TUTTI MENTONO. ANCHE TU.

di BeforeTheDayYouLeft
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PRELUDIO Passato Londra 2017 ***
Capitolo 2: *** CAPITOLO 1 Presente Nuova Londra 2049 ***
Capitolo 3: *** CAPITOLO 2 Passato Londra 2017 ***
Capitolo 4: *** CAPITOLO 3 Presente Nuova Londra 2049 ***
Capitolo 5: *** CAPITOLO 4 Presente Nuova Londra 2049 ***
Capitolo 6: *** CAPITOLO 5 Passato Londra 2017 ***
Capitolo 7: *** CAPITOLO 6 Presente Nuova Londra 2049 ***
Capitolo 8: *** CAPITOLO 7 Presente Nuova Londra 2049 ***
Capitolo 9: *** CAPITOLO 8 Presente Nuova Londra 2049 ***



Capitolo 1
*** PRELUDIO Passato Londra 2017 ***


PRELUDIO
Passato
Londra 2017
 
London's Times
 
Dobbiamo tutti rassegnarci all’evidenza. Non c’è più dubbio. Siamo sull’orlo della guerra. (…) Quella che nella seconda metà del ‘900 si affacciava come una semplice contrapposizione politica, ideologica e militare, è ormai una certezza. La Guerra Fredda, così chiamata perché mai combattuta direttamente fra le due potenze, è ormai diventata una guerra calda. Fra gli Stati Uniti e la Russia è ormai irrimandabile lo scontro aperto. (…) I Paesi dell’America e quelli dell’Asia sono schierati su fronti opposti. (…) E’ guerra. In Europa sono state convocate le prime assemblee con i rappresentanti di tutti i Paesi. Il Primo Ministro Clarke ha affermato pubblicamente che la Corona d’Inghilterra resterà fedele agli USA, in quanto parte integrante dell’Organizzazione delle Nazioni Unite – concetto che, francamente, trovo ormai sprofondato nel dimenticatoio dei più –. (…) E’ guerra, armatevi e partite, se non volete che questa ondata di ferro e fuoco trascini via anche voi.
 
articolo di James Harris, London’s Times, 10 Giugno 3004

 
Il signor Watson richiuse con ira repressa il giornale, lanciando un’occhiata furente alla tazza di the sul tavolinetto davanti alla poltrona, quasi fosse quella la vera causa di tutto. Con uno sbuffo, sollevò con mano tremante per la rabbia la tazzina, osservando il suo riflesso distorto nel liquido ramato. La gente non si ferma mai un attimo a bere del the e a riflettere, si trovò a pensare. Si poteva già immaginare quegli idioti dei capi del governo della Russia e degli USA sedersi uno di fronte all’altro a sorseggiare placidamente l’infuso. I problemi e le tensioni sarebbero subito passati in secondo piano.
All’improvviso, nel soggiorno fece capolino la figura tremante di sua moglie, con in braccio la piccola Harriet, e il pancione che si intravedeva dalla vestaglia. Il suo viso era contorto in un’espressione sofferente e – non fosse stato solo il settimo mese di gravidanza – lui avrebbe anche potuto temere che fosse in procinto di sfornare il piccolo John.
“Non ti ho sentita arrivare.”
La signora Watson non si smosse e continuò a fissarlo con occhi apprensivi. “Hai letto quello che scrivono i giornali, hai sentito le notizie alla televisione?” Bene, se avete presente la faccia sconvolta di una giovane donna incinta e con gli ormoni alle stelle, allora sovrapponetela con il volto indifferente – sebbene lievemente infastidito – di un uomo vissuto, come piaceva al signor Watson definirsi. Lui e la moglie avevano qualche anno di differenza, quasi dieci, ma l’età non era mai stata un problema per nessuno dei due, anzi. Lui era il ritratto della calma e della compostezza, lei era come quei dipinti astratti in cui vedi solo pennellate di colore sparse a caso: volubile e apprensiva.
“Ho appena letto l’articolo di quell’Harris.”
“E te ne stai semplicemente lì seduto a bere il the?”
La donna afferrò uno dei cuscini del divano e lo lanciò contro il marito, facendogli traboccare il the sulla vestaglia nuova che la madre gli aveva regalato per Natale. “Sei impazzita?”
“Abbiamo una bambina! Presto anche un neonato! Dobbiamo andarcene subito, prima che comincino a pioverci bombe – se non peggio – sulla testa!”
Il signor Watson distolse la sua attenzione dallo sfregare il fazzoletto sulla macchia del the e fece un gesto d’insofferenza con la mano. “Suvvia, è solamente un grande polverone: non ci sarà nessuna guerra. Ai politici piace così tanto dare fiato alla bocca, così come ai giornalisti.”
Ma la moglie non sembrava d’accordo, affatto d’accordo. “Jonathan Watson, ti ordino di dare ascolto a tua moglie, per l’amor del cielo!”
L’uomo si alzò in piedi, prendendole delicatamente il viso in quelle manone curate e ancora giovani, sebbene l’età avanzasse. Pose un dolce bacio sulla fronte della moglie a cui quel gesto sembrò più un tentativo di rabbonirla più che una vera e propria dimostrazione d’affetto. “Sta’ calma, cara. Aspettiamo ancora un po’, eh? Poi ti prometto che se la situazione degenera, vi porto via da qui. Tutti e tre. D’accordo?”
“Ho paura, Jonathan. Per Harry e per il piccolo John.”
Lui le sorrise. “Lo so, amore, lo so. Andrà tutto bene, te lo prometto.”
 
 

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Capitolo 2
*** CAPITOLO 1 Presente Nuova Londra 2049 ***


CAPITOLO 1
Presente
Nuova Londra 2049

 
 
John Watson era la mescolanza perfetta dei suoi genitori: fisicamente parlando, somigliava incredibilmente alla madre, con quei capelli biondo-grano e quei dolci occhi chiari. Il carattere, invece, era esattamente la fotocopia di quello di Jonathan Watson – giusto, premuroso, preoccupato più per la sorte degli altri che per la sua e anche testa calda, alle volte –. Il punto è che John non avrebbe mai saputo di essere simile ai suoi genitori. Non avrebbe neanche mai saputo di avere una sorella di nome Harriet. Non avrebbe mai conosciuto la verità sulla sua famiglia.
Erano passati trentadue anni da quando Margaret Watson aveva concepito un bimbo dal volto tondo e rilassato, che le ostetriche avevano fatto fatica a far piangere. Non era più un bambino, non viveva più nell’ignoranza, era consapevole di che cosa infuriava all’esterno del piccolo studio dove riceveva i suoi pazienti. Sul suo corpo, portava i segni di quella cosa. Gli orfani di guerra non se la passavano mai troppo bene, soprattutto i più piccoli, e spesso venivano spediti come pacchi postali alle accademie militari di Nuova Londra, dove ricevevano un addestramento prettamente basato sulla conoscenza dell’arte della guerra. In una di quelle accademie, lui c’era cresciuto e lì aveva imparato come si ammazza un uomo semplicemente schiacciando il pomo d’Adamo, come si prende la mira per sparare il colpo perfetto, come si diventa emissari di morte. Compiuta l’età adulta – non più corrispondente ai diciotto anni, bensì ai sedici – i cadetti venivano smistati nei vari corpi armati dislocati nelle diverse zone di conflitto aperto. Lui era stato inviato in Siberia, dove il freddo e la fame tagliavano più vite rispetto ai proiettili. Si era dimostrato da subito un soldato eccellente, un cecchino infallibile e un sicario senza pietà. Da ragazzo credeva nella guerra, la idolatrava come tutti gli altri, ma la sua curiosità e la voglia di conoscenza l’avevano spinto – all’età di venticinque anni, quando ti veniva concessa la possibilità di intraprendere degli studi specifici in altri campi di interesse – a frequentare corsi di medicina. Ben presto, aveva capito che la vita, invece che essere tolta, poteva essere ridata, aveva appreso che una ferita oltre che aprirsi può anche essere richiusa. Ma soprattutto, aveva compreso che preferiva curare, salvare, piuttosto che uccidere. Aveva chiesto la revoca e il permesso di allontanarsi dai campi di battaglia ma di restare come medico militare. Per la sua devozione e i successi accumulati, i suoi superiori si erano mostrati accondiscendenti e gli avevano concesso la revoca solo dopo un’ultima battaglia in Afghanistan. Una battaglia che l’aveva sì allontanato dalla guerra a fuoco aperto, ma non come intendeva lui. Una ferita alla spalla e una gamba inerte, ecco che cosa era rimasto al capitano Watson dopo quella battaglia. Cosa avrebbe dovuto – o forse meglio dire potuto – fare se non ritornare a Londra, anzi, a Nuova Londra? Non aveva più un futuro, lo sapeva. Quella guerra gli aveva portato via ogni cosa. Anche la sua dignità.
Ora, John Watson guardava il frassino malato davanti a quel piccolo ambulatorio che era riuscito a risistemare per le sue visite. Di tanto in tanto, si poteva udire distintamente il tremore del suolo, il frastuono di una granata, il rumore assordante degli elicotteri militari.
Bevve il suo caffè di fretta, quasi strozzandosi, per poi buttare il bicchierino nel cesto e aprire la porta dello studio, chiamando il prossimo bisognoso di cure. Una ragazza sui sedici anni sgattaiolò dentro come una ladra e si accomodò senza troppi onori sul lettino medico.
“Allora, Abbie, è la terza visita in una settimana – due delle quali passate a raccontarmi i tuoi sviluppi amorosi con il figlio dei…”
“Doc, mi creda, questa volta è diverso.” lo interruppe bruscamente la ragazza. Per quanto ostentasse freddezza, Watson percepì la sua voce tremare appena e anche i suoi occhi non lo convincevano: li sbatteva ripetutamente, quasi volesse soffocare le lacrime. “Credo…Credo di essere malata.”
“Be’, almeno sei qui per una ragione.”
Le si avvicinò sorridendo appena, rassicurante, con il suo stetoscopio già infilato nelle orecchie. Si chinò a fatica e cominciò a passare lo strumento fra le costole della ragazza. “Che cosa ti senti di preciso, Abbie?”
“Ho sempre freddo e sudo. Tanto. Più mi copro e più ho freddo.”
John tuffò la mano nella borsa clinica e ne estrasse un termometro. “Avrai solo qualche linea di febbre.”
Abbie fece scivolare lo strumento sotto l’ascella. “Doc, sto male.”
Watson impugnò la piccola lampada diagnostica, imponendo alla ragazza di tenere gli occhi aperti. In quel momento, un terribile presentimento gli si fece strada nella mente. Li guardò, quegli occhi, vi immerse i suoi, osservò ogni striatura rossa. Ora capiva perché Abbie non faceva che sbatterli appena entrata. “Cristo santo…” sussurrò a voce così bassa che la ragazza neanche lo sentì. Era piccolo, ancora non sviluppato, ma c’era. Un semplice puntino rosso tracciato sulla pupilla, un misero pulviscolo. “Ti si aprono ferite?”
La sua voce non era più così rassicurante come prima, tradiva una vena di preoccupazione. Abbie ingoiò a fatica un groppo di lacrime e serrò gli occhi, mordendosi il labbro. Non era stupida, non era stupida per niente. Aveva varcato la porta per una conferma, non per una diagnosi. Prese un respiro profondo e si tirò su la maglietta lacera e sporca. Un ampio squarcio le si apriva sull’addome, circondato da un alone verdognolo. I bordi della ferita spillavano un liquido color vomito, il rosso al loro interno era solcato da ramificazione della stessa tonalità.
John rimase a fissare quel taglio in silenzio, passandosi una mano sul volto. Un singhiozzo sfuggì dalle labbra della ragazza. “E’ quella, vero?”
Lui le strinse una mano e le sorrise, quasi non udì il suono del termometro e quasi se ne scordò. Lo sfilò distrattamente da sotto il braccio della ragazza e lo fece scivolare nuovamente in una tasca della borsa. “Sì, Abbie. E’ la peste londinese.”
Quella malattia ormai macinava più vite dei bombardamenti. L’avevano chiamata peste perché aveva sterminato un terzo della popolazione inglese con la stessa rapidità di quella bubbonica nel Medioevo. Sembrava essere partita da Londra Vecchia – la parte della città ancora in mano alle forze britanniche – ed essersi propagata anche nella parte della città in mano ai sovietici.
Abbie si portò le mani alla bocca e si lasciò andare ad un pianto disperato. Non era la prima volta che John diagnosticava quella malattia. Anzi, negli ultimi tempi le persone soggette alla peste erano sempre di più. Il problema? Non vi erano cure. Non ancora. Erano mesi che lui ci stava lavorando, mesi che cercava di ottenere un composto che potesse sconfiggere quell’infezione. Ma aveva solamente ottenuto blandi antidolorifici per lenire il dolore e solo in sporadiche occasioni era riuscito a giungere al risultato sperato. E quei piccoli, grandi successi gli avevano infuso l’energia necessaria per andare avanti con i suoi esperimenti e le sue ricerche. Era sicuro di essere vicino, vicinissimo.
“Ascolta, Abbie, non è il momento di disperarsi.” La sua voce era ferma, controllata, di nuovo rassicurante. “Non sei una ragazza ingenua e soprattutto sei abbastanza matura perché io ti parli da adulto ad adulto. Non posso nasconderti che la situazione è grave, ma abbiamo il fattore tempo dalla nostra parte. Il Pulviscolo, il segno iniziale della malattia, è ancora un puntino dalle dimensioni ristrette: sei nella fase iniziale della malattia, possiamo trovare una soluzione.”
Mentre parlava, scriveva frettolosamente una serie di medicinali e antidolorifici, le dosi esatte, i momenti della giornata in cui assumerli. Abbie era orfana, era sola, viveva con una comunità di senza tetto. Non c’era nessuno che si sarebbe preso cura di lei se non Abbie stessa.
Staccò con un moto quasi rabbioso il pezzo di carta dal block-notes e glielo porse. “Ecco qui. Questi farmaci sono di creazione mia e di un mio amico farmacista. Li abbiamo elaborati assieme studiando da vicino gli effetti della peste. Sono fiducioso.”
Il sorriso che le regalò sembrò consolarla, almeno un po’. Era questo il bello del Doc, come lo chiamavano a Nuova Londra: il suo modo di rapportarsi con le persone, la sua mitezza e la sua generosità. Era uno dei pochi medici in città che non esigeva un compenso per le visite, l’unico che riusciva in un modo o nell’altro a procurarsi i medicinali più comuni. John Watson era una sorta di leggenda. “Consegna questo a Diana e lei ti fornirà tutto l’occorrente. Va bene?”
Si alzò, imitato dalla ragazza che ficcò una mano in tasca e ne tirò fuori una banconota da cinquanta rubli russi – moneta in uso da quando l’impero socialista aveva conquistato parte di Londra, la così detta Londra Nuova – e si strinse nelle spalle, imbarazzata. “E’ tutto quello che ho.”
John allontanò con un gesto infastidito la mano della ragazza. “Servono più a te che a me.” La ragazza sembrò sul punto di insistere ma doveva essere stravolta, stanca di combattere, perché aprì la bocca per contestare, ma subito la richiuse e ripose la banconota nella tasca dei jeans con un sospiro rassegnato.
“Ehi, ho motivo di credere che ce la farai. Non arrenderti.”
Abbie gli sorrise stancamente prima di ringraziarlo e trascinarsi verso la porta. Questa venne spalancata improvvisamente, rischiando di centrare in pieno la ragazza. Subito, una donna di bell’aspetto, dai movimenti leggiadri ma frenetici fece capolino nello studio. “John, abbiamo un problema!”
“Buon Dio, Sarah, rischiavi di tramortire una mia paziente!” esclamò ridacchiando lui, scoccando un occhiolino complice ad Abbie, che sorrise. Sarah si scusò distrattamente con lei e le chiese di lasciarli soli. “Allora, che cos’è tutta questa agitazione? Non potevi aspettare fino alla nostra cena? Ho una fila infinita di altri pazienti e devo anche controllare il reparto dei…”
“Mi sono permessa di mandare via tutti. E’ una cosa di vitale importanza e quindi ti pregherei anche di sederti.”
Watson rimase qualche istante con occhi e labbra spalancati, ma alla fine decise di assecondare la donna, sapendo perfettamente di cosa fosse capace in un momento d’ira. “Be’, che c’è?”
“La nostra casa farmaceutica fornitrice – la GlaxoSmithKiline – ha deciso di…troncare.”
“Troncare!? Che significa troncare!?”
Sarah sembrava scossa quanto lui. “Non vogliono più passarci medicinali, o vaccini, niente.”
“Perché!?”
La dottoressa sobbalzò a quel cambiamento repentino della voce del collega. “Non ho capito bene. Hanno semplicemente detto che per ordini superiori, non ci avrebbero più fornito niente.”
John si alzò di scatto dalla sedia e prese a misurare nervosamente e a grandi passi la stanza, sfregando le mani una contro l’altra. “No, non possono farlo. Qui c’è gente che sta male, che muore! Non possono semplicemente mollarci così!”
“L’hanno fatto, John, così come i nostri altri fornitori in precedenza. Dall’altra parte della città, il Governo provvisorio sta monopolizzando ogni cosa: dai viveri alimentari ai beni di prima necessità ai farmaci. Non basta la guerra, ora anche questo.”
L’uomo non si smise di camminare freneticamente per lo studio. Ordini superiori, ma ordini superiori di chi? Dei sovietici? Del blocco a Londra Vecchia? Non lo sapeva. Batté con violenza un pugno sulla scrivania, facendo tremare il portapenne scarno e una vecchia fotografia che ritraeva lui in divisa.
La mano cercò tremante il vecchio cellulare che aveva acquistato al Mercato Nero e lo tirò fuori frettolosamente. “Procurami il numero, Sarah.”
“John, sono stati chiari…”
“Ho detto: procurami il numero.”
La donna si arrese, alzando gli occhi al cielo. “Ho tutto nel mio studio.”
 
 
Trascorse le restanti due ore a litigare al telefono con i dipendenti della GaxoSmithKline, parlando con chiunque – dalla segretaria, a semplici impiegati, a uomini dei piani alti – e cercando di mantenere la freddezza necessaria per mostrarsi convincente. Non poteva permettere di mostrarsi debole.
Ma all’ennesima persona che lo liquidava con una frase del tipo le passo il responsabile del settore eccetera eccetera, John non ci vide più. “Senta, sono ore che mi passate a questo a quest’altro e a quell’altro ancora! Una volta per tutte, ho bisogno di quelle medicine, mi servono per curare i miei pazienti!”
“Dottore, io capisco, ma non è con me che deve lamentarsi, io mi occupo solo di catalogare i farmaci.”
“Al diavolo i cataloghi e la vostra casa farmaceutica!”
Riattaccò trattenendo un fremito di rabbia. Si sfregò gli occhi con pollice e indice, mentre Sarah, seduta sul lettino medico, faceva ciondolare distrattamente le gambe. Il silenzio che li avvolgeva era profondo, impastato di frustrazione. Il medico, da parte sua, si sentiva sfibrato da quelle lunghe ore al telefono, tra litigi e chiarimenti, e sentiva l’impellente bisogno di buttarsi sul letto scricchiolante della pensioncina che lo ospitava.
“Ci hai provato.” cercò di consolarlo lei, ma senza il successo sperato.
“Questo non cambia le cose: senza quei medicinali, metà della gente rischierà di lasciarci la pelle anche a causa di una stupida influenza.”
Era mortalmente stanco e ciò che desiderava di più era restare solo con l’eco delle granate e degli spari in lontananza. Fu per questo che si sollevò a fatica, impugnando il suo fedele bastone e annunciò che sarebbe tornato a casa. Sarah si offrì di chiudere lei l’ambulatorio, ma tanto John aveva già capito da un pezzo che la donna viveva lì perché non aveva più un posto dove stare.
Così, dopo una decina di minuti, si ritrovò a camminare con le mani ficcate nelle tasche e la testa incassata nelle spalle, la mente che galoppava in lungo e in largo. Si domandava come avrebbe fatto senza quei farmaci, come la gente avrebbe fatto senza farmaci. Non poteva credere che tutto questo stesse succedendo per davvero.
Una macchina scura, stranamente elegante dati i tempi, gli si affiancò. John scoccò un’occhiata dubbiosa al finestrino che si abbassava e rivelava il volto pallidissimo e truce di un uomo vestito con un elegante completo scuro.
“Dottor Watson?” gli chiese con un forte accento russo.
John si guardò attorno serrando gli occhi e di riflesso le dita camminarono dietro la schiena, là dove una pistola calibro cinquanta riposava come un’Excalibur che attende di essere impugnata.
“Chi lo cerca?”
“Dottor Watson?” ripeté l’energumeno con voce infastidita. Il medico sospirò profondamente e si limitò ad annuire.
“Salga.”
Non fece in tempo a obiettare che un secondo tizio in abiti formali lo prese per un braccio e lo fece salire a forza in macchina.
“Posso sapere dove mi state portando?”
Silenzio. Silenzio durante il viaggio. Silenzio quando, davanti ad un grattacielo imponente, John domandò ancora dove lo stessero conducendo. Silenzio mentre l’ascensore saliva rapidamente. Silenzio quando il medico si trovò davanti ad una porta massiccia. Uno dei due energumeni bussò e una voce rispose un Avanti allegro, quasi impaziente.
“Entri.”
Era buffo come quei due uomini non facessero altro che imporgli di fare qualcosa e si rifiutassero di concedergli qualche chiarimento. Con uno sbuffo seccato, aprì la porta ed entrò.
 

 

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Capitolo 3
*** CAPITOLO 2 Passato Londra 2017 ***


CAPITOLO 2
Passato
Londra 2017

 
 
“Jonathan!”
“Margaret, corri! Io prendo Harry!”
I coniugi Watson corsero a fatica su quel pavimento tremante, attraverso quelle stanze che sembravano non volerli fare uscire. I fischi delle granate risuonavano come sibili di morte vicino a loro. Troppo vicino a loro. La casa degli Smith era stata rasa al suolo da una bomba, nel cuore della notte, facendo sobbalzare l’intera famiglia Watson. Harriet urlava, piangeva, il volto paonazzo e il corpicino scosso da singulti. Il padre la stringeva a sé con vigore, cercando di proteggere la sua principessa – come la chiamava lui – da ciò che si scatenava fuori dalla loro modesta casetta. La signora Watson, invece, sorreggeva il pancione, quasi temesse che John potesse spaventarsi a tal punto da voler scomparire dal ventre materno e decidere di non nascere per niente, di non soffrire per niente.
Si riversarono in strada col fiato corto, tossendo e annaspando a causa di qualche incendio che divorava le case intorno a loro. Il lontananza, un furgone delle Nazioni Unite arrancava, caricando i superstiti del bombardamento. Il signor Watson prese per mano sua moglie e cercò di trascinarla verso la loro unica via di salvezza, ma lei era troppo debole, il fiato corto, le mani serrate sul suo grembo. Ma il fiatone, non era solo per la corsa: la donna soffriva spesso di attacchi d’asma, alle volte anche abbastanza seri.
“Jonathan, non respiro.” ripeteva ansando. “Il mio…”
Il marito capì. “Vado a prenderti il broncodilatatore.”
Fece per tornare dentro ma la mano della moglie si serrò sulla manica della sua vestaglia. “No…Non andare.”
“Andrà tutto bene, cara, ma tu avviati verso il furgone intanto che io vado a prenderlo.”
Le baciò la fronte con tenerezza, consegnandole la piccola Harriet, infine partì di corsa imboccando l’entrata della sua casa. La moglie si trascinò a fatica lungo la strada urlando e sbracciando quanto più il suo attacco d’asma le permetteva per farsi notare dai soldati dell’ONU.
Improvvisamente, un fischio assordante. Si voltò, in tempo per vedere qualcosa catapultarsi a velocità sovrumana sulla loro casa. Ci fu un’esplosione immensa che la sbalzò a qualche metro di distanza. Cercò in tutti i modi di attutire la caduta e soprattutto di proteggere i suoi figli. Quando riaprì gli occhi, tutto si fece chiaro e nitido. La sua casa. Il suo Jonathan. Persi. Per sempre. 

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Capitolo 4
*** CAPITOLO 3 Presente Nuova Londra 2049 ***


CAPITOLO 3
Presente
Nuova Londra 2049

 
 
Il buio regnava incontrastato, quasi palpabile. L’unica luce che filtrava era quella pallida e fioca della luna che ormai sembrava essere colpita dalla guerra a sua volta. Nell’ombra, qualche pulviscolo volteggiava come un fiocco di neve, leggero e inafferrabile.
“Be’?” fece John irritato e guardandosi attorno. “Tutto questo ha un nome: sequestro di persona.”
Una risata in falsetto echeggiò nelle tenebre. “Oh, dottore, lei è così spassoso! Come se ormai un paese in guerra consideri queste sottigliezze!”
“Sottigliezze? Mi avete praticamente rapito!”
“Suvvia, io lo trovo più un cordiale invito che non può essere rifiutato. Ma a parte questo, coraggio, si segga, dottore! La sua gamba deve darle molto fastidio! Come mai non mi ha chiesto prima una sedia? Oh, forse lo so.”
John fece schioccare la lingua sul palato, mentre una luce simile a quella usata per gli interrogatori si accendeva, illuminando una poltrona accanto non molto distante da lui. “Chi è lei?” domandò avvicinandosi ad essa ma senza sedersi.
“Dritto al punto, eh? Bene!”
Una seconda luce si accese di colpo, rivelando una tv lussuosa a schermo piatto che credeva non si fabbricassero più in tempi di guerra. Sul monitor comparve improvvisamente la visione della squallida pensioncina in cui albergava. John guardò sgranando gli occhi la sua figura uscire e dirigersi all’ambulatorio, la sua figura visitare un paziente nel suo studio, la sua figura invitare Sarah da lui…Insomma, la sua figura che compiva gesti abituali, di routine. Una volta terminato il filmato, lo schermo si oscurò nuovamente.
“No, mi correggo. Tutto questo ha due nomi: sequestro di persona e stalking.”
Una nuova risata gli procurò un brivido. “Dottore, le voci che girano sul suo conto non avevano mai accennato al suo spiccato senso dell’umorismo.”
“Le voci sul mio conto?”
“Non se l’aspettava, vero? Ma le sue gesta hanno fatto il giro di Londra, sia della Vecchia che della Nuova. E’ famoso per il suo grande cuore.” rispose la voce scandendo le ultime parole. “Un cuore che spero nel frattempo non si sia rimpicciolito.”
John aggrottò le sopracciglia. “Che cosa vuole da me?”
“Finalmente una domanda sensata! Diciamo solo che…potremmo aiutarci a vicenda.”
Il medico si lasciò sfuggire un sorriso. “Non vedo a che cosa possa servirmi qualcuno di cui non riesco neanche a vedere il volto.”
“Quanta impazienza! Molto bene: se parlare con il nulla la fa sentire a disagio, la accontento subito.”
Un’ultima luce, più potente, si accese improvvisamente. Davanti a John si ergeva la figura di un ometto vestito di tutto punto, con un sorriso ferino sul volto e due occhi che lo fissavano famelici. Tese una mano verso il dottore, ruminando placidamente una gomma da masticare. “Jim Moriarty.”
Watson fissò con indifferenza la mano allungata verso di lui, poi portò di nuovo il suo sguardo sull’uomo. “E questo dovrebbe dirmi qualcosa?”
“Oh, no! Non ancora! Era solamente una formula di cortesia.” L’uomo prese a camminare attorno a John, studiandolo attentamente, senza smettere di sorridere come una belva, tamburellando con le dita sul mento.
“Cristo santo, mi vuole spiegare perché sono qui!?”
Moriarty scoppiò a ridere e si sedette sulla poltrona che aveva preparato precedentemente per John. “Vogli farle una proposta.”
“Una proposta?”
“Una proposta, sì.”
Il medico arricciò le labbra dubbioso. “Che genere di proposta?”
Se possibile, il ghigno dell’altro si fece ancora più schernitore. “Una proposta che non potrà rifiutare.”
“Come il sequestro?”
“Più o meno. Ma prima, ho una domanda: è vero ciò che si dice? Che lei, oltre ad essere un grande medico, è anche un delle persone più buone in circolazione?”
“Ho ucciso molte persone in missione in Siberia e in Afghanistan, non ho mai mostrato pietà ad un uomo che mi supplicava di risparmiarlo. Quindi, no. Non sono affatto come la gente mi descrive.” replicò John serrando appena gli occhi per capire la reazione suscitata dalle sue parole nello sconosciuto.
Moriarty accavallò le gambe su un braccio della poltrona. “Ma io non sto parlando del capitano Watson, ma del dottor Watson. Lei sarebbe disposto a qualsiasi cosa per i suoi pazienti, non è così?”
“Dove vuole arrivare? Non capisco.”
“Diciamo solo che potrei aver detto ad una qualche casa farmaceutica di smettere di fornire all’ambulatorio del dottor Watson ogni genere di medicinali.” mormorò sfregando pollice e indice uno contro l’altro, come se vi fosse qualcosa.
John spalancò gli occhi. “Lei cosa!?”
“Ma stia tranquillo, una mia parola è ogni cosa riprenderà a muoversi. Dipende tutto da lei.”
Watson lasciò cadere il bastone e afferrò il bavero della giacca di Moriarty. “Ci sono in gioco delle vite! Vite umane! Che cosa le è saltato in mente?!”
“La prego, si rilassi. Non servirebbe a niente pestarmi a morte, dottore. Quindi, da bravo, mi metta giù.”
John ansimava di rabbia, le mani gli prudevano, i denti erano serrati come quelli di un leone. Più guardava quell’uomo e più avvertiva un odio profondo scavare a fondo, all’altezza del petto.
“Coraggio, dottore. Giù.”
Si concesse un’ultima indecisione, un ultimo dubbio. Infine, lentamente e senza abbandonare la sua espressione minacciosa, pose a terra l’uomo.
“Visto? E’ stato facile. Lei è un individuo perfetto su cui comandare, lei è…troppo ingenuo e troppo debole. Sarò lieto di addestrarla, dottore.” Moriarty gli diede qualche colpetto amichevole sulla testa, come se avesse davanti un cucciolo indifeso, ma John scacciò quella mano con ribrezzo. “Ora basta, veniamo al punto. Mi ha fatto sprecare il mio tempo a sufficienza.”
Ah, io?
“Io sono disposto a mettere una buona parola con la GaxoSmithKline a patto che lei diventi la mia talpa.”
“La sua che?”
“La mia talpa. Vede, dottore, a Nuova Londra si sta muovendo di soppiatto un’organizzazione segreta, formata da sciocchi rivoltosi che riescono però ad essere alquanto seccanti. Non siamo riusciti a raccogliere nessun genere di informazione su di loro. Sono anni che gli stiamo addosso, eppure – per quanto mi secchi ammetterlo – brancoliamo nel buio.”
John ricordò qualche stralcio di conversazione avuta con qualche suo amico di vecchia data. L’organizzazione del quale Moriarty stava parlando era tremendamente efficiente e letale. Colpiva i soldati, gli alti funzionari sovietici, sabotava vari tentativi di aggressione dell’esercito socialista…Per farla breve, era l’unica speranza di rovesciare il governo straniero, ora come ora.
“Che cosa le fa credere che io sia in grado di aiutarla?” domandò cercando di prendere tempo.
“L’organizzazione è Londra. Vecchia o nuova che sia. Tutti i londinesi hanno una fiducia cieca in tale organizzazione, ci sperano e se sanno qualcosa non rivelano nulla. Neanche sotto tortura, ho già provato.” John arricciò il naso, impressionato e disgustato allo stesso tempo. “Ma lei, lei, Watson, è in grado di carpire le informazioni necessarie su di essa e di entrare in essa.”
“Mi sta dicendo che devo intrufolarmi nell’organizzazione e fare il doppio gioco? Tradendo così la mia città? Se lo scordi.”
La risata di Moriarty gli ronzò nelle orecchie, irritante. “Non ha molta scelta, dottore. Ricorda? La mia è una proposta che non può rifiutare. E se lei si metterà contro di me… be’, non solo non ci saranno più medicinali, ma i miei uomini cominceranno a sparare a caso sulle persone. Una vittima per ogni ora in cui lei si rifiuta di collaborare.”
Il volto del medico si contrasse in un’espressione prima stupita, infine scandalizzata. “Non è possibile, non lo farebbe mai…”
“Sono un inglese che ha un posto nel Governo Sovietico. Ho voltato le spalle alla sua città – come la chiama lei – tempo fa. E non me ne pento.” Il silenzio dell’altro lo spinse a continuare. “Rifletta, dottore, non vorrà sentirsi responsabile di una strage di innocenti, non è così?”
John prese un respiro profondo, arricciando le labbra, sbattendo ripetutamente gli occhi, in un insieme di tic nervosi incontrollabili. “E’ una decisione importante.”
“Oh, me ne rendo perfettamente conto. E’ per questo che le darò un po’ di tempo per pensare.” lo sostenne Moriarty con falsa comprensione. “Ha…Un minuto a partire da ora.” Fece partire il timer sul cellulare, mentre il medico si tratteneva dallo sparargli un proiettile fra gli occhi.
Che cosa doveva fare? Insomma, non poteva certo essere la causa di omicidi di massa, ma rendersi complice di uno sterminio di eroi – perché erano effettivamente questo i membri dell’organizzazione – gli sembrava a sua volta fuori discussione. Era stremato, non riusciva a pensare lucidamente, quel tizio davanti a lui gli dava il volta stomaco e contemporaneamente suscitava in lui un istinto omicida. Pensava ai suoi pazienti, a Abbie, a Sarah che era disperata, alle ricerche per sviluppare un medicinale contro la peste londinese. Pensò a quella fottuta guerra e al desiderio che finisse, dopo trentadue anni di scontri a fuoco, bombardamenti e morti. Si chiese se mai sarebbe finita, se russi e americani si sarebbero mai stancati di farsi la guerra. Rifletté sulla possibilità di entrare in quell’organizzazione, di aiutarla segretamente nonostante gli accordi con Moriarty. E valutò anche l’idea di…
“Stop.”
John emise una serie di sospiri amareggiati.
“Ora vuole sedersi, dottore?”
Il medico rifilò a Moriarty uno sguardo traboccante d’ira. “D’accordo.”
L’altro sogghignò, capendo perfettamente a che cosa si riferisse il suo interlocutore. “Perfetto! E’ un piacere fare affari con lei, Watson.” Gli prese la mano a forza e gliela strinse con vigore. John contenette l’istinto di ritrarre la sua e di serrarla attorno alla gola di quella feccia umana. Moriarty gli portò infine le labbra all’orecchio. “Due mesi. Se entro due mesi non avrai scoperto nulla…” Le sue parole calarono in un silenzio denso. “…io ti ucciderò.”
Watson non si scompose e si limitò a scansarsi, fuggendo dalla presa dell’uomo. “Suppongo che si farà vivo lei quando arriverà il momento.”
“Supponi bene, John. Oh, spero che non ti dispiaccia se ci diamo del tu.”
John soffocò un ringhio e si limitò a voltarsi e a imboccare la porta.
“Mi raccomando, John caro, non deludermi!” gli urlò dietro Moriarty. E quella fu l’ultima cosa che sentì prima di capire in che cosa si era cacciato.
 

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Capitolo 5
*** CAPITOLO 4 Presente Nuova Londra 2049 ***


CAPITOLO 4
Presente
Nuova Londra 2049

 

Ho i tempi contati, si trovò a pensare John mentre camminava circondato dagli alberi. Era passato più di un mese dal suo incontro con Moriarty e da allora non aveva fatto altro che cercare informazioni sull’organizzazione. Perlomeno, quel tizio si era dimostrato di parola: la mattina dopo l’accordo, un responsabile della GaxoSmithKline aveva telefonato, scusandosi cordialmente e sostenendo che ci fossero solo stati dei problemi ai piani alti. Insomma, una serie di fandonie che se non altro si erano concluse con un bel carico di medicinali e una serie di sorrisi sollevati su volti sofferenti.
Durante le sue visite non era raro che Watson cercasse di ottenere qualche notizia celando le sue intenzioni facendo conversazione. Tutto ciò che aveva in mano si era rivelato deludente: nessuno sapeva dove potesse aver sede l’organizzazione e con chi bisognasse parlare per unirsi ad essa.
“John?”
Pensava a cosa sarebbe potuto succedere se non avesse rispettato i tempi stabiliti – oltre al fatto che lui sarebbe stato fatto fuori –. Si chiese se sarebbero andati di mezzo anche altri, innocenti, gente la cui unica colpa era quella di conoscerlo, o magari neanche quello.
“John Watson?”
Si voltò quasi sulla difensiva, pronto a trovarsi davanti uno degli sgherri di Moriarty che ogni tanto notava giragli attorno. Davanti a lui, però, c’era solo un uomo – abbastanza in carne ad essere sinceri – con una faccia incredibilmente solare e spensierata nonostante i tempi. Il dottore lo guardò per qualche istante, aggrottando le sopracciglia. Gli ricordava qualcuno.
“Stamford, Mike Stamford, eravamo insieme al Barts.”
Il viso di John si accese per un attimo di consapevolezza e gli rifilò un sorriso tirato.
“Sì, sì, sì, scusa, sì. Ciao Mike.”
“Sì, lo so sono ingrassato.”
Be’, diciamo che magro non era e per un attimo John si domandò come facesse ad essere così paffuto quando il cibo scarseggiava. Comunque, meglio negare sempre in tali situazioni ed è quello che fece lui.
“Ho saputo che ti sei fatto sparare. Che è successo?”
John abbassò lo sguardo sulla sua gamba inerme e quasi avrebbe voluto dire a Mike di farsi gli affari suoi ma si limitò a restare sul vago. “Mi hanno sparato.” Non aggiunse altro, né Stamford insistette.
Chiacchierarono del più e del meno, seduti in una panchina di legno scricchiolante, ricordando i vecchi tempi alla Barts, ai tempi passati, quasi con nostalgia. Per un attimo, John riuscì a dimenticare Moriarty e il loro patto. Di amici, lui, non ne aveva mai avuti chissà quanti, ma Mike era un tipo allegro e gioviale, di buona famiglia – aveva sposato una ricca a detta sua – ecco perché il cibo non gli mancava.
“E tu? Come passi il tempo mentre le granate ci piovono addosso?”
Un’idea gli balenò in mente. In fondo, tentar non nuoce, come si dice. “Ho un’idea ma è piuttosto difficile da realizzare.” Stamford lo esortò a spiegarsi meglio. “Vorrei unirmi all’organizzazione segreta che vuole ribaltare il Governo Socialista.” disse in un soffio, abbassando il tono di voce.
Mike lo guardò per qualche istante, come se non fosse affatto colpito dalle parole dell’amico. Rimase lì, in silenzio, un sorriso sciocco sulle labbra. “Mi permetti di fare una telefonata?”
Il medico non fece in tempo ad acconsentire che già Stamford era scattato un po’ più in là, brandendo il cellulare come se fosse un’arma. Si chiese che cosa avesse scatenato quell’insolita reazione nell’amico. Magari si era semplicemente ricordato che aveva una qualche questione in sospeso. Fatto sta che la questione in sospeso si protrasse per una decina di minuti durante i quali la panchina su cui John era seduto tremò un paio di volte a causa di una bomba dalle parti di Londra Vecchia.
“…garantisco io.” gli sentì dire alla fine prima che tornasse da lui con un sorriso vittorioso stampato sulla facciona. “Mio caro amico, è il tuo giorno fortunato.”
 

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Capitolo 6
*** CAPITOLO 5 Passato Londra 2017 ***


CAPITOLO 5
Passato
Londra 2017

 
 
Un urlo stremato squassò il silenzio del Chelsea Royal Hospital. Nella sala parto c’era trepidazione, le ostetriche si muovevano febbrilmente. Due erano impegnate a fermare l’emorragia della madre, l’altra sculacciava il più delicatamente possibile il nuovo bambino per strappargli il primo pianto. John Watson nacque taciturno, difficile da trattare. Si svegliò controvoglia dal dolce torpore che per nove mesi lo aveva avvolto. Sua madre, invece, non si svegliò più. Non voleva neanche svegliarsi. Dopo la morte del marito, più volte aveva provato il desiderio di farla finita, ma il pensiero del piccolo John nel suo ventre l’aveva sempre trattenuta e costretta ad andare avanti per altre quattro settimane. Si spense dopo un sospiro, la vedova Watson, e neanche la vide la ragione per cui aveva stretto i denti. Neanche poté accarezzarle quei piedini adorabili. Neanche poté sfregare il suo naso con quello minuscolo del bambino. Neanche poté stringere suo figlio a sé, per la prima e ultima volta.
Come un re, John Watson si conquistò le attenzioni di tutte le infermiere dell’ospedale. Veniva trattato come un pascià. La sua dimensione iniziava e finiva in quella nursery gremita di strilli e pianti. Non sapeva che cosa lo svegliasse la notte. Non sapeva perché un giorno arrivò l’infermiera Judith invece che Hanna. Non sapeva che il tremore che a volte animava la sua culla era causato da una granata.
I Servizi Sociali arrivarono al compimento del primo mese d’età e se lo portarono via senza troppe cerimonie scaricandolo in un orfanotrofio qualunque da cui – in seguito – sarebbe stato nuovamente preso senza troppe cerimonie e scaricato – nuovamente – nell’Accademia Militare.
John Watson aveva voglia di vivere. Lo si capiva dalla luce che scintillava nei suoi occhi. E no, non era come tutti i bambini che non facevano altro che strillare e dimenarsi come degli ossessi. John Watson era calmo, allegro certe volte, rideva per ogni faccia buffa che si trovava davanti anche se erano patetiche come quelle del dottor Green.
Non lo sapeva, allora John Watson, che cosa sarebbe accaduto trentadue anni in avanti. Che cosa lo aspettava.
 

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Capitolo 7
*** CAPITOLO 6 Presente Nuova Londra 2049 ***


CAPITOLO 6
Presente
Nuova Londra 2049

 
 
“Allora, John! A cosa devo il piacere di questa visita?”
John trattenne un moto di repulsione alla sola vista di quell’essere comunemente conosciuto come Moriarty.
“Non mi dirai che sei venuto qui per supplicarmi di non ucciderti quando mi confesserai che non hai scoperto nulla sull’organizzazione.”
Il medico si lasciò sfuggire un sorrisetto. “Sbagliato. Sono vicino, vicinissimo.”
L’espressione di Moriarty si fece visibilmente interessata. “Cosa intendi esattamente con vicino.”
“A mezzanotte ho una sorta di…colloquio con qualche membro dell’organizzazione che cercherà di capire se sono o non sono adatto.” rispose John il più conciso e lapidario possibile.
Moriarty salì con un balzo sulla poltrona e cominciò a saltellare allegramente. “Oh, Johnny, bravo! Bravo! Sapevo che mi avresti reso contento!”
“Sì, d’accordo, posso andare?”
L’altro lo guardò sorridendo. “Noto con piacere che non sei cambiato, soldatino.” La mano del medico ebbe un impercettibile tremore. Gli ci faceva spesso dal suo incontro con quell’essere. “Comunque, se non c’è altro, vai pure. Prima del tuo colloquio di lavoro di stasera, riceverai una sorpresa che potrà aiutarti ad entrare.”
Watson nemmeno lo stette a sentire più di tanto. Fece dietrofront e si diresse con passo zoppicante verso l’uscita. “Johnny, mi sono permesso di informarmi sulle tue ricerche a proposito della cura per la peste. C’eri quasi, bravo, ti mancano solo altri due ingredienti e il gioco è fatto.”
“Come…fai a saperlo?”
Moriarty si aprì in un ghigno di sfida. “Lo so.”
John avrebbe voluto insistere ma l’altro non sembrava così disposto a vuotare il sacco. Così si limitò ad uscire dalla stanza con un sospiro.
 
 
Stamford gli aveva dato appuntamento di fronte al vecchio ingresso di uno di quei condotti che un tempo erano le linee della metropolitana. A causa dei vari bombardamenti, l’underground di Londra era stata bloccata e da allora nessuno vi entrava più. Anche i vari accessi erano sprangati, come quello di fronte a cui John scorse la figura paffuta dell’amico. Si trovavano in una strada che non aveva mai percorso, distante dalla pensione nel quale alloggiava. Si trovavano a Baker Street.
Delle massicce inferriate sbarravano l’ingresso della metro e un imponente cartello di divieto campeggiava su di esse.
“Ah, John! Eccoti qui!” Stamford trotterellò verso di lui con un’espressione gongolante dipinta in volto. “Spacchi il minuto, amico mio!”
Watson si concesse un sorriso. Non accennò al fatto che era da praticamente due ore che aspettava, seduto in un vicolo, ripassando mentalmente ciò che avrebbe dovuto dire e fare, stringendo una borsa al petto. Gli era stata consegnata dagli sgherri di Moriarty prima che uscisse dalla pensione. Al suo interno era contenuta un’incredibile quantità di medicinali, fasciature, strumenti medici nuovi di zecca. E inoltre, c’era una boccetta diversa dalle altre, non confezionata, contenente un liquido ambrato. Un foglietto di carta diceva Cura Peste Londinese. Era rimasto praticamente tutto il tempo a rigirarsi in mano quell’ampolla e a chiedersi se fosse solo uno scherzo o se davvero quel liquido avesse potuto salvare le vite degli appestati.
“Sì, be’, è il minimo, Mike. E grazie ancora per quello che stai facendo.”
Mike gli diede una pacca amichevole sulla spalla. “Andiamo, John, siamo amici e mi fido ciecamente di te!”
Non dovresti.
“Allora, che si fa?” domandò il medico guardandosi intorno. Stamford si scostò e indicò con il mento l’entrata alla metro.
“Si scende.”
John aggrottò le sopracciglia e sgranò gli occhi. “Là sotto?”
Stamford si lasciò scappare una risata. “Non penserai che un’organizzazione come quella lavori a cielo aperto?”
Ma Mike non si diresse verso le scalette che conducevano nell’underground, bensì in un vicoletto laterale che emanava un odore nauseabondo. Watson si portò una mano al naso, disgustato, mentre Stamford sembrava averci ormai fatto l’abitudine. Mike si chinò di fronte ad un tombino e bussò su di esso seguendo una determinata ritmologia. Non dovettero attendere molto prima che il coperchio venisse rimosso da dentro rivelando un cunicolo stretto e una serie di scalette ripide non troppo confortanti. La testa di un ragazzo fece capolino dal pertugio e li squadrò per qualche istante, soffermandosi su John.
“Sta’ tranquillo, Will, lui è con me.”
Will annuì poco convinto prima di sparire nuovamente nell’anfratto.
Mike studiò l’espressione sconcertata del medico e trattenne una risatina. “Dopo di te.”
John lanciò un’occhiata insicura prima al bastone e poi alla sua gamba, infine si calò nel cunicolo, seguito da Stamford che richiuse su di sé il tombino.
Dopo un paio di minuti di discesa, finalmente i loro piedi incontrarono il suolo. Si trovavano in una galleria buia e abbastanza spaziosa. Anche quel posto non aveva il migliore odore del mondo. A pochi passi da loro, scorreva un fiumiciattolo scuro e gorgogliante. “Le fogne?” si lamentò Watson contraendo la faccia in un’espressione stomacata.
“Pensa a quei poveretti che passano qui dodici ore. Ma non temere, il tuo posto è altrove.”
Will scortò lui e Mike attraverso una fitta trama di corridoi e cunicoli, finché non arrivarono di fronte ad una porta blindata. Il ragazzo bussò con la stessa sequenza adottata da Stamford e la porta si aprì con un cigolio di cardini stridente.
“Prego.” li esortò Will voltandosi, poi, per tornare alla sua postazione. La porta alle loro spalle si richiuse e l’odore di chiuso che prendeva alla gola si assottigliò. Si trovavano in un tunnel scuro e dalle pareti annerite. Sotto i loro piedi si srotolavano dei binari. Un secondo agente di pattuglia li guidò per quel corridoio anche se a quel punto era abbastanza facile dato che era praticamente rettileo. Finalmente, le pareti si allargarono a formare un’ampia stanza. Una fermata.
Una giovane donna dalla pelle scura e dai ricci vaporosi camminò verso di loro, imbracciando un fucile. “Alt.”
“Sergente Donovan.” la salutò Stamford con un sorriso. “Questo qui è un mio vecchio amico. Un medico e anche un soldato straordinario.”
La donna esigette che John le fornisse i documenti e così il dottore le porse la sua carta d’identità lacera e spiegazzata. “John Watson, trentadue anni, altezza 169 centimetri, mestiere…qui dice che lei è un medico militare.”
“Ex.” la corresse Watson. “Adesso lavoro in un piccolo ambulatorio dove faccio quel che posso per aiutare la gente.”
L’espressione sul viso di Sally si illuminò. “Ora ricordo dove ho sentito quel nome! John Watson! Uno dei pochi medici che opera senza richiedere necessariamente un pagamento. Il dottore più competente di Londra – vecchia e nuova –.”
“Non sono così bravo.” si schernì lui grattandosi imbarazzato la nuca.
“Suppongo che tu abbia già parlato con lui.” disse la donna rivolgendosi però a Stamford. Il modo in cui aveva pronunciato quel lui suonava strano al medico che guardava l’amico con aria interrogativa.
“Come se sia possibile mettersi in contatto con lui.” sospirò esasperato Mike. “Lo sai com’è fatto. Comunque, no, ho parlato Lestrade che ha fatto a sua volta un giro di telefonate e mi ha concesso di portare John qua sotto per un incontro.”
Il volto di Sally si adombrò. “Non hai saputo?”
Mike la guardò confuso. “Saputo cosa?”
Il sergente sospirò amaramente. “Una granata. Questo pomeriggio. Durante un’operazione condotta da Greg. Sono morti in molti e quelli che sono ancora vivi…be’ non lo saranno ancora per molto.” Le sue parole si chiusero in un sussurro affaticato.
“Gregory è…”
“No. Non ancora. E’ uno dei pochi superstiti che è ancora tutto intero, se capisci quello che dico.”
Stamford serrò gli occhi per reprimere le immagini che gli si stavano proiettando in testa. “Non c’è niente da fare?”
Sally scosse tristemente il capo. “Philip e Hooper sono bravi, ma hanno più esperienza a vivisezionare cadaveri più che a curare.”
“Scusate se mi permetto ma vi dispiace se do un’occhiata?” s’intromise John.
Stamford gli passò un bracciò attorno alle spalle e lo stritolò a sé. “Sì! John può farcela! Ha lavorato sui campi di battaglia! Se qualcuno può riuscirci quello è lui!”
La donna si mostrò titubante. “Io…Non saprei. Non mi sembra saggio condurlo dentro.”
“Al diavolo, Donovan! Non possiamo lasciare che uomini come Lestrade muoiano per una stupida granata.” insorse Mike paonazzo di rabbia.
Sally alzò gli occhi al cielo, infine prese il walkie talkie che teneva appeso alla cintura. “Philip, mi ricevi? Passo.”
“Forte e chiaro, Sally.”
“Com’è la situazione in infermeria?”
“Ne abbiamo persi altri due.”
“Lestrade?”
“Vivo. Per ora.”
“Ho qui un medico. Uno bravo. John Watson. Puoi contattare la centrale e chiedere se devo farlo passare o meno?”
“Sì, d’accordo. Ci metto un attimo.”
“Aspetto istruzioni. Passo e chiudo.”
Sally rimise a posto il walkie talkie e lanciò uno sguardo complice a Stamford. “Non ci rimane che aspettare.” I suoi occhi caddero sulla borsa a tracolla di John. “Che cosa c’è lì dentro?” chiese sospettosa. Watson aprì la cerniera lampo e mostrò il contenuto sotto gli occhi sbigottiti di Donovan. “Incredibile. Dove li prendi tutti questi farmaci?”
“Ecco io…ho degli agganci al Mercato Nero.” mentì il medico mentre la sua mano veniva scossa da un fremito.
Il walkie talkie del sergente prese a gracchiare.
“Philip?”
“Può passare.”
 
 
 
 

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Capitolo 8
*** CAPITOLO 7 Presente Nuova Londra 2049 ***


CAPITOLO 7
Presente
Nuova Londra 2049

 
 
Era uno dei vecchi uffici del personale. Avevano sgomberato tutto – scrivanie, scartoffie, intralci di ogni genere – e avevano posizionato brandine e lettini su cui giacevano i corpi sofferenti di una decina di persone.
Mike aveva optato per il restare fuori dato che era un soggetto facilmente impressionabile come si era definito, mentre Sally aveva accompagnato Watson in quella piccola infermeria. Il medico guardò con non poca difficoltà alcuni corpi mutilati a cui mancava una gamba o un braccio o un piede…Lamenti agonizzanti straziavano il silenzio e certe volte qualcuno veniva scosso da profondi singulti.
“Dottor Watson.” lo salutò una ragazza graziosa e dalla voce acuta porgendogli la mano. “Sono Molly Hooper, la responsabile dell’infermeria.”
Watson le prese la mano e gliela strinse calorosamente. “Piacere. Allora, com’è la situazione?”
Le labbra della ragazza ebbero un fremito. “Non buona. Sono arrivati in quattordici e siamo già arrivati a nove. Di questo passo temo che non ce la faranno. A meno che lei non riservi qualche sorpresa.”
“Sono ore che siamo qui, Molly, e abbiamo fatto tutto il possibile.” s’intromise un uomo dai capelli scuri e laccati. “Credo che ormai neanche un medico brillante come il dottor Watson possa fare molto.”
“Philip!” lo riprese il sergente Donovan.
“Questo lo lasci decidere a me.” replicò John facendo un giro di ricognizione per studiare la situazione. Avrebbe operato a fasce di gravità: dai casi più seri fino a quelli più lievi – anche se ad una prima occhiata dubitava ci fossero –.
“Watson.” lo chiamò Donovan. “Questa è la tua prova: salvali. Tutti. Se ci riuscirai allora sei dentro.”
Il medico nascose l’incertezza e annuì ostentando convinzione. Non sarebbe stato facile, questo era certo. Anzi, era molto improbabile che sarebbe riuscito a curare tutti quanti. E se non ce l’avesse fatta e avesse perso l’opportunità di entrare nell’organizzazione? Non doveva pensarci, non in quel momento. Doveva solo concentrarsi su quei corpi sofferenti.
Operò con cura e perizia. Nella borsa che Moriarty gli aveva consegnato c’era tutto il necessario. Non si limitava a pulire le ferite, ricucirle, fasciarle, somministrare antidolorifici, ma anche a sussurrare parole di conforto ai suoi pazienti. Molly e Anderson lo aiutavano come potevano.
Riuscì a stabilizzare le situazioni più importanti e così si mosse velocemente verso un uomo dai capelli brizzolati e il volto gentile. Si chinò accanto a lui, ma quello lo scacciò con la mano. “Prima…gli altri.” mormorò con la voce incrinata dal dolore. John guardò con ammirazione quell’uomo e notò con un sorriso che – effettivamente – il suo caso non era così grave. Passò allora da altri bisognosi di cure. Lavorò fino a quando, fuori da quei tunnel, il sole colorò di chiaro il cielo. Con sua stessa sorpresa John constatò che la situazione era stata finalmente stabilizzata.
Un urlo di dolore percorse la stanza e tutti gli occhi vennero puntati sull’uomo di prima, quello che aveva rifiutato le cure del medico. Watson corse verso di lui e lo fissò allarmato: il volto era cinereo, le labbra violacee, la camicia bianca imbrattata di sangue. John sollevò l’indumento e si accorse che sul ventre dell’uomo era aperto un profondo squarcio. Dentro la ferita, poteva intravedere il pezzo di granata che gli aveva perforato la carne.
“D’accordo, allora, mantenga la calma. Va tutto bene, ci sono io qui con lei, ma ora devo estrarle dal corpo il frammento di granata che l’ha colpita.”
L’uomo non rispose e si limitò a gemere nuovamente di dolore.
John frugò freneticamente nella sua borsa e con un sospiro di sollievo ne estrasse un paio di pinze mediche. Afferrò il volto dell’uomo e lo costrinse a guardarlo. “Mi ascolti, lei mi deve guardare, va bene? Si concentri solo su di me.” L’altro si sforzò ad annuire. “Farà male, ma alla fine starà meglio. Lei deve cercare di stare il più fermo possibile. Ecco,” continuò sistemando le mani dell’uomo sulle sue spalle. “Si aggrappi a me. Qualunque cosa succeda, si aggrappi a me. Va bene?” Altro cenno sofferente con la testa. “Bene.”
John impugnò le pinze e con due dita della mano libera scostò appena i lembi della ferita. Fortunatamente, il frammento si era fermato in superficie e difficilmente avrebbe provocato una compromissione degli organi vitali. Con mano salda avvicinò lo strumento al taglio e dopo un paio di sussulti di agonia dell’uomo, riuscì ad arrivare al pezzo di granata. “Okay, ci siamo. Mi raccomando, si aggrappi a me.”
Tirò piano, cercando di non allargare la lacerazione, ma non era facile con il corpo dell’uomo che continuava a dimenarsi per il dolore. “Si aggrappi a me.”
Mancava poco, il frammento era quasi uscito, la ferita non si era dilatata, ma comunque spillava sangue troppo velocemente. Quando il pezzo fu finalmente fuori dal corpo dell’uomo, John si concesse un sospiro di sollievo che si impegnò a ricacciare subito indietro. Cercò di pulire la ferita il più rapidamente possibile mentre il pallore sul viso del paziente diventava sempre più evidente. Afferrò un panno sterile e premette sulla ferita. Doveva bloccare l’emorragia o l’uomo sarebbe morto dissanguato. Mantenne una presa salda sulla ferita e non gli restò che pregare che il sangue smettesse di fuoriuscire.
Proprio mentre cominciava a perdere la speranza, il panno smise di tingersi di rosso a poco a poco, fino a quando John non ebbe il coraggio di rimuoverlo e di osservare la ferita. Con un sospiro di sollievo, notò che il sangue si era fermato e che la lacerazione non si era infettata. Con ago e filo procedette nel ricucire il taglio. Una volta terminato si lasciò cadere a terra, seduto. Un sorriso rincuorato sulle labbra.
“Sta bene. E’ stabile.”
Donovan che non si era mai mossa dalla stanza sorrise a sua volta. “Grazie dottore, grazie. Riferirò al più presto il suo successo.”
“Non per chiamare la sfortuna, ma prima di essere certi che vada tutto bene dovremo aspettare qualche giorno.” replicò John scoccando un’occhiata all’uomo che finalmente poteva riposare.
Sally gli poggiò una mano sulla spalla comprensiva. “Gli occhi miei, di Philip e di Molly sono testimoni della sua efficienza, dottore. Capiamo che ormai non dipende più da lei. Può stare tranquillo. Mi scusi un momento.”
Uscì dalla stanza parlando con qualcuno di cui il medico non comprese il nome. Dopo una manciata di minuti, il sergente ritornò con un sorriso furbo sulle labbra. “E’ un uomo fortunato, dottore. Il geniaccio vuole conoscerla di persona.”
 

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Capitolo 9
*** CAPITOLO 8 Presente Nuova Londra 2049 ***


CAPITOLO 8
Presente
Nuova Londra 2049

 
 
Non si può certo dire che Donovan fosse stata rassicurante. Non aveva fatto altro che: metterlo in guardia sulle stranezze della persona che di lì a poco avrebbe incontrato, sottolineare il fatto che secondo lei fosse soltanto uno psicopatico – per quanto geniale – e raccomandargli di stare alla larga da lui se aveva un minimo di amor proprio. Tutto questo era stato proferito in una raffica di parole taglienti nel giro di una manciata di secondi. Il medico si chiese principalmente due cose: se quell’uomo fosse davvero uno squilibrato come Sally lo descriveva o se invece ci fosse una conflittualità fra i due che aveva portato la donna a parlare in quel modo di lui.
Nella mente di John Watson era delineato un personaggio strampalato, per non dire bizzarro, geniale ma freddo, e il bello è che era riuscito a rappresentare perfettamente l’individuo che stava per incontrare. Anche se questo – ovviamente – ancora non lo sapeva.
Tutto si sarebbe aspettato meno che trovarsi in una stanza buia, silenziosa, e con la percezione di essere osservato. Aveva come un déjà vu…
“Presumo che lei sia l’illustre dottor Watson.” esordì una voce profonda e cupa. John si trovò a guardarsi intorno per cercare chi aveva parlato.
“Sì, be’, sono io.”
Una luce si accese improvvisamente mostrando una sedia scheggiata. Quella cosa gli ricordò incredibilmente l’incontro con Moriarty…Ah, ecco perché gli sembrava di aver già vissuto quella scena.
“Ma è una nuova moda parlare con persone mentre si è nascosti dal buio?”
“Interessante.”
John inarcò un sopracciglio. “Interessante?”
“Sì, interessante. Oh, non parlavo di lei. Scusi, ha per caso un cellulare dietro?”
Il medico esitò un istante, spiazzato da quello strano atteggiamento. Okay, era effettivamente una persona bizzarra, chiunque quel tizio fosse. “Sì, certo. Ecco.”
Una mano comparve nel rettangolo di luce che illuminava la sedia. Una mano affusolata, curata, dita lunghe, scheletriche. Una bella mano. John si avvicinò, entrando anche lui nella parte della stanza illuminata, tendendo il suo cellulare allo sconosciuto.
“Grazie.”
Dopo qualche istante in cui Watson udì distintamente il suono della tastiera, la mano ricomparve nella luce, restituendo il telefonino.
“E ora Mycroft non potrà insinuare che non lo aggiorno regolarmente.” disse più tra sé e sé che rivolto al medico – anche perché quello non aveva la minima idea di chi fosse Mycroft –. “Veniamo a noi, dottore.” La voce tacque qualche istante e John ebbe la sensazione di essere osservato, anzi no, studiato. “Afghanistan o Iraq?”
Il medico non riuscì a dissimulare il proprio stupore. “Scusi?”
“Dov’è successo: in Afghanistan o in Iraq?” ripeté la voce cercando di essere più esplicativo.
Watson abbassò lo sguardo sulla sua gamba. “Afghanistan. Ma come fa a saperlo?”
“Ho saputo dei suoi successi, dottore.” continuò l’altro ignorando la domanda. “Sa, mi sarebbe dispiaciuto perdere un uomo come Geoffrey Lestrade.”
John aggrottò le sopracciglia. Geoffrey? Mike non l’aveva chiamato così. “Gregory. Gregory Lestrade, da come mi ricordo.”
“Oh, sì. Non sono molto bravo a ricordare i nomi, Josh.”
“John.” lo corresse il medico. “John Watson.”
“Quello che è. Il suo nome non ha più così tanta importanza dato che le do ufficialmente il benvenuto nell’organizzazione. Bene, ora che i convenevoli sono stati fatti, quella è la porta, Lestrade le spiegherà tutto…Ah, no, Lestrade è malato.”
“Ferito.”
“Non può spiegarle un bel niente.” concluse lo sconosciuto battendo le mani. “Ci penserà Mike.”
“Le ha parlato di me?”
“Oh no, affatto, ma avverto distintamente l’orribile odore della sua colonia intorno a lei.”
DECISAMENTE bizzarro.
“Comunque, prego, può andare.”
Ma John non si mosse e rimase a fissare il buio di fronte a lui. “Tutto qui?”
“Tutto qui cosa?” gli fece eco la voce.
“Insomma, la vostra organizzazione è indispensabile per ribaltare le sorti dell’assedio a Londra, è top secret al massimo, ha i migliori agenti del Paese, e semplicemente io entro…così?” spiegò Watson.
“Qualche problema?”
John si concesse un sorriso ironico. “Lei non mi conosce affatto.”
La voce si prese qualche istante. “Io so che lei è un vecchio medico militare che è stato ferito in Afghanistan – la sua postura rigida e il taglio di capelli indicano che lei era un soldato ma non uno normale date le sue conoscenze mediche; lei è abbronzato, dubito che sia stato in vacanza con i tempi che corrono e con un cellulare economico come questo, e vista la mia precedente deduzione deve per forza aver fatto parte di un contingente in Afghanistan o in Iraq, gli unici luoghi dove c’è un briciolo di sole –, so che è un medico premuroso – questo lo deduco dalla cartina di caramelle in tasca, probabilmente si è dimenticato di buttarla via dopo la sua ultima visita e lei non mi sembra il tipo da dolci zuccherosi – e infine so che il suo disturbo alla gamba è psicosomatico – visto che ha a disposizione una sedia eppure sembra non curarsene e che non si appoggia eccessivamente sulla gamba malata –.” John sgranò gli occhi. “Ho a disposizione sufficienti informazioni per volerla nell’organizzazione, non crede?”
“Straordinario.” disse in un soffio il medico con sguardo ammirato.
“Davvero?”
“Oh, sì, incredibile.”
“Non me lo dice mai nessuno.”
“E che cosa le dice normalmente la gente?”
“Sparisci.”
Un sorrisetto divertito comparve sulle labbra del medico. “Be’, allora io…”
Un tremore interruppe la frase a metà. Il suono acuto di un allarme cominciò a strepitare. Le porte alle spalle di John si spalancarono di colpo, rivelando una ragazza vestita con un’attillata tuta nera e in braccio un kalashnikov. “Signore, emergenza: una bomba è appena caduta a pochi isolati da qui, ci potrebbe essere il rischio di crollo.”
“Fai evacuare, Susan.” ordinò la voce.
“Io sono Sharon, signore.”
“Vai!”
John avvertì i passi dello sconosciuto e – non sapendo cosa fare – decise di seguirlo.
“Perché mi sta seguendo, Jerry?”
John! Per l’amor del cielo! E comunque non so dove andare.” lo rimbeccò il medico.
“Lestrade non le ha assegnato un’uscita di emergenza?”
“Lestrade è in infermeria!”
“In questo caso, credo debba venire con me.”
Watson zoppicava il più velocemente possibile, trascinandosi dietro la gamba inerte. Lento. Troppo lento.
“Coraggio, dottore, mi stia dietro.” lo incoraggiò lo sconosciuto.
John imprecò silenziosamente. “Vorrei ricordarle che ho un problema alla gamba…”
“E io vorrei ricordarle che è psicosomatico.” Nel buio una mano si serrò attorno alla sua munita del bastone. “Questo non le serve più, caro Watson.” Con uno strattone, John sentì che il suo bastone gli sfuggiva dalle dita e per un istante si sentì perduto, in balia del buio e del timore di cadere. Fece per bloccarsi, ma di nuovo qualcosa lo afferrò, stavolta per il braccio e lo trascinò attraverso il buio. “Così, dottore, bravo.”
Sebbene inizialmente i suoi passi fossero incerti e tentennanti, a mano a mano che procedeva avvertiva distintamente una sensazione di libertà. Quello stupido bastone era sempre stato lì per ricordargli la sconfitta subita, la guerra, il campo di battaglia. Improvvisamente, gli sembrò come se tutto quello fosse lontano e lui fosse leggero.
Allentò la presa su quel braccio sconosciuto a cui si aggrappava, sempre più, fino a quando non lo lasciò completamente e si abbandonò alla sensazione di adrenalina che aveva in corpo in quel momento. Correva affiancato da un tizio che nemmeno aveva visto in volto. Un tizio che lo aveva guardato in faccia una sola volta e aveva capito di lui un’incredibile quantità di cose. Un tizio che era stato capace di farlo tornare quello di una volta. Un sorriso gli increspò le labbra mentre le sue falcate macinavano il suolo con sicurezza.
“Occhio alle scale, dottore!”
Peccato che quella frase arrivò relativamente in ritardo e John rischiò quasi di cadere a bocca avanti. “La prossima volta mi avvisi direttamente quando sarò crollato a terra!”
Si ritrovarono nel condotto delle fogne e una nuova scossa fece tremare ogni cosa. Lo sconosciuto si issò in un cunicolo verticale sormontato da una scaletta come quella che il medico aveva usato per scendere, e nel buio a John sembrò di distinguere un pesante cappotto. Seguì l’uomo e un improvviso raggio di luce lo accecò: il tizio aveva appena aperto tombino.
Quando fu fuori, John si lasciò cadere sulle ginocchia, stremato e con il fiato corto. La tenue luce del sole illuminava la strada che aveva percorso sette ore prima per arrivare al luogo dell’appuntamento con Mike.
“Abbiamo percorso una strada diversa da quella che ho fatto io all’andata.” osservò sospirando per la fatica.
“Conosco a memoria tutti gli incroci fra le linee della metropolitana e le fognature. Abbiamo preso una scorciatoia.”
Finalmente, John poté spostare lo sguardo sul suo interlocutore e vederlo: spumosi ricci corvini coronavano un volto pallido e affilato su cui spiccavano come pezzi di ghiaccio due occhi dalle iridi azzurre.
“Finalmente posso vederla in faccia.” mormorò Watson con un sorriso ironico.
“Ah, be’, mi piace particolarmente restare avvolto dal mistero. E’ una cosa che quando sei ai vertici di un’organizzazione segreta devi imparare a fare. Lei è uno dei pochi ad aver avuto l’occasione di vedermi e di essere ancora in vita.”
John inarcò le sopracciglia. “Vuole uccidermi?”
“Non ancora, no. Mi serve un coinquilino.”
Watson ridacchiò. “Non vedo cosa tutto questo abbia a che fare con me.”
Improvvisamente, un colpo di sole attirò l’attenzione di John e, su di un tetto, scorse la figura di un individuo armato che stava prendendo la mira contro l’uomo dai capelli neri. Senza quasi pensare a quello che stava facendo, abbassò la testa di quest’ultimo con la mano sinistra, mentre la destra correva alla pistola. Uno sparo. Il tonfo di un corpo che cade.
John abbassò la pistola lentamente, quasi con solennità. L’uomo riccioluto si voltò appena in tempo per vedere la figura del cecchino crollare all’indietro. Fischiò ammirato. “Bel colpo.”
“Nah, ho visto di meglio.”
“Lo trova un bel colpo anche lei.”
“Oh, sì, uno dei migliori della mia carriera.”
I loro sguardi si incrociarono e, senza alcun motivo apparente, scoppiarono a ridere.
“Sherlock.” si presentò l’uomo riccioluto. “Sherlock Holmes.” Indicò col mento una casa graziosa. Sulla porta campeggiava un numero: 221B. “Questa è la mia umile dimora.”

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