Sembrava che l'estate non dovesse mai finire

di Thalassa_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** L'estate in cui tutto incominciò ***
Capitolo 3: *** Sei lettere, un treno e un cappello impiccione (parte prima) ***
Capitolo 4: *** Sei lettere, un treno e un cappello impiccione (parte seconda) ***
Capitolo 5: *** Sei lettere, un treno e un cappello impiccione (parte terza) ***
Capitolo 6: *** Prima sera ***
Capitolo 7: *** I Malandrini di Hogwarts ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Questa è una storia da tempo sepolta. 

È una storia di grandi amicizie, di fragorose risate, di amori impossibili, di eroi e di codardi, di promesse mantenute e di promesse infrante.
È la storia di un tempo sepolto, un tempo in cui pensavano di essere forti e invincibili, protetti dalle mura di Hogwarts, da Silente, dal loro coraggio e dalla loro bontà. Un tempo in cui sembrava che l’estate non dovesse mai finire.

Questa è una storia da tempo sepolta, e i suoi protagonisti sono sepolti con lei.
Ed è una storia che comincia così:
C’erano una volta quattro Malandrini…


[100 parole - Utelio]


N.d.A.
Sono diventata matta a scrivere questo prologo. Quello che era nato come prologo si è trasformato in epilogo, e come prologo è nata dal nulla questa drabble. È un esperimento sia dal punto di vista stilistico - dal primo vero capitolo vedrete che lo stile del resto della storia è molto diverso - sia dal punto di vista tecnico, visto che è la prima volta che pubblico. Quindi, opinioni e commenti sono più che mai apprezzati! 
Thalassa_

 

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Capitolo 2
*** L'estate in cui tutto incominciò ***


Disclaimer (da intendersi valido per l'intera storia): Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di J.K.Rowling. Questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.


PARTE PRIMA
PRE-HOGWARTS


Capitolo I – L’estate in cui tutto incominciò

 
15 giugno 1970
Spinner’s End
 
Tieni la mente chiusa, tieni la mente chiusa, si ripeteva Severus, gli occhi chiusi, i pugni serrati, rannicchiato a terra con la testa tra le ginocchia. Aveva letto dell’esistenza dell’Occlumanzia in un libro di sua madre, e da quel momento l’idea si era insinuata nella sua mente.
“Chi è padrone della sua mente è padrone di sé stesso” mormorò, tenendo ancora gli occhi chiusi, inspirando profondamente. Se solo fosse riuscito a chiudere la mente, avrebbe impedito a quello che non voleva vedere e non voleva sentire di entrare dentro di lui; e se non l’avesse visto, sarebbe stato come se non fosse successo…ma Severus aveva solo dieci anni, non possedeva ancora una bacchetta e non c’era la minima possibilità che riuscisse a praticare l’Occlumanzia, o quello che credeva di aver capito di essa da un libro. Perciò, per quanto si sforzasse e si concentrasse, non riusciva a tenere fuori le voci che lo circondavano: sua madre e suo padre che gridavano, suo padre che la insultava, sua madre che si difendeva lanciandogli contro un bicchiere, come una Babbana qualunque.
“Tu, ragazzo! Cosa stai facendo lì per terra?” urlò suo padre. Severus non poté più ignorarlo, dal momento che si stava rivolgendo direttamente a lui, e aprì gli occhi.
Suo padre gli stava puntando un dito contro, malfermo sulle gambe, gli occhi offuscati pieni di disprezzo. “Eileen, guardalo, e tu osi dire che è normale…
“Fa così perché è spaventato, Tobias!” gridò sua madre con la voce rotta dal pianto.
Severus si alzò in piedi e guardò suo padre negli occhi, cercando di tenere lo sguardo fermo anche se arrivava a stento al petto dell’uomo.
“Non guardarmi così” sibilò suo padre, l’alito che puzzava pesantemente di alcol, “Fuori dalla mia vista! Vai! Vai!” Severus guardò sua madre con aria interrogativa, incerto sul da farsi. Nel frattempo suo padre era sprofondato su una sedia di legno scheggiata; Severus sperò che gli si conficcasse una scheggia nella schiena.
“Perché non vai a giocare fuori, Severus?” gli disse sua madre con voce gentile, sforzandosi di far apparire un mezzo sorriso sui suoi lineamenti duri. Incoraggiato dal suo tono, Severus trovò il coraggio di farfugliare, con voce flebile: “La tua bacchetta?”.
L’espressione di sua madre si indurì e Severus seppe subito che era stato un errore.
“Hai sentito quello che ti ha detto tuo padre, vai!”
Suo padre ricominciò a urlare, e Severus corse via, scappando dalle voci dei suoi genitori che si scambiavano orribili epiteti. Corse a perdifiato finché casa sua non fu più visibile, ma le voci dei suoi genitori continuavano a rimbombargli nella testa: sua madre che urlava anziché difendersi seriamente – la sua bacchetta doveva essere di nuovo nascosta da qualche parte – non poteva Schiantarlo, una buona volta?, suo padre che diceva che Severus non era normale, ma cosa voleva saperne lui, uno stupido Babbano, che se la tenesse la sua normalità…
Si guardò intorno. Aveva corso a perdifiato lasciando che fossero i suoi piedi a guidarlo, non che ci fossero molti posti dove andare a Cokeworth. Era una bella giornata di giugno e Severus grondava di sudore per la corsa. Nella fretta aveva scordato di prendere il cappotto, e così nulla poteva nascondere i buchi nella sua camicia, troppo grande per lui. Nessuno dei suoi vestiti gli andava bene, perché nessuno era stato comprato per lui; gli abiti che indossava provenivano alternativamente da negozi di seconda mano, dal guardaroba di suo padre o, peggio, di sua madre.
Nonostante il caldo, Severus si pentì di non aver preso con sé il suo cappotto nero; senza si sentiva nudo, esposto allo scherno di chiunque posasse gli occhi su di lui. Sarebbe stato meglio tornare a casa e sgattaiolare in camera sua, dove nessuno poteva vederlo, e rileggere per l’ennesima volta uno dei polverosi volumi rubati dalla libreria di sua madre, eppure i suoi piedi l’avevano portato vicino all’ingresso del parco.
Erano le sei di pomeriggio, ma le giornate si stavano allungando e c’era ancora luce. Forse sarebbe riuscito a vederla. Forse sarebbe stato un giorno fortunato.
Dopo un attimo di esitazione, imboccò il vialetto dell’ingresso secondario del parco, cercando di camminare più silenziosamente possibile e non farsi notare.
Una risata cristallina riempì l’aria, e il cuore di Severus iniziò a battere più forte, mentre si acquattava dietro a un cespuglio come aveva fatto già molte altre volte. La risata proveniva da una bambina dell’età di Severus con una gran massa di capelli rosso scuro che sembrava uscita da una fiaba. Severus l’aveva osservata un numero sufficiente di volte per sapere che anche il suo nome sembrava uscito da una fiaba: Lily, Lily Evans.  In quel momento, Lily Evans stava facendo schizzare l’acqua della fontanella verso la sorella maggiore, una ragazzina ossuta con il naso a punta e una voce fastidiosa.
“Piantala, Lily!” protestò a gran voce la ragazzina più grande “mi stai bagnando tutti i vestiti e i capelli!”.
Lily rideva e rideva, allegra e spensierata, e la sua risata riempiva l’aria e il cuore di Severus; le voci dei suoi genitori nella sua testa si acquietarono.
“Ma dai Tunia, è solo acqua, e poi oggi è una bella giornata, sorridi un po’ ogni tanto”.
Per tutta risposta, la bambina chiamata Petunia arricciò il naso e annunciò che era ora di tornare a casa. Severus dovette trattenersi dall’urlare “no!”, e guardò con tristezza le due sorelle allontanarsi verso l’uscita del parco. Ormai era passato un mese dalla prima volta che le aveva notate, e ben presto aveva capito che Lily era speciale, proprio come lui.
Lily si girò a raccogliere una margherita mentre camminava, e così Severus poté ammirarla per l’ultima volta quel giorno: minuta, i capelli rosso scuro infuocati dal sole che stava iniziando a scendere verso l’orizzonte, gli occhi verdi pieni di allegria e meraviglia nell’ammirare il fiore appena raccolto. Severus non aveva mai visto niente di più bello. Rimase senza fiato acquattato nei cespugli finché non fu sparita dalla sua vista. Valeva la pena tornare tutti i giorni per vederla, anche solo per poco; e prima o poi avrebbe trovato il coraggio di parlarle, e dirle che anche lui era un mago, ma ora era ancora troppo presto, nessuno dei due ancora ricevuto la lettera da Hogwarts, anzi lei non sapeva nemmeno che esistesse Hogwarts.
Un’idea lo colpì come una folgorazione: avrebbe potuto essere lui a rivelarle che era una strega! E allora lei avrebbe saputo che avevano qualcosa in comune, e sarebbero diventati amici, e lei avrebbe lasciato da parte quella sua stupida sorella Babbana…
Tornò a casa con un passo leggero e baldanzoso, pieno di speranza; fu persino tentato di iniziare a fischiettare, quando sentì una risatina alle sue spalle. Un ragazzino lo stava indicando al suo amico, puntando il dito e ridacchiando, mentre l’altro sussurrò in maniera udibile, con un ghigno:
“Suo padre dev’essersi bevuto tutti i soldi dei vestiti!”.
I due ragazzini corsero via vedendo che Severus si era voltato verso di loro.
Severus fece per inseguirli, ma fu distratto dalla sua immagine riflessa nella vetrina del negozio accanto a cui stava camminando: era magro, con i capelli neri unti che gli ricadevano ai lati del volto, la camicia sbrindellata e attaccata al petto per il sudore, i pantaloni troppo corti che gli lasciavano le caviglie scoperte. Come aveva anche solo potuto pensare di parlare con quella ragazzina? Tornò a casa con le spalle basse e il cuore appesantito.
 
20 agosto
Cokeworth, alle altalene
 
Il parco giochi era deserto, quel pomeriggio. Metteva un po’ malinconia. Lily preferiva quando c’erano tanti bambini con cui poter giocare, invece sua sorella era l’unica compagnia disponibile quel giorno. Erano sempre andate abbastanza d’accordo, ma da quando Petunia aveva compiuto dodici anni era diventata insopportabile e si dava un sacco di arie, credendo di essere chissà quanto più grande di lei. Due anni non sono poi molti, rifletté Lily, dondolandosi sull’altalena.
Un’enorme ciminiera dominava l’orizzonte.
Chissà che faccia farebbe Petunia se riuscissi a saltare fino a là sopra, fantasticò. Sorrise tra sé al pensiero. No, la ciminiera era decisamente troppo lontana.
La grande quercia davanti a loro, però, era decisamente più raggiungibile. Lily rise mentre si dava lo slancio per dondolare sempre più in alto, molto più in alto di Petunia.
“Lily, non farlo!” strillò prevedibilmente sua sorella maggiore.
Ma Lily non aveva la minima intenzione di ascoltarla. Aveva fatto quel gioco già tante volte e sapeva che non era davvero pericoloso. Sono leggera come un uccello, anzi, come una piuma, pensò. Arrivata al punto più alto dell’arco, lasciò andare l’altalena e si gettò verso il cielo con uno scoppio di risate. Si librò nell’aria come una trapezista, atterrando con leggerezza sull’asfalto del parco giochi.
“La mamma ti ha detto di non farlo!”
Petunia fermò l’altalena piantando i talloni dei sandali a terra con uno scricchiolio, poi balzò in piedi, le mani sui fianchi.
“La mamma ha detto che non puoi, Lily!”
“Ma io non mi sono fatta niente” ribatté Lily, che ancora rideva. Perché sua sorella doveva essere sempre così irritante e rovinare tutti i giochi? Non poteva volare anche lei, invece di stressarla?
Forse il prossimo gioco le sarebbe piaciuto di più. Petunia adorava i fiori.
“Tunia, guarda. Guarda cosa so fare”.
Petunia si guardò intorno con circospezione, ma il parco giochi era deserto; probabilmente voleva assicurarsi che nessuno assistesse a quelle che chiamava “le stramberie di Lily”.
Lily ignorò pazientemente il suo sguardo e raccolse un bel fiore bianco caduto da un cespuglio. Petunia si avvicinò, chiaramente dibattuta tra la curiosità e la disapprovazione. Lily aspettò che la sorella guardasse bene, poi tese la mano aperta. Il fiore apriva e chiudeva i petali come graziosa ostrica.
“Smettila!” strillò Petunia.
“Mica ti fa del male” obiettò Lily, ma poi chiuse la mano sul bocciolo e lo gettò di nuovo a terra, irritata. Ultimamente, lei e Petunia non facevano che litigare. Possibile che avesse da ridire anche sui fiori, adesso? Le erano sempre piaciuti tanto, e Lily voleva solo farle un regalo…  
“Non è giusto” protestò Petunia, ma il suo sguardo aveva seguito la caduta del fiore a terra e vi indugiava. “Come fai?” domandò, con un chiaro tono di desiderio.
“È ovvio, no?”
Lily sobbalzò per lo spavento. Dal cespuglio poco distante da loro era appena sbucato un ragazzino.
Petunia strillò e tornò di corsa alle altalene, ma Lily, per quanto allarmata dall’improvvisa apparizione, rimase dov’era. Possibile che Petunia si spaventasse proprio per tutto? Era solo un bambino come loro.
Certo, non si poteva dire che avesse un bell’aspetto. Aveva i capelli neri troppo lunghi e abiti così male assortiti che sembrava fatto di proposito: jeans troppo corti, un cappotto logoro e troppo grande che avrebbe potuto appartenere a un adulto, una strana camicia simile a un grembiule.
Il bambino sembrava in imbarazzo; forse si era pentito di essere uscito dal suo nascondiglio. Un cupo rossore invase le sue guance giallognole. 
“Che cosa è ovvio?” gli chiese Lily.
Il bambino apparve agitato. Scoccò un’occhiata a Petunia che gironzolava vicino alle altalene, poi abbassò la voce e disse, rivolgendosi solo a Lily: “Io so cosa sei”.
“Cioè?” chiese, scettica. Le sembrava una frase quanto meno misteriosa. Pensava forse di impressionarla?
“Tu sei…una strega” sussurrò il bambino.
Lily si ritrasse, tremendamente offesa.
“Non è una cosa carina da dire!”
Si voltò, naso per aria, e si allontanò a grandi passi verso la sorella.
“No!” esclamò il ragazzino. Ormai era paonazzo. Perché non si toglieva quel ridicolo cappotto, se aveva caldo? Saltellò dietro di loro, come la caricatura di un pipistrello.
Lily lo guardò con disprezzo, e per una volta sapeva che lei e Petunia condividevano la stessa espressione. Erano tutt’e due aggrappate a uno dei pali dell’altalena come se fosse la tana in una partita di acchiapparello. 
“Lo sei” insisté lo strano bambino. “Sei una strega. È un po’ che ti tengo d’occhio. Ma non c’è niente di male. Anche mia mamma è una strega, e io sono un mago”.
La risata cattiva di Petunia arrivò su di lui come una doccia fredda, prima che Lily potesse dare voce al suo sbalordimento.
“Un mago!” strillò sua sorella, rinfrancata dopo lo spavento per l’improvvisa apparizione. “Io so benissimo chi sei. Sei il figlio degli Snape! Abitano giù a Spinner’s End, vicino al fiume” spiegò a Lily, e dal suo tono si capiva che trovava l’indirizzo poco raccomandabile. “Perché ci stai spiando?”
“Non vi spio” rispose Snape, in pieno sole, accaldato, a disagio, con i capelli sporchi. “Non te, comunque” aggiunse sprezzante. “Tu sei una Babbana”.
Non aveva idea di cosa significasse – una volta a casa avrebbe chiesto alla mamma se era una parola proibita – ma non si poteva fraintendere il tono con cui l’aveva pronunciata. L’intento era chiaramente offensivo, e Lily era irritata. Come poteva spiarle e sbucare fuori da un cespuglio per dare a lei della strega e dire a sua sorella una parola con la B?
“Lily, su, andiamo via!” esclamò Petunia. Per una volta, Lily le obbedì immediatamente e si allontanò, scrutando torva il bambino-pipistrello.
 
Qualche ora più tardi, Lily faticava ad addormentarsi. Si girava e rigirava nel suo letto senza trovare la giusta posizione.
“Sei una strega” le sussurravano due occhi neri, nel buio. Ripensandoci, non c’era stata cattiveria in quello sguardo. Il figlio degli Snape sembrava molto serio. Forse quel bambino era matto, e credeva davvero a quello che aveva detto. O forse era solo molto ingenuo.
Lily non era più una bambina piccola e non credeva più alle fiabe, figuriamoci alla magia. Eppure, non poteva negare a sé stessa che a volte faceva cose proprio strane. Strano suonava come una parola cattiva quando usciva dalla bocca di sua sorella, storta in una smorfia di disgusto; nella testa di Lily, strano era qualcosa di affascinante e misterioso.
All’inizio, capitavano e basta. Quando era molto arrabbiata o impaurita e desiderava intensamente qualcosa…beh, accadeva. Poi gli incidenti erano diventati più frequenti, finché qualche tempo prima Lily aveva capito che le cose strane non capitavano semplicemente intorno a lei. Era lei che le faceva capitare.
Nessun altro sa fare le cose che faccio io, pensò. Sua sorella a volte la tormentava chiedendole di spiegarle il trucco, ma Lily non sapeva mai cosa dire. Non c’era nessun trucco. “Basta che ti concentri” le rispondeva, ma Petunia sbuffava e se ne andava. E se fosse veramente magia? Se fossi veramente…una strega?
“Tunia?” chiamò piano, certa che la sorella fosse ancora sveglia nel letto accanto al suo. Nel sonno, Petunia aveva un respiro pesante che tranquillizzava Lily quando si svegliava all’improvviso dopo un incubo.
“Che vuoi, Lily?” bofonchiò sua sorella, la voce impastata dal sonno.
Lily ci ripensò. Non voleva sentire la risata cattiva di sua sorella schernirla. Se le avesse chiesto cosa ne pensava della magia, l’avrebbe probabilmente raccontato a tutta la scuola. O forse no, si sarebbe vergognata troppo. L’idea che sua sorella si vergognasse di lei era perfino peggio.
“Niente, buonanotte” sospirò.
Non c’è niente di male, aveva detto il bambino. Anche mia mamma è una strega, e io sono un mago.
Lily decise che il giorno dopo sarebbe andata a cercarlo, senza Petunia, e gli avrebbe chiesto di dimostrargli che era veramente un mago. Forse anche lui sapeva far aprire e chiudere i fiori. Ne avrebbe portato un intero mazzo alla mamma, poi, e a Petunia, anche se lei li avrebbe buttati via. Sarebbe stata contenta, sotto sotto, Lily ne era sicura. Si girò risolutamente sull’altro fianco e si addormentò.
 
 
10 settembre
Cokeworth, in riva al fiume
 
Era tremendamente scomodo stare rannicchiata in quella posizione e per di più un pezzo di resina caduta da un ramo le si era appiccicata al vestito nuovo, ma non poteva permettersi di essere scoperta, perciò non si mosse. Aveva seguito sua sorella fin da casa, stando attenta a non essere vista, e i suoi sforzi erano stati ripagati.
Non ci aveva creduto neanche un po’, quando Lily aveva detto alla mamma che usciva per andare dalla sua amica Annabelle, che abitava in fondo alla via. Innanzitutto, Lily era una pessima bugiarda: aveva pronunciato la scusa troppo in fretta e senza guardare la mamma negli occhi. La mamma, però, era stata troppo intenta a tirar fuori il servizio buono per gli ospiti che sarebbero arrivati quella sera, e non ci aveva fatto caso; e comunque nessuno dubitava mai della bella, buona, brava Lily. Così sua madre si era limitata a raccomandarsi di non fare tardi e di salutarle la signora Brown.
Inoltre, Annabelle Brown e Lily non erano più amiche da un po’, per la precisione da quando il biondo e lentigginoso Simon Bradley, per cui Annabelle aveva una cotta, aveva regalato a Lily un mazzo di fiori di campo che aveva raccolto personalmente, arrossendo furiosamente. Lily quel giorno aveva guadagnato un ammiratore e perso una migliore amica; per quanto si fosse prodigata a scusarsi con lei, Annabelle non aveva più voluto rivolgerle la parola. Petunia la capiva.
Del litigio con Annabelle sua mamma non sapeva nulla, e teoricamente non avrebbe dovuto saperlo neanche Petunia, visto che Lily non l’aveva raccontato a nessuno; ma Petunia era sempre la prima a sapere certe cose.
Perciò, appena aveva sentito sua sorella balbettare quella scusa assurda, aveva deciso di seguirla, certa che stesse andando a incontrarsi di nascosto con quel ragazzo orribile – di nuovo – e non era stata delusa. 
Lily e Snape erano seduti per terra uno di fronte all’altro, a gambe incrociate. Anche nella penombra del boschetto, Petunia riusciva a distinguere chiaramente il disgustoso sguardo di desiderio con cui il bambino fissava sua sorella. Anche lui evidentemente pensava che fosse bellissima, come lo pensava Simon Bradley e come lo pensavano i loro genitori. L’unica che sembrava non rendersene conto – di quel viso da fata, spruzzato di lentiggini, di quei capelli lunghi, folti e setosi di un rosso cupo e ardente, di quegli ammalianti occhi verde bottiglia – era proprio Lily. Finge, pensò Petunia con asprezza, finge di non saperlo.
 I capelli di Petunia erano castani e stopposi, il suo naso troppo lungo, i suoi gomiti troppo spigolosi; la gente spalancava gli occhi per la meraviglia sentendosi dire che erano sorelle.
Parlavano a voce bassa, e Petunia non osava avvicinarsi di più per timore di essere vista. Il suo udito, raffinato da anni passati a origliare conversazioni e pettegolezzi, le permetteva comunque di cogliere stralci della stramba conversazione.
“Noi siamo a posto” stava dicendo Snape “non abbiamo ancora la bacchetta…”
Petunia trasalì. Bacchetta? Una bacchetta magica? E cos’altro, poi? Conigli che escono dal cilindro e donne tagliate a metà?
Vieni qui, Tunia, non ti faccio niente, disse un’inquietante versione stregonesca di Lily nella sua testa, devo tagliarti a metà per l’esame di ammissione alla scuola dei pazzi, ma poi ti ricompongo, tranquilla.
Petunia scacciò quel pensiero fastidioso come se fosse stato una mosca. Quante altre idiozie aveva intenzione di mettere in testa a Lily, quel bambino ripugnante?
Petunia si chiese come facesse Lily a stargli vicino senza ritrarsi disgustata. Indossava persino la stessa ridicola camicia! Non aveva altri vestiti?
“È vero, no? Non è uno scherzo? Petunia dice che mi racconti delle bugie. Dice che Hogwarts non esiste. È proprio vero?” chiese Lily, timorosa.
Allora sua sorella teneva in conto quello che diceva, realizzò Petunia, trionfante. Era la prima frase sensata che sentiva in quella conversazione folle. Petunia l’aveva detto e ripetuto a Lily, che Hogwarts non esisteva, la magia non esisteva, era una cosa irrazionale da libri di fiabe per bambini, che era solo uno scherzo di quel ragazzino perverso, ma Lily scuoteva la testa ogni volta, caparbia. Eppure evidentemente qualche dubbio ce l’aveva anche lei, sulla propria ingenuità o sulla propria sanità mentale, forse.
Petunia l’aveva detto e ripetuto che la magia non esisteva, ma ogni volta che lo diceva ne era sempre meno convinta. Lily faceva cose strane. Cose che non sarebbero dovute essere possibili. Quando Petunia le chiedeva di svelarle il trucco, Lily scrollava le spalle e diceva che le veniva naturale. Naturale era l’ultima parola che avrebbe scelto Petunia, per descrivere un fiore che si apriva e si chiudeva da solo o sua sorella che atterrava leggera come una piuma sui propri piedi dopo essere caduta da un albero. Petunia si era sforzata e sforzata, ma non le era mai riuscita nessuna delle cose che Lily giudicava naturali, e ora iniziava ad avere paura…iniziava a crederci anche lei…
“È vero per noi” rispose Snape. “Non per lei. Ma noi riceveremo la lettera, io e te”.
“E arriverà davvero con un gufo?”
“Di solito…”
Un gufo portalettere! A papà verrà un colpo vedendo un gufo piombare in salotto, pensò irrazionalmente. Quando si rese conto di quello che aveva appena pensato, si ritrasse con orrore. Non arriverà nessuno stupido gufo, si rimproverò mentalmente.
Non le era sfuggito il disprezzo con cui Snape si era riferito a lei. La sensazione di essere tagliata fuori era doppiamente sgradevole, se a escluderla era uno che abitava a Spinner’s End.
Quando la mamma aveva sentito che il figlio degli Snape le aveva avvicinate al parco, il labbro le si era arricciato in un’espressione di disgusto e aveva proibito severamente a entrambe le figlie di avvicinarsi alla zona di Spinner’s End. “Se vi si avvicina ancora strillate e chiamate aiuto” aveva raccomandato. Petunia avrebbe ubbidito, ma Lily no. Lily ci stava parlando proprio ora, seduta a mezzo metro da lui e si stava bevendo tutte le scemenze sulla magia che quello le rifilava per rendersi interessante.  
“Come vanno le cose a casa tua?” chiese Lily. Avevano abbassato la voce, ma Petunia non aveva bisogno di ascoltare. Tutti in paese sapevano che Tobias Snape era un ubriacone e che la famiglia viveva nella miseria.
“Severus?”
“Sì?”
“Parlami ancora dei Diserbatori”.
Eh?
“Perché?”
Perché non sembrava la domanda giusta da fare a qualcuno che avesse appena chiesto di parlargli di “diserbatori”. Forse, ripensandoci aveva detto qualcosa di più simile a “disseccatori”. Petunia sporse in avanti il lungo collo per sentire meglio cosa stessero dicendo. La professoressa di matematica le diceva sempre che si sarebbe trasformata in una giraffa a forza di allungare il collo per sbirciare i compiti dei compagni.
“Se uso la magia fuori dalla scuola…”
“Non ti danno ai Dissennatori per questo! I Dissennatori sono per chi fa cose veramente brutte. Sono le guardie della prigione magica, Azkaban. Tu non puoi finire ad Azkaban, sei troppo…”
Ora Petunia era sicura di aver sentito bene. Dissennatori. Non era nemmeno una parola vera! Per non parlare di Azkaban! Doveva assolutamente saperne di più. Perché quello stupido ragazzino doveva parlare così piano? Si sporse ancora un po’ in avanti. Ancora solo un centimetro…solo un altro…
Perse l’equilibrio. Riuscì a non cadere rovinosamente a terra mettendo istintivamente un piede in avanti all’ultimo minuto, ma il suo nascondiglio ormai era saltato. Rimase paralizzata dalla vergogna mentre due occhi verdi e gentili la guardavano sorpresi e due occhi neri la pietrificavano, pieni di rabbia e disprezzo.
“Tunia!” esclamò Lily, come se fosse contenta di vederla. Falsa, falsa, falsa Lily. Snape al contrario non fece nulla per nascondere la sua rabbia e balzò in piedi, gridando:
“Chi è adesso che spia? Cosa vuoi?”
La sua espressione la spaventò. C’era qualcosa di crudele in quegli occhi neri. Senza fiato, cercò disperatamente qualcosa da dire. Lo scherno e il disprezzo erano due armi che Petunia aveva affinato negli anni per difendersi dalle prese in giro dei compagni di classe. “L’offesa è la miglior difesa” era una frase che aveva preso alla lettera.
“Cos’è che hai addosso?” chiese perfida, indicando il petto di Snape, “la camicetta di tua mamma?”
Petunia udì un sonoro crac provenire da qualche parte sopra la sua testa, e prima che avesse il tempo di rendersi conto di cosa stava succedendo, qualcosa di grosso e pesante la colpì sulla spalla. Barcollò all’indietro e scoppiò a piangere per il dolore e lo spavento. L’ultima cosa che vide prima di correre via fu il lampo di soddisfazione negli occhi di Snape.
Petunia corse a perdifiato senza pensare a dove dirigersi. Voleva solo andare via, lontano da Snape, lontano da Lily, via, via!
Quell’orribile ragazzo aveva fatto precipitare il ramo senza nemmeno sfiorarlo, e l’aveva fatto con cattiveria, per farle del male. Non poteva più negare a sé stessa che quella era magia vera.
Snape era un mago, e Lily era come lui. Un mostro come lui.
 

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N.d.A.
Mi scuso in anticipo perché so già che abuserò dello spazio delle note per i miei sproloqui, ed essendo questo il primo capitolo sarò particolarmente prolissa.
Innanzitutto, un sentito ringraziamento a M a i e Lily_Ginny che hanno messo la storia tra le seguite sulla fiducia, dopo un prologo di appena cento parole. Grazie anche a tutti gli altri lettori silenziosi!
E ora passiamo alle note vere e proprie.
  1. Sulle scelte di traduzione: i nomi delle quattro Case e dei luoghi (Stamberga Strillante et similia), così come i soprannomi dei Malandrini, sono presi dalla prima edizione Salani. Non ho mai apprezzato molto la scelta di tradurre i nomi propri, e avendo iniziato a scrivere questa fanfiction appena dopo aver terminato una rilettura della saga in inglese, avevo deciso di mantenere i cognomi originali: Snape, Longbottom, McGonagall etc. Senza quasi rendermene conto, scrivendo ho deciso di fare due eccezioni. La prima è Silente, per il quale l’adattamento italiano del nome è talmente azzeccato da risultare quasi profetico; l’ho mantenuto perché lo trovo più evocativo ed efficace di Dumbledore, e anche perché per il lettore italiano il nome “Silente” è di una familiarità tale che a parlare di “Dumbledore” sembra quasi si parli di una persona diversa. La seconda eccezione è il professor Lumacorno con il suo Lumaclub, perché si tratta di una vera e propria traduzione del suo cognome e non di un adattamento che cerca di aggiungere un qualcosa in più rispetto al nome originale.
  2. Sulla gestione dei ricordi consegnati da Snape a Harry nel settimo volume. Molte di quelle scene (praticamente tutte, a dire la verità) contengono elementi essenziali della trama e pertanto non mi era possibile saltarle, perché avrebbero sottratto qualcosa allo sviluppo logico della vicenda. Ho scelto di riportarle riscrivendole da un punto di vista diverso rispetto a quello di Snape, cercando di non tradire il brano originale. In particolare, in questo capitolo ho sfruttato i punti di vista di Lily e di Petunia. I dialoghi sono naturalmente presi da “Harry Potter e i Doni della Morte”. Nella scena con il punto di vista di Lily, ho ripreso il brano in maniera quasi letterale, mentre in tutti gli altri ho variato/varierò di più.  Fatemi sapere cosa ne pensate!
  3. Sulle scelte narratologiche: la storia ripercorre dall’inizio alla fine l’arco narrativo dei personaggi più importanti della Vecchia Generazione (i Malandrini, Lily e Severus), alternando i loro punti di vista nelle diverse scene per cercare di mostrare uno spaccato di ogni personaggio. Ho fatto uno sforzo immane per evitare errori di focalizzazione, ma sicuramente me ne sarà sfuggito qualcuno, perciò se ne trovate segnalatemeli!
  4. Su questo capitolo: l’ho ambientato nell’estate del 1970 basandomi sulla descrizione di Snape, che secondo Harry dimostra nove o dieci anni, e sul fatto che né lui né Lily hanno ancora ricevuto la lettera. Ho immaginato che nell’anno che segue Lily e Snape abbiano avuto il tempo di costruire la loro amicizia e arrivare a Hogwarts da “migliori amici”.
  5. Sui generi selezionati per la storia: giuro che quando li ho scelti non ero ubriaca :D Ho selezionato “commedia” e “drammatico” perché quando si parla dei Malandrini, necessariamente i due generi si compenetrano. “Introspettivo”, invece, l’ho scelto a causa dell’alternanza di punti di vista, che mi permette di sondare l’animo di diversi personaggi.
Scusate le note chilometriche, prometto di non blaterare in questo modo a ogni capitolo. Recensioni di ogni tipo sono estremamente gradite, e accetto parimenti apprezzamenti e critiche (soprattutto se argomentate). Fatemi sapere le vostre impressioni, soprattutto sull’IC dei personaggi che è un po’ la mia fissa! ;)

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Capitolo 3
*** Sei lettere, un treno e un cappello impiccione (parte prima) ***


Capitolo II - Sei lettere, un treno e un Cappello impiccione (parte prima)

 

24 luglio 1971
Sesta casa dei Lupin, Somerset
 
Un raggio di luce filtrava attraverso le persiane puntando direttamente sul letto di Remus, che socchiuse leggermente gli occhi, cercando la fonte del ticchettio continuo che l’aveva svegliato.
Gli bastò uno sguardo alla finestra per identificarla: un gufo stava bussando con il becco alla sua finestra con un gentile ma insistente tap-tap-tap.
Remus lo guardò con odio; era un mese che le visite dei gufi lo tormentavano. Era luglio inoltrato, ed era ormai tempo che arrivasse la lettera di ammissione a Hogwarts.
Sapeva che non sarebbe mai potuto andare a scuola come i bambini normali, che avrebbe studiato a casa con suo papà, eppure ogni volta che arrivava un gufo il cuore gli si stringeva e la speranza, che credeva assopita sotto uno spesso strato di rassegnazione, si risvegliava come una fenice dalle sue ceneri.
Remus si alzò dal letto sospirando e cercò una moneta per pagare il gufo. Aprì la finestra per farlo entrare e prese in mano l’involucro di pergamena che stringeva tra gli artigli.
Come previsto, era solo la Gazzetta del Profeta.
“Stupido gufo” borbottò, ma se ne pentì subito. Era un bell’animale, con il piumaggio grigio lucido e gli occhi intelligenti.
Tra poco è il mio compleanno, pensò, potrei chiedere a papà un gufo come questo.
Gli accarezzò dolcemente la testa e gli offrì la moneta. Il gufo la prese delicatamente tra gli artigli e volò via attraverso la finestra aperta. Remus si sporse per seguirlo con lo sguardo, finché non fu solo un puntino lontano.
Dev’essere bello volare, non pensare a nulla e sentirsi liberi…
Sospirò. La sua vita era davvero deprimente se ora si ritrovava a invidiare anche i gufi portalettere.
Rimase alla finestra, ammirando i colori dell’estate di fronte a sé: l’azzurro del cielo terso, su cui era spruzzato il bianco di qualche nuvola soffice e solitaria, il verde profondo del bosco davanti a casa, il viola intenso della veste del mago che bussava alla loro porta…
Remus rimase pietrificato. Lo sconosciuto era alto e magro, con una lunga barba bianca e un’assurda veste viola acceso, intonata con il cappello a punta. Remus chiuse e riaprì gli occhi varie volte per essere certo di non esserselo immaginato, ma quando li riapriva l’uomo era ancora lì. Non poteva essere…eppure sembrava proprio…
Il mago alzò lo sguardo verso la finestra di Remus e gli fece l’occhiolino, salutandolo con la mano. Remus non aveva più dubbi: era indiscutibilmente il volto che aveva trovato decine e decine di volte nelle Cioccorane. Sentì la speranza risvegliarsi dal fondo del suo stomaco e invadere tutto il suo corpo. Non sapeva se prevaleva la gioia o l’incredulità, ma gli occhi gli pizzicavano.
“Mamma, papà!” urlò, precipitandosi al piano di sotto, fuori di sé dalla contentezza. “C’è Albus Silente alla porta!”
24 luglio 1971
Londra, Grimmauld Place 12
 
Svegliarsi di soprassalto e trovarsi davanti il viso raccapricciante del proprio elfo domestico a pochi centimetri dal proprio volto non era un’esperienza piacevole, e Sirius non ci si sarebbe mai abituato. “Kreacher!” urlò Sirius “quante volte ti ho detto di non salire sul mio letto per svegliarmi!”.
“Kreacher ha ubbidito, padron Sirius” rispose malevolmente l’elfo, che era salito sul comodino chinandosi in una posizione assurdamente contorta per avvicinare la sua faccia all’odiato padrone, “Kreacher non sta toccando il letto!”.
Sirius si mise a sedere sbuffando e borbottando.
“La signora sta aspettando di sotto, padron Sirius, e dice di scendere immediatamente, è arrivato un gufo, non bisogna far aspettare la padrona - ” Alla parola “gufo”, Sirius si era scaraventato giù dal letto. “Kreacher! Una volta tanto porti buone notizie!” esclamò allegramente, rivolgendo un sorriso all’elfo, che lo guardò orripilato. Aveva sperato che la sua signora volesse punire Sirius per qualcosa, come al solito, e per questo aveva lo svegliato con tanta sollecitudine, senza minimamente sospettare di star recando una buona notizia. Sirius corse giù per le scale senza nemmeno vestirsi, nell’elegante vestaglia di seta con cui aveva dormito, e rivolse un sorriso persino a sua madre, che lo attendeva in cucina.
“Sirius!” urlò sua madre con la sua voce perforante “è questo il modo di scendere le scale? E presentarsi a colazione in pigiama?”. Così dicendo, lanciò un’occhiata significativa al fratello minore di Sirius, Regulus, che stava consumando compostamente la propria colazione vestito di tutto punto, e si lasciò scappare un sorrisino al vedere l’approvazione della madre. Sirius alzò gli occhi al cielo, ma non voleva discutere, non ora che stava aspettando una notizia così importante.
Consumò la colazione in silenzio, notando che Kreacher aveva lasciato raffreddare il caffè (quello di Regulus era fumante). Cercò di imitare le maniere del fratello, ma fremeva per l’eccitazione e finì per ingurgitare tutto rapidamente sotto lo sguardo imperioso della madre.
Sua madre era una bella donna, alta, con capelli neri fluenti e grandi occhi scuri; Sirius le somigliava molto, con grande rammarico di entrambi. Gli tese la pergamena con gli occhi pieni di sdegno, e Sirius la aprì in fretta, quasi strappandogliela dalle mani.
La lesse in fretta, ignorando completamente il discorso della madre, di cui coglieva qualche frase qua e là: preservare l’onore di famiglia – blablabla – Toujours Pur – blablabla – Serpeverde da cinque generazioni…
“A Serpeverde troverai anche tua cugina Bellatrix” concluse la voce fredda di sua madre, concludendo l’elenco delle persone da farsi amiche e da rispettare una volta arrivato a scuola. Sirius odiava le sue cugine, come tutto il resto della sua famiglia, e voleva evitare il più possibile i contatti con qualsiasi suo parente una volta arrivato a Hogwarts. Aveva di nuovo perso il filo del discorso. 
“Me lo prometti, Sirius?” chiese sua madre con un accenno di ansia nella voce.
“Certo, madre!” rispose spavaldamente il ragazzo, senza avere la minima idea di cosa stesse promettendo, e uscì dalla cucina fischiettando, con le mani in tasca.
Hogwarts! Dieci mesi lontano da Grimmauld Place, dalla Nobile Casata dei Black, dalle teste di elfi domestici che lo fissavano dalle pareti mentre faceva colazione, dalla sua orribile famiglia, dieci mesi di pura libertà.
 
24 luglio 1971
Spinner’s End, Cokeworth
 
“Severus” chiamò una voce rigida, “Severus, alzati”.
Severus aprì gli occhi. Sua madre stava spalancando le persiane con poco riguardo per il figlio ancora semiaddormentato e la luce inondò la stanza, solitamente avvolta nella penombra. Si rizzò a sedere sul letto, allarmato. Non sapeva quale di questi eventi fosse più raro: sua madre che entrava nella sua stanza, sua madre che lo chiamava per nome o sua madre che ora si era fermata proprio davanti a lui, guardandolo con un’espressione indecifrabile. La mente di Severus correva veloce: sua madre doveva evidentemente dirgli qualcosa di importante. Era successo qualcosa a suo padre? Se n’era finalmente andato di casa?
Il rumore di una porta che sbatteva e il passo inconfondibile di suo padre appena rientrato a casa dopo aver passato la notte chissà dove infransero le sue speranze.
Gli occhi neri di sua madre, freddi e bui come quelli di Severus, continuavano a scrutarlo; infine, gli rivolse un flebile sorriso. Estrasse una lettera dalla tasca e la porse a Severus senza dire una parola. Severus la prese in mano e un sorriso di trionfo gli si dipinse sul volto. Non aveva dubitato neanche per un secondo di riceverla, ma ora era lì, concreta, tra le sue mani, la sua migliore possibilità di riscatto.
Severus bramava Hogwarts, sognava di andarci dalla prima volta che sua madre gliene aveva parlato – un luogo dove poter finalmente mettere in pratica tutti gli incantesimi che aveva letto sui libri, dove poter leggere senza doversi nascondere, dove poter dimostrare di cosa era capace, un luogo dove le urla dei suoi genitori non potevano arrivare. Una chioma color ciliegia fece capolino tra i suoi pensieri: doveva essere arrivata anche a lei, la lettera. Finalmente a Hogwarts avrebbero potuto passare tutto il tempo insieme.  
“Severus!” La voce tagliente di sua madre lo riscosse dai suoi pensieri. Era ancora di fronte a lui, in cerca delle parole da dire a quel figlio ignorato e mai veramente conosciuto.
“Voglio che tu ti renda conto che questa è la tua migliore occasione. Sarai Smistato a Serpeverde”.
Non era una domanda. “Fatti amico delle persone giuste. Non è necessario che nessuno sappia dove vivi. Mi aspetto che tu sappia dosare le parole. Cautela nel parlare, studio intenso e gli amici giusti, è tutto quello che ti serve”. Inspirò profondamente. “Fai questo, e andrà tutto bene” concluse, e la sua voce si incrinò.
Severus era stupefatto e imbarazzato per il maldestro tentativo di sua madre di rassicurarlo. ‘Andrà tutto bene’ era una frase che lei aveva smesso di dirgli tanti anni prima, e Severus aveva smesso ancor prima di crederci. Era incerto su come comportarsi con questa versione emotiva di sua madre.
“Mamma” chiese esitante “mi spieghi le Case di Hogwarts? Serpeverde è la Casa dei maghi più potenti della storia, poi c’è Corvonero, che ospita i più intelligenti…”
“Stolti che applicano il loro intelletto a questioni vane, e non osano andare oltre la punta del loro naso, aspirare alla vera conoscenza” replicò sua madre con voce tagliente. Con la schiena dritta, la testa alta e gli occhi che fiammeggiavano, per un momento fu di nuovo Eileen Prince.
“Tassorosso, molluschi senza spina dorsale, si affannano qua e là senza mai fare nulla di buono, nascondendosi dietro le spalle di chi è più forte di loro. Grifondoro” una smorfia di disgusto le deturpò il volto “tronfi, pieni di sé, decerebrati pronti a buttarsi in qualsiasi impresa suicida per provare il loro cosiddetto valore, traditori del loro sangue, Babbanofili -”
Severus non poté trattenersi. “Tu l’hai sposato, un Babbano!”
Lo schiaffo di sua madre arrivò bruciante e implacabile.
“Come osi accusarmi!” sibilò “quando la colpa è tutta tua, creatura disgustosa!”.
Non era la prima volta che sua madre gli rivolgeva quell’accusa, ma si era sempre rifiutata di spiegarsi ulteriormente. Quel giorno però le parole fuoriuscivano dalla sua bocca come un fiume in piena. Sembrava che undici anni di parole represse fossero ora pronte a riversarsi su Severus, travolgerlo, sommergerlo.
“Ero brillante, con un futuro luminoso davanti a me. La famiglia Prince era rispettata da tutti. Ma poi sei arrivato tu a rovinare tutto”.
Severus la fissava inerme, incapace di muoversi e di parlare, osando a malapena respirare. Sua madre era fuori di sé, e gli occhi fuori dalle orbite fissavano il muro alle sue spalle. Sembrava parlare rivolta a sé stessa, come se avesse scordato che Severus era lì di fronte a lei.
“Tobias era dolce all’inizio” sussurrò. “Avevo diciannove anni, e nessuno mi aveva mai guardato come mi guardava lui. Diceva che ero bellissima”. Tacque, sommersa dai ricordi.
 
Eileen sfiorò delicatamente con le dita un bocciolo di rosa, mentre il tiepido sole dei primi di maggio esaltava i colori della natura che si risvegliava.
“Puoi prenderlo, se vuoi” disse una voce maschile alle sue spalle. Eileen sussultò; credeva di essere sola, e non aveva il diritto di essere lì, nello splendido giardino della famiglia Babbana che abitava in fondo alla strada. Voltandosi, si trovò di fronte un ragazzo alto e bruno, con le spalle larghe, vestito da giardiniere. Raccolse una rosa bianca già sbocciata e la incastrò delicatamente tra i capelli neri della ragazza.
“Un fiore delicato che si addice a una ragazza così bella” disse il ragazzo, sorridendo.
Eileen sentì il suo volto prendere fuoco. “Mi stai prendendo in giro” si schermì. A scuola la chiamavano Prince Nasoadunco o Eileen Beccodicorvo.
“Sono serissimo” rispose il ragazzo, senza traccia di scherno nella voce. La sua voce era calda e rassicurante. “Io sono Tobias” si presentò, tendendole la mano. Eileen esitò, poi gliela strinse con aria incerta.
“Eileen Prince, abito nella villa bianca all’inizio della via”. Tobias le sorrise.
“Allora, Eileen, ti piacciono i miei fiori?”.
 
“Sapevo che non poteva funzionare, naturalmente. Quando lui iniziava a parlare di nozze, cambiavo argomento. Non volevo pensare al futuro: volevo solo che continuasse a riscaldare il mio presente. Ci vedevamo di nascosto – gli dissi che la mia famiglia non avrebbe accettato di vedermi insieme a un giardiniere – eravamo giovani, innamorati, felici. Un giorno mia sorella ci scoprì.”
 
“Charlotte, aspetta!” urlò Eileen, rincorrendo la sorella. “Tobias, non mi seguire e non mi cercare!”
Riuscì a raggiungere la sorella minore quando erano ormai a un passo dal cancello di casa, e cercò di bloccarla tirandola per un braccio. Charlotte si voltò, il fiato corto e il viso paonazzo per la corsa. Era più piccola di lei di due anni, e molto più bella. Aveva ereditato dalla madre la pelle di porcellana e i morbidi boccoli castani. I capelli di Eileen, invece, erano neri e le stavano appiccicati alla testa.
“Eileen, cosa stai combinando con quel Babbano?” proruppe sua sorella, con lo sguardo carico di accusa, un’espressione mista di disgusto e delusione. “Solo perché quel Nott ti ha rifiutato, non significa che ora ti devi sposare un Babbano!”.
“Non lo sposerei mai, lo sai che non lo farei, Lottie!” ribatté Eileen vivacemente, ma Charlotte non la stava ascoltando.
“Quando mamma e papà lo sapranno…”
“Mamma e papà non lo devono sapere!” sibilò Eileen, con una punta di isteria nella voce. “Ascoltami, Charlotte, ti prego!” implorò, poggiando le lunghe mani sulle braccia candide della sorella. Il bel viso di Charlotte era ancora furibondo, ma incrociò le braccia e stette ad ascoltarla in silenzio. Eileen intravide una possibilità.
“Hai ragione tu, Lottie” disse, con voce addolcita, “ero arrabbiata per Nott e ho fatto una cosa stupida, ma era solo un passatempo, una distrazione, te lo giuro! Non sposerei mai un Babbano!”.
Charlotte era ancora dubbiosa, ma ormai Eileen vedeva la vittoria. Sapeva su cosa fare leva.
“Ti prego, non dire nulla a mamma e papà!” sussurrò, “ero arrabbiata e invidiosa perché tutti preferiscono te, non è facile essere tua sorella, Lottie…”. L’espressione di Charlotte si rasserenò. “E va bene, manterrò il segreto” concesse, “ma devi promettermi che non lo rivedrai mai più”.
“Promesso”, rispose Eileen senza rimpianto. 
 
“Mantenni la promessa. Non potevo rischiare che i miei genitori scoprissero qualcosa, e in fondo quello che avevo detto a Charlotte era la verità. Mi ero affezionata a lui più del previsto, ma non avevo mai avuto intenzione di lasciare tutto quello che avevo per lui. Pensavo che non vedendomi più avrebbe capito, e sarebbe sparito dalla mia vita. Invece, quell’idiota si presentò a casa mia un giorno che i miei erano fuori. Scavalcò il cancello e iniziò a spiare me e mia sorella nel giardino”.
 
“Eileen, guarda! Quel tuo stupido Babbano ci sta spiando!” esclamò Charlotte all’improvviso, notando una figura tra i cespugli al limitare del giardino. Eileen impallidì e abbassò la bacchetta. Stava aiutando la sorella a esercitarsi per i M.A.G.O. Charlotte, però, tenne la bacchetta alzata di fronte a sé.
Tobias uscì allo scoperto e si avvicinò alle due ragazze con un’espressione perplessa sul volto. Da dove si era nascosto non era ben riuscito a capire cosa stessero facendo, un gioco o forse una recita.
“Tobias, cosa ci fai qui? Devi andartene subito!” sibilò Eileen, gli occhi ridotti a due fessure.
“Eileen, io…” tentò di spiegarsi il ragazzo, ma Eileen gli si era avvicinata furiosa.
“Cos’hai visto? Dimmi cos’hai visto!” gli urlò in faccia, minacciosamente.
“Niente” rispose, con la stessa aria dubbiosa, senza staccare gli occhi dallo strano bastoncino di legno che la sorella di Eileen teneva dritto davanti a sé come un’arma. Eileen rivolse un’occhiata furiosa a sua sorella. “Charlotte, mettila subito via!”. Gli occhi di Charlotte brillarono maligni.
“Ma no, Eileen” disse con voce melliflua “lascia che il Babbano veda. Incendio!”.
Il cespuglio dove fino a poco prima era rintanato Tobias prese fuoco.
“Lottie, ma sei impazzita?” urlò Eileen, fuori di sé. Tobias aveva gli occhi sbarrati e continuava a spostare lo sguardo dal cespuglio in fiamme alle due sorelle. Iniziò a indietreggiare. Ora anche la sua Eileen gli stava puntando quel pezzo di legno contro. “Ora ci tocca obliviarlo” stava dicendo alla sorella con aria seccata. Tobias non aveva la minima intenzione di scoprire cosa si provasse a essere obliviato, così si fece forza per distogliere lo sguardo dall’assurdo scenario e corse via, percorrendo con poche falcate la distanza che lo separava dal cancello. “Confundus!” gridò Eileen, mentre sua sorella rideva.
“Lottie, ma che hai combinato!” piagnucolò. “Non sono nemmeno sicura di essere riuscita a Confonderlo, correva troppo veloce e sai che la mia mira è terribile”.
“Non dirà niente a nessuno” la rassicurò Charlotte, ridacchiando. “E anche se lo facesse, nessuno gli crederebbe. Non verrà più a ficcare il naso qui intorno, questo è poco ma sicuro. Hai visto che faccia ha fatto?”.
 
“Ci vide praticare la magia. Lo sguardo di terrore e disgusto che mi rivolse me lo fece vedere per quello che davvero era: un lurido Babbano ignorante, che nulla poteva comprendere della magia” concluse, la voce carica di odio e disprezzo. Severus conosceva lo sguardo di cui parlava: era quello che suo padre riservava a lui e a sua madre ogni volta che i suoi occhi si posavano su di loro.
“Non ci rivolgemmo più la parola, e lui cominciò a bere e frequentare il pub. Dopo qualche tempo, perse il posto da giardiniere. A me non importava. Mi ero finalmente svegliata dal mio sogno a occhi aperti, ed ero disgustata da quello che mi ero abbassata a fare. Mia sorella tenne la bocca chiusa. Tutto andava bene, finché non arrivarono le nausee. Dopo qualche mese, non potei più nascondere il mostriciattolo che portavo in grembo, e mia sorella confessò tutto ai miei genitori. Mi buttarono fuori di casa”. Sua madre aveva il volto contratto per la rabbia e l’affronto subito, gli occhi pieni di lacrime.
Severus si riscosse alla parola “mostriciattolo”. Si era scordato che la storia parlava di lui. L’orrore ebbe il potere di restituirgli la capacità di muoversi. Iniziò ad allontanarsi lentamente verso la porta, mentre sua madre continuava a parlare con lo sguardo perso nel vuoto, come se vedesse qualcosa a lui invisibile.
“Così tornai da lui. Non avevo un altro posto dove andare. Mi accolse in casa, e ci sposammo. Nei primi tempi, quando era sobrio, rivedevo in lui ancora il ragazzo che mi aveva regalato un fiore. Ma qualcosa si era spezzato. Non voleva che usassi la magia davanti a lui. Credo che sperasse che il bambino fosse un lurido Babbano come lui, ma quando a soli tre anni diede i primi inequivocabili segni di magia…”.
Severus sgattaiolò fuori dalla porta della sua camera, la lettera di Hogwarts ancora stretta in pugno. Corse via con il volto rigato di lacrime. Non aveva bisogno di sentire altro. Sapeva fin troppo bene come continuava la storia. 
 
NdA
Ciao a tutti! Sorprendentemente…non sarò breve. Ma non siete obbligati a leggere le note xD
Innanzitutto un sentito ringraziamento a tutti i lettori, e doppio a chi ha messo la storia tra le seguite/preferite. Triplo a jessamine che recensisce sempre ;)
Mi sembra di ricordare che la Rowling abbia dichiarato in una qualche intervista che i giovani maghi ricevono la lettera di ammissione a Hogwarts nel giorno del loro undicesimo compleanno. Ora, questo oltre a essere a mio parere un po’ illogico, è anche in contraddizione con quello che succede nel primo libro, in quanto le lettere iniziano ad arrivare a Harry diversi giorni prima del suo compleanno. Il fatto che poi lui riesca finalmente a leggerla proprio il 30 luglio è una magica coincidenza ;) Per spiegare perché mi sembra illogico prendiamo il caso di Hermione, nata il 19 settembre. A quanto ho capito, a Hogwarts si entra a undici anni compiuti, perciò lo spartiacque non è come da noi per i nati dopo il primo gennaio ma per quelli nati dopo il primo settembre. Per questo Hermione entra a scuola con Harry e Ron pur essendo nata nel 1979 e non nel 1980. Ora, la domanda è: perché inviare la lettera il 19 settembre sapendo che non potrà iniziare la scuola fino al settembre successivo? Ma vi immaginate la reazione nevrotica di Hermione?xD
Perciò, ho deciso di considerare che le lettere siano spedite contemporaneamente in un giorno imprecisato alla fine di luglio, esattamente come avviene per le lettere degli anni successivi al primo (quelle con la lista dei libri e i nomi dei Prefetti). Mi piaceva l’idea di paragonare cosa avviene in luoghi diversi a bambini diversi quando aprono la lettera nello stesso momento, quindi mi sono presa questa licenza.
Le informazioni sulla visita di Silente a casa Lupin sono tratte da Pottermore, come anche le informazioni sui suoi genitori e sulla sua infanzia. Non ho trovato informazioni su dove vivessero i Lupin, ma solo il fatto che hanno dovuto cambiare spesso casa a causa del piccolo problema peloso di Remus che dopo un po' veniva notato dai vicini. Su Eileen Prince e Tobias Snape, invece, non si sa un granché; questa è la mia versione dei fatti. Infine, ho immaginato che Kreacher avesse una spiccata predilezione per il minore dei Black già dalla prima infanzia dei due fratelli. (Io Kreacher lo adoro).
Un’ultima cosa: so che sto dedicando più attenzione a Severus che ai Malandrini, ma una volta approdati a scuola l’attenzione si concentrerà maggiormente su di loro.
 

Thalassa_

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Capitolo 4
*** Sei lettere, un treno e un cappello impiccione (parte seconda) ***


Capitolo III - Sei lettere, un treno e un Cappello impiccione (parte seconda)
24 luglio 1971
Godric’s Hollow
 
Una civetta dal lucido piumaggio marrone fece il suo ingresso nell’elegante sala da pranzo dei Potter. Un paio di uncinetti, che sferruzzavano da soli nell’aria, si fermarono un istante, come indecisi.
“Fleamont?” disse la donna seduta in poltrona con voce incerta. Non era più giovane, ma conservava ancora una certa bellezza. I capelli, raccolti in un’acconciatura morbida, erano ancora di un castano caldo e gli orecchini a pendenti risaltavano sapientemente il colore dei suoi occhi. Erano le mani, soprattutto, a tradire la sua vera età.
“Sì, cara?” rispose il marito, senza alzare gli occhi dal Profeta.
“Credo che sia arrivata”.
Fleamont guardò il gufo con un’espressione stupita, mentre la moglie gli prendeva delicatamente la lettera dalle zampe.
“Che strano. In genere non la consegnano direttamente al loro legittimo proprietario?”
“Probabilmente non è riuscito a svegliare James, sai com’è alla mattina, potrebbe esplodere un corno di Erumpent nella stanza a fianco e lui continuerebbe a dormire indisturbato…”
“Eppure, ricordo che il povero gufo incaricato di consegnarmi la lettera si nascose nel camino finché i miei genitori non furono usciti e poi sbucò fuori all’improvviso facendomi venire un colpo. Così si comportavano i gufi di una volta, quando ancora al Ministero li addestravano adeguatamente”.
“Probabilmente aveva solo paura che tua madre servisse gufo arrosto per cena, Fleamont…”
“Non ti permetto di parlare in questo modo di mia madre, Euphemia!”
“Qualcuno ha detto lettera?” intervenne una voce entusiasta.
Euphemia sorrise teneramente nel vedere James fare il suo ingresso nella stanza, buffissimo nel suo pigiama con i boccini d’oro e con i capelli più arruffati del solito. Aveva ancora la voce impastata dal sonno, ma gli occhi nocciola brillavano per l’eccitazione. Anche senza bisogno di guardarlo, Euphemia sapeva che sul volto del marito era dipinto il suo stesso sorriso.
James era arrivato come un piccolo uragano a sconvolgere le loro vite, e non riuscivano a guardarlo che così: con dolcezza e divertimento, un pizzico di esasperazione, a volte, ma sempre sorpassato dalla sorpresa di vederselo lì davanti. Undici anni non erano bastati perché si abituassero all’idea che il loro sogno si fosse finalmente realizzato: un piccolo Potter che scorrazzava per casa come una copia in miniatura di suo padre, un bambino nato dal loro amore giunto come premio per la loro pazienza. Tutti i bambini sono un dono, ma James lo era più degli altri, prezioso perché inaspettato.
James si era letteralmente precipitato addosso al gufo, che era volato immediatamente al soffitto e gli aveva lanciato un’occhiata di dignitoso sdegno dagli occhi rotondi prima di volare via dalla finestra. James, però, era troppo preso a cercare con lo sguardo la lettera per accorgersene. Quando realizzò che la busta viola era al sicuro tra le mani di sua madre, quasi gliela strappò dalle mani per la fretta di leggerla.
“Che maniere sono queste, James?” protestò Euphemia. Non avrebbe proprio saputo dire da dove provenisse quella spaventosa irruenza di suo figlio; senz’altro da qualche parente dal lato di Fleamont.
James era profondamente immerso nella lettura. A un certo punto, il suo sorriso entusiasta lasciò il posto a un’espressione di sconcerto.
“Dobbiamo davvero comprare tutti questi libri?” domandò sconvolto, scorrendo con lo sguardo la lista, che i suoi occhi doveva apparire infinita.
“Non preoccuparti di doverli comprare, James, ma di doverli studiare” sottolineò sua madre.
“Euphemia cara, non cominciare, a Hogwarts non si va solo per studiare” provò a difenderlo Fleamont.
“È una scuola, Fleamont! Per quale altro motivo ci si dovrebbe andare?”
“Mamma, papà” li interruppe James con un sorriso smagliante “quando andiamo a Diagon Alley?”
“Oggi stesso” rispose suo padre. “Usciamo non appena sei pronto”.
James sparì in un lampo senza farselo ripetere due volte.
“Dovrebbe arrivare la lettera di ammissione a Hogwarts tutti i giorni, se gli fa questo effetto” commentò Fleamont scherzosamente.
“È proprio cresciuto il nostro piccolo James, eh?” disse Euphemia, sorridente ma con un fremito nella voce.
“Già. Ormai è un ometto” convenne Fleamont, prendendola dolcemente per mano.
 
24 luglio 1971
Portineria del palazzo di Grosvenor Street, 5, Manchester
 
Peter rilesse la lettera per la terza volta, emozionato come mai lo era stato in vita sua. La stringeva tra le mani come se avesse timore che potesse volare via da un momento all’altro, ripiegando nervosamente i bordi della pergamena, già sgualciti nonostante il gufo fosse arrivato pochi minuti prima.
La lettera era intestata al Signor P. Pettigrew, e già questo bastava a confonderlo: lo faceva sentire importante, essere trattato come un adulto, e allo stesso tempo lo spaventava.
Fece un respiro profondo. Esitare avrebbe reso solo più difficile quello che doveva fare: l’avrebbe rimandato per giorni e poi per settimane e poi per mesi, e infine avrebbe perso la sua occasione di diventare un mago solo perché non aveva trovato il coraggio di entrare in cucina. Peter si conosceva fin troppo bene per dubitare che uno scenario del genere fosse possibile, perciò si fece forza e entrò nella stanza.
“Mamma, nonna” annunciò con voce tremante, il cuore che gli martellava nel petto, “è arrivata...la lettera... Mi hanno ammesso a Hogwarts!”.
Sua madre si lasciò quasi sfuggire dalle mani il bicchiere che stava lavando, e si voltò a guardarlo con un’espressione sorpresa – un po’ troppo sorpresa, a dire il vero; ma Peter sapeva che le sue magie accidentali erano state rare e ben poco impressionanti. Avere tra le sue mani una prova tangibile di non essere un Magonò aveva rassicurato anche lui.
Un largo sorriso comparve sulla faccia tonda di sua mamma, che lo abbracciò calorosamente.
“Oh, Peter, sono così contenta! Congratulazioni!”
Sua nonna, invece, non si mosse di un millimetro e continuò a compilare il suo cruciverba, oscillando sulla sedia a dondolo. Peter non si scompose, sapendo che con ogni probabilità la nonna non aveva sentito una sola parola di quanto aveva appena detto.
“Nonna? Nonna, andrò a Hogwarts”. Nessuna reazione.
Si mise proprio di fronte a lei e le sventolò davanti la lettera per attirare la sua attenzione.
“NONNA! QUESTA È LA LETTERA PER LA SCUOLA DEI MAGHI!” urlò, scandendo le parole lentamente.
La fronte di nonna Anne, percorsa da innumerevoli rughe, si accigliò. Gli occhi grigi scrutarono il nipote con riprovazione da dietro le spesse lenti quadrate degli occhiali.
“Peter, che modi sono questi? Non c’è nessuna necessità di urlare, sono vecchia, non certo sorda”.
Peter sospirò. Protestare era inutile, cercare l’appoggio di sua madre anche peggio. Anne Olivers poteva anche avere settantanove anni, ma in casa propria comandava ancora lei.
Casa mia, mie regole, ripeteva sempre. Disgraziatamente, la casa della nonna, un minuscolo appartamento di portineria, era anche casa loro.
“Elizabeth, tuo figlio è privo di sale in zucca proprio quanto te. Non gli hai insegnato a essere cauto con le parole? Peter, non ti è venuto in mente che metterti a urlare che andrai a una scuola per maghi possa far nascere qualche sospetto nei condomini del palazzo?”.
Peter tacque, costernato.
“Dai, mamma, non incominciare a rimproverare Pete per ogni cosa che fa. Oggi è un giorno di festa” intervenne Elizabeth, con un sorriso. “Preparati, usciamo a comprarti il necessario”.
“Andiamo a comprare la mia bacchetta?” domandò Peter, speranzoso.
“Oh, no, quella può aspettare un altro giorno! Tanto non potrai utilizzarla prima di essere arrivato a Hogwarts. Hai idea di quanto possa essere pericoloso mettersi a giocare con una bacchetta senza sapere come usarla? Dobbiamo prima comprarti il necessario da portare in valigia. Peter, ti rendi conto che starai lontano da casa per mesi e mesi?” gli domandò sua madre, con voce piena d’angoscia. “Devi avere con te tutto il necessario! Vestiti per le giornate calde, per le giornate fredde, vestiti per la pioggia, per il vento, per la neve, coperte, medicine! Non hai idea di quanto possano essere fredde le notti, a Hogwarts, e tu hai sempre avuto una salute tanto cagionevole…”
“Questo è vero” intervenne sua nonna. Peter si domandò perché il suo udito migliorasse improvvisamente proprio nei momenti meno opportuni. “Elizabeth, sei proprio sicura che mandarcelo sia una buona idea? Peter è un bambino delicato, e poi stare tanto tempo lontano da casa…”
“Mamma, ne abbiamo già parlato. Peter è un mago e andrà a Hogwarts, dove può ricevere un’istruzione e costruirsi un futuro. Un mago non può vivere come un Babbano!” replicò Elizabeth con voce insolitamente ferma. 
“Mpf, se lo dici tu. A me non sembra che voi maghi siate meglio di noialtri. Il padre di Peter si è comportato come tutti gli altri uomini, la sua magia gli è servita solo a sparire nel nulla più in fretta quando ha scoperto che eri incinta!”.
“Mamma! Non parlare di queste cose davanti a Peter!”
Sua nonna sbuffò, poi scrutò Peter con aria critica.
“Spero almeno che in quella scuola gli daranno da mangiare” commentò dopo una lunga analisi, “è decisamente deperito”.
“Dici, mamma? Lo trovi dimagrito?” chiese ansiosamente sua madre. “Peter, dopo aver finito di comprarti i vestiti ci fermiamo alla bancarella dei dolci, ok?”
Peter annuì sorridendo. Finalmente qualcosa in quella conversazione deprimente che assomigliasse a dei festeggiamenti.
“Bravo, piccolo Pete” disse sua madre, sorridendo. Si abbassò alla sua altezza per guardarlo negli occhi. Non dovette abbassarsi molto, perché era una donna piccola e rotondetta, come una mela.
 “Ora ascoltami bene. A Hogwarts sarai circondato da moltissime persone, molte di più di quelle a cui sei abituato. Il mondo là fuori è grande e spaventoso, e non c’è posto per quelli come noi. Quelli come me e te, Peter, devono farsi da parte e stare in un angolo, lontano dai guai. Tu sei un topolino innocente, Pete, e là fuori è pieno di predatori. Ma c’è un modo per sopravvivere. Devi trovarti degli amici più forti di te che ti proteggano. Devi farti volere bene per riuscirci, ed essere anche tu un buon amico. Magari sarai un Tassorosso come me, e sarà tutto più facile. Ma in qualsiasi Casa capiti, devi sforzarti di essere benvoluto da tutti. Gli amici sono quelli che ti salveranno, ricordatelo sempre”.
Peter rimase ad ascoltare in silenzio, assorbendo ogni parola. La voce di sua mamma era dolce e rassicurante, piena di promesse per l’avvenire.
“Un’ultima cosa: sappi che qualche volta, ma solo qualche volta, il topolino può spaventare l’elefante” aggiunse in un sussurro, facendogli l’occhiolino. Gli diede un bacio sulla guancia paffuta e poi si raddrizzò.
“Ora siamo pronti per uscire! Tu pensa a che dolci vorresti dopo” esclamò allegramente Elizabeth, dirigendosi verso la porta.
 
24 luglio 1971
Geranium Road, 27
 Cokeworth
 
Dlin dlon.
“Petunia, per favore, vai tu alla porta?”
“Sì, mamma” rispose Petunia, ubbidiente. Si lisciò i capelli con le mani come vedeva sempre fare a sua madre prima che arrivasse un ospite e andò ad aprire la porta.
Tutte le sue buone maniere, di cui sua madre andava molto fiera, sembravano essersi completamente cancellate dal suo cervello. Tutto quello che riuscì a fare fu stare in piedi sulla soglia con gli occhi sgranati, fissando senza dire nulla la persona che aveva suonato il campanello.
“Buongiorno! Sono la professoressa Merrythought” annunciò la sconosciuta. La professoressa Merrythought era un donnone alto come il papà di Petunia, con la faccia rossa e l’abbigliamento più bizzarro che avesse mai visto. Indossava un abito viola acceso lungo fino ai piedi, un paio di stivali di gomma e una valigetta da cui faceva capolino quello che, se non fosse stato impossibile, le sarebbe sembrato un rospo. Si appoggiava a un ombrello della stessa tonalità di viola come se fosse un bastone da passeggio, nonostante splendesse il sole.
“Mmh”, commentò con aria critica, “non sono mai stata brava a vestirmi alla Babbana, e dalla tua espressione direi che non sono andata meglio del solito, vero? Tu devi essere Lily. È un vero piacere conoscerti. Mi fai entrare? Vado di fretta”. Strinse con foga la mano di Petunia ed entrò in casa senza tante cerimonie.
Petunia finalmente ritrovò la voce.
“Non…non sono Lily. Cosa volete da mia sorella?” chiese con sospetto.
Prima che la professoressa Merrythought potesse rispondere, la mamma di Petunia entrò in anticamera. La sua espressione nel vedere l’aspetto dell’ospite era precisamente identica a quella di sua figlia, tuttavia dopo un primo momento di sconcerto si costrinse a riprendere la sua abituale cortesia.
“Scusi l’intrusione, signora Evans. Ho molte cose da spiegarle, ma forse è meglio andarci piano. Per favore, può chiamare qui anche suo marito e sua figlia Lily, se sono in casa?”.
“Mia figlia Lily?” domandò Abigail, perplessa.
“Sì, sono qui per lei. Sono la professoressa Merrythought e sono qui per Lily. Sua figlia è stata ammessa in una scuola, uhm, particolare di nome Hogwarts”.
Il volto di Abigail si illuminò.
“Ah, una professoressa! Anche mia madre era un’insegnante, sa? Matematica, anche se non è mai riuscita a trasmettermi la sua passione. Odiosi, aridi numeri! Lei che materia insegna?”
“Difesa contro le Arti Oscure” replicò la professoressa.
“Capisco” rispose Abigail, senza perdere il suo caratteristico aplomb. “Vado a chiamare mio marito e mia figlia”.
Petunia aveva avuto un sussulto alla parola “Hogwarts”, riconoscendo il nome della scuola di cui parlava il figlio degli Snape. Possibile che…?  
“Professoressa, ho poco tempo da dedicarle, poi devo correre in ufficio” annunciò suo papà, stringendo la mano all’insegnante.
“Non c’è problema, signor Evans, anch’io sono di fretta, ho da sbrigare degli affari alla Gringott. Sedetevi, anche tu Lily, ho molte cose da spiegarvi. Ci metterò cinque minuti al massimo”.
La professoressa Merrythought parlò ininterrottamente per le successive due ore, esibendosi nel discorso più assurdo che Petunia avesse mai sentito. Lily quasi non riusciva a stare seduta per l’eccitazione, e di tanto in tanto lanciava uno sguardo a Petunia, come a dire: hai visto? Avevo ragione! Hogwarts esiste davvero!
La professoressa diede qualche piccola dimostrazione dell’esistenza della magia facendo apparire dal nulla un vaso di fiori, che sua mamma accettò deliziata. Le sue straordinarie rivelazioni lasciarono sconcertati i suoi genitori, che però sembrarono accettare con sorprendente facilità la novità. D’altronde, rifletté Petunia, quando si tratta di Lily non faticano a credere che sia capace di qualsiasi cosa. È solo un’altra conferma di quanto sia speciale.
Il padre di Petunia era talmente entusiasta all’idea che Lily fosse stata accettata in una scuola di grande prestigio che non si lamentò di aver perso mezza giornata di lavoro, evento unico nella storia della famiglia Evans.
Al termine delle spiegazioni, la professoressa si portò via Lily per accompagnarla a comprare i suoi libri. La mamma fu di ottimo umore tutto il giorno.
“Non riesco a crederci! Sembra tutto così assurdo, vero Petunia?” le chiedeva ogni dieci minuti.
Lily tornò quella sera raggiante come non mai. A cena non fece che raccontare ogni dettaglio delle straordinarie cose che aveva visto con gli occhi che le brillavano.
Petunia si alzò da tavola mentre Lily ancora raccontava. Si chiuse nel guardaroba di sua mamma, l’unica stanza in cui lei aveva il permesso di entrare e Lily no, perché era troppo piccola per provare i vestiti e i trucchi della mamma. Non pianse; aveva già esaurito le sue lacrime durante il giorno.
Piena di determinazione, fece un respiro profondo e poggiò la stilografica sulla carta da lettere presa nello studio di papà.
Gentile professor Silente…
25 luglio 1971
Cokeworth
 
Severus si rigirava nervosamente la lettera tra le mani, aspettando Lily al solito posto, il boschetto davanti al fiume. Non vedeva l’ora di sapere se anche lei l’aveva ricevuta, e chi era venuto a consegnargliela. Lily lo salutò con la mano da lontano, sorridendo, e gli corse incontro. La sua espressione sprizzava felicità ed entusiasmo.
“Sev, indovina cos’ho in borsa!” esclamò.
Severus le sorrise. “La lettera di ammissione a Hogwarts? L’ho ricevuta anch’io ieri”.
“Meglio” sussurrò Lily, con aria cospiratrice. Si guardò intorno per verificare che non ci fosse nessuno e poi estrasse una scatola di mogano.
“Una bacchetta!” esclamò Severus, sbalordito. Lily la prese in mano come se fosse il suo bene più prezioso. “Non è magnifica?” cinguettò, contenta. “Corda di cuore di drago, salice, dieci pollici! Il signor Ollivander ha detto che è una bellissima bacchetta!”.
“Complimenti, Lily” disse Severus, sforzandosi di apparire entusiasta, ma a Lily non sfuggì una nota malinconica nei suoi occhi.
“Che succede, Sev? Non sei contento per me?” gli chiese con aria accusatoria.
“Certo che sono contento!” protestò. “È solo che speravo che saremmo andati insieme a Diagon Alley” ammise, in tono di scuse. L’espressione di Lily si rilassò.
“Ma certo che ci possiamo tornare insieme!” gli disse ridendo. “Anzi, non vedo l’ora di tornarci. La professoressa Merrythought, che mi ha accompagnato, era di fretta e avrei tanto voluto fermarmi di più, ma non c’era il tempo. E poi è tremendamente distratta – nella fretta mi sono scordata uno dei libri che dovevo comprare! Non posso certo andare a scuola senza il Manuale di Incantesimi, mi sembra quello più importante di tutti!”
Severus si illuminò. “Avevo in programma di andare martedì a comprare tutti i libri” propose timidamente. “Andata per martedì, allora!” rispose Lily con entusiasmo. Il cuore di Severus iniziò a battere più forte. Non riusciva a crederci.
“Ora raccontami tutto!” disse, sedendosi sull’erba e ascoltando Lily parlare, parlare, parlare finché il sole non raggiunse la superficie dell’acqua.
 
Martedì Severus si svegliò all’alba, eccitato, e si presentò al luogo dell’appuntamento con due ore di anticipo. Non riusciva a credere che sarebbe successo davvero, e continuava a guardare ansiosamente l’orologio. Lily arrivò perfettamente puntuale. Quando lo raggiunse, però, aveva un’espressione perplessa. “Qualcosa non va?” le chiese.
“Dove sono i tuoi genitori, Sev?” rispose lei con aria confusa.
Un moto di delusione lo pervase. Non si era reso conto che lei si era aspettata una gita di famiglia. Ora che sa che saremo solo noi due non vorrà più venire, pensò disperato.
“Loro non…insomma, ho il permesso di andare da solo” rispose, tristemente. Lily sgranò gli occhi per la sorpresa.
“I tuoi ti lasciano andare a Londra da solo? Ma abbiamo solo undici anni!” esclamò. “Mia madre non mi lascia neanche andare a prendere il gelato in fondo alla via se non c’è Petunia!” aggiunse con stizza.
“Non devi venirci per forza, se non ti va” disse Severus in tono cupo, ma rassegnato. Una parte di lui sapeva che qualcosa sarebbe andato storto.
“Non è che non mi va” rispose Lily, mordendosi il labbro, “è che ho assicurato ai miei che saremmo andati insieme a tua madre…Non mi piace dire le bugie”.
“Non è una bugia se tu eri convinta che fosse la verità” osservò Severus, “e non c’è nessun bisogno di avvertire i tuoi genitori. Sono capace di andare a Diagon Alley, ci sono stato un sacco di volte!”.
‘Un sacco di volte’ era un’espressione un po’ esagerata; sua madre l’aveva portato in tutto tre volte, e tutte e tre quando era troppo piccolo per lasciarlo a casa da solo. Comunque, non avrebbe avuto difficoltà ad arrivarci. Era abituato a girare da solo.
Lily aveva un’espressione indecisa. “Non so…” mormorò con poca convinzione.
“Va bene, lascia stare!” esclamò Severus con rabbia, e le voltò le spalle. Era già a metà strada per la stazione quando Lily lo raggiunse.
“Sev, aspetta!” gridò, rossa in volto e senza fiato per la corsa. “Ho cambiato idea, vengo con te. Non mi sembra giusto che tu ci vada tutto solo”.
Il sorriso che Severus le rivolse fu il più sincero di sempre. 


N.d.A.
Mi scuso per il ritardo nella pubblicazione, ma in questi giorni ho avuto un esame (per come è andato, avrei fatto meglio a dedicare il mio tempo a efp, ma dettagli).
Abbiamo terminato la carrellata sulle lettere; nel prossimo capitolo, incontriamo finalmente il treno e il Cappello annunciati dal titolo. Le informazioni su Euphemia e Fleamont Potter le trovate su Pottermore, sui Pettigrew invece non ho trovato nulla di ufficiale.
La signora Merrythought, con il suo ombrello e le visite alla Gringott, è un omaggio ad Hagrid.
Come sempre, un grande grazie a tutti i lettori. Se qualcuno di voi è anche fan di Naruto, vi preannuncio che qualcosa bolle in pentola.
Thalassa_

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Capitolo 5
*** Sei lettere, un treno e un cappello impiccione (parte terza) ***


Capitolo IV - Sei lettere, un treno e un Cappello impiccione (parte terza)


1 settembre 1971
Binario 9 e ¾, King’s Cross
 
James corse come un matto verso la barriera del binario nove e tre quarti, ed emerse ridendo sulla banchina affollata. Un treno di un rosso fiammeggiante era già in attesa e diversi studenti più grandi stavano salendo a bordo. Una bambina piangeva disperata cercando di trattenere il fratello, mentre un altro cercava di sgattaiolare sul treno anche se evidentemente non aveva ancora undici anni.
“James, ho solo detto di attraversare la barriera con decisione, non c’era alcun bisogno di correre!” sbottò sua madre, irritata. James le rivolse il sorriso innocente che l’aveva salvato in tante situazioni.
Come previsto, l’espressione di sua mamma si addolcì. Si rivolse a suo padre.
“Allora, signor Potter, non hai nulla da dire a tuo figlio? O devo essere sempre io a fare le raccomandazioni?” spronò affettuosamente il marito.
James lasciò che suo padre gli scompigliasse i capelli. Non era mai stato bravo come la mamma a sgridarlo. “Allora, James” cominciò con una voce seria ben poco credibile “fai il bravo e comportati bene. Non ti mischiare con i Serpeverde e non ascoltare le loro chiacchiere sulla purezza del sangue, sono tutte sciocchezze. Rispetta le regole, e per Merlino, non far arrabbiare la McGonagall!”
Anche a distanza di anni, quel nome aveva il potere di mettere in soggezione suo padre. James aveva da tempo deciso che stuzzicare quella creatura leggendaria chiamata Minerva McGonagall sarebbe stata una delle prime cose da fare appena arrivato a Hogwarts.
Sua madre rise.
“Fleamont, sei sempre il solito” sbuffò. “James, lascia perdere quello che dice tuo padre. La professoressa McGonagall è un’ottima insegnante e se ho preso E in Trasfigurazione ai M.A.G.O. lo devo a lei”.
“A lei e a quel bel cervellino da Corvonero che ti ritrovi” la adulò suo padre, dandole un bacio su una guancia. James alzò gli occhi al cielo, distogliendo lo sguardo da quelle smancerie. Perché i suoi genitori si ostinavano a baciarsi, in pubblico, per di più? Non si rendevano conto di essere vecchi?
Il fischio del treno gli ricordò che doveva sbrigarsi.
“Ora devo andare o farò tardi” annunciò, facendo per andarsene. Prima che potesse protestare, sua madre lo attirò a sé e lo strinse forte. Si rese conto con orrore che stava per baciarlo sulla fronte e si ritrasse. “Mamma, non ho sei anni, non puoi trattarmi come un bambino piccolo!” protestò vivacemente.
Si morse la lingua vedendo che gli occhi nocciola di sua mamma, identici ai propri, erano lucidi.
“Ti scrivo presto!” le promise, per rimediare. “Papà, appena esce il catalogo delle nuove scope mandamelo che ti segno quale voglio per Natale” disse, facendogli l’occhiolino. Suo padre lanciò un’occhiata allarmata nella direzione di sua moglie.
“Fleamont! Eravamo d’accordo che non gli avremmo preso nessuna scopa prima dell’anno prossimo, sai che al primo anno non si possono tenere!”
James rise sentendo le parole della madre e corse via approfittando della distrazione. Saltò sul treno sentendosi elettrizzato come non mai.
“Sto andando a Hogwarts!” esclamò con un gran sorriso, senza riuscire a trattenersi.
“Oh, no! Credevo fosse il treno per Durmstrang” commentò sarcasticamente una voce alla sua sinistra. James rise e si voltò. Di fronte a sé c’era un ragazzo poco più alto di lui, con occhi neri espressivi e un’espressione altezzosa sul viso sogghignante.
Qualcuno a cui piace scherzare, finalmente, pensò James con sollievo, e gli tese la mano.
“Io sono James. Sono del primo anno, e tu?” si presentò. Il ragazzo parve scrutarlo per un momento, come per valutarlo.
“Sirius. Primo anno anche per me” rispose pigramente. James si stupì. Sirius sembrava più grande di lui.
“Ottimo” commentò allegramente “senti, c’è posto nel tuo scompartimento? Mia mamma non mi mollava più e nel frattempo il treno si è riempito”.
“Ci sono appena scappato, da quello scompartimento” rivelò Sirius con un ghigno, “ma se vuoi passare il viaggio in compagnia delle mie simpatiche cugine e ascoltare per due ore la classifica dei ragazzi più belli del settimo anno fai pure”.
“Ehm, no grazie” replicò James. Iniziarono a passare in rassegna gli scompartimenti in cerca di un posto, finché vide un volto conosciuto. “Ehi, quello è Frank!” esclamò.
“Ciao, James!” lo salutò Frank Longbottom con un sorriso gioviale. I genitori di Frank erano amici dei suoi. Frank aveva preso in simpatia James, anche se era di qualche anno più grande di lui, e quando James gli aveva confidato che sua madre Augusta lo intimoriva, Frank non l’aveva preso in giro.
“Tranquillo, a volte è davvero terrificante, l’ha ammesso anche mio padre un giorno in cui eravamo da soli. Penso che si siano sposati perché lui aveva troppa paura a dirle di no!” gli aveva detto ridendo.
“Questo è Sirius, è del mio anno. C’è posto nel tuo scompartimento?” chiese James.
“Abbiamo un posto libero” rispose Frank, indicando i posti già occupati dai suoi amici.
“Non fa niente, ci vediamo dopo” salutò, riprendendo la sua ricerca nel corridoio. “Quello era Frank Longbottom, del terzo anno. Molto simpatico, anche se è un totale disastro a Quidditch. Pensa che mio padre ha detto che volo meglio di lui, anche se lui è più grande e io ho provato una scopa vera solo un paio di volte” si vantò. “A te piace il Quidditch, Sirius?”.
Sirius non rispose subito. Lo stava guardando con una strana espressione, come se lo stesse studiando.
“Perché non ti sei seduto con Frank?” gli chiese, con aria indagatoria.
James lo guardò basito.
“Avevano un solo posto! Non potevo mica abbandonarti così”.
Sirius lo guardò sinceramente stupito. “Ma se neanche ci conosciamo!”
James alzò le spalle.
“Mi stai simpatico” gli disse con un sorriso “e poi siamo dello stesso anno, no? Magari saremo anche compagni di Casa”.
Sirius gli sorrise, il primo sorriso vero che gli avesse visto fare. Indicò uno scompartimento semivuoto.
“Qui c’è posto, c’è solo una ragazzina che frigna” commentò. “Neanche siamo partiti e già le manca la mamma!”
James ridacchiò, anche se sentì una stretta al cuore a ricordare gli occhi lucidi di sua mamma, qualche minuto prima. Non posso fare la femminuccia o finirà che il Cappello mi spedisce a Tassorosso, si rimproverò mentalmente.
“Non importa, non abbiamo alternative, entriamo qui” disse. “Ehi, sono liberi questi posti?” chiese alla bambina con i capelli rossi seduta di fianco al finestrino. Lei rivolse a entrambi una rapida occhiata e annuì brevemente, per poi tornare a guardare fuori dal finestrino, in silenzio. James e Sirius si sedettero uno di fronte all’altro.
“Socievole, la ragazza! Dirci due parole non l’avrebbe mica uccisa, eh” borbottò James. “Dicevi, sul Quidditch?”
“La mia squadra preferita sono i Puddlemere United” dichiarò fieramente Sirius.
“Anche la mia!” proruppe James entusiasticamente. Andarono avanti a discutere di Quidditch per diversi minuti; anche se condividevano la squadra preferita, non concordavano su chi fosse il miglior Cacciatore dell’anno, né sul miglior modo di rispondere a una finta ad ala di corvo. Nel bel mezzo della discussione, la porta dello scompartimento si aprì.
Un ragazzino pallido con i capelli unti fece il suo ingresso e raggiunse la ragazzina con i capelli rossi, sedendosi di fronte a lei senza degnarli di uno sguardo. James e Sirius si scambiarono un’occhiata perplessa. Possibile che fossero gli unici del loro anno in vena di fare amicizia?
Sirius rivolse un’occhiata sprezzante al nuovo arrivato, poi ricominciò a parlare come se nulla fosse. I due ragazzini vicino al finestrino evidentemente già si conoscevano, e stavano discutendo di cose note solo a loro due. La mente di James tornò rapidamente al Quidditch senza fare più caso a loro.
“Tu l’hai mai provata, una scopa vera?” domandò a Sirius, quasi certo che la risposta fosse no. Nessun genitore sano di mente – e quando si trattava di Quidditch, il padre di James non era troppo sano di mente – avrebbe dato una scopa a un ragazzino che non aveva mai tenuto in mano una bacchetta. Era pronto a leggere l’ammirazione nella risposta del suo nuovo amico, ma fu deluso.
“Sì, una volta” rivelò Sirius “ho preso di nascosto la Comet 120 di mia cugina Narcissa. Dovevi vedere la faccia di mio zio quando sono passato attraverso la finestra aperta del salotto, davanti a tutti gli ospiti!”
James rise, sinceramente ammirato. Iniziava a pensare che si sarebbe divertito molto in compagnia di Sirius. Stava per replicare che non si poteva paragonare la Comet120 alla Scopalinda che aveva provato lui, quando uno stralcio di conversazione dei loro due compagni di scompartimento attirò la sua attenzione.
“Speriamo che tu sia una Serpeverde” disse il ragazzo alla sua amica, che aveva smesso di piangere e ora stava sorridendo.
“Serpeverde?” intervenne James, in tono derisorio. “Chi vuole diventare un Serpeverde? Io credo che lascerei la scuola, e tu?” chiese a Sirius.
Sirius non sembrò trovarlo divertente.
“Tutta la mia famiglia è stata in Serpeverde” rispose, senza l’ombra di un sorriso.
“Oh, cavolo” commentò James, sbalordito. “E dire che mi sembravi a posto!”
Sirius ghignò.
“Forse io andrò contro la tradizione. Dove vorresti finire, se potessi scegliere?”
James alzò una spada invisibile.
‘Grifondoro…culla dei coraggiosi di cuore!’ Come mio padre”. Non aveva dubbi. Sua madre poteva dire tutto quello che voleva su Corvonero, ma James sapeva chi voleva essere, e gli eroi delle storie erano sempre Grifondoro coraggiosi.
Il ragazzino con i capelli unti fece un verso sprezzante. James si girò verso di lui.
“Qualcosa che non va?”
“No” rispose, ma il suo lieve ghigno diceva il contrario. “Se preferisci i muscoli al cervello…”
“E tu dove speri di finire, visto che non hai nessuno dei due?” intervenne Sirius.
James scoppiò in una risata fragorosa. La ragazzina con i capelli rossi si raddrizzò nel sedile, nervosa, e guardò prima James poi Sirius, disgustata.
“Andiamo, Severus, cerchiamo un altro scompartimento”.
“Ooooh…”
James e Sirius imitarono la sua voce altezzosa; James cercò di fare lo sgambetto al ragazzo mentre usciva.
“Ci si vede, Mocciosus!” gridò, quando la porta dello scompartimento si chiuse.
 
1 settembre
Sala Grande
 
Minerva guardò i ragazzini di fronte a sé, la maggior parte dei quali aveva un’aria sperduta o terrorizzata, con il consueto misto di affetto e irritazione, e una punta di apprensione in più rispetto al solito.
I tempi si facevano difficili, una nube oscura si prospettava all’orizzonte e non era un buon momento per avere undici anni. Entusiasti, rumorosi, imprudenti e del tutto inermi di fronte ai pericoli che li attendevano, gli undicenni stavano abbandonando la loro infanzia per sporgersi verso un’età strana, fatta di primi amori, regole da infrangere, tante domande e una gran voglia di mettere tutto sottosopra.
A Hogwarts saranno al sicuro, si disse, sono io che sto invecchiando. Il Cappello Parlante parve leggerle nel pensiero, perché la sua canzone non fu proprio la più allegra della storia della scuola, ma si concluse con un rassicurante “Hogwarts sarà la vostra casa”.
Minerva non avrebbe potuto essere più d’accordo. Hogwarts era una casa per tutti, un posto dove sentirsi ben accetti e al sicuro. Li guardò a uno a uno.
Sette anni. Avrebbe avuto sette anni di tempo per insegnare loro a proteggersi, a badare a sé stessi, a distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, poi avrebbe dovuto consegnarli per sempre a un mondo ostile e a una guerra che non lasciava scampo.
Per favore, Cappello, supplicò mentalmente, quest’anno più che mai avremo bisogno di menti sopraffine e di lavoratori onesti, ma soprattutto, avremo bisogno di tanti piccoli Grifondoro.
Con questo desiderio in mente, abbassò lo sguardo sulla lunga pergamena con i nomi e cominciò a fare l’appello. Aveva fatto dell’imparzialità uno dei capisaldi del suo modo di insegnare, perciò il suo volto rimase severo e impassibile mentre lesse il primo nome, ma dentro di sé non poté fare a meno di pensare proprio il contrario di quello che avevo chiesto.
“Black, Sirius Orion!” chiamò. Un ragazzino alto con i capelli scuri si fece avanti con fare baldanzoso e si sedette mollemente sullo sgabello, apparentemente a suo agio. Saluti e incoraggiamenti si levarono dal tavolo di Serpeverde, carichi di aspettative per il primogenito di una delle famiglie Purosangue più antiche di tutto il Mondo Magico. Il ragazzino gettò una fugace occhiata alle sue cugine e si calò il Cappello sulla testa.
Minerva sospirò. Per lo meno, Bellatrix si era diplomata due anni prima; tenere a bada quattro Black a Hogwarts sarebbe stato decisamente troppo. Bellatrix Black aveva dato parecchie preoccupazioni durante i suoi anni a scuola, e Minerva sospettava che il suo Capocasa l’avesse coperta qualche volta di troppo per evitarle l’espulsione; d’altronde, i suoi genitori non erano il genere di persone che fosse prudente provocare, e difficilmente si sarebbe trovato in tutta l’Inghilterra un uomo più prudente di Horace Lumacorno.
Si riscosse dai suoi pensieri. Un silenzio irreale pervadeva la Sala Grande. Minerva si rese conto con stupore che il piccolo Black era ancora lì seduto e il Cappello non aveva ancora dato il suo verdetto. Trattenne il fiato. Era già passato un minuto e mezzo quando il Cappello finalmente parlò.
“GRIFONDORO!”
Un’ovazione senza precedenti si alzò dal tavolo di Grifondoro, mentre Sirius Black rivolgeva un sorriso di sfida alle espressioni oltraggiate e sconvolte dei suoi familiari.
Minerva nascose rapidamente l’espressione di genuina sorpresa sul proprio volto, trattenendo a fatica un sorriso. Sì, si poteva fare. Le cose potevano cambiare, la guerra poteva essere vinta. Se un Black poteva entrare nella sua Casa, allora la speranza era ancora più che viva.
Ebbe non poca difficoltà a riportare il silenzio. Riprese a chiamare i nomi con la consueta serietà, ma l’animo decisamente alleggerito. Quando ebbe finito, andò a sedersi accanto a Pomona con un sorriso soddisfatto. Lo Smistamento di Black stava facendo discutere anche al tavolo degli insegnanti, suscitando le reazioni più disparate. Minerva non resistette alla tentazione di stuzzicare il collega di Pozioni.
“Allora, Horace, sembra proprio che ti abbia sottratto un gioiellino prezioso per la tua collezione!” affermò con orgoglio. Lumacorno borbottò qualcosa di indefinito in risposta, accennando alla Coppa di Quidditch stanziata nel suo ufficio da quattro anni.
Pomona era di buon umore quanto lei, e le versò da bere. “Sette nuovi studenti per me, e nove per te!” commentò affabilmente, “dobbiamo festeggiare, Minerva!”
 
Lato verde-argento della Sala Grande
 
Severus si avviò malinconicamente verso il tavolo di Serpeverde.
Aveva davvero sperato che Lily fosse smistata con lui, e l’amarezza della separazione rovinava il dolce sapore della soddisfazione di essere stato scelto per la Casa migliore. Fece un timido sorriso nel vedere centinaia di volti sconosciuti sorridergli e accoglierlo festosamente, applaudendo.
Un ragazzo con il mento appuntito e i capelli biondo platino, una spilla da prefetto che gli brillava sul petto, gli sorrise con aria annoiata e gli fece cenno di sedersi nel posto vuoto accanto a lui, dandogli una pacca amichevole sulla spalla. Attese educatamente che gli ultimi due studenti fossero Smistati – Taylor Sophie in Grifondoro e Zeeman Nicholas in Tassorosso –  poi si presentò.
“Lucius Malfoy” disse, porgendo la mano a Severus. Pronunciava le ‘s’ in modo strascicato e il suo nome suonava stranamente sibilante.
“Severus Snape” disse Severus, stringendogli la mano.
“Snape?” chiese Lucius, un fremito nelle narici, “non mi pare di aver mai sentito questo cognome”.
Severus arrossì.
“Mia madre si chiamava Prince prima di sposarsi, è stata prefetto a Serpeverde” si affrettò a precisare.
Sua madre non gli aveva mai parlato di quando era stata studentessa a Hogwarts – non gli parlava mai in generale, se poteva evitarlo – ma Severus aveva ritrovato la sua spilla da prefetto nel fondo di un cassetto. Era stata lucidata di recente; forse sua madre si concedeva di tanto in tanto di accarezzare le reliquie di un passato ormai lontano e dimenticato.
“Prince?” intervenne una ragazza seduta di fronte a Lucius “mi pare che siamo in qualche modo imparentate ai Prince, vero Dromeda?”. Aveva lineamenti delicati, una carnagione molto pallida e lunghi capelli biondi.
“Lontani cugini” convenne distrattamente la ragazza chiamata Dromeda, seduta di fianco a lei. Da quanto avevano detto, dovevano essere parenti, ma non avrebbero potuto essere più diverse. Dromeda aveva lineamenti marcati, un’espressione decisa e morbidi capelli castani.
“Quand’è così” commentò Lucius, come se quanto avevano detto sistemasse tutto, “benvenuto a Serpeverde, Severus” disse, rivolgendo a Severus un sorriso affettato. Dopodiché rivolse la sua attenzione alle due ragazze, e ignorò Severus per il resto della cena.
 


N.d.A.
La scena sul treno è naturalmente ripresa dai ricordi di Snape in “Harry Potter e i Doni della Morte”. Abbiamo anche il primo incontro tra Lily e James, e la prima impressione non è favorevole per nessuno dei due. Ah, se sapessero…! xD Tra James e Sirius, invece, è amore a prima vista.
Non sono riuscita a trovare da nessuna parte di che squadra di Quidditch fossero tifosi James o Sirius, non ricordo se ci sia da qualche parte nei sette libri. Se qualcuno lo ricorda, me lo faccia sapere! Altrimenti accontentiamoci dei Puddlemere United.
Per la prima volta abbiamo il punto di vista di Minerva, personaggio che adoro!
Anche il fatto che Severus sia accolto dal prefetto Lucius Malfoy è preso dal settimo libro.
Sono sicurissima che non interessi a nessuno, ma lo sventurato studente Zeeman si chiama così perché sono una frana a scegliere i nomi e quel giorno stavo studiando l’effetto Zeeman (casomai qualcuno volesse farsi una cultura) xD
Dromeda è un diminutivo orrendo, ma canonico, quindi non prendetevela con me perché non l’ho inventato io. La parentela con i Prince non è attestata ma mi è parsa verosimile dal momento che “tutte le famiglie Purosangue sono imparentate tra loro” stando a quanto dice Sirius nel quinto libro.
Un grazie sincero a tutti voi lettori. Ringrazio in particolare blackjessamine e _apefrizzola_ per le loro recensioni, e invito tutti a leggere le loro storie, che meritano molto.
Oggi pubblico di martedì perché domani non sarò a casa. Ne approfitto per dirvi che d’ora in poi le pubblicazioni saranno probabilmente un po’ irregolari causa sessione estiva e vacanze. Non sparisco, però, promesso ;)
Thalassa_

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Capitolo 6
*** Prima sera ***


Capitolo V – Prima sera
1 settembre 1971, ore 20
Sala Grande
 
Remus mangiava lentamente, alzando ogni tanto lo sguardo alla volta del soffitto trapuntata di stelle, affascinato dallo spettacolo. L’incanto era talmente realistico che sembrava di trovarsi davvero all’aperto in una splendida notte senza luna. Remus decise di considerarlo come un buon auspicio.
Dentro di sé sentiva un tale turbinio di emozioni che gli sarebbero servite due pergamene per elencarle tutte. Se però avesse dovuto per forza sceglierne una sola, avrebbe scritto: sollievo.
La prospettiva di andare a Hogwarts ed essere trattato come tutti gli altri studenti, come se fosse un bambino normale, gli era sembrata talmente surreale che nelle ultime settimane una serie di paure irrazionali avevano affollato la sua mente e i suoi sogni.
Nelle ultime notti aveva sognato, nell’ordine: di perdere il treno, di essere stato scambiato per un altro Remus Lupin che invece aveva tutti i diritti di essere ammesso a Hogwarts, di essere cosparso di aconito dal Preside davanti a tutta la scuola e infine di essere smistato dal Cappello Parlante a Lupobianco ed essere relegato a dormire nella Foresta Proibita.
Remus sorrise pensando a quanto fossero folli i suoi timori. Contro ogni sua aspettativa, il Cappello l’aveva Smistato a Grifondoro, vedendo in lui un coraggio che Remus non era affatto convinto di possedere.
Il senso di irrealtà e di non appartenenza era ancora troppo forte, e la sola idea di rivolgere la parola a qualcuno lo metteva sotto pressione, perciò si limitò a osservare i suoi compagni di Casa. Suo padre gli aveva sempre detto che era un attento osservatore.
Aveva contato otto Grifondoro del suo anno, tre ragazzi e cinque ragazze, e aveva cercato di memorizzarne i nomi; tutti, come lui, erano stati accolti calorosamente dall’intero tavolo e in particolare dai Prefetti. Quando il primo ragazzo era stato Smistato, però, c’era stata una vera e propria ovazione, per motivi che in questo momento gli erano oscuri e che sembravano avere qualcosa a che fare con il suo cognome. Sirius Black era seduto di fronte a un ragazzo con gli occhiali e i capelli neri di nome James che sembrava conoscere un mucchio di gente più grande. In quel momento, stava raccontando infervorato qualcosa che fece sbellicare dalle risate il suo amico e gli fece guadagnare un’occhiataccia da parte di una ragazza più grande seduta accanto a lui.
Il terzo ragazzo era seduto accanto a lui e stava divorando una quantità impressionante di cibo, riempiendosi la bocca prima ancora di aver finito il boccone precedente. Remus sospettò che si trattasse per metà di effettiva voracità e per metà di un trucco per non parlare con nessuno, perché quando la ragazzina con i capelli rossi seduta di fronte a lui gli chiese il suo nome il bambino borbottò qualcosa di incomprensibile e diventò dello stesso colore dello stendardo di Grifondoro. La ragazzina gli rivolse un’occhiata perplessa, mentre la sua amica era evidentemente troppo disgustata dal suo modo di mangiare per cercare di interagire.  
Remus si voltò a guardare la bambina seduta alla sua sinistra, dal viso dolce e malinconico. Stava giocherellando con la forchetta, ma il piatto era pressoché intatto. Si sporse verso la caraffa del succo di zucca, ma era troppo lontana. Remus gliela passò gentilmente.
“Ecco, tieni. Io sono Remus, comunque” si presentò, un po’ esitante. “Tu come ti chiami?”
“Sophie” rispose la ragazzina con voce sottile. Tornò a sbocconcellare l’arrosto.
“Non ti piace?” le chiese.
“Non è come quello di casa mia”.
“Mi dispiace” rispose Remus, non sapendo come controbattere. “Vuoi che ti passi qualcos’altro? Le patate arrosto sono buonissime”. Sophie scosse la testa, senza l’ombra di un sorriso.
“Oh, per l’amor del cielo” borbottò la ragazzina seduta di fronte a Remus, che aveva seguito tutta la conversazione. “Passalo a me, questo arrosto è incredibile! Mai mangiato niente di così buono in vita mia. Ah, io sono Mary, se cerchi qualcuno che abbia voglia di parlare hai trovato la persona giusta”.
Remus sorrise, rincuorato. Mary aveva vivaci occhi scuri, capelli mossi raccolti in una coda e un viso simpatico.
“Hai ragione, l’arrosto è delizioso, mia mamma non sa cucinare niente del genere” rispose, “però il cibo di casa ha sempre un sapore particolare”. Con la coda dell’occhio vide Sophie concedergli un lieve sorriso.
“Io invece sono Lily” si presentò la bambina con i capelli rossi e gli occhi luminosi. “Ooh, guardate, quello è un fantasma!”
Remus si voltò a guardare. “In realtà è un poltergeist, credo. Veramente caotici, meglio stargli alla larga”.
“E perché mai?” commentò allegramente Mary. “Io amo il caos!”
Lily, invece, lo guardò con ammirazione. “Sai un sacco di cose”.
Remus arrossì. Non gli andava di spiegare nulla sul lavoro di suo padre, in quel momento, così cambiò argomento. “Vi conoscete da molto tempo?”
“Noi due?” chiese Lily, stupita. “No, ci siamo conosciute solo questa sera. Ci sono anche altre due ragazze del nostro anno, credo, ma si sono sedute con quelli più grandi, sembra li conoscessero già…” Indicò due ragazzine che non facevano altro che ridacchiare, perfettamente a loro agio in mezzo agli altri Grifondoro.
“Fcusa, non lo finisci quello?” gli chiese il bambino seduto alla sua destra, indicando l’arrosto lasciato a metà nel piatto di Remus. Era un ragazzino grassoccio, con il viso paffuto e simpatico.
“Non ho fame, prendilo pure” gli rispose gentilmente. Erano passati solo due giorni dall’ultima luna piena e non si era ancora ristabilito del tutto. Per la prima volta in vita sua, era stato contento prima della trasformazione; significava che sarebbe stato tranquillo almeno per il suo primo mese di scuola.
“Comunque, io sono Remus” aggiunse, mentre il bambino si serviva dal suo piatto.
“Peter” replicò l’altro, avventandosi sull’arrosto. “Sicuro che non lo vuoi? Forse ti farebbe bene mangiarlo, sembri un po’ pallido”.
Remus sentì un’ondata di panico travolgerlo. Stai calmo, si disse, non è niente. Chissà quante altre volte nei prossimi sette anni ti sentirai dire che sei pallido.
“Sì, io…” deglutì “non sono stato molto bene in questi giorni e il viaggio in treno mi ha dato la nausea”.
“Ah, ti capisco” rispose Peter, “io mi ammalo in continuazione!”  
Non credo proprio che tu capisca. Nessuno può capire, pensò Remus. Ma gli sorrise ugualmente.
 
1 settembre 1971, ore 21
Dormitorio maschile di Serpeverde
 
Potere” scandì Lucius Malfoy con voce stentorea. Il muro di pietra si fece da parte, rivelando l’ingresso alla Sala Comune.
“Questo” aggiunse, rivolto agli studenti del primo anno, “è per ricordarvi che il potere è la chiave. Se sarete così stupidi da dimenticare la parola d’ordine, questi cobra sono qui per sorvegliare l’ingresso”.
Indicò con la bacchetta due serpenti intagliati nella pietra. Una bambina di fianco a Severus sussultò. “Mia sorella dice che se sbagli parola prendono vita…”
“Potere, potere, potere” borbottò un ragazzino alle sue spalle, nel maldestro tentativo di imprimersi la parola nella mente.
“Sta’ zitto, Mulciber” lo rimproverò il suo amico, dandogli una gomitata.
Lucius li guardò tutti con aria estremamente seccata e fece cenno di seguirlo.
Severus aprì la bocca per la meraviglia nell’entrare nella Sala Comune. Era così bella che per un attimo scordò che Lily non era lì a fianco a lui. I colori di Serpeverde, argento e smeraldo, ricoprivano la stanza e serpenti intarsiati nel mogano decoravano i tavoli e la scala a chiocciola. Rimase incantato a guardare la libreria: immensi tomi impolverati dall’aria antica, molti dei quali avevano l’aria di essere stati scritti a mano.
“Non c’è sala nel castello più elegante di questa. Ci troviamo sotto il lago, come potete vedere dalle vetrate” spiegò Lucius, indicando un tentacolo che si muoveva fuori dalla finestra. “In cima alla scala trovate i dormitori. Ragazze, seguite Andromeda; Mulciber, Avery e Snape, con me”.
Severus distolse a malincuore lo sguardo dalla libreria e lo seguì. Nel dormitorio trovarono ad attenderli tre sontuosi letti a baldacchino, un soffice tappeto e un piacevole tepore. Era quanto più distante potesse immaginare dallo squallore di Spinner’s End. Forse sua madre era abituata a vivere così, prima di iniziare a chiamarsi Snape. L’idea che il lusso potesse essere la normalità lo colpì.
La sua valigia era già stata disfatta dagli elfi domestici. Riordinò i libri di scuola nell’armadio con delicatezza. Li aveva già letti tutti prima di arrivare a scuola.
Ascoltò distrattamente la conversazione tra i suoi nuovi compagni di stanza, che avevano l’aria di conoscersi già, almeno di vista. Uno di loro si avvicinò a Severus, porgendogli la mano. I capelli castano scuro gli ricadevano con noncuranza sui magnetici occhi verdi; teneva il mento appuntito leggermente sollevato, in un atteggiamento arrogante. Aveva l’espressione di chi si crede molto furbo.
“Andrew Avery” si presentò. “Avrai sentito parlare di mio padre, Arcturus Avery, immagino. E tu saresti…?”
“Severus Snape” rispose semplicemente, stringendogli la mano.
“Non sarai un Sanguesporco!” esclamò l’altro ragazzo in tono disgustato, puntandogli contro un dito grassoccio.
“Quanto sei stupido, Mulciber?” replicò Avery. “Hai già scordato cos’ha detto il Cappello Parlante? I rampolli di sangue più puro…i Sanguesporco non vengono scelti tra i Serpeverde!”
“Oh, giusto. Scusa, Andrew” bofonchiò Mulciber, con la fronte aggrottata nello sforzo di ricordare la canzone dello Smistamento.
Severus rimase in silenzio. Non aveva nessuna intenzione di giustificarsi, di certo non con quei due. Sapeva di valere dieci volte Mulciber, e l’avrebbe dimostrato presto.
Sbuffò seccato quando Mulciber spense la luce, incurante del fatto che Severus stava leggendo. Si mosse meccanicamente per accedere una candela; poi si ricordò di non essere più a casa ed estrasse la sua nuova bacchetta.
“Lumos” sussurrò, osservando con immensa soddisfazione la punta della bacchetta accendersi.
Sentì qualcuno trattenere il respiro, nel buio. Un’altra bacchetta si accese e si avvicinò al suo letto.
“Notevole” commentò Avery, gli occhi improvvisamente accesi di interesse. “Che altro sai fare, Severus?”
 
 
1 settembre 1971, ore 22
Dormitorio femminile di Grifondoro
 
Lily si lasciò cadere stancamente sul suo nuovo letto, e sorrise nel realizzare che sprofondava nel materasso per almeno due centimetri. Saltò in piedi di nuovo e si rivolse alle sue compagne di stanza.
“Non posso credere che abbiamo dei letti a baldacchino!” esclamò. “Questo castello è… davvero magico”.
Ophelia e Artemisia si scambiarono uno sguardo perplesso, ma Mary annuì.
“So cosa vuoi dire. Sembra di stare in una fiaba, anzi, meglio: in un film Disney!” commentò con voce piena di entusiasmo.
Ophelia sembrava più confusa di prima. Artemisia le tirò una gomitata, colpita da un’illuminazione improvvisa.
“Ah, ho capito! Siete due Nate Babbane, vero? Per questo avete quest’aria stupita da tutta la sera”
commentò.
“Ooooh, davvero? Nemmeno una goccia di sangue magico, in famiglia?” si informò Ophelia avvicinandosi a Lily come per studiarla, i grandi occhi grigi spalancati cha la facevano assomigliare a una rana. Lily arretrò infastidita e si limitò a scuotere la testa brevemente.
“Già, tutti Babbani in casa MacDonald. Beh, mio zio Anthony sa fare un sacco di trucchi con le carte, e una volta ha cercato di estrarre un coniglio dal cappello; il coniglio ne è uscito terrorizzato, mia madre si è infuriata quella volta... Che io sappia, nessuna magia vera, comunque. Qualche problema?” rispose prontamente Mary, gli occhi scuri che brillavano minacciosi.
“No, figurati, non siamo di quelle fissate con la purezza del sangue” intervenne Artemisia. “È solo che sai, io e Ophelia siamo Purosangue e frequentiamo solo altre famiglie di maghi. Ophelia era solo curiosa, lei non pensa mai prima di parlare” concluse, alzando gli occhi al cielo.
“Sembra che vi conosciate molto bene” commentò Lily.
“Infatti, siamo migliori amiche da quando eravamo piccole” proclamò fieramente Artemisia. “Per la precisione, da quando Ophelia ha calpestato per sbaglio la bacchetta di mio zio Alphred, non abbiamo più rivisto la sua brutta faccia a una festa da quel momento, e… Si può sapere cos’ho detto di così divertente?” chiese rivolta a Mary, che non smetteva più di ridere.
“Scusa, è solo…Purosangue” sghignazzò “come i cavalli!”
Lily si unì alla risata. Era davvero buffo pensare che i maghi fossero rimasti fermi al Medioevo, con i loro cappelli a punta e questa sorta di aristocrazia; esistevano dei duchi e dei conti, per caso, tra questi Purosangue?
Avrebbe voluto sentirsi spensierata e sicura di sé come sembrava essere Mary, ma non poteva fare a meno di sentirsi almeno un po’ preoccupata. Severus l’aveva rassicurata che per lei Hogwarts sarebbe stata come per tutti gli altri, eppure sembrava che non fosse proprio così.
Forse le aveva mentito per proteggerla. Forse voleva solo dire che per lui non faceva alcuna differenza.
Quelle ragazze non sembravano cattive, però Artemisia aveva detto “non siamo di quelle fissate con la purezza del sangue”. Esistevano dei fissati del genere, quindi. Si sentì improvvisamente in colpa per aver guardato in modo strano i nuovi vicini di casa, che si erano trasferiti dalla Cina l’anno prima. Suo papà aveva borbottato che rovinavano l’economia inglese e sua mamma sbuffava ogni volta che l’odore di fritto entrava in casa loro attraverso le finestre aperte. I vicini avevano una figlia dell’età di Petunia, e suo padre aveva commentato che sperava non capitasse in classe con lei, altrimenti avrebbe rallentato l’apprendimento di tutta la classe. A Lily non era sembrato molto giusto, ma non ci aveva pensato più di tanto. Ora le dispiaceva molto di non aver cercato di fare amicizia con quella bambina.
Ophelia e Artemisia non smettevano di confabulare tra di loro, ridacchiando.
“Visto che per voi è tutto nuovo, vi serviranno delle guide” esordì Ophelia, scambiando uno sguardo complice con la sua amica. “Possiamo dirvi tutto quello che vi serve sapere! Per esempio, il Lago Nero è popolato di creature pericolose, e anche la Foresta Proibita, per quello, beh, è proibita”.
“Non mi dire” commentò Mary.
“Mai farsi attraversare da un fantasma” continuò Artemisia “il freddo che si prova potrebbe ghiacciarvi il cuore! L’infermiera potrebbe sistemarvi, naturalmente, ma meglio non averci troppo a che fare: dicono sia sposata con un vampiro”.
“Oh, e vi consiglio di indossare una collana di ravanelli, tiene lontani i Gorgosprizzi, chiedete pure conferma a Xenophilius Lovegood, del settimo anno… e questo martedì è la giornata dell’unicorno, perciò bisogna indossare qualcosa di luminoso…”
“Cosa? Ma siete fuori di testa, a tenere creature del genere in un posto come questo? Quel fantasma mezzo decapitato è passato a due centimetri dalla mia testa prima in corridoio!” protestò Mary, con gli occhi sgranati.
“Lasciatele perdere” intervenne una vocina sottile. Sophie aprì le tende del suo baldacchino; evidentemente aveva fatto solo finta di dormire. “Vi stanno prendendo in giro”.
“Lo sapevo!” esclamò Mary, riprendendosi istantaneamente dallo shock. Lily rise.
“No che non lo sapevi, eri terrorizzata dall’idea di aver sfiorato Nick-Quasi-Senza-Testa!”
“Io…oh, insomma, ma come vi permettete?” protestò stizzita, lanciando il cuscino contro Ophelia e centrandola in faccia.
“Che guastafeste” borbottò Artemisia, visibilmente contrariata. Lily lanciò un’occhiata grata a Sophie.
“L’avevo immaginato, comunque” disse “anche se i miei sono Babbani, sapevo già un bel po’ di cose su Hogwarts prima di arrivare qui. Me le ha spiegate un mio amico, Severus. Abita nel mio stesso paese e sua madre è una strega. Anche lui è del nostro anno”.
“Ah, quindi il tuo amico è un Mezzosangue come me” commentò Sophie con tranquillità.
Mezzosangue. Che termine orribile! Lily iniziava a pensare che non si sarebbe mai abituata a quelle distinzioni.
“Comunque, perché facevi finta di dormire?” domandò Ophelia a Sophie. Artemisia alzò nuovamente gli occhi al cielo. In effetti, Ophelia non brillava certo per il suo tatto, ma tutto sommato a Lily non dispiaceva. Preferiva avere a che fare con persone sincere, che dicono quello che pensano.
Sophie sospirò con aria abbattuta. “Volevo stare un po’ da sola. Io…io speravo di essere una Corvonero, come mio fratello Brian. Aveva ragione, l’ho sentito dire a mio padre che non ero abbastanza intelligente per farcela”.
“Ehi, ma scherzi?” esclamò Ophelia. “Non puoi essere triste, sei finita nella Casa dei vincenti! Io e Artemisia abbiamo sempre saputo che saremmo state in Grifondoro” proclamò con orgoglio.
“E poi non significa necessariamente che tu non sia intelligente” aggiunse Artemisia, gentilmente. “Mio padre dice che il coraggio è più raro dell’intelligenza, e che ci sono più Grifondoro intelligenti che Corvonero coraggiosi”.
Sul volto di porcellana di Sophie comparve finalmente un piccolo sorriso.
“È che io non conosco nessuno a Grifondoro…”
“Nemmeno io, anzi non conoscevo nessuno in tutta la scuola prima di stasera” la rassicurò Mary.
“E sono molto legata a Brian, avrei davvero voluto essere nella sua stessa Casa!”
“Vi vedrete lo stesso, no?” intervenne Lily. “Non è poi la fine del mondo. Anche io e Severus siamo stati separati, lui è finito a Serpeverde, ma noi…”
Ophelia, Artemisia e Sophie si voltarono istantaneamente verso di lei.
“Serpeverde, eh? Non resterà il tuo migliore amico ancora a lungo, allora” commentò Ophelia. Questa volta Artemisia non ebbe nulla da ridire sul suo intervento, anzi le diede manforte.
“Lily…lascia che ti spieghi. In generale, le Case non interagiscono molto tra di loro, ma Serpeverde e Grifondoro sono un caso a parte. Si detestano, sono semplicemente incompatibili. I Serpeverde sono viscidi e sleali, gente con cui è meglio non avere niente a che fare; e sono fissati con l’essere Purosangue e tutte quelle storie lì. Pensano di essere superiori e che i Nati Babbani non siano degni di essere considerati maghi…”.
“Voi non capite!” protestò Lily, furiosa. “Sev non è così! È il mio migliore amico, e non mi abbandonerà di certo per questa stupida questione delle Case! Lo sa benissimo che sono una Nata Babbana e non ci trova niente di male!”
Le tre ragazze la guardarono con aria scettica, ma non osarono replicare. Un silenzio pesante era sceso sul dormitorio.
“Se lo dici tu” concluse infine Mary “lo conosci senz’altro meglio di noi, no?”
Lily le sorrise con gratitudine.
Sophie decise che era il momento di andare a dormire per davvero, e tutte concordarono, anche se Lily continuò a sentire i risolini di Ophelia e Artemisia provenire dal baldacchino di quest’ultima fino a tarda notte.
Ci mise parecchio ad addormentarsi; gli avvenimenti della giornata le comparivano davanti agli occhi.
Papà che chiedeva un permesso speciale al lavoro per accompagnarla in stazione… Petunia in lacrime che la guardava con odio in mezzo ai sorrisi radiosi dei suoi genitori… Le Gelatine Tuttigusti +1 comprate in treno… Le carrozze che si muovevano da sole, e il cielo stellato della Sala Grande, e la magnificenza di Hogwarts… Lo stupido Cappello che aveva diviso lei e Severus.
È diverso se si è figli di Babbani?    
No…no, non è diverso.
 
1 settembre 1971, ore 23
Dormitorio maschile di Grifondoro
 
Sirius scoppiò a ridere. “Quella sarebbe la tua valigia, Peter?”
Peter annuì, incerto.
“Pensavi di doverci vivere dentro?” scherzò James. “Scommetto che nemmeno le ragazze hanno portato bagagli del genere, peserà almeno quanto te!”
Peter arrossì e balbettò: “Mia mamma mi ha costretto a portare un sacco di cose…”
“Tua mamma, eh?” commentò James. “È a lei che stai scrivendo?”
Peter annuì. “A lei e alla nonna”.
“Mi sembra un’ottima idea. Forse dovrei scrivere anch’io una lettera alla mia cara mammina” sghignazzò Sirius. “Pensavo a qualcosa del tipo: Cara mamma, ho pensato di interrompere secoli e secoli di tradizione familiare e farmi Smistare a Grifondoro. Con affetto, il tuo affezionato figlio e presto non più erede - nonché traditore del suo sangue - Sirius”. James scoppiò a ridere e Peter si unì a loro con una risatina nervosa.
“Ma sono certo che non sia necessario”, aggiunse Sirius, “avrà già ricevuto la notizia dalle mie adorate cugine. Scommetto che domani mattina a colazione troverò una Strillettera ad aspettarmi”.
Peter sgranò gli occhi. Sirius, però, non sembrava minimamente allarmato dall’idea di sentire la voce di sua madre propagarsi per tutta la Sala Grande.
“Wow, ho sempre sognato di riceverne una” commentò James, ammirato. “Mia madre non è una che urla molto”.
Peter continuò a scrivere, ascoltando la conversazione tra i due senza osare intervenire. A differenza loro, gli sembrava di non avere nulla di così interessante da raccontare.
James e Sirius sembravano non avere paura di nulla e Peter rimase ad ascoltare affascinato le loro storie. Entrambi sembravano anche parecchio ricchi, e la cosa lo metteva a disagio. Si rese conto improvvisamente di essere rimasto ipnotizzato ad ascoltare Sirius a bocca aperta, senza più scrivere.
“Oh, no” si lamentò, accorgendosi della macchia di inchiostro che si stava allargando sulla pergamena. Sospirò e la mise via. L’avrebbe riscritta la mattina successiva.
“Ehi!” protestò, quando Sirius gli sfilò di mano la piuma. Sirius andò dritto verso il letto in cui dormiva il loro quarto compagno di stanza e gli passò la piuma sotto il naso e nelle orecchie, cercando di fargli il solletico. Remus starnutì e continuò a dormire.
“Certo che questo qui è proprio partito” commentò Sirius con aria critica. “Si è addormentato appena siamo entrati!”
“Non stava molto bene” lo difese Peter, a cui Remus stava molto simpatico. James e Sirius erano incredibili, ma sentiva Remus più simile a lui, con i suoi vestiti lisi e il sorriso timido.
“Allora lasciamolo in pace” rispose Sirius. “In effetti è proprio pallido”.
“Cavolo, che sfortuna stare male il primo giorno” commentò James. “Fortuna che io non mi ammalo mai!”
 
 
 
N.d.A.
Ciao a tutti! Finalmente riesco ad aggiornare anche questa :) Le note stavolta sono chilometriche (e le ho anche tagliate).
  • L’aconito, o luparia, è una pianta che ha un effetto repellente contro i Lupi Mannari.
  • Andiamo, gente. Letti a baldacchino! Hogwarts sembra davvero uscita da una fiaba. Verrebbe quasi da credere che non sia reale xD
  • I signori Evans non fanno una gran figura in questo capitolo; non penso siano delle cattive persone, ma sono convinta che Petunia debba essere cresciuta in un clima di una certa chiusura mentale, altrimenti non avrebbe mai potuto sposare un elemento come Vernon Dursley. Lily è cresciuta nello stesso ambiente, ma il carattere profondamente diverso e anche l’esperienza a Hogwarts, che la sposta dall’altra parte della discriminazione, la renderanno profondamente diversa da sua sorella.
  • Qualche nota per quanto riguarda il numero di studenti: innanzitutto mi sono basata sul fatto che nell’anno di Harry ci sono nove Grifondoro e ho scelto di considerarlo come valore medio. Come coetanee di Lily ho scelto Mary MacDonald (citata nei ricordi di Piton) e altre tre personaggi originali, che purtroppo non avrò modo di approfondire più di tanto. Spero vi piaceranno comunque (ero sul punto di chiamare Ophelia Ortensia, ma c’erano davvero troppi fiori xD). Spero si capisca che lo scherzo di Ophelia e Artemisia è del tutto bonario, e che si noti la faccia tosta di Mary (lei lo sapeva che era uno scherzo. Come no, sicuro). Ho fatto questa scelta perché non mi piace particolarmente quando vengono descritte come coetanee e amiche di Lily tutte le donne citate nell’elenco di Malocchio sull’originario Ordine della Fenice. Questo semplicemente per una questione di verosimiglianza; l’Ordine comprendeva sicuramente anche maghi e streghe ben più adulti di Lily, e non necessariamente tutti Grifondoro. Perciò, conosceremo più avanti Alice Prewett, Marlene McKinnon e forse anche Dorcas Meadowes, ma non sono le sue compagne di dormitorio. Per quanto riguarda invece i Malandrini, ho dato per scontato che siano gli unici quattro ragazzi Grifondoro del loro anno per due motivi. Il primo è che, dal momento che accettano Peter nel loro gruppo, benché non brilli per intelligenza né per simpatia, fatico a immaginare che escluderebbero un eventuale quinto compagno di Casa. Il secondo è molto semplice: se nel dormitorio ci fossero altre persone, dovrebbero necessariamente essere cieche e sorde per non accorgersi per ben sette anni che uno di loro è un Lupo Mannaro, gli altri tre sono Animagus, possiedono un Mantello dell’Invisibilità e disegnano una strana Mappa che sarebbe il sogno di ogni stalker! Mulciber e Avery sono citati da Sirius nel terzo libro come facenti parte della cricca di futuri Mangiamorte insieme a Severus, perciò ho immaginato fossero coetanei. Non sappiamo un granché sulla loro caratterizzazione da adulti; ho cercato di mantenere quei pochi dettagli che conosciamo di Avery. Se per caso qualcuno stesse seguendo l’altra mia fic, “Sogno una Nuova Hogwarts”, sappiate che questo Avery è naturalmente il padre di Virginia. Divertitevi pure a cercare qualche somiglianza (buon sangue non mente!).
Infine, un annuncio: dal prossimo capitolo ci sposteremo al secondo anno; ebbene sì, i nostri fanciullini cominciano a crescere (lacrimuccia).
Scusate se vi ho tediato con le mie spiegazioni. Grazie a tutti quelli che continuano a seguirmi! Fatemi sapere cosa pensate del capitolo nello spazio per le recensioni :) 
Thalassa_

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Capitolo 7
*** I Malandrini di Hogwarts ***


Capitolo VII - I Malandrini di Hogwarts
 
8 settembre 1972
Ore 18:00
Scale
 
“Pomona, dobbiamo assolutamente prendere provvedimenti riguardo a quei quattro, stanno diventando ingestibili”.
“Sono della tua Casa, Minerva, che provvedimenti dovrei prendere io?”
“Mi rifiuto di togliere loro tutti i punti che si meriterebbero, o la clessidra di Grifondoro sarebbe presto vuota!”
“Di che parlate, mie care?”
“Dei malandrini, Filius…”
“Ah, sapeste cos’hanno combinato ieri a Incantesimi! E siamo solo all’inizio dell’anno! Ma bisogna ammettere che hanno talento da vendere, questo sì…”
 
Dormitorio di Grifondoro
Ore 18:05
 
“Ehi, ragazzi, indovinate? La vecchia Minerva parlava di noi, sulle scale. Pare che nel corpo insegnanti siamo noti come ‘i Malandrini’!” esclamò Sirius, entrando in camera con aria trionfante, trafelato per la corsa.
“I Malandrini? Mi piace! Ha il giusto spirito piratesco!” rispose James, entusiasta.
“Sarà così che i posteri si ricorderanno di noi e delle nostre imprese, allora: i Malandrini di Hogwarts” commentò Remus, agitando pomposamente la piuma con cui stava scrivendo. Peter applaudì. “Certo che sentire i professori lamentarsi di noi già alla seconda settimana…” aggiunse sospirando.
“Siamo noi quattro i Malandrini, vero? Tutti e quattro?” proruppe ansiosamente Peter. James alzò gli occhi al cielo e gli scompigliò i capelli, sbuffando.
“Certo, Peter, tutti e quattro” rispose in tono petulante “quante volte dobbiamo ripetertelo ancora?”
A Remus scappò un sorriso nel vedere Peter guardarsi i piedi, imbarazzato. Nonostante fosse passato un anno, anche lui a volte faticava ancora a credere di essere davvero parte di qualcosa. Durante l’estate aveva quasi temuto che i suoi amici si sarebbero dimenticati di lui e aveva mandato loro così tante lettere che sua mamma si era convinta fossero destinate alla sua innamorata.
Era bello essere di nuovo a Hogwarts, insieme ai suoi amici.
“Sapete, credo che Remus abbia ragione” intervenne Sirius con voce grave. “È solo la seconda settimana di scuola: non pensate che dovremmo darci una calmata e mettere la testa a posto?”
Li guardò uno a uno, serissimo. Una frazione di secondo dopo, scoppiò a ridere.
“Ci ero proprio cascato!” ammise candidamente Peter, ridacchiando.
“Già, sembravi proprio Remus” convenne James, ghignando nella sua direzione.
“Io non parlo così” protestò Remus, offeso.
“Se sei un vero Malandrino, Remus” lo sfidò Sirius “allora trova un modo di insegnare un po’ di umiltà a quel Corvonero odioso, Johnson”.
Remus si mordicchiò un labbro, cercando di non ridere. L’idea che James desse lezioni di umiltà a chiunque, anche a uno come Johnson, era semplicemente ridicola. Per di più non gli andava di prendersela con lui: non era il massimo della simpatia, ma aveva prestato a Remus gli appunti di Storia della Magia quando era stato assente per “andare a trovare sua mamma” l’anno precedente.
“Non saprei” mormorò, indeciso. Peter, che fremeva già per mettersi all’opera, si sgonfiò come un palloncino.
“Peccato” sospirò James, buttandosi sul letto. “Ci voleva proprio una delle tue idee, Remus…”
Remus non riusciva a sopportare la delusione negli occhi dei suoi amici. Dopotutto, uno scherzetto innocente che male avrebbe potuto fargli?
“Ho un’idea” annunciò, attirando immediatamente a sé sguardi carichi di aspettativa. “Statemi bene a sentire, il piano è questo…”
 
Dormitorio di Grifondoro
Ore 23:30
 
James sussultò nel sentirsi afferrare il piede all’improvviso e il suo primo istinto fu di ritrarsi. Dobbiamo pensare a un altro segnale, si ripromise, questa storia di Sirius che mi afferra i piedi mi fa prendere un colpo ogni volta.
Si alzò a sedere sul letto a baldacchino cercando di fare il minor rumore possibile e si sporse per prendere il suo fidato Mantello, appallottolato sotto le lenzuola ai piedi del letto. Il leggero russare proveniente dal letto di Peter era un suono confortante; Remus, invece, si girava e rigirava nel sonno.
“James, ti vuoi muovere?” gli sibilò contro Sirius.
“Sto cercando un Mantello Invisibile al buio” sussurrò di rimando James. “Non è proprio l’operazione più immediata del mondo!”
“Allora avresti potuto tenerlo sotto il cuscino, idiota!” ribatté Sirius, nel momento esatto in cui la mano di James strinse finalmente il tessuto serico del Mantello. Si alzò, si infilò le scarpe e uscì dalla stanza in punta di piedi, tendendo l’orecchio per controllare il respiro leggero e regolare di Remus. Trattenne persino il respiro, ma tutti i suoi tentativi di risultare silenzioso erano goffi e rumorosi in confronto al passo felpato di Sirius.
Quando finalmente ebbero raggiunto la Sala Comune di Grifondoro, entrambi protetti dal Mantello, James poté riprendere la loro conversazione sottovoce.
“Come fai a muoverti in quel modo? Non ti ho nemmeno sentito arrivare di fianco al mio letto, e io ero sveglio”.
“Anche tu avresti imparato a camminare così, se fossi cresciuto con mia madre e l’avessi mai sentita urlare” rispose Sirius.
Attraversarono il ritratto della Signora Grassa e si inoltrarono per i corridoi bui, attenti a non fare troppo rumore e a non calpestarsi i piedi a vicenda.
“Non posso credere che lo stiamo facendo davvero” commentò James in tono depresso. “Voglio dire, abbiamo un Mantello dell’Invisibilità e lo usiamo per andare in biblioteca! E non è nemmeno la Sezione Proibita!”
“Non abbiamo motivo di andare nella Sezione Proibita” gli ricordò Sirius. “Ti prometto che useremo questo Mantello per cause ben più degne dei Malandrini, ma non stasera. Non potevamo certo presentarci in biblioteca alla luce del giorno senza attirare i sospetti di Remus, e – “
Sirius si interruppe all’improvviso, smettendo anche di camminare. James lottò per non inciampare e alzò lo sguardo. In fondo al corridoio, alla luce di una bacchetta, si stagliava la figura gobba della custode. James trattenne il respiro, non osando muovere un muscolo. La vecchia strega lanciò uno sguardo vacuo al corridoio che doveva apparirle deserto e passò proprio di fianco a James e Sirius, che si schiacciarono quanto più possibile contro il muro. Il gomito di James diede un colpo contro il muro che risuonò con un sonoro tum e gli guadagnò un’occhiataccia da parte di Sirius, ma la custode proseguì senza notare nulla. Quando fu ormai lontana, si concessero un sospiro di sollievo.
“Ci è mancato poco” osservò Sirius.
“Non ci avrebbe visto neanche senza Mantello dell’Invisibilità, orba com’è” replicò James, sentendosi molto più sicuro ora che il pericolo si era allontanato.
“E anche decisamente sorda” aggiunse Sirius, lanciandogli un’occhiata obliqua, “come abbia fatto a non sentire il fracasso che hai fatto, proprio non lo so!”
Un quarto d’ora più tardi erano in biblioteca, intenti a sfogliare un pesante tomo di Difesa Contro le Arti Oscure. James sfogliò le pagine freneticamente fino a trovare il capitolo sui Lupi Mannari. Terminata la lettura, presero un altro libro e poi un altro ancora e un altro ancora, finché non furono certi di aver trovato tutte le informazioni possibili relative alla licantropia. Dopo aver rimesso a posto l’ultimo volume, si guardarono a lungo negli occhi, in silenzio.
“Penso non ci siano dubbi” disse infine Sirius.
“Già” mormorò James “eppure sembra così assurdo…”
Sirius annuì gravemente.
“Tutto quello che dicono questi libri…” James rabbrividì. La descrizione che i libri facevano dei Lupi Mannari era spaventosa, e quanto di più lontano potesse immaginarsi dall’espressione placida e innocua di Remus. “Insomma, Remus non farebbe male a una mosca” sbottò.
“Quando è in forma umana” lo contraddisse Sirius. James lo guardò come se non fosse in grado di riconoscerlo.
Fin da quando avevano iniziato ad avere i primi sospetti su Remus, lui e Sirius si erano trovati sulla stessa lunghezza d’onda, come sempre. Avevano contato i giorni, consultato il calendario e formulato teorie su teorie. Era stato Sirius il primo a sostenere che Remus mentisse – per James l’idea era semplicemente inconciliabile con l’immagine di Remus, sempre onesto – e poi era stato James a rendersi conto che ogni volta che spariva a trovare sua mamma, nel cielo brillava la luna piena. Insieme avevano formulato teorie su teorie, arrivando infine a quella che sembrava ormai un’innegabile verità: Remus era un Lupo Mannaro.
In tutto quel tempo, nonostante l’orrore che suscitava in loro l’idea che il loro amico si trasformasse in una creatura mostruosa e dotata di istinti omicidi, l’idea che questo potesse intaccare la loro amicizia non aveva mai sfiorato James. Non riusciva a pensare a Remus come a un essere pericoloso, era semplicemente una vittima della situazione. Non l’avrebbe mai accusato di qualcosa che non poteva controllare. Per tutto questo tempo era stato convinto che Sirius la pensasse esattamente come lui, come era sempre stato, ma se si fosse sbagliato? Se passare l’estate a casa, circondato dalle nefaste idee dei suoi genitori, gli avesse fatto cambiare idea? I Lupi Mannari erano Creature Oscure, come indicava chiaramente ogni libro che avevano consultato.
James strinse il pugno con rabbia, conficcandosi le unghie nel palmo. “Se hai intenzione di abbandonare Remus, dillo chiaramente” lo accusò, dimenticando di tenere la voce bassa, “io di certo non lo farò!”
Lo sguardo di Sirius rimase cupo e impenetrabile.
“Non si sceglie di essere morsi da un Lupo Mannaro” rispose “esattamente come non si sceglie in che famiglia nascere”.
James gli rivolse un gran sorriso e gli tirò una pacca sulla schiena. “Gli amici però si scelgono, e questo vale sia per te che per lui”. Anche Sirius sorrise.
“Secondo il calendario lunare, dobbiamo solo aspettare un paio di settimane per avere la conferma definitiva” disse. “Dobbiamo mettere Remus alle strette, dimostrando che sappiamo già tutto, altrimenti non lo ammetterà mai”.
“Già” convenne James. “A quanto pare è parecchio bravo a mentire, l’avresti mai detto? Per non parlare del piano che ha tirato fuori stasera! Che mente malefica si nasconde dietro quell’apparenza da bravo ragazzo. Come direbbe mia madre, credo che abbiamo una pessima influenza su di lui”.
Sirius sogghignò. “Sai quale sarà la parte più difficile di tutto questo?” domandò.
“Parlarne con Remus?” rispose James, perplesso. Aveva pensato diverse volte a come iniziare il discorso, ma non era mai stato bravo in questo genere di cose e non poteva certo sbucare fuori all’improvviso, chiedendo: “Ehi, Remus, scriveresti il tema sui Lupi Mannari al posto mio, raccontando la tua esperienza personale?”
“No” rispose Sirius, con un ghigno. “Parlarne con Peter”.
 
 
Aula vuota di Trasfigurazione
Ore 23:30
 
Per un attimo fu come se tutti e tre fossero paralizzati, incapaci di muovere un muscolo, incapaci perfino di respirare; anche l’aria della stanza era immobile.
Andromeda sentì il sangue affluirle al volto per la rabbia e l’umiliazione; fu lei a rompere l’immobilità e voltarsi di scatto per uscire dalla porta lasciata aperta alle sue spalle, da cui era entrata pochi secondi prima per trovarsi di fronte a uno spettacolo quanto mai sgradito. Narcissa si sciolse dall’abbraccio di Lucius e si protese verso di lei, stringendole un braccio per impedirle di andarsene. Lucius sembrava seccato dall’interruzione e non smise un secondo di accarezzare i capelli di Narcissa.
“Lasciami, Cissy!” urlò Andromeda, liberandosi dalla presa della sorella con uno strattone.
“Dromeda, ascolta, ti prego, lasciami spiegare…” sussurrò sua sorella, con gli occhi pieni di lacrime.
“Non c’è niente da spiegare, Cissy, è tutto perfettamente chiaro!” sibilò, gli occhi ridotti a due fessure, e corse via. Cissy fece per inseguirla, ma Lucius la fermò posandole una mano sulla spalla.
“Sarebbe successo prima o poi, Cissy” le disse, guardandola dritto negli occhi e prendendole il mento tra le mani. “Lasciala sfogare, le passerà presto. Sono sicuro di non esserle mai interessato veramente”.
Narcissa annuì tra i singhiozzi, nascondendo il bel volto sul petto dell’amato.
“Voglio molto bene a mia sorella, Lucius” sussurrò.
“Lo so” rispose semplicemente lui, accarezzandole la testa.
 
Andromeda, intanto, continuava la sua corsa a perdifiato verso il dormitorio. La sua testa era in subbuglio, e non sapeva neanche lei quali emozioni provava, o avrebbe dovuto provare.
La prima e la più forte era il tradimento: lei e Cissy non avevano mai avuto segreti l’una per l’altra, prima d’allora. Perché sua sorella non si era confidata con lei? Per quanto pensava di riuscire a mantenere il segreto, e da quanto andava avanti quella storia?
Poi rabbia e risentimento: cos’aveva Cissy più di lei? Possibile che fosse stata surclassata non solo da Bella, ma anche dalla piccola di casa Black? Inaccettabile.
Che umiliazione quando la cosa sarebbe stata risaputa a scuola; e cosa avrebbero detto i suoi genitori? Poteva immaginare il volto raggiante e pieno di orgoglio di sua madre quando avrebbe ricevuto un gufo da Cissy… Del rifiuto di Lucius in sé non le importava molto, non era mai stato il suo tipo, anzi a pensarci bene provava anche un certo sollievo. Sollievo e una strana sensazione di libertà…
Di colpo, le venne un’idea.
Mentre entrava nel dormitorio deserto e si sdraiava sul lussuoso letto a baldacchino, sul suo volto non c’era più traccia di dolore o d’indignazione, ma aleggiava uno strano sorriso di trionfo e negli occhi le brillava una luce pericolosa.
 


N.d.A.
Eccomi tornata! Scusate se ci ho messo tanto. Come vedete, oltre ai nostri soliti protagonisti seguiremo per un po’ anche le vicende di Andromeda Black, al suo settimo anno a Hogwarts. Come sempre, un enorme grazie a chi legge e sappiate che sono ben contenta di sentire la vostra sincera opinione sul capitolo!
P.S. Un bonus a chi ha notato il passo “felpato” di Sirius xD
 Thalassa_

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