Red Eyes: story of a lifetime

di Feathers
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***



Capitolo 1
*** I ***


      I                                                                                                        




18 Settembre 1665


La punta della matita scura strisciava lentamente sulla carta ingiallita, tracciando delle linee di tanto in tanto sbilenche, raramente dritte. La sua piccola mano non era ancora abbastanza ferma, ma ciò non rappresentava un problema. Aveva cominciato a sperimentare quella nuova attività da poco. Alcuni giorni prima, aveva visto sua madre usare una strana piuma macchiata di liquido nero e denso per scrivere su un foglio - e come è normale in quasi ogni bambino della sua età, aveva avuto voglia di imitarla. Era rimasto ad osservare la calligrafia ordinata della mamma, facendole fin troppe domande su cosa significasse quello, e che cosa volesse dire quell'altro.

Fortuna che imparava anche troppo in fretta.

Lo so io; io lo conosco molto bene. Meglio di quanto lui creda. So che possedeva un'intelligenza superiore alla media, e che tutte le persone che gli stavano attorno se ne erano accorte. So che adorava passare il tempo creando costruzioni coi fiammiferi, o disegnando forme già perfettamente riconoscibili con le tinte che riusciva a trovare - e non si trattava delle classiche casette col tetto rosso, o dei soliti animaletti buffi delineati da un bimbo di quattro anni. Lui inventava, fantasticava, stravolgeva tutto. Guardava fisso un paesaggio fuori dalla sua finestrella per minuti, e poi si metteva a cambiarlo sulla carta, a colorarlo diversamente da come ho fatto io in passato. Devo ammettere, però, che mi piacevano le sue opere d'arte. Vorrei che non avesse smesso di crearne.

Finalmente - dopo parecchi secondi di lavoro con la lingua di fuori - il suo nome completo comparve sotto la sua mano destra, le lettere finali un po' sbavate.

Fergus Roderick MacLeod.

Solo a me sembra buffo e solenne allo stesso tempo?

L'espressione imbronciata di quel visino si tramutò lentamente in una smorfia soddisfatta, il labbro inferiore in fuori.

"Mamma!" Fergus si alzò frettolosamente da terra, raccogliendo il foglio frusciante e quasi scivolando. Corse fino alla cucina, attraversando il corridoio bianco che odorava di spezie. "Mamma! Guarda cosa ho fatto! È il mio nome... "

Si arrestò davanti alla porta della stanza, fissando Rowena MacLeod da dietro. Quanto a quest'ultima, i compaesani non sapevano molto di lei. Solo che preferiva stare sola, che aveva avuto un bambino - da chissà chi - e che aveva comportamenti sospetti alle volte. E, ovviamente, che era dannatamente attraente.

I capelli mossi e rossi le scendevano morbidamente sulla schiena come sempre, sfiorandole la vita sottile e coperta dalla consueta stoffa nera. Stava dando le spalle al bambino. Fergus le si avvicinò.

"Che succede?" chiese Rowena, il tono quasi privo di emozione, senza neanche voltarsi a guardare suo figlio. Stava tagliando alcune verdure per il pranzo, le maniche sollevate sui gomiti esili.

"Ho... scritto." le rispose subito Fergus. La testa del bambino arrivava a stento a sfiorare il fianco destro della madre. "Ho scritto il mio... nome!" disse più forte, nella speranza di farsi notare.

Ci fu una pausa di silenzio allora. Il profilo della donna era ancora fermo.

Con un gesto non troppo veloce, Rowena prese il foglietto dalle piccole mani di Fergus, e ci diede un leggero sguardo. I suoi occhi verdi vagarono per la carta sporca, poco prima che la donna gliela riconsegnasse.

Il bambino stava a fissarla dal basso, impaziente di ricevere un giudizio, la mano quasi aggrappata alla sua gonna scura.

"Non appenderti ai miei vestiti." disse semplicemente Rowena, lasciandolo interdetto.

Il sorriso di Fergus si trasformò in un'espressione delusa. Si ritrasse. "Ma io ho..."

"Sì. Stai imparando a scrivere. Bravo." disse lei, asciutta, riprendendo a tagliare le carotine.

Sembrava molto pensierosa - almeno, a Fergus sì.

Lui lo percepiva.

Lo percepiva anche fin troppo spesso purtroppo, e gli sarebbe piaciuto poter fare qualcosa di utile per far sentire meglio la sua mamma.

Avesse saputo che a lei non importava nulla di lui! O quasi... Per essere precisi, Rowena si sforzava di fregarsene del tutto di suo figlio.

"Ieri ho... ho letto una... parola..." mormorò Fergus, speranzoso.

Solo in quel momento, Rowena si decise a distogliere lo sguardo dalla verdura. Fissò con più attenzione il suo bambino, il quale aveva addosso solo un leggero tessuto scozzese, i tanto odiati pantaloncini neri e le scarpine scure. Sembrava tremare dal freddo, o forse era una sua impressione?

"Che parola hai letto?"

Fergus schiuse la bocca rosea. "Famiglia." Fece una pausa. "Che significa... 'famiglia'...?" domandò.

La donna rimase interdetta; la frase che aveva appena sentito le rimbombò in testa. Famiglia. Chiuse gli occhi, ed una valanga di ricordi la strappò alla realtà per qualche secondo.

"Non lo so, Fergus." rispose, sbrigativa. "Cioè... lo so ma... non è nulla di così importante." Fece un gesto in aria, il tono sarcastico. "...un... gruppo di persone con legami di sangue. Che in certi casi hanno lo stesso cognome."

Il viso del piccolo si illuminò gradualmente. "Come... tu ed io?"

Rowena assottigliò le labbra ed alzò gli occhi al cielo. "Vai di là. Ho da fare."

Il piccolo fece per parlare di nuovo, ma fu zittito da due gesti rapidi di Rowena. A quel punto, non gli rimase che annuire frettolosamente e scappare nella sua stanza.

Aveva fallito nel suo intento per l'ennesima volta. E si sentiva quasi in colpa quando accadeva.

Ma che poteva farci il povero Fergus, in fondo? Sua madre era così ormai. Ed era stata la vita a cambiarla, o almeno lei diceva così ogni volta che aveva bisogno di giustificare il suo comportamento meschino.

Se fosse rimasta un po' di umanità in Rowena MacLeod, lei non l'avrebbe comunque mostrata in giro, di questo ne sono certo. Lei diceva sempre che l'amore era debolezza.

Quanto si sbagliava...

Mi chiedi perché?

Io so perché si sbagliava, ovviamente. Ma non sta a me spiegarlo, bisogna capirlo da soli, o che senso ha?


***

21 Settembre 1665


"Cosa vi devo per quel... uhm... vestito?" domandò Rowena alla signora McKeon, occhieggiando il figlio che giocherellava con una pallina che aveva portato.

"Non molto, signora. Venite un minuto a dare un'occhiata ai nuovi che ho rimodernato stamane. Credo che sarebbero di vostro gradimento." le disse l'altra signora, con molta cortesia.

Rowena annuì, e raccomandò al figlio di stare calmo e di non toccare niente.

Fergus abbassò il capo, e si rimise tranquillamente a far rimbalzare la pallina. Conosceva ormai quel negozio come le sue tasche. Era sempre stata la solita vecchia bottega in cui si vendeva la qualunque: dai fiori più disparati ai dolcetti, dalle stoffe ai prodotti per la casa. C'era un profumo indistinguibile - forse derivato dalla mescolanza di tutte le cose ammassate lì - che la contraddistingueva, e che rimaneva su ogni articolo che Rowena acquistava. Fergus lo chiamava 'odore di Keon'. Gli piaceva dare un nome alle cose, ai luoghi, alle persone di cui sapeva poco, specie se si trattava di parole totalmente inventate da lui. E quando gli adulti sostenevano che ciò che diceva non aveva senso, lui rispondeva: "E quindi? Nessuno ha ancora dato un nome a questa cosa... perché non posso farlo io?"

Ad un tratto, mentre il bambino giocava, una strana ombra guizzò velocemente attraverso la finestra, facendolo sussultare. In una situazione normale, Fergus avrebbe cercato di capire cosa fosse, o sarebbe fuggito da qualche parte, spaventato. Ma si trovava fuori da casa, e gli era stato espressamente detto di non muoversi. Inoltre, a causa dello spavento, la pallina gli era sfuggita ed aveva preso a rotolare.

Dopo un momento di confusione, Fergus la seguì, facendo una rapida corsa fino al punto più lontano dal bancone di legno scuro. Ecco il giocattolo rossiccio, che si nascondeva sotto lo scaffale. Il piccolo lo raccolse subito, preoccupato di perderlo - era uno dei pochi che aveva - ma non poté evitare di adocchiare le caramelle di zucchero colorato proprio sotto le sue narici, con quel profumo dolcemente speziato.

Gli venne l'acquolina in bocca. "Mammaaa!" Si girò immediatamente. "Mammaaa! Me ne prendi una confezione, per favore?!"

"Qualunque cosa sia... non oggi!" esclamò Rowena dopo un secondo, dall'altro lato del negozio.

Fergus storse il naso; si rese conto del fatto che sua madre non lo avrebbe accontentato, e fece per arrendersi, guardando con brama l'oggetto del suo desiderio. "E se..." Diede un'occhiata attorno; l'attenzione delle due donne non era puntata su di lui da un pezzo. Avevano preso a parlare delle stoffe più pregiate, dei difettucci di fabbricazione, e dei prezzi più convenienti - delle cose da adulti, no?

Il bambino sorrise soddisfatto, prese con un gesto rapido un pacco di caramelle e lo infilò in tasca in fretta e furia.

Ecco. Aveva ottenuto quello che desiderava.

Pensandoci bene, però, si rese conto che avrebbe dovuto aspettare il suo arrivo a casa per mangiarle. Avrebbe dovuto anche nasconderle in un posto sicuro, dove la mamma non guardava mai, e sarebbe stato costretto a finirle subito, prima di essere scoperto.

Perché non mangiarle proprio in quel momento, allora, dato che erano tutti disattenti?

Il bambino estrasse il pacchetto dalla tasca della camicetta scozzese. Ci mise mezzo minuto buono ad aprirlo - quella confezione era complicata, un po' come la carta degli attuali lecca-lecca. Il sapore dolce di quello zucchero alla fragola si sciolse meravigliosamente sul suo palato.

"Hey..."

Fergus sobbalzò; una voce lo aveva apostrofato improvvisamente, e rischiò di strozzarsi. Smise di mangiare, cercando di rimettere le caramelle in tasca, confuso.

La persona si avvicinò. Era solo la figlia della MacKeon, la quale era praticamente la copia in miniatura della madre: capelli biondo cenere, occhi color militare e zigomi alti. "Cosa stai facendo?"

"Io... io niente... non ho fatto niente... " prese a dire Fergus, scuotendo la testa. La mano gli tremava sotto la stoffa.

"Tesoro..." mormorò la giovane, mossa a pietà. Si guardò attorno. "Mi dispiace ma... non puoi prendere queste senza pagarle..."

Il respiro del piccolo si regolarizzò, pian piano. La fissò, le pupille che si ingrandivano lentamente.

"Mamma non vuole." rispose Fergus, categorico, nascondendo le labbra e serrando i pugni. Guardò a terra, studiando il tessuto fantasioso del tappeto per smorzare l'emozione. "Mi dispiace." Restituì le caramelle alla ragazza, con un gesto imbarazzato.

Ci fu una pausa di silenzio.

"Io... te le regalerei ma..." tentò di dire la venditrice, a voce bassa, prima che Rowena interrompesse il loro dialogo.

"Fergus! Che stai facendo?!"

Suo figlio si voltò a guardarla. Sua madre si stava avvicinando velocemente, facendo ondeggiare la gonna nera.

"Non possiamo comprare quelle, ti ho detto!" Gliele strappò dalle mani, e le rimise al loro posto. "Scusatemi. Sarà intelligente, ma è anche incontrollabile..."

La figlia della MacKeon negò con la mano. "Oh no, no no... non preoccupatevi. È... è tutto okay. Vostro figlio sembra adorabile... "

Rowena la ignorò con un sospiro. Afferrò la busta con il vestito che aveva comprato, e quasi trascinò il figlio fuori dal negozio, mormorando un lesto 'arrivederci'.


***


22 Settembre 1665


Faceva già abbastanza fresco nella verde ed umida campagna vicino Glasgow.

Le nuvole coprivano quasi completamente il cielo, creando una coltre grigiastra che Fergus amava paragonare alla schiuma di mare, o alla biancheria che Rowena lavava in un mastello con la cenere - sì, perché in antichità si usava la cenere per sbiancare i capi.

Fergus aveva cercato di fabbricare un aquilone da solo quel pomeriggio tardo. Era piegato a terra in mezzo all'erba, il ciuffo di capelli gli cadeva di tanto in tanto sul viso, e lui lo scostava, prima di ricominciare a lavorare con impegno. Aveva iniziato a leggere le istruzioni in un libro trovato a casa, concentrandosi maggiormente sulle figure.

Alcuni bambini più grandi, dai nove ai tredici anni, passavano coi loro giochi ed i loro pupazzi ricavati dalle vecchie stoffe, ed osservavano con stupore quel minuscolo essere accovacciato che guardava di sbieco un pezzo di spago troppo debole per i suoi gusti.

Fergus decise di legarne due per renderli resistenti, e alla fine ci riuscì.

"L'unione... " disse, stringendo l'aquilone nella mano sinistra e lanciandolo. "...fa la forza!" esclamò finalmente, ammirando la carta verde brillante che si librava nel cielo, con soddisfazione - come quando aveva terminato il suo primissimo disegno.

L'aquilone fece un paio di acrobazie storte, per poi seguire il vento e correre nella direzione in cui il bambino lo stava conducendo. Sembrava che un pezzo di prato si fosse staccato dal terreno, e avesse preso a svolazzare sopra la sua testa.

"Un mulino!" gridò Fergus, avvistando in lontananza una grande struttura marrone fornita di pale. Lo stavano ristrutturando; si ricordava una specie di casa rustica al suo posto.

Gli balenò per la mente un'idea: sarebbe andato a visitarlo. Rowena non lo calcolava da ore, come faceva da sempre, e l'aveva lasciato a scorrazzare vicino casa loro senza curarsi di ciò che poteva accadergli. Quindi, lui si riteneva libero.

Sfrecciò fino al muro in pietra muovendo in fretta le agili gambette, curioso di vedere chi ci fosse lì. Gli piacevano davvero troppo i mulini, ed era giusto che gli piacessero.

'Cosa intendi con giusto?' mi chiederai, caro lettore.

È che quel mulino era importante, e lui doveva andarci. È così. Io spesso vi indirizzo verso quel che è il vostro destino, verso ciò che è giusto per voi, e voi non lo sapete. Non ancora. Con questo non voglio assolutamente dire che siete delle marionette. Non ne siete consapevoli perché state seguendo una vostra pulsione, un vostro desiderio che io stesso vi ho regalato. In realtà, ogni piccolo elemento della vostra vita - e quindi, anche della vita del piccolo Fergus - ha semplicemente un significato più profondo, e vi spinge sui binari giusti.

Fergus giunse davanti alla porta. Esitò, poi bussò piano piano sul legno per educazione, come gli aveva spiegato Rowena.

Attese, ma nessuno si degnò di aprirgli. Certamente. Chi lo abitava al momento non era neanche capace di aprire porte!

Aspettò un minuto, due, poi bussò una seconda volta. Ancora nulla.

Decise di permettersi di varcare la porta da solo, dato che era sicuro non ci fosse nessuno - o avrebbero aperto, secondo lui. Ritirò l'aquilone aiutandosi con entrambe le mani, e poi aprì l'uscio con un leggero sforzo.

Restò per qualche secondo con la bocca semiaperta a guardare la struttura interna del mulino. Delle linee di luce debole filtravano da sopra, creando un'atmosfera suggestiva ed illuminando in parte la ruota, le scale a pioli, e le altre cose strambe alle quali Fergus non avrebbe saputo dare un nome esatto. Era tutto in legno lì dentro.

Posò il suo giocattolo a terra vicino alla scala a pioli, e sorrise, entusiasta. "Tu guarda che roba..."

Afferrò un piolo, facendo leva sul braccio e gemendo un po'. Si mise a salire lentamente, ed arrivò sopra con il fiatone - le sue scarpe non erano proprio adatte.

Non c'era molto al primo piano, o almeno così sembrava - solo altri pezzi di marchingegno. Il bambino si guardò attorno per un po'.

"Mi piace... vorrei vivere qui." mormorò innocentemente fra sé e sé, e si sistemò la camicetta. "Posso creare un... nascondiglio."

Si mise a toccare e ad esaminare tutto con calma e pazienza, finché un'ombra fulminea non passò sopra di lui, producendo uno strano rumore simile ad un 'cra'. Il ricordo dell'avvenimento del giorno prima gli balenò in testa, mentre Fergus si nascondeva dietro la struttura. Rimase in posizione fetale lì per almeno dieci minuti, tendendo l'orecchio ed annusando di tanto in tanto l'aria.

Profumo di zucchero e frutta.

"Cosa..." Il bambino si rialzò, guardandosi nuovamente attorno, e finalmente lo vide.

Il becco a punta si muoveva di tanto in tanto a destra e sinistra, e le piume nere lo ricoprivano del tutto.

'Craaa!' fece il corvo, fissandolo con quegli occhi piccoli. 'Craaa!'

"Sei... sei tu che abiti questo mulino a vento?" domandò subito il bambino.

Il corvo non si mosse per un po'. Inclinò la testolina, e poi volò dall'altra parte della ruota.

Fergus era confuso. "Cosa vuoi? Eri tu l'altro giorno quando-"

"Cra..." gracchiò l'animale, volando sul muro di legno e costringendolo a guardare in alto.

Fergus rimase a fissare di sopra, gli occhi scuri all'insù, completamente perplesso. C'era scritto qualcosa. Lesse, decifrando le lettere man mano, e finalmente unendole in un'unica frase.

"Vieni qui ogni volta che hai fame." recitò a voce alta.

Si voltò di scatto verso il corvo. "L'hai scritto tu?" Ma il suo viso si rabbuiò.

L'animale era sparito. Al suo posto c'era solo un pacchetto di caramelle speziate. Era piccolo e bianco, leggermente ammaccato sulla destra.

Lo stesso che giorni prima aveva cercato di prendere.

Buon compleanno, Fergus.





Angolo di Feathers:

Salve lettori! Sono tornata con questa nuova fanfiction su Crowley, che spero di poter aggiornare ad intervalli regolari (sapete com'è, vita, impegni ecc... ma giuro che la porterò a termine)
Ps: il titolo l'ha scelto Sarandom *saviour*

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Capitolo 2
*** II ***


      II                                                                                                        




16 Dicembre 1669


Vi sarete senz'altro accorti del fatto che Rowena non si comportava affatto da madre esemplare nei confronti di Fergus.

Anzi, credo di aver appena usato una frase troppo eufemistica per definirla.

Era una madre terribile. E non vi sto parlando di quanto fosse scontrosa, o delle rare, rarissime volte che si sforzava di far felice suo figlio. Quelli erano altri elementi che contribuivano solo in minuscola parte a rendere la vita di Fergus un vero Inferno.

Il problema principale... era che al bambino venivano negati anche i bisogni primari, tra i quali non soltanto il cibo in quantità sufficienti, o i vestiti adatti per affrontare l'inverno scozzese - o meglio, il clima scozzese. Avete idea di quanto freddo faccia lì tutto l'anno?

Ad ogni modo, ciò che più mancava a Fergus erano soprattutto delle carezze, degli abbracci, e dell'amore che in genere una mamma dà spontaneamente al proprio figlio, e che Rowena non si scomodava di concedergli nemmeno per sbaglio. Anzi, posso confermarvi che non perdeva l'occasione di trattarlo come un insetto, o di tormentarlo per ogni stupidaggine.

Era così; lui era stato costretto a crescere troppo in fretta. Fergus non aveva avuto un'infanzia. Era nato adulto. Ed era uno sfortunato adulto di otto anni che sorrideva sempre di meno man mano che cresceva, e che non aveva la minima idea di che cosa fosse la vera felicità.

Certo, una ce l'aveva - solo una - ed era tutta racchiusa in quel fatidico mulino apparentemente disabitato. Credo - anzi, sono sicuro al cento per cento - che fosse proprio il mulino la ragione della sua sopravvivenza.

Una notte sì e due no - o più spesso nei periodi di maggiore sconforto - Fergus si avvolgeva con una coperta che lo faceva sembrare un fagottino impacciato, usciva dalla sua camera in punta di piedi e camminava fino alla grande struttura in legno. Una volta giunto lì dentro, smetteva immediatamente di tremare come una foglia. Non sapeva neanche lui come potesse accadere, ma quella magia non cambiava mai. Quel tepore rilassante era sempre lì ad aspettarlo, con tanto di cibo caldo nascosto al piano di sopra del mulino. Lì era calmo, al riparo da freddo, schiaffi inutili, fame e miseria. Quello era il 'posto più fantastico del mondo', ed era la sua 'casa sull'albero', la sua 'caravella sul mare' ed ogni cosa che lui desiderava che fosse. Poteva giocare lì dentro e fare tutto il rumore che voleva; a nessuno avrebbe dato fastidio, considerata la lontananza dal villaggio.

Il bambino aveva cercato di indagare, di scoprire qualcosa in più su quella bizzarra struttura, su chi potesse averla costruita, su quanti anni avesse. Tuttavia, sembrava che per tutta la gente a cui Fergus domandava, esso non fosse altro che un semplice ed ordinario mulino. Le vecchiette se la ridevano per la 'fantasia' del bambino, e riprendevano i loro chiacchiericci, e le donne del paesino vicino lo assecondavano per un momento, raccontandogli qualche storia o leggenda riguardo il luogo.

Per quattro anni di seguito, quella situazione era andata avanti con una certa regolarità; il bambino era convinto che Rowena non se ne fosse mai accorta, e temeva di emettere anche il minimo rumore ogni volta che usciva. In realtà, la donna lo sentiva di tanto in tanto, ma non faceva che rigirarsi sull'altro lato del suo materasso e riprendere a dormire, sperando che Fergus stesse scappando di casa. In quel caso, avrebbe fatto finta di cercarlo per un po', e poi se ne sarebbe definitivamente lavata le mani, raccontando in giro una storia falsa.

Per sua sfortuna, il figlio era sempre accovacciato nel proprio letto la mattina dopo, crollato dal sonno dopo una notte di calma in quello spazio magico. Ritornava sempre a casa verso le cinque di notte, aprendo la porta con più lentezza possibile. A volte faceva del suo meglio per pulirsi dal fango e dalla polvere, per risparmiare alla mamma la fatica di lavargli i vestitini. Purtroppo, ogni suo sforzo per farsi voler bene era del tutto vano.

Quella famosa notte del 14 Giugno, c'era qualcosa di inconsueto al mulino, ma Fergus non se ne era avveduto immediatamente. All'esterno non aveva notato nulla di insolito. Pioveva da ore, ma il piccolo stava comunque per entrare nel suo tranquillo rifugio, chiudendosi dentro per bene in modo che il vento non provocasse danni.

"Hey, Crowley!" esclamò, non appena mise un piede congelato lì dentro.

Si girò per cercare il suo migliore amico, e quello comparve da un angolino, svolazzando in maniera irregolare come il suo vecchio aquilone. Lo salutò con il solito familiare 'craaa craaa', e Fergus gli riservò uno di quei sorrisi che illuminavano di rado il suo pallido volto.

"Come stai?" gli domandò, lasciando cadere a terra la borsa coi giochi.

Il corvo scese giù dal primo piano, e si andò a posare dolcemente sulla spalla di Fergus. Il bambino ridacchiò, e guardò il suo fidato compagno. Pareva un minuscolo pirata col suo pappagallo.

"Che cosa mangiamo stanotte?" gli chiese, lasciando che il becco di Crowley gli sfiorasse affettuosamente la guancia graffiata. Fergus si era ferito arrampicandosi su un albero due giorni prima.

Il suo amico rimase fermo dopo la domanda; continuò semplicemente ad emettere la versione più bassa del suo verso - un suono simile a quello delle colombe.

"Che succede?"

Silenzio.

Il corvo volò nuovamente di sopra, e gli occhi del bambino guardarono in alto. "Sì, okay. Hai fame, so di... " Si precipitò a salire alcuni pioli, e giunse quasi alla fine della scala. "So di essere in ritardo oggi. Arrivo!" Rotolò sul pavimento del primo piano, stanco morto e con un fiatone preoccupante, serrando le palpebre.

Era malnutrito, era normale che non avesse abbastanza energia. Il senso di fame si rarefaceva negli anni, dato che la voglia di correre e giocare era diminuita a sua volta. Fergus mangiava solo perché sapeva che il suo stomaco doveva riabituarsi - leggeva ogni tipo di argomento fra i vecchi libri rubati a Rowena: anatomia, fisica, arte e perfino i manuali di magia. Leggeva anche le fiabe, però, e credeva che un giorno tutto sarebbe andato per il meglio, come nei finali felici. Ci credeva davvero.

"Crowley... p-puoi anche iniziare se vuoi... tu consumi davvero poca roba... io ho bisogno di stare qui qualche minut-" cominciò a dire Fergus, una mano sulla fronte.

La vertigine non scomparve in fretta. Infatti, quando il bambino riaprì gli occhi, ebbe una visione del tetto sovrastante che girava vorticosamente. Piano piano, però, si arrestò. Era macchiato.

Fergus frullò le ciglia, e si rimise a sedere, reggendosi con le mani lungo i fianchi. "Cosa..."

La scrittura era storta, difficile da comprendere, e vista in lontananza somigliava proprio ad una linea sottile di polvere accumulata sul legno. In realtà erano graffi.

Gli balenò in mente il messaggio sul muro di quattro anni prima mentre assottigliava gli occhi per leggere meglio:

'Fammi bere la pozione color ambra'

Fergus schiuse la bocca.

"Cra..." Il suo corvo era proprio sotto di lui, fra i suoi piedi, e lo costrinse ad abbassare il capo.

"Perché la vuoi?" gli domandò il bambino, dopo una breve pausa.

"Craaa!" Il corvo agitò le ali, e Fergus indietreggiò, perplesso e poco convinto.

"Mmh, okay. È tanto che mi stai accanto... e che mi aiuti. È... è il minimo che io possa fare per te." Si inginocchiò accanto a Crowley, gli accarezzò delicatamente il piumaggio nero e lucido. "Ma gli intrugli che mamma prepara sono pericolosi perlopiù... non voglio che..." Si interruppe; l'animale intanto si era calmato. "...a che ti serve l'Ambra...?"

"Cra... cra... crrrr..."

Il bambino lo fissò a lungo, sbattendo le ciglia nere ed inclinando ancor di più il capo, come a voler stabilire una vicinanza con Crowley, come a volerlo capire nonostante non potesse...

Ad quel punto, Fergus ebbe un piccolo lampo di genio, ed il suo viso mutò espressione. "Tu vuoi... "

"Crrr..." emise il corvo.

Fergus sollevò il dito al cielo in segno di vittoria. "Tu vuoi parlare! Non è forse vero?!"

Il suo amico fece un gesto, come se stesse annuendo, e Fergus posizionò una mano sotto il mento, in atteggiamento riflessivo. Aveva sempre sognato di poter comunicare sul serio con lui.

"Perfetto. Vieni da me un giorno di questi, ed io ti farò trovare la pozione color ambra." gli promise il bambino, e sorrise amichevolmente.

Forse, finalmente, uno dei suoi più grandi sogni sarebbe divenuto realtà.


***


18 Dicembre 1669

"Sto uscendo, Fergus..." lo avvertì frettolosamente Rowena, scappando fuori dalla porta con alcune borse piene. "Vedi di non rompere nulla. Leggi, gioca, fai un po'... quel che vuoi... ma non toccare la mia roba, intesi?"

"Siiì, mamma... sono grande ormai..." mentì il bambino, delineando la forma di un cavallo su un pezzo di carta. "Abbiamo un colore... marroncino?" domandò, ma la donna era già uscita.

Fergus si voltò verso la porta che aveva appena emesso un forte tonfo. "La mamma è così strana ultimamente... chissà che cos'ha..." si chiese. Fissò il suo puledro disegnato al centro del foglio, le orecchie grandi, la coda svolazzante e l'espressione corrucciata. Come quella di un cavallo da circo costretto a stare in gabbia e ad esibirsi a suon di frustate.

"Gli animali non possono parlare. Quindi non possono esprimere opinioni. Né avere il diritto di scegliere il loro mestiere..." Annuì fra sé e sé, sentendosi triste per loro. "Non è giusto. Anche loro meritano di..."

Un sordo 'toc toc' risuonò nell'aria della cucina, e Fergus quasi sobbalzò. Qualcosa aveva picchiettato contro il vetro sottile della finestra. Qualcosa di molto piccolo.

"Crowley..." sibilò il bambino più a sé stesso che ad altri, e scivolò velocemente giù dalla seggiola, fiondandosi accanto al lavello per aprire al suo amico. Il corvo era lì, e sfiorava la finestra col becco di tanto in tanto.

Fergus faticò abbastanza per arrivare là sopra, ma lo fece entrare in un istante. "Eccoti qui! Oh, cielo... mamma era davvero in ritardo... hai rischiato che ti vedesse!"

L'animale volò dentro la stanza in tondo, come per esplorarla.

"Ti farei vedere tutto... ma prima ci tocca trovare la pozione!" sussurrò Fergus, e corse nella direzione della Stanza Proibita.

Quest'ultima era l'unico luogo in cui Fergus non si era mai azzardato a mettere piede. Sua madre gliel'aveva severamente vietato, e lui non ci aveva mai nemmeno provato, temendo che Rowena se ne sarebbe avveduta grazie a qualche metodo dei suoi.

Ma quella volta era giusto rischiare.

Il giovane MacLeod acchiappò il ferretto che aveva tenuto in serbo e, sotto gli occhi curiosi del suo corvo, scassinò lentamente la porta. Era piuttosto complicato.

"Caspita..." mormorò, esausto. "Non perderti d'animo, ce la faremo." disse, deciso. La sua piccola mano diede un colpo finale dentro la serratura, e l'aprì.

Il viso di Fergus si illuminò, ma si spense un'altra volta non appena ciò di cui era arredata la stanza fu messo allo scoperto. Un topolino corse fuori, probabilmente andando ad infilarsi sotto il lavello, ma i due non ci badarono molto. La camera di Rowena era molto diversa da ciò che suo figlio si era immaginato per molto tempo. Il pavimento era semplice come quello delle altre stanze; non c'erano ragnatele appese ai mobili, né ampolle enormi dai colori violacei, né fumi e pentoloni che bollivano. Solo alcuni quadri antichi che ritraevano signore eleganti e dall'aria arcigna, svariate bottigliette in un mobile scuro, ossicini di animali sparsi a terra e strani oggetti - come un orologio con dodici lancette.

Fergus fece due o tre passi, e guardò a destra. "Chissà cosa ci fa con tutte queste cose..." pensò a voce alta, innocentemente.

"Cra..." Il corvo entrò, saltellando sulle zampette.

"Non combinare guai, o ci vado di mezzo, eh?" mormorò il bambino, aprendo i cassetti uno per uno e perlustrandone il contenuto.

Il suo animaletto si avvicinò a lui, osservandolo amorevolmente. "Crrr..."

"Sì, fra un attimo potrai dirmi quello che vuoi. Intanto aspetta... no... questa no... questa è... emh, che nome strano, non so leggerlo. Quest'altra è azzurrina... e invece... questa... eccola! È questa che volevi?!" Fergus estrasse una piccola bottiglia a forma di fiaschetta; il colore era evidentemente dorato alla luce della cucina.

"Craaa," Il corvo agitò nuovamente le ali.

"Fantastico... ci saranno delle istruzioni, no?"

Provò a leggere qualcosa sul retro, ma c'erano solo poche parole in una lingua bizzarra. "D'accordo..." La stappò, e ne mise un po' in un cucchiaino, come aveva fatto sua madre l'unica volta che aveva tentato di curargli la febbre alta. "Ecco, prendi." Lo poggiò sul pavimento, accanto all'amico.

Crowley abbassò la testolina, e beccò piano piano l'incavo, ingurgitando un po' di quel liquido ambrato.

Fergus sorrise.

Tutto sembrava star andando secondo i piani, e Rowena sarebbe rimasta fuori per un bel paio di ore. Almeno, Fergus credeva fosse così, perché improvvisamente sentirono una chiave che apriva la serratura.

I muscoli del bambino si irrigidirono. Il corvo si alzò di scatto, con fare umanamente confuso. Si guardò a destra e a sinistra, in contemporanea col suo migliore amico.

"Crowley, scappa, scappa subito..." Il bambino iniziò a sistemare le pozioni nella posizione originale, ma nella fretta ne ruppe una, che perse un intruglio verdastro sul legno. "Nooo!" strillò, terrorizzato e confuso.

"Fergus! Che diavolo stai combinando?" La voce di sua madre era piuttosto alterata.

Il figlio si voltò verso il corvo, pallido in volto. "Esci, datti una mossa!"

"E tu che farai?" gracchiò il corvo con sforzo evidente, guadagnandosi un'espressione ancor più esterrefatta del bambino. Non credeva fino in fondo che avrebbe funzionato.

Intanto, Rowena irruppe nella stanza, tutta trafelata. Aveva dimenticato delle cose. "Cosa ti avevo detto?!" urlò, le mani minacciosamente piantate sui fianchi. Il bambino si sentì afferrare per la giacchetta prima di poter mettere insieme due parole.

"Mamma..."

"Mamma un corno! Adesso vieni con me." disse la donna, decisa, trascinandolo fuori di lì. "E questo uccellaccio che ci fa qui? Vai via tu!" Fece un gesto fulmineo per spaventare il corvo, il quale tentò di difendere Fergus. La strega si preparò a lanciare un leggero incantesimo contro l'animale, che volò dalla finestra come ipnotizzato.

"Cercami poi!" strillò il bambino dietro di lui, e Crowley riuscì a girarsi per un secondo, per poi sparire velocemente nel tramonto.

"Sbrigati, su. Mettiti i pantaloni, il kilt... quello che ti pare. Andrai a scuola, ci penso già da un bel po' di tempo." disse Rowena, lasciando suo figlio in un angolo ed andando a cercare una valigia.

"No, mamma... Io non - non... mi dispiace, non intendevo offenderti... non l'ho mai fatto, è che era importante stavolta... e io... "

Sua madre non lo ascoltava; era troppo presa ad infilare vestiti ed oggetti appartenuti a Fergus nella valigia tirata fuori da chissà dove.

"Mamma..." mormorò il bambino, tirandole il vestito come quando era molto piccolo, e quella volta Rowena finì col guardarlo con disprezzo.

"Mamma... scusa." Fergus stava tremando. Aveva gli occhi verdi inondati di lacrime, il visino contratto, le mani strette in due pugni.

Avrebbe spezzato il cuore più duro al mondo in quel momento.

Il viso della madre si tese un po' di più. "Non volevi la scuola?!" ringhiò.

"Sì... ma non come punizione..." Fergus si asciugò le guance, strofinandole. "Scusa, mamma..." ripeté.

"Smettila." Rowena chiuse la valigetta e la passò al figlio. "E non è una punizione. So che ci volevi andare, e che ne hai bisogno. Sbrigati a prepararti, prima che chiuda..." mentì, senza un'ombra di affetto nella voce.

Fergus gemette, mordendosi il labbro inferiore. Quindi la mamma voleva fargli un piacere per una volta? Lo voleva rendere contento? La fissò a lungo. Rowena lo fissò a sua volta. Rimasero in quel modo, finché il bambino non le diede il suo primo abbraccio dopo tanti anni, di colpo. "Mamma..." mormorò, la voce rotta.

La donna restò ferma per molto tempo, e solo quando sentì suo figlio singhiozzare, ricambiò meccanicamente quella stretta. Non avvertiva quella sensazione da troppo; non ci era più abituata. Non ci sarebbe più stata abituata, perché non avrebbe permesso che le sue emozioni prendessero il sopravvento su di lei e che controllassero le sue scelte di vita.

Fergus non ne era a conoscenza allora, ma voi dovete sapere che sua madre era in serio pericolo in quel periodo, e non solo perché aveva partorito un figlio da un uomo che non era uno stregone. C'era qualcuno che la cercava. Qualcuno che uccideva.

"Grazie mamma... ti voglio bene."

Rowena fissò un punto indistinto verso la finestra, attraverso la quale 'l'uccellaccio' si era volatilizzato. Il tramonto stava colorando il cielo di un rosso più inquietante che affascinante - forse perché si stava per riempire di nubi, come il cuore della donna.

Scostò il suo bambino, con la scusa delle lacrime che le stavano bagnando il vestito. "Andiamo, su."

***


Fu una giornata piena di sorprese per Fergus. La Stanza Proibita, Crowley che parlava, il lungo viaggio in carrozza. Neanche la scuola era come quella che aveva sempre immaginato nella sua testa, né somigliava a quella dei libri, con le classi, i banchi, ed i maestri.

Avesse saputo che quella era tutt'altro che una scuola!

Si trattava di un ospizio di mendicità. In inglese si dice 'workhouse'... vi è più familiare adesso? Se non lo è, non preoccupatevi, sono qui per raccontarvi. Erano dei luoghi in cui le persone venivano lasciate per reati minori, o per eccessiva povertà. Veniva offerto loro un lavoro talvolta pesante, e spesso anche i bambini erano sfruttati fino allo stremo delle forze. Non c'era nessuna pietà, e Fergus se ne accorse immediatamente, non appena mise un piede lì dentro. Le mura erano squallide, fradice; l'ambiente puzzava di marcio e di uova andate a male. I ragazzini erano smagriti, violenti; correvano e sgomitavano per i corridoi in un modo che lo faceva agitare. C'erano dei signori adulti che tenevano d'occhio i pargoli, e comandavano loro di andare di qua o di là, di tornare in giardino e di usare la zappa, di andare a pulire quel salone o quell'altro bagno.

"Mamma..." mormorò Fergus, guardandosi attorno con aria spaesata. Rowena stava discutendo con una signora alla porta d'ingresso, ed il figlio corse fino a raggiungerla e poggiarle la tempia destra sul fianco. "Mamma... mi verrai a prendere presto, vero?"

"Ma certo." rispose lei atona, toccandosi i capelli rossi con due dita, senza smettere di rivolgere la propria attenzione all'altra donna di fronte a lei. "Adesso devo decisamente andare. Fai il bravo bambino." disse.

Fergus le sorrise, rivolse uno sguardo preoccupato dietro di sé, e poi tornò a Rowena ed annuì. "Ciao, mamma."

"Ciao. Arrivederci." Rowena salutò anche la signora con una mano, e si incamminò verso la strada, in cerca di una carrozza i cui passeggeri non destassero sospetti.

Come vi dicevo, era in serio pericolo.

Fergus non lo sapeva, ma da quel momento in poi, non avrebbe rivisto sua madre per secoli e secoli - letteralmente. Continuò a guardare la porta che si chiudeva proprio davanti ai suoi occhi con un'espressione speranzosa. Finché qualcuno non lo tirò per un braccio, e l'atmosfera mutò.

"Vieni qui!" Era un uomo sulla cinquantina, il capo pelato, la camicia che odorava di tabacco e la voce scontrosa. "Ti faccio conoscere i tuoi nuovi compagni di stanza."

Fergus venne trascinato fino ad una camera grigiastra, in mezzo al rumore e alla confusione di quel posto orrendo. Due bimbi sui sette anni stavano sistemando i loro letti, ed il terzo, un po' più grandicello, puliva il pavimento lurido con una ramazza.

"Ve lo lascio qui. Attenti agli incantesimi che potrebbe lanciarvi." L'uomo ridacchiò, e diede una spintarella alla schiena di Fergus, costringendolo ad entrare nella stanza.

"Dov'è mia madre adesso?" mormorò il bambino, preso dal panico; un po' della sua speranza era già svanita.

"Chi? La strega?" gli chiese il signore, ironicamente, mettendo in mostra una fila di denti scuri. "Non so dove sia diretta; l'unica cosa certa è che tu resterai qui... e ci lavorerai." Rivolse lo sguardo agli altri. "Fateci amicizia."

Detto ciò, si allontanò a passo di soldato.

Gli altri bambini della stanza, dal canto loro, lo stavano esaminando da capo a piedi. Videro il kilt stretto​ alla vita dalla cintura presa dai MacKeon, le scarpe consumate, la faccia paonazza per l'imbarazzo.

"La sua mamma è una strega?" fece il biondino, sussurrando al suo gemello che aveva l'aria incuriosita.

"Certo..." gli rispose quello, controllando ogni movimento del nuovo arrivato.

Fergus non riusciva a capire. C'era qualcosa di male nell'essere una strega o uno stregone? Perché quei bimbi ne parlavano come se si trattasse del Diavolo?

"Io voglio tornare... " disse Fergus, spontaneamente, sbattendo le palpebre. "La mamma deve venirmi a prendere... quando lo farà?"

Il dodicenne, mosso a pietà, gli si avvicinò di poco e gli mise cautamente una mano sulla spalla. "No, la mamma non ti viene a prendere. Non penso proprio. Io sono qui da tantissimo tempo." gli confessò, gli occhi lucidi.

Anche Fergus era sull'orlo del pianto. Iniziò a tremare tutto. "Ma come... Io non - definisci 'tantissimo'..." domandò.

L'altro si strinse nelle spalle. "Almeno tre anni... non ricordo molto bene. Ho avuto un problema... ho sbattuto la testa al lavoro..." Si indicò il capo.

"Cinque anni, Thomas..." gli suggerì uno dei gemelli, incrociando le braccia fasciate. "Non tre..."

Thomas si voltò.

I ragazzini incominciarono una discussione animata che sembrava uno di quei litigi dei grandi. Anche quei bambini erano in realtà degli adulti, così com'era Fergus. Bambini senza infanzia, bambini della miniera. Lavoratori non consenzienti, come gli animali da circo a cui Fergus stava pensando solo poche ore prima. Quanto a lui, ad un certo punto non sentì più le loro voci. Si era completamente ammutolito, ed aveva la faccia cerea e sconvolta di chi era stato appena bastonato a sangue. Desiderava solo capire perché. Perché Rowena lo aveva abbandonato lì? Non le interessava di lui? Allora non era vero che aveva cercato di realizzare un suo desiderio, per una volta?

Voleva urlare, e infatti fu ciò che fece poco dopo. Scappò di corsa fuori dal balcone più vicino, lasciando il gruppo di bimbi intenti a chiaccherare, e spalancò la finestra.

"Mammaaaaa!" Si mise ad urlare prima moderatamente, poi a squarciagola, le lacrime gli rigavano il volto man mano. "Mammaaaaa!"

Nessuno gli rispose. Le persone sottostanti lo contemplarono per un momento, poi ripresero le loro attività.

Continuò a urlare finché lo stesso uomo di prima non lo strattonò fino a portarlo in uno stanzino, chiudendolo lì fino all'ora di cena. Fergus non reagiva neppure, e non realizzava l'accaduto; per lui era tutto un incubo. Un dannato incubo di quelli che dovevano finire più presto possibile.

Quella notte, mentre fingeva di dormire sul suo materasso, Fergus non riusciva a smettere di pensare al mulino, alla sua vecchia vita alla quale si era anche abituato nonostante tutta quella tristezza. Singhiozzava nel sonno, stringendo le coperte sottili ed inzuppando il cuscino che lui stesso aveva fabbricato con un ammasso di lenzuola.

Prese a fare una lenta preghiera a fior di labbra. "Mamma... torna, prendimi. Ti sei sbagliata, questa non è la scuola. O forse lo hai fatto apposta? Io non ci voglio stare qui... mi stanco, ho paura dell'uomo grande... e non riesco a - a... e io... io voglio tornare a casa, e voglio la mia mamma anche se mi picchiava. F-forse mi picchiava perché non ero abbastanza buono, e perché aveva capito che scappavo da lei la notte... non sono stato un bravo bambino, è per questo che mi ha lasciato qui... è colpa mia. Voglio la mamma... e voglio il mio corvo..."

Ti salverò, Fergus.


Angolo di Feathers:

Non si vede che stavo studiando Giovanni Verga/Charles Dickens nel periodo di stesura dei capitoli, veeeero? *high saaarcasm*
Anyway, da ora in poi ne vedrete delle belle, e so che già vorreste uccidermi, ma io l'avvertimento angst ve l'ho messo u.u *sparisce* vvb <3

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Capitolo 3
*** III ***


      III                                                                                                        




16 Maggio 1679


Il suono delle cornamuse si diffondeva per la campagna scozzese illuminata dal sole calante. L'odore del fango era ancora nell'aria, forte e dolce al contempo. A Fergus piaceva quel profumo, nonostante gli facesse venire in mente certi ricordi confusi e traumatici che avevano segnato la sua più tenera età. Gli bastava chiudere gli occhi e vedeva ogni cosa di nuovo.

Riviveva per intero quella sera di Autunno del 1671. Quell'avvenimento troppo veloce. Violento e metallico come il suono delle catene che si spezzano. Le sue si erano davvero rotte a pezzi, e lui non aveva idea di chi fosse stato a ridurle in quel modo. Era tutto buio. Sapeva solo che sarebbe potuto fuggire lontano dalla gabbia in cui era stato punito per nulla.

Me lo ricordo ancora quel bambino di dieci anni che annaspava, che si nascondeva, si copriva come poteva.

E ricordo che avrei voluto fare di più per lui. Avrei voluto - e vorrei - fare di più per aiutare tutti, ma non posso, credetemi. Non è detto che io sia completamente onnipotente come vi immaginate. Ci sono così tanti pregiudizi errati sul mio conto, non avete idea. Non ho una bacchetta magica capace di risolvere tutto ciò che accade in un nanosecondo in milioni di milioni di parti dell'universo. Anche io, come voi, ho bisogno​ di tempo, anche se pochissimo. E proprio come capita a voi umani, non è detto che io sappia gestire alla perfezione qualcosa che ho creato io stesso. Talvolta, ciò che creiamo diventa più grande di noi. Ed io non sono troppo diverso da voi, ve l'ho anche specificato più e più volte. Avete presente la frase "A mia immagine e somiglianza"? Ecco. Ed è per questo motivo che mi faccio aiutare.

Ma torniamo al nostro Fergus.

Mentre sfrecciava fra l'erba alta e fradicia di pioggia, la mia voce - l'unica cosa che potevo concedergli al momento - gli sussurrò all'orecchio, coprendo il suono della tempesta che infuriava quella notte: 'Scappa, Fergus. Corri più in fretta che puoi. Non farti raggiungere da loro. Vola via, come ha fatto il tuo amico corvo, e liberati.'

E lui mi aveva obbedito ciecamente, i capelli bagnati attaccati alle tempie, le lacrime che si confondevano con le gocce d'acqua. Non aveva paura di me, perché dentro di sé aveva capito di non averne bisogno.

A volte le cose ce le sentiamo dentro, no?

Erano passati altri otto lunghissimi anni da allora, e Fergus era cresciuto. Era diventato un attraente adolescente dai capelli color rame e la barbetta sottile, e stava lì in quel luogo asciutto e tranquillo, lontano dalla gabbia. Lontano dalle mani che picchiavano, dagli occhi freddi che lo squadravano, dagli attrezzi da lavoro.

Beh, dagli ultimi solo in parte. Si trovava un lavoretto saltuario ogni tanto - vendeva piccoli oggetti fatti da lui o quadretti, riparava mura, badava a dei bambini piccoli - ed aveva accumulato da parte un bel gruzzolo.

Ed ora si trovava in campagna, ad ascoltare lui che suonava in una colorata festa di paese.

A Fergus non piacevano quegli incontri in realtà. Cioè, voglio dire... che non ci andava pazzo. Per questo i suoi amici erano rimasti stupiti dal fatto che finalmente stesse decidendo di prenderne parte.

Chiaro come il sole: il motivo principale per cui era sceso in piazza non era la festa di San Mungo di Glasgow.

Era quella meravigliosa e folta chiazza di capelli rossi in mezzo alla banda di suonatori di cornamusa. Erano quei cristalli verdi che aveva per occhi, quelle efelidi, quel sorriso che abbagliava e gli faceva male dentro. Era lui, Angus McDevill, un musicista ventottenne che ormai aveva riscosso un enorme successo tra la folla. Tutti lo conoscevano al paese. Tutti lo stimavano. Decine di ragazze cadevano ai suoi piedi, è inutile dirlo. Non era solo bello d'aspetto, ovviamente; non era questo ciò che aveva affascinato il nostro ragazzo così tanto. Era perspicace, educato, ed aveva infiniti talenti - che Fergus aveva scoperto man mano - tra cui la musica.

Fergus si leccò le labbra, e prese un altro sorso di whisky. Gli girava già un po' la testa. Si augurò di non fare cose ridicole in sua presenza, dopo, ed allontanò con due dita il bicchiere come per impedirsi di berne ancora. Diede un'altra timida occhiata alla banda. Stavano suonando uno dei suoi pezzi preferiti.

Dal suo canto, gli parve di vedere quel viso tanto amato rivolto verso di lui. Ammiccò, e Angus ricambiò lo sguardo prima di concentrarsi un'altra volta sul suo strumento.

Ormai il paesaggio attorno a loro stava diventando più scuro. C'erano solo le luci delle candele nei tavoli del locale, che rendevano il tutto ancor più suggestivo.

Fergus si sentì pizzicare alle spalle e si girò.

"Tutto apposto?"

Si era quasi dimenticato della presenza di John. I capelli neri brizzolati - il suo amico aveva solo ventidue anni - erano sparati in tutte le direzioni, e l'adorabile sorriso sbilenco nascosto dalla barba lo faceva sembrare un arabo.

"Sto benissimo. Grazie." rispose Fergus, tranquillo.

Una delle cose che aveva imparato nel corso della vita era fingere. Era capace di nascondere di tutto ormai, e di tenere per sé i segreti più indicibili senza che nessuno sospettasse molto. La sua forte sbandata per Angus, tuttavia, era l'unica cosa che ancora faticava a reprimere. Non si era mai sentito in quel modo. Aveva guardato con bramosia molti uomini e molte donne durante la sua prima adolescenza, ed aveva imparato alcune cose sul sesso grazie a degli amichetti più informati. Ci aveva fantasticato su, si era dato piacere per la prima volta in una stanzetta in cui aveva avuto la fortuna di dormire una notte, ed aveva avuto una miriade di cotte passeggere. Ma non si era mai affezionato a qualcuno fino al punto di volerci stare per sempre.

Lui e Angus si erano conosciuti nel modo più improbabile.

Fergus era stato un vagabondo per un bel po' di tempo: ogni tanto riusciva a rimediare un soggiorno poco duraturo da qualche parte grazie ai soldi che risparmiava. Il suo corpo era sempre stato forte; poteva sopportare la fame, il freddo e la stanchezza di dover riposare su superfici dure.

La famiglia McDevill era stata la sua salvezza. A quattordici anni lo avevano prelevato dalla strada, una gelida notte di Aprile. Stava piovendo, e lui era sdraiato su una panchina con un telo sul torace che avrebbe dovuto fungere da riparo; era sporco, pieno di fango e tremante. Ricordo che mormorava nel sonno, rigirandosi più volte. Poi aveva sentito due - no, quattro - mani che lo sollevavano, e che lo portavano all'interno di un ambiente straordinariamente tiepido. Fergus non aveva ancora visto, i suoi occhi erano chiusi, impastati dal sonno. Loro l'avevano svegliato delicatamente, e Fergus si era ritrovato davanti un esercito di capelli rosso fuoco, lentiggini e pelli chiare come il latte. Era una famiglia numerosa. Una paffuta madre che amava i fiori, un austero padre che secondo me somigliava a Van Gogh, due fratelli - Angus e Dave - e tre diafane sorelle gemelle. E da lì, tutto era cambiato. Fergus aveva conosciuto ognuno di loro, aveva imparato a memoria le loro voci, i loro giochi preferiti, le loro passioni ed i loro desideri. E si era innamorato perdutamente​ di Angus, il primo che gli aveva riservato attenzioni di ogni genere, che gli aveva insegnato migliaia di cose, e che lo aveva portato in giro per la Scozia in esplorazione.

La banda smise di suonare, e Fergus scattò in piedi quasi senza accorgersene, mimando un leggero applauso. Angus non avrebbe più dovuto esibirsi per quella sera. Poteva decidere di rilassarsi bevendo qualcosa, o di ballare con qualche signorina elegante. Fortunatamente per la gelosia di Fergus, il giovane scelse la prima opzione. Raggiunse in fretta uno dei tavoli vicini a quello di Fergus, e lo salutò con un rapido cenno della mano. L'altro ebbe appena il tempo di realizzare e di ricambiare, che il rosso si era già voltato dall'altra parte. Il viso del più giovane si oscurò. Angus lo stava evitando un'altra volta. Accadeva solo quando erano in posti pieni di gente, e lo faceva soltanto con lui; non aveva problemi a stare in compagnia degli altri. Che diamine gli stava succedendo?

Angus era lì, calmo e sorridente, in mezzo ad un paio di uomini sulla trentina che sembravano fratelli e che non smettevano di versargli dello scotch. Fergus avvertì quella maledetta sensazione​ di impotenza che gli invadeva il cuore in situazioni come quella. Prese a mordicchiarsi l'interno della guancia, grattandosi la parte superiore del sopracciglio con un'unghia.

"Amico. Sul serio, ti vedo frustrato." mormorò John accanto a lui.

"No." Fergus abbassò il capo, cercando distrazioni.

John circondò la bottiglia di vetro sul tavolo con le dita. "Pff, dai! A me non menti. Sai che ti dico? Smettila di fare l'astemio per stasera e prendine ancora. Dimenticherai tutto ciò che ti turba." Gli passò l'alcol, al quale Fergus lanciò uno sguardo incredulo.

"Tracannare tre bicchieri di seguito sarebbe 'fare l'astemio' per te?" esclamò, contrariato. "Tu sei scemo!"

John rise di gusto. "Io vado un po' dall'altra parte della festa, stanno servendo della roba da mangiare che sembra ottima. Vieni?"

Fergus ridacchiò, cercando di ritrovare Angus nella piazza affollata senza farsi notare dal moro. "Uhm..."

John posò le mani sui fianchi. "Ti sei già stancato?! Non posso credere che proprio tu stia rifiutando del cibo poi... "

"De-devo sbrigare una cosa. Tu vai pure." Fergus gli fece l'occhiolino. "Buon divertimento."

John fece un sorriso sornione. "Oh beh, buon divertimento anche a te... se ho indovinato quello che devi fare." disse, indicandogli con un cenno del mento una brunetta, che non smetteva di lanciare timidi sguardi a Fergus.

Il ragazzo sorrise, ma poi ruotò gli occhi in direzione dell'amico. "Buonanotte."

---

"Hai suonato molto bene." mormorò Fergus, facendo centro col suo cappellino dentro una cesta e dando le spalle ad Angus. L'altro non rispose. Continuò a mescolare nervosamente il proprio té di mezzanotte. Il più giovane si voltò, la bocca semiaperta. Osservò con attenzione la figura seduta al tavolo, e notò la tensione su quel viso pallido. "Emh, non so se hai sentito, t-ti ho detto che..."

"Sì, me lo dici sempre." lo interruppe Angus, secco. "Grazie."

Fergus rimase in silenzio per qualche secondo, poi fece qualche passo scricchiolante nella sua direzione. "Che c'è?"

"Eh?" L'uomo sembrava distratto, confuso. Preoccupato a morte.

"Che ti è successo? Se è stato un'altra volta quell'idiota..."

"Non c'è nessun idiota. Ti ricordo che l'ultima volta che Douglas ha cercato di pestarmi è stata un sacco di anni fa. Lo schiaccerei come una mosca adesso, se riprovasse a torcermi un capello." Detto ciò, assunse un atteggiamento di chiusura, le mani che sorreggevano il mento ma coprivano in parte le guance. Prese la tazza lentamente, e sorseggiò. La nausea gli impedì di finire la bevanda.

Fergus abbassò la testa. "È che... io mi preoccupo sempre per te..."

"Non ce n'è bisogno, davvero. Ora a letto." disse Angus, con lo stesso tono neutro di prima. Per la fretta quasi urtò la sedia alzandosi.

Fergus lo seguì fino alla camera da letto, senza arrendersi, parlando mentre salivano le scale. "Angus... io ti vedo strano in questo periodo... magari, non vuoi che io stia in pensiero... ma è inutile, s-sai che tengo a te tantissimo, cioè... io voglio che tu stia... s-si può sapere che cos'hai?"

Ad un certo punto, Angus si fermò di fronte alla porta aperta della sua stanza, i pugni stretti. L'altro ebbe un piccolo sussulto.

"Che cos'hai tu, piuttosto?"

Calò il silenzio; solo l'orologio ticchettava. Fergus tacque, confuso. Una parte di lui aveva già compreso, con orrore, ciò a cui alludeva Angus, tanto che ebbe il timore di chiedere "In... in che senso?"

Il rosso si voltò. Lo fissò, gli occhi pericolosamente arrossati. "Entrambi sappiamo in che senso."

Fergus sentì il sangue andargli alla testa. No. Avrebbe voluto correre via, ma era come se i suoi piedi fossero rimasti incollati sul pavimento.

"Smettila. Immediatamente." scandì Angus.

"Io-"

"Smettila di seguirmi. Smettila di fissarmi in quel modo ridicolo. Di starmi addosso. Di parlare di me a tutti come se ogni cosa che faccio fosse un'impresa. Di ossessionarti ogni volta che mi vedi giù di morale. Piantala!" urlò, la voce malferma.

Fergus era sbiancato come un lenzuolo. Non realizzava l'accaduto, né le parole del suo amico, che continuavano a fargli eco nella testa. "Mi dispiace." disse, sull'orlo delle lacrime. "Mi dispiace davvero, io non ho mai voluto metterti nei... qualcuno ti ha... detto qualcosa?" mormorò sommessamente.

Angus si portò una mano sulla fronte, coprendosi gli occhi per qualche istante. "No. Ma se osi continuare, ti caccio via da qui, lo giuro."

"Mi dispiace... non lo farò mai più... io voglio solo che tutto torni come prima... ti ricordi quando mi portavi in giro, mi insegnavi delle cose... non ti vergognavi a parlare con me di fronte agli altri? Per favore torniamo indietro..."

"Non si torna indietro, non dopo scoperte del genere. Cioè, lo so da alcuni anni, ma credevo ti sarebbe passata. Sei malato."

Gli occhi del più giovane erano ormai inondati, gocciolavano. Piangevano silenziosamente. "Non è vero."

L'altro scosse il capo. "Sì che è vero. Sei malato, e mi dispiace. Ma non puoi far ammazzare pure me. Quindi o ti curi, o io..."

"Non dire queste cose!" gridò Fergus, le unghie ormai conficcate nei palmi per la rabbia e per l'emozione di stargli dicendo finalmente ciò che provava. "Io non sono malato... io ti voglio bene... te ne ho sempre voluto e-"

"Credimi, non è così..."

"Sì che te ne voglio, idiota!" urlò Fergus, ancora più forte. "Darei la mia vita per te... e sì, mi piaci... ma-"

Angus serrò le palpebre, come se si stesse riparando da un vento tossico, da qualcosa di maligno che gli stesse piombando addosso. "Smettila di dire stronzate... esci da qui, muoviti. Non ho intenzione di toccarti per costringerti."

"Non vado da nessuna parte." Fergus lo fissò con rabbia crescente negli occhi umidi. Ingoiò a vuoto.

Il più grande aveva uno sguardo minaccioso. "Vuoi che lo dica agli altri? Che ti accusi di essere un frocio?"

"Non lo faresti." rispose l'altro, il tono di sfida.

"Sì che lo farei, se non ti decidi ad andartene. Fallo ora o mai più, sono tutti fuori città per miracolo. Sbrigati e inventerò una scusa. La mamma non ti lascerebbe mai andare." disse il rosso senza guardare il ragazzo che aveva salvato, tormentandosi il labbro. "Accidenti a me e a quando ti ho visto dalla finestra anni fa."

Fergus rimase ferito dopo quella frase, ma anche vagamente sorpreso. Quindi era stato proprio Angus ad accorgersi di lui? In quel momento, il ragazzo entrò nel suo spazio di riflessione nel quale si rifugiava ogni volta che gli stava accadendo qualcosa di orribile. Serviva ad allontanarlo da tutto, ad ammortizzare le botte. Si figurò un Angus che lo vedeva su quella maledetta panchina, che andava a chiamare i genitori, a dir loro di sbrigarsi e di salvarlo dal gelo a causa del quale aveva rischiato di morire.

"Allora?" chiese Angus, tirandolo bruscamente fuori dai suoi pensieri. "Esci... o no?"

Fergus assottigliò lo sguardo, ancora mezzo incantato dalla sua visione; non vedeva bene a causa delle lacrime. Gli era balenata in mente una mezza idea. Esitò per poco, poi fece un rapido passo in avanti. Premette il proprio corpo su quello di Angus, tanto da riuscire a vedere nel dettaglio le efelidi di quest'ultimo, e portò le labbra morbide sulle sue, iniziando a baciarlo con foga. La sua mano scivolò sul fianco dell'uomo che stranamente non si opponeva. Non ancora. Fergus si strofinò su di lui, strappandogli un gemito soffocato. Un istante dopo, Angus lo spinse via in un modo talmente brusco da rischiare di fargli seriamente male. La schiena del più piccolo sbatté sulla parete opposta.

"Figlio di puttana! Che diavolo fai!?" urlò Angus, le guance chiazzate di un rosso vivo. "Sparisci o giuro che ti-" Si interruppe.

Il biondo sorrideva ancora sardonico, gli occhi scintillanti e la bocca umida. Lo fissò sfacciatamente in basso, proprio fra le gambe, e notò ciò che si era aspettato di vedere. Tornò al viso paonazzo di Angus, la cui sicurezza stava vacillando. Per pochi secondi calò un silenzio tombale, scandito solo dal respiro pesante di Fergus, il quale mosse due o tre coraggiosi passi, arrivando di nuovo accanto a lui. Avvicinò le labbra sotto il suo orecchio, e sospirò con calma. "Non aver paura." Gli stampò due baci delicati sotto il lobo, sulla guancia, poi scese sul collo. "Non aver paura." La sua mano scese ad accarezzargli il ventre, poi la coscia sinistra sotto il kilt.

Angus era paralizzato. Non si muoveva più. L'unica cosa che pareva infondere un po' di vita alle sue membra era il cuore, che gli martellava sotto i vestiti. "Ferg..." mormorò, il tono infinitamente ammorbidito, gli occhi gonfi di lacrime.

Il ragazzo lo ignorò.

"Sai che non possiamo... smettila. Non-"

"Sssh." mormorò il ragazzino, aprendosi qualche bottone di fronte allo sguardo scioccato del suo amico. Si tolse la camicia in un secondo, restando a petto nudo. "So che lo vuoi..."

"Io non sono così... come te." soffiò Angus, fissando il corpo mingherlino dell'altro. "Sai che non posso esserlo... non potrei..."

"Stronzate." Mormorò Fergus, avvicinandosi di più, la voce ancora malferma. "Dimmi solo la verità, e poi me ne andrò. Ammetti che in realtà ti piaccio."

Angus oppose resistenza, mordendosi le labbra. Il suo flusso di pensieri si interruppe, sostituito dalla confusione, dall'odio per sé stesso che stava provando in quei momenti e che gli impediva di formulare una frase di senso compiuto.

Ad un certo punto, Fergus smise di fissarlo in attesa di una risposta, ed appoggiò il capo sul petto del più grande. Gli accarezzò la schiena nel modo più tenero al mondo. "Almeno dimmi la verità. Giuro che non mi farò più vedere, ma... ti prego. Sii sincero con me."

Angus chiuse gli occhi e sospirò, odiandosi più di quanto aveva mai fatto in tutta la sua vita. Piano piano, con un movimento meccanico, sfiorò i capelli soffici del ragazzino. Passò molto tempo prima che l'uomo potesse sussurrare: "Perché dovevo... nascere così?" così piano che neanche Fergus capì ciò che stava dicendo.

All'improvviso, Angus lo spinse dolcemente in direzione del suo letto, sorprendendolo; lo fece sdraiare sulla schiena. "Aspetta un istante." Si liberò goffamente degli ultimi vestiti rimasti.

Il più giovane si rimise a sedere sul materasso, e fissò da capo a piedi il bel corpo del suo amico con un po' di apprensione negli occhi. "Sul serio?..."

"Se vuoi, sì." Il rosso si accigliò, raggiungendo Fergus fra le lenzuola. Poggiò solo la mano sulla sua, e lo circondò con l'altro braccio, attirandolo a sé. "È la tua prima volta, giusto...?" sussurrò al suo orecchio.

Il ragazzino gli accarezzò la nuca, spostandogli le ciocche di capelli color carota. "S-sì... io non ho mai..."

"Tranquillo." Angus gli posò un bacio sulle labbra.

Fergus annuì, sentendosi felice per la prima volta dopo tanti anni. "Ti voglio."

"Lo so, lo so..."

Fecero l'amore per tutta la notte, e Angus dovette ammettere almeno a sé stesso che non si era mai sentito meglio in vita sua. E non era per via del sesso stupendo - non solo per quello, intendo. Tante volte era finito a letto con delle ragazze - come vi ho già raccontato, era molto ambito - ma nessuna di loro l'aveva mai fatto sentire così desiderato. Inoltre, sapeva perfettamente di essere bisessuale; l'aveva sempre saputo, ma non si era mai azzardato a toccare un uomo, e credeva che sarebbe riuscito a mantenere quella stupida promessa per sempre.

Dal canto di Fergus, quei baci bramati da una vita, quelle carezze nei luoghi più impensabili, il sapore della sua pelle e quei gesti inaspettati erano tutte sensazioni mai sperimentate prima che lo stavano sconvolgendo.

Si addormentarono assieme, accoccolati tra le lenzuola. E non si raccomandarono nemmeno di non raccontare nulla a nessuno. Non ce n'era bisogno. Perfino il più grande stupido non avrebbe corso il rischio anche solo di parlare di omosessualità nel diciassettesimo secolo.

Com'è triste, sciocca e violenta l'umanità, alle volte. È proprio odiando e punendo il modo in cui vi ho creato che si diventa violenti contro natura, non accettando le 'differenze' altrui. I vostri occhi sono diversi. Il colore della vostra pelle è diverso. I vostri visi sono diversi. E anche i vostri gusti sono diversi. È così che vi ho creato.

Il male è altro. È decisamente altro, e mi sorprende che ci siano ancora persone che non l'hanno compreso.


---


17 Maggio 1679


La mattina seguente, Fergus uscì dalla casetta con delle occhiaie assurdamente marcate ed i capelli al vento. Nonostante ciò, canticchiava felicemente mentre andava a fare la spesa al mercato. Aveva deciso di fare una sorpresa ad Angus, prima che l'uomo tornasse a casa dal lavoro. Gli avrebbe preparato un dolce, anche se non era ancora eccezionale in cucina. Si avvicinò alle tendine bianche e salutò Miss Mary, l'anziana fruttivendola con la quale aveva instaurato un bel rapporto da quando era giunto lì.

"Fergus! Da quanto tempo!"

Il ragazzo sorrise. In realtà erano passati solo pochi giorni dall'ultima volta che era andato a comprare la frutta, ma non volle ricordare alla cara signora i problemi di memoria che la affliggevano.

"Vi trovo molto bene..." disse Fergus, le mani nelle tasche.

Mary ammiccò, mettendo in evidenza le guance grinzose, e si sfiorò la treccia bianca. "Oh, grazie, tesoro. Cosa ti serve?"

Fu proprio in quel momento che Fergus udì una voce riconoscibile proveniente dalla fila di gente dietro di sé.

"Quello lì è pericoloso. Non so se hai visto ieri come fissava Mister Carota. Porta malattie, indovina un po' perché..."

Sembrava essere proprio Doug. No, se fosse successo qualcosa ad Angus a causa sua, Fergus non se lo sarebbe mai più perdonato.

"U-un chilo di mele, per favore..." mormorò il giovane, sentendosi le gambe molli al solo pensiero.

Mary notò il colore di quel viso ancora innocente cambiare di colpo. "Fergus... stai bene? Ti sei impallidito di molto..."

Di nuovo la voce: "Vedi... pure la signora se n'è accorta... te lo dico io che cos'ha quel pervertito... se riesco ad acciuffarlo..."

"Signora, sono in salute, t-temo solo d'aver preso un malanno... c-cioè, qualcosa di poco grave... una sciocchezza... avverto un dolore alla testa..." farfugliò Fergus, tremando un po'.

Mary abbassò il capo e sorrise ancora. "...forse hai semplicemente avuto una nottataccia. Tieni, portati un paio di mele in più, te le regalo. Vieni sempre qui da me per la frutta di stagione..."

"Grazie..." riuscì solo a cavar fuori Fergus, e prese il suo sacchetto. "Siete molto gentile. Passate una buona giornata."

"Buona giornata a te!" rispose la vecchina, allegramente, salutandolo con la mano.

Il ragazzo si allontanò in fretta, guardando dietro di sé. Navigò tra la folla soffocante del mercato e scese giù per la collina di corsa, voltandosi di tanto in tanto e avvistando solo mulini, casette, alberi, campi coltivati. Nessuna ombra di Doug.

Credette di averlo seminato.

Chiaramente, quando arrivò a casa l'ansia non gli permise di fare nulla che richiedesse un minimo di concentrazione. Rimase a letto quasi per tutto il giorno, con la mente affollata da brutti pensieri.

---


Angus aprì la porta di casa alle nove di sera, e si chiuse a chiave come se stesse fuggendo dalla peggiore delle tempeste. Ebbe appena il tempo di entrare che già Fergus lo raggiunse, il viso spaventato, afferrandolo per le braccia. "Hey... tu-tutto okay?"

L'uomo si limitò a fissarlo con gli occhi verdi ed inespressivi.

"Angus... che, che succede?"

"Non c'è tempo per spiegare. Devi andare via. Ti vogliono." sussurrò, e si girò, marciando a passo di soldato verso un fagotto vuoto per terra.

Fergus era ancora confuso, spiazzato, immobile sull'uscio serrato. Guardò Angus come se avesse avuto di fronte un fantasma. "Chi mi vuole...? Come lo hai saputo...? E dove... vado? Io non vado da nessuna parte..."

Il rosso si girò, in lacrime. "Vuoi farci ammazzare?"

"No!"

"Beh, allora scappa e sbrigati. O ci bruciano entrambi come due streghe."

Fergus schiuse le labbra, mentre le parole dell'uomo che amava facevano eco nella sua testa. Come due streghe. Già. Sua madre era una di quelle. E a lui piacevano sia gli uomini che le donne. O meglio, se ne fregava di cosa fossero le persone da cui era attratto.

Erano entrambi da condannare, allora.

"Una persona fidata verrà a prenderti di notte..." continuò Angus a testa bassa, preparando il fagotto del biondo, riempendolo dei suoi oggetti personali. "Ci ho parlato dopo il lavoro. Non devi temere. È un buon uomo. Ti porterà a casa sua... è parecchio lontana da qui..."

Fergus riuscì solo a singhiozzare, senza potersi trattenere. "Non ti vedrò mai più... "

Ci fu un momento di silenzio, durante il quale il più grande tirò un sospiro lunghissimo. Camminò fino a giungere di fronte al ragazzino e lo abbracciò forte, premendo la sua testa sul proprio petto ormai bagnato dalle lacrime silenziose. "Non so come lo hanno saputo, Doug e Ryan. Alle volte ho l'impressione che Doug abbia delle strane capacità... psichiche. Che mi prendano pure per pazzo..." Si morse un labbro. "Mi hanno minacciato al lavoro... che se non ti consegno entro domani sera verranno a prendere entrambi, e ci faranno uccidere. Fingerò che sei scappato. A me andrà tutto bene, promesso." mormorò, la voce completamente spezzata.

Il biondo si separò di poco dall'altro, abbastanza da guardarlo negli occhi. "Giurami che starai bene. Non è giusto, io non voglio andare da nessuna parte... questa è la mia famiglia... io ti..."

Angus si sforzò per non crollare. "Lo so, lo so." Lo baciò sulla tempia umida di lacrime, e poi sulla bocca, piano. "Lo so. E mancherai a tutti... ho ancora il tuo disegno di quando sei arrivato qui... lo sai?"

"Dove lo tieni...?"

"Sotto il cuscino. Non l'hai notato ieri sera?" Tornò a sorridere impercettibilmente per un istante. "Ah già, eri troppo preso..."

Fergus si asciugò il viso, e tornò ad appoggiarsi a lui, affogando nella sua stretta. "G-grazie. Di tutto. Sarei morto anni fa se non fosse stato per te. Giurami che sarai in salvo..."

"Lo sarò..." ripeté l'altro, tristemente. "Perdonami per ieri sera..."

"Avevi ragione. Adesso se ti faranno del male sarà colpa mia... avresti dovuto buttarmi fuori..."

"No... no no no." fece Angus, cullandolo piano piano. "Ti ringrazio per avermi permesso di essere me stesso. Sei tu quello che avrebbe dovuto picchiarmi per come mi sono comportato."

L'altro non rispose più.

Rimasero abbracciati a lungo, per un tempo interminabile, prima che il più grande sussurrasse: "Ora andiamo... e sbrighiamoci."

--- La carrozza era semibuia.

I suoi pensieri anche. Freddi e grigi come quella notte. Era la prima volta nella sua vita che non gliene fregava nulla di ciò che c'era fuori dal finestrino.

Aveva capito che non avrebbe mai avuto una casa.

Era nato nomade e adulto, come vi ho già raccontato. Era un vagabondo che non comprendeva il mondo in cui era stato incastrato dalla nascita, che non era mai stato davvero un bambino, e che oltre al mulino e a quelle poche felicità non aveva molto che si potesse raccontare con un sorriso sulle labbra.

Anche per quel motivo, inizialmente, non rivolse la parola all'altro ragazzino che fissava il vuoto accanto a lui nella carrozza, che - come lui - non si girava a guardare il paesaggio, e che non aveva alcuna espressione in quegli occhi blu.

Fergus sbirciò a lungo il suo profilo, prima di riprendere a guardare altrove.

Pensò che poteva avere tredici anni, o poco più. Era magro in modo preoccupante. Solo quasi alla fine del viaggio, gli occhi del biondo caddero sulle mani del ragazzino.

Erano piene di graffi.





*Angolo di Feathers*
Sì sì, Angus è una specie di "Dean", lo ammetto. (Una specie, eh) E ovviamente non mi sono risparmiata né l'angst né il finale. Non mi uccidete, alla prossima :3

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Capitolo 4
*** IV ***


      IV                                                                                                        




18 Maggio 1679


Scesero dalla carrozza che era notte fonda. Erano le tre? Le quattro? Non importava molto. Non si vedeva un granché là fuori, a parte la luna a spicchio, gli alberi inquietanti con le larghe chiome scosse dal vento, ed il casolare davanti a loro.

Il signor Ryan, un uomo alto e corpulento dalla barba scura, condusse i due ragazzi all'interno della baita. "Eccoci arrivati..." parlò per la prima volta col tono rauco di chi fumava parecchio.

Fergus sbatté le palpebre, e sbirciò l'altro ragazzino, che si era come accartocciato su se stesso, tremando dal freddo. "Hey..." Gli posò una mano sulla spalla.

Il moro si irrigidì.

"Entriamo, su... " gli intimò l'altro. E così fecero.

L'ingresso era buio e piccolo, odorava di cera.

"Non è certo un albergo, ma... ho tentato di rendere tutto più accogliente possibile. Mia moglie già dorme, ovviamente. Voi accomodatevi pure, e fate amicizia." sussurrò il signore a voce molto bassa. Accese una candela ed aprì la porta di una stanzetta dotata di due letti, un cassettone, uno specchio ed una finestrella che dava sul giardino.

Fergus annuì. "Va tutto bene, signore. Grazie tante."

"Figurati. Ci sono brocche di acqua lì, e qui qualche vestito, anche se non so se entreranno anche a te. Il bagno è proprio la porta accanto alla vostra." spiegò, indicando le varie cose man mano che le nominava. "Buonanotte. Se hai bisogno di qualunque cosa, puoi chiedere a me. E se il piccolo si sente male, avvisami, per favore." Lasciò la candela sul cassettone e la porta appoggiata, ed uscì con un sorriso.

Fu in quel momento che si creò un'iniziale situazione di imbarazzo.

Fergus squadrò per bene il giovinetto che ancora taceva, e si rese conto di quanto fosse malridotto. Gli vennero in mente i bambini dell'ospizio nel quale era stato abbandonato anni prima, e si sentì invaso da un'ondata di dispiacere. Afferrò un pacchetto di fiammiferi trovato in tasca, ne accese abilmente uno, ed illuminò la stanza con una seconda candelina. Si girò nuovamente verso l'altro. "Come ti chiami?"

Il ragazzino lo fissò, immobile. Gli occhi blu furono messi in risalto dalla piccola fiamma, così come il pallore spettrale del suo viso. "S-... Sono Scott..."

Fergus annuì, con un lieve sorriso. "Fergus..." Allungò il braccio in direzione dell'altro.

Scott ci mise un po' per capire quale fosse la sua intenzione, e subito dopo gli strinse la mano. Lo guardò a lungo negli occhi scuri.

"Tutto bene? Hai ancora freddo?"

"No no, va meglio, grazie." Scott negò scuotendo il capo. Fece dietrofront, camminando verso il proprio lettino. Si tolse le scarpe e la giacca, dandogli le spalle.

Fergus era leggermente perplesso, ma cercò di parlargli comunque, prima di andare a dormire. "Questa era... la tua stanza, no? Ho invaso il tuo territorio." disse, il tono ricolmo d'ironia amara, togliendosi alcuni indumenti anche lui.

Scott accennò un sorriso dolce senza farsi vedere. "Sono felice che tu sia qui. Mi piace stare solo, ma non sempre. A volte diventa inquietante..."

"Lo capisco."

Intanto, Fergus si era già sdraiato, affondando la testa sul cuscino. Non che fosse rilassato; non lo era affatto. Si trovava in un luogo totalmente nuovo; non conosceva nessuno, ed in quel momento non faceva che pensare alla famiglia McDevill, ai giochi con le sorelline ed il fratellino, all'affetto dei genitori che gli era stato strappato. Ad Angus. Si trattenne per non scoppiare ancora in lacrime, e si limitò a stringere il piumone tra le dita, stirando le labbra. Scott chiuse gli occhi e posò la mano sul proprio ventre, con un lungo sospiro che attirò l'attenzione del biondo.

"Hai mangiato?" domandò Fergus, inespressivo.

"Hmm?"

"Mi chiedevo se... avessi buttato giù qualcosa per cena. Io no, per esempio."

Il piccolo ci rifletté: "No, non ho mangiato. Non avevo voglia. Tu perché no?"

"Pessima giornata. Sono stato cacciato da casa mia." Fergus si rese conto che ciò che aveva passato non era certo qualcosa da raccontare, quindi smise subito di parlarne. Non voleva farsi cacciar via pure di lì.

Con sua grande sorpresa, Scott non gli domandò altro. Bisbigliò un semplice: "Mi dispiace."

Il biondo non rispose. Continuò a fissare il soffitto per un po', gli occhi che bruciavano. Poi scese dal letto, e si piegò in ginocchio sul proprio fagotto. Tirò fuori del pane e qualche biscotto bianco. "Comunque, devi mangiare. Beh, dobbiamo. Non è proprio il massimo, ma..." Sorrise lievemente, ripensando all'uomo di cui era innamorato, a quando gli aveva fatto cambiare abitudini alimentari dopo che la sua famiglia l'aveva adottato. Fece dei passi fino a raggiungere il letto del più giovane, e si sedette sul bordo.

Anche Scott si raddrizzò. "Hai gli occhi lucidi, stai bene?"

"Certo. Ho sonno, sai..." mentì Fergus, e gli passò un tozzo di pane. "Serviti pure. È così strano mangiare a quest'ora... non lo faccio da quando ero bambino, credo."

Di colpo, il biondo notò qualcosa di bizzarro in Scott. Quest'ultimo aveva preso a fissarlo molto più attentamente di prima, come se avesse voluto dirgli qualcosa ma non stesse osando farlo.

"Fergus...?"

L'altro ridusse gli occhi a fessura. "Che ti prende?"

Nessuna risposta. Scott si passò il palmo sulla fronte ed abbassò il capo. "No, nulla... dai. Solo... credevo di averti già incontrato da qualche parte. Grazie per il pane. Sei gentile come mi sembravi."

Fergus annuì. "Non ti illudere. Potrei essere una cattiva persona." lo schernì, strappandogli una risatina silenziosa.

Scott si mise a masticare lentamente, facendo più spazio a Fergus che si sistemò proprio ai piedi del materasso. Era strano. Si erano incontrati da pochi minuti, eppure ogni gesto, ogni parola era naturale in maniera sospettosa.

"Tuo padre non ti somiglia molto." disse Fergus cordialmente, ad un certo punto.

"Oh, ma quello non è mica mio padre." Scott staccò un pezzo di biscotto.

Il più grande sollevò le sopracciglia. "Ma sul serio?"

"Il figlio naturale di Ryan e Lucinda non c'è più. Era molto piccolo quando si è perso. Non l'hanno più ritrovato..."

"Ah..."

"Ed io sono stato adottato a cinque anni." Si allungò per prendere un bicchiere d'acqua senza dover scendere dal letto.

'Okay, se dice la verità, non è all'ospizio che l'ho visto... eppure non è proprio il suo viso ad essere familiare... è qualcos'altro...' pensò Fergus, senza capire. Si chiese se fosse il caso di porgli quella domanda che tanto lo faceva fremere, e che rischiava di rimanergli in gola se non si sbrigava a pronunciarla. "...e ti, ti trattano bene qui?" Attese per qualche lungo secondo, un po' nervoso.

"S-sì, certo..." Gli occhi blu di Scott rimasero nuovamente incollati a quelli di Fergus. "Sono brave persone. Puoi fidarti."

"Allora perché non mangi...? E cosa hai qui?" Fergus posò delicatamente il palmo sul dorso graffiato della mano del ragazzino. "Scusami tanto per l'invadenza, ma me ne hanno fatte di tutti i colori in diciannove anni, e se c'è bisogno di fuggire anche da qui, ti prego di avvertirmi. Ti aiuto anche, se vuoi." mormorò nel tono più gentile che conosceva.

Ma Scott si affrettò a scuotere il capo. "No. Non temere nulla. Questo..." Si indicò le mani. "... siamo stati a raccogliere frutta prima di andarti a prendere, ed io sono parecchio imbranato. E... e soffro di inappetenza e di qualcos'altro che... che ancora cerco di capire, per questo a volte non mangio."

Fergus rimase con lo sguardo assente, ad analizzare il viso di Scott, la sua postura. Non dava evidenti segni di star mentendo. Il ragazzino prese il suo spazzolino e si pulì i denti meglio che poté.

"Ora scusa, ma voglio dormire. Il mio problema mi fa venire molto, moltissimo sonno. Sempre."

"Va bene. Io sono nottambulo, invece, ma non ti disturberò. Buonanotte." disse Fergus, e sorrise.

Scott si arrotolò per bene fra le coperte. "A te."

Il più grande spense le candele.

Non dormì bene quella notte. Il materasso era troppo morbido, ed un cane abbaiava e si lamentava là fuori. Ma non erano certo quelli i veri problemi che lo tenevano sveglio.


---


14 Settembre 1682


Di giorno, la casa di Ryan e Lucinda pareva completamente diversa. Era una comune fattoria di campagna, e pareva una minuscola chiazza di marroncino in mezzo ad uno di quei dipinti verdi di Monet.

Il signor Ryan amava suonare i suoi strumenti musicali - in particolare l'armonica - e possedeva un frutteto fuori dalla casetta. Sua moglie preparava spesso dolci alla cannella, e di solito portava i capelli grigi raccolti in uno chignon. Il canto degli uccellini iniziava a farsi sentire all'alba, e cessava solo sul tardi. E Raf era il loro cagnolino, un vivacissimo terrier di quattro o cinque anni.

Erano poveri ma così allegri, proprio come i McDevill, ma a differenza di questi ultimi - tutti musicisti - gli Anderson erano sarti. Non avevano molto successo, ma riuscivano a guadagnarsi da vivere e questo bastava. E adesso avevano due mani in più che potessero aiutarli a trafficare con stoffe, forbici e chi più ne ha più ne metta. O meglio, quattro mani, perché prima che Fergus si unisse a loro, Scott non riusciva a concentrarsi in nulla. Stava quasi sempre a letto, malato, e non aveva forze. Sembrava che il nuovo arrivato l'avesse risvegliato piano piano, che l'avesse salvato.

E Ryan e Lucinda erano infinitamente grati, perché fino a quel momento avevano fatto di tutto per riparare quel ragazzino problematico. L'avevano trovato per strada a cinque anni, privo di memoria. Nessuno sapeva cosa gli fosse accaduto di preciso, né cosa nascondesse, ma Fergus era deciso a scoprirlo. Dopotutto, il loro rapporto si faceva più confidenziale ogni giorno che passava. Parlavano tutto il tempo, di qualunque argomento passasse loro per la testa - eccetto le loro famiglie naturali. Uscivano a fare compere insieme, lavoravano, e cercavano di pagare le spese di scuola a Scott, che ci era finalmente ritornato dopo la ripresa economica della famiglia.

Quel giorno di metà Settembre, Fergus andò a prelevare Scott dall'istituto, e lo portò al parco per pranzare su una panchina prima di rincasare. C'era un bel po' di strada fra la scuola e la loro sartoria, e ogni tanto gli Anderson preferivano chiedere a Fergus di portargli qualcosa all'orario di uscita. Ai ragazzi non dispiaceva, dato che approfittavano per rilassarsi e chiaccherare un po' in disparte.

Peccato che quella volta non fossero poi così soli. Quattro occhi li stavano spiando da lontano. Erano due uomini sulla quarantina, alti e ben vestiti, che fumavano due pipe.

"Lo vedi? È lì... " mormorò il più vecchio all'altro.

"Lo abbiamo trovato allora..."

"Non fissare troppo a lungo in quella direzione, o se ne accorgono."

"Scusami! Ma chi è dei due?"

"Quello scuro e piccoletto. È pericoloso. Bisogna andarci piano però... secondo me la gente che ha attorno non ha idea di come sia. Credono sia normale, passeremmo per degli assassini ingiustificati. Dovremmo cancellare le tracce del delitto, e non farci vedere."

"La cosa peggiore è che è costantemente scortato da quel biondino... ma sarà suo fratello?"

"Ma che fratello e fratello, non si somigliano affatto."

L'altro sospirò, sbirciando dietro un albero il giovane duo che discorreva. "Sembra così tranquillo però, e buono-"

"Va fatto fuori." lo interruppe il collega. "Non hai idea di che cosa gli ho visto fare..." L'uomo disse qualcosa all'orecchio dell'altro, e quello lo fissò.

"È un mostro."

"Hai colto il punto. E come ti ho detto, va eliminato."

Ci fu una lunga pausa di silenzio, prima che l'altro potesse rispondere: "Sarà fatto, signor Ketch."


---


24 Dicembre 1682


"Passami quella forchetta, Fergie!" disse Scott, mettendo assieme tutto ciò che serviva per preparare il dolce di Natale.

"Ti ho detto di non chiamarmi così, scemo." Il ragazzo gli passò l'utensile, e lo pizzicò delicatamente su un fianco, facendolo ritrarre.

"Ti sta benissimo. Dai, ti do il permesso di chiamarmi Scotty, anche se lo odio." Ammiccò.

"Non esiste." Fergus si sistemò sulla propria sedia, lasciando scorrere lo sguardo sulle scodelle, i coltelli, la farina, la frutta secca. Bevve un sorso di brandy e guardò Scott in grembiule che prendeva gli ingredienti poco a poco e li amalgamava. Il suo viso era più rosa a causa del calore del camino acceso, gli occhi sereni. Si versò un altro bicchiere.

"Hey... non esagerare, non vorrai sentirti male?"

"Il mio fegato regge molto bene l'alcol." replicò il biondo.

"Ed io non reggo te da ubriaco." Scott gli tolse la bottiglia di brandy, e la posò accanto a sé. "L'ultimo e poi la smetti, e magari mi dai una mano a fare la torta."

Fergus ruotò gli occhi, e sorrise sotto i baffi. "Che rompipalle."

"Mi importa di te e della tua salute, semplicemente, tutto qui. Tu non fai che dirmi di mangiare di più, ed io ti dico di scolarti meno di quella roba."

Il più grande cedette e si alzò. Si mise a sgusciare la frutta secca in un piatto bianco.

Continuarono a seguire passo passo la ricetta scritta da Lucinda, facendo attenzione alle quantità e al resto, finché l'unica cosa rimasta da fare non fu attendere che la mince pie cuocesse. A quel punto, si sedettero davanti al camino, col loro cane che dormiva in una cesta.

Fergus socchiuse gli occhi, tendendo le mani livide verso la fiamma scoppiettante. Forse era giunto il momento di capire cosa ci fosse di così strano in Scott, il momento di vederci chiaro. Non c'era nessuno in casa a parte loro, Ryan e Lucinda erano usciti per qualche ora quel pomeriggio tardo. "Sai una cosa, Scott?" iniziò a dire a bassa voce. "Io non... non mi sono mai fidato di nessuno ciecamente, intendo... al cento per cento. Ma forse di te comincio a..."

"Mi fa onore. Io mi sono sempre fidato troppo, invece... di tutti."

"Ma ci sarà qualcosa di cui non hai parlato a nessuno, no?"

Scott si tese un poco, e si voltò. "Mmh?"

"Andiamo. Un segreto di quelli indicibili. Io ne ho addirittura uno che potrebbe causare la mia morte." Fergus si passò una mano fra i capelli chiari, tentando di ravviarli.

Il moro sbatté le ciglia. "Ne ho... anche io uno che mi ucciderebbe." confermò, e si raddrizzò sulla sedia, stirandosi la schiena.

Fergus gli rivolse un sorriso compiaciuto. "Okay. Che ne diresti allora di confessarci i nostri segreti peggiori? Uno ciascuno, così ci fideremo totalmente l'uno dell'altro. Però..." Si alzò per un secondo, il tanto che bastava per girare la sedia verso l'amico. "...cominci tu. O niente."

Scott parve contrariato. "L'idea è stata tua... perché dovrei cominciare io?"

Fergus fu sorpreso dal modo in cui il ragazzo gli tenne testa, ed ammiccò con una scintilla furba negli occhi: "Come vuoi, lasciamo perdere, Scotty..."

"No, no, no... la mia era solo una battuta!"

Fergus scoppiò a ridere. "Sei buffo da morire... allora, confessa un po', peccatore. Che avresti fatto con quella faccia da angelo?"

Scott fece ruotare gli occhi. "Il mio segreto va guardato. Non raccontato. Osserva attentamente ciò che faccio."

Fergus fece un sorriso sghembo di curiosità, allettato dalle sue parole. "Mmmh. Mi farai un trucco di magia o che?"

L'altro ridacchiò. Tese la mano verso il tavolo. Gli utensili ammassati presero a fluttuare in aria lentamente, e raggiunsero vari punti della stanza, prima che Scott richiudesse il pugno e li lasciasse cadere al loro posto. Non sbirciò la reazione del più grande. "E non è tutto... Ryan e Lucinda arriveranno esattamente tra... " Indicò l'orologio al muro. "Dieci minuti e cinquantaquattro secondi. Porteranno frutta e dolcetti e credo anche vino. E... sta per piovere molto forte. E lui dirà 'Oh, siamo sfuggiti alla pioggia per un pelo'..." farfugliò.

Finalmente sollevò il capo e guardò l'amico, il quale era sorprendentemente sereno e impassibile.

"Sei il primo che non mi fissa come se fossi un mostro." disse Scott.

"Mia madre era una strega. Ne ho viste di molto peggiori,"

"Non ti stupisce quasi nulla. Buon per me, perché sono un tipo bizzarro. E non sono uno stregone, sono un sensitivo. Devo ancora capire quante capacità ho, a parte vedere il futuro e smuovere roba."

"Figo." Fergus sentì il cuore palpitare sul petto all'idea di dovergli dire quel segreto tremendo che tanto gli pesava dentro. "Mi auguro che tu non resti troppo scioccato o spaventato da ciò che sto per dirti."

"Cosa!? Il segreto non era il fatto che tua madre fosse una strega?!"

Fergus sbuffò. "Non me ne frega un cazzo di tenere segreto ciò che combinava Rowena con quegli intrugli. Per quanto mi riguarda, spero tanto che l'abbiano presa, quella maledetta bastarda. Se lo merita."

Scott era sconvolto. A quanto pareva, avevano più cose in comune di quanto credesse.

"...comunque... il mio segreto è che..." Sospirò, smettendo di guardare l'altro ragazzo. Ci mise molto a parlare. "Prima che mi cacciassero da casa McDevill... mi sono fatto... scopare da un uomo. E mi è piaciuto."

Dopo mezzo minuto di silenzio tombale, due lacrime scesero dagli occhi di Fergus, il quale fece di tutto per non contrarre il viso. Scott era arrossito completamente, e lo stava fissando ad occhi spalancati. "Ah..."

Fergus sorrise, e si asciugò una guancia. "Non scappare, eh? Non sono tossico."

"Non scappo. Non ho motivi." lo tranquillizzò Scott. Gli posò una mano sulla spalla e lo abbracciò timidamente, lasciando che il più grande poggiasse il capo sulla sua clavicola. "Va tutto bene. Sei il mio migliore amico, ed io ti voglio bene, tantissimo." sussurrò Scott. "Anche se a volte sei cinico... e un pochino stronzo."

Il risolino di Fergus fece tremolare entrambi. "Grazie per il uhm... complimento...?"

"Lo è." Scott si staccò da lui, ed i loro occhi si incontrarono. Le dita di Scott accarezzarono la guancia di Fergus. "Dieci, nove, otto, sette, sei..."

"Che stai-"

"Cinque, quattro, tre, due, uno..."

La porta si aprì, e i ragazzi sentirono qualcuno entrare in corridoio. "Oh! Siamo sfuggiti alla pioggia per un pelo. Indovinate... ho portato i dolcetti, le mandorle, il vino... tanta roba insomma. Bisogna festeggiare - hey, che avete?"

"Wow, sono impressionato." mormorò Fergus a Scott.

Ryan alzò un sopracciglio. "Impressionato?"

"Sì dalla quantità di leccornie che avete portato!" rispose pronto Scott, per mascherare l'imbarazzo del suo amico.

Mangiarono tutta la sera accanto al fuoco del camino, si scambiarono gli ultimi regali a mezzanotte. Si raccontarono fiabe popolari e, per una volta, riuscirono a non pensare a nulla di triste o doloroso.

---

Angolo dell'autrice:
Fuffy wayyyyy! Qualche gioiuzza ed un amico sincero per Fergie ci volevano, alla prossima!

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Capitolo 5
*** V ***


      V                                                                                                        




7 Gennaio 1683


Sembrava che quel dannato bersaglio lo stesse fissando da lontano, con quei disegni concentrici dai colori sgargianti ed il bull. Era l'ultimo round, l'ultimo minuto che aveva a disposizione per vincere. Preparò entrambe le freccette, si concentrò, prese un respiro profondo. Fu incredibile vedere lo scatto contemporaneo delle sue braccia, ma soprattutto, le due freccette conficcate proprio al centro del bersaglio.

Silenzio di stupore, poi due o tre piccoli applausi.

Fergus bevve il resto della sua vodka. "Lo dicevo io che era un fenomeno..." Ammiccò, facendo arrossire Scott che si era stretto nelle spalle.

"...da baraccone." Scott gli fece l'occhiolino, e prese i soldi della scommessa fatta con Louis, un simpaticissimo francese che avevano conosciuto lì, al locale che frequentavano. Durante le rare giornate di libertà, i ragazzi si preparavano un programma per divertirsi, ed il bar dei Molière era una delle mete preferite, oltre al bosco e alla spiaggia non molto distante dal cuore di Edimburgo.

"Sarà meglio andare adesso, farà troppo freddo fra qualche ora per girare a lungo." Fergus prese scherzosamente Scott a braccetto, e fece un cenno sulla porta.

Louis agitò la mano, sistemandosi il basco fra i capelli biondissimi e lisci. "I miei complimenti al gattino, ma la prossima volta sfido te, mon cher Fergus!" commentò, facendo tamburellare le dita sul tavolo.

"Anche la volpe ha un'ottima mira, non ti conviene sfidare neanche me. Au revoir!" rispose lui.

Louis sorrise e fece un gesto di presa in giro, guardando i due finché non uscirono dalla porta che tintinnò.

Fuori il vento sferzava producendo un gran frastuono e facendo volare via la roba stesa di una vecchia signora. Scott ridusse gli occhi a due fessure, ed i capi mezzi asciutti ritornarono al proprio posto, sotto lo sguardo incredulo della nonnina.

"Che eroe." lo canzonò Fergus. "Ma non pensi di essere... un po' disonesto, quando giochi?"

Scott si coprì il capo. "Eh?! Non ho usato poteri dai Molière. Posso realmente prendere la mira in quel modo. Non baro mai alle competizioni, neanche per soldi." replicò, deciso.

Il biondo rise. "Ma non sarebbe mica barare. I poteri fanno parte dei tuoi talenti, di te, e credo tu abbia il diritto di usarli."

Scott fece ruotare gli occhi. "Perché mi accusi di essere disonesto, allora?"

"Si chiama sarcasmo, sciocco." Le labbra di Fergus si piegarono in un sorriso furbetto. "Se fossi io un sensitivo, sai quante ne combinerei?"

"Saresti uno spasso. Cosa ti serve ora, per esempio?" domandò Scott, e diede un calcio ad un sassolino.

"Avere un'idea di come sarà il tempo. Credo di aver bisogno di una bella pioggia... non torrenziale, di quelle leggere che lasciano quel profumo di terra, sai..."

Il moro rifletté, la mano sotto al mento. "Sei fortunato, dovrebbe arrivarne una alle dodici e trenta precise."

Camminarono verso il boschetto per qualche minuto, finché ad un certo punto Scott non si accorse di quanto Fergus fosse impallidito. Aveva anche le labbra bianche, e lo sguardo smarrito. Il più giovane si arrestò.

"Hey... che ti prende?"

L'altro scosse il capo, prendendo dei respiri profondi. "Non... s-sì... è uno di quegli strani... momenti-" farfugliò.

"Ho capito... presto andrà via, su... vuoi che ci fermiamo?"

Fergus si portò una mano alla testa; il cuore gli batteva all'impazzata. "Non capisco, ho paura... di nuovo..."

"È solo paura, ecco. Prova a pensare a questo, io li ho sconfitti proprio così. Cerca di dominare ciò che stai elaborando..."

Entrambi i ragazzi non avevano idea di cosa fossero quelle brutte sensazioni di malessere; non ne avevano fatto parola neanche con i signori Anderson, per quanto questi ultimi si fossero dimostrati comprensivi nei loro confronti. Scott sfiorò il braccio dell'altro, fissandolo mentre andava in iperventilazione, e sentendosi impotente. "Entriamo nel bosco che porta al mare, quel posto ti fa sempre stare meglio. Che ne dici?"

Fergus finalmente lo guardò. "Okay."



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La spiaggia era deserta, la sabbia dorata appena dal sole tiepido. Non tirava un filo di vento lì, stranamente, e non faceva nemmeno troppo freddo. Il mare era calmissimo. Fergus si era ripreso da pochi minuti, ed era rimasto a qualche passo dal bagnasciuga, in piedi, a guardare l'orizzonte senza vederlo davvero.

Scott passeggiava avanti e indietro più vicino all'acqua, tutto coperto ed incappucciato, ed era estremamente tenero. Fergus si sforzò di ricordare che aspetto avesse quel povero ragazzino quattro anni prima. Tentò di pensare a come fossero entrambi. Il più giovane pesava così poco che si poteva facilmente sollevarlo, e taceva per la maggior parte del tempo. Non che ora fosse di molte parole.

Anche Fergus era più magro in precedenza; man mano che passavano gli anni aveva messo qualche muscolo in più grazie alle escursioni che facevano regolarmente. Portava i capelli un po' più corti, ed anche gli ultimi brufoli erano scomparsi. Non era cambiato solo fisicamente, però. Era sempre più nervoso. Aveva una rabbia dentro che lo soffocava e lo accecava di fronte a tutti, e che talvolta lo rendeva quasi cattivo. Soffriva di scatti d'ira apparentemente ingiustificata, urlava per sfogarsi, e se ne pentiva ogni volta che gli capitava per timore di aver ferito le persone a cui voleva bene. Si chiedeva in continuazione da dove provenissero quei comportamenti, quei disturbi di personalità che lo stavano accompagnando nella crescita, e trovò con facilità le risposte alle sue domande. Sua madre aveva abusato di lui. Gliene aveva combinate di tutti i colori quando lui era solo un bambino, per poi abbandonarlo in uno schifoso ospizio pieno di muffa e di gente urlante, nel quale veniva picchiato e abusato ulteriormente. Era fuggito chissà come, aveva patito la fame e gli stenti per strada, ed era stato cacciato via dalla sua nuova casa per aver amato una persona del suo stesso sesso. Ed ora che la serenità sembrava star regnando nella sua vita, quei malesseri stavano rovinando tutto, come una ricaduta da una lunga malattia.

Si sentiva in colpa per comportarsi in quella maniera, e si scusava spesso con Scott perché sapeva che quel ragazzino non meritava di essere trattato male. Sapeva che non meritava i suoi sfoghi, perché il tempo gli aveva permesso di accorgersi di quanto fosse buono. Proprio nel momento in cui questo pensiero stava attraversando la sua mente, Fergus si accorse che Scott lo stava sbirciando. Era piegato sulle ginocchia, ed aveva smesso di giocare con la sabbia.

"Stai bene?"

Il più grande aveva uno sguardo freddo. "No."

Scott si alzò, e si avvicinò di pochino come per abbracciarlo, ma Fergus fece un passo indietro. "Scusa, non ne ho voglia adesso."

"Okay. Ti va di parlarne?"

"No."

Scott annuì, ritirando le mani dentro le tasche. Fergus si accomodò sul masso più vicino a sé, ed appoggiò i gomiti sulle gambe, reggendo il mento sui palmi. Il mare faceva pochissimo rumore, e non riusciva quasi ad attenuare quel silenzio insopportabile.

"Io mi preoccupo per te, lo sai." disse Scott in un mormorio sommesso, ma Fergus non sollevò il capo. "Vorrei solo che tu non stessi così... e vorrei sapere se c'è qualcosa che posso fa-"

"Niente, non puoi fare niente. Fidati." Fergus si rimise in piedi, e marciò in direzione del bosco. "Andiamo..."

Il piccolo abbassò gli occhi, mortificato, e lo seguì. "Ti ho offeso?"

"No, smettila, per favore."

"Va bene..."

Dopo qualche minuto di marcia, il biondo rallentò di poco, e si voltò, aspettando che Scott arrancasse ed arrivasse di fronte a lui. "Perdonami. Prima mi hai ricordato una cosa, dicendomi quella frase... una persona a cui preferisco non pensare... ma non è colpa tua, sono io ad essere impazzito..." Scosse il capo.

"No." Il moro lo prese per mano. "Mi dispiace di averti fatto pensare a qualcosa di brutto. E non sei pazzo." disse, usando il tono più rassicurante del mondo.

Fergus sospirò ancora, lasciandogli la mano. "La colpa non è tua." Lo strinse a sé, e socchiuse gli occhi. Scott rimase inizialmente sorpreso, ma poi ricambiò l'abbraccio, ignorando i bottoni della giacca dell'altro che lo punzecchiavano. "Vorrei solo non essere tanto scorbutico, ma è come se non riuscissi a..."

"Lo so, lo so. Non ti condanno, perché capisco."

"Ma questa non è una scusa valida per trattarti male. Hai sofferto anche tu..."

Scott non rispose più. Rimase solo fra le braccia di Fergus, quasi a farsi cullare. Amava quei momenti in cui si riappacificavano, anche dopo la lite più stupida; amava poggiare la testa al suo petto ed ascoltare il suo battito. E non sapeva bene il perché; non voleva saperlo. "Credo di avere una canzone nuova in testa da oggi." sussurrò.

"Cantamela un po'."

Il più giovane sospirò. "If you ever find yourself stuck in the middle of the sea, I'll sail the world... to find you... If you ever find yourself lost in the dark and you can't see, I'll be the light to guide you. Find out what we're made of... when we are called to help our friends in need. You can count on me like one two three, I'll be there..."

"Ma come ti vengono?" domandò Fergus, divertito.

"Le sogno la notte. Questa è una canzone del futuro che si chiama 'Count on me', e parla di un ragazzo che farebbe di tutto per il suo migliore amico. L'artista si chiamerà Peter, ma la gente lo conoscerà con un altro nome."

"... non sarà che te le inventi queste storie?"

"No!" Scott rise. "Le sogno sul serio, più volte, e me le ricordo. Non so come io faccia a prevedere cose così future. Sento che questa canzone è lontana... ma proprio lontanissima..."

"Quanto?"

"Tre secoli, più o meno... ti piace?"

"Caspita... comunque sì, è molto carina."

"Adesso però andiamo... è tardi e non manca molto per la pioggia." disse Scott, e si staccò da Fergus, sorridendogli. Gli diede una pacchetta sulla spalla, e si incamminò, continuando a canticchiare quella canzone.

Di colpo, però, si girò di scatto. "Fermo! Stai lì!"

"Che succede?"

"Non ti muov-"

Un colpo secco spezzò il silenzio di quel bosco, ed una quantità inverosimile di animali fuggì lontano dalla radura.

Quando Fergus lo vide stramazzare a terra, inizialmente rimase immobile, pietrificato. Poi scattò in una corsa fulminea, spargendo a destra e manca le foglie sotto i suoi piedi. "Scott!"

Il ragazzino cercava di muovere un braccio. C'era sangue sotto di lui. Sangue ovunque.

Il biondo si gettò quasi sulle ginocchia. "Dove-"

"Fa troppo male." rantolò il piccolo, portando una mano al ventre. "Sto morendo. Vattene, scappa, vattene..."

Un'ombra si stava avvicinando dietro il più grande che si voltò, il viso pallido per lo spavento. Un uomo scuro e minaccioso teneva un'arma da fuoco in mano. In uno scatto d'ira, Fergus si alzò in piedi, aggredendolo. "Stai lontano da lui, vigliacco!"

L'uomo tentò di scansarlo con violenza, ma una seconda voce urlò a qualche metro da loro: "Ketch, non ti avvicinare! È pericolo-"

Poco prima che l'altro cacciatore potesse avvertirlo, in un nanosecondo l'uomo venne scaraventato contro un albero e perse i sensi. Fergus lanciò uno sguardo a Scott, che richiuse gli occhi allo stremo delle forze. La telecinesi era difficile da usare in quelle condizioni.

Il secondo uomo corse nella loro direzione, preparandosi a sparare un altro colpo, ma Fergus si avventò contro di lui. Non era la prima volta che picchiava qualcuno. Quest'ultimo era meno abile del precedente e dopo qualche minuto di lotta, Fergus riuscì ad atterrarlo. Gli venne un'idea improvvisa.

"Age nunc intellectum. Age nunc intellectum atque voluntatem omnem meam." recitò, quasi urlando. In poco tempo, il cacciatore morì, schizzando sangue dalle orecchie.

Un orribile fremito invase il corpo di Fergus. Era la prima persona che uccideva, il suo primo assassinio, ma non aveva tempo per pensarci.

Si rialzò e tornò da Scott, che sanguinava copiosamente dall'addome. "Chiamerò aiuto. Non ti preoccupare, non morirai. Non morirai... tu-"

"No no no... fermo dove sei..." Scott gli toccò il braccio. "Fermo."

Fergus tremava mentre apriva frettolosamente il fagotto.

"Sto morendo..."

Fergus fissò quel viso pallido che sudava freddo. "Ed io farò il possibile affinché non accada." disse, risoluto.

"È inutile, fidati. Stai con me... voglio solo che tu stia qui con me... non durerò." mormorò l'altro, fra un lamento e l'altro.

Il più grande si coprì la fronte con una mano. "Ma... perché non l'hai previsto... perché? E chi diamine sono quelli...?" La voce di Fergus si incrinò orribilmente.

"Non lo so... m-mai visti..."

Fergus si tolse velocemente i vestiti che aveva di sopra, restando a petto nudo. Gli posò qualcosa sotto il capo, con delicatezza, ed usò il resto degli indumenti per tentare di fermare l'emorragia.

"Sei matto, ti becchi una polmonite con questo freddo."

"Zitto." Fergus parve volerlo prendere per mano, ma gli diede semplicemente un altro sacchetto. "Questo attenua il dolore."

Improvvisamente, la ferita di Scott smise di bruciare così forte, ed il ragazzino rilassò i muscoli del viso. Fergus non smise di tenergli la mano. "Tua madre te ne ha insegnate di cose..."

"Oltre a cercare di vendermi, già."

Rimasero a guardarsi per un lasso di tempo indeterminato. "Mi dispiace." disse Scott.

Fergus sembrò perplesso, nel mentre piangeva in silenzio. "Per...?"

"Perché non ti ho mai detto una cosa troppo importante. È che non è facile per me, e neanche io in realtà so il perché di ciò che è successo. Avevo paura... di come mi avresti guardato... se ti avessi detto la verità. Se ti avessi-"

Fergus sorrise lievemente, e si asciugò gli occhi con la mano libera. "Credo di sapere, dai, l'avevo capito, smettila. Va tutto bene." disse, e per un istante tutto tornò alla normalità.

Ma Scott fece no con la testa. "No no... non hai capito invece."

L'altro parve interdetto. "Eh?"

"Non è quel che credi, anche se..."

Fergus era sempre più confuso. Sbatté le ciglia, gli occhi a fessura.

"Ti ricordi quando il primo giorno che ti ho incontrato a casa di Ryan... ti ho detto che credevo di averti già visto?"

"No..."

"E quando mai? Non ti ricordi nulla tu."

Fergus emise un risolino che parve più un singhiozzo.

L'altro ricambiò il sorriso, e gli accarezzò la guancia. "Il fatto è che io ti avevo riconosciuto, ma tu no, perché... perché quando ci siamo davvero conosciuti la prima volta, io non avevo questo aspetto."

"E che aspetto avevi?"

Fergus compresse dolcemente la ferita, come se avesse rischiato di fargli provare dolore dopo quell'incantesimo.

"Quando sono nato... credo di aver combinato un casino. I miei poteri, forse, non so. Devo aver fatto succedere qualcosa di brutto. Sono pieno di memorie represse sulla mia infanzia. E quindi, chi mi stava crescendo pensò bene di trasformarmi in un animale."

"No..." Fergus sentì il sangue andare in testa per lo sconvolgimento. "No..."

"...sì..." replicò il ragazzino. "Ma poi mi sono liberato dalla gabbia, ho volato e volato fino a raggiungere una città... ed ho visto un bambino che giocava col suo aquilone..."

"...oddio..."

"Mi piaceva giocare con te, sai..."

"Ma che stai dicendo...?" Fergus guardò quella testa nera arruffata sotto di sé, quegli occhi chiari e inondati, le guance un po' sporche. Non poteva crederci. Non poteva davvero.

"Quella pozione era un antidoto a qualunque incantesimo. Ho riacquistato il linguaggio e poche ore dopo sono tornato umano. Allora ero molto piccolo. Sono io. Crowley. Mi avevi chiamato così, ricordi?"

Fergus annuì. "Certo." Gli accarezzò la fronte più volte, e Scott socchiuse gli occhi. "Tu sei... quello che mi ha salvato la vita, io non sono riuscito a salvarla a te... "

"Ma vuoi scherzare? Eccome se l'hai fatto. I momenti migliori della mia vita... li ho avuti con te. Sono gli unici ricordi che ho mai voluto conservare nella memoria. Non sentirti in colpa solo perché non hai evitato che-" Si toccò il ventre. "Non potevi."

"Quanto ti resta?"

"Due minuti..."

"Okay... o-okay. Cosa ricordi di me da bambino?"

"Oh, mi ricordo tutto. Il tuo faccino buffo, i tuoi vestiti, i tuoi giochi, il mulino... tutto. Anche le caramelle. Ti piacciono ancora?"

"Quelle caramelle. Sì..."

"E mi ricordo soprattutto di una cosa... che non hai mai ricevuto tutto l'amore che meritavi, e... sappi che te lo meriti, capito? Tu meriti di essere amato, e non pensare mai il contrario, mai. Giurami che te lo ricorderai sempre..." La voce di Scott pareva spegnersi secondo dopo secondo.

Le parole del ragazzo risuonavano nella mente schiantata di Fergus. Meriti di essere amato. Non pensare mai il contrario.

Scott iniziò a socchiudere le palpebre. E come un lampo, visualizzò una scena di fronte a sé. Tutto si muoveva al rallentatore; i suoni e le voci rimbombavano, producendo un eco. C'era un uomo vestito di nero legato ad una sedia, con delle manette che gli circondavano i polsi. Aveva un'aria distrutta, ed un po' di sangue accanto alle labbra ed al naso, come se qualcuno lo avesse appena preso a pugni. Ed urlava a squarciagola: "Anche noi - tu, ed io - meritiamo di essere amati, io merito di essere amato! Io voglio essere amato..."

La visione scomparve, e Scott riaprì gli occhi come uno scatto.

"Fa di nuovo male? Che ti succede?" chiese Fergus, con premura nella voce.

Il moro lo guardò, ed allungò il braccio fino a toccargli la spalla. "No. Nulla... solo, vieni qui..."

Fergus annuì, e si sdraiò lentamente accanto al piccolo, poggiando il naso sulla sua spalla e lasciando che l'altro lo stringesse a sé. "Merito di essere amato. Me ne ricorderò."

"Lo so."

Erano le dodici e mezza, ormai. La pioggia iniziò a scendere piano piano, come era stato previsto. La prima goccia cadde sulla fronte del ragazzino, il cui battito cardiaco si fermò un istante dopo.


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Angolo di Feathers: Volevo risparmiarmi questo capitolo all'inizio, ma poi ho deciso di farmi uccidere dai lettori *sends virtual hugs*

Note:
1)So molto bene quanto gli abusi (sia psicologici che fisici) possano influire sulla vita ed il comportamento di una persona, e ho fatto in modo di manifestare qualche effetto su Fergus, dato che mi sembrava corretto farlo;

2)Gli uomini che hanno ucciso Scott non sono altro che British Men of Letters in cerca di noi poveri *coff* sensitivi innocenti dal XVI secolo, (e quel Ketch, ovviamente, è un antenato del nostro caro Arthur Ketch);

3) Per quanto riguarda il soprannome "il gatto e la volpe", tranquilli, non è un errore (!) anche se Collodi ha scritto Pinocchio molto più tardi. Saprete perché leggendo i prossimi capitoli. Kisses *si rinchiude*

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