Justice

di Vegeta_Sutcliffe
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1.1 ***
Capitolo 2: *** 2.2 ***
Capitolo 3: *** 3.3 ***



Capitolo 1
*** 1.1 ***


Più di 4 anni fa iniziavo la raccolta dell’Anticristo, maledicendomi perché avev una Long da completare, una anche abbastanza impegnativa, eppure mi ero presa l’onere di un’avventura che non riusciva ancora nemmeno a vedere chiaramente nella sua completezza.
Paradosso vuole che oggi, a pochi capitoli dalla conclusione dell’Anticristo, e pochi purtroppo non vuol dire facili, dopo 4 anni di distanza dall'inizio dell’Anticristo e dalla fine di Justice, io mi sia decisa a ripubblicare la suddetta.
La verità è che sono estremamente innamorata della mai long, ma più la leggo, più mi convinco che quella storia aveva un grandissimo potenziale che un po’ per l’età, un po’ per la mia inesperienza sia rimasto latente, che quella storia ha tante troppe intuizioni che meritano di essere sviluppate e trattare in una maniera più sgrava da una retorica eccessivamente fastidiosa.
Non voglio sconfessare quello che ho fatto, mai lo farò, però voglio rimettermi in gioco e voglio provare a rendere giustizia a quel che sarebbe potuto e forse dovuto essere e che invece non è.
Voglio riproporre Justice, ma non sarà un semplice copia e incolla. Ho in progetto di riprendere Justice, di rivederla, di correggerla, di ampliarla e di renderla più scorrevole più piacevole da leggere e magari più acuta.
Ovviamente è un volere ambizioso e soprattutto mi rendo contro che potrebbe essere controproducente perché rischierei di rovinare ciò a cui tengo, quindi con quanta più sincerità possibile, mi rimetto al vostro giudizio e vi chiedo se ne valga la pena o sono proprio stupida.
Buona lettura! <3

 
Justice
 
Diritto e rovescio.
Carl William Brown


Percorreva a passo fermo il lungo corridoio centrale della sua scuola.
Scorrevano davanti ai suoi occhi celesti le immagini di centinaia di studenti impegnati nelle più disparate discussioni. C’era chi acclamava la vittoria della squadra sportiva locale; c’era chi parlava dell’imminente periodo dei saldi; c’era chi confidava all’amica l’ultima lite coi propri genitori; c’era chi annunciava l’ennesima lite con il proprio ragazzo; c’era chi si dilettava a intrattenere con divertenti barzellette un numeroso gruppo di coetanei. Era consentito affrontare liberamente tutti gli argomenti di cui si avesse voglia, a patto che questi non comprendessero compiti in classe, interrogazioni e professori.Vi era una legge, né detta né scritta, ma apprezzata e rispettata, che impediva a tutti gli alunni di parlare di noiose questioni scolastiche durante la pausa pranzo.
Era avvezza oramai a quella vista: da circa sei mesi era stata eletta presidente del corpo studentesco
e come tale si premurava ogni giorno di sorvegliare la pausa di ogni studente, attenta che non intraprendessero passatempi dannosi alla loro salute e non infrangessero le regole dello statuto scolastico.
Benché avesse a stento quindici anni e frequentasse quell'istituto da un paio d’anni, allorchè gli studenti erano stati chiamati alle urne per votare il loro nuovo rappresentante, nessuno aveva avuto dubbio alcuno a concederle fiducia, conoscendo il suo carattere pepato, la sua lingua biforcuta e salace, ma mai inopportuna e troppo istintiva e il suo solido senso della giustizia. Ciò le permetteva  di considerarsi la migliore nel far valere le innovative idee dei ragazzi in un consiglio scolastico costituito da professori ancorati ai rigidi sistemi del passato, ma la rendeva scomoda anche a quelli stessi ragazzi che miravano a combinare guai con il solo fine di divertirsi, giustificandosi con la giovane età.
‘Il mondo è vario e, se il mondo è costituito anche da gente, possiamo desumere che anche questa sia varia. E se la gente è formata da opinioni, per lo stesso ragionamento di poc'anzi, pure le opinioni saranno varie. C’è chi non avrà simpatia nei miei confronti, ma c’è anche chi avrà fiducia in me.’
Avvalendosi delle sue capacità oratorie, rispondeva così alle sue amiche che, avendo a cuore la sua persona e conoscendo la reputazione che aveva tra gli studenti, cercavano sempre di metterla in guardia. In ragion del vero, le sue parole non erano da considerarsi una stolta sentenza di una ragazza troppo presa dal suo incarico da non accorgersi della realtà circostante, bensì la summa dell’opinioni di una giovane attenta a tutto ciò che le stava attorno. Impossibile era negare, infatti, che lei avesse amici fidati e sostenitori che condividevano le sue stesse idee.
Mentre dispensava sorrisi a chi le sorrideva o la salutava e fronteggiava lo sguardo di chi la scrutava minacciosamente, affrettò il passo, non volendo che, nel breve tempo previsto per il pranzo, non riuscisse a fare quello che voleva fare.
Giunse finalmente alla sua meta. ‘III liceo Classico B’ recitava il cartello affisso alla porta dell’aula. Varcò sicura l’ingresso della porta e lo vide seduto sulla sedia dell’insegnante, gambe divaricate, testa all'indietro e sigaretta alla bocca.
Mentre tutti gli altri erano fuori a godersi l’aria fresca e la compagnia dei compagni, lui stava da solo in classe. Era diverso da tutti gli altri. Era un alito di vento che soffiava nella direzione apposta alla tempesta, un onda contro corrente, una nuvola nel cielo estivo, un fiore in mezzo alla terra bruciata.
“Vegeta, non puoi fumare qui dentro.” Disse meccanicamente, avviandosi a passo veloce verso il ragazzo e sedendosi sulla cattedra frontalmente a lui.
Ogni giorno diventavano attori, interpretando sempre la stessa recita da ormai diverse settimane. Sapevano perfettamente che il moro era sordo a qualunque ordine impartito non dalla sua stessa persona e sapeva perfettamente che adorava infrangere le regole davanti a lei che ne era garante.
Lo vide aspirare lentamente il fumo dalla sigaretta, godendo del malsano piacere che ciò gli procurava e poi lo vide alzare la testa e rivolgerle un meraviglioso quanto falsamente dolce sorriso.
“Ciao pure a te.”
“Spegni quella cosa.” Intimò, sbuffando annoiata.
Lui roteò gli occhi esasperato, portò nuovamente la cicca alla bocca e poi espirò in faccia alla ragazza quello che aveva conservato per brevi istanti nei suoi polmoni.
“Voglio fumare.”
“Fumare è contro le regole, quindi tu ora la spegni e la butti, così non sarò costretta a farti rapporto.”
Per quanto la risata di scherno era già segno che il ragazzo non avrebbe prestato ascolto alle sue parole, vide che egli, per ribadire nuovamente la sua libertà di azione, fece l’ennesimo tiro.
E per quanto gli ideali che entrambi avevano fossero a loro modo belli, perché sia la libertà sia la giustizia lo erano, quella scenetta allegorica era controproducente, se pensava che per ogni minuto passato a giocare al cane e al gatto, avrebbero potuto stare assieme, parlare, baciarsi.
Rubò dalla leggera presa delle dita del ragazzo la sigaretta, oramai quasi consumata, e, mentre si avviava velocemente al banco del moro per spegnarla e buttarla nel sua tracolla, si concesse lei stessa un tiro.
“Bulma, Bulma, Bulma- sporadicamente la chiamava per nome e, quando ciò avveniva, era per schernirla- posso sempre accendermene un’altra.”
La sfidò. Quella relazione era una lotta perenne, due poli opposti che si erano intestarditi a volersi avvicinare, ma che erano impossibilitati dalla loro natura. Lei tornò vicino a lui e si sedette sulle sue gambe.
“Non lo farai se ti tengo la bocca occupata.” Esclamò sorridente e vittoriosa lei, prima di adagiare le sue carnose e morbide labbra su quelle sottili di lui, che non aveva voglia di lasciarla vincere. Andava contro il piacere fisico, andava contro la sua voglia di toccarle le cosce da sotto la gonna della divisa, ma volgerle contro le sue parole, farla cadere in contraddizione e farla avvedere dell’incoerenza tra il suo ruolo istituzionale e il suo volere individuale era decisamente meglio, fosse solo per il fatto che la sua convinzione di perfezione si sarebbe infranta contro uno specchio.
“Lo statuto scolastico vieta l’effusioni negli spazi interni ed esterni dell’edificio. No?” Sciorinò saccentemente, beffandosi del tono e delle espressioni che solitamente aveva lei.
E se aveva riprodotto fedelmente la sua mimica, le sue risposte erano sempre imprevedibili, sempre intelligenti. Lei era intelligente.
“Ma tu non pensare allo statuto studentesco, amore, pensa più in grande- percorreva le labbra del ragazzo col suo pollice, mentre l’altra mano carezzava la sua guancia- le regole scolastiche sono stilate apposta per gli studenti comuni che hanno bisogno di essere gestiti da un’imposizione più alta. Ma prima di essere studenti siamo persone e come tali dobbiamo prima ricorrere alla nostra carta dei diritti che in parole spicce dice che siamo liberi di fare ciò che vogliamo pur non intaccando la libertà degli altri. E noi non stiamo infastidendo nessuno, baciandoci."
“Senti, senti la mocciosa che mi vuole spiegare certe cose.”
Lui le regalò un’oscura risata che lei non capì appieno, nel suo essere derisoria. Lei aveva intuito che lui la stava sbeffeggiando per essersi appropriata delle sue solite parole, ma a Vegeta faceva semplicemente ridere la consapevolezza che non poteva esistere figura istituzionale e pubblica così integerrima da anteporre il benessere della comunità al proprio utile.
“Essere tre anni più piccola di te non mi fa una mocciosa” gli ricordò infastidita dalla sua insinuazione, pizzicandogli la guancia per punirlo.
“Allora sei una marmocchia!” ghignò malefico e celere avvicinò nuovamente la sua bocca a quella della ragazza, impedendole di rispondere a tono come lei avrebbe voluto. Che alla fine i discorsi sopra i massimi sistemi erano belli, ma un bacio doveva per forza essere più piacevole.
“Ti odio, ti odio.” Diceva lei, sebbene non troppo convinta, quando si staccavano per riprendere fiato.
Non erano i tre anni di differenza a renderla una bambina, quanto il fatto di quel rispetto cieco, quasi una devozione sacra, ai simboli di un potere a cui lei aveva deciso di sottomettersi.
Il suono della campanella destò preoccupazione in Bulma che diede una fine al bacio e tentò di tornare il più fretta possibile in classe. Vegeta non avrebbe voluto interrompere quel contatto, non così presto e non per una motivazione così futile come il rispetto del sistema. Bulma era intelligente, ma troppo frenata, troppo sottomessa, troppo educata.
“Devo scappare, ho compito in classe di matematica.” Il dovere la chiamava.
“Calmati, pivella. Per fare le addizioni in colonna non ti servono mica due ore piene.” Non era la conoscenza perfetta della matematica che le avrebbe permesso di crescere.
“Vai a quel paese idiota, non sono una bambina.” Per lo meno Vegeta apprezzava che c’era ancora un minimo di orgogliosa rivolta in quell'insieme di doveri, regole e punizioni successive.



*************



Sedeva di fronte a quell’uomo dai lineamenti duri e l’austera bellezza e, ora che aveva le mani ammanettate e indossava una antiestetica tuta arancione evidenziatore, pensava che essere al suo cospetto metteva addosso terribile ansia e soggezione, molto più di quel che potesse ricordare.
Il tempo era trascorso inesorabile da quando era una adolescente col pallino della giusta giustizia e, sebbene era cambiata molto interiormente, l’aspetto non aveva subito particolari mutamenti. Il viso le si era fatto più sfilato e gli occhi non avevano perso né la limpidezza né la vivacità della giovinezza. Aveva acquisito centimetri in altezza e aveva perso qualche chilo, risultando avere ora un fisico più asciutto e tonico che metteva in risalto le sue forme perfette. I capelli, che era solita portare lunghi e fluenti lungo le spalle, erano ora acconciati in un corto, ma non per questo poco femminile, caschetto sbarazzino e disordinato.  Non una ruga solcava il suo pallido volto, ma in quel chiarore spiccavano profonde e scure occhiaie.
Il neon sopra la sua testa illuminava completamente il suo intero corpo, rendendo il colore acceso dei suoi abiti ancora più sgargiante e fastidioso. A separarla dall’uomo in giacca e cravatta vi era un’asettica scrivania, su cui egli aveva appoggiato fogli e cartelle e un pacchetto di sigarette.
La sola visione scatenò in lei una dolorosa nostalgia. Non erano solo sigarette, erano compagne di vita che l’avevano accompagnata durante la pubertà, l’adolescenza, le prime esperienze sbagliate, le prime frequentazioni cattivi, il dolore che l’aveva resa quella che era, la libertà che ora le mancava tanto.
Le mancava terribilmente stringere una sigaretta tra le dite, le mancava tenerla tra le labbra, le mancava aspirare quel dannoso piacere, le mancava pensare guardando quella coltre di fumo grigiastro.
Si guardò attorno nervosamente e notò tutti erano fuori, che le avevano concesso di rimanere sola con l’uomo e Bulma pensò che nessuno poteva impedirle di fumare fintanto era lì. Allungò le mani per aprire il pacchetto, faticando un po’ per via della costrizione delle manette, e tentò si estrarne una. Alla soddisfazione della riuscita si accompagnò l’infantile felicità di aver scorso vicino a lei, uno zippo con la quale sarebbe stato più facile accendere e rilassarsi. Non fu certo azione senza complicanze, ma alla fine, allorchè fu circondata da quel dolce fumo, si ritenne vincitrice.
Sorrise della sua vittoria all’uomo che stranamente ricambiò il suo gesto. Strano. Per lui quella sarebbe dovuta essere una sconfitta. Ma il tempo forse aveva sbiadito il ricordo di lui e della sua cattiveria, che preferiva punire e umiliare, piuttosto che mostrarsi come legiferatore di un ordine ben preciso. Il punto era che lui non aveva bisogno di dare regole a cui gli altri avrebbero dovuto obbedire, ma aveva tanto di quel potere da potersi permettere di essere volubile e di decidere di ogni situazione solo per un misero capriccio. Le prese la sigaretta tra le dita, proprio quando lei iniziava a gustarsela, e se l’appoggiò lui stesso alla bocca, deliziandosi del gusto del tabacco e dell’invidia sul volto della ragazza.
“Bulma, tu non puoi fumare qui dentro.” Le impose dittatoriale, mostrandole una faccia seria e irremovibile.
“Perché?” urlò lei, prossima a un pianto isterico. Bulma aveva bisogno di quella sigaretta, per lui era solo un vezzo, era una ripicca, era un bastardo. 
“Perché io ho deciso così.” La informò mefistofelico e potente.
Qualche anno prima avrebbe riso di quell'insolenza e forse si sarebbe potuta permettere anche di controbattere, ma era stanca e semplicemente scosse velocemente la testa, bisbigliando a voce bassa il suo odio nei suoi confronti.
“Ti odio. Ti odio.” Si faceva scappare di tanto in tanto qualche risolino nervoso per poi esplodere in una vera e propria risata isterica. Perché, oltre che del suo corpo, sembrava non poter disporre più nemmeno del suo libero arbitrio.
“Fai così in tribunale e il giudice chiederà un referto psichiatrico. Forse, forse è possibile assolverti per insanità mentale.” Queste parole parvero riscuotere la donna dalle sue elucubrazioni.
“Non c’è bisogno né che mi difenda né che mi dichiari pazza.”
“A me questa sembra proprio la frase di una pazza. Come conti di difenderti da sola? Rischi tutto e non vuoi nemmeno una persona competente che cerca di salvarti il culo?” Era sbalordito dall’assurdità di quella donna.
“Certo che desidero che una persona competente mi difenda, quindi capisci bene che non ti affiderò mai il caso. Farò l’arringa da sola. Come Socrate.”
"E' finito morto."
"No, si è suicidato per difendere la sua integrità di uomo giusto, anche quando gli proposero di fuggire."
L’avvocato scoppiò in una sincera risata, o almeno così sembrava. Aveva un singolare senso dell'umorismo quella donna e la fervida immaginazione che le faceva distorcere la realtà. Bulma aveva trovato alla sua situazione addirittura un antecedente ai limiti del mitologico, ma proprio per la sua natura mitica era un esempio totalmente falsato. "Socrate è stato accusato di colpe mai commesse, condannato a morte poichè personaggio troppo irriverente e scomodo. Tu sei andata contro la legge, diverse volte, recidiva."
"Ma tu non pensare alla legge, pensa più in grande. Questa è fatta per gli uomini comuni troppo stolti per pensare e frenare istinti animali e scorretti con la propria testa. Io sono diversa. Sono andata contro la giustizia degli uomini, ma per conseguire un giusto fine." Ignorò quel fastidioso senso di Deja vuù e le sorrise dolcemente, anche se l’emozione gusta era la condiscendenza. Bulma era pazza.
La cicca di sigaretta era ormai consumata sopra la scrivania di metallo e entrambi riservarono la propria attenzione a quella. Lei la prese e la buttò nella sua borsa da lavoro.
"Sono passati dieci anni ed è come se non fosse cambiato niente. Non è strano?"
Si alzò dalla sedia e con meticolosa cura sistemò le carte e le cartelle, infilò il pacchetto di sigarette in tasca e si sistemò il nodo della cravatta. Le rivolse un raggiante sorriso e le ultime parole.
"Vorresti che non fosse cambiato nulla, ma è il momento di crescere e riconnettersi alla realtà. Assumiti le conseguenze delle tue azioni. Anche se forse il passato è l'ultima cosa che ti rimane. Ci vediamo all'inferno."
Le diede le spalle e si avviò alla porta, senza voltarsi indietro, senza mostrare minimamente interesse a lei. Indugiò nell'aprire l'uscio, sentendola singhiozzare. Quelle lacrime erano famigliari, quasi quanto le sue ricapitolazioni e le richieste d'aiuto mai ammesse. Lei solitamente odiava umiliarsi davanti a lui.
"Non mi lasciare, ti prego...Non voglio morire!" Urlò disperata nella sua direzione.
"'Ma Socrate..."
"Non sono Socrate e non voglio bere del veleno." Tentò di nascondere il volto nel suo stesso seno.
"Vegeta ti prego aiutami..."

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Capitolo 2
*** 2.2 ***


E' molto facile, in nome della libertà esteriore, soffocare la libertà interiore dell'uomo. 
Tagore

L’imponente struttura dell’Orange Star High School si ergeva davanti a loro in tutta la sua maestosità. Una costruzione moderna che vantava la reputazione delle antiche scuole del paese, un preside intransigente, un ottimo corpo docenti e studenti scelti in base al merito. Questo la rendeva uno tra gli istituti educativi più sospirati da genitori ambiziosi e studenti sognatori di un roseo e non banale futuro lavorativo.
Chi aveva seduto tra quei banchi, aveva poi frequentato prestigiose università e aveva coronato infine le proprie aspettative o i propri sogni che dir si volesse.
Frequentare quella scuola aveva il sapore della vittoria, perché significava essere riuscita dove molti altri avevano fallito, essere riconosciuta per le proprie doti intellettive. Ma, una volta averne assaporato il prelibato gusto, restava in bocca l’amaro retrogusto di una possibile umiliazione.
Suo padre era un famoso scienziato e presidente di un’importante azienda e conseguire un diploma con ottimi voti era un curriculum vitae sufficiente per aspirare ad esserne l’erede. Fin da quando era piccola tutti gli avevano inculcato in testa il desiderio di essere come suo padre, di essere suo padre. E ora che stava lavorando per realizzare questo desiderio, si sentiva schiacciata dalla paura di deludere le aspettative.
“Eccoci qui allora…” Disse, mandando giù un grosso groppo di saliva e stringendo maggiormente la mano dell’amica.
“Si, Bulma, ma non rompermi la mano.” Si voltò e guardò la ragazza al suo fianco.
Tremava impercettibilmente e i suoi occhi castani erano sbarrati e seguitavano a mirare il liceo. Era nervosa, agitata, preoccupata di non essere all’altezza degli altri ragazzi.
Lei, ragazzina tenace e dalla dura tempra ma dai sentimenti fragili, era la sua migliore amica da una vita.
Era l’unica che non l’aveva derisa, quando, appena bambina di sei anni, dichiarò orgogliosamente alla classe di volere fare la ‘Cambiatrice’ del mondo. Troppo stolti gli altri bambini per non prendersi gioco di lei, troppo disillusa la maestra per non elargirle un sorriso rassegnato e parole di sconforto.
Complimentandosi per i bei vestitini che indossavano, avevano pian piano scoperto che, oltre la moda e le futilità piacevoli della vita, potevano parlare liberamente tra di loro di argomenti importanti, senza che una criticasse o ridesse dei pensieri dell’altra.
“Andiamo Chichi, la nostra vita da liceali ci aspetta.” Cercò di incoraggiare entrambe con un sorriso forzatamente spontaneo.
“E’ un peccato che alla fine hai scelto il liceo scientifico.” Confessò la mora all’amica: dall’elementari non erano mai più state in classi separate.
“Sono contenta della mia scelta, dispiace solo di non poter stare in classe con te.”
“La vita allontana…” L’azzurra scoppiò in una risata sinceramente divertita, perché la loro giovinezza permetteva loro di ridire nello scimmiottare i discorsi degli anziani. Il tempo era loro amico o loro sarebbero stati abbastanza forti da sconfiggerlo e rimanere assieme.
Bulma prese per mano l’amica e incominciò a correre verso l’ingresso della sua nuova scuola, perché arrivare in ritardo il primo giorno sarebbe stato controproducente sicuramente. Invece voleva che il viaggio verso il futuro iniziasse nel migliore dei modi.
Appena varcato l’ingresso della scuola, girarono su se stesse, con espressione stupita, ispezionando tutto, anche il più minimo e infimo dettaglio. I corridoi lunghi e larghi, le aule enormi, professori costretti in seri vestiti e ragazzi, tanti ragazzi. Ragazzi loro coetanei, ragazzi più grandi. Ragazzi con la faccia pulita e la divisa in ordine, ragazzi trasandati e smaliziati.
Si sentivano piccole, il loro futuro era arrivato, diventando presente, e si sentivano piccole, terribilmente piccole, tanto da non sapere nemmeno orientarsi.
“Come facciamo a trovare l’aula magna?”
“Chiediamo in giro.” Rispose ovvia e intraprendente l’azzurra. La risolutezza era sempre stata una sua dote naturale e sapeva che l’avrebbe aiutata.
I suoi occhi celesti, brillanti e intensi, scrutavano minuziosamente ogni volto, studiandone la fisionomia e cercando di intuire, con una prima occhiata, il carattere di ognuno, fin quando, curiosi e inconsciamente crudeli verso la sua stessa persona, si fermarono sulla soglia dell’ingresso.
Un giovane carismatico e affascinante stava entrando, attirando su di se gli occhi indiscreti di tutti i ragazzi.
Aveva capelli di pece, acconciati in una singolare pettinatura a fiamma, ossidiana incastonata in due occhi dal taglio crudele. Labbra sottili e naso adatto ai lineamenti severi e spigolosi del suo viso. Ma ciò che più reclamava attenzione non era la bellezza perfetta di quel volto virile, quanto l’incedere lento e regale di quel corpo non troppo alto, ma muscoloso e ben proporzionato. Postura dritta e portamento fiero, fisico snello e asciutto, sottratto agli occhi delle femmine dalla divisa scolastica. Sulla spalla reggeva una tracolla di pelle nera, tra le dita una sigaretta accesa.
Bulma si stupì di vedere la camicia bianca stirata e la giacca a doppiopetto abbottonata perfettamente e la cravatta annodata elegantemente. Benchè tutti gli studenti fossero costretti a indossare quell’abbigliamento, vedere quel giovane sconosciuto, dallo sguardo misterioso e distaccato, vestito in tal maniera, le recava fastidio. Sembrava essere un controsenso. L’ostentata rigidezza del vestiario cozzava palesemente con la cicca fumante e gli occhi scuri e tempestosi di lui.
Il ragazzo si era diretto a passo cadenzato verso di lei e ora la fronteggiava in tutta la sua eleganza e compostezza. La scrutava con occhi severi, contraddicendosi con un malizioso sorriso.
Il mondo si fermò per un istante interminabile. Il cuore le si fermò per un istante interminabile.
“Secondo te perché le matricole sono ogni anno sempre più stupide?”
“Come prego?” Controbatté risentita a quelle ironiche parole, colpevoli di aver interrotto bruscamente il suo personale sogno sul nuovo ragazzo.
“Ti sto dicendo che sei stupida.” Fermo e risoluto lui, senza mostrare intenzione di voler cancellare dal suo viso quel ghigno beffardo, l’aveva appena insultata, prendendosi una famigliarità e palesando un senso di superiorità a suo avviso inadeguato.
“E cosa te lo farebbe credere, scusa?” Era bello, ma era anche stronzo e spocchioso e già sentiva di odiarlo. Nessuno, se non se stesse, poteva mettersi in dubbio, che si trattasse della sua bellezza o della sua intelligenza.
“Il fatto che mi guardi intensamente da dieci minuti e non ti sei minimamente accorta che sei davanti al mio armadietto. Evapora.”
Si voltò di scatto e notò, con somma vergogna, che si trovava esattamente dove lui aveva detto e che aveva fatto davvero la figura della bambina stupida. Si scostò veloce e cercò di giustificarsi.
“Scusa è che io… noi cercavamo l’aula magna e non sapevamo a chi chiedere.”
Si era diretto verso il suo armadietto, lo aveva aperto, noncurante degli sguardi femminili sulla sua schiena, e ne aveva estratto un pesante dizionario di greco.
“Guardare una cartina della struttura interna della scuola, affissa ogni dieci metri, ti sembrava un’idea troppo intelligente per te?” Il dispiacere durò poco, il tempo che sopravvenne il fastidio per quella sua condiscendenza e quella sua saccenteria.
Il ragazzo ebbe un lungo tiro dalla sigaretta e poi espirò il tabacco sulla sua faccia. Bulma tossì di rimando. Non aveva mai fumato e respirare quel fumo dannoso le aveva infastidito i polmoni.
“Mocciosa.” sbuffò indifferente e annoiato, per poi dileguarsi dalla sua vista.
La ragazza strinse i pugni nervosa e furibonda guardava il luogo vuoto, dove prima stava in piedi quell'arrogante. I suoi allegri occhi azzurri erano diventati mare in tempesta. Pensava alla maleducazione di quel ragazzo, vestita dalla più perfetta eleganza.
Chi diavolo era? Perché si permetteva di rivolgersi a lei, piccolo genio in erba, in quella rozza maniera?
“Su Bulma, calmati.” Cercava di convincerla Chichi, sconcertata, ma non ugualmente furiosa, per i modi discutibili del giovane.
“Io lo ammazzo prima o poi.” Giurò spontaneamente l’azzurra, destando un divertito timore nell’amica.



“Io sto aspettando”. Incalzò insistente e fastidioso.
Pronunciò queste parole col tono orgoglioso del vincitore che aspetta gli onori a lui dovuti dai vinti.
Se avesse potuto incrociare le braccia, l’avrebbe fatto per palesargli la sua indisposizione. Se i suoi occhi avessero sputato fuoco, l’avrebbe incenerito.
“No, mai!” Risoluta. Come sempre.
“L’orgoglio uccide.”
La paradossalità di quella frase era più che evidente, che forse in un altro momento ne avrebbe riso divertita. Ma in quella cella ogni riferimento a quel che era stato l’infastidiva solamente. “Proprio tu lo dici?” Se solo non fosse stato sempre così orgoglioso… 
Si alzò dalla sedia e le si portò davanti. Le carezzò la guancia con estenuante lentezza, saggiando col tatto la morbidezza di quella pelle, studiando con le dita ogni centimetro del suo volto.
“Ch-che stai facendo?” Si irrigidì all'istante al tocco inusualmente tenero dell’uomo.
La vita allontana, ma i ricordi uniscono. Non lo vedeva da anni, eppure le sue calde carezze non erano riuscite a cadere del tutto nell'oblio del tempo. Erano state troppo sospirate per poter essere rinnegate, troppo combattute per non essere ancora in qualche modo apprezzate. Eppure quel gentile tocco non era probabile per quell’uomo dal corpo e dal cuore di marmo.
Ieri come oggi Vegeta impersonava la contraddizione.
“Hai una pelle così delicata...”
Le guance le si stavano colorando di un leggero rossore.
“… Cosa preferisci l’orgoglio della morte senza resa, o la bellezza della vita coi compromessi?” Doveva aspettarselo da lui. Ricattarla con quanto di più caro avesse, lei; rovinare un momento piacevole con parole dal significato cattivo. Lo odiava. Cercò di mordergli il dito che le si era posato sulle labbra.
“Il mio aiuto costa. Se lo vuoi, devi guadagnartelo.” C’erano cose che non sarebbero mai cambiate. A Vegeta piaceva avere il potere assoluto e avvilire le persone. Non solo essere più forti degli altri, ma farli vergognare della propria debolezza.
“Non basta che ti sto chiedendo aiuto? Vuoi umiliarmi ancora? Perché questo sadico piacere?” Era sempre sul punto di piangere con lui e per lui, ma non poteva concedergli quello. Il suo sorriso mefistofelico significava che stava già godendo più di quel che meritava. Bulma lo odiava.
“Se sono qui dentro è solo colpa tua, brutto bastardo!” Urlò nella sua direzione con le guance bagnate dalla sua disperazione. Dovere supplicare il colpevole di una tale situazione era ridicolo, specie quando il colpevole era Vegeta, ma lui voleva spingersi oltre e vedere la sua afflizione non gli bastava.
Avvicinò il suo volto a quella della ragazza e le parlò alitandole in bocca. Erano vicini, troppo vicini e se le loro labbra non si toccavano, era perché i nasi lo impedivano.
“Se sei qui dentro, è perché sei una povera idiota che si crede intelligente. Se sei qui dentro, è perché ti sei sopravvalutata e ti sei messa contro le persone sbagliate. E se sei qui dentro, è solo perché sono stato così generoso da non spararti.”
Spostò la bocca al suo orecchio.
“La tua vita e la tua morte dipendono solo dalla mia volontà. Cerca di non dimenticarlo e pregami di salvarti.”
Gocce di sconfitta solcavano il suo viso e pensieri di resa schiacciavano il suo orgoglio. Poteva fare la ribelle e la forte solo fin quando lui non delineava in maniera così precisa la realtà, solo fintantoché lui non sottolineava la sua impotenza.
Vegeta aveva ragione, era solo una bambina troppo cresciuta che aveva giocato in un mondo di grandi, ma, se avesse avuto l’occasione di tornare indietro, avrebbe rifatto tutto e con più determinazione.
Tentava di mascherare i singhiozzi con una voce ferma. “Chiedo perdono.”
Voleva vivere. Aveva bisogno di vivere, anche solo per non vanificare quello che aveva fatto, per non sconfessare i suoi propositi.
“Perchè?” Incalzò, preparandosi a deliziarsi di una risposta che già conosceva, perché gliel’aveva imposta lui.
“Perché io ho…” Il suo stomaco era oppresso da un macigno tanto pesante quanto impossibile da dissolvere. Non poteva farcela, ma doveva.
Sospirò e sputò fuori la verità, non curandosi del suo orgoglio che urlava di vincere. Lottava per la vita, non per l’orgoglio.
“Chiedo perdono perchè ho cercato di ucciderti.” Se avesse dovuto limitarsi a chiedere scusa, più o meno formalmente, non sarebbe stata così restia a quel colloquio, ma conoscendolo sapeva perfettamente che non si sarebbe stato soddisfatto da semplici scuse. La sua faccia si era contratta in un’espressione di godimento, appositamente mal celato e si era ripetuto più volte quelle parole, ma era solo un preludio. E avrebbe pure voluto pensare bene, ma oltre i suoi ricordi e l’abitudine, la sua risata e i suoi occhi contenti non promettevano nulla di buono.
Si chiese se in qualche maniera la morte sarebbe stata preferibile.
“Dovrai fare molto di più.” Così per fugare ogni dubbio, o ogni possibile e illusoria speranza, nel caso lei fosse riuscita a trovarne una.
“Avvocato, la detenuta deve tornare nella sua cella. Mi dispiace ma deve andarsene.” 
Una guardia dal volto serio e impassibile li interruppe momentaneamente, ma non l’aveva salvato. Il giorno dopo lui sarebbe tornato.
Vegeta annuì e con una cenno del capo intimò alla guardia di uscire e che lui l’avrebbe seguito subito dopo.
“Hai promesso di farmi uscire da questo schifo.” Bulma non avrebbe voluto rodersi il fegato per ritrovarsi in mano con un nulla di fatto. Gli ricordò la sua promessa e gli ricordò che ora toccava a lui fare la sua parte.
“Ti fidi di me?” Domandò improvvisamente, con un tempismo che sembrava strano e inopportuno.
Aveva sentito quella domanda troppe volte e troppo volte sentiva di aver dato la risposta sbagliata.
“No.” Ma non quella volta.
“E fai bene. Stanotte avrai tutto il tempo che ti serve per pensare a quanto sei stata stupida ad affidarti a me. Per pensare che non mene frega nulla che tu marcisca in una cella putrida, perché tanto io ho le comodità di casa mia…”
Bulma ringhiò nella sua dimensioni, sapendo che lui non parlava tanto per dare fiato alla bocca e che motivi per sbattersene di lei ne aveva più di quanti ne avesse per occuparsene.
“…e tutte le puttane che voglio.”
Vegeta non avrebbe mai fatto quell'insinuazione, se non avesse voluto ottenere una determinata reazione, ma Bulma non riusciva a capire perché avesse quella mira. E, sebbene non avrebbe voluto dargli soddisfazioni, parlò tanto spontaneamente da pentirsene quanto da compiacerlo.
“Io ti ammazzo prima o poi.”
“Gelosa? Ancora?”

La sua macchina sportiva aveva raggiunto velocità folli nel percorrere la strada deserta che separava la prigione di stato dal suo appartamento. Questo si trovava nella periferia della Città dell’Ovest. Era un luogo isolato e appartato, l’ideale per chi, come lui, detestava il caos della vita.
Entrò nel suo mondo personale, lasciando la porta aperta e si premurò subito di recuperare la propria libertà. Buttò la giacca nera in terra e allentò il nodo alla cravatta. La leggera camicia, sbottonata distrattamente, seguitava a coprirgli le ampie spalle, ma le scarpe furono lanciate senza delicatezza e i calzini tolti con noncuranza. Si versò dello scotch in un bicchiere di cristallo e si diresse in terrazza.
L’aria era fresca e pungente, ma non abbastanza da scalfire la sua pelle bronzea. Appoggiato alla balaustra, mirava il cielo e le stelle che lo illuminavano. Piccoli puntini lucenti in un vasto oceano di oscurità. Erano nulla in confronto all’immensità del cielo, eppure riuscivano a far lume. Perdendo anche una sola stella, il cielo avrebbe perso un suo punto di forza. Un sua unica peculiarità.
Un ronzio proveniente dalla sua tasca, interruppe i suoi pensieri e la sua serenità. Odiava essere disturbato.
E non si capacitava del perché, benchè fosse l’unico abitante di un palazzo di cinque piani, non riuscisse mai a rilassarsi nel suo silenzio.
“Che vuoi?” esordì vagamente irritato.
“Vegeta, perché sei sempre così scontroso?”
“Che vuoi, Freezer?” ripeté, sorseggiando la bevanda alcolica, anche se poteva intuire cosa potesse interessare all’altro.
“Come è andata?”
“Bene, ma domani devo tornare da lei. C’è stato poco tempo oggi.”
“Mi fido di te.” Dichiarò serio.
“Almeno tu.” Potette ridere di quel riferimento solo tra se, ma il ricordo delle parole insensate e deboli della Brief lo metteva di buon umore.
Riattaccò il telefono senza salutare, perché non voleva sprecare tempo a cianciare inutilmente, avendo Bulma esaurito la dose giornaliera di sopportazione altrui che solitamente aveva. L’unica cosa che desiderava era farsi una doccia, in assoluto silenzio, sentendo solo lo scrosciare dell’acqua dal sifone.
Si slacciò la cintura e sfilò i pantaloni neri del completo, quando udì la porta di ingresso essere richiusa e dei leggeri passi dirigersi verso la sua camera.
“Vegeta, ti aspetto a letto.”
Bevve d’un sorso il suo drink e posò malamente il bicchiere sul banco d’appoggio più vicino a lui. D’improvviso pensò che la doccia sarebbe stato meglio farla la mattina dopo e non per forza da solo.

Il sole entrava silenzioso, ma al contempo invadente, dalla finestra a barre della prigione, la brandina sulla quale aveva trascorso la notte non era né particolarmente spaziosa né comoda, la schiena le doleva e un’emicrania insopportabile le martellava il cervello e la sua compagna l’aveva resa partecipe delle sue fantasie oniriche, urlando di tanto in tanto il nome di questa o quell’altra persona, seguita da varie minacce di morte.
Si issò a sedere e accolse la testa dolorante tra le sue mani. Maledetto Ice!
Motivi per non chiudere occhio la notte ne aveva già abbastanza, non era assolutamente necessario che Vegeta la minacciasse, le rinfacciasse e le rinfacciasse la sua misera condizione.
Al diavolo lui e le sue comodità. Sperò ardentemente che anche lui non avesse dormito, magari per qualche indisposizione fisica, particolarmente dolorosa. Non avrebbe risolto i suoi problemi, ma pensarlo malato e sofferente era una piccola soddisfazione personale che almeno l’avrebbe fatta stare meglio.
Magari tante puttane aveva avuto che qualcuna avrebbe potuto fortuitamente e fortunatamente mischiato qualche malattia sessualmente trasmissibile.
Vegeta poteva avere tutte le puttane che voleva.
Bulma assottigliò lo sguardo e si strinse i capelli tra le mani, perché non era buono che lei non trovasse buono che Vegeta potesse avere rapporti con altre.
Vegeta non Doveva avere tutte le puttane che voleva.
Bulma sapeva che Vegeta indicasse ogni esponente femminile con il termine puttana, perché per lui la donna non aveva utilità se non fosse stato per quel buco caldo che accoglieva il suo pene e un corpo statuario per farlo godere dell’estetica. Bulma sapeva pure che Vegeta avesse avuto, potesse avere tutte le donne che voleva e le più belle.
Digrignò i denti con rabbia, producendo un fastidioso rumore. Perché aveva avuto cura di sottolineare quelle parole? Era un povero sciocco se pensava che bastava una semplice allusione per invadere i pensieri di lei. Lei non era una delle puttane di Vegeta. Non una di quelle sensuali e sofisticate donnine intraprendenti e dal temperamento forte che diventavano cagnolini sottomessi al perverso piacere di un crudele padrone. No lei non era loro. E Bulma non capì se era infastidita dal fatto che lui frequentasse donne del genere, dal fatto che un tempo era stata una di loro o dalla constatazione che non lo era più.
Scrollò la testa per allontanare certi pensieri. Il suo cervello era una tempio inviolabile, in cui lui non poteva assolutamente entrare.
Era un povero sciocco se pensava che lei potesse stare male per lui.
Era una povera sciocca se si era fatta irretire nuovamente nella sua rete.
“Bastardo Vegeta!” gridò stizzita.

Qualcuno bussava alla porta. 
Si rigirò nel letto, intrappolato nel piacevole torpore della dormiveglia. Stirò le braccia e le gambe, finchè con il piede non toccò un corpo caldo e nudo.
Altre nocche seguitavano a picchiettare sulla porta d’ingresso.
Volse lo sguardo all’oggetto ancora non bene identificato che giaceva sul suo stesso letto e, dopo un tortuoso viaggio nelle memorie del giorno prima, si ricordò essere Irene. Stava ancora dormendo placidamente, rannicchiata nell’angolo in basso del letto, ciucciandosi il pollice. Sempre più spesso Vegeta aveva impressione di avere a che fare con una donna strana in tutto e per tutto.
Il rumore non voleva cessare e dopo aver sbadigliato, assonnato dal riposante sonno, e, nudo com’era, si diresse alla porta per aprire.
Appena sveglio vedere Freezer nervoso e incazzato non era il massimo, ma era famigliare. Molto famigliare. Troppo famigliare.
“Sono fuori da dieci minuti. Io odio aspettare.”
Vegeta aprì e richiuse la bocca impastata dal sonno.
“Cosa non odi?” Osò inopportuno.
Freezer lo sorpassò veloce, entrando nello spazioso e male arredato soggiorno dell’appartamento, sedendosi sul divano. Si guardò attorno, sentendosi circondato da un disordine che mal tollerava. Sul pavimento erano ancora disseminati gli abiti del giorno precedente.
“Prego accomodati, fai pure.” Vegeta sbatté violentemente l’uscio e lo raggiunse, sedendosi di fronte a lui, con le gambe incrociate.
“Che ci fai qui?” Domandò, ancora non troppo abituato alla realtà.
“Volevo vederti- rispose meccanico- con i vestiti addosso.”
“Pensa se ero Dodoria…” Vegeta insinuò maligno l’immagine indecente nella testa dell’altro.
Freezer abbassò il suo sguardo, sciogliendo il contatto tra i loro occhi, e si soffermò a mirare il suo corpo statuario e nudo. L’attenzione era ferma, fissa sulla sua imponente virilità. Un sorriso mellifluo curvò le labbra scure, Vegeta aveva ragione e per lo meno si trovava davanti uno spettacolo oggettivamente bello, peccato che non accontentava, non poteva, i suoi gusti.
“Oggi verrò con te.” Ingiunse glaciale e sintetico, tornando ad argomenti seri.
L’uomo più giovane sbuffò, infastidito da quella intrusione e quasi risentito che lui potesse dubitare delle sue capacità. Lui era il migliore.
“Assolutamente no.”
“Non intendo intralciare quello che farai, ma verrò con te. E’ un ordine.”
Vegeta ponderò attentamente sulle sue parole e scrutava il suo immobile volto, cercando di capire il motivo di quella decisione e di quella perentorietà. Aveva la chiarezza della’acqua fangosa, torbida e stagnante di una pozzanghera.
“Fa come vuoi. Basta che non rompi i coglioni.” D'altronde parlare con Freezer era inutile, specie quando era di cattivo umore. Voltò le spalle all’ospite e si diresse nella sua stanza per lavarsi e cambiarsi. “Oggi mi offri la colazione.” Urlò in direzione di quello, non curandosi della ragazza che, beata, occupava ancora il suo talamo. Sapeva perfettamente che non si sarebbe svegliata né per un terremoto né per una sparatoria. Strana donna quella!
“Come sempre, d’altronde.” Ricordò infastidito l’uomo sul divano. “Hai un quarto d’ora per fare tutto.”
In riposta alle sue parole sentì il rumore scrosciante dell’acqua.
Si accomodò meglio sul divano e appoggiò la testa allo schienale, chiudendo gli occhi, stanco di volgere la vista a quell’immenso porcile che era l’appartamento di Vegeta. Quel ragazzo era viziato, aveva sempre avuto la fortuna che qualcuno si occupasse della faccende noiose al posto suo.
Passarono i quindici minuti da lui concessi, e poi altri quindici. La sua pazienza aveva un limite ben definito ed era consigliabile, a tutti quelli che intrattenevano una qualche sorta di relazione con lui, di non oltrepassarlo. Ma con quell’uomo, ogni limite, ogni regola, ogni imposizione era totalmente vana e inutile. Quel ragazzo era viziato.
Si alzò indisposto dal divano, deciso a sfondare la porta del bagno e trascinarlo per i capelli, se fosse stato necessario, e per di più in qualunque circostanza si trovasse.
Ma, appena lasciatosi alle spalle il salone, vide Vegeta venirgli incontro e rivolgergli un ghignò derisorio.
“Già ti mancavo?” Disse, stirandosi con le mani tutte le pieghe del vestito.
Gli voltò le spalle e con passo veloce tornò indietro e incominciò a scendere le scale.
Ormai era sordo alle sue parole di scherno. “Seguimi, ora!”

Arrivarono, sgommando nel parcheggio del carcere.
Freezer aveva dimostrato fretta e quasi, quasi una sorta d’impazienza e non aveva voluto sentire ragioni e non gli aveva permesso nemmeno di prendersi il caffè. Vegeta riuscì solo a strappargli la promessa di un invito a pranzo.
Entrarono in quel cupo edificio e una sensazione malinconica colpì l’uomo più anziano.
“Quanti bei momenti passati qui.” Ricordò vago e allusivo, allargando quel ghigno beffardo, dipinto sul volto.Si girò verso Vegeta che non mostrava nessuna emozione, se questa non era né il fastidio né la noia.

“Dejavuù.”
Era un suo intimo pensiero, ma lo disse ugualmente ad alta voce. Aveva un matto bisogno di parlare, di non perdere quella capacità unica del genere umano. Aveva bisogno in qualche modo di dimostrare che aveva ancora il lume della ragione. Ma la situazione, i suoi vestiti, i suoi capelli, le sue occhiaie, il suo malumore, tutto era uguale al giorno precedente e questo la stava facendo ammattire. Quella grigia monotonia le stava distruggendo la sanità mentale. Il giorno dopo magari si sarebbe svegliata, sicura che fosse il giorno prima. Ma che importanza aveva conoscere la data? Martedì o Mercoledì faceva differenza in un omogeneo miscuglio di noiosa abitudine?
“No. Stai esagerando.”
Le venne spontaneo ricambiare le sue parole con uno sguardo totalmente perplesso.
“Ieri avevo i boxer neri, oggi li ho blu scuro. Non è tutto uguale a ieri…” L’innocua curiosità subito mutò in un terribile smarrimento. Le leggeva il pensiero, forse? Capiva i suoi pensieri guardandola negli occhi? O forse aveva gli analoghi pensieri?
“E poi oggi non saremo solo noi due.” L’aveva sottoposta a qualche sonda o a qualche marchingegno che si insinuava tra le tortuose vie del suo cervello? Continuava a guadarlo esterrefatta, ignorando inconsciamente le sue parole.
“Mi stai ascoltando?” Richiamò la sua attenzione. Essere ignorato lo mandava in bestia.
Il suo tono infastidito la riportò alla realtà della loro conversazione. Più volte si era distratta e aveva pensato ad altro. Rifiuto inconscio di quella situazione o più semplicemente troppa stanchezza. Pensò che sarebbe stato meglio giustificarsi, tanto per non farlo innervosire ulteriormente, anche se non capiva il motivo di quell'accortezza.
“Stanotte non ho dormito tanto e mi sento un po’ intronata.” Forse aveva davvero che Vegeta l’avrebbe potuta abbandonare e sicuramente era così testarda e stupida da pensare alla prima volta che l’aveva fatto.
“Nemmeno io ho dormito tanto stanotte, eppure mi sento benissimo.” Insinuò malizioso e crudele, ma in fondo la colpa era di Bulma che pareva avergliela servita su un piatto d’argento.
“Spero ti venga l’Aids.” Volesse la giustizia che tutto governa riuscire ad ammazzarlo. Volesse riuscire dove lei era fallita. Volesse darle una buona notizia, una ricompensa dopo tanto.
“Solo quando scoperò con te.” Era ancora vivo. Che ingiustizia.
“Chi ci sarà oggi con noi?” Cambiare argomento non poteva essere che un bene. Continuare su quella linea significava finire a parlare del passato, di loro due, della sua scelta, dei loro errori. E come risultato finale lei sarebbe marcita in galera. Se tutto fosse andato bene…
“Oggi con noi ci sarà una persona che ti renderà particolarmente felice.” Disse falsamente emozionato e eccitato. Non lo voleva nemmeno lui, ma nulla aveva potuto.
“E chi è?” Domandò curiosa e ingenuamente felice. Sperava finalmente qualcuno di piacevole con cui avrebbe potuto parlare di qualsiasi cosa, di ogni convenevole, del tempo, della moda, di macchine, di trucco e capelli. Sperava davvero in una dose di normalità. Le mancava.
Vegeta pregustò il divertimento che ne avrebbe tratto. Distruggere quelle allegre e infantili aspettative sarebbe stato per lui un piacere ineffabile.
“Freezer.” Scandì quel nome con una lentezza estenuante, pronunciando ogni lettera chiara e forte.
Il suo largo sorriso era scemato gradualmente, diventando un’espressione irata e spaventata al contempo, man mano che il cervello recepiva quel messaggio.
Freezer. Quel nome rimbombava nella sua testa, facendole battere all’impazzata anche il cuore.
“E’ invecchiato dal’ultima volte, ma è in perfetta salute e i medici dicono che avrà una vita longeva. Finchè nessuno l’accoppa…” Dichiarò, ostentando un coinvolgimento che non aveva realmente, ma la ragazza aveva dei repentini sbalzi d’umore che lo facevano stare bene. Passava dalla rabbia al terrore, dallo sconforto alla tristezza in un lasso di tempo oggettivamente brevissimo.
“Che fortuna per lui che sia così difficile farlo.” Disse totalmente distrutta. Lei ci aveva provato, ma non era riuscita e se fosse uscita viva, da quella situazione, avrebbe tanto voluto riprovare.
“Fortunate te, più di tutti. Il mondo è un posto grande e pericoloso e affrontare tutto da soli può essere difficile. Devi stare attenta a dove ti muovi e a chi pesti i piedi.” D’un tratto Vegeta diventò serio. Fare del sano terrorismo psicologica lo divertiva, ma doveva smetterla di perdere tempo e assolvere il suo compito.
“Ogni riferimento a fatti, veramente accaduti, è puramente casuale. Immagino.”
Scherzava con le parole, ma moriva dentro, quell’aria austera la infastidiva e quell’ostentata professionalità le facevano sembrare la sua situazione fin troppo vera.
“Non se ne trovano in giro persone come te. Sei intuitiva, sei sveglia, sei veloce nei ragionamenti. Hai una faccia pulita che non desta sospetti. Sei brillante, riesci facilmente a circondarti di gente. Di ottima gente.
Hai un fisico slanciato e sei agile, aggraziata nei movimenti. E ancora sei giovane. Troppo giovane per consumarti qui.”
Quelle parole gentili e disinteressate non erano da lui. Non che lei non avesse davvero tutte quelle caratteristiche, ma non l’avrebbe mai voluto ammettere, né davanti a lei, né nell'intimità dei suoi pensieri.
“Sei troppo speciale per consumarti qui.” Quante stronzate riusciva a dire senza che rigurgitasse bile? Adulare le persone era un metodo subdolo, ma vedere il loro ego ingrandirsi e poi sottomettersi era un qualcosa di impareggiabile. 
“Non ci casco, Vegeta.”
Si dimenticava sempre che lei non era una persona qualunque, lei era Bulma e purtroppo era intelligente. Sottometterla sarebbe stato arduo, ma lo sforzo sarebbe stato ben ricompensato dall’immagine che lei che piegava al testa a lui e lo spirito al sistema. Perché una persona per quanto intelligente, aveva sempre delle debolezze.
“Immaginavo. Ti pongo la questione in maniera diversa allora. Hai ucciso 4 persone, tutti membri della malavita. Tutte persone che tu avevi pedinato, spiato, minacciato. L’omicidio, benché di reietti della società, non è felicemente accolto da nessun tribunale e ora tu rischi di perdere la vita. Tu non vuoi morire.” Esisteva la paura.
Bulma irrigidì nella sedia. Lei non sapeva che lui sapesse anche quello.
“Ti sei già macchiata di un delitto per poterli vendicare, eppure non ci sei riuscita a pieno. La tua coscienza non è sporca, è macchiata. E quelli aloni nessuno potrà mai cancellarli.”
Sospirò prendendosi una pausa.
“I tuoi genitori sono morti e nessuno te li ridarà indietro. Ma loro vivono in te, in te solamente.” Esisteva la nostalgia.
Se Vegeta non avesse odiato on tutto il cuore calde lacrime e sciocchi sentimentalismi, si sarebbe commosso alle sue stesse parole, tanto era stato convincente.
“Devi scegliere se morire e uccidere completamente loro con te, oppure continuare a vivere, vendicarli, riprenderti ciò che è tuo di diritto. Nessuno te lo impedirà, anzi ti aiuteremo, ti aiuterà.” Esisteva la speranza.
“Il perdono si paga.” Era la conclusione del giorno precedente, un nuovo mantra che Vegeta avesse voluto lei interiorizzasse e a quanto pare, lei pareva averlo ascoltato.
“Mai niente è per niente. Però tu per poco, puoi avere tutto quello che vuoi.” Esisteva l’ingenuità.
“Dovrei prima uscire da qui, incolume. Chi mi garantisce che succederà?”
Tentò l’estremo tentativo, prima di vendere la sua anima completamente al demonio. Era ammaliante, era suadente. Quello era un ricatto in piena regola e le sembrava l’unico salvagente in una mare, in cui non sapeva nuotare, ma era cattivo.
“Ti ricordi quando mi dicevi che la vera forza del mondo era l’amicizia?”
Bulma annuì impercettibilmente e lui continuò: “Freezer ha tanti amici, e muove il mondo come più gli piace. Il giudice che dovrebbe presenziare al tuo processo è un suo amico. L’ha aiutato qualche tempo fa e lui non avrebbe inibizione alcuna a ricambiare il favore.”
Lei lo sospettava. Il problema non era scappare alla legge, era abbandonare la giustizia. Lei sarebbe uscita di prigione e sarebbe tornata in un mondo nel quale aveva sempre meno fiducia.
“Che schifo! Un giudice dovrebbe essere imparziale. Dovrebbe amministrare la giustizia, farla rispettare.”
Perché nonostante i crimini, lei si poteva definire una donna buona e innocente. Aveva agito nel bene e nel giusto e lo sapeva.
“La giustizia la fanno gli uomini. Gli uomini potenti. E Freezer lo è.” Vegeta non aveva mai avuto ideali e forse era il motivo per cui lui sembrava soddisfatto, per cui lui era libero, per cui ora stava dettando le condizioni.
“No, piuttosto la morte.” Era meglio morire per le sue giuste cause, piuttosto che vivere nella sua maniera sbagliata.
Si appoggiò esasperato allo schienale della sedia. Quella donna era troppo convinta, troppo fondamentalista e quasi le faceva pena.
“Chi ti dice che la morte non sarà peggio? Hai la certezza di quello che c’è dopo? Sarai in un mondo di luce, retto dalla giustizia o in un’orgia di malvagità?”
“Non lo so.” Ammise.
“Secondo la giustizia divina, quella stessa giustizia che tu dici di seguire, saresti colpevole, perché nessun uomo può levare la vita ad un altro uomo.”
“Ma avevano sbagliato, meritavano di essere puniti.”
“Anche tu hai sbagliato, anche tu meriti di essere punita. Se non in questo mondo, nell’aldilà, se veramente esiste.”
“Sbaglierà anche chi mi uccide allora.”
“Esatto. Con la tua morte perpetueresti quello che nella tua vita hai cercato di fermare. Non farti togliere la vita dagli uomini.”
Se avesse potuto, si sarebbe rosicata tutte le unghia delle mani. Era nervosa, era indecisa, era esortata al male contro la sua volontà.
Pensava di avere le idee chiare, eppure quelle parole l’avevano confusa. Lui l’aveva confusa. Non sapeva se era più importante vivere o restare coerenti a se stessi.
“Collaborare con noi, non vuol dire tradire i tuoi ideali.”
Sì! Quell’uomo usava la magia per leggerle dentro.
“Vuoi la vendetta? Ti ho detto che l’avrai. Cercheremo in lungo e in largo quelli che hanno tramato contro i tuoi genitori e li uccideremo, nel modo più doloroso che esista o in quello più dolce. Li uccideremo come vuoi tu. E alla fine avrai ciò che è tuo. E’ per questo che uccidi, no?”
“Freezer mi farà assolvere, ma io gli dovrei un favore, come glielo deve il giudice.” Qualunque cattiveria Bulma avesse potuto dire su Freezer sarebbe stata un eufenismo. Forse non esistevano parole per esprimere quanto riteneva cattivo e infame quell’uomo e mai si sarebbe voluta ritrovare a doverlo scegliere. Davvero non sapeva cosa fosse peggio tra la morte e Freezer.
“Questi non sono affar miei. Mi interressa solo sapere la tua scelta.”
Freezer e la morte. Era un dilemma che aveva solo la forma di una scelta, perché il contenuto era piuttosto sovrapponibile: Freezer era la morte. Sua e di qualsiasi cosa avesse sempre creduto. Pensare che potesse scednere a patti con persone profondamente ingiuste e sbagliato le faceva schifo.
“Tu mi dovresti difendere comunque.” Era un tentativo disperato e sapeva infruttuoso, ma sperava sempre che almeno un po’ di etica professionale e umana fosse rimasta in Vegeta.
“Certo, ma è il giudice che deciderà se assolverti o meno e quattro omicidi con prove inconfutabili a tuo carico sono difficili da perdonare.”
“Io non sono un’ assassina.” Non sapeva per quale uditore lo stesso dicendo. Se per Vegeta che ripetutamente le sbatteva in faccia la verità fattuale che voleva ignorare, o la sua coscienza che voleva ancora mentirsi.
“Ti piacciono i bei vestiti? Le feste? I gioielli e le macchine sportive? Attici lussuosi? La scienza?” Esistevano i piaceri materiali.
“Si.” Disse con la voce tremante e cedevole. Erano cose che le mancavano, che sapeva essere sue e che purtroppo non aveva mai potuto esperire appieno.
“Nell’aldilà forse non ci saranno.” Esisteva la minaccia.
La morte era una rinuncia troppo grande per una giovane donna come lei. Aveva un passato da non vanificare e un futuro che l’aspettava a braccia aperte. In forti e robuste braccia. In viscide braccia.
“Mi prometti che uscirò da qui? E che avrò tutto quello che hai detto?” Bulma era arrivata allo stremo. Discutere con Vegeta era sempre spossante, mai piacevole, ma quella volta la paura di morire e perdere la vita la stavano portando all’isteria. E per beni materiali e sanità mentale credeva di poter rinunciare momentaneamente a i suoi principi.
Vegeta tirò fuori dalla tasca il pacchetto di sigarette e ne accese una. Si alzò e le si portò davanti, appoggiandole il filtro tra le labbra.
“Vuoi? E’ tua. Puoi fumare.”
Bulma aspirò con affanno, come un assetato a cui viene portato un bicchiere d’acqua. Come una fumatrice che da troppo tempo non fumava. Nella foga dell’azione, posò le labbra sulle sue dita.
Erano così le mani del diavolo? Morbide e calde e profumate?
“Puoi avere tutto quello che vuoi, se stai dalla nostra parte.”
Forse non era tanto male come compromesso. “Ci sto. Sono dalla vostra parte.” Disse distrattamente, troppo presa dal gusto del tabacco.
A Vegeta scappò una smorfia compiaciuta e condiscendente, ma lei non se ne accorse. Esistevano tanti nomi diversi per chiamarle, ma finchè fossero esistite le emozioni e le paure, lui avrebbe sempre saputo come essere più forti degli altri.
Quante buone cose si sarebbe persa, se non avesse accettato il suo invito. A Vegeta scappò una smorfia vittoriosa, perché era riuscita ad avere la meglio addirittura su due mostri sacri, come la giustizia e la libertà.
Bulma era piegata, tradita e sottomessa a lui, ma non se ne accorgeva. Ma finché il collare non stringe, non si accorge di essere in cattività.



Buonasera!
Sono super gasata da questi aggiornamenti super veloci *-*
Anche se in effetti, penso a come modificare tutto più di quel che avevo preventivato. Oltre ad esserci sempre reticenza a cancellare mezza parola, devo fare attenzione a non cambiare il senso, a non scordarmi quelle sottigliezze che fanno parte del gioco e che potrei svelare in un attimo di disattenzione e poi nemmeno ora è facile scrivere di qualcosa del genere.
Ho snellito i dialoghi, ho reso il tutto meno coerente e meno schizzofrenico, spero, eppure la pesantezza rimane, me ne rendo conto, anzi forse aumenta.
Ringrazio tutti quelli che si stanno avventurando con me in questa nuova avventura! Siete preziosi, davvero! <3
Mi rimetto di nuovo al vostro giudizio e alla prossima!

 

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Capitolo 3
*** 3.3 ***


 
"Il cambiamento è il risultato finale di tutto il percorso di apprendimento"
Leo Buscaglia
 
 
“Che le è preso Brief?” Inquisì la vecchia donna.
La ragazza non sapeva che rispondere. Guardava quell'infausto numero scritto in rosso su quel foglio di carta, esattamente sopra il suo nome.
Stentava a crederci, non riteneva possibile distrarre il suo genio, non riteneva possibile prendere un brutto voto a scuola. Il foglio bianco era abbellito da innumerevoli segni rossi.
“Questo compito era stato programmato da una settimana e avrebbe dovuto premurarsi di studiare, viste le sue carenze in materia. Perché non ha aperto libro?” Incalzava quella.
Non sapeva davvero che rispondere. Quella domanda aveva una risposta breve e semplice, e lei la conosceva, eppure dirla le avrebbe compromesso a vita la reputazione. Doveva inventarsi qualcosa, qualcosa di molto convincente e giustificatorio.
“Io non ho potuto perché…”
‘Due giorni solo per noi. Possiamo andare a mare in montagna o a fare shopping…’ gli aveva leccato la guancia e aveva saggiato delicatamente la sua pelle. Non capiva più niente se le parlava con quel tono e la stuzzicava così.
‘Mi dici sempre che odi le femmine impazzite che fanno compere.’
Sudava freddo e stringeva gli occhi. Si convinceva che lo faceva per pensare ad altro, per concentrare la sua mente su un pensiero che non fosse la lingua del ragazzo. Umiliante sarebbe stato ammettere che strizzava gli occhi per godere di quel clandestino e poco pudico tocco, ma le piaceva, le piaceva tanto.
‘Sì, ma non lo odierei tanto, se ti comprassi qualcosa di carino da mettere solo per me…’
La sua mano, benchè ostacolata dal tessuto liscio della gonna della divisa, godeva del piacevole contatto con il sedere di lei. Succedeva sempre più spesso. Lui la toccava sempre più smaliziato, sempre più audace e lei sempre più spesso lo lasciava indugiare sul suo corpo per poi levare la sua mano come scottata e stringerla nella propria.
‘Smettila, amore.’
Quelle parole erano state dette la prima volta, come fossero un perentorio ordine, per poi divenire delle sommesse suppliche.
‘Perché? Non dici di amarmi?’
Era un fottutissimo bastardo. Perché doveva usare i propri sentimenti per palesarle la stramba contraddizione tra le sue parole e i suoi fatti?
Era stata sempre una ragazza innocente e solare, innamorata dell’amore, dell’idea del principe azzurro, dal cuore nobile e dall’animo gentile. Era sempre stata pudica nei pensieri e innocente nelle azioni. Ma, da quando aveva conosciuto Vegeta, tutto era cambiato, lei era cambiata. Il bianco cavallo dei suoi sogni era stato rimpiazzato da una macchina sportiva e completamente nera, il principe perfetto dalla perfetta bellezza di un bastardo. I suoi vestiti erano cambiati. I suoi capelli erano cambiati. I suoi atteggiamenti e i suoi vizi e le sue virtù erano cambiate. Non avrebbe mai pensato di abbandonare quei graziosi vestitini rosa per indossare jeans stretti e magliette provocanti. Non avrebbe mai pensato di sciogliere la sua amata treccia o la infantile codina, per portare capelli lisci e fluenti sulla schiena. Non avrebbe mai pensato di ampliare il suo fine lessico con termini volgari e scurrili. Non avrebbe mai pensato di intraprendere una viziosa abitudine infruttuosa, dispendiosa e nociva, quale fumare, lei che per due anni era stata presidente dell’associazione antifumo della sua vecchia scuola.
Vegeta le aveva imposto tanti piccoli cambiamenti nella sua vita, anzi Vegeta si era imposto come cambiamento e non cedere alle sue esplicite richieste era un fragile appiglio al suo infantile passato. Era l’ultimo labile tentativo per rimanere aggrappata a quello che era,  per non corrompere anche la Bulma pura e ingenua di prima e per non condannarsi del tutto.
Ma era una tentativo sempre più labile e lei era sempre meno convinta nel provarci.
‘Si, ma ancora non mi sento pronta…’
Bugia anche quella. Si sentiva pronta, ma non era pronta ad ammetterlo.
Vegeta, allora, le aveva carezzato i capelli con la mano libera e aveva sottomesso la sua nuca a casti baci. Lei si era svincolata a malincuore dalle sue braccia e aveva guardato lui, contrariato e quasi incazzato.
‘Scusa, ma devo tornare in classe.’ Fece per aprire la porta, ma lui, più lesto, la attirò nuovamente a se.
‘Tu non te ne vai finchè non lo dico io.’ Scordatosi del precedente rifiuto, si impossessò violentemente della bocca della ragazza, mentre con la mano le teneva il mento verso sé.
Sarebbe stata felice di passare l’ora nel bagno con Vegeta, ma l’insegnante non sarebbe stata dello stesso avviso. Con poca forza e con poca voglia cercò di allontanarsi dal ragazzo, ma quello più forte, aumentava l’intensità della presa.
‘Ti lascio andare solo se accetti la proposta- l’aveva ricattata tra i baci- e non faremo niente, se non vuoi farlo.’ e lei si era dichiarata felicemente sconfitta.
‘E a i miei genitori che dico?’ Quel piccolo, detestabile dettaglio era apparso per rovinarle la felicità di un irrealizzabile progetto.
‘Gli dici che non possono più comandarti, perché ora ci sono io a farlo.’ Dichiarò impassibile e spaventosamente serio.
‘Ma tu ci credi davvero quando dici certe cose?’Domandò lei, più curiosa che offesa.
‘Vai in classe.’ Ordinò, sciogliendola dall’abbraccio e schioccando le dita.
Bulma si ricordò della spaventosa professoressa di letteratura italiana, meglio non farla alterare troppo.
Gli regalò un veloce bacio sulle labbra e corse fuori dal bagno, seguita dalle mordaci parole di lui.
‘Visto che ti comando io adesso?’
Girò la testa e gli offrì la visuale del suo dito medio alzato contro di lui e un’espressione molto irritata.

“…sono andata a trovare mia nonna, che sta male.”
Bugia,  bugia, bugia!
Ed era preoccupante che non era la sola nel corso di pochi giorni. Lei, che era sempre stata sincera, si era ritrovata a mentire parecchie volte.
Ma poteva confessare che Vegeta l’aveva sedotta, l’aveva persuasa, fino a farle completamente perdere il senno della ragione e dimenticare il suo dovere di studio?
“Brief, gli insegnanti non credono mai alle scuse degli studenti. Ma apprezzano molto l’originalità di alcune e qualche volta in nome dello spirito salace del ragazzo lo perdonano.” Sciorinò veloce e poi riprese.
“Siamo quasi a fine anno e lei rischia il debito. I miei colleghi decantano spesso la sua intelligenza e voglio metterla alla prova.”
Bulma ingoiò un groppo si saliva. Maledetti insegnanti pettegoli.
“Domani la interrogo, si faccia trovare preparata e passerà l’estate tranquilla.”
La campanella era suonata provvidenziale, impedendo alla professoressa di continuare il suo monologo circa l’importanza della sua materia, le reputazione della scuola, il prestigio dei professori e la vergogna di alunni distratti. Veloce sistemò le sue cose e corse fuori dalla classe fino ad arrivare all’aula di fronte, entrare trafelata e cercare nervosamente la sua amica.
“Chichi! Chichi! Dove sei?”
La vide mettere i libri nello zaino con cura e delicatezza, per timore di sgualcirli.
“Ehi Bulma.” La salutò cordiale e allegra. Nella sua voce tuttavia era palese una nota di stanchezza.
“Mi devi raccontare nei dettagli come è andata con Vegeta questo fine settimana. Me lo merito in fondo.”
La mora detestava Vegeta. Troppo spaccone. Troppo arrogante. Troppo montato. Troppo presuntuoso, eppure l’aveva coperta pur di farle passare del tempo sola con lui.
“Già te lo meriti. Perché non parlarne oggi? Tra un caffè, una fetta di dolce e le tue ripetizioni di latino?”
Aveva congiunto le mani e inumidito gli occhi, come un cucciolo. Era essenziale non farsi lasciare debiti, non voleva deludere i suoi genitori, non avrebbe potuto ferire così il proprio ego.
“Non posso. Oggi devo uscire con Goku. - Disse dispiaciuta, ma non troppo- perché non chiedi aiuto a Vegeta? Sarà molto più utile di me.”
Il volto di Bulma si illuminò istantaneamente “Si, sarebbe bello- per poi rabbuiarsi subito- peccato che non sia facile da convincere.”
Chichì le regalò un’amichevole pacca sulla spalla e le sorrise complice e divertita.
“La seduzione delle donne è un’arma eccezionale, cara. Ci vediamo domani.”
Seduzione delle donne? Aveva forse voglia di scherzare?
Vegeta sapeva essere tanto passionale e voglioso, quanto indifferente e quasi apatico. Quasi non aveva importanza come Bulma si acconciasse o si vestisse, perché solo lui decideva quando e come darle attenzione. Era l’ennesimo modo e per sentirsi grande e per farla sentire piccola.
Scese le scale, s’incamminò verso il parcheggio della scuola e lo vide salire sulla macchina e sistemarsi la cravatta, mentre lei pensava un modo per convincerlo. Lo raggiunse silenziosa e si sedette al posto del passeggero senza che lui avesse il tempo di poterle dire qualcosa.
Quella macchina sapeva di buono, sapeva di lui, sapeva di loro due e della loro fuga del week end. Bulma aveva accavallato sensuale le gambe, stando ben attenta affinchè  l’orlo della gonna si sollevasse più del solito.
“Mi sono perso il momento in cui ti ho detto di salire.”
Lei sorrise di circostanza e, audace, si coricò con la testa sulle ginocchia di lui e con la mano gli carezzava il basso ventre, perché anche l’uomo più duro del mondo non sarebbe potuto restare indifferente a certe attenzioni.
Ma all’uomo più duro del mondo, forse piaceva di più fare il duro, perché era abituato che quell'atteggiamento piaceva e aveva i suoi risultati. Vegeta le bloccò la mano e ringhiò feroce e sensuale.
“Quando te lo dico io.” Abbassò la testa e , ubriacandosi del suo odore di femmina, le ficcò irruente la lingua in bocca. Era un bacio impetuoso e violento. Lui decideva il ritmo, lui decideva la velocità. Vorace le addentò le morbide labbra, affondando i denti e facendola gemere di voluto dolore. Era sceso sul collo, mordendolo e baciandolo. Il suo passaggio era reso noto da succhiotti viola e morsi dai contorni rossi. La foga di lui la faceva impazzire, ma in quella posizione si sentiva completamente indifesa e sottomessa e non le piaceva per niente. E lui diventava sempre più veloce, sempre più violento, sempre più letale per lei e le piaceva immensamente.
La ragione stava incominciando a cedere all’estasi.  Doveva chiedergli aiuto per studiare, per non prendere un brutto voto in latino e invece si stava nuovamente distraendo. Era un circolo vizioso quella relazione.
“Vegeta, mi fai male.” Cercò di dire ferma, ma fu tradita da un suo stesso gemito d’approvazione.
“E ti piace.” Le sue mani si erano intrufolate sotto la camicia della divisa e avevano iniziato a stringerle il seno, sotto la stoffa del reggiseno.
“Ascoltami, ti devo parlare. E’ una cosa importante.” Gli afferrò il polso per bloccarlo e portò la mano del ragazzo all’altezza del loro viso.
“Ho preso tre nel compito di latino...”
“L’ho sempre detto che sei un’idiota.”  le sussurrò sulle labbra in un tono misto di nervosismo e derisione.
“Ehi!” Gli morse l’indice con quanta più forza potesse, ma lui non le badò minimamente.
Tentò di alzarsi, ma lui con una leggera pressione della mano la buttava indietro sulle sue ginocchia.
“Fammi alzare. Sento qualcosa di duro che mi preme e temo che non sia il cambio.” Ammise preoccupata che la situazione fosse degenerata davvero in fretta, ma finchè era salvabile, doveva salvarla.
“Prima mi istighi e poi ti tiri indietro? Non ti facevo così codarda.”
Non era codarda e glielo avrebbe dimostrato. Lei non aveva paura di niente, nemmeno di lui.
“Ho preso tre nel compito, perché questo fine settimana non ho potuto studiare. E tu sai benissimo perché non ho potuto farlo.”
“Non sei mai stata così contenta di prendere tre.” Insinuò.
“Anche se fosse, sarei ancora più contenta se non mi lasciassero la materia. Anzi saresti. Perché se io passo l’estate a studiare, tu ti dovrai dimenticare di me.Tu sei bravo in latino, aiutami a studiare.”
l problema era che Vegeta non concedeva nemmeno il beneficio del dubbio. Non ci rifletteva, non prometteva che avrebbe cambiato idea, ma era assolutamente convinto del suo no categorico.
“Che ti costa?” Era frustrante. Più andavano avanti, più capiva che il concetto di coppia come lo intendeva lei, quel percorso fatto di compromessi e cessioni, era totalmente estraneo al modus pensandi di Vegeta e, se l’accettava, lo intendevo univoco e unidirezionale.
“Mi costa tanti sacrifici. Devo rinunciare a qualcosa che mi piace fare per occuparmi di un caso disperato.”
Ma in una relazione avrebbero dovuto essere in due e in due si sarebbero presi oneri e onore. Lei sfoderò i suoi soliti occhioni dolci, occhi che avrebbero fatto tenerezza al più spietato dei tiranni e gli baciò la mano ancora stretta nella sua.
“Su andiamo fallo per me.”
“E tu che farai per me?” domandò allusivo.
Che poi Vegeta pareva davvero avere una visione distorta della realtà se pensava che quello in credito fosse lui.
“Sopportarti.”
“Sopporterai anche il debito in latino.”
Bulma sorrise di un sorriso tirato, di uno di quelli che avrebbe voluto manifestare come ringhio rumoroso e che sarebbe scomparso, solo per lasciare spazio ad insulti ad alta voce, perché Vegeta, proprio perché egoista e cinico, conosceva perfettamente il bisogno di minacciare l’egoismo altrui per averla vinta. Vegeta era davvero un bravo ricattatore.
“Che vuoi che faccia?” E Bulma era l’unica che aveva qualcosa da perdere. L’unica cosa che non tollerava era il fallimento.
Lui sorrise diabolico e infilò il dito medio nella sua bocca e, spostatosi al suo orecchio, le leccò il lobo.
Bulma, infuriata e nervosa, lo morse, senza però riuscire ad avere il sazio di avergli fatto male.
“No!” Aveva rifiutato decisa la sua proposta e lui ora si stava davvero alterando. Vegeta non veniva rifiutato.
“Dici che mi ami, ma l’intimità con la persona che ami ti fa paura. Sei contraddittoria e sei una bambina viziata che usa parole solo perché vanno di moda.”
Stavano assieme da due mesi. Un’eternità per lui e un niente per lei, per questo sembrava paradossale che ad avere una visione chiara del sentimento che li legava e una certa sicurezza nell’ esprimerlo era Bulma.
Era troppo frettolosa, troppo superficiale forse, eppure si atteggiava da persona profonda e ostentava ideali così elevati da non poter trovare casi paradigmatici nel reale. Forse era proprio la sua eccessiva astrattezza a farla essere superficiale, perché le dava l’arroganza della conoscenza, priva dell’esperienza.
L’amore era romantico, l’amore era puro, l’amore era eterno, l’amore era perfetto. Il corpo no.
“Io ti amo, sei tu che non rispetti il fatto di non sentirmi pronta.”
“Sai quanta voglia avevo di scoparti in questi due giorni?”
La ragazza non rispose e lui poté continuare il suo discorso.
“Davvero tanta. Tu giravi nuda, ti buttavi addosso a me e hai preteso che io non facessi niente, ne ho insistito per farlo.. Secondo te questo è non interessarmi a te e a tutte le tue stronzate paranoiche?”
Lei boccheggiava, in cerca di una risposta che non trovava, persa nell’eccitazione e nella brama di lui, ma l’esitazione e la paura rimanevano.
“E’ una cosa che fa schifo.” Non sapeva se facesse schifo o meno, ma sapeva che non era un argomento esente da tabù e da obiezioni contrarie. Sesso finalizzato alla procreazione.
“Non dire cazzate. Non hai mai provato.” Vegeta odiava Bulma, perché giudicava, ma pareva incapace di riflettere.
“Nemmeno tu, se è per questo.”
“Certo che l’ho provato.”
Una fitta allo stomaco la colse d’improvviso. Un senso di fastidio e di disagio che non voleva riuscire a spiegare, che non voleva riuscire a chiamare con nessun nome che conoscesse. Sapeva che aveva avuto altre prima di lei, ma non conosceva il numero, né la natura esatte della relazione e iniziò a sentirsi stupida e inadeguata.
“Non in quel senso, idiota. L’hai sempre ricevuto, ma mai l’hai fatto.”
Lui sospirò esasperato. Odiava i bambini e fare da baby-sitter lo stava indisponendo non poco. Che poi era paradossale che lei odiasse essere definita tale, ma non riusciva a comportarsi da adulto.
Vegeta si avvicinò nuovamente al suo volto, il suo respiro caldo le solleticava l’orecchio, procurandole piacevoli brividi di freddo.
“Ti piace la mia carne quando mi mordi? Ti piace l’odore della mia pelle quando mi annusi il collo?”
Sì, Sì! Le piaceva!
Perché in fondo un rapporto fisico coinvolgeva solo la sfera fisica ed estetica. Nessun giudizio di valore, solo la soddisfazione dei sensi, solo questione di piacere.
Nascose il volto di lato, per non farsi vedere con le guance arrossate per colpa sua, ma anche girata riusciva a percepire quel sorrisetto bastardo che mai lasciava il volto del ragazzo.
“E ti è piaciuto ieri quando mi hai visto nudo?” Ricordò con malizia.
Le era piaciuto?
Rimembrava i suoi tentativi di girarsi, quando lui le aveva mostrato il suo essere maschio e ricordava la vanità di tali tentativi, allorché lei, senza accorgersene, tornava a contemplarlo. Non ne aveva mai visto uno prima di allora e, dopo il primo imbarazzo, si era ritrovata affascinata e calamitata dalla possanza di quel muscolo proibito.
“Bene è come unire due cose che ti piacciono, quindi non ti potrebbe mai fare schifo.”
Un sospiro rassegnato le uscì dalle labbra. Odiava perdere, ma in quel frangente forse non le importava minimamente vincere. Era tanto tentata, quanto spaventata di dire si.
“Fai una prova. Se non ti piace…”
Se non le piaceva? La piantava? Continuava a stare con lei, scegliendo un’altra come trastullo sessuale?
“…non ti piace.”
Non sapeva ancora cosa avrebbe fatto, ma perché fasciarsi la testa prima del previsto? E perché prestare attenzione ad assurdi pensieri?
Era impossibile che lui non piacesse a una donna o a una ragazzina.
“Però non qui a scuola.” Gli aveva imposto, corrucciando le labbra, come una bambina “A casa tua!”
Lui la alzò contrariato dalle sue gambe. “Stai dando troppe cose per scontate, oggi. Prima la macchina e ora la casa. Tu sei fumata. Si va da te.”
“Cosa? Ci sono i miei genitori, che succede se entrano nella stanza o sentono strani rumori?”
Maledizione a quel decoro necessario e obbligato che faceva diventare di un non problema un peccato.
“Si entra dall’ingresso secondario, si sta solo nella mia stanza e non ti presento nessuno.” E per quanto fosse una scelta pericolosa, era meglio del perbenismo e di una valorosa pudicizia.
 
“Prima cerchi il verbo principale per analizzarlo. Modo, tempo, diatesi, persona e numero.”
Le consigliò stranamente paziente. Avevano passato più di due ore, piegati sui libri e lei lo aveva fatto impazzire. Non lo ascoltava, non capiva ciò che le diceva, sbagliava declinazioni e coniugazioni di continuo.
Solitamente si sarebbe incazzato, ma gli aveva permesso di urlarle addosso qualunque genere di imprecazione, pur di non perdere quel prezioso aiuto, difficilmente comperato con la sua innocenza.
Lei si reggeva la testa con le mani e stringeva tra le labbra una matita. Era un’imbecille!
Aveva sbagliato tutto, doveva concentrarsi sul latino e non riusciva a non pensare a quello che sarebbe successo dopo. Aveva paura di fare una cosa che voleva fare. In quel preciso istante non capiva i labirinti tortuosi del suo cervello, figuriamoci il latino. Forse se l’avesse fatto prima di studiare, si sarebbe potuta concentrare.
Sputò la matita e gli si sedette addosso, armeggiando con la fibbia della cintura e la cerniera dei pantaloni, in una maniera tanto goffa e davvero poco seducente, da rendere eccessivamente manifesta la sua inesperienza e il suo disagio, facendola diventare un’esperienza quasi nuova anche per lui.
Dovette praticamente occuparsi lui di liberare il suo membro dall’intimo che indossava, per non rischiare che lei strappasse i jeans senza nemmeno riuscire ad aprirli o fargli male senza nemmeno sapere cosa stesse toccando.
“In ginocchio.” Forse voleva essere un consiglio per lei, che ancora stava a cavalcioni su di lui ed era visibilmente disorientata, o forse calamitata?, ma la sua consueta mancanza di affabilità e il suo tono quasi militare lo fecero somigliare ad un ordine e sembrava l’ennesimo indizio che quello che stava facendo era sbagliato.
Bello lui e bella nei: mai nessuno avrebbe potuto pronosticare che un tale tipo d’ incontro tra i due potesse mancare di sensualità e piacere.
Lui attendeva, attendeva da tanto quel momento, ma il suo membro quasi non condivideva le sue attese; lei attendeva un segno decisivo da interpretare e che le avrebbe tolto del tutto la responsabilità della scelta.
Non pareva una cosa così esaltante come lui l’aveva dipinta, ma sentiva meno ribrezzo di quello che avrebbe voluto. Dove stava la verità?
Vegeta mise una mano tra i capelli azzurri di Bulma e avvicinò i loro volti; i loro nasi freddi che si sfioravano. Si impossessò delle sue labbra in un modo estremamente possessivo e famelico, non lasciandole quasi il tempo di respirare, ma lei amava il suo modo di baciare, perché in un certo quel senso la faceva sentire indispensabili, sicuramente più dell’aria che scarseggiava sempre, e perché Vegeta non conosceva dolcezza e a lei piaceva così.
Fece forza per svincolarsi da lui e scivolare ai suoi piedi. Quel bacio era il segno che aveva cercato, l’assoluzione della sua coscienza. Lui allargò le gambe per permettere di stare più comoda e per la prima volta posò la mano sulla testa di una ragazza non per tirarle i capelli e obbligarla alla velocità che voleva lui, ma per accarezzarla e farle sentire protetta.
Bulma si avvicinò, titubante, ma nel momento stesso in cui per la prima volta sfiorò con le labbra il pene di Vegeta, sentì la porta aprirsi e una persona varcare la soglia della camera. Si girò imbarazzata, vergognata intimorita. Le guance bruciavano , ma mai quanto il suo orgoglio e la sua decenza, quella che si vantava sempre di avere.
Un uomo di bassa statura e dalla carnagione chiarissima, quasi bianca, la stava squadrando con due occhi neri profondi, di una profondità agghiacciante e spaventevole, il volto una maschera d’apatia.
Bulma volgeva i suoi occhi prima su di lui e poi su Vegeta che ancora la sovrastava e sembrava infastidito più che imbarazzato. La perforava con quello sguardo tagliente e penetrante e sembrava più arrabbiato con lei che con l’intruso.
“Ti avevo espressamente detto di chiudere la porta a chiave.”
Aveva sgranato gli occhi, si sentiva scrutata e accusata. E per quanto sapesse che quella posizione era davvero poco dignitosa, non riusciva a comandare al suo corpo di alzarsi e, se non fosse stato per Vegeta, che l’aveva aiutata ad alzarsi tirandole un braccio e facendole anche male, immaginava che sarebbe stata pietrificata  per il resto della sua vita.
“Ti aspettavo di sotto. Mezz’ora fa. Dovevi esserci.” Parlava pacato e atono, non sembrava interessato a lei, e questo la sollevò.
“Dovevo aiutarla con il latino.” Rispose asciutto il ragazzo.
L’uomo si voltò verso la ragazza, che stava giocando nervosamente con l’ultimo bottone della camicia.
“Mi sembra di aver capito che le lingue non sono il tuo forte.”
L’apostrofò crudele e allusivo alla nudità di Vegeta.
Bulma sgranò gli occhi sbigottita e offesa che uno sconosciuto si stesse prendendo gioco di lei e che quello che pensava fosse il suo ragazzo non la difendesse. Si domandava se la cavalleria fosse una sua pretesa esagerata o se Vegeta fosse incapace anche dell’ovvio.
Si girò indecisa se arrabbiarsi preventivamente o nutrire qualche speranza che lui la stesse spalleggiando anche solo con un’espressione irata e accigliata, ma quello che vide fu un ghigno complice. E si incazzò.
Non capiva chi fosse quella persona. Non l’aveva mai vista e non riusciva a ricollegarla in alcuna maniera a nessuno di sua conoscenza, tanto meno al moro al suo fianco.
“Chi cazzo sei tu per parlarmi così? E chi cazzo sei per non bussare?”
Domandò inviperita, mettendosi in posizione di guerra, con le mani sui fianchi, perché si doveva difendere da sola. L’uomo scrollò le spalle indifferente e curvò le labbra scure in un sorriso di divertita esperienza.
“Vegeta, le donne migliori sono quelle che non usano la bocca per parlare. Hai avuto troiette migliori e più belle.”
“Smettila, papà.”
Sarebbe dovuta sentirsi ferita nell'orgoglio per la stoccata alla sua bellezza indubitabile; sarebbe dovuta sentirsi nervosa perché le avevano ricordato per l’ennesima volta che lei sarebbe stata una delle tante per lui e non avrebbe avuto nessun valore speciale. Ma non ci riusciva.
Papà?
“Domandare è lecito, rispondere è cortesia. Sono il padre del ragazzo da cui ti fai sbattere.”
“Smettila, Freezer.” Ringhiò nuovamente Vegeta nella sua direzione.
Quelle parole le gelarono il sangue e le inumidirono gli occhi, perché avevano confermato, l’unica cosa che non avrebbe voluto sentirsi dire.
 
Era sempre stato un tipo taciturno, poco propenso a conversare, ma il silenzio dell’abitacolo le metteva agitazione. Forse perché era pregno anche delle sue parole non dette?
Non aveva parlato. Non aveva scherzato. Non aveva acceso la radio e non aveva cantato. Aveva un bruttissimo senso di nausea e le girava la testa. Arrivarono a casa sua in metà del tempo previsto. Vegeta alla guida era un folle e per di più sembrava molto nervoso.
“Scendi.”
“Mi dispiace.” Era turbata. Era curiosa. Era dispiaciuta. Si sentiva una stupida. Essendo cresciuta in una famiglia amorevole, mai aveva pensato all'eventualità che Vegeta potesse avere quel carattere particolare, per via di una difficile situazione familiare.
“Ci saranno altre occasioni… spero!” L’ammonì col fuoco negli occhi.
“Cosa?” L’intuito le diceva che stavano parlando di argomenti totalmente diversi e per un secondo si stupì delle priorità del ragazzo.
“Io ti ho aiutato col latino. Sta a te mantenere fede al patto.” Maschi! Pensavano sempre e solo a quello.
Bulma poteva convincersi che Vegeta era un lurido pervertito, eppure in quel momento le sembrò solo un cucciolo smarrito, che voleva dissimulare la sua tristezza con un’aria da duro. Se ne voleva convincere.
Se non fosse poi la mancanza di una figura genitoriale di riferimento che lo portava a cercare amore in una ragazza in modo vuoto e caduco e a trattarla peggio di un oggetto.
Vegeta non aveva avuto l’affetto di una famiglia normale, ma nessuno gli avrebbe tolto il suo amore. Sorrise tenera nella sua direzione e gli si avvicinò sensuale. Era bastata solo la pena a invitarla a fare quello che la sua bellezza sapeva le avrebbe permesso di fare.
“Aspetto solo che me lo dica tu.” Proprio come piaceva a lui. Gli soffiò sulle labbra. Proprio come piaceva a lui.
Ricambiava il suo sguardo accattivante con un’aria incredula. Si domandava insistentemente il motivo di quel repentino cambio d’opinione e quell’improvvisa voglia, nonché di quella strana accondiscendenza, che non le sembrava proprio da lei.
Mise in moto la macchina e si fermò in un vicolo abbandonato, il primo che aveva visto. Spostò  il sedile completamente all’indietro e le fece cenno di avvicinarsi, perché le sue domande potevano anche rimanere senza risposta in quel momento. Forse.
“In ginocchio.” Quella volta era davvero solo un comando. Voleva vedere quando lei sarebbe tornata infastidita dalle sue maniere, ma diversamente da come si era immaginato,  gli sorrise e, con agilità, si accomodò tra le sue gambe, sotto il volante.
Il suo viso era troppo dolce e comprensivo, troppo accomodante e permissivo. Non era lei e non si riusciva a capacitare di cosa le fosse successo in dieci minuti per renderla in quella maniera.
Dopo che lei l’aveva stupito con un’insospettata agevolezza, reclinò la testa all’indietro pronto a godere delle attenzioni della ragazza, che non tardarono ad arrivare. La sentiva agitata e vagamente preoccupata, ma  sembrava stesse impegnandosi e per essere una mocciosa non se la cavava per niente male. Avrebbe potuto abituarsi a questo. Avrebbe potuto anche aspettare per avere di più. L’afferrò per i capelli e la spinse di più verso lui. Quella volta poteva anche non dovere cedere ad una tenerezza che non tollerava.
Bulma odiava ammetterlo ma Vegeta aveva ragione. Quel contatto non le dispiaceva, anzi l’aveva accesa di un desiderio che tentava di spegnere, perchè al piacere si accostavano i sensi di colpa e dolorose fitte allo stomaco. Pensava ai suoi genitori e alla reazione che avrebbero potuto avere, vedendola in quello situazione. Pensava a Chichi, a lei che era tanto perfetta, a lei che non era così stupida da lasciarsi irretire da un bastardo con voglie assurde e lasciarsi plagiare da lui.
“Ingoia.” Ordinò, cercando di essere ferreo e controllato.
Bulma tentò di liberarsi, di ribellarsi, ma quella mano era più forte e fu costretta a cedere alla sua insistente imposizione.
Finito, si alzò da terra, sbattendo contro lo sterzo, e si mise a cavalcioni sopra di lui. Storceva ancora la bocca e si massaggiava il bernoccolo e lui sembrava trovarlo divertente.
“Sarà la prima e ultima volta.”
Bulma gli riservò un’occhiata omicida, accompagnata da una smorfia schifata, ma in quel momento non poté fare a meno di pensare che era splendido, quando sostituiva al suo ghigno bastardo quel sorriso sinceramente soddisfatto. Il suo volto sembrava essere più luminoso.
La ragazza scosse la testa e lo baciò sulla bocca.
“Amore?” lo chiamò dolcemente, carezzandogli gli addominali.
“Dimmi.” Che lui si riconoscesse in quell’appellativo, per Bulma era un buon segno. Avrebbe preferito che lui dicesse di ricambiarla nei suoi sentimenti, ma apprezzava che, quando stava con lui, non c’era bisogno di nessun enunciato per sentirsi bene.
“So che può essere difficile parlare della morte dei tuoi genitori, ma sappi che per te ci sono sempre.”
La realtà lo colpì come uno schiaffo. Quella stupida stava vagando troppo con la testa, stava facendo cento ipotesi e mille sbagli, ma ca cosa peggiore era sentirsi compatito-
“Tu mi hai tirato un pompino perché ti faccio pena?” Era incazzato, davvero incazzato e Bulma in quel momento capì di averlo visto sempre e solo nervoso. La ributtò di peso sul suo sedile e si girò a guardarla in cagnesco.
“Non sono un trovatello di strada che ha bisogno delle tue cure, né della tua pietà.”
“Non ho pietà di te, ma mi dispiace che sei costretto a vivere con quello stronzo. Mi dispiace che non hai affianco i tuoi genitori e volevo semplicemente ricordarti che io ci sono.”
Si giustificò ferita da quelle parole. Voleva affiancarlo e lui le inveiva contro? Era pazzo!
“Costretto? Sono maggiorenne e decido con la mia testa. Quando vorrò andarmene da quella casa, me ne andrò. Freezer è mio padre.”
Bulma cercò di appiattirsi verso lo sportello del passeggero e scosse la testa, perché non avevano senso quelle parole per lei. Non si poteva scegliere quell’uomo e non si poteva fingere apatia per la morte dei propri genitori, né indifferenza per una situazione che era strana.
“Smettila di fingere pure con me. Io ti voglio solo rendere le cose più semplici. Voglio darti l’amore che quello non ti da.”
“Come puoi volermi rendere migliori le cose, se non sai manco di cosa stai parlando? Stai fantasticando sulle tue congetture, Io non ho bisogno dell’amore. Solo le bambine idiote hanno bisogno dell’amore.”
“Perché stai con me se non hai bisogno d’amore?” Domandò insistente e cieca della realtà in fin dei conti.
“Per divertirmi. Per scopare. Per avere un passatempo, quando mi annoio. Non mi risulta di averti mai chiesto amore.”
Le lacrime minacciavano di rigarle il viso, copiose e dolorose. Le parole di lui la stavano ferendo. Venir messi di fronte alla cruda realtà, totalmente diversa dalle sue aspettative le faceva male.
“E tutte le volte che ti ho detto di amarti?”
Un groppo in gola non le permetteva di parlare liberamente e tranquillamente.
“Pensavi davvero che io ricambiassi?”
Tirò su col naso.
“E magari pensavi pure che non te lo dicessi perché sono timido?”
Singhiozzò ad alta voce.
“Tu non ricordi le declinazioni, perché la tua testa è piena di puttanate.”
La guardò nervoso e irritato dalle sue invadenti insinuazioni.
Perché voleva giocare alla buona samaritana e perché doveva ficcare il naso nelle sue faccende?
“Scendi, non voglio che mi bagni i sedili.”
Il suo singhiozzare fu interrotto dal rumore sordo di uno schiaffo che colpiva la carne di lui, dura come la roccia, e che probabilmente faceva male solo a lei. Come tutta quella situazione. Vegeta non accusò il colpo, si sorprese di averlo ricevuto, ma poi rise diabolico e sadico.
“Amore mio- calcò queste parole volutamente e crudelmente, perché era capace di dirle, ma semplicemente non aveva mai voluto farlo- non te la prendere con me se vivi nei tuoi sogni. L’unica colpa che ho avuto io è stata di aver creduto che tu fossi più matura.”
“Rimpiango di non avertelo strappato a morsi.” Ringhiò furiosa contro di lui.
“Puoi provarci ora se vuoi.” La sfidò sfacciatamente.
Bulma scese dalla macchina, sbattendo violentemente la portiera, più volte, perché colpire la sua amata macchina forse era l’unico modo per colpire lui.
“Fallo di nuovo e ti ci chiudo la testa dentro.” Minacciò freddo e spaventosamente serio, ma soprattutto naturale.
Non riusciva più a capire chi era quel ragazzo che parlava e pensava come un automa e che minacciava violenza. Non riusciva a capire se era sempre stato così cattivo e lei troppo stupida da non accorgersene o se era lo sfogo di un momento e lei fosse ancora una volta nel giusto.
“Fatti investire da un camion.” Sapeva solo di non volerlo rivedere mai più.


 
Incassò malamente quel pugno nello stomaco. Aveva sputato saliva e ora boccheggiava in cerca di ossigeno che sembrava non respirare. Gli occhi erano sgranati, mostranti un’espressione di pura sofferenza, le mani a coprire il punto leso, nella vana speranza che avrebbe potuto lenire il dolore.
Il pugno era arrivato improvviso e inaspettato, ma, anche se gliel’avessero detto, non avrebbe potuto fare nulla per evitarlo e non avrebbe evitato di contorcersi sofferente.
“Perché?” Domandò con un filo di voce, perché era affaticata nel parlare, ma con insolenza, perché aveva tanto astio per lui.
“Mi servi viva, ma non illesa.” Conciso. Breve. Impietoso.
“Perché?” Insistette, digrignando i denti.
“E’ un monito per il futuro. Da oggi in poi, se non vuoi morire, sei obbligata a obbedirmi e a non fare niente che io non voglia.”
“Sei solo un sadico di merda, non avevi motivo per farlo!” Urlò esasperata e lacrimante.
Le afferrò i capelli e la costrinse ad appoggiarsi malamente allo schienale della sedia.
“Hai cercato di ammazzarlo. Sembravi così coraggiosa con una pistola in mano e invece sei solo una puttana che ha paura delle conseguenze.”
“E’ una cosa che riguarda me e lui. Gli ho già chiesto scusa, purtroppo. Con te non mi devo giustificare proprio di niente.”
Lui rise mefistofelico.
“E’ una cosa che riguarda pure me. E’ mio figlio.”
E Bulma avrebbe preferito un altro pugno, che sentire la verità di quelle parole. Di nuovo.




Buonasera cari lettori o lettrici, vi sono mancata?
Alla fine ho impiegato davvero tanto tempo per revisionare questo capitolo, perché ne ho praticamente cambiato più di metù e più cambio, più faccio casino xD
Che dire? Che ancora l’azione e le pippe mentali di quelle serie devono arrivare, è una minaccia sia per chi ha già letto sia per chi è nuovo, ma per adesso ho l’esigenza di costruire un background ai personaggi, più che di far evolvere la situazione in quello che sarà poi.
Parlando di questo, ho riscritto la scenetta intima e hot, a proposito secondo voi devo cambiare rating?, cercando di coniugare la sessualità da un punto di vista morale e dal punto di vista psicologico dell’individuo che lo esperisce per la prima volta, o quasi. Ci ho messo tanta attenzione a renderla più plausibile e verosimile, rispetto alla precedente versione, e spero non vi dispiaccia la nota reale dell’inesperienza e della confusione mentale.
Mi rimetto al vostro giudizio, come sempre, perché voglio sapere se sembra fiacco o se sono io che l’ho riletto troppe volte ad essere nauseata e a pensarlo “prevedibile.”
Grazie a tutti quelli che seguono la storia, in qualunque maniera, recensendo, leggendo o inserendola nelle liste, e vi saluto fino al prossimo aggiornamento.
Buona serata! <3

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