You trigger me

di AveAtqueVale
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Inizio ***
Capitolo 2: *** Prima seduta ***
Capitolo 3: *** Fuori sincrono ***
Capitolo 4: *** Primo passo ***
Capitolo 5: *** Confine ***
Capitolo 6: *** Church ***
Capitolo 7: *** Crisalide ***
Capitolo 8: *** Salvare, salvarsi ***
Capitolo 9: *** Contatto ***
Capitolo 10: *** Annegare ***
Capitolo 11: *** Hai mai... ***
Capitolo 12: *** Compleanno ***
Capitolo 13: *** Liberazione ***
Capitolo 14: *** Frattura ***
Capitolo 15: *** Lontani ***
Capitolo 16: *** Confronto ***
Capitolo 17: *** Conseguenze ***
Capitolo 18: *** No way out ***
Capitolo 19: *** Resa ***
Capitolo 20: *** Crollo ***
Capitolo 21: *** Catarsi ***



Capitolo 1
*** Inizio ***


Non voleva assolutamente essere lì. No, meglio: non avrebbe dovuto essere lì.

Non si era mai sentito così a disagio e nervoso in tutta la sua vita. Seduto su quel divanetto di pelle in attesa che quella porta si aprisse solo perchè un qualche vecchio noioso matusalemme lo invitasse ad entrare ed accomodarsi per parlargli di ciò che sentiva dentro. Il solo pensiero lo mandava nel panico. Non era nella sua indole parlare di sé, non era capace di esternare a voce i propri pensieri o sentimenti. Non era qualcosa fatta per lui, nessuno avrebbe potuto mai capire il casino che aveva dentro. Ad essere totalmente sinceri non ci capiva niente neppure lui, come poteva credere che potesse capirci qualcosa chiunque altro?

Il ragazzo sbuffò dalle narici stringendo la mascella, i denti premuti gli uni contro gli altri mentre, tenendo strette le braccia al petto, lanciava occhiate nervose qua e là per la piccola sala d'attesa. La giovane segretaria seduta alla scrivania stava controllando la lista di appuntamenti sull'agenda del suo capo mentre lui cercava di rallentare il battito cardiaco. Sentiva il cuore battere all'impazzata per l'agitazione, la gola chiudersi mentre una violenta nausea gli saliva alla bocca. In questo momento stava odiando i suoi genitori per quella loro stupidissima scelta di volerlo mandare da uno strizzacervelli. Lo faceva sentire fuori luogo, inadeguato. Sbagliato. Come se avesse una qualche sorta di malattia che volessero trattasse, come se semplicemente il suo carattere chiuso e introverso fosse un difetto da cambiare e non una parte di sé, come poteva esserlo un braccio od una gamba.

Si sentiva ferito. E arrabbiato. Sentimenti che ultimamente stava provando fin troppo spesso, sentimenti che lo stavano colmando e riempiendo a ondate pericolosamente violente e improvvise. Schioccò la lingua contro il palato cercando di scacciare quelle considerazioni dalla sua mente. Non voleva pensare a come si sentiva, quasi come un atto di ribellione nei confronti del luogo in cui si trovava. Non aveva bisogno di essere lì. Poteva gestire da solo i suoi pensieri, senza l'aiuto di qualcuno che gli dicesse cosa era giusto che provasse e cosa no.

Sollevò lo sguardo per portarlo sulla porta dello studio.

Una porta di mogano scuro, lucida, in gran parte composta da una lastra di spesso vetro opaco attraverso la quale non si poteva vedere realmente la stanza, solamente ombre sfumate e confuse, colori sbiaditi che si mescolavano e mischiavano fra loro quando c'era abbastanza luce. A lettere cremisi ed eleganti c'era stampato sul vetro il nome dello psicologo: Magnus Bane. Il ragazzo aggrottò le sopracciglia prestando solo ora attenzione a quello strano nome. Non particolarmente incoraggiante, non sembrava neanche un nome vero. Quale madre avrebbe mai chiamato suo figlio “Magnus”? Sembrava più un nome d'arte o un soprannome. Magari in realtà era straniero. No, improbabile: i suoi genitori non erano mai stati particolarmente aperti di mentalità, ed era assai difficile che avessero abbastanza considerazione di un extracomunitario per mandarglici in visita il proprio primogenito.

Mentre questi pensieri presero a girare per la sua mente la porta si aprì rivelando la figura di una donna piuttosto in là con l'età dall'aria piuttosto turbata. Le sue gote erano asciutte ma tinte di un rosa acceso mentre i suoi occhi erano gonfi e arrossati, leggermente lucidi. Non degnò il ragazzo di una occhiata, tirando dritto verso l'uscita della sala d'attesa stringendosi nella sua giacca a vento. Non era esattamente il luogo nel quale piaceva farsi guardare, immaginò lui.

«Può accomodarsi» disse dunque la voce della segretaria dai lunghi capelli scuri. Il giovane la osservò e sentì il cuore balzargli in petto. Era ora.

Stringendo i denti e sentendosi improvvisamente travolto da una ondata di panico, si alzò dal divano con le mani infilate nelle tasche del giubbotto nero e la testa alta. Annuì con fare rigido prima di muovere i propri piedi e dirigersi all'interno dello studio.

La segretaria si alzò a sua volta sorridendogli con aria accomodante, come se volesse farlo sentire a suo agio, quasi volesse dirgli “Non preoccuparti, vedrai che non è niente di che” e richiuse la porta alle sue spalle una volta che lui ne varcò la soglia. Era una stanza semplice, luminosa, con una grande finestra che dava sulla strada sottostante e dalla quale si poteva vedere in lontananza la distesa verde del Brooklyn Bridge Park. Il pavimento era in resina di un bianco sporco con venature grigie simili a scie di olio in una bacinella d'acqua. Delle piante in vaso erano poste agli angoli della stanza mentre alle pareti non occupate dalla grande finestra e da una fornita libreria in legno scuro, c'erano quadri dagli stili svariati e quasi agli antipodi. La modernità di un quadro privo di reali disegni quanto di semplici macchie di colore si succedeva ad un rilassante paesaggio sulle rive di una spiaggia all'alba o alla rappresentazione di una Venere senza veli ma per niente volgare.

Il giovane cercò di studiare la stanza per evitare di posare lo sguardo sull'elemento che, alla fine avrebbe dovuto inevitabilmente studiare. A poca distanza dalla libreria, a poco più di mezzo metro dal muro, c'era una scrivania in ebano lucido dietro la quale era comodamente seduto il suo nuovo strizzacervelli. Alec sentì il cuore impennare mentre realizzava che non poteva più tirarsi indietro. Deglutì una, due, tre volte cercando di mandare giù quel grumo presante che gli bloccava il respiro, ed alla fine si arrese alla spiacevole sensazione di sentirsi le vie aeree ostruite. Si abbandonò sulla poltroncina piazzata di fronte alla scrivania per accogliere i pazienti del medico e quindi sollevò lo sguardo per incontrare finalmente la figura dell'uomo che avrebbe tormentato tre dei suoi pomeriggi ogni settimana.

Quando i suoi occhi azzurri si posarono sulla figura di Magnus Bane, il ragazzo si paralizzò.

E' uno scherzo, pensò.

 

*

 

Lo sguardo annoiato di Magnus scivolò sull'agenda sulla sua scrivania non appena l'orologiò trillò la fine dell'ora a disposizione per la signora Milligan. La donna tirò su col naso ricomponendosi e asciugandosi il viso mentre Magnus cercava di ricordare chi fosse il prossimo paziente della giornata.

Alexander Lightwood.

Oh. pensò lui inarcando appena le sopracciglia, tamburellando un paio di volte con l'indice destro sul nome del giovane scritto sulla carta. Sarebbe stato il loro primo appuntamento, quello, e non sapeva un bel niente di lui. Erano stati i suoi genitori a presentarsi alla sua porta, a chiedergli di parlarci, di aiutarli a sbloccare il loro bambino. In realtà loro non era la parola più opportuna da utilizzare; Robert Lightwood sembrava essere stato trascinato lì dalla dirompente impazienza di sua moglie per scoprire cosa ci fosse che non andava in loro figlio. L'apprensione della donna nel descrivere il tipico atteggiamento di un qualsiasi adolescente sulla sua strada per l'età adulta fece venire in mente a Magnus un paio di possibili motivi per il carattere chiuso e introverso del suddetto ragazzo.

Magari suo figlio non parla perchè lei sembra già parlare abbastanza per entrambi, signora Lightwood, gli sarebbe piaciuto dirle mentre lei continuava a sciorinare preoccupazioni comprensibili solo fino a un certo punto. Ah. Il triste destino dei primogeniti tanto attesi. Invece Magnus mostrò solamente un'espressione comprensiva e disponibile e diede loro appuntamento per quel giorno a patto che il ragazzo decidesse da sé di venire in quello studio e che non fosse obbligato o ricattato in alcun modo. Sapeva che quella doveva essere una speranza vana, ma ci aveva provato a risparmiare a quel povero ragazzo l'incombenza di dover venire fin lì per quella che poteva semplicemente essere la sua normalissima crescita.

D'altro canto era persino contento dell'appuntamento con questo giovane, sventurato ventenne: la sua parcella non era esattamente alla portata di tutti ed ogni nuovo cliente era una bella fetta di stipendio in più che si sarebbe portato a casa a fine mese. Hurray.

La signora Milligan lasciò lo studio e Magnus ebbe modo di inspirare a fondo e raddrizzarsi sulla sua poltrona, bevendo un sorso d'acqua dalla sua bottiglietta. La rimise nel piccolo frigobar sotto la scrivania appena in tempo per veder entrare nello studio un ragazzo alto e longilineo dall'aria avvilita e combattuta. Aveva scomposti capelli neri e la pelle chiara come l'avorio; indossava abiti che probabilmente avevano vissuto più lavaggi di quanti non ne meritassero a giudicare dai colori sbiaditi, ed una giacca nera aperta su di una vecchia maglietta di un blu stinto ormai più simile al grigio. Questo ragazzo non aveva la minima intenzione di essere guardato dagli altri, non aveva la minima voglia di essere osservato. Magnus non era certo che questo dipendesse da un semplice desiderio di pace e solitudine o dalla mancata consapevolezza delle sue reali possibilità. Gli sarebbe bastato davvero poco per poter rivoluzionare la sua aria ordinaria e sciatta con una più accattivante e seducente. Aveva un bel fisico da quello che poteva vedere attraverso i vestiti e i lineamenti del volto sembravano essere piacevoli. Magnus si chiese che tipo di sguardo gli avrebbe visto indirizzargli una volta che avesse trovato la forza di alzare il capo.

Come era consuetudine la prima cosa che scintillò negli occhi del paziente non appena posò il proprio sguardo su Magnus fu sbigottimento. Alexander risultò basito quando vide il volto del suo medico e non tentò in alcun modo di dissimulare la sorpresa. In un primo momento. Sgranò i suoi grandi occhi azzurri portando lo stesso strizzacervelli a fare la medesima cosa in uno spasmo involontario.

Aveva degli occhi indimenticabili. Puliti, brillanti, trasparenti, di un azzurro così chiaro da ricordargli la sfumatura del mare alle prime luci dell'alba quando i raggi rosati del sole nascente ne baciavano la superficie.

Magnus si ricompose in pochi secondi tornando alla consueta espressione rilassata e imperturbabile, intrecciando le dita dinnanzi a sé sulla scrivania e tenendo fisso lo sguardo in quello del paziente.

«Benvenuto, Alexander.» sorrise lui con fare semplice e accomodante. «Io sono Magnus»

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Capitolo 2
*** Prima seduta ***


«Benvenuto Alexander. Io sono Magnus».

Alec non riusciva a smettere di fissarlo incredulo. Non poteva essere vero. Non poteva essere lui il suo medico. Non poteva essere un medico.

Magnus Bane si presentava come un ragazzo più vicino ai venti che ai trenta dal viso giovane e fresco; la sua pelle era di una accattivamente sfumatura color caramello ed il suo viso aveva lineamenti definiti ma non duri. Doveva essere piuttosto alto sebbene essendo seduto Alec non potesse dirlo con certezza, e nonostante a primo impatto apparisse una figura magra e longilinea, ad una seconda occhiata era facile notare la forma delle larghe spalle e dei bicipiti definiti e allenati sotto la camicia. Aveva capelli neri che teneva fissati all'insù in morbide spine, alcune ciocche sfumate di un azzurro vivace e brillante, luccicante, come se vi avesse messo dei brillantini al di sopra, esattamente come quelli che scintillavano sul suo viso attorno agli occhi: ombretto azzurro e eyeliner circondavano la forma allungata delle sue palpebre sottolineando la sfumatura verde-dorata dei suoi occhi. Alec era senza parole. Esistevano asiatici dagli occhi verdi? Apparentemente sì.

Nonostante già la presenza di trucco e ciocche tinte di capelli potesse già essere un motivo per trovare strana la sua natura di medico, il suo abbigliamento era ancora più scioccante. Portava attorno al collo una indefinita quantità di collane alcune più strette ed altre più lunghe e pendenti, semplici ma strane da vedere addosso ad un uomo, e un considerevole numero di anelli alle dita sottili ma forti. Smalto nero faceva sfoggio di sé alle sue unghie mentre una camicia borgogna fasciava le sue braccia allenate ed il petto ampio. Un panciotto in velluto scuro, con una fantasia vintage piuttosto delicata si richiudeva su di essa, ornato da una serie di catenine che ne percorrevano la forma. Aveva uno stile... bah, Alec non avrebbe saputo trovare la parola perfetta per descriverlo, perciò si limitò a pensare che quell'uomo fosse semplicemente diverso.

Non sapeva cosa pensare di lui.

Era possibile non avere una prima impressione di qualcuno? Alec proprio non riusciva a far mente locale. Si sentiva a disagio? Si sentiva rilassato? Nè una né l'altra cosa. Non era più teso come prima ora che ormai aveva davanti quell'uomo, ma al tempo stesso non poteva ovviamente fidarsi di lui, anche se il suo essere giovane lo induceva d'istinto a sentirsi un po' meno a disagio. Avrebbero potuto benissimo essere coetanei se non fosse che era assurda l'idea che quel ragazzo fosse già un famoso psicologo all'età di venticinque anni.

Alec, comunque, si riscosse da quel primo lungo attimo di imbambolamento e rimase in silenzio. Un silenzio risoluto e ostinato. Forse testardo.

Si abbandonò contro lo schienale della poltrona e incassò la testa nelle spalle come un muto atto di ribellione, quasi a voler far intendere che non avrebbe aperto bocca per quanto gli riguardava. Magnus, dal canto suo, distese le labbra verso l'esterno e proseguì.

«Molte persone non sanno davvero cosa aspettarsi quando mettono per la prima volta piede in uno studio come questo, per cui credo che sarebbe propedeutico per entrambi mettere bene in chiaro ciò che faremo nei nostri incontri. O meglio, ciò a cui servono questi incontri» spiegò lo psicologo con tono conciliante e tranquillo, niente affatto a disagio o seccato. Almeno se lo era non lo dava a vedere ed Alec se ne sentì in qualche modo grato.

Il ragazzo non disse una parola, rimanendo chiuso nel suo risoluto silenzio, inspirando a fondo quasi come per voler raccogliere le forze per sopportare quella prima visita. Magnus non si lasciò disturbare dall'atteggiamento poco collaborativo dell'altro e continuò. «Il mio lavoro è quello di aiutare chiunque venga qui a fare chiarezza fra i propri pensieri e sentimenti, liberare paure, riflessioni, desideri e considerazioni. La maggior parte del tempo non parlo neppure, mi limito ad ascoltare il flusso di coscienza dei miei pazienti aiutandoli a liberarsi e a fare qualche domanda mirata per indirizzare al meglio i loro pensieri, li aiuto a ragionare sul perchè provino determinate cose e cosa questi sentimenti possano significare. In definitiva sono i pazienti stessi a fare il lavoro, io fornisco solamente gli strumenti necessari per farlo» spiegò il Dottor Bane senza mai abbandonare con lo sguardo la figura del ragazzo.

Alec strinse la mascella mordendo l'interno della propria guancia con fare nervoso, ruotando il capo verso la propria sinistra dove era posta la grande finestra che ricopriva la quasi totalità della parete. Il tempo fuori non era esattamente il massimo, il cielo era oscurato da grandi nuvoloni grigi e la luce del sole faceva fatica a filtrare in timidi raggi sottili. Tuttavia voleva a tutti i costi evitare di incontrare lo sguardo del terapeuta in un atto istintivo ed inconscio.

Magnus annuì appena col capo schioccando la lingua contro il palato.

«Il primo strumento necessario ad affrontare queste sedute, comunque, non posso fornirlo io. Dipende da te e per quanto posso vedere mi sembra evidente che tu non ne sia in possesso per cui francamente credo che continuare a venire qui sarebbe solamente una perdita di tempo.»

A quelle parole il ragazzo si ritrovò immediatamente a ruotare il capo verso di lui, stranito, con aria accigliata. Era l'ultima cosa che si sarebbe aspettato di sentirsi dire e non era davvero certo di aver sentito bene.

«Cosa?» domandò, confuso, schiudendo le labbra.

«Cosa cosa?» chiese il Dottor Bane, a sua volta, abbandonandosi contro lo schienale della poltrona, stringendosi nelle spalle. «Puoi andare, se vuoi.»

Alec era sempre più sbalordito. «Ma come? Così?» domandò perplesso e totalmente spaesato, se possibile ancor più di prima. «Non cerca di dirmi che è per il mio bene? Che dovrei restare? Che dovrei dirle... dirle... qualcosa?»

«Certo che è per il tuo bene. Non mi diverto mica ad ascoltare ogni giorno, per ore, le paure e i turbamenti di mezza città, che ti credi?» disse il terapeuta con la voce che sfumava leggermente in una mezza risatina. «Questi incontri sono fatti per voi, non per me. Dovete essere voi a voler essere qui in primo luogo. Se non volete essere qui, se non volete lavorare con me o non sentite il bisogno di parlarmi io sono automaticamente inutile e chi dice il contrario è solamente un ciarlatano che cerca disperatamente di incastrare qualche cliente perchè non ne trova di volontari a voler spendere soldi per farsi aiutare da lui.» spiegò l'altro guardando il suo paziente dritto negli occhi. «o lei.» si corresse, poi, con un ghigno divertito.

Alec si sentì strano nel sentire quelle parole.

Non si era aspettato un discorso di quel genere.

Si era aspettato di sentirsi ripetere ancora ed ancora le stesse parole che i suoi genitori gli ripetevano già da anni. Dovresti cercare di, Alec. Dovresti provare a, tesoro. Dovresti, dovresti, dovresti. Come se avesse bisogno di sentirsi dire da loro come vivere la sua vita, come se non sapesse pensare già da solo a cosa dovrebbe o non dovrebbe fare! Come se fosse semplice vivere al meglio giorno dopo giorno. Ma quell'uomo non aveva minimamente provato ad imporgli alcun ché, anzi. Era stato l'unico fino a quel momento a dargli la totale libertà di scegliere cosa fare o cosa pensare. E lo confondeva.

«E lei è così bravo che non ha bisogno di convincere la gente a restare?» Alec cercò di risultare sprezzante o poco convinto, ancora in parte ostile a tutta quella situazione ed alla figura di quel ragazzo davvero troppo giovane per vederlo come un riferimento da cui farsi guidare nella foresta oscura dei suoi pensieri più profondi.

Ma Magnus era avvezzo a comportamenti ribelli e poco collaborativi ed Alec non era affatto una sfida per lui. «Beh, ti ho detto che puoi andare ma sei ancora qui, no?» il sorriso sulle sue labbra era divertito, le dita intrecciate fra loro davanti al viso mentre, totalmente rilassato contro lo schienale della poltrona, guardava al paziente con occhi vispi, brillanti.

Alec avvampò in un istante rendendosi conto che aveva ragione. Si alzò di scatto dalla sedia e si affrettò verso la porta senza aggiungere un'altra sola parola, quasi come se avesse avuto paura che da un momento all'altro il terapista potesse ritirare quelle parole e bloccarlo lì.

«Alexander, aspetta»

La voce del Dottor Bane arrivò a fermarlo un istante prima che la sua mano -già ferma sulla maniglia- la spingesse verso il basso aprendo la porta.

Alec si voltò con espressione scontrosa fissandolo con sguardo duro. «Pensavo non pregasse i suoi clienti per rimanere» La sua voce uscì più acida di quanto non avrebbe voluto, sfumata da una leggera intonazione trionfante.

«Piove.» disse semplicemente l'altro indicando con un cenno della mano il tempaccio fuori dalla finestra. «E non credo tu nasconda un ombrello nelle tue tasche. Ti prenderai un raffreddore.»

Alec voltò il capo verso la grande finestra priva di tende e le sue labbra si schiusero.

Il cielo si era fatto ancora più scuro e i pochi raggi di sole che era riuscito a vedere poco prima adesso erano stati letteralmente divorati da nuvole dense e cariche di pioggia. Grosse gocce cadevano dall'alto, colpendo la finestra ad un ritmo instabile ma continuo. Non si era neppure accorto che avesse iniziato a piovere: era come se improvvisamente le parole dell'altro gli avessero aperto un canale con la realtà facendogli sentire solamente adesso lo scroscio dell'acqua fuori dalla finestra, il cozzare della pioggia contro le finestre, i tuoni che rombavano distanti facendo tremare, talvolta, i vetri.

«Aspetta qui che smetta. Hai diritto ad un'ora, sono passati a stento 15 minuti. Appena smetterà di piovere potrai andartene e non tornare più» lo invitò l'altro stringendosi nelle spalle, portando Alec a mordersi nervosamente il labbro inferiore. Non aveva tutti i torti. Casa sua non era esattamente vicina e ovviamente non aveva niente con cui proteggersi dalla pioggia. Probabilmente doveva essere un nuvolone passeggero considerando quanto in fretta aveva iniziato a piovere per cui magari nel giro di mezz'ora sarebbe già stato libero d'andare... Strinse la maniglia della porta un paio di volte guardando la vetrata opaca davanti a sé che lo separava dalla sala d'attesa prima di imprecare a mezza voce e lasciar andare la presa.

Tornò alla sedia abbandonandosi contro di essa con uno sbuffo nervoso, le gambe lunghe distese davanti a sé per quello che era lo spazio che gli era concesso.

Il Dottor Bane non disse un'altra sola parola, neppure lo degnò di uno sguardo. Si mise a consultare l'agenda davanti a sé scribacchiando appunti e numeri su varie pagine, mentre Alec -dal canto suo- rimase seduto a fissare la finestra alla propria sinistra. La pioggia non accennava a smettere, un lampo brillò di tanto in tanto illuminando a giorno la stanza per un secondo soltanto prima di svanire così com'era arrivato.

Era una situazione imbarazzante e fastidiosa: odiava stare in compagnia di gente che non conosceva e, ancora di più, odiava i silenzi densi e carichi d'aspettativa come quello che si creava fra due persone costrette a condividere un piccolo spazio. Pensò e ripensò alle parole dell'altro cercando di capire quanto odiava quell'uomo -o meglio ciò che rappresentava- e di quanto invece poteva dargli credito. In realtà non voleva ammettere a se stesso che in altre circostanze l'avrebbe trovato persino gradevole con i suoi modi pacati e gentili e l'aspetto senza ombra di dubbio affascinante, seppur leggermente sopra le righe.

«Qual è?» chiese d'un tratto allora, Alec, senza voltare neppure il capo dalla finestra, come se non gli importasse realmente di quello che stava dicendo ma volesse solo colmare quel silenzio imbarazzante. «Il primo strumento di cui parlava» specificò.

Il terapeuta alzò lo sguardo dalla sua agenda portandolo sul ragazzo con aria tranquilla ma sinceramente sorpresa. Una sfumatura che durò un istante soltanto prima che le sue labbra s'alzassero agli angoli in un sorriso accogliente.

«La consensualità» rispose, semplicemente, lasciando la penna che reggeva fra le mani, poggiandola fra le due pagine aperte davanti a sé. «Avevo detto ai tuoi genitori di portarti qui solo se tu fossi stato d'accordo a procedere con i nostri incontri, ma mi pare evidente che non abbiano voluto ascoltarmi.» spiegò inarcando appena le sopracciglia. «Beh, ammetto di non essere sorpreso. Tua madre non sembra esattamente il tipo di donna a cui piaccia non avere il controllo su qualsiasi cosa.»

Alec ruotò il capo per guardarlo come se improvvisamente avesse detto qualcosa di sbagliato.

Magnus captò l'occhiata e subito cercò di chiarire il punto. «Non che sia necessariamente un aspetto negativo, sia chiaro. Quello che volevo dire, Alexand--»

«Alec.»

«Come?»

Il ragazzo espirò pesantemente passandosi la lingua sulle labbra sbrigativamente. «Tutti mi chiamano Alec. Nessuno mi chiama Alexander» ammise guardando la zip della propria giacca, giocherellando nervosamente con quella con le lunghe dita affusolate.

Il dottor Bane si sistemò sulla sedia.

«Come mai?»

«Non lo so. E' più breve, credo. Più facile» si strinse lui nelle spalle. «Ormai ci sono abituato»

«Ti piace di più?» domandò l'altro inclinando leggermente il capo, osservandolo.

Alec alzò lo sguardo per fissarlo, l'espressione mite e rassegnata a dover rimanere lì contro la sua volontà, il solito broncio a distorcere le sue labbra. «Non so, non ci ho mai pensato. Non è importante. E' solo più comodo. A volte dimentico di essere io Alexander, quando mi chiamano così.»

Il terapeuta distese la schiena verso l'alto e inspirò a pieni polmoni.

«Beh, personalmente Alexander mi piace molto di più. Ha un bel suono oltre che ad avere un significato importante»

Alec si limitò a stringersi nelle spalle ed espirare piano. «Come le pare» borbottò lasciando semplicemente cadere il discorso. Non gli importava davvero come avrebbe deciso di chiamarlo, dopotutto non si sarebbero più rivisti, non avrebbe avuto molte altre occasioni di poterlo chiamare in qualsiasi senso.

«E lei? Perchè Magnus?» domandò allora dopo un breve attimo di silenzio sollevando lo sguardo verso di lui, assottigliando appena gli occhi.

Lo psicologo sorrise. «Ha smesso».

Alec aggrottò le sopracciglia con espressione interrogativa.

«La pioggia. Ha smesso.» chiarì l'altro ruotando ora il capo verso la finestra.

Alec seguì la direzione del suo sguardo e vide il cielo leggermente più chiaro; le nubi erano ancora grigiastre e dalla distanza si poteva ancora udire il rombo di tuoni lontani ripercuotersi lungo l'orizzonte, ma in definitiva sembrava che per il momento il tempo si fosse calmato. Non pioveva più, solamente qualche goccia scendeva dal balcone al piano superiore passando davanti alla finestra ad intervalli irregolari.

Il ragazzo quindi si alzò e deglutendo, alzò la zip della giacca fino alla gola per proteggersi dall'eventuale frescura dell'esterno.

«Allora.. io... uhm» borbottò lui non sapendo bene come lasciare l'altro dopo quella bizzarra e totalmente inaspettata seduta. «...vado»

Il dottor Bane lo osservò e mantenne quel sorriso cortese sulle labbra senza esitazione. «Va bene.» disse semplicemente senza scomporsi. «Chiudi la porta quando esci»

Alec annuì e, uscendo, si richiuse la porta alle spalle prendendo un sospiro di sollievo. Finita. Era finita. Il cuore nel petto gli stava esplodendo liberando una serie di strane sensazioni nella sua mente. Conforto, benessere, agitazione, insicurezza, colpa. Si sentiva meglio ad essere uscito di lì perchè era quello che voleva fin dall'inizio, ma al tempo stesso iniziava a temere di aver fatto un errore e di aver sbagliato a prendere quella scelta. Timore di aver deluso i suoi genitori, di aver contravvenuto una loro richiesta, di averli contrariati. Di essersi precluso, forse, una buona esperienza. Ma questo non lo avrebbe mai ammesso.

Si diresse a passo spedito verso l'uscita dalla sala d'attesa, venendo fermato dopo pochi passi dalla segretaria.

«Aspetti, Mr. Lightwood» disse la ragazza alzandosi, un'espressione sorpresa e perplessa sul viso.

Alec si voltò per guardarla fermandosi a mezza strada verso l'uscita, le mani infilate ostinatamente nelle tasche dei jeans.

«Sì?»

«Dobbiamo segnare il prossimo appuntamento» disse lei con la penna già pronta in mano, l'agenda aperta sotto lo sguardo.

Alec boccheggiò per un istante, bloccato sul limite di un confine sottile, fissando la porta dello studio che si era richiuso alle spalle solamente una manciata di secondi prima. Il cuore gli piombò in gola e il sangue defluì rapidamente in tutto il corpo in un istante, prima che il ragazzo si prendesse il tempo di rispondere.

«No. Non serve» mormorò scuotendo la testa, prendendo la sua strada verso l'uscita questa volta senza nessuna voce a trattenerlo per restare.

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Capitolo 3
*** Fuori sincrono ***


Uscito dallo studio Magnus poteva finalmente lasciarsi alle spalle le vesti del Dottor Bane e tornare ad essere il solito se stesso, amante del divertimento e dei vizi. Certo, poteva sembrare assurdo che considerando il suo mestiere fosse il tipo di persona che amava le feste e la movida notturna, ma Magnus Bane era pur sempre un uomo -un ragazzo- e non concepiva in che modo il fatto che amasse divertirsi potesse essere un problema. Francamente trovava più preoccupante l'idea di non amare il concetto di divertimento. Nessuno dei suoi pazienti, comunque, si era mai lamentato della sua professionalità o delle loro sedute: tutti, dal primo all'ultimo, erano rimasti spiazzati dal suo aspetto, dal suo abbigliamento e non di meno dalla sua giovane età, ma per quei pazienti che non avevano lasciato l'ufficio dopo i primi cinque minuti credendo che fosse uno scherzo di cattivo gusto, Magnus era stato un grandissimo aiuto. Era sempre stato disponibile e distaccato, capace di osservare ogni differente situazione con imparzialità ed occhio critico, dando consigli ben ponderati e in maniera sempre cortese. Non aveva mai imposto il suo parere professionale a nessuno ma aveva sempre cercato di guidare i propri pazienti verso l'auto presa di coscienza dei loro stessi pensieri, l'unica cosa che lui credeva sensata da fare nel suo mestiere.

Per essere così giovane era eccezionalmente maturo e i suoi pazienti più di una volta si erano chiesti come potesse essere possibile che alla sua età -sconosciuta ma sicuramente giovane a giudicare dal suo aspetto e dai suoi lineamenti- fosse già uno dei migliori psicologi del Paese.

Quella sera, dopo il suo ultimo appuntamento, Magnus si era diretto a casa per farsi una doccia e risistemarsi il trucco che dopo una intera giornata di lavoro lo aveva già annoiato. Era stata una giornata come tante, costellata di nuove lacrime, nuove grida e nuovi pazienti, uno dei quali non avrebbe mai più rivisto molto probabilmente. Alexander Lightwood era un giovane uomo imprigionato in una famiglia fin troppo apprensiva e soffocante che aveva grandi difficoltà a relazionarsi col prossimo. Probabilmente il problema alla radice di tutto stava proprio nel modo in cui era stato cresciuto in casa, tenuto dentro una campana di vetro, educato da genitori rigidi e piuttosto chiusi, con una chiara idea di come dovrebbero andare le cose e di come invece non sarebbero dovute andare. Era bastata una semplice manciata di minuti con Maryse Lightwood per capirla e Magnus era quasi certo che era stato proprio il suo atteggiamento carico di aspettativa a far crescere il ragazzo con quel carattere chiuso e ostile. Il modo in cui sembrava a tutti i costi voler sfuggire dagli sguardi altrui gli lasciava pensare che probabilmente aveva solamente una profonda paura di deludere chiunque attorno a sé e di non volere che qualcuno gli prestasse troppa attenzione perchè altrimenti avrebbe potuto deludere il prossimo ancora più platealmente. Magnus aveva provato una fitta di compassione per quel povero ragazzo, ma non aveva avuto modo di aiutarlo in quanto il giovane non riteneva di aver bisogno di aiuto o, forse, non aveva ancora capito di averlo.

Quale che fosse la verità il ragazzo era fuggito dal suo ufficio e probabilmente non ci avrebbe più rimesso piede.

Peccato pensò Magnus mentre si infilava sotto la doccia dopo essersi spogliato nel suo ordinatissimo e fornitissimo bagno. Era bello da guardare.

 

 

Giunto al Pandemonium club, Magnus controllò il proprio telefono per leggere il messaggio che gli era appena arrivato.

Catarina (00.58) : Ti aspetto al bancone.

Infilò l'apparecchio nella tasca interna della giacca di velluto blu notte-visto che i pantaloni di pelle avevano tasche praticamente inutilizzabili in quanto troppo strette- e avanzò verso il bancone facendosi largo fra la folla di corpi danzanti e sudati. Si era sistemato i capelli tirandoli su con una generosa quantità di gel brillantinato mentre il trucco accoglieva sfumature di viola e blu che risaltavano il colore verde-dorato delle sue iridi.

Catarina era facile da localizzare con la sua pelle bianco latte ed i capelli neri come la notte dalle ciocche di un blu elettrico inconfondibili. Magnus la raggiunse sedendosi allo sgabello accanto al suo accavallando le gambe con un unico movimento elegante.

«Allora. Mi dici cos'è che vuoi festeggiare?» domandò lui senza troppi preamboli con un ampio sorriso sulle labbra e lo sguardo accattivante di chi sapeva di poter conquistare chiunque volesse senza alcun problema. «Non dirmi che ti sei trovata un ragazzo perchè davvero non ci credo».

Catarina si voltò verso di lui con un ampio sorriso sulle labbra e i suoi grandi occhi scuri a specchiarsi nei suoi. «Ma ti pare? Dove lo trovo il tempo per un ragazzo, me lo dici?» assecondò lei la sua battuta mentre il barista si avvicinava a loro dopo il cenno della mano di Magnus.

«Due birre» ordinò rapidamente Magnus senza prestare troppa attenzione al ragazzo, attento a non esagerare con gli alcolici visto che l'indomani avrebbe dovuto lavorare. Di nuovo. «Magari è un tuo paziente. Che ne so? Io al posto tuo mi sarei già sparato con degli orari come quelli» si strinse lui nelle spalle con una faccia inorridita. «E dire che era solo tirocinio... pensa quando lavorerai in un ospedale vero»

Catarina a quel punto assunse un'espressione a metà strada fra l'eccitato ed il colpevole.

«A tal proposito...» lei iniziò a dire fermandosi quando il barista porse loro le due birre appena aperte. «...ecco la grande novità è che mi hanno preso a lavorare al New York Presbyterian Hospital. Il medico referente per cui ho lavorato al tirocinio ha contattato un suo amico che lavora lì per fargli il mio nome e lui ha detto che anche se mi sono laureata da solo due settimane si fida abbastanza del suo giudizio per accettarmi nel suo reparto» disse quasi tutto d'un fiato la ragazza mordendosi il labbro inferiore, reggendo la birra fra le mani senza però ancora bere neppure un sorso.

Magnus l'ascoltò come imbambolato per tutto il tempo, ritrovandosi a schiudere le labbra al termine del discorso con aria sorpresa e meravigliata. «Ma è...» boccheggiò per un istante sbattendo le ciglia con fare confuso. «...è fantastico!» esclamò alla fine cercando di stamparsi in volto un sorriso sincero e genuino. «E' meraviglioso Catarina, sono davvero fiero di te» continuò poggiando la birra sul banco per allungarsi verso di lei in un abbraccio.

Lei si fece ancor più piccola fra le braccia del suo amico, affondando il viso nell'incavo della sua spalla, stringendolo a sua volta stando attenta a non versargli la propria birra addosso. Si lasciò avvolgere dal calore del suo corpo per un lungo momento, incurante della musica spaccatimpani e delle occhiate curiose che mezzo locale stava lanciando loro. Era sempre stato un mistero al Pandemonium Club di come quella ragazza dalle ciocche blu fosse l'unica a non essersi mai portata a letto Magnus Bane. Ma la sola idea faceva ribrezzo ad entrambi che, dal canto loro, sono sempre stati come fratelli.

E poi, a dirla tutta, avevano dormito insieme una infinità di volte da quando avevano preso a convivere assieme nel loro loft di Brooklyn.

«Grazie. E' un grande passo per me. Sono un po' nervosa, ma non vedo l'ora di iniziare» rivelò lei quando i due sciolsero l'abbraccio, passandosi una ciocca di capelli dietro l'orecchio.

«E quando inizierai?» domandò lui guardandola in viso.

Catarina si morse il labbro inferiore assumendo un'espressione colpevole. «La settimana prossima. Lunedì è il mio primo giorno» rivelò nervosamente arricciando labbra e naso con fare quasi preoccupato.

Magnus strabuzzò appena gli occhi con fare sorpreso. «Così presto?» domandò basito rimanendo per un attimo senza parole, cosa che per chi lo conosceva bene era piuttosto rara. «Uh, capisco» mormorò annuendo meccanicamente fra sé e sé, sorseggiando distrattamente la birra più per spasmo involontario che per vero bisogno.

«Però, caspita, il Presbyterian Hospital? E' lontano. Come farai a muoverti in tempo per arrivare lì ogni giorno?» domandò lui aggrottando appena le sopracciglia.

Catarina a quella domanda si ritrovò a umettarsi le labbra, stringendole appena fra loro per un breve ma infinito attimo. «Infatti non posso, Magnus. Io... avrei trovato un monolocale nell'Upper East-Side, a qualche isolato dall'ospedale.» rivelò lei con un tono adesso molto più serio e teso, la preoccupazione chiaramente udibile nella sua voce. L'uomo a quel punto sembrò essere travolto da una ondata di improvvisa consapevolezza e i lineamenti del suo viso si rilassarono in un attimo in netto contrasto col tumulto che invece gli era appena esploso nel cuore.

«Oh. Sì. E' naturale. Certo» disse con un sorriso palesemente finto sulle labbra. Voleva davvero essere felice per la sua amica in quell'importante momento della sua vita, ma qualcosa dentro di lui si era come spezzato nel sapere che anche lei, alla fine, se ne sarebbe andata lasciandolo solo. Lei sembrò quasi leggergli nella mente e si affrettò a stringere la mano dell'amico con la propria mentre ne cercava lo sguardo per incatenarlo al proprio.

«Mi dispiace. Mi dispiace tanto per tutta questa fretta, per averti avvisato con così poco anticipo, ma non era una occasione che potevo rifiutare. E questo non cambierà niente tra di noi e lo sai» disse lei lasciando salire ora la mano da quella dell'amico al suo volto, carezzando la sua guancia col proprio pollice. «Rimarrai comunque il mio migliore amico e potrai scrivermi o chiamarmi in qualunque momento se avrai bisogno. Sarò sempre dall'altra parte della cornetta con una scusa pronta per fuggire sul primo taxi verso Brooklyn» cercò di rassicurarlo con la sua voce sincera e carica di preoccupazione.

Magnus sapeva che Catarina era preoccupata per lui, sapeva che in quel momento doveva sentirsi responsabile, come se lo stesse abbandonando. E lui si sentì colpevole per farla sentire in quel modo invece di farla sentire felice per se stessa e quella grande notizia. Essere infermiera è tutto quello che lei aveva sempre voluto fare per sentirsi utile in società e quell'ospedale era davvero prestigioso: era un sogno divenuto realtà per lei e non avrebbe fatto assolutamente nulla per rovinarglielo.

«Catarina... non sono uno dei tuoi pazienti, lo sai?» le disse allora lui, sorridendo, portando l'indice della sua mano libera al centro della di lei fronte, con un buffetto amichevole. «Smettila di preoccuparti per me, so vivere anche da solo ti ricordo. Dovremmo festeggiare invece di scambiarci addii strappalacrime! Vai a Manhatthan mica in Giappone!» le ricordò lui alzandosi e bevendo un lungo sorso di birra.

Catarina sorrise con una sfumatura malinconica a brillare nei suoi occhi.

«Forza!» la incitò Magnus lasciando la bottiglia mezza piena sul bancone e allungando le mani verso di lei. «Adesso andiamo in pista e balliamo. Così ti togli quel muso lungo dalla faccia. Ci bsta il lavoro a farti venire le rughe, non metterci anche con questi bronci inopportuni»

La ragazza si alzò accettando le mani che l'altro le stava porgendo. «Ehi! Io non ho le rughe!»

«Sì sì, va bene» la zittì amichevolmente Magnus scoccandole una occhiata provocatoria.

Catarina gli tirò un amichevole scappellotto dietro la testa e i due scoppiarono a ridere iniziando ad agitarsi al ritmo della musica assordante che li circondava.

 

*

 

Per Alec il ritorno a casa quel giorno era stato altrettanto stressante.

Non appena varcò la soglia dell'abitazione sua madre lo guardò con aria sorpresa e confusa, non capendo che cosa potesse farci il ragazzo già di ritorno ben mezz'ora prima del previsto.

«Alec?» domandò lei preoccupata vedendolo richiudersi la porta alle spalle e dirigersi di gran carriera verso le scale, quasi sperando che loro non si accorgessero del suo arrivo. «Già a casa? Come è andata?» domandò sua madre guardandolo dall'ingresso, qualche gradino più in basso di lui che rimase bloccato dalle sue domande a mezza scala.

Il ragazzo sospirò cercando il modo migliore per spiegare quanto accaduto quel giorno senza farla scomporre troppo.

«Mi ha detto che potevo andare se non volevo rimanere. Non lavora con pazienti che non vogliono essere lì, così me ne sono andato» riassunse trattenendo quel per fortuna che gli era rimasto bloccato sotto la lingua.

Sua madre parve quasi impallidire nel sentire quelle parole, neanche avesse appena detto la più atroce eresia che potesse passargli per la mente.

«Quel ciarlatano!» esclamò la donna stizzita e furibonda. «Ma che razza di medico è se non si prende cura dei suoi pazienti? E noi che lo abbiamo anche profumatamente pagato! Adesso che torna tuo padre...»

A quelle parole Alec non potè fare a meno di voltarsi verso di lei sulle scale e fissarla con una espressione truce e decisa. «Guarda che lui me l'ha detto che voleva che io fossi d'accordo per andare da lui. Lo sapevate che non mi voleva lì contro la mia volontà. E grazie a Dio almeno lui sembra ragionare qui!» esclamò lui irritato e innervosito, prima di voltarsi e arrivare al piano di sopra per chiudersi nella sua stanza lasciando una Maryse visibilmente allibita e senza parole ai piedi delle scale.

 

 

«Lo sai che gridarle contro le farà credere ancora di più che ti servano quelle visite, vero?» domandò Isabelle richiudendosi la porta della stanza di Alec alle spalle una manciata di minuti dopo il suo ritorno a casa.

Alec era steso sul suo letto con un braccio poggiato contro gli occhi e il buio della sera tutt'attorno. Non aveva voglia di accendere la luce, non aveva voglia di muoversi o fare nulla. Solo sospirare e meditare su quanto era successo solo in quell'ultima giornata.

«E tu? Credi che mi servano?» domandò lui senza smuovere il viso o un solo muscolo, la voce bassa e quasi atona.

Isabelle si avvicinò per sedersi sul letto del fratello, stringendosi nelle spalle. «Penso che non importi cosa pensiamo noi» disse semplicemente senza pensarci su due volte. Per qualcuno quel commento sarebbe potuto passare come un tentativo di lavarsi le mani di ogni responsabilità, ma Alec sapeva che Isabelle intendeva davvero quello che aveva detto. Gliene fu grato.

Sospirò stancamente scostando il braccio dal viso e ruotando il volto verso di lei.

«A quanto pare nemmeno quello che penso io» borbottò lui con un lieve spasmo delle labbra, inspirando a fondo e poi espirando.

Sua sorella mise su una espressione dispiaciuta mentre guardandolo cercò di sistemare le cose per come le era possibile. «E' solo preoccupata, Alec. Non vuole essere...»

«Preoccupata di cosa Izzy?!» sbottò lui esausto sollevandosi improvvisamente a sedere, lasciando scivolare poi le gambe oltre la sponda del letto per mettersi in piedi nella penombra della sua camera. «Non può solamente accettare che io sia così?» domandò stanco, arrabbiato, cercando di trattenere la furia nascondendola con semplice esasperazione. «E' il mio carattere! Mi piace la tranquillità e la pace, perchè non le va bene? Altri genitori sarebbero felici! Perchè loro credono che io sia pazzo invece?» chiese lui assottigliando lo sguardo, puntandosi con forza un indice contro il petto, cercando di contenere la voce e il fastidio. «A me piace stare in camera e a te andare alle feste, perchè sono io quello sbagliato fra di noi?»

Isabelle schiuse le labbra nell'accogliere improvvisamente quel fiume di parole. Non era offesa o risentita del suo dire, ma era sinceramente preoccupata per la condizione del fratello che sembrava davvero sul punto di esplodere. «Nessuno dice che tu sia sbagliato fratellone, davvero. Sai che mamma è sempre esagerata, ma è perchè ti vuole bene...» cercò di calmarlo lei alzandosi a sua volta e cercando di raggiungerlo muovendosi per la stanza, le sue mani a poggiarsi sui bicipiti del fratello decisamente più alto di lei.

Alec chiuse gli occhi con fare stanco sentendosi improvvisamente pesante.

«E' meglio se stai con lei adesso, prima che perda la testa» cercò di dire alla fine con un sospiro, riaprendo gli occhi e guardando la sorella con uno sguardo spento.

Isabelle sapeva che voleva solamente rimanere da solo. Annuì lasciando andare le sue braccia e quindi si avvicinò verso la porta in silenzio, fermandosi solo prima di aprirla per lanciare all'altro una occhiata incoraggiante.

«Vedrai che questa fissa le passerà» cercò di sostenerlo con un mezzo sorriso, sparendo subito dopo oltre la porta della stanza. Alec si lasciò cadere a sedere sul letto tenendosi la testa fra le mani. Non credeva che quella fissazione le sarebbe passata, né che avrebbe mai guardato a suo figlio senza vederlo come un caso clinico da sistemare.

 

 

I dieci giorni successivi trascorsero all'insegna di un clima teso e piuttosto nervoso in casa Lightwood. Maryse continuava a cercare di convincere Alexander a ripensare all'idea dello psicologo mentre suo padre cercava solamente di tenere buona sua madre prima che le saltasse una coronaria nel tentativo di trattenere l'agitazione che aveva dentro.

Alec dal canto suo continuava a rifiutare di voler anche solo aprire la conversazione e cercava di dileguarsi ogni volta il più velocemente possibile così da evitare qualche tipo di lite in famiglia.

Quel giorno tuttavia Maryse si era decisa a voler aprire il discorso piazzandosi fra suo figlio e la porta della sua stanza.

«Alec non puoi scappare per sempre» gli disse lei con le braccia conserte sul petto, l'espressione severa e rigida di sempre sul viso così simile a quello fresco e giovane di Isabelle. «Prima o poi dovremo parlare, affrontare la cosa»

«Non c'è niente da affrontare, mamma.» rispose risoluto Alec mentre si stava infilando la sua felpa nera leggermente troppo larga, la zip a venir alzata fino alla gola. «Nè di cui parlare. Ora, se vuoi scusarmi...»

Lasciò in sospeso la frase mentre i suoi piedi lo portarono ad avvicinarsi alla donna in un chiaro intendere che avrebbe voluto lasciare la stanza e uscire. Ma Maryse rimase dov'era, sospirando stancamente, guardando al figlio con gli stessi occhi con cui ci si sarebbe aspettati di guardare un malato che rifiuta di prendere le sue medicine.

«Ma Alec se solo potessi..»

«STO BENE, MAMMA!» sbottò lui, ad alta voce, stringendo i pugni lungo i fianchi, trattanendo malamente tutta la confusione ed il casino che sentiva di avere dentro, lo stress e la frustrazione che cercava di seppellire e nascondere da sempre in fondo allo stomaco. «Non mi serve aiuto, non mi serve parlare e non mi serve che strapaghi uno strizzacervelli per cercare di aggiustarmi!»

Aggiustarmi. Come se fosse stato un oggetto o qualche tipo di strana macchina. Come se fosse rotto e ci volesse solamente un po' di colla e di tempo per risistemare le cose, per farle andare bene. Come se ci fosse qualche pezzo da cambiare al posto di parti considerate difettose. Era così che Alec si sentiva, che si era sempre sentito. Maryse non lo aveva mai sentito parlare così e, sbiancando, si ritrovò a sciogliere l'intreccio delle braccia sul petto lasciandole pendere molli lungo il corpo, boccheggiando per la prima volta senza parole. Alec si rese conto di trovarsi su una sottile linea di confine in quel momento. Se avesse detto anche solo un'altra sola parola non era certo che avrebbe potuto controllarsi e a tutti i costi doveva riuscire a farlo. Non poteva esplodere per quanto gli sarebbe piaciuto farlo e perciò invece di aspettare che sua madre dicesse altro, si limitò a spostarla per uscire dalla sua stanza e quindi correre di sotto per raggiungere la porta d'ingresso.

Uscì di casa di gran carriera, a passo spedito, con il cappuccio della felpa abbassato sulle spalle e le mani ostinatamente spinte nelle tasche, i jeans scoloriti e consunti a proteggerlo dal vento di quella sera di Novembre. Di lì a poco sarebbe stata ora di cena e per strada iniziavano a diffondersi gli aromi provenienti dai vari pub e trattorie dove poter trascorrere una tranquilla serata. I negozi stavano iniziando a chiudere, le varie attività giornaliere si accingevano a concludere la loro giornata. La gente per strada passeggiava sfrecciandogli accanto senza neanche degnarlo di una occhiata. Chi era al telefono, chi camminava con gli amici, chi col fidanzato. Gente che rideva, scherzava e parlava. Vecchietti seduti alle panchine, bambini che correvano con gli zaini a pendere pesanti sulle loro piccole schiene. La vita caotica di New York sembrò passargli attorno senza che lui potesse realmente toccarla. Ogni cosa sembrava vorticare in un turbinio di suoni e colori attorno a sé mentre lui si sentiva come congelato nel tempo, incapace di raggiungere chiunque altro, desideroso di urlare a squarciagola fino a quando chiunque non si sarebbe fermato -esattamente come lui- nel circondario.

Camminava a passo svelto senza una vera meta col bruciante desiderio di colpire qualcosa, di rompere qualcosa. Le mani chiuse a pugno prudevano nelle sue tasche e i suoi grandi occhi azzurri bruciavano di una fiamma oscura e distante, buia. Sentiva le lacrime salirgli agli occhi, pizzicare fastidiosamente mentre il vento freddo di Novembre frustava il suo viso. Non erano lacrime di tristezza, erano la prova della fatica che stava sopportando per evitare di urlare.

Si sentiva vicino al punto di implodere, come se avesse accumulato troppe e troppe cose nel suo corpo ed ora non fosse più in grado di contenerle. Si sentiva male al solo pensiero di dover soffocare tutto il casino che aveva per la mente. Avrebbe solamente voluto buttare tutto fuori, avrebbe voluto liberarsi, sentirsi vuoto, libero per una volta dall'enorme peso di quei pensieri e quelle verità che gli scavavano nel fondo dell'anima.

E fu proprio mentre questo lacerante desiderio di libertà si faceva strada dentro di lui che Alec si accorse di dov'era andato a finire. Davanti a sé si innalzava l'imponente edificio dove solo una manciata di giorni prima aveva giurato di non tornare. Alec si bloccò fissando le porte dinnanzi a sé a labbra schiuse, un vago senso di confusione ad aleggiargli attorno. Perchè? Perchè era finito lì? Non voleva entrare. Non voleva vedere quell'uomo, non voleva parlare. Ma si sentiva stanco. Era sfinito, avrebbe voluto solamente crollare lì e piangere per ore per cercare di sciacciar via assieme alle lacrime anche il peso di tutto quello che aveva dentro.

Perchè sua madre non poteva accettarlo così? Perchè non poteva smetterla di avere tutte quelle aspettative su di lui? Cercare di cambiarlo, di farlo sentire qualcuno che non era e che non sarebbe mai stato? Perchè suo padre non prendeva le sue difese? Perchè non si esprimeva mai? Perchè nessuno aveva interesse a sentire quello che lui avesse da dire?

 

Il mio lavoro è quello di aiutare chiunque venga qui a fare chiarezza fra i propri pensieri e sentimenti, liberare paure, riflessioni, desideri e considerazioni.

 

Alec si sentì stremato.

Stremato al punto da sfiorare la disperazione e da sentirsi in trappola, come se avesse corso così lontano dal sentiero della sua vita da non avere più idea di dove si trovasse e non sapesse più come fare per tornare sulla sua strada. Si sentiva perso, solo e confuso. Si sentiva stupido e ad un passo dall'arrendersi a tutto ciò che c'era attorno a lui, vicino al lasciarsi travolgere dalle violente ondate che quella vita di tanto in tanto gli mandava contro. Un sospiro tremante uscì dalle sue labbra mentre le sue mani ancora prudevano dal desiderio di schiantarsi contro qualcosa fino a sanguinare. Era un pensiero stupido, lo sapeva e per questo stava cercando in tutti i modi di impedirsi di abbandonarsi a quell'istinto. Alla fine decise di arrendersi e lasciarsi guidare non dalla rabbia ma dalla stanchezza.

Varcò la soglia dell'edificio seguendo gli stessi corridoi che aveva già percorso poco più di una settimana prima, ritrovandosi alla fine a comparire nella piccola sala d'attesa dalle pareti gialline e senza finestre nella quale aveva seduto poco tempo addietro. La segretaria stava indossando la giacca, la borsa pronta sulla scrivania per essere raccolta, mentre solamente la lampada sulla sua scrivania era ancora accesa. La giovane rimase sorpresa nel vederlo lì, soprattutto con quell'espressione funerea sul viso. Alec si sentì terribilmente a disagio lì, in imbarazzo, mentre muovendo qualche passo nella sala si lasciava cadere sul divanetto con la stessa flemma di chi si fosse arreso al proprio destino dopo una lunga ribellione.

«Ehm... stiamo chiudendo. Gli appuntamenti sono finiti per oggi» mormorò la ragazza con voce quasi colpevole, indicando con una mano il foglio appeso sulla parete lì accanto con su indicati gli orari di visita del Dottor Bane. «Se vuole possiamo fissare un appuntamento però» propose lei cercando di andare incontro ai bisogni del ragazzo in evidente difficoltà davanti a lei.

Alec si sentì quasi schernito e preso in giro dal destino.

Era arrivato fin lì, si era arreso ad entrare e... non era neppure nell'esatta fascia oraria?

Perchè? Perchè era sempre così fuori sincrono col resto del mondo?

Il ragazzo abbassò la testa sconfortato, portando le mani a stringersi nella sua zazzera scura con fare esausto. Scosse appena il capo in modo arrendevole non trovando più nemmeno la forza di alzarsi e andarsene.

«Alexander» la familiare voce che aveva creduto di non sentire mai più in vita sua lo riscosse dai suoi pensieri stranamente tranquilla, giungendo quasi come una mano tesa nella sua mente. «Che ci fai qui?» domandò ancora con voce morbida, accomodante, portando il ragazzo ad alzare lentamente il capo.

Alec portò le iridi sulla figura del Dottor Bane e si ritrovò a vederlo piuttosto sfuocato. Un velo di lacrime brucianti si era levato davanti alle sue palpebre rendendo il mondo un insieme di macchie confuse e poco nitide davanti ai suoi occhi. Si sentì debole e patetico e rassegnato, quasi non gli importava neppure che l'altro lo stesse vedendo in quelle condizioni.

«Io...» la sua voce era un soffio roco nel silenzio della stanza. Cercò di chiudere e riaprire gli occhi fino a scacciare quel velo nebbioso davanti alle iridi fino a quando la figura dell'uomo non fu completamente a fuoco. Lo stava guardando in viso con espressione assorta ma silente. Non sembrava intenzionato a dire niente, come se stesse unicamente aspettando che fosse lui a fare qualcosa. E improvvisamente Alec si sentì uno sciocco per essere venuto fin lì. Non riusciva a parlare, non voleva neppure dire niente eppure al tempo stesso voleva rovesciare tutto fuori. Ma senza che l'altro sentisse. Aveva senso? Non molto, lo sapeva, ma se ne rese conto solo in quel momento. Si sentì un idiota e col cuore che riprese a battere imbarazzato nel petto tirò su col naso voltando il capo, passandosi una mano sul viso. «Non importa. E'... è tardi» disse solamente come se fosse improvvisamente rinsavito, deglutendo a vuoto.

Si alzò dal divano con le gambe molli e il cuore pesante voltandosi verso la porta quando la voce dello psicologo lo raggiunse.

«Entriamo. Accomodati» disse voltandosi ed aprendo la porta del suo studio buio, la sua mano a scivolare sulla parete interna della stanza per accendere la luce dall'interruttore ivi posto. «Lucy ci penso io a chiudere l'ufficio, vai pure.» aggiunse rivolto allora alla segretaria che, dal canto suo, guardò i due ragazzi con aria perplessa prima di annuire e sistemarsi la borsa in spalla, avviandosi dunque verso l'uscita.

Alec la lasciò passare ritrovandosi bloccato sul posto ad osservare il terapeuta. Egli l'osservò di rimando con espressione pacata, gentile, come se stesse solamente aspettando che fosse Alec a scegliere cosa fare e lui ci si sarebbe regolato di conseguenza. Il ragazzo si sentì padrone di fare una scelta e per la seconda volta questa possibilità gli veniva offerta da quell'uomo.

Lo guardò tentennando per diversi istanti prima di annuire e seguirlo a testa bassa, con gli occhi in fiamme e la gola stretta in una morsa di ghiaccio.

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Capitolo 4
*** Primo passo ***


 

Alec avanzò a testa bassa fino alla scrivania dell'uomo adesso particolarmente vuota ed in ordine, senza alcuna borsa poggiata su di essa, alcun fascicolo aperto, nessun foglio svolazzante a ricoprirne la superficie. Solo una scatola da cui porgevano dei fazzoletti di carta ed un elegante porta penne accanto ad una lampada da scrivania spenta.

Si lasciò cadere su una delle due poltrone poste di fronte al ripiano del terapeuta e tenne la schiena distante dallo schienale della seduta, il capo inclinato verso il basso, molle, le mani a pendere verso il pavimento, in mezzo alle gambe tenute mollemente aperte. Tutto nella sua posa lasciava intendere un senso di abbandono e rassegnazione, di apertura. Il Dottor Bane richiuse la porta dell'ufficio lasciando la sua borsa sul divanetto all'interno della stanza, posto a lato dell'entrata, contro la parete a metà strada fra l'unica soglia presente e la grande finestra da cui ora non filtrava che la luce dei lampioni che seguivano la strada sottostante e le insegne di locali e negozi in procinto di chiudere.

L'uomo avanzò pacatamente fino alla scrivania senza però aggirarla. Le diede le spalle sedendosi con una gamba soltanto sulla sua superficie, a poca distanza dal ragazzo seduto di fronte a sé, le mani poggiate sulla coscia destra, la relativa gamba a pendere verso il basso.

«Vuoi parlare?» domandò il terapeuta con voce tranquilla, come se non fosse per niente turbato dall'evidente stato emotivo dell'altro.

Alec non alzò il capo, non lo guardò, limitandosi a scuotere leggermente la testa.

«Va bene» acconsentì lo psicologo estremamente calmo. Se la risposta di Alec l'aveva contrariato o infastidito, lo aveva nascosto incredibilmente bene. «Allora rimaniamo qui in silenzio finché ti va.»

Alec alzò il capo, lentamente, puntando i brillanti occhi azzurri in quelli verde-dorati dell'altro. Schiuse le labbra, sorpreso, come se non si capacitasse di quello che gli era appena stato detto. Si sentì improvvisamente uno stupido. Era lì, a far perdere tempo a quell'uomo, a tenerlo chiuso in quello studio dopo una lunga giornata di lavoro perchè aveva sentito il bisogno di trovarsi lì. E poi non riusciva a parlare.

Il Dottor Bane sostenne il suo sguardo carico di domande e confusione senza però dire una parola. Continuava ad osservarlo con fare tranquillo, composto; la sua figura irradiava una calma serafica che sembrava trasmettersi fino ad Alec in ondate calde e piacevoli. Si sentiva un po' meno agitato, ma era ben lungi dal sentirsi tranquillo. Era sopraffatto da un logorante senso di stanchezza e inadeguatezza che lo facevano sentire perso e distrutto. Esausto. Boccheggiò diverse volte come se stesse cercando di sputare fuori qualcosa che gli era rimasta incastrata in gola, aprendo e richiudendo le labbra senza che un singolo suolo ne uscisse fuori. Lo psicologo non si scompose; non lo incoraggiò a parlare, non gli fece alcuna domanda, né sembrò mettergli fretta per formulare quella frase che non riusciva proprio a formare fra le sue labbra.

Rimasero a guardarsi per un tempo che Alec non avrebbe saputo definire. Secondi? Minuti? Ore? Non aveva importanza. Qualcosa nello sguardo dell'altro aveva il potere di farlo sentire più sereno, come se sotto i suoi occhi non fosse qualcosa di venuto su male come invece si sentiva continuamente a casa. Era una boccata di aria pulita che gli gonfiava i polmoni fin quasi a far male.

«Non dovrei essere qui» disse alla fine Alec dopo diverse difficoltà, deglutendo.

«Perchè?» domandò l'altro con voce morbida, lenta, un tono caldo che arrivò al suo orecchio quasi come una carezza confortante.

Alec schiuse le labbra, arrossendo all'improviso. «Non ho soldi» ammise distogliendo lo sguardo, timidamente, vergognandosi di quella realizzazione che aveva appena colpito la sua mente. Non aveva soldi per pagare quella seduta imprevista -fatta oltretutto dopo l'orario di chiusura- e sicuramente non avrebbe voluto che sua madre scoprisse che lui era lì. Dopo tutte le liti affrontate durante la settimana perchè non voleva andare in visita dallo “strizzacervelli”, che figura avrebbe fatto se lei avesse saputo che alla fine lui ci era andato di sua spontanea volontà?

Il Dottor Bane non sembrò esserne minimamente preoccupato. «Non importa. Non preoccupiamoci di questo adesso. I tuoi genitori hanno pagato una visita che non hai sfruttato l'ultima volta: diciamo che siamo pari» lo rassicurò senza scomporsi, senza minimamente apparire turbato da quella soluzione dell'ultimo minuto. Alec soppesò quella possibilità con sguardo serio per qualche istante prima di annuire e sentirsi leggermente più leggero.

«Bene»

Il silenzio piombò nuovamente fra loro. Alec guardò le proprie scarpe improvvisamente estremamente interessanti mentre il terapeuta continuava ad osservare il giovane ragazzo davanti a sé con fare distante ma educato.

«Alexander»

La voce dello psicologo lo richiamò morbida, gentile, portando il ragazzo ad alzare il capo e cercarne lo sguardo, timidamente.

«Perchè sei qui?» domandò lui fissandolo con espressione ferma, imperturbabile, i glitter attorno agli occhi a brillare di tanto in tanto a causa della luce che si rifletteva su di essi. «Non devi necessariamente dirlo ad alta voce. Ma dai una risposta a te stesso.» continuò lui prendendo una piccola pausa. «E' tutto ciò che conta. Che tu stesso sappia cosa stai provando. Non è a me che devi dare risposte o spiegazioni, non è me che faranno star meglio queste risposte, ma a te soltanto.»

Alec strinse le labbra iniziando a far vibrare nervosamente la gamba destra picchiettando la punta del piede contro il pavimento. Distolse da lui lo sguardo cercando di rimanere calmo. Perchè era lì? Era ovvio che una volta superate quelle porte, se fosse stato abbastanza fortunato da essere accolto senza appuntamento, si sarebbero aspettati che lui parlasse. Ma lui non ne aveva alcuna intenzione. Non ne aveva le forze.

Nella sua mente avrebbe voluto che qualcuno potesse semplicemente guardarlo e capire come si sentisse, capire cosa ci fosse dietro l'espressione distaccata e turbata che aveva in volto, cosa si nascondeva nel fondo del suo stomaco. Voleva che qualcuno potesse semplicemente dirgli che capiva e che capisse davvero, togliendogli quell'enorme peso che aveva addosso senza che lui dovesse dire una parola. Si sentiva un debole per questo, si sentiva un codardo. Ma era quello che sentiva.

«Io... » mormorò con la bocca asciutta, la voce ridotta ad un soffio. «...ho pensato che fosse... meglio che distruggere qualcosa.» rivelò lui senza sollevare lo sguardo, quasi si vergognasse di quella rivelazione. «Volevo colpire qualcosa, sentivo le mani... e poi...» richiuse le labbra stringendole piano, deglutendo il grumo bloccato nella sua gola.

«Volevi che ti fermassi?»

«Sì» si strinse nelle spalle lui prima di scuotere il capo. «Cioè no. No. Non l'avrei fatto» continuò pizzicandosi la parte superiore del naso, in mezzo agli occhi. «Non sono violento. Sentivo solo...»

Ancora la sua voce si infranse contro il silenzio denso e fitto nella stanza. Il Dottor Bane non lo forzò a continuare, non fece altre domande, lasciandogli tutto il tempo di cui aveva bisogna, mezzo seduto sulla propria scrivania con il capo leggermente inclinato verso la spalla ad osservare la figura di quel ragazzo.

C'era qualcosa in lui che lo colpiva, che punzecchiava il suo interesse fastidiosamente. Forse perchè, nella sua mente, Magnus vedeva in quel giovane un elegante e meraviglioso ossimoro. Era un giovane uomo alto, grande, grosso, uno di quelli con i quali non vorresti attaccar briga se te lo trovassi davanti per strada, eppure celava nel suo sguardo e nelle sue parole una delicatezza ed una fragilità senza tempo. C'era qualcosa in lui che urlava per uscire ma che lui si ostinava a mettere a tacere in fondo all'anima, qualcosa che bruciava e graffiava e doleva sottopelle, tentando di venir fuori. Era come un bellissimo fiore circondato da una corona di pungenti spine. Probabilmente tentare di raggiungere i suoi petali avrebbe portato a procurarsi solamente una moltitudine di dolorosissimi tagli, di graffi profondi e brucianti. Ma non era un buon motivo per abbandonarlo alla sua gabbia spinata, no?

«Non ci riesco.» sospirò alla fine Alec portando le mani contro la fronte, chiuse in due pugni. La sua voce uscì fuori come un lamento strozzato e lo psicologo si ritrovò a raddrizzarsi strappato via dalle sue considerazioni.

«A fare cosa?» domandò con voce cauta, morbida, cercando di non forzare la mano o il discorso.

«A fare questo. A parlare» disse Alec stringendo gli occhi, i gomiti puntellati sulle cosce, il viso tenuto su dai palmi delle mani sulla fronte. «Non sono così. Non parlo di me. Non mi piace. Non voglio.» continuò come se fosse una qualche giustificazione, oppure una scusa. «Vorrei solo... vorrei solo star bene.» espirò con un soffio fragile e leggero scuotendo appena la testa.

Il Dottor Bane sorrise amaramente alla semplicità di quelle parole. «Non è quello che vogliamo tutti?» sorrise comprensivo, i lineamenti del suo volto a farsi più morbidi e gentili.

Alec sollevò il capo per guardarlo, uno sguardo mesto e quasi incerto sul viso.

Il terapeuta inspirò a fondo e si sistemò il trench nero, aperto sul petto, così da lisciarne ogni piega.

«Posso dirti quello che penso, Alexander?» domandò allora lui guardandolo negli occhi. «Le mie parole non sono verità assolute e posso sbagliare come chiunque altro. Per cui non sentirti in dovere di credere o meno a quello che dico adattando la realtà alle mie parole fino a quando non ti sembrerà che combacino» continuò lui senza interrompere il contatto visivo. «Ma adatta le mie parole alla realtà per vedere se corrispondono. E se così non dovesse essere sentiti libero di dirmelo. O di dirlo a te stesso»

Alec rimase colpito da quel discorso, dal modo in cui lo psicologo -nonostante dovesse essere il professionista fra loro- stesse cercando di dirgli che le sue parole non fossero una sicurezza né una garanzia. Non voleva imporgli la visione che aveva di lui apparentemente e questo non faceva altro che far sentire Alec ancora più leggero, privo di un po' del peso che gli gravava così duramente sulle spalle.

Alec annuì, in silenzio, dandogli modo di proseguire.

«Io credo che non volessi essere solo. Credo che volessi solamente avere qualcuno accanto. Non per parlare, non per... rompere qualcosa. Solo per sapere di avere qualcuno vicino. Possibilmente qualcuno che non volesse farti domande scomode»

Alec si soffermò a riflettere su quelle parole. Era questa la verità? Effettivamente il momento in cui aveva iniziato a rilassarsi è stato quando i due si sono seduti in quell'ufficio e sono rimasti in silenzio ad attendere che il ragazzo trovasse la forza di parlare. Camminare non lo aveva aiutato, rompere qualcosa probabilmente avrebbe solo aggiunto altri tipi di dolori al mucchio che già si portava dietro e parlare era assolutamente fuori discussione. Invece rimanere lì, in silenzio, sotto lo sguardo calmo e rassicurante di quel ragazzo, lo aveva portato a calmarsi poco per volta, lentamente, fino a trovare persino la calma necessaria per rispondere a qualcuna delle sue domande. Poca roba, ma pur sempre un inizio.

Lo guardò con espressione mite cercando i suoi occhi. Annuì in silenzio come un mutevole segno di resa, confermando le sue parole.

Lo psicologo dunque annuì. «Va bene. Io posso starti vicino» disse allora il ragazzo senza spezzare il contatto visivo, senza mettere fretta o ugenza nella sua voce. Il suo tono era quanto di più tranquillo e rassicurante ci fosse al mondo, l'unica certezza che in quel momento c'era attorno ad Alec. Se tutto attorno a lui fosse crollato in quel momento, era certo, l'unica cosa che sarebbe rimasta stoicamente al suo posto scomporsi, questa sarebbe stata la voce di Magnus Bane. «Non devi parlarmi. Non devi fare niente che non ti vada. Possiamo rimanere qui in silenzio per tutta l'ora se è quello che ti serve per sentirti meglio. Per stare bene.» continuò lui alzandosi dalla scrivania e lasciando scivolare i bordi inferiori del trench dietro le cosce, la mancina ad infilarsi nella tasca del soprabito mentre la destrorsa rimase a pendere lungo il fianco.

«Posso farlo. Se tu lo vuoi» ripeté con voce sicura, sincerità e calma a disperdersi nella stanza in ondate di calore provenienti da lui. Alec l'osservava come un animale ferito, timoroso di avvicinarsi e al tempo stesso di scappare. L'osservava incerto sul da farsi, preoccupato dall'idea di lasciarsi andare ma timoroso di perdere un'occasione che non avrebbe potuto cogliere altrove. Alec aveva persone che tenevano a lui, persone che desideravano sinceramente aiutarlo, ma nessuno era come Magnus Bane; sua sorella Izzy ed il suo migliore amico Jace avrebbero dato fuoco al mondo per proteggerlo. Avrebbero scatenato guerre e capovolto i cieli se questo avesse potuto in qualche modo aiutarlo. Erano sempre pronti a stringerlo fra le loro braccia a chiedergli cosa non andasse, a ricordargli che erano lì per lui. E più loro glielo ricordavano più Alec si sentiva sotto pressione, preoccupato all'idea di star mancando loro di rispetto richiudendosi nel suo guscio e nel suo silenzio. Si fidava di loro, più che di chiunque altro al mondo. Ma non voleva appesantire le loro spalle dei suoi pensieri. Nè, al tempo stesso, continuare ad essere fissato come se fosse un malato terminale bisognoso di attenzioni.

Magnus Bane, invece, non si aspettava nulla da lui. Non che parlasse, non che gli morisse d'un tratto sotto gli occhi. Non si aspettava scenate o pianti improvvisi, né discorsi elaborati o rilassati. Era a sua disposizione, pronto ad ascoltare se mai ci fosse stato bisogno d'ascoltarlo, ad attendere in caso l'altro non volesse parlare. Sapeva che non stava facendo altro che il suo lavoro, ma qualcosa gli diceva che, un altro psicologo, non gli avrebbe trasmesso la stessa calma e sicurezza che gli donava lui con i suoi sguardi attenti.

Alec l'osservò in silenzio per diversi attimi prima di stringere le labbra e prendere la sua decisione. Annuì alle sue parole in un tacito segno d'assenso, accettando la sua offerta. Il dottor Bane quindi si concesse un piccolo sorriso e, inspirando a fondo, continuò.

«Bene. E' un primo passo»

«Verso cosa?» domandò Alec con voce bassa, decisamente più tranquilla, col cuore fattosi improvvisamente più leggero ora che aveva preso la sua decisione.

«Convivere col tuo dolore» rispose l'altro, sereno, allungando una mano verso la gota sinistra dell'altro.

 

*

 

Le dita di Magnus sfiorarono la sua pelle solo con le punte in un gesto che voleva essere rassicurante e di conforto ma che in realtà era venuto fuori totalmente incontrollato ed imprevisto. Lo psicologo fu il più sorpreso dei due da quell'azione, ritrovandosi a sentire le pupille dilatarsi per un infinito istante mentre Alec schiudeva le labbra sorpreso da quel fare.

L'uomo ritrasse la mano un istante più tardi cercando di dissimulare al meglio la sorpresa per la sua stessa azione con un sorriso leggero, gentile, che volesse rivelarsi rassicurante.

Era chiaro a chiunque che quel giovane, dentro di sé, stesse soffrendo. Magnus non poteva ancora sapere il perchè, non poteva ancora capire i motivi dietro il suo dolore, ma si era fatto una idea di ciò che in quel momento si stava agitando dietro le limpide iridi azzurre dell'altro. C'era una lotta violenta che si stava svolgendo nella sua mente e nel suo cuore e lui poteva vederla attraverso le fiamme e le ombre che bruciavano negli occhi di quel ragazzo.

Alec sembrò improvvisamente a disagio in una maniera nuova e diversa dalle altre; non v'era nervosismo o tensione nel modo in cui adesso aveva distolto lo sguardo da Magnus, non trasmetteva quella sensazione di voler scappare da un momento all'altro alzandosi da una sedia che scottava troppo. Questa volta sembrava genuinamente intimidito, come se d'un tratto non sapesse bene come comportarsi dopo aver fatto un passo falso. Aveva in volto un'espressione ingenua e trasparente che lasciò lo psicologo interdetto per una manciata di secondi. Temeva che fosse stato il suo gesto inopportuno a metterlo in quella situazione di disagio. E ancora non riusciva a capacitarsi di perchè diavolo l'avesse fatto; faceva quel mestiere da un po', ormai, eppure mai prima d'ora aveva sfiorato volontariamente uno dei suoi pazienti.

«Ti senti meglio?» domandò allora Magnus, a quel punto, cercando di smorzare quel lieve momento d'imbarazzo sorto tra loro, riprendendo la solita e consueta professionalità che mai prima di quel momento aveva mancato d'esserci.

Alec non sembrò pensarci molto prima di abbozzare un sorriso appena accennato e annuire lievemente col capo. «Sì.» rispose a bassa voce, alzandosi quindi dalla sedia e inspirando a fondo. Sembrava più traquillo, ora. Magnus se ne sentì sollevato.

«Mi spiace di averla trattenuta più del necessario.»

Magnus sorrise muovendo una mano con fare rassicurante. «Non preoccuparti. Non è che avessi altri programmi per la serata» Specialmente ora che Catarina si era trasferita dall'altra parte della città e non viveva più con lui.

Alec sembrò sul punto di dire qualcosa ma dopo poco cambiò idea limitandosi ad annuire e schiarirsi la voce. «Allora... allora vado.» disse passandosi nervosamente una mano fra i capelli, evidentemente indeciso su come fosse più opportuno salutare il terapeuta dopo quella strana e bizzarra seduta. Magnus annuì e lo vide allontanarsi verso la porta.

Il ragazzo dunque aprì l'anta e, prima di varcare la soglia, si fermò per voltarsi in direzione dell'altro con espressione seria e sincera sul volto. «E grazie» disse semplicemente guardandolo negli occhi per un lungo momento, prima di voltarsi e andarsene definitivamente dal suo studio.

Magnus rimase in piedi a rigirarsi quella parola nella mente per infiniti istanti prima di azzardare un piccolo sorriso e lasciarsi quella camera alle spalle.   

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Capitolo 5
*** Confine ***


 

Tornato a casa quella sera aveva deciso di fare un primo passo per tentare di cambiare la situazione che si ritrovava a vivere quotidianamente a casa; sperare che sua madre comprendesse da sola che lui non aveva bisogno della sua soffocante preoccupazione probabilmente era un errore e perciò se voleva davvero cambiare le cose doveva fare uno sforzo e cercare di essere il primo a introdurre un cambiamento in quella logorante situazione.

Il dottor Bane l'aveva aiutato a trovare la calma e in qualche modo era riuscito a donargli un po' di conforto, una quantità sufficiente a farlo tornare a casa a mente più lucida e col cuore leggermente più leggero. Si sentiva davvero meglio dopo aver parlato con lui. Beh, parlato forse era un termine forte considerando che era stato proprio il suo silenzio a donargli un attimo di tanta bramata pace, ma questi erano dettagli.

Varcata la soglia d'ingresso si diresse con un profondo respiro verso la cucina dove sua madre era solita passare la serata seduta accanto alla finestra con un libro sulle gambe ed un bicchiere di vino rosso in mano. Suo padre probabilmente era nello studio oppure nella camera da letto a fare chissà cosa. I suoi genitori non parlavano molto dal fattaccio eppure nessuno dei due aveva pensato di lasciare l'altro. Alec era nervoso. Non gli era facile parlare ma sapeva che doveva farlo.

«Mamma?» domandò rimanendo fermo sulla soglia, le mani infilate nelle tasche dei pantaloni e lo sguardo basso leggermente intimidito.

La donna si voltò verso di lui con espressione indecifrabile, ferma, ma apparentemente tranquilla. «Sì?»

La sua voce era sottile, quasi avesse timore di spezzarsi alzandola appena un po'.

Alec si sentì stringere il cuore.

«Mi dispiace» esordì Alec stringendo le labbra, trattenendo un sospiro stanco, muovendo qualche passo verso l'interno della camera per raggiungere il davanzale interno della finestra dove sua madre era seduta con le gambe al petto ed il consueto libro in equilibrio contro le cosce. Si sedette accanto ai di lei piedi con le gambe larghe e gli avambracci poggiati sulle cosce, le dita intrecciate fra loro nello spazio fra le ginocchia. «Non volevo alzare la voce prima. Ero... stanco» continuò lui guardando davanti a sé la stanza, le dita a strofinarsi nervosamente l'un l'altra mentre cercava di radunare le idee ed i pensieri.

Maryse annuì appena senza dire nulla. Era raro che suo figlio scegliesse di sua sponte di parlarle, raro che la cercasse e che, soprattutto, si aprisse abbastanza da farle capire cosa ci fosse che non andava. Non che potesse realmente capire cosa c'era nel suo cuore, è chiaro, ma era un inizio.

«Andrò dal dottor Bane. Ci proverò» continuò il ragazzo tralasciando di dire quanto avesse scoperto di averne bisogno. «Ma non voglio che ti aspetti che questo cambierà necessariamente le cose. Non voglio che ti aspetti che fra una settimana o un mese sarò come Izzy, perchè non succederà. Io non sono così. E' il mio modo di essere questo, è il mio modo di affrontare le cose è quello che è successo a...» si fermò sentendo una fitta di dolore salirgli al petto e mozzargli il fiato. Strinse la mascella e i denti inspirando a fondo nel tentativo di placare il dolore al cuore. «... quello che è successo non ha niente a che fare con questo» riprese Alec ritrovandosi solo ora a voltare il capo verso sua madre, cercando con lo sguardo il suo viso. «Va bene?»

Maryse stava trattenendo le lacrime con la consueta forza d'animo. Quella donna era sempre stata la persona più forte e resistente che avesse mai conosciuto in tutta la sua vita. Sua madre era una roccia ed era impossibile ammaccare la corazza che giorno dopo giorno portava fieramente con sé. Sua madre era una guerriera e dacché Alec avesse memoria non l'aveva mai vista smettere di lottare. La donna annuì lentamente abbozzando un piccolo sorriso incerto.

«Grazie» disse solamente lei sporgendosi leggermente verso di lui distaccando la schiena dalla parete interna del davanzale, la mano che era precedentemente poggiata sul libro a cercare ora il bicipite del figlio. «Per provarci»

Alec annuì in silenzio e le sue labbra si incurvarono appena verso l'alto in una specie di spasmo involontario. Sapeva quanto fosse dura per lei, sapeva che non aveva mai avuto intenzione di ferirlo o fargli del male col suo atteggiamento, che era solo il suo modo di prendersi cura di loro. Ma questo non toglieva il fatto che lui non avesse bisogno di quel tipo di attenzioni soffocanti da parte sua. Il ragazzo quindi inspirò e si allungò verso di lei per stringerla a sé in un breve e goffo abbraccio. Portò il capo della donna sulla propria spalla tenendole la nuca con la mano, cullandola sul posto per pochi istanti prima di sciogliere la presa e tornare nella sua stanza.

 

 

Nelle settimane seguenti le cose sembrarono raggiungere un punto di svolta nella vita di Alec.

Sua madre stava facendo del suo meglio per dar tempo alla terapia di iniziare a dare i suoi frutti. Stava accuratamente evitando l'argomento con Alec che, dal canto suo, sembrava contento di quel piccolo risultato ottenuto. Sua madre non aveva avuto bisogno di grandi spiegazioni da parte sua, ma le era bastato vedere che ci stava provando davvero per calmarsi un po' e questo aveva allentato un po' la tensione in casa. Forse, in fin dei conti, tutto ciò che lei gli aveva chiesto era solo di provarci.

Gli incontri col Dottor Bane divennero ben presto i momenti della settimana che preferiva.

Nonostante in casa riuscisse a sentirsi un po' più tranquillo ora che sua madre sembrava aver accettato il fatto che avesse bisogno di un po' di pace, c'era sempre quella sensazione di attesa e aspettativa a gravargli sulle spalle. Nonostante nessuno gli stesse chiedendo nulla, gli bastava guardare in faccia la sua famiglia per vedere nei loro occhi le domande che trattenevano a fatica. Si sentiva stretto fra quelle mura, si sentiva sotto esame e attendeva impaziente il momento in cui avrebbe raggiunto lo studio del suo psicologo per respirare una boccata d'aria fresca. Di libertà.

Le loro sedute non avevano raggiunto cruciali punti di svolta. Alec non riusciva ad aprire bocca durante le sue visite e il Dottor Bane aveva mantenuto la sua parola evitando di forzarlo in alcun modo a fare qualcosa che non gli andasse. Rimaneva lì a fargli compagnia scambiando al più qualche chiacchiera di circostanza per metterlo a suo agio, conversando magari del tempo oppure di qualche news letta sul giornale o sentita in TV. Seduta dopo seduta Alec iniziò a sciogliersi sempre più fino a sentirsi totalmente a suo agio in quella stanza. Quell'uomo lo faceva sentire accolto e compreso in un modo totalmente nuovo ed inaspettato, un modo che non sapeva neppure di desiderare. Magnus Bane non si aspettava nulla da lui, non era come se guardandolo cercasse nelle sue parole o nei suoi gesti un Alec che adesso sembrava morto. Lui vedeva l'Alec che c'era adesso ed era a lui soltanto che dedicava il suo tempo e le sue attenzioni. Il ragazzo si beò di quella sensazione rendendo quegli appuntamenti settimanali le sue ore preferite della giornata.

Quel giorno era stato così impaziente di raggiungere l'ufficio che era arrivato con un quarto d'ora buono d'anticipo trascorso più o meno rapidamente in silenziosa compagnia della segretaria dell'uomo. Lui sarebbe stato l'ultimo appuntamento del giorno e fuori da quello studio il sole aveva già compiuto la sua discesa oltre l'orizzonte.

Alla fine la porta dell'ufficio si aprì e da essa ne uscì un uomo dalla folta barba scura ed i lunghi capelli neri. Aveva un'aria stanca e turbata e qualche lacrima stava scintillando nei suoi occhi. Alec non indugiò sulla sua figura per più di un istante sentendo in qualche modo di star invadendo la privacy di quell'uomo. Attese che il Dottor Bane fosse pronto e dunque entrò richiudendosi la porta alle spalle.

«E' davvero sicuro che le sue sedute facciano bene ai suoi pazienti?» domandò Alec entrando nella camera e raggiungendo la consueta poltrona davanti alla scrivania, l'espressione ormai più tranquilla e rilassata all'interno di quelle mura. «Li vedo uscire di qui sempre piangendo» tentò di scherzare lui con quel suo tono incerto che lasciava presagire quanto poco fosse abituato a fare delle battute.

Il terapeuta lo trovò tenero.

«Beh piangere è un ottimo modo per sentirsi meglio in genere.» rispose l'altro che, nel mentre, era in piedi dietro la sua scrivania a sistemare dei libri su degli scaffali. Quel giorno indossava una giacca di pelle rossa ed una maglietta scura al di sotto con alcuni brillantini luccicanti incollati su di essa. I pantaloni di pelle nera erano decorati da alcune sottili catenine che ondeggiavano sui lati delle cosce mentre i capelli avevano le punte sfumate di rosso. Alec aveva iniziato a trovare normale il look appariscente e bizzarro di quell'uomo. «Immagino che tu non sia tipo che piange spesso, vero?» continuò il dottor Bane con tono assolutamente tranquillo, colloquiale, senza alcun doppio fine dietro le sue parole. Non era un modo per psicanalizzarlo e il ragazzo ne era assolutamente sicuro.

«No, infatti.» annuì Alec sedendosi, stringendosi nelle spalle. «Non ricordo quando ho pianto l'ultima volta, in realtà» ammise assottigliando ora lo sguardo come a voler tentare di ricordare quella sensazione.

Era passato così tanto tempo che, probabilmente, doveva esser stato ancora un bambino quand'era successo l'ultima volta, anni ed anni addietro, laddove i ricordi si facevano confusi e sfocati, come se li andasse a guardare attraverso un vetro opaco che gli concedeva di vedere chiaramente solo piccoli sprazzi di un passato ormai lontano. Ma in fin dei conti non ci teneva particolarmente a ricordare quelle sensazioni; aveva sempre lottato per non piangere, per essere forte e nascondere quella debolezza agli occhi di chiunque altro, che senso aveva adesso cercare di ricordare l'ultima volta in cui non ci era riuscito?

«Beh mi fa piacere sentirlo» commentò l'altro mentre andava a prender posto alla poltrona dietro la scrivania sistemandosi la giacca di pelle di modo che non tirasse troppo mentre si sedeva.

Alec aggrottò leggermente le sopracciglia.

«Ah sì?» chiese confuso. «Perchè?»

Il Dottor Bane si umettò rapidamente le labbra e quindi inspirò piano dalle narici, silenziosamente. «Perchè persone come te –che non piangono spesso, piangono solo quando qualcosa di orribile accade, qualcosa che non dimenticherebbero mai.»

 

*

 

Magnus ricordava perfettamente l'ultima volta che aveva pianto.

Non avrebbe mai potuto dimenticare quel giorno. Era inciso a fuoco nella sua mente e nel suo cuore in una ferita che non si sarebbe mai cicatrizzata e che avrebbe continuato a sanguinare probabilmente per sempre. Proprio come Alec non era il tipo di persona che si abbandonava spesso alle lacrime; nonostante la giovane età Magnus Bane era un ragazzo forte e tenace, capace di sopportare il dolore con invidiabile stoicità. Tuttavia c'erano episodi, ricordi, capaci di tormentarlo ancora oggi con indicibile violenza, capaci di annientarlo e buttarlo a terra liberando fiumi di lacrime e dolore dai suoi occhi.

Improvvisamente il silenzio calò fra loro, denso e tagliente, quasi come la quiete che seguiva la discesa della lama di un boia. Alec parve d'un tratto scomodo sulla sua sedia, con lo sguardo a vagare per la stanza nervosamente e le mani a giocherellare rapide con la zip della sua giacca. Ancora una volta si richiuse in sé allontanandosi dal discorso che, in qualche modo, avrebbe potuto portare la conversazione ad un livello più profondo ed intimo, qualcosa che il ragazzo sembrava ancora assolutamente convinto a voler rifuggire. Magnus non voleva forzarlo, non avrebbe tentato di forzare la conversazione verso lande ostili all'umore del suo paziente e così si ritrovò a mettere su un sorriso conciliante e gentile.

«Ad ogni modo—» iniziò col dire Magnus con voce squillante e rilassata in un chiaro tentativo di cambiare totalmente argomento. Tentativo che, purtroppo, venne interrotto da un leggero bussare alla porta. Magnus boccheggiò per un istante, sorpreso, portando lo sguardo verso di essa e poi verso Alec.

«Ti spiace se...?» gli chiese a bassa voce facendo cenno col capo alla porta.

Alec, dal canto suo, scosse leggermente la testa altrettanto sorpreso di quella imprevista interruzione. «No, no» disse già più tranquillo di poco prima.

Magnus allora sorrise grato e quindi si alzò per avvicinarsi alla porta facendo il giro della scrivania. Si piazzò davanti all'entrata e aprì l'anta con espressione leggermente piccata. «C'è un paziente dentro» disse con tono duro e piuttosto esplicativo.

La segretaria che si ritrovò davanti dall'altro lato della soglia mise su una espressione mortificata e nervosa. «Ehm, sì, lo so, mi dispiace. Ma vede—uh, un certo Ragnor ha chiamato e ha detto che ha bisogno di parlarle» spiegò la ragazza voltandosi per lanciare una occhiata al telefono sulla scrivania. La spia rossa che stava ad indicare le chiamate in attesa stava lampeggiando. «Dice che si tratta di una emergenza» aggiunse tornando ad osservare il terapeuta che, dal canto suo, roteò gli occhi verso l'alto liberando un lieve sospiro.

«Oddio...» mormorò pizzicandosi l'arco del naso con due dita, prima di scuotere appena il capo e schiarirsi la voce. «Okay, sì, va bene. Passamelo pure di là» si arrese richiudendo la porta e tornando verso la scrivania con un piccolo sospiro. Si sedette e nel giro di poco vide illuminarsi la spia che indicava la chiamata in attesa. Magnus allora alzò lo sguardo su Alec e si abbandonò contro lo schienale della poltrona con aria colpevole.

«Scusami davvero. Ci metto un istante a scaricarlo»

Alec, dal canto suo, sorrise lievemente con fare divertito. «Faccia pure»

Dopotutto non è che avrebbero usato quel tempo per fare altro, in fin dei conti. Magnus allora annuì e quindi schiacciò uno dei vari pulsanti sulla tastiera dell'apparecchio dinnanzi a sé sulla scrivania.

«Ragnor, sei in vivavoce ed io sono con un paziente. Per cui sii rapido e conciso e spero per te che si tratti davvero di una emergenza»

«Quando mai ti chiamo per delle non emergenze, io?!» esclamò la voce dall'altra parte del telefono con tono oltraggiato e alterato. «Se non ricordo male l'ultima volta che mi hai chiamato per una emergenza non sapevi cosa indossare per il tuo appuntamento con quel grandissimo figlio di—»

«Sì Ragnor, va bene, abbiamo capito!» interruppe Magnus di gran fretta alzando la voce, distaccando la schiena dai cuscini della poltrona per mettersi dritto e leggermente rigido, schiarendosi la gola. «Qual è questa emergenza?»

«Ehm. Okay, va bene. Ho trovato una scatola piena di gattini appena nati abbandonati davanti la chiesa dietro casa. Sono riuscito a trovare una casa a tutti tranne che ad uno: siccome hai già un gatto non avrai problemi ad occuparti anche di un nuovo arrivato, no?»

«Stai scherzando? E' questa la tua emergenza?» domandò Magnus piazzandosi una mano sulla fronte.

«Senza qualcuno che si prenda cura di lui questo micio potrebbe morire quindi sì, citrullo, è un'emergenza!» lo rimbeccò Ragnor con tono piccato e sicuro, lo stesso che la gente usava per rimproverare chi amava sapendo che non se la sarebbero presa.

«Ma non puoi occupartene tu, scusa? Sai che il Presidente Meow odia tutti. A malapena convive con me quell'ingrato: pensa a come potrebbe tormentare quel povero gattino»

«Volevo tenerlo ma Raphael... beh, sai che gli animali non sono il suo forte. Non posso prenderlo in casa se lui non vuole, è anche casa sua in fondo»

Magnus sospirò rassegnato con espressione combattuta.

«Posso prenderlo io, se... se vi va»

La voce di Alec portò la stanza a piombare nel silenzio più assoluto per una manciata di secondi. Magnus alzò lo sguardo per osservarlo con fare sorpreso schiudendo le labbra mentre Ragnor sembrò trattenere il respiro per qualche secondo. «Chi? Chi è?» domandò dopo poco con tono entusiasta.

«Ahm. Scusate. Forse non dovevo--»

«No, no Alexander, non preoccuparti, anzi!» esclamò subito Magnus con un ampio sorriso stampato sul volto. «Potresti farlo davvero?»

«Beh... sì. Abbiamo sempre pensato di prendere un animale in casa, ma per un motivo o per un altro non l'abbiamo mai fatto. Non credo che nessuno avrebbe da ridire» disse stringendosi nelle spalle con fare tranquillo, pacato, come se stesse parlando di qualcosa da nulla e non di starsi offrendo per salvare dall'abbandono una piccola creatura indifesa.

Magnus si illuminò in volto snudando i denti in un ampio sorriso sollevato. «Perfetto! Allora è deciso!» esclamò rivolgendo ora la sua attenzione verso il telefono. «Ragnor, puoi portarmelo allo studio--»

«Oh no, è già a casa tua. L'ho messo in un trasportino e chiuso in camera tua così quell'infame del tuo gatto non potrà dargli fastidio» esclamò Ragnor con tono improvvisamente più leggero e felice. «Allora è sistemato! Grazie tante dell'aiuto Alexander!» continuò di gran fretta prima di chiudere la chiamata e lasciare Magnus attonito e senza parole dall'altro capo del telefono.

 

*

 

Alec si ritrovò a trattenere malamente una risata quando la telefonata si concluse.

Era stato bizzarro e stranamente divertente assistere a quella piccola scena. C'era una confidenza ed una intimità fra i due ragazzi al telefono che chiunque avrebbe potuto notare dopo solo il primo istante di conversazione. Per la prima volta si ritrovò a vedere il proprio terapeuta sotto una luce completamente diversa. Non qualcuno verso cui correre per trovare un attimo di pace, non un rifugio dove nascondersi e sentirsi compreso. Non la soluzione ai suoi problemi. Ma una persona. Per la prima volta Alec vide attraverso il mestiere altrui notando ciò che l'altro era realmente; un ragazzo con una vita al di fuori di quello studio, un ragazzo capace di ridere, scherzare, avere amici e persino un gatto antipatico per casa. Una persona che aveva appuntamenti -apparentemente disastrosi- ed una personalità fresca e leggera.

Alec non sapeva come avesse potuto non accorgersene da subito, come potesse aver ignorato per tutto quel tempo che Magnus Bane era, dopotutto, anch'egli una persona come un'altra. Non si era mai soffermato a chiedersi che tipo di persona potesse essere fuori da quel luogo, come mai a quell'età avesse scelto quel tipo di carriera, perchè avesse dedicato la sua vita e la sua giovinezza ad aiutare gli altri. Si sentì uno stupido per non averci pensato prima ed anche piuttosto in colpa; tuttavia non appena realizzò di aver davanti una persona qualunque, capace di provare sentimenti, dolore e frustrazione come chiunque altro, la curiosità iniziò a farsi vorace.

Voleva sapere di più su quell'unico uomo capace di farlo sentire, talvolta, in pace col mondo per una breve, infinita ora.

«Ma tu guarda...» biascicò incredulo Magnus fissando il telefono con sguardo basito, la testa a venir scossa leggermente in un moto quasi meccanico. «Non era esattamente per questo che gli ho dato una copia delle chiavi di casa!» riprese tra sé e sé premendo il pulsante di chiusura chiamata e sospirando stancamente.

Alec sorrise sotto i baffi ridacchiando silenziosamente. «Chi era?» domandò, incuriosito, inclinando leggermente il capo.

«Lui? Oh, lui è Ragnor. E' un mio vecchio amico. Lo conosco dai tempi del liceo. Per un breve periodo abbiamo abitato sullo stesso pianerottolo e ci eravamo scambiati le chiavi dei nostri appartamenti per eventuali emergenze. Solo che quando si è trasferito non me le ha più restituite ora che ci penso» disse il terapeuta sistemandosi sulla poltrona e guardando il ragazzo. Aveva una espressione rilassata, tranquilla e Alec fu stordito dall'improvvisa consapevolezza di avere davanti quello che poteva quasi essere un suo coetaneo. Solo nel sentirlo parlare così tranquillamente di amici e frivolezze si rese davvero conto di quanto fosse giovane. Certo, lo aveva visto immediatamente appena entrato nell'ufficio: aveva subito notato l'aria fresca, frizzante, eccentrica di quello strano individuo, ma aveva ben presto smesso di far caso alla sua singolarità durante il corso delle loro visite. I suoi occhi... c'era qualcosa in quello sguardo profondo e serio che proprio gli aveva fatto dimenticare quanto fosse giovane. Erano occhi di un altro tempo, quelli. Erano stanchi, colmi di un'ombra senza nome che Alec non era perfettamente in grado di identificare. C'era qualcosa di vecchio nel suo sguardo, come se sulle sue spalle gravassero molti più anni di quanti in realtà non ne avesse vissuti. Ma c'erano rari momenti, piccoli istanti, in cui quelle ombre sfumavano in luccichii brillanti e luminosi, in cui tornava ad essere un ragazzo come tanti con ancora tutta la sua vita davanti. Alec voleva che quei momenti fossero più frequenti. Voleva vedere quella scintilla accendergli lo sguardo, alleggerire la sua espressione in quei sorrisi gentili capace di alleggerirgli il cuore.

Il Dottor Bane, comunque, parve come riscuotersi da qualche pensiero silenzioso e tornò al suo solito sguardo pacato e gentile, vecchio di anni. «Ad ogni modo non far caso a lui. E' un brontolone convinto di avere sempre ragione e che ha paura di divertirsi, ignoralo e basta» disse muovendo una mano in un gesto di non curanza, come se volesse scacciare il pensiero di Ragnor dalla conversazione.

Alec si ritrovò ad assottigliare appena lo sguardo divertito dalle parole dell'altro.

«Convinto di avere sempre ragione?» domandò il ragazzo abbandonandosi rilassato contro lo schienale della sua poltrona sostenendo lo sguardo del terapeuta. «E ce l'ha mai? Ragione, dico.»

Il terapeuta parve mettere su, per un istante soltanto, una specie di broncio.

«...Qualche volta.»

«Qualche volta?» chiese Alec inarcando un sopracciglio.

«Okay, va bene, spesso ma che rimanga tra noi. Se dovesse venire a sapere che l'ho ammesso..» Il gomito del medico si puntellò sulla scrivania e la sua mano andò a schiantarsi contro la sua fronte, mantenendo la testa come se fosse sul punto di cadergli dal collo. «...Non voglio nemmeno pensarci.»

Una risata piena e sincera esplose dalle labbra di Alec che, reclinando la testa all'indietro, sentì l'aria come mancargli dai polmoni tanto stava ridendo. Era una sensazione alla quale non era più abituato, era qualcosa che non faceva da così tanto tempo.... non credeva sarebbe più riuscito a ridere così liberamente, che avrebbe più assaporato la sensazione di indolenzimento al costato dovuto allo sforzo di quella risata incontrollata che non lasciava più le sue labbra. Non era una risata rumorosa, non era eccessiva o plateale. Era piuttosto silenziosa, ma pulita.

Il Dottor Bane rimase ad osservarlo ridere per una frazione di secondo in totale sbalordimento, vedendolo finalmente totalmente rilassato e vulnerabile sotto i propri occhi. Era la prima volta dacchè si erano incontrati per la prima volta, che Alexander Lightwood si mostrava così apertamente indifeso e scoperto. Una risata come quella, esattamente come un pianto disperato, era uno di quei rari fattori che indicavano la totale apertura di una persona, l'abbassamento di mura e difese che solitamente venivano tenute alte con fatica ed impegno. Rimase ad osservarlo ridere solamente per una manciata di secondi prima di riscuotersi e fingere un'espressione oltraggiata.

«Non è divertente. Guarda che Ragnor è davvero petulante! Certo, non ai livelli di Raphael, lui è al limite dell'insopportabile, ma non ci è tanto lontano, dico sul serio!»

La risata di Alec si spense lentamente, la sua testa a scuotersi piano con fare divertito prima di tornare ad osservare il terapeuta con rinnovata leggerezza e l'addome appena indolenzito. «Sembrate davvero affiatati. E'... una bella cosa» osservò Alec con un sorriso gentile sulle labbra, l'espressione ora tornata tranquilla, rilassata, forse leggermente intimidita dal fatto che non era abituato a sostenere questo tipo di conversazione. Non era solito parlare di rapporti personali o sentimenti, non lo aveva mai fatto con nessuno da quel giorno, per cui aveva qualche difficoltà a parlarne senza sentirsi in qualche modo... bloccato.

«Immagino di sì.» concesse il Dottor Bane stringendosi nelle spalle, accavallando le gambe sotto la scrivania ed abbandonandosi contro la poltrona con fare tranquillo. «Senti, a parte questo, volevo dirti che davvero non devi sentirti obbligato a darci una mano con questa storia del gatto» continuò il terapeuta facendosi ora serio, seppur mantenendo un'espressione gentile e pacata. «Di sicuro non lo lascerei per strada, troverei il modo di occuparmene e di farlo star bene, per cui non preoccuparti se questa faccenda dovesse crearti qualche problema»

Alec si schiarì la voce e quindi si distaccò leggermente dallo schienale della poltrona per tenere ben dritta ed eretta la schiena. «No, no, non è un problema. Davvero, mi sono offerto perchè posso farlo. Non è un disturbo per me.»

Il terapeuta quindi sorrise e respirò a fondo, lentamente, rimanendo in silenzio per alcuni secondi limitandosi a guardare l'altro negli occhi per alcuni istanti.

«Allora va bene. Grazie per il tuo aiuto Alexander. E' un bel gesto da parte tua»

Alec si strinse nelle spalle non sapendo bene come altro reagire a quelle parole, sentendosi come se in realtà non stesse facendo nulla di così grandioso con quella sua decisione.

«Hai impegni questa sera?»

La domanda rimase sospesa fra loro quasi riecheggiando in un silenzio denso e palpabile. Alec alzò immediatamente lo sguardo ritrovandosi preso alla sprovvista da quella domanda. Schiuse le labbra boccheggiando silenziosamente per una manciata di secondi, ad occhi larghi, prima di sbattere le palpebre e deglutire con fare meccanico.

«N-no.» rispose piuttosto confuso e leggermente stordito da quel dire. «Perchè?»

Il Dottor Bane fu quasi intenerito dal tono guardingo dell'altro e si ritrovò ad alzarsi dalla sua poltrona mentre infilava fascicoli e documenti all'interno della sua borsa in pelle lucida poggiata sulla scrivania. «Perchè pensavo che potevi passare a prendere il gattino già oggi, se non dovessi voler aspettare il nostro prossimo appuntamento» spiegò il ragazzo mentre, come ultima cosa, infilava nella borsa la sua agenda personale.

Alec si rilassò immediatamente rendendosi conto solo in quel momento di essersi irrigidito e di aver trattenuto il fiato per tutto il tempo intercorso fra la sua domanda e quella semplice risposta.

«Oh» mormorò sbattendo rapidamente le palpebre, una punta di delusione a bruciare amara sulla punta della lingua. «Sì. Certo. Va bene» annuì schiarendosi la voce, cercando di ignorare quella strana ondata di sensazioni che gli erano salite dal fondo dello stomaco. Per un istante soltanto aveva sfiorato con la mente l'idea di prendere una birra con quell'uomo, parlare di qualche vecchio aneddoto sul suo bizzarro gruppo di amici, parlare di qualunque cosa non fosse se stesso e i suoi evidenti problemi di interazione sociale. C'era qualcosa di quell'uomo che lo affascinava, che solleticava la sua curiosità. Voleva saperne di più, voleva conoscere la persona che risiedeva dietro la figura del suo terapeuta. La persona con la quale forse, un giorno, sarebbe riuscito persino a parlare tranquillamente senza sentirsi trattenuto da catene di fuoco e spine.

Forse, in fin dei conti, ciò di cui più aveva bisogno non era uno psicologo. Forse quello di cui aveva bisogno era un amico. Un amico che lo avesse conosciuto nel dopo e che non cercasse in lui tracce dell'Alec del prima.

«Bene. Non sarà un lungo contrattempo, prometto. Abito a pochi isolati da qui» disse l'uomo andando a sistemarsi la giacca di pelle rossa addosso, chiudendola così da coprirsi maggiormente una volta fuori dall'edificio.

Alec quindi annuì e si alzò a sua volta con le mani ben infilate nelle tasche della giacca e la schien aleggermente incurvata verso il basso, i capelli scompigliati a riflettere la luce che proveniva dalla finestra ora alle sue spalle.

Lasciò che il terapeuta facesse strada verso la porta, seguendolo a pochi passi di distanza e richiudendosi la porta alle spalle. Si sentiva in qualche modo nervoso, un nodo allo stomaco lo faceva sentire teso e in difficoltà. Sentiva una sensazione opprimente al petto, quasi un'aspettativa sconosciuta a diffondersi nelle sue vene ad ogni battito accelerato del cuore. Non avrebbe saputo dire se fosse una sensazione fastidiosa o piacevole, se fosse disagio oppure speranza. Sapeva solo di sentirsi pervaso da una ondata di sensazioni contrastanti e travolgenti e che in qualche modo temeva di star facendo qualcosa di sbagliato. Era il suo terapeuta: era giusto varcare la soglia della professionalità ricercando da lui qualcosa che andasse al di là di quella? Era giusto volere da lui non un parere in quanto esperto ma una presenza ben più vicina e confidenziale? Sentiva di star assaporando il gusto di qualcosa di proibito, qualcosa che non avrebbe dovuto volere. Sentiva di star scoprendo un bisogno pericoloso, qualcosa dalla quale avrebbe dovuto tenersi alla larga prima che fosse troppo tardi, prima che iniziasse ad aprirsi davvero, che gli permettesse di superare quelle difese che aveva eretto con così tanta difficoltà.

Era ancora in tempo. Poteva ancora dirgli che forse non era una buona idea, che sua sorella odiava i gatti, che sua madre non voleva peli in giro per casa. Poteva ancora sfuggire da quella situazione, tenersi dal lato giusto del confine fra loro. Poteva ancora...

Il Dottor Bane si voltò nel corridoio oltre la sala d'attesa davanti lo studio, il suo sguardò cerco la figura di Alec che si era improvvisamente bloccato nel bel mezzo della stanza con le mani nelle tasche e l'espressione combattuta.

«Alexander» disse la voce calma e rilassante dell'altro. «Andiamo?»

Alec alzò lo sguardo e incontrò quello rassicurante e confortante dello psicologo. Aveva un sorriso gentile sulle labbra, la borsa stretta in mano lungo i fianchi ed una espressione accomodante sul viso. La sua intera figurava emanava ondate di pace e di qualcos'altro che non avrebbe saputo definire. Come se ci fosse una sola risposta possibile alla sua domanda, a qualunque sua domanda.

«Sì» annuì Alec inspirando, tenendo ora la testa alta. «Andiamo.»

E varcò il confine.

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Capitolo 6
*** Church ***


Per strada i due camminarono l'uno accanto all'altra a passo lento e mantenendo un discreto silenzio. C'era una specie di denso imbarazzo venutosi a creare non appena avevano varcato la soglia dell'ingresso dell'edificio ove risiedeva lo studio del terapeuta.

Magnus era decisamente nervoso.

Non si capacitava di come si fosse improvvisamente trovato in questo tipo di situazione. Aveva sempre mantenuto un rapporto strettamente professionale coi suoi pazienti riuscendo a tenere da parte qualsiasi suo parere personale, ma questa volta... qualcosa era andata storta lungo il cammino, qualcosa aveva fatto sì che Magnus si avvicinasse ad Alexander al di là del semplice lavoro. Lo stava portando verso casa sua per lasciargli un gatto attualmente rinchiuso nella sua stanza. Gli aveva parlato liberamente di Ragnor, di Raphael, del loro rapporto. Nessuno dei suoi pazienti aveva neppure mai saputo che Magnus avesse una vera vita fuori da quell'ufficio.

La cosa non gli piaceva. Non era qualcosa che poteva permettersi. Era sbagliato e poco professionale.

I passi si succedevano lenti e cadenzati, il suono dei tacchi dei suoi stivaletti di pelle a confondersi con il rumore dei clacson che risuonavano distanti, delle auto che sfrecciavano al loro fianco e del brioso chiacchiericcio della folla che si muoveva per i marciapiedi di Brooklyn. Le luci delle insegne e dei lampioni illuminavano la città assieme ai fanali delle auto e le vetrine dei pochi negozi ancora aperti ed un vento freddo colpiva la loro pelle in sferzate taglienti. Magnus si strinse nel suo giubbotto rosso e con una mano andò a tirar su il colletto per proteggersi la gola.

Alec camminava al suo fianco con le mani rigidamente infilate nelle tasche della giacca scura ed il capo basso, quasi trascinando i piedi. Sembrava stesse cercando di passare inosservato nella folla in netto contrasto col passo sicuro ed elegante di Magnus; a guardarli c'era una bizzarra opposizione nelle loro figure. Alec era vestito nel modo più semplice e piatto possibile, con dei vecchi jeans scoloriti ed una giacca a vento nera che era stata nuova diversi anni prima, la schiena appena ricurva ed il capo basso a fissare dove stava mettendo i piedi; Magnus aveva i capelli alzati con le punte sfumate di rosso in combinazione con la giacca di pelle scarlatta che seguiva la linea dritta e tesa della schiena. Camminava a testa alta, sfacciatamente, affrontando il mondo senza paura, quasi sbattendogli in faccia la sua presenza.

Si fermarono ad un semaforo in attesa che la luce divenisse verde, soli in prossimità delle strisce pedonali, mentre macchine e scooter sfrecciavano sotto ai loro occhi. Alec sembrava piuttosto a disagio in quel momento e Magnus iniziò ad avvertire la nuca prudere per quel vago senso di imbarazzo calato fra loro.

«Quindi, uh, ti piacciono gli animali?» chiese Magnus cercando di riempire quel silenzio con le prime parole che gli passarono per la mente.

Alec alzò lo sguardo e lo puntò su quello dell'altro con aria lievemente turbata. «Uh. Sì.» disse portando una mano verso il capo a grattare un punto dietro la nuca. «Ma non ne ho mai avuto uno in casa. Ne abbiamo discusso una volta...» Il suo volto s'era diretto verso la parte opposta del marciapiede. Il suo sguardo guardava lontano, la sua voce si perse nel caos del traffico attorno a loro. Lasciò cadere la frase così mentre un'ombra sembrò oscurare la sua espressione.

La luce del semaforo si fece verde e i due attraversarono la strada assieme raggiungendo l'angolo opposto della via, dirigendosi verso una via che si faceva via via più silenziosa e tranquilla, meno affollata e più ampia. Si trovavano in una vecchia zona industriale convertita in residenziale dove vari magazzini e locali adibiti a piccole fabbriche erano stati modificati in loft e appartamenti. Avevano fatto un ottimo lavoro: gli edifici sembravano essere in buono stato nonostante fosse evidente che fossero lì da molti anni.

Magnus si fermò davanti uno dei vari portoni.

Infilò la chiave nella toppa e i due entrarono all'interno in una hall buia e scarsamente illuminata che dava su una rampa di scale in ferro battuto piuttosto elegante e apparentemente solida. Gli scalini erano di pietra massiccia e resistente, le ringhiere decorate da intarsi di ferro di un'epoca non più attuale. In qualche modo la struttura di quel posto sembrava essere adatta alla figura del terapeuta.

Alec rimase immobile sul posto e portò lo sguardo incerto su Magnus.

Magnus, dal canto suo, era ancora più incerto di lui.

Cosa avrebbe dovuto fare adesso? Chiedergli di attendere lì e scendere di sotto con il gatto? Essere gentile e farlo salire per permettergli di prenderlo da sé? Di certo farlo entrare in casa non sarebbe stato il massimo della professionalità, ma farlo rimanere lì ad aspettarlo... c'era qualcosa che stonava in quella prospettiva, come se la sola idea suonasse scomoda all'orecchio di Magnus.

«Vuoi... uhm... salire?» domandò schiarendosi la voce, rigirandosi le chiavi fra le mani.

Alec lo fissò in silenzio per alcuni secondi ponderando nervosamente quella possibilità nella sua mente.

«Sì. Certo.» concesse alla fine stringendosi nelle spalle, dondolandosi sui talloni.

Magnus annuì abbozzando un sorriso cordiale e quindi raggiunse le scale.

Salirono in silenzio per un paio di piani prima di fermarsi su un pianerottolo piuttosto simile ad un lungo corridoio. L'edificio aveva una sua eleganza, avrebbe potuto perfettamente essere un albergo per la cura data all'arredamento interno. Lampade a muro proiettavano una calda luce dorata per tutta la via mentre le varie porte tinte di una lucida vernice nera erano intarsiata con semplici linee d'oro. Si fermarono davanti ad una delle varie porte con un sempre crescente senso di disagio.

Magnus aprì la porta ed entrò, lasciandola aperta così da permettere ad Alec di seguirlo all'interno.

Il ragazzo varcò la soglia e si guardò attorno.

L'appartamento era incredibile. Di fronte alla porta si apriva un unico grande spazio. Nella zona centrale, fra la porta ed il balcone che si affacciava sull'esterno, c'era l'area giorno con un arredamento composto di divani bassi e comodi, un basso tavolino da speziale e librerie ricolme di libri. Ai lati di questa zona c'erano da un lato la zona cucina ed alcune porte e dall'altro una porta che si affacciava su quella che doveva essere l'area con le camere da letto.

C'erano una gran quantità di quadri e soprammobili tutt'attorno, scatoline, candele, modellini e fiori sparsi qua e là. Alec notò che non c'era nessuna foto.

Magnus poggiò la borsa a terra accanto alla libreria sul lato della porta d'ingresso e si liberò della giacca di pelle gettandola poco dopo sul bracciolo di uno dei due divani.

«Vado a prendere il gatto. Tu accomodati pure dove preferisci» gli sorrise il terapeuta prima di raggiungere la camera da letto.

Ragnor aveva infilato il micio in una specie di gabbietta chiusa da tutti i lati ad eccezione di quello che s'affacciava verso di lui dove c'erano semplicemente delle sbarre per impedire all'animale di uscire. Magnus si avvicinò al letto e si inginocchiò per guardare dentro il trasportino. Non vedeva nulla all'interno della buia gabbietta se non un paio di luminosi occhi gialli. Afferrò il manico del contenitore e quindi tornò verso la zona giorno.

Quando raggiunse la stanza si ritrovò paralizzato sul posto a fissare Alec con gli occhi sgranati.

Il ragazzo si era seduto sul divano dove aveva poggiato la sua giacca e aveva il Presidente Meow beatamente acciambellato sulle sue gambe che gli leccava una mano. Alec sorrideva all'animale mentre gli carezzava il morbido pelo fra le orecchie, vedendo la sua coda muoversi pigramente in un chiaro senso di pace e soddisfazione.

Alec alzò lo sguardo e fermò la sua mano nel vedere la reazione basita di Magnus.

«Io... uh. Mi è saltato in braccio. Non...»

La sua espressione ricordava quella di un bambino colto in flagrante con le mani nella marmellata. Magnus se ne sentì immediatamente colpito nel profondo, ritrovandosi a sciogliersi poco dopo dalla sua posa così rigida e inflessibile.

«Va tutto bene Alexander. Non è un problema» disse riprendendo a camminare ed avvicinandosi a lui con la gabbietta a pendere dalla mancina. «E' solo insolito» spiegò raggiungendo il divano e sedendosi accanto al ragazzo, non troppo vicino da poterlo toccare ma non abbastanza lontano da far sembrare imbarazzante la distanza fra loro.

«Come mai?»

«Beh, in genere non si avvicina mai a nessuno. Quando è di buon umore al massimo posso avvicinarlo io.» sorrise l'uomo poggiando la gabbietta sulle propria ginocchia, il capo rivolto verso Alec ed il proprio gatto sulle sue cosce. «Che ne dici? Ci scambiamo il gatto?» propose allora, poco dopo, tendendo verso Alec il trasportino con fare divertito.

Il ragazzo sorrise e, annuendo, afferrò Chairman Meow fra le sue mani porgendolo verso Magnus. Il terapeuta andò per prenderlo ma il micio, soffiando, semplicemente balzò giù sul tappetto e trotterellò via dalla stanza.

«Ecco. Per l'appunto» borbottò Magnus roteando gli occhi verso l'alto e lasciando la gabbia fra le mani dell'altro. «E dire che non gli faccio mai mancare niente. Ha persino dei vestiti e organizzo delle feste per il suo compleanno!»

Alec rise divertito di quelle parole scuotendo appena il capo mentre si sistemava il trasportino sulle gambe. «Magari questo piccolino qui si farà coccolare da tutti e due se siamo fortunati» azzardò Alec stringendosi nelle spalle e Magnus si abbandonò contro lo schienale del divano accavallando le gambe e poggiando un gomito contro il bracciolo al suo fianco.

«Chissà»

Gli occhi verde-dorati del terapeuta erano fissati sulle mani di Alec mentre si apprestava ad aprire la porticina del trasportino. Aveva delle belle mani. Erano piuttosto grandi con palmi ampi e dalla pelle chiara e dita lunghe e sottili. Se avesse dovuto descrivere quelle dita con una parola avrebbe detto eleganti. Ci avrebbe visto bene degli anelli lì attorno, qualcosa di sottile, di non troppo appariscente perchè nulla che fosse troppo luminoso o brillante sembrava sposarsi bene con la figura di quel ragazzo così timido e introverso. Eppure... eppure gli sarebbe piaciuto vedere quel giovane mostrarsi sotto la viva luce del sole, smettere quei panni vecchi e ordinari in favore di qualcosa di ben più frizzante e vivo.

La gabbietta venne aperta e la mano di Alec si mose lentamente al suo interno, fermandosi poco dopo. Il palmo era rivolto verso l'alto, il capo abbassato ad affacciarsi verso l'interno.

In pochi secondi un musetto nero, piccolo e spelacchiato, si avvicinò al suo dito indice annusandolo timidamente. Alec mosse la punta del dito per grattare pian piano sotto il suo musetto, rilassando pian piano l'animale. Un miagolio leggero e acuto si liberò dal suo petto e Alec approfittò di quell'attimo di pace per prendere il cucciolo fra le mani.

Era bellissimo. Era tutto nero e sotto la calda luce del loft il suo pelo sembrava sfumare in spruzzate di blu. Aveva gli occhi grandi e gialli già ben aperti nonostante la tenera età. Era piccolissimo, abbastanza da star comodamente racchiuso in una delle mani del ragazzo. Magnus si distaccò dallo schienale della poltrona per guardare il micino con espressione intenerita.

«E' bellissimo» disse mentre il micio si agitava nella mano di Alec, la coda a muoversi a scatti sotto di sé mentre il ragazzo poggiava a terra la gabbietta e poggiava il micio sulle proprie cosce, andando a carezzarne la schiena e le orecchie con dita esitanti, quasi avesse timore di fargli del male.

«E' così piccolo» osservò Alec guardandolo, la sua attenzione totalmente rapita da quel piccolo scricciolo fra le sue mani. «Pensa che possa sentire la mancanza dei suoi fratelli?»

Magnus schiuse le labbra volgendo il suo sguardo verso Alec.

La sua espressione era seria e guardava il cucciolo con occhi ricolmi di quella che sembrava essere preoccupazione e protezione.

«...Non lo so» ammise alla fine Magnus inspirando a fondo, allungando appena una mano inanellata per carezzare il pelo corto e lucido del gattino. «Ma credo che saprete essere una buona famiglia per lui. E' una fortuna che Ragnor li abbia trovati»

Alec si strinse nelle spalle.

«Non credo sia fortuna. Li hanno lasciati davanti ad una chiesa, vero?» disse Alec mentre continuava a far giocare il micino con il suo dito, attento a non fargli del male. «Volevano che venissero trovati e salvati.»

«O forse l'aria sacra della Chiesa ha benedetto il loro cammino» scherzò Magnus notando il lieve sorriso sulle labbra di Alec.

«Già. Possibile anche questo» rise sotto i baffi aggrottando ora le sopracciglia. «Church.» disse quindi sbattendo le palpebre.

«Uh?» Magnus, perplesso, lo guardò con espressione confusa.

«Il suo nome. Pensavo... Church.» disse ora leggermente imbarazzato, con quel lieve rossore a palesarsi sul viso come ogni volta che si pentiva di aver aperto bocca. Uno dei piccoli particolari di lui che Magnus aveva imparato a conoscere e comprendere durante le varie sedute con lui.

«Niente, lasci stare. E' stupido» disse subito dopo scuotendo la testa, lo sguardo fisso sul micio. Magnus era piuttosto sicuro che non fosse per via di un viscerale interesse nei riguardi della creatura, ma solo per evitare di incrociare il suo sguardo.

«Non è stupido» commentò allora, dopo poco, con voce bassa, accomodante, le labbra appena ricurve verso l'alto in un sorriso rassicurante. «Ha un significato importante. Credo che sia un bel nome» E lo credeva davvero. In qualche modo quel nome sarebbe sempre stato legato a quella creatura, portava con sé la sua intera storia. Raccontava del luogo dove la sua vita aveva rischiato di terminare ancor prima di avere un vero e proprio inizio e di come invece sia poi stata salvata dalla gentilezza della famiglia che aveva deciso di prenderlo con sé. Non era solo un modo per riconoscere e chiamare un animale, era una specie di eterno promemoria di come le cose sarebbero potute andate e non sarebbero state più. Di come tutto è andato per il meglio, quel giorno, sui gradini di quella chiesa.

Alec sollevò lo sguardo dal gatto per la prima volta da quando l'aveva ricevuto e lo voltò verso Magnus al suo fianco, ancora leggermente sporto verso di lui mentre accarezzava il cucciolo fra le sue mani. I loro sguardi si incrociarono, le loro iridi si specchiarono nelle rispettive pupille e per un breve ma infinito istante ogni cosa perse d'importanza e la terra svanì dai loro piedi. Fu come vedersi per la prima volta, fu come vedere qualcosa di nuovo e sconosciuto e bellissimo e al tempo stesso il riflesso di qualcosa perso e conosciuto tanto tempo fa. Magnus irrigidì la mascella e deglutì ritrovandosi improvvisamente a fare i conti con qualcosa che non doveva assolutamente accadere. Non avrebbe dovuto portarlo lì, non avrebbe dovuto farlo salire in casa, non doveva essergli così vicino.

Quello sguardo, quel silenzio assolutamente non imbarazzante fra loro, quella specie di naturalezza instauratasi nella stanza era quanto di più sbagliato potesse pensare in quel momento.

Non era così, non era lì che Alec doveva aprirsi a lui, mostrare quello spiraglio fra le mura che aveva così stoicamente tenuto alzate fino a quel momento fra loro. Magnus non poteva concedersi di guardare oltre, non in quel momento, non in quel modo. Eppure al tempo stesso come poteva resistere a quel richiamo? Alla prospettiva di affacciarsi oltre quella lieve apertura ricavata dopo così tanti sforzi?

Per fortuna non toccò a lui spezzare quel momento. Alec abbassò lo sguardo riportandolo sul gattino, notando come questi aveva iniziato a mordicchiare il suo dito tenendolo fra le sue zampette, leccandone la punta con la sua linguetta rosa e probabilmente affamata. Magnus si alzò e iniziò a muovere qualche passo per la stanza.

«Dev'essere affamato. Ovviamente. Ma è troppo piccolo per mangiare cibi solidi» spiegò raggiungendo la cucina e aprendo uno per volta i cassetti del mobilio. «Dove ho messo...--ah, eccolo!» esclamò alla fine dopo aver frugato nell'ennesimo tiretto.

Aveva fra le mani un piccolo biberon che prese a lavare con acqua calda e disinfettante nel lavandino della cucina dopo aver messo a scaldare in un pentolino un po' di latte. Alec lo guardò dal divano cercando di stare attento a che il gattino non gli sfuggisse di mano mentre prendeva ad agitarsi nervosamente.

«Solo latte?»

«Solo latte» confermò Magnus mentre finiva di risciacquare il biberon e lo asciugava con uno straccio pulito. «Appena sarà un po' più grande potrai passare al cibo per gatti.»

«Come faccio a sapere se è abbastanza grande?» domandò allora il ragazzo e Magnus potè facilmente avvertire la sfumatura di panico nella voce. Sorridendo riempì il piccolo biberon di latte caldo e quindi tornò da lui. Gli porse l'oggetto e poi si avvicinò ad una scrivania ricavata da un piccolo spazio fra due librerie. Afferrò un bigliettino da visita e prese a scrivere sul retro il proprio numero, tornando solo alla fine da Alec.

Egli, dal canto suo, aveva portato la punta gommosa del biberon vicino al musetto del micio che, accogliendola fra le gengive rosa, bevve i piccoli sorsi di latte che Alec rilasciava nella sua bocca con piccole pressioni delle dita sulla pancia del contenitore.

Aveva un'aria fragile ed insicura mentre osservava il cucciolo nutrirsi eppure, al tempo stesso, sembrava perfettamente capace di proteggerlo da qualunque cosa avesse potuto minacciarne la sicurezza. Quel giovane era un continuo contrasto e Magnus si ritrovò ad osservarlo in silenzio per alcuni istanti prima di riscuotersi ed allungare verso di lui il bigliettino, la mancina a reggere il gomito opposto all'altezza del petto.

«Questo è il mio numero privato. Se hai bisogno di una mano con il gatto, chiamami pure quando preferisci. Beh, possibilmente non durante gli orari di visita» si offrì Magnus con tono allegro e gioviale, tenendo la carta fra indice e medio.

Alec lo guardò sorpreso e al tempo stesso riconoscente e, con un sorriso intimidito, l'afferrò con la mano che reggeva il biberon. «Grazie. Davvero. Cercherò di disturbarla il meno possibile»

Magnus sorrise e diede in un cenno di non curanza con la mano.

«Non preoccuparti. E' per una giusta causa»

 

 

Non appena Alec uscì dal loft, Magnus si ritrovò a espirare pesantemente lasciandosi cadere sulla vicina poltrona reggendosi la testa fra le mani.

Si sentiva stravolto e sconvolto nonostante, di fatto, non fosse successo assolutamente niente.

Eppure, in qualche modo, era successa qualcosa.

Non avrebbe saputo dire cosa, non avrebbe saputo dire cosa questo volesse dire, ma quel ragazzo era diverso da tutti gli altri pazienti che aveva visitato e seguito negli ultimi due anni. C'era qualcosa...

Magnus strinse le labbra e recuperò dalla tasca dei pantaloni il suo cellulare, componendo rapidamente il numero di Catarina, alzandosi dalla poltrona e iniziando a misurare la stanza a grandi passi. Portò l'apparecchio al telefono e sentì il familiare e ritmico squillare venire da esso mentre i suoi passi lo portarono velocemente verso il balcone. L'aria gelida della sera soffiava inclemente sul suo volto in sferzate violente. Un brivido gli percorse la schiena sotto la maglietta scura mentre si sentiva quasi risvegliare da quel tocco gelido sulla pelle.

«Magnus?» la voce di Catarina si riverberò per la mente dell'uomo portandolo a chiudere per un istante gli occhi in segno di sollievo.

«Catarina, ehi» la salutò lui cercando di rimanere tranquillo, di non far trapelare alcun tipo di turbamento dalla sua voce.

«Cos'è successo?»

«Eh? Niente è successo! Perchè lo chiedi? Non posso solamente volerti sentire?»

«La tua voce, Magnus. Sei nervoso. Hai combinato qualcosa.»

Le labbra dell'uomo s'incurvarono verso l'alto agli angoli in un sorriso mesto e stanco. Riaprì gli occhi osservando la strada sottostante e vide la figura di Alec avanzare per strada ed allontanarsi sempre più dal loft con il trasportino in una mano e l'altra infilata in tasca, la testa bassa. Seguì il suo percorso fino a quando non svanì dietro l'angolo.

Sì. L'ho combinata grossa pensò Magnus amaramente.

«Ho portato un paziente a casa» rispose alla fine lui capitolando, un mezzo sospiro a fuoriuscire assieme alle parole, un pesante grumo a venir mandato giù con una certa fatica.

Magnus sentì Catarina risucchiare aria dall'altro lato della cornetta e mentalmente poteva perfettamente vederla con gli occhi sgranati e la bocca larga, sconvolta. «Magnus! Ma sei impazzito?! Un paziente?» esclamò lei, alterata, con voce stridula. «Non puoi portarti a letto i pazienti!»

Magnus si irrigidì all'istante. «Chi ha parlato di letto?» disse lui aggrottando le sopracciglia, una mano ad agitarsi per aria. «Non ha superato la soglia del soggiorno, stai tranquilla.»

«Ah beh certo, hai ragione, allora se non è uscito dal soggiorno va tutto bene» Catarina era la regina del sarcasmo passivo-aggressivo. Magnus sapeva che aveva ragione ma al tempo stesso una parte di lui avrebbe voluto dirle che stava esagerando, che non c'era un reale motivo per cui quella notizia dovesse essere così sconvolgente. No. Così sbagliata.

«Non è successo niente, Cata, davvero. Ragnor ha trovato dei gattini abbandonati e lui si è offerto di prenderne uno con sé, così è venuto a prenderlo. Non è che l'ho invitato a prendere una birra o... o altro»

La ragazza rimase in silenzio per alcuni istanti quasi soppesando e analizzando le parole dell'amico. «Uhm.» mugugnò appena come se non fosse pienamente convinta della situazione. «Ma non avresti comunque dovuto. E' un paziente, Magnus» continuò lei dopo poco con tono meno sconvolto ma decisamente più serio. «Sai che non è professionale. C'è un motivo se i terapisti non possono seguire familiari e amici. Non devono esserci sentimenti a offuscare il tuo giudizio da esperto...»

Magnus aggrottò le sopracciglia sbattendo le palpebre. «Woh. Qualcuno qui sta correndo decisamente troppo» disse dando le spalle al balcone e tornando all'interno della camera, un brivido di freddo a riverberarsi per tutto il corpo. «Mi sa che ti sei lasciata prendere dall'entusiasmo. Non ci sono sentimenti» l'ultima parola venne sottolineata da un tono piuttosto sarcastico.

«Magnus» qualcosa nel tono di Catarina sembrò farsi improvvisamente più dolce. La sua voce era morbida, bassa e giunse al suo udito quasi come una carezza. Magnus desiderò improvvisamente di averla di nuovo lì, nel loro appartamento, in casa loro, seduta sul divano accanto a lui pronta a dirgli la spietata verità senza timore di fargli del male, desiderosa solamente di impedirgli di circondarsi di stupide illusioni. «Io c'ero quando hai aperto per la prima volta il tuo studio. Ci sono stata per tutto il tempo in cui hai lavorato sulla tua carriera, ti ho sentito parlare di tutti i tuoi pazienti. Erano solamente fascicoli e cartelle di cui ricordavi sintomi e rivelazioni. Enigmi da risolvere, puzzle da completare. Non ti sarebbe mai passato per la testa di far salire qualcuno in casa.»

Magnus si lasciò cadere sul divano sfilandosi gli stivaletti con i soli piedi. Si rannicchiò sul sofà tenendo ben stretto il telefono al viso, quasi come potesse abbracciare la sua amica attraverso quello strumento. Ogni parola scivolava come acido per il corpo, era come uno schiaffo in pieno volto o una doccia d'acqua fredda. Catarina era sempre stata il tipo di persona che non aveva paura a dire quello che realmente pensava o quello che c'era bisogno di dire. Era sincera in un modo quasi spietato e Magnus, in più di un'occasione, l'aveva definita la sua coscienza. Lui non disse nulla, quasi come sentendosi colpevole di un delitto del quale gli erano appena state elencate tutte le schiaccianti prove di colpevolezza.

«Perchè, Magnus? Perchè lui?» domandò allora lei, con dolcezza, portando l'altro a cercare di capire da sé cosa stesse accadendo nella sua mente.

Magnus strinse le labbra risucchiando il labbro inferiore fra i denti con fare nervoso. Perchè lui? Perchè Alexander Lightwood aveva messo in crisi la sua incrollabile professionalità?

«Non lo so... Io—Lui...» sospirò boccheggiando incerto per una manciata di secondi. «...Non lo so» sospirò alla fine, arrendevole, chiudendo gli occhi e portando l'altra mano davanti al viso.

«Parlami di lui

Una mezza risata venne fuori fra i denti di Magnus. Non è che ci fosse poi molto che potesse dire di lui. «E' venuto la prima volta costretto dai suoi genitori. E' piuttosto chiuso e schivo e sua madre era preoccupata che potesse esserci qualcosa che non andava. Ma francamente penso che chiunque con una madre oppressiva come lei svilupperebbe qualche problema» prese a raccontare lui roteando gli occhi verso l'alto con fare quasi stizzito. «Comunque alla fine l'ho lasciato andare, come al solito.» Catarina sapeva bene che la regola fondamentale per entrare in terapia con Magnus era volerci lavorare in prima persona, e non sotto consiglio o costrizione da parte di parenti e amici.

«Pensavo non l'avrei più rivisto, non ci avevo neppure più pensato finchè non è tornato una decina di giorni dopo, piuttosto sconvolto. Sembrava sul punto di crollare e...»

«Magnus. Stai evitando la mia domanda» interruppe Catarina con fare deciso. «Mi stai parlando delle sedute. Io voglio sapere cosa pensi di lui»

Magnus rimase a boccheggiare preso in contropiede per un istante. Richiuse le labbra prendendosi qualche lungo istante per capire da sé cosa pensasse davvero di quel ragazzo. Non ci aveva mai pensato davvero o, forse, non aveva mai voluto pensarci sul serio ma ora doveva affrontare quello scoglio e non c'erano scappatoie che potesse imboccare per sfuggire quella scomoda conversazione con se stesso.

«Io... penso che ci sia qualcosa che stia nascondendo nel profondo della sua anima. Credo che si stia sforzando con tutto se stesso di mettere a tacere qualcosa che gli fa sanguinare il cuore.» disse Magnus dopo diversi istanti di denso silenzio, dopo aver fatto un po' di mente locale su quelli che erano i suoi veri pensieri sul ragazzo. «Soffre. C'è qualcosa che lo tormenta ma che vuole nascondere a tutti i costi. Ne sono sicuro... lo vedo nel modo in cui a volte si perde nei ricordi e smette di parlare, nel modo in cui cerca così disperatamente un po' di silenzio nel quale nascondersi e trovar pace. Quel ragazzo potrebbe avere tutto ciò che desidera. E' bello, è educato e ha una buona famiglia eppure cerca con tutto se stesso di confondersi con le ombre che ha attorno e temo che per questo sia piuttosto solo. Non vuole essere guardato, non vuole essere al centro dell'attenzione, ha paura di sbagliare e di deludere il mondo. E francamente credo che questo dipenda dai suoi genitori.»

Come un fiume in piena le parole uscirono dalle sue labbra andando a riversarsi nel microfono del telefono fino a raggiungere una silenziosa Catarina dall'altro lato della cornetta.

«E' un ragazzo gentile, ha un buon cuore, eppure... eppure a volte le vedo Catarina. Vedo quelle ombre nei suoi occhi, vedo fuoco e fiamme, vedo rabbia e vedo...» la sua voce si spense in un sospiro stanco, confuso, mentre la mano che non reggeva il telefono andava a poggiarsi sul viso, le dita a pizzicare l'arco nasale in mezzo agli occhi chiusi e stretti. «...non lo so. Non ne sono sicuro ancora. Non mi parla. Viene nel mio studio e rimane in silenzio. Vuole solo sentirsi compreso.»

Gli unici rumori nella stanza venivano dal balcone che affacciava sulla strada. Il rumore delle macchine che sfrecciavano sull'asfalto, qualche clacson trillante o il brusio di un gruppo di ragazzi di passaggio riempivano a tratti il silenzio venutosi a creare fra i due amici.

Magnus prese a mordersi il labbro interno, nervosamente, mentre Catarina assimilava quieta quelle informazioni.

«Posso farti una domanda, Magnus?»

«Non la faresti comunque?»

Entrambi sorrisero ai due lati opposti del telefono.

«Ti ricorda qualcuno?»

Magnus s'irrigidì aprendo di colpo gli occhi, fissando lo schienale del divano davanti ai suoi occhi, il cuore mancare un battito nel petto. Sapeva cosa Catarina volesse dire, sapeva a chi si stesse riferendo con la sua domanda. Una domanda che lo colpì come uno schiaffo.

«No» rispose alla fine con un verso strozzato.

«Magnus...»

«No, davvero Catarina, non ha niente a che vedere con me.» riprese lui ruotando il corpo quel tanto sufficiente a permettergli di stendersi di schiena sui cuscini, il viso ora rivolto verso il soffitto. «Io ho superato i miei problemi, okay? Ci ho lavorato per anni e li ho tirati fuori più e più volte. Tu c'eri. Non c'è niente che stia nascondendo ancora. E cammino a testa alta, sempre. E sicuramente non cerco di nascondermi dagli sguardi altrui. Voglio dire, mi hai visto?» chiese con un mezzo verso canzonatorio, trattenendo una risata amara fra le labbra.

«Sì. Ma a parte me, Ragnor e Raphael... chi altro guarda te?» domandò lei con voce dolce. «Tu lasci che la gente guardi i tuoi abiti, i tuoi modi eccentrici, i tuoi colori... ma a chi permetti di guardare te? Questo non è equivalente al nascondersi?»

Magnus sentì lo stomaco stringersi in una ondata di gelido disagio, la gola chiudersi e l'aria quasi bruciargli nei polmoni. Il battito aumentò improvvisamente, si sentì perso e combattuto. Odiava il modo in cui Catarina era capace di sbattergli in faccia certi tipi di domande senza la minima esitazione.

Lui non rispose, rimanendo a fissare il soffitto per interminabili minuti prima che Catarina, sospirando, riprendesse la parola.

«Senti. Non credi che forse dovresti lasciare questo paziente?»

«Cosa?!»

«Magnus è evidente che non è un caso qualsiasi, questo. Sei coinvolto e non è un bene. Non puoi permettertelo, lo sai.»

«Non interferirà con la sua terapia Catarina, sono perfettamente in grado di aiutarlo. Abbiamo fatto dei progressi, non posso lasciarlo proprio ora!» la sua voce era quasi un lamento e Catarina avvertì quel suono quasi come una pugnalata al cuore.

«Non è per lui che sono preoccupata, Mags.» mormorò lei con dolcezza, il tono morbido e carezzevole da sorella maggiore che aveva sempre avuto per lui fin da piccoli. «Forse puoi aiutarlo, ma questo non aiuterà te.»

«Non ho bisogno di aiuto. Sto bene, Catarina. Sul serio» disse Magnus richiudendo gli occhi, le parole a uscire come macigni dalle labbra stanche. «Ma lui no. Ha bisogno di aiuto. Del mio aiuto. Tocca a me Catarina... non posso lasciare.»

La ragazza sospirò dall'altro capo del telefono e Magnus poteva vederla, sotto le palpebre abbassate, a chiudere gli occhi con espressione rassegnata, capitolando alle sue richieste. «Cerca solo di fare attenzione. Va bene?»

«Va bene»

Il silenzio scese nuovamente fra loro e Magnus sapeva che quella conversazione era appena finita. Sentì il cuore pesante, ricolmo di nuove domande, nuovi perchè e improvvisamente si sentì infinitamente stanco. Catarina lo aveva riempito di dubbi e di quesiti, ma al tempo stesso lo aveva aiutato a capire che qualcosa stava andando decisamente fuori rotta nella sua vita. Qualcosa della quale non aveva il minimo controllo e che avrebbe dovuto imparare a gestire.

«Grazie, Catarina» mormorò alla fine con tutta la sincerità di cui era capace in quel momento.

La ragazza rimase in silenzio per un attimo e poi sorrise. «Quando vuoi.»

La chiamata si concluse e Magnus lasciò scivolare il telefono accanto a sé, sui cuscini del divano, portando l'avambraccio destro a piegarsi al di sopra del proprio viso fino a coprire i propri occhi. Rimase steso su quel divano a riflettere su quelle parole per un tempo che gli parve infinito fino a quando la stanchezza ed il tormento non presero il sopravvento su di lui.

 

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Capitolo 7
*** Crisalide ***


 

La porta dell'appartamento si chiuse alle sue spalle lasciandolo solo nel corridoio che solo pochi minuti prima aveva percorso accanto a Magnus. Sembrava più largo e lungo di quanto non ricordasse ora che era solo con Church nella sua gabbietta.

Si avviò verso le scale cercando di calmare la sensazione di vertigine che sentiva nel petto. Si sentiva le viscere contorte, il petto gonfio come se un palloncino lo avesse riempito e stesse forzandolo ad allargarsi fino a scoppiare. La gola era stretta e bloccata da un nodo che gli impediva di respirare. Era una sensazione orribile e spiacevole che non riusciva a spiegarsi.

Si era sentito travolto dal disagio fin dal momento in cui erano entrati nella hall dell'edificio. Tutto il suo corpo gli stava urlando di andarsene, che quella non era affatto una buona idea, che fosse sbagliato che lui fosse lì; in tutto quel marasma di avvertimenti e tensione, però, una vocina si era fatta strada dai lontani recessi della sua mente dicendogli che non stava facendo nulla di male nell'essere lì. Ed era tutto ciò che aveva bisogno di sentirsi dire, persino da se stesso.

Magnus era stato gentile ed era stato cortese con lui. Non c'era stato nessun contatto inappropriato, nessuna battuta fuori luogo né conversazione imbarazzante. Non era successo niente che potesse rimproverarsi eppure in qualche modo era come se quella sera qualcosa fosse cambiata e ne aveva paura. Si sentiva come se avesse compiuto un passo pericoloso, qualcosa di cui si sarebbe pentito. Al tempo stesso però si sentì felice di aver ascoltato quella lontana vocina nella sua mente. Era stato bello vedere il luogo ove quell'uomo viveva, il modo in cui la sua casa sembrasse così vissuta con tutti quei quadri e quei libri; poteva immaginarselo di sera steso su uno di quei divani a bere del vino rosso mentre leggeva un buon romanzo, con una mano a tenere le pagine e l'altro braccio poggiato sullo schienale del sofa reggendo il bicchiere. Poteva immaginarlo nell'open space della cucina a versarsi il caffé al mattino o a camminare avanti e indietro per casa mentre era al telefono. Era come se quella manciata di minuti lì dentro lo avessero reso definitivamente umano ai suoi occhi, una persona qualunque, come tante. E cosa poteva esserci di sbagliato in qualcosa del genere? E perchè continuava a sentirsi male come se queste fossero cose che non avrebbe mai dovuto neppure sfiorare col pensiero?

Alec era confuso e in minima parte nauseato come accadeva sempre quand'era nervoso e temeva di aver mandato tutto all'aria. Deglutì a vuoto il grumo che gli bloccava la gola e aprì il portone che aveva ormai raggiunto dopo aver sceso le scale. Uscì nella strada notturna dinnanzi il loft e, stringendo per bene il manico del trasportino, si avviò lungo la strada che lo avrebbe riportato verso casa. Church nella sua gabbietta si stava muovendo e stava giocando con la busta che aveva lasciato al suo interno contenente il piccolo biberon che Magnus aveva voluto dargli per nutrire il piccolo micino. Era stato un pensiero gentile ed Alec gli aveva sorriso goffamente quando aveva accettato quella sua cortesia.

C'era stato un momento, quella sera, in cui poteva dire si fosse instaurata una connessione fra loro. Era durato un attimo soltanto, era piovuto su di loro totalmente imprevisto e carico di un silenzio quasi palpabile. Si erano rivolti uno sguardo, semplicemente uno sguardo, ed ogni cosa al mondo sembrò aver trovato il proprio posto. Magnus non aveva detto niente eppure Alec sapeva che in quel momento lui aveva capito ciò che lui aveva pensato, poteva vedere nei suoi occhi che lui, davvero, capiva. Non solo ciò che aveva pensato sul gatto ed il suo nome, non solo il significato dietro quella parola, ma più largamente, se stesso. Alec si era sentito improvvisamente allo scoperto, come se fosse fatto di vetro trasparente e Magnus potesse vedere attraverso di lui con quei suoi brillanti occhi verde-oro.

E' in quel momento che lui aveva smesso di essere il Dottor Bane ed era divenuto, improvvisamente, Magnus.

Alec non era certo che fosse una buona cosa, sebbene fosse assurdo pensare che il sentirsi connessi ad un altro essere umano fosse sbagliato, ma sapeva solo che da quel punto non ci sarebbe stato ritorno. Strinse le labbra e si rigirò fra le dita, nella mano che teneva infilata nella tasca della giacca, il bigliettino ove Magnus aveva segnato il suo numero di telefono mentre inspirando a fondo girava l'angolo e si lasciava alle spalle il loft senza neppure voltarsi a guardarlo un'ultima volta.

 

 

«Sono a casa» salutò Alec varcando la soglia e richiudendosi la porta principale alle spalle.

Sua madre lo salutò dalla cucina come faceva ogni sera.

«Bentornato Alec» Il suo tono era tranquillo, da un po' di tempo a quella parte non avevano più litigato ed erano riusciti a trovare una specie di punto d'incontro. Lei si forzava di non stargli più troppo addosso e lui teneva a bada la rabbia costante che sentiva ribollire nel fondo dello stomaco.

Quella sera, pensò Alec, magari avrebbe potuto farla contenta. Gli dispiaceva sapere che a causa sua sua madre era spesso preoccupata o triste, sapeva che non era una cattiva persona ma solo un po' troppo abituata ad avere il controllo di ogni cosa; così con un sincero sorriso sulle labbra si affacciò oltre l'arco che conduceva nell'open space della cucina tenendo la gabbietta nascosta dalla vista di chi ci fosse all'interno.

«Mamma, chiudi gli occhi. Ho una sorpresa» disse Alec con espressione eccitata ed impaziente, gli occhi brillanti di aspettativa mentre il sorriso sul suo volto rese il suo viso leggero e giovane come lei non l'aveva visto da tempo. La donna lo fissò sinceramente colpita, colta alla sprovvista, richiudendo il libro che stava leggendo.

Con le sopracciglia inarcate lo osservò interdetta prima di sorridere e chiudere gli occhi con fare incerto. «Una sorpresa?» rise fra le labbra, aggrottando le sopracciglia.

Alec sorrise e quindi rivolse il capo verso le scale che portavano al piano di sopra. «Izzy! Scendi giù in cucina!» chiamò ad alta voce prima di avanzare verso il punto dove si trovava sua madre. Poggiò il trasportino a terra ai piedi del davanzale interno della finestra dov'era seduta Maryse e lo aprì per recuperare il micino. Questo agitò le zampette verso la busta all'interno che prese ad accartocciarsi portando la donna ad aggrottare le sopracciglia.

«Ci hai preso un regalo?» chiese cercando di capire cosa stesse succedendo.

Alec rise sotto i baffi. «Diciamo così»

Izzy arrivò sotto l'arco del soggiorno sporgendosi oltre di esso con le mani aggrappate ai bordi dell'apertura ai suoi lati, tenendosi così in equilibrio. «Alec? Che succede?» chiese sorpresa del fatto che suo fratello l'avesse chiamata, per di più con una voce così allegra.

Il ragazzo, inginocchiato davanti alla madre col gattino fra le mani nascosto dal suo corpo, ruotò il capo verso sua sorella e le sorrise. «Vieni, vieni qui Izzy e chiudi gli occhi. Non sbirciare»

Isabelle assottigliò lo sguardo con fare incuriosito e si aprì in un sorriso sorpreso e divertito. Non vedeva suo fratello così tranquillo e di buon umore da... beh, da cinque anni ormai. Lei allora iniziò a trotterellare verso di lui e, quando giunse alle sue spalle chiuse gli occhi, inginocchiandosi a terra al suo fianco. Stava esplodendo dalla curiosità ma decise di non sbirciare per non rovinare la sorpresa che Alec sembrava così contento di aver preparato per loro. Nell'avanzare non aveva neppure notato il trasportino accanto al fratello tanto che la sua attenzione era tutta per lui.

Alec si assicurò che entrambe avessero gli occhi ben chiusi e dunque tese leggermente il micio in mezzo loro tre tenendolo ben stretto fra le mani. «Mamma, Izzy, vi presento Church»

Le due contrassero gli occhi alle parole “vi presento” e subito alzarono le palpebre per vedere quel piccolo fagottino nero far capolino fra le dita lunghe ed affusolate del ragazzo.

«Oh mio Dio!» esclamò Izzy illuminandosi in viso e portandosi le mani sul volto, la voce acuta e stridula come ogni volta che vedeva qualcosa di tenero e carino. «Alec è bellissimo!» disse mentre allungava le mani in un chiaro invito a lasciarglielo tenere fra le mani.

Alec glielo passò con estrema attenzione, sorridendo, mentre Maryse allungò le gambe oltre il bordo del davanzale mettendosi a sedere e poggiando il libro da parte, sporgendosi verso la figlia per vedere meglio il nuovo arrivato. «E' proprio un cucciolo... dove l'hai trovato?» chiese intenerita, con dolcezza, portando un dito a carezzare la peluria scura e ancora rada fra le orecchie del micino.

«Ma--» Alec si fermò di botto quando si rese conto dell'enorme passo falso che stava per compiere. Si schiarì la gola e riprese. «Il Dottor Bane ha trovato una cucciolata abbandonata davanti la Chiesa e stava cercando di trovar loro una casa. Così ho pensato che potevamo prenderne uno noi. Insomma, ne abbiamo sempre parlato ed eravamo tutti d'accordo...» spiegò lui stringendosi nelle spalle, alternando lo sguardo fra il gattino e il volto della madre.

Maryse sollevò lo sguardo per osservare il figlio. C'era qualcosa di diverso in lui quella sera. Il suo viso era rilassato, il suo sguardo brillante ed il sorriso sincero sulle labbra. Non si stava forzando per essere gentile, non sembrava desideroso di tornare presto nella solitudine della sua stanza ed in qualche modo sembrava essere più leggero. Vedeva il modo rilassato in cui stava guardando l'animale, in cui lo stava carezzando ridendo quando il piccolo gli leccò il dito. C'era una freschezza ed una semplicità nei suoi gesti che Maryse non gli aveva visto addosso per anni.

Era sicura che non fosse solo per via di quel semplice gattino, qualcosa era cambiata dentro di lui. Era un processo che aveva iniziato a notare da tempo ma solo ora poteva dire di vedere davvero dei risultati concreti, un cambiamento reale. Non poteva spiegarselo, non avrebbe saputo usare le parole giuste per dire in che modo suo figlio fosse diverso, ma dentro di lei, nel suo cuore, lei lo sapeva, poteva vederlo in maniera lampante. Lei era sua madre e aveva passato tanto tempo ad osservare il mutare del suo bambino e per questo non poteva lasciarsi sfuggire un simile cambiamento in lui, quella crisalide nella quale si era racchiuso iniziare, forse, a creparsi.

Sentì gli occhi pungere per via delle lacrime che erano improvvisamente salite a colmarli ma le trattenne e le ricacciò indietro deglutendo e tirando leggermente su col naso, cercando di nascondere la commozione che stava provando in quel momento. Distese le labbra in un sorriso fiero e sincero e portò una mano al capo del figlio per lasciare una carezza fra i suoi capelli scuri.

«Ma certo. Certo» mormorò incapace di dire altro prima di sentire Isabelle dare in striduli versi di gioia.

«Awww guarda, guarda! Mi sta leccando il dito! Gli piaccio già!» esclamò con una espressione che lasciava chiaramente intendere quanto si stesse sforzando per non stritolare quel piccolo ammasso di peli in un abbraccio spaccaossa. «Vero che ti piaccio piccolino? Eh?»

Alec rise divertito e si voltò verso il trasportino dove c'era il biberon che Magnus gli aveva detto di portare con sé. «Oppure ha solamente fame» rise lui estraendo dalla busta il biberon e tentando di portarlo alla bocca del micio.

Isabelle però spostò Church dalla traiettoria e se lo strinse al petto mettendo su un'espressione supplichevole. «No, no, no! Voglio farlo io!» esclamò sporgendo il labbro inferiore con fare imbronciato. «Ti prego, ti prego, ti prego»

Alec si portò le mani ai fianchi reggendo ancora il biberon nella destrorsa. «Ma tu ce l'hai già in mano!»

«Facciamo a cambio! Tu lo reggi e io gli do da mangiare!» si illuminò Isabelle sbattendo le ciglia e mostrando un sorriso tutto denti che era solita mostrare ogni volta che cercava di farsi perdonare una qualche marachella.

Alec alzò gli occhi al cielo e sorrise, capitolando.

«Immagino che sia il massimo che posso ottenere» sbuffò con finta esasperazione prima di procedere allo scambio con sua sorella. Lasciò che lei gli depositasse Church nell'ampia mano mentre con l'altra le lasciava il biberon. Izzy si sedette per bene a terra e quindi nutrì il piccolino dando, di tanto in tanto, in versetti eccitati quando lui muoveva una zampina o muoveva la coda.

Maryse rimase seduta accanto a loro ad osservare i suoi figli prendersi cura del piccolo micio ed una ondata di ricordi l'assalì travolgendola, stringendole il cuore. Era un dolore straziante e piacevole al tempo stesso che la riempì di speranza e di timori.

Robert, dal canto suo, udite tutte quelle urla e quegli schiamazzi, era uscito dallo studio e si era fermato sotto l'arco d'ingresso ad osservare la scena con le mani nelle tasche dei pantaloni e la spalla poggiata contro la parete. Guardò da lontano la sua famiglia raccolta attorno a quel nuovo piccolo membro e li osservò a lungo senza dire una parola. Quella sera tutte le attenzioni furono per Church.

 

*

 

Alec si buttò sul letto ch'era piuttosto tardi quella sera.

Avevano sistemato Church in una vecchia scatola di scarpe sistemata a mo' di lettiera provvisoria in attesa di comprarne una vera il giorno dopo. Isabelle e sua madre si erano messe d'accordo per uscire presto ed iniziare a cancellare qualche voce dalla lista di cose di cui avevano bisogno per occuparsi al meglio del gattino. Alec aveva riferito loro tutto ciò che Magnus gli aveva consigliato prima di uscire da casa sua, tralasciando ovviamente il fatto che lui fosse stato a casa del suo medico.

Aveva parlato loro del veterinario che l'altro gli aveva consigliato, delle visite da fargli fare e di ciò che serviva per la lettiera. L'arrivo di Church era stato come una ventata d'aria fresca in tutta casa e persino Robert che sembrava non nutrire un grande interesse per gli animali, aveva abbozzato un mezzo sorriso quando Church aveva barcollato fino ad acciambellarsi sui suoi piedi durante la cena. Isabelle aveva scattato un sacco di foto del gattino dal telefono di Alec ed ora il ragazzo si ritrovava steso sul letto a guardarle con un sorriso ebete sul viso. Il micio stava dormendo nella sua scatola in camera di Izzy che si era bellamente appropriata di lui e ad Alec non rimaneva che accontentarsi delle foto scattate.

Era ancora interamente vestito, stranamente stanco persino per togliersi la giacca o infilarsi il pigiama ed era avvolto dall'oscurità della sua camera chiusa. Dalla finestra filtrava un po' di luce dall'esterno avvolgendo gli orli del mobilio con un alone bianco e soffuso. C'era silenzio ed una certa pace lì ed Alec si sentì investito da un gran senso di calma e di serenità. Da quanto tempo non si era sentito così? No. Da quanto tempo non si era sentito così in casa sua? L'unico posto nel quale avesse trovato una similare pace era l'ufficio di Magnus. Il pensiero lo portò ad infilarsi una mano in tasca ed estrarre il bigliettino del quale si era dimenticato fino a quel momento. Era un cartoncino color panna in filigrana ruvida con lettere di un color oro brillante a macchiarne la facciata anteriore. Le sue dita scivolarono sul nome stampato a caratteri cubitali sul fronte e ne ripercorsero la forma mentre il suo respiro calmo e profondo usciva silenzioso dalle narici. Pensare a lui lo confondeva. Sentiva di aver trovato una connessione con quest'individuo eppure al tempo stesso sentiva che non era qualcosa che sarebbe dovuta succedere. Ma era il suo mestiere, no? Non era proprio quello che si supponeva accadesse? Che si avvicinassero abbastanza da far sì che Alec si fidasse di lui? Perchè, era ovvio, Alec aveva imparato a fidarsi di quell'uomo. Eppure perchè sentiva di star facendo qualcosa di proibito? Non riusciva a spiegarselo e la sensazione di aver mandato tutto all'aria lo faceva sentire turbato.

Sospirando girò il biglietto e vide il numero di Magnus scritto sulla carta con una penna nera in una grafia ordinata ed elegante. Quindi questa è la sua grafia pensò Alec ritrovandosi inconsciamente a sorridere. Gli venne voglia di scrivergli. Di scrivere qualsiasi cosa, anche solo una sciocchezza, solo per il gusto di cercare ancora un contatto con lui. Uno qualunque.

Salvò il numero in rubrica rapidamente e quindi aprì whatsapp per cercare la sua chat. Scorse il breve elenco di nomi che aveva memorizzati in rubrica e quindi aprì la sua finestra. Il suo sguardo venne immediatamente catturato dalla foto dell'altro. L'aprì e ingrandì per poterla vedere in tutti i suoi dettagli e si riscoprì intento ad osservarla in silenzio per interminabili minuti.

Magnus sedeva nel suo balcone su di una elegante sedia intarsiata in ferro. Era girato di profilo reggendo un bicchiere di vino in mano, esattamente come l'aveva immaginato di sera in casa sua. Il cielo alle sue spalle era buio ed uno spicchio di luna brillava dietro la sua figura in lontananza. Sul tavolino ove era poggiato il gomito del braccio che reggeva il vino c'erano delle candele accese che mandavano bagliori dorati lungo la sua figura. Gli anelli alle mani, le collane e l'orecchino visibile brillavano sotto la luce delle fiammelle mentre le sue labbra apparvero più rosse che mai. Il trucco attorno ai suoi occhi era scuro; nero e blu si mescolavano sfumando l'un nell'altro scintillando per via dei brillantini di cui erano ricoperti. I capelli erano perfettamente in ordine, cortissimi ai lati a mostrare la forma del cranio e poi folti e morbidi in cima. Delle ciocche azzurre ne sfumavano le punte, appena visibili per via della poca luce nella foto. Indossava una camicia scura ed un panciotto in seta decorato da bottoni argentati. Era estremamente elegante e sembrava essere totalmente spontaneo, come se non si fosse messo volontariamente in posa, ma come se qualcuno avesse rubato quello scatto. Alec pensò che fosse semplicemente bellissimo.

Studiò la foto a lungo ritrovandosi a realizzare di non averlo mai toccato. Si conoscevano da settimane ormai, eppure nemmeno una volta c'era stato un reale contatto fra loro. Neppure una stretta di mano. Fu strano rendersi conto di non sapere se le sue mani fossero morbide esattamente come sembravano.

Il pensiero lo colse inopportuno e si ritrovò a scacciarlo stizzito tornando alla chat e lasciando perdere la foto. Non aveva nessuna frase come stato personale, un lungo spazio vuoto che fece sorridere appena il ragazzo; anche lui non aveva mai saputo cosa scrivere in quella sezione e l'aveva sempre lasciata vuota dalla prima volta che sua sorella l'aveva costretto a scaricare quell'applicazione per parlare fra loro fuori casa.

Il suo dito aleggiò al di sopra della tastiera sullo schermo mentre cercava di pensare a cosa potesse scrivergli. Gli aveva dato quel numero in caso di bisogno, quindi forse era anche inopportuno che lui fosse lì a cercare qualcosa da dire... eppure, a ben pensarci, lui il bisogno lo sentiva. L'esigenza di dire qualcosa, qualsiasi cosa, anche senza l'aspettativa di una risposta. Era strano. Nella sua mente non si aspettava minimamente che, qualunque cosa avesse potuto inviargli, Magnus avrebbe risposto eppure la cosa non lo disturbava affatto, non lo rattristava. Andava bene così purché potesse scrivergli qualcosa. Sentiva il bisogno di farlo, il bisogno di parlare con lui.

 

A: Magnus Bane.

Hey, sono io, Alec.
Abbiamo improvvisato una lettiera con una vecchia scatola e dell'imbottitura per tenerlo al caldo e comodo. A casa sembrano tutti contenti; mia sorella si è impossessata di Church e l'ha rapito nella sua stanza. Mi sa che dovremo fare una tabella con degli orari per dividercelo...

 

Inviò quel primo messaggio mordicchiandosi nervosamente il labbro inferiore e quindi andò alla cartella delle foto per allegargliene una. C'era Church acciambellato nella sua scatola provvisoria con gli occhietti chiusi e la coda poggiata sul cuscino dentro la scatola, le zampette abbandonate sul tessuto morbido.

 

A: Magnus Bane.

Adesso sta dormendo, sembra stare bene.

 

Scrisse sotto la foto prima di fermarsi e stringere le labbra in una linea sottile. Adesso non era più tanto sicuro di aver fatto la cosa giusta scrivendogli sebbene, dentro di sé, sentisse una marea di altre parole spingere lungo le dita per riversarsi in quella schermata. Non voleva però assillarlo e non voleva neppure concedersi di attaccarsi in maniera così morbosa a qualcuno che, a conti fatti, non conosceva e che era semplicemente pagato per starlo a sentire. Era spaventato dal fatto che sentisse quella strana esigenza di parlare con lui: in qualche modo il suo cuore gli stava dicendo di fidarsi di quella persona, di lasciarsi andare a lui e permettergli di superare quelle barriere che aveva alzato verso tutti. La cosa non gli piaceva. Cosa sarebbe successo una volta che le sue sedute fossero finite? Non poteva mica pretendere di rimanere in terapia per sempre, no? Prima o poi ci sarebbe stata un'ultima seduta e allora tutto sarebbe terminato. Ma non per lui. Se si fosse concesso di aprirsi davvero, di aggrapparsi a lui nel modo in cui il suo cuore gli chiedeva sarebbe rimasto solamente ferito e solo. Non poteva permetterselo. Così ricacciò indietro i fiumi di parole che improvvisamente sentiva il bisogno di riversare in quella conversazione e sospirò con fare severo.

 

Pensavo volessi saperlo.

 

Aggiunse semplicemente prima di inviare foto e messaggio e mettere via il telefono, imponendosi di non controllarlo più fino al giorno successivo.  

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Capitolo 8
*** Salvare, salvarsi ***


 

L'indomani, al risveglio, Magnus sentì il suo corpo completamente indolenzito. Aveva dormito rannicchiato sul divano per tutto il tempo, svegliandosi un paio di volte durante la notte solo per cambiare posizione, troppo stanco ed assonnato per alzarsi e raggiungere la sua camera. Sentiva la schiena accartocciata e le braccia intorpidite, per non parlare delle gambe addormentate. Il suo collo doleva e ci volle un po' per riuscire ad alzarsi a sedere.

«Mhhh» mugugnò stringendo gli occhi, la luce del sole che filtrava bassa dal balcone a investirlo come una coperta fastidiosamente luminosa nonostante fosse ovvio che fosse piuttosto presto. Si strofinò gli occhi ben sapendo che in questo modo avrebbe spalmato i resti del makeup del giorno prima su gran parte del viso. Si mise a sedere coi piedi nudi poggiati sul morbido tappeto ed una mano a massaggiarsi il collo dolorante, mentre l'altra pendeva fra le gambe poggiata sulla coscia dal gomito.

Lentamente iniziò a ricordare gli eventi del giorno precedente e quel profondo senso di confusione e angoscia tornò ad affacciarsi nella sua mente annebbiata. Sospirò pesantemente scuotendo leggermente il capo, cercando testoni sul divano ancora caldo del suo corpo il proprio telefono. Lo trovò dopo poco e lo accese per controllare che ore fossero.

La prima cosa che notò, tuttavia, non furono i numeri che occupavano gran parte della schermata, ma la notifica verdastra di un messaggio, o meglio tre, ricevuto da un contatto sconosciuto. Aggrottò incuriosito le sopracciglia non avendo idea di chi potesse trattarsi. Quando aprì la notifica le labbra si schiusero in una 'o' sorpresa. Non si era sinceramente aspettato che Alec gli scrivesse, soprattutto non così in fretta. Era raro che il ragazzo gli parlasse per primo e quando capitava era semplicemente perchè cercava un modo di spezzare un silenzio imbarazzante o per salutarlo quando entrava nel suo ufficio.

Ma in quel momento, in quella situazione... gli aveva spontaneamente scritto per parlare. Magnus fissò la schermata stordito e perplesso. Cosa avrebbe dovuto fare? Poteva sentire la voce di Catarina nella sua testa rimproverarlo ed imporgli di ignorare il messaggio; non le aveva detto che gli aveva lasciato il suo numero privato, era sicuro che se lei l'avesse saputo sarebbe rimasta ancora più sconvolta. Non che non gliel'avesse detto per timore della sua reazione, comunque. Prese a mordicchiarsi l'interno della guancia con fare nervoso leggendo e rileggendo quei messaggi, osservando la foto del gatto beatamente addormentato, cercando di capire cosa fare. Una parte di lui voleva rispondergli per impedire che l'altro si sentisse ignorato o fastidioso; un'altra invece gli diceva che non era questo il modo in cui avrebbe dovuto approcciarsi a lui. Non era per messaggi che doveva riuscire a parlargli: perchè non poteva farlo durante le loro sedute? E fu quel pensiero a schiarire improvvisamente la mente del terapeuta. E se proprio tramite quei messaggi avrebbe potuto accedere ai suoi pensieri ed ai suoi sentimenti? E se l'instaurare un dialogo in quel modo lo avrebbe spinto, col tempo, ad affrontarlo anche di persona durante le loro sedute?

Non era così insolito trovare qualcuno che trovasse più semplice aprirsi tramite uno schermo piuttosto che di persona, era un comportamento assai tipico delle persone più chiuse ed introverse e forse avrebbe potuto essere un ottimo modo per aiutarlo ad uscire dal suo guscio, aiutarlo col tempo ad affrontare gli stessi argomenti anche di persona. L'idea sembrava essere brillante se non fosse che il metterla in pratica avrebbe potuto mettere pericolosamente a rischio l'identità del loro rapporto. Parlarsi per vie 'trasverse' invece che durante le sedute avrebbe potuto offuscare la sua figura di terapeuta e mostrarlo ai suoi occhi più come un amico e confidente, qualcosa che -come Catarina gli aveva ricordato- non era decisamente professionale.

Un altro sbuffo uscì dalle sue labbra mentre si abbandonava contro lo schienale del divano portando il capo a reclinarsi all'indietro e fissare il soffitto con fare combattuto.

Voleva davvero riuscire a raggiungere il cuore di quel ragazzo ed aiutarlo a venir fuori da quel guscio che si era così palesemente costruito attorno, ma non voleva rischiare di percorrere la via sbagliata per riuscirci. Al tempo stesso voleva conoscere i suoi pensieri, capirlo, riuscire a vedere tutto ciò che c'era dietro quelle mura perchè qualcosa, dentro di lui, gli diceva che c'era molto più da vedere di quanto egli non volesse mostrare. Forse, in qualche modo, non era neppure consapevole di tutto ciò che era davvero. Magnus aveva la sensazione, dentro di sé, che quel ragazzo stesse precipitando giorno dopo giorno verso un abisso senza fine né luce e sentì l'esigenza di volerlo salvare. Sentiva il bisogno di spingerlo ad accettare la sua mano, usarla come appiglio per fermare la caduta ed iniziare a risalire fino a lasciare che la luce del sole baciasse i suoi lineamenti.

Con una imprecazione a mezza voce Magnus staccò la schiena dal divano e si sporse in avanti per tornare a fissare lo schermo.

 

A: xxx-xxxxxx

Perdonami il ritardo nel rispondere ma ieri sera mi sono addormentato piuttosto presto. Church è bellissimo e sono sicuro che abbia trovato una famiglia che avrà gran cura di lui ;)

 

Quando iniviò quell'unico messaggio si ritrovò a rilasciare il respiro che, fino a quel momento, aveva trattenuto senza accorgersene. Si umettò le labbra e si passò una mano fra i capelli notando solo ora, davvero, che ore fossero. Era decisamente presto. Ma, dopotutto, quando si dormiva scomodi era difficile riuscire a dormire molto per cui non ne rimase particolarmente sorpreso.

Si alzò decidendo di abbandonarsi ad un lungo bagno caldo rimuginando ancora ed ancora su quella bizzarra situazione nella quale si era ritrovato invischiato. Mentre si spogliava e prendeva posto nella sua vasca ormai colma d'acqua calda e schiuma profumata non riusciva a smettere di sentire le parole di Catarina risuonare nella sua mente. Ti ricorda qualcuno? aveva chiesto lei. Quella domanda rimbalzava nella sua testa come una eco infinita insinuandosi in ogni pensiero, in ogni riflessione, distraendolo e schiaffeggiandolo. No. Non era così. Alexander non aveva niente a che fare con quello che aveva passato lui. Non erano affatto simili, anzi: se poteva dirlo erano due deliziosi contrapposti. Laddove Alexander era timido ed impacciato, Magnus era sfacciato e sicuro. Dove Alexander cercava di passare inosservato e nascondersi dagli occhi altrui, Magnus non aveva paura di essere osservato o esaminato. Dove Alexander sembrava rifiutarsi di aprirsi e mostrare il vero se stesso a chiunque, Magnus... ma a chi permetti di guardare te? Questo non è equivalente al nascondersi? Ancora una volta la voce di Catarina affiorò fra i suoi pensieri con brutale franchezza.

Scacciò il pensiero uscendo dalla vasca dopo essere rimasto a mollo nell'acqua per un tempo interminabile. Il suo corpo era molto più rilassato ora, i muscoli si erano sciolti e la sua pelle profumava di sandalo mentre si avvolgeva l'accappatoio addosso e un asciugamano pulito fra i capelli umidi e puliti. Si fermò davanti allo speccchio appannato passando un panno sul vetro per poter scorgere la propria immagine riflessa. Si osservò a lungo contemplando le parole della sua amica quando sentì il telefono vibrare sul ripiano in marmo del lavandino. Abbassò lo sguardo e, asciugatosi le mani, recuperò l'apparecchio notando che Alexander si era svegliato e gli aveva risposto.

 

*

 

Quando si era svegliato quella mattina Alec non aveva voglia di uscire dalle calde coperte del suo letto. Si sentiva stranamente rilassato, a suo agio, come non succedeva da molto tempo. Sarebbe volentieri rimasto a dormire fino a tardi considerando che, a quanto ricordava, non aveva programmi particolari per il giorno.

Ripercorse mentalmente gli eventi della giornata precedente per assicurarsi di non avere niente che richiedesse le sue attenzioni a quell'ora del mattino e si ritrovò a spalancare gli occhi quando ricordò di avere un piccolo Church, da qualche parte, di cui doversi prendere cura. Sua madre e Izzy sarebbero uscite per comperare la lettiera e tutto il resto per cui sarebbe rimasto a casa, da solo, tutta la mattina. Poteva sentire dal piano di sotto un ovattato chiacchiericcio e rumori di piatti e stoviglie, indice che sua sorella e sua madre erano ancora in casa. Aveva ancora un po' di tempo per alzarsi prima che se ne andassero.

Tuttavia il pensiero ormai aveva scacciato il sonno dalla sua mente cancellando la possibilità di tornare a dormire. Non che, in ogni caso, adesso avesse voglia di farlo. Ricordarsi di Church gli aveva fatto venir voglia di alzarsi... nel giro di qualche minuto, non appena si fosse svegliato del tutto e fosse stato pronto ad affrontare il gelo fuori dalle coperte. Ci volle un po' di tempo per ricordare anche qualcos'altro. Aveva inviato dei messaggi la sera precedente, messaggi che erano sicuramente rimasti senza risposta ma che era stato ben felice di aver inviato. Ripensò alla foto di Magnus, allo sguardo perso verso un buio cielo notturno, al modo in cui le candele illuminavano il suo viso ed il bicchiere di vino nella sua mano. Rotolò sull'altro fianco e allungò una mano sul comodino per recuperare il telefono: voleva rivedere quella foto.

La sorpresa fu grande quando, accendendo il display, notò che in realtà aveva ricevuto una risposta. Sgranò leggermente gli occhi non essendosi minimamente aspettato una cosa del genere. Era sicuro che sarebbe passato inosservato, che Magnus non avrebbe perso tempo a rispondere a dei messaggi così sciocchi ed invece eccola lì, la sua risposta, ad illuminare il suo schermo con forza.

Alec sorrise istintivamente aprendo la loro chat.

 

A: Magnus Bane

Puoi contarci. Mia sorella e mia madre stamattina andranno a comprare tutto il necessario per lui, non le ho viste così elettrizzate nemmeno quando vanno a fare shopping per i fatti loro... Sono sicuro che lo vizieranno. *emoji che sospira*

 

A: Magnus Bane

Persino mio padre è sembrato contento e a lui gli animali non fanno impazzire. Si può dire che Church abbia già conquistato tutti.

 

Inviò i due messaggi e sospirò abbandonando la testa contro il cuscino, fissando il soffitto, il telefono ora lasciato ricadere sul petto al di sopra delle coperte. Eccolo lì, Alec Lightwood, a chiacchierare frivolamente col suo psicologo per il puro gusto di farlo. Era così strano... da quanto tempo non si sentiva a suo agio a parlare con qualcuno abbastanza da sentire, di propria sponte, l'esigenza di farlo? Non era più abituato a parlare liberamente col prossimo, sempre troppo preoccupato di sentirsi il fiato sul collo, di dover rimanere sulle sue, di dover mantenere un certo distacco. Gli sembrava quasi strano ora sentire quel desiderio, quella voglia di chiacchierare, come se fosse qualcosa di assurdo e impensabile.

Inspirando a fondo trovò la forza di togliersi le coperte di dosso e rabbrividì quando il suo corpo incontrò il gelo del mattino. Si passò una mano fra i capelli sbadigliando apertamente e, telefono alla mano, raggiunse il bagno per darsi una rapida sciacquata.

Il messaggio arrivò mentre si stava sciacquando il viso.

 

Da: Magnus Bane.

Ne parli come se fosse una cosa brutta. Presidente è più che felice di ricevere le attenzioni che merita u.u ...quando non è impegnato a ignorarmi. *emoji che sospira*

 

Le labbra di Alec si distesero in un sorriso divertito nel ricordare il modo in cui il gatto di Magnus era sfuggito dalla sua presa per tornare a nascondersi da qualche parte nel loft. Poteva vedere sotto gli occhi lo sbuffo imbronciato di Magnus mentre scriveva quelle parole, il modo in cui il suo viso acquisiva un'aria più giovane e fresca nel mettere su quell'espressione scherzosamente offesa. Il solo pensiero lo faceva ridere sommessamente, sotto i baffi, avvertendo una stilettata di tepore sotto le costole.

 

A: Magnus Bane.

Magari è proprio per questo che ti ignora. Perchè sa che tu non lo faresti mai.

 

Le parole uscirono spontanee dalle sue dita in una osservazione semplice e improvvisa che balenò nella sua mente. Tornò a pettinarsi e lavarsi i denti prima di veder lampeggiare sul suo schermo un nuovo messaggio.

 

Da: Magnus Bane.

Cosa vorresti dire?

 

A: Magnus Bane.

Intendo dire che magari gli dai così tante attenzioni da renderlo sicuro del fatto che se anche dovesse ignorarti tu non smetteresti di volergli ugualmente bene o di cercare la sua compagnia.

 

Nell'esatto istante in cui Alec inviò quel messaggio si ritrovò a sentire un nodo allo stomaco. A labbra schiuse osservò lo schermo realizzando ciò che aveva appena scritto. Ripensò alle attenzioni ed all'affetto che i suoi genitori e sua sorella gli avevano riversato addosso fino a quel momento, al modo in cui avevano sempre cercato di esserci e di aiutarlo, in cui si erano preoccupate per lui. Ripensò al modo in cui aveva schivato le loro attenzioni cercando di sfuggir loro sapendo, nel profondo del suo cuore, che nonostante tutto questo non sarebbe servito a perdere il loro amore. Sentì il cuore contrarsi dolorosamente ed una ondata di colpa investirlo gelida portandolo ad abbassare lo sguardo imbarazzato sulle sue mani. Era la prima volta che realizzava quanto freddo fosse stato nei confronti della sua famiglia, quanto distaccato fosse stato nei riguardi di chi stava semplicemente cercando di donargli amore. La rivelazione fu sorprendentemente dolorosa.

 

Da: Magnus Bane.

Uhm. Quindi il mio gatto dà la mia presenza per scontata. Non so se dovrei sentirmi imbarazzato o divertito da questa cosa!

 

Alec lesse il messaggio con meno entusiasmo di prima, leggendo quelle parole quasi come uno schiaffo in pieno volto. Magnus aveva trovato le perfette parole per definire ciò che Alec aveva fatto fino a quel momento. Aveva dato la sua famiglia per scontata. Un gesto imprudente e ridicolo dopo tutto quello che era successo. Alec strinse le labbra e la mano che non reggeva il telefono in un pugno prima di inspirare a fondo cercando di calmarsi.

 

A: Magnus Bane.

Penso che non sia tu quello a doversi vergognare... Deve far male sentirsi dare per scontati, come se la tua presenza fosse dovuta e impossibile da perdere. Ma niente è dovuto a questo mondo, vero? L'affetto come può essere nutrito può anche morir di fame.

 

Alec sentì il fiato corto, il cuore battere rapido nel petto mentre si sentì come assalito da una ondata di paura e colpa. Sentiva le risate e le voci di sua madre e sua sorella dal piano di sotto e l'improvvisa voglia di scendere di sotto e andar da loro. Respirò a fondo e si infilò una vecchia felpa scura con il cappuccio calato sulle spalle e sostituì i pantaloni del pigiama che alla fine era riuscito a mettersi la sera precedente con un paio di vecchi jeans sdruciti alle ginocchia. Infilò il telefono in tasca e le scarpe ai piedi e scese le scale raggiungendo la cucina con il cuore in gola.

«Buongiorno!» salutò con un mezzo sorriso sghembo aggirando l'isola col suo solito passo tranquillo ed avvicinandosi a sua madre per lasciarle un bacio fra i capelli. «C'è il caffè?» chiese distaccandosi rapidamente come per voler deviare l'attenzione dal suo gesto decisamente insolito alla domanda appena fatta.

Maryse rimase semplicemente stupita di quell'atto e profondamente commossa da quell'inaspettato e tanto atteso atto d'affetto da parte di suo figlio. Balbettò per un istante prima di schiarirsi la gola e riscuotersi da quel breve attimo di torpore. «U-uh sì—sì, certo è nella macchinetta» disse guardando la schiena del figlio ora intento a recuperare una tazza dalla credenza.

Isabelle, seduta sull'isola col gattino ben stretto al petto ed il piccolo biberon fra le mani guardò sua madre alzando le spalle, un'espressione sul viso che voleva eloquentemente dire “Magari si sarà drogato”.

«Ehi fratellone, come mai così di buon umore stamattina?» chiese Izzy senza peli sulla lingua, il sorriso stampato sulle labbra mentre si sporgeva appena sul bancone, ben attenta a tenere coperto il piccolo micino con la copertina nella quale l'aveva avvolto per evitare che sentisse freddo.

Alec si voltò con la tazza vuota stretta nella destrorsa e la caraffa del caffè ancora caldo nella mancina, poggiandosi di schiena al bancone della cucina incrociando i piedi davanti a sé, facendo spallucce.

«Niente di particolare. Avrò dormito bene» Cercò di liquidare la questione sporgendo il labbro inferiore verso l'alto in una smorfia disinteressata, versandosi il caffè nella tazza e riponendo la caraffa nel suo alloggio. «Dovete andare dal veterinario stamattina?» domandò ancora prima di prendere un sorso di caffè, lo sguardo puntato su sua madre.

Maryse annuì mentre richiudeva il giornale e riponeva nel lavello i piatti della colazione appena consumata con sua figlia. «Sì. E poi a comprare la lettiera ed il latte da fargli bere»

Alec mandò giù il caffè e deglutì pesantemente cercando di suonare il più casuale e tranquillo possibile. «Se vi serve una mano potrei uh, non lo so—guidare io.» disse schiarendosi la gola, voltandosi a mettere la tazza di caffè ora vuota nel lavabo cercando di nascondere la sua espressione alla famiglia.

Maryse e Isabelle si scambiarono una occhiata sorpresa e per un istante soltanto preoccupata, boccheggiando colpite da quel repentino e bizzarro cambiamento nell'atteggiamento del ragazzo.

«Ma... certo, sì.» rispose Maryse dopo un po' quando vide Alec girarsi con le mani ficcate nelle tasche della felpa e l'espressione incerta di chi sta attendendo una condanna. «Sarà bello fare qualcosa tutti insieme» osservò con un sorriso posato e composto portando una mano al viso del figlio e carezzando la sua guancia con dolcezza per un solo istante.

Izzy si alzò dal suo sgabello lasciando il piccolo biberon vuoto sul bancone.

«Bene allora. Io tengo il gatto!» esclamò sfarfallando le ciglia, la borsa già a pendere dal suo braccio mentre si avviava con passo sicuro e fiero verso la porta, il micino avvolto in un caldo panno di lana e tenuto stretto al petto riparato dalla giacca della ragazza.

Alec alzò gli occhi al cielo e diede in un sorrisetto sghembo. «Non se l'aspettava nessuno, Iz.» osservò sarcastico prima di raccogliere le chiavi della macchina dal tavolo e seguire sua madre e sua sorella verso il retro.

 

*

 

La prima cosa che Magnus notò quando lesse il messaggio di Alexander fu che l'altro gli aveva dato, per la prima volta, del “tu”. In teoria la cosa non sarebbe dovuta essere vista come un buon segno, in pratica Magnus si sentì rilassato e a suo agio nel notare questo piccolo dettaglio che, però, gli risaltò subito all'occhio.

Catarina non ne sarebbe stata affatto contenta perciò era un bene che non avesse la minima idea del fatto che i due si erano scambiati il numero di telefono. Nonostante non lo avesse davanti e non potesse vedere il suo viso, Magnus poteva avvertire tramite le parole che gli stava inviando la sua tranquillità. Era sicuro che quella fosse la chiacchierata più rilassata e disinvolta che i due avessero avuto fino a quel momento; da un lato era sinceramente felice di aver fatto un simile progresso con lui, dall'altro il pensiero che questa apertura stesse verificandosi fuori dall'ambito professionale lo abbatteva e preoccupava. Doveva cercare di riportare le cose sulla giusta strada ma la situazione fra loro in quel momento era estremamente delicata.

Alexander era come un animale ferito, ovvero spaventato; il minimo movimento brusco, il primo passo falso avrebbero portato ad un rapido regredire di tuti i progressi fatti fino a quel momento. Se ora si stava concedendo di aprirsi un po' di più con lui, se solo Magnus avesse in qualche modo tentato di usare la cosa a suo favore per spingerlo a parlare dei suoi sentimenti -qualunque essi fossero- era certo che Alexander sarebbe tornato a rinchiudersi fra le sue barriere barricandosi dietro di esse cacciandolo fuori a calci da quella confidenza che avevano appena trovato.

Magnus doveva riuscire a tenere aperto quel canale, quel sentiero che li aveva collegati. Non poteva perderlo, non poteva lasciare che lui lo chiudesse fuori. Non ora, non così. Il solo pensiero gli risultava fastidioso. No, balle. La sola idea era insopportabile. Non sapeva perchè, non sapeva come mai, ma nel suo sangue sentiva il bisogno di salvare quel ragazzo, l'esigenza di afferrare la sua mano e tirarlo fuori dall'abisso nel quale stava precipitando giorno dopo giorno con urli sordi. Questo pensiero, questa consapevolezza, lo portò a rispondere con tono leggero ai suoi messaggi ritrovandosi tuttavia, al tempo stesso, a cercare di capire e scoprire qualcosa di più dell'altro man mano che arrivavano le sue parole. Mentre si asciugava e pettinava i capelli neri, Magnus ragionava sulle parole che Alexander gli aveva inviato. C'era stato, all'improvviso, un totale cambio di registro che gli fece salire un brivido lungo la schiena. Era come se nel bel mezzo della conversazione Alexander si fosse raggelato. C'era una sfumatura triste nelle sue parole, una profondità in quel messaggio che portò Magnus a schiudere le labbra e fissare lo schermo sospeso in un infinito attimo di dubbio. Non stavano più chiacchierando, non stavano più solo parlando e di sicuro non era Presidente Meow al centro dell'attenzione in quel momento. Magnus scorse nelle sue parole il primo spiraglio verso la sua anima. Un'anima che appariva ora spaventata e ferita, un'anima alla ricerca d'aiuto.

 

A: Alexander Lightwood.

Ti senti dato per scontato?

 

Aveva indugiato a lungo sul tasto d'invio prima di spedire quel messaggio. Temeva di esser stato troppo diretto e 'violento' con quella domanda così schietta, ma non considerava Alexander uno stupido. Non si aspettava che lui credesse davvero che Magnus non avrebbe notato l'improvviso cambio di registro nella loro conversazione. Se c'era la minima possibilità che Alexander stesse realmente cercando il suo aiuto sforzandosi di mostrare il suo dolore, allora avrebbe fatto tutto il possibile per offrirgli il proprio ascolto.

Ben presto però Magnus si pentì di quella scelta. Alexander non rispose e lui si ritrovò a vestirsi e truccarsi con la metà dell'attenzione che solitamente riversava in quelle attività. Continuava a lanciare sguardi ansiosi al telefono attendendo che l'altro rispondesse, temendo di aver fatto il fatidico passo falso che l'avrebbe portato a nascondersi nuovamente dietro le mura che da così poco tempo aveva concesso a Magnus d'aggirare. Sospirando il terapeuta si guardò allo specchio andando a ripulire una sbavatura d'eyeliner che aveva deformato la linea dell'occhio che aveva così accuratamente delineato. Si osservò nel vetro in silenzio studiando i lineamenti del proprio viso: la mascella squadrata con quel leggero accenno di pizzetto, la pelle dorata per cui era stato discriminato per anni quand'era piccolo, il naso dritto per il quale era sempre stato grato e gli occhi così riccamente decorati di una sfumatura rossa e bianca con brillantini scintillanti sparsi qua e là tutt'attorno. Osservò le proprie iridi di quel colore così assurdo e strinse le labbra deglutendo con forza. Un'ombra attraversò il suo sguardo prima che si ritrovasse a chiudere gli occhi e voltarsi rapidamente sistemandosi la sciarpetta di seta viola che aveva attorno al collo.

Si infilò un cappotto nero a doppio petto e si passò una mano fra i capelli per assicurarsi che fossero ben alzati e pettinati recuperando poco dopo la sua borsa da lavoro e le chiavi di casa. Infine prese il cellulare e lo fissò mordendosi il labbro fermo davanti la porta di casa. Alexander non aveva più risposto, ormai da un'ora.

 

A: Alexander Lightwood.

Scusami. Non volevo metterti a disagio... Cercavo solo di capire. Di capirti.

Non sentirti obbligato a rispondere, mh? ;)

 

Si rigirò il telefono in mano mordendosi l'interno della guancia per alcuni istanti prima di espirare e infilare l'apparecchio nella tasca del soprabito.

Non poteva permettere alla sua mente di impantanarsi nelle profondità di quegli occhi azzurri, non poteva permettere alla sua attenzione di vorticare attorno a lui. Era un paziente come un altro, era un caso come tanti. Col tempo e con una buona dose di pazienza ne sarebbe venuto a capo. Come sempre.

Si umettò nervosamente le labbra ed annuì fra sé e sé lasciandosi alle spalle la porta chiusa del loft e, sperava, ogni tipo di preoccupazione per il paziente Alexander Lightwood.

 

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Capitolo 9
*** Contatto ***


 

Era riuscito a mettere da parte il suo coinvolgimento nei riguardi di Alexander Lightwood per gran parte della giornata. Arrivato in ufficio aveva salutato la sua segretaria con la consueta cortesia scoccandole un occhiolino e infilandosi nel suo studio. Aveva ordinatamente estratto le sue cose dalla borsa e appeso il cappotto all'appendiabiti ritrovandosi pronto ad affrontare una nuova giornata di lavoro.

Fra le mura di quell'ufficio si sentiva quasi un'altra persona. Si autoinduceva ad estraniare qualsiasi altro pensiero che non fosse il benessere dei suoi pazienti e lasciava che il suo stravagante se stesso si facesse da parte per lasciare posto al Magnus distaccato ed educato di cui i suoi pazienti avevano bisogno.

Quel giorno aveva avuto appuntamento con alcuni fra i suoi pazienti più vecchi e affezionati. Una donna che doveva riuscire a convivere con il divorzio del marito, un uomo che stava cercando di affrontare il suo alcolismo ed un altro uomo dal temperamento solitamente piuttosto violento. Avevano tutti fatto enormi progressi dalla loro prima seduta. La donna, grazie all'aiuto di Magnus, aveva capito di poter continuare a vivere anche senza la presenza di suo marito al suo fianco, di poter gestire la sua vita da sola passo dopo passo, un piccolo gradino per volta, iniziando ora persino a gettar via i vecchi ricordi che aveva condiviso con l'uomo per casa. Magnus era soddisfatto di essere riuscito ad aprirle gli occhi, a mostrarle un nuovo modo per vivere la sua vita che, decisamente, non era finita solo perchè adesso suo marito non era più al suo fianco. Si sentiva come se avesse risolto un indovinello piuttosto lungo, soddisfatto e quasi divertito all'idea di aver messo la donna sul giusto sentiero. Era certo che di lì a pochi mesi l'altra avrebbe potuto persino definirsi libera di interrompere le loro sedute. La cosa non gli dispiaceva né lo interessava granché: nonostante seguisse la donna da oltre un anno, ormai, non si sentiva minimamente legato emotivamente a lei. Non aveva mai avvertito il desiderio di metterle un braccio attorno alle spalle per calmare i suoi singhiozzi, non aveva mai sentito l'urgenza di asciugare le sue lacrime. Ogni volta si limitava ad avvicinarle cortesemente la scatola di fazzoletti sulla sua scrivania e ascoltare il suo pianto in ossequioso silenzioso attendendo che l'altra si svuotasse e calmasse.

Così era per tutti i suoi pazienti.

Nessuno di loro era speciale o insostituibile a parte ben rare eccezioni. Avrebbe sempre ricordato il suo primissimo paziente, per esempio, la prima persona a richiedere il suo aiuto nel suo studio appena avviato, quando ancora non era nessuno e chiunque sembrava vedere in lui una barzelletta per via della giovane età e dell'aspetto piuttosto eccentrico. Non avrebbe mai dimenticato la ragazza che andava da lui per superare il dolore di uno stupro e che poche settimane dopo l'inizio delle loro sedute si era arresa al dolore togliendosi la vita nella sua camera da letto. Non avrebbe mai dimenticato l'aiuto che aveva ricevuto da una donna piuttosto influente nel campo sociale la quale raccomandò il suo studio a chiunque avesse a portata d'orecchio. Ma a parte queste poche singolarità, gli altri pazienti erano solo casi che gli capitavano per le mani, individui da indirizzare su una strada migliore, a cui mostrare i loro veri sentimenti attraverso domande mirate e l'auto-analisi. Era sempre stato impeccabilmente professionale e tutti loro, alla fine, lo avevano ringraziato per la sua disponibilità.

Quella, nella mente di Magnus, era la normalità delle cose, il modo in cui fosse giusto che quelle sedute andassero.

Alexander Lightwood, però, sfuggiva ad ogni logica concezione.

Magnus si era interrogato a lungo sul motivo per cui quel ragazzo aggirasse ogni regola infrangendosi contro i suoi pensieri con violenta inspiegabilità. Si era rivolto decine di domande in quei giorni nel tentativo di capire cosa stesse succedendo alla sua professionalità; cosa pensava di quel ragazzo? Perchè ci teneva così tanto a salvarlo? Perchè sentiva di non poterlo ignorare? E quando era scattato questo bisogno dentro di lui? Durante le loro prime sedute era andato tutto come sempre fra loro. C'era stato il consueto e giusto distacco, la sua cortese ma fredda disponibilità, l'educazione, tutto come al solito. Ma quando le cose sono cambiate? Magnus si era sforzato di ricordare il momento da cui ogni cosa sembrava esser stata diversa fra loro ed Alexander non era più stato solamente un paziente, ma quasi una missione personale.

Si ripetè una volta ancora quelle stesse domande quella sera, di ritorno a casa dalla solita giornata di lavoro. Aveva varcato la soglia del loft con un sospiro stanco appendendo il cappotto nero al vicino appendiabiti e riponendo la sua borsa sulla scrivania nel soggiorno. Si era rapidamente cambiato d'abito limitandosi a coprirsi con i pantaloni del suo pigiama di seta preferito -color blu notte con una fantasia a sottili righe grigie- ed una vestaglia color borgogna piuttosto calda e morbidamente allacciata sul davanti. Si era abbandonato su una poltrona a riflettere sulla faccenda accendendo il cellulare e abbandonando il capo oltre la spalliera dello schienale, il pomo d'Adamo totalmente esposto ed i capelli scompigliati a ricadere dolci sulla sua fronte. Presidente Meow lo aveva raggiunto e gli era balzato sulle gambe acciambellandosi sulle sue cosce richiedendo la sua quotidiana dose di coccole. Magnus prese a carezzarne il pelo morbido distrattamente continuando ad interrogarsi silenziosamente.

Aveva realizzato che tutto cambiò durante una delle loro sedute. Alexander era silenzioso come al solito, seduto sulla sua sedia ad occhi chiusi godendosi quel momento di pace e di calma con l'espressione più rilassata e pacifica che Magnus gli avesse mai visto in volto. Si lasciava avvolgere dalla quiete di quel luogo straziata soltanto, di tanto in tanto, dallo strisciare di una penna contro la carta, dal vento che colpiva le finestre facendole vibrare, da un clacson che suonava sulla strada sottostante. Magnus lo osservava, lo osservava sempre. Studiava il modo in cui il suo viso si rilassava o contraeva in reazione a qualsiasi tipo di stimolo: una sua parola, un suo gesto o persino dai suoi stessi pensieri. E proprio mentre si stava perdendo nell'osservare la bianca vallata della sua pelle così oscenamente nascosta da larghi abiti vecchi e molto poco alla moda, Magnus venne folgorato dalla consapevolezza di sentirsi -in quel momento- sorprendentemente bene. Si sentiva rilassato ed in pace con il mondo in una maniera che non aveva mai conosciuto in tutta la sua vita. Si sentiva al riparo, si sentiva tranquillo, fluttuava in un eterno momento di pace nel mezzo di una guerra che, attorno a quell'unica ora sospesa nel tempo, imperversava e infuriava violenta. Pensò che quelle sedute non aiutassero solamente l'anima di Alexander ma anche la sua stessa. Pensò che voleva dilatare quell'ora fino al suo massimo per gustarne ogni prezioso secondo. Pensò di voler rimanere chiuso in quella stanza ad osservare i lineamenti definiti del viso di quel ragazzo per sempre.

Fu quel pensiero a cambiare ogni cosa. Fu quella sensazione di pace, di benessere a trasformare Alexander Lightwood. Era il modo in cui lo faceva sentire bene, per quanto la cosa potesse suonare ironica considerando quanto turbato e agitato si sentisse ogni volta che pensava a lui. Ma averlo vicino, condividere quell'unica ora nel mezzo di una giornata altresì sfiancante, era un balsamo per la sua anima. Magnus si ritrovò a sollevare il capo dalla spalliera della poltrona e a schiudere le labbra, quasi come investito da quella rivelazione. Era come se stesse disperatamente cercando di salvare Alexander per salvare se stesso nel processo. Non perchè si sentisse simile a lui come aveva suggerito Catarina –lui aveva già affrontato i suoi demoni, ma perchè l'altro era capace di farlo sentire sereno ed in pace col mondo come nient'altro era in grado di fare e sentiva di voler fare tutto ciò che era in suo potere per aiutarlo a mantenere sul viso quell'espressione pacifica e tranquilla che, di recente ne era certo, solo a lui riservava.

 

*

 

La giornata era trascorsa straordinariamente tranquilla.

Alec aveva passato la mattinata assieme a sua madre e sua sorella accompagnandole con l'auto verso le varie tappe che si erano predisposti. Prima di tutto erano andate dal veterinario che, fortunatamente, era libero per una visita immediata. L'uomo aveva consigliato loro come comportarsi con il micio per quei primi mesi e aveva fatto un elenco di cose di cui avrebbe avuto bisogno come ad esempio vaccini, specifici tipi di cibo e così via. Dopodiché erano andati ad acquistare una lettiera e un paio di strumenti di aggiungere al suo giaciglio, come ad esempio dei tiragraffi in corda per le sue unghiette.

Era stata una giornata divertente: Alec e Izzy facevano a turno per tenere il gattino e dargli da mangiare mentre Maryse si occupava materialmente di eseguire i servizi. Quando Alec guidava Izzy giocava col gattino, quando si fermavano lo passava ad Alec così che potesse tenerlo un po' lui. Maryse osservò di sottecchi il figlio cercando di capire cosa lo avesse spinto ad essere così socievole quel giorno. Possibile che fosse solo opera di quel piccolo involtino di pelo? La cosa le sembrava piuttosto improbabile seppur non impossibile e si limitò a tenere per sé le sue osservazioni.

Tornati a casa Izzy e Alec si occuparono subito di sistemare la lettiera e il nuovo giaciglio di Church mentre Maryse si occupò di preparare il pranzo. Alec cercò con tutto se stesso di non pensare alla conversazione avuta quella mattina con Magnus e a quello che ne era venuto fuori. Cercò di scacciare il senso di colpa derivante da quello scambio di messaggi e di rimanere vicino alla sua famiglia il più possibile, rifugiandosi nel morbido pelo di Church ogni volta che la conversazione rischiava di divenire troppo personale.

Nel pomeriggio Jace e la sua ragazza, Clary, vennero a far loro visita dopo che Izzy aveva detto loro del nuovo arrivato. Clary, che era la sua migliore amica, aveva insistito per poterlo vedere e ovviamente Jace, che era a sua volta il migliore amico di Alec, si era unito per passare a salutare i suoi amici. Simon, l'ultimo elemento rimasto del gruppetto di amici -nonché fidanzato di Isabelle, era rimasto bloccato a lavoro e non era potuto venire.

«Oh mio Dio Izzy, è bellissimo!» esclamò Clary inginocchiandosi accanto al letto di Church con gli occhi scintillanti di emozione.

Isabelle, al suo fianco, aveva lo stesso identico sguardo ed una espressione fiera che Alec riconobbe come quella che era solita sfoggiare ogni qual volta si sentiva orgogliosa di qualcosa. «Lo so» disse con vocina eccitata scostando un boccolo nero dalla spalla. «Da un lato vorrei che non crescesse mai. E' così carino!»

Jace, stravaccato sul divano accanto ad Alec diede in una risata divertita mentre scuoteva la testa con aria rassegnata. «Ho paura, amico mio, che tua sorella stia iniziando a provare i primi segni d'istinto materno. Fossi in te mi preparerei a vedere arrivare il primo nipotino» rise Jace dando una pacca sulla spalla di Alec che, dal canto suo, si ritrovò a ridere a gran voce con le spalle scosse dall'attacco di risa.

«E perchè devo essere io a prepararmi? E' Simon quello che dovresti avvisare» disse Alec voltando il capo verso Jace e sporgendosi appena verso di lui per dargli un lieve colpetto alle costole col gomito. «E comunque, se non l'hai notato, anche Clary mi sembra piuttosto presa dall'idea di avere un cucciolo a cui badare»

La reazione di Jace portò Alec a rimanere semplicemente sconvolto. Invece di risultare terrorizzato o atterrito dalla battuta di Alec, Jace mise su un sorriso luminoso mentre si stringeva nelle spalle. «Beh presto potrebbe anche averne uno di cui occuparsi. Vero piccola?» disse lui guardando in direzione della ragazza con l'espressione più spontanea e rilassata del mondo. Clary si voltò verso di lui con la sua cascata di boccoli rossi e schiuse le labbra in un sorriso ampio e caloroso risaltato dalle lentiggini spolverate sul suo viso piccolo e bianco.

«Beh non troppo presto.» ridacchiò con un sorriso che coinvolse anche i suoi grandi occhi verdi. «Ma in futuro sì, senz'altro» annuì felicemente prima di voltarsi nuovamente verso Isabelle e Church.

Alec era sconvolto. Conosceva Jace da una vita, erano praticamente cresciuti insieme, eppure mai in tutti quegli anni l'aveva visto comportarsi così. Sapeva già che con Clary era tutto diverso: aveva visto il modo in cui l'aveva notata fin da subito, il modo in cui sembrasse calamitato da lei e dalla sua sola presenza. Aveva visto come si voltasse sempre a cercare il suo sguardo, la sua mano, anche solo una ciocca dei suoi capelli. Sembrava semplicemente drogato di lei.

Ma per quanto avesse potuto comprendere che questa volta Jace si fosse davvero innamorato, non era preparato a sentirlo parlare della sua ragazza in quei termini. Stavano parlando di bambini. E invece di sembrare spaventato o riluttante all'idea, sembrava quasi in paziente attesa di quel momento, come se sapesse già, in cuor suo, che era quella la direzione verso cui stava andando la sua vita. Verso Clary, verso una loro famiglia.

Scorgere questo cambiamento in Jace fu quanto mai sconvolgente; Jace era sempre stato l'anima della festa fin da quando erano piccoli. Era quello che amava le luci dei riflettori e le attenzioni di chiunque avesse attorno. Era quello che beveva e ballava con tutte le ragazze della festa prima di scegliere la sua preferita per concludere a dovere la serata. Era quello che attirava gli sguardi di chiunque ovunque andasse e che ne era perfettamente consapevole. Era quello che amava divertirsi e non precludersi nulla della vita, soprattutto nessun tipo di piacere. Era quello che credeva l'amore un sentimento sopravvalutato, una sorta di sottomissione alla quale non avrebbe mai voluto arrendersi. E poi tutto era cambiato. Uno sguardo di Clary, il sentire la sua risata, il rendersi conto che lei non aveva interesse a passare nessuna notte con lui se prima non avesse avuto a disposizione una indeterminata quantità di mattine per conoscerlo ed imparare ad amarlo. Ed ora eccolo: fidanzato fedele e devoto in attesa di mettere su famiglia.

Il pensiero fece contorcere leggermente le viscere di Alec. Sentì il cuore accelerargli in petto mentre nella sua mente balenò un ricordo che aveva tentato per anni di eliminare.

Jace steso sul suo letto, i capelli biondo-oro sparsi sulle lenzuola blu a fargli da aureola mentre la luce del primo pomeriggio baciava la pelle nuda del suo petto. Si era addormentato senza maglietta in quel soffocante pomeriggio estivo. Era semplicemente bellissimo. Alec aveva sentito il suo cuore tremargli nel petto mentre osservava i lineamenti perfetti del suo corpo, il modo in cui i pettorali s'alzavano e abbassavano ad ogni respiro, il modo in cui gli addominali si contraevano al minimo movimento, quella sottile striscia di peluria dorata che scendeva dall'ombelico fino a dentro i suoi pantaloni. Alec avrebbe tanto voluto toccarla per sentire quanto sarebbe stata pungente la sensazione di quei peli sottili sotto le dita, quanto morbida e liscia sarebbe stata la sua pelle apparentemente fatta d'avorio. Aveva portato la sua mano al di sopra del suo addome e con la punta delle dita aveva ripercorso la forma delle sue costole, del suo sterno, in un movimento talmente leggero da risultare evanescente. Aveva sentito il suo cuore fare le capriole nel suo petto, l'aria mancargli dai polmoni, la gola farsi secca mentre poco a poco sentiva di volere di più.

E poi la porta si aprì....

La voce di Jace riportò Alec al presente facendolo sussultare leggermente. «Terra chiama Alec. C'è nessuno?» rise il biondo sporgendosi appena verso di lui, schioccando le dita davanti al suo volto con un sorriso divertito sulle labbra.

Alec sbattè le palpebre e lo guardò vedendo sfumare dalla sua mente il ricordo di quel pomeriggio.

«Uh—sì, io...» disse lui con la voce arrochita, boccheggiando per un istante. «Sì, scusa. Mi ero distratto» continuò schiarendosi la gola, annuendo appena.

«Dicevo che un giorno di questi dovremmo uscire insieme. Sai, come i vecchi tempi. E' una vita che non passiamo una serata solo io e te. Mi manchi, amico» ripetè Jace con la sua consueta schiettezza, dandogli un colpetto col gomito contro il braccio.

Un tempo Alec avrebbe sentito il cuore fargli le capriole nel petto a quelle parole, le farfalle agitarsi nello stomaco facendogli perdere la concezione del tempo e dello spazio. Adesso non sentiva più quel tipo di vertigine al pensiero di rimanere solo con Jace e la cosa lo stupì. Aveva passato anni a cercare di imporsi di non pensare più a lui in quel modo, a negare e seppellire quelle sensazioni con forza, con violenza, ma non si era accorto di essere riuscito—alla fine, a scacciarle dal suo cuore. Forse la lontananza che si era imposto da lui aveva dato i suoi frutti. Oppure non era la sua pelle a richiamare ora le sue dita. Chissà.

Alec sorrise annuendo leggermente col capo. «Sicuro. Mi farebbe piacere»

Jace si illuminò in viso come un albero di Natale prima che gli strepitii di Clary e Isabelle richiamassero la loro attenzione. Church si era appena esibito in un lungo sbadiglio portando le due ragazze sull'orlo di un mancamento. Da Clary era qualcosa che qualcuno poteva anche aspettarsi: a prima vista ci si aspetterebbe da lei una stanzetta dalle pareti rosa e un letto cosparso di peluche e cosette carine. Da Isabelle era una reazione totalmente inaspettata per chi non la conosceva bene come loro. Lei dava più l'idea di essere una pantera che una ragazzina affascinata dalle cose tenere e carine, pertanto era strano vederla annegare nel suo brodo di giuggiole ogni volta che si ritrovava faccia a faccia con un qualche tipo di cucciolo d'animale. La sua reazione era sempre ugualmente sconvolgente.

Alla fine Jace e Clary rimasero per cena e se ne andarono poco dopo con la promessa di tornare al più presto per vedere il piccolo Church. Alec si riscoprì felice di quella giornata sebbene ad un certo punto della serata avesse iniziato a sentire una strana sensazione adagiarsi sul fondo dello stomaco. Aveva ignorato il telefono per tutto il giorno per via delle emozioni e degli impegni della giornata e si era concesso di lanciare una occhiata allo schermo solamente poco prima di cena. Aveva trovato un paio di messaggi di Magnus che gli avevano in parte tolto la fame. Avrebbe voluto rispondergli ma non voleva farlo mentre era in mezzo a tutti e, soprattutto, non aveva idea di come potergli effettivamente rispondere.

Adesso che tutti se n'erano andati e che la giornata volgeva al termine, fu libero di tornare nella sua stanza dove si cambiò infilandosi i comodi pantaloni di una vecchia tuta ed una t-shirt scolorita che aveva visto tempi migliori. Si abbandonò sul letto tenendo il telefono alto fra le mani, al di sopra del viso. Lesse e rilesse i messaggi di Magnus mille volte sospirando e mordendosi il labbro inferiore. Voleva rispondere. Ma non sapeva se quello che aveva da dire avrebbe potuto scatenare domande scomode. Probabilmente sì e la cosa un po' lo spaventava, ma meno di quanto si sarebbe aspettato. L'idea di parlare con Magnus lo atterriva un po' di meno ormai, soprattutto se per 'parlare' si intendeva scrivergli in chat invece che a voce avendo sotto gli occhi il suo sguardo serafico e attento.

Dopo interminabili istanti di contemplazione e riflessione Alec si arrese e digitò un messaggio.

 

A: Magnus Bane.

No. Non mi sento dato per scontato. Perchè pensi che sia io a soffrire?

Non hai mai pensato che potrei essere io il cattivo della mia storia?

 

Deglutì a vuoto quando inviò quel messaggio non riuscendo a far scendere quel groppo che gli si era formato in gola. Sentiva il cuore battere a mille mentre attendeva che Magnus leggesse le sue parole e, al tempo stesso, si ritrovava a rileggere il suo ultimo messaggio accarezzando col pensiero le sue parole. “Cercavo solo di capire. Di capirti.” Voleva capirlo... qualcosa di ovvio e scontato considerando il fatto che era il suo psicologo, no? Eppure... eppure c'era una parte di Alec che si sentì come abbracciato da quelle parole, come se fossero tutt'altro che banali o prevedibili ma, al contrario, una sconvolgente novità.

 

A: Magnus Bane.

A volte penso di non capirmi neanch'io. Non te la prendere se non riesci a trovare un senso in quello che dico. Penso sia assolutamente normale :')

 

Optò per far scivolare la conversazione su una vena più scherzosa e leggera non sapendo in che altro modo poter rispondere alle sue parole. Tuttavia nonostante l'evidente tono ironico quello che aveva scritto non era altro che la pura verità. O, quanto meno, ciò in cui lui credeva.

Sospirò rotolando sul fianco e rannicchiandosi sul letto, osservando la schermata del telefono. Si ritrovò per l'ennesima volta ad osservare la foto di Magnus, scoprendone sempre nuovi dettagli. Una ruga d'espressione che gli era sfuggita, l'inclinazione particolare delle labbra, il luccichio negli occhi per via della luce della candela. Studiò il modo in cui la sua mascella era perfettamente squadrata e la linea del naso che disegnava un perfetto profilo. Ripercorse con lo sguardo la forma delle sue mani, del busto accuratamente coperto da quella bella camicia. Si perse in quell'attenta e silenziosa analisi fino a quando il telefono non vibrò fra le sue dita.

 

Da: Magnus Bane.

Non mi sembri una persona cattiva, Alexander.

Ma dopotutto non ti conosco per poterlo dire con certezza, no?

 

Alec sentì il cuore mancare un battito a quelle parole. Touché, pensò con un sorriso amaro sulle labbra mentre un altro messaggio compariva sotto il precedentem fermandogli definitivamente il respiro.

 

Da: Magnus Bane.

Permettimi di conoscerti.

 

Cosa avrebbe dovuto dire, ora? Come poteva rispondere a quella domanda così diretta ed esplicita? Avrebbe dovuto dirgli che non c'era niente di rilevante da conoscere? O, comunque, niente di piacevole? Che avrebbe fatto meglio a spendere il suo tempo in attività più costruttive? Non c'era niente di sé che sentisse valesse la pena rivelargli o che sentisse di poter condividere, lui era la persona più normale e noiosa del pianeta. Non aveva abilità eccezionali o una personalità interessante. Era una persona qualsiasi, una di quelle che passavano inosservate ovunque andassero. Lui non era niente.

 

*

 

Ecco. L'aveva fatto.

Non c'era ritorno da quel momento e Magnus lo sapeva bene. Sapeva che stava superando tutti i confini possibili ed immaginabili esistenti fra terapeuta e paziente, sapeva che Catarina probabilmente lo avrebbe buttato dalla finestra se solo avesse letto quei messaggi, ma non aveva potuto trattenersi. Quelle parole... Il modo in cui pensava così male di sé, il modo in cui continuava a soffocare il suo dolore dietro lunghi silenzi o tentativi di scherzo, le pause fra un messaggio e l'altro, tutto portava Magnus a sentire l'impellente bisogno di capire i pensieri che si aggiravano nella mente di quel ragazzo.

Aveva ormai accettato l'idea che Alexander non gli avrebbe più scritto quando il telefono aveva squillato spaventando Presidente Meow sulle sue gambe. Magnus aveva ripreso a carezzargli quel punto dietro le orecchie che gli piaceva tanto e lo aveva tranquillizzato mentre la sua mente era volata alle parole impresse sullo schermo. Non riusciva a figurarsi, nella sua mente, Alexander Lightwood capace di qualsiasi tipo di cattiveria. La sola idea gli sembrava impossibile eppure non poteva effettivamente dire di conoscerlo. Non abbastanza da poter esprimere un simile giudizio, comunque. Ma Dio, se avrebbe voluto! E così Magnus tentò di sfruttare tutte le carte che aveva a sua disposizione per spingerlo ad aprirsi a lui. Non avrebbe dovuto farlo, aveva promesso di non forzarlo, ma come poteva rinunciare? Come poteva ignorare quelle parole?

 

Da: Alexander Lightwood.

Non c'è molto da dire su di me. Niente di interessante, almeno.

Cosa vuoi sapere?

 

Magnus sgranò gli occhi nel leggere quelle parole.

Alexander non era scappato. Non si era sottratto a quella conversazione, non si era rifugiato nei suoi oscuri silenzi. Era lì, dall'altra parte di quella conversazione, ad attendere una qualche domanda. Magnus sentì la bocca secca, sentì che quello era un momento delicato. Pericolosamente fragile.

Cosa voleva sapere di lui? C'era qualcosa in particolare che avrebbe voluto conoscere di quel ragazzo? La verità era che avrebbe voluto poter esaminare ogni lato di lui, scoprire ogni sua facciata con cura e attenzione. Avrebbe voluto togliere i veli che nascondevano al mondo il vero Alexander.

 

A: Alexander Lightwood.

Cosa hai fatto oggi?

 

Magnus decise di aggirare il discorso facendo un largo giro. Non c'era niente di specifico che volesse sapere di lui. Voleva imparare a conoscerlo per com'era nella sua quotidianità, nel modo più spontaneo e sincero possibile. Capire come trascorresse le sue giornate, con chi, perchè. Piccoli tasselli che avrebbero composto un puzzle ben più ampio e grande.

 

Da: Alexander Lightwood.

Ho portato mia madre, mia sorella e Church dal veterinario e poi a comprare tutto il necessario per lui. Mia sorella ha sistemato la scatola dove lo abbiamo sistemato con dell'imbottitura più calda e con dei tiragraffi per quando cresceranno le sue unghiette.

Secondo Jace Church sta risvegliando l'istinto materno di Izzy... ma io credo che l'abbia sempre avuto. Si è sempre sentita in dovere di prendersi cura di chiunque, fin da piccola.

 

A: Alexander Lightwood.

Jace? Chi è?

 

Da: Alexander Lightwood.

Oh, sì, scusa. Hai ragione. Jace è il mio migliore amico, praticamente un fratello. Ci conosciamo da quando eravamo piccoli, ormai è di famiglia in casa. Oggi è passato con la sua ragazza, Clary, per vedere Church e sono rimasti a cena.

 

Presidente Meow saltò giù dalle gambe di Magnus e andò a bere un po' del suo latte in cucina lasciando l'uomo a leggere il messaggio appena ricevuto. Stava già per scrivere qualcosa in merito all'istinto materno di Izzy quando un secondo messaggio lampeggiò sullo schermo.

 

Da: Alexander Lightwood.

E tu? Cosa hai fatto oggi?

 

Magnus fu preso in contropiede da quella domanda ritrovandosi a boccheggiare per un istante prima di tornare alla consueta calma.

 

A: Alexander Lightwood.

Oh, solita roba. Lavorato allo studio e poi tornato a casa da Presidente. Questa sera sembrava aver voglia di coccole.

 

Da: Alexander Lightwood.

O forse voleva stare un po' con te.

 

A: Alexander Lightwood.

Forse...

 

A: Alexander Lightwood.

Cosa farai domani?

 

Da: Alexander Lightwood.

Non ho programmi per domani. Probabilmente resterò a casa a studiare per l'esame del mese prossimo e quando sarò troppo stanco per continuare cercherò qualcosa da vedere su Netflix.

 

A: Alexander Lightwood.

Cosa studi?

 

Da: Alexander Lightwood.

Legge.

 

A: Alexander Lightwood.

Come mai hai scelto questa facoltà?

 

Da: Alexander Lightwood.

Volevo fare qualcosa di buono della mia vita. Vorrei poter fare qualcosa di... giusto.

E tu? Come mai hai scelto di studiare psicologia?

 

A: Alexander Lightwood.

Volevo fare qualcosa di buono anche io, suppongo.

E poi pare che sia bravo a capire le persone.

 

Da: Alexander Lightwood.

Ti piace quello che fai?

 

Magnus si ritrovò ad affrontare per la prima volta quella domanda. Gli piaceva il suo lavoro? Gli riusciva discretamente semplice ed era anche piuttosto bravo, ma gli piaceva? Non si era mai soffermato a pensarci ed in quel preciso momento non seppe dire se ci fosse qualcosa, nel suo mestiere, che lo facesse sentire a tutti gli effetti bene.

 

A: Alexander Lightwood.

Adesso sei tu a fare le domande? ;)

 

Da: Alexander Lightwood.

Scusami.... è che anche io penso di volerti conoscere.

 

Quelle parole s'impressero nelle iridi del terapeuta come fossero state incise a fuoco nella retina.

Il suo cuore mancò un battito mentre tutto in quella situazione sembrava essere terribilmente sbagliato. Eppure nella sua mente, nel suo cuore, tutto aveva incredibilmente senso ed ogni cosa sembrava essere semplicemente naturale. Ripensò alle parole di Catarina, al modo in cui lei gli aveva detto che non permetteva a nessuno di conoscerlo davvero, al modo in cui gli aveva detto che si nascondeva dagli occhi di chiunque. Forse... forse valeva davvero la pena di lasciare che qualcun altro vedesse chi era a parte i suoi più vecchi amici. Forse Alexander Lightwood avrebbe potuto sfuggire ai suoi tentativi di 'nascondersi'. Forse, in qualche modo, lo aveva già fatto.

 

A: Alexander Lightwood.

Mi sembra anche giusto.

 

Da: Alexander Lightwood.

Scusa, non avrei dovuto dirlo.

Dimentica quello che ho detto, okay?

 

A: Alexander Lightwood.

No, non hai detto niente di sbagliato Alexander.

Sono solo sorpreso. Da quando ho iniziato a fare questo lavoro è la prima volta che è qualcun altro a voler conoscere me.

 

Da: Alexander Lightwood.

Non credo sia così. Forse avevano solo timore di chiederlo apertamente.

 

Magnus osservò quel messaggio a labbra schiuse sentendo le iridi dilatarsi a quella vista. Qualcosa si smosse nel suo petto mentre un alito di brezza fredda giunse sul suo viso dalla finestra.

 

A: Alexander Lightwood.

Tu non ne hai avuto.

 

Si morse il labbro nervosamente fissando lo schermo con impazienza e tensione, alternando lo sguardo fra i messaggi sotto i suoi occhi e la foto che Alec aveva scelto di mettere sul suo profilo whatsapp. Era una foto apparentemente piuttosto vecchia, di molti anni prima, perchè Alec indossava la divisa da basket di una scuola superiore ed era per aria, bloccato in un salto eterno, con le braccia tese nell'atto di lanciare la palla nel cestino. Aveva i capelli neri spettinati e leggermente sudati, la pelle bianca brillava sotto le luci dei riflettori della palestra mentre la maglietta madida di sudore si appiattiva contro quella che sembrava essere una muscolatura perfetta. Aveva l'espressione concentrata ed uno sguardo che sembrava essere anni più giovane. I suoi occhi brillavano in un modo in cui non li aveva mai visti brillare dal vivo, erano accesi da una fiamma che in qualche modo ora sembrava essersi spenta. Magnus aveva subito trovato bellissima quella foto.

 

Da: Alexander Lightwood.

Molto più di quanto pensi.

Comunque si è fatto tardi.

Buonanotte.

 

Magnus poteva perfettamente vedere, sotto i suoi occhi, il giovane Alexander che arrossiva violentemente a quella rivelazione imbarazzante cercando il modo di sottrarsi a quella situazione improvvisamente troppo scomoda. Poteva immaginarlo distogliere lo sguardo dal telefono lanciandolo chissà dove e appallottolarsi sotto le coperte per non pensare a quanto era stato sciocco a sostenere quella conversazione con lui. Era tutto chiarissimo nella sua mente come se stesse vedendo un film su uno schermo.

Lesse e rilesse quelle parole una quantità infinita di volte prima di sospirare stancamente e dirigersi a letto a sua volta, abbandonandosi fra le lenzuola di seta rossa ripetendosi mentalmente i suoi messaggi. Stava sbagliando, stava dando vita ad un potenziale disastro, ne era tristemente consapevole. Eppure al tempo stesso una parte di lui, chissà quanto piccola e distante, gli chiedeva perchè fosse così sbagliato? Ripetersi che non era professionale era una risposta davvero così valida? Dopo tutte le volte che se l'era ripetuto iniziava a trovarla una scusa piuttosto debole e priva di senso, un'attenuante piuttosto inutile per qualcosa che invece ai suoi occhi sembrava semplicemente essenziale. Gli piaceva pensare che Alexander si fosse sentito nervoso a chiedergli di volerlo conoscere. Gli piaceva pensare che Alexander volesse conoscerlo. E gli piaceva pensare che ammetterlo lo avesse intimidito. Il pensiero solleticava la sua vanità ed un'altra parte di lui che non avrebbe ancora saputo ben definire e nominare.

Andò a letto, quella sera, crogiolandosi nella sensazione di essersi avvicinato, anche se solo un po', al misterioso ragazzo dagli occhi azzurri che aveva preso a costellare insolente tutti i suoi pensieri.

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Capitolo 10
*** Annegare ***


 

Alexander si era addormentato col cuore che gli batteva a mille nel petto e la mente confusa. Sentiva i suoi pensieri ingarbugliarsi fra loro in uno strano stato di galleggiamento che gli impediva di pensare lucidamente. Non era certo di cosa fosse accaduto esattamente fra loro ma sentiva di essersi esposto troppo. Non sapeva nemmeno lui da dove gli fossero venute fuori quelle parole. “Anche io penso di volerti conoscere” aveva detto e solo dopo aver inviato il messaggio aveva realizzato cosa aveva appena ammesso. Si era sentito in trappola, come se avesse messo un piede in fallo, soprattutto quando si rese conto che a spaventarlo di più non era il fatto di aver così spontaneamente aperto il proprio cuore ma la possibile reazione infastidita dell'altro. Reazione che non era tardata ad arrivare, impacciata e decisamente fredda. Alec sentì di aver mandato tutto all'aria e troncò in pochi messaggi quella conversazione divenuta ormai insostenibile. Che diavolo stava facendo? Cosa diavolo gli era venuto in mente di fare cercando di avvicinarsi a quel modo a quella persona?

Magnus non era -non sarebbe mai stato- un amico. Era pagato per stare a sentire i suoi problemi, non c'erano altri motivi dietro il suo interesse. Ovviamente. La cosa non lo stupiva affatto, dopotutto, in altre circostanze, perchè mai avrebbe dovuto volerlo conoscere? Non c'era niente in lui che potesse destare interesse nel prossimo, lo sapeva bene. Così si ripromise di lasciar perdere quella stupida idea di conoscere il ragazzo dall'altra parte del telefono e tentò di addormentarsi per sfuggire ai suoi stessi pensieri.

L'indomani s'impose di non scrivergli. Si sentiva teso e a disagio dopo il modo in cui la loro chiacchierata era finita e non aveva idea di come quella situazione si sarebbe potuta mai sbloccare. Oltretutto non aveva la minima intenzione di scrivergli per primo. Non di nuovo, comunque. Non voleva che Magnus pensasse... che credesse... Neppure nella sua mente riusciva a spiegarsi cosa esattamente non voleva che succedesse fra loro. Sospirando si era alzato e aveva passato la mattina a studiare come aveva spiegato a Magnus la sera precedente. Cercò di liberare la mente da ogni tipo di distrazione per concentrarsi solamente su quanto scritto sui libri che aveva sotto gli occhi ma verso metà pomeriggio si rese conto di aver studiato ben di meno di quanto era solito fare. Aveva continuato a distrarsi per tutto il giorno ritrovandosi a guardare il telefono a intervalli regolari di tempo per vedere se per caso ci fosse qualche nuovo messaggio ad attendere d'esser letto. Quando si rese conto che Magnus non gli aveva scritto e che, probabilmente, non l'avrebbe fatto, si sentì rassegnato e giù di corda in un modo fastidiosamente intenso. Non voleva sentirsi così. Non avrebbe dovuto sentirsi così. Chiuse gli occhi tenendosi la testa fra le mani seduto alla scrivania nella sua stanza, i libri aperti davanti a sé illuminati dalla luce della lampada da lettura. Si sfilò gli occhiali dalla sottile montatura nera e cercò di far mente locale. Non era successo niente in fin dei conti. Avevano chiacchierato, aveva ammesso di volerlo conoscere meglio e poi non si erano più sentiti. Se qualcuno avesse dovuto chiedergli come mai volesse conoscerlo avrebbe potuto semplicemente dire che si trattava di una questione di fiducia, no? Per aprirsi con lui doveva riuscire a fidarsi di quell'individuo e per fidarsi di lui doveva prima conoscerlo. Era un ragionamento sensato, no? Nessuno avrebbe potuto trovare niente di cui obiettare. Giusto?

Sì, si concesse di credere che fosse la spiegazione perfetta alle sue parole e sebbene sapesse che non fosse la verità, per gli altri poteva andare bene così. Lui doveva accontentarsi di pensare che fosse un bene il fatto che i loro rapporti si fossero congelati così in fretta: meglio adesso che vederlo stancarsi di lui in un momento in cui magari Alec avrebbe potuto soffrire per il suo allontanamento.

Stava cercando di scendere a patti con se stesso quando il suo cellulare vibrò.

Molto più velocemente di quanto avrebbe dovuto afferrò l'apparecchio puntando lo sguardo sul display illuminato, l'espressione improvvisamente colma di speranza ed impazienza a sfumare in uno sguardo deluso e preso in contropiede.

«Hey Jace, ciao» salutò Alec dopo aver risposto alla chiamata con una nervosa alzata d'occhi.

«Hey» salutò l'altro con tono piuttosto tranquillo. «Sei libero per caso? Mi trovo dalle parti di casa tua e pensavo che potevamo farci un giro. Non lo so, prendere un caffè, una birra. Una cosa così»

Alec rimase in silenzio per un attimo soppesando la possibilità di uscire.

La sua mente si fece improvvisamente vuota mentre cercava di capire se fosse il caso di fermare i suoi studi per quel giorno o se era meglio rimandare. Si sentiva in colpa all'idea di aver studiato così poco in tutte quelle ore, ma al tempo stesso sapeva che se anche avesse deciso di rimanere a casa con la testa sui libri non sarebbe riuscito a fare poi molto altro. Magari uscire gli avrebbe fatto bene, magari l'avrebbe aiutato a liberare la mente dai pensieri che continuavano a vorticarci dentro.

«Uh-sì, certo. Sicuro.» acconsentì alla fine alzandosi dalla sedia e passandosi una mano fra i capelli. «Il tempo di darmi una sistemata e sono pronto.»

«Perfetto. Ti passo a prendere. Ti aspetto fuori»

 

*

 

La giornata si era rivelata piuttosto lenta quel giorno.

La mente di Magnus continuava a ripercorrere la conversazione della sera precedente portandolo a cadere in un vortice di incertezza e dubbio. Desideri personali e professionalità si scontravano in una guerra che sembrava non voler vedere alcun vincitore. Ormai aveva rinunciato all'idea di poter trovare un punto d'incontro fra quelle due fazioni. Era piuttosto chiaro che l'una escludeva l'altra e che non ci fosse modo di far coesistere quei due principi in un unico modo d'agire e comportarsi.

Magnus, sostanzialmente, doveva fare una scelta.

Essere lo psicologo di Alexander o affezionarsi a lui.

La cosa lo mandava in crisi perchè in qualche modo sentiva che era troppo tardi per non legarsi a quel ragazzo il che voleva dire che avrebbe dovuto rinunciare ad essere il suo terapeuta. Ma lui non voleva rinunciare. Lui desiderava con tutto se stesso salvarlo dall'abisso nel quale stava sprofondando, voleva essere la luce alla fine del tunnel, voleva essere la mano che l'avrebbe riportato alla luce. Voleva, voleva, voleva... Il peso dei suoi desideri lo faceva sentire egoista e pericoloso. Continuava a ripetersi di volere il bene di Alexander eppure non era capace di lasciarlo andare. Non sopportava l'idea di lasciare che qualcun altro si occupasse di lui. Qualcosa gli diceva che nessuno avrebbe potuto farlo. Nessuno poteva capire e vedere quello che si nascondeva dietro i suoi occhi azzurri.

Sentiva nel profondo di sé che nessuno avrebbe realmente cercato di aiutarlo come desiderava fare lui, che si sarebbero limitati a trattarlo come un paziente qualunque, forzandolo ad aprirsi e portandolo quindi a rinchiudersi ancor di più. Alexander non era un paziente qualsiasi, non era una persona qualsiasi. Alexander era diverso ed in qualche modo Magnus accettò l'idea che fosse scritto nel suo destino. Ed era proprio questo pensiero a confonderlo e turbarlo. Aveva accettato che in qualche modo ci fosse un legame fra loro, una qualche connessione invisibile capace di connetterli ed unirli in un modo terrificante e nuovo e profondo che non sapeva spiegarsi, ma non sapeva come trattare quel legame. Dopo la loro conversazione si era ritrovato a riflettere fino a tardi prima di addormentarsi stanco e sfinito, pensando e ripensando a tutto ciò che si erano detti, alle domande che lui gli aveva fatto e alle quali non aveva risposto.

Al mattino, poi, era ancora più in difficoltà che la sera precedente perchè il modo in cui si erano salutati aveva lasciato un denso imbarazzo a colmare la loro chat, un imbarazzo che nessuno dei due sembrava sapere come trattare. Magnus era certo che Alec dovesse star maledicendo quella conversazione, pentendosi magari di averci anche solo provato a sostenerla e stava cercando di pensare ad un modo per calmare le sue paranoie senza però dimostrarsi troppo coinvolto. Doveva pur sempre mantenere quell'essenziale distacco necessario alla sua figura di analista. Il suo istinto gli aveva suggerito di chiedere aiuto a Catarina come era solito fare quando era in difficoltà, tuttavia era bastato un secondo di riflessione per scacciare immediatamente via l'idea. Sapeva che lei non avrebbe minimamente approvato la cosa e che gli avrebbe semplicemente detto di lasciar stare quel paziente e non aveva assolutamente bisogno di sentirsi dire ad alta voce quello che una parte di lui gli aveva suggerito debolmente.

Così si era ritrovato ad andare a lavoro col telefono acceso nella speranza di ricevere un qualche messaggio da parte di Alec, finendo col seguire i suoi pazienti con la metà dell'attenzione che era solito rivolgere loro. Si sentì investito da una ondata di stupore e sconvolgimento al realizzare fino a che punto avesse a cuore le reazioni di Alexander. Non aveva mai provato un interesse simile prima per un'altra persona. Era come se avesse una spaventosa cotta per lui ma l'idea non era possibile... giusto? Non che Alexander non fosse il suo tipo: era un bellissimo ragazzo e Magnus aveva sempre pensato che il suo uomo ideale avrebbe dovuto avere una scompigliata zazzera nera e dei penetranti occhi azzurri, ma il fatto era che ciò che lo legava ad Alec non era semplicemente una mera attrazione fisica. Oh, quanto sarebbe stato più semplice riuscire a gestire la situazione se fosse stato quello il punto! No, ad unirli c'era qualcosa di molto più profondo e complesso. Non poteva dire che si trattasse di sentimenti perchè di fatto non si conoscevano, eppure qualunque cosa fosse doveva essere molto vicina a quel concetto. Aveva voglia di scoprire ogni lato di quel ragazzo, di capire i suoi pensieri, le sue emozioni, il suo carattere. Aveva voglia di proteggerlo perchè sentiva che fosse l'unico capace di poterlo fare e perchè sentiva che fosse giunto il momento, per Alexander, di non combattere più da solo. Aveva voglia di parlargli. Spesso. Sempre. E più di una volta aveva pensato che gli sarebbe piaciuto vederlo fuori dagli orari di lavoro.

In definitiva Magnus sentiva di poter definire il suo rapporto con Alec con una parola che aveva spesso ritenuto piuttosto inquietante. Ossessione. Era quanto di più vicino esistesse a quello che sentiva e non sapeva quanto potesse rallegrarsi all'idea di essere quanto meno riuscito ad identificare e nominare il sentimento che stava provando.

Vedere l'ultimo paziente della giornata uscire dallo studio gli fece tirare un profondo sospiro di sollievo; si sentiva infastidito dalla sua mancanza di attenzione di quel giorno. Non era da lui e lui odiava non essere se stesso. Si disse che poteva capitare, a volte, di avere giornate no, ma lui aveva sempre preteso il massimo da sè. Sebbene non fosse raro che si abbandonasse al triste crogiolarsi nei propri ricordi, questo non voleva dire che al tempo stesso non odiasse il suo capitolare al subbuglio che aveva dentro. Per via di questo conflitto interiore spesso finiva con il bere tutti gli alcolici che aveva in casa per mettere silenzio nella sua mente oppure con l'uscire con i suoi amici andando in qualche pub dove la musica fosse abbastanza alta da riuscire a sovrastare le urla che sentiva salirgli dentro dal profondo del petto.

Sospirando si alzò dalla scrivania per infilare il suo cappotto a doppio petto nero decorato con delle catene d'argento lungo la lunghezza delle spalle. Si arrotolò la sciarpa attorno al collo e guardò una volta ancora il telefono. La chat con Alexander era assolutamente identica a come l'aveva vista per l'ultima volta se non fosse... La foto era cambiata. Al posto dell'immagine di Alec intento a cercare di fare canestro che ormai Magnus aveva osservato così tante volte al riparo nel suo loft, c'era una foto del ragazzo decisamente più recente e... spontanea. Il giovane Lightwood era seduto su di un divano indossando una semplice maglietta da casa e i comodi pantaloni larghi di una tuta scura. Fra le mani reggeva a pancia in giù un micio dal pelo scuro intento a bere avidamente da un piccolo biberon pieno di latte. La testa di Alec era abbassata per osservare il piccolo fagottino peloso fra le sue mani e le sue labbra erano distese verso l'esterno in un sorriso mesto e rassicurante. Non era possibile vedere i suoi occhi per via del modo in cui la testa era chinata ma Magnus era certo che se solo avesse potuto vederli li avrebbe trovati ricolmi di meraviglia e sorpresa.

Un involontario sorriso salì alle sue labbra mentre lo sguardo gli si ammorbidiva d'istinto al sol vedere quella semplice immagine. Sentì tutta la tensione e i pensieri di una intera giornata scivolargli via di dosso, come se improvvisamente ogni turbamento e pensiero apparissero ai suoi occhi sciocchi e immotivati. Perchè era stato così teso al pensiero di scrivergli? Perchè si era trattenuto così stoicamente sebbene stesse morendo dalla voglia di sentirlo? Perchè continuare a preoccuparsi così inutilmente di tutto quanto quando era così lampante il fatto che Alexander lo facesse sentire al suo meglio senza neanche sforzarsi per riuscirci?

Magnus inspirò a fondo e digitò rapidamente un messaggio.

 

*

 

«E' una bella foto» disse Jace piegando le braccia dietro la testa seduto al tavolino esterno di un bar non molto lontano da casa di Alec. «Non capisco perchè ti imbarazzi tanto» continuò fissando il suo amico con aria totalmente rilassata, la sciarpa grigia attorno alla gola a tenerlo ben coperto dal freddo di quella sera.

Alec storse appena il naso, accigliandosi. «Non mi imbarazzo» brontolò poco convinto sospirando. «E' che non voglio sembrare... sai... cioè...»

«Umano?»

Alec lo fissò con uno sguardo poco divertito, ma nient'affatto arrabbiato. Alzò gli occhi al cielo scuotendo la testa. «Simpatico»

«No, dico davvero Alec, che ha che non va?» chiese Jace ridendo, inclinando leggermente il capo mentre abbassava le braccia per incrociarle al petto. «Stai reggendo un gatto mica sei in calze a rete!»

La sola idea fece rabbrividire Alec di disgusto.

Ma Jace aveva ragione, in questo senso. Non c'era niente di propriamente imbarazzante nella foto che Izzy stava così fortemente insistendo per fargli usare come nuova immagine profilo su whatsapp, in realtà gli piaceva anche quello scatto. Il punto era che non si sentiva esattamente a suo agio all'idea di condividere quell'attimo della sua vita con tutta la gente che aveva salvata in memoria sul telefono. Era un lato di lui che preferiva mostrare solamente a poche persone, con le poche capaci di farlo sentire a suo agio per davvero, come appunto sua sorella o lo stesso Jace. Per tutto il resto del mondo avrebbe decisamente preferito continuare a rimanere il ragazzo che giocava a basket ai tempi del liceo.

«Che aveva che non andasse quella di prima?» ribattè allora Alec non sapendo come esprimere a parole il motivo dietro la sua riluttanza.

«Ehm vediamo... che è vecchia?» fece sarcastico Jace inarcando un sopracciglio, come se avesse appena detto l'ovvietà del secolo che era sfuggita allo sguardo di Alec.

«E allora? Non è che sia cambiato chissà quanto da allora, sembro sempre lo stesso» sciorinò lui con una scrollata di spalle. Stessi capelli neri, stessa pelle pallida, stessi occhi azzurri. Una foto, per quanto gli riguardasse, valeva l'altra.

Jace si ritrovò a farsi serio per un solo secondo a quelle parole borbottando qualcosa a mezza bocca. «Invece sei completamente diverso...»

«Hm?» mormorò Alec che non aveva sentito bene le parole di Jace.

Il biondo tornò immediatamente alla solita aria strafottente e sorrise. «Niente, niente, lascia stare.» disse tornato alla tranquillità e schiarendosi la voce. «Comunque lo sai. L'unico modo per far sì che Izzy smetta di tormentarti è accontentarla. Sai cosa fare» continuò con una mezza risata.

Alec sospirò ancora una volta con fare abbattuto notando come l'ennesimo messaggio di sua sorella stesse lampeggiando sulla schermata.

 

Da: Izzy

Dai Alec, ti prego! Fallo per me! Fallo per Church!

Quella foto avrà tre anni, mi fa fisicamente del male questa cosa, hai bisogno di metterne una nuova! Dai, dai, dai

 

A: Izzy

VA BENE.

Basta che la smetti di riempirmi di messaggi!

 

Da: Izzy

Yay! Sapevo che avresti capito ♥

 

A: Izzy

Sì, come no.

Riprenderemo la discussione fra altri tre anni.

 

Alec capitolò e con molta poca convinzione cambiò la foto.

Rimase ad osservarla per qualche attimo guardando i propri lineamenti in quell'immagine. Non capiva perchè sua sorella la trovasse così bella, perchè aveva scelto proprio quella foto per sostituire la precedente. Era carina, sì, ma totalmente dimenticabile. In realtà un po' iniziava a sentirsi a disagio all'idea di mostrare quei capelli spettinati e gli abiti da casa che aveva addosso, ma ormai era andata. E, in fin dei conti, non è che pensasse davvero che avrebbe parlato con qualcuno di quella foto. Probabilmente si stava facendo tutti quei problemi per niente quando nessuno si sarebbe neppure accorto che aveva cambiato immagine.

Il pensiero lo tranquillizzò e lo portò ad alzare gli occhi al cielo quando avvertì il telefono vibrargli in mano. Era pronto a leggere l'ennesima risposta di sua sorella quando i suoi occhi notarono il nome in cima la finestra delle notifiche appena comparsa sullo schermo.

Sentì il battito accelerare improvvisamente e gli occhi sgranarsi quando vide che, dopo una intera giornata di attesa e tensione, Magnus gli aveva scritto. Ormai aveva rinunciato all'idea di sentirlo per quel giorno ed era appena riuscito a farsene una ragione e calmarsi quando lui aveva deciso di sorprenderlo e scombinare, una volta ancora, tutti i suoi piani.

 

Da: Magnus Bane.

Mi piace la nuova foto.

Lo dicevo che Church è stato fortunato ;)

 

Le labbra di Alec si distesero istintivamente in un sorriso impacciato ma totalmente spontaneo. Quel semplice messaggio aveva fatto evaporare il denso imbarazzo che era rimasto fra loro dalla sera precedente dopo quello scambio -forse inopportuno, di messaggi circa il loro rapporto. Tutto sembrava essere tornato alla normalità, tutto sembrava essere nuovamente facile e semplice, come fino a due giorni prima.

«Alec Lightwood che sorride guardando il cellulare» commentò Jace improvvisamente sorpreso con un tono di voce basso ma pungente, il tono di chi la sapeva lunga. «C'è per caso qualcosa che hai dimenticato di dirmi?» domandò alzando le sopracciglia con fare interrogativo ed incuriosito, sporgendosi appena verso l'amico, ammiccando.

Alec, per tutta risposta, mise via il cellulare in un lampo cercando di nascondere a tutti i costi il nome del mittente dalla vista di Jace. Ci mancava soltanto che lo vedesse sorridere come un ebete mentre parlava col suo psicologo. Con un ragazzo.

«Ma che, ma cosa dici? ti pare?» balbettò lui nervosamente cercando di dissimulare il suo imbarazzo e di far passare i sottintesi di Jace come qualcosa di ridicolo e impossibile.

«Perchè no?» domandò il biondo aggrottando le sopracciglia. «Non ci starebbe mica nulla di male, no? Sei giovane e bello, e ancora ci chiediamo tutti cosa stia aspettando per trovarti qualcuno. Sinceramente, Alec, probabilmente ci sarebbe una fila pazzesca di gente che se le darebbe di santa ragione pur di stare con te»

Il viso di Alec si tinse di una sfumatura scarlatta mentre le parole di Jace affondavano sempre più a fondo nella sua anima. Non è che non volesse stare con nessuno... in realtà più di una volta si era ritrovato a desiderare ardentemente di poter avere qualcuno al suo fianco. Qualcuno con cui poter passeggiare mano nella mano o con cui poter semplicemente rimanere steso sul letto a parlare o guardare qualcosa su Netflix. Era un ragazzo come tanti altri, ancora giovane e come tutti anche lui sognava di trovare il vero amore, la persona capace di renderlo felice e farlo sentire stranamente leggero e compreso e... libero.

Ma quei suoi desideri non erano qualcosa di così... semplice. Tutto era molto più complicato di quanto non sembrasse se si considerava che al suo fianco continuava ad immaginare il corpo slanciato e definito di un giovane senza volto, mani forti e ampie decisamente lontane dall'apparire femminili. Era qualcosa per il quale si era rimproverato per anni, più e più volte, sentendosi disgustato da se stesso e dai desideri che provava. Era qualcosa che aveva tentato di tenere nascosta a chiunque sin da quando aveva avvertito per la prima volta quel tipo di attrazione. Era qualcosa che si sarebbe portato con sé nella tomba e che rendeva quindi piuttosto difficile spiegare ad altri perchè non avesse uno straccio di vita sentimentale. Ogni volta chiudeva il discorso dicendo che al momento non era interessato alle ragazze e scrollava le spalle. Solo lui sapeva che quel momento non sarebbe, probabilmente, mai finito.

«Ma smettila» rise nervosamente Alec grattandosi la nuca distrattamente, passandosi le dita fra gli scomposti capelli neri. «Piuttosto ti conosco. Non mi hai chiesto di uscire solo perchè ti trovavi nei paraggi. E' successo qualcosa?»

Jace strinse le labbra e si schiarì la voce sistemandosi sulla sedia con fare piuttosto agitato.

«No. Non proprio» commentò passandosi una mano fra i capelli dorati, ravviandoli all'indietro. «Io e Clary abbiamo avuto una mezza discussione» ammise rabbuiandosi appena.

Alec non disse nulla lasciando modo all'amico di proseguire quando più si fosse sentito pronto.

«Niente di serio, eh? Voglio dire, non è una litigata vera, niente di preoccupante. Però... non lo so. Continuano a non tornarmi le sue parole» sospirò lui poggiando la fronte contro la superficie di ferro gelido del tavolino.

Alec lo guardò in silenzio vedendo coi suoi occhi quanto ogni minima cosa che riguardasse Clary fosse capace di influenzarlo in modo così palese e profondo. Sembrava quasi... malato di lei.

«Cos'è successo?» chiese allora, alla fine, pronto ad ascoltarlo.

Jace risollevò il capo ed espirò sonoramente come per scaricare un po' di tensione.

«Eravamo a casa mia, sul letto, e stavamo abbracciati a parlare del più e del meno, sai, come facciamo sempre» iniziò a spiegare lanciando sporadiche occhiate al viso di Alec e riportando poi lo sguardo sul tavolino dove giacevano le tazzine ormai vuote dei loro caffè, quasi si sentisse in imbarazzo a procedere con la sua confessione. «E' venuto fuori che Clary ha impostato il numero di suo padre come contatto da chiamare in caso di emergenza. Mi sono sentito.. sorpreso. Non me l'aspettavo. Voglio dire, se dovesse mai succederle qualcosa vorrei essere informato immediatamente, essere il primo ad accorrere ad aiutarla, capisci? E credevo... che per lei fosse lo stesso, no? Che in situazioni di pericolo pensasse di volere me vicino per proteggerla o per aiutarla...»

La voce di Jace si era abbassata lentamente mentre il suo viso si era fatto via via leggermente più rosso. Si strofinò la nuca con una mano tenendo lo sguardo basso, quasi si sentisse ridicolo a confidare quel suo timore all'amico. Alec non si era minimamente aspettato una conversazione di quel tipo quando aveva sentito che Jace e Clary avevano discusso e rimase per un istante perplesso ed indeciso sul da farsi.

«Hai detto che avete discusso. Immagino che tu le abbia detto come ti senti?»

Jace annuì.

«Sì ma lei l'ha presa sul ridere. Ha detto che non posso essere geloso di suo padre, che ovviamente vorrebbe avermi vicino in caso di bisogno, ma che allo stesso modo vorrebbe i suoi genitori, che vorrebbe essere certa che qualunque cosa succeda loro sarebbero stati informati all'istante. Le ho chiesto se per caso non credesse che io li avrei comunque avvisati immediatamente se anche fossi stato chiamato per primo, ma ha detto solo 'ma che c'entra? è diverso'» spiegò lui sospirando, scuotendo il capo.

«Non lo so, amico. A sentire lei sembra che io stia facendo storie per nulla, ma per me questo non è nulla. Forse non posso capire cosa voglia dire desiderare un genitore vicino in caso di bisogno visto che io genitori non ne ho ma so che voglio esserci per lei qualunque cosa succeda. Anche solo per riportarla a casa dopo una sbronza al bar, anche se è l'ultima cosa al mondo che mi aspetterei da lei»

Mentre Jace parlava sembrava avere il cuore in mano. La sua voce era ricolma di una disperazione tale che Alec si chiese se forse i suoi sentimenti per Clary non avrebbero potuto rischiare di ferirlo più di quanto non gli facessero del bene talvolta. La paura che provava per lei, per la sua incolumità, per il non essere abbastanza importante per lei -non nella stessa misura in cui Clary lo era per lui comunque, sembrava logorarlo e consumarlo nella stessa misura in cui la di lei vicinanza lo faceva ardere e bruciare di nuova vita.

«Se posso dire la mia, e sai bene quanto io e Clary non siamo esattamente migliori amici, credo che puoi star tranquillo» disse Alec, alla fine, inspirando a fondo, portando le mani nelle tasche della giacca. «Non credo che non si fidi di te o che non ti consideri abbastanza importante da volere che tu l'assista in caso di emergenza. Ma il legame con un genitore è... diverso.»

Jace alzò gli occhi al cielo seccato quando sentì utilizzare ancora quella parola.

«Scusami, so che non è esattamente quello che speravi di sentir dire ma non è facile da spiegare.» continuò Alec con una risata a mezza voce. «Fin da piccoli siamo abituati a rivolgerci a loro quando qualcosa accade, qualunque cosa. E' la loro porta che cerchiamo quando qualcosa ci fa paura o ci dà problemi. E' la loro voce che cerchiamo nei momenti di sconforto o di tentennamento. Anche una volta grandi cerchiamo comunque il loro aiuto per risolvere i nostri problemi, che si tratti di trovare una maglietta persa in un cassetto o pagare la retta universitaria che il tuo lavoro part-time non riesce a coprire» spiegò Alec sentendo un retrogusto amaro sulle labbra.

Per anni aveva guardato la porta della stanza dei suoi genitori chiusa davanti a sé.

Per anni aveva cercato il coraggio di raggiungerla, aprirla e parlare con loro.

Per anni aveva sentito il bisogno di cercare il loro conforto, ma sapeva che non ne avrebbe trovato. Sapeva che sarebbe stato inutile, che non era il genere di cosa che poteva trovare nei suoi genitori. Era una consapevolezza dolorosa e bruciante che rese difficile per Alec riuscire ad esprimere al meglio quel concetto.

Jace sospirò visibilmente rattristato abbassando lo sguardo.

Doveva essere doloroso per lui sentire parole come quelle. Alec si sentì in colpa ma al tempo stesso non sapeva come altro aiutarlo a capire i pensieri di Clary senza cercare di spiegargli cosa mancava nella sua vita per poter comprendere i sentimenti della ragazza. Jace aveva perduto i genitori quand'era ancora un neonato. Un incidente d'auto glieli aveva strappati via mentre lui era dalla nonna. La donna non superò mai la perdita del figlio e finì col morire pochi anni dopo mentre Jace venne mandato in orfanotrofio. La sua permanenza in quel posto durò ben poco perchè presto fu adottato da una famiglia che aveva perso un figlio della stessa età per via di una rara malattia e che non poteva apparentemente avere altri figli.

Jace però non venne mai amato come avrebbe dovuto. La perdita del loro vero figlio non lasciò mai i loro cuori e ben presto portò la coppia a divenire sempre più astiosa e disperata, arrabbiata con il fato al punto da prendersela con Jace per non essere il figlio che avevano perduto. Suo padre, in particolar modo, era duro con lui mentre sua madre passava le sue giornate bevendo e dormendo.

All'età di dieci anni qualche insegnante si accorse che Jace non era un bambino come tanti, che qualcosa non andava e quando investigarono sulla famiglia che si stava occupando di lui lo portarono via da loro e da quella situazione infernale. Jace non dimenticò mai quell'uomo che ancora oggi chiama padre. Nei suoi rari momenti di pace gli aveva fatto dono dell'unico amore che avesse mai conosciuto in tutta la sua infanzia. Gli aveva insegnato a pescare, a fare i nodi e intagliare il legno. Gli aveva insegnato a leggere, scrivere e persino fare calcoli complessi per la sua età. Quando era di buon umore gli piaceva insegnargli cose e Jace era felice quando riusciva -talvolta, a strappargli uno sguardo compiaciuto. Alla fine Jace fu preso in custodia da una famiglia deliziosa. I genitori erano gran lavoratori e persone gentili e adorabili. Lo crebbero con affetto e amore spronandolo a fare della sua vita qualunque cosa avesse desiderato. Tuttavia quando Jace venne affidato loro aveva già dieci anni e il suo carattere e la sua personalità erano già stati fortemente temprati dal suo passato. Non era mai riuscito a vedere nei suoi attuali genitori le figure che ogni bambino vede quando guarda la propria mamma ed il proprio papà. Non aveva mai visto in loro i suoi eroi.

«Davvero, Jace. Non lasciarti abbattere da questo» azzardò Alec non sapendo come altro dimostrargli il suo appoggio.

Jace annuì con un sospiro e si passò una mano sul viso.

«Mi sento così stupido, Alec, davvero.» ammise con fare impacciato -qualcosa di estremamente raro e che Alec non credeva di avergli mai visto addosso. «E' che... per me è fatta, capisci? Voglio dire, è lei. Non ci sarà un'altra, non c'è nulla che conti di più al mondo per me. Clary è... non lo so, non so spiegarlo» sospirò Jace scuotendo il capo, umettandosi le labbra.

Questa volta fu Alec a sentirsi a disagio fra loro.

Questa volta era lui a non capire i sentimenti dell'amico perchè non aveva mai provato sulla sua pelle l'emozione che l'altro stava tentando di spiegargli.

«Provaci» mormorò allora Alec, a bassa voce, la mano a stringersi inconsapevolmente attorno al telefono nella sua tasca. «Come ti fa sentire? Com'è essere... innamorati?»

Jace l'osservò in silenzio per un attimo cercando di scrutare lo sguardo vulnerabile di Alec.

I suoi occhi erano sinceri e indifesi in quel momento, mentre cercava di avvicinarsi a qualcosa che sembrava destinato a non poter toccare mai.

«A dire il vero è... debilitante» disse alla fine il biondo con una mezza risata. «Per un certo verso fa proprio schifo. Ti fa sentire le ginocchia deboli, perennemente confuso o preoccupato su tutto. Sarò vestito bene? Le piaceranno questi capelli? Ma se domani dovesse incontrare qualcuno più bello? Se dovesse accorgersi di tutti i difetti che cerco di nascondere? Se si rende conto che in realtà non vuole passare il resto della sua vita con me? E continui a chiederti se possa esistere al mondo qualcuno che possa capire quanto profondamente vorresti rimanerle vicino, proteggerla ed essere l'unico per lei» continuò guardando Alec con uno sguardo che si faceva via via sempre più dolce e rilassato, ricolmo di un calore che il moro non gli aveva mai visto brillare dentro. «Però poi... ti basta guardarla negli occhi o sentire la sua risata... no, non è vero. Ti basta vederla. Ti basta stare con lei, rimanerle vicino e ogni cosa semplicemente sfuma via. Nessuna preoccupazione è abbastanza forte quando lei è nei dintorni perchè insieme a lei puoi sconfiggere tutto. Starle vicino ti fa sentire in pace come se non esistesse nulla al mondo capace di toccarti mentre sei con lei. Insieme potete superare e sopravvivere ogni cosa e nient'altro conta se non rimanere con lei un attimo ancora, uno di più...»

La sua voce si spense mentre il suo sguardo parve perdersi fra i suoi pensieri. Alec avvertì un brivido gelido risalirgli la colonna nel registrare quelle parole nella sua mente. Aveva sentito il cuore fare le capriole nel suo petto man mano che realizzava quanto familiari quelle sensazioni suonassero al suo orecchio. Deglutì rigidamente fissando Jace in silenzio mentre i suoi pensieri si fecero improvvisamente confusi.

Si sentì colto dal panico nel momento in cui si fermò a realizzare quanto vicine fossero a lui quelle parole. In quell'ultimo periodo si era sentito più calmo e leggero di quanto non si fosse mai sentito in anni della sua vita. Si era sentito in pace e al sicuro come non gli capitava da molto e al tempo stesso si era sentito insicuro e a disagio, imbarazzato all'idea di ritrovarsi troppo emotivamente vicino alla persona che era stata capace di donargli quegli scorsi di pace fra un rimuginamento e l'altro. Perchè sì, non poteva negarlo oltre, quei rari attimi di serenità non erano casuali. Non erano momenti che andavano e venivano con cadenza irregolare durante le sue giornate. Erano, invero, appuntamenti settimanali fissi ad orari ben precisi. Alec sentì il cuore contrarsi nel suo petto ed un peso chiudergli la gola dolorosamente mentre lo stomaco gli si contorceva con spasmi e fitte. Il nervosismo lo assalì mentre iniziava lentamente a farsi strada in lui una straziante ed indesiderata consapevolezza. Aveva cercato per giorni di mettere a tacere quel sospetto, di soffocare quell'idea, di scacciare quella possibilità, ma come poteva tentare ancora di negare adesso che Jace gli aveva sbattuto così violentemente in faccia la realtà dei fatti?

Come poteva ancora negare di provare qualcosa per Magnus?

Non era innamorato, non si trattava di quel tipo di attaccamento troppo profondo per un rapporto ancora così effimero come il loro, ma era sicuramente qualcosa. Poteva continuare a dirsi che osservava la sua foto per studiare la bellezza dello scatto invece che per carezzare con lo sguardo il modo in cui la sua pelle dorata svaniva al di sotto di quella camicia borgogna, poteva continuare a dirsi che voleva conoscerlo solo per sviare un po' da sé l'attenzione che gli veniva addossata durante le loro sedute, poteva dirsi che voleva scrivergli continuamente solo perchè era il suo psicologo e voleva liberarsi di quello che sentiva affollarsi nella sua mente. Poteva dirsi e ripetersi così tante cose da arrivare persino a convincersi che ognuna di quelle fosse una valida e reale spiegazione ai suoi comportamenti, ma questo non cambiava comunque il fatto che Alec sentisse di avere bisogno di Magnus. Che sentisse di voler prolungare fino al massimo possibile ogni attimo con lui, di voler andare oltre quella parete che pareva essere piantata ingombrante fra loro.

Il suo cuore si contrasse dolorosamente nel petto mentre per la prima volta lasciava che i suoi pensieri formulassero chiaramente quelle parole.

Mi piace. Magnus, mi piace. pensò deglutendo, sentendo la gola chiusa e il cuore riprendere ora a battere furiosamente nel petto.

La rivelazione giunse violenta nel suo cuore e lo portò ad essere incapace di smettere di rimuginarci su. Jace si riscosse dai suoi pensieri ringraziando Alec per le sue parole e per avergli fatto capire cosa Clary stesse provando in quel momento, quel qualcosa che lui non poteva comprendere e che per questo lo spaventava. Si separarono poco dopo quando Jace sentì l'improvviso impulso di voler andare da lei per scusarsi di quella sciocca discussione e dirle quanto profondamente l'amasse. Alec non ebbe niente in contrario anche perchè quella sera dubitava di poter pensare a qualsiasi altra cosa che non fosse la sconvolgente ed irruenta conclusione alla quale era appena giunto.

Ripercorse la strada verso casa con il capo basso e il cuore in subbuglio, cercando di capire come avrebbe dovuto convivere ora con quella nuova consapevolezza. Non ci voleva. Non era quello che desiderava. Non era qualcosa che poteva permettersi... Era tutto così sbagliato! Era il suo terapeuta, era un ragazzo e lui continuava a volerlo sentire! Perchè era così stupido? Perchè era così innaturale? Il pensiero lo fece sentire esausto e lo portò a riaprire la conversazione con Magnus mentre si avvicinava sempre più al proprio palazzo. Rilesse le sue ultime parole e sentì qualcosa sciogliersi nel suo petto, una ondata di calore attraversarlo da capo a piedi come se avesse bevuto un lungo sorso d'alcol in una gelida notte invernale.

 

A: Magnus Bane.

Grazie.

Anche se in realtà mi ha costretto Izzy a cambiarla. Non sopportava che avessi la stessa foto da anni.

 

Voleva sentirlo. Ora più che mai voleva parlare con lui di qualunque cosa gli passasse per la mente, come se volesse trattenere un po' di Magnus nella sua giornata il più a lungo possibile. Non sapeva neanche se l'altro avrebbe risposto, soprattutto considerando quanto ci aveva messo per rispondergli, ma gli scrisse comunque. Rimase sorpreso nel rendersi conto che l'altro non gli avrebbe fatto attendere quanto aveva fatto lui.

 

Da: Magnus Bane.

Oh. Ho presente il sentimento. A dire il vero è strano che non cambi la mia da più di un mese.

 

A: Magnus Bane.

Non cambiarla. E' una bella foto.

Chi l'ha scattata?

 

Alec si sentì nervoso. Temeva di star osando troppo, temeva che le sue domande fossero imprudenti e decisamente inappropriate, eppure... eppure voleva sapere. Aveva bisogno di capire, di conoscere qualcosa di più su di lui.

 

Da: Magnus Bane.

Grazie, Alexander. Piace anche a me.

Mi rappresenta bene! Un bicchiere di vino e un ottimo outfit: decisamente da me. :D

 

Da: Magnus Bane.

Comunque l'ha scattata Catarina. Era la mia coinquilina ed è la mia migliore amica.

 

A: Magnus Bane.

E' solo quello che vedi?

 

A: Magnus Bane.

Era? Se n'è andata?

 

Da: Magnus Bane.

Tu cos'altro vedi?

 

Da: Magnus Bane.

Si è trasferita nell'Upper-East Side per comodità, lavora al Presbyterian Hospital.

 

Alec si ritrovò fuori di casa. Si fermò nel piccolo portico sedendosi sui gradini che portavano alla porta d'ingresso osservando il cellulare fra le sue mani. Sentì il cuore martellargli nel petto mentre la bocca gli si faceva secca ed una ondata di calore assaliva il suo volto. Come avrebbe potuto descrivere quello che vedeva in quella foto senza risultare... inappropriato? Non sapeva bene neppure lui cosa vedesse quando guardava quella foto perciò si disse di non pensarci troppo. Di svuotare la mente e lasciare che le parole fluissero da sole dalle sue dita cercando di rileggerle una volta finito di scrivere per essere certo di non inviare qualcosa di cui si sarebbe poi sicuramente pentito.

 

A: Magnus Bane.

Io vedo una persona sola.

Catarina ha scattato la foto quindi vuol dire che era a casa con te ma nonostante tutto invece di essere con lei eri solo, fuori, con lo sguardo perso nel nulla, la tua espressione assorta e coinvolta, come se fossi totalmente immerso nei tuoi pensieri.

Ecco, ho trovato.

Ti vedo annegare.

 

*

 

Magnus si ritrovò a sentirsi mancare il respiro quando il messaggio comparve sotto i suoi occhi.

Il suo cuore aveva battuto rapido nel petto nel momento in cui aveva chiesto ad Alexander cosa vedesse nella sua foto, aspettandosi quasi un complimento impacciato o una osservazione spontanea e intimidita.

Quello che lesse invece fu semplicemente disarmante.

Magnus sentì il suo corpo irrigidirsi mentre braccia, gambe, testa, ogni cosa sembrava improvvisamente pesare chili e chili di più. Sentì gli occhi pizzicare e calde lacrime bruciare lungo le guance. Un velo opaco appannò la sua vista mentre si ritrovava incapace di muoversi e pensare. Cosa... Cosa era appena successo? Le parole di Alexander erano giunte quasi come uno schiaffo in pieno volto portandolo a voltarsi ora verso l'appartamento vuoto attorno a sé. Un loft grande, spazioso, ricco, pieno di decorazioni, dettagli e pensili. Vuoto. C'erano oggettini e soprammobili ovunque, ma nessun ricordo. C'erano quadri e cornici ma nessuna foto. C'erano finestre aperte ma in quel momento, per lui, non c'er aria.

Mai come in quel momento si sentì perso e abbandonato.

Mai come in quel momento si sentì solo e sperduto.

Catarina aveva sempre cercato il modo più gentile per farglielo notare e lui aveva sempre scelto di interpretare le sue parole nel modo meno doloroso possibile. Ma adesso, davanti a quella schiacciante e spietata verità, come poteva cercare un significato meno atroce dell'unico possibile?

Le lacrime scesero dal suo viso brucianti, solchi di fiamme e fuoco a disegnare una via sulla sua pelle dorata. Un singhiozzo sfuggì alle sue labbra, incontrollato. Cercò di frenarlo, di tapparsi la bocca con una mano, ma poi si arrese.

Non c'era nessuno che potesse sentire il suo pianto, che scopo aveva nasconderlo persino a se stesso?

Se sentirsi piangere era qualcosa di penoso e miserabile, sentire come cercava di soffocare i suoi singhiozzi lo era ancora di più. Così, semplicemente, lasciò che le lacrime sfuggissero libere dai suoi occhi mentre si abbandonava sulla sua poltrona col capo fra le mani ed il telefono scivolato chissà dove accanto alle sue gambe. Presidente arrivò preoccupato rannicchiandosi sui suoi piedi, quasi come volesse dargli un minimo di conforto in quell'attimo di debolezza. Eppure, nella dolorosa verità che stava affrontando adesso a viso aperto, riusciva ugualmente a sentire una scintilla di speranza, di gioia.

Se qualcuno era riuscito a vedere una cosa simile oltre lo spesso strato di glitter e sfacciataggine di cui era solito ricoprirsi allora, forse, non era poi così solo come pensava, no? Di tutte le persone che aveva conosciuto negli ultimi tempi nessuno aveva mai pensato di lui una cosa simile. Chiunque avesse commentato la sua foto l'aveva fatto per fargli qualche complimento, magari persino qualche avances. Chiunque l'avesse conosciuto l'avrebbe definito l'anima della festa quando si trattava di andare per pub o uscire in comitiva. Solo Alexander aveva visto la sua solitudine. E per la prima volta sì, sentiva che Catarina aveva ragione, che Alexander lo vedeva davvero.

E allora come poteva... come poteva lasciarlo andare quando finalmente, dopo così tanto tempo, aveva trovato qualcuno che potesse sentire il grido disperato che saliva dalla sua anima? Come poteva limitarsi a pensare che non fosse prudente rimanergli vicino solo perchè non era professionale? Aveva qualche importanza quando lui era capace di vederlo per com'era davvero? E, nonostante tutto, accettarlo persino?

Lentamente sentì le lacrime fermarsi ed i singhiozzi cessare. Si calmò poco per volta, tirando su col naso e respirando a labbra schiuse, ripescando il cellulare da dove l'aveva lasciato. Lesse e rilesse quelle parole per un tempo incalcolabile senza avere la minima idea di cosa dire. Lui desiderava essere quello che avrebbe salvato Alexander dal suo dolore, non voleva che fosse lui a salvarlo. Non poteva chiedergli aiuto né tanto meno negare le sue parole. E allora cosa avrebbe potuto dire?

 

Da: Alexander Lightwood.

Mi dispiace. Sono stato inopportuno e invadente.

Non avrei dovuto.

Scusami, davvero.

 

Magnus sospirò e sentì l'istinto di voler abbracciare quel ragazzo.

Sentì l'istinto di passare le sue braccia attorno le sue spalle per premere il suo capo contro la sua spalla e dirgli che andava tutto bene. Sentì il desiderio di sentire fra le dita la consistenza dei suoi capelli e sulla sua pelle il calore del suo respiro. Sentiva di volerlo sentire vicino, di volerlo sentire riempire il vuoto che sembrava regnare sovrano attorno a lui ovunque volgesse lo sguardo. Voleva aggrapparsi a lui come fosse l'unico mezzo attraverso il quale rimanere a galla in quel mare nel quale l'aveva visto sprofondare.

 

*

 

Alec si diede dello stupido per aver pensato che quel messaggio potesse andar bene.

Non aveva scritto niente di imbarazzante o compromettente per i suoi sentimenti, certo, ma non aveva minimamente pensato di aver infranto e distrutto quelli di lui. Come se chiunque morisse dalla voglia di sentirsi sbattere in faccia una propria debolezza, men che meno dal primo sconosciuto di passaggio.

Stupido, stupido, stupido si ripetè rabbiosamente rientrando in casa, notando che nessuna risposta sembrava voler arrivare. Salutò i genitori e si infilò in camera dove si cambiò e si buttò a peso morto sul letto col telefono davanti agli occhi.

I minuti passavano e di Magnus neppure l'ombra.

Stringendo le labbra inviò delle rapide ma sentite scuse e alzò lo sguardo al soffitto. Che giornata era stata, quella! Ripensò a tutto quello che era successo, a tutto quello che aveva realizzato. Dapprima che gli mancava parlare con Magnus ma che non aveva alcuna intenzione di cercarlo per primo. Poi che il pensiero di lui non gli permetteva neppure di studiare e poi c'era stata l'uscita con Jace.

Ripercorse il loro incontro mentalmente, le loro conversazioni, ritrovandosi solo ora a pensare che lui neppure ce l'aveva un contatto assegnato per le emergenze. Se gli fosse successo qualcosa chi avrebbe voluto che venisse avvisato per primo per accorrere in suo aiuto? Provò a pensare ai suoi genitori ma non sentì alcun tipo di sollievo. In realtà se gli fosse successo qualcosa avrebbe quasi avuto timore di farglielo sapere, come se avesse potuto creare qualche guaio che loro avrebbero dovuto risolvere. Non sembravano la scelta migliore per quella possibilità. Immediatamente pensò ad Izzy e a quanto lei ci sarebbe sempre stata per lui, in prima fila, pronta a volare al suo fianco per qualsiasi cosa. Lei sarebbe stata la scelta più ovvia se solo...

Abbassò lo sguardo sul telefono osservando le parole di Magnus brillare sullo schermo.

Non era lei che la sua mente cercava, recentemente, ogni volta che si sentiva confuso o spaventato. Non era di lei che il suo cuore chiedeva quando si sentiva sull'orlo di esplodere, di voler distruggere qualcosa. Non era lei che avrebbe cercato per placare un accesso di ira o per essere tratto d'impaccio. Le sue labbra si sciolsero in un minuscolo triste sorriso mentre con le dita carezzava il nome di Magnus sul telefono. Era una idea così sciocca, così assurda! Eppure nel suo cuore suonava semplicemente naturale. Quasi per scherzo, quasi per gioco, lasciò che le sue dita lo salvassero come contatto d'emergenza da chiamare in caso di bisogno. Era certo che tra l'altro non gli sarebbe mai servito, francamente prima di quel giorno nessuno che conoscesse l'aveva mai neppure salvato un contatto d'emergenza nel telefono, ma lo fece comunque. Quasi come un modo intimo e personale di sentirsi più vicino a lui, quasi come volesse silenziosamente ammettere a se stesso, che se forse esisteva qualcuno in grado di salvarlo da se stesso, quello era Magnus Bane.

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Capitolo 11
*** Hai mai... ***


 Il risveglio portò con sé la sua dose di ricordi.

Magnus aprì gli occhi nel suo letto al suonare della sveglia del suo telefono. Grugnendo e riparandosi dalla luce del sole che filtrava dalle finestre, interruppe quel suono continuo e penetrante cercando di abituarsi alla sensazione del sole sul viso. Poco per volta la sua mente si schiarì ed i ricordi si fecero chiari e nitidi. Aveva pianto per tutta la sera e si era addormentato quando si era sentito svuotato di ogni forza ed energia, ritrovandosi a crollare in un profondo sonno senza sogni. Adesso si sentiva assonnato, il corpo pesante, ma in qualche modo più leggero, come ogni volta che si lasciava andare ad un pianto disperato.

Sentì il cuore contrarsi quando il pensiero volò ad Alexander ed alle sue parole, al modo in cui aveva così semplicemente detto quello che nessun'altro aveva avuto la forza di sbattergli in faccia. Era evidente che non volesse ferirlo, che stesse solo cercando di rispondere innocentemente alla sua domanda, ma non poteva sapere cosa aveva scatenato con il suo dire. Afferrò il telefono tornando alla loro conversazione, leggendo e rileggendo i suoi ultimi messaggi.

Improvvisamente si sentì assalire dai sensi di colpa.

Non aveva mai risposto alle sue scuse e sicuramente il ragazzo doveva essersi sentito piuttosto male per la sua improvvisa sparizione, come se sentisse di aver detto qualcosa di sconveniente. Forse non era esattamente il modo in cui la gente normalmente chiacchierava -da quando poi potevano dire che il loro fosse un rapporto normale?, forse effettivamente era stato un po' troppo schietto, ma in nessun modo Magnus sentì di essere offeso od arrabbiato con lui per quanto gli aveva detto, anzi. Gliene era grato. Grato per essere stato sincero con lui, grato per non essersi soffermato alle apparenze, grato per essere riuscito a vedere oltre quello che tutti vedevano in lui.

Si sentì improvvisamente travolto da una ondata di ottimismo e di energia. Era come se rendersi conto di quanto profondamente Alexander fosse entrato nella sua vita senza neppure che se ne accorgesse gli avesse dato la carica, la voglia di ricominciare da capo, di essere più forte. Un sorriso andò ad allargarsi sulle sue labbra mentre digitava un nuovo messaggio per lui. Improvvisamente il sonno era svanito e con esso quel senso di pesantezza e vuoto interiore. Si sentiva ancora piuttosto abbattuto, ovviamente, ma per lo più si sentiva colmato da un senso di forza e vitalità. Si alzò dal letto non appena ebbe inviato il messaggio e si diresse canticchiando verso il bagno. Lì si abbandonò ad una doccia fresca rigenerante che lo svegliò del tutto e che rilassò i suoi muscoli leggermente intorpiditi dal sonno.

Si lavò con cura strofinando i capelli con energia canticchiando sotto l'acqua una qualche vecchia canzone rock per cui era andato matto quand'era più giovane. Non sapeva bene nemmeno lui cosa, esattamente, lo stesse rendendo così euforico e di buon umore: aveva passato una intera serata a piangere e disperarsi fino a quando non era crollato distrutto abbandonandosi all'oblio dell'incoscienza ed ora era lì a canticchiare allegramente sotto la doccia. Le sue supposizioni, tuttavia, lasciavano spazio a due sole possibilità: la prima è che dopo aver rilasciato tutto il dolore e la tensione accumulati in mesi di contenimento si fosse semplicemente sentito più libero e leggero, la seconda riguardava il fatto che quel giorno era in programma una nuova seduta per Alec il che voleva dire che si sarebbero rivisti.

La sola idea gli faceva agitare qualcosa nel fondo dello stomaco e faceva contrarre il cuore nel petto in una morsa calda e piacevole. Sentiva scintille bruciare nelle vene, il sangue correre sottopelle solleticando ogni nervo al semplice pensare che, dopo tutto quello che era accaduto negli ultimi giorni, si sarebbero rivisti. Ah e poi c'era un'altra piccola possibile spiegazione al suo buon umore: l'indomani sarebbe stato il suo compleanno. Erano solo pochi anni che aveva iniziato ad apprezzare davvero quella particolare ricorrenza grazie all'aiuto dei suoi amici. Da quando le loro vite avevano preso strade diverse era diventato sempre più difficile riuscire a vedersi, ad eccezione di Catarina che fino a poco tempo prima aveva vissuto con lui nel suo loft, ma ogni volta che ricadeva il loro compleanno riuscivano sempre a trovare il modo di vedersi e passare la serata insieme. Non c'era emergenza lavorativa che tenesse che potesse impedire loro di passare quel giorno insieme e Magnus sentiva, in cuor suo, che vedere i suoi amici gli avrebbe decisamente fatto bene.

Non si erano accordati, non avevano programmato nulla, ma era una sorta di consapevolezza silenziosa quella che il giorno dopo, verso una certa ora, tutti sarebbero stati lì per festeggiare insieme a lui. Il pensiero lo portò a rilassarsi lentamente dimenticando per un momento il delizioso brivido che era sorto in lui quando il viso di Alexander era comparso sotto le sue palpebre. Magnus decise di smettere di farsi domande: per una volta si sentiva leggero e di buon umore, un momento che -conoscendosi, poteva dire non sarebbe durato a lungo, per cui voleva smettere di chiedersi 'perchè?' e limitarsi ad approfittare di quelle sensazioni facendole durare il più possibile.

Canticchiando finì la sua doccia e si preparò per una nuova giornata lavorativa in attesa di una risposta da parte di Alexander.

 

*

 

Alec aprì gli occhi lentamente, assonnato, notando la stanza buia attorno a sé. Pochi raggi di sole filtravano dalle tende chiuse e a giudicare dalla loro luminosità doveva essere mattina presto. Beh, non troppo presto, ma prima di quanto avrebbe voluto. Sbuffò richiudendo gli occhi e abbandonando il viso contro il cuscino ben conscio del fatto che non sarebbe riuscito a riprendere sonno.

Si stava bene sotto le coperte e voleva prendersi qualche attimo di tempo per rimanere avvolto dal calore del letto ancora per un po' prima di alzarsi ed iniziare la sua giornata. Fu mentre si voltava dall'altro lato per mettersi più comodo che avvertì qualcosa di duro premere contro le sue costole, dandogli piuttosto fastidio.

Aggrottando le sopracciglia passò la mano sulle lenzuola, sempre ad occhi chiusi, ritrovandosi a stringere il cellulare fra le dita. Si era addormentato col telefono in mano. Strano, non era mai successo prima... Ma poi ricordò perchè aveva voluto tenere il telefono con sé. Aspettava un messaggio. Un qualsiasi segno da parte di Magnus che potesse dirgli che non aveva rovinato tutto con quello stupido messaggio della sera precedente. Aveva voluto tenere il cellulare con sé così che se avesse vibrato a contatto col suo corpo si sarebbe svegliato a qualsiasi ora della notte, ma apparentemente nessun messaggio era arrivato. O lui non si era svegliato. Improvvisamente si ritrovò ad essere impaziente e nervoso.

Riaprì di scatto gli occhi e li portò sullo schermo del telefono adesso illuminato. Una notifica recante il nome di Magnus brillava sul display avvisandolo che, un'ora prima, l'altro gli aveva scritto. Sentì il cuore salirgli in gola, i battiti cardiaci a riverberarsi nel suo corpo come una eco rumorosa. Poteva sentire il battito nei polsi, nelle tempie, nelle orecchie, come un picchiettio continuo e caldo che gli bruciava sottopelle.

Aprì la notifica e pregò fra sé di non aver rovinato ogni cosa.

 

Da: Magnus Bane.

Buongiorno Alexander!

Scusami per non averti risposto ieri sera ma ci sono stati dei problemi.

Non preoccuparti, va tutto bene, nessun bisogno di scusarti :D

 

Sembrava andare tutto bene, pensò Alec mentre leggeva quelle parole tirando inconsciamente un sospiro di sollievo. Si chiese quali fossero i problemi in questione ma sentì che forse non era il caso di fare domande in merito. Apparentemente Magnus non era arrabbiato e per quanto gli riguardava andava bene così: se il cielo ti fa un dono, meglio non chiedere perchè.

 

A: Magnus Bane.

Buongiorno :)

Oh, non importa.

Mi fa piacere che non te la sia presa. A volte tendo a parlare senza pensare.

 

Aveva sempre avuto questo problema. A volte si ritrovava a dire esattamente quello che gli passava per la testa senza nemmeno pensare di filtrare, magari, i propri pensieri. Isabelle lo prendeva spesso in giro per questo. “Certo che sei assurdo! O non parli affatto oppure dici la prima cosa che ti viene in mente senza pensarci su due volte. Sei un caso umano, Alec”gli disse una volta, ridendo, con quella sfumatura affettuosa nella voce che ormai riservava solamente a lui. Alec era arrossito e aveva tenuto lo sguardo basso, punto sul vivo. Finché questo succedeva con Izzy non era un gran problema: poteva essere leggermente imbarazzante ma nulla di più. Sapeva che lei non avrebbe mai rivelato un suo segreto o che non l'avrebbe mai giudicato; avrebbe potuto teneramente ridere di lui ma senza davvero volerlo ferire. Il problema era quando non riusciva a controllarsi in presenza di altri, in presenza di gente che non lo conosceva davvero e che quindi non avrebbe saputo come prendere le parole che uscivano disinibite dalla sua bocca. Avrebbe dovuto lavorare un po' sul suo autocontrollo.

Il telefono vibrò di nuovo fra le sue dita alcuni minuti più tardi.

 

Da: Magnus Bane.

Beh, ti avevo chiesto io di dirmi cosa pensassi, almeno sei stato sincero.

 

Da: Magnus Bane.

Ad ogni modo! La mia segretaria mi ha appena riferito che un mio appuntamento per questa mattina è saltato per cui mi ritrovo con un'ora libera a disposizione: che ne diresti di anticipare la nostra seduta?

 

Alec si ritrovò a sgranare gli occhi alzandosi di scatto a sedere sul letto.

Con un rapido movimento repentino distaccò la schiena dal materasso portandola ben dritta, ancora seduto sul letto, con le lenzuola a coprirlo fino al grembo ed il busto appena coperto da una semplice t-shirt grigia. Osservò lo schermo boccheggiando non sapendo bene come reagire. Aveva totalmente dimenticato che quel giorno si sarebbero visti. Il solo pensiero lo fece sprofondare in un baratro di imbarazzo e tensione. Come avrebbe potuto affrontarlo, faccia a faccia, dopo tutto quello che si erano detti in quei giorni? Era piuttosto sicuro che non sarebbe riuscito a spiccicare parola ma, al tempo stesso, moriva dalla voglia di vederlo. Il suo cuore batteva così forte che minacciava di uscirgli con violenza dal petto facendogli quasi male. Guardò l'ora sul telefono e deglutì a vuoto un paio di volte, la bocca ancora impastata dopo aver passato la nottata a tenerla chiusa.

E ora? Cosa doveva fare? Non era pronto per vederlo in così poco tempo! Aveva bisogno di calmarsi, di prepararsi mentalmente ad un incontro con lui e già avendo mezza giornata a disposizione non era sicuro che sarebbe riuscito a farcela. Ma avendo solo minuti a disposizione? La cosa gli sembrava impossibile eppure dentro di sé non riusciva a far altro che gioire alla prospettiva di poterlo incontrare molto prima del previsto.

Okay, calmati Alec. Sei imbarazzante, si disse respirando a fondo e umettandosi le labbra. Ripetè il processo altre quattro volte prima di riaprire gli occhi e deglutire, facendosi forza.

 

A: Magnus Bane.

Sicuro. A che ora?

 

Inviò senza nemmeno pensarci, sapendo che se se lo fosse concesso non lo avrebbe fatto. Si alzò rapidamente dal letto dirigendosi verso il bagno in fondo al corridoio col telefono ben stretto in pugno e a passi rapidi. Si diede una rapida sciacquata temendo di non avere tempo per farsi una intera doccia e si lavò con cura i denti per liberarsi del saporaccio che aveva in bocca. Non aveva voglia di mangiare: si sentiva lo stomaco chiuso dall'agitazione e temeva che se solo avesse provato a toccare cibo avrebbe rovesciato tutto poco dopo. Odiava sentirsi così, in quel modo... Era come un adolescente in piena crisi ormonale. Ma poi, amaramente, realizzò che ad un livello emotivo lui -in parte, era esattamente un adolescente in crisi ormonale. Lo sarebbe stato per sempre.

Scacciò il pensiero con una rapida scrollata del viso e guardò il telefono poggiato sul lavello dove il nome di Magnus prese a lampeggiare ancora una volta.

 

Da: Magnus Bane.

Alle undici e mezza.

 

Okay, aveva tempo. Poteva farcela. Improvvisamente si rilassò: aveva poco più di un'ora per vestirsi e raggiungere lo studio, niente di troppo complicato. Era abbastanza lontano da casa per cui avrebbe avuto bisogno di uscire abbastanza presto per arrivare in orario, ma aveva tutto il tempo del mondo per rallentare un po' e riprendere fiato. Finì di lavarsi e di farsi la barba e quindi tornò in camera dove si cambiò con i primi abiti che trovò nell'armadio: un paio di jeans scuri ed una maglia a maniche lunghe di un blu stinto. Siccome erano i primi di dicembre le temperature erano piuttosto basse per cui decise di infilarsi anche una vecchia felpa con cappuccio per evitare di congelare durante il tragitto verso lo studio. Si pettinò alla bell'emmeglio i capelli perennemente disordinati e infilò il giaccone nero che richiuse fino alla gola. Scese i gradini delle scale a due a due e giunse di sotto con il telefono in tasca e il cuore in gola.

Sua madre lo vide tutto vestito passare per il corridoio e sollevò le sopracciglia dai documenti che stava controllando in cucina. «Alec?»

Alec fermò i suoi passi e si voltò per affacciarsi dall'arco che portava nella cucina.

«Buongiorno mamma» salutò.

«Stai uscendo?» chiese lei, sorpresa, tenendo la tazza col suo caffè caldo a mezz'aria, vicino la bocca, senza berlo. «Non fai colazione?»

«Ah, uh-no.» mormorò lui passandosi una mano in quella zazzera scomposta di capelli scuri. «Il dottor Bane ha anticipato la seduta a questa mattina» Non seppe neppure lui come aveva fatto a ricordarsi di non chiamarlo per nome. Ormai senza neppure accorgersene aveva preso a pensare a lui semplicemente come Magnus ed era divenuto difficile ricordarsi che lui era molto più di questo.

Maryse diede in un piccolo verso sorpreso. «Oh» annuì leggermente bevendo il suo sorso di caffè.

Alec si dondolò per un attimo sui talloni picchiettando nervosamente la parete davanti a sé con le dita in un ritmico tamburellare.

«Già. Quindi io, uh-vado» disse annuendo e stringendo le labbra, guardando sua madre con aria leggermente imbarazzata. La donna poggiò la tazza sul tavolo e annuì con vigore.

«Oh sì, sì, certo. Vai» lo incoraggiò con un ampio sorriso. «Buona fortuna»

Era una cosa che era solita dirgli sempre ogni volta che usciva per andare allo studio. Alec non aveva mai capito cosa volesse dire con quell'augurio, per cosa gli stesse auspicando di aver fortuna, ma quel giorno non si ritrovò a far domande trovando che, effettivamente, ne avrebbe avuto davvero bisogno.

«Grazie» mormorò con un sospiro teso prima di uscire di casa.

 

*

 

Ogni cosa sembrava star andando per il verso giusto quel giorno.

Magnus era tornato alla solita professionalità e aveva dedicato ai pazienti della mattina tutta la sua attenzione relegando in un angolino della sua mente il pensiero che di lì a breve avrebbe rivisto Alexander. La sola idea gli stringeva le viscere in una presa piacevole e calda ma cercò di ignorare la cosa per amor del proprio lavoro.

Era così di buon umore che quel giorno aveva deciso di volersi vestire con cura indossando una camicia di seta blu notte che stringeva deliziosamente le sue spalle e le sue braccia evidenziandone la forma elegante e definita ed un panciotto grigio-argento con una fantasia appena visibile molto elegante e delicata. I bottoni erano di un argento lucido e brillante ed esaltavano la forma del capo d'abbigliamento con una semplicità sfacciata. La cintura attorno ai suoi fianchi era nera, lucida, con una fibbia appriscente e tempestata di brillanti mentre i pantaloni erano stretti e scuri. I capelli erano accuratamente pettinati così da venir alzati in un ciuffo dalla punta leggermente arricciata mentre ai lati del cranio erano davvero molto corti: quella mattina si era dedicato con cura al proprio aspetto. Soprattutto al trucco che quel giorno era curato più che mai: gli occhi erano stati delineati da una linea di eyeliner nero molto sottile e precisa che diede maggior profondità allo sguardo ed alle iridi verde-oro, mentre l'ombretto blu notte circondava la palpebra in un effetto sfumato che svaniva in una tinta argentata più chiara. Brillantini e glitter decoravano il tutto rendendo il suo viso oltremodo luminoso ma neppure per un istante meno mascolino. In qualche modo Magnus Bane riuscita a mantenere intatta la sua virilità anche nonostante ombretti sgargianti e smalti eccentrici.

Le sedute del mattino andarono piuttosto bene: i pazienti del giorno non avevano dato grandi problemi e più o meno entrambi stavano proseguendo il loro cammino un passo per volta. C'era chi migliorava a vista d'occhio, chi invece procedeva con passi talmente piccoli da non rendersi neppure conto di star effettivamente ottenendo dei progressi. Ma, dopotutto, non tutte le persone reagiscono alla vita allo stesso modo e non tutti i loro problemi incidevano sulla loro psiche con la medesima forza. Non aveva senso paragonare lo stato mentale di uno a quello di un altro.

Il secondo paziente si alzò allo scadere della sua ora inspirando a fondo. Magnus si alzò a sua volta e i due si strinsero la mano scambiandosi un leggero cenno del capo.

«A venerdì?» chiese Magnus con un accenno di sorriso incoraggiante.

L'altro strinse le labbra con espressione conflittuale e poi annuì. «Venerdì.»

I due sciolsero la stretta e quindi l'uomo lasciò lo studio richiudendosi la porta alle spalle.

Magnus tornò a sedersi iniziando a scrivere una serie di appunti su di lui sui fogli che aveva dinnanzi agli occhi sulla scrivania liberando un piccolo respiro. Finì di annotare le ultime informazioni e dunque guardò l'ora sullo schermo del proprio telefono. Le undici e trenta precise. Sentì un calore avvolgente sprigionarsi dal centro del petto e cercò di tenere a bada il sorriso che sentì nascere sulle labbra. Si schiarì la voce e prese un profondo respiro prima di premere un pulsante sul telefono fisso posto sulla scrivania e collegarsi con la sua segretaria.

«Avanti il prossimo» disse con voce allegra rilasciando la pressione sul tasto.

Dunque si adagiò contro lo schienale della poltrona accavallando le gambe e intrecciando le dita sopra il ginocchio, il capo comodamente poggiato contro lo schienale, gli occhi a puntare la porta dello studio.

Ci vollero solo una manciata di secondi prima che questa si aprisse rivelando la figura alta e scarmigliata di Alexander.

Il ragazzo si richiuse la porta alle spalle rimanendo praticamente poi bloccato sul posto. Non mosse un passo rimanendo inchiodato su quella esatta mattonella osservando Magnus con uno sguardo che l'altro non fu esattamente in grado di decifrare. O, meglio, non voleva illudersi di star leggendo, nella sua espressione, una chiara nota di meraviglia.

«Alexander! Avanti, avanti, accomodati. Ho grandi piani per la seduta di oggi» esclamò Magnus allungando una mano ad indicare uno dei due posti di fronte alla scrivania, distaccandosi dallo schienale della poltrona per sporgersi appena in avanti.

Alexander parve risvegliarsi dal suo stato di trance e, aggrottando appena un sopracciglio, lo fissò sorpreso, muovendo un paio di passi. «...Piani?» domandò incerto deglutendo vistosamente, raggiungendo la sua solita postazione e lasciandosi cadere su di essa, nervosamente.

Magnus sorrise ampiamente e quindi si alzò aggirando la scrivania con pochi passi piuttosto decisi ed aggraziati. Alexander non gli tolse gli occhi di dosso.

Si fermò dall'altro lato della scrivania, quello di fronte ad Alec e si poggiò di reni contro di essa, incrociando i piedi dinnanzi a sé e poggiando le mani ai propri lati, sul bordo del tavolo.

«Piani» confermò Magnus sorridendo. «Finora le nostre sedute sono servite ad aiutarti a sentirti a tuo agio, a prendere confidenza con me e con quest'ambiente così da farti sentire più rilassato e tranquillo: possiamo dire che abbiamo raggiunto un discreto successo da questo punto di vista, concordi con me?» aggiunse l'uomo scoccandogli un occhiolino complice e divertito.

Alexander arrossì istantaneamente a quel gesto ritrovandosi a balbettare nervosamente un semplice 'sì'. Magnus sentiva l'irrefrenabile impulso di poggiare le sue dita sulle sue gote scarlatte ogni qual volta che le vedeva imporporarsi, giusto per sentire se sotto il suo palmo la sua pelle era davvero calda come sospettava che fosse. Si trattenne e continuò.

«Bene. Adesso penso che possiamo passare al passo successivo, ovvero parlare»

Magnus potè vedere il corpo di Alexander percorso da un brivido che lo fece irrigidire in un istante.

«Niente di specifico, nessun argomento profondo o personale. Semplicemente parlare, così da aiutarti a trasformare questo senso di agio che hai imparato a sentire venendo qui in una specie di confidenza. Alla fine è questo il nostro fine ultimo, no? Arrivare a farti sentir pronto a confidare i tuoi pensieri e discuterne. Ma ci arriveremo un passo per volta, senza nessuna fretta» continuò Magnus per calmare e rilassare il ragazzo seduto di fronte a lui.

Alec sembrò calmarsi solo in parte, annuendo leggermente col capo, giocherellando nervosamente con la cerniera della sua felpa.

«Ora, abbiamo già iniziato per un certo senso a compiere questo passo. Abbiamo parlato in questi giorni ma non mi aspetto, naturalmente, che questo voglia dire che tu sia pronto a parlarmi allo stesso modo di persona. Dico bene?»

Magnus si fermò guardando Alexander dritto negli occhi. Non era una domanda retorica, aveva bisogno che lui lo dicesse, che lo ammettesse. A lui e a se stesso.

Il ragazzo lo osservò sostenendo il suo sguardo per qualche secondo prima di annuire e stringere le labbra fra loro. «Sì» confermò mordendosi in seguito il labbro inferiore.

Magnus annuì e quindi sorrise. «Bene. Per venire incontro ai tuoi tempi e cercare al tempo stesso di conoscerti, ho pensato che oggi potremmo fare un gioco»

Alexander sgranò gli occhi sorpreso nel sentire quelle parole. Era lampante che quella fosse l'ultima cosa che si sarebbe aspettato di sentir dire in quel momento.

«Un gioco?» domandò dimenticando per un istante il suo imbarazzo in favore di quella che era palese curiosità.

Magnus sorrise. «Hai mai...?» disse con semplicità fermandosi.

Alexander parve sbiancare tutto d'un colpo. «No. No, no, no, niente giochi con le penitenze. Davvero, no» disse subito alzandosi e iniziando a muovere qualche passo per la stanza con fare nervoso.

Una leggera risata sfuggì dalle labbra del terapeuta nel vedere la reazione quasi spaventata del ragazzo.

«Non c'è nessuna penitenza. Credo che qualcosa del genere sia ufficialmente vietata dall'albo degli psicologi a cui sono iscritto» rise divertito scuotendo leggermente le spalle. «Rilassati.» continuò con voce più gentile, il riso ormai svanito dal suo volto. «Non sarà molto diverso da come abbiamo parlato in questi giorni. Domande e risposte. Non devi neanche dare grandi spiegazioni a meno che non ti senti invogliato a farlo e, se una domanda dovesse suonarti scomoda o non volessi rispondere, sarai libero di evitarla e andremo oltre» spiegò Magnus con tono calmo e suadente, riprendendo finalmente le sue vesti di terapeuta.

Alexander si fermò e osservò Magnus soppesando accuratamente ogni parola detta. Gli sembrava di poter vedere le sue sinapsi all'opera dietro le palpebre. Alla fine annuì e si umettò le labbra.

«Okay» acconsentì deglutendo, stringendo e aprendo i pugni lungo i fianchi in un evidente moto nervoso. Era chiaro che ci fosse qualcosa che volesse dire ma che stava cercando in ogni modo di controllare. «Ma... giochi anche tu» riuscì alla fine a dire guardando Magnus negli occhi, le guance arrossate e l'espressione nervosa.

Il terapeuta si ritrovò a schiudere le labbra preso alla sprovvista da quelle parole.

Non si era aspettato che Alexander gli chiedesse una cosa del genere sebbene, in qualche modo, avrebbe dovuto aspettarsela considerando come erano andate le cose fra loro fino a quel momento. “Anche io penso di volerti conoscere” aveva detto e difatti aveva cercato di chiedergli tutto ciò che poteva ogni volta che se ne presentava la possibilità. Magnus si ritrovò a sorridere e quindi ad annuire.

«Naturalmente» concordò e lasciò che il ragazzo tornasse a prendere posto sulla poltrona davanti a sé.

I due rimasero a fissarsi negli occhi per un tempo che parve quasi infinito.

Si poteva chiaramente avvertire la tensione riempire lentamente la stanza, diffondersi dai loro corpi e scontrarsi fino a rendere l'aria pesante. C'erano domande, dubbi e curiosità ad affollarsi e affacciarsi dai loro sguardi eppure nessuno dei due sembrava voler essere il primo a compiere quel passo. Magnus poteva vedere il modo in cui Alec lo osservava, timoroso e al tempo stesso impaziente. Era un fascio di nervi e la cosa in qualche modo lo faceva sentire elettrizzato. Poteva chiaramente immaginare ed elencare una quantità infinita di motivi per cui il ragazzo in quel momento potesse sentirsi nervoso eppure, egoisticamente, una piccola parte di sé voleva credere che fosse la sua presenza a innervosirlo. Voleva credere che Alexander si sentisse teso, in sua compagnia, nello stesso modo in cui si sentiva lui. Che avvertisse quella scarica scivolare lungo gli arti, quella sensazione di perdizione e familiarità che si mischiava e fondeva al senso di ignoto e paura. Che si sentisse desideroso di protrarre quell'ora all'infinito per non dover lasciare quella stanza dopo così poco tempo...

Magnus schiuse le labbra e fermò la strada ai propri pensieri.

«Hai mai saltato la scuola perchè non ti andava di andarci?»

Alexander aggrottò le sopracciglia mettendo su una espressione canzonatoria come se l'altro avesse appena detto un'assurdità. «No!» disse come fosse una ovvietà, arricciando il viso. «Che sciocchezza»

Magnus mise su una espressione compunta e lievemente colpevole. «Sì. Certo. Ovviamente.» fece eco, sarcastico, con il tono sarcastico di chi è stato appena beccato con le mani nel sacco.

Alexander schiuse le labbra, attonito. «Non ci credo!» esclamò abbassando le spalle. «Non l'hai fatto!»

Magnus si strinse nelle spalle sollevando le mani in un gesto rassegnato. «Ebbene sì. Colpevole.» ammise fingendo pentimento.

«E io che pensavo di avere a che fare con un professionista» fece ironico, Alexander, rivelando per la prima volta così chiaramente uno sprazzo di leggerezza e divertimento. Aveva scosso la testa con aria contrariata ma mantenendo una espressione palesemente scherzosa che Magnus trovò adorabile.

Lui mise su un broncio molto esagerato poggiando le mani sui fianchi.

«Hey. Io sono un professionista» chiarì indicandosi il petto con un dito. «Ma sono stato anche giovane. Avevo bisogno dei miei attimi di ribellione e libertà» si giustificò a testa alta, fieramente.

Alexander rise con una sfumatura di amarezza nella voce che scacciò immediatamente via.

«Parli come se adesso invece fossi vecchio» rise lui, leggermente.

«Beh. Sono più vicino ai trenta che ai venti ormai» ammise lui ritrovandosi ora a sogghignare. «Fra non molto avrò ventotto anni» Non che questo lo catalogasse come vecchio, comunque, ma sicuramente non si sentiva più giovane come quando era un adolescente. Erano due tipi di giovinezza diversi.

Alexander parve sorpreso da quella notizia e sembrò quasi combattuto all'idea di aggiungere qualcosa in proposito. Qualcosa che stava lottando per uscire dalle sue labbra ma che alla fine trattenne annuendo e basta.

«Hai mai visto sorgere l'alba?» domandò invece e qualcosa nella mente di Magnus gli diceva che non era questo ciò che avrebbe voluto chiedere.

Magnus quindi inspirò e annuì. «Sì» ammise.

Diverse volte, nel corso del tempo, si era ritrovato da solo sul balcone a veder nascere il giorno. Il cielo sfumarsi via via di quelle screziature rosate tipiche dell'alba, di quel lilla leggero che schiariva il buio della notte prima ancora che i raggi del sole scacciassero del tutto l'oscurità. Era una visione rilassante che avrebbe sempre voluto poter condividere con qualcuno d'importante. Questo pensiero lo portò a chiedersi come mai Alec gli avesse chiesto proprio questo. «E tu?»

Alexander annuì.

«Quando non riesco a dormire mi piace osservare il cielo e aspettare che sorga il sole.»

La sua voce si rivelò essere piuttosto sottile nel pronunciare quelle parole. C'era qualcosa che aveva rabbuiato il suo sguardo nel mentre, qualcosa che Magnus avrebbe voluto comprendere e capire ma che temeva lui non fosse pronto a rivelare.

Così, semplicemente, annuì e proseguì. «Hai mai bevuto fino a ubriacarti?»

«No, mai andato neppure lontanamente vicino» disse prontamente Alec come se semplicemente ripugnasse l'idea. «E tu?»

Magnus si sentì per un istante sull'orlo di una trappola.

«Inizio a credere che questo gioco non si sia rivelato un'ottima idea. Ne sto venendo fuori sotto una pessima luce ai tuoi occhi, temo» rise nervosamente Magnus alzando una mano dietro il capo per grattare un punto della nuca.

Alexander rise a sua volta snudando i denti bianchi, abbassando lo sguardo impacciato.

«Nah. Niente del genere. Chiunque si è ubriacato qualche volta, non vuol dire niente sul carattere di una persona» disse lui come se volesse rassicurare Magnus. «Piuttosto mi sa che io ne sto uscendo fuori come uno piuttosto noioso...» borbottò senza osare alzare lo sguardo.

Magnus si ritrovò ad agire prima ancora di rendersi conto di essersi mosso. Si distaccò appena dalla scrivania e allungò una mano per portare le dita sotto il mento del ragazzo, guidando il suo capo ad alzarsi appena, con un tocco così gentile e sicuro da impedirgli di sfuggire a quel contatto.

«Sei tutt'altro che noioso, Alexander. Sei la persona più interessante e vera che abbia incontrato in molti anni.» rivelò lui guardandolo dritto negli occhi, la voce improvvisamente ferma e seria, come se ogni traccia di leggerezza e scherzo fosse svanita dalla stanza e dai loro volti. Voleva che Alexander lo capisse, che credesse alle sue parole, che potesse leggere nel suono della sua voce e nello sguardo nei suoi occhi la sua convinzione e serietà.

Il ragazzo rimase a guardarlo con gli occhi grandi di sorpresa e le labbra schiuse. Silente rimase semplicemente a specchiarsi nelle iridi verde-dorate dell'altro per un tempo che nessuno dei due sarebbe stato capace di quantificare. Magnus avrebbe voluto poter far scivolare la mano sul suo viso, lasciare che il palmo si poggiasse contro la pelle morbida del suo volto, accogliendolo nella sua mano in una carezza leggera. Avrebbe voluto sentire la sensazione dei capelli solleticargli le nocche, lo zigomo sotto le dita. Avrebbe voluto un contatto reale con lui, più deciso di quel semplice tocco sotto il mento ma si trattenne con un enorme sforzo di volontà.

Distaccò i polpastrelli dal suo viso un istante più tardi distendendo ora le labbra in un sorriso gentile.

«Tocca a te» gli ricordò spezzando quel momento.

Alexander rimase col viso alzao a fissarlo sperduto per qualche altro secondo prima di annuire e schiarirsi la voce, arrossendo.

«Hai mai... parlato così con altri pazienti?»

Magnus potè vedere nello sguardo del ragazzo combattersi una guerra. Era imbarazzato e intimidito dall'idea di porre quella domanda eppure in qualche modo era anche curioso e impaziente di ricevere una sua risposta. C'era qualcosa che brillava nei suoi meravigliosi occhi azzurri, una scintilla... speranza?

La conversazione non avrebbe dovuto andare così. Avrebbe dovuto trattarsi di una seduta leggera, divertente, fatta per parlare e mettere Alexander a suo agio. Ma in quel momento non c'era niente di leggero fra loro, non c'era niente di divertente o di semplice. Ogni domanda, in qualche modo, era un passo che l'uno faceva verso l'altro, era un brandello di anima che si strappavano di dosso ad artigliate. Magnus poteva già sentire bruciare sulla lingua la risposta a quella domanda. Non avrebbe dovuto rispondere, non avrebbe dovuto lasciare che la verità uscisse fuori dalle sue labbra. Ma più le iridi azzurre di Alexander lo osservavano in attesa, più sentiva rivelarsi vani i suoi sforzi di rimanere distaccato e professionale nei suoi riguardi.

«Mai.» capitolò, alla fine, sostenendo il suo sguardo. «Non ho mai realmente parlato con nessuno di loro prima» ammise con voce seria, sincero, mostrando alla fine un piccolo sorriso. «E poi sei arrivato tu.»

E poi era arrivato Alexander con i suoi occhi puliti e la sua espressione imbarazzata, con i suoi modi impacciati e il continuo cercare di nascondersi al mondo. Si era schiantato nella sua vita con la stessa potenza di un uragano capovolgendo e stravolgendo concezioni e scelte di vita che mai, fino a quel momento, Magnus aveva messo in dubbio. Aveva cambiato ogni cosa, aveva piantato radici profonde nella mente dell'altro che ora si ritrovava come stregato dalla presenza di quel ragazzo nella sua vita. Di quel ragazzo che lo guardava e vedeva lui. Che lo guardava e vedeva la sua solitudine, tutto quello che cercava di nascondere dietro i suoi sorrisi e le sue battute.

Magnus potè vedere Alexander stringere le labbra. Non era arrossito ma il suo sguardo lasciava chiaramente intendere la tempesta interiore che si stava ritrovando ad affrontare in quel momento. Qualcosa si contrasse nel petto del terapeuta facendogli sentire i battiti del cuore riverberarsi per tutto il corpo, riecheggiare nelle orecchie, nelle tempie, per la gola. Come se qualcuno avesse alzato al massimo il volume di una musica ritmata diretta al suo cervello.

«Sei mai stato innamorato?»

La domanda uscì spontanea dalle sue labbra e colse di sorpresa entrambi.

Magnus voleva cercare di riportare la conversazione su una rotta più leggera ma le sue labbra avevano deciso di liberare una domanda totalmente imprevista e diversa, una domanda che portò Alexander ad irrigidirsi e deglutire stringendo i denti e la mascella in un istante. Magnus se ne pentì immediatamente nonostante, al tempo stesso, desiderasse davvero sapere cosa l'altro avrebbe potuto dire.

«Non voglio rispondere» disse Alexander dopo alcuni secondi, tenendo lo sguardo basso, rigirandosi la zip della felpa fra le dita più e più volte come ormai Magnus gli aveva visto fare innumerevoli volte quando cercava di sfuggire dalla situazione.

«Tocca a te» disse semplicemente, allora, il terapeuta, con tono più leggero, un sorriso ora ad aprirsi sulle labbra per cercare di mostrargli che andava benissimo così. Aveva promesso che era libero di scegliere lui a quali domande rispondere e in quale misura e così sarebbe stato, anche se quella domanda sarebbe rimasta sospesa ed irrisposta fra loro come una spada di Damocle a pendere sopra il capo di Magnus.

Alec rialzò lo sguardo e tornò ad osservare lo psicologo umettandosi nervosamente le labbra.

«Sei mai stato innamorato?» gli chiese a sua volta, sostenendo il suo sguardo.

Magnus schiuse le labbra e incassò la domanda con una mezza risatina senza voce.

Si morse il labbro inferiore picchiettando le dita contro la superficie della scrivania contro cui era poggiato cercando di decidere se rispondere o meno alla sua domanda avvertendo lo sguardo di lui vagare per la sua figura, lungo il suo corpo, in impaziente attesa.

«Sì» rispose alla fine l'altro tornando ad osservare Alexander negli occhi. «Molti anni fa»

Il ragazzo ci mise un po' di tempo per assimilare quella risposta e, alla fine, annuì fra sé e sé mentre la stanza piombava in un denso silenzio. Improvvisamente era come se nessuno dei due sentisse più il bisogno di dire altro e, al tempo stesso, ci fossero mille altre domande a riversarsi nella loro mente in attesa di trovar risposta.

«Alexan--»

La voce di Magnus venne interrotta dal leggero bussare di una mano contro la porta.

L'uomo alzò il viso verso di essa mentre Alec rimase al suo posto a capo chino.

«Sì?» sospirò Magnus cercando di tornare alla consueta professionalità.

Lucy aprì la porta facendo capolino dalla stessa.

«Dottor Bane, la signora Milligan è arrivata. Devo spostare il suo appuntamento?» domandò la ragazza sbirciando nella stanza per vedere che la seduta sembrava non essersi ancora conclusa. Magnus ripiombò nella realtà rendendosi conto del tempo che doveva essere volato, dell'ora già sfumata e del fatto che Alexander avrebbe dovuto già andarsene.

«Ah. No. no.» disse schiarendosi la voce e aggirando nuovamente la scrivania per fermarsi dietro di questa, al suo solito posto. «Abbiamo finito. Dacci solo un minuto»

Lucy annuì e, con un lieve inchino del capo, uscì dalla stanza.

Alexander si alzò dalla sua poltrona risistemandosi felpa e giacca addosso, non alzando lo sguardo verso Magnus. Questi l'osservò in silenzio fino a quando non lo vide pronto ad andarsene.

«Allora... vado» disse Alec dondolandosi appena sui talloni, le mani ficcate nelle tasche della giacca impacciatamente.

Magnus sorrise e annuì.

«Ci vediamo giovedì?»

Alexander annuì. «Sì»

Si voltò per dirigersi verso la porta e, un istante prima che potesse toccar la maniglia, la voce di Magnus lo fermò.

«Alexander?»

Il ragazzo si girò.

«Grazie»

Grazie per esserti aperto con me. Grazie per esserti confidato, anche solo un po', con me. Grazie per vedere me.

 

*

 

La mente di Alec era in pieno subbuglio.

Appena uscito dallo studio di Magnus si sentì pervaso da una marea di sensazioni contrastanti. Uscito dall'edificio sentì l'aria fredda di Dicembre scivolare sulla sua pelle provocandogli un brivido lungo tutta la schiena. Il vento arrivava in sferzate taglienti e il cielo buio minacciava pioggia da un momento all'altro. Anzi, considerando il freddo che si insinuava nelle ossa fino a tramutare ogni respiro in una nuvoletta di condensa non sarebbe stato poi così strano veder cadere i primi fiocchi di neve dell'anno.

Alec si ritrovò a rimanere fermo oltre la soglia dell'edificio col capo alzato verso il cielo e gli occhi chiusi, accogliendo quel vento gelido come un balsamo contro il calore che lo inondava dall'interno. Non sapeva cosa pensare di quello che era appena successo. Quella seduta era stata... intensa. Intensa in un modo che non aveva mai sperimentato prima. Aveva la forte sensazione che si fossero detti molto più di quanto le loro voci avessero espresso. Aveva la sensazione che i loro silenzi fossero riusciti a dire più di quanto avessero voluto, che i loro sguardi avessero comunicato al di là delle loro parole. Eppure non ne era certo, non sapeva se fosse stato tutto frutto della sua immaginazione o se, effettivamente, anche Magnus avesse percepito le stesse cose. Riaprì gli occhi ruotando il capo verso l'edificio alle sue spalle, alzandolo ad osservare la finestra dello studio un paio di piani più su. Poteva sentire le parole di Magnus rimbombare ancora nella sua mente con straordinaria nitidezza.

Sei tutt'altro che noioso, Alexander.

E poi sei arrivato tu.

Grazie.

Parole che lo avevano colpito nel profondo, parole che avevano fatto nascere in lui speranze, dubbi e paure. Parole che lo avevano raggiunto come una carezza e che lo avevano lasciato come uno schiaffo. Che senso aveva rallegrarsi per questo quando quella... 'storia' non aveva alcun futuro? Magnus era il suo terapista ed il suo interesse era meramente professionale e lui era un illuso. Che senso aveva continuare a custodire sensazioni e sentimenti che non avrebbero mai veduto la luce del sole? Ma come si spegneva il cuore? Come si decideva di non voler provare qualcosa? In verità Alec dubitava fosse possibile limitarsi a scegliere di non voler provare una determinata sensazione. Un lato di lui, poi, non era neppure così sicuro di voler smettere. Per anni si era imposto di fuggire ogni volta che avesse provato un minimo di attrazione verso qualcuno, si era imposto di evitare chiunque potesse scatenare in lui quel brivido che gli faceva sciogliere le ossa. Non aveva mai permesso che una semplice attrazione fisica potesse arrivare a mettere radici più profonde e ne aveva sempre sofferto. Ma adesso... adesso sapeva che non poteva fermarsi. Non si trattava solo di trovare Magnus il più bel ragazzo che avesse mai visto in tutta la sua vita, lui desiderava poterlo conoscere. Gli piaceva il modo in cui non lo forzava mai a fare nulla, il modo in cui gli riusciva semplice e naturale parlare con lui. Gli piaceva il modo in cui scherzava ed il modo in cui diveniva serio tutto d'un tratto quando capiva che qualcosa lo faceva sentire a disagio. Gli piaceva il modo in cui Magnus sembrasse realmente tenere in considerazione i suoi sentimenti ed il suo benessere.

Una parte di lui continuava a dirgli che era solamente uno sciocco, che tutto questo non era altro che parte dei suoi obblighi professionali. Ma poi... E poi sei arrivato tu. Non poteva credere che questo fosse il tipo di rapporto che avesse con ogni paziente, che per lui fosse la regola. C'era qualcosa, fra loro, che sfuggiva ad ogni logica spiegazione, di questo ne era certo. C'era qualcosa di unico. Forse speciale. Voleva credere che non fosse solamente una mera questione di lavoro.

Ripensò alla mano di Magnus che gli aveva alzato il viso, al tocco gentile ma deciso delle sue dita che gli sollevavano il mento. Poteva ancora sentire il calore della sua pelle sotto il volto, poteva sentire il calore della sua mano a contatto con il suo viso. Aveva avvertito un brivido risalirgli la colonna vertebrale a quel contatto, un qualcosa sciogliersi nel petto sprigionando un tepore piacevole e violento al tempo stesso. Un calore che strisciava lungo i suoi nervi rendendoli sensibili e più recettivi che mai. Il suo sguardo era stato serio, era stato incredibilmente fermo nel suo. Era come se stesse cercando di dirgli qualcosa che non poteva dire a parole. Non poteva aver frainteso persino quello, non poteva essere un gesto che avrebbe condiviso con qualunque paziente.

No. Non poteva.

Le gambe di Alec si mossero allora pronte a tornare a casa mentre con rinnovata forza affrontava il gelido freddo di Dicembre. Capo chino, mani nelle tasche e mente in confusione. Era tutto così complicato e semplice al tempo stesso. Gli piaceva una persona e in qualche modo sembrava che a questa persona la sua compagnia non dispiacesse particolarmente. Fin qui era tutto facile e normale, una storia come tante. Questa persona però era il suo terapeuta e l'interesse che sembrava avere nei suoi confronti poteva essere semplicemente attaccamento professionale ad un paziente poco collaborativo. Le cose, a questo punto, erano un po' più complicate da riuscire a distinguere. Il suo terapeuta era un uomo e aveva l'aria di poter conquistare chiunque volesse con uno schiocco di dita. Questo rendeva le cose da complicate ad un semplice disastro. In primo luogo perchè non sarebbe mai sceso a patti con la sua sessualità e non avrebbe mai potuto permettersi di dire a gran voce ciò che per anni aveva cercato di negare e cambiare con tutto se stesso. In secondo luogo perchè se effettivamente Magnus avesse potuto avere chiunque volesso, non c'era motivo al mondo per cui avrebbe dovuto far ricadere la sua scelta proprio su un essere noioso, rigido e anonimo come Alec.

Un sospiro freddo uscì dalle labbra ghiacciate del ragazzo che trovava sempre una specie di rassicurante conforto nel poter schematizzae qualunque concetto, come se riuscire a dare un ordine alle cose potesse anche permettergli di trovare una soluzione. Ma in questo caso le cose non erano così semplici: non c'era soluzione al mondo che potesse aiutarlo a non uscirne ferito o a testa alta. In qualunque caso sarebbe venuto fuori sconfitto da quella situazione.

 

 

Arrivato a casa tirò un sospiro di sollievo.

Accolse con gioia il calore irradiato dall'interno della struttura e, rabbrividendo un'ultima volta, si richiuse la porta alle spalle strofinandosi le mani fra loro per riscaldarle.

«Sono a casa» salutò affacciandosi nella cucina dal corridoio.

Sua madre stava sistemando la tavola con fare tranquillo mentre sua sorella era seduta attorno all'isola tenendo Church fra le mani, il piccolo biberon a nutrirlo di latte tiepido.

«Bentornato» salutò Maryse con un sorriso gentile vedendolo entrare nella stanza per mettersi dietro sua sorella a fissare il gattino. «Hai fame?» domandò guardandolo con aria leggera.

Alec voltò verso lei il capo e quindi annuì, un piccolo sorriso sulle labbra.

«In effetti sì.» ammise togliendosi la giacca.

Sua madre rise avvicinandosi ai fornelli dove la pasta sembrava star già cuocendo, il profumo di carne speziata a riempire la stanza. «Vorrei vedere, questa mattina non hai nemmeno fatto colazione» ridacchiò lei mentre, sollevando il coperchio del tegame, girava la pasta con un cucchiaio di legno.

«Non ne ho avuto il tempo. Sono stato avvisato all'ultimo momento» si strinse lui nelle spalle avvicinandosi quindi all'arco che dava sul corridoio con la giacca fra le mani. «Mi vado a lavare le mani»

Sua madre annuì mentre Izzy continuò ad osservare il micino fra le sue mani con aria totalmente rapita. C'era un'aria di normale domesticità che Alec non aveva respirato in quella casa da tempo. Una parte di lui osò quasi credere che, forse, tutto sarebbe potuto essere normale. Magari le cose sarebbero cambiate, sarebbero migliorate, pensò mentre raggiungeva la sua stanza al piano di sopra per mettere a posto la giacca. Accarezzò l'idea col pensiero mentre un sorriso amaro si dipinse sulle sue labbra; questo, però, durò ben poco perchè, fermandosi davanti al lavandino del bagno, sollevò lo sguardo sulla sua immagine riflessa nello specchio e si scontrò con la dura realtà dei fatti.

Niente sarebbe più stato normale.

Sospirò stancamente scacciando via quel pensiero per lavare le mani sotto l'acqua corrente. Le strofinò a lungo, con forza, come a voler cercare di pulirle da qualcosa di lurido e sporco, da una macchia che sembrava intenzionata a non voler andare via dalle sue dita. Alla fine si arrese e tornò di sotto dove vide che ormai era tutto pronto. Izzy aveva finito di nutrire Church e lo aveva riposto nella sua comoda scatola imbottita e riscaldata per farlo riposare mentre sua madre stava servendo in tavola i loro piatti. Suo padre, apparentemente, non avrebbe pranzato con loro quel giorno. Di nuovo.

Alec prese posto versandosi dell'acqua mentre Izzy, lavatasi anche lei le mani, si sedeva esattamente di fronte a lui portandosi i capelli dietro le spalle con un semplice movimento del capo.

«Allora, dimmi tesoro. Com'è andata oggi?» chiese Maryse mentre, dati i piatti a tutti, si sedeva al suo posto con quel solito portamento elegante e un poco rigido, come se persino in casa sua non volesse mostrarsi rilassata e disinvolta, puntando ora lo sguardo sul figlio.

Alec volse verso di lei il viso e si strinse nelle spalle cercando di non mostrare in volto la confusione che quella seduta aveva gli scatenato dentro. «Tutto bene. Come al solito» disse mentre con la forchetta raccoglieva un primo boccone di pasta. «Ha detto che stiamo facendo dei progressi»

Non era certo che fosse il caso di riferirle esattamente come erano andate le cose, del 'gioco' che avevano fatto, delle domande che gli aveva rivolto. Temeva che non fosse esattamente quello che un genitore si aspettasse di sentirsi dire in una situazione simile e perciò cercò di propinarle tutto ciò che gli sembrava più sicuro dire senza tuttavia mentirle.

La donna si illuminò in viso con la forchetta ferma a mezz'aria.

«Sì?» sorrise con sguardo fiero. «Beh, questo si vedeva. Ma sono contenta che lo abbia confermato anche lui. Ti vedo così più rilassato in questi giorni!» esclamò lei quasi come se si stesse finalmente liberando di un peso che aveva avuto timore di buttar fuori da chissà quanto tempo.

Lei ed Alec si erano promessi di non discutere più delle sue sedute perchè questo tendeva a farlo sentire quasi sotto esame, ma poteva ben capire che sua madre volesse parlare di come lui si sentisse, di come le cose stessero andando. Gli dispiacque pensare di averla lasciata macerare nei suoi dubbi fino a quel momento.

«Beh... non è niente di che, in realtà. Siamo ancora all'inizio. E'... complicato» mormorò lui non sapendo bene come poterle spiegare la situazione. «Ma mi sento meglio» ammise, alla fine, quasi più a se stesso che a lei, tenendo lo sguardo fisso sul suo piatto.

Poteva sentire lo sguardo di sua madre e di sua sorella addosso e quasi si pentì di aver deciso di affrontare l'argomento invece di lasciarlo cadere. In realtà era rimasto stupito dal sentire che sua madre lo avesse visto più rilassato considerando che lui si sentiva, per tutto il tempo, nervoso e teso, come se avesse paura di star mandando all'aria ogni cosa ad ogni minimo gesto.

«Ammetto che l'ho mal giudicato all'inizio. Sai, con quel suo aspetto...» si fermò non sapendo come descriverlo senza utilizzare termini che sarebbero potuti risultare offensivi. «Beh, l'hai visto» disse schiarendosi la voce con fare pratico, aggirando il problema. «Non credevo che fosse davvero un professionista. Ma in giro ne parlano come se fosse un mago nel suo mestiere e così ho pensato di ignorare i suoi... uh-modi e dargli fiducia»

Alec poteva perfettamente immaginare quali fossero stati i pensieri di sua madre quando aveva visto Magnus per la prima volta. Poteva molto chiaramente figurarsi la scena e lo sguardo sconvolto e quasi oltraggiato che doveva aver mostrato non appena lo avesse visto lì, nel suo studio, tutto glitter e abiti sgargianti.

Il pensiero che Magnus possa aver notato di esser guardato con poco meno che disgusto gli fece salire una fitta di rabbia al cervello. Strinse la mano che non reggeva la forchetta a pugno sulle cosce cercando di non mostrare alcun segno di fastidio davanti alla sua famiglia, infilandosi in bocca un'altra forchettata per distrarsi da quel pensiero lancinante.

«E a quanto pare mi ero sbagliata davvero» sorrise a quel punto guardando suo figlio con uno sguardo quasi commosso che, appena, sciolse la tensione nei nervi di Alec. «Quell'uomo ti sta facendo del bene. Dovrei ringraziarlo un giorno o l'altro»

Alec si voltò adesso verso di lei guardandola in volto.

Quell'uomo ti sta facendo del bene, aveva detto commossa. Era così evidente? Era così lampante che Magnus Bane aveva in qualche modo cambiato per sempre quello che era Alexander Lightwood? Non avrebbe saputo dire come o in che misura, ma sapeva che da quando lo conosceva non si sentiva più lo stesso a volte. Si concedeva, in rari attimi di coraggio, di sperare in una vita migliore, in un futuro più brillante. Si ritrovava a scoprire nuovi lati di sé che non avrebbe mai pensato di possedere prima e si era persino ritrovato infatuato di lui. Per un istante, uno soltanto, si chiese se sua madre avrebbe potuto capire... Ma poi ripensò al modo disgustato in cui aveva fatto cenno allo stile di Magnus, alla sua personalità eccentrica e leggermente fuori dalle righe e subito scacciò quella speranza dalla propria mente. Non aveva senso sperare in qualcosa che avrebbe potuto solamente illuderlo e ferirlo.

Così si piantò in faccia un sorriso di circostanza e prese il suo bicchiere. «Pare che fra poco sarà il suo compleanno. Magari puoi mandargli una bottiglia di vino» disse ironicamente bevendo poi un sorso d'acqua.

«Ottima idea! Hai ragione!» disse lei, colpita, sorseggiando sovrappensiero il suo vino. «Quand'è?»

Alec, dal canto suo, si ritrovò a tossire quando la sua acqua gli andò di traverso. Si battè un paio di colpi sul petto guardando dunque sua madre con le lacrime agli occhi per via della tosse.

«Ma... dici davvero? Io stavo scherzando»

«Certo che dico davvero. Sarebbe un modo gentile di ringraziarlo, suppongo. Sai che a parole non sono spesso il massimo in queste cose» chiarì lei dopo aver mandato giù un boccone della sua pasta. «Allora? Quand'è?»

Alec la fissò sbigottito per alcuni istanti prima di ritrovarsi a schiudere le labbra e boccheggiare.

«Uh. Io... non lo so» rispose, alla fine, tornando nel pieno controllo di sé.

Sua madre portò alle labbra un'altra porzione di pasta e quindi assottigliò lo sguardo com'era solita fare quand'era immersa in una importante riflessione. «Mhmmmm.» mugugnò a labbra strette mentre masticava e deglutiva. «Beh poco male. Oggi dovevo comunque uscire per fare delle commissioni, passerò a comprare una bottiglia di vino e passerò a lasciargliela. Se ha spostato il tuo appuntamento di oggi a questa mattina magari lo trovo libero. Altrimenti la lascerò alla sua segretaria» disse quasi più fra sé e sé che ad Alec in particolare.

La donna si perse nei suoi progetti ed il pranzo continuò immerso in un sereno silenzio spezzato solamente dalle voci che giungevano dalla televisione accesa nel soggiorno. Alec si sentì piuttosto strano all'idea di sapere sua madre in compagnia di Magnus per ringraziarlo del lavoro che stava facendo con lui.

Se solo avesse saputo...

 

*

 

Quando la paziente uscì dal suo studio Magnus si alzò dalla scrivania stiracchiando la schiena leggermente indolenzita dopo tante ore trascorse a star seduto. Si massaggiò la spalla con una mano al di sopra della spallina del panciotto grigio-argento e ruotò il collo così da far schioccare le ossa. Si sentì subito meglio.

La sua giornata quel giorno si sarebbe conclusa un'ora prima: l'appuntamento che avrebbe dovuto avere con Alexander lo aveva spostato a quella mattina così da avere modo di tornare prima a casa e avere tutto il tempo per oziare un po' prima di andare a letto. L'appuntamento con lui, poi, era andato... beh, non avrebbe saputo dire se fosse andato bene oppure no. Era stata una strana seduta, sicuramente unica nel suo genere e non aveva reali metri di paragone per poter giudicare quel loro incontro. Sicuramente il fatto che Alexander avesse parlato così tanto con lui -seppur rispondendo solo a semplici domande mirate senza elaborare un vero e proprio discorso- era un ottimo segno: fino a quella mattina Magnus aveva quasi temuto che quel loro incontro sarebbe terminato nel silenzio come tutti gli altri.

Eppure il modo in cui avevano finito con il perdersi nella conversazione, le domande che erano venute fuori da quel tentativo di confidenza non erano qualcosa che Magnus avrebbe definito come “bene”. Era qualcosa che non avrebbe dovuto verificarsi da principio ma che non era stato in grado di frenare. Stava cercando di fare del suo meglio per essere il suo terapeuta ma i suoi sentimenti continuavano a rendere difficile questo suo compito. Ogni volta che lo aveva attorno era complicato ricordarsi di dover rimanere una semplice voce fuori campo, una linea guida che lui avrebbe dovuto seguire per raggiungere una più completa consapevolezza di sé.

Magnus sospirò finendo di tracciare i suoi appunti sull'ultima paziente e quindi depositò la penna nel suo alloggio assieme alle altre sulla scrivania. Richiuse il fascicolo e lo inserì nella borsa che aveva sempre con sé, assieme agli altri documenti che doveva portare a casa. Stava quasi per infilarsi il proprio cappotto quando qualcuno bussò alla porta. Magnus si fermò ad un passo dall'appendiabiti ruotandosi con il corpo in direzione dell'entrata nella stanza.

«Avanti» invitò afferrando il cappotto e tenendolo piegato sul proprio avambraccio.

Lucy fece nuovamente capolino dalla porta.

«Dottore, c'è una donna che vorrebbe parlare con lei. La signora Lightwood» disse la ragazza sistemandosi gli occhiali sul naso.

Magnus schiuse le labbra semplicemente sospeso da quelle parole, il cuore a perdere un battito alla semplice menzione di quel nome.

Cosa poteva volere la madre di Alexander da lui? Sarebbe venuta a dirgli di stare lontana da suo figlio? Si sarebbe lamentata dell'atteggiamento inopportuno che aveva avuto nei suoi riguardi? Possibile che Alexander le avesse detto...?

L'idea gli sembrò immediatamente assurda e cercò di convincersi che in nessun modo Alec, così timoroso all'idea di parlare col prossimo, avesse parlato a sua madre del modo in cui i due avevano iniziato a parlare negli ultimi giorni. Inspirò a fondo e quindi annuì una volta soltanto col capo. «Falla entrare» disse mettendo su il suo più accogliente sorriso.

Depositò il cappotto sullo schienale della poltrona e quindi si lisciò le pieghe del panciotto con fare nervoso rigirandosi col pollice l'anello che portava al dito indice. Non si sedette, aveva bisogno di rimanere in piedi e muoversi il più possibile per scaricare la tensione che lo aveva improvvisamente assalito, e vide entrare la donna nel suo studio con quel suo tipico passo sicuro e fiero.

Aveva un portamento regale.

Maryse Lightwood, nella mente di Magnus, era niente meno che una leonessa. Implacabile, forte, decisa, padrona di qualsiasi cosa la circondasse e decisamente pericolosa quando si trattava dei suoi cuccioli. Una parte di lui rispettava quella donna sebbene l'avesse conosciuta in una unica occasione, era sicuro di aver inquadrato piuttosto bene il tipo di persona, ma d'altra parte non amava troppo il modo in cui cercasse continuamente d'imporsi e di far prevalere la sua presenza sugli altri.

Era una donna piuttosto bella, anche. Era alta ed aveva un fisico forte, non particolarmene magro ma nient'affatto tondo. Indossava abiti eleganti che slanciavano la sua figura e le davano un'aria ordinata e sicura di sé. Sapeva come valorizzare il suo corpo e come apparire sempre al meglio, questo doveva concederglielo; per un attimo si chiese se avrebbe mai potuto insegnare questa sua capacità anche a suo figlio che, paradossalmente, era tutto il suo opposto.

Aveva i lunghi capelli neri a scivolare liberi lungo la schiena ed una busta di carta marroncina per le mani con una coccarda d'argento a chiuderla sulla sommità. Aveva l'aria d'essere un regalo.

Maryse mosse qualche passo nello studio a testa alta, l'espressione indecifrabile sul volto.

La segretaria richiuse la porta alle sue spalle mentre Magnus le venne incontro tendendole una mano con un sorriso gentile sulle labbra.

«Signora Lightwood. E' un piacere»

La donna rimase a guardarlo per un lungo attimo studiando il trucco attorno ai suoi occhi e le svariate collane attorno alla gola prima di inspirare a fondo e porgergli la propria mano per stringerla.

«Dottor Bane» rispose lei con un lieve cenno del capo.

«Prego, si accomodi» la invitò lui facendo cenno alle due poltroncine alla loro sinistra con una mano.

Maryse non se lo fece ripetere due volte e si sedette su una delle due poltrone accavallando le lunghe gambe e tenendo la busta con attenzione.

«Grazie, tanto non mi tratterrò a lungo» disse lei con fredda cortesia.

Magnus continuò ad osservarla sorridendo cercando di tenere per sé le sue considerazioni e la tensione dell'averla nel suo studio. Era la prima volta che aveva modo di osservare quella donna avendo nella mente l'immagine di Alexander. Poteva vedere da dove aveva preso gli zigomi alti ed i capelli neri, non che quel cipiglio severo che era solito mostrare quando era fermamente convinto di qualcosa.

Cercò di prepararsi alle possibili critiche che l'altra aveva da riferire, e la osservò in silenzio incalzandola a proseguire col proprio sguardo.

«Sono venuta per ringraziarla» disse inaspettatamente la donna cogliendolo alla sprovvista. Le sopracciglia di lui s'alzarono d'istinto mostrando la sua sorpresa. Okay, era così sicuro che ci fosse qualcosa che non andava e che la donna non si sarebbe mai scomodata ad incontrarlo se non per lamentarsi che non aveva neppure preso in considerazione una simile possibilità. Schiuse le labbra, colpito, cercando di riacquisire al più presto un contegno.

«Alec mi ha detto che fra poco è il suo compleanno, per cui... uh, ho pensato di approfittare per... sa.» si schiarì la voce porgendogli la busta che aveva portato con sé.

«Sì. Domani ormai» mormorò Magnus totalmente stranito e sconvolto da quella inaspettatissima conversazione. Afferrò meccanicamente la busta guardando la donna con fare basito. «E' per me?» chiese, per sicurezza, ancora incredulo.

Lei abbozzò un sorriso educato e quindi annuì una volta soltanto col capo.

Magnus osservò solo ora la busta fra le sue mani e quindi si diede mentalmente un pizzicotto per smetterla di comportarsi come un imbecille. «Oh, davvero, non doveva» disse mentre apriva con cura la busta tirandone fuori una elegante bottiglia di vino rosso all'apparenza piuttosto costosa.

«Grazie» disse quindi guardandola con la bottiglia fra le mani e l'espressione ammorbidita da quel gesto, decisamente più ben disposta e rilassata nei di lei confronti. «E' stato un bel pensiero»

La donna annuì ancora accogliendo il ringraziamento, rigirandosi ora le mani nervosamente sul grembo. La scena fece sorridere Magnus che rivide nel suo modo di dover tenere le mani impegnate l'istinto di Alexander nel doversi muovere in qualche modo ogni volta che si sentiva a disagio. Forse erano più simili di quanto non avrebbe detto ad una prima occhiata.

«Io... davvero, non so come ringraziarla.» disse di nuovo la donna guardandolo ora negli occhi, raccogliendo tutto il suo coraggio. Magnus si fece più serio nello scorgere nella voce di lei una piccola crepa. Il suo sguardo era deciso e fermo, lo stava quasi sfidando nel modo in cui teneva la testa alta e gli occhi ben fissi su di lui, eppure poteva chiaramente vedere un dolore immenso dietro le sue iridi, una sensibilità accuratamente nascosta. «Alec in questi giorni è... diverso. Passa più tempo con noi, sorride di più. Vedo che sta cercando di andare avanti, di impegnarsi, come non lo vedevo fare da anni ormai» raccontò la donna deglutendo, uno spasmo all'angolo delle labbra ad indicare che stava trattenendo il pianto.

Magnus si dimenticò all'istante di qualsiasi pregiudizio o timore e raccolse la scatola di clinex dal tavolo per porgerla alla donna.

Maryse scosse la testa tenendosi stretta la sua dignità ed il suo orgoglio pizzicandosi il naso con due dita come per voler fermare quel tipico pizzicore che arrivava agli occhi per avvisarti dell'arrivo delle lacrime.

«Sa... dopo la morte di Max lui non è più stato lo stesso. Da quando suo fratello è morto non lo ha mai più nominato, non ha mai parlato di lui, non l'ho mai visto piangere. Mai. Neppure quel giorno...» Maryse si fermò chiudendo gli occhi ed inspirando a fondo, portando una mano al viso, le nocche a poggiarsi al di sotto del naso mentre cercava di impedirsi di piangere. «Neppure mentre teneva il suo corpicino fra le braccia, non ha pianto nemmeno allora. E da quel giorno si è come... raggelato. Si è chiuso in se stesso e nessuno di noi è riuscito ad avvicinarlo davvero. L'ho visto spegnersi sotto i miei occhi giorno dopo giorno senza sapere cosa fare» ammise lei senza poter controllare oltre il tremito delle labbra.

«Speravo che col tempo, magari... ma mi sono resa conto che invece di migliorare e di superare quanto successo si è solo come... abituato a questo isolamento. Non ce l'ho più fatta a vederlo così. Ho perso già un figlio, non potevo lasciare che anche lui...»

Magnus rimase semplicemente agghiacciato.

Osservava la donna sentendo il cuore contrarsi nel petto dolorosamente, decisamente non la solita stretta alla quale era abituato ogni qual volta che pensava ad Alexander. L'immagine del timido sorriso di lui si affacciò nella sua mente portandolo a sentirsi la gola chiusa, portandolo a pensare a quanto dolore si celasse dietro ogni suo sguardo. Sapeva che c'era qualcosa dentro di lui che lo stava tormentando, ferendo, ma non si era mai aspettato una simile atroce verità.

Alec gli aveva parlato di Izzy in un paio di occasioni e lo aveva sempre fatto con affetto e con quella sorta di protettività tipica dei fratelli maggiori. Poteva solo immaginare in che modo un ragazzo così premuroso avesse potuto reagire alla perdita di un fratello. Un fratellino. Il pensiero gli fece salire la nausea, le sue mani divennero improvvisamente ghiacciate mentre lo stomaco si contorceva fastidiosamente in uno spasmo doloroso.

Alexander.

Il suo Alexander che conviveva da anni con quel dolore, con quella mancanza, con quella sofferenza a Magnus così vicina e così nota. Era il dolore che si provava quando veniva strappato via un pezzo di cuore che non avrebbe mai potuto essere sostituito da nessun altro lasciando una ferita destinata a rimanere aperta e perennemente sanguinante. Ripensò a tutte le loro conversazioni, a tutte le cose che si erano detti e che magari avrebbero potuto suggerirgli qualcosa, fargli capire cosa c'era che non andava. Non riuscì a trovare nulla, confuso dalla rivelazione del momento e travolto da quell'ondata di sentimenti scatenata da quella verità.

Maryse tirò su col naso ritrovando il controllo. Non si lasciò sfuggire neppure un singhiozzo, neanche una lacrima.

«Temevo che l'avrei perso, che si sarebbe rifugiato fra quelle mura che si è costruito attorno per sempre. Ma ora... sta cambiando.» continuò lei azzardando un piccolo sorriso. «E io credo che sia grazie a lei»

Maryse si alzò e cercò la mano di Magnus per racchiuderla fra le sue, un sorriso grato e ricolmo di significato stampato sulle sue labbra.

«Grazie. Grazie per ridarmi mio figlio» sussurrò, stremata, con un'unica lacrima a rigare la sua guancia.



 

Quando Magnus tornò a casa si sentì il mondo crollargli sotto i piedi.

Gli sembrava passata una eternità da quella mattina, da quando aveva fatto la doccia canticchiando allegramente un qualche vecchio successo rock della sua giovinezza. Gli sembravano passati giorni da quando aveva visto Alexander e aveva sfiorato il suo viso con le proprie dita. Adesso tutto sembrava diverso, ogni cosa sembrava essere terribilmente diversa.

Non riusciva a smettere di pensare al dolore che Alexander portava ogni giorno con sé, a tutte le cose che si erano detti in quegli ultimi tempi.

Ricordò quando lui gli aveva rivelato di non ricordare neppure l'ultima volta che aveva pianto. Lo immaginò inginocchiato a terra a stringere fra le braccia il corpo di un bambino senza vita, il viso bianco come un lenzuolo e neppure una lacrima a scintillare nei suoi occhi. Che espressione avrebbe avuto in quel momento? Il solo immaginare quella scena gli mandò un brivido gelido lungo la schiena, uno spasmo al cuore che gli fece sfuggire un gemito doloroso di bocca.

Sentiva di voler fare qualcosa, qualsiasi cosa per lui.

Avrebbe voluto correre ad abbracciarlo, stringerlo con forza, in silenzio, solo per dirgli che andava tutto bene. Abbracciarlo per dirgli che non era solo. Abbracciarlo per dirgli che lui capiva.

Ma non poteva farlo. E non poteva dirgli che sapeva.

Dirgli che era a conoscenza di questo fatto avrebbe potuto radicalmente cambiare ogni cosa fra loro e portarlo a sentirsi quasi controllato da lui, come se temesse che chiunque sapesse del suo passato potesse rivolgergli semplicemente pietà e compassione. Capiva perfettamente quel sentimento, era una sensazione fastidiosa ed irritante che non aiutava a lenire il dolore. Doveva essere lui a parlargliene. Doveva attendere che fosse pronto, che i tempi fossero maturi. Il pensiero lo fece sentir male.

Quanto avrebbe dovuto attendere fingendo che tutto andasse bene?

Perchè adesso sì, ne era certo, Alexander non stava bene per niente.

Stava combattendo, giorno dopo giorno, una guerra interiore che non avrebbe potuto prevedere vittorie ma solo vinti. Quando qualcuno moriva non si vinceva mai. C'era solo dolore e perdita e sconfitta. Si chiese se sarebbe stato in grado di comportarsi normalmente con lui ora che sapeva. Temeva di non esserne in grado ma si disse che non c'erano alternative. Doveva farlo. Doveva farlo per lui. Perchè Alexander meritava di risalire dal suo abisso, meritava di star meglio e meritava di ricevere il miglior aiuto nel quale potesse sperare e questo era Magnus. Magnus seppe, in quel momento, che lui era l'unico.

L'unico a poterlo aiutare davvero, l'unico a poterlo capire, l'unico a potergli mostrare come risalire il baratro nel quale era sprofondato.

Senza accorgersene si era ritrovato seduto fuori di casa, sul balcone, a sorseggiare il vino che la donna gli aveva regalato. Era deliziosamente dolce e soprattutto caldo mentre scendeva giù lungo la gola, bruciando pian piano e pizzicando. Da quanto tempo era lì? Da quanto tempo era tornato a casa? Non lo sapeva. Dopo che la donna se n'era andata si era ritrovato a camminare per la città per un tempo indefinito sentendo il bisogno di pensare, di riflettere e di muoversi. Temeva che se si fosse fermato avrebbe sentito la terra abbandonarlo sotto le scarpe. Alla fine, quando si sentì troppo stanco per camminare ancora, era tornato al loft e senza nemmeno rendersene conto si era portato fuori con la bottiglia di vino ed un bicchiere pulito.

Osservò il telefono con sguardo distante e triste, la foto di Alec alle prese con Church sotto gli occhi.

Si sarà comportato a quel modo anche con suo fratello quand'era più piccolo? si domandò Magnus carezzando il viso di Alec sullo schermo con il pollice, sorseggiando ancora il suo vino. Nessuno, a quell'età, avrebbe dovuto fare i conti con una simile verità. Nessuno avrebbe dovuto sopportare il dolore di una simile perdita così presto. Soprattutto non Alexander. Non. Alexander.

Il pensiero della sua espressione così trasparente e pulita lo folgorò con violenza. Non era giusto! Strinse le labbra con forza stringendo i denti fra loro, stringendo gli occhi, cercando di reprimere un urlo che gli era nato dal petto. Il pensiero dei suoi sorrisi imbarazzati, della sua tensione, della sua incapacità ad aprirsi agli altri riempì la sua mente portandolo a sentirsi investito da un profondo senso di vuoto e tristezza. Come aveva potuto non capire...? Non vedere... quando Alexander invece sembrava aver visto dentro di lui come nel fondo di un bicchiere? Magnus liberò un sospiro tremante che si palesò ai suoi occhi sotto forma di vapore biancastro.

Sentiva freddo fin dentro le ossa ma per qualche motivo non voleva rientrare, non voleva muoversi. Voleva solo rimanere lì e bere, bere per dimenticare. Bere per non pensare. Bere, bere, bere.

Ad un tratto sembrò quasi esserci persino riuscito.

La sua mente era annebbiata, l'espressione persa nel vuoto mentre la bottiglia era quasi finita e la sua testa era leggera e pesante al tempo stesso. I pensieri si rincorrevano confusi nella sua mente senza un vero filo logico mentre la memoria iniziava a giocargli brutti scherzi rievocando flash passati sotto le sue palpebre in ordine confuso e casuale. L'indomani, probabilmente, avrebbe avuto un gran bel mal di testa.

Finì di bere il resto della bottiglia e si alzò sulle gambe malferme pronto per tornare finalmente dentro, al caldo. Barcollò fino al soggiorno con la bottiglia vuota in una mano e il telefono nell'altra, poggiando la bottiglia sul bancone dell'isola della cucina. L'avrebbe gettata l'indomani. Stava dirigendosi verso la camera da letto quando il telefono vibrò nella sua mano.

Magnus si fermò e si lasciò cadere sul divano al suo fianco strizzando gli occhi per leggere quanto scritto sul display. Alexander.

Il suo cuore mancò un battito mentre si rendeva conto che lui gli aveva scritto.

Sospirando aprì il messaggio.

 

Da: Alexander Lightwood.

Buon compleanno.

 

Magnus sgranò gli occhi osservando l'orario sul display. Mezzanotte in punto.

Un nodo alla gola gli tolse il respiro.

 

A: Alexander Lightwood.

Grazie, Alexander.

Ti ha chiesto tua madre di scrivermi?

 

Da: Alexander Lightwood.

Eh? No, no. Lei non c'entra.

Cioè, voglio dire, mi ha soltanto detto che il tuo compleanno sarebbe stato domani. Cioè, oggi ormai.

 

Magnus si ritrovò a sorridere con amara tenerezza al leggere quel messaggio.

 

A: Alexander Lightwood.

E' tenero sai? Riesci a balbettare anche per messaggi.

 

Poteva perfettamente vedere, sotto le palpebre, il rossore salire alle sue gote, lo sguardo farsi imbarazzato, l'espressione accigliata e le labbra schiuse per la vergogna. Poteva chiaramente figurarselo davanti agli occhi mentre metteva il broncio e distoglieva lo sguardo per non guardarlo dritto negli occhi.

 

Da: Alexander Lightwood.

Che fai? Adesso mi prendi in giro?!

 

A: Alexander Lightwood.

Non lo farei mai.

Dicevo solo che sei tenero.

 

Da: Alexander Lightwood.

Non sono tenero.

E mi stavi decisamente prendendo in giro.

Quindi buonanotte. *emoji offesa*

 

Magnus sorrise involontariamente nel leggere quell'ultimo messaggio sentendo la stretta attorno al cuore farsi calda e dolce.

 

A: Alexander Lightwood.

Buonanotte Alexander.

E grazie per aver pensato a me.

 

Magnus non poteva sapere che, di recente, Alexander pensava sempre a lui.

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Capitolo 12
*** Compleanno ***


«Buon compleanno!» esclamò la voce di Catarina dall'altro capo del telefono.

Magnus allontanò di scatto il telefono dall'orecchio e strinse gli occhi cercando di sopportare la fittia dolorosa che dall'orecchio era arrivata al cervello. Gli sembrava che la sua testa fosse sul punto di esplodere.

«Sì ma ti prego, non urlare» mugugnò con voce palesemente assonnata, quasi lamentosa, riavvicinando il telefono all'orecchio mentre l'altra mano si avvicinò al viso per massaggiare la tempia libera con un lento moto circolare.

Catarina rise dall'altoparlante. «Ooooh, abbiamo iniziato presto a festeggiare, eh?»

Magnus liberò uno sbuffo dal naso, di malumore. «Non... esattamente» mormorò ancora ad occhi chiusi, totalmente abbandonato contro il cuscino con fare stanco.

Sentiva i pensieri accavallarsi per la mente mentre, poco a poco, i ricordi della sera precedente tornavano a galla con straordinaria violenza. Ricordava l'incontro con Maryse Lightwood, la grande rivelazione, il vino, i messaggi.

Catarina cambiò immediatamente registro.

«Magnus che succede?» domando, più seriamente, la sua voce decisamente preoccupata.

L'uomo aprì lentamente gli occhi ritrovandosi a rimanere in silenzio per alcuni secondi. Cosa avrebbe potuto dirle? Lei non sapeva che lui ed Alexander avevano continuato a sentirsi, a parlare, che decisamente lui era andato oltre quel confine che lei gli aveva raccomandato di non superare. Non sapeva cosa era successo, cosa provava e temeva la sua reazione in caso le avesse raccontato tutto. Temeva di sentirle sbattergli in faccia la verità dei fatti, tutto quello che lui fino a quel momento aveva cercato di nascondere sotto il tappeto così ostinatamente.

Ma in fin dei conti sapeva che lei lo avrebbe sostenuto. Sapeva che avrebbe sempre cercato di proteggerlo e che forse avrebbe potuto aiutarlo a capire come venir fuori da quella situazione. Catarina era una persona giusta e a volte dura nel suo essere sempre così schietta e dedita a ciò che era giusto e buono, ma non avrebbe mai fatto nulla per fargli del male.

Il ragazzo liberò un sospiro e richiuse gli occhi. «Ho fatto un casino, Cat»

«Sono qui, Mags. Lo sai.»

E lui lo sapeva davvero.

«Si tratta di lui, Cat. Alexander.»

«Alexander?» chiese lei confusa. «Intendi il paziente che avevi portato a casa?»

«Proprio lui.» sospirò Magnus deglutendo, mettendosi a sedere. Le coperte scivolarono dal suo busto rivelando un torso scoperto e perfetto. La sua pelle caramellata ricopriva la forma perfetta di muscoli definiti ed allenati, nessun neo, nessuna cicatrice, nessuna imperfezionea straziarne la bellezza. «Lui... Noi... uh-abbiamo iniziato a parlare. Gli avevo dato il mio numero in caso di bisogno ma alla fine ci siamo ritrovati a parlare del più e del meno. Ha iniziato ad aprirsi con me e non ho saputo dire di no» iniziò con lo spiegare lui ripercorrendo mentalmente quegli ultimi giorni.

Gli sembrava assurdo pensare al fatto che tutti quei progressi, tutti quegli eventi fra loro, fossero avvenuti in un così breve arco di tempo, eppure era la verità nuda e cruda.

«Ho pensato che magari parlare in quel modo lo avrebbe aiutato ad aprirsi anche durante le sedute, a confidarsi con me come suo terapeuta. Ma... non è andata esattamente come previsto» Il ragazzo si fermò mordendosi il labbro inferiore, piegando le gambe di modo tale da tenere le ginocchia alzate, vicino al petto e la schiena ricurva così da poggiare il mento su di esse.

«Cosa intendi dire?» chiese semplicemente lei senza aggiungere altro e Magnus sapeva che stava tenendo da parte ogni tipo di commento e giudizio per quando lui avesse finito di raccontarle ogni cosa. Apprezzava questo, lui, di Catarina. Anche quando era contraria a qualcosa, anche quando non era d'accordo, non cercava mai di far prevalere la sua opinione, rimaneva sempre ad ascoltare senza cercare di scavalcare i pensieri altrui.

Magnus deglutì e poggiò la fronte contro le ginocchia, nascondendo il viso contro le proprie cosce.

«Mi piace, Cat» ammise a bassa voce, con una sfumatura di dolorosa consapevolezza nel suo tono. «Più di quanto pensassi. E lui... non lo so. A volte penso che magari anche lui... ma poi...»

Si sentiva uno stupido a non riuscire neppure a formulare una frase di senso compiuto, ma ogni volta che pensava ad Alexander si sentiva così travolto da mille emozioni diverse che anche il semplice pensare diveniva complicato, figuriamoci ora che era in pieno dopo-sbronza.

Ripensò a lui, a tutto ciò che era successo fra loro, al modo in cui gli parlava e in cui rifuggiva le sue parole talvolta quando sentiva di non poter sostenere una conversazione troppo personale o difficile; ripensò al modo in cui aveva iniziato a scherzare con lui nel tempo, al modo in cui poco a poco entrambi avevano imparato a sentirsi a loro agio in reciproca compagnia; ripensò al modo in cui talvolta i silenzi fra loro venivano riempiti da quegli sguardi che sembravano dire più di quanto qualunque parola sarebbe stata in grado di comunicare; ripensò al modo in cui lo aveva guardato il giorno prima entrando in ufficio, al modo in cui era rimasto paralizzato sul posto ad osservarlo. In altre circostanze avrebbe potuto temere che l'altro potesse essere rimasto basito dal modo in cui lui ostentava quei colori e quello stile così assurdo, ma per la verità l'unica cosa che Magnus era riuscito a credere -a sperare, era che Alexander lo avesse trovato bello. Ripensò al modo in cui le sue labbra si erano schiuse quando le sue dita si erano soffermate sotto il suo mento per alzargli il viso e forzarlo a guardarlo, quasi come un riflesso incondizionato.

Nella sua mente ognuna di queste cose appariva come la piccola possibilità che Alexander potesse guardarlo nello stesso modo in cui Magnus stesso lo guardava, ma poi si faceva largo il timore che fosse semplicemente il suo cuore a sperare di trovare in quei gesti un significato diverso da quello che in realtà potevano avere. Non sapeva cosa credere. In qualche modo la trasparenza e l'innocenza di Alexander gli risultavano illeggibili. Era così abituato ad avere a che fare con gente che nascondeva i propri sentimenti, che mentiva, che imbrogliava il prossimo e se stessa da aver imparato a leggere chiaramente ciò che si celava dietro le loro finte parole, ma ora che aveva davanti qualcosa di così semplice e pulito non sapeva come doverlo interpretare. Non era semplicemente assurdo?

«Okay. Quindi ti piace» sospirò Cat nascondendo malamente il suo malcontento. «Cosa ti abbatte in questo modo allora? Se hai detto che avete sviluppato un rapporto al di fuori delle vostre sedute non ti basta consigliargli un altro psicologo e rimanergli vicino semplicemente come te stesso?»

Sembrava così semplice... a sentire Cat sembrava tutto così lineare e naturale. Ma tutto era così più profondamente complicato! Era frustrante sentire di avere quel groviglio di emozioni e sentimenti dentro e non sapere come riuscire ad esternarli, a mostrarli a chi aveva attorno. Come poteva spiegarle che nessun altro avrebbe potuto aiutarlo come poteva fare lui? Come poteva spiegarle che ogni cellula del suo corpo continuava ad urlargli di volerlo salvare in tutti i modi possibili e immaginabili?

«Non è così facile. E' complicato Cat... Non so cosa lui pensi esattamente di me. Non so fino a dove si fidi di me, non so se anche lui pensi a me al di fuori del mio ruolo. Spesso penso di sì ma... non posso saperlo con certezza. E poi abbiamo fatto progressi! Se dovessi mandarlo da qualcun altro si chiuderebbe di nuovo in se stesso e dovrebbe ricominciare da capo e non so se potrebbe sopportare questo processo di nuovo...» La mano libera di Magnus si levò verso il capo, le dita a passare fra i capelli stringendoli appena in una morsa stretta e decisa. Si sentiva combattuto e travolto da quella marea di dubbi e insicurezze che la sera precedente gli aveva scatenato dentro. «Lui... è diverso Cat. E' come me»

Quelle parole portarono Catarina a trattenere il respiro, Magnus potè sentire il risucchio dell'aria fra le sue labbra. Sapeva quanto dovesse essere sconvolta dal sentire quelle sue parole perchè lei, più di ogni altro al mondo, sapeva quanto Magnus si fosse sempre sentito diverso da chiunque altro, maledetto e condannato in un modo che nessuno fra chi era attorno a sé avrebbe potuto mai capire.

«Ho sempre pensato che in qualche modo ci fosse qualcosa a connetterci, sai? Ad un certo punto, durante le sedute, ho iniziato a vedere questa connessione. Ma non capivo. E poi... l'altra sera ha detto una cosa... lui... Lui riesce a vedermi davvero. Al di là del trucco, dei vestiti, di tutto. Come avevi detto tu, ricordi? Non ho potuto nascondermi da lui.»

«Cosa vuol dire che lui è come te, Magnus?»

Magnus chiuse gli occhi deglutendo, sentendo il martellante dolore alla testa spandersi per tutto il corpo riverberandosi nelle vene, sotto le palpebre, nelle orecchie.

«Lui ha... perso qualcuno» disse Magnus in un soffio. «Sua madre ieri è venuta a parlarmi. Voleva ringraziarmi per i progressi che ha visto in lui e mi ha detto...» Magnus si fermò passandosi una mano davanti alla faccia. Non stava a lui parlare di quanto sua madre gli aveva rivelato. Non era giusto, non era corretto. In primo luogo lui stesso non avrebbe mai dovuto venire a conoscenza di tali eventi da qualcuno che non fosse Alexander stesso. «E' come me, Cat.» ripetè alla fine abbandonando il viso contro la mano che ora gli reggeva la fronte. «Io posso capire cosa prova, posso capire cosa sono quelle ombre che gli avevo visto dentro. E forse è tutto ciò di cui ha bisogno. Sapere che qualcuno capisca e che sopporti quel dolore con lui. Io penso di poterlo salvare Cat»

E d'un tratto la sua voce parve quasi divenire una supplica, come se stesse cercando la di lei approvazione, come se cercasse di giustificare i suoi sentimenti in quel suo dire per la prima volta ad alta voce tutto ciò che in quell'ultimo periodo si era riversato nella sua mente.

«Magnus. Continui a parlare di lui, di volerlo salvare, di poterlo capire ma ti sei fermato un attimo a pensare cosa questo può fare a te?» Catarina fu brutale nel suo rispondere alle parole dell'amico. «Non voglio abbatterti e non voglio che tu pensi che io sia contraria a quello che provi. Per anni ho sperato che potesse arrivare finalmente qualcuno capace di farti sentire di nuovo qualcosa, qualcuno che fosse degno di te. Ma Magnus... questo... questo non mi sembra davvero il caso in questione» Era evidente che Catarina fosse quasi intimorita dall'idea di pronunciare quelle parole, che il suo cuore si stesse spezzando nel riferirle.

Non quanto quello di Magnus nell'ascoltarle, comunque.

Sentire il modo in cui la sua migliore amica fosse contraria all'idea di Alexander lo debilitava in maniera profonda. Non che avesse bisogno del permesso o dell'autorizzazione della sua amica per decidere cosa fare della sua vita o dei suoi sentimenti, ma Catarina era sempre stata parte integrante della sua vita e in qualche modo sembrava aver sempre saputo cosa fosse meglio per lui. Il fatto che lei pensasse che Alexander non fosse una buona cosa per lui gli fece temere di essere rimasto impantanato in una situazione ben più complicata di quanto non avesse creduto.

«Solo perchè è un mio paziente? Posso trovare il modo di far funzionare le cose, basta--»

«No, non è perchè è un tuo paziente, Magnus» lo interruppe Catarina con voce dolce, col tono premuroso e materno che era solita usare con lui quando si rimproverava per il dolore che lui sentiva, anche quando non dipendeva da lei. «Ma perchè temo che per salvare lui, finirai col precipitare sempre più a fondo.» La ragazza prese una pausa e sospirò in difficoltà. Magnus poteva dire che stesse cercando il modo migliore per esprimere un pensiero che sapeva lo avrebbe turbato. Non era del tutto sicuro di voler sentire cosa lei avesse da dire.

«Io credo che tu stia cercando così disperatamente di salvarlo perchè così, magari potresti salvare te stesso. Credo che tu in qualche modo stia cercando te in lui. E se magari riuscissi a salvarlo allora forse potresti riuscire nel mentre a salvare anche te. Ma non è così che funziona... Sconfiggere i suoi demoni non eliminerà i tuoi e--»

Magnus scosse la testa con violenza come a voler scacciare la voce di Catarina dalla sua mente e si pentì immediatamente di quel gesto avvertendo il pulsare violento della sua emicrania spandersi per il cranio intero. «Ne abbiamo già parlato, Cat! Non ha niente a che vedere con me questa storia!»

«Ha tutto a che vedere con te, razza di cretino!» sbottò lei bruscamente. «Stiamo parlando dei tuoi sentimenti, della tua vita. Non solo della sua. Il suo benessere non conta più del tuo, la sua felicità non è più importante più della tua e lui non vale più di te. Se aiutarlo a superare i suoi problemi vuol dire farti tornare ad annegare nei tuoi allora è evidente che questo è un rapporto che non ha futuro Magnus» Il tono deciso e severo che aveva adottato inizialmente sfumò pian piano in uno mortificato e dispiaciuto che sembrava quasi voler suonare come una carezza contro il di lui udito.

Magnus si sentì scosso e quasi schiaffeggiato dalle sue parole. Annegare. Aveva usato la stessa parola che Alexander aveva utilizzato solo poche sere prima per descriverlo.

Faceva male.

Faceva maledettamente male.

Sentì il cuore dolere al sentire chiaramente quelle parole dalle labbra di Catarina. Le labbra si schiusero liberando un piccolo singhiozzo silenzioso, la gola si chiuse all'istante mentre il dolore alla testa si fece ancor più penetrante. Il sangue stava correndo violento nelle vene affluendo al viso, la pressione stava aumentando mentre cercava di trattenere tutti i sentimenti che gli si stavano affollando nel petto. Quei giorni trascorsi con Alexander erano stati intensi. Erano stati diversi, erano stati quanto di più vero e reale avesse vissuto negli ultimi anni. C'era stato qualcosa che lo aveva fatto sentire vivo, c'era il modo in cui lui lo guardava che lo faceva sentire davvero vivo. Il solo pensiero di perdere tutto questo gli toglieva il respiro.

«No... Io non...» la sua voce venne fuori incrinata mentre cercava con tutto se stesso di trovare un motivo qualsiasi per contraddire la sua amica. «..lui mi fa del bene Cat... davvero» piagnucolò tirando su col naso, ricacciando indietro le lacrime e cercando di ignorare il mal di testa violento che lo stava consumando. «mi fa sentire...»

Catarina sospirò con fare mesto al sentire la voce di Magnus spegnersi tristemente. «Senti, facciamo così.» disse cercando di imprimere quanta più leggerezza e speranza nella sua voce. «Non parliamone adesso. Oggi è il tuo compleanno e dovrebbe essere una giornata felice. Quindi ora ti fai un lungo bagno caldo, passi la giornata a dedicarti a te stesso e questa sera ci vediamo. Posso prendermi un giorno di permesso domani così stasera potrei passare la notte lì, nella mia vecchia stanza e noi possiamo parlare di questa storia insieme, va bene?» propose lei con quel suo tono ricolmo di dolcezza e affetto che Magnus aveva sempre assimilato a quello di una sorella maggiore.

Deglutì tirando su col naso e annuì leggermente col capo.

«Va bene...»

«Va bene. Adesso devo tornare al mio turno. Ci vediamo stasera Mags» disse lei con voce morbida e calda. «Ti voglio bene»

Magnus sentì una ondata di affetto per lei travolgerlo con forza.

«Ti voglio bene anch'io»

 

*

 

Alec sospirò per l'ennesima volta con la fronte poggiata contro la scrivania.

Era mattina inoltrata e lui e Magnus non si erano sentiti. Dopo quello stupido messaggio di auguri così povero e freddo che gli aveva inviato non si erano più scritti e, in parte, Alec ne fu sollevato. Di quei tempi era divenuta quasi una abitudine svegliarsi con i suoi messaggi e addormentarsi dopo aver parlato con lui, era qualcosa alla quale non era abituato e che non sapeva bene come interpretare e che quindi lo faceva sentire teso e nervoso. Oltretutto non aveva idea di cosa avrebbe potuto dirgli in quel particolare giorno: i compleanni, dopotutto, erano ricorrenze da scorrere con la gente che amavi e che sapeva davvero chi tu fossi: Alec non sentiva di rientrare in nessuna di quelle categorie per l'altro.

Dall'altra parte, però, gli mancava.

Si passò nervosamente una mano fra i capelli arricciando le labbra. Voleva fare qualcosa per lui in quel giorno, ma non aveva idea di cosa avrebbe potuto fare senza apparire strano o ambiguo o fuori luogo. Quando sua madre gli aveva rivelato che il compleanno di Magnus sarebbe arrivato in poche ore Alec era quasi saltato dalla sedia. Sapeva che quel giorno sarebbe arrivato presto stando alle parole dell'altro ma non così presto. Aveva passato la sera cercando di pensare ad un messaggio d'auguri che non sarebbe parso inopportuno da parte di un paziente ma che, al tempo stesso, non lo rendesse ai suoi occhi un paziente come un altro. Aveva scritto e cancellato dozzine di messaggi di prova ed alla fine, quando la mezzanotte era ormai alle porte, si era arreso e si era limitato ad un banalissimo ed impersonale “Buon compleanno”. Solo dopo che l'ebbe inviato iniziò a maledirsi per aver inviato quel messaggio: se proprio doveva mandargli degli auguri tanto brutti poteva starsi fermo in primo luogo! Pensò a tutti i messaggi che sicuramente gli sarebbero arrivati da parte di gente che conosceva da tempo, gente che non avrebbe dovuto sentirsi a disagio all'idea di volergli scrivere per il suo compleanno. Pensò a quanto ognuno di essi l'avrebbe fatto sorridere e commuovere facendo svanire, a confronto, quella barzelletta del suo messaggio. Buon compleanno. Punto. Non aveva messo neppure una emoji: avrebbe potuto mettere qualcosa di festivo! Era certo che da qualche parte, scorrendo, ci fosse qualcosa con dei coriandoli o delle stelle filanti, sarebbero stati perfetti per alleggerire il tono delle sue parole e rendere il messaggio molto meno informale.

Ma ormai era fatta e, per lo meno, Magnus era stato tanto gentile da ringraziarlo.

Tenero.

Lo aveva definito tenero.

Ripensarci fece stringere il suo cuore in una morsa calda e piacevole che gli strappò un mezzo gemito imbarazzato. Non riusciva a capire perchè quel messaggio lo avesse scombussolato tanto. Aveva sentito il viso andare a fuoco non appena l'aveva letto e il cuore martellargli forte nelle tempie. Nessuno lo aveva mai definito in quei termini prima. Probabilmente perchè con nessuno era mai stato abbastanza sciolto o spontaneo da meritarsi una simile descrizione. Ma Magnus non era un'eccezione, no? Insomma, con lui non si era comportato poi così diversamente... no?

Iniziò a farsi assalire dai dubbi e dalla paura di essere stato forse un po' troppo sfrontato e sfacciato con lui, di aver lasciato trasparire i suoi sentimenti, di avergli fatto capire qualcosa che avrebbe invece dovuto tenere nascosto. Il solo pensiero lo mandava nel panico. E poi, lui, non voleva essere tenero. Non era certo che Magnus fosse il tipo di persona che cercasse qualcuno di tenero da avere al suo fianco. Magari qualcuno di affascinante, di divertente, di spigliato... qualcuno che potesse quantomeno non sfigurare accanto alla sua bellezza. Il pensiero mandò una fitta di tristezza al cervello di Alec. Accanto a Magnus lui si sentiva svanire. Di sicuro l'altro si sarebbe imbarazzato soltanto a mostrarsi accanto ad uno come lui, coi suoi capelli sconvolti e la pelle troppo pallida...

Scosse la testa allontanando tutti quei pensieri dalla sua mente.

Avrebbe voluto fare qualcosa per lui in quel giorno, un pensiero per strappargli un sorriso magari, il genere di cose che era norma fare nei compleanni, ma la sua mente era semplicemente vuota. Non era mai stato particolarmente bravo con i regali, specialmente considerando che le uniche persone alle quali li avesse mai fatti erano la sua famiglia e Jace. Ma lui e Magnus avevano un rapporto... singolare. Sarebbe stato inappropriato per lui pensare ad un regalo da fargli? Ogni fibra del suo corpo gli diceva di sì ma, al tempo stesso, gli diceva anche che non c'era niente al mondo che volesse più di questo.

Sospirò, ancora, strofinandosi il viso con una mano, quando la porta della sua stanza si aprì all'improvviso.

«Toc toc?» disse Isabelle sulla soglia, affacciata oltre la porta socchiusa, con la testa infilata nella stanza.

Alec si voltò verso di lei ruotando sulla sedia alla sua scrivania.

«Lo sai, sì, che in genere si bussa prima di entrare da qualche parte?»

«Aaah, come se potessi mai beccarti a fare qualcosa di imbarazzante» minimizzò lei aprendo del tutto la porta ed entrando con quell'aria leggera e sicura che la circondava in ogni occasione, chiudendosi la porta alle spalle.

Alec si accigliò leggermente, imbarazzato. «Che ne sai? Magari potevo star... uh-facendo...» No, non gli veniva in mente niente di abbastanza imbarazzante o privato che potesse richiedergli la porta chiusa.

Isabelle lo guardò inarcando le sopracciglia prima di sgranare appena gli occhi e alzare le mani davanti a sé.

«Oddio Alec, ti prego no» disse con tono perentorio. «Se devi fare certe cose, ti prego, chiuditi in bagno.»

Alec la fissò per un attimo perplesso aggrottando le sopracciglia, non capendo a cosa lei potesse starsi riferendo.

Poi, lentamente, capì dove la sorella stava andando a parare ed una ondata di sangue incandescente gli salì al viso imporporando la pelle solitamente mortalmente pallida.

«C—cos—No!» esclamò lui, sconvolto, sentendo le orecchie prossime all'autocombustione. «Non era quel—»

Isabelle alzò il dito indice davanti a sé e ruotò la testa per guardare altrove.

«Ah-ah-ah» ritmò con la voce per fermare il balbettio imbarazzato del fratello. «Non avremo questa conversazione, Alec. Ugh, che schifo!» rabbrividì lei avvicinandosi al letto e lasciandosi cadere seduta su di esso, verso i bordi inferiori, le gambe sinuosamente accavallate mentre il peso del corpo andava a spostarsi tutto sulle mani affondate nel guanciale dietro di sé.

A volte parlare con Izzy era la cosa più difficile del mondo.

Alec sospirò sentendo ancora il viso in fiamme e preferì lasciar cadere il discorso.

«Cosa c'è, Izzy?» brontolò, alla fine, ruotando sulla sedia così da avere di fronte il letto e, quindi, sua sorella.

Lei si strinse nelle spalle con fare incurante. «Niente. Mi annoiavo» si limitò a dire con un mezzo sbuffo. «Church sta dormendo ed è troppo presto per uscire. Tu che stavi facendo invece?»

Pensavo a cosa potrei regalare al ragazzo che mi piace per il suo compleanno, pensò Alec immediatamente ben sapendo che era qualcosa che non avrebbe mai potuto dire ad alta voce. Stava già per lasciar cadere il discorso quando una vocina dentro di lui lo fermò. Izzy amava fare i regali e sapeva sempre scegliere la cosa giusta in ogni occasione. Forse... forse avrebbe potuto chiederle aiuto, per una volta.

«Io-uh...» iniziò lui nervosamente, sentendo il rossore iniziare a calmarsi e la temperatura di guance e orecchie stabilizzarsi. «pensavo che forse dovrei fare un regalo al mio psicologo per uh-sai, il suo compleanno»disse schiarendosi la voce, la mancina distesa lungo l'orlo della scrivania, l'indice a ripercorrere la forma di una venatura del legno con fare meccanico. «Mamma gli ha dato una bottiglia di vino ma uh-lei non lo conosce alla fine. Cioè, nemmeno io, nel senso...»

Izzy inarcò un sopracciglio e osservò il fratello assottigliando leggermente lo sguardo con fare indagatore.

«Uhm» mormorò fra le labbra. «Capisco. E hai trovato qualcosa?»

Alec strinse le labbra con fare combattuto.

«Non sono bravo a fare regali...»

Isabelle rimase ad osservarlo in silenzio per lunghi secondi con aria improvvisamente seria, soppesando le parole del fratello, il modo in cui stava evitando il suo sguardo, in cui sembrava così estremamente a disagio. Eppure la cosa sembrava essere abbastanza importante per lui da fargli sopportare quella poco piacevole conversazione e chiederle persino aiuto.

«Okay, vediamo cosa possiamo fare» disse allora lei, sorridendo, alzandosi in piedi. «Che tipo è? Mamma sembrava scettica ieri quando ha parlato di lui. Come se fosse un tipo assurdo. Magari se riesco a farmi una idea su di lui posso aiutarti a scegliere qualcosa di carino»

Lo sguardo di Alec si illuminò al sentire quelle parole ed un sorriso grato schiuse le sue labbra.

Durò solo per un istante prima che Alec si rendesse conto che non aveva idea di come poterlo descrivere a sua sorella senza mostrare tutto il suo coinvolgimento.

«Uh-Lui è...» perfetto pensò Alec deglutendo, portando la mancina dietro la nuca a grattarsi i capelli scuri con fare nervoso. Avrebbe voluto dirle quanto fosse incredibilmente attraente. Come fosse spiazzante il contrasto fra il suo aspetto stravagante ed il tono rassicurante della sua voce, il modo in cui era capace di guardarti fin dentro l'anima coi suoi meravigliosi occhi verde-oro e al tempo stesso scherzare con la leggerezza di un adolescente. Avrebbe voluto dirle in che modo spesso si perdeva a studiare la forma delle sue spalle o delle braccia, ridisegnando mentalmente il suo profilo così da non lasciarsi sfuggire neppure un dettaglio. Voleva dirle in che modo i suoi occhi brillavano quando c'era poca luce, come sapesse essere rassicurante e impetuoso al tempo stesso, capace di farlo sentire al sicuro o in trappola con una semplice espressione. «...originale» si ritrovò a dire Alec sentendosi un idiota per quell'affermazione. «A-ah, aspetta. Ho una foto» si riscosse subito dopo sfilandosi dalla tasca dei jeans il cellulare.

Aprì whatsapp e selezionò la sua chat ingrandendo rapidamente la sua foto, la foto che tanto amava e che ormai conosceva a memoria.

Isabelle si avvicinò mettendosi dietro di lui, chinandosi dietro lo schienale della sedia poggiando le braccia sulle spalle del fratello, il viso accanto al suo, mentre osservava lo schermo del cellulare.

«W-o-w» scandì lentamente lei sgranando gli occhi. «Sento l'improvviso bisogno di andare in terapia anche io adesso» e dal suo tono di voce Alec seppe che Magnus aveva acquisito una nuova ammiratrice.

Alec sorrise, divertito, scuotendo leggermente le spalle nel trattenere la risatina.

«Sì, già. Immagina la faccia della mamma quando deve averlo visto la prima volta»

Isabelle tornò in posa eretta portando le mani sui fianchi.

«Ora capisco perchè credeva che non fosse un professionista. Immagina che faccia deve aver fatto quando ha dovuto ricredersi e gliel'ha anche dovuto dire in faccia!» rise lei provando ad immaginare Maryse Lightwood che ringraziava sentitamente un uomo che sapeva apparentemente truccarsi molto meglio di lei.

Alec sorrise scuotendo leggermente il capo. No, in realtà preferiva non pensarci.

La sola idea che Magnus avesse potuto scorgere nello sguardo di sua madre tutto il disgusto che era solita provare per questo tipo di atteggiamenti sfacciati e poco ordinari gli chiudeva lo stomaco.

«Okay quindi è un figo. Gli piace la moda e l'eleganza. E' un problema» mormorò lei portandosi una mano al mento con fare pensoso.

Alec si voltò e alzò lo sguardo verso di lei con aria allarmata. «Eh? Perchè?»

Sua sorella iniziò a misurare la stanza ad ampie falcate, incrociando le braccia al petto e tamburellando le dita della mancina nell'incavo dell'altro braccio.

«Beh perchè tu non sai assolutamente niente di tutto questo e quindi non saresti capace di fare un regalo che rientri in quei termini»

Alec parve confuso. «Ma... è per questo che tu sei qui, no?» domandò con innocente perplessità. «Tu ci capisci tutto di questa roba»

Isabelle si fermò nel bel mezzo della stanza voltandosi verso Alec con aria seria.

«Ma è proprio questo il punto! Non deve capire che il regalo viene da qualcun altro. Deve pensare che sia da parte tua!» esclamò lei come se fosse la cosa più ovvia del mondo. «E conoscendoti credo che lo voglia anche tu» aggiunse, subito dopo, con fare attento, soppesando con cura le sue parole.

Alec rimase interdetto per un istante nel metabolizzare quel concetto.

Se Magnus avesse capito che lui si fosse fatto aiutare per scegliere un regalo per lui cosa avrebbe pensato? Che Alec voleva a tutti i costi fare bella figura? Che ci teneva al punto da chiedere aiuto a qualcuno? Avrebbe dato a quel gesto più importanza di quanto invece non ne avrebbe avuta? A ben pensarci non era esattamente quello che voleva. E, soprattutto, avrebbe voluto poter scegliere da sé qualsiasi cosa avesse voluto donargli... sapere di stargli regalando qualcosa che lui pensava gli sarebbe piaciuto. Alec abbassò lo sguardo, sconfitto.

«Mi basta che lo faccia contento» ammise, a bassa voce, quasi senza rendersi conto di averlo detto ad alta voce.

Isabelle schiuse le labbra sgranando leggermente gli occhi.

Nascose immediatamente quell'espressione stupita dal volto rimpiazzandola ben presto con un sorriso caldo e intenerito, inchinandosi ai piedi di Alec, poggiando una mano sul suo ginocchio mentre cercava il suo sguardo dal basso della sua nuova posizione.

«Credo che sarebbe contento a prescindere da quello che potresti portargli. Cioè che ci rende contenti nei compleanni non sono i regali in sé, ma sapere che le persone a cui teniamo ci vogliono bene abbastanza da voler fare qualcosa per noi. Anche qualcosa di piccolo e apparentemente insignificante» disse lei col tono morbido e comprensivo che era solita sfoderare ogni volta che entrava in modalità 'sorella consigliera'. Alec la guardò stringendo le labbra, leggermente combattuto.

Non era certo di rientrare fra le 'persone a cui Magnus teneva' e non era sicuro di volere che sua sorella capisse che lui ci teneva fin troppo. Ma in qualche modo la prospettiva di correggerla, di negare quanto per lui fosse importante quella particolare situazione, gli risultava sfiancante. Era stanco di nascondere e scappare. Sapeva che Izzy non avrebbe detto niente in proposito, che non avrebbe fatto commenti e che non avrebbe pensato diversamente di lui. In qualche modo aveva sempre avuto il sospetto che Izzy sapesse.

«Non c'è niente che tu sappia lui voglia?» domandò lei con tono gentile, sorridendogli con candore.

Permettimi di conoscerti.

Le parole di Magnus lampeggiarono improvvisamente nella sua mente, nitide e chiare come se le avesse proprio sotto gli occhi.

Alec schiuse le labbra e quindi annuì.

«Sì. C'è qualcosa»

 

*

 

Dopo aver chiuso la telefonata con Catarina Magnus si era dedicato a curare i postumi della sua sbornia.

Si era preso un'aspirina e bevuto un po' di caffè caldo, prima di abbandonarsi ad un lungo bagno rigenerante. Per quel giorno avrebbe tenuto chiuso lo studio e aveva lasciato detto a Lucy ti avvisare i loro pazienti e di riarrangiare i loro appuntamenti. Lucy era rimasta piuttosto sorpresa di sentire che quel giorno l'uomo non sarebbe venuto a lavoro: da quando lavorava per lui non era mai successo. Magnus le spiegò di non sentirsi molto bene e lei non aveva sollevato domande augurandogli semplicemente di sentirsi meglio e di passare un buon compleanno, sebbene le due cose si scontrassero ironicamente fra loro.

Magnus comunque aveva ringraziato e aveva tirato un sospiro di sollievo.

Non aveva molta fame ma si sforzò di cucinare qualcosa per pranzo giusto per non rimanere a stomaco vuoto. Era ancora piuttosto scombussolato dalla telefonata di quella mattina e dagli eventi del giorno precedente ma per fortuna riuscì ben presto a sentirsi un po' meglio quando il mal di testa prese a diminuire ed il pensiero che presto avrebbe rivisto i suoi amici prese posto nel suo cuore. Non si vedevano dal compleanno di Raphael -avvenuto un paio di mesi prima- e da allora si erano sentiti piuttosto di rado seppur continuando a tenersi in contatto nel tempo. L'idea di rivederli riuscì in qualche modo a calmarlo e a far passare in secondo piano le sue preoccupazioni, almeno per quella sera.

Aveva deciso che per quel giorno non avrebbe scritto ad Alexander.

Dopo tutto quello che lui e Catarina si erano detti non pensava che fosse una buona idea e, inoltre, non sapeva neppure cosa avrebbe potuto scrivergli se anche avesse voluto mandargli un messaggio. Aveva bisogno di prendersi un po' di tempo, di pensare bene a ciò che stava succedendo e questa decisione lo calmò un altro po'. Avrebbe preso del tempo per sé e avrebbe ponderato bene sulla situazione così da non rovinare irrimediabilmente ogni cosa. Voleva credere che fosse la cosa migliore da fare per il momento e così si dedicò a pulire casa per il resto della giornata.

Era un lavoro lungo e noioso ma che andava fatto se voleva accogliere al meglio i suoi amici. In verità non è che ci fosse poi molto da sistemare: Magnus era sempre stato un tipo ordinato e pulito, odiava il disordine e spesso aveva voglia di cambiare e rimodernare l'arredamento del loft. Era raro trovare qualcosa fuori posto, ma lui sentiva sempre di poter arrangiare la stanza in maniera ancora migliore e così eccolo periodicamente alle prese con le pulizie generali della camera principale dell'appartamento.

Avendo saltato il pranzo limitandosi solo a mangiare qualcosa di rapido e veloce aveva avuto modo di mettersi a lavoro di buonora e verso mezzo pomeriggio aveva già finito di sistemare casa. Aveva preparato ciotole di stuzzichini ed una piramide di bicchieri di plastica rossi sul tavolo davanti alla finestra assieme a piattini e tovaglioli. Le bevande sarebbero state fatte uscire all'arrivo degli ospiti così come lo spazio vuoto sul tavolo sarebbe stato occupato dalla torta che loro avrebbero portato, come sempre.

Niente festoni, niente palloncini, niente coriandoli colorati questa volta: l'ultima volta aveva quasi dato fuoco all'appartamento quando uno strisicione si era staccato cadendo sulle candele che aveva acceso nell'appartamento. Sul momento erano andati tutti nel panico ma quando riuscirono a spegnere il fuoco prima che la situazione sfuggisse di mano, tutti risero sollevati concordando che quello sarebbe stato un compleanno che non avrebbero dimenticato.

Una volta preparato tutto era il momento di occuparsi di se stesso. Anche se sarebbero stati in casa sentiva di voler apparire al meglio per quel giorno considerando che era una occasione speciale e così aveva optato per indossare un paio di stretti pantaloni neri ed una aderente camicia di seta rossa. Aveva sempre trovato che il rosso gli donasse, soprattutto considerando il colore della sua pelle e quella era una delle sue camicie preferite: stringeva nei punti giusti evidenziando la forma dei bicipiti allenati e delle spalle larghe senza però dare l'impressione di stare per esplodere da un momento all'altro. Inoltre il modo in cui ricadeva il colletto quando lasciava giusto un paio di bottoni aperti lo aveva sempre convinto positivamente. Non per niente era la camicia che era solito indossare quando, durante una uscita, contava di non tornare a casa da solo.

Abbinò a questo completo un paio di collane d'argento ed una serie di anelli pesanti ed elaborati che infilò alle dita dalle unghie smaltate di nero. Truccò gli occhi con l'immancabile linea d'eyeliner nero a delineare la forma dell'occhio ed una mescolanza di ombretti che andavano dal nero al rosso scuro che richiamavano straordinariamente bene il suo outfit.

Si passò una mano fra i capelli per modellare il ciuffo e sentì qualcuno suonare alla sua porta.

Lanciò uno sguardo all'orario che lampeggiava sulla sua sveglia e inarcò le sopracciglia, sorpreso. «Caspita. E' volato il tempo!»

Si alzò e s'affrettò verso la porta lisciandosi le pieghe della camicia e mettendo su uno smagliante sorriso. Era più impaziente di vederli di quanto non credesse.

«Benvenuti a--!» esclamò con tono gioioso aprendo la porta con un rapido e fluido gesto, rimanendo spiazzato un istante più tardi quando vide chi c'era sulla soglia di casa sua. «...Alexander. Che...» disse, sorpreso, totalmente preso alla sprovvista, sbattendo rapidamente le palpebre, il suo cuore a fargli una piroetta nel petto scacciando la serena tranquillità che lo aveva avvolto fino a quel momento.

Alexander, dal canto suo, si irrigidì all'istante fissando Magnus con espressione impacciata e piuttosto imbarazzata. Le sue gote si tinsero di rosso all'istante mentre prese a far passare il peso del proprio corpo da un piede all'altro.

«Ah. Scusami. Aspettavi sicuramente ospiti» disse, nervosamente, abbassando lo sguardo, passandosi una mano fra i capelli... pettinati?

Magnus non aveva potuto fare a meno di notare che c'era qualcosa di diverso dal solito in Alexander quel giorno. Non indossava vecchi jeans scoloriti o felpe troppo grandi, né improponibili accoppiate di colore che lui avrebbe dichiarato fuorilegge. Sotto la giacca scura indossava una semplice camicia nera senza troppe pretese ma decisamente più elegante di qualsiasi altra cosa gli avesse mai visto addosso fino a quel momento, ed un paio di pantaloni dello stesso colore che cadevano sulla sua figura stringendo perfettamente la forma delle ginocchia e delle caviglie. Magnus sentì di aver dimenticato di respirare.

«...è il tuo compleanno, ovviamente aspettavi ospiti.» continuò rimproverandosi fra sé e sé ma ad un tono di voce perfettamente udibile considerata la nulla distanza fra loro. «Scusa. Io... ehm-Niente, non sarei dovuto passare» balbettò nervosamente senza ancora osare alzare lo sguardo su di lui.

Quando fece per voltarsi ed andarsene Magnus tornò improvvisamente in possesso delle proprie facoltà mentali.

No! aveva gridato una voce nella sua testa.

«No!» E a quanto pareva anche la propria. Alexander si voltò verso di lui arrestando il proprio passo con l'espressione più speranzosa e preoccupata di sempre. Magnus boccheggiò schiarendosi la gola. «Voglio dire, sei venuto fin qui. Non c'è problema» disse abbozzando un sorriso. «E credo che i miei ospiti arriveranno fra un po'. Prego..uh, entra pure»

...Ed ecco sfumare ingloriosamente i suoi propositi di evitare Alexander per quel giorno.

Il ragazzo si illuminò in viso in un modo di cui Magnus dubitava fosse pienamente conoscente e, annuendo, varcò la soglia grattandosi la nuca.

Magnus richiuse la porta dietro di loro e mosse un paio di passi verso Alec che si era fermato nel centro della stanza a poca distanza dal basso tavolino da caffè. Scese uno strano silenzio fra loro mentre Magnus prese a strofinarsi nervosamente le mani dinnanzi al petto.

«Va tutto bene?» domandò cercando di spezzare quel silenzio decisamente scomodo fra loro.

Alec alzò lo sguardo su di lui annuendo all'istante, meccanicamente. «Sì, sì tutto... tutto benissimo» disse come per voler scacciare ogni tipo di preoccupazione dalla mente dell'altro. Il problema è che poi smise di parlare lasciando nuovamente cadere quell'imbarazzante quiete colma di desideri e intenzioni non dette.

Magnus quindi schioccò la lingua sul palato -ben intenzionato a non lasciarsi distrarre più del dovuto dalla camicia nera che l'altro stava indossando- e si mosse verso il bancone della cucina.

«Posso offrirti qualcosa da bere?»

«Oh. No. No, io... non mi fermerò a lungo. Volevo solo...»

Magnus inspirò a fondo e sentì il cuore battere forte nel petto. Tornò indietro e si avvicinò nuovamente ad Alexander, un po' più vicino di poco prima, osservando l'espressione combattuta ed innocente sul suo viso. Il suo sguardo era ingenuo, trasparente, ed era facile vedere la paura che in quel momento lo stava logorando. Quel timore sottile di fare qualcosa di sbagliato, l'incapacità di fermarsi dal farlo.

«Sì?» lo incalzò, a bassa voce, con un tono più carezzevole e impaziente di quanto non avesse voluto.

Alec lo guardò allora negli occhi e si perse in quello sguardo per un lungo attimo prima di stringere le labbra e abbozzare un piccolo sorriso.

Infilò una mano all'interno della giacca e ne tirò fuori una busta bianca da lettere, perfettamente immacolata ma apparentemente piena a giudicare dallo spessore della stessa. Gliela porse nel piccolo spazio fra loro. «Buon compleanno» mormorò senza alcuna traccia di tensione. L'imbarazzo, il balbettio, l'agitazione... ogni cosa era come sfumata via all'improvviso, senza un perché. Magnus abbassò lo sguardo sulla busta afferrandola fra le sue mani, sorpreso. Sinceramente non si era lontanamente aspettato un risvolto simile per la giornata.

Era già rimasto sorpreso dal ricevere il suo messaggio la sera precedente ma un regalo... quello andava oltre ogni più sfrenata fantasia della sua mente. Si rigirò la busta fra le mani seguendo con le dita l'orlo dell'apertura senza però sfilarlo via.

«Quando credo che non potresti più sorprendermi...» mormorò Magnus con le labbra ad incurvarsi in un sorriso divertito, colpito, toccato. Rialzò lo sguardo puntando le iridi chiare in quelle azzurre e trasparenti dell'altro, il suo cuore a farsi grande e pesante nel petto mentre quasi gli sentiva di sentire il proprio sangue cantare. «...lo fai.»

Alexander sorrise a sua volta, timidamente, ma senza traccia d'imbarazzo.

«Posso aprirla?» domandò allora Magnus con una punta di viva curiosità a scorrere lungo le dita, la busta quasi a pesare fra le mani. Non aveva la minima idea di cosa potesse effettivamente aspettarsi di trovare all'interno. Dei biglietti per un viaggio? Per un concerto? Buoni sconto? Caramelle? Qualunque cosa fosse stata lui sarebbe stato semplicemente felice: per quanto sembrasse assurdo non era realmente attaccato ai beni materiali. Sì, amava circondarsi di tutto ciò che considerava bello e piacente e adorava acquistare ogni genere di ninnolo che attirasse la sua attenzione, ma in realtà ogni oggetto per lui avea un significato speciale ed unico. Qualunque cosa fosse stata dentro la busta sarebbe stata per sempre nel suo cuore perchè veniva da Alexander. Il suo primo regalo per lui.

A quella domanda Alec parve improvvisamente tentennare, in difficoltà.

«Non... non è niente di speciale. In realtà è davvero una cosa stupida» disse umettandosi le labbra ed abbassando lo sguardo, deglutendo. Magnus sentì il cuore saltare un battito quando vide la sua lingua guizzare fra le labbra per inumidirle. «Puoi aprirla quando me ne sarò andato. E'...» annuì appena col capo come se stesse cercando di trovare le parole giuste. «...è meglio così» concluse alla fine rialzando lo sguardo, dedicandogli un sorriso sghembo che gli rapì il fiato.

Sembrava stranamente rilassato ed a suo agio, quasi più giovane in quel momento. Non era arrossito, le sue mani non stavano disperatamente cercando di trovare qualcosa da fare per scaricare la tensione, anzi. Sembrava quasi che stesse cercando di sforzarsi con tutto se stesso per impedirsi di muoverle verso di lui...

Eppure Magnus poteva vedere nei suoi occhi quelle fiamme nere. Quelle ombre danzanti che non lo abbandonavano mai. Quelle tenebre avvolgenti che sembravano consumarlo poco a poco, giorno dopo giorno. E Magnus... oh, Magnus sapeva cosa significasse sentirsi bruciare dall'interno, lentamente, un pezzo per volta. Sentire quel logorante senso di oppressione che limitava ogni gesto e ogni decisione.

«Non è una cosa stupida. Qualsiasi cosa sia.» disse Magnus incapace di distogliere lo sguardo dai suoi occhi. «Anche senza aprirla so già che è importante per me» aggiunse con un sorriso allungando una mano soltanto verso l'alto, lentamente, per racchiudere nel suo palmo il viso di Alec.

Il ragazzo chiuse gli occhi a quel contatto con l'ingenua innocenza di un bambino.

Era la prima volta che accoglieva a quel modo il contatto con Magnus. La prima volta che non s'irrigidiva, la prima volta che non arrossiva, la prima volta che non si ritrovava ad osservarlo spiazzato e sperduto. Magnus sentì il travolgente desiderio di baciarlo. Avrebbe voluto guidare il suo viso perso il proprio, mettere fine a quella straziante distanza e semplicemente poggiare le labbra sulle sue. Avvertire il calore dei suoi respiri spezzarsi nei propri, sentire quanto morbide avrebbero potuto essere a contatto con la sua pelle. Quanto timida sarebbe stata la sua lingua nell'incontrare la sua. Ma non lo fece.

Non sapeva se Alec lo avrebbe voluto, non sapeva se provasse lo stesso bisogno e, se come credeva fosse così, fosse pronto a passare dai sogni alla realtà. Con Alec non bisognava andare di fretta. Aveva bisogno di essere guidato lentamente, con attenzione, così da aiutarlo a fare da sé un passo verso ciò che effettivamente voleva. A ben pensarci, però, Alec era venuto fin lì di sua sponte. Gli aveva fatto un regalo. E se fosse quello il passo che Magnus stava attendendo?

Non ne era sicuro ma l'idea era allettante. Tuttavia non voleva rischiare e cercò di contenere quel bisogno ricacciandolo con forza dentro di sé.

«Cos'è?» chiese invece sorridendo, perdendosi in quel timido contatto col suo viso, carezzando il suo zigomo con il pollice, lentamente, quasi temesse che un movimento più azzardato avrebbe potuto farlo svanire in una cascata di coriandoli.

Alec riaprì gli occhi e si prese un attimo di tempo prima di rispondere. «Una lettera»

Magnus assottigliò appena lo sguardo, colpito, provando ad immaginare cosa potesse avergli scritto. La sua mente correva e galoppava verso le più disparate direzioni, i suoi pensieri si schiantavano e confondevano gli uni con gli altri sfumando in ondate di fumo dietro i suoi occhi verdastri. La lettera fra le sue mani sembrava quasi bruciare tanto era il bisogno che improvvisamente sentiva di doverla leggere.

«Te l'avevo detto che era una cosa stupida» continuò allora Alec ritrovandosi solo ora ad arrossire appena.

«Questo lascia che lo decida io, mh?» sorrise Magnus con un fare leggermente ammiccante che portò Alexander a schiudere le labbra e sorridere con fare teneramente impacciato.

«Okay» mormorò guardandolo ora negli occhi da sotto le lunghe ciglia scura.

Entrambi si ritrovarono a sorridere, ad un passo di distanza, guardandosi in silenzio nel bel mezzo della stanza. Un alito gentile di brezza scivolò dalla finestra smuovendo le tende alle loro spalle, le fiamme delle candele disposte per la camera danzarono lievemente senza però spegnersi. Magnus non riusciva a lasciar andare il suo viso, continuava a carezzare quella pelle fresca e pallida con le sue dita dorate, stringendo nell'altra mano quel preziosissimo dono.

Il suo cuore batteva forte, impaziente e tutto nella sua mente gli diceva che quello sarebbe stato un momento perfetto. Se solo avesse mosso il suo viso, se solo si fosse avvicinato di un soffio soltanto, non ci sarebbe stato ritorno. Sarebbe stata fatta, non avrebbe più potuto nascondere quello che, già in quel momento, era davvero difficile da malinterpretare. Non poteva star sbagliando. Non poteva davvero pensare che Alec non vedesse quello che stava accadendo. Come sarebbero dovuti apparire, come... erano. Collegati, connessi. Legati.

Schiuse le labbra, pronto a rischiare ogni cosa quando il suono della serratura spezzò l'incantesimo e lui si ritrovò a sobbalzare -assieme ad Alec- voltandosi verso l'ingresso, lasciando cadere la mano dal suo viso.

«BUON COMPLEANNO!» esclamarono in coro Ragnor, Catarina e Raphael. Catarina era in testa al gruppo con le braccia distese verso l'alto e un enorme sorriso sul volto, gli altri due erano alle sue spalle reggendo uno due buste piene di quelli che sembravano regali e l'altro uno scatolo che molto probabilmente conteneva una torta.

Tutti trattennero il fiato nella stanza mentre la mano di Magnus ripiombava lungo il fianco ed Alexander diveniva di un acceso color porpora.

«Ops?» azzardò Ragnor stringendo i denti con espressione dispiaciuta, arricciando appena il naso.

Magnus sentì il cuore battergli all'impazzata nel petto, il sangue correre nelle vene con violenza e i pensieri vorticare a mille all'ora nella sua mente, soprattutto quando vide l'espressione sconvolta e sorpresa di Catarina sul suo volto.

«A-ah, ma benvenuti, benvenuti entrate» si sbloccò Magnus dopo un attimo stampandosi in faccia un caloroso sorriso tutto denti. Poteva avvertire sulla pelle il disagio di Alec, la delusione per il momento sfumato e il panico per come avrebbero potuto ignorare quello che avevano appena vissuto. Perchè, anche se a conti fatti non era successo niente, Magnus sapeva che nessuno avrebbe mai potuto negare che per un lungo istante i due avevano condiviso qualcosa.

Ragnor, un alto ragazzo sulla trentina dai folti capelli già striati di grigio ma dall'aspetto giovanile e rilassato, non se lo fece ripetere due volte e andò a lasciare lo scatolo con la torta sul tavolo vicino mentre Raphael, torta alla mano, andò a depositare lo scatolo sul bancone della cucina. Catarina rimase ferma sul posto a dondolare sui talloni non sapendo bene come comportarsi, facendo passare lo sguardo fra Magnus ed Alec con fare attento, studiando silenziosamente la situazione.

Magnus la stava implorando con lo sguardo di smetterla.

«Datemi pure le giacche, le vado a mettere di là» disse Magnus sorridendo ai suoi ospiti e voltandosi, poi, verso Alexander, decisamente più agitato e teso di quanto avrebbe desiderato.

«Se vuoi..» stava già iniziando a dirgli, ma Alec andò subito a scuotere la testa come se la sola idea di rimanere fosse troppo da sopportare per lui.

«No. Non importa» disse schiarendosi la gola, deglutendo. «Volevo solo lasciarti... sai» disse umettandosi le labbra ed annuendo col capo.

«Sei sicuro? Non è un problema Alexander, davvero...» tentò di dire Magnus rimproverandosi subito dopo. Un conto era voler essere gentili ed educati cercando di non farlo sentire di troppo, un altro insistere per farlo rimanere in una situazione in cui, decisamente, non era il caso che rimanesse.

«Alexander?» domandò Ragnor con fare pensoso, aggrottando un attimo le sopracciglia con la giacca ora tenuta in mano.

Alec lo guardò come se temesse che da un momento all'altro Ragnor dovesse ridere di lui.

«Uh s-sì» azzardò con quello che Magnus sospettò fosse tutto il suo coraggio. «Ma mi chiamano tutti Alec»

«Alexander!» esclamò allora Ragnor come se non l'avesse affatto sentito, facendolo sobbalzare e portando lo stesso Magnus a fissarlo con fare sorpreso, non capendo da dove venisse fuori tutto quell'interesse per lui. Da parte di Ragnor, poi!

«Sei il ragazzo che si è preso uno dei cuccioli, vero?» chiese aprendosi in un gran sorriso e avvicinandosi ai due per tendere la mano libera verso Alec.

Alexander sembrò rilassarsi per un secondo al pensiero di Church e si sciolse in un sorriso gentile mentre allungava a sua volta il braccio per stringere la mano di Ragnor. «Oh, sì. Sono io» confermò Alec annuendo. «Grazie ancora per avermi permesso di occuparmene. Sono stati tutti contenti di accoglierlo in casa»

Ragnor agitò la mano in un cenno di non curanza.

«Oh non dirlo nemmeno! Grazie a te per essertene occupato piuttosto» sorrise ampiamente senza il minimo segno di disagio. «Piuttosto dimmi, come l'hai chiamato?»

«Church»

«Church»

Alec e Magnus si voltarono a guardarsi non appena realizzarono di aver risposto all'unisono, scatenando nella stanza un improvviso cambio d'umore.

Raphael roteò gli occhi al cielo con fare quasi rassegnato, scuotendo la testa, Ragnor ridacchiò appena con fare affettuosamente provocatorio e Catarina strinse le labbra costringendosi a mostrare un sorriso decisamente poco spontaneo.

Per la precaria calma di Alexander quella fu la goccia che fece traboccare il vaso, immaginò Magnus.

«Già. Io—io adesso devo andare» si congedò annuendo meccanicamente, nervosamente, stringendo i pugni lungo i fianchi convulsamente. «Ancora buon compleanno. Ci—ci vediamo giovedì» disse rapidamente prima di rivolgere uno sguardo educato ai presenti e andarsene ad ampie falcate fuori dall'appartamento.

Magnus liberò un sospiro sonoro quando la porta si richiuse sentendo la tensione trattenuta fino a quel momento scivolare leggermente via da sé. Gli era dispiaciuto vederlo così in difficoltà, vederlo andarsene via in quel modo, vederlo così a disagio in mezzo ai suoi amici. In altre circostanze era piuttosto sicuro che, invece, avrebbe potuto persino inserirsi bene in mezzo a quegli stralunati dei suoi compagni ma la circostanza era quella e tutto sembrava remare contro di loro. Lo sguardò scivolò sulla lettera fra le sue mani e una stilla di speranza brillò nel suo petto.

Forse non tutto era contro di loro...

«Su, forza! Datemi queste giacche, accomodatevi!» si riprese subito dopo con la consueta stravaganza, afferrando prima il soprabito di Ragnor che era il più vicino, poi quello di Raphael e voltandosi poi verso Catarina.

La ragazza però se lo tenne addosso richiudendoselo fino alla gola. «Ho dimenticato il borsone con le mie cose in macchina. Scendo a prenderlo e torno. Faccio subito! Tanto non è come se avessi vissuto qui per anni, no?» ridacchiò scoccandogli un occhiolino e uscendo dalla porta.

Magnus badò poco alla cosa e corse in camera da letto per poggiare le giacche sul guanciale, a poca distanza da dove Presidente era beatamente acciambellato sul suo cuscino. Si richiuse la porta della camera alle spalle poggiandosi di schiena contro l'anta per guardare con occhi carichi d'impazienza la lettera fra le sue mani.

 

*

 

«Alexander?»

Alec si sentiva la testa leggera al punto che da un momento all'altro avrebbe potuto spiccare il volo e galleggiare libera fra le nuvole perdendosi fra di esse.

Il cuore batteva forte nel suo petto scontrandosi dolorosamente contro la gabbia toracica: minacciava di uscirgli fuori dal costato e lasciargli nient'altro che un enorme foro nella carne. Non aveva immaginato che le cose sarebbero andate così. Affatto.

Quando Isabelle gli aveva chiesto se ci fosse qualcosa che Magnus avrebbe voluto, Alec aveva subito trovato la risposta ad ogni suo problema. Sapeva perfettamente cosa lui volesse. Beh, cosa volesse da lui, almeno.

Conoscerlo.

Sapere qualcosa in più su di lui.

Almeno questo era quello che Magnus gli aveva detto e che Alec, temeva, non gli aveva mai davvero concesso. Rispondere a qualche sporadica domanda non era esattamente la stessa cosa che vivere al fianco di qualcuno ogni giorno, per anni, così come quella lettera non poteva improvvisamente colmare tutto ciò che mancava fra loro e che potesse soddisfare il desiderio di Magnus di capirlo un po' meglio. Ma era un inizio, no?

Sapeva perfettamente che non sarebbe mai riuscito, di persona, a raccontargli molto di sé, per cui aveva pensato che forse avrebbe potuto provare a gettare giù qualche rigo su una semplice lettera. Quelle poche righe erano ben presto diventate pagine. Alec non era riuscito a smettere di scrivere una volta che aveva iniziato. Le parole fluivano dalla sua penna liberamente mentre lasciava modo ai suoi pensieri di venir intrappolati su carta. Tutto ciò che voleva Magnus sapesse di sé prendeva lentamente forma fino a quando non sentì di non avere molto altro da dire su di sé. Non era esattamente un regalo, ne era consapevole. Non era qualcosa di cui probabilmente Magnus avrebbe potuto parlare con i suoi amici se avesse dovuto parlare di ciò che aveva ricevuto per il suo compleanno, ma era qualcosa di sentito e di reale. Era qualcosa che, Alec sperava, lui avrebbe potuto davvero desiderare.

Tuttavia nella sua mente quell'incontro era andato molto diversamente da come poi era avvenuto davvero.

Lui si era figurato di arrivare al suo studio e di rubargli un attimo di tempo fra una visita e l'altra per consegnargli quella lettera e poi dileguarsi al volo così da non dover sostenere alcuna conversazione in merito. Ma quando era arrivato allo studio, questo era chiuso e neppue Lucy era presente. Così si era ritrovato per strada con la lettera in mano ed un profondo senso di delusione a riempirgli il petto. Senza rendersene conto aveva davvero sperato di poterlo vedere quel giorno, di potergli consegnare quello stupido pensiero.

Avrebbe potuto tornare a casa e attendere la seduta seguente per passargli la lettera, ma nel suo cuore sentiva che non avrebbe avuto lo stesso valore. Doveva essere quel giorno. Doveva essere adesso.

Così, armato di coraggio, aveva ripercorso la strada che una sola volta aveva seguito al fianco di Magnus ed aveva raggiunto casa sua. Aveva trovato il portone aperto ed era sgusciato all'interno fino a salire al piano col lungo corridoio che ospitava il suo appartamento. Col cuore in gola e una sensazione di disagio dovuta a quell'abbigliamento cui era poco abituato, si era fermato davanti la sua porta e, al sesto tentativo, aveva trovato la forza di suonare il campanello.

Quella che avrebbe dovuto essere solamente una rapida consegna, era divenuto un lungo attimo di imbarazzo. Magnus era semplicemente bellissimo. Alec era rimasto paralizzato alla vista della camicia rossa che definiva perfettamente la forma dei suoi fianchi e delle spalle ampie, era rimasto incantato dal modo in cui l'argento delle sue collane contrastava la pelle ambrata e la seta scarlatta. Ancor di più era rimasto rapito dal suo sguardo scintillante, dal modo in cui le sfumature rosse e nere del suo makeup avevano reso il suo sguardo ancor più affascinante del solito.

Non aveva avuto la forza di andarsene ritrovandoselo davanti così. Voleva rimanere con lui. Voleva rimanere ancora un attimo, ancora un momento.

Insieme potete superare e sopravvivere ogni cosa e nient'altro conta se non rimanere con lei un attimo ancora, uno di più...

Le parole di Jace avevano preso a rimbombare contro le sue tempie portandolo a sentire il cuore pulsare sempre più rapidamente, sempre più deciso nel suo petto. Alla fine lo aveva seguito all'interno, lo aveva osservato e l'aveva studiato. Se solo avesse teso la mano appena un po' avrebbe potuto toccarlo. E, Dio, quanto voleva farlo! Avrebbe voluto sfiorare i suoi capelli, passarci una mano attraverso per sapere se erano morbidi come sembravano. Avrebbe voluto passare il dorso della sua mano sulla pelle del suo volto fino a scivolare lungo il mento e ancor sotto, lungo il collo. Avrebbe voluto avvicinare il viso al suo per inspirare il suo odore, quel profumo che lo circondava ogni volta e che aveva quel qualcosa di esotico e pungente...

E poi, quasi a rendere realtà quei suoi desideri, la mano di Magnus era salita al suo viso in una carezza gentile. Alec si era abbandonato a quel contatto chiudendo gli occhi per assaporarlo con tutto se stesso, senza perdersene un attimo. Non avrebbe dovuto. Avrebbe dovuto andarsene, scappare e sfuggire da quella che era, a conti fatti, una storia senza futuro. A volte si soffermava a chiedersi se Magnus non provasse per lui le stesse cose o se invece non si comportasse soltanto con estrema gentilezza in virtù del suo ruolo di psicologo. Ma invariabilmente, ogni volta, Alec non si concedeva di arrivare ad una vera conclusione nelle sue riflessioni perchè stroncava quei pensieri sul nascere.

Che lui gli fosse indifferente oppure no non sarebbe cambiato nulla: non sarebbero mai potuti stare assieme.

Rimanere lì, sotto il tocco gentile della sua mano, era un errore.

Si stava concedendo di assaporare e conoscere il calore di un tocco che non avrebbe mai superato quei confini, si stava concedendo di conoscere la sensazione delle sue mani sul volto sapendo che presto avrebbe voluto di più senza poterlo avere. Era uno sbaglio. Si stava comportando da debole. Ma per una volta, una soltanto, non gli importava davvero. Lui voleva...

«Alexander!»

Il ragazzo si riscosse dai suoi pensieri fermando i propri passi una volta giunto, praticamente fuori dal portone del loft. Si voltò verso l'interno vedendo che la ragazza entrata nell'appartamento poco prima lo stava raggiungendo. Era una ragazza piuttosto alta dalla pelle chiara e i capelli scuri. Le punte erano sfumate di un azzurro brillante che sembrava quasi richiamare gli occhi dello stesso Alexander per tonalità. Aveva un viso ovale e grandi occhi blu che, Alec era quasi certo, dovevano attirare molti ragazzi.

«Uh-sì?» domandò lui, sorpreso, ruotando il corpo verso di lei che, intanto, si era fermata davanti al ragazzo. «Devi essere Catarina, vero?» azzardò lui con un sorriso gentile, leggermente storto.

La ragazza lo guardò negli occhi per un istante prima di sospirare. «E tu non dovresti saperlo»

Alec fu preso in contropiede da quella risposta e schiuse le labbra fissandolo con uno sguardo leggermente colpevole.

«Oh. Io... Mi—mi dispiace» mormorò lui abbassando lo sguardo.

Catarina si umettò le labbra, deglutendo.

«No. Non è colpa tua» disse lei cercando di essere meno dura di quanto fosse sembrata. «Mi dispiace di suonare così rigida ma Magnus è mio amico e non posso rimanere a guardare»

Alec si ritrovò a sollevare nuovamente lo sguardo per fissare la ragazza con fare perplesso, confuso.

«Cosa significa?»

«Significa che tu gli stai facendo del male. Significa che quello che è successo poco fa non sarebbe dovuto succedere. Significa che non dovresti conoscere il nome degli amici del tuo psicologo» disse Catarina con voce ferma guardandolo negli occhi.

Ad Alec sembrò di aver appena ricevuto una doccia fredda.

Tu gli stai facendo del male.

La osservò ad occhi sgranati, la chiara immagine del suo cuore in frantumi a trasparire dalle iridi azzurre. Non riusciva a mettere in ordine le idee preso così alla sprovvista da quella ragazza che gli stava sbattendo in faccia tutto quello che aveva continuato a ripetersi in mente per giorni, tutto quello che aveva sempre saputo e che non aveva mai voluto affrontare. Tutto quello che si era sempre rifiutato di dire ad alta voce perchè anche il solo pensiero faceva troppo male.

Non avrebbe mai potuto immaginare quanto ne avrebbe fatto, in realtà, nel sentire il tutto così chiaramente ad alta voce.

«Sono convinta che tu sia una brava persona, Alec, non fraintendermi. Non credo che tu voglia fargli del male, anzi. Più ti guardo e più sono sicura che tu tenga a lui e proprio per questo ti chiedo, per favore» rimarcò quelle ultime parole con tutta la disperazione che probabilmente aveva dentro «di lasciarlo andare.»

Alec non capiva. Era terribilmente confuso.

E ferito.

«Co--» La sua voce venne fuori in un soffio incrinato, la bocca era talmente secca che gli riusciva difficile persino parlare. «Perchè?» riprovò deglutendo a vuoto l'amaro groppo che gli si era formato in gola.

«Perchè è troppo coinvolto. E non dovrebbe.» rispose lei passando il peso del suo corpo da un piede all'altro, i denti a racchiudere il labbro inferiore in una morsa nervosa. «Non è quello che fai, okay? E' quello che... che sei. Tu hai sbloccato qualcosa con cui ha lottato per tanto tempo e ho paura che questa cosa lo divorerà. Di nuovo.»

Alec sentì un dolore perforante al centro esatto del petto.

Sentì una contrazione dolorosa ed una fitta acuta che per poco non gli strapparono un gemito di dolore dalle labbra. E poi più nulla. Si sentì vuoto e leggero come se ogni cosa che avesse albergato in lui fino a quel momento gli fosse stato strappato via con la forza lasciando di lui solamente un involucro vuoto.

E' quello che sei.

Come aveva potuto essere così stupido? Come poteva aver davvero lasciato che le cose arrivassero fino a questo punto? Sapeva, sapeva, che non era nel suo destino trovare la felicità. Non la meritava, non aveva diritto neppure a guardarla da lontano. Se l'era ripetuto per anni e poi aveva accarezzato l'idea di poterne prendere anche solo un piccolo assaggio. Aveva accarezzato l'idea di poter rimanere al fianco di Magnus, in qualche modo, lasciandosi avvolgere dal senso di pace che la sua sola presenza era capace di trasmettergli. Si era abbandonato all'illusione di poter gestire i suoi sentimenti tenendoli nascosti e attendendo che, col tempo svanissero o lo facessero diventare pazzo.
Pazzo al pensiero di non poter mai toccare davvero la sua pelle, pazzo al pensiero di non poter mai davvero stare con lui. Pazzo al pensiero che, un giorno, le loro sedute sarebbero finite e così qualsiasi altro tipo di rapporto fosse nato fra loro.

Fino a quel momento si era preoccupato solamente di se stesso.

Di come avrebbero reagito gli altri se avessero scoperto quello che lui provava, di come si sentiva, di quello che aveva o non aveva voglia di dire e rivelare. Non aveva mai pensato davvero a ciò che invece stava facendo a lui. Magnus stava male. Lui lo stava ferendo.

E non se n'era neppure accorto.

Se fosse stato capace di piangere, probabilmente in quel momento lo avrebbe fatto. Ma sembrava che Alec non fosse fisicamente portato a farlo e l'unica cosa che sentì fu il dolore sordo e profondo del suo cuore che si frantumava in miriadi di schegge.

Non riuscì a dire una parola.

«Magnus è una brava persona. Lui... lui vuole sempre salvare il mondo e poco importa se dovesse finire schiacciato nel mentre. E' fatto così. E' facile da amare ed è difficile lasciarlo andare. Ma se davvero t'importa di lui, se davvero tieni al suo benessere...» Catarina si avvicinò di un altro passo poggiando con espressione mortificata una mano sul braccio di Alec, la sua voce ricolma di colpa e dolore mentre pronunciava quelle ultime parole. «...liberalo da te»

Alec schiuse le labbra e sentì che quella conversazione era appena finita.

Cosa avrebbe potuto dirle?

Cosa avrebbe potuto ribattere?

Sapeva che lui era una sventura per chi aveva attorno, che era solo capace di ferire le persone che amava. Lo aveva sempre saputo, fin dall'inizio e nonostante tutto non era stato capace di fermare tutta quella situazione. Ed ora, in qualche modo, lo aveva ferito.

Si ritrovò ad indietreggiare col cuore a pezzi e i polmoni a bruciare alla ricerca d'aria. Non riusciva ad inspirare, non riusciva a fare altro che non fosse allontanarsi da lei e da quel palazzo barcollando nel buio della sera.

Si allontanò dando le spalle a Catarina, dando le spalle al loft.

Dando le spalle a Magnus.

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Capitolo 13
*** Liberazione ***


Penserai che sono matto.

Probabilmente lo sono.

Non importa.

Non sono mai stato molto bravo nel fare i regali, in realtà non sono mai stato il tipo che amasse farli. Mi piace prendermi cura delle persone a cui tengo, esserci per loro, ma regalare qualcosa... è sempre stato qualcosa nel quale sono negato. Beh te ne sarai appena accorto, immagino.

Ma nonostante tutto volevo fare qualcosa per te, oggi.

Volevo fare qualcosa per il tuo compleanno.

Non ci conosciamo molto, per assurdo potremmo dire che non ci conosciamo affatto, per cui non sapevo cosa avrebbe potuto farti piacere ricevere; ho chiesto consiglio a mia sorella e le sue parole mi hanno fatto pensare che, magari, questo poteva essere un buon regalo per te.

Poco tempo fa hai detto che volevi conoscermi. Mi hai chiesto di aiutarti a capirmi.

Bene.

Eccomi qui. Nero su bianco.

Non so perchè voglio darti questa lettera, se devo essere totalmente onesto, ma sento di volerlo fare. Sento che, se c'è una sola persona al mondo alla quale sento che potrei finire con il parlare davvero, quella sei tu. Tu... sei diverso.

Per tutta la vita mi sono sentito sotto controllo anche se non in un senso totalmente negativo. I miei genitori si sono sempre aspettati molto da me perchè sono il figlio maggiore, avevano molte speranze per me ed io ho cercato di non deluderli. Ci ho provato davvero. Ma a volte è come se qualunque cosa faccia non è mai abbastanza.

E' come se questo mio aver sempre cercato di compiacerli fosse divenuto una condanna, come se per loro fosse impensabile che io possa avere desideri miei, sogni miei, gusti miei... Ed ogni volta che cerco di uscire dagli schemi che hanno organizzato per me mi sento quasi in fallo. Ho iniziato ad abituarmi a questa sensazione, ogni giorno.

Ma con te è diverso.

Non hai mai cercato di dirmi cosa dovessi fare, cosa volessi che io facessi. Mi hai sempre offerto una scelta, mi hai sempre spinto a fare quello che io desideravo fare. Mi hai fatto sentire libero. Per una breve ora, durante le nostre sedute, mi sento in pace. E per questo ti ringrazio. E lo so che deve essere snervante per te avere a che fare con me e per questo mi dispiace. Perchè sono noioso e assolutamente ordinario e non sono capace a stare con la gente. Mi riesce difficile parlare e odio dover mostrare quello che sento dentro, qualcosa che per qualcuno come te dev'essere un bel problema. Mi dispiace. Ma... credo che stiamo facendo progressi, vero?

Sì, che sciocco, lo hai detto anche tu l'altro giorno.

E mi rendo conto solo ora che invece di farti scoprire qualcosa su di me sto divagando terribilmente. Oddio. Più che una lettera sembra una pagina di diario. Questo regalo è un disastro. Ma te l'ho detto che non sono capace a parlare con la gente. Nemmeno a scrivere. E' proprio il concetto di rapporto sociale che non va molto d'accordo con me. Scusami.

E mi sento uno stupido ma sono sicuro che in questo momento starai ridendo di quanto sono imbranato, sono sicuro che diresti che devo smetterla di scusarmi, che va bene così, perchè è quello che fai: quando le cose non vanno riesci a farle andare bene lo stesso. E se mi sento perso o confuso o disorientato mi dai una strada da seguire. E io non lo so questa strada dove possa portare, non lo so se sarò in grado di seguirla fino alla fine, se riuscirò a fare i conti con me stesso alla fine di questo viaggio, ma so che ci sto provando. Ci sto provando davvero. Ed è merito tuo.

Non sono mai stato un sognatore. Non mi è mai piaciuto credere davvero nelle cose perchè sono convinto che i nostri desideri siano alla base tutte illusioni fino a quando non riesci a realizzarli e Dio solo sa quanto male può fare una illusione. Credo di poter dire di aver paura di sognare.

Paura di desiderare qualcosa al punto da non sopportare l'idea di non poterla avere.

Ho paura di rimanere deluso, di rimanere con la mano tesa verso un obiettivo troppo distante.

Questo fa di me un codardo?

Mi è sempre piaciuto credere di essere solo una persona cauta, coi piedi per terra. Ma forse era solo un modo gentile per dire la stessa cosa. Chissà?

La verità è che da qualche giorno, nonostante tutto, ho iniziato a credere che forse le cose possano andare meglio davvero. Ho iniziato a credere che forse non è solamente una illusione, forse si tratta solamente di un progetto a lungo termine. E'... una cosa nuova per me. Non so bene come comportarmi nei riguardi di questa idea. No. Di questa speranza. Ma ci sto provando. Grazie a te.

Mi rendo conto adesso di non sapere bene cosa potrei farti conoscere di me.

Non c'è molto da sapere.

Non c'è nulla di interessante da scoprire.

E' tutto qui.

Io sono... tutto qui. E sono sempre più convinto che questa lettera non dovrebbe arrivarti, che è una sciocchezza, che non servirà a nulla. Ma... so anche che non riuscirò mai a dire tutte queste cose guardandoti in faccia, con la forza della mia voce. E so che in qualche modo voglio che tu le sappia.

Voglio riuscire a ringraziarti.

Voglio riuscire a farti sapere che cambi delle vite. E le cambi davvero. E che le persone lo sanno.

Io lo so. Non che questo conti chissà che.

Quindi... sì. Penso che te la darò lo stesso.

E penso che poi me ne pentirò.

E penso di non avere idea di come concludere una lettera. Realizzo solo ora che è la prima volta che ne scrivo una, quindi penso che la finirò qui e basta.

 

Buon compleanno, Magnus.

E grazie.

 

 

Alexander

 

 

Il cuore di Magnus stava battendo all'impazzata nel suo petto mentre i suoi occhi correvano su e giù per quella lettera.

Non aveva potuto attendere, non aveva potuto aspettare.

Non appena si era chiuso la porta alle spalle aveva dovuto aprire quella busta. Poco importava che Ragnor e Raphael fossero nell'altra stanza, lo avrebbero atteso per un po'.

Più leggeva quelle righe più sentiva qualcosa esplodere dentro, il suo cuore contrarsi deliziosamente in strette calde, leggere, che inviavano piccole dolcissime scariche sottopelle. Sentiva un calore travolgente permearlo dall'interno, riempirlo, riverberarsi dal centro del suo petto fino alla punta dei capelli. Più andava avanti nella lettura più le ginocchia gli si facevano molli e deboli.

Gli sembrava di poter vedere il viso di Alexander sotto gli occhi mentre scriveva quelle parole, mentre arrossiva e si scompigliava i capelli nervosamente per timore di star sbagliando qualcosa. Il suo sguardo s'intenerì mentre una nuova speranza nasceva prepotentemente ed incontrollata nel suo cuore. Con tutto se stesso stava cercando di non illudersi, di dirsi che Alexander voleva solo essere gentile e che non nascondeva niente di più dietro quelle parole se non dei semplici ringraziamenti nei riguardi del suo terapeuta; ma quella piccola vocina veniva sovrastata da urla e canti di giubilo ogni volta che Alexander sottolineava come per lui Magnus fosse diverso dagli altri, come fosse capace di farlo sentire meglio, di farlo sentire libero. Poteva rivedere nelle sue parole le sue stesse sensazioni e non poteva fare a meno di credere... di sperare...

E poi quelle ultime parole.

Magnus.

Era la prima volta che lo chiamava per nome. La prima volta che lo diceva chiaramente, apertamente, suscitando nell'altro il desiderio sfacciato di voler sentire il proprio nome uscire dalle sue labbra. Come sarebbe suonato con la sua voce? Che effetto gli avrebbe fatto sentirlo chiamare per nome? Il solo immaginarlo gli provocò un brivido spontaneo lungo la schiena.

Magnus si strinse la lettera contro il cuore sentendo il battito accelerare violentemente. Si sentiva stordito, leggero, ubriaco di felicità.

Cercava di imporsi di non illudersi ma la verità era che una ondata di speranza lo aveva appena travolto. Poteva davvero credere che Alexander lo considerasse solo un medico? Poteva davvero credere, dopo tutto questo, che non ci fosse possibilità che lui l'avrebbe voluto al suo fianco al di fuori del suo ruolo? Forse... Forse Catarina aveva ragione. Forse poteva davvero osare interrompere le loro sedute per limitarsi a rimanere al suo fianco come Magnus. Avrebbe potuto aiutarlo comunque, avrebbe potuto farlo come amico oppure come...

Il cuore si contrasse un'altra volta al sol pensiero con una scarica di paura.

Okay, forse era meglio andare per gradi. Forse ora stava sognando troppo.

Decise che quella sera l'avrebbe riletta prima di andare a dormire per assicurarsi che non fosse solo un sogno e si impose di tornare nell'altra stanza per non essere scortese coi suoi amici. Per la prima volta in vita sua avrebbe voluto mandarli via per rimanere da solo con quella lettera. Ma non lo avrebbe mai fatto, non importa quanto emozionato fosse all'idea di poter stringere a sé quelle parole.

Rimise il foglio nella busta e la ripose in un cassetto al sicuro da qualsiasi minaccia. Inspirando a fondo per calmarsi attese qualche attimo per lasciar svanire il probabile rossore sulle sue guance e stabilizzare il battito cardiaco prima di uscire dalla sua camera e tornare nell'altra stanza praticamente volando a mezzo metro da terra.

Ragnor e Raphael erano intenti ad intrattenere il Presidente Meow.

O meglio, Presidente cercava le coccole di Raphael che, infastidito da lui era nascosto dietro Ragnor che invece non riusciva ad afferrare Presidente.

«Davvero Raphael questa cosa non ha senso» osservò Ragnor rialzandosi in piedi con le mani sui fianchi e l'espressione stralunata, i brillanti occhi scuri ad osservare il piccolo micio bianco e grigio di Magnus che annusava le gambe dell'amico. «Non ho mai conosciuto nessuno che schivasse gli animali più di te e al tempo stesso li attirasse in questo modo»

«Che culo...» brontolò Raphael con la solita espressione seccata incrociando le braccia al petto.

I due si accorsero in quel momento della presenza di Magnus che, allegramente, si accucciò al fianco di Presidente e lo tirò su, abbracciandolo al petto e carezzandolo dietro le orecchie con l'espressione più sognante e felice che i due gli avessero visto in volto in molti, molti anni.

«Raphael, modera il linguaggio davanti a Presidente. Non vogliamo mica che si offenda, vero?» disse avvicinando il viso all'animale per strofinare il proprio naso a quello di lui che, per tutta risposta, arricciò il muso e si allontanò soffiando appena, infastidito, ma senza cercare di scendere dalle sue braccia.

Raphael e Ragnor si scambiarono una occhiata ricca di sottintesi prima di tornare ad osservare l'amico.

«Okay. O nella tua stanza ti sei tirato qualche droga pesante oppure è successo qualcosa con il ragazzo che è uscito di qui poco fa...» osservò Ragnor assottigliando appena lo sguardo con un mezzo sospiro, come se avesse visto e rivisto quella scena un milione di volte.

Raphael si lasciò cadere su di una poltrona sbuffando.

«Non glielo chiedere, per carità di Dio. Potrebbe parlarcene!»

Ragnor ridacchiò a mezza voce mentre Magnus gli dedicò una linguaccia falsamente offesa.

«E invece no» ribattè Magnus lasciandosi cadere a sua volta su uno dei divani in mezzo alla stanza, le gambe ad accavallarsi con un unico fluido movimento e Presidente ad acciambellarsi sulle sue cosce con fare rilassato. «Non c'è niente di cui parlare»

Catarina uscì in quel momento dalla sua stanza dove doveva aver sistemato il borsone con le sue cose per la notte, chiudendosi la camera alle spalle, passandosi una mano fra i capelli. Aveva un'espressione strana in volto, sembrava come se fosse pronta a vomitare da un momento all'altro.

«Di che state parlando?» domandò cercando di mettere su uno dei suoi sorrisi.

«Niente»

«Del ragazzo di Magnus»

Magnus e Raphael risposero all'unisono portando il silenzio a cadere per un attimo nella stanza, denso ed elettrico. Magnus portò lo sguardo -colpevole- su Catarina la quale sbattè le palpebre schiudendo le labbra con fare confuso, lo sguardo ad assottigliarsi appena.

«Ragazzo?» ripetè guardando ora Magnus.

«Sai il bel bocconcino che è uscito di qui poco fa? Alto, magro, capelli neri» disse Ragnor servendosi da bere con fare divertito. «Se l'abbiamo notato noi, devi averlo notato per forza anche tu»

Catarina strinse la mascella con fare rigido deglutendo e Magnus sapeva che stava cercando con tutta se stessa di rimanere calma e di non mostrare agli altri che sapeva molto più di quanto loro non immaginassero.

La ragazza allora liberò una piccola risata andando a lasciarsi cadere sul divano accanto a Magnus, una gamba piegata sotto il corpo un gomito a puntellarsi sullo schienale del divano mentre si reggeva il viso con la testa.

«Ma è ridicolo» disse fingendo naturalezza. «E' un suo paziente» disse come se la sola cosa potesse mettere fine all'argomento. E, effettivamente, in teoria era così che sarebbe dovuta andare.

Magnus deglutì silenziosamente fermando la mano che stava carezzando Presidente avvertendo un vago senso di fastidio riempirlo dall'interno.

Ragnor poggiò il bicchiere sul tavolo e mise su una espressione pensosa.

«Uhm. Effettivamente non ci avevo pensato» osservò con una mano sul mento. «Per quanto senza vergogna, non ha mai allungato le mani sui pazienti prima...»

«Vorrei vedere» commentò lei rivolgendo uno sguardo carico di sottintesi verso Magnus che, a sua volta, ricambiò con uno palesemente irritato.

«Okay, fantastico, ma pensavo che oggi foste venuti qui per festeggiare il mio compleanno, non per torturarmi» disse d'un tratto cercando di chiudere all'istante la conversazione.

Raphael, dalla sua poltrona si lasciò sfuggire una risatina roca. «Ogni occasione è buona per torturarti un po'»

Catarina e Ragnor risero lanciandosi in un revival di ricordi che avevano per protagonista lo stesso Magnus. Parlarono di vecchie feste di compleanno, del periodo in cui avevano vissuto tutti sullo stesso pianerottolo, delle serate passate assieme, delle liti, i guai, le risate. Rimembrarono figuracce e successi di ognuno di loro senza mai mancare di sfottere e provocare lo sventurato di turno perchè in feste come quelle non poteva mai mancare una bella dose d'imbarazzo.

Per lo più, ovviamente, si concentrarono su vicende che avevano Magnus per protagonista essendo lui al centro dell'attenzione per quella serata.

E se ad un occhio esterno potesse apparire come un modo innocente di scherzare, per chi li conosceva un po' meglio quello non era altro che un modo per celebrare, tutti assieme, gli anni che avevano trascorso l'uno accanto all'altra. Tutti quegli anni passati a ridere, giocare, sfottersi e cacciarsi anche in grossi guai. Anni passati da amici, da fratelli, senza mai perdersi di vista e allontanarsi. Anni passati immersi nei soliti problemi della vita, ma che erano un po' più semplici da sopportare quando non dovevi sopportarli da solo. E nessuno di loro, da quando si erano conosciuti, aveva mai dovuto occuparsi di niente da sé.

Tutti erano sempre, immancabilmente pronti a dare una mano.

Si dice che gli amici sono la famiglia che ti scegli e Magnus non avrebbe mai potuto trovare una definizione migliore per quel piccolo gruppetto di gente che, in quel momento, si stava litigando l'ultima fetta di pizza mentre lui era dietro al bancone della cucina a prendere altre birre dal frigo. Si fermò un istante soltanto, con le bottiglie fra le mani, ad osservare la scena nel suo soggiorno. Catarina e Ragnor si stavano litigando l'ultimo trancio di pizza al pomodoro mentre Raphael, in silenzio, gliel'aveva già fregata da sotto al naso e se la stava beatamente gustando al suo posto in mezzo ai due seduti l'uno di fronte all'altra. Magnus già sapeva che nell'esatto istante in cui si fossero accorti della fetta scomparsa avrebbero unito le forze per prendersela con lui, ma ormai a quel punto la pizza sarebbe già stata digerita. La scena gli trasmise un calore incredibile. Casa sua aveva preso ad essere piuttosto silenziosa ormai ed era in qualche modo triste per lui tornare ogni giorno al loft sapendo che non avrebbe trovato nessuno a salutarlo una volta in casa. Nessuno dotato di parola, almeno. Sentire tutte quelle voci, quelle risate e quell'allegria lo riempì di tenerezza.

Ma sentiva che mancava qualcosa.

Una parte di lui, ingenuamente, continuava a pensare a quella lettera.

Se Alexander fosse stato lì, come si sarebbe inserito nella scena?

Avrebbe riso del gesto di Raphael, probabilmente, oppure avrebbe cercato di risolvere la questione ordinando un'altra pizza al pomodoro. Probabilmente avrebbe fatto qualcosa per far sì che alla fine fossero rimasti tutti contenti.

Ma ad una parte di Magnus piaceva immaginarlo proprio lì, al suo fianco. In piedi alle sue spalle con le braccia avvolte attorno al suo addome e il viso poggiato sulla sua spalla, lasciandogli un bacio sulla guancia. Una stretta dolce, rassicurante, atta a tenere insieme tutti i pezzi che componevano quello che oggi era Magnus. Un mosaico di ricordi ed esperienze incollate l'un l'altra con forza di volontà e tenacia.

Alexander sarebbe potuto perfettamente essere l'oro liquido versato nelle crepe fra i minuscoli frammenti di quel mosaico, il collante che avrebbe tenuto tutto insieme rendendo il risultato finale ancora più prezioso. Improvvisamente sentì una fitta di tristezza nel rendersi conto che Alexander non era lì.

 

*

 

«E' stata una bella festa, non è vero?» mormorò Magnus seduto sul divano reggendo un bicchiere di vino rosso, la camicia leggermente sbottonata per via del calore che sentiva dentro. Avevano bevuto abbastanza quella sera e si erano divertiti come succedeva sempre.

Catarina sorrise con fare malinconico seduta accanto a lui sul divano, le ginocchia tirate al petto ed il viso poggiato su di esse, il capo rivolto verso di lui. «Sì, lo è stata» confermò a bassa voce.

Ragnor e Raphael se n'erano andati da poco e Magnus e Catarina si erano messi a ripulire la stanza buttando i cartoni della pizza e i sacchetti degli stuzzichini ormai vuoti nell'immondizia, assieme alle bottiglie di birra finite e i piatti di plastica dove avevano consumato la torta.

Avevano dato una sistemata prima di abbandonarsi con calma sul divano, stanchi, sentendo gravare nel silenzio della stanza l'argomento che -adesso- nessuno dei due voleva tirar fuori.

Si guardarono negli occhi ben sapendo cosa entrambi stavano pensando.

Nessuno dei due voleva essere il primo a spezzare quel silenzio, ma sapevano che prima o poi -in qualche modo- avrebbero dovuto affrontare la cosa.

Catarina schiuse le labbra con fare incerto. «Magnus...»

Il ragazzo mise su un sorriso triste, l'espressione stanca.

«Lo so.» disse a bassa voce osservando il bicchiere fra le sue mani, lo stelo lungo e stretto a scivolare in mezzo l'indice e il medio, il vino a roteare lentamente sbattendo contro i confini del cristallo. «So cosa vuoi dirmi Cat. E' tutto il giorno che ci penso» disse con lo sguardo basso e la voce esausta.

«E alla fine ho pensato che forse avevi ragione, sai?»

Il viso di Catarina si alzò di colpo dalle ginocchia, totalmente presa alla sprovvista da quelle parole.

«Sì?» domandò, cauta ed incredula, sbattendo le lunghe ciglia.

Magnus annuì.

«Sì. Insomma... forse penso troppo sulle cose. Forse è tutto più semplice di quanto non pensassi...» disse Magnus stringendosi nelle spalle, mordendosi il labbro inferiore con fare pacato.

Alla luce di quella serata, dopo gli eventi di quel giorno e il ricordo ancora fresco delle parole di quella lettera nel cuore, gli sembrava semplicemente assurdo il pensiero che fino a quella mattina si sentisse così confuso e turbato su ciò che stava accadendo fra loro. Qualunque cosa stesse effettivamente accadendo fra loro.

«Cosa intendi dire?» domandò lei ancora più confusa.

Magnus inspirò a fondo e rialzò solo in quel momento lo sguardo.

«Ero convinto di non poter lasciare il mio ruolo di psicologo per lui perchè non mi avrebbe voluto al suo fianco in altri modi ma ora credo... sì, insomma, credo che potrei aver sbagliato. Credo che potrei avere una possibilità con lui» ammise Magnus incurvando dolcemente verso l'alto gli angoli della bocca in un sorriso ripieno di speranza e calore.

Dopo averlo visto giungere fin lì solo per dargli un regalo, dopo aver visto il modo in cui si era abbandonato a quella sua carezza, dopo aver letto quelle parole gelosamente custodite nel cassetto in camera sua, come poteva ancora credere che, davvero, Alexander lo vedesse solo come il suo terapeuta? Come poteva impedirsi di credere che, se solo avesse colto l'occasione di rischiare, magari questa volta sarebbe potuto essere felice davvero? Era una possibilità spaventosa per lui. Era sempre stato convinto che nessuno al mondo avrebbe potuto amarlo davvero e poi si era illuso quando aveva conosciuto Camille. Era una donna bellissima, elegante, forte e lui aveva trovato in lei la felicità per un breve periodo. Accecato dal suo amore per lei non si era accorto di quanto lei non lo amasse allo stesso modo fino a quando le di lei mancanze non erano divenute troppo evidenti e la sua noia l'aveva portato a mollarlo con una rapida conversazione molto fredda ed una breve scrollata di spalle.

L'aveva lasciato con una scrollata di spalle.

La cosa ebbe l'effetto di una pugnalata per lui che immediatamente ritornò a rinchiudersi in se stesso e a crogiolarsi nella convinzione di partenza che nessuno avrebbe potuto mai davvero amare uno come lui. Si era ripromesso di non crederci più, di non sperarci neppure, perchè essere smentito ogni volta faceva sempre più male e sapeva che prima o poi sarebbe giunto il giorno in cui non avrebbe potuto più gestire quel tipo di dolore spezzafiato. E poi era arrivato Alexander. Era arrivato lui e la speranza, poco a poco, si era riaccesa nonostante i mille e più tentativi da parte sua di tenerla a bada, di fornire spiegazioni logiche secondo le quali l'altro non vedeva in lui nient'altro che il suo mestiere. E poi... la lettera. Leggere di come lui stesso soffrisse della stessa paura aveva annientato ogni resistenza che aveva tentato -vanamente, di tenere alta fino a quel momento. Non c'era modo per trattenersi dal provare qualcosa per lui, non c'era modo di tornare indietro. Era fatta e forse, solo forse, questa volta non ne sarebbe uscito distrutto.

Catarina schiuse le labbra nel sentire quelle parole e le sembrò quasi di aver appena ricevuto una doccia fredda. Nei suoi occhi si poteva vedere il panico, il turbamento e Magnus cercò subito di fermarla prima che potesse, in qualche modo, lasciare che quella serata si concludesse fra pianti e tormenti.

Si allungò verso di lei e poggiò un dito sulle sue labbra per impedirle di dire qualsiasi cosa. Le sorrise con candore poggiando il bicchiere sul basso tavolino da caffè al suo fianco. «Sh» sorrise lasciando scivolare via il dito dalle sue labbra e carezzando il suo volto con la stessa dolcezza che aveva riservato ad Alexander solo poche ore prima.

«Lo so. So che sei preoccupata per me e so che secondo te mi sto facendo del male. So che... tutto questo non è da me. Lo so» disse Magnus inspirando e guardandola negli occhi. «Ma non posso tirarmi indietro. Non più. E se c'è anche solo una piccola possibilità che questa volta le cose possano andare bene.. io voglio rischiare. Alexander non è Camille, non è come nessuno di quelli che ho incontrato prima. Lui è speciale. E voglio fare per lui tutto ciò che posso perchè è tutto quel che merita. Che qualcuno faccia il possibile per lui»

Catarina aveva su un'espressione turbata e ferita come mai gliene aveva viste in viso.

Sembrava che da un momento all'altro potesse scoppiare in lacrime, che ci fosse qualcosa incastrato nella sua gola nel modo in cui boccheggiava senza riuscire a parlare.

«Ma tu...»

«A me va bene così. Non chiedo niente in cambio, non voglio niente in cambio. Non ne ho bisogno» la rassicurò lui sorridendo, cercando di trasmetterle la sua stessa calma con quel gesto.

Catarina risucchiò dell'aria e deglutì a fondo con difficoltà. «Magnus io devo--»

«Calmarti» concluse Magnus con un occhiolino ed un pizzicotto sulla sua guancia. «Sono davvero felice che tu voglia prenderti cura di me, Catarina. Sapere quanto tenga a me mi rende davvero felice. Ma devo fare le mie scelte e questa volta... questa volta credo di essere sicuro. Voglio provare» disse lui gonfiando il petto e sentendosi improvvisamente ricolmo di un brivido elettrizzante, quella deliziosa scossa che bruciava sottopelle quando si era impazienti di fare qualcosa. «Perciò adesso mi fai un bel sorriso e andiamo a dormire, mh? Come regalo di compleanno?»

La ragazza si sentì sprofondare ed investire da una ondata di sensazioni contrastanti.

Avrebbe voluto dirgli mille cose, avrebbe voluto dirgli quello che era successo, quello che aveva fatto, ma il sorriso che lui ora le stava mostrando le impedì di fare ognuna di quelle cose. Non lo aveva visto così speranzoso da una vita e pensare di strappargli dal viso quell'espressione sapendo di essere la causa della sua tristezza le tolse il respiro. Non poteva... non ce la faceva.

Una lacrima scivolò fuori dall'occhio sinistro percorrendone il viso, la gota, fino a cadere sulla sua coscia. I suoi occhi si riempirono di lacrime di fuoco mentre le labbra le tremarono forte.

Magnus sgranò gli occhi sentendo una fitta di dolore nel vedere la sua amica in quelle condizioni.

«Cat... tesoro mio, cosa succede?» le domandò, preoccupato, allungandosi verso di lei e stringendola forte in un abbraccio avvolgente, protettivo, la man destra a compiere dei movimenti circolari sulla sua schiena per tentare di placare la di lei sofferenza.

Catarina avvertì quel gesto con la forza di uno schiaffo.

«Magnus... i—io...» singhiozzò contro la sua spalla, lasciandosi andare ad un pianto colpevole. «Mi dispiace...»

Magnus le carezzò i capelli stringendola con dolcezza improvvisamente preoccupato.

Stralunato, confuso, non riusciva a capire il motivo per cui la sua amica si comportasse a quel modo. In nessun modo avrebbe mai potuto immaginare cosa stava logorando la ragazza dall'interno fino a ridurla in quello stato.

«Per cosa? Che succede?» le domandò lui col suo tono rassicurante e morbido, quello che usava ogni volta che Cat era giù e aveva bisogno che, per una volta, ci fosse qualcun altro ad essere forte per lei. «Puoi dirmi tutto, lo sai»

Ma ogni gentilezza che Magnus le rivolgeva scatenava un nuovo singhiozzo, apriva una nuova ferita nel di lei petto. Cosa aveva fatto?

«Tu... tu lo sai che sei un fratello per me, vero?» disse lei scostandosi dal suo abbraccio e guardandolo negli occhi, le lacrime a fluire colpevoli lungo il viso mentre tirava su col naso e cercava di frenare l'eccesso di singhiozzi e rantoli. «Sai che l'unica cosa che voglio al mondo è la tua felicità, vero? La tua sicurezza»

Magnus aggrottò le sopracciglia guardandola stranito. Un brivido freddo gli percorse le braccia mentre una sensazione spiacevole si annidava nel fondo del suo stomaco. Temeva l'idea di affrontare quel discorso, avrebbe voluto allontanarsi e non sentire quello che -sapeva- stava per arrivare. Ma era come paralizzato.

«Cat.» La sua voce, ora, era come raggelata. «Cos'hai fatto?»

La ragazza deglutì e liberò un respiro tremante.

«Ho parlato con Alexander» ammise in un soffio fragile e basso, un suono talmente lieve che sarebbe bastato un respiro a coprirne la sostanza.

Magnus sentì qualcosa rompersi dentro di sé, una paura senza nome farsi largo nel suo petto diramandosi lungo tutto il corpo come falangi di ghiaccio a stringere e contorcere ogni singolo nervo presente sottopelle.

«Cos'hai fatto...» La sua voce venne fuori in un respiro rotto, l'incredulità ad impedirgli persino di realizzare davvero cosa stava succedendo. Sentiva la testa leggera, ogni pensiero sfuggiva al suo tentativo di aggrapparsi a qualcosa. Sentiva che qualcosa di irreparabile era avvenuta ma non riusciva razionalmente ad accettarlo. Non quando fino a pochi istanti prima era così ricolmo di speranza, non fino a quando aveva ancora marchiate a fuoco nella mente le parole di quella lettera che adesso avrebbe voluto stringere forte al cuore per riuscire di nuovo a respirare.

Catarina stava tremando, le braccia di Magnus avevano lasciato la presa scivolando come morte lungo i suoi fianchi.

«Gli ho chiesto di lasciarti andare.» rivelò lei senza osare guardarlo in faccia, il viso pallido fino ad essere quasi grigio, le lacrime a scintillare negllo sguardo mentre la voce tremava impaurita. «Gli ho chiesto di farlo se... se tiene a te. Stasera volevo parlare con te... volevo farti capire... ma poi vi ho visti lì e—e ho capito che non saresti tornato indietro! Dovevo f—»

Magnus si alzò in piedi di scatto, tremante, fissandola con orrore, gli occhi sgrandi di sorpresa e lucidi di lacrime trattenute. «Come hai potuto?!» tuonò livido di rabbia, sconvolto, semplicemente incredulo per quanto aveva appena sentito. Inconsciamente non poteva ancora davvero credere che Catarina gli stesse dicendo la verità, non poteva accettare il fatto che la sua migliore amica, sua sorella, avesse potuto fare una cosa del genere alle sue spalle.

«Cosa ti è saltato in mente?! Parlargli senza neanche aver prima parlato con me? Senza neanche CONOSCERLO, per Dio!» La sua voce si fece forte, alta, quasi un grido. Era la prima volta che gridava così contro di lei, la prima volta che provava autentica rabbia nei suoi riguardi. La prima volta che avevano un reale litigio. Magnus la guardò come se fosse un'estranea perchè, in quel momento, chiunque ci fosse sotto i suoi occhi non corrispondeva alla sua Catarina. Non poteva semplicemente credere che avesse potuto fare una cosa simile, lei che non l'avrebbe mai ferito... gli aveva appena spezzato il cuore. «Hai idea di quello che hai fatto?!»

Catarina si alzò a sua volta dal divano guardandolo con fare disperato, le braccia larghe a gesticolare ampiamente ed in modo spontaneo e involontario.

«Ho cercato di aiutarti!» esclamò lei con disperazione, la sincerità a brillare bruciante nel suo sguardo rendendo tutto ancora più difficile agli occhi di Magnus. Sentiva la bocca secca, un saporaccio di bile risalirgli la gola come acido e lo stomaco chiuso. Sentiva un freddo interno riverberarsi per tutto il corpo come se il sangue nelle sue venne si fosse cristallizzato, le gambe deboli e al tempo stesso pesanti come piombo. La guardava stralunato, iniziando a sperare di aver bevuto troppo vino e di star capendo tutto terribilmente male.

«Magnus non vedi cosa sta succedendo? Quando hai iniziato a fare questo lavoro avevi detto che volevi fare del bene. Avevi detto che volevi riscattare le tue colpe dedicando la tua vita a salvare gente nell'unico modo che conoscevi. Avevi detto che sarebbe stato perfetto visto quanto sembrassi incapace di legarti davvero a chiunque, così non saresti rimasto coinvolto da loro. Ma quel ragazzo... quel ragazzo ti ha stregato!» esclamò lei tirando su col naso, trattenendo il pianto con forza, la voce incrinata per via del dolore che la stava lentamente consumando. «E' come se avesse sbloccato qualcosa dentro di te e questa cosa mi terrorizza

Magnus si rabbuiò e diede in un verso di incredulo scherno.

«E quindi hai deciso di farmi questo perchè tu avevi paura?!» ribattè duramente portandosi le mani alle tempie stringendosi i capelli, incredulo, furioso.

«No! L'ho fatto perchè quel ragazzo ha sconvolto la tua vita! Sei talmente coinvolto da non vederlo neanche! Continui a dire che siete simili, che puoi capirlo e che lui capisce te, che siete legati... Continui a dire di doverlo salvare, di essere l'unico a poterlo fare. E più lo dici più lui ha il potere di distruggerti! Non riesci a vederlo?»

Le parole giunsero come uno schiaffo.

Magnus schiuse le labbra facendo un passo indietro, fissandola sgomento.

«Hai passato anni della tua vita a cercare di trovare un equilibrio. Hai combattuto per anni il tuo dolore per cercare di non annaspare più. Per andare avanti con la tua vita al meglio possibile. E ora mi dici che questo ragazzo ti capisce, che ha perso qualcuno...» La ragazza si fermò deglutendo, umettandosi le labbra con fare combattuto. Aveva sempre avuto paura di affrontare così direttamente questo discorso con lui, aveva sempre cercato di essere gentile quando si trattava di quell'argomento. L'unico caso in cui metteva da parte la sua spietata sincerità in favore di una cauta dolcezza. «Continui a dire che grazie a questo puoi salvarlo. Ma se succedesse il contrario? Se invece di riportarlo alla luce fosse lui a farti sprofondare con sé?» domandò con occhi infinitamente tristi e spaventati, le spalle ad abbassarsi prive di qualsiasi tipo di sostegno e tensione, improvvisamente esauste. «Se il suo dolore, i suoi dubbi, la sua stanchezza dovessero risvegliare i tuoi? Cosa succederebbe allora?»

Magnus sbuffò esasperato combattendo con tutto se stesso contro quelle parole, contro quello che la sua amica gli stava dicendo. No. Non voleva sentire, non voleva stare ad ascoltare nessuna scusa o giustificazione. Aveva sbagliato. Aveva solo sbagliato. Non avrebbe dovuto, non avrebbe dovuto, non avrebbe dovuto! Lei non capiva, lei non sapeva... Alexander non avrebbe mai potuto fare una cosa simile, non avrebbe mai potuto far sì che le tenebre lo avvolgessero perchè lui era pura luce! In quel mondo marcio e senza speranza, lui era calore e salvezza. E lei non avrebbe potuto capire...

«Smettila! SMETTILA!» le gridò contro con rabbia, con ira, stringendo i denti in una morsa, la fiamma della furia a risvegliarsi nel suo ventre scontrandosi con il gelo della tristezza. Ghiaccio e fuoco danzavano fianco a fianco in lui scontrandosi e fondendosi in una sensazione spiacevole e terribile di confusione e disorientamento. Si sentiva in grado di abbattere un muro a mani nude e troppo stanco persino per respirare al tempo stesso. «Continui a tirar fuori questa storia ad ogni occasione! E ogni volta ti ripeto che è passato! Sto bene Catarina! Smettila di--»

«PIANTALA DI DIRE STRONZATE!» Questa volta fu Catarina a gridare. Il suo urlo straziante si sovrappose alla sua voce facendo cadere un silenzio denso e nervoso per tutto il loft. La ragazza tremava, le lacrime stillavano come piccole perle dai suoi occhi inondandole il viso. Le labbra non la smettevano di tremare mentre il respiro le si era fatto instabile e usciva quasi a singhiozzi fra i denti.

«Tu stai bene? Davvero?» domandò lei e la sua voce fu sfumata questa volta di un amaro tono canzonatorio e poco convinto. «Allora perchè continui a rifiutarti di chiamare nostra madre mamma? Ti abbiamo preso in casa che eri un bambino, sei cresciuto con noi eppure non sei mai riuscito a chiamarla in quel modo! Se stai così bene perchè continui a ripetermi di non meritare amore? Perchè continui a credere di essere maledetto? Di essere una disgrazia?»

Ogni domanda arrivò con la violenza di un uragano.

Era la prima volta che Catarina parlava così. La prima volta che gli sbatteva così violentemente contro quella verità. La prima volta che non accoglieva il suo dolore con dolcezza ma con forza.

Si sentì rinfacciare i suoi stessi sentimenti sentendo qualcosa rompersi dentro di sé, un argine che aveva con così tanta fatica cercato di tenere in vita per così tanto tempo...

«Credi che non me ne accorga? Credi che non l'abbia mai visto? Il modo in cui eviti di guardarti allo specchio, il modo in cui distogli lo sguardo da ogni famiglia felice che vedi per strada?» Improvvisamente la sua voce si fece stanca. Si abbassò di volume riducendosi quasi ad un sussurro distrutto. «Credi che non sappia che soffri ancora? Ogni giorno?» Nuove lacrime vennero fuori dopo quel breve attimo di pausa, facendola sentire stremata al pensiero di quell'improvvisa lite. «Ma io lo vedo, Magnus... lo vedo sempre. E farei qualsiasi cosa per cambiare le cose. Per proteggerti da qualsiasi tipo di minaccia a quell'equilibrio che avevi trovato con così tanta fatica...»

Magnus venne travolto da una ondata di sensazioni e sentimenti contrastanti.

Era furibondo, disperato e distrutto.

Una parte di sé, violenta e istintiva, credette persino di odiarla in quel momento per quello che gli aveva fatto.

Ma un'altra parte avrebbe voluto correre da lei, abbracciarla, e frenare le sue lacrime ringraziarla per il suo amore per lui. Una parte di lui si sentiva persino in colpa per non riuscire ad accettare il suo gesto, il suo estremo tentativo di salvarlo da se stesso. Ma era una parte estremamente piccola e remota, una parte non abbastanza forte da poter sovrastare le urla ben più logoranti e rumorose del suo cuore infranto.

«Alexander non è una minaccia.» replicò soltanto, meccanicamente, come un bambino che cercava di imporre il suo pensiero e le sue convinzioni davanti alle prove che gli venivano mostrate del contrario. Aveva i denti stretti, il tono piatto e vuoto di chi si sentiva privato di ogni cosa. La festa, la lettera, le risate, la gioia di quella serata, tutto sembrava essere improvvisamente lontano mille anni da lui. «Lui non potrebbe mai farmi del male»

Catarina lo guardò quasi con pena, come se volesse dirgli con lo sguardo “guarda come sei ridotto”.

Magnus non la prese bene.

«No. Non ci provare neanche a guardarmi così, Catarina» replicò scuotendo la testa, stringendo la mascella e i denti al punto da sentire il fastidioso rumore delle ossa che stridevano le une contro le altre nella sua bocca. «Non è Alexander ad avermi fatto questo. Sei stata tu. Tu mi hai spezzato il cuore. Tu mi hai tradito.» Ogni parola era intrisa di veleno e di accusa, ogni parola era quasi sputata con rabbia e disprezzo e dolore e... colpa. Avrebbe voluto fermarsi. Avrebbe voluto tacere, trattenere tutta quella furia perchè sapeva che ogni parola era una coltellata nel cuore della sua amica. Poteva vedere nel suo sguardo ogni singola stilettata affondare sempre più nel suo cuore martoriato. Ma non ci riusciva. Gli argini erano stati spezzati e le parole fluivano come un fiume in piena dalle sue labbra, incontrollate.

«Lui mi aveva dato speranza. Lui mi ha fatto sentire come se avessi uno scopo. Salvarlo era tutto quello che volevo, restituirgli il sorriso, cercare di restituirgli la sua vita così com'era. Saperlo felice mi sarebbe bastato a sentire di aver fatto qualcosa di buono nella mia vita, l'unica cosa buona. E. Tu. Me. Lo. Hai. Tolto.» ringhiò sentendo il petto tremare, il respiro rompersi e una nuova lacrima scivolare via. «Mi hai privato dell'unica cosa bella che avessi trovato per me. Lo hai fatto senza neppure pensare a cosa questo avrebbe potuto fare a lui. Lo hai trattato come se fosse una specie di infezione...»

«No. Non è così» disse Catarina scuotendo il capo, la voce sottile e devastata. «Mi dispiace per lui. E sono sicura che non meriti di soffrire perchè mi sembra una brava persona. Ma... tu lasceresti che un drogato aiuti un altro drogato a disintossicarsi?» domandò lei aggrappandosi con la forza della sua disperazione ad ogni modo possibile per tentare di fargli vedere la sua verità. «O lasceresti che due alcolizzati si spronassero a vicenda a smettere di bere? E cosa credi che succederebbe se uno dei due vacillasse? Se uno dei due avesse un dubbio?»

Magnus era incredulo, come se l'altra stesse dicendo qualcosa di assurdo ed incredibile.

«Cosa?! Credi che potremmo uccidere qualcuno?!» domandò esasperato con espressione accigliata, attonita. «Perchè è questa la 'dipendenza' che ci accomuna stando alla tua analogia e--»

Catarina sbiancò di colpo, fissandolo con espressione scandalizzata.

«Magnus» La sua voce era vuota e atona come non lo era mai stata prima. «Mi prendi in giro?» domandò, scioccata, sentendo ora le mani tremare, l'espressione -per la prima volta- virare da un'espressione disperata e colpevole ad una furiosa e violenta.

«Mi prendi in giro?!» ripetè urlando chinandosi verso il divano per afferrare un cuscino e lanciarglielo con violenza in pieno volto. «HAI CERCATO DI UCCIDERTI!» gridò facendosi bruciare la gola, come se unghie affilate avessero graffiato l'interno della sua carne ricavandone tagli profondi e sanguinanti.

Magnus fermò il cuscino con le mani con fare meccanico e istintivo, paralizzandosi sul posto poco dopo.

Mai. Mai prima di allora Catarina aveva tirato fuori quella storia, mai avevano parlato di quell'episodio della sua vita lasciandolo sospeso fra loro come un sottinteso da cui entrambi cercavano di fuggire. O forse l'unico che stava scappando era sempre stato lui.

«Tu forse puoi riuscire a far finta di niente, ma io non dimentico! Non potrei mai dimenticare!» gridò lei con una tale veemenza che Magnus pensò che da un momento all'altro avrebbe potuto saltargli addosso e colpirlo. E lui, pietrificato com'era, probabilmente gliel'avrebbe persino lasciato fare. «Ti ho tenuto fra le braccia mentre correvamo al pronto soccorso. Ti ho tenuto il polso per assicurarmi che il tuo cuore continuasse a battere. L'ho sentito farsi sempre più debole finché non si è quasi fermato. MI SEI QUASI MORTO FRA LE BRACCIA!»

Catarina esplose e pianse tutte le lacrime che non aveva pianto in anni di sforzi. Cadde in ginocchio con le mani sul viso e le spalle scosse dai singhiozzi mentre quasi sembrava mancarle l'aria. Pianse a dirotto per un tempo indefinibile ai piedi di Magnus che, paralizzato, l'osservò dall'alto come un angelo guerriero od un giudice divino. La guardò dall'alto incapace di dire qualsiasi cosa.

Si sentì contorcere le budella per vederla in quello stato, per aver visto coi suoi occhi cosa quel suo gesto aveva causato nella gente che aveva attorno, la gente che lo aveva salvato dalla solitudine e dalla strada. Ma nonostante sentisse la colpa divorarlo dall'interno non poteva comunque fare a meno di sentire il risentimento e la rabbia per il tradimento che, ancora, bruciava ardente sottopelle.

«E non hai pensato che quello che hai fatto potrebbe far quasi morire lui fra le braccia di sua sorella?»

Dopo infiniti, lunghi attimi di silenzio, Magnus riuscì a trovare la forza di parlare.

Quella frase uscì gelida e tagliente dalle sue labbra, un sussurro carico di rabbia e frustrazione, di paura e preoccupazione.

Ricordava perfettamente quel periodo.

Era un ragazzino, era così giovane che fu ancora più scioccante per chi gli stava attorno scoprire cosa avesse tentato di fare. Si sentiva solo, solo in una maniera definitiva e irrecuperabile. Aveva attorno a sé pochi ma veri amici ed una nuova famiglia che teneva sinceramente a lui abbastanza da accoglierlo in casa nonostante fosse già un bambino cresciuto e con nessun legame di vera parentela con loro. Era sempre andato d'accordo con Catarina fin da quando avevano pochi anni di vita e i suoi genitori lo avevano visto crescere assieme a lei. Era stata una decisione gentile da parte loro decidere di prendersi cura di lui quando ne aveva avuto bisogno.

Nonostante questo però sapeva che nessuno di loro poteva davvero capire il suo dolore e quello che provava. Nessuno sapeva cosa significasse essere un mostro, sentirsi maledetto fin dentro le ossa, fin dentro il sangue. Non sapevano cosa volesse dire sentirsi le mani grondanti di sangue: erano brave persone, loro. E il fatto che nessuno potesse comprendere il suo stato d'animo lo portava a sentirsi solo in mezzo a tanti. Erano tutti lì, a un passo da lui, eppure irraggiungibili. Cosa non avrebbe dato per poter essere come loro...

Tutto era semplicemente troppo.

Alla fine aveva capito che non poteva farcela, che quella vita era troppo sfiancante e dolorosa per lui. Nulla aveva senso, lui non aveva diritto di vivere e perciò avrebbe fatto un favore alle grandi leggi dell'universo riequilibrando i conti e togliendosi la vita.

Aveva afferrato un taglierino dalla sua scrivania e con quello si era tagliato un polso. Il dolore era stato lancinante, il bruciore indescrivibile. Vide la lama tingersi di una tinta cremisi e il sangue sgorgare scarlatto dalla sua pelle caramellata. Colava lungo il braccio, cadeva in terra in gocce pesanti macchiando il pavimento, i vestiti. Ci volle poco perchè si sentisse stordito, debole. Usciva in fretta. Molto in fretta. E al tempo stesso lentamente.

Salì al cuore la paura. Aveva paura, faceva male.

Tutto faceva così incredibilmente male.

Perchè non era ancora finita?

Non aveva mai pensato che il tempo intercorso fra il tentativo di morire e la sua attuale morte sarebbe stato così atroce. Non ci aveva riflettuto bene. Era una sensazione insopportabile. Debole, così debole da non riuscire a muoversi, prigioniero del suo corpo, sentì le gambe cedere e cadde a terra incosciente tirando giù la sedia al suo fianco con un fracasso che non udì mai.

Catarina sentì il rumore e entrò nella stanza per assicurarsi che andasse tutto bene.

Un qualche distante angolo del suo subconscio sentì il suo urlo straziante.

Il solo pensiero che Alexander potesse provare tutto quello fece salire un violento senso di nausea a chiudergli la gola. Il solo pensiero che Alexander potesse pensare di fare una cosa simile lo fece sentire debole, esattamente come allora. Alexander si era sentito come lui per anni. Solo, senza nessuno che capisse, che comprendesse, a convivere col vuoto di una perdita che non avrebbe mai potuto risanare. Aveva trovato qualcuno che poteva aiutarlo e poi gli era stato intimato di lasciarlo perdere. Gli era stato portato via. Quali conseguenze avrebbe potuto portare un simile atto nella sua fragile, meravigliosa psiche?

Magnus non voleva pensarci.

Con sdegno superò il punto dove la sua amica piangeva sul pavimento e raggiunse la sua stanza col cuore a battergli in gola e il cellulare fra le mani.

 

*

 

Le strade sotto i suoi occhi sembrarono improvvisamente tutte uguali.

Stava camminando senza una vera e propria meta sotto gli occhi sapendo soltanto che aveva bisogno di allontanarsi dal loft. Era arrivato fin lì con le gambe tremanti di emozione ed il cuore vibrante di eccitazione, il sangue a ribollirgli nelle vene con quel delizioso brivido che sapeva di anticipazione ed ora se ne andava distrutto, col cuore in frantumi e un senso di vuoto avvolgente a stringerlo in una morsa gelida.

Sentiva le mani ghiacciate, la gola chiusa.

Aveva voglia di vomitare.

Non riusciva a capacitarsi di ciò che era successo, di quanto stupido fosse stato a credere davvero che potesse meritare un simile dono del cielo.

Magnus era troppo per lui.

Era una persona buona, era una persona gentile e donava pace al prossimo.

Una pace che lui non meritava, una pace che non era fatta per lui. E lui aveva rovinato tutto. Aveva distrutto ogni cosa. Lo aveva ferito. Catarina sembrava distrutta mentre gli aveva parlato. Le sue parole erano dure, brutali, ma il suo sguardo... c'era qualcosa che non avrebbe mai potuto dimenticare nel suo sguardo, quella preoccupazione che aveva sempre visto negli occhi di sua madre e sua sorella. Quella preoccupazione che non si poteva fingere, che non si poteva confondere. Era davvero spaventata per qualcosa, credeva sul serio che Magnus fosse in pericolo al suo fianco.

E come poteva lui, che neppure praticamente lo conosceva, mettere in dubbio i pensieri e le convinzioni di qualcuno che, invece, lo conosceva da tutta una vita?

Come avrebbe potuto dirle di no? Continuare a cercare la di lui compagnia solo per non lasciarsi sfuggire la pace dalle dita? Non sarebbe mai potuto essere egoista fino a quel punto.

L'ultima cosa al mondo che avrebbe voluto era sapere di farlo soffrire.

Sapere di essere la causa del suo dolore, essere una minaccia per lui.

A questo avrebbe preferito tornare a rimanere solo, ricadere nell'oblio.

E così sarebbe stato.

Col cuore pesante aveva preso a vagare per la città senza una meta. Non poteva tornare a casa, non voleva tornare a casa, là dove lo avrebbero guardato e avrebbero visto. Ne era certo, lo sapeva. Sulla sua faccia doveva essere chiaramente leggibile che il suo cuore, se un tempo ne avesse mai avuto uno, non avrebbe fatto ritorno. Era andato. Lasciato ai piedi delle scale di un loft che non avrebbe rivisto mai più, distrutto in frantumi tanto piccoli da potersi disperdere al vento come mille coriandoli scarlatti. No. Doveva rimanere solo, doveva aspettare, doveva...

Si fermò nel bel mezzo di un marciapiede affollato sentendo la gente riversarsi attorno a lui nella sua frenetica corsa serale. Le macchine sfrecciavano accanto a sé, le luci degli addobbi natalizi brillavano come stelle cadenti tutt'attorno ed ogni suono lo raggiungeva distante ed ovattato. Era immerso in una fiumana di gente, circondato di persone eppure non si era mai sentito così irrimediabilmente solo.

Non riusciva a camminare, non riusciva a muoversi, osservava la gente ridere e parlare attorno a lui. Uomini armati di valigetta e auricolari a parlare di affari che avrebbero dovuto assolutamente concludere, ragazze sorridenti e giovani a chiacchierare fra loro mangiando delle crepes calde, ragazzi adolescenti che le osservavano poco distanti commentando fra loro e sfottendosi perchè nessuno avrebbe avuto il coraggio -fra loro- di farsi avanti e rivolgere la parola ad una di quelle. Ogni cosa scorreva attorno ad Alec senza mai toccarlo. Era come se attorno a lui ci fosse una campana di vetro che impediva allo scorrere incessante della vita di sfiorarlo. Era fuori dal tempo, fuori dallo spazio. Fuori luogo.

Non c'era un posto per lui in quel mondo, non c'era spazio per lui.

Credeva di averlo trovato, per poche settimane nella sua vita.

Credeva di aver trovato il suo angolino di pace, l'alloggio perfetto in quel puzzle così complesso che era la sua vita. Ma si era sbagliato.

Il freddo lo strinse in una morsa tagliente stringendogli le viscere, le ossa, come se tutto il suo sangue fosse stato drenato via. Non aveva più forze, non aveva più energie. Stanco. Infinitamente stanco.

Era come se ogni cosa avesse perso di significato adesso.

Di tutta la speranza e la voglia di migliorare che lo avevano guidato fino a poco prima adesso non c'era più alcuna traccia.

Ripensò alla lettera che gli aveva scritto.

Ripensò a tutto quello che gli aveva confidato, ai sentimenti che aveva impresso su carta.

Si sentì mancare il respiro.

Magnus era parso così contento di ricevere qualcosa da lui...

Ma ora, suppose, non l'avrebbe saputo mai.


 

Aveva camminato senza meta per quelle che potevano essere ore o, per quanto gli riguardava, persino settimane. Avanzava senza vedere davvero quello che aveva attorno. Il suo sguardo era perso, il passo strascicato. Si muoveva per inerzia, perchè c'era una piccola voce dentro di lui a dirgli di muoversi, di andare avanti nonostante tutto.

E lui, stanco, andava avanti. Strisciando e urlando, sentendo artigli graffiare l'interno del suo petto facendolo sanguinare ad ogni istante che passava.

Cosa ne sarebbe stato di lui ora?

Alec si rese conto di sentirsi perduto adesso che aveva perso Magnus.

Aveva mai davvero realizzato quanto importante lui fosse divenuto per lui? Aveva mai davvero capito quanto dipendesse da lui? Quanta pace e quanta forza la sua sola presenza gli avessero donato? Probabilmente no. Ma adesso capiva... perchè il vero significato delle cose si mostrava a noi solo una volta che queste erano perdute per sempre e lui sapeva che Magnus non sarebbe più stato alla sua portata.

Doveva proteggerlo. Doveva difenderlo.

Doveva lasciarlo.


 

Alla fine ritornò a casa.

Scombussolato, stravolto e nauseato, ma un po' più in controllo di sé.

Era ancora piuttosto pallido e la sua espressione poco rassicurante ma quanto meno sarebbe stato capace di parlare se ce ne fosse stato bisogno.

Aprì la porta e venne travolto dal calore interno dell'abitazione.

Un brivido lo percorse da capo a piedi per via della differenza di temperatura. Non si era accorto di quanto freddo sentisse fino a quando non avvertì quel calore avvolgerlo come una coperta.

Si richiuse la porta alle spalle e si diresse verso le scale che conducevano al piano di sopra. Sua madre lo vide passare davanti il passaggio ad arco della cucina e lo salutò.

«Bentornato» disse stranita, colpita dal fatto che Alec fosse tornato così tardi da dovunque fosse andato. Era qualcosa di piuttosto insolito da parte sua.

Alec si irrigidì sul posto e arretrò di pochi passi affacciandosi nella cucina. «Ciao mamma» salutò abbozzando un sorriso. Gli riusciva così difficile che era piuttosto certo avesse mostrato solamente una smorfia.

Tornò alle scale e salì al piano di sopra quasi scappando dallo sguardo indagatore della donna.

Si richiuse in camera poggiando la schiena contro la porta di legno, la testa reclinata all'indietro, gli occhi chiusi. Nel buio e nella solitudine della sua camera si sentì mortalmente stanco.

Sì spogliò rapidamente quasi strappandosi gli abiti di dosso. Si sentì stupido ad essersi vestito a quel modo per lui. Cosa aveva sperato di fare? Come se sarebbe potuto mai servire a qualcosa! Lanciò tutto per terra e si infilò il suo vecchio pigiama scolorito rannicchiandosi a letto, col cellulare fra le mani. Aveva preso l'abitudine, nei giorni precedenti, di addormentarsi con quello fra le dita dopo aver parlato con Magnus prima di dormire. Adesso non sarebbe più successo e il solo pensiero era come un pugno in pieno stomaco. Faceva male.

Faceva male realizzare quante cose non sarebbero più tornare.

Quante cose non sarebbero mai più state le stesse...

E poi il telefono vibrò.

 

Da: Magnus Bane.

Alexander. Catarina mi ha detto tutto, mi ha detto quello che ha fatto.

Sono mortificato, non avrebbe dovuto.

Ti prego di non credere a quello che ha detto, di non darle ascolto.

Non stava a lei giudicare le cose e sicuramente non aveva alcun diritto di parlarti a quel modo.

 

Alec strinse il telefono con forza fra le dita.

Era così da Magnus... cercare di confortarlo anche quando era lui quello che stava soffrendo. A causa sua. Avrebbe voluto rispondergli, avrebbe voluto dirgli qualsiasi cosa, aggrapparsi a quel messaggio per mantenere un contatto con lui, per strappare un altro istante del suo tempo e conservarlo per sé. Trattanere dentro di lui una nuova piccola parte di Magnus alla quale richiedere forza per andare avanti. Ma non poteva. Sapeva che se solo avesse risposto non avrebbe più trovato la forza di smettere e se non avesse smesso avrebbe continuato a fargli del male, a ferirlo, perchè Magnus gli avrebbe concesso di farlo. Avrebbe dovuto resistere. Doveva ignorare.

 

Da: Magnus Bane.

Alexander, ti prego, rispondi.

 

Alec chiuse gli occhi stringendo la mascella.

Avrebbe dovuto bloccarlo, probabilmente.

Avrebbe dovuto immaginare che non si sarebbe fatto fermare dal suo silenzio, che avrebbe continuato a scrivergli, a cercarlo.

Avrebbe dovuto sapere che avrebbe cercato di sistemare le cose.

Leggere i suoi messaggi sarebbe stata una tentazione immensa per rispondergli e temeva che prima o poi avrebbe ceduto. Ma al tempo stesso non riusciva a sopportare l'idea che Magnus potesse scrivergli e che lui non avrebbe mai saputo cosa gli avrebbe scritto. Voleva leggere quei messaggi, crogiolarsi nell'idea che Magnus stesse pensando a lui, almeno per un po', per attenuare quel senso di vuoto che gli toglieva il respiro.

Ma poi realizzava che era un pensiero dannatamente egoista.

Magnus era lì a cercare di sistemare qualcosa che non avrebbe potuto sistemare.

Alec non si sarebbe concesso di fargli nuovamente del male.

Aveva già rovinato abbastanza vite, non avrebbe rovinato anche la sua.

Mai la sua.

E continuare a ricevere i suoi messaggi lasciando aperto quel canale di comunicazione era come dargli la speranza che, prima o poi, una risposta sarebbe arrivata. Avrebbe dovuto troncare tutto. Avrebbe dovuto rendergli chiaro che era finita. Che era tutto finito.

Avrebbe dovuto liberarlo da sé, proprio come aveva chiesto Catarina.

Ad ogni messaggio che giungeva una nuova fitta colpiva e pugnalava il cuore del ragazzo con straordinaria forza. Non credeva di poter sentire ancora dolore ad un organo che era certo di non avere più con sé ma, a quanto pare, si sbagliava.

Lesse i vari disperati tentativi di Magnus di fargli cambiare idea ritrovandosi a schiudere le labbra in un'espressione di dolorosa sorpresa quando, alla fine, le sue ultime parole lampeggiarono sullo schermo.

 

Da: Magnus Bane.

Catarina ti ha detto che mi hai fatto del male.

Ma non sa quanto invece tu mi abbia fatto del bene.

Non sa della lettera.

E' una cosa che voglio tenere per me. Un segreto fra noi.

Non sa quanto bene quelle parole mi abbiano fatto, quanto felice tu mi abbia reso, Alexander.

Lei non sa e non avrebbe dovuto parlare per me.

Posso parlare da solo e quello che voglio dire è che ho bisogno di te, Alexander.

E che il tuo regalo è stato semplicemente perfetto.

Il più bello della mia vita.

 

Ho bisogno di te, Alexander.

Ho bisogno di te.

Alec sentì il corpo tremare, il respiro farsi corto. Si sentiva sull'orlo di un precipizio. Non sapeva cosa fare. La parte di lui che ancora osava sperava, che ancora si aggrappava al ricordo di quello che c'era stato fra loro fino a quel momento gli diceva di dargli retta, di ascoltarlo, di fare ciò che il suo cuore voleva.

Ma poi la parte razionale della sua mente lo frenava e gli ricordava come il suo cuore fosse malato. Voleva cose che non avrebbe dovuto mai desiderare, lo portava a fare scelte sbagliate, lo portava a ferire e distruggere chiunque e tutto ciò che avesse attorno.

Aveva ferito molta gente, aveva distrutto abbastanza. Non avrebbe fatto lo stesso con Magnus. Non lui. Non. Lui.

Trattenendo il respiro e con quell'opprimente senso di vuoto a riempirlo ed avvolgerlo, Alec guardò per l'ultima volta la di lui foto tenendo il dito, in attesa, al di sopra della parola 'Blocca'.

Cercò la forza di procedere, cercò la forza per essere coraggioso una volta ancora e fare, per una volta nella vita, la cosa giusta.

Strinse i denti e posò lo sguardo su quello distante e triste di Magnus nell'immagine, cercando di marchiare a fuoco ogni dettaglio di lui nella sua mente.

E lo liberò da sé.  

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Capitolo 14
*** Frattura ***


Erano passate due settimane dal compleanno di Magnus e da allora tutto sembrava andare semplicemente peggio.

Catarina era tornata a casa il mattino seguente lasciando per iscritto al suo amico una sentita lettera di scuse, lo sguardo basso quando Magnus aveva deliberatamente ignorato la sua presenza in cucina quando si erano incrociati al risveglio. Per Magnus era stato straordinariamente difficile trattare la sua amica a quel modo, ma in quel momento non riusciva proprio a guardarla in faccia né ad accettare ciò che aveva fatto. Aveva compreso i motivi che l'avevano spinta ad agire a quel modo e sapeva perfettamente che tutto ciò che lei voleva era proteggerlo, ma aveva sbagliato nonostante le nobili intenzioni. Aveva ferito due persone al posto di una ed ora Magnus non sapeva cosa poteva fare per risolvere la situazione che lei aveva distrutto.

Alexander non rispondeva alle sue telefonate ed in più doveva averlo bloccato perché improvvisamente non era più capace di vedere la sua foto né di leggere i suoi stati. Non poteva neppure vedere se fosse online oppure no ed il pensiero che il ragazzo avesse potuto decidere di escluderlo a quel modo dalla sua vita lo fece sentire ancora peggio. Non poteva crollare, però. Avrebbe voluto rimanere steso a letto a fissare il soffitto piangendo tutte le sue lacrime, cadendo in pezzi fino a dissolversi come polvere al vento, ma non poteva farlo.

Nel momento in cui si era crogiolato nell'idea di capitolare alla sua tristezza, i volti dei suoi pazienti erano apparsi dietro le sue palpebre andando a ricordargli che c'erano persone -là fuori, che avevano davvero bisogno di lui. Persone che contavano sul suo aiuto per star meglio, per affrontare la loro vita. Persone che erano state abbandonate e maltrattate da chi avevano amato di più e che avrebbero potuto crollare a loro volta se fossero state lasciate anche da lui. Magnus era il loro sostegno, la loro guida. Aveva scelto lui di esserlo e non poteva tirarsi indietro a dispetto dei suoi sentimenti e del suo dolore. Non si sentiva obbligato a rimanere in piedi, si sentì travolto dall'avvolgente desiderio di non abbandonarli. Non aveva mai sentito una cosa simile per i suoi pazienti prima d'allora. Non aveva mai dimostrato affetto nei loro confronti né davanti a loro né nel suo privato. Aveva sempre pensato di non essere realmente interessato alla loro presenza nella sua vita, ma l'idea di lasciarli sprofondare -adesso- appariva orribile e insopportabile.

Voleva che loro riuscissero a sopravvivere.

Voleva che loro ritrovassero la loro felicità.

Un equilibrio.

E così si era impegnato per non precipitare nell'oscuro abisso che si stava spalancando nella sua anima. Si era impegnato per rimanere a galla, per non crollare. Il pensiero di Alexander era divenuto un coinquilino pesante con cui condividere la propria vita e, al tempo stesso, un doloroso amante. Ogni sera si abbandonava al pensiero di lui ripercorrendo tutti i vari momenti del loro rapporto. Ogni sera si abbandonava all'idea di essere stato fortunato a trovare Alec nella sua vita e che molte altre persone al mondo non erano state fortunate quanto lui dal conoscerlo. Si crogiolava nei ricordi di quei rari momenti che li avevano visti così vicini da permettergli di inspirare a pieni polmoni il suo odore.

Gli piaceva il profumo della sua pelle.

Non sembrava il tipo di persona che si spruzzasse addosso profumi o dopobarba, per cui aveva immaginato che quell'aroma fosse suo caratteristico. Era dolce, delicato, quasi selvatico. Un profumo che col tempo aveva associato ad una sensazione di pace e benessere. Ricordava quanto fosse morbida la sua pelle al tatto, quanto calde fossero le sue guance ogni volta che le sfiorava. Ricordava cosa aveva provato e pensato nel notare tutti questi particolari ma, più i giorni passavano, più il reale ricordo di quel contatto iniziava a sfumare lentamente. Iniziava a non ricordare bene come fosse il suono della sua voce, che tipo di accento avesse quando parlava. Non ricordava se gli avesse notato nei addosso o un minimo accenno di barba. L'unica cosa che ricordava distintamente e che, probabilmente, non avrebbe mai dimenticato, era il colore dei suoi occhi.

Il colore del cielo all'alba, quel celeste così chiaro da risultare quasi trasparente, come fossero porte di vetro con accesso diretto alla sua splendida anima. Quelli, Magnus sapeva, non avrebbe potuto dimenticarli mai.

Ragnor e Raphael avevano iniziato a farsi vivi più spesso. Magnus non aveva detto loro nulla su quell'enorme e complicata situazione e dubitava che Catarina avesse raccontato loro qualcosa che non c'entrasse direttamente con la propria vita. Non era mai stata un'impicciona e considerate le conseguenze scaturite dall'unico momento in cui aveva deciso di esserlo, dubitava l'avrebbe fatto ancora. Più probabilmente i due si erano soltanto resi conto del cambiamento nell'umore dell'amico e senza chiedere alcun ché avevano deciso di stargli accanto. Magnus aveva apprezzato sinceramente il loro interesse, ma nemmeno la loro vicinanza fu in grado di rendere più sopportabile l'assenza di Alexander dalla sua vita.

Catarina non si faceva vedere ma faceva il possibile per essere utile quando serviva; dopo qualche giorno dalla loro lite Magnus aveva ceduto al bisogno di chiarire con lei ed era andato a trovarla per un caffé. L'incontro era stato lungo, teso, ma alla fine necessario. La ragazza si era scusata altre mille e mille volte, si era offerta di cercare il ragazzo per parlargli e risistemare le cose, ma Magnus sapeva che non era così semplice; ormai l'idea di essere deleterio per il terapeuta aveva messo radici profonde nel cuore del ragazzo e non sarebbe bastata alcuna parola al mondo per convincerlo del contrario. In ogni caso, non quelle di qualcun altro; Magnus sapeva che doveva essere lui e lui soltanto a raggiungerlo, che solamente lui poteva avere qualche speranza di mostrargli la verità: dopotutto, erano i suoi sentimenti al centro del disastro scatenatosi fra loro, no?

Così alla fine aveva in qualche modo perdonato Catarina per ciò che aveva fatto, comprendendo che non v'era mai stata cattiveria alla base del suo gesto ma semplice desiderio di proteggerlo, ma una parte di lui non riusciva a parlarle come era sempre stato solito fare. Non riusciva più a rivolgersi a lei quando aveva bisogno di confidarsi con qualcuno, non aveva voglia di sentirla come al solito. Le voleva ancora bene, ma il dolore provato a causa sua era ancora troppo forte per permettergli di dimenticare il torto subito. Non le portava rancore, non era più furente, ma nemmeno indifferente a quello che era successo.

Era come se Catarina avesse cancellato Alexander dall'esistenza.

Da quella sera era semplicemente-- svanito. Non si era fatto più vedere in studio, naturalmente, e neppure aveva telefonato o avvisato la sua segretaria per disdire i loro incontri. Magnus aveva informato Lucy personalmente del fatto che avrebbe potuto riprogrammare i futuri appuntamenti del terapeuta senza tener conto del signor Lightwood, il che le fece pensare che, forse, il ragazzo avesse informato Magnus direttamente di quella disdetta. Questa spiegazione la confuse nel momento in cui Maryse Lightwood si presentò impettita e furiosa nello studio con l'unica intenzione di voler parlare con “Il Dottor Bane”.

Magnus si era aspettato qualcosa del genere; dopo quel brevissimo momento di vicinanza che avevano condiviso, era certo che la donna si sarebbe precipitata da lui non appena avesse visto l'immediato peggioramento delle condizioni del figlio.

«Perché non si accomoda nel mio studio, signora Lightwood?» le aveva detto due giorni dopo la sera del suo compleanno, quando la donna si era presentata nervosa e tremante di rabbia nella piccola sala d'attesa del suo ufficio.

Maryse, senza dire una sola parola, lo aveva superato con la testa alta e le dita che artigliavano l'elegante pochette di velluto borgogna facendo risuonare tutt'attorno l'eco leggero dei propri passi.

Sospirando Magnus aveva richiuso la porta alle proprie spalle e quindi aveva raggiunto la donna ponendosi dall'altro lato della scrivania in mogano scuro.

«Cosa è successo a mio figlio?»

Non attese neppure che Magnus si sedette, né che dicesse qualcosa. Non appena lo ebbe visto rientrare nel proprio campo visivo puntò su di lui lo sguardo ferreo e arrivò al punto del discorso senza alcun tipo di preambolo.

Il medico si sfilò la sciarpa di raso dorato poggiandola sulla scrivania e sbottonò il primo bottone della camicia leopardata con la sola mancina.

«Cosa intende dire, signora Lightwood?». Naturalmente Magnus sapeva perfettamente cosa l'altra intendesse; poteva chiaramente immaginare l'espressione buia di Alexander e i suoi silenzi densi ed impenetrabili, ma non poteva certo dire alla donna a cosa questi fossero dovuti, né che avessero a che fare con lui.

Maryse osservò l'altro in volto in rigido silenzio per una manciata di lunghi secondi prima di raddrizzare la schiena in una posa sicuramente scomoda ma autoritaria. «Credo che lei sappia perfettamente cosa intendo dire.» disse inspirando silenziosamente dal naso. «Proprio l'altro giorno stavamo parlando di come ultimamente stesse aprendosi uscendo fuori dal suo guscio dopo anni di distanza e silenzio. Adesso, da due giorni, è chiuso nella sua stanza e non parla con nessuno, a stento mangia.»

Ascoltare le parole della donna non fece che peggiorare l'umore di Magnus; sapere in che condizioni era ridotto Alexander a causa sua gli faceva rivoltare lo stomaco ma non poteva certo tapparsi le orecchie e rifuggire la realtà. Lo doveva a lui e alla famiglia che aveva deluso.

«Ha saltato il vostro appuntamento, dubito vorrà presentarsi ai prossimi. L'altra sera è tornato a casa e si è chiuso in camera senza fiatare. Mi sembra ovvio supporre che sia successo qualcosa che lo abbia stravolto e se c'è qualcuno che può saperne qualcosa allora sono sicura che questo è lei.»

Lo sguardo penetrante della donna si era fissato severo in quello di Magnus senza mancare di mostrare una sfumatura di fragilità e timore. Disorientata, persa, parve aggrapparsi disperatamente all'unica strada per lei sensata. L'uomo si umettò le labbra sapendo che l'altra non avrebbe aggiunto una sola parola. Attendeva che fosse lui a parlare, a darle una spiegazione.

Ma cosa avrebbe mai potuto dirle? Che aveva spezzato il cuore di suo figlio? Che lo aveva illuso di aver trovato qualcuno che l'avrebbe aiutato e che poi gli è stato strappato via?

Per un eterno istante si sentì galleggiare sul posto, come se stesse cadendo verso un fondale marino profondo e distante. Si sentì privo di sostegni o respiro e col cuore che accelerava violento nel petto si schiarì la gola espirando stancamente.

«Non so cosa dirle, signora Lightwood.» chiosò alla fine sollevando uno sguardo mortificato e grave. «Sicuramente qualcosa ha turbato l'equilibrio che Alexander aveva raggiunto con tanta fatica e ora ci sta facendo i conti, da quel che mi ha detto. Il fatto stesso che non voglia più venire qui è sintomo del fatto che ha lasciato la presa sull'ancora che gli era stata lanciata-» l'idea di mentire alla donna lo turbava profondamente. Lo faceva sentire sporco, colpevole e meschino al tempo stesso. Avrebbe preferito gridare a gran voce come tutto quanto fosse colpa sua, ma sapeva che farlo non avrebbe aiutato nessuno, anzi; probabilmente avrebbe solo reso Alexander più triste e miserabile di quanto non si sentisse già adesso. «-tuttavia questo non toglie che non so cosa sia accaduto e che, se anche lo sapessi, non potrei parlargliene.»

«Ma io sono sua madre!» esclamò la donna quasi indignata, sgranando gli occhi e fissando il terapeuta con aria oltraggiata.

«E Alexander è un adulto. La sua privacy è sua e sua soltanto.» ribatté l'uomo sostenendo con forza lo sguardo dell'altra, non senza una certa difficoltà. «Io capisco perfettamente quanto per lei sia difficile accettarlo, mi creda.» capitolò dopo poco Magnus sospirando e abbandonandosi alla propria poltrona, stanco. «Anche io vorrei poter fare qualcosa per aiutarlo, ma l'unico modo per riuscirci è aspettare che sia lui a volersi far aiutare. In questo momento stargli addosso è la cosa peggiore che potremmo fare.» spiegò l'uomo cercando quasi di convincere più se stesso che la madre del ragazzo. «Fargli domande, chiedergli cosa sia accaduto non farà altro che farlo sentire ancora più in difficoltà, sotto pressione: sentirà di dovere delle spiegazioni a qualcuno anche se non è ancora pronto e la cosa lo porterà a voler fuggire ancora di più e a chiudersi definitivamente.»

«E cosa vuole che faccia? Che lo abbandoni così?» intervenne Maryse alzandosi in piedi di scatto, come offesa dal dire altrui. «Per lei è un paziente come un altro, ma lui è mio figlio. Non starò a guardare mentre cade a pezzi!»

Magnus si levò in piedi a sua volta sentendo il suo corpo pesare chili e chili di più.

«Nessuno le ha detto di abbandonarlo a se stesso, signora Lightwood.» mormorò guardandola negli occhi, paziente, colpevole. «La cosa migliore da fare per ora è rimanergli accanto. Non chiedetegli nulla, non mettetegli pressione, limitatevi a esserci. Stategli accanto, invitatelo ad uscire, a mangiare, sorridetegli. Abbracciatelo se ve lo permette, rassicuratelo sul fatto che qualunque cosa accada voi sarete nella stanza accanto, a portata di mano.» spiegò lui con le mani poggiate ora sulla superficie della scrivania dinnanzi a sé a fornirgli un blando appoggio. «Lasciate che veda che non è solo. Che gli volete bene ma che rispettate i suoi tempi. Il resto verrà da sé.»

Maryse deglutì in silenzio soppesando le parole dell'uomo per ragionare sulla validità del suo consiglio, guardinga e circospetta.

«Alexander non è un paziente come un altro.» si lasciò sfuggire alla fine Magnus quasi come una sentita rassicurazione nei riguardi dell'altra. «E' un ragazzo incredibile e mi sono sinceramente affezionato a lui. Non scambiate la mia impossibilità di fare qualcosa per indifferenza... Io...» ma la voce gli venne meno nel momento stesso in cui si rese conto che non sapeva cos'altro aggiungere. Forse, aveva già detto troppo.

Maryse deglutì ancora una volta e schiarendosi la gola mosse una mano in un cenno atto a volerlo silenziare.

«Va bene. Seguirò il suo consiglio. Gli lascerò spazio.» disse come se volesse semplicemente ignorare il dire del terapeuta in merito al proprio coinvolgimento nella vita del figlio. «Ma se dovessi vedere la situazione peggiorare... non starò con le mani in mano.»

E detto questo, quasi fosse una minaccia, se ne andò dallo studio senza neppure salutare.

Magnus rimase dietro la sua scrivania con il bisogno di rimanere solo e di bere, la voglia di sentire una volta ancora la voce di Alexander a consumarlo dall'interno.

*

Le giornate passavano monotone e identiche da quella maledetta sera.

Si svegliava, si rigirava nel letto, fissava e rifissava la loro ultima conversazione e dormiva di nuovo. Per i primi giorni si addormentava dopo violenti attacchi di pianto e crisi di panico che gli toglievano il respiro, ma più il tempo passava, più si sentiva svuotato di ogni cosa. Ossigeno, lacrime, sentimenti. Non sentiva neppure più la tristezza, né il dolore. Tutto stava scivolando via da lui lasciandolo inerme, nudo. Vuoto.

Si sentiva perso e privo di stimoli.

Non aveva voglia di alzarsi, di cambiarsi, di mangiare.

Non usciva dalla sua stanza se non per andare in bagno quando il suo corpo arrivava al limite di sopportazione. Sul viso aveva cominciato già a comparire una barba ispida e ruvida dopo due settimane di incuria. I capelli erano un groviglio spettinato simile al nido di un uccello, i suoi occhi erano cerchiati di una leggera sfumatura violacea a causa del sonno nient'affatto ristoratore che nell'ultimo periodo lo metteva a dura prova. Non aveva fame, non aveva sete. Rimaneva solo al buio sotto le coperte col cellulare stretto fra le dita, consapevole del fatto che non avrebbe più squillato.

I primi tre giorni Magnus aveva provato a chiamarlo trentasette volte in totale.

La sera in cui lo aveva bloccato, il mattino dopo, la sera quando sicuramente doveva aver staccato dal lavoro. Non aveva mai risposto, si era limitato a rannicchiarsi sotto le coperte a fissare il nome di Magnus che lampeggiava sullo schermo stringendo il telefono con forza nella mano, quasi come se si stesse aggrappando ad esso, combattendo con l'atavico bisogno di rispondere e sentirlo. Le lacrime uscivano copiose dopo ogni telefonata persa e mordendo il cuscino soffocava contro la stoffa il dolore che provava internamente. Si sentiva solo. Perso. Spaventato.

Le telefonate cessarono il quarto giorno.

Magnus aveva rinunciato a cercarlo, a sentirlo. La cosa avrebbe dovuto sollevarlo, ma fu solamente peggio; sapeva di essere stato lui ad allontanarlo, a dire “basta”, ma ogni telefonata gli dava una scintilla di vita che si mescolava al dolore del non poterlo raggiungere davvero ed ora non gli rimaneva che l'assordante silenzio della sua stanza, l'assenza ora totale di lui dalla sua vita. Si chiedeva se fosse arrabbiato, se con una scrollata di spalle avesse semplicemente scelto di dimenticarsi di lui e fosse andato avanti con la sua vita concentrandosi sul lavoro o magari su un prossimo disastroso appuntamento da cui poi Ragnor avrebbe dovuto salvarlo...

Ma poi saliva incontrollata la colpa; come poteva pensare che Magnus fosse tanto meschino da dimenticarsi semplicemente di lui in questo modo? Per qualcosa di cui alla fine era all'oscuro e che anzi, aveva cercato persino di risolvere? Magnus non era così, lui non abbandonava le persone. Magnus era premuroso, attento, gentile. Un guardiano silenzioso capace di donare ciò di cui si aveva bisogno senza che ci fosse neppure bisogno di chiedergli alcun ché. Un angelo le cui ali dorate donavano conforto e pace a chiunque ne venisse avvolto e cullato.

Lui, per un breve periodo, era stato stretto dal dolce abbraccio delle sue piume.

Ricordava il calore, il benessere di quel tocco.

Ricordava la sensazione di libertà provata nel suo studio, in casa sua, sotto il suo sguardo paziente.

Ricordava la sfumatura dorata della sua pelle... o era forse più caramellata? Magari olivastra? Fu straziante il momento in cui si rese conto che, alla fine, non ricordava più così bene quei piccoli particolari che tanto gli erano stati a cuore. Avrebbe voluto averlo guardato meglio quell'ultima sera. Avrebbe voluto sapere prima che sarebbe stata l'ultima volta che lo avrebbe visto, sicuramente avrebbe memorizzato meglio i lineamenti del suo viso, i tratti del suo volto, le sfumature dei suoi occhi. Questo tipo di riflessioni accompagnarono Alexander per le due settimane successive la festa fino a quando, la sera del sedicesimo giorno, qualcosa non interruppe i suoi pensieri.

«Mi hai proprio rotto, Alec!» La voce di Isabelle esplose nel silenzio della sua stanza mentre la sua figura compariva sulla soglia inondando di luce l’interno della camera, straziandone il buio altresì denso. «Mi hai sentito?» aggiunse avanzando nella stanza a grandi passi, avvicinandosi al letto. Afferrò con decisione le coperte e le strappò di dosso al fratello che, mugugnando, si rotolò sul fianco opposto dandole le spalle.

Sapeva che doveva star facendo ammattire sua sorella con il suo comportamento, erano giorni che lei cercava di convincerlo a parlare, a mangiare, a fare qualsiasi cosa non fosse vegetare nel suo letto, ma al tempo stesso si sentiva furioso con lei. Furioso perché non lo lasciava in pace, furioso perché non capiva quanto bisogno avesse di spegnersi così, sempre di più, giorno dopo giorno.

«Ah no, non pensarci nemmeno» disse con una mezza risata isterica, aggirando nuovamente il letto per metterglisi davanti. «Puoi continuare a fare il depresso quanto vuoi ma questo» e indicò la finestra serrata, il letto disfatto, il tanfo di chiuso che riempiva la camera «deve finire.»

«Vattene» replicò il ragazzo cercando nuovamente di girarsi, rannicchiato su se stesso come un bambino troppo cresciuto, con le sue gambe troppo lunghe, le sue braccia ad avvolgere quasi il cuscino sotto il capo.

«Ah-ah» replicò la sorella con diniego, palesemente intestardita nella sua missione. «Te lo scordi. Ti ho lasciato ammuffire qui dentro per due settimane e non è servito a niente, adesso passiamo alle maniere forti e vediamo se almeno quelle serviranno a qualcosa.» disse secca, decisa, spalancando la finestra da cui entrò una ventata di aria gelida e pulita.

«Devi alzarti Alec.» riprese una volta giratasi nuovamente verso il letto. «Sul serio, hai bisogno di una doccia e di cambiarti queste lenzuola: puzzi.» lo rimproverò con un tono che iniziava ad assomigliare inquietantemente a quello di sua madre.
«Piantala. Ho detto vattene, Isabelle.» La voce di Alec venne fuori appena più decisa, sicuramente irritata, ma al tempo stesso vagamente rauca: erano giorni che non spiccicava parola, dopotutto.

«E io ti ho già detto di no.» esclamò altrettanto irritata lei sbattendo un piede contro il pavimento, un tentativo disperato di scaricare la frustrazione su qualcosa che non fosse la faccia del fratello. «Non mi importa un fico secco di quello che ti è successo se è quello che ti preoccupa. Non ti voglio fare un interrogatorio né costringerti a parlare. Puoi tenerti i tuoi misteri o quello che ti pare, ma non ti lascerò marcire in questo letto un’ora di più!»

A quel punto lo afferrò per un braccio, allungandosi sul suo letto e tentò di tirarlo verso di sé costringendolo ad alzarsi.

Alec si ribellò a quel gesto strattonando il proprio braccio, quasi finendo col tirarsi addosso Isabelle nel mentre.

La ragazza strinse i denti, trattenendo malamente la voglia di imprecare e lui poté sentire il momento in cui cercò di riacquistare la calma inspirando a fondo con un sibilo impercettibile del naso.

«Va bene Alec. Se la metti così non mi lasci altra scelta.»

Il ragazzo sentì i passi della sorella allontanarsi verso la porta e per un brevissimo istante osò sperare che si fosse arresa. Ma ci volle poco perché sentisse la sua voce, nel corridoio immediatamente esterno alla stanza, rivolgersi a qualcuno apparentemente lì presente.

«Buttalo sotto la doccia»

Alec aprì gli occhi, pur non muovendosi dal suo letto, solo per vedere la figura di Jace farsi largo nella stanza col suo solito passo sicuro e fiero, le mani a pressarsi le une sulle altre, alternativamente, facendo schioccare le dita.

«C-cosa?» boccheggiò il moro sgranando gli occhi, sollevandosi appena dal letto mentre vedeva l’amico farsi pericolosamente vicino. «Jace, per-per favore…»

«Ah, mi dispiace amico, ma sto con Isabelle questa volta.» replicò lui con tono greve, chinandosi per afferrare l’altro per un braccio e tirarselo sostanzialmente addosso. «Stai davvero facendo l’idiota»

Se resistere alla forza di sua sorella era stato semplice, lo stesso non si poteva dire adesso con quella di lui. Anche nel pieno delle forze gli sarebbe stato impossibile competere con la forza fisica di Jace, figurarsi adesso che era debole dal quasi digiuno e dalle troppe notti passate senza un reale riposo. Alec si sentì strappare via dal materasso, mezzo sollevato e mezzo disteso, con un braccio bloccato fra le mani di Jace e l’altro a tentare di far resistenza con le dita che artigliavano -inutilmente- le lenzuola.

«Jace!» esclamò il moro più sconvolto che irritato, imbarazzato da quella situazione nella sua interezza, umiliato dalla sensazione dell’essere osservato in quelle condizioni sia da lui che da sua sorella che da Clary, in piedi sulla soglia al fianco di Isabelle.

«Sì?» disse il ragazzo smettendo di tirare il braccio altrui ma senza accennare minimamente a mollare la presa. «Preferisci alzarti con le tue gambe?» domandò sollevando le sopracciglia, per niente intenzionato a lasciar perdere la cosa. «Io ti consiglierei di dirmi di sì perché al prossimo rifiuto ti prendo in braccio, che tu lo voglia o no.»

Se solitamente Jace usava rivolgersi all’amico con tono scherzoso e divertito, adesso era preoccupantemente serio. Alec ne era perfettamente consapevole, abbastanza da sospirare e strattonare via il braccio dalla sua presa con uno sbuffo infastidito.

«Va bene, va bene!» si arrese mettendosi meglio a sedere, sotto gli sguardi lievemente sollevati dei presenti. Jace lo liberò dalla propria stretta e gli lasciò modo di alzarsi da sé. Tuttavia quando lo seguì nella sua avanzata verso il corridoio, Alec si ritrovò a fissarlo sgomento.

«Che c’è? Verrai sotto la doccia anche tu?» domandò grondante di amaro sarcasmo.

«L’idea non mi alletta ma se mi costringi…» si strinse nelle spalle Jace, fissandolo dritto negli occhi.

Alec sgranò gli occhi fissando basito l’amico, la sorella e Clary attorno a sé.

Tutti avevano sul viso uno sguardo scuro, ricco di sfumature che andavano dalla determinazione, alla tristezza, alla compassione. Clary, in particolar modo, aveva sul viso una sorta di espressione di scuse ed Alec dovette immaginare che la ragazza fosse per assurdo la persona più a disagio lì in mezzo: non aveva mai avuto troppa confidenza con lui, ma doveva esser stata richiamata al servizio da Isabelle e dal suo ragazzo. Alec non seppe se sentirsi ancora più irritato da quella cosa o colpevole. Li aveva fatti preoccupare davvero fino a quel punto?

Per l’ennesima volta stava ferendo qualcuno col suo atteggiamento, a quanto pareva, e senza che ne avesse neppure intenzione. Sembrava che fosse capace di distruggere qualsiasi cosa arrivasse a sfiorare.

Nella sua mente il ricordo della voce di Isabelle lo ammonì.

E no eh. L’autocommiserazione no!” si rimproverò mentalmente realizzando come, nel suo inconscio, avesse dato alla propria coscienza la voce della sorella.

«Non ce n’è bisogno. Ormai mi sono alzato…» capitolò alla fine Alec passandosi una mano fra i capelli. Dopo tanti giorni d’incuria li sentì scivolosi sotto le dita, grassi e sporchi in un modo nuovo e rivoltante.

Isabelle non sembrava propriamente convinta ma non lo seguì.

Jace tuttavia non sembrò desistere e si fermò fuori dalla porta con le braccia conserte.

«Io ti aspetterò qui.» gli disse ora meno minaccioso, poggiandosi con la schiena contro la parete accanto l’uscio. «Mi assicuro che non scappi dalla finestra.» aggiunse indicandosi con un dito l’orecchio.

Il moro scosse il capo e, alzando gli occhi al cielo, si chiuse la porta del bagno alle spalle.

Rilasciò un lungo sospiro mentre afferrava il bordo del lavandino con le mani e si poggiava a quello come se avesse paura di cadere da un momento all’altro. Si sentiva stanco, imbarazzato e colpevole. Gli dispiaceva averli esasperati tanto e apprezzava il loro tentativo di esserci e stargli vicino. Tuttavia al tempo stesso avrebbe voluto rimanere da solo. Solo con i suoi ricordi e i suoi rimpianti e la sua amarezza. Cose che non avrebbero compreso e che non sarebbe mai riuscito a confidargli.

Sollevò lo sguardo sullo specchio e arricciò il viso in un’espressione disgustata.

Aveva occhiaie scure sotto gli occhi, i capelli arruffati e sparati in tutte le direzione in maniera evidentemente non voluta e studiata; più barba di quanta ne avesse mai avuta sul viso gli scuriva la linea del mento e del volto e solo in quel momento, dopo averla vista, si rese conto di quanto gli pizzicasse.

Era ridotto ad uno straccio e persino lui dovette ammettere quanto fosse penoso starsi a guardare.

Stringendo le labbra in una linea sottile cercò di aggrapparsi a quel minimo di determinazione che ancora aveva in corpo e si sfilò il pigiama gettandolo nella cesta dei panni sporchi.

La sensazione dell’aria fredda a contatto con la pelle lo fece rabbrividire: era rimasto sotto il calore dei vestiti per giorni e aveva dimenticato quanto fosse pungente l’aria fuori dal suo involucro di coperte. Parzialmente fu grato di quella sensazione: sentirsi avvolgere dal freddo manto dell’inverno lo fece sentire in qualche modo ancora vivo.

Così, avviato il getto d’acqua, s’infilò sotto di quello cercando di farsi scivolare via di dosso, oltre allo sporco almeno parte del proprio dolore.

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Capitolo 15
*** Lontani ***


Non gli erano mai piaciuti i club. La musica era troppo alta e non particolarmente di suo gradimento, non amava bere e soprattutto odiava ballare. Sostanzialmente era lì solo per guardare i suoi amici divertirsi. Quella sera, però, trovò quasi piacevole trovarsi lì.

Sotto le luci stroboscopiche del posto sembrava quasi di trovarsi in un qualche tipo di luogo immaginario ed irreale, fuori dal mondo: tutto era immerso nell'oscurità ad eccezione dei punti in cui i fari mobili facevano ricadere piccole zone di luci colorate. Rosse, verdi, azzurre, bianche, viola. Delineavano i contorni di figure accalcate, di una ringhiera che affiancava una scalinata non troppo larga che conduceva ad un ballatoio non molto affollato. Tavolini e divanetti erano appena visibili nei momenti in cui quelle luci colorate non ne sfioravano la superficie.

Il piccolo gruppo si era seduto su uno di quei divani in pelle e stava chiacchierando animatamente del più e del meno. Isabelle stava mostrando a Clary e Jace alcune foto del piccolo Church dal suo cellulare mentre Alec sorseggiava la sua birra guardandosi attorno. La musica era così alta che poteva sentire le onde sonore colpire fisicamente il proprio corpo. Sentiva la vibrazione delle stesse riverberarsi nelle sue orecchie, nella sua stessa gola. Era quasi nauseante. Ma lo aiutava a non pensare, ad estraniarsi da se stesso. Forse ora iniziava a capire perché la gente scegliesse di andare in quei posti. Quante di quelle figure ammassate laggiù erano alla disperata ricerca di una distrazione? Alla disperata ricerca di un momento di fuga?

«Non dirmi che vuoi andare di sotto a ballare!» esclamò Jace, d'un tratto, dopo aver notato il modo in cui l'amico stava fissando attentamente la folla sottostante.

Alec si riscosse e rivolgendogli un'occhiata di sbieco sbuffò sonoramente con fare sarcastico. «Sì, come no.»

Isabelle osservò il fratello con fare esitante, umettandosi le labbra in maniera nervosa. Non voleva esattamente costringerlo a parlare, ma in qualche modo sentiva che ignorare quello che palesemente stava accadendo all'altro fosse sciocco e magari persino deleterio.

«E allora cosa vorresti fare?» tentò la ragazza sorridendo appena al maggiore. «A noi va bene qualsiasi cosa, purché ti tenga fuori dalla tua stanza»

Era evidente che fosse in difficoltà in quel momento, la prudenza con cui stava cercando di prendersi cura del fratello fingendo di parlare in maniera casuale non passò inosservata agli occhi di Alec. La cosa confondeva ancora di più il suo animo.
In parte era felice di sapere che, a tutti gli effetti, non era solo, che tutte quelle persone erano lì per lui. Al tempo stesso, però, non poteva fare a meno di sentirsi in colpa: tutte quelle persone erano anche in ansia per lui.

Scuotendo leggermente il capo, il ragazzo si limitò a guardare la sorella e parlare sopra la musica assordante del locale.

«Non c’è niente in particolare che vorrei fare» disse sincero rigirandosi la bottiglia fra le dita, sovrappensiero. «Ora come ora mi basta stare qui e bere con voi» ammise abbozzando un sorriso tranquillo.

Era evidente che fosse un modo per non parlare del reale problema che lo stava affliggendo, ma questa risposta era senz’altro un’alternativa migliore al vederlo nuovamente chiuso in camera ad ammuffire sotto le coperte. Per il momento, Isabelle se la fece bastare.

«E allora, beviamo!» esclamò sollevando il suo cocktail con la sua solita verve.

Jace ridacchiò accanto a lei tenendo un braccio attorno alle spalle di Clary. «Ora che ci penso non credo di averlo mai visto ubriaco» disse con uno dei suoi sorrisetti sghembi che non preannunciavano mai niente di buono.

«Nemmeno io» realizzò Isabelle solo in quel momento, voltandosi istantaneamente a guardare il fratello. «Non dirmi che non lo hai mai fatto?!» chiese sconvolta.

Alec si strinse nelle spalle bevendo un altro sorso di birra.

Isabelle sembrò improvvisamente stordita. «Non riesco davvero a capire da chi tu abbia preso».

«Io?» domandò Alec con un sopracciglio inarcato. «Guarda che sei tu il caso strano. Pensi che mamma o papà si siano mai ubriacati ad una festa?»

Jace rise di cuore alla sola idea mentre Isabelle, in crisi, si portò una mano alla fronte con aria disperata. «Sono stata davvero adottata» borbottò alla fine non trovando alcun’altra spiegazione logica alla situazione.

«Nemmeno io mi sono mai ubriacata, ma sono piuttosto certa che mio padre lo abbia fatto. Non è detto che dobbiamo necessariamente prendere dai nostri genitori Izzy» intervenne Clary cercando di confortare la sua amica.

La mora sollevò lo sguardo improvvisamente galvanizzata dalla ventata di speranza portata dalla ragazza.

«Lo credi davvero?» chiese sul limitare di una deprimente crisi esistenziale.

Clary sorrise divertita stringendole una mano. «Ne sono sicura, Izzy. E poi a noi piaci così come sei.»

Quelle parole sembrarono risollevare immediatamente la giovane portandola a raddrizzarsi sul posto come se fino ad un momento prima non fosse stata vicina a chiedersi se tutta la sua vita non fosse mai stata una completa menzogna.

«Grazie Clary» disse nuovamente ricca di energia prima di osservarla con sguardo divertito. «E così non ti sei mai ubriacata eh…?»

La ragazza arrossì leggermente grattandosi il capo.

«Ehm—no.» ammise quasi come se si vergognasse della cosa.

«Direi che dobbiamo assolutamente rimediare!» replicò istantaneamente Isabelle con assoluta convinzione. Tolse dalle sue dita la birra che aveva preso in precedenza e la sostituì con il cocktail che lei stessa aveva ordinato per sé. «Prova questo. Voglio farti provare i miei drink preferiti!»

Nel giro di un’ora il tavolino fra loro fu ricoperto di bicchieri vuoti, cannucce rosicchiate e ombrellini colorati fatti a pezzi.

Clary era visibilmente ubriaca e, in qualche modo, anche in quello stato riusciva ad apparire incredibilmente adorabile. Ogni cosa la faceva ridere e le sue guance arrossate la facevano sembrare ancora più giovane di quanto già non sembrasse normalmente.
Jace parve adorare quella versione così tenera della sua ragazza: si divertiva a vederla ridere per la cosa più stupida, esattamente come Isabelle. Alec, dal canto suo, si stava stranamente divertendo anche solo a guardarli. Non aveva parlato molto, aveva bevuto vari bicchieri anche lui, ma al contrario di Clary sembrava resistere meglio all’alcol. Non era esattamente ubriaco ma era sicuramente brillo: non abbastanza da comportarsi in maniera imbarazzante ma a sufficienza per calmare i pensieri. Si sentiva stranamente tranquillo in quel momento, rilassato mentre la musica intorno rimbombava e le luci danzavano brillanti da un angolo all’altro del locale. Sentiva i suoi sensi leggermente ovattati, il mondo roteargli attorno senza sfiorarlo. Era come se non fosse realmente lì, come se stesse assistendo a quella scena da lontano, dall’altra parte di una finestra che lo teneva ben distante da tutto impedendogli di farsi ulteriormente del male. Di farne a loro.

Per anni si era chiesto cosa la gente trovasse di interessante nel bere, perché uscissero all’unico scopo di scolare un bicchiere dopo l’altro, soprattutto considerato lo stato in cui si trovavano il mattino dopo: adesso sentiva di capire. Forse avrebbe dovuto farlo prima. Sicuramente avrebbe dovuto farlo più spesso. Sì, aveva deciso.

«Daaaai, andiamo a ballare!» esclamò d’un tratto Clary, allegramente, alzandosi dal tavolo. Con le mani stava tirando verso di sé il braccio di Jace che si era sfilata dalle spalle, invitandolo non troppo velatamente a seguirla al piano di sotto.
Il ragazzo, che aveva una resistenza straordinaria a qualsiasi forma di influenza esterna, non era capace di rifiutarle alcun ché: soprattutto non quando i suoi occhi lo guardavano con quello scintillio carico di felicità. Sorridendole a sua volta si alzò anche lui e la seguì verso le scale, assicurandosi che Clary non inciampasse nello scenderle.

Isabelle rimase invece al tavolo con il fratello, ancora abbastanza in sé dato il suo essere avvezza a serate di quel tipo.

«Allora! Ti stai divertendo?» domandò volgendosi ora verso di lui con un fluido movimento del bacino.

Alec si umettò le labbra con fare rilassato. «Sì. Clary sembra una bambina quand’è ubriaca» osservò sorridendo leggermente al pensiero.

La sorella si illuminò a quelle parole scorgendo coi suoi stessi occhi lo stato tranquillo del ragazzo al suo fianco. «Vedi? Meglio che stare chiuso in camera tutto il giorno!»

Con un lieve incurvar degli angoli delle labbra verso l’alto, Alec annuì.

«Come ti ho detto non voglio chiederti cosa ti è successo o perché ti senti così, non se non vuoi parlarne» iniziò a dire Isabelle dopo un lungo momento di quiete. Era evidentemente nervosa all’idea di sollevare la questione, quasi temesse che il fratello potesse reagire immediatamente tornando a chiudersi nel suo guscio e nel suo silenzio. Alec, dal canto suo, s’irrigidì leggermente nell’avvertire il cambio di argomento e deglutì teso desideroso di tornare alle risate di poco prima. «ma voglio che tu sappia che qualsiasi cosa sia non devi affrontarla da solo.» riprese sollevando solo a quel punto lo sguardo verso di lui. Fino a quel momento aveva timidamente osservato il bicchiere fra le sue dita, ma adesso si ritrovò a cercare gli occhi del fratello. «Noi siamo qui, Alec. Quando vorrai, quando ne avrai bisogno… noi ci siamo, okay?» abbozzò un sorriso gentile, i suoi profondi occhi scuri animati di un affetto impossibile da non notare.

Alec se ne sentì sinceramente avvolto e avvertì uno strano calore diffondersi nel suo petto, un bruciore pungente dietro gli occhi.

«Lo so.» capitolò, infine, abbassando brevemente le palpebre.

«Andrà tutto bene, fratellone» mormorò Isabelle scivolando accanto a lui sul divanetto e avvolgendo le braccia snelle attorno le sue larghe spalle. Non sapeva se l’altro avesse sentito quelle ultime parole, data la musica assordante, ma sperava che quell’abbraccio potesse trasmettere il messaggio con anche maggiore intensità.

Il ragazzo non si scostò da quel contatto, lasciò che la sorella lo stringesse a sé per svariati minuti sentendo la testa improvvisamente piena di mille pensieri. L’annebbiamento dovuto all’alcol non era sufficiente per tenere a bada le sensazioni che quella breve conversazione aveva risvegliato, finendo col farlo sentire semplicemente ancora peggio di prima. Adesso si ritrovava a dover fare i conti non solo con il perpetuo conflitto fra i suoi sentimenti, ma anche col fatto che non era abbastanza lucido da sapere come controllarli.

In poche parole si sentiva in trappola.

La stretta di Isabelle iniziò ad apparire quasi intollerabile, uno spaventoso senso di claustrofobia lo assalì man mano che i suoi pensieri si facevano più assordanti ed invadenti, portandolo a sottrarsi a quel contatto strofinandosi le tempie con le dita.
«Ohhh no, no, no» iniziò a dire la ragazza nel vedere la reazione dell’altro. «O stai per vomitare o stai per svenire: non voglio assistere a nessuna delle due cose» dichiarò tornando in sé, alzandosi in piedi in un momento. «Hai bisogno di aria. Vieni.» gli disse prendendolo per un braccio, tirandolo su.
 
*
 
Dopo l’improvvisata della signora Lightwood nel suo studio, Magnus era tornato a casa totalmente abbattuto e con l’umore sotto i piedi. Aveva cercato nel pelo del Presidente Meow un po’ di conforto ma persino la sensazione delle sue zampine sulle sue braccia non lo aveva aiutato. Per un istante aveva pensato di scolarsi una bottiglia di vino rosso sul balcone fino a perdere i sensi ma poi cambiò idea: quanto ancora più patetico sarebbe stato il risveglio se avesse concluso così la sua giornata?
Solitamente, quando si sentiva così, non aveva voglia di fare altro che non fosse crogiolarsi nel suo sconforto rigirandosi a vuoto sul letto alla ricerca di una posizione comoda che riuscisse a farlo addormentare. La cosa non lo aiutava sicuramente a tirarsi su ma gli garantiva il suo tanto bramato silenzio. Da qualche tempo, però, si era imposto di smetterla con questo genere di arrendevolezza. Ogni volta che si sentiva a terra si forzava ad uscire e cercare di distrarsi così da non crollare sotto il peso dei suoi stessi sentimenti. Anche questa non era una soluzione, il più delle volte si limitava semplicemente ad andare in un qualche locale per annegare i problemi in un po’ d’alcool o fra le braccia di qualcuno, ma almeno gli dava la sensazione di star reagendo al proprio dolore invece di lasciarsi avvolgere da esso.

Decise così, alla fine, di uscire.

Si fece una lunga doccia fredda e, una volta avvolto dal suo accappatoio di due taglie troppo grande, si distese sul divano col telefono all’orecchio.

«Ho voglia di ballare» disse quando Raphael rispose al secondo squillo, lo sguardo fisso sul soffitto sovrastante.

«Balla.» rispose monocorde il ragazzo dall’altro capo del telefono con il suo solito tono asciutto e disinteressato. Magnus alzò gli occhi al cielo sospirando.

«Ho voglia di andare a ballare.» specificò allora scuotendo la testa.

«Vai a ballare.»

«…»

Lo psicologo rimase in silenzio per un lungo istante prima di inspirare a fondo e pizzicarsi l’arco del naso con fare esausto.

«Raphael.» disse con evidente stizza nella voce. «Andiamo a ballare stasera?»

«Aaaaaah» chiosò il ragazzo dall’altra parte del telefono. «No.»

Magnus trattenne malamente un verso disperato abbandonando il capo oltre il bracciolo del divano. «Dai! Perché no? Voglio uscire!» esclamò con il tono lamentoso di un bambino che fa i capricci.

«Perché ho da fare. E perché comunque non mi andrebbe.» replicò asciutto, con il suo forte accento spagnolo Raphael. «Se non c’è altro, dovrei andare

«Vai, vai…» sbuffò lo psicologo sporgendo il labbro inferiore all’infuori in un broncio molto poco maturo. «…noioso.» borbottò poi mentre chiudeva la telefonata con aria offesa.

Ovviamente non era offeso per davvero ma gli dispiaceva sul serio non poter vedere l’amico quella sera. Mentre digitava il secondo numero di telefono si morse il labbro inferiore con fare nervoso: sperò che almeno Ragnor fosse disponibile. Catarina era troppo lontana e troppo indaffarata per dargli la benché minima speranza.

«Magnus?»

«Ragnor! Amico io!» esclamò lo psicologo con tono allegro, palesemente esagerato, portando ad un lungo attimo di silenzio da parte dell’altro.

«…Cosa vuoi?» domandò quello, alla fine, evidentemente sospettoso e scettico.

«Non soldi, puoi stare tranquillo.» scherzò il ragazzo. «Ho davvero, davvero, davvero, davvero bisogno di uscire stasera e tu sei stato eletto come mia spalla!»

«Grazie ma devo passare. Devo consegnare un progetto fra due settimane e sto ancora in alto mare.» disse il giovane dall’altro capo del telefono con un tono chiaramente impegnato. Magnus poteva perfettamente vederlo, nella sua testa, con gli occhiali in equilibrio sul naso e le dita a correre frenetiche sulla sua tastiera. «Prova con Raphael.»

Lo psicologo sbuffò ormai privo di speranze. «Niente da fare, ho già provato. Non può.»

«…Ah beh, quindi più che spalla sarei la ruota di scorta.» commentò con il tono petulante cui ricorreva quando scopriva una qualche innocente bugia.

«…beh, allora non ti disturberò oltre! Buona fortuna col progetto!» salutò Magnus sfuggendo alla precisazione altrui prima di chiudere rapidamente la telefonata.

A quanto pareva era rimasto comunque da solo. Sarebbe stato più semplice rilassarsi e non pensare assieme ai suoi amici, ma loro avevano le loro vite ed era giusto che di tanto in tanto riuscisse anche a cavarsela da solo. Così, sollevandosi lentamente dal divano, decise di prepararsi ugualmente: in compagnia o no, non avrebbe passato la serata a macerarsi nella sua malinconia sul suo letto.
 

 
Un’ora più tardi Magnus era per strada, diretto verso un club di cui aveva sentito ben parlare. Aveva indossato quello che definiva il suo outfit da battaglia per serate come quella: un gilet di pelle rosso sotto cui non v’era altro se non la sua pelle caramellata ed un paio di pantaloni attillati neri che gli fasciavano perfettamente le gambe. Ai piedi portava degli stivaletti di cuoio scuri decorati da catenelle in acciaio che tintinnavano ad ogni passo assieme ai numerosi braccialetti che pendevano ai suoi polsi. Alle dita portava dello smalto nero lucido ed una quantità non necessaria di anelli mentre attorno alla gola portava solo un paio di collane non troppo pacchiane: un choker nero formato da una semplice sottile striscia di corda nera ed una catenella argentata priva di pendenti.

Aveva tinto le punte dei suoi capelli con uno spray rosso vermiglio e truccato gli occhi con un accenno di ombretto nero sull’estremità esterna ed una sottilissima linea di eyeliner rosso lungo la rima inferiore per dare maggiore profondità al suo sguardo. Si sentiva perfettamente a suo agio in tutta questa eccentricità ma c’era comunque un nodo in fondo allo stomaco che non gli permetteva di apprezzare pienamente neppure il suo look. Se fosse stato di ben altro umore probabilmente si sarebbe trovato bellissimo.
Ancora una volta si forzò di abbandonare ogni sorta di pessimismo in favore delle molteplici possibilità che una serata come quella aveva da offrire e attraversò a testa alta la strada notando la fila che si protraeva al di fuori dell’ingresso del locale.
Stava già per unirsi alla coda quando qualcosa catturò la sua attenzione di sfuggita.

Voltò il capo verso la parte opposta della porta, quella da cui non v’era fila, e notò un ragazzo poggiato contro la parete con le mani sulle ginocchia. Non sembrava stare troppo bene e Magnus era fin troppo avvezzo a questo genere di scene fuori da locali come quello: sicuramente aveva bevuto troppo e aveva bisogno di vomitare, cosa da cui teneva a prendere quanta più distanza possibile. Tuttavia, proprio mentre stava voltandosi per tornare a guardare la fila di persone in attesa di poter entrare, il ragazzo alzò il viso bloccando lo psicologo sul posto.

Alexander.

Si ritrovò ad agire prima ancora di riflettere, muovendosi in sua direzione a passo svelto.

«Alexander!» esclamò quando gli fu vicino, fermandosi a poco più di un metro di distanza, la brezza serale a smuovere leggermente le punte sollevate dei suoi capelli.

Il ragazzo si voltò a guardarlo e sembrò più pallido che mai. Un rivolo di sudore scivolava dalla tempia destra percorrendogli il viso fino al mento, i suoi occhi lucidi improvvisamente preoccupati.

«Che ci fai qui? Stai bene?» domandò lo psicologo quando l’altro non sembrò dar segni di volergli rispondere. Guardandolo notò che per una volta non indossava nessuna delle sue magliette scolorite o felpe consumate ma, anzi, una camicia pulita che gli ricordava quella che aveva indossato il giorno del suo compleanno.

Il pensiero gli fece stringere il cuore.

Alexander sembrò voler sparire. Lo guardava con fare confuso e sembrava essere chiaramente nel panico mentre apriva e richiudeva la bocca senza emettere un singolo fonema. Magnus tentò di muovere un ulteriore passo verso di lui ma il ragazzo sembrò ritrarsi come un animale ferito davanti ad una minaccia.

«Alexander…» mormorò il ragazzo, preoccupato, abbassando la mano che aveva inavvertitamente sollevato verso di lui poco prima.

Il giovane si mise in posizione eretta, allungando del tutto le gambe e scostandosi dal muro e iniziò a lanciare frequenti occhiate all’ingresso del locale.

«Sto bene, non preoccuparti.» disse alla fine senza però guardarlo negli occhi. «Avevo solo bisogno di un po’ d’aria.» aggiunse con la voce bassa, leggermente impastata.

Magnus si chiese se fosse ubriaco, se avesse bisogno di essere riportato a casa.

Dubitava però che fosse lì da solo anche se non vedeva nessuno nelle vicinanze.

Adesso che se lo trovava davanti si sentiva estremamente combattuto. C’erano così tante cose che avrebbe voluto dirgli eppure al tempo stesso le parole sembravano sfuggirgli di bocca. Lo guardava in silenzio sapendo che dire la cosa sbagliata poteva farlo svanire da sotto i suoi occhi come una nuvola di fumo dissolta dal vento. Sapeva però che se voleva risolvere quella situazione spettava a lui compiere un passo. Sia perché il fraintendimento era nato dalla sua parte e sia perché Alexander era evidentemente incapace di affrontare anche questa situazione in quel momento. Lui era l’adulto. Lui doveva essere la roccia, il riferimento fra i due, e doveva prendersi la responsabilità di fare quel primo passo.

«Senti Alexander, per quanto riguarda…» iniziò quindi col dire Magnus dopo un lungo, denso attimo di silenzio. Il ragazzo parve comprendere immediatamente ciò cui si stava riferendo il maggiore e scuotendo la testa lo fermò agitando una mano davanti a sé.
«No, no, non serve. Lascia stare.» lo interruppe senza ancora riuscire a sollevare su di lui lo sguardo.

D’istinto Magnus sollevò una mano e afferrò il polso di Alexander per tentare di fermarlo, di non farlo scappare una volta ancora da sé prima di aver potuto spiegare.

«Alexander, ti prego, ascoltami. Io non—»

Cinque dita si chiusero improvvisamente attorno al polso di Magnus così da staccare la sua mano da quella dell’altro ragazzo.

«Cosa pensi di fare esattamente?» domandò una voce scura, seria e sottilmente minacciosa. Lo psicologo abbassò leggermente lo sguardo sulla figura di un ragazzo di poco più basso di lui ma decisamente più piazzato e muscoloso. Aveva chiarissimi capelli biondi ed un’espressione molto poco gentile sul viso. Due ragazze gli stavano dietro fissando il dottore con fare confuso. Una era minuta, bassina, dal viso arrossato e i lunghi capelli color carota; l’altra era slanciata, bellissima e attraente con i suoi grandi occhi neri e le labbra carnose.

«Niente io stavo solo—» iniziò col dire Magnus capendo che, ad occhi esterni, la scena avrebbe potuto essere fraintendibile.

«N-Non è niente Jace, per favore—andiamo a casa» lo interruppe nuovamente Alec muovendo un paio di passi verso l’amico e afferrandolo per un braccio.

Quindi quello era il famoso Jace, annotò mentalmente lo psicologo. Poteva vedere nei suoi occhi l’affetto che lo legava all’amico e l’autentico desiderio di volerlo proteggere. Era felice di sapere che Alexander potesse contare su qualcuno come lui nonostante il polso avesse iniziato a fargli discretamente male.

Delle due ragazze una sembrava totalmente persa in chissà quale riflessione lontana, probabilmente ubriaca, mentre l’altra sembrava starlo fissando intensamente.

«Alec ma quello non è—?» disse proprio quest’ultima venendo istantaneamente fermata dal fratello. Sembrava seriamente vicino a dare di stomaco in quel suo modo di barcamenarsi fra una persona e l’altra nel tentativo di fuggire. Magnus si sentì colpito da quelle sue reazioni come da uno schiaffo.

«Andiamo via! Per favore…» insisté trascinando questa volta per il braccio la ragazza. Questa, nel sentire il suo tono implorante, ammorbidì i tratti e distolse finalmente lo sguardo dal terapeuta andando a guardare il giovane.
Dopo un breve annuire mise una mano sulla spalla di Jace rivolgendo a Magnus, oltre la spalla del biondo, uno sguardo indecifrabile. «Dai Jace. Portiamo Clary a casa.»

Solo a quel punto il ragazzo lasciò libera la mano di Magnus rivolgendogli un’ultima, glaciale occhiata di avvertimento.

Quest’ultimo abbassò il braccio il cui polso era decisamente indolenzito e espirò leggermente quando vide il piccolo gruppo allontanarsi. Il modo in cui Alec aveva pregato i suoi amici di andare via fu la goccia che gli fece comprendere quanto sbagliato fosse, da parte sua, tentare di raggiungerlo ancora una volta. Lo aveva visto smantellarsi in pezzi sotto i suoi occhi al solo vederlo. Lo aveva visto andare nel panico, sbiancare, ritrarsi come fosse stato fatto di fuoco. Non era giusto, da parte sua, imporgli la sua presenza. Non era giusto ferirlo ancora e ancora e ancora. Catarina, tutto sommato, forse aveva avuto ragione fin dall’inizio. Aveva superato un limite cui non avrebbe mai dovuto neppure avvicinarsi. Adesso era giunto il momento di tornare dal lato giusto di quel confine. Lontano da lui.

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Capitolo 16
*** Confronto ***


Il tragitto fino a casa fu una confusa sequenza di fotogrammi.
Non sapeva se fosse per colpa dell’alcol, se fosse l’agitazione, il panico, ma gli sembrò di vedere il mondo muoversi al rallentatore attorno a sé ed al contempo troppo velocemente. Un istante prima stava andando verso la macchina di Jace, il momento seguente era davanti casa con Isabelle stretta al suo braccio. Non avrebbe saputo dire come ci fosse arrivato, né cosa fosse successo lungo la strada: sicuramente dovevano avergli chiesto qualcosa, ma l’unico suono che avesse riempito le sue orecchie era stato lo sciabordio del sangue che scorreva impetuoso nelle sue tempie, il martellante battito del suo cuore che si riverberava ovunque nel suo corpo, assordandolo.
  Quando entrò in casa realizzò che Jace e Clary non erano con lui, che Isabelle lo guardava preoccupata mentre lo guidava verso il piano di sopra. Alec sentiva la gola chiusa, il mondo vorticare in brillanti macchie di colore attorno a sé. Era come se tutto fosse desaturato e grigio e d’improvviso esplosioni di luce ridessero brillantezza ad ogni cosa, nauseandolo. Ignorò la sua stanza gettandosi nel bagno per sedersi accanto al water, la schiena poggiata contro la vasca in cerca di un solido sostegno. Il viso era imperlato di sudore freddo, il suo cuore continuava a battere violento. Si sentiva perso e spaventato. La sensazione di stordimento dovuta all’alcol non aiutava affatto facendolo sentire ancora più agitato.
D’un tratto Isabelle si inginocchiò davanti a lui e gli afferrò il viso fra le mani.
Gli ci volle qualche secondo per mettere a fuoco il suo volto. Qualche altro per rendersi conto che stava parlando. La sua bocca si muoveva ma lui non sentiva.
Non sentiva niente.
Alexander.
La voce di Magnus rimbombava nella sua testa in un loop infinito.
Gli aveva sentito pronunciare il suo nome in molti modi diversi nel corso dei loro incontri, allegramente, ironicamente, seriamente, eppure tutto quello che riuscì a ricordare in quel momento fu come aveva mormorato quell’unica parola con tono sconfitto.
Per colpa sua.
Di nuovo.
La consapevolezza di averlo ferito ancora una volta gli fece venir voglia di piangere. Perché? Perché qualsiasi cosa facesse portava ad un unico risultato? Ci aveva provato, ci aveva provato davvero a proteggerlo. Gli era stato lontano, aveva ignorato il suo richiamo anche se era stata la cosa più difficile che avesse fatto negli ultimi anni, eppure in qualche modo era comunque riuscito a far comparire quell’espressione triste sul suo volto.
Un lamento sfuggì alle sue labbra mentre la sua espressione si fece sofferente.
Isabelle lo scosse con forza, afferrandolo per le spalle, portandolo a riscuotersi leggermente da quello stato di alienazione.
«Alec!» stava quasi bestemmiando, fra i denti, tentando di non alzare la voce. «Porca miseria, vuoi dirmi qualcosa?!»
Il ragazzo la sentì ora, per la prima volta, e mugugnò in segno di protesta all’ennesimo scossone. Ancora uno e probabilmente avrebbe finito col rovesciarle addosso tutto quello che aveva messo nello stomaco nell’ultima settimana.
«—vomito» riuscì a trovare la forza di dire portando istantaneamente la sorella a fermarsi e farglisi accanto, probabilmente per spostarsi dall’eventuale traiettoria.
«Là dentro, possibilmente» disse, infatti, avvolgendogli il braccio attorno alle spalle in un chiaro intento di volerlo aiutare a sistemarsi davanti al gabinetto. Il ragazzo però scosse il capo reclinandolo leggermente all’indietro, oltre il bordo della vasca, le lunghe gambe distese lungo il pavimento piastrellato della stanza.
«Mh» mugugnò. «Non serve» disse senza aprire gli occhi, quasi desideroso di addormentarsi lì, in quella posizione scomoda, contro il duro supporto della vasca contro la schiena. Le mattonelle erano così piacevolmente fredde contro i suoi palmi che non si sarebbe alzato da lì molto presto.
Isabelle sospirò, ravviandosi i lunghi capelli neri dal viso con una mano, visibilmente provata.
«Mi vuoi dire che ti prende? Cos’è successo?» domandò con una nota dura nella voce, lo sguardo fisso sulla figura del fratello. Anche ad occhi chiusi Alec poteva sentire i suoi occhi addosso, penetranti. «Sono entrata un attimo per andare a recuperare Jace e Clary e quando sono uscita sembravi sull’orlo delle lacrime.» continuò, assolutamente intenzionata ad ottenere una risposta questa volta.
Alec rimase chiuso in un silenzio ostinato, una fitta dolora a stringergli il cuore.
Non se la sentiva di risponderle.
Non sapeva nemmeno cosa dire.
Come poteva spiegarle se lui per primo, a tratti, non capiva cosa gli stesse succedendo?
Isabelle sbuffò pesantemente.
«Quel tipo era il tuo psicologo, no?» domandò allora dopo qualche secondo di silenzio, cercando di cambiare approccio. «Pensavo che ti stesse facendo bene andare da lui. Perché allora all’improvviso hai smesso di andarci?» insisté cercando di ricorrere ad un tono più paziente e accomodante.
Alec voltò il capo verso la direzione opposta a quella della sorella, gli occhi stretti quasi come a non voler vedere neppure le immagini che quelle parole scatenarono nella sua stessa testa. Non voleva parlare di lui. Non voleva pensare a lui. Non voleva pensare a niente.
Isabelle non mancò di notare la sua reazione e assottigliò lo sguardo.
«Alec, per l’amor di Dio, parlami! Se quel tizio ti ha fatto qualcosa dobbiamo saperlo.» lo scosse una volta ancora per il braccio cercando di costringerlo quanto meno a voltarsi verso di lei.
Subito Alec aprì gli occhi e si voltò verso la sorella scuotendo il viso.
«No!» esclamò con urgenza, bianco in viso. «Non mi ha fatto niente!» si affrettò a dire col respiro corto, la gola a stringersi fastidiosamente. Più si agitava più gli sembrava di sentire lo stomaco contorcersi, ribellarsi smuovendo il contenuto in ondate brucianti. «Per favore Izzy, ti prego, non—»
La sua voce s’infranse quando una lacrima scivolò giù dai suoi occhi.
Isabelle perse le parole notando la fragilità sul viso del fratello, il modo in cui parve perso e spaventato fra le sue braccia. Le parve tornato improvvisamente bambino e mai come in quel momento notò quanto il ragazzo fosse stato simile al suo fratellino.
Senza dire altro la ragazza andò a portare il viso del maggiore contro la sua spalla abbracciandolo con fare protettivo. L’avvolse fra le sue braccia tenendo una mano sulla sua schiena e l’altra incastrata fra i suoi capelli. Lo sentì respirare in maniera irregolare contro la propria pelle, la sua fronte fredda ed umida di sudore contro la spalla. Mai quanto in quel momento l’era parso così—piccolo. Lui ch’era un gigante, lui che era sempre stato la sua roccia fin da bambini. Il suo eroe.
Cosa ne era stato di lui?
Dov’era andata a finire la sua forza?
Una lacrima sfuggì da sotto le sue lunghe ciglia mentre, carezzando con lenti movimenti circolari la zona fra le sue scapole, andava a sussurrare piccole rassicurazioni al suo orecchio.
«Shhh, va tutto bene.» sussurrò con la voce tremante. «Andrà tutto bene. Ci sono qui io, fratellone.»
Alec si abbandonò all’abbraccio della sorella piangendo silenziosamente contro la sua spalla.
Si odiava per quel che le stava facendo passare.
Si odiava per quel che le stava mostrando.
Si odiava per il non poterle dare delle risposte.
Si odiava per quel che le aveva fatto.
Eppure non riuscì a fare a meno di necessitare quel momento. Quel totale senso di abbandono fra le braccia di qualcuno che sapesse farlo sentire al sicuro. Qualcuno che sapeva di casa.
Sapeva che ogni cosa era molto lontana dall’andare bene.
Sapeva che anche Isabelle non credeva alle sue stesse parole.
Ma si sentì comunque leggermente meglio nel sentire quella bassa, dolce cantilena.
Sentire la sua voce mormorargli quella litania di rassicurazioni calmò lentamente il suo pianto facendolo finalmente sprofondare in un lungo sonno senza sogni.
 
 
Quando riaprì gli occhi, Alec sentì il collo dolere.
Non aveva idea di quanto tempo fosse trascorso da quando si era addormentato ma a giudicare dal cerchio alla testa, decisamente, non stava troppo meglio. Si discostò lentamente dal corpo della sorella sentendola muoversi all’istante. Isabelle doveva essere rimasta sveglia perché subito si sporse verso di lui per aiutarlo a raddrizzarsi.
«Tutto bene?» s’informò a voce bassa, delicata, scostandogli i capelli dal viso.
Alec apprezzò la premura e la guardò con un mezzo sorriso colpevole.
«Mi fa male ovunque.» ammise pensando al doloroso pulsare delle sue tempie, al modo in cui gli doleva in mezzo agli occhi, ai muscoli intorpiditi per la posizione scomoda tenuta troppo a lungo.
Isabelle sorrise mesta prendendo dal pavimento accanto a sé un bicchiere di acqua ed un blister di antidolorifici. Il ragazzo afferrò il bicchiere che gli venne porto e osservò il modo sicuro e sciolto della sorella di muoversi.
«Immagino. Ma una di queste e qualche ora di sonno dovrebbero aiutare» disse la ragazza estraendo una pillola dal suo alloggio e porgendola al maggiore.
Alec poggiò il farmaco in fondo alla lingua e bevve tutta l’acqua nel bicchiere. Solo quando sentì le prime gocce bagnargli la bocca si accorse di quanto, in effetti, si sentisse assetato. A quel punto Isabelle si alzò in piedi -perfettamente in equilibrio sui suoi tacchi nonostante la posizione scomoda delle ultime ore- e afferrò il fratello per le braccia per aiutarlo ad alzarsi.
Il ragazzo si sentì leggermente imbarazzato dalla cosa ma non se la sentì di dirle alcunché. Era silenziosamente grato della sua presenza, abbastanza da apprezzare la sua premura e non sbattergliela in faccia.
Isabelle l’accompagnò fino in camera dove lo lasciò infilarsi a letto e gli rimboccò teneramente le coperte. Alec si sentì immediatamente meglio una volta che la sua schiena incontrò il materasso e avvertì la stanchezza di quel giorno tornare a gravargli addosso. I suoi occhi erano ancora pesanti dal sonno, dal pianto e dal doloroso pulsare che sentiva dietro le orbite e per questo si chiusero immediatamente non appena poggiò il capo sul cuscino.
Non fece neppure in tempo a sentire la voce di sua sorella augurargli la buonanotte che già era nuovamente sprofondato nell’incoscienza.
 
 
Quando riaprì gli occhi la volta successiva, il cielo fuori dalla finestra era ancora buio.
A giudicare da come si sentisse fisicamente meglio era sicuro di aver dormito a lungo eppure non sembrava trascorso che un momento da quando s’era nuovamente assopito.
Sospirando, Alec si rigirò nel letto così da ritrovarsi con il viso rivolto verso il soffitto, una mano sulla fronte a spostare qualche ciocca disordinata dai suoi occhi.
I ricordi degli eventi della sera precedente lo assalirono tutti in una volta facendolo sentire a dir poco sfinito. Non voleva affrontare le conseguenze di quella serata eppure al tempo stesso si sentiva un po’ più leggero.
Quello che era successo con Isabelle, quel pianto sentito e troppo a lungo trattenuto, aveva in qualche modo alleviato il peso che sentiva addosso dandogli un minimo di forza per reagire. Difatti, contrariamente a quanto era successo nelle settimane precedenti, invece di rimanere a letto a crogiolarsi nella sua malinconia, Alec si liberò delle coperte e si mise a sedere con le gambe piegate oltre il bordo del materasso. Coi piedi che cercavano alla rinfusa le ciabatte si massaggiò il collo indolenzito e afferrò il proprio cellulare dal comodino. Non ricordava di avercelo messo lui, probabilmente doveva averlo messo lì Isabelle mentre dormiva.
Il display gli disse che erano le cinque del pomeriggio portandolo a sollevare basito le sopracciglia. Non aveva mai dormito così tanto in tutta la sua vita.
Si alzò in piedi e, avvicinandosi alla finestra, vide i lampioni illuminare la strada sottostante, qualche ragazzo passeggiare ben stretto nel proprio cappotto per proteggersi dal freddo. In un paio di giorni sarebbe stato Natale e le temperature erano decisamente basse, al punto da materializzare i respiri della gente in soffici nuvolette di vapore.
Le luci che abbellivano le case circostanti, da lontano, sembravano quasi un mare di stelle colorate e offrivano una visione davvero suggestiva.
Chiudendo la finestra Alec recuperò degli abiti puliti e quindi si diresse verso il bagno.
Gli sembrava di poter ancora sentire la sensazione del sudore sulla pelle sebbene quello si fosse già asciugato da ore. Si spogliò dei vestiti del giorno precedente e si concesse una lunga doccia rigenerante per eliminare gli ultimi residui di quella pessima serata.
Sperava che l’acqua potesse cancellare quanto era successo ma sapeva che nessuno avrebbe dimenticato. Soprattutto Isabelle.
 Quando uscì dalla cabina indossò il suo accappatoio e si osservò allo specchio per diverso tempo ricercando in quel riflesso se stesso. A tratti gli sembrava di non riconoscersi nemmeno, di non ricordare se fosse sempre stato così. Aveva sempre portato i capelli a quel modo? I suoi occhi erano sempre stati così grandi? Le sue ciglia così lunghe? Faticava a ritrovare, nella sua mente, l’Alec cui tutti sembravano aggrapparsi così disperatamente.
Si lavò distrattamente i denti, si asciugò per bene i capelli e quindi s’infilò un paio di vecchi jeans scoloriti ed una felpa nera dotata di cappuccio. Sentendosi decisamente più in ordine tornò nella sua stanza.
Infilò un paio di scarpe e quindi recuperò il cellulare preparandosi ad affrontare chiunque avesse trovato davanti di sotto. Sperò vivamente che Isabelle non avesse informato i genitori di quanto successo la sera precedente e quindi di non dovere delle spiegazioni anche a loro perché, davvero, non avrebbe saputo cosa dirgli.
Sceso di sotto vide che dei genitori non c’era traccia ma che Izzy era seduta sul divano del soggiorno assieme a Clary. Jace, stravaccato su una poltrona, carezzava il piccolo Church grattandolo sotto il mento.
Alec si ritrovò a fissare i ragazzi a labbra schiuse, non aspettandosi di trovarli lì.
«Alec» disse Isabelle non appena lo vide comparire da oltre l’arco del corridoio, portando anche la coppia di ospiti a volgere verso di lui lo sguardo.
«Ehi amico, ben svegliato!» esclamò Jace sollevando una mano, il sorriso immancabile sulle labbra. «Iniziavamo a pensare che non ti saresti più svegliato. Stavo quasi per salire a darti un bacio per vedere se avrebbe rotto l’incantesimo» ironizzò.
Alec avvampò a quelle parole arricciando d’istinto il naso.
«Piuttosto lasciami morire.» brontolò mentre andava in cucina a prendersi un bicchiere d’acqua, portando l’amico a ridere sulla sua poltrona.
Finora tutto era sembrato tranquillo. Per un istante osò quasi sperare che lo avrebbero lasciato andare. Per un istante.
Mentre svuotava il suo bicchiere vide Jace raggiungerlo in cucina con le mani infilate nelle tasche dei pantaloni. «Ehi Alec, senti, possiamo parlare un attimo?»
Ovviamente.
Alec mise giù il bicchiere e si voltò verso di lui.
«Senti se è per ieri—» iniziò col dire prima di venire interrotto dall’amico.
«No. Non esattamente.» disse il biondo spegnendo la replica di Alec sul nascere.
Il ragazzo si ritrovò ad osservarlo confuso non sapendo cosa aspettarsi da lui. Jace sembrava tranquillo, assolutamente rilassato, ma questo non toglieva che avrebbe potuto mettersi a fargli una paternale in qualsiasi momento.
Alec boccheggiò per un istante portando l’amico a dargli un buffetto sulla spalla.
«Dai vieni, facciamoci un giro.» lo incoraggiò mostrandogli il suo sorriso sghembo, portando Alec ad esitare prima di annuire piano.
Salutando le ragazze i due infilarono i loro giacconi ed uscirono fuori accolti da una ventata di aria gelida. Il contrasto col calore degli interni fece salire un brivido lungo la schiena del ragazzo facendolo stringere in se stesso, le mani ficcate rapidamente nelle tasche del piumino. Sentiva le punte delle orecchie iniziare a gelarsi eppure, in qualche modo, la sensazione dell’aria frizzante sulla pelle lo galvanizzò.
Mosse qualche passo rimanendo ancora nel cortile d’ingresso di casa vedendo l’aria condensarsi sotto i suoi occhi in piccole nubi evanescenti. Jace, dal canto suo, lo affiancò fermandosi poi sul posto a gambe leggermente divaricate.
«Credo di sapere qual è il problema.» esordì, d’un tratto, ruotando il capo in direzione dell’amico. Alec si sentì colto alla sprovvista a quelle parole e lo fissò instupidito sbattendo rapidamente le ciglia, disorientato.
«Co-come?» chiese, esitante, sentendo la tensione iniziare già ad arrivargli alle viscere.
Jace lo guardò in silenzio per un istante. «Io lo so
Alec mosse un passo indietro fissandolo inorridito.
«Non so di cosa tu stia—N-non sai cosa…» iniziò col dire sentendo il sapore della bile bruciargli nella gola. Sentiva che avrebbe potuto vomitare da un momento all’altro. Non poteva credere che Jace sapesse. Lui non poteva sapere cosa c’era che non andasse in lui.
Jace rilasciò uno sbuffo di condensa dalle narici.
«Sono anni che lo so, Alec. Ma vedendo come ti faceva sentire ho sempre pensato che non fosse il caso di parlarne prima che fossi tu il primo a farlo. Volevo che ti sentissi pronto, che ti rendessi conto di poterti confidare con me. Ma adesso mi sembra che tu non possa cadere più a fondo di così e non credo che dovrei aspettare ancora per parlare.»
Alec sentì il cuore battergli dolorosamente rapido nel petto, la bocca farsi asciutta mentre lo fissava stordito. Il freddo della brezza pomeridiana sembrò aver raggiunto l’interno delle sue ossa, il nucleo stesso della sua anima.
«Cosa—non capisco cosa vuoi dire…» balbettò, ancora, frastornato dall’inattesa svolta degli eventi.
Jace gli si piazzò davanti, erto in tutta la sua altezza, e lo guardò dritto negli occhi senza la minima traccia della leggerezza che aveva mostrato poco prima dentro casa.
«So che avevi una cotta per me.»
Le sue parole affondarono come macigni dentro il ragazzo.
Alec sgranò gli occhi balbettando, nel panico, senza emettere alcun suono.
«Cosa?!» riuscì ad esclamare soltanto, alla fine, acuto. Non sapeva come il ragazzo potesse sapere una cosa simile, non aveva idea di come lo avesse compreso o da quanto tempo lo sapesse. L’unica cosa che, d’istinto, sapeva, era che dovesse negare. Negare e fuggire. Scappare dai suoi occhi, dalle sue parole, nascondersi lontano dove il suo sguardo non potesse impedirgli di mentire. Ma i suoi piedi pesavano improvvisamente come piombo, il suo corpo sordo ai suoi comandi.
Jace non parve affatto impressionato dalla reazione dell’amico e, assolutamente composto, gli rimase davanti sostenendo il suo sguardo.
«Andiamo Alec, pensi davvero che non me ne fossi accorto? Che sia stato il primo a guardarmi così?» riprese il biondo colpendo il ragazzo con la sua schiettezza quasi brutale al pari d’uno schiaffo in pieno volto. «Ti sono piaciuto per anni e dato che non hai mai detto una parola non l’ho fatto nemmeno io. Non stava a me farlo, non se non eri pronto a farlo per primo. Ma se nasconderlo ti fa sentire così allora—»
Lo spintone giunse prima che Alec se ne rendesse conto.
Jace, sorpreso tanto quanto lui, arretrò di diversi passi nonostante fosse sempre stato quello più forte fra i due.
Il viso di Alec era congestionato dall’orrore, dallo shock, il suo cuore così rapido da fargli sinceramente male contro il torace. «Non sai niente! Niente!» esclamò il ragazzo col fiato corto, gli occhi lucidi per via del freddo e dell’agitazione.
La scoperta che Jace avesse sempre saputo tutto, in tutti quegli anni, lo aveva profondamente scosso e spaventato. Al tempo stesso, però, non sapeva quello di cui stava parlando. Non aveva idea della profondità dell’abisso dentro cui aveva iniziato a scavare e non sapeva quanto pericolosamente stava spingendo l’altro verso il limite.
Jace lo fissò sorpreso, per una volta a corto di parole.
«Alec…» riuscì solo a mormorare, dopo un po’, man mano che la confusione iniziale sfioriva. «Non c’è niente di male. Per me sei lo stesso—»
Ma prima che potesse dire cosa fosse per lui, Alec lo aveva nuovamente spinto da parte ed era corso via.

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Capitolo 17
*** Conseguenze ***


!! Avvertenze: utilizzo di linguaggio volgare/offensivo. Naturalmente sono assolutamente contraria all'uso di determinati termini e relativi sinonimi, spero perciò di non urtare la sensibilità di nessuno e che si tenga a mente che qualsiasi termine usato si limita va contestualizzato !!


Seduto al tavolino esterno di un bar Magnus tamburellava nervosamente le dita della mano destra contro la superficie ruvida dello stesso. Ripensava a quello che era accaduto la sera precedente quando aveva casualmente incontrato Alexander fuori da un club.
Non si sarebbe mai aspettato di trovarlo in un posto simile ma ripensandoci a mente fresca suppose che non fosse stata una sua idea quella di recarvisi: probabilmente era stato trascinato dai suoi amici. L’idea lo faceva sentire parzialmente più tranquillo; sapere che il ragazzo non fosse solo e che non lo stessero lasciando a commiserarsi lo sollevava. Sperò comunque che non lo stessero mettendo sotto pressione per parlare dei suoi problemi ritrovandosi a quel punto a sospirare amaramente. Non stava più a lui pensarci, no? Non avrebbe dovuto essere una sua preoccupazione. Ma come poteva fermarsi? Come poteva semplicemente imporsi di ignorare qualcuno che aveva così evidentemente bisogno di aiuto? Del suo aiuto?
Dopo il triste incontro Magnus non se l’era sentita di entrare nel locale e, a capo chino, era tornato al suo loft. La sua testa era stata così piena di pensieri che, naturalmente, non aveva chiuso occhio ed alla fine aveva trascorso la nottata seduto nel salone a carezzare Presidente Meow sul suo grembo e ad osservare il cielo buio dalla finestra. Aveva osservato l’alba sorgere, i suoi colori pastello crepare il manto oscuro della notte in schizzi brillanti, ditate rosate su una tela buia. A quella visione aveva sentito lentamente il suo animo alleggerirsi, solo per un brevissimo istante, ritrovandosi così col sentire gli occhi chiudersi pesanti.
Riposò meno di un paio d’ore prima di sentire la sveglia risuonare per l’ampia stanza osservando il suo display con occhi stanchi.
Avrebbe dovuto andare al lavoro. Avrebbe dovuto presentarsi ai suoi pazienti con la consueta calma ed aiutarli a trovare la via giusta per affrontare i loro problemi quando il suo stesso animo era in tempesta. Come avrebbe potuto?
Per una volta, la prima, contattò Lucy per dirle di spostare tutti i suoi impegni.
Così aveva passato la mattinata chiuso in casa, una coperta avvolta attorno al corpo ed un profondo senso di stanchezza a gravargli sulle spalle. Aveva tentato di dormire per un po’ ma la sua mente non gli dava pace continuando a tenerlo ad un livello superficiale d’incoscienza, assai più vicino alla veglia che non al sonno profondo. Rannicchiato sul divano perse il conto del tempo fino a che non fu il suo corpo a metter fine a quel tormento. Digiuno dal pranzo precedente si forzò di mangiar qualcosa senza tuttavia le forze per cucinare alcunché, seduto sfibrato al bancone della cucina.
Sentiva di aver bisogno di qualcuno, di non rimanere solo in quel momento.
Telefono alla mano scorse l’elenco dei suoi contatti sapendo che c’era solo una persona cui aveva bisogno di parlare in quel momento.
«Magnus?» la voce di Catarina lo chiamò dall’altro capo del telefono vagamente coperta dai suoni del traffico. Il ragazzo poteva sentire il mormorio dei passanti attorno a lei, il fruscio del vento, il respiro accelerato di chi parlava mentre era in movimento. Una sirena suonava dalla distanza giungendo ovattata al microfono del cellulare.
«Ehi Cat.» salutò lui cercando di nascondere il suo disagio interiore con un tono tutto sommato tranquillo e neutrale. La cosa, in sé, era comunque strana dato che solitamente quando chiamava qualcuno aveva due tipi di toni: il lamentoso per quando qualcosa non andava come voleva lui o si sentiva in vena di far capricci e l’entusiasta che era il suo generico per qualsiasi altra situazione.
«Va tutto bene?» chiese la ragazza stranita.
Magnus si prese qualche attimo prima di rispondere.
«Possiamo vederci?» fu quel che riuscì a dire quando aprì bocca avvertendo dall’altro capo del telefono la sua amica fermarsi. La immaginò bloccarsi all’improvviso per strada, la gente passarle accanto come un corso d’acqua che incontri una roccia lungo il suo cammino.
«Certo. Passo da te?» Il suo tono si fece più serio ma non insisté oltre conoscendo Magnus bene abbastanza da sapere che se avesse voluto risponderle l’avrebbe già fatto la prima volta.
E così, un’ora e mezzo più tardi, la giovane giunse al loft dell’amico.
Invece di salire i due si diressero ad un bar non molto distante perché Magnus aveva profondamente bisogno di cambiare aria, di uscire e di fare qualsiasi cosa non fosse mettere radici in casa.
Mentre il ragazzo sedeva ad uno dei tavolini esterni del bar, Catarina era andata un attimo a lavarsi le mani nel piccolo bagno del locale lasciando modo al giovane di riordinare le idee. Era stato lui a chiamarla, a sentire il bisogno di sfogarsi con lei, eppure adesso che era lì non sapeva bene nemmeno lui cosa dire.
Il cameriere tornò, sorridente, lasciando sul tavolino i due caffè e Magnus fermò il ritmico tamburellare delle sue dita per pagargli distrattamente il conto.
Quando Catarina tornò fra i due calò un denso silenzio.
Gli unici suoni udibili furono quelli degli altri tavoli attorno, i clacson distanti della strada, il tintinnare dei cucchiaini contro le tazzine.
Solo dopo che l’infermiera ebbe bevuto il primo sorso di caffè caldo trovò la forza di spezzare la quiete fra loro.
«Allora.» esordì, incerta, umettandosi le labbra secche dal freddo. «Vuoi dirmi cos’è successo?» chiese calma guardando l’amico negli occhi.
La giovane non aveva bisogno di sentirgli dire che fosse accaduto qualcosa per saperlo: lo conosceva bene abbastanza da percepirlo nel suo sguardo.
Magnus espirò pesantemente mentre l’amica si stringeva nel suo cappotto e si morse nervosamente il labbro per qualche istante prima di dire qualsiasi cosa.
«Ho incontrato Alexander.» confessò.
Catarina sgranò leggermente gli occhi a quella rivelazione e l’osservò in muta sorpresa, la tazzina ferma a mezz’aria.
Il ragazzo non sollevò lo sguardo continuando a rigirare il suo caffè con fare assorto.
«Era fuori da un club, da solo. Ovviamente ho cercato di parlargli ma non ha voluto nemmeno starmi a sentire.» spiegò con un pesante sospiro fermando il moto rotatorio del cucchiaino. «Alla fine i suoi amici lo hanno raggiunto e sono andati via. Avresti dovuto vedere la sua faccia quando mi ha visto, sembrava sul punto di vomitare.» mormorò chiudendo gli occhi con fare stanco, le spalle pesanti tenute basse in una posa visibilmente sconsolata.
Catarina non poté fare a meno di avvertire un colpo al cuore, il senso di colpa a chiuderle la gola. Non aveva mai voluto ferire nessuno e solo ora si rendeva conto di quanto avventate fossero state le sue azioni seppur fondate sulle migliori intenzioni.
 «Non è colpa tua Mags…» mormorò la ragazza, pentita, cercando di ignorare il nodo in gola. «E’ soltanto colpa mia se si sta comportando così, non è con te che ce l’ha.» proseguì con amarezza stringendo con forza le labbra fra loro per un brevissimo istante.
«Forse se riuscissi a parlargli di nuovo potrei convincerlo a starti a sentire…» azzardò l’infermiera, l’aria condensata ad uscire in piccole nuvolette di vapore bianco dalle sue labbra sottili.
Magnus sorrise amaramente alla sua proposta comprendendo lo stato d’animo dell’amica; sapeva che si sentiva responsabile per l’accaduto e che voleva fare qualcosa per sistemare la situazione. Capiva i suoi sentimenti ed in parte era contento del fatto che volesse genuinamente dargli una mano. Dall’altro lato era però ancora incapace di perdonare totalmente la sua intrusione e preferiva occuparsi personalmente della cosa. Non che sentisse di avere alcun modo per risolverla, comunque.
«Non credo vorrebbe sentire nulla da nessuno di noi in questo momento.» sospirò, sconfitto, sentendosi comunque leggermente meglio nell’aver parlato a qualcuno della vicenda. Si sentiva comunque incredibilmente triste ed abbattuto naturalmente ma era come se parte di quel peso che gli gravava sul petto si fosse alleviato.
I due rimasero in silenzio a lungo, a quel punto, sorseggiando pensierosi la loro bevanda più per il bisogno di assumere qualcosa di caldo che non per vero e proprio desiderio. Fortunatamente non c’era vento quella sera e l’aria frizzante era quasi piacevole contro il viso. Catarina indossava un adorabile cappello di lana grigio a tenerle caldo il capo mentre Magnus aveva la testa totalmente scoperta: qualsiasi tipo di protezione avrebbe inevitabilmente finito con il rovinargli l’acconciatura.
«Mi dispiace per quello che ho fatto» disse Catarina spezzando il denso silenzio dopo aver finito il proprio caffè. Aveva lo sguardo basso e osservava cupa la tazza vuota sul tavolo. Raramente Magnus le aveva visto una simile espressione in viso e benché sapesse che la colpa di tutto era stata unicamente sua, detestava vederla in quello stato.
«Lo so, Cat.» mormorò il ragazzo senza alcuna traccia di rabbia nella voce. Nel suo tono c’era solo una profonda e indescrivibile stanchezza.
«Volevo davvero solo proteggerti. Non avevo capito che la situazione fosse già ad un punto così critico…»
«Ma il problema non è quello che provo io a riguardo, Cat.» intervenne il ragazzo con tono paziente, la schiena comodamente abbandonata contro lo schienale della seduta. «Il problema è quello che prova lui. Anche se avevamo fatto dei progressi non avevamo ancora nemmeno sfiorato l’origine dei suoi problemi e adesso ho paura che oltre ad aver cancellato ogni passo fatto la situazione sia persino peggiorata.» 
Per quanto avesse già apertamente ammesso all’amica di provare qualcosa per quel ragazzo, la sua principale preoccupazione non era mai stata per se stesso; dalla sera del suo compleanno la cosa che più gli dava angoscia era l’idea che Alexander potesse sentirsi in colpa, che potesse soffrirne, che potesse essersi richiuso in se stesso ancor più spaventato e ferito di prima.
Catarina sapeva che non c’era niente che chiunque potesse dire o fare per alleviare questo tipo di peso dal suo petto. Si richiuse in un silenzio colpevole tenendo il capo chino e lo sguardo fisso su un punto imprecisato del tavolino.
Solo quando la suoneria del telefono di Magnus squillò dalla tasca interna del suo cappotto sollevò il viso per osservare l’amico. Il ragazzo, a sua volta piuttosto mogio, recuperò l’apparecchio fissando distrattamente lo schermo con occhi tristi.
Non appena distinse le lettere sul display il suo sguardo mutò immediatamente.
«Alexander?» disse rispondendo alla chiamata.
 
 
*
 
 
Non aveva bene idea di dove fosse ma, in quel momento, non gli importava.
Non ricordava come fosse arrivato in quel pub, quali strade avesse percorso o quante volte avesse attraversato, troppo distratto dalla voce di Jace nella sua testa che continuava a ripetergli “so che avevi una cotta per me”.
La sola idea gli faceva venire i brividi raggelandogli il sangue. Non si era mai aspettato una simile svolta degli eventi, non aveva mai previsto che sarebbe giunto il giorno in cui questo suo segreto avrebbe visto la luce del giorno. Soprattutto, non aveva mai e poi mai immaginato che lo stesso Jace si sarebbe rivelato al corrente della situazione. E poco importasse che ne avesse parlato con un tono assolutamente sereno, che non fosse apparso disgustato o infastidito dalla cosa, per quel che riguardava Alec, niente e nessuno avrebbe mai potuto togliergli dal cuore il timore che le cose -da quel momento in poi- sarebbero inesorabilmente cambiate fra loro.
Jace sapeva.
Jace sapeva.
Più quella consapevolezza metteva radici nel suo animo, più il cuore del ragazzo martellava forte nel suo petto togliendogli lucidità e respiro. Si sentiva perso, stravolto, sull’orlo di una crisi isterica. Non voleva pensarci, non voleva affrontarlo, non voleva vedere nessuno né tornare a casa. Tutto quello che desiderava era scappare, fuggire lontano abbastanza da tutto e da tutti così da sentire di poter tornare a respirare anche solo per un momento.
Senza rendersene conto realizzò di essersi rifugiato in un locale sedendosi, agitato, al poco affollato bancone. Col cuore in subbuglio e la sensazione di non riuscire a respirare correttamente, sollevò lo sguardo sugli scaffali colmi di bottiglie di vetro trasparenti e ricordò le sensazioni della sera precedente. Seduto al tavolo di un locale non poi troppo diverso da quello -se non si considerava l’assenza di musica e folla sudata al seguito- aveva scoperto per la prima volta i sottili piaceri dell’alcol. Quel graduale stordimento che attutiva i pensieri, le paure e le preoccupazioni riducendoli a un misero brusio di sottofondo di cui potersi preoccupare in un secondo momento, quella pesante sensazione di leggerezza che confondeva i sensi e la mente, quel torpore che sembrava alterare la prospettiva al punto da far perdere ogni cosa di significato. Era una dolce fuga di cui, in quel momento, aveva disperatamente bisogno.
Bevve il primo bicchiere della prima cosa che gli fosse capitata di leggere alle spalle del barista senza nemmeno badare al sapore che gli aveva invaso la bocca. Accolse grato il bruciore lungo la gola e lo ricercò ancora e ancora e ancora.
Sapeva che una cosa simile non era da lui, sapeva che non sarebbe stata una soluzione, che era sbagliato e che probabilmente se qualcuno l’avesse visto si sarebbe sentito profondamente deluso dal suo atteggiamento, ma accantonò anche quella consapevolezza annegandola nell’ennesimo bicchiere assieme al resto dei suoi tormenti interiori.
Affogò ogni tentativo della sua coscienza di frenarlo con ostinazione e testardaggine ritrovandosi nel giro di quasi mezz’ora a riconoscere i primi segnali di sollievo. I suoi pensieri avevano iniziato ad essere meno chiassosi, il suo cuore più leggero, i suoi sensi meno lucidi ed un sospiro soddisfatto gli fece finalmente fremere le palpebre sciogliendo parte della tensione addensata sulle sue spalle.
Quando il suo cellulare suonò per l’ennesima volta non ebbe più l’istintivo impulso di scaraventarlo lontano dove non avrebbe più potuto raggiungerlo ma lo recuperò con mano leggermente incerta. L’apparecchio gli scivolò di mano un paio di volte mente tentava di estrarlo dalla tasca rimbalzandogli per le dita svariate volte durante i suoi goffi tentativi di non farlo cadere a terra.
Sul display il riquadro di una notifica indicava 18 chiamate perse da parte di Jace e 6 di Isabelle. Una ruga si formò fra le sopracciglia di Alec mentre cercava di mettere a fuoco i caratteri luminosi. Non provò paura all’idea di fronteggiarli ma un profondo senso di fastidio e noia. Non potevano lasciarlo in pace per dieci minuti?
Poggiando sul bancone il bicchiere per l’ennesima volta vuoto, sospirò pesantemente e spense lo schermo: decise di rimandare quella questione ad un’altra volta. Certo, sapeva che da sobrio avrebbe trovato la faccenda ancora più complicata e difficoltosa, ma al contempo era certo che in quell’esatto istante non aveva alcuna voglia di mettersi a discutere con nessuno. Voleva solo bere in pace. Bere e dimenticare.
O almeno provarci.
Una zaffata di fumo gli giunse in pieno viso inondandogli i polmoni. Tossendo per qualche secondo Alec notò che accanto a sé c’era seduto un uomo sui quaranta, forse tardi trenta, dalle spalle larghe e una pesante camicia a quadri intento a fumare disinteressato uno spesso sigaro marrone. L’olezzo di quell’affare era atroce per lui e, oltretutto, gli faceva lacrimare gli occhi.
«Le dispiacerebbe fumare fuori?» si rivolse all’uomo, Alec, dopo essersi schiarito la gola un paio di volte. Nel farlo non mancò di sentirla irritata e bruciante: se fosse merito dell’alcol o colpa del fumo inalato, non avrebbe saputo proprio dirlo.
L’altro, senza nemmeno degnarlo di uno sguardo, si limitò a sollevare il dito medio dell’altra mano guardando una qualche partita trasmessa in quel momento sulla TV appesa alla parete lì vicino.
Il gesto immotivatamente scortese fece vedere rosso al ragazzo che, senza i freni della sua coscienza, reagì senza nemmeno praticamente pensarci: con un rapido gesto Alec sfilò via il sigaro dalle dita sorprese dell’altro e glielo lasciò cadere nel bicchiere con un’espressione severa sul viso. 
Solo allora l’uomo sembrò degnarlo di vera e propria considerazione e, guardandolo con fare infuriato, ringhiò un roco: «Che cazzo ti salta in testa? Cerchi rogne?»
Alle sue parole seguì uno spintone che, assieme alla poca resistenza dell’altro all’alcol, lo spedì facilmente a terra nel silenzio generale; forse perché la caduta non era stata così terribile, forse perché magro com’era era pur sempre un uomo o forse perché i suoi sensi erano effettivamente ovattati, Alec non sentì particolare dolore e si rialzò in breve tempo stringendo i denti con rabbia.
«E allora? Se fosse?» reagì spintonandolo a sua volta premendo entrambe le mani sul suo petto, il sangue che gli fluiva nelle vene come un torrente in piena, il sangue a frusciare nelle orecchie quasi assordandolo.
In quel momento sentiva anni ed anni di rabbia e dolore repressi salire in superficie, addensarsi sotto le sue dita. Si riscoprì indifferente ai richiami del barista, così come alla voce di alcuni presenti che cercavano di fermare l’imminente rissa. Tutto ciò cui riusciva a pensare era che era stanco, che era incazzato e che quel tipo sembrava proprio la persona giusta contro cui sfogarsi.
La sua spinta non era stata in grado di farlo cadere dallo sgabello ma di smuoverlo solo leggermente sul posto. Con una risata di scherno l’uomo si alzò gonfiando il petto e guardandolo dall’alto in basso: era solo di poco più alto di lui ma la cosa più evidente era la differenza di stazza fra loro. Alec era sempre stato slanciato e longilineo, con un fisico asciutto e adatto alla corsa; l’uomo che aveva di fronte aveva una corporatura massiccia e importante con braccia spesse e spalle ampie.
Nel vedere la palese differenza fra loro, questi ridacchiò squadrandolo da capo a piedi.
«Allora saresti proprio uno stupido» replicò l’uomo con un luccichio freddo nello sguardo, l’espressione tagliente di chi voleva ferire e far male. «Che cosa credi di poter fare con quelle braccine, frocetto?»
La parola, gettata lì con estrema non curanza, venuta fuori quasi con naturalezza in un’aberrante dimostrazione d’ignoranza, raggelò per un istante il sangue nelle vene di Alec.
Si trattò solo di un secondo, di un istante.
Era come il momento che precedeva lo scoppio d’un’esplosione quando il silenzio sembrava acuirsi al suo massimo prima d’infrangersi al pari d’un’onda contro uno scoglio.
Il suo corpo s’irrigidì per un secondo, ogni sua funzione s’interruppe per una frazione di secondo prima che qualcosa scattasse ed Alec perdesse definitivamente il controllo.
Quasi abbaiando si gettò contro l’altro con fare istintivo. Abbassandosi leggermente sulle ginocchia usò la spalla per colpire l’addome dell’altro in una sorta di placcaggio inaspettato che finì col portarli entrambi a terra, l’uomo disteso di schiena al suolo ed Alec quasi a cavalcioni su di lui.
«Non sono un frocio!» tuonò sentendo la gola graffiare, il suo primo pugno ad atterrare contro il viso dell’altro mentre la mano libera gli stringeva il colletto della maglietta. «Non sono un frocio! Non sono un frocio!» continuò a dire colpendo, ad ogni ripetizione, con un altro pugno. «Non-lo-sono!»
Il ragazzo non aveva mai fatto nulla del genere, non si era mai ritrovato coinvolto in una rissa, né aveva mai tirato uno schiaffo a nessuno in tutta la sua vita: non sapeva come e dove si colpisse qualcuno per fargli genuinamente male e perciò tutti i suoi colpi -improvvisati e guidati dal mero istinto- ebbero il solo risultato di far infuriare il suo avversario semplicemente di più.
 Questi ringhiò qualcosa che Alec non riuscì a capire nel trambusto generale e con un rivolo di sangue che gli colava dal labbro lo colpì un’unica volta in pieno viso.
Con un’esplosione di dolore, tutto piombò nel buio.
 
 
Quando i suoi occhi riuscirono a rimettere tutto a fuoco, Alec vide il viso di un altro uomo sulla quarantina riempire il suo campo visivo. Aveva lo sguardo fermo sul suo volto, grandi occhi scuri e folti baffi biondicci.
Stordito com’era seguì il suo primo istinto: allontanare lo sconosciuto spingendoselo via di dosso. Questi schiaffeggiò la sua mano come un genitore contrariato e gli voltò il viso con una certa forza, assottigliando lo sguardo.
«Il naso non sembra rotto.» disse l’uomo guardandolo attentamente in viso, il tono serio e rigido. Alec ci mise qualche istante a capire che stava parlando di lui, del suo naso. Rotto? Fece per inspirare dalle narici avvertendo solo allora un’intensa ondata di dolore propagarsi dal centro del suo viso a tutta la testa. Era intenso, acuto e violento: come aveva fatto a non notarlo un istante prima?
Sgranò gli occhi cercando di trattenere un grugnito e tentò di non pensare al rapido pulsare che sentiva alle tempie, in mezzo agli occhi. Si sentiva la testa prossima ad esplodere per quanto stava vibrando.
«Deve solo ringraziare!» esclamò un’altra voce che solleticò il desiderio del ragazzo di attaccare ancora.
L’uomo che aveva controllato il suo viso lo trattenne per le braccia rivoltandoselo fra le mani come fosse stato un pupazzo; Alec sentì i polsi chiusi in fredde e strette costrizioni di metallo, la mano di qualcuno spingerlo in mezzo alle scapole.
«Stai buono, non combinare altri guai» si sentì dire con tono di rimprovero, la sua mente ancora parzialmente annebbiata a rendergli difficile la lettura della situazione. Frammenti di immagini si ripercorsero nella sua mente ricostruendo parte della serata: la lite con Jace, il bere, lo scontro con l’energumeno. Ad un punto, fra quel momento e questo, doveva aver perso i sensi perché non aveva idea da dove fosse spuntato l’agente che adesso lo stava spingendo fuori dal locale con fare seccato. «Ti porto in centrale, hai un paio di domande a cui dover rispondere, ragazzo.»
Il cuore di Alec batté forsennatamente nel suo petto: per quanto fosse ancora intontito dall’alcol, dai residui dell’adrenalina ancora in circolo, dal pulsante e insopportabile dolore alla testa, riusciva ancora a comprendere quanto seria fosse la situazione.
Lui. Alec Lightwood. In manette.
Se solo non avesse trovato la situazione profondamente tragica, probabilmente si sarebbe messo a ridere.
Sfibrato dalle emozioni della giornata e, soprattutto, dal martellante dolore al volto, il ragazzo si lasciò condurre fino alla macchina in assoluto silenzio senza più dire una parola. S’abbandonò stanco contro i sedili della vettura osservando con occhi spenti la città sfrecciare oltre il finestrino, chiedendosi come fosse arrivato a quel punto. Come avesse fatto a ritrovarsi in quella situazione, cosa fosse successo per farlo finire lì.
L’agente, a sua volta, rimase in assoluto silenzio,
Guidò placidamente lasciando che la bassa musica proveniente dalla radio riempisse l’abitacolo dell’auto. Di tanto in tanto, quando si fermava ad un semaforo rosso, tamburellava con le dita sul volante al ritmo della canzone riprodotta al momento, una sola volta canticchiò a labbra chiuse mentre parcheggiava la macchina nei posti riservati di fronte alla centrale.
Il poliziotto -l’agente Smith- aiutò Alec a scendere dalla macchina e lo guidò verso l’interno dell’edificio.
Sebbene fosse stato rigido e distaccato al pub, non era mai stato violento o sgarbato con lui: quando lo afferrava per il braccio per manovrarlo lo faceva con cautela e meticolosità ma mai forza. Anche se non gli aveva mai sorriso né detto nulla di gentile, aveva mostrato un’espressione tranquilla che portò Alec a pensare che forse era dispiaciuto per lui. Poteva immaginare, dopotutto, quanto ai suoi occhi avesse dovuto apparirgli giovane e patetico.
Più tempo passava, più Alec sentiva sollevarsi il velo di leggerezza portato giù dall’alcol.
Man mano che rimaneva fermo, seduto contro il muro, il suo corpo si rilassava e la sua mente riacquistava lucidità. Immaginava che la scarica di adrenalina di poco prima e la breve rissa dovevano aver bruciato rapidamente gli effetti della sbronza sulla sua mente: tanto affanno per nemmeno un’ora piena di libertà dai propri problemi. Alec si sentì amaramente beffato dalla triste ironia della situazione.
Si chiese adesso cosa sarebbe successo.
Il poliziotto, dopo averlo messo a sedere, si era allontanato senza dirgli nulla ed ora Alec non aveva idea di cosa aspettarsi. Dopotutto non aveva commesso propriamente un crimine, no? Non era stata nemmeno una vera rissa, un solo pugno era bastato a stenderlo! Possibile che per questa storia avrebbe dovuto finire nei guai? Il suo naso quasi rotto era stata una punizione più che sufficiente per quanto lo riguardava: dubitava avrebbe bevuto di nuovo molto presto. Non in pubblico, almeno. O non da solo.
Sospirando si ritrovò quindi a vagliare tutta una serie di possibilità e scenari offerti dalla sua mente ancora scossa fino a quando, non sapeva nemmeno lui quanto tempo dopo, alzando distrattamente lo sguardo non si ritrovò a notare -incredulo- una figura dolorosamente familiare accanto all’agente Smith.

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Capitolo 18
*** No way out ***


«Alexander?» aveva risposto Magnus col cuore in gola, un’improvvisa tensione a calargli sulle spalle.
Il ragazzo aveva passato settimane ad ignorarlo ed evitarlo e persino il giorno precedente, faccia a faccia, era scappato via da lui senza il coraggio di guardarlo in faccia. Il fatto che adesso lo stesse chiamando così all’improvviso lo impensierì: che fosse successo qualcosa?
Catarina, di fronte a lui, sgranò gli occhi al sentire quell’unica parola e schiuse le labbra altrettanto sorpresa.
«No, sono l’agente Derek Smith, polizia di New York.» rispose la voce sconosciuta dall’altro capo del telefono. Un brivido corse lungo la schiena dello psicologo mentre il sangue defluiva rapido dal suo viso pallido.
«P-polizia?» balbettò Magnus, stordito, con la bocca improvvisamente asciutta rivolgendo a Catarina uno sguardo ricco di preoccupazione.
La ragazza si portò una mano alle labbra d’istinto, stupita tanto quanto lui, incapace di dire qualsiasi cosa.
«Sì ma non si preoccupi, non è successo niente di grave.» chiarì subito l’agente strappando un profondo sospiro di sollievo al ragazzo. Il fatto che avesse esordito così lasciava intendere innanzitutto che fosse vivo, in secondo luogo che non fosse -probabilmente- in ospedale e terzo che non fosse stato arrestato. Tuttavia lasciava comunque un sacco di domande nella mente dello psicologo: perché c’era la polizia con lui? Perché -soprattutto- avevano chiamato proprio lui? Era stato Alexander a deciderlo? A chiederglielo? Tutti questi pensieri vorticarono rapidi nella sua mente nel giro d’un istante. «Chiamo per chiederle se può passare alla centrale per prendere il ragazzo, Alexander Lightwood? Al momento non è in condizione di andarsene da solo.»
Le sopracciglia di Magnus si aggrottarono mentre, boccheggiando totalmente impreparato, si alzava dalla sedia con sguardo disorientato. «Uh-certo, arrivo subito. Ma cos’è successo? Sta bene?» chiese preoccupato dalle ultime parole del poliziotto: cosa voleva dire che non poteva andarsene da solo, esattamente?
Catarina, di riflesso, si alzò a sua volta affrettandosi ad estrarre dal proprio portafogli la somma dovuta per il conto. Fermò sotto il porta-tovaglioli una banconota e pochi centesimi recuperando dallo schienale della sedia la sua borsa.
«Sì, sì non si preoccupi, è solo ubriaco
Magnus rimase un attimo in silenzio mentre quelle parole affondavano nella sua mente. Ricordava perfettamente tutte le cose di cui avevano parlato fino a quel momento, soprattutto le cose che il ragazzo gli aveva detto durante le loro sedute: quella volta in cui avevano giocato ad “hai mai…?” Alexander gli aveva detto di non essersi mai ubriacato o, in ogni caso, di non aver mai bevuto abbastanza da andarci anche solo lontanamente vicino. Il fatto che adesso fosse stato chiamato da un agente di polizia perché fosse così sbronzo da non poter tornare a casa in tranquillità lo preoccupava enormemente.
«…Pronto?»
La voce dell’uomo fece riscuotere Magnus dai suoi pensieri portandolo ad annuire istintivamente contro l’apparecchio telefonico, l’altra mano a grattare distrattamente un punto impreciso in mezzo alla fronte.
«Sì, sì, mi scusi.» rispose lo psicologo umettandosi le labbra secche dal freddo, deglutendo nervosamente il groppo fermatosi in gola. «Allora arrivo subito.»
Non appena chiuse la telefonata Catarina gli si fece vicino con le chiavi dell’auto strette in pugno.
«Magnus, cos’è successo? Alexander sta bene?» s’informò subito la ragazza dato che da quel che aveva potuto sentire sapeva solo che in qualche modo c’entrava la polizia.
L’uomo annuì rapido e meccanico mentre sgusciava fra i tavoli per raggiungere il marciapiede ed incamminarsi a passo svelto, subito seguito dall’amica.
«Uh-sì, credo di sì.» spiegò con la testa improvvisamente vuota, ovattata, un unico pensiero a guidare le sue gambe. «Non ho capito bene, un agente di polizia mi ha chiesto di andare a prenderlo dalla centrale perché è ubriaco e non si fida a lasciarlo andare da solo» riassunse quel che anche lui sapeva mentre la ragazza, afferrandolo per il polso, lo intimava a fermarsi.
Magnus si voltò verso di lei con sguardo confuso, un’occhiata interrogativa a volare fra la sua mano ed il suo viso.
«Calmati un attimo!» esclamò lei piazzandosi di fronte a lui e ponendogli le mani sulle spalle. «Se ti vedono arrivare più sconvolto di quanto non lo sia lui dubito che faresti un favore a qualcuno. Respira.» gli intimò con la sua voce ferma e razionale, guardandolo dritto negli occhi.
Magnus avrebbe voluto protestare e dirle che non c’era tempo ma sapeva che dopotutto aveva ragione. Se Alexander si era ficcato in qualche tipo di guaio aveva bisogno che almeno lui fosse abbastanza lucido da poterlo aiutare. Mostrarsi così agitato avrebbe potuto solo complicare ulteriormente le cose. Dopotutto, si ripeté, l’agente sembrava abbastanza tranquillo al telefono e gli aveva detto che non c’era nulla di cui preoccuparsi.
Inspirando a fondo, sotto consiglio di Catarina, Magnus sentì poco a poco la mente schiarirsi, i pensieri riordinarsi. Il suo cuore continuava a battere agitato, non era certo di potersi calmare del tutto, ma almeno si sentiva più lucido dopo un paio di profondi respiri.
Quando Catarina lo vide con uno sguardo più calmo e controllato scostò le mani dalle sue spalle e fece dondolare le chiavi della sua macchina davanti al suo viso.
«Andiamo, ti accompagno.»
Annuendo il silenzio Magnus seguì Catarina fin sotto il loft dove la ragazza aveva parcheggiato al suo arrivo. Come sempre la sua auto era perfettamente ordinata e odorava di pulito. Una bassa musica rock accompagnò i due nel loro breve viaggio riempiendo il silenzio che colmava l’abitacolo; Magnus era troppo preso a pensare a cosa poteva essere successo per scatenare una simile situazione e con quale faccia avrebbe dovuto affrontare Alexander una volta incontrato. La ragazza, dal canto suo, sapeva che in quel momento non c’era molto che potesse dire o chiedere e perciò preferì tacere limitandosi a fare l’unica cosa che poteva.
Quando l’auto si fermò accostando il marciapiede opposto alla centrale, Magnus si riscosse rivolgendo un’occhiata tesa al palazzo.
«Vuoi che venga con te?» si offrì Catarina mentre spegneva il motore e tirava la leva del freno a mano. Sapeva che la ragazza voleva cercare di fare qualsiasi cosa per aiutarlo, ma sentiva che quella era una cosa che doveva fare da solo.
«Grazie Catarina ma è meglio di no» le sorrise gentile il ragazzo poggiandole una mano sul braccio con fare affettuoso. «Se ho capito qualcosa di lui allora penso che dopo il vostro ultimo incontro abbia un po’ paura di te adesso»
Non voleva ferirla con le sue parole ma era fermamente convinto di questo.
L’ultima volta Catarina gli aveva detto chiaro e tondo di prendere le distanze, gli aveva detto che lo stava ferendo e che avrebbe dovuto allontanarsi da lui.
Immaginava che se l’avesse incontrata nuovamente avrebbe temuto che la ragazza potesse solo dire qualcos’altro di simile e decisamente non era il caso di spaventarlo ulteriormente.
Catarina comprese e annuendo solo una volta sospirò mortificata abbandonandosi contro lo schienale del sedile. Magnus rilasciò una profonda boccata d’aria e, con un’ultima occhiata all’amica, uscì dall’auto affrontando la gelida aria serale.
 
 
Alec sentì il proprio cuore affondargli nel petto, lo sentiva come un macigno privo di vita eppure al tempo stesso sentiva i battiti accelerati pulsare nei polsi, nelle tempie e nelle orecchie. Osservava la figura di Magnus parlare con l’agente Smith e sentiva la bocca inaridirsi, una nausea improvvisa salirgli alla gola. Perché era lì? Chi lo aveva chiamato? Dubitava che fosse solo una straordinaria coincidenza, che fosse lì per qualsiasi altra faccenda, sentiva che era lì per lui.
L’osservò stralunato ricalcando i contorni del lungo cappotto nero, delle punte ordinate dei suoi capelli e delle dita affusolate cariche di anelli sentendo sorgere dentro di sé il primitivo istinto della fuga. Immaginava però non fosse esattamente saggio o possibile dileguarsi da una centrale di polizia, soprattutto non quando avevi delle vistose e strette manette ancora attorno ai polsi. Aveva tentato di sfilare le mani un paio di volte, per istinto, scoprendo quanto fosse dolorosa la sensazione del metallo che scavava nella carne.
Deglutendo vide i due separarsi; Magnus si voltò poggiandosi contro il bancone posto vicino l’entrata dell’edificio e parlò con l’agente dentro la cabina che gli allungò una serie di fogli e moduli da compilare, l’altro venne dritto verso di lui sistemandosi la cintura da cui pendeva la fondina con la pistola. Alec non poté fare a meno di lanciare un’occhiata fugace all’arma, quasi a volersi assicurare che non fosse sul punto di essere estratta.
«Allora» esordì l’agente fermandosi di fronte a lui, guardandolo dall’alto della sua posizione con sguardo calmo. «Il signor Trevis non ha sporto denuncia e visto che si è trattata di una lite tutto sommato innocente sei libero di andare.» proseguì l’uomo mentre recuperava da una tasca della sua divisa una piccola chiave di ferro.
Alec rimase ad osservarlo confuso per un istante mentre sollevava i polsi così da porgergli le manette. «Che vuol dire innocente?» domandò, non immaginando in che modo un’aggressione ai danni di un altro individuo potesse essere definita innocente.
Il poliziotto sorrise della sua ingenuità e, infilando la chiave nel suo alloggio, lo liberò della morsa tagliente del metallo.
«Beh, nessuno dei due aveva propriamente l’intento di far del male all’altro, vi siete provocati a vicenda.» spiegò l’uomo recuperando le manette e appendendole al loro posto alla sua cintura. «Non che questo renda giusto quello che avete fatto, sia chiaro, ma se dovessimo arrestare tutti quelli che finiscono in una scazzottata da bar non ci basterebbero le celle o le manette.» sorrise comprensivo alla volta del ragazzo che, comprendendo, annuì una volta soltanto mentre si massaggiava distrattamente i polsi.
Proprio allora Magnus si avvicinò con aria evidentemente incerta.
L’osservava con esitazione e, per un certo senso, ad Alec fece venire in mente quella volta in cui, da bambino, venne preso da scuola da sua madre per una febbre improvvisa. Maryse era arrivata in tutta fretta, stretta nel suo soprabito, con la stessa aria preoccupata e affrettata che aveva adesso Magnus in viso, il bisogno di portar via il suo bambino da lì per tenerlo ben caldo e protetto nel suo letto in piena mostra sul viso.
Il pensiero gli fece stringere il cuore e abbassare il capo.
«Bene. Ho capito.» si ritrovò allora a mormorare rivolgendosi all’agente Smith mentre si alzava in piedi infilando le mani nelle tasche del suo giaccone con ostinazione. «Grazie e—mi scusi. Per—per tutto.» borbottò imbarazzato sentendo l’uomo dargli un paio di pacche sulla spalla.
«Via via ragazzo, non è successo niente.» cercò di calmarlo con tono gentile restituendogli a quel punto il cellulare. «Ricordati solo di non bere così tanto la prossima volta, d’accordo?»
Nonostante Alec sapesse che l’uomo voleva solo essere gentile, sapere che Magnus avesse appena sentito gli fece venir voglia di sotterrarsi.
Cosa avrebbe pensato di lui? Quanto lo aveva deluso in quel momento?
Non voleva nemmeno pensarci, non ce la faceva. In parte gli mancavano le forze mentali per farlo, in parte era già abbastanza occupato a sopportare il dolore pulsante che provava alla testa.
Annuì in silenzio, col capo ancora chino e, avvertendo la gentile pressione della mano di Magnus sulla spalla, lasciò che il maggiore lo guidasse verso l’esterno mentre infilava il telefono nella tasca del proprio giubbotto.
Il suo primo istinto fu quello di scrollar via quella mano dati i recenti risvolti nel loro rapporto, ma al tempo stesso sentiva che quello non fosse il luogo per dar mostra a certi tipo di comportamento.
Seguì quindi il suo ex psicologo fino ai piedi della scalinata davanti alla centrale e accolse grato la sensazione dell’aria fredda sulla pelle: era quasi un dono per il dolore vibrante che si propagava sotto tutto il viso partendo dal naso. Inoltre sembrava che lo aiutasse a schiarire i pensieri ancora leggermente ovattati sebbene fosse piuttosto sicuro di non essere più sbronzo.
«Stai bene?» domandò d’un tratto Magnus volgendo il capo verso di lui. «Ce la fai a camminare o preferisci chiamare un taxi? Casa mia non è troppo lontana.» aggiunse senza mai lasciar andare la presa sulla sua spalla.
Alec s’irrigidì di colpo e, fermandosi, si scostò dal suo contatto con un enorme sforzo di volontà. «N-no, non serve. Io—devo tornare a casa.» biascicò nervoso sentendo ogni terminazione nervosa del suo corpo gridargli di andarsene il più lontano possibile da lui. In realtà non aveva molta voglia di tornare a casa, probabilmente avrebbe continuato a girare per strada a vuoto per tutta la notte fino a che non fosse stato sicuro che fossero andati tutti a dormire ma di certo non sarebbe andato a casa sua. Il cellulare squillò nella sua tasca e, senza nemmeno estrarlo, rifiutò la chiamata in arrivo immaginando che fosse Jace oppure Isabelle. Di nuovo.
Non aveva il coraggio di alzare lo sguardo ma sapeva che Magnus doveva starlo guardando, gli sembrava di poter sentire il peso dei suoi occhi addosso.
«Alexander…»
«Davvero, sto bene.» disse schiarendosi la gola, lo sguardo basso nell’ostinato tentativo di non incrociare quello dell’altro. «Posso camminare da solo, non serve che tu—»
Che lui? Non sapeva bene nemmeno lui cosa dire. Per l’amor del cielo, non sapeva nemmeno perché lui fosse lì!
Fu solo allora che sentì Magnus gettar fuori una boccata d’aria in qualcosa di simile ad uno sbuffo. Non lo aveva mai sentito sbuffare prima e si chiese se per caso si stesse annoiando di quel continuo infruttuoso rincorrerlo. Lo avrebbe capito, sarebbe stato normale. Ed in realtà era quello a cui mirava quando aveva deciso di bloccarlo ed evitarlo no?
Eppure… eppure la sola idea di un Magnus stufo di cercare di parlargli lo terrorizzava. Egoisticamente aveva trovato un dolceamaro conforto nei tentativi dell’altro di raggiungerlo. Anche se gli faceva male vedere i suoi messaggi o le sue chiamate senza potergli rispondere, anche se era doloroso incontrarlo e sentire di dovergli stare lontano, provava comunque un sottile piacere all’idea che l’altro non avesse ancora gettato la spugna con lui. La cosa lo faceva sentire terribilmente in colpa: sicuramente per Magnus non c’era alcun tipo di sollievo in quella situazione.
Il telefono squillò di nuovo e, ancora, Alec lo spense senza nemmeno guardarlo.
«Davvero? Puoi camminare da solo?» La voce di Magnus suonò diversa questa volta. Se fino a quel momento, da dopo il suo compleanno, era stata esitante, bassa e quasi implorante, adesso era ferma e decisa, quasi distaccata. Gli ricordò il modo in cui era solito parlargli quando ancora usava andare nel suo studio. «E per andare dove, esattamente?»
A quella domanda Alec sollevò lo sguardo con fare confuso.
Non capiva esattamente cosa intendesse: possibile che lo capisse abbastanza bene da sapere che non aveva davvero voglia di tornare a casa?
«N-non… non capisco cosa intendi dire» rispose l’altro, incerto, aggrottando confusamente le sopracciglia. Il movimento accentuò per un istante il dolore pulsante che provava in mezzo agli occhi ma tentò di non farci caso.
«Intendo dire che puzzi, Alec. Potrei dirti quello che hai bevuto da un isolato di distanza e la tua faccia è tutta sporca di sangue. Vorresti davvero spiegare a tua madre cos’è successo?»
A quello, decisamente, non aveva pensato.
Non poteva davvero tornare a casa in quelle condizioni così come non sarebbe stato il caso di girare per la città con la faccia insanguinata. Si ritrovò a fissarlo a corto di parole: non era mai stato bravo a trovare una risposta quando non ne aveva una. Jace era quello con la risposta sempre pronta, anche quando aveva torto marcio sapeva rifilarti una qualche spiegazione plausibile che ti portava quasi a pensare avesse ragione. Ma lui, Alec, era sempre stato troppo trasparente, troppo onesto per riuscirci.
Dopo un lungo attimo di scomodo silenzio Magnus si umettò le labbra.
«Come immaginavo.» disse con tono calmo e controllato continuando a sostenere lo sguardo perso del ragazzo. «Andiamo Alexander, pensi davvero che potrei farti del male? Voglio solo darti una mano a riprenderti e quando starai meglio sarai libero di tornare a casa. E’ così irragionevole?»
Come poteva rifiutare quando gli aveva posto la situazione a quel modo?
Quale logica e razionale spiegazione avrebbe potuto dare all’istinto che, dentro di lui, gli stava urlando di voltarsi e scappare?
Lo fissò compunto per diversi secondi cercando disperatamente una risposta che potesse salvarlo da quella situazione; più rimaneva lì sotto il suo sguardo, più sentiva di star perdendo quella battaglia. Alla fine, capitolando, scosse sconfitto il capo e si arrese.
«Bene» espirò quindi il più grande. «Allora andiamo».
 
 
*
 
 
La camminata verso il loft fu lenta e silenziosa.
Nessuno dei due disse una parola ma per lo meno sembrava che Alexander non fosse intenzionato a scappare alla sua prima svista. Adesso che il ragazzo era lì, al suo fianco, Magnus si sentiva decisamente più tranquillo ma una miriade di pensieri e preoccupazioni continuavano ugualmente a vorticare nella sua testa.
Non sapeva cosa lo avesse spinto a bere in modo tanto irresponsabile, né aveva idea del motivo per cui continuasse a rifiutare le chiamate che, a intervalli irregolari, continuavano ad arrivargli. Che fosse successo qualcosa a casa? Che fosse uscito senza avvisare nessuno e fossero tutti giustamente preoccupati? C’erano troppe possibili spiegazioni e l’unico che avrebbe potuto dargli una risposta certa non aveva voglia di parlargli. Per questo Magnus preferì non dire nulla mentre erano per strada; sarebbe stato facile per Alexander, in un momento di panico, semplicemente voltarsi e correre via finendo col commettere chissà quale altra sciocchezza. Avrebbe atteso di essere da soli, a casa, e che lui si sentisse un po’ meglio per parlargli. Per quanto Magnus non volesse metterlo in difficoltà o costringerlo a fare nulla che non volesse, aveva anche bisogno di sbrogliare quella delicata situazione fra loro. Alexander aveva bisogno di lui e fino a che si fosse ostinato a non parlargli le cose sarebbero andate sempre peggio. Aveva bisogno di una guida, di qualcuno che potesse indicargli cosa fare per stare meglio e quella persona era lui. Magnus sentiva che doveva essere lui. Nessun altro.
Quando varcarono la soglia del portone una strana elettricità sembrò avvolgerli e Magnus sentì i corti capelli sulla nuca rizzarsi in un istante. Pensò dovesse trattarsi del brusco cambio di temperatura fra il gelo esterno e il calore dell’atrio del palazzo e scartò la questione senza darci troppo peso. Anche Alexander sembrò farsi più stretto nel proprio giaccone e quando i loro sguardi s’incontrarono lo vide girare rapidamente la testa.
Espirando in silenzio il maggiore fece strada verso le scale e si assicurò che il ragazzo lo stesse seguendo. Per fortuna sembrava che avesse davvero accettato di essere lì e lo vide salire i gradini con passo lento e stanco.
Non appena aprì la porta di casa, un vivace miagolio lo accolse dalla soglia. Presidente Meow doveva essere accorso non appena udito il suono della chiave nella serratura. Miagolando passò oltre le gambe di Magnus e andò a strusciarsi contro le gambe di Alexander.
Magnus lo fissò a bocca aperta prima di portare le mani sui fianchi.
«Ma tu guarda che disgraziato!» sbottò d’istinto vedendolo fare le fusa col suo adorabile musetto al ragazzo accanto a sé.
Alexander, dal canto suo, l’osservò sorpreso per un istante prima di aprirsi nel primo vero sorriso che gli avesse visto in volto da settimane. Si chinò per prenderlo in braccio ed il micio non oppose alcuna resistenza andando, anzi, ad accoccolarsi contro il suo petto come alla ricerca di calore.
Magnus osservò la scena in silenzio lasciando entrare Alexander in casa e chiuse la porta dietro di loro. Il ragazzo andò a sedersi sul divano su cui si era seduto già la prima volta che era stato lì e continuò ad accarezzare il gatto in silenzio concentrando su di lui tutta la propria attenzione.
Immaginò che il non vederlo tentare di darsela a gambe levate all’istante fosse un buon segno, che vederlo muoversi dentro casa sua in relativa calma e scioltezza dovesse significare qualcosa e decise di lasciargli un po’ di tempo per abituarsi alla situazione. Si sfilò il cappotto, alzò leggermente la temperatura del termostato e si cambiò le scarpe così da poter infilare i piedi nelle sue morbidissime e caldissime ciabatte colorate. In bagno Magnus si guardò per un istante allo specchio rilasciando il respiro che sentiva di aver trattenuto da quando aveva messo piede in centrale quella sera. Inspirò ed espirò ad intervalli regolari per pochi minuti prima di annuire silenziosamente fra sé e sé e recuperare dal mobiletto lì accanto un blister di analgesici.
Tornò in soggiorno e l’attraversò per raggiungere la zona cucina dove recuperò un bicchiere pulito e lo riempì d’acqua. Poggiò il tutto sull’isola alle sue spalle così da poter liberamente afferrare dal congelatore una busta di piselli congelati che lo fece istantaneamente rabbrividire.
«Queste ti aiuteranno per il dolore» ruppe il silenzio nella zona giorno avvicinandosi al divano con il blister di pillole allungato verso il ragazzo. «Questa per la sbronza» continuò poggiando il bicchiere d’acqua sul tavolino davanti a lui «E questa per i lividi» terminò indicando per ultima la busta di piselli nella sua mano.
Alexander l’osservò in silenzio per un istante schiudendo leggermente le labbra.
Presidente Meow sembrò come percepire il gelo emanato dalla busta gocciolante fra le dita del padrone e schizzò via dalla stanza per andare, probabilmente, ad accomodarsi ai piedi del letto di Magnus.
Il ragazzo sembrò quasi andare nel panico quando si ritrovò realmente solo assieme allo psicologo e, a testa bassa, afferrò i farmaci offertigli con fare grato.
«Grazie» bofonchiò deglutendo sotto lo sguardo attento dell’altro.
Magnus non disse niente lasciandogli tutto quel che gli aveva portato per raggiungere nuovamente il bagno. Lì recuperò un asciugamano pulito e ne inumidì un angolo con dell’acqua tiepida. Quando tornò da Alexander lo vide svuotare il bicchiere, il blister manco di una delle sue pillole sul tavolino.
Facendosi forza si sedette sul divano accanto a lui, a pochi centimetri di distanza e fissò lo sguardo sul ragazzo.
«Alza il viso.» gli disse serio.
Alexander sollevò il capo per istinto e lo guardò confuso, quasi preoccupato.
Magnus allungò l’asciugamano all’istante cogliendo l’attimo e tamponò delicatamente l’angolo umido della salvietta sulla sua pelle macchiata di sangue, vicino le labbra.
Il ragazzo sussultò trattenendo un lamento portando l’uomo a sorridergli mestamente.
«Scusa» disse subito con tono morbido, sottile, continuando a far scorrere gentilmente l’asciugamano sul suo viso. «Sembri uscito da un film dell’orrore» tentò di ironizzare.
Alexander non sembrò ribellarsi ma non sembrava nemmeno esattamente a suo agio.
Lasciò che Magnus si prendesse cura di lui in silenzio senza mai incrociare il suo sguardo.
Quando tutto il sangue fu lavato via dalla sua faccia, lo psicologo ripose l’asciugamano sul tavolino temendo che se si fosse allontanato in quel momento, non avrebbe più avuto un’occasione per poterglisi sedere vicino senza farlo scappare.
Sapeva che era giunto il momento di affrontare la questione.
Che non aveva senso temporeggiare oltre, che non poteva semplicemente non farlo.
«Alexander…»
Non appena ebbe pronunciato quella parola poté sentire il suo corpo irrigidirsi accanto al proprio.
«…per quello che è successo il giorno del mio compleanno…»
Esattamente come si aspettava, il ragazzo si alzò rapidamente in piedi voltandogli istintivamente le spalle per mettere fra loro una solida e decisa distanza. Non tanto fisica quanto più emotiva e mentale.
«No. Non c’è niente da dire in proposito. Per favore
Ma questa volta Magnus non si sarebbe piegato alle richieste di Alexander. Questa volta c’era bisogno che ascoltasse, che non fuggisse in preda alla paura senza prima aver compreso.
«Niente da dire?» domandò lo psicologo senza smuoversi d’un millimetro da dov’era seduto sul divano. La sua voce non era alterato, il tono calmo ma deciso mentre teneva gli occhi fissi sulla schiena leggermente ingobbita dell’altro, pesante di fin troppi fardelli a gravare sulle sue spalle. «E’ buffo, perché in tutta questa storia io sono l’unico che non ha potuto dire una parola.»
 Sapeva che le sue parole avevano sortito un qualche effetto perché non appena le ebbe pronunciate la schiena di Alexander parve irrigidirsi di colpo.
«Catarina ha deciso di parlare con te senza il mio consenso, tu hai scelto di ignorarmi senza nemmeno darmi una spiegazione e ogni volta che mi vedi per strada cerchi semplicemente di scappare.» riassunse sempre molto pacatamente l’uomo nascondendo al meglio delle sue possibilità il turbamento interiore che quella situazione gli aveva causato. «Non credi che abbia anche io il diritto di scegliere qualcosa in questa storia? Quanto meno di dire la mia?»
Parte di lui si sentiva crudele nel porre quella domanda.
Era perfettamente consapevole del fatto che Alexander fosse mosso dalle migliori intenzioni, che tutto quel che aveva fatto era dipeso da un fraintendimento per cui non aveva colpa. Tuttavia non poteva continuare a scusarlo per timore di ferirlo: per quanto fragile non era comunque giusto trattarlo come uno sciocco od un bambino e tenergli lontano ogni tipo di rimprovero non lo avrebbe in alcun modo aiutato.
Il ragazzo non riuscì a rispondere ma, per lo meno, non sembrò neppure capace di allontanarsi da dove si trovava. Magnus decise di approfittare del momento per farsi ascoltare: dubitava di poter trovare in futuro un’occasione migliore di questa.
«Sei un ragazzo intelligente, Alexander. Penso che tu non avessi bisogno che ti dicesse lei o io che quel che stavo facendo era contro le regole.» iniziò col dire Magnus con tono calmo, accomodante, prendendo solo un attimo di pausa. «Psicologi, psichiatri, analisti in generale non possono occuparsi di amici e familiari. Avere un rapporto affettivo tende a offuscare il nostro giudizio, ci rende poco oggettivi e più coinvolti e questo non fa del bene a nessuno dei due oltre a non essere deontologico.» proseguì l’uomo prendendo un profondo respiro, umettandosi le labbra riarse dal freddo.
«Io—non sono una persona semplice, Alexander.» espirò Magnus grattandosi nervosamente la fronte, il tono quasi arrendevole mentre abbassava per la prima volta lo sguardo. Se solo il ragazzo si fosse voltato per guardarlo, lo avrebbe visto per la prima volta totalmente, completamente vulnerabile ed esposto.
«Non mi apro facilmente alle persone e mi fido ancor più difficilmente. Non ho mai visto i miei pazienti come persone prima: pensavo a loro come enigmi da risolvere, puzzle da ricomporre rimettendo insieme i pezzi che mi portavano in studio di volta in volta e per quanto forse poco carino, era funzionale. Mi permetteva di mantenere il necessario e giusto distacco con loro.»
Solo a quel punto, quando si fermò per una nuova pausa, Alexander si ritrovò d’istinto a voltarsi verso di lui. Aveva le labbra schiuse e l’espressione sorpresa, incredula.
Magnus risollevò il viso e, per la prima volta quel giorno, i loro sguardi s’incontrarono davvero.
«Ma con te è diverso.» ammise abbozzando un flebile sorriso, un vago accenno delle labbra.
Anche lui si alzò in piedi senza però muovere alcun passo verso l’altro.
Alexander non si ritrasse, non sembrò reagire in alcun modo a quel suo movimento rimanendo immobile sul posto, lo sguardo a seguirlo silenziosamente.
«Mi sono fatto coinvolgere. Mi sono avvicinato, ti ho portato a casa.» riprese mantenendo in qualche modo la calma, il cuore a battergli però violentemente nel petto. Sapeva che quello era un punto di svolta, che quell’esatto istante nel tempo avrebbe deciso il decorso del loro rapporto, qualunque esso fosse. E ne aveva paura.
«Mi sono aperto a te: ti ho parlato di me, dei miei amici, cose che non mi sarebbe concesso in alcun modo fare. Catarina si è preoccupata per questo. Ha temuto che se avessi continuato a lasciarti entrare sarei finito nei guai.»
Sapeva di non star dicendo tutta la verità. Non era soltanto per il suo lavoro che Catarina era preoccupata, ma dirgli in quel momento che provava qualcosa per lui poteva essere estremamente rischioso. Innanzitutto non era completamente certo del fatto che anche lui provasse lo stesso ed in secondo luogo il fatto che fossero due uomini rendeva il tutto ancora più complicato. Non avevano mai parlato della sessualità di Alexander e Magnus non sapeva che preferenze avesse, né se le conoscesse lo stesso ragazzo. Azzardare qualsiasi tipo di previsione, date le circostanze, poteva essere estremamente rischioso.
«Ma per quanto apprezzi la sua preoccupazione non avrebbe mai dovuto parlarne con te.» riprese Magnus poco dopo vedendo come il ragazzo continuasse a fissarlo impietrito. «Mi dispiace per come possa averti fatto sentire con le sue parole. E ti ringrazio per aver fatto quello che hai fatto solo per proteggermi.»
Solo a quel punto lo psicologo osò muoversi dal suo posto.
Mosse un primo passo verso l’altro tenendo lo sguardo fisso sul suo viso.
Alexander, a sua volta, sembrava come incantato, incapace di guardare altrove.
Magnus si fermò a meno di un metro da lui, il cuore a rimbombargli nella gola.
«Ma non sta a voi decidere.» sorrise debolmente sollevando una mano con cauta lentezza verso il suo viso. Fece per avvicinare il palmo contro il suo volto attento ad ogni minima reazione del ragazzo al suo gesto. Alexander non si ritrasse, né sembrò spaventato da quel contatto. Schiuse semplicemente le labbra trattenendo visibilmente il respiro.
Con delicatezza Magnus poggiò la mano a lato del suo viso, avvolgendogli una guancia con premura, attento a non premere dove avrebbe potuto fargli male.
«In quella lettera mi avevi scritto che ti facevo del bene ma la verità è che anche tu, in qualche modo, ne fai a me.» rivelò l’uomo abbassando d’istinto la voce, il timore che un volume appena più alto avrebbe potuto distruggere il momento e farlo fuggire via in preda al panico.
«Quindi adesso ti chiedo, ignorando quel che ti ha detto Catarina, mettendo da parte il mio lavoro e tutto quello che ne consegue, vuoi davvero che esca dalla tua vita?»
Una scintilla accese lo sguardo di Alexander a quelle parole.
Una scossa che lo attraversò da capo a piedi portandolo a boccheggiare incerto sotto il suo sguardo colmo di calore.
«Non ci pensare.» sorrise Magnus. «Una risposta secca, soltanto un sì o un no.»
Il ragazzo strinse le labbra e, serrando i denti, abbassò lentamente il capo.
Dopo un istante lo scosse leggermente contro il palmo caldo dell’altro. 

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Capitolo 19
*** Resa ***


A quel timido gesto Magnus rilasciò silenziosamente il respiro che stava trattenendo e si aprì in un sorriso appena più ampio.
«Bene.» chiosò dopo qualche attimo di quiete spostando la sua mano dalla guancia a sotto il mento del ragazzo. Gli sollevò il viso e forzò un nuovo contatto fra i loro sguardi mentre ora gli sorrideva apertamente e con più leggerezza. «Allora è tutto risolto. A parte il tuo naso, ovviamente.» disse col suo tono frizzante di sempre tornando ad alzare la voce ad un volume più normale e colloquiale, allontanandosi ora dal ragazzo per tornare davanti al tavolino alle sue spalle.
Recuperò la busta di piselli congelata e la scosse leggermente nella sua mano sotto lo sguardo di Alexander. «Se non ti metti questa sulla faccia ti rimarrà il livido per una settimana.» disse allungandogli nuovamente la busta, notando l’espressione esitante sul viso dell’altro. Sembrava quasi disorientato.
«Uh-grazie.» mormorò il giovane riscuotendosi, afferrando la busta gelida e tornando a sedersi impacciato sul divano.
Quando si pressò la confezione fredda sul viso mugugnò di dolore.
«Tranquillo, fra poco il freddo non ti farà sentire più niente.» commentò Magnus mentre andava a recuperare dall’angolo cucina una pezza con cui pulire il tavolino. Una pozza d’acqua si era formata lì dove i piselli erano stati poggiati poco prima.
Mentre l’uomo si affaccendava Alexander rimase seduto al suo posto con la busta ad intorpidirgli il viso in totale silenzio.
Ci volle qualche minuto perché la sua voce risuonasse all’interno del loft.
«Magnus?» chiamò cauto, incerto, sollevando leggermente il capo.
L’uomo si lasciò cadere sulla sua poltrona accanto al divano e osservò il ragazzo da dietro la copertura offerta dall’impacco gelido premuto sul suo viso.
«Mh?»
«Come—come facevi a sapere…? Cioè, in centrale…»
Le sopracciglia di Magnus s’alzarono leggermente sulla sua fronte mentre le sue labbra s’aprirono silenziose per un breve istante.
«Oh» gli uscì di dire mentre ripensava agli eventi di quella lunga giornata. Gli sembrava fosse passata una vita da quando s’era seduto a quel bar a parlare con Catarina. «L’agente Smith mi ha chiamato. Ha detto che…» s’interruppe per un istante prima di riprendere la parola. «…beh, ha detto che ero il tuo numero per le emergenze.»
 
*
 
A quelle parole il ricordo di quella sera di svariate settimane prima gli esplose davanti agli occhi come un film. Una sequela di fotogrammi silenziosi gli ricordarono quel suo gesto fatto quasi per gioco dopo la conversazione avuta con Jace a proposito della sua quasi lite con Clary: non aveva mai pensato che un giorno qualcuno avrebbe davvero usato quella funzione del suo telefono.
Sentì l’imbarazzo appropriarsi del suo viso, un rossore violento imporporargli il volto fortunatamente nascosto dietro la busta gelida pressata sul suo naso intorpidito. Per sicurezza la sistemò ancora meglio così da nascondercisi per bene dietro ed evitare lo sguardo dell’altro. Non era qualcosa che aveva progettato di rivelargli mai, dopotutto.
«Oh. Mh.» si limitò a mormorare sperando di far cadere l’argomento così, incapace di trovare una spiegazione stabile e logica dietro quella sua scelta.
Magnus sembrò non voler forzare la conversazione e, per somma gioia di Alec, non inquisì oltre sulla faccenda lasciando cadere nuovamente un silenzio rilassato fra loro. Il ragazzo apprezzò enormemente la discrezione altrui e più il silenzio si protraeva, più sentiva il cuore calmarsi nel petto benché non potesse fare a meno di immaginare quanto l’altro avesse dovuto trovar strana quella situazione.
Solo dopo qualche tempo il giovane trovò il coraggio e la forza di sollevare lo sguardo, scostando leggermente l’impacco gelido dal viso così da lasciargli parzialmente libera la visuale. Magnus era comodamente seduto sulla sua poltrona, lo sguardo assorto nel nulla alla sua sinistra. Alec non poté impedirsi di ripercorrere con gli occhi la linea dritta del suo naso, il profilo elegante del suo viso, perdendosi silenziosamente nell’atto di imprimersi l’immagine dell’altro nella mente.
Quando Magnus si voltò a guardarlo sobbalzò leggermente sul posto distogliendo rapidamente lo sguardo. Non si era reso conto di essere rimasto fermo a fissarlo e non poté impedire al suo viso di prendere nuovamente fuoco a quella consapevolezza. Stava già per rifilargli qualche timida scusa quando l’altro lo batté sul tempo nel prendere parola.
«Ti va di raccontarmi cos’è successo?»
La voce di Magnus era calma, gentile, ma riuscì comunque a far impietrire Alec all’istante. Sentì il cuore accelerare all’improvviso, l’impulso di voler fuggire lontano da lì e da quella conversazione; capiva bene la posizione dell’altro, sapeva che la sua non era solo curiosità ma genuina preoccupazione, eppure sentiva comunque il bisogno di allontanarsi da quel pericoloso argomento.
Deglutendo, abbassò lo sguardo tenendo la busta di surgelati ancora ben premuta contro il viso. Il refrigerio derivante da quel contatto iniziò a divenire fastidioso, quasi un dolore bruciante sulla pelle.
Alec si sentiva combattuto.
Da un lato non voleva parlarne, non si sentiva pronto a farlo, non riuscendo neppure a fare chiarezza con se stesso su cosa sarebbe stato disposto a dire e cosa no; dall’altro sentiva però di doverglielo. Magnus era stato paziente con lui, era stato cauto e premuroso.
Nonostante avesse subito a suo modo un torto da parte sua, nel suo non fornirgli neppure una spiegazione per il suo allontanamento, aveva continuato a preoccuparsi per lui e a cercare di instaurare un qualsiasi tipo di contatto a dispetto del suo ostinato silenzio.
Mordendosi l’interno della guancia, Alec tacque per diversi minuti prima di espirare ed abbassare la busta ormai gocciolante dal viso. Senza quasi pensarci la poggiò sul tavolino, sopra l’asciugamano che Magnus aveva usato precedentemente per pulirgli il volto dal sangue, e lasciò che il tessuto assorbisse l’acqua formatasi sulla plastica lucida.
«Ho litigato con Jace.» disse tenendo lo sguardo basso, le mani unite in mezzo alle ginocchia larghe con le dita a giocherellare nervosamente fra loro in un chiaro segnale di disagio.
Magnus, che aveva iniziato a credere che Alec non gli avrebbe risposto, ascoltò in silenzio senza mettergli fretta.
Alec sentì il silenzio ripiombare nella stanza più pesante che mai.
«Cioè, non è che abbiamo proprio litigato. Io…» aggrottando le sopracciglia Alec sentì il cuore battergli forsennatamente nel petto, spaventato. Non voleva parlarne. Non voleva affrontare la cosa, ma sentiva che forse -giunti a quel punto- fosse inevitabile. Forse c’era persino una parte di lui che sentiva il bisogno di farlo. Dopotutto, quale persona migliore di Magnus avrebbe potuto ascoltarlo? Chi meglio di lui avrebbe potuto capirlo?
Magnus non l’aveva mai fatto sentire giudicato. Non l’aveva mai fatto sentire sbagliato.
Rotto.
Quella consapevolezza era una timida spinta ad aprirsi, a lasciar libero il mostro che per tanti, troppi anni, lo aveva lentamente divorato dall’interno.
Passandosi nervosamente una mano fra i capelli, Alec si chinò in avanti col busto quasi a volersi rinchiudere in se stesso, il piede destro a sollevarsi leggermente dal pavimento dalla parte del tallone in un tic nervoso che non era in grado di controllare.
«…sono gay.» Era la prima volta che pronunciava quelle parole ad alta voce; gli uscirono di bocca in un soffio appena udibile ma pesanti come macigni, lasciandolo stordito dalla loro stessa forza.
Per un istante gli parve quasi di sentir mancargli il fiato, eppure assieme ad un profondo senso di paura e disagio, Alec poté distintamente cogliere una nota di sollievo.
«O almeno credo. Non lo so.» continuò agitato, visibilmente in difficoltà, incapace di sollevare lo sguardo dal pavimento.
Non poteva dire di saperlo con certezza.
Non aveva mai provato attrazione per alcuna ragazza in tutta la sua vita, ma in generale non era mai stato attratto da molte persone. A dire il vero soltanto da due. E una di queste era proprio lì in quel momento ad ascoltare quel suo folle e confuso blaterare. La consapevolezza di ciò non faceva che aggravare la sua ansia e la sua agitazione.
Non aveva il coraggio di guardare in direzione di Magnus. Non aveva il coraggio di cercare sul suo volto qualsiasi reazione alle sue parole. Decise che sarebbe stato più facile vomitare tutto fuori subito e affrontare la sua espressione poi, piuttosto che tentare una rapida occhiata e rischiare di scovare nel suo sguardo qualsiasi traccia di giudizio ora che finalmente aveva trovato la forza di affrontare quello scoglio.
«Fatto sta che non ne ho mai parlato con nessuno prima: se non ne sono certo che senso ha parlarne con qualcun altro?» bloccandosi si grattò distrattamente i capelli, le parole si accavallavano nella sua testa creando enorme confusione.
«Comunque non è importante» tagliò corto volendo sorvolare l’imbarazzante rivelazione sul suo incerto orientamento sessuale. «Jace pensava che per questo io… Che fosse questo a…» stringendo frustrato le labbra, Alec inspirò bruscamente dal naso sentendo le parole sfuggire alla sua presa.
Magnus poteva vedere chiaramente quanto quel discorso fosse difficile per lui ma nemmeno una volta cercò di forzarlo in alcun modo; in silenzio lo lasciò libero di incespicare fra i suoi pensieri fino a che non avesse trovato le parole giuste da dire, ascoltando paziente il suo confuso farfugliare.
«…che per questo avessi bisogno della terapia.» riuscì alla fine a dire, lasciando cadere la mano dalla sua testa per iniziare a giocherellare nervosamente con una pellicina del pollice opposto.
«Oh. Mi dispiace Alexander, dev’essere stato terribile sentirglielo dire.»
Nel sentire il tono genuinamente mortificato di Magnus, Alec si ritrovò a capire cosa fosse trasparso dalle sue parole. Sollevando meccanicamente la testa guardò l’altro con fare allarmato, agitando d’un tratto le mani dinnanzi a sé.
«No! No, no, no, lui non intendeva– » imprecando a mezza voce il ragazzo si grattò teso un punto in mezzo agli occhi cercando di schiarire i propri pensieri.
Magnus non disse altro, limitandosi ad osservarlo pazientemente dalla sua poltrona.
Dopo diversi istanti, Alec rilasciò un pesante sospiro e, stancamente, riprese.
«Non intendeva che dovessi farmi curare o qualcosa del genere, mi ha detto che non è assolutamente un problema, che lo sapeva da tempo e che aspettava solo che gliene parlassi. E’ solo che…» chiudendo gli occhi Alec scosse lentamente la testa. «Non ha capito niente.»
Quelle ultime parole gli uscirono quasi inudibili, un sussurro talmente flebile da poter essere facilmente coperto dal suono d’un respiro.
Più parlava, più sentiva qualcosa dentro di sé fremere e tremare.
Era come se i mattoni del muro che circondava il suo cuore avessero iniziato a vibrare nei loro alloggi rendendo la costruzione instabile e pericolante.
Come se quella barriera avesse potuto infrangersi da un momento all’altro, liberando qualcosa per cui Alec non si sentiva affatto pronto.
Nervosamente, si mordeva il labbro inferiore, quasi a voler trattenere con forza le parole che stavano cercando di uscire.
Le mani, che fino a quel momento aveva tenuto poggiate sulle gambe, si chiusero a pugno sulle ginocchia mentre la punta del piede destro andava a premere ripetutamente contro il suolo in un moto nervoso e incontrollato.
 Magnus non disse una parola per tutto il tempo, attendendo in assoluto silenzio che Alec fosse pronto a proseguire.
Alla fine, dopo diversi minuti di attesa, il ragazzo sospirò pesantemente.
 
*
 
«Io e Jace siamo sempre stati amici. Anzi, fratelli direi» iniziò con il dire Alec tenendo ancora la testa china, il tono basso mentre trovava la forza di affrontare quella conversazione.
Magnus poteva chiaramente vedere la difficoltà di quello sforzo coi propri occhi.
La vedeva nel modo in cui l’altro non osava cercare il suo sguardo, la vedeva nei cenni nervosi del suo corpo, nel suo continuo grattarsi la testa senza mai però sollevarla per timore di mostrare il suo viso.
La vedeva nel modo in cui pareva che l’intera figura del ragazzo stesse accartocciandosi su se stessa, come stesse cercando disperatamente di tenersi unito senza perdere pezzi per strada.
Dopo vari anni di esperienza sul campo aveva imparato a riconoscere i segnali: il volume della voce, i movimenti delle mani, dei piedi, la posizione delle spalle.
Era tutto lì, sotto il suo sguardo.
Più Magnus l’osservava, più era certo di sapere cosa stava accadendo.
Quella era la resa di Alexander.
«Sua madre è morta di parto, lui è cresciuto con suo padre ma non hanno mai avuto un buon rapporto.» spiegò Alec con calma, continuando di tanto in tanto a mordicchiarsi le labbra arrossate. «Il padre pretendeva troppo da lui, fin da quando era piccolo. Non gli dava mai un complimento o un premio per i suoi successi, continuava a chiedergli di fare di più, di essere migliore. Era un bambino molto strano, sempre sulle sue, sempre spaventato di sbagliare.»
Man mano che la mente del ragazzo s’immergeva in quei ricordi familiari, Magnus poté sentire la sua voce farsi appena più ferma.
Quel leggero fremito che prima faceva tremare le sue parole sfumò pian piano in maniera quasi impercettibile.
Ascoltando le sue parole, Magnus iniziò a delineare nella sua mente la sua idea di Jace, ritornando con i ricordi alla sera in cui lo aveva incontrato fuori da quel locale. Immaginò il suo volto ringiovanire fino a divenire quello di un infante ed il suo corpo massiccio e muscoloso rimpicciolire e andare ad ammorbidirsi nei lineamenti paffuti di un bambino.
Poteva quasi vederlo, il piccolo Jace, coi suoi chiarissimi capelli biondi e lo sguardo attento di chi non può permettersi errori.
Alec non lo aveva specificato, ma Magnus era abbastanza sicuro che fosse perché aveva paura delle eventuali ripercussioni.
«Un giorno fummo scelti come compagni per un progetto scolastico. Lui non sembrava contento ma non poteva sottrarsi al compito. Così venne a casa mia e fu come se fosse stato scaraventato in un altro mondo. Ogni volta che i miei genitori gli sorridevano o si complimentavano per le sue buone maniere sembrava che non capisse cosa stesse succedendo, sembrava totalmente spaesato.» spiegò il ragazzo, le sue labbra ad incurvarsi leggermente in un sorriso intenerito e sfumato di amarezza.
«Fu così che facemmo amicizia. Fu quel giorno.» annuì, probabilmente in maniera inconscia, prima di continuare. «Da allora venne spesso a casa e fu un po’ come se fosse entrato a far parte della famiglia. In qualche modo credo che la cosa lo aiutò ad uscire dal suo guscio perché pian piano iniziò ad essere più socievole con gli altri e a farsi anche nuovi amici.» spiegò sollevando per la prima volta la testa.
Non guardò Magnus dritto negli occhi ma gli lanciò brevi e rapide occhiate fra un concetto e l’altro, forse incoraggiato dal fatto di aver ormai superato lo scoglio del dover iniziare.
Lo psicologo non disse comunque nulla limitandosi ad ascoltarlo seduto sulla sua poltrona; sapeva che se l’avesse interrotto proprio ora che stava prendendo coraggio, probabilmente avrebbe finito con il distruggere la sua determinazione.
«Anche se adesso non sembra, all’inizio per lui non fu semplice ma in qualche modo finì con il diventare l’anima della festa. Ovunque andasse la gente era calamitata da lui e cercava in tutte le maniere di attirare la sua attenzione e guadagnarsi la sua amicizia.» proseguì il suo racconto passandosi distrattamente una mano sui corti capelli scuri che coprivano la sua nuca.
«Nonostante tutto però lui non si allontanò mai da me. Continuava a passare con me la maggior parte del suo tempo e mi trascinava con sé ovunque fosse invitato.» Un sorriso nostalgico si allargò sulle sue labbra mentre guardava un punto indecifrato del tappeto davanti a lui.
«Mi sentivo felice delle sue attenzioni, odiavo vederlo troppo vicino agli altri. Mi accorsi che ero geloso di lui e che passavo un sacco di tempo a guardarlo…»
Magnus non poté evitare di notare il rossore che esplose sulle guance del ragazzo.
Non poté evitare di sentire nuovamente il tremito nella sua voce, le sue dita tornare ad agitarsi nervosamente proprio ora che sembravano aver trovato un po’ di pace.
Alec si fermò per diversi secondi prima di trovare il coraggio di sollevare leggermente lo sguardo e cercare quello dello psicologo.
Dal canto suo, Magnus, non mostrò alcun tipo di sorpresa o emozione sul volto. Calmo, andò semplicemente ad abbozzare un sorriso gentile, incitandolo a continuare con un lieve cenno della testa.
Sentiva chiaramente la difficoltà del ragazzo nel rivelargli la sua storia.
Sentiva distintamente la paura di aprirsi tanto liberamente a qualcuno.
Sentiva il timore di essere giudicato e l’ansia di dover ancora affrontare la parte peggiore del suo racconto. Magnus aveva ascoltato fin troppe persone per non sapere che tutto quello non era altro che il prologo, la premessa della storia vera e propria.
Alec deglutì nervosamente e, umettandosi le labbra ormai screpolate, annuì.
«Iniziai a chiedermi il perché di questo mio comportamento ma non osai parlarne con nessuno e continuai così per diversi anni. Non pensavo che qualcuno si fosse accorto di qualcosa, men che meno proprio lui…» la sua voce incespicò mentre l’aria sembrò mancargli dai polmoni per un istante.
Magnus sentì il cuore farglisi pesante.
Poteva capire i sentimenti che Alec doveva aver provato in passato, ancora di più quelli che provava in quel momento. Era la prima volta che trovava la forza di aprirsi a questo modo a qualcuno e lo psicologo non poté che sentirsi un privilegiato per quell’onore che l’altro gli aveva concesso. E tuttavia, allo stesso tempo, sentiva che qualcosa di orribile stava per arrivare a giudicare dal modo in cui lo sguardo del ragazzo andava riempiendosi di panico. Poteva chiaramente leggere nei suoi occhi il rifiuto di avvicinarsi ulteriormente al cuore di quella conversazione, poteva percepire la paura di proseguire come fosse propria.
Si accorse in quel momento di sentirsi teso, di aver iniziato a giocherellare con uno dei suoi anelli rigirandoselo nervosamente attorno al dito da chissà quanto tempo.
Non osò però dire una sola parola, rimanendo immobile sulla poltrona col fiato sospeso.
Alec sembrò soppesare l’idea di fermarsi con quella di proseguire e, dopo un lungo minuto di silenzio, liberò un respiro tremante.
«Così un-un giorno, cinque anni fa, ci ritrovammo come sempre a casa mia.» il ragazzo iniziò col dire, deglutendo pesantemente.
Qualcosa scattò nella mente di Magnus.
Da qualche parte, dalla distanza, un campanello d’allarme iniziò a trillare facendogli rizzare i peli sulle braccia.
Cinque anni fa…?
«Era estate e Jace si era addormentato sul mio letto, come faceva spesso dopo pranzo. Io ero lì e mi ritrovai a osservarlo dormire. Non-non in maniera strana, non stavo facendo niente, giuro!» si affrettò a spiegare sollevando d’istinto lo sguardo, l’espressione colpevole.
I suoi occhi erano lucidi e le pupille tanto strette da andare quasi a perdersi nell’oceano blu delle sue iridi.
Guardandolo, Magnus si sentì stringere il cuore.
«Ti credo, Alexander. Non preoccuparti, va tutto bene.» abbozzò un sorriso cauto, annuendo appena col capo in un cenno d’incoraggiamento.
Alec boccheggiò per un momento prima di richiudere le labbra e stringerle con forza.
«…R-ricordo che ero rimasto colpito dal modo in cui il sole gli illuminava i capelli.» continuò teso, visibilmente imbarazzato, il viso pallido mentre proseguiva.
«Avevo allungato una mano per toccarglieli, volevo solo… Io…» esitò, mortificato, facendosi ancora più piccolo sul divano, la testa quasi totalmente incassata nelle spalle mentre ricordava gli eventi di quel giorno.
«…Comunque in quel momento sentii la porta che si apriva. Mio fratello Max aveva saputo che Jace era a casa e voleva salutarlo, così si era precipitato nella mia stanza.»
Sentire il nome di Max portò Magnus a sussultare internamente.
Maryse Lightwood gli aveva detto cos’era successo.
E quella era la prima volta che Alec lo avesse mai nominato dacché avessero iniziato a parlare.
La pessima sensazione che poco prima lo aveva avvolto iniziò lentamente a prendere forma nella sua mente.
«Entrando doveva avermi visto mentre osservavo Jace perché iniziò subito a ridacchiare e prendermi in giro.» La voce di Alec a quel punto tremava visibilmente, così come il suo respiro che usciva rotto dalle labbra martoriate.
Quando iniziò a piangere, Magnus si sorprese nello scoprire che anche a lui era sfuggita una lacrima.
«Iniziò a ripetere che mi piaceva, non capiva le implicazioni di quello che stava dicendo, era troppo piccolo per poterlo fare… E io andai nel panico. Mi alzai di corsa dal letto per cercare di afferrarlo e farlo stare zitto ma lui iniziò a scappare in giro per casa per sfuggirmi pensando che fosse un gioco…»
Gli occhi del ragazzo si velarono di nuove lacrime, dalle sue labbra neppure un singhiozzo mentre il dolore lo colpiva al petto come una scossa. Magnus lo vide come sobbalzare sul posto, quel genere di movimento che ti coglieva quando giungeva una fitta improvvisa a toglierti il fiato, e gli parve di poter sentire egli stesso il suo dolore.
«…alla fine inciampò e cadde dalle scale.» La sua voce, a quel punto, era priva di qualsiasi tipo di intonazione o colore. Un brivido risalì le braccia dello psicologo nel realizzare quanto profonda fosse la ferita nel suo cuore.
«Morì sul colpo, non urlò nemmeno se non per la sorpresa di aver perso l’equilibrio.» disse atono, sollevando lentamente lo sguardo per puntarlo per la prima volta in quello dell’altro. Le lacrime continuarono a scorrere silenziose lungo il suo viso rendendo la sua espressione vacua ancor più sinistra. «Aveva solo nove anni. E io l’ho ucciso.»    

 

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Capitolo 20
*** Crollo ***


Pronunciare quelle parole ad alta voce lo lasciò senza fiato.
Lasciar uscire quella confessione dopo anni di ostinato silenzio, fu al contempo terrificante e liberatorio.
Gli parve di non avere aria e di poter finalmente tornare a respirare al tempo stesso.
Sentiva il cuore nel suo petto contrarsi dolorosamente ad ogni suo tentativo di inspirare e ben presto si ritrovò a boccheggiare a corto d’ossigeno.
I singhiozzi iniziarono a smuovere le sue spalle mentre le lacrime che dapprima avevano preso a scorrere lente sul suo viso presero a fuoriuscire rapide, fiumi salati che rigavano le sue guance pallide.
Alec non si era mai sentito così distrutto come in quel momento.
Era come se un martello avesse colpito il punto esatto da cui mille crepe avevano preso a diramarsi lungo il suo corpo, appena sotto pelle, mandandolo in frantumi. Una lastra di vetro trasparente ridotta a nulla più che milioni di granelli di polvere tagliente.
Per la prima volta il dolore lo travolse in tutta la sua forza.
Il ragazzo si sentì travolgere dalla piena potenza di uno tsunami inarrestabile mentre i ricordi affioravano dolorosamente nella sua mente. Tutti i sentimenti e le emozioni che si era sforzato di non provare in quegli anni, esplosero adesso dentro di lui annientandolo.
Rannicchiato su se stesso, con le mani a stringersi fra i capelli proprio sopra la sua fronte, cercava disperatamente di respirare attraverso i singulti. L’aria faticava a raggiungere i suoi polmoni, il suo addome si contraeva nello sforzo in spasmi dolorosi.
La sua voce usciva strozzata in gemiti acuti, lamenti strazianti.
Il suo fratellino era morto.
Il suo fratellino sempre sorridente.
Il suo fratellino troppo intelligente.
Il suo fratellino che amava gli anime e i manga e sapeva usare il cellulare meglio di quanto avesse mai saputo fare lui.
Il pensiero gli era semplicemente intollerabile.
Dopo pochi respiri spezzati, Alec esplose in un pianto struggente. I lamenti che fino a quel momento aveva cercato di trattenere, che non era riuscito ad emettere a causa della mancanza d’aria, trovarono sfogo in un gemito grave, roco, graffiante. Un verso cupo e baritonale che si fece strada dal centro del suo essere risalendo lungo la gola ed uscendo poi cupo e straziante. Ogni difesa, ogni barriera era finalmente crollata lasciandolo totalmente inerme contro l’ondata di dolore che lo stava attraversando.
Annaspando, pianse disperato ignorando il dolore pulsante al viso, troppo insignificante e misero rispetto a quello ben più intenso e penetrante nel suo petto.
Si abbandonò totalmente alla sua sofferenza, troppo stanco per cercare ancora di arginarla dentro di sé. Per troppo tempo aveva tentato di domarla, per troppo tempo aveva provato a superarla senza sapere di star solo fuggendo da essa.
Adesso, però, era finita.
Non aveva più modo di scappare, non c’era luogo dove rifugiarsi.
Era stato raggiunto e avvolto dalle gelide dita della sua colpa.
Le sentiva prenderlo ad artigliate, mutilarlo, strappando ad ogni colpo un pezzo di sé.
Si arrese al loro gioco lasciando che facessero di lui quanto volevano, che lo smembrassero fino a che di Alexander Lightwood non fossero rimasti che minuscoli coriandoli.
E poi.
Qualcosa cambiò. Il freddo, il gelo di quel dolore venne come coperto da un calore gentile. Aprendo confusamente gli occhi velati di lacrime, Alec vide Magnus stringerlo fra le proprie braccia. Sentì le sue dita attente carezzare piano i suoi capelli scomposti, il suo profumo riempirgli i polmoni e la sua voce sussurrare dolci nonnulla al suo orecchio.
Senza che se ne fosse reso conto, l’altro gli si era fatto vicino e se l’era gentilmente portato al petto, avvolgendolo con le sue braccia in un gesto cauto e deciso al tempo stesso.
Non c’era esitazione nei suoi movimenti, non c’era incertezza.
Magnus era lì, stabile e tangibile sotto le sue dita.
La sua pelle era calda contro la sua, il suo tono confortante mentre cullava il suo pianto con piccole rassicurazioni.
Alec si ritrovò immobile fra le sue braccia, con il viso poggiato sulla sua spalla e le mani dell’altro a tenerlo stretto: una sulla schiena, l’altra dietro il capo.
Sentendo qualcosa sciogliersi in fondo al suo petto, Alec non riuscì a far altro che arrendersi a quel gesto. Richiudendo gli occhi, sentì nuove lacrime scorrere brucianti lungo il suo viso mentre, sfinito, si abbandonava a quella stretta. Poggiò la fronte contro la spalla dell’altro e, senza quasi rendersene conto, sollevò le mani per aggrapparsi con forza alle sue braccia mentre la sua voce andava infrangendosi contro il corpo dello psicologo. Strinse fra le dita il tessuto dei suoi abiti, poteva sentire sotto i palmi la compattezza dei suoi muscoli, un appiglio sicuro e stabile cui reggersi in quella tempesta, e soffocò le proprie urla e il proprio dolore contro il suo petto.
«Io non volevo!» guaì con voce strozzata, distaccandosi appena dalla spalla dell’uomo. «N-non volevo fargli del m-male, non volevo…» continuava a ripetere liberando la straziante confessione che per anni aveva tenuto sotto chiave dentro sé.
 
*

Ogni parola era una fitta al cuore di Magnus.
Sentire la voce acuta e disperata del ragazzo era una tortura ma sapeva di non potersi permettere di mostrare alcun tipo di sofferenza in quel momento.
Doveva essere forte per lui, doveva essere stabile per potergli impedire di crollare.
No. Meglio. Per farlo crollare in sicurezza.
Dopotutto, per tutto quel tempo, Alexander era stato crepato.
Aveva cercato di rattoppare le ferite del suo animo in tutti i modi senza mai davvero tentare di osservarle, di realizzare l’entità del danno. Si era tenuto a distanza, troppo terrorizzato dall’idea di dare uno sguardo reale alla situazione.
Aveva ignorato il proprio dolore, camminando giorno dopo giorno con la lama ancora conficcata nel taglio impedendogli di chiudersi, continuando a tenerlo aperto, quasi in un costante promemoria della sua “colpa”. Voleva medicare le crepe che si diramavano da quel foro come se riempirle avesse potuto tenerlo integro, ignorando il modo in cui ogni passo compiuto con l’arma ancora infissa nel suo corpo non faceva altro che generare nuove e nuove increspature.
Adesso che finalmente il coltello era venuto fuori, però, la ferita era a tutti gli effetti esposta.
Profonda, infetta, dolorosa.
Viva.
E pronta a guarire.
Adesso Alexander poteva crollare finalmente a pezzi e ricostruirsi davvero, senza toppe, senza cerotti. Da zero. Nuovo.
Inspirando dalle narici, Magnus gonfiò il petto d’aria e quindi si distaccò leggermente dal ragazzo per andare ad avvolgere la sua guancia sinistra con il proprio palmo.
«Certo che non volevi, Alexander.» gli disse con voce gentile ma ferma, guardandolo nei suoi grandi occhi azzurri con decisione. «Volevi bene al tuo fratellino, non gli avresti mai fatto del male. Lo so io, lo sai tu e lo sapeva anche lui.»
Come previsto, a quelle parole, il pianto del giovane si acuì strappandogli alcuni gemiti strozzati. Magnus cercò di non farsi impietosire dalla scena, di ignorare il dolore che quel suono causava nel suo petto. Con un po’ più di pressione sul suo volto, lo costrinse ad osservarlo, a guardare i suoi occhi fermi e sicuri.
«Non aveva paura di te. Non stava scappando da te. Per lui era un gioco.» Cercava di essere razionale, chiaro e logico. Cercava di respingere le colpe che la sua mente continuava ad affibbiarsi con poche parole semplici e concetti inattaccabili.
«Non è quello che ha visto ad averlo fatto cadere.»
Alexander sussultò visibilmente a quelle parole, un singhiozzo gli portò via il fiato.
«Sarebbe potuto succedere anche mentre giocava con tua sorella o con Jace. Avrebbe potuto mettersi a correre per arrivare primo in cucina o per giocare a nascondino. Avrebbe potuto inciampare in una scarpa slacciata o mettendo male il piede: è stato un incidente.» continuò Magnus con voce seria, carezzando lentamente il viso dell’altro con lenti movimenti del pollice. «So che nella tua testa continuerai a negare tutto questo. Che tutte queste sono ipotesi che avrebbero potuto anche non accadere, mentre quello che è successo è successo davvero, ma devi cercare di ascoltarmi, Alexander.»
Questa volta il suo tono si fece più morbido, la sua voce più carezzevole mentre deglutiva nervosamente sotto i suoi occhi.
«Datti questa possibilità, il beneficio del dubbio. Prova a considerare l’idea che forse quel che ha visto non è determinante ai fini di quel che è accaduto.»
Poteva chiaramente leggere negli occhi del ragazzo il rifiuto, la difficoltà di accettare quella richiesta, l’impossibilità di lasciar andare la colpa cui si era aggrappato per tutti quegli anni. Poteva vedere nel suo sguardo il bisogno di credere di essere stato responsabile di quella tragedia, per dare in qualche modo un senso alla morte del bambino. Cosa avrebbe significato, altrimenti? Che era semplicemente caduto? Così? Senza una ragione? Forse l’idea di aver visto morire il suo fratellino per un motivo tanto sciocco e privo di senso, era ancora più atroce del sentirsi direttamente responsabile della sua morte. Era come se darsi la colpa del fatto desse automaticamente un qualche tipo di valore alla sua dipartita. Se avesse scelto di liberarsi di quel fardello, cosa sarebbe rimasto di quel momento?
«No. No, non posso, io…» iniziò a mormorare, ostinato, scuotendo il capo da una parte all’altra.
Magnus allora strinse i denti e, poggiando anche l’altro palmo sulla guancia libera del ragazzo, afferrò il suo viso fra le mani.
«Non è colpa tua.» disse, deciso, quasi rimproverandolo.
Alexander sussultò come se fosse stato schiaffeggiato.
«No… No, smettila, so quello che è successo, io–»
Cercava di sottrarsi alla stretta dello psicologo, ma Magnus non gli permise di sfilare il viso dalla sua presa.
«Non è colpa tua.» ripeté inflessibile.
Alexander cercò ancora di sfuggirgli. «Smettila!»
Ma Magnus non aveva intenzione di arrendersi. «Non è colpa tua.» continuò.
Il ragazzo versò nuove lacrime mentre annaspando cercava di togliersi le mani di Magnus di dosso.
«No, no…»
La sua era una resistenza sfinita, esausta, più simile all’infantile rifiuto di qualcosa di orribile che al disperato desiderio di opporsi a qualcosa di sbagliato o spaventoso.
Magnus ne era al tempo stesso intenerito e afflitto.
«Non è colpa tua. Non è colpa tua, non è colpa tua, non è colpa tua.» ripeté una, due, tre, quattro volte prima di poggiare debolmente la fronte contro quella del giovane. Alexander ormai si era spento in un pianto stanco, incapace di opporsi ulteriormente alle parole dell’altro. Tirando su col naso chiuse gli occhi a quel contatto, aggrappandosi di nuovo alle braccia di Magnus. Questa volta, però, non c’era forza nelle sue dita.
Contrariamente a come aveva fatto poco prima, non stava cercando di appigliarsi a lui per rimanere a galla, per sentire sotto le mani qualcosa di solido e stabile cui potersi reggere per non sprofondare.
Questa volta era un tocco leggero, gentile, che fece tremare il respiro dello psicologo.
Alexander dovette accorgersi di quel fremito, doveva aver sentito il suo fiato vibrante sulla pelle, perché proprio in quel momento aprì lentamente gli occhi rivelando uno sguardo altrettanto turbato. Vulnerabile.
Magnus poteva vedere la sua espressione spenta e vuota venir distorta per un istante da una scintilla di timidezza. Come se per un momento soltanto la vita avesse trovato la sua strada in mezzo alla morte, un fiore selvatico che trovava la forza di sbocciare attraverso la crepa frastagliata di una strada di cemento.
Fu la consapevolezza di un secondo.
Magnus sapeva cosa stava succedendo, cosa quell’unico sguardo significasse.
E doveva fermarlo.
Doveva impedirlo.
Alexander non era in sé. Non era lucido, era ferito e probabilmente sotto shock.
Magnus al contrario era la parte forte fra i due e doveva assicurarsi di proteggerlo. Di proteggere i suoi sentimenti, le sue emozioni, la sua dignità. Non voleva che quel momento di difficoltà lo spingesse a compiere un gesto di cui avrebbe potuto pentirsi l’indomani, un gesto che avrebbe anche potuto portarlo ad odiarlo, per di più.
Andò quindi a lasciar andare la presa sul suo viso e scostare la fronte dalla sua, pronto a voltarsi per guadagnare un momento di lucidità lontano dai suoi occhi lucidi, dal suo sguardo distrutto.
Non avrebbe mai previsto quel che sarebbe successo a quel punto.
La mano di Alexander corse a poggiarsi sul suo volto per girarlo rapidamente verso di sé. Preso totalmente alla sprovvista e non avendo mai realmente sollevato barriere o difese nei riguardi del ragazzo, Magnus non si oppose minimamente al gesto, ritrovandosi quindi a quel punto col sentire le labbra umide del giovane posarsi sulle proprie.
Fu un bacio rapido, impacciato, incredibilmente incerto.
Alexander si era lanciato in avanti per apporre la sua bocca su quella dell’altro, quasi in un gesto istintivo. Magnus poteva sentire la tensione del suo corpo, la sua mano nervosa sul viso, le sue labbra rigide mentre aveva al contempo paura di schiuderle e di allontanarle. Si era teneramente lanciato senza sapere bene come muoversi, guidato forse dal primitivo bisogno di non essere solo–e forse dall’innocente infatuazione che col tempo era cresciuta con lui.
Lo psicologo avrebbe voluto sorridere, labbra contro labbra, profondamente intenerito da quella scena prima di prendere l’iniziativa e aiutarlo a sciogliere l’incertezza di quella situazione ma, alla fine, optò per distaccarsi dolcemente da quel contatto.
«M-mi dispiace, io…» Alexander iniziò immediatamente a balbettare, le sue guance avvamparono mentre nuove lacrime affioravano dai suoi occhi. Era chiaro che al dolore del momento si era adesso mescolata l’umiliazione.
Magnus gli sorrise con gentilezza, accarezzandogli il viso.
«Non devi scusarti. Va tutto bene.» ci tenne a chiarire subito, con voce calma, guardandolo negli occhi. «Ma non penso che tu voglia davvero affrontare questa questione in questo momento, non è così?» il suo tono era chiaramente premuroso, persino quasi provocatorio mentre cercava di strappare un sorriso all’altro ragazzo.
Alexander arrossì ancor di più alle sue parole, ma dal modo in cui abbassò lo sguardo Magnus poté capire che era meno teso di prima. Senza dire una parola si limitò ad annuire, nascondendosi dalle occhiate dello psicologo.
Sembrava che finalmente la situazione avesse trovato una qualche stabilità. Magnus sentì il peso di quella giornata gravargli sulle spalle, facendolo sentire a pezzi. Espirando rumorosamente si alzò in piedi e, allungando una mano verso Alexander, lo invitò ad alzarsi.
«Vieni, è meglio se resti qui stanotte. Vedrai che dopo una buona nottata di sonno ti sentirai meglio.» gli disse con tono calmo, accomodante, sentendo la mano dell’altro afferrare la propria senza proteste.
Alexander era troppo stanco e vuoto per sentirsi a disagio, poteva vederlo chiaramente nel suo annuire spento del capo. Sopprimendo l’istinto di abbracciarlo, Magnus lo guidò fino alla propria camera dove Presidente Meow lo stava aspettando acciambellato ai piedi del suo letto.
Lasciando andare la mano del ragazzo, Magnus recuperò da un cassetto una vecchia maglia nera a maniche corte ed un paio di pantaloni da tuta che non metteva da anni -troppo sobri per i suoi gusti-, porgendoli poi al giovane ancora fermo sulla soglia della stanza.
«Puoi mettere questi per dormire. Ovviamente se vuoi puoi farti una doccia prima. Insomma, fai come fossi a casa tua. Io sarò di là sul divano se hai bisogno di qualsiasi cosa.» gli disse tranquillo, tenendo le labbra distese in un sorriso affabile mentre Alexander afferrava i vestiti che gli venivano porti.
«Uhm…» Un verso confuso uscì soffocato dalla sua gola portando Magnus a bloccarsi sul posto, fissandolo con la testa leggermente inclinata verso la spalla con espressione interrogativa. Non disse nulla, non voleva mettergli fretta, lasciandogli tutto il tempo di decidere se dirgli qualcosa o meno.
Alexander sembrò effettivamente combattuto per qualche istante, prima di iniziare a rigirarsi nervosamente i vestiti puliti fra le mani arrotolandoli e rilasciandoli.
«…P-possiamo dormire insieme?» chiese con un soffio di voce tenendo lo sguardo basso, prima di rendersi conto di cosa forse quelle parole avrebbero potuto far intendere. Avvampando sollevò il capo scuotendo agitato le mani davanti a sé. «NO! Cioè, non intendo! Oddio, no, non volevo dire– » iniziò a balbettare prima che Magnus andasse a posare l’indice destro sulle sue labbra per impedirgli di aggiungere altro.
«Alexander» gli sorrise divertito. «Non preoccuparti. Ho capito cosa intendi.» lo rassicurò per prima cosa prima di abbassare la mano e farla ricadere lungo il corpo. «E certo, se per te va bene.»
Il ragazzo lo guardò negli occhi per un solo istante prima di annuire deciso un paio di volte. Nessuna esitazione questa volta. Decisamente non tollerava l’idea di rimanere da solo in quel momento. Magnus poteva capirlo.
Così, sorridendogli, recuperò il proprio pigiama e lasciò Alexander libero di cambiarsi nella sua stanza. Lui, dal canto proprio, andò a chiudersi in bagno dove, dopo una rapidissima doccia, avviò il suo rituale di bellezza serale.
Non voleva lasciare il ragazzo da solo, ma aveva bisogno anche lui di qualche momento per riprendersi dagli eventi di quella giornata. Soprattutto, di togliersi di dosso il trucco dal viso e i suoi abiti troppo attillati per dormirci dentro.
Si asciugò i capelli rapidamente e quindi deterse il volto con cura e si lavò i denti. Messa la crema viso per la notte indossò il suo pigiama di seta giallo e infilò le sue morbidissime pantofole di pelo rosa. Giunse in camera quarantadue minuti più tardi, trovando Alexander ancora perfettamente sveglio, seduto sul bordo del letto con il suo pigiama d’emergenza addosso ed il cellulare fra le mani.
«Non prendere freddo, mettiti sotto le coperte» disse Magnus sfilandosi dalle mani i numerosi anelli per riporli nel portagioie sul comò sotto lo specchio.
Alexander si voltò a guardarlo e, superata la sorpresa per la sgargiante mise notturna dell’altro, si infilò nel letto poggiando il telefono sul comodino.
«Ho scritto a Jace. Continuava a chiamarmi e non gli avevo ancora risposto…» spiegò col viso arrossato dal recente pianto, gli occhi rossi e gonfi per le lacrime versate, il naso che iniziava già a mostrare i primi segni di tumefazione dove era stato colpito.
«Hai fatto bene. Si sarà preoccupato molto.»
Alexander annuì colpevole.
«Ma non è una tua responsabilità. Tutti abbiamo bisogno di fuggire qualche volta. La cosa importante è che tu lo abbia rassicurato e che gli abbia detto che sei al sicuro.»
Il ragazzo annuì un’altra volta, un po’ più convinto.
Solo a quel punto Magnus andò quindi a raggiungere il giovane, infilandosi a sua volta sotto le lenzuola. Non poteva negare di sentirsi piuttosto stranito all’idea di avere Alexander accanto, lì, nel suo letto, eppure era anche contento all’idea di saperlo vicino nel suo momento di maggiore vulnerabilità. Voleva esserci per lui, assisterlo in caso di bisogno, fungere da sostegno e supporto.
Si sistemarono entrambi sotto le coperte.
Erano evidentemente nervosi, tesi e a disagio. Magnus si umettò nervosamente le labbra e quindi allungò un braccio verso il comodino alla sua destra.
«Beh, allora–buonanotte» disse schiarendosi piano la voce.
«Buonanotte»
Spegnendo la luce dell’abat-jour, Magnus portò il braccio a piegarsi dietro la sua testa osservando il soffitto. Deglutendo ripercorse piano gli avvenimenti delle ultime ore pensando a quanti passi erano stati compiuti in così poco tempo. Alexander aveva affrontato un vero e proprio demone quel giorno e Magnus era fiero di lui. Sapeva però che ora più che mai aveva bisogno di una guida, di qualcuno che lo aiutasse a metabolizzare il cammino percorso quella sera perché non andasse sprecato e lui ci sarebbe stato. Lo avrebbe accompagnato lungo tutto il tragitto, mano nella mano se fosse servito, dandogli tutto l’aiuto di cui avesse avuto bisogno.
Inspirando voltò il viso verso il ragazzo.
Alexander si era addormentato all’istante, rannicchiato in posizione fetale, avvolto dalle coperte dorate. Il suo petto si alzava e abbassava a ritmo regolare, il suo respiro usciva pieno e ben udibile dalle labbra schiuse: il suo naso doveva essere ancora leggermente chiuso per via del lungo pianto.
Così raggomitolato su se stesso appariva piccolo e vulnerabile, stringendo il cuore dello psicologo.
Osservandolo, Magnus si distese sul fianco, con un braccio piegato sotto il viso, e allungò una mano per scostare un ciuffo scuro di capelli dagli occhi del giovane. Un sorriso triste, malinconico, increspò le sue labbra carnose portandolo a ritrarre cautamente la mano dal suo capo: non voleva rischiare di svegliarlo, non ora che forse avrebbe trovato un po’ di pace nell’inconsistenza dei suoi sogni. Rimase però a guardarlo, in silenzio, perdendosi nel ritmo regolare del suo respiro. Sentiva i propri occhi farsi man mano più pesanti, la stanchezza piombargli addosso ad ogni fiato rilasciato dalle labbra dell’altro, il suo cuore calmarsi via via che la tensione lasciava la presa sulle sue membra.
Alexander era lì, al suo fianco.
Alexander era di nuovo nella sua vita, al sicuro.
Alexander lo aveva baciato.
Il pensiero sfarfallò brevemente nella sua mente già parzialmente ottenebrata dal sonno, strappandogli un sorriso innocente e fiacco.
Magnus si addormentò così, al ritmo dei respiri di Alexander e col ricordo delle sue labbra incerte che cercavano le proprie.

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Capitolo 21
*** Catarsi ***


Il suono della sveglia si fece man mano strada tra i suoi sensi.
Lo trascinò via dalla dolce inconsistenza dei suoi sogni e lo portò a sospirare rassegnato. Senza ancora aprire gli occhi, nel giro di pochi attimi, Magnus si rese conto di due cose.
La prima, che aveva dormito profondamente come non faceva da anni.
La seconda, che non poteva muoversi.
Qualcosa lo teneva saldamente bloccato sul posto, facendo forza sul suo fianco. Aprendo confusamente gli occhi la prima cosa che vide davanti a sé fu il viso di Alexander. Il suo respiro scivolava caldo sulla sua pelle, la sua espressione era leggermente corrucciata, forse infastidita dal trillo della sveglia che ancora risuonava nella stanza. Era terribilmente vicino e lo teneva stretto. Ora che era perfettamente cosciente e sveglio, Magnus poteva distinguere meglio tutto ciò che accadeva attorno a sé; poteva sentire il braccio del ragazzo sul suo fianco e la sua mano abbandonata dietro la schiena. Poteva sentire i loro piedi leggermente intrecciati, il calore del suo corpo che l’avvolgeva come una coperta.
Riscoprì il proprio battito leggermente accelerato nel petto.
Da quanto tempo non si risvegliava accanto a qualcuno a quel modo?
Da quanto tempo non lo stringevano così? Come non volessero più lasciarlo andare?
I suoi pensieri vennero interrotti dal roco mugugnare infastidito del ragazzo.
Magnus tentò di ruotare nel suo abbraccio per cercare di raggiungere la sveglia sul suo comodino ma, nel momento in cui provò a muoversi, la stretta di Alexander si fece più decisa e pressante.
Allo psicologo salì spontaneo un sorriso alle labbra.
«Uhm…» si schiarì piano la voce, sentendosi piccolo tra le braccia dell’altro. «Alexander?»
Il ragazzo mugugnò ancora, contrariato, e arricciò l’espressione del viso.
Il livido sul volto dovette dolere a quella contrazione perché ci fu un rapido sibilo sofferente.
In pochi istanti Alexander aprì confusamente gli occhi, palesemente spaesato.
Magnus lo guardava divertito, intenerito da quel nuovo aspetto dell’altro.
Ci volle qualche momento perché il ragazzo realizzasse la situazione.
Come si fosse scottato, ritrasse tutto il suo corpo da quello di Magnus, rosso fino alla punta dei capelli.
Magnus si volse a spegnere la sveglia ridacchiando divertito.
«S-scusami. Non–non volevo! Cioè…» tentò di scusarsi alzandosi a sedere, i capelli sconvolti dalla nottata di sonno.
Lo psicologo si alzò a sedere a sua volta guardandolo con un sopracciglio sollevato.
«Non volevi?» chiese piegando una gamba così da poggiare il gomito sul ginocchio e reggersi il mento con una mano. «Dovrei ritenermi offeso?» scherzoso, ammiccante, mentre i suoi occhi verdi sembrarono quasi scintillare nelle prime luci del mattino.
Alexander arrossì ancor più violentemente, tirando via il cuscino da dietro la sua schiena per spingerselo in faccia e nascondercisi.
Magnus rise a gran voce di quel gesto così tenero e spontaneo uscendo alla fine dalle coperte.
Decise di lasciarlo sbollire l’imbarazzo da solo per un po’, iniziando a prepararsi per la sua giornata.
Andò in bagno dove si diede una lavata veloce al viso, ai denti e alle braccia. Si rasò il volto e procedette con la sua routine di bellezza quotidiana fatta di mille creme e oli profumati. Passò infine al make-up ed alla spazzola. Sistemò i capelli in spettinate spine ben fissate verso l’alto e sparse su di quelle una spruzzata di glitter abbinati al trucco di quel giorno: rosso fuoco.
Quando uscì dal bagno Alexander era in soggiorno, tornato nei suoi vestiti, chino sui talloni a grattare le orecchie di Presidente Meow.
Il gatto gli faceva felice le fusa in una scena così spiccatamente domestica da arrestare per un istante l’incedere dello psicologo.
Deglutendo, si defilò in camera per vestirsi, sentendosi lievemente turbato.
Quella scena, per qualche motivo, gli aveva fatto male.
Non in modo profondo, acuto, ma sottile. Dolce.
Si ritrovò a fissare gli abiti smessi di Alexander lasciati ripiegati sul letto mentre, sovrappensiero, abbottonava la camicia.
Finì di vestirsi con la stessa espressione assorta, il cuore in subbuglio, fino a che non fu totalmente pronto.
Camicia nera, panciotto borgogna e cravatta rossa. Un paio di pantaloni di pelle neri e di anfibi ricchi di catene e borchie d’acciaio completavano il look assieme ad una serie di braccialetti ed anelli luccicanti.
Una spruzzata di profumo ed eccolo di ritorno nel salone dove Alexander, adesso, stava sistemando due tazze di caffè sul tavolino.
«Uhm… non so come lo prendi di solito quindi non ho messo né latte né zucchero.» disse sollevando la testa, la mancina a grattare nervosamente la nuca.
Nel momento in cui vide la figura dello psicologo si arrestò a fissarlo come incantato per un lunghissimo istante prima di schiarirsi la voce e distogliere rapidamente lo sguardo.
«…Quindi – uhm… come lo prendi?» chiese impegnandosi a destreggiarsi fra il cartone del latte e il contenitore dello zucchero nel vassoio sul tavolino.
Magnus si aprì in un sorriso gentile, un calore benefico ad invadergli il petto.
«Amaro. Grazie, Alexander.» disse avvicinandosi, allungando una mano per accogliere la tazzina che il ragazzo gli porse poco dopo.
Era evidente che il giovane stesse evitando di guardarlo in viso, faceva di tutto per guardare altrove, portando Magnus a ricercare il suo mento con le dita per guidare il suo volto verso di sé.
«Alexander» lo chiamò con voce calma, ferma. «Guardami.»
Il ragazzo si irrigidì appena nella sua presa, le gote rosse d’imbarazzo, ma ubbidiente.
I loro occhi s’incontrarono e lo psicologo gli rivolse un sorriso gentile.
«Ecco. Molto meglio.» disse con tono leggero, ritraendo la mano e sorseggiando il suo caffè. «Hai bisogno che ti accompagni a casa prima di andare al lavoro?»
Il moro schiuse le labbra perdendo in un istante ogni traccia d’imbarazzo, adombrandosi appena in volto.
«…No. Credo sia meglio che passi da Jace per chiarire con lui, prima.»
Magnus annuì, posando poi la tazzina vuota di caffè sul tavolino.
«Sì, penso sia meglio.» concordò. «Tu stai bene?»
Il ragazzo sembrò prendersi qualche attimo per soppesare la domanda prima di sollevare lo sguardo e posarlo sul volto dell’altro.
«Credo di sì.» si fermò brevemente aggrottando dubbioso le sopracciglia. «Non avevo mai pensato che sarebbe venuto il giorno in cui avremmo parlato. Non di questo… è strano.»
Lo psicologo mosse un paio di passi e poggiò le mani sulle sue spalle, un sorriso incoraggiante a distendergli le labbra carnose.
«Lo so. Ma forse è arrivato il momento di toglierti questo peso, non credi?»
Alexander strinse le labbra in una linea sottile.
Era evidente che non fosse pienamente convinto, la battaglia interiore che si stava svolgendo dietro quei denti serrati.
«…Mh.» annuì alla fine, cupamente.
Magnus sfiatò piano, dal naso, e ritrasse le mani.
«Bene allora. Affrontiamo questa giornata!»
 
*
 
Persino respirare gli faceva male.
Ogni volta che inspirava dal naso, l’ematoma che gli circondava l’occhio pulsava dolorosamente ricordandogli della propria presenza. Della sua idiozia.
Forse un po’ se lo meritava quel dolore.
Alec aveva le mani ostinatamente infilate nelle tasche del suo giubbino, poggiato di schiena contro un lampione. Calciava pigramente la ghiaia sotto i suoi piedi con la punta della scarpa destra mentre il cielo sopra di lui minacciava una bella nevicata. Era bianco in maniera inquietante, denso, striato di grigio in più punti. L’aria era fredda, tagliente, poteva sentirla strisciargli fin dentro le ossa.
Qualche bambino si rincorreva in maniera impacciata a causa dei numerosi strati di vestiti sotto i loro giubbottini imbottiti, i loro genitori li seguivano più lentamente, poco distanti, attenti a non perderli di vista. Una palla colorata rotolava spinta dai loro piedini frenetici.
I giochi offerti dal parco non erano particolarmente sicuri con quel clima; sugli scivoli e sulle catene delle altalene tendevano a formarsi strati di ghiaccio, per cui la zona dedicata al divertimento dei più piccoli era momentaneamente chiusa. Ciò non avrebbe comunque impedito ai bambini di trascorrere qualche ora di gioco all’aria aperta.
C’era stato un tempo in cui Alec aveva portato Max a giocare in quello stesso parco.
Allora non poteva capire quanto preziosi fossero quei momenti.
Un calcio particolarmente forte -e mal direzionato- lanciò la palla lontano dal bambino che avrebbe dovuto riceverla, facendola rotolare rapida per tutt’altra strada, dove venne prontamente fermata dal piede di qualcuno.
Jace iniziò a palleggiare disinvolto con le mani comodamente riposte nelle tasche del suo giubbotto. Con un sorrisetto tranquillo mostrò ai bambini qualche gioco di piede, un paio di acrobazie, portandoli a fissarlo ammirati e rapiti.
Dopo qualche secondo l’afferrò tra le mani, sfilandole dal loro caldo rifugio, e si chinò sui talloni alla loro altezza.
«Di chi è questa?» chiese ai due bambini in piedi davanti a lui.
Uno dei due, un ragazzino di forse sette anni dalla pelle scura e i grandi occhi nocciola, indicò l’altro. «Sua»
Jace allora si voltò verso l’altro bambino e, con uno dei suoi migliori sorrisi, gli restituì la palla allungandogliela con una mano.
Questi l’afferrò timidamente e, abbracciata al petto, l’osservò meravigliato.
«Come fai a non farla mai cadere?»
«Beh, il mio è un talento naturale, ma se ci provate tante volte potete riuscirci anche voi. Basta impegnarsi! E le verdure. Soprattutto tante verdure.» disse con quel suo tono assolutamente disinvolto e convinto che Alec non sarebbe mai riuscito ad imitare. Era assurdo quanto poco gli bastasse perché qualcuno si ritrovasse a pendere dalle sue labbra a quel modo.
«Le verdure?» chiesero all’unisono i due bambini, confusi.
«Ma certo!» esclamò lui alzandosi in piedi. «Servono per far crescere le gambe. Vedete?» disse allungando una gamba come per fargliela vedere meglio. «Quando ero piccolo le verdure non mi piacevano ed ero sempre il più basso della classe. Poi un giorno mio padre mi costrinse a mangiarle e da allora ho iniziato a crescere e crescere fino a diventare alto così.» raccontò ergendosi fiero in tutta la sua statura, i piccoli ad osservarlo stupefatti e ammirati.
 Era chiaro che si divertisse a parlare con i due marmocchi, che non era affatto un peso o una noia per lui. E questo era evidente anche ai due pargoli. Stavano lì a fissarlo come se fosse il loro nuovo eroe, tutti contenti ed entusiasti di quel loro nuovo incontro.
Anche Max tendeva ad avere sempre la stessa espressione quando parlava con Jace.
Ma lui era fin troppo intelligente per credere alla storia delle verdure e difatti il biondo tendeva a parlargli come fosse un piccolo adulto. E a Max questo piaceva. Lo faceva sentire più grande, più tenuto in considerazione. Alec era sempre stato più pesante, in questo senso. Lo trattava come un bambino, gli ricordava di mettere in ordine, di non fare chiasso, di mangiare tutto. Probabilmente era per questo che Max giocava poco con lui e preferiva la compagnia del ben più spensierato Jace…
La voce della madre di uno dei due bambini, li richiamò all’ordine.
I due salutarono il loro nuovo amico con la manina e tornarono correndo dai loro genitori.
Jace a quel punto tornò a camminare verso Alec, sollevando una mano per aria in segno di saluto.
«Ehi» salutò Alec distaccando la schiena dal palo della luce, abbozzando un sorriso nervoso e impacciato con l’angolo delle labbra.
Quando fu abbastanza vicino, Jace si fermò di colpo sgranando appena gli occhi.
«Ehi, è un occhio nero quello?» chiese esterrefatto, indicando con l’indice destro il viso dell’amico. «Che diavolo è successo?»
A quel punto Alec si era dimenticato che Jace non sapesse nulla del suo piccolo incidente. Aveva dimenticato che avrebbe dovuto spiegargli tutto, troppo assorbito da ben altri pensieri.
«Ah – sì.» disse il ragazzo grattandosi la tempia opposta con l’indice. «Una piccola rissa. Non è niente.»
«Non è niente?» la voce di Jace era gravida di sgomento. «Ieri sei scappato via, hai passato la notte fuori, non hai risposto a nessuna chiamata, ti presenti qui con un occhio nero e ti aspetti che mi basti un “non è niente”?» Il tono non era arrabbiato, se possibile sembrava quasi – divertito? dalla sola possibilità che il mite e tranquillo Alec avesse chissà quale assurda storia da raccontare.
Il ragazzo alzò gli occhi al cielo pentendosene all’istante.
Trattenne un verso strozzato per il dolore e quindi sbuffò scuotendo la testa.
«È un occhio nero, mica un foro di proiettile…» brontolò trovando più difficile pensare di raccontare quella faccenda che non affrontare il vero punto della questione. Sospirò.
«Dopo che me ne sono andato, ieri, sono finito in un bar. Ero nervoso, volevo fare qualcosa per distrarmi, per non pensare.» iniziò a raccontare, incamminandosi assieme a Jace verso la zona dei giochi. Ignorarono il cartello che dichiarava la zona chiusa al pubblico e andarono a sedersi sulle due altalene, dondolandosi pigramente con la sola spinta dei piedi contro il selciato.
«Ho bevuto un po’ troppo e ho iniziato a discutere con uno zoticone che mi stava fumando addosso.»
Jace era incredulo mentre l’osservava. Ascoltava in silenzio fissandolo con gli occhi grandi di sorpresa, incerto su come rispondere a quel racconto a dir poco surreale.
«…E avete finito con il menarvi.» concluse per lui il racconto.
Alec si strinse nelle spalle, annuendo.
Preferì evitare di raccontare dell’arrivo della polizia e di come Magnus fosse stato chiamato per prelevarlo dalla centrale.
«Cavolo.» commentò semplicemente Jace, alla fine, palesemente -e stranamente- a corto di parole. «Alec Lightwood con un occhio nero. Sfida tutte le leggi dell’universo.»
Alec rise sotto i baffi.
«Sì. Forse sì.»
Rimasero in silenzio a dondolarsi piano sulle altalene per diversi secondi.
Aliti di vento freddo scivolavano sui loro volti, portavano con sé l’odore della neve imminente.
«Mi dispiace. Per ieri.» La voce di Jace adesso era più seria, più attenta.
«Non devi.» rispose dopo alcuni istanti Alec, sentendo il cuore che gli batteva nervoso nel petto. Riempì d’aria i polmoni cercando di darsi coraggio, di assimilare con quella quanta più forza possibile per proseguire. «Avevi ragione.» aggiunse.
Fu strano rendersi conto che quelle parole vennero fuori con estrema scioltezza.
Fino ad un solo istante prima, Alec era convinto che non sarebbe mai riuscito a parlargli con tanta chiarezza, con tanta semplicità. Era certo che non sarebbe riuscito ad affrontarlo a dovere, che sarebbe fuggito di nuovo, lasciandolo probabilmente a metà, negando ancora i propri sentimenti per ripararsi dietro una bugia che per tanti anni era stata il suo porto sicuro, il suo nido e rifugio.
Eppure adesso si rendeva conto di quanto fosse stato – facile. Naturale, persino.
Di quanto pronunciare quelle due semplici parole, avesse sollevato un peso che per troppi anni aveva finto di non vedere, che aveva ignorato fino a dimenticarne l’esistenza.
Jace schiuse le labbra, sorpreso, voltando il capo in direzione dell’amico.
«O almeno in parte.» continuò Alec mordendosi l’interno della guancia. «È vero che mi piacevi e che avevo una cotta per te. Ma non è per questo che in questi anni… Non è questo che…» la sua voce sfumò mentre faticava a trovare le parole. Strinse le labbra scuotendo piano la testa, frustrato. 
Adesso veniva la parte difficile.
Adesso tornava a farsi sentire, pulsante, la paura.
Espirò piano, cercando di riordinare i pensieri.
Tentò di ricordare come solo la sera prima fosse riuscito a parlarne con Magnus, come era riuscito ad ordinare il discorso. Aveva difficoltà a ricordarlo chiaramente, sprazzi confusi di quella sera si affacciavano nella sua mente come fotogrammi sconnessi.
«Non volevo che lo sapessi. Che lo sapesse nessuno.» riprese umettandosi le labbra secche dal freddo. «Non ero certo io stesso di cosa significasse, non mi era mai interessato nessun altro prima dopotutto.» ammise tentando di dare un nuovo ordine ai propri pensieri. «Ero confuso. E un po’ avevo paura di cosa avrebbe significato per me se mi fossi reso conto di essere effettivamente…» Arrossì vistosamente prima di sussurrare con un filo tremante di voce quell’ultima parola: «…gay.»
Jace non disse nulla.
Non commentò, non fece battute, né liberò un singolo fiato.
Paziente, rimase seduto al suo posto, lasciando modo all’amico di trovare i propri tempi. Alec gliene fu grato.
Ebbe bisogno di qualche momento per capire come affrontare il discorso, come continuare il racconto. Il pensiero che quella fosse già la seconda volta in meno di ventiquattro ore che lo faceva era assurdo, eppure sentiva che per quanto difficile potesse essere era semplicemente necessario.
«Così decisi di non pensarci per il momento. Decisi di aspettare, mi dissi che prima o poi avrei capito e che ogni dubbio se ne sarebbe andato da solo se mi fossi dato il tempo di capire i miei stessi pensieri, i miei – sentimenti.»
I primi fiocchi di neve cominciarono a scendere, cadendo in lente traiettorie ondeggianti nell’aria.
Il tono di voce di Alec si fece più teso, più cupo.
Jace poteva chiaramente percepire in quel sottile mutamento l’approcciarsi del grande scoglio. Del punto zero. Strinse a sua volta la mascella senza rendersene realmente conto.
«Un’estate, un pomeriggio, ti addormentasti sul mio letto.» Lo sguardo del ragazzo si fece distante davanti a sé. Non vedeva nulla di quanto aveva di fronte, i suoi occhi erano fermi su un ricordo lontano nel tempo. Poteva chiaramente vedere la sua stanza prendere forma nella sua mente, i lineamenti del ragazzo steso sul suo letto, il modo in cui i raggi del sole illuminavano i suoi capelli color dell’oro. Ricordava quel momento tanto chiaramente che, a dispetto della neve che stava iniziando a scendere sottile, poteva quasi percepire il calore gentile del sole sulla pelle. «Ero seduto accanto a te e ti osservai riposare per cercare di capire cosa provassi…» Contrariamente a quanto avrebbe creduto, non sentì il viso avvampare, non provò particolare vergogna nel descrivere quel momento nonostante fosse proprio Jace la persona a cui lo stava raccontando. Sentì solo il familiare senso di nausea e terrore, la colpa che gli saliva fino alla gola, togliendogli il respiro. Deglutì a fatica. «E mentre ero lì, Max entrò in camera, voleva salutarti.»
L’espressione del biondo mutò improvvisa.
Aggrottò la fronte, le sopracciglia basse sugli occhi. Era evidente che non capisse cosa Max c’entrasse in tutto questo. Ovviamente anche lui ancora oggi soffriva alla menzione del bambino: per Jace era un fratellino tanto quanto lo era per i fratelli Lightwood, dopotutto.
Parlarne con Magnus era stato molto più semplice di quanto si stava rivelando farlo con Jace. D’altronde Magnus non aveva mai conosciuto Max. Non gli aveva voluto bene. Quello di Alec era stato un racconto come un altro per lui, per quanto triste e intenso potesse essere stato. Ma Jace… Jace lo aveva conosciuto. Gli aveva voluto bene. E lui glielo aveva portato via.
Alec sbuffò una risata muta, l’espressione triste, distante.
«Non vedeva l’ora che tu tornassi a trovarci…» ricordò amaramente, la voce bassa. Tacque per un lungo istante, cercando di trattenere ancora per un istante la voce del fratellino che lo tormentava per sapere quando Jace sarebbe tornato a cena da loro. Dopo tutto quel tempo, era certo che quella nella sua mente, fosse una versione distorta e fittizia della sua vera voce; adesso, pensò, sarebbe stata decisamente più scura, più grave, priva di quella nota infantile tipica dei bambini.
Jace abbassò lo sguardo, fermando con i piedi il lento oscillare dell’altalena.
«Quando mi vide osservarti in quel modo capì all’istante cosa stava succedendo. Doveva essere davvero lampante se persino lui aveva capito cosa provavo con un solo sguardo…» realizzò solo in quel momento con amarezza, un sorriso spento e triste a distendergli le labbra gentili. Tutti avevano capito i suoi sentimenti, già da allora.
Tranne lui.
«Iniziò a sfottermi, cantilenando che mi piacevi.» Attese un istante, lo sguardo ancora fisso sul selciato davanti a sé. «Nel panico mi alzai di scatto dal letto, volevo raggiungerlo per pregarlo di non dire a nessuno cosa aveva appena visto. Ma lui iniziò a correre, non voleva farsi afferrare…»
Anche Alec smise di dondolarsi sull’altalena.
I piedi s’impuntarono contro il terreno irregolare, il sedile si fermò accompagnato dal sottile cigolare delle catene. Il silenzio tra loro era denso, pesante. Jace si voltò a guardarlo bianco come un cencio.
«Cadde dalle scale per non farsi prendere da me.»
Alec sollevò lo sguardo e lo volse verso il ragazzo al suo fianco.
Lo fissò in volto, gli occhi lucidi di lacrime appena sbocciate, l’ematoma ancora più visibile contro il pallore malaticcio della sua pelle.
Era evidente, dal tono della sua voce, che non sarebbe riuscito ad aggiungere altro. Che non c’era altro da dire. Jace lo guardava a labbra schiuse, l’espressione stravolta e turbata.
«Tu – per tutti questi anni…» la voce di Jace era bassa, esitante. Alec non riuscì a sostenere oltre il suo sguardo, temendo cosa l’altro avrebbe potuto pensare di lui adesso che finalmente sapeva la verità dei fatti. Cosa aveva ucciso il piccolo Max tanti anni prima. Chi. Chiuse gli occhi per sfuggire a quel confronto, la testa china tra le spalle.
Il silenziò che seguì le parole del biondo parve protrarsi all’infinito, facendo bruciare le lacrime rimaste intrappolate sotto le sue palpebre.
Un istante più tardi, Alec si sentì strattonare verso l’alto, tirare in piedi dalla mano di Jace che, alzatosi, se lo tirò addosso in un abbraccio spezza-fiato.
«Hai pensato che fosse colpa tua?» Quello di Jace era un sussurro fragile al suo orecchio, un soffio a stento sfuggito dalle sue labbra. Mai prima di allora lo aveva sentito tanto vulnerabile e indifeso, così attento. E ora eccolo lì, a tenere il viso premuto contro la sua spalla, mentre lo circondava con le proprie braccia quasi volesse nasconderlo con esse al mondo esterno. Era una stretta forte, solida, sicura. Jace si era reso scudo e rifugio per lui e, per quanto il moro fosse sempre stato il più alto tra i due, adesso sembrava divenuto incredibilmente piccolo nella sua presa.
Alec sgranò gli occhi lucidi tirando meccanicamente fuori le mani dalle proprie tasche. Gli ci volle qualche istante per trovare la forza di ricambiare quella stretta liberando quel pianto sommesso che come un fiume in piena gli salì alla gola.
 Jace imprecò al suo orecchio con voce spezzata, stringendo ancora di più la stretta, affondando le dita tra i suoi capelli corvini. Guidò la testa di Alec contro la propria spalla, lo lasciò piangere contro di quella incassando l’enormità di quella rivelazione, accogliendo il peso di quel fardello che per troppo tempo l’altro aveva portato con sé.
 «Sei proprio un idiota» riprese dopo un tempo incalcolabile, con dolcezza, la voce più ferma e stabile mentre i fiocchi candidi presero a piovere fitti attorno a loro. «Non lo hai mica lanciato tu giù dalle scale. È caduto. Solo caduto, Alec… Sarebbe potuto succedere in qualsiasi altro modo. Quante volte abbiamo giocato io e lui così? Certo, io lo prendevo sempre perché sono fantastico, ma…» Alec gli batté una mano chiusa a pugno tra le scapole in un buffetto che volesse silenziosamente dirgli “sei proprio uno stupido”, il respiro spezzato da un singhiozzo. Jace sorrise di quel colpo, sentendo il respiro di Alec mutare, farsi meno pesante e angoscioso dopo quel lieve singulto, come se con le sue lacrime, anche parte di quel peso stesse scivolando via da sé. «…Non è colpa tua.»
Alec riaprì gli occhi, fermo in quell’abbraccio.
Sentire Jace che lo assolveva da quella colpa fu come tornare a respirare dopo anni passati travolti dalla corrente, rubando piccoli respiri affrettati tra una boccata d’acqua e l’altra, senza mai trovare reale sollievo.
Anche se gli aveva rivolto praticamente le stesse parole che Magnus aveva usato la sera precedente, l’effetto fu totalmente diverso. Sentire Jace confortarlo e rassicurarlo era riuscito a calmarlo come le parole dell’altro non erano state in grado di fare. Sì, Magnus era stato il primo a spingerlo ad affrontare apertamente il suo grande Demone, era stato il primo a cui avesse mai parlato del suo trauma e del suo dolore ma, a conti fatti, non era il suo perdono quello di cui era in cerca, quello di cui aveva bisogno per andare avanti.
Allo stesso tempo diverso fu anche l’effetto che ebbe su di Alec quell’abbraccio.
Nonostante potesse sentire il profumo ed il calore di Jace avvolgerlo da capo a piedi, non c’era una singola parte di lui, in quel momento, che volesse altro dal ragazzo. Il suo corpo non fremeva vibrante nella sua stretta, non tremava teso all’idea di quel contatto. Neppure per un istante la sua mente lo spinse a ricercare le sue labbra. In qualche modo quel semplice pensiero gli risultava innaturale. Sbagliato.
Rendersene conto fu strano. Era la prima volta che realizzava pienamente di non provare più nulla per Jace, nonostante, fin dal giorno prima, entrambi avevano -forse inconsciamente- parlato dei sentimenti di Alec per lui al passato. Eppure, ora che ci pensava, era tutto così ovvio. Erano mesi che non dedicava all’amico pensieri di quel tipo, che la sua presenza non lo agitava come aveva fatto per anni, contrariamente a quanto invece era stata in grado di fare quella dello psicologo fin dai loro primi incontri.
Magnus, in qualche modo, aveva cambiato tutto.
Un calore gentile, avvolgente, si diffuse dal suo petto a tutto il corpo andando lentamente a placare anche le sue lacrime. Non avrebbe saputo dire quanto tempo fossero rimasti abbracciati ma Jace non accennò a scostarsi da lui neppure per un istante fino a quando non sentì il respiro dell’amico tornare a regolarizzarsi.
«Forse non è il momento migliore ma – credo che quelle due ragazze ci abbiano preso per una coppia.» Jace disse con la voce palesemente più tranquilla, più leggera, portando istantaneamente Alec a scostarsi d’istinto da lui con una certa urgenza.
Il biondo rise divertito di quella reazione così teneramente imbarazzata, così tipica dell’altro, alzando le mani quasi in segno di resa. «Ehi! Va bene che non ti piaccio più, ma non serve nemmeno scappare così! Sono comunque un gran bel bocconcino, eh!»
Nonostante il tono scherzoso era evidente dal rossore nei suoi occhi che anche lui avesse pianto, seppur brevemente.
Alec non commentò a riguardo, limitandosi ad arrossire vistosamente e sgranare timidamente gli occhi.
«C-come fai a sapere c-che – che…»
«Che non ti piaccio?»
Alec annuì.
«Dai, è evidente. Te l’ho detto che queste cose le noto!» sorrise mettendogli un braccio attorno alle spalle, iniziando quindi ad avviarsi verso l’uscita dal parco.
«Mh…» mormorò Alec titubante, mordendosi timidamente il labbro con aria incerta.
«Piuttosto… c’è ancora qualcosa che mi sfugge.» riprese Jace, dopo un attimo, uscendo fuori dall’area giochi dove si erano precedentemente intrufolati.
«Cosa?»
«Dove sei stato stanotte?» chiese il biondo voltandosi a guardare l’amico negli occhi.
A quella domanda Alec s’irrigidì di colpo, avvampando dalla vergogna.
«A– ahm…» Non era preparato a rispondergli così su due piedi, tutte le cose che aveva pensato di dirgli erano ormai sfumate nella certezza di essersi lasciato quella difficile conversazione alle spalle. Jace si fermò sul posto piazzandoglisi di fronte per fissarlo dritto negli occhi, le labbra distese in un sorriso sfacciato sul volto.
«Alec?» lo incalzò lui, sfrontato. «Da chi sei stato stanotte?»
Il ragazzo abbassò all’istante lo sguardo sentendo il viso farsi sempre più caldo nonostante la nevicata sempre più fitta attorno a loro. Ormai non aveva motivo di mentire, il fatto è che non sapeva neppure bene cosa dire… Magnus sarebbe finito nei guai se avesse detto la verità? Ma d’altronde, sapeva che Jace non avrebbe mai tradito la sua fiducia a quel modo. Poteva fidarsi di lui.
«Uhm… dopo la rissa al bar ho incrociato il mio psicologo. Sai, quello che abbiamo incontrato fuori dal locale l’altra sera.» Decisamente non se la sentiva di ammettere di aver passato la serata alla centrale e che l’altro si fosse precipitato a prenderlo perché chiamato dalla polizia. «Quando mi ha visto in quelle condizioni ha pensato che non fosse il caso che andassi in giro da solo. O a casa. Aveva la sensazione che mamma non avrebbe preso bene la cosa…»
Una mezza risata sfuggì dalle labbra di Jace all’immagine di Maryse Lightwood che vedeva suo figlio Alec rientrare a casa in tarda notte decisamente ubriaco e con uno sgargiante occhio pesto.
«Dici? Secondo me sarebbe stato divertente!»
«…Beh, possiamo sempre scoprirlo. Dovrò pur rientrare a casa oggi, no?» espirò stancamente Alec pensando a quanto sarebbe stato difficile affrontare i suoi genitori.
Jace si spazzolò via la neve dai capelli con una mano.
«Per quello non devi preoccuparti. Lascia fare a me» disse recuperando il cellulare e iniziando a smanettare brevemente con quello. «Ma a parte questo…» riprese poi riponendo nella tasca il telefono. «…Quel tipo era il tuo psicologo?» chiese scettico inarcando un sopracciglio con fare confuso.
Alec alzò gli occhi al cielo liberando un sospiro rassegnato.
«Sì, lo so, è un po’ eccentrico…»
«Eccentrico? Era più truccato di Isabelle, Alec.» rise ricordando come fosse conciato l’altro solo qualche sera prima.
Il ragazzo mise su una specie di broncio, un’espressione chiaramente difensiva.
«E allora? Tu usi più creme e prodotti per capelli di Clary, mi sembra.»
Jace si strinse semplicemente nelle spalle. «Beh, certo, i miei capelli sono bellissimi, non posso non curarli per bene.» fece con disinvoltura. «Ma non è questo il punto. Intendevo… da quel che avevo visto l’altra sera pensavo che fosse qualcuno che ti stava dando fastidio. Non sembravi felice di vederlo. Cielo, per la verità avevo pensato che fosse qualcuno che stava cercando di rimorchiarti!»
In effetti era comprensibile che Jace avesse pensato questo, si ritrovò ad ammettere Alec. Dopotutto, per come aveva visto lui le cose, il ragazzo aveva tentato in tutti i modi di allontanarsi dall’altro arrivando a pregare i suoi amici di andarsene il prima possibile e poi non gli aveva voluto spiegare nulla di quanto era successo.
Alec sospirò, uscendo con l’altro dal parco.
«È complicato… è una lunga storia.» finì con il dire attraversando la strada davanti a loro per immettersi sulla via verso casa. «Ma è tutto okay, davvero. Ti prometto che poi ti spiegherò tutto ma per ora sappi solo che mi ha dato una mano e che va tutto bene.»
Jace non era pienamente soddisfatto ma non lo incalzò oltre sull’argomento.
«Va bene. Se stai bene, tanto mi basta.» disse avanzando al suo fianco, svoltando l’angolo assieme a lui lungo la ben nota strada che portava verso casa Lightwood. «Però – cerca di parlare con Isabelle, Alec.» Il suo tono si era fatto più serio adesso, lo sguardo carico di una preoccupazione gentile, fraterna. «So che non dev’essere stato facile parlarne con me e apprezzo davvero molto che tu lo abbia fatto, però…»
«Lo so.» espirò stancamente il ragazzo, le spalle curve e basse. «Le parlerò al più presto. Solo… non ora. Non adesso. Non ce la faccio.»
Jace annuì lento a quelle parole, comprendendo quanto dovesse essere difficile per Alec dover affrontare di nuovo tutta quella conversazione.
«Certo. Va bene.» gli concesse alla fine mentre piano la città circostante iniziava a ricoprirsi di un primo sottilissimo strato di neve.
Proseguirono così per diversi minuti, in silenzio, fino a quando non raggiunsero fianco a fianco il cancello della sua abitazione. Alec sollevò lo sguardo sull’edificio a due piani davanti a sé, riempiendo i polmoni di nuova aria. L’idea di tornare a casa lo spaventava eppure sentiva che era un passo che doveva compiere. Sentiva che questa volta l’Alec che avrebbe varcato la soglia sarebbe stato un Alec ancora diverso da quello che l’aveva superata solo un giorno prima. E nel realizzarlo, si rese conto, non era così spaventato all’idea di conoscere questo nuovo se stesso.
«Sei pronto?» chiese Jace con un sorrisetto sornione sulle labbra.
Alec annuì deglutendo agitato.
«Pronto.»

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