… »

« No, John. Basta è colpa tua, sei tu che mi trascini ancora qui »

« Non so di cosa tu stia parlando ma hai ragione, è colpa mia »

Le mie labbra tremano e di nuovo sento gli occhi pizzicare. Anche la mia mano che stringe la pistola trema appena. E’ tutto troppo forte, troppe emozioni, troppo tutto.

« Sherlock mi dispiace per tante, troppe cose. So che ho fatto tanti sbagli ma adesso sono qui, per rimanere. Se pensi che la tua vita sarebbe migliore senza di me posso capirlo. Per salvarmi sei stato lontano due anni e ci ho messo molto ad accettare che non potevi fare diversamente. Hai sparato ad un uomo a sangue freddo e hai rischiato l’esilio per questo. Ti ho accusato di aver ucciso mia moglie, ti ho picchiato… » si interrompe, un attimo, prende fiato appena « Significhi tanto per me e c’è Rosie che ha soltanto noi due »

La mia mano continua a tremare ma non posso lasciare la pistola, non posso.

« Sherlock, siamo noi due, ricordi? Noi due contro il resto del mondo »

Quella frase, quelle parole. E’ vero, è così, se sono fuggito dalla realtà è perché faceva schifo e non avevo nessuno e tornare lì non avrebbe senso. Abbasso lentamente il braccio e John tira un sospiro di sollievo, troppo prematuro perché rapido la porto alla mia testa.

« Sherlock, smettila. Non so che droga abbiano usato ma ti ha dato delle allucinazioni pesanti o non so cosa. Tu non vuoi morire, piuttosto spara a me. Non posso pensare di vivere senza di te. Ti porto in ospedale, d’accordo? Non… non ti sembra una reazione esagerata per un taglio errato di capelli? »

Abbasso il braccio, stranito dalla domanda ironica in una situazione del genere. Possibile che abbia imparato da me? E' un attimo prima che John mi atterri lanciando lontano la pistola. Eccolo il soldato, l’uomo che ho imparato ad amare negli anni senza alcuna speranza.

« Mi dici cosa è successo in quel posto? Cosa ti hanno indotto a credere quei maniaci? » cerca di sembrare tranquillo ma la forza con cui mi blocca i polsi con le mani e con cui stringe le gambe attorno al mio busto fanno pensare a tutto fuorché ad una persona rilassata.

« Che era tutto finto, che non era vero »

« Cosa? »

« Io non sono un genio, voi non esistete… »

« Wow, se sono riusciti a farti credere di non essere un genio voglio sapere che droghe hanno usato » ride e la risata è contagiosa. Ora che lo guardo bene, ogni sfumatura di grigio nei capelli, ogni piccola ruga, trovo a chidermi come ho potuto pensare che non esistesse? E’ John, è il mio conduttore di luce, nemmeno nelle mie più incredibili fantasie avrei potuto immaginare una personalità complessa come quella del dottor Watson.

« Perché non ricordo niente di come sono finito lì? »

« Non posso aiutarti più di tanto, mr “indago da solo” Holmes. Mi hai scritto che avevi una pista per trovare gli ultimi affiliati della rete di Moriarty e poi il nulla. Forse hanno pensato che fosse divertente friggere il tuo prezioso cervello » sorride e rilascia un po’ la presa; sa che sono ancora debole ma sa anche che potrei reagire in qualunque momento. Perché ti fidi così tanto di me, John?

« Moriarty, ecco perchè sapevano tante cose della mia vita » ora tutto inizia ad avere un senso, farmi credere di essere pazzo sarebbe stata una vendetta che Moriarty avrebbe trovato divertente.

« Cosa facciamo, Sherlock? Restiamo in questa posizione finché non riacquisti il senno? »

Mi trovo stupidamente ad arrossire e per un attimo vedo la sicurezza di John vacillare; mi guarda a lungo prima di azzardare ad avvicinarsi con il viso al mio « Sherlock, parlavo sul serio prima. Non posso vivere senza di te » sussurra piano.

« Lo so » rispondo con una parvenza di sicurezza, sento finalmente che l’effetto della droga sta svanendo e siamo solo noi due, distesi in cucina in una posizione che la signora Hudson definirebbe compromettente.

« Baciami » esclamo.

« Cosa? » è il turno di John di tremare; come sono stato stupido, nella mia fantasia John mi avrebbe amato dal primo giorno senza freni, non staremmo ancora ballando attorno alla sua presunta eterosessualità.

« Baciami e sarò certo che questa è la realtà; non posso essere in grado di immaginare come mi baceresti »

«Sveglierò il principe, così? » prende tempo ma ha già spostato le mani dai miei polsi e si è sollevato appena per non pesarmi più addosso. Io sorrido incoraggiante, anche se non fosse la realtà non ne vorrei una diversa.

Inclina appena il volto verso destra e appoggia delicatamente le sue labbra sulle mie, ed è come se improvvisamente il mondo esplodesse in un turbinio di colori e suoni.

 E’ tutto vero, ora ne sono certo.

**** * ****
Angolo autrice:
Chissà chi c'è ancora a leggere in questo rovente agosto questa raccolta. Oggi avevo proprio voglia di portare a termine questa storia, sempre dai toni "misteriosi", ed eccola qui, in tutto il suo angst.
Grazie come sempre e alla prossima :)


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