Spotlights

di EffyLou
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo primo ***
Capitolo 3: *** Capitolo secondo ***
Capitolo 4: *** Capitolo terzo ***
Capitolo 5: *** Capitolo quarto ***
Capitolo 6: *** Capitolo quinto ***
Capitolo 7: *** Capitolo sesto ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


PREMESSA

 Piccole ispirazioni da: ParnassusITStranger Things, Kuroshitsuji/Black Butler.
→ Per il nome del circo (Imaginaerum) ho preso in prestito il nome dell'album dei Nightwish.

Io non sono particolarmente fan del circo. Senza remore vi dico che non è per via degli animali, ma perché sento come un'atmosfera triste e oscura dietro tutta quell'ostentata allegria. Un'atmosfera che, tuttavia, mi ha sempre inquietato e affascinato al contempo.
Mio nonno scappò col circo, quand'era giovane, e ogni qualvolta tornava a casa si portava dietro un animale (un boa, un piccolo leone, un canguro). Ma non ho idea di come sia la vita dei circensi dietro gli spettacoli. In questo mi ha aiutata il contesto storico in cui ho deciso di imbucare la storia: l'età vittoriana.
Cercherò di renderla un'opera corale, ma vedremo che tutto sommato i protagonisti sono delineati. Ci sono alcuni personaggi che non avranno un volto o perché è coperto da maschere per tutta la storia oppure perché sono semplicemente nominati.

Beh... buona lettura! ♥

* * * * * * * * * * * * * * * *
SPOTLIGHTS


Prologo



 
Brema, Germania. 1824.

Prese un’altra boccata dalla pipa, sdraiato sui comodi sofà della fumeria. Era quello il momento migliore per ideare nuove storie: il corpo e la mente si rilassavano, oscillava tra la veglia e il sonno, e le idee arrivavano.
Fare il cantastorie non era un lavoro semplice come credeva la gente. Bisognava pensare a favole da narrare senza rischiare di copiarne altre più antiche e conosciute, bisognava pensarle per un pubblico di bambini e quindi tenere conto della loro volubile attenzione. Lui era sempre stato bravo, sempre munito da incredibile fantasia e uno spiccato carisma con gli infanti. Riceveva sempre monetine in più anche dalle madri, al punto che guadagnava abbastanza da potersi permettere un posto comodo in una fumeria e una buona dose di oppio, almeno una volta alla settimana.
Teneva le sue storie raccolte in un taccuino rovinato dall’acqua e dall’inchiostro sgocciolante, ma tutte le favole più vecchie le aveva pubblicate con una casa editrice di Brema, da un paio d’anni.
Le idee gli arrivavano come intuizioni, le appuntava sul taccuino e poi, con calma, le sviluppava.
Gli piacevano i bambini. Vedevano il mondo con occhi innocenti, deformavano la realtà per renderla divertente e fantasiosa, più sopportabile. Un bastoncino poteva diventare una bacchetta magica, una lunga nave per le formiche; le foglie diventavano ombrellini per le fate o barchette da far navigare sulle pozzanghere. Vedevano il gioco in ogni situazione, in ogni oggetto.
Erano qualità magiche, concesse solo a chi aveva il cuore puro e gli occhi innocenti. Per questo, da adulti, si perdevano e si dimenticavano. Un adulto poteva tornare ad assaggiare l’animo fanciullo solo con la spinta delle sostanze stupefacenti. I bambini non ne avevano bisogno.
Era sempre stato bravo a fare il cantastorie. Si metteva seduto sul bordo della strada con un carillon e i bambini nei dintorni si avvicinavano pronti ad ascoltare.
Ma da qualche tempo, ormai, nessun bambino si avvicinava più e non sapeva spiegarsi del perché.
Aveva cercato lavoro altrove, ma la dea bendata non sembrava essere dalla sua parte in quel periodo. Aveva avuto il suo momento d’oro, forse era ora di farsi da parte.
Eppure non aveva intenzione di uscire di scena, non ancora. Aveva giurato di raccontare storie ai bambini fino alla fine, per preservare quella loro purezza. Il mondo non sembrava essere d’accordo.
Si era buttato a capofitto sull’alcool e l’oppio, aumentando le quantità, in cerca di nuove storie accattivanti da poter raccontare. La fortuna non aveva ancora intenzione di girare nella sua direzione. Decise che forse era quello il suo momento, la fine della sua vita.
E aveva deciso di terminarla in una fumeria d’oppio, su un comodo sofà di velluto porpora.

Sbuffò il fumo, gli occhi fissavano il soffitto di legno. Poteva vedere un piccolo ragno divorare una zanzara. Pensò che fosse una cosa triste e macabra, proprio come la vita stessa.
Forse quella zanzara aveva avuto il suo momento di gioia, succhiando sangue ovunque come un maledetto vampiro, ma aveva incontrato il predatore più cattivo e spietato ed era stata sopraffatta.
Pensò che era la metafora della sua vita: lui divorato dalla realtà.
Chiuse gli occhi per smettere di fissare la scena e inspirò altro oppio.

«Non vorrai mica lasciarti morire con quella schifezza?» domandò una voce scettica.

Il cantastorie aprì faticosamente gli occhi appannati per guardare il suo interlocutore. Era un uomo di età indefinita che sembrava stranamente lucido, nonostante i fumi dell’oppio e si trovasse in una fumeria – in cui il più sobrio fissava il vuoto.
La carnagione pallida a tal punto che s’intravedevano le venature indaco sulla pelle, gli occhi cerchiati dalle occhiaie, come fosse malato di tubercolosi. Portava un cilindro a cui erano incastrate piume di pavone, e un completo nero che faceva spiccare più del dovuto quel suo pallore malato.

«Che t’importa? Non ci conosciamo neppure» rispose flebilmente.
«Io ti conosco. – replicò, scaltro. – Sei il cantastorie che gira in piazza, sotto la statua dei Musicanti. Ti conosco abbastanza da sapere che stai fallendo con la tua attività»

L’altro strinse appena gli occhi, cercando di metterlo a fuoco con scarso risultato. Alla fine rinunciò e tornò a guardare il soffitto. Il ragno era sparito.

«Non voglio parlarne»
«Nemmeno se ti dicessi che ho un metodo per farti risollevare gli affari?»
«Non mi fido di te, non so chi sei»

Quello allora si tolse il cappello facendo un plateale inchino. «Jorgen. Ora non siamo più sconosciuti. Mi ascolterai?»
Il cantastorie lo guardò con circospezione, ma alla fine annuì stancamente. Non aveva voglia né forze per fare altre domande. In quel momento avrebbe fatto qualunque cosa pur di racimolare qualche soldo. La fumeria l’aveva pagata con gli ultimi risparmi.

«Tu credi nella magia, non è vero? – proseguì Jorgen. – Ebbene, io posseggo un oggetto magico. Ma non me ne faccio niente e mi sembra sprecato tra le mie mani, quando persone come te potrebbero utilizzarlo molto meglio. Si tratta di uno specchio. Io lo chiamo lo Specchio dell’Altrove, oppure la Porta. Conduce in luoghi che non appartengono a questo mondo.»
Il cantastorie ebbe la forza di aggrottare le sopracciglia: «Non sembra un oggetto sicuro. Quanto verrebbe a costarmi?»
«Niente! In più guadagnerai poteri magici, sai? L’unico prezzo è tenerlo, assumersene le responsabilità qualunque cosa accada»   «È un prezzo molto alto, il peso delle responsabilità su un oggetto magico» borbottò, stropicciandosi gli occhi.
«Che cruda e terribile verità, amico mio. Ma t’invito a concentrarti su tutti gli aspetti positivi che incontrerai tenendolo con te. E dunque? Affare fatto?»

Il cantastorie vide il suo interlocutore chinarsi su di lui, con la mano guantata tesa e pronta alla stretta. Un sorriso che, a causa della distorsione dovuta all’oppio, sembrava disturbante, diabolico.
Cercò di mettere a fuoco Jorgen, ma la vista proprio non voleva saperne di inquadrare i suoi lineamenti.
Pensò che avesse ragione, gli aspetti positivi di quello specchio sarebbero stati molti e valevano la pena di prendersene la responsabilità. Non dubitò neanche per un momento del fatto che quello specchio fosse, effettivamente, magico. Non mise in dubbio quelle parole, come chiunque altro avrebbe fatto. Forse per l’oppio, forse per il suo ostinarsi a cercare di vedere il mondo come un bambino.
Alla fine annuì, e gli strinse la mano.

«Affare fatto.»

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Capitolo 2
*** Capitolo primo ***


Capitolo primo
 
 
Londra, Inghilterra.
Gennaio 1888.


Fieno. Polvere. Stoffa. Profumi di donna.
Talmente forti da far arricciare il naso. Sotto il tendone gli odori erano attufati, si concentravano e rendevano persino faticoso il respiro. Ancora peggio quando nel cerchio entravano gli animali.
Ma quella era la sera del debutto a Londra, dopo aver passato tutto l’anno precedente a Southampton. Era una grande opportunità, a detta di Faust. Anche se, in effetti, nessuno capiva di quale opportunità parlasse quel vecchio pazzo – probabilmente nemmeno suo figlio MadKing lo sapeva.
Erano arrivati due giorni prima e si erano stabiliti appena fuori il quartiere di Havering, a est della città, vicino al Tamigi. Avevano montato il tendone in fretta e, come avevano aperto il botteghino, i biglietti erano finiti in un batter di ciglia.
Che bello che era, l’Imaginaerum. Perfettamente attrezzato. Circondato da una recinzione in ferro battuto, il botteghino appena fuori i cancelli; e dentro il perimetro, un dedalo di tappeti che conducevano a vari tendoni e carovane. Il Tempio di Gipsy, per farsi leggere le carte o i palmi delle mani; il Teatro delle Pulci, per gli spettacoli dei burattini e i laboratori di mimo; le bancarelle per i dolci, riservati solo ai bambini. E poi l’imponente tendone degli spettacoli, che svettava nel cielo cupo di quella sera di gennaio e tra la pallida neve, con i suoi colori arcobaleno.
Che bello che era, l’Imaginaerum. Costruito appositamente per i bambini, ai quali veniva data la precedenza su tutto: entravano senza pagare, le prime file erano per loro, i dolci erano gratis e solo per loro. Gli adulti, in quel circo, non erano privilegiati. Erano come pesci fuor d’acqua, eccetto per il Tempio di Gipsy, riservato ai maggiori di quindici anni, o alcuni numeri a portata di tutti.
I cancelli si erano aperti con un cigolio metallico, due nani si erano adoperati per spalare la neve lì vicino in modo da permettere la completa apertura. La gente li aveva guardati come se fossero buffi animali, e prima che potessero fare qualsiasi cosa, un’orchestra aveva accolto il popolo emulando la melodia di un carillon. Clown, giocolieri, artisti sui trampoli, acrobati, avevano guidato il pubblico verso l’ingresso del tendone principale.
I nani si erano occupati di far sistemare i bambini in prima fila e distribuire loro sacchetti di popcorn caldi.
Attimi di trepidante attesa, quelli che precedevano l’inizio dello spettacolo. Nel tendone faceva freddo, ma meno rispetto a fuori per via delle lampade a gas e l’aria attufata. Certamente non era un circo costruito con poveri mezzi, ma con le tecnologie più all’avanguardia. Questo piaceva al pubblico, li faceva sentire al sicuro.

Ed eccoci al forte odore che faceva arricciare il naso.
Fieno. Polvere. Stoffa. Profumi di donna. Il brusio e il chiacchiericcio, il cerchio buio.
Infine, dalle pesante tende cremisi in fondo, uscì l’elegante figura di un uomo non troppo alto, che camminava con andatura zoppicante. Si appoggiava su un bastone nero, con sopra intagliata la testa di un elefante in avorio, il cilindro calato appena sugli occhi.
Le luci lungo il perimetro del cerchio si accesero velocemente, come animate da una strana stregoneria, e il pubblico trattenne il fiato. I fasci di luce si congiungevano nel centro, proprio dove si trovava l’omino, che sollevò il capo e allargò le braccia.

«Signore e signori, bambini di tutte le età! Vi do il benvenuto all’Imaginaerum! Io sono MadKing, il Re Matto, e prima di cominciare voglio dirvi due parole. Sarò breve. – si tolse il cappello, portandolo al cuore. – Innanzitutto non avete di che temere qui dentro: conosciamo gli incidenti avvenuti in altri circhi, ma qui siamo molto ben attrezzati e non corriamo alcun pericolo. Infine, se siete qui, è perché siete individui curiosi, coraggiosi, bramosi di scoprire nuovi mondi. E noi, umili artisti e fenomeni da baraccone, siamo al vostro più totale servizio Ma badate bene: non lasciatevi sopraffare dalle regole della società. Nel perimetro dell’Imaginaerum… non bisogna opporre resistenza. Potreste fronteggiare cose inspiegabili, magiche forse. Non fatevi domande, perché non avrete risposte»

Parlava lentamente, enfatizzando ogni parola come se stesse recitando. MadKing era il carismatico presentatore del circo, eccentrico nel suo trucco marcato intorno agli occhi e il sorrisetto ambiguo.
Gli spettacoli che seguirono comprendevano animali: le bestie feroci di Kà, i serpenti e gli elefanti di Kalì, la scimmietta di Alegria, i cavalli di Prittle-Prattle. Per poi passare a Diablo, giocoliere e mangiafuoco, fino alla contorsionista e funambola Bubblegum, all’uomo più forte d’Europa Boris, il trapezio di Dolly e Prittle-Prattle, il lancio dei coltelli di Kalì. E, tra un numero e l’altro, i siparietti comici dei gemelli clown Klunni e Tramp, le esibizioni di danza araba di Gipsy Persia e le veloci presentazioni di MadKing.
Verso il termine della serata, arrivò il numero di Faust, illusionista, maestro dell’ipnosi e abile giocatore di prestigio. Strane voci circolavano su di lui, se le trascinava dietro dalla sua terra natale, la Germania. Dicevano che avesse fatto un patto col Diavolo, e il passaparola era il più potente mezzo di propagazione dell’informazione. Tuttavia questa oscura fama, oltre ad essere sospesa tra realtà e menzogna, non fu motivo di allontanamento dal circo. La società vittoriana amava il macabro, e Faust suscitava un enorme interesse e curiosità.
Il suo numero era fuori dall’ordinario, qualcosa che nessuno aveva mai visto nei circhi inglesi o europei. Era un numero semplice, che comprendeva l’utilizzo di un solo oggetto: uno specchio.
 

Boris colpì la lastra di ghiaccio sulla superficie del fiume con un piccone. Era così spessa che persino a lui, l’uomo più forte d’Europa, ci vollero più di un colpo per spaccarla e riuscire a vedere l’acqua. L’inverno era un momento terribile per lavarsi. Le classi medie e basse non lo facevano, infatti, perché comportava doversi recare al fiume e rischiare l’ipotermia. E nonostante loro appartenessero all’ultima classe della società, non potevano permettersi di non lavarsi. C’era troppo contatto con gli animali, tra il fieno e la polvere. Perciò, in giorni di riposo in cui il circo restava chiuso al pubblico, si dedicavano anche a queste faccende.
Gli uomini spaccavano il ghiaccio e riempivano grossi barili d’acqua per poi trasportarli al tendone comune. Poi si spartivano l’acqua per lavarsi. Alle donne ne serviva sempre un po’ di più, e quella che restava veniva usata per lavare gli animali.
Dietro di Boris c’era la schiera degli altri uomini, compresi i nani che gli ricordavano tanto i folletti di Santa Claus. Solo che questi erano un po’ più scorbutici.
Boris era un gigante, con i capelli neri tagliati cortissimi e i tatuaggi sparsi per il corpo, e si stupiva sempre di come fossero piccoli quegli omini.

«Sarà alta l’acqua?» domandò Nahuel con il suo accento spagnolo, più a sé stesso che a Boris.

Nahuel era stato un cavallerizzo, quand’era ancora a Malaga, ma poi aveva avuto un brutto incidente e non era più salito su un cavallo. Si limitava ad aiutare con la cura delle gabbie degli animali. Era il fratello maggiore del piccolo Alegria, ed erano zingari di etnia kalé.

Diablo alzò le spalle, incurvando le labbra carnose verso il basso. «Mah. Controlliamo. – fece un cenno con la testa a Boris. – Tienimi che sennò vado a fondo»
Il russo lo afferrò sotto le ascelle, con il busto sporto in avanti sul fiume. Diablo s’immerse.
«Cristo Iddio, è congelata» brontolò.
«Accidenti, che perspicacia» lo prese in giro Tramp, il clown.

L’acqua gli arrivava al girovita, non era così alta ma certo dovevano fare in fretta prima di rischiare il congelamento. Nel fiume entrarono anche Nahuel e Tramp a riempire i barili, e a riva rimasero i nani con Boris, Klunni e Kà.
Un’efficace organizzazione, i barili passavano di mano in mano e i nani li portavano al tendone comune dell’accampamento. Ne riempirono dodici, poi furono costretti a fermarsi quando le labbra cominciarono a diventare viola e le mani prive di sensibilità.
Si trascinarono, infreddoliti, verso il centro dell’accampamento.
Il tendone comune era molto grande, era attrezzato con un angolo cucina e la lunga tavolata per i pasti, tutt’intorno grossi cuscini. Era collegato al tendone che fungeva da dispensa e a quello dei bagni.
Era lì che passavano il tempo tutti insieme, perché poi per dormire ognuno aveva la sua carovana.
Erano già tutti a tavola per il pranzo. Appena entrarono Carmen, la moglie di MadKing, scattò per fare i loro piatti e riempirli di stufato di verdure. Un vero toccasana per loro, infilati nell’acqua gelida fino alle anche. 

Diablo si lanciò un’occhiata intorno, con quei suoi grandi occhi tempestosi, poi si rivolse a Carmen. «Dov’è Persia?»
«Al Tempio. – gli rispose, lanciandogli un’occhiata maliziosa. – Ma non puoi andare da lei ora. È impegnata»
«Non volevo andare da lei. Solo che non la vedevo» brontolò con una scrollata di spalle.
Carmen non gli rispose neppure, gli piazzò tra le mani la scodella di stufato e lo mandò a sedere con un’occhiata che la sapeva lunga.

Non era passato inosservato il rapporto tra Diablo e Persia. Eppure era così strano che nessuno capiva cosa ci fosse davvero sotto, nemmeno loro due probabilmente. E non era comunque concesso saperlo: i rapporti che superavano una certa soglia d’affetto, non potevano essere mostrati. C’erano delle regole. Se si voleva infrangerle, allora l’unico posto per farlo senza essere visti da occhi attenti era il Tempio di Gipsy, per qualche motivo. Secondo Faust, perché nel tendone della ragazza c’erano cianfrusaglie scaramantiche che tenevano lontane certe energie. In effetti Persia ne aveva tanti, di oggetti scaramantici, lì dentro: prevalentemente seguivano la cultura zingara e persiana, come le sue origini, ma c’erano anche oggetti induisti, buddisti, persino qualche ninnolo dei nativi americani.

«Non la lasciano stare neanche all’ora di pranzo. – borbottò Diablo sedendosi vicino a Nahuel. – Sempre a leggere mani, carte, oroscopi, o altre diavolerie, per quei ricconi»
«A quelli non si può dire di no, possono disporre di noi come vogliono. È la regola» rispose l’amico con un’alzata di spalle.
Diablo s’incupì ma evitò di commentare ulteriormente per non dar voce a pensieri segreti.

Aveva smesso ormai da tempo di considerare Persia al pari di una sorella, come invece considerava Prittle. Quando arrivò, lei aveva quattordici anni e lui diciassette. Da allora erano passati dieci anni, e non c’era stato un momento in cui non avesse desiderato urlarle la sua frustrazione per quel sentimento così bruciante che era costretto a soffocare. Avevano condiviso brevi momenti di delicatezza di nascosto, che non andavano oltre un bacio sulla guancia o una carezza.
Al contrario di Boris e Bubblegum, che avevano fatto in tempo a sposarsi prima che subentrasse la nuova gestione del circo e, con essa, le nuove ferree regole che impedivano l’amore.

Persia fece il suo ingresso nel tendone quando tutti ormai avevano finito, e Carmen le riscaldò la sua parte di stufato. Incrociò gli occhi di Diablo, di quel colore blu come il mare in tempesta, ma abbassò subito lo sguardo sulla ciotola.
Prittle trotterellò vicino a lei. «Allora... Qualche buona novella da parte del riccone?»

Persia guardò l’amica con un sorriso divertito. Prittle era bionda, con gli occhi castani, magra, slanciata, atletica. Sempre pronta a portare una ventata d’ottimismo. Aveva avuto una vita difficile prima del circo: da bambina fu venduta ad un bordello, e perse la sua virtù a undici anni poiché un ricco imprenditore di Barcellona aveva chiesto proprio lei in quanto ancora vergine, pura e innocente. Alla perversione degli uomini non c’era limite, e questo Prittle lo comprese da bambina.

«Voleva che gli leggessi la carta natale. – alzò le spalle. – Ultimamente lo chiedono tutti»
Prittle le si fece vicino. «Prima Diablo ha chiesto dov’eri, non credo gli piaccia quando rimani sola nel Tempio con un cliente» le sussurrò all’orecchio, con un’occhiata maliziosa.
Persia arrossì e si pulì le labbra con un tovagliolo nel tentativo di mascherare il rossore. «Oggi è una bella giornata. Andiamo a fare un giro per Londra?»
«Puoi scommetterci»
Come a captare la loro conversazione, MadKing piazzò di fronte a loro dei rotoli di carta colorata. «Brave ragazze, e già che ci siete fate pubblicità al circo. A due belle signorine daranno senz’altro ascolto, e mi raccomando: priorità ai bambini»

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Capitolo 3
*** Capitolo secondo ***


Capitolo secondo
 
 
Alegria amava fare amicizia. Purtroppo, essendo il più giovane membro della compagnia, non era stato semplice integrarsi. Quindi tentò l’approccio con Dolly, superando le barriere del suo mutismo.
Alegria parlava moltissimo, spesso in spagnolo o romanì, e non tutti capivano quello che diceva anche perché non parlava bene, aveva la “S” strascicata che veniva pronunciata in modo molto simile ad una “F”. Questa sua parlantina veniva enfatizzata dal mutismo dell’amica Dolly, ma azzerata in presenza di Prittle – più chiacchierona di lui, non per niente si era guadagnata quel soprannome.
E dunque Alegria, in costante ricerca di nuovi amici nella bolla di caotica solitudine in cui era costretto nel circo, partecipava ai laboratori di Klunni e Tramp nel Teatro delle Pulci.
Gli piacevano quei due, anche se preferiva Tramp visto che era sempre allegro, gentile, e goffo. Klunni era più musone, sembrava arrabbiato con il mondo. I gemelli erano radicalmente diversi, e profondamente uniti. Il primo si occupava dei laboratori di marionette e burattini, il secondo di mimo e altri trucchetti da clown.
Alegria stava imparando a costruire i burattini, perché voleva approfondire altri campi oltre all’addestramento della sua scimmietta Mune.
Mune era una scimmia cappuccino, gliel’avevano regalata i suoi genitori quand’erano ancora a Málaga, all’accampamento. L’aveva addestrata subito così poteva farla esibire in numeri divertenti in strada, e guadagnare qualche soldo. Lui e Nahuel erano gli unici maschi tra otto figli, per questo spettava a loro e al padre portare i soldi a casa.

Quel giorno ai laboratori di mimo si presentò un ragazzino nuovo, e aveva un bel giaccone caldo, una sciarpa e un cappello per ripararsi dal freddo. Lo aveva accompagnato suo padre, un uomo con folti baffi neri.
Tramp li aveva accolti come faceva con tutti gli altri, Alegria e Dolly erano nel cerchio con gli altri bambini e osservavano curiosi il nuovo arrivato. I capelli erano una nuvola di ricci rossi che sbucavano ai lati del berretto, la pelle lattea del viso tempestata di efelidi chiare, e il naso rosso dal freddo.
Il bambino si presentò come Jimmy Burke. Aveva il sorriso che sembrava quello di un folletto dispettoso. Ad Alegria piacevano i suoi capelli, nonostante anche Carmen li avesse rossi, era la prima volta che vedeva una tonalità arancione come la chioma del nuovo arrivato.
«Io sono Alegria. – si presentò, andando a sedersi vicino a lui seguito da Dolly. – E lei è Dolly»
«Non sono i vostri veri nomi» constatò Jimmy.
«No, infatti»
«E come vi chiamate allora?» indagò, con un’occhiata vispa e curiosa.
Alegria aggrottò le sopracciglia, preso in contropiede. «Ecco, io… Non lo sappiamo. Ci chiamano così da quando eravamo pequeños, sono i soprannomi che ci ha dato il circo. E comunque agli estranei non è concesso saperlo»
«Sembra una specie di setta. – brontolò Jimmy. – E poi perché lei non parla? È muta per caso?» e non voleva essere una domanda curiosa, ma un semplice sfottò.
Dolly arricciò il naso, e l’amico gitano annuì. «Sì, è muta»
«Oh, accidenti, mi dispiace. I-io volevo solo scherzare, non pensavo…» cominciò a torturarsi le mani, agitato e in colpa per ciò che aveva appena detto senza il briciolo di tatto.
«Anche io le feci la stessa battuta» sorrise Alegria, e Dolly confermò annuendo energicamente.
I due ragazzini parlarono tutto il pomeriggio, mentre costruivano le marionette, i burattini e fecero squadra per organizzare la scenetta dei loro personaggi. Ma durante il laboratorio di mimo dovettero tacere, e impararono a comunicare attraverso il labiale o a capirsi attraverso gli sguardi come faceva Dolly.
Nel tardo pomeriggio il sole era già sparito, lasciando spazio alla notte invernale, e in quel momento le luci nel perimetro dell’Imaginaerum si accesero nei lampioni e nelle lanterne appese qua e là. Era in quel momento che i laboratori finivano e si dava inizio ai preparativi per lo spettacolo.
«Verrai a vederci stasera?» domandò Alegria, accompagnando Jimmy al cancello dove lo aspettava suo padre.
«Non lo so. A mio padre non piacciono i circhi con gli animali»
«Qué lástima. – alzò le spalle, come se quella notizia non lo toccasse particolarmente. ─ Però ai laboratori di Klunni e Tramp tornerai, vero?»
Jimmy annuì. «Sì. Adesso vado. Ciao» s’incamminò verso suo padre e gli strinse la mano.
Non attese che Alegria ricambiasse il saluto, si voltò e sparì tra la neve delle strade.

 
* * *
 
 
Jimmy aveva continuato a partecipare ai laboratori con impegno, e adorava passare il tempo con i gemelli clown e con Alegria, la sua scimmia, e Dolly. Tanto che un giorno, con il consenso del padre e di Faust, li aveva invitati a casa sua.
Il padre di Jimmy era un ispettore di Scotland Yard, Charles Burke, e sua madre un’educatrice.
Quando Alegria era entrato in quella casa, era rimasto senza parole. Non aveva mai visto l’interno dei villini in cui abitavano i benestanti. In realtà non aveva neanche mai visto l’interno di una casa vera e propria, abituato com’era alle tende o alle carovane. La madre di Jimmy aveva preparato per loro dei dolcetti e s’interessò in particolar modo alla condizione di Dolly.
«Viene dalla Romania, dama. – le disse Alegria. – È l’unica cosa che sappiamo di lei»
«Come comunica con voi?» gli domandò, porgendogli un altro muffin.
«A gesti. Ma sa farsi capire anche con un’occhiata, credetemi» ridacchiò.
«Sa scrivere?»
Per poco il ragazzino non scoppiò a riderle in faccia. «Scrivere, dite? Un lujo per pochi, dama. Noi non siamo così fortunati, è già tanto se sappiamo parlare correttamente. – s’interruppe, in imbarazzo. – Beh, non tutti, come vedete. Io e Dolly siamo gli unici: lei non parla, io parlo male»
«Tu vieni dalla Spagna, vedo» s’intromise il signor Burke, fumando una pipa e scrutandolo con attenzione.
Dolly lanciò un’occhiata ad Alegria, come quando si sentiva a disagio e chiedeva lo sguardo confortante di un amico.
«Sì. Málaga» rispose cauto. Non c’era niente di male nelle domande del signor Burke, eppure il modo in cui le poneva e lo sguardo indagatore gli facevano venire i brividi.
«E quanti anni hai?»
«Tredici, señor. Anche Dolly, circa»
«E sei uno zingaro» constatò infine, sbuffando del fumo.
Alegria si mosse nervoso sul sofà. «Sì, señor»
«Andiamo a giocare fuori? Facciamo un pupazzo di neve» s'intromise Jimmy, intuendo il disagio dell’amico e l’avversione crescente del padre.
Il signor Burke proprio non sopportava che uno zingaro fosse in casa sua, seduto sul suo divano, a mangiucchiare i dolci preparati da sua moglie. E quella bambina poi? Era romena, e chissà magari anche lei apparteneva agli zingari balcani. Il signor Burke odiava gli zingari, così come odiava i neri o gli arabi. Non si stupiva del fatto che in quell’accozzaglia di fenomeni da baraccone ci fossero gli zingari, da sempre dediti all’arte del circo soprattutto tra i Sinti. Gli era costato tanto portare assiduamente il suo Jimmy a quei laboratori di mimo e marionette, se l’aveva fatto era solo perché aveva dato ascolto a sua moglie: la signora Burke le riteneva attività costruttive per un bambino, e Jimmy era figlio unico, sempre solo, quindi avrebbe potuto fare attività creative e amicizia con altri bambini della sua età.
Il problema è che aveva fatto amicizia con i bambini sbagliati. Uno zingaro e una romena muta.
Li guardò uscire dalla porta di casa e gli si accapponava la pelle se pensava che quei due fenomeni da baraccone erano stati seduti sul suo sofà. «Almeno non puzzavano di merda»
La signora Burke gli lanciò un’occhiata di rimprovero. «Sono solo ragazzini, Charles»
 
Di fuori, Jimmy legò la sua sciarpa di lana attorno al collo del pupazzo di neve che avevano costruito. Secondo lui era brutto e storto, ma ad Alegria e Dolly sembrava bellissimo, una piccola opera d’arte.
Il bambino dai capelli rossi mollò un calcetto alla neve, lanciando una fugace occhiata ai suoi amici intenti a perfezionare il pupazzo.
«Alegria, scusa per mio padre. – disse alla fine. – Lui… Non so, non ama molto gli estranei»
L’altro sorrise. «Non importa, quando sei uno zingaro ti abitui anche a cose peggiori. C’è una ragazza al circo, si chiama Persia, sua madre era una zingara persiana e suo padre persiano ma non zingaro. Quando arrivarono in Germania li uccisero a sassate, lei aveva la nostra età all’epoca. – gli confidò. – A me non è mai successo niente di così estremo, ma sono cose che capitano a molti zingari. All’odio altrui ti abitui da bambino, quando sei diverso dagli altri»
A Jimmy non sembrò che Alegria fosse sofferente per la sua situazione. Gli sembrava che gli scivolasse tutto addosso. Quando parlava con l’amico, gli sembrava più grande e più maturo della sua età. Se Jimmy si faceva domande ingenue e infantili, data l’età, Alegria aveva sempre una risposta adulta, matura. «A te non piace essere zingaro?» gli chiese, ingenuamente.
Alegria ridacchiò, alzando le spalle. «Può anche non piacermi, ma che differenza farebbe? È quello che sono»
Anche Dolly sorrise, dando una pacca sulla spalla dell’amico gitano.
Jimmy si sentì sciocco ad aver posto quella domanda, e arrossì sotto le efelidi chiare. «G-già. A me però non importa, sei mio amico anche se sei zingaro»




 
* * * * *
Capitoli serale, breve e tranquillo. Volevo farvi conoscere il trio Alegria-Dolly-Jimmy! 
L'intenzione dei dialoghi tra Alegria e Jimmy è quella di cercare di farli parlare nel modo più infantile possibile, voglio cercare di far vedere la situazione cupa in cui si trovano e si troveranno con gli occhi di ragazzini della loro età, non so se mi spiego. E sarà la prima volta che sperimenterò una situazione del genere, quindi spero di non farli sembrare né troppo adulti né di strafare facendoli apparire troppo infantili. Spero di riuscirci!

I personaggi sono tanti, e anche se non saranno tutti protagonisti delle varie vicende, stavo pensando di fare un breve specchietto di tutti i membri del circo da imbucarvi all'inizio del prossimo capitolo. Qualcosa di semplice come il nome, l'età, la provenienza e il ruolo all'interno della compagnia, in modo che possiate fare un po' d'ordine e magari vi aiuta anche a memorizzarli.
L'intenzione era di scrivere un'opera corale, ma ci sono solo piccoli gruppi di personaggi che, alla fine, si ritroveranno protagonisti. Li sto delineando già da ora EHEHE

Se passate, fatemi sapere cosa ne pensate se vi va! Critiche, consigli, semplici pareri o domande se trovate questioni poco chiare... fatemi sapere! Grazie infinite già solo per il fatto che siete qui.
Alla prossima ♥

 

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Capitolo 4
*** Capitolo terzo ***


Capitolo terzo
 
 
La neve si era sciolta, lasciando spazio alla primavera e allo sbocciare dei fiori, l’erba verde come smeraldo, la terra umida era stata nutrita ininterrottamente per tutto l’inverno.
Il ritmo degli spettacoli, con l’arrivo della bella stagione, si era fatto più frenetico ed intenso. Nei giorni di riposo, in cui erano aperti solo il Tempio di Gipsy e il Teatro delle Pulci, se ci si aggirava nei dintorni dell’Imaginaerum si notava un grande fermento di preparativi: un via vai di artisti, animali, attrezzature.
Klunni, il clown e mimo del circo, offriva dolciumi ai bambini che si avvicinavano timidamente alla recinzione che segnava il perimetro. Tramp era più invadente e cercava quasi di trascinarli a partecipare ai laboratori, spesso beccandosi anche le grida e gli insulti di pre-adolescenti irascibili o genitori protettivi. Si era anche beccato un pugno per questo, e Carmen – vedendolo arrivare con un occhio nero – aveva emesso un sospiro di rassegnazione.
Klunni e Tramp erano i giovani cugini della donna, tutti e tre venivano dalla Scozia e condividevano i capelli ramati. Carmen, al contrario dei gemelli, non era mai stata una donna di circo. Klunni e Tramp avevano cominciato la loro arte da bambini, nei laboratori organizzati proprio dall’Imaginaerum, e fu in quelle occasioni che la donna conobbe MadKing, il figlio di Faust. Al tempo, MadKing era uno scherzoso clown trapezista, ma aveva avuto un orribile incidente da giovane in cui si spezzò il femore, e la sua carriera venne stroncata brutalmente. Da allora sfruttò il suo carisma e divenne presentatore. Da allora camminava con andatura zoppicante, strascicata, appoggiandosi sempre al suo fedele bastone su cui era incisa la testa di un elefante in avorio.
Erano stati anni duri, in cui i guadagni del circo e la concentrazione degli artisti erano canalizzati sulla salute di MadKing. Da quell’incidente, sembrò che ogni cosa andasse male: il figlio che aveva avuto con Carmen morì di polmonite a un anno; la giocoliera Jona scomparve improvvisamente – morta o scappata, non fu mai chiaro – e suo marito, il mangiafuoco Fan, abbandonò il circo per cercarla lasciando suo figlio Diablo alle cure di Carmen, che lo crebbe come se fosse suo; e MadKing, prima per l’incidente e poi per la morte del pargolo, non restò mai completamente lucido. Si abbandonò all’alcool e all’oppio per dimenticare le sofferenze.
Faust non sapeva come fare, quando vide suo figlio in quello stato penoso. La notte non lo vedeva nella sua carovana, durante il giorno non si presentava alle prove, durante gli spettacoli – se si presentava – era brillo o completamente ubriaco. Era stato spesso costretto a girare per tutte le bettole e fumerie delle varie città per cercarlo e riportarlo all’accampamento, spesso in stato penoso.
Il buon vecchio Faust era stremato, sofferente per la situazione di suo figlio, abbattuto per il destino dell’Imaginaerum che, conseguenzialmente, non attirava più spettatori e gli artisti pativano la fame.
E fu allora, proprio quando aveva toccato il fondo, che si presentò un benefattore.
Faust si era sempre ritenuto fortunato: ogni volta che oltrepassava il limite, la Provvidenza interveniva nella sua vita e gli inviava qualcuno in grado di risolvere i suoi guai.
Quella volta venne raggiunto una gelida notte di fine dicembre, una decina d’anni prima. Forse correva l’anno 1878. Si trovava a Berlino. Quella stessa sera aveva recuperato dalla strada la piccola Persia, quasi congelata, e l’aveva presa con sé nell’Imaginaerum. E mentre lei si scaldava nel tendone – che in seguito divenne il suo Tempio – Carmen lo avvisò che c’era un uomo di fronte ai cancelli e chiedeva esplicitamente di lui. Quella fu la notte di ogni cambiamento per l’Imaginaerum.

 
Il direttore del circo si avvicinò ai cancelli, arrancando nella neve che raggiungeva le ginocchia. Da lontano poteva vedere le tenui luci delle strade di Berlino. Ma appena oltre il cancello, si stagliava la figura oscura di un uomo. Portava un cilindro ornato da piume di pavone, e un completo nero. Riusciva solo a vedergli il mento, la pelle era di un pallore mortale come se avesse la tubercolosi.
«Posso fare qualcosa per voi?»
L’uomo col cilindro accennò un sorriso. «No. Ma io posso fare qualcosa per te»
«A meno che non siate capace di far sparire tutti i miei guai con uno schicco di dita, dubito che possiate aiutarmi. – replicò piccato. – Pertanto vi invito a tornare a casa»
«Tu sei il mio Faust. Lascia che schiocchi le dita: vendimi il circo. Tutti i tuoi guai svaniranno»
 
In quella notte vendette il circo a Mefistofele e acquisì il nome con cui tutti lo conobbero da allora: Faust.
E Faust era convinto che si trattasse di Jorgen: gli aveva risolto i problemi di cantastorie affidandogli lo Specchio dell’Altrove ed ora aveva risolto i problemi del circo acquistandolo.
Mefistofele, o Jorgen, aveva sempre operato per il bene, aiutandolo in momenti difficili, eppure c’era un che di ambiguo e perverso dietro i suoi aiuti.
Lo Specchio aveva risollevato i suoi affari da cantastorie e da lì era partita l’idea di fondare un circo. La sua nuova gestione aveva risollevato gli affari dell’Imaginaerum e il morale degli artisti rimasti, guadagnandone di nuovi e un pubblico folto, ma aveva imposto regole difficili da rispettare: il pubblico poteva disporre degli artisti come desiderava prima, durante, e dopo lo show, e i legami affettivi che superavano una certa soglia non dovevano esistere. Solo chi era coniugato da prima della “nuova gestione” si salvava, come MadKing e Carmen, o Bubblegum e Boris. Erano all’apparenza sembrate regole molto banali, ma presto scoprirono che viverle era più difficile del previsto. Era una privazione della libertà. Un paradosso che cozzava con lo stile di vita apparentemente nomade e libero della compagnia.
Mefistofele non era mai all’Imaginaerum, non si faceva mai vedere né sentire, eppure c’era qualcosa di oscuro in lui: non si sapeva come, ma sapeva esattamente cosa accadeva nel circo. Aveva occhi e orecchie in ogni angolo, come se fosse nell’etere, e l’unico punto che la sua vista non riusciva a raggiungere era il Tempio di Gipsy.

 
─ ⚜ ─
 
 
Con l’arrivo della bella stagione, il ritmo degli spettacoli e delle attività aumentò.
La sera, dopo che i cancelli venivano chiusi, si mettevano tutti nello spiazzo di fronte al tendone comune, sopra di loro solo le stelle. A volte riempivano l’aria con la musica: Nahuel abbracciava una chitarra, Prittle accompagnava con un tamburello e Persia scandiva il ritmo con i cimbali; altre volte non si curavano neppure di parlare, se la giornata era stata troppo faticosa. Ma riunirsi tutti la sera era come un rito, non era mai successo che qualcuno non partecipasse.
Quella sera, come loro solito, erano radunati allo spiazzo. Faust li stava intrattenendo raccontando storie. Un tempo le pensava solo per i bambini, ma con la nascita del circo era stato costretto a rivisitarle e adattarle anche ad un pubblico adulto. In ogni caso, tuttavia, i bambini del circo erano mentalmente molto più grandi degli altri.
La storia che stava narrando riportava al Medioevo, più precisamente in Irlanda:
 
« Domnall ua Néill era il re supremo d’Irlanda in quel periodo. Superstizioso oltre ogni aspettativa, dominava dalla collina di Tara incollato alla Pietra del Destino… come se temesse che, standole lontano, potesse essere escluso dallo scorrere del Fato.
Sotto il suo dominio non si poteva dire che in Irlanda ci fosse un’evoluzione, ma nemmeno una digressione. Erano bloccati tra le pieghe del tempo, intrappolati in uno strato di realtà immobile.
E forse per questo nessuno lasciava il villaggio, e nessuno entrava.
A Dunshaunghlin non c’erano mai volti nuovi. Era una realtà chiusa e isolata: nessuno sapeva cosa accadesse fuori, e fuori non sapevano cosa accadesse nel confine delle palizzate di legno che dovevano fungere da mura di protezione.
Protezione da cosa?
Gli abitanti del villaggio raccontavano ancora vecchie leggende dell’antico popolo di dèi, i Tuatha de Danaan: sul finire del giorno, in quel limbo sospeso del tempo, una fitta nebbia s’era sollevata dalla collina di Tara e s’era poi diradata poco dopo mostrando quel meraviglioso popolo. I poveri contadini s’erano spaventati a morte ed erano scappati via. Ma a Dunshaunghlin c’erano sempre stati druidi o saggi, persone che si facevano domande e cercavano risposte, e si erano avvicinati timidamente a quel popolo, da cui appresero arti e scienze. I loro insegnamenti, all’avanguardia per l’epoca in cui s’erano mostrati, erano solo quelli. Non li incontrarono più, e nessuno apprese altro. Fermi in quel limbo.
Poi i contadini, tornati sulla collina di Tara, videro che c’era piantato un monolite alto quasi venti metri. Con antiche rune, c’era scritto che serviva a tenere l’Irlanda ancorata al fondo del mare e non farla sprofondare. Un regalo dai Tuatha de Danaan, e da allora il monolite venne chiamato Lia Fáil, la Pietra del Destino. Da allora, tutti i re supremi d’Irlanda vissero sulla cima della collina di Tara come se fosse di buon auspicio. Ma i popolani che non avevano avuto la fortuna di conversare con i Tuatha de Danaan credettero che si trattasse di demoni, e innalzarono una palizzata intorno al villaggio per tenerli fuori. Consacrarono la terra e innalzarono simboli sacri
Da Dunshaughlin, se si alzava un po’ il naso da davanti a sé, si riusciva a vedere la collina con le strutture che erano state costruite e il monolite che spiccava al centro di esse. Qualche vecchia del villaggio borbottava d’aver visto luci e chissà che altra diavoleria.
Strani anni, quelli. C’era l’ansia della fine del mondo, poiché tra trent’anni sarebbe sopraggiunto l’anno Mille, e non sembrava un buon presagio. Strani anni, quelli. In cui i druidi e i sacerdoti sentivano muoversi nell’aria forze superiori, ma non era chiaro se benevole o maligne.
In ogni caso, non era il momento di pensarci, quello. Erano in tumulto i preparativi per la festa di capodanno. Il Samhain andava celebrato sul livello fisico e spirituale.
Dal punto di vista materiale era fondamentale raccogliere l’ultimo grano e immagazzinarlo per l’inverno. Essere soli durante il Samhain significava esporsi al pericolo e alla morte.
Dal punto di vista spirituale, il giorno di Samhain era un giorno che non esisteva. Era fuori dalla dimensione temporale, non apparteneva né all’anno nuovo e nemmeno a quello vecchio. Il mondo si fermava, e solo per quel giorno le barriere tra due realtà si affievolivano al punto che il regno dei vivi e quello dei morti s’incontravano e si amalgamavano. Grandi festeggiamenti venivano svolti per coloro che non camminavano più su quella terra ma che, solo per quel giorno, potevano riabbracciare i loro cari.
Un momento toccante, che finiva con l’alba del nuovo giorno e dell’anno nuovo, in cui le ombre e i fantasmi del passato sparivano fino al prossimo Samhain.
Purtroppo però, non sempre il Samhain era gioioso. Capitava che i demoni camminassero tra quella gente con piedi umani, ed era il momento più proficuo della loro perpetua caccia alle anime. Non erano quelle dei morti che interessava loro, ma quelle dei vivi. Molti di loro, presi dallo sconforto per la nostalgia di un affetto perduto, erano disposti a donare qualunque cosa per riaverli indietro o trovare un compromesso per restare con loro.
Bisognava prendere precauzioni per il Samhain, ma a Dunshaughlin non importava: il loro villaggio sorgeva su un territorio ben protetto e consacrato come una grande chiesa a cielo aperto.
Ma era un momento di vulnerabilità per tutti.
Con l’arrivo dell’inverno e l’ultimo raccolto del grano, il Dio moriva. Erano molti i nomi che gli avevano dato. In Irlanda era Cernussos, e forse era uno dei nomi che gli piacevano di più.
Come ogni anno, da quando l’uomo aveva imparato a coltivare la terra, attendeva il suo momento. Sapeva che sarebbe tornato in vita, ma prima doveva sacrificarsi. Doveva morire. E alla morte non sarebbe mai riuscito a fare l’abitudine.
Samhain era arrivato ormai, e con esso sarebbe arrivata la tempesta distruttiva che avrebbe devastato le terre dei contadini per tutto l’inverno. Già vedeva le nuvole appesantire l’orizzonte, sembravano quasi concentrarsi intorno alla Pietra del Destino. Là, dove il re Domnall stava facendo preparare minuziosamente ogni dettaglio per il banchetto. Come ogni anno da quando era al potere, avrebbe invitato tutta Dunshaughlin, che raggiungeva a malapena i settecentocinquanta abitanti, e la sua sala dei banchetti vantava settecento posti. C’erano inoltre la mensa dei druidi, dei bardi, dei guerrieri, e dei Feniani – i Cavalieri del Destino, protettori d’Irlanda. Tutti concentrati sulla collina di Tara, ad attendere gli spiriti amici e pronti a scacciare quelli nemici.
Samhain significava anche sospensione dei poteri reali. In passato, per sottolineare il concetto, la dimora reale veniva incendiata. Ora si limitavano ad immergere il loro re in una botte di vino, come ad affogarlo, per simboleggiare una morte spirituale e la rinascita dopo che tornava a galla a respirare. Era importante partecipare al Samhain. Non farlo significava escludersi dal tempo, esporsi ai pericoli. Perdere dunque la ragione, e in casi estremi morire.
Tutto, nella notte di Samhain, ricollegava alla morte. Anche il rituale che veniva effettuato. Ogni cosa gridava alla morte, persino le Pleiadi che sorgevano annunciando l’inverno significavano la supremazia della notte sul giorno. Ma come ogni anno, solo un’entità sarebbe morta. »
 
Bubblegum alzò la mano, come a chiedere il permesso per parlare. Faust glielo concesse con un cenno del capo, e la donna parlò: «Il Samhain? Che festa sarebbe?»
«Halloween» rispose Carmen.
«Esistono davvero tutti i luoghi che hai menzionato?»
Faust sorrise, una sottile rete di rughe si formò sulle sue guance: «Ma certo. Leggenda vuole che la collina di Tara fu realmente visitata dai Tuatha de Danaan. Oggigiorno, quel popolo, viene chiamato anche Piccolo Popolo. Ci sono molte leggende a riguardo»
«Ce le racconterai tutte?» domandò Alegria, che stringeva la povera Mune come fosse una bambola di pezza. La scimmietta agitava la coda sotto il naso del ragazzino sperando di solleticarlo ed essere liberata. Ma lui non dava segni di volerla lasciare.
«A tempo debito, ora fatemi terminare la storia»
Faust riprese con il suo racconto introducendo un’altra entità, maligna, con il ruolo di “boia” del Dio menzionato dalla storia. Tuttavia l’attenzione di Persia era rimasta concentrata in un punto particolare della storia, in cui il cantastorie aveva detto che quelli erano “strani anni” perché druidi e sacerdoti sentivano muoversi nell’aria forze superiori di ambigua natura.
Forse era solo la sua vena paranoica, eppure conosceva Faust ormai: aveva mezzi contorti per far arrivare i messaggi che desiderava, ma se li mandava era per un motivo.
Nessuno dubitava delle capacità del vecchio. Nessuno dubitava delle sue conoscenze esoteriche e alchemiche. E, per quanto strano sembrasse, nessuno dubitava del fatto che lui avesse conoscenze molto particolari. Per questo si trascinava dietro la fama di aver fatto un patto col Diavolo. Qualcuno diceva che Faust fosse pazzo. Persia non lo credeva.
Lo considerava un uomo di rara intelligenza e altrettanto rara sensibilità e fragilità, di immensa cultura, eppure era contorto nel comunicare. Chi lo conosceva poteva, forse, afferrare i significati impliciti delle sue parole.
Persia non dubitò che quella storia, in particolare quella parte su energie superiori, fosse una trasposizione di ciò che aveva percepito Faust. Ma cosa aveva percepito? Anche lei aveva individuato strane anomalie durante la lettura dei Tarocchi, e praticando le arti divinatorie si imparava da subito che coincidenze e caso non erano concetti contemplati. Per questo non pensò che quelle stranezze fossero dovute solo alla casualità. Ma era successo solo due volte, e non si era allarmata. Avrebbe dovuto parlarne con Faust, ma non l’aveva fatto, lui aveva percepito le stesse cose e lo stava comunicando all’unica persona, lì in mezzo, che potesse comprendere le sue parole.
Faust terminò il suo racconto parlando del sacrificio del Dio, che rappresentava la morte della natura e l’inizio di un nuovo ciclo. Ma Persia non aveva sentito una parola dell’ultima parte della storia, aveva tenuto gli occhi ambrati fissi sul volto rugoso del vecchio.
Tutti intorno a lei si alzarono per andare alle carovane. Faust attese seduto che se ne andassero tutti, come se sapesse già che la giovane chiromante avesse qualcosa da dirgli.
«L’hai notato anche tu» esordì infine il vecchio, e non era una domanda. Il tono di voce era privo di emozioni, piatto, e gli occhi enigmatici. Come se stesse cercando di comunicarle qualcosa con lo sguardo. In quelle torbide pozze scure, Persia poteva quasi vedere l’infinito e oscuro mondo interiore di Faust, i demoni che si aggiravano nel suo animo, i suoi segreti.
«Avrei dovuto parlartene prima. I Tarocchi hanno preso una strana combinazione durante le ultime letture, sta per succedere qualcosa»
Lui si adombrò. «Parliamone al Tempio, lontani da orecchie indiscrete»








 
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Buonasera! O buonanotte, ecco (?)
In questo capitolo ci addentriamo un pelino di più nel passato di Faust, e in misura ridotta anche in quello di Carmen e MadKing - che sono coniugi. 
Eeee sì, Faust era il cantastorie del prologo. Tutto sommato non doveva essere una sorpresa, ma ho voluto dirlo esplicitamente solo in questo capitolo.
Ah sì, la storia che racconta del Samhain non ci azzecca nulla con il contesto in cui si muovono i personaggi (primavera) però ho pensato che a Faust no importasse niente, e più che del Samhain volesse far arrivare quel messaggio a Persia e allo stesso tempo raccontare della leggenda dei Tuatha de Danaan alias Piccolo Popolo alias Sidhe. Per il puro gusto di intrattenere. Perché il tema del Samhain? Perché è l'inizio di una one-shot che scrissi in onore di quella festività, ma che poi cancellai, e me la sono rivenduta per Spotlights. ECCO.
Come avevo detto la scorsa volta, vi metto un breve specchietto con i personaggi più importanti del circo che sono comparsi finora, con età, luogo di nascita, ruolo nella compagnia ed eventuali parentele:

 
Faust → 73 anni, Brema (Germania) ; illusionista, giocatore di prestigio, mago ; padre di MadKing.
Persia → 24 anni, Shiraz (Persia) ; chiromante, danzatrice.
Diablo → 27 anni, Lund (Svezia) ; mangiafuoco, giocoliere, mangiaspade ; figlio di Jona e Fan (non più presenti).
Alegria → 13 anni, Malaga (Spagna) ; addestratore della scimmietta Mune ; fratello di Nahuel.
Dolly → 13 anni, Bucarest (Romania) ; trapezista, ginnasta.
Nahuel → 27 anni, Malaga (Spagna) ; guardiano delle gabbie, aiutante ; fratello di Alegria.
Prittle → 23 anni, Barcellona (Spagna) ; ginnastra, trapezista, equilibrista.

Ne sono stati nominati altri come Kalì, Kà, Bubblegum, Boris, Klunni e Tramp, MadKing e Carmen... ma avranno ruoli marginali. In ogni caso, se decidessi di renderli più "attivi" nella storia, inserirò anche le loro brevi informazioni!
Spero che vi sia stato utile per un veloce riepilogo, visto che ho menzionato davvero molti personaggi e potreste perdere il filo o confondervi ;;
Al momento non mi vengono altri appunti da farvi riguardo al capitolo, ma se avete domande... chiedete e vi sarà dato hahaha

Fatemi sapere che ne pensate se vi va, per il resto grazie a tutti che leggete, seguite, mi scrivete! ♥
Buonanotte e alla prossima!

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Capitolo 5
*** Capitolo quarto ***


Capitolo quarto

 
 
Jonathan Anderson si passò una mano tra i capelli castano ramati. Non era semplice essere il nuovo arrivato in un reparto di forze dell’ordine come Scotland Yard. Ma Anderson aveva, alle sue spalle, un paio d’anni di servizio nella polizia di Dublino, sua città natale.
Fu un trauma quando dovette separarsi da quelle strade e quei palazzi che l’avevano visto crescere, per recarsi in una città così bella e così corrotta come Londra. L’accoglienza, poi, non era stata delle migliori: Scotland Yard faticava ad accettare nuovi membri, i suoi agenti erano veterani e ormai si conoscevano da troppi anni per accettare un nuovo arrivo. Tantomeno se quel nuovo acquisto era un giovanotto di ventisei anni, visto sotto una luce poco positiva a causa del suo essere così insopportabilmente irlandese e sorprendentemente scapolo. Ventisei anni senza moglie e nemmeno una fidanzata, quell’Anderson non doveva essere un buon partito per una donna.
In realtà, Jonathan non aveva alcuna voglia di coniugarsi. Avventure notturne, aspirava solo a quelle, e per sua fortuna era munito di un fascino elegante e simpatico, che lo rendeva una piacevole compagnia per le donne e un buon amico per gli uomini. Ma, a giudicare dalle occhiatacce che tutti quegli agenti veterani gli scoccavano nella sala adibita al ristoro, l’agente Anderson non aveva nulla da spartire con loro.
Non era neanche vero che tutti, lì dentro, lo guardassero in cagnesco. Il commissario Meyers lo trovava in gamba, considerava uno spreco il disprezzo degli altri agenti nei suoi confronti, e per aiutarlo a farsi qualche amicizia gli aveva messo vicino – come un tutor – l’ispettore Charles Burke.
Un uomo di almeno quarant’anni che conservava i capelli e baffi neri. Capelli lunghi e peluria sul viso, a Londra, venivano categoricamente evitati dal momento che c’erano stati casi in cui zecche e pulci s’infilavano nelle barbe e si annidavano tra i capelli. Ma l’ispettore Burke affermava di avere una cura maniacale per i suoi baffi, e non aveva mai preso zecche o pulci.
A Jonathan, comunque, faceva sudare il solo pensiero di avere un filo di barba in quella tremenda afa di fine aprile.

«Non mi stai neanche ascoltano, moccioso».
La voce dell’ispettore gli arrivò lontana. Dovette sbattere le palpebre più di una volta per tornare alla realtà. Non si era accorto di essere stato raggiunto da Charles Burke, aveva tenuto gli occhi fissi sulle mani intrecciate tra le gambe e la mente lontana, fuori dalla finestra.
«No, scusa» ammise passandosi una mano sul viso.
Burke gli lanciò un’occhiata di disappunto. «Ma dormi la notte? O pensi solo a fare il cretino?»
«Dipende dal mio umore» rispose con un’alzata di spalle e il sorriso sfacciato.
«Anderson, finiscila e ascoltami» schioccò le dita di fronte al viso del ragazzo.
Jonathan si passò di nuovo la mano sul viso, prima di posare il mento sul pugno chiuso, in attesa di sentire l’ispettore Burke ripetere ciò che non aveva assolutamente ascoltato.
«Abbiamo un caso».
Ora sì che Charles Burke aveva tutta l’attenzione del giovane agente. Il veterano se ne accorse dal lampo d’interesse negli occhi del ragazzo, nonostante l’ostentata noncuranza. Anche quando parlò, la sua voce si mantenne calma e tranquilla, ma l’ispettore poteva percepire la frenesia.
«Che caso?»
«Bambini scomparsi»
«L’età dei ragazzini?»
«Tutti compresi tra i cinque e i tredici anni» e gli lanciò un’occhiata aprensiva.
Qualsiasi cosa avesse a che fare con ragazzini sotto i quattordici anni, era catalogata come illegale, pedofilia o meno.
 Anderson sollevò un sopracciglio. «Ecco perché l’ha preso così tanto a cuore, questo caso»
«Già. Prima lo risolviamo, e prima potrò stare tranquillo per Jimmy»
Jonathan si alzò in piedi, strofinandosi le mani. «Bene, allora cominciamo subito. Ha già una pista?».
 


 
Non riusciva ad apprezzare del tutto Londra. Era sempre così sporca, puzzolente, malfamata. Anche i ricchi lo erano, nonostante cercassero di ostentare classe e raffinatezza mondana. In quell’afa primaverile, poi, la puzza e il caldo sembravano una cappa che impediva il respiro.
«Dio, che puzza di merda in questa città» borbottava Anderson, continuamente.
Charles Burke si limitava ad ignorarlo o scoccagli un’occhiata di vago rimprovero di tanto in tanto.
Passare il tempo con l’agente Anderson implicava sorbirsi, senza filtri e senza troppe cerimonie, tutto ciò che gli passava per quella sua testa matta. Era geniale, glielo riconosceva. Aveva un intuito paranormale quasi, una mente capace di ragionamenti veloci. Ma era giovane e tremendamente schietto; e a tratti lamentoso. Cosa che portò l’ispettore Burke a definirlo una spina nel fianco, senza fare alcun accenno alle sue qualità intellettive.
Fino a quel momento della giornata, comunque, non aveva avuto lampi di genio. Non si stava neanche impegnando con le indagini. L’ispettore si fermava nei luoghi dove erano stati avvistati i bambini scomparsi per l’ultima volta, facendo domande a chi era lì fisso: negozianti, prostitute, zingari, mendicanti. Rispondevano tutti con un’alzata di spalle, davvero frustrante. Burke non capiva se era omertà o menefreghismo, oppure non sapessero davvero.
«Scusa, ispettore. – intervenne la voce di Anderson. – Ma perché non chiede ai bambini?»
«Non voglio coinvolgerli» rispose semplicemente.
Jonathan arricciò il naso. «Non sono d’accordo, si rende conto che potrebbero essere gli unici in grado di aiutarci? Lei non li coinvolga, ma io voglio fare qualche domanda anche a loro»
«Anderson, sono minori. Lasciali stare»
«Non li devo mica rapire» replicò, asciutto.
Si avvicinò ad un gruppetto di bambini che giocavano con le biglie al lato della strada polverosa. Non avevano più di dodici anni. Quando Anderson si avvicinò, con le mani nelle tasche del cappotto, quelli smisero di ridere e lo guardarono con circospezione.
Jonathan si accovacciò tra loro, attirando gli sguardi incuriositi di alcuni passati – principalmente donne – ma ignorò tutto il resto per concentrarsi sui visi dei ragazzini. Facce scarne, con denti ingialliti e sporcizia sulla pelle, tra i capelli, sotto le unghie.
«Che ti serve?» fece uno di loro, gradasso. Probabilmente il capo della compagnia. Aveva i capelli ricci e castani, oltremodo sporchi; occhietti vispi, sulle guance una spruzzata di efelidi.
Jonathan sollevò i suoi occhi, tra l’azzurro e il verde, incontrando quelli castani del bambino. Gli sorrise. «Dovete aiutarmi, ragazzi. Davvero, ho bisogno del vostro aiuto»
«Tu sei di Scotland Yard» replicò.
«Appunto. Io e il mio compare baffone, lì dietro, stiamo lavorando ad un caso. Ma mentre lui chiede solo a tutti questi adulti rintronati, io voglio chiedere a voi. Si sa che i ragazzini stanno un passo avanti a tutti, no?»
Il ragazzino gonfiò il petto alle parole di Jonathan. «Va bene, agente. Ti aiutiamo»
«Molto gentile, come ti chiami?»
«Will»
«Io sono Jona. – sorrise ancora. – Ascolta, Will, tu bazzichi sempre da queste parti?»
«Sì, abito qui» si strinse nelle spalle.
«Quindi conoscevi un certo Robin Lewis»
Will si adombrò. «Era mio fratello»
«Che mi venga un colpo» sospirò Jonathan, passandosi la mano sul viso.
Charles Burke assisteva alle sue spalle come una tetra ombra nera, le braccia incrociate al petto con severità.
Bravo Anderson, davvero delicato.
«Ascolta, Will, te la senti di parlarne? Robin aveva comportamenti strani, conosceva qualcuno di poco raccomandabile o… non so, qualcosa di insolito…?» riprese Anderson, con più serietà.
«No, no. – scosse la testa riccioluta. – Non che io sappia»
«E del giorno della sua scomparsa? Tu c’eri?»
«C’ero. Lui è scappato. Stavamo tornando a casa, ha detto che sentiva una melodia bellissima. Si è allontanato solo per vedere da dove provenisse, ma…» scosse la testa.
Jonathan si accarezzò il viso. «Cosa credi sia successo, Will?»
Il ragazzino alzò le spalle. «Non lo so. Sono meno preoccupato di quanto dovrei, sento che è vivo e sta bene»
Charles Burke intervenne, come colto da un’illuminazione tetra. «Hai detto che sentiva una melodia bellissima. Tu la sentivi?»
Will aggrottò le sopracciglia. «No, io… forse non ci ho fatto caso. Ci sono tanti rumori»
«Da che parte è scappato?»
Il ragazzino indicò una direzione. L’ispettore si adombrò, sotto lo sguardo curioso di Jonathan. «Est. Che c’è ad est?»
«Il circo».
Anderson aggrottò le sopracciglia senza capire, ma si limitò a dare una pacca sulla spalla di Will e consolarlo, promettendogli che avrebbe ritrovato il fratello. Poi, mentre Charles Burke fumava la sua pipa, Jonathan comprò alcuni dolci per quei ragazzini. Comprò un paio di caramelle anche per sé e l’ispettore.
Forse smetterà di essere così acido.
Ne scartò una e la infilò in bocca, felice che fosse al gusto di arancia.
«Gliel’avevo detto, ispettore, che potevano darci una mano. Visto? Ora abbiamo una pista» si crogiolò nel suo piccolo trionfo.
Burke era cupo come un becchino. «Dannati fenomeni da baraccone»
«Non credo che dovrebbe accanirsi così tanto, non ha prove per accusare i circensi. – alzò le spalle, accomodante. – Secondo me dovremmo prima fare altre domande ad altri ragazzini, prima di sentire cos’hanno da dire al circo».
L’ispettore grugnì qualcosa di incomprensibile, ma Jonathan sorrise capendo che, tutto sommato, quel maledetto brontolone gli stava dando ragione. 





 
Ommioddio ma quanto tempo è passato? Anche troppo.
A mia discolpa posso dire che non mi sto comportando bene nemmeno con le altre storie, le sto lasciando quasi tutte brutalmente abbandonate. Tra lo studio, le relazioni, la tecnologia che mi odia, l'ispirazione che va e viene... ecco che alla fine aggiorno una volta ogni morto di papa.

Questo capitolo è corto, terribilmente corto.
"Ci fai aspettare secoli e secoli, e poi manco un capitolo lungo ci tiri fuori".
Già, dà fastidio anche a me. Ma mi sentivo ispirata, quindi carpe diem.
La storia non è molto lunga, secondo i miei calcoli (?), per questo siamo già arrivati all'accenno delle sparizioni dei bambini. E di conseguenza a questo, vediamo entrare in scena sia il padre di Jimmy che un nuovo personaggio, Jonathan! Così fastidiosamente Irish ♥

Non credo che per il prossimo aggiornamento vi farò aspettare troppo a lungo. O almeno, ci conto. Approfitto dell'ondata di ispirazione per scrivere, che è meglio!

Se vi va, lasciatemi un parere! Grazie a tutti, alla prossima ♥

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Capitolo 6
*** Capitolo quinto ***


Capitolo quinto
 
 
Sta correndo. Si trova nella radura che separa l’area in cui sono montati i tendoni, da quella in cui ci sono le carovane. Lo spiazzo in cui di tanto in tanto lasciano liberi i cavalli o gli animali più mansueti, soprattutto con l’arrivo della primavera.
È notte, sta correndo e le sembra di non arrivare mai al Tempio, l’unico luogo sicuro, come se la radura non avesse una fine. Ha paura, una paura tremenda e primordiale. Non sa bene da cosa stia scappando, sa solo che deve correre. I muscoli delle cosce bruciano per lo sforzo, i polmoni minacciano di lasciarla senza fiato.
Inciampa su una radice, cade rovinosamente in avanti ma non si ferma. Striscia, gattona, traballa per rimettersi in piedi. Ma forse è troppo lenta, perché una morsa d’acciaio le serra il braccio; il suo primo istinto è voltarsi e difendersi. Ma quando gira la testa, tutto ciò che vede è un’ombra più nera della notte, delineata per assumere le fattezze umanoidi, e occhi rossi che brillano come lanterne fiammeggianti. Ciò che più la terrorizza, è la bocca mostruosamente aperta a mostrare denti lunghi come coltelli. Eppure così ipnotici… così ipnotici…
 

«..-rsia? Persia!»
La ragazza strinse le palpebre, mugolando di disappunto. Poi si decise ad aprire gli occhi, incontrando lo sguardo divertito di Prittle. L’amica è seduta ai piedi del letto, già vestita per le prove generali prima dello spettacolo serale.
Persia aveva approfittato dell’assenza di clienti quel pomeriggio per riposarsi un po’. Non c’era riuscita come avrebbe sperato, aveva fatto un sogno strano. Era così reale, le sembrava di sentire ancora quella morsa sul braccio. Istintivamente lanciò un’occhiata, scoprendo con orrore che c’era il segno di cinque dita rosse appena sotto il gomito.
Era reale? Ma come…?
«Stiamo aspettando te, alzati, lavativa!» la riscosse la trillante voce di Prittle.
Persia rabbrividì e si alzò in piedi, tirando verso il basso le maniche della camicia che si erano arricciate sopra il gomito. Doveva assolutamente parlare con Faust.
Ciò che si erano detti quella sera, dopo il racconto sul Samhain, l’aveva allertata nonostante non ci fosse molto per cui stare attenti. Faust affermava che le incongruenze nei Tarocchi e sulle Carte Astrali, erano dovute ad uno squilibrio che stava per travolgerli tutti. Ma non c’erano ancora segni concreti di “squilibrio”.
Prittle scostò la tenda, facendo entrare Persia nel cerchio di polvere e fieno. C’erano tutti, ognuno stava ripassando il suo numero. C’era Alegria che faceva esibire Mune in numeri semplici e divertenti, per poi darle un biscottino; Kalì era impegnata nel lancio dei coltelli; Dolly stava sciogliendo i muscoli per il trapezio che avrebbe eseguito con Prittle; Bubblegum si prodigava in una serie di pose impossibili, che la facevano sembrare di gomma; Diablo lanciava e riacciuffava birilli, annoiato nel fare il numero da giocoliere; Klunni e Tramp sistemavano i fili alle marionette; Faust si divertiva con banali giochi di prestigio a Boris, che teneva sollevata una palla di metallo da duecento chili come se fosse la cosa più naturale al mondo. Persia non vide Kà, ma intuì che fosse andato a recuperare i suoi leoni.
Quando la ragazza passò di fianco a Faust, abbassò la voce: «Ho fatto un sogno»
«Era tanto brutto?»
Lei non rispose, alzò la manica per mostrargli il segno delle dita sull’avambraccio. Non erano più rosse, ma cominciavano ad assumere un colore violaceo. Gli scoccò un’occhiata eloquente, e lui la guardò apprensivo.
«Mio dio, Persia. Sicura fosse un sogno?»
«Sì, non ho dubbi. Ma… come?»
Faust infilò le carte nella tasca della giacca, mentre con un braccio cingeva le spalle della ragazza che aveva cresciuto come una figlia. «Ci sono forze capaci di eludere ogni protezione, ogni barriera, fosse anche del sonno. Mi chiedo solo perché. Perché te?»
Era una domanda retorica: se non lo sapeva Faust, non poteva di certo saperlo lei. Persia fu percorsa da un brivido d’angoscia al pensiero che era finita nel mirino di una qualche entità capace addirittura di eludere le barriere del sonno. Aveva paura, era innegabile. Decise che avrebbe spostato le sue cose nel Tempio, una volta per tutte. O almeno finché la situazione non si sarebbe placata.
 
 


Dopo le prove generali, ci fu lo spettacolo.
Di solito in primavera il pubblico era sempre molto folto, pieno d’allegria e di bambini. Eppure, stavolta, gli spalti erano quasi del tutto vuoti. Ancor più preoccupante, era la totale assenza di bambini. Dietro le quinte, Dolly ed Alegria restarono amareggiati nel non vedere Jimmy seduto in prima fila, come aveva promesso.
Prittle era tremendamente agitata. Faceva avanti e indietro di fronte alle toelette per il trucco, insicura sulla reazione del pubblico. Erano pochi, non manifestavano nemmeno un po’ d’entusiasmo. Gli artisti, semplicemente, non vedevano l’ora che lo spettacolo finisse. Cercarono di mantenere una facciata allegra e coinvolgente, sperando di sollevare gli animi e strappare un sorriso.
Solo uno, in cima agli spalti, si azzardava a battere le mani. Era accompagnato da un altro individuo, che tuttavia non si muoveva.
«Lei ha troppi pregiudizi, ispettore. Si diverta!» sbottò allegramente Jonathan, appena finì il suo applauso solitario.
«Sei l’unico qui che si sta divertendo, Anderson. Guardati intorno» brontolò Charles Burke, senza trasporto.
«Già, che banda di musoni. – si sporse in avanti per rivolgersi ad una signora di mezz’età. – Madame, lei non trova delizioso questo spettacolo?»
Lei gli scoccò un’occhiataccia, e Jonathan venne tirato indietro dall’ispettore. «Oh, Anderson, smettila. Siamo qui per studiare questi fenomeni da baraccone, non importunare le signore!»
«Le loro attività non si limitano a questo. Ci sono il tendone della chiromante e quello per i bambini»
«Lo so» replicò, asciutto.
«Indaghiamo anche lì, ispettore?»
«Che domande, Anderson, è chiaro!»
«Bene, io vado dalla chiromante. È quella ragazza che ballava la danza del ventre tra una pausa e l’altra. Non male, non trova?»
Burke si passò le dita sugli occhi, esasperato. «Sii un minimo professionale. Un minimo».
Jonathan ridacchiò sommessamente, mentre si alzava in piedi e seguiva il flusso di persone che scendevano dagli spalti e usciva dal tendone.
 

Persia si tolse gli abiti di scena. Indugiò per un momento guardando i lividi sul braccio, in apprensione, ma si riscosse subito. Non aveva senso rimuginarci su, quella notte avrebbe dormito al Tempio e non sarebbe successo nulla. Lì era al sicuro.
Indossò la camicia con le maniche larghe e un corsetto di cuoio scuro; la gonna color mogano, con toppe qua e là, e un pezzo di stoffa colorato legato ai fianchi per dare una nota di vivacità al completo tetro.
Uscì dal retro del tendone, mentre la gente era ormai fuori dal cancello, e con un sospiro si avviò al Tempio. Restò sorpresa nel vedere qualcuno ad aspettarla lì di fronte.
Per un momento le brillarono gli occhi: nonostante la serata fosse stata un disastro, qualcuno era interessato ai suoi servizi di chiromante.
Si avvicinò e gli posò una mano sulla spalla. Quando lui si voltò, Persia incrociò due occhi tra il verde e l’azzurro, chiari persino con il buio. I capelli castani uscivano disordinati dai bordi del berretto. Le sorrise affabile, tendendole la mano.
«Madame, molto lieto»
Lei ricambiò il sorriso. «Venga, si accomodi».
Persia scostò la pesante tenda viola che fungeva da ingresso, e subito spostò anche quella cascata di fili intrecciati a perline di vetro colorato. Nonostante fosse buio, la ragazza sapeva esattamente come muoversi per accendere le candele, illuminando il piccolo spazio.
Sul fondo, c’era un’altra cascata fili e perline di vetro, che faceva da separatore per una piccola porzione di tenda. L’uomo intravide coperte e un cuscino, segno che c’era un cantuccio. Di fronte al “separatore”, c’erano due cuscini colorati divisi da un tavolino basso su cui erano posate due candele e alcuni monili. Tutt’intorno c’erano piccoli mobili che ospitavano, sulle mensole, statuette, icone, simboli, candele, libri. Aveva l’impressione di essere entrato in un santuario, ma non gli era chiaro a quale divinità fosse dedicato. C’erano oggetti sacri da ogni dove. Lui aveva studiato, poteva dire che molti di essi provenissero da Paesi del Medio Oriente, in quanto erano simboli islamici o zoroastriani. C’erano anche simboli ebraici, cristiani, induisti, buddisti, anche pagani.
Le scoccò un’occhiata, lei era intenta ad accendere l’incenso. Subito lo spazio si profumò della fragranza.
«Si sieda, i cuscini sono comodi» gli sorrise, con una punta di divertimento. Gli sembrava uno stoccafisso, lì in piedi.
Lui obbedì, incrociando le gambe e togliendosi il berretto. Alla luce delle candele, i capelli castani assumevano riflessi ramati.
«Benvenuto nel Tempio di Gipsy. – continuò lei. – Gipsy sono io, ma può chiamarmi anche Persia, se lo desidera».
Jonathan non riusciva a non ricambiare il sorriso. Lei aveva quella bellezza esotica, era così diversa dalle donne inglesi. Gli sembrava quasi una creatura mitologica. Non si sarebbe stupito nel sapere che al suo passaggio, per strada, gli uomini si giravano a guardarla. Era diversa, attirava l’attenzione.
«Non sei inglese. Anzi, non sei europea» constatò, inclinando la testa da un lato.
In quella tenda non c’era niente di strano che potesse ricondurre ai rapimenti dei bambini. Era semplicemente un ambiente mistico, misterioso, ancestrale.
Persia gli scoccò un’occhiata ironica. «Cosa vuole che faccia per lei? Lettura dei Tarocchi, Carta Astrale, lettura della mano..?»
«La mano, per favore»
«Non sono europea, no. – gli rispose, infine. – I miei genitori erano persiani, ma mia madre era anche zingara»
«Teheran?»
«Shiraz» lo corresse con un sorrisetto, mentre con un cenno lo invitava a porgerle la mano.
Jonathan obbedì. «Mi dispiace che lo spettacolo non sia andato bene»
«Può succedere» alzò le spalle simulando noncuranza.
Poteva succedere, era vero, ma ciò non li faceva sentire meno umiliati e frustrati.
Lui percepì una punta d’amarezza nella sua voce. Parlava con uno strano accento sulle parole, che a questo punto capì dovesse essere persiano, e contribuiva a renderla così distante dalla realtà che si vedeva fuori.
«Forse è per via dei bambini che stanno sparendo da Londra» disse, senza inflessioni nella voce. La guardò con la coda dell’occhio, scrutando attentamente la sua reazione.
Persia sollevò lo sguardo su di lui, sorpresa e confusa. Le sembrò che quegli occhi, allegri e vispi, fossero diventati lastre di ghiaccio. «Stanno sparendo dei bambini?»
«Sì. Tra i cinque e i tredici anni. Strano che non l'abbiate notato, ho visto che avete un tendone appositamente dedicato per i laboratori rivolti a loro»
«No, io… Non me ne occupo, non potevo saperlo» scosse piano la testa, facendo ondeggiare i capelli neri.
«Ma certo, lo capisco».
Bambini scomparsi. Questo spiega tutto, pensò Persia con l’angoscia nel cuore.
L’assenza di bambini durante lo spettacolo, la diffidenza del pubblico scarno. Che gli squilibri di cui parlava Faust cominciassero dai ragazzini? Perché proprio loro, poi?
«Allora, cosa ti dice la mia mano?» la incalzò Jonathan, riscuotendola.
I suoi occhi chiari sembrarono addolcirsi di fronte a quell’espressione confusa.
La vide scuotere la testa come a scacciare un brutto pensiero, e gli tastò la mano saggiandone la consistenza. Gli sembrò più rilassata, ma poteva solo immaginare che fosse una facciata. Persia aveva mille pensieri per la testa, la maggior parte dei quali cupi. Quel sogno, gli squilibri, i bambini scomparsi, gli spettacoli che andavano male…
«Una mano mista. Lei è una persona versatile, capace di assimilazione rapida e immediata. Sa cogliere l’essenziale di ogni problema e sa risolverlo con abilità e prontezza. Ha buone capacità di immedesimazione, e con molte probabilità è dotato di un intuito quasi da sensitivo», si sentì dire, quasi la voce non fosse neanche la sua.
Jonathan sorrise. «È una scienza esatta?»
«Chissà» replicò lei, ricambiando il sorriso con una nota d’astuzia. Gli ricordò un felino, sul punto di fregare il topo.

Persia si prodigò nella spiegazione di ogni dito, e ciò che la forma di essi indicava. Gli disse che le dita erano collegate ai pianeti, che erano qualità o difetti a seconda delle conformazioni e misure, in rapporto con tutto il resto.
Passò poi alle linee sulle mani, indicandogli ognuna dove si trovasse e il significato che avesse in base alla forma. Alcune erano intrecciate, come se formate da un doppio filo, altre nitide e pulite come tagli. Persia gli parlò delle linee della vita, della testa, del cuore, del destino, della fortuna e della salute. Poi controllò la cosiddetta linea rascetta, o “braccialetto” in quanto si trovava tra il palmo e il polso, e gli “anelli”. Gli anelli erano due: l’anello di Venere, che indicava sensibilità e carisma; e l’anello di Salomone, segno distintivo di chi aveva capacità divinatorie, latenti o meno. Sia Persia che Faust lo possedevano, un’ansa formata dalla linea del cuore che si avvolgeva intorno all’indice. Jonathan possedeva un marcato anello di Venere.
Riprese spiegandogli i “monti” sui palmi delle mani. In sostanza si trattava dei cuscinetti alla base delle dita, più altri due.
Persia sorrise alzando lo sguardo su di lui: «Monte di Venere pronunciato: passioni eccessive, forte vitalità. Monte di Giove ben disegnato: natura gioviale, orgogliosa, ambiziosa e dominatrice».
Jonathan alzò le spalle, ma in realtà non stava poi ascoltando molto di quello che lei diceva.
Per ultimo Persia si impegnò nella ricerca dell’ultimo elemento che completasse la lettura: i segni modificatori. Individuò le cosiddette stelle e triangoli, spiegandogli il significato.

Jonathan non credeva a certe storielle, ma lo incuriosiva ascoltare di queste pratiche.
Capiva che lei doveva lavorare, non poteva farle perdere tempo con domande e osservazioni sui bambini. Anche perché si sarebbe insospettita. L’aveva trovata inizialmente turbata, poi rilassata mentre gli spiegava ogni cosa riguardante la mano. Ma soprattutto gli era sembrata sincera.
Persia lo lasciò andare, inclinando la testa da un lato. «Lei non crede nella chiromanzia», e non era affatto una domanda. Si era accorta dell’atteggiamento distratto di lui, del suo così minimo interesse in ciò che diceva. Anzi, sembrava molto più concentrato a studiarla che ad ascoltarla.
Jonathan posò il mento sul palmo della mano. «No. Eppure ci hai preso, Gipsy»
Lei sorrise, come se avesse appena ottenuto una vittoria. «Lo immaginavo. Se non ci crede, perché è qui?»
Si morse l’interno della guancia, come faceva quando rifletteva su cosa dire o fare… quelle rare volte in cui lo faceva, almeno, visto che Jonathan Anderson non era abituato ad elaborare strategie. Preferiva l’improvvisazione. «Forse, e ribadisco forse, una fanciulla ha attirato la mia attenzione. E l’unico modo per parlare era farmi leggere la mano».
Persia non si tradì. Solo un’ombra sembrò attraversarle lo sguardo, e Jonathan capì che non gli aveva creduto neanche per un istante. Eppure sorrise. Un po’ lo destabilizzò: pregustava il momento in cui lei sarebbe arrossita, avrebbe sfarfallato le ciglia e abbassato lo sguardo. Invece si era limitata a sorridere, e si sentì trattato come un povero scemo a cui si dà il contentino.
«Chissà che magari la suddetta fanciulla non abbia risvegliato una curiosità per la chiromanzia, checché lei ne dica»
«Chissà» mormorò, senza tradirsi.
«Sono cinque sterline, comunque».
Jonathan strinse appena le labbra, ma annuì. Estrasse delle monete dalla tasca dei pantaloni, le contò velocemente e le posò sul tavolino facendole tintinnare.
Sorrise a Persia, che gli strizzò l’occhio senza sbilanciarsi in sorrisi ampi. Aveva l’atteggiamento astuto e languido come quello dei felini, ma non scortese né antipatico. Per Jonathan sarebbe stato quasi un piacere farsi fregare da lei.
Cosa poteva aspettarsi da una donna che aveva vissuto con la consapevolezza di doversi sempre guardare le spalle dal resto del mondo? Non avrebbe abbassato la guardia così facilmente alle adulazioni o al primo sorriso da rubacuori.
La vide prendere le monete e lasciarle cadere in un sacchetto di cuoio, richiudendolo con un laccetto. Jonathan si alzò in piedi, subito imitato da Persia.
«È stato un piacere, madame» ed esibì un elegante baciamano.
«Arrivederci, Jonathan».
Lo vide poi sparire oltre i fili di perline e oltre la pesante tenda viola. Si grattò il mento, incerta, e prima che potesse uscire per raggiungere Faust, fu lui a raggiungerla.
Aveva l’aria concitata e le dita sporche di gesso. Persia lo guardò sollevando un sopracciglio.
«Che hai fatto?»
«Oh, simboli. Sai, sigilli di Salomone e cubi di Metatron. – liquidò il discorso con un gesto della mano. – Insomma, chi era?»
«Dice di chiamarsi Jonathan. Sembra un poliziotto, ma se fosse non deve avere molta esperienza. - incrociò le braccia al petto e alzò le spalle. – Mi ha detto che stanno sparendo i bambini, Faust. Tra i cinque e i tredici anni. Bisognerà stare attenti a Dolly ed Alegria».
Faust s’incantò. Lo sguardo fisso sulla debole luce colorata emanata dalle perline di vetro, ma non la vedeva davvero; aveva gli occhi vacui, la mente distante. Il corpo si era irrigidito, paralizzato.
Persia aspettò che il vecchio mago tornasse in sé. In quel momento stava cercando di ricordare qualcosa, probabilmente, oppure le vibrazioni sui diversi livelli di realtà lo stavano raggiungendo.
Batté le palpebre ripetutamente, riacquistando vitalità nello sguardo. Lanciò un’occhiata a Persia, ma non le disse nulla. Scosse la testa e sgusciò fuori dalla tenda in fretta, come se stesse prendendo fuoco.
Lei sospirò, improvvisamente esausta, e decise di andare a dormire, fortunatamente protetta dall'energia del Tempio.
 
 
Charles Burke attendeva Jonathan fuori il cancello dell’Imaginaerum. Lui, per sua sfortuna, non aveva trovato i responsabili del Teatro delle Pulci, ma solamente il ragazzino zingaro amico di Jimmy, Alegria. L’aveva salutato con energia, gli aveva chiesto del figlio e di portargli i suoi saluti. Ma l’ispettore doveva lavorare, e per un momento si chiese come si sarebbe comportato Anderson nella sua situazione: amichevole. Come poteva Charles Burke essere amichevole con uno zingaro? E come poteva farlo se era convinto che il circo, di cui faceva parte il suddetto zingaro, era coinvolto nel caso dei bambini scomparsi? Si limitò a fargli qualche domanda a riguardo, e il ragazzino gli sembrò turbato da quella notizia. Come non poteva? Alegria aveva proprio tredici anni. Poteva essere preso di mira.
Non aveva cavato un ragno dal buco, comunque, e questo lo indispettiva.

Jonathan Anderson fece capolino dal cancello. «Sono stato professionale, lo giuro»
«Non ti credo neanche un po’» replicò l’ispettore, dandogli le spalle per cominciare a camminare. Il ragazzo scoppiò a ridere, e gli chiese come fosse andata la sua indagine. Burke raccontò velocemente l’accaduto, senza dilungarsi troppo.
«Ah, un buco nell’acqua insomma» constatò Anderson sghignazzando.
L’ispettore lo fulminò con un’occhiata. «Immagino che tu invece abbia persino ritrovato i bambini, non è vero?»
«Come è acido, ispettore! Mi sono fatto leggere la mano, ho parlato con la chiromante. Insomma, se non altro ho conosciuto una bella signorina»
L’altro alzò gli occhi al cielo. «Scoperto qualcosa?»
«Non aveva idea dei bambini scomparsi. – scrollò le spalle. – A quanto dice, almeno, ma mi sembrava sincera»
«Non ti fidare della gente di spettacolo, Anderson. Lei è una chiromante, che equivale ad essere una ciarlatana, una truffatrice. Quella è più furba di te».
Jonathan ripensò a come l’aveva liquidato, a quell’ombra che le aveva attraversato lo sguardo facendogli capire che non credeva ad una parola di quello che diceva. Si ritrovò a sorridere appena ed alzare le spalle. «Non ho calcato troppo la mano, poteva insospettirsi e doveva comunque lavorare, quindi da quel poco che ho potuto ascoltare in merito al caso dico solo che mi è sembrata sincera. Che è più furba di me non lo metto in dubbio».





 
Spero che almeno questo capitolo sia venuto un po' più lungo di quello precedente hahahah
Buonasera! Wow, non vi ho fatto aspettare per niente stavolta, miracolo. Sto cavalcando l'onda dell'ispirazione xD
Anderson e Burke hanno già cominciato ad indagare sui circensi, anche se il primo lo fa a modo suo HAHAHAH! Mi sono seriamente trattenuta dallo scrivervi tutta l'analisi della mano di Anderson, ma sarebbe risultato noioso - immagino - e inutile ai fini di trama - sicuramente -, perciò ho evitato! 
ed ecco quindi che i filoni del circo e quelli di Scotland Yard si toccano per la prima volta, tramite Persia e Jonathan. E adesso non potranno far altro che stare in allerta, anche sognare è diventato pericoloso! 
* voce da narratore di Leone il Cane Fifone * Cose strane succedono all'Imaginaerum, e tocca a Faust proteggere la sua grande famiglia.

Se non vi è chiaro qualcosa chiedete, e se volete lasciate un parere! Grazie a tutti, alla prossima ♥

 

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Capitolo 7
*** Capitolo sesto ***


Capitolo sesto
 
 
 
«Gesù, Anderson, ma perché non dormi la notte?» si lamentò, esasperato, l’ispettore Burke.
Scosse il giovane agente per una spalla. Jonathan aveva lo sguardo fisso nel vuoto, non dava cenni di vitalità e sembrava che le sue iridi azzurro-verdastre fossero opache, non brillanti e vivaci come al solito. Non ci volle certo un genio per capire che stava dormendo ad occhi aperti. Una cosa che aveva imparato a fare ai tempi della scuola, durante l’adolescenza, ma che – a pensarci bene – non portò grandi benefici ma più note disciplinari e preoccupazioni dei genitori.
Troppi pensieri affollavano la brillante mente di Jonathan, non dormiva mai così bene.

Dopo l’ennesimo scossone di Charles Burke, sembrò finalmente destarsi dal torpore con uno sfarfallio di ciglia. «Che mi sono perso?» si stiracchiò, come se si fosse appena svegliato da un lungo sonno ristoratore.
L’ispettore evitò persino di commentare o rimproverarlo ulteriormente. «Sono arrivati dei documenti dalle questure delle principali città europee»
«Fantastico, che ce ne facciamo?» sorrise sornione, continuando a stiracchiarsi.
«Non farmi prudere le mani, Anderson, è già tanto se non ti ammonisco per esserti addormentato durante il tuo orario di lavoro»
«Scherzavo. – si difese, alzando le mani. – Che documenti sono arrivati?»
«Qualcosa che riguarda il circo» e gli fece cenno di seguirlo nel suo ufficio.
Jonathan si alzò in piedi controvoglia e sospirò. «Ancora? Non ci sono prove che l’Imaginaerum c’entri con i rapimenti».
Charles Burke gli tenne la porta aperta per farlo passare, e l’agente si lasciò sfuggire un sarcastico “Grazie” accompagnato da un sorrisetto compiaciuto. Si accomodò di fronte la scrivania, mentre l’ispettore dietro, ed estrasse, da un cassetto lì in basso, una cartellina foderata di pelle nera. Non era piena come si aspettava, ma c’era una bella quantità di fogli.

«Questi sono tutti i documenti che li riguardano. – esordì, eloquente. – Loro hanno girato tutta l’Europa, e il loro percorso è stato generalmente tranquillo. L’ultima città in cui soggiornarono prima di Londra, fu Southampton. Ma nel corso delle loro tournée, in alcune città, ci sono stati eventi strani, violenti»
Jonathan intrecciò le dita sul ventre, stravaccato sulla sedia. «Del tipo?»
«Le città in questione sono Bucarest, Berlino, Roma, Parigi. E ora mettici anche Londra. – spiegò. – A Bucarest, nel 1850, tutti i bambini di un orfanotrofio sono stati trovati morti una mattina. Tutti insieme, all’improvviso, senza motivo. Dall’autopsia non risultò nulla, ci credi? Erano semplicemente passati a miglior vita»
«Questo sì che è inquietante, ma non c’entra niente con il circo»
«Dici di no, Anderson? Il circo si trovava lì proprio in quei giorni»
«È uguale, non c’entra niente. – replicò. – Non possono essere coinvolti in un’ondata di morte del genere, è impossibile. E poi perché avrebbero dovuto prendere di mira un solo orfanotrofio? Nell’autopsia non hanno trovato niente, e poi sarebbe stato difficile non trovare subito i colpevoli se si fosse trattato di una specie di sterminio di massa entro le pareti di un orfanotrofio»
«No, ma concorderai con me sul fatto che è una coincidenza alquanto bizzarra»
«Vai avanti»
«Berlino, 1878. Qui è coinvolta una dei fenomeni da baraccone, indovina chi? La chiromante. Una famiglia proveniente dalla Persia. Persiani tutti e tre, ma la donna era di origine zingara di etnia Dom. Il circo è in città, tieni conto questo. I due coniugi periscono sotto l’odio improvviso di una banda di adolescenti: vengono presi a sassate e, dopo morti, i loro corpi vengono bruciati in un vicolo berlinese. L’unica superstite è la figlia quattordicenne che viene fortunatamente trovata dal grande mago Faust, il fondatore dell’Imaginaerum, nientemeno. Sai cosa si dice di Faust?»
«Che ha fatto un patto col Diavolo. – alzò gli occhi al cielo. – Non credo in queste storie»
«Faust dispone di uno specchio magico, lo sapevi?»
Jonathan aggrottò le sopracciglia con un cipiglio vagamente divertito. «A quanta gente ha chiesto riguardo la reputazione del mago, ispettore?»
«Non è questo il punto. – lo liquidò. – Si vocifera che Faust abbia fatto un patto col Diavolo, e che insieme a poteri magici e capacità occulte, abbia ricevuto in dono anche questo specchio in grado di fare cose incredibili. Le persone vi entrano e si ritrovano in mondi fantastici, vedono nel riflesso profezie e premonizioni, angeli o demoni»
«Non ci credo. - si limitò a dire Anderson. – Insomma, persone che entrano in uno specchio? Sul serio? Concorderà con me se le dico che c’è sotto un trucco, non può essere uno specchio vero. Ciò che vedono nel riflesso, invece, potrebbe solo essere frutto di suggestione»
«Fatto sta – continuò l’ispettore, ignorandolo – che a Roma nel 1880, quando il circo era in città, ci fu un caso d’isteria di massa. Il popolo vedeva mostri e demoni terrificanti nei riflessi degli specchi, non potevano dormire con uno specchio in camera proprio perché, dicevano, i mostri si approfittavano del loro sonno per uscire dalla dimensione imposta dall’oggetto. Fu catalogato come isteria di massa, e archiviato. Non venne più preso in considerazione poiché nessuno crede nei demoni, Anderson, tu per primo, e perché le crisi terminarono quando il circo se ne fu andato»
«Questo è inquietante, un ottimo racconto dell’orrore da narrare di fronte al camino la notte di Halloween» abbozzò un sorriso sarcastico.
«Parigi, 1870. – riprese Burke. – Due circhi in città, l’Imaginaerum e il Cirque de la Mer. Quest’ultimo, durante il suo spettacolo di debutto a Parigi, prese fuoco. Nessun superstite, né tra gli artisti e né tra il pubblico»
«Tragica coincidenza. Come fa ad essere immischiato l’Imaginaerum, se magari in quel momento i suoi artisti erano impegnati in uno dei loro spettacoli?»
«Non sto dicendo che l’Imaginaerum era colpevole di tutte le stranezze, dico solo che sono coincidenze troppo bizzarre. Ogni evento nefasto in queste città si è verificato nel periodo in cui era presente il nostro circo. E guarda caso, ora che sono a Londra, spariscono bambini in dinamiche strane» richiuse la cartellina con uno scatto, spazientito dallo scetticismo e le obbiezioni sempre pronte dell’agente.
Jonathan alzò gli occhi al cielo. «Nelle altre innumerevoli città visitate non è successo. Io dico che sia una coincidenza, strana certo, ma pur sempre una coincidenza»
Burke si alzò in piedi, posò le mani sulla scrivania e sospirò. L’agente non l’aveva mai visto così stanco e turbato. «Anderson, non crederci, va bene. Ma pensaci. Colpevole o no, quel circo è l’unica pista che abbiamo e sono i maggiori sospettati».


 
 

 
Nel pomeriggio, Jonathan Anderson si aggirò per le strade dell’East End quasi traballando di noia. E la noia non faceva che aumentare la sua stanchezza. Nonostante questo decise comunque di fare ulteriori domande ai bambini che giocavano in strada, riguardo quelli scomparsi. Erano arrivati a quota quindici. Erano davvero troppi, un quantitativo incredibile. Il suddetto rapitore doveva essere un abile maestro nell’attirare l’attenzione dei più giovani, se riusciva a farli avvicinare senza difficoltà.
Le testimonianze erano poche, e tutti dicevano la stessa cosa: “Ha sentito una melodia bellissima ed è andato verso est. Io non l’ho sentita, però, forse ero distratto oppure c’era troppo rumore”.
Questo fece pensare al giovane agente che il rapitore era, forse, selettivo nella scelta dei bambini. Forse aveva un criterio di scelta. Ormai Anderson conosceva a memoria i nomi e le caratteristiche fisiche principali di tutti quei fanciulli scomparsi, e non avevano niente in comune l’uno con l’altro, nemmeno la classe sociale, le origini o il sesso. E se fosse stata una caratteristica interiore? Un tratto caratteriale, magari. In tal caso, il rapitore doveva essere qualcuno che conosceva abbastanza bene tutti quei ragazzini. Un pediatra o un insegnante, poteva essere possibile.
Seduto su una panchina al lato della strada, con alle spalle il placido Tamigi, Jonathan trascriveva i suoi pensieri e le sue considerazioni su un taccuino. Le pagine ingiallite erano coperte da fitti tratti di matita che prendevano la forma di parole apparentemente indecifrabili, in una grafia disordinata e incomprensibile a chiunque tranne che al suo possessore. Meglio, si diceva Anderson, così nessuno può frugare nella mia testa.

«Jonathan?» una voce femminile lo riscosse dalle sue riflessioni.
In fretta, l’agente passò in rassegna tutti i ricordi uditivi per cercare tra essi la proprietaria di tale voce. Fu un secondo di troppo, ma non la trovò, e si costrinse a sollevare la testa incontrando due occhi ambrati. Il languore malizioso dei felini.
La chiromante dell’Imaginaerum indossava una gonna marrone scuro e un corsetto di cuoio sopra una camicia color bianco sporco, dalle maniche larghe che tornavano a stringersi sui polsi. Sul capo portava un velo pesante, ripiegato morbidamente sulle spalle, e da cui sfuggivano i capelli scuri.
«Ah, Gipsy» le sorrise, alzandosi in piedi e infilando il taccuino nella tasca della giacca.
Lei gli scoccò un’occhiata divertita, indicando i gradi cuciti sulla spalla della giacca. «Lo sapevo che era uno sbirro, Jonathan, si vede lontano un miglio»
Il giovane agente si strinse nelle spalle, con aria colpevole, e si accorse di un cestello di vimini che lei teneva sul braccio piegato come una contadinella. «Che cos’hai lì?»
«La spesa per il Tempio. – rispose. – Ho pagato tutto, se è questo che le interessa»
«Non volevo mettere in dubbio la tua onestà» ridacchiò.
Persia lo scrutò con attenzione, soppesandolo con lo sguardo, come se qualcosa non le tornasse. «Che cosa ci faceva all’Imaginaerum? Abbiamo fatto qualcosa di sbagliato, agente
«Questo bisogna ancora appurarlo. – le rispose, onestamente. – È per via dei bambini scomparsi»
Lei sistemò il velo sul capo, con disinteresse. «Non è molto astuto dirmelo. E se fossimo davvero gli artefici dei rapimenti?»
«Io credo – replicò, tranquillo – che voi celiate qualcosa di strano. Ma non credo che siate coinvolti in questa losca faccenda».
Jonathan ripensò agli eventi bizzarri avvenuti nelle città europee, in particolare sull’impeto d’odio che mosse quegli adolescenti berlinesi a lapidare i genitori della chiromante. Era sicuro che un tormento sordo le appesantisse l’animo, a dispetto di quanto mostrava. Erano passati dieci anni dal 1878, la quattordicenne che allora era una figlia di nessuno, senza arte né parte, era stata cresciuta dalle mani del mago Faust, nientemeno. Era diventata una chiromante, un’abile ciarlatana lettrice dell’animo della gente, e di certo non perché scrutava le carte astrali o i palmi delle mani.
La vide arricciare gli angoli delle labbra, in quel suo modo un po’ felino. «Non credo che qualcuno darà conto alle sue considerazioni, Jonathan. Non perché è uno stolto, ma perché è l’unico che lo pensa. Da quando sono cominciati i casi di sparizioni e Scotland Yard ha avanzato l’ipotesi che siamo noi i colpevoli, le cose ci vanno male e il popolo ci detesta. Un po’ detesta anche voi della polizia, in realtà, perché non avete ancora cavato un ragno dal buco»
«Ci stiamo dando da fare» si difese.
«Non lo dubito. Allora, questi bambini?»
Jonathan la squadrò, cercando di decidere se dirglielo o meno. Jonathan Anderson gliel’avrebbe detto, per cercare un confronto con una ragazza di mondo, ma l’agente di Scotland Yard non era sicuro che sarebbe stato saggio rendere partecipe una dei sospettati.  Eppure lei aveva quello sguardo ipnotico, che avrebbe spinto qualsiasi persona a rivelarle i suoi segreti.
«Mh… Testimoni dicono che si allontanavano per ascoltare una melodia, venivano attirati da quella» si limitò a dirle. Per sgrullarsi di dosso il pensiero di aver fatto una sciocchezza, si diceva che le aveva solo rivelato le dinamiche del rapimento. Se l’Imaginaerum era davvero l’artefice di questo triste caso, quelle modalità le conosceva. Non le avrebbe rivelato altro.
Si era sempre reputato un ragazzo brillante, con intuizioni geniali, ma in presenza di Gipsy Persia si sentiva a disagio. Era una ciarlatana, ma c’era qualcosa di strano in lei.
«Come la fiaba del Pifferaio Magico» commentò semplicemente, la chiromante.
Jonathan si fermò vicino alla ragazza, colto da una vaga intuizione che avrebbe richiesto altri collegamenti e altre informazioni. «Un tributo di sangue, un pagamento»
«Dipende. – replicò con voce piatta. – Ci sono città talmente antiche, o dalle strade talmente insozzate di sangue innocente, che attirano forze. Vi si annidano energie dormienti che tuttavia possono essere scatenate».  
L’agente ebbe un brivido. Persia parlava come se sapesse ciò che lui aveva appreso quella mattina alla centrale, parlava come se lo stesse mettendo in guardia o stesse cercando di fargli capire dinamiche a lui sconosciute. Nemmeno le parole e gli eventi nefasti descritti dall’ispettore Burke l’avevano fatto rabbrividire in quel modo.
«Io non credo in queste cose» mormorò.
«E fa male, Jonathan, forse dovrebbe cominciare»
«Che cosa sai sul Pifferaio? Parli come se potessi risolvere il caso»
«Le sto dicendo queste cose in base a ciò che ho visto e vissuto, e ciò che so. E una buona dose di sensazioni di pancia… intuizioni, se vuole»
«Sei una persona molto ambigua, Gipsy» commentò.
Lei sorrise sinceramente divertita, ma evitò di rispondergli. I suoi occhi si posarono su alcune persone di fronte ad un’aiuola. Jonathan seguì la direzione del suo sguardo e individuò cinque individui, di cui tre dovevano avere la sua età e due erano ragazzini. Li riconobbe come alcuni membri del circo.

La ragazza doveva essere coetanea di Persia, aveva capelli del colore del miele e grandi occhi tondi, castano scuro; l’aveva vista esibirsi sul trapezio e fare acrobazie sul dorso di un cavallo. Uno dei due giovani uomini era molto alto, con capelli bruni spettinati, il viso magro e il naso all’insù; era il mangiafuoco e giocoliere. L’altro era più basso, con la carnagione ambrata, occhi e capelli neri, l’aspetto esotico; non l’aveva visto esibirsi. I due ragazzini erano un maschio ed una femmina, li riconobbe come i piccoli amici del figlio dell’ispettore Burke, Jimmy. Due individui singolari: lui un addestratore di scimmie, lei una ginnasta muta.
La giovane dai capelli color miele adocchiò Persia, e si sbracciò per farsi notare: «Persia!»
La chiromante lanciò un’occhiata di sfida all’agente. «È pronto per conoscere quei loschi individui dell’Imaginaerum?»
Jonathan non le rispose, si limitò a seguirla con le mani nelle tasche. Fu subito adocchiato da tutti gli artisti lì presenti. Gli faceva quasi strano vederli nei panni di persone comuni, individui ordinari e rispettabili. Ma i circensi nascondevano i loro nomi dietro pseudonimi più o meno fantasiosi.
«È uno sbirro» esalò il ragazzino, con la scimmia cappuccino appollaiata sulla spalla.
«Non dirmi che ti sei fatta arrestare!» esclamò invece, in un impeto d’ilarità, la ragazza bionda. Parlava con un vago accento spagnolo, quasi impercettibile.
«Ma che! – rise Persia. – È un cliente abituale del Tempio» mentì, e Jonathan gliene fu grato. Cosa avrebbe potuto dire, altrimenti? Non potevano essere accusati senza prove, non avrebbe avuto altro motivo di avvicinarsi alla ragazza. Anche se, di fatto, era stata lei ad avvicinarlo.
«Jonathan, loro sono Prittle, Diablo, Nahuel, Alegria e Dolly» continuò, indicando rispettivamente la ragazza bionda, il mangiafuoco, l’altro ragazzo, il fanciullo con la scimmietta, e la ragazza muta.
«Enchanté» si limitò a dire, con un leggero inchino.
«Oh, è francese!» esclamò Prittle, sovreccitata.
«Irlandese, veramente. – le rivelò con fare cospiratorio. – Ma non lo dica a nessuno, da queste parti non hanno simpatia per gli irlandesi»
Lei fece una risatina. «Non si preoccupi, agente, nessuno di noi è inglese, non abbiamo problemi con gli irlandesi!»
 Persia le lanciò un’occhiata e poi mollò una gomitata all’agente: «Non faccia il Casanova, lei!»
«Questa è violenza nei confronti della divisa»
Diablo incrociò le braccia al petto, fulminandolo con quegli occhi del colore del mare in tempesta, un blu elettrico sporcato di pagliuzze grigie. «Non abbiamo problemi con gli irlandesi, ma con le guardie sì»
«Se non avete niente da nascondere, non avete di che temere» rispose semplicemente.
Il mangiafuoco era sul punto di replicare ancora, aveva già schiuso le labbra per parlare. Ma venne preceduto da una voce che Jonathan conosceva davvero bene, ormai, ed era l’ultima che avrebbe voluto sentire in quel momento.
«Anderson?»
Alzò lo sguardo al cielo, trattenendo un’imprecazione tra i denti, e si voltò lentamente. «Ispettore! È uscito da quella topaia finalmente»
Gli occhi di Charles Burke lanciavano saette e promesse omicide. Di certo non si aspettava di trovare l’agente Anderson intento a fare amicizia con i circensi, i loro principali indagati. Meritava un richiamo per il suo comportamento poco professionale e irresponsabile.
«E adesso ci tornerò, ma tu verrai con me»
«Problemi con i superiori, Casanova?» commentò Persia con quell’aria furbesca, guadagnandosi un’occhiataccia da parte di Jonathan.
«Arrivo» si limitò a dire, e con un gesto del capo si congedò dai circensi.
Si aspettava già una lavata di capo senza esclusione di colpi. La giornata non era cominciata affatto bene, e probabilmente di quel passo sarebbe finita ancora peggio.  

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