Slice of Life

di Signorina Granger
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Daddy is always Daddy ***
Capitolo 2: *** Some things never change ***
Capitolo 3: *** Pre-defined wedding? No, thanks ***
Capitolo 4: *** Brothership ***
Capitolo 5: *** Don’t open that closet ***
Capitolo 6: *** Family ***
Capitolo 7: *** Perfect together ***
Capitolo 8: *** Welcome home ***
Capitolo 9: *** Cough Syrup ***
Capitolo 10: *** Artist Gang ***
Capitolo 11: *** How I met your Granny ***
Capitolo 12: *** Let’s kidnap Santa! ***
Capitolo 13: *** Do you need help? ***
Capitolo 14: *** The Fox and the Sparrow ***
Capitolo 15: *** A peacock that makes the wheel ***
Capitolo 16: *** My little Tornados ***
Capitolo 17: *** Choice ***
Capitolo 18: *** You won’t never change ***
Capitolo 19: *** The giant and the wren ***
Capitolo 20: *** Happiness ***
Capitolo 21: *** Shut up! ***
Capitolo 22: *** Together ***
Capitolo 23: *** Protect you ***
Capitolo 24: *** Two violinists ***
Capitolo 25: *** The day when Sean Selwyn died ***
Capitolo 26: *** Keep me, mummy ***
Capitolo 27: *** To take care ***
Capitolo 28: *** A half-dozen unleashed ***
Capitolo 29: *** Accept yourself ***
Capitolo 30: *** What you don’t expect ***
Capitolo 31: *** A perfect combination ***
Capitolo 32: *** An Auror and a Doctor ***
Capitolo 33: *** For all the multicolored Merlin's thongs! ***
Capitolo 34: *** A birthday picnic ***
Capitolo 35: *** May the 4th be with you ***



Capitolo 1
*** Daddy is always Daddy ***


Daddy is always Daddy


 
Joseph Richardson Image and video hosting by TinyPic Diana Melanie Richardson Image and video hosting by TinyPic



Sei sicura che sia una buona idea?”
Tobias sollevò leggermente le sopracciglia, parlando con un tono a metà tra il dubbioso e il preoccupato mentre, tenendolo per mano, Diana continuava a camminare davanti a lui, i lunghi capelli biondi sciolti sulle spalle:

“Assolutamente sì, è ora che vi conosciate! Gli ho parlato così tanto di te!”
“Io preferirei aspettare un po’, se devo essere onesto…”

Il Grifondoro si pentì di aver parlato non appena la Tassorosso si fermò, voltandosi verso di lui e lanciandogli un’occhiata truce:
“Toby, stai dicendo che non vuoi conoscere mio padre?”

“Diciamo di sì… ma solo perché sono appena sopravvissuto ai M.A.G.O., non voglio finire carbonizzato nel mio primo giorno di libertà!”
“Il solito melodrammatico… che fine ha fatto il tuo coraggio da Grifondoro? Anzi… ora che ci penso, mio padre é Serpeverde, ma spero che tu possa piacergli comunque. Vedrai, è fantastico!”

Diana sorrise, parlando quasi con gli occhi cerulei luccicanti mentre il fidanzato sfoggiava una piccola smorfia di rimando, ripensando a tutte le volte in cui la Tassorosso aveva descritto il padre come se si trattasse di una specie di Superman. 
E il fatto che fosse un Auror di sicuro non aiutava a tranquillizzarlo: chissà quanti brutali incantesimi di tortura conosceva. 


“Lo immagino… va bene, andiamo a conoscere il signor Richardson… devo chiamarlo Signore?”
“Assolutamente sì, è un Auror, ci tiene molto a queste cose… Papà!”



“È quello chi è?”
Alla domanda di Richard, che puntò gli occhi scuri sul ragazzo che stava seguendo Diana verso di loro con aria torva, Joseph sfoggiò una piccola smorfia, combattuto tra la gioia di rivedere la figlia e il disappunto di trovarla insieme ad un ragazzo: 

“Il suo fidanzato…”
“Didi ha un fidanzato? Joe, perché non me l’hai detto!”
“Pensavo fossimo Auror, non vecchie comari…”
“Ma Didi è come una figlia per me, l’ho vista crescere… Hai controllato che sia a posto, vero?”
“Naturale, ho già controllato gli schedari ma pare che non abbia mai fatto niente di male… ciao, principessa!”


Joseph sorrise alla figlia, facendo un passo avanti e abbracciandola di slancio quando la ragazza l’ebbe raggiunto, sollevandola da terra di qualche centimetro mentre Diana ridacchiava, ricambiando la stretta:

“Ciao… ti sono mancata?”
“Naturalmente.” 

L’Auror sorrise alla ragazza, prendendole il viso tra le mani dopo averla rimessa a terra per darle un bacio sulla fronte, mentre Tobias restava in silenzio e in disparte e Diana spostava lo sguardo su Richard, sorridendo allo storico amico e collega del padre:

“Zio, sei venuto a prendermi anche tu? Beh, tanto meglio allora, così ve lo presento in una volta sola… papà, zio Rick, lui è Toby.”

Diana sfoggiò un sorriso a trentadue denti prima di prendere sottobraccio il fidanzato e trascinarlo verso di sè, piazzandolo così nella traiettoria dei due uomini.
E il Grifondoro si ritrovò a deglutire, fulminato dallo sguardo a dir poco glaciale di Joseph Richardson. Ora gli era chiaro perché fosse un Auror: probabilmente quello sguardo, sommato all’espressione accigliata che sfoggiava in quel momento, bastava a far confessare i criminali seduta stante. 

“Molto piacere, signore.”

Il ragazzo si sforzò di sorridere, allungando una mano mentre Joseph, continuando ad osservarlo dall’alto dei dieci centimetri che li separavano, parlava a sua volta: 

“Ciao Tobias… Diana mi ha parlato molto di te.”

L’Auror allungò una mano e, dopo aver stritolato quella del ragazzo mentre la figlia lo guardava quasi con aria di rimprovero, continuò ad osservare il Grifondoro con un’espressione pressoché  impassibile dipinta sul volto, studiandolo attentamente:

“A dire il vero non fa altro che parlare di lei, l’adora.”

Gli occhi color ghiaccio dell’uomo saettarono sulla figlia e il suo sguardo si addolcì all’istante, rivolgendole un’occhiata quasi adorante prima che Richard si presentasse a sua volta con un brontolio, come se non fosse affatto felice di conoscere il ragazzo. 

“Direi che lo avete torturato abbastanza… Puoi tornare tutto intero dalla tua famiglia, Toby.”

La bionda sorrise al fidanzato quasi con compassione, rivolgendosi nuovamente al padre solo quando il Grifondoro si fu allontanano, continuando a massaggiarsi la mano dolorante:

“Allora… sono stato bravo?”
“Diciamo che almeno ti sei contenuto, anche se da come lo hai guardato mi ha stupito che non sia scappato di corsa!”
“Era un test, volevo vedere se reggeva… e l’ha fatto, direi che si é guadagnato qualche punto.”

Diana roteò gli occhi prima di prendere il padre sottobraccio, appoggiando il capo sulla sua spalla prima di parlare nuovamente:

“Per favore, tu e lo zio cercate di non tormentarlo, in futuro. Sono sicura che ti piacerà, quando lo conoscerai.”
“Tranquilla tesoro, tuo padre non lo tormenterà più del necessario… sa che in quel caso il fantasma di Clare tornerebbe per perseguitarlo e prenderlo a bastonate.”


Diana sorrise, sollevando lo sguardo per poter posare gli occhi cerulei sul volto del padre prima di dire qualcosa a bassa voce, stringendo l’abbraccio che li legava:

“Non fare l’orso… ricordati che sarai sempre il mio super-papà.”








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Angolo Autrice:

Poiché mi capita spesso di avere qualche lampo di ispirazione per piccoli scorci su vari OC, ho deciso finalmente di pubblicarne qualcuno… e ho preferito fare un’unica, grande Raccolta invece di pubblicare un’infinità di OS. 
Ovviamente non ce ne sarà una per ogni singolo personaggio/coppia di cui ho scritto, ma se avete una richiesta particolare per una specifica coppia o un OC potete benissimo dirmelo via MP, provvederò a buttare giù qualcosa. 

Buona serata,
Signorina Granger 

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Capitolo 2
*** Some things never change ***


Some things never change 
 

Charlotte Selwyn in Cavendish Image and video hosting by TinyPic Camille Cavendish Image and video hosting by TinyPic

 
Charlotte sorrideva mentre guardava i suoi due figli salutarsi, stretti in un abbraccio. Ricordava vagamente quando anche lei, come Camille, aveva dovuto salutare suo fratello prima che partisse per Hogwarts per la prima volta, mentre lei era dovuta restare a casa per mesi sola con i suoi genitori… di rado lo aveva invidiato come in quel momento, probabilmente. 

Ma mentre Sean salutava la sorella minore, assicurandole che le avrebbe scritto spesso per raccontarle ogni singolo particolare di Hogwarts, Charlotte sperò ardentemente che per la figlia stare con lei non fosse lo stesso supplizio che le era sembrato di sopportare da bambina. 


Il ragazzino probabilmente sarebbe salito sul vagone se la madre non l’avesse chiamato un’ultima volta, facendogli cenno di avvicinarsi. 
“Mamma, te l’ho già detto, farò il bravo, lo giuro.”
“Non volevo dirti questo Seannie… anzi, se ti comporterai troppo bene sarò molto delusa da te. In realtà c’è una cosa che vorrei darti.”

Charlotte sorrise al figlio maggiore, che invece la guardò con curiosità tirare fuori qualcosa di luccicante dalla tasca del mantello, tenendolo per la sottile catenella affinché Sean potesse vederlo completamente.
  
Un orologio?”
“Un orologio da taschino. Ti prego, non indossarlo, alla tua età sarebbe oltremodo pacchiano, ma credo sia giusto che ora l’abbia tu…”

Sean lo prese per poi rigirarselo tra le dita, sfiorando la sottile S incisa sul retro prima di sollevare nuovamente lo sguardo sulla madre, osservandola con gli occhi verdi che condividevano:
    
“Era di tuo fratello?”
“Sì, e visto che avete lo stesso nome lo do a te… io lo tengo in tasca da 14 anni, è arrivato il momento di separarmene.”

“Grazie. Ne avrò cura, te lo prometto.”

Sean sorrise alla madre, che ricambiò prima di allungare una mano e sfiorargli i capelli castani, suggerendogli di salire sul treno se non voleva che partisse senza di lui. 

E mentre lo stavano salutando un’ultima volta l’Auror sentì la figlia tirare su col naso, osservando il fratello maggiore con gli occhi pieni di malinconia mentre teneva la donna per mano.

“Mi mancherà.”
“Anche a me… ma lo vedrai presto Camille, non preoccuparti, tre mesi passano in fretta. Seannie non va proprio da nessuna parte.”

“Lo andresti a prendere per i capelli per riportarlo a casa, altrimenti.” Camille sorrise, sollevando lo sguardo sulla madre che annuì, ricambiando il sorriso: 

“Naturalmente. E prenderei per i capelli anche chi potrebbe azzardarsi a portarcelo via. Mi daresti una mano?”
“Certo mamma!”
Brava la mia ragazza.

    
Camille sorrise prima di girare sui tacchi e allontanarsi dai binari insieme alla madre, iniziando ancora una volta a bombardarla di domande su Hogwarts, sulle Case, sulle materie e su dove potesse essere Smistata lei.

“Ci metto la mano sul fuoco che Sean finirà a Serpeverde come suo padre e suo zio Cami, ma per quanto riguarda te, proprio non ne ho idea. Ma sarebbe molto divertente se tu finissi a Tassorosso, ai nonni verrebbe un infarto!”
“Mamma, non si dicono queste cose!”
  
Di fronte all’occhiata di rimprovero della bambina l’Auror sbuffò, borbottando che nessuno capiva mai quando stesse scherzando.
    
“Non farmi la predica piccoletta, se diventi come tua nonna ti mando a vivere da lei!”
“Stai scherzando?”
Non lo saprai mai.”


In realtà, visto che la figlia stava crescendo come la sua perfetta fotocopia – con gran soddisfazione della madre e profondo disappunto della nonna – Charlotte aveva la netta sensazione che sarebbe stata Smistata nella sua stessa Casa, due anni dopo, così come era sicura che Sean stava per finire tra i Serpeverde. 

Certe cose sembravano proprio destinate a non cambiare mai…

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Capitolo 3
*** Pre-defined wedding? No, thanks ***


Pre-defined wedding? No, thanks 


Ivan Petrov Image and video hosting by TinyPic  Irina Kathrina VolkovaImage and video hosting by TinyPic 



Le sue dita si muovevano sui tasti d’ebano, candidi e lucidi, così rapidamente da sfidare le ottave imposte dal compositore del brano, gli occhi grigio-azzurri fissi sulla tastiera.
La mascella del pianista era serrata, il capo leggermente reclinato in avanti mentre si sforzava di restare concentrato, i muscoli della schiena rigidi, ma forse un po’ meno rispetto a quanto aveva fatto per anni… la sua postura era cambiata quando qualcuno aveva avuto l’idea di costringerlo a suonare con una trave infilata tra gli incavi dei gomiti, costringendolo a tenere la schiena dritta. 

Dopo qualche nota il ragazzo smise bruscamente di suonare, sbuffando con irritazione mentre alzava di scatto lo sguardo dalla tastiera prima di parlare ad alta voce:

“Irina!”

Un paio di istanti dopo anche la musica prodotta da un clarinetto cessò, al suo posto il ragazzo sentì una voce fin troppo familiare giungere dalla stanza di fronte:

“Che c’è?!”
“Non riesco a provare e a concentrarmi se sento la tua musica in sottofondo… non puoi provare più tardi?”
“Potrei dire lo stesso.”

“Ma io stasera mi devo esibire, DEVO provare Rachmaninov!”

Ivan sbuffò leggermente mentre la figura sottile e agile del suo gatto del Bengala balzava sopra al pianoforte, rivolgendogli un’occhiata torva prima di acciambellarsi, al sicuro da quella che era diventata la sua più acerrima nemica: Lena si era accucciata in un angolo della stanza, gli occhi fissi sul gatto e scodinzolando, probabilmente volendo giocare con il felino, che invece cercava di starle il più lontano possibile.. 

“Sono due settimane che suoni tutto il giorno, non hai bisogno di provare ancora!”
“Non ci si esercita mai troppo… e poi hai detto tu che i giorni in cui avrei dovuto esibirmi avrei avuto la precedenza.”

Il russo sentì un borbottio non meglio definito provenire da un’altra stanza mentre si rivolgeva a Sergej, lanciandogli un’occhiata grave che il gatto ricambiò, continuando a tenersi a debita distanza dal cane fin troppo incline a rincorrerlo:

“Sì, lo so. Si stava così bene quando eravamo solo noi due, vero?”

Il borbottio di Ivan precedette di appena pochi istanti l’ingresso di una ragazza dai capelli rossi nella stanza, che gli rivolse un’occhiata torva:

“Io non ho mai detto niente del genere.”
“Davvero?”
“Certo.”

Ivan si voltò verso l’uscio della stanza per guardarla, restando impassibile di fronte alle parole e al tono seccato della ragazza. Si limitò ad annuire con un cenno appena percettibile del capo per poi tirare fuori la bacchetta… e a quel punto Irina sospirò, sapendo che cosa stava per sentirsi dire:

“Ivan, non azzardarti, non lo sopporto…”

Ma un piccolo quaderno rilegato in pelle era già planato oltre la sua spalla per finire nelle mani del pianista, che senza dire nulla lo aprì, sfogliandolo prima di trovare l’oggetto del suo interesse e leggere qualcosa ad alta voce, senza battere ciglio. 

24 Gennaio…”
“Odio quando fai così.”

“… non preoccuparti Ivan, non ci disturberemo a vicenda, quando avrai un concerto in cui esibirti ovviamente avrai la precedenza e non ti disturberò suonando.
Sei sicura di non aver mai detto nulla del genere?”

Il ragazzo abbozzò un piccolo sorriso, a metà tra il divertito e il soddisfatto, mentre invece la ragazza sbuffò prima di girare sui tacchi e uscire dalla stanza con una Lena scodinzolante al seguito, assicurandogli che prima o poi quel quaderno sarebbe diventato cenere in uno dei camini che popullavano la casa. 


*


Irina Volkova era seduta su una delle due sedie sistemate di fronte alla scrivania, le gambe accavallate mentre teneva gli occhi fissi davanti a sè, osservando suo padre. 

In realtà moriva dalla voglia di aprire bocca e dire la sua, o magari di alzarsi, lasciare una volta per tutte quella firma e poi andarsene sbattendo la porta… ma l’ultima cosa che voleva era sollevare inutili discussioni, così restava seduta a sopportare quel triste spettacolo: forse era l’unico modo per far sì che finisse in fretta. 

La rossa, ignorando ciò che il padre stava dicendo, abbassò lo sguardo per concentrarsi sulle dita di Ivan che le stavano accarezzando distrattamente il braccio, come a volerle suggerire di stare tranquilla. 
E lui effettivamente sembrava calmissimo, perfettamente a suo agio mentre parlava, seduto accanto a lei senza mai staccare gli occhi chiari dal suo futuro suocero… anche se visti i tempi biblici, Irina aveva la sensazione che sarebbe andato tutto molto per le lunghe. Di quel passo si sarebbero sposati non prima dei suoi trent’anni...

Quasi lo invidiava per quella sua aria rilassata, parlava senza nemmeno scomporsi, come se stesse chiacchierando del più o del meno con un amico. 

“Se devo essere onesto, non capisco il perché di tutte queste remore… se non vi vado a genio, bastava palesarlo fin da subito. Pensate che non sia adatto per vostra figlia?”

Irina si trattenne dal sbuffare a quelle parole, dicendosi che in quel caso avrebbe mandato i genitori definitivamente a quel paese e lo avrebbe sposato lo stesso. Ma le cose non stavano così, e sia lei che il fidanzato lo sapevano: vide chiaramente suo padre accigliarsi leggermente alle parole del ragazzo, parlando con un tono piatto e sbrigativo:

“Non ho mai detto questo. Vogliamo solo che le cose vadano fatte come si deve.”
“Comprensibile, dopotutto Irina è la sua unica figlia… ma ormai mi conoscete, no? E credo che le questioni su cui discutere si siano esaurite, a questo punto. Abbiamo concordato la somma della dote, anche se io mi ero proposto di non accettarla, ma ho fatto come volevate… Che cosa c’è, ancora? Vuole chiedermi se sarò in grado di mantenere sua figlia? O ci ha ripensato e crede che avermi come genero metterebbe la famiglia in imbarazzo?”

Ivan sollevò un sopracciglio ad arte, sfoggiando un lieve sorriso e parlando con un tono con una sfumatura ironica che probabilmente colse soltanto Irina: la ragazza, per la prima volta da quando aveva messo piede nella stanza, si ritrovò a sorridere, consapevole che suo padre si sarebbe mangiato le mani piuttosto che ammettere una cosa simile… non era stato felice di sciogliere il contratto con i Filimon, certo, ma quando aveva saputo di quale famiglia facesse parte Ivan il suo umore era nettamente migliorato. 
E ovviamente il ragazzo ne era perfettamente consapevole.

“Ovviamente sappiamo entrambi che non succederà. E spero vivamente che riuscirà a mantenere mia figlia nonostante non abbia rapporti con suo nonno.”
“Non vedo dove sia il problema, economicamente parlando… non ho rapporti con la mia famiglia, certo, ma come sicuramente saprà essendosi informato sul mio conto i miei genitori sono entrambi deceduti… e mia madre, l’unica figlia del mago più ricco della Russia Nordoccidentale, mi ha lasciato una quantità considerevole di denaro. Senza contare quello che già avevo ereditato da mio padre. Sono abbastanza sicuro di poter provvedere a sua figlia, anche se mi chiedesse di comprarle San Pietroburgo.”

Irina sorrise, cogliendo perfettamente il travaglio interiore che suo padre stava vivendo da qualche settimana a quella parte: in un primo momento era stato quasi felice di sciogliere il contratto pre-matrimoniale con cui l’aveva incastrata con Eleazar Filimon, ma la gioia era leggermente scemata quando aveva saputo che il ragazzo di cui si era innamorata era sì l’erede più diretto di Nikolaj Hendrik… ma era anche vero che avevano smesso di parlarsi. 
E forse la paura di suo padre era che la situazione degenerasse e Hendrik decidesse di diseredare suo nipote… così tutto il prestigio che la figlia stava per sposare sarebbe andato in fumo. 


“Non si preoccupi. Mio nonno non mi diserederà… non ha avuto figli maschi, in effetti ha avuto solo una figlia viste le complicazioni a cui mia nonna andò incontro partorendo… e ora che mia madre è morta, gli restiamo io e mio fratello. E mio nonno non affiderebbe mai tutta la sua fortuna a Dimitri, è molto accorto sul denaro e sul nome della famiglia. Ora, il suo avvocato è presente, quindi possiamo firmare?”


*


“Ivan? Perché c’è una montagna di Galeoni abbandonata in mezzo al tavolo?”
“Non sono abbandonati, sono soldi tuoi.”

“Soldi miei?”
“È la tua dote.”

Di fronte allo smarrimento della fidanzata Ivan rise, alzando gli occhi da, giornale per guardarla:

“Davvero pensavi che avrei tenuto quei soldi? Sono soldi tuoi, fanne ciò che vuoi. Non sei un animale da comprare al mercato, io non li voglio, ho accettato solo per non tirarla troppo per le lunghe.”

Per un attimo Irina non si mosse, metabolizzando quello che aveva appena sentito mentre il fidanzato trinava a concentrarsi sul giornale. O almeno finché la ragazza non si alzò, fece il giro del tavolo e poi lo abbracciò di slancio, facendolo quasi cadere dalla sedia.


*


Stava leggendo l’ennesimo spartito per imparare la sequenza di note a memoria quando Irina gli aveva messo un lungo elenco di nomi davanti, destando la sua curiosità:

“Che cos’è?”
“La lista degli invitati… vuoi darci un’occhiata?”

“No, non serve, ho già segnato chi vorrei fosse presente.”

Il pianista scosse il capo prima di distogliere lo sguardo dalla lista e tornare a concentrarsi sullo spartito, mentre la fidanzata, in piedi accanto a lui, roteava gli occhi: aveva letto tutti I nomi segnati dal ragazzo e non aveva potuto fare a meno di notare che non erano stati segnati né suo fratello né suo nonno. 

“Ivan, sei sicuro di non voler invitare Dimitri? O tuo nonno?”
“Io e Dimitri ci siamo parlati per quattro anni solo a proposito di mia madre, perché avevamo entrambi la sua procura durevole… ora che è morta non c’è niente che ci leghi.”

“Tecnicamente il DNA. So che non andate molto d’accordo, ma è il tuo matrimonio, forse te ne pentirai, un giorno.”
“Quel giorno non è oggi.”

“E tuo nonno? Io non l’ho neanche conosciuto, l’ho solo visto di sfuggita al funerale di tua madre!”
“Se vuoi segnalo, così conoscerà te e la tua famiglia e magari tuo padre ne sarà felice… non mi fa molta differenza.”

Ivan si strinse nelle spalle con noncuranza e la rossa sbuffò, parlando con una punta di esasperazione:

“Sei veramente difficile a volte, lo sai?”
“Sì, me l’hanno detto. Ma nessuno ti obbliga a sposarmi, ti ricordo.”

“Ci mancherebbe altro, ci hanno provato una volta, ad obbligarmici… se penso che ora potrei essere sposata con Filimon.”

Irina piegò le labbra in una smorfia mentre sedeva sulle ginocchia del fidanzato, che invece sorrise:

“Chissà, forse se tu non fossi venuta a Vienna e non mi avessi conosciuto ti saresti sposata sul serio.”
“Sì, forse. In effetti è stata mia madre a farmi iniziare a suonare… quindi in realtà dovrei ringraziare mia madre, è quasi paradossale!”

Ivan si limitò ad annuire, rabbuiandosi leggermente mentre invece la fidanzata gli sorrise, prendendogli il viso tra le mani per costringerlo a guardarla:

“Lo so che ti manca… mi dispiace. Avrei voluto che ci fosse.”
“Non credo sarebbe potuta venire comunque… e poi non fa niente, te l’ho detto anche al funerale, se n’era andata già da molto tempo.”


*


“Possiamo entrare? Qualcuno vuole vederti.”

Le labbra di Irina si distesero in un largo sorriso nel vedere il marito entrare nella stanza con un bambino biondo in braccio, che vedendola allungò subito le braccia verso di lei:

Mamma!”
“Ciao piccolo… Vieni qui.”

Ivan si avvicinò alla ragazza, sedendo sul bordo del materasso per mettere il figlio più vicino alla madre, che abbassò lo sguardo sul fagottino che Irina teneva tra le braccia, indicandolo mentre una piccola ruga si formava in mezzo alla fronte del bambino di diciotto mesi:

Chi è?!”
“Ma come chi è, è tata, la tua sorellina!”

Ivan ridacchiò di fronte all’espressione accigliata del figlio, che stava osservando la nuova arrivata – che nella sua testa venne immediatamente etichettata come “intrusa – ladra di coccole” – con aria critica. 

“Credo di aver finalmente deciso come la voglio chiamare.”
“Ah sì?”

Ivan inarcò un sopracciglio, osservando la moglie come in attesa mentre la rossa annuì, senza smettere di sorridere:

“Ti piace Elena?”

Per un attimo il pianista non disse niente, ma poi piegò le labbra in un sorriso, sporgendosi verso di lei per baciarla:

Grazie.” 
“So che ci avevi pensato anche tu, solo che come sempre ti tieni tutto dentro, sei il solito orso. Il mio solito orso.”


Ivan sorrise, gli occhi grigio-azzurri carichi di gioia mentre Adrian continuava a sbirciare il visino rilassato della sorellina, cosa che anche il padre fece dopo un istante:

“Posso tenerla? Vedo che abbiamo un’altra rossa in famiglia, fantastico.”
“Hai qualcosa contro le persone con i capelli rossi, Petrov?”
“No, assolutamente… ma sai che cosa si dice dei rossi, no? Sì, insomma, che sono delle teste calde.”

Ivan sorrise con aria divertita mentre si scambiavano i bambini e Adrian si accoccolò contro la madre con aria soddisfatta, ben lieto di ricevere le attenzioni che gli erano state negate nelle ultime ore. 
Per un attimo nessuno disse niente, mentre Ivan sorrideva alla neonata e Irina osservava la scena, rimuginando su qualcosa a cui pensava ormai da parecchio. 

“Mi prometti una cosa?”
“Cosa?”
“Nessun matrimonio combinato, per nessuno di loro… specialmente lei. I miei genitori faranno di tutto per cercare di venderla al miglior offerente tra soli pochi anni…”

“Non succederà, te lo prometto.”


*

Elena, Marija, Image and video hosting by TinyPicAdrian Image and video hosting by TinyPice Aleksej Petrov Image and video hosting by TinyPic


Irina era seduta su uno dei due divani nel salotto, tenendo il piccolo Aleksej in braccio, che per una volta stava sonnecchiando placidamente. Davanti a lei, sul tappeto, Elena stava spazzolando il pelo di Lena, che dopo anni aveva imparato a lasciar fare i bambini, ignorando gli abbracci soffocanti che aveva più volte ricevuto o tutte le volte in cui qualcuno le aveva pestato la coda.

Adrian invece era seduto accanto al padre davanti al pianoforte a coda, strimpellando insieme a lui. 

L’unica a mancare all’appello era Marija, che però poco dopo trotterellò nella stanza per poi fermarsi davanti alla madre, sorridendo allegramente:

“Mamma, hai visto Sergej?”
“Tesoro, ma lascia stare quel povero gatto…”

“Ma devo fargli il bagno! Sergej!”

La bambina parve illuminarsi quando scorse il gatto muoversi furtivamente verso la porta, forse pianificando di darsi alla fuga. Ma la padroncina sorrise, correndo verso di lui per poi sollevarlo malamente, ignorando i suoi miagolii di protesta… e Irina quasi rise, non sapendo se il gatto fosse più terrorizzato dall’idea del bagno o delle effusioni della bambina. 


“Mamma, compriamo un altro cane?”
Elena sorrise, voltandosi verso la madre con aria speranzosa mentre Marjia annuì energicamente, sorridendo a sua volta:

“Sì! Prendiamo un maschio uguale a Lena, così poi abbiamo anche i cuccioli!”
“In questa casa ci mancano solo i cuccioli… non pensate che tra quattro bambini, un cane e un gatto sia già molto affollato!? E poi Mary, a te non piacevano i gatti?”

“A me piacciono tutti! Vorrei anche un coniglietto.”
“Neanche per idea, niente roditori qui dentro! Ivan, dammi una mano, non posso essere sempre io quella cattiva.”

“Che c’è?”
“Le bambine vogliono un cane.”
“Grande idea! Così poi abbiamo i cuccioli!”

“Ma quanti anni hai, sei come Elena!?”



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Capitolo 4
*** Brothership ***


Brothership 
 
 
Constance Prewett in Burke Image and video hosting by TinyPicSebastian Burke Image and video hosting by TinyPic Samuel Burke Image and video hosting by TinyPic  Sophie BurkeImage and video hosting by TinyPic


Constance era seduta su una delle sedie bianche che gli elfi avevano sistemato nel giardino quella mattina, godendosi il bel tempo mentre guardava figli e nipoti giocare sul prato. 

Quando sentì dei passi avvicinarsi la strega non si voltò per accertarsi di chi si trattasse, riuscendo perfettamente a riconoscere la cadenza del passo. Rex prese posto accanto a lei, gli occhi fissi sui bambini a sua volta mentre accavallava distrattamente le gambe, esitando per un istante prima di parlare:

“Allora, Constance… Notizie dalla nostra dolce cugina?”
“Sì Reginald, lei e Dante non sono venuti perché metà della combriccola è bloccata a letto con la febbre… e chiamami ancora così e verrai spedito fuori da casa mia a calci.”

“Non ho mai capito perché te la prendi tanto… È il tuo nome, dopotutto.”
“Perché, vuoi forse dirmi che a te Reginald piace? Nostra madre aveva la mania per i nomi altisonanti, a quanto sembra.”

L’ex Grifondoro sbuffò leggermente mentre il fratello maggiore invece sorrise, osservandola con aria divertita:

“Forse, ma resta il fatto che hai dato il mio nome ad uno dei tuoi figli.”
“Solo perché ti voglio bene, non perché il nome mi piaccia… povero Bas, un giorno mi odierà per averlo chiamato Sebastian Reginald Burke.”

Connie piegò le labbra in una smorfia mentre posava lo sguardo sul ragazzino di ormai undici anni, chiedendosi come fosse possibile che di lì ad un mese sarebbe andato ad Hogwarts per la prima volta. 

Quando aveva smesso di essere il suo bambino, esattamente?


Stava giusto pensando se sarebbe finito a Grifondoro come lei o tra i Serpeverde come padre e zio quando due bambine si avvicinarono a lei e a Rex, tenendosi per mano e con due espressioni cupe stampate sui piccoli visi.

“Mamma?”

Sentendosi chiamare Connie distolse immediatamente lo sguardo dal primogenito per concentrarsi sulla figlia più piccola, Sophie, sorridendo amorevolmente a lei e alla nipotina mentre i capelli rossi delle due bambine scintillavano sotto il sole. 

“Che cosa c’è ragazze?”
“Non ci lasciano giocare con loro.”

Molly sbuffò, accennando al cugino e ai due fratelli maggiori, Gideon e Fabian, mentre Rex soffocava una risata, trovando quella scena vagamente familiare, e la zia roteava gli occhi, chiedendole il motivo:

“Perché siamo femmine.”

Sophie si strinse nelle spalle, parlando con aria malinconica mentre invece la madre le sorrise, allungando una mano per accarezzarle i capelli rossi:
“I fratelli maggiori sono un po’ tonti, sapete? Anche il tuo papà a volte mi diceva una cosa simile, Molly… ma poi ha capito che era meglio smettere, per la sua incolumità. VOI TRE! Lasciatele giocare con voi!”

Nipoti e figli si voltarono simultaneamente verso di lei al sentire quelle parole, sbuffando debolmente e borbottando qualcosa di poco comprensibile mentre Connie, sorridendo, suggeriva alle due bambine di raggiungerli.

“A volte voi fratelli maggiori siete così irritanti… Per fortuna Sammy è ancora il mio dolce angioletto. Resterai sempre il dolce angioletto della mamma e non prenderai in giro tua sorella, vero?”

Connie si rivolse al figlio di mezzo, di solo un anno più grande di Sophie, quando il bambino le passò accanto per raggiungere il fratello maggiore, rivolgendole un sorriso allegro prima di annuire vivacemente:

“Certo mamma.”

“Bravo. Visto? Lo sto crescendo bene.”
“Oh, non avevo dubbi… scommetto che Sophie a scuola prenderà a sberle chiunque dovesse deriderla, grazie a te.”
“Certo che no Rex, nostra madre non ti ha insegnato nulla? Le signorine non danno sberle, lasciano che siano gli altri a farlo per loro… in altre parole, sto insegnando a loro due a farlo al posto suo.”

“Anche io prendevo le tue difese, ti ricordo.”

Rex inarcò un sopracciglio e la sorella sorrise, annuendo prima di parlare con velata ironia, distogliendo lo sguardo dai bambini per rivolgersi al fratello maggiore, guardandolo con affetto:

“Oh sì, solo tu potevi prendermi amorevolmente in giro e farmi scherzi pessimi… un fratello modello. Ma anche se siete molto irritanti vi si vuole bene comunque, alla fine. Non si sa bene il perché, ma è così.”

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Capitolo 5
*** Don’t open that closet ***


Don’t open that closet


Markus Fawley Image and video hosting by TinyPic Berenike Black Image and video hosting by TinyPic


“Markus, domani mattina potresti portare Castor da tua madre? Mia zia tiene già i gemelli e non voglio disturbarla.” 

“Mh-mh.” 

Berenike staccò gli occhi dal bambino che, seduto sul seggiolone, si stava rifiutando categoricamente di mangiare la sua cena per posarlo sul marito, guardandolo leggere il giornale con aria assorta. 
E sicuramente non aveva sentito nemmeno una parola di ciò che aveva appena detto.

La Corvonero roteò gli occhi, scambiandosi un’occhiata esasperata con la sorella minore Hydra, seduta accanto a lei, prima di parlare nuovamente a voce alta:

“Già che ci sei passi anche da Libra? Mi deve restituire una quantità indefinita di libri da tempi immemori.” 
“Certo.” 
“Come sei gentile… volevo anche dirti che il prossimo articolo che leggerai è il mio, mi diresti che ne pensi quando l’avrai letto?” 
“Mh-mh.” 

“Ti ringrazio. Credo che porterò Castor di sopra, ma prima… so che molto probabilmente non ti interessa, ma volevo dirti che ho l’amante.

Nonostante avesse sottolineato con considerevole enfasi l’ultima parola Markus non accennò a staccare gli occhi dal giornale che teneva in mano, completamente assorto nella lettura e ignorandola completamente:

“Va bene.” 

Hydra inarcò un sopracciglio, rivolgendo un’occhiata perplessa alla sorella maggiore che invece roteò gli occhi mentre toglieva a Castor il bavaglino:

“MARKUS!” 
“Eh? Ti sto ascoltando, giuro!” 

L’Auror staccò gli occhi dalla Gazzetta del Profeta per puntarli sulla moglie, che gli rivolse un’occhiata scettica prima di parlare a sua volta, inarcando un sopracciglio con studiata perplessità:

“Ah, davvero? Allora dimmi… di che colore è il vestito che, ti stavo dicendo, mi voglio comprare?” 

Hydra scoppiò a ridere alla domanda della sorella maggiore, affrettandosi a bere un sorso d’acqua subito dopo mentre invece Berenike rimase impassibile, continuando a studiare il volto del marito che invece di accigliò leggermente, vagamente in difficoltà:

Ehm… nero?” 
“Ne sei sicuro?” 
“Credo di sì…” 
“E per cosa mi serve?” 


“Per… una festa?’ 

“Certo Markus, devo prendere un vestito per una festa.” 

Berenike annuì, stendendo le labbra in un sorriso fin troppo calmo mentre accanto a lei Hydra continuava a fissare un punto indefinito della parete, cercando di non ridere e aspettando la sfuriata che sarebbe arrivata di lì a poco. Markus invece sorrise con sollievo per averla scampata, o almeno così credette finché la moglie non parlò di nuovo. 
E un attimo dopo si ritrovò a dover ringraziare che Berenike avesse il figlio in braccio e non potesse quindi lanciargli contro un piatto o una maledizione che lo avrebbe trasformato in cibo per gatti:

“EMERITO IDIOTA, non ti ho parlato di nessun vestito! Lo vedi? NON MI ASCOLTI MAI!” 
“Come sarebbe a dire nessun vestito? Così non vale! Hydra, smettila di ridere! Ok, sentiamo, che cosa volevi dirmi? Adesso ti ascolto!” 

“Che me la faccio con un tuo collega, ecco cosa!” 

Berenike sbuffò prima di alzarsi, allontanandosi a passo di marcia con Castor in braccio, che aveva seguito la scena con interesse, mentre Hydra continuava a ridere e Markus, gli occhi praticamente fuori dalle orbite, spostava lo sguardo dalla moglie alle cognata:

“COME? Berenike, aspetta, non stai dicendo sul serio, vero? Ora ti ascolto, lo giuro! HYDRA, smettila di ridere e dimmi che succede!” 


*


“Avanti, puoi farcela: Zia Beeereeeniiike.”
“Ia Nike!”

“Berenike!”
“Ia Nike!” 

Berenike sospirò, scuotendo debolmente il capo mentre era seduta di fronte ad Alexander, che invece sorrise allegramente e battè le piccole mani mentre la zia lo imboccava, cercando di insegnare al bambino a chiamarla correttamente.

“A volte mi domando perché i miei genitori mi abbiamo dato un nome così lungo e strano…”
“Abbi pazienza rossa, prima o poi i gemelli impareranno a chiamarti… se ti può consolare, ricordati che Castor chiama El “Ia Enin”.”

Markus sorrise alla moglie mentre si avvicinava a tavolo, accarezzando i capelli lisci e color castano chiari del bambino mentre Alexander faceva vagare lo sguardo da uno zio all’altra, sorridendo con aria allegra: il Grifondoro sorrise al bimbo con affetto, chinandosi leggermente per poterlo guardare meglio in faccia:

“E Zio Mark lo sai dire?”
“Io Mak!”

“Beh, già meglio. Ora vai a giocare con Castor, sì?”

“Nella speranza che non sveglino Elaine, sta dormendo… Ci pensi tu?”

Markus annuì mentre prendeva il nipotino in braccio con delicatezza, ignorando i mugugni sommessi del bambino e suggerendo alla moglie di andare a riposarsi un po’:

“Dovresti approfittare del tempo che ci rimane con un solo bambino a cui pensare, tra poco arriverà il secondo pel di carota e saremo negli stessi panni di El e Aiden.”
“Chi ti dice che sarà un pel di carota? Non è detto.”

“Beh, sappi che se non dovesse esserlo avrò seriamente qualcosa da ridire!”


*


Era tornato a casa verso le due e si era lasciato cadere sul letto completamente vestito, addormentandosi seduta stante. 
In effetti gli sembrava di aver appena chiuso gli occhi quando sentì una vocina chiamarlo e una piccola mano colpirlo sulla spalla:

“Papà!”
“Ahia, smettila…”


Markus sbuffò, affondando il viso nel cuscino e chiedendosi come fosse possibile che fosse già mattino. Sentendosi chiamare di nuovo, e il suo interlocutore parve persino scocciato per la scarsa considerazione, l’Auror si vide costretto a rigirarsi su un fianco, cercando di mettere a fuoco la figura di suo figlio Pollux, che era in piedi accanto al letto dei genitori, in pigiama e i riccioli rossi spettinati. 

“Che cosa c’è?”
“Ho fame… facciamo merenda?”
“Merenda?! Ma… È presto, adesso si dorme!”

Markus sospirò dopo aver lanciato un’occhiata alla sveglia, rendendosi conto che erano solo le cinque. Ma perché i bambini non approfittavano mai delle loro infinite ore di sonno a disposizione e si svegliavano sempre agli orari più disparati?

“Ma io sono sveio!”
“E cosa vuoi?”
“Latte e bicotti.”

Pollux sorrise, scrollando nuovamente il braccio del padre che invece sospirò, chiedendosi PERCHÉ.

“Latte e biscotti adesso? Merlino… Aspetta, chiamo un elfo…”
“No, con te!”
“Fantastico…
su, andiamo campione.”

Markus sospirò mentre si alzava per prendere il bambino in braccio, che sorrise con aria soddisfatta mentre Berenike continuava a dormire placidamente, ignara di quello che stava succedendo.


*


“Allora, Castor e Pollux sono dai tuoi genitori… io ora vado, sei sicuro di cavartela?”
“Berenike, penso di riuscire a gestire Miranda per qualche ora… tu vai pure, e divertiti.”

“Finalmente potrò conversare con qualcuno che abbia più di 6 anni… Ci vediamo dopo, ma se hai bisogno chiamami.”

Markus annuì con fare sbrigativo alle parole della moglie, che si stava infilando il cappotto per uscire mentre lui era seduto davanti al tavolo in sala da pranzo, impegnato a lavorare. 

“Rilassati, me la caverò. Tu non divertirti troppo con El e Vee, però.”
“Figuriamoci, passeremo la serata a prendere in giro i nostri amati mariti… ciao piccola, fai la brava con papà.”

Berenike sorrise prima di chinarsi per salutare la figlia minore, che l’aveva raggiunta trotterellando per salutarla. Miranda sorrise e annuì mentre la madre l’abbracciava, dandole un bacio su una guancia prima di avvicinarsi al padre:

“Papà?”
“Che c’è piccola?”

Markus si voltò verso la figlia, sorridendole dolcemente mentre la bambina di poco più di due anni sorrideva di rimando:

Voio le egie!”

Le che?

“Che cos’è che vuoi?”  L’Auror inarcò un sopracciglio, inclinando leggermente il busto in avanti per avvicinarsi alla bambina, che lo guardò con i grandi occhi chiari prima di parlare di nuovo:

Le egie!”

“Le egie?!”
“Sì!”

Miranda sorrise, guardando il padre come se fosse in attesa mentre l’Auror era sempre più confuso, chiedendosi che cosa gli stesse chiedendo la bambina. 

“Ehm… Berenike, che cosa sono le egie?”
“Oh, non ne ho idea, ma sono sicura che ti divertirai tantissimo a scoprirlo… A dopo!”

La ragazza sorrise prima di rivolgere ai due un cenno con la mano e sparire dalla loro visuale, raggiungendo l’ingresso per uscire ridacchiando.

“D’accordo Mira… Di che colore sono queste egie?”
Miranda si accigliò leggermente per un attimo prima di parlare, come se stesse riflettendo sulla domanda del padre, prima di sorridere di nuovo, come se fosse orgogliosa di esserselo ricordato e di saperlo dire correttamente:

“Sono rosse!”
“Rosse… aspetta, stai dicendo che vuoi le ciliegie?”
“Sì, le egie!”

“Ma tesoro, ora non ci sono le ciliegie, dovrai aspettare!”

La bambina smise immediatamente di sorridere, rivolgendo al padre un’occhiata quasi malinconica: 

Pecchè non ci sono?”
“Beh… sono andate via e torneranno tra un po’ di tempo. Vuoi qualcos’altro?”

Markus sfoggiò un sorriso tirato, pregando affinché la bambina non iniziasse a fare i capricci. Ma fortunatamente Miranda si illuminò nuovamente e sorrise, annuendo:

“Gelato!”
“Ma è inverno!”
Cocciolata. Co’ la panna!”

“Va bene… vada per la cioccolata calda. Vieni, andiamo dagli elfi.”

L’Auror sospirò mentre si alzava, prendendo la mano che la bambina gli porgeva per poi farsi trascinare dalla figlia in cucina.


*

Markus Fawley era seduto su una sedia, il capo appoggiato contro il muro della sua camera da letto mentre si chiedeva se sarebbero riusciti ad uscire prima del Diploma di Castor. 

Stava per chiedere per l’ennesima volta alla moglie, che si era rintanata nella cabina-armadio, quanto ci avrebbe messo ancora quando Miranda fece il suo ingresso con una piccola spazzola in mano, un sorriso sulle labbra e il suo vestitino nuovo addosso:

“Papà, dov’è la mamma? Mi deve pettinare.”
“È nel suo armadio… vieni qui.”

“Non posso andare da lei?”

Miranda si avvicinò al padre, sgranando gli occhi mentre lui la sollevava per sistemarsela sulle ginocchia, scuotendo il capo con aria grave:

“È meglio di no.”
“E perché?”
“Vedi, in quell’armadio succedono cose strane… quello che ci entra, non esce più.”
Sul serio!?”

“Sì… per esempio, hai presente tutti i vestiti che la mamma ci tiene dentro?”

Miranda annuì, sinceramente colpita dalle parole del padre, che continuava a restare serio:

“Beh, non si sa come accada, ma spariscono… così la mamma non può metterli e continua a comprarne di nuovi, ma quando entra dentro per cercarli si perde e non ne esce più. E pare che quei vestiti scompaiano misteriosamente, ecco perché dice sempre che non ha nulla da indossare!”

“Ma allora dobbiamo andare a cercarla! Mamma!”

Miranda sgranò gli occhi prima di lasciarsi scivolare dalle ginocchia del padre, correndo dentro la cabina armadio e chiamando la madre con sincera preoccupazione, mentre Markus ridacchiava. 

Mamma! Sei qui, non ti sei persa!”
“Persa, perché dovrei perdermi qui dentro?”
“Lo ha detto papà… presto usciamo, se no ci perdiamo e non usciamo più.”

Miranda, parlando quasi con aria solenne, prese la madre per mano per portarla fuori dall’armadio mentre Berenike, continuando a non capire, alzava gli occhi al cielo:

“Markus, che cavolo le hai raccontato questa volta!?”

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Capitolo 6
*** Family ***


Family 
 

Jude Vërrater Image and video hosting by TinyPicIsabelle Van AckerImage and video hosting by TinyPic

 
Mentre era steso in mezzo al prato, tenendo gli occhi fissi sul cielo azzurro, non riusciva a non pensare all’ultima volta in cui si era trovato in una situazione piuttosto simile, un anno prima, sempre insieme alla stessa persona. 
Isabelle era accanto a lui, in silenzio, impegnata a sua volta ad osservare la distesa celeste sopra di loro e probabilmente a riflettere… ma, Jude ne era sicuro, stava pensando la stessa cosa. 

Sembrava passata un’eternità da quando, verso la fine del loro ultimo anno di scuola, si erano rannicchiati sull’erba, nel parco della scuola, godendosi la pace e un clima soleggiato abbastanza inusuale. 
Ricordava bene quel giorno, quando entrambi erano stati sereni come non erano riusciti ad esserlo per mesi… quando lui le aveva sorriso, sostenendo che avessero tutto il tempo del mondo. 

Quando le aveva detto per la prima volta che l’amava.
Eppure, la pace non era durata poi molto… già quando si erano diplomati il clima non era stato dei migliori, ma dopo un anno la situazione era semplicemente implosa su se stessa, peggiorando giorno dopo giorno. 

Il Ministero della Magia inglese stava praticamente andando a rotoli nelle mani di Rufus Scrimgeour, che stava cercando, invano, di tenere insieme i pezzi di un puzzle ormai andato irrimediabilmente distrutto dal ritorno di Voldemort. 

No, quel giorno Jude Verrater non aveva più la sensazione di avere tutto il tempo del mondo da passare insieme alla persona che gli stava accanto. Non sentiva più tutta quella pace. 
E probabilmente per lei era lo stesso.

Non per niente qualche istante dopo il ragazzo la sentì muoversi accanto a lui, girandosi su un fianco per poterlo guardare:

“Vieni con me. A casa mia, in Olanda… ti prego.”
“Ne abbiamo già parlato, Belle.” 

Jude abbozzò un sorriso, girandosi a sua volta e allungando una mano per sfiorarle i capelli castani, guardandola sospirare con lieve frustrazione:

“Lo so. Ma lì è molto più sicuro che qui in Inghilterra, lo sai anche tu!” 
“Indubbiamente è così, ma anche se non sono nato qui nemmeno io questa ormai è la mia casa, Isabelle. Non voglio andarmene, non adesso.” 

“Bene, allora resto qui con te.” 
“Non esiste, siamo alle porte di una guerra, tu resti in Olanda, con la tua famiglia.” 

Jude rivolse alla ragazza un’occhiata torva, suggerendole di non replicare mentre Isabelle invece allungò una mano per prendere la sua, guardandolo con una nota quasi implorante:

“Ormai fai parte della mia famiglia anche tu, Jude. Non voglio stare sempre in pena per te, vederti di rado… se tu vuoi restare qui farò lo stesso.” 
“Scordatelo.” 
“Non provarci Verrater, sai benissimo che quando mi impunto su qualcosa non cambio idea facilmente.”


Triste, ma vero… aveva ragione lei, ancora una volta.


*


“Alla faccia che “le cose sarebbero migliorate in fretta”… Potter sparisce e qui va tutto a scatafascio.” 

Jude si chiuse la porta alle spalle con un gesto secco, sbuffando mentre si sfilava il cappotto. Un attimo dopo Isabelle gli si avvicinò per abbracciarlo, sollevata:

“Finalmente… dove sei stato?” 
“In giro.” 

Le diede un rapido bacio sulla fronte prima di scostarsi, superandola per andare in salotto mentre la fidanzata si voltava, seguendolo con lo sguardo per un attimo prima di affrettarsi a seguirlo:

“Perché non mi parli mai di quello che combini? Sparisci per tutto il giorno e poi non dai mai spiegazioni!” 
“Siamo in guerra, se non te ne fossi accorta… non voglio metterti nei guai. Non dovresti nemmeno essere qui, per quanto mi riguarda. Insomma, mi fa piacere averti vicina, è ovvio, ma ho sempre paura di tornare a casa e non trovarti.” 

Isabelle gli sorrise mentre sedeva sul divano accanto a lui, allungando una mano per scostargli i capelli neri dal viso e poter, in quel modo, guardarlo completamente in faccia. 

“Non mi succederà niente.” 
“Non mi preoccupa soltanto Lui e tutto il seguito Belle… sa di te, prima o poi vorrà “farti visita”. Da quando ho fatto chiarezza con mio padre sulla morte di mia madre mia nonna mi odia ancora di più.” 

“Non pensare a lei adesso. Abbiamo altro a cui pensare… e sappi che sono davvero orgogliosa di te, di quello che fai tutti i giorni.” 
“Mi stai dicendo, tra le righe, che sei felice della “fazione” che ho scelto?” 

Jude si voltò verso di lei, rivolgendole un mezzo sorriso mentre la ragazza inarcava un sopracciglio, rivolgendogli un’occhiata scettica:

“Ti saresti davvero unito a loro, Jude?” 

“Non lo so… mi conosci, dopotutto. Il potere mi affascina tantissimo Isabelle… ma certo, il fatto che tu mesi fa mi abbia dato un ultimatum come “se dovessi vedere che hai un nuovo tatuaggio sull’avambraccio prima ti lascio e poi ti uccido” non ha lasciato molta scelta.” 

“Non l’avresti fatto comunque, non sei una persona cattiva. Hai un pessimo carattere, certo, ma è un altro discorso.” 

Isabelle sorrise mentre appoggiava il capo sulla sua spalla, lasciandosi abbracciare dal ragazzo:

“Non sarò una persona cattiva, ma solo perché tu fai uscire il meglio di me.” 
 

*


Aprì la porta della stanza con un enorme sorriso sulle labbra, morendo dalla voglia di prendere nuovamente Beatrix tra le braccia e coccolarla un po’… ma invece di entrare si fermò sulla soglia, quasi paralizzato di fronte a ciò che vide.


“Devo dire che è davvero carina. Probabilmente è per via di sua madre, l’ho vista di sfuggita poco fa… ed è Purosangue, giusto? Per una volta non ti sei rivelato del tutto inutile, allora.” 

Jude aprì la bocca per dire qualcosa ma non ne uscì nessun suono, limitandosi ad abbassare lo sguardo dalla donna alla culla della bambina con il cuore in gola, temendo di trovarla vuota. Quando si rese conto che la bambina stava semplicemente dormendo si rilassò leggermente, ma durò solo per un attimo.

Sua nonna smise di guardare Beatrix e alzò lo sguardo su di lui, rivolgendogli quella specie di ghigno mellifluo che ormai conosceva tanto bene dopo anni interi di convivenza. 

“Che cosa c’è Jude? Non ti aspettavi di vedermi? Sono venuta a vedere mia nipote.” 
“Esci… non toccarla.” 

“Come sei melodrammatico… sai, quando sei nato sono venuta a trovare anche te. E tua madre.” 
“Oh, certo, lo so. So che morivi dalla voglia di liberarti di me quando ero in fasce… stai lontana da mia figlia.” 

Jude raggiunse la nonna e mise le mani nella culla per sollevare la bambina e prenderla in braccio, facendo automaticamente un passo indietro mentre guardava la donna che gli stava davanti con sincero odio. Non l’aveva mai guardata in nessun altro modo, in effetti. 

“Dimentichi che ti ho praticamente cresciuto io, Jude… sei ancora vivo, mi risulta.”
“Certo, i segni del modo in cui mi hai cresciuto li porto ancora. Te lo ripeto Magda, sparisci… E non avvicinarti neanche ad Isabelle.” 

“Chi, tua moglie? Si è già firmata la sua condanna. Ho passato anni a dirti che nessuno ti amava, nessuno ti voleva, ma alla fine sei davvero riuscito a trovare qualcuno che ti ha apprezzato, i miei complimenti, sono davvero colpita. Tua figlia, invece… è un altro discorso.” 

Magda sorrise, allungando una mano per sfiorare con le dita sottili e perfettamente curate la nuca della bambina, ma Jude si ritrasse, contraendo la mascella:

“Non avrai mai a che fare con nessuno dei miei figli. Te lo ripeto, esci… o ti spedisco fuori da qui con le mie mani.”
“Ero solo passata a fare una breve visita dopotutto… non preoccuparti mio caro nipote, avremo ancora modo di vederci.”


Sì, se non ti spedisco finalmente nella tomba prima 


Jude la guardò Smaterializzarsi dalla stanza dell’ospedale prima di tirare un sospiro di sollievo, appuntandosi mentalmente di triplicare gli incantesimi di protezione alla propria casa prima di abbassare lo sguardo sulla bambina che teneva tra le braccia, lasciandole un bacio sulla fronte:

“Non metterà mai le sue schifose mani su di te, non preoccuparti… te lo prometto.” 


*


“Posso fare una pausa?”
“Quando avrai finito le tre frasi che mancano.” 

“Ok…”

Beatrix si lasciò sfuggire un piccolo sbuffo, abbassando lo sguardo sul quaderno che aveva davanti mentre il padre, sorridendole, le lasciava una carezza sulla nuca: 

“Sei molto brava, lo sai? Forse diventerai persino più brava di me.”
“Ma perché devo studiare queste cose?”

“Perché è importante Trixie, anche se viviamo qui io e la mamma abbiamo origini diverse, lei è nata e cresciuta in Olanda e la mia famiglia è tedesca. È importante mantenere, in parte, la propria cultura.” 
“Il fiammingo non mi piace.”
“Lo so, è rivoltante, quando la mamma lo parla fatico a capirla… ma anche se sei piccola stai migliorando tantissimo e ne sarà felice.”

Beatrix annuì, probabilmente rincuorandosi immaginando la madre sorriderle e complimentarsi con lei con aria orgogliosa. Stava per tornare a leggere le frasi che aveva davanti per cercare di tradurle in inglese quando un rumore attirò sia la sua attenzione, sia quella del padre: Audrey comparve sulla soglia della sala da pranzo, guardando il padre con gli occhi cerulei sgranati: 

“Papy, la mamma sta male!”
“Sta male?!”

“Sì, vieni!”

Audrey fece cenno al padre di seguirla con aria allarmata, convincendolo ad alzarsi per raggiungerla e lasciare la stanza insieme alle figlie, salendo le scale. 

“Dov’è?”
“Stavamo giocando… vieni.”

La bambina prese il padre per mano, trascinandolo verso la camera dei genitori e in particolare la porta socchiusa del bagno.

“Audrey, non preoccuparti, la mamma sta bene… Belle? Tutto ben- Belle!”

“Mamma! Che cos’hai?”

Beatrix sgranò gli occhi scuri con orrore alla vista della madre, che era seduta sul pavimento in mattonelle del bagno, appoggiata al muro e piuttosto pallida. 

“Niente tesoro… non preoccuparti.”
“Sei sicura?”

Jude si avvicinò alla moglie per aiutarla a rialzarsi, guardandola annuire con aria sbrigativa con cipiglio scettico:

“Sì, certo.”
“Mamma, non è che sei malata?”
“Non sono malata Audrey, stai tranquilla.”

“Sei sicura? L’altro ieri sei svenuta, ma a sentir te stai sempre benissimo…”
“Jude non cominciare, bastano già loro… succede a tutti di avere un calo di zuccheri ogni tanto, no?”
Isabelle roteò gli occhi, liquidando il discorso con un gesto della mano mente il marito invece continuava ad osservarla con aria critica:

“A te no!”
“Beh, ci sarà pur una prima volta. Ragazze, tornate a giocare.”

Le bambine ovviamente non lo fecero, continuando a chiedere alla madre se stesse male mentre Jude si rivolgeva ad Isabelle, guardandola con aria incerta:

“Isabelle… non è che per caso sei… quando aspettavi Trixie sei stata male nei primi tempi.”
“Ma certo che no. Figuriamoci.”

Isabelle scosse il capo, facendo per uscire dal bagno per andare a stendersi un po’. Ma non era ancora arrivata sulla soglia quando si voltò nuovamente ste verso il marito, scocciandogli un’occhiata leggermente incerta: 

Anche se…


*


“Sono passato in un brutto momento?”

Morgan, seduto su una poltrona con una tazza di caffè in mano e Audrey sulle ginocchia, rivolse un’occhiata incerta alla figlioccia che, seduta sul divano accanto a Beatrix, era tutt’orecchie per cercare di carpire informazioni dalla conversazione che stava avvenendo nella stanza accanto, lo studio di Jude.

“Non preoccuparti, sta parlando con suo padre di una cosa ma sono sicura che a breve verrà qui. Anche se non riesco a capire per bene COSA si stanno dicendo, in realtà…”

Isabelle sbuffò appena, faticando a tradurre dal tedesco vista la rapidità e l’enfasi con cui Jude stava parlando, discutendo con il padre su chissà cosa, probabilmente “faccende di famiglia” nelle quali lei preferiva non immischiarsi. La strega abbassò però lo sguardo su Beatrix, rivolgendo alla figlia maggiore un’occhiata incerta: 

“Trixie… che cosa stanno dicendo papà e il nonno?”
La bambina esitò, facendo dondolare distrattamente le gambe mentre teneva la tazza di latte e cioccolato in mano, ascoltando la voce del padre prima di scuotere il capo con aria sconsolata:

“Non posso dirtelo.”
“E perché?”
“Se dico queste cose mi metti in castigo.”

Morgan soffocò una risata mentre Isabelle assottigliava pericolosamente gli occhi verdi, appuntandosi mentalmente di mutilare il marito per lasciarsi sfuggire chissà quali esclamazioni davanti alla figlia.

“Ah, davvero?”
“Sì.”

Audrey ridacchiò prima di alzare lo sguardo sul “nonno”, sorridendogli:

“Papà è nei guai?”
“Penso proprio di sì.” 

Morgan sorrise alla bambina, accarezzandole i capelli castani mentre nel salotto si Materializzava un’elfa che teneva per mano il piccolo Alastair, per poi annunciare che “il signorino si era svegliato”. 

Isabelle sorrise al figlio, facendogli cenno di avvicinarsi mentre il bambino, che aveva da poco iniziato a camminare, barcollava verso di lei per poi lasciarsi prendere in braccio, accoccolandosi sul petto della madre.

“Sbaglio o Al dorme parecchio?”
“Dorme di giorno e di notte ci tiene svegli con le sue urla soavi, il degno figlio piantagrane di suo padre…”


“Scusate l’imprevisto, avrei dovuto parlare con mio padre solo stasera... che c’è?”

Jude si chiuse la porta del suo studio alle spalle per raggiungere la famiglia, accigliandosi leggermente quando colse l’occhiata omicida che gli aveva lanciato la moglie mentre sedeva accanto a lei sul divano:

“Che c’è? Ti consiglio di moderare i termini d’ora in poi, Trixie capisce TUTTO.”
“Certo che capisce tutto, ha un ottimo insegnante.”

“Intendo TUTTO TUTTO.”

Di fronte al tono eloquente della moglie Jude si voltò verso la figlia, che gli rivolse un sorriso angelico mentre Audrey sorrideva, rivolgendosi allegramente al padre:

“Papà, insegni anche a me le parolacce?”
“Neanche per idea. Se ve le sento dire vi manderò a lavarvi la bocca con il sapone, letteralmente. Maledizione, Al si sta addormentando di nuovo… No tesoro, devi dormire di notte così anche la mamma potrà dormire, non adesso.”

“La mamma?! Metà delle volte te ne esci con “Jude, vai tu”!”
“Beh, dovrai pur renditi utile in qualche modo, non sono certo solo figli miei.”


*



Insieme al forte dolore alla schiena gli parve di sentire una voce chiamarlo, a distanza, ma finì col nom farci troppo caso, troppo occupato a concentrarsi sul dolore che provava e sulla fastidiosa sensazione di vertigini che lo aveva colpito. Gli sembrava di precipitare anche se, ne era consapevole, era già sul pavimento, tremando. 


“Jude?”
La voce che sentì era molto diversa da quella che ricordava, più dolce e rassicurante, senza quella forte nota di disprezzo. E anche la mano che gli sfiorò la schiena, proprio dove sentiva dolore, aveva un tocco molto più delicato. 

Ma se da un lato la sentiva, dall’altro gli sembrava di essere ancora in quella cantina, a contorcersi dal dolore mentre l’odiata voce di sua nonna gli risuonava fastidiosamente nella testa.

A riportarlo alla realtà fu la terza voce che sentì, più nitida delle l’altre, che lo chiamò quasi timidamente: 

“Papà?”

Papà?

All’improvviso si ricordò di non essere più un bambino, di non vivere più con sua nonna e di non dover patire le sue angherie. 
Solitamente finiva col perdere definitivamente i sensi dopo le sue crisi, ma quella notte Jude Verrater aprì gli occhi che poco prima aveva chiuso per il troppo dolore alla testa, che come sempre gli aveva dato l’impressione di essere sul punto di spezzarsi, mentre il suo “tatuaggio” sul polso luccicava fiocamente.

Gli occhi eterocromatici di Jude incrociarono quelli chiarissimi, preoccupati di sua figlia Audrey, che era in piedi accanto al letto, in pigiama.

“Che cos’hai?”
“Scusa piccola… non volevo svegliarti.”

Jude abbozzò un sorriso, allungando una mano ancora scossa dai tremori per accarezzare il viso della bambina, che fece altrettanto mentre anche la voce di Isabelle, inginocchiata accanto a lui sul materasso, giungeva alle sue orecchie: 

“Papà sta bene Audrey, stava solo facendo un brutto sogno.”
“Posso dormire con te?”
“Certo, vieni qui.”

Jude annuì, spostandosi leggermente per permettere alla bambina di coricarsi accanto a lui, abbraciandola: in quel ricordo che continuava a perseguitarlo, anche grazie ai segni che ancora comparivano sulla sua schiena, aveva sette anni, proprio come Audrey. 
Ma a differenza di suo padre lui non avrebbe mai permesso che le facessero del male.


*


“Jude, è arrivata.”

Alastair e Audrey erano seduti uno accanto all’altra nella sala da pranzo, impegnati a fare colazione mentre la madre controllava la posta. E quasi non fece in tempo a finire di parlare, perché il marito capitombolo nella stanza come se avesse corso, facendo il giro del tavolo per raggiungerla e prenderle la busta dalle mani:

“Finalmente… anzi, no, aprila tu.”
“Va bene, ma rilassati, non credo sia poi COSÌ importante…”
“Certo che lo è! Su, aprila.”

“Che cosa c’è mamma?”
“Niente tesoro, tuo padre sta delirando…”

Isabelle roteò gli occhi mentre apriva la busta, leggendo rapidamente le poche righe che la figlia maggiore le aveva scritto. 

“…Serpeverde.”
“SÌ! Ci avrei giurato, dopotutto è tutta suo padre…”

“Naturalmente, ti sarebbe venuto un infarto se fosse finita a Tassorosso…”
“In quel caso ci sarebbe stata qualche spiegazione da darmi da parte tua.”

“Papà, e se io finirò a Tassorosso?!”

Audrey sgranò gli occhi chiari, guardando il padre quasi con aria preoccupata mentre Jude invece le sorrise, avvicinandosi alla figlia per poi chinarsi e lasciarle un bacio tra i capelli:

“Non importa, in realtà va bene tutto, purché stiate bene. Ma vi prego, cercate di evitare Grifondoro…”

“Jude, Al ha solo quattro anni, non cominciare a tormentarlo… non ascoltatelo, va bene tutto, proprio non capisco questa specie di competizione insensata. Sono ragazzini!”
“Vostra madre non capisce niente, non datele retta, è una competizione estremamente sensata che solo frequentando Hogwarts è possibile comprendere e che di certo tu, mangia cetriolini, non puoi comprendere.”

“Te lo ripeto per la milionesima volta: noi NON mangiamo solo cetriolini, mangia crauti che non sei altro!”



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Capitolo 7
*** Perfect together ***


Perfect together 

 
Jake Miller Image and video hosting by TinyPic  Scarlett Anderson Image and video hosting by TinyPic

Stephen MillerImage and video hosting by TinyPic


Batto!”
“Steve, aspetta… non prenderlo per la coda! E poi non si chiama così.”

Scarlett sbuffò mentre, ancora una volta, si lanciava all’inseguimento del figlio che stava inseguendo a sua volta uno dei loro cani, Ares, che però non sembrava morire dalla voglia di giocare con lui e continuava a trotterellare da una parte all’altra della casa.

Ma probabilmente Stephen interpretava quel comportamento solo come un invito a seguirlo e, sorridendo, sgambettava dietro al cane con le braccia protese verso di lui: 

“Batto, Batto!”

“Va beh, chiamalo come ti pare… Ma poi non lamentarti se Ares non ti ascolta, se non lo chiami correttamente.”
 
Scarlett roteò gli occhi chiari, maledicendo il momento in cui aveva fatto vedere quel film ai figli e Steve aveva immediatamente associato i loro cani al protagonista, inseguendo ostinatamente i Lupi Cecoslovacchi per casa per poter giocare con loro.

Il bambino allungò le piccole mani per afferrare la lunga coda del cane, che però non sembrò apprezzare e si diede alla fuga, sfuggendo alla sua presa e correndo a nascondersi in cucina mentre Stephen, perdendo l’equilibrio già precario, barcollava e cadeva sul pavimento, iniziando a piangere subito dopo.

“Ecco, ci risiamo… tesoro, non è un peluche… non puoi giocarci come ti pare. Ti ringrazio tanto.”

Scarlett sbuffò mente si inginocchiava accanto al bimbo, lanciando un’occhiata torva in direzione del cane mentre sua sorella raggiungeva la scena trotterellando, fermandosi accanto alla padrona per dare un colpetto con il muso sulla spalla del bambino.

“Steve? Guarda, c’è Eris.”
Gli occhi azzurri e lucidi del figlio si catalizzarono sul cane, abbozzando un lieve sorriso mentre allungava le mani, affondandole nel morbido pelo di Eris, che a differenza di Ares si lasciò coccolare e accarezzare docilmente:

Batto!”
Ma è una femmina, non si chiama Balto… va beh, non importa.”

 
*



“Ciao.”

Scarlett si lasciò scivolare sulla sedia senza nemmeno sfilarsi sciarpa o cappotto, tenendo le mani sepolte nelle tasche e rivolgendo un saluto pacato all’uomo che aveva davanti, che ricambiò senza sorridere.

“Allora?”
Dopo un attimo di pausa la strega parlò, sollevando un sopracciglio con evidente scetticismo mentre teneva gli occhi azzurri fissi sul padre, incitandolo a parlare: era stato lui ad insistere per vederla, e non le era mai piaciuto perdere tempo con convenevoli.

Di fronte alla titubanza del padre la leggera confusione della ragazza poté solo aumentare, continuando ad osservarlo tormentarsi leggermente le mani che teneva appoggiate sul ripiano liscio e lucido del tavolino, evitando accuratamente di guardarla in faccia.

“Posso sapere perché hai chiesto espressamente di vedermi senza Jake o i bambini? Deduco che ci sia qualcosa che tu voglia dirmi.”
“Sì, e penso sia meglio dirtelo da soli… non so come la prenderai, Scarlett.”

“Beh, dimmelo e scoprilo.”

“Ho ricevuto una telefonata qualche giorno fa, Scarlett… da tua madre.”
Come?”

La strega aggrottò le sopracciglia chiare, osservando il padre mentre l’aria annoiata di poco prima cedeva il posto ad una semplice confusione, come se fosse certa di non aver sentito bene: non ricordava nemmeno l’ultima volta in cui aveva sentito le parole “tua madre” uscire dalla bocca di suo padre.

Ma lui annuì, passandosi una mano tra i capelli brizzolati con un debole sospiro: 

“Sì, mi ha chiamato la settimana scorsa… mi ha chiesto di te. All’inizio non sapevo se dirtelo o meno, ma penso sia una decisione che tu debba prendere da sola. Se vuoi incontrarla o parlare con lei, posso mettervi in contatto.”
“Tu… tu che cosa pensi?”

“Io non voglio sentire cos’ha da dire, e non sembra nemmeno interessata a darmi spiegazioni. Mi ha chiesto espressamente di te, com’è andato il tuo percorso a scuola e come stai ora. Le ho detto che hai una famiglia, ma non sono sceso nei particolari.”

Scarlett annuì distrattamente, abbassando lo sguardo mentre rielaborava mentalmente ciò che aveva appena sentito.
Aveva smesso di pensare a sua madre da ormai molto tempo, ci aveva messo una pietra sopra… E poi lei ricompariva, di punto in bianco.

“Ti ha detto perché non mi ha voluto vedere, quando avevo 17 anni? Sono andata da lei e non ne ha voluto sapere.”
“Lo so Scarlett, ma ho smesso di cercare di capire cosa passasse per la testa di tua madre da ormai molto tempo… ma se non hai cambiato idea e vuoi ancora conoscerla, adesso ne hai l’opportunità.”


*


“Mi dici che cos’hai? Sei insolitamente taciturna, non mi hai nemmeno rimproverato nulla... Va tutto bene?”

Quando mise di nuovo piede nella camera, uscendo dal bagno adiacente, gli occhi azzurri di Jake si catalizzarono immediatamente sulla moglie, seduta sul letto con Ares raggomitolato accanto.

“Circa.”
“Che cosa ti ha detto tuo padre? È successo qualcosa di grave? Ares, scendi dal letto.”

Il Lupo Cecoslovacco gli rivolse un’occhiata torva, facendogli capire chiaramente che non si sarebbe mosso di un centimetro mentre si lasciava coccolare dalla padrona, che abbozzò un sorriso:

“Rassegati Jake, non ti ascolterà mai…”
“Già, è tutto suo padre, Eris ed Ebe mi ascoltano, quantomeno… Vorrei ricordarti che la prima volta in cui mi ha visto, mi ha morso. Ma seriamente, che cosa c’è?”

Jake si avvicinò al letto, sedendo di fronte a Scarlett mentre la rossa continuava ad evitare di guardarlo in faccia, gli occhi chiari fissi su un punto del pavimento mentre accarezzava distrattamente il pelo del cane.

“Mio padre mi ha detto che ha ricevuto notizie da… mia madre.”
“Cosa? Quando?”
“Qualche giorno fa. Pare che abbia chiesto di me… si rifà viva dopo trent’anni.”

“E tu che cosa gli hai detto?”
“Che ci devo pensare, ovviamente. Tu che cosa ne pensi?”
“Beh, non me lo sarei mai aspettato… Ma se vuoi conoscerla o chiarire in qualche modo perché se ne sia andata dovresti incontrarla, Scarlett.”

“Non lo so. Una volta ero molto curiosa, in effetti, ma adesso… non lo so, ormai ci ho messo una pietra sopra. Ho smesso di  pensare a lei da quell’estate, quando si rifiutò di vedermi. Non l’ho mai più cercata, né fatto domande a mio padre a riguardo. Non lo so Jake, neanche me la ricordo, ma ho trent’anni e sono arrivata fin qui senza di lei, quindi…”

“Devi decidere tu, Rossa. Ma sai come la penso a riguardo… ci sono casi in cui potremmo davvero vivere meglio senza un genitore intorno, crescere insieme a loro non è sempre una così grande fortuna, e se non ti va di farla entrare nella tua vita, allora lasciala nel posto che si è scelta: fuori.”


*

Jane MillerImage and video hosting by TinyPic


“Salve… sto cercando Jake Miller.”
“La sta aspettando?”
“…no.” 

Scosse debolmente il capo, rabbuiandosi leggermente mentre ripensava all’ultima volta in cui si erano visti. Quanto era passato? Troppo, probabilmente. 

Stava aspettando che la ragazza che aveva davanti le desse una risposta quando una voce alle sue spalle attirò la sua attenzione, facendola quasi raggelare:

“Perché cerchi il mio papà?”

Si voltò ed ebbe un tuffo al cuore quando si trovò davanti una bambina dai capelli rossi che la stava osservando con curiosità, una scatola di colori in mano.

“Io… voglio salutarlo. Tu sei Jane?”
“Sì. Tu chi sei?”

Tua nonna 

Si limitò a sorriderle debolmente, osservando il volto della nipotina screziati di lentiggini, cercando qualche somiglianza con il figlio.

“Adesso può vederla, signora, è nel suo ufficio.”
“Grazie. Jane? Mi accompagni da papà?”

“Ok. Vieni.” 

La bambina sorrise allegramente, facendole cenno di seguirla prima di trotterellare lungo il corridoio per raggiungere l’ufficio del padre.

“Come mai sei qui?”
“Il martedì vengo da papà, faccio la sua assistente. Papy? C’è una signora!”


Jane aprì la porta, affacciandosi nella stanza mentre la debole risata e la voce del figlio giungevano alle sue orecchie dopo anni:

“Davvero? Grazie tesoro…”
Jane sfoggiò un piccolo sorriso soddisfatto prima di entrare nella stanza con la nonna al seguito, che però si fermò sulla soglia e si limitò a posare lo sguardo su Jake, che invece la guardò con evidente sorpresa, esitando per un attimo di parlare, incupendosi leggermente mentre si rivolgeva alla figlia:

“Tesoro… puoi andare a chiedere a Lisa se mi porta un caffè, per favore?”
“Ok! Posso prendermi qualcosa?”
“Certo, quello che vuoi.”

Jane sorrise, annuendo prima di lasciare i colori sul suo tavolino e saltellare fuori dalla stanza, lasciando il padre solo con quella che non sapeva essere sua nonna:

“Che cosa ci fai qui?”
“Ti volevo parlare. E ho conosciuto Jane… era anche ora.”
“L’ora è quando lo decido IO, e quel momento sarebbe anche potuto non venire mai. Che cosa vuoi?”

“Io e tuo padre… li vorremmo conoscere. Sono pur sempre i nostri nipotini.”
“Non lascerei lei e Steve nella stessa stanza con lui neanche sotto tortura, pensavo che il messaggio fosse chiaro già quando non vi ho invitati al mio matrimonio. Hai detto a Jane chi sei?”

“No, certo che no, prima volevo parlare con te… che cosa le hai detto a proposito dei suoi nonni?”
“Steve è ancora piccolo per rendersi conto, lei una volta ha chiesto a Scarlett perché abbia solo un nonno mentre gli altri bambini ne hanno di più... ma sta benissimo senza di voi, non temere. Io e Scarlett siamo, per fortuna, genitori migliori di quanto non lo siano stati i nostri.”


*


“Che cosa stai leggendo? Brutte notizie? Hai una faccia…”

Jake si  avvicinò alla moglie mentre si sfilava la giacca, trovandola seduta su uno degli alti sgabelli in cucina con una lettera in mano, apparentemente poco felice di ciò che stava leggendo:

“Ho ricevuto una lettera da Ilvermorny, pare che TUO figlio abbia pensato bene di far Evanascere l’intaglio dei Wampus dopo che la sua squadra ha battuto Tuonoalato a Quidditch.”
“Davvero? Sta facendo passi avanti il ragazzo, io ero al settimo anno quando ho decapitato gli intagli, lui ha solo dodici anni… si, insomma, questo per dire che ha fatto male, malissimo, e spero lo puniscano.”

Jake annuì, parlando con il tono più serio che gli riuscì mentre Scarlett gli rivolgeva un’occhiata torva:

“La Holland non è molto felice… povera donna, immagino cos’abbia provato quando si è ritrovata un altro Miller nella sua Casa.”

“Avrei tanto voluto vedere la sua faccia durante lo Smistamento, è vero… Jane mi ha detto che sembrava stesse per svenire, di certo avrebbe preferito avere LEI tra i Tuonoalato, ma la nostra baby Rossa è finita altrove.”
“Con grande gioia della sua madrina, la povera Hailey deve ancora mandare giù che i suoi figli non stiano studiando ad Ilvermorny… gli svantaggi di trasferirsi in crucconia, immagino. Ma tornando a Steve, devi smetterla di complimentarti con lui quando combina pasticci, così lo fomenti e basta!”

“Ma sentila, la studentessa modello… scusa, chi mi ha chiesto di saccheggiare la dispensa privata della Holland per poter preparare un filtro e avvelenare un suo compagno, riempiendogli la faccia di bolle brucianti?”

“Beh, quello era per una giusta causa, che c’entra!”
“Anche il Quidditch è una giusta causa!”

“Sei impossibile.”
“Anche tu… sarà anche per questo che siamo perfetti insieme, Rossa.”

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Capitolo 8
*** Welcome home ***


Welcome home 
 
Nicholas Bennet Image and video hosting by TinyPic


Mentre camminavano sul vialetto di ghiaia Nicholas sorrise, voltandosi verso la ragazza che teneva per mano:

“Emozionata?”
“Un po’… è strano tornare qui.”

Kate annuì, abbozzando un sorriso in risposta a quello ben più rilassato del fratello, che le rivolse un’occhiata incoraggiante e strinse leggermente la presa sulla sua mano:

“Non preoccuparti… muoiono dalla voglia di vederti.”
“Vale anche per me, ovviamente… mi sento solo un po’ a disagio. Quasi in colpa, non so perché.”
“Non è stata colpa tua Katie, lo so io e lo sanno anche loro. È bello essere di nuovo qui con te, non immagini quanto.”

Nicholas sorrise, distogliendo lo sguardo dalla sorella per posare gli occhi chiari sull’Oceano, cercando di ricordare l’ultima volta in cui era stato lì, a casa, con sua sorella.
Erano passati tre anni, e per ben due aveva fatto di tutto per vedere i genitori il meno possibile, non riuscendo a sopportare di vederli senza poter nominare Kate. 

Erano arrivati sotto al portico della villetta quando si rivolse alla sorella, lanciandole un’occhiata: 

“Pronta?”
“Penso di sì.”

Nicholas aveva appena bussato alla porta quando questa si spalancò, rivelando sulla soglia la madre dei due, che fece saettare lo sguardo dal primogenito per poi posarlo sulla figlia, guardandola quasi come fosse un fantasma.

“Ciao mamma.”

Kate piegò le labbra in un sorriso tirato, morendo dalla voglia di abbracciarla ma quasi con il timore di farlo. 
Per fortuna ad avvicinarsi per prima fu proprio la donna, che la strinse in un abbraccio, parlando con la voce rotta: 

“Ci sei mancata, Katie…”
“Anche voi.”

La ragazza annuì, ricambiando la stretta e parlando in un sussurro mentre le si inumidivano gli occhi verdi e una quarta figura si univa al quadro, esitando per un attimo, forse chiedendosi se la ragazza che aveva davanti fosse reale, prima di unirsi all’abbraccio.

E allora Nicholas Bennet sorrise, osservando la sua famiglia, di nuovo al completo dopo due lunghissimi anni.
Sì, era finalmente a casa.

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Capitolo 9
*** Cough Syrup ***


Cough Syrup
 
Antares Black Image and video hosting by TinyPic


“Berenike, smettila di fare i capricci, devi prenderlo e basta!”
“No!”

Lyra respirò molto profondamente, dicendosi che lei amava i bambini, amava le sue figlie e di certo non avrebbe mai fatto ingerire con la forza dello sciroppo per la tosse ad una bambina di quattro anni, specie trattandosi della figlia…
No?

La strega era seduta sul letto della sua secondogenita, che le stava davanti con le braccia conserte e la sua espressione più risoluta stampata sul volto, decisa a non darla vinta alla madre. 
Peccato che neanche lei avesse molta voglia di demordere.

“Berenike, non puoi non prendere lo sciroppo se hai la tosse! Lo ha preso anche Libra, non è cattivo!”
“Non lo voglio!”
“Allora terrai la tosse per sempre?”
“Sì!”

La bambina sbuffò, gonfiando le guance con irritazione mentre la madre, invece, inarcava un sopracciglio: 

“Sì può sapere perché non vuoi prenderlo?”
“Non mi piace.”
“Ma se è ai frutti di bosco?! E poi non lo hai neanche assaggiato.”

“Lyra, non pensi che se dice così dovresti…”

Antares, che fino a quel momento aveva assistito alla scena senza dire nulla, osservando e basta, provò a parlare in difesa della figlia e della sua repulsione innata verso i medicinali, ma l’occhiata che la moglie gli lanciò lo convinse a lasciar perdere:

“Non dire nulla, sappiamo tutti che è colpa tua… anche tu ti rifiuti sempre di prendere qualunque cosa, vorrei tanto capire il motivo di questa assurda specie di fobia.”

Lyra sbuffò debolmente mentre il marito invece sfoggiò un debole sorriso, ricordando quando a pronunciare quelle esatte parole era stata sua madre. E a quanto sembrava Berenike aveva ereditato quella “peculiarità”.

“Anche papà non prende lo sciroppo? Allora non lo prenderò neanche io!”
“No, papà lo prende sempre quando ha la tosse. Vero?!”

“Ehm… sì, sempre.”

In realtà faceva ancora di tutto per evitare il più possibile qualunque medicinale, ma di certo non era il caso di dirlo davanti alla bambina…

“E sai cosa succede a chi non prende lo sciroppo? Non solo tiene la tosse per sempre, ma non riceve nulla da Babbo Natale.”
“Cosa?!”

Berenike sgranò gli occhi chiari, drizzando improvvisamente le orecchie mentre la madre annuiva, continuando a tenere in mano cucchiaio e bottiglietta:

“Certo. Babbo Natale non mette piede in case piene di germi: non vuole ammalarsi, ha troppo lavoro da fare e potrebbe prendersi indietro con le consegne.”

Per un attimo Antares, seduto su una sedia di fronte al letto della figlia, si chiese sinceramente se  quella storiella improvvisata avrebbe funzionato.
Ma quando la bambina, allarmata, si sporse verso la madre per prendere lo sciroppo sorrise,  chiedendosi se da bambino avrebbe abboccato ad una storia simile… aveva un chiaro ricordo di come aveva fatto tribolare sia gli elfi che sua madre con la storia dei medicinali, decisamente più testardo della figlia. Una volta si era persino dato alla fuga, nascondendosi nei meandri della casa  finché sua madre non era andata a prenderlo, trascinandolo di nuovo a letto per un orecchio.

“Ok, va bene… dammelo, mamma!”
“Finalmente si ragiona… tesoro aspetta, non puoi berlo a canna!”

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Capitolo 10
*** Artist Gang ***


Artist Gang 

Helene Bergsma Image and video hosting by TinyPicGabriel UnderseeImage and video hosting by TinyPic


“Nonna?”
Helene si chiuse la porta d’ingresso alle spalle, guardandosi intorno per cercare qualche traccia della nonna, senza però che la donna le andasse incontro come era solita fare. 
Al posto della figura della donna la ragazza sentì invece un lieve brontolio proveniente dal salotto, con cui sua nonna manifestò la sua presenza e la invitò a raggiungerla. 

Helene, quando si fermò sulla soglia della stanza, si stampò un largo sorriso sul volto, avvicinandosi alla nonna per sedersi accanto a lei sul divano e lasciarle un bacio su una guancia:

“Ciao… Come mai questo tono cupo? Non sei felice di vedermi?”
“Oh, al contrario, mi stavo giusto chiedendo se non ti fossi scordata della tua vecchia nonna! Non mi vieni a trovare da due settimane!”

“Lo so, mi dispiace, sono stata piena di lavoro da fare all’Accademia… e comunque io ti ho provato a telefonare più di qualche volta, ma non mi hai mai risposto!”
“È tutta colpa di questo stupido telefono che mi hai regalato, non capisco come funziona!”

“Sai, se sei tanto allergica alla tecnologia forse potremmo iniziare ad usare i gufi per comunicare, come facciamo noi Maghi.”  Helene abbozzò un sorriso, immaginandosi sua nonna che spediva lettere per mano di un gufo, proprio lei che l’aveva cresciuta da perfetta Babbana. 
E infatti Anneke sfoggiò una piccola smorfia, rabbrividendo leggermente alla sola idea di avere ancora pennuti per casa: 

“Non parlare di gufi, io e il tuo barbagianni siamo in guerra aperta da anni, non avrei dovuto comprartelo!”
“Ma senza non potrei scrivere a Gabriel o a Gae!”

“Come preferisci… ma visto che sei qui, lasciamo perdere gufi e quant’altro. E come sempre sei troppo magra Helene, vieni a fare merenda.”
“Ma l’ho già fat- Sì nonna.”


*


“La smetti di toccarti i capelli? Tra poco inizieranno a caderti.”

Gabriel inarcò un sopracciglio, rivolgendo un’occhiata scettica in direzione della ragazza che camminava accanto a lui sul marciapiede, tenendolo per mano, e visibilmente tesa:

“Voglio solo assicurarmi di essere in ordine, vuoi forse che tua madre abbia una cattiva impressione?”
“Le piacerai, ne sono certo, tu piaci sempre a tutti. E poi, se io sono sopravvissuto all’ispezione di nonna Anneke, vuoi non passare l’esame di mia madre? Non potrebbe mettere in soggezione qualcuno neanche volendo, è molto dolce.”

Gabriel abbozzò un sorriso, pensando con affetto alla madre mentre si fermava davanti al cancello per suonare il campanello, mentre accanto a lui la ragazza continuava a dondolare leggermente, spostando nervosamente il peso da un piede all’altro.

“Che cavolo stai facendo adesso?!”
“Piantala di prendermi in giro, creti- Salve, Signora Undersee!”

Helene si stampò un gran sorriso sul volto, gli occhi chiari fissi sulla donna dai capelli e occhi neri che era appena uscita di casa e si stava avvicinando ai due, rivolgendo un caldo sorriso al figlio:

“Ciao Gabriel.”
“Ciao mamma… Lei è Elin.”

Quando gli occhi scuri della donna si posarono su di lei Helene sorrise appena e con suo gran sollievo il sorriso venne ricambiato gentilmente: 

“Ciao Helene… è bello conoscerti, finalmente. Era ora che Gabriel si trovasse una ragazza, invece di andare in giro a fare lo stupido.”
“Mamma!”

Gabriel sbuffò, rivolgendo un’occhiata torva alla madre che però non si scompose minimamente mentre Helene invece si rilassò leggermente, aumentando l’inclinazione verso l’alto delle sue labbra:

“Non ha per caso qualche aneddoto da raccontarmi, Signora Undersee?”
“Certamente… e ti prego, chiamami Theresa, non sono la Signora Undersee da tempo ormai. Prego, venite dentro.”


*


“Gabriel, devi seguire sempre lo stesso verso!”
“Non fare la maestrina, mi hai chiesto tu di aiutarti, no?”

“Beh, pensavo che sarebbe stato divertente farlo insieme.”   Helene si strinse nelle spalle mentre intingeva il rullo nel barilotto per continuare a riverniciare la parete di quello che sarebbe presto diventato il loro salotto. La prima volta in cui aveva messo piede in quella casa se n’era praticamente innamorata a prima vista, eccetto che per un dettaglio: non sopportava le pareti bianche, così aveva provveduto a riempire i pavimenti di teli e ad acquistare vernici di mezza tavola cromatica. 

“Se per “farlo insieme” intenti tu che dai ordini a destra e a sinistra… ti ho fatto anche scegliere il colore per quasi tutte le stanze!”
“È sabbia, è un colore neutro! Non preoccuparti, di qui a poche settimane saremo circondati da un mare infinito di colori, i tulipani stanno per sbocciare.”

Helene sorrise, continuando a passare il rullo sulla parete prima di allora bianca e accennando alle due grandi finestre che avevano lasciato aperte e che permettevano di affacciarsi ai campi che costeggiavano parte della casa.

“… a proposito, grazie.”
“Tranquilla, ti lascio carta bianca con i colori, il mobilio e anche l’organizzazione del matrimonio, ma in cambio la stanza in più verrà adibita a MIA sala hobby, non tua.”
“Mi riferivo al fatto che hai accettato di trasferirti qui, in Olanda. E comunque scordatelo, mi serve una stanza per dipingere!”
“Abbiamo tre camere extra… me ne serve una per scrivere e per suonare! E la terza hai deciso che sarà la stanza degli ospiti, quindi…”

Helene sbuffò ma non osò replicare, decidendo di lasciar perdere e di continuare a concentrarsi sulla parete che aveva di fronte: forse avrebbe dovuto intuire che c’era qualcosa di strano quando non aveva sollevato alcuna obiezione sull’organizzazione del matrimonio ormai imminente e sulla decisione di dipingere da sè l’interno della casa.


*


“Sto seriamente prendendo in considerazione l’idea di darmi alla pittura. Ormai ho più pratica alle spalle io di molti imbianchini.”

Gabriel inarcò un sopracciglio, continuando a passare il pennello sulla parete per stendere la tinta rosa pallido, mente la risata della moglie giungeva alle sue orecchie, in piedi accanto a lui: 

“Sei un imbianchino provetto, Undersee…”
“Sì, ho un talento naturale. Magari sarà una piccola artista anche lei.”

“Naturalmente! Dovremmo anche decidere il nome, non pensi? Tutti non fanno che chiedercelo.”
“Tutti i nomi che propongo vengono bocciati seduta stante da una certa rossa, quindi...”

“Non è certo colpa mia se hai gusti pessimi, Gabriel.” 
“Tante grazie. E io che ho anche accettato di dipingere la cameretta insieme a te! La prossima volta lo facciamo con la magia, chiaro?”
“Ma non è la stessa cosa! Ormai è tradizione.”


*


Gabriel respirò molto profondamente, massaggiandosi le tempie e dicendosi di cercare di rilassarsi, ma il suo mal di testa stava aumentando a dismisura a causa del frastuono che stava riempiendo la casa: sia Talia che Pyotr non facevano altro che stridere da una parte all’altra dell’edificio, evidentemente poco felici di essere chiusi in gabbia. 

Quando poi alle proteste dei due rapaci si unì anche il pianto della figlia si vide costretto ad alzarsi, dicendosi che forse era meglio lasciar perdere: evidentemente, non era proprio giornata per essere produttivi e scrivere qualcosa.

“Prima o poi vi faccio arrosto, voi due, la svegliate di continuo!”

L’ex Corvonero fulminò il barbagianni della moglie con lo sguardo mentre attraversava a passo di marcia il corridoio, entrando nella camera della figlia che si era appena svegliata e stava reclamando attenzioni a gran voce, avvicinandosi al lettino per prenderla in braccio: 

“Che dici Annie, facciamo arrosto Pyotr per cena? La tua bisnonna sarebbe d’accordo, penso.”

Gabriel sorrise appena, accarezzando i capelli rossicci della figlia e pensando alla donna con cui la bambina condivideva il nome, guardando la bambina mugugnare sommessamente qualcosa di incomprensibile, guardandolo con gli occhi chiari ereditati dalla madre.

“Lo so che vuoi la mamma, ma sta dormendo, e credimi, è meglio non svegliarla, altrimenti poi lei farà arrosto noi per cena. Anzi, tu no, sono io quello sacrificabile.”

E pensare che di lì a pochi mesi ne avrebbero avuto due a cui badare, con solo poco più di un anno di distanza. 
Non gli restava che pregare che fosse un maschio. 


*


“Sono a casa… beh? Non viene nessuno ad accogliermi?”

Quando si fu chiuso la porta alle spalle Gabriel si guardò intorno, aspettando di vedere la moglie o le figlie andargli incontro. Un attimo dopo infatti una bambina dai riccioli rossi comparve sulla soglia dell’ingresso, sorridendo vivacemente al padre, seguita dalla sorella minore:

“Ciao! La mamma è di sopra, sta disegnando.”
“Capisco… e voi cosa fate?”

“Disegniamo anche noi! Da grandi vogliamo fare le artiste come la mamma. Vieni.”

Virginia sorrise al padre, avvicinandoglisi per prenderlo per mano – e solo allora Gabriel si accorse di quanto le mani delle due bambine fossero sporche di colori –  per condurlo in salotto, mostrando con aria orgogliosa la loro opera d’arte. 

Peccato che invece Gabriel perse quasi un battito, guardando con orrore la porzione di parete accanto al camino che le due figlie avevano sapientemente riempito di disegni. 
Ovviamente sarebbe bastato un semplicissimo “gratta e netta” per liberarsene, ma era certo che la moglie avrebbe preso la palla al balzo, trovando finalmente la scusa giusta per ridipingere il salotto.


Forse avrebbe dovuto innamorarsi di una scienziata, e non di un’artista.


*


“Papà? Perché la mamma è così triste? Sta male?”
“È un po’ triste perché le manca la nonna, carotina. Ma starà meglio, vedrai.”

Gabriel si sforzò di sorridere, sollevando la primogenita per sistemarsela sulle ginocchia, accarezzandole i capelli rossi mentre Anneke annuiva: 

“Andiamo a consolarla?”
“Possiamo provarci, se vuoi.”

Gabriel, tenendo sempre la figlia maggiore in braccio, si alzò per uscire dal suo studio e raggiungere la camera da letto, bussando delicatamente prima di aprire la porta: 

“Elin? C’è qualcuno che vuole vederti.”

Gabriel rimise Anneke sul pavimento, suggerendole con un cenno di avvicinarsi al letto mentre Helene non accennava a muoversi, restando rintanata sotto il piumone mentre anche Virginia si fermava sulla soglia della stanza, trotterellando verso il letto dopo il cenno di assenso del padre:

“Mamma?”

Anneke si fermò accanto al letto, sfiorando con una mano il piumone mentre Helene sollevava leggermente il capo, asciugandosi le lacrime con una mano e sforzandosi di sorridere alla figlia: 

“Che c’è tesoro?”
“Sei triste?”
“Un pochino, ma poi passa. Venite con qui con me? Vieni, Ginie.”

Helene sorrise alla figlia più piccola, che non se lo fece ripetere due volte e si arrampicò sul letto, accoccolandosi accanto a lei e lasciandosi abbracciare dalla madre, imitata subito dopo anche dalla sorella.

“… C’è spazio anche per me?

*


“Annie, non correre! Gabriel, tieni d’occhio Vincent!”

Helene, seduta sotto la veranda, teneva una tazza di thè tra le mani mentre sorvegliava a vista i figli, guardando Annie e Virginia giocare in mezzo ai fiori mentre Vincent, che aveva iniziato a camminare da poco, trotterellava in mezzo ai tulipani con il padre poco più indietro, controllando che non si facesse male.

“È un lavoro a tempo pieno, poco ma sicuro. Anzi, devo farti i complimenti, riesci a gestirne tre a meraviglia. Io facevo fatica anche solo con lui.”
“Beh, Undersee vale per dieci. Non oso immaginarlo da bambino.”

Helene sorrise e il suo tono si ammorbidì notevolmente mentre accanto a lei la suocera ridacchiava, annuendo e lanciando un’occhiata carica d’affetto al figlio:

“Era speciale. Suo padre non l’ha mai capito.”
“Nemmeno i miei genitori mi hanno mai capita… ma almeno mi accettano per quello che sono, certo. Per fortuna avevo mia nonna, era Babbana ma non mi ha mai fatto pesare l’essere diversa.”

“Ti manca?”
“Moltissimo.”


Helene annuì, sorridendo con un velo di malinconia che cedette ben presto il posto alla tenerezza quando vide Vincent sgambettare verso di loro, sorridendo allegramente alla madre e alla nonna mentre teneva un fiore in mano, che porse alla madre quando le si fu avvicinato, salendo i tre gradini con l’aiuto del padre.

“Per me? Ma grazie… sei un vero gentiluomo.”
Elin sorrise mentre si chinava leggermente in avanti, prendendo il tulipano rosso che il figlio le porgeva prima di prenderlo in braccio e stampargli un bacio su una guancia, facendolo ridacchiare leggermente.

“E a suo padre non fai nessun complimento? Ti ricordo che i geni sono in parte i miei.”
“Sarà, ma non mi risulta che tu mi abbia portato dei fiori, Mr Undersee.”


*


“Allora, Anneke lo hai scelto tu, e anche Vincent visto che stravedi per Van Gogh… io ho scelto Virginia, quindi questa volta tocca a me.  E visto che è un altro maschio, vorrei chiamarlo Edward.”

“Ma a me non piace!”
“Mi dispiace, ma questa volta ho più potere decisionale di te… e Edward Forster è uno dei miei autori preferiti, così come Virginia Woolf.” 

Gabriel sorrise con aria soddisfatta, certo di avere il coltello dalla parte del manico mentre invece la moglie sbuffò, incapace di replicare visto che, sfortunatamente, il suo ragionamento non faceva una piega.

“Va bene, teniamo Edward in considerazione, allora.”
“Benissimo. Ora, Annie e Ginie condividono la camera da quando è nato Vince… Faremo dormire il nuovo pargolo con lui o nella terza stanza?”
“Se speri di poter mantenere il tuo studio con ormai quattro figli, mio caro Gabriel, ti sbagli di grosso.”


Helene piegò le labbra in un sorriso, suggerendogli che ben presto avrebbero avuto ben tre camere occupate dai bambini e il marito sbuffò di conseguenza, incupendosi leggermente: se non altro, ci aveva provato.


*


Anneke Image and video hosting by TinyPicVirginia Image and video hosting by TinyPic Vincent  Image and video hosting by TinyPicEdward Image and video hosting by TinyPicEstelleImage and video hosting by TinyPic


“Ci siamo tutti?! No, aspetta… uno, due, tre, quattro… Estelle! Dove sei? Gabriel ne ho persa una!”

Helene sospirò, chiedendosi perché uscire di casa fosse un’impresa degna di un poema cavalleresco ogni volta mentre controllava che i quattro figli, tutti riuniti nel piccolo ingresso, restassero dov’erano. 

“Vincent, non aprire la porta, entra il gelo… Ed, vieni qui, hai la sciarpa messa male… chi te l’ha annodata?”
“Papà!”
“Giusto, perché lo chiedo… Perché siete così disordinati?! Prendete esempio dalle vostre sorelle maggiori.”

Helene sbuffò debolmente mentre sistemava la sciarpa al figlio, accennando con il capo alle due figlie maggiori, le uniche ad essere già pronte, in ordine e in silenzio, che sorrisero con aria compiaciuta.

“Ho trovato la fuggitiva!”

Gabriel comparve a sua volta nella stanza con un sorriso stampato sul volto, tenendo per mano la figlia più piccola già imbacuccata e pronta per uscire, con i capelli color carota che spuntavano dal berretto blu.

“Ah, eccovi qui. Bene, visto che finalmente siamo tutti possiamo andare… Gabriel, ma hai ancora quel berretto? Non si era sfilacciato due anni fa?!”
“Beh, l’ho riparato. Questo berretto ormai è parte di me, non posso disfarmene!”

“Come ti pare… bene ciurma, ora possiamo uscire! Ma non correte in mezzo ai campi, ha piovuto e sono pieni di fango! … ti eri reso conto che mi sto trasformando in mia nonna?”
“Sì Elin, da circa dieci anni.”

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Capitolo 11
*** How I met your Granny ***


How I met your Granny


Altair Black Image and video hosting by TinyPicElizabeth Abbott Image and video hosting by TinyPic




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“Altair!”

Silenzio 

Elizabeth Black provò a chiamare il marito una seconda volta, ma non ottenendo alcuna risposta decise di lasciar perdere, uscendo dalla sala da pranzo dove si era chiusa circa un’ora prima, arrovellandosi su una lista e maledicendo le odiose cene di famiglia.

“Altair? Stai diventando sordo a ventisei anni?”

O più probabilmente non aveva voglia di sentire. 

Quando lo trovò Lizzy non seppe se sorridere e ammorbidirsi o scuotere il capo, guardando l’inscalfibile Auror nonché ex donnaiolo incallito seduto su una poltrona con una specie di fagottino vestito di azzurro in braccio, impegnato a coccolare e fare gli occhi dolci alla figlia. 

“Altair, mi senti?”
“Mi spiace, non posso aiutarti, come vedi sono impegnato.”
“Sì, lo vedo, ma quando avrai finito di fare la corte al tuo nuovo grande amore potresti venire a darmi una mano con la dislocazione dei posti? È la tua famiglia, non la mia!”

“Credo che dal momento in cui ci siamo sposati sia diventata anche la tua famiglia Lizzy, sei una Black anche tu adesso. La mamma è una guastafeste, non trovi anche tu? Sono io il tuo preferito.”

Altair sorrise alla piccola Electra, dandole un bacio sulla fronte mentre la moglie roteava gli occhi, chiedendosi quando avesse iniziato a rincoglionirsi alla vista di un bebè. 

“Lasciamo perdere… Elnath sta dormendo?”
“Sì, dorme della grossa… e visto che oggi sono a casa, posso giocare con loro.”

“E pensare che fino a cinque anni fa i bambini li avresti snobbati…”
“Le persone cambiano Abbott, e poi non fare la sostenuta, tu stai con loro tutto il giorno tutti i giorni, io li vedo poco!”

“Infatti sono a dir poco esaurita, se vuoi facciamo a cambio e io me ne torno al lavoro, mentre tu fai il papà 24h su 24…non reggeresti due giorni.” 
“Ah sì? Vogliamo scommettere?”

“Perfetto. Ti lascio due giorni da solo con loro, per quando tornerò mi implorerai di non levare mai più le tende e avrai bisogno di un sostegno psicologico.”


*


“Papà?”
Sentendosi chiamare Altair si voltò, sorridendo al figlio mentre Elnath era in piedi accanto alla sua sedia, i capelli come sempre a dir poco spettinati e i vivaci occhi azzurri luccicanti. 

“Che c’è Nath?”
“Guarda, l’ho fatto per te.”

Elnath sorrise, mostrando un enorme foglio colorato al padre quasi con aria orgogliosa, indicando le figure che aveva disegnato:

“Questo sei tu che sconfiggi i cattivi, questi siamo io ed Elly che ti diamo una mano… e questa è la mamma!”
“Ah, c’è anche lei?”
“Certo, ci aiuta anche lei.”
“Naturalmente… ma El non c’è?”

No papà, El è piccola, non può sconfiggere i cattivi.”

Elnath si accigliò leggermente, guardando il padre come a volerlo rimproverare mentre Altair annuiva:

“Giustamente… mentre tu invece sei grande, no?”
“Certo, ho sei anni!”

“È vero, che sbadato…”

Altair annuì, sforzandosi di restare serio e di non ridere mentre il figlio, dopo aver sfoggiato un largo sorriso, girava sui tacchi per saltellare fuori dallo studio, annunciando allegramente alla madre che da grande avrebbe fatto lo stesso lavoro del padre:

Mamma, da grande farò l’Auror come papà!”
“Anche io!”


Quando anche la vocina di Electra giunse alle sue orecchie Altair rise, specie quando sentì anche quella esasperata della moglie:

Oh Merlino, cominciamo bene…”


*


Eltanin Black era inginocchiata davanti alla finestra per leggere, immobile da ormai diversi minuti mentre teneva le piccole mani sul vetro, osservando con attenzione il giardino con i grandi occhi scuri. 

“Che cosa stai facendo?”

Sentendo la voce carica di curiosità della sorella la bambina di quattro anni si voltò, parlando quasi con aria solenne:
Sto aspettando.”

“Che cosa?”
“La mamma mi ha detto che papà torna oggi. Lo sto aspettando.”

Eltanin si voltò nuovamente verso il vetro quando Electra annuì, annunciando che l’avrebbe fatto anche lei prima di raggiungerla, inginocchiandosi a sua volta sul materassino rosa antico dove avevano visto la madre leggere centinaia di volte. 


“Che cosa fate davanti alla finestra?”
“Aspettiamo papà.”

Poco dopo anche Elnath le raggiunse, sistemandosi accanto ad Eltanin per poi restare in silenzio per qualche minuto. 




Quel silenzio era a dir poco sospetto

L’ultima volta in cui non aveva sentito alcun rumore molesto aveva trovato i gemelli impegnati a togliere tutti i libri dagli scaffali più bassi della biblioteca per metterli in disordine, causandole una specie di esaurimento visto che per settimane non era riuscita a trovare i libri che cercava.

Così, quando si rese conto che non sentiva le loro voci o qualche tonfo da diverso tempo Elizabeth iniziò a cercarli, tirando un sospiro di sollievo quando li trovò tutti e tre in salotto, seduti davanti alla finestra. 

“Che cosa state facendo? È uno strano gioco?”
“No mamma, stiamo aspettando papà. Ti sei dimenticata che torna oggi?”

Lizzy inarcò un sopracciglio di fronte alla domanda quasi di rimprovero della figlia minore, astenendosi dal farle notare che no, non solo non l’aveva dimenticato ma aveva quasi contato i giorni. 

“Ho capito… posso aspettare con voi o è una cosa riservata?”

Quando i figli le accordarono il permesso di restare la strega sorrise, raggiungendoli per sedersi accanto ad Electra, mentre i bambini continuavano a chiedere dove fosse stato il padre e a fare cosa.

“Ve lo dirà lui quando tornerà.”


Cosa che sembrava destinata ad accadere in fretta, visto che poco dopo la figura di Altair comparve sul viale dopo essere Materializzato davanti alla casa. 

“Papà!”

Eltanin sorrise prima di praticamente saltare giù dalla finestra e sgambettare verso la soglia del salotto con i fratelli maggiori al seguito, correndo ad abbracciare le gambe del padre quando questi entrò nell’Ingresso. 

“Ciao ragazzi… vi sono mancato?”

Di fronte al coro di “sì” Altair sorrise, chinandosi per abbracciarli tutti e tre mentre Lizzy restava in disparte, seguendo la scena con un sorriso sulle labbra. 

“Liz, che fai lì, non ti sono mancato?”
La strega annuì prima di avvicinarsi e abbracciarlo a sua volta, assicurandogli a bassa voce che sì, le era mancato moltissimo. 


*


Quando Elizabeth Black aprì la porta della sua camera da letto per uscire in corridoio e andare a bere un bicchiere d’acqua dopo essersi svegliata si ripromise di fare il più piano possibile per evitare di svegliare i figli, ma ben presto si rese conto di non essere l’unica in piedi, nonostante l’ora tarda: la donna sobbalzò quando si rese conto di non essere sola nel corridoio e per poco non cacciò un grido, smorzato dalle parole di Elnath:

“Mamma, sono io!”
“NATH?! Che diamine stai facendo qui a quest’ora?!”

Lizzy sospirò, maledicendo il figlio per il colpo che le aveva fatto prendere mente metteva a fuoco la figura del ragazzo, che non solo era sveglio ma persino seduto su una sedia, proprio accanto alla sua porta. 

Il ragazzo però non rispose subito, esitando prima di borbottare qualcosa di appena comprensibile, rigirandosi la bacchetta tra le dita:

“Sto solo… controllando che vada tutto bene.”
“Controllando? Stai dicendo che avevi intenzione di passare la notte qui? … è una cosa che va avanti da molto?”

Lizzy accese la bacchetta per illuminare debolmente il corridoio, guardando il figlio stringersi nelle spalle mentre continuava a non guardarla, gli occhi chiari fissi sul pavimento:

“No, solo da qualche giorno… sai, da quando hanno fatto irruzione dai McKinnon.”
“Tesoro, non devi stare sveglio per controllare che non ci succeda nulla. Certo, sei un Auror adesso, ma non devi farlo comunque, ok? Non sentirti responsabile per noi quando tuo padre non c’è.”

Lizzy piegò le labbra in un sorriso, allungando una mano per accarezzare i capelli del ragazzo che si era appena diplomato all’Accademia, che annuì senza troppa convinzione prima che la madre lo abbracciasse, parlando con un tono dolce che di rado le si sentiva usare:

E poi, ti assicuro che liberarsi di me è davvero molto difficile.”


*


“Allora… tu e Aiden avete finalmente deciso dove andrete in luna di miele?”
“Lui voleva andare in montagna, io al mare e non ne andavamo più fuori… così alla fine gli ho proposto di giocarcela con una partita a carte, ha accettato e io ho vinto, quindi deciderò io la destinazione. Ma penso che gli farò una sorpresa e, mossa dal mio animo misericordioso, lo porterò qualche giorno dove vuole.”
“Come sei magnanima tesoro…”
“Lo so mamma, lo so.”

Eltanin annuì prima di sorridere alla madre con aria divertita, stringendo tra le mani una tazza piena di caffè fumante. 

“Beh, era ora, siete andati avanti quasi tre settimane senza mettervi d’accordo.”

Lizzy parlò quasi con sollievo, lieta di non dover più sentir parlare di viaggi di nozze mentre la figlia minore, seduta di fronte a lei, si stringeva nelle spalle:

“Lo so, ma alla fine abbiamo trovato la soluzione.”
“Già… lui si è accorto che hai contato le carte?”

“No, ovviamente.”

Eltanin sorrise alla madre prima di sporgersi verso la caraffa piena di caffè, versandosene un po’ sotto lo sguardo quasi malinconico della madre. Sguardo che non sfuggì alla ragazza, che parlò quasi con aria mortificata:

“Scusa, continuo a dimenticarmene… vuoi che beva qualcos’altro?”
“No, non fa niente, per fortuna ho sempre preferito il thè al caffè, anche se un po’ mi manca. In effetti, magari potrei berne giusto un sorso…”

Gli occhi scuri di Lizzy si catalizzarono sulla caraffa, e stava per allungare una mano e prenderla quando la voce di Altair giunse alle orecchie delle due dal salotto:

Posa l’osso!”

Alle parole del marito Lizzy sbuffò, ritraendo di scatto la mano mentre la figlia ridacchiava:

“Oh, andiamo… non saranno due dita di caffè ad uccidermi! E mi spieghi come fai? Hai occhi e orecchie in tutte le stanze della casa?”
“Naturalmente. Non puoi berlo Liz, punto e basta.”

La donna sbuffò, borbottando che non era una moribonda mentre invece la figlia sorrideva, guardandola con aria divertita:

“Vedo che qui le cose non sono cambiate di una virgola.”
“No, direi di no, le discussioni sono all’ordine del giorno.”

“Io e Aiden non litighiamo spesso, a parte la storia della luna di miele… in effetti l’ultima volta in cui vi abbiamo fatto visita insieme c’era parecchia tensione nell’aria.”

Lizzy inarcò un sopracciglio alle parole della figlia, guardandola con aria stralunata:

“Ah sì? Non me ne sono accorta…”
“Come puoi non essertene accorta? Non hai sentito il gelo?”

“Quello lo definiresti gelo? Ma tesoro, se io fossi così gentile con tuo padre lui probabilmente penserebbe che lo stia tradendo con un altro!”

Eltanin rise alle parole della madre, che invece era seria e continuò a guardarla con sincera perplessità. Anche quando una terza voce giunse di nuovo alle loro orecchie:

Mi è parso di sentire la parola “tradendo”… Lizzy, di cosa state parlando!?”
“Altair, smettila di origliare!”

“Io non origlio, ho solo un udito finissimo.”

“Strano, ieri ti ho chiesto di rinnovare l’abbonamento del giornale e tu non mi hai sentita!”


*


“Prima di completare il turno ho parlato con Burke… pare che non andrò in Bosnia, alla fine.”
“Davvero? Ti ha detto il motivo?”
“Pare ci abbia ripensato e che in quei due mesi preferirebbe sapermi qui, visto che lui sta per lasciare l’incarico e al Dipartimento ci sarà parecchia confusione…”

“Beh, meglio, no? Significa che si fida di te se preferisce che tu rimanga qui a controllare la situazione.”
Elizabeth inclinò le labbra in un sorriso mentre sollevava il suo bicchiere, bevendo un sorso d’acqua con nonchalance e ignorando deliberatamente lo sguardo dubbioso del marito.

“Già… mi chiedo solo cosa gli abbia fatto cambiare idea, così all’improvviso.”
“Chi può dirlo tesoro, forse con l’età è solo diventato un po’ più saggio. Mi passi il pane, per favore?”

Lizzy sorrise e Altair, dopo un attimo di esitazione, annuì e le passò il cestino con un piccolo sbuffo, decidendo di lasciar perdere.


*


Quando un elfo l’aveva informata di avere una visita Eltanin era quasi corsa nell’Ingresso, lasciando i gemelli di poche settimane a dormire nella loro camera per poi sorridere nel trovarsi davanti suo padre, abbracciandolo di slancio:

“Papà! Sei tornato prima, ti aspettavamo nel weekend!”
“Visto che so che quando non ci sono la famiglia viene colpita dal lutto ho fatto in modo di tornare prima. Come stanno i bambini?”

“Bene, dormono finalmente, averne due in un colpo solo è dura.”

Altair sorrise alle parole della figlia, estremamente sollevato che per lui i giorni di pianti e pannolini fossero finito:

“Oh, lo so molto bene. In realtà sono passato anche per chiederti se sai dov’è tua madre, sono tornato a casa e di lei nessuna traccia e a quest’ora dubito stia lavorando…. È per caso scappata con il vicino?”

Il sorriso di Altair non vacillò mentre invece quello della figlia sparì sentendo nominare la madre, mentre un campanello d’allarme iniziava a suonare nella sua testa: certo, lui non lo sapeva. 

La strega si schiarì la voce prima di parlare, cercando di usare le parole giuste per indorare la pillola il più possibile:

“Ecco, papà… a dire il vero la mamma non é a casa da qualche giorno, e non credo ci tornerà prima di domani.”
“Non è a casa? Dov’è?”


Il sorriso svanì anche dal volto di Altair, che si fece immediatamente serio mente teneva gli occhi fissi sul volto della figlia, che invece continuò a tentennare, evitando di guardarlo in faccia:

“Lei… non arrabbiarti, ti prego, abbiamo pensato fosse meglio non farti preoccupare mentre eri via…”
El. Dov’è tua madre?”




Electra Black in Shafiq era seduta su una sedia, impegnata a leggere un fascicolo paurosamente spesso. 
Ogni tanto i suoi occhi chiari si spostavano dalla carta per lanciare un’occhiata al letto accanto a cui era seduta, controllando che la madre dormisse. 

Lei, Elnath ed Eltanin avevano passato i giorni precedenti facendo a turno per tenerla d’occhio, così si era portata dietro non solo il lavoro ma anche sua figlia Alhena, che in quel momento era a zonzo per le corsie insieme alle infermiere che erano rimaste immediatamente conquistate dalla bambina di due anni.


Quando la porta della stanza si spalancò bruscamente l’Auror fece per intimare di fare piano a qualcuno, ma quando si trovò davanti suo padre le parole le morirono in gola, osservandolo con stupore:

“Papà? Che cosa ci fai qui?”
“Quello che avrei dovuto fare tre giorni fa, se qualcuno si fosse degnato di avvisarmi… come sta?”

“Meglio, sta dormendo. Sei tornato prima…”
“Già. E quando pensavate di dirmi che ha avuto un infarto, esattamente?”

“Non ha avuto proprio un infarto, e non volevamo farti preoccupare… per quando saresti tornato lei sarebbe tornata a casa e te l’avrebbe detto con calma.”


Ma il padre non sembrò sentirla mentre sedeva sul bordo del materasso, gli occhi azzurri fissi sul volto della moglie mentre le prendeva delicatamente una mano, sfiorando la pelle appena sotto l’attaccatura della flebo.


Lizzy?”

“Papà, lasciala dormire, è stata già un’impresa convincerla a restare qui…”
“Voglio sentire LEI dirmi come sta. Davvero voleva andare a casa? Soltanto lei può avere un infarto e non voler restare in ospedale…”

“Io non ho avuto un infarto…”

Il sussurro della moglie, che parlò prima di aprire pigramente gli occhi, lo fece sorridere, accarezzandole delicatamente il viso:

“Ciao.”
“Ciao Altair… sei tornato prima.”

Le labbra carnose di Lizzy si inclinarono in un sorriso mentre si tirava lentamente a sedere, guardandolo con gli occhi scuri annebbiati e parlando con un tono di voce molto più basso e stanco rispetto al normale. 

“Già, mi spiace aver rovinato i vostri piani… sei una stupida, perché non mi hai scritto, volevo esserci! Mia moglie non può avere un infarto senza che io ne sappia nulla!”

“Non prendertela con loro, ho insistito io… e ti ripeto che non ho avuto un infarto, possibile che tu senta solo ciò che più ti aggrada?”

Lizzy roteò gli occhi mentre Altair invece l’abbracciò con sollievo, ignorando le sue parole per dirle qualcosa a bassa voce:

“Non mi piacciono questi brutti scherzi, Lizzy… Come stai?”
Adesso molto meglio.”


*



Afferrò di scatto la balaustra mentre la vista le si annebbiava leggermente, cercando di ignorare il tremore alle gambe e la fitta di dolore al petto e di restare in piedi, evitando di scivolare dalle scale.

Elizabeth deglutì, sforzandosi di respirare normalmente e dicendosi che no, a 50 anni non poteva faticare a salire una rampa di scale.

Stava per lasciarsi scivolare e sedersi sul gradino per prendere fiato quando sentì una mano afferrarle la sua e un braccio cingerle delicatamente la vita prima che la voce di Altair giungesse alle sue orecchie:

Non si preoccupi Signora Black, la porto io al piano di sopra.”

Altair sorrise, ignorando le sue deboli proteste mentre la prendeva in braccio, salendo gli ultimi gradini della rampa:

“Facciamo che adesso mi ascolti e vai a riposarti, che ne dici?”
“Non mi devi fare da trasportino, Altair…”

Come no, credevo fosse nell’accordo pre-matrimoniale! Fa parte del pacchetto che hai acquistato.”

Altair sorrise e a Lizzy, non avendo neanche la forza di opporsi, non restò che lasciarlo fare, appoggiando il capo sulla sua spalla.
Come sempre, Altair Black l’ascoltava soltanto da un orecchio, ovvero sentiva solo quello che voleva… ma per una volta, gliene fu immensamente grata. 


*


“… e vissero per sempre felici e contenti. Fine della storia ragazzi.”

Electra, seduta sul tappeto in mezzo al salotto, circondata da figli e nipotini, sorrise mentre chiudeva il libro di favole. I bambini fecero per chiedere un’altra storia quando una voce, quasi seccata, giunse alle orecchie di tutti i presenti:

Che gran mucchio di st… upidaggini.”

“Mamma! Non demolire le favole davanti ai bambini!”
“Oh, andiamo El, non dirmi che ti piacciono… Servono solo a creare false ideologie nei bambini. Come se la gente se ne andasse in giro e si innamorasse del primo che passa! La principessa saltella nel bosco, incontra il belloccio… e cosa fa? Scappa perché potrebbe essere un maniaco? Ma certo che no, balliamoci e cantiamoci insieme. Io non ci credo, al colpo di fulmine.”

“Perché no nonna?”
“Perché non penso ci si possa innamorare solo guardandosi in faccia, tesoro… qualcuno potrebbe avere una faccia splendida e avere il carattere peggiore del mondo.”

Lizzy, seduta sul divano tra il marito e Eltanin, si strinse nelle spalle alla domanda di Elaine, mentre Altair si voltò verso di lei con un sopracciglio inarcato:

Scusa, ti stai riferendo a qualcuno in particolare?”
“Perché l’hai pensato?”

Lizzy piegò le labbra in un sorriso mentre sia Elaine che Alhena ed Enif si avvicinavano alla nonna, guardandola con aria speranzosa:

“Tu e il nonno come vi siete innamorati?”
“Questa è una bellissima domanda… vorrei saperlo anche io.”

Elnath, seduto sul secondo divano con Mira in braccio e la moglie accanto, rivolse un sorriso divertito in direzione dei genitori, mentre Altair quasi soffocava una risata:

“Decisamente non guardandoci in faccia tesoro… la nostra è una storia molto lunga.”
“Ce la raccontate? Ti prego!”

Di fronte agli sguardi imploranti delle tre bambine, e ben presto si unirono alle richieste anche Adhara e Diadema, la donna roteò gli occhi, annuendo:

“Se proprio volete… Altair? Ti concedo di raccontare la tua versione, ma cerca di non dipingermi troppo male.”
“Tenterò. Allora fanciulle…”

“Aspetta, vieni al posto della zia.”

Elaine afferrò il nonno per una mano, costringendolo a lasciare il bicchiere di Whiskey sul tavolino e a sedersi sul tappeto per poi sistemarglisi in braccio, sorridendo con aria soddisfatta mentre Electra si alzava ridacchiando, cedendo il posto al padre per poi sedersi tra madre e sorella. 

“D’accordo… come ha detto la nonna é una storia lunga… tutto è iniziato nell’estate di un bel po’ di anni fa, con una granita al cioccolato… anzi, volendo essere precisi credo sia iniziato tutto ben prima. Sapete bambine, nella realtà la principessa, temendo che il principe abbia effettivamente cattive intenzioni, prima di sposarlo e vivere felici e contenti gli dà un pugno in faccia, rompendogli il naso.”



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Capitolo 12
*** Let’s kidnap Santa! ***


Let’s kidnap Santa! 

Eltanin Black  Image and video hosting by TinyPicAiden BurkeImage and video hosting by TinyPic 



“Te lo ripeto per la centesima volta: non sono io a pensarlo, è una specie di dato di fatto!” 
“Ah sì? Mostrami una ricerca documentata e poi ne riparliamo, allora.” 

“Non c’è bisogno di nessuna ricerca Burke, basta che tu faccia un rapido sondaggio agli esseri umani che ti circondano e forse, se scenderai dal piedistallo, ti renderai conto che ho ragione.” 

“Non mi interessa cosa pensano gli altri, IO rimango fermo sulla mia posizione.” 

Eltanin sbuffò, borbottando a mezza voce che non aveva mai nutrito dubbi a riguardo prima di parlare di nuovo, osservando il futuro marito con cipiglio seccato:

“Beh, sai che ti dico? Non mi interessa, io voglio andare al mare!” 
“E io in montagna!”
“Ma chiunque vuole andare a prendere il sole in luna di miele, l’unico anormale sei tu!” 

“Lo sai che odio la sabbia!” 
“Andiamo sugli scogli, allora.”
“Ma mi taglierò i piedi!” 
“Soffrirai, come il resto dell’umanità! Non voglio andare in montagna, odio il vento… e se poi arriva un orso!?” 

“Andremo dove non ci sono orsi! E poi al mare ci sono le meduse!” 

Eltanin roteò gli occhi, intuendo che quella discussione sarebbe andata per le lunghe: mancavano due mesi al matrimonio e ancora non avevano deciso, di quel passo si sarebbero ritrovati a discuterne persino davanti all’altare.

“Ok… allora facciamo dieci giorni al mare e dieci giorni in montagna?” 
 “Una settimana al mare e due in montagna, prendere o lasciare.” 

“Non ci penso proprio! Faremo le cose equamente, o in alternativa staremo al mare per tutto il tempo.” 
“Tre settimane al mare? Vuoi vedermi immusonito per tutto il tempo?” 

“Allora vai a fare l’eremita da solo, io farò la luna di miele con Veronica!” 

Eltanin sbuffò prima di prendere in mano la bacchetta che, fino a quel momento, aveva lasciato sul tavolo davanti al quale si era seduta per discutere con lui del matrimonio. Per un attimo Aiden temette quasi che stesse per affatturarlo, ma fortunatamente la ragazza si limitò ad agitarla per far comparire qualcosa, parlando con un tono che non ammetteva repliche:

“Ho deciso, faremo esattamente come fanno da anni i miei genitori quando non riescono a mettersi d’accordo su qualcosa… ce la giochiamo. Loro usano gli scacchi, ma io preferisco le carte.”


*


“Mi vuoi dire dove stiamo andando?”
“No.”

Aiden continuò a camminare con lunghe falcate, tenendo la moglie per mano mentre Eltanin sbuffava, arrovellandosi sulla “sorpresa” che il ragazzo smembrava aver architettato. 
Disgraziatamente le sorprese le erano sempre piaciute moltissimo, fin da bambina, e da quando le aveva detto che sarebbero usciti non faceva altro che implorarlo di dirle dove fossero diretti, morendo dalla curiosità. 

“Andiamo, lo sai che sono terribilmente curiosa!”
“Lo so, sei peggio dei bambini…”

Aiden roteò gli occhi, parlando con una nota di esasperazione nella voce mentre accanto a lui Eltanin sbuffava, impaziente di sapere dove stessero andando. 

Fu solo quando i suoi occhi scuri si posarono su un edificio che capì, collegando immediatamente tutti i pezzi prima di piegare le labbra in una smorfia, intuendo PERCHÉ l’avesse costretta ad uscire un quarto d’ora prima. 

“No! Aiden, non pensarci neanche.” 
La Corvonero smise di camminare, fermandosi bruscamente e incrociando le braccia al petto con aria risoluta mentre il marito si voltava, rivolgendole un’occhiata eloquente:

“Temo propio che tu non abbia molta scelta El… non pensi che sia arrivato il momento di farlo? Non vuoi saperlo finalmente con certezza?”
“NO, grazie, mia madre l’ha saputo a 45 anni e se le cose dovessero andare così, per me non ci sarebbe alcun problema.”
“Per me invece SÌ, quindi ora entriamo e TU ti fai fare quegli esami!”

“Brutto traditore, mi trascini fuori di casa e mi porti davanti al San Mungo con l’inganno, stanotte dormi sul divano!”
“Non ci dormo sul divano, abbiamo 17 camere da letto!”
“Beh, sigillerò le porte, così sarai costretto ad usare il divano. Non voglio fare nessun esame, torno a casa.”

La Corvonero sbuffò e fece per voltarsi quando Aiden parlò di nuovo, con il tono più calmo e paziente che gli riuscì:

“Eltanin, lo so che infondo ti spaventa, per questo ti rifiuti di pensarci… ma prima o poi dovrai farlo, i tuoi fratelli l’hanno fatto già da due anni! E anche se Elnath ce l’ha, non ne ha fatto un dramma.”
“Io non ne faccio un dramma, infatti, ma se dovessi aver ereditato la malattia al cuore da mia madre non voglio passare i prossimi sessant’anni con TU che mi tratti come una moribonda.”

“Eltanin, devi fare la visita. EL! Guarda che ti porto dentro di peso, se non mi dai retta!”

Visto che Eltanin si era già girata per poi allontanarsi Aiden si ritrovò a sbuffare, raggiungendola rapidamente per poi prenderla per un braccio e trascinarla quasi di peso verso il vecchio magazzino, ignorando deliberatamente le sue proteste. 

“Aiden, mollami! Qui è pieno di Babbani, ma ti assicuro che una volta dentro al San Mungo ci resteremo a lungo, ti ridurrò così male che non ne uscirai prima di domani!”

“Correrò questo rischio. Almeno potrò dormire su un letto, stando qui.”


Aiden roteò gli occhi, continuando a camminare verso il vecchio magazzino abbandonato che celava l’ingresso dell’ospedale. O almeno finchè le proteste della ragazza che si trascinava appresso non attirarono l’attenzione di un uomo, vestito in un modo che Aiden giudicò piuttosto eccentrico, che si avvicinò alla coppia:

“C’è qualche problema?”

Aiden si strinse nelle spalle di fronte a quella domanda, ignorando la risposta secca della ragazza – un “sì” piuttosto acido – prima di parlare a sua volta, usando un tono neutro:

“No, nessun problema… è mia moglie.”

Gli occhi del poliziotto saettarono sulla fede d’oro che il ragazzo portava effettivamente al dito prima di accennare un sorriso, limitandosi ad annuire – come se capisse – prima di allontanarsi sotto lo sguardo attonito di Eltanin:

“Beh? Tutto qui? Ma in che razza di società viviamo, potrebbe anche essere uno stupratore seriale!”
“Che dici El, con questa faccia…”

“Faresti meglio a tacere e ad ammirarla per bene, perché tra poco i tuoi connotati cambieranno significamente.” 



*

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“El! Dove sei?”

Aveva appena parlato, chiudendosi la porta alle spalle, quando la voce della moglie giunse alle sue orecchie in un sussurro concitato, intimandogli di parlare a bassa voce visto che era appena riuscita a far star buoni i gemelli.

“D’accordo, scusa… dove sono?”
“Di là. A proposito, vieni a vedere cosa gli abbiamo comprato io e mia sorella oggi pomeriggio.”


Eltanin sfoggiò un largo sorriso mentre lo prendeva per mano, guidandolo verso al salotto dove, un attimo dopo, il pozionista si ritrovò a guardare i figli, entrambi appisolati e rannicchiati sul divano. 

La Corvonero soffocò una debole risata di fronte alla faccia del marito, che si accigliò considerevolmente prima di avvicinarsi di qualche passo ai figli, osservandoli a metà tra il divertito e l’esasperato:

“El… ma come li hai conciati?”
“Beh, tra poco è Carnevale, anche loro devono avere un costume!”

Eltanin sorrise, fermandosi accanto a lui per ammirare i bambini con gli occhi scuri luccicanti, già immaginando le risate che i suoi genitori avrebbero fatto nel vedere i nipotini con due costumi da orsetti identici addosso.


*


Aiden Burke era seduto sul divano, in salotto, tenendo la figlia Elaine in braccio mentre Alexander era seduto sul tappeto, impegnato a giocare con le costruzioni. 

E mentre la bambina sonnecchiava tra le braccia del padre, gli occhi socchiusi e l’aria rilassata mentre teneva mollemente le piccole mani sul biberon che il padre reggeva, Aiden continuava a seguire gli spostamenti e i borbottii della moglie, che da quasi dieci minuti non faceva altro che marciare avanti e indietro, cercando qualcosa. 

“El, dovresti essere già uscita a quest’ora… che ci fai ancora qui? E soprattutto, mi dici cosa stai cercando?” 
“Le chiavi, ecco cosa! Maledizione, perché non le trovo da nessuna parte?” 

“Hai pensato di appellarle?” 

Aiden inarcò un sopracciglio e a quella domanda Eltanin sorrise, annuendo e avvicinandoglisi di qualche passo mentre parlava con un tono eccessivamente zuccheroso per i suoi canoni:

“Sai Aiden, è proprio per queste tue perle di saggezza che ti ho sposato… CERTO che ci ho pensato! Ma non trovo neanche la bacchetta, questa casa risucchia le mie cose e non me le fa più trovare!” 
“Ne dubito fortemente El… Hai guardato nel porta-chiavi dell’ingresso?” 

“Certo che sì, ma non ci sono! E non posso uscire senza, hanno bloccato tutti i camini e tu e mio padre avete insistito per tutti quegli incantesimi di protezione, quindi senza chiavi rimarrei chiusa fuori visto che dopo tu devi andare al lavoro!” 
“Non vorrei mettere il dito nella piaga, ma Berenike odia quando si arriva in ritardo…” 

“Lo so, grazie!” 

Eltanin sbuffò, avvicinandosi alla credenza per setacciare anche quel mobile mentre invece, sul tappeto, Alexander aveva smesso di prestare attenzione ai giochi quando l’aveva vista entrare nella stanza, allungando le braccia verso di lei e chiamandola debolmente con aria implorante, senza però che la madre sentisse i suoi mugugni indefiniti.


“Qui non ci sono, ma come è possibile?!” 
“Sai El, non è difficile, basterebbe lasciare le chiavi nel porta-chiavi appeso nell’ingresso che ti ha regalato tua madre, ha persino la forma di una grande chiave…” 

“Stendiamo un velo pietoso, il maledetto sarcasmo di mia madre trabocca persino nei suoi regali! Non le trovo Aiden, qualcuno è entrato e le ha rubate!” 
“Naturale, e ha lasciato qui gioielli e quant’altro…” 

Aiden roteò gli occhi, continuando a cullare distrattamente la figlia prima di abbassare lo sguardo su Alexander che, con un’espressione sempre più malinconica dipinta sul volto, teneva gli occhi scuri fissi sulla madre. E non sembrava affatto felice di non essere coccolato come stava chiedendo. 

“Eltanin… Alex.” 
Il tono allarmato del marito costrinse la Corvonero a voltarsi, puntare gli occhi sul figlio e affrettarsi a raggiungerlo per prenderlo in braccio… ma ormai il bambino aveva già iniziato a piangere in segno di protesta. 

“Amore, scusa, ma la mamma ora deve andare via… non piangere, su.” 

Eltanin sospirò, prendendo il figlio in braccio mentre Aiden abbassava lo sguardo sulla figlia, pregando che la situazione non degenerasse.
“Portalo di là, non lo deve vedere piangere!” 

Ma Aiden non fece quasi in tempo a finire di parlare perché poi avvenne: Elaine, distolta l’attenzione dal suo spuntino, posò gli occhi chiari sul fratello, osservandolo con leggera perplessità per un paio di secondi – come se si stesse chiedendo cosa stesse succedendo – prima di iniziare a singhiozzare a sua volta. 

“No Elaine, non di nuovo! Ma perché fanno così, perché ogni volta in cui piange uno inizia anche l’altro?” 
“Non ne ho idea, sarà una forma di solidarietà… la colpa è tutta delle chiavi, comunque!” 

“È colpa tua, perché lasci le tue cose nei luoghi più disparati, persino la tua testa è in disordine.”


*



“Guardala bene, è così carina…”
“El, no. Non se ne parla, te ne ho regalato uno per Natale!”

“Ma non potevo lasciarla lì, siamo in pieno Inverno, avrà freddo! E poi hai visto che occhi dolci ha?”

Eltanin sorrise, accarezzando il lungo pelo del Cavalier King che teneva in braccio, mentre la cagnolina teneva i grandi occhi imploranti fissi su Aiden, come se volesse convincerlo a sua volta a permetterle di restare. 

“Eltanin, non puoi adottare tutti i cani che vedi!”
“Ma l’hanno lasciata in mezzo alla strada e legata ad un palo in pieno inverno, scusami tanto se ho un cuore.”
“Non ho detto che avresti dovuto lasciarla lì, ma ora la porti in un canile.”

“Ma non posso abbandonare Ginger, lo ha già subito una volta!”
“Ginger? Le hai già dato un nome?!”

“Sì, stavo giusto pensando a come avrei chiamato il nostro prossimo cane…”
“El, ne abbiamo già tre. Ti ho regalato una cucciola di Setter Irlandese un mese fa.”
“Appunto, abbiamo due maschi e una femmina, a Candy serve qualcuno con cui giocare… vado a presentarle Ginger! Tranquilla piccolina, adesso ci sono io.”

“El, non osare andare di sopra… so benissimo cosa vuoi fare!”
“Ah sì?”

“Certo, se i bambini dovessero vederla saremmo costretti a tenerla!”

Aiden sbuffò e fece per alzarsi e sottrarre il cucciolo dalle braccia della moglie quando sulla soglia del salotto spuntarono Elaine e Adhara, mano nella mano: 

“Mamma, possiamo fare merend- Oh! Un cucciolo!”

Merda 

Elaine si avvicinò di corsa alla madre, guardando il cane con gli occhi chiari luccicanti e un enorme sorriso stampato sul volto: 

“È per noi?”
“Non proprio…”
“Come si chiama?”
“Ginger!”

“No, non si chiama Ginger! E non la teniamo.”

Aiden sbuffò con aria contrariata, incrociando le braccia al petto mentre le due bambine si voltavano verso di lui, guardandolo con aria malinconica:

“Pecchè no?”
“Perché abbiamo già molti animali, Adhara… non mi guardare così.”

Il Serpeverde sbuffò, cercando di non badare alla figlia più piccola di due anni, che lo stava guardando con gli occhi verde-azzurri imploranti: 

“Che cattivone, ferisci così le tue figlie?”
“Eltanin, evita.”

“Pe’ favore!”
“Sì papà, per favore!”

“… va bene. Ma in questa casa non entreranno altri cani per i prossimi cinque anni, chiaro?!”

“Ok… posso tenerla?”  Elaine sorrise alla madre, che ricambiò e le sistemò la cagnolina tra le braccia mentre Adhara trotterellava verso il padre, allungando le braccia verso di lui per farsi prendere in braccio e lasciargli un bacio su una guancia. 

“Che piccola ruffiana…”

Aiden scoccò un’occhiata torva alla figlia minore, che però gli sorrise allegramente e si accoccolò tra le sue braccia mentre Elaine correva fuori dalla stanza:

“Alex! Abbiamo un nuovo cucciolo, guarda!”

“Come volevasi dimostrare, alla fine l’ho avuta vinta.”
“Solo per questa volta… in cambio quest’inverno vi trascinerò tutti in vacanza montagna, nessuna discussione.”


*


Eltanin stava frugando nello scatolone degli addobbi natalizi, cercando la maledetta stella d’oro che sua madre l’aveva incaricata di cercare. 
Avevano sempre avuto così tanti addobbi da impiegare più giorni a sistemare la casa per le feste e quell’anno si era trascinata i figli appresso, così come sua sorella e sua cognata, per aiutare la madre a decorare la villa.

Stava per dire alla madre, impegnata con le ghirlande nella stanza accanto, che non era riuscita a trovare il puntale quando qualcosa attirò la sua attenzione, facendole sgranare gli occhi scuri con sincera sorpresa.

Eltanin tirò fuori dalla scatola un piccolo cerchietto, munito di due corna di stoffa e delle campanelle, a lei piuttosto familiare prima di sorridere, chiedendosi come avesse fatto a dimenticarsene per diversi anni: 

“Adhara! Vieni qui.”
“Che c’è mamma?”

“Mettiti questo… era mio, lo mettevo sempre a Natale.”

Eltanin sorrise mentre infilava il cerchietto in testa alla figlia minore, che sfiorò le corna di stoffa prima di sorridere a sua volta. L’espressione allegra però prese il posto di puro stupore quando posò lo sguardo su qualcos’altro che faceva capolino nello scatolone:

“Mamy… perché c’è il cappello di Babbo Natale lì?!”
“Ehm…”

“El, hai trovato il puntale? Il cerchietto! Dov’era?”
“Nello scatolone… ma non ho trovato il puntale, mi spiace.”

“Nonna, perché hai il capello di Babbo Natale?”

Adhara si avvicinò alla nonna, sempre più confusa mentre Lizzy ed Eltanin si scambiavano un’occhiata incerta, prima che la prima si schiarisse la voce:

“Beh, lo ha dimenticato qui l’anno scorso, quando ha portato i regali per voi.”
“Ah…”

“Mi ricordo quando gironzolavi per casa con questo in testa… Costringevi tuo padre a mettere il cappello.”
“Sì, me lo ricordo. Dici che lo farebbe anche adesso, se gli facessi gli occhi dolci?”

“Non so se hai ancora lo stesso ascendente di quando avevi tre anni… Adhara? Porta questo dal nonno e chiedigli di metterlo, ok?”

Lizzy sorrise alla nipotina, porgendole il berretto rosso e bianco che la bambina prese con un sorriso, trotterellando fuori dalla stanza per raggiungere il nonno in salotto. 



“Nonno? Ti metti questo?”

Sentendo la voce della nipotina Altair si voltò, restando di stucco nel trovarsi davanti ad un pauroso déjà vu: per un attimo gli sembrò di avere ancora davanti la figlia minore in tenera età, provando quasi un moto di malinconia prima di concentrarsi sul berretto fin troppo familiare che Adhara teneva in mano:

“Ancora quel berretto? Te lo ha dato la nonna?”
“Sì, dice che lo devi mettere. Ti prego!”

“… va bene, dammelo.”


L’Auror alzò gli occhi azzurri al cielo mentre prendeva il berretto, infilandoselo in testa prima di sentire la risatina della nipote e, subito dopo, anche della figlia:

“Avevo quasi scordato quanto ti stesse bene!”
“El, non prendermi in giro, tu eri così fissata con quel cerchietto da volerlo tenere anche di notte.”

“Davvero? Non lo ricordo… mamma, è vero? Mamma? … mamma, ti sei commossa?!”

“No, solo che questa roba libera un sacco di polvere!”
“La tua capacità di inventare allergie di sana pianta continua a sorprendermi, Liz.”


*

Eltanin teneva gli occhi fissi sui fogli che aveva davanti, prestando scarsa attenzione alle parole della figlia che, in piedi accanto a lei nel salotto, stava protestando:

“Solo uno!”
“No Elaine, abbiamo già quattro cani, non pensi siano abbastanza? E poi non penso che papà ne sarebbe molto felice…”
“Ma i crup sono tanto carini!”

“Certo che sono carini, ma non ne avrai uno per il tuo compleanno, mi spiace.”

La Corvonero parlò con nonchalance, senza nemmeno posare gli occhi sulla bambina che invece sbuffò, gonfiando le guance con irritazione:

“Mi dici sempre di no! Vado dalla nonna e dal nonno!”
“Fai pure, se vuoi una mano con i bagagli chiamami…”

Eltanin annuì distrattamente, parlando con tono neutro mentre la bambina invece girava sui tacchi e poi si allontanava con aria risoluta, sparendo dalla sua visuale. 
E solo allora la madre sorrise, iniziando a contare mentalmente. 

Quanto ci avrebbe messo?


Circa due minuti dopo Eltanin sentì nuovamente dei passi e alzando lo sguardo si ritrovò la figlia accanto, che teneva le braccia conserte e il suo migliore broncio dipinto sul volto: la Corvonero sgranò gli occhi, sollevando le sopracciglia con studiato stupore prima di parlare:

“Hai già fatto i bagagli? Hai fatto in fretta! Allora ora puoi andare.”
“Non riesco ad arrivare alla maniglia della porta!”

Il tono sconsolato della bambina la fece quasi ridere, ma si trattenne e restò seria, annuendo come se capisse, prima di parlare con un tono dubbioso:

“Beh, questo è un bel problema… come pensi di risolverlo?”
“Non lo so!”

Elaine sospirò con aria sconsolata vedendo i suoi piani andare in frantumi, mentre la madre reprimeva a fatica un sorriso. 

Le stava per suggerire di trovare un piano alternativo per andarsene di casa e trasferirsi altrove quando un rumore familiare le fece voltare entrambe verso il camino, giusto in tempo per vedere una certa donna fare la sua comparsa.

“Nonna!”

Elaine si illuminò vedendo la nonna materna, sorridendo prima di correrle incontro e chiedere di essere presa in braccio. 
Ovviamente Elizabeth la accontentò, sorridendo alla bambina mentre si avvicinava alla figlia, che invece la guardò con evidente stupore:

“Mamma, che cosa fai qui?”
“Nonna, mi compri un crup per il mio compleanno? Vorrei un maschio e lo chiamerei Cookie.”
“Certo tesorino!”

La bambina sorrise con aria soddisfatta, voltandosi verso la madre per farle la linguaccia mentre Eltanin sospirava, rivolgendosi alla madre con tono di rimprovero:

“Mamma, io le ho appena detto che non può averlo, non puoi comprarglielo tu! Voi li viziate già a sufficienza.”
“Tesoro, è una legge, tu sei la madre e li educhi, io sono la nonna e li vizio. Ma sono venuta per informarti che i Burke si stanno mettendo sul piede di guerra, i genitori di Aiden vogliono pianificare un maledetto fidanzamento per lei e Alex!”

“Non mi stupisce, loro si sono sposati per volere delle rispettive famiglie… ma ovviamente noi siamo contrari, non preoccuparti.”
“Certo che siete contrari, e proprio perché lo sanno vogliono che ti convinca ad accettare… Questi Burke mi faranno diventare matta, prima il nonno di Aiden mandava tuo padre a destra e a sinistra facendomi saltare i nervi, ora i suoi genitori mi torchiano per incastrare i miei nipotini… Quella famiglia sarà la mia rovina! Senza offesa per Aiden, ovviamente.”

“Tranquilla, nessuna offesa.”

Eltanin sorrise con aria divertita mentre Elaine invece si rivolgeva di nuovo alla nonna, sgranando gli occhi:

“Anche io nonna?”
“Ma certo che no amore, tu sei il mio dolce fagottino alle mele ricoperto di zucchero e cannella, ma un giorno o l’altro ridurrò male qualche altro Burke.”
“Allora posso venire a vivere da te e dal nonno?!”

“Perché?”
“La mamma è cattiva!”

“Mamma, ti ricordi quando dicevi che tua madre si sbagliava quando diceva che “I figli sono una gioia” e noi ci offendevamo? Ora posso capirti, sei perdonata.”

“Sapevo che questo giorno sarebbe arrivato, prima o poi… come volevasi dimostrare, io ho sempre ragione.”


*


Era sceso nel salotto per sistemare i regali sotto l’albero come sempre, ma per fortuna Aiden ebbe l’accortezza di accendere la luce, sobbalzando quando si trovò davanti il figlio di sei anni, seduto sul divano con il pigiama e le pantofole addosso:

“Alex! Cosa ci fai qui? Dovresti dormire da un pezzo!”
“Sto aspettando Babbo Natale… tu cosa fai?”

“Beh… volevo vedere se era già passato. Ma non ricordi cosa ti ha detto la mamma? Se i bambini non dormono non porta nessun regalo, è la regola.”
“Ma voglio vederlo! Mi aiuti a catturarlo?”

“Perché vuoi catturarlo?!”
“Così avrò giochi nuovi tutti i giorni!”

Alexander sfoggiò un sorrisetto e Aiden non seppe se ridere o sbattere la testa contro il muro, rendendosi conto di avere già una chiara idea della Casa dove sarebbe finito il bambino cinque anni dopo:

“Ci mancava questa… Non puoi rapire Babbo Natale Alex, ti metterebbe nella lista dei bambini cattivi… su, andiamo a dormire.”
“Va bene... lo catturerò l’anno prossimo! Dici che si arrabbierà? Avevo fame e ho mangiato i suoi biscotti…”

Alexander scivolò giù dal divano per avvicinarsi al padre, prendendolo per mano per tornare nella sua camera mentre Aiden alzava gli occhi al cielo:

“No, non penso se la prenderà…”

Babbo Natale forse no, ma LUI sì, visto che di solito era lui a mangiarli… erano l’unica cosa positiva di doversi alzare nel cuore della notte per sistemare i pacchi sotto l’enorme abete, in pratica.


*


“Sono a casa… cosa fate di bello?”
“Stiamo giocando. Ho battuto papà due volte!”

Adhara sorrise allegramente alla madre quando Eltanin entrò nel salotto sfilandosi il mantello, accennando alle carte da con cui stava giocando con il padre. 

“Davvero? Ma che brava…”
“Sì! Allora, rimangono… Due leoni… due koala… e due zebre. Papà, ho vinto?”
“Sei troppo brava Adhara, mi batti sempre!”

Aiden, parlando con il tono più malinconico che gli riuscì, scosse il capo mentre invece la bambina sfoggiò un sorriso allegro, annunciando che sarebbe andata a chiedere di giocare anche ai fratelli prima di trotterellare fuori dalla stanza.

“E pensare che tu odi perdere… mai avrei pensato di vederti persino farlo di proposito.”
“Solo con loro, non farti strane idee El, non ti farò mai vincere di proposito.”

“Non mi serve caro, ti batto comunque… le foto delle Maldive della Luna di Miele lo dimostrano.”

“Mi sono sempre chiesto se non stessi contando le carte, quel giorno…”

Aiden inarcò un sopracciglio, osservando la moglie con leggero sospetto mentre Eltanin invece sorrideva, stringendosi nelle spalle prima di allontanarsi e uscire da salotto:

“Non lo saprai mai, tesoro.”



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Capitolo 13
*** Do you need help? ***


Do you need help?
 
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Hogwarts era indubbiamente più grande rispetto alla Cimmeria, ma era sempre riuscito ad orientarsi perfettamente dentro al castello, eccetto forse per il primo periodo trascorso lì.
Era arrivato nella sua nuova scuola da appena pochi giorni e, come volevasi dimostrare, ogni giorno vagava per interminabili minuti prima di trovare la sua destinazione, che fosse l’aula giusta o il suo Dormitorio… difficilmente avrebbe dimenticato quando era capitato per sbaglio nel Dormitorio femminile, beccandosi una colossale strigliata da parte del Vicepreside. 

Stava cercando la Biblioteca per studiare, visto che la Sala Comune era come sempre affollatissima e confusionaria, ma ci era stato solo una volta, al primo giorno quando aveva fatto un rapido giro della scuola, e ricordava a fatica come ci si arrivasse.

Quei corridoi sembravano tutti uguali, pieni di porte che conducevano a rampe di scale interne, e la fortuna non sembrava essere dalla sua parte visto che non aveva ancora incrociato nessuno per chiedere indicazioni. 

Stava prendendo in considerazione l’idea di girare sui tacchi e tornare indietro – sempre di riuscire a farlo, ovviamente – quando una voce giunse alle sue orecchie, provocandogli un moto di sollievo:

“Ti serve una mano?” 

L’ex Corvonero si voltò e abbozzò un sorriso in direzione della ragazza che aveva davanti, annuendo:

“In effetti sì… sapresti dirmi dov’è la Biblioteca?”
“Ultima porta a sinistra, troverai delle scale… scendile, ti troverai in un corridoio. La porta a doppia anta è quella giusta.”

“Grazie…”
Francisca. Non preoccuparti, è normale, anche Alexandrine si perdeva di continuo, quando è arrivata qui, l’anno scorso.”

Frankie piegò le labbra in un sorriso mentre si avvicinava al nuovo compagno di scuola, che associò il nome alla ragazza dai capelli rossi che aveva conosciuto la prima sera e che, ripensandoci, gli aveva presentato proprio la ragazza che aveva davanti. 

“Tu sei qui dal primo anno?”
“Sì. Vieni, ti accompagno, se vuoi.”
“Grazie.”

Adrianus le sorrise con gratitudine, seguendola fino alla fine del corridoio: 

“Se hai bisogno di una mano chiedi pure… nessuno capisce come sia trovarsi nel mirino di Jefferson più di me, non sono esattamente la sua studentessa preferita… eri tu quello che è capitato nel nostro Dormitorio, vero?”
“Purtroppo sì.”

Il tono cupo del ragazzo la fece sorridere, rivolgendogli un’occhiata carica di compassione mentre scendeva la ripida rampa a chiocciola:

“Sei arrivato da meno di una settimana Adrianus, vedrai, andrà meglio. Penso che ti piacerà stare qui.”
“Lo spero… e comunque, chiamami Steb, lo fanno tutti.”


“Come preferisci… allora tu puoi chiamarmi Frankie.”

Si voltò e gli rivolse un sorriso mentre il ragazzo annuì, ricambiando e appuntandosi mentalmente di non scordare più il suo nome. 
Cosa che, anche se ancora non lo sapeva, gli sarebbe risultata comunque molto difficile.

Alexa aveva ragione.”
“A proposito di cosa?” 

“La prima sera l’ho incrociata, ha riconosciuto sulla mia faccia la sua stessa espressione smarrita di un anno fa e si è presentata… mi ha anche accennato alla sua migliore amica, sostenendo che fosse un vero e proprio zuccherino. Allora è vero che non tutti quelli che sono qui per ereditarietà sono dei palloni gonfiati, ad Hogwarts si sbagliano.”

“Oh, alcuni lo sono… Jackson Wilkes non scherza, e nemmeno Sebastian Ryle, per citarne qualcuno del nostro anno. Alastair Shafiq si salva.”
“Alastair mi piace, e anche Jackson… sembrano simpatici.”

“Questione di punti di vista. Ecco la Biblioteca, comunque.”

Francisca si strinse nelle spalle, parlando con un tono piuttosto neutro mentre Adrianus, arrivato finalmente a destinazione, le rivolgeva un sorriso carico di gratitudine: 

“Ti ringrazio, se mai dovessi perdermi di nuovo, cosa che di certo succederà entro la fine del weekend, ti farò un fischio. Sei la prima che si ferma per aiutarmi,”
“Non essere ridicolo, credo che almeno una ventina di ragazze sarebbero ben felici di darti indicazioni... buono studio.”


Francisca gli rivolse un cenno prima di girare sui tacchi e allontanarsi lungo il corridoio, lasciandolo nuovamente solo. Adrianus però esitò invece di varcare la soglia della Biblioteca, osservandola prima di parlare nuovamente: 

“Frankie?”
“Sì?”
“Non mi piace studiare da solo… mi faresti compagnia?”


La vide accigliarsi leggermente, quasi stupita da quella richiesta, prima di annuire, sorridendo leggermente:

“Certo, con piacere.”

Accettò con la certezza che presto, probabilmente entro due settimane, Adrianus Stebbins avrebbe trovato qualcun altro a cui chiedere aiuto o di studiare insieme, magari qualcuno di ben più socievole, spigliato o popolare di lei. Cosa che però non accadde per tutti e tre gli anni che seguirono, per tutto il tempo che trascorsero insieme.

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Capitolo 14
*** The Fox and the Sparrow ***


The Fox and the Sparrow
 
 
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Isla Robertson in Krueger teneva gli occhi scuri fissi sul marito, che era in sella al suo cavallo e procedeva al passo in mezzo alla neve nell’ampia tenuta della sua famiglia, maledicendolo mentalmente per aver trasmesso la sua maledetta passione per gli equini anche alla figlia maggiore, che sorrideva mentre era in sella ad un cavallo da sola per la prima volta.

“Mamy?”
Isla abbassò lo sguardo sulla secondogenita, rivolgendole un’occhiata allarmata mentre da sotto al berretto di lana con pompon si riuscivano ad intravedere solo un paio di ciuffi di capelli e gli occhi castani di Chloè:

“Ti prego, non dirmi che vuoi salire su quei… così anche tu.”
“No, mi fanno paura. Però possiamo andare dentro, ho freddo!”

“Tu vai pure dalla nonna se vuoi, io rimango qui.”

A controllare che Iris non cadesse da cavallo rompendosi il collo. 
La bambina però sbuffò, mormorando che voleva stare con lei mente si stringeva alla sua gamba. 


“Ti capisco, sai? Lui e Dom hanno cominciato da piccoli e non hanno mai smesso, io mi preoccupavo sempre tantissimo… a quanto pare vale anche per Iris, ha iniziato ad andare da sola?”
“Sì.”

Isla sbuffò debolmente mentre sua suocera si fermava accanto a lei, seguendo i movimenti di figlio e nipote con lo sguardo mentre teneva il piccolo Issak in braccio, che vedendo i cavalli cacciò un urletto felice, indicandoli:

“Scordatelo Isaak, dovrai aspettare almeno quattro anni…”

Isla fulminò il bambino con lo sguardo prima di tornare a concentrarsi su Iris, che sorrideva felicemente. Fosse stato per lei, la bambina avrebbe continuato a montare insieme al padre, ma Cecil aveva sostenuto che ormai potesse provare ad andare da sola e così era stato, alimentando così la preoccupazione della madre.

Quando vide il marito scendere dalla sella sorrise con sollievo, guardandolo avvicinarsi alla figlia per prenderla in braccio e aiutarla a scendere prima di prendere le redini dei due cavalli e tornare verso la famiglia, sorridendo:

“Isla, sicura di non voler fare un giretto?”
“Neanche morta.”

“Sempre la solita fifona… Chloè? Vuoi venire con me ed Iris a dare da mangiare ai pony?”

La bambina scosse il capo energicamente, praticamente nascondendosi dietro la madre che sorrise con aria soddisfatta, fiera di aver trasmesso la sua repulsione per i cavalli almeno ad uno dei suoi tre figli. 

“Non capisco perché ha così paura… Isla, cosa le hai detto?!”
“Assolutamente nulla, si vede che è semplicemente intelligente, come sua madre. La porto dentro, si gela. Issak, vieni con la mamma?”

“Pappà, pony!”
“Un altro, maledizione…”


*


“Hai fatto i popcorn?!”
“Sì!”
“E i mashmallow?!”
“Anche, ho preso tutto, ora fammi posto.”

Isla mise un’enorme ciotola di popcorn tra le braccia della sorella prima di sedersi accanto a lei sul divano, davanti alla tv accesa per guardare, come sempre, Scandal insieme.

“La mamma ha portato i bambini al parco, quindi nessuno ci disturberà.”
Shh, inizia!”



Quando, circa un’ora dopo, Cecil tornò a casa si ritrovò a sorridere nel vedere moglie e cognata sul divano, circondate da schifezze e impegnate a commentare animamente la puntata appena conclusa mentre aspettavano che la pubblicità finisse per vedere quella successiva:

“Ti dico che è stata la seconda moglie!”
“No, la tradiva con sua sorella, non con la ex!”

“State guardando Scandal?”
“Certo, è la nostra serie preferita… sono sempre stata estremamente orgogliosa di chiamarmi come la protagonista, Olivia Pope è un genio.”

Olivia sfoggiò un sorriso soddisfatto mentre accanto a lei Isla sbuffava debolmente, borbottando che aveva ragione lei e che la vittima fosse stata tradita dal marito con sua sorella prima di rivolgersi al marito, chiedendogli di portare altri popcorn:

“Da quando sono diventato il cameriere?”
Sei il marito, il concetto è quello.”


*


“Io NON posso restare a casa, io NON sono malata. Io NON mi ammalo, punto e basta.”
“Il termometro dice il contrario, passerotto.”
“Me ne frego del termometro… e smettila di pensare Fox, SENTO i tuoi pensieri e che mi stai prendendo in giro.”

“Non si può non pensare, Isla.”
“Allora pensa a qualcos’altro.”

Isla sbuffò, sistemando il piumone prima di incrociare le braccia al petto, stentando a credere di essersi presa l’influenza e non poter così andare al lavoro. 
Un istante dopo, però, afferrò il cuscino e lo lanciò contro il marito, che scoppiò a ridere mentre sollevava un braccio per parare il colpo: 

“BRUTTO TROGLODITA, QUANDO DICO PENSA AD ALTRO NON INTENDO A QUALCHE DANNATA MODEL- Amore, ciao!”

Il tono e l’espressione di Isla mutarono alla velocità della luce quando la porta della camera si aprì e sulla soglia spuntò Iris, che si avvicinò timidamente al letto:

“È successo qualcosa, mamma?”
“No amore, non preoccuparti. Come sta Chloè? Non ha dormito per niente per la febbre.”

“Sì è svegliata, voleva venire qui… ora devi andare via?”
“No, la mamma oggi resta a casa con voi, sta male anche lei.”

Cecil sorrise amabilmente alla figlia, guadagnandosi un’occhiata torva da parte della moglie mentre Iris sgranava gli occhi: 

“Stai male? Che cos’hai?”
“Niente tesoro, papà esagera.”

“Ma non possiamo permetterle di andare al lavoro con la febbre, vero? Altrimenti poi starà peggio.”

Il tono grave del padre sembrò allarmare ulteriormente la bambina, che si avvicinò alla madre e le disse di non andare al lavoro, sistemandole persino il piumone addosso mentre anche Chloè faceva capolino nella stanza, spettinata e con gli occhi lucidi e assonnati.

“Eccoti… vieni qui, piccola.”

Isla sorrise alla figlia, che non se lo fece ripetere due volte e quasi corse ad arrampicarsi sul letto per sistemarsi sotto le coperte accanto alla madre, imitata subito dopo anche dalla sorella maggiore.

“Che carine, vorrei farvi una foto per immortalare Isla Perfezione Rose Robertson in Krueger struccata, in pigiama, spettinata…”

“Provaci e troveranno il tuo cadavere sotto un ponte. Ovviamente scherzo, ragazze. Isaak è a letto? Stanotte è stato male anche lui…”
“Ora te lo porto, mamma chioccia, ma poi mi defilo per evitare di essere contagiato…”
“Se non altro potrò guardare Scandal.”

“Possiamo guardarlo con te?!”
“No.”
“Perché?!”
“È una cosa da grandi.”
“Allora guardiamo i cartoni.”

Sarà una giornata molto lunga…”



Quando, diverse ore dopo, Cecil tornò a casa trovò moglie e figli esattamente dove li aveva lasciati, Isaak addormentato tra le braccia della madre mentre le sorelle seguivano con interesse la televisione sistemata davanti al letto, anche se Isla sembrava aver tutta l’intenzione di farla saltare in aria. 

“Ehy… come state?”

Cecil sorrise, avvicinandosi alla moglie per darle un bacio sulla fronte mentre Isla gli rivolgeva un’occhiata torva:

“Benissimo, sto pianificando l’omicidio di Dora l’Esploratrice, ma per il resto stiamo benissimo.”


*


“Isaak, vai piano! Fox, controlla che non si faccia male!”

Isla sbuffò, seguendo i movimenti del figlio con aria torva, che stava sfrecciando allegramente da una parte all’altra della casa con Chloè al seguito, che stava inseguendo il fratellino ridendo.

Premurandosi di far sparire la scopa giocattolo il più rapidamente possibile Isla si portò nuovamente la tazza di caffè alle labbra mentre, accanto a lei, Iris si rimpinzava di dolcetti e sua suocera le rivolgeva un’occhiata carica di curiosità:

“Posso chiederti una cosa, Isla?”
“Certo.”
“Che origine hanno i soprannomi che vi date? Tu lo chiami Fox davvero molto spesso, è curioso.”

Le labbra dell’ex Wampus si inclinarono in un lieve sorriso, annuendo:

“È una storia lunga.”


*


“Qualcuno ha visto le mie scarpe?”
“Quali delle seicento?”
“Quelle nere!”

“Controlla sotto al letto, non le metti quasi mai a posto.”

Isla s’inginocchiò accanto al letto, sollevando l’orlo del piumone prima di sbuffare, parlando nuovamente a voce alta per farsi sentire dal marito dal bagno, impegnato a radersi:

“No, non le francesine, le altre!”
“Allora guarda nella scarpiera!”
“Di nere ci sono solo i tronchetti e i sandali, mi servono le décolleté! Ma non quelle spuntate, quelle chiuse con la punta rotonda!”

“Yankee, quando usi questo gergo non capisco un accidenti.”

Isla si rimise in piedi, chiedendosi dove potessero essere finite le sue scarpe preferite: ovviamente non poteva appellarle, con tutte le paia che aveva la camera da letto sarebbe finita sommersa da tacchi alti.

“Iris, hai visto le mie scarpe?”
“No!”

Stava per andare a controllare in salotto visto che spesso toglieva le scarpe una volta tornata a casa e poi se le dimenticava lì, quando un rumore piuttosto familiare le fece drizzare le orecchie.

“Che diamine…”
Isla sbuffò, raggiungendo la soglia della camera per affacciarsi nel corridoio, chiedendosi PERCHÉ sentisse rumore di tacchi contro il pavimento dal momento che lei era a piedi nudi.

“CHLOÈ! Sono due ore che le cerco, perché le hai tu?!”
“Stavo giocando, volevo provarle!”

“Quando sarai grande le metterai, per ora servono a me…”


*


Era seduta sul divano con la figlia davanti, impegnata a sistemarle i capelli castani in uno chignon mentre Chloè si sistemava con cura la gonna rosa del tutù:


“Quando andiamo?”
“Tra poco… ecco, pronta. Come sei carina… mi raccomando, divertiti, non pensare al pubblico… ci siamo solo io e papà.”

Isla sorrise alla figlia mente la bambina si girava verso di lei, annuendo con un sorriso. 
“Ok. Ma dov’è papà?”

“Vorrei saperlo anche io… Fox?! È ora, sbrigatevi!”
“Tranquilla passerotto, siamo pronti… ma come siamo belle, principessa.”

Cecil rivolse un largo sorriso alla figlia quando entrò nel salotto con Iris e Isaak al seguito, avvicinandosi a Chloè per prenderla in braccio e darle un bacio su una guancia. 
Isla, per un attimo, ripensò a tutti i saggi di danza a cui sua madre l’aveva accompagnata e a quando era lei la bambina con il tutù addosso e i capelli intrecciati sulla nuca… o almeno, prima di concentrarsi sul figlio più piccolo, che teneva Iris per mano, e aggrottare la fronte:

“… Cecil. Perché Isaak ha le scarpe al contrario?”
“In mia difesa posso dire che quel bambino è iperattivo, non sta fermo un attimo e per vestirlo ho dovuto acciuffarlo e fare la voce grossa, ma continuava a dimenarsi per non mettere le scarpe.”

“Isaak, vieni qui.”

Isla puntò gli occhi sul bambino, che probabilmente fece per trotterellare via ma esitò di fronte allo sguardo della madre, che come sempre più che alzare la voce con loro si limitava ad usare “lo sguardo”, come lo chiamava Cecil.

E quando il bambino, cogliendo il messaggio, si avvicinò alla madre per permetterle di rimettergli le scarpe l’ex Corvonero sgranò gli occhi, sinceramente perplesso:

“Mi dici come fai, esattamente?”
“Uso quello che tu non sei in grado di usare quando si tratta di loro, Cecil: mano ferma. E ora andiamo, Chloè deve ballare… almeno una ad aver ereditato qualcosa da me c’è, per fortuna, pensavo saremmo diventati una famiglia di cowboy.”

“Sei tu l’unica yankee qui Isla, io monto all’inglese, non dimenticarlo.”

Il tono di Cecil, quasi offeso e leggermente acido, la fece sospirare, alzando gli occhi al cielo:
“E poi sarei io la pignola della famiglia… andiamo ragazze.”


*


Stava strimpellando al pianoforte a coda sistemato nel salotto per distrarsi quando la voce di Cecil le fece drizzare le orecchie, scattando in piedi per poi correre in cucina e raggiungerlo:

“Cosa è successo?! Il treno ha avuto un incidente?! Sta male?! Vuole tornare a casa?”
“Isla no, smettila di preoccuparti così tanto, ti ripeto per l’ennesima volta che Hogwarts è sicurissima!”

“Non prendermi per i fondelli british, mi sono informata e ho scoperto che nel tuo caro castello ammuffito c’era un Basilisco a fare da coinquilino agli studenti! Per non parlare del cane a tre teste, i Dissennatori, un Mangiamorte sotto le mentite spoglie di un insegnante… per non parlare di quello che aveva sempre Tu-Sai-Chi dietro la testa! E poi sembra che ci sia una piovra gigante nel Lago, è vero?”

“… beh, comunque Chloè e Iris stanno benissimo, volevo solo dirti che la nostra piccolina è una Corvonero, a quanto pare… come suo padre.”  Cecil sorrise, guardando la lettera che la figlia gli aveva scritto con affetto mentre Isla si rilassava leggermente, aggrottando però la fronte con aria pensierosa:
“… sarebbero quelli intelligenti?”

“Già.”
“Allora è la prova che è tutta sua madre.”


“Secondo voi dove verrò Smistato io, a scuola?”
“Non ci voglio pensare Isaak, per allora ve ne sarete tutti andati e sarò vecchia e sola.”

“Quando Isaak andrà a scuola, tra due anni, ne avrai quaranta, non sarai vecchia! E poi avrei da ridire sulla parte del “sola”, io non ho piani di fare le valige e andarmene, a dire il vero.”

“E vorrei ben vedere! E non ricordarmi che mi mancano solo due anni per i quaranta, quando TU invece sarai ancora dentro i trenta!”

Isla sbuffò prima di girare sui tacchi e tornare in salotto per riprendere a suonare, sentendo distintamente le risate di figlio e marito e immaginando chiaramente le prese in giro che avrebbe dovuto sopportare di lì in avanti. 
Erano sempre state in maggioranza, ma ormai era l’unica donna rimasta dentro quelle mura… si prospettavano due anni molto lunghi.



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Capitolo 15
*** A peacock that makes the wheel ***


A peacock that makes the wheel 

Regan Carsen  Image and video hosting by TinyPicStephanie NooneImage and video hosting by TinyPic



“Reg, cerca di capire… sarà molto più semplice convincerlo a scendere ad un accordo, in questo modo, ne sono certa.”
“Allora usate chiunque altro, non se ne parla… non voglio che entri nella stessa stanza di quel verme schifoso per farci due chiacchiere. Perché proprio lei?!”

“Reg, te l’ho già spiegato… abbiamo ricostruito l’idealtipo attraverso tutte le sue precedenti vittime, e sono sempre donne bionde con gli occhi chiari, di circa trent’anni. E non possiamo certo far entrare chiunque, penso tu capisca che trattandosi di me è molto più sicuro, io so difendermi… e non sarò sola, ci sarà anche CeCe.”

“Beh, questo non mi rassicura comunque! Senza offesa, CeCe. Tanto per chiedere e per assicurarmi di non essere l’unico a preoccuparsi, Will è d’accordo?”
“Beh…”
“Oh, certo, non lo sa. Ma di sicuro nemmeno lui ne sarebbe felice, non ti voglio sapere nella stessa stanza di quell’uomo… proprio perché rispecchi esattamente il modello di tutte le sue precedenti vittime. Non potete usare qualche scorciatoia?”
“Ho richiesto di poter usare il Veritaserum, ma mi hanno negato il permesso… e ci hanno revocato il permesso di utilizzare le maledizioni Senza Perdono da quando Grindelwald non è più nei paraggi, altrimenti avrei già usato la Maledizione Cruciatus… Reg, ti prometto che non le succederà niente. Ma sono sicura che sarà molto più incline a parlare, con lei presente. Neanche parlerà, parlerò io e basta.”

Regan sbuffò debolmente, abbassando lo sguardo con la stessa espressione cupa che aveva da quando CeCe e la moglie avevano annunciato di avere una cosa da dirgli.

Charlotte rivolse un’occhiata in direzione dell’amica, come a volerle dire di aver esaurito gli argomenti a loro favore:

Parlaci tu 


“Reg?”
Stephanie si stampò il suo sorriso più dolce sulle labbra mentre prendeva il viso del marito tra le mani, costringendolo a guardarla: 

“Pensi che non sia in grado di badare a me stessa? Così mi offendi, tesoro. E poi CeCe ha ragione, dobbiamo solo parlarci, sarà controllato a vista… e molto probabilmente anche ammanettato.”
“Come sarebbe a dire molto probabilmente?!”

“Ammanettato, te l’assicuro.”

CeCe annuì con fare sbrigativo, pregando mentalmente l’amico di dar loro retta mentre la bionda annuiva: 

“Reg, non lo farò se non vuoi, nessuno mi obbliga. È un favore che voglio fare a CeCe… abbiamo cinque corpi da trovare e restituite alle loro famiglie. Per favore.”

“Ok… ma cercate di sbrigarvela in fretta.”

Il Pozionista sbuffò, scoccando un’occhiata torva alla moglie che invece sorrise prima di annuire e sporgersi per dargli un bacio a stampo sulle labbra: 

“Grazie… ce la caveremo, vedrai. Nessuno vorrebbe trovarsi contro noi due nello stesso tempo, sai?”
“Me lo scriverò.”


*


Stephanie camminava accanto a Charlotte lungo il corridoio, perlustrando con lo sguardo le numerose porte, tutte chiuse e con dei numeri sopra. 

“Qual è la stanza?”
“15. Nervosa?”

“Un po’.”
“Non preoccuparti, non può fare molto, ormai.”

Charlotte rivolse un lieve sorriso all’amica, quasi a volerla incoraggiare, mentre si fermava davanti ad una porta, rivolgendo un candido sorriso alla guardia:

“Selwyn e Carsen.”
“Non dovevi entrare solo tu, Charlotte?”

L’Auror si strinse nelle spalle mentre prendeva il registro per firmarlo, accennando alla collega con il capo:

“Lei mi fa da incentivo per farlo parlare.”

E si stava iniziando a chiedere se fosse stata davvero una buona idea, mentre firmava a sua volta prima di restituire il registro alla guardia, che fece un cenno a Charlotte mentre apriva la porta con un colpo di bacchetta:

“Ok, entrate… avete mezz’ora.”
“Con un po’ di fortuna, ci servirà meno tempo. Vieni, Steph… mi raccomando, fa parlare me.”


Stephanie annuì, la gola improvvisamente molto secca mentre Charlotte apriva la porta, entrando nella stanza senza nemmeno indugiare:

“Salve, Signor Harris.”
“Ancora lei? Non si stanca mai di venirmi a trovare, Signora Cavendish.”

Charlotte prese posto con disinvoltura su una delle due sedie sistemate davanti al tavolo, continuando a sorridere debolmente all’uomo che aveva davanti:

“La sua compagnia è tremendamente piacevole, Signor Harris.”
“Non mi dica che ha portato quel suo collega dell’altro giorno, era così sgradevole…”

“No, oggi mi sono fatta accompagnare da qualcun altro. Lei è la mia collega Stephanie.”

Charlotte accennò lievemente all’amica, che entrò nella stanza e sentì la porta chiudersi alle sue spalle con uno scatto subito dopo, contribuendo alla fastidiosa sensazione di essere in trappola che già provava. 

Stephanie rivolse una fugace occhiata all’oggetto della “chiacchierata” mentre si avvicinava a Charlotte per sedersi accanto a lei, senza dire nulla e sentendo al contempo lo sguardo su di sè. 

Restituendo il suo sguardo, Stephanie non poté fare a meno di pensare a quanto sembrasse “normale”. Aveva i capelli brizzolati, il volto che iniziava ad essere segnato dall’età un’espressione quasi rilassata sul volto e gli occhi chiari puntati dritti su di lei. Se le sue mani, appoggiate sul ripiano del tavolo, non fossero state tenute unite da un paio di manette probabilmente non lo avrebbe mai associato ad un serial killer. 

Un attimo dopo il volto dell’uomo si stese in un sorriso, continuando ad osservarla:

“Avrebbe dovuto farlo prima. Che cosa ci fa una bella ragazza come lei in un posto come questo?”
“Stephanie è venuta ad osservare e basta, Signor Harris, parli con me. Ha preso in considerazione l’idea di patteggiare? Potremmo considerare di ridurre la sua pena, se ci dicesse dove sono i cinque corpi che mancano all’appello.”

“Perché tanta premura per dei cadaveri, Charlotte? Non si può fare molto altro per loro, ormai.”

Distolse lo sguardo da lei per posarlo su Charlotte e Stephanie tirò interiormente un sospiro di sollievo, stendendo un po’ della tensione che aveva già iniziato ad accumulare.

“Avere un corpo su cui piangere è meglio di una tomba vuota, Signor Harris, è giusto che le famiglie di quelle donne li abbiano indietro. Non le interessa la riduzione della pena? Che cosa vuole, allora? L’abbiamo presa da due settimane e ancora non l’ho capito.”

Charlotte inarcò un sopracciglio, continuando a tenere gli occhi chiari sull’uomo che aveva davanti con fermezza, senza accennare a distogliere lo sguardo. Lui invece lo fece, posandolo nuovamente sulla bionda prima di inclinare le labbra nello stesso sorriso di poco prima, che la fece rabbrividire di nuovo:

“Lei ha dei bellissimi capelli… posso annusarli?”

Stephanie strabuzzò gli occhi, voltandosi di scatto verso la collega. Fece per esprimere tutto il suo dissenso quando Charlotte parlò di nuovo, mettendole una mano sulla spalla mente si alzava:

“Possiamo… parlarne per un momento, le dispiace?”
“No, certo che no, fate pure. Ma la prego, me la riporti indietro.”

Fosse per lei sarebbe già corsa via, ma il suo forte orgoglio da Auror e da Grifondoro glielo impedì, ripetendosi che non poteva e non doveva tirarsi indietro. 
Quando la porta si fu nuovamente chiusa alle spalle di Charlotte Stephanie si voltò verso di lei, scuotendo il capo con veemenza:

“Assolutamente no, mi fa venire la pelle d’oca solo guardandomi, non mi avvicino per meno di un metro.”
“Rilassati, avevo intuito che avrebbe fatto una rincresca simile, l’ultimo che ho preso era fissato con le donne more dagli occhi chiari e mi ha chiesto se poteva TAGLIARMI una ciocca di capelli. Tranquilla, come sempre CeCe ha un’idea di riserva.”


“Lo gonfiamo di botte? Per me va bene, ho anche i tacchi, così gli faccio più male prendendolo a calci.”
“Mi piacerebbe molto, ma temo che non sia possibile... no, da delle ricerche che ho fatto sui suoi conti pare che oltre a rapire e torturare povere ragazze indifese abbia un altro hobby: il gioco. Perciò, ho casualmente portato queste!”  

Charlotte sfoggiò un sorriso mentre tirava fuori, non si capí bene da dove, un mazzo di carte, facendo strabuzzare gli occhi all’amica:

“Vuoi farti una partita con LUI?”
“Preferisci sciogliere la tua fluente chioma?!”

Stephanie esitò prima di annuire, sospirando:

“Ok, proviamoci, almeno. Ma giuro che se si avvicina lo scaravento dall’altra parte della stanza.”
“E avresti tutto il mio appoggio. Vieni.”

Charlotte le rivolse un cenno prima di aprire nuovamente la porta, stampandosi lo stesso sorriso di prima sul volto:

“Signor Harris? Perché non giungiamo ad un compromesso e LEI accetta una mia richiesta? Mi hanno detto che a lei piace molto giocare, pare che abbiamo qualcosa in comune… se vince lei, la lascerò in pace e la mia amica sarà ben lieta di assecondare la sua richiesta, ma se vinco io, mi dirà dove le ha nascoste. Ci sta?”


*


“Grazie al cielo… per un attimo ho davvero tenuto che potessi perdere.”
“Io non perdo mai Steph, per chi mi hai preso? E mal che andasse, stavo contando le carte.”

Charlotte sfoggiò un sorriso soddisfatto mentre usciva dall’ascensore insieme all’amica, che ricambio con sollievo e un po’ di divertimento:

“Giustamente. Felice di esserti stata d’aiuto, comunque.”
“A buon rendere… ora vado, ho cinque corpi da andare a prendere… credo che ci sia qualcuno che ti sta aspettando.”

Charlotte accennò in direzione dell’atrio e Stephanie, seguendo la traiettoria del suo sguardo, si ritrovò a sorridere nel posare gli occhi sul marito che, seduto su una panca qualche metro più in là, teneva gli occhi fissi sul pavimento e sembrava piuttosto inquieto.

“Reg?”
Sentendosi chiamare Regan alzò lo sguardo, sorridendo alla vista della moglie mentre si alzava, andandole incontro per abbracciarla:

“Finalmente… Allora? Com’è andata? Stai bene?”
“Tutto risolto, ha parlato. A dire la verità, mentirei se dicessi che non è stato tremendo… non oso immaginare cosa debbano aver provato tutte le sue vittime, inclusa sua moglie, io avevo la pelle d’oca solo avendocelo davanti.”


Stephanie lo abbracciò, lasciandosi stringere con sollievo e appoggiando il capo sulla sua spalla prima di dire qualcosa a bassa voce:

“Grazie.”
“Per cosa?”
“Per essere una brava persona.”


*


“Reggie!”

Regan Carsen era in piedi davanti ai fornelli, impegnato a spadellare e a cercare di non dare, al contempo, fuoco alla casa quando sentì la moglie chiamarlo, gridando di rimando per dirle che era in cucina. 

Un attimo dopo un rumore di passi affrettati anticipò l’arrivo di Stephanie, che sorrise e gli corse incontro per abbracciarlo, stampandogli un bacio su una guancia prima di appoggiare il mento sulla sua spalla:

“Come mai tutto questo affetto? Sei riuscita a far confessare Wright?”
“No, ma sono comunque felice… in effetti, non ti ho detto che sono uscita prima dal lavoro, stasera.”

“E allora perché sei tornata solo ora?”
“Sono andata a fare una visita… Sono incinta!”

Forse avrebbe dovuto dirglielo una volta lontano dagli utensili da cucina, visto che Regan per poco non si affettò una mano insieme alle carote all’urletto felice della moglie.


*


“Stavi usando il camino? Con chi parlavi?”
“Con Charlotte, ci consoliamo a vicenda visto che i nostri mariti tiranni ci impediscono di andare al lavoro!”

“La solita esagerata: io non ti proibisco di andare al lavoro, in ufficio ci vai eccome, solo che non puoi andare ad inseguire chissà chi, a notte fonda, nel tuo stato!”

Stephanie sbuffò, stringendo il cuscino che teneva tra le braccia con irritazione: odiava ammetterlo, ma era consapevole che aveva ragione… se non altro aveva Charlotte a farle compagnia, visto che era incinta anche lei.

“Va bene… mi hai portato il succo di mela?”

Regan annuì, porgendole il bicchiere colmo di succo. Guardò la moglie trangugiarne il contenuto con leggera perplessità, chiedendosi come facesse a berne tanto: da quando era incinta praticamente non beveva altro, anche se prima d’allora non glie l’aveva mai visto fare.


“Grazie tesoro. Come va il tuo, di lavoro? Io penso che a breve smetterò di andare in ufficio, oppure dovrai farmi rotolare fino al Dipartimento!”
L’Auror sbuffò e Regan abbozzò un sorriso, guardandola con affetto mentre sedeva sul divano accanto a lei:

“Non essere ridicola, sei sempre bellissima.”
“Non serve fare il ruffiano Reg… e comunque, spero che questa bambina nasca in fretta, essere incinta è sfiancante.”
“Bambina? Come sai che è una femmina?”

“Lo so e basta. Stavo giusto pensando al nome… ti piace Rose?”


*


“REG!”
Lyanna Goblets fece irruzione nel suo ufficio con praticamente il fiatone dopo aver corso per due piani di fila, cercando il collega con lo sguardo:

“Dov’è Carsen?! È urgente!”
“Nel suo ufficio, credo. Che cosa succede?”

Lyanna però non si fermò a rispondere, sfrecciando verso la porta giusta e chiamando nuovamente il collega a gran voce, che fece capolino dal suo ufficio poco dopo, lanciandole un’occhiata perplessa:

“Lya, perché stai urlando?”
“Mi ha scritto… un attimo, ho corso, non sono abituata… mi ha scritto CeCe, devi andare in ospedale, Stephanie è entrata in travaglio!”

“EH?! DI GIÀ? Ma mancano tre settimane!”
“I bambini non aspettano Carsen, quando vogliono uscire prendono e lo fanno, MUOVITI!”

Lyanna sbuffò, prendendo il collega per le spalle e quasi spingendolo verso la porta, guardandolo annuire come in stato di trance:

“Giusto, devo andare… in ospedale. Devo scrivere ai suoi genitori!”
“Dopo, lo faremo noi, ora muoviti, tua moglie quando si arrabbia diventa terrificante e penso che al momento stia dando di matto perché tu non ci sei.”


*


“DOVE ACCIDENTI È QUEL NULLAFACENTE DI CARSEN?!”
“Starà arrivando, non preoccuparti. Steph, respira, tra poco sarà tutto finito.”

Charlotte, in piedi accanto al letto dell’amica e tenendola per mano, implorò mentalmente l’amico di sbrigarsi ad arrivare mentre alle sue spalle William le rivolgeva un’occhiata preoccupata:

“CeCe, non pensi che dovresti sederti, sei all’ottavo mese…”
“Will, sto benissimo, esci e aspetta che Reg arrivi, per favore.”

Charlotte rivolse un cenno sbrigativo al marito, non battendo ciglio quando l’amica le stritolò una mano all’ennesima contrazione. Intuendo che la situazione stesse per degenerare William ebbe l’accortezza di filarsela, uscendo dalla sala parto e incrociando così l’amico, facendogli gli auguri prima di farlo passare:

“Steph, sono qui! Come stai?”
“ALLA GRANDE, STAVO GIUSTO PENSANDO DI ALZARMI E ANDARE A FARE LA MARATONA! Secondo te come sto?! Sono felice di vederti… dove cavolo eri?”

“Mi dispiace, mi ha avvertito Lya. Ma ora sono qui, non preoccuparti.”
Regan sorrise mentre si avvicinava alla moglie, prendendola per mano mentre Charlotte gli lanciava un’occhiata d’avvertimento, suggerendogli di dosare le parole con cura in quel momento. 

“Charlotte, ci penso io, ora puoi andare.”
“Un cavolo, lei resta, ho bisogno di avere vicino qualcuno che mi capisca oltre ad un branco di uomini che non sanno cosa significhi avere figli! Senza offesa, ricordati che ti amo tanto.”
“Sì, anche io.”

“Porco Godric, se fa male, ecco perché dicono che le donne sono pazze a voler avere più di un figlio dopo averlo provato una volta!”

“Respira… rilassati, non è niente.”
“NON È NIENTE? Ho cambiato idea, esci dal mio campo visivo!”
“Ma….”
“FUORI!”

Regan fu tentato di protestare, ma di fronte all’occhiata omicida della moglie decise di darle retta, girando sui tacchi per raggiungere la porta della sala parto mente Charlotte roteava gli occhi, borbottando qualcosa a mezza voce:

“Non è niente… una palla da bowling sta per uscire dalle tue parti intime, vorrei vedere lui al tuo posto…” 
“Reg, dove stai andando? Vieni qui!”
“Ma mi hai appena cacciato!”
“Non dicevo sul serio, torna qui, ho bisogno di te!”



Quando, poco dopo, la porta si aprì Will si voltò di scatto, lanciando un’occhiata carica di curiosità alla moglie, che mormorò di aver bisogno di sedersi mentre prendeva la mano che lui le porgeva, aiutandola a prendere posto su una delle sedie:

“Come procede? Si sentono le urla da qui.”
“Se la stanno cavando bene, Regan sa gestirla.”
“Anche tu mi prenderai ad insulti e mi spedirai fuori ogni due minuti?”

“Non essere sciocco Will, io sono irascibile già di mio, non oso pensare durante il travaglio…”


*


“È bellissima.”

Regan sorrise mentre, steso sul letto, accarezzava i capelli biondo scuro della figlia, che si era appisolata e giaceva rannicchiata sul suo petto, con il minuscolo body rosa addosso.

“Con tutta la fatica che ho fatto, direi che è il minimo.”

Stephanie annuì, avvicinandosi al letto per sedersi sul materasso, allungando una mano per sfiorare a sua volta il capo della bambina di poche settimane. 
Regan sorrise, dando un bacio alla figlia mentre la moglie si accigliava leggermente, inarcando un sopracciglio:

“Anche se sono abbastanza contrariata, a me non li dai tutti questi baci!”
“La solita gelosona… attenta piccola, la mamma è gelosa del suo splendido marito!”

Regan ridacchiò mentre Stephanie, invece, alzò gli occhi al cielo, borbottando che era sempre il solito mentre gli prendeva la figlia dalle mani, sostenendo che fosse il suo turno per coccolarla:

“Ehy! Tu stai con lei tutto il giorno, tocca a me!”
“Scordatelo, ce l’hai tu da un’ora.”


*


Stephanie scese le scale per raggiungere il marito in cantina, dove era solito lavorare quando era a casa, e infatti lo trovò davanti ad un calderone fumante, con Rose accanto, in piedi su uno sgabello per poterlo guardare lavorare.

“Ciao… Hai una nuova assistente?”
“Già, Rosie aiuta papà, ma non deve toccare niente a meno che io non glielo dica, vero?”
“Sì. A cosa serve quello?”

“Meglio che tu non lo sappia… com’è andata la visita? State bene?”
“Benissimo. Credo che questa volta sia un maschio, in effetti.”

“Ma io voglio una sorellina!”
“Rosie, papà è già abbastanza bistrattato in questa casa essendo l’unico maschio, lasciami un po’ di speranza!”


*


Regan era seduto sulla poltroncina sistemata davanti alla toeletta, dove la moglie si sistemava ogni giorno prima di uscire. 
Ma non era rivolto verso il mobile, bensì verso il suo letto, cercando di non ridere mentre teneva gli occhi fissi sul figlio, assistendo ai suoi tentavi di mettersi in piedi: Andrew stava imparando a camminare, ma non riusciva a sollevarsi correttamente a causa della morbidezza del materasso. 

Si stava chiedendo se avrebbe rinunciato, ma il bambino sembrava piuttosto determinato e continuava a provare, finendo molto spesso col sbilanciarsi e cadere all’indietro sul materasso con un piccolo tonfo.
Regan scoppiò definitivamente a ridere quando Andrew, dopo essersi sollevato sulle ginocchia per l’ennesima volta, barcollò e perse l’equilibrio, cadendo sul materasso a pancia in giù e senza riuscire a sollevarsi nuovamente, iniziando così a protestare sommessamente e a battere le piccole mani sul letto. 

Regan, pentito di non avere vicino la macchina fotografica, aveva praticamente le lacrime agli occhi quando la porta della camera si aprì e Stephanie comparve sulla soglia della stanza, attirata dal pianto del bimbo, spostando lo sguardo dal marito al figlio più piccolo che stava ormai singhiozzando. 

“… Regan!”
“Andiamo, guardalo, fa troppo ridere!”

Stephanie però, a giudicare dall’occhiata che gli rivolse, non sembrò d’accordo e raggiunse il figlio quasi a passo di marcia, sollevandolo per sistemarselo su una spalla e dargli un bacio sulla fronte, asciugandogli le lacrime con una mano:

“Scusa amore, pensavo di averti lasciato con un adulto e non con un tuo coetaneo… idiota.”

L’Auror fulminò il marito con lo sguardo prima di uscire dalla stanza, sibilando l’ultima parola a denti stretti e ignorando la sua reazione:

“Andiamo Steph, sta benissimo! Steph? Il solito cocco di mamma…”


*

Andrew Carsen Image and video hosting by TinyPic


“Sei bellissima, mamma.”

Rose sorrise alla madre, guardandola infilarsi le scarpe e sorriderle di rimando, guardandola con affetto:

“Grazie amore, anche tu. Dici che quei due sono pronti?”
“Andiamo a vedere.”

Rose scivolò dal letto dei genitori, sistemandosi con cura la gonna del suo vestitino prima di trotterellare fuori dalla stanza per raggiungere la camera del fratello minore, con la madre al seguito:

“Papà? La mamma ha chiesto se siete pronti.”
“Vestire questo bambino è un’impresa, ma ce l’ho fatta.”

Regan, inginocchiato sul pavimento di fronte al figlio dopo essere finalmente riuscito ad infilargli la minuscola camicia bianca, rivolse un sorriso soddisfatto alla figlia maggiore e poi anche alla moglie, che si fermò sulla soglia della stanza. 
Per un attimo Stephanie non disse niente, limitandosi a spostare lo sguardo dal bimbo, che aveva messo il broncio, al marito, che invece aveva il suo solito sorriso stampato sul volto, prima di scoppiare a ridere, accennando ad Andrew:

“Ma come lo hai conciato?!”
“Beh, volevo fare un esperimento. Ora abbiamo lo stesso ciuffo.”

“Sembra la tua versione in miniatura, è così carino… Vieni Drew, andiamo, o faremo tardi e zia CeCe ci lincerà tutti con la forza dello sguardo .”

Stephanie rivolse un cenno al bambino, porgendogli la mano che il figlio subito afferrò, uscendo dalla stanza insieme alla madre con la sorella e il padre alle spalle:

“Non possiamo fare tardi, sono il padrino di Camille!”
“E allora muoviti, o devo chiamare CeCe perché ti cronometri mentre ti prepari?!”


*


“È un maschio?”
“No, una bambina.”

Regan sorrise mentre, seduto sul letto, si chinava leggermente in avanti per far vedere ai due figli maggiori la loro nuova sorellina, scaturendo un largo sorriso da parte di Rose e una smorfia da parte di Andrew:

“Ma io volevo un fratellino!”
“Mi spiace, non si può decidere… anche Rosie voleva una sorellina, ma sei arrivato tu.”
“Allora il prossimo sarà un altro maschio, vero?”

Andrew sorrise con aria speranzosa al padre, che invece si accigliò leggermente prima che la voce di Stephanie giungesse dalle sue spalle:

“Non credo proprio, la fabbrica da oggi chiude i battenti!”
“… allora temo che dovrai convivere con ben due sorelle, Drew. Salutate Krystal!”


*


Rose e Krystal Carsen Image and video hosting by TinyPic


“Posso sapere perché i bambini sono fuori a giocare, tu te ne stai comodamente seduta e IO devo lavare i piatti?!”
“Beh, oggi è domenica, è il tuo turno. E NON azzardarti ad usare la tattica del “li lavo male di proposito, così lei li rifà al mio posto” perché non funzionerà, dovessi farteli lavare cinque volte. Non fare quella faccia Reggie, sapevi chi stavi sposando, no? Siamo stati insieme quasi nove anni prima di andare all’altare.”

“Abbiamo rimandato perché tu dicevi che prima volevi finire gli studi all’Accademia, e in seguito il clima non era dei migliori… ma resta il fatto che in questa casa vengo bistrattato.”
“Non dire fesserie, sei il padre più viziato che esista.”

Stephanie roteò gli occhi mentre, seduta sotto la veranda, controllava a vista figli e nipoti giocare in cortile. 
Manco a dirlo, quando Krystal vide il padre sulla soglia sorrise, trotterellandogli incontro prima di abbracciarlo e chiedergli di giocare con lei e Astrea:

“Vorrei tanto tesoro, ma la mamma mi costringe ai lavori forzati…”.  Regan scosse il capo, parlando con aria grave mentre Krystal sbarrò gli occhi prima di voltarsi verso la madre, che invece fulminò il marito con lo sguardo:

“Non fare la vittima con lei dipingendomi come la cattiva della situazione… sei proprio la solita serpe, quando ti ci metti.”
“Mamma, perché fai lavorare papà?”
“Beh, qualcuno lo deve pur fare, quindi finché posso sfrutto papà, in fin dei conti basta sorridergli e sbattere le ciglia.”
“E poi sarei io, la serpe! Tu sei il lupo nascosto dietro la facciata dolce e da agnellino.”




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Capitolo 16
*** My little Tornados ***


My little Tornados
 
 
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Quando aveva sentito una specie di stridio, che non prometteva per niente bene, Veronika si era alzata dal divano, abbandonando senza esitazioni la rivista che stava leggendo per affrettarsi a salire al piano di sopra, pregando mentalmente che non fosse successo nulla di irreparabile:

“Hans?!”
Quando non udì alcuna risposta la strega sospirò, dirigendosi a passo di marcia verso la camera del figlio, trovandola vuota, così come quella della figlia. 
Così, mentre raggiungeva la porta infondo al corridoio, Veronika decise che era meglio prepararsi al peggio, appuntandosi mentalmente di iniziare a sigillare quella stanza con la magia e non chiuderla semplicemente a chiave, visto che a quanto sembrava riuscivano a trovarla sempre. 

“Ragazzi! Cosa state facendo?”
Veronika aprì la porta dello studio, puntando gli occhi sui due figli e parlando con il tono più severo che le riuscì, trattandosi dal mettersi le mani nei lunghi ricci castani quando si accorse che Hans teneva in mano qualcosa: uno dei numerosi archetti del padre. Il suo preferito, ovviamente, quello che lei gli aveva regalato quando si erano sposati e che era costato un occhio della testa.

“HANS! Quante volte ti ho detto che non dovete giocare con il violino di papà? Non è un giocattolo!”
“Volevamo provarlo, ma ha fatto un suono strano, non bello come quando suona papà.”

Julia corrugò la fronte mentre teneva il violino del padre in mano e Veronika, sospirando, si avvicinò ai figli, strappando loro violino e archetto dalle mani per rivolgere ad entrambi un’occhiata torva:

“Questo perché non sapete suonare… non avete rovinato le corde, vero?!”

“Non basterebbe cambiarle?”

Certo, e i soldi li versate voi due 

Julia e Hans sfoggiarono due larghi sorrisi mentre la madre osservava attentamente le corde del violino, pregando affinché non le avessero rovinate. Quasi non si accorse che i due, nel frattempo, avevano fatto per svignarsela, ma la voce della madre giunse comunque alle loro orecchie quando non erano ancora usciti dalla stanza:

“Dove pensate di andare? Ora rimettete il violino esattamente dov’era.”
“Possiamo provare a suonarlo?”
“Assolutamente no, altrimenti poi papà chi lo sente? Di certo non voi, se la prenderebbe con me…”



Quando, un paio d’ore dopo, Pawel Juraszek mise piede nel suo studio dopo essere tornato a casa cercò immediatamente il suo amato violino con lo sguardo, irrigidendosi un istante dopo:

“Veronika!”
“Sì?”
“Qualcuno ha toccato il mio violino?!”

“Come fai a saperlo?”

Veronika raggiunse il marito, guardandolo con tanto d’occhi e chiedendosi come facesse a saperlo visto che aveva detto ai figli di riporlo esattamente dove lo avevano trovato, nella sua custodia, per poi sistemare quest’ultima vicino alla finestra, dove lui stesso la lasciava sempre.

“Mi conosci da quando eravamo ragazzini, mi aspetto di più da te nel confutare delle prove… l’archetto.”
“È esattamente dov’era prima!”
“Sì, ma al contrario.”

Pawel sfoggiò un sorriso che fece sospirare la moglie prima di annunciare che per quella volta avrebbe “potuto chiudere un occhio”.

“Merlino Pash, penso di non aver mai conosciuto qualcuno più pignolo e puntiglioso di te.”
“Non lo metto in dubbio, ma hai accettato di sposarmi lo stesso. Ragazzi! Non venite a salutare papà?”


Un attimo dopo la porta della camera di Julia si aprì e i due bambini corsero ad abbracciare il padre, chiedendogli quando avrebbe insegnato loro a suonare:
“Quando smetterete di rompere tutto ciò che toccate, magari. Non capisco proprio da chi abbiate preso, io sono così ordinato!”

“Ci mancherebbe altro, da te hanno preso tutte le qualità e i difetti invece da me…”

Veronika roteò gli occhi mentre Pawel, rivolgendole un sorriso divertito, si chinava per prendere Julia e caricarsela in spalla, facendo ridere la bambina per poi afferrare anche il figlio e dirigersi verso la sua camera:

“Non te la prendere Vee, adoro i miei piccoli tornadi, lo sai.”

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Capitolo 17
*** Choice ***


Choice   
 
Nymphea McLyon Image and video hosting by TinyPicPhoebus Gaunt 



Quando posò gli occhi sulla fidanzata, in piedi davanti ad uno dei tavoli e impegnata a travasare chissà quale intruglio dentro una provetta, Phoebus sorrise, raggiungendola per metterle una mano sulla spalla:

“Ciao… ti disturbo?”
La ragazza si voltò e gli rivolse un sorriso di rimando, affrettandosi a scuotere il capo per poi abbracciarlo:

“No, posso fare una pausa… quei fiori sono per me?”
“No, li ho trovato fuori dalla mia porta, saranno da parte di una tra le mie tante ammiratrici.”

Phoebus si strinse nelle spalle, parlando con un tono vago che gli fece guadagnare una piccola sberla sul braccio da parte della ragazza, stendendo le labbra in un sorriso subito dopo:

“Scherzo, ovviamente… certo che sono per te.”
“Grazie, sai che adoro i fiori.”

Nymphea li prese con un sorriso, sfiorandone i delicati petali rosa pallido con le dita mentre il ragazzo accennava alla sua scrivania, ricoperta di provette, fialette, rotoli di pergamena, penne e ingredienti:

“Stai lavorando a qualche intruglio?” 
“Sai a cosa sto lavorando… ma credo di esserci vicina, sai? Qui hanno una Biblioteca molto vasta in materia, mi ha aiutata molto… avevo ragione, forse qui riuscirò a trovare una soluzione.”
“Lo spero, ci stai mettendo tutta te stessa… ma ora è meglio fare una pausa, basta inalare vapori strani e vieni a prendere un po’ d’aria. Riuscirai a trovare la cura, ne sono certo, ma non in questi dieci minuti.”

 
*


“Ragazzi, lui è Phoebus.” 

Il Serpeverde abbozzò un sorriso quando si trovò due paia di luminosi occhi verdi puntati addosso, mentre sia Nerine che Coleus lo osservavano attentamente. La prima a rompere il silenzio fu proprio la bambina, che gli si avvicinò e sfoggiò un sorriso allegro:

“Ciao! Sei il fidanzato di Nym?”
“Sì… e tu sei Nerine. Mi ha parlato tanto di te, ma non mi ha detto che fossi tanto carina.”

La bambina sorrise, arrossendo leggermente mentre, dietro di lei, Nymphea non sapeva se ridere o alzare gli occhi al cielo, immaginando già che cosa avrebbe detto il ragazzo una volta di nuovo soli, ovvero che il suo fascino aveva colpito ancora una volta.

“Grazie. Ti va di fare un puzzle con noi?”
“Certo.”

Nerine prese per mano il ragazzo, costringendolo ad alzarsi dalla poltrona e annunciando che gli avrebbe mostrato la sua camera. 
“La seguo?”
“Credimi, non hai scelta.”

Quando il fidanzato e la sorellina furono usciti dalla sua visuale Nymphea posò nuovamente lo sguardo sul fratellino, invitandolo con un cenno ad avvicinarsi per sedersi accanto a lei, sul divano.

“Come stai, Cole?”
“Bene. Ci manchi, però.”
“Anche voi mi mancate… vorrei tanto portarvi con me, ma non posso. Vedrai, presto mamma e papà torneranno a casa, ci sto lavorando… tu però devi fare l’ometto di casa nel frattempo e badare a lei. Puoi farlo?” 

Cole annuì con aria risoluta e la sorella maggiore sorrise, abbracciandolo e lasciandogli un bacio tra i capelli scuri. Spesso il bambino si scostava di fronte a quelle attenzioni ma quel pomeriggio non lo fece, godendosi la sorella e il poco tempo che potevano passare insieme. 


*


“Dai Nym, non te la prendere…”
“Non me la prendo, solo che mi irrita essere guardata in quel modo… chiediamo di poter vedere le partecipazioni e quando si rendono conto che il matrimonio non è TUO ma MIO mi guardano come a dire “ma ha l’età per sposarsi o è minorenne?”! È snervante, è così da sempre, mi danno anni e anni in meno di quelli che ho… ne ho 24, non 17!”

“Probabilmente c’entrano la scarsa altezza e i lineamenti, somigli tremendamente ad una bambolina delicata.”

Zavannah sorrise all’amica con fare consolatorio, guardando l’ex compagna di Casa sbuffare sommessamente mentre camminavano una accanto all’altra sul marciapiede, imbacuccate per proteggersi dal freddo dell’inverno britannico.

“Lasciamo perdere… Ora, andiamo a vedere i fiori, ne voglio un’infinità.”
“Ma Phoebus ti ha dato carta bianca su tutto?” 
“Non inizialmente, ma alla fine si è arreso. Saggia decisione.”
 

*


“Perché sei venuto?”
“Occorre un vero motivo perché io venga a farvi visita?” 
“L’ultima volta in cui l’hai fatto da solo è stato per dirci che ti sposavi. Negli ultimi tre anni, da quando vivi lì, ti sei fatto vedere forse dieci volte… vuoi dirci che è una mera visita di cortesia?”

Sua madre gli rivolse un’occhiata carica di scetticismo che lo costrinse ad annuire, non potendo darle torto. Era seduto di fronte ai genitori, nella casa dov’era cresciuto ma che qualche anno prima era stato ben felice di lasciare.
 
“Noi… Nym aspetta un bambino.”
“Sicuro che sia tuo?”

“Certo che è mio. Di chi altro dovrebbe essere?!”
Phoebus inarcò un sopracciglio, cominciando quasi a pentirsi di essere lì e stringendo la presa sul bracciolo della poltrona mentre sua madre si stringeva nelle spalle, parlando con tono noncurante che contribuì solo ad aumentare la sua irritazione:

“I matrimoni non sono sempre all’insegna della sincerità e della fedeltà.”
“Beh, questo non vale per noi… abbiamo scelto di sposarci, nessuno ci ha costretti, perché mai dovrebbe tradirmi?”


“Certo… scusa, dimenticavo che voi persone perfette non vi abbassate a livelli come l’adulterio.”
“Mi rinfaccerai di essere andato fino in fondo e di non aver sposato mia cugina, ignorando il vostro volere, per molto altro tempo ancora? Volevate mandare avanti la famiglia, no? Beh, tra qualche mese avrete un nipotino, congratulazioni.”  

Phoebus si alzò per uscire a grandi passi dal salotto, ignorando la voce del padre che lo stava chiamando. Uscì di casa sbattendosi la porta alle spalle e poi si Smaterializzò, certo che sarebbe passato diverso tempo prima della sua visita successiva.

 
*

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Nymphea era seduta sulla finestra per leggere, gli occhi chiari fissi sulla parte di piazza che riusciva a scorgere da quella prospettiva, aspettando di vedere Theodore comparire insieme ai ragazzi.

“Non sembra impossibile? Quattro anni fa eravamo noi quelli euforici e spaventati allo stesso tempo che arrivavano qui per la prima volta… Non avrei mai pensato di vedere Theo lì, ma di certo se l’è cavata bene, ci ha lavorato per mesi… Dopo passa Zavannah insieme ad Al e Theo, voglio che mi raccontino tutto.”

Quando non ottenne alcuna risposta la Tassorosso si voltò, roteando gli occhi quando constatò che il marito non aveva ascoltato neanche una parola, troppo impegnato a sorridere mentre faceva fare il vola-vola alla figlia:

“Phoebus! Mi stai ascoltando?”
“Chi è il tesoro di papà? Eh? Hai detto qualcosa?”

Nymphea gli rivolse un’occhiata in tralice mentre Ivy rideva allegramente ogni volta in cui il padre la lanciava in aria per poi riprenderla al volo. Fece per dirgli di fare attenzione, ma poi capì che sarebbe stato del tutto inutile visto che di sicuro non l’avrebbe ascoltata. 
 
“Non avevo dubbi… ma se proprio ci tieni stancala pure, così poi forse dormirà per più di due ore di seguito. Quella bambina è troppo attiva, vuole sempre giocare!”
“Tranquilla, puoi sempre portarla da Alastair quando sei esaurita, così Ivy farà stancare uno dei suoi padrini... Servono a questo, no?”
 

*


“Fai attenzione, non è un bambolotto.”
Nerine annuì, assicurando alla sorella maggiore che non l’avrebbe fatta cadere mentre prendeva delicatamente la nipotina in braccio, rivolgendole un gran sorriso:

“Wow, è pesante!”
“Te l’ho detto, non è una bambola.”
“Nym, non ho più nove anni, non trattarmi come una bambina!”
“Sai che differenza, nei hai undici!”
“Beh, tra due settimane andrò a scuola, non sono piccola. Vero Phoebus?”

“Certo Rine.”

Nerine sorrise con aria soddisfatta, lanciando un’occhiata vittoriosa alla sorella prima di chiedere alla madre quando avrebbe potuto giocare con la nipotina.

“La smetterai mai?”
“Di fare cosa?”  
“Di arruffianarti spudoratamente i miei fratelli!”
“Sei solo invidiosa, perché tua sorella e tuo fratello mi adorano. E pensare che all’inizio pensavo mi avrebbero detestato per avergli portato via la loro amata Nym.”

“E infatti inizialmente Cole non ti poteva vedere, se proprio vuoi saperlo. Nerine invece non faceva che chiedermi quando saresti tornato a trovarla…” 


*


“Ciao!”
Phoebus si chiuse la porta alle spalle e, mentre si sfilava la giacca, si guardò intorno nell’ampio ingresso, aspettandosi di ricevere il consueto benvenuto.
In effetti sentì dei passi affrettati e sorrise, intuendo chi stesse per vedere… poco dopo Ivy fece il suo ingresso nella stanza e lo raggiunse, ma invece di sorridergli e abbracciarlo come suo solito si fermò davanti al padre e lo guardò con gli occhi chiari sgranati, prendendolo per mano:

“Ciao papà… la mamma sta male.”
“E dov’è?”
“In camera, sta piangendo.”

“Sta piangendo?”
La bambina di tre anni annuì mentre lo conduceva verso la sua camera, salendo le scale un po’ a fatica e dicendogli di andare a consolarla. 
 
“Adesso ci penso io… tu vai a giocare, ok?”
Phoebus sorrise alla bambina, chinandosi per lasciarle una carezza tra i capelli scuri mentre Ivy annuiva, apparentemente poco convinta.
 

“Nym? Che cosa c’è?”
 
L’ex Serpeverde bussò delicatamente prima di aprire la porta della sua camera da letto, puntando gli occhi sulla moglie mentre si chiudeva l’anta alle spalle, evitando che la figlia sentisse nel caso si trattasse di qualcosa di grave. 
Fu ben lieto di constatare che Nymphea non stava piangendo, seduta sul materasso con la schiena appoggiata alla testiera e un cuscino stretto nervosamente tra le braccia, ma a giudicare dal rossore dei suoi occhi e dall’espressione tesa doveva averlo fatto fino a poco prima.

“Ciao… scusa, non ti ho sentito entrare.”
“Non fa niente… stai bene? È successo qualcosa alla tua famiglia?”

Nymphea scosse il capo mentre Phoebus sedeva accanto a lei, sul materasso, allungando una mano per prendere quella della moglie, molto più piccola e più pallida, in quel momento anche fredda:

“No… stanno bene. Solo… ho ricevuto i risultati.”
“C’è qualcosa che non va?”

Phoebus spalancò gli occhi scuri con orrore, sentendosi mancare per un momento e stringendo istintivamente la presa sulla mano della moglie, guardandola deglutire a fatica prima di dire qualcosa a mezza voce:

“No, non c’è nessun problema… o almeno, dipende dai punti di vista. Sono due gemelli.”

“Oh.” 
Phoebus provò un moto di sollievo, ma durò solo per un attimo. Poi capì il perché della reazione della moglie, che continuava a non guardalo in faccia, gli occhi lucidi, e sospirò, avvicinandosi per abbracciarla:

“Andrà tutto bene, non preoccuparti. Troveremo una soluzione, dovessimo anche tornare a vivere dall’altra parte. Non m’importa degli agi se non posso avervi.” 
 


*


“Avete fatto bene a venire subito, onde evitare situazioni spiacevoli in futuro. Quindi lei aspetta due gemelli?”
“Sì… io ho due fratelli gemelli, avevo il sentore che sarebbe potuto succedere.”

“E avete già una figlia.”
“Sì, di tre anni.”

Phoebus annuì, la mano stretta in quella di Nymphea, che annuì a sua volta senza dire una parola, aspettando che a parlare fosse l’uomo seduto di fronte a loro, oltre la scrivania, accanto a Mairne. La bionda restò in silenzio, limitandosi a spostare lo sguardo da Nymphea a Phoebus quasi con leggera compassione:

“Sapete che non si possono avere più di due figli, qui.”
“Certo, ma non è possibile prevederlo.”
“Non potreste… fare un’eccezione?”

Nymphea si morse il labbro, sempre più a disagio mentre Mairne inarcava un sopracciglio, decidendosi finalmente a parlare:
 
“Sì potrebbe fare uno strappo… sono gemelli, non è una terza gravidanza.”
“Non posso decidere da solo, sottoporrò la questione al Consiglio durante la prossima riunione, non vi posso assicurare nulla, Signori Gaunt. Capisco che la situazione sia… complicata.”
  
“In ogni caso, lei non abortirà. So quanto le regole siano importanti per mantenere l’ordine, ma se non doveste accordarci il permesso ce ne torneremo da dove siamo venuti, voglio che sia chiaro.”
“Forse bisognerebbe tenere in considerazione che entrambi sono arrivati qui per merito, non per diritto di nascita, andrebbero loro riconosciuti dei “diritti” extra. Senza contare l’enorme lavoro che ha fatto Nymphea in questi anni nell’ambito sanitario... sarebbe una gran perdita, Maximilian.”

Mairne si stampò il suo sorriso migliore sul volto mentre, accanto a lei, il mago annuì con fare sbrigativo, rivolgendo un cenno ai due:

“Me ne rendo conto, ma come ho detto non prendo le decisioni da solo. Vi faremo sapere, Signori Gaunt.”
“Vorrei anche ricordarle che il Signor Clark è grande amico dei qui presenti, sono piuttosto sicura che la questione avrà il suo voto.”
“Signorina Connelly, può almeno fingere di essere imparziale?”


“Tranquilli, dirò a Lilian e a Connor di convincerlo, non sarà difficile.”

Nymphea sorrise al sussurro della bionda, che rivolse un sorriso incoraggiante a lei e al marito prima di alzarsi e seguire il capo fuori dallo studio, lasciandoli soli:

“Pensi che funzionerà?”
“Spero di si, ma sai già come la penso, se anche così non fosse… resteremo comunque una famiglia, Nym, questo non si può cambiare.”
 


 

Da qualche tempo gli capitava spesso di svegliarsi all’alba o nel cuore della notte, quasi sempre a causa degli incubi di Nymphea per poi cercare di calmarla, ma quella mattina venne svegliato dalla luce che entrava dalla finestra lasciava semi-aperta. Lanciò, per prima cosa, un’occhiata alla moglie, ma notò con sollievo che stava dormendo profondamente, appoggiata a numerosi cuscini per stare comoda nonostante il pancione. 

Stava per dirsi che era sabato e che poteva tornare a dormire quando sentì qualcosa muoversi accanto a lui e un attimo dopo Ivy fece capolino da sotto al piumone, in mezzo tra lui e Nymphea, guardandolo con gli occhi chiari assonnati e i capelli spettinati:

“E tu che ci fai qui, Principessa?”
“Fa freddo.”

Sentì a malapena il mormorio della bambina, che si strinse a lui e appoggiò la testa sul suo petto, lasciandosi abbracciare mentre il padre le rimboccava il piumone:

“Vieni qui, allora… ma non svegliare la mamma, ha bisogno di riposarsi.”


*


“Sono davvero felice per voi, per fortuna hanno chiuso un occhio.”
“Già.” 
 
Nymphea annuì, sorridendo mentre guardava i gemelli sonnecchiare con affetto, facendo dondolare lentamente la culla di Erica mentre Zavannah era seduta accanto al lettino di Zack.

“Ho sognato molto spesso di perderne uno, o che me lo strappassero dalle braccia appena partorito.”
“Ma per fortuna non è successo. Dove sono Phoebus e Ivy?”
“L’ha portata al parco, si sente un po’ trascurata da quando sono arrivati loro, non essere più la principessa di casa è dura.”
“Parli per esperienza personale?”

“Certo che sì, quando Cole e Rine avevano pochi mesi e mi tenevano sveglia con le loro urla progettavo di spedirli all’estero dentro un pacco!”


*


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“È della zia Rine?”

Nymphea annuì, ripiegando lentamente la lettera che la sorella le aveva scritto mentre, seduta sulla finestra per leggere, teneva gli occhi chiari fissi sul vetro.
Non sentendo la madre aggiungere altro Ivy inarcò un sopracciglio, avvicinandolesi e sedendo accanto a lei:

“Cosa dice?” 
“Cole non ha superato la prova individuale, lei sì.”
 
“Quindi potrà venire qui!”
“No… ha deciso di ritirarsi.”

“Oh… mi dispiace, mamma.”
“Non fa niente, posso capirla. Ha scelto di non pensare solo a se stessa, io non lo feci. A volte mi domando se non avrei dovuto tornare indietro, quando i tuoi zii me lo chiesero.”
“Volevi aiutare i nonni! Non sei una persona egoista, mamma, lo sanno anche loro.”

La ragazzina scosse il capo, prendendo la mano della madre che le rivolse un sorriso, guardandola con affetto:

“Lo spero. Avevo praticamente la loro stessa età, sai? 22 anni, loro ne hanno già 23. Siete cresciuti davvero in fretta.”
“Ma loro non hanno passato i precedenti quattro anni a crescere due bambini da soli, mamma. Avevi solo diciotto anni, non era compito tuo… io ne ho quattordici e mi chiedo come tu ci sia riuscita, a non dare di matto.”
“Ho un’ottima pazienza. Mi dispiace solo non avere nessuno dei due qui con me, tutto qui. Ma capisco che Rine non abbia voluto abbandonarlo, io ormai ho una famiglia, una vita… oltre ad essere diventata vecchia.”

“Su col morale mamma, non hai ancora quarant’anni! Papà invece sta per compierli, mi sembra un po’ depresso… beh, comunque sei ancora vagamente attraente, se ti può consolare... e poi, se avessi scelto di tornare indietro dagli zii, non avresti sposato papà e non avresti questa meravigliosa figlia!”
“Vagamente?! Ah, tante grazie signorina! Da dove pensi che venga quel bel faccino?”

Nymphea inarcò un sopracciglio e la figlia maggiore rise mentre la porta della camera si apriva e Phoebus faceva la sua comparsa, annunciando che la cena era quasi pronta.
“Notizie dai gemelli?” 
“Cole non ha superato la prova individuale, Rine sì ma ha deciso di tornare a casa con lui. Non fa niente, possiamo vederli comunque, di tanto in tanto.”

Nymphea si strinse nelle spalle, alzandosi e lasciando la lettera della sorella insieme a tutte le altre, nella scatola di legno appoggiata sul tavolino. 
 
Ivy superò il padre e uscì dalla camera, ma Phoebus non si mosse dalla soglia e aspettò che la moglie gli si avvicinasse per parlare:

“Mi dispiace, Nym. Tutto bene?”
“Certo. Non tornerei indietro per niente al mondo, in realtà… sono felice della scelta che ho fatto, sedici anni fa. Chissà dove sarei ora, se non l’avessi fatto, anche se è stata dura.”

“Che domande, di sicuro non saresti sposata con un uomo affascinante come il sottoscritto.”
Sta’ zitto, quarantenne.”


Nymphea roteò gli occhi chiari mentre prendeva il marito sottobraccio, uscendo dalla camera insieme a lui e ignorando le sue proteste, sottolineando che mancasse ancora qualche mese al suo quarantesimo compleanno.




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Capitolo 18
*** You won’t never change ***


You won’t never change
 
Rose Williams Image and video hosting by TinyPic Hooland MagnusImage and video hosting by TinyPic


Hooland Magnus teneva gli occhi azzurri fissi sullo schermo dell’enorme TV, comodamente seduto sul divano di pelle con una gigantesca scodella piena di patatine in grembo e i piedi appoggiati sul pouf.

“Hool? Cosa vuoi che prepari per cena?”

Rose fece capolino sulla soglia del salotto dalla cucina mentre si allacciava il grembiule, lanciando un’occhiata interrogativa al marito e sentendolo mormorare distrattamente che per lui non c’era differenza. 

“Dici così un giorno sì e un giorno no, poi quando preparo il pesce brontoli perché volevi la carne, se faccio la pasta al pomodoro volevi il pesto… Sicuro che ti vada bene tutto?”
Hooland annuì, restando in silenzio e continuando a seguire i movimenti dei personaggi mentre Rose alzava gli occhi al cielo, sfilandosi il grembiule e decidendo che quella sera non avrebbe cucinato un bel niente:

“Allora decido io, stasera pizza. Stai guardando Beautiful?”
“Certo, è il mio appuntamento quotidiano.”

Hooland si voltò verso la ragazza con un sorriso, guardandola avvicinarsi e rivolgere un’occhiata sinceramente perplessa allo schermo:

“Ma questa non è Taylor? … Ma non era precipitata dallo strapiombo due settimane fa?”
“Pare che si sia miracolosamente salvata.”
Caspita, questa qui ha più vite di Lord Voldemort!”

Hooland rise, annuendo e prendendola per mano per farla sedere accanto a lui, appoggiandole un braccio sulle spalle:

“Dici che abbia scoperto gli Horcrux anche lei?”
“No, è troppo impegnata a combattere un’insensata Guerra contro quella bionda che si continua a sposare per poi divorziare con Ridge. A quanto ammonta il numero?”
“Credo intorno alla quindicina. È tutto talmente ridicolo da finire coll’essere divertente.”

“Se lo dici tu… Che pizza vuoi, comunque?”
“Non so, è uguale.”
“Oh, andiamo, deciditi! Ogni volta scrocchi fette dalla mia!”
“Questo perché mangiare la tua e vederti innervosirti è più divertente.”


*


Ahia! Rose, quando abbiamo comprato casa avremmo dovuto considerare meglio le altezze delle porte, sbatto sempre quando passo per la sala da pranzo!”
“Non è certo un problema che riguarda me, avresti dovuto pensarci TU.”

Rose si strinse nelle spalle, continuando a spolverare con noncuranza mentre Hooland la raggiungeva, guardandola con un sopracciglio inarcato:

“Mi spieghi perché pulisci manualmente invece di usare la magia?”
“Mi rilassa. E poi tra poco arrivano i miei fratelli, devo mettere in ordine. Certo, quei tre vandali di Renan, Robert e Rickon metteranno tutto di nuovo in disordine come da manuale, ma almeno ci provo.”
“Aspetta… intendi dire TUTTI? TUTTI i tuoi fratelli?”
“Sì, dal primo all’ultimo. Roxanne e Roby sono a casa per le vacanze e vogliono salutarci… mentre probabilmente quei tre vogliono solo scroccare la merenda. Forse li ho abituati troppo bene cucinando fin da piccoli…”

“È vero, le tue sorelle mi adorano. Ora mi preparerò all’assalto della famiglia Williams.”
“Sapevi che famiglia avessi, quando ci siamo messi insieme, ergo non lamentarti.”


*


“Hooland dov’è?”
“Ha portato Holly a fare una passeggiata per calmarla, non fa che strillare da quando si è svegliata.”

Julian, seduto al tavolo della cucina con una tazza di caffè davanti, sorrise all’amica prima di lanciare un’occhiata al figlioccio, in piedi accanto al tavolo e il ciuffo di capelli castani appena visibile mentre teneva le mani strette sul bordo del tavolo, in punta di piedi per vedere cosa stesse facendo la madre. 

Vuoi un po’ di impasto?”
Al sussurro del padrino Henry sorrise e annuì, allungando una mano per prendere un po’ dell’impasto per biscotti cosparso di gocce di cioccolato che la madre aveva appena preparato e che Julian gli avvicinò:

“Vuoi restare per cena? Ci farebbe piacere.”
Rose si voltò per prendere il matterello e stendere l’impasto e quando fece ritorno davanti al tavolo, cinque secondi dopo, i suoi occhi azzurri si catalizzarono su qualcosa che decisamente mancava:

“Che accidenti… DOV’È FINITO L’IMPASTO?!”
“Io non ho visto niente.”

Julian alzò entrambe le mani, cercando di non ridere mentre Rose si allontanava a passo di marcia e armata di matterello, gridando sulle scale:

“HENRY! PORTALO SUBITO QUI! Julian, sei troppo accondiscendente con i miei figli.”
“Credevo che i padrini servissero a questo, in realtà… accetto l’invito, comunque.”


*



“Sono pronta! Andiamo?”

Heather si fermò sulla soglia della camera dei genitori con un sorriso stampato sul viso, facendo una piroetta per farsi ammirare dalla madre, che seduta sul letto le rivolse un sorriso:

“Sei bellissima, amore. Io sono pronta, ma qualcun altro no. Hool, sei in comodo?”
“Un momento, non sono sicuro che questa camicia stia bene con questi pantaloni!”

Rose alzò gli occhi al cielo, dicendosi che probabilmente era l’unica donna al mondo a prepararsi più in fretta di suo marito mentre la figlia maggiore ridacchiava, avvicinandosi alla porta aperta della cabina-armadio:

“Ma papy, tanto sei bello lo stesso!”
Un istante dopo Hooland uscì dalla cabina armadio, rivolgendo un sorriso carico d’affetto alla figlia mentre si chinava per prenderla in braccio, dandole un bacio sulla guancia:

“Grazie tesorino. Ok, possiamo andare.”
Hallelujah, credo che ormai Isla stia contattando le autorità per denunciare la nostra scomparsa! Userò Heather per farti sbrigare più spesso, d’ora in poi.”


*


Mamma!”

Rose smise immediatamente di prestare attenzione al suo libro sentendo la voce rotta della figlia, alzando lo sguardo per posare gli occhi azzurri sulla figlia minore, che le si stava avvicinando in lacrime:

“Holly! Che cosa c’è?”

Anche Hooland, che fino a quel momento era rimasto in silenzio, seduto davanti al suo portatile, rivolse la sua attenzione alla bambina, che si fermò davanti alla madre prima di parlare a mezza voce, gli occhi azzurri pieni di lacrime:

“Henry mi ha dato una sberla.”

Hooland sgranò gli occhi, tentato di salire le scale, prendere il figlio e spedirlo il più lontano possibile. Lui si sarebbe limitato a fargli una ramanzina, ma non sua madre. 
L’espressione dolce che contraddiceva il volto di Rose quasi perennemente mutò alla velocità della luce alle parole della bambina: l’ex Tassorosso serrò la mascella, assottigliando pericolosamente gli occhi mentre si voltava verso l’imboccatura del corridoio che portava alle scale, dove di certo il secondogenito si era appollaiato per origliare e cercare di capire quanti grossi fossero i guai in cui si era messo:

“HENRY! Vieni subito qui!”

Il tono della ragazza era così fermò e deciso che il bambino di cinque anni non potè far altro che obbedire, scendendo le scale e raggiungendo madre e sorella sul divano a testa bassa: 

“Quante volte vi ho detto di non alzare le mani? Specie con lei, è piccola, le fai male.”
“Scusa mamma.”
“Non devi chiedere scusa a me… chiedi scusa ad Holly.”

Henry posò gli occhi chiari sulla sorellina di tre anni, che continuò a fissarsi i piedi e tenere una mano stretta in quella della madre, prima di mormorare delle scuse a mezza voce. 

E dalle un abbraccio.”
“Non lo farò più.”

“Lo spero vivamente. Lo sai come la pensa la mamma, no?”

Henry annuì prima di sporgersi e abbracciare la sorellina, che ricambiò prima che l’espressione della madre si stendesse nuovamente, sfoggiando un lieve sorriso mentre le accarezzava i boccoli castani:

“Che dici Holly, lo perdoni?”
“Ok. Però devi giocare con me.”

Holly prese il fratello per mano per poi condurlo con sè verso le scale e Rose sorrise, ben lieta che i bambini avessero l’innata capacità di fare pace nell’arco di mezzo minuto.

“Così va bene.”
“Complimenti Generale Williams, li hai messi in riga come sempre… ma vuoi davvero dirmi che tu e i tuoi fratelli non ve le siete mai date?”
“Tra di loro sì, ma non mi davano mai molto fastidio… anzi, all’asilo anche se erano più piccoli minacciavano chi mi dava il tormento.”


Rose si strinse nelle spalle prima di tornare a leggere, esitando prima di dire qualcos’altro a mezza voce:

“E poi, per quanto mi riguarda, non si dovrebbero mai alzare le mani in generale.”
Lo so Rosie.”


*



I bambini erano tutti intorno al tondino, anche se Holly doveva alzarsi in punta di piedi per poter vedere cosa stesse succedendo al suo interno, oltre la ringhiera.
Isla si avvicinò ai bambini con le braccia conserte, sospirando e chiedendosi se si sarebbe mai abituata a quell’”ambiente”. Fatta eccezione per l’odore, a quello non si sarebbe mai abituata.

“Ciao ragazzi… cosa guardare?”
“La mamma sta addestrando Pluto!”

Pluto? Avete chiamato il cavallo Pluto?”
“Lo ha scelto Holly.”

Heather si strinse nelle spalle e accennò alla sorellina, che sorrise alla “zia”. Isla ricambiò, accarezzandole i riccioli castani prima di tornare a concentrarsi sull’interno del tondino, posando gli occhi scuri sull’amica. 
Rose era in piedi, al centro della circonferenza, i piedi affondati nella sabbia e l’impugnatura di una lunga frusta stretta in mano mentre il palomino procedeva al trotto intorno a lei.

Isla si appoggiò alla ringhiera, osservando a sua volta l’amica far schioccare la lingua un paio di volte prima di dire qualcosa in francese, continuando a girare su se stessa per seguire i movimenti del cavallo:

“Perché il francese?” L’americana inarcò un sopracciglio, parlando a bassa voce per non disturbare l’amica.
“La mamma dice che la lingua che si usa per i comandi è il francese.”
Hanno pure una lingua adesso?!”

“Alè. Non farmi usare questa, Pluto.”

Rose inarcò un sopracciglio, accennando alla frusta che teneva in mano e colpendo pigramente la sabbia. Isla aggrottò la fronte, faticando sinceramente ad immaginare la dolcissima amica frustare un cavallo senza pietà, ma probabilmente Pluto colse il messaggio perché partì al galoppo subito dopo, facendo sorridere la padrona con soddisfazione.

“Bravo. Tieni.”

Rose lanciò al cavallo un pezzo di pane prima di far schioccare la lingua di nuovo, facendolo rallentare fino a tornare a trottare.


Quando, poco dopo, Rose uscì dal tondino con una mano stretta sulla longhina con cui conduceva Pluto e l’altra che teneva la frusta arrotolata, Isla sorrise e si spostò per farla passare, guardandola con leggero divertimento mentre i bambini si affrettavano a chiederle se potessero riportare il cavallo nel suo box da soli:

“Va bene, ma prima dovete lavarlo. Isla, che ci fai qui fuori?”
“Piuttosto che ascoltare quei due blaterare di Quidditch sono venuta qui… non ti facevo tipo da usare la frusta.”

“Serve solo a minacciarli, non li colpirei mai.”
Rose sorrise, sfilandosi i guanti mentre si allontanava insieme all’amica, che sfoggiò una smorfia:

“Ma come fate a sopportare questa puzza di letame, me lo spieghi?”
“Io non lo sento più, ci si abitua.”
“Io non mi ci abituerò mai, penso.”

“Oh, giusto, tu sei una chic della città… ma non ci sono cavalli, a New York?”
“Solo a Central Park, ma io preferivo lo zoo. Se non altro oggi c’è bel tempo… facciamo una passeggiata? A piedi, s’intende.”

Rose lanciò un’occhiata al cielo azzurro, aggrottando la fronte prima di parlare con tono scettico:

“Non credo durerà.”
“Davvero? Non si direbbe.”
“I cavalli sono agitati… sentono quando arriva la pioggia.”

“Mi stai dicendo che sono anche meteorologi, adesso?! No, non me la bevo.”
“Ti assicuro che è così!”
“Scommetto le mie Christian nuove che mi stai prendendo in giro.”

“Bene. Stai per perdere un paio di Louboutin, mia cara.”


*


“Hool, ci sono non uno, ma TRE bambini al di sotto dei dieci anni in quest’auto, potresti rallentare?!”

Rose scoccò un’occhiata torva al marito, che invece sorrise con aria divertita, staccando momentaneamente lo sguardo dalla strada per voltarsi verso i figli e rivolgere un cenno si bambini:

“Credo che tu sia l’unica di quest’idea, qui dentro.”

In effetti Heather, Henry e Holly stavano ridacchiando allegramente e Henry si sporse persino verso il padre, sorridendogli:

“Papà, vai più veloce!”
“Ricevuto.”

“NEANCHE PER IDEA. Ma perché ho sposato l’unico mago al mondo che è appassionato di motori… Hool, rallenta, non ho ancora quarant’anni e ci voglio arrivare con le mie piene facoltà fisiche e mentali!”


*


Rose aprì la lettera con impazienza, lasciando la busta sul tavolo e concentrandosi sulle righe scritte dalla figlia minore prima di sfoggiare un largo sorriso, scivolando dall’alto sgabello sistemato davanti al bancone della cucina:

“Hool!”
“Notizie di Holly?”

“Sì… Tassorosso, proprio come avevamo previsto. E pensare che eravamo entrambi terribili in Divinazione.”
“Non avevo dubbi sulla sua casa… quanto a Divinazione, non so spiegarmelo.”

Hooland si fermò sulla soglia della cucina e sorrise alla moglie mentre s’infilava la giacca e Rose gli si avvicinava per abbracciarlo:

“Ma non saremmo noiosi? Insomma, cinque Tassorosso su cinque.”
“Noiosi, noi? Pulcino, avremo talmente tante storie da raccontare grazie al lavoro che facevamo che i nostri nipoti preferiranno noi ai film.”


Rose sorrise, annuendo prima di alzarsi in punta di piedi e baciarlo dolcemente, cogliendo il sorriso carico di malizia che Hooland sfoggiò subito dopo:

“Ora… Holly ha cominciato la scuola, quindi abbiamo finalmente la casa tutta per noi.”
“Non cambierai mai…”




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Capitolo 19
*** The giant and the wren ***


The giant and the wren
 
Dante Julius Image and video hosting by TinyPic  Jane PrewettImage and video hosting by TinyPic



“Avanti, aprilo.”
“Non dovrei aprirlo domani, insieme agli altri?”

“No, questo è speciale, voglio vederti mentre lo apri.”

Dante sorrise e Jane, capendo che avrebbe insistito finché non avrebbe ceduto, annuì, abbassando lo sguardo sul pacco che teneva tra le braccia, cosi grande da riuscire a malapena a reggerlo. 

Quando Dante si era presentato, alla Vigilia di Natale, con un regalo di quelle dimensioni era stata tentata di chiedergli se le avesse regalato un cucciolo di ippopotamo… ma aprendo la scatola Jane inarcò un sopracciglio, rendendosi conto che dentro ce n’era un’altra, seguita da altre scatole sempre più piccole. 

“Danny, mi hai regalato un set di scatole?!”
“Beh, ti lamenti sempre che non sai dove mettere le cose…”

Jane stava iniziando a chiedersi piuttosto DOVE avrebbe messo tutte quelle scatole, tutte di colori e dimensioni diversi, quando ne prese tra le mani una grande quanto il palmo della sua mano, blu e di velluto.

“Non preoccuparti, questa è l’ultima. Dentro c’è il vero regalo.”
“Ah, quindi non è un set di scatole?”

Jane aprí la scatolina tenendo gli occhi azzurri fissi sul fidanzato, rivolgendogli un’occhiata scettica prima di abbassare lo sguardo sul suo “regalo”, strabuzzando gli occhi e restando in silenzio per un paio di secondi.

Sai, stavo pensando che mi piacerebbe che questo fosse l’ultimo Natale che passiamo da fidanzati. Ti andrebbe di passare il prossimo da marito e moglie? E poi anche quelli a seguire, certo.”

Dante sorrise, continuando a tormentarsi le mani e tamburellare i piedi sul pavimento mentre guardava la ragazza che, seduta accanto a lui, continuava a restare in silenzio e a tenere gli occhi fissi sull’anello che aveva davanti. 
Stava quasi iniziando a chiedersi se stesse valutando di declinare l’offerta quando Jane si alzò dalla poltrona con un sorriso stampato sul volto prima di travolgerlo con un abbraccio, assicurandogli che la trovava una splendida idea.


*


Dante era seduto sul divano, gli occhi fissi sull’orologio mentre il suo stomaco brontolava. 
Disgraziatamente Jane non era ancora tornata, e la moglie gli aveva tassativamente vietato di avvicinarsi ai fornelli in sua assenza, sostenendo che non volesse tornare a casa, una sera, e trovare metà edificio polverizzato. 

Si stava chiedendo quanto ancora ci avrebbe messo ad arrivare quando un rumore attirò la sua attenzione, portandolo a voltarsi verso il camino, spento fino a poco prima ma da cui, un attimo dopo, vide uscire la moglie.

“Finalmente! Stavo per venirti a cercare… allora, com’è andat-?”

Jane, sfoggiando un largo sorriso, gli si avvicinò per abbracciarlo di slancio, mettendosi a cavalcioni su di lui e interrompendolo, impedendogli di finire la frase:

“Ha detto che va tutto bene… e ho superato le dodici settimane! Forse questa volta andrà bene, Danny!”

Dante sorrise di rimando, annuendo mentre accarezzava la schiena della moglie con le dita, felice sia per le sue parole, sia per la stessa felicità che leggeva sul suo volto:

“Te l’avevo detto… per una volta avevo ragione e avresti dovuto darmi retta, non c’era motivo di preoccuparsi. Sei felice, piccola Jane?”
“Tanto. Ti amo, Danny.”

Jane sorrise, gli occhi cerulei luccicanti mentre si chinava per baciarlo, guardandolo sorriderle di rimando quando si staccarono:

“Anche io. Ora, visto che sei tornata, potresti cucinare qualcosa? Non mangio da circa otto ore…”
“Danny, ti ho detto che probabilmente riusciremo finalmente ad avere un bambino e tu mi chiedi di preparare la cena?!”

“Ricordati che sono grande e grosso, ho bisogno di assumere calorie più di te!”


*


Continuava a girarsi e rigirarsi, cercando di trovare una posizione comoda senza però ottenere buoni risultati. In più faceva anche piuttosto freddo, cosa che di certo non lo aiutava ad addormentarsi. 

Dopo essersi incastrato per l’ennesima volta decise di lasciar perdere, alzarsi per agguantare il suo cuscino e lasciare il salotto a passo di marcia, dirigendosi verso le scale. 

Non gli restava che un’opzione: implorare e fare gli occhi dolci. In genere funzionava, forse quella sera avrebbe avuto la stessa fortuna. 

La porta della sua camera da letto era aperta e la luce era ancora accesa, proiettata sulla parete  opposta del corridoio buio. E prima di affacciarsi sull’uscio Dante provvide a stamparsi la sua miglior espressione da cane bastonato sulla faccia, rivolgendo un’occhiata implorante alla moglie che era seduta sul letto, sotto le coperte con un libro sulle ginocchia e appoggiata alla testiera: 

“Certo che far dormire un uomo della mia altezza sul divano è proprio una crudeltà bella e buona…”
“Beh, avresti dovuto pensarci prima. E poi puoi sempre allungarlo con la magia.”

Ma è scomodo!”
“Lo hai scelto tu.”
“E fa freddo!”
“Accendi il fuoco... Non fare i capricci Dante, in questa casa di bambino piccolo ce n’è già uno.”

Jane sollevò lo sguardo dal suo libro per posare gli occhi cerulei su di lui, accennando alla culla sistemata accanto alla finestra dove sonnecchiava la piccola Grace.

“Jane, che cos’è tutta questa acidità? Rivoglio la mia dolcissima piccola Jane.”
“Mi conosci da anni, dovresti saperlo che nelle rare occasioni in cui perdo la pazienza lo faccio per davvero. E comunque mi dispiace, Dante, ma temo proprio che il tuo posto sia occupato.”

Mi hai trovato un rimpiazzo così in fretta?”
“Oh, non è stato difficile.”

Jane accennò un sorriso mentre un rumore di passi precedeva l’arrivo dei bambini, tutti in pigiama, che superarono il padre uno dietro l’altro per raggiungere il letto matrimoniale e arrampicarcisi sopra, con qualche difficoltà nel caso di Jake, che aveva solo due anni e mezzo.

“Che storia è questa?! Appena la mamma mi esilia voi mi rubate il posto?!”
“Sì!”

James sorrise allegramente mentre si sistemava sotto le coperte, occupando il suo lato del letto insieme alle gemelle mentre Jake si rannicchiava accanto alla madre, che sorrise di fronte all’espressione torva del marito:

“Ah, buono a sapersi. Bene, ora me torno di sotto.”
“…”
“Sul divano.”
“Naturalmente.”
“Da solo.”
“Bene.”
“Al freddo.”
“Chiudi la porta quando esci, grazie.”
“Jane, possibile che non riesca ad impietosirti neanche un po’?”

“A quanto pare… buonanotte Dan. Ragazzi, date la buonanotte a papà.”

L’ex Grifondoro sbuffò mentre i quattro bambini, sorridendogli vivacemente, gli auguravano la buonanotte. Così, non gli restò che girare sui tacchi e uscire dalla sua stessa camera, rassegnandosi al fatto di dover dormire su quel maledetto divano troppo corto per il suo 1.97 di altezza


*


Dante era comodamente seduto sulla poltroncina della sua camera, gli occhi eterocromatici fissi sulla figlia minore, che invece era sul letto matrimoniale con il ciuccio in bocca e il body bianco addosso, guardandosi intorno come in cerca di un qualche modo per scendere dal letto e raggiungerlo.

Dante guardò la figlia gattonare finché non ebbe raggiunto praticamente il bordo del materasso, allungando una mano per agitarla nel vuoto, come a volersi assicurare che il pavimento non fosse vicino. 
E a quel punto il padre sorrise, chiedendosi sinceramente che cosa avrebbe fatto la bambina. 

In effetti la reazione di Grace lo stupì non poco: prima prese il suo peluche e poi lo lasciò cadere dal letto, sul pavimento, per poi afferrare con le minuscole mani uno dei cuscini abbandonati sul letto sfatto, dove avevano giocato fino a poco prima, per poi spingerlo giù dal letto. 

Quasi scoppiò a ridere quando la bambina, con la fronte aggrottata come se fosse sinceramente concentrata, prese il secondo cuscino e cercò di lasciarlo cadere in modo da sistemarlo sopra al primo, sporgendosi poi dal letto con una gamba, toccando il cuscino con il piede e lasciandosi scivolare su di esso sotto gli occhi spalancati del padre, che si alzò per raggiungerla e prendere in braccio la bambina sorridente e apparentemente soddisfatta:

“Jane! Nostra figlia è un genio!”


*


“Mi ricordi perché siamo venuti qui, esattamene? Non avrei dovuto accettare!”
“Beh, perché è un posto unico, perché amo l’Italia, perché la mia famiglia ha origini italiane… ti basta?”

“Sì, lo so, ma resta comunque una pessima idea… James, dai la mano a tua sorella e statemi vicino, devo contarvi come da routine. Uno, due, tre... Grace è con te… JAKE! Dov’è Jake?! Lo avevi tu!”
“Ehm…”
“DANTE, HAI PERSO NOSTRO FIGLIO?!”

Jane sgranò gli occhi azzurri, impallidendo improvvisamente mentre Dante si sforzava di sorriderle per tranquillizzarla, intuendo il mancamento che la moglie stava per avere: 

“Rilassati tesoro, sono sicuro che è qui da qualche parte.”
“Questa città è un dannato labirintico, come si fa a non perdersi… e queste stradine infernali, buie e strettissime non aiutano. James, hai visto dov’è andato tuo fratello?”
“Di là.”

Jane sospirò prima di allontanarsi tenendo Phoebe per mano, infilandosi nell’ingarbugliata rete di calli per cercare il figlio mancante.

“Altro che vacanza, lo dicevo che viaggiare con cinque figli è più un viaggio di lavoro… Jake! Tesoro, dove stai andando?”

Jane sorrise con sollievo mentre accelerava il passo per raggiungere il bambino di tre anni, trovandolo impegnato a vagare infondo alla stradina, in lacrime probabilmente per essersi reso conto di essersi allontanato troppo dai genitori.

“Mamma!”
Il bambino parve come illuminarsi alla vista della madre, correndole incontro per abbracciarla mentre Jane sorrideva, accarezzandogli i capelli scuri: 

“Eccoti qui… Adesso tieni la mamma per mano e non ti allontani più, ok?”
Jake annuì, tirando su col naso mentre la prendeva per mano, sollevato di averla ritrovata mentre faceva ritorno dal padre. 
O almeno, quella era l’idea di Jane.

“Per l’amor del cielo, come fanno ad orientarsi in questo posto, è tutto uguale… Dan!”


“Jane? Sono qui! Sarà meglio uscire da qui in fretta, prima di perderci sul serio. Jimmy, torna qui, lascia stare quel piccione!”

Cominciava seriamente a compatire sua madre, in effetti…
Come avesse fatto a crescere sette figli, rimaneva un bel mistero.


*


“Papà?”
“Sì tesoro?”

Dante sorrise dolcemente alla figlia più piccola, guardandola avvicinarglisi con un foglio in mano e l’aria seria, come se stesse per chiedergli qualcosa di molto importante: 

“Dove vive Babbo Natale?”
“… In Lapponia, no?”
“Sì, ma mi serve anche… “l’indirizzo”!”

Grace sorrise, orgogliosa di aver imparato una parola nuova e guardando il padre come se fosse in attesa mentre Dante si accigliava leggermente:

“Perché ti serve il suo indirizzo?”
“Devo mandargli la mia lettera!”
“Beh, dalla pure a me tesoro, gliela spedisco io.”

“Non posso, è troppo importante.”

Grace scosse il capo, parlando con aria grave e stringendo a sè il foglio che teneva in mano mentre Dante roteava gli occhi: 

“Ok, va bene… beh, mi pare abiti in... via… Delle renne.”
“Sicuro?”
“Sì.”
“Ok, via delle renne, vado a scriverlo… gli ho chiesto un gattino, dici che me lo porterà?”
“Ehm… non saprei, tesoro. Chiedi alla mamma, lei lo sa di sicuro.”


*


“Dan? Mi dici cosa stai aspettando?”

Jane rivolse un’occhiata incerta al marito mentre sistemava la tavola con un pigro colpo di bacchetta, spedendo le stoviglie in cucina a lavarsi. I bambini erano già saliti al piano di sopra dopo aver fatto colazione ma Dante era ancora seduto, gli occhi eterocromatici fissi sulla busta che teneva in mano come se volesse modificarne il contenuto con la forza del pensiero.

“Insomma, non è COSÌ importante, basta che stia ben-“
“Certo che è importante Jane, mi somiglia tantissimo e sarei ben felice se il mio ometto finisse nella mia stessa Casa!”
“Dan, certo che è stato Smistato tra i Grifondoro, lo dicevano tutti… apri la sua lettera e scoprilo!”

L’ex Grifondoro sbuffò mai poi annuì, aprendo la busta per leggere la lettera di James, che era arrivata solo pochi minuti prima. 

Dante lesse le poche righe che il figlio gli aveva scritto e poi sorrise, sollevando lo sguardo per posarlo sulla moglie mentre si alzava:

“Abbiamo un altro Grifondoro in casa!”
“Te l’avevo det- Dan, non mi stritolare!”


*


“JANE!”
“Sono qui… che cosa succede?”

“Jamie mi ha scritto una lettera, ti devo dire una cosa importante… CECILY HA UN FIDANZATINO!”
“Sì, certo.”

Jane annuì distrattamente, continuando a spolverare con nonchalance mentre alle sue spalle Dante sgranava gli occhi con orrore e la sua mascella si snodava:

“Come… TU LO SAPEVI?”
“Certo, sono sua madre, con chi pensi ne parli una ragazzina di quattordici anni?”

“Ma, ma…. Perché io non ne sapevo nulla? È troppo piccola! Chi è, come si chiama?”
“Non ne so molto, ha la sua età, si chiama David ed è un Serpeverde.”

“COSA? SERPEVERDE? Non esiste! Dico a James di liberarsene.”


*


Seduta sulla panca, in prima fila, Jane Julius teneva gli occhi cerulei fissi sulla figlia minore, sorridendo. 
Guardò Dante lasciarle un bacio sulla fronte mentre Victoria, dopo aver dispensato i petali lungo la navata, trotterellava verso di lei con un sorriso sulle labbra e il cestino ancora in mano, ormai vuoto:

“Sono stata brava?”
“Bravissima, tesoro.”

Jane sorrise mentre la bambina sedeva accanto a lei, facendo dondolare le gambe dalla panca mentre Dante si avvicinava alla moglie, circondata da alcuni tra i loro nipoti e che teneva la piccola Violet in braccio.

“È stata dura?”
“Un po’.”

Dante annuì con aria sconsolata mentre prendeva posto accanto a lei, assistendo alla cerimonia. 

“Consolati, Danny… certo, la tua principessa si sposa, ma hai un mucchio di nipoti che ti adorano.”
Jane sorrise dolcemente al marito, che annuì mentre si sistemava Jasmine sulle ginocchia:

“Sembra che non avremo mai un po’ di pace… a quanti nipoti ammontiamo, adesso?”
“Quattro per James e Veronica, più i gemelli per Phoebe, Cecily ne ha uno ma è incinta, e anche Jake e Lucy aspettano un bambino… credo che arriveremo intorno alla ventina entro pochi anni, di questo passo. E tu che di figli ne volevi sette…”

“Perché, piccola Jane, vorresti dirmi che torneresti indietro?”
“… no. Assolutamente no.”


*


Vagava come un’anima in pena, setacciando gli scompartimenti con lo sguardo per cercare qualche traccia di suo cugino, senza però riuscire ad individuarlo.

Stava iniziando a chiedersi se sarebbe riuscita a trovare Rex quando si trovò la strada sbarrata da un ragazzino molto alto, sorridente e con i capelli castani spettinati che stava parlando con una ragazza. 

“Scusami? Posso… passare?”

Jane parlò quasi con un filo di voce, sentendosi arrossire quando entrambi si voltarono verso di lei. Dopo un attimo di esitazione la ragazza annuì, prendendo il fratello per una spalla e costringendolo a spostarsi:

“Certo, scusa… Dan, spostati, blocchi il passaggio.”
“Va bene Sele, non serve spingere! Passa pure.”

“Grazie.”
Jane sorrise timidamente e fece per superare i due quando la voce del ragazzino giunse di nuovo alle sue orecchie:

“Sei del primo anno? Anche io!”
“Sì… davvero? Sembri più grande.”

“È solo un gigante, ma è un pezzo di pane. Ti lascio Danny… comportati bene!”
“Naturale.”

Dante sfoggiò un sorriso allegro e la sorella maggiore, dopo avergli rivolto un’occhiata dubbiosa, si allontanò, lasciandoli soli. E Dante si voltò di nuovo verso la sua nuova conoscenza, allungando una mano:

“Io sono Dante, comunque.”
“Jane.”

“Ti va di sederti vicino a me? I miei fratelli maggiori e i miei cugini più grandi stanno sempre tra di loro.”
“Certo, grazie.”

“Perfetto… vuoi una Cioccorana? Mia madre me ne ha date un’infinità, teme che io muoia di fame durante il viaggio, penso.”

S’infilò una mano in tasca e porse alla ragazzina un dolce, che venne accolto con un timido ringraziamento mentre Dante, camminando lungo il corridoio, continuava a parlare con un che di euforico:

“Tu hai fratelli? Io ne ho tantissimi, siamo in sette… io sono il quinto. In che Casa pensi di di finire? I miei genitori dicono che secondo loro sarò un Grifondoro, come mio fratello Luke… I tuoi genitori sono maghi?”
“Sì, ma sono figlia unica.”
“Davvero? Io non so come farei a stare sempre da solo, mi annoierei… ma non preoccuparti, se diventerai mia amica staremo sempre insieme, non ti annoierai! Su, mangia, sei così magra… dovresti crescere ancora Jane, sei piccola!”

“Non sono piccola, sei tu che sei alto!”
Jane sbuffò appena, borbottando quelle parole con lieve irritazione mentre Dante invece rise, stringendosi nelle spalle:

“Beh, per me lo sei, sembri proprio uno scricciolo in confronto a me.”





………………………………………………………………
Angolo Autrice: 
Dove se ne sono andati i Jante con prole al seguito in vacanza? Ditemelo voi, dove si trovano le calli? :P 






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Capitolo 20
*** Happiness ***


Happiness 

 
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Lily era seduta nell’ampio atrio, facendo dondolare leggermente la gamba destra, che teneva accavallata sulla sinistra mentre aspettava. 
L’ex Grifondoro si trattenne dal sbuffare lievemente, non tanto per l’attesa quanto più per la sensazione di essere osservata che non le piaceva per niente: era piuttosto sicura che il ragazzo biondo seduto a qualche metro di distanza, che evidentemente stava aspettando a sua volta qualcuno, tenesse gli occhi fissi su di lei.

Tuttavia non si voltò, continuando a tenere gli occhi chiari fissi davanti a sè, sul viavai di persone che procedevano a passo svelto sul liscissimo pavimento nell’atrio illuminato dalle due ampie finestre della facciata dell’edificio. Si chiese, in effetti, come facessero a non scivolare visto che su quel pavimento tirato a lucido era stata visibilmente passata una buona dose di cera… ripromettendosi di non essere lei a cedere quando si sarebbe alzata. 

Lanciò un’occhiata al grande orologio appeso sulla parete opposta, notando che la sua migliore amica aveva quasi dieci minuti di ritardo. 

Stava per voltarsi, esasperata, verso il ragazzo che la stava fissando, forse per chiedergli se per caso non volesse una foto autografata, quando la familiare e vivace voce di Mairne Connelly giunse finalmente alle sue orecchie:

“Lily!”
La Grifondoro posò lo sguardo sull’ex Corvonero con sollievo, guardando la bionda sorriderle mentre le si avvicinava:

“Lo so, sono in ritardo, mi dispiace, temo di aver perso la cognizione del tempo… in compenso muoio di fame, quindi andiamo subito a mettere qualcosa sotto i denti. Ciao Connor!”
Mairne aveva appena raggiunto l’amica, che si era alzata per salutarla, quando posò lo sguardo sul ragazzo ancora seduto sulla fila di sedie addossate alla parete piastrellata, sorridendogli.

Lily inarcò un sopracciglio, chiedendosi come lo conoscesse, prima che la bionda parlasse di nuovo:

“Se vuoi vedere tuo padre, è nel suo ufficio… Ma tu non hai bisogno di appuntamenti, perché sei rimasto qui ad aspettare?”
“Grazie Mairne… in realtà, sono rimasto qui ad aspettare volentieri.”

Lily non si girò, forse per non dargli quella soddisfazione, ma lo sentì alzarsi e anche se non aveva mai sentito quella voce fu certa dalla sua inclinazione che il ragazzo stesse sorridendo, magari proprio guardando lei.

“Non avevi fame? Andiamo.”

La Grifondoro prese l’amica sottobraccio e si allontanò a passo di marcia, cogliendo l’espressione perplessa dell’amica di fronte alla sua fretta improvvisa, voltandosi per salutare Connor per poi tornare a concentrarsi su di lei:

“Lily, hai il ciclo? Che cos’hai?”
“Non mi piace quel ragazzo.”
“Ma se sai solo come si chiama?!”

“Beh, non mi piace l’atteggiamento che ha… mi ha fissata per tutto il tempo, mi mette a disagio.”
“Non lamentarti, poteva andarti peggio! Anzi, hai avuto una fortuna bella e buona che a me non capita mai, finisco sempre seduta vicino a donne o vecchietti!”
“Quindi è il figlio di uno dei simpaticoni per cui lavori?”

“Sì, di Sullivan. Insomma, è anche un buon partito, che cosa vuoi di più?”
Mairne ridacchiò ma l’amica non la imitò mentre uscivano dal grandissimo municipio, parlando con aria sostenuta:

“Beh, non mi piacciono mai molto quelli che sono qui per diritto di nascita, hanno spesso un’aria di superiorità che mi irrita non poco. Se poi quello è il figlio di uno degli uomini più ricchi dell’Offshore e quindi dell’Inghilterra magica stessa, non oso immaginare.”


*


“Sai che Connor continua a chiedermi di te, vero?”
“E tu digli che sono migrata in Uganda!”

“Ma poverino, che cosa ti ha fatto? Viene al municipio tre volte alla settimana, e penso che più che sperare di incontrare suo padre voglia vedere te. Perché non gli dai una minuscola possibilità?”

Lily non rispose, limitandosi a sbuffare con leggera irritazione, gli occhi azzurrissimi celati dagli occhiali da sole. Mairne alzò gli occhi al cielo prima di parlare nuovamente, osservando l’amica con aria minacciosa:

“Lily, vuoi forse che Connor vada a dire a suo padre che Mairne Connelly, che lavora per lui da mesi e che sta cercando di costruirsi una carriera qui dentro, sta vietando alla sua amica di uscire con lui per evitarsi imbarazzo di qualche tipo?”
“Ma non è così, se fosse per te ora io e Sullivan staremmo saltellando mano nella mano in un campo fiorito!”

“Sì, ma questo lo sappiamo noi due, non i Sullivan. Perciò, vedi di non contrariare l’amatissimo, unico figlio del mio capo, Lilian. Domani gli dirò che sei disposta ad uscire con lui.”
“Ma non è così!”
“Sì invece. Lily, se Mairne Connelly decide di incastrarti, non hai scampo. Chiedilo a Noah, lui ne sa qualcosa, si è ritrovato nominato ufficialmente mio migliore amico senza rendersene conto. E avevo undici anni, ora ne ho 21.”

La Grifondoro fece per ribattere, ma poi pensò al loro amico comune e si rese conto, suo malgrado, che Mairne aveva ragione. 
Probabilmente prima o poi le avrebbe anche organizzato un matrimonio e lei l’avrebbe saputo la mattina stessa.


*


“IL VELO! DOV’È IL VELO?! NOAH, AIUTAMI!”

Noah Carroll, da fiero ed impavido Grifondoro qual era, si fece coraggio e si affacciò con titubanza nella stanza del lussuosissimo albergo dove Lilian si stava preparando, insieme a Mairne e a tutte le sorelle minori della sposa.
Poco prima aveva aperto la porta per informare la sposa che i suoi genitori erano arrivati e volevano salutarla, ma aveva rischiato di perdere un occhio quando una scarpa dal tacco pericolosamente a spillo gli era stata lanciata contro, accompagnata dalle urla e gli ordini di uscire visto che si stavano cambiando.

“…sì, Mairne?”
“Non trovo il bouquet di Lily, non si può sposare senza! Insomma, io devo prenderlo quando lo lancerà, è essenziale.”

“Non puoi appellarlo?”
“Ho perso la bacchetta, questa suite è un macello.”

La bionda sbuffò mentre sistemava il fermaglio sulla nuca di Lily, fissandole l’acconciatura con una quantità industriale di lacca mentre le sorelle della sposa facevano avanti e indietro per cercare qualche scarpa perduta.

“Mairne, rilassati, sei più agitata di me.”
“Ma il bouquet è essenziale. Noah, quando avrai finito di farle il merluzzo, mi aiuterai?!”
“Considerando che prima mi avete quasi ammazzato gradirei un po’ più di riguardo nei miei confronti. Eccolo.”

L’Auror roteò gli occhi mentre si avvicinava alle amiche, porgendo il bouquet di rose a Lily, che lo prese sorridendo, seduta sulla poltroncina e impegnata a lisciarsi la gonna di tulle del vestito:

“Grazie.”
“Di niente. Ora, posso andare? Dovrei prendere posto di sotto… Dico allo sposo di iniziare a fare progetti per l’anno prossimo o scenderete prima?”
“No, tra poco siamo pronte. E questo posto è fenomenale… visto, te l’avevo detto che conveniva mettersi con lui, testona!”

“Mairne, perché sembri più felice di me?!”


*


“Salve.”

Lily rivolse un candido sorriso all’uomo che aveva davanti, fermandosi davanti allo sportello e continuando a parlare al suo cenno:

“Vorrei effettuare un trasferimento.”
“Il suo nome?”
“Lilian Sullivan.”

“Il trasferimento è esterno, immagino.”
“Sì, per la Gringott. Il nome è Blackwell.”


Connor l’aspettava qualche metro più indietro e quando, poco dopo, lo raggiunse le rivolse un sorriso mentre le sistemava un braccio sulle spalle:

“Quello che fai è molto bello, sai?”
“Sono la mia famiglia, e hanno fatto tantissimo per me. Il minimo che possa fare è aiutarli, ora che ne ho realmente la possibilità… anche se mio padre è contrario, in realtà, è troppo orgoglioso per accettare denaro dalla sua primogenita. Ma l’ho convinto a farlo per i miei fratelli più piccoli.”

Lilian si strinse nelle spalle mentre usciva dalla banca insieme al marito, che annuì e le sorrise, accarezzandole i capelli castani:

“Lo so. Non hai avuto una vita semplice, nonostante gli sforzi dei tuoi genitori ti sono mancate molte cose… e ora è giusto che tu ti prenda la ricompensa per i tuoi sforzi per arrivare fin qui.”


*


Stava supervisionando la schiera di coltelli che aveva incantato affinché affettassero le verdure quando, sentendo il familiare rumore di piccoli piedi nudi sul pavimento, si voltò, sorridendo dolcemente alla bambina bionda che le si stava avvicinando, strofinandosi gli occhi:

“Tesoro, ti sei svegliata? Vieni qui.”

La figlia non se lo fece ripetere due volte e si avvicinò alla madre, allungando semplicemente le braccia verso di lei per farsi prendere in braccio, ancora troppo intontita per parlare e limitandosi ad appoggiare la testa sulla sua spalla, sfoggiando una piccola smorfia di fronte alle verdure. 

Lily iniziò ad accarezzarle distrattamente i capelli, voltandosi nuovamente verso la soglia dell’ampia cucina quando sentì la porta dell’ingresso aprirsi e richiudersi subito dopo, seguita dalla familiare voce del marito: anche Mary si mosse, sollevando di scatto la testa e sorridendo mentre la madre, imitandola, la rimetteva sul pavimento:

“Hai sentito, c’è papà! Vai a salutarlo.”

Mary, sorridendo allegramente, annuì e sgambettò verso la soglia della stanza, chiamando il padre a gran voce e saltandogli in braccio quando lo vide:

“Ciao, scimmietta! … Lily, perché sento odore di verdura?!”
“Sto facendo il vostro piatto preferito, il minestrone.”

“… Mary, andiamo via.”
“Sì! Gelato!”

“Connor, non scherzare. Connor? Connor, torna subito qui, non sto cucinando per niente!”


*


“Lorelai!”
Lilian sorrideva mentre si avvicinava quasi di corsa ad una tra i suoi numerosi fratelli minori, forse non era mai stata tanto felice di vederla in vita sua. 
La ragazza ricambiò quando la vide e si avvicinò a sua volta alla sorella, abbracciandola con slancio quando le fu davanti:

“Ciao Lily… non riesco a credere che sia finita.”
“Sono felice per te… Edwyn? A che… punto è arrivato?”

Lilian sciolse l’abbraccio e i suoi pensieri si spostarono sul fratello, guardando la sorellina scuotere il capo e incupirsi leggermente:

“La prova individuale.”
“Quella è dura per tutti, in effetti… ma sono felice di vederti, è bello avere, finalmente, almeno una tra i miei fratellini qui con me dopo tutti questi anni. Vieni, ovviamente starai da noi per i primi tempi, abbiamo un bel po’ di spazio.”

L’ex Grifondoro sorrise allegramente alla sorella mentre la prendeva sottobraccio, facendole cenno di seguirla verso il marito, che aspettava qualche metro più indietro tenendo una bambina bionda in braccio. 

“Mary, hai visto chi c’è? Saluta la zia. Ciao Lorelai, sono felice di vederti.”

Connor sorrise alla figlia, che allungò le braccia verso Lorelai, che ricambiò il sorriso del cognato mentre prendeva la nipotina di due anni in braccio:

“Ciao piccola, sei cresciuta tantissimo! Dammi un bacio.”
“Ciao zia.”  Mary sorrise, obbedendo e dandole un bacio sulla guancia mentre Connor sistemava un braccio intorno alla vita di una Lily ancora euforica, sorridendole teneramente:

“Allora, sei felice?”
“Lo ero anche prima, lo sono da ben otto anni… ma adesso va davvero tutto a meraviglia. E ucciderò Mairne per non avermi detto che Lorelai era passata, mai a questo penserò domani.”

Lily sorrise mentre s’incamminava verso casa insieme al marito, con sorella e figlia al seguito, appoggiando la testa sulla sua spalla e pensando, ancora una volta, a quanto meravigliosamente fosse cambiata la sua vita rispetto ad otto anni prima, quando era arrivata lì per la prima volta.


*


“CONNOR! DOV’È MAGGIE?!”

“Ehm… nel suo lettino?”
“Se così fosse non te l’avrei chiesto!”

Lilian uscì dalla cameretta della figlia minore quasi di corsa, avendo già iniziato a sudare freddo nel momento in cui non aveva trovato la bambina nella culla.

“Se non l’hai spostata tu, e nemmeno io, dov’è? Nemmeno cammina! Oddio, forse è caduta dal lettino e si è fatta male! Mary, tesoro, hai visto tua sorella?!”

L’ex Grifondoro attraversò il corridoio per raggiunger la camera della figlia maggiore, trovandola vuota ma disordinatissima come sempre, con bambole e peluche disseminate ovunque. In un altro momento si sarebbe messa sul pulpito per metterla in riga e farle riordinare, ma Lily si limitò ad alzare gli occhi al cielo prima di fare dietro front, chiedendosi perché le sue figlie sembravano entrambe scomparse.

“Mary!”
“Che c’è mamma? Sto giocando!”

La bambina di quattro anni le passò davanti stringendo i manici del suo passeggino giocattolo, spingendolo sul parquet chiaro con un po’ di fatica:

“È pesante… mamma, mi aiuti?”
“Non posso amore, devo trovare tua sorella. Chiedi a papà.”

Lily sospirò e fece per superare di corsa la figlia per cercare Maggie nella sua camera, ma la voce allegra di Mary la costrinse a fermarsi e a voltarsi verso di lei:

“Ma non serve, è qui!”
“Come sarebbe a dire… Mary! Ma allora l’hai presa tu!”
“Sì, sto giocando a fare la mamma!”

L’ex Grifondoro alzò gli occhi al cielo e si avvicinò alla bambina, che sorrise innocentemente alla madre mentre, sul passeggino, invece di un bambolotto c’era proprio la piccola di casa, che però sembrava aver l’aria di divertirsi e le sorrise allegramente, battendo le manine:

“La prossima volta avvisami, ok? E ti assicuro che è un lavoro davvero molto, molto difficile. Connor, l’ho trovata, nel caso ti fossi scomodato per cercare nostra figlia! Certo, come no, è più probabile che io mi faccia bionda…”


*


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“Ragazze! Sono a casa.”

Lily appoggiò le chiavi sulla credenza e si diresse verso il salotto, seguendo la voce della sua migliore amica: Mary era stesa su uno dei due divani di pelle color crema, gli occhi azzurri fissi sullo schermo della Tv e il suo gatto rosso e bianco tra le braccia, mentre Maggie era seduta sul tappeto con il ciuccio in bocca, il body addosso e la “zia Mairne” seduta di fronte.

“Ciao Lily! Per caso hai visto Maggie? Io non la trovo.”
“Ciao Mamy!”

Mary si voltò verso la madre, sorridendole mentre Lily faceva saettare lo sguardo sulla figlia minore, che si era messa le piccole mani sul viso per poi raggomitolarsi sul tappeto, e scosse il capo con aria grave:

‘Ciao tesoro… no, mi spiace.”
“Maggie?!”

Un attimo dopo la bambina, ridendo, si rimise seduta dritta, togliendosi le mani dal viso e sollevando teatralmente le braccia, facendo sorridere Mairne:

“Eccola! Ma ciao amore di zia.”

Marine prese la bambina e se la sistemò sulle ginocchia, riempiendola di baci mentre Lily andava a sedersi accanto alla figlia maggiore, rivolgendo un’occhiata scettica all’amica:

“Allora, si sono comportate bene?”
“Certo, come al solito. Anche se prima Maggie ha fatto un po’ di capricci perché voleva la mamma.”
“Ma se quando ci siete tu, le mie sorelle o Connor si dimentica completamente di me?! Guardala, non mi ha neanche salutato!”

Lilian accennò alla bambina, che si accorse della madre solo in quel momento e sorrise, gattonando verso il divano e allungando le braccia verso di lei per attirare la sua attenzione, senza però essere presa in braccio come voleva: 

“Ah, ma allora ti ricordi di me quando ti fa comodo, piccola ruffiana. No, non ti prendo in braccio, sono molto offesa.”

Per tutta risposta Maggie si imbronciò, guardando male la madre prima di girarsi e gattonare imperterrita verso Mairne, accoccolandosi nuovamente sulle sue gambe. 

“Caspita, siete proprio uguali…”
“Mairne, non fare commenti. E tu, piccoletta, non ridere.”


*


Lily era seduta sulla panchina, le mani guantate infilate nelle tasche della giacca e la sciarpa legata intorno al collo mentre seguiva i movimenti della famiglia con lo sguardo: Lorelai e Lindsay, che aveva potuto raggiungere le due sorelle maggiori pochi mesi prima, erano impegnate a colpirsi reciprocamente con della neve dopo che la minore aveva criticato il pupazzo di neve di Lorelai, mentre a poca distanza Connor scivolava sulla neve con uno slittino insieme alle due figlie. 

Lilian ripensò a quando, ormai dodici anni prima, per riuscire ad evocare il suo Patronus e superare una delle prove del Processo aveva pensato ad un lontano Natale, quando aveva nevicato per tutta la notte e lei aveva passato buona porta della giornata all’aperto con i genitori e i numerosi fratelli minori, costruendo pupazzi di neve o scivolando sull’unico slittino che dovevano dividersi in sette, ormai piuttosto ammaccato.

Nonostante fosse passato molto tempo, rimaneva un ricordo sinceramente felice, a cui spesso si aggrappava quando sentiva la mancanza della sua famiglia, numerosa, caotica, economicamente instabile ma affettuosa e felice. La sua vita era, ora, molto diversa rispetto all’infanzia, ma di certo altrettanto felice. 

Forse, infondo, il denaro non le era mai stato indispensabile. 
“Siete due dilettanti, ancora non sapete costruire pupazzi di neve decenti! Ora vi faccio vedere io.”

Lily si alzò, roteando gli occhi chiarissimi mentre le due sorelle si voltavano verso di lei, scoccandole due identiche occhiate torve:

‘Ecco Lorelai, ora arriva Lily la maestrina, come quando eravamo piccole.”
“Certo, Lily-Sono-La-Maggiore-E-Faccio-Tutto-Bene…”
“Piantatela di prendermi in giro, e io non ho affatto quella voce irritante! Vero, tesoro?”

“Io preferisco starne fuori, grazie!”
“Che razza di codardo, il Cappello non ti avrebbe di certo piazzato tra i Grifondor- AHIA!”

Le risate delle due sorelle minori, e anche delle figlie, risuonarono alle sue orecchie mentre si toglieva con stizza la neve dal viso e dai capelli, colpita sia da Lorelai che da Lindsay. 

“Sorelle minori ingrate, mi sono fatta in quattro per voi e così mi ripagate? Ora vi faccio vedere come si lancia una palla di neve…”

“Dicevi sul non essere maestrina? Con la magia non vale però, Lily!”

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Capitolo 21
*** Shut up! ***


Shut up! 
 
Oliver Miller Image and video hosting by TinyPic  Ingrid BraunImage and video hosting by TinyPic



Quando sentì sua moglie urlare Oliver si voltò di scatto verso la soglia del salotto, mentre anche Lilly, rannicchiata sul divano accanto a lui, drizzava il capo: 

“Ingrid?! Va tutto bene?”
L’ex Grifondoro stava per alzarsi dal divano per controllare quando la bionda fece la sua comparsa con un enorme sorriso sulle labbra e una lettera in mano, annuendo:

“Sì! Mi ha scritto Jane, è incinta di tre mesi! Avremo due bambini nello stesso anno, non è meraviglioso?”
“Certo, sono felice per lei e Dan.”

Oliver sorrise e annuì mentre Ingrid lo raggiungeva, accoccolandosi accanto a lui sul divano, ritrovandosi a sperare che nessuna delle due cadesse vittima di eccessivi sbalzi d’umore, o lui e Dante si sarebbero visti costretti a darsi alla fuga in qualche paese esotico.


*


“Dan!”
“Olly!”
“Il tuo?!”
“Un maschio!”
“Anche il mio!”
“Fantastico!”


Oliver sorrise mentre andava incontro all’amico, che ricambiò e gli assestò una pacca spacca-ossa sulla schiena mentre Ingrid, seduta sul divano, veniva raggiunta da Jane:

“Congratulazioni! Solo, pensi che riusciremo a gestire quattro bambini, per di più tutti maschi, in un colpo solo?”
“Non lo so Jane, ma sono felice di poter contare sul tuo sostegno morale.”

Ingrid sospirò e Jane annuì con fare consolatorio, prima che entrambe rivolgessero due occhiate quasi esasperate ai rispettivi mariti, probabilmente più euforici di loro all’idea di avere presto due pargoletti da far giocare insieme e crescere a loro immagine e somiglianza.


*


“Chi è il mio bellissimo ometto? Sei tu!”

Ingrid sorrise mentre, tenendo Jonathan saldamente per la vita, in piedi nel salotto, avvicinava il bambino al suo viso per dargli un bacio sul naso, facendolo ridacchiare e scalpitare i minuscoli piedi. Il tutto mentre qualcuno era seduto su una poltrona poco più in là, impegnato ad accarezzare il pelo ricciuto dell’amata cagnolina e a lanciare occhiate torve alla moglie:

“Vedi? Siamo stati gettati nel dimenticatoio, Lilly.”
“Smettila di borbottare, Olly! Non eri tu quello felicissimo di avere un maschietto?”
“Sì, ma non pensavo che mi avresti rimpiazzato!”
“Non dire assurdità, non vi ho messi nel dimenticatoio… vieni, tesoro.”

Ingrid sorrise con affetto alla cagnolina, facendole cenno di avvicinarsi, e subito il Cocker obbedì, avvicinandosi alla padrona scodinzolando.

“Noto con piacere che non hai dimenticato il cane. E IO?!”


*


“Jonny! Fermati! Ma perché gli hai comprato una scopa giocattolo?”
“Non sono stato io, è stato Danny!”
“Sì, ma tu non glie l’hai certo impedito!”

Ingrid fulminò il marito con lo sguardo mentre entrambi cercavano di bloccare il figlio, che invece rideva come un matto mentre sfrecciava nel corridoio. 

“Preso! Ora basta volare, si gioca per terra.”

Quando Ingrid riuscì finalmente ad afferrare il retro della scopa sospirò con sollievo, prendendo prontamente il bambino per sistemarselo in braccio, scatenando immediatamente il suo finto pianto di protesta:

“Piangi pure, signorino, la tua mamma non si fa certo fregare con così poco! Olly, non cedere, non sta versando una singola lacrima, è tutta scena!”

La tedesca rivolse un’occhiata eloquente al marito mentre Oliver lo osservava piangere quasi con aria malinconica, tenendo la scopa giocattolo in mano:

“Ma sembra così triste senza la sua piccola scopa...”
“Colpa della tua influenza, mettila via.”


*


“Vedi campione? Questa si chiama Pluffa.”

Jonathan, seduto sul tappeto nel salotto, il ciuccio in bocca e impegnato a scuotere con aria concentrata un sonaglio, posò i grandi occhi azzurri sul padre sentendo la sua voce, inginocchiato davanti a lui e con una palla di cuoio in mano.
Il bambino allungò immediatamente le mani pallide per prenderla, scuotendola leggermente per poi sorridere, mugugnando qualcosa di incomprensibile a causa del ciuccio, che il padre gli tolse subito dopo:

“Puffa!”
“No, veramente si chiama Pluffa, ma va bene lo stesso, hai tempo per imparare…”

“Olly, cosa stai facendo?”
“Lo educo al Quidditch, non vedi?”
“Qiddic!”

Jonathan, sorridendo, mollò la presa sulla palla e la fece rotolare sul pavimento, battendo le piccole mani e facendo sorridere il padre di conseguenza, che lo prese in braccio e si alzò in piedi, guardandolo con aria orgogliosa mentre Ingrid alzava gli occhi al cielo, tornando in cucina subito dopo:

“Bravo il mio ometto!”


*


“Papy, ciao!”

Lucy era entrata nel salotto per cercare la sua bambola preferita quando vide il padre, sorridendogli e avvicinandosi al divano per raggiungerlo e abbracciarlo, ma l’occhiata torva che Oliver le rivolse la costrinse a fermarsi, guardandolo con gli occhi chiari spalancati:

“Che cosa c’è?”
“E me lo chiedi anche? Sono arrabbiato con te, signorina.”
“Perché?!”

Lucille lo guardò, confusa, chiedendosi cosa avesse fatto di male mentre il padre sbuffava leggermente, guardandola con aria grave:

“Beh, sono tornato mezz’ora fa e tu non sei venuta a darmi neanche un bacio!”
“Posso dartelo adesso!”

Lucy sorrise e si avvicinò al padre, sistemandosi sulle sue ginocchia per abbracciarlo e dargli un bacio, sorridendogli mentre gli metteva le piccole mani sul viso:

“Adesso non sei più arrabbiato?”
“Non so, faresti meglio a darmene un altro.”
“Quanti ne vuoi papy.”

Lucy sorrise e il padre la imitò, accarezzandole i capelli biondi mentre la bambina si sporgeva nuovamente verso di lui, dandogli un secondo bacio e ridendo quando Oliver iniziò a farle il solletico. 
Poco dopo Ingrid comparve sulla soglia della stanza, guardando marito e figlia minore ridacchiare e scambiarsi occhiate cariche d’affetto prima di battere leggermente il mestolo contro l’apertura ad arco e priva di porta del muro:

“Se avete finito di amoreggiare, la cena è pronta.”
“Che c’è di buono? Nessuna strana ricetta tedesca vero?”
“Parli come se voi inglesi mangiaste bene…”


*


Mentre camminava per le vie affollate di Diagon Alley, tenendo una mano stretta in quella di Jonathan e l’altra in quella di James, Ingrid non potè fare a meno di chiedersi come potesse una delle due migliori amiche tirare avanti con quattro figli, una casa gestire, un cane e massacranti turni al San Mungo quando lei già con due aveva spesso sfiorato l’esaurimento… anzi, ormai Jane aspettava anche il quinto, ma era più felice ogni volta in cui la vedeva e non disperata come, probabilmente, sarebbe stata lei al suo posto. 

Quel pomeriggio, però, aveva deciso di prendere James sotto la sua ala portando lui e Jonathan a spasso mentre Oliver era rimasto a casa con Lucy e le gemelle, lasciando a Jane solo il piccolo Jake a cui badare e permetterle così di risposarsi almeno un po’.

E dopo qualche ora passata con il figlio e il suo migliore amico, Ingrid ringraziò ancora una volta di aver avuto Lucy e non un secondo maschio: quei due, insieme, era peggio dei loro padri.

“Andiamo a vedere il negozio di Quidditch, mamma?”
“Quando avrete finito i vostri gelati, non si può entrare con questi.”

Ingrid, dopo aver intimato a Jonathan di non muoversi, lasciò momentaneamente la presa sulla mano del bambino di sei anni per pulire il gigantesco baffo di gelato che si era procurato James. Fu questione di un attimo, ma bastò a Jonathan per dissolversi nel nulla, facendola sospirare:

“Ci risiamo… Jimmy, tu lo vedi?”
“No zia, ma non preoccuparti, sarà al negozio. Vieni!”

Il bambino le sorrise e iniziò a tirarla verso la sua destinazione, facendole alzare gli occhi al cielo prima di assicurare che non avrebbe comprato loro proprio un bel niente.
O almeno, quella era l’intenzione originaria.


*


“… e così, vostra madre non ne voleva proprio sapere di tornare a letto, non faceva altro che minacciare vostro padre mentre lui la riportava di peso in camera, brandendo una stampella come arma letale.”

Ingrid sentì le risate dei figli e subito drizzò le orecchie, riconoscendo la voce della sorella e capendo immediatamente di cosa stesse parlando mentre, accanto a lei, Oliver cercava con scarso successo di non ridere mentre si sfilava la giacca, aiutandola subito dopo a fare altrettanto mentre una Lilly scodinzolante andava loro incontro.

“Sapevo che questo momento sarebbe arrivato…”
“Beh, l’aveva detto, non ricordi? Ciao, tesoro di papà!”

Oliver sorrise, chinandosi per riempire la cagnolina di coccole dopo aver magicamente spedito le giacche nell’armadio a muro dell’ingresso mentre la moglie, invece, si dirigeva a passo di marcia verso il salotto, scoccando un’occhiata torva in direzione della sorella minore, impegnata a ridersela con i nipoti:

“Che cosa c’è di tanto divertente?”
“Ingrid, ciao! Non vi ho sentiti entrare… com’è andata a cena? Stavo raccontando ai ragazzi qualche aneddoto divertente.”

Astrid sorrise con fare angelico mentre, seduta sul divano, teneva Lucy in braccio e Jonathan era seduto davanti a loro, sul tappeto, sorridendo allegramente alla madre:

“Mamma, davvero volevi picchiare papà con la stampella?”
“Volevo vedere il mio bambino, a dire la verità. Il tutto mentre vostra zia, invece di darmi una mano, se ne stava a ridersela in un angolo!”

“Scusa, ma era una scena troppo comica… vostra madre ha regalato un momento d’ilarità a tutto il reparto maternità del San Mungo!”
“Zia, e quando sono nata io cosa ha fatto?”
“Ah, beh, ha fatto di peggio…”

“Non dire un’altra parola, Astrid! Oliver, perché invece di darmi una mano ridi? Sembra che tutti non facciano che ridere di me, se avessi saputo di essere una comica nata avrei intrapreso quella carriera!”


*


“Sei nervosa?”
“Un pochino.”

Lucille annuì ma Oliver, seduto accanto a lei sul suo letto, le sorrise, allungando una mano per accarezzarle i capelli:

“Passerà quando sarai lì, vedrai. Ti piacerà tantissimo, non vorrai più tornare a casa!”
“Certo che vorrò tornare a casa, mi mancherete!”

La ragazzina, già sotto le coperte, si accigliò leggermente e il padre, a quelle parole, si sentì piacevolmente rincuorato, sorridendole con affetto:

“Anche tu ci mancherai. Per questo la mamma è di cattivo umore da qualche giorno.”
“Vi scriverò tutte le settimane. Mi raccomando, prendetevi cura di Lilly!”
“Tesoro, Lilly è vecchia, ormai sa con chi ha a che fare e se ne è fatta una ragione… tranquilla, la tratteremo bene come sempre, mancherai anche a lei.”

“Peccato non poterla portare a scuola.”
“Non te l’avrei permesso mia cara, non posso separarmi da tutte le mie bambine domani!”


*


“… non pensi che il treno possa fare incidenti, vero?”
“SHHH!”
“È pur sempre un’eventualità!”

Al sussurro concitato del marito Ingrid alzò gli occhi al cielo, premendo il viso contro il cuscino per non prenderlo e usarlo per soffocare Oliver – ripetendosi che le serviva, non aveva intenzione di andare avanti da sola con due figli ancora minorenni da gestire – che non stava zitto un attimo, impedendole di dormire. 

Per un attimo nella camera regnò il silenzio, mentre l’ex Grifondoro osservava il soffitto buio sopra di sè con la fronte aggrottata e un’espressione pensierosa, prima di voltarsi nuovamente verso la moglie e sgranare gli occhi castani:

“E se la prendono in giro?!”
“Non la prenderanno in giro, sa badare a se stessa… e poi ci sono Jonathan e James a tenerla d’occhio.”
“Giusto. Meglio così.”

Oliver annuì, pensieroso, e Ingrid chiuse gli occhi, esultando interiormente visto che il discorso sembrava chiuso… ma non durò a lungo:

“… e se va male in qualche materia?! Noi eravamo due capre in storia, forse seguirà la nostra strada!”
“Allora speriamo che trovi una povera anima misericordiosa disponibile ad aiutarla e a suggerirle come fece Bella al tempo. Ora dormi, Olly!”
“Non ci riesco, sono nervoso!”
“Vai a passeggiare con il cane, allora, parla con lei, io ho sonno e domani ho la sveglia alle sei e mezza!”

“Insensibile!”
“Logorroico.”


*


“Allora? Di cosa ci vuoi parlare?”
Ingrid guardò la figlia, seduta davanti a lei ed Oliver, con gli occhi chiari carichi di curiosità, mentre il marito restava incredibilmente silenzioso, limitandosi ad osservare Lucy, in attesa.

“Ecco… spero vivamente che lo prenderete bene, specie tu, papà… io e Jake stiamo insieme.”


“Jake?”
“Sì, Jake.”
“Intendi… Il nostro Jake? Jake Julius?”
“Non ne conosco altri. Si papà, Jake, il vostro figlioccio, avete presente?”

Lucy annuì, alzando gli occhi al cielo, mentre Ingrid si voltava verso Oliver, guardandolo restare in silenzio per un paio di istanti, probabilmente impegnato ad interiorizzare e analizzare ciò che la figlia gli aveva appena detto, prima di sfoggiare un larghissimo sorriso, che mai avrebbe pensato di vedergli sul volto nel bel mezzo di una simile conversazione:

“Ma è… fantastico! Io e Danny diventeremo parenti! Vado subito dai Julius!”
“Sul serio? Non lo facevo così comare… beh, almeno sembra felice.”

“E ora chi li tiene più a freno, quei due…”

Ingrid sospirò, scuotendo debolmente il capo mentre Oliver si era già alzato per, probabilmente, correre a Smaterializzarsi dai Julius e festeggiare.


*


Oliver era seduto sul bordo del suo letto, aspettando pazientemente che la moglie e la figlia finissero di prepararsi prima di andare in chiesa per il matrimonio di James. 

Il mago teneva gli occhi fissi su un punto indefinito della finestra, prestando ben poca attenzione al panorama preso com’era dai suoi stessi pensieri, e si rigirava distrattamente la bacchetta tra le mani.
I suoi pensieri vagarono sulla figlia, che poche settimane prima, verso la fine del suo ultimo anno di scuola, gli aveva scritto una lettera, definendosi felice e soddisfatta di essere finalmente riuscita ad evocare il suo Patronus perfettamente formato. 

Le aveva detto che anche per lui non era stato facile riuscirci, la prima volta… anzi, ci aveva messo intere settimane, ce l’aveva fatta solo fuori dalle mura della scuola. Nemmeno lui ci era riuscito su un primo momento, a lezione. 
E proprio per questo, quando Lucy gli aveva scritto di non esserci riuscita e di aver preso un votaccio, piena d’amarezza, il padre le aveva risposto di non preoccuparsi, che l’importante non era riuscirci subito, ma una volta pronta. 

Oliver sorrise, pensando a quella lontana lezione, quando non era riuscito ad evocare il suo Patronus e aveva lasciato l’aula tutt’altro che felice. 
Agitò debolmente la bacchetta, senza pronunciare l’incantesimo, e un attimo dopo guardò un ormai familiare Golden Retriever argenteo guardarlo, scodinzolando e abbaiando. 

L’ex Grifondoro allungò una mano per sfiorarlo, ricordando quando Ingrid l’aveva visto per la prima volta e si era messa a ridere, sostenendo che a suo parere non ci fosse animale che potesse rappresentarlo meglio, e probabilmente sua moglie non si era sbagliata. 

Il Patronus si dissolse poco dopo, quando Oliver sentì la porta aprirsi e si voltò verso l’uscio, sorridendo debolmente proprio ad Ingrid:

“Siamo pronte, possiamo andare, se vuoi.”
“Io sono pronto già da parecchio, ti ricordo.”
“Suvvia, chi vuoi che si accorga del nostro leggero ritardo, l’attenzione generale sarà rivolta su un’altra coppia. Che cosa stavi facendo qui dentro?”

Oliver si strinse nelle spalle alla domanda della moglie mentre si alzava in piedi, abbottonandosi la giacca nera prima di sorriderle, avvicinandolesi per prenderla sottobraccio:

“Rimiravo il mio riflesso e pensavo a quanto tu sia stata fortunata.”
Ah, certo, IO sono stata fortunata…”
“Mi fa piacere che tu lo ammetta, Ingrid.”







………………………………………………………………………..
Angolo Autrice: 

E con questa OS concludo, almeno per il momento, la Raccolta, anche se è sicuramente temporaneo visto che molto probabilmente in futuro ne aggiungerò qualcuna per gli OC della storia che ho in corso o per altri OC “vecchi”, se mi verrà l’ispirazione. 

Perciò vi saluto, grazie per averla seguita e a presto! 
Signorina Granger 



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Capitolo 22
*** Together ***


So che non sono una coppia, o almeno non nel senso comune del termine, ma non potevo non metterli insieme  


Together 


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Ciao, sono Mairne.”
Noah osservò, incerto, la piccola mano pallida che la bambina che aveva davanti gli stava porgendo prima di stringerla leggermente, sollevando lo sguardo sul volto della ragazzina, trovandolo sorridente e con una nota curiosa nei grandi occhi azzurri che lo stavano osservando con attenzione:

“Noah.”
“Vuoi sederti vicino a me? Non conosco nessuno!”

Il ragazzino tentennò, ma poi si ricordò che da bravo Grifondoro non avrebbe potuto lasciarla sola, senza contare che gli ricordava molto la sua amata sorellina… così si ritrovò ad annuire, e la bionda sfoggiò un sorriso ancor più allegro, superandolo per saltellare all’interno dello scompartimento, avvicinandosi al finestrino per salutare il padre con la mano: 

“Grazie! Che bello, non vedo l’ora di arrivare! Tu in che Casa sei?”
“Grifondoro.”
“Io sono curiosissima, chissà dove finirò! Magari nella sua stressa Casa, chissà… beh, se anche finissi altrove, saremo amici lo stesso.”

“Davvero?”  Noah andò a sedersi e guardò la bambina con un sopracciglio inarcato, - non era solito fare amicizia molto in fretta – leggermente scettico mentre la bionda si voltava verso di lui, annuendo e sorridendo di nuovo:
“Sì, l’ho appena deciso! Vuoi una Cioccorana, Noah?”



Mairne ha deciso, e da quel momento un piccolo tornado biondo e dai grandi, espressivi occhi azzurri diventa parte della sua famiglia, parte fondamentale della sua vita. Sono sempre insieme, anche durante le vacanze, e l’ultimo anno di scuola di Mairne, senza poter avere Noah accanto, è infinitamente lungo per entrambi. 

Meno di due anni dopo sono dove per innumerevoli ore hanno sognato e fantasticato di trovarsi, specie insieme. Lo hanno sperato e aspettato, eppure, anche dopo anni ad immaginarlo, fa quasi paura. 
Per questo la Corvonero si alza nel cuore della notte, lasciando quella stanza così grande e così bella da metterla quasi in soggezione, per sgattaiolare nella stanza del ragazzo che, negli ultimi dieci anni, le ha fatto da fratello maggiore.
Lo conosce, sa che non sta dormendo, proprio come lei, così bussa, piano, e apre la porta di qualche centimetro:

“Noah?”
“Ci hai messo più di quanto pensassi.” 

La risposta dell’amico le giunge da qualche parte nel buio della stanza e Mairne sorride quasi senza volerlo, chiedendosi la porta alle spalle e avvicinandosi al letto, seguendo la direzione della voce del ragazzo:

“Posso restare qui?”
“Dopo aver sperato così tanto di arrivare qui insieme sarebbe insensato da parte mia non permettertelo, non trovi?”
“Ai Grifondoro non insegnano a dare risposte chiare e concise?!”

“Sei tu quella brava con gli indovinelli e i giochi di parole.”

Noah piega le labbra sottili in un sorriso, cogliendo lo sbuffo dell’amica mentre vede la sua sagoma fare il giro del letto a due piazze e stendersi accanto a lui, appoggiando la testa sulla sua spalla. 
Per qualche istante nessuno dei due dice niente, cosa quasi inusuale per i loro canoni, finché Mairne non sussurra qualcosa, senza nessuna traccia de suo consueto tono vivace:

“Pensi che saremo all’altezza?”
“Certo. Non preoccuparti, Mairne… qualunque cosa ci aspetti l’affronteremo insieme, come abbiamo sempre fatto.”
 
Mairne non può vederlo, ma sa che sta sorridendo mentre le accarezza distrattamente i capelli chiari, rassicurandola. E ancora una volta non sa se odiarlo o essergli grata per la disarmante facilità con cui riesce a convincerla, puntualmente, di qualunque cosa dica. 



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Capitolo 23
*** Protect you ***


Protect you  

Seth Redclaw Image and video hosting by TinyPic Kate Bennet Image and video hosting by TinyPic



“… Domani è un altro giorno?”
“No.”
“… Ogni volta in cui suona una campana un Angelo mette le ali?”
“Cosa dovrebbe voler dire?!”
“Voglio di più, voglio la favola?”
“Neanche.”
“Il mio nome è Bond?!”
“…”
“Io e il mio gatto... siamo due randagi senza nome che non appartengono a nessuno e a cui nessuno appartiene?”
“… no, mi spiace, mai sentito.”
“Louis, credo che questo sia l’inizio di una bella amicizia?”

Di fronte all’ennesimo cenno di diniego del fidanzato Kate sgranò gli occhi, a metà tra l’orrore e il puro stupore, prima di sbuffare e alzarsi in piedi, alzando entrambe le mani in segno di resa:

“Ci rinuncio, Redclaw! Ignorante sei stato, sei, e resterai!”
“Solo perché non conosco qualche film?!”
“Casablanca non è QUALCHE! Vai a farti una cultura!” 

L’ex Corvonero sbuffò e si allontanò, uscendo dal salotto a grandi passi mentre il ragazzo si voltava, seguendola con lo sguardo con sincera perplessità:

“Non mi costringerai a guardare tutti questi film, vero? … Katie? Non sono tutti rosa, vero?!”
“Tranquillo, solo il peggiore dura quattro ore!”


*


Il secondo sparo echeggiò nell’ampia stanza e Seth, abbassando il braccio, assottigliò lo sguardo per controllare il bersaglio, sfoggiando una smorfia appena percettibile prima che la voce della fidanzata, in piedi accanto a lui, giungesse alle sue orecchie con tono percettibilmente divertito:

“Ti stai rammollendo.”
“Non mi sto rammollendo! Ok, questa volta mi hai battuto, ma non sarà una cosa permanente, credimi Katie.”

“Sarà.”

Kate si strinse nelle spalle, serafica, ridacchiando di fronte all’occhiata torva e ammonitrice che il fidanzato le rivolse, suggerendole di chiudere l’argomento e di non prenderlo in giro mentre si sfilava gli occhiali protettivi, che usava solo ed esclusivamente per protocollo: aveva ampiamente maneggiato armi da fuoco, precedentemente, e sempre senza occhiali. 

Erano passati due anni alla fine del processo e da quando avevano recuperato la loro vera identità, ma come Kate aveva ipotizzato una parte di Juliet non se ne sarebbe mai andata del tutto, e lo stesso si poteva dire di Quebec: avevano entrambi mantenuto una certa passione per le armi da fuoco, oltre che ottime mire. 

“Torniamo a casa?”
“A meno che tu non voglia farti stracciare di nuovo, Seth…”

Kate sfoggiò lo stesso sorrisetto beffardo e Seth serrò la mascella di conseguenza, annuendo debolmente:

“… sai che ti dico, Bennet? Voglio la rivincita.”
“Nessun problema.”

Kate si strinse nelle spalle e sfilò l’arma dalle mani del fidanzato per sistemarsi al suo posto nel poligono, voltandosi un’ultima volta verso di lui prima di sparare, colpendo nuovamente il bersaglio perfettamente al centro della fronte:

“Testa 50 punti, fronte 75. Petto 50, se miri al cuore fanno 100.”

Kate sparò di nuovo ma il ragazzo non ci fece particolarmente caso, ormai il rumore nemmeno lo disturbava più… aveva la sensazione di aver già vissuto una scena simile, alcuni anni prima, solo che al tempo lei nom si faceva chiamare Kate, bensì Juliet. 

“Stai pensando a come perderai di nuovo, Seth?”
“Neanche per sogno, questa sera il film lo scelgo io.”


*


Seth Redclaw, sprofondato nel divano con le braccia conserte e un’espressione cupa dipinta sul volto, teneva gli occhi sulla televisione che aveva malauguratamente comprato mentre Kate, seduta accanto a lui, seguiva il film con ben maggiore interesse e sgranocchiava patatine.

“Katie, ti prego…”
“Sh! Stanno per incontrarsi per la terza volta nella libreria, lei è con la sua amica e…”
“LO VEDI, lo conosci a memoria, perché continui a guardarlo?! E ribadisco che non ha senso, ribadisce una tesi per due ore, confutata da uno dei due protagonisti e sostenuta dall’altra, e poi alla fine la situazione si rovescia, dimostrando che lui ha ragione!”

“Non mi importa cosa pensi, a me piace. E ora zitto, o domani ti farò vedere Notthing Hill.”
“Mi ricordi perché ti ho chiesto di vivere insieme?”
“Perché non puoi stare senza di me.”

Kate rispose con noncuranza, parlando con tono neutro e stringendosi bellamente nelle spalle, mentre il ragazzo esitò prima di annuire, sospirando:

“Purtroppo hai ragione.”


*


Kate aprì gli occhi di scatto e dopo un momento di smarrimento sospirò, maledicendo mentalmente il suo sonno da sempre fin troppo leggero e l’odioso cane de vicini che abbaiava in continuazione, finendo col svegliare spesso anche la figlia di poche settimane, oltre che sua madre.
Si ripromise di farlo sparire, prima o poi, e si voltò per assicurarsi che il marito stesse ancora dormendo, finendo col stupirsi nel trovare il suo lato del letto vuoto.

Seth non dormiva molto, in effetti, specie nel periodo immediatamente successivo al recupero della memoria, ma con il tempo erano entrambi riusciti a tornare alla normalità, un po’ per volta, e ora riusciva a dormire anche per sette ore di fila, cosa che gli era risultata impossibile anche nell’anno che aveva separato la perdita della famiglia dall’annullamento.

“Seth?”
Kate si alzò dal letto, uscendo dalla camera e attraversando il corridoio con passo felpato. Fece per scendere le scale e controllare in salotto quando si accorse che la porta della camera della figlia non era chiusa, e seppe di trovarlo lì ancor prima di aprirla del tutto il più piano possibile, per evitare di svegliare la bambina.

“Seth? Sta dormendo?”

Parlò con un filo di voce e vide il marito annuire, in piedi accanto alla culla con le mani strette sul bordo del lettino:

“Sì, mi sono svegliato e sono venuto a controllarla.”

Kate inarcò un sopracciglio mentre gli si avvicinava, chiedendosi se davvero pensasse che non sapesse che si alzava spesso nel cuore della notte per controllare la figlia per poi abbracciarlo, sorridendo con affetto a Rebecka. 

“Per una volta che dorme dovresti farlo tu, non pensi?”
“Non sono stanco, Katie.”
“Certo che lo sei, sei solo troppo orgoglioso per ammetterlo… vai a dormire, non le succederà niente, te lo prometto. Ho un addestramento anche io alle spalle, Seth, vuoi vedere di cosa sarei capace?”

“Ti ho già vista in azione e no, grazie, passo.”

Seth abbozzò un sorriso, voltandosi leggermente verso la moglie e guardandola ricambiare prima di fargli cenno di tornare nella loro camera prima che la bambina si svegliasse urlando e reclamando attenzioni, cosa che comunque avvenne pochi minuti dopo.
Kate aveva ragione, dopotutto, era preferibile approfittare del tempo per dormire a disposizione.


*


“Chi è questa?”

Seth voltò il foglio per mostrare il ritratto al figlioletto, che sgranò gli occhi prima di indicare il volto raffigurato e sorridere allegramente:

“Mamma!”
“Se l’hai riconosciuta sono ancora bravo, direi… e questa?”

Il mago sorrise e girò la pagina dell’album, mostrando al bambino di un anno il disegno appena fatto, che raffigurava sua sorella.
“Tata!”

“Che bravo!”

Seth sorrise e si sporse per accarezzare la testa del bambino, che sorrise di rimando, seduto sulla sua copertina circondato da giochi, mentre Rebecka si avvicinava al padre:

“Papy, hai finito il mio disegno?”
“Ecco, signorina. Ti piace?”
Le porse il disegno e la bambina sgranò gli occhi, osservandolo con aria meravigliata prima di annuire, sorridendogli con affetto:

“Sì, tanto. Grazie! Sei bravissimo, papy. Me ne farai altri?”
“Certo principessa, sai quanti ne ho fatti alla mamma? Tantissimi, anche mentre non guardava.”

“Mentre fingevo di non guardare! A scuola mi sentivo osservata, in effetti!”
“Non fare la difficile, se non ti ritraevo a lezione quando avrei dovuto farlo, appostandomi accanto al tuo letto e guardandoti dormire come un maniaco?!”


*


“Papà? Possiamo guardare i cartoni?”
Rebecka, già in pigiama, si avvicinò al padre, seduto sul divano, e gli rivolse un largo sorriso, mettendogli le mani sulla gamba con fare implorante:

“Cosa vorresti guardare?”
“Dora!”

Seth piegò le labbra in una smorfia, certo che probabilmente avrebbe preferito riguardare Sabrina per la ventesima volta piuttosto che seguire le vicissitudini di quell’irritante bambina virtuale… perché a sua figlia piacesse tanto, proprio non lo capiva.

“Mi dispiace cucciola, non si può stasera.”
“Perché?!”
“Dora non c’è… è andata in vacanza. Mi spiace, Becky.”

La bambina accennò una smorfia, delusa, prima che la voce della madre giungesse alle loro orecchie, sottolineando che era giovedì e che quindi la tv era sotto la sua giurisdizione.

“Ecco tesoro, hai sentito? Stasera sceglie la mamma.”
“Che cosa guardate?”
“Una cosa chiamata Pretty Woman…”
“Posso vederlo con voi?” 
“Certo, ma solo per un po’.”

Rebecka sorrise, soddisfatta, o almeno prima che la voce di Kate li raggiungesse nuovamente mentre infilava il pigiama anche a Derion:

“No, non può!”
“Perché no?”
“Perché la protagonista è una… tu-sai-cosa.”

Kate si affacciò nel salotto, rivolgendo un’occhiata eloquente al marito mentre teneva il figlio di due anni in braccio e Seth, dopo aver aggrottato brevemente la fronte, capì e si rivolse alla figlia con un sorriso forzato:

“Ehm… mi spiace tesoro, non puoi vederlo.”
“Perché no?!”
“Perché è vietato alle bambine di quattro anni, Becky.”


Dieci minuti dopo, ovviamente, Derion dormiva nel suo letto e Rebecka era seduta in mezzo ai due genitori sul divano, guardando Dora, mentre Seth e Kate sfoggiavano due facce da funerale:

“Perché ci siamo fatti convincere?”
“Ora capisci cosa passo io da sei anni.”


*



Le quattro lapidi erano state sistemate una accanto all’altra, visto che il funerale era stato unico per tutte le vittime.
Una tragedia, così era stata definita pressoché da chiunque.

Seth aveva un ricordo vago di quel giorno, seduto accanto a suo zio, in prima fila, gli occhi fissi sulle quattro bare calate nelle fosse. Nell’arco di una notte si era ritrovato orfano, senza fratelli e senza casa, e ci aveva messo ben più di un paio di giorni per rendersene conto del tutto e accettarlo… quel giorno, sotto il sole di Agosto, poco prima del suo rientro a scuola per l’ultimo anno ad Hogwarts, Seth Redclaw non aveva pronunciato una parola, assistendo al funerale di fratelli e genitori con lo sguardo vacuo, come se fosse certo di trovarsi in un sogno e di svegliarsi in fretta. 


Circa quindici anni dopo Seth, di nuovo davanti a quelle lapidi, sorrise debolmente e risolve un cenno alla figlia maggiore, che provvide a sistemare con cura i fiori che avevano comprato poco prima su ciascuna tomba.

“Papà, perché io ho solo due nonni e gli altri tre o quattro?!”
La domanda di Rebecka lo aveva destabilizzato leggermente, gli occhi chiari della bambina, fin troppo curiosi e attenti, fissi su di sè. Perché un attimo prima stava spazzolando i capelli della sua bambola e ora gli chiedeva dei nonni mai conosciuti?

“Perché i miei genitori se ne sono andati molto tempo fa, tesoro.”



Derion invece, che teneva la madre stretta per mano, non si mosse, limitandosi ad osservare la sorella maggiore sorridere con aria soddisfatta, sfiorando i petali delle margherite con le dita:

“Fatto! Ora sono molto più belle, vero?”
“Certo.”  Seth annuì, sorridendo alla figlia e porgendole nuovamente la mano, che la bambina strinse subito dopo, guardandolo con la fronte aggrottata:

“Come se ne sono andati?”
“Un brutto incidente.”
“Quindi potrebbe succedere anche a voi?”

Derion parlò per la prima volta da quando avevano messo piede nel cimitero, parlando con tono allarmato e sgranando gli occhi verdi mentre la madre, sorridendogli, scuoteva il capo, accarezzandogli i capelli castani:

“No, certo che no. Vero papà?”
“Assolutamente… io e la mamma non vi lasceremo da soli.”

Seth sorrise, abbracciando la figlia e rivolgendo un lieve sorriso in direzione della fotografia del padre che gli sorrideva di rimando, ricordando quando, anni prima, gli aveva insegnato a controllare adeguatamente il suo “dono”, a sfruttarlo a proprio vantaggio. 
Loro non ci erano riusciti, quella sera, e lui non aveva fatto niente per aiutarli, ma era sopravvissuto… e promise, ancora una volta, che avrebbe fatto diversamente con la famiglia che si era costruito.


*


“Pensi che ne siano in grado anche loro?”

La voce di Kate giunse alle sue orecchie in un sussurro mentre, seduti sul divano, avevano davanti i figli, rannicchiati sulla poltrona e impegnati a guardare i cartoni.
Seth, che fino a quel momento aveva osservato distrattamente i due bambini, si riscosse sentendo la voce della moglie, voltandosi di scatto verso di lei:

“Perché me lo chiedi?”
“Curiosità. E poi, se così fosse, dovrebbero saperlo, credo… capire che non c’è niente di male o di sbagliato, anzi, li rende speciali. Tu ci hai messo del tempo, ma sei riuscito a trasformarti di nuovo dopo qualche mese dal recupero della memoria… probabilmente anche loro ne sono in grado.”
“Pensi che dovrei parlarne con loro?”
“Con Becky sì, è abbastanza grande. E non fingere che non ti farebbe piacere.”

Kate gli rivolse un’occhiata eloquente e Seth sorrise, incapace di negare, mentre riportava lo sguardo sui figli, guardandoli con affetto. 

“Probabilmente hai ragione… sarebbe bello. È una caratteristica di famiglia, dopotutto.”


Seth si chiese se anni addietro suo padre e sua madre non avessero avuto una conversazione simile, e per loro di certo non era finita bene… l’ex Grifondoro si incupì leggermente, ripetendosi che non avrebbero avuto la stessa sorte e che la famiglia di Kate, per fortuna, non era completamente avversa ai Lupi Mannari, a differenza di quella di sua madre.

Probabilmente la Corvonero lo intuì perché sorrise, appoggiando la testa sulla sua spalla mentre gli accarezzava la schiena:

“Andrà tutto bene, smettila di pensarci. Non torneranno mai.”
“Il mondo è grande Katie, ce ne potrebbero essere degli altri. Anche se questa volta non mi farei colpire, te l’assicuro.”
“Non ne dubito.”


Kate gli sorrise con il suo solito fare rassicurante e Seth si rilassò leggermente, appoggiando il capo contro il suo e stringendola a sè con un braccio. 
Non sarebbero mai tornati, non ne dubitava, non ne era rimasto uno solo in vita, dopotutto… ma da una parte, in effetti, avrebbe voluto che potessero vederlo in quel momento: vivo, vegeto, felice e con due figli che probabilmente erano esattamente come lui.


*


Kate abbracciò la figlia, ricordandole di comportarsi bene mentre Derion, in piedi accanto a lei, osservava la sorella maggiore e sembrava si stesse impegnando molto per non piangere. Seth gli accarezzò la testa, scompigliandogli i capelli, ricordando come anche lui nel momento in cui aveva dovuto salutare i fratelli si era imposto di non piangere davanti a tutta la famiglia… al contrario della moglie, che gli aveva già accennato a quante lacrime avesse versato il giorno in cui Nicholas era partito per Hogwarts.

“Ciao papà.”  La ragazzina si rivolse al padre, sorridendogli vivacemente prima di essere inglobata nel suo abbraccio:
“Ciao Becky… ci vediamo a Natale. Studia, mi raccomando, io avevo una media altissima e devi tenere alto l’onore della famiglia.”
“Seth, non stressarla!”
“Sto scherzando, Becky lo sa! Vero, tesoro?”

La figlia ridacchiò, annuendo e asserendo che lo sapeva prima di stritolare il fratellino in un abbraccio, promettendo di scriverli spesso e di raccontargli ogni dettaglio del castello e delle lezioni.

“Mi mancherai, Becky.” Rebecka sorrise di fronte all’ammissione del fratello, assicurandogli che le sarebbe mancato a sua volta prima di lanciare un’occhiata all’orologio:

“Credo che dovrei andare, adesso… ci vediamo a Natale! Mamma, controlla che non combinino pasticci mentre non ci sono!”
“Come sempre.”

Kate annuì, sfoggiando un piccolo sorriso divertito alle parole della figlia, che salì sul treno ignorando l’espressione del padre:

“Io non ho bisogno della badante, Becky!”
“Ma per favore, sappiamo tutti che è così… ciao tesoro!”

Seth rivolse un’occhiata torva alla moglie, che però sorrise alla figlia e lo ignorò, salutando la ragazzina con un cenno della mano mentre Becky, ridacchiando, faceva altrettanto dal finestrino aperto. 

“Ridete pure, ma ora che Becky va a scuola io e Derion saremo in maggioranza, finalmente.”
“La tv rimane comunque MIA, Redclaw, non farti illusioni.”



*


Juliet stava aspettando che Carter finisse di parlare con il ragazzo dai capelli neri e gli occhi chiarissimi, Alpha, così le si era presentato, e nel frattempo la sua attenzione si era focalizzata su un ragazzo molto alto e dai capelli scuri che, un fucile imbracciato, stava sparando contro un bersaglio, centrandolo perfettamente ogni volta. 
Non poteva vederlo in volto, non da quell’angolazione, ma c’era come qualcosa di familiare nel suo modo di toccarsi i capelli di tanto in tanto, o spostare distrattamente il peso da un piede all’altro.

Eppure era più che certa di non aver mai visto prima d’allora nessuno dei suoi nuovi “colleghi”… ormai aveva parlato almeno una volta praticamente con tutti, anche se era arrivata da solo un paio di giorni, ma non con quel ragazzo, che sparava e sollevava il fucile con una facilità disarmante.
Forse si sentì osservato, perché pochi istanti dopo distolse l’attenzione dal bersaglio e si voltò dritto verso di lei, tenendo il fucile ancora tra le braccia e il busto immobile.

Così, Juliet si ritrovò con gli occhi più particolari che avesse mai visto puntati su di sè, e si sforzò di rivolgere al ragazzo un lieve cenno con il capo, sentendosi leggermente a disagio. Lui non sorrise e non battè ciglio, ma lascio il fucile e le si avvicinò, osservandola dall’alto in basso:

“Ciao. Non ci siamo ancora presentati… io sono Quebec. Juliet, giusto?

Le tese la mano e la ragazza la strinse, abbozzando un sorriso e sforzandosi di non sentirsi a disagio di fronte a quegli occhi straordinari che la studiavano: 

“Sì. Sei molto bravo a sparare.”
“Grazie… vuoi vedere come si tiene il fucile?”

“Non serve.”  Juliet sorrise e un luccichio divertito le illuminò improvvisamente gli occhi, scuotendo il capo prima di superare il ragazzo per raggiungere la sua postazione e prendere l’arma. 
Quebec la guardò colpire il bersaglio al centro della fronte e sorrise leggermente a sua volta, cosa che gli si vedeva fare quasi di rado, intuendo di aver appena conosciuto quella che sarebbe presto diventata la sua partner preferita.

In realtà era anche la sua ex ragazza, ma non poteva ricordarlo.

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Capitolo 24
*** Two violinists ***


Two violinists 


Emil Bach  Image and video hosting by TinyPic Rebecca Crawley Image and video hosting by TinyPic




Mentre passeggiavano, Emil continuava a lanciare occhiate in tralice a Rebecca, alla sua sinistra mano guantata che ondeggiava ad ogni suo passo, lasciata fuori dalla tasca del cappotto a differenza della destra. Continuava a fare per prenderla per poi bloccarsi, chiedendosi se magari quel gesto non avrebbe potuto infastidirla. 
Era sempre stato tremendamente espansivo, il contatto fisico per lui era perfettamente nella norma, non era un aspetto su cui aveva mai riflettuto molto… spesso travolgeva le persone con i suoi abbracci solo per gioco, per divertimento, per ridere delle loro proteste. Ma per lei era diverso, non era qualcosa che le veniva naturale e preferiva avere i suoi spazi, Emil lo sapeva e cercava di rispettarlo, ma a volte gli risultava quasi difficile ricordarsi quanto fossero diversi sotto quel punto di vista.

Il ragazzo strabuzzò gli occhi, infatti, quando sentì la piccola mano di Rebecca toccare la sua e stringerla, per quanto poteva, e si voltò verso di lei con evidente stupore, chiedendosi come avesse fatto a leggergli nel pensiero:

“Becky?!”
“Suvvia Emil, puoi prendermi per mano se vuoi, non scapperò urlando.”

La risposta pacata della ragazza, che non si voltò nemmeno e continuò a guardare dritto davanti a sè, lo fece sorridere, e annuì, improvvisamente un po’ più allegro:

“Posso anche abbracciarti mentre camminiamo, allora?”
“Ora non esageriamo.”
“D’accordo, d’accordo… un po’ per volta, ho capito.”


*


“Come mai tanga urgenza? Cosa è successo?”

Eleanor aprì la porta e rivolse un’occhiata sinceramente perplessa alla sua migliore amica, parlando quasi con una punta di preoccupazione nella voce mentre Rebecca la superava senza nemmeno esitare, sospirando mentre si lasciava 
cadere sul divano dell’amica:

“Ho un problema.”
“Ovvero?!”
“Emil mi ha detto una cosa.”

Rebecca si morse il labbro inferiore, toccandosi nervosamente i capelli castani mentre Eleanor la raggiungeva sedendo accanto a lei e guardandola con preoccupazione crescente, un sopracciglio inarcato:

“Ovvero!? Non tenermi sulle spine!”
Il tono incalzante della Tassorosso fece sospirare la Serpeverde, che continuò ad evitare di guardarla in faccia e arrossì leggermente:

“Mi ha detto… mi ha detto che mi ama.”
“E perché dovrebbe essere un problem- oh. Tu non glie l’hai detto?”

“Se mi conosci almeno un po’ già sai la risposta. Io non… non sono brava con le parole, specie a dimostrare affetto, figuriamoci dire una cosa simile!”
“Lo so, Becky… ma tu cosa provi?”

“Non lo so… lo amo anche io, credo. Non lo so.”
Rebecca scosse il capo, scuotendo il capo prima di prendersi il viso tra le mani, appoggiando i gomiti sulle ginocchia mentre l’amica le sorrideva con affetto, accarezzandole il braccio con fare consolatorio:

“Beh, IO lo so. E credo proprio che lo sappia anche lui, Becky, lui può vederlo, dopotutto. Sai, è una cosa che lo ha sempre preoccupato molto, poter vedere cosa la gente prova per lui… credo che abbia sempre avuto paura di svegliarsi, un giorno, e vedere che una persona non lo ricambia, o vedere che qualcuno perde progressivamente interesse, stima o affetto nei suoi confronti. Ma sono sicura che con te non è così, o non te l’avrebbe detto. E ti conosce, Becky, sa che per te è… difficile.”

“Troppo difficile. Che cos’ho che non va?”
Rebecca piegò le labbra in una smorfia, fissando un punto del pavimento con aria sconsolata mentre l’amica, continuando a sorridere con fare comprensivo, scuoteva il capo, sporgendosi leggermente per abbracciarla:

“Niente, sei semplicemente fatta così. Dimostri a malapena affetto anche per me, ma so che mi vuoi bene… glielo dirai, ne sono sicura.”

E per una volta Rebecca non si mosse, non si ritrasse pochi istanti dopo per sciogliere l’abbraccio: restò semplicemente immobile, pensando alle parole dell’amica.




“Emil? Volevo dirti… mi dispiace per prima, avrei dovuto dirti qualcosa e non sparire…”
“Eccoti! Dove ti eri cacciata, mi ero preoccupato.”

Emil la raggiunse con un sorriso stampato sul volto che quasi la destabilizzò, chiedendosi, per un attimo, se per caso non si fosse immaginata tutto o se Emil non avesse sbattuto la testa da qualche parte durante la sua breve assenza: si sarebbe aspettata musi lunghi e silenzi, non quell’accoglienza, così calorosa.

“Scusa, ero da Elly.”  Rebecca parlò con un sussurro, confusa, guardando il ragazzo raggiungerla e sorriderle mentre si puliva le mani nel grembiule che si era infilato. Era solita prenderlo in giro per quell’accessorio, ma non quella sera, non ci fece nemmeno troppo caso. 

“Come mai questa faccia? Cosa succede?”

In un altro momento Rebecca gli avrebbe rivolto un’occhiataccia, suggerendogli silenziosamente di non fare lo gnorri visto che gli bastava guardarla per sapere cosa provasse, ma non fece caso nemmeno a questo, sospirando leggermente mentre si toccava nervosamente i capelli:

“Beh, pensavo… non sei arrabbiato? Per prima. Avrei dovuto risponderti e invece mi sono limitata a balbettare qualcosa per poi filarmela, come faccio sempre.”
“No, non sono arrabbiato… so che mi ami, Becky. Me lo dirai quando sarai pronta, ma lo so, mi basta guardarti per vederlo.”

Emil sorrise – non un sorriso divertito o beffardo, magari quello che sfoggiava quando si stava divertendo a prendere in giro qualcuno, un sorriso vero –, parlando quasi con una punta di orgoglio nella voce e guardandola con gli occhi azzurri carichi d’affetto.
L’ex Serpeverde esitò, stupita dalla sua comprensione, dalle sue parole e dal fatto che l’amica non si fosse affatto sbagliata, guardandolo con aria stralunata ma provando al contempo un moto di sollievo:

“Oh. Ok… grazie. Tu ed Elly vi siete parlati, per caso?”
“No, perché?”
“Perché dite sempre le stesse cose quando si tratta di me, allora?!”
“Perché sappiamo con chi abbiamo a che fare, Becky, e anche se si tratta di una ragazza assurda l’amiamo comunque.”


*


Emil Bach amava la magia, amava essere un mago. 
Aveva sempre apprezzato, in particolar modo, la possibilità di infilare un’infinità di cose dentro una borsa di piccole dimensioni: per questo motivo aveva tirato un sospiro di sollievo quando Rebecca si era presentata con solo una borsa e una valigia. Ora però era seduto sul bracciolo del divano, con Broncio accanto, mentre Cinnamon era andata in esplorazione e stava girovagando per casa annusando qualunque cosa e la sua padrona era inginocchiata sul pavimento dell’ingresso, impegnata a tirare fuori dalla valigia centinaia di cose.

“Becky, forse non dovrei farti questa domanda, ma quante scarpe e borse hai, esattamene?”
“Credo una ventina di borse, non so dirti per quanto riguarda le scarpe, però.”

Emil annuì distrattamente, osservando tutte le scatole da scarpe che la fidanzata aveva impilato intorno a sè e capendo perché Rebecca gli avesse caldamente consigliato di comprare un’altra scarpiera quando le aveva chiesto di andare a vivere con lui.

“Mi aiuti a portare di sopra questi?”

Rebecca si alzò con una pila di pantaloni e jeans tra le braccia, accennando alle scatole da scarpe al fidanzato, che annuì e roteò gli occhi chiari con studiata esasperazione:

“Se proprio devo…”
“Beh, a qualcosa ti servirà quell’ammasso di muscoli, no? Penso che dovremo fare almeno quattro giri per portare tutti i miei vestiti, almeno ti aiuto con il sollevamento pesi.”
“A cosa serve usare un bilanciere quando hai una fidanzata compratrice compulsiva di scarpe, vestiti e quant’altro? Ma almeno usi tutta questa roba? Quanti pantaloni lunghi hai?!”

“19, non giudicare.”


*


Emil teneva gli occhi fissi sulla televisione, seguendo le vicissitudini del film con interesse mentre, seduto sul divano di pelle, massaggiava distrattamente i piedi di Rebecca, nudi nonostante fosse Gennaio inoltrato. 
L’ex Serpeverde era stesa sul divano, le gambe appoggiate su quelle del fidanzato mentre guardava gli ultimi minuti del film con sempre maggior sgomento, incredula e soffocando il suo risentimento sui popcorn che aveva davanti:

“Non può essere!”
“Temo proprio di sì, Becky.”
“NO! Ora esigo che facciano un incidente d’auto, così LUI muore e LEI può tornare con Sebastian! Razza di stupida, dovevi sposare Ryan Goasling!”

Rebecca sbuffò, amareggiata, mentre Emil si rivolse alla ragazza con un sopracciglio inarcato e Broncio si avvicinava furtivamente ai due, appostandosi davanti a Rebecca per ricevere qualcosa da mangiare.

“Come mai tutta questa venerazione per Ryan Goasling?”
“Non saprei dirti, in realtà non mi piacciono particolarmente i biondi, a parte lui, certo.”
“Nessun altro?”
“E tu, ovviamente.”

Rebecca piegò le labbra in un sorriso, guardandolo con aria divertita per un attimo prima di tornare a concentrarsi sul finale del film, sbuffando e fulminando la protagonista con lo sguardo:

“Ed ecco la conclusione dopo due ore di film, grazie tante. Broncio, non guardarmi così, non avrai niente da me… ma non fare quella faccia sofferente Ryan, ti sposo io!”

“Grazie per la considerazione.”

Emil sbuffò e Rebecca rise mentre appoggiava la ciotola di popcorn sul tavolino e si inginocchiava sul divano per poi prendergli il viso tra le mani e dargli un bacio a stampo e infine alzarsi, annunciando che avrebbe suonato per un po’.


Emil invece abbassò lo sguardo sul suo cane, sorridendogli con affetto mentre allungava una mano per grattargli le orecchie:

“Bro, non posso darti i popcorn, non guardarmi così… va bene, vado a prenderti un biscotto.”


*


Le temperature erano piuttosto calate, e per fortuna aveva avuto l’accortezza di mettersi guanti e berretto, o avrebbe perso sensibilità alle mani e alle orecchie entro pochi minuti. 
Era domenica e i giardini di Kensington erano affollati come sempre, non solo da persone in effetti ma anche da animali: dovette zigzare a sinistra per evitare di investire un’oca, cosa che gli avrebbe di certo procurato un bel po’ di guai che avrebbe evitato volentieri… a Rebecca era successo, una volta, e lui l’aveva derisa per una settimana intera mentre lei aveva ufficialmente denominato le oche come “pennuti infernali”.

Per quanto fare sport gli fosse sempre piaciuto, mentre correva nel parco Emil si chiese sinceramente chi glie l’avesse fatto fare… forse stare in panciolle davanti al camino sarebbe stato preferibile, a ripensarci. 
Ma era sempre il primo a riprendere Rebecca, che correva o andava in palestra solo per inerzia e per la sua golosità da ricovero, per la sua pigrizia, quindi non poteva smentirsi in quel modo.

“Coraggio, spilungone! Le mie falcate sono un terzo delle tue e ti ho raggiunto lo stesso! Ti stai rammollendo!”

Emil sentì alle proprie spalle la voce di Rebecca, che ridacchiò mentre lo superava dopo avergli assestato una pacca sul fondoschiena, la lunga treccia che le ondeggiava sulle spalle e il berretto nero calato sulla testa.

La vide sfrecciargli davanti e si chiese, ancora una volta, come facesse a muovere quelle gambette così in fretta prima di sentire di nuovo la sua voce, questa volta con qualche ottava in più e con maggiore enfasi:

“L’ultimo che arriva prepara la cena!”

Considerando che l’aveva preparata anche il giorno prima e quello prima ancora, Emil decise che no, non gli andava affatto di cucinare quella sera, così strinse i pugni e aumentò il ritmo delle falcate per raggiungerla, annunciando che quella sera i fornelli sarebbero spettati a lei.


*


“Becky?”
“Mh?”

Emil aveva il suo sorriso migliore stampato sul volto quando fece capolino nel salotto, rivolgendosi alla ragazza seduta sul divano con Broncio rannicchiato accanto, il muso appoggiato sulle sue gambe per farsi coccolare, un libro in mano e Cinnamon che dormiva acciambellata sul pavimento. 

“Stavo pensando… quando mi fai conoscere la tua famiglia?”
“Mai.”

“Come sarebbe?! Tu hai conosciuto la mia più di un anno fa!”
“Perché la tua famiglia è adorabile.”

Rebecca distolse l’attenzione dal libro per voltarsi verso di lui, alzando gl8 occhi al cielo nel cogliere la sua espressione da cane bastonato supplichevole:

“Se non sono così importante per te basta dirlo chiaramente!”
“Non è questo il punto e lo sai bene, non giocare sporco… va bene, puoi conoscere mia madre se vuoi.”

“Bene! Le madri mi adorano… e gli altri?!”
“Mai.”

Rebecca tornò a leggere, stabilendo che la conversazione era finita e ignorando il disappunto del fidanzato che sospirò, scuotendo il capo prima di girare sui tacchi e tornare a suonare nello studio: se non altro, qualcosa l’aveva ottenuto.


*


“Ciao Becky… ti ho riportato questi.”
“Grazie, lasciali pure sulla credenza.”

Rebecca parlò senza nemmeno voltarsi, continuando a leggere con aria concentrata mentre Eleanor obbediva, lasciando i libri sulla credenza per poi rivolgere un’occhiata incerta all’amica, che era seduta sul divano con un libro in mano, i biscotti di fianco, mangiandoli distrattamente, e i piedi nudi nonostante la temperatura: 

“Becky. Siamo a Febbraio. Perché sei in infradito?!”
“Lo sai che non ho freddo, Emil continua a dire che prima o poi mi prenderò la polmonite, siete così melodrammatici…”

Eleanor inarcò un sopracciglio con aria scettica e fece per replicare, ma la voce divertita di Emil la batte sul tempo, sentendo il ragazzo avvicinarlesi per salutarla:
“Lascia perdere Elly, ormai sappiamo bene quanto la nostra Becky sia un paradosso vivente.”

Emil mise una mano sulla spalla dell’amica, aggiustandola per stritolarla come al solito in un abbraccio mentre l’ex Serpeverde, alzando finalmente lo sguardo dal suo libro, rivolgeva ai due un’occhiata scettica: 

“Perché sarei un paradosso vivente?”
“Perché quando ti fai la doccia accendi la stufetta e il bagno diventa una sauna, ma poi usi le infradito tutto l’anno… perché sei terribilmente romantica ma orribilmente cinica allo stesso tempo e perché ti alleni molto e poi mangi tutti quei dolci. Ti basta? Posso continuare.”

Emil sorrise amabilmente ed Eleanor ridacchiò mentre Rebecca, dopo aver scrollato le spalle, tornava a leggere: 

“Io sarò anche un paradosso, ma voi adorate questo paradosso, mi risulta, quindi non lamentatevi.”


*


“No, io NON ci vengo! Non ci penso proprio.”
“Ma perché, sarà divertente! E poi senza di te non sarebbe la stessa cosa.”

Rebecca era seduta all’isola della cucina con Eleanor di fronte, stringendo la sua tazza da thè tra le mani, e scosse il capo alle parole dell’amica con decisione:

“Tu vai se vuoi, ma io non ne ho voglia.”
“Parlate della rimpatriata? La mia è stata l’anno scorso, perché non vuoi andarci, Becky? Io mi sono divertito.”

“Emil, tu ti diverti con tutto! Sorridi sempre, sei sempre felice! E poi ci sono un paio di elementi che non mi va di rivedere, grazie.”
“Intendi Emily Kovakovich?”
“Sì, Emily Troiakovich, esatto.”

Rebecca annuì, piegando le labbra in una smorfia mentre Emil ridacchiava e l’amica roteava gli occhi, ricordandole che sarebbe stato un peccato non andare solo per non vedere una ex compagna di scuola particolarmente odiosa.

“Non mi ricordo di questa Emily… ti prendeva in giro, Becky?”
“Ci ha provato, al primo anno. Disse che le persone con gli occhi diversi sono strane, e io le dissi che ad essere strano era il suo naso.”

Rebecca bevve un sorso di thè mentre Emil rideva di nuovo prendendo posto accanto ad Eleanor, che rivolse all’amico un’occhiata eloquente, suggerendogli di aiutarla:

“Che dolce, immagino una piccola Becky di undici anni con un adorabile faccino da angioletto che inizia a sputare fuoco se qualcuno la importuna…”
“Beh, ho sempre avuto un certo… carattere. Ma non è questo il punto, non mi va di venire. E se non ti ricordi di Emily, caro, era quella che girava con la gonna volutamente di tre taglie in meno, credo che abbia tenuto quella del primo anno per tutti gli anni.”

“… ah, ho capito… Ahh, ecco perché la chiami Troiakov-“
“In ogni caso…” – tagliò corto Eleanor, interrompendo l’ex compagno di Casa per rivolgersi all’amica – “penso che dovresti venire, molti sarebbero felici di vederti, e lo sai, non sarebbe la stessa cosa senza il tuo sarcasmo… e poi puoi portare Emil.”

Entrambe si voltarono verso di lui e Rebecca all’improvviso sorrise, annuendo:

“Hai ragione. Emil, mi accompagnerai?”
“Certo!”
“Bene. Voglio proprio vedere se la Troiakovich si è accaparrata uno più bello e dolce di te, farò in modo di mostrarle il mio anello di fidanzamento. Quella stronza, persino i suoi capelli erano costruiti!”

“Scusa, Becky, puoi ripetere la prima parte?”
“No, hai capito benissimo. Non lo dirò di nuovo.”




Cinque giorni dopo Emil Bach stava quasi lacrimando dal ridere mentre usciva dal ristorante insieme a Rebecca, che camminava qualche passo avanti a lui con le sue solite falcate lunghe e decise nonostante i tacchi alti delle due décolleté nere, ed Eleanor, che invece sospirò prima di parlare: 

“Becky, devi smetterla di farlo!”
“Di fare cosa, esattamente?”

L’ex Serpeverde parlò distrattamente mentre cercava qualcosa nella sua pochette nera rigida e la Tassorosso le rivolse un’occhiata eloquente: 

“Di insultare le persone!”
“Come se quella capra se ne fosse resa conto…”
“Certo, perché sei bravissima ad insultare la gente senza che se ne renda conto, ma le hai dato della meretrice!”

“Le ho soltanto detto che con i Cuissard somigliava moltissimo a Julia Robert in Pretty Woman, e chi ha orecchie per intendere mi ha inteso, ma quella stupida l’ha preso come un complimento. Non capisco perché la gente si offende quando dai loro delle donne da lampione quando indossano quegli stivali, specie se di pelle, li ha resi famosi un’attrice che interpretava proprio una prostituta!”

“Le hai anche dato della vacca.”
“No, io le ho detto che il septum le stava tremendamente bene, racchiudeva appieno la sua essenza… non credo abbia capito, forse non sa che mettono quegli anelli alle mucche, di solito. E solo perché continuava a strusciarsi addosso ad Emil.”



Emil rise, sostenendo che l’adorasse quando faceva la gelosa mentre Eleanor alzava gli occhi al cielo, decidendo di lasciar perdere e ringraziando di essere amica della ragazza e non il contrario.

“Ora che la pagliacciata è finita possiamo andare a casa? Queste scarpe cominciano ad uccidermi.”
“Potevi non mettertele!”
“Certo, così di fianco ad Emil sarei sembrata uno gnomo travestito da ragazza!”


*


Emil stava suonando distrattamente il violino mentre Cinnamon si era acciambellata accanto a lui, sul divano, e aveva appoggiato la testa sulla sua gamba, sonnecchiando mentre le note della Stravaganza di Vivaldi riempivano il salotto. 
Ogni tanto il ragazzo si voltava verso la cucina, non potendo sentire le voci di Rebecca ed Eleanor ma riuscendo comunque a scorgere la fidanzata, che stava discutendo animatamente con l’amica, circondate da penne, fogli e cataloghi di ogni tipo.

Non appena Elly era arrivata Emil aveva intuito che aria girasse e si era rintanato in salotto a suonare, combattendo contro il desiderio di andare a curiosare: avrebbe voluto sapere che fuori avessero scelto, ma sapeva anche che era meglio stare alla larga e lasciarle fare, non per niente aveva ceduto completa carta bianca a Rebecca per organizzare il matrimonio, affidandosi al fatto che la fidanzata non avrebbe mai potuto scegliere qualcosa di eccessivamente rosa o melenso.


“Emil?”
Sentendosi chiamato in causa il ragazzo smise subito di suonare, l’archetto ancora stretto in mano, e si voltò con sincero stupore verso la fidanzata: 

“Sì?”
“Stiamo finendo la lista degli invitati visto che domani andremo a scegliere le partecipazioni, vieni a controllare di non aver dimenticato nessuno?”
“L’ho fatto ieri, non preoccuparti… avete scelto i fiori?”

“I miei preferiti, gigli bianchi e rose rosse. O forse preferisci qualcosa di molto rosa? Pensavo di farti indossare un completo color confetto.”

“Neanche per idea, mi sta malissimo!”

Emil sfoggiò una faccia schifata che fece ridere entrambe, assicurandogli che non ci sarebbe stato niente di quel colore al matrimonio.

“Elly, mi fido di te, vedi di non farmi avere qualche brutta sorpresa, il 25 Giugno.”


*


“Preferisci il blu polvere o il carta da zucchero? O forse il cobalto? No, il cobalto è troppo scuro…”
Rebecca scosse il capo mentre confrontava quelli che dovevano essere almeno una ventina di cartoncini di sfumature di blu differenti, seduta di fronte al marito che la guardava con gli occhi azzurri fuori dalle orbite:

“Tesoro, so che arredare ti diverte molto, ma non pensi sia prest-“
“Non è presto per colorare le pareti, mancano due mesi e mezzo, e potrebbe sempre nascere prematuramente. Blu polvere, direi…”

La ragazza sollevò il cartoncino, osservandolo con aria critica mentre si sfiorava distrattamente il pancione con le dita. 

“Non pensi che prima di dipingere dovremmo parlare anche del nome?”
“Se ti interesserai al nome come ai colori penso che avrò carta bianca.”

“Va bene, carta da zucchero.”
“No, blu polvere, ormai ho deciso.”

“E allora perché me lo hai chiest- scherzo, va bene amore, come vuoi tu.”


*


“Peter, non correre!”

Rebecca sospirò mentre seguiva il figlio di quattordici mesi, che rideva mentre seguiva a sua volta Broncio, le braccine protese verso il grande cane bianco che trotterellava da una parte all’altra della casa scodinzolando, abbaiando di tanto in tanto per attirare l’attenzione del bambino. 

Quando il figlio ancora non camminava e gattonava a malapena Rebecca si era ritrovata a sperare che il giorno in cui avrebbe iniziato a muoversi da solo arrivasse in fretta, così da non doverlo tenere costantemente in braccio, ma ora che correva 24h su 24 rimpiangeva quei giorni: disgraziatamente, Peter aveva ereditato la vena fin troppo attiva del padre e non stava mai fermo per più di tre minuti di seguito.

“Bo!”

Broncio si fermò nel bel mezzo del salotto, accucciandosi sul pavimento e Peter si lasciò praticamente cadere sopra il grosso cane, sorridendo vivacemente mentre gli accarezzava il pelo bianco. 

“Ma voi due non siete mai stanchi?!”

Rebecca sospirò mentre si fermava di fronte a cane e figlio, sedendo a sua volta sul parquet quando Peter si voltò verso di lei, sfoggiando un sorriso semi sdentato e chiamandola. 

“Temo proprio di no.”
La strega allungò una mano per accarezzare i capelli chiarissimi del bambino, che meno di un minuto dopo scattò di nuovo in piedi, sfrecciando verso la cucina. 

“E ora dove vai?! Broncio, seguilo.”


*


“Pete? È tardi, dobbiamo tornare a casa.”

Rebecca, tenendo Cinnamon al guinzaglio, si avvicinò al figlio per prenderlo per mano, ma il bambino scosse il capo, indicando lo scivolo:

“No, voglio scivolare ancora!”
“Fa freddo, e tra poco anche buio… dobbiamo preparare la cena prima che arrivi papà. Su, vieni.”
“No, sto qui! Sono grande adesso!”

Il bambino incrociò le braccia al petto, guardando la madre quasi con sfida con gli occhi azzurri appena visibili a causa delle ciocche di capelli biondi che uscivano dal berretto blu notte. Rebecca, per tutta risposta, esitò prima di annuire, scrollandosi nelle spalle e sistemandosi distrattamente i manici rigidi della borsa nell’incavo del gomito:

“Va bene, tu resterai qui, allora, da solo, visto che sei abbastanza grande. Io e Cinnamon torniamo a casa, non so quando potrò tornare a prenderti, però… Ciao Pete.”

Il bambino abbozzò un sorriso trionfante e corse verso lo scivolo per arrampicarcisi, con un po’ di fatica visto che aveva solo due anni e mezzo, ma si fermò a metà della scala per voltarsi verso il punto dove fino a poco prima c’era stata sua madre, aspettandosi di vederla sorridergli come sempre. 
Un’espressione di puro sgomento invece attraversò il volto del bimbo quando si rese conto che la sua mamma stava andando via, incamminandosi verso l’uscita del parco con una mano in tasca e l’altra stretta sull’impugnatura del guinzaglio di Cinnamon.

Un momento. 
Perché la sua mamma stava andando via, senza di lui? Lo avrebbe forse lasciato davvero da solo?

Peter tentennò, restando immobile sulla scala con le piccole mani guantate strette sul legno della ringhiera prima di chiamare la madre, parlando con una nota allarmata nella voce:

“… Mamma?!”
Niente, sua madre non si voltò, allontanandosi sempre di più. Peter non si era mai trovato da solo fuori casa, senza uno dei genitori, la zia Elly o i nonni con lui… e in un attimo capì che la cosa non gli piaceva, specie considerando che stava iniziando a fare buio.
“Mamma!” Peter saltò giù dai pochi gradini che aveva salito per sfrecciare verso la madre, gli occhi azzurri lucidi mentre la raggiungeva, guardandola fermarsi e voltarsi verso di lui prima di cingerla in un abbraccio, nascondendo il viso contro le sue gambe.

“Beh? Non vuoi restare qui da solo, visto che ora sei grande?”
“No! Voglio stare con te.”

Peter scosse il capo, tirando su col naso mentre Rebecca, sfoggiando un piccolo sorrisetto soddisfatto, si chinava per prenderlo in braccio, stampandogli un bacio su una guancia e sistemandogli il berretto sulla testa:
“Non vado da nessuna parte senza il mio ometto. Su, andiamo a casa.”


*


Dopo aver passato il pomeriggio a raccogliere treni, macchinette di ogni genere e palline di tutte le dimensioni, Rebecca, dopo aver finalmente messo a letto Peter, sedette sul letto e restò in silenzio per qualche minuto, fissando il soffitto.

“Emil?”
“Sì?”
Il marito si voltò verso di lei, smettendo momentaneamente di leggere per rivolgersi alla moglie, che sospirò:

“Te lo devo dire: se è un altro maschio, io espatrio.”

“E mi lasceresti solo con due demonietti?!”
“Esattamente, prenderei Cinnamon e Broncio e mi darei alla macchia.”


*


Quando scese in cucina per fare colazione tenendo Peter per mano e la piccola Anne in braccio Rebecca trovò Emil impegnato a preparare la colazione, versando una generosa quantità di sciroppo al cioccolato sui pancake per il figlio. 

“Sei già in piedi? È domenica, perché ti sei alzato così presto?”
Sentendo la voce della moglie Emil alzò lo sguardo, sorridendole con gli occhi luccicanti prima di raggiungerla, prenderle la bambina dalle braccia e poi abbracciarla, dandole un bacio sulla guancia:

“Volevo prepararvi la colazione. Ometto, i pancake ti aspettano.”

Il bambino sorrise e sfrecciò verso il tavolo mentre Emil dava un bacio sulla fronte della figlia prima di lasciarla delicatamente nell’ovetto appoggiato sull’isola della cucina. 
E Rebecca continuò a guardarlo mentre si avvicinava al tavolo, leggermente sospettosa:

“Da un paio di giorni sei di ottimo umore, Emil, più del solito, persino. C’è qualcosa che dovresti dirmi?”
“No, sono solo felice perché ho una bellissima famiglia, Becky.”

Sorrise e seppe che non se l’era bevuta, ma proprio non era riuscito a contenere la felicità che provava… avrebbe voluto dirglielo, in effetti, come aveva fatto con sua madre anni prima, quando era incinta di suo fratello Sebastian, ma non voleva rovinarle la sorpresa di essere incinta di nuovo. 
Riusciva a vedere anche se una persona era in salute o meno e si era accorto anche di quello, era anche piuttosto sicuro che fosse un maschio, ma Rebecca ancora non lo sapeva, e voleva lasciare che se ne rendesse conto a sua volta, come era successo con Peter e Anne.

Solo, sarebbe stato molto difficile tenere le labbra cucite per almeno un paio di settimane…


*


“Hans?”
“No, non mi piace come suona.”

Emil roteò gli occhi mentre Rebecca, seduta sul divano accanto a lui, sfogliava un libro di nomi con aria assorta, le gambe appoggiate sulle sue come sempre mentre il marito le massaggiava i piedi e continuava a proporre nomi maschili che venivano bocciati puntualmente. 

“Non te ne piace praticamente nessuno, è un’impresa.”
“Emil, vuoi dare ai bambini nomi danesi e mi sta bene, ma solo se hanno un suono decente, come Peter o Anne.”

Rebecca lanciò un’occhiata ai figli, trovando Peter steso sul tappeto a disegnare mentre Anne sonnecchiava nella culla.

“Erik ti piace?”
“… sì, è carino. Questo non lo boccerò, Bach.”
“Quale onore!”

Emil ridacchiò e Rebecca sbuffò, muovendo un piede per colpirlo leggermente sullo stomaco prima di sorridere a sua volta, appoggiando la testa contro lo schienale del divano.

“Sei sicuro che sia un maschio?”
“Preferiresti un’altra femmina?”
“Ovviamente, così sarete in maggioranza, purtroppo. E so cosa stai pensando, Emil, ti assicuro che NO, non ci sarà un quarto figlio!” 

“Ma tu adori i bambini!”
“Certo, ma ne ho già quattro così, direi che sono a posto, grazie.”

“Quattro? … ah, come sei divertente.”


*


Quando aprì le ante della sua scarpiera perennemente stracolma di scarpe, Rebecca Crawley in Bach ebbe quasi un mancamento. E la sensazione di vertigini che provò non ebbe niente a che fare con la gravidanza, avrebbe potuto giurarlo. 

“EMIL! Dove… dove sono le mie scarpe?”
“Le ho confiscate.”

Un altro mancamento 

“Cosa?! Che hai fatto alle mie bambine?”

Rebecca si voltò verso il marito, che era appena comparso sulla soglia della cabina armadio con il guinzaglio di Broncio ancora in mano dopo averlo portato a spasso insieme a Peter – Rebecca non passeggiava mai con il cane, o sarebbe stato lui a portare a spasso lei, come era solita ripetere – e inarcò un sopracciglio, guardandola con scetticismo:

“I tuoi bambini sono di sotto, al momento. Non puoi parlare così di delle scarpe! E comunque sai come la penso, non dovresti mettere i tacchi se sei incinta, potresti scivolare! Dovrai indossare le scarpe basse per qualche settimana, Becky.”

“Scarpe basse?”

La ragazza aggrottò la fronte, parlando con il tono confuso di chi non sa di cosa sta parlando, e Emil annuì prima di voltarsi e fare per uscire dalla camera:

“Sì Becky, quelle calzature che indossano tutti, hai presente? Riavrai le tue scarpe quando Erik nascerà. Oppure dovrai utilizzare solo le infradito fino al parto.”

“Sai cosa ne faccio delle infradito?!”

Disgraziatamente, Emil non ebbe il tempo di uscire dalla stanza, anche se sapeva cosa stesse per accadere, e un attimo dopo la ciabatta lo colpì in piena nuca. 


*


Peter, Image and video hosting by TinyPicAnne Image and video hosting by TinyPic ed Erik Bach Image and video hosting by TinyPic


“Papy? Guardiamo un film?”

Emil si voltò, sorridendo quasi senza volerlo sentendo la voce della figlia e tornando immediatamente serio quando vide COSA la bambina tenesse in mano.
Il DVD di Frozen. 
Ancora. 
Non avrebbe sopportato di sentire Let it Go per la quarta volta in cinque giorni, sarebbe stato troppo.

“Beh… mi spiace piccola, non si può oggi.”
“Perché?”   Anne sgranò gli occhi azzurri, delusa, e Emil annuì, cercando rapidamente una scusa plausibile da propinare alla bambina di cinque anni:

“Perché… Anna ed Elsa sono andate in vacanza. Erano stanche di stare al freddo e sono partite per i Caraibi.”
“Oh.”

Anne annuì, stupita, esitando per un attimo – sfoggiando un faccino perplesso e concentrato, come se stesse elaborando quello che aveva appena sentito, che fece sciogliere il padre come sempre – prima di guardarlo di nuovo e sorridere:

“Ok, lo guarderemo quando tornano. Quando tornano ad Arendelle?”

Per fortuna Rebecca accorse in aiuto del marito, entrando nel salotto insieme ai figli:

“Tra MOLTO tempo, fare le principesse è stressante, avevano bisogno di una lunga pausa alla… spa per principesse dei Caraibi.”
“Allora stasera niente principesse!”

Peter sorrise, esultando prima di correre ad esaminare i DVD insieme al fratellino, mentre Anne si rabbuiava, accoccolandosi accanto al padre sul divano:

“Ok…”
“Non fare quel faccino Annie, domani faremo un pupazzo di neve uguale ad Olaf, ok?” 

Emil sorrise teneramente alla figlia, accarezzandole i capelli biondi mentre Peter ed Erik annunciavano che avrebbero voluto guardare Big Hero 6. 

“Quello con il coso bianco?! Ancora?! Emil, perché hai comprato una tv, anni fa?”


*


Anne si stava esercitando con il violino insieme ad Erik ed Emil stava ascoltando i figli suonare, ma la melodia di Rossini era interrotta dalle voci della moglie e del primogenito, che stavano discutendo: succedeva così spesso che ormai quasi non ci prestava attenzione, tranne quando lo disturbavano da qualcosa che stava facendo… E quando erano soli e Rebecca inveiva contro Peter, Emil si guardava sempre dal farle notare che forse litigavano spesso proprio perché erano uguali. 

“Peter, non lo ripeterò, vai a pulire quel porcile della tua camera, subito!”
“Non puoi farlo tu con la magia?!”
“No ragazzino, e finché non sarai maggiorenne, l’anno prossimo, continuerai a pulirla da solo e senza magia. E non parlare così a tua madre!”

“È la mia camera, perché ti interessa di come la tengo!?”
“Perché il disordine mi infastidisce e perché questa è casa mia, quindi vai di sopra e restaci finché non avrai messo in ordine la tua camera!”

Emil si voltò, guardando la moglie attraversare l’ingresso per raggiungere il resto della famiglia in salotto, ignorando la risata che Erik si lasciò sfuggire mentre la madre sedeva sul bracciolo del divano sbuffando come una ciminiera:

“Tutto bene?”  Emil sorrise, prendendole una mano tra le due per farle stemperare la tensione mentre la moglie sbuffava, parlando con tono seccato mentre osservava i due figli minori:
“Tuo figlio è una testa d’asino.”

Il sibilio della moglie lo fece ridacchiare, ma il divertimento ebbe vita breve: un attimo dopo Peter, fermo sulla soglia della cucina, rivolse un’occhiata torva alla madre per poi dire qualcos’altro, firmandosi la sua condanna:

“Mi chiedo proprio come faccia papà a sopportarti da tanto tempo.”


Avvenne tutto nell’arco di una manciata di secondi: la scala di seta di Rossini cessò di risuonare nella stanza, sia Erik che Anne smisero di suonare, puntando gli occhi azzurri sulla madre. Anne, l’archetto ancora in mano e fermo sopra le corde tese del violino, strabuzzò gli occhi mentre il fratello minore trattenne il fiato, attendendo che la tempesta s’abbattesse sul fratello, e Emil rimase perfettamente immobile, gli occhi che saettarono per una frazione di secondo dal figlio alla moglie, che invece si mosse dopo un attimo di esitazione, durante il quale probabilmente elaborò ciò che il figlio le aveva detto. 
Rebecca si chinò leggermente in avanti e poi accadde, senza dare il tempo a Peter di dire altro o di andarsene, come probabilmente avrebbe fatto: qualcosa di rosso cremisi venne lanciato con decisione e sferzò l’aria, roteando e attraversando i quindici metri scarsi che li dividevano per poi colpire il ragazzo in piena fronte, facendolo indietreggiare di riflesso e portarsi le mani alla testa mentre la ciabatta cadeva sul parquet: 

“AHIA! Mamma, sei impazzita?!”
“In piena fronte, sono colpito Becky!”

Emil sorrise, parlando a metà tra il divertito e l’ammirato mentre Rebecca si stringeva nelle spalle, accavallava le gambe con disinvoltura e Anne ed Erik ridevano, ancora seduti su due sedie con i violini in mano e gli spartiti davanti:

“Ho quarant’anni di esperienza alle spalle, mai sottovalutarmi. Ti ho lasciato il segno, Pete? Bene, così quando ti guarderai allo specchio, fino a domani, saprai che non devi parlarmi in un certo modo. E visto che hai lo stesso dono di tuo padre, immagino che fino ad allora, quando mi guarderai, vedrai solo una gran quantità di nero. Ragazzi? Prego, continuate pure, adoro Rossini.” 







……………………………………………………………………….
Angolo Autrice: 

Vorrei fare gli auguri, prima di tutto, a Shiori Lily Chiara, che mi sopporta e “segue” nelle mie storie da ormai più di due anni, spero davvero che questa OS sul tuo amatissimo gigante dal cuore d’oro ti sia piaciuta… Buon compleanno e un abbraccio da parte mia Fede <3!

Non so quando aggiornerò di nuovo questa Raccolta, per ora non ho particolare ispirazione per nessun personaggio… si vedrà, immagino, intanto a presto!

Signorina Granger 



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Capitolo 25
*** The day when Sean Selwyn died ***


The day when Sean Selwyn died

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Il giorno in cui Sean Selwyn morì era davvero una bellissima giornata.
Tutti quei sorrisi, la musica, le persone in abito da cerimonia che si salutavano cordialmente.


Sean entrò tenendo sua sorella sottobraccio, entrambi elegantemente vestiti così come tutti gli altri presenti. Tenne lo sguardo fisso davanti a sè, con la coda dell’occhio colse lo sguardo titubante che la sorella minore gli rivolse ma decise di non farci caso: sarebbe andato tutto bene.


La sala era già gremita quando entrò, si guardò intorno con calma. Rilassato. 
Era solo una festa, si disse. Niente di cui preoccuparsi.
Fu ciò che si ripetè finché, ad un certo punto, sentì un peso sprofondargli nello stomaco. Avvenne quando la vide. 


Non era giusto, era sbagliato. Profondamente sbagliato. La sua presenza era sbagliata, lei non sarebbe dovuta essere lì. Eppure la vide sorridere, sembrava a proprio agio. La sua sicurezza vacillò nel momento in cui la vide, e qualcosa sembrò smuoversi anche in lei, a giudicare dal modo in cui lo guardò, smettendo per un attimo di sorridere. Sembrava turbata.
Non si mosse, rimase immobile. Lì seduto, dove doveva stare. Del resto se l’era scelto lui, quel posto.


Le si avvicinò senza pensarci due volte, prendendola per un braccio, i loro occhi chiari si incontrarono. 
“Non dovresti essere qui.”
Lei non l’aveva ascoltato. Perché non l’aveva fatto?


“Se qualcuno ha qualcosa da dire parli ora, o taccia per sempre.”
Forse qualcuno si sarebbe aspettato che dicesse qualcosa, ma non lo fece. Charlotte lo guardò, forse anche lei pensò a lui, ma Sean non si mosse, quel giorno decise di tacere.
Del resto che valore poteva avere quel “per sempre”, per un uomo che stava già morendo?


Lei non l’aveva ascoltato, il giorno in cui morì. 
I suoi occhi chiari furono una delle ultime cose che vide, la sua l’ultima voce che sentì. 
Eppure, mentre perdeva troppo sangue, il peso insopportabile di un pezzo di cemento gli bloccava le gambe e la polvere gli rendeva difficile respirare, Sean si permise di sorridere appena. 
Charlotte stava bene, Aurora stava bene, Sean morì pensando a questo. 
Andava tutto bene. 


Si alza, applaude educatamente, la guarda sorridere a suo marito. Forse in un certo senso va tutto bene, se sembra felice.  
Del resto lei non ha fatto altro che ascoltarlo, lo sa. È stata una sua scelta. 
Sembra che Aurora voglia dirgli proprio questo, quando si volta e lo guarda, quando i suoi occhi chiari incontrano i suoi per la prima volta dopo tanto tempo. Ma Sean si sente già morto. 
Sean ricorda bene il giorno in cui morì la prima volta. Era davvero una bellissima giornata. 






…………………………………………………………………..
Angolo Autrice:

E dopo quasi tre mesi di silenzio eccomi con un’altra OS per questa Raccolta… del resto non potevo non scrivere qualcosa solo per lui, prima o poi.
Forse più avanti pubblicherò altre OS per gli OC di Magisterium – 1933, vedremo se arriverà l’ispirazione… Nel frattempo, a presto.
Signorina Granger 

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Capitolo 26
*** Keep me, mummy ***


Keep me, mummy



Jade aveva sempre amato il mare, alcuni tra i suoi ricordi preferiti dell’infanzia vedevano lei e suo padre lì, mentre lui le insegnava a nuotare. 
La donna sorrise mentre, in piedi sulla riva, l’acqua le bagnava i piedi e Tim, accanto a lei, osservava la distesa d’acqua che aveva di fronte con la fronte aggrottata, come se stesse valutando se entrarci o meno.

“Vieni con me?”
Jade abbassò lo sguardo sul bambino con un sorriso, mentre i capelli biondi si muovevano leggermente a causa della brezza e Timothy le rivolgeva uno sguardo timoroso:

“È fredda…”
“Ci si abitua, dopo un po’… e poi ti tengo io, vieni.”


Senza smettere di tenerlo per mano Jade mosse qualche passo avanti e ben presto giunse ad un punto dove il bambino non riusciva a toccare il fondale sabbioso con i piedi, guardandolo deglutire con gli occhi sgranati:

“Mamma, non ci tocco!”
“Ti tengo io Timmy… non devi aver paura.”

Jade sorrise dolcemente al bambino, che per tutta risposta le cinse il collo con le braccia e si ancorò a lei come un piccolo koala, aggrappandosi persino con le gambe alla sua vita.

“Visto?”
Timothy la guardò e annuì debolmente, i grandi occhi azzurri ereditati dal padre che la osservavano. Anche gli occhi di Jade erano chiari e avevano entrambi i capelli biondi, tanto che tutti non facevano che complimentarsi con lei per il suo “bel bambino”, senza che la strega avesse il coraggio di rivelar loro che non era la madre biologica. 

Infondo però si sentiva sempre tremendamente felice quando si sentiva dire quelle cose, e quando Tim l’abbracciò, appoggiando il capo sulla sua spalla, Jade appoggiò di riflesso la testa a quella del bambino e gli sfiorò i capelli con le dita:

“Non c’è niente di cui aver paura.”
“Ma tu tienimi mamma.”


Jade abbozzò un sorriso prima di parlare con tono grave, lasciandosi scivolare nell’acqua:

“Aspetta, mi stai cadendo!”
“Mamma!”

Jade rise di fronte all’espressione terrorizzata del bambino, che credette davvero che avesse perso l’equilibrio e che potesse lasciarlo andare, stringendola ancora di più di riflesso.

“Sto scherzando, non è vero.”
“Cattiva!”

Timothy la guardò con la fronte corrugata e con una mano la schizzò con dell’acqua, destando in Jade la sua miglior espressione offesa:

“Io cattiva? Beh, allora ti lascio qui da solo, signorino.”
“No no no, non voglio stare da solo! E se arriva uno squalo?!”
“Ma tesoro, qui non ci sono.”
“Sei sicura?!”
“Sì.”

“Mh… chiederò a papà.”
“Cos’è, di me non ti fidi, piccolino?”

Questa volta fu di Jade il turno di schizzare il bambino, che sorrise debolmente e scosse il capo:

“Sì, ma tu mi fai gli scherzi.”
“È vero, ma non su questo. … Andiamo a prendere un gelato?”
“Ok!”

Tim sorrise e Jade gli diede un bacio sulla testa prima di condurlo verso la riva, promettendogli di insegnargli presto a nuotare. 
E pensare che prima di conoscerlo aveva avuto paura che non l’amasse o che non volesse che qualcuna prendesse il posto di sua madre nella sua vita.

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Capitolo 27
*** To take care ***


To take care
 
 
Iphigenia AshworthImage and video hosting by TinyPic Andrew MaguireImage and video hosting by TinyPic 



Iphigenia si sfiorò i capelli biondi con le dita e abbozzò un sorriso mentre, alle sue spalle, sua madre, Jade ed Electra non facevano che parlare, a tratti forse più emozionate di lei.

Nei giorni precedenti, e anche quella stessa mattina, sua madre le aveva detto che sarebbe stato perfettamente nella norma provare un po’ di agitazione. Man mano che il giorno delle nozze si avvicinava, invece, Iphigenia provava solo una crescente impazienza: non era nervosa, affatto. Avrebbe sposato Andrew, dopotutto, cosa mai sarebbe potuto andare storto?

Quando aveva indossato il vestito e si era insolitamente lasciata truccare e pettinare a dovere sua sorella aveva ridacchiato con aria divertita, asserendo che Andrew non l’aveva mai vista tanto tirata a lucido e che probabilmente non l’avrebbe neanche riconosciuta.


“Credo che sia ora di andare. Non mi va di far aspettare gli ospiti.” E Andrew, mormorò una vocina nella testa della sposa mentre si alzava in piedi, lasciandosi sistemare un’ultima volta il velo sulle spalle dalla madre prima che la donna le sorridesse con affetto, gli occhi luccicanti:

“Tuo padre è qui fuori che ci aspetta. Oh tesoro, non immagini quanto sia felice per te!”
“Mamma per l’amor del cielo, non iniziare a piangere già adesso!”

Iphigenia roteò gli occhi e la madre sbuffò, assicurandole che quando avrebbe avuto figli avrebbe compreso il suo stato d’animo mentre la seguiva fuori dalla stanza. Suo padre era, in effetti, fermo proprio davanti alla porta, elegante come non l’aveva mai visto, e l’uomo indugiò con lo sguardo sullo primogenita prima di stendere le labbra in un dolce sorriso, guardandola con affetto:

“Sei bellissima Iphe.”
“Grazie.”  La bionda ricambiò il sorriso e accettò il braccio che Andrew le porse, dandogli un bacio su una guancia mentre, alle loro spalle, Electra scommetteva in un bisbiglio con la madre quanto ci avrebbe messo il padre a commuoversi.
A detta della Serpeverde, sarebbe accaduto a metà navata o giù di lì.


*


Tra Iphigenia e Andrew Maguire vigeva un tacito accordo: mai fare troppe domande sul lavoro dell’altro, specie quando dalle rispettive espressioni torve era facile immaginare come fosse andata la giornata.
Ciò impediva spiacevoli ed inutili discussioni dettate dal malumore di entrambi e i coniugi erano ben felici di rispettare quella regola la maggior parte delle volte. Andrew, in special modo, riusciva a cogliere qualcosa che non andava non appena la moglie metteva piede dentro casa e a quel punto si limitava a sorriderle e a sfilarle il cappotto prima di chiederle cosa preferisse per cena.


Quella sera, invece, ad essere particolarmente taciturno era proprio il Magiavvocato, che se ne stava seduto sul divano e fissava, a braccia conserte, le fiamme scoppiettare nel camino acceso.
Non si voltò nemmeno quando sentì i passi leggeri della moglie avvicinarsi, e un attimo dopo Iphigenia sedette accanto a lui porgendogli un bicchiere di vino rosso, sorridendogli dolcemente mentre allungava una mano verso i suoi corti ricci color rame per giocarci, a detta sua uno dei suoi modi di rilassarsi prediletti.

“Incarichi difficili?”
Andrew si limitò a sbuffare debolmente prima di portarsi il bicchiere alle labbra, ma inclinò leggermente la testa per godersi le sue carezze e Iphigenia non cessò di sorridere, avvicinandogli ulteriormente e posandogli con delicatezza l’altra mano sul braccio:

“Se vuoi parlarne con qualcuno sono qui. Non sembri arrabbiato, solo… turbato.”
Andrew chiuse gli occhi prima di scuotere debolmente il capo, sospirando per poi riaprirli e puntarli nuovamente sulle fiamme aggrottando leggermente la fronte:

“Qualcuno fa insinuazioni su di noi. Su di te.”
“Su di me? Qualche tuo collega idiota si è reso conto che tua moglie è molto più sveglia di molti di loro? Beh, era ora.”

La bionda sollevo leggermente le sopracciglia e il suo tono serio fece sorridere appena Andrew, che però scosse il capo un attimo dopo, tornando improvvisamente serio e con una nota quasi malinconica negli occhi color cioccolato.

“No, sono troppo ottusi per rendersene conto. No tesoro, si è sparsa la voce che tu… beh, che tu lavori.”
“E? Hanno da ridire perché non lavoro nel mondo magico?”

“Ci sono persone che si attaccano a qualunque pur di aver qualcosa da ridire e se fossi un uomo sicuramente sarebbe questo il punto… ma no, Iphe. Qualcuno fa commenti infelici sul fatto che mia moglie lavori e basta, semplicemente.”
Andrew sbuffò di nuovo, bevendo lentamente un altro sorso di vino mentre Iphigenia invece aggrottava la fronte, cominciando già ad immaginare diversi scenari in cui prendeva i colleghi bigotti e retrogradi del marito a insulti verbali e mazzate.

“Siamo nel 1938 e una donna non può avere un impiego? Una vita propria?”
“Beh, molti pensano che una donna che lavora sia una specie di minaccia. Ci sono uomini che non accolgono volentieri il fatto che la propria moglie abbia indipendenza economica.”

“Oh, certo, li spaventa, vuoi dire. Sapere di poter non solo controllarne la vita, ma anche tenerla in pugno economicamente è più facile. Fammi capire, tu dovresti valere meno come uomo e come marito perché permetti a tua moglie di avere una vita e di non essere una specie di angelo del focolare? Perché se qualcuno dovesse insinuare che non sei in grado di prenderti cura di me dimmi pure il nome, così lo trovo e gli spiego per bene come stanno le…”

“Iphe.”
Andrea la interruppe con un sorriso, lasciando il bicchiere sul tavolino da caffè prima di prenderle le mani tra le sue, guardandola con gli occhi castani luccicanti:

“Io sono felice se tu ti senti libera di fare ciò che vuoi. Tu hai le tue idee, i tuoi scopi, i tuoi interessi, li hai sempre avuti ed è anche per questo che ti amo, sei sempre stata diversa da molte altre ragazze. Perciò se vuoi lavorare per me non sarà mai un problema, non voglio che tu diventi succube di una casa e di una famiglia.”
“Voglio solo che tu non ti faccia condizionare da loro, Andrew. Perché so che per te è una questione delicata, ma lo sai tu e lo so io: tu ti prendi perfettamente – e continuerai a farlo – cura di me. Se lavoro è perché voglio farlo, non perché devo, potrei smettere anche domani. Ok?”

Andrew non disse nulla, limitandosi ad annuire mentre ricambiava il suo sguardo e Iphigenia distese le labbra in un sorriso, sfiorandogli uno zigomo con un dito prima di sporgersi e baciarlo dolcemente. 


*


“Allora, quand’è che avrò un nipotino da coccolare?”

Iphigenia aveva sorriso con un velo di imbarazzo alle parole di Iona, mentre ad Andrew invece era andata l’acqua di traverso e, dopo aver tossicchiato, si rivolse alla madre rosso in volto:

“Mamma!”
“Che c’è? Tesoro, siete sposati, il prossimo passo sarà avere un bambino, no?”
“Sì, ma… Ah, lascia perdere.”

“Non fare così, sono sicura che Iphigenia non si scandalizza per una domanda del genere. Presumo che ne abbiate parlato, no?”
Andrew si limitò a sbuffare sonoramente, ancora paonazzo, e afferrò il bicchiere per bere un altro sorso d’acqua mentre Iphigenia sorrideva alla suocera, allungando al contempo una mano per stringere quella del marito sul tavolo:

“Stiamo… affrontando il discorso, Iona.”


Era passato un mese da quella cena in Scozia, a casa della suocera, e quella sera Iphigenia fissava il soffitto del salotto, spaparanzati sul divano mentre aspettava che Andrew tornasse.
Avevano davvero cominciato a parlarne qualche tempo prima di quella conversazione e nonostante riuscisse a vedere benissimo il marito nelle vesti di padre Andrew sembrava più nervoso di lei a riguardo, tanto da aver sempre trattato l’argomento con le pinze.

Era così impegnata nelle due riflessioni che quasi non lo sentì apparire nel camino in un turbinio di fiamme verdi, cogliendo di sfuggita il suo saluto mentre le si avvicinava per darle un bacio.

“Ciao Andrew… puoi sederti, per favore?”
Iphigenia si mise a sedere sul divano mentre Andrew si sfilava il mantello, ma la strega accolse con impassibilità il suo sguardo interrogativo, guardandolo annuire con leggera confusione dipinta sul volto mentre sedeva accanto a lei lentamente, quasi avesse paura di scottarsi.


Qualche minuto dopo l’ex Tassorosso sembrava sull’orlo di una crisi di panico e, gli occhi scuri sgranati e le mani tra i capelli, balbettava sui preparativi, sulla camera da preparare, sulla sua pausa dal lavoro e su mille altre cose che avrebbero affrontato più avanti, non certo quella sera.
Iphigenia invece sorrise con fare rassicurante, mettendogli una mano sul braccio prima di parlare, interrompendo il fiume di parole del marito:

“Andrew? Andrew, respira… Un bambino ci mette nove mesi per nascere, abbiamo tempo. Mia madre dice che la natura ha dato ai genitori il tempo necessario per prepararsi all’arrivo di un minuscolo quanto temibile esserino.”

“Ok, ma… ne sei sicura? Di quante settimane…”
“Quattro, sono andata a fare la visita stamattina.”
“Da sola?!”
“Mi ha accompagnato Jade, volevo essere sicura prima di dirtelo… Andrew, otto mesi, ok? Rilassati, andrà tutto bene. Sarà fantastico, tu sarai fantastico.”

Iphigenia piegò le labbra nel suo sorriso più dolce mentre gli prendeva il viso tra le mani, guardandolo annuire quasi ipnotizzato prima di baciarlo dolcemente, accarezzandogli una guancia:

“Oddio, mia madre avrà un infarto per la felicità, ce la ritroveremo qui ogni giorno per coccolarlo…”
“Tanto meglio allora, tua madre è un’ottima cuoca.”

Finalmente anche Andrew sorrise, spezzando la tensione con una debole risata che fece sorridere Iphigenia, che lo guardò con gli occhi luccicanti: sì, sarebbe stato meraviglioso, non aveva dubbi.


*


Marie rideva come una matta mentre Andrew, sorridendo a sua volta, faceva fare il vola-vola alla bambina nel bel mezzo del salotto.

Iphigenia rivolse un’occhiata di sbieco al marito da sopra il libro di fisica che stava leggendo, aggrottando la fronte con lieve preoccupazione:

“Andrew, fai attenzione, se molto alto e non vorrei che…”
“Tranquilla tesoro, non le farò sbattere la testa sul soffitto… vero piccola? Ti diverti con papà, vero?”

Andrew la riprese in braccio per darle un bacio sulla fronte, una mano sulla sua piccola testa ricoperta di capelli rossi mentre Marie, sorridendo, gli poggiava le manine pallide sul viso e esprimeva tutta la sua contentezza con un susseguirsi di “dada” cantilenati.


“Certo, non ho dubbi su quale sarà il suo genitore preferito…”
Iphigenia roteò gli occhi, ma non riuscì comunque a trattenere un sorriso mentre Marie scalpitava per essere rimessa sul pavimento per poi gattonare allegramente in giro per il salotto sotto lo sguardo vigile del padre.

“Chissà come la prenderà quando arriverà Baby Maguire II…”
“Probabilmente lo scambierà per un giocattolo. E fortunatamente non nascerà per i prossimi sette mesi… per allora Marie camminerà perfettamente.”  Iphigenia si lasciò sfuggire un debole sospiro pensando a quando avrebbe avuto due bambini piccoli a cui badare – e da sola per la maggior parte della giornata, ma alla meno peggio avrebbe reclutato sua madre e sua suocera – e Andrew aggrottò la fronte mentre seguiva gli spostamenti della figlia, seguendola verso la cucina:
“Quindi dovremo starle dietro con ancor più attenzione, visto che non fa altro che andare a zonzo! … No, Marie, ferma, non mordere la gamba del tavolo!”


*


“È un bambino dolcissimo.”

Jade, seduta di fronte a lei al tavolo della cucina, sorrise alle parole dell’amica e annuì mentre si voltava verso il salotto, guardando con affetto Timothy e David giocare insieme sul tappeto.

“Lo è davvero. Sono fortunata, immagino.”
“Beh, se ti adora è anche perché lo tratti come se fosse davvero figlio tuo, immagino che tu sia la matrigna migliore che si potrebbe desiderare.”

Jade annui, gli occhi fissi suoi due bambini, le teste vicine mentre parlottavano a bassa voce. 
Qualunque fossero i loro piani, tuttavia, andarono in frantumi all’arrivo di Marie e Imogen, che sorrisero pericolosamente ai due:

“Volete giocare con noi?”
“No! Tim, andiamo via, vogliono truccarci!”
“Ma è divertente! Vieni Dave.”

Marie prese il fratellino per un braccio, che iniziò a dimenarsi mentre Iphigenia sospirava, alzava gli occhi al cielo e mormorava qualcosa all’amica mentre appoggiava la tazza sul piattino:

“Goditi un solo bambino finché dura… Marie, lascia in pace tuo fratello!”
“Ma mamma…”
“Niente “ma”, giocate per conto vostro signorine.”

“Possiamo fare il bagnetto a Millie?”
“Non è un bambolotto, per l’ultima volta!”


*


“Sei hai bisogno di qualcosa faccelo sapere, ok?”

Andrew, che teneva Mileva stretta tra le braccia, mormorò quelle parole tenendo il mento appoggiato sul capo della figlia minore, che annuì mentre il padre le lasciava un bacio tra i capelli biondi:

“Andrew, non ti preoccupare, ci saranno David e Imogen a controllarla.”  Iphigenia alzò gli occhi al cielo mentre teneva la figlia maggiore sottobraccio, ma Marie si limitò a ridacchiare, asserendo che non vedeva il padre reagire in quel modo da SUO primo viaggio per Hogwarts. 

“Scusa papà, ma tu non dovresti essere al lavoro?”
“Sì è preso il giorno libero, così ora io e vostra sorella dovremo sopportare le sue preoccupazioni e le sue lamentele!”

La donna sbuffò mentre Imogen e David sorrideva appena, immaginando chiaramente quello scenario appena descritto dalla madre mentre Andrew le rivolgeva un’occhiata torva, invitandola silenziosamente a non prenderlo in giro:

“Perché, la nostra piccolina parte e tu non sei preoccupata neanche un po’?”
“Certo, ma non sarà sola, ha i suoi fratelli. E poi Millie è sveglia, non avrà problemi.”

“Sì papà, stai tranquillo!” Millie sorrise al padre prima di alzarsi in punta di piedi, cingergli il collo con le braccia e dargli un ultimo bacio sulla guancia.
Iphigenia, mentre la figlia minore abbracciava anche lei con calore, ripensò al modo in cui da piccola la bambina stesse sempre appiccicata al padre e all’umore nero che aveva colpito il marito quando aveva iniziato ad andare a scuola. Se aveva reagito male al suo primo giorno d’asilo, non voleva neanche immaginare in che stato l’avrebbe visto nei giorni seguenti.

Sospirò, ma si disse che almeno, questa volta, avrebbe avuto la figlia maggiore a darle man forte.




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Capitolo 28
*** A half-dozen unleashed ***


A half-dozen unleashed 


 
Gabriel GreengrassImage and video hosting by TinyPic Elena MacMillanImage and video hosting by TinyPic



Gabriel se ne stava comodamente seduto – anzi, stravaccato sarebbe stato il termine più corretto – sul baldacchino da spiaggia impegnato a leggere un libro, il leggero vento che muoveva le tende di lino bianco attorno a lui. 

Elena era andata a farsi il bagno m lui non l’aveva imitata, temendo che la neo moglie potesse vendicarsi dello scherzo che le aveva fatto il giorno prima, prendendola in braccio mentre dormiva prendendo il sole per poi lanciarla in acqua. 

“Gabri!”

L’ex Serpeverde alzò lo sguardo quando sentì la voce di Elena chiamarlo, sorridendo quando la vide avvicinarsi con il costume intero rosso addosso, i capelli bagnati e un sorriso sulle labbra. 

“Perché non vuoi venire, l’acqua è calda adesso!”
“No, grazie, magari dopo. Non hai nuotato abbastanza, pesciolino?”

Gabriel inarcò un sopracciglio mentre la moglie si stringeva nelle spalle sollevandosi i capelli bagnati per legarli sbrigativamente sulla nuca, il tutto mentre alle sue spalle, sulla spiaggia, due individui passarono davanti a loro rivolgendo due occhiate piuttosto interessate in direzione di Elena. Gabriel sbuffò, p rivolse loro la sua occhiata più torva e lanciò alla Grifondoro un asciugamano, borbottando di asciugarsi per non prendere freddo. 

“Ricevuto mammina. Sai, non ero mai stata in Francia, ma dovremmo tornarci.”
Elena salì sul morbido materassino bianco dopo essersi avvolta nell’asciugamano e raggiunse carponi il marito, dandogli un bacio prima di sedersi accanto a lui e stendere le gambe, intrecciandole con quelle di Gabriel.

“Anche se i francesi sono dei bifolchi snob?”
“Mh, vero, ma se sei ricco ti trattano bene.”
“Allora immagino sia una fortuna che noi lo siamo… anche se non potrò sopportare la vista di altre lumache Elly, ti avviso.”

Elena rise debolmente prima di circondarlo con le braccia e dargli un bacio sulla guancia, asserendo che era d’accordo con lui mentre Gabriel le faceva scivolare un braccio intorno alla vita e si voltava verso di lei, parlando con un sopracciglio inarcato:

“Sai che ti sta proprio bene questo costume, Signora Greengrass? Anche se non mi fa impazzire che tutta la spiaggia ti veda mezza nuda.”

“Mi hai detto tu di comprarlo, ti ricordo! E poi è la spiaggia dell’Hotel.”
“Conta comunque! Ma non fraintendermi, quando saremo solo noi due a casa o nella suite sarò ben felice di vedertelo addosso.”

Gabriel sorrise prima di baciarla, ignorandola quando Elena borbottò che doveva smetterla di fare l’idiota.


*


“Dannazione, siamo in ritardo!”
“Elly, rilassati…”
“Non dirmi di rilassarmi, e la colpa è solo tua!”

“Mia?!” Gabriel sfoggiò l’espressione più stupita e innocente che gli riuscì, ricevendo solo uno sguardo torvo da parte della moglie, che camminava sul viale di ghiaia per raggiungere l’ingresso della casa dei genitori del marito con la falcata più rapida che quelle scarpe e la gonna lunga del vestito che indossava le permettevano mentre si aggiustava distrattamente i capelli. 


“Sì caro, tua, che figura, in ritardo al compleanno di tua madre…”
“Non vedo come possa essere colpa mia, semmai la colpa è tua!”

“Come può essere mia, la colpa, se tu mi salti addosso ogni volta in cui finisco di prepararmi per uscire?!”
Elena gli rivolse un’occhiata stralunata, come se stentasse a credere alle sue orecchie mentre Gabriel, che le tenne la porta aperta per farla entrare, si stringeva nelle spalle, serafico:
“Beh, se tu non fossi così maledettamente attraente non accadrebbe. E non fingere che ti dispiaccia.”

“Resta il fatto che la colpa è tua, ora zitto e entriamo. … Gabriel, mi hai appena toccato il sedere per caso?!”
“Che noia Elena, sei mia moglie, devo chiedere il permesso?”

“Chiudi la bocca e tieni le mani a posto mentre siamo a casa dei tuoi genitori, capito?”


*


“Ok, se è un maschio lo chiamiamo Gale… E se è una femmina?”

Elena, che sedeva sul divano con la schiena appoggiata al petto di Gabriel, tra le sue gambe, abbozzò un sorriso alla domanda del marito mentre si sfiorava il pancione con le dita: 

“Mi piace Eleanor, lo sai.”
“Beh, Eleanor Greengrass suona bene dopotutto. Direi che può andare, Elly.”  Gabriel sorrise e le diede un bacio su una guancia, le sue mani poggiate sul pancione della moglie che annuì, voltandosi leggermente verso di lui e sorridendogli a sua volta:

“Suona molto bene. Comunque sia, non vedo l’ora che nasca.”
“Anche io. E anche zia Kat, a giudicare da tutto quello che ha già comprato per lui o lei… Nostro figlio nascerà con più giochi e vestitini di qualunque altro bambino nel suo primo giorno di vita.”


Elena rise ma annuì, pensando alla cameretta al piano di sopra già stipata di cose per il bambino in arrivo.

“Puoi ben dirlo, il bambino è in lizza per avere più vestiti della sottoscritta.”
“Ora non esagerare tesoro, questo è impossibile.”


*


“Elena, lasciami immediatamente!”
“No!”
“Per l’amor del cielo, sei incinta, non puoi fare così!”

Gabriel sospirò, esasperato mentre teneva una mano sul muro e l’altra stretta sullo spigolo del mobile, cercando di avanzare senza barcollare nonostante avesse Elena ancorata alla sua schiena che gli circondava il collo con le braccia e la vita con le gambe.

“E tu non puoi andare al lavoro, ti dico!”
“Devo Elena, non dire assurdità!”
“Ma è venerdì 13, e ieri Baby Elly ha rotto uno specchio, porta sfortuna!”


Gabriel alzò gli occhi al cielo, e stava per ordinare alla moglie di lasciarlo andare quando sua figlia comparve sulla soglia della sua camera in pigiama e tenendo un Elfo per mano.

“State facendo un gioco?” Domandò allegra la bambina con un gran sorriso, mentre entrambi i genitori si voltavano verso di lei. Per un attimo nessuno dei due disse nulla, poi Elena sorrise e annuì:

“Sì amore, sto giocando a non far andare al lavoro papà oggi.”
“Acche io!”

Eleanor sorrise e trotterellò verso il padre, afferrandogli una gamba mentre Gabriel sospirava, mettendosi una mano sul viso: 

“Va bene, basta, mi arrendo, oggi mi dò malato.”
“Sì! Sentito amore, abbiamo vinto noi. Merlino che faticaccia, vado a stendermi…”

Elena lasciò andare il marito sfoggiando una piccola smorfia, massaggiandosi la base della schiena mentre Gabriel, prendendo in braccio la piccola, la fulminava con lo sguardo:

“Sarà meglio. Sei proprio assurda, Elena. Vieni tesoro, andiamo a fare colazione.”


*


Elena si fermò sulla soglia della stanza, appoggiandosi allo stipite della porta mentre guardava le figlie sedute sul tappeto e impegnate a giocare, ma non da sole: c’era suo padre accanto a loro, seduto sul tappeto e con un largo sorriso ad illuminargli il volto.

Forse Henry si sentì osservato perché sollevò lo sguardo su di lei, esitando prima di sorriderle debolmente. Elena ricambiò appena, prima che Eleanor si accorgesse della sua presenza e invitasse la madre a giocare insieme a loro.

La donna annuì e li raggiunse, ma sedette sul divano e non sul pavimento visto che, com’era solita ripetere da qualche tempo, a quello stadio della gravidanza ci sarebbe voluta una carriola per tirarla su dal pavimento.

“Mamy, perché non viene anche anche la nonna a giocare con noi?”
Eloise alzò lo sguardo sulla madre mentre spazzolava i capelli della sua bambola, e gli occhi di Elena saettarono sul volto del padre, che la guardò a sua volta, prima di schiarirsi la voce:

“La nonna viene a trovarci dopodomani, tesoro.”
“Sì, ma perché non viene con il nonno?”

Henry spostò lo sguardo sulla nipotina più piccola e indugiò, abbozzando un sorriso carico d’emozione mentre Elena realizzava che era la prima volta in cui qualcuno lo chiamava in quel modo.

“Beh, perché… magari un giorno staremo tutti insieme, ma adesso non si può, ok?”

Eloise non sembrò molto convinta, ma poi tornò a concentrarsi sul vestitino che stava cercando di mettere alla sua bambola e Henry si alzò per raggiungere la figlia, sedendo accanto a lei:

“Lo sa? Emily lo sa?”
“Sa cosa?”
“Che vengo a trovarle, ogni tanto.”

“Sì, glie l’ho detto un paio di settimane fa.” Elena annuì, parlando a mezza voce e senza staccare gli occhi dalle figlie mentre Henry, accanto a lei, si tormentava nervosamente le mani:
“E che cosa ha detto?”

“Che è giusto così e che ne è felice. Ma non so se vuole vederti, ne dovrò parlare con lei.”
“Naturalmente. Ma grazie per avermi… permesso di vederle.”

“Sei parte della loro famiglia, non mi sembrava giusto privare i miei figli di uno dei loro nonni.”
Elena si strinse nelle spalle continuando a guardare le figlie anziché il padre, che annuì e allungò lentamente una mano per posarla sulla sua senza aggiungere altro.

La strega esitò e abbassò lo sguardo sulla propria mano poggiata sulla gamba, ma non si mosse e non la allontanò da quella del padre prima di tornare a concentrarsi sulle bambine.


*


“Ciao piccolo Gale… Finalmente non sono più l’unico uomo della famiglia, ho giocato già fin troppe volte alla sala da thè per i miei gusti. Con le sorelle che ti ritrovi avrai pane per i tuoi denti, sai?”

Gabriel sorrise al bambino dai capelli rossicci che teneva tra le braccia, accarezzandogli il visino mentre camminava avanti e indietro nella stanza.

“Se hai finito di sequestrare il mio bambino, vorrei tenerlo un po’ dopo tutta la fatica che ho fatto!”

Elena, seduta sul letto sotto le coperte e appoggiata ai cuscini, sbuffò in direzione del marito, che si voltò e le rivolse un’occhiata torva:
“Non essere egoista Elly, tocca a me!”
“Tocca a te da un’ora se la metti cosi!”

Gabriel però la ignorò, continuando a camminare con la vestaglia che svolazzava ad ogni suo passo mentre Gale sonnecchiava placidamente.

Elena gli rivolse un’occhiataccia, rammaricandosi di non potersi alzare visto che aveva partorito solo quella mattina, mentre Godric, il suo gatto, entrava furtivamente nella stanza prima di saltare sul letto matrimoniale e raggiungere la padrona, strusciandolesi contro facendo le fusa.

“Ciao piccolino, per fortuna che ci sei tu, quel bruto si tiene Gale tutto per sè. Gabri, fammelo tenere in braccio o stanotte con me in questo letto ci dormirà Godric!”


*


“Allora, abbiamo indetto questa riunione familiare per discutere di una cosa molto importante…”

Gabriel seduto a capotavola, si schiarì la voce mentre gli occhi di tutta la famiglia erano puntati su di sè, prima che Gale annuisse e parlasse con tono concitato:

“Sì, noi vogliamo un cucciolo!”
Graham, seduto accanto al fratello maggiore, annuì vigorosamente e Elena alzò gli occhi al cielo, borbottando che lei avrebbe preferito prendere un altro gatto invece che un cane.

“E promettete di occuparvene e prendervene cura, in tal caso? Un cane non sarebbe come Godric, bambini, necessita di molte attenzioni.”
“Ma non è giusto, io l’anno prossimo andrò ad Hogwarts, me ne dovrò separare subito, perché non l’abbiamo preso prima?!”

Eleanor incrociò le braccia al petto e sfoggiò un’espressione profondamente contrariata, ma Elena non si scompose e parlò senza battere ciglio:

“Perché Graham ha appena compiuto quattro anni e non avevo nessuna intenzione di avere un cane a cui pensare con quattro figli piccoli!”

“Io non sono piccolo!” Graham si imbronciò e Gale accanto a lui annuì, mentre Elena si limitò ad alzare gli occhi al cielo per non ribattere.
“Nemmeno io, ho sei anni!”


“Allora se non siete piccoli potrete occuparvi di un cane, tutti e quattro. Perciò… lo prendiamo maschio o femmina?”

“Femmina!”
“Maschio!”

“Cielo, non si metteranno mai d’accordo…”
“Possiamo prenderne due Mamy!”

Eloise sfoggiò un sorriso allegro che la madre non ricambiò, sfoggiando invece un’espressione stizzita prima di parlare:

“Quando sarò morta.”


*


“QUALCUNO FERMI QUEL CANE! SAL! Vieni qui immediatamente! Maledetto il giorno in cui ho acconsentito a prenderlo…”

Elena imprecò a mezza voce mentre scendeva le scale di corsa e figli ed Elfi si prodigavano per riacciuffare il cucciolo che prima le aveva rubato una scarpa e poi si era dato bellamente alla fuga.

“Signora Elena, Rod lo ha fermato.” 

Uno degli Elfi la raggiunse e Elena gli sorrise con sincera gratitudine, infinitamente sollevata:

“Oh, grazie Rod. VOI QUATTRO! Quante volte vi ho detto che non dovete farlo salire di sopra?”

Elena si voltò verso i figli con le mani sui fianchi, rivolgendo loro un’occhiata torva mentre Eleanor, Eloise, Gale e Graham si facevano piccoli piccoli e biascicavano delle scuse incolpandosi l’un l’altro. Il tutto mentre Sal guaiva, immobilizzato dalla magia dell’Elfo Domestico mentre cercava di raggiungere la cucina.

“Potete andare, a lui ci penso io adesso.”

Elena sospirò e si avvicinò al cane, prendendolo saldamente per il collare con una mano prima di prendere la sua scarpa e consegnarla a Rod, chiedendogli di metterla al suo posto. Dopodiché la donna agitò la bacchetta liberando il cucciolo dall’incantesimo, trascinandolo di peso verso la porta d’ingresso ignorando le preghiere dei quattro bambini:

“Brutto cagnaccio, adesso te ne stai in giardino per un po’, capito? E non fare gli occhi tristi!”

Elena aprì la porta e trascinò il cucciolo oltre l’uscio prima di chiuderla di scatto, ignorando i suoi lamenti. La donna sospirò e fece per voltarsi e andarsene, ma si bloccò come pietrificata e si lanciò un’occhiata titubante alle spalle, scorgendo il Bovaro del Bernese seduto davanti alla porta, sul grande portico bianco della villa, con gli occhi scuri imploranti fissi su di lei. 


“… Ti ho detto niente occhi tristi, combina guai che non sei altro! Bah, tanto non attacca. Ragazzi, non osate aprirgli!”

Elena si allontanò a passo di marcia, decisa a bersi una tazza di thè in santa pace mentre i figli annuivano a capo chino, non osando contraddirla o disobbedire.

Pochi minuti dopo, tuttavia, la porta d’ingresso venne aperta lo stesso ed Elena sospirò quando vide Sal ancora fermo nella stessa posizione, anche se il cucciolo drizzò le orecchie e si alzò quando la vide sulla soglia.

“… Va bene, vieni dentro, brutto ruffiano. E no, non farmi le feste Salazar, non mi piaci neanche un po’, sai? Salazar, un nome una garanzia…”

Elena si allontanò sbuffando e il cucciolo la seguì scodinzolando, cercando di attirare la sua attenzione.

Fu così che Elena poco dopo riuscì finalmente a bere il suo thè, con Sal accoccolato accanto a lei sul divano e la testa poggiata sulle sue ginocchia.


*


“Non posso credere che il mio bambino stia per andare ad Hogwarts, ora chi mi farà compagnia in quella casa enorme?!”

Elena sospirò con aria affranta mentre stringeva Graham tra le braccia, che le assicurò che le avrebbe scritto molto spesso mentre i fratelli maggiori erano già saliti sul treno e guardavano la famiglia sporgendosi dal finestrino aperto. 

Gabriel, in piedi accanto a lei, teneva Sal al guinzaglio e seguiva la scena con un sorriso, abbracciando a sua volta il figlio minore quando Elena lo lasciò andare:

“Non far preoccupare la mamma ometto, altrimenti verrà ad Hogwarts di persona per assicurarsi che tu stia bene… Ora va’, ti voglio bene.”

Gabriel arruffò i capelli rossi del figlio con un sorriso, che Graham ricambiò prima di annuire e salire sul treno per raggiungere i fratelli, salutando un’ultima volta i genitori.
Elena sospirò tristemente mentre il marito le metteva un braccio sulle spalle, salutando i figli un’ultima volta e raccomando loro di fare i bravi prima che Gabriel le suggerisse che era ora di andare. 

“Ok, andiamo. Cielo, tutti i figli a scuola, quando siamo diventati vecchi?!”
“Tesoro, non siamo vecchi…”
“Ho compiuto 40 anni in Primavera, sono vecchia eccome! Per fortuna che ci sei tu a tenermi impegnata, vero cucciolone?”

Elena sorrise teneramente a Sal, carezzandogli la testa affettuosamente prima di voltarsi verso il marito, sfoggiando un’espressione implorante:

“Gabri?”
“Mh?”
“Possiamo prenderne un altro?”
“Ma certo amore… direi una femmina questa volta, la chiamiamo Tosca o Priscilla? Così avremmo il club dei fondatori al completo…”

Gabriel sorrise e lasciò un bacio sulla testa della moglie continuando a tenerle un braccio intorno alle spalle, guardandola annuire con aria soddisfatta mentre si dirigevano insieme verso la colonna magica:

“Mi sembra perfetto.”
“Sì, proprio come noi.”








……………………………………………………………………………………
Angolo Autrice: 

Ed eccomi anche con questa mezza dozzina scatenata… anzi, se contiamo i fedeli animali da compagnia fanno 8.
A tal proposito, questo è il famoso Godric:
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… e lui è Salazar:
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A presto!
Signorina Granger 

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Capitolo 29
*** Accept yourself ***


Accept yourself


 
Wyatt Leon HillImage and video hosting by TinyPic



“Non so se essere profondamente invidioso o felice per te…”
“Forse sei solo triste perché ti mancherò terribilmente!”

Linda, in piedi davanti a lui e le mani strette nelle sue, sfoggiò un sorriso allegro che il ragazzo non ricambiò, limitandosi ad annuire con aria malinconica:

“Beh, anche. Sono felice che tu abbia la possibilità di andare ad Hogwarts, Linda, spero solo che non avrai problemi…”
“Hanno detto che non sarà un grosso problema, pare che non sia nemmeno l’unica Lupa Mannara! E poi adesso ci sono molti metodi per alleviare i sintomi, lo sai anche tu. Starò bene.”

Linda sorrise dolcemente al fratello maggiore come a volerlo tranquillizzare, ma Wyatt scosse il capo, poco convinto: 
“Lo so che starai bene, ma non voglio che qualcuno se la prenda con te per quello che sei per colpa di nostro padre!”

“Non accadrà, scommetto che molti avranno i propri scheletri nell’armadio. E se anche fosse, chiamerò il mio fratellone, che li concerà per le feste.”
“Brava. Ti voglio bene.”  Wyatt attirò a sè la sorellina, che sorrise e ricambiò la stretta prima di lasciare il fratello con un ultimo sorriso allegro:

“Sorridi Wyatt, se fai così mi fai quasi passare la voglia di andarci! Mi mancherai anche tu.”
“Scusami, è solo un po’ difficile. Non abbiamo mai passato tanto tempo senza vederci… Ma sono molto felice per te, davvero.”

“Beh, due anni ad Hogwarts sono meglio di niente, dopotutto! Ci vediamo a Natale, comportati bene in mia assenza.”

Linda mandò un bacio al fratello prima di salire allegramente sul treno, sporgendosi dal primo finestrino disponibile per salutarlo anche da lì. Wyatt ricambiò, sforzandosi di sorriderle: certo, erano solo due anni, ma era certo che sarebbero stati comunque molto lunghi.

 
*


A differenza di molti tra i suoi ex compagni di scuola, Wyatt aveva preferito “allontanarsi”, almeno nell’ambito lavorativo, dal suo mondo per inseritisi di più in quello Babbano. 
Era quasi piacevole, sotto un certo punto di vista, non essere totalmente immerso nella magia dopo anni a praticarla per fare cose orribili o a subirla negativamente. Inoltre, a volte lo faceva sentire molto più vicino a sua madre.

Linda non sembrava avere le sue stesse intenzioni e da qualche tempo sosteneva entusiasticamente di voler diventare un Auror, ovviamente appoggiata in tutto e per tutto dall’affezionato fratello maggiore, che anche se stavano intraprendendo strade diverse era sicuro che non avrebbero mai smesso di supportarsi a vicenda.

Per quattro anni lo avevano addestrato e fatto duellare e lottare fino allo strenuo sfruttando la sua forza, la sua velocità e i suoi ottimi riflessi, tanto da indurlo a sviluppare una specie di disgusto verso ogni tipo di violenza fisica. Per sfogare tutta quella rabbia repressa e quella forza senza nuocere a nessuno, il ragazzo aveva deciso di buttarsi in delle pratiche simili ma allo stesso tempo molto diverse da ciò che aveva praticato al Covenant: le arti marziali. 

Grazie alla sua considerevole predisposizione naturale e alla sua preparazione non ci era voluto molto perché eccellesse praticamente in tutto, e per la prima volta dopo diverso tempo Wyatt aveva ricominciato a provare un po’ più di benessere, prima di tutto verso se stesso. 


*


Voldemort era morto da circa un anno quando Wyatt e Linda seppero che Robert era stato ucciso proprio da degli Auror durante un’operazione in cui avevano cercato di catturare gli ultimi Lupi Mannari rimasti in libertà che per anni avevano agito al servizio del Signore Oscuro.

Fu Hunter a dirglielo, anche se il ragazzo non aveva preso direttamente parte alla missione, e Wyatt ne rimase turbato, sì, ma provò anche un considerevole sollievo: non lo aveva più visto dal crollo del regime, da quando il padre si era dato alla latitanza, e aveva nutrito spesso il timore di trovarselo davanti, o peggio di sapere che l’uomo aveva raggiunto Linda. 
Non tanto perché avesse paura ad affrontarlo, ma perché non era certo che sarebbe riuscito a controllarsi avendocelo di fronte. 

Wyatt informò la sorella attraverso una lettera e quando si rividero grazie alle vacanze di Natale affrontarono insieme il discorso. 
Linda gli sembrò piuttosto calma, sostenendo che infondo il padre che avevano conosciuto da bambini era morto insieme alla madre molto anni prima e che a loro aveva portato solo guai una volta cresciuti. 

“Anche se è morto, non so se potrò mai perdonarlo.”
“Lo so. Nemmeno io.” 

Wyatt l’abbracciò, appoggiando la testa sulla sua spalla mentre le sfiorava i lunghi capelli scuri con le dita. La sua morte era una vera liberazione per entrambi, specie per Linda che era stata morsa relativamente da poco rispetto a lui, che invece ci conviveva da ormai sei anni, e che forse doveva ancora accettarlo del tutto.


*


Wyatt aveva iniziato a lavorare come istruttore di arti marziali nella stessa palestra dove si era allenato per un paio d’anni quando conobbe Deborah, che fino a quel momento aveva spesso visto di sfuggita all’interno della struttura. Si era sempre detto che probabilmente frequentava qualche corso come lui, ma dovette ricredersi quando un pomeriggio la incontrò davanti agli spogliatoi degli istruttori e la ragazza gli si presentò porgendogli la mano e con un largo sorriso ad illuminarle il volto pallido e gli occhi azzurri: 

“Wyatt, vero? Sono Deborah, piacere di conoscerti. Ti ho visto spesso qui in giro, devi essere molto bravo per aver fatto tanta strada in un paio d’anni, complimenti!”
“Beh, diciamo che ho avuto qualche... precedente. Ma sei piuttosto giovane anche tu, non pensavo fossi un’istruttrice… che cosa fai?”

“Oh, io faccio zumba, ma ho iniziato molto presto con la danza e il fitness. Adesso ho lezione, ma ci vediamo qui in giro. Ciao!”

Deborah gli sorrise prima di allontanarsi, il borsone issato su una spalla, e Wyatt le rivolse un cenno prima di seguirla brevemente con lo sguardo e, infine, entrare nel suo spogliatoio sbuffando debolmente e scuotendo il capo: Raphael lo rimproverava perché non usciva con nessuna, ma Wyatt si definiva sicuro già da tempo che nessuna ragazza sana di mente avrebbe mai potuto accettare di convivere con il suo “problema”. Figuriamoci un’inconsapevole Babbana. 


*


“Avanti, faccela vedere!”
“Sì, siamo curiosi, non sappiamo niente di lei!”

“Smettetela di fare le comari, vi ripeto che tra me e Deborah non c’è niente. Rafe, ridammi il telefono!”
 
Wyatt sbuffò e cercò di riprendersi il cellulare, ma Raphael si allontanò sogghignando e, una volta trovato il contatto giusto, ingrandì la foto profilo.

“Ma allora è questa la famosa Debbie! Però, niente male.”
“Fa’ vedere. Caspita, è davvero molto carina… e a giudicare da tutte le faccine e il fatto che ti risponde sempre subito è evidente che tu le piaccia, Wyatt. Probabilmente adesso si sta chiedendo perché non le chiedi di uscire, poverina.” 

Larisse scosse il capo con disapprovazione, mentre Raphael ridacchiava e Wyatt si riappropriava del telefono sbuffando e rosso in volto, borbottando che non erano affari loro.

“No, non lo sono, ma ti vogliamo bene e vogliamo saperti felice! Non ti devi precludere un bel futuro roseo solo perché sei un Lupo Mannaro. Prendi me, Raphael non è la persona più semplice del mondo, ma sono ben felice di stare con lui… Rafe, non osare usare questo contro di me in futuro, chiaro?!”

Larisse fulminò il fidanzato con lo sguardo, che invece sorrise soddisfatto mentre Wyatt, invece, scosse il capo con aria cupa:

“Concordo sul fatto che Rafe sia fatto alla sua maniera, ma non è la stessa cosa… in più Debbie non è nemmeno una strega, non potrebbe mai capire e non potrei incolparla per questo, anzi.”
“Allora che cosa farai, la terrai a distanza e basta? Dovresti almeno provarci, secondo me, non puoi fasciarti la testa prima di averla rotta e precluderti delle possibilità.”


“Larisse, quando sei diventata così saggia?”
“Sempre stata, tesoro. Te ne accorgi soltanto ora?” 


*


“Lo sai, ero rassegnata all’idea che non mi avresti mai chiesto di uscire con te.”
“Felice di averti stupita, allora.”  Wyatt abbozzò un sorriso mentre camminava fianco a fianco alla ragazza sul marciapiede della strada ormai buia mentre la accompagnava a casa.

“Beh, penso che entro qualche tempo avrei finito col farlo io, vorrei davvero conoscerti meglio Wyatt, mi incuriosisci molto. E non solo perché sei indubbiamente un bellissimo ragazzo, non lo so, sei… sfuggente. È come se ci fosse un qualche aspetto di te che non vuoi far conoscere al mondo.”

“Esagerata.”
“Chissà, lo vedremo. Nel frattempo… grazie per la serata.” Deborah sorrise prima di mettergli una mano sulla spalla, alzarsi in punto di piedi e dargli un bacio su una guancia prima di girare sui tacchi e allontanarsi, stringendosi nella giacca mentre raggiungeva il suo palazzo. 
Wyatt rimase immobile ad osservarla per qualche istante, prima di passarci una mano tra i capelli scuri: la serata era andata molto bene, ma non sapeva se fosse positivo o negativo.
Aveva quasi sperato che Deborah si rivelasse orribile per perdere ogni interesse nei suoi confronti, ma ovviamente quella sorridente ragazza si era dimostrata in linea con la prima impressione che aveva ne avuto quando l’aveva conosciuta: spigliata, gentile, divertente e sveglia. In poche parole, un enorme problema.


*
 

Aveva finito col dare ascolto ai suoi amici e non aveva smesso di vedere Deborah, arrivando persino a presentarla ad una Linda alquanto entusiasta, che decretò di adorarla dieci minuti dopo averla conosciuta. Anche Linda insistette per presentarlo ai suoi genitori, e dopo circa sei mesi da quando stavano insieme Wyatt decise che era arrivato il momento di dirle la verità: chissà, forse sarebbe scappata di corsa, ma almeno avrebbe potuto serbare un bellissimo ricordo di lei e di quelle settimane passate insieme.

Il ragazzo era seduto sul divano nel salotto dell’appartamento dove viveva con Linda quando Deborah lo raggiunse dalla cucina, fermandosi alle sue spalle con un sorriso per chinarsi, prendergli il viso tra le mani e stampargli un bacio sulle labbra.

“Allora, di cosa volevi parlarmi? Mi devo preoccupare? Dicono che non sia mai un buon segno in una relazione.”
Deborah gli sorrise, sfiorandogli il volto con le dita, ma di fronte alla sua espressione tesa si fece improvvisamente seria, sedendo accanto a lui e guardandolo con apprensione crescente:

“Wyatt? Sul serio, che cosa c’è? Qualcosa non va?”
“Ti devo… dire delle cose, e non sarà facile, ma non è colpa tua. Ricordi quando uscimmo per la prima volta e mi dissi che avevi l’impressione che io nascondessi qualcosa? Beh, era vero. E mi dispiace non avertene parlato prima, avevo paura di perderti ancor prima di scoprire quanto sei fantastica.”

“Sapevo che eri troppo perfetto… ti prego dimmi che non hai una moglie segreta nascosta in cantina!”
“Temo proprio di no. Di una moglie segreta te ne puoi liberare, del mio problema no. Ti prego, non… dare in escandescenza.”
 

*


A più di due anni dall’inizio della loro relazione, Wyatt stentava a credere che Linda avesse accettato il suo essere un mago e anche un Lupo Mannaro – dopo averle assicurato che non avrebbe corso alcun pericolo grazie ai moderni rimedi per le persone afflitte dalla sua maledizione –. 
A più di due anni dall’inizio della loro relazione, Wyatt decise di azzardare un altro passo nel vuoto e una sera, nel bel mezzo di una cena nel lussuoso ristorante dove l’aveva portata, si inginocchiò e le chiese di sposarlo. 

Non era del tutto sicuro della risposta e le assicuro che non doveva accettare o rifiutare subito, era perfettamente consapevole che si trattasse di una decisione importante, ma Deborah reagì sorridendo e abbracciandolo di slancio, facendo quasi cadere rovinosamente entrambi sul pavimento lucido del ristorante mentre i clienti intorno a loro applaudivano.

“È un sì?” Wyatt sorrise alla ragazza, allontanandole i capelli dal viso per poterla guardare annuire, gli occhi azzurri luccicanti:

“Assolutamente.”

Dopodiché Debbie lo baciò, sentendolo sorridere sulle sue labbra mentre la stringeva prima di infilarle l’anello al dito con la mano quasi tremante dall’emozione.


*


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Wyatt uscì in veranda tenendo la secondogenita in braccio, guardando Jane sorridergli allegra e gli occhi azzurri, ereditati dalla madre, luccicanti.
Il mago sedette sul divanetto di vimini continuando a cullare la bambina, sfiorandole il fiocco azzurro che Debbie le aveva fatto sulla testa con un nastro. Le depositò un bacio sulla fronte e la bambina, per tutta risposta, allungò le manine per toccargli il viso, sfoggiando un sorriso sdentato che gli sciolse il cuore. 

Era stato quasi restio ad avere figli, ma quando Brenda – e in seguito neanche Jane – non aveva mostrato alcun “sintomo” Wyatt si era rasserenato parecchio.
Il mago alzò lo sguardo sull’enorme prato che circondava la casa, immersa nella campagna, e sorrise nel scorgere la figlia maggiore impegnata a saltare la corda con aria concentrata. O almeno finché non lo vide a sua volta e gli sorrise, sollevando una mano per salutarlo, i ricci scuri legati sulla nuca e gli occhi che aveva ereditato da lui ridenti. 

“Ciao papà!”
“Ciao amore… La mamma sta preparando il pranzo, tra poco si mangia.”
“Ok, ma prima devo arrivare a cinquanta salti!”

Dopodiché la bambina, riacquistata l’espressione concentrata, riprese a saltare ad un ritmo serrato e costante che lo fece sorridere, non potendo fare a meno di notare quanto caparbia fosse.

Tutta sua madre, anche se fisicamente forse somigliava più a lui, si disse mentre abbassava nuovamente lo sguardo su Jane, che si era issata sulla sua spalla e ora si guardava intorno con curiosità.
Ne approfittò per darle un altro bacio, questa volta sulla guancia paffuta, e Jane sorrise di nuovo, toccandogli il naso e una guancia con le mani pallide, in contrasto con la sua pelle più olivastra.

Wyatt guardò la figlia minore e sorrise, chiedendosi se fosse una strega o una Babbana. Se fosse stata una strega sarebbe stata una Mezzosangue, proprio come lui, con madre Babbana e padre Mago. 
La differenza era che lui era e sarebbe sempre stato distante anni luce dal suo, di padre.

Oramai, dopo tutti quegli anni, Robert non era altro che un ricordo. 
A volte doloroso, certo, ma solo un ricordo.






…………………………………………………………………………
Angolo Autrice: 

Buonasera! 
Oggi, esattamente un anno fa, pubblicavo la prima OS di questa Raccolta e ormai avete capito quanto io tenga agli anniversari, quindi ho voluto renderci omaggio con questo breve testo sul nostro Lupo Mannaro più adorabile.

Ne approfitto anche per ringraziare le persone che un anno fa hanno iniziato a seguire la Raccolta e che continuano a farlo tuttora, leggendo e commentando le OS sui vari personaggi. 
Grazie ragazze, vi adoro <3 

A presto, qui e altrove!
Signorina Granger 

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Capitolo 30
*** What you don’t expect ***


What you don’t expect


 
Erzsébet Bathkein-HorvàthImage and video hosting by TinyPic


Voldemort era morto ormai da un paio di mesi e le sorelle Bathkein-Horvàth avevano deciso di approfittare di un pomeriggio libero – dopo intere settimane molto intense – per fare visita al padre, che era stato visibilmente felice di vederle insieme. 

Erzsébet sedeva su una sedia davanti al tavolo della cucina, sorseggiando una tazza di thè mentre Carmilla parlava con Viktor, raccontagli a grandi linee come avessero trascorso le settimane passate e di come adesso le acque si fossero a quel punto abbastanza calmate. 

“Quindi adesso che cosa farete? Dovrete continuare a svolgere quella specie di orrendo lavoro, o simili?”
“Ci è stata data possibilità di scelta, a tutti. Anche se non poche Sentinelle avevano finito coll’appoggiare totalmente il regime, ma sono state rinchiuse. Io penso che diventerò un Auror, ho già la preparazione necessaria dopotutto… gli Auror sono una sorta di forza dell’ordine magica papà, li hanno aboliti quando Voldemort ha preso il potere.”
“È un lavoro simile a quello che facevate?”

“Per certi versi, ma ora non andrò in giro ad uccidere la gente, tutt’altro. Non ti devi preoccupare.”
Carmilla sorrise al padre e allungò una mano per sfiorargli il braccio prima che Viktor, annuendo debolmente, si rivolgesse all’altra figlia:

“Erza?”
“Io penso che lascerò, ho già fatto il mio dovere… no, penso che mi dedicherò a ciò che realmente avrei voluto fare.”
“Sta pensando di lavorare in un laboratorio come Pozionista.”
“Beh, per lo meno non dovrò preoccuparmi per due figlie, ma solo per una…”

“Anche Carma è felice papà, ora potrò fornirle un mucchio di pozioni per la cura dei capelli e del corpo, avrò tutti gli strumenti per prepararne in abbondanza…”

Carmilla non sembrò toccata dal tono ironico che la gemella utilizzo, stringendosi nelle spalle prima di parlare con tono neutro:
“A che serve avere una sorella se non puoi sfruttarla in qualche modo?”
“La solita opportunista vanesia…”
Il borbottio di Erza – che parlò prima di nascondersi dietro alla sua tazza – non passò inosservato a Viktor, che parlo alzando gli occhi al cielo:

“Ragazze, non cominciate! Devo mettervi in castigo come da bambine?!”

“Scusa papà…”


*


“Oggi è arrivato un nuovo tipo.”
“Chi?” 
“Un finlandese. O meglio, credo che sia mezzo inglese, ma è cresciuto in Finlandia. Gli hanno dato il laboratorio di fronte al mio.”
“Ah sì? Ed è carino?” 

“Carma, non te lo sto dicendo per questo!”
“Scusa tanto, io che ne so?! Allora, dimmi, ha qualcosa che non va?”

“Non saprei, ma non sembra un tipo molto socievole… a primo impatto credo sia uno che sta sulle sue, hai presente?”
“Beh, non è necessariamente un difetto, conoscendoti dubito che avresti retto solo una settimana con un collega impiccione, ficcanaso e fin troppo esuberante…”
“Merlino no, ma mi ha dato l’idea di essere un po’… altezzoso, ecco. E io non sopporto gli arroganti.”

“Lo so bene, ma cerca di non ucciderlo troppo in fretta, intesi? Non ti vorrei dover arrestare, sorellina.”


*


Erzsébet stava chiudendo il laboratorio quando si sentì chiamare e, voltandosi, scorse la sorella raggiungerla.
 
“Carma, che ci fai qui? Mi onori con la tua presenza al lavoro, il mio cuore non potrà reggere… ma come ti sei conciata?!”
“Sono in missione, dovevo mettere qualcosa di appropriato!”
“E l’impermeabile, gli occhiali da sole e il foulard sulla testa alla Grace Kelly erano nel libretto delle istruzioni?”

Carmilla non battè ciglio di fronte al tono sarcastico della sorella, che la guardò mettendosi le mani sui fianchi e aggrottando la fronte. L’Auror si aggiustò invece gli occhiali scuri prima di parlare senza scomporsi minimamente, rilassata: 

“No, ma mi piace fare le cose come si deve…”
“Ti piaceva l’idea di vestirti così, semmai…”
“Smettila di fare la puntigliosa, sono venuta per vedere il finlandese con i miei occhi! Sono sicura che tu e il pessimo sesto senso che ti contraddistingue, pari a quello di un uomo, vi sbagliate e avete mal interpretato qualcosa.”

“Oh per l’amor del cielo…”

Erzsébet sospirò, chiedendosi perché avesse parlato alla gemella di Aslak Koski mentre Carmilla si abbassava leggermente gli occhiali sul setto nasale, guardandosi intorno con aria guardinga. 
 
“Quella è la sua porta? È già andato via?”
“No, credo che sia ancora qui, quella che dovrebbe andarsene sei tu!”

Erzsébet prese la gemella per un braccio con tutta l’intenzione di trascinarla fuori da lì prima che fosse troppo tardi, ma all’improvviso la porta di fronte alla sua si aprì e un uomo piuttosto alto, dai corti capelli biondi e gli occhi chiari fece la sua comparsa, indugiando inevitabilmente con lo sguardo sulle due con una certa dose di curiosità.

Nonostante la Pozionista fosse molto più esile e portasse i capelli ben più corti la somiglianza tra lei e la sorella restava comunque innegabile. Lei e Aslak nemmeno si rivolgevano la parola – a parte per salutarsi saltuariamente e freddamente – e lui ovviamente non poteva sapere che la collega avesse una gemella. Per un attimo un moto di sorpresa si dipinse su quel volto sempre impassibile, ma il mago si riprese in fretta, parlando con il tono calmo che lo contraddistingueva:

“Buonasera Erzsébet. Interrompo qualcosa?” 
“No, mia sorella se ne stava giusto andando. Vero Carma?” 
“Ero passata solo a salutare. Carmilla Bathkein-Horvàth.”
Carmilla sfoggiò un candido sorrisetto e porse la mano all’uomo, che la strinse guardandola con una punta di curiosità:

“Aslak Koski.”
 
“Bene, ora dobbiamo proprio andare… buona serata.” Erzsébet prese la sorella sotto braccio e – rivolto un cenno all’Alchimista – si affrettò a trascinarsi la gemella dietro, fulminandola con lo sguardo quando Carmilla parlò mentre scendevano le scale dell’edificio per raggiungere il piano terra e uscire:

“Hai omesso che fosse di bell’aspetto, Erza, ma lo sospettavo.”
“A prescindere dalla sua faccia non mi piace granché, Carma… e smettila di fare commenti sul suo aspetto o presentati di nuovo qui o lo racconto a Leah!”

“Che noia Erza, prima avevi la scusa del nostro stile di vita difficile, ma viviamo tranquille da tre anni e non hai uno straccio di relazione, dammi qualcosa su cui spettegolare!”
Carmilla parlò con un tono annoiato che fece alzare gli occhi al cielo alla gemella, che le suggerì di guardarsi qualche soap se proprio voleva qualche intrigo su cui rimuginare e di lasciar perdere la sua vita privata.


*

 
Aslak Koski era nato da madre inglese e padre finlandese, cresciuto ad Helsinki, facendo però spesso visita, da bambino, ai nonni che vivevano a Bath. Da quando Voldemort aveva preso il potere la sua famiglia si era stabilmente trasferita in Finlandia e suo padre aveva insistito affinché il ragazzino non mettesse più piede in Gran Bretagna a causa del trattamento che i Mezzosangue ricevevano. 
Ci era tornato solo qualche tempo dopo la dipartita definitiva del Signore Oscuro, dapprima saltuariamente, poi decidendo di stabilirsi a Londra per un po’ per poter approfondire le sue ricerche e i suoi studi facendo ricordo a quelli fatti in Gran Bretagna, che prima d’allora non aveva mai avuto modo di approfondire particolarmente.

Fu così che, nel 2012, Aslak iniziò a lavorare in un laboratorio londinese, ma i suoi contatti con i colleghi erano alquanto sporadici: non era particolarmente espansivo con chi non conosceva, e concentrato sul lavoro com’era risultava poco incline ed interessato a fare conversazione con i colleghi. 
Molti si fecero in fretta l’idea di avere a che fare con una persona fredda e profondamente altezzosa, ma più che ritenersi superiore Aslak era una persona tendenzialmente distratta che spesso si perdeva in riflessioni tutte sue, finendo col risultare ben poco interessato a fare la conoscenza dei colleghi o ad ascoltarli. 


Non potè fare a meno, tuttavia, di notare la strega che occupava proprio il laboratorio di fronte al suo: il suo essere stata una Sentì ella un po’ lo turbava è un po’ lo incuriosiva, trovando quasi divertente quando la sentiva rivolgersi scocciata ai colleghi o agli stessi clienti perché le avevano fatto perdere le staffe. Erzsébet sembrava una persona incline a farsi gli affari propri e i due per mesi interi ebbero ben pochi contatti, salutandosi solo di tanto in tanto senza praticamente mai rivolgersi la parola.
L’uno pensava che fosse una specie di scontrosa, irascibile rompiscatole e l’altra un irritante altezzoso straniero che li giudicava senza aver vissuto la guerra. Il tutto solo perché non si parlavano, in una specie di ciclo senza fine.  
 

Ciclo che parve rompersi circa cinque mesi dopo l’arrivo di Aslak a Londra, quando una mattina il mago si rese conto con sgomento di non avere le radici di Mandragora che gli servivano per un esperimento.
La soluzione più plausibile sera chiederne in prestito proprio alla sua collega, anche se il finlandese non ne era molto entusiasta: Erzsébet era famosa per il suo essere poco propensa a prestare gli ingredienti. E lui neanche le piaceva.

Dopo aver sbattuto ripetutamente la testa contro il muro per la sua sbadataggine il mago si fece coraggio e bussò alla sua porta. Erza di certo non si aspettava di vederlo e lo invitò ad entrare, rivolgendogli un’occhiata perplessa quando lo scorse sulla soglia.

“Posso esserti utile?”
Quella domanda suonò come “levati dai piedi”, ma il mago cercò di non farci caso, parlando con tono neutro e pacato:

“Avresti delle radici di Mandragora da prestarmi? Ovviamente te le restituirò, ma mi servono adesso.”
“Non avresti potuto pensarci prima?! E a che cosa ti servono?”

Aslak le spiegò cosa intendeva farne, e la strega fu così incuriosita, suo malgrado, da quell’esperimento da finire col cedergli le radici in prestito.  

Il giorno dopo arrivò persino a chiedergli come stesse procedendo la sua idea, e da quel momento i due iniziarono a rivolgersi la parola molto più spesso, bussando frequentemente alla porta dell’altro per chiedere ingredienti in prestito o consigli. 
 
A sua sorella sarebbe venuto un colpo se avesse saputo che prestava ingredienti a destra e a sinistra ad una persona che fino a poco tempo prima quasi ignorava, ma Erza non glielo disse: non le andava di sentire le sue elucubrazioni a riguardo.


*


Nessuno dei due seppe di preciso come accadde, ma la Pozionista e l’Alchimista finirono col passare spesso del tempo insieme, parlandosi spesso sul lavoro o pranzando spesso insieme durante le pause.
Erzsébet non era tipo da imbarazzarsi, ma la prima volta in cui trovò Aslak fuori dalla sua porta al termine del turno e il mago decretò di averla aspettata per uscire insieme a lei poco ci mancò perché la strega arrossisse. 
Ma non lo diede a vedere, ovviamente. 

 
Nell’arco di qualche settimana Erzsébet arrivò a considerare il mago una sorta di “amico”, definizione che riservava a pochi, e quando ne fece cenno a Carmilla per poco l’Auror si fece andare di traverso il caffè. 

“Ma non avevi detto che non vi parlavate nemmeno?!”
“Beh, abbiamo iniziato a farlo. E non è così male, mi ero fatta un’idea sbagliata.”
“Probabilmente anche lui, a primo impatto sei insopportabile.”
“Ma senti chi parla…”

 
*


Con il passare delle settimane Erzsébet e Aslak iniziarono a vedersi sempre più spesso e anche ben oltre l’orario lavorativo, tanto che entrambi, loro malgrado, finirono con l’apprezzare sempre di più la compagnia dell’altro. Sicuramente era molto diversi, ma avevano un buon livello di compatibilità.

Se inizialmente non aveva il benché minimo interesse romantico nei suoi confronti, con il tempo Erzsébet iniziò ad apprezzare l’Alchimista anche sotto quel punto di vista, vedendolo in un’altra ottica. 
Una mattina lo stava guardando cercare la Belladonna che gli aveva chiesto in prestito e si sorprese a rimuginare su parole che la gemella aveva pronunciato mesi prima: effettivamente, non si poteva dire che non fosse attraente.  

La strega, stupendosi da sola di quel pensiero, praticamente si diede alla fuga con la Belladonna e lasciò il collega più confuso che mai. 
Per diverso tempo si ripetè di non pensarci e di lasciar perdere, perché la sua compagnia le piaceva e non voleva rischiare di rovinare tutto: non aveva esperienze sentimentali propriamente brillanti, alle spalle. 

E a farle cambiare idea, alla fine, fu proprio sua sorella, che le fece un articolato e lungo discorsetto che Erzsébet avrebbe poi riassunto con “Datti una svegliata e fai qualcosa, ottusa”. Carmilla la convinse a non lasciar perdere e ad affrontare quello che si ritrovava a provare per una persona per la prima volta dopo anni. O forse per la prima volta in vita sua. 


 
Era piuttosto sicura che il finlandese non volesse che il loro rapporto mutasse, ma l’ex Serpeverde raccolse tutto il suo coraggio durante l’ennesimo pranzo in compagnia dell’alchimista e pronunciò la frase che avrebbe mutato per sempre il loro rapporto:

“Senti, Aslak. Non sono brava a girare intorno alle cose, quindi sarò chiara: passiamo un mucchio di tempo insieme da mesi e tu mi piaci molto, quindi… Iniziamo ad uscire sul serio insieme o no?”

Aslak s’immobilizzò tenendo la forchetta a mezz’aria, e sbattè le palpebre – cercando di non ridere di fronte al papabile nervosismo della donna, che lo guardava immobile, in silenzio e rossa in volto – prima di abbozzare un sorriso e annuire:
 
“Ok.”
“Ok?”
“Sì, va bene.”

Aslak fu molto felice di sentire quelle parole: gliele aveva tolte di bocca, lui stesso si stava arrovellando per cercare di capire cosa volesse la strega e se dare o meno una svolta al loro rapporto.
Carmilla, poco tempo dopo, li avrebbe definiti proprio per questo “due deficienti perfetti”.


*


Erzsébet, una sera, entrò in casa quasi librandosi a mezzo metro da terra. Accolse l’amatissimo Pastore del Caucaso, Atlas, con un sorriso ed un abbraccio, inginocchiandosi sul pavimento per riempirlo di coccole mentre il cane le faceva le feste. 

“Ciao piccolo… Sono molto felice, sai?”
La strega sorrise allegra, ancora su di giri, pensando a quello che era appena successo: Aslak l’aveva baciata per la prima volta solo poco prima, proprio a pochi metri da casa dopo averla accompagnata. 
Erza stava parlando quando si era accorta che il mago la stava osservando con aria pensierosa.
Si era interrotta, gli aveva chiesto se ci fosse qualcosa che non andava e lui, senza dire nulla, le aveva preso il viso tra le mani, si era chinato leggermente e l’aveva baciata.  

Si sentiva una sorta di quindicenne, ma la cosa ancor più sorprendete era che si ritrovò a non curarsene affatto.


*


“Perciò esci con qualcuno?”
“Sì papà.”

Erzsébet annuì, sorridendo, mentre accanto a lei Carmilla sfoggiava un sorrisetto e sembrava pronta a fare un qualche commento che venne stroncato sul nascere dalla gomitata che Leah, la fidanzata, le assestò.
Viktor sorrise e le si avvicinò per abbracciarla, assicurandole che era molto felice per lei e di vederla stare bene.

“Ma dimmi, di chi si tratta?”
“Un mio collega, l’ultimo arrivato.” 
“Il finlandese che all’inizio pensava la detestasse!”
“Carmilla, nessuno ti ha interpellata! E neanche invitata, se è per questo…” 

“Cosa pensavi, che mi sarei persa tutto questo? Povera illusa…”


*


Dopo otto mesi dall’inizio della loro relazione i due decisero di andare a vivere insieme, e Aslak si trasferì definitivamente a Londra, esclusi saltuari viaggi di lavoro o brevi visite in Finlandia, dove spesso portava con sè anche la fidanzata.

“Allora piccolo, ti piace la tua nuova casa?”
Erza sorrise teneramente ad Atlas, che stava ispezionando con curiosità l’appartamento ancora vuoto mentre Aslak svuotava degli scatoloni.

“Continua a farmi sorridere il modo in cui ti ostini a chiamarlo “piccolo”.”
“Sarà anche grande e grosso, ma rimane sempre il mio piccolo.”  Erza parlò senza battere ciglio, non transigendo sulla questione, e proprio in quel momento Atlas si avvicinò ad Aslak – trovandolo in un momento di distrazione – per farsi fare un po’ di coccole. Il mago sorrise e lo accontentò, affondando le mani nel pelo soffice del cane finchè Atlas non andò a recuperare la sua pallina per poi porgergliela scodinzolando.
 
“Non adesso gigante, io ed Erza abbiamo da fare. A tal proposito, forse dovresti comprargli meno roba, abbiamo due scatoloni solo per i suoi giocattoli.”
“Tre, uno l’ho lasciato fuori. Vieni tesoro, ci gioco io con te, il lavoro pesante lo lasciamo al finlandese.”
 
“Mezzo finlandese, e tu sei mezza ungherese, quindi non sei autorizzata a fare commenti.”

Aslak alzò gli occhi al cielo, decidendo di continuare a mettere in ordine per lasciare Erzsébet e il suo “bambino” a divertirsi.


*


Stavano prendendo il thè in tutta calma e lei aveva appena finito di raccontargli della sua giornata la lavoro quando Aslak, all’improvviso, prese la parola dopo aver passato circa cinque minuti buoni in silenzio e a rimuginare, parlando persino con tono vago:

“Stiamo insieme da tre anni ormai… ci sposiamo?”

Erzsébet, che disgraziatamente in quel momento stava bevendo un sorso di thè, rischiò di strozzarsi e iniziò a tossicchiare furiosamente, rossa in volto, prima di calmarsi e di parlare deglutendo a fatica gli occhi scuri spalancati: 

“Ma ti… ti sembra… ti sembra il modo di chiedermelo?!”
“Devo forse ricordarti come TU mi hai chiesto di iniziare a frequentarci? Comunque, se non ti va fa’ finta che io non abbia detto nulla…” Aslak non si scompose e fece anche per aprire il giornale e darci un’occhiata, ma la fidanzata lo bloccò sollevando di scatto una mano:
“Non ho detto questo, non ho assolutamente detto questo. … Davvero me lo stai chiedendo?”
 
“Ovviamente.”
Erzsébet esitò, gli occhi scuri fissi in quelli chiari di Aslak, che la osserva con attenzione ma senza metterle fretta. 

Buffo, all’inizio aveva temuto di poter rovinare tutto da un momento all’altro, che quella relazione sarebbe naufragata dopo qualche mese come le era sempre capitato in passato… alla fine invece erano andati a convivere serenamente e ora lui, dopo tre anni, le stava chiedendo di sposarlo.
Onestamente, qualche anno prima avrebbe giurato che non avrebbe mai compiuto quel passo, ma adesso le cose erano diverse, adesso c’era Aslak. 

“… Sì. Se davvero lo vuoi. Siamo così poco romantici da essere perfetti, non trovi?”
“Assolutamente.”

Aslak sorrise e si sporse verso di lei per baciarla, felice. Erza sorrise sulle sue labbra, pregustando il momento in cui l’avrebbe detto alla sorella e al padre. 

Sicuramente la gemella avrebbe dato sfogo a tutta la sua delicatezza con un “era ora, pensavo sarei morta di vecchiaia prima”.



*


“Mi sento ridicola.” 
“Sei uno splendore.”
“Non è vero, sei mio padre, è ovvio che tu mi faccia dei complimenti.”
“Sono sicuro che lo penserà anche Aslak, tesoro… Vorrei tanto che tua madre fosse qui.”

Viktor le sistemò distrattamente i capelli con un sorriso tetro che la fece annuire, incupendosi a sua volta:

“Lo so, anche io papà. Pensi che le sarebbe piaciuto?”
“Sicuramente, tanto quanto piace a me. Per questo non è il caso di farlo aspettare, non credi? Andiamo.”

Viktor le prose il braccio e la strega lo strinse, sorridendogli e lasciandosi dare un bacio su una guancia prima di farsi condurre verso l’altare.  
Effettivamente si sentiva ridicola con quel vestito addosso, ma Aslak vedendola sfoggiò un sorriso che gli andò da un orecchio all’altro… forse Viktor aveva ragione, in fin dei conti, e all’improvviso quel vestito non le sembrò tanto male. 


*


Seela, Image and video hosting by TinyPicKristòf e Krisztián KoskiImage and video hosting by TinyPic


“Bambini, c’è il nonno! Venite giù e finitela di fare baccano!”
 
Erzsébet alzò gli occhi al cielo quando sentì un gran vociare in un mix tra finlandese e ungherese provenire dal piano di sopra, segno che i tre figli stavano, come al solito, litigando per qualcosa.
Li sentì però scende le scale di corsa mentre Viktor, accanto a lei, aspettava con un sorriso seduto al tavolo della cucina, in attesa di vedere i bambini. 

La figlia gli stava porgendo una tazza di caffè quando il visino sorridente di Seela, la primogenita, comparve nella stanza: 

“Nonno, ciao!” La bambina gli trotterellò incontro e sedette sulle ginocchia del nonno, che le sorrise calorosamente e le chiese come potesse diventare sempre più bella ogni volta che la vedeva.       
Seela, gli occhi azzurri ereditati dal padre luccicanti, lo ringraziò mentre i fratellini si avvicinavano reclamando la merenda.

“Adesso ve la preparo, un momento solo… vostro padre dov’è?!”
“Boh.” Kristòf si strinse nelle spalle e Krisztián, accanto a lui, si alzò in punta di piedi per rubare un biscotto dal barattolo lasciato incautamente aperto e poi raggiungere, soddisfatto, il nonno e la sorella maggiore.

“Ciao nonno!”
“Ciao ometti.” Viktor allungò una mano per accarezzare affettuosamente i capelli castani del bambino, mentre invece Seela si rivolse alla madre con tono solenne:

“Mammina, Krisztián ha preso un biscotto.”
“Anche io li voglio!”
“Seela, non fare la spia, sai che alla mamma non piace… ecco Kris, prendine uno anche tu.”
 
Erza porse al bambino il barattolo, guardandolo sorridere allegro prima di sedersi accanto al fratello, arrampicandosi sulla sedia con un po’ di fatica. 


“Cosa bevi nonno?”
“Caffè.”
“Possiamo berlo anche noi?”
“Meglio di no ometto, è una cosa da grandi.”
 
Viktor rivolse un sorriso divertito al nipotino proprio mentre Aslak faceva il suo ingresso nella stanza, scusandosi per averci messo tanto e salutando il suocero prima di sedersi accanto a lui e rivolgere un caldo sorriso a Seela, che ricambio con aria adorante. 

“Cosa stavi combinando di là?”
“Rimediavo ai disastri causati dai due terremoti alti un metro in due ma in grado di distruggere edifici interi…”

“Avresti dovuto vedere tua moglie e tua cognata da piccole…”
“Ah davvero? Racconta un po’, Viktor… bambini, volete sentire dei guai che combinava la mamma?”

Un corso di assensi riempì la cucina ed Erzsébet, presa in contropiede, spalancò gli occhi con orrore e minaccio tutti i presenti di privarli della merenda. Un velo di terrore si posò sui volti dei tre figli, che si affrettarono a correggersi mentre Aslak le sorrideva divertito, allungando un braccio per attirarla a sè tenendola per la vita:  

“Prima o poi sapremo Erza, arrenditi.”
“Prima o poi, sì, ma non oggi. Chi vuole lo zucchero a velo sui biscotti?”











………………………………………………………………………………………..
Angolo Autrice: 

Ebbene sì, sono viva, non mi sono scordata che ho delle OS arretrate! 
Mi scuso per il ritardo, in settimana cercherò di scriverne anche un’altra, quella di Lud o quella di Carmilla… Nel frattempo buonanotte e grazie a chi si è iscritto alla mia nuova storia! 
Signorina Granger 



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Capitolo 31
*** A perfect combination ***


A perfect combination
 
Carmilla Bathkein-HorvàthImage and video hosting by TinyPic


Dopo la morte di Voldemort e la caduta del suo regime Carmilla, a differenza della gemella, decise di diventare un’Auror. Non fu lungo o complicato, le bastò superare un paio di prove che le sembrarono semplicissime insieme ad Haze ed Aeron: un mese dopo Carmilla era un’Auror a tutti gli effetti.

Lei ed Erzsébet continuarono a convivere per qualche tempo, e intanto si riavvicinarono non poco ad un padre che orma da anni sentiva di aver quasi perso le sue uniche figlie, nonché la sua unica famiglia.
Nonostante la strega non lo ammisse mai esplicitamente fu molto felice del loro riavvicinamento all’uomo: le piaceva l’idea di avere di nuovo una famiglia, anche se senza sua madre non era la stessa cosa.


“Carma, ma oggi non sei di turno?”
“Forse… o forse mi sono fatta dare il cambio…”
“Come ieri?”
“Già…”
“Carma!”
“Che c’è, sono indisposta!”

Carmilla, stesa sul divano, sfoggiò un’espressione sofferente di fronte a quella attonita della gemella, che alzò gli occhi al cielo e sospirò gravemente prima di scuotere il capo:

“Sei assurda. Ti piace il tuo lavoro, ma sei terribilmente pigra!”
“Sì, hai ragione, mi piace il mio lavoro, sai cosa non mi piace invece? Quando tu mi fai la paternale. Non hai qualche intruglio da preparare, Erza?”

“Simpatica. Torno stasera. Porta fuori Atlas, visto che non hai nulla da fare.”

Carmilla finse di non averla sentita, accarezzando pigramente uno dei suoi gatti mentre fissava il soffitto, chiedendosi se fosse avanzata della torta con cui poter fare colazione.


*


Dopo due anni di vita tranquilla, alternata tra momenti in famiglia, amici, relazioni passeggere, lavoro o passata a casa a rilassarsi Carmilla ebbe un piccolo incidente sul lavoro e venne portata al San Mungo per curare una lesione che aveva riportato al braccio. 

Erza si precipitò in ospedale non appena la contattarono, raggiungendo la sorella trafelata e con il cuore in gola. Trovò invece Carmilla molto rilassata e pacifica mentre aspettava nel suo letto, guardandosi intorno con aria annoiata:

“Oh, ciao Erza, almeno posso parlare con qualcuno.”
“Carma, stai bene?!”
“Ma certo, è una sciocchezza, non capisco perché vogliano che io rimanga qui per una notte, sto già benissimo…”

“Beh, loro sono i medici, non tu, ergo farai come ti dicono.”
“Va bene, non farmi la paternale… sentì, puoi restare qui a farmi compagnia? Detesto dover condividere la stanza con qualcuno, almeno con te qui potrei distrarmi un po’.”

Erzsébet esitò ma annuì, sorridendo mentre guardava la sorella con una punta di affetto negli occhi scuri:

“Certo, basta che non mi chiedi di farti da serva per portarti le cose come quando a casa ti spiaggi sul divano.”
“Beccata… mi passi un budino?”


*


Carmilla non l’avrebbe mai immaginato, ma quel brevissimo periodo di convalescenza al San Mungo diede ottimi frutti: l’Auror potè infatti fare la conoscenza di una ragazza, una strega più giovane di lei di tre anni che lavorava in ospedale dalla morte di Voldemort. 

Leah Collins era molto diversa da lei: bionda, più bassa, decisamente più sorridente e visibilmente gentile, premurosa e garbata, visto l’occhio di riguardo e la considerevole pazienza che sembrava avere con i pazienti. 
Forse proprio a causa della diversità che vide in lei Carmilla rimase immediatamente colpita da quella giovane strega, arrivando persino ad attaccare bottone con qualcuno per la prima volta da quando aveva messo piede in ospedale. 

Forse quella notte in più passata in ospedale avrebbe avuto dei risvolti positivi, in fin dei conti.


*


Carmilla sapeva quando piaceva alle persone, e sapeva di aver fatto un’impressione positiva e di aver colpito Leah. Proprio per questo non ci volle molto affinché l’Auror chiedesse alla Medimaga di uscire con lei, e con sua somma soddisfazione la bionda accettò sfoggiando uno dei suoi smaglianti e adorabili sorrisi.

Quello che Carmilla non si aspettava era di restare a sua volta molto colpita dalla strega, tanto da non stancarsi di lei in poco tempo come era, per lei, la norma: non le era praticamente mai successo e il fatto la confuse e spiazzò non poco, ma continuò comunque a frequentarla per qualche tempo finché non iniziò a chiedersi se non fosse il caso di allontanare Leah: non era abituata ad una situazione del genere, e oltre a non sapere come comportarsi non era sicura di cosa provasse.

L’unica con cui poteva parlarne ovviamente era sua sorella e Erzsébet, dopo aver conosciuto Leah, un paio di settimane prima, vietò categoricamente alla gemella di interrompere l’unica vera relazione che avesse mai avuto, pena il “distruggere tutti i tuoi amati vestiti”. 
Nessuna delle due era una persona facile o particolarmente incline alle smancerie o a dimostrare affetto, ma se davvero teneva a Leah doveva impegnarsi, superare le sue insicurezze e non permettersi di perderla. 

“Anche perché”, continuò la pozionista con un sorrisetto, “non penso troverai qualcun altro disposto a sopportarti, lo dico perché per me farlo è una faticaccia, e sei mia sorella.”

A modo suo, certo, ma Erzsébet aveva ragione, e Carmilla lo sapeva. Ovviamente non glielo disse quel giorno, e nemmeno quello seguente, ma non ce n’era bisogno: Erzsébet sapeva fin troppo bene da sola di non essersi sbagliata. 


*


“Leah?”
“Sì?” 

Leah le sorrise e Carmilla esitò, giocherellando con il tovagliolo prima di schiarii la voce. Erano passato sei mesi dal loro primo appuntamento, e anche se lo voleva e sapeva che era “giusto” non sapeva come chiederglielo. 
Non aveva mai avuto troppi peli sulla lingua è in quel momento si sentiva stupida come mai prima d’ora.

“Ecco… ormai stiamo insieme da un po’ e mi chiedevo… ti andrebbe di andare a convivere? Ma se per te è presto va bene, è ovvio…”

Leah, dal canto suo, guardò Carmilla per qualche istante prima di sorridere, felice della sua proposta e, allo stesso tempo, divertita di fronte a quella reazione insolita: allungò una mano e prese quella della mora, annuendo con gli occhi luccicanti: 

“Mi piacerebbe molto, Carma. Sono felice che tu me l’abbia chiesto, ci stavo pensando anche io, onestamente.”
“Davvero?”
“Davvero.”

“Beh… bene. Infondo hai superato il test dei miei gatti, ti hanno accettata, quindi non penso che ci saranno problemi.”
“Ah, quindi loro contano più di me?!”
“Leah, ti adoro, ma ora non allargarti troppo.”


*


Passarono circa due anni di convivenza, più o meno tranquilla e di tanto in tanto costellata di qualche discussione, ma Leah aveva l’invidiabile capacità di sopportare e di non irritarsi troppo di fronte al carattere non sempre facile di Carmilla, e l’Auror gliene era sempre molto grata.

Una sera Leah, quando la compagna tornò dal lavoro, asserì di averle preparato i suoi piatti preferiti, aveva persino provato a cimentarsi nella cucina ungherese (la medimaga adorava cucinare). Carmilla storse il naso, piacevolmente sorpresa ma intuendo al contempo che ci fosse qualcosa sotto: era tutto incredibilmente in ordine, quasi perfetto, e nonostante Leah, come lei, curasse sempre il suo aspetto quella sera non aveva l’aria che ci si aspetterebbe da una che ha cucinato per ore. 

L’arcano venne svelato dopo cena, quando insieme al dessert Leah avanzò anche una certa proposta. 
Carmilla non si era mai vista come una persona da matrimonio, e forse ci avrebbe messo molto più tempo per decidersi a chiedere alla fidanzata di sposarla. Fu quindi, forse, una fortuna che fosse stata Leah a prendere l’iniziativa, e dopo qualche istante di sorpresa, sbigottimento e turbamento l’ex Serpeverde non potè far altro che accettare. 


A reagire quasi più felicemente di lei fu Erzsébet, che abbracciò entrambe con slancio una volta appresa la notizia e asserì, emozionata, che si sarebbero divertite moltissimo ad organizzare le nozze.
Quello fu, in assoluto, il primo momento in cui Carmilla si pentì di aver accettato di sposarsi.


*


Réka, Image and video hosting by TinyPicRay e RenéeImage and video hosting by TinyPic


“Ragazzi, sono arrivati zia Erza e zio Aslat!”

Leah si sporse sulle scale per chiamare i tre figli, ma tutto ciò che ottenne in risposta furono delle confuse esclamazioni in ungherese che la fecero sospirare mentre, alle sue spalle, la moglie ridacchiava:

“Sentiamo, cos’hanno detto? Detesto che voi sappiate una lingua a me ignota, mi sento esclusa!”
“Rilassati, non ti prendiamo in giro alle spalle, hanno solo detto che arrivano subito… solo, è sempre divertente assistere alla tua reazione.”

Carmilla sorrise alla moglie, che alzò gli occhi al cielo e borbottò che avrebbe imparato l’ungherese più che, se solo non fosse stata una lingua tanto astrusa e lei, per prima, non proprio abilissima nelle lingue.

“Rilassati, non te lo chiederei mai per forza, anche se sarebbe carino, certo. In effetti mi piacerebbe portare i ragazzi in Ungheria prima o poi, magari insieme a mia sorella…”

Carmilla annuì, pensierosa, mentre i tre figli adottivi della coppia, Renée più i gemelli, raggiungevano le due sul pianerottolo:

“Dove sono gli zii?” Réka, che portava il nome della defunta nonna, aggrottò la fronte quando non vide traccia di zii o cugini, e Leah sfoggiò un sorriso amorevole prima di stringersi nelle spalle, girare sui tacchi e fare cenno ai tre di seguirla in cucina:
“Mentivo, vi ho fatti venire per aiutarmi ad apparecchiare.”
“Cosa?! Mami, sei scorretta! Mamma, diglielo!”

“Scusate cari, ma infondo approvo… se ho sposato la mamma un motivo c’è.”

Carmilla sorrise e lanciò un’occhiata divertita alla moglie, che per tutta risposta le strizzò l’occhio prima di sparire in cucina. Ai tre bambini non restò che sbuffare e seguirla a testa bassa, ben sapendo che quando le due madri si coalizzavano c’era ben poco da fare: come diceva sempre sia Erza, quelle due erano un “binomio perfetto”.







……………………………………………………………………………
Angolo Autrice: 

Buonasera! 
Ebbene sì, non mi ero dimenticata di questa raccolta e delle OS arretrate, solo ho.. rimandato. Parecchio. Chiedo perdono, che vergogna.
Cercherò di sfornare quella di Lud e poi quella di David in fretta, lo prometto, anche se chi mi segue sa che ho molto da scrivere al momento.

So che non è la mia OS migliore, ma nonostante i tempi un po’ stretti volevo finalmente buttare giù qualcosa, stasera. 
A presto, spero, grazie per la pazienza e buonanotte!
Signorina Granger 

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Capitolo 32
*** An Auror and a Doctor ***


An Auror and a Doctor 
 
David MaguireImage and video hosting by TinyPic



Dopo aver studiato per quasi due anni e aver superato innumerevoli esami per diventare Medimago, David decise di non voler semplicemente passare la sua vita tra le mura del San Mungo a curare patologie, a ricucire lesioni e sanare gli effetti di strampalati Incantesimi: molti gli diedero del pazzo per aver cambiato idea, ma il ragazzo decise di diventare un medico legale e nulla gli fece cambiare idea. 
Come sempre, a sostenerlo ci furono I suoi genitori: Iphigenia abbracciò il ragazzo, ormai da anni molto più alto di lei, e mormorò quanto gli volesse bene e quanto fosse fiera di lui in tutto e per tutto mentre Andrew, sorridendo, gli mise una mano sulla spalla e gli assicurò che qualunque cosa volesse fare a loro sarebbe andata bene, purché si sentisse felice e realizzato. 



“Ma non ti farà schifo con quei cadaveri? Bleah, io non ce la farei…”
“Millie, devo farlo io, non tu!”
“Ma non sarà pericoloso, vero?!”
“Marie, I morti non resuscitano per accoltellare il medico legale mentre fa l’autopsia!”
“E se ti trovassi su una scena del crimine in un momento sbagliato e spuntasse fuori il killer?!”
“Imogen, non penso che un assassino tornerebbe sulla scena del crimine vedendola piena di gente!”

“Beh, stai attento.”
“Già, e vedi di non presentarti da noi puzzando da morto, che orrore…”
“Marie, ti prego…”

Andrew sospirò, massaggiandosi una tempia mentre le voci delle tre sorelle lo tartassavano senza lasciargli un attimo di tregua: forse decidere di fare l’allevatore di pony sarebbe stato meglio, almeno non avrebbe dovuto sorbirei le loro manfrine da sorelle protettive.


*


Mentre aiutava Timothy ad impacchettare le sue cose David rivolse un sorriso quasi malinconico alla stanza ormai quasi vuota, parlando con il suo solito tono calmo, pacato e in grado di tranquillizzare chiunque:

“Sono felice per te, non fraintendermi, ma ammetto che sarà strano ritrovarmi a vivere da solo per la prima volta…. Tra le mie sorelle, Hogwarts e poi te sono sempre stato abituato a condividere gli spazi.”
“Potrebbe rivelarsi un cambiamento piacevole, aspetta a sentire la mia mancanza.”

Timothy sorrise all’amico mentre finiva di impacchettare I suoi vestiti, preparando gli scatoloni che avrebbe portato nella casa dove avrebbe vissuto con Elvira dopo le nozze. 

“Beh, ora come ora sento che potresti mancarmi, ma se dovessi cambiare idea te lo farò sapere.”
“Rilassati, verremo a trovarti spesso, conoscendo Elvira si preoccupa userà di venire a controllare se mangi o cose simili.”

“Come se non avessi già abbastanza sorelle apprensive…” 
“Già, che ci vuoi fare, la mia futura moglie ti adora.”


*



David aveva 25 anni e circa un due anni di intenso, ma appassionato lavoro alle spalle – alternandosi tra il San Mungo, il Ministero della Magia e il Quartier Generale degli Auror – quando, nel bel mezzo di un’autopsia al cadavere di un poveretto, fece una curiosa conoscenza. 

Non aveva ancora incontrato l’Auror a cui era stato assegnato il caso, ed era chino sul collo pallido della vittima quando la porta venne spalancata con tanta veemenza da farlo quasi sobbalzare: il suo superiore gli aveva chiesto di partecipare al caso perché sembrava che l’Auror non fosse molto incline a collaborare e molti dei suoi colleghi non volevano più averci a che fare, e David non ci mise molto per intuirne il motivo.

Una ragazza minuta, dalla pelle olivastra, capelli e occhi scuri, sguardo deciso e l’aria di chi non ama essere contraddetta o messa in discussione gli si avvicinò a passo di marcia, guardandolo dritto in faccia:

“Namae Oubaid. Perché ha cominciato senza di me?”
“Salve, sono David Maguire.”
“Le ho chiesto perché ha cominciato senza di me!”
“B-beh, perché pare ci fosse fretta…”

La strega – che a prima vista doveva avere circa la sua età – sbuffò e si avvicinò al corpo tenendo le mani sui fianchi, studiando il cadavere con occhio critico senza aggiungere altro. David non proferì parola, osservandola e temendo di lasciare la stanza su una barella come secondo cadavere della giornata finché la strega non gli rivolse con un’occhiataccia, parlando con uno sbuffo spazientito:

“E allora?! Non ho tutto il giorno, mi dica!”
“Certo, scusi… secondo una prima analisi sembrerebbe morto per strangolamento, ma non ne sono sicuro, credo ci sia bisogno di fare qualche altro esame, sa, per…”
“Lo so, non serve che me lo spieghi, grazie tante. Qualunque cosa debba fare si muova, spilungone: lei faccia il suo lavoro e io il mio, in questo modo non dovremmo avere problemi. Mi chiami quando avrà davvero qualcosa di utile per me.”

Nome girò sui tacchi e uscì a passo di marcia senza nemmeno dargli il tempo di dire altro, lasciandolo a bocca asciutta. 
Forse aveva intuito perché molti non volessero lavorare con quell’Auror… ma per fortuna lui si era già fatto le ossa con donne forti grazie a sua madre e alle sue sorelle.


*


David riuscì a risalire alla vera causa del decesso, un veleno, e fu di grande aiuto a Namae per risolvere il caso di omicidio che le era stato assegnato. 
Grazie al successo – e felice di aver trovato qualcuno in grado di lavorare pacificamente con la strega – il suo superiore iniziò ad assegnare David a quasi tutti I casi di Namae, immensamente sollevato e grato verso l’indole pacifica dell’ex Grifondoro. 

Dal canto suo, David non si sentiva affatto intimorito o a disagio nel dover lavorare insieme ad una donna, cosa che invece sembrava non piacere a molti dei suoi colleghi, specie se la donna in questione era tutto fuorché accomodante. Namae era un vulcano in eruzione e questo il rosso lo capì rapidamente, ma non se ne fece un crucio: infondo la trovava quasi divertente, anche se non aveva il coraggio di dirglielo apertamente, temeva di finire sbranato. 
Sua madre lo aveva cresciuto insegnandogli ad apprezzare le donne forti che volevamo costruirsi la propria strada nel mondo, perciò il ragazzo non aveva alcun problema con l’ambizione di Namae, che una volta capito di non aver a che fare con un retrogrado maschilista prese a trattarlo con un po’ più di gentilezza. 

Ma non troppa, certo: non voleva che lo “spilungone pel di carota” si montasse la testa. 


*


David e Namae, con somma gioia di una Elvira sempre più entusiasta e curiosa di sentire della nuova “amica” di David, iniziarono a passare molto tempo insieme, anche fuori dall’orario lavorativo.
David scoprì così che la strega era nata in Marocco, a Marakesh, e che di era trasferita in Francia da bambina, prima di iniziare a studiare a Beauxbatons. Aveva una famiglia numerosa, con diversi fratelli maggiori, ma con cui spesso non si era trovata in sintonia: fa da bambina aveva palesato un carattere poco incline ad essere contenuto e messo in un angolo. La sua famiglia aveva sempre avuto piani precisi per lei, ossia che si sposasse presto per mettere su famiglia, ma la ragazza aveva progetti diversi e aveva quasi rischiato di tagliare I punti con I genitori quando aveva deciso di andare in Inghilterra per studiare e diventare Auror. 

Sua madre non aveva mai lavorato in vita sua, si era sempre presa cura della sua famiglia, e per la donna immaginare sua figlia fare un lavoro “da uomo” era assolutamente inconcepibile. 
Namae, tuttavia, si era intestardita e, decisa a non cambiare idea, si era trasferita a Londra per entrare alla famosa Accademia, dove prima d’allora si erano diplomate non molte donne, seppur più che in molti altri Paesi europei. 

“Devi essere molto fiera di te, sei venuta da sola in un Paese straniero… non dev’essere stato facilissimo.”
“Oh, lo sono.” Namae aveva sorriso, gli occhi scuri luccicanti, e aveva accennato alle difficoltà che aveva riscontrato nel suo primo periodo in Inghilterra con una scrollata di spalle, asserendo che ormai era acqua passata. 

“Ormai ho la mia vita, il lavoro che volevo, degli amici. Dimmi, quando mi hai conosciuta hai pensato fossi una pazza, vero?” Namae sfoggiò un sorriso divertito e David s8 affrettò a scuoter eil capo, rischiando di farsi andare il caffè di traverso:
“No, cosa te lo fa credere!”
“Oh Maguire, tu non sai mentire, vero? Sei quasi adorabile.”

Namae scosse il capo mentre riprendeva a mescolare lo zucchero nel suo caffè, non badando al leggero imbarazzo del ragazzo, che chinò lo sguardo prima di mormorare qualcosa: 

“G-grazie.” 


*


“Namae?”
“Mh? Non mi distrarre, è importante.”
“Devo chiederti una cosa.”
“Dopo.”
“Ma…”
“Sh!”
“Ma volevo chiederti se ti andava di cenare con me venerdì sera…”
“Sì va bene, basta che mi lasci sola!”

Namae lo liquidò con un rapido gesto della mano, senza nemmeno guardarlo. David esitò ma annuì e sorrise appena, facendo un paso indietro per allontanarsi dalla sua scrivania:

“… Ok. Ci vediamo dopo.”
“Chiudi la porta, grazie.”

“Sei assurda…”
“Mh?!”
“Niente, niente…”


*


David aveva gli occhi di tutti puntati addosso, curiosi da parte della madre e inquisitori per quanto riguardava le sorelle. Quanto a suo padre, se ne stava tranquillo a capo tavola mentre si chiedeva come poter migliorare la ricetta della pasta al forno. 

“Ecco, quello che volevo dirvi è che… da qualche tempo esco con una ragazza.”
“LO SAPEVO! MARIE, TE L’AVEVO DETTO! DA QUANTO?”
“È così importante…”
“Sì diccelo!”
“Beh, credo cinque mesi…”
“Ma cavolo, io pensavo da quattro!”
“Imogen, hai perso, devi regalarmi il tuo vestito blu!”

“Perché ero l’unica a non saperne nulla! Dave, perché non ce ne hai parlato prima?”
“Cara, tu sei ottusa quanto un mulo, scusa se te lo dico.”

Andrew sorrise dolcemente alla moglie, sfiorandole il braccio mentre le figlie di avventavano su David, iniziando a sfornare domande su domande:

“Ma voi come facevate a saperlo?!”
“Non siamo mica nate ieri come la mamma, avevamo I nostri sospetti!”
“Signorina, come dici prego?”
“Ops… scusa mamma!”


*


Namae era terrorizzata all’idea di non piacere alla famiglia o agli amici del fidanzato, che però continuava a rassicurarla sostenendo che sua madre l’avrebbe adorata.
Com’era prevedibile l’Auror fece subito breccia nel cuore di un’Elvira molto entusiasta, che l’accolse con un caloroso abbraccio e trillò contenta che fosse più carina di quanto immaginasse. 

La norvegese aveva l’innato dono di mettere a proprio agio le persone e anche lei conquistò immediatamente Namae, che non riuscì a non trovare adorabile quella ragazza tanto quando suo marito, il migliore amico di David che già aveva avuto modo di conoscere.

Quanto alla famiglia del ragazzo, l’Auror venne accolta altrettanto positivamente da genitori e sorelle, che sembrarono molto soddisfatte dei risultati che la strega era riuscita a raggiungere con le sue mano.

“Allora, cosa ne pensate?”
“Beh, per il nostro fratellino abbiamo standard elevati, ma lei ci piace, vero ragazze?”
“Sì, approvata. Millie?”
“Concordo. Ma il voto finale spetta alla mamma.”

Tutti si voltarono verso Iphigenia, che sbuffò e liquidò il discorso con un rapido gesto della mano:

“Se piace a Dave mi piacerebbe in ogni caso, ma sì, ammetto che mi ha fatto una buona impressione.”

“Evviva! A papà non chiediamo, lui è troppo buono e adorabile per pensare male di chiunque.”
“Questo non è vero!”

Andrew sfoggiò un’espressione contrariata che venne immediatamente sanata dalla moglie, che gli prese il viso tra le mani e lo guardò dolcemente prima di mormorare che era assolutamente vero e, infine, dargli un bacio sulle labbra. 


*


Quando, a due anni dall’inizio della loro relazione, David chiese a Namae di sposarlo lo fece in modo molto poco romantico e decisamente diverso da come si era immaginato: stava lavorando quando Namae lo raggiunse in obitorio sbattendo la porta, esattamente come quando si erano incontrati per la prima volta. 
La strega però questa volta gli corse incontro con un enorme sorriso stampato sul volto, annunciando di aver finalmente risolto un difficile caso che la tormentava da settimane e a cui avevano anche lavorato insieme. David lasciò momentaneamente perdere il cadavere che stava esaminando e rispose al sorriso prima di abbracciarla e sollevarla dal pavimento per baciarla, felice per lei come sempre quando riusciva a mettere un punto ad un caso difficile. 

Probabilmente fu l’euforia del momento, o il fatto che si stesse pensando da qualche giorno, ma le parole “vuoi sposarmi” gli uscirono poco dopo quasi senza riflettere. David, resosi conto di ciò che aveva detto, avvampò e spalancò gli occhi con orrore quando colse lo sbigottimento sul volto di Namae, desiderando di sprofondare, sparire o di potersi rimangiare tutto, magari mandando indietro il tempo di qualche minuto. 

“Come?”
“Merlino, scusa, non volevo… siamo all’obitorio, dove ho la testa…”
“Mi hai appena chiesto di sposarti?! Spilungone, non balbettare e rispondi!”

Namae si mise le mani fui fianchi – anche se l’emozione sul suo volto era papabile – e David, sospirando, annuì senza avere il coraggio di guardarla in faccia:

“Sì. Mi dispiace, volevo chiedertelo…”
David però non finì la frase, tra loro dal poderoso abbraccio della fidanzata, che asserì quanto fosse imbranato e adorabile e che naturalmente l’avrebbe sposato senza farselo ripetere due volte. 

Il medico, dal canto suo, parve sorpreso ma non si lamentò, sorridendo prima di ricambiare la stretta: talvolta essere impulsivi poteva dare buoni frutti, a quanto sembrava. 


*


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David sedeva sulla sua poltrona, in salotto, mentre guardava le tre figlie giocare con i numerosi cugini, i figli delle sue sorelle, al centro della stanza. 
I bambini si erano gettati in un’agguerrita gara di Gobbiglie, e grazie a nonno Andrew, che aveva messo in palio una torta intera, tutti sembravano più che determinati a vincere. 

“May, lancia meglio!”
Isabella, la maggiore delle sue tre adorate figlie, rivolse un’occhiata di rimprovero alla sorella minore, mettendosi le mani sui fianchi e assumendo quello che il padre amava chiamare “lo sguardo di Namae”. Bella poteva anche somigliare più al ramo paterno fisicamente, ma caratterialmente era un micidiale mix tra sua madre e la nonna paterna. 

“Scusa Bella…”
“Bella, non fare pressioni a tua sorella, non si deve vincere per forza.”
“Ma vogliamo la torta del nonno! Forza Joy, lancia, tocca a te.”

“Le torte di tuo padre fanno miracoli, devo dire, ucciderebbero per averne una fetta.”  Quando sentì la voce della moglie David non si voltò, limitandosi ad annuire mentre l’Auror sedeva sul bracciolo, accanto a lui, e gli sfiorava i capelli rossi con le dita. 
“Già, era così anche quando eravamo piccoli noi.”
“Posso immaginarlo. Chissà com’eri adorabile da piccolo…”

“Sono sicuro che puoi immaginare anche questo, visto che le mie sorelle non fanno che ripeterlo!”

David alzò gli occhi al cielo e pensando alle tre sorelle pregò che le figlie da grandi non diventassero come loro, per quanto amasse Marie, Imogen e Mileva. 

“Brava Joy! Questo turno lo vinciamo noi!” Isabella sorrise soddisfatta e fece anche la linguaccia a suo cugino Beniamino, che ricambiò mentre Namae, assistendo alla scena, aggrottava la fronte:

“Anche io vorrei la torta, riflettendoci… non posso partecipare alla gara, vero?”
“Tesoro, per una volta sforzati di eterne a bada il tuo innato spirito di competizione, per favore, almeno con dei bambini.”

“Uffa, va bene. Ma solo perché me lo chiedi tu, spilungone.”

Namae gli diede un bacio sulla tempia prima di alzarsi, suggerire alle figlie di “farli secchi” e poi tornare in cucina dalle cognate, lasciando il marito ad assistere, sorridendo divertito, alla gara all’ultimo sangue di Gobbiglie dei bambini. 






………………………………………………………………………………
Angolo Autrice: 

Buonasera! 
Ecco anche la OS su David, prima o poi forse riuscirò a rimettermi in pari con quelle che mi mancano in questa Raccolta… e chissà, magari anche in tempi accettabili. 
La prossima sarà ovviamente quella del dolce Lud, chiedo umilmente scusa all’autrice per l’enorme attesa a cui la sto costringendo ormai da mesi. 
A presto, spero!
Signorina Granger 

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Capitolo 33
*** For all the multicolored Merlin's thongs! ***


For all the multicolored Merlin's thongs!



Le persone a cui Maxine Keenan non riusciva a negare nulla erano molto poche. La prima era Hunter, il suo “fratellino” che mai avrebbe smesso di amare e di cercare di proteggere, anche se ormai era un vero e proprio adulto.
La seconda era Audrey Simmons, la sua più cara amica. Max non le negava mai un favore ed era sempre disposta ad aiutarla, ancor più quando quell’aiuto riguardava un bambino sorridente di quattro anni e i riccioli scuri perennemente spettinati.
Quella sera Audrey era impegnata con i suoi oneri da Auror, e la strega aveva chiesto all’amica di tenere il nipotino per alcune ore. Chiaramente, Max non aveva esitato nemmeno per un istante prima di accettare: adorava quel bambino.
“Piano piccolo, non scappa mica, la pizza! Mastica con calma.”
Seduta al tavolo della cucina, Maxine rise mentre accarezzava i capelli scuri di Henry, che sedeva agitando le gambe nel vuoto e sbocconcellando rapidamente la sua fetta di pizza al prosciutto. Il bambino posò i suoi vispi occhi scuri su di lei, sorridendo prima di trillare di dover tornare a giocare.
“Neanche i giochi scappano, zio Erik non te li ruba mica! Vero zio Erik?”
Max volse lo sguardo sul fidanzato, sorridendo mentre lo guardava stiracchiarsi dopo un’intensa sessione di giochi con il piccolo Henry, che sorrise allegro e indicò i LEGO abbandonati sul tappeto tra il divano e il mobile della televisione.
“Dobbiamo finire la macchina della polizia, così gli omini LEGO andranno a combattere i cattivi come fa Tia Odri.”
“Anche zio Erik e zia Max combattono i cattivi, sai?”
Erik si avvicinò al bambino, fermandosi alle sue spalle e chinandosi per dargli un bacio sulla fronte mentre Henry, addentata di nuovo la fetta di pizza, mormorava che però sua zia era la più brava di tutti.
“Ah, su questo non c’è dubbio.”
Erik sorrise e intercettò lo sguardo di Maxine, che ricambiò e annuì prima di tagliare ad Henry una terza fetta di pizza.
 
Tre ore dopo Maxine dispose dolcemente una coperta sul corpicino avvolto nel pigiama con gli aeroplanini di Henry, crollato addormentato sul divano dopo aver finito di montare il suo LEGO e aver guardato un po’ di cartoni.
“Spero non ti sia dispiaciuto se l’ho portato qui… Adora stare con te e ho pensato che avremmo passato una bella serata.”
“Hai fatto bene. E di certo sapendolo con entrambi Audrey sarà più tranquilla su cosa possa aver ingerito il piccolo.”
Erik circondò la vita della fidanzata con le braccia e appoggiò il mento sulla sua spalla per osservare il bimbo a sua volta, sorridendo divertito quando Max gli assestò una poderosa gomitata sul fianco:
“Ci sarebbe stato anche Hunter, se fossimo stati da me. E non mi sembra che tu sia uno Chef Michelin, mio caro!
“Mai affermato di esserlo, ma almeno so preparare un pasto senza mandare a fuoco l’appartamento.”
Erik ridacchiò mentre la strega, al contrario, s’incupiva pensando ai suoi noti disastri in cucina. Poi però Erik le diede un bacio su una guancia, mormorando che non importava e che l’amava in ogni caso.
 
*
 
“Mi vuoi spiegare che cazzo è successo da Harrods, esattamente?”
“No. Non ne voglio parlare.”
Seduta sul divano, una grossa ciotola azzurra piena di gelato in mano e una felpa con su scritto “I Tassorosso lo fanno meglio”, Maxine non alzò lo sguardo sul fidanzato e continuò a fissare truce un punto indefinito davanti a sé ripensando agli avvenimento di quella mattina.
“Audrey mi ha chiamato e si è messa a dire cose ridicole, non credo di aver compreso, rideva troppo… Ti hanno bandita da Harrods?!”
“Non è stata colpa mia! Non facevo niente di male!” La bocca piena di gelato, Maxine alzò implorante lo sguardo sul fidanzato, che sgranò gli occhi azzurri non sapendo come comportarsi: doveva imitare Audrey e riderne o consolare Maxine?
Di norma avrebbe seguito volentieri l’esempio della sua migliore amica, ma vedendo la fidanzata così giù di corda non poté che sospirare e sedersi accanto a lei, prenderle il gelato dalle mani e mettere la ciotola sul pavimento prima di costringerla a guardarlo:
“Max. Che cosa hai combinato?”
“Ho solo testato tutti i pouf, i divani e tutte le poltrone, non sapevo che non si potesse fare! Come si fa a comprare un divano e se prima non lo si prova, i Babbani sono ridicoli! Audrey dice che hanno messo una mia foto segnaletica!”
Mai come in quel momento Erik Murray dovette fare appello a tutto il suo autocontrollo per non scoppiare a ridere davanti alla fidanzata, limitandosi a sollevarle le gambe coperte dalla tuta per mettersele sulle ginocchia e abbracciarla mentre Maxine si raggomitolava nella sua stretta.
“Su, dai, non è niente di grave… se proprio vorrai tornarci possiamo prepararti della Polisucco…”
“Ok… Grazie per non aver riso.”
La  voce della strega giunse soffocata mentre Erik le accarezzava la schiena, sorridendo e mormorando che per quella volta sarebbe stata esentata dalle sue prese in giro.
Ma solo per una sera.
 
*
 
Quando Erik le aveva chiesto di andare a vivere con lui, a Maxine non era sembrato vero. Una parte di lei, fin da quando si erano messi insieme, aveva pensato che prima o poi il bel mago si sarebbe stancato della sua bizzarra presenza e avrebbe troncato la loro relazione.
Hunter e Audrey l’avevano aiutata con il trasloco, radunando gran parte delle sue cose – alcune sarebbero rimaste lì, visto che a detta di Erik la fidanzata era “piena di cianfrusaglie che non avrebbe saputo dove infilare” – prima di portarle nell’appartamento del compagno. Separarsi da Hunter era stata la sola parte difficile: prima di uscire di casa la strega lo aveva stretto in una morsa soffocante, riempiendolo di raccomandazioni e ignorando le sue lamentele soffocate.
“Max, non ti trasferisci in un altro Paese, ci vedremo di continuo e puoi venire quando vuoi…
“Lo so, ma mi mancherai tanto comunque!”
“Anche tu mi mancherai. Ricorda di stare lontana dai fornelli.”

Maxine era così giunta a casa di Erik in compagnia di scatoloni e di Silver, il suo Demiguise, che aveva preso a guardarsi attorno pieno di curiosità prima di correre a frugare nella dispensa.
“Penso che ci vorrà un po’ a sistemare tutto, ma per fortuna possiamo contare sulla magia. Da dove vuoi iniziare?”
La strega si rivolse al fidanzato – e nuovo coinquilino – con un sorriso allegro che non venne ricambiato da Erik, che si limitò a baciarla prima di sollevarla prendendola per la vita e portarla verso la camera da letto, mormorando di volerle dimostrare quanto fosse felice di averla lì.
 
*
 
“Si può sapere chi è quella nuova in ufficio?”
“Come fai a sapere di Lucy?”
Erik, seduto sulla poltrona del salotto con Harmony in braccio e impegnato a dare il biberon alla piccola – avvolta in un body rosa confetto che aveva fatto storcere il naso a Max prima di vederlo addosso alla figlia e sciogliersi – alzò sconcertato lo sguardo sulla moglie: Maxine aveva smesso di fare l’Auror appena prima di sposarsi per aprire il negozio di antiquariato. Come faceva a sapere della nuova collega americana?”
“Ho ancora le mie fonti, ovviamente.”
Max incrociò le braccia al petto, alzando il naso per aria mentre stava in piedi di fronte al marito. Marito che inarcò un sopracciglio, scettico, e si diede mentalmente dello stupido per averlo chiesto:
“Le tue fonti sarebbero Audrey e Faye, suppongo.”
“Mi sembra ovvio, geniaccio. Beh, su, rispondi!”
“Non c’è niente da dire Max, è arrivata dal MACUSA una settimana fa.”
“Ah! Arriva una nuova collega super gnocca e lo ometti, bravo!”
“Non ho omesso nulla! Non mi risulta che tu mi abbia chiesto se ci fossero novità, altrimenti te lo avrei detto. … Ma come sai che è bella?”
“Ah! Allora pensi che lo sia! Sei fortunato a tenere in braccio Harmony, Murray.”
Gli occhi grigi di Max si ridussero a due fessure minacciose ed Erik deglutì, appuntandosi mentalmente di passare il resto della serata tenendo Harmony o Dorian in braccio. Forse così facendo si sarebbe salvato dalla furia gelosa della moglie.
“Ma Max, cosa c’entra, penso che Audrey sia una bella donna, ma non mi interessa affatto!”
“Ma Audrey è nostra amica, è diverso! Bah… vado a fare uno spuntino.”
Max si spostò solennemente verso la cucina ed Erik tirò un sospiro di sollievo, sperando che la moglie non decidesse di fargli visita al lavoro per vedere con i suoi occhi quella che da quel momento avrebbe chiamato “la rossa americana”.

 
*
 
Dopo essersi sposati e aver adottato Dorian, Max, Erik e Silver si erano trasferiti in una casa a schiera vicino a Londra. Le cose erano andate bene per qualche anno, ma quando Maxine restò incinta di Eris, dopo aver avuto Harmony, Selene e Jared, all’ormai numerosa famiglia si presentò un piccolo problema di spazio.
La strega insisteva per non volersi trasferire: il quartiere le piaceva, il giardino era grande, i bambini avevano fatto amicizia con i figli dei vicini e adoravano andare a giocare nel parco poco distante.
“Max, lo so che vivere qui ti piace, ma dove lo mettiamo il quinto marmocchio? Nel sottoscala?!”
“Certo che no! Non possiamo proprio aggiungere una stanza con la magia, vero?”
“Potremmo, ma poi chi glielo spiega ai vicini… no, non è fattibile, dobbiamo trovare un’altra soluzione.”
Seduto sul letto e appoggiato alla spalliera, Erik parlò assorto mentre lanciava in aria e riprendeva una palla da tennis con una mano.
La risposta ai loro dubbi arrivò una settimana dopo: la casa a schiera accanto venne ufficialmente messa in vendita.
“Erik! I Johnson si trasferiscono!”
“E quindi? Erano gli unici vicini che non mi piacevano con quella orrenda musica, tanto meglio.”
Erik parlò senza alzare lo sguardo dal giornale che stava leggendo, ignorando Harmony mentre la bambina gli attaccava delle mollette per stendere al bavero della giacca. Dorian faceva colazione con i suoi cereali a forma di animali e Selene mangiucchiava biscotti al cioccolato sul seggiolone.
“Piccola, se le usi tutte su papà poi come fa la mamma a stendere?”
Chinatasi sulla figlia, Max sorrise prima di prenderle dolcemente le mollette dalle mani e mandarla a fare colazione con i fratelli prima di rivolgersi al marito, più allegra e sorridente che mai:
 
“Non capisci? E’ perfetto! Possiamo comprarla, buttare giù qualche muro… insomma, ampliare questa casa! Così non dovremo nemmeno fare traslochi, è l’ideale! E così avremo anche spazio per eventuali bambini futuri.”
Udendo “eventuali bambini futuri” Erik quasi si strozzò col caffè, decidendo di soprassedere prima di lanciare un’occhiata di sbieco alla moglie:
“Non abbiamo bisogno di così tanto spazio extra, Max.”
“Lo so, ho pensato a tutto! Il piano di sopra sarebbe abitabile, così avremmo delle camere e un bagno extra… Il piano terra, ristrutturato, potrebbe diventare la nuova sede del negozio! Che ne dici? Così sarei sempre vicina ai piccoli senza dovermeli portare dietro, sarebbe perfetto!”
Erik non rispose, asserendo che ci avrebbero riflettuto prima di chiudere il giornale, darle un bacio sulla guancia, salutare i figli e andare al lavoro.
Il marito era appena uscito di casa quando Maxine si affrettò a chiamare Audrey:
 
“Ciao bellezza! Volevo dirti che ampliamo casa!”
“Davvero? Beh, mi sembra giusto, altrimenti avreste messo la numero 5 nel sottoscala…”
“E piantatela con questo sottoscala, per i tanga di Merlino!”
“Ma hai convinto il rompipalle?”

“No, ma è questione di giorni. Chiaramente avrò bisogno del tuo aiuto per l’arredamento, dobbiamo andare da Harrods. Urge della Polisucco, per caso ne puoi rubare un po’ dalla scorta di Pozioni degli Auror?”
 
*
 
Partire per le vacanze era, in assoluto, il momento peggiore dell’anno.
Erik Murray non avrebbe mai pensato di dire qualcosa del genere, ma ritrovatosi sposato con una squinternata e con una tribù di figli al seguito, dovette convincersene.
I preparativi impiegavano sempre almeno due giorni, e comunque finivano sempre per dimenticarsi qualcosa. I bambini non facevano altro che fare domande e cercare di portare più giochi possibili, infilandoli nei posti più impensabili e raggiungendo quote elevatissime di valige.
Mai come in quelle occasioni Erik ringraziava di essere un mago. Di certo un Babbano sarebbe impazzito.
“Ma come cazzo fanno i Babbani con tanti figli? Noi a stento sopravviviamo, e siamo maghi!”
“Non chiederlo a me… JARED, NO, non porti la caserma pompieri LEGO!”
“Sei cattiva!”
Il bambino, imbronciato, fece la linguaccia alla madre e fece dietro front per riportare in camera la fragile costruzione, lamentandosi a gran voce con il fratello maggiore Dorian mentre Harmony decideva quali bambole portare e quali lasciare a casa.
“Papino, i miei peluche non avranno paura a stare a casa da soli, vero?”
Eris tirò i pantaloni del padre, guardandolo con i grandi occhi chiari pieni di apprensione mentre Erik, sorridendole, si chinava per darle una carezza sui capelli:
“No tesoro, mettili tutti insieme sul tuo letto, si faranno compagnia a vicenda.”
La bambina sorrise e si allontanò sollevata per chiedere a Selene di aiutarla a scegliere quali portare con sé, e Max la seguì con lo sguardo prima di stringere la braccia attorno alla vita del marito e dargli un bacio sul mento:
“Sei così dolce con i bambini, a vederti da fuori è impensabile la trasformazione che avviene quando entri in casa e smetti di essere stronzetto e rompipalle…”
“Grazie Max, ti amo anche io.”
 
*
 
“Fermi tutti, prima di uscire… facciamo l’appello. Silver?”
“Eccolo!”
Max, che teneva il Demiguise sulle spalle, sorrise e lo indicò mentre il marito spuntava il suo nome dalla lista che aveva segnato su un pezzo di pergamena.
“Bene… Astrid? C’è. Dorian?”
“Presente!”
“Harmony?”
“Presente.”
“Selene?”
“Presente.”
“Jared?”
“Sono qua!”
“Eris?”
“Sì!”
La bambina, tenuta in braccio dalla madre, sorrise mentre stringeva il suo coniglietto bianco di peluche. Max le sorrise, dandole un bacio su una guancia mentre Astrid, la loro cagnolina, stava ubbidientemente accanto a Dorian.
“Damon?”
L’ultimo nome della lista seguì il silenzio più assoluto. Max ed Erik si scambiarono un’occhiata allarmata mentre gli altri figli si guardavano attorno spaesati, chiedendosi dove fosse il piccolo di casa.
“Max… hai svegliato Damon, VERO?”
“Per i tanga di Merlino, mi sono scordata!”
“MA BRAVA, adesso resterà sveglio e piangerà per tutto il viaggio! Dannazione… Aspettate qui, vado a prenderlo.”
Erik lasciò la lista a Dorian – l’unico su cui poteva fare affidamento in quella gabbia di matti, infatti non lo stupiva che l’avessero adottato – e andò a passo di marcia in camera per svegliare il piccolo, ignorando i sorrisi carichi di scuse della moglie.
 
*
 
Quando aprì lo sportello dell’armadietto, Max inarcò un sopracciglio nel ritrovarsi davanti uno dei suoi figli. Jared si portò un dito alle labbra, mormorando di essersi nascosto prima che la madre, annuendo con solennità, gli chiedesse in un bisbiglio di passarle un orologio a cucù.
Il bimbo obbedì e Maxine richiuse lo sportello facendo finta di nulla, tornando al bancone e sorridendo al cliente prima di porgergli l’oggetto di legno intagliato a meno.
“Eccolo qui, signor Bernards!”
“Mamma, hai visto Jared? Non lo trovo!”
Il cliente sussultò quando Harmony gli apparve accanto dal nulla, sbuffando quando la madre scosse il capo e le consigliò di cercare meglio.
La bambina si rimise alla ricerca del fratello zigzando da una parte all’altra del negozio e sotto gli sguardi curiosi dei clienti.
“Chiedo scusa, abitiamo qui sopra, i miei figli giocano… Allora, le piace?”
Prima che l’uomo potesse rispondere, un grido giunse chiaramente dalle scale poco distanti, facendo sospirare la donna dietro al bancone:
“MAMMAAAA, Eris mi ruba i colori a cera!”
“Non è vero!”
“Chiedo scusa.”
Max sfoderò il suo sorriso migliore prima di andare verso le scale, salire i primi gradini e poi urlare qualcosa a pieni polmoni.
“ERIS, RIDAGLIELI, NON E’ COLPA SUA SE PERDI SEMPRE I TUOI!”
Intanto anche Damon era apparso nella stanza, gattonando in giro sotto agli sguardi sempre più sconvolti della clientela.
“Ma quanti bambini ci sono qui dentro?”
“Si moltiplicano!”
“Siamo sei signora! Avete visto un bambino di cinque anni?”
Harmony sorrise allegra, ancora impegnata a cercare Jared mentre Maxine sbraitava ad Erik di “venire a rendersi utile”.
Poco dopo, Erik scese le scale che portavano al negozio sbuffando come una ciminiera, raccattando Harmony e Damon prima di portarli di sopra ignorando le proteste della figlia. Quando Maxine aveva appena venduto l’orologio a cucù lo sportello alle sue spalle si aprì cigolando e Jared sgattaiolò fuori dal suo nascondiglio, dando il cinque alla madre prima di tornare di sopra senza farsi notare.
Erano molti i clienti a scambiare quel posto per un asilo, e nessuno dei due proprietari poteva dar loro torto.
 
 
 
 
 
 
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Un sentito grazie alla mia cara ChemistryGirl per avermi fatto venire nostalgia dei nostri due squinternati pieni di figli. E’ sempre bello riprendere in mano vecchi personaggi, anche se Half-Blood ormai ha tre anni.

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Capitolo 34
*** A birthday picnic ***


A birthday picnic
 
 


Il vecchio stivale adibito a Passaporta fece apparire due persone nel bel mezzo di un’ampia strada di ghiaia che solcava una distesa di vasta campagna che si estendeva anche ben oltre il campo visivo del mago e della strega, che barcollò a causa del brusco atterraggio – per quanto le usasse da anni e ormai riuscisse a non cadere rovinosamente a terra quando giungeva a destinazione, la traversata era stata molto lunga e le vertigini si fecero comunque sentire – e allungò un braccio per aggrapparsi d’istinto a quello del marito. Fortunatamente Hector la sorresse e accennò un sorriso mentre lasciava cadere a terra il vecchio stivale marrone e logoro per avvicinarsi ad Adela e metterle la mano libera sulla spalla, chiedendole come stesse mentre la strega, deglutendo, sbatteva più volte le palpebre per cercare di reprimere il forte senso di nausea che l’aveva colpita. L’ultima cosa che voleva era arrivare alla festa e correre in bagno ancor prima di salutare la padrona di casa.
 
“Sono stata meglio, ma è il modo più veloce di viaggiare con distanze così lunghe, disgraziatamente… Mi passerà subito. Andiamo?”
“Certo.”
Hector scostò una ciocca di capelli castani della moglie per sistemarli dietro l’orecchio e si chinò leggermente per depositarle un bacio su una guancia prima di prenderla per man; seguendo la diramazione della strada di ghiaia, che con una dolce curva conduceva all’abitazione più vicina, i due si diressero verso un alto cancello di ferro battuto circondato da mura di pietra. Adela si stava giusto chiedendo come avrebbero fatto a palesare la loro presenza quando, con suo sollievo, il cancello si spalancò da solo con un lieve cigolio, permettendo ai due di entrare prima di chiudersi nuovamente alle loro spalle.
 
“Meno male, stavo già considerando l’idea di dover scavalcare…”
“Nelle tue condizioni non scavalcheresti nulla in ogni caso, Adela.”
“Io non scavalcherei niente anche se non fossi incinta, infatti parlavo di te tesoro.”
 
Le labbra di Hector si incresparono in un sorriso divertito mentre chinava lo sguardo per gettare un’occhiata alla moglie, che ricambiò mentre gli accarezzava il dorso della mano con le dita. Stavano parlando della festeggiata, sperando che non fosse arrivata prima di loro, quando avvicinandosi all’ingresso della villa in stile georgiano videro la porta d’ingresso bianca aprirsi e una donna dai lunghi capelli scuri acconciati in morbidissimi boccoli che le cadevano sulle spalle esili e un vestito stile midi bianco e celeste addosso uscì dall’edificio fermandosi sullo spiazzo di ghiaia che precedeva la casa, ad un paio di metri dal portico.
 
“Oh, ce l’avete fatta a raggiungere il lontano Northumberland, mi fa piacere! Come state?”
Aurora Temple piegò le labbra sottili in un sorriso mentre i suoi due ospiti la raggiungevano, Hector ricambiando il sorriso e Adela, invece, osservando con sincero sconcerto il bell’abito della padrona di casa: le piaceva moltissimo, ma come faceva Aurora ad indossarlo? Lei quasi sentiva freddo, con i suoi pantaloni a vita alta e la sua bella giacca abbinata sopra alla camicetta.
 
“La Passaporta è tremenda come sempre, ma nel complesso stiamo bene. Grazie per l’ospitalità.”
Hector, pur percependo chiaramente i pensieri della moglie – la conosceva da anni e ancora non comprendeva la sua totale insofferenza al “freddo”, anche quando c’erano 27° – sorrise all’ex compagna di Casa quando le si fermò davanti, continuando a tenere la mano della moglie mentre già si figurava la reazione della festeggiata. Peccato non avere una macchina fotografica a disposizione per immortalare la faccia che avrebbe fatto.  
“Questo e altro per la nostra ospite d’onore. Che, per altro, sarete felici di sapere deve ancora arrivare.”
Aurora sorrise mentre intrecciava le mani dietro la schiena, gli occhi chiari luccicanti per la sorpresa che aveva preparato per una delle sue più vecchie e care amiche. Adela, finito di arrovellarsi sul mistero legato al vestito dell’altra, si allungò verso la padrona di casa per salutarla con un bacio su una guancia, immensamente sollevata di non essere arrivata dopo la festeggiata:
 
“Meno male, temevamo che arrivasse prima di noi. Voglio vedere la sua faccia quando ci vedrà, penso che non sospetti nulla.”
“Assolutamente nulla, giusto ieri mi ha telefonato per lamentarsi del fatto che avrebbe dovuto passare il suo compleanno da sola con il “Piccolo Lord” perché voi due non avreste potuto lasciare l’India non avendo nessuno che badasse ai bambini e io ero impegnata in una corsa di beneficienza.”
Aurora ridacchiò e Adela sorrise trionfante mentre si voltava verso il marito, strattonandogli debolmente la mano per l’euforia: e lui che pensava che non ci sarebbero riusciti, a fregarla. Il solito ingenuo, adorabile Thor.
“Se l’è bevuta, siamo stati bravissimi! Regan che scusa ha inventato?!”
“Le ha detto che Stephanie si è slogata la caviglia scivolando dalle scale e che avrebbero dovuto restare a casa. Penso che sia stato uno spasso per tutti, fuorché per lei.”
 
“Dite che ci ucciderà, dopo l’iniziale euforia?”
 
Hector aggrottò la fronte e nessuna delle due streghe rispose, impegnate a riflettere e a rendersi conto che dopotutto quella era una possibilità da tenere in considerazione.
“Forse di me avrà pietà, sono incinta e lei ama i nostri figli, quindi… Anche se sta di nuovo cercando di convincerci a chiamarla Charlotte.”
Adela sospirò, scuotendo la testa con rassegnazione mentre Aurora sfoderava un sorriso divertito, Hector chinava accigliato lo sguardo su di lei e altre due persone li raggiungevano dal giardino sul retro dell’edificio.
“Come sai che è femmina anche questa volta?!”
“Lo so e basta. Ciao ragazzi!”
 
Adela rivolse un sorriso radioso a Regan e a Stephanie – che smise di rimproverare il marito per aver agguantato un bicchiere di idromele ancor prima dell’arrivo della festeggiata solo per ricambiare il saluto e il sorriso –, il primo con addosso una camicia leggera azzurrina e bretelle e pantaloni blu, la seconda con un vestito verde e bianco.
 
Ma non hanno freddo?!
 
Adela, non dirmi che hai freddo.”
“Smettila di parlarmi come un’aliena, sono cresciuta in India, te lo ricordi questo dettaglio?!”
“Ci passiamo tutte le estati da quando siamo sposati quindi sì, oserei dire di sì.”

 
“Sono arrivati!”
Stephanie sollevò di scatto il braccio destro per indicare un punto del giardino alle spalle di Adela ed Hector, che si voltarono di scatto per seguire la direzione indicata dall’Auror: in effetti altre due persone erano apparse nel giardino, entro il confine della recinzione, e vedendoli Aurora dovette premersi una mano contro le labbra per non scoppiare a ridere e rischiare di rovinare la sorpresa.
 
“Ti giuro William che se mi hai portata da mia madre io non ti sposo, scapperò direttamente dall’altare con il primo cameriere che mi capiterà sotto tiro.”
“La vuoi smettere, ti dico che non siamo da tua madre. Anche perché passare la giornata in quel modo sarebbe una tortura in piena regola anche per me, non solo per te, e io sono molte cose ma autolesionista no.”
“Bene, allora levami questa cravatta dalla faccia, così posso giudicare!”
 
William non rispose, limitandosi ad alzare gli occhi al cielo mentre teneva una mano sulla spalla sinistra della fidanzata e l’altra stretta sulla mano destra di Charlotte, bendata con una delle sue tante cravatte e impossibilitata a vedere dove si trovasse dopo essersi Materializzata chissà dove insieme a lui.
 
“Tra meno di un minuto te la tolgo, facciamo solo qualche altro metro.”
“Qualche altro metro?! Lo sapevo, vuoi farmi cadere in una fossa!”
 
Anche Adela soffocò a fatica le risate mentre guardava la sua migliore amica camminare a tentoni sul viale di ghiaia insieme al fidanzato, che le permise di fermarsi quando solo una decina di metri li separavano dai suoi amici più stretti.
“Adesso te la tolgo, va bene?”
“Sarebbe ora!”
 
Charlotte sbuffò con impazienza mentre sentiva le mani del fidanzato armeggiare con il nodo della cravatta sulla sua nuca, e stava pensando a come di certo quella stupida cravatta le avesse rovinato la piega dei capelli quando, all’improvviso, la strega tornò finalmente a vedere.
Per un attimo la luce improvvisa – il cielo era leggermente annuvolato, ma il Sole splendeva comunque dietro le nuvole – la costrinse a socchiudere gli occhi verdi, chiedendosi dove accidenti l’avesse portata il fidanzato prima di iniziare a mettere a fuoco l’ambiente circostante.
La casa in stile georgiano, in effetti, aveva un’aria familiare. Era sicura di esserci già stata più volte, in quel posto, anche se sul momento non seppe ricollegare l’edificio ad un proprietario preciso. La seconda cosa che notò fu il festone bianco appeso al portico che portava la scritta blu “Buon Compleanno” seguita dal suo nome, e infine scorse il piccolo gruppo di persone radunato davanti all’edificio.
 
Gli occhi verdi di Charlotte indugiarono subito su Adela, e un gridolino spontaneo si librò dalle labbra carnose dell’Auror prima di correre verso l’amica, attraversando la breve distanza che le divideva con poche falcate prima di stringerla in un vigoroso abbraccio.
“Adela, cosa ci fai qui?! Mi sei mancata!”
Adela ricambiò la stretta, asserendo che anche lei le era mancata – non si erano ancora viste da quando lei e Hector avevano raggiunto l’India – mentre anche William si avvicinava al gruppetto con un tiepido sorriso soddisfatto sulle labbra, le mani infilate nelle tasche dei pantaloni del completo leggero blu che indossava.
 
“Ciao Thor! Aurora, questa è la casa estiva inglese della tua famiglia! Ma non eri in America?! E voi non eravate in India?! E TU!”
Mentre Hector la stritolava in un abbraccio affettuoso Charlotte spalancò sgomenta gli occhi chiari indicando Stephanie, guardando la collega ridacchiare sfoggiando una caviglia perfettamente illesa.
“Non ti eri slogata la caviglia?! … Mi avete tutti presa in giro?”
 
“Sì, ma per una giusta causa, ovvero farti una sorpresa. Sul retro ti aspetta un magnifico picnic all’aperto con tutti i tuoi cibi preferiti, cuscini, una torta gigantesca e tanti palloncini appesi ovunque. Ovviamente tutto bianco e blu, dobbiamo onorare la nostra magnifica Casa.”
Aurora sorrise divertita prima di abbracciare a sua volta l’amica, felice di vederla dopo diverse settimane di lontananza. Adela, accanto a loro, annuì con aria solenne mentre Hector le metteva un braccio attorno alle spalle, stringendola dolcemente a sé:
“Lo trovo corretto, d’altronde la nostra è la Casa migliore.”
 
“Ahhh, non cominciate voi cervelloni solo perché siete in maggioranza, o non ne veniamo pi fuori come al solito. Mi limiterò a sottolineare che la Casa migliore è Serpeverde, e qui chiudo il discorso. Buon compleanno splendore.”
Regan, giunto il suo turno di salutare la festeggiata, le strizzo l’occhio prima di stringerla con il braccio libero e depositarle un bacio su una guancia, fingendo di non vedere l’occhiata colma di disapprovazione che si scambiarono Adela e Aurora mentre William, in piedi dietro Charlotte, si stringeva debolmente nelle spalle:
Io sono naturalmente d’accordo con Reggie.”
 
“Che novità Will!”
“Ehy, io e Will siamo due poverini che amano e devono sopportare le due donne Auror più testarde della storia, dobbiamo sostenerci a vicenda.”
“Giustissimo Reggie.”
Mentre Charlotte salutava anche Stephanie William assestò una leggera pacca sulla spalla dell’amico, che gli sorrise e ricambiò colpendolo affettuosamente sulla schiena prima di accingersi a seguire la padrona di casa verso il retro dell’edificio. Mentre Regan raggiungeva Stephanie e le cingeva la vita con un braccio con Adela ed Hector al seguito William indugiò sul prato per aspettare Charlotte, accennando un sorriso mentre allungava un braccio verso di lei per porgerle la mano e invitarla a stringerla. Per una volta la fidanzata lo accontentò, rivolgendogli a sua volta un sorriso prima di abbracciarlo e appoggiare brevemente la testa contro il suo petto.
“Grazie.”
“L’idea a dire il vero è stata di Aurora e Adela, non mi sembra giusto prendermi troppi meriti.”
“Lo avevo immaginato, ma grazie lo stesso anche a te.”
 
William smise brevemente di accarezzarle i capelli castani per chinarsi e depositarle un rapido bacio sulle labbra, ricambiando il suo sorriso prima che la voce allegra di Regan richiamasse la loro attenzione:
 
“Fidanzatini, forza, o tagliamo la torta senza la festeggiata!”
“Reggie santo Godric vieni qui e non disturbarli!”
 
Sospirando, Stephanie agguantò il marito per un braccio e se lo trascinò appresso per prendere da bere mentre Aurora emetteva versi inteneriti incomprensibili alla vista delle foto dei pargoli di Hector e Adela e Charlotte, ridendo piano, si staccava lentamente da Will per tornare a prenderlo per mano e sorridergli, divertita e profondamente grata al tempo stesso:
 
“Andiamo? Perché la prima a mangiare la torta devo essere io, lo sai.”
“Lo so. Andiamo, CeCe.”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Porco Salazar (benchè la mia Casa preferita sia Tassorosso, dobbiamo sostenerci a vicenda quindi Will e Reg io mi accodo a voi) quanto mi sono mancati e anzi, quanto mi mancano questi ragazzi. Giuro, riscriverei tutto Magisterium da capo (ma con gli stessi OC, si intende) solo per poter tornare a scrivere stabilmente di loro, perché diciamocelo, quanto erano belli Charlotte, Will, e Regan (ma non scordiamoci di Lyanna, sempre nel mio cuore anche lei) ad Hogwarts? Ah, se solo avessero continuato le carriere di insegnanti si potrebbe fare un bellissimo reboot, ma disgraziatamente non è così.
Me ne vado alla velocità della luce prima che idee malsanissime mi intacchino la mente, mi limito a sperare vivamente che questa piccola OS vi sia piaciuta e che abbiate apprezzato ritrovare questi OC. Un enorme grazie, dovutissimo, a Bea, Em, Phoebe e Amilcara per avermeli mandati, tanto tempo fa. E grazie anche a te autrice di Will, di nuovo.
Un bacio da parte mia e di CeCe,
 
Irene
 
 

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Capitolo 35
*** May the 4th be with you ***


May the 4th be with you
 
 
 
M-H



Se c’era una cosa che Håkon Jørgen non amava era essere svegliato presto nel weekend, sempre che il gesto non avesse origine dalla sua adorata ed unica figlia. Figlia che il giorno prima aveva portato a casa dei suoi genitori e che non avrebbe dovuto andare a prendere prima di quel tardo pomeriggio, ragion per cui un lieve gemito di protesta unito ad uno sbuffo fu ciò con cui il mago iniziò quella domenica di inizio ottobre quando si sentì sfiorare il braccio, muto invito ad aprire gli occhi e a destarsi dal mondo dei sogni.
“Margi, cosa c’è…”
Seppur a malincuore Hakoon si costrinse a dischiudere le palpebre, sollevandole quel che gli bastava per mettere a fuoco il volto pallido e sorridente della donna che sedeva davanti a lui sul bordo del letto, una mano poggiata sul suo braccio lasciato nudo dalla maglietta nera che indossava per dormire.
“Alzati, andiamo a fare colazione.”
“Non possiamo farla dopo?”
“Dopo sarà pieno. Forza, alzati.”
Håkon non aveva idea di che cosa la strega stesse parlando – era sveglio da un numero di minuti fin troppo esiguo –, tanto che la guardò aggrottando le sopracciglia e con gli occhi scuri ancora annebbiati dal sonno, ma Margot si limitò a protendersi verso di lui per scoccargli un bacio su una guancia, alzandosi dal letto e uscendo dalla loro camera prima di dargli il tempo di chiederle spiegazioni.
Håkon non aveva poi tanta voglia di lasciare il suo comodo e caldo giaciglio e avrebbe preferito di gran lunga crogiolarsi in stato di dormiveglia abbracciando la sua fidanzata e lasciandosi avvolgere dal tepore delle coperte ancora per un po’, ma poiché non voleva contraddire Margot finì col scostarsi le lenzuola di dosso e trascinarsi a piedi nudi verso il bagno collegato direttamente alla loro camera mediante una porta di legno scorrevole verniciata di bianco, lavandosi il viso con acqua gelida per lasciarsi il sonno alle spalle.
Pochi minuti dopo la sua alta figura apparve nella cucina del cottage stagliandosi sull’ampia apertura nella parete che la collegava all’ingresso, vestito ma con i capelli ancora arruffati. Un’occhiata alla finestra più vicina bastò per informarlo di quanto il cielo fosse già grigio e pieno di nuvole, cosa che non lo stupì affatto, e Håkon si chiese con sincera perplessità dove Margot volesse portarlo quando adocchiò lo zaino di tela color sabbia coperto da margheritine ricamate che la strega stava finendo di riempire appoggiandosi al massiccio tavolo di legno che si trovava in mezzo alla stanza.
 
“Dove andiamo?”
L’astronomo la guardò chiudere le cerniere dello zaino e sorridergli allegra inarcando un sopracciglio, chiedendosi ancora una volta dove trovasse tutta la sua energia mentre Margot gli si avvicinava, uno spesso maglione color crema addosso e stivali Wellington ai piedi:
“Colazione, te l’ho detto. Prendi la giacca di pelle, fa freddino.”
La strega si alzò in punta di piedi per baciarlo, dopodiché si issò lo zaino in spalla e lo superò senza dire una parola, dirigendosi verso la porta celeste del cottage sotto lo sguardo ancora leggermente attonito del fidanzato.
 
 
 
Se glielo avessero chiesto Håkon di certo non avrebbe definito il clima come quello più idoneo ad un picnic, ma l’ultima cosa che voleva era amareggiare la sua fidanzata dopo che lei si era prodigata per preparare la colazione per entrambi, tanto che finì col seguirla fuori di casa e lasciare che Margot lo prendesse per mano per Smaterializzarsi altrove senza fare storie. In più, aveva ormai imparato che per gli scozzesi quelle temperature erano perfettamente nella norma, per non dire più che accettabili: probabilmente per chi come Margot era cresciuta in quei luoghi una giornata del genere era quasi l’equivalente di una giornata soleggiata.
Si era lasciato condurre, il sonno che andava via via svanendo, sulle sponde del Loch Linnhe, il Lago su cui la cittadina dove vivevano, Fort William, si affacciava. Aveva letto, o forse era stata Margot a dirglielo, che da quelle parti si potevano persino ammirare delle foche, e mentre rabbrividiva leggermente si ritrovò a non considerarla affatto una sorpresa. Margot lo prese per mano e lo condusse per un breve tratto di riva leggermente fangosa, reduce di lunghi giorni di pioggia, fino a fermarsi su un pontile di legno che si affacciava direttamente sulle acque grige e gelide del Lago.
Fu lì che si sedettero, le gambe penzoloni oltre il bordo, e che Margot sistemò lo zaino prima di aprirlo e di lasciare che si svuotasse da sé con un lieve colpo di bacchetta, consentendo ad una tovaglia beige a motivo florale di dispiegarsi in mezzo a loro e a tazze, cucchiai, zucchero, due thermos, uno contenente caffè e l’altro latte, burro, pane già tagliato e marmellata di disporsi sopra di essa.
Per qualche minuto nessuno dei due parlò mentre sorseggiavano caffè caldo tra un boccone di pane coperto da burro e marmellata e l’altro, gli sguardi che vagavano sul panorama mentre si godevano la pace e il silenzio. Håkon, suo malgrado, si ritrovò ad ammettere che quei luoghi e la calma quasi surreale che evocavano possedevano qualcosa di estremamente rilassante, e anche se faceva freddo e il clima era umido si lasciò avvolgere da quello strano senso di pace e di quiete, come se lui e Margot fossero le uniche persone rimase in quella piccola parte di mondo.
“Devo ammettere che è bello.”
“Non è un fascino che colpisce chiunque. È la Scozia. O la ami o subisci la sua suggestione o la odi e la trovi un buco cupo su cui piove sempre.”
Margot addentò la sua fetta di pane stringendosi nelle spalle, gli occhi celesti che vagavano pensosi sulle montagne poco distanti. Si chiedeva spesso con lieve inquietudine se ad Håkon vivere nelle Highlands piacesse o se invece si sentisse costretto solo e soltanto a causa sua, ma il turbinio di pensieri poco piacevoli che l’aveva colta venne bruscamente spazzato via quando il danese, terminata la colazione, si spostò sul bordo del pontile in modo da trovarsi vicino a lei, estraendo la coperta che Margot aveva infilato nello zaino per avvolgerla attorno ad entrambi. Circondò le spalle esili della strega con un braccio e appoggiò la propria testa contro la sua, baciandole la tempia prima di sorridere e parlare a bassa voce:
“Grazie per la colazione. Tre delle mie cose preferite al mondo tutte insieme.”
“Caffè, burro… la terza?”
“Indovina.”
Håkon sorrise e Margot ricambiò prima di tornare brevemente a guardare il lago, gettando un’occhiata inquieta al panorama prima di tornare a concentrarsi sul suo viso, gli occhi velati da un accenno di preoccupazione:
“Sei sicuro che vivere qui non ti pesi? Non dev’essere così per forza, se a te non sta bene. Davvero. Io ci sono nata qui, ma capisco che non è… adatto a tutti.”
Quella domanda parve sorprendere Håkon, che la guardò sollevando entrambe le sopracciglia per un paio di lievi istanti prima di annuire e distendere le labbra in un sorriso, sfiorandole una ciocca di capelli castani per allontanarla dal suo viso e posarle una mano sulla guancia:
“Certo che sì. So quanto ami questi posti e non vorrei mai farteli lasciare. Sto bene qui perché ci sei tu, il resto non conta molto.”
“Anche se piove sempre?”
Håkon in effetti non era un grande fan della pioggia, ma in fin dei conti aveva vissuto in Groenlandia, nell’angolo di mondo più freddo, isolato e sperduto. Che cos’era un po’ di pioggia, dopotutto? Annuì e le sorrise, baciandole la punta del naso infreddolito per rassicurarla:
“Per fortuna porto sempre gli anfibi.”
 
 
*
 
 
Håkon Jorgen aveva smesso di considerarsi un fan di Halloween più o meno quando aveva iniziato il suo primo anno ad Hogwarts, quando secchielli per dolci a forma di zucca e travestimenti erano stati sgomberati dalla sua vita, ma se c’era una cosa che la paternità gli aveva insegnato era la frequente necessità di assecondare le più o meno bizzarre inclinazioni di sua figlia, primo tra tutti il comune ed infantile desiderio di trasvestirsi e di bussare di porta in porta chiedendo dolcetti.
Håkon teneva a sua figlia e a farla felice più di qualsiasi altra cosa ma era al tempo stesso consapevole che per quanto potesse sforzarsi quello non sarebbe mai stato il genere di cose in cui, come padre, sarebbe riuscito ad eccellere. Per questo motivo per lui era una vera fortuna poter contare su qualcuno molto più avvezzo a quel genere di cose, nonché più incline a riuscire a trasformare qualsiasi cosa in un gioco, qualcuno che contrastava la cupezza del suo aspetto dispensando sorrisi che riuscivano ad illuminare stanze intere.
Margot era la persona più capace con i bambini che avesse mai conosciuto, il classico soggetto di cui ogni creatura infantile finisce con l’innamorarsi perdutamente al primo sguardo e che sembra capace di dire e fare sempre la cosa giusta quando ha un bambino attorno, ma per la prima volta da quando era diventato padre Hakoon si ritrovò a mettere in dubbio, accigliato, ciò che la donna aveva architettato: non riusciva a capire in che modo i suoi abiti avrebbero potuto essere considerati un costume. A lui sembrava di essere vestito in modo perfettamente normale: pantaloni neri, anfibi ai piedi, felpa nera. Insomma, era agghindato più o meno come in ogni momento dell’anno, e l’unica cosa che la fidanzata gli aveva espressamente chiesto di indossare e comprato per l’occasione era stata una sciarpa a righe, grigia e nera.
Margot Campbell era conosciuta per le sue sciarpe coloratissime e per la ramanzine che era solita rivolgergli a causa del suo vestiario total black, tanto che Håkon mai avrebbe creduto di vederla porgergliene una di quel genere: tutto ciò che era riuscito a fare era stato sbattere in silenzio le palpebre più volte, incerto se accettare di buon grado l’accessorio o se preoccuparsi per la sua salute.
Ora Håkon Jorgen aspettava in piedi nell’ingresso del cottage dove da ormai qualche mese viveva con Margot e sua figlia, in attesa che le due uscissero dalla camera di Freya dichiarandosi pronte per uscire. Non aveva idea di quale costume le due avessero scelto – ma dopo averle viste bisbigliare e ridacchiare con fare cospiratorio per settimane non aveva un buon presentimento – e si chiedeva perché Margot gli avesse concesso di vestirsi normalmente: era davvero la stessa donna che l’anno prima lo aveva obbligato ad accompagnare Freya per le strade vestito da pirata? Con la figlia agghindata da pappagallino sulle spalle?
C’era qualcosa che non quadrava, era tutto troppo bello per essere vero. Conosceva Margot da troppo tempo per credere all’assenza di una qualche fregatura che invece doveva essere dietro l’angolo, ma per quanto si stesse sforzando Håkon non riusciva a vederla, né a realizzare come e perché il suo outfit avrebbe potuto rivelarsi un costume.
Sul momento, in effetti, non lo capì nemmeno quando dei passi leggeri sulle scale anticiparono la comparsa di sua figlia nel piccolo ingresso del cottage dalle pareti verniciate di bianco e il parquet chiaro, più nuovo della struttura dell’edificio. Quando diede le spalle alla porta d’ingresso celeste per posare lo sguardo sulla figlia Håkon inarcò un sopracciglio, visibilmente scettico: sua figlia gli stava sorridendo allegra sfoggiando una minuscola salopette di jeans, sneakers bianche e una maglietta a righe orizzontali bianca e arancione. Margot le aveva legato i ricci capelli castani in un codino alto con un elastico fucsia dal quale pendevano delle ciliegie, il preferito della bambina. Nel complesso sua figlia appariva, ovviamente, la più adorabile delle creature, ma Håkon si chiese se per caso Margot non avesse scordato di dare un’occhiata al calendario: non sembrava affatto un costume, quello di Freya, così come il suo!
“Papino, sono pronta! Ti piace il mio costume?”
Freya sembrava estremamente orgogliosa del suo aspetto, a giudicare da come si mise le manine sui fianchi e ruotò leggermente su se stessa per farsi ammirare, preda della sua vanità infantile. Ma Håkon, pur trovandola deliziosa, non capì quale fosse il costume che avrebbe dovuto ammirare.
“Emh, certo tesoro, sei bellissima. Ma… da cosa sei vestita?”
Freya non parve accogliere di buon grado la sua domanda: la bimba spalancò sgomenta i grandi occhioni castani e sbuffò esasperata, incrociando le braccine al petto prima di dichiarare seccata di avere un padre che non capiva nulla. Quelle sembravano parole pronunciate da qualcuno che certo non aveva sei anni, e Håkon credette di capire: in effetti quell’outfit qualcuno glielo ricordava.
Sei vestita da mini Margot?” 
Freya parve ancora più delusa, perché scosse la testa prima di voltarsi verso le scale, rivolgendosi a gran voce all’altra donna di casa mentre una porta veniva chiusa sopra le loro teste, anticipando i passi di Margot sulle scale. Hakon corrugò la fronte, stanco di non capire: perché sua figlia si scandalizzava? Margot le salopette e le sneakers bianche le indossava eccome.
“Zia Margi, non ha capito!”
“Che ci vuoi fare, a volte è un po’ testone. Pronta, possiamo andare!”

Fu solo quando Margot si piazzò di fronte a lui, ai piedi delle scale, con un largo sorriso ad illuminarle il volto, lo stesso che abbagliava chiunque si trovasse sul cammino della donna, che Hakoon capì. Certo gli ci volle qualche istante, perché in un primo momento anche l’abbigliamento della strega gli parve rientrare nella norma – forse non erano molte le donne della loro età che indossavano sgargianti felpe gialle e salopette di jeans, ma per lei non si trattava di nulla di eccezionale –, ma infine l’astronomo collegò tutti i pezzi. E si sentì peggio di un anno prima, quando si era dovuto conciare da pirata.
“Stai scherzando. Mi stai facendo andare in giro come quel tizio con naso enorme dei Minions?!”
Il nome del tizio in questione non lo ricordava, ma ricordava chiaramente il film da cui proveniva da quante volte era stato costretto a vederlo. E gli enormi occhiali da scienziato pazzo che Margot si era allacciata sulla fronte, uniti alla sua felpa gialla e alla salopette, non lasciavano spazio a molti dubbi. Mentre l’orrore si faceva largo sul viso del mago Freya trillò felice, finalmente il suo papà aveva capito da cosa si fossero vestite, e Margot cercò in tutti i modi di non mostrare alcuna traccia di divertimento mentre sorrideva, annuendo amabile:
“Beh, tesoro, ti lagni sempre perché non vuoi travestirti, ti sei praticamente vestito da te stesso, di che ti lamenti? Freya è un’Agnes perfetta, non trovi?”
Una battutina sulla questione nasale venne fermamente trattenuta da Margot sulla punta della lingua, e la strega si limitò a sorridere amabile al fidanzato mentre s’infilava il cappotto leggero blu: sapeva che Hakoon non avrebbe mai contraddetto il loro costume di gruppo davanti alla figlia, e infatti lo vide scoccare un’occhiata incerta alla bimba, che stava agitando impaziente il suo secchiello a forma di zucca, prima di schiarirsi la voce e convenire con lei:
“Certo, ma…”
“È il costume perfetto per noi! Freya, mettiti la giacca, fa troppo freddo per andare in giro senza.”
Margot sfilò la giacchina rosa di Freya da uno dei ganci dipinti d’azzurro dell’appendiabiti di legno bianco appeso accanto alla porta, aiutandola ad infilarlo mentre la bambina parlava emozionata di tutti i dolci che le sarebbe piaciuto raccogliere. Håkon boccheggiò cercando qualche argomentazione per protestare, ma in men che non si dica si ritrovò fuori di casa, avvolto dal pungente freddo scozzese e con una mano della figlia stretta nella sua. Subito Freya trascinò entrambi verso le file di cottage che popolavano la stradina di Fort William dove vivevano, destando un complimento dietro l’altro nei vicini per il loro costume e risatine sommesse da parte di Margot. A fine serata, quando rientrarono a casa, Freya corse in cucina per rovesciare il contenuto del secchiello sul tavolo e dare un’occhiata al suo bottino, consentendo a Margot di indugiare nell’ingresso per abbracciare Håkon e appoggiare il mento sollevato contro il suo braccio, complimentandosi beffarda con lui per l’aria cupa che aveva sfoggiato per calarsi al meglio nella parte.
“L’anno prossimo deciderò io il costume.”
Håkon le scoccò un’occhiata che giurava rivincita, ma invece di scomporsi Margot si strinse nelle spalle, continuando a sorridere come se nulla fosse:
“Come preferisci, nessun problema per me. Anche se rispolverare il vestito da pirata non sarebbe una cattiva idea, la camicia bianca con i lacci ti stava proprio bene.”
 
Margot gli strizzò l’occhio prima di sciogliere l’abbraccio e dirigersi in cucina sfilandosi il cappotto, rispondendo ai richiami di Freya. Håkon rifletté per qualche istante prima di seguirla, pensando alla camicia bianca troppo larga che era stato costretto ad indossare: il bianco non era il suo colore e si era sentito ridicolo nell’indossarla, ma tutto sommato avrebbe anche potuto fare un sacrificio e rimetterla di tanto in tanto, se a lei piaceva.
 
 
*
 
 
Scorgere Freya e Margot bisbigliare non era mai un buon segno, Håkon lo aveva appreso a proprie spese già quando la figlia aveva iniziato ad andare all’asilo. Di solito le due si alleavano contro di lui per costringerlo a fare qualcosa che proprio non gli andava, e quando gli capitava di vederle parlare e zittirsi di colpo alla sua comparsa finiva sempre con l’insospettirsi.
E mai a torto.
Una settimana prima le aveva colte in flagrante più di una volta, e un sabato sera Margot appoggiò in mezzo al tavolo un sottopentola di sughero con motivo a margheritine insieme ad una pirofila di ceramica bollente e profumata che confermò tutti i suoi peggiori timori: salmone in crosta di patate? Doveva per forza essere in arrivo una notizia terribile, e subito Håkon s’insospettì: Margot cucinava i suoi piatti preferiti quasi sempre per ammorbidirlo, e il salmone anticipava spesso eventi ad alto rischio.
“Håk, io e Freya abbiamo preso una decisione. E siamo in maggioranza, quindi ti informiamo solo perché, beh, anche tu vivi qui. Ma siamo in democrazia, quindi è già deciso.”
“Che gentili. Grazie per la considerazione e per ricordarvi che anche io vivo qui, di tanto in tanto. Cosa avete deciso? Disneyland?”
Håkon inarcò un sopracciglio mentre faceva rimbalzare lo sguardo dal viso della figlia fino a quello della fidanzata, scettico e già sulla difensiva. Capì di non essere nel giusto quando Freya quasi saltò sulla sedia guardando Margot con gli occhioni spalancati in segno di preghiera, ma la donna si limitò ad un appena percettibile cenno di diniego del capo – condito con uno sguardo che promise alla bambina che ne avrebbero riparlato in un altro momento – prima di sorridere e far sì che le posate tagliassero da sé le porzioni di salmone con un lieve tocco di bacchetta.
La strega attese che il piatto del fidanzato fosse pieno prima di parlare, scelta del tutto casuale che non sfuggì all’attenzione di Håkon: i grandi occhi celesti della strega lo invitarono a mangiare sbattendo amorevolmente le folte ciglia scure, e il mago obbedì – di certo non avrebbe rifiutato del salmone – pur senza abbandonare il cipiglio sospettoso. Margot si servì per ultima, premurandosi di attendere di vedere Håkon ingurgitare il primo boccone prima di sorridere e servirgli la grande notizia:
“Prenderemo un cane!”
“Sìììì!”
Freya sorrise muovendosi eccitata sulla sedia, gli occhi scuri pieni di gioia mentre il sorriso si allargava sul volto di Margot. Håkon invece smise bruscamente di masticare, incredulo, guardando la fidanzata con gli occhi fuori dalle orbite. Un cane?! Oltre a quelle due avrebbe dovuto badare anche ad un cane?!
“E lo chiameremo Chewbie!”
“Sìììì!”
Come sedare gli entusiasmi senza apparire come il perfido padre crudele che negava un cucciolo alla sua figlioletta? Håkon masticò il boccone riflettendo rapidamente, deglutendo prima di esprimersi con il tono più pacato di cui era capace:
“Non chiameremo mai un cane Chewbie. Al massimo un nome serio, come Thor. Punto primo. Secondo, non sono d’accordo. Mi piacciono i cani, ma non penso sia una buona idea… Siamo già tanto occupati così, Margi.”
“Ma io voglio tanto un cucciolo!”
Freya lo guardò parlando con tono lacrimoso, ma Håkon scosse la testa, asserendo di non essere per niente d’accordo. Stava per tornare a concentrarsi sul salmone quando incrociò malauguratamente lo sguardo di Margot, scontrandosi con orrore con i suoi splendidi occhioni imploranti e lacrimosi a sua volta. Come poteva dire di no di fronte a quella temibile combo e deludere le due persone che amava di più al mondo? alla fine Håkon sospirò, arreso e consapevole di come quelle due avrebbero passato il resto della vita a manipolarlo.
“… Che cavolo. Ok, ne possiamo parlare. Ma se anche fosse esigerei un maschio, qui ci sono già troppe donne. E mai, mai Chewbie!”
 
 
*
 
 
Un mese dopo un pelosissimo Goldendoodle color caramello varcò la soglia del cottage, felicissimo per aver finalmente lasciato la gabbia del canile: Freya e Margot si erano talmente commosse di fronte a tutti quei cani abbandonati da far temere ad Håkon di scorgerle tornare a casa con almeno quattro o cinque al seguito, ma per fortuna avevano finito col sceglierne solo uno, il più peloso del canile.
Chiaramente l’aspetto del cane contribuì ad incrementare la determinazione di Margot nel chiamarlo Chewbie, e Håkon presto dovette arrendersi. Al nome al suo rivelarsi il cane più viziato di tutta la Scozia, nonché nuovo fulcro delle attenzioni di sua figlia e della sua fidanzata: le due trascorsero tutto il giorno appreso al nuovo arrivato, giocando con lui dentro e fuori casa e riempiendolo di coccole. Chewbie aveva già una cuccia comodissima tutta sua, copertine e giocattoli in ogni angolo, ma naturalmente quella sera, giunto il momento di spegnere le luci, il cane finì col sentirsi solo e uggiolare davanti alla porta chiusa della sua camera e quella di Margot.
Quando aveva acconsentito a prendere un cane Håkon aveva fatto promettere a Margot che mai e poi mai lo avrebbero fatto dormire in camera loro, men che meno sul letto, ragion per cui l’astronomo smise di premersi il cuscino e la federa con le costellazioni sulla faccia per sibilare qualcosa in direzione della fidanzata, che invece sedeva sul materasso con le gambe incrociate e lo sguardo tetro puntato sulla porta bianca chiusa:
“Non pensarci neanche.”
“Ma sveglierà Freya! E non farà dormire neanche noi. E poi mi fa pena, scusa se ho un cuore!”
“Se lo fai dormire qui si abituerà e vorrà starci sempre, in camera nostra! Margi!”
Ma Margot era già balzata giù dal letto e si stava dirigendo verso la porta in uno svolazzo del pigiama bianco a fiorellini che indossava, aprendo la porta per consentire a Chewbie di entrare scodinzolando nella stanza rimasta fino ad all’ora inesplorata. Håkon guardò rassegnato il cane annusare dappertutto, incluse le sue pantofole, e un attimo dopo il simpatico muso peloso del nuovo membro della famiglia si trovava a pochissimi centimetri dal suo viso, guardandolo scodinzolando.
“No. Sta’ giù. Non mi fai pena.”
Håkon concluse la sua arringa girandosi sul fianco per dare le spalle al cane, giusto per essere certo di non farsi impietosire. Margot, tornata a letto, sbuffò prima di fargli notare la crescente somiglianza tra lui e la sua acida prozia Mildred sprimacciando il suo cuscino, ma Håkon la ignorò e chiuse gli occhi, deciso ad addormentarsi il più rapidamente possibile.
Cinque minuti dopo udì un peso abbassare il materasso e qualcosa annusargli i piedi al di sopra del piumone celeste. Margot soffriva il solletico e finì presto col contorcersi ridendo, ma Håkon non si unì a lei, limitandosi a scoccarle un’occhiata truce – era tutta colpa sua, dopotutto – mentre Chewbie si accomodava soddisfatto ai piedi del letto.
“Perché ho la sensazione di essere l’ultimo per importanza in questa casa?”
Margot liquidò il suo brontolio con un sorriso e un frettoloso diniego, scoccandogli un bacio sulle labbra e uno sulla punta del naso prima di accoccolarsi contro di lui e augurargli la buonanotte con le labbra incurvate verso l’alto, felice. Seppur indispettito Håkon l’abbracciò d’istinto, maledicendo l’altissima adorabilità della sua fidanzata che gli impediva perennemente di avercela con lei per di più di venti secondi consecutivi.
 
 
*
 
 
Håkon, che si era subito dichiarato contrario all’idea di adottare un quadrupede peloso, finì con il diventare l’addetto delle passeggiate del weekend. All’inizio si era opposto, ma Margot aveva rilanciato con un’argomentazione tra le più convincenti: se voleva che cucinasse ottimi pasti, quando doveva anche destreggiarsi tra il correggere i compiti, pulire e aiutare Freya con i suoi, lui doveva portare fuori Chewbie nel weekend. Inutile dire che di fronte alla prospettiva di privarsi dell’ottima cucina della strega Håkon aveva subito ceduto.
Un sabato pomeriggio – pioveva, strano a dirsi – Håkon imboccò la stradina di ghiaia che dallo steccato di legno e dalla cassetta della posta gialla coperta di apine conduceva alla porta d’ingresso del cottage sbuffando come una ciminiera, Chewbie coperto da un telo impermeabile pieno di piccole immagini che ritraevano il personaggio da cui aveva preso il nome accanto a lui. Il tempo faceva schifo, si era bagnato e infangato gli anfibi lucidati la sera prima per percorrere solo pochi metri, faceva freddo e avrebbe persino dovuto pulire le zampe di Chewbie prima di entrare in casa. Giunse in prossimità della porta chiudendo l’ombrello e sperando quantomeno che la fidanzata avesse intenzione di preparare del salmone per cena, quando l’occhio gli cadde sull’inusuale zerbino che faceva capolino dinanzi all’ingresso.
Uno zerbino che, ne era certo, quando aveva lasciato casa poco prima non c’era.
“Margi!? Hai di nuovo speso soldi su Etsy per queste puttanate?!”
Freya era dai nonni: poteva dire tutte le parolacce che voleva. Pronunciando a gran voce quelle parole non gli servì nemmeno suonare il campanello – che aveva lottato per non far diventare un motivetto della colonna sonora di Star Wars –, annunciando da sé il proprio arrivo e consentendo a Margot di aprire la porta sfoggiando la sua miglior espressione di incredulità:
“Ma che stai dicendo, è vecchio! L’ho preso secoli fa. Sei tu che non vedi ad un palmo dal tuo naso. Vieni piccolo, ti sei bagnato povero cucciolo?”
Margot subito distolse l’attenzione da lui per indirizzarla sul cane, sorridendogli amorevolmente mentre gli sfilava la cerata e Appellava un asciugamano per tamponargli il pelo color biscotto. Håkon entrò in casa sfilandosi gli anfibi gettando un’occhiataccia alla fidanzata, facendole notare come anche lui si fosse bagnato parecchio prima di depositare ombrello e scarpe fuori dalla porta, accanto allo zerbino che aveva tutta l’aria di essere nuovissimo e che riportava la scritta “Chewbie, we’re home”.
 
Non lo aveva mai visto in vita sua e di certo Margot aveva atteso di spedirlo fuori di casa per metterlo fuori dalla porta, Håkon ne era sicuro. Margot non lo ammise mai, ma per fortuna il salmone di qualche ora dopo distolse la mente del brillante astronomo dai suoi acquisti compulsivi da nerd incallita.
 
 
*
 

 
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“Pronta, possiamo andare. Sto morendo di fame, quindi spero che sia pronto anche tu.”
Dopo essere uscita dal bagno collegato direttamente alla loro camera da letto Margot recuperò le scarpe col tacco nere dal pavimento per infilarle ai piedi con rapidi gesti resi ormai meccanici dall’abitudine, impedendosi così di scorgere l’espressione di sgomento misto a meraviglia con cui Håkon aveva accolto il suo ingresso nella stanza: l’uomo a stento udì ciò che la strega disse, limitandosi a restare immobile, seduto sul bordo del letto rifatto con cura e coperto da cuscini morbidissimi, nel suo outfit rigorosamente total black composto da pantaloni, camicia leggermente lucida e giacca.
Non c’era nulla di inconsueto nel suo vestiario, ma lo stesso non si poteva dire di quello sfoggiato da Margot, che finì di indossare le scarpe e recuperò una delle sue boccette di profumo dalla superficie della cassettiera di legno chiedendogli accigliata perché la stesse guardando con quell’aria stranita.
“Hai… un vestito nero?”
Håkon fece scivolare lo sguardo sulla figura minuta della fidanzata e sul suo tubino nero lungo leggermente fin sopra al ginocchio sbattendo le palpebre, incerto. Forse stava avendo un’allucinazione.
“Certo, che domande fai?!”
“Ma… è per caso diventato nero perché lo hai lavato con i miei vestiti?”
O forse stavano andando ad un funerale e non ne aveva idea?
Per tutta risposta Margot scoppiò a ridere, scuotendo la testa mentre colmava la differenza che li separava camminando sulle assi del parquet chiaro con i tacchi a spillo che, a detta sua, la rendevano alta “come una persona normale e non come un Hobbit”. La strega gli si fermò davanti stringendogli dolcemente le spalle, rassicurandolo di non essere stato colpito da un’allucinazione e che sì, il suo abito era nero.
“Ma stai bene?”
Di nuovo Margot rise, annuendo di fronte al suo sguardo sospettoso mentre gli portava entrambe le mani ai lati del viso, accarezzandogli gentilmente gli zigomi alti e pronunciati:
“Benissimo, solo molto affamata.”
“Ti avrò visto con un vestito nero forse due volte in vita mia. E ci conosciamo da decenni.”
“Ho solo pensato che ti sarebbe piaciuto.”
Margot distese le labbra in un sorriso e all’improvviso, guardandola meglio, Håkon smise di concentrarsi sul colore del vestito in sé per prestare invece attenzione a tutto l’insieme. Appurato quanto la fidanzata fosse bella e resosi conto di vederla indossare qualcosa del suo colore preferito per la prima volta da quando stavano insieme Håkon annuì, stringendole dolcemente la vita stretta per attirarla a sé e baciarla mentre le dita di Margot gli accarezzavano i capelli corti. Quando le loro labbra si staccarono Håkon non la lasciò andare, guardandola sentendosi sinceramente combattuto tra l’idea di alzarsi e quella di trascinarla accanto a sé sul letto.
“Ci dobbiamo proprio andare a cena?”
“Vorrei dire di no, ma ho davvero fame.”
A pensarci bene valeva anche per lui, così dopo una rapidissima riflessione Håkon annuì, le afferrò una mano e alzò in piedi per dirigersi a passo deciso verso la porta aperta della camera, annunciando che avrebbero cenato il più rapidamente possibile mentre Margot lo seguiva ridendo e camminando in equilibrio sui tacchi alti.
 
Poco più tardi, avevano appena varcato la soglia del ristorante ed erano diretti al loro tavolo quando un pensiero improvviso fiorì nella mente di Håkon, che chinò lo sguardo per rivolgersi a Margot:
“Per caso sei vestita di nero anche…”
“Sì.”
La strega, che gli camminava accanto stringendogli dolcemente il braccio, annuì cercando in tutti i modi di non ridere quando sentì il bicipite di Håkon irrigidirsi per un breve istante sotto agli abiti, finendo col cedere e lasciare che una lieve risata si librasse dalle sue labbra quando il danese imprecò a mezza voce:
“Dovevamo restare a casa.”
 
 
*
 
 
Era una fredda domenica di aprile e, strano a dirsi, pioveva a dirotto da prima che Håkon aprisse occhio. Le prime settimane successive rispetto al trasferimento suo e di Freya a casa di Margot non erano state tra le più semplici proprio a causa del mal tempo che nella grigia e fredda Scozia imperversava quasi costantemente per la stragrande maggioranza dell’anno, ma poco a poco, anche grazie ai suoi soggiorni ad Hogwarts, l’astronomo aveva finito col prenderci l’abitudine. Naturalmente trascinava Margot e Freya a sud, spesso in spiaggia e a trovare i suoi genitori, almeno un weekend al mese, ma col tempo aveva finito col realizzare che dopotutto persino la pioggia e il cattivo tempo avevano i loro aspetti positivi: Margot, di certo la persona più positiva che avesse mai conosciuto in tutta la sua vita, ripeteva instancabilmente come fosse possibile vedere il bicchiere mezzo pieno pressochè in ogni situazione, e dopo aver messo da parte la sua dose di scetticismo Håkon aveva finito col darle ragione, più o meno.
Le domeniche di pioggia, quando lui e Margot riuscivano a liberarsi da lezioni da preparare e compiti da correggere, spesso venivano trascorse restando tutti insieme nell’accogliente soggiorno del cottage, magari col camino acceso e coperte sulle ginocchia, e da quando Chewbie si era unito a loro il cane aveva preso l’abitudine di sdraiarsi sull’ottomana color crema coordinata con la poltrona che Håkon era solito occupare, scaldandogli piacevolmente i piedi.
Malgrado il cattivo tempo tutta la casa profumava piacevolmente: la domenica, stando alle convinzioni di Margot, era giorno di pulizie, e ogni settimana la strega trascorreva più o meno tutta la mattina a pulire o a cucinare: dalla cucina si levava un dolce profumo di biscotti, e il soggiorno era avvolto dall’aroma delle candele che erano state accese, una sopra al camino e una sul tavolino di legno circolare situato accanto al divano. Håkon sedeva sulla sua poltrona con Chewbie a scaldargli i piedi e un libro in mano, godendosi il silenzio e la pace piacevolmente scanditi dal rilassante crepitio del fuoco nel camino.
Freya e Margot avevano, al contrario, occupato il divano dopo essersi lavate i capelli – la “pulizia” domenicale di Margot comprendeva anche il proprio aspetto –, entrambe in vestaglia e con un asciugamano avvolto attorno alla testa. Si erano presentate in soggiorno con delle maschere arancioni spalmate sul viso e armate di smalti per le unghie, e ora aspettavano che il prodotto si asciugasse chiacchierando a bassa voce.
Malgrado avesse preso in giro per anni Margot per la sua mania per le maschere facciali e la skincare Håkon non riusciva a non trovarle adorabili quando si conciavano in quel modo. Per questo motivo il mago abbozzò un sorriso con gli angoli delle labbra quando fece rimbalzare brevemente il proprio sguardo dalle pagine del libro fino ai volti della fidanzata e della figlia, guardandole chiacchierare e sorridersi con le teste vicine e le gambe protese sui cuscini del divano, le caviglie incrociate allo stesso modo.
Senza farsi troppo notare – figurarsi se avrebbero badato a lui – Håkon sollevò il telefono dal bracciolo della poltrona, scattando con discrezione una foto alle due prima di sorridere soddisfatto ed intenerito all’immagine. L’unico se ne accorse fu Chewbie, ma il cane si limitò a scoccargli un’occhiata perplessa prima di rimettersi comodo sull’ottomana imbottita, lasciando che il padrone impostasse la foto come sfondo senza che nessuno se ne accorgesse.
Qualche giorno, una volta scorta di sfuggita, Margot gli avrebbe chiesto inorridita perché avesse scelto una foto dove era orribile e con una maschera allo zenzero spalmata sul viso, ma Håkon si sarebbe limitato a stringersi nelle spalle e a chinarsi per scoccarle un bacio, assicurandole di trovare quella foto, nella sua delicatezza e spontaneità, tra le più belle che avesse mai fatto.
 
 
*
 
 

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Håkon stava strimpellando la sua chitarra, seduto sul divano mentre Freya giocava sul tappeto insieme a Chewbie al “salone di bellezza”, indispettendosi con il cane quando lui si rifiutava di farsi infilare una coroncina in testa. Il mago teneva la testa reclinata all’indietro sullo schienale color crema, gli occhi scuri puntati sulle travi di legno a vista del soffitto e la mente altrove, ridotta ad un vortice di pensieri. O almeno finchè Margot non gli si avvicinò di soppiatto, senza far rumore, e una volta fermatasi accanto al divano lo abbracciò, stampandogli un sonoro bacio su una guancia prima di sorridergli allegra, i capelli appena lavati e profumati raccolti sulla nuca e una maglietta a maniche corte di Darth Vader che lasciava scoperte le braccia pallide e cosparse di chiare efelidi.
“Domani vuoi andare al mare? So che non ami particolarmente il grigiore di qui.”
Håkon smise di suonare mentre il suo sguardo veniva catturato dai meravigliosi occhi blu di Margot, ritrovandosi ad annuire e a ricambiare il sorriso della strega mentre lei gli sfiorava il viso con l’indice destro, accarezzandogli dolcemente la pelle olivastra.
“Certo, se ti va. Anche se fa comunque troppo freddo per fare il bagno, ancora.”
La Scozia era grigia e fredda, a tratti cupa e un po’ lugubre, e talvolta Håkon si scopriva ad osservare Margot chiedendosi come potesse una creatura simile essere nata e cresciuta in posti come quello, lei che aveva forse il sorriso più luminoso che avesse mai scorto.
“Possiamo prendere la pizza stasera?”
Freya smise di discutere con Chewbie, che con la sua tiara nuova non sembrava troppo entusiasta, per rivolgere un’occhiata implorante al padre e a Margot, gli occhioni castani spalancati ad arte in modo da impietosire chiunque, anche il meno bendisposto degli essere viventi. E poiché quello sguardo aveva funzionato anche con Phil MacMillan i due potevano affermarlo con assoluta certezza.
“Sì, perché non ho nessuna voglia di cucinare. Scegliete cosa volete, io vado ad asciugare il bucato.”
Margot subito assentì destando un sorriso gioioso sul delizioso visino di Freya, che gongolò soddisfatta mentre la donna si raddrizzava con un lieve sbuffo, affatto entusiasta all’idea di dover finire le sue faccende. Prima che la strega potesse allontanarsi dal divano però Håkon allungò la propria mano per stringerla attorno al suo polso sottile, imitando la figlia con un’occhiata implorante per impietosirla:
“Ti aiuto io dopo. Stai qui con me per un po’.”
Margot tentennò, indecisa sul da farsi, ma finì con l’annuire e dimenticare momentaneamente il bucato per sedersi accanto a lui sul divano, ricambiando il sorriso soddisfatto con cui Håkon l’accolse prima di scoccarle un bacio su una spalla:
“Vi somigliate più di quanto non si creda.”
Margot si sistemò comodamente sul divano per lasciarlo riprendere a suonare in silenzio, limitandosi ad appoggiargli la testa sulla spalla mentre Håkon la guardava con un accenno di sorriso sulle labbra, grato di avere il suo piccolo e meraviglioso concentrato di luce e di colori a rischiarare la cupezza del luogo in cui viveva.
 
 
*
 
 

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Margot Campbell affrontava il quarto giorno di maggio, il Star Wars Day, con la stessa riverenza che molte persone rivolgono al giorno di Natale: la sera prima indossava rigorosamente un pigiama a tema, e in caso la ricorrenza fosse infrasettimanale si presentava ad Hogwarts con un abbigliamento almeno in parte a tema. Quell’anno la strega aveva optato per una giacca di jeans che aveva fatto personalizzare con l’immagine di Grogu dipinta a mano sulla schiena, arricchita da un gran numero di spillette fissate all’altezza del petto, ignorando deliberatamente l’espressione contrariata della Preside e quella schifata di Phineas. Si era persino premurata di indossare i suoi anfibi neri nuovi, un gesto che avrebbe riempito Håkon di orgoglio se solo non fossero stati decorati a loro volta con degli stickers in linea con la giacca.
Il quarto giorni di maggio rappresentava forse uno dei giorni che Margot preferiva in assoluto nell’arco di tutto l’anno, ed era stato con un gran sorriso sia che aveva aperto gli occhi quel mattino, sia che si era infilata nel caminetto del suo ufficio per tornare a casa tramite la Metropolvere insieme ad Håkon.
Essendo un giorno della settimana purtroppo Margot non aveva avuto la possibilità di festeggiare a dovere prima di sera, ma dopo aver cenato – con un servizio di piatti a tema che Håkon ricondusse immediatamente al misterioso pacco di Etsy che era arrivato guarda caso qualche giorno prima – accese ovviamente la tv per concedersi una breve maratona di almeno uno o due film. Freya, ormai ufficialmente iniziata al culto già da tempo, si sistemò sul divano con una ciotola di popcorn stretta tra le braccine e un pigiama di Grogu bianco e rosso addosso, Chewbie accanto.
Ad Håkon non rimase che stringersi tra il bracciolo del divano e Margot, rassegnato a quella tradizione a cui la fidanzata teneva tanto, portando a letto Freya una volta concluso il primo capitolo della longeva saga cinematografica. Prima di tornare in soggiorno l’astronomo si attardò brevemente nella camera da letto sua e di Margot, scendendo le scale e giungendo infine in soggiorno con un minuscolo pacchettino rettangolare in mano e con la fidanzata e Chewbie ad aspettarlo sul divano per la visione di L’Impero colpisce ancora.
“Ti ho… preso queste.”
Quando vide Håkon, in piedi con la sua tuta rigorosamente nera, porgerle un pacchettino colorato e avvolto da una carta coperta da minuscoli Millennium Falcon Margot credette quasi di commuoversi: la strega fece rimbalzare i grandi occhi blu dal volto serioso del fidanzato fino al regalo, meravigliata, sfoderando infine uno dei suoi irresistibili sorrisi mentre protendeva le braccia per stringergliele al collo.
“Grazie Håk Bello! Non dovevi.”
Dopo essere stato costretto a chinarsi notevolmente per consentire alla strega di abbracciarlo Håkon, un tantino imbarazzato, sedette accanto a lui borbottando che in fondo si trattava solo di un umile pensierino, guardandola scartare il regalo facendo del proprio meglio per non rovinare la carta prima di farsi sfuggire un gridolino eccitato:
“Ma sono bellissime! Le adoro, grazie!”
Margot guardò le sue nuove penne, tutte in tema Star Wars e adibite a vari personaggi della saga, come se Håkon le avesse appena fatto il più bel regalo del mondo. Di nuovo la strega si protese verso di lui per abbracciarlo, le penne strette nella mano sinistra, scoccandogli un bacio a stampo sulle labbra che destò un sorriso di rimando anche su quelle dell’astronomo: Margot fece partire il film accoccolandosi contro di lui e rigridandosi felice le penne tra le dita, assegnando ad ognuna una funzione diversa, e ad Håkon non restò che accarezzarle i capelli ripetendosi quanto la sua dolcezza e il suo felicitarsi genuinamente per piccole cose come quella costituissero ciò che in assoluto più amava di lei.








Che dire se non che oggi è il Star Wars Day, dunque potevo esimermi dal pubblicare qualcosa dedicato a Margi e, ovviamente, ad Håk Bello? Questa raccolta sta diventando sempre più vecchia, ma di tanto in tanto aggiornarla è sempre un immenso piacere🤍
Tornerò presto con altre OS e altre coppie, nel frattempo grazie a chiunque abbia letto e a Bea per il mio adorato Håkon🖤
Irene

 

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