Mille parsec dalla Terra

di Raptor Pardus
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Uno ***
Capitolo 2: *** Due ***
Capitolo 3: *** Tre ***
Capitolo 4: *** Quattro ***



Capitolo 1
*** Uno ***


Mille Parsec dalla Terra

 
Il vasto ponte di comando del ricognitore FSS “Nimbus” era vuoto, abitato solo dal ronzio e dai sibili degli schermi e dei computer di bordo che illuminavano la plancia a giorno.
Le uniche persone presenti in quel momento all’interno della sala erano tre membri dell’equipaggio assegnato al comando della nave, lasciata al pilota automatico per buona parte della sicura tratta.
Il più alto di grado fissava solitario le stelle al di là dei vetri polarizzati, in silenzio, in piedi davanti alla fila di finestre che attraversava tutta la parete frontale della torre di comando.
Gli altri due di guardia, l’addetto radar e l’addetto comunicazioni, poltrivano seduti alle loro postazioni, parlando del più e del meno.
<< …non mi piace questa storia, i ricognitori non sono adatti a una battaglia. >> diceva uno all’altro che, col gomito appoggiato sullo schermo del rilevatore di microonde, cercava di non chiudere gli occhi. << Il Senato chiede troppo, non resisteremo per molto qui fuori. >>
<< Sai che le tue lamentele non servono a niente, specie perché siamo a cinquemila anni luce dalla Terra? >> rispose il compagno sbadigliando.
Era un giovane ragazzo, magro, dai capelli scuri e dalla pelle bronzea, le labbra sottili e gli occhi grandi appesantiti dal sonno.
<< Ripetimelo quando sarà finita la guerra. >> rispose il primo scurendosi in volto e incrociando le braccia sul suo ampio petto.
Rispetto al compagno, l’addetto radio era ben più largo, e ben più chiaro sia di pelle che di capelli.
L’altro si ricompose e fece ruotare la sedia, riallineandola con lo schermo di fronte a lui.
<< Sono le uniche navi leggere in grado di trasportare caccia, e se non trasporti caccia non vali nulla in battaglia ormai, fattene una ragione. >> disse, rimettendosi nella posizione precedente, stavolta col gomito sul bracciolo della sua poltrona.
<< Avessimo almeno dato davvero battaglia, non mi piace questa tattica di rimanere in difesa. >> rispose il primo, afferrando le sue cuffie e passandosele da una mano all’altra.
<< A me non piace questa cazzo di guerra, ma ehi, non è colpa nostra se il nostro sistema si trovano proprio in mezzo a due potenze intergalattiche! >> concluse l’altro visibilmente irritato, dando un taglio alla discussione.
<< La volete smettere? >> chiese l’ufficiale senza nemmeno degnarli di uno sguardo.
<< Scusi, tenente. >> dissero i due, ricomponendosi.
<< Nessun rilevamento ancora? >>
<< No, signore. >>   
<< Non distraetevi. >>
La nave era partita sei mesi prima dallo spazioporto di Palladium, al confine tra Orlo Esterno e Frangia Orientale, col compito di pattugliare i confini con l’Impero, dove da ormai cinque anni si susseguivano aspri combattimenti tra le flotte Volosiane e le navi Khorsiane in fuga, che ancora però trovavano le forze per compiere razzie ai danni dei sistemi Federali, le cui guarnigioni erano sempre e comunque inadeguate alla minaccia aliena.
Restavano ancora quattro mesi prima di rientrare nel vicino avamposto di Castrum Perseus, da dove poi sarebbe ripartita per ripetere la stessa tratta al contrario.
<< Guardiamarina Socorus, da quanto serve nell’astromarina? >> chiese ad un certo punto il tenente, sempre mantenendo lo sguardo rivolto verso le stelle.
<< Uh… sette anni, signore. >> disse l’addetto radar, improvvisamente sul chi vive.
<< E in questi sette anni non ha ancora capito perché lo facciamo? >> chiese tetramente l’ufficiale.
<< Cosa… cosa intende, signore? >>
L’addetto radar era visibilmente confuso, e continuava a guardare il suo commilitone, in cerca di aiuto.
<< Lasciamo perdere. >> disse il tenente voltandosi e fissando finalmente i due.
<< Resti concentrato su quell’apparecchio, non voglio soprese da parte di qualche dannata nave Imperiale. >>
<< Sissignore. >> fu l’unica parola che disse il guardiamarina, quasi con rammarico.
Il tenente tornò a guardare verso le stelle, ammirando la bellezza della fascia di asteroidi che si stagliava lontana, poco sopra il loro orizzonte, adagiata nell’orbita di un sistema poco distante da loro, i cui due giganti ghiacciati, titaniche sfere di un azzurro intenso, grandi almeno trenta volte Giove, facevano capolino dal cono d’ombra della cintura di planetoidi.
Da qualche parte, tra quei due giganti e la piccola stella attorno a cui ruotavano, si nascondeva un piccolo pianeta roccioso, completamente disabitato, su cui due anni prima si era combattuta un’aspra battaglia per il controllo delle rotte circostanti, fondamentali per il sistema logistico Imperiale.
Come fin troppo spesso era accaduto, le truppe Federali avevano preso una sonora batosta nel giro di quattro mesi ed erano state messe in fuga, ritardando così, secondo le stime Volosiane, la fine della guerra di un anno abbondante.
Il Senato invece reputava il sacrificio di 381.000 uomini un atto di eroismo senza pari, ritenendolo fondamentale per impedire all’Impero di muovere altre truppe a difesa del sistema di Carouros, dove la flotta Volosiana aveva dato battaglia nello stesso periodo.
Opposta alla cintura di asteroidi, chissà quanto lontana, vi era una piccola nebulosa rossa, un arco di polvere rossa da cui facevano capolino alcune stelle lontane chissà quanto, il cui riflesso riluceva in mezzo alla polvere interstellare colorandosi di arancio.
E in tutto questo gli uomini non erano che granelli di polvere, schiacciati tra stelle che a loro parevano così grandi e distanti, eppure risultavano strette ad esseri più antichi di loro.
E tutta quella bellezza era corrotta dalle loro armi volanti che si libravano nell’etere, in attesa di una vittima da sbranare, nascoste nel silenzio e nell’oscurità, all’ombra di pianeti sconosciuti.
Ed era tremendo pensare che quella non fosse altro che una lotta tra specie, pronte a sterminarsi a vicenda, perché a conti fatti quella guerra non era altro che una lotta razziale su scala interplanetaria.
Eppure sarebbe bastato nascere dal lato opposto della galassia, null’altro, e tutte quelle pene che la Federazione stava passando in quel momento non sarebbero mai esistite.
Là, nello spazio di nessuno, sarebbero stati isolati, al sicuro, lontani da qualsiasi minaccia che i due Imperi ai loro fianchi avrebbero scatenato, ma chissà, magari c’era effettivamente un’altra civiltà su qualche stella sperduta da quelle parti, e loro semplicemente non lo sapevano.
Il tenente abbassò lo sguardo e si lisciò il doppiopetto dell’uniforme grigio scuro.
<< Ancora nessun segnale dalla “Parthia”? >> chiese, tornando a fissare verso l’esterno.
<< No, signore. >> rispose l’addetto radio.
La FSS “Parthia” era un altro ricognitore Federale, che avrebbero dovuto incrociare diversi giorni prima, poiché essa stava compiendo la loro stessa missione di pattuglia, ma seguendo la rotta al contrario, dalla stazione spaziale di Castrum Perseus fino a Palladium.
<< Non mi piace… >> mormorò il tenente, in una sorta di rituale che ripeteva ormai ogni turno da quando l’astronave non si era presentata al punto di rendez-vous.
<< Certo, se le navi si muovessero sempre in coppia… >> sussurrò l’addetto radar all’altro.
<< Noi e quale flotta? >> rispose l’altro, stizzito dal fatto che, pur avendo il compagno ragione, ciò che aveva affermato era praticamente impossibile da realizzare, specie dopo che oltre un terzo della flotta spaziale Federale era stato messo fuori combattimento dopo poche battaglie.
<< Fate rapporto alla fine del turno. >> disse il tenente voltandosi, e i due guardiamarina lo fissarono avvicinarsi alla porta in metallo all’altra estremità della sala, la quale si aprì con un sibilo, scivolando all’interno della parete.
Non appena l’ufficiale mise un piede nel corridoio che portava all’ascensore, una spia rossa si accese sulla consolle dell’addetto radar, accompagnata da uno squillante cicalino, richiamando l’attenzione del guardiamarina che si voltò per controllare l’origine del segnale e sgranò gli occhi non appena vide il puntino luminoso apparso nell’angolo superiore destro dello schermo avvicinarsi rapidamente alla loro posizione.
<< Merda. >>
L’altro soldato lo fissò, gli occhi sbarrati, già intuendo quale fosse il problema.
<< Gli ufficiali sul ponte! Allarme! >> urlò l’addetto radar mentre l’uomo accanto a lui dava metteva tutta la nave in allerta via radio.
Il tenente si voltò subito e corse verso la loro postazione.
<< Che succede? >>
<< Rilevato riflesso non identificato davanti a noi, si avvicina rapidamente. >> disse l’addetto radar visibilmente preoccupato.
<< Nessun segnale di riconoscimento, non è una nave alleata! >> aggiunse l’addetto radio.
L’ufficiale si lanciò davanti alle finestre per guardare la minaccia in arrivo.
Una nave Khorsiana era appena apparsa davanti a loro, le armi pronte a far fuoco, terribilmente vicina, terribilmente veloce, appena uscita dalla velocità superluminale.
<< Chiamate il capitano, presto! >> urlò, continuando a fissare preoccupato il nemico che veniva verso di loro, ancora un puntino poco sopra la fascia di asteroidi davanti a loro.
L’allarme risuonò per tutta la nave, mentre il codice di emergenza veniva trasmesso su ogni ponte.
<< Tutti gli uomini ai posti di combattimento, prepararsi a invertire la rotta! >> continuò il tenente, posizionandosi davanti alla cloche del timoniere e disattivando il pilota automatico, maledicendo in silenzio la carenza di personale.
Sei uomini entrarono in quel momento sul ponte di comando e raggiunsero di corsa le loro postazioni, preparandosi subito a eseguire gli ordini.
Il tenente, sostituito alla cloche dal timoniere, rimase in piedi accanto alla poltrona del capitano, in attesa che l’alto ufficiale si presentasse sul ponte.
La nave nemica era lì, davanti a loro, in silenziosa attesa che la preda giungesse alla portata dei cannoni che rilucevano sulle sue maestose ali, illuminati dalle stelle lontane.
Era un enorme mezzaluna lucida, completamente nera, dal cui centro svettavano i due reattori posteriori, collegati al ponte di comando con una complessa struttura sotto la quale si nascondevano i generatori della nave.
Ai lati del ponte di comando proteso in avanti, fissati all’interno dello scafo, spuntavano i due cannoni pesanti binati, quattro temibili bocche da fuoco in grado di riversare plasma a velocità elevatissime.
Il capitano fu annunciato dal sibilo della porta scorrevole e dal suo passo pesante sul freddo acciaio del pavimento, amplificato dai suoi stivali in cuoio nero.
<< Che succede? >> chiese con fare rude sedendosi sulla sua poltrona, sistemandosi i gradi sui paramano.
<< Torpediniera nemica davanti a prua, signore, diretta verso di noi. >> rispose il tenente salutando il superiore, cercando di nascondere la nota di preoccupazione nella sua voce.
<< Come ha fatto a sbucare così vicino a un sistema? >> chiese il capitano, la voce sempre più carica d’ira per essersi fatto cogliere impreparato.
<< Non lo sappiamo, signore, devono aver aggiornato i loro motori iperluce. >> rispose l’addetto radar, alzando lo sguardo dal suo schermo.
<< Possibilità zero di batterla in combattimento, vero? >> chiese il capitano fissando il tenente.
<< Possibilità zero, signore. >> rispose il tenente.
<< Quanto è distante? >> chiese il capitano, portandosi una mano sulla fronte a coprire gli occhi.
<< Alla velocità attuale, meno di due ore da noi, signore. >> rispose il guardiamarina.
<< Invertire immediatamente la rotta. >> disse il capitano, sospirando, ormai arresosi all’evidenza dell’inferiorità della sua nave. << Alziamoci di quota e raggiungiamo la fascia di asteroidi. >>
<< Subito, signore. >> rispose il timoniere, maneggiando la pesante cloche davanti alla postazione del capitano.
La nave iniziò a girare lentamente sul posto, i piccoli reattori di prua sotto sforzo per riuscire a far leva in egual misura rispetto ai più potenti reattori laterali di poppa, agganciati alle grosse ali trapezoidali che sporgevano dallo scafo proprio dove iniziava a protendersi la deriva della nave, dalla cui cima sporgeva la piccola sala di comando da dove ora stavano fissando la nave nemica lanciata verso di loro lentamente scivolare fuori dal loro campo visivo.
<< Motori a potenza massima. >> disse il capitano.
<< Capitano, è una manovra troppo rischiosa… signore. >> disse il tenente, fissando preoccupato il timoniere che già stava eseguendo l’ordine.
<< L’altra opzione è finire in pasto a quell’affare. Non mi interessa, timoniere, esegui! >> rispose il capitano, alzando il tono delle voce.
<< Sissignore. >> rispose il timoniere abbassando una leva accanto alla cloche.
Gli asteroidi erano ormai davanti a loro, sopra le loro teste, e si avvicinavano sempre più.
<< Missili in arrivo! >> urlò l’addetto armamenti.
<< Dentro il campo! >> esclamò il capitano in tutta risposta.
Il timoniere si lanciò in un plateale avvitamento, passando in mezzo alle prime fredde rocce spaziali del banco.
Già potevano percepire la polvere interstellare picchiettare contro il vetro del ponte, sospinta contro di loro dalla lieve interferenza gravitazionale che la loro presenza stava causando nel precario equilibrio della fascia.
<< Mancati. Siamo di nuovo fuori gittata, capitano. >> disse l’addetto armamenti difensivi.
<< Bene. >> rispose il capitano allargando con un dito l’alto colletto della giacca << Continuiamo a navigare dritto e cerchiamo di uscire dall’altra parte di questa fascia. Ci seguono ancora? >>
<< Il radar è fuori uso, signore, troppe interferenze. >> rispose l’addetto radar.
<< Direi che non avevamo scelta. >> commentò il tenente, massaggiandosi le mani sudate.
Il capitano, un uomo sulla quarantina con una folta barba nera, si tolse dalla testa la bustina nera bordata amaranto e la ripiegò, ponendola poi sul bracciolo della sua poltrona, rivelando l’incipiente calvizie sulla sua testa.
<< Concordo. >> disse sorridendo.
Si alzò, svettando sopra tutti gli altri presenti, e iniziò a passeggiare per la sala con lente e ampie falcate.
<< Riusciamo a contattare un nostro qualsiasi avamposto? >> chiese accarezzandosi la barba del mento, perso nei suoi pensieri.
<< Nossignore, siamo troppo distanti da qualsiasi stazione. >> rispose l’addetto radio.
<< Quindi dobbiamo cavarcela da soli. >> continuò il capitano, continuando a camminare avanti e dietro fino a quando non si ritrovò davanti alla vetrata del ponte.
Fissò gli enormi ammassi rocciosi che roteavano davanti a loro, poi si voltò.
<< Se siamo fortunati, il nemico ha deciso di seguirci qui dentro, quindi non dobbiamo far altro che riuscire a sbucare dall’altra parte e allontanarci dal campo gravitazionale del sistema prima che ci punti i suoi cannoni addosso. >> disse, riprendendo a camminare.
<< E se non lo siamo, signore? >> chiese l’addetto radar.
<< In questo momento starà sorvolando sopra le nostre testa, in attesa che usciamo dalla cintura di asteroidi, e ci piomberà addosso non appena lo faremo. >> rispose il capitano.
<< Non abbiamo modo di sapere se il nemico è sopra o dietro di noi, non possiamo che aspettare e sperare che non stia guardando verso il punto in cui sbucheremo fuori dalla fascia. >> osservò il tenente.
<< Quanta energia abbiamo ancora? >> chiese il capitano.
<< Il reattore funziona a piena potenza e abbia scorte sufficienti di carburante per raggiungere la nostra meta, signore. >> rispose l’addetto strutturale.
<< Allora percorriamo tutto l’anello, mettiamo tra noi e il nemico un pianeta o due. Poi usciamo e saltiamo via. >> concluse il capitano, tornando a fissare gli asteroidi che leggiadri galleggiavano nell’etere tutt’intorno a loro e quindi rimettendosi a sedere.
La navigazione proseguì tranquilla per un’ora abbondante, lasciando tutto l’equipaggio del ponte di comando col fiato sospeso, in attesa di tornare a rivedere le stelle dello spazio aperto.
<< Capitano. >> chiamò l’addetto radar togliendosi le cuffie. << Anomalia nella nostra scia. >>
Il capitano fece ruotare la poltrona e fissò il guardiamarina.
<< Sono dietro di noi? >>
<< Probabile. Gli asteroidi causano riverbero e lo nascondono con regolarità, ma le dimensioni corrispondono. >>
<< Eccellente. >> disse il capitano sorridendo malignamente, premendo un pulsante sul suo bracciolo destro.
Dal soffitto del ponte di comando, tutt’intorno al capitano, calarono alcuni schermi su cui poteva non solo tenere a bada la situazione della nave, ma anche controllare lo spazio esterno, grazie alle telecamere poste su tutto lo scafo della nave.
<< Preparare i sistemi difensivi, capitano? >> chiese il tenente, cercando di nascondere il fastidio che l’autocompiacimento del capitano gli causava.
<< Preparare tutti gli armamenti. Abbassarsi di quota e puntare tutti i cannoni contro il nemico. >>
<< Signorsì, signore! >> risposero in coro il timoniere e i due addetti agli armamenti.
<< Signore, i piloti attendono ordini. >> disse l’addetto supporto aereo.
<< Non finché siamo dentro il campo di asteroidi. >> rispose il capitano.
Oltre le vetrate, intanto, le quattro torri principali disposte davanti a loro lungo lo scafo della “Nimbus” ruotarono su loro stesse, puntando ognuna i suoi tre cannoni da 255 mm contro il bersaglio sopra di loro.
Era uno spettacolo terribilmente impressionante, eppure magnifico nella sua potenza distruttiva.
<< Fuoco in arrivo! >> avvisò l’addetto radar.
<< Andiamo. >> sussurrò il capitano.
Un asteroide sopra di loro si spezzò in due, colpito in pieno dal plasma dei cannoni nemici.
<< Facciamo sprecare loro energia, lasciamo che ci inseguano. >> disse il capitano, affossato nella sua poltrona.
<< Missili in arrivo. >> ripeté l’addetto radar.
<< Difese di punta pronte a intercettare. >> comunicò l’addetto armamenti difensivi.
<< Signore, abbiamo il nemico a portata. >> disse l’addetto armamenti offensivi.
<< Non sparare, restare in attesa. >> rispose il capitano.
<< Continuano a spararci addosso, capitano. >> continuò l’addetto radar.
<< Non potremo continuare a schivare all’infinito. Dobbiamo aprire il fuoco. >> esclamò il tenente, fissando il capitano.
<< Attendere, ho detto! Continua a scendere. >>
Una scossa attraversò la nave, spingendo in avanti gli uomini sul ponte.
<< Colpo di striscio, signore, danni minimi al propulsore di deriva. >> riportò l’addetto scafo.
<< Rallentano! Devono aver colpito qualcosa! >> esclamò entusiasta l’addetto radar.
<< Lo sapevo! >> sbottò il capitano << Le loro navi saranno più veloci, ma non hanno la nostra manovrabilità. Bene timoniere, facciamo perdere le nostre tracce. >>
<< Sissignore. >> rispose il timoniere, dando nuovamente energia ai motori.
<< Signore, perdita al reattore. >> comunicò l’addetto scafo.
<< Quanto grave? >> chiese il capitano.
<< Poco. Il propulsore sta subendo un lieve calo di potenza, trascurabile in crociera. >>
<< Inviare squadra ingegneri. Siamo fuori pericolo ormai. >>
Gli uomini tirarono un sospiro di sollievo mentre si allontanavano dal luogo dello scontro, cullati dalla passeggera sensazione di sicurezza che li stava attraversando.
Lo scontro non era costato vite umane, né i danni alla nave erano stati irreparabili, e nel giro di un’ora erano di nuovo perfettamente operativi e soprattutto lontano dal nemico, ovunque esso ormai fosse.
<< Capitano. >> disse ad un certo punto l’addetto radar. << Il banco di asteroidi si dirada. Stiamo uscendo dal sistema. >>
<< Bene. Timoniere, mantenga la rotta. >>
<< Signorsì, signore. >>
Gli ammassi rocciosi davanti a loro si facevano ormai sempre più distanti, rivelando il mare oscuro in cui le stelle lontane erano immerse.
Da qualche parte, davanti a loro, vi era la Terra, la loro casa, troppo distante per essere visibile.
<< Siamo fuori, capitano. >> concluse l’addetto radar.
<< Motori alla massima potenza e prepararsi a viaggiare a velocità iperluce, andiamocene via di qui. >> disse il capitano al timoniere.
<< Capitano! Nemico in coda! >> esclamò l’addetto radar.
Il capitano fissò gli schermi sopra di lui.
La nave nemica stava facendo capolino da dietro il banco di asteroidi, ben più in alto di loro, pronta a saltare loro addosso e a distruggerli.
con orrore gli ufficiali si resero conto che anch’ella aveva purtroppo attraversato il campo di asteroidi indenne.
<< Bastardi, ci attendevano schermandosi con gli asteroidi! >> sbottò il tenente, rabbioso.
<< Puntare tutti i cannoni contro il nemico, anche quelli di prua, immediatamente! >> sbraitò il capitano, con una nota di terrore nella voce, cosciente che le loro speranze di sopravvivere allo scontro erano minime. << Inviare S.O.S. in tutte le direzioni! >>
<< Signore, siamo troppo distanti da qualsiasi ricevitore. >> gli fece notare il tenente.
<< Non importa, la situazione è disperata. >> tagliò corto il capitano.
<< Sono sopra di noi! >> urlò l’addetto radar.
<< Lo so, dannazione! >> rispose il capitano, affondando le unghie nei braccioli della poltrona.
<< Capitano, i caccia… >> disse l’addetto supporto aereo.
<< Se decollano ora salteremo senza di loro! >> lo interruppe il capitano.
<< Se non decollano le nostre possibilità di sopravvivenza saranno ancora più basse, capitano. >> intervenne il tenente, tentando di mantenere la calma. << I piloti sanno quello che fanno. >>
Il capitano lo fissò negli occhi, insicuro sulla scelta da fare.
<< Va bene. >> disse infine. << Far decollare i caccia! >> ordinò sconfitto, affondando nella poltrona e massaggiandosi le palpebre.
<< Il loro sacrificio non sarà dimenticato. >> mormorò, mentre il tenente lo fissava mordendosi le labbra e scuotendo la testa, cercando di convincersi che avevano preso la decisione giusta.
<< Fuoco in arrivo! >> urlò l’addetto radar.
<< Rispondere al fuoco! Fuoco con tutto, dannazione! >> sbraitò il capitano.
La nave iniziò a tremare, abbassandosi di quota sotto i colpi lanciati e ricevuti, mentre i loro cannoni a rotaia, rimasti in posizione sin dal precedente scontro, riversavano dardi di tungsteno da 255 e 120 mm sul nemico ormai vicino, nascosto nelle scie rarefatte delle bordate di missili che stavano lanciando dalle batterie sulle ali.
Le cinque squadriglie di caccia passarono ai lati del ponte, abbandonando il ventre dell’astronave, diretti in formazione serrata contro la nave aliena.
<< Capitano, il nemico sta per raggiungere il nostro punto cieco! >> disse l’addetto armamenti offensivi, il volto ricoperto di sudore.
<< Declinare la nave! >> rispose il capitano.
<< Capitano, stiamo offrendo la poppa! >> intervenne il tenente << Siamo troppo vulnerabili! >>
La nave tremava sempre di più, sempre più scossa dai colpi nemici.
<< Capitano, sto spingendo i motori al massimo. >> disse il timoniere, mantenendo la cloche con vigore, cercando di non perdere il controllo della nave.
<< Un missile ha superato il sistema difensivo! >> urlò l’addetto scafo << Falla nella deriva! >>
<< Squadra rossa sta attaccando i cannoni nemici! >> avvisò l’addetto supporto << I missili non riescono a penetrare il loro scudo! >>
<< Insistete! >> urlò il capitano sbattendo il pugno con violenza sul bracciolo. << Sono la nostra unica speranza! >>
<< Rosso-due abbattuto! >> fu l’unica risposta che ricevette.
<< Signore, stiamo perforando la corazza ventrale nemica! >> disse l’addetto armamenti.
La nave fu scossa violentemente da un’altra esplosione.
<< Falla nell’ala destra! Perdita al reattore! >>
<< Inviare ingegneri! >>
<< Nero-quattro abbattuto! >>
<< Torre tre fuori uso! Sì è staccata! >>
Il tenente guardò fuori, fissando con orrore l’immensa torre trinata che si allontanava da loro, i giunti tranciati da un fortunato colpo nemico.
Dagli squarci nello scafo uomini, rottami e oggetti vari stavano venendo lanciati nel vuoto cosmico, risucchiati dalla depressurizzazione degli scomparti danneggiati.
<< Sigillare l’area! >> urlò il capitano. << Saltiamo, ora! >>
<< Signore, siamo ancora nel campo gravitazionale del sistema! >> disse il timoniere.
<< Oh, dannazione! >>
<< In arrivo! >>
Un'altra scossa attraversò la nave, accompagnata dal raccapricciante rumore di lamiere contorte.
Il tenente fu sbalzato in avanti, sbattendo violentemente la faccia contro il vetro polarizzato.
La pressione sulle spesse lastre fu tale che una si incrinò, rischiando di esplodere in un mare di frantumi.
<< Sigillare il ponte di comando! >> farfugliò il tenente sputando sangue, mettendosi a sedere e premendo una mano contro l’occhio ricoperto di sangue.
Una fitta partiva dalla fronte e gli spaccava in due il cervello, facendo ballare la stanza intorno a lui.
Si alzò a fatica, avanzando barcollando verso la porta, mentre gli uomini intorno a lui divenivano macchie scure.
<< Perdita al reattore principale! >>
<< Squadra blu distrutta! >>
<< Torre ausiliaria quattro fuori uso. >>
<< Falla a prua! Danni al vano siluri! >>
<< Le testate…! >> fu l’ultima cosa che disse il capitano.
Poi un colpo nemico perforò la deriva e si infilò nel corridoio alle spalle del ponte di comando, causando una perdita di pressione.
Una lingua di fuoco si alzò dalle condutture esplose, sbrecciando le porte sigillate e svanendo presto all’esterno, spegnendosi anemica nel freddo siderale.
Il tenente vide il proprio sangue fluttuare davanti a lui, galleggiando nell’aria che veniva trascinata via a forza dalla sua bocca, percepì i suoi occhi venirgli strappati via con atroce lentezza, e sentì i suoi piedi che scivolavano impotenti sul vibrante acciaio, ormai deformato dal continuo riverbero degli urti.
Scivolando verso la falla, pensò a cosa aveva fatto della sua vita, all’accademia, agli amici d’infanzia, al poco tempo che aveva avuto per vedere la Terra, apparsagli come un mondo alieno.
L’addetto radio gli volò davanti, impattando contro i pannelli deformati.
Rantolò agonizzante, gli occhi sbarrati, mentre la sua schiena tappava la falla nella porta.
Un pesante scatto metallico, rumore di ventole, e la pressione fu ristabilita, mentre pannelli telescopici sigillavano la falla nel corridoio
Il guardiamarina ferito cadde in avanti, il respiro affannoso, quasi assente.
Sulla schiena l’uniforme era strappata, rivelando un grosso ematoma sotto la pelle assottigliata.
Il tenente cadde in ginocchio proprio davanti al ragazzo morente, la testa ormai in implosione sotto l’ululare delle sirene d’allarme e del dolore lancinante.
Gli uomini si rialzarono a fatica, la testa travolta dalle vertigini, troppo storditi per tornare alle loro postazioni.
Il capitano giaceva privo di sensi sulla sua poltrona, il volto pallido, le labbra viola nascoste sotto la nera barba.
<< Scudare il ponte! >> disse il tenente, tossendo sangue. << Emanare il segnale di allarme! >>
Un missile impattò su una difesa di punto davanti a loro, lanciando schegge contro il vetro incrinato.
<< Tenente… >> mormorò il timoniere, arretrando verso la porta, quasi in preda al panico.
<< Abbandonare la nave! >> disse il tenente, fissando la pioggia di missili che si stava abbattendo sulle torri d’artiglieria, mentre la nave nemica protendeva le sue ali sul loro scafo, oscurandolo.
Gli uomini passarono davanti all’ufficiale, ancora chino sul ragazzo morente, quasi calpestandolo, tentando inutilmente di forzare la porta con le loro mani.
Il tenente, spinto dalla folla, scivolò all’indietro, finendo addosso al giovane, e rimase lì, a fissare il soffitto, cercando di mettersi in pace la coscienza.
Ignorò il piagnucolio isterico dei compagni, il rumore ovattato delle esplosioni che riverberava per i ponti della nave fino a loro, ignorò i lamenti del metallo stesso, ormai spezzato e battuto.
Il ventre della nave esplose, spaccando in due lo scafo, lanciando all’esterno le scorie del reattore che aveva innescato la detonazione.
Capsule di salvataggio vennero espulse dai fianchi della nave morente, finendo per venire intercettate da missili vaganti e da rottami alla deriva.
La corrente abbandonò le sale ancora attive, lasciando i naufraghi disperati a piangere nel buio.
Il tenente combatteva contro il torpore che gli stava attraversando le carni, cercando di mantenere gli occhi aperti.
Poi le palpebre pesanti calarono e il buio inghiottì l’inferno del ponte.

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Capitolo 2
*** Due ***


La tenaglia idraulica fendette le lastre di metallo come fossero di burro, riportando la luce sul ponte di comando.
Gli invasori entrarono silenziosi, illuminati solo dalle luci rosse dei loro visori, facendosi strada tra i cadaveri ammassati contro la porta.
Vi erano almeno una decina di persone lì, accasciate una sull’altra, apparentemente morte.
Un braccio si levò lentamente da terra, tremante, proteso verso le ombre che si stavano affacciando all’entrata.
Uno degli invasori si avvicinò all’uomo ancora vivo, lo afferrò per la spalla e controllò i suoi gradi sulle controspalline, poi fece un cenno col capo ad un altro degli invasori, immobile e impettito al centro della schiera, il quale rispose con un altro cenno.
Il primo afferrò allora il guardiamarina morente per i corti capelli biondi, estrasse la pistola e la puntò sopra il suo cranio.
Non appena esercitò una minima pressione sul grilletto un colpo di plasma partì dall’arma e passò da parte a parte la testa dell’umano, aprendosi la strada tra le cervella, fondendole al contatto, fino a sfondare la mandibola.
L’umano non emise un suono mentre la vita lo abbandonava, e venne subito rigettato nella massa di uomini che occupava il pavimento.
Un altro invasore si mosse rapidamente verso la poltrona al centro della sala, dove il capitano giaceva riverso, gli occhi chiusi, le mani strette intorno ai braccioli, le unghie conficcate nel tessuto.
Respirava ancora, debolmente, anche se era privo di sensi a causa della poca aria.
L’invasore si accertò che l’uomo fosse vivo, controllò i gradi, e poi si voltò verso il suo superiore, richiamando la sua attenzione emettendo un suono gutturale, aspro, metallico a tratti.
Il comandante si avvicinò e guardò attentamente il sopravvissuto.
Disse poche parole, anch’esse aspre e metalliche, e altri due sottoposti si avvicinarono e si caricarono l’uomo in spalla, portandolo fuori dalla sala.
L’ufficiale si guardò attorno, soffermandosi sui comandi della nave, sulla cloche del timone, su ciò che rimaneva del ponte, squarciato dai proiettili e dalle esplosioni, sulle torri distrutte e sui cannoni piegati, intorno ai quali orbitavano ancora corpi e detriti.
Si voltò e tornò sui suoi passi, dietro alla sua squadra che già stava infilando il corpo del capitano in un immenso cilindro metallico, la cui volta di vetro permetteva di vedere la barella imbottita contenuta all’interno.
Un flebile rumore richiamò la sua attenzione mentre col suo zoccolo biforcuto calpestava qualcosa di morbido.
Guardò a terra, sollevando il piede, e notò che stava schiacciando il braccio di un uomo steso supino sulla schiena di un altro cadavere.
L’uomo stava lentamente scuotendo la testa, come se stesse per risvegliarsi da un sonno profondo, e strizzava le palpebre, cercando di aprirle.
Aveva il volto sporco di sangue ancora umido, un rivolo che partiva da un taglio sulla fronte e arrivava fino alla bocca spalancata.
L’uomo stava boccheggiando, cercando affannosamente di inalare l’aria rarefatta, e ogni tanto emetteva un lieve gemito.
Il Khorsiano estrasse la pistola e la puntò in faccia all’uomo morente, ma non premette il grilletto.
Fissò i paramano dell’uomo e notò i gradi da ufficiale inferiore, pensando per un attimo su cosa fare.
Alzò la testa e richiamò i suoi uomini, indicando con la pistola l’uomo ai suoi piedi.
Un ordine secco e anche il secondo ferito fu trasportato fuori dalla stanza.
Rinfoderò la pistola e si guardò di nuovo intorno.
Finalmente sicuro che non ci fossero altri sopravvissuti, uscì dalla stanza.
 
Non appena aprì gli occhi, la luce bianca lo investì, accecandolo e costringendolo a tornare nel buio che fino a quel momento lo aveva cullato.
Si strofinò gli occhi e cercò di mettersi a sedere, combattendo contro nausea e vertigini.
La testa gli faceva ancora male, e pulsava insopportabilmente.
Si guardò intorno, cercando di capire dove fosse.
Sicuramente non dove aveva chiuso gli occhi prima di svenire.
L’ultima cosa che ricordava erano gli schermi rossi, invasi dai segnali d’allarme, sul soffitto del ponte di comando, mentre la nave si spezzava in due a causa di un cedimento del reattore principale.
Gli pareva così strano essere tornato a pensare tanto lucidamente.
La piccola stanza in cui ora si trovava era bianca, asettica, illuminata da filari di luci fredde innestati negli spigoli di ogni muro, soffitti e pavimento inclusi.
Gli unici elementi al suo interno erano il piano dove aveva dormito fino a quel momento – un sottile pannello relativamente morbido che si protendeva fuori dalla parete – un altro piccolo piano, che probabilmente aveva la funzione di tavolino, attaccato sulla parete alla sua destra, e due piccoli cubi, uno vicino al tavolo, l’altro attaccato alla parete di fronte.
La parete opposta al letto era invece una grossa lastra traslucida che lo separava dallo stretto corridoio bianco su cui si affacciavano altre celle identiche alla sua.
Che fosse stato catturato?
Improbabile, i Khorsiani raramente facevano prigionieri, come avevano dimostrato durante l’invasione con cui avevano dato il via alla guerra: un terzo della popolazione di Varus IV massacrato sul posto, e i sopravvissuti erano stati segregati in campi di lavoro in attesa di venir deportati chissà dove.
Eppure non trovava altra spiegazione.
Possibile che fosse morto e quello fosse il paradiso?
No, troppo assurda come ipotesi.
Non esisteva vita oltre la morte, e quello che stava provando era troppo reale per confutare secoli di ricerca scientifica e filosofica.
Forse era tutto un sogno premorte, e lui si stava immaginando tutto mentre esalava l’ultimo respiro.
No, troppo complesso, era più credibile la cattura.
Le vertigini stavano scemando finalmente, la vista gli si faceva più lucida, e si decise a poggiare i piedi per terra e ad alzarsi dal letto.
Il pavimento era gelido e perfettamente liscio in ogni suo punto.
Stranamente, non sentiva freddo, anche se si accorse di star indossando solo dei pantaloni aderenti lunghi fino al polpaccio.
Dannatamente bianchi.
Si avvicinò lentamente alla lastra di vetro che lo separava dal corridoio e vi si appoggiò, cercando di guardare oltre le celle di fronte a lui.
Una scossa elettrica gli attraversò i palmi e si propagò per tutto il corpo, facendogli perdere l’equilibrio e facendolo impattare violentemente al suolo.
Quello decisamente non era vetro, dedusse sfregandosi le mani doloranti.
Si alzò massaggiandosi il sedere e tentò di nuovo di guardare fuori dalla sua cella, stando ben attento a non toccare la parete trasparente.
Un droide apparve improvvisamente davanti a lui, facendolo sobbalzare.
Era stato così silenzioso che non lo aveva sentito arrivare.
Si librava placidamente nel corridoio, all’altezza dei suoi occhi, e lo scrutava con quel suo visore rosso.
Inquietante, dannatamente inquietante.
Sotto il disco lucido in cui era incastonato l’unico occhio del drone erano agganciati un piccolo braccio metallico e un’arma, qualcosa di molto simile ad un fucile d’assalto terrestre, puntato contro il suo petto.
Il droide gli fece segno col suo braccio meccanico di allontanarsi dalla parete, in una maniera alquanto buffa, ma l’uomo non se lo fece ripetere, e arretrò senza voltarsi.
Quando fu abbastanza lontano, il droide scivolò lentamente indietro, sempre mantenendo l’arma puntata contro di lui.
In quell’istante la lastra trasparente sparì nel soffitto, scorrendo su binari interni alle pareti, terribilmente silenziosi.
L’uomo fissò il droide e inarcò un sopracciglio.
Sarebbe impazzito, questo era sicuro.
Fece un passo avanti, senza distogliere lo sguardo dal droide, che avanzò immediatamente, minacciandolo con l’arma e facendogli di nuovo segno di indietreggiare.
Il rumore di passi nel corridoio annunciò il Khorsiano che si affacciò nella sua cella, scrutandolo sprezzante.
Indossava un’attillata tuta color khaki, che partiva dalle caviglie e giungeva fino al collo.
La sua pelle, completamente glabra, era liscia, di un grigio scuro, e aveva gli occhi di un azzurro intenso, senza pupille.
Là dove sarebbe dovuto essere il naso non vi era nulla, tranne un piccolo solco proprio in mezzo agli occhi.
Non aveva orecchie, non aveva capelli sopra il suo volto piatto, non aveva labbra distinguibili dal resto della sua pelle.
Era lì, immobile, e fissava l’uomo dall’alto senza emettere una parola, intimorendolo con la sua imponente figura.
<< Quindi… >> disse l’uomo, cercando di iniziare una conversazione.
L’alieno non rispose, continuando a fissarlo imperscrutabile.
<< Siete di poche parole, voi Khorsiani. >> notò dopo un po’ l’uomo.
<< Abbastanza. >> disse l’alieno.
La risposta inaspettata lo lasciò spiazzato, conscio che quello che era appena accaduto fosse un piccolo miracolo, a suo modo.
<< Come… come sai la mia lingua? >> chiese, visibilmente sorpreso.
<< Conosci il tuo nemico. >> fu la risposta secca del Khorsiano.
<< Perché sono qui? >>
<< Studio. >>
L’uomo abbassò lo sguardo e si fissò i piedi nudi.
<< Dobbiamo andare avanti così per molto? >>
<< Voi umani non conoscete l’etichetta. >> disse l’alieno facendo un passo avanti. << Innanzi tutto, in presenza di un superiore, ci si presenta. >>
<< Ah… >> disse l’uomo, tentennando, indeciso su cosa fare. << Tenente di vascello… Nemo, Nemo Seraphus, astromarina della Federazione Terrestre. >>
<< Khorosh N’dar, a capo di questa astronave. >> disse l’alieno, facendo un altro passo avanti.
Nemo offrì una mano, in un debole segno di amicizia.
<< Khorosh dovrebbe corrispondere al vostro grado di capitano, se non sbaglio. >> continuò l’alieno, fissando incuriosito la mano protesa verso di lui.
<< Quindi… sono vostro prigioniero, giusto? >>
<< Sì, fino a quando questa guerra non sarà finita. Noi ufficiali siamo merce di scambio preziosa. >>
<< Quanti… quanti altri prigionieri avete fatto, se mi è concesso saperlo? >>
<< Il vostro capitano e due primi guardiamarina, ma uno dei due non ha superato gli interventi chirurgici. >>
<< Per cosa? >>
<< Spina dorsale fratturata e perforazione di un rene. Ha perso troppo sangue. >>
Nemo sentì le pulsazioni alla testa farsi più forti.
<< Devo sedermi. >>
<< Riposati, avevi un profondo taglio in fronte e i tuoi polmoni stavano per cedere. Siete stati fortunati, avremmo potuto colpire in pieno il vostro ponte di comando. >>
<< Come… come ci siamo salvati? >>
<< Il vostro generatore ausiliario è rimasto attivo, preservando la gravità, e i vostri sistemi di sicurezza hanno mantenuto l’ambiente sigillato, anche se con poca aria. Ora riposa. >>
L’alieno si voltò e uscì, senza dire altro.
La parete di vetro calò dietro di lui, rinchiudendo l’uomo di nuovo nella sua cella.
 
Il tempo passava scandito dagli scarni pasti, il sonno arrivava irregolare e la noia lo assaliva in ogni momento.
Dormiva a intervalli irregolari, tenuto sveglio dalla luce sempre accesa, contando i giorni in base alle visite dei droni che lo servivano e lo controllavano, mangiava ancor meno di quanto gli veniva offerto, sempre la stessa strana purea bianca a malapena tiepida e schifosamente insapore, soffriva continuamente di conati di vomito e un paio di volte aveva addirittura pisciato sangue.
Tutto quel bianco lo accecava, facendolo impazzire
Poco a poco iniziò a perdere il contatto con quanto lo circondava, non riuscendo più a capire quanto fosse grande lui e quanto piccola la stanza.
Vagava trascinando i piedi, fissando le pareti immacolate, mentre il suo corpo si riprendeva dalla fatica e la sua mente si lasciava andare alle terribili conseguenze della solitudine.
Nessun Khorsiano veniva fargli visita, ad assicurarsi che fosse ancora vivo e vegeto, bastavano i droni, così freddi, così muti, così distanti.
Dopo poco iniziò a parlare con i suoi robotici aguzzini, cercando di riprendere il controllo sulla propria mente, ma nulla riusciva a risollevargli il morale.
Al confronto, il dialogo che aveva avuto col capitano della piccola nave il primo giorno di prigionia era stato addirittura piacevole, e ne sentiva persino la mancanza.
Eppure sentiva dentro di sé che, se qualcuno fosse venuto a trovarlo in quella cella, non poteva che significare una cosa, una sola, per niente piacevole.
Lo sapeva che i Khorsiani non facevano prigionieri, non a lungo, quanto meno.
Mentre ormai si lasciava andare a manie di persecuzione nemmeno si accorse di aver iniziato a parlare da solo, sussurrando, borbottando, fissando il vuoto la maggior parte del tempo.
Quando un drone lo sorprese alle spalle, facendolo saltare sul cubo che usava come sedia, smise di parlare da solo.
E coi droni.
E col muro.
Nessuno si preoccupò del fatto che ormai non apriva bocca da ormai sei pasti, finché un drone non lo svegliò nel pieno di un incubo e gli aprì la bocca a forza, con i suoi bracci meccanici, costringendolo a ingoiare quella dannata sbobba a momenti ficcandogli direttamente la scodella in bocca.
Anche se probabilmente era più saporita di quella massa chiamata cibo.
Anche se la nausea ormai non lo disturbava più e aveva preso ad andare al bagno regolarmente e senza problemi, notò per pura fortuna che spesso le mani gli tremavano, in particolare quando si svegliava e avvertiva l’arrivo di uno dei suoi aguzzini, nonostante la parete di vetro continuasse sempre ad aprirsi e chiudersi nel più perfetto silenzio.
Dopo l’ennesimo sogno travagliato trovò ad attenderlo il ragazzo dalla pelle bronzea, in piedi davanti alla vetrata, muto.
Provò a parlagli, gli chiese sibilando come fosse sopravvissuto, toccò il suo viso e sentì improvvisamente gli occhi umidi quando avvertì la pelle sottile scorrere sotto le sue dita, consistente, morbida, reale.
Capì che era un’illusione quando avvertì la scossa elettrica attraversargli le ossa della mano, mandandolo di nuovo al suolo, mentre la sua gabbia si apriva e un drone gli veniva incontro minaccio, attraversando impassibile la testa del ragazzo.
Scoppiò a piangere non appena fu di nuovo solo, schiacciato tra il pavimento e il letto.
Si addormentò per terra, gli occhi ancora umidi, spossato dalla crisi emotiva.
Al suo risveglio il capitano era al centro della stanza, ad attenderlo.
<< Tempo di fare domande. >> disse, facendogli gentilmente segno di accomodarsi sul letto.
Nemo strisciò fuori dal suo nascondiglio senza dire una parola, tremando.
<< Voglio sapere la consistenza di ogni guarnigione lungo la frontiera tra l’Impero e la Federazione. >>
Nemo non rispose, non riuscendo ad aprire la bocca.
<< Voi umani avete una volontà debole. >> disse, estraendo un palmare che fino a quel momento aveva nascosto dietro la schiena. << Ora devo rimetterti a posto. >>
Premette un pulsante sullo schermo ed un pannello sul muro di fondo scattò verso l’interno e sparì nella parete, rivelando un cunicolo scuro proprio al centro del muro stesso.
Nemo si voltò e guardò all’interno del cunicolo.
Era largo quanto le sue spalle e non più alto della sua testa, profondo ben più del suo braccio.
In fondo ad esso vi era una spessa lastra di vetro trasparente, attraverso la quale poteva vedere le stelle.
Improvvisamente gli mancò il fiato, mentre tentava vanamente di riconoscere una qualsiasi costellazione a lui familiare.
Vedeva troppo poco per capire dove fossero, però sapeva che non era più sul luogo della battaglia, né in prossimità del sistema dove la sua nave era stata distrutta.
<< Ricominciamo da capo. >> disse il capitano. << Come ti chiami? >>
<< I-io… >> disse Nemo, boccheggiando.
<< Guardami. Come si chiamava la tua nave? >>
Nemo si voltò e fissò gli zoccoli dell’alieno.
<< N-Nimbus. >>
<< Bene. La vostra rotta? >>
<< Palla…Palladium, Castrum P-Perseus. >>
<< Stiamo facendo passi enormi. >>
Nemo affondò la testa tra le spalle e si grattò la guancia ispida, coperta da una corta barba.
<< Dove è stata distrutta la vostra nave? >>
Nemo non rispose.
<< Non tentennare, umano. >> disse impassibile il capitano.
<< Sistema… di Gutio. >>
<< Avete inviato richieste di soccorso? >>
Nemo impallidì, sbarrando gli occhi.
<< Avete inviato richieste di soccorso? >> ripeté l’alieno, scandendo con estrema lentezza ogni parola.
<< S-sì. Lontani. Nessuno in a-ascolto. >>
<< L’avamposto Federale più vicino? >> chiese incalzando il Khorsiano.
L’umano rimase di nuovo in silenzio, evitando lo sguardo dell’Imperiale.
<< Non farmi chiudere l’oblò. >> disse il capitano incrociando le braccia.
<< S-sistema di Verris, sesto pianeta dalle stelle, a ottanta anni luce da Gutio. >>
<< Dalle stelle? >> chiese l’Imperiale, sollevando quello che sarebbe dovuto essere un sopracciglio.
<< Due stelle. È un sistema binario. >> disse Nemo, incredibilmente docile.
<< Basta così, ti sei meritato il panorama oggi. >> concluse il capitano, visibilmente soddisfatto.
Si voltò e uscì dalla cella, lasciando che il vetro calasse silenzio dietro di lui.
Dopo diverso tempo dalla visita, Nemo non avrebbe saputo dire quanto, l’umano si accorse che nella stanza mancava qualcosa, un rumore di fondo che aveva sempre ignorato.
Scese dal letto e si avvicinò alla vetrata che lo separava dal corridoio.
Era un ronzio, un ronzio sconosciuto e che non aveva mai notato, eppure ora sentiva che mancava.
Toccò il vetro, consapevole che sarebbe nuovamente volato al suolo per la scossa.
La corrente elettrica non c’era più.
Il Khorsiano l’aveva disattivata.

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Capitolo 3
*** Tre ***


Passava gli interminabili minuti della sua prigionia a fissare le stelle che lente scorrevano davanti al suo oblò, ignaro di cosa accadesse realmente all’esterno della cella.
Per un attimo gli parve di riconoscere una nebulosa vagamente familiare, ma si rese presto conto che si sbagliava.
Dovevano essere in pieno territorio imperiale, o forse solo qualche decina di parsec al di là della frontiera, lui non poteva saperlo.
Sapeva solo che il cibo era freddo, il suo letto era duro, e il silenzio devastante.
Quando non fissava le stelle guardava il muro davanti a sé, seduto sul piccolo cubo accanto al tavolo.
Solo il silenzioso passaggio dei droni lo distraeva dalla monotonia che dominava nei suoi momenti di veglia.
Per quanto si sforzasse di dormire, sentiva di riposare meno ore del necessario, il sonno impedito dalle crisi di panico che a ormai regolarmente lo coglievano mentre provava a chiudere gli occhi, e lo costringevano a fissare il soffitto immacolato pur di non passare il tempo a fissare il corridoio vuoto, con la paura che qualcuno apparisse fuori dalla sua cella.
Fu in un momento del genere che finalmente ritrovò l’orientamento.
Per la disperazione aveva provato a infilarsi nell’interstizio dell’oblò, rannicchiandosi col volto schiacciato contro il vetro.
Le stelle erano immobili nel cielo nero, poi la nave vibrò, e nel giro di un secondo, le stelle sparirono, sostituite da filamenti di luce.
Capì subito che ciò che stava vedendo era il dilatarsi dello spazio intorno alla nave, compresso e stirato dal motore iperluce per permettere loro di viaggiare nel vuoto cosmico in tempi ragionevoli.
Quando i corpi fuori dall’oblò smisero di allungarsi e tornarono normali non ci mise molto a riconoscere il sistema davanti al quale erano arrivati.
Quelle due stelle erano inconfondibili.
Entrarono nell’orbita del pianeta più esterno e procedettero fino al sesto, uno scuro ammasso roccioso accompagnato da due lune minuscole e grigie.
Il continente che dominava in tutto l’emisfero settentrionale era separato dal ben più modesto continente meridionale da un piccolo oceano, una lingua di azzurro che circondava l’intero pianeta poco sotto il suo equatore.
Non molto tempo dopo il loro arrivo nel sistema N’dar tornò, con un poco rassicurante sorriso in faccia.
<< Devo ringraziarti per le informazioni che ci hai fornito. Sei l’unico che finora ha parlato. >> disse, fissando il prigioniero rannicchiato nell’interstizio della parete.
Nemo non aveva il coraggio di voltarsi e guardare in faccia il suo aguzzino, né aveva la forza di rispondere.
Si sentiva un verme, si sentiva debole, si sentiva ormai morto.
<< Stiamo scannerizzando la superficie del pianeta, non sembra pericoloso. Sei fortunato, non hai ancora condannato a morte nessun tuo compagno. >>
N’dar rise sguaiatamente, facendo rabbrividire l’umano con quel suono gutturale.
<< Sono qui per farti altre domande. Guardami. >>
Nemo rimase immobile.
<< Non farmi sporcare le mani. Guardami. >> ripeté N’dar con voce decisa.
Passarono due interminabili secondi, poi l’uomo si dimenò, voltandosi con fatica nello spazio ristretto.
<< Bene, dove si trova il grosso della flotta Federale? >>
Nemo tremava.
<< Avanti, tanto questa guerra non durerà ancora per molto. >>
<< Perché mi fai questo? >> sussurrò Nemo.
<< Perché? Perché è mio dovere servire l’Impero, che domande. >> rispose N’dar senza esitazione.
<< L’Impero ha deciso che gli alleati dei Volosiani devono essere annientati, io eseguo. Nulla di più. >>
<< Tu trai piacere… dal farlo. >> continuò Nemo, sempre sussurrando.
<< Non posso negarlo. Nulla di personale, però. >>
<< La flotta… pesante… protegge la Terra. Le unità leggere… il confine. I Volosiani… dirigono le operazioni. >> la voce gli usciva a fatica, quasi come migliaia di aghi conficcati all’interno della sua gola secca gli impedissero parlare.
<< Non mi sorprende. Qualsiasi ufficiale dell’Unione e ben più capace di ogni vostro generale. >> ribatté N’dar, indifferente alle difficoltà che l’umano aveva.
<< Il mio capitano… voglio vederlo. >>
<< Permesso negato, andiamo avanti. Cosa sta progettando l’Unione? Qual è il vostro prossimo obbiettivo? >>
Nemo fissò il suo aguzzino negli occhi.
<< Non lo so… >>
<< Prevedibile. >>
I due rimasero in silenzio.
<< Continuo a chiedermi perché combattiate con così tanta ferocia, è chiaro che non siete in grado di sostenere questa guerra ancora per molto. >> osservò dopo un po’ N’dar, perplesso.
In Nemo si riaccese una fiamma a quelle parole.
<< Perché… non dovremmo? Questa… non è una guerra, è… una lotta razziale, una… pulizia etnica. Chi perde… sarà annientato, lo hai… detto tu. Combattiamo per… la nostra stessa esistenza. Non c’è… motivazione… più efficace. >>
<< Credete davvero che, se sopravvivrete a noi, i Volosiani vi eleveranno a loro pari? Stolti, non crediate che tra Impero e Unione vi sia così tanta differenza. Non chiudete gli occhi, non prendetevi in giro, ogni razza vuole dominare la galassia. Da sola. >>
Tra i due calò di nuovo il silenzio.
Poi N’dar si voltò e uscì dalla cella.
<< Ti sei meritato un pasto decente. >> disse, prima che la lastra trasparente li separasse.
Non appena il corridoio fu vuoto, Nemo si voltò di nuovo e scoppiò a piangere, singhiozzando debolmente.
Diverso tempo dopo gli fu servita una purea arancione, calda, che divorò in poco tempo, sorpreso di scoprirsi così affamato.
Notò con piacere che quella roba sapeva di farro.
 
Fuori dall’oblò il pianeta si faceva sempre più grande, sempre più vicino.
Entrarono in atmosfera e iniziarono a scendere, sorvolando picchi rocciosi così alti che superavano la fitta coltre di nubi sopra la quale si trovavano.
Vedere un cielo azzurro improvvisamente ricordò a Nemo che non toccava terra da ormai troppo tempo.
Da quanto era prigioniero? Non avrebbe saputo dirlo.
Sapeva però che ormai una corta barba gli ricopriva il viso, crescendo ribelle e incontrollata, e che sotto i vestiti stava accumulando strati di sporco.
Ormai la pelle gli prudeva e iniziava a squamare, accumulandosi sul pavimento come fosse polvere.
Mentre era steso sul letto, intento a combattere col desiderio di grattarsi, la parete di vetro si aprì, e tre droni entrarono librandosi sopra la sua testa.
Lui li fissò, senza capire il motivo di quell’intrusione nel suo spazio vitale.
Un droide si voltò e si allontanò, fermandosi sulla soglia della cella, mentre gli altri due continuavano a fissarlo minacciosi dall’alto.
Nemo si mise a sedere sul letto, senza distogliere lo sguardo dai due droidi sopra la sua testa, e si alzò in piedi ondeggiando.
I due droni si posero dietro di lui, facendo segno di andare avanti.
Avanzò con passo incerto fino a raggiungere il terzo drone, che lo guidò nel corridoio vuoto fino alla porta.
Nemo si guardò intorno, sperando di vedere i suoi compagni, ma vide solo che le tre celle sul lato opposto del corridoio erano vuote, mentre le due ai lati della sua avevano una lastra bianca a sigillarle, impedendo a chiunque di vedere chi fosse rinchiuso all’interno.
I droni, disposti a triangolo intono a lui, lo portarono in un altro corridoio, ben più scuro, fino ad una porta che dava su una camera grigia, dal cui soffitto pendevano doccioni in metallo.
I droni si ritirano e attesero fino a quando Nemo non si spogliò completamente e appoggiò i suoi vestiti sulla soglia, dove i droni li afferrarono per portarli via, lasciando il prigioniero chiuso lì dentro, da solo.
Per la prima volta dopo tanto tempo, l’umano poté vedere di nuovo il suo corpo nudo.
Era parecchio dimagrito, e la pelle era invecchiata paurosamente, pendendo molle dai suoi arti.
Non aveva più un singolo muscolo, tutti ormai flaccidi e atrofizzati.
Le gambe tremavano sempre più, ormai incapaci di reggere il suo peso.
Poi arrivò il getto d’acqua ghiacciata dall’alto, violento, impietoso, e lo spezzò.
Nemo cadde in ginocchio, urlando per il dolore, finché al getto d’acqua non si aggiunse una densa schiuma bianca che quasi bruciava sulla sua pelle secca, staccando qualsiasi traccia di sporco incrostato.
Quando la tortura finì, un getto di aria bollente lo investì per qualche secondo, lasciandolo steso al suolo, ansimante.
La porta del bagno si aprì, ed i tre droni entrarono ponendosi di nuovo a triangolo intorno a lui.
Uno teneva un pantalone pulito tra i suoi bracci meccanici, e glielo porse non appena Nemo riuscì con estrema fatica a rimettersi in piedi.
Non gli diedero il tempo di rivestirsi, ma lo fecero subito tornare in cella, tramante e infreddolito, ancora nudo.
Mentre stava infilandosi i pantaloni fu raggiunto da N’dar, completamente indifferente davanti alle nudità del suo prigioniero.
<< Puzzavi. >> disse.
<< Perché sei qui? >>
<< Un prigioniero si è ucciso. Si è lanciato contro la parete elettrificata e vi è rimasto attaccato finché il suo cuore non si è fermato. >>
Nemo sentì il suo cuore mancare un colpo.
<< C-chi? >>
<< Il primo guardiamarina. È stato stupido. >>
Nemo non rispose.
<< Quindi, prendendo atto che siete propensi all’autolesionismo, ho deciso che dobbiamo prenderci più cura di voi. Essendo tu l’unico che finora ha parlato, ti invito a seguirmi in un giro della nave. >>
<< Cosa? >>
<< Ti voglio far vedere la nave. Ti conviene accettare prima che cambi idea. >>
<< Posso avere una stampella? >>
<< Accordato. >>
 
La nave era un piccolo gioiello tecnologico, uno spettacolare monumento all’automazione.
L’equipaggio era ridotto al minimo, come presto scoprì Nemo, e i numerosi droni, ognuno con la propria specializzazione, si occupavano dei compiti più gravosi.
Visitò presto il ponte di comando, affiancato da N’dar e da due droni armati, e conobbe gli altri silenziosi membri dell’equipaggio, una ventina di Khorsiani incarogniti, uno più grosso dell’altro, tutti vestiti alla stessa maniera del capitano, con un piccolo geroglifico sulla spalla sinistra a rappresentare il loro grado.
La vasta stanza era completamente sigillata, al sicuro sotto chissà quanti metri di corazza, e le sue pareti erano ricoperte di schermi e computer da cui si poteva controllare l’intera nave.
Dopo il ponte di comando, fu portato nella camera di armamento dei cannoni principali, un vano scuro in cui il pulsare dei generatori faceva vibrare le pareti e gli enormi tubi che componevano l’anima delle enormi armi, attraverso il quale fluiva plasma rovente, e infine raggiunsero il reattore principale, un toroide non più grande di un tir in cui avveniva la fusione nucleare che manteneva attiva l’intera nave.
<< Perché… mi fai vedere tutto questo? >> chiese Nemo, puntellandosi sulla stampella, al suo aguzzino.
<< Per farti capire quanto sia inutile combattere. >> rispose N’dar.
Salirono su un ascensore e raggiunsero la sommità della piatta astronave.
<< Come puoi vedere, le nostre risorse sono ben più vaste delle vostre, e non temiamo l’inferiorità numerica. Se solo vi arrendeste e vi uniste a noi, potreste godere di miracolosi progressi. La vostra civiltà farebbe un salto in avanti di diverse generazioni. >> disse, non appena la porta dell’ascensore si aprì, rivelando un ponte completamente vuoto, le cui pareti erano rivestite da una lunga fila di finestre da cui si poteva osservare il cielo terso intorno a loro e il mare di nuvole subito sotto.
<< Non devi convincere me… io sono solo un soldato. >> rispose Nemo.
<< Lo so, però posso comunque darti una dimostrazione della potenza dell’Impero. >>
<< Mi è bastata la Nimbus. >>
Avanzarono sul ponte fino alla sua estremità, poi N’dar si piegò su un interfono nascosto in una parete e lo attivò, dicendo poche parole nella sua cacofonica lingua madre.
La nave si abbassò di quota, entrando nel mare bianco.
<< Che vuoi fare? >> chiese Nemo, preoccupato.
<< Vedrai. >> fu l’unica risposta che ricevette.
L’astronave rimase per diversi minuti all’interno del banco di nubi per poi sbucare al di sotto dello stesso, proprio sopra una piccola città nel bel mezzo di un anello boschivo, una piccola oasi in mezzo ad un deserto roccioso.
<< No. >> sussurrò Nemo.
La nave scese in picchiata e planò sopra i palazzi d’acciaio, girando su sé stessa.
<< Come puoi vedere, nessuno si è accorto del nostro arrivo. >> disse N’dar sorridendo malizioso.
Nemo sentì il sangue andargli alla testa, eppure, nonostante il mondo fosse sottosopra, era ancora con i piedi ben saldi su quello che prima era il pavimento.
N’dar attivò di nuovo l’interfono e disse una sola sillaba.
Poi i cannoni della nave aprirono il fuoco sui civili inermi, spazzando via interi palazzi.
La nave cabrò, riprendendo quota e riallineandosi.
Nemo cadde in ginocchio.
<< Perché? >> urlò.
<< Per farvi capire che non avete speranza. Abbiamo superato le difese planetarie senza problemi, pensa a cos’altro potremmo fare. >>
La nave rientrò nel banco di nubi, lanciata a tutta velocità verso lo spazio.
Quando uscirono dall’atmosfera, davanti a loro apparve lo spazioporto del pianeta, al quale erano attraccati in quel momento quattro ricognitori, intenti proprio in quel momento ad eseguire le manovre di distacco.
N’dar attivò nuovamente l’interfono e dettò pochi, secchi ordini, e la nave proseguì dritta contro le unità nemiche, pronta a passare attraverso la loro disorganizzata formazione.
I cannoni di prua fecero fuoco, danneggiando l’ala del ricognitore più vicino a loro, che iniziò a perdere quota e a scendere lentamente verso la superficie del pianeta, gli ormeggi ancora in parte attaccati.
Mentre questa riprendeva stabilità, cercando di allineare i suoi cannoni principali con lo scafo avversario, questo scivolò alle sue spalle, riversando una salva di missili sugli hangar dello spazioporto, dal quale erano intente a decollare intere squadriglie di caccia, piccoli rombi metallici lanciati sulla loro scia.
Le difese di punto Khorsiane fecero fuoco su un secondo ricognitore, mirando al suo ponte di comando, ma non riuscirono a infliggere danni consistenti, ottenendo solo una salva di missili in risposta all’attacco.
Le unità Federali erano ormai impossibilitate ad aprire il fuoco, essendo due dall’altra parte dello spazioporto, una danneggiata e ormai presa a poppa, e l’ultima impedita dal rischio di colpire le unità amiche, troppo vicine al suo bersaglio.
La torpediniera Khorsiana superò lo schieramento nemico, scompaginando la loro debole formazione, e si allontanò verso i pianeti esterni, inseguita dai caccia.
Ci volle diverso tempo per permettere ai ricognitori di riorganizzarsi e lanciarsi all’inseguimento del nemico, rallentati dall’unità che aveva subito danni.
I caccia, incapaci di sostenere un volo così prolungato, abbandonarono presto l’inseguimento, costretti a tornare sui ricognitori per far rifornimento.
Il combattimento fu fiacco, essendo i terrestri troppo lenti per poter mantenere il contatto con la neve nemica ed essendo quest’ultima sprovvista di armi a poppa.
Quando raggiunsero l’orbita del pianeta più esterno, le navi umane erano ormai sparite, avendo rinunciato alla loro preda.
Nemo aveva osservato tutta la scena mordendosi le nocche per la rabbia.
<< Abbiamo stuzzicato la Federazione abbastanza. >> decretò N’dar, dirigendosi verso l’ascensore.
Nemo rimase immobile, appoggiato alla stampella, tremando per l’odio che stava attraversando il suo corpo.
Il Khorsiano entrò nell’ascensore, si voltò e fissò l’umano, sorpreso.
<< Avanti, cammina. >>
Nemo non si mosse.
<< Tu… sei un bastardo. >> sibilò, mordendosi il labbro.
<< Cosa? >>
<< Hai massacrato civili inermi! >> sbraitò Nemo, lanciandosi zoppicando verso il Khorsiano.
N’dar mostrò i denti, sorridendo compiaciuto.
Nemo gli si lanciò addosso urlando, ma il Khorsiano afferrò la testa dell’uomo al volo e lo lanciò contro la parete dell’ascensore.
L’umano si alzò e brandì la stampella, colpendo in faccia l’alieno, che grugnì coprendosi il volto dolorante.
Nemo si raddrizzò, sputando un grumo di sangue, e iniziò a prendere a pugni il ventre dell’avversario, che scosse la testa e fulmineo interruppe l’attacco avversario con un calcio nello stomaco.
Nemo cadde a terra, gemendo per il dolore e coprendosi la pancia con le braccia.
N’dar sbuffò.
<< Inizi a piacermi. Combatti bene, per essere un umano. >>
L’ascensore si chiuse e tornarono sul ponte prigionieri, dove l’alieno trascinò l’umano ancora steso a terra fino alla sua cella, dove lo gettò davanti al letto.
Nel breve tragitto, nell’intontimento causato dalle percosse e dalla debolezza, Nemo notò che una delle celle occupate era ora vuota, la parete bianca che impediva di vedere all’interno rimossa.
<< Per quanto mi faccia schifo la tua razza, devo ammettere che ammiro la tua ferocia. Forse avete qualche speranza. >> disse N’dar mentre le palpebre dell’umano si facevano pesanti. << E devo aggiornare il mio vocabolario. A quanto pare le nostre spie non hanno scoperto tutto sulla vostra lingua. >>
Nemo chiuse gli occhi e attese di sentire il rumore dei passi del Khorsiano.
Poi crollò sul pavimento e si addormentò, la mente divorata dal senso di colpa.

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Capitolo 4
*** Quattro ***


Quando si svegliò trovò il suo pasto ad attenderlo sul pavimento, di nuovo purea gialla, ma ormai fredda e addensata.
Chissà quanto aveva dormito.
I droni vennero a prelevarlo poco dopo, ridandogli la sua stampella e accompagnandolo di nuovo alle docce, portandolo poi in quello che scoprì essere il centro medico, dove gli furono somministrate alcune pillole dall’effetto a lui sconosciuto e gli fu suturato un taglio sul volto con uno strano gel azzurro.
N’dar lo raggiunse non appena i droni terminarono di medicarlo.
<< Dormito bene? >> disse con tono palesemente sarcastico.
<< Fottiti. >>
N’dar ignorò l’insulto e gli fece segno di seguirlo, riportandolo così sul ponte dove chissà quanto tempo prima lo aveva picchiato.
<< Perché siamo di nuovo qui? >> chiese Nemo, guardandosi intorno sospettoso.
<< Il comando centrale ha ricevuto una richiesta di aiuto da un pianeta periferico, e ha inviato noi a indagare. >> rispose N'dar, guardando fuori.
Erano nell'atmosfera di un pianeta sconosciuto a Nemo, dal cielo rosso fuoco, e stavano sorvolando un'immensa giungla tropicale, ben più grande di qualsiasi foresta Terrestre, piena di piante esotiche e sconosciute, abitata da animali che Nemo non aveva mai visto prima.
La nave planò dolcemente, scendendo rapida verso il suolo, fino a giungere sopra un piccolo avamposto immerso nel verde, composto da centinaia di cilindri metallici lanciati come biglie nella radura appositamente creata per loro.
Dalle dimensioni, non sembrava poter ospitare più di centomila abitanti, e già quel numero pareva a Nemo stesso esagerato.
La torpediniera si fermò a mezz’aria e iniziò a scendere perpendicolarmente, fino a toccare il suolo.
N’dar attivò l’interfono e disse qualcosa nella sua lingua madre, e nel giro di dieci minuti una squadra di dodici fanti scese dal velivolo, scortata da una schiera di droni armati che la precedeva in ogni movimento.
I soldati avanzarono guardinghi, aprendosi sempre più a ventaglio, le armi spianate, preceduti dagli onnipresenti droni.
<< Qualcosa non mi convince. >> disse N’dar inclinando la testa.
<< Cosa? >> chiese Nemo, preoccupato.
<< Vieni, usciamo di qui. >>
Per la prima volta Nemo vide l’hangar di accesso della nave, mentre N’dar, ancora in uniforme di servizio, afferrava una pistola da una rastrelliera e lo scortava fuori, sulla terraferma.
Sugli edifici aleggiava un’aura inquietante, un sentore di pericolo che avvertivano tutti.
<< Non mi piace. >> bofonchiò N’dar a denti stretti, stringendo le dita grigie intorno alla pistola.
<< Dove sono tutti? >> chiese Nemo, guardandosi intorno.
N’dar diede un ordine e alcuni soldati si avvicinarono agli edifici più vicini e a colpi di fucile abbatterono le porte, irrompendo all’interno con micidiale rapidità.
Non ci volle molto affinché tornassero fuori scuotendo la testa.
<< Allora? >> chiese Nemo a N’dar.
<< Non c’è nessuno. >>
<< Nessun segno di vita in tutto il villaggio? >>
<< Esatto. >>
N’dar si guardò intorno, scrutando tra gli alberi scuri dai cui tronchi pendevano fiori viola grandi più della sua testa.
Nemo aguzzò le orecchie.
<< Aspetta… ascolta. >> disse a N’dar, toccandogli il braccio.
N’dar si voltò di scatto, ritraendosi al contatto.
<< Cosa? >>
<< La foresta. >>
N’dar fece segno ai soldati di fare silenzio.
<< Non si sente nulla. >>
<< Appunto. Non ci sono animali su questo pianeta? >>
N’dar guardò i suoi uomini, poi tornò a fissare l’umano.
<< Sì. >>
La foresta, terribilmente silenziosa, iniziò a ondeggiare, spinta dal vento.
<< Tutti sulla nave, ora. >> disse N’dar atonale, ripetendosi immediatamente nella sua lingua madre.
Gli uomini retrocessero lentamente, senza voltarsi.
La foresta iniziò a fremere, sempre più velocemente, e adesso tutti potevano sentire un rumore lontano, ovattato dall’erba alta del sottobosco.
Sembrava una mandria in corsa, a cui andavano aggiungendosi sibili e schiocchi di denti, come di migliaia di serpenti.
N’dar urlò qualcosa, e i fanti si misero a correre verso la nave, seguiti fedelmente dai droni che diedero loro fuoco di copertura, sparando alla cieca nella giungla in movimento.
Raggiunsero presto la rampa di accesso della nave, mentre il rumore delle bestie in carica era ormai terribilmente vicino e assordante.
La rampa si chiuse prima che qualcosa potesse sbucare fuori dalla folta vegetazione o dagli edifici abbandonati ma intatti.
N’dar iniziò a sbraitare, sputando saliva ad ogni parola, facendo correre i suoi sottoposti alle loro postazioni, e presto la nave si staccò dal suolo e si sollevò in aria, alzandosi rapidamente in cielo.
Prima che prendesse abbastanza quota, Nemo udì distintamente qualcosa impattare contro la rampa e iniziare a raschiare contro di essa, cercando di entrare.
Dal tonfo che aveva fatto, doveva avere la stazza di un vitello, almeno.
N’dar puntò la pistola contro la paratia, ma la nave prese velocità e i rumori contro la parete cessarono prima che potesse sparare.
<< Che cosa erano? >> chiese Nemo, in preda al terrore.
<< Non lo so, forse predatori locali. >> rispose il Khorsiano.
Raggiunsero il ponte di comando quando ormai erano alti in cielo e prossimi ad abbandonare il pianeta, e N’dar si trattenne a discutere dell’accaduto con i suoi sottoposti prima di riportare il prigioniero in cella.
<< Cosa ne sarà del pianeta? >> chiese Nemo mentre erano nell’ultimo corridoio.
La nave ondeggiò, colpita da qualcosa, oscillando così tanto che Nemo finì a gambe all’aria.
<< Cosa ci ha colpiti? >> chiese, rialzandosi con difficoltà.
<< Non lo so, forse un detrito spaziale. >> disse N’dar, raggiungendo l’entrata del corridoio ed attivando un interfono nascosto nel muro, chiedendo chiarimenti dal ponte di comando << Avanti, in cella ora. >>
<< Non hai risposto alla mia domanda. >> riprese Nemo, sperando di ricevere risposta.
<< Stileremo un rapporto, ciò che è accaduto non ti riguarda più. >> rispose il Khorsiano troncando il discorso e facendo segno all’uomo di entrare nella sua cella.
Nemo chinò il capo ed entrò nella sua gabbia strisciando i piedi.
Il vetro calò a separarli, e Nemo rimase in silenzio, cercando di mettere ordine nel marasma di informazioni che aveva appena assimilato.
L’unica cosa certa a cui giunse fu che il pianeta poteva ormai considerarsi disabitato.
 
Con la mente un po’ più lucida, Nemo decise di organizzare meglio il tempo che passava lì dentro, iniziando piccoli esercizi fisici per rimettersi in forma.
Gli addominali fatti sul pavimento freddo e duro gli distruggevano la schiena, ma erano un male necessario.
Piegamenti sulle braccia e trazioni alla sbarra risultavano di gran lunga meno dolorosi, anche se non riusciva più a sollevare più il suo peso come un tempo ed era costretto ad usare come sbarra lo spigolo del tavolo.
I pasti ormai erano più saporiti e caldi, tanto da fargli tornare un discreto appetito.
Il suo fisico migliorava a vista d’occhio, grazie anche alle docce a cui i sui aguzzini lo costringevano sempre più spesso.
Il capitano N’dar non si faceva vedere ormai da un po’, assorbito completamente dai suoi incarichi da ufficiale, ma Nemo era sicuro che lo spiasse ogni tanto attraverso qualche telecamera che lui non vedeva.
Finalmente, dopo almeno una trentina di pasti, il Khorsiano si rifece vivo.
Lo accompagnò personalmente alla doccia e rimase lì, in piedi davanti al muro, fissandolo mentre si lavava sotto l’acqua bollente che gli veniva praticamente sparata addosso.
Quando la doccia finì e gli furono portati vestiti puliti, Nemo si avvicinò all’alieno.
<< Come mai torni a farmi visita? >>
<< Scendiamo a terra. >> fu l’unica risposta che ricevette.
N’dar lo portò fino all’hangar d’accesso, dove venti Khorsiani in tenuta da battaglia, nera come la pece, li attendevano disposti su due file ai loro lati, mettendosi sull’attenti, in attesa di ordini, non appena loro entrarono.
<< Prova a scappare e nessuno dei presenti ci penserà due volte prima di farti esplodere la testa. >> disse N’dar, dandogli le spalle.
La rampa di accesso, un’enorme lastra di acciaio brunito, si abbassò con un sibilo, piegandosi verso l’esterno.
L’hangar fu invaso dalla luce, tanto che Nemo dovette coprirsi gli occhi per non rimanere accecato.
<< Cosa… cosa succede? >>
N’dar diede l’ordine, e il drappello di fanti avanzò al passo, uscendo dall’astronave.
Un drone spinse Nemo in avanti, intimandogli di avanzare, mentre N’dar si apprestava a uscire dall’astronave.
Varcò la soglia trattenendo il respiro, annientato dalle troppe percezioni sensoriali che in quel momento lo stavano investendo.
Si trovavano su una piattaforma di atterraggio, un enorme disco di metallo sospeso a diverse centinaia di metri dal suolo, il quale era fittamente ricoperto da palazzi squadrati tutti schierati uno affianco all’altro, sopra i quali di tanto in tanto svettavano grattacieli mastodontici, compreso l’enorme cubo dal cui fianco si protendeva la piattaforma sopra la quale erano atterrati
La città ricopriva l’intera pianura nella quale si trovavano per diversi chilometri, circondata da una spessa muraglia metallica oltre la quale si alzavano immense montagne ricoperte di verde.
Il cielo era lattiginoso, ricoperto di nubi bianche, dense e compatte, attraverso le quali il sole faceva capolino con difficoltà.
Tra i palazzi più bassi volavano droni di ogni sorta, piccole astronavi e velivoli monoposto, libranti in lunghe file eterogenee sovrapposte una all’altra.
Più in alto, in mezzo ai monumentali palazzi dalle forme essenziali, volavano astronavi ben più grosse, velivoli militari e mezzi di servizio, ben più imponenti dei mezzi sotto di loro.
<< Dove siamo? >> chiese Nemo, stupito, scrutando curioso la città in ogni suo dettaglio.
<< Su un pianeta Imperiale, in un presidio militare. Facciamo rifornimento e ci ricongiungiamo alla flotta. >> rispose N’dar.
<< Perché mi fai vedere tutto questo? >>
<< Te l’ho detto, inizi a piacermi. >>
Dall’imponente porta che collegava la piattaforma agli interni del palazzo uscì un alto Khorsiano, magro e slanciato, vestito con un’uniforme azzurra, semplice e priva di cuciture visibili, identica nell’aspetto anche se non nel colore a quella che N’dar stesso indossava, accompagnato da un drappello di soldati.
N’dar alzò un braccio in avanti e mostrò il palmo, rimanendo in silenzio.
Il Khorsiano in azzurro lo fissò, poi fissò l’umano, poi tornò a fissare N’dar.
Nemo non capì quello che si dissero, ma dal tono l’alieno sembrava particolarmente irritato.
N’dar rispose in maniera remissiva, con frasi brevi, accennando più volte un inchino.
Dopo qualche minuto l’alieno si voltò e si incamminò verso l’ingresso, e N’dar fece segno a Nemo di seguirlo.
<< Vieni, abbiamo mezza giornata libera, ti mostro la piazzaforte. >>
<< Cosa… >> farfugliò Nemo, prima di mettersi a inseguire i due ufficiali che già lo stavano distaccando.
Attraversarono un vasto hangar, all’interno del quale erano stipati diversi trasporti militari, degli sgraziati veicoli cuneiformi dotati di propulsori.
L’alieno vestito di azzurro li accompagnò fino alla mensa della caserma, attraverso un complicato labirinto di ascensori e corridoi, e poi sparì senza nemmeno dire una parola.
Mangiarono molto meglio rispetto al solito, anche se in realtà Nemo dovette trattenere i conati non appena assaggiò una bollente brodaglia marrone che sapeva di cervella, roba che N’dar e i suoi uomini divorarono invece con piacere.
Infine, dopo aver dato disposizioni ai suoi soldati, N’dar lo condusse diversi piani più in alto, in una specie di ufficio.
Una delle pareti era completamente fatta di vetro, e dava sull’interno dell’edificio, in una immensa sala grande più di qualsiasi stadio terrestre, in cui migliaia di soldati, armati fino ai denti, si stavano esercitando a marciare.
Uno spettacolo impressionante, reputò Nemo, terrificante, considerando lo scopo per cui quei soldati si stavano allenando.
<< Colpito? >> chiese N’dar, accomodandosi su un basso divanetto color crema posto vicino all’ingresso.
<< Abbastanza. >> Nemo si voltò, dando le spalle allo spettacolo che si stava svolgendo diverse decine di piani sotto di loro. << La città, questo palazzo, quei soldati là sotto… siete così… umani. >>
N’dar sbuffò, seccato dal commento, reputandolo un insulto.
<< Da quanto studi il Lingvo? >> chiese l’uomo dopo qualche istante.
<< Due anni, abbiamo passato molto tempo a studiare la vostra anatomia, i vostri comportamenti, la vostra cultura e il vostro linguaggio. >>
<< Parli abbastanza per aver studiato solo due anni. >>
<< Impariamo molto più velocemente di voi. >>
<< Lo avete dimostrato più volte. >> disse Nemo, avvicinandosi a una poltrona non molto distante dal divano sul quale era seduto il Khorsiano.
<< Hai altro da chiedere? Immagino tu sia curioso. >> chiese N’dar.
<< Come superate la velocità della luce? >>
<< Nel vostro stesso modo, anche se la nostra tecnologia è di gran lunga più efficiente: dilatiamo e contraiamo lo spazio-tempo. Da quel che sappiamo invece i Volosiani utilizzano un sistema completamente differente. Ne sai qualcosa? >> chiese N’dar, congiungendo le mani davanti al suo volto piatto.
<< Oh, in realtà no… so solo che sono molto più veloci di noi. >> rispose Nemo.
<< Presumiamo viaggino attraverso uno spazio multidimensionale, sfruttando le rotte tra i vari punti della galassia collegati attraverso questo… iperspazio. Più veloci, sì, ma vincolati a seguire precise strade. Non credere sia così vantaggioso. >>
Nemo storse il naso, valutando quanto gli era stato appena detto e valutando quale sarebbe potuta essere la prossima domanda.
<< Beh, penso sia un po’ ovvia come domanda, e credo se lo stiano chiedendo tutti nella Federazione… perché? Perché ci avete attaccato? Perché volete farci sparire dalla galassia? >>
N’dar si grattò il cranio perfettamente liscio, pesando attentamente ogni parola.
<< Beh, è una questione meramente politica. Alla base di questa guerra non c’è nessun odio razziale, nessuna sete di sangue priva di qualsivoglia motivazione, solo… siete stati molto sfortunati. >>
<< In che senso? >>
<< Nel senso che la vostra civiltà si trova esattamente in mezzo al confine tra Impero e Unione, e per giunta avete stretto rapporti di amicizia con quest’ultima. Non possiamo permettere che il nostro nemico abbia un alleato, seppur debole come la Federazione, e una volta conquistati i vostri territori avremmo inoltre una testa di ponte per colpire direttamente al cuore l’Unione Volosiana. Siete la via più breve per i loro sistemi centrali. >>
<< Eppure mi pare che stiate faticando per conquistarla. >> ribatté Nemo, stringendo il pugno, in preda a un tic nervoso.
<< Ho i miei dubbi. Comunque, tra Volosiani e Khorsiani vi è da sempre un equilibrio precario, stabilitosi nel corso di guerre secolari, le cui motivazioni sfuggono ormai alla memoria di molti. Voi, nel vostro piccolo, avete stravolto questo equilibrio. >>
<< Tanto da motivare un attacco a sorpresa? >>
<< Sì. >>
Nemo abbassò lo sguardo e fissò i propri piedi, in preda al tremore.
<< Ma non mi pare vi aspettaste una risposta così tempestiva da parte dei Volosiani, quando avete attaccato, oppure non vi sareste ritirati così disordinatamente dal sistema Varus nel giro di qualche settimana. >> rispose poco dopo, alzando la testa.
N’dar chinò il capo in segno d’assenso.
<< Sono costretto a darti ragione. >>
<< E come avete incontrato i Volosiani? Perché… tutto questo? >> continuò Nemo, indicando con l’esile braccio la vetrata davanti a loro.
<< Ti dirò la verità. >> rispose N’dar. << Non so dirtelo. >>
L’umano rimase a bocca aperta, deluso.
Ormai era così vicino a comprendere parti della storia galattica che gli storiografi umani desideravano scoprire da anni da aver dimenticato con chi stava parlando e, ora che il discorso si era interrotto, la realtà tornò a colpirlo come un pugno in pieno volto.
In fondo, nei loro difetti e nei loro sbagli, quegli alieni erano così… umani.
<< Ciò che so… >> proseguì il Khorsiano, richiamando l’attenzione dell’uomo. << …è che Volos e Khors sono civiltà molto più antiche della vostra. La nostra razza nasce in un sistema posto tra i due bracci che voi chiamate del Sagittario e di Perseo, non molto distante dal Nucleo, mentre Volos è ben più esterno, sul braccio… dello Scudo, dico bene? >>
<< Sì… prosegui, ti prego. >> sussurrò Nemo, quasi ansimando per la sete di conoscenza.
<< Abbiamo iniziato a esplorare le stelle, ignari che non fossimo soli nella galassia. Quando poi ognuno ha colonizzato la propria porzione di spazio, noi ci siamo spinti verso l’orlo esterno, loro invece si sono avvicinati sempre più al nucleo. Ci incontrammo presto, e i rapporti furono da subito tesi. Ci fu la Guerra del Nucleo, che portò a creare la prima zona franca: era vietato colonizzare i mondi tra il Sagittario e il Nucleo, perché saremmo stati troppo vicini al nemico. Ci lanciammo allora verso il braccio esterno, quello del Cigno, ma presto anche tale braccio divenne territorio conteso. Penso ci fossero due o tre… come le chiamereste voi? Satrapie, penso, al servizio dei Volosiani. >>
<< E scoppiò un’altra guerra? >> incalzò Nemo, artigliando i braccioli della poltrona su cui era seduto e protendendosi in avanti per non lasciarsi sfuggire nessuna parola.
<< Sì, le Guerre Esterne, oltre due millenni fa. Ora lì è spazio di nessuno, completamente disabitato, per una fascia larga oltre ventimila anni luce. Facemmo il deserto… >>
<< E lo chiamaste… >>
Una sirena impedì a Nemo di completare la frase.
N’dar alzò la testa e fissò un piccolo monitor appeso alla parete vuota.
<< Dobbiamo andare. >> disse, scurendosi in volto.
<< È già ora? >>
<< No, ma devo incontrare i miei superiori. >>
Si alzarono, e N’dar attivò un comunicatore che teneva legato al polso.
<< I miei soldati ti riporteranno sull’astronave, partiremo a breve. >>
Il Khorsiano uscì, e Nemo rimase da solo a fissare l’enorme esercitazione che si stava svolgendo ai suoi piedi, ora nel pieno di una simulazione di combattimento con esoscheletri da battaglia alti due volte un uomo.
Nemmeno un minuto dopo sei fanti vennero a prelevarlo e lo scortarono fuori dall’ufficio, procedendo lenti per non far incespicare il prigioniero, ma senza mai voltarsi a guardarlo, senza mai offrire aiuto per guidare i suoi passi ancora incerti.
Lo condussero in una piccola stanza completamente bianca, al centro della quale si trovava un trono minimale, bianco anch’esso.
<< Questa non mi sembra l’astronave. >> disse Nemo ai soldati, che nemmeno si degnarono di voltarsi e guardarlo.
Un soldato lo spinse in avanti, mentre un altro gli afferrava il braccio e lo costringeva a sedersi, ignorando le sue rumorose proteste.
Improvvisamente due bracciali bloccarono i suoi polsi ai braccioli dello strano trono, e due pinze uscirono da dietro lo schienale per bloccargli le palpebre e impedirgli di chiuderle.
I soldati uscirono, quasi non sentissero l’uomo dietro di loro che urlava di essere liberato.
Quando gli alieni furono fuori, un proiettore apparve davanti al suo viso, iniziando immediatamente a sparargli raffiche di immagini nella retina.
Nemo si sentì paralizzato, mentre anelli di luce gli si imprimevano negli occhi, accecandolo.
La tortura finì dopo qualche minuto, o almeno a lui sembrò così, e occhi e polsi furono immediatamente liberati.
I soldati entrarono nuovamente nella stanza e attesero che lui si alzasse, e infine lo scortarono fino alla piattaforma di atterraggio.
Quando arrivò sull’astronave, ormai ripulita e rifornita di ogni materiale, i soldati lo lasciarono in custodia ai droni soldato, che lo scortarono immediatamente alla sua cella.
Attese lì dentro finché attraverso l’oblò non vide il cielo scurirsi in cangianti sfumature verdi e azzurre, mentre il piccolo sole che illuminava il pianeta spariva dietro le basse montagne verdi che dolcemente declinavano verso la periferia della città.
I palazzi bianchi, sempre più avvolti dalle tenebre, iniziarono a ricoprirsi di luci dalle mille sfumature, caotiche e sgargianti come frammenti di vetro dentro un caleidoscopio.
La nave improvvisamente vibrò, i motori in rapida accensione, e in pochi minuti si sollevò dalla piattaforma di atterraggio.
Nemo fissò la superficie del pianeta allontanarsi, vide le nuvole cariche di umidità pronte a riversare pioggia sul terra in quella che si annunciava una notte agitata.
Presto furono di nuovo nello spazio, e le luci artificiali furono sostituite dalle lontane stelle.
Nemo si morse il labbro screpolato, chiedendosi cosa ancora li attendeva nello spazio profondo, incapace di darsi una risposta
Abbandonarono il sistema rapidamente, senza trattenersi oltre vicino ai piccoli pianeti che lo popolavano e, raggiunta l’orbita esterna, davanti agli occhi di Nemo si parò lo spettacolo più terrificante che avesse mai visto: perfettamente allineate in grandi cunei, perfettamente schierati all’interno di un immenso, invisibile cubo, erano ferme in attesa centinaia di navi da guerra Khorsiane di ogni taglia, dalle minuscole e scattanti corvette alle mastodontiche corazzate in grado di spazzare da sole intere flotte.
Le navi erano tutte simili tra loro, lo stesso modello ripreso più e più volte aumentandone le dimensioni e la potenza degli armamenti.
Nemo non aveva mai visto così tante navi tutte insieme, e l’immagine lo lasciava senza fiato, spiazzato.
La vetrata dietro di lui si aprì, l’impercettibile sibilo dei binari su cui scorreva la porta lo fece voltare.
N’dar lo fissava, impassibile.
Sembrava affranto.
<< Seguimi. Ciò che vedrai merita un’angolazione migliore. >>
<< Che cosa mi avete fatto? >> chiese Nemo apatico, ignorando l’invito dell’alieno.
<< Tranquillo, nulla di compromettente, ordini dei superiori. Ora seguimi. >>
Nemo si incamminò senza dire una parola, a capo chino, le spalle basse, ormai completamente asservito al suo aguzzino.
<< Finalmente capirai perché abbiamo compiuto tutte queste azioni di disturbo, perché ho attaccato quella città e perché ho distrutto la tua nave. Concediti questo mio regalo come tuo ultimo desiderio. >>
Nemo rabbrividì a quelle parole.
Entrarono in ascensore e giunsero sul ponte di coffa, da dove Nemo, facendo qualche passo avanti, poteva osservare con più dettaglio la dimostrazione di forza aliena.
N’dar rimase in ascensore.
<< Io devo tornare sul ponte di comando, il dovere mi chiama, ma stai tranquillo, avrai presto compagnia. >>
Nemo si voltò.
<< Cosa? >>
<< Il tuo capitano. Ha finalmente parlato. >>
Le porte dell’ascensore si richiusero.
Nemo rimase per un po’ a fissarle, finché non si decise a voltarsi di nuovo e tornare a fissare quello spettacolo, mentre la nave faceva manovra e si posizionava nel vuoto lasciato apposta per lei all’interno dell’ala di un cuneo.
Passò qualche minuto, i cui i cunei, ognuno di sette navi, si allinearono, poi saltarono a velocità iperluce, uno dopo l’altro, mentre lo spazio intorno si deformava come negli incubi di un pazzo.
Nemo ormai non distingueva più i corpi celesti dall’etere, eppure riusciva ancora a vedere le altre astronavi che viaggiavano alla loro stessa velocità, anche se sfocate e deformate come se o lui o loro fossero all’interno di una bolla.
L’ascensore si aprì, ed un esile, tremante umano fece un infermo passo avanti.
Nemo si voltò.
<< C-Capitano! >> disse, accorrendo in suo aiuto. << Capitano, come state? Tutto bene, signore? >>
Il capitano non rispose, preferendo invece accasciarsi sulla spalla del suo sottoposto.
Aveva gli occhi sbarrati e il respiro corto, sudava freddo ed era continuamente attraversato da tremori.
<< Che vi è successo, capitano? >> chiese Nemo, la voce strozzata dalla disperazione e dal senso di colpa.
<< L’incubo. È morto? >> farfugliò il capitano, sputando saliva ad ogni sillaba.
<< Si sieda, signore, va tutto bene. >> rispose Nemo, accompagnando l’uomo nel movimento.
Il capitano dondolava, rantolando come un moribondo, e fissava atterrito lo spazio oltre gli oblò, ancora stravolto dalla velocità superluminale.
<< I ragazzi, ho perso… ho perso i ragazzi. Mi perdoneranno? >> chiese con le lacrime agli occhi.
Nemo stava per piangere.
Ecco a cosa erano ridotti: un uomo spezzato ed un guscio vuoto, condannati a morte.
<< Sì, signore, la perdoneranno. Ognuno ha fatto ciò che doveva. >> disse Nemo per confortarlo, prendendolo per le spalle e cercando di calmarlo.
<< Ma l’incubo… dove siamo? Le visioni… sono finite. >>
<< Siamo su una nave Khorsiana, signore, in viaggio a velocità superluminale… non so dove… >>
<< Uccidimi… poni fine… ho tradito… >> disse il capitano delirante, accasciandosi tra le braccia del sottoposto.
<< Signore… resti sveglio, signore. Continui a parlarmi… non chiuda gli occhi. >>
Nemo era ormai in preda al panico, troppo poco lucido per occuparsi dell’uomo tra le sue braccia.
<< La guerra? >> chiese il capitano in un sussurro, gli occhi riversi all’indietro.
<< Ancora in corso, signore, c’è speranza. >> Nemo sollevò a fatica il capitano, facendo forza sulle deboli gambe. << Venga, possiamo vedere lo spazio da qui. >>
I due si appoggiarono al vetro, entrambi distrutti nel corpo e nella psiche.
Il capitano era molto più pallido rispetto all’ultima volta che l’aveva visto, le sue guance erano scavate, gli occhi iniettati di sangue, la barba sporca e incolta lasciata a sé stessa, i vestiti lerci e puzzolenti, le unghia rotte e divorate.
Nemo improvvisamente avvertì di nuovo la sensazione di nausea che aveva segnato i primi giorni della sua prigionia.
Improvvisamente lo spazio intorno a loro si ricompose e divenne normale, rivelando non molto distante un piccolo sistema binario.
<< Verris… siamo nel braccio di Orione! >> esclamò Nemo, ormai conscio di ciò che stava avvenendo.
La flotta nemica avanzò lenta ma inesorabile verso il sistema, pronta a ghermirlo e a portare l’inferno sulla superficie dei suoi pianeti, sicura di avere una facile preda.
<< Che cosa ho fatto… che cosa ho fatto… >> farfugliava il capitano, strappandosi i pochi capelli rimasti sulla sua testa.
<< Capitano… cosa ha detto al Khorsiano? >> chiese cautamente Nemo, temendo la risposta.
<< Io… non ho… non riuscivo più… >> continuava a dire il capitano, evitando lo sguardo del sottufficiale.
<< Capitano. >> insistette Nemo, afferrando la testa del superiore e costringendolo a fissarlo negli occhi.
<< La flotta… posizioni, consistenza, piani… tutto. >>
L’uomo, affranto, abbassò lo sguardo di nuovo.
<< Non creda… di essere stato il solo. >> disse Nemo, lasciando andare l’uomo. << Ho fallito anche io. >>
L’uomo lo fissò, sorpreso, e sorrise amaramente.
<< Come siamo deboli. >>
<< Non tanto quanto crede lei. >> concluse Nemo, tornando a fissare il sistema davanti a loro.
Il corpo celeste più esterno, un pianeta nano dalla forma vagamente ovoidale color sabbia, si faceva sempre più vicino, permettendo agli osservatori di osservarne in maniera sempre più definita i dettagli.
Nemo strizzò gli occhi e guardò attentamente quanto si trovava davanti: la superficie del pianeta appariva ricoperta di puntini neri, che divenivano più grandi man mano che si avvicinavano.
Quando comprese cosa fossero sorrise gioioso, solo per tornare un secondo dopo a perdersi nello sconforto più totale.
Davanti a loro, schierata in ordine di battaglia, si trovava ciò che rimaneva della flotta Federale, richiamata nel settore dai continui atti di guerriglia da parte dell’Impero.
Le due flotte stavano per darsi battaglia lì, ai confini della civiltà umana, e loro due erano sul vascello sbagliato, senza considerare che il loro aguzzino – a meno che non stesse scherzando, cosa che aveva dimostrato di fare molto poco – aveva ormai deciso di ucciderli a fine battaglia.
Qualsiasi cosa fosse successa alla nave, loro sarebbero morti comunque.
Le navi erano ancora fuori dalla portata dei rispettivi cannoni, ma erano ormai abbastanza vicine da potersi osservare e analizzare a vicenda.
La flotta Terrestre era meno numerosa dell’avversaria, almeno da quanto si vedeva dal ponte, e la sua unità più grossa, una gigantesca corazzata con sei torri trinate da 460 mm e due tubi di lancio per siluri atomici come armamento principale, impallidiva comunque di fronte alla corazzata Khorsiana, una versione ingigantita della nave su cui loro due si trovavano, dotata di un hangar frontale in grado di trasportare chissà quanti caccia e di cannoni al plasma così grandi e potenti da poter spazzare via uno spazioporto con un solo colpo, senza contare tutte le bordate di missili e le difese di punto di cui era dotata.
La flotta Khorsiana improvvisamente ruppe gli indugi, mandando avanti due ali di corvette per aggirare la flotta nemica sul fianco destro.
Le navi Terrestri arretrarono, ridisponendosi in linea di battaglia e girando intorno al planetoide, cercando riparo dalle veloci unità nemiche.
Alcuni colpi vennero sparati in direzione delle corvette, che decisero di tornare indietro prima che i proiettili potessero raggiungerle.
La flotta Khorsiana avanzò compatta, cercando l’ingaggio, mentre quella Terrestre arretrava, facendo però in modo di non allontanarsi troppo dall’orbita in cui aveva scelto di combattere.
Squadriglie di caccia si levarono da entrambe le parti, pronte a lanciarsi contro le unità nemiche.
Almeno sotto quel punto di vista, la flotta Terrestre sembrava ben più rifornita, anche se si trattava di mettere a confronto le capacità di un pilota umano con una IA.
Le navi Khorsiane lanciarono una salva di missili contro il nemico, riempiendo l’etere di scie bianche che si interruppero a metà della corsa, mentre gli ordigni erano ancora distanti dal bersaglio.
Qualche secondo e Nemo vide le esplosioni silenziose dei razzi intorno alle navi Terrestri ancora illese, intercettati efficacemente dalle loro difese di punto.
Nonostante quelle intense schermaglie, ancora non era stato dato il via alla vera azione, e le navi Federali continuavano a muoversi per mantenersi fuori gittata.
I due umani fissavano con apprensione la scena, bloccati sul ponte vuoto della torpediniera aliena, ormai sicuri che per la flotta Terrestre non ci fosse speranza.
<< La guerra è perduta. >> disse il Capitano, abbattuto.
<< No, ci deve essere un motivo per cui la flotta si è gettata così a testa bassa in questa trappola. >> ribatté Nemo, senza distogliere lo sguardo da una delle corazzate Terrestri, la cui insegna sulla fiancata la identificava come FSS “Imperator Siderum”. << Evitano il combattimento… perché? >>
<< Avranno capito l’errore? Nessuna speranza… >>
<< No, o avrebbero abbandonato il sistema. >>
Diverse squadriglie di caccia Khorsiani si lanciarono contro le navi nemiche, senza preoccuparsi del fuoco di intercettazione come fossero in missione suicida, e finalmente riuscirono a ingaggiare il nemico, attaccando un incrociatore non molto distante dall’ammiraglia.
La flotta Khorsiana si fece nuovamente avanti, sicura di poter arrivare addosso al nemico, e la flotta terrestre, invece di ritirarsi e lasciare indietro la nave attaccata, aprì in massa il fuoco.
I Khorsiani, ormai a portata, aprirono il fuoco coi loro cannoni e con bordate di missili, che una dopo l’altra si infransero sulle postazioni nemiche.
I caccia si lanciarono contro le rispettive flotte avversarie, mirando ai punti deboli delle navi più grosse, mentre le ali Khorsiane cercavano di incunearsi nelle falle della linea nemica, che andava ormai allargandosi e perdendo di compattezza.
Le navi Federali, per sottrarsi al fuoco sostenuto, iniziarono a sparpagliarsi, lasciando che la formazione nemica passasse attraverso la loro, sicure di poter sfruttare il punto debole dell’avversario: l’aver concentrato tutta la loro potenza di fuoco sull’arco frontale in gondole fisse, lasciando così la poppa completamente indifesa.
Una corazzata Federale venne colpita, e una delle sue quattro ali esplose spaccandosi in due.
I Khorsiani sembravano prendere di mira solo le unità più grosse, ignorando invece i piccoli ricognitori che si ritrovavano così isolati dal resto della flotta, ma potevano liberamente colpire le navi nemiche alle spalle.
<< Mirano alle portastormo. >> dedusse Nemo. << Cercano di raggiungere la nostra seconda linea. >>
Le navi Terrestri iniziarono a cedere terreno, incapaci di resistere alle ben più potenti controparti nemiche, che ormai incalzavano la linea di battaglia spezzata in più punti.
Diverse navi esplosero o si spaccarono, portando alla morte tutto il loro equipaggio, e una corvetta Imperiale fuori controllo si schiantò contro i ponti di volo di un incrociatore in fiamme, divorato dall’interno da qualche sconosciuta avaria.
Esplosioni si susseguivano in mezzo a gruppi sparsi di velivoli, che come comete in fiamme attraversavano i giganti feriti intenti a combattersi all’ombra dei due Soli.
Messi alle strette, gli umani lanciarono i loro siluri atomici, scompaginando la formazione avversaria.
Le immense esplosioni accecarono Nemo, che con orrore seguiva lo scontro.
La loro nave, rimasta tra le riserve, si manteneva fuori dal combattimento, seppur pronta a intervenire appena fosse stata richiesta.
La linea cedette, le forze Terrestri ormai costrette a combattere singolarmente, e la loro torpediniera virò improvvisamente per lanciarsi all’attacco.
La loro ala passò attraverso rottami e vascelli alla deriva, cercando il proprio bersaglio oltre la zona di combattimento.
Davanti a loro, protette dalla vicinanza col pianeta nano, scovarono le portastormo Terrestri, navi della stazza di una corazzata ma con un armamento neanche lontanamente simile, intente a vomitare centinaia di caccia sul campo di battaglia.
Un gruppo di ricognitori tentò di intercettarli, sparando contro di loro qualche bordata, nella vana speranza di penetrare il loro ben più spesso scafo corazzato.
Le portastormo iniziarono a ruotare sul posto, cercando di darsi alla fuga, ma ormai non avevano speranza.
Le torpediniere aprirono il fuoco, spazzando i ponti delle navi nemiche.
I ricognitori furono sotto di loro e li assaltarono, finalmente spezzando la formazione aliena.
La battaglia infuriava ormai ovunque: la flotta Terrestre era sparpagliata intorno al pianeta nano e presa su ogni lato dal nemico, che aveva completato l’aggiramento sul fianco destro e aveva ormai catturato le navi nelle retrovie.
Nemo diede un pugno al vetro.
Erano spacciati.
La nave virò di nuovo, mostrando in pieno ai due prigionieri lo spettacolo del campo di battaglia, improvvisamente richiamata al centro dello scontro.
E Nemo li vide, i loro angeli della salvezza.
Alle spalle della flotta Khorsiana, direttamente dall’iperspazio, una flotta Volosiana era apparsa in tutta la sua magnificenza e aveva immediatamente aperto il fuoco sul nemico, spazzando le navi minori e aggredendo con violenza le navi capitali.
Presi tra due fuochi, gli Imperiali decisero di vendere cara la pelle, lanciandosi in un attacco suicida contro le forze appena arrivate.
Nemo fissò con ammirazione le navi alleate, gli occhi lucidi e prossimi al pianto.
Quei vascelli erano un’opera magnifica: corpi perfettamente lisci dai cui fianchi spuntavano file e file di cannoni e dalle cui estremità si spiegavano immense vele solari dorate, agganciate a grossi archi e rigonfie di energia.
La prua conica di ogni mezzo era ricoperta da rotonde torri binate, intente a riversare fuoco e fiamme sugli scafi nemici coi loro cannoni gaussiani
Le navi Imperiali venivano annientate, una dopo l’altra, senza distinzione, mentre i detriti iniziavano a precipitare verso la superficie del pianeta nano poco distante.
Quando l’ultima corazzata esplose, colpita al reattore da un siluro, gli Imperiali decisero di battere in ritirata.
Nemo vide lo spazio intorno a lui vorticare, mentre la torpediniera su cui si trovava compieva una manovra in avvitamento per defilarsi, passando in mezzo ai rottami di un incrociatore Imperiale distrutto.
Una fregata Volosiana tagliò loro la strada, riversando su di loro una pioggia di dardi esplosivi.
La nave vibrò tutta, incassando il colpo, ma rispose al fuoco e continuò a volare testarda.
<< Dobbiamo abbandonare la nave. >> disse Nemo, allontanandosi dall’oblò. << Venga, signore. >>
I due si avvicinarono all’ascensore, premendo ripetutamente il pulsante di richiamo e sperando che non fosse bloccato.
<< Dannazione! >> sbottò Nemo appena si accese una spia rossa. << Devono averci isolato! >>
La nave vibrò di nuovo, colpita ad uno dei motori, e iniziò a ondeggiare, fuori controllo.
La spia sopra la porta d’accesso divenne blu, e le porte si spalancarono.
Nemo sbarrò gli occhi.
N’dar uscì dall’ascensore, una pistola in pugno, gli occhi blu iniettati di sangue.
Alzò la pistola e la puntò in faccia a Nemo.
Nessuno dei tre disse nulla.
Poi la nave fu colpita di nuovo, e la scossa che la attraversò li lanciò tutti in aria.
La pistola volò in alto, mentre Nemo si lanciava verso l’ascensore ancora aperto tenendo il suo superiore per un braccio.
Il generatore di gravità doveva essersi danneggiato, poiché all’improvviso tutti e tre si ritrovarono a nuotare nel vuoto.
N’dar si voltò e digrignò i denti, afferrando il piede scalzo del capitano e tirandolo a sé.
Il capitano trasalì e si aggrappò al braccio di Nemo, scivolando velocemente verso l’alieno, incapace di opporre resistenza.
Nemo si voltò, bloccandosi all’ascensore con i piedi e afferrando la mano del superiore, sforzandosi di non perderla.
N’dar intanto aveva ritrovato la pistola e, la mano ancora stretta intorno alla caviglia dell’uomo, si era lanciato per riafferrarla.
Nemo sentì la presa del capitano allentarsi e si protese ancor di più in avanti, gemendo per lo sforzo, nel tentativo di non lasciarlo andare.
Il capitano colse la fatica negli occhi del compagno e sorrise rilassato, chiuse gli occhi, e mollò la presa, lasciando che il Khorsiano lo tirasse a sé.
L’alieno, preso alla sprovvista e concentrato sul recuperare l’arma, fu spinto indietro dall’uomo, che gli si avvinghiò addosso e si lanciò contro il suo polso.
Mentre le porte dell’ascensore si chiudevano l’ultima cosa che Nemo vide fu N’dar che sparava in pieno petto all’umano, intento ad affondare i denti nel braccio dell’Imperiale.
Mentre l’ascensore scendeva sempre più giù, all’interno dell’astronave, Nemo sentì di nuovo il suo peso, e poco a poco si riallineò al pavimento e si rimise in piedi.
Si appoggiò al muro metallico e ansimò, stanco.
Non appena l’ascensore si aprì sul ponte di comando, la nave fu colpita di nuovo e per un lungo secondo la corrente saltò, lasciando Nemo immerso nel buio.
Quando la luce tornò, poté finalmente mettere a fuoco ciò che aveva davanti.
La sala era abbandonata, completamente vuota, e molti terminali erano spenti o completamenti invasi da allarmi rossi e lampeggianti.
Un’altra scossa, uno spettrale cigolio attraversò il metallo.
Si infilò in un largo corridoio e giunse rapidamente ad un punto dove il corridoio si separava in tre differenti direzioni.
Se ricordava bene, proseguendo diritto sarebbe giunto al vano motori, quindi non doveva fare altro che scegliere tra destra e sinistra e sperare di non finire negli alloggi dell’equipaggio.
Non aveva tempo per sbagliare strada.
Si infilò a sinistra e proseguì rapidamente, andando avanti ormai alla cieca.
I piedi non lo reggevano più, e lui avanzava trascinandosi stancamente contro il muro.
Sulla sua destra individuò una porta aperta e vi si fiondò subito dentro, sperando di aver trovato l’hangar dei gusci di salvataggio.
Appena varcata la soglia inciampò sul cadavere di un Khorsiano riverso per terra, un pugnale infilato tra scapola e clavicola sinistra, le dita dell’alieno ancora strette intorno al manico dell’arma.
Nemo si rialzò goffamente appoggiandosi alla cuccetta accanto alla quale il cadavere era steso, troppo debole per urlare dal disgusto, sorpreso da ciò che aveva davanti a sé.
Non si aspettava che i Khorsiani si suicidassero pur di non consegnarsi al nemico.
Si chinò, staccò la mano del cadavere dal pugnale ed estrasse l’arma dal corpo.
Era ironico, notò in quel momento, come tutte le razze in grado di dominare la galassia avessero in comune cinque dita per mano.
Ripulì l’arma dal denso sangue scuro, quasi nero, che uscì dalla ferita e si guardò intorno, cercando altre armi.
In fondo alla camera, appesa al muro, vide una rastrelliera a cui era appesa una pistola, ancora inserita nella fondina.
Afferrò l’arma e uscì rapidamente dall’angusta cabina in cui era finito, indeciso se tornare indietro o proseguire oltre le cabine dell’equipaggio.
La nave continuava a venire scossa dalle esplosioni, ma sembrava già essere stata abbandonata.
Improvvisamente un rumore familiare lo fece voltare.
Si mosse rasente al muro e spiò nella direzione da cui il suono sembrava arrivare.
Un drone gli passò davanti, volando scoordinato e lasciando una scia di scintille dietro di sé.
Nemo si mise subito al suo inseguimento, avanzando silenzioso alle sue spalle.
Il drone aveva seri danni alle giunture inferiori, dalle quali pendevano le due mitragliatrici che componevano il suo armamentario, quasi sul punto di staccarsi.
Dopo diverse svolte e corridoi ormai bui giunsero infine nel piccolo vano in cui erano ancorati i gusci di salvataggio, una specie di corridoio non più largo di due metri.
Su ogni lato del corridoio si aprivano dieci portelloni, tutti aperti, attraverso i quali si intravedevano gli interni dei gusci, in grado di ospitare almeno quattro persone.
In fondo al corridoio, uno per lato, vi erano altri due portelli, più piccoli, in cui lentamente si stavano infilando i vari droni, ordinatamente disposti in fila in attesa del loro turno.
In mezzo al corridoio, in piedi e disposti in cerchio, vi erano gli ultimi membri dell’equipaggio, sedici Khorsiani in tenuta da battaglia e armati fino ai denti con ogni sorta di fucile o carabina.
Erano a capo chino, il casco tra le mani, in attesa di chissà cosa.
Uno di loro alzò all’improvviso la testa, inspirò e disse qualcosa nella loro incomprensibile lingua.
Gli alieni indossarono il casco e si infilarono in quattro dei cinque gusci sulla destra, chiudendo i portelloni alle loro spalle.
Non appena il corridoio fu vuoto Nemo si lanciò nell’ultimo guscio, cercando di interpretare i comandi della consolle che si ritrovò davanti.
Il portellone si chiuse dietro di lui, imprigionandolo là dentro.
Su ogni lato della piccola astronave vi era un minuscolo oblò, da cui Nemo poteva guardarsi intorno.
Attraverso quello frontale, subito sopra, poteva scorgere un incrociatore Volosiano intento a sparar loro contro tutta la sua bordata di babordo.
Il rumore attutito di un risucchio arrivò da sinistra, e Nemo vide attraverso l’oblò uno dei gusci lanciato alla massima velocità contro l’incrociatore, seguito immediatamente da un secondo identico guscio.
Un altro risucchio, e uno dopo l’altro vide anche i quattro gusci in cui si erano infilati i Khorsiani, ben più corti dei primi due, lanciarsi all’assalto della nave nemica, incuranti dei proiettili che volavano intorno a loro.
<< Cazzo. >> disse Nemo, prima che l’accelerazione improvvisa lo lanciasse contro la parete di fondo, facendolo sbattere violentemente.
Si alzò e si girò, fissando nell’oblò al centro del portellone l’astronave Khorsiana venire colpita e allontanarsi da lui, ormai alla deriva.
Si spostò a fatica davanti all’oblò alla sua sinistra e fissò gli altri gusci correre paralleli al suo, lanciati in quella folle corsa.
Il più vicino a lui fu preso in pieno da un proiettile ed esplose in una pioggia di resti alieni e acciaio, seguito a ruota da uno dei due gusci porta-droni che, colpito ad uno dei motori, deviava dalla sua rotta e andava a schiantarsi chissà dove.
Tornò davanti alla consolle e fissò la nave Volosiana avvicinarsi rapidamente, ormai sicuro che sarebbe morto nello schianto.
Si sedette su una delle quattro poltroncine disposte sui lati del guscio, si aggrappò ai braccioli e chiuse gli occhi.
L’impatto fu così violento che lo sbalzò dalla poltrona e lo mandò a sbattere contro la maledetta consolle, causandogli una nuova fitta lancinante alla testa.
Il guscio si aprì frontalmente, sollevando la consolle e rivelando un secondo portellone identico al primo.
Nemo si tastò il volto, stordito dall’impatto.
La guancia destra era umida, e non vedeva più da un occhio.
Riprese pistola e pugnale, scese strisciando dal mezzo e si ritrovò nel mezzo di un largo corridoio vuoto, illuminato da luci azzurre.
Il suo guscio aveva perforato la corazza della nave Volosiana e aveva continuato la sua corsa per ancora qualche metro, penetrando profondamente nello scafo e chiudendo la falla così creata con la sua stessa mole.
Si alzò appoggiandosi al muro e fissò il buco nella parete, accorgendosi solo in quel momento che accanto al suo ve ne era un secondo, identico.
Il portellone del secondo mezzo si aprì, e un Khorsiano sbucò subito fuori, il fucile in pugno.
Nemo estrasse la pistola e sparò, prendendo l’alieno alla tempia.
Un secondo soldato scese dal mezzo, voltandosi verso di lui, ma fu subito freddato da un colpo in pieno petto.
Si avvicinò lentamente al velivolo, zoppicando, senza mai abbassare la pistola e si appoggiò accanto al varco.
L’alieno ferito al petto si mosse, gemendo.
Nemo gli sparò di nuovo, due colpi in rapida successione.
Dal velivolo arrivò in risposta una raffica di colpi che spazzò il corridoio.
Nemo urlò, avvertendo il calore del plasma che volava accanto a lui, e la raffica si interruppe.
Un terzo Khorsiano si lanciò nel corridoio, voltandosi in volo contro di lui.
Nemo sparò, mancandolo di poco, e si abbassò rapido, evitando per un soffio un altro colpo del nemico.
Si lanciò contro il suo nemico, prendendolo per la cintola e gettandolo a terra.
L’alieno si dimenava, cercando di afferrare il suo volto reso scivoloso dal sangue, in preda al panico.
Nemo sollevò la lama che fino a quel momento aveva tenuto con sé e la affondò con forza nel collo dell’alieno, che in pochi secondi smise di dimenarsi.
Nemo inspirò profondamente, ormai distrutto, riafferrò la pistola, si rialzò lento e di nuovo si nascose affianco al portellone, in attesa di un quarto nemico.
Attese a lungo, finché non si decise a sporgersi e spiare all’interno del guscio.
Il quarto Khorsiano era ancora seduto sulla sua poltrona, le cinture allacciate, privo di vita.
Nemo si lasciò sfuggire un rantolo e si accasciò al suolo, inspirando profondamente.
Era finita, e in qualche assurda maniera era ancora vivo.
Alle sue orecchie arrivò un rumore di passi, e presto fu circondato da alti soldati rivestiti di spesse corazze smaltate di bianco, i lunghi fucili puntati contro di lui, i volti nascosti dietro elmi a punta perfettamente lisci e privi di qualsiasi ornamento.
Erano figure ben più slanciate ed esili di un qualsiasi umano, ben più imponenti.
Una di loro si tolse l’elmo e si chinò accanto a lui.
<< Tutto bene, umano? >> chiese, avvicinando il suo volto lungo e schiacciato all’uomo e scrutandolo così suoi quattro piccoli occhi.
Nemo annui, tossendo, cercando di pulirsi l’occhio destro dal sangue che lo ricopriva.
Il Volosiano sorrise, mostrando gli aguzzi canini scintillanti.
<< Come sei arrivato qui? Qual è il tuo nome? >>
Nemo tossì ancora.
<< S-Seraphus Nebriter. >> disse a fatica.
<< Bene Seraphus, ora sei al sicuro. >> concluse il Volosiano mentre il suo volto iniziava a sfumare in vapori concentrici, e le palpebre dell’umano si facevano pesanti.
Il corridoio iniziò a vorticare e fu inghiottito dal buio, e l’uomo cadde in un sonno profondo.

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