I ragazzi della 5 A

di effe_95
(/viewuser.php?uid=89681)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Tatuaggi, Orologi ed Ex ***
Capitolo 2: *** Virgilio, Esame di Maturità, e Biondi Ribelli ***
Capitolo 3: *** Cugini fastidiosi, Professori distratti e Brutti incontri ***
Capitolo 4: *** Tradimenti, Segreti e Amici insistenti ***
Capitolo 5: *** Progetti di scienze, Succo alla pera e Cadute ***
Capitolo 6: *** Racchia rompiballe, Sorprese e Sei e mezzo. ***
Capitolo 7: *** Amore forse?, Pallonate e Spaventi. ***
Capitolo 8: *** Olimpo, Dioniso e Insalate. ***
Capitolo 9: *** A voce troppo alta, Distrazioni e Registrazioni. ***
Capitolo 10: *** Katerina, Rivelazioni shock e Cuore in subbuglio. ***
Capitolo 11: *** Nervosismo, Sarebbe stato un peccato e Che ragazza strana ***
Capitolo 12: *** Spaventata, E’ troppo tardi? e Perché sono uno stronzo. ***
Capitolo 13: *** Biglietti del cinema, Mi farebbe piacere e Teatro. ***
Capitolo 14: *** Sensi di colpa, Cantare e Basket ***
Capitolo 15: *** Film, Pizza e Cioccolata ***
Capitolo 16: *** Tirare la corda, Innamorata e Senza pietà ***
Capitolo 17: *** Con il cuore, Una sciocchezza e Matematica. ***
Capitolo 18: *** Vero, Pigiama a pois e Alley-oop ***
Capitolo 19: *** Vorrei, Braccialetto e Power forward. ***
Capitolo 20: *** Falsa, No e Diversa. ***
Capitolo 21: *** Do ut des, Non ci cascherò e Phon. ***
Capitolo 22: *** Patatine, Sviste e Un passo alla volta. ***
Capitolo 23: *** Calzamaglie, Sala Studio e Catena di sicurezza. ***
Capitolo 24: *** Dolci, Pivelli e Non è Giulietta ***
Capitolo 25: *** Appunti, Rabbia e Calore ***
Capitolo 26: *** Luca, Graffe calde ripiene di nutella e Cambio d’orario ***
Capitolo 27: *** Silenzio, Sogni d’oro e Palestra. ***
Capitolo 28: *** Va e non voltarti indietro, Adesso sto bene e Say something. ***
Capitolo 29: *** Non torni più indietro, Sono stanco e Puoi guardarmi negli occhi. ***
Capitolo 30: *** Il Tronchetto di Natale, Il posto più improbabile e Ti perdono. ***
Capitolo 31: *** One-on-one, Scivolate e Ricotta. ***
Capitolo 32: *** Frammenti, Coppette di frittura di pesce e Sono pronta. ***
Capitolo 33: *** Pandoro e Champagne, Cambiare idea e Conto alla rovescia. ***
Capitolo 34: *** Quindici versioni di greco, Stupido vendicativo e Vuoto assoluto. ***
Capitolo 35: *** Solo per un po’, Pensavo tu fossi triste e Egoista ***
Capitolo 36: *** Spogliatoi, Ha resistito e Collera ***
Capitolo 37: *** Congestione, Videocassette e Per incontrare me ***
Capitolo 38: *** Puoi farlo?, “I” e Brava. ***
Capitolo 39: *** Tancredi e Clorinda, Linea e Atto di fede. ***
Capitolo 40: *** Lo rispetterò, Benedizione e Cicatrice. ***
Capitolo 41: *** Bagno, Correre e Finestra. ***
Capitolo 42: *** Pattinaggio, Rimpianto e Opprimente. ***
Capitolo 43: *** Fiera di te, Mi dispiace e Con calma. ***
Capitolo 44: *** Precocemente, Forte e La vicina di Lisandro. ***
Capitolo 45: *** Sconosciuta, Gesso e Guerriero. ***
Capitolo 46: *** Chi manca?, Questo filo … e Specchio specchio. ***
Capitolo 47: *** Nello stesso modo, Se tu sei felice e Buh! ***
Capitolo 48: *** Mi vedo con te, Simone e Presto. ***
Capitolo 49: *** Che sollievo, Anima e L’ultima cosa nella vita. ***
Capitolo 50: *** Pietosamente, Ghiaccio e Non lo farà ***
Capitolo 51: *** La direzione opposta, Il mio migliore amico e Creta. ***
Capitolo 52: *** E la punizione?, Mancanza e Partenza. ***
Capitolo 53: *** Ceretta, Mutante e Clessidra ***
Capitolo 54: *** Vergogna, Cd e L’ottava. ***
Capitolo 55: *** La persona migliore del mondo, Accidenti! e Cancrena. ***
Capitolo 56: *** A diventare grande, Le mie gambe e Tutto ricomincia. ***
Capitolo 57: *** Non scapperò più, Posso comprarti? e Provvidenziale. ***
Capitolo 58: *** Cresciuto, Arrivo e Cespuglio ***
Capitolo 59: *** Sottopelle, La misura del suo amore e Avvenire. ***
Capitolo 60: *** La cosa più preziosa, Pancake con il sale e Farò. ***
Capitolo 61: *** Trottola, Mio figlio e Proviamo. ***
Capitolo 62: *** Pioggia, Questo cortile e Inizio. ***
Capitolo 63: *** Frazione di secondo, Proprio nessuno e Quanta strada. ***
Capitolo 64: *** Sparta e Roma, I migliori e Quell’ ultima volta. ***
Capitolo 65: *** Coltivare un fiore, Germoglio del cemento e Caro Cristiano. ***
Capitolo 66: *** L’incedere del tempo, Come uccelli che migrano e Per sempre . ***



Capitolo 1
*** Tatuaggi, Orologi ed Ex ***


I ragazzi della 5 A
 
1.Tatuaggi, Orologi ed Ex.
 
Settembre
 
<< Andiamo! Andiamo, muoviti! >>
Giasone Morelli osservava l’autobus arrancare lentamente sulla strada, stridere a ogni spostamento e sbuffare come un vecchio brontolone, con aria apprensiva.
Era da cinque anni che prendeva quell’affare e ogni volta era sempre la stessa storia.
<< Avanti vecchio affare, muoviti. Non posso arrivare tardi il primo giorno di scuola! >>
Mormorò il ragazzo tra i denti, agitandosi sul posto come se avesse qualcosa nei pantaloni, cosa assai strana, data la brutta abitudine che aveva di usare i jeans più stretti del mondo.
L’autobus arrancò faticosamente e poi arrivò aprendo rumorosamente le porte, prima di salire del tutto, Giasone lasciò una pacca affettuosa all’aggeggio, poi spintonò un po’ di gente ed entrò tra gli insulti.
Timbrò il biglietto e si andò a sedere in fondo a tutto, accanto al finestrino.
L’unico vantaggio che aveva nel prendere quel rottame, era la possibilità di trovare sempre un posto libero dove sedersi.
Estrasse l’iPod con estrema soddisfazione, ma non appena fece per mettere una cuffietta nell’orecchio, il cellulare cominciò a tremare nella tasca del giubbotto.
Giasone lo estrasse con un certo fastidio e lanciò un’occhiata al display dove figurava la scritta:“ Ivan il Terribile”,  nomignolo che aveva dato al suo migliore amico e compagno di banco dal primo anno del liceo, un ragazzo così pallido da sembrare un fantasma, dai taglienti occhi verdi, i capelli neri come la pece e le braccia piene di tatuaggi.
<< Stavo per sentire la musica, sai?! Sei un rompicoglioni! >> Esclamò non appena ebbe portato il cellulare all’orecchio, la signora seduta davanti a lui lo fissò indignata, ma non aveva mica detto una vera parolaccia!
<< Oh davvero? Che canzone? Muse, Green Day o rock pesante? >>
<< Lasciamo perdere! Sei già a scuola Ivan Ettore Ricci ? >>
Giasone lanciò un’occhiata distratta alla strada fuori l’autobus, e sospirò dal sollievo quando si accorse che mancavano ancora parecchie fermate a quella della scuola.
<< Nah, pensavo di entrare in seconda ora, sai? >> La voce noncurante dell’amico lo fece grugnire, ogni anno era sempre la stessa storia.
<< Non dire cagate Ivan! Non puoi entrare in seconda ora il primo giorno di scuola! L’anno scorso ti hanno promosso per un pelo! >> Ivan sbadigliò sfacciatamente dall’altro lato del telefono e Giasone trattene sulle lingua l’insulto che stava per partire. << Sto uscendo adesso di casa, cinque minuti e sono all’inferno anch’ io. Ah, ricordati che oggi pomeriggio devi accompagnarmi in quel posto! >>
Giasone sentì il rumore di chiavi, e poi quello di una porta che si apriva e si richiudeva, almeno non aveva detto una balla, sospirò afflitto e sistemò con difficoltà l’iPod nella tasca del giubbotto.
<< Sul serio?! Ma non hai più posto sulle braccia! >> Ivan ridacchiò fastidiosamente.
<< Infatti lo farò sulla spalla! Dai, sono sempre andato con te >>
Giasone alzò gli occhi al cielo e sorrise, in effetti non aveva torto.
Ricordavano sempre con simpatia quel giorno, era appena cominciato il terzo anno di liceo e avevano detto la bugia più grossa della loro vita.
Tutti erano convinti che sarebbero rimasti a scuola a studiare, mentre invece andavano a farsi un bel tatuaggio, il primo in assoluto. Giasone ricordava che si erano tenuti per mano entrando in quel posto così ostile. Ivan era stato il primo a provare, dei due era quello più eccitato e anche il promotore dell’idea, si era fatto tatuare una frase strana lungo tutto l’avambraccio e non aveva fiatato nemmeno una volta, poi era arrivato il suo turno, un piccolo quadrifoglio sul polso sinistro.Giasone aveva gridato così tanto che tutte le volte successive passate in quello stesso luogo, si era limitato a fare da spettatore.
E anche in quel momento, l’unico tatuaggio che adornava il suo corpo era quel piccolo quadrifoglio.
<< E cosa vorresti farti tatuare questa volta? >> Domandò Giasone passandosi una mano tra i corti capelli biondi come il miele, aveva ancora sulle labbra il sorriso causato dal ricordo. << L’iniziale del suo nome ovviamente! Stronzo! Guarda dove cazzo vai! >>
La dolcezza della sua voce nella parte iniziale della frase e il modo animalesco e brusco con cui la concluse, lasciarono Giasone perplesso e ammirato.
Italia Sveva Parisi.
Il tormento e il sogno di Ivan, quella ragazza dai lunghi capelli color caramello e gli occhi più neri della notte. In realtà Giasone non sapeva cosa ci trovasse in lei, era bassa, minuta e ti guardava come se volesse scrutarti attraverso quei suoi occhiali enormi.
Era dal primo anno del liceo che Ivan aveva una fissa per quella tipa, la secchiona della classe.
<< Quel deficiente non sa guidare! >> Commentò Ivan arrabbiato per telefono, Giasone trattenne una risata e pregò che l’amico non distruggesse il motorino. << Beh, fai un po’ come ti pare con quel tatuaggio, basta che quest’anno Italia passi all’esame, del resto me ne sbatto. Sono arrivato, ci vediamo li >> Giasone balzò in piedi e scese dall’autobus vecchio giusto un secondo prima che chiudesse le porte, guardando con aria afflitta l’enorme edificio dalle pareti rosse che si stagliava di fronte a lui. << Viene anche Oscar comunque. Oh, sono arrivato anche io >> Non appena Ivan pronunciò quelle parole, Giasone sentì l’avvicinarsi di un motorino e i due si ritrovarono uno accanto all’altro davanti l’entrata della scuola.
Risero come due stupidi e andarono insieme a parcheggiare la moto.
Contemporaneamente, una ragazza dalla lunga traccia nera, i grossi occhiali che scivolavano continuamente sul piccolo naso, le folte sopracciglia nere contratte, gli occhi azzurri e i jeans sformati, correva ossessivamente per i corridoi facendo cadere continuamente la cartella di pezza tutta rovinata. Catena Greco era fatta così, distratta, sbadata, sbagliava sempre a impostare gli orologi e dimenticava gli orari degli appuntamenti.
Come quella mattina.
Entrò di corsa nel teatro della scuola facendo sbattere pericolosamente le porte e rimase di sasso quando lo trovò vuoto a eccezione di alcuni professori, che discutevano e sistemavano delle cose. Catena controllò ripetutamente l’orologio che aveva al polso, segnava le 8:45, tardissimo! Com’era possibile che in teatro non ci fosse nessuno? L’appuntamento per quella mattina era alle 8:20 davanti al teatro, non era in super ritardo?
<< Catena? Cosa ci fai qui? >> La ragazza distratta sollevò i suoi grandi occhi azzurri su un uomo dai capelli biondi come l’oro, gli occhi verdi e un viso squadrato.
Costantino Riva, il loro professore di Greco e Latino dal terzo anno di liceo.
<< Ah, salve prof., non sono maledettamente in ritardo? >> Commentò l’alunna affannata, mostrando ripetutamente l’orologio al professore accigliato, l’uomo ascoltò l’allieva con fare perplesso, poi con una mano gli mostrò la stanza completamente vuota.
<< Catena Greco, a volte sono perplesso sul fatto che tu sia una delle mie migliori alunne…>> Il giovane professore sollevò l’indice e lo puntò verso l’orologio in alto sulla parete che segnava le 8:00 precise, Catena si portò una mano sulla fronte e imprecò in silenzio, poi guardò il professore con aria mortificata. << A dopo, è stato un piacere rivederti Catena >> Commentò l’uomo con un sorriso divertito sulle labbra, per l’imbarazzo, la ragazza schizzò fuori dal teatro con una tale foga che andò a sbattere, letteralmente, contro il petto duro, durissimo, di qualcuno.
<< Catena? Ti sei fatta male? >> La mora sollevò dolorante gli occhi chiari, tenendo saldamente una mano sul naso arrossato, stava lacrimando sfacciatamente e gli occhiali le erano scivolati del tutto sotto gli occhi.
Chi le aveva rivolto la parola, era un ragazzo altro e magro con occhi taglienti, marroni e profondi, i capelli castani rasati sulla nuca e lunghi sul davanti, due sopracciglia finissime e labbra carnose. Oscar Sartori, il ragazzo che era arrivato nella loro classe l’anno precedente e per cui lei moriva letteralmente.
 << Catena? Ti senti bene? >> Domandò ancora una volta il giovane, poggiandole le mani sulle spalle.
Catena arrossì, pensando a mille cose contemporaneamente, che Oscar le aveva toccato le spalle, che gli era finita con il naso sul petto e che in quel momento era sicuramente orribile, più di quanto già non lo fosse.
<< Si, sto bene! >> Balbettò chinandosi per raccogliere goffamente la cartella che le era caduta a terra ancora una volta, la centesima quella mattina, Oscar la scrutò con un sopracciglio alzato e un pallido sorriso sulle labbra carnose, era un po’ perplesso.
 << Beh, quest’estate non ti sei fatta sentire sul gruppo di classe, ci siamo visti parecchie volte … >> Oscar si interruppe lentamente, osservando con fare critico Catena contorcersi per cercare di infilarsi la cartella a tracolla.
<< Vuoi una mano? >> Propose il castano allungando il braccio.
<< No! No … faccio da sola. >> Strillò lei isterica, Oscar ritrasse subito il braccio come se si fosse scottato, Catena arrossì sempre di più e alla fine, con uno sforzo immane, riuscì ad infilarsi quell’affare sulla spalla, doveva essere ridicola in quel momento, ma non appena Oscar aveva ammesso di aver pensato a lei durante le vacanze era uscita di senno.
<< Ok … allora ci vediamo in classe >> Disse il ragazzo scrutandola perplesso, Catena si aggiustò velocemente gli occhiali e sospirò afflitta, vedendolo allontanarsi verso l’atrio della scuola. << Ah, Oscar! Non ho risposto perché mi è finito il cellulare in mare! >>
Il castano si girò e le rivolse un sorriso strano, mentre lei ancora si chiedeva dove avesse trovato il coraggio per rivolgersi a lui così apertamente.
Mentre Catena ancora si sventolava con la mano per riprendersi da quella serie infinita di figuracce, e si incamminava lentamente anche lei nell’atrio per raggiungere il posto di ritrovo della 5 A, Telemaco Villa e Igor Testa salivano affannosamente sulla metropolitana.
Il primo respirò esageratamente quando le porte si chiusero alle sue spalle e il mezzo partì con molta lentezza, alcuni riccioli biondi gli caddero davanti agli occhi quando si piegò in avanti con un terribile dolore alla milza causato dalla corsa frenetica.
Il cappuccio della felpa sembrava quasi soffocarlo.
<< Cavolo! >> Commentò il riccio aggrappandosi come un disperato alla sbarra di ferro.
<< Tutta colpa tua che ti sei svegliato tardi >>
Telemaco puntò i suoi grandi occhi grigi sull’accompagnatore, il suo migliore amico dalle medie e compagno di classe.
Igor Testa era un ragazzo molto strano, si era appoggiato con la schiena sulla parete vuota e aveva già tirato fuori il suo libro di lettura, ne leggeva uno al mese e non sembrava affaticato per niente.
Lui e  Telemaco erano come il fuoco e il ghiaccio in tutto, a cominciare dall’aspetto fisico. Igor era basso, esile come un fuscello, aveva i capelli più neri della pece e scombinati come non mai, gli occhi verdi e sottili risaltavano poco, era tutto quello che una ragazza non avrebbe mai notato. Telemaco era alto e muscoloso, aveva i capelli ricci e biondi, gli occhi grigi, era una bella presenza, tutto quello che notavano le ragazze.
Eppure erano diventati amici subito, quasi per uno scherzo del destino.
Erano capitati vicini di banco in prima media e non si erano più separati.
Uno era riflessivo e l’altro impulsivo, uno era calmo e l’altro agitato, erano agli antipodi, ma si completavano.
Nessuno li capiva.
<< Grazie tante amico dei miei stivali! Ce la faremo mai per le 8:20? >> Domandò Telemaco, lanciando un’occhiata all’orologio da polso, Igor spostò lo sguardo dal libro e lo fissò.
 << Vorrei farti presente che mi sono presentato sotto casa tua alle 7:30, e ho dovuto aspettare venti minuti perché tu scendessi, quindi sarai tu l’amico dei miei stivali! Comunque, sono che 8: 07, mancano ancora due fermate e cinque minuti a piedi, se facciamo una corsa micidiale, arriveremo per il rotto della cuffia >> Dichiarò acido il moro scrutando con un cipiglio disgustato il migliore amico, ancora rosso in faccia e stralunato, Telemaco alzò gli occhi al cielo e lo spintonò con leggerezza. << Quest’anno voglio il posto accanto alla finestra in terza fila, l’anno scorso ce lo siamo fatto tutto in prima fila ed è stato un inferno, non lo permetterò più! >> Bofonchiò il biondo sollevando le sopracciglia con aria severa, i due si guardarono per un po’ negli occhi, poi scoppiarono a ridere come due idioti, attirando gli sguardi delle poche persone che occupavano il vagone. << Ma come Telemaco, la professoressa Cattaneo sentirà la tua mancanza >> Lo stuzzicò Igor, facendogli tornare in mente quante volte l’anno precedente la professoressa di Italiano l’aveva interrogato e rimproverato, Telemaco rabbrividì.
<< Speriamo che italiano non esca esterno alla maturità >> E si fece il segno della croce.
<< Beh, più che altro c’è un’altra questione che mi preme. >> Telemaco guardò il migliore amico con interesse << Come farai con Fiorenza? Ci hai pensato? >>
Fiorenza D’Angelo era l’ex fidanzata del biondo, si erano messi insieme il terzo anno del liceo dopo i primi due di litigi e situazioni assurde, per poi lasciarsi l’estate del quarto, esattamente un mese prima dell’inizio della scuola. Telemaco sbuffò e si portò le mani nelle tasche della felpa multicolore. << Non lo so, credo proprio che la ignorerò, lei è quell’idiota di Cristiano Serra! >> La conversazione cadde lì, Igor tornò a leggere il suo tomo, ma contemporaneamente non poteva fare a meno di lanciare delle occhiate di sottecchi all’amico, no, a Telemaco non era proprio andato giù quel tradimento.
Finalmente il treno arrivò alla fermata destinata, i due amici scesero come una furia e fecero tutte le scale di corsa, riversandosi sulla strada come criminali inseguiti dalla polizia, riuscirono ad arrivare a scuola che l’orologio segnava le 8:17.
L’atrio era già invaso dagli altri componenti della 5 A, pronti ad iniziare l’ultimo anno di liceo insieme.


__________________________________________
Effe_95

Buonasera a tutti.
Se siete arrivati fino alle note, vi ringrazio innanzi tutto per aver letto questo capitolo, e spero in secondo luogo che vi sia piaciuto.
Mi sono presa un po' di tempo per pubbicare questa storia, perchè il tutto è partito principalmente come un esperimento, e siccome devo gestire una gamma piuttosto alta di personaggi, avevo bisogno di organizzarmi.
In questi primi capitoli mi limiterò semplicemente a presentare tutti i ragazzi della 5A, e con loro alcuni dei fattori che poi costituairanno la trama. Ci tenevo a dire, proprio all'inizio della storia, per evitare equivoci in seguito, che due ragazzi, Aleksej Ivanov e Gabriele Rossi (che compariranno più avanti), sono già presenti in un'altra mia storia, ma non sarà necessario leggerla ( se volete mi fa piacere naturalemente), io farò sempre in modo che sia tutto chiaro. Spiegherò sempre tutto.
Detto questo, spero che la storia abbia attirato la vostra attenzioe, spero vi piaccia, e spero di non deludervi troppo.
Questo è più un eseprimento per me, spero vada a buon fine.
Grazie mille,  al prossimo capitolo spero. 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Virgilio, Esame di Maturità, e Biondi Ribelli ***


I ragazzi della 5 A
 
2.Virgilio, Esame di Maturità, e Biondi Ribelli.
 
Settembre
 
Fiorenza D’Angelo respirava affannosamente e continuava a giocare con le dita, lanciando sguardi ansiosi alla porta dell’atrio, i suoi occhi neri balzavano da una parte all’altra con una velocità impressionante. Non riusciva a capire perché Telemaco ci mettesse così tanto tempo ad arrivare, solitamente era puntuale, forse non voleva vederla affatto? Non voleva nemmeno più guardarla? A quel punto, l’ansia iniziò a triplicarsi, e la giovane cominciò a tormentarsi i capelli corti e ramati, tagliati un po’ a caso in un’acconciatura ribelle.
Il viso pieno di lentiggini era solcato dalla preoccupazione, che stava cominciando a divorarla, ciò che era successo quell’estate, era stato tutto un malinteso enorme.
Fiorenza non vedeva l’ora di poter chiarire tutto e tornare con Telemaco, ma il biondo era diventato sfuggente. << Ehi, Fiore, se continui così perderai tutti i capelli >>
<< Ma perché non arriva? >> Domandò la ragazza dai capelli ramati alla sua migliore amica, Zoe Bassi, una sparuta giovane dal fisico esile, grandi occhi marroni, lunghissimi capelli biondi come il miele e labbra carnose.
<< Verrà di sicuro, sta calma! Avrà fatto un po’ di ritardo >> Commentò Zoe incrociando le braccia al petto, Fiorenza sbuffò pesantemente e appoggiò la schiena sulla parete appena ridipinta dell’atrio, quella accanto alla bacheca.
E fu in quell’esatto momento che Telemaco e Igor fecero ingresso nell’atrio, un po’ trafelati e affannati, ma con un bel sorriso sulle labbra.
Fiorenza saltò dal muro come una molla, ma le fu del tutto impossibile provare ad avvicinarsi, perché i due vennero accerchiati da tutti gli altri componenti della classe che li salutavano affettuosamente.
<< Igor! Che ci fai con quel libro in mano? Non è nemmeno cominciata la scuola! >>
Saltò su Zosimo Martino, la mascotte della 5 A, un ragazzo dai tratti fiabeschi, aveva le orecchie leggermente a sventola, i capelli mossi e neri come il carbone, gli occhi marroni che scrutavano sempre tutto con aria allegra, in classe era soprannominato “ Il folletto” perché quando rideva o parlava, o faceva qualunque altra cosa, sembrava essere uscito dal mondo delle favole. Sfilò con aria allegra il libro dalle mani di Igor e lo scrutò con aria pensierosa.
<< Ehi Enea, Igor sta leggendo il libro di un tizio che ha scritto su di te! >>
Commentò Zosimo, il diretto interessato, Enea Colombo, interruppe la conversazione nel quale era immerso, e spostò lo sguardo sul folletto con aria perplessa.
Enea era, attualmente, il ragazzo più bello di tutto il liceo.
Aveva i capelli con un taglio moderno, di un castano che andava molto sul biondo, gli occhi erano di un azzurro che si perdeva nel grigio, e il fisico prometteva solo bene.
Igor Testa tossì leggermente con il pugno sulla bocca, e con la calma per cui si contraddistingueva, riprese il libro.
<< Il tizio in questione sarebbe Virgilio. Colui che ha scritto l’Eneide >>
Quando Igor parlava, tutti tacevano, e anche quella volta accadde la stessa cosa.
<< Sai, Igor, non credo che Zosimo ricordi chi sia Virgilio >>
Commentò Enea, quello attuale, con un sorriso strano dipinto sulla faccia.
Quel teatrino comico-tragico venne interrotto dalla comparsa nell’atrio di Azzurra Lombardi, la preside dell’istituto, una donna sulla cinquantina che indossava sempre completi coloratissimi stile anni cinquanta- sessanta.
Era una donna allegra dai capelli bianchi tagliati in un caschetto perfetto, gli occhi azzurrissimi e le labbra sempre accompagnate dal rossetto rosso.
<< Buongiorno miei baldi giovani! Siete tutti attesi in teatro >>
Esclamò con voce squillante, indicando con la mano il corridoio che conduceva al teatro.
I ragazzi si mossero tutti contemporaneamente e senza nessun tipo di fretta.
Quando giunsero in teatro, le porte erano spalancate e tutti i professori sedevano dietro una lunga tavolata improvvisata. La 5 A occupò i primi posti sotto consiglio della preside, che con passo allegro andò ad accomodarsi accanto a tutti gli altri insegnanti.
<< Ecco, adesso ci faranno il solito discorso sull’ultimo anno, vero? >> Bisbigliò Giasone, dando una gomitata nel fianco dell’amico, Ivan lo guardò in cagnesco, tuttavia la sua rabbia svanì frettolosamente insieme a tutte le altre imprecazioni, perché Italia si mise seduta, causalmente, accanto a lui. << Ciao Ivan >>
Mormorò la ragazza sorridendo gentilmente, Ivan fece un saluto con la mano, ma non disse nulla, troppo imbarazzato. Accanto a Italia, Catena Greco non faceva altro che sistemarsi la cartella che non smetteva di cadergli dappertutto.
<< Catena, vuoi finirla di fare tutto questo baccano! >>
Commentò acida Sonia Castelli, seduta davanti a lei.
Sonia era la persona più antipatica della classe in assoluto, sorrideva raramente, solo per ciò che riguardava lei o trovava divertente, aveva i capelli neri e ricci che le arrivavano a metà della schiena, gli occhi erano verdi e sempre allungati ai lati dalla matita nera.
Catena arrossi vistosamente e lasciò andare immediatamente la cartella, che scivolò per terra frusciando lievemente sulle sue scarpe, Sonia le lanciò uno sguardo sprezzante, poi tornò a mostrarle le spalle.
<< Brutta antipatica! Spero che quest’anno passi in fretta solo per non rivedere la sua brutta faccia da arpia! >> Il commento acido di Italia lo sentirono solamente Catena e Ivan, poiché Sonia era troppo impegnata a sistemarsi i lunghi capelli neri.
<< Lasciala perdere Italia, sai quanto si sente bene se fa l’arpia. >>
La voce profonda di Romeo De Rosa le sfiorò l’ orecchio da dietro, Italia sobbalzò volgendo la testa di scatto verso il suo solito compagno di banco.
Romeo De Rosa era sempre stato un ragazzo particolare, sin dal primo anno di liceo, Italia e Catena non avevano potuto fare a meno di provare simpatia per lui, era sempre stato magrissimo e minuto, i vestiti sembravano cadergli di dosso.
Aveva gli occhi più verdi che avessero mai visto e i capelli più strani, erano tagliati cortissimi sul lato destro e lasciati lunghi sul lato sinistro con un bel ciuffo che gli ricadeva sulla fronte, inoltre, ne aveva cambiato così tante volte il colore, che attualmente risultavano tra un biondo miele e un castano cenere.
Italia, Romeo e Catena aveva legato fin da subito, e nonostante tutti e tre fossero particolarmente estrosi per motivi differenti, la loro amicizia durava da anni, accompagnata dai soliti tre banchi occupati esclusivamente da loro.
<< Ehi, ragazzi! >> La voce roca della professoressa di arte, Ada Vitale, li zittì tutti. La minuta donna dalla carnagione pallida, i capelli rossi e gli occhi marroni tossicchiò rumorosamente e si aggiustò i grossi occhiali sul naso, gli innumerevoli braccialetti che portava al polso tintinnarono armoniosamente con il movimento del braccio.
<< Non sono graziosi i nostri studenti? >> Commentò allegra la preside Lombardi, scrutandoli uno ad uno con gli occhi allegri. << Bene, Costantino, puoi cominciare a parlare>> Il giovane professore di greco e latino rivolse un caldo sorriso ai suoi allievi e si schiarì la voce, molte ragazze sospirarono emozionate.
Il professor Riva riscuoteva un gran successo tra le donne di tutto l’istituto, più del professore Francesco Scotti che insegnava matematica al quarto e al terzo classico A e B.
<< Salve ragazzi, spero che abbiate passato una bella estate perché quest’anno ci faremo un bel sederino quadrato >> Esordì il professor Riva sfregandosi le mani con entusiasmo, tra gli studenti serpeggiarono numerose lamentele, ma furono acquietate dall’isterica voce della professoressa di italiano, Gemma Cattaneo, un’arcigna donna sulla cinquantina con il naso a becco, le sopracciglia folte, i capelli bianchi e crespi come la testa di uno spaventapasseri e i baffi che si vedevano a chilometri di distanza.
<< Oh, smettetela di dare fiato a quelle belle boccucce che vi ritrovate! Quest’anno avete l’esame di maturità, quindi niente sconti >>
Gli studenti ammutolirono all’unisono, tutti terrorizzati dalla professoressa di italiano, Costantino Riva tossicchiò un po’ imbarazzato e scoccò un’occhiata strana alla sua collega più anziana.
<< Ehm … grazie mille Gemma. Allora ragazzi, come vi stavo accennando prima … >>
Il professore venne nuovamente interrotto dalla brusca apertura delle porte del teatro, tutte le teste si voltarono contemporaneamente verso la fonte del rumore.
Un ragazzo dalla carnagione pallida, gli occhi di diverse tonalità di azzurro e un disordinato ciuffo biondo sulla fronte, avanzò frettolosamente nella sala, facendo cadere più volte le cuffiette dell’iPod per terra e rischiando di inciampare altrettante volte.
Aleksej Yulianovich Ivanov si lasciò cadere sgraziatamente sulla prima sedia libera, mentre le guance accarezzate da pallide lentiggini si imporporavano di rosso.
<< Oh, il signor Ivanov ci ha finalmente onorato della sua presenza >> Commentò acido Andrea de Santis, il malefico professore di matematica e fisica, scrutando l’allievo ritardatario con i suoi freddi occhi verdi. Aleksej Ivanov si lasciò sprofondare ancora di più nella sedia, mentre si accorgeva di essersi seduto accanto alla ragazza sbagliata, Miki Giorgi.
Lei lo scrutò frettolosamente con quei suoi occhi azzurri, le guance le avvamparono in maniera pericolosa e spostò velocemente lo sguardo nascondendo la faccia tra i capelli castani. << Chiedo scusa >> Borbottò il ragazzo in direzione dei professori.
<< Bene! >> Esordì il professor Riva << Ci siamo tutti vero? Allora, ragazzi, quest’ anno abbiamo l’esame di maturità, come bene saprete …. >>



_________________________________________
Effe_95

Buon pomeriggio :)
Ho pensato, siccome ho già pronti sette capitoli, e siccome tra poco è Pasqua, oggi aggiorno.
E così eccomi qui con il secondo capitolo.
Abbiamo la "presentazione" di altri componenti della classe, e sebbene non tutti siano così simpatici, spero vi siano piaciuti. Come vi avevo già accennato nel primo capitolo, qui compare un personaggio già presente in un'altra mia storia, ovviamente originale, Aleksej. Ma per tutto quello che riguarda il suo personaggio, io sarò sempre molto chiara e spiegherò tutto da capo.
Grazie mille a tutte le persone che hanno letto e recensito il primo capitolo.
Grazie di cuore, alla prossima spero.
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Cugini fastidiosi, Professori distratti e Brutti incontri ***


I ragazzi della 5 A
 
3.Cugini fastidiosi, Professori distratti e Brutti incontri.
 
Settembre
 
Quell’anno l’aula del 5 classico A era l’ultima del corridoio, e automaticamente anche quella più lontana dalle scale. In compenso però, era anche la più ampia in assoluto, dunque i banchi della prima fila non erano troppo vicini alla cattedra, e questo impedì un massacro di gruppo quando giunse il momento di lasciare il teatro e salire al piano superiore.
Aleksej Ivanov si guardava intorno con aria truce, mentre i suoi compagni di classe ridevano chiassosi e occupavano i banchi che preferivano, avrebbe fatto chiasso anche lui se quella giornata non fosse cominciata per il verso sbagliato.
<< Ehi Alješa, stamattina ti sei fatto subito notare, vero? >> Il biondo sollevò bruscamente il capo e individuò il proprietario di quella frase tagliente.
Gabriele Rossi, suo cugino di un anno più grande che si era fatto bocciare l’anno precedente ed era finito nella sua classe, era anche il suo migliore amico. Gabriele si portava molto più grande per l’età che aveva, gli occhi erano verdi e screziati di marrone alla luce del sole, mentre i capelli castano- dorati erano tagliati corti dietro la nuca e lasciati un po’ più lunghi sul davanti. Il giovane viso era ricoperto da una barba sottile che lo rendeva molto più maturo.  Aleksej lo raggiunse sbuffando, era il primo anno di scuola che passavano insieme, per entrambi era una manna dal cielo, non desideravano niente di meglio, soprattutto Aleksej che non aveva mai avuto altri veri amici oltre lui. Entrambi sostenevano che la loro amicizia fosse così sincera perché non erano cugini di sangue, infatti l’attuale moglie del padre di Aleksej, non era la sua madre biologica, e di conseguenza Gabriele non era suo cugino diretto, ma solo per acquisizione. Questo aveva reso il loro rapporto molto più libero.
<< Colpa di mio fratello, si è chiuso nel gabinetto per tre ore stamattina! >> Sbottò il biondo buttando malamente lo zaino vuoto, ad eccezione di una penna e un quaderno, sotto il banco. Gabriele sbadigliò sfacciatamente senza coprirsi la bocca.
<< Quale dei tuoi fratelli Aleksej, ne hai tre più una sorella >>
<< Ovviamente Ivan! Lui doveva entrare alla seconda ora, essendo al secondo anno, se l’è presa comoda! >> Brontolò Aleksej più incavolato che mai, Gabriele soffocò sfacciatamente un sorriso, lui aveva una sola sorella femmina, Alessandra, che aveva quindici anni e il suo bagno personale.
<< Prevedo una giornata pessima con te di cattivo umore. Non sei contento che sia ripresa la scuola, Alješa? >>  Aleksej lanciò un’occhiataccia al cugino, che scoppiò a ridere e poi spostò lo sguardo altrove, non si era mai svegliato così di cattivo umore come quella mattina.
Spostò distrattamente lo sguardo in giro per la classe, ma se ne pentì immediatamente, perché i suoi occhi azzurri screziati di grigio, si contrarono con quelli di un colore analogo, gli occhi di Miki Giorgi. La ragazza era seduta in prima fila accanto a Sonia Castelli, la sua migliore amica, aveva i capelli che le cadevano sul viso magro, quella mattina era un po’ pallida. Aleksej non fu in grado di reggere lo sguardo di quegli occhi supplichevoli, accusatori, spostò frettolosamente il suo per scontarsi con l’espressione curiosa del cugino, imprecò tra i denti.
<< C’è qualcosa che devi dirmi  Alješa? >> Domandò Gabriele guardandolo di sottecchi, mentre incrociava le mani sul banco, Aleksej tossicchiò leggermente e poi tacque.
Quell’estate era successa una cosa che non aveva raccontato a nessuno, nemmeno a Gabriele. Fece per aprire la bocca e spifferare tutto al cugino, quando il professore di filosofia e storia, Enzo Palmieri, entrò in aula con aria trafelata.
Gli alunni ammutolirono di botto, mentre osservavano l’insegnante scrutarli uno ad uno come se non li riconoscesse, fare un passo indietro per controllare di essere entrato nell’aula corretta, e nel rientrare schiantarsi di peso nella lavagna.
Tutti ridacchiarono silenziosamente senza riuscire a trattenersi.
Il professor Palmieri andò a sedere alla cattedra con gli occhiali storti sul naso, che non raddrizzò per tutto il resto della lezione.
<< Vedo che siete contenti oggi ragazzi, mi fa molto piacere! >> Commentò l’uomo allegro, il professore era un uomo distratto, spensierato e svampito. Dimenticava molto spesso i nomi dei suoi allievi, confondeva i voti sul registro e portava le cravatte e i gilè al contrario.
Sulla testa portava una zazzera di capelli scuri e scombinati, la barba era lunga e degna di un vero filosofo, poco curata e gli occhi marroni erano ben nascosti dagli spessi occhiali con la montatura rossa come il fuoco. << Siete entusiasti di cominciare l’anno? >>
Nessuno si preoccupò di rispondere per davvero a quella domanda, ma non ce ne fu davvero bisogno perché il professore andò avanti con il suo sproloquio.
<< Ehi Costi, come sono andare le vacanze? >> Domandò il professore in direzione di un ragazzo mingherlino, ben nascosto all’ultimo banco della classe, accanto alla finestra.
<< E’ Costa professore, mi chiamo Lisandro Costa >> Mormorò il giovane di rimando, cercando ancora di più di sprofondare nel cappello che gli copriva la testa. Lisandro Costa non era esattamente il componente più allegro e socievole della 5 A, il più delle volte preferiva starsene per i fatti suoi. Aveva un viso affilato, ancora da adolescente, le guance erano ricoperte da poche lentiggini, gli occhi erano marroni come il cioccolato al latte.
<< Oh certo, certo. Ah, ma chi abbiamo qui? Una nuova arrivata? Come ti chiami cara? >>
Quando il professore pronunciò quelle parole, tutta la classe di girò verso Beatrice Orlando.
La ragazza non fu affatto contenta di quella cosa, aveva sperato fino all’ultimo di non essere notata, o per lo meno che i professori non facessero una cosa del genere. Si sentiva già molto sfortunata nell’essere capitata seduta, per errore, accanto al ragazzo più bello della scuola, Enea Colombo.
<< Sono Beatrice Orlando professore >> Brontolò la ragazza con la voce più roca del solito, i lunghi capelli ricci e castani le cadevano ai lati del viso impedendone la vista a chi era seduto alla sua destra o alla sua sinistra. Gli occhi grigi erano più tempestosi del solito quella mattina e le lentiggini ben visibili a causa della mancanza di trucco sul viso.
<< Benvenuta cara. Allora, non vedete l’ora di scoprire quali filosofi meravigliosi studieremo quest’anno, vero? Si, lo leggo nei vostri occhi, bene, cominciamo con Hegel … >>
Non appena il professore cominciò a parlare di filosofia, metà della classe smise di ascoltarlo. Beatrice Orlando non era tra quelle persone, ascoltava il professore attentamente e prendeva appunti con meticolosità, lo fece per ben venti minuti, poi scoppiò.
Enea Colombo non aveva fatto altro che tenerle gli occhi puntati addosso per tutto il tempo, osservandola sfacciatamente mentre scriveva, osservava la lavagna concentrata e mordicchiava il tappo della penna.
<< Che c’è?! >> Sbottò infastidita, incenerendo il suo vicino di banco con un’occhiataccia.
Enea non si smosse proprio quando lei lo attaccò, continuò a fissarla con un’espressione rilassata sul viso, un po’ ironica, mentre quella di Beatrice era corrucciata, furiosa e irritata al massimo.
<< E così tu sei quella nuova, eh? >> Mormorò lui con la sua voce melliflua e irritante, mentre continuava ad osservarla avidamente, Beatrice si sentiva a disagio, inoltre notò che Lisandro Costa li stava guardando con un’espressione preoccupata.
<< Davvero?! Quanto sei intelligente per averlo notato! >> Sbottò irritata, spostando lo sguardo verso la lavagna, dove il professore stava scrivendo qualcosa su Nietzsche.
Enea ridacchiò leggermente al suo fianco, mentre appoggiava il braccio sul banco per potersi mettere comodo ad osservarla. Beatrice avvampò, ma fortunatamente i capelli le coprivano il viso, così fu sicura di non essere stata beccata. Era in collera con lui perché non le lasciava prendere appunti in santa pace, lei adorava prendere appunti di qualsiasi cosa.
<< Sei davvero sicura di poterti permettere tanto sarcasmo? >>
<< E tu sei sicuro di potermi rivolgere una domanda del genere? >>
La replica di Beatrice fu così veloce che Enea ne rimase sorpreso, ma solamente per un secondo.
<< Lo sai che è maleducazione rispondere ad una domanda con un’altra domanda? >>
Beatrice non replicò, cercava disperatamente di concentrarsi su quello che il professore stava scrivendo di Heidegger e della sua opera “ Essere e tempo” o “ Sein und Zeit “ nella lingua originale. << Sei molto permalosa. Brutta e permalosa, mi dispiace per te >>
Beatrice lasciò cadere la penna sul quaderno con un botto secco e si girò a fronteggiare Enea.
<< Ho una soluzione molto semplice al tuo problema. Non guardarmi, non rivolgermi la parola, non respirare nella mia aria! >>  Lisandro tossicchiò nervosamente alla sinistra di Enea, ma il ragazzo non se ne accorse nemmeno, mentre osservava interessato il cipiglio che si era creato in mezzo alle sopracciglia della ragazza.
<< Sai sapientona, sarebbe un’ottima idea se non fosse per un piccolo problema. Sei la mia vicina di banco! >> Beatrice sollevò gli occhi al cielo esasperata.
<< Domani cambierò posto >> Enea scoppiò a ridere così sfacciatamente che per un momento Beatrice pensò il professore si sarebbe girato infuriato e li avrebbe cacciati fuori, invece l’uomo non se ne accorse nemmeno, continuò a parlare e a fare battute su Heidegger ed Anna Arendt.  
<< Non puoi >> Intervenne cortesemente Lisandro, probabilmente con l’intento di placare un po’ la situazione, perché l’aria intorno a quei due si era fatta pesante. Beatrice lo guardò con fare perplesso, cercando di decifrare il significato di quella frase.
<< Ma come, non lo sai sapientona? Non sai che i professori faranno una piantina della classe con questi posti ?  Ogni anno sempre la stessa storia, ci impediscono di cambiare posto così che per loro sia più facile memorizzare il tuo nome >>
Beatrice non ne sapeva nulla di quella stranezza, nella sua vecchia scuola, dal quale era scappata, non facevano cose del genere. Lisandro tossicchiò ancora una volta ed intervenne con la sua voce lieve e delicata.
<< Sono sicuro che Palmieri dimenticherà di fare la piantina, è un tipo così sbadato. Alla seconda ora io ed Enea ci scambieremo di posto, va bene? Così che voi non siate costretti a parlare >> Propose ai due litiganti, Enea e Beatrice lo guardarono entrambi come se fosse il loro salvatore, così per il resto della lezione di filosofia non fiatarono più e non si rivolsero nemmeno un’occhiata.
Alla fine della lezione, il professor Palmieri attaccò la piantina alla parete dell’aula.
Beatrice ed Enea odiarono storia e filosofia da quell’istante. 


____________________________________________
Effe_95

Buongiorno a tutti.
Eccomi tornata con il terzo capitolo, allora, vi annuncio che questo è l'ultimo capitolo di presentazione della classe, quindi vengono introdotti gli ultimi ragazzi, dal prossimo capitolo entreremo nel vivo della storia. 
Ci tengo a scusarmi già da adesso se il modo vi sembrerà un po' brusco, ma dovendo gestire tutti questi personaggi, non posso essere troppo misteriosa o allungare, spero capiate la mia scelta, presa anche nel vostro interesse. 

Per quanto riguarda il capitolo spero di essere stata chiara, spero vi sia piaciuto, fatemi sapere cosa ne pensate, e se ho scritto una schifezza, ho sbagliato, ditemelo. 
Sono sempre aperta alle critiche costruttive.
Grazie mille, come sempre, alla prossima.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Tradimenti, Segreti e Amici insistenti ***


I ragazzi della 5 A
 
4. Tradimenti, Segreti e Amici insistenti.
 
Settembre
 
Al suono della campanella di fine giornata, i ragazzi della 5 A erano già tutti pronti per lasciare l’aula. Non appena l’apparecchio prese a trillare, si riversarono fuori come un fiume in piena, desiderosi che quel primo giorno di scuola finisse.
Fiorenza d’Angelo fece i salti mortali per raggiungere Telemaco Villa.
Il ragazzo stava scendendo lentamente le scale con Igor Testa, parlavano allegramente e ogni tanto ridevano anche, Fiorenza si sentì immediatamente a disagio nell’interrompere quella conversazione, ma doveva farlo assolutamente.
Afferrò la cartella al volo, saluto frettolosamente Zoe Bassi, la sua migliore amica, e corse come un razzo per raggiungere i due. Aveva il fiatone quando afferrò il braccio di Telemaco e probabilmente strinse troppo la presa, perché il ragazzo fece una smorfia.
Si fermarono tutti e tre in mezzo alle scale, mentre gli altri scendevano.
<< Possiamo parlare? >> Fiorenza era rossa in volto, imbarazzata, i capelli tagliati a caso le coprivano alcuni punti del viso disordinatamente, scombinati a causa della corsa.
Telemaco la stava già guardando con disapprovazione, come faceva spesso quando litigavano prima di fidanzarsi. Igor invece, se ne stava un po’ in disparte con lo sguardo fisso sulla copertina del suo libro dell’Eneide che stringeva tra le braccia.
<< Mi sembra davvero superfluo che tu me lo chieda, dato il modo brusco in cui mi hai fermato! >> Al commento di Telemaco Fiorenza arrossì ancora di più, mollò la presa dal braccio del ragazzo e si strinse gli arti al petto, come faceva sempre quando era indifesa.
<< Quello che hai visto quest’estate … hai frainteso! >>
Fiorenza d’Angelo cominciò appena a parlare, che Telemaco Villa la stroncò sul momento sollevando una mano.
<< Non ricominciare con questa storia. Ne abbiamo già parlato, abbiamo discusso, abbiamo messo un punto alla cosa e non voglio saperne più nulla. >>
Fiorenza gemette con frustrazione, quell’estate, da quel maledetto giorno, non avevano fatto altro che discutere. Avevano entrambi idee diverse dell’accaduto e nessuno voleva cedere, entrambi erano convinti di dire la verità, ma nessuno avrebbe potuto provarlo … forse.
<< Ma come puoi esserne sicuro? Non lo ricordo nemmeno io! >>
Telemaco si fece minaccioso, pronto a troncare per sempre quella conversazione.
<< Basta Fiorenza! Ti ripeto per l’ultima volta che ti ho vista uscire dal bagno di quella maledetta discoteca con Cristiano Serra! Cosa diavolo stavi facendo nel bagno delle donne con Cristiano Serra?! Gliel’hai data. Fine del discorso! >>
Fiorenza arrossì talmente tanto che le lentiggini scomparirono completamente, Igor tossicchiò in imbarazzo, mentre alcuni ragazzi che scendevano le scale si voltavano a fissare il terzetto fermo sulle scale. Telemaco aveva alzato la voce senza volerlo ed era un po’ imbarazzato anche lui, ma era troppo arrabbiato per farci caso.
<< Ero ubriaca Telemaco! Non mi ricordo niente. Cristiano ti ha mentito, non siamo stati insieme >> Telemaco scosse la testa facendo ballare tutti i ricci biondi, gli occhi grigi erano in tempesta.
<< Non ho bisogno della conferma di Cristiano per saperlo. Ti ho vista, questo mi basta. Per quanto mi riguarda non abbiamo nulla da dire, mi hai tradito. La tua prima volta doveva essere con me, se proprio ci tenevi tanto! Invece ti sei comportata proprio come una sgualdrina! >>
Fiorenza lo guardò incredula con gli occhi spalancati, lucidi ed arrossati, era molto agitata.
<< Non c’è stata nessuna prima volta qui! Io sono vergine! >> Sbottò indignata, coprendosi il petto come se fosse stata nuda davanti a lui, le scale si stavano ormai svuotando completamente e c’era un silenzio irreale. Si percepiva solo il respiro affannoso di Fiorenza, che si era appena resa conto di aver detto quelle cose davanti ad Igor Testa.
<< Eri >> La corresse Telemaco risoluto, Fiorenza fece per replicare, ma non potette mai farlo perché si sentì afferrare per la gola da un braccio possente, che la rinchiuse nella morsa di un abbraccio forzato.
Cristiano Serra la teneva strettissima e sorrideva beffardo nei confronti di Telemaco. 
Era un ragazzo alto, magro e atletico. I capelli ricci e corvini gli cadevano davanti agli occhi disordinati, la mascella squadrata era ricoperta da un sottile strano di barba ben curata, gli occhi avevano il taglio leggermente orientale, a forma di cerbiatto , ed erano di un marrone che andava sul bronzeo. Le labbra carnose erano attraversate da un sorriso ironico e cattivo, Fiorenza si sentiva soffocare sotto la stretta del suo braccio, ma non riusciva a liberarsi, ancora schiacciata dalle parole dure di Telemaco.
<< Ma che bel terzetto! Di cosa parlavate con la mia ragazza preferita? >> Pronunciando quelle parole, Cristiano non la smise nemmeno per un secondo di guardare Telemaco negli occhi per sfidarlo. Il biondo scosse la testa e abbassò gli occhi disgustato.
<< Andiamo via Igor, questa situazione è davvero ridicola >>
<< Aspetta … >> Il debole lamento di Fiorenza fu del tutto inutile, Telemaco e Igor avevano quasi già sceso tutta la rampa di scale e si stavano allontanando.
Fiorenza sperò che lui si girasse almeno una volta per guardarla negli occhi.
Non lo fece.
 
<< Ok, adesso me lo dici cosa ti prende?! >>
Quando Gabriele Rossi afferrò Aleksej Ivanov per un braccio, lo fece così violentemente che il ragazzo andò a sbattere contro la portiera della macchina del cugino. Si fece tremendamente male ad una spalla, la cartella gli cadde a terra e i capelli gli finirono sugli occhi. << Che cazzo fai?! >> Sbottò Aleksej furioso << Non vuoi accompagnarmi a casa? Vado a piedi, nessun problema >> Si scrollò malamente la mano del cugino di dosso, si aggiustò la cartella sulla spalla e guardandolo in cagnesco spostò i capelli dagli occhi.
<< Questo cosa c’entra Alješa? Ti ho chiesto un’altra cosa, non ti ho affatto detto che non volevo darti un passaggio, cosa assurda tra l’altro! >> Gabriele incrociò le braccia al petto e si appoggiò alla macchina, Aleksej lo guardò per un po’ in cagnesco, scrutando i suoi occhi insistenti, poi sbuffò e decise di andarsene. Gli aveva già dato le spalle quando Gabriele lo afferrò sbattendolo di nuovo contro la macchina, Aleksej era così scioccato che reagì con uno spintone.
<< Oh, ma che hai Gabriele!? >> Il castano lo inchiodò ancora alla macchina.
<< Alješa, ti giuro che non ti lascio andare se non mi dici cosa sta succedendo! >>
<< A cosa ti riferisci !? >> Sbottò Aleksej Ivanov cercando di liberarsi dalla stretta del cugino più grande, inutilmente.
<< Al fatto che Miki Giorgi ha cercato di parlare con te all’uscita dall’aula e tu l’hai ignorata completamente! Cosa sta succedendo? Credi che io sia stupido? >>
Aleksej rimase così sorpreso da quelle parole che smise di lottare e guardò il cugino con gli occhi azzurri spalancati e le lentiggini illuminate dal sole di Settembre.
Gabriele lo lasciò andare e Aleksej si accasciò per terra nascondendo la faccia tra le ginocchia, il cugino sospirò pesantemente e si lasciò cadere accanto a lui.
<< Siete sempre stati amici, l’ho solo trovato strano >>
<< Mi sono comportato malissimo con lei Gab, non so nemmeno come faccia a voler parlare ancora con me >> Aleksej Ivanov aveva ancora la faccia nascosta tra le ginocchia, in quella posizione che a Gabriele ricordava tanto un carcerato prossimo al patibolo.
<< E’ successo qualcosa la settimana che sei rimasto solo a casa quest’estate? >>
Aleksej tacque, e Gabriele non ebbe bisogno di altre parole per capire già qualcosa, abbandonò la testa sulla portiera della macchina e alzò gli occhi al cielo, cercando le parole esatte da dire. << Ci sei andato a letto, vero? >> Aleksej cacciò la testa fuori, aveva gli occhi azzurri ricolmi di rimorso e senso di colpa, il ciuffo ribelle gli cadeva un po’ disordinato sul viso.
<< Si >> Mormorò con la bocca ancora nascosta tra le braccia sulle ginocchia, Gabriele si morse il labbro inferiore.
<< Scusami  Alješa, ma non era la prima volta per te? >>
Qualcuno passò chiassosamente davanti la macchina, senza far caso ai due cugini seduti per terra accanto alla portiera. Gabriele e Aleksej tacquero per un istante, approfittandone tutti e due per decidere se fosse il caso o no di continuare quella conversazione, ma si erano sempre confidati a vicenda, fin da quando avevano rispettivamente tre e quattro anni.
<< No >> La risposta di Aleksej arrivò dopo così tanto tempo di silenzio, che Gabriele sobbalzò come se fosse stato punto da un’ape.
<< Ma tu mi hai sempre detto che … >>
<< Ti ho detto una palla >>  Sbottò Aleksej, Gabriele lo guardava con la bocca spalancata e un’ espressione ferita e disgustata, da quando Alješa aveva smesso di dirgli le cose?
Aleksej si sentì così tanto in colpa, che si affretto a continuare prima che Gabriele potesse replicare. << Me ne vergogno da morire, è per questo che non te l’ho detto. >>
<< Con chi? >> Aleksej non si girò a guardarlo negli occhi, si limitò a fissare l’altra macchina dov’era riflesso un se stesso un po’ distorto.
<< Sonia Castelli >>
<< Cielo Alješa! E’ la migliore amica di Miki, è davvero di cattivo gusto! E poi perché lei? Hai sempre detto che volevi fosse qualcosa di speciale. Hai fatto la mia stessa cazzata. Non ti ho insegnato nulla? >> Gabriele si era leggermente alterato, Aleksej sospirò afflitto e continuò a non guardarlo, rimase in silenzio per qualche secondo, poi fece per alzarsi e troncare per sempre quella conversazione. << Aspetta >> Gabriele lo costrinse a sedere di nuovo.
<< Raccontami cos’è successo >> Aleksej lanciò uno sguardo veloce all’orologio da polso, ma sapeva benissimo che Gabriele non l’avrebbe lasciato andare se non avesse vuotato il sacco.
<< Quest’estate … ti ricordi il giorno che siamo andati tutti insieme in discoteca? Ero un po’ ubriaco, quella sera. Ho confessato a Miki di provare qualcosa per lei. Le ho messo le mani addosso e ovviamente lei mi ha respinto, ero così arrabbiato e sbronzo che non ci ho pensato due volte quando Sonia mi si è strusciata addosso. Non mi ricordo quasi niente Gab, che schifo! >> Aleksej Ivanov tornò a nascondere la faccia nelle ginocchia, Gabriele storse un po’ la bocca quando il cugino non fu più in grado di guardarlo, sembrava quasi che Aleksej avesse percorso i suoi stessi passi. Tossicchiò leggermente e si schiarì la voce.
<< Beh, provi ancora qualcosa per Miki Alješa? >> Il biondo non rispose mai a quella domanda, rimase in silenzio per così tanto che quella volta Gabriele non insistette più.
<< Vuoi almeno dirmi cos’è successo con lei? Come siete finiti insieme? >> Aleksej gemette, ma nonostante questo prese a parlare.
<< Due giorni dopo è venuta da me, proprio la settimana che sono rimasto a casa da solo. Lei aveva saputo tutto da Sonia, abbiamo litigato come due ossessi, ti giuro che lei ha urlato così tanto che le pareti di casa non sono cadute per miracolo! Mi ha detto che sono uno stronzo, che non potevo dire di amare lei e poi scoparmi un’altra. Ha detto proprio così. E poi … Non lo so cosa mi è preso, aveva quella faccia, mi guardava in un modo che … >>
Volevo togliermi di dosso l’odore di Sonia
Aleksej questo non lo disse, ma Gabriele lo capì lo stesso.
Il russo smise di parlare e Gabriele non gli disse più niente, rimasero in silenzio per un po’, il tempo necessario perché il castano potesse fumarsi la sua sigaretta, poi Aleksej ruppe il silenzio.
<< Andiamo a casa adesso? Ho fame >> Gabriele annuì e si alzò in piedi, Aleksej lo imitò, ma prima che il cugino aggirasse la macchina per andare allo sportello del guidatore, Aleksej lo immobilizzò per il polso.
<< Gab, non una parola di questa storia, chiaro? Soprattutto con mio fratello Ivan, nemmeno con Pasha, o Andrea. Non deve arrivare a mio padre >>
<< Per chi mi hai preso Alješa! Ok, forse a Ivan avrei potuto dirlo, ma a Pasha e Andrea? I tuoi fratelli hanno l’uno tredici l’altro undici anni! Lasciali vivere nella purezza >>
Aleksej lanciò un’occhiataccia al cugino e salì in macchina, quel primo giorno di scuola era stato molto stancante per entrambi.




____________________________________
Effe_95

Buongiorno a tutti.
Lo so, nello scorso capitolo avevo detto che avevo finito la presentazione dei ragazzi e invece mi sono dimenticata di Cristiano Serra, ma vi assicuro che è l'ultimo, questa volta sono sicura a cento per cento. Scusatemi ancora. 
Spero che questa immersione repentina nella storia non vi abbia scioccati troppo, come aveva già accennato nel capitolo precedente, non potrò essere troppo prolissa, essendo così tanti i personaggi, spero solo che questa decisione non mi abbia penalizzata.
Detto questo, abbiamo finalmente capito cos'è successo tra Telemaco e Fiorenza e Aleksej e Miki.
Fatemi sapere cosa ne pensate, alla possima.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Progetti di scienze, Succo alla pera e Cadute ***


I ragazzi della 5 A
 
5.Progetti di scienze, Succo alla pera e Cadute
 
Settembre
 
Le prime due settime di Settembre erano durate più del previsto.
Quell’anno i professori avevano cominciato con la quarta ingranata, andavano come i razzi e ai ragazzi della 5 A sembrava già passato un secolo.
<< Qualcuno mi vuole spiegare cosa cavolo è una Coscienza Infelice per Hegel?! >>  Sbottò Giasone un tranquillo pomeriggio di fine Settembre, mentre se ne stava con Ivan, Catena, Italia e Romeo nell’aula studio cercando di combinare qualcosa di utile.
<< E chi c’ha capito niente Gias >> Commentò Ivan grattandosi la nuca, quel pomeriggio era ancora più rimbambito del solito perché si era seduto accanto ad Italia.
Il tatuaggio sulla sua spalla bruciava.
<< Te lo spiego io Giasone, mettiti accanto a me >>
Giasone fu immensamente grato a Catena per la pazienza che ebbe con lui nell’ora successiva, la ragazza si mise davvero di impegno per fargli capire tutto, gli occhiali le scivolavano continuamente sul naso, la treccia era disfatta e le mani si muovevano convulsamente nel tentativo di farsi comprendere.
Giasone la ringraziò con tutto il cuore, ma non ci aveva capito nulla lo stesso.
Per lui la filosofia era fuori portata.
<< Sono già le 17.00. Direi che possiamo mettere da parte Hegel, tanto nessuno lo capirà mai a parte Catena e Italia, passiamo al progetto di scienze. E’ da consegnare per la prossima settimana, vero? >> Propose Romeo, chiudendo definitivamente e con un colpo secco il libro di filosofia aperto ancora sulla vita di Hegel.
La settimana precedente, la professoressa Elettra Valenti di scienze della terra, aveva pensato bene di proporre alla classe un bel progetto. Aveva creato dei gruppi e aveva assegnato loro un argomento diverso da presentare.
Romeo, Italia, Ivan, Giasone e Catena avrebbero dovuto occuparti delle rocce ignee.
<< Si, non sarebbe una cattiva idea >> Commentò Giasone stiracchiandosi sfacciatamente.
<< Io avrei già raccolto tutto il materiale necessario, al riguardo >> Disse timidamente Catena, tirando fuori dalla borsa una cartellina di plastica piena di fogli.
La svuotò disordinatamente sul tavolo, rivelando la presenza di fotocopie, immagini, appunti e testi, moltissimi testi.
<< Wow, ma dormi la notte? >> Le domandò Ivan con le sopracciglia aggrottate, mentre osservava ammirato tutto quel materiale.
Catena arrossì vistosamente e non rispose alla domanda.
<< E’ perfetto, dobbiamo solo mettere in ordine tutte queste immagini, questi testi e il gioco è fatto! >> Sbottò entusiasta Romeo, scrutando attentamente l’immagine di una roccia effusiva. Italia tossicchiò leggermente, e tutti si girarono a guardarla.
<< Non abbiamo ancora i cartelloni, la colla e tutto il resto. >> Fece notare con cortesia, scrutando i suoi compagni di classe e migliori amici dietro le spesse lenti.
Giasone la guardò a lungo, poi lanciò un’occhiata al suo migliore amico.
<< Perché non andate a comprare il materiale tu e Ivan? Siete due tipi ordinati. Noi vi aspettiamo qui e nel frattempo mettiamo apposto i testi e dividiamo le parti da studiare >> Propose il biondo con noncuranza, al suo fianco, Ivan si irrigidì come un pezzo di legno e lo guardò spaventato, Giasone gli tirò un calcio sotto il tavolo.
<< Per me va bene >> Commentò Italia tranquilla, anche gli altri annuirono.
Italia si alzò dalla sedia e cominciò a riporre le cose nella cartella, mentre Ivan rimaneva seduto sulla sedia come uno stupido. Giasone gli diede un pizzicotto sul braccio.
<< Ahi >> Commentò il giovane scoccando un’occhiataccia all’ amico, poi si accorse che Italia lo aspettava accanto alla porta. << Ah si, scusami Italia >>
Si alzò un po’ impacciato dalla sedia e la raggiunse, Giasone gli lanciò un’occhiata alla: ” ringraziami dopo, amico”.
 
<< Hai preso tu il materiale sulle rocce sedimentarie? >>
Ad Aleksej quella sembrò assolutamente una domanda retorica.
Gabriele continuava a giocare con il cellulare come se non ci fosse un domani e probabilmente non lo stava affatto ascoltando.
<< Ehm … l’ho preso io >> Aleksej si morse il labbro quando sentì la voce di Miki.
Aveva sperato fino all’ultimo che la professoressa non li mettesse insieme nel progetto, ma ovviamente le sue preghiere erano state vane. Quelle erano le prime parole che si rivolgevano da quando era cominciata la scuola, o meglio, da quell’estate.
Miki frugò velocemente nella cartella ed estrasse due libri belli grossi, una cartellina e delle immagini stampate a colori.
<< Bene >> Commentò Aleksej con gli occhi bassi, prendendo i fogli che la ragazza gli passava abbattuta.
<< Tutto questo è davvero noioso! Alješa, perché non ci offri qualcosa da bere? >>
Sonia Castelli se ne stava seduta dall’altra parte del tavolo, intenta a mettersi lo smalto sulle unghie da strega, Aleksej trovò davvero fastidiosa e inopportuna la sua voce, lanciò uno sguardo ai bicchieri pieni di acqua gelata lasciati sul tavolo.
Solo quello suo e di Miki erano vuoti.
<< Non intendevo di certo dell’acqua! Insomma, non sei russo?! Sono sicuro che tuo padre in casa avrà della vodka, no? >> Aleksej continuò a fissarla in silenzio senza dire nulla, Sonia si imbronciò. << … della birra? Un analcolico? Coca cola? >>
Aleksej provò l’impulso omicida di strangolare il cugino, che aveva avuto la brillante idea di preparare il progetto proprio a casa sua.
Lo stesso cugino che bighellonava sul cellulare e non li ascoltava nemmeno.
<< Ho quattro fratelli minorenni, non abbiamo alcool >> Sbottò Aleksej guardando Sonia con aria disgustata, la ragazza non sembrò nemmeno notarlo.
<< Dai Alješa, non dirmi che non nascondi dell’alcool da qualche parte in questa casa! >>
Quella era l’altra voce che Aleksej non avrebbe mai voluto sentire, quella di Cristiano Serra, l’altro componente del gruppo che non avrebbe mosso un dito per aiutarli.
Cristiano era seduto sul divano e giocava con la play station di suo fratello Ivan senza aver chiesto nemmeno il permesso.
<< No, ho del succo alla pera se proprio vi va! >> Cristiano e Sonia si girarono a guardarlo schifati, Aleksej rimase impassibile.
<< Ma che bella idea Alješa! >> Esclamò all’improvviso Miki alzandosi dal tavolo, sembrava molto agitata << Ti aiuto io a preparare i bicchieri, andiamo? >> Si offrì la giovane afferrando il vassoio con i bicchiere ancora pieni d’acqua ad eccezione dei loro. Aleksej si alzò a sua volta, era meglio allontanarsi che restare con quei due. Nell’andare in cucina colpì il cugino con un pugno sulla nuca, Gabriele alzò la testa e borbottò: “ Cos’ho fatto?!”.
Una volta in cucina, il biondo si affrettò ad aprire il frigorifero e seppellirvi la faccia dentro, mentre Miki svuotava i bicchieri d’acqua e li asciugava.
<< Ascolta Alješa … >> Cominciò lei, Aleksej afferrò il succo di frutta e chiuse bruscamente il frigorifero. << Credi che basterà per tutti, questo? >> Domandò coprendo la voce della ragazza, non la guardò negli occhi mentre le mostrava la scatola eccessivamente grande e piena del succo. Miki sospirò pesantemente, cercando di trattenere le lacrime, ed annuì.
Aleksej si sentì male e in colpa alla vista di quegli occhi, ma non poteva affrontarli, si vergognava troppo di quello che aveva fatto.
<< Non è il succo preferito di tuo fratello Andrea? >> Domandò Miki cercando di controllare la voce. Andrea Yulianovich Ivanov era il penultimo fratello di Aleksej e aveva undici anni.
<< Si, ma ne ha altre due bottiglie piene nel mobile, probabilmente non se ne accorgerà >>
Aleksej versò la bevanda in tutti e cinque i bicchieri, Miki manteneva i manici del vassoio con entrambe le mani, nel compiere quel gesto il biondo si accorse che le tremavano.
Tornarono nel salottino subito dopo, e trovarono Gabriele con i fogli delle ricerche tra le mani, mentre Sonia ritagliava il cartellone e Cristiano incollava le immagini.
Aleksej e Miki si guardarono accigliati, cosa poteva essere successo per farli lavorare?
<< Oh, finalmente quel benedetto succo! Ci avete messo una vita >>
Sbottò infastidita Sonia, lanciando un’occhiataccia ai due appena entrati.
Miki lasciò il vassoio sul tavolo e si mise seduta con ancora un’espressione sconcertata, Aleksej la imitò, guardando i suoi amici con occhi attenti e disgustati allo stesso tempo.
Prese a fissare ostinatamente il cugino.
<< Che c’è? >> Domandò dopo un po’ Gabriele, senza sollevare lo sguardo dai paragrafi sulle rocce sedimentarie che stava dividendo con meticolosità, erano rare le volte in cui Gabriele s’impegnava davvero nel fare qualcosa.
<< Cos’è successo qui? Troppo entusiasmo per dei lavativi come voi >>
Gabriele fece spallucce, Cristiano sbadigliò e Sonia fece una faccia schifata dopo aver provato il succo alla pera.
<< Abbiamo deciso che un due in scienze della terra non fosse proprio conveniente >>
Commentò Gabriele distrattamente, Aleksej dubitava che fosse davvero quello il motivo, ma non si domandò altro, era molto meglio per loro se quei tre collaboravano, così il lavoro non sarebbe toccato solo a lui e a Miki come sempre.
Lavorarono in silenzio per un’oretta, fino a quando la porta di casa si aprì rumorosamente e nel salottino fece capolinea il padre di Aleksej.  Yulian Aleksàndrovich Ivanov era un uomo sulla quarantina, aveva il fisico asciutto e robusto allo stesso tempo, i capelli erano della stessa tonalità di biondo del figlio, gli occhi azzurri- grigi erano taglienti come anche i suoi lineamenti. Non assomigliava propriamente ad Aleksej, ma si vedeva chiaramente che era suo padre.
<< Ehi zio! Come va? >> Lo salutò allegramente Gabriele, Yulian guardò il figlio, il nipote e i suoi compagni di classe con sorpresa, poi si ricompose e sorrise cordiale.
<< Buon pomeriggio. Ehi Gab >> Gli occhi di Yulian Ivanov erano puntati in quelli del figlio in una muta domanda: Cosa ci faceva tutta quella gente a casa loro?
<< Ci siamo riuniti per un progetto di scienze >> Commentò il ragazzo sollevando un cartellone ancora bianco. Yulian annuì silenziosamente e fece un passo indietro.
<< Bene, buon lavoro allora. Mi auguro finiate entro un’oretta, perché tra poco torneranno quelle pesti dei tuoi fratelli Alješa. A dopo ragazzi >>
Yulian Ivanov scomparve dall’altra parte della casa e non si fece più vedere fino a quando tutti gli altri non se ne furono andati. Sonia e Cristiano erano rimasti molto impressionati dalla sua figura.
<< Quel fico pazzesco è tuo padre?! >> Aveva domandato Sonia non appena l’uomo se n’era andato, Aleksej aveva spalancato la bocca a quelle parole.  << Ma quanti anni ha? Trenta? >>
<< No, in realtà ne ha quarantadue >> Gabriele aveva risposto senza scomporsi troppo, Aleksej invece era rimasto scioccato nel sentire qualcuno chiamare suo padre “fico pazzesco”, soprattutto una ragazza con cui aveva fatto sesso. Rabbrividì.
<< Basta parlare di mio padre! Altrimenti ti faccio fare tutto il procedimenti della diagenesi da sola, Sonia! >> Fu una minaccia abbastanza convincente.
 
Ad Ivan sudavano terribilmente le mani.
Prima cercò di nasconderle nelle tasche del giubbotto di pelle, poi le mise intorno alla tracolla della cartella, alla fine si arrese e le lasciò pendere lungo i fianchi.
Per tutto il tragitto, lui e Italia non si rivolsero affatto la parola, poi raggiunsero la cartolibreria.
Era talmente vasta e ricca di materiale, che fu difficile trovare la sezione dei cartelloni.
<< Ehi, Ivan, credi che bianchi vadano bene? Oppure dovremmo prendere dei colori pastello come azzurro, rosa, giallo opaco … >> Italia aveva lo sguardo perso tra quei mille colori e Ivan la trovava assolutamente perfetta. Sapeva molto bene che quella sarebbe stata l’occasione giusta per far si che tra di loro cominciasse qualcosa, ma non trovava il coraggio.
<< A te cosa piacerebbe? >> Chiese di rimando, Italia si girò a guardarlo e gli sorrise.
<< Non credo che gli altri gradirebbero i colori pastello >>
Gli occhi neri di Italia erano puntati in quelli verdi di Ivan, pieni di affetto per lei.
<< Si invece, lo apprezzeranno >> Ribatté lui avvicinandosi ai cartelloni, lei continuò a fissarlo per qualche altro secondo, come se fosse la prima volta che si accorgesse di lui.
<< Quali colori prendiamo? >> Chiese Ivan scrutando la vasta gamma di cartelloni, Italia tossicchiò distogliendo lo sguardo e si concentrò anche lei.
<< Verde chiaro >> Si ritrovò a rispondere senza nemmeno pensarci, perché aveva ancora gli occhi di lui in mente, Ivan sembrò non accorgersene. << Azzurro, rosa e giallo opaco >>
<< Perfetto >> Mormorò Ivan concentratissimo nel prendere ogni singolo cartellone, quello azzurro però si trovava troppo in alto, il ragazzo avrebbe potuto sollevarsi sulla punta dei piedi, ma il giubbotto di pelle e la cartella gli impedivano di muoversi con agilità.
<< Ehi Italia, ti spiace mantenermi la giacca e la cartella? >> Domandò con imbarazzo, lei annuì e si fece consegnare il tutto. Ivan salì agilmente sul bordo dello scaffale e afferrò con decisione l’ultimo cartellone azzurro rimasto, il gesto fu troppo energico però, perché cadde a terra, il bordo della maglietta gli si artigliò ad un gancio e gli scoprì tutta la spalla.
Italia rimase in piedi come un statua quando lo vide cadere, e soprattutto quando vide quel bel tatuaggio che gli ornava la spalla: “ Italia”.
Ivan seguì il suo sguardo, avvampò e si rialzò immediatamente in piedi aggiustandosi la maglietta. Afferrò la cartella e il giubbotto di pelle senza nemmeno richiederglielo indietro, e rimase con quel cartellone in mano come uno sciocco.
<< E’ il mio nome, quello? >> Domandò lei senza pensarci, Ivan si fece viola.
<< No … è … la squadra! Si, la squadra di calcio >> Era la bugia più stupida che potesse inventare, ma funzionò, perché Italia arrossì fino alla punta dei capelli e distolse lo sguardo.
<< Giusto, che stupida. La colla, abbiamo bisogno della colla! >> Scattò immediatamente la ragazza, allontanandosi dal corridoio, i capelli color caramello le coprivano il viso con fare disordinato. Ivan rimase imbambolato per qualche secondo prima di seguirla.
Era davvero un cretino.


_________________________________________
Effe_95

Buon pomeriggio a tutti.
Ecco un altro capitolo, vediamo i nostri ragazzi alle prese con il progetto di scienze e cominciano a delinearsi meglio delle storie. Spero possa piacervi, scusatemi se sono un po' breve ma ho fretta.
Grazie mille come sempre a chi ha recensito, chi ha messo la storia tra le seguite, le ricordate e le preferite e anche a chi legge soltanto. Grazie mille alla prossima spero.
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Racchia rompiballe, Sorprese e Sei e mezzo. ***


I ragazzi della 5 A
 
6.Racchia rompiballe, Sorprese e  Sei e mezzo.
 
<< Potresti cortesemente tagliare quel foglio seguendo i bordi? Ti risulta così difficile, Enea? Persino un bambino di tre anni saprebbe farlo meglio di te! >>
Avevano cominciato ad assemblare insieme il progetto di scienze da nemmeno un’ora, e Beatrice era già stanca. La fonte della sua stanchezza era Enea Colombo, da qualche settimana ormai, stare seduta accanto a lui per tutto il giorno le prosciugava le facoltà mentali. << Lisandro, puoi spiegarmi perché questa racchia è nel nostro gruppo? >>
Domandò esasperato Enea, lasciando cadere le forbici dalla punta arrotondata e i fogli sul tavolo, anche Enea aveva perso la pazienza a furia di sentirsi dire: “ Non va bene!” , “ Ma cosa combini?!” oppure “ No! No! E’ tutto sbagliato!”.
<< Ehm … i gruppi li ha fatti la professoressa Enea >> Mormorò Lisandro un po’ imbarazzato, il ragazzo aveva pensato che organizzare tutto a casa sua sarebbe stata la scelta migliore, così né Enea né Beatrice avrebbero litigato troppo, ma si era sbagliato di grosso.
<< Dai ragazzi, non vi sembra di esagerare un po’? >> Intervenne Oscar, che fino a quel momento se n’era stato buono a leggere il suo paragrafo sulla classificazione delle rocce metamorfiche. Enea e Beatrice si guardarono in cagnesco.
<< Insomma! C’è puzza di aria negativa qui, a Zosimo questo non piace proprio! >>
Sbottò allegramente il folletto, che se ne stava tutto allegro a colorare la scritta gigantesca che Oscar aveva disegnato sul cartellone per il titolo: “ Le rocce metamorfiche” in multicolore. << Allora, Zosimo, potresti chiedere tu ad Enea di tagliare l’immagine senza mutilarne i bordi? >> Domandò stanca Beatrice, lasciando cadere le braccia sul tavolo tra i fogli, Zosimo fece spallucce ed Enea la fulminò con lo sguardo.
<< Basta! Io passo, me ne torno a casa! >> Scattò il ragazzo alzandosi in piedi, nel momento esatto in cui disse quelle parole tutti gli altri protestarono, ad eccezione di Beatrice.
<< Non puoi andartene Enea! Andiamo, è una cosa che dobbiamo fare insieme! >> Intervenne Oscar lasciando andare finalmente il libro, Lisandro provò a convincerlo allo stesso modo. << Dai, non andare. >>
<< Lasciatelo fare, si vede che vuole prendere due, perché può star pur certo che io il suo nome non ce lo metto sul cartellone >>
La voce roca di Beatrice sovrastò tutte le altre e li fece ammutolire, la ragazza non guardava nessuno negli occhi, se ne stava con le braccia incrociate seduta attorno al tavolo e lo sguardo accigliato e severo puntato sulla finestra.
<< Sai cosa ti dico Beatrice, stai un po’ esagerando >> Commentò Oscar alzandosi in piedi per andare verso Enea, il ragazzo lo stroncò sul nascere con un gesto della mano.
<< Fai quello che ti pare, me ne sbatto del due e soprattutto di te. Io non farò questo progetto finché la racchia non si da una calmata! >>
Oscar e Zosimo fecero per intervenire, ma Enea se ne andò prima che potessero dire altro.
Quando la porta si fu chiusa, nella stanza calò il silenzio, Beatrice percepì tutti gli sguardi degli altri puntati su di se, ma non si mosse.
<< Beatrice! Hai veramente esagerato, se non riporti indietro Enea, consegneremo il progetto senza di te >> Sbottò severamente Oscar, Beatrice si girò a guardarlo con un’espressione omicida negli occhi.
<< Non puoi farlo! >> Gridò indignata, Oscar non si scompose minimamente di fronte quell’attacco d’ira improvviso, né gli altri due ragazzi vennero in soccorso a Beatrice.
<< Non sfidarmi, domani mattina chiederai scusa ad Enea e lo farai tornare. Altrimenti metteremo il suo nome e non il tuo >>
Beatrice si fece viola nel sentir pronunciare quelle parole, Enea Colombo le aveva dato la morte per due intere settimane dall’inizio della scuola, Beatrice era consapevole del fatto che quei ragazzi avrebbero difeso lui, lo conoscevano da molto più tempo, ma non avrebbe mai chiesto scusa ad un maleducato come Enea Colombo.
<< Non lo farò, non puoi chiedermelo dopo tutto quello che Enea mi ha … >>
<< Non mi importa Beatrice >> La freddezza dell’espressione di Oscar la zittì subito, Beatrice sentiva le lacrime pronte a spuntare dai suoi occhi, ma non avrebbe ceduto.
<< Ma voi non potete … >>
<< Oh insomma, basta! Non solo sei racchia, ma anche una rompiballe! >>
Scattò esasperato Lisandro, e lui perdeva davvero molto raramente la pazienza, infatti, non appena le sue labbra finirono di pronunciare quelle parole, si pentì di aver detto quella cattiveria. Anche per lui Beatrice era esasperante, ma non avrebbe dovuto farlo.
Oscar trasalì quando si accorse delle lacrime che cominciarono a cadere sul viso di Beatrice, la ragazza aveva lo sguardo puntato a terra, come ipnotizzata, stava incassando il colpo, poi si asciugò frettolosamente la faccia, furiosa, afferrò la cartella e se ne andò sbattendo la porta.
<< Abbiamo un po’ esagerato >> Mormorò Oscar grattandosi la testa, Lisandro era rosso come un pomodoro maturo.
<< Tu dici? >> Commentò anche un po’ troppo allegro Zosimo, che per tutto il tempo aveva continuato a colorare la sua scritta e aveva tutte le mani imbrattate come un bambino.
Oscar lo fulminò con lo sguardo.
 
Il quarto gruppo non aveva nemmeno cominciato il lavoro.
Quando Telemaco Villa aveva saputo che Fiorenza e Zoe sarebbero state in gruppo con lui e Igor, aveva deciso a priori di non partecipare e di prendere un bel due.
Era la prassi cominciare l’anno con due in scienze, per lui non sarebbe stato un dramma.
Igor però non la pensava assolutamente allo stesso modo, così l’aveva attirato a casa sua con un inganno. Gli aveva assicurato di aver diviso il progetto in due, una parte l’avrebbero fatta le ragazze, l’altra loro, così da non essere mai in contatto se non il giorno della presentazione. Così alle tre del pomeriggio di un mercoledì infrasettimanale, Telemaco si ritrovò a casa di Igor, nella sua immensa camera, a tagliuzzare immagini di minerali a non finire. Il loro cartellone stava venendo piuttosto bene e l’avevano quasi finito quando il campanello di casa bussò freneticamente, Telemaco lanciò un’occhiata accigliata all’amico, Igor si limitò ad alzarsi da terra e lasciare la stanza per aprire la porta.
Quando ritornò in compagnia di Zoe e Fiorenza, ci mancò poco che Telemaco si affogasse con la sua stessa saliva, Igor l’aveva pugnalato alle spalle, non ci poteva credere.
<< Ehilà Telemaco, ti piace il nostro cartellone? Oh, vedo che voi non avete ancora finito >>
Commentò allegra Zoe, mostrando la loro parte di lavoro già finita, i cartelloni erano troppo simili perché non ci fosse un complotto sotto, così Telemaco capì perché durante il corso del lavoro Igor non avesse fatto altro che scattare fotografie.
L’aveva ingannato proprio in tutti i sensi, era un genio del male.
Telemaco lo fulminò con lo sguardo quando i tre si rimisero seduti a terra, Fiorenza non lo guardava e si teneva a debita distanza da lui.
<< Sei un traditore >> Sibilò tra i denti all’amico una volta che si fu seduto, Fiorenza e Zoe fecero finta di non sentire nulla.
<< Dobbiamo dividerci le parti da studiare Telemaco >> Replicò tranquillo Igor, raggruppando insieme il materiale da dividere per quattro. Telemaco mise il broncio e non gli rispose nemmeno, aveva il forte desiderio di sbattere quei libri sulla testa dell’amico.
<< Potevamo anche farlo per telefono >> Brontolò il giovane, Zoe lo fulminò con lo sguardo e gli pizzicò il braccio con violenza.
<< Smettila Telemaco, non faremo come vuoi tu solo perché ti ritieni un gran fico! Questo progetto dobbiamo farlo insieme, che tu lo voglia o no! >>
Telemaco e Zoe si guardarono per un po’ in cagnesco, reggendo gli sguardi, alla fine il ragazzo si arrese e non fiatò per tutto il tempo restante.
Almeno fu la soluzione migliore per non parlare con Fiorenza, che accennò giusto due parole quando Igor le passò la sua parte da studiare.
Quando le due ragazze se ne furono andate, Telemaco diede di matto e si infuriò con Igor, che rimase seduto tranquillo sul letto con le gambe incrociate e il libro dell’Odissea aperto a metà.
<< Come hai potuto giocarmi un tiro così basso?! Sei davvero un amico da far schifo! >>
Sbraitò il biondo puntandogli il dito contro e agitandosi più del necessario, Igor mantenne gli occhi verdi fissi su di lui. Non capiva tutta quell’agitazione.
<< Qui non c’entra niente la nostra amicizia Telemaco, è un progetto scolastico. Devi farlo con le persone che ti vengono assegnate, tutto il resto è superfluo. Devi essere professionale, tutto qui >> La calma di Igor fece imbestialire ancora di più Telemaco, che girava per la stanza come un cane in gabbia pronto a mordere.
<< Professionale?! Ma hai visto che brutta aria tirava in questa stanza? Sarebbe stato meglio che tu non l’avessi fatto, io non mi sarei arrabbiato e Fiorenza non avrebbe avuto la faccia che aveva! Certe cose non le capisci proprio, vero? E’ per questo che lei non ti guarderà mai come vuoi tu. >> Per tutto il tempo che aveva parlato Igor tenne lo sguardo sul libro, come se non l’avesse affatto sentito, ma non era vero, il moro aveva incassato ogni singola parola.
<< Infatti, certe cose non le capisco >> Telemaco tacque e si fermò, mentre Igor sollevava gli occhi verdi e taglienti su di lui. << Adesso, se vuoi scusarmi, vorrei finire di leggere il capitolo di Circe, grazie >> Igor tornò a posare lo sguardo sul libro, Telemaco si morse il labbro inferiore e strinse forte la tracolla della cartella tra le mani. Quello era proprio un tasto dolente per Igor, perché aveva detto quelle cose?
<< Andiamo Igor, non volevo dire proprio … >>
<< Si, volevi. >>
Telemaco sospirò pesantemente e lasciò la stanza, quando se ne fu andato, Igor afferrò il libro e lo scagliò lontano contro la parete della camera.
 
Venerdì, durante la lezione di scienze, Igor non era sicuro di aver dato il meglio di sé.
Il loro gruppo era il primo perché partivano dalle basi, Zoe e Fiorenza avevano fatto la loro parte piuttosto bene, Telemaco se l’era cavata con la sua aria spavalda, lui era ancora troppo arrabbiato e deluso perché non si ripercuotesse sulla sua prestazione.
Igor era fatto così, non sapeva discernere le cose.
<< Tutto bene Igor? >> Domandò la professoressa quando il ragazzo finì di parlare con un’espressione afflitta. Elettra Valenti era una donna minuta, un po’ grassoccia, aveva i capelli corti e rossicci, mentre gli occhi erano verdissimi. Aveva trentadue anni ed era la loro insegnante più giovane.  << Si, professoressa >> Replicò il ragazzo senza sollevare lo sguardo, la professoressa lo guardò con preoccupazione, ma non insistette troppo e poi suonò la campanella di fine lezione, ed era anche l’ultima ora.
<< Va bene, allora, Villa e D’ Angelo sette e mezzo, Bassi, sette e Testa sei e mezzo >>
Mormorò la professoressa lanciando uno sguardo veloce ad Igor, ma il ragazzo non disse e non fece nulla, si limitò ad andarsene a posto mentre i suoi compagni lasciavano velocemente l’aula senza essersene nemmeno accorti.
Nella classe rimasero solo loro quattro, intenti a riordinare le cartelle e i banchi.
<< Ascolta Igor, mi dispiace >> Disse Telemaco senza guardarlo, Igor fece lo stesso. << Non è bello prendere la metro senza che tu mi rivolga la parola >>.
<< Sono in ritardo, voglio andare a casa >> Si limitò a commentare Igor mentre chiudeva la cartella, Telemaco si morse il labbro inferiore.
Odiava litigare con Igor perché dopo era complicatissimo chiedergli scusa.
Igor guardò frettolosamente le due ragazzi ai primi banchi ridere e sistemare le loro cose senza badare loro, il suo sguardo si soffermò un po’ di più sulla figura snella e minuta di Zoe, poi sospirò e lasciò l’aula.  




___________________________________________
Effe_95

Buonasera a tutti
Vi chiedo scusa se ho aggiornato con un po' di ritardo, ma sto preparando due esami per la sessione di Giugno/Luglio davvero impegnativi, quindi cercate di capirmi. 
Allora, in questo capitolo assistiamo alla preparazione del progetto di scienze di altri gruppi, spero vivamente che vi sia piaciuto, piano piano mostrerò tutti i "problemi" di questi ragazzi, che andranno poi anche ad intrecciarsi.
Grazie mille come sempre, alla prossima spero.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Amore forse?, Pallonate e Spaventi. ***


I ragazzi della 5 A
 
7. Amore forse?, Pallonate e Spaventi.
 
 
Ottobre
 
<< La squadra di calcio! >>
Giasone Morelli avrebbe voluto strozzare il suo migliore amico con tutto il cuore quel tiepido 2 Ottobre. Erano entrambi sudati, stanchi e con i muscoli a pezzi.
Era l’ora di educazione fisica e stavano giocando una terribile partita di palla a mano.
Ivan si era lasciato cadere a terra sul bordo campo non appena il professor De Luca aveva fischiato la fine del primo tempo, e aveva spifferato tutto a Giasone dopo quasi una settimana dall’accaduto. Non ne poteva più di tacere.
<< Lo so, ho fatto una cazzata! Ma se le avessi detto che quello era davvero il suo nome, non si sarebbe spaventata a morte? >> Ivan aveva la fronte tutta imperlata di sudore e i capelli neri come la notte erano attaccati sulle tempie, mossi e lucidi. Giasone sedeva accanto a lui con la bottiglietta dell’acqua tra le mani, ne aveva bevuta metà in una sola volta.
<< Probabilmente, ma non potrai mai saperlo! Andiamo Ivan, è dal primo anno di liceo che le stai dietro, magari era la volta buona che te la dava >>
Ivan gli lanciò un’occhiataccia e lo spintonò con forza, tanto che Giasone si sbilanciò e cadde con il sedere per terra. Aveva le mani bagnate a causa della bottiglietta e gli era mancata la presa, ovviamente non rimase contento dal gesto dell’amico, anche perché Ivan non lo aiutò a rialzarsi. Non lo fece proprio.
<< Smettila! Lo sai bene che non è quello che voglio da lei! >>
Ivan sbottò quelle parole con irritazione, passandosi una mano tra i capelli bagnati, la loro squadra stava perdendo disastrosamente e gli facevano male le braccia a furia di tirare inutilmente palle in porta, Oscar sembrava un portiere impenetrabile.
<< Già, dopotutto per quello non hai mai avuto bisogno di lei, no? Ne hai avute così tante >>
Giasone lo stava guardando ancora male, mentre si asciugava le mani sporche di erba sintetica sui pantaloncini.
<< Quando fai così non ti sopporto Giasone!  Sai benissimo che non ne ho avute così tante, ma solo una! E poi non è di questo che stavamo parlando >>
Ivan osservò l’amico con fare irritato, Giasone sospirò rumorosamente e finì di bere in una sola volta il resto della bottiglietta, era accigliato quando porse ad Ivan la domanda che avrebbe sempre voluto porgli.
<< Beh, ma se non vuoi quello da lei, cosa ti aspetti? >>
Ivan guardava lontano quando rispose.
<< Amore, forse? >>
Il discorso finì lì, perché il professor Alceo De Luca li richiamò immediatamente in campo per il secondo tempo.
 
<< Mi sta uscendo ancora il sangue dal naso? >>
Catena stava per svenire, lo sentiva in tutte le molecole del suo corpo.
Era tipico di lei farsi male durante l’ora di educazione fisica, ma quella era in assoluto la prima volta che qualcuno la colpiva con una pallonata sul naso. Si era ritrovata stesa a terra con la vista appannata e una marea di facce che la scrutavano apprensive, quando il professore l’aveva tirata su con lentezza, il sangue aveva cominciato a cadere a fiotti.
L’avevano immediatamente soccorsa, medicata, e poi avevano chiamato sua madre perché venisse a prenderla, e lei stava ancora aspettando.
Quella giornata era cominciata nel verso giusto per Catena, stranamente.
Non aveva fatto tardi come suo solito, il progetto di scienze era andato alla grande e tutti i componenti del suo gruppo avevano preso otto ( Italia, Ivan, Giasone e Romeo).
Le era sembrato tutto troppo bello e si era sbagliata alla grande.
<< No Catena, stai tranquilla >> Replicò Italia scostandole il tampone dal naso, Catena sospirò pesantemente, aggiustandosi alcune ciocche di capelli sfuggite alla treccia dietro l’orecchio. L’unica cosa positiva era che non le si era formato il livido, era solo un po’ arrossata lì dove aveva premuto il ghiaccio per tanto tempo.
<< Mi spiace che tu debba aspettare qui con me Italia, non ti dicono nulla se salti l’ultima ora? >>  Catena guardò l’amica con fare apprensivo, contorcendosi le mani, Italia la bloccò e le sorrise dolcemente, come faceva sempre quando l’amica andava in ansia.
<< E’ stata la professoressa Vitale a dirmi di restare con te, tranquilla >>
<< La pallonata in faccia mi mancava >> Brontolò Catena imbronciata, Italia ridacchiò divertita.
<< Oscar era davvero dispiaciuto, non faceva altro che scusarsi >>
Italia rideva nel pronunciare quelle parole, ancora divertita dal commento precedente di Catena, ma quest’ultima aveva la mente altrove, non era stato affatto piacevole essere colpita dal ragazzo per cui stravedeva.
<< Ho fatto la figura della stupida con lui, come sempre >>
Mormorò abbassando lo sguardo, Italia smise di sorridere e le accarezzò le mani.
<< Non è vero Catena, può capitare a tutti di essere colpiti da una palla! >>
Catena dubitava fortemente che capitasse frequentemente, ma apprezzava molto il tentativo della sua migliore amica di tirarle un po’ su il morale, pensò fosse meglio cambiare discorso.
<< Vuoi parlarmi un po’ di cos’è successo con Ivan in quella cartolibreria? >>
Italia sobbalzò leggermente nel sentire quelle parole, aveva accennato qualcosa a Catena la settimana prima, ma poi non aveva più trovato il coraggio di parlarne, perché non sapeva spiegarsi nemmeno lei cosa stesse realmente succedendo.
Aprì la bocca per parlare, quando la sua attenzione venne catturata da una figura ritta accanto alla porta, Catena la fissava con apprensione.
<< Magari te ne parlerò un’altra volta >> Commentò Italia, continuando a tenere gli occhi fissi sulla figura alla porta, Catena si accigliò e seguì il suo sguardo, per trovare un Oscar Sartori molto imbarazzato che le osservava.
Il ragazzo fece qualche passo avanti e si avvicinò alle due.
<< Ho chiesto alla professoressa di andare in bagno … posso … posso parlare un attimo con Catena? >> Oscar sembrava essere davvero molto, molto imbarazzato.
Catena si girò a guardare Italia con supplica, chiedendole apertamente di non abbandonarla, ma Italia saltò in piedi immediatamente, anche troppo allegra, e se ne andò senza dir nulla.
Oscar e Catena si fissarono per un po’ imbarazzati, poi il ragazzo fece un altro passo avanti e si mise seduto accanto a lei.
<< Come va il naso? >> Domandò lui senza guardarla negli occhi, aveva le guance leggermente arrossate a causa della vergogna, ma Catena pensò fosse a causa del caldo tiepido di quell’Ottobre un po’ strano.
<< Oh, bene. Non è successo niente di grave, solo un po’ di sangue. >>
Rispose frettolosamente la ragazza, distogliendo lo sguardo a sua volta, quando parlava con Oscar le si impappinava la lingua e cominciava a sudare freddo.
<< Beh, sembra che quest’anno sia nel nostro destino >>
Commentò il ragazzo, e Catena ricordò il primo giorno di scuola, quando era andata a sbattere con il naso contro il petto del ragazzo dopo aver fatto una pessima figura con il professore di greco e latino, Costantino Riva.
<< Credo che prima o poi si romperà >> Replicò Catena torturandosi la maglietta, Oscar si girò a guardarla e le sorrise, poi allungò una mano e le accarezzò il naso con le lunghe dita affusolate, notò con sorpresa che la pelle di Catena era morbida e vellutata.
<< Speriamo di no, sarebbe un vero peccato >> Mormorò sovrappensiero, Catena cominciò ad andare in iperventilazione, aveva il viso in fiamme, ma non osava muoversi, aveva paura che Oscar scostasse le mani dal suo viso, le piaceva essere toccata da lui.
<< Domani sera ci vediamo nel locale del padre di Ivan, ci vieni? Lui e Aleksej suonano qualcosa >> La domanda di Oscar la portò alla realtà, Catena sospirò un po’ troppo eccessivamente quando lui tolse le dita dal suo viso. Il locale del padre di Ivan era il luogo di ritrovo della 5A, si riunivano lì una volta la settimana, di venerdì sera, ma quella volta era capitato di mercoledì.
<< Si … me ne avevano parlato. Tu ci vai? >>
<< Come sempre. Tu no? Vorrei che venissi >>
Oscar pronunciò quelle parole guardandola negli occhi, e per la prima volta Catena non distolse lo sguardo, per valutare se lui la stesse prendendo in giro oppure no, ma gli occhi del ragazzo erano così limpidi che avrebbe davvero meritato un premio cinematografico se stava mentendo.
<< Ci sarò >> Catena rispose con tutto il cuore, ma quella conversazione non era stata ascoltata solamente dai due interessati. Sonia Castelli se ne stava dietro la porta da un po’ di tempo e sorrideva soddisfatta, Catena Greco non le era mai stata simpatica.
 
Beatrice Orlando respirò profondamente e poi contò fino a tre.
Stringeva convulsamente dei libri tra le braccia e osservava Enea Colombo scendere le scale con calma e ridere in compagnia di Lisandro e Cristiano. L’ultima ora era ormai finita e presto il ragazzo se ne sarebbe andato, quella era la sua ultima occasione per scusarsi con lui.
La consegna del progetto di scienze era alle porte e mancavano solo pochi giorni per finire il tutto, se Enea non fosse tornato nel gruppo, le sarebbe toccato un bel due, e lei non aveva mai preso due in niente nella sua vita.
Tuttavia le risultava assolutamente difficile chiedere scusa a quel troglodita.
Decise di farsi forza nel momento esatto in cui Enea mise piede sull’ultimo gradino, scese di corsa le scale, e una volta che lo ebbe raggiunto gli afferrò un lembo del giubbotto e lo strattonò timidamente. I tre ragazzi si fermarono a guardarla, Beatrice cercò inutilmente di non arrossire e di non notare lo sguardo accigliato di Lisandro e Cristiano, si limitò a fissare Enea negli occhi, che ricambiava disgustato, irritato e arrabbiato.
Beatrice cercò di farsi forza e si schiarì la voce prima di parlare.
<< Ho bisogno di scambiare due parole con te da sola >> Sbottò tutto in un sol colpo, restando impassibile e seria, aspettò che Enea le scoppiasse a ridere in faccia, ma lui non lo fece.
Al suo fianco, Cristiano fischiò e afferrò un Lisandro molto perplesso e poco divertito per un braccio, strattonandolo verso di se.
<< Oh, qui la situazione si fa interessante. Lasciamo i due piccioncini da soli, Lisandro. >> Poi si avvicinò all’orecchio di Enea << Fammi sapere che taglia porta di tette, da quelle magliette extralarge non si capisce >>. Beatrice sentì benissimo tutta la frase, era chiaro che Cristiano volesse assolutamente farsi sentire. La ragazza strinse i pugni combattendo contro il desiderio di coprirsi il petto con le braccia, ma Enea non reagì a quelle parole e non le guardò il seno. Aspettò che Lisandro e Cristiano se ne andassero, quest’ultimo ridendo come uno stupido, e poi sbottò : << Cosa c’è?! >>.
Beatrice lo guardò a disagio, ancora turbata dalle parole di Cristiano, quelle insinuazioni non le avevano fatto piacere e le avevano portato alla mente brutti ricordi, così ci mise un po’ per rispondere, Enea notò il suo disagio e ne approfittò.
<< Oh, la nostra piccola secchiona si aspetta qualcosa da questo incontro? >>
Domandò malizioso, facendo un passo verso di lei, Beatrice cercò di fulminarlo con lo sguardo, ma quando Enea la afferrò per un braccio trascinandola verso le palestre, nel corridoio deserto, Beatrice fu assalita dal panico.
<< No! >> Strillò spaventata, strattonò il braccio e indietreggiò con le mani sulle orecchie. Enea rimase completamente spiazzato da quella reazione, lui stava solamente scherzando e credeva che per Beatrice fosse ovvio, dopo tre settimane passate seduto accanto a lei, pensava fosse abituata ai suoi scherzi.
Beatrice però era davvero terrorizzata, aveva le lacrime agli occhi e le tremavano le braccia.
<< Ehi, Beatrice, stravo solo scherzando >> Commentò Enea allungando un braccio verso di lei per calmarla, Beatrice lo guardò furiosa e fece un passo indietro.
<< Volevo solo chiederti scusa per la faccenda della settimana scorsa a casa di Lisandro! >>
Enea sobbalzò nel sentire quelle parole, era sorpreso << Ma tu hai … fa un po’ come ti pare! Non mi importa più nulla di quello stupido progetto! >> Sbottò Beatrice dando libero sfogo alle lacrime, poi se ne andò lasciando Enea spiazzato nel corridoio deserto.


___________________________________
Effe_95 

Buongiorno a tutti :)
Eccomi con un nuovo capitolo, che spero vi piaccia.
All'inizio abbiamo Ivan e Giasone, finalmente il moro si è deciso a confessare tutto all'amico, e ci tenevo moltissimo che i veri sentimenti di Ivan venissero fuori in questo capitolo, che si capisse davvero quando lui tenga ad Italia, che si capisse che non la vede solamente come un oggetto del desiderio.
Spero vi sia piaciuta anche la parte di Oscar e Catena, e so che la reazione di Beatrice magari è stata un po' esagerata, ma ovviamente c'è una spiegazione per tutto ;)
Grazie mille come sempre a tutti, spero che il capitolo vi piaccia.
Alla prossima.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Olimpo, Dioniso e Insalate. ***


I ragazzi della 5 A
 
8.Olimpo, Dioniso e Insalate.
Ottobre
 
Il locale del padre di Ivan era un misto tra un pub, un pianobar e una discoteca.
L’avevano chiamato Olimpo perché i panini e le bibite servite prendevano i nomi delle divinità e di tutte le restanti creature mitologiche. L’intero ambiente era stato disegnato riprendendo quell’atmosfera, così, quando si apriva la discoteca, sembrava di ballare in un tempio greco un po’ dissacrante, rumoroso e colorato.
Ivan non aveva mai capito perché suo padre e sua madre fossero fissati con la cultura dell’antica Grecia, almeno con lui si erano limitati a dargli per secondo nome Ettore, e non Iperione e robe simili.
Quella sera Italia non sarebbe voluta venire.
Di solito le piacevano quelle serata passate con i compagni di classe in un locale dove non servivano più di una birra o un bicchiere di vodka a testa, l’Olimpo era il loro posto di ritrovo, eppure quella sera non si sentiva affatto tranquilla, aveva il cuore in subbuglio.
Aveva accettato di andare solamente per accompagnare Catena e Romeo, la verità era che vedere Ivan  non le andava molto, da quando aveva visto quel tatuaggio e aveva posto quella stupida domanda, si era risvegliato qualcosa in lei, qualcosa che le provocava un grandissimo disagio. Anche se non sapeva spiegarsi cosa fosse.
Era da più di mezz’ora che se ne stava seduta al bancone sorseggiando la sua bevanda preferita, un freschissimo Dioniso, frappé alle fragole con pezzettini di lampone congelati all’interno. Non aveva niente a che vedere con il vino, ma era rosso, probabilmente era per quel motivo che gli avevano dato un nome del genere.
Catena se ne stava seduta al suo fianco, un po’ agitata, i capelli neri erano come al solito legati in una treccia troppo elastica che lasciava sfuggire alcune ciocche, il viso senza trucco era pallido sotto la luce di una lampadina azzurra e sembrava sprofondare nei suoi stessi vestiti talmente erano larghi e sproporzionati, le nocche nelle mani le si erano fatte completamente bianche a furia di stringere la tracolla della sua borsa di stoffa preferita, quella rossa con la scritte in tedesco sopra. “Hast du ein bisschen Zeit für mich?”. Hai un po’ di tempo per me?
<< Tra poco le mani ti cadranno a terra >> Catena e Italia sobbalzarono quando Romeo si appoggiò sul bancone proprio tra di loro, era stato così silenzioso che non l’avevano sentito arrivare. Il ciuffo decolorato gli cadeva sfacciatamente sugli occhi verdi un po’ arrossati, si era tagliato recentemente i capelli, ma sembravano solamente più asimmetrici.
Catena lo guardò come se fosse scandalizzata e non avesse capito le sue parole, Romeo le indicò le mani intrecciate introno alla tracolla della borsa. << Ti si è completamente bloccata la circolazione, se non la smetti le perdi davvero le mani, sai? >>
Catena lasciò andare immediatamente la presa e un formicolio fastidioso le serpeggiò per tutti e due gli arti, odiava quando le si “addormentava” qualcosa, ma era così agitata che non ci aveva nemmeno fatto caso.
Non capiva cosa avesse in mente Oscar, le aveva fatto chiaramente capire di venire, eppure non le aveva nemmeno parlato, solo un misero saluto accennato da lontano quando l’aveva vista arrivare.
<< Hai già bevuto la tua birra, Romeo? >> Domandò invece Italia, parlando per la prima volta, aveva appena staccato la bocca dalla cannuccia e un po’ di crema alla fragola e lampone le era rimasta sulle labbra ricoperte di lucidalabbra al cocco.  
Romeo sorrise a trentadue denti.
<< Si, e a dire la verità anche quella di Lisandro. Non la voleva, così me l’ha data. E’ davvero un bravo ragazzo, non trovate? >> Italia alzò gli occhi al cielo, Romeo era decisamente troppo brillo, Catena guardò la scena con le sopracciglia aggrottate, come faceva sempre quando era preoccupata o qualcosa non le andava a genio.
<< Te le sei scolate tutte e due di seguito? >> Chiese Italia incrociando le braccia al petto, Romeo le sorrise dolcemente con gli occhi a cuoricino. << Si >> Singhiozzò e scoppiò a ridere, come un bambino di due mesi che scopre per la prima volta l’esistenza di un singulto.
<< Devo dirne due a Lisandro >> Brontolò Italia tra se e se, mentre Romeo infastidiva Catena giocando con la sua treccia, la ragazza lo schiaffeggiava sulle mani e poi guardava con insistenza il piccolo palchetto dove Ivan, Oscar e Aleksej stavano parlando e sistemando gli strumenti. << Ehi Italia, sei sporca sulle labbra >> Mormorò Romeo con la voce impastata, girandosi verso l’altra ragazza, perché Catena aveva smesso di starlo a sentire blaterare.
Italia si girò e trovò il volto di Romeo un po’ troppo vicino al suo, lui aveva appoggiato il mento sulla sua spalla, un sorriso ebete stampato sulle labbra, gli occhi arrossati e l’alito che odorava di birra scura. Fece per pulirsi con un fazzolettino, ma Romeo vi posò sopra le sue labbra, Italia lo spostò leggermente un po’ sconcertata, lui le sorrise lievemente, e poi si assaggiò le labbra che avevano appena baciato quelle di Italia.
<< Mmmm … fragola, lampone e cocco >> Italia contrasse le sopracciglia e fece per replicare minacciosamente, quando un rumore assordante la interruppe.
Tutti gli occhi erano puntati su Ivan, che aveva lasciato cadere la chitarra sulla batteria come una reazione a catena. Il ragazzo si era immediatamente affaccendato a riparare il danno fatto, ma era rosso in volto. Ivan non poteva ammettere di aver sollevato lo sguardo proprio al momento sbagliato, proprio quando Romeo De Rosa aveva posato le labbra su quelle di Italia. La chitarra era caduta con un riflesso incondizionato, Ivan sperava vivamente che Oscar e Aleksej non se ne fossero accorti, e a quanto pare era proprio così, perché i due erano troppo impegnati ad imprecare in tutte le lingue che conoscevano.
Il cuore di Ivan martellava nel petto in maniera incontrollabile, e il ragazzo si maledì mentalmente per non aver detto si in quella stramaledetta cartolibreria, le cose probabilmente sarebbero andate diversamente quella sera.
Nell’angolo della sala con il palchetto, seduta nel poso più remoto, Beatrice pensava che fosse stata davvero una pessima idea andare in quel posto. Era la prima volta in assoluto per lei che era la nuova arrivata della classe, Ivan l’aveva invitata con molto calore, spiegandole che di solito andavano lì tutti i venerdì, dove il locale era riservato solo a loro con entrata gratuita, ma che per quella settimana era capitato il mercoledì.
Beatrice era stata entusiasta del modo gentile con cui il compagno di classe le si era rivolta, insieme a Giasone, le sembravano due tipi apposto, aveva atteso che quella sera arrivasse con serenità, fino a quando Enea Colombo non l’aveva spaventata a morte.
Beatrice sapeva benissimo che Enea stava scherzando, ma era stato più forte di lei, il passato l’aveva completamente travolta. E quella sera se ne stava nascosta in quell’angolo sperando che Enea non la notasse, perché avrebbe voluto sicuramente qualche spiegazione o l’avrebbe presa in giro spudoratamente davanti a tutti i suoi nuovi compagni di classe. Beatrice era stata tentata dal desiderio di non andare proprio, ma come nuova arrivata non avrebbe fatto una bella impressione, e poi sarebbe stato scorretto nei confronti di Ivan, che si era comportato così bene con lei. Si guardava ansiosamente intorno quando qualcuno si mise seduto accanto a lei, sobbalzò talmente tanto che Lisandro indietreggiò.
<< Scusami … non volevo spaventarti >> Disse il ragazzo, passandosi distrattamente una mano sui capelli cortissimi e castani. Lisandro sembrava molto imbarazzato e Beatrice non capiva il perché, così lo guardo accigliata. Lisandro scambiò quell’espressione per rabbia.
<< Ascolta Beatrice, mi dispiace veramente moltissimo per quello che ti ho detto la settimana scorsa >> Lisandro si contorceva disperatamente la maglietta tra le mani, Beatrice lo guardò ancora un po’ perplessa, cercando di ricordassi cosa fosse successo la settimana precedente, e poi ricordò la lite a casa del ragazzo e le cose cattive che le aveva detto.
<< Non ha importanza Lisandro >> Rispose lei abbassando lo sguardo, non le importava più nulla, se l’aveva dimenticato, voleva dire che non aveva davvero significato nulla per lei.
 Che le era assolutamente passata. Lisandro però sembrava mortificato lo stesso.
<< Invece ne ha! Non avrei dovuto permettermi di dire una cosa del genere, non ti conosco nemmeno, chi sono io per darti della rompiscatole? >> Beatrice scoppiò a ridere lievemente, dimenticandosi per la prima volta in tutta la serata la sua ansia e perché si stesse nascondendo. << Ma io sono una rompiscatole Lisandro! >> Esclamò ridendo ancora, Lisandro abbozzò un leggero sorriso e le porse un bicchiere di aranciata, che lei prese con gratitudine e sorpresa. << Brindiamo? >> Domandò il ragazzo, Beatrice lo guardò curiosa.
<< A cosa vorresti brindare? >> Chiese ancora divertita, Lisandro sollevò gli occhi per pensare e poi si illuminò. << Brindiamo alla nostra nuova amicizia, sei d’accordo? >>
Beatrice lo scrutò per un po’ in faccia, poi guardò le bollicine salire freneticamente dal fondo del bicchiere in superficie e annuì. << E sia >>
I due ragazzi sollevarono i bicchieri di plastica e li accostarono, nel contatto alcune goccioline frizzanti caddero sulle mani dei due, che bevvero il primo sorso ridendo.
<< A cosa dobbiamo tutta questa allegria rivoltante? >>
Al suono di quella voce Beatrice si gelò sul posto, Lisandro guardò Enea con ancora la risata sulle labbra, ignaro di tutto, ma Beatrice si stava maledicendo per aver fatto tutto quel baccano. Enea doveva essere appena arrivato.
<< Oh, ciao Enea, siediti con me e Beatrice! Stavamo brindando alla nostra amicizia >>
Raccontò allegro Lisandro, evidentemente si era tolto un bel peso dalla coscienza, perché era anche fin troppo sollevato. Enea non disse nulla, si lasciò cadere sul divanetto attorno al tavolino e teneva lo sguardo puntato su Beatrice, dall’altra parte, la ragazza faceva finta di non vederlo affatto.
Pessima mossa.
<< Ehi Lisa, non ho nulla da bere e non posso brindare con voi, mi vai a prendere un bicchiere anche a me, per favore? >> Beatrice sperò che Lisandro fosse abbastanza intelligente da capire che non era il caso di lasciarli da soli, ma il ragazzo non ci pensò nemmeno, si alzò allegro e rispose con enfasi: “ certo amico, torno subito!”.
Enea e Beatrice rimasero soli.
Lui continuava a fissarla ostinatamente, lei teneva lo sguardo basso sul tavolino.
<< Guardami! >> Sbottò lui infastidito, Beatrice non obbedì a quel comando, così Enea si alzò e andò a mettersi seduto dove poco prima c’era Lisandro, quindi esattamente ad un centimetro dal fianco di Beatrice, che sobbalzò spostandosi.
<< Non sopporto affatto ciò per cui mi stai facendo passare! >> Sbottò lui freddo e acido, Beatrice continuava a non guardarlo, aveva le sopracciglia aggrottate e le tremavano le mani, sperò che Enea non se ne accorgesse. << Per cosa ti starei facendo passare, scusa? >> Domandò contrariata, contorcendosi le dita, Enea le afferrò rudemente le mani e gliele separò.
Evidentemente si era accorto che tremavano.
<< Per un maniaco sessuale! >> Forse Enea alzò un po’ troppo la voce, perché Zoe e Fiorenza, sedute un po’ più avanti in compagnia di Sonia Castelli e Miki Giorgi, si voltarono a guardarli con una strana espressione sul volto. Beatrice diventò viola dall’imbarazzo.
<< Zitto! >> Bisbigliò scandalizzata, Enea fece un gesto di non curanza con la mano.
<< Non credi di essere un po’ presuntuosa nel pensare che io voglia metterti le mani addosso? >> Beatrice aprì la bocca per balbettare qualcosa, ma Enea la precedette. << Non provocarmi Beatrice, perché vincerei io >> La ragazza stava soffocando, così stretta nel suo angolino, il fianco destro premeva dolorosamente sulla parete, mentre tutta la mole di Enea si protendeva minacciosa verso di lei, si sarebbe messa ad urlare dalla frustrazione se Lisandro, il suo angelo custode, non fosse tornato proprio in quel momento.
<< Ecco la tua birra Enea … cosa state facendo? >> Lisandro li scrutava dall’alto con un’espressione perplessa sul viso, Enea si spostò con molta noncuranza, come se non fosse successo nulla. << Stavo cercando di convincere Beatrice che nell’insalata ci va meglio il limone che l’olio, lei sostiene il contrario >>
Beatrice lo invidiava per il modo e la capacità che aveva di cambiare argomento in così breve tempo, e poi a lei non piaceva nemmeno l’olio nell’insalata.


____________________________________
Effe_95

Buonasera a tutti :)
Come prima cosa, volevo scusarmi con voi se in questo capitolo doveste trovare degli errori, purtroppo ultimamente non ho avuto molto tempo per correggerlo, avrei dovuto farvi aspettare ancora e ho preferito postarlo ugualmente. Sono un po' stressata ultimamente, e come ciliegina sulla torta oggi sono svenuta all'Università, a quanto pare io e Catena attiriamo disgrazie xD Ma a parte questo che non c'entra nulla, spero che il capitolo vi piaccia, comincio anche ad avvisarvi che da adesso in poi la situazione si farà un po' più movimentata.
Grazie mille come sempre per tutto e a tutti.
Alla prossima spero.
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** A voce troppo alta, Distrazioni e Registrazioni. ***


I ragazzi della 5 A
 
9.A voce troppo alta, Distrazioni e Registrazioni.
Ottobre
 
<< Continuerai a non rivolgermi la parola ancora per molto tempo Igor? >>
Telemaco era scoppiato all’ultima ora del 5 ottobre, mentre Enea, Beatrice, Zosimo, Oscar e Lisandro esponevano il loro progetto, l’ultimo finalmente. Al suo fianco, Igor stava prendendo assiduamente i suoi appunti, nel solito comportamento composto che assumeva sempre quando era interessato a qualcosa. Non si voltò nemmeno quando gli rispose.
<< Se non mi sbaglio, ti ho sempre rivolto la parola. Come in questo momento >>
Telemaco alzò gli occhi al cielo, era da più di due settimane che Igor si comportava in quel modo freddo e ostile.
<< Lo sai cosa intendo Igor! Non puoi fare così solamente perché ti ho detto la verità! >>
Telemaco si accorse di aver alzato un po’ troppo la voce, perché Gabriele e Aleksej, che erano seduti d’avanti a loro, si girarono con espressioni confuse.
Igor smise di prendere appunti, ma continuò a tenere lo sguardo fisso davanti a se, con i sottili occhi verdi leggermente socchiusi e la mascella contratta.
<< E quale sarebbe la verità Telemaco? >>
<< Che ti piace da impazzire Zoe Bassi! >>
Igor tremò quando sentì quelle parole, gli sembrò che tutta la classe le avesse sentite e che Telemaco avesse urlato a squarciagola. Si guardò intorno con il cuore in gola, ma nessuno aveva sentito nulla, perché l’amico aveva solo bisbigliato.
<< Smettila! Se l’hai capito, perché mi hai detto quella cattiveria?! >>
Igor stringeva la penna talmente forte che la plastica bianca si sarebbe spaccata da un momento all’altro sotto la sua stretta, continuava a non guardare Telemaco, che a sua volta aveva spostato lo sguardo su Enea, che stava esponendo la sua parte di progetto.
<< Perché volevo che tu ti svegliassi. Se non ti dai una mossa, la perderai. Igor, lei non sa nemmeno che esisti! >>
<< Adesso stai esagerando Telemaco! >>
Igor aveva letteralmente gridato, quella volta non era stato uno scherzo della sua immaginazione, quelle parole le aveva urlate con forza, perforando l’orecchio del suo migliore amico e facendo girare l’intera classe verso di lui.
La professoressa Elettra Valenti di scienze della terra lo fissava con sguardo contrariato dall’altra parte dell’aula, con i pugni serrati sui fianchi e un sopracciglio sollevato.
Igor diventò viola, si guardò intorno con le gote in fiamme e notò che Zoe lo stava fissando stupita, come se l’avesse sentito parlare davvero per la prima volta.
Il lato positivo era che almeno Zoe aveva scoperto della sua esistenza, dopo cinque anni di scuola insieme.
 
Quel pomeriggio Catena era distratta, Romeo era sovrappensiero e Italia non faceva altro che andare a sbattere contro la gente.
Avevano deciso insieme di andare al centro Commerciale per una passeggiata e un ultimo gelato prima che cominciasse il gelo, ma erano distratti e parlavano poco.
Quando arrivarono alla loro gelateria preferita, un po’ infantile e dai colori sgargianti, si lasciarono cadere attorno ad un tavolo con fare distratto, Catena non la smetteva di giocare con la punta della sua treccia, Romeo tormentava ritmicamente i lacci della sua felpa sgargiante e Italia non la smetteva di aggiustarsi gli occhiali sul piccolo naso.
<< Cosa prendete, ragazzi? >> Tutti e tre sollevarono contemporaneamente lo sguardo e guardarono la cameriera perplessi, come a chiedersi cosa ci facesse lì, Catena fu la prima a riprendersi dal trans.
<< Io un frappé alla vaniglia >> La cameriera prese nota e poi si voltò a guardare Romeo con un bel sorriso malizioso, ma il ragazzo la guardò distrattamente.
<< Una crema al caffè e nocciola per favore >>
<< Io prendo un frappé al pistacchio >> Completò Italia, e quando la cameriera se ne fu andata, i tre si guardarono negli occhi e sorrisero.
<< Oggi forse non era esattamente la giornata adatta >>
Disse Romeo, lanciando un’occhiata un po’ tirata e imbarazzata ad Italia, che non ricambiò affatto lo sguardo. Il ragazzo ricordava molto poco di quello che era successo all’Olimpo qualche sera prima, ma Gabriele gli aveva detto che aveva dato un po’ di matto e l’aveva baciata. Da quando l’aveva scoperto non faceva altro che pensarci.
<< Si, forse non lo era >> Mormorò Catena tormentando la sua treccia.
<< A proposito Italia … ecco … >> Cominciò a parlare Romeo, torcendosi le mani, la ragazza si girò a guardarlo accigliata << … per caso mercoledì … ti … ti ho baciato? >>
L’ultima parola Romeo la pronunciò con un filo di voce, in falsetto, Italia lo scrutò a lungo prima di rispondere, vedeva l’amico completamente nel pallone, sembrava quasi che avesse commesso peccato mortale per aver fatto una cosa del genere.
<< Eri ubriaco fradicio Romeo, hai bevuto birre a destra e sinistra. E poi, oltre ad avermi baciata, dopo hai anche vomitato sulle mie scarpe. >> Raccontò Italia con un leggero sorriso sulle labbra, mentre vedeva l’amico inorridire alla sola idea di essersi comportato così male.
<< E’ disgustoso >> Mormorò avvilito << Non berrò mai più! >>
<< Si grazie, così non dovrò raccogliere il tuo vomito dalla scarpe di Italia che saltella inorridita! >> Intervenne prontamente Catena con una finta aria di rimprovero stampata sulla faccia, i tre scoppiarono a ridere contemporaneamente, poi arrivò la cameriera con i loro ordini. Romeo pagò per tutti e tre, e quando ebbero finito di bere i frappé e la crema di caffè e nocciola si separarono.
Romeo tornò a casa perché aveva dei compiti di matematica da recuperare, Italia e Catena rimasero ancora un po’ nel centro Commerciale, entrando ogni tanto in qualche negozio di abbigliamento. Si trovavano proprio in uno di questi quando Italia decise di vuotare il sacco.
<< Ehi Catena, ti ricordi quando volevo accennarti quella cosa successa con Ivan in cartolibreria? >> Cominciò a raccontare la ragazza, mentre scrutava con fare distratto un vestitino color crema che aveva preso dallo stand. Catena si fece immediatamente attenta e smise di martoriare la sua lunga treccia nera. << Ecco, ho scoperto che Ivan ha tatuato sulla spalla “ Italia” >> Catena fece un sobbalzo quando sentì quelle parole.
<< Si è tatuato il tuo nome sulla spalla?! >> Sbottò la mora con enfasi, Italia sospirò pesantemente e posò il vestito, passando ad osservarne un altro, quella volta azzurro.
<< Ovviamente no Catena, ma io come una stupida gliel’ho chiesto. E da allora non smetto di pensare a lui e a quei maledettissimi occhi verdi che si ritrova! >> Sbottò Italia, posando malamente il vestito azzurro al suo posto, Catena la seguiva perplessa, con le sopracciglia folte e scure aggrottate.
<< Ma … da come ne parli, si direbbe che tu avresti voluto davvero che quel tatuaggio rappresentasse il tuo nome. >> Italia smise di fare quello che stava facendo e si girò a guardare l’amica, che la osservava piena di aspettative con quei suoi grandi occhi azzurri. Per la prima volta da quando quel tarlo le era entrato in testa, Italia si rese conto che Catena aveva ragione, che nel profondo dei suoi desideri, avrebbe voluto che quel tatuaggio fosse per lei, ma non vi trovava alcun senso logico.
<< Questo non ha alcun senso per me Catena, Ivan è sempre stato un buon amico >>
<< Perché tu non gli a hai mai permesso di essere nient’altro. Non ci hai mai nemmeno pensato >> A quelle parole Italia afferrò nuovamente il vestito color crema con foga e trascinò la migliore amica verso i camerini, mentre diceva: << Oggi sei molto saggia eh?>>
Catena rise mentre si lasciava trascinare, ma in cuor suo pensava che Italia alla fine non avesse risolto nulla del tumulto che le incendiava il cuore. Il negozio era quasi completamente vuoto, a parte loro due vi erano solo altre tre persone che vagavano tra i prodotti, così anche i camerini erano liberi, solamente uno sembrava occupato.
Catena si mise comodamente seduta fuori, mentre Italia si provava i vari articoli che aveva raccolto.
<< E tu invece? Perché sei così pensierosa? >> La voce di Italia giunse ovattata dall’interno del camerino, Catena, seduta sul divanetto bianco senza schienale, abbassò gli occhi e prese a giocate freneticamente con la borsa di pezza, come faceva sempre quando era nervosa.
<< E’ per Oscar, non capisco cosa voglia da me. Ti ricordi quando mi sono fatta male e abbiamo parlato da soli? Mi ha esplicitamente chiesto di andare all’Olimpo il mercoledì, ma poi non mi ha nemmeno rivolto la parola, se non un accenno stentato di saluto >>
Catena si sentì immensamente frustrata nel ricordare quel momento, ricordava di aver avuto un’ansia assurda per tutta la sera e di essere tornata a casa delusa come mai lo era stata in vita sua. Non sapeva precisamente cosa aspettarsi, ma evidentemente qualcosa di sicuro.
<< Ma tu sei sicura che il suo fosse un invito? >> La voce ovattata di Italia rimase sospesa nell’aria per un po’, si sentirono solamente il rumore delle grucce riposte, di zip tirate, ma Catena non fiatò per un po’, poi si decise.
<< Non lo so … lui ha detto: Vorrei che venissi. Come lo devo interpretare? >>
Quella volta toccò ad Italia aspettare un po’ prima di rispondere.
<< Lui ti piace, vero? >> Domandò uscendo finalmente dal camerino, reggendo sul braccio destro i capi da posare e sul sinistro quelli da acquistare. Catena notò che alla fine avrebbe preso solamente il vestito color crema, quello che all’inizio aveva scartato.
<< Tantissimo, Oscar mi piace tantissimo. >> Italia sorrise con affetto, perché notò che gli occhi di Catena si erano fatti un po’ lucidi, la raggiunse, si sedette accanto a lei e la strinse in un abbraccio stretto, con tutti i vestiti sulle braccia.
<< Andrà tutto bene, promesso. Andiamo a pagare dai, che poi voglio andare a vedere qualche negozio di scarpe >>
Non appena Catena e Italia si furono allontanate dal reparto camerino, la seconda tenda occupata si aprì lentamente e Sonia Castelli mise fuori la testa, per accertarsi che se ne fossero andare davvero. Stava provando un paio di jeans quando aveva riconosciuto le voci delle sue compagne di classe, all’inizio aveva provato l’impulso di uscire e fare un po’ di sarcasmo su di loro, ma le era venuta in mente un’altra idea.
Guardò con soddisfazione la registrazione appena fatta con il cellulare.
La prossima serata all’Olimpo sarebbe stata movimentata.

___________________________________
Effe_95

Buonasera a tutti :)
Comincerò queste note con il dire che non sono proprio soddisfatta di questo capitolo.
L'ho riscritto almeno tre volte, ma alla fine è uscito così e ho deciso di postarlo ugualmente piuttosto che riscriverlo ancora e ancora. Nella prima parte vediamo Igor e Telemaco in un tentativo non proprio riuscito di riappacificazioni. Nella seconda parte invece, abbiamo Catena, Romeo e Italia, con un Romeo leggermente imbarazzato per il bacio che nemmeno ricorda. Ci tenevo molto che in questo capitolo venisse fuori il rapporto di amicizia tra Catena e Italia.
Sonia agirà nel prossimo capitolo ;)
Volevo dirvi già da adesso che nelle prossime settimane sarò un po' incostante, ho tre esami da dare, quindi spero possiate capirmi. Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, fatemi sapere se fa schifo come penso.
Grazie mille come sempre a tutti.
Alla prossima spero :)

 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Katerina, Rivelazioni shock e Cuore in subbuglio. ***


I ragazzi della 5 A
 
10.Katerina, Rivelazioni shock e Cuore in subbuglio.
 
Ottobre
 
Gabriele adorava quando all’uscita della scuola il cortile era inondato dalla luce.
Il caldo era piacevole e accarezzava la pelle senza scottare o diventare troppo fastidioso. Quel giorno la 5 A era uscita un’ora prima perché il professore di filosofia, Enzo Palmieri, era influenzato. Aleksej era tornato a casa con l’autobus, mentre a Gabriele era toccato restarsene in cortile nella macchina ad aspettare la sorella.
Il ragazzo aveva acceso la radio, aveva chiuso gli occhi e si era lasciato letteralmente baciare dal sole. Stava quasi per appisolarsi quando qualcuno picchiò sul vetro del finestrino.
Gabriele aprì gli occhi di scatto e guardò fuori con le sopracciglia contratte.
Non era sua sorella Alessandra, ma una ragazzina.
Era china sul finestrino, i lunghissimi capelli biondi le cadevano di lato nel vuoto immortalati in una treccia morbida, il viso spigoloso era accarezzato da labbra carnose, occhi color grigio tempesta e sopracciglia sottili.
Katerina Scotti, la migliore amica di sua sorella e cugina di Aleksej da parte paterna.
Gabriele si raddrizzò sul sedile e aprì il finestrino, l’odore al cocco del suo shampoo entrò nell’abitacolo e profumò immediatamente l’ambiente.
<< Cosa ci fai tu qui? >> Domandò Gabriele, probabilmente più bruscamente di quanto avrebbe dovuto << Non è ancora finita l’ultima ora >>
Katerina continuò a fissarlo, senza il vetro sporco del finestrino era ancora più bella.
<< Mi fai salire? >> Chiese la ragazza senza rispondere alla sua domanda, Gabriele non capì immediatamente cosa intendesse, poi ricordò di aver inserito la sicura quando aveva chiuso gli occhi. La fece scattare e Katerina aggirò velocemente l’auto, salendo poi sul mezzo.
Da vicino l’odore allo shampoo al cocco era ancora più forte, Gabriele sentiva le mani prudere, così le strinse attorno al volante anche se non stava guidando.
<< Cosa vuoi Katerina? Non avrei nemmeno dovuto lasciarti entrare >> Commentò Gabriele con voce roca, guardando dritto davanti a se, guardando tutto tranne lei.
Gabriele e Katerina si conoscevano da una vita, perché nonostante non fossero parenti, avevano Aleksej e Alessandra in comune. Erano cresciuti insieme, Katerina aveva compiuto da poco quattordici anni e frequentava il primo anno di liceo.
<< Perché? Hai paura che possano pensare male? >> Replicò la ragazza con voce ferma, guardandolo dritto negli occhi, Gabriele strinse più forte le mani sul volante e si girò ad affrontarla. Desiderò non averlo mai fatto, perché al contrario della voce, Katerina lo guardava con occhi imploranti e lucidi.
<< Oh cielo Katerina, non guardarmi in quel modo! >>
Le lacrime cominciarono a scenderle sul viso struccato come un fiume in piena, Katerina non amava piangere, lo faceva raramente, così prese ad asciugarsi le guance con foga.  
<< Perché, come ti sto guardando? Con gli occhi di una ragazza che ti vuole bene? >>
Gabriele strinse le mani talmente forte che le nocche sbiancarono e gli si bloccò la circolazione. La situazione era precipitata quando Katerina aveva cominciato a crescere ed era diventata una donna, il corpo era cambiato, lei era cambiata e una sera Gabriele l’aveva baciata. Senza sapere che lei aveva sempre avuto una cotta per lui.
Gabriele non avrebbe dovuto baciarla, se n’era pentito un attimo dopo.
Katerina era la cugina di Aleksej e la migliore amica di sua sorella, se la storia fosse venuta a galla sarebbe scoppiato un putiferio. Era sicuro che suo padre l’avrebbe ucciso se avesse scoperto che si era innamorato di una ragazzina di quattordici anni, lui che ne aveva già diciannove compiuti.
<< Per l’amor del cielo Katerina, non dire mai più una cosa del genere! Ti ho già spiegato che non possiamo stare insieme. >> Sbottò Gabriele, sperando ardentemente che Alessandra uscisse e li raggiungesse in macchina, sfortunatamente per lui, mancava ancora mezz’ora all’uscita della scuola.
<< Ma perché?! Non … capiranno prima o poi! E poi sei tu, cosa mai potranno dire? Sei il ragazzo migliore che conosca e … >> Gabriele scosse furiosamente la testa e le parole di Katerina si spensero a metà. Entrambi si stavano fissando con occhi sofferenti.
<< Basta! Tu mi vedi così, ma io non sono il principe azzurro. E tu sei solo una bambina!>>
Katerina incrociò le braccia frustrata e guardò il parabrezza con le sopracciglia contratte.
<< Dimmi la verità Gabriele, mi passerà, dimmi che non mi vuoi bene e finiamola qui >>
A quelle parole Gabriele batté le mani violentemente sul volante e Katerina sobbalzò.
<< Maledizione Katerina, io non ti voglio bene, io ti amo! Ma non possiamo stare insieme, tu non hai nemmeno idea di quanto pesino queste due semplici parole >>
A quelle parole Katerina si protese in avanti per baciarlo, appoggiò una mano sullo schienale e l’altra sulla gamba di lui, Gabriele si sarebbe lasciato anche baciare se non fosse arrivata Alessandra. Katerina riuscì a vederla in tempo con la coda dell’occhio e si ritrasse alla velocità della luce, proprio mentre apriva la portiera posteriore.
<< Ehi ciao … cosa ci fai qui Katerina? >> Domandò sorpresa Alessandra, quando si accorse della migliore amica, Katerina sperò di non essere troppo rossa in faccia.
<< Stavo aspettando mio fratello Jurij, poi ho visto Gabriele e ho pensato che potessimo farci compagnia. Oggi non sono venuta a scuola >> Spiegò frettolosamente Katerina, sistemandosi una ciocca di capelli sfuggita alla treccia dietro l’orecchio, Gabriele era rimasto in silenzio per tutto il tempo, con ancora le mani strette attorno al volante e le nocche bianchissime. Katerina gli lanciò uno sguardo veloce.
<< Adesso vi lascio andare, ci sentiamo più tardi Ale. Ciao Gabriele. >>
Katerina scese frettolosamente dalla macchina, mentre Alessandra la salutava e prendeva il suo posto davanti, Gabriele sentì il profumo di cocco abbandonare l’abitacolo.
<< Ehi Gab, è successo qualcosa? Katja ti ha salutato, ma non hai risposto >>
Gabriele lasciò finalmente libere le mani, che formicolarono quando il sangue prese a scorrere correttamente, si voltò a guardare la sorella, con i suoi stessi occhi verdi e i lunghi capelli castano-dorati.
<< Non l’ho sentita >> Si giustificò con le labbra che bruciavano per l’assenza.
 
Quella sera Catena non si sentiva affatto a suo agio, e non le era mai successo all’Olimpo.
Lei amava quelle serate passate con i compagni di classe, soprattutto quando Aleksej e Oscar cominciavano a suonare la chitarra e Ivan cantava, aveva una bellissima voce.
Erano tutti seduti ai tavolini mentre aspettavano che i tre ragazzi preparassero l’attrezzatura sul piccolo palchetto, Italia e Romeo se ne stavano seduti al suo fianco.
Italia stava giocando distrattamente con la cannuccia del suo solito Dioniso e guardava Ivan senza nemmeno rendersene conto, con le sopracciglia contratte e l’espressione assente.
Romeo invece, faceva scattare ad intervalli di qualche secondo l’accendino, accendeva e poi spegneva in continuazione, anche lui distrattamente.
Il ciuffo tinto gli pendeva malamente sul viso, sembrava un po’ stanco.
Catena non aveva idea di cosa stesse succedendo ai suoi amici, ma quella strana sensazione che provava allo stomaco non la faceva stare tranquilla.
Spostò anche lei lo sguardo sul palchetto, dove i ragazzi stavano inserendo gli ultimi cavi e avevano già le chitarre in mano, notò Sonia avvicinarsi ad Aleksej e porgergli il suo cellulare.
Aleksej sembrava perplesso, guardava il cellulare con le sopracciglia bionde contratte, Sonia gli sorrideva affabilmente porgendogli con più insistenza l’oggetto. Si dissero velocemente qualcosa, Aleksej si voltò e chiamò a se Oscar e Ivan. I quattro ragazzi discussero per un po’, poi Catena vide Oscar afferrare il cellulare e collegarlo ad un cavo della voce.
Sonia tornò a sedersi accanto a Miki soddisfatta, con un sorriso che a Catena non piacque per nulla, era davvero curiosa di sapere cosa avesse detto ad Aleksej, Ivan e Oscar per convincerli a far sentire a tutti qualsiasi cosa avesse sul cellulare.
Tra i vari tavolini serpeggiava ancora un po’ di confusione, ma non appena Ivan batté leggermente la mano sul microfono per attirare l’attenzione, tutti gli altri tacquero.
Quello era il momento della serata che preferivano in assoluto.
<< Ehm … >> Cominciò Ivan un po’ imbarazzato << … prima di cantare, Sonia ci ha chiesto di farvi ascoltare un cosa con una certa insistenza! >>
Gli occhi dei componenti della 5 A erano tutti puntati sul palchetto e ben concentrati, Oscar e Aleksej si erano già sistemati sui loro sgabelli con le chitarre al collo. Catena aveva lo stomaco serrato senza nemmeno saperne il motivo, osservò con ansia Oscar afferrare il cellulare e far partire la registrazione. Inizialmente si sentirono dei rumori confusi, probabilmente stoffa che si muoveva, respiri, rumori di fondo.
‘E tu invece? Perché sei così pensierosa?’
La voce partì quasi all’improvviso, inaspettatamente, era roca per via del suono leggermente ovattato, ma si distinguevano chiaramente le parole.
Catena ci mise pochi secondi per realizzare che era la voce di Italia, ricordava perfettamente quella conversazione. Il cuore le si fermò in gola e si paralizzò completamente, mentre l’amica le volgeva uno sguardo preoccupato con gli occhi sgranati.  
‘E’ per Oscar, non capisco cosa voglia da me. Ti ricordi quando mi sono fatta male e abbiamo parlato da soli? Mi ha esplicitamente chiesto di andare all’Olimpo il mercoledì, ma poi non mi ha nemmeno rivolto la parola, se non un accenno stentato di saluto.’
La sua voce giuste ovattata a sua volta, un po’ più lontana di quella di Italia, leggera e carica di apprensione, proprio come si era sentita in quel momento. Catena vide lo sguardo di tutti posarsi su di lei e sulla sua migliore amica, ma non riusciva a sollevare gli occhi dal suo tavolino, era impietrita. Sapeva che Oscar la stava guardando, sentiva il suo sguardo perforarla completamente, ma era così sconvolta che non riusciva a muovere un solo muscolo. Non voleva che gli altri sentissero, voleva che la smettessero di ascoltare, ma non poteva alzarsi, urlare e fermare tutto, non ce l’avrebbe fatta.
‘Ma tu sei sicura che il suo fosse un invito?’
‘Non lo so … lui ha detto: Vorrei che venissi. Come lo devo interpretare?’
‘Lui ti piace, vero?’
Italia si riprese dalla sorpresa troppo tardi, vide le lacrime cadere copiosamente dagli occhi azzurri  e limpidi di Catena come un fiume in piena senza che la ragazza se ne accorgesse nemmeno, e scattò in piedi.
‘Tantissimo, Oscar mi piace tantissimo’
Ivan strappò l’apparecchio un secondo dopo che quelle parole vennero pronunciate.
Nella sala del pianobar non c’era mai stato così tanto silenzio, tutti fissavano il tavolo di Italia, Catena e Romeo, qualche sguardo era puntato sul palco, verso Oscar.
Catena cominciò a singhiozzare, si portò una mano sulla bocca sorpresa da quel rumore e la ritrovò tutta bagnata, sussultò e seppellì il viso sui palmi delle mani, piangendo.
Non era mai stata umiliata così tanto, lei che non era mai stava o voluta stare al centro dell’attenzione di nessuno.
<< Brutta stronza! >> Italia scattò immediatamente nella direzione di Sonia, che se ne stava seduta trionfalmente al suo posto con le gambe accavallate, le braccia conserte e un sorriso sfrontato sulle labbra rosse come il sangue. Italia l’avrebbe presa a schiaffi se Romeo non l’avesse afferrata per la vita, era inviperita. << Io ti denuncio! Ti denuncio, hai capito?! Sei solo una puttana, ecco cosa sei?! >> Sbraitava la ragazza, cercando inutilmente di liberarsi dalla stretta di Romeo. << Non hai un briciolo di dignità! >> Replicò a sua volta il ragazzo, guardando Sonia con uno sguardo disgustato e dispiaciuto allo stesso tempo.
Sonia si stizzì nel sentirsi scrutata in quel modo, come se facesse pena, saltò in piedi per affrontare i due con un sorriso ironico e cattivo sulle labbra, ma Ivan l’afferrò immediatamente per un polso e la strattonò.
<< Ti chiedo molto gentilmente di lasciare il locale Sonia >> Sbottò il moro ficcandole con malagrazia il cellulare nella mano. << Il tuo intervento non è stato affatto gradito come puoi vedere. Sei stata fuori luogo e, lasciatelo dire, davvero una grande stronza >>
Ivan era indignato per quello che era successo, avrebbe dovuto immaginarlo che non c’era niente di buono dietro l’insistenza di Sonia.
<< Ma che faccia tosta che abbiamo eh? >> La voce di Sonia era tagliente come la sua lingua, stava per replicare ancora quando Miki l’afferrò per il braccio.
<< Basta Sonia! Hai esagerato stasera, torniamo a casa >> L’espressione di Miki era diffidente, Sonia capì immediatamente che l’amica era arrabbiata, ma non avrebbe tollerato di lasciarsi trattare in quel modo. Non dalla sua presunta migliore amica, che aveva accettato senza nemmeno opporsi il fatto che lei avesse fatto sesso con il ragazzo che le piaceva.
Tutto sommato Sonia detestava le persone come Miki, ma se la teneva stretta perché le serviva qualcuno da comandare a bacchetta, e non sarebbe stato il contrario.
<< Zitta tu! >> Sbottò aggredendo l’amica.
<< Sonia, davvero, fai più bella figura a lasciare questo locale immediatamente >>
A parlare quella volta era stato Aleksej, che si era alzato in piedi e aveva riposto la chitarra, Sonia sfidò il suo sguardo con cattiveria e malizia.
<< Non ti conviene metterti contro di me Aleksej, oppure … >>
Sonia non riuscì mai a terminare la frase, perché Catena saltò in piedi all’improvviso rovesciando la sedia, aveva la faccia stravolta, gli occhi arrossati e il volto bagnato dalle lacrime, alcune ciocche di capelli erano sfuggite alla solita treccia.
<< Beh, Oscar, tu che cosa dici? >>
La voce di Cristiano Serra si levò sopra le altre, lui se n’era rimasto tutto il tempo a contemplare la scena con un sorriso ironico stampato sulle labbra e le braccia incrociate dietro la nuca, tranquillo. Catena spostò senza nemmeno rendersene conto lo sguardo su Oscar, che era ancora seduto sullo sgabello con la chitarra stretta tra le mani bianche.
Era in imbarazzo, lo si vedeva chiaramente dal suo viso, non appena i loro occhi si incrociarono lui abbassò lo sguardo.
Catena non poteva sopportare più quell’umiliazione, girò le spalle e se ne scappò.
<< Catena! >> La voce di Italia si perse dietro le sue spalle.
Quando Italia la vide andare via, non ci pensò due volte, afferrò la propria borsa e fece per lasciare la stanza, Ivan le si affiancò immediatamente.
<< Ti aiuto >> Si limitò a commentare, e i due lasciarono il locale ancora immerso nel silenzio, nell’imbarazzo e nella sorpresa.
 
Italia pensava che quella serata non sarebbe potuta finire peggio.
Quando lei ed Ivan aveva raggiunto Catena, l’amica si era attaccata al suo braccio e aveva pianto per tutto il tragitto fino a casa sua. Italia l’aveva accompagnata sopra, aveva trovato una scusa con la madre della sua migliore amica e poi era scesa giù, dove Ivan la stava aspettando accanto al muro.
All’Olimpo era stata trascinata dalle emozioni del momento, ma una volta passate quelle emozioni forti che aveva provato, si era resa conto che sarebbe rimasta da sola con Ivan, e cercava di evitarlo da un po’ di tempo. Non avrebbe sopportato un’altra figuraccia con lui.
<< Come … com’è andata? >> Domandò Ivan quando Italia lo raggiunse, i due ragazzi presero a camminare uno affianco all’altra con mezzo metro di distanza tra le loro spalle.
Italia notò che Ivan non faceva altro che passarsi le mani sulle braccia piene di tatuaggi.
<< Come puoi ben immaginare. >> Italia non aggiunse altro.
<< I-Italia … io, volevo chiederti scusa. Credo che in qualche modo sia colpa mia, non avrei dovuto dare l’ok a Sonia, avrei dovuto sospettarlo. Io … >>
Italia si fermò senza rendersene nemmeno conto nel sentire quelle parole, Ivan smise di parlare e la guardò con occhi mortificati, mordendosi insistentemente il labbro inferiore. Italia non poté fare a meno di pensare che Ivan fosse davvero bello sotto la luce di quel lampione un po’ fatiscente, i suoi occhi erano striati di azzurro.
<< Non scusarti Ivan, ti prego. Tu non c’entri nulla, perché … perché sei fatto così no? Vuoi credere che tutti abbiano qualcosa di buono nel cuore, vero? >>
Ivan sentiva le mani prudergli insistentemente, Italia era così bella sotto la luce di quel lampione guasta, i capelli caramello erano accarezzati dai riflessi blu fatiscente, gli occhi scuri nascosti dagli occhiali, così vivi. Stringeva la borsa con foga.
<< Ma questo non mi aiuta affatto a quanto pare >> Mormorò lui strofinandosi forte le braccia, nervoso, Italia fece un passo verso di lui, accorciando quel metro e mezzo che li separava.
<< Ascolta Ivan … domani … domani c’è una mostra di quadri, dovevo andarci con Catena, ma credo che non verrà. Vuoi … vuoi accompagnarmi tu? Ho io il suo biglietto. >>
Ivan aveva il cuore che martellava nel petto, era confuso, il bacio che aveva visto tra lei e Romeo gli graffiava ancora il cuore, ma non sapeva come interpretarlo dopo quella domanda.
 Italia non faceva altro che pensare a quegli occhi verdi che la scrutavano sorpresi.
<< Si … si, con piacere >> Replicò il ragazzo con un filo di voce. << Posso … posso accompagnarti anche a casa adesso? Non voglio lasciarti andare da sola con questo buio >>
Italia annuì senza nemmeno pensarci, non lo fece nemmeno finire di parlare.
Aveva il cuore in subbuglio.
 



_______________________________________
Effe_95

Buonasera a tutti :)
Devo dirvi che sono davvero sorpresa di essere riuscita a postare questa settimana.
Tra tedesco ed inglese non so davvero dove sbattere la testa, comunque, ultimamente ho la sensazione di scrivere davvero male, quindi non sono molto soddifatta di questo capitolo.
Spero vivamente di non aver combinato un disastro.
Ad ogni modo, conosciamo un nuovo personaggio, Katerina, e vediamo Sonia finalmente in azione.
Ecco, so che è stata davvero cattiva e che la reazione di Oscar probabilmente non è delle migliori, ma fidatevi di me ;) Grazie mille a tutti come sempre.
Alla prossima spero.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Nervosismo, Sarebbe stato un peccato e Che ragazza strana ***


I ragazzi della 5 A
 
11.Nervosismo, Sarebbe stato un peccato e Che ragazza strana


Ottobre
 
Ivan era nervosissimo.
Arrivare mezz’ora prima sotto casa di Italia non era stata proprio un’idea geniale.
Stava letteralmente torturando i tatuaggi sulle sue braccia sfregandole freneticamente, la maglietta a mezze maniche non era più adatta per quel periodo dell’anno, ma Ivan sentiva un caldo che aveva una natura ben diversa da quella atmosferica.
I capelli neri e ribelli cadevano disordinatamente sul viso senza un criterio preciso, e lui non faceva altro che spostarseli dal volto freneticamente.
Era sicuro che i suoi jeans e la sua maglietta sportiva non fossero adatti per una mostra di quadri, che le scarpe da ginnastica rosso fuoco spiccassero troppo, che i tatuaggi avrebbero attirato l’attenzione della gente su di lui, che i capelli così in disordine non erano decorosi, che i braccialetti al polso tintinnavano troppo contro l’orologio e che avrebbe dovuto almeno aggiustarsi i lacci slacciati per non inciampare.
Era talmente concentrato sui suoi pensieri, che non si accorse di Italia.
La ragazza era scesa di casa alle dieci precise, con le chiavi che ancora le tintinnavano tra le mani mentre le riponeva nella borsa, aveva sollevato lo sguardo e il cuore aveva fatto un balzo nel petto. Ivan era assorto nei suoi pensieri, le sopracciglia contratte e si sfregava le braccia nervosamente, era bellissimo con quegli occhi verdi puntati nel nulla, le braccia muscolose lasciate libere da una maglietta a mezze maniche, e quelle scarpe un po’ slacciate e troppo grandi. Italia si sentiva piccola accanto ad Ivan, eppure allo stesso tempo non poteva farne a meno, si sentiva maledettamente bene.
<< Ehi … Ivan? >> Lo chiamò con un filo di voce, appoggiandogli una mano sul braccio, Ivan sobbalzò facendo un passo indietro, e la guardò come se fosse un miraggio.
Italia era bellissima, anche lei indossava un semplice jeans e una maglietta sportiva, gli stivali ai piedi e i capelli ramati sciolti sulle spalle. Ivan si rese conto che in quel modo non si sarebbe più sentito a disagio e il nervosismo sparì di colpo.
<< Italia … ciao >> Le sorrise quasi spontaneamente, mettendo in risalto le fossette agli angoli della faccia e la fila dritta di denti bianchi. Italia rimase incantata a fissarlo, talmente a lungo che Ivan cominciò a sentirsi a disagio. Il ragazzo sperava vivamente di non avere il mento sporco di dentifricio, oppure un nuovo brufolo spuntato a tradimento.  
<< Ehm … sono venuto con la moto. Ci andiamo con quella? >> Domandò Ivan tossicchiando leggermente all’inizio della frase, Italia batté le palpebre più volte e lanciò un’occhiata veloce al mezzo parcheggiato poco più in la.
<< Mi sembra un’ottima idea, all’inizio avevo pensato alla metropolitana ma … così è molto meglio >> Ivan distolse lo sguardo e si diresse imbarazzato verso la moto, quando aveva confessato a Giasone che sarebbe andato a vedere quella mostra con Italia, l’amico aveva strillato talmente tanto per telefono, che Ivan aveva seriamente pensato di aver perso l’udito.
In quel momento si era sentito euforico, ma l’euforia era sparita molto presto sostituita dal panico più totale.
Le mani gli tremavano terribilmente quando sfilò le chiavi dalla tasca dei jeans, sperò vivamente che lei non se ne fosse accorta, ma la ragazza sembrava persa nei proprio pensieri. Italia stringeva forte la tracolla della borsa tra le mani, si era appena resa conto che salire sulla moto con Ivan avrebbe significato stringergli le braccia attorno al petto, sentire la sua schiena sulla faccia e il suo profumo. Era spaventata da una tale eventualità, ma allo stesso tempo le sue braccia stavano fremendo dal desiderio di farlo.
Italia non sapeva cosa le stesse succedendo, non aveva mai provato nulla del genere.
Sobbalzò quando Ivan le porse il casco, lui l’aveva già indossato e alcune ciocche di capelli neri gli si attaccavano al viso creando dei ricci involontari, gli occhi verdi la osservavano esitanti, nell’aspettativa che lei facesse lo stesso.
Italia sospirò pesantemente e indossò frettolosamente il casco, poi guardò il ragazzo posizionato sulla moto già in partenza, ad aspettare che lei salisse.
Ivan profumava di menta fresca, quando Italia gli cinse la vita sulla moto, fu completamente investita da una boccata d’aria fresca, sentì il corpo del ragazzo irrigidirsi sotto il suo tocco e poi rilassarsi impercettibilmente.
Italia sentiva il cuore di lui battere sul palmo della mano.
Quella sensazione la sconvolse, e lo sguardo le scivolò inevitabilmente sulla spalla del ragazzo, dove il tatuaggio se ne stava nascosto sotto la maglietta.
<< Ivan … non hai freddo con tutto questo vento? >> Le domandò lei per distrarsi da quel tumulto che le agitava il petto, il vento le sferzava il viso mentre sfrecciavano attraverso la città per raggiungere il luogo della mostra.
<< No, tu nei hai? >> Chiese lui di rimando, Italia non poteva vederlo in viso, ma sembrava molto più tranquillo e rilassato, come se si fosse abituato al suo tocco.
<< Un po’ … dopotutto oggi è il 7 Ottobre, no? >>
<< Siamo quasi arrivati, promesso. A proposito … hai avuto notizie di Catena? >>
Italia sospirò pesantemente, aveva provato a chiamare Catena trenta volte la sera prima, ma l’amica aveva rifiutato tutte le sue chiamate. Le aveva mandato più di dieci messaggi, ma nemmeno quelli avevano avuto risposta.
<< No, ha rifiutato le mie chiamate e non ha risposto ai messaggi >> Replicò un po’ afflitta, e mentre lo fece si accorse che erano arrivati. Quando scese dalla moto sentì immediatamente una mancanza nelle braccia, lo trovò fastidioso, si tolsero entrambi i caschi ravvivandosi i capelli e una volta riposti si avviarono velocemente al palazzo.
<< Credi … credi che dovremmo andare da lei? >> Chiese Ivan mentre avanzavano lentamente nella lunga fila per raggiungere l’entrata, grazie ai biglietti di Italia si erano risparmiati una doppia fila alla biglietteria.
<< No, non spetta a noi andare da lei >> Italia pronunciò quella frase incrociando le braccia al petto, con lo sguardo fisso davanti a se e la mente altrove, Ivan la osservò di sottecchi, minuta in quella maglietta un po’ larga, con i capelli scombinati a causa del casco e gli occhiali a nascondere parzialmente gli intensi occhi neri.
Non era stato difficile capire che si stesse riferendo ad Oscar, sembrava leggermente infastidita ed Ivan non avrebbe potuto darle torto, dopotutto l’amico non aveva mosso un dito la sera precedente, era rimasto impalato sullo sgabello con lo sguardo imbarazzato.
Anche se Ivan sapeva il perché, non l’avrebbe detto in quel momento.
Riuscirono ad entrare nel palazzetto dopo mezz’ora di una fila estenuante.
I padiglioni erano divisi per paese, Italia e Ivan capitarono prima in quello francese, dove trovarono tutte le riproduzioni di quadri famosissimi. Finirono poi nel padiglione tedesco, in quello italiano, in quello spagnolo, olandese e poi in quello russo.
A Ivan facevano male le gambe, e gli scoppiava la testa dopo tutte le spiegazioni di Italia, che sapeva tutto di storia dell’arte, ma lei sembrava così entusiasta che non se la sentiva proprio di protestare, così prestava attenzione a tutto quello che lei diceva e non si lamentava dei piedi doloranti.
Italia decise di dargli una tregua verso le due del pomeriggio.
Ivan aveva lo stomaco che brontolava sfacciatamente, era accaldato nonostante fosse Ottobre e la gente non faceva altro che guardarlo con aria disgustata a causa del suo abbigliamento poco consono all’occasione.
<< Andiamo a mangiare qualcosa? >> Propose Italia appoggiandogli inconsciamente una mano sul braccio, Ivan guardò quelle dita sottili poggiate sulla sua pelle colorata e un caldo improvviso lo investì in pieno. Aveva notato che da quando l’aveva stretto sulla moto, Italia lo toccava senza più esitazione ne irrigidirsi, come se si fosse sciolta.
Al contrario, lui non osava.
<< Sarebbe un’ottima idea >> Replicò Ivan quando avevano già raggiunto l’aria ristoro del palazzetto. Italia gli rivolse un sorriso un po’ mortificato, mentre si incamminavano verso la pizzeria più vicina.
<< Scusami, probabilmente non ho fatto altro che blaterare per tutto il tempo. Ti sarai annoiato a morte >> Ivan la guardò sorpreso, mentre si mettevano comodamente seduti e lasciavano un po’ riposare i piedi.
<< No … in realtà ho ascoltato tutto quello che dicevi. >>
Si guardarono negli occhi per una frazione di troppo, dove Italia sgranò gli occhi e Ivan arrossì fino alla radice dei capelli. Fortunatamente quel momento imbarazzante venne interrotto dall’arrivo del cameriere.
<< Beh … in tal caso ti ringrazio per avermi accompagnata oggi >> Italia aveva lo sguardo basso mentre pronunciava quelle parole, Ivan invece stava giochicchiando freneticamente con il tovagliolo riducendolo in briciole.
<< Sarebbe stato un peccato sprecare quei biglietti >>
<< Già, sprecare i biglietti … >> Italia trasalì quando si rese conto di ciò che aveva detto, esprimendo a parole quello che era stato un pensiero, Ivan la fissò con gli occhi spalancati e le guance in fiamme. Rendendosi conto di quanto era stato insensibile. << Perdonami, ho detto una stupidaggine! >> Si affrettò a replicare Italia.
<< No! La verità è che … mi ha fatto piacere sul serio >>
Mentre Ivan pronunciava quelle parole, entrambi spostarono lo sguardo altrove arrossendo.
 
Giasone detestava prendere i mezzi di trasporto.
Sapeva perfettamente quanto quello fosse un controsenso, proprio per lui che li prendeva tutti i giorni e per più volte, ma era comunque più forte di lui.
Non sopportava tutta quella gente che gli si accalcava addosso e l’odore fastidioso di sudore e altre sostanze non propriamente riconoscibili, così sospirò pesantemente mentre vide avanzare il pullman verso la sua fermata.
Avrebbe voluto chiamare Ivan e sapere come stesse andando l’appuntamento con Italia,  sperava ardentemente che non rovinasse tutto come suo solito,  ma qualcosa gli diceva che non era il momento adatto per fare quella telefonata.
La sua priorità in quel momento era raggiungere Oscar, che lo aspettava al centro per prendere un caffè insieme. Giasone non era entusiasta di affrontare quella conversazione, l’episodio della sera precedente all’Olimpo era stato imbarazzante e non sapeva davvero come comportarsi con l’amico, ma Oscar aveva una voce così funebre quando l’aveva telefonato poche ore prime, che non se l’era sentita di rifiutare.
Giasone non era bravo con certe cose, non sapeva trattare bene le ragazze, aveva avuto solo una fidanzata l’anno precedente, e non era durata nemmeno un mese.
Si erano lasciati perché lui le aveva detto che aveva i fianchi troppo grandi dopo averci fatto l’amore. Giasone non capiva perché le donne se la prendessero così tanto quando un uomo diceva loro la verità, comunque quella perdita non l’aveva mai rimpianta.
Non era nient’altro che una ragazza vuota e frivola.
Tuttavia, quella singola esperienza non poteva fargli trovare le parole giuste da riferire ad Oscar, o i consigli corretti da suggerirgli.
Giasone non poteva realmente capire cosa stesse capitando all’amico, e nonostante Oscar avesse confidato sia a lui che ad Ivan il suo segreto, Giasone non sapeva come comportarsi.
Salì sul pullman con un’espressione tutt’altro che cordiale, per sua fortuna però, quella mattina era mezzo vuoto e c’erano parecchi posti liberi.
Giasone si mise seduto all’ultimo posto accanto al finestrino, quei pensieri non facevano altro che tormentarlo, così aprì la cartella e si mise a leggere.
Solitamente avrebbe preferito osservare il paesaggio, ma in quel modo i pensieri l’avrebbero seppellito vivo, così preferì rifugiarsi in quelli di qualcun altro.
Alla terza fermata del pullman, qualcuno si mise seduto accanto a lui, Giasone non sollevò lo sguardo dal libro, ma un dolce profumo di albicocca gli investì le narici e una spalla piccola e minuta premette sulla sua.
<< I miei più grandi dolori sono stati i dolori di Heathcliff, e tutti li ho conosciuti e provati fin dal principio, è lui la mia ragione di vita. Se tutto il resto perisse, tranne lui, continuerei a esistere, e se tutto il resto rimanesse, e lui fosse annientato, l’universo mi sarebbe estraneo. Non ne farei più parte >> Giasone sobbalzò quando sentì quelle parole e la voce cristallina che le avevano pronunciate, guardò con occhi sbarrati la parte che stava leggendo in quel momento e si rese conto che la persona seduta al suo fianco l’aveva riportata esattamente così com’era.  << Cime Tempestose, il mio libro preferito >>
Accanto a lui c’era seduta una ragazza, Giasone la scrutò con le sopracciglia aggrottate e il libro ancora sollevato davanti al viso. Era giovane, aveva il viso affilato, gli occhi taglienti di un color verde sfumante nel dorato, il naso dritto e lucido, mentre i capelli erano tagliati corti sotto l’orecchio e sollevati con del gel, neri come il carbone e scombinati.
Non era bellissima, Giasone l’avrebbe definita assolutamente normale se avesse posseduto un briciolo di lucidità in quel momento. Lo fissava come se volesse sfidarlo a risponderle male, a prenderla in giro, sembrava proprio provocarlo con quel sorrisetto cortese, un sorriso che le lasciava le fossette sulle guance ed era radioso come un sole.
<< Già … non lo trovo affatto male >> Si ritrovò a rispondere Giasone distogliendo lo sguardo, accigliato, non capiva perché stesse parlando con quella sconosciuta.
<< Uhm, sei sicuro che ti piaccia? Lo stai leggendo da una settimana intera ormai >>
Giasone sollevò lo sguardo su di lei e la guardò indignato, non sapeva se arrabbiarsi per il fatto che avesse dubitato delle sue parole, se spaventarsi o scappare.
<< Tu … come cavolo lo sai?! >> Sbottò irritato, facendosi automaticamente indietro sul sedile per scrutarla meglio in viso, lei rimase impassibile.
<< Perché prendiamo lo stesso pullman la mattina, ma non te ne sei mai accorto >> Giasone rimase con la bocca spalancata e il dito puntato minacciosamente contro la ragazza << So che la mattina ti chiama sempre il tuo migliore amico al cellulare, che non ti piace quando il mezzo è affollato e che ascolti musica pesante … ah, e poi hai un tatuaggio sul polso. Un piccolo quadrifoglio >> Continuò lei elencando tutte quelle cose sulle dita della mano.
Giasone era scioccato, non sapeva nemmeno più come avrebbe dovuto rispondere.
<< E … hai notato tutte queste cose osservandomi? >> Si ritrovò a chiedere con il libro ancora stretto tra le mani e la faccia sorpresa. Lei ridacchiò allegramente, facendo tintinnare i braccialetti che portava al polso.
<< Sei un tipo molto chiassoso. >> Giasone si ricompose, la guardò in cagnesco e nel farlo ripose anche il libro nella cartella, lanciando un’occhiata al panorama fuori per accertarsi di non aver perso la fermata. << Però c’è una cosa che non ho capito di te? >>
<< Cosa? >> Domandò lui brusco, agitandosi sul posto, desiderava ardentemente che arrivasse la sua fermata, in quel momento parlare con Oscar non gli sembrava più una pessima idea.
<< Il tuo nome >> Disse lei tranquilla << Io mi chiamo Muriel Esposito >> Gli porse la piccola mano, Giasone non sapeva se fosse davvero il caso di ricambiare o tanto meno di rispondere a quella domanda.
<< Giasone, mi chiamo Giasone Morelli >> Replicò alla fine, senza ricambiare la stretta.
Muriel sembrò non restarci male, perché sorrise divertita.
Giasone costatò con gioia che la prossima sarebbe stata la sua fermata, così cominciò ad alzarsi in piedi e a prepararsi, aggiustando la cartella sulle spalle e la felpa che si era un po’ stropicciata, Muriel continuava a fissarlo.
<< Quanti anni hai? >> Gli chiese, Giasone la guardò un po’ male.
<< Diciotto >> Replicò acido, mentre passava accanto a lei per raggiungere la porta.
<< Io ne ho quindici, sai? >> Commentò lei distrattamente, a Giasone scappò un sorriso, era davvero una bambina, dal viso l’aveva capito.
Il pullman si fermò proprio in quel momento e aprì le porte, Giasone fece per scendere senza rimpianti, con ancora un sorriso divertito sulle labbra.
<< Ehi, Giasone, adesso puoi salutarmi la mattina, nel vecchio catorcio >>
La voce di Muriel lo raggiunse quando ormai le porte si stavano chiudendo e lui era già sceso. Lei stava sorridendo e agitava la mano per salutarlo allegra.
Giasone si grattò la testa e scosse il capo.
Che ragazza strana.
 

 
 
___________________________________
Effe_95

Buonasera :)
Fortunatamente sono riuscita a postare oggi, ma farò velocemente perchè devo tornare a ripetere i verbi irregolari al preterito in tedesco.
Allora, spero che questo capitolo non sia troppo deludente, so che forse vi aspettavate qualcosa in più tra Ivan e Italia, ma non volevo fare le cose troppo di fretta, e volevo soprattutto che le emozioni di entrambi venissero fuori al massimo. Tutte quelle sensazioni completamente nuove per Italia.
Conosciamo anche Muriel, ci tengo a dire che la citazione riportata è del libro Cime Tempestose di Emily Brönte.
Fatemi sapere cosa ne pensate, grazie mille come sempre.
Non so quando posterò il prossimo capitolo, la settimana prossima ho due esami, ma vi anticipo che ci sarà un bacio ;)
Tra chi? 
Grazie mille e alla prossima.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Spaventata, E’ troppo tardi? e Perché sono uno stronzo. ***


I ragazzi della 5 A
 

12. Spaventata, E’ troppo tardi? e Perché sono uno stronzo.


Ottobre  
 
Era già da dieci minuti che Beatrice se ne stava impalata davanti la bacheca, la penna stretta tra le dita e l’indecisione nello sguardo.
Sentiva gli altri ragazzi passare dietro di lei e chiacchierare allegramente per raggiungere le aule, i professori parlare tra di loro, mentre lei se ne stava immobile a fissare il foglio di prenotazione per il corso di teatro.
Le sarebbe bastato scrivere semplicemente il suo nome e andarsene.
Eppure provava un’indecisione insopportabile, le era sempre piaciuta l’idea di recitare, nella sua vecchia scuola non si poteva seguire un corso di teatro, non si poteva seguire nessuna attività extrascolastica, quella sarebbe stata l’occasione perfetta.
Sbuffò indispettita e finalmente tolse il tappo alla sua Bic, scrisse il nome con una calligrafia precisa, scrutò ancora una vola la lista, dove comparivano anche i nomi di alcuni dei suoi compagni di classe, e fece un sospirò profondo.
<< Cosa fa la mia racchia preferita? >> Beatrice trasalì quando sentì quella voce ad un centimetro dal suo orecchio, il fiato di Enea le accarezzava impunemente il collo scoperto e un braccio del ragazzo se ne stava mollemente appoggiato sulla sua spalla. << Oh, ti sei iscritta al corso di teatro, eh? >> Continuò lui scrutando con le sopracciglia aggrottate la lista dei nomi scritti sul foglio. Beatrice era diventata viola dalla rabbia, sospirò profondamente e scostò molto poco gentilmente il braccio di Enea allontanandosi da lui di qualche centimetro. << Questo ti crea qualche problema? >> Domandò Beatrice, scrutandolo con un’espressione adirata sul viso e le sopracciglia contratte.
Enea aveva entrambe le braccia penzoloni nel vuoto, scostò velocemente lo sguardo verso di lei e un sorriso sghembo gli attraversò le labbra, rendendogli ancora più spigoloso il viso.
Beatrice rabbrividì senza potersi controllare.
<< Quando la smetterai di guardarmi con quegli occhi, Beatrice? >>
Le domandò continuando a guardarla in quel modo, Beatrice si strinse le braccia al petto.
<< Con quale occhi? Io sono normalissima! >> Replicò distogliendo lo sguardo.
<< Tsk, ti ho già detto mille volte che quel giorno stavo scherzando! Non avevo nessuna intenzione di metterti le mani addosso, non ci penso nemmeno, per carità. Tuttavia, la tua reazione mi è sembrata alquanto esagerata! >>
Beatrice scosse freneticamente la testa, facendo ribalzare i ricci in varie direzioni, non aveva nessuna intenzione di parlarne con lui, era consapevole del fatto che la sua reazione era stata fuori luogo, avrebbe dovuto sapere che Enea non faceva altro che prenderla in giro, non le avrebbe davvero messo le mani addosso, lo sapeva, ma non era riuscita a controllarsi.
Era stato tutto più forte di lei.
<< Devo andare in classe adesso. >>
Troncò la conversazione con quelle parole, fece per dare le spalle ad Enea e lasciare l’atrio, ma il ragazzo fece uno scatto così repentino da afferrarle entrambi i polsi e bloccarla a pochi centimetri dalla sua faccia.
<< Mancano ancora venti minuti al suono della campanella. Va bene, ammetto che con te sono stato davvero uno stronzo, quindi non mi lamento delle tue reazioni così scontrose Beatrice, ma non posso accettare di far finta di niente. Tu non mi guardi come una persona che ti sta sulle palle, tu mi guardi spaventata >>
Beatrice aveva l’accelerazione cardiaca a mille, l’odore forte del dopobarba di Enea la frastornava, guardandolo da così vicino si rese conto per la prima volta che i suoi occhi azzurri erano screziati di grigio e affilati agli angoli.
Non l’aveva mai guardata con quell’aria così seria, Beatrice si rese conto che non stava affatto scherzando.
<< Mi … mi dispiace. Solo che mi hai ricordato un altro ragazzo, tutto qui >> Enea la lasciò andare di colpo, aveva un’espressione scioccata sul viso, Beatrice si massaggiò i polsi indolenziti e scostò lo sguardo. << Sono stata stupida, non avrei dovuto reagire con te in quel modo. Tu non c’entri niente, ti chiedo scusa >>.
Lo sguardo di Enea era posato su di lei, contratto, il ragazzo non aggiunse nulla, così Beatrice sospirò pesantemente e gli diede le spalle. Fece appena un passo quando lui la richiamò. << E cosa ti ha fatto questo ragazzo, Beatrice? >>.
Lei chiuse gli occhi, fece un respiro profondo e non rispose.
Enea la vide andare via senza dargli risposta, i libri stretti al petto, i capelli ricci ondeggianti sulla schiena e la postura un po’ più prostrata.
Si grattò la nuca, poi lanciò uno sguardo veloce al foglio del teatro, di cui si era dimenticato. Lo guardò per qualche secondo, poi afferrò la prima penna che trovò e segnò anche il suo nome. Enea sperò di non pentirsi di quel gesto istintivo.
Ma gli occhi di Beatrice gli si erano stampati nella testa.
 
Catena aveva creduto fino ad un minuto prima di potercela fare, ma guardando la porta chiusa della sua aula le tremarono di nuovo le gambe e il cuore le rimbalzò nel petto.
Aveva pensato di non presentarsi a scuola quel lunedì, e nemmeno il martedì e il mercoledì, aveva pensato di non andarci mai più, ma dopo aver pianto tutto il weekend rinchiusa nella sua camera, aveva anche pensato che non ne valesse la pena.
Quella mattina si era alzata piena di propositi, il primo era di presentarsi in aula come se niente fosse, il secondo era quello di ignorare Oscar per il resto della sua vita.
Guardando quella porta chiusa, con la lezione iniziata già da più di dieci minuti, Catena sentì di aver fallito miseramente su entrambi i fronti.
Fece un respiro profondo, ricacciando indietro le lacrime, sollevò la mano per bussare alla porta quando quest’ultima si spalancò all’improvviso.
La ragazza fece automaticamente un passo indietro per nascondersi, ma quando sollevò il viso e si accorse che si trattava di Oscar, il cuore le sprofondò ancora di più nel petto, non poteva essere così sfortunata.
Oscar spalancò gli occhi quando la vide, rimase impalato con dei fogli tra le mani, osservandola con la bocca leggermente spalancata e gli occhi castani ben visibili.
Catena aveva gli occhi lucidi, i capelli neri erano bloccati in un morbido codino un po’ sfatto, gli occhiali le scivolavano sul naso e la felpa che indossava era troppo larga, le maniche lunghe le coprivano le mani.
Era bellissima.
Oscar si riebbe presto dallo shock, tossicchiò leggermente nel pugno e chiuse la bocca.
<< Cosa ci fai qui fuori? >> Domandò a bassa voce, Catena abbassò gli occhi e non rispose, allungò una mano verso il pomello della porta e fece per abbassarlo, ma quando Oscar capì le sue intenzioni e si rese conto che lo aveva evitato, l’afferrò saldamente per un polso e la trascinò via con se lontana dalla 5° A.
Quando si fermarono di nuovo, Catena sentiva il cuore ballare freneticamente nel petto senza sosta, le facevano male le gambe, la cartella era scivolata malamente sulle spalle e respirava a fatica.
Appoggiò entrambe le mani sulle ginocchia e guardò Oscar con gli occhi spalancati.
Il ragazzo si trovava nella sua stessa identica posizione, i fogli che stringeva tra le mani si erano leggermente spiegazzati nella sua stretta troppo forte.
Erano arrivati nel corridoio della segreteria in meno di un minuto.
<< C- che cosa ti prende?! >> Sbottò Catena senza riuscire a controllarsi, era rossa in viso e sentiva una stizza improvvisa, senza provare più quell’imbarazzo che aveva accompagnato la sua figura fino ad un momento prima.
 Oscar trasse un respiro profondo e si ricompose immediatamente.
<< Volevo parlare con te, ma mi sono accorto guardandoti negli occhi che non me l’avresti permesso. Rapirti era l’unica soluzione >> Spiegò con ancora un po’ di fiatone, le guance di Catena divennero rosse come il fuoco, non aveva mai provato così tanti sentimenti contrastanti come in quel momento. Era arrabbiata, era imbarazzata e frustrata, la figura di Oscar su quello sgabello non faceva altro che tormentarla.
<< Ora … ora devo tornare in classe.Sono già in ritardo >> Si affrettò a replicare Catena mentre si sistemava per la centesima volta la cartella sulle spalle.
I capelli scampati al codino le scivolavano sul viso accarezzandole la pelle, Oscar strinse forte i pugni facendo diventare ancora più bianche le nocche e i fogli si rovinarono ulteriormente.
<< Oggi entrerai alla seconda ora! >> Ribatté risoluto, Catena si voltò a guardarlo e contrasse le sopracciglia arrabbiata, era la prima volta che Oscar la vedeva così viva. << Non ti lascerò finché non avrai parlato con me Catena >>
<< No, devi fare delle fotocopie, vero? Fa il tuo lavoro, io vado in classe >>
Catena sentiva una voglia matta di scappare via, non si era preparata ad affrontare una discussione, non lei che aveva osservato quel ragazzo sempre dal suo banco senza mai muovere un dito, nascosta dietro un libro. Si era rassegnata durante quel weekend, e non voleva avere un’altra umiliazione, non avrebbe permesso ad Oscar di dirle a parole quello che aveva letto nel suo sguardo all’Olimpo.
<< No! >> Scattò Oscar afferrandola per un polso, aveva le sottili sopracciglia castane contratte sul viso, i capelli gli ricadevano malamente sulla fronte. << Non ho passato tutto il weekend a scervellarmi per avere questa risposta! Non ho passato due notti in bianco per questo, dannazione! >> Catena sobbalzò quando sentì quelle parole, il cuore le arrivava in gola talmente era accelerato, ma contemporaneamente sentì anche una rabbia irrefrenabile lambirle le viscere, come non l’aveva mai provata in vita sua.
Non si sarebbe nascosta dietro nessun libro quella volta.
<< Ma come ti permetti?! >> Sbottò liberandosi dalla sua stretta ferrea << Sono io quella che  è stata beffeggiata davanti a tutti! Tu non hai la più pallida idea di come mi sia sentita. Tu mi hai solamente confusa, quella sera non avrei voluto niente da te, se non che tu non abbassasi lo sguardo come hai fatto! Niente, non ti avrei chiesto niente. >>
Sulle ultime parole la voce di Catena calò nettamente mentre si rendeva conto di quello che aveva appena detto, il petto le andava su e giù senza tregua, e nello scatto il codino le era definitivamente scivolato via liberando tutti i capelli, un torrente nero sulle spalle.
Oscar la guardò con sgomento solamente per un secondo, poi scoppiò a ridere, Catena spalancò la bocca, le lacrime che cominciavano a salirle agli occhi.
Si portò le mani sul viso e le lasciò andare.
<< Basta, non ce la faccio più >>
Al suono di quelle parole, pronunciate tra i singhiozzi, Oscar smise di ridere.
Catena aveva il volto nascosto e il corpo scosso dal pianto, e siccome non poteva vederlo, Oscar si lasció andare all’espressione più sofferente di cui era capace.
Quello che provava per Catena l’aveva tenuto nascosto per molto tempo anche a se stesso, perché quello che gli era successo in passato era troppo forte e violento da contrastare, ma parlare con Ivan e con Giasone gli aveva dato coraggio.
Doveva lasciare andare il passato e guardare al futuro.
E aveva deciso che quel futuro sarebbe stato Catena.
Fece un passo verso di lei e le afferrò i polsi, scoprendole il volto rosso e bagnato.
<< Sai … >> Cominciò a dire sorridendole divertito << … sei maledettamente bella quando ti arrabbi >> E prima che Catena potesse memorizzare bene quelle parole, appoggiò avidamente le sue labbra su quelle di lei.
Catena era rigida tra le sue braccia, ma nonostante questo Oscar riuscì ad approfondire il bacio rendendolo vero. Senza che se accorgesse, Catena si ritrovò ad intrecciare le braccia dietro le spalle di lui e a sollevarsi sulla punta dei piedi per ricambiare quel suo primo bacio.
Quando si separarono era rossa dalla vergogna, si portò le mani sulla bocca e fece un piccolo passo indietro, Oscar le sorrise leggermente, e tenendola stretta per le braccia le stampò un altro bacio sul naso, rimasto scoperto.
<< Posso parlare adesso? Quello che ho cercato di dirti prima, è che mi sono comportato male. Io … io ho sempre provato qualcosa per te, ma non riuscivo ad accettarlo. Non sapevo come comportarmi. Quella sera sono stato spaventato dalla verità dei tuoi sentimenti … per poi accorgermi che erano uguali ai miei. >> Catena rimase in silenzio, mentre Oscar la guardava con occhi tristi e un sorriso arreso sulle labbra. << Dimmi … è troppo tardi? >>
<< No … >> Non appena Catena spostò leggermente le mani per rispondere, Oscar la baciò di nuovo.
 
Miki era proprio stanca quella mattina.
Si era svegliata nel cuore della notte dopo aver sognato per l’ennesima volta quelle poche ore che aveva passato con Aleksej. Era la terza volta in soli due mesi e Miki già non lo sopportava più. Quando si svegliava, la sensazione della pressione delle mani di Aleksej sul suo corpo era forte come se lui fosse stato lì, come se le stesse ancora sfiorando la pelle con le labbra o accarezzando la schiena.
Il corpo le bruciava prepotentemente ogni volta che ci pensava e le lacrime le invadevano il viso. Anche durante quell’ultima ora di quel grigio lunedì mattina, mentre Sonia si smaltava di rosso le unghie, Miki riuscì a trattenere a stento le lacrime a quei pensieri.
Il silenzio di Aleksej era durato anche fin troppo allungo perché lei lo tollerasse ancora, le frecciatine continue di Sonia erano diventate troppo sfacciate perché lei potesse resistere più di così, eppure si dava continui pizzichi sul braccio e taceva.
Lo stomaco le faceva terribilmente male e le girava la testa con tutti quei pensieri, non riusciva nemmeno più a mangiare decentemente senza che l’amarezza le si attaccasse addosso.
Quel giorno sarebbe stato il suo ultimo tentativo per parlare con Aleksej.
Quando la campanella suonò, perse un po’ di tempo a sistemare le sue cose, lasciando che Sonia la insultasse per il suo ritardo e se ne andasse lasciandola sola.
Infilò velocemente la giacca e la cartella e raggiunse la porta con passo affrettato, dove Aleksej si stava dirigendo insieme a Gabriele, prima che lasciasse l’aula però, lo afferrò per un lembo della camicia.
<< Aleksej possiamo parl … >> Miki non finì mai quella frase, perché non appena Aleksej si girò per risponderle e scostò il braccio, un capogiro improvviso le fece perdere i sensi.
Aleksej la prese giusto prima che battesse la testa a terra, e nel delirio in cui stava scivolando, sentire le braccia del ragazzo su di se, le fece sembrare di stare ancora sognando.
Quando riaprì gli occhi si trovava nella segreteria stesa sul divanetto nero di pelle.
Sentiva il tessuto rigido del sofà attaccato alla pelle e la testa pesantissima. La sua attenzione si focalizzò principalmente sulla scrivania ormai vuota e sul sole che filtrava sfacciatamente attraverso gli spiragli della tapparella semi-abbassata.
Non aveva idea di che ore fossero e per quanto tempo fosse rimasta svenuta.
<< Finalmente ti sei svegliata. Ci hai fatto prendere un colpo, sai? >>
Miki sobbalzò quando sentì la voce di Gabriele così vicina, poi si accorse che il ragazzo se n’era stato per tutto il tempo seduto al suo fianco. Aveva le gambe distese in avanti con le caviglie incrociate e le mani nelle tasche di quei pantaloni color kaki che gli stavano benissimo. Miki lo guardò con confusione.
<< Che ore sono? >> Si ritrovò a chiedere mentre si tirava lentamente su, le girava ancora un po’ la testa, così Gabriele abbandonò la sua comoda posizione e l’aiutò prendendola per un braccio.
<< Le due e mezza, sei rimasta svenuta solo per mezz’ora. La segretaria se n’è andata per la pausa pranzo, nel frattempo sta arrivando tua madre. >> Spiegò il ragazzo scrutandola con insistenza negli occhi, Miki distolse lo sguardo e si aggiustò frettolosamente i liscissimi capelli castano chiaro dietro le orecchie.
<< E tu sei rimasto qui ad aspettare … da solo? >>
A quelle parole l’espressione di Gabriele si addolcì, Miki si pentì immediatamente di aver fatto quella domanda. Le guance le si arrossarono vistosamente e i suoi pensieri andarono verso un’unica persona e la consapevolezza che Gabriele aveva capito perfettamente a chi lei si stesse riferendo implicitamente.
<< Aleksej se n’è andato Miki >> In cuor suo Miki lo sapeva, ma non avrebbe voluto sentirselo dire, strinse convulsamente tra le mani la stoffa della sua maglietta e contrasse le sopracciglia. << Dovresti mangiare qualcosa sai, sono andato a prenderti un pacchetto di cracker >> Gabriele le porse il pacchetto con un sorriso gentile e triste allo stesso tempo stampato sulle labbra, Miki aveva ancora le sopracciglia contratte mentre lo osservava.
Non accettò i cracker e Gabriele sospirò pesantemente.
<< Credo che tua madre stia per arrivare, posso anche andare no? >> Non ottenendo una risposta, Gabriele cominciò a raccogliere tutte le sue cose, la giacca, la cartella e le chiavi della macchina. << Se posso darti un consiglio … non continuare a farti del male. >>
Miki non replicò subito, così Gabriele si avviò verso la porta senza esitare.
<< Allora perché ha fatto l’amore con me?! Perché diavolo l’ha fatto?! >>
Le parole di Miki, dette con lo strazio nella voce, fecero fermare Gabriele quando aveva la mano già stretta intorno al pomello della porta. Il ragazzo si girò giusto in tempo per vedere le dita di Miki strette convulsamente sulla stoffa della propria maglia e le lacrime solcare il volto contratto ancora dalla rabbia.
<< Mi dispiace >>
Gabriele si vergognò da morire nel pronunciare quelle stupide parole, ma non sapeva cos’altro dirle. Lasciò la stanza con l’immagine di Miki che gli dava le spalle nella mente.
Aleksej si trovava esattamente dove l’aveva lasciato, appoggiato accanto al muro con gli occhi puntati per terra. Gli lanciò un’occhiataccia e lo sorpassò senza nemmeno fermarsi.
<< Come sta? >> Lo rincorse Aleksej, Gabriele continuò a camminare impettito verso la macchina.
<< Non chiedermi mai più di dire una palla per te, chiaro?! >> Sbottò irritato al massimo, Aleksej incassò il colpo senza fiatare, dopotutto sapeva benissimo di aver fatto una cosa orribile, ma non ce la faceva ad affrontare quella cosa.
Si sentiva un mostro.
<< Sta piangendo, lo sai? >> Scattò ancora una volta Gabriele, afferrandolo per un braccio e fermandosi bruscamente per strada, mentre raggiungevano il parcheggio delle macchine.
<< Lo so >> Replicò Aleksej con un filo di voce e lo sguardo basso.
<< E allora perché non vai da lei?! >> Gabriele lo scosse per le spalle.
Aleksej fece un respiro profondo, chiuse gli occhi per qualche secondo e quando li riaprì regalò al cugino uno dei sorrisi più strazianti che avesse mai visto.
<< Perché sono uno stronzo >>.
Gabriele rabbrividì. 



_________________________________
Effe_95 

Sono viva!
Ho appena trascorso una settimana infernale, ho dato due esami il 3 e il 4 e il 9 ne ho ancora un altro, quindi non so davvero come abbia fatto a postare, ma fortuna che il capitolo l'avevo già scritto e andava solo aggiustato. Comunque vi chiedo clemenza se dovessero esserci ancora degli errori, perchè l'ho fatto di fretta e tra una cosa e l'altra. Detto questo, spero che vi piaccia.
Vediamo finalmente Enea e Beatrice un po' più aperti (?) l'uno nei confronti dell' altra e spero l'idea del corso di teatro vi sia piaciuta :)
Poi, vi avevo promesso un bacio ed eccolo qui. Spero solo che non sia stata troppo azzardata come mossa, so che il segreto di Oscar non è ancora per nulla chiaro, ma ovviamente si capirà tutto più avanti.
Per l'ultima parte non credo ci sia molto da dire, Aleksej è stato cattivo lo so.
Grazie mille come sempre a tutti e alla prossima.
Sperando di essere ancora viva. 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Biglietti del cinema, Mi farebbe piacere e Teatro. ***


I ragazzi della 5 A
 
13.Biglietti del cinema, Mi farebbe piacere e Teatro.


Ottobre
 
<< Baciato?! >>
Nel sentire urlare quella parola, Catena desiderò ardentemente che qualcuno cucisse la bocca a Romeo il più in fretta possibile. Il cuore le era balzato dal petto fino in gola e le guance le si erano imporporate tremendamente. Lanciò un’occhiata veloce al resto della classe e sospirò pesantemente, fortunatamente era ricreazione, e quindi il chiasso proveniente dal corridoio aveva coperto quello strillo un po’ troppo acuto.
<< Abbassa la voce! >> Replicò a sua volta Italia, colpendolo molto poco gentilmente sulla spalla, Romeo accusò il colpo e fece una faccia mortificata.
<< Scusatemi, è che non me l’aspettavo proprio! >> Replicò aprendo con malagrazia il suo pacchetto di cracker dietetici, alcune briciole caddero sul banco di Catena ricoprendole i libri, ma lei era così distratta che non se ne accorse nemmeno. << Comunque, perché gliel’hai permesso dopo quello che ha combinato? >> Continuò imperterrito Romeo, prendendo a mangiare. Catena lo fissò per un momento interdetta.
<< Beh … non è che io gliel’abbia proprio lasciato fare … abbiamo parlato, comunque >>
<< Mhn >> Borbottò Romeo guardandola negli occhi, Catena arrossì ancora una volta e spostò lo sguardo. Le era sempre stato difficile sostenere la vista di quegli affilatissimi occhi verdi, Romeo era un ragazzo minuto, aveva uno strano taglio di capelli e portava i vestiti di una taglia più grande, sembrava allegro e spensierato, ma leggeva le persone meglio di un libro.
<< Però c’è una cosa che non ho capito ancora, Catena >> Intervenne Italia mentre puliva il suo banco dalle briciole dei cracker, che Romeo continuava a sgranocchiare con fare annoiato. << Ma state insieme adesso? >>
Catena spalancò la bocca, rossa come un pomodoro, e fece per rispondere qualcosa, quando due forti braccia le strinsero le spalle in un abbraccio dolce e gentile, e una guancia ispida a causa della barba in crescita si posò sulla sua provocandole un piacevole prurito.
Il profumo di Oscar la investì esattamente come aveva fatto quando si erano baciati e Catena arrossì ancora di più, era così impacciata in quella stretta che Italia e Romeo, sorpresi dal gesto, ne rimasero inteneriti e sorrisero guardandosi.
<< Guarda un po’ cos’ho qui? >> Gongolò Oscar con voce felice, estraendo dalla tasca dei jeans due biglietti un po’ stropicciati. Li posò sul banco davanti ad una Catena sempre più rossa, con le braccia tese e le mani chiuse a pugno sulle gambe.
<< C-cosa sono? >> Domandò lei con gli occhiali che le scivolavano sul naso e la voce più acuta del normale. Oscar rise calorosamente, e il suono della sua voce le vibrò nelle orecchie facendole salire un calore fino al cuore, la risata di Oscar era cristallina come l’acqua.
<< Due biglietti del cinema … per il nostro primo appuntamento >> Commentò allegro Oscar, sciogliendo l’abbraccio e mettendosi seduto accanto a Catena, in modo tale che lei potesse guardarlo negli occhi. << Sono per sabato pomeriggio >>
Oscar aveva gli occhi scintillanti e il sorriso più allegro che Catena gli avesse mai visto, le si sciolse il cuore a quella vista, così afferrò i biglietti con mani tremanti e gli sorrise.
<< Non vedo l’ora >> Oscar allungò una mano e le pizzicò una guancia.
Avrebbe voluto baciarla, ma lì con loro c’erano Italia e Romeo, che guardavano la scena piuttosto interessati, e inoltre la classe era piena di gente che non conoscevano, così Oscar si limitò a un prolungato bacio sulla guancia.
<< Beh, direi che stanno insieme no? >> Dichiarò Romeo una volta che Oscar si fu allontanato, infilandosi in bocca l’ultimo pezzo di cracker.
Catena era talmente rossa che avrebbe cacciato il fumo dalle orecchie come una pentola a pressione, ma allo stesso tempo sentiva un subbuglio sconosciuto nel petto.
 
Beatrice era un po’ emozionata per quella prima lezione di teatro.
Non sapeva esattamente cosa aspettarsi, ma era entusiasta di cominciare qualcosa di nuovo, qualcosa che non aveva mai provato. Lasciò frettolosamente il cortile dove si era fermata a pranzare su un muretto, e con la cartella sulle spalle e il libro di matematica stretto tra le braccia, si avviò con passo leggero verso il teatro.
Quella stanza l’aveva vista solo una volta, il primo giorno di scuola, e le era sembrato un posto accogliente, né troppo piccolo né troppo grande.
Aveva appena raggiunto l’atrio quando vide Catena e Italia parlare allegramente tra di loro.
<< Ehi, ciao Beatrice >> La salutò Italia, sollevando una mano ed accennando un leggero sorriso con le labbra, Beatrice ricambiò un po’ impacciata, dopotutto lei non aveva ancora legato con nessuna delle ragazze nella sua classe, quindi non si sentiva mai a proprio agio.
Soprattutto, non sapeva come comportarsi con Catena dopo quello che era successo all’Olimpo, anche se la ragazza le sembrava serena.
<< Segui anche tu il corso di teatro? >> Domandò Catena sistemandosi meglio gli occhiali che le erano scivolati sul naso.
<< Si >> Rispose Beatrice, interessata dalla piega che aveva preso la conversazione, sapeva che qualche suo compagno di classe era iscritto come lei, ma non ricordava tutti i nomi.
<< Anche voi due? >> Italia e Catena si guardarono velocemente e sorrisero.
<< Questo è il quinto anno di fila per noi due >> Beatrice rimase colpita da quelle parole, ma allo stesso tempo si sentì prendere dallo sconforto, se i ragazzi del corso erano così uniti, per lei sarebbe stato difficile, se non impossibile, inserirsi in quel gruppo.
<< E dove hai pranzato? >> La domanda di Italia la strappò dai suoi pensieri infelici, Beatrice si sistemò una ciocca di capelli ricci dietro l’orecchio e sospirò.
<< Nel cortile, sul muretto accanto al parcheggio delle macchine >> Spiegò mentre riprendevano a camminare alla volta del teatro, Italia le pizzicò leggermente il braccio e lei sussultò sorpresa.
<< E hai mangiato tutta da sola?! Vorrà dire che la prossima volta verrai da me, io abito qui vicino >> Esclamò entusiasta Italia, prendendola sotto braccio, Beatrice arrossì fino alla punta dei capelli e sorrise imbarazzata, nessuno era mai stato così aperto con lei come Italia e Catena in quel momento.
<< Veramente non vorrei … >> Cominciò a parlare, ma Italia la interruppe prima che potesse aggiungere altro.
<< Non disturberai affatto >>
<< A me e Italia farebbe davvero molto piacere >>
Intervenne anche Catena, sorridendole, Beatrice si sentì immediatamente molto meglio, così arrivarono tutte e tre al teatro con il sorriso sulle labbra.
Il professore non era ancora arrivato, ma qualcuno era già presente e stava aspettando. Beatrice riconobbe Romeo, spaparanzato sul palco con le gambe penzoloni nel vuoto e le braccia intrecciate dietro la nuca. Sulla sedia più esterna della prima fila era seduto Ivan in compagnia di Oscar, ed entrambi stavano giocando con delle carte francesi in maniera molto concitata. Da dietro le quinte spuntarono velocemente Zoe e Fiorenza, ancora immerse in una conversazione molto fitta che le vedeva così impegnate da non accorgersi nemmeno di loro. Beatrice notò anche la presenza di Lisandro e Igor, entrambi sistemati su due sedie differenti e intenti nella lettura di un fumetto, il primo, e di un libro, il secondo. C’erano anche altri tre ragazzi che non conosceva, poi, avanzando ancora di più all’interno del piccolo teatro, si accorse di un’altra figura seduta sul davanzale della finestra che non aveva ancora notato.
Quando riconobbe Enea il cuore le balzò nel petto in maniera violenta, era ancora scossa dalla conversazione che aveva avuto la settimana precedente, e nonostante non si fossero affatto rivolti la parola durante le lezioni giornaliere, non riuscì a trattenersi lo stesso.
<< Ah, ci siamo già tutti! >> Una voce allegra e spensierata attirò l’attenzione di tutti i presenti, anche di Beatrice, che smise di guardare Enea e si soffermò sull’uomo che era appena entrato, stringendo tra le mani numerosi fogli.
Alessandro Romano era il professore più giovane di tutto l’istituto, aveva vent’otto anni e si era diplomato sei anni prima alla scuola teatrale più famosa della città.
Beatrice rimase colpita dalla sua genuina bellezza, aveva il viso affilato ma allo stesso tempo gentile, gli occhi erano neri ed intensi, mentre i capelli biondi, tagliati corti, gli conferivano un’aria regale.
I ragazzi si ricomposero immediatamente quando il professore raggiunse il centro della sala, si misero tutti seduti e attesero che lui parlasse. Beatrice aveva il cuore in gola, imprigionata tra Catena e Italia, aveva riposto il libro di matematica, ma avrebbe tanto voluto tenere qualcosa stretto tra le mani per impedire che tremassero.
<< Oh, ma che bello, quest’anno abbiamo due componenti nuovi! >> Esclamò allegro il professore, mettendosi seduto sul palco, così che gli occhi di tutti i suoi alunni fossero puntati su di lui. << Come vi chiamate? >>
<< Enea Colombo >> Intervenne immediatamente il ragazzo, attirando l’attenzione di Alessandro, che gli sorrise, poi si girò a guardare Beatrice, rossa come un pomodoro, al suo fianco, Italia le diede una piccola gomitata per incitarla a parlare.
<< B-Beatrice Orlando >> Si ritrovò a balbettare.
<< Io invece sono Alessandro Romano, un gran rompiscatole e  insegnante di teatro. Quest’anno ho un grande progetto in mente, e siccome è il vostro ultimo anno di liceo, faremo ben tre spettacoli! >> Raccontò entusiasta l’uomo, agitando i fogli che fino ad un momento prima aveva stretto tra le mani.
<< Tre spettacoli?! >> Domandò sbigottito Ivan, con la bocca leggermente spalancata, ma il giovane professore sorrise divertito e annuì raggiante.
<< Esattamente! Uno a Gennaio, uno ad Aprile e l’ultimo i primi di Giugno >>
<< Che genere di spettacolo professore? >> Domandò timidamente Catena, alzando il braccio per attirare l’attenzione dell’uomo, che le rispose immediatamente, sempre sorridendo allegramente. Beatrice trovò quella caratteristica meravigliosa.
<< Lo spettacolo che metteremo in scena a Gennaio sarà Romeo e Giulietta, con una piccola variazione dall’originale. Lo spettacolo di Aprile invece, ha come protagonisti Tancredi e Clorinda della Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso, con un testo scritto da me. Il terzo spettacolo invece, è una storia d’amore ambientata durante la Seconda Guerra Mondiale, anche questa l’ho scritta io. >> Spiegò il professore, mentre divideva frettolosamente i fogli in tre gruppi differenti con una velocità sorprendente, proprio come se facesse quell’operazione più volte al giorno. << Adesso, vorrei che Beatrice ed Enea salissero un attimo qui sul palco. Vediamo come ve la cavate >>
Alessandro Romano porse un plico di fogli a Beatrice e un altro ad Enea, entrambi seduti in due parti opposte. Enea si alzò senza fare troppe storie, Beatrice invece rimase per un attimo paralizzata sulla sedia, non aveva idea di dover cominciare così apertamente e per di più con Enea, l’unico ragazzo che non avrebbe mai e poi mai voluto vedere in quel momento.
<< Avanti, vai! >> La incitò Italia, dandole una leggera gomitata nel fianco, Beatrice spostò lo sguardo imbarazzata sul professore, che le porse ancora una volta i fogli e sorrise incoraggiante. Non era mai stata una ragazza codarda, così strinse forte i pugni e si alzò raggiungendo Enea sul palco, rilassato e con una mano inserita addirittura nella tasca dei jeans. I capelli castani era un po’ disordinati sulla testa, Beatrice si accorse che da quando era entrata nel teatro non le aveva rivolto nemmeno un’occhiata, e non lo fece nemmeno in quel momento.
<< Oh, bene >> Commentò allegro Alessandro Romano, scendendo dal palco per mettersi seduto in prima fila << E’ un breve dialogo tra due persone, siate spontanei. >>
A Beatrice tremavano tremendamente le mani, così fu costretta a stringere ancora più forte le mani intorno ai fogli.
<< Cosa significa questo Caterina? Che non mi lascerai andare nemmeno stavolta? >> La voce di Enea la colse alla sprovvista, Beatrice alzò gli occhi di scatto e ritrovò quelli del ragazzo puntati su di se, la fissava serio, era sembrato così reale che non aveva potuto fare a meno di sobbalzare, Beatrice di rese conto di non poter essere da meno.
<< Con che faccia tosta mi fai questa domanda?! Cosa credi, che lascerei il mio cuore nelle tue mani per mandarlo a morire con te? >> Il tremore nelle mani di Beatrice si fece meno intenso una volta che cominciò a parlare. Enea tolse la mano dalla tasca e fece un passo verso di lei.
<< No, no Caterina, no! Ma non lo vedi? Come posso essere io ad avere il tuo cuore? Sei tu che custodisci entrambi … Non morirò se tu sarai qui sana e salva! >> Quando finì di parlare, Enea le afferrò saldamente una mano e se la mise premuta sul cuore, continuando a intervallare in suo sguardo tra i fogli e lei, Beatrice sentì il tremore delle mani cessare di botto, perché il cuore di Enea le batteva implacabile sul palmo.
<< Ma cosa ne sarà di me allora? No … lo vedo bene dei tuoi occhi che non ti importa di me! E allora vai a morire Daniele! Vai … >>  
<< Fantastico! >>
Nel sentire la voce di Alessandro Romani, Enea e Beatrice sobbalzarono e fecero automaticamente tre passi indietro, mettendo più distanza possibile tra di loro.
<< Abbiamo trovato i nostri Romeo e Giulietta ragazzi! >> Esclamò entusiasta il professore salendo agilmente sul palco con un leggero balzo. Beatrice ed Enea lo guardarono leggermente stralunati, mentre i compagni di classe applaudivano entusiasti dalle loro sedie.
<< Ecco a voi i copioni. Allora vediamo un po’ … Romeo tu interpreterai Mercuzio. >> Affermò entusiasta il professore, lanciando il copione in direzione di Romeo, che lo afferrò al volo piuttosto entusiasta << Lisandro tu interpreterai Paride >> Lisandro sobbalzò alla notizia, rischiando così di far cadere rovinosamente il copione che gli era stato lanciato con grazia. << Igor tu sei Benvolio >> Igor annuì impercettibilmente, afferrando con risolutezza il copione che Fiorenza gli stava gentilmente porgendo, siccome lui non era stato in grado di prenderlo al volo. << Oscar sarà Frate Lorenzo, mentre Ivan avrà il ruolo di Tebaldo >>
<< Sul serio? >> Chiese entusiasta Ivan, aprendo immediatamente il copione per dare uno sguardo veloce alle sue battute.
<< Si, Catena tu interpreterai Donna Capuleti, Italia tu invece sarai Donna Montecchi. Zoe, sarà la Nutrice di Giulietta. Per quanto riguarda te Fiorenza, interpreterai una versione femminile di Baldassarre, il servo di Romeo. Tutti gli altri saranno i servitori e i paggi >>
Quando il professore ebbe finito di distribuire i copioni a tutti, si accorse che Beatrice ed Enea se ne stavano ancora imbambolati sul palco a tre metri di distanza, così sorride calorosamente e li afferrò entrambi per un braccio.
<< Da giovedì cominciamo a provare mio Romeo e mia Giulietta, non siete contenti? >>
Beatrice desiderò che il giovedì arrivasse il più tardi possibile.


__________________________
Effe_95

Buongiorno a tutti :)
Vi chiedo perdono se questo capitolo dovesse fare schifo, ma ho avuto una pessima settimana e una brutta notizia proprio ieri, e credo che questo abbia condizionato anche il mio modo di scrivere.
Comunque, ci tenevo a dire che ovviamente le parti recitate da Enea e Beatrice sono di mia invenzione, e spero fortemente che l'idea del teatro vi sia piaciuta e anche l'attribuzione dei personaggi.
Che ovviamente ha una logica ;)
Per quanto riguarda i due altri spettacoli citati, se ne parlerà più avanti.
Inutile dire che Romeo e Giulietta sono un'opera di Shakespeare e che Tancredi e Clorinda sono due personaggi della Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso di cui io sono una grande fan, ed è per questo che ho deciso di usufruirne. Grazie a tutti come sempre per il vostro supporto continuo.
Alla prossima spero.
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Sensi di colpa, Cantare e Basket ***


I ragazzi della 5 A
 

14. Sensi di colpa, Cantare e Basket


Ottobre
 
Gabriele detestava Lucano con tutto il cuore.
Erano le sette di sera dell’ultimo mercoledì di Ottobre, e lui se ne stava stravaccato sul letto con la testa sepolta nel dizionario di latino nel vano tentativo di tradurre la Pharsalia.
Guardò sconsolato le sole tre parole che aveva scritto sul quaderno e sbuffò infastidito, non riusciva proprio a trovarlo il verbo reggente di quella frase.
Si prese convulsamente la testa tra le mani e fu attraversato dal violento desiderio di stracciare la pagina di quel maledetto libro, fortunatamente per lui però, qualcuno bussò alla sua porta proprio in quel momento.
<< Avanti! >> Sbottò mettendosi seduto sul letto.
Rimase sorpreso quando Aleksej aprì la porta ed entrò richiudendosela poi alle spalle.
Il biondo aveva una pessima cera, i taglienti occhi azzurri erano accompagnati da pesanti occhiaie, le lentiggini sulle guance erano un po’ scolorite a causa del pallore ed il ciuffo ribelle, solitamente spazzolato, pendeva senza vita sulla fronte.
<< Ehi, che fai qui dentro tutto solo? >> Domandò Aleksej guardandolo stanco, aveva ancora la mano attaccata al pomello della porta senza nemmeno accorgersene.
<< Stavo cercando di tradurre Lucano, tu piuttosto, cosa ci fai qui? >> Chiese di rimando Gabriele mettendosi in piedi, Aleksej lo guardò, per poi costatare che il cugino era davvero un gran pigrone. Indossava una tuta vecchia e grigia, ai piedi portava delle pantofole invernali nere, la felpa era leggermente scolorita e i capelli castano/dorati un groviglio inestricabile. << Siamo venuti tutti in realtà. Io, mamma, papà, Ivan, Pavel, Andrea e Lisa. Stasera cenavamo da voi, te lo sei dimenticato vero? >> Commentò Aleksej mettendosi comodamente seduto sul letto, Gabriele si schiaffò una mano sulla fronte, imprecò mentalmente contro Lucano per avergli completamente fatto perdere il senso del tempo e si sfilò immediatamente la maglietta per indossare una camicia un po’ più decente.
<< Tutta colpa di questa traduzione! >> Sbottò il castano sfilandosi anche i pantaloni della tuta per sostituirli con un paio di jeans, Aleksej lanciò uno sguardo veloce al quaderno di Gabriele, per poi notare che aveva tradotto solamente le prime tre parole.
<< Hai tradotto solo tre parole? >> Chiese allibit0, mentre Gabriele si infilava frettolosamente le scarpe e faceva un gesto di non curanza con la mano.
<< Per i miei standard è anche troppo. >> Aleksej alzò gli occhi al cielo.
<< Ok, ho capito. Domani ti mando quella che ho tradotto io, va bene? >>  Gabriele gli sorrise raggiante, dandogli un pugno affettuoso sulla spalla.
<< Sei il cugino migliore del mondo! >>
<< Si, si >> Commentò Aleksej sorridendo leggermente, dopo un po’ di silenzio però, il ragazzo si estraniò completamente, perso nella stanza.
Gabriele lo osservò per un po’, rendendosi conto che il cugino sembrava essere davvero molto stanco, forse un po’ troppo.
<< Ehi Alješa, da quant’è che non dormi bene? >> Aleksej sollevò gli occhi azzurri su Gabriele e lo fissò in silenzio per un paio di secondi, poi sospirò pesantemente e si torturò le mani.
<< Da un po’ >> Si ritrovò a rispondere con apatia. << I sensi di colpa non mi fanno chiudere occhio, è ridicolo lo so, ma non posso farci nulla >> Aleksej aveva un sorriso amaro e rassegnato sulle labbra, mentre giocherellava con i fogli del quaderno e pronunciava quelle parole. Gabriele si rese conto per la prima volta che quella situazione doveva pesargli molto.
<< La soluzione sarebbe semplice, lo sai? >>
<< Lo so, ma io non posso … >>
Le parole di Aleksej vennero bruscamente interrotte dall’aprirsi violento della porta, i due ragazzi sobbalzarono come grilli quando Alessandra irruppe nella stanza con i pugni appoggiati sui fianchi e un’espressione severa sul viso.
<< Smettetela di fare gli asociali e venite immediatamente di là! >> Sbottò la ragazza agitando il dito in aria, Aleksej e Gabriele si tirarono in piedi sbuffando rumorosamente.
<< Ehi tu! Bussa la prossima volta, capito?! >> Brontolò Gabriele lanciando la felpa che indossava pochi minuti prima contro la sorella, Alessandra l’afferrò con stizza, rimandandola immediatamente al mittente.
<< Muoviti! E’ arrivata anche Katerina con i suoi genitori e i suoi fratelli! >>
A quelle parole Gabriele inciampò miseramente nella sua stessa felpa e capitombolò contro il letto, battendo con il ginocchio destro sul legno alla base, Aleksej e Alessandra lo guardarono allibiti, mentre imprecava in tutte le lingue che conosceva.
Era stato più forte di lui, non ricordava che sarebbero arrivati anche loro, e quando aveva sentito il nome di Katerina il cuore gli era saltato nel petto senza permesso.
Si rimise in piedi imprecando ancora una volta tra i denti.
<< Andiamo! >> Brontolò afferrando gli altri due per le braccia.
 
 A Beatrice tremavano terribilmente le mani.
Il copione non faceva altro che scivolarle tra le dita, a furia di arrotolarlo e  srotolarlo si era completamente deformato. Beatrice aveva imparato tutte le battute del primo atto proprio come gli aveva detto il professore, ma al momento decisivo non poté fare a meno di tremare.
<< Ehi, tutto bene? >> La mano piccola e affusolata di Italia si posò delicatamente sulla sua tremante, Beatrice sobbalzò e si voltò a guardarla, facendo affiorare un sorriso tirato sulle labbra.  << Tutto alla grande! >> Commentò troppo frettolosamente.
Italia scoppiò a ridere e le diede una pacca affettuosa sulla spalla, avrebbe voluto dirle qualcos’altro, ma Enea si mise seduto accanto a loro proprio in quel momento.
<< Hai imparato le battute Giulietta? >> Domandò lanciando uno sguardo veloce al copione tutto sottolineato di Beatrice, la ragazza sbuffò sommessamente e alzò gli occhi al cielo.
<< Potrai costatarlo tra poco, piuttosto, tu le hai imparate? >>
Enea sollevò velocemente gli occhi e li puntò su di lei, che lo scrutava di sottecchi e con aria severa, si lasciò sfuggire un sorriso un po’ sghembo e tossicchiò leggermente.
<< Se credete che io profani con la mano più indegna questa sacra reliquia, peccato degli umili del resto, le mie labbra rosse come due timidi pellegrini cercheranno di rendere morbido l’aspro contatto con un tenero bacio >> Beatrice riconobbe immediatamente la battuta pronunciata magistralmente da Enea, erano le prime parole che Romeo rivolgeva a Giulietta durante la festa dei Capuleti, al loro primo incontro.
<< Buon pellegrino, voi fate un grave torto alla vostra mano, che non ha fatto altro che dimostrare un’umile devozione. Anche i santi hanno le mani, e le mani dei pellegrini le toccano; palma contro palma: infatti è questo il bacio sacro dei pellegrini >>
Beatrice replicò prontamente, non poteva permettere che Enea apparisse così sicuro di se, anche lei aveva imparato bene le sue battute. Quando ebbe finito di recitare la sua parte, Enea le scoppiò a ridere in faccia e poi le diede un buffetto leggero sulla guancia.
<< Va bene, va bene, hai imparato la parte, ma non fare quella faccia paurosa. >> Commentò il ragazzo asciugandosi una lacrima all’angolo dell’occhio destro, Beatrice lo guardava scioccata e arrabbiata.
<< Io non faccio nessuna faccia paurosa! >> Sbottò irritata, incrociando le braccia al petto, Enea tentò inutilmente di ricomporsi e tossicchiando leggermente alzò le mani in segno di  resa.
<< Però almeno ti sei calmata, no? Non stai più tremando >>
Beatrice sussultò quando sentì quelle parole, abbandonò la posa irritata e si rese conto per la prima volta che aveva davvero smesso di tremare, Enea la guardò con un sorriso compiaciuto sulle labbra e una guancia poggiata sulla mano. Di solito a Beatrice dava fastidio essere osservata così attentamente, ma quella volta non lo trovò affatto fastidioso, non le era mai capitato prima o forse non se n’era mai resa conto, ma quando parlava con Enea tutte le sue ansie scivolavano via come trascinate dal vento.
Quella consapevolezza l’aveva lasciata così basita che non fece nemmeno in tempo a formulare una risposta decente prima che arrivasse il professore.
Alessandro Romano entrò nel teatro portando con se una ventata di gioia, aveva un sorriso a trentadue denti sul viso e non appena vide Beatrice ed Enea seduti l’uno accanto all’altra si sfregò le mani con soddisfazione.
<< Buongiorno ragazzi! Ho una comunicazione importante da farvi >> La sua voce squillante fece zittire tutti i ragazzi, e anche Beatrice ed Enea smisero di fissarsi per portare la loro attenzione su di lui. << Come vi avevo già anticipato martedì scorso, la nostra interpretazione di Romeo e Giulietta sarà un po’ particolare, questo perché … alle battute aggiungeremo anche il canto. >> Il professore terminò la spiegazione con entusiasmo, ma nessuno dei ragazzi applaudì o replicò, tutti lo fissavano con sgomento.
<< In che senso professore? >> Domandò Oscar facendosi coraggio, Alessandro sorrise in maniera rassicurante e si mise seduto a terra sul palco.
<< Nel senso che inseriremo all’interno dell’opera originale alcune delle canzoni del nuovo musical: Romeo e Giulietta, Ama e cambia il mondo. >>
Catena alzò timidamente una mano, attirando immediatamente l’attenzione del professore.
<< Professore, ma questo vuol dire che dovremmo … cantare? >>
Tutti gli altri presenti sobbalzarono quando sentirono quelle parole e si diffuse un brusio serpentino lungo tutte le file occupate, ma il professor Romano attirò nuovamente la sua attenzione puntando l’indice prima contro Enea poi contro Beatrice.
<< Esatto, anche se a cantare saranno solo i nostri Romeo e Giulietta, con una piccola parte per frate Lorenzo >> Completò il professore indicando Oscar, che aveva avuto quel ruolo da interpretare, il ragazzo non disse nulla, perché dopotutto era abituato ad esibirsi all’Olimpo, ma non appena Beatrice realizzò cosa le sarebbe toccato fare, balzò in piedi e scosse il capo.
<< No, io non so e non posso cantare! >> Sbottò esasperata, entrando nel panico più totale.
<< Tranquilla Beatrice, non c'è da preoccuparsi, io sono qui per questo >> Intervenne il professore, ma Beatrice non si sentiva affatto tranquillizzata da quel sorriso bonario o da quelle parole, fece per ribattere nuovamente, ma Enea le afferrò improvvisamente il braccio.
Però almeno ti sei calmata, no? Non stai più tremando
Beatrice non seppe mai spiegarsi perché le tornarono in mente proprio quelle parole, ma la tranquillizzarono, così tacque e si rimise seduta.
<< Perfetto >> Commentò allegro il professore << Adesso salite sul palco, proviamo la prima scena! >> La voce allegra del professore si perse in lontananza, come la mentre di Beatrice.
La ragazza lanciò un’occhiata veloce ad Enea, seduto al suo fianco con aria annoiata e lo sguardo concentrato sul palco, il cuore sobbalzò improvvisamente, e nel momento esatto in cui accadde Beatrice si portò la mano al petto e strinse forte.
No, quel cuore doveva assolutamente restare al suo posto.
 
Giasone amava immensamente il Venerdì.
Quello in particolare, perché era l’ultimo giorno di Ottobre,  l’ultimo della settimana e avevano un’ora di educazione fisica e una di religione, il che comportava almeno una bella dormita e fare dello sport, cosa che lui adorava.
Non si preoccupò troppo per l’interrogazione di matematica con il professor De Santis, sbadigliò sfacciatamente senza mettersi la mano davanti la bocca e premette il tasto play dell’ iPod. Anche quella mattina il vecchio catorcio andava lento come una lumaca, ma siccome erano solo che sette e mezza e Giasone aveva un sonno tremendo, si lasciava cullare da quel passo lento ed ondulante con piacere.
<< Buongiorno! >> Il ragazzo sobbalzò quando quella voce squillante gli perforò i timpani nonostante stesse sentendo Wake me up when september end dei Green Day a tutto volume.
Imprecò mentalmente tra i denti e lanciò un’occhiata veloce alla ragazza che gli sorrideva a trentadue denti sull’altro sedile.
La storia andava avanti più o meno da quando si erano conosciuti.
Muriel aveva preso l’abitudine di mettersi seduta accanto a lui tutte le mattine, Giasone non l’aveva affatto presa bene, quella ragazzina era fastidiosa e chiacchierona, mentre lui voleva solamente ascoltare la musica in silenzio e sonnecchiare prima di sei ore di tortura.
Purtroppo per lui, il vecchio catorcio era sempre troppo vuoto perché qualcuno potesse mettersi seduto accanto a lui, così quel posto restava sempre vuoto, almeno fino alla terza fermata, dove saliva quel terremoto vivente.
Quella mattina Muriel sembrava molto più allegra del solito, aveva i capelli corti sistemati e senza la solita gelatina, con il ciuffo raccolto da una mollettina rossa. Gli occhi taglienti erano allungati dalla matita nera e particolarmente verdi a causa della luce del sole che vi si rifletteva dal finestrino. Sulle labbra aveva un lucidalabbra leggermente rosa e portava due piccoli orecchini gialli a forma di coccinella.
Giasone aveva scoperto moltissime cose di lei in quelle settimane, perché Muriel non faceva altro che parlare e parlare per tutto il tempo. Aveva scoperto che i suoi genitori si chiamavano Nathan e Teresa Esposito, che lui era un’ingegnere e lei una professoressa. Aveva scoperto che aveva un fratello più piccolo di nome Emanuele, che il suo colore preferito era l’arancione, che non le piacevano i canditi, che era golosa di dolci, che da piccola era caduta dalla bicicletta provocandosi la cicatrice sottile che aveva sotto il mento e che aveva anche un piccolo tatuaggio, fatto di nascosto qualche mese prima.
A Giasone non interessavano affatto tutte quelle informazioni, per tutta la durata del viaggio lui spiccicava al massimo due parole grugnendo, e annuendo svogliatamente quando lo richiedeva l’occasione.
<< Ciao >> Brontolò il ragazzo spostando lo sguardo infastidito.
Stranamente però, invece della solita tiritera, quella mattina Muriel si limitò ad  infilare le mani nella tasca anteriore dello zaino e tirò fuori tre foglietti.
Glieli sventolò sotto il naso e Giasone lo trovò alquanto fastidioso, soprattutto perché lei sorrideva raggiante, con l’espressione di una persona piena di aspettative.
<< Che roba è? >> Domandò lui afferrando malamente quei tre foglietti, li scrutò con le sopracciglia aggrottate e si rese conto che erano tre biglietti d’ingresso per una partita di basket femminile. << Cosa dovrei farmene di questi? >> Continuò a chiedere, lanciando un’occhiata perplessa alla ragazza, che ancora lo fissava con un sorriso entusiasta sulle labbra carnose e lucide.
<< È un invito, no? >> Giasone provò sgomento nel sentire quelle parole, si irrigidì automaticamente e tossicchiò in imbarazzo, non credeva che Muriel fosse così ardita da chiedergli addirittura di uscire, l’aveva messo nella brutta situazione di rifiutare.
<< Ma come, non l’hai ancora capito? >> Continuò la ragazzina facendogli saltare il cuore in gola, ci mancava solo una dichiarazione d’amore all’interno di un pullman mezzo rotto.
<< Aspetta Muriel , non … >>
<< Io gioco nella squadra femminile di basket della mia scuola ! >> Replicò Muriel senza nemmeno farlo finire di parlare, talmente tanto era l’entusiasmo. << Quelli sono tre biglietti gratis per assistere alla prima partita di campionato. Puoi invitare anche due amici se ti va di venire a vederla >> Giasone rimase come uno stupido nel sentire quelle parole, tutta la rigidità del suo corpo andò piano piano sciogliendosi e gli scappò un sorriso nervoso, che sapeva un po’ di schermo per se stesso.
Fu invaso dal sollievo e guardò i biglietti con interesse.
Il basket era in assoluto il suo sport preferito, seguiva tutti i campionati possibili e ci giocava tutte le volte che poteva, il fatto che l’invito venisse da Muriel l’aveva stranito, ma dopo aver capito che non si trattava di un invito romantico, rimase seriamente colpito dalla notizia.
E così, quella ragazzina petulante giocava a basket.
<< Allora? Ci vieni? >> Chiese lei continuando a sorridere, mentre giocherellava con i pupazzetti di pezza attaccati alla cerniera dello zaino, probabilmente per celare il nervosismo. Giasone osservò ancora una volta i biglietti e si accorse che la partita era il secondo Sabato di Novembre alle sei del pomeriggio.
<< Si, ci vengo. Il basket è il mio sport preferito >>
Commentò, rivelando per la prima volta qualcosa di se a Muriel di sua spontanea volontà, lei sorrise ancora più raggiante a quella notizia.
<< Davvero? Che bello! Allora ti lascio il mio numero >> Disse presa dalla foga, afferrò velocemente una penna dall’astuccio, e immobilizzata la mano di Giasone vi incise i numeri con una calligrafia precisa e piena, firmandosi alla fine con una faccina. << Per qualsiasi problema puoi chiamarmi! Adesso vado >> Giasone la vide balzare in piedi e scendere dal vecchio rottame con la grazia di un rinoceronte.
Era scioccato, si guardò la mano macchiata dall’inchiostro e si rese conto che l’iPod era ancora acceso e per tutto il tempo di quella strana conversazione le canzoni erano andate avanti da sole.
Scosse freneticamente la testa afferrando le cuffiette, ma gli scappò anche un sorriso sulle labbra. Quella ragazza era davvero strana, ma Giasone si rese conto di cominciare a farci l’abitudine.



__________________________
Effe_95

Buongiorno a tutti :)
Per prima cosa mi scuso immensamente per il ritardo, ma ho avuto una settimana veramente pesante e ho dato anche due esami.
Per quanto riguarda il capitolo invece, spero vi piaccia.
Il musical di Romeo e Giulietta, Ama e cambia il mondo, ho avuto la possibilità di vederlo di persona, l'ho trovato bellissimo e non ho potuto fare a meno di inserire questo piccolo particolare anche all'interno della storia. Spero l'idea non sia stata troppo azzardata o ridicola o scontata.
Comunque, se non lo conoscete, vi consiglio vivamente di ascoltarne le canzoni perchè sono molto belle :)
Detto questo spero che il capitolo vi piaccia e non faccia troppo schifo.
Grazie mille a tutti come sempre.
Alla prossima spero.
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Film, Pizza e Cioccolata ***


I ragazzi della 5 A
 

15. Film, Pizza e Cioccolata.


Novembre
 
Il primo giorno di Novembre venne un freddo tremendo.
Catena se n’era accorta durante la notte, la temperatura era calata così drasticamente da costringerla ad alzarsi alle quattro del mattino alla ricerca di un piumone più pesante.
Ottobre era stato così insolitamente caldo, che quel gelo improvviso aveva colto tutti impreparati. Infilandosi il piumino pesante, Catena cercò di fare il prima possibile e scendere immediatamente giù al palazzo, dove Oscar la stava aspettando per il loro primo appuntamento. Si diede un’occhiata allo specchio, strinse un po’ più il codino che chiudeva la treccia, e afferrata la borsa si affrettò a scendere velocemente le scale.
Oscar la stava aspettando seduto comodamente su un paletto un po’ incrinato e scolorito, aveva un giubbotto pesante nero, la sciarpa arancione avvolta intorno al collo e le mani infilate nelle tasche dei pantaloni.
Catena lo trovò bellissimo in quella posizione un po’ raccolta, e come ogni volta che lo guardava, il cuore le balzò nel petto senza troppo ritegno. Lui si aprì in un meraviglioso sorriso quando scorse la figura minuta di Catena oltre il vetro del portone.
La sciarpa che le copriva la bocca la faceva sembrare ancora più minuta di quanto già non fosse in realtà, Oscar allungò immediatamente le braccia e le porse le mani, ancora calde per tutto il tempo che erano state segregate in quelle tasche.
Catena gliele strinse con titubanza e imbarazzo, erano così grandi che le sue scomparivano completamente.
<< Che mani fredde che hai >> Commentò Oscar sciogliendo il silenzio con un caldo sorriso. Catena trovava estremamente piacevo la voce roca di Oscar.
<< Mani fredde cuore caldo, no? >> Si limitò a replicare, continuando a guardare quegli occhi color cioccolato con insistenza, Oscar ridacchiò e le appoggiò un braccio intorno alla spalla, stringendola con possesso.
<< Nel tuo caso è assolutamente vero, sai? >> Catena sollevò il viso sorpresa nel sentire quelle parole, Oscar approfittò di quel gesto per baciarla. Le rubò prima un bacio a timbro, vedendola arrossire fino alla radice dei capelli, poi le afferrò il viso con due dita e pretese un bacio molto più profondo, che Catena ricambiò dopo un po’ di imbarazzo.
Per raggiungere il cinema presero la metropolitana, quella sera era particolarmente affollata e furono costretti a fare tutto il viaggio incollati l’uno addosso all’altra, Catena era così imbarazzata che tenne lo sguardo basso per tutto il tempo, Oscar invece non la smetteva di sorridere ogni volta che la vedeva in difficoltà perché non sapeva dove volgere lo sguardo.
Una volta scesi dal mezzo apprezzarono molto l’aria fresca della sera, l’afa che si era andata a creare in quell’ammasso di corpi era stata fastidiosa per entrambi, sospirarono rincuorati e si tennero per mano lungo tutto il tragitto verso il cinema.
Oscar non aveva proprio idea di quale film sarebbero andati a vedere, ma sperò intensamente non si trattasse di un film erotico, di guerra o d’azione, Catena l’avrebbe preso per uno sfacciato in tutti e tre i casi. I biglietti glieli aveva presi suo cugino, ma la colpa sarebbe stata sua se la situazione fosse diventata imbarazzante, dopotutto avrebbe dovuto controllare ed essere meno pigro.
Fu visibilmente sollevato quando si accorse che si trattava di una commedia romantica.
<< Prendiamo un cestello di popcorn da dividere? >> Chiese il ragazzo dopo essersi tranquillizzato, Catena stava guardando distrattamente i biglietti che stringeva tra le mani e annuì automaticamente, lasciandosi trascinare verso il bancone.
<< “Ti ho trovato”, mai sentito. Sai di cosa parla questo film? >>
La domanda ingenua e curiosa di Catena mandò Oscar nel panico più totale, il ragazzo sorrise con un certo imbarazzo e si affrettó a pagare i popcorn e le due bottigliette d’acqua.
<< Ecco prendi … >> Disse passandole la sua bevanda, Catena la prese continuando a fissarlo negli occhi, in attesa di una risposta << Beh, è una storia d’amore! >> Replicò Oscar grattandosi la nuca, aveva sempre amato gli occhi intelligenti di Catena, ma quella volta non ne fu per nulla entusiasta, sembravano due radar rivela bugie.
<< Questo l’avevo capito da sola Oscar >> Brontolò Catena spostando lo sguardo con fare un po’ imbronciato, Oscar trovò quel gesto talmente tenero che gli spuntò nuovamente il sorriso. Afferrò Catena per la vita e la trascinò verso la sala numero otto.
<< Ma se ti dico la trama non c’è più nessun gusto nel guardare il film poi, no? >>
Catena si girò a guardarlo con le guance un po’ arrossate.
<< In effetti … >> Oscar scoppiò a ridere e le scombinò un po’ i capelli.
 
Zosimo aveva sempre pensato che sorridere fosse il rimedio migliore contro tutti i mali del mondo. Quella era diventata la sua filosofia di vita da quando all’età di otto anni aveva perso sua madre a causa di una malattia, era diventata la sua filosofia di vita perché era stato proprio sua madre ad insegnarglielo. Zosimo ricordava molto poco di Emilia, a distanza di dieci anni dall’accaduto, i lineamenti del suo viso e la sua fisionomia erano diventati ombre evanescenti nei suoi ricordi, se non fosse stato per le foto l’avrebbe dimenticata del tutto.
Il suono della voce però, tutte le ninna nanne che gli cantava, le mani callose, le carezze gentili, tutte quelle sensazioni erano così palpabili che a volte a Zosimo bastava chiudere gli occhi per ricordarsele.
Aveva pianto solo una volta per lei, immediatamente dopo la notizia del decesso, stretto tra le braccia di suo padre. Arturo Marino era sempre stato un buon padre per Zosimo, gli aveva fatto sentire la mancanza di Emilia relativamente e insieme se la cavavano bene.
Suo padre era un insegnate di pianoforte al Conservatorio, casa loro era continuamente invasa da spartiti musicali, Zosimo aveva imparato a leggere le note musicali ancor prima di farlo a scuola, anche se non gli era servito a granché, perché non suonava nessun strumento.
Aveva imparato ad addormentarsi con la musica di suo padre, ostinatamente attaccato a quel pianoforte fino a notte fonda, e aveva anche imparato a fare molte cose da solo, perché spesso il padre dava lezioni private fino a tardi e non aveva molto tempo per lui.
Zosimo non si era mai lamentato e non sentiva la necessità di farlo.
Anche quella sera era uno di quei casi, suo padre non c’era, il frigorifero era vuoto e così aveva pensato bene di andare a prendere una pizza, avrebbe potuto farsela portare a casa, ma voleva un po’ sgranchirsi le gambe.
La pizzeria era abbastanza affollata quella sera, prima di lui c’erano altre quattro persone che aspettavano la pizza da asporto, l’orologio segnava le venti e trentacinque ed il locale era già stracolmo. Zosimo guardò con scarso interesse la partita di calcio trasmessa sul grande schermo e spostò la sua attenzione altrove, era totalmente distratto quando la porta del locale si aprì nuovamente, portando con se le risate gioiose di alcuni ragazzi.
<< Zosimo? Ehi, ma sei tu? >> Nel sentirsi chiamare il folletto sollevò lo sguardo, e non poteva essersi sbagliato, perché era piuttosto sicuro che il suo nome fosse abbastanza obsoleto perché qualcun altro lo portasse, sarebbe stata una coincidenza pazzesca.
<< Aleksej e Gabriele? >> I due cugini lo guardavano sorpresi, come se non si sarebbero mai aspettati di trovarlo in un posto del genere, i ragazzi erano in compagnia di altre quattro persone. Zosimo li aveva riconosciuti tutti, erano Alessandra, Katerina, suo fratello gemello Jurij e Ivan, il fratello quindicenne di Aleksej.
<< Oh, per un momento vi avevo scambiato per dei fantasmi della neve, siete tutti così biondi e altri e freddi, beh questo perché venite da fuori, e poi avete quegli occhi chiarissimi e … >> Cominciò a blaterale Zosimo una volta che gli altri lo ebbero raggiunto, Gabriele gli mise una mano sulla spalla e scoppiò a ridere.
<< Cosa ci fai qui? >> Zosimo non trovò molto intelligente la domanda di Gabriele, dopotutto si potevano fare davvero poche cose in una pizzeria, tuttavia, preferì non farglielo notare.
<< Mio padre stasera lavora fino a tardi. Ero solo a casa e il frigorifero era vuoto. Mi prendo una pizza e mi piazzo sul divano a guardare un bel film >> Spiegò il folletto, distogliendo lo sguardo perché Alessandra lo stava fissando con curiosità, scrutando intensamente ogni suo movimento. Zosimo non avrebbe mai ammesso di avere una cotta per lei da più o meno un anno, da quando l’aveva vista splendente e felice il primo giorno di scuola fare il suo ingresso nel mondo del liceo.
<< Che coincidenza, anche noi stavamo per fare la stessa cosa >> Commentò sorpresa Katerina, passandosi distrattamente una mano tra i capelli biondo platino.
Zosimo aveva sempre trovato quella ragazza un vero maschiaccio, si vestiva come un uomo, aveva modi brutali, utilizzava il più delle volte un linguaggio scurrile, eppure era di una bellezza sconcertante. Probabilmente Katerina non si rendeva nemmeno conto di quanto attirasse il genere maschile con quei suoi modi di fare.
<< Già, perché non ti unisci a noi Zosimo? Dopotutto non si può passare il sabato sera da soli >> Replicò allegramente Gabriele, dandogli una pacca un po’ troppo affettuosa sulla spalla. Zosimo sorrise forzatamente, massaggiandosi l’arto indolenzito, lui era del parere che si potesse passare il sabato sera da soli, ma non pensò fosse cortese dirlo in quel modo.
<< Ecco … mi farebbe piacere, ma ho avvisato mio padre che sarei rimasto a casa. Non risponde mai al cellulare quando lavora, quindi adesso è un po’ tardi per cambiare i miei piani >> Replicò il folletto, facendo un gesto vago con le mani.
La fila davanti a lui si era improvvisamente sfoltita, mancava solo una persona perché arrivasse il suo turno, Zosimo pensò che fosse il caso di sbarazzarsi di Aleksej e Gabriele in quell’esatto momento, ma il suo piano fallì miseramente.
<< Beh, allora vorrà dire che verremo noi da te, no? I nostri non dicono nulla, e tu hai casa libera. Inoltre, abbiamo noleggiato un film dell’orrore davvero niente male, ti piacerà >>
Zosimo aveva sempre adorato la sfacciataggine di Gabriele, soprattutto quando la metteva in atto a scuola contro qualche professore malefico, ma in quel momento avrebbe voluto tappargli la bocca con molto, moltissimo nastro adesivo.
<< Oh, ma è una bellissima idea! Facciamolo dai! >> Alessandra accolse quella notizia con somma gioia, battendo le mani entusiasta, Zosimo la trovò tremendamente carina con quelle guance arrossate dal caldo del locale. I suoi occhi verde-dorati erano luminosi per la contentezza, Zosimo si morse più volte il labbro inferiore in preda all’indecisione.
Alessandra gli stava sorridendo.
<< Per me va bene >>
Passare qualche ora con quella ragazza gli andava più che bene.
 
Alla fine a Catena ed Oscar il film era piaciuto moltissimo.
Ne avevano parlato durante tutta la cena, sistemati in un caldo locale dall’aria rustica che serviva panini con i nomi di scrittori italiani del passato.
Catena aveva appena finito di mangiare un Machiavelli, mentre Oscar si era fatto portare un Guicciardini e un Ungaretti. I due ragazzi avevano riso sfacciatamente quando si erano accorti dell’ilarità della situazione, era una cosa che avrebbero raccontato per il resto della vita. Quando lasciarono il locale verso le dieci di sera, l’aria si era fatta ancora più fredda e il respiro si disperdeva nell’aria sottoforma di volute bianche.
Catena si attaccò automaticamente al braccio di Oscar nascondendo entrambe le mani come meglio le riuscì, rabbrividì per il vento gelido che le lambì le gambe coperte solamente da un paio di calze nere e si strinse al fianco del fidanzato.
Oscar trovò quel gesto estremamente piacevole, la sensazione del corpo caldo di Catena premuto sul suo gli faceva venire il desiderio di stringerla sempre di più.
Era da molto tempo che non provava una sensazione come quella, dopo ciò che gli era successo, non avrebbe mai creduto di poter ritrovare quelle emozioni.
<< Che freddo! >> Si lamentò Catena, nascondendo quanto più possibile il viso nella sciarpa.
Oscar le passò un braccio introno alle spalle e se la strinse al petto, facendole percepire il suo odore di menta e dopobarba.
<< Sai che facciamo adesso? Ti ho portata in un posto bellissimo!  Guarda? >> Oscar le pizzicò affettuosamente una guancia e la fermò nel bel mezzo del marciapiede.
Sollevando lo sguardo, Catena si imbatté nel negozio più carino che avesse mai visto, non conosceva bene quella parte della città perché era piuttosto in centro, ma era sicura di non aver mai visto niente di così carino.
Era una sorta di cioccolateria-bar arredata in stile vittoriano, i profumi che venivano da quei luoghi si estendevano lungo tutta la strada, e l’arredamento esterno delle vetrine e quello interno visibile tramite il vetro sottile, invogliava tantissimo le persone ad entrarvi.
<< Che ne dici di una cioccolata calda? Qui la fanno davvero buona >>
Oscar era entusiasta dell’espressione contenta di Catena, che se ne stava ancora incollata al suo braccio senza nemmeno farci caso, perché aveva preso calore.
<< Come fai a conoscere un posto del genere? >> Domandò, osservando i perfetti e immacolati cupcake nella vetrina. Oscar distolse lo sguardo e lo puntò sul vetro.
<< Mi ci ha portato una persona … un po’ di tempo fa >>
Catena percepì qualcosa di strano nella voce del ragazzo, si girò a guardarlo, ma prima che potesse dire qualcosa, lui la trascinò nel locale facendo tintinnare una piccola campanella attaccata alla porta color ottone.
 All’interno gli odori la colpirono ancora di più, il locale non era pienissimo, c’erano altre persone che occupavano dei tavolini, ma il brusio delle chiacchiere era piacevole.
I due ragazzi si avvicinarono al bancone, dove a servirli si avvicinò una signora anziana dal sorriso gentile, aveva l’aria di una persona che faceva quel mestiere da tutta la vita.
<< Cosa posso servirvi miei cari? >> La donna aveva la voce gentile e vellutata, era elegante proprio come il suo locale ed emanava un piacevole profumo di cannella e arancia. Catena pensò che le sarebbe piaciuto diventare così una volta avuti i capelli bianchi.
<< Due cioccolate calde, una aromatizzata all’arancia e l’altra … >> Cominciò a parlare Oscar, poi si girò verso di lei, incitandola a continuare.
<< … con granelli di nocciola, grazie. >>
L’anziana signora sorrise e si mise subito all’opera, incitandoli a sedere ad uno dei tavoli perché avrebbe consegnato le bevande personalmente.
Oscar e Catena si sistemarono accanto alla vetrina, sotto il quadro di una giovane ragazza del diciannovesimo secolo, che li scrutava severi. Oscar si sfilò velocemente la giacca e la abbandonò sulla sedia, poi si passò distrattamente una mano tra i corti capelli castani e lasciò vagare lo sguardo con aria assorta. Catena osservò quei gesti molto attentamente, ma non sapeva come interpretarli.
<< Ehi Catena, ti spiace se vado un attimo al bagno? >> Quella domanda la colse alla sprovvista perché era sovrappensiero, quindi si ritrovò gli occhi di Oscar puntati nuovamente su di se, sperò di non arrossire troppo ed annuì il più in fretta che le fu possibile. Lui si alzò e le passò affettuosamente una mano sui capelli, sorridendole.
Catena lo seguì con lo sguardo finché non sparì oltre la porta del bagno, era stata davvero bene quella sera, la sensazione costante di benessere che aveva provato stando accanto a quel ragazzo era stata una conferma per i suoi sentimenti.
<< Uffa Miki, ma perché diamine siamo venute in un posto del genere!? >>
Quella lamentela fu accompagnata dallo scampanellio dell’aprirsi della porta, Catena era sicura di aver già sentito quella voce nasale e lagnosa, e quando sollevò il viso, si rese conto di avere ragione, perché Miki e Sonia stavano ricambiando il suo sguardo.
Catena strinse forte la sciarpa tra le mani, aveva sempre trovato Miki una brava ragazza, ma non avrebbe mai voluto incontrare Sonia, la rabbia le montava dentro senza sosta.
<< Oh, ma guarda un po’. >> Esclamò Sonia a voce troppo alta, facendo un passo verso il suo tavolo, Miki tentò di trattenerla per la manica della giacca, ma il lembo le scivolò dalle dita, quella sera la sua pazienza aveva quasi raggiunto il limite di sopportazione << Cosa ci fa la piccola Catena in un posto così … beh, in effetti è proprio da te >>
Catena detestava con tutto il cuore quel sorriso sfrontato che accarezzava le labbra carnose e rosse come il fuoco della sua compagna di classe, i capelli ricci e neri erano più ribelli del solito e le conferivano un’aria ancora più cattiva. Sonia, le si avvicinò maggiormente, probabilmente con l’intenzione di mettersi seduta e darle ancora più fastidio, ma quando fece per spostare la sedia, sotto lo sguardo accigliato e preoccupato di Miki, si accorse del cappotto di Oscar. Alzò lo sguardo su Catene e sollevò un sopracciglio.
<< Oscar è qui con te dunque? >>
<< Smettila Sonia, andiamocene >> Intervenne prontamente Miki, afferrandole saldamente il braccio, Sonia si scrollò come se fosse stata una mosca a darle fastidio.
<< Beh, non fare la smorfiosa Catena, se state insieme dopotutto lo dovete a me >>
Catena trovò profondamente fastidiosa quella frase, Sonia non aveva fatto altro che metterla in imbarazzo da sempre, dal primo anno di liceo non c’era stato anno in cui non le aveva fatto un dispetto o combinato qualcosa a suo danno. Catena non avrebbe tollerato che infangasse l’unica cosa bella che era riuscita a conquistare con le sue sole forze.
<< Lo dobbiamo a te?! Tu non sei nient’altro che una vipera piena di veleno Sonia! >>
Catena inchiodò il suo sguardo a quello dell’altra ragazza, Sonia vi lesse così tanto disprezzo che il sorriso ironico le morì sulle labbra, sostituito da uno sguardo di stizza.
<< Sai … non credevo che ti avrebbe portata proprio in questo locale >> Sonia si guardò attorno con aria circospetta, battendo le unghie fastidiosamente sul bordo della sedia, Catena contrasse le sopracciglia a quelle parole, avrebbe voluto ignorarle, ma il comportamento strano di Oscar la fece tentennare.
<< Basta Sonia! >> Intervenne nuovamente Miki, strattonandola con più forza.
<< Che cos’ha che non va questo locale? >> Domandò Catena spazientita, guardando le due ragazze negli occhi, Sonia sfoggiò un sorriso sadico, mentre Miki alzò gli occhi al cielo e incrociò le braccia al petto, stanca di lottare contro un muro.
<< Davvero non ti ha detto nulla? Sei l’unica che non lo sa? >> Sonia arpionò il bordo della sedia con entrambe le mani e si protese in avanti, avvicinando il viso a quello di Catena, che indietreggiò sbattendo con la schiena. << Sei sicura di conoscere il ragazzo che hai accanto Catena? >> La ragazza non rispose, trattenendo il respiro, riuscì a sostenere lo sguardo di Sonia facendo appello a tutta la sua volontà, era turbata, ma non gliel’avrebbe fatto capire.
Fortunatamente per lei, l’anziana signora proprietaria del negozio portò le due cioccolate proprio in quel momento, così Sonia fu costretta a spostarsi e liberarla da quella tortura.
<< Andiamocene Miki, mi è passata la voglia di dolce >>
Prima di lasciarsi la porta alle spalle, Sonia le lanciò uno sguardo così soddisfatto che Catena si sentì prudere le mani, rimase immobile come una statua a guardare la sua bellissima cioccolata fumare, fino a quando non tornò Oscar, con un bel sorriso sfregandosi le mani.
<< Oh, sono già arrivate, che belle! Devi proprio assaggiarle Catena sono … ehi, va tutto bene? >> Catena sussultò quando Oscar gli afferrò una mano, doveva avere gli occhi un po’ lucidi ma cercò di nasconderlo in tutti i modi, sorrise leggermente e afferrò la sua tazza di cioccolato caldo.
<< Si, scusami ero un po’ sovrappensiero >> Commentò la ragazza sorridendo, aveva stretto talmente forte le mani che erano diventate bollenti, si era scottata sicuramente.
<< Sei sicura? >> Insistette Oscar, guardandola negli occhi, Catena annuì, cercando di fare il sorriso più sincero che le fosse possibile.
Sorseggiarono in silenzio la cioccolata, senza guardarsi negli occhi e con lo sguardo perso nei propri pensieri, quando Catena ebbe finito di bere, stava scoppiando dalla tensione e non riuscì a trattenersi.
<< Senti Oscar c’è … c’è qualcosa che devi dirmi? Qualcosa che non mi hai detto e che … >>
Il ragazzo la guardò come se gli avessero tirato un pugno in pieno stomaco.
<< P- perché questa domanda? >> Chiese, aggrottando le sopracciglia, Catena scosse freneticamente la testa, strinse forte le mani.
<< Niente, una curiosità. Torniamo a casa? >> Oscar annuì, la cioccolata gli era rimasta sullo stomaco, proprio come quei ricordi. 



_____________________________
Effe_95

Buonasera a tutti :)
Sapete, sono un po' titubante per quanto riguarda questo capitolo. 
Ultimamente non sono affatto soddisfatta di quello che sto scrivendo, quindi vi chiedo scusa se non dovesse essere all'altezza delle vostre aspettative. Vi chiedo scusa anche se dovessero esserci degli errori, ho fatto una correzione veloce per mancanza di tempo, e probabilmente mi è sfuggito qualcosa. 
Il segreto di Oscar è sempre più vicino, e spero vi sia piaciuto il piccolo approfondimento che ho fatto di Zosimo.
Grazie mille a tutti come sempre.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Tirare la corda, Innamorata e Senza pietà ***


I ragazzi della 5 A
 

16. Tirare la corda, Innamorata e Senza pietà.

Novembre
 
Gabriele stava sudando.
La cosa non sarebbe risultata strana se fosse stato il venti luglio, con un sole torrido a spaccare le pietre, ma era il quattro Novembre e si gelava dal freddo.
Gabriele era conscio del fatto che non avrebbe dovuto sudare, ma gli occhi gentili del professore di latino e greco, Costantino Riva, lo scrutavano troppo.
<< Ehm … si … i versi dell’Orestea da tradurre … >> Mormorò per la terza volta, lanciando uno sguardo veloce al testo immacolato sul quale non aveva scritto nulla, Aleksej tossicchiò leggermente al suo fianco, cercando furtivamente di fargli vedere il suo quaderno con tutta la traduzione, ma il biondo aveva una calligrafia così minuta e precisa che era difficile leggerla. Gabriele aveva sempre detestato quelle traduzioni a memoria di classico.
<< Non ne hai la più pallida idea … nemmeno questa volta, vero? >> Il professore sospirò pesantemente, appoggiandosi con la schiena sulla cattedra, Gabriele abbassò gli occhi e scosse la testa. Il giovane professore afferrò velocemente il registro e gli diede una rapida occhiata. << Allora … Lisandro? Vuoi tradurmeli tu? >>
Lisandro rischiò pericolosamente di cadere dalla sedia quando il professore fece il suo nome, si sentiva veramente male a dover infrangere le aspettative di Costantino Riva, che lo guardava con occhi carichi di speranza.
Lisandro non era mai stato un asso né in greco, né in latino.
<< Ehm, professore io … >> Non appena Lisandro cominciò a parlare, stropicciando tra le mani il bordo del suo maglione azzurro, il professore chiuse bruscamente il registro e si voltò esasperato verso Cristiano Serra, intento a giocare tranquillamente con il suo cellulare.
<< Cristiano, tu? Dimmi che almeno tu li hai imparati quei versi! >>
Il ragazzo sbadigliò senza mettersi la mano davanti la bocca e continuò a giocare.
<< E a che mi serve prof. ? >> Costantino Riva era pronto per avere una crisi di nervi in quel preciso istante, ma respirò profondamente, ripose il registro sulla cattedra e guardò i suoi allievi intensamente negli occhi.
<< Ragazzi, lo capite vero che quest’anno avete un esame da preparare? E lo sapete che nel programma d’esame bisogna portare dei versi tradotti da una tragedia, vero? Ascoltatemi, lo sapete che se posso evitare di crearvi problemi sono più contento, ma quest’anno non ho scelta e poi … >> Le parole del professore vennero bruscamente interrotte dal suono della campanella, Costantino sospirò pesantemente, mentre i suoi allievi si apprestavano tutti a preparare la cartella e lasciare l’aula. << D’accordo, ci vediamo domani. Mi raccomando, studiate Lucano, per favore >> Aleksej percepì una sorta di esasperazione nella voce di uno dei suoi professori preferiti, lanciò un’occhiataccia al cugino, che non lo stava degnando affatto di attenzione, e sospirò pesantemente.
<< Oggi vieni a studiarlo da me Lucano, uhm? >> Domandò, mentre infilava la cartella a tracolla e sistemava la sedia sotto il banco, Gabriele sollevò distrattamente lo sguardo e prese le chiavi della macchina, facendole tintinnare nel vuoto.
<< E perché? Tanto domani non mi interroga se l’ha fatto oggi >> Aleksej sollevò gli occhi al cielo nel sentire quelle parole.
<< Gabriele, latino e greco sono due materie diverse, quindi può benissimo interrogarti di nuovo. Poi, sei già stato bocciato l’anno scorso, evitiamolo anche quest’anno. >> Gabriele brontolò qualcosa contrariato e si avviò verso la porta, seguito a sua volta da Aleksej, un po’ immusonito per l’atteggiamento strafottente del cugino più grande. Era distratto quando passò davanti al banco di Miki e la urtò, il colpo fu talmente violento che la ragazza perse l’equilibrio andando a sbattere contro il banco e spostandolo di qualche centimetro, Aleksej ebbe la prontezza di afferrarla per un braccio ed evitare che rovinasse completamente a terra. Miki rimase per un momento scioccata, aggrappandosi con tutta la forza di cui era disponibile al braccio di Aleksej e strizzando i denti per il dolore che le aveva lambito il fianco. I due si guardarono per un momento negli occhi, mentre oltre la porta Gabriele assisteva alla scena scioccato, Miki si ricompose velocemente, raddrizzò il busto e scostò bruscamente il braccio di Aleksej.
<< Non toccarmi! >> Sbottò, mentre si passava una mano sul fianco e raddrizzava il banco.
<< Cosa? >> Domandò Aleksej frastornato, con ancora una mano sollevata nel vuoto e le sopracciglia contratte, credeva di aver sentito male.
<< Ho detto che non devi toccarmi >> Replicò invece Miki, mentre preparava la cartella senza degnarlo nemmeno di uno sguardo. << Non dovrebbe esserti difficile, siccome non vuoi nemmeno rivolgermi la parola, no?  >> Aleksej ricevette quelle parole come un pugno nello stomaco, non riuscì a replicare nulla e la vide lasciare la classe velocemente, salutando Gabriele con un cenno veloce.
<< Ma … l’hai sentita? >> Commentò, volgendo lo sguardo allucinato al cugino, che aveva ancora gli occhi puntati sul corridoio dove era sparita pochi secondi prima Miki.
<< Mi sa che hai tirato un po’ troppo la corda Alješa >>
<< Maledizione! >> Il ragazzo si portò una mano sulla fronte e strinse forte il ciuffo.
Si sentiva davvero uno stupido.
 
Italia era felice che quella giornata fosse finita.
Non era stata molto pesante, ma dopo la lezione di greco l’aria si era fatta tesa e opprimente.
Sospirò pesantemente e si diresse con passo cadenzato verso il cancello dell’istituto, stringendo tra le braccia il libro filosofia e con i pensieri completamente persi nell’interrogazione che avrebbe dovuto sostenere il giorno successivo.
Non sentì affatto l’avvicinarsi del motorino, e quando Ivan le mise delicatamente una mano sulla spalla per richiamare la sua attenzione, sobbalzò senza ritegno e fece un passo indietro.
<< Ivan! >> Esclamò con il cuore in gola, stringendosi più forte il libro al petto.
<< S- scusami >> Balbettò il ragazzo grattandosi nervosamente la nuca, aveva le guance leggermente arrossate e gli occhi limpidi puntati altrove.
Italia lo trovò tremendamente bello in quel momento, dal casco spuntavano alcune ciocche ribelli dei capelli neri e le maniche del maglione erano arrotolate fino ai gomiti, mettendo in risalto tutti quei numerosi tatuaggi che da un po’ di tempo a quella parte Italia aveva cominciato ad esaminare più attentamente.
<< Non fa nulla … hai – hai bisogno di qualcosa? >> Domandò lei, distogliendo lo sguardo e cercando di ritrovare il contegno, sfortunatamente per lei però, le mani le prudevano dal desiderio di sfiorarlo e non sapeva nemmeno spiegarsi il perché.
No, Italia in realtà conosceva benissimo il motivo di quel desiderio, aveva cominciato a capire tutto da quell’uscita alla galleria d’arte, eppure le era così difficile da ammettere ad alta voce. Spesso si pentiva di essersi avvicinata così tanto ad Ivan, quando gli rivolgeva la parola solo per cortesia era tutto più semplice, contemporaneamente però, ritornare indietro le comunicava una mancanza di vuoto.
Perché si rendeva conto che tornare indietro significava perdere tutto quello che avevano creato. Stava provando così tanti sentimenti che si sentiva confusa, frustrata, troppo piena di un’aspettativa che probabilmente non avrebbe mai visto ricambiare.
<< Volevo sapere se ti andava di pranzare con me … oggi. >> Italia rimase interdetta quando sentì quelle parole, guardò Ivan con gli occhi leggermente spalancati, ma lui non stava ricambiando, troppo impegnato a giocherellare distrattamente con le chiavi della moto.
<< Stavo pensando che magari … potevo finalmente ricambiare il tuo invito >> Ivan sentiva la salivazione sotto zero e continuava a chiedersi come avesse fatto a pronunciare quelle parole. Italia lo guardava con le sopracciglia aggrottate.
<< Si … va bene. Vogliamo invitare anche Giasone, Catena e … >>
<< No! >> Ivan replicò con troppa velocità, alzando un po’ la voce, Italia lo fissò con le sopracciglia contratte, e le mani ormai pallidissime a furia di stringere troppo forte il libro.
<< Vorrei che oggi andassimo solo io e te. >>
Ivan e Italia si guardarono finalmente negli occhi dopo che lui ebbe pronunciato quelle parole, nessuno dei due notò che il rossore era scomparso dalle guance di entrambi e che i loro sguardi si erano fatti più intensi, meno imbarazzati. Italia annuì impercettibilmente e afferrò velocemente il casco che Ivan le porse placidamente.
Probabilmente gliel’avrebbe detto un giorno, che si era innamorata di lui.
 
<< Oscar, c’è qualcosa che non va? >>
Quando Catena trovò il coraggio di fargli finalmente quella domanda, erano già passati dieci minuti da quando Oscar aveva cominciato a comportarsi in modo strano.
Solitamente, quando si intrattenevano alcuni minuti in più fuori dalla scuola, lui era un gran chiacchierone e non faceva altro che ridere e baciarla.
Quel giorno invece era distratto, un po’ nervoso, perfino una ragazza distratta come lei avrebbe capito che qualcosa non andava.
Catena aveva cercato con tutta se stessa di non pensare alle parole di Sonia, ma da quel sabato non facevano altro che frullarle nella testa, che Oscar le stesse nascondendo qualcosa, ormai l’aveva capito anche lei.
<< Eh? No, no, sono solo preoccupato per il compito di fisica >>
Catena aveva anche imparato che quando Oscar mentiva, si mordeva il labbro inferiore con un canino e spostava lo sguardo da un’altra parte.
<< Ma è la settimana prossima, e poi io posso aiutarti … se vuoi >>
Le tremava un po’ la voce ma sperò che Oscar non se ne accorgesse, il ragazzo le sorrise leggermente e le prese una mano, intrecciando un po’ le loro dita, grandi e piccole.
<< Non ce n’è bisogno, me la caverò alla fine, come sempre. Vuoi fare qualcosa stasera? >>
Catena lo guardò negli occhi e sorrise a sua volta, per quanto le fu possibile.
Vorrei che tu mi dicessi cosa c’è che non va.
<< Stasera passo, viene a cena mia nonna >> Oscar annuì leggermente, si chinò per baciarla a timbro sulle labbra e poi si allontanò, perché il suo autobus era arrivato.
Catena lo seguì con lo sguardo fino a quando il mezzo non fu sparito dalla sua vista.
<< Ehi Catena, non è ancora passato il tuo? >>
La ragazza ci mise un po’ per mettere a fuoco la figura di Giasone, era ancora persa nei suoi pensieri e lui la fissava un po’ accigliato.
<< Oh, ciao Giasone, scusami. Vieni siedi accanto a me. >> Catena si scusò frettolosamente, facendogli immediatamente un po’ di spazio sulla panchina occupata solo da loro due.
Giasone si mise seduto con un po’ di imbarazzo, stringendosi la cartella addosso perché non fosse troppo ingombrante.
<< Oscar è già andato via? >>
<< Già … >>
Il commento di Catena risultò leggermente amareggiato alle orecchie di Giasone, che le rivolse uno sguardo un po’ preoccupato.
<< Avete litigato? >> Catena sobbalzò leggermente a quella domanda, non pensava di avere un’aria così afflitta da far pensare a Giasone una cosa simile, strinse un po’ i pugni attorno alla cartella e scosse la testa, forzando un sorriso gentile.
<< No >> Giasone trovò il sorriso di Catena un po’ troppo triste.
<< E’ perché ti ha raccontato cosa gli è successo vero? E’ per questo che sei triste? >>
Catena strinse forte i pugni quando sentì quelle parole, cercò di mantenere l’espressione meno sorpresa che le fosse possibile e trattenne il respiro. Oscar non le aveva raccontato proprio nulla, e Giasone era la seconda persona che insinuava qualcosa.
Era davvero l’unica a non sapere nulla?
Catena non poteva crederci, no, se Italia e Romeo avessero saputo qualcosa gliel’avrebbero detto sicuramente, si detestava per i pensieri che stava avendo in quel momento, per quello che gli era venuto in mente, non era da lei fare certe cose, ma aveva bisogno di sapere.
<< Si >> Replicò senza aggiungere altro, strinse forte i pugni e si morse la lingua.
Era l’unica soluzione per sapere, perché Oscar non le avrebbe detto nulla, ne era certa.
<< E’ un ragazzo fantastico non credi? Alla fine si è rialzato e … ha trovato te >>
Giasone le rivolse un sorriso che Catena cercò di ricambiare come meglio le riuscì, anche se non aveva capito appieno il significato di quelle parole.
<< Lui … lui non ha voluto dirmi tutto, sai? >> Mentì Catena, distogliendo lo sguardo, Giasone sospirò pesantemente e prese a giocare distrattamente con il laccetto della zip.
<< Beh, è comprensibile. Parlarne con te gli deve essere costata una fatica immane. >>
Una fatica così grande che Catena era stata costretta ad utilizzare una tattica così vile per capirci qualcosa, provava così tanto disgusto verso se stessa che decise di lasciar perdere, avrebbe preferito lasciare le cose come stavano. Dopotutto lei ed Oscar stavano bene insieme, lei avrebbe fatto finta di nulla, poteva farlo.
Poteva farlo davvero.
 << Era la sua fidanzata alla fine >>
<< Chi?! >> A Catena la domanda scappò in automatico, senza controllo. Giasone si voltò a guardarla accigliato, smettendo di giocare con le mani.
<< Come “chi” Catena, di chi stiamo parlando? >>
Catena era entrata nel panico, si passò una mano sulla fronte e sorrise flebilmente.
<< D – della sua ragazza … certo >> Balbettò giocando freneticamente con le dita pallide e sudate, Giasone sembrò non accorgersene, più concentrato sul suo volto sconvolto.
<< Beh, la sua ragazza sei tu in realtà, lei era la sua fidanzata prima. >>
<< E dov’è lei adesso? Sai qualcosa di questo? >> Quando Catena fece quella domanda, Giasone si voltò a guardarla come se fosse una psicopatica.
<<  E’ morta Catena. Ma lo sai oppure no? >>
L’ultima parte della frase Catena non la sentì nemmeno, aveva come la sensazione che qualcuno le avesse gettato un grattacielo sulla testa.
Senza pietà.



_____________________
Effe_95 

Salve a tutti :)
Spero di non essere eccessivamente in ritardo, ma in questi giorni sto studiando come una forsennata.
Ecco, in questo capitolo si scopre finalmente una parte del "segreto" di Oscar, anche se adesso si potrebbe benissimo non definirlo più in questo modo.
Aleksej ha finalmente subito uno scossone e Italia ha accettato i suoi sentimenti.
Spero vi piaccia, spero non sia orribile, e grazie mille come sempre a tutti voi.
Alla prossima.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Con il cuore, Una sciocchezza e Matematica. ***


I ragazzi della 5 A
 
17.Con il cuore, Una sciocchezza e Matematica.

Novembre
 
Aleksej decise di aprire la porta solamente perché era esasperato.
Si rendeva perfettamente conto che tornare a casa e rinchiudesi in camera senza salutare nessuno non fosse stata una buona idea, ma sicuramente quella situazione non dava il diritto a sua madre di bussare incessantemente alla porta fino a fargli venire un esaurimento nervoso.
Sollevò la testa dal cuscino, appoggiò i piedi nudi sul pavimento freddo e si apprestò ad aprire, rituffandosi immediatamente sul materasso per nascondere la faccia.
<< Smettila di bussare! Sei fastidiosa >> Brontolò prima che Claudia Ivanov potesse dire qualcosa, Aleksej aveva il viso nascosto, ma percepì benissimo il peso dell’esile corpo della madre sul materasso e le sue mani appoggiarsi sulla sua spalla e accarezzargli la testa.
<< Era l’unica soluzione per farti aprire quella porta. Sei come tuo padre, non hai un briciolo di pazienza >> Sentendo la sua voce calda, Aleksej si sentì subito meglio.
<< Ti detesto quando fai così >> Continuò a borbottare il ragazzo, mentre Claudia si infilava sotto le coperte insieme a lui, appropriandosi di uno spazio che lui le avrebbe concesso difficilmente di sua spontanea volontà. << Ehi, cosa stai facendo?! >>
<< Oggi fa particolarmente freddo non trovi? Quest’anno è arrivato proprio all’improvviso. Ah, e poi uno dei miei figli non mi ha degnato nemmeno di un saluto, e non l’ha mai fatto prima! >> Il tono scherzoso nella voce della madre fece sorridere Aleksej, che aveva ancora la faccia nascosta sul cuscino e le dava sempre le spalle.
Lui aveva sempre sopportato poco il caldo, a Marzo se ne andava già in giro a mezze maniche o in canottiera, cosa che faceva infuriare Claudia, anche in quel momento avrebbe dovuto dargli fastidio il calore della donna contro il suo corpo, ma Aleksej non poteva fare a meno di sentirsi protetto, di sentirsi sicuro.
<< Ho avuto una giornata un po’ storta, tutto qui >>
Non trovava il coraggio di dirle la verità, Claudia non era la sua madre biologica, Aleksej era stato partorito da una donna che era morta dandolo alla luce, ma fin da quando aveva memoria, era stata lei a crescerlo. Si sarebbe vergognato da morire nel dirle la verità.
Nel dirle cos’aveva combinato e come si era comportato con Miki.
I suoi genitori si sarebbero vergognati di lui, e come avrebbe potuto biasimarli?
<< Stava per venire tuo padre, sai? Forse … preferisci parlare con lui di certe cose? >>
<< Che significa “certe cose”? >> Sbottò Aleksej sollevando finalmente il viso, puntando su di lei l’espressione più imbronciata e imbarazzata di cui fosse dotato, il viso sottile di Claudia era aperto in un caldo sorriso divertito.
<< Si, insomma … dai Aleksej, non farmelo dire! So tutto di te e Miki >>
Aleksej cadde bocconi sulle lenzuola quando sentì quelle parole, non poteva credere che sua madre avesse saputo la verità per tutto quel tempo, avrebbe voluto che il terreno si aprisse sotto i suoi piedi in quel preciso istante.
<< Lo … lo sa anche papà? >> Si azzardò a chiedere, ingoiando con fatica.
<< In realtà è stato lui a farmelo notare. >> Aleksej boccheggiò a quelle parole << Sai Alješa, se non vuoi farti scoprire, non lasciare la scatola dei preservativi nello studio di tuo padre. Gli è venuto un colpo poverino. >> Claudia ridacchiò, trasportata da qualche ricordo, ad Aleksej quelle parole non provocarono alcuna ilarità, lo avvilirono ancora di più.
<< Si è agitato come poche volte nella sua vita. Ci è rimasto male perché tu non gli hai detto nulla, poi ha cercato di capire con chi avessi perso la verginità … e io gli ho detto che era per forza Miki, perché avevo trovato sotto il tuo letto uno dei suoi bracciali >>
<< Ohi, basta! >> Sbottò Aleksej al massimo dell’imbarazzo, Claudia parlava con una naturalezza tale che l’imbarazzo aveva raggiunto i livelli massimi di sopportazione.
Tutta la verità però non l’aveva capita, e Aleksej ne era sollevato.
<< Ehi Alješa … >> Lo richiamò Claudia dopo qualche minuto di silenzio.
<< Che c’è?! >> Brontolò il ragazzo, incrociando le braccia al petto e le gambe.
<< Se c’è qualcosa che non va con Miki, se hai dei problemi, puoi dirlo a me e a tuo padre sai? Siamo i tuoi genitori, se hai paura, siamo dietro le tue spalle a proteggerti >>
Aleksej guardò allungo il sorriso di sua madre, riuscì a tenere per poco il broncio e  l’abbracciò appoggiando la testa sul suo seno, come quando era bambino.
Le raccontò tutto quello che non le aveva detto, tutto quello che non aveva detto a nessuno in così tanti particolari, nemmeno a Gabriele, perché dopotutto lei era sua madre.
Claudia ascoltò in silenzio, senza smettere nemmeno una volta di accarezzargli i capelli.
<< Sei delusa da me, vero? >> Aleksej trovò il coraggio di porgerle la domanda più difficile che gli stava ronzando in quel momento nella testa.
<< Sarei delusa da te se non reagissi, Alješa. >> Commentò la donna pizzicandogli una guancia, Aleksej la guardò con le sopracciglia aggrottate. << Hai sbagliato, è vero. Ma tu vuoi bene a quella ragazza, no? Perché non glielo dici? >>
Perché ho paura.
Quelle parole Aleksej non le pronunciò ad altra voce.
<< E come? >> Brontolò, stringendosi un po’ di più a lei.
<< Con il cuore >>
Aleksej e Claudia non parlarono più per un bel po’, e rimasero abbracciati fino a quando Claudia non decise che era arrivato il momento di andare a preparare la cena.
Quando ebbe lasciato la stanza, trovò il marito appoggiato allo stipite della porta.
<< Cavolo come mi assomiglia >> Fu il primo commento di Yulian Ivanov, Claudia gli sorrise pizzicandogli il braccio.
<< Proprio perché ti somiglia reagirà … e verrà anche a parlare con te >>
<< Lo aspetterò >>
 
Beatrice era tranquilla prima di entrare in teatro.
Si era accordata con Enea perché ogni mercoledì si incontrassero dalle tre alle quattro, per provare le scene e cercare di intonare le loro voci il più possibile. L’idea di passare altro tempo con lui non la entusiasmava, ma ormai ci aveva più o meno fatto l’abitudine.
Quando aprì le porte del teatro credendo di essere sola, si sentiva riposata , tranquilla.
Raggiunse con passo cadenzato il piccolo palco per aprire le tende, ma non appena oltrepassò le quinte una risatina catturò il suo orecchio.
Guardò con le sopracciglia aggrottate il lungo corridoio buio, aveva ancora le mani sollevate per tirare la cordicella della tenda, le abbassò velocemente e fece qualche passo verso il buio.
<< Abbassa la voce Sonia! >> Beatrice si immobilizzò quando riconobbe la voce di Enea.
<< Tanto non ci sente nessuno >> Il commentò di Sonia arrivò immediatamente, accompagnato da un’altra fastidiosissima risatina, Beatrice fece qualche passo avanti, raggiunse l’interruttore della luce e la accese.
Quella era davvero la scena più disgustosa che le fosse mai capitato di vedere.
Enea e Sonia erano aggrovigliati uno addosso all’altra, seduti su una sedia, lui aveva le mani infilate sotto la maglietta di lei, completamente sollevata sulla schiena, Beatrice notò che il reggiseno di Sonia era slacciato.
Enea era scombinato, la camicia sbottonata sui primi bottoni e i capelli arruffati.
Beatrice si lasciò scappare un verso di disgusto quando si rese conto di quello che stavano per fare.
<< Beatrice, che ci fai già qui?! >> Sbottò Enea, cercando di ricomporsi, cosa difficile con Sonia ancora avvinghiata addosso, nel tono della sua voce Beatrice percepì una sorta di stizza mista all’imbarazzo.
<< Uffa, torna più tardi, dai! >>
Il commentò fuori luogo di Sonia fu la goccia che fece traboccare il vaso, Beatrice provò una rabbia ed un disgusto tale da voler immediatamente lasciare quel luogo. Lanciò uno sguardo schifato ad Enea e lasciò velocemente le quinte, accelerò il passo verso la sedia dove aveva lasciato la sua roba e afferrò la borsa decisa a lasciare il teatro il prima possibile.
Sentiva una morsa allo stomaco e la voglia di vomitare.
Era intenzionata ad aprire la porta con tutta se stessa quando qualcuno le bloccò i polsi, il profumo di Enea le arrivò immediatamente alle narici, Beatrice si girò ad affrontarlo indiavolata, e vederlo con quella camicia sbottonata e quei capelli arruffati non servì a calmarla affatto. << Toglimi immediatamente quelle schifose mani di dosso! >> Sbraitò indignata, cercando in tutti i modi di liberarsi dalla ferrea stretta di Enea.
<< Oh andiamo, calmati Beatrice! Perché urli così tanto? >>
Beatrice fece per replicare, quando vide Sonia spuntare da dietro le quinte tranquilla e rilassata, sistemandosi la maglietta e i capelli.
<< No infatti, non urlo più. Lasciami andare immediatamente, ho notato che hai altre cose da fare in questo momento >> Era nera di rabbia, e indicò con il mento Sonia, che li fissava con un sorriso sadico sulle labbra e le braccia incrociate, Enea sembrava anche troppo tranquillo.  << Sarà Sonia ad andarsene. Devo provare con te adesso, no? >>
Sonia accennò un sorriso divertito, mentre si sporgeva verso una sedia per raggiungere la cartella, Beatrice si sentì una stupida per non averla notata prima, si sarebbe risparmiata  quella situazione imbarazzante e fuori luogo.
<< Vi saluto. >> Sonia se ne andò immediatamente, lasciandoli soli nel teatro.
Enea lasciò immediatamente la stretta e Beatrice sentì formicolare i polsi, lì dove il sangue aveva ripreso a scorrere liberamente e senza più ostruzioni. Le dava immensamente fastidio quel sorriso sfrontato che attraversava il volto di Enea mentre la guardava con quei suoi occhi chiari riabbottonandosi la camicia.
<< Non ti sembra di aver avuto una reazione un po’ esagerata? Sembravi … gelosa >>
Beatrice si sentì punta sul viso da quell’affermazione, le guance le pizzicarono per il rossore improvviso che le accarezzò, era arrabbiata, stizzita, ma rimase scioccata quando si rese conto che il problema era proprio quello.
Il fastidio che provava era davvero gelosia.
Quando si rese conto del suo pensiero, si morsicchiò il labbro inferiore e strinse le braccia al petto, mentre un antico dolore si faceva largo nel suo petto. Lei non voleva più provare quei sentimenti, non l’avrebbe fatto di nuovo, non ne valeva la pena.
Enea, che fino ad un momento prima l’aveva guardata con sufficienza e malizia, notando quel cambio d’espressione smise di sorridere, si appoggiò con la schiena ad una delle sedie e incrociò le braccia al petto. Improvvisamente provò una sorta di fastidio nell’essersi fatto beccare da Beatrice in una situazione simile, si sentiva sbagliato e sporco.
<< E’ che … io non capisco come lo si possa fare in quel modo >> Replicò ad un certo punto Beatrice, sollevando lo sguardo accigliato su di lui, Enea lesse una tempesta in atto in quegli occhi grigi, troppo profondi e osservatori.
<< Beh, senza sentimenti è facile Beatrice. Non si prova nulla, se non effimero piacere >>
Commentò Enea scostando lo sguardo un po’ imbarazzato, Beatrice lo guardò a lungo, con quelle braccia incrociate al petto e la camicia azzurra che metteva in risalto la sua muscolatura asciutta, le mani grandi e affusolate, il profilo affilato.
Perché doveva innamorarsi sempre di quelli come lui?
Perché doveva innamorarsi dei ragazzi che dicevano quelle cose?
<< E tu … tu non provi nulla? Assolutamente nulla? >>
Enea tornò a guardarla nel sentire quella domanda, Beatrice sembrava così piccola e minuta stretta nelle sue stesse braccia. Enea provava l’incontrollabile desiderio di proteggerla, lo stesso desiderio che l’aveva spinto ad iscriversi a quel corso di teatro per starle più vicino.
Guardandola, si rese conto sgomento che con lei avrebbe provato qualcosa.
<< No. Con Sonia non provo nulla, è un’amica di letto o qualcosa di simile, chiamala come vuoi. Io e Sonia non abbiamo nessun tipo di rapporto, se non fisico. >>
Beatrice si sentì stringere lo stomaco, nel sentire quelle parole che le erano così familiari.
<< E questa cosa … non ti distrugge? Non ti disgusta? >>
Enea non riuscì a guardarla negli occhi, perché se l’avesse fatto probabilmente le sarebbe saltato addosso e non poteva permetterselo, non poteva assolutamente lasciarsi trasportare da quelle strane emozioni che gli agitavano il cuore per la prima volta in vita sua.
<< Cosa?! Che sciocchezza è questa? >> Sbottò con troppo zelo, sorridendo amaramente e con imbarazzo. Beatrice tacque per quelle che ad Enea sembrarono delle ore interminabili, quando raggiunse l’esasperazione e sollevò lo sguardo, la trovò in lacrime.
Il corpo minuto era scosso dai singhiozzi, aveva le mani sulla bocca e lo sguardo perso.
<< Ehi Beatrice! Che succede? >> Chiese Enea allarmato, facendo un passo verso di lei.
Beatrice scosse il capo e si fece automaticamente indietro.
<< Per voi maschi è solo una sciocchezza, vero? >> Mormorò, poi si asciugò velocemente il viso e scosse la testa. << Oggi non mi va di provare, lo faremo direttamente domani >>
Enea non ebbe il coraggio di seguirla, perché quella frase non gli era piaciuta per nulla.
Perché aveva paura di scoprire la verità.
 
Telemaco detestava studiare con Igor.
Avevano cominciato insieme una versione di latino un’ oretta prima, lui era rimasto al decimo rigo, litigando furiosamente con un ut di cui non capiva la funzione, mentre Igor aveva appena finito di mettere il punto finale.
Telemaco lanciò uno sguardo stizzito al quaderno dell’amico, un’altra cosa che detestava con tutto se stesso era la sua calligrafia precisa e immacolata, non riusciva a capacitarsi di come facesse a tradurre senza sbagliare o cancellare o imbrattare tutto il foglio come nel suo caso. Telemaco si affrettò ad abbassare gli occhi nell’istante esatto in cui Igor sollevò i suoi, fingendo di cercare qualcosa sul vocabolario.
<< E’ una finale >> Telemaco trasalì quando sentì la voce tranquilla e calda dell’amico, che stava lentamente posando i libri di latino per prendere quelli di matematica.
<< Come? >> Igor allungò un dito pallido e picchiettò il polpastrello sull’ut che stava mandando in crisi Telemaco.
<< E’ una finale, puoi tradurla anche con un semplice “ affinché” >>
<< Potevi anche dirmelo mezz’ora fa >> Brontolò Telemaco, abbandonando la penna al centro del quaderno per stiracchiarsi. Igor lo guardò velocemente, poi riportò la sua attenzione al libro di matematica e a tutti quei numeri e lettere incomprensibili.
Seguirono cinque minuti di silenzio, dove si percepì solamente lo girare delle pagine del vocabolario e lo scribacchiare della penna, quando Telemaco si passò per la terza volta la mano tra i capelli esasperato, Igor gli allungò in silenzio il suo quaderno di latino, continuando a tendere gli occhi fissi sull’esercizio di matematica.
Telemaco lo afferrò senza dire una sola parola, lasciandosi sfuggire un sorriso che si andò specchiando anche sulle labbra di Igor, in un gioco di complicità che facevano da anni.
Igor aveva appena finito il primo esercizio di matematica quando bussarono al campanello, i due ragazzi non vi badarono molto, entrambi distratti, ma quando la porta della camera si spalancò di botto, sussultarono spaventati.
Igor lasciò scivolare la penna e macchiò il quaderno con una lunga striscia nera, Telemaco invece chiuse di scatto il vocabolario, come se fosse stato beccato a copiare dal professore in persona.  << Ma guarda come studiano diligentemente! >>
Igor rischiò di affogarsi quando vide Zoe entrare nella sua camera con passo danzante, dietro di lei se ne stava una Fiorenza piuttosto imbarazzata.
Zoe era andata a casa di Igor una sola volta, quando avevano dovuto collaborare per il progetto di scienze, una sola volta in cui si erano scambiati più di tre parole e Zoe aveva finalmente imparato come si deve a pronunciare il suo nome.
<< Che cosa ci fate voi due qui?! >> Scattò immediatamente Telemaco, guardando con aria d’accusa prima Zoe e poi Fiorenza, che non la smetteva di mordersi la guancia.
<< Ci ha fatto entrare la sorellona di Igor. Davvero una bella ragazza , comunque …. Ho bisogno del tuo aiuto Igor >> La voce di Zoe si fece improvvisamente lamentosa e agitata, Igor la guardò con le sopracciglia contratte mentre lei avanzava verso di lui e gli afferrava un braccio con fare possessivo, come se fosse abituata a toccarlo. << Domani ho l’interrogazione di matematica con il professor De Santis. Non ci capisco niente di tutte quelle formule, e tu invece sei praticamente un genio. Puoi aiutarmi? >>
Igor credeva fortemente di aver perso la lingua, doveva sembrare uno stupido, seduto alla scrivania composto, con la schiena diritta, le mani appoggiate sulle gambe, i quaderni ordinati per colore e grandezza.
Telemaco aveva tutta l’intenzione di replicare con veemenza, ma poi si rese conto che per la prima volta in cinque anni Zoe si era avvicinata ad Igor di sua spontanea volontà, sarebbe stato stupido da parte sua rovinargli quel momento.
<< Ehi tu! >> Sbottò in direzione di Fiorenza, che sussultò e si voltò a guardarlo, Telemaco rabbrividì per quanto fossero diventati estranei, sembravano ritornati al periodo prima del fidanzamento, quando a malapena si rivolgevano uno sguardo. Era stato lui a volerlo, non se ne pentiva, ma gli faceva ugualmente uno strano effetto. << Anche tu devi fare matematica con Igor? >> Telemaco si sarebbe pentito molto presto della sua domanda se Fiorenza avesse negato, ma doveva aiutare Igor a tutti i costi.
<< No >> Replicò la ragazza, Telemaco saltò immediatamente in piedi e chiuse bruscamente il libro delle versioni, facendo sobbalzare tutti.
<< Allora accompagnami a casa, ho bisogno di parlarti >>
In realtà Telemaco non aveva nulla da dirle, non voleva sentire la sua voce, era ancora arrabbiato e lo sarebbe stato per i mesi successivi fino alla conclusione della scuola e anche durante e dopo l’esame probabilmente. Sapeva benissimo che le avrebbe dato solo false speranze, ma non trovava un altro modo per lasciare Igor e Zoe da soli.
<< Te ne vai? >> Domandò Igor con le sopracciglia contratte, era ovvio che non avesse capito nulla, ma Telemaco pensò fosse meglio così.
<< Si, ci sentiamo più tardi, va bene? Il quaderno me lo porto a casa, finisco di copiare e domani te lo ridò >> Igor annuì leggermente, ancora accigliato, mentre lo vedeva preparare la cartella e infilarla velocemente a tracolla.
<< Bene, così puoi concentrarti meglio su di me! >> Cantilenò allegra Zoe, prendendo il posto che un secondo prima era stato di Telemaco.
<< Andiamo! >> Sbottò afferrando un braccio di Fiorenza. << A domani >>.
Quando si richiuse la porta alle spalle con Fiorenza al suo fianco, Telemaco pregò che andasse tutto bene e Igor non ne combinasse una delle sue.
Lui e Fiorenza raggiunsero frettolosamente il portone e si ritrovarono sulla strada, Telemaco si sentiva fortemente in imbarazzo, non aveva pensato nemmeno ad una scusa per liquidarla.
Lei gli lanciò uno sguardo penetrante, studiandogli il viso, cosa che Telemaco detestava.
<< Direi che adesso possiamo anche finirla qui, no? >>  La domanda di Fiorenza lo lasciò interdetto, senza parole, la ragazza sorrise, stringendosi un po’ nel cappotto << L’ho capito che volevi lasciare Igor e Zoe da soli, possiamo anche finirla qui >>
Telemaco infilò le mani nelle tasche dei jeans guardandola dritto negli occhi, come non faceva da un bel po’ di tempo, gli erano sempre piaciuti quegli occhi, quei capelli, quel viso, quelle mani, quel corpo, tutto.
Almeno gli aveva risparmiato il brutto compito di scaricarla.
<< E come hai fatto a capirlo? >> Domandò giocherellando con la stoffa all’interno delle tasche, Fiorenza sorrise e gli lasciò un buffetto affettuoso sulla spalla.
<< Lo so che tu l’hai dimenticato, ma dopotutto sono la persona che ti conosce meglio, no? A domani. >> Telemaco si irrigidì quando sentì quelle parole, Fiorenza sollevò una mano e lo salutò con un cenno, dandogli presto le spalle per prendere la strada completamente opposta. La rabbia lo aveva accecato per tutto quel tempo, e non aveva fatto altro che desiderare di ferirla, proprio come aveva fatto in quel preciso momento, Telemaco non voleva cascarci di nuovo.
<< E allora perché diavolo mi hai tradito?! >> Sbottò quando lei aveva quasi raggiunto l’incrocio, Fiorenza si girò accigliata, stretta nelle sue stesse braccia.
<< Non l’ho fatto >> Replicò a voce alta, sicura.
Telemaco non riusciva a crederle, si sentiva uno stupito e già immaginava la risata divertita di Cristiano se l’avesse perdonata, l’avrebbero preso in giro per tutta la vita.
Strinse forte i pugni, si morse il labbro inferiore fino a sanguinare.
<< Ma tu non mi credi, vero? >>
Telemaco non trovò il coraggio di rispondere e Fiorenza svoltò l’angolo.
Il ricordo di quel sorriso triste, lo tormentò per tutta la sera.


_____________________________
Effe_95

Buonasera a tutti :)
Oggi ho ufficialmente terminato gli esami del semestre e vado anche io in vacanza! 
Siccome sono felice e soddisfatta, ho deciso di farvi questo regalo e pubblicare prima il capitolo.
Allora, la prima parte volevo proprio scriverla, qualcuno che finalmente desse ad Aleksej la spinta per farsi avanti ed affrontare la situazione come un uomo, e non ho trovato figura migliore di Claudia ( dopotutto la mamma è sempre la mamma, anche se non è biologica) ;).
La parte di Enea e Beatrice è significativa per entrambi, ecco, lo so che probabilmente in questo capitolo Enea vi ha fatto storcere il naso, ma Beatrice non si sarebbe mai accorta dei suoi sentimenti se non fosse stata risvegliata bruscamente.
Sulla terza parte non ho molto da dire, spero vi sia piaciuta.
Nel prossimo capitolo avremo finalmente l'altra parte del segreto di Oscar.
Grazie mille a tutti come sempre, se non fosse per voi, avrei davvero poca voglia di lavorare con il cuore.
Alla prossima. 


  
    

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Vero, Pigiama a pois e Alley-oop ***


I ragazzi della 5 A
 
18. Vero, Pigiama a pois e Alley-oop

Novembre
 
Oscar era arrabbiato.
Catena non aveva bisogno di una sfera di cristallo per capirlo, se ne stava appoggiato con la schiena alla ringhiera della terrazza, con le braccia incrociate al petto e un sorriso tirato sulle labbra. Catena si morse freneticamente il labbro inferiore, non era mai stata brava ad ingannare la gente, Giasone l’aveva scoperta immediatamente a causa della sua reazione, e probabilmente aveva riportato tutta la loro conversazione ad Oscar.
Lei ne era più che sicura, perché lui non le aveva rivolto la parola per due giorni di seguito. Quella mattina però le aveva mandato un messaggio, immediatamente dopo la prima ora: “ Vediamoci all’uscita sul terrazzo”.
Catena aveva aspettato quel momento per tutta la mattina, ma lo sguardo di Oscar le aveva fatto immediatamente cambiare idea, in quel momento non desiderava altro che il tempo potesse tornare indietro per fuggire da quegli occhi.
<< Ehi Catena … >> La chiamò Oscar, mentre lei se ne stava ancora sull’ingresso, Catena trovava innaturale quel sorriso stizzito che increspava le labbra del fidanzato, sembrava appartenere ad un’altra persona << Frugare così nel passato degli altri … che schifo >> Catena sentì il sangue nelle vene gelarsi completamente, si immobilizzò sul posto e realizzò che non avrebbe più percorso quei pochi metri che la separavano la lui.
Quel sorriso così incattivito le stringeva il cuore.
<< Mi … mi dispiace >> Si ritrovò a mormorare, stringendo convulsamente le mani sullo stipite della porta, il legno rovinato le pizzicò leggermente la pelle con le sue piccole schegge, ma Catena non se ne rese nemmeno conto.
Il viso di Oscar si tese quando la vide con gli occhi lucidi, le mani pallide, seminascosta dietro la porta che dava al terrazzo della scuola.
<<  So che ti dispiace, ma non mi basta >>
Cos’altro voleva che gli dicesse? Catena non ne aveva la più pallida idea, non si era mai sentita così in colpa in via sua, ma tutto sommato non credeva di avere torto solo lei.
Tutto quello non sarebbe successo se Oscar avesse parlato prima.
<< E cosa vuoi che ti dica? Lo so benissimo che ciò che ho fatto è orribile. Non avrei dovuto ingannare Giasone in quel modo, ma questo non sarebbe successo se tu … >>
<< No! >> Oscar la bloccò bruscamente prima che lei potesse terminare la frase, alzò talmente tanto la voce che Catena sobbalzò, rischiando di inciampare nei suoi stessi piedi. Oscar trasse un respiro profondo, come se dovesse riprendere il controllo di se. << Non azzardarti a dire che è colpa mia, che non l’avresti fatto se ti avessi raccontato tutto >>
Catena spalancò leggermente la bocca e lasciò finalmente andare lo stipite della porta, mentre la rabbia prendeva il posto del rimorso.
<< Certo che non l’avrei fatto! >> Sbottò scandalizzata, alzando anche lei il tono di voce, Oscar puntò gli occhi castani su di lei, sorpreso per quel cambio repentino di atteggiamento.
<< Ma comunque cosa importa? Perché sei così testarda?! Perché avrei dovuto raccontartelo, è una cosa che appartiene al passato ormai! Non ha più importanza per me! >>
Replicò Oscar con tono concitato, agitando le braccia, Catena trovò la forza per fare un passo avanti e mise finalmente piede sul terrazzo, accorciando i metri che li separavano.
<< Bugiardo! >> Gridò pestando un piede a terra, Oscar si zittì improvvisamente, guardandola incredulo, Catena era rossa in viso e una sola lacrima le solcava la guancia destra << Sei un bugiardo. Se davvero per te non avesse avuto più alcuna importanza, allora me l’avresti detto eccome Oscar. Ma tu non l’hai fatto >>
Oscar tacque, guardando Catena come se gli avesse appena tirato una coltellata, ma quella coltellata Oscar se l’era tirata da solo, perché Catena aveva ragione.
Aveva sempre avuto ragione, ma lui come poteva ammetterlo?
<< Era con un altro >> Oscar le sussurrò quelle parole.
<< Come? >> Catena fece un altro passo verso di lui, credeva di non aver sentito bene.
<< Era in macchina con un altro quando hanno fatto l’incidente, con il suo ex. >>
Catena sentì tutta l’aria nei polmoni svanire improvvisamente, come risucchiata da un aspirapolvere velocissimo.
<< E’ per questo che non volevo dirtelo. Non mi piace ricordarlo, tutto qui. E’ che … non è affatto bello provare rancore per una persona che non c’è più, no? >> Oscar sollevò nuovamente lo sguardo su di lei, notando con sorpresa che si era fatta più vicina mano a mano che la conversazione era andata avanti. << Ed è per questo che ho scelto te. Perché tu non mi tradiresti mai, vero? >> Catena lesse così tanta disperazione e desiderio di salvezza in quella domanda che le gambe le si mossero da sole. Cancellò con pochi passi quei pochi metri che ancora li separavano e affondò la faccia nel suo petto, stringendolo tra le braccia.
<< Vero >> Mormorò, poi si alzò sulla punta nei piedi per poterlo baciare.
Oscar ricambiò quel bacio quasi immediatamente, stringendola tra le braccia.
Il tempo della timidezza era passato da un pezzo per entrambi.
 
Beatrice stava mangiando uno yogurt quando aprì la porta di casa e si trovò davanti Enea.
Il cucchiaino le penzolava dalla bocca, i capelli ricci erano legati in un codino morbido e indossava un pigiama a pois. Non riusciva davvero a spiegarsi perché il ragazzo si fosse presentato a casa sua di venerdì sera, soprattutto considerato che quella mattina non si erano nemmeno rivolti la parola.
Enea tossicchiò leggermente e si portò un pugno chiuso sulla bocca per trattenere una risata, quel gesto fece immediatamente sbloccare Beatrice, ancora sorpresa sulla porta, la ragazza si tolse il cucchiaino dalla bocca e lo affondò nello yogurt ancora mezzo pieno.
<< Cosa ci fai qui?! >> Sbottò irritata, senza lasciarlo entrare in casa.
Enea cercò di darsi un contegno, trattenendo la risata per se si schiarì la voce e appoggiò una spalla allo stipite della porta. Beatrice cercò di non guardarlo troppo, di non soffermarsi sul viso affilato, le labbra carnose, gli occhi chiari e taglienti, di non notare come quel piumino nero gli stesse ben e di trattenere l’impulso di aggiustargli la sciarpa che se n’era caduta malamente di lato.
<< Sono venuto a provare le parti con te. Siccome mercoledì mi hai piantato e ieri non ti sei presentata al corso, ho pensato che incastrati fosse la soluzione migliore >>
Enea la guardava con il solito sorriso ironico sulle labbra, lei invece aveva le sopracciglia aggrottate, si infastidì, strinse troppo lo yogurt e lo fece traboccare sporcandosi tutte le mani. A quella vista, Enea non riuscì più a trattenersi e diede libero sfogo alle risate.
<< Maledizione! >> Brontolò Beatrice fulminandolo con lo sguardo, aprì maggiormente la porta ed entrò in casa lasciando il ragazzo sulla soglia, Enea lo prese come un invito ad entrare. Si chiuse l’uscio alle spalle e la raggiunse in cucina, trovandola con le mani sotto l’acqua, la coda che danzava a destra e sinistra e l’aria ancora imbronciata.
L’ambiente era caldo, così non ci pensò nemmeno due volte a sfilarsi la giacca e la sciarpa e lasciare il tutto sul una sedia.
Quando Beatrice si girò con lo strofinaccio tra le mani, lo trovò seduto su uno sgabello dell’isola, con il copione in mano a sbirciare le parti che ancora dovevano ripetere.
Sembrava immensamente a suo agio, nonostante quella fosse effettivamente la prima volta che andava a casa sua. Beatrice si rese conto che probabilmente la cosa avrebbe dovuto darle fastidio, ma Enea gli sembrava perfetto in quella cucina.
<< I tuoi genitori? >> Domandò lui senza sollevare lo sguardo, Beatrice si riscosse e lo raggiunse, mettendosi seduta di fronte a lui.
<< Sono medici e il venerdì hanno il turno di notte. >> Enea sollevò distrattamente lo sguardo su di lei, appoggiò un gomito sul ripiano e lasciò una guancia sulla mano, per scrutarla meglio, Beatrice tossicchiò in imbarazzo.
<< Sei figlia unica? >> Lei annuì frettolosamente per poi strappargli il copione dalle mani. Enea sorrise divertito nel vederla stizzita, non capiva esattamente cosa gli stesse succedendo, Beatrice non era il tipo di bellezza che faceva girare la testa, era troppo magra, non aveva forme, sorrideva raramente e aveva sempre un cipiglio nervoso.
Eppure lo attirava come una calamita, con tutte le sue imperfezioni.
<< Che c’è? >> Brontolò lei, sentendosi osservata.
<< Stavo notando che … quel pigiama a pois ti sta davvero bene >>
Enea scoppiò a ridere e Beatrice diventò rossa come un pomodoro, arrotolò il copione e lo colpì violentemente sulla testa, appiattendogli un po’ il ciuffo.
<< Ohi! >> Replicò lui ridacchiando e parandosi con il braccio ogni volta che lei cercava di colpirlo, era la prima volta che Beatrice gli stava così vicino di sua spontanea volontà senza nemmeno accorgersene, Enea notò che aveva le guance arrossate, gli occhi erano anche screziati di azzurro e inoltre profumava di vaniglia.
Quel particolare gli fece letteralmente perdere la testa, bloccò velocemente con una mano l’ennesimo colpo e afferrò Beatrice per un braccio, lei boccheggiò presa di contropiede.
Enea l’avrebbe anche baciata se Beatrice non avesse fatto un passo indietro incespicando nelle sue stesse pantofole, scivolò e finì con i sedere per terra, trascinando Enea e tutto lo sgabello. Il rumore del tonfo fu talmente disastroso, che per un momento Beatrice pensò si fosse sentito in tutta la città, sperò vivamente che la sua vicina di casa non venisse a bussare, era una donna impicciona a cui sua madre l’aveva affidata quando avevano i turni di notte.
<< Enea, stai bene? >> Domandò immediatamente tirandosi in piedi, le faceva un po’ male il fondoschiena, ma quello con lo sgabello addosso era Enea, non lei.
<< Sei tremenda! >> Sbottò lui mettendosi seduto, stringeva tra le mani i piedi dello sgabello, aveva l’aria corrucciata e infastidita, il ciuffo era in completo disordine e sembrava un groviglio inestricabile. Beatrice si portò una mano sulle labbra e soffocò una risata, mentre lo aiutava a mettere a posto lo sgabello e tirarsi in piedi. << Lo trovi divertente ? >>
Borbottò Enea, passandosi distrattamente una mano tra i capelli castano-dorati.
<< Esattamente come tu trovi divertente il mio pigiama! >> Sbottò immediatamente Beatrice, dirigendosi con passo sicuro verso la cucina, Enea la osservò mentre lei gli dava le spalle, si mise nuovamente seduto sullo sgabello e si passò una mano sulla faccia.
Cosa gli era preso? Cosa gli era passato per la testa?
Ringraziò mentalmente Beatrice per essersi spostata, altrimenti avrebbe fatto la sciocchezza più grande della sua vita, ne era certo.
<< Comunque … >> La voce di Beatrice lo riscosse dai suoi pensieri. << … sono le otto di sera e io sto cominciando ad avere fame. Resti a cenare con me? >> Lei continuava a dargli le spalle mentre afferrava una padella e la metteva sul fuoco. Enea si morsicchiò il labbro inferiore e si passò una mano tra i capelli per la centesima volta, sapeva di dover rifiutare, ma non voleva, perché parlare con Beatrice lo tranquillizzava più di ogni altra cosa.
<< Beh, non abbiamo ripetuto nulla di Romeo e Giulietta! Non ho scelta mi sembra >>
Beatrice si voltò lanciandogli uno sguardo veloce, aveva messo delle salsicce in padella e stava preparando un’insalata veloce, trovò Enea seduto nuovamente sullo sgabello incriminato, con il copione stropicciato aperto a metà e i capelli un totale disastro.
<< Allora spero ti piacciano le salsicce >>
<< Si, basta che non le bruci! >>
Alla replica frettolosa di Enea, Beatrice afferrò una foglia d’insalata e gliela tirò in faccia.
<< Ohi! >> Sbottò Enea contrariato, Beatrice incrociò le braccia al petto e lo puntò con il dito indignata. << Che fai? Mi tiri il cibo addosso? >>
<< Piuttosto! Aiutami e metti un po’ di tavola! >>
Enea fece un po’ di storie all’inizio, ma dopo un’oretta si ritrovarono a ripetere con lo stomaco pieno, la cucina lucida e pulita e l’umore molto migliorato.
La stanza di Beatrice era molto sobria, Enea non l’aveva affatto immaginata così.
Le pareti erano tinteggiate di grigio, con dei ghirigori in rosa negli angoli, l’armadio era bianco e immacolato, nessun poster adornava le pareti, non vi erano foto di ragazzi mezzi nudi o di cantanti, solo una piccola libreria stracolma, il letto immacolato e la scrivania con i libri di inglese aperti sulla pagina di letteratura. L’ambiente profumava di vaniglia a sua volta, ed Enea si perse a contemplare le foto di Beatrice da bambina, appese alle pareti.
<< Possiamo anche appoggiarci a terra, il tappeto è caldo >> Commentò la ragazza indicando il pavimento, quasi completamente ricoperto da un tappeto peloso e grigio come le pareti. Lei si era già rannicchiata in un angolo, con la schiena poggiata contro il letto.
Enea la imitò, mettendosi esattamente di fronte a lei.
<< Non hai preso il copione Beatrice >> Le ricordò lui, notando l’assenza del blocchetto di carta, Beatrice si schiaffò una mano sulla fronte.
<< Puoi prendermelo tu? E’ sulla scrivania >>
Enea, che si era seduto esattamente accanto al mobile, allungò un braccio verso il bordo della scrivania e afferrò il copione trascinandolo malamente verso il basso, nel fare quel gesto, cadde anche un libro di poesie dal quale spuntò una piccola foto.
Era una foto stracciata a metà, e ritraeva un ragazzo dal sorriso strafottente, i capelli biondi come l’oro e gli occhi più scuri che avesse mai visto. Nella foto stava stringendo qualcosa o qualcuno, ma non era possibile affermarlo con certezza a causa della parte mancante, prima che Enea potesse chiedere qualsiasi cosa, Beatrice gli strappò la fotografia dalle mani e la gettò nel cestino, senza guardarlo negli occhi.
<< Era solo un segna libro da buttare. >> Ribatté immediatamente, aggiustandosi una ciocca di capelli dietro la nuca << Passami il copione >>.
Enea non replicò nulla, ma mentre le passava il blocchetto di carta con le battute sottolineate e i post-it colorati ai margini, provò una bruttissima sensazione.
La sensazione di aver perfettamente capito chi stesse stringendo quel ragazzo.
 
Giasone non aveva affatto immaginato che la palestra potesse essere così affollata.
Quando aveva accettato di andare a vedere quella partita di basket, non aveva idea di quanto fondamentale sarebbero stati quei biglietti, perché i posti a sedere erano finiti, le persone se ne stavano in piedi e loro avrebbero, molto probabilmente, fatto quella fine se non fosse stato per quei tre miseri pezzettini di carta. Tra l’altro, Giasone si accorse che avevano anche occupato i tre posti migliori della tribuna, dov’era possibile osservare la partita e i giocatori nel miglior modo possibile.
<< Ehi, ecco il tuo hot-dog >>
Erano arrivati alla fine del primo tempo, nella palestra c’era una confusione terribile e Ivan gli stava porgendo la sua cena con una certa insistenza. Giasone si rese conto che l’amico doveva essersi spazientito a causa della fila chilometrica al chiosco.
<< E vedi di fartelo bastare, perché io non ci torno lì! >>Lo rimbrottò a sua volta Oscar, seduto invece alla sua destra, anche lui contrariato, Giasone sospettava che la natura del nervosismo di Oscar fosse ben diversa, ma siccome aveva già combinato un bel pasticcio a causa di Catena, preferì non ribattere nulla.
<< Niente male comunque, la tua amichetta >> Commentò con noncuranza Ivan, mentre addentava voracemente il suo panino << Stanno stracciando le avversarie >>.
Giasone diede un morso all’hot-dog e annuì leggermente, dopotutto doveva ammettere che si stava entusiasmando moltissimo con quella partita, e Muriel non se la cavava affatto male come ala forte* della squadra.
<< Beh, comunque sono rimasto davvero sorpreso quando ho saputo che uscivi con una ragazzina. Non trovi che sia un po’ maschiaccia? >>
Giasone per poco non si strozzò al commento di Oscar, che scrutava distrattamente il campo, si diede un pugno sul petto e finì di ingoiare l’ultima parte del suo panino.
<< Ehi, ti ho già spiegato che non esco con quella piattola! E’ lei che mi perseguita, se avessi rifiutato mi avrebbe tartassato, e sarei stato costretto a venire a scuola a piedi tutte le mattine! >> Sbottò Giasone, per poi afferrare bruscamente la bottiglia d’acqua dalle mani di Ivan e vuotarla in un solo colpo, sotto lo sguardo scioccato dell’amico.
<< Ohi, quella era la mia bottiglietta d’acqua deficiente! >> Lo rimbeccò Ivan, colpendolo con un buffo dietro la nuca << E poi, hai accettato di venire solamente perché questo è il tuo sport preferito! >>. Al commento acido del suo migliore amico Giasone non seppe ribattere, anche perché in effetti aveva ragione, trovò le parole giuste da dirgli solamente quando ormai i dieci minuti di pausa erano terminati e le squadre stavano rientrando in campo per l’inizio del terzo quarto*. La partita durò altri venti minuti, venti minuti dove la squadra di Muriel stravinse per 105 a 45.
<< Ehi, Gias, quella tua amica è un piccolo mostro del basket, eh? >>
Il commento di Ivan giunse ovattato alle orecchie di Giasone, stavano tutti lasciando lentamente gli spalti e c’era una confusione terribile.
<< Si, quell’ alley-oop* finale è stato incredibile! Ma come ha fatto? Non è poi così alta >>
Anche Oscar era entusiasta, si fregava in continuazione le mani, Giasone ridacchiò a quelle parole, in effetti anche lui era rimasto piacevolmente sorpreso.
I tre ragazzi raggiunsero finalmente il bordo campo, mentre la gente defluiva lentamente verso le uscite, le due squadre erano ancora in campo, alle prese con gli allenatori, i redattori del giornalino della scuola e i parenti.
Muriel stava bevendo un energetico quando intravide Giasone al bordo del campo, il ragazzo le fece un leggero saluto con la mano alzata e lei si aprì in un largo sorriso.
Saltò immediatamente in piedi e, come se non avesse giocato una partita di quaranta minuti, corse verso di loro con la grazie di un ghepardo ancora pieno di forze.
Aveva i capelli corti tirati indietro da una fascia, il viso senza trucco era pulito e luminoso, affilato, la divisa le andava leggermente larga e si intravedeva la fascia che le ricopriva il seno. Era magra e atletica, Giasone non l’aveva ancora notato.
<< Ehi, sei stata spettacolare! >> Esordì il ragazzo una volta che lei lo ebbe raggiunto, Muriel si lasciò scappare un sorriso divertito, battendo il cinque che Giasone le stava porgendo.
<< Davvero, complimenti! >>
Si intromise Ivan, appoggiando un braccio sulla spalla dell’amico e rivolgendo alla ragazzina un caldo sorriso, che Muriel ricambiò con un po’ d’imbarazzo.
<< E quell’ alley- oop finale? Dove l’hai imparato? >> Domandò entusiasta Oscar, facendo un passo avanti, Muriel arrossì leggermente nel vedersi circondata da tutti quei ragazzi così alti e grossi, fece finalmente per rispondere quando qualcuno le mise una mano sulla spalla.
<< Cosa state dicendo alla mia giocatrice migliore per farla arrossire? >>
Alle spalle di Muriel c’era una ragazza, era alta, i lunghi capelli biondi erano legati in una coda alta e gli occhi verdi truccati e allungati da una matita. Oscar, Giasone e Ivan furono immediatamente attirati dalla sua voce calda, mentre Muriel si girava sorpresa.
<< Coach?! >> Esclamò sorpresa, arrossendo ancora di più.
<< Quando finiscono le partite puoi chiamarmi Livia, lo sai >> Commentò la nuova arrivata, ridacchiando, Giasone, Ivan ed Oscar si scambiarono uno sguardo accigliato.
<< Coach? >> Domandò Giasone, lanciando uno sguardo accigliato a Muriel.
<< Si, lei è la nostra allenatrice. Frequenta l’ultimo anno al nostro liceo, sezione C >>
Spiegò Muriel indicando la ragazza, che se ne stava ancora alle sue spalle con un sorriso bonario sulle labbra, i tre ragazzi spalancarono gli occhi sorpresi.
<< Alleni tu la squadra? Davvero? >> Giasone la guardava con gli occhi che scintillavano, Livia gli rivolse tutta la sua attenzione e sorrise cordialmente, lasciando andare finalmente le spalle di Muriel, che guardò la scena accigliata.
<< Si, ho giocato anche io per molti anni, ma ho avuto un infortunio, e così … >>
<< Ehi, lo schema che hai messo in campo era eccezionale, come hai … >>
Giasone e Livia si misero a parlare di cose che né Ivan né Oscar potevano capire, i due si lanciarono uno sguardo sorpreso sorridendo, poi si ricordarono che con loro c’era anche Muriel. La quindicenne aveva lo sguardo incollato su Giasone e Livia che parlavano entusiasti, con gesti concitati e sorrisi continui, poi si rese conto che con lei Giasone non aveva mai sorriso, ne aveva parlato così tanto e spontaneamente.
Ivan ed Oscar si lanciarono uno sguardo veloce, notando quanto l’espressione di Muriel fosse afflitta e di come stringesse forte tra le mani il bordo della maglietta, era pallida ma probabilmente non se n’era nemmeno accorta.
Quando li vide scambiasi i numeri di telefono, Muriel sentì una stretta sconosciuta allo stomaco, trasalì e fece un piccolo passetto all’indietro.
<< Ehi, va tutto bene? >> Era così turbata che ci mise un po’ a focalizzare la voce di Ivan, lui ed Oscar la guardavano con le sopracciglia aggrottate, Muriel sorrise nervosamente, continuando a torturare la maglietta.
<< Si … sono solo un po’ stanca. Vado agli spogliatoi, grazie per essere venuti >>
Fece un leggero inchino, indietreggiò leggermente e poi scappò come un razzo verso gli spogliatoi, Ivan e Oscar si guardarono a lungo, mentre Giasone e Livia si salutavano concitatamente.
Quando anche l’allenatrice se ne fu andata, Giasone si guardò attorno sorpreso.
<< Ma dov’è andata la piattola? >> Domandò ai due amici, Ivan chiuse gli occhi e sospirò profondamente, poi sollevò le maniche della giacca e gli tirò un pugno sulla spalla.
<< Se n’è andata idiota! >> Sbottò irritato, Giasone lo guardò indignato.
<< Ehi, perché mi hai colpito!? >> Oscar scosse freneticamente la testa e afferrò i due migliori amici per le braccia.
<< Andiamo a casa dai >> 


______________________________________
Effe_95

*ala forte ( o ala grande) :  è un ruolo standard del basket. L'ala forte gioca molto spesso di spalle al canestro e soprattutto in attacco. Di solito segna la maggior parte dei punti.

*terzo quarto: nel basket, una partita è divisa in quattro quarti ciascuno di dieci minuti. I primi due quarti compongono il primo tempo, gli altri due, il secondo. 

*alley-oop: è una giocata estremamente spettacolare, solitamente si effettua tra due giocatori. 
Un giocatore effettua un passaggio alto verso il canestro, mentre un compagno salta, afferra la palla al volo e la schiaccia nel canestro. 

Buongiorno a tutti :)
Prima di cominciare le note mi sembrava doveroso spiegare alcune cose che credo la maggior parte di voi non conoscesse, quindi spero di essermi spiegata bene. 
Per qualsiasi cosa chiedete pure :)
Allora, la prima parte di questo capitolo mi ha letteralmente fatta penare, volevo assolutamente che le cose fossero chiare, che si capissero, che si capisse perchè Oscar facesse così tanta fatica a parlare di quella storia. Ovviamente non è tutto lì, c'è molto altro da dire ma questo è solo un inizio e spero di aver fatto un lavoro quantomeno decente.
Per Enea e Beatrice lascio commentare voi, mentre nella terza parte spero che quei piccoli riferimenti tecnici non vi abbiano confusi e vediamo l'entrata in scena di un altro personaggio.
Lo so che Giasone è tremendo in questo capitolo xD
Grazie mille a tutti come sempre.
Alla prossima spero.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Vorrei, Braccialetto e Power forward. ***


I ragazzi della 5 A
 
19.Vorrei, Braccialetto e Power forward.

Novembre
 
Miki non ne poteva più.
Non riusciva a concentrarsi sulla lezione di italiano in nessun modo, vedeva la professoressa agitarsi nel vano tentativo di coinvolgerli nella lettura del Paradiso della Divina Commedia, ma le parole le sfuggivano e la mente vagava completamente altrove.
Si trovava in quella situazione da quando aveva risposto in maniera brusca ad Aleksej.
Quella volta Miki non avrebbe voluto fare una cosa del genere, era stata sopraffatta dalla frustrazione e da una discussione avuta pochi minuti prima con Sonia, probabilmente non avrebbe trovato il coraggio di dire quelle cose se non fosse stata nervosa.
Lasciò cadere la penna sul quaderno e si strinse forte i capelli tra le mani, appoggiando i gomiti sul banco.
<< Giorgi, non si sente bene per caso? >> La voce stridula della professoressa di italiano la strappò dai suoi pensieri, Sonia lanciò uno sguardo a Miki e la trovò pallida come un lenzuolo, con ancora le mani strette tra i capelli.
<< Non molto professoressa >> Mormorò Miki portandosi una mano sullo stomaco, la professoressa Cattaneo le lanciò uno sguardo un po’ accigliato, poi fece per aprire la bocca e dire qualcosa quando Aleksej si alzò in piedi.
<< La porto dalla preside professoressa, così potrà chiamare a casa e farsi venire a prendere da qualcuno >> Disse prontamente il ragazzo afferrandola per le spalle, avevano gli occhi di tutta la classe puntati su di loro, Sonia osservò la scena con lo stomaco che ribolliva dalla rabbia repressa, perché le mani di Aleksej sulle spalle di Miki erano estremamente gentili.
<< Si, va bene, suppongo che lei possa permetterselo >> Brontolò la professoressa, Aleksej lanciò uno sguardo veloce a Gabriele, che gli fece l’occhiolino, e accompagnò una Miki instabile verso la porta.
Quando si furono lasciati la classe alle spalle ed ebbero raggiunto la prima finestra disponibile, Miki si attaccò con le mani al davanzale e respirò l’aria gelida di Novembre a pieni polmoni. Aleksej la guardò per un po’, poi si appoggiò con la spalla sul muro e incrociò le braccia al petto. << Beh … mi dispiace di averti toccata >> Cominciò lui distogliendo lo sguardo, Miki invece si voltò per guardarlo in faccia, le lentiggini erano accarezzate dal sole freddo di Novembre e le sopracciglia leggermente aggrottate.
Non toccarmi!
Ricordò immediatamente le sue parole, si morse il labbro inferiore e tornò a volgere lo sguardo oltre la finestra, verso il cortile vuoto e il cielo grigio attraversato dalle nuvole.
<< Puoi anche andartene se vuoi, tra poco starò meglio >>
Non era nella sua natura essere cattiva, ferire gli altri, eppure si rendeva conto che con Aleksej non aveva altra scelta, che non avrebbe dovuto permettergli di farle ancora del male.
Chiudersi in se stessa sarebbe stata la soluzione migliore per non soffrire.
<< No, voglio … vorrei aspettare qui con te >> Commentò Aleksej appoggiandosi con la schiena sul muro, aveva ancora le braccia incrociate al petto, Miki si girò a guardarlo e lo trovò che la fissava, con i suoi intensi occhi azzurri screziati di grigio.
<< Aleksej … sono io a non volerti qui. >>
L’espressione del ragazzo sembrò non mutare affatto nel sentire quelle parole, ma Miki lo vide stringere convulsamente le mani intorno al maglione, facendo diventare le nocche completamente bianche.
<< Lo so, ma io … >>
<< Basta! >>
Aleksej rimase con il braccio proteso in aria e la bocca semiaperta, si erano voltati l’uno verso l’altra nell’esatto istante in cui avevano cominciato a parlare. Miki aveva le mani premute sulle sue stesse braccia spasmodicamente e lo guardava afflitta.
<< Miki … voglio solo parlare con te >> Mormorò Aleksej abbassando le braccia.
<< No! Adesso è tardi per parlare, perché dovrei lasciartelo fare? Perché dovresti parlare quando ne hai voglia tu?! Mi hai trattato come una pezza tutte le volte che ho provato a farmi avanti! Adesso non … >> Le parole le morirono in bocca quando Miki si rese conto di aver cominciato a gridare, attirando l’attenzione di altri ragazzi che stavano passando nel corridoio. Si portò una mano sulla bocca e scosse la testa, era letteralmente scoppiata, dicendo tutto quello che avrebbe voluto dire da moltissimo tempo.
<< Ti prego >> Sussurrò Aleksej, cercando in tutti i modi di non farsi sfuggire la voce dopo la sfuriata di Miki << Non voglio niente da te >>
<< Perché tutto quello che potevo darti te lo sei già preso, no? >>
Tutti i buoni propositi di Aleksej andarono in frantumi nel sentire quelle parole, sentì un brivido risalirgli lungo tutta la schiena fino alla punta dei capelli, una stretta allo stomaco lo costrinse a stringere forte le mani.
<< Era … era per questo che non volevo parlare con te! Perché … perché mi vergognavo da morire di me stesso >> Commentò con un sorriso nervoso, spostando gli occhi altrove perché non riusciva più a reggere il suo sguardo. << Insomma, come avresti potuto perdonarmi dopo quello che ho fatto?! >>.
<< E tu perché non l’hai lasciato decidere a me Aleksej? Perché? >>
Aleksej si ritrovò ammutolito per la seconda volta nel giro di nemmeno un minuto, le rivolse nuovamente lo sguardo e tacque, affogando in quegli occhi azzurri che non la smettevano di scrutarlo, analizzarlo, incolparlo.
<< Ho fatto sesso con Sonia la sera stessa che mi hai rifiutato. >> Le ricordò lui.
<< Lo so >> Ribatté immediatamente lei.
<< Ho fatto sesso con la tua migliore amica >>
<< Non è la mia migliore amica. Io la odio e lo sai >>
Miki e Aleksej rimasero a fissarsi negli occhi per dei minuti che sembrarono interminabili, poi la ragazza sospirò pesantemente e fece un passo verso di lui.
<< So tutto quello che hai fatto Alješa. Sei tu che non sai niente >> Replicò lei facendo un altro passo verso di lui << Non sai che volevo parlare con te per dirti che andava tutto bene, che non ero arrabbiata, ne disgustata. Che ti perdonavo. >>
<< Ma come avresti potuto farlo?! Io ho … >>
<< Insomma Aleksej! >> Lo interruppe lei bruscamente << L’ho capito benissimo che ti sentivi in colpa, perché ti conosco da una vita! Volevo solo dirti di non preoccuparti >>
Tra i due ragazzi calò un silenzio di tomba, Aleksej aveva il cervello in confusione totale, avrebbe tanto voluto tirarsi un ceffone da solo.
<< Sei venuto a letto con me, va bene. E’ successo, non fa nulla. Te ne sei pentito, non capiterà mai più. Era questo che volevo dirti >>
Aleksej sussultò nel sentire quelle parole.
<< Ma io non mi ero pentito >> Miki aggrottò le sopracciglia << Non mi ero pentito di quello, mi ero pentito di non averti chiesto il permesso, di Sonia … non di quello! >>
Nel sentire quelle parole, Miki si rese improvvisamente conto dell’enorme equivoco in cui entrambi erano caduti, scoppiò a ridere senza ritegno, portandosi una mano sulla bocca, Aleksej la guardò stupito, ancora incapace di dire nulla, ma poi, quando la risata  di Miki fu sostituita da calde lacrime, allungò le braccia e le prese le mani.
<< Mi perdoni? >> Sussurrò lui, Miki sentiva il bisogno disperato di asciugarsi le lacrime cadute sul suo viso, ma al contempo non voleva togliere le mani da quelle di Aleksej.
<< Ti perdono >>.
 
Gabriele odiava le bugie.
Non sopportava dirle, ne sentirle dagli altri, ma quella sera non aveva avuto altra scelta.
Fingere quel mal di testa cronico era stata l’unica soluzione per non stare in salotto con tutti gli altri. Mentre se ne stava sdraiato sul suo letto, con la testa nascosta sotto il cuscino, sentì dei passi affrettati percorrere il corridoio e le voci giungergli ovattate.
<< Dov’è Gabriele? >> Avrebbe riconosciuto quella voce ovunque, roca e graffiante, la voce di Katerina. Era esattamente quello il motivo per cui mentiva, perché sua madre aveva avuto la brillante idea di invitare a cena Aleksej e la sua famiglia, ma anche quella di Katerina.
E Gabriele era più che intenzionato a non vederla.
<< Rinchiuso nella sua camera con una forte emicrania. >> La voce di sua sorella Alessandra giunse ancora più ovattata, perché Gabriele seppellì maggiormente le orecchie nel cuscino.
<< Emicrania? Davvero?! >> Aleksej sembrava leggermente contrariato invece, aveva alzato un po’ il tono di voce, da quando aveva parlato con Miki era tornato d’ottimo umore.
<< Già, prima è passata la mamma e ha detto che stava dormendo >> Continuò a spiegare Alessandra con voce vellutata per non svegliarlo.
Gabriele sospirò pesantemente e cambiò la posizione del cuscino.
<< Avrà passato troppo tempo davanti alla Play Station come suo solito. A proposito, deve assolutamente prestarmi quel gioco di cui avevamo parlato! >> Quello invece era Jurij, il fratello gemello di Katerina, Gabriele aveva sempre avuto un ottimo rapporto con lui, perché avevano praticamente gli stessi gusti e pochissima attitudine per lo studio.
<< No, quello deve prestarlo prima a me! >> La voce burbera di suo cugino Ivan, il fratello quindicenne di Aleksej, gli perforò i timpani nonostante il cuscino, Gabriele trattenne a stento un grugnito, se fosse stato davvero addormentato, si sarebbe svegliato di sicuro.
<< Potreste gentilmente abbassare la voce? Così lo sveglierete >> Le parole di Pavel invece, suo cugino di tredici anni e fratello di Aleksej e Ivan, lo raggiunsero come il canto di un usignolo gentile. Pavel era sempre stato l’angelo della famiglia Ivanov.
<< Pavel ha ragione, sgombrate su! >> Suo zio Yulian interenne bruscamente nella conversazione con la sua solita grazia, facendo possibilmente più chiasso di tutti i suoi figli e nipoti messi insieme. Gabriele sospirò rumorosamente e dopo qualche minuto di silenzio assoluto, quando il corridoio era rimasto deserto, cadde in una sorta di dormiveglia.
Aveva i pensieri leggermente annebbiati, e fu per quel motivo che una mezz’oretta dopo non si accorse affatto della porta che veniva aperta e richiusa nel massimo silenzio.
A svegliarlo completamente però, fu il peso di un corpo che saliva sul suo letto senza alcun ritegno, Gabriele spalancò improvvisamente gli occhi e saltò su a sedere, trovandosi faccia a faccia con Katerina, i loro nasi erano ad un centimetro di distanza.
<< Dannazione Katerina! Vuoi farmi venire un infarto?! >> Sbottò immediatamente il ragazzo, indietreggiando verso la testiera del letto. Katerina si lasciò cadere seduta sul materasso, era bellissima anche nella penombra della camera, con i capelli biondi legati in una treccia, le sopracciglia aggrottate e le labbra carnose increspate in una smorfia.
<< Vedo che l’emicrania ti è passata! >> Lo rimbrottò lei, incrociando le braccia al petto, Gabriele si lasciò scappare un sospiro lungo e rumoroso.
<< Sei impazzita? Sai cosa succede se ti trovano sul mio letto? >>
Katerina alzò gli occhi al cielo e scosse la testa.
<< Ho detto che andavo nel bagno. >>
Gabriele fece un altro movimento indietro e si schiaffò una mano sulla fronte, esasperato, il profumo al cocco della ragazza lo stava mandando fuori di testa, e tutto lo sforzo fatto per starle lontano sembrava assolutamente vanificato.
<< E’ una scusa troppo banale, ti farai scoprire immediatamente! >>
<< Beh, non me ne frega niente! Volevo vederti assolutamente, sai? >>
Gabriele trovò ben poco da ribattere dopo quelle parole, si lasciò andare all’ennesimo sospiro della giornata e afferrò velocemente le mani di Katerina, accarezzandogliele.
Non avrebbe dovuto farlo, ne lasciarsi trasportare da quelle emozioni, ma le afferrò saldamente i polsi e con un movimento fulmineo trascinò quelle esili braccia verso di se, adagiandole poi sulle sue spalle, affinché lei potesse cingergli il collo.
Stava per darle un bacio quando si accorse del braccialetto, solitamente Katerina non indossava gioielli, né collane, né orecchini e tantomeno bracciali.
<< Quello cos’è? >> Domandò Gabriele osservando fisso l’oggetto, Katerina spostò le braccia un po’ a disagio, facendo un passettino all’indietro, quella reazione incuriosì tremendamente Gabriele, che l’aveva vista poche volte in imbarazzo.
<< Un bracciale >> Gabriele si spazientì immediatamente per quella risposta.
<< Questo l’avevo capito da solo! Chi te l’ha regalato? >> Katerina si morse il labbro inferiore, poi forzò un sorriso.
<< Un ragazzo … frequenta il terzo anno. >>
<< Che cosa?! >> Gabriele si rese conto troppo tardi di aver urlato, entrambi i ragazzi ammutolirono e trattennero il fiato nella speranza che nessuno avesse sentito ed entrasse precipitosamente in camera trovandoli in una posizione piuttosto equivoca.
Passarono alcuni minuti di assoluto silenzio, poi Gabriele sospirò rincuorato.
<< Non urlare, idiota! >> Lo rimbeccò Katerina dandogli un piccolo pugno sulla spalla.
Gabriele la guardò in cagnesco ed incrociò le braccia al petto.
<< Cos’è questa storia che accetti regali dagli altri maschi? >>  Aveva un’aria così imbronciata che Katerina fece fatica a trattenere le risate, Gabriele le sembrava bellissimo nella penombra della stanza, con i capelli arruffati e gli occhi assottigliati e sospettosi.
<< L’ho fatto per depistare gli altri su di noi >> Spiegò lei con sufficienza, come se la cosa dovesse essere ovvia, Gabriele grugnì nervosamente e alzò gli occhi al cielo.
<< Non devi depistare nulla Katerina, perché ti ho già spiegato che … >>
<< Ah si? Allora vorrà dire che accetterò l’invito di questo ragazzo ad uscire! >>
Gabriele grugnì a quelle parole come se qualcuno l’avesse colpito dietro la nuca, si sentiva la persona più incoerente del mondo in quel momento, perché razionalmente sapeva di doverglielo lasciar fare, ma il cuore non voleva assolutamente accettarlo.
<< Non ti azzardare >> Si ritrovò a brontolare, Katerina scoppiò a ridere in una risata cristallina da adolescente, gli afferrò il viso tra le mani e lo baciò a timbro, lasciandogli il sapore del lucidalabbra al cocco. Gabriele rabbrividì e le afferrò il viso per baciarla ancora una volta, ma non ci riuscì perché fu interrotto da una voce squillante.
<< Che cosa state facendo? >>
I due ragazzi trasalirono, immobilizzati sul letto, Gabriele stringeva ancora il volto di Katerina tra le mani, lei aveva gli occhi sgranati dalla paura.
Simone, il fratello più piccolo della ragazza, di appena cinque anni, li guardava con un sorrisetto sulle labbra e la piccola manina ancora appoggiata alla porta.
<< Simone! Che cosa ci fai qui? >> Domandò Katerina, scendendo velocemente dal letto per raggiungere il bambino.
<< Volevo venire a dare un bacio alla bua di Gabriele, così gli passava e veniva a giocare con me >> Spiegò Simone, giocherellando con il bordo del suo gilè, Gabriele sorrise di riflesso quando sentì quelle parole, si alzò a sua volta dal letto e decise che per quella sera poteva smetterla di mentire sul mal di testa.
<< Sai, Simo, ho proprio bisogno di quel bacio >> Si chinò e prese il bambino in braccio, che immediatamente gli stampò un bacio rumoroso sulla fronte. << Ecco, adesso è proprio passato >> Simone rise divertito da quelle parole e batté le mani entusiasta.
Katerina aveva a sua volta un bel sorriso sghembo sulle labbra carnose.
<< Hai vinto tu stasera >> Brontolò Gabriele lanciandole un’occhiata imbronciata, Katerina ridacchiò radiosa, mentre si attaccava al suo braccio.
 
Giasone non vedeva Muriel dal giorno della partita.
Ed erano passati esattamente cinque giorni da quell’evento, così si sorprese quando la vide salire sul vecchio catorcio. Se ne stava imbacuccata in un piumino grigio, aveva una sciarpa rossa che le copriva le labbra e si trascinava dietro, oltre la cartella, anche il borsone per gli allenamenti. I capelli corti erano raccolti ai lati da un paio di forcine a forma di gufo e come orecchini portava sue piccoli palloni da basket.
Giasone aspettò pazientemente che la ragazzina si mettesse seduta accanto a lui, ma Muriel gli passò accanto senza nemmeno voltasi a guardarlo e si sistemò più avanti, accanto al finestrino.  Lui rimase allibito da quel comportamento, si sporse un po’ in avanti per vedere se Muriel avesse le cuffiette dell’ iPod nelle orecchie e fosse distratta, era già capitato una volta, Giasone non si sarebbe stupito, ma non era così.
La scrutò con disappunto, poi si rese conto che era quello che aveva sempre voluto fin dall’inizio, che Muriel lo lasciasse in pace con quella voce petulante e tutte le domande inopportune. Incrociò le braccia al petto e spostò lo sguardo fuori dal finestrino, imbronciato, si sarebbe goduto il silenzio in santa pace.
Giasone riuscì a durare solamente due minuti.
Afferrò velocemente la cartella, si alzò e raggiunse la più piccola, mettendosi seduto con poca grazie e producendo molto rumore, accanto a lei.
Muriel si girò a guardarlo sorpresa, aveva ancora la mano sul quale aveva poggiato la guancia sollevata in aria.
<< Non ti fai viva da un bel po’, sai? >> Fu la prima cosa che Giasone le disse, guardandola con le braccia incrociate e un’espressione contrariata, Muriel fece spallucce.
<< Ho avuto molte cose da fare >> Giasone trovò molto irritante quella risposta vaga, Muriel l’aveva abituato alle chiacchiere e alla chiarezza.
<< Beh, perché stamattina non ti sei seduta accanto a me come sempre? >>
<< Non ti ho visto, ero sovrappensiero >> Muriel tenne lo sguardo fisso sul finestrino per evitare che Giasone scoprisse la sua bugia, lei l’aveva visto benissimo, il suo sguardo si era posato su di lui ancora prima che l’occhio lo vedesse davvero.
Da quando l’aveva visto parlare in quel modo così complice con Livia, Muriel si era sentita profondamente a disagio. Aveva scoperto che il primo ragazzo di cui si era innamorata non la considerava nemmeno una donna, Giasone la vedeva solamente come una ragazzina di quindici anni troppo maschiaccia e infantile.
<< Beh, e che mi dici del messaggio che ti ho inviato? >>
Nel sentire quelle parole, Muriel si girò di scatto verso di lui accigliata, ricordava molto bene il modo in cui gli aveva lasciato il suo numero di telefono, scrivendoglielo su una mano, ma Giasone non l’aveva mai chiamata, ne le aveva mandato un messaggio per lasciarle a sua volta il suo recapito telefonico.
<< Non ho ricevuto nessun messaggio >> Giasone trovò molta sicurezza nella voce di Muriel, si accigliò a sua volta e sfilò velocemente il cellulare dalla tasca del giubbotto.
<< Non è vero! Guarda, l’ho scritto … >> Brontolò sommessamente aprendo la casella dei messaggi << Hai visto? >> Sbottò puntando lo schermo luminoso verso la ragazza, Muriel lo scrutò accigliata e poi incrociò le braccia al petto.
<< L’hai mandato al tuo amico Ivan >> Si limitò a commentare, mentre tratteneva a stento una risata, Giasone la guardò indignato.
<< Non è possibile! >> Strepitò contrariato, poi controllò meglio il mittente e si rese conto che in effetti Muriel aveva ragione, il nome del destinatario era inequivocabile: Ivan il Terribile. << Cavolo! >> Imprecò il biondo chiudendo bruscamente il cellulare, Muriel si lasciò scappare un risolino divertito, con l’umore nettamente migliorato.
Giasone aveva pensato di inviarle un messaggio, era già un passo avanti.
<< Non ridere! >> La rimbeccò immediatamente lui, spintonandola sulla spalla, Muriel si asciugò frettolosamente gli angoli degli occhi e alzò le mani in segno di resa.
<< Va bene, va bene, ma è difficile non farlo >> Giasone le lanciò uno sguardo di sbieco e incrociò le braccia al petto con fare autoritario.
<< Beh, ho una notizia da comunicarti comunque >> Muriel rimase profondamente incuriosita da quelle parole, cercò di ridarsi un contegno e si voltò a guardarlo con i grandi occhi verdi curiosi. << In questi giorni ho parlato spesso con Livia, la tua coach … >> A quelle parole Muriel sentì una stretta terribile alla bocca dello stomaco, improvvisamente non voleva più sentirlo. << E mi ha chiesto una mano per allenare la squadra. Quindi, dalla settimana prossima sarò anche io il tuo coach … >>
Muriel si gelò completamente nel sentire quelle parole.
<< Ma non puoi! Sei di un’altra scuola, no? >> Quella non era esattamente la reazione che Giasone si era aspettato, da Muriel avrebbe voluto grida di gioia esagerate, e la stessa ragazzina avrebbe sicuramente reagito così, se non fosse stata assalita dalla paura di vedere passare troppo tempo insieme Livia e Giasone.
<< Ehi, guarda che invece si può fare! E’ vero che sono di un’altra scuola, ma siccome noi non abbiamo una squadra di basket posso benissimo allenare la tua! Perché non siamo in competizione in alcun modo >>
La spiegazione di Giasone non faceva una grinza, Muriel non seppe cos’altro ribattere, poi si accorse che il vecchio rottame era arrivato alla sua fermata, si alzò frettolosamente in piedi e raggiunse velocemente le porte.
<< Ci vediamo domani … mia piccola power forward* >>.


__________________________________
Effe_95

power forward: ala forte o grande in inglese. 

Salve a tutti :)
Sapete cosa vi dico? Non sono per nulla soddisfatta di questo capitolo.
Ho come la sensazione di averlo scritto male e di non aver dato il massimo, sono molto indecisa soprattutto per quanto riguarda la parte di Aleksej e Miki, mi ha dato davvero del filo da torcere. Non so se sono riuscita a rendere chiare le cose, i sentimenti di entrambi.
Devo dire che il caldo asfissiante non mi ha aiutato un granché.
Per le altri due parti, spero di aver fatto qualtomeno un lavoro decente.
Volevo già avvisarvi da adesso che il prossimo capitolo sarà un po' particolare, succederà qualcosa che sconvolgerà completamente Igor e vedremo un approfondimento su Cristiano e Sonia, insomma, si potrebbe quasi definire il capitolo degli antagonisti xD
Scopriremo anche perchè Sonia è fatta così.
Scusatemi per le note così lunghe, e per questo capitolo così scadente.
Grazie mille come sempre a tutti per il sostegno.
Alla prossima spero.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Falsa, No e Diversa. ***


I ragazzi della 5 A
 
20. Falsa, No e Diversa.

Novembre
 
Novembre stava per finire ed Igor non ne poteva più.
Era sicurissimo che sarebbe morto molto presto andando avanti in quel modo, e probabilmente sarebbe morto a causa di un infarto precoce.
Da quando Zoe aveva preso nove all’interrogazione di matematica in seguito alle sue spiegazioni, la ragazza passava tre pomeriggi su cinque a casa sua con grande disappunto di Telemaco, che si malediva costantemente per aver incrementato quella tortura.
Il tempo da passare insieme al suo migliore amico si era drasticamente ridotto.
Era il 27 Novembre, fuori aveva nevicato e Zoe non faceva altro che parlare di quanto fosse bella la neve invece di concentrarsi su Marx e l’alienazione.
<< Ehi Igor, perché non andiamo a prendere una cioccolata calda? >>
Propose ad un certo punto, con lo sguardo ancora fisso sulla finestra condensata, Igor si domandò come facesse a vedere qualcosa attraverso quei vetri appannati, perché lui scorgeva solamente contorni sfumati.
<< La cioccolata posso farla anche io, mia sorella ne è golosa. Abbiamo anche della bianca se ti va >> Replicò il moro, continuando a dare un’occhiata veloce ai paragrafi che ancora avrebbero dovuto ripetere, Zoe si volò a guardarlo con una luce pericolosa negli occhi.
I capelli biondi e sottili cadevano ordinati sulle spalle, mentre gli occhi scuri ardevano di vita, Igor abbassò frettolosamente lo sguardo, era troppo per lui.
<< Veramente io volevo uscire con te Igor, perché sono piuttosto sicura che se aspettassi una tua proposta diventerei vecchia >> Il libro di filosofia cadde rumorosamente a terra quando dalla bocca di Zoe vennero pronunciate quelle parole, Igor aveva tentato invano di trattenerlo ma gli era proprio sfuggito di mano. Il moro sentiva il cuore in gola battere prepotentemente contro il suo pomo d’Adamo, doveva avere il viso in fiamme mentre Zoe lo scrutava tranquilla.
<< Ma … ma Marx .. domani abbiamo il compito, no? >> Balbettò imbarazzato il ragazzo, Zoe si chinò, afferrò velocemente il libro di filosofia e lo chiuse di scatto, senza nemmeno controllare che nella caduta non si fossero create delle orecchie agli angoli delle pagine.
<< Nessuno è mai morto per un compito di filosofia andato male Igor, e poi per te non si trattava solo di una ripetizione? >>
Il sorriso di Zoe era troppo contagioso, Igor avrebbe voluto ribattere negativamente ma non ne trovava il coraggio, soprattutto quando lei lo fissava in quel modo.
<< E come la mettiamo con te? Non sai nulla >> Igor fece un ultimo tentativo, Zoe si alzò di scatto in piedi e lo tirò per la manica del maglione.
<< Vorrà dire che mi passerai tu le risposte, no? Sono multiple tanto, andiamo dai! >>
Dieci minuti più tardi, Igor si ritrovò in mezzo alla strada diretto verso il bar più vicino.
Zoe era al settimo cielo e saltellava per strada, sollevando con gli stivali dei cumuli di neve schizzava continuamente le gambe di Igor, che indossava solo dei jeans scuri e rabbrividiva dal freddo ogni volta.  << Igor, non essere così ingessato! Non è bella la neve? >> Lo chiamò lei con voce cantilenante, Igor non credeva affatto che la neve fosse bella, era fastidiosa, bagnata e gelida, cosa poteva esserci di bello in una cosa così?
Se ne stava infreddolito nel suo cappotto pesante, con i guanti, la sciarpa e il cappello, anche solo camminare era una tortura, come faceva Zoe a saltellare?
<< Non la trovo particolarmente interessante >> Si limitò a commentare il giovane, Zoe lo scrutò di sottecchi, con un leggero sorriso sulle labbra, Igor aveva il naso arrossato, la pelle pallida era macchiata e sembrava sprofondare nel cappotto.
<< Oh, questo bar sembra proprio carino, entriamo qui dai! >>
Zoe lo afferrò nuovamente per la manica della giacca e lo trascinò all’interno del locale, un posto sistemato in stile anni ’50. Igor si sentiva leggermente fuori luogo, ma doveva ammettere che almeno lì dentro c’era un piacevole tepore.
Lui e Zoe occuparono uno dei tavolini accanto alle finestre, al ragazzo sembrava non piacere quella postazione, perché affacciava sulla strada ed era praticamente sotto lo sguardo di tutti i passanti, ma Zoe aveva già afferrato il menù e lo scrutava con allegria, commentando tra se e se le varie proposte.
<< Cosa prendete? >> Domandò la cameriera, che gli si era avvicinata con un caldo sorriso sulle labbra rosso fuoco, aveva occhi solamente per Igor, ma lui non sembrava essersene accorto. Zoe tossicchiò fastidiosamente e fulminò la tipa con lo sguardo.
<< Io prendo dei pancake allo sciroppo d’acero con un frullato alla fragola >>
<< Non volevi la cioccolata calda? >> Le domandò Igor sollevando gli occhi dal menù, Zoe fece spallucce, mentre la cameriera appuntava tutto su un block notes con aria scocciata.
<< Prima si, ma poi ho visto tutte queste belle cose … >>
A Igor sembrò che qualcuno gli avesse tirato un pugno nello stomaco, tutti i castelli di sabbia che aveva costruito su Zoe stavano lentamente cadendo.
Non era affatto la ragazza che aveva immaginato, e rendersi conto di averla idealizzata per tutto quel tempo era come un brusco risveglio. I loro caratteri non combaciavano per nulla, Zoe era espansiva al limite dell’accettabile, mentre lui avrebbe solo voluto starsene per i fatti suoi. Lei era volubile e cambiava idea nel giro di pochi secondi, lui preferiva restare fedele alle sue idee fino alla fine.
Zoe era come una bambina attratta da molteplici colori, uno catturava particolarmente la sua attenzione, lei lo scrutava a lungo, ne studiava tutte le sfaccettature fino ad annoiarsi, e poi passava al colore successivo senza curarsi di aver abbandonato quello precedente.
Quella sorte sarebbe toccata anche a lui, Igor ne era certo.
<< E tu? Tu cosa vuoi? >> Fu strappato bruscamente dai suoi pensieri grazie alla voce gentile della cameriera, che gli stava sorridendo affabilmente.
<< Un caffè, grazie >> Si limitò a rispondere sospirando pesantemente, chiuse con delicatezza il menù e lo porse alla donna, che gli rivolse uno sguardo comprensivo.
<< Ma come Igor, con tutto quel ben di Dio! >> Il lamento di Zoe gli giunse fastidiosamente, Igor aveva il terribile bisogno di chiamare il suo migliore amico.
Nel preciso istante in cui formulò quel pensiero, il cellulare prese a suonargli insistentemente e rumorosamente nella tasca della giacca, lo estrasse con una certa fretta e lesse il mittente della chiamata: Telemaco.
Fu pervaso da una sensazione di benessere, si alzò in piedi sotto lo sguardo accigliato di Zoe.
<< Vado un attimo fuori a rispondere >> Le disse indicando il cellulare, e un attimo dopo si trovava in mezzo alla strada, nella neve, con l’apparecchio premuto all’orecchio.
<< Non dirmi che sei con Zoe, perché sto venendo a casa tua per ripetere Marx! >>
Quelle furono le prime parole che Telemaco pronunciò dall’altra parte del telefono.
<< Si, sono con lei Telemaco ma … >> Mormorò Igor, il biondo cominciò immediatamente a protestare, ma il moro lo interruppe di nuovo << … vorrei davvero che non fosse così >>
Telemaco percepì così tanta tristezza e così tanto rammarico nella voce di Igor che ammutolì per parecchi minuti. Non era possibile che il moro dicesse una cosa del genere su Zoe. << Cos’è successo? >>
<< Era tutta un’illusione, una bellissima illusione … >> Igor gli raccontò tutte le sue sensazioni, ciò che aveva cominciato a provare durante quel periodo trascorso con la vera lei. << E adesso non so davvero cosa fare. >>
Telemaco aveva le sopracciglia aggrottate mentre camminava per strada, era davvero la prima volta che sentiva dire ad Igor una cosa del genere, lui sapeva sempre cosa fare.
<< Dille la verità! >>
<< Ma … >>
<< Dille la verità e basta! Non è da te scappare, non è da te fare il codardo, dille la verità e poi torna a casa, io ti aspetto qui >>.
Quando Igor tornò all’interno del locale ben riscaldato dopo aver riflettuto parecchi minuti, trovò Zoe con i suoi pancake e una forchetta di plastica in mano, il suo caffè fumava ancora, aspettando di essere bevuto.
<< Oh, sei tornato! >> Esclamò allegra Zoe, sollevando lo sguardo quando lo scorse, Igor le fece un piccolo inchino.
<< Mi dispiace Zoe, ma io me ne vado >> La ragazza rimase sorpresa, con la forchetta a mezz’aria ed un enorme pezzo di pancake pronto a cadere nel piatto sottostante << Sono lusingato del tuo interesse per me, ma siamo troppo diversi. E sinceramente, non mi va di essere trattato come un giocattolo divertente >> Le accennò un sorriso un po’ tirato << Tu sei falsa, mi dispiace >>. Quando Igor si richiuse la porta del locale alle spalle, sparendo oltre il marciapiede, il pezzo di pancake cadde finalmente nel piatto, Zoe lo guardò come se fosse qualcosa di estraneo. Le sembrava quasi che qualcuno le avesse tirato una gomitata in pieno stomaco, abbassò la forchetta e strinse forte il tovagliolino tra le mani, sapeva benissimo di avere un pessimo carattere, di essere volubile ed instabile, di dare molto spesso quell’idea.
Zoe sapeva di essere così, lo sapeva benissimo.
Ma non avrebbe mai, mai voluto in alcun modo che Igor avesse quell’impressione di lei, perché Igor era uno di quei colori che Zoe avrebbe voluto catturare.
Catturare per sempre.
 
A Cristiano piaceva tantissimo sonnecchiare sui materassi della palestra.
Era una cosa che non avrebbe dovuto fare, la palestra era inaccessibile per gli studenti al termine delle lezioni, ma si dimenticavano sempre di chiuderla a chiave e lui ne approfittava. Non seguiva attività extrascolastiche, era troppo pigro per impegnarsi seriamente, ma preferiva sonnecchiare su quei materassi piuttosto che tornare a casa.
Le continue grida di sua madre gli impedivano di dormire, e i silenzi imbarazzanti di suo padre lo disgustavano. I suoi genitori non avevano fatto altro che litigare da che lui aveva memoria, era cresciuto tra i loro bisticci e ci aveva fatto l’abitudine, si chiedeva perché non divorziassero definitivamente.
Cristiano non ci sarebbe rimasto male, e avrebbe anche evitato di trovare sua madre ubriaca e suo padre chiuso a chiave con l’amante nello studio.
Sbadigliò sfacciatamente mentre un raggio di sole gli accarezzava la guancia ispida, non era un sole caldo, perché fuori la neve dominava, ma era comunque piacevole.
Lanciò un’occhiata veloce all’orologio da polso e si accorse che erano le quattro del pomeriggio, si era trattenuto un po’ troppo e avrebbe dovuto andarsene, tra l’altro aveva paura che lo avessero chiuso dentro per davvero quella volta.
Si mise seduto, afferrò velocemente la cartella vuota, ad eccezione di una penna ed un quaderno, e fece per alzarsi quando un rumore di porta sbattuta lo distrasse.
Sbirciò attraverso la fessura dei materassi, dal quale era protetto, e scorse una figura aggraziata, con lunghi capelli neri e ricci, gli dava le spalle ma non avrebbe faticato a riconoscerla. << Che cosa stai facendo qui dentro, Sonia? >> Biascicò con la voce ancora impastata, alzandosi dal materasso, Sonia si voltò a guardarlo con un cipiglio contrariato, incrociando le braccia sotto il seno. Cristiano sbadigliò ancora una volta senza coprirsi la bocca e si passò una mano tra il groviglio di capelli ricci che si ritrovava.
<< Sto aspettando una persona! >> Si affrettò a rispondere la ragazza, scostando lo sguardo.
Cristiano la osservò con fare annoiato, e gli occhi da cerbiatto leggermente offuscati.
<< Sono le quattro del pomeriggio, non stai aspettando nessuno >> Si limitò a commentare, raggiungendo la porta della palestra con passo strascicato, non appena le passò accanto, Sonia gli afferrò il bordo della maglietta, tirandogliela leggermente.
<< Vuoi fare l’amore con me? >> Gli chiese con voce bassa, Cristiano si fermò solamente per riflesso, perché la stretta della ragazza era stata debole, le dava le spalle e guardava la porta annoiato, come se il pensiero di raggiungerla fosse troppo faticoso.
<< No >> Rispose con voce atona, Sonia emise un gemito stizzito.
<< Ma perché?! >> Domandò, e a Cristiano sembrò quasi di aver sentito quella domanda centinai di volte a partire dal secondo anno di liceo. Fece un piccolo passo in avanti e la presa di Sonia sulla sua maglietta scivolò del tutto, il braccio le cadde penzoloni nel vuoto.
<< Non te ne sei accorta? Sei diventata così simile a me … sei davvero l’ultima persona con cui rifarei qualcosa del genere >>.
Per Cristiano fu facile raggiungere la porta della palestra e lasciarsela alle spalle, era diventato facile compiere quel gesto, un po’ più difficile era stato farlo quando aveva quindici anni.
Cristiano faticava ad ammetterlo, ma il comportamento di Sonia era colpa sua.
Era sempre stata colpa sua, e invece di salvarla, l’aveva condannata.
 
Sonia asciugò più volte le lacrime dal viso, ma quelle continuavano a scendere senza sosta.
Imprecò mentalmente e ringraziò il cielo che fosse da sola in quella palestra, e che quello spettacolo pietoso si stesse consumando nel silenzio e in segretezza.
Sonia passò ancora una volta le mani sul viso e poi lanciò uno sguardo ai materassi, ancora stropicciati lì dove Cristiano si era appisolato per tutto il pomeriggio.
Avrebbe dovuto lasciare la palestra al più presto se non voleva farsi beccare, Sonia ne era cosciente, eppure non riuscì a fare a meno di lasciarsi cadere a sua volta sul materasso che aveva ospitato poco prima il ragazzo.
L’odore di Cristiano era rimasto intrappolato insieme a quello forte della plastica, Sonia lasciò correre i polpastrelli delle dita sulla sagoma immaginaria di una persona che se n’era andata parecchi anni prima, senza che nessuno lo sapesse.
Era stato proprio in quella palestra, il secondo anno di liceo durante un pomeriggio freddo di Febbraio, che Sonia aveva smesso di essere una bambina.
Tutti i componenti della 5 A avevano un ricordo ben diverso di Sonia nei primi due anni di liceo, e lei stessa faticava a credere quanto fosse cambiato da allora.
All’età di quattordici anni Sonia era una ragazza solare, allegra e spontanea, quelle sue caratteristiche l’avevano portata a stringere immediatamente amicizia con Miki Giorgi, la ragazza più timida ed introversa dell’intera classe.
Stesa su quel maledetto materasso, Sonia ripensò con nostalgia ai momenti di felicità trascorsi con quella ragazza, ma non era un’ipocrita incoerente, era colpa sua se l’amicizia con Miki si era guastata, trasformandosi in odio.
Sonia sapeva benissimo che si tolleravano entrambe solamente per abitudine, perché lei era troppo cattiva per lasciarla perdere, mentre Miki era troppo buona per vedere quanto la sua fosse una causa persa ormai. Sonia sorrise amaramente ripensando al motivo che l’aveva resa la persona che era diventata, a volte si chiedeva se le cose sarebbero andate diversamente se avesse confessato tutto a Miki, se si fosse fatta aiutare da lei.
Ma era un po’ tardi per pensarci, e Sonia non era il tipo da piangere sul latte versato.
Sonia aveva amato solamente una persona in tutta la sua vita.
Quella persona era Cristiano Serra.
Non l’avevano mai detto a nessuno, e non erano stati scoperti, ma Sonia e Cristiano erano stati insieme quasi per tutto il secondo anno di liceo.
Erano due ragazzi diversi allora, due quindicenni che si avvicinavano per la prima volta all’amore, e proprio su quello stesso materasso, erano diventati entrambi adulti.
Cristiano era diverso a quei tempi, era più ingenuo, allegro, bambino, erano stati bene insieme, bene fino a quando lui non l’aveva lasciata senza alcuna spiegazione, se non quella di essersi annoiato. Sonia aveva pianto così tanto i primi tempi, da aver esaurito tutte le lacrime della sua vita probabilmente, l’aveva rincorso per farsi spiegare, l’aveva implorato di tornare con lei fino a farsi umiliare.
E poi era cambiata, era cambiata perché aveva capito che la vita non era clemente con le persone buone, che per farsi rispettare bisognava essere più forte del prossimo.
Era cambiata per ferire Cristiano, perché lui si rendesse conto di cosa aveva perso.
Ma Sonia si rendeva perfettamente conto, da un po’ di anni ormai, che a perdere tutto alla fine era stata lei, perché Cristiano non aveva smesso affatto di avere un ruolo importante nella sua vita, perché aveva perso la sua migliore amica e aveva trovato la sua vera natura.
E la consapevolezza di non essere amata da nessuno.
Sorrise amaramente, con i ricordi della sua prima volta ancora stampati nella mente, e si tirò in piedi, ravvivandosi i capelli ricci e neri. Le lacrime si erano asciugate da sole sul viso, rendendogli secca la pelle, sospirò pesantemente e rise ironicamente di se stessa.
Si era lasciata andare alle lacrime, ma il giorno dopo sarebbe tornata la stessa di sempre.
La ragazza che distruggeva la felicità degli altri.


_________________
Effe_95

Buonsera a tutti :)
Allora, questo capitolo è stato davvero difficile da scrivere per me.
Devo confessarvi che ultimamente non sto passando un periodo molto felice, quindi ho paura che ciò possa influenzare anche ciò che scrivo. 
Cristiano e Sonia sono due personaggi complicatissimi anche per me, ma spero che in questo capitolo, dedicato quasi interamente a loro, siano più chiari i loro atteggiamenti.
La parte di Sonia è praticamente solo descrittiva, è stata una novità per me, perchè io apprezzo soprattutto i dialoghi e raramente sono così tanto descrittiva, ma questa volta ho pensato fosse fondamentale per poter capire il suo carattere così complesso.
Spero di non avervi delusi troppo, di non essere stata scontata nè con Sonia, nè con Cristiano.
Per la parte di Igor e Zoe, spero si sia capita la delusione crescente del ragazzo, spero di essere riuscita a descrivere bene la frivolezza di Zoe.
Grazie mille come sempre per tutto, soprattutto alle ragazze che recensiscono motivandomi sempre a fare di meglio, grazie davvero di cuore :)
Spero che questo capitolo "speciale", possa piacervi e non rivelarsi un esprimento mal riuscito.
Alla prossima.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Do ut des, Non ci cascherò e Phon. ***


I ragazzi della 5 A
 
21. Do ut des, Non ci cascherò e Phon.

Dicembre
 
<< Su, consegnate, il tempo è scaduto! >>
La voce della professoressa d’inglese, Camilla Sanna, riecheggiò come una condanna a morte. Un brusio di disapprovazione si diffuse per tutta la classe, mentre le penne vagavano ancora frettolosamente sui fogli alla ricerca degli errori o delle ultime risposte da poter appuntare. << Insomma! Ho detto di consegnare! >> Strillò ancora una volta la professoressa aggirandosi per i banchi come un avvoltoio, Gabriele si vide strappare malamente il foglio dal banco e imprecò gettando la penna nella cartella con foga.
<< Brutta strega! >> Aleksej lo sentì brontolare e alzò gli occhi al cielo, mentre preparava a sua volta la cartella. << Una volta tanto che avevo risposto a quasi tutte le domande! >> Continuò a brontolare Gabriele lanciando occhiate di fuoco alla professoressa, che stava sbraitando e sputacchiando contro Zosimo perché aveva firmato il compito con una faccina.
<< Hai risposto in inglese, vero? >> Gli domandò Aleksej distrattamente, mentre sistemava meticolosamente il suo banco accanto a quello del cugino, Gabriele gli lanciò un’occhiataccia e lo spintonò leggermente sulla spalla.
<< No, in giapponese! >> Commentò acido, Aleksej alzò ancora una volta gli occhi al cielo, riponendo la sedia << Andiamo a casa dai, ho fame! >>.
Gabriele era davvero di pessimo umore, perché lo aspettava con le braccia incrociate e un sopracciglio sollevato.
<< Oggi non vengo, vado a mangiare con Miki da qualche parte >> Gabriele sollevò maggiormente il sopracciglio quando sentì quelle parole, Aleksej deglutì vistosamente, perché sentiva in ogni fibra del suo corpo che Gabriele l’avrebbe rimproverato, e infatti …
<< Avresti anche potuto dirmelo prima, sai?! >>
<< Non gridare! >> Strepitò Aleksej raggiungendo la porta, Miki se ne stava appoggiata al muro e lo aspettava, era distratta e giocherellava con la zip della borsa, così non si accorse dell’occhiataccia che le lanciò Gabriele. << Ah, Ivan ti sta aspettando giù. Portalo a casa >>
Gabriele avrebbe cacciato il fumo dalle orecchie se avesse potuto, guardò Aleksej e Miki allontanarsi e incrociò le braccia al petto imbronciato.
<< E io faccio il fattorino! >> Commentò acido issandosi la cartella sulla spalla, infilò le mani nelle tasche del jeans e scese le scale di pessimo umore, proprio quando mise piede al piano terra, il cellulare prese a vibrare freneticamente nella giacca annunciando l’arrivo di un messaggio. Gabriele lo sfilò dalla tasca sbuffando sonoramente, mentre un chiasso forsennato riecheggiava nella sala invasa dagli altri studenti che lasciavano l’edificio.
Ehi, Gab, non so se Alješa ti ha detto che venivo via con te, ma non ce n'è più bisogno. La professoressa di matematica si è sentita male e siano usciti un’ora prima, sono già a casa.”
Il messaggio era di suo cugino Ivan, il secondo fratello di Aleksej, Gabriele replicò con un esaustivo “ok”, e riposto il cellulare prese a camminare in direzione del parcheggio.
Quel giorno gli sarebbe toccato tornare da solo, perché anche sua sorella Alessandra non era andata a scuola a causa di una febbre improvvisa. Gettò malamente la cartella semivuota sul sedile posteriore e infilò le chiavi per accendere la macchina, stava per metterla in moto quando la portiera accanto a lui si spalancò improvvisamente e l’abitacolo fu invaso dal familiare profumo di cocco.
<< Sei solo oggi? Perfetto, così puoi riaccompagnarmi a casa >>
La voce roca e allegra di Katerina riempì il silenzio come una bomba a mano gettata all’improvviso in un campo deserto, Gabriele la guardò allucinato, come se fosse una visione raccapricciante, e il pessimo umore in cui si trovava non migliorava affatto le cose.
<< Buongiorno anche a te! >> Replicò sarcastico, mettendo finalmente in accensione la macchina. << Che ci fai qui? Tuo fratello Jurij? >>. Domandò mentre faceva retromarcia con poca grazia, rischiando più volte di graffiare l’auto parcheggiata accanto alla sua.
Katerina si strinse più forte il piccolo codino finale della treccia e tolse il cappello di lana che aveva portato fino a un attimo prima, nel momento di silenzio che si venne a creare, le catene attaccate alle ruote stridettero prepotentemente.
<< E’ anche lui a casa con la febbre a quaranta, credo che Jurij e Alessandra si siano mischiati di brutto >> Raccontò lei sfilandosi i guanti e riponendoli nella borsa, mentre Gabriele faceva partire i tergicristalli per spazzare via lo strato di neve e accendeva contemporaneamente l’aria calda affinché scaldasse l’abitacolo gelato.
<< E perché io e te non ci siamo mischiati? Mi sarei risparmiato uno schifo di compito d’inglese! >> Brontolò lui svoltando a destra di una strada trafficata, Katerina gli lanciò uno sguardo esasperato e poi si protese in avanti per accendere la radio.
<< Che fai?! Mi da fastidio, spegni quell’affare! >> Gabriele era davvero di pessimo umore, scostò malamente la mano di Katerina e chiuse l’apparecchio, che aveva appena cominciato a trasmettere una canzone dei Muse.
<< Oggi sei peggio del solito, sai? >> Lo rimbeccò Katerina, incrociando le braccia al petto e calciando con malagrazia la tracolla della cartella, che le era scivolata sugli stivali quando Gabriele aveva frenato senza preavviso.
<< Che significa “peggio del solito”? >> Gabriele le lanciò uno sguardo truce mentre se ne stavano bloccati in un piccolo ingorgo, che non aveva fatto altro che innervosirlo ancora di più. Katerina allungò una mano nel tentativo di aggiustargli un ciuffo di capelli ribelli che gli era scivolato sulla fronte, ma lui la scaccio malamente ancora una volta.
<< Che sei davvero insopportabile! >> Mormorò lei sospirando pesantemente << Ma io ti amo lo stesso >> Katerina concluse la frase proprio quando Gabriele stava per strepitarle contro, così si zittì con la bocca spalancata e un dito sollevato.
Qualcuno dietro di lui bussò più volte con il clacson, Gabriele riportò lo sguardo sulla strada e notò che il traffico si era mosso di parecchi metri.
<< A volte mi chiedo davvero come tu faccia ad amarmi >>  
Commentò il ragazzo dopo qualche minuto di silenzio, diede un’occhiata veloce all’incrocio e svoltò a sinistra, esattamente sotto il palazzo dove abitava Katerina.
Gabriele spense velocemente la macchina, lasciando acceso solo il riscaldamento affinché li tenesse al caldo ancora per un po’, Katerina guardò distrattamente il portone del condominio attraverso il vetro condensato e macchiato di neve, allungò la mano verso la cartella per raccoglierla e in quel momento il braccialetto tintinnò.
Gabriele seguì il movimento del suo braccio e lo notò, provando un prepotente fastidio alla bocca dello stomaco, Katerina aveva già infilato il cappello e i guanti quando lui si allungò verso il cruscotto e lo spalancò frettolosamente.
<< Aspetta un attimo Katja, prima di scendere >> Katerina rimase leggermente sorpresa dall’utilizzo del diminutivo, solitamente in famiglia tutti la chiamavano in quel modo, ma Gabriele non lo faceva mai, probabilmente per tenere le distanze. << Ecco … lo so che il tuo compleanno è a Febbraio, mancano ancora due mesi ma … tieni! >>.
Incespicò un po’ con le parole mentre le porgeva un piccolo pacchetto rettangolare, Katerina lo prese con le sopracciglia aggrottate e un’aria perplessa stampata sul volto struccato.
Gabriele non la stava guardando, si era appoggiato con le braccia sullo sterzo e scrutava la strada con fare distratto, gli occhi verdi persi sul marciapiede.
Katerina scartò velocemente il pacchetto, liberandolo dal laccetto raffinato che richiudeva la scatola, sollevò cautamente il coperchio e i suoi occhi grigi si imbatterono in un braccialetto d’argento, sul quale era finemente ricamata una scritta in oro: “Do ut des “.
<< “Do affinché tu mi dia …” >> Mormorò Katerina sfilando il braccialetto per studiarlo da vicino, Gabriele percepì una vibrazione particolare nella voce roca della ragazza.
<< Sai, quando l’ho visto ho pensato immediatamente a te >> Cominciò a raccontare Gabriele, rivolgendole nuovamente lo sguardo << Tu sei quel “do”, mentre io sono il “ des”.
Perché tu mi dai sempre tutto … mentre io sono un ingrato, e spesso dimentico di farlo. >> Gabriele distolse nuovamente lo sguardo quando Katerina si affrettò ad asciugarsi gli occhi, a lei non piaceva piangere di fronte agli altri, lui lo sapeva. << E poi … >> Continuò, afferrandole il polso per liberarlo dall’altro regalo indesiderato << Preferisco che tu metta questo, perché te l’ho regalato io … e non mi importa se lo vedono gli altri. >>.
Gabriele smise di parlare e contemporaneamente di allacciarle il suo regalo al polso, sostituendo quel braccialetto vecchio di cuoio del quale era stato geloso fino ad un momento prima. << Ecco, questo ti sta molto meglio >> Ribatté infine regalandole un caldo sorriso con le fossette agli angoli delle labbra, Katerina rimirò più volte il braccialetto, le guance arrossate e gli occhi ancora lucidi per il pianto silenzioso e veloce.
<< Ti sarà costato una fortuna! >> Replicò con voce tremante, sfiorandolo con le dita. Gabriele nascose nuovamente la faccia tra le braccia sullo sterzo, lasciando visibili solamente gli occhi, la voce gli uscì soffocata quando rispose.
<< Dovrò fare la fame per un po’ >> Katerina rise lievemente, con gli occhi ancora lucidi e la punta del naso arrossata.
<< E’ per questo che ti amo >> Sorrise della sorpresa nello sguardo di Gabriele, mentre rispondeva finalmente alla domanda che lui le aveva posto pochi minuti prima.
Gabriele sospirò e le prese delicatamente una mano, incrociando le loro dita.
<< Cercherò di diventare io quel “do” … vuoi? >>
<< Si, con tutto il cuore >>
 
<< … O mio amore, mia sposa! La morte, che ha già succhiato il miele del tuo respiro, nulla ha potuto sulla tua bellezza. >> Beatrice sentiva il cuore scoppiarle freneticamente nel petto mentre aveva gli occhi chiusi e se ne stava stesa metà sul pavimento del palco, metà tra le braccia di Enea. << Ancora non sei vinta, e l’insegna di bellezza, sulle labbra e sul viso, è ancora rossa, e la pallida bandiera della morte su te non è distesa >> Nel pronunciare quelle parole, Enea le accarezzò le labbra con il dorso delle dita, come gli aveva suggerito di fare il professore Alessandro Romano, il loro insegnate di teatro, e la schiena di Beatrice fu percorsa da un lungo brivido. << Tu sei là, Tebaldo … >> La voce di Enea cambiò improvvisamente, facendosi più disperata, mentre puntava il braccio lì dove se ne stava steso Ivan, nei panni del cugino di Giulietta. << … nel sudario insanguinato, ma con la mano che t’uccise spezzerò la vita al tuo nemico, e sarà grande onore per te. Perdonami >> Le mani di Enea tornarono a poggiarsi nuovamente sul viso di Beatrice, che sussultò impercettibilmente. <<O amata Giulietta, perché sei così bella? >> Enea mise un carico tale di emozioni in quella frase, detta con un sarcasmo velato di tristezza, che Beatrice si commosse << Ti ama forse la morte senza corpo? L’odioso, squallido mostro ti tiene qui nell’ombra come amante? Questo io temo, e resterò con te, per sempre, chiuso nella profonda notte. >> Enea si lasciò sfuggire un singhiozzo strozzato, come se stesse trattenendo il pianto, manifestato solo tramite la sua voce, Beatrice avrebbe tanto voluto aprire gli occhi per poterlo guardare. << Qui voglio restare, qui, coi vermi, i tuoi fedeli; avrò qui risposo eterno, e scuoterò dalla carne, stanca del mondo, ogni potenza di stelle maligne. >> Beatrice fu catturata da una stretta ferrea allo stomaco quando Enea si lasciò scappare una risata disperata, accarezzandole ancora una volta la guancia. Nella voce del ragazzo c’era rassegnazione, una forte rassegnazione. << Occhi, guardatela un’ultima volta, braccia, stringetela nell’ultimo abbraccio … >> Beatrice si sentì sollevare da terra, rimase immobile, con il corpo inerte, proprio come le aveva detto il professore, Enea la strinse ancora di più tra le sue braccia, regalandole il calore che proveniva dal suo corpo. << … o labbra, voi, porta del respiro, con un bacio puro suggellate un patto senza tempo con la morte che porta via ogni cosa. Vieni, amara guida, vieni, scorta ripugnante. E tu, pilota disperato, avventa veloce su gli scogli la tua triste barca stanca del mare. Eccomi, o amore! >> Beatrice percepì dei movimenti frenetici al suo fianco, segno che Enea stava prendendo la fialetta di veleno per berla, la stretta che sentiva allo stomaco si rafforzò maggiormente, era ansia, ansia per l’imminente morte di Romeo. << O fedele mercante, i tuoi veleni sono rapidi … >> La voce di Enea si fece più tenue, derisoria, Beatrice immaginò un sorriso beffardo delinearsi sulle sue labbra, poi lo sentì accasciarsi leggermente su di lei, con calma << … io muoio con un bacio … >>
Beatrice trattenne il respiro quando sentì le labbra di Enea sfiorargli la parte sinistra della bocca, e poi appoggiare la testa sul suo petto. Le lacrime le premevano gli occhi, sapeva che di lì a poco sarebbero entrati Oscar e Fiorenza nei panni di Frate Lorenzo e Baldassarre, che avrebbero recitato le loro battute e poi sarebbe arrivato il suo turno, la sua parte che in realtà avrebbe dovuto cantare, ma il professore interruppe tutto quello prima che cominciasse.
<< E … stop! >> Enea si tirò velocemente su e Beatrice spalancò immediatamente gli occhi, mettendosi seduta, aveva la cornea ancora arrossata e notò Oscar e Fiorenza bloccati sulla soglia delle quinte, sorpresi dall’interruzione come lo era lei. << E’ stato fantastico Enea, grandioso! >> Replicò entusiasta Alessandro Romano, guardando gli altri dietro le quinte, Beatrice notò che Catena si stava asciugando frettolosamente le guance bagnate di lacrime.
<< Non completiamo la scena? >> Domandò Ivan alzandosi a sua volta da terra, il professore lanciò uno sguardo veloce all’orologio da polso e lo mostrò ai suoi allievi, anche se era praticamente impossibile capirne l’ora dal palco.
<< Sono già le 18:00, e abbiamo sforato anche oggi di mezz’ora. Continueremo martedì prossimo >>.
Il professore lasciò frettolosamente il teatro, che andò svuotandosi lentamente, Beatrice era ancora agitata e turbata quando Enea le si avvicinò, già pronto con il giubbotto pesante e la cartella a tracolla, cartella che Beatrice stava risistemando per infilare il copione senza stropicciarlo troppo o rompere qualche post-it.
<< Sei stato bravo oggi >> Replicò prima che lui potesse aprir bocca, lottando freneticamente con l’immenso libro di letteratura italiana che non voleva saperne di uscire fuori. Enea allungò una mano e l’aiutò nell’impresa.
<< E tu ti sei emozionata, me ne sono accorto >> Commentò lui con fare divertito, Beatrice si sentì immediatamente piccata da quelle parole, perché dicevano la verità, gli strappò malamente e con poca grazia il libro dalle mani e lo fulminò con lo sguardo.
<< Non è assolutamente vero! >> Ribatté contrariata, conficcando con malagrazia il quaderno di fisica tra quello di greco e il copione, Enea rise al suo fianco.
<< Di la verità, è perché ti ho toccato le labbra quando mi sono chinato >> Beatrice diventò bordò nel sentire quelle parole pronunciate con malizia, ma sperò che i capelli le coprissero abbastanza la faccia perché lui non se ne accorgesse.
<< Che presuntuoso >> Digrignò tra i denti, mentre chiudeva con foga la cerniera della cartella e prendeva la giacca per infilarla, una buona scusa per voltargli le spalle.
<< La prossima volta te lo do sulle labbra come si deve, va bene? >> Continuò a provocarla lui, sempre ridacchiando, Beatrice infilò con fretta i guanti e poi si voltò indignata.
<< Non ci provare nemmeno! >> Il suo tono di voce fu eccessivamente elevato, Enea sollevò le braccia come per difendersi, ma sul suo viso era ancora dipinto il sorriso sarcastico e ironico che Beatrice aveva conosciuto dalla prima volta che ci aveva parlato.
<< Va bene, va bene. Ci vediamo domani a scuola … ah, e poi domani sera vengo da te. Devi provare la canzone >> Enea non le lasciò nemmeno il tempo di rispondere che sollevò una mano per salutarla e se ne andò, piantandola da sola mentre si preparava.
Beatrice brontolò per tutto il tempo restante che impiegò per prepararsi, fino a quando non le si avvicinarono Italia e Catena, già pronte e con le borse a tracolla.
<< Cosa voleva Enea da te? >> Le domandò Italia, con lo sguardo ancora puntato sulla porta dove poco prima era sparito il ragazzo.
<< Rompermi le scatole come sempre! >> Replicò secca e stizzita Beatrice.
Italia e Catena si lanciarono uno sguardo veloce senza che lei se ne accorgesse, era troppo impegnata a brontolare per farci caso.
Quando anche Beatrice ebbe finito di prepararsi, le ragazze si affrettarono a lasciare a loro volta il teatro, fuori era già buio e l’aria gelida non faceva altro che peggiorare le cose, il respiro usciva condensato e tutte e tre si strinsero forte nei cappotti, cercando di non scivolare sul sottile strato di neve che accarezzava il cortile.
<< Vai a prendere la metropolitana? >> Domandò Italia a Beatrice quando ebbero raggiunto il cancello, avevano preso l’abitudine di fare un tratto di strada insieme, fino alla fermata della metro dove solitamente si separavano.
<< Oggi no, papà passa a prendermi >> Rispose distrattamente Beatrice, lanciando uno sguardo concentrato sul semaforo rosso, quasi come se volesse far scattare immediatamente il verde per attraversare.
<< Beh, sei stata alquanto fortunata, oggi fa veramente freddo per tornare a piedi >> Catena non faceva altro che strofinarsi freneticamente le mani, nonostante fossero ben protette in un paio di guanti di lana.
<< Posso darvi un passaggio? >> Si propose Beatrice, mentre tutte e tre attraversavano la strada perché il semaforo era tornato finalmente verde.
<< Oh, stasera Catena resta a dormire da me. E sai che non abito troppo lontano, non ce n’è bisogno grazie >> Si affrettò a commentare Italia non appena ebbero raggiunto il marciapiede opposto, quel giovedì sera la città era particolarmente viva, le macchine sfrecciavano per strada tra clacson e stridore di ruote, il marciapiede era illuminato dalle luci fosforescenti e variegate dei negozi ancora aperti, e innumerevoli voci diverse riempivano l’aria. << Sicure? Non mi costa nulla, tanto i compiti per domani me li sono anticipati mercoledì >> Rispose distrattamente Beatrice, mentre si scansava nel tentativo di non sbattere conto un gruppo di bambini che si erano fermati all’improvviso proprio di fronte a lei. << Siamo sicure, piuttosto … cosa succede tra te ed Enea? >> Beatrice rischiò seriamente di scivolare quando Italia le pose la domanda, mise in fallo un piede su un mucchietto di ghiaccio e perse l’equilibrio, se non ci fosse stato l’albero a cui aggrapparsi sarebbe capitombolata rovinosamente a terra. << Assolutamente nulla! >> Sbottò tirandosi velocemente su, Italia e Catena la guardarono sorprese per quella reazione così violenta.
<< Sei sicura? >> Le chiese Italia con sospetto, Beatrice spostò gli occhi con fare colpevole, erano quasi arrivate alla metropolitana e non vedeva l’ora di raggiungerla.
<< Si, e anche se fosse, non ci cascherò ancora una volta >> Beatrice sospirò pesantemente e poi sollevò una mano, richiamando qualcuno in lontananza << Oh, c’è mio padre. Allora ci vediamo domani ragazze, buona serata >> Italia e Catena non ebbero modo di replicare, perché non appena ebbe finito di parlare, Beatrice attraversò di corsa la strada e raggiunse l’auto del padre.
<< Che cosa avrà voluto dire? >> Chiese Catena, una volta che lei e Italia ebbero ripreso a camminare vero casa di quest’ultima.
<< Non ne ho la più pallida idea. >>
 
 
Muriel era stanca.
L’allenamento era durato più del solito ed erano già le sette di sera, doveva ancora fare i compiti per il giorno dopo e tutti i muscoli delle gambe le bruciavano senza pietà.
Si passò distrattamente un asciugamano sui capelli ancora bagnati e allacciò velocemente il reggiseno, le braccia imploravano pietà dopo tutti i tiri effettuati, ma Muriel andava piuttosto di fretta. Gettò malamente i vestiti sporchi nel borsone, infilò la maglietta al rovescio e si precipitò verso uno dei tanti phon appesi alla parete, decisa ad asciugarsi i capelli alla bell’e meglio. Aveva appena preso l’apparecchio quando sentì delle voci lungo il corridoio, si acciglio leggermente e rimase in silenzio, era l’ultima rimasta negli spogliatoi, non poteva essere nessuna delle sue compagne di squadra.
Si appiattì maggiormente contro il muro quando le voci si fecero più vicine.
<< Sei sicura di averlo dimenticato qui dentro? >>
Era la voce di una delle sue compagne di squadra, Luisa.
<< Si, l’avrò dimenticato nell’armadietto come al solito >>
Muriel riconobbe anche Maria, erano entrambe entrate negli spogliatoi, da lì non poteva vederle, ma le voci si erano fatte chiare e forti, erano accanto agli armadietti e Maria trafficava freneticamente con il suo cercando di aprirlo.
<< Comunque … finisci di raccontarmi quello che hai visto! >> Sbottò Luisa con voce trepidante, Muriel aggrottò le sopracciglia e si fece più attenta.
<< Beh, si baciavano con un certo ardore, sai! >> Commentò Maria maliziosa, frugando incessantemente all’interno dell’armadietto disordinato. << Ma dove s’è cacciato … >> Brontolò subito dopo, Muriel si sporse un po’ dall’angolino a muro dove si era nascosta e vide Luisa aggrapparsi al braccio dell’amica con occhi avidi di pettegolezzi.
<< Tu dici che hanno … >>
<< Ah, questo non l’ho visto, ma se così non fosse ci manca davvero poco. Sembravano due sanguisughe, dovevi vederli! >> Maria richiuse bruscamente l’armadietto, contrariata per non aver trovato quello che stava cercando, Luisa sospirò rammaricata.
<< Che peccato che io sia arrivata con qualche minuto di ritardo dall’accaduto! >>
<< Beh, io scommetto che i coach finiscono a letto prima di una settimana >>
La risatina maliziosa di Luisa giunse ovattata alle orecchie di Muriel, Giasone e Livia si erano baciati? Si portò automaticamente le mani sulla bocca e scivolò lungo la parete, sentiva il cuore sparito dal petto, non poteva aver capito bene, non poteva, si stavano sbagliando.
Non aveva mai visto in quelle due settimane di allenamento nessun segnale che potesse far credere una cosa simile, ma dopotutto Livia e Giasone lasciavano la palestra insieme tutte le sere … Muriel soffocò a stento un singhiozzo e nascose la faccia sulle ginocchia.
<< Oh, ma tu guarda, era nella tasca del giubbotto >>
Il commentò di Maria giunse lontano, dalla porta.
<< Uffa Mary, mi hai fatto tornare indietro per nulla, sei … >>
Le loro voci si spensero in lontananza, Muriel asciugò frettolosamente gli occhi e si tirò in piedi, con mano tremante afferrò il phon e lo accese al massimo della potenza, in modo tale che i suoi singhiozzi si confondessero con quel rumore assordante.


__________________
Effe_95

Buongiorno a tutti.
Allora, per prima cosa devo dirvi che ultimamente le cose per me non stanno andando un granchè, sto affrontano un mucchio di problemi e dalla settimana prossima dovrò riprendere anche a studiare per la sessione autunnale, quindi vi chiedo scusa già da adesso se i prossimi capitoli saranno postati con incostanza, spero possiate capirmi.
Passando a questo capitolo, spero vi sia piaciuto.
Per l'ultima parte, quella su Giasone e Muriel, capisco perfettamente che possa risultare scioccante, ma ovviamente bisogna ancora vedere se Luisa e Maria hanno davvero visto bene ... 
E non aggiungo altro ;)
La parte di Enea e Beatrice, riporta chiaramente le battute originali di Romeo e Giulietta, le ho prese da una versione della Mondadori.
Grazie mille a tutti come sempre, sapere del vostro sostegno mi da la forza di andare avanti con questo progetto nonostante i miei problemi personali, alla prossima.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** Patatine, Sviste e Un passo alla volta. ***


I ragazzi della 5 A
 
22. Patatine, Sviste e Un passo alla volta.


Dicembre
 
<< Che schifo! Smettila dai, e dopo la bevi anche? >>
Aleksej sollevò distrattamente gli occhi dalla patatina fritta che aveva appena immerso nel suo bicchiere della coca-cola e li puntò su Miki, che lo fissava contrariata.
Erano usciti da scuola poche ore prima, avevano entrambi le cartelle sistemate tra le gambe sotto il tavolo, e nel pub dove si erano fermati a mangiare faceva eccessivamente caldo ed entrambi avevano le guance arrossate.
<< Certo che si! >> Si limitò a commentare Aleksej, masticando la patatina.
Miki aveva ancora metà del panino nel piatto, mentre il ragazzo aveva già divorato i  suoi ed era passato alle patatine fritte, che in realtà avrebbe dovuto dividere con Miki ma che ormai aveva quasi già finito tutto da solo.
<< Così ti sentirai male! E tra l’altro, mangiare così tanto ti farà ingrassare >>
Replicò Miki, per tutta risposta, Aleksej afferrò il bicchiere e ne prese una bella sorsata.
<< Ehi, guarda che peso appena settantacinque chili e sono altro un metro e ottantatre. Sono in perfetta forma! >> Aleksej le lanciò uno sguardo di sfida, aveva appena finito il piatto di patatine, incrociò le braccia al petto e la guardò con un sorriso strafottente, Miki riuscì a sostenere quello sguardo solamente per pochi secondi, poi scoppiò a ridere.
<< Quando si tratta di muscoli siete proprio vanitosi, vero? >>
Aleksej alzò gli occhi al cielo nel sentire quelle parole, gli scappò a sua volta un sorriso e non riuscì a fare a meno di pensare che Miki fosse davvero molto bella quando rideva.
<< Che fai, quello non lo mangi? >>
Le domandò, indicando il resto del suo panino, Miki lo guardò con aria scandalizzata.
<< Ma hai già mangiato due panini e un piatto di patatine! >> Aleksej fece spallucce.
<< E’ peccato gettare il cibo >> Affermò, afferrando il resto del panino di Miki, cinque minuti dopo l’aveva anche finito e chiamò il cameriere per farsi dare il conto.
<< Scommetto che vomiterai >>  Sbottò Miki ancora piccata una volta che ebbero lasciato il locale, con le cartelle alle spalle e i giubbotti ben chiusi per restare al caldo.
Lo shock termico era stato devastante.
<< Invece io scommetto che sverrai prima di stasera, hai mangiato solo metà panino! >>
Replicò a sua volta Aleksej, lottando furiosamente con la neve che era entrata nelle scarpe bagnandogli tutti i calzini. Miki incrociò le braccia al petto, intenzionata a replicare acidamente, ma tutto quello che riuscì a fare fu scoppiare a ridere.
Aleksej saltellava su un piede solo imprecando in russo e in greco antico, nel compiere quel gesto sconsiderato, andò a sbattere contro un cartellone pubblicitario appostato davanti ad un cinema dall’aria trascurata.
<< Andiamo a vedere un film? >>
La domanda di Aleksej arrivò inaspettata, la sua faccia esprimeva l’entusiasmo di chi aveva appena avuto un’illuminazione improvvisa. Miki smise di ridere e lo guardò accigliata, valutando se fosse serio o la neve nelle scarpe l’avesse in qualche modo fatto impazzire.
No, Aleksej le sorrideva entusiasta e sembrava serissimo.
<< Mi piacerebbe ma … e i compiti? La versione di latino per domani? Sono già le cinque >>
<< Io li ho già fatti tutti i compiti >> Replicò con noncuranza Aleksej, guardando interessato gli orari sul tabellone, Miki incrociò le braccia al petto stizzita.
<< Beh, io no! Devo ancora fare la versione … >>
<< Te la passo io >>
<< … e gli esercizi di matematica … >>
<< Ti passo anche quelli >>
<< … ah, e poi c’è la verifica di scienze della terra e non ho ripetuto nulla … >>
<< Ti passo io le risposte >>
<< … e ho l’interrogazione di inglese! >>
<< Ti suggerisco io da dietro, chiederò a Giasone di fare cambio posto solo per quell’ora >>
<< Insomma Aleksej! >>
Miki sbuffò infastidita, poggiando le mani chiuse a pugni sui fianchi, aveva un cipiglio nervoso, Aleksej si girò a guardarla come se non avesse sentito nulla.
<< Il prossimo spettacolo è alle 17:20 >> Replicò con tutta calma, indicando il tabellone degli orari con il pollice della mano destra, Miki avrebbe voluto tirarsi i capelli esasperata, ma sospirò rassegnata e fece un passo verso la porta d’entrata.
<< Stasera non dimenticarti di passarmi tutti i compiti da copiare >>
Aleksej sorrise di tutto cuore quando Miki lo precedette nel cinema, ma non si fece vedere.
Entrarono alle 17:15 ed uscirono alle 19:30.
Fuori era già buio da un pezzo e la città illuminata era caotica e vissuta.
<< Che razza di film mi hai fatto vedere Aleksej?! >>.
Miki era furiosa, aveva passato l’ultima mezz’ora del film a piangere disperatamente e a tirare sul con il naso, mentre Aleksej le passava distrattamente un fazzolettino e la scrutava accigliato, domandandosi perché si lasciasse condizionare così tanto.
<< Era un bel film, non puoi negarlo! E poi … lei è morta felice, no? >>
Stavano attraversando in quel momento l’unico ponte presente in tutta la città, che separava la parte vecchia dalla parte nuova, il piccolo fiume sottostante era silenzioso a causa della sottile lastra di ghiaccio che si era creata con il gelo. Miki si fermò di colpo e appoggiò la schiena sulla ringhiera, guardandolo con le braccia incrociate.
Stava nevicando nuovamente, non indossavano i cappelli e i fiocchi di neve si erano incastrati tra i capelli e sulle giacche, Aleksej le lanciò uno sguardo obliquo, scacciò un po’ di neve dalla strada e poi si appoggiò anche lui alla ringhiera, rivolto dalla parte del fiume.
<< Beh, questo non lo so >> Rispose Miki, scrutando il ponte deserto, illuminato dai lampioni << Più che altro, è lui che non capisco. Non ha versato nemmeno una lacrima, ecco … lui mi sembrava piuttosto felice per essere uno a cui è morta la ragazza! >>
Aleksej scosse la testa e si voltò verso Miki, la luce dei lampioni che riverberava negli occhi, giallo contro azzurro. << Non hai capito nulla di questo film! >> La rimbeccò il ragazzo, dandole un piccolo pizzicotto sul braccio << Lui non era felice, ovviamente, ma sorrideva perché aveva i ricordi, perché dopotutto sapeva che lei non sarebbe sparita del tutto >>
Miki rimase in silenzio per un po’, come persa nei suoi pensieri.
<< Vuoi dire che a te i ricordi basterebbero se io morissi? Se sparissi? >>
Aleksej lasciò improvvisamente la presa dalla ringhiera quando sentì quella domanda, non se l’aspettava e le mani gli scivolarono sul bordo, i guanti zuppi. Aleksej ripensò al fatto che lui e Miki avessero entrambi diciassette anni, erano prossimi ai diciotto, erano piccoli, non sapeva se quei sentimenti che provava sarebbero diventati più forti, se sarebbero durati.
Di ricordi, ne avevano da costruire insieme.
<< Sinceramente? Non lo so … ma sono piuttosto sicuro che mi farebbe abbastanza male >>
Aleksej la guardò negli occhi, afferrando nuovamente la ringhiera, Miki sentì un lungo brivido attraversarle la schiena e fu spinta da un impulso irrefrenabile, gli afferrò il viso tra le mani, i guanti che fregavano sulla pelle, e lo bació con trasporto.
Aleksej ricambiò immediatamente il bacio, stringendola inconsciamente tra le braccia.
Miki era davvero minuscola, passandole le braccia sulla schiena si rese conto che era esile e fragile, che avrebbe potuto spezzarla con un po’ di pressione eccessiva.
Era bello poterla toccare nuovamente, poterlo fare con libertà, un gesto spontaneo non dettato dalla rabbia o da alcun tipo di desiderio perverso.
<< Aleksej … >> Mormorò Miki quando si furono separati, ancora con il fiatone e stretta tra le sue braccia, i nasi che si sfioravano << … mi prometti che non bacerai nessun’altra? >>
Aleksej rise, con la neve tra i capelli, gli occhi luminosi e le lentiggini sul naso.
<< Ti prometto che non bacerò nessun’altra … se diventerai la mia ragazza >>
<< Perché, non ero già la tua ragazza? >>.
Sorrisero entrambi spontaneamente, nello stesso momento.
 
<< Cosa significa?! >>
Ivan aveva alzato talmente tanto la voce, che Giasone temette di aver perso totalmente l’udito. Alzò gli occhi al cielo, respirò profondamente per trovare la calma, e cercò disperatamente di non pensare al neurone perduto del suo migliore amico.
<< Potresti, cortesemente, evitare di urlare? A mia mamma non interessa, sai? >> Replicò acido il biondo, indicando con la testa la porta chiusa della sua stanza. Ivan fece un gesto non curante con le mani e incrociò le gambe, facendosi ancora più attento.
<< Ma cosa significa che credi abbiano pensato male? >> Giasone lanciò il pacchetto vuoto di patatine nel cestino della spazzatura e guardò con fare distratto le briciole che lui e Ivan avevano sparso sul tutto il tappeto.
<< Perché ridacchiavano. Sai, quelle risate isteriche delle ragazze, quei gridolini fastidiosi e imbarazzanti? Esattamente quelli! >>.
<< Ma come fai ad esserne sicuro? >>
Giasone alzò gli occhi al cielo nel sentire la domanda di Ivan, afferrò malamente il libro di storia e lo aprì a metà, senza controllare veramente che quella fosse la pagina giusta.
<< Ovviamente non ne sono sicuro, ma mi rendo conto che vista da fuori … la scena doveva essere piuttosto equivoca … che pagina era? >> Giasone sembrava distratto mentre pronunciava quelle parole, si guardava sul tappeto alla ricerca del diario, senza rendersi conto che si trovava nella cartella abbandonata sotto il letto. Ivan sbuffò, lo raggiunse per terra, gli strappò il libro da mano e aprì a pagina centoventicinque.
<< Tutto il capitolo? >> Domandò distrattamente Giasone, sbuffando.
<< Si … come mai la scena appariva equivoca? >> Insistette Ivan, rotolando sul tappeto morbido, nel compiere quel gesto, una briciola di patatina pericolosamente appuntita gli si attaccò al gomito, pizzicandolo. << Quindi stai dicendo che non vi siete baciati? >>
Giasone lo fulminò con lo sguardo, ma Ivan non se ne accorse, troppo impegnato ad ispezionare la pelle del braccio. << Ti ho già detto di no! >>.
<< E allora cosa ti fa pensare che quelle due abbiano capito male?! >> Sbottò infastidito Ivan, che non ne poteva più di cavare con la forza le parole dalla bocca dell’amico, Giasone afferrò con malagrazia un evidenziatore e strappò il tappo con la bocca.
<< Stavo mostrando uno schema di gioco a Livia, lei si è chinata per guardare e le si sono incastrati i capelli nella zip della mia felpa. E’ stato imbarazzante, eravamo talmente vicini che da lontano poteva sembrare proprio quello … e poi ti ho spiegato che quando le ho viste allontanarsi ridacchiavano >>. Spiegò finalmente Giasone, prendendo a sottolineare il primo rigo di paragrafo senza averlo nemmeno letto, Ivan si grattò il mento dubbioso.
 << Vorresti dirmi … che ti sarebbe dispiaciuto baciarla? >>.
<< No, Livia è carina ma … diciamo che ha altri gusti >>.
Giasone buttò giù la frase con noncuranza, continuando a tenere puntati gli occhi sul libro, Ivan aggrottò le sopracciglia e incrociò le braccia sul tappeto, reggendo tutto il peso del busto su quest’ultime. << Che significa che ha altri gusti? >>
Giasone sollevò lo sguardo e gli lanciò un’occhiataccia esplicita.
<< Oh … capisco >> Mormorò Ivan con improvvisa consapevolezza, poi tacque, evidentemente perso nei suoi pensieri, probabilmente nel tentativo di assimilare la notizia.
<< Me l’ha detto lei >> Commentò Giasone, sempre con lo sguardo basso << Una delle tante volte che abbiamo fatto la strada di casa insieme. >>.
<< Suppongo che le altre non lo sappiano >> Costatò Ivan, ancora pensieroso.
<< No, lei non vuole dirlo. Ha paura che possano giudicarla male >>
<< Posso capirlo >>. Ivan tacque, e i due rimasero in silenzio per un po’, il tempo sufficiente per permettere a Giasone di terminare la lettura dei primi quattro paragrafi sulla Prima Guerra Mondiale. << Spero solo non lo abbiano spifferato in giro. Sarebbe un disastro se raccontassero qualcosa … è sempre difficile dover smentire una balla. >>
Ivan sussultò quando sentì le parole dell’amico, il silenzio era stato così lungo che si era assopito sul tappeto, perso nei suoi pensieri e senza la minima voglia di studiare nulla.
Giasone sembrava concentrato e distratto, ma Ivan si accorse della piccola ruga che gli increspava le sopracciglia minacciosa.
<< Dimmi Gias, c’è qualcuno in particolare che vorresti non sentisse questa cosa? >> Buttò lì Ivan con la voce strascicata dal sonno, aveva il viso sepolto tra le braccia, Giasone era convinto che non potesse vederlo in faccia, ma in realtà Ivan lo stava osservando benissimo.
Nella mente di Giasone comparve il sorriso contagioso di Muriel, ma lo scacciò via.
Era fuori di testa a pensare a lei in quel momento.
<< No >> Replicò vago.
Ivan sorrise.
 
Catena era imbarazzata da morire e aveva il cuore in gola.
Erano le quattro del pomeriggio, si trovava a casa sua inginocchiata sul letto insieme ad Oscar, mentre si guardavano negli occhi e lui le stringeva le mani.
<< E’ un po’ come andare a mare sai? >> Nella voce di Oscar Catena percepì una certa tensione, sembrava imbarazzato quasi quanto lei. << Solo che … invece del costume, indossi l’intimo. Ecco, immagina che io ti veda in costume >>. Oscar sorrise incoraggiante, felice di aver trovato un argomento valido perché Catena decidesse di lasciarsi spogliare, ma la ragazza arrossì ancora di più e fece un passetto all’indietro.
In realtà Catena non riusciva a spiegarsi come fossero finiti in quella situazione, aveva proposto ad Oscar di salire da lei perché solitamente a quell’ora sua madre era in casa, ma quel giorno avevano trovato un bigliettino in cucina che annunciava il suo rientro a tarda ora. Catena si vergognava da morire, e non sapeva minimamente se fosse davvero pronta, stavano insieme da pochi mesi, si rendeva perfettamente conto che era presto, davvero troppo presto, ma evidentemente Oscar non la pensava come lei.
<< Ma non mi vedrai solamente in costume! >> Mormorò Catena arrossendo fino alla punta dei capelli, la pelle pallida del viso faceva un terribile contrasto con quel rossore evidente.
Oscar sospirò pesantemente, imbarazzato ed impacciato, e fece un passetto verso di lei, stringendole più forte le mani, come se volesse darle coraggio.
<< Sono sicuro che non avrò nulla da obbiettare. Non devi vergognarti! >>
<< E invece mi vergogno eccome! >>
All’obbiezione immediata di Catena rimasero in silenzio entrambi, rossi in viso, senza guardarsi negli occhi. Dopo minuti interminabili, Oscar trovò il coraggio di parlare ancora.
<< Sei davvero così spaventata dall’idea? >> Catena respirò profondamente e trovò il coraggio di guardarlo nuovamente negli occhi, stringendogli a sua volta le mani, perché non voleva in alcun modo che Oscar lo percepisse come un rifiuto, ma solamente come un’ insicurezza. << E’ … è che io non so cosa aspettarmi! >> Confessò avvilita << Tu si? >>
Ad Oscar sembrò che qualcuno gli avesse prosciugato tutta l’aria dai polmoni quando Catena gli porse quella domanda, leggeva l’ansia crescente nei suoi occhi e si sentiva terribilmente in colpa per la sua insensibilità.
Avrebbe dovuto rendersi conto che per Catena sarebbe stata la prima volta, non avrebbe dovuto insistere così tanto, ma dirle che per lui era diverso, sarebbe stato ancora più difficile. << Ascolta, mi dispiace … non avrei dovuto insistere. Ti chiedo scusa >>
Si affrettò a commentare, nel disperato tentativo di troncare immediatamente lì la conversazione, era arrivato il momento di lanciare uno sguardo all’orologio e fingere che fosse tardi, ma Catena gli bloccò il polso prima che potesse farlo.
<< Ehi, aspetta Oscar! Non … non sto dicendo che non sarà mai possibile, ho solo … ho solo bisogno di un po’ di tempo >> Oscar si sentì in colpa nel sentire quelle parole, per la fretta di averla, aveva dimenticato quanto sarebbe stato più bello se avesse avuto la pazienza di aspettare. << Lo so … >> Sospirò accarezzandole una guancia.<< Ora devo andare >>.
Fece per scendere dal letto, ma Catena gli strattonò nuovamente la manica della giacca trattenendolo.
<< Perché stai scappando? >> Oscar si afflosciò come se qualcuno l’avesse tramortito.
<< Non sto scappando >> Si affrettò a rispondere, Catena gli prese nuovamente le mani e sorrise tristemente, cercando in tutti i modi di guardarlo negli occhi.
<< Davvero? >> Oscar detestò quel sorriso gentile e triste di Catena, avrebbe preferito che lei gli desse del bugiardo, piuttosto che sopportare la delusione che vi leggeva.
<< Si, va bene?! Certo che so già cosa aspettarmi! E adesso ti senti meglio? Adesso ti senti realizzata? Sono già andato a letto con Giulia, ovvio! >>
Oscar imprecò mentalmente dopo essersi lasciato andare a quell’attacco d’ira, non era colpa di Catena, si sentiva in colpa perché non riusciva a parlarle, a dirle tutto quello che sentiva.
Non l’avrebbe biasimata se l’avesse lasciato, era stato davvero uno stronzo.
<< Mi hai detto il suo nome, è già un passo avanti no? >> Oscar sollevò la testa di scatto, Catena lo stava guardando ancora con quel sorriso triste, tremava, le mani tremavano, fu scossa da un singhiozzo e si coprì il viso.
Oscar scattò immediatamente, la prese tra le braccia e la strinse forte.
<< Mi dispiace, mi dispiace, ti giuro … giuro che ci proverò davvero, io … >>
Catena lo zittì con un bacio, sarebbe stato stupido dire che quelle parole non erano state come una stilettata al cuore, ma si sentiva ancora troppo fragile per poter affrontare quelle emozioni. Avrebbero fatto un passo alla volta.
Un passo alla volta.
 

_____________________
Effe_95 

Buonasera a tutti.
Mi sembra quasi un miracolo essere riuscita a postare.
Purtroppo, i miei problemi sono ben lungi dall'essere risolti, quindi vi chiedo ancora un po' di pazienza per gli aggiornamenti irregolari e per i ritardi.
Per quanto riguarda il capitolo, spero vi sia piaciuto.
Nella prima parte, quando Miki e Aleksej parlano del film, la trama vagamente accennata è di mia invenzione, non mi sono ispirata a nulla. 
Quindi il film non esiste davvero.
Siete contenti di Giasone? xD 
Ecco, io sapevo fin dall'inizio di Livia, ma ovviamente non potevo dirvelo, spero che la sorresa vi abbia ... sorpreso xD 
Per l'ultima parte lascio commentare a voi.
Prometto che risponderò alle voltre recensioni il prima possibile.
Grazie mille a tutti per il sostegno come sempre.
Alla prossima spero.


 

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** Calzamaglie, Sala Studio e Catena di sicurezza. ***


I ragazzi della 5 A
 

23. Calzamaglie, Sala Studio e Catena di sicurezza.


Dicembre
 
Enea detestava cantare.
Non perché fosse stonato, Oscar gli aveva detto che se la cavava piuttosto bene, ma perché sforzava talmente tanto le corde vocali, che tornava sempre a casa con un forte mal di gola.
Con l’avvicinarsi di Gennaio e la pausa delle feste natalizie sempre più vicina, Alessandro Romano aveva prolungato gli incontri di un’ora, li faceva cantare in continuazione ed Enea non ne poteva davvero più.
Lo spettacolo era previsto per il 10 Gennaio, sempre più vicino.
Enea ormai conosceva gli attacchi delle battute a memoria, le canzoni le aveva imparate tutte ed anche i movimenti, a volte si immedesimava talmente tanto che dimenticava di trovarsi su un palco, era fiducioso, lo spettacolo sarebbe andato bene.
<< Va bene ragazzi !>> La voce allegra del professore lo scosse dai suoi pensieri, Alessandro era appena entrato nel teatro portando tra le braccia tre grossi scatoloni che oscillavano pericolosamente. Lisandro e Ivan si affrettarono a dargli una mano, tossendo entrambi per la polvere che incrostava i cartoni, Enea sentiva l’odore di muffa da metri di distanza.
<< Cosa c’è in quegli scatoli? >> Domandò prontamente Fiorenza, quando i tre li ebbero poggiati sul tavolo più vicino, il professore rivolse un sorriso gioviale a tutti e aprendo velocemente uno dei cartoni, ne estrasse un bellissimo vestito rosa in stile seicentesco.
<< Sono i vostri costumi! Me li hanno prestati da un vecchio teatro dove ho recitato qualche anno fa. >> Spiegò allegramente l’uomo, passando il vestito a Beatrice, la ragazza storse il naso quando sentì l’odore di muffa che impregnava la stoffa. << Ecco … questi sono tuoi >> Borbottò il giovane professore, mentre cercava con una certa fatica di tirare fuori dallo scatolone un vecchio paio di calzamaglie azzurre.
<< Queste? >> Domandò Enea pallido in volto, Ivan, Lisandro, Romeo e Igor non erano messi molto meglio di lui, anche loro ricevettero una calzamaglia di colore diverso.
<< Si lo so, bisognerà apportarvi alcune modifiche, ma una mia amica sarta si è offerta di aggiustarli gratis. >> Commentò allegramente il professore, osservando con un sorriso felice stampato sulle labbra tutti gli oggetti scenografici che era riuscito a farsi prestare.
<< Il rosso non mi sta affatto bene >> Brontolò Ivan osservando le sue calzamaglie sia avanti che dietro, come se una posizione differente avesse potuto migliorarle.
<< Suppongo sia rossa perché sei un Capuleti. >> Commentò distrattamente Lisandro, osservando con fare perplesso un grosso buco proprio sul cavallo delle calze. << Quella di Enea è azzurra perché è un Montecchi >>. Enea sentiva uno strano sapore amaro in bocca, indossare quella roba avrebbe sicuramente danneggiato la sua reputazione.
<< Coraggio, su! >> Li richiamò il professore, era salito sul palco e batteva sonoramente le mani per attirare la loro attenzione << Oggi ripeteremo solo alcune scene, vorrei cominciare con quella del matrimonio >>. Nel sentire quelle parole, tutti salirono frettolosamente sul palco e presero le posizioni stabilite, Alessandro si posizionò dietro la console della musica e appena ebbe caricato il cd fece cenno di cominciare.
Provarono incessantemente per tutte le tre ore di fila, Enea aveva la gola in fiamme, non aveva mai parlato così tanto in tutta la sua vita.
<< Va bene ragazzi, per oggi basta così. Ci vediamo la settimana prossima, viene anche la mia amica sarta per i vestiti! >> Annunciò allegramente Alessandro, mentre infilava la giacca e lasciava velocemente il teatro, correndo come sempre per la fretta.
Enea si passò distrattamente una mano dietro il collo, era un po’ stanco, e quella sera non se la sentiva di andare in palestra, inoltre doveva ancora finire la relazione di fisica.
Aveva appena finito di chiudere la cartella quando qualcuno gli picchiò sulla spalla, si voltò e incrociò gli occhi nocciola di Lisandro, l’amico gli stava porgendo una bottiglietta d’acqua fresca. << Ho pensato che dovesse farti male la gola dopo tutto quel parlare e cantare >>. Commentò distrattamente il ragazzo, infilandosi in testa il suo solito cappello e nascondendo i corti capelli castani, quasi completamente rasati, sotto quest’ultimo.
Sotto la luce sbiadita dei lampadari giganteschi del teatro, il viso di Lisandro sembrava ancora più fine, le lentiggini sbiadite si distinguevano appena.
<< Grazie >> Si limitò a commentare Enea, prendendo la bottiglietta, ne svuotò metà in un solo sorso. << Senti … >> Lisandro si girò a guardarlo con aria curiosa quando lo sentì pronunciate quella parole e poi interrompersi << … la scena con Beatrice … sembravi piuttosto coinvolto >> Enea continuò la frase con finta nonchalance, infilando la cartella a tracolla e chiudendo il tappo della bottiglietta. Lisandro sgranò gli occhi, spostò velocemente lo sguardo, infilò le mani nelle tasche dei jeans e prese a giocare distrattamente con i lacci sciolti delle sue stesse scarpe.
<< Beh si, dopotutto Paride è innamorato di Giulietta. Devo essere credibile >>.
Commentò un po’ imbarazzato Lisandro, sempre con lo sguardo basso.
<< Ehi Lisa se … se fosse altro me lo diresti, vero? >> La domanda di Enea non era stata del tutto chiara, ma Lisandro l’aveva capita benissimo. Osservava Enea e Beatrice da quando era cominciata la scuola ed erano capitati malauguratamente seduti l’uno accanto all’altra, conosceva l’amico da anni, ed era piuttosto sicuro che si fosse preso una bella sbandata senza nemmeno rendersene conto.
Senza accettarlo.
<< Certo … >>
Non c’era molta convinzione nella voce di Lisandro, ancora perso nei suoi pensieri, ma Enea non ebbe modo di approfondire l’argomento, perché le ragazze uscirono proprio in quel momento da dietro le quinte, ridendo e parlando.
<< Potevate anche darci una mano a sistemare i vestiti negli scatoloni! >> .
Lo rimproverò immediatamente Beatrice, non appena lei e le altre si fecero un po’ più vicine, Enea si rese conto che lui e Lisandro erano gli unici ragazzi rimasti ancora in teatro.
<< Senti un po’, ma voi donne non vi siete tanto battute per l’emancipazione? >>.
La rimbeccò immediatamente lui, lanciandole uno sguardo di sfida accompagnato da un sorriso sghembo e beffardo. Beatrice avvampò indignata, seguita subito da Catena e Italia.
<< E voi maschi non vi vantate tanto dei vostri muscoli? >> Replicò la ragazza piccata. << Ci sono due scatoloni da mettere sugli scaffali, vai a farlo tu! >>
Enea scoppiò a ridere e alzò le mani al cielo.
<< Se me lo chiedi così gentilmente mi viene il diabete >> La canzonò, Beatrice continuò a fissarlo male, con un cipiglio severo tra gli occhi. << E va bene vado, non fissarmi così. Ci sentiamo più tardi Lisa >> Lisandro guardò prima lui e poi Beatrice con aria preoccupata, poi fece un breve saluto e se ne andò con passo strascicato, le mani ancora nelle tasche.
<< Andante avanti voi ragazze, controllo che lo faccia davvero e poi vi raggiungo >>.
Nel sentire quelle parole, Italia e Catena si voltarono a guardare Beatrice con aria preoccupata, un po’ titubanti.
<< Sei sicura? >> Domandò Italia, Beatrice annuì risoluta, mantenendo lo sguardo di Enea, le mani chiuse a pugno sui fianchi. Ancora titubanti, Italia e Catena non replicarono più nulla e lasciarono a loro volta il teatro.
<< Allora? >> Lo esortò sbrigativamente Beatrice << Muoviti che voglio tornare a casa >>.
Enea ridacchiò con fare stizzito, si tolse la cartella a tracolla e la adagiò su una sedia con accanto la bottiglietta d’acqua semivuota. << Agli ordini, sua maestà >>. La prese in giro facendole un piccolo inchino, Beatrice sbuffò imbestialita e lo precedette dietro le quinte.
Quando Enea la raggiunse ancora ridacchiando, trovò il lungo corridoio polveroso illuminato dalle fioche luci, Beatrice lo aspettava accanto ai due scatoloni.
<< Sono quei due? >> Domandò avvicinandosi, lei si limitò ad annuire bruscamente.
<< Devi metterli lì sopra >> Brontolò, indicando lo scaffale più alto.
<< Ehi, non sono alto mica due metri! A meno che tu non abbia una scala, credo che questi vecchi scatoloni polverosi se ne staranno qui ancora per un po’, non ho ancora imparato ad allungarmi a piacimento >>. La rimbeccò lui, incrociando le braccia al petto, Beatrice spostò leggermente lo sguardo e arrossì, Enea rimase incredulo, non poteva credere che una persona pignola come lei avesse davvero dimenticato che non avevano una scala in teatro.
<< V- vorrà dire che li metterà qualcun altro >> Balbettò lei in imbarazzo, spostandosi imbarazzati alcuni capelli ricci dalla faccia, gli occhi grigi posati su un angolo del pavimento, Enea incrociò le braccia al petto e le sbarrò la strada per l’uscita.
<< Quindi mi hai fatto perdere tempo per nulla, eh? Tutti quei rimproveri inutili! >>.
Beatrice gli lanciò un’occhiataccia quando sentì il tono ironico impregnargli la voce, in quel momento si pentì immensamente di trovarsi con lui, bloccata in quel corridoio deserto dove non avrebbe avuto via di fuga da ciò che provava.
Avrebbe dovuto ricordarsi dell’assenza della scala, era stata stupida.
Enea la osservava appoggiato alla parete, sembrava terribilmente rilassato, eppure Beatrice sapeva benissimo che se avesse anche solo provato a scattare verso l’uscita, lui l’avrebbe bloccata mostrando riflessi perfetti. Le labbra carnose erano piegate in un sorriso di scherno, sollevate sul lato sinistro creando una piccola fossetta sulla guancia spigolosa, il ciuffo castano-dorato ricadeva leggermente sulla fronte, il piumino nero gli fasciava le braccia allenate e robuste, ma erano gli occhi che Beatrice non riusciva a guardare.
<< Mi lasci passare … oppure dobbiamo restare qui tutta la notte? >>
Si decise infine ad affrontarlo, Enea sciolse le mani e le fece un gesto per farla passare.
<< Nessuno ti sta bloccando qui dietro, Beatrice >> La provocò lui.
<< Vuoi forse dirmi che mi lasceresti passare? >> Sbottò lei con una postura rigida, le braccia incrociare al petto, lo sguardo severo.
<< Perché … vorresti che non lo facessi? Dimmi un po’ Beatrice, sei preoccupata che possa baciarti davvero mentre recitiamo? >> Enea ridacchiò << Andiamo, lo so che non vedi l’ora che succeda >>. Beatrice si infiammò di colpo quando sentì quelle parole, liberò le braccia e lo spintonò, era livida e non gli avrebbe permesso di divertirsi con lei.
<< Non ti bacerei nemmeno se fossi l’ultimo uomo sulla faccia della terra! >>
Sputò carica di veleno continuando a spintonarlo, per un momento Enea rimase sorpreso, incassando un colpo dietro l’altro, poi fu assalito anche lui dalla collera.
<< Ah no? Vedremo! >>.
L’afferrò bruscamente per i capelli e posò le labbra su quelle di lei, Beatrice sussultò scandalizzata, ma la stretta di Enea era salda e forte, la premeva contro la parete e faceva pressione perché schiudesse le labbra, trasformando quel bacio in un uragano travolgente.
Beatrice aveva il cervello fuso, senza rendersene conto si rilassò tra le braccia di Enea, che le lasciò andare i polsi per stringerla meglio, lei gli adagiò le braccia attorno al collo e si raddrizzò per continuare a baciarlo, poi tornò bruscamente alla realtà.
Spalancò gli occhi, gli mollò un calcio nell' inguine ed Enea si staccò bruscamente imprecando.
<< D- deficiente! >> Gridò lei sconvolta, portandosi una mano sulle labbra ancora arrossate, indietreggiò e poi fuggì via.
<< Ehi! >> Il richiamo di Enea la raggiunse come una eco.
 
Ivan stava tentando di studiare, quando qualcuno gli appoggiò un bicchiere di cioccolata calda fumante proprio sulla pagina del quaderno con gli appunti di letteratura italiana.
Immediatamente dopo, insieme alla cioccolata calda comparve anche una barretta di cereali.
Il ragazzo alzò lo sguardo e incrociò gli occhi scuri e profondi di Italia.
Lei lo fissava dall’altro capo del tavolo, i capelli ramati erano sciolti sulle spalle, leggermente mossi sulle punte, i grossi occhiali neri le incorniciavano metà del viso.
<< Era da un po’ che ti osservavo dal mio tavolo … >> Commentò lei, indicando il luogo dove si trovava fino a poco tempo prima in compagnia di Catena, che in quel momento se ne stava con la faccia seppellita nel librone di filosofia. << … e ho visto che non facevi altro che sbuffare e strizzarti i capelli con le mani. Quando sono stressata, o non capisco qualcosa, prendo una cioccolata calda e mangio una barretta di cereali. Mi rilassa, ho pensato che potesse andar bene anche per te >>. Spiegò lei a bassa voce per non turbare la quiete della Sala Studio, dove altri studenti cercavano, chi inutilmente, chi con successo, di studiare.
Ivan la guardò ancora per qualche secondo, sperando vivamente di non avere la bocca aperta come un demente, e che quel maledetto brufolo che gli era spuntato a tradimento sulla fronte si notasse il meno possibile, anche se aveva l’impressione che la luce al neon lo illuminasse come un cartello segnaletico con mille frecce puntate contro.
<< Oh, g-grazie … è un pensiero gentile da parte tua >> Cercò di essere il più disinvolto possibile, abbozzando alla fine della frase un sorriso stiracchiato, il cuore di Italia balzò freneticamente nel petto quando vide comparire le fossette.
<< Io e Catena veniamo spesso il venerdì a studiare in Sala Studio, ma non ti ho mai visto prima >> Il commento di Italia fece sobbalzare Ivan, che cominciò a tossicchiare senza controllo, lei lo guardò con fare preoccupato, mettendosi seduta accanto a lui.
Quel giorno di turno c’era il professor Francesco Scotti, era uno dei più amati del liceo, nonostante insegnasse matematica e fisica, le materie più detestabili, la 5° A non aveva avuto il piacere di averlo come insegnate, ma Italia e Ivan sapevano che era lo zio di Aleskej e il papà di Katerina e Jurij, i gemelli dai capelli biondissimi che chiamano “gocce d’acqua”.
Era un professore tranquillo, ma Italia non voleva sfidare la sorte, e continuare a stare in piedi significava attirare eccessiva attenzione, ma quel gesto fece arrossire Ivan.
<< N- on … >> Cominciò a biascicare, mentre riprendeva lentamente possesso delle vie respiratorie << Di solito non vengo … ma oggi avevo bisogno di concentrazione … >>
E volevo vederti a tutti i costi.
Ivan terminò di formulare la frase nella sua testa, Italia gli regalò un piccolo sorriso e indicò la cioccolata calda. << Se non la bevi si fredda >>. Ivan annuì vigorosamente e afferrò il bicchiere di plastica con troppo zelo, si scottò tutte le mani e fece traboccare un po’ di cioccolata oltre il bordo, dritto sulla manica arrotolata della maglietta rossa.
<< Dannazione! >> Borbottò tra i denti, Italia scoppiò a ridere vedendolo così impacciato.
<< Aspetta, non agitarti >> Gli passò immediatamente un pacchetto di fazzolettini preso dalla tasca del piumino che portava a causa del freddo, e Ivan lo prese rosso in viso e imbarazzato. Era proprio da lui imbrattarsi la maglietta di cioccolata come un bambino.
Si pulì velocemente la mano e prese a passare con zelo il pezzo di carta sulla macchia della manica, allargandola in maniera davvero imbarazzante.
Italia fermò quel movimento frenetico appoggiando una delle sue piccola mani delicate su quella grossa e ruvida del ragazzo, Ivan percepì un brivido risalirgli lungo tutta la schiena fino all’altezza del cuore, che batteva con una certa violenza minacciando di uscire dal petto. << V- vuoi venire a pranzare da me, domani? >> La domanda di Italia lo colse così alla sprovvista che il fazzolettino rattrappito e sporco gli cadde di mano finendo per terra.
Italia aveva le guance leggermente arrossate e puntava lo sguardo ovunque tranne che su di lui, le mani si contorcevano, appoggiate sui jeans stretti e scoloriti.
<< S- si, va bene >> Rispose Ivan, deglutendo rumorosamente, era passato parecchio tempo dall’ultima volta che era stato lui ad invitarla.
<< Per … per ricambiare l’altra volta >> Balbettò lei, irrequieta sulla sedia.
<< Con piacere … a che ora? >> Domandò lui con gli occhi sgranati.
<< Vieni alla mezza >>.
<< Va bene >>.
E non appena ebbe sentito la conferma, Italia scattò in piedi e tornò al suo tavolo.
Ivan guardò la cioccolata e la barretta di cereali con il cuore in subbuglio, era sicuro che non sarebbe più riuscito a studiare Leopardi, e nemmeno a dormire quella notte.
 
Catena aveva osservato la scena di sottecchi dal suo tavolo.
Era seriamente intenzionata a studiare Kierkegaard, ma era anche preoccupata per la sua migliore amica, perché Italia era innamorata di Ivan e avrebbe dovuto dirglielo.
Quando la vide avanzare verso di lei rossa in viso e con i pollici alzati, le scappò un sorriso sincero e sperò che l’indomani andasse tutto bene.
Italia si affrettò a raggiungerla e prendere un astuccio colorato dalla borsa.
<< Vado un attimo in bagno … meglio evitare il mar rosso in agguato >>.
 Aveva gli occhi luccicanti quando le comunicò la sua urgenza, sembrava allegra e raggiunse la porta baldanzosa, probabilmente senza nemmeno accorgersene.
Catena scosse la testa, ancora sorridendo, e tornò a concentrarsi.
Era immersa nella lettura da qualche minuto quando qualcuno le posizionò un cupcake sgargiante sotto il naso. Guardò il dolce con le sopracciglia contratte, aveva un’intensa glassa rossa e tante stelle colorate di bianco e giallo sopra, era un po’ ammaccato ai lati, c’erano due piccoli solchi che mostravano chiaramente la pressione esercitata da due polpastrelli.
Sollevò lo sguardo e incrociò gli occhi da cerbiatto di Oscar, che si era seduto di fronte a lei e la fissava. Indossava il piumino nero, leggermente sbottonato sul maglione blu notte, e se ne stava curvo sulla sedia come un vecchio. << E questo? >> Domandò lei, con voce flebile.
<< E’ per farmi perdonare … più o meno >>. Mormorò lui moscio sulla sedia, con lo sguardo perso sul libro di filosofia, senza guardarlo realmente.
Catena sospirò pesantemente e allungò una mano nel tentativo di prendere quella del ragazzo, solo che Oscar era troppo lontano e si rifiutò di aiutarla, quasi come se volesse punirsi, privandosi del contatto fisico con lei.
<< Ne abbiamo già parlato Oscar, ho detto che non fa nulla. Ti ho già … >>
<< Lo so >> La interruppe lui sollevando lo sguardo, aveva gli occhi gonfi e pieni di sonno arretrato << Solo che non posso smettere di pensare quanto sia stato disgustoso con te! >> Sbottò massaggiandosi gli occhi, Catena provò un moto d’affetto nel petto quando lo vide compiere quel gesto.
<< Non hai dormito stanotte? >>
<< No … ho avuto un incubo >>
Si guardarono ancora una volta negli occhi, quelli di Oscar arrossati.
<< Non lo farò mai più … aspetterò che sia tu a dirmi quando sei pronta. Aspetterò anche tutta la vita se vorrai >>. Catena resse il suo sguardo, si sentiva stranamente tranquilla.
<< Lo so >> Replicò con voce calma << E so anche che non sei il tipo da dire quelle cose >>.
Fu Oscar ad abbassare ancora una volta lo sguardo, ma lei lo pungolò con la matita richiamando nuovamente la sua attenzione. << Per questo ti ho perdonato >>.
Prese tra le mani il cupcake e cercò in qualche modo di tagliarlo a metà, spalmando un po’ di glassa sulla carta che lo avvolgeva.
<< Dividiamo il cupcake? >> Gli porse l’altra metà sorridendo, Oscar sospirò rassegnato e prese la sua metà, sorridendo mestamente.
<< Sei troppo buona con me, non ti merito >>
<< Lo so … ma non posso lasciarti andare, io sono la tua catena di sicurezza, e reggerò finché me lo permetterai. >>
E poi ti amo.
Catena quel pensiero se lo tenne per se, pensando che dopotutto fosse troppo presto per lui, Oscar continuava a guardarla intensamente, con la sua metà di cupcake ancora integra, poi si sciolse in un sorriso bonario.
<< Cerca di reggere tutta la vita allora >>.
 
 
____________________
Effe_95 

Buonasera a tutti.
Spero di non aver pubblicato troppo tardi anche questo capitolo, chiedo scusa in tal caso.
Allora, la prima parte del capitolo è stata difficile da scrivere, ma ricordo di aver accennato ad alcune di voi che tra Enea e Beatrice avrebbero presto avuto una svolta improvvisa.
Beh, spero che vi sia piaciuta :)
Per la parte di Italia ed Ivan, in realtà sono io quella fissata con la cioccolata e le barrette di cereale, e ho passato questa mia passione (?) anche ad Italia. E' vero che è rilassante, ma poi mi lamento sempre dei chili di troppo, se questo non è piangere sul latte versato xD
Spero che nell'ultima parte Oscar si sia fatto un po' perdonare, e finalmente vi ho svelato perché ho deciso di chimare Catena proprio così.
Grazie mille come sempre per l'appoggio.
Alla prossima spero, risponderò alle vostre fantastiche recensioni il prima possibile.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** Dolci, Pivelli e Non è Giulietta ***


I ragazzi della 5 A
 

24. Dolci, Pivelli e Non è Giulietta.


Dicembre
 
Ivan stava sudando vergognosamente.
Indossava un pullover blu elettrico sotto la giacca di pelle aperta, non aveva la canottiera e non indossava né guanti né sciarpe o cappelli, eppure stava sudando come se non ci fosse un domani. Si passò distrattamente una mano tra i capelli neri come la pece assolutamente scombinati, e imprecò mentalmente contro il brufolo gigantesco e rosso come il fuoco che non aveva voluto saperne di sparire nemmeno con un quintale di gentamicina.
Infilò le chiavi del motorino nella tasca della giacca, si passò le mani sudate sul jeans, respirò profondamente e poi suonò il campanello.
Dovette aspettare solamente pochi secondi prima di sentire dei passi felpati lungo il pavimento e qualcuno armeggiare con il pomello per aprire la porta.
Ivan rimase piuttosto interdetto quando si ritrovò davanti una bambina di massimo undici anni, era magra e minuta, aveva lunghi capelli ramati legati in una disordinata coda di cavallo un po’ storta sulla nuca, e intensi occhi neri contornati da un paio di occhiali rossi a forma di gatto. Indossava un vestito grigio piuttosto grazioso, con dei pantacollant neri e un paio di ciabatte a forma di leone. Non appena individuò il ragazzo, fece un largo sorriso mostrando due denti bianchissimi, grandi e quadrati, piuttosto simili a quelli di un castoro.
<< Tu devi essere Ivan, vero? Ti stavamo aspettando!  Io sono Eleonora >>.
La bambina aveva una voce squillante e allegra, saltellò amabilmente, e afferrandolo per un braccio, con una confidenza che fece arrossire terribilmente Ivan, lo trascinò dentro casa chiudendo la porta con la punta del piede foderato di ciabatta.
<< P- piacere >> Balbettò Ivan torturandosi le mani.
Lui ed Eleonora si trovarono immediatamente nel salotto, un ambiente sobrio e ordinato, molto più ordinato di quanto Ivan si aspettasse, sua madre non era proprio il massimo nelle faccende di casa.
<< Sei piuttosto timido, vero? >> Eleonora lo scrutava con un sorrisetto furbo, appoggiata con le braccia incrociate sul bordo di uno dei due divani bianchi che tagliavano in due la stanza. Ivan arrossì ancora di più, aprì la bocca per dire qualcosa ma Italia arrivò in suo aiuto. << Eleonora! Non importunare Ivan, ti avevo detto di farlo venire in cucina! >>
Italia era entrata nel salotto come una furia, a differenza della sorella aveva i capelli sciolti sulle spalle, portava gli occhiali neri e indossava una camicetta accompagnata da un cardigan e dei jeans scuri, Ivan la trovò bellissima.
<< Uffa, e va bene, va bene >> Cantilenò Eleonora, fiondandosi lungo un corridoio semibuio, Italia lanciò uno sguardo esasperato ad Ivan e sospirò. << Ti chiedo scusa, mia sorella ha un carattere piuttosto esuberante. >> Incrociò le braccia al petto e gli fece un sorriso.
 << Benvenuto >>.
Ivan si sciolse completamente di fronte a quelle fossette, i denti candidi e gli occhi gentili.
<< Grazie mille per l’invito >> Si ritrovò a rispondere.
Italia lo prese per mano e lo condusse per il corridoio fino alla cucina.
Era l’ambiente più caotico, caldo e accogliente che Ivan avesse mai visto, le pareti erano tinteggiate di giallo ocra, i mobili rustici gli conferivano un’aria passata e fantastica, un po’ come se fosse spuntata direttamente da qualche favola della Foresta Incantata.
Era un posto vissuto, le pareti piene di mensole con ricette, taccuini appesi, strumenti per cucinare e tantissime altre cose che Ivan non sapeva nemmeno riconoscere.
Una volta che ebbe scannerizzato per bene tutta la stanza, i suoi occhi si soffermarono su una donna, una donna bassa e cicciottella fasciata da un grembiule imbrattato di cibo.
<< Oh >> Fece allegra la donna non appena Ivan e Italia spuntarono dalla porta, Eleonora se ne stava seduta su una sedia e addentava voracemente una pagnotta. << Benvenuto caro! >>.
La signora si aprì in un sorriso tutto denti nei confronti di Ivan, che arrossì fino alla punta dei capelli. << Lei è mia mamma >> Spiegò Italia indicandola.
<< E’- è un piacere conoscerla signora >> Balbettò distrattamente Ivan, spostando gli occhi un po’ dappertutto tranne che su di lei, era troppo imbarazzato.
<< Puoi chiamarmi Marisa, dammi del tu! >> La donna gli rivolse un altro sorriso, poi venne improvvisamente distratta dal timer del forno, che annunciava la fine della cottura. Marisa aprì velocemente lo sportello e tirò fuori un enorme vassoio pieno zeppo di biscotti dall’aspetto delizioso. << Noi abbiamo una pasticceria >> Cominciò a spiegare Italia << E ogni tanto la mamma si porta del lavoro a casa, papà è al negozio >>.
Ivan guardò con occhi ammirati il minuzioso lavoro di farcitura che stava compiendo Marisa, sentendosi osservata, la donna sollevò lo sguardo sul ragazzo e sorrise ancora una volta, poi spalancò gli occhi e si portò una mano sporca di cioccolato sulla bocca.
Ivan trasalì, pensò di aver fatto qualcosa di sbagliato.
<< Ma sei ancora con il cappotto addosso?! Italia, non gli hai nemmeno fatto togliere il giubbino?! >> Esclamò la donna con calore, Ivan sentì il sangue defluirgli magicamente dal cervello, il battito cardiaco tornare ad un livello più o meno accettabile.
Era il cappotto, solo il cappotto.
<< Oh, hai ragione! Ma … cos’hai in quella busta? >>
Italia aveva allungato le braccia per afferrare il cappotto del ragazzo, ma si bloccò non appena notò una busta bianca che per tutto il tempo Ivan aveva portato a braccetto senza nemmeno ricordarsene, troppo terrorizzato dall’idea di fare brutta figura.
Ivan ricordò improvvisamente il contenuto della busta e si sentì morire dalla vergogna.
<< E’ … è un dolce … ecco, l’ha fatto mia mamma. Non è bravissima e io … io non sapevo che voi … insomma … >>. Ivan si maledisse interiormente, chiedendosi perché dovesse cominciare a balbettare proprio in quel momento, portando il rossore ad un livello quasi di ebollizione. Marisa batté le mani entusiasta e gli prese la busta dalle mani, scartando velocemente l’involucro.
<< Oh, una cheesecake! E’ bellissima, grazie mille caro, ringrazia tua madre di cuore >>.
Ivan sorrise imbarazzato, ma anche molto più rincuorato, se avesse saputo che i genitori di Italia erano due pasticcieri avrebbe evitato di portare un dolce.
<< Allora, datemi ancora dieci minuti e apparecchio la tavola. Vi chiamo quando è pronto >>
Disse la donna mentre infilava il dolce in un frigo giallo già stracolmo di roba e coperto totalmente da calamite di diversa forma, fattura e genere.
Italia prese Ivan per mano quasi per caso, gli fece prima posare il giubbotto sull’appendiabiti e poi lo condusse lungo il corridoio fino all’ultima porta sulla sinistra, dove si trovava la stanza che condivideva con la sorella Eleonora.
Non appena Ivan mise piede nella camera, gli sembrò di trovarsi immerso in due mondi completamente separati. L’ambiente era diviso in due parti, come se una linea invisibile avesse tracciato un muro incolore.
La metà destra apparteneva ad Italia, il letto era addossato al muro, incastonato in un armadio dai ricami floreali, accostata alla parete della finestra vi era una scrivania ordinatissima, in effetti tutto sembrava anche troppo in ordine per essere reale.
La metà sinistra invece, quella appartenente ad Eleonora, sembrava avere appena combattuto una guerra micidiale. Anche nel suo caso il letto era addossato al muro ma sfatto, la parete era interamente ricoperta di poster rappresentanti personaggi di anime e manga, la scrivania era disordinata, invasa da un televisore che fungeva da collegamento per il computer, la Playstation 3 e la Wii, dei vestiti sporchi sommergevano la sedia e un armadio con le ante ricoperte di adesivi se ne stava solitario e malandato nell’angolo dietro la porta. Inoltre, Ivan notò anche una mensola ricolma di action figure degli stessi personaggi dei poster, quella di Italia invece, era ricolma di fotografie.
Eleonora si era già fiondata sul letto e stava leggendo un manga.
<< Beh, questa è la nostra stanza >> Mormorò Italia mettendosi seduta sul suo letto, Ivan la imitò un po’ imbarazzato, guardandosi attorno, un piacevolissimo odore di cannella gli stuzzicava il naso.
<< E’ carina >> Commentò con il naso all’insù, mentre scrutava interessato una fotografia dove Italia sorrideva contenta all’obbiettivo, con un grosso tonno appena pescato tra le mani piccole e paffutelle << Voglio dire … io sono figlio unico, la mia è molto solitaria >>.
Le sorrise, Italia sorrise a sua volta e gli prese una mano quasi con naturalezza, poi lo sguardo di Ivan si posò su uno dei giochi della Playstation dell’undicenne.
<< Oh, ma dai, quello è davvero Dante’s Inferno? >>. Domandò entusiasta, Eleonora sollevò lo sguardo dal manga e guardò Ivan con occhi luccicanti.
<< Lo conosci? >> Domandò la ragazzina, tirandosi di scatto in piedi per prendere il gioco, fece due saltelli e in un attimo fu sul letto di Italia.
<< Scherzi?! E’ da una vita che sto cercando questo gioco! >>.
<< Davvero? Ci giochiamo insieme? >> Propose entusiasta Eleonora, afferrando Ivan per un braccio nel tentativo di trascinarlo fino alla console, il ragazzo tentennò un po’ imbarazzato.
Si era lasciato trascinare dall’entusiasmo dimenticandosi che magari ad Italia una cosa del genere non sarebbe piaciuta, con sua grande sorpresa però, Italia lo afferrò per l’altro braccio e lo trascinò a sua volta.
<< Si dai, così magari Ivan ci aiuta a passare Caronte! >>.
Italia sembrava entusiasta, Ivan si mise seduto con aria sorpresa.
<< Ci giocate insieme? >>.
<< Certo che si, io sono il braccio e Italia è la mente >>.
Replicò Eleonora, mostrando il braccio per far vedere un muscolo inesistente, Ivan scoppiò a ridere di cuore, mettendo in completo risalto le fossette sul viso.
Italia sentì il cuore esploderle nel petto, era così bello con quei capelli disordinati, i tatuaggi nascosti sotto il pullover blu elettrico, le fossette sulle guance, le mani nascoste sotto le cosce e la schiena leggermente incurvata in avanti, amò tutto di lui in quel momento, perfino la piccola cicatrice che aveva sotto il labbro e il brufolo spuntato a tradimento.
Non voleva nessun altro accanto a se in quel momento.
Non se lo sarebbe lasciato scappare.
 
Igor aveva sempre detestato educazione fisica.
Era l’unica materia dove aveva il voto più basso in assoluto, inoltre non tollerava che si tenesse proprio l’ultima ora di lunedì, dopo una giornata faticosa.
L’ altro aspetto che detestava, era l’atteggiamento da comandante d’esercito che assumeva Alceo De Luca, il loro insegnante. Era un uomo corpulento, tarchiato e peloso come una scimmia, che se ne stava sempre al margine del campo con le braccia incrociate al petto sbraitando ordini talmente ad alta voce che avvicinarsi comportava un notevole rischio di perdita d’udito.
Aveva la brutta abitudine di farli scaldare dieci minuti di lezione con quattro giri di palestra e numerosi piegamenti e flessioni, senza risparmiare le donne, per poi dividerli in squadre e farli massacrare in campo. Solitamente però, Igor non riusciva mai ad arrivare in forma per le partite, era già talmente sudato e stanco che non rendeva affatto in campo, anche se Telemaco sosteneva in continuazione che non avrebbe reso nemmeno se fosse stato fresco come una rosa appena sbocciata.
In quel momento si trovava in una di quelle situazioni critiche, stavano disputando una partita di calcio e lui si trovava in posizione di difesa, sudato e stremato, con il fiato corto, mentre Oscar e Aleksej correvano contro di lui come due ossessi.
Igor era cosciente del fatto che essendo un difensore avrebbe dovuto, appunto, difendere, ma in momenti come quelli, quando i suoi compagni di classe si tramutavano in bestie affamate di vittoria, non poteva fare a meno di cercare di proteggersi.
Era esile di fisico, e se fosse stato travolto da Aleksej e Oscar in quelle condizioni di adrenalina avrebbe sicuramente perso un polmone e qualche costola.
Quando i due si fecero più vicini passandosi la palla divertiti, sentì qualcuno urlare:
<< Togligli quella palla dai piedi deficiente! >>.
La voce gli era piuttosto familiare, gli ricordava vagamente Sonia, possibile che fosse proprio una donna a ringhiargli contro mentre giocavano a calcio? Igor non poteva tollerarlo, dopotutto era un ragazzo, non poteva essere troppo negato per il calcio.
Fece qualche passo in avanti per ostacolare Aleksej, allungò la punta del piede in avanti per sottrargli la palla e per un momento gli sembrò di aver azzardato una mossa abbastanza buona, ma si smentì immediatamente non appena Aleksej fece una finta scartando la palla leggermente indietro. Igor sentì il terreno mancargli improvvisamente sotto i piedi, vide gli occhi del compagno di classe sgranarsi mentre agitava le braccia nel vuoto tentando disperatamente di attaccarsi alla sua maglietta, ad un arto, a qualsiasi cosa, ma la sensazione finì velocemente sostituita da un tonfo assortante e un acuto dolore al ginocchio destro.
<< Oh, fantastico, si è sfracellato di sicuro >>. Mormorò Igor mentre si trovava ancora a faccia in giù, non osava rialzarsi da terra per numerose ragioni, la prima in assoluto era l’imbarazzo, e l’increscioso silenzio che si era venuto a creare.
La seconda invece, era perché temeva di essersi davvero sfracellato qualcosa, la terza …
<< TESTA! Come diavolo si fa ad inciampare in questa maniera per una ridicola finta! Insomma, sollevati da terra è fa l’uomo pivello! >>.
… la terza ragione era proprio quella, le urla disumane del professore.
<< Ohi, ohi Igor, stai bene? Tirati in piedi! >>.
Igor si sentì afferrare per le spalle e ribaltare, percepì un vuoto alla bocca dello stomaco mentre Telemaco lo costringeva a starsene seduto a busto ritto, una fitta lancinante al ginocchio lo colse all’improvviso, sentiva una leggera nausea pervadergli lo stomaco.
<< Professore, guardi che Igor non sta bene! E’ diventato verde >>.
Commentò Fiorenza con una certa apprensione, Alceo De Luca sbuffò pesantemente e si fece largo tra gli studenti, chinandosi verso Igor, il ragazzo trasalì quando il viso peloso del professore entrò in eccessivo contatto con il suo.
<< Cosa ti fa male? Un osso? Hai battuto la testa? Hai un trauma cranico?! Ti sei rotto tibia e perone?! Cos’è successo per avere quella faccia?! >>. Mano a mano che il professore parlava la voce si faceva sempre più alta e le domande veloci ed incalzanti, Igor aveva gli occhi spalancati dall’orrore, era piuttosto sicuro che se fosse successo qualcosa del genere non sarebbe stato cosciente, o almeno non del tutto.
<< Ginocchio >> Riuscì soltanto a biascicare, ed era grave per lui non riuscire nemmeno ad inserirci l’articolo, ma la faccia del professore era troppo vicina e lo terrorizzava.
<< Beh, devi avere almeno una distorsione per avere quella faccia pallida, sudaticcia e leggermente verdognola >>. Commentò arcigno l’uomo. << Coraggio, fa vedere >>.
Igor si tirò su il pantalone della tuta fino al ginocchio, per tutto il tempo dell’operazione tenne lo sguardo concentrato e fisso sulla gamba, era imbarazzato da morire di essere osservato da tutti quegli sguardi diversi, inoltre, aveva sempre avuto una carnagione pallida come la morte e gli si vedevano le vene verdi. Quando arrivò all’altezza del ginocchio, trasse un profondo respiro, terrorizzato dallo spettacolo che di sicuro si sarebbe trovato di fronte, pelle lacerata, l’osso che spuntava da fuori in poltiglia, sangue dappertutto … trattenne il respiro e fece l’ultimo risvolto alla stoffa pesante … mostrando una semplice sbucciatura appena sanguinante.
Il singulto strozzato del professore fece trasalire il ragazzo.
<< Tu … verde … per una … una sbucciatura … io … >> Cominciò a balbettare il professore, rosso in faccia come un pomodoro, sarebbe presto scoppiato come una pentola a pressione, Igor aveva lo stomaco sottosopra dalla nausea, ma era piuttosto certo che questo fenomeno non avesse nulla a che fare con il ginocchio, che comunque gli faceva un male cane, anche se ritenne fosse meglio non dirlo in quel momento << … FUORI DAL CAMPO! Vai a sciacquare quella ridicola ferita da femminuccia pivello, prima che mi svieni sul campo! >>.
Igor si alzò da terra piuttosto avvilito, si era aspettato la ramanzina, ogni lezione ne aveva una, ma quella volta ci aveva messo davvero tutta la buona intenzione, e poi non era colpa sua se il ginocchio pulsava terribilmente.
Raggiunse la fontanella all’esterno della palestra con passo piuttosto claudicante, aprì il getto d’acqua in maniera troppo violenta e si bagnò le scarpe e il bordo della tuta nera, un brivido di gelo gli risalì lungo tutta la schiena. Fuori c’era la neve ammucchiata in ordine un po’ da tutte le parti, i gradi erano sotto zero e l’acqua gelata, sospirò rassegnato lasciandosi cadere pesantemente sul gradino di una scala posizionata accanto alla fontanella.
La gamba scoperta protestava per il freddo eccessivo, una sottile pelle d’oca la ricopriva facendo rizzare i peli, Igor passò distrattamente la mano bagnata sulla ferita nel tentativo di togliere un po’ di sangue, ma si rendeva conto che non era affatto un’idea geniale, si ritrovò la mano imbrattata, il ginocchio ancora più macchiato e il sedere umido poggiato sul marmo ancora imbrattato di neve.
Non voleva tornare in palestra e farsi sgridare ancora.
Tirò le ginocchia al petto, e nonostante il dolore forte a quello destro, incrociò le braccia e vi nascose la faccia, dondolando sul gradino avanti e indietro lentamente, recitando formule di fisica come un mantra. L’aveva sempre trovato un modo terapeutico per l’agitazione.
<< Ti uscirà ancora più sangue se continui a fare così, guarda, sta colando sulla gamba >>.
Igor alzò la testa di scatto, spalancando leggermente i sottili occhi verdi quando vide Zoe in piedi di fronte a lui con una cassetta del pronto soccorso tra le mani.
I lunghi e sottili capelli biondo miele erano legati in un morbido codino pendente al lato sinistro della spalla, gli occhi castani senza trucco lo scrutavano curiosi e le labbra carnose erano piegate in un leggero sorriso, accennato solo dagli angoli sollevati.
Non indossava il cappotto e anche lei sembrava piuttosto intirizzita, Zoe era rimasta particolarmente colpita dal colore verde foresta degli occhi di Igor, erano così sottili che catturarne le sfumature era piuttosto difficile, ma quel particolare giorno, con i capelli scuri scostati dalla fronte e la sorpresa dipinta sul viso si vedevano chiaramente.
<< Cosa ci fai qui? >> Domandò Igor con aria guardinga, spostando immediatamente lo sguardo, l’ultimo incontro che avevano avuto era ancora impresso nella memoria.
<< Ho detto al professore che dovevo andare in bagno. Non sai quante storie ha fatto, ha brontolato qualcosa a proposito di donne e vesciche >>. Replicò allegra Zoe, mettendosi seduta accanto a lui sullo scalino senza permesso, Igor distolse lo sguardo e si prese le scarpe tra le mani, riprendendo a dondolare con lentezza, come se fosse sovrappensiero. << Ma in realtà … >> Continuò lei, ostinandosi a fissarlo nonostante lui non ricambiasse << … sono andata in segreteria per farmi consegnare questa >> Indicò la cassettina del pronto soccorso appena aperta, dal quale aveva tirato fuori ovatta e acqua ossigenata.
<< Posso medicarti la ferita? >>.
Igor si girò a guardarla, gli sorrideva e porgeva il batuffolo bianco imbevuto di disinfettante verso il suo ginocchio, ancora seppellito tra le braccia.
<< Posso farlo anche da solo, grazie >>. Zoe sospirò un po’ teatralmente, ma gli porse il batuffolo senza protestare, distese le gambe davanti a se e fece dondolare i piedi a destra e a sinistra, mentre Igor puliva il ginocchio e la striscia di sangue colata lungo la gamba.
<< Puoi andare, ce la faccio >> Replicò il ragazzo, aveva lo sguardo concentrato sulla ferita ma allo stesso tempo contratto e nervoso. Zoe non demorse e continuò a sorridere, picchiettando con un’unghia smaltata di rosa sulla cassettina rossa e scorticata.
<< Devo restituire questa in segreteria >>. Igor le lanciò un’occhiata un po’ obliqua, ma non replicò nulla. << Quel giorno comunque … avevi ragione tu. Io sono falsa >>.
Le parole di Zoe lo lasciarono senza parole, non se le aspettava così all’improvviso, Igor non si aspettava che lei volesse davvero tirare fuori l’argomento, l’aveva preso in contropiede.
<< Ma non posso farci niente, sono fatta così. Sono frivola, quando mi piace una cosa la voglio a tutti i costi, e quando il mio interesse finisce, a volte tendo a dimenticarmene. >>
Igor non replicò nulla a quelle parole, dopotutto credeva di essersi già espresso a sufficienza.
<< Sono quel tipo di persona che sembra non dare importanza ai rapporti … ma non credere che per me non siano importanti. Perché anche io posso creare legami profondi. >>
Igor non parlò, ma il suo pensiero andò automaticamente a Fiorenza, quelle due erano amiche dalle elementari, Fiorenza era uno di quei colori che Zoe aveva voluto catturare a tutti i costi.  E non sembrava aver sofferto con lei.
<< Ecco il cerotto >> Igor sobbalzò quando Zoe gli lasciò il cerotto in bilico sul ginocchio sano, e prima che potesse ringraziarla, si era già incamminata verso la segreteria.
 
Di solito Romeo amava incamminarsi verso l’uscita con Enea e Lisandro.
Amava farlo perché erano due tipi silenziosi e non c’era bisogno di fare conversazione, ma evidentemente quella regola non valeva quel giorno.
Da quando erano usciti dagli spogliatoi della palestra non facevano altro che battibeccare.
<< Insomma Enea, perché Beatrice non è venuta a scuola né venerdì né oggi? >>.
Gli domandò per la centesima volta Lisandro nell’arco di quella giornata, Enea sbuffò.
<< E io che cavolo ne so?! >> Sbottò irritato, mentre raggiungevano con passo strascicato l’atrio, avevano tutti e tre il motorino quel giorno, quindi avrebbero presto raggiunto il parcheggio situato fuori il cortile posteriore.
<< L’ultima volta che l’ho vista era piuttosto irritata con te! Siete rimasti soli in teatro e non so cosa … >>.
<< Basta! >> Tagliò corto Enea, avevano raggiunto le moto e stava combattendo furiosamente con il lucchetto per sciogliere la catena. Piuttosto irritato Lisandro non rispose, ma si limitò a salire sulla moto e partire, Romeo tenne puntato lo sguardo su di lui finché non sparì completamente dalla vista. Cosa era successo a quei due?
<< Vai da lei, vero? >> Domandò poi ad Enea, una volta che ebbe finito di infilarsi il casco.
<< Si … >> Brontolò l’altro mettendo in moto << … ma ultimamente Lisandro non mi sembra sincero con me e non ho voluto dirglielo! Io e Beatrice dobbiamo chiarire un paio di cose >>. Romeo sorrise impercettibilmente, nascondendo il viso alla vista dell’amico, che gli diede
una pacca sulla spalla a mo’ di saluto e partì.
<< E fai bene >>.
Mormorò quando Enea fu sparito a sua volta.
La moto che utilizzava quel giorno non era propriamente sua ma di suo padre, gliela prestava due volte a settimana quando andava a lavorare allo studio vicino casa.
I suoi genitori erano entrambi dentisti, e volevano che anche lui prendesse in considerazione quella professione, ma per ora Romeo non ci pensava affatto.
Arrivò a casa con qualche minuto di ritardo dal solito, ma non appena aprì la porta fu investito da un buonissimo odore di carbonara appena preparata, lasciò la cartella e la giacca sull’appendiabiti, e senza nemmeno andare in bagno a lavarsi le mani si fiondò in cucina.
Un largo sorriso gli si spalancò sulle labbra sottili quando vide la sua Meringa  indaffarata ai fornelli. La donna ricambiò il sorriso senza nemmeno voltarsi a guardarlo.
<< Oh, è tornato il mio bambino! >> Esclamò felice con un forte accento slavo.
Il vero nome di Meringa era Mar’ja, ed era la tata di Romeo sin da quando aveva due anni, ma siccome era una donna bassa, grassoccia, dai capelli bianchi a boccoli e a Romeo ricordava tanto una meringa spumosa e soffice, l’aveva chiamata così.
<< Ciao Meringa, ho una fame pazzesca! Che si mangia? >> Domandò entusiasta il ragazzo mettendosi seduto a tavola, l’anziana donna gli fece un largo sorriso, aveva già apparecchiato e stava riempiendo i piatti di pasta con porzioni esagerate.
<< Pasta alla carbonara e per secondo … >>
<< Dovrebbe prima andare a lavarsi le mani! >>.
Intervenne una terza voce, Romeo trasformò il sorriso genuino che stava rivolgendo alla sua tata in uno strafottente e ironico, si girò verso la ragazza che aveva parlato e spalancò gli occhi in modo davvero molto teatrale.
<< Oh, ci sei anche tu Fulvia! >> In realtà Romeo sapeva benissimo che Fulvia si trovava in quella stanza, l’aveva vista quando era entrato, ma aveva fatto finta di nulla, come ogni volta.    
Fulvia era la nipote di Mar’ja, ed era anche la sua amica d’infanzia, la sua migliore amica d’infanzia bloccata su una sedia a rotelle dalla nascita.
<< Sempre il solito spiritoso! >> Lo rimbeccò la ragazza facendogli la linguaccia, Romeo scoppiò nuovamente a ridere, seguito a ruota da Mar’ja, che nel frattempo stava servendo i piatti. << E poi cosa sono quei pantaloni così cadenti? Ti si vedono le mutande! >>.
Romeo scoppiò a ridere ancora di più, aveva le lacrime agli occhi, ma siccome Fulvia lo fulminò con lo sguardo, cercò di trattenersi, alzò le mani in segno di resa e tossicchiò.
<< Va bene mamma, vado subito a lavarle! >> Replicò alzandosi, con il corpo ancora scosso dai singhiozzi delle risate trattenute a stento.
<< Ti accompagno >> Sbottò semplicemente Fulvia, Romeo non replicò nulla, si limitò a raggiungerla e trascinare la sedia a rotelle fino al bagno, come faceva sempre da quando erano due bambini. Romeo aveva sempre pensato che Fulvia fosse una bella ragazza, aveva i capelli tagliati corti sotto le orecchie, lisci e biondi come il grano, gli occhi azzurri spesso risultavano freddi, ma era una maschera facile da abbattere.
Raggiunsero velocemente il bagno e Romeo si affrettò a lavare la mani sotto l’acqua gelata, era davvero troppo affamato per fare le cose per bene.
<< Quel codino a samurai ti sta bene >>. La voce di Fulvia giunse inaspettata, Romeo sollevò lo sguardo sorpreso dall’acqua e schizzò lo specchio senza rendersene conto.
Quando era uscito da scuola, dopo l’ora di ginnastica, li aveva raccolti in quel codino un po’ strano, mischiando i capelli decolorati del ciuffo con quelli castani.
<< Ho combinato proprio un disastro quando abbiamo provato a fare quella tintura al ciuffo, eh? >> Romeo sorrise alle parole dell’amica, che aveva le mani congiunte sul ventre e le torceva senza nemmeno rendersene conto.
<< Ma a me piacciono >> Replicò Romeo inginocchiandosi sul pavimento del bagno per raggiungere l’altezza dei suoi occhi, le sorrise, e dopo un attimo di esitazione lei ricambiò.
Romeo sapeva bene che Fulvia non era certo Giulietta, ma a lui andava bene lo stesso.



_________________
Effe_95

Buonasera!
Allora, so di essere terribilmente in ritardo, ma questa settimana ho avuto la febbre alta, oggi sono andata a fare un esame con i decimi e quando sono uscita dall'Università è venuto un'acquazzone terribile! Per non parlare di problemi che imperversano ovunque.
Comunque, per questo capitolo devo confessare che la pubblicazione ha tardato anche perchè la stesura si è presa parecchio tempo, è venuto denso di contenuti, ma non mi andava di sacrificare nulla, spero solo che non risulti troppo pesante. 
Inoltre, per farmi perdonare, è più lungo degli altri, spero vi faccia piacere.
Volevo specificare una cosa, che leggendo potrebbe risultare strana, so che non è propriamente "usuale" giocare a calcio in una palestra, ma siccome fuori c'è la neve ovunque, ho immaginato che avessero arrangiato una partita al chiuso, per quanto possibile. 
Nel prossimo capitolo riprenderemo dall'incontro di Enea e Beatrice, poichè il ragazzo si è diretto, appunto, a casa sua ;) Ho inoltre approfondito un po' il personaggio di Romeo, e inserito quello di Fulvia, lei ci aiuterà a decifrare lo strano ragazzo dal ciuffo decolorato xD Mi spiace di aver rimandato proprio Bea ed Enea, ma Romeo l'avevo lasciato davvero troppo indietro.
Prometto di aggiornare il prossimo capitolo il prima possibile e di rispondere alle vostre fantastiche recensioni. Vi chiedo ancora scusa.
Alla prossima spero.
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** Appunti, Rabbia e Calore ***


I ragazzi della 5 A
 
25. Appunti, Rabbia e Calore.

Dicembre
 
Enea era pieno di buoni propositi quando giunse da Beatrice.
Propositi che si frantumarono senza alcuna pietà non appena ad aprire la porta fu la madre della ragazza. Enea non poteva credere di essere stato talmente accecato dal desiderio di risolvere la questione, dall’aver completamente messo da parte una simile eventualità.
La madre di Beatrice era una bella donna, completamente diversa dalla figlia, se non fosse stato per gli occhi grigi, Enea non si sarebbe giocato niente per affermare la loro parentela.
Aveva lunghi capelli biondi legati in un morbido codino, il viso sottile e spigoloso, indossava un paio di pantaloni neri che le fasciavano le gambe slanciate e una camicetta di seta bianca accompagnata da un cardigan grigio.
Enea deglutì sonoramente, solitamente non era il tipo da farsi intimorire da un adulto, ma stranamente quella donna gli faceva martellare sinistramente il cuore nel petto.
<< Salve, cerco Beatrice >> Riuscì a biascicare con voce ferma, cercando in tutti i modi di non mostrare il proprio imbarazzo e la propria titubanza.
La donna continuò a guardarlo con quei suoi occhi gelidi, tanto che per un momento Enea temette che l’avrebbe cacciato a calci nel sedere, sorprendentemente però, il viso spigoloso si aprì in un caldo sorriso, accogliente e genuino.
<< Sei un suo amico? >> Enea annuì frettolosamente, la donna aprì maggiormente la porta e lo lasciò entrare in casa << Sei stato davvero molto gentile nel venire a farle visita. Ha ancora la febbre alta >> Enea cercò di non rimanere troppo sorpreso da quelle parole, era convinto che Beatrice non fosse venuta a scuola tutti quei giorno a causa sua, e sapere di essersi sbagliato gli lasciò una sensazione amara e contemporaneamente piacevole alla bocca dello stomaco. Seguì la madre della ragazza fino in cucina, dopo aver lasciato il casco ed il cappotto nell’ingesso sull’appendiabiti, Enea sperò vivamente di non dare l’impressione di conoscere troppo bene quegli ambienti, non era sicuro che la donna sapesse di tutte le volte che lui e Beatrice erano rimasti da soli a provare per lo spettacolo teatrale.
<< Io sono Silvia >> Si presentò la signora, porgendogli una tazza calda di caffè, Enea la guardò con una certa sorpresa, non si aspettava tutta quell’accoglienza.
<< Enea, Enea Colombo >> Si affrettò a presentarsi a sua volta, stringendo con imbarazzo la mano della donna, che nel frattempo aveva provveduto a dargli anche una fetta di torta caprese. << La ringrazio >>. Enea pensò che fosse meglio mettersi a mangiare, piuttosto che prestare attenzione allo sguardo indagatore di Silvia.
<< E’ la prima volta che vedo un suo amico, nella vecchia scuola non ne aveva. Mi fa molto piacere >>. Disse la donna continuando a sorridere, si erano entrambi seduti sull’isola, e lei continuava ad osservarlo con interesse, un pugno chiuso appoggiato sulla guancia e l’altro braccio steso sul piano davanti al seno.
<< Io e Beatrice siamo anche vicini di banco, e seguiamo il corso di teatro insieme >>.
Si affrettò a specificare Enea ingoiando l’ultimo pezzo di torta, Silvia sospirò.
<< Posso farti una domanda Enea? >> Il ragazzo lasciò educatamente la forchetta nel piatto e fissò la donna negli occhi, gli stessi di Beatrice. << Ti ha mai parlato di un certo Mirko? >>.
Enea ricevette quella domanda come un pugno nello stomaco, ma cercò di non cambiare troppo l’espressione comparsa sulla sua faccia e scosse deciso la testa.
Silvia fece per rispondere qualcosa, ma venne bruscamente interrotta dall’ingresso in cucina di Beatrice. << Mamma, ho appena misurato la febbre. 38 preciso, dammi una tachipiri … >>
La frase le morì sul finire quando si accorse di Enea, seduto sullo sgabello accanto all’isola della cucina, con un piatto ormai cosparso solo di briciole e una tazzina del caffè vuota.
La luce della lampada gli striava di dorato i capelli castani, e gli occhi spigolosi la scrutavano incuriositi, scrutavano il suo pigiama di flanella azzurro con le farfalle lilla, le pantofole grigie pelose con i calzini a pois, i capelli legati in un codino talmente morbido da lasciare libere intere ciocche dai ricci un po’ sfibrati, le guance arrossate e gli occhi lucidi.
Automaticamente incrociò le braccia al petto e le strinse sotto il seno, sperando che le guance non fossero arrossite ancora di più.  
<< Enea? Cosa ci fai qui? >> Beatrice era rimasta bloccata sulla porta, ferma nella sua posizione rigida, le sopracciglia contratte e l’aria terribilmente imbarazzata.
Silvia spostò lo sguardo sulla figlia e poi immediatamente dopo su Enea, incuriosita dalle reazioni di entrambi.
Enea catturò con la coda dell’occhio la cartella abbandonata sulla sedia accanto e la afferrò velocemente, trovando la prima scusa che gli venne in mente.
<< Ah si, sono venuto a portarti gli appunti di storia e filosofia. Mi avevi detto che sarebbe stato un disastro per te rimanere indietro, no? >> Beatrice sollevò impercettibilmente un sopracciglio, colpita dall’abilità che aveva il ragazzo di fingere, e intanto lui la scrutava con quei suoi occhi azzurri e taglienti, i quaderni stretti tra le mani e l’espressione seria.
<< Che gentile >> Commentò distrattamente Silvia, rivolgendo un sorriso ad entrambi, Beatrice alzò gli occhi al cielo e afferrò velocemente Enea per un polso.
<< Andiamo in camera mia, così posso ricopiarli. >>
Quando Beatrice si fu richiusa la porta alle spalle, sospirò pesantemente e si maledì per essersi messa in quella situazione terribile, non era sicura di voler rimanere da sola con Enea, ma sopportare lo sguardo indagatore della madre era davvero troppo.
Enea si era già seduto accanto alla scrivania quando Beatrice si rigirò, aveva aperto i quaderni e la fissava con le braccia incrociate al petto.
<< Cosa sei venuto a fare veramente? >> Lo freddò immediatamente lei, restandosene con la schiena appoggiata alla porta, Enea prese a girare prima a destra poi a sinistra sulla sedia mobile, fissandola con serietà e freddezza a sua volta.
<< Guarda che ero sincero, ti ho portato gli appunti >>.
Il tono ironico di Enea fece saltare Beatrice su tutte le furie, la ragazza si precipitò sulla scrivania e puntò l’indice della mano destra sulla pagina completamente bianca di uno dei due quaderni. << Di quali appunti stai parlando?! Ma guarda … sei rimasto ancora al Risorgimento?! >> Sbottò indignata la ragazza, guardando con occhi di fuoco il titolo scritto con una pessima calligrafia e poi seguito dal nulla assoluto, probabilmente un tentativo di Enea di interessarsi alla lezione scemato frettolosamente. << Enea, cosa ci fai qui? >>.
Chiese nuovamente lei, abbassando il tono di voce e sospirando rassegnata, sentiva il fisico tutto intorpidito dalla febbre e aveva un leggero mal di testa, non aveva la forza di combattere con lui. Enea la guardò dritta negli occhi e sorrise, poi le afferrò saldamente i polsi e si avvicinò pericolosamente alla sua bocca.
<< Sono venuto per baciarti >> Mormorò ad un centimetro dalle sue labbra, Beatrice andò letteralmente in fiamme, cercò inutilmente di liberarsi dalla stretta ferrea del ragazzo ma era troppo debole, sia mentalmente che fisicamente con lui.
<< Ti prego smettila … ho la febbre >> Bisbiglio con un filino di voce, le labbra carnose di Enea si aprirono in un sorriso provocatore a pochi centimetri dalle sue. Beatrice trattenne il respiro, ma con sua grande sorpresa la lasciò andare improvvisamente, talmente repentinamente che fu costretta a reggersi alla scrivania per non cadere, colta da un capogiro. << Stavo scherzando >> Commentò allegramente Enea, incrociando nuovamente le braccia al petto e scrutandola con un sorriso a trentadue denti di scherno, Beatrice rimase con il fiato sospeso, appoggiata alla scrivania, la testa dolorante e il corpo in fiamme.
<< Ero venuto solo per dirti che non lo farò più, tutto qui. Vorrei evitare un altro calcio in zone pericolose. >> Enea si alzò, sistemò velocemente i jeans un po’ spiegazzati dopo essersi seduto e si diresse verso la porta, Beatrice lo fissava ancora stralunata, il cuore che batteva freneticamente nel petto.
<< Che cosa vuoi dire con questo? >> Domandò con un filo di voce, ancora aggrappata alla scrivania, la fronte imperlata di sudore e le vertigini a lambirle le membra.
<< Che hai vinto tu. La smetterò di darti fastidio, dopotutto … con me non hai sorriso nemmeno una volta. >> Nella stanza calò un silenzio opprimente, come se tutta l’aria fosse stata improvvisamente risucchiata nei polmoni di Beatrice senza permesso.
<< Ci vediamo a scuola >>.
Beatrice trattenne il fiato fino a quando Enea si richiuse la porta alle spalle, poi si lasciò andare. Cadde a terra battendo con le ginocchia sul soffice tappeto, un braccio appoggiato alla sedia e l’altro stretto a pugno per terra, il volto rigato dalle lacrime.
<< Ma io sono innamorata di te … deficiente! >>
Disse soffocando le parole, con la faccia schiacciata sul tappeto.
 
Giasone era piuttosto agitato.
Era martedì sera del 15 Dicembre e avrebbero disputato l’ultima partita prima delle feste di Natale, la vittoria era fondamentale per aggiudicarsi il turno successivo.
La palestra era stracolma di gente, più di quanta ce ne fosse stata nelle partite precedenti, il vociare era talmente intenso da rasentare lo stordimento.
Giasone cercò di isolarsi completamente dal disordine e dalla confusione per prestare attenzione alle giocatrici, le ragazze della sua squadra che stavano nervosamente sistemando le ultime cose del loro abbigliamento.
Lo sguardo gli scappò inevitabilmente su Muriel, era la più distante dal gruppo, la solita fascia rossa gli tirava indietro i corti capelli neri, le dita erano quasi tutte fasciate con dello scotch colorato, il viso luminoso e pulito era solcato da sottili sopracciglia aggrottate che mettevano in risalto il verde macchiato d’oro degli occhi, beveva da una bottiglietta d’acqua, già sudata a causa del riscaldamento, e sembrava sovrappensiero.
Giasone non riusciva a capacitarsi dell’ostinato silenzio nel quale si era chiusa da settimane, la mattina non la vedeva più nel solito catorcio, e quando le aveva chiesto il motivo di quelle assenze, si era sentito rispondere che preferiva passeggiare a piedi per allenare le gambe.
Non sorrideva, e non faceva più chiasso.
Almeno non con lui.
<< Ehi Muriel! >> La richiamò, distogliendo lo sguardo e spostandolo sugli appunti e gli schemi che lui e Livia avevano messo appunto contro le avversarie. << Tieni d’occhio il capitano della squadra avversaria, hai studiato lo schema che ti ho consegnato? >>.
Giasone sollevò distrattamente gli occhi dai fogli, per accertarsi che Muriel lo stesse ascoltando, la ragazza se ne stava ancora seduta sulla panchina a bere.
<< Si, coach >> Si limitò a rispondere, chiudendo finalmente la bottiglietta e riponendola nella borsa abbandonata sotto la panca. Giasone la guardò con le sopracciglia aggrottate, nelle partite precedenti, e anche durante gli allenamenti, non lo chiamava mai in quel modo.
Aveva preso quell’abitudine da qualche settimana, e a lui stranamente non piaceva.
La partita stava per cominciare, Giasone si affiancò a Livia e scrutò con occhi ansiosi le cinque componenti della sua squadra schierarsi in campo.
Al fischio dell’arbitro, la palla fu contesa e catturata immediatamente dalla squadra avversaria che partì in contropiede, contropiede che terminò con un tiro fuori equilibrio seguito da un rimbalzo, prontamente intercettato da Luisa.
La palla arrivò facilmente a Muriel, che con un passo veloce scartò la capitana avversaria e andò a canestro, schiacciare era sempre stata la sua specialità.
Il primo quarto terminò con 18 a 14 per loro, Giasone era piuttosto tranquillo, e durante la piccola pausa dei due minuti ne approfittò per dare alcune informazioni dell’ultimo minuto.
<< Maria, tieni sotto torchio la numero 15. Non devi permetterle di tirare, i suoi punti da tre sono davvero un problema >>. Maria annuì vigorosamente, mentre si passava una pezza dietro il collo sudato. << Ricevuto! >>.
Giasone annuì e sospirò pesantemente, Livia gli si avvicinò poggiandogli una mano sulla spalla, aveva un sorriso allegro e rassicurante.
<< Andiamo Gias, non essere così agitato, vinceremo. E dopo, ti darò un regalo >>.
Livia gli fece l’occhiolino e Giasone sollevò gli occhi al cielo sorridente, Muriel assistette alla scena cercando di non pensarci troppo, perdere la concentrazione durante la partita non era proprio il caso, ma anche con tutta la buona volontà, non appena cominciò il secondo quarto, Muriel non riusciva a pensare a nient’altro.
Perse immediatamente numerose palle e se ne fece rubare altrettante, sebbene cercasse in tutti i modi di tenere la concentrazione sulle proprie avversarie, la mente vagava altrove.
Quei dieci minuti del secondo quarto furono un tormento infinito, e quando finalmente l’arbitro fischiò la fine del tempo, sospirò sollevata, ma la sua squadra era sotto di venti punti. << Muriel! Che cavolo stai combinando?! >> La aggredì immediatamente Giasone, non appena si fu lasciata cadere sulla panchina. << Ti sei fatta rubare palle assurde e non hai segnato nemmeno una volta! >>. Muriel sollevò gli occhi e lo guardò in cagnesco, Giasone sussultò, era la prima volta che lo sfidava in quel modo a viso aperto.
<< Ce la sto mettendo tutta! >> Ribatté piccata, aggiustandosi la fascia rossa tra i capelli.
<< Evidentemente non è abbastanza! >> Replicò immediatamente Giasone, incrociando le braccia al petto, Muriel strinse forte i pugni sulle gambe e spostò lo sguardo altrove fumante di rabbia. << Un altro passo falso e ti sostituisco >>.
Giasone pronunciò quella frase con una freddezza agghiacciante, Muriel rabbrividì e sollevò nuovamente lo sguardo, tuttavia non ebbe modo di aggiungere altro perché era arrivato il momento di ritornare in campo per il terzo quarto.
Muriel sentiva una tale pressione sulle spalle che non credeva di poterla sostenere, non era mai stata una ragazza lamentosa o frignona, piangeva raramente, ma in quel momento ne sentiva quasi la necessità, sentiva il forte desiderio di lasciarsi cadere a terra e piangere come una bambina disperata, gridando e picchiando i pugni.
E fu così che si distrasse, venne completamente travolta dall’avversaria, cadde all’indietro e picchiò con il sedere per terra. Non appena si rese conto di cos’era successo, tutti i rumori della palestra, le risate di scherno, le grida, passarono in sottofondo, come un ronzio fastidioso. Il dolore al sedere si faceva mano a mano più acuto, ma era la vergogna a premere maggiormente, l’imbarazzo di sapere che i suoi genitori la stavano guardando, che Giasone l’avrebbe rimproverata, e poi sentì il fischio.
<< Sostituzione, numero 6 con il numero 10 >>
Muriel si sentì sollevare di peso da due delle sue compagne di squadra, entrambe la guardavano con mortificazione e compassione, non le era mai successo di cadere in quel modo, ed era tutta colpa di uno stupidissimo ragazzo.
Si scrollò di dosso le braccia delle sue compagne e camminò con passo impettito verso le panchine, ignorando completamente il dolore al fondoschiena, fumava di collera.
<< Perché diavolo mi hai sostituito?! Potevo rialzarmi benissimo, non mi sono fatta nulla! >> Sbraitò piena di rabbia, gesticolando impazzita contro il ragazzo, Giasone la guardò per un momento con gli occhi spalancati, poi ritrovò il contegno.
<< Lo so, ma ti avevo avvisata! Non sei in condizioni di giocare >>.
<< Sono il vostro giocatore migliore! >> Strillò la ragazza afferrando bruscamente una delle asciugamani che penzolava malamente dalla panchina.
<< No! In questo momento non sei altro che una stupida ragazzina viziata! >>
La furia di Muriel venne stroncata bruscamente da quelle parole, si immobilizzò con l’asciugamano stretta convulsamente tra le mani sempre più bianche per la tensione.
 << Devo pensare al bene della squadra in questo momento, e tu non lo sei. Vai negli spogliatoi e restaci >>.
Il silenzio calato sulla panchina era opprimente, fortunatamente, a causa del rumore solo poche persone del pubblico avevano notato il litigio in atto.
<< Gias, adesso stai esagerando … >> Intervenne Livia facendo un passo avanti.
<< Non mi interessa, deve smetterla di fare la bambi …  >>
Giasone non finì nemmeno di terminare la frase che si ritrovò l’asciugamano schiacciato sulla faccia, perché Muriel gliel’aveva violentemente gettata contro.
<< Non sono una bambina! Sono una donna, sono una ragazza, ho le tette e il culo come tutte le altre! Ma tu sei troppo idiota per accorgertene, vero?! >> Quando si rese conto delle parole che aveva appena pronunciato, Muriel sentì il sangue defluirgli fino alla testa e colorargli de gote in maniera evidente, si portò una mano sulla bocca. << Dannazione! >>.
Sbottò, e afferrato saldamente il borsone se ne corse negli spogliatoi.
Giasone la seguì con lo sguardo e la bocca spalancata, dopo qualche minuto, sentì la mano di Livia posarsi sul suo braccio, girò la faccia con un’espressione ancora scioccata e la ragazza gli mise tra le mani una caramella al gusto di mango.
<< Credo proprio di doverti dare il tuo regalo adesso. >>
Giasone guardò la caramella che stringeva tra le mani e poi nuovamente verso gli spogliatoi.
Alzò lo sguardo verso gli spalti, dove Ivan se ne stava seduto con le braccia incrociate sin dall’inizio della partita, Giasone lo vide scrivere qualcosa sul cellulare, e un secondo dopo sentì il suo vibrare. Lo sfilò velocemente dalla tasca dei jeans e si affrettò a leggere.
“ Ci sei arrivato idiota?”
Oh si, ci era arrivato eccome.
 
Miki non avrebbe proprio voluto aprire gli occhi.
Era terribilmente piacevole starsene rannicchiata sotto il piumone caldo quando fuori infuriava la neve, faceva freddo e non si aveva voglia di fare nulla.
Era completamente immersa in uno stato di dormiveglia e tepore quando qualcuno gli infilò qualcosa di ghiacciato tra il collo e la spalla, trasalì come se fosse stata colpita e spalancò gli occhi di colpo. Aleksej se ne stava inginocchiato di fronte al letto, aveva i capelli ancora scombinati sul viso e gli occhi leggermente assonnati, Miki lo guardò stralunata per alcuni secondi, poi si rese conto che la cosa gelata che aveva avvertito sul collo era la mano del suo fidanzato. 
<< Alješa, cosa stai facendo? >> Domandò con voce biascicata, mentre si strofinava goffamente gli occhi ancora completamente impastati dal sonno.
<< Sono venuta a svegliarti, sono le quattro e tra poco arrivano Gabriele e Zosimo >> Mormorò lui appoggiando il mento sul materasso morbido e caldo, Aleksej aveva sempre detestato quel plaid, Claudia si ostinava ad imbottirgli il letto tutti gli inverni, ma lui lo trovava eccessivamente caldo e alla fine la notte si ritrovava a dormire con solo le lenzuola addosso.
Miki invece sembrava adorarlo.
<< Alješa … perché sei a mezze maniche? >>
Lo rimproverò Miki afferrando un lembo della maglietta grigia di Aleksej, lui sorrise leggermente mettendo in risalto le fossette.
<< Perché sento caldo solo a guardarti! >> La rimbeccò immediatamente lui pizzicandole una guancia con l’indice e il medio della mano destra, ormai diventata bollette per il tempo che era rimasta a contatto con la pelle scoperta di lei. << Comunque, sarà meglio che ti vesti. Non ci tengo che Gabriele e Zosimo ti vedano nuda, e sbrigati che è tardi! >>.
Commentò Aleksej alzandosi in piedi, si chinò a terra, raccolse il reggiseno di pizzo della ragazza e glielo lasciò cadere sulla testa con decisione, Miki lo afferrò con stizza.
<< Ma sentitelo! Ti avevo detto che non era il caso, adesso devo anche fare le corse >>. Sbottò lei rannicchiandosi maggiormente sotto le coperte.
<< Non mi sembravi molto contrariata prima >> Il sorriso provocatore di Aleksej venne velocemente freddato da un cuscino scagliato in piena faccia, il ragazzo barcollò leggermente all’indietro sotto il peso del colpo e ridacchiò divertito.
<< Esci immediatamente se vuoi che mi vesta! >> Gracchiò lei rossa come un pomodoro, Aleksej scoppiò a ridere tenendosi la pancia tra le mani, Miki avrebbe voluto infuriarsi sul serio, ma non poteva fare a meno di trovarlo bellissimo in quel momento.
<< Va bene vado! Ma muoviti >> Il secondo cuscino scagliato ribalzò sulla porta di legno che Aleksej era riuscito a chiudere repentinamente prima di essere colpito per la seconda volta.
Miki ridacchiò senza rendersene conto, contagiata dal fantasma della risata del fidanzato, si lasciò cadere nuovamente sul letto e si godette il tepore per cinque minuti buoni, poi decise che era davvero il caso di vestirsi.
Non era sicura che sarebbe riuscita a sopportare i commenti maliziosi di Gabriele.
Infilò velocemente i vestiti, pettinò i capelli con le mani e li sistemò ai lati con delle forcine colorate di rosso, fece giusto in tempo ad infilare l’ultima scarpa quando suonò il campanello. Come una forsennata si chiuse la porta della camera di Aleksej alle spalle e raggiunse il chiacchiericcio di voci nell’ingresso. Lei, Aleksej, Gabriele e Zosimo dovevano vedersi quel pomeriggio per preparare l’ennesima ricerca di gruppo di scienze, avevano deciso di vedersi solo loro quattro per semplificare le cose, così Miki rimase piuttosto sorpresa quando si ritrovò davanti anche Katerina ed Alessandra.
<< Hanno terribilmente insistito per venire! >>
Le comunicò un Gabriele piuttosto stanco e avvilito.
<< Non avevamo nulla da fare >> Commentò allegramente Alessandra togliendosi frettolosamente sciarpa e guanti. << Allora abbiamo pensato di darvi una mano! >>.
<< Beh, io non mi lamento affatto eh >>. Replicò Zosimo con un sorriso a trentadue denti sulla faccia, Miki osservò Alessandra aggrapparsi al braccio del ragazzo e sorridere radiosa, le scappò automaticamente un sorriso.
<< Mettiamoci al lavoro allora, no? >>
Aleksej la afferrò per un braccio e la trascinò verso l’ingresso.
La sua mano era ancora calda.



_________________________
Effe_95

Buongiorno :)
Lo so, sono imperdonabile, avevo promesso che avrei aggiornato prima e invece non l'ho fatto.
Ma devo confessarvi che scrivere questo capitolo mi è costata una fatica assurda, soprattutto la parte di Enea e Bea, per non parlare poi della partita di basket, che fatica! xD
Comunque, in questo capitolo sono presenti dei sentimenti molto forti.
Enea sembra aver rinunciato a Beatrice lasciando a lei la mossa, e adesso dovremo vedere come reagirà la ragazza ;)
Mentre Muriel ha dato sfogo a tutta la sua rabbia facendosi scappare anche troppo.
Detto questo, spero che il capitolo vi piaccia.
Grazie mille a tutti come sempre, risponderò presto alle recensioni.
Alla prossima spero.


 

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** Luca, Graffe calde ripiene di nutella e Cambio d’orario ***


I ragazzi della 5 A
 
26. Luca, Graffe calde ripiene di nutella e Cambio d’orario


Dicembre
 
<< Andiamo Oscar … puoi dirmi seriamente cosa desideri per Natale? >>.
Quella sera del 18 Dicembre era la più fredda del mese.
La piazza che Catena ed Oscar stavano attraversando era ricoperta da un sottile strato di ghiaccio, mucchietti di neve incorniciavano gli angoli di ogni panchina e gli abeti sempreverdi sembravano accarezzati da uno spruzzo abbondante di zucchero a velo.
I lampioni ricoperti di condensa illuminavano con una luce soffusa e opaca la strada, macchiando di arancione lo strato di ghiaccio graffiato e luccicante.
Le inferriate che racchiudevano il perimetro della piazza erano decorate di numerose luci natalizie, giallo, verde e rosso si mescolavano producendo giochi di vari riflessi, sprazzi di calore contro il gelo dell’aria.
<< Ma ero serio quando dicevo che tu mi basti. >>
Catena non sentiva tutto quel freddo quando camminava attaccata al braccio di Oscar, le piacevano quelle passeggiate che facevano insieme una volta usciti da scuola.
Le piaceva utilizzale la scusa del ghiaccio per attaccarsi a lui e sentire il suo tepore, le piaceva camminare in silenzio e sentire il suo respiro caldo, osservare le nuvolette di condensa che si formavano nell’aria e le piaceva vedere come gli si arrossava il naso.
<< Capisco cosa vuoi dire, e lo apprezzo … ma per Natale ci vuole anche un regalo materiale no? Un simbolo, qualcosa che ti faccia ricordare di me quando lo guardi >>.
Non c’era tantissima gente quel pomeriggio, erano solo le cinque ma era già buio, si gelava e nessuno aveva davvero voglia di restare per strada.
Oscar guardava davanti a se senza prestare molta attenzione, la bocca era completamente coperta dalla sciarpa nera e nascondeva le mani prive di guanti nelle tasche del giaccone, rallentò leggermente il passo e si voltò a guardare Catena, intenta già a fissarlo.
Lei non poteva dirlo con certezza, ma dai suoi occhi sembrava le stesse sorridendo.
<< Vuoi dire che senza qualche oggetto che ci leghi … mi dimenticherei di te? >>
La stretta di Catena si attenuò leggermente senza che lei lo facesse apposta, avevano rallentato del tutto il passo fino a fermarsi completamente, proprio di fronte la fontana congelata dal quale non usciva acqua tutto l’inverno.
<< Non sto dicendo che sparirò Oscar … >>
Avevano entrambi gli occhi puntati in quelli dell’altro, azzurro contro castano, senza rendersene conto Catena aveva infilato a sua volta le mani nelle tasche del cappotto di Oscar, posizionandosi proprio di fronte a lui.
<< Ho deciso cosa voglio per Natale >> Commentò lui reggendo lo sguardo, stringendole le mani all’interno delle tasche.
<< Cosa? >> La voce di Catena era quasi un sussurro, Oscar liberò una delle mani e si abbassò la sciarpa, rivelando le labbra che fino a poco tempo prima erano state nascoste, come Catena aveva sospettato, erano attraversate da un triste sorriso.
<< Voglio che tu mi prometta che non mi tradirai mai, che non te ne andrai mai … almeno non prima di me. >> Catena aprì la bocca per ribattere immediatamente qualcosa, ma Oscar l’attirò forte a se stringendola in un abbraccio strangolatore. << E’ questo che voglio >>.
<< Oscar … >> Catena riuscì a pronunciare solamente il suo nome, perché Oscar intensificò la stretta rendendola quasi soffocante.
<< Lo so che non dovrei pensarla in questo modo, ma ti assicuro che non ho più nessun rimpianto, dopotutto … lei è morta con il ragazzo che le piaceva, no? >>.
Catena sentiva le lacrime pizzicarle gli angoli degli occhi, era la prima volta che Oscar si apriva spontaneamente con lei, e sebbene stesse soffocando la faccia nell’incavo del suo collo e non la guardasse negli occhi, era pur sempre un passo avanti. Catena sollevò le braccia e lo strinse a sua volta, permettendogli di stringerla completamente, facendo del suo corpo una colonna a cui Oscar avrebbe potuto aggrapparsi per non cadere mai.
<< Oscar?! >>
Quando sentirono quella voce estranea chiamare il nome del ragazzo, entrambi sciolsero automaticamente la stretta per volgere la loro attenzione all’interlocutore improvviso.
Oscar e Catena si ritrovarono con gli occhi puntati su un ragazzo, un ragazzo che aveva all’incirca una ventina d’anni. Se ne stava poco distante da loro reggendo il guinzaglio di un cane, che trotterellava allegro proprio accanto alla fontana, era imbacuccato in un giubbotto di stoffa nero, aveva i capelli biondi protetti da un cappello messo alla bell’e meglio e gli occhi verdi spalancati e sorpresi puntati su di loro.
<< Ma sei davvero tu allora! >> Continuò lo sconosciuto facendo un passo verso di loro, Catena sollevò lo sguardo in direzione di Oscar e lo vide oscurasi in volto, gli occhi ancora un po’ arrossati per lo sfogo di pochi secondi prima.<< E’ da un anno esatto che non ci si vedeva, vero? Sembra quasi un cattivo scherzo del destino, no? >>.
Per Catena le parole di quel ragazzo non avevano alcun senso, era spaventata e aveva inconsciamente afferrato il braccio di Oscar, che ricambiava lo sguardo dello sconosciuto.
<< Luca … ti trovo bene >>. Il viso del ragazzo venne attraversato da uno strano sorriso quando Oscar aprì bocca, la voce gli uscì un po’ roca e cadente.
<< Davvero? Strano … anche io ti trovo piuttosto bene. Probabilmente anche meglio di quanto mi sarei aspettato >>. Luca calcò maggiormente le parole dell’ultima frase e poi volse improvvisamente la sua attenzione a Catena, rivolgendole un sorriso improvvisamente radioso ma sorprendentemente finto. << Chi è questa bella ragazza, non me la presenti? >>.
Oscar si mosse sul posto un po’ irrequieto, strattonando Catena senza nemmeno accorgersene. << Sarà per un’altra volta, andiamo piuttosto di fretta >>.
Sbottò lapidariamente e afferratala per le spalle la girò intenzionato ad andarsene immediatamente, la presa sul braccio di Catena si faceva sempre meno gentile.
<< Hai dimenticato piuttosto in fretta mia sorella, eh?! >>.
Al suono di quelle parole si irrigidirono entrambi, ma a differenza di Oscar, Catena smise di camminare, si bloccò sul posto e tornò a fissare Luca, ancora accanto alla fontana con il guinzaglio stretto tra le mani.
<< Ho avuto le mie ragioni. Andiamo via Catena >>.
Oscar aveva usato una voce talmente fredda e tagliente che Catena rabbrividì, non l’aveva mai sentito così tanto risentito. Le afferrò una mano strattonandola, ma lei rimase ferma sul posto, trattenendolo. Oscar le rivolse un’occhiata interrogativa, con le sopracciglia aggrottate, chiedendole silenziosamente di assecondarlo.
<< Le tue ragioni eh? Oggi è l’anniversario della sua morte! L’hai dimenticato, vero? >>
Catena sussultò quando sentì quella frase, vide Oscar abbassare lo sguardo, sospirare pesantemente e passarsi indice e pollice sulla radice del naso in un gesto di stanchezza.
No, non l’aveva affatto dimenticato. << Non sei nemmeno venuto al suo funerale! Non sei andato a trovarla al cimitero nemmeno una volta! >> Luca aveva cominciato a scaldarsi, stava alzando sempre di più la voce e sballottava il guinzaglio del povero cane ogni volta con più foga, tanto che la povera creatura guaiva a causa degli strattoni violenti.
<< Mia sorella … >>
<< Tua sorella stava in macchina con un altro quando è morta! Con il suo ex ragazzo, quello che diceva di aver lasciato per me! >> Sbraitò improvvisamente Oscar, lasciando andare di scatto la mano di Catena, si era interamente rivolto a Luca e aveva deciso di affrontarlo.
<< Tua sorella era una troia! >>
Nella piazza calò un silenzio imbarazzante, Catena trasalì trattenendo il respiro, Oscar invece era affannato come se avesse appena corso una maratona lunghissima.
Le gote gli si colorarono improvvisamente di rosso quando si rese conto delle parole che aveva appena pronunciato, se ne vergognò profondamente e aspettò che Luca gli si scagliasse addosso riempiendolo di pugni, ma aspettò in vano.
<< Anche le troie si pentono >>.
Oscar trasalì per l’ennesima volta quella sera, quando sentì l’altro pronunciare quelle parole, Luca aveva utilizzato un tono di voce remissivo, stanco, completamente differente.
<< Pentirsi? E’ troppo tardi ormai >>. Mormorò Oscar dandogli nuovamente le spalle, quella volta Luca non replicò nulla e rimase in silenzio, con lo sguardo fisso sulla fontana, perso nel vuoto. Catena non poteva fare a meno di volgere lo sguardo dall’uno all’altro, probabilmente non avrebbe voluto scoprire tutte quelle cose in quel modo, non immaginava che Oscar covasse tutta quella rabbia, lo vide stringere convulsamente i pugni, stava soffrendo.
Gli afferrò velocemente una mano, risvegliandosi dallo stato di torpore in cui era caduta e lo strattonò verso di se. << Andiamo via Oscar >>.
Lui non ribatté nulla e si limitò a seguirla, prima di allontanarsi eccessivamente dalla piazza Catena si girò un’ultima volta in direzione di Luca, il fratello della ragazza che Oscar aveva amato fino a poco tempo prima, lui la stava fissando e le sorrideva tristemente.
 
<< Ehi Fulvia, la vuoi una graffa calda ripiena di nutella? >>.
Quella sera Romeo non sopportava il freddo, non lo sopportava perché continuava a pizzicargli la pelle in maniera fastidiosa, penetrando nelle ossa fino a fare male.
Non lo sopportava, ma non voleva nemmeno privare Fulvia della passeggiata che le aveva promesso. Romeo non le avrebbe mai confessato quanto fosse faticoso spingere la sua carrozzella su quelle strade innevate e ghiacciate, non le avrebbe mai detto quanto avesse paura di perdere il controllo del mezzo, quanto gli prudessero le mani a causa della lana dei guanti e di quanto detestasse andarsene in giro con i calzini bagnati nonostante gli stivali.
<< Mi hai per caso presa per un maiale? E poi sono le sette di sera, la nonna si arrabbierà se non mangio >>.Commentò distrattamente Fulvia, anche lei se ne stava imbacuccata in un cappotto pesante, la sciarpa stretta attorno al collo, le mani nei guanti intrecciate sul grembo e un cappello rosa scuro sui capelli biondi. << Non è che sei tu a volere la graffa? >>
Lo prese un po’ in giro, le labbra di Romeo furono attraversate velocemente da un sorriso ironico, tutto sommato non era del tutto terribile camminare con lei in quel modo.
<< Ehi Romeo … >> Lo richiamò lei dopo alcuni minuti di silenzio << … sei stanco? >>.
Romeo aveva aspettato a lungo quella domanda, Fulvia gliela ripeteva ogni volta che uscivano insieme e lui era costretto a spingere la carrozzella per lei. Un sorriso triste apparve sul volto del ragazzo, Romeo sapeva di non avere esattamente il fisico prestante, di essere basso, mingherlino e di avere un carattere pessimo, spesso era lunatico, ambiguo, fastidioso e disinteressato. << No >> Si limitò a rispondere, spingendo ancora più velocemente la sedia a rotelle come un riflesso incondizionato, quelle sera le strade sembravano essere più affollate del solito. I marciapiedi erano sovraccarichi di persone indaffarate, chiacchierone, allegre, irose e scocciate, era più faticoso del solito farsi strada in quei dedali di vite, lo sguardo di Romeo venne catturato, quasi calamitato, dal primo negozio di dolci che trovò lungo la via. << Oh, ma guarda com’ è carina quella pasticceria, che dici, le vendono le graffe calde ripiene di nutella? >> Domandò il ragazzo indicando le vetrine del negozio sempre più vicine, Fulvia sospirò pesantemente e incrociò ulteriormente le mani sul ventre.
<< Credo di si … >> Si arrese alla fine << Però ne prendiamo solo una da dividere in due! >>.
Romeo sorrise divertito sghignazzando come una iena, Fulvia gli dava le spalle, ma non riuscì a fare a meno di sollevare gli occhi al cielo e farsi scappare un sorriso a sua volta.
Erano quasi arrivati completamente all’entrata quando la porta si spalancò improvvisamente, Romeo riuscì a frenare la sedia a rotelle prima di andare a schiantarsi nel vetro, lo stridio delle gomme sul marciapiede scivoloso fu accompagnato da quello di alcune risate cristalline, proveniente dalle due persone che stavano lasciando il negozio.
Erano due ragazzi, allegri e con le mani occupate da un sacchetto pieno di bomboloni ripieni di crema, sul primo momento non sembrarono accorgersi di Fulvia e Romeo, ma quest’ultimo li riconobbe entrambi.
<< Ehi, Zosimo e Alessandra! Cosa fate qui? >>
Domandò Romeo alzando con brio il tono di voce, i due smisero di ridere e volsero lo sguardo sorpreso, incrociando gli occhi accesi e vivi di Romeo e quelli contrariati e gelidi di Fulvia. << Oh, Romeo! Che bello vederti qui, state entrando nel negozio? >>.
Zosimo pose la domanda con brio, aveva i capelli ricci e scombinati spolverati di neve in alcuni punti, sembravano umidi, indossava una sciarpa giallo canarino avvolta malamente intorno al collo, Romeo suppose l’avesse infilata al rovescio perché l’etichetta spuntava in bella mostra sul cappotto nero. Alessandra se ne stava al suo fianco, anche lei era avvolta in un giubbotto peloso dall’aspetto caldo, Romeo non la conosceva benissimo, l’aveva vista alcune volte in compagnia di Gabriele, e doveva ammettere che la somiglianza tra i due era notevole. << Già, a Fulvia è venuta una voglia improvvisa di graffe calde ripiene di nutella >>
Spiegò Romeo appoggiando comodamente le braccia sui manici della sedia a rotelle, Zosimo aveva il viso attraversato da un sorriso fiabesco, e quando sentì nominare la ragazza lo indirizzò su di lei.
<< Smettila di dire stupidaggini, non sembra, ma Romeo è un vero goloso! >>
Lo schernì immediatamente lei, girandosi per rivolgergli un’occhiataccia che non scalfì minimamente il sorriso ironico e malandrino di Romeo, che aveva indifferentemente scrollato le spalle in un segno di assoluta noncuranza.
<< Noi siamo scappati dal gruppo di ricerca >> Raccontò Alessandra << Con la scusa che servivano alcuni cartelloni siamo scappati lasciando Gabriele, Aleksej, Miki e Katerina a sgobbare sui libri. >> I due si lanciarono uno sguardo complice, evidentemente divertiti dalla loro bravata, Romeo trovò curioso e interessante la complicità genuina che li legava.
<< Ma non saremo troppo cattivi >> Si intromise Zosimo, mostrando il sacchetto pieno di bomboloni ancora fumanti e caldi << Li corromperemo con questi, così ci perdoneranno >>.
<< Secondo me Gabriele ti perdonerà con un calcio nel sedere >> Commentò distrattamente Romeo, Zosimo e Alessandra scoppiarono a ridere contemporaneamente, facendo risuonare per strada le stesse risate cristalline che li avevano accolti all’ingresso del negozio.
Romeo fece per replicare qualcosa, quando con la coda dell’occhio captò un movimento convulso prodotto dalle mani di Fulvia, la ragazza stava distrattamente martirizzando il bordo del suo cappotto, adesso spiegazzato e maltrattato, era a disagio.
Fulvia era sempre a disagio quando incontravano degli amici di Romeo.
Si sentiva a disagio perché provava vergogna, provava vergogna per Romeo e non voleva che lui passasse per un poveretto costretto a badare ad una disabile.
Romeo conosceva fin troppo bene quei pensieri, senza riflettere nemmeno una volta, avvolse le braccia intorno al collo di Fulvia e la strinse forte, poggiando la faccia sulla sua spalla e facendo in modo che le loro guance si toccassero. << A proposito, sono davvero un maleducato … >> Commentò, guardando prima Zosimo e poi Alessandra << … lei è Fulvia >> Disse indicandola con un pollice, Fulvia aveva ancora gli occhi spalancati per la sorpresa e le mani strette e irrigidite intorno alla stoffa grezza. << … la donna della mia vita >>.  Romeo concluse la frase stampandogli una bacio sulla guancia, sentiva l’esile corpo di Fulvia completamente irrigidito sotto la sua presa.
<< E’ un piacere conoscerti >>
Replicò immediatamente Alessandra, rivolgendole un caldo sorriso.
<< Romeo, non mi avevi detto che conoscevi una regina! Brava donna, fatti portare sul tuo trono e schiavizzalo! >> Sbottò Zosimo con entusiasmo, aveva le labbra aperte in un sorriso a trentadue denti scintillante, accompagnato dalle fossette agli angoli delle guance.
Romeo sentì il corpo di Fulvia sciogliersi lentamente, e un pallido sorriso increspargli le labbra. << Non mancherò di farlo >>. Zosimo le fece l’occhiolino e sollevò il pugno affinché lei potesse colpirlo, Fulvia eseguì il movimento con una certa timidezza.
<< E’ stato un piacere sul serio, ci vediamo domani a scuola Romeo, alla prossima Fulvia >>
Zosimo e Alessandra li salutarono calorosamente e poi si allontanarono, Romeo e Fulvia li seguirono per un po’ con lo sguardo, fino a quando non sparirono tra la massa di gente che stava attraversando la strada proprio in quel momento.
<< Bene, andiamo a prendere quelle graffe una volta per tutte! >> Commentò allegramente Romeo sciogliendo l’abbraccio, fece giusto un passo cominciando a spingere la carrozzella quando Fulvia lo richiamò: << Aspetta Romeo … >>.
Il ragazzo si fermò leggermente interdetto, lanciando all’amica uno sguardo interrogativo.
<< Non vuoi più metà graffa? Hai cambiato idea vero? La vuoi intera! >> La prese immediatamente in giro lui, Fulvia sospirò pesantemente e scosse frettolosamente la testa.
<< E’ … è per quello che hai detto! >> Sbottò improvvisamente, completamente a disagio, Romeo smise di sorridere, fece il giro della sedia a rotelle e le si mise davanti.
<< Qualcosa ti ha turbato? Ti ha dato fastidio che io ti abbia mostrato i miei sentimenti in questo modo? >> Guardandola negli occhi, Romeo si rese conto che Fulvia non riusciva a reggere il suo sguardo, si torturava ancora una volta le mani e aveva lo sguardo basso, fisso sulla strada. << Ma … ci sono Catena, Italia, tante altre ragazze. Non sono tue amiche loro? Non conosci anche altre persone, io … >> Fulvia aveva improvvisamente sollevato lo sguardo traendo coraggio dal discorso che aveva appena cominciato, ma non riuscì a terminare la frase, completamente schiacciata dallo sguardo gelido e ferito di Romeo.
<< Stai dicendo che posso anche trovarmi un’altra? >> Fulvia gelò sentendo quelle parole.
<< No, non ho detto questo! >>
<< L’hai detto! >> Gridò Romeo avvicinandosi a lei e battendo le mani sui braccioli della sedia, tra i due cadde un silenzio imbarazzante, gli occhi fissi negli occhi.
Romeo fu il primo a distogliere lo sguardo, si allontanò dalla ragazza, aggirò la sedia e sparì dalla sua vista. << Torniamo a casa, sono quasi le otto, non ho più voglia di graffe >>
Fulvia non replicò nulla, guardò solo con rammarico il ricamo rovinato del suo cappotto.
 
<< Che cosa?! >>
<< Già >>
Zoe e Fiorenza erano sicure che quella fosse stata la conversazione più breve della loro amicizia, tre frasi gettate a caso e poi il silenzio più assoluto per i successivi cinque minuti. Erano entrambe bloccate davanti la bacheca e Zoe stava cercando di trascrivere il cambio d’orario del giorno seguente tenendo il diario sollevato a mezz’aria.
Fiorenza non riusciva a capire perché Zoe avesse la maniacale abitudine di appuntare tutto sull’agenda con una calligrafia precisa ed eccessivamente sfarzosa, avrebbe potuto benissimo scattare una foto con il cellulare, risparmiando tempo prezioso per tornare a casa.
<< Dunque tu … >> Riprese a parlare Fiorenza, facendo attenzione ad appoggiare la spalla sulla parete vuota e non sulla bacheca, l’ultima volta che l’aveva fatto si erano stracciati numerosi fogli << … ti sei innamorata di Igor? Quell’Igor?! >>
Zoe aveva le sopracciglia contratte nello sforzo di mantenere sollevato il diario e scrivere contemporaneamente, le si intravedeva la punta della lingua tra le labbra e aveva un’espressione talmente buffa che Fiorenza sarebbe scoppiata a ridere se la confessione dell’amica non l’avesse lasciata completamente basita.
<< Uhm, si >> Si limitò a replicare Zoe, cancellando con la gomma incastrata tra due dita una piccola e insignificante sbavatura sull’orario di matematica.
<< Ma … ne sei sicura? Insomma, sai come sei fatta, non è che … ti affascina per il suo lato goffo? Per la sua totale estraneazione a qualunque cosa abbia a che fare con il socializzare con un altro essere umano? >>. Fiorenza aveva posto quella domanda con una certa disapprovazione nella voce, diventando sempre più scettica mano a mano che la domanda incalzava. Zoe abbassò finalmente il diario e si girò a guardarla, i lunghi capelli lisci elettrizzati lungo le punte e i grandi occhi castani limpidi e privi di trucco.
<< No, anche Igor me l’ha detto, sai? >> Fiorenza aggrottò le sopracciglia.
<< In che senso? >> Zoe sospirò pesantemente, abbassò una delle tracolle della sua borsa, la aprì con una certa difficoltà e vi ripose dentro, con una certa cura maniacale, il suo prezioso diario. << Mi ha detto che sono una persona falsa, che mi piace giocare con le persone per poi buttarle via. >> Fiorenza spalancò la bocca quando sentì quelle parole, le due amiche continuavano a strasene davanti la bacheca, mentre i professori e gli studenti gli sfrecciavano accanto in un tripudio di chiasso e confusione.
<< Ti ha detto una cosa del genere … e a te continua a piacerti? >>
Zoe fece spallucce e sorrise tristemente, incrociando le braccia al petto sotto il seno.
<< Ma non ha detto la verità? >> Fiorenza si staccò velocemente dal muro, fece un passo in avanti e appoggiò le mani sulle spalle ossute e mingherline della sua migliore amica.
<< Non sei solo questo, no, altrimenti non potrei volerti così bene >>
Zoe sorrise spontaneamente e gettò le braccia intorno al collo di Fiorenza, abbracciandola con tutte le forze che aveva a disposizione.  << Mi ha fatto male..  >> Sussurrò con la faccia nascosta sul collo dell’amica, Fiorenza le passò una mano sui capelli. << Anche se non gliel’ho detto, sentirmelo dire mi ha fatto male lo stesso >>.
Fiorenza trovava davvero ironica quella situazione, la sua migliore amica innamorata del migliore amico del suo ex ragazzo, sciolse delicatamente l’abbraccio e prese Zoe per le spalle, spalancò la bocca per dirle qualcosa che le tirasse su il morale, ma si interruppe quando una voce roca e lamentosa sovrastò completamente le prime parole che aveva cominciato a pronunciare con ardore.
<< Andiamo Igor! Perché non puoi fare una dannata foto e basta? Devi per forza trascriverlo sul diario? Perdiamo il treno! >> Zoe e Fiorenza spostarono simultaneamente lo sguardo su Telemaco ed Igor, che si stavano avvicinando alla bacheca proprio in quel momento, il primo con passo strascicato e aria contrariata, il secondo composto e taciturno.
<< Le foto non si vedono bene sul mio cellulare, sono sempre sgranate >>
La voce pacata di Igor era in netto contrasto con il tono lamentoso e aggressivo dell’amico, i due continuarono a camminare battibeccando finché non si accorsero di Zoe e Fiorenza, ancora ferme di fronte alla bacheca in quella strana posizione.
L’imbarazzo era talmente palpabile che tacquero tutti e quattro nello stesso istante, Fiorenza tolse le mani dalle spalle dell’amica e le nascose dietro la schiena, Zoe gonfiò le guance super imbarazzata, Telemaco infilò le mani nelle tasche dei pantaloni, mentre Igor si limitò a trascrivere il nuovo orario sul diario con gli zigomi imporporati di rosso.
<< Andiamo a casa Fiore? >> Mormorò Zoe, rivolgendo all’amica un sorriso eccessivamente ampio, Fiorenza pensò che fosse una buona idea, l’atmosfera era davvero troppo tesa e non era sicura di riuscire a reggerla.
Annuì frettolosamente e afferrò l’amica per un braccio, il movimento risultò talmente brusco e frettoloso che Zoe andò a sbattere contro il bordo della bacheca e la borsa le cadde a terra rovesciando tutto il contenuto, l’amato diario atterrò sulla scarpa di Igor.
<< Oh cielo! >> Sbottò Fiorenza abbassandosi per raccogliere le cose dell’amica, Zoe la imitò immediatamente, si chinò e cominciò a riprendere i quaderni, fino a quando non si vide porgere il diario direttamente da Igor.
<< Questo è tuo >> Commentò il ragazzo con voce incolore, Zoe sollevò lo sguardo e gli regalò un sorriso gentile, Igor sussultò impercettibilmente a quella vista.
<< Ti ringrazio >> Replicò Zoe mentre si affrettava a richiudere nuovamente la borsa, detestava averla così disordinata, ma si rendeva perfettamente conto che non era il momento giusto di perdere tempo a riordinarla.
Igor e Telemaco se ne andarono nel giro di pochi secondi, rivolgendo alle amiche solamente un rapido cenno cortese di saluto.
<< E’ per questo che mi piace >>
Commentò ad un certo punto Zoe, quando anche lei e Fiorenza ebbero finalmente raggiunto i cancelli della scuola per tornarsene a casa pochi minuti dopo.
Fiorenza non credeva di capire davvero quali fossero le ragioni, ma non replicò nulla.
Aveva ancora lo sguardo indifferente di Telemaco stampato nella mente.



___________________________
Effe_95

Salve :)
Vi chiedo perdono per il mio terribile ritardo, ma ho avuto due settimane infernali per colpa degli esami e non ho nemmeno finito. Sono arrivata a scrivere perfino mentre mangiavo pur di non ritardare ancora, roba che se mi avesse visto mia mamma mi avrebbe cacciata di casa xD
Comunque, spero che il capitolo vi piaccia, la prima parte di Oscar e Catena è stata dura da scrivere, e si scoprono altri dettagli sul passato del ragazzo. 
Spero di avervi dato più informazioni sul personaggio di Fulvia e anche su quello di Zoe, che comunque fino adesso è stato abbastanza controverso e particolare.
Vi chiedo perdono se a volte non vedete per un po' dei personaggi che vi piacciono, ma vi assicuro che io ho tutto lo schema preparato, quindi dovete avere fiducia :)
Grazie mille come sempre per il sostegno.
Alla prossima spero.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** Silenzio, Sogni d’oro e Palestra. ***


I ragazzi della 5 A
 
27. Silenzio, Sogni d’oro e Palestra.


Dicembre
 
Beatrice adorava lasciare i piedi penzolare nel vuoto.
Le sembrava quasi che la forza di gravità facesse di tutto per tirarli giù, le piaceva percepire quella leggera pressione sulla punta dei piedi e il dolore leggero ai polpacci quando muoveva le gambe avanti e indietro ritmicamente, canticchiando una musichetta tra se e se.
Il muretto che divideva la scuola dal parcheggio era uno dei suoi preferiti, abbastanza alto da permetterle di non toccare il suolo, e abbastanza basso da poter scendere e salire senza alcun problema. Erano ancora le otto del mattino e il cielo era coperto di nuvole quel ventuno Dicembre, avrebbe nevicato ancora una volta nel giro di poche ore.
Il cortile deserto era immobilizzato in un regale silenzio, tinteggiato di un bianco sporco che ricopriva tutto come un doppio strato di pelle, Beatrice era l’unica macchia di colore intatta in quello scatto di fotografia mattiniera. Indossava un pesante giubbotto rosso come il fuoco chiuso bene fino alla gola, dove compariva una grossa sciarpa di lana nera avvolta intorno al collo per almeno tre volte. I lunghi capelli ricci e castani comparivano in ciocche disordinate da sotto il berretto nero, dai risvolti della sciarpa o se ne stavano imprigionati dentro il cappotto scaldandole la schiena e al contempo pizzicandole la pelle.
Le gambe erano fasciate in un paio di jeans scuri, gli stivali neri umidi e bagnati battevano ritmicamente contro il cemento del muretto, lasciando dei piccoli solchi quasi invisibili sulla superficie ruvida e zigrinata.
Beatrice avrebbe tanto voluto che il tempo si fermasse in quell’istante, esattamente alle 8 e 02 di quella fredda mattina, avrebbe dato tutto pur di non affrontare un’altra giornata di silenzi. Una giornata dove il suo vicino di banco avrebbe eretto un muro gigantesco tra entrambi, rappresentato da quella cartella di pezza maltrattata che appoggiava sempre sul banco tra lui e lei. Sei ore di silenzio assoluto, niente stuzzicamenti, niente risate maliziose, domande inopportune, richieste di copiare o di appunti all’ultimo minuto.
L’assoluto niente.
Beatrice sorrise tristemente e riprese a far oscillare le gambe come un pendolo estremamente arrugginito, lasciando che il movimento seguisse il flusso dei suoi pensieri.
Era colpa sua se alla fine erano arrivati a quel punto di non ritorno, aveva tirato troppo la corda e adesso si era spezzata.
Enea non era un tipo paziente, lui era impetuoso come la vita, lui aveva la sua Roma da costruire, mentre Beatrice sarebbe rimasta ancora per un po’ ferma dove si trovava in quel preciso momento, sarebbe stata il lontano miraggio di Troia, rimasta inesorabilmente indietro, sarebbe stata semplicemente quello.
Sospirò pesantemente, sollevò le mani dal muretto, le batté l’una contro l’altra nel tentativo di pulire i guanti dalla neve impigliata tra il tessuto e prese la ferma decisione di andare in classe, fece giusto in tempo ad afferrare la cartella e metterla a tracolla quando qualcuno le poggiò una mano sulla spalla.
<< Sei congelata Bea, perché stai ferma qui? >>
Beatrice trasalì inevitabilmente quando sentì la voce calda, roca e bassa di Lisandro,  spuntato magicamente dal parcheggio a cui stava dando le spalle, si diede della stupida per non essersi nemmeno accorta del rumore della moto all’entrata del cortile.
Lisandro la scrutava con gli occhi castani da cerbiatto un po’ stanchi a causa del sonno, le lentiggini quella mattina erano sbiadite sulla pelle pallida del volto, sembrava provato.
<< Io … cercavo solo un po’ di silenzio >> Si ritrovò a rispondere distogliendo lo sguardo, Lisandro sospirò pesantemente e si mise seduto a sua volta sul muretto, esattamente nella posizione inversa a quella di Beatrice, lei dava le spalle al parcheggio, lui alla scuola.
<< Sai … credo proprio che è nella nostra natura desiderarlo >> Commentò distrattamente Lisandro, sollevando le gambe ed incrociandole a farfalla sul muretto sporco di neve, rabbrividì non appena la neve gli macchiò i jeans penetrando nella pelle. << Ma quando lo troviamo non ne siamo più soddisfatti, vero? E ci accorgiamo di non desiderare nient’altro se non la voce di qualcuno che irrompi nelle nostre giornate. Siamo strani, eh? >>.
Quando Lisandro smise di parlare sollevarono contemporaneamente lo sguardo e i loro occhi si incrociarono, lui sorrise tristemente pizzicandole affettuosamente la mano, Beatrice trovò quel gesto caldo e accogliente, ricambiò il sorriso e rilassò nuovamente le spalle.
<< Sembri saperlo piuttosto bene >> Commentò Beatrice guardandolo negli occhi, Lisandro fece spallucce e sollevò gli angoli della bocca in una risata accennata.
<< In realtà ne so molto poco >> Beatrice trovò piuttosto modesta la risposta di Lisandro. Era un ragazzo taciturno, che solitamente si teneva tutto per se fino a scoppiare letteralmente, e questo aspetto del suo carattere Beatrice l’aveva scoperto piuttosto presto.
Era una piccola pietra grezza, un diamante ancora incastonato nella roccia, un diamante che ancora nessuno aveva scoperto e levigato.
<< Vuoi dirmi che tu non hai mai desiderato che qualcuno infrangesse il tuo silenzio? >>.
Lisandro sollevò un sopracciglio, sorrise nuovamente, distolse lo sguardo e sospirò.
<< Ogni tanto si >> Beatrice sorrise a sua volta e riprese a far penzolare i piedi nel vuoto.
<< Posso confessarti una cosa Lisandro? >> Nessuno dei due guardava l’altro, avevano entrambi un sorriso triste sulle labbra e lo sguardo rivolto davanti a se, fisso sulla strada. Lisandro stava aspettando quelle parole dall’inizio.
<< Sono innamorata di Enea >> Il ragazzo chiuse gli occhi e respirò profondamente << Che sciocca vero? Negarlo così pesantemente perché lui non mi ferisse. Alla fine però, a ferirmi non è stato lui, ma sono stata io >>. Lisandro percepì un forte rammarico nella voce di Beatrice, una tristezza che gli strinse il cuore.
<< E credi che sia davvero troppo tardi? Conosco Enea da tantissimo tempo Bea, anche se si comporta in questo modo, in realtà lui non ti ha lasciata andare. Non ti lascerà mai andare del tutto. Sarai sempre il suo più grande rimpianto.>> Beatrice fu completamente attraversata sa una forte pelle d’oca quando sentì quelle parole, si strinse inconsapevolmente le braccia al petto e una sensazione di vertigini le strinse lo stomaco. << E tu? Vuoi che sia così anche per te? Vuoi davvero trasformarlo nel tuo più grande rimpianto? >>.
Beatrice scosse la testa senza nemmeno rendersene contro, gli angoli degli occhi avevano cominciato a pizzicarle pericolosamente, cercò immediatamente di asciugarli ma poi ricordò di indossare i guanti. Si guardò le mani e una sola lacrima silenziosa le sfuggì sulla guancia.
<< Mi sembra che tu abbia trovato la risposta giusta, eh? >>
La voce di Lisandro era ridotta quasi ad un sussurro, ma lui continuava a sorridere.
Beatrice scese frettolosamente dal muretto, afferrò un lembo del giubbotto e si asciugò il viso. << Andiamo in classe? >>
Domandò aggiustandosi la cartella sulla spalla, Lisandro sollevò le spalle e scosse la testa.
<< Ti raggiungo tra un po’ >>.
Beatrice non replicò nulla, gli regalò solo un sorriso e fece alcuni passo verso la porta dell’atrio, poi si fermò nuovamente e si girò a guardarlo.
<< Ehi Lisandro … >> Il ragazzo era distratto quando Beatrice lo richiamò, così sollevò lo sguardo un po’ sorpreso << … spero che anche tu possa trovare presto qualcuno che interrompa il tuo silenzio >>.
Lisandro alzò una mano e la salutò, Beatrice gli fece un piccolo inchino e corse velocemente verso l’atrio, sparendo immediatamente dopo oltre le porte di vetro.
Lisandro la seguì finché la vista glielo permise, poi sospirò pesantemente e si grattò la nuca.
<< Va bene cosìsul serio, va bene così >>
 
<< Katerina, dobbiamo per forza preparare questa maledetta cheesecake?! >>
Katerina fece un respiro profondo quando l’ennesimo lamento raggiunse le sue orecchie, aveva sempre pensato di possedere una quantità tollerabile di pazienza con due fratelli maschi e un padre super geloso, ma evidentemente si era sbagliata.
Gabriele stava per farle perdere, totalmente, la calma.
Spinse con più forza del dovuto il carrello e si affrettò a prendere la busta di zucchero dallo scaffale del supermercato, Gabriele incrociò le braccia al petto e l’affiancò.
<< Che fai? Mi ignori? >> Brontolò con espressione imbronciata, Katerina gli lanciò uno sguardo si sbieco e cercò di non scoppiare a ridere alla vista del broncio spuntato sulle labbra del fidanzato. Quella sera Gabriele indossava un berretto nero sui capelli castani attraversati dai riflessi dorati provocati dalla luce innaturale e fatiscente del supermercato, alcune ciocche spuntavano disordinatamente da quest’ultimo e il viso spigoloso era ricoperto da uno strato non troppo spesso di barba.
<< Lo sai che mio padre ne va matto! Dobbiamo renderlo più mansueto prima di dirgli la verità >>. Commentò distrattamente Katerina, mentre infilava nel carrello due confezioni di mascarpone. Gabriele sospirò pesantemente, non era sicuro che stessero facendo la cosa giusta, ma avevano deciso di comunicare a tutta la famiglia che si amavano.
All’inizio a Gabriele era parsa la soluzione perfetta per tutti i problemi, ma poi aveva cominciato a pensare sul serio alle conseguenze di quel gesto e una strana sensazione si era impossessata della bocca dello stomaco.
La notte non riusciva più a dormire bene e non faceva altro che incubi su incubi, Aleksej che dichiarava di non voler essere più il suo migliore amico perché gli aveva mentito, Francesco e Iliana che gli urlavano contro con una tale forza da svegliarlo sempre di soprassalto, oppure suo padre che lo cacciava di casa a calci nel sedere.
<< Uhm … ma cosa mi dici di mio padre allora? Cosa facciamo per far stare buono lui? Se hai una soluzione fammela sapere, perché solo il pensiero mi … >>
Gabriele rabbrividì scuotendo la testa, avevano deciso di farlo la vigilia di Natale, occasione perfetta che vedeva riunita tutta la famiglia, Katerina era sicura che l’atmosfera allegra e festosa avrebbe contribuito positivamente , ma Gabriele non la pensava allo stesso modo.
<< Ehi Gab … hai paura? >> Katerina porse la domanda senza guardarlo in faccia, mentre contava con finta distrazione gli ingredienti ancora da prendere scritti sulla lista.
Gabriele la osservò di sottecchi, fino a quando non posò lo sguardo sul braccialetto scintillante che Katerina non toglieva mai, nemmeno sotto la doccia.
<< No >> Gabriele ringraziò il cielo che Katerina non lo stesse guardando, perché a discapito della voce sicura, l’espressione era proprio quella di una persona che stava mentendo.
<< Sarà come uno strappo di ceretta vedrai! All’inizio farà male, ma poi la pelle si abituerà e il dolore e l’irritazione passeranno >>. Spiegò lei regalandogli un sorriso, Gabriele provò una terribile stretta allo stomaco di fronte l’innocenza di quel viso, la purezza di quegli occhi limpidi. Katerina non aveva la minima idea di quello che sarebbe potuto succedere.
<< Che cosa romantica … paragonare la nostra storia ad uno strappo di ceretta >>.
Tuttavia non ebbe il coraggio di esternare le sue vere paure, era talmente combattuto che a volte aveva come la sensazione che il cervello potesse scoppiargli da un momento all’altro.
Era ovvio che anche lui desiderasse poter stare con lei senza doversi nascondere, fare le cose alla luce del giorno, senza menzogne che pesassero senza remore sulla coscienza, ma la paura che le cose andassero storte, la prospettiva che tutto cambiasse, a volte prendeva il sopravvento. << Ho preso tutto! >> Replicò allegramente Katerina, ignorando completamente l’ultimo commento di Gabriele, che camminava al suo fianco con aria afflitta da condannato al patibolo << Andiamo a pagare tutto >>.
Quando raggiunsero la cassa la trovarono libera, la cassiera stava armeggiando distrattamente con il cellulare e sembrava piuttosto annoiata, sollevò lo sguardo non appena sentì l’avvicinarsi del carrello, mise da parte il telefono e rivolse ad entrambi i ragazzi un radioso sorriso.
 << Buonasera >>.
Gabriele e Katerina ricambiarono il saluto e cominciarono a sistemare tutto l’occorrente sul nastro trasportatore, fino a quando Katerina non si schiaffò malamente la mano sulla fronte e imprecò a mezza voce.
<< Che succede? >> Mormorò Gabriele lanciandole uno sguardo accigliato.
<< Ho dimenticato i frutti di bosco, corro un attimo a prenderli >>.
E prima che lui o la cassiera potessero dire qualcosa era già sparita oltre il primo scaffale, Gabriele alzò gli occhi al cielo e continuò a sistemare le ultime cose rimaste sul fondo del carrello.
 << Che bella l’esuberanza di quegli anni, sono il periodo migliore della vita non trova? >>
Gabriele rimase piuttosto sorpreso di sentire quella domanda, sollevò lo sguardo e incrociò il sorriso gentile e affettuoso della donna, che passava quasi con gesti automatici i prodotti.
Era la prima volta che qualcuno gli si rivolgeva dandogli del “lei”.
<< Si … >> Commentò con una certa reticenza, ancora sconcertato.
<< Mi è sembrata una ragazzina così esuberante, piena di vita! >> Continuò imperterrita la cassiera, erano rimasti entrambi con le mani vuote nell’attesa che Katerina tornasse con il cestino dei frutti di bosco, Gabriele la trovava una situazione piuttosto bizzarra.
<< Lo è >> Si limitò a mormorare, mentre abbassava lo sguardo imbarazzato.
<< Sarà fortunato l’uomo che la sposerà! >> La commessa batté con felicità una mano contro l’altra, ridendo maliziosamente con una voce piuttosto acuta che infastidì Gabriele oltre ogni misura << Ma cosa dico, proprio di fronte al padre della ragazza! >>
Gabriele rischiò terribilmente di affogarsi quando sentì quelle parole, era talmente allibito che aprì la bocca per sbraitare, ma l’apparizione tempestiva di Katerina gli impedì di ritrovarsi in una brutta situazione.
<< Ecco fatto, ho trovato i frutti di bosco! >>
L’allegria di Katerina era l’esatto opposto dei sentimenti che stavano prendendo forma nel petto di Gabriele, quella cassiera doveva essere davvero matta per arrivare a pensare che lui fosse addirittura suo padre. Gabriele sapeva perfettamente di apparire più vecchio di quanto fosse in realtà, soprattutto quando lasciava crescere la barba, ma scambiarlo per un padre
Poteva tollerare al massimo di fare il fratello più grande!
Non appena realizzò quel pensiero, una fitta allo stomaco più forte delle altre gli fece contrarre le sopracciglia, passò automaticamente i soldi alla cassiera e si lasciò andare ad un sorriso ironico ed amaro, triste.
Era così che li vedevano gli altri?
Una bambina appena diventata donna ed un uomo già fatto e finito?
Gabriele provò talmente tanto disgusto per se stesso che pensò fosse sul punto di vomitare.
L’aria fredda della sera servì a rischiarargli un po’ le idee, aveva la fronte sudaticcia e doveva essere diventato piuttosto pallido, Katerina camminava al suo fianco canticchiando un motivetto allegro, spensierata e felice. I lunghi capelli biondi erano l’unica fonte di luce nell’oscurità del parcheggio, arrivarono velocemente alla macchina e Gabriele si affrettò ad aprire il cofano per infilare le buste, nel compiere quel gesto si rese conto le gli tremavano le mani. Le strinse forte a pugno e respirò profondamente, ringraziando mentalmente il cielo che Katerina fosse già entrata in macchina, Gabriele non avrebbe voluto che lei lo vedesse in quello stato. Sospirò profondamente per ritrovare la calma, e quando le mani smisero di tremare salì in macchina e mise in moto, il viaggio fin sotto casa di Katerina fu silenzioso.
Lei rimase tutto il tempo con la testa appoggiata al finestrino beandosi del calore che fuoriusciva dal riscaldamento, Gabriele provò più volte una fitta al cuore guardandola di sottecchi quando si fermavano per il traffico, piccola e bellissima.
<< Ti aspetto domani alle 11 a casa per fare il dolce, va bene? >>
Disse lei quando furono finalmente arrivati, Gabriele si limitò ad annuire distrattamente, guardandola mentre apriva la portiera, nel momento in cui Katerina poggiò il piede fuori dall’abitacolo Gabriele allungò il braccio senza nemmeno rendersene conto e la strinse in un abbraccio disperato, seppellendo la faccia nell’incavo tra il collo e la spalla sinistra.
<< Buona notte, fai tanti sogni d’oro >> Mormorò ad un centimetro dalla sua pelle, Katerina aveva ancora gli occhi spalancati per la sorpresa, ma quest’ultima andò piano piano sbiadendo. Scostò prima la testa per poterlo guardare in volto, poi automaticamente anche il corpo, rimise dentro la macchina il piede che aveva tirato fuori e facendo pressione si diede una piccola spinta premendo le labbra contro quelle di Gabriele.
Lui la strinse ancora più forte di quanto avesse fatto prima, schiudendo le labbra perché lei potesse baciarlo per bene, lasciandosi andare per la prima volta, senza mettere quei limiti che si imponeva ogni volta che la sfiorava.
Quando si separarono avevano entrambi il fiatone.
<< Fai tanti sogni d’oro anche tu >>
 
Giasone era piuttosto stanco quella sera.
Sentiva la testa attraversata da cerchi pesanti all’altezza delle tempie, come se l’avesse riempita di troppe informazioni contemporaneamente. Sospirò pesantemente, guardò con fare distratto la marasma di schemi che lui e Livia avevano messo appunto per le prossime partire e si passò distrattamente una mano dietro al collo.
Quella sera era rimasto fino a tardi in palestra per anticiparsi alcune cose prima delle vacanze natalizie, lanciò uno sguardo distratto all’orologio, raccolse i fogli sistemandoli in un unico blocchetto e li infilò senza cura nella cartella.
Lasciò vagare lo sguardo nella stanza buia, poi infilò sbrigativamente il cappotto, la sciarpa, la cartella a tracolla e uscì chiudendosi la porta alle spalle.
Era piuttosto sicuro di essere rimasto da solo, l’allenamento era terminato esattamente due ore prima e Livia l’aveva lasciato una mezz’oretta fa, così rimase piuttosto sorpreso quando vide uno spiraglio di luce fuoriuscire dalla porta semiaperta della palestra. Si accostò silenziosamente e sbirciò attraverso la fessura, aprendola maggiormente per poter osservare meglio, il rumore della palla che rimbalzava sul pavimento e lo stridio delle scarpe da ginnastica era amplificato dalla reverenziale assenza di voci umane.
Giasone era terribilmente curioso di scoprire chi fosse rimasto ad esercitarsi anche dopo gli allenamenti regolari, entrò in palestra senza farsi vedere e si nascose dietro le scale degli spalti, sporgendo la testa per scrutare senza disturbi l’agile figura che schiacciava una palla dietro l’altra nel canestro, il respiro gli si bloccò nel petto quando si rese conto che quella macchina da guerra era la sua cestista più forte.
Muriel era sudata dalla testa ai piedi, eppure non sembrava minimamente provata, Giasone osservava con occhi ammirati ogni suo singolo movimento, il guizzo muscolare nelle gambe e nelle braccia, i capelli scuri tirati indietro dalla fascia rossa, le gocce di sudore che cadevano seguendo il profilo spigoloso del suo viso, le sopracciglia contratte sugli occhi oscurati dalla luce artificiale, le gambe flessuose e atletiche, la maglietta eccessivamente larga che lasciava intravedere la fascia che le nascondeva il seno poco accennato, i soliti orecchini a forma di coccinella e il piccolo tatuaggio a forma di palla da basket poco sotto l’ascella destra.
Quando si rese conto dei pensieri che stava avendo su di lei, Giasone scosse frettolosamente la testa e contrasse le sopracciglia, da quando la settimana precedente avevano litigato durante la partita, non si erano più rivolti la parola se non per informazioni di poco conto assolutamente necessarie. Tutte le mattine prendevano lo stesso pullman ma facevano finta di non vedersi, quando arrivava alla fermata dove saliva la ragazza, Giasone fingeva di ascoltare la musica ad alto volume con lo sguardo perso fuori dal finestrino, mentre Muriel gli passava accanto senza degnarlo di uno sguardo.
Giasone non sopportava più quella situazione, ma non aveva potuto fare a meno di scappare come un codardo non appena aveva capito un po’ più del necessario. Aveva passato ore al telefono con Ivan, sentendosi chiamare idiota almeno una decina di volte, ma solamente per uscirne ancora più confuso di prima.
Giasone non aveva mai visto Muriel in quel senso, e prima che lei gli urlasse contro di essere una donna, lui davvero non se n’era mai reso conto.
Era stata sempre la petulante ragazzina infantile e allegra.
Giasone fu bruscamente risvegliato dai suoi pensieri a causa di un tonfo fortissimo, Muriel era pericolosamente capitombolata a terra scivolando sul suo stesso sudore, che aveva macchiato la zona del pitturato dove si stava allenando. Giasone sentiva il cuore battergli freneticamente nel petto, aveva già un piede posizionato per scattare verso di lei, che se ne stava stesa a terra con le braccia e le gambe spalancata a stella.
Quando passò un minuto buono e Muriel non accennò a muoversi, Giasone uscì dal nascondiglio e andò verso di lei con passo spedito, per poi bloccarsi di colpo quando dalla gola della ragazza fuoriuscì un suono strozzato.
Muriel aveva gli occhi chiusi e non poteva vederlo, Giasone scorse sul suo viso un sorriso beffardo, la vide stringere i pugni, soffocare le lacrime tra i denti, e poi la sentì urlare con tutto il fiato che aveva in gola, con disperazione, fino a quando il grido non si trasformò in un pianto disperato, Giasone contrasse le sopracciglia, un po’ imbarazzato, mentre Muriel si metteva seduta, restando con le gambe spalancate, seppellendo il volto nei pugni chiusi.
Gli stava dando le spalle, non si era accorta di lui bloccato a metà strada, ma vedendola in quello stato, piccola e indifesa, Giasone provò una strana stretta al cuore e il suo corpo si sbloccò da solo, colmando quei pochi metri che li separavano.
<< Muriel?! Muriel stai bene? >>
La ragazza tolse velocemente i pugni dal viso e spalancò gli occhi quando si sentì afferrare per le spalle, aveva la vista leggermente appannata a causa delle lacrime, ma il volto di Giasone era piuttosto vivido, soprattutto i suoi intensi occhi azzurri colmi d’ansia.
<< Tu … tu cosa ci fai qui? >> Si ritrovò a balbettare, asciugando frettolosamente il viso completamente bagnato di lacrime e sudore.
<< Sono rimasto a preparare degli schemi con Livia … >> Rispose Giasone senza nemmeno rendersene conto, come un riflesso incondizionato, Muriel si irrigidì non appena sentì il nome della coach, scostò lo sguardo e contrasse le sopracciglia.
Giasone se ne accorse, e non accennò a toglierle le mani dalle spalle.
<< Muriel, ascoltami …. >> Continuò lui, scuotendola perché lo guardasse << … per caso … per caso ti hanno detto qualcosa su … su un bacio tra me e Livia? >>. Giasone pronunciò quella domanda con un certo imbarazzo, sforzandosi di combattere contro la voglia di scappare che gli faceva prudere le gambe. Muriel non rispose a quella domanda, ma il rossore che le comparve sulle guance spigolose fu una risposta più che sufficiente.
<< E’ per questo che eri così distratta alla partita? E’ per questo che non mi rivolgi la parola, vero? >> Adesso che finalmente la verità si stava facendo chiara strada nella sua mente, Giasone aveva ritrovato nuova forza e incalzava con le domande, scuotendola per le spalle.
<< No, non è così! >> Si affrettò a replicare Muriel, agitandosi, cercò in tutti i modi di liberarsi dalla stretta di Giasone, tentò di alzarsi da terra, ma fu inutile.
<< Ascoltami! Non c’è stato nessun bacio, sapevo che avrebbero facilmente frainteso, ma speravo, evidentemente sbagliandomi, che non lo raccontassero! Non ci siamo baciati >>
Muriel aggrottò le sopracciglia quando sentì quelle parole, sollevò i lucidi e arrossati occhi verdi e li puntò solo per un momento in quelli di Giasone, troppo sinceri perché potesse dubitare di lui, si ricompose, scosse furiosamente la testa e spostò con malagrazia le mani del ragazzo dalle sue spalle.
<< Perché ti stai giustificando con me? Ti ho detto che non è per questo! >>
Già, perché si stava giustificando?
Giasone non lo sapeva con certezza, sentiva solamente la necessità di farlo.
Una necessità pressante ed incalzante.
<< Sei innamorata di me Muriel? >>
La domanda gli uscì dalle labbra senza nessun controllo, ma non appena si rese conto che era quello che avrebbe sempre voluto chiederle in quei lunghi giorni di silenzio e sguardi mancati, afferrò nuovamente Muriel per le spalle e cominciò a fremere per una risposta.
<< Smettila! >> Sbottò la ragazzina in preda al panico, con il volto arrossato, Giasone non accennava a lasciarle le spalle, così Muriel prese a colpirlo violentemente sul petto, voleva scappare da quella situazione, voleva che lui la lasciasse andare.
Giasone tollerò quei colpi per pochi minuti, sperando che si calmasse da sola, ma Muriel sembrava una furia umana, le bloccò i polsi con un movimento fulmineo, la spinse all’indietro inchiodandola sul pavimento e si mise a cavalcioni su di lei.
Muriel lo guardava con gli occhi spalancati, il petto si abbassava ed alzava ritmicamente a causa del respiro accelerato, aveva le lacrime represse ancora intrappolate negli angoli degli occhi, lucidi e arrossati, fissi su di lui.
<< Ti sei calmata? >> Domandò Giasone, osservandola con serietà e un po’ di rabbia nella voce << Non credere di avere a che fare con un ragazzino Muriel, perché non lo sono >>.
Lei non replicò nulla, aveva ancora il respiro irregolare e gli occhi sgranati dalla sorpresa.
<< E tu? Tu non hai detto di essere una donna? Allora perché non me lo dimostri? >>
Mentre pronunciava quella frase, Giasone si era chinato verso il suo viso, e l’ultima domanda la formulò ad un centimetro dalla sua bocca, Muriel strinse inconsciamente le labbra e strizzò gli occhi, per poi spalancarli all’improvviso quando le labbra di Giasone attraversarono il millimetro di distanza dalle sue.
Fu un bacio casto, uno sfiorarsi che sapeva di innocenza, ma che di innocente non aveva nulla per entrambi. Quando si separarono, Giasone si lasciò scappare un sorriso.
<< Si … sei decisamente una donna >>
Muriel non capì il senso di quelle parole, si limitò a restare stesa sul quel pavimento, e non abbandonò quella posizione nemmeno quando Giasone se ne fu andato, lasciandola da sola in quella palestra.



_____________________
Effe_95

Buongiorno a tutti :)
Questo capitolo è stato piuttosto faticoso da scrivere, quando l'ho finito ho tirato un sospiro di sollievo xD Non ho molto da dire, spero vivamente che vi sia piaciuto e che non sia stato troppo deludente dopo la fatica che ho fatto. Fatemi sapere cosa ne pensate :)
Grazie mille come sempre, alla prossima spero.

Ritorna all'indice


Capitolo 28
*** Va e non voltarti indietro, Adesso sto bene e Say something. ***


I ragazzi della 5 A
 
28. Va e non voltarti indietro, Adesso sto bene e Say something.
 
Dicembre
 
Quella sera del ventitre Dicembre, l’Olimpo era stato addobbato per Natale.
Era stato l’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze natalizie e come tradizione, ogni anno in quel giorno preciso, organizzavano una serata a tema nel locale dei genitori di Ivan.
Le ragazze indossavano qualcosa di rosso e i ragazzi qualcosa di bianco.
La musica aleggiava come sottofondo piacevole in quel marasma di voci, risate e chiacchiere, ed essendo una serata particolarmente speciale, era possibile invitare anche altre persone estranee alla classe.
Katerina si aggirava in quel marasma di persone con fare agitato, indossava una maglietta rosso fuoco su un paio di jeans stretti e degli scarponi maschili, a loro volta rossi.
Volgeva freneticamente lo sguardo a destra e sinistra facendo rimbalzare la lunga treccia sulla schiena, gli occhi grigi, quella sera messi in evidenza dal trucco scuro, scrutavano frenetici ogni volto, spostandosi frettolosamente ogni volta che non trovavano la persona giusta. Katerina terminò la sua corsa frenetica quando qualcuno le poggiò una mano sulla spalla. << Ohi Katja, che stai facendo? >> Aleksej guardava la cugina con le sopracciglia aggrottate, i capelli biondi come l’oro erano illuminati dalle luci psichedeliche del locale, creando tra le ciocche dei riflessi azzurrognoli, e indossava una camicia bianca con le maniche arrotolate fino ai gomiti su un jeans scuro.
<< Sto cercando Gabriele >> Replicò lei senza nemmeno rendersene conto, intrappolata ancora nella foga della ricerca bruscamente interrotta. Aleksej aggrottò le sopracciglia quando ricevette quella risposta, guardando Katerina dritta negli occhi.
<< Gabriele? Perché proprio lui? >>
Katerina sospirò pesantemente e incrociò le braccia al petto.
<< Perché devo tirargli un calcio negli stinchi! >> Aleksej rimase completamente interdetto da quella risposta, spalancò leggermente la bocca, sollevò un sopracciglio e si lasciò scappare un leggero singulto di sorpresa, per poi scoppiare a ridere.
Katerina gli rivolse un’occhiataccia e sbuffò sonoramente spostando lo sguardo altrove.
<< Cos’ha combinato questa volta? >>
Domandò il ragazzo stringendosi lo stomaco dolorante per le troppe risate tra le braccia, Katerina sciolse le braccia e sospirò per l’ennesima volta.
<< Doveva portarmi una cosa importante stamattina, ma se l’è dimenticato! >>
Spiegò distrattamente Katerina, sperando ardentemente che Aleksej si bevesse quella mezza verità, il ragazzo alzò gli occhi al cielo e sorrise divertito.
<< Sempre il solito, lo trovi nel bagno degli uomini comunque. Anche se tu non puoi … ehi, Katerina! >> Non aveva nemmeno lasciato il tempo ad Aleksej di finire la frase che si era già incamminata verso il bagno degli uomini, senza curarsi del fatto che tecnicamente non avrebbe dovuto mettere piede in un posto del genere.
Spalancò la porta senza curarsene troppo e trovò Gabriele proprio di fronte allo specchio, con le mani appoggiate sul lavandino e l’espressione più abbattuta che gli avesse mai visto.
Anche lui indossava dei jeans scuri, ma a differenza di Aleksej aveva preferito indossare una camicia nera e accompagnarla con una giacca completamente bianca, in tinta con le scarpe.
<< Katerina?! Che fai qui dentro! >>
Sbottò non appena si accorse della ragazzina che avanzava verso di lui con passo di marcia, nel bagno non c’era nessuno a parte lui, ma Gabriele non voleva rischiare, e stava per dirglielo prima che lei gli tirasse un calcio sulla caviglia.
<< Sei un cretino! >> Sbraitò imbufalita, Gabriele sbiancò completamente, trattenne senza ritegno il respiro e si aggrappò con tutte le forze al lavandino, imprecando tra i denti per il dolore che si stava irradiando lungo tutta la gamba. << Ti ho aspettato tutta la mattina! Non ti sei degnato di fare nemmeno una telefonata, sai quanto ero preoccupata?! >>.
Katerina era davvero arrabbiata, Gabriele non l’aveva mai vista con quell’espressione sul volto, fece una smorfia, sospirò profondamente e sollevò il viso, staccando le mani con le nocche biancastre dal lavandino.
<< Mi dispiace, ma credo di non farcela proprio >>.
Katerina contrasse le sopracciglia sentendo le parole di Gabriele, che nel frattempo si era appoggiato con la schiena alla parete e aveva incrociato le braccia al petto.
<< Che significa?! >> Katerina fece un passo avanti e gli afferrò saldamente le braccia, stringendo tra le mani il tessuto morbido e liscio, Gabriele spostò lo sguardo altrove, cercando di non pensare all’intenso profumo di cocco che proveniva dai capelli della ragazza. << Non posso farlo Katja, domani non posso farlo! >>.
Katerina rafforzò la presa senza nemmeno rendersene conto, mentre cercava insistentemente il suo sguardo, che continuava a fuggire altrove.
<< Cosa c’è, hai paura?! E’ solo questo? >>
<< “Solo questo?!” >> Sbottò Gabriele scostando malamente le mani di Katerina dalle sue braccia << Tu ha la minima idea di cosa possa succedere ?! >>.
Senza rendersene conto, accecato dalla collera, aveva afferrato Katerina per le spalle scuotendola con foga, la ragazza lo guardava con un’espressione ferita, arrabbiata, le sopracciglia sottili e chiare erano contratte e corrucciate.
<< Sai cosa succede adesso, invece? >> Gridò lei liberandosi dalla sua stretta << Succede che non te ne importa nulla di me! E’ più importante quello che pensano gli altri, vero? Quello che pensa Aleksej, quello che pensa mio padre, tuo padre … prima tutti gli altri e poi io! >>
Gabriele si passò con esasperazione una mano sulla faccia, era terribilmente stanco, guardandolo con maggiore attenzione, Katerina notò che aveva le occhiaie accentuate e che sembrava invecchiato di parecchi anni, probabilmente non aveva dormito quella notte.
 << Sai cosa ti dico? Facciamola finita qui >>.
Nel sentire quelle parole, Katerina ebbe come la sensazione che qualcuno le avesse tirato un pugno a tradimenti nello stomaco, spalancò la bocca e allungò automaticamente le braccia verso di lui, ma Gabriele fece un passo indietro.
<< Cosa? >> Riuscì a mormorare lei con la voce strozzata.
<< Basta così, Katja, basta. Questa cosa è sbagliata, questa cosa tra di noi non dovrebbe esserci. Io avrei dovuto lasciarti andare molto prima, ti prego, ti prego innamorati di qualcun altro. Qualcuno che abbia la tua età, ti prego io … >> Gabriele non finì nemmeno di pronunciare la frase che qualcosa di freddo e duro lo colpì diritto sul petto, finendo poi sul pavimento sporco e bagnato, il braccialetto giaceva riverso e scomposto, scintillante.
<< Se la pensi così allora riprenditi quel coso! Tanto non vale niente, no?! >>
Gabriele non replicò nulla a quelle parole, spostò lo sguardo dal braccialetto e lo puntò sul pavimento, Katerina sentiva le lacrime bruciarle gli occhi, scosse freneticamente la testa e incrociò le braccia al petto << Ascolta Gabriele, se esco da quella porta … se esco, io … >>
<< Va e non voltarti indietro! >>
Katerina sussultò, si portò entrambe le mani sulla bocca mentre le lacrime cadevano ininterrottamente sul suo viso, Gabriele non la stava guardando, ma aveva chiuso gli occhi.
Quando li riaprì, Katerina non c’era più, di lei era rimasto solamente quel braccialetto.
Si chinò a terra e lo raccolse, stringendolo saldamente tra le mani, sentiva un dolore diffondersi nel suo petto, inevitabile ed inarrestabile, ma aveva ottenuto ciò che voleva.
L’aveva lasciata andare.
 
Giasone stava sorseggiando la sua birra con lentezza, seduto comodamente su uno dei tanti divani sparsi per la sala, al suo fianco, Ivan giocherellava distrattamente con la chitarra, strimpellando canzoni inventate sul momento. Muoveva talmente velocemente le dita sulle corde che Giasone lo guardava come incantato, ipnotizzato, come se fosse stata la prima volta. << C’è qualcosa che vuoi dirmi, Gias? >>
La voce di Ivan lo colse talmente tanto di sorpresa che sobbalzò, versandosi un po’ di birra sui jeans, imprecò tra i denti e appoggiò malamente il bicchiere sul tavolino, cercando inutilmente un fazzoletto. << La reazione mi sembra già una bella risposta >> Continuò Ivan, smettendo di suonare per passare all’amico un tovagliolino raccolto dal tavolo dietro il loro, Giasone lo prese con malagrazia, per poi fulminarlo con lo sguardo.
<< Certo, se mi fai una domanda del genere all’improvviso! >> Ivan puntò lo sguardo sull’amico e lo scrutò con le sopracciglia sollevate, mentre strofinava violentemente il povero fazzoletto sul pantalone macchiato all’altezza del ginocchio sinistro.
<< E’ successo qualcosa tra te e Muriel ieri? >> Giasone fu talmente tanto sorpreso dal fatto che Ivan se ne fosse accorto così facilmente, che il tovagliolino rattrappito gli scivolò di mano atterrando sul pavimento scuro, esattamente tra le sue scarpe bianche.
<< Perché me lo chiedi? >> Si affrettò a replicare, raccogliendo il fazzolettino come scusa per nascondere il viso leggermente arrossato, Ivan picchiettò nuovamente sulle corde e sospirò.
<< Ci conosciamo da una vita, credi davvero di poter nascondere qualcosa di tanto ovvio al tuo migliore amico? Cosa c’è, ti imbarazza? >>. Giasone sollevò di scatto il viso e gettò il tovagliolo raccolto con malagrazia sul tavolino, facendolo finire involontariamente nel bicchiere ancora stracolmo di birra, imprecò mentalmente e rivolse un’occhiataccia ad Ivan.
<< E se ti chiedessi di Italia?! >> Commentò incrociando le braccia al petto e lasciandosi cadere con la schiena sullo schienale del divanetto, sbuffando sonoramente.
<< Questo cosa c’entra con la mia domanda?! >> Le guancie di Ivan avevano assunto una tonalità rossastra nel dare quella risposta, per nasconderle, aveva ripreso a picchiettare le corde con più foga di prima, Giasone si lasciò scappare un buffetto divertito.
<< L’ho baciata >> Ivan rimase talmente spiazzato dalla risposta improvvisa di Giasone che sbagliò tre note di fila facendosi male ai polpastrelli, smise di suonare e sollevò lo sguardo in direzione del suo migliore amico, che stava giocherellando distrattamente, immerso nei proprio pensieri, con i bottoni finali della camicia.
<< Baciata? >> Domandò dopo qualche secondo di silenzio.
<< Uhm … >> Commentò distrattamente Giasone, poi lasciò perdere i bottoni e si sollevò con la schiena, rivolgendo tutta la sua attenzione ad Ivan, che lo guardava sorpreso << Non sono proprio riuscito a contenermi! L’avevo bloccata al suolo perché stava dando di matto, sentivo tutto il suo corpo sotto il mio … era proprio bella con quegli occhi spalancati e le labbra schiuse!  E poi la maglietta era talmente larga che le si vedeva la fascia sotto, e cavolo come era stretta quella fascia!  Le si vedeva proprio la forma del s… >>
Giasone si interruppe bruscamente con la bocca ancora spalancata ad inizio parola, arrossì gradualmente raggiungendo una bella tonalità violacea  e perse letteralmente il respiro, si era lasciato trascinare dalla foga del discorso e non aveva pensato a ciò che stava dicendo realmente. Ivan si lasciò scappare una risata leggera, portando il pugno sulla bocca per darsi un minimo contegno, siccome Giasone gli stava già rivolgendo un’occhiataccia.
<< Non ti sembra più una stupida ragazzina di quindici anni, vero? >> Lo rimbeccò Ivan pizzicandolo leggermente sul braccio, Giasone grugnì qualcosa incrociando le braccia al petto, ripensando con rammarico alla sua povera ed unica birra oltraggiata da un tovagliolino sporco, avrebbe avuto proprio bisogno di qualcosa di forte per schiarirsi le idee.
<< No, è solo che … Muriel non è esattamente quel tipo di ragazza che ti fa girare la testa. Le sue forme sono ancora acerbe, è magra, grezza, eppure … mi … mi … >>
<< Ti piace da morire, ti scatena qualcosa dentro che non riesci proprio a capire >>
Giasone si girò sorpreso a guardare il suo migliore amico, quell’amico che aveva capito alla perfezione cosa stava succedendo nel suo cervello e nel suo cuore da un po’ di tempo a quella parte. << Non guardarmi in quel modo! E’ lo stesso anche per me con Italia, sai? >>.
Commentò Ivan sfilandosi finalmente la chitarra di dosso, Giasone seguì i suoi movimenti con la mente altrove, perso nei suoi pensieri.
<< Tu dici che mi piace così tanto? >> Domandò alla fine dopo alcuni minuti di silenzio, spostando nuovamente lo sguardo sull’amico, che stava fissando distrattamente Italia e Catena sedute sul bancone insieme a Romeo ed Oscar.
Ivan aprì la bocca per replicare qualcosa, ma sia lui che Giasone vennero bruscamente interrotti dalla voce roca e calda di Cristiano, che era seduto sul divano adiacente al loro in compagnia di Enea e Lisandro.
<< Chi è quella tipa che è appena entrata? >>
Automaticamente, anche Giasone ed Ivan portarono lo sguardo verso la direzione indicata da Cristiano, Muriel era appena entrata nel locale, sembrava piuttosto smarrita e si guardava intorno con circospezione. Indossava un jeans strettissimo sulle gambe magre, delle scarpe rosse con un tacco vertiginoso che portava con estrema grazia, una maglietta aderente che metteva in mostra le piccole forme e aveva il volto truccato e le labbra rosse come il fuoco.
Giasone spalancò la bocca senza alcun ritegno, era bellissima.
<< Cosa ci fa qui? >>
Bisbigliò in direzione di Ivan, strattonandolo leggermente per la manica della giacca.
<< L’ho invitata io >>
Al commento di Ivan Giasone fece per replicare con una certa veemenza, ma uno scoppio di risate dietro le sue spalle lo fece zittire immediatamente, sovrastato dalla voce di Cristiano.
<< Scommettiamo che entro la fine della serata me la sono fatta? >>
Giasone trasecolò sulla poltrona quando sentì quelle parole, vide Cristiano alzarsi in piedi, aggiustarsi la maglietta e dirigersi con passo sicuro verso la ragazza, una collera cieca si fece largo nel suo petto.
Giasone era piuttosto sicuro che Muriel non avesse quel tipo di esperienza, lo poteva capire dal modo insicuro con cui si muoveva tra le persone e volgeva sguardi a destra e sinistra, cercando proprio lui, il solo pensiero che Cristiano potesse toccarla gli faceva ribollire lo stomaco. Si alzò in piedi nel momento esatto in cui vide Muriel indietreggiare, impressionata dalla mole di Cristiano, e lui afferrarle un braccio.
<< Che stai facendo con la mia ragazza? >>
Sbottò scostando malamente la mano di Cristiano dal braccio di Muriel, che si era girata a guardarlo sorpresa, Giasone notò che le tremavano le mani per lo spavento.
<< La tua ragazza? >> Commentò Cristiano incrociando le braccia al petto e mettendo su un sorriso ironico e malizioso allo stesso tempo. << Complimenti amico, hai proprio buon occhio. Scommetto che te la sbatti per be … >>
Cristiano non terminò nemmeno la frase che si ritrovò schiacciato contro il muro, Giasone l’aveva afferrato per la collottola della camicia senza troppi complimenti.
<< Attento, questo è esattamente il confine che non puoi superare >>.
Ringhiò tra i denti, Cristiano gli scostò malamente il braccio e si aggiustò la camicia, rivolgendogli un’occhiata scocciata e irritata, anche se il sorriso sardonico non aveva abbandonato le sue labbra per un solo minuto.
<< Va tutto bene? >> Cristiano e Giasone volsero contemporaneamente lo sguardo in direzione di Ivan, che si era avvicinato e aveva un cipiglio preoccupato sul viso.
<< Alla grande >> Commentò Cristiano infilando le mani nelle tasche dei pantaloni, rivolse un altro sorriso in direzione di Muriel, schiacciata dietro il braccio di Giasone, e se ne andò con passo cadenzato verso il suo tavolo.
<< Stai bene? >> Domandò Giasone rivolgendo la sua attenzione alla ragazza, Muriel sollevò gli occhi verdi puntandoli in quelli azzurri e limpidi del ragazzo, si sentì sollevata scorgendone il viso così familiare, annuì rigorosamente e si strinse le braccia al petto.
Nel frattempo, Ivan si era nuovamente allontanato lasciandoli soli, Giasone si morse istintivamente il labbro inferiore.
 << Adesso sto bene >>. Mormorò Muriel a fior di labbra, senza trovare il coraggio di guardarlo negli occhi, tuttavia, prima che potesse avere il tempo di rendersene conto, si sentì trascinare bruscamente e si ritrovò stretta tra le braccia di Giasone, seppellita nel suo petto ampio.
 
La serata stava lentamente volgendo al termine.
Beatrice adorava quel momento, quando si riunivano tutti nella parte del piano bar per ascoltare Ivan, Oscar e Aleksej, quando tutti restavano in silenzio e si lasciavano trasportare dalla voce calda e gentile di Ivan, che cantava il più delle volte.
Un chiacchiericcio diffuso serpeggiava tra i tavoli, nell’attesa che terminassero di preparare tutta l’attrezzatura, Beatrice giocherellava con una mollica di pane con fare distratto, lo sguardo puntato sul tavolo, mentre al suo fianco Catena e Italia parlavano allegramente.
<< Ehm … siamo pronti >> La voce leggermente imbarazzata di Ivan fece zittire tutti, Beatrice sollevò lo sguardo sul palco e spalancò gli occhi quando vide Enea seduto dietro il pianoforte, che aggiustava con concentrazione lo sgabello e i piedi sui pedali.
<< Enea? >> Domandò in direzione di Catena, che guardava la scena tranquilla.
<< Si, ogni tanto canta anche lui >> Commentò distrattamente Italia, scrutando attentamente Beatrice negli occhi, sentendosi così osservata, distolse frettolosamente lo sguardo per posarlo sul palco, dove Enea aveva cominciato a suonare.
<< Say something I’m giving up on you … >> Di qualcosa, mi sto arrendendo con te …
Il silenzio nella stanza era assoluto, Enea aveva una voce bassa e roca, esattamente come quando cantava anche durante il corso di teatro, sembrava estremamente concentrato, e Beatrice non poté fare a meno di sussultare quando sentì quelle parole. << I’ll be the one if you want me to, anywhere I would have followed you, say something I’m giving up on you  >> Sarò la persona giusta se lo vuoi, ti avrei seguita ovunque, di qualcosa, mi sto arrendendo con te … Beatrice non riusciva a fare a meno di tenere lo sguardo puntato sul pianoforte, dove Enea appoggiava le mani con leggerezza, le sopracciglia contratte e il volto provato.
Era vero? Si stava davvero arrendendo?
<< And I’m feeling so small, it was over my head, I know nothing at all … >>
E mi sto sentendo così piccolo, era oltre la mia testa, non so proprio nulla …
Beatrice aveva stretto, senza rendersene conto, convulsamente le mani sui bordi della sua stessa maglietta rossa, le pizzicavano inspiegabilmente gli occhi, era stupido pensare che Enea stesse cantando quella canzone per lei, ma non poteva fare a meno di sentirla.
<< And I will stumble and fall, I’m still learning to love just starting to crawl … >>
E io inciamperò e cadrò, sto ancora imparando ad amare, solo iniziando a gattonare …
Mentre pronunciava quelle parole, Enea sollevò per un attimo lo sguardo dai tasti bianchi e neri e li posò su di lei, Beatrice sussultò impercettibilmente, passandosi frettolosamente una mano sulle guancie bagnate, sperava che Catena e Italia non se ne fossero accorte.
<< Say something I’m giving up on you, I’m sorry that I couldn’t get to you anywhere I would have followed you, say something I’m giving up on you … >>
Di qualcosa, mi sto arrendendo con te, mi dispiace di non essere riuscito a raggiungerti, ti avrei seguita ovunque, di qualcosa, mi sto arrendendo con te
<< Ti senti bene Beatrice? >> La ragazza sussultò quando Italia le poggiò una mano sul braccio, l’amica aveva un’espressione preoccupata sul viso, Beatrice scosse leggermente la testa e abbozzò un sorriso sulle labbra pallide.
<< Sto bene, sono solamente un po’ sorpresa … >>
<< And I will swallow my pride, you’re the one that I love, and I’m saying goodbye … >>
E io ingoierò il mio orgoglio, tu sei la persona che amo, e ti sto dicendo addio …
Beatrice non riuscì a reggere oltre il peso di quelle parole, si alzò frettolosamente dal tavolo e si allontanò sotto lo sguardo sorpreso di Catena ed Italia, voleva raggiungere il bagno e nascondersi lì dentro fino a sparire del tutto.
Era così che Enea esternava i suoi sentimenti?
Era così che glielo stava dicendo?
Lisandro non aveva detto che non si sarebbe mai arreso con lei?
Beatrice era talmente sconvolta dalla prospettiva che sentiva di poter scoppiare da un momento all’altro, si avvicinava sempre di più al bagno e la canzone andava mano a mano spegnendosi, segno che era quasi terminata.
<< Dove stai andando Beatrice? >>
Si girò di scatto quando Lisandro la bloccò prendendola per un braccio, Beatrice si scostò malamente, stringendosi l’arto al petto come se si fosse scottata.
<< Scusami … ho bisogno di andare al bagno >>
Voltò le spalle a Lisandro e fece per proseguire con le gambe che le tremavano.
<< Vuoi lasciarlo andare così? >>
Le gridò dietro Lisandro, Beatrice lasciò chiudere la porta dietro di se e vi poggiò contro la schiena. No, non l’avrebbe lasciato andare così.



_______________________
Effe_95

Buonasera a tutti :)
Vi chiedo perdono per questo ridardo, ma ho dato un esame la settimana scorsa e sono ripresi i corsi, quindi non ho avuto proprio un minuto libero per postare. 
Allora, non sono molto convinta di questo capitolo, ancora una volta temo proprio di non aver fatto un buon lavoro, ma alla fine mi è venuto così e non ci ho potuto fare molto.
La parte di Gabriele e Katerina è tostissima, me ne rendo conto, probabilmente qualcuno di voi vorrà tirarmi qualcosa in testa, ma già nel capitolo precedente avevo lanciato le basi.
Mi sono divertita, stranamente xD, a scrivere la parte tra Giasone ed Ivan, con l'aggiunta poi di Muriel e, per la "gioia" di molti ;), Cristiano, spero vi sia piaciuta.
Nella terza parte invece, quella con Beatrice, Enea canta una canzone che si chiama Say Something dei The Great Big World e Christina Aguilera. Appena l'ho sentita ho pensato che fosse perfetta per descrivere quello che stava provando Enea nei confronti di Beatrice, Beatrice che sembra finalmente aver preso la sua decisione :)
Volevo avvisarvi già da adesso che i prossimi capitoli saranno un po' particolari, descriverò la vigilia di Natale dedicando un momento della giornata ad ognuno di loro, quindi i prossimi capitoli saranno tutti incentrati in quell'unico giorno. Dopo, la storia proseguirà normalmente.
Scusatemi per le note così lunghe, vi prego, non odiatemi troppo per Gabriele e Katerina.
Fidatevi di me ;) 
Grazie mille come sempre per il supporto, siete il motivo per cui do sempre tutta me stessa.
Alla prossima.

 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 29
*** Non torni più indietro, Sono stanco e Puoi guardarmi negli occhi. ***


I ragazzi della 5 A
 
29. Non torni più indietro, Sono stanco e Puoi guardarmi negli occhi


24 Dicembre
 
Beatrice era agitata quel 24 Dicembre, giorno della Vigilia di Natale.
Quella mattina si era svegliata prestissimo nonostante avesse passato quasi tutta la notte in bianco, rannicchiata sotto il piumone aveva spostato lo sguardo ancora appannato sulla finestra semiaperta, dal quale filtrava una luce fredda e neutra.
Sospirando profondamente, aveva abbandonato il suo giaciglio caldo appoggiando i piedi protetti da calzini antiscivolo sul tappeto morbido e riscaldato, quando aveva scostato le tende per dare uno sguardo alla strada, l’aveva trovata più bianca e innevata del solito.
Aveva raggiunto la cucina con passo strascicato, la casa era silenziosa e oscura, segno che i suoi genitori stavano ancora riposando nella camera da letto.
Beatrice si trascinò con passo traballante fino al frigorifero, lo aprì ed afferrò uno dei suoi amati yogurt, uno strato di pelle d’oca le attraversò la pelle ancora calda al contatto con l’aria gelida. Si lasciò cadere malamente sul primo sgabello intorno all’isola, infilò il cucchiaino nel piccolo contenitore di plastica e prese a giocherellare distrattamente con la crema densa e bianca, poi, persa nei suoi pensieri, si ricordò che lo sgabello sul quale era seduta lo aveva occupato Enea per numerosi venerdì.
Sospirò pesantemente, oppressa da una sensazione di mancanza allo stomaco.
Quel ricordo aveva risvegliato in lei un forte desiderio di vederlo, guardò per un secondo il vasetto ancora pieno di yogurt, poi lasciò cadere malamente il cucchiaino sul ripiano dell’isola, si alzò con foga e raggiunse frettolosamente l’armadio.
Afferrò i primi vestiti che le capitarono tra le mani, si fece una doccia veloce e li indossò dopo essersi asciugata malamente, con la pelle ancora umida in alcuni punti.
Mise velocemente un jeans stretto e scolorito, una felpa un po’ vecchiotta e un paio di scarponi. Lasciò i capelli sciolti sulle spalle, non si truccò, prese solamente la borsa di pezza dove depose portafoglio, chiavi di casa, il cellulare e il regalo di Natale che aveva preso per Enea una settimana prima, infilò cappotto, sciarpa e guanti e un attimo dopo si ritrovò per strada, con i piedi sprofondati per metà nella neve e il vento gelido che le sferzava il viso arrossato dal cambio di temperatura.
Prese il cellulare e compose velocemente il numero di Lisandro, sperando vivamente di trovarlo disponibile, il telefono suonò a vuoto per qualche secondo, fino al terzo squillo.
<< Pronto? >> Era la prima volta che Beatrice lo chiamava al cellulare, Lisandro aveva una voce ancora più calda e roca del solito attraverso l’apparecchio.
<< Sono Beatrice >>
Quando ebbe pronunciato quella frase, trascorsero alcuni secondi di silenzio dal lato di Lisandro, tanto che Beatrice pensò avesse riattaccato o fosse caduta la linea.
<< E’ successo qualcosa? >> La voce di Lisandro era apprensiva quando tornò a farsi sentire.
<< No, io … voglio andare da Enea. Puoi dirmi dove abita? >>.
Seguì ancora una volta un silenzio forzato, silenzio che mise Beatrice piuttosto in imbarazzo, mentre lottava con il vento terribile che le sferzava i capelli e i sottili fiocchi di neve che le bagnavano la pelle calda.
<< Prendi la metropolitana e scendi alla quarta fermata venendo da casa tua … all’uscita, il palazzo di fronte, quello con le mattonelle rosse … >>
Mormorò lentamente Lisandro, mentre Beatrice si metteva immediatamente in moto per raggiungere la fermata che distava pochi metri da casa sua.
<< Ti ringrazio, ci sentiamo … ah, buona vigilia! >>
Replicò frettolosamente Beatrice, facendosi largo tra la gente che affollava le strade più del solito in quella giornata particolare, aveva già separato il cellulare dall’orecchio per chiudere la conversazione quando la voce di Lisandro la raggiunse da lontano.
<< Ma ne sei sicura Beatrice? Non torni più indietro. >>
Beatrice strinse forte l’apparecchio tra le mani, guardò attentamente le scale della fermata della metropolitana, sistemate proprio lì di fronte a lei, l’impulso di raggiungere Enea le era nato dalla sensazione di mancanza che aveva provato guardando quello sgabello, una mancanza talmente bruciante come non l’aveva mai provata.
E non avrebbe voluto provarla mai più.
<< Ma io non voglio tornare indietro >>
Beatrice sentì Lisandro sospirare pesantemente.
<< E allora vai! >>
Non se lo fece ripetere due volte, scese velocemente i gradini e prese il primo treno a disposizione. Quando giunse a destinazione il palazzo le si parò immediatamente davanti, e non fu nemmeno costretta a suonare il citofono, perché il portone era già aperto in mancanza del portiere temporaneamente in ferie.
Lisandro le aveva detto che Enea abitava al quarto piano, Beatrice era talmente agitata che fece tutte le scale a piedi, e mano a mano che saliva i gradini le mancava sempre più il coraggio, le mani erano sudaticce e tramavano, ma la destra si sollevò ugualmente per suonare al campanello quando giunse il momento.
Beatrice non aveva mai fatto nulla di tanto impulsivo in tutta la sua vita, non aveva riflettuto, non aveva pensato che magari potessero non essere in casa, potessero essere impegnati, che magari Enea non c’era, era semplicemente andata.
Era andato perché voleva vederlo assolutamente.
Ad aprire la porta di casa fu un ragazzo che non era Enea, ma che per alcuni tratti gli assomigliava. Era alto e magro, indossava una vecchia felpa verde sopra una camicia a quadrettini rossa, piuttosto sgualcita, su un fisico prestante, la tuta grigia era un po’ logora e cadente, tanto che gli si vedeva il bordo nero delle mutande.
Aveva un viso spigoloso e maturo, le labbra carnose, un naso dritto, sopracciglia sottili,  capelli castani che se ne stavano spettinati sul capo, un po’ lunghi dietro la nuca, e un paio d’occhi dal taglio sottile che scrutavano Beatrice con aria sorpresa.
<< Ehm … sono Beatrice, una compagna di classe di Enea. E’ in casa? >>
Beatrice borbottò quelle parole reggendo lo sguardo curioso del ragazzo, che sorprendentemente si appoggiò con la mano destra allo stipite della porta per sporsi in avanti e sorriderle a trentadue denti, aveva le fossette sulle guance e gli si arricciava il naso quando lo faceva.
<< Enea è sotto la doccia, vuoi aspettarlo? Io sono suo fratello Daniele >>
Beatrice provò la fortissima tentazione di fuggire, quando incontrava persone così solari ed espansive, completamente diverse da lei, quello era il suo primo pensiero.
<< Si, lo aspetto >> Mormorò stringendo forte la tracolla della borsa tra le mani, non era il momento di farsi prendere dalla codardia, Daniele si scostò dalla porta e la invitò ad entrare, continuando a mantenere sulle labbra quel sorriso eccessivamente raggiante.
Beatrice non poté fare a meno di pensare a quanto fosse diverso da quello ironico, freddo e malizioso di Enea, avevano le stesse labbra, ma due modi diversi di sorridere.
Daniele la condusse per un corridoio pieno di quadri bellissimi e numerose porte in legno chiuse, fino alla cucina più bella, ordinata e accogliente che Beatrice avesse mai visto.
<< Accomodati pure sullo sgabello. >> Disse distrattamente il ragazzo, indicando l’isola in marmo al centro della stanza, Beatrice non replicò nulla e si limitò ad obbedire, mentre Daniele si avvicinava alla credenza per prendere due bicchieri di vetro rossi e del succo di frutta dal frigorifero di ultima generazione, ricoperto di post-it, fotografie e calamite.
<< Ti piace il succo all’arancia rossa? >> Chiese lui mettendosi seduto proprio di fronte a lei, Beatrice contrasse leggermente le sopracciglia nel sentirsi così osservata, Daniele era diverso da Enea per molti aspetti, era fisicamente più grosso, aveva i capelli più scuri e gli occhi più marcati. << Si >> La sua fu una risposta piuttosto lapidaria, allungò le mani e le strinse delicatamente attorno al bicchiere che Daniele aveva spinto verso di lei, trascinandolo dalla sua parte, tuttavia non si apprestò a bere, rimase ferma con il bicchiere stretto tra le dita ghiacciate, ad osservare come il ragazzo appoggiasse un gomito sul bancone dell’isola e una guancia sulla mano per scrutarla meglio, aveva ancora il sorriso sulle labbra anche se solamente accennato.
<< Mio fratello mi ha parlato di te, anche se non mi ha detto il tuo nome >> Beatrice rimase piuttosto sorpresa da quelle parole, sollevò velocemente gli occhi incuriosita << Lui qui a casa ti chiama Giulietta, sei tu no? >>. Finì di domandare Daniele, per poi bere un lungo sorso di succo, sotto lo sguardo accigliato ed imbarazzato della ragazza.
<< Io invece non sapevo avesse un fratello … >> Non so niente di lui, in realtà.
Commentò Beatrice, accostando finalmente il bicchiere alla bocca per bere un sorso anche lei, Daniele ridacchiò divertito al suono di quelle parole.
<< Non andiamo propriamente d’accordo, io ed Enea ci tolleriamo. >> Commentò poggiando energicamente il bicchiere rosso sul ripiano in marmo << Lui non mi racconta mai niente, si tiene tutti i suoi segreti per se! >> Daniele assunse una tonalità lamentosa da bambino capriccioso alla fine della frase, gonfiando le guance e sgonfiandole immediatamente dopo, improvvisamente poi, si sporse in avanti verso Beatrice e le rivolse ancora una volta quel sorriso luminoso.
<< Dimmi un po’ , sei la sua ragazza vero? >>
Beatrice trovò piuttosto forzata tutta quella confidenza, spalancò immediatamente la bocca per replicare qualcosa si sensato ed intelligente, ma un frastuono improvviso lungo il corridoio li distrasse entrambi dal loro proposito.
<< Oh Dan! Hai di nuovo lasciato le tue mutande sporche su … Beatrice!? >>
Enea era entrato in cucina con un’espressione piuttosto contrariata e imbronciata, per poi bloccarsi di colpo e sbottare alla vista di Beatrice e di suo fratello seduti uno di fronte all’altra, intenti a fissarlo.
<< Sai Enea, non mi risulta di aver lasciato le mie mutande sporche su Beatrice >>.
Al commento sagace di Daniele, Beatrice si ritrovò a sorridere involontariamente, probabilmente per placare in qualche modo il battito frenetico del suo cuore agitato.
<< Davvero spiritoso. >> Lo rimbeccò Enea, per poi rivolgere un’occhiata tagliente e profonda a Beatrice, che abbassò lo sguardo arrossendo leggermente. Quello scambio di espressioni non passò inosservato agli occhi di Daniele, che incrociò le braccia al petto e si appoggiò affabilmente sullo schienale dello sgabello, scrutando prima Beatrice e poi Enea, che nel frattempo era avanzato nella cucina e si era seduto a sua volta.
<< Io e Beatrice stavamo parlando di te >> Esordì con nonchalance, facendo sussultare lei.
<< Ma davvero? >> Replicò Enea mettendo su quel suo sorriso terribilmente gelido << E che cosa stavate dicendo? >> Domandò incrociando le braccia al petto.
<< Stavo chiedendo a Beatrice se era la tua ragazza? >>
Enea sussultò leggermente e il sorriso spavaldo scompariva dalle sue labbra, Daniele mise su ancora una volta quel sorriso tremendamente birichino che Beatrice aveva cominciato ad apprezzare, e si sporse verso di lei incrociando le braccia sul marmo freddo dell’isola.
<< Allora, sei o no la sua ragazza? >>
Beatrice si ritrovò a stringere convulsamente il vetro freddo del bicchiere ancora pieno tra le dita sottili e pallide, sentiva la presenza di Enea al suo fianco come una forza schiacciante, come se la stesse spingendo senza ritegno dalla sedia, sebbene lui si trovasse ad almeno un metro di distanza.
<< Si >>
Replicò in fine con una sicurezza che non le apparteneva, mettendo su un sorriso bonario, Enea si irrigidì come un tronco d’albero sentendo quella parola.
<< Allora vi lascio da soli … mi raccomando, non mi fate le cosacce sul tavolo eh?! >>
Daniele lasciò la cucina ridacchiando come una iena, mentre Enea gli tirava dietro uno dei cuscini degli sgabelli, che atterrò sul pavimento del corridoio senza produrre nemmeno un suono. La consapevolezza che fossero rimasti soli stava mandando Beatrice completamente  fuori di testa, ma era quello il momento in cui avrebbe dovuto essere forte.
Enea si voltò lentamente verso di lei, perforandola con quei suoi occhi azzurri e taglienti come una lama a volte troppo affilata.
<< Cosa sei venuta a fare qui? >> La voce era fredda, incolore, era incavolato nero e Beatrice lo sapeva, ma non si sarebbe lasciata intimorire.
<< Sono venuta a farti gli auguri per la vigilia di Natale >> Si affrettò a rispondere, stringendo maggiormente la borsa tra le mani, ormai completamente bianche a causa della mancanza di circolazione. Enea sbuffò spazientito e le rivolse un’occhiataccia.
<< Stamattina hai fatto colazione con i cereali dell’ironia o della presa per il culo?! >>
Beatrice si morse il labbro inferiore, poi si affrettò ad aprire la borsa, entrasse la busta bianca e porgerla ad Enea guardandolo negli occhi, avrebbe preferito mille volte che la prendesse in giro come faceva sempre, piuttosto che ricevere quella fredda indifferenza.
<< Questa è la prova che non scherzo. E’ il tuo regalo di Natale. Sono due biglietti per il musical di Romeo e Giulietta, lo spettacolo è per il 5 Gennaio >>
Commentò lei appoggiando la busta bianca sul ripiano di marmo, siccome Enea non aveva accennato a prenderla nemmeno per scherzo.
<< Beatrice … cosa di fai qui? E perché te ne esci con quelle cagate con mio fratello? >>
La voce di Enea non ammetteva alcuna via di scampo, non ammetteva repliche, Beatrice sospirò pesantemente, abbandonò le mani sul ventre e lo guardò negli occhi, stanca.
<< Quando mi hai baciata quella volta … eri serio? >>
Enea non sembrò sorpreso di quella domanda, si limitò ad appoggiare un gomito sul ripiano e riporre una guancia sul palmo della mano, scrutandola negli occhi.
<< No >> Ribatté immediatamente, continuando a scrutarla con quegli occhi freddi, Beatrice sentì una fitta inevitabile al petto, una fitta che conosceva piuttosto bene, strinse forte i pugni sulle gambe e cercò di trattenere le lacrime con tutte le sue forze << Però … >> Riprese a parlare improvvisamente Enea, che nel frattempo aveva abbandonato la sua posa e le si era leggermente avvicinato per scrutarla in viso << … da adesso in poi lo sarei sicuramente >>
Quelle lacrime che Beatrice stava trattenendo a forza si riversarono incontrollatamente sulle sue guance quando sentì quelle parole, non si curò nemmeno di asciugarle, sollevò le mani tremanti e le allungò con titubanza verso il viso di lui, quando le sue dita sottili e pallide si appoggiarono per la prima volta sulla pelle liscia e morbida di Enea, lui le afferrò bruscamente e fece in modo che le loro fronti si toccassero.
<< Non sono bravo in certe cose … non so come si fa, ma posso imparare Beatrice >>
Beatrice trattenne a stento un singhiozzo, era spaventata, felice …
<< Io … io … mi sono innamorata di te! >>
Sbottò singhiozzando senza ritegno, e non le importò nulla di aver messo così da parte l’orgoglio per dirglielo. Enea sorrise, e fu la prima volta che le mostrò un sorriso vero, un sorriso genuino, le lasciò le mani per passarle i pollici sulle guance bagnate e sollevarle il viso. << Anche io racchia … >>.
Con enorme sorpresa di Enea, fu Beatrice ad afferrargli nuovamente la faccia e baciarlo con foga, una foga che lui ricambiò immediatamente. Quando si separarono avevano entrambi il fiatone, Beatrice era rossa come un pomodoro, mentre Enea non sembrava per nulla turbato, si limitò a posare lo sguardo sulla busta bianca abbandonata sul tavolo.
<< Allora, ci andiamo? >> Domandò afferrando i biglietti, Beatrice annuì e si aprì in un gran sorriso, Enea sussultò, era la prima volta che la vedeva sorridere, si protese in avanti e la strinse tra le braccia, lasciandola sorpresa con gli occhi sgranati.
<< Buona Vigilia anche a te >>
 
A Cristiano le feste non facevano né caldo né freddo.
Non ne passava una in famiglia da tantissimo tempo e non gli era mai pesato, preferiva spendere il suo tempo girovagando per la città, esattamente come aveva fatto quel giorno.
Cristiano detestava il momento del rientro a casa, perché tornare in quel luogo avrebbe significato urla, bisticci, gridare parolacce e perdere la voce per la rabbia.
Erano le ventidue e diciassette quando sospirando pesantemente Cristiano infilò le chiavi nella toppa della porta di casa e aprì, fu immediatamente investito da un fortissimo odore di alcool, si portò infastidito la mano sul naso, lasciò malamente le chiavi sul ripiano del comodino e appoggiò il cappotto sull’appendiabiti.
Gli sarebbe venuto sicuramente il mal di testa se non si fosse rinchiuso al più presto nella sua stanza, così non ci pensò nemmeno un secondo a raggiungere il corridoio che l’avrebbe condotto nel suo nido protetto, e non gli importava cosa stesse facendo sua madre o dove fosse suo padre, sfortunatamente per lui però, venne intercettato da Marta, la cameriera di casa, sulla soglia dell’ingresso.
<< Oh, oh, signor Cristiano! Signor Cristiano, sua madre … sua madre è … >>
La donna era nervosa, aveva gli occhi arrossati ed agitava convulsamente le mani nella sua direzione, Cristiano la guardò con un’ espressione piuttosto infastidita sul volto.
<< Cos’ha combinato anche stasera? >> Domandò con aria annoiata, mentre si passava distrattamente una mano tra i ricci ribelli che gli ricoprivano il capo, Marta giunse le mani intrecciate al petto e si fece un segno della croce, infastidendo ancora di più il ragazzo.
<< La signora è … è ubriaca! Sta rompendo tutto di là >>
Cristiano sospirò pesantemente e si incamminò con fare strascinato nel salotto, il luogo nel quale l’odore di alcolici era fortissimo, Marta lo seguiva come un cagnolino impaurito e terrorizzato. Trovò sua madre accovacciata sul tappeto, con la testa abbandonata sul divano e una bottiglia di vodka tra le mani, ormai vuota, indossava ancora il completo elegante che aveva messo quella mattina, ma era macchiato in vari punti, e le calze erano tutte sfilacciate e strappate. Per la stanza se ne stavano sparsi per terra numerosi oggetti rotti e frantumati, Cristiano attraversò tutto quel disordine senza curarsene nemmeno.
<< Mamma, basta così per stasera … puzzi come un cane! >>
Sbottò inginocchiandosi accanto alla donna, che aveva gli occhi chiusi e farfugliava qualcosa di incomprensibile attraverso le labbra serrate. Cristiano sospirò pesantemente e allungò una mano per strapparle la bottiglia dalle mani, ma come se l’avesse sentito lei spalancò immediatamente gli occhi castani, arrossati e cerchiati di nero a causa del trucco sciolto, e lo spintonò leggermente, allontanandolo dal suo obbiettivo.
<< Lasciamelo! >> Biascicò con voce roca, Cristiano venne investito in pieno viso dall’odore terribile di alcool ingurgitato da sua madre.
<< Oh cielo … che schifo! Dammi immediatamente questa bottiglia! >>
Sbottò infastidito, per tutta risposta la donna lo afferrò saldamente per la maglietta e lo strattonò leggermente, con una forza effimera e imbarazzante.
<< Perché … perché anche mio figlio mi tratta in questo modo?! Eh? Sei uno stronzo, proprio come tuo padre! >> Cristiano lasciò che la donna si sfogasse, gridandogli contro quelle cattiverie e piangendo come un’isterica, quella situazione non gli faceva più né caldo né freddo, aveva imparato che bastava lasciarla sfogare.
<< Marta … >> La cameriera fece un piccolo passo in avanti, ancora intimorita e piagnucolante. << … mio padre dov’è? >> Domandò Cristiano sorreggendo la madre, che nel frattempo si era aggrappata alla sua felpa piangendo come un’ossessa.
<< Nel suo studio signore ma … >> Cominciò a spiegare la cameriera, ma venne bruscamente interrotta dal grido strozzato della donna, che sollevò violentemente il braccio e colpì Cristiano proprio sulla bocca con il bordo di vetro della bottiglia, che si sporcò immediatamente di sangue.
<< E’ nello studio a scoparsi la sua amante! Quello stronzo, quel bastando …. >>
Cristiano si passò una mano sul labbro sanguinante, mentre Maria accorreva verso di lui ancora più spaventata e terrorizzata, lui davvero non riusciva a capacitarsi del perché quella donna non si abituasse ad una scena che si ripeteva praticamente quasi tutti i giorni.
<< Oh, signore lei sta sanguinando! >> Si lagnò la cameriera accostando un fazzolettino di stoffa estratto dal grembiule alle labbra di Cristiano, che le spostò malamente la mano.
<< Non pensare a me, occupati di lei piuttosto. Infilala sotto la doccia gelata, mettile il pigiama e sistemala a letto! >> Mormorò tirandosi in piedi, sentiva il sapore metallico del sangue in tutta la bocca e un rivolo colargli impudentemente lungo il mento, lasciò Marta da sola nel salotto mentre tirava su sua madre priva di sensi, ignorò i rumori molesti che provenivano dallo studio e aprì la porta della sua stanza.
Non vedeva l’ora di rinchiudersi lì dentro per non sentire più nulla.
Non appena si chiuse la porta alle spalle però, il silenzio tanto desiderato gli venne bruscamente strappato via dalla figura rannicchiata sul tappeto, con le ginocchia al petto, i lunghi capelli ricci e neri sparsi un po’ ovunque sulle spalle e la schiena appoggiata al letto.
Sonia non stava facendo nulla in particolare, ma non appena Cristiano mise piede nella stanza, sollevò lo sguardo e non si scompose neppure quando lo trovò sanguinante.
<< Cosa ci fai qui? >> Domandò lui atono, incrociando le braccia al petto, Sonia fece spallucce e spostò lo sguardo altrove.
<< Mi ha fatto entrare Marta un’oretta fa, si ricordava ancora di me. >>
Cristiano si passò stancamente una mano sulla faccia, quella sera aveva già perso metà della  pazienza per colpa di sua madre, non voleva che il suo malumore si riversasse su Sonia.
<< Ho pensato che … avresti passato ancora una volta la Vigilia da solo, così sono venuta a farti compagnia >> Sonia pronunciò quelle parole senza guardarlo negli occhi, stava giocando distrattamente con le dita dei piedi, nascoste da calzini grigi con dei cuoricini rosa, Cristiano si lasciò cadere a sua volta accanto a lei.
<< Non te l’ho chiesto >>
<< Lo so … abbi solo un po’ di pazienza >>
Cristiano si ritrovò a sorridere nel sentire quella frase, aveva fatto proprio un buon lavoro con Sonia, l’aveva trattata talmente male che era arrivata addirittura a pensare che lui non tollerasse nemmeno più la sua presenza, la sua insistenza.
<< So che non vuoi saperne più nulla di me, ma se non mi darai mai una spiegazione, io non potrò farmene una ragione, Cristiano >> Gli occhi verdi di Sonia, contornati da quella matita nera che li metteva terribilmente in risalto, erano sempre piaciuti a Cristiano, fin dal primo momento in cui l’aveva vista, quella sera però, li detestò profondamente.
<< Tu sei il mio più grande disastro Sonia >>
E sapeva bene che non era quella la risposta che Sonia avrebbe voluto sentire, ma dopotutto Cristiano non voleva risponderle, perché farlo, avrebbe significato lasciarla andare .
<< Ma almeno … a quei tempi … hai provato qualcosa per me? Mi hai amata un po’? >>
Cristiano piegò le labbra sporche di sangue in un sorriso stanco e incattivito allo stesso tempo, chinando leggermente la testa per guardarla negli occhi, quegli occhi verdi che lui aveva trasformato per sempre.
<< Non cercare di capirmi Sonia … non troveresti nulla, se non quello che già vedi >>
<< A me … a me basterebbe anche solo che tu me lo dicessi. Mi basterebbe. >>
Mormorò lei con voce incrinata, stringendo ancora di più le gambe al petto.
Cristiano sospirò pesantemente, chiuse gli occhi e appoggiò la testa sulla spalla di Sonia.
<< Prestami la tua spalla per stasera Sonia … prestami la tua forza solo per stasera, sono stanco >> Le lacrime che Sonia aveva nascosto caddero sulle guance senza fare alcun rumore e senza che Cristiano le vedesse, si limitò a guardarlo appoggiato alla sua spalla con le dita sospese in aria in una immaginaria e muta carezza.
<< Mi dispiace >>
Mormorò lui a labbra strette, con gli occhi chiusi.
E’ proprio perché ti ho amata troppo, che ho dovuto lasciarti andare.
Sonia sorrise amaramente.
<< Buona vigilia di Natale. >>
 
Romeo aveva sempre adorato passare il Natale in famiglia.
Adorava sentire il profumo delizioso delle innumerevoli pietanze che aveva preparato la sua Meringa, adorava osservare il caminetto elettrico creare giochi fantasiosi con le fiamme, adorava il contrasto con l’ambiente caldo, accogliente della casa e la neve che scendeva senza sosta fuori dalla finestra, e adorava il chiasso di voci che si sovrapponevano durante la cena. Romeo non poteva fare a meno di sorridere, rannicchiato sulla poltrona, con le ginocchia strette al petto e le mani nascoste dalle maniche troppo lunghe della felpa.
Aveva lo stomaco eccessivamente pieno, sentiva caldo alle guance e aveva il ciuffo decolorato tirato indietro in un codino alla samurai, per poter osservare meglio i suoi genitori e quelli di Fulvia, che passavano la Vigilia di Natale sempre a casa loro, danzare sgraziatamente sulle note di una vecchia canzone natalizia.
Romeo osservava attentamente i suoi genitori come ipnotizzato, sua madre era scalza ed era la metà di suo padre, eppure non si facevano problemi a ballare e sorridersi a vicenda.
Probabilmente Romeo non avrebbe mai sviluppato il fisico possente di suo padre, era magro, mingherlino e i vestiti gli cadevano sempre di dosso, aveva delle gambe così ossute che non ispiravano un minimo di forza a cui fare affidamento.
Una volta gliel’aveva detto anche Fulvia.
La stessa Fulvia che se ne stava seduta composta sulla sedia a rotelle accanto alla sua poltrona, Romeo le lanciò un’occhiata veloce, che lei non ricambiò perché sembrava ipnotizzata dal fuoco del camino.
Quella sera non si erano rivolti molto la parola, non avevano bisticciato come al solito perché Romeo mangiava troppo e non ingrassava, non avevano bisticciato per i regali e non avevano nemmeno condiviso la fetta di torta di Meringa come facevano sempre.
In realtà non avevano parlato poi molto da quando lui si era infuriato con lei l’ultima volta.
Romeo strinse ancora più forte le ginocchia al petto e scostò lo sguardo sul tappeto, seguendo i passi sconnessi dei piedi di sua madre, lasciandosi trasportare solo marginalmente dalle risate contagiose degli adulti, dai loro commenti sagaci e dalle continue frecciatine che si rivolgevano l’un l’altro.
<< Romeo … fammi ballare! >>
Il ragazzo trasalì quando quelle tre semplici parole raggiunsero il suo orecchio, Fulvia non aveva alzato la voce, non aveva gridato, eppure a Romeo sembrò che gli avesse appena perforato i timpani senza alcuna remore.
Quando volse lo sguardo verso Fulvia, lei lo stava fissando con la sua solita espressione eccessivamente seria, i tratti spigolosi del viso erano tesi, gli occhi azzurri e limpidi, senza ombra di trucco, fissi su di lui e ricolmi di una tristezza che a volte Romeo riusciva a stento a contenere. Stringeva convulsamente le mani sul ventre piatto, le nocche erano talmente bianche e la pelle così tesa che le si vedevano le vene verdastre al di sotto.
<< Una volta Fulvia … >> Mormorò lui scrutandola a sua volta con occhi stanchi << … una volta mi dicesti che le mie gambe non erano abbastanza forti, che non sarebbero state in grado di sorreggerti per non farti cadere >> Le labbra di Romeo si piegarono in un sorriso triste, mentre Fulvia sussultava impercettibilmente sgranando gli occhi << Perché avresti dovuto cambiare idea adesso? >>.
La domanda di Romeo cadde nel vuoto per i successivi cinque minuti, dove Fulvia tornò a volgere lo sguardo al caminetto, le mani sempre più teste e bianche, le sopracciglia aggrottate, contratte, il cuore in gola, mentre Romeo strinse talmente tanto le ginocchia al petto da farsi malissimo alle braccia.
<< Perché ho pensato che non mi importa. Perché se proprio dovrò cadere … almeno cadrò con te >>. Romeo chiuse automaticamente gli occhi quando sentì quelle parole, Fulvia non lo stava guardando e lui non stava guardando lei.
<< Ma ti faresti parecchio male, no? >>
Mormorò Romeo, con lo sguardo fisso sul movimento lento e sconnesso dei genitori di Fulvia, ma la mente altrove, presente lì dove si trovavano, uno accanto all’altra.
<< Non sono sicura che tu lo permetteresti >>
Romeo si ritrovò a sorridere automaticamente quando Fulvia pronunciò quelle parole con un pizzico di disapprovazione nella voce, aggrottando maggiormente le sottili sopracciglia quasi del tutto inesistenti. Lasciò andare finalmente la stretta intorno alle sue ginocchia e si tirò in piedi, per poi mettersi proprio davanti la ragazza con le braccia allungate verso di lei.
<< Proviamo allora? >>
Fulvia scostò lo sguardo prima sulle sue mani tese e poi sul suo viso rilassato e leggermente arrossato dal calore del caminetto e della stanza, la canzone natalizia che stavano ballando i loro genitori era cambiata da un pezzo, ma i quattro continuavano a confabulare tra di loro, senza badare ai loro figli poco distanti. Lo sguardo accigliato di Fulvia che aveva avuto fino a quel momento si rilassò lentamente quando si ritrovò ad annuire e ad afferrare con tutta la forza di cui era capace le braccia di Romeo, saldamente strette alle sue.
Fulvia rimase piuttosto sorpresa quando Romeo la sollevò dalla sedia a rotella con una semplicità unica, sentiva il suo corpo cedere inevitabilmente alla forza di gravità e perdere forza lì nelle gambe, ma Romeo non le permise di cadere.
Con un’agilità che non gli sembrava propria, infilò i piedi sotto quelli di Fulvia, la strinse forte per la vita e le posizionò le braccia dietro il collo, collo al quale la ragazza si aggrappò con tutte le forze di cui era a disposizione.
<< Hai visto? Adesso puoi guardarmi negli occhi >>
Mormorò Romeo ridacchiando leggermente, Fulvia percepì un principio di affaticamento nella sua voce, ma non disse nulla, limitandosi a guardarlo negli occhi ridenti e lievemente piegati in sottili rughe agli angoli. Non si era nemmeno resa conto che Romeo aveva preso ad oscillare, imitando una sorta di movimento tipico del ballo lento, e a Fulvia non importò affatto che non si stessero muovendo troppo, le bastava restare con Romeo.
<< Buona Vigilia di Natale >> Bisbigliò stringendosi ancora di più a lui e nascondendo la faccia sulla sua spalla, Romeo sorrise leggermente.
<< Buona Vigilia anche a te >>


_______________________________
Effe_95

Buonasera a tutti :)
Sono tremendamente in ritardo lo so, ma a mia difesa voglio dire che questo capitolo è stato davvero difficile da scrivere ed è lungo il doppio di quanto sono solita scrivere.
Quindi, per questo piccolo relago, spero mi perdoniate.
Allora, come avevo accennato nel precedente capitolo, comincia da qui la lunga serie di capitoli
( cinque con quest'ultimo compreso ), incentrati sul giorno della Vigilia di Natale, e questo è anche il motivo per cui accanto a Dicembre c'è scritta la data, sarà l'unico caso in cui specificherò il giorno esatto. Come avrete notato questo momento rappresenterà un punto di svolta per tutti, non necessariamente positivo, ma significativo.
Abbiamo cominciato con Enea e Beatrice, e qui lascio commentare voi ;), Cristiano e Sonia, in una situazione particolare, ma spero che quella parte sia riuscita a chiarirvi ancora di più i loro personaggi e con Romeo e Fulvia. 
Posso già anticiparvi da adesso chi troveremo nel prossimo capitolo, ovvero: Alessandra e Zosimo, Gabriele e Katerina, ed Aleksej e Miki. 
Spero il capitolo vi sia piaciuto, grazie mille come sempre di cuore a tutti voi.
Risponderò alle recensioni il prima possibile.
Alla prossima spero. 


 

Ritorna all'indice


Capitolo 30
*** Il Tronchetto di Natale, Il posto più improbabile e Ti perdono. ***


I ragazzi della 5 A
 
30. Il Tronchetto di Natale, Il posto più improbabile e Ti perdono


24 Dicembre

Zosimo era più allegro del solito quella mattina.
Quando aveva aperto gli occhi alle prime luci del giorno, era felice e pieno di buoni propositi per la giornata. Era sceso dal letto come un tornado scalciando malamente il pesante piumone rosso, aveva appoggiato un piede scalzo su uno degli spartiti di suo padre, ed era scivolato lungo disteso per terra come tutte le mattine. Si era preparato in fretta e furia facendosi una doccia gelata e aveva raggiunto la cucina pimpante, con una manica della maglietta ancora mezzo sfilata, per trovare il padre appoggiato al ripiano da lavoro, con la mano sinistra occupata da una tazza di latte caldo e l’altra, la destra, da uno spartito musicale il cui titolo spiccava al contrario attraverso la trasparenza del foglio.
Arturo Marino era un uomo di mezz’età piuttosto magro, alto e mingherlino come suo figlio, aveva folti capelli riccioluti screziati di bianco, gli occhi azzurri contornati dalle rughe e un’espressione sempre sognante sul viso.
<< Buongiorno papà! >> Commentò allegramente afferrando una briosce ancora calda dalla busta aperta sul tavolo, erano rare le volte in cui Arturo scendeva a prendere la colazione al bar sotto casa, ma la Vigilia di Natale era una tradizione.
<< ‘giorno figlio! >> Rispose l’uomo senza sollevare gli occhi dallo spartito, quella mattina indossava un pullover rosso con sopra ricamata una renna, e sotto quest’ultimo spuntava il colletto bianco di una camicia. Zosimo si mise seduto comodamente su una sedia, spargendo tutte le briciole sul tavolo ingombro di fogli, libri, tazze sporche e macchie di caffè ovunque, con una di queste si sporcò la manica della maglietta.
<< Tra un po’ devo scendere per una lezione di recupero dell’ultimo momento, tornerò per ora di pranzo >> Commentò distrattamente l’uomo, spostandosi dal ripiano per cercare qualcos’altro tra quel marasma impossibile di fogli, Zosimo tamburellò distrattamente con l’indice sul bordo di legno del tavolo.
<< Devi lavorare anche il giorno della Vigilia? >>
Domandò esitante, passando a giocare con il bordo frastagliato di uno spartito, Arturo sollevò gli occhi chiari e li posò per la prima volta sul figlio, distratto a guardare come le sue dita seguivano il filo sottile del ruvido foglio macchiato di vecchio inchiostro.
<< Si tratta solo di un paio d’ore >> Zosimo sollevò velocemente gli occhi quando sentì quella nota d’ansia nella voce del padre, Arturo non l’aveva mai detto ad alta voce, ma era sempre preoccupato di non fare il suo dovere di genitore come avrebbe dovuto.
Zosimo lo capiva bene anche senza che suo padre glielo dicesse, perciò mise su il suo miglior sorriso facendosi spuntare le fossette sulle guancie.
<< Allora ti aspetto per pranzo >>.
Le sottili labbra di Arturo si piegarono in un sorriso triste che si rispecchiava negli occhi, probabilmente non ci era cascato nemmeno un po’, ma non disse nulla, si limitò a scompigliare affettuosamente i capelli ricci e ribelli del figlio.
Qualche minuto dopo Zosimo si ritrovò da solo, seduto sulla sedia in cucina con la testa stesa sul tavolo, muovendo le dita della mano destra a ritmo dei rintocchi dell’orologio, che era andato avanti solamente di un altro minuto.
Il periodo delle feste natalizie era uno dei suoi preferiti, adorava l’atmosfera calda e accogliente che veniva a crearsi, adorava osservare il gioco di luci che l’albero di Natale creava sui vetri appannati dalla condensa, e l’odore dei biscotti appena sfornati di sua nonna, ma la sensazione di mancanza che avvertiva guardando la sedia vuota di sua madre non lo lasciava mai.
E gli faceva apparire sbagliati quei sentimenti.
Era piuttosto sovrappensiero quando qualcuno bussò gentilmente al campanello, alzò di scatto la testa dal tavolo e aggrottò le sopracciglia, raggiungendo con passo felpato il piccolo ingresso. Non aspettava nessuno in particolare quella mattina, l’unica nonna che gli era rimasta sarebbe arrivata nel primo pomeriggio per preparare la cena, e suo padre era andato via da troppo poco tempo per essere già di ritorno, rimase piuttosto sorpreso quando, accostato l’occhio allo spioncino della porta, intravide Alessandra, la cui immagine era leggermente distorta dal vetro.
Aprì l’uscio di casa con un sorriso allegro sulle labbra e la sorpresa dipinta negli occhi, Alessandra se ne stava ferma sul pianerottolo in un lungo cappotto nero, con la sciarpa avvolta intorno al collo, e un pacchetto piuttosto grande tra le mani.
<< Buona Vigilia di Natale >> Disse sorridendogli.
Zosimo fece un passo indietro per farla entrare, e quando Alessandra mise piede nel piccolo ingresso, tutto il freddo che l’avvolgeva svanì a contatto con il calore della casa.
<< Non ti aspettavo! Che bella sorpresa >> Commentò allegro Zosimo, mentre sistemava il cappotto che la ragazza si era appena sfilata sull’appendi abiti. Alessandra si aggiustò distrattamente una ciocca dei suoi sottilissimi capelli dorati dietro l’orecchio e gli porse il pacchetto che aveva custodito gelosamente fino a quel momento tra le mani.
<< Sono venuta a portarti questo Tronchetto di Natale, l’ho preparato con mamma >>
Zosimo sollevò la testa piuttosto sorpreso, afferrando il dolce con una certa titubanza.
<< E ne avete fatto uno solo per me e mio padre? >>
Domandò sbirciando attraverso una fessura, avevano entrambi raggiunto la cucina e Zosimo posizionò il pacchetto sul tavolo, facendo un po’ di posto tra il disordine generale.
<< Si … ho pensato che magari non avreste avuto un dolce per stasera, così … >>
Alessandra era piuttosto imbarazzata mentre pronunciava quelle parole, Zosimo sollevò gli occhi da cerbiatto per fissarla, il principio di un sorriso allegro gli accarezzava le labbra e le fossette avevano già fatto capolinea.
<< Vogliamo aprirlo? Sono troppo curioso di vedere com’è! >>
Sbottò allegro, afferrando saldamente la mano della ragazza per trascinarla ancora più vicina a lui, il gesto fu talmente destabilizzante che Alessandra andò a sbattere con il fianco sottile e ossuto sulla gamba di Zosimo, che la incitava ad aprire il pacchetto senza mostrare segni di sorpresa o disagio.
Mentre scioglieva i laccetti che legavano il pacchetto creato con tanta cura e amore, Alessandra ripensò a quanto il tempo trascorso con quel folletto uscito da un libro di fiabe le avesse fatto bene e le scaldasse il cuore. Zosimo non era il principe azzurro sul destriero bianco che aveva sempre sognato fin da bambina, era piuttosto quel personaggio secondario, la spalla del protagonista che nessuno notava, che nessuno aveva notato a parte lei.
<< Oh, ma è meraviglioso! E’ quasi un peccato mangiarlo >>
La voce di Zosimo la riportò bruscamente alla realtà, Alessandra abbassò lo sguardo sulla scatola aperta, il dolce era in bella mostra e lui lo guardava con gli occhi scintillanti e l’espressione di un bambino estasiato ed entusiasta.
Alessandra si ritrovò a ridere senza nemmeno rendersene conto.
<< Perché ridi? >> Chiese lui leggermente sorpreso, con le guancie arrossate.
<< Perché sembri felice proprio come un bambino >>
Confessò lei, prendendo a passare ritmicamente la punta delle dita sul bordo laccato della sedia che aveva davanti, Zosimo abbassò leggermente la testa di lato come se stesse riflettendo su qualcosa, poi spostò lo sguardo sul viso da bambina di Alessandra, sugli occhi verdi, sul sorriso gentile, sulle sopracciglia sottili, e pensò che fosse proprio bella.
Forse troppo bella per uno come lui.
<< Perché ero davvero un bambino l’ultima volta che mi hanno fatto un tronchetto come questo, sai? >> Mentre parlava, Zosimo si era appoggiato con le braccia sul bordo della stessa sedia che fino a poco prima aveva sfiorato Alessandra, il suo sguardo era lontano, perso in qualche ricordo che lei non poteva vedere, ne toccare. << Evidentemente sono rimasto fermo a quel momento senza nemmeno rendermene conto … >>.
<< Chi te lo preparò? >>
Alla domanda di Alessandra, gettata fuori quasi con impeto, Zosimo reclinò la testa, spostò lo sguardo su di lei e le fece un sorriso a trentadue denti, un sorriso intriso di una tristezza che Alessandra non gli aveva mai visto prima di allora.
<< Mia madre … avevo otto anni, era proprio il giorno della Vigilia se non ricordo male. Aveva male dappertutto e non riusciva più a stare in piedi come un tempo, ma si alzò lo stesso e stette sveglia tutta la sera per prepararmi quel Tronchetto. >> Zosimo continuava a tenere gli occhi puntati in quelli di Alessandra, che lo ascoltava senza battere ciglio, senza traccia di quella pietà che lui aveva temuto di scorgervi. << Se n’è andata un mese dopo >>.
Calò il silenzio per qualche minuto, Alessandra spostò lo sguardo sul tronchetto che aveva preparato il giorno precedente insieme alla mamma e si ritrovò a sorridere.
<< So … che magari non sarà buono come quello della tua mamma, ma se ti fa piacere, da adesso in poi te lo preparerò io … per tutti gli anni che verranno … >>
Nel pronunciare quelle parole aveva abbassato leggermente gli occhi, ma fu costretta a rialzarli immediatamente quando Zosimo le afferrò saldamente la mano.
<< Vuoi vederla? >>
E non aspettò nemmeno una risposta che la trascinò per un piccolo e stretto corridoio fino alla sua stanza, un posto stretto e caotico, il letto era ancora sfatto e il povero piumone malamente scalciato via giaceva a terra tra spartiti e vestiti.
Zosimo si fermò solamente quando si ritrovarono di fronte ad una mensola, Alessandra notò che era spoglia, ad eccezione di una foto bella grande, accompagnata ai lati da due candele accese e consumate.
Emilia Marino era una bella donna, Alessandra non poté fare a meno di notare quanto quel sorriso che le regalava dalla foto fosse simile a quello di Zosimo, aveva un viso rotondo e pieno, le labbra sottili e le fossette allo stesso identico posto del figlio. I capelli ricci, corti e neri come il carbone le incorniciavano il viso, e le sopracciglia doppie e folte marcavano gli occhi da cerbiatto marroni, profondi ed espressivi come quelli del ragazzo che le piaceva.
<< Ti assomiglia … >> Si ritrovò a mormorare, senza poter staccare gli occhi da quel sorriso.
<< Vero? >> Mormorò Zosimo, che nella foga della corsa, quando l’aveva trascinata nella stanza, le aveva afferrato la mano e non accennava affatto a lasciargliela.
<< Piacere di conoscerla signora >>
Bisbigliò Alessandra congiungendo le mani in posizione da preghiera, e guardando quel sorriso radioso, le sembrò quasi che Emilia le stesse rispondendo.
<< Comunque … credo che potrebbe andarmi bene anche il tuo Tronchetto, a patto che gli anni che verranno siamo molti >>.
Alessandra si girò a guardarlo, e fu come se qualcuno le avesse strizzato lo stomaco quando si accorse che il sorriso di Emilia glielo stava restituendo Zosimo.
<< Cercherò di fare del mio meglio >> Mormorò, girandosi nuovamente verso la fotografia con le mani giunte e lo sguardo sereno.
Zosimo la osservò e congiunse anche lui le mani, concentrandosi sulla madre.
<< Buona Vigilia di Natale mamma >>
<< Buona Vigilia di Natale signora >>
Mormorarono insieme, chiudendo gli occhi in una muta preghiera.
 
Aleksej adorava sentire la neve fredda sciogliersi sulla sua pelle calda.
Fin da quando era bambino aveva sempre avuto un rapporto speciale con il gelo, il freddo e la neve, in famiglia dichiaravano tutti che questa passione era dovuta al fatto che fosse nato in Russia, ma Aleksej non pensava fosse davvero quello il motivo, dopotutto, quel paese l’aveva lasciato all’età di nemmeno tre anni.
A lui piaceva pensare che fosse a causa di suo padre e di sua madre, quella biologica, che ce l’avesse nel sangue da sempre.
E anche quel pomeriggio, con lo sguardo volto al cielo già scuro, carico di stelle e macchiato di nuvole, non poteva fare a meno di assaporare quei piccoli fiocchi candidi che si posavano delicati sulla sua faccia scoperta. Se ne stava seduto sul bordo di una panchina, appoggiando i piedi lì dove in realtà avrebbe dovuto poggiarci il fondoschiena, aveva le mani nascoste nelle tasche del giubbotto sbottonato e i capelli biondi leggermente inumiditi dal freddo.
Aleksej aveva sempre adorato quel parco perché era straripante di ricordi.
Lì aveva conosciuto Claudia e l’aveva trascinata da suo padre, senza nemmeno sapere che si conoscessero e si fossero già amati, lì aveva trascorso i pomeriggi nella sua infanzia tra un gelato e l’altro con zia Iliana e zio Francesco, insieme ai suoi fratelli e ai suoi cugini, ed era in quello stesso parco che aveva conosciuto Miki quando andava alle medie.
La stessa Miki che stava aspettando su quella panchina, a sette anni di distanza dal loro primo incontro in una tiepida mattina di Settembre appena inoltrato.
Era ancora immerso nei suoi pensieri e aveva ancora gli occhi rivolti al cielo quando due mani affusolate e ghiacciate gli si strinsero saldamente intorno al petto.
Aleksej chiuse lentamente gli occhi e assaporò l’odore di iris e miele di Miki, che aveva appoggiato il mento sulla sua spalla e fatto in modo che le loro guancie si toccassero, il caldo della pelle morbida di lei contro il freddo della pelle ispida e ruvida di lui.
<< Cosa sta facendo il mio incosciente uomo delle nevi? >>
Mormorò lei ad un centimetro del suo orecchio, Aleksej ridacchiò divertito quando lei glielo mordicchiò affettuosamente e poi ci soffiò dentro.
<< Sta aspettando la sua bella >> Replicò con la voce roca, gli occhi ancora chiusi, le labbra carnose piegate in un bel sorriso, il capo ancora reclinato verso il cielo e le lentiggini ancora più visibili del solito sulla pelle pallida e nivea.
<< E chi può mai essere così incosciente da raggiungerti sul tuo castello di ghiaccio, attraverso una tormenta di neve, sulla cima della montagna più remota … >>
Mentre pronunciava quelle parole, la stretta di Miki si fece ancora più solida e robusta, e alcuni dei suoi capelli stuzzicarono la pelle di Aleksej lì dove andarono a posarsi delicatamente.
<< Qualcuno che sicuramente mi ama moltissimo … >>
Mormorò lui aprendo finalmente gli occhi, ancora specchiati nel cielo nero e macchiato di nuvole, la luna faceva la sua apparizione tra quest’ultime, un sottilissimo spicchio quasi evanescente.
<< Sicuramente … >>
Rimasero in silenzio per un po’, cullati dal sapore di quelle parole, mentre i colori sgargianti delle luci che avvolgevano gli alberi sempreverdi del parco si mischiavano senza sosta con la neve e i fiocchi, i bambini correvano e giocavano a rincorrersi e gli adulti passeggiavano lentamente, chiacchierando.
<< Questo è il tuo regalo >> Mormorò ad un certo punto Aleksej, abbassando finalmente la testa e tirando dalla tasca destra della giacca un pacchetto piccolo e quadrato.
Miki sciolse delicatamente l’abbraccio e fece il giro per ritrovarsi davanti a lui, che aveva il regalo posizionato sul palmo della mano, Aleksej notò che era emozionata, gli occhi chiari senza trucco scrutavano il pacchetto con interesse e le mani affusolate lo presero tremanti.
Aleksej aspettò con pazienza che Miki lo scartasse appoggiando i gomiti sulle ginocchia e le mani sulle guancie, distolse lo sguardo arrossendo quando gli occhi della ragazza si riempirono di lacrime.
<< Ma questo … >>  Miki stava guardando un piccolo anello d’argento con una pietra rossa al centro, la memoria la riportò indietro di qualche settimana, a quando lei e Aleksej stavano attraversando una strada e l’aveva notato, era entrata nel negozio con la grande aspettativa di comprarlo, per poi scoprire che costava troppo << … Aleksej, ma questo era troppo anche per te! >> Mormorò lei asciugandosi frettolosamente il viso bagnato.
<< In effetti ho dato fondo a tutti i miei risparmi, ma se sei felice, non ne me importa poi tanto >> Disse lui senza guardarla negli occhi, ancora con la faccia appoggiata sui palmi delle mani e le guancie rosse dall’imbarazzo, Miki sapeva che Aleksej mostrava difficilmente le proprie emozioni, lo faceva così raramente che momenti come quelli erano preziosi.
<< Piuttosto! >> Sbottò all’improvviso il ragazzo, sciogliendo quella posizione rigida e girandosi bruscamente verso di lei, le prese il pacchetto, sfilò l’anello e le afferrò con rudezza la mano << Perché non lo indossi, invece di piangere? >>
E dette quelle parole le infilò l’anello all’anulare della mano sinistra.
Miki lo lasciò fare senza dire una parola, e non disse nulla nemmeno quando lui continuò a tenerle stretta la mano, si limitò ad estrarre un pacchetto dalla lunga borsa di pezza che portava a tracolla, con i ricami di vari fiori stampati sopra.
<< Questo è per te >> Aleksej guardò il suo regalo con un’espressione indecifrabile, gli occhi azzurri e taglienti erano posati sulla carta da regalo con gli orsacchiotti di Natale dipinti sopra, lo afferrò con la mano sinistra e lo appoggiò sulle ginocchia, così da scartalo mentre continuava a stringerle le dita con la destra.
Quando la carta venne completamente via, Aleksej si ritrovò davanti l’ultima edizione di un libro che stava cercando disperatamente e non aveva trovato da nessuna parte.
<< Dove l’hai … tu … come … >>
Miki si ritrovò a ridacchiare di fronte il balbettio uscito dalle labbra del fidanzato, Aleksej aveva ancora le guancie arrossate, un po’ per il freddo un po’ per l’imbarazzo, e gli occhi prima freddi e silenziosi furono attraversati da un’intensa dose di emozioni.
<< Sono stata fortunata Alješa, l’ho trovato su una bancarella sotto un mucchio di altri libri vecchi e polverosi. Sai … credo proprio che sia stato qualcuno a guidarmi … >>
<< A guidarti proprio verso il posto più improbabile dove trovarlo eh? >>
Miki sorrise, si sporse in avanti e gli lasciò un bacio sulla fronte, fra i capelli biondi.
<< Dopotutto … non è stato qualcuno a guidarmi in questo parco, il posto più improbabile di tutti, tanti anni fa, per incontrare te? >>
Aleksej posizionò il libro sulle gambe in modo tale che non cadesse, appoggiò la fronte su quella di Miki e le prese il viso tra le mani.
<< E credi davvero che sia stato un bene per te? Lo sai, io … >>
Miki non gli permise di continuare la frase perché appoggiò le labbra su quelle di lui.
<< Buona Vigilia di Natale >> Gli mormorò ad un centimetro dalle sue labbra.
Aleksej sospirò pesantemente, accennò un piccolo sorriso e le accarezzò i capelli.
<< Buona Vigilia anche a te >>
 
Gabriele aveva assolutamente bisogno di respirare.
Quando raggiunse la cucina vuota e silenziosa, non poté fare a meno di tirare un sospiro di sollievo. Il suo bisogno di restare da solo non era assolutamente dettato dal fastidio di stare con tutta la sua famiglia al completo, era piuttosto la necessità assoluta di staccare la spina.
Di lasciare che il suo cervello si spegnesse il più a lungo possibile.
Quando si lasciò cadere sulla sedia, di fronte ad un tavolo ingombro di piatti, pentole e padelle sporche, le voci dei suoi parenti lo raggiunsero lontane, attutite dai numerosi muri che li dividevano, erano come un ronzio di sottofondo.
La voce allegra e spensierata di suo cugino Andrea, la risata roca di Francesco, quella lieve di Pavel, li aveva lasciati tutti nel salotto con la scusa di dover andare in bagno.
E dopotutto si era anche risparmiato l’ennesima partita a tombola, tanto vinceva sempre nonna Luna e lui non faceva nemmeno un ambo.
Distrattamente, spostò lo sguardo sul polso sinistro, coperto dal lungo pullover che indossava, sollevò leggermente la manica e diede uno sguardo al braccialetto d’argento, con la scritta “Do ut des” che scintillava, lo indossava da qualche giorno e non aveva il coraggio di disfarsene. Era stato bravo a fingere per tutta la sera che la cosa non mi importasse granché, era stato bravo ad ignorarla e sorridere con tutti, ad essere sempre lo stesso.
Era stato bravo perché tutto sommato per gli altri non era cambiato nulla.
Abbandonò la testa sul tavolo e chiuse gli occhi, i capelli del ciuffo gli finirono immediatamente negli occhi ma non li spostò, dopotutto se lo meritava quel dolore.
Aveva lasciato andare Katerina perché cinque anni di differenza erano tanti a quell’età, perché se n’era reso conto quel giorno al supermercato, e sebbene la frase di quella commessa fosse stata fuori posto ed eccessivamente esagerata, il concetto di fondo non cambiava.
Rimase piuttosto scioccato quando qualcuno accese la luce della stanza.
Spalancò immediatamente gli occhi e sollevò la testa, sperando vivamente che non si trattasse di sua nonna Luna, che lo capiva sempre con un solo sguardo, ma quando si rese conto di chi avesse compiuto quel gesto, cambiò frettolosamente idea.
Katerina era rimasta ferma immobile sulla soglia, con ancora la mano appoggiata sull’interruttore abbassato, le labbra carnose erano leggermente spalancate, mentre gli occhi grigi, allungati da una matita nera, lo fissavano sbigottiti.
Cercò in tutti i modi, ci provò davvero ad indurire lo sguardo, ma quando incrociò gli occhi verdi ed arrossati di Gabriele, quando seguì il profilo di quei lineamenti aspri, non poté fare a meno di sentire una stretta alla bocca dello stomaco.
<< Che c’è, non ti senti bene? >> Domandò facendo finta di nulla, mentre entrava finalmente nella cucina, Gabriele strinse forte le mani a pugno davanti a se sul tavolo, le nocche erano bianche per lo sforzo.
Si stavano dando entrambi le spalle in quel momento, lui seduto a far nulla su quella sedia, lei con le mani sotto l’acqua del lavandino, fingendo di prendere un bicchiere per bere.
<< No … sto bene, avevo solo bisogno di silenzio >>
Katerina non replicò nulla alle parole mormorate di Gabriele, si limitò ad asciugare le mani spinta da un irrefrenabile desiderio di scappare, prima che si precipitasse da lui per stringerlo, ma quando gli passò accanto, fu Gabriele a non sapersi controllare.
L’afferrò per la vita e la trasse a se, seppellendo la faccia nel suo ventre.
<< Ehi Katja … mi dispiace davvero molto di averti ferita >>
Katerina sentì tutto il corpo cedere istintivamente al tocco delle mani di Gabriele e al calore del suo respiro così a contatto con la sua pelle, chiuse gli occhi e trasse un respiro profondo.
<< Non avrei dovuto illuderti in quel modo >> Quelle parole la gelarono sul colpo, provò l’impulso irrefrenabile di scostarlo bruscamente e gridargli contro, fregandosene di quello che avrebbero potuto dire gli altri, gettandogli in faccia le lacrime che aveva versato tutta la notte per colpa sua, e l’avrebbe anche fatto se lo sguardo non le fosse ricaduto sul braccialetto che un tempo era stato suo, e in quel momento adornava il polso del ragazzo.
Gabriele non se ne accorse, aveva ancora lo sguardo seppellito nel ventre di lei e non ricordava di non essersi abbassato la manica del pullover quando era entrata.
Guardando quel braccialetto, Katerina capì molto più di quanto avesse fatto in precedenza.
<< Ti perdono … ma lasciami andare adesso >>
E con tutta la forza di cui era capace scostò le mani di Gabriele dai suoi fianchi e lasciò la cucina, nascondendosi immediatamente fuori la porta, appoggiandosi sulla parete per riprendere fiato.
Gabriele rimase con le braccia sospese, il profumo di cocco nelle narici e una fitta nel petto.
<< Buona Vigilia di Natale … >> Mormorò a mezza voce.
Katerina chiuse gli occhi quando sentì quelle parole sussurrate.
Buona Vigilia anche a te …


_________________________

Effe_95

Buongiorno :)
Eccomi ritornata, sono viva!
Scusatemi davvero, questa volta ci ho messo tantissimo, ma la settimana prossiva avrei una prova intercorso terribile e tra l'altro il capitolo è stato proprio difficile da scrivere.
Comunque, spero che vi sia piaciuto perchè ci ho messo l'anima.
So che magari la parte di Gabriele e Katerina non è proprio il massimo, ma è tutto scritto tra le righe e tra l'altro avevo accennato che non per tutti questo momento sarebbe stato decisivo positivamente.
Grazie mille come sempre per l'appoggio, il sostegno e le vostre bellissime parole.
Nel prossimo capitolo troviamo: Italia ed Ivan, Zoe e Igor, Giasone e Muriel :)
Alla prossima.
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 31
*** One-on-one, Scivolate e Ricotta. ***


I ragazzi della 5 A
 

31. One-on-one, Scivolate e Ricotta.


24 Dicembre

Giasone aveva tentennato per tutta la strada.
Aveva tentennato domandandosi se avesse fatto la cosa giusta ad invitare Muriel.
Le aveva dato appuntamento davanti la palestra dove svolgevano gli allenamenti, era stato un impulso che non era riuscito a controllare, ma poi aveva cominciato a tentennare.
L’aveva fatto perché non era mai stato bravo in certe cose, non era mai stato bravo con le ragazze, erano troppo delicate, piangevano immediatamente e si arrabbiavano.
Cambiò immediatamente idea non appena la vide.
Non era diversa dal solito.
Indossava un paio di jeans stracciati e leggermente pendenti che si stringevano verso le caviglie in un leggero risvolto, attraverso gli squarci nella stoffa si intravedevano porzioni abbondanti di pelle e i muscoli delineati delle gambe.
Sulla parte superiore indossava la maglietta extralarge di una squadra di basket che non conosceva e un cappotto color kaki leggermente peloso sul collo e sulle maniche.
I capelli neri e corti erano tenuti di lato da due mollettone rosse, ma un ciuffo ribelle era scappato alla stretta e le ricadeva sbarazzino sulla fronte, era leggermente truccata ma nulla di troppo appariscente, sui lobi spiccavano come fanali i soliti orecchini a forma di coccinella.
Giasone la trovò bellissima, e si diede dello stupido per averlo pensato.
Muriel non gli aveva mai fatto quell’effetto prima che gli venisse la brillante idea di baciarla, prima che si accorgesse di quello che lei provava per lui.
La verità era che Giasone aveva paura di quei sentimenti, non credeva di esserne all’altezza.
Anche se … anche se provava una rabbia tremenda al solo pensiero che Muriel potesse capitare ancora una volta con un tipo come Cristiano.
<< Ehi, sei in ritardo di dieci minuti lo sai?! >>
Lo aggredì immediatamente lei tirandogli un cazzotto piuttosto forte sulla spalla, Giasone rimase talmente spiazzato che l’unica cosa intelligente da dire che gli venne in mente fu:
<< Nove in realtà >>.
Muriel incrociò le braccia al petto, stringendo la maglietta sotto il seno, e si lasciò scappare una risata divertita piegandosi leggermente in avanti, Giasone deglutì leggermente e distolse lo sguardo, sperava vivamente che le guancie non fossero troppo rosse.
<< Hai finito di ridere?! >> Brontolò aggredendola, Muriel si passò frettolosamente i pollici agli angoli degli occhi e tentò di mettere su una faccia seria, senza riuscirci troppo. << Al diavolo! >> Sbottò Giasone e le diede le spalle, ma non fece in tempo a muovere nemmeno un passo che lei lo afferrò per un braccio, prendendogli una mano con tale forza da far male.
<< Andiamo, non rido più, lo prometto >>
Giasone fece il gravissimo errore di guardarla, e si ritrovò con i suoi occhi verdi, limpidi e sinceri puntati sul viso.
<< E non guardami in quel modo! >> Strepitò infastidito, ma non fece nulla per liberarsi dalla sua stretta, Muriel aveva le mani piccole, leggermente callose a furia di tutte le volte che aveva stretto tra quelle dita una palla da basket, ma calde.
Lui finse di essere offeso per tutto il tempo che ci misero a raggiungere la palestra, quel giorno non avrebbe dovuto essere aperta, ma lui aveva ottenuto le chiavi e grazie all’aiuto di Livia anche un permesso speciale per poterla utilizzare per qualche ora.
Quando misero i piedi nell’immensa stanza vuota, con gli spalti desertici e le luci ancora fioche perché appena accese, i loro passi sul pavimento lucido rimbombarono ovunque.
<< Allora, perché mi hai portata qui? >> Chiese Muriel, guardandolo con i suoi grandi occhi.
In realtà Giasone non sapeva perché l’avesse portata proprio lì, era il primo posto che gli era venuto in mente e la sera prima l’aveva invitata quasi per impulso, dopo aver subito per un’ora intera il lavaggio del cervello da parte di Ivan.
 Aveva sperato di scampare a quella domanda, perché non avrebbe saputo come rispondere, allora fece la prima cosa che gli venne in mente, vide una palla da basket abbandonata sul campo, la raccolse e la mostrò alla ragazza.
<< Ti sfido in uno one-on-one >>
Muriel rimase talmente stupita che le si spalancò leggermente la bocca e gli occhi si sgranarono, Giasone sperò con tutto il cuore di averla distratta.
Non voleva che Muriel continuasse con altre domande imbarazzanti, o che tornasse su quella precedente, l’avrebbe mandato proprio nel panico.
<< Ci sto >> Replicò poco dopo la ragazza con sua enorme sorpresa, e Giasone notò una strana luce competitiva farle scintillare gli occhi.
Muriel si sfilò velocemente il giaccone pesante, rivelando che la grossa maglietta che indossava era a giro – maniche, e che sotto portava la solita maledetta fascia.
Era già in posizione quando Giasone si riprese dallo shock, si liberò a sua volta del cappotto e rimase in camicia e canottiera.
Nella palestra faceva piuttosto freddo, ed entrambi non avevano le scarpe adatte per dribblare, penetrare, saltare oppure schiacciare, ma nessuno dei due sembrava intenzionato a perdere. Il primo a tenere palla fu Giasone, palleggiò distrattamente per alcuni secondi, scrutò attentamente la posizione di Muriel e poi tentò di scartarla sul suo lato cieco, ma come una pantera ben addestrata, la ragazza lo raggiunse bloccandogli il passaggio verso il canestro. Giasone sgranò gli occhi, lei gli regalò un sorriso furbetto e poi gli rubò la palla con una velocità tale da scombinargli i capelli, lui non poté fare altro che ammirare il meraviglioso salto di Muriel e vederla schiacciare con il sorriso sulle labbra.
Tentarono altre quattro volte, ma il risultato fu sempre lo stesso.
Giasone era piuttosto frustrato, ansimavano entrambi per lo sforzo fisico, lui si era alzato le maniche della camicia perché stavano sudando entrambi nonostante il freddo.
Muriel lo scrutava dall’altra parte del campo, palleggiava distrattamente e aspettava che lui si riprendesse, poiché era piegato in due con le mani appoggiate sulle ginocchia e respirava a pieni polmoni.
<< Ti arrendi? >>
Lo rimbeccò Muriel, anche lei aveva il fiatone, ma a differenza di Giasone sorrideva, e sembrava ancora fresca come una rosa e agile come un’anguilla. Aveva i muscoli delle braccia tesi per lo sforzo del palleggio e la pelle accarezzata da un sottile strato di sudore.
<< Sta zitta! Questa volta di batterò >> Si limitò a replicare lui, Muriel rispose con un verso di scherno e si scagliò nuovamente contro di lui per dribblarlo con eleganza.
Giasone non poté fare a meno di perdersi a contemplare i movimenti fluidi della ragazza, i capelli che le accarezzavano il viso, il sorriso a trentadue denti, la maglietta aderente sul ventre, la vide avvicinarsi come un piccolo tornato e scartarlo ancora una volta.
Ma prima che potesse andare a segno di nuovo, Giasone la bloccò per un polso e se la tirò contro, la palla scivolò e continuò a rotolare incurante fuori campo, mentre il ragazzo premeva avidamente le sue labbra su quelle della ragazza.
Il movimento era stato talmente brusco che entrambi scivolarono su del sudore e finirono rumorosamente a terra, ma nonostante tutto, Giasone non le liberò le labbra fino a quando non rimasero entrambi a corto di fiato, fino a quando lei non gli poggiò le mani sul petto e strinse forte la stoffa della canottiera bianca che portava sotto la camicia.
Giasone si scostò leggermente e batté un pugno sul pavimento.
<< Dannazione! >>
Non era riuscito a controllarsi, non ci era proprio riuscito.
Era la seconda volta che la baciava in quella palestra, si passò una mano tra i capelli e azzardò un’ occhiata verso Muriel, la ragazza si era messa seduta sulle ginocchia, aveva le mani tramanti schiacciate sulla bocca e gli occhi sgranati.
Lui sospirò pesantemente, si mise seduto come un indiano e appoggiò un gomito sulla coscia, abbandonando una guancia sul pugno della mano, la guardava con occhi stanchi.
<< Te la sei proprio cercata sai? >> Muriel mise su un’espressione indignata quando sentì quelle parole, la voce sembrava esserle morta in gola, perché cercò più volte di articolare qualcosa, ma non ci riuscì mai. << Perché devi essere così dannatamente bella?! >>
Giasone pronunciò quelle parole imbronciato, come un bambino capriccioso.
<< B- bella?! Ma io non … >>
Cominciò a balbettare lei, ma Giasone la stroncò con un verso di scherno.
<< Smettila, sei bella, e questo mi fa incazzare ancora di più! >>
Muriel era fermamente certa che quella conversazione non avesse più alcun senso, non sapeva nemmeno come controbattere ad una frase del genere, tra l’altro, le pizzicavano ancora le labbra per il contatto appena avvenuto e il cuore galoppava senza sosta.
<< C- come? Perché dovrebbe farti incazzare? Che cosa stai dicendo?! >>
<< Mi fa incazzare perché preferirei tu fossi una brutta racchia, piuttosto che sopportare gli sguardi che gli altri di puntano addosso! >>
Giasone perse totalmente il controllo e alzò la voce, poi cadde un silenzio di tomba.
Muriel sobbalzò e strinse forte i pugni sulle gambe, continuando a guardarlo con gli occhi sbarrati, sospirò pesantemente e sciolse la posizione che aveva avuto fino a quel momento.
<< Tanto vale che adesso mi giochi tutte le carte, no? Mi sono innamorato di te mia piccola power forward. Hai fatto proprio canestro, complimenti … >> Giasone si lasciò scappare un sorriso amaro << … non me ne ero accorto fino ad un istante fa, ma cavolo non hai idea … >>
Non riuscì mai a terminare la frase che Muriel gli saltò addosso stringendolo in un abbraccio talmente potente che finirono ancora una volta per terra.
<< Davvero? Davvero sei innamorato di me? >>
Giasone avrebbe voluto scostarla bruscamente e dirle di stare zitta, ma quando vide il sorriso luminoso che le incideva il viso, la luce in quegli occhi, non ci riuscì proprio.
Si limitò a sollevare una mano e a scostarle una ciocca di capelli dalla fronte.
<< Ci sono solo due regole che dovrai seguire da adesso in poi … >> Mormorò, continuando ad accarezzarla << … non guardare e non parlare con altri ragazzi, non fare la stupida e sorridi il meno possibile, e poi … >> Muriel scoppiò a ridere e Giasone tacque.
<< Ma questa è più di una regola … >> Sussurrò, ancora con il riso sulle labbra.
Giasone alzò gli occhi al cielo, poi infilò con una certa fatica una mano nella tasca dei jeans ed estrasse un biglietto un po’ stropicciato.
<< Facciamo così allora, per ora prendi il tuo regalo di Natale >>
Muriel afferrò il pezzetto di carta con mani tremanti e le sopracciglia aggrottate, poi spalancò gli occhi e si portò una mano sulla bocca.
<< Non è possibile … >>
<< E’ un biglietto per vedere la nazionale di basket italiana, giocano tra un mese. Avrei voluto prendere anche un altro biglietto per accompagnarti, ma erano già finiti allora … >>
Giasone si interruppe quando sentì Muriel frugarsi nella tasca ed estrarre a sua volta un biglietto, identico a quello che le aveva dato lui.
<< Anche io … anche io ti avevo preso un biglietto per la partita >>
Giasone rimase talmente stupito che strappò senza troppi complimenti i biglietti identici dalle mani della ragazza e li guardò con gli occhi sgranati dalla sorpresa.
<< Non posso crederci … >> Mormorò << … guarda! >>
<< I posti sono vicini! >>
I due ragazzi si guardarono negli occhi e scoppiarono a ridere, Muriel era ancora stesa sul petto di Giasone, e vi appoggiò la testa contro continuando a ridere.
<< Buona Vigilia di Natale, power forward >>
<< Buona Vigilia di Natale, coach >>
 
Ivan era nervoso.
Se ne stavano seduti al tavolo di quel bar già da una mezz’oretta, ma lui non era ancora riuscito a bere il suo caffè perché gli tremavano le mani e aveva paura di rovesciare tutto.
Quando Italia gli aveva dato appuntamento la sera precedente all’Olimpo, Ivan aveva rischiato di collassare, lei aveva un’espressione talmente seria che l’aveva messo in agitazione, così quella notte non era riuscito a dormito bene.
Strinse distrattamente le mani intorno al bordo del pullover, all’interno di quel piccolo bar un po’ stravagante faceva davvero caldo, era stato costretto a sfilarsi prima il giubbotto, poi la felpa e in fine a sollevarsi anche le maniche, mettendo in risalto le braccia tatuate.
<< Il caffè si fredda se non lo bevi, sai? >>
Il commento di Italia gli fece alzare la testa di scatto, probabilmente Ivan non si era reso conto di avere la faccia aggrottata e un’espressione arcigna, come se fosse perso in altri pensieri, ma Italia preferì non farglielo notare e si limitò a sorridergli.
<< Scusami … sono un po’ distratto stamattina >>
Si giustificò miseramente lui, lasciando andare finalmente la maglietta stropicciata per stringere le dita sudaticce intorno alla tazzina ormai congelata.
<< Forse ti ho disturbato? Dopotutto è sempre la Vigilia … >>
Ivan scosse freneticamente la testa e lasciò andare nuovamente il caffè, conscio del fatto che non l’avrebbe bevuto più.
<< No, assolutamente no, mi ha fatto davvero piacere! >>
Italia gli sorrise lievemente, ed Ivan trovò che fosse ancora più bella del solito.
Non era struccata, aveva solamente un po’ di mascara sulle ciglia nascoste dalla montatura nera degli occhiali, dunque non lo si notava nemmeno se non si faceva attenzione, eppure Ivan non poteva fare a meno di pensare che fosse la ragazza più bella che avesse mai visto.
<< Ivan … posso farti una domanda? >> Italia accompagnò le sue parole allungando timidamente le dita verso il braccio di Ivan, che sobbalzò impercettibilmente quando i polpastrelli caldi si posarono su uno dei suoi tatuaggi << Cosa … cosa rappresenta questo?>>
Ivan sbatté ripetutamente le palpebre, abbassò lo sguardo e vide l’indice di Italia puntato su uno dei primi tatuaggi che aveva fatto, si schiarì leggermente la voce e tornò a guardarla.
<< Questo tatuaggio rappresenta un amore non corrisposto >>
Mormorò distrattamente, cercando di non badare troppo al fatto che Italia glielo stesse accarezzando ritmicamente, probabilmente senza nemmeno rendersene conto.
<< Hai un amore non corrisposto? >> Domandò lei con le sopracciglia aggrottate.
Ivan si sentì leggermente a disagio, aveva la forte tentazione di scostare il braccio, abbassare le maniche e nascondere tutto, non poteva certo dire ad Italia che quel tatuaggio l’aveva fatto a causa sua, in un momento di disperazione.
<< E’ … è complicato >>
<< Oh … capisco >>
Italia scostò immediatamente le mani e le nascose sotto il tavolo, quel contatto mancato così velocemente fece bruciare la pelle di Ivan lì dove fino ad un momento prima erano state adagiate le dita della ragazza. Probabilmente lui si rese conto troppo tardi dell’enorme sbaglio che aveva commesso, rispondendo in quel modo così evasivo, le aveva fatto credere di non voler affrontare l’argomento, le aveva fatto credere di essere innamorato di un’altra.
<< Beh … ecco vedi … non vado proprio fiero di questo tatuaggio >> Italia si accigliò nuovamente quando Ivan pronunciò quelle parole, ma lui non lo notò perché aveva lo sguardo fisso sul caffè che non aveva bevuto << Lei … lei mi piace da moltissimi anni, dalla prima volta che l’ho vista, ma non sono mai riuscito a dirglielo >> Ivan sollevò lo sguardo a fatica e lo pose nuovamente su quello di Italia, che lo osservava con i suoi profondi occhi neri, scuri come l’ossidiana più pura << Quel giorno mi ero proprio arreso, e allora, come monito, mi sono fatto tatuare questo … >>
Non aggiunse altro dopo quelle parole, si limitò ad abbassare nuovamente gli occhi.
<< Ma sei davvero così sicuro che lei non ricambierebbe mai? >>
<< Non lo so … puoi dirmelo tu? >>
Quando pronunciò quella domanda, Ivan aveva la voce bassa, aveva rialzato lo sguardo e le aveva anche afferrato una mano, delicatamente, aveva intrecciato tre delle sue dita a quelle di lei, con lo stesso braccio sul quale si era tatuato quello che lui aveva definito un monito.
Italia trattenne impercettibilmente il fiato quando si rese conto di quelle parole, il cuore le galoppava freneticamente nel petto senza sosta, sapeva di aver spalancato gli occhi per la sorpresa, era felice, si sentiva scoppiare dalla gioia, ma allora perché …
Perché Ivan la guardava con quegli occhi tristi?
Le bastò guardarlo ancora una volta negli occhi per capirlo, perché Ivan non ci sperava affatto, non ci aveva mai sperato in tutti quegli anni.
Tutti quegli anni?! Italia non poteva credere che lui l’avesse amata per tutto quel tempo.
Non poteva credere di aver avuto l’oro a portata di mano senza accorgersene mai.
Era stata proprio una stupida.
<< Andiamo … andiamo a farci un giro? >>
Domandò all’improvviso, sciogliendo bruscamente le loro mani intrecciate, Ivan rimase talmente di stucco che annuì senza nemmeno rendersene conto, la vergogna e la delusione arrivarono solamente successivamente, quando pagarono il conto e lasciarono il bar.
La sensazione di essere rifiutati in quel modo brusco non l’aveva ancora provata.
E decise da quel momento in poi che non avrebbe voluto provarla mai più in vita sua.
Era una stretta talmente forte allo stomaco che gli veniva quasi da rimettere, avrebbe tanto voluto tornarsene a casa e sprofondare sotto le coperte per almeno cent’anni, magari farsi un bel pianto liberatorio, vegetare nel letto un altro secolo ancora e poi abbuffarsi di gelato.
Non era stato diretto con le parole, ma non pensava ci fosse bisogno di aggiungere altro, il gesto di Italia era stato piuttosto chiaro.
<< Eccoci arrivati! >>
La voce allegra di Italia lo riscosse dai suoi pensieri provocandogli un moto di nausea, come poteva avere quella voce così spensierata dopo averlo rifiutato in quel modo?
Poi rimase ancora più perplesso quando si rese conto di dove l’aveva portato.
Erano davanti l’enorme scalinata che portava alla chiesa più antica di tutta la città, quella che visitavano i turisti durante le vacanze, e anche in quel periodo era gremita di gente.
<< Cosa ci facciamo qui? >> Domandò con un filo di voce, Italia lo guardò con uno strano luccichio negli occhi e gli diede un colpetto affettuoso sul braccio.
<< Mi aspetteresti un attimo qui? >>
E prima che lui potesse rispondere, prima che potesse anche solo capacitarsi di quello che stava succedendo, la vide salire frettolosamente la scalinata, fino a fermarsi proprio a metà del percorso, dove c’era il primo spiazzo.
Ivan la osservava con le sopracciglia contratte, la vide sistemarsi la giacca, schiarirsi la voce, portasi le mani a coppa attorno alle labbra e poi gridare:
<< IVAN! SONO STRAMALEDETTAMENTE INNAMORATA DI TE! >>
Ivan ci mise un po’ di tempo per recepire quelle parole, si sentiva estremamente ottuso in quel momento, il groppo che sentiva allo stomaco era stranamente scomparso, come se l’organo avesse capito prima di lui il significato di quell’espressione.
La gente che saliva e scendeva le scalinate si era fermata per guardare quei due ragazzi un po’ strani, lui era sicuro di essere arrossito fino alla punta dei capelli, ma poi ci arrivò …
Italia era innamorato di lui?! Proprio di lui?
Il cuore gli scoppiò nel petto, fu preso da una sensazione indescrivibile, raccolse anche lui le mani a coppa intorno alle labbra e diede fiato alla poca voce che aveva sempre avuto.
<< IO LO SONO DA TUTTA LA VITA! >>
Italia non ebbe bisogno di sentire altre parole, ignorò gli sguardi delle persone, i sorrisi maliziosi sulle labbra degli adulti e le foto e i video che stavano girando alcuni turisti, si slanciò immediatamente in avanti scendendo le scale di corsa.
<< Attenta, le scale sono ricoperte di ghia … >>
Ivan non fece nemmeno in tempo a pronunciare la frase, che proprio all’ultimo gradino Italia mise un piede in fallo e scivolò, finendo dritta con la faccia sul petto del moro.
Lui le strinse talmente forte le braccia da farle male, ma per Italia il dolore fu assolutamente secondario, sollevò di scatto la testa, si mise in punta di piedi e lo baciò.
<< Ti ci sono voluti cinque anni per dirmelo? >>
Bisbigliò quando si furono separati, Ivan non riusciva a trovare le parole per quanto sentisse il cuore scoppiargli nel petto in quel momento, Italia sorrise quando lo vide imbambolato.
<< Buona Vigilia di Natale >> Mormorò, e si alzò ancora sulle punte per baciarlo, quella volta però, Ivan la strinse tra le braccia.
Italia non poté fare a meno di pensare che quella fosse stata la scivolata migliore della sua vita.
 
Igor si sentiva piuttosto irrequieto per giorno.
Senza saperne il vero motivo, si era svegliato proprio con la luna storta quella mattina, e per rincarare la dose, sua sorella l’aveva spedito al supermercato a comprare il pane.
Igor non riusciva davvero a capacitarsi di come si potesse dimenticare un alimento tanto importante proprio il giorno della vigilia, quando venivano a mangiare a casa tutti i parenti.
Tuttavia, dopo che gli avevano urlato contro per almeno mezz’ora sia sua sorella che sua madre, Igor non aveva avuto altra scelta che andarci, e quando aveva trovato le strade ancora più affollate del solito, si era proprio imbufalito.
Quando raggiunse il supermercato, era appena uscito da uno scontro di spalle con un tizio che era il doppio di lui, aveva i capelli scombinati e la giacca che gli era scivolata di traverso, sospirò pesantemente davanti le porte scorrevoli e poi entrò.
Era l’inferno.
Non aveva mai visto un supermercato talmente pieno di signore che correvano avanti e indietro come ossesse, di bambini che strillavano a tutto spiano e di mariti esauriti.
Si passò con esasperazione una mano sulla faccia e avanzò tra quel marasma di persone furtivamente, come se non volesse farsi notare, almeno gli toccava compare solo il pane
Proprio mentre formulò quel pensiero, il cellulare nella tasca della giacca prese a vibrare.
Lo estrasse con una certa difficoltà e aprì accigliato il messaggio di sua sorella.
Igor senti, dovresti prendere anche questa roba :
  • Latte
  • Burro
  • Bicchieri e piatti piani di plastica rossi
  • Limoni
  • Maionese “
Quando ebbe letto il messaggio, Igor fece un respiro profondo e cercò in tutti i modi di non fracassare l’apparecchio elettronico, dopotutto lui non aveva alcuna colpa.
Era sempre stato un tipo calmo che esternava poco i proprio sentimenti, e sebbene fosse incavolato nero, si diede un pizzico sul braccio e avanzò tra la ressa.
Il bancone dove vendevano il pane era invaso di persone, gli toccò prendere il numero e scoprire che era il centosedicesimo, mentre i numeri digitali annunciavano che stavano appena servendo il novantesimo.
Decise allora di andare a prendere prima tutto il resto nel frattempo che la fila scorreva, non fu difficile come si aspettava, riuscì a trovare il latte ed il burro al primo colpo, ci mise un po’ di più per trovare i limoni e la maionese, mentre i piatti non li trovò rossi ma blu, e li comprò lo stesso per fare un dispetto alla madre e alla sorella che l’aveva trattato come uno schiavo. Quando ritornò al bancone del pane, mancava solo una persona prima di lui, una ragazza che si stava sporgendo verso il bancone per prendere la sua porzione di ricotta.
Igor si ritrovò ad osservarla senza saperne il motivo, aveva il fisico flessuoso nascosto da un cappotto nero abbottonato, sotto quest’ultimo indossava un vestitino pieno di tulle su delle calze nere e un paio di stivaletti scuri, i capelli lisci e biondi le nascondevano il viso.
Quando si accorse del suo sguardo troppo attento, e del modo scandalizzato con cui lo stava fissando una vecchietta, arrossì prepotentemente e distolse l’attenzione.    
Si era sentito attratto fisicamente da quella sconosciuta e non ci trovava niente di male.
Era un uomo, e sebbene fosse così apatico, certe cose le sentiva anche lui.
Alzò nuovamente lo sguardo, giusto in tempo per vedere la ricotta sfuggire malamente tra le mani della bionda, che reggeva anche un cestino della spesa piuttosto pesante.
<< Attenzione! >>
Sbottò, e senza pensarci nemmeno un secondo, abbandonò il suo cestino per terra e afferrò il latticino prima che cadesse a terra provocando un bel disastro, aprendosi e riversando il contenuto sul pavimento già piuttosto provato dalla sporcizia.
<< Grazie mille! Mi hai salvato la vita … Igor? >>
Igor alzò immediatamente lo sguardo quando si sentì chiamare, e incassò il collo nelle spalle dalla vergogna quando si rese conto di aver appena aiutato Zoe, e di aver pensato quelle cose su di lei nemmeno un minuto prima. Non poteva credere che quell’incontro fosse davvero casuale, era il karma che stava cercando di punirlo per il modo in cui l’aveva trattata.
<< Zoe … tieni! >>
Balbettò rosso in viso, mentre la ragazza afferrava l’involucro con la ricotta miracolata, poi si girò verso il bancone, ignorando il sorriso malizioso del commesso, e chiese mezzo chilo di pane.  << Cosa ci fai qui? >>
Alla domanda di Zoe, Igor pensò che dopotutto fosse troppo sperare che lei avesse recepito il messaggio e se ne fosse andata facendo finta che non si conoscessero troppo.
<< Mi ci hanno mandato mia sorella e mia madre >>
<< Anche a me! >> Replicò immediatamente Zoe, con una voce eccessivamente squillante che lo infastidì parecchio. << Mia madre si dimentica sempre qualcosa, ma dico io! Come si fa a dimenticarsi il pane il giorno della vigilia?! >>.
Igor rimase piuttosto colpito da quel commento, lo stesso che aveva formulato lui appena uscito di casa, prese il pane che gli porgeva l’uomo e si voltò per la prima volta a guardarla negli occhi. Zoe stava sorridendo, e stringeva il cestello della spesa con entrambe le mani, quando Igor le guardò, notò che erano solcate da piaghe rosse per lo sforzo.
<< Hai preso tutto? Posso portarti il cestino fino alla cassa? >>
Le domandò senza nemmeno riflettere, ma gli era venuto spontaneo quando l’aveva vista con quelle mani sofferenti senza lamentarsi, non ci aveva mai fatto caso in effetti, ma Zoe non sembrava affatto una ragazza lamentosa come aveva creduto.
<< Oh, ti ringrazio … ma guarda che pesa! >>
Igor le sfilò gentilmente il cestello dalle mani e le rivolse un sorriso un po’ tirato.
<< Guarda che lo stesso vale anche per te >>
Zoe non aggiunse altro e lo seguì lentamente verso la cassa, prendendo a fregarsi le mani doloranti e ferite, Igor cercò di non dare troppo peso a quel gesto, che lei stava facendo di nascosto perché lui non se ne accorgesse.
La fila per la cassa era piuttosto lunga, i due si misero in fila in silenzio.
<< Con chi festeggi oggi? >> Le domandò improvvisamente lui, e Zoe trovò piuttosto sorprendente che fosse stato proprio Igor a cominciare la conversazione.
<< In realtà con tutta la mia famiglia sai? Vengono sia i genitori di mamma che quelli di papà, e siccome non ho molti zii ne molti cugini, riusciamo sempre a festeggiare tutti insieme. Quest’anno è toccato a casa nostra e allora mamma … >>
<< Mi dispiace >>
Zoe smise bruscamente il suo monologo quando sentì quelle due parole, si era bloccata con la bocca semiaperta e aveva guardato Igor leggermente sorpresa, come per accertarsi di aver sentito bene. Lui non la stava fissando, ma fece un sospiro fortissimo e sollevò lo sguardo.
<< Mi dispiace per quelle cose brutte che ti ho detto, per come ti ho trattata … >> Zoe sollevò immediatamente le mani e le scosse freneticamente, mettendo su un sorriso un po’ forzato, sembrava quasi che volesse fermarlo, rassicurarlo, ma Igor la interruppe prima che lei potesse aprire bocca. << La verità è che tu mi piacevi, ma mi ero fatto un’idea sbagliata di te. Non ti conoscevo, e ti avevo immaginata diversa. Quando ho scoperto che non eri esattamente come ti vedevo nei miei sogni io … mi sono spaventato. Ho dato la colpa a te, e invece era solo mia. Scusami davvero >>
Per la prima volta in tutta la sua vita, Zoe non trovava le parole esatte da utilizzare, non sapeva come replicare, cosa dire, le sudavano le mani e le stringeva convulsamente senza nemmeno rendersene conto.
Igor sospirò profondamente e le accennò un altro sorriso, finalmente si era tolto quel peso dalla coscienza, quando l’aveva vista al bancone non aveva pensato che potesse dirglielo, ma era stata proprio quella consapevolezza a farlo fuggire per tutto quel tempo.
<< Ascolta, quella volta, durante l’ora di educazione fisica … mi dicesti che anche tu eri capace di creare dei legami profondi … ti va di dimostrarmelo? Ti va di provarmi che avevo torto? >> Zoe percepì un leggero tremore nella voce di Igor, e riuscì a capire quanto gli stesse costando ammettere di essersi sbagliato, quanto fosse stato difficile per lui scusarsi con lei e pronunciare quelle parole. Annuì lentamente e gli sorrise.
<< Va bene >> Igor espirò profondamente quando sentì quelle due semplici parole.
Per lui furono meglio di un perdono.
<< A proposito … buona Vigilia di Natale Igor >>
<< Buona vigilia anche a te >>


___________________________
Effe_95

Buongiorno :)
Lo so che questa volta ho postato proprio tardi, ma come vi avevo accennato nel capitolo precedente, ho fatto una prova intercorso la settimana scorsa. Tra l'altro questo capitolo è estremamente lungo e ha richiesto di una produzione piuttosto faticosa.
Non so se esserne propriamente soddisfatta, e siccome non so cosa dire, aspetterò che siate voi a farmi sapere cosa ne pensate.
Volevo poi rettificare una cosa che mi sono accorta di aver sbagliato, avevo detto che i capitoli dedicati al giorno della vigilia erano cinque, ma in realtà ne sono quattro, e il prossimo è l'ultimo.
Vi chiedo scusa per l'errore, ma a quanto pare non so più contare xD
Nel prossimo e ultimo capitolo sulla vigilia troveremo Catena ed Oscar, Lisandro e Beatrice (anche se per loro sarà una situazione un po' particolare) e Telemaco e Fiorenza.
Grazie mille come sempre, risponderò alle recensioni il prima possibile.
Alla prossima spero :)
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 32
*** Frammenti, Coppette di frittura di pesce e Sono pronta. ***


I ragazzi della 5 A
 
32. Frammenti, Coppette di frittura di pesce e Sono pronta.


24 Dicembre

Lisandro fissava il soffitto da più di dieci minuti, e ne aveva imparato a memoria tutte le imperfezioni: la sottile linea di crepatura che accarezzava l’intonaco, una piccola bolla d’aria provocata dalla vernice e il colore leggermente ingiallito in alcuni punti.
Era steso sul letto ancora sfatto, la fodera del cuscino gli pizzicava spiacevolmente la nuca, il ticchettio della sveglia gli rimbombava nel cervello e il bordo leggermente sollevato del pantalone sulla gamba sinistra gli lasciava scoperto un pezzo di pelle che a contatto con l’aria fredda gli provocava brividi lungo tutto il resto del corpo, l’aveva abbassato già più volte con il piede sinistro, ma quello continuava a risollevarsi a contatto con il materasso e le lenzuola stropicciate. Cominciò a mordicchiarsi nervosamente le unghie ma smise immediatamente, per cominciare poi a contrarre le dita dei piedi all’interno dei calzini grigi.
Si girò sul fianco destro, immediatamente dopo sul sinistro, aggiustò la stoffa della maglietta che gli era scappata dai pantaloni, si rimise supino nuovamente, cominciò di nuovo a guardare il soffitto e …
Scattò a sedere e afferrò immediatamente il cellulare.
Lisandro sapeva che l’avrebbe trovato privo di messaggi o di chiamate, ma era proprio quell’assenza a mandarlo fuori di testa, da quando Beatrice l’aveva chiamato aveva perso tutta la tranquillità. Si mise seduto sul letto poggiando i piedi sul pavimento, poteva percepirne il freddo anche attraverso lo strato di stoffa dei calzini, passò distrattamente una mano tra i capelli corti e castani, totalmente scombinati sul ciuffo, poi non ce la fece più.
Infilò velocemente le scarpe da ginnastica, le allacciò alla bell’e meglio e sfrecciò nell’ingresso, pronto ad indossare il giubbotto, la sciarpa, il cappelli e scappare sotto casa di Enea, stava giusto per chiudersi la giacca quando la madre si accostò alla porta.
<< Dove vai? >>
Lisandro sollevò la testa di scatto, e la sciarpa arrotolata malamente attorno al collo cadde a terra attorcigliandosi silenziosamente su se stessa.
<< Ah … >> Commentò il ragazzo chinandosi immediatamente per raccoglierla << … stavo andando da Enea >> Continuò la frase stringendo tra le mani il pezzo di stoffa morbido, gli tremavano leggermente le mani, e la sicurezza che aveva avuto fino a pochi secondi prima, quello scatto repentino che non era nella sua natura, cominciò a farlo vacillare.
Lisandro non riusciva a sopportare lo sguardo della madre addosso, era l’unica persona che sapeva leggerlo meglio di un libro, e anche in quel momento, sapere di avere quegli occhi castani da cerbiatto puntati sul viso, gli faceva pizzicare le guance di imbarazzo.
<< Sei sicuro di volerlo fare? >>
Lisandro sussultò quando sentì quelle parole, Teresa Costa lo guardava con le braccia incrociate al petto, una spalla appoggiata allo stipite della porta e i capelli castani e mossi sciolti sulle spalle, l’espressione severa del viso metteva ancora più in risalto le lentiggini e la forma squadrata e diritta del naso.
<< Si … faccio presto >>. Replicò il ragazzo scostando lo sguardo, prese a risistemarsi la sciarpa attorno al collo e le diede le spalle, con la scusa di infilare anche il cappello e prendere le chiavi. Sua madre era sempre stata una donna severa, non avevano mai parlato molto, e fin da quando era stato bambino il loro rapporto era stato costruito sul silenzio, ma questo aveva fatto in modo che entrambi si capissero con un solo sguardo.
Ed era per quello che Lisandro sapeva di non doverla guardare negli occhi, perché sua madre avrebbe capito perfettamente che si stava innamorando, e si stava innamorando della ormai più che probabile fidanzata del suo migliore amico.
<< Lisandro … >> Lo richiamò la donna, il ragazzo chiuse gli occhi trattenendo il respiro, le chiavi erano fredde contro il palmo della mano destra << … stai attento. Dopo è davvero difficile raccogliere i pezzi … lo sai? >>
No, Lisandro non lo sapeva per nulla.
E sebbene si sentisse davvero sul precipizio di un burrone, sebbene era sicuro che finire in pezzi fosse piuttosto doloroso, non poteva fare a meno di farsi del male.
Fino all’ultimo secondo, fino all’ultimo istante, avrebbe vegliato affinché lei stesse bene.
L’aveva deciso in quel preciso istante, quando aveva capito di amarla.
<< Non farò tardi >>
Lisandro pronunciò quelle parole dando totalmente le spalle alla madre, aveva già una mano sulla maniglia della porta e tutto il suo corpo fremeva come in tormento, voglioso di scappare dalla terribile sensazioni di essere scrutato nell’anima anche in quel momento.
Teresa non sembrò replicare nulla all’apparente indifferenza del figlio per le sue parole, rimase in silenzio per un po’, per un tempo che sembrò infinito ad entrambi.
<< Lisandro … >> Lo richiamò ancora lei come era solita fare, con voce calda e calma, lasciando qualche minuto di silenzio prima di continuare la frase, come se volesse fissarsi a mente il nome del figlio, come se volesse assaporarlo affondo << … torna in tempo per il pranzo. Tuo padre ci resterà male se non pranziamo insieme nemmeno la Vigilia >>.
Lisandro fu grato con tutto il cuore a sua madre, le fu grato per non aver aggiunto altro.
Si limitò ad annuire e lasciarsi finalmente la porta di casa alle spalle, e ad ogni gradino, ogni passo che fece fino a quando si ritrovò per strada, al freddo, tra la gente e la neve, sentì come se quella catena che gli aveva stretto lo stomaco fino a pochi secondi prima si stesse improvvisamente allentando, fino a spezzasi del tutto.  
E si spezzò quando andò a sbattere direttamente contro Beatrice.
Lei stava uscendo dal portone del palazzo e lui vi stava entrando, la differenza fra i due era che Beatrice camminava lentamente, mentre Lisandro correva come un disperato.
L’impatto tra i due fu talmente violento che Beatrice venne sbalzata indietro di qualche metro e andò a sbattere contro la ringhiera delle scale, mentre Lisandro percepì chiaramente un dolore acutissimo nel fianco destro.
Quando la vista smise di essere appannata, mise a fuoco la figura rannicchiata della ragazza che aveva appena capito di amare, e che probabilmente aveva anche ucciso.
Beatrice se ne stava rannicchiata accanto alla ringhiera e si stringeva il braccio destro con un’espressione soffrente sul viso, i ricci ribelli le coprivano con alcune ciocche il viso arrossato e spigoloso, Lisandro non ci pensò due secondi a chinarsi su di lei per aiutarla.
<< Beatrice, stai bene?! >>
<< Starò meglio quando mi tirerai fuori dalla ringhiera! >>
Beatrice pronunciò quelle parole lanciando un’occhiataccia in direzione del ragazzo, al quale gli si imporporarono prepotentemente le guance prima che si decidesse ad aiutarla.
Quando si rimise in piedi, Beatrice sbuffò sonoramente, si scostò i ricci ribelli che le erano caduti sulla faccia e lisciò i vestiti leggermente spiegazzati dopo l’impatto burrascoso, poi alzò lo sguardo e lo puntò su un Lisandro piuttosto imbarazzato.
<< Ma tu … cosa ci fai qui? >>
Lisandro sapeva che quella sarebbe stata la prima domanda che gli avrebbe posto la ragazza una volta resasi conto della situazione, eppure non aveva nemmeno pensato ad una scusa plausibile durante tutto il tragitto.
<< Beh ecco … io …. >> Si torturò le mani per pochi secondi, prima di rendersi conto che avrebbe detto la verità, perché a mentire non era poi mai stato troppo bravo << … ero preoccupato per te, avevo paura che Enea potesse ferirti e allora … sono corso qui da te >>
Gli occhi affilati e grigi come la tempesta di Beatrice lo scrutavano attentamente alla ricerca di qualcosa, la ricerca di qualcosa che Lisandro sperò non si vedesse troppo chiaramente.
Non credeva che sarebbe equivalso ad una tortura, averla lì davanti ma non poterla toccare.
Non poter nemmeno allungare una mano sulla sua spalla per accertarsi che non si fosse fatta troppo male, non poterle scostare i ricci dalla fronte perché tra di loro non vi era quella confidenza. Lisandro non credeva che avrebbe fatto talmente tanto male da non respirare.
<< Davvero? Ma io sto bene … sto bene, sul serio >>
Beatrice gli rivolse un sorriso gentile, un sorriso che aveva quell’accenno di pietà che non avrebbe mai voluto vedere, perché quel sorriso significava che avrebbe dovuto rimangiarsi tutte le promesse che si era fatto, significava che dopotutto aveva ragione sua madre, che raccogliere i pezzi di quel cuore appena andato in frantumi, sarebbe stato troppo difficile.
<< Sei … sei felice? Enea ha … >>
<< Ci prenderemo cura l’uno dell’altro per un po’ … ci proveremo >>
Lisandro si sforzò terribilmente per far si che quel sorriso stentato che gli comparve sulla faccia risultasse quanto meno credibile. Era sempre stato di carattere riservato, amava nascondersi all’ultimo banco, dietro lo zaino guardando il cielo in una giornata uggiosa e con uno dei suoi cappelli preferiti a coprirgli il viso, la barriera che lo separava dal resto del mondo, Lisandro non ricordava nemmeno quando l’avesse lasciata cadere.
<< Andrà bene, Enea è un bravo ragazzo in fondo. Si prenderà sicuramente cura di te, lui  sarà sicuramente … >> Lisandro amò ancora di più Beatrice quando gli afferrò le mani e sorrise gentilmente, risparmiandolo dalla scena penosa di continuare quel discorso che non andava da nessuna parte, e a lui non importò più quanto lei avesse capito alla fine.
<< E se poi dovesse farmi arrabbiare, adesso so da chi venire a lamentarmi >> Beatrice gli strinse un po’ più forte le mani, sorrise ancora una volta e poi lo lasciò andare, sistemandosi la giacca e la borsa a tracolla << Adesso devo andare … >>
<< Io … io vado a fare gli auguri ad Enea visto che ci sono >>
Beatrice annuì leggermente e poi si allontanò, Lisandro la seguì con lo sguardo fino a quando non la vide svoltare l’angolo del palazzo successivo, diretta verso la metropolitana.
Si sentiva completamente svuotato, mosse qualche passo verso le scale, poi si fermò sul primo gradino e si lasciò scappare un singulto, una risata strozzata che lo fece piegare in due, si portò una mano sullo stomaco e singhiozzò tra le risate, fino a quando non si lasciò cadere con le ginocchia per terra, dolorose sul marmo gelido.
Il corpo era scosso dai tremiti, si piegò completamente per terra e nascose la faccia sul pavimento, dando voce a quelle sue lacrime in lamenti singhiozzanti.
Quei frammenti erano troppi, erano sottili, erano fragili.
Lisandro non era sicuro di poterli riparare mai più.
 
 
Telemaco era piuttosto sicuro di aver sbagliato ad assecondare la richiesta di Fiorenza.
L’aveva incontrata per strada, quasi fosse una maledizione la sua, e lei gli aveva proposto di fare un giro, Telemaco era piuttosto sicuro di possedere la facoltà di dirle di no.
Eppure l’aveva seguita lo stesso.
E i motivi per cui l’aveva fatto gli erano talmente noti ed ovvi che avrebbe voluto prendersi a schiaffi da solo, perché per quanto facesse il duro, per quanto si sforzasse di negare, ogni volta che la vedeva il cuore gli ballava prepotentemente nel petto.
E serviva a ben poco desiderare di ricacciarlo indietro.
Stavano attraversando il ponte che spaccava in due la città e separava la parte vecchia dalla parte nuova, l’asfalto solitamente scuro era completamente ricoperto da uno strato di neve alto almeno dieci centimetri, i lampioni e la ringhiera erano rivestiti da numerose lucine giallo canarino e il fiume, solitamente rumoroso e scrosciante, se ne stava silenzioso nel suo strato di ghiaccio. Affacciandosi dal parapetto, Telemaco notò che qualcuno ci aveva pattinato sopra disegnando dei cerchi concentrici o degli infiniti che si sovrapponevano uno sull’altro ripetutamente, Fiorenza si appoggiò a sua volta al parapetto e seguì il suo sguardo.
<< Quando ero bambina ci ho provato anche io sai? >>
Telemaco le lanciò uno sguardo di sbieco quando sentì la sua voce roca e calda, i capelli corti e asimmetrici di Fiorenza spuntavano in poche ciocche da sotto il cappello pesante di lana che portava sulla testa, il naso era arrossato per il freddo e le labbra screpolate si vedevano a malapena sotto il groviglio della sciarpa.
<< Davvero? >> Domandò, per poi riportare lo sguardo sul fiume.
<< Si … ma lo strato di ghiaccio non ha retto e sono caduta di sotto. Ho avuto la febbre alta per giorni, e dopo quella volta non ho mai più pattinato sul ghiaccio, nemmeno su una pista artificiale. >> Lo sguardo di Fiorenza era perso all’orizzonte, probabilmente a quei suoi ricordi da bambina che le facevano increspare le labbra in un sorriso leggermente accennato.
<< Non me l’avevi mai raccontato … >> Si limitò a commentare Telemaco, intento a fissare le sue dita rinchiuse nei guanti che giocherellavano tra di loro, spinto dal nervosismo.
<< Davvero? >> Fiorenza lo fissò con le sopracciglia aggrottate, e una nuvoletta di condensa le uscì dalle labbra appena dischiuse. << Ah, ma dopotutto … c’erano così tante cose che dovevo ancora raccontarti di me >>.
Telemaco pensò che a quel punto fosse meglio stroncare immediatamente quella conversazione, si staccò dal parapetto, le diede le spalle e riprese a camminare lentamente.
Fiorenza sospirò pesantemente prima di seguirlo, anche se si tenne sempre qualche passo indietro, guardandogli le spalle larghe fasciate dal giaccone blu.
<< Dove stiamo andando comunque? >>
Domandò luì, se ne stava leggermente incurvato e aveva le mani nelle tasche dei jeans, i capelli biondi e mossi erano un po’ lunghi dietro la nuca, e Fiorenza sentì il desiderio di accarezzarli, di passarvi attraverso le dita, come faceva una volta.
<< Nella parte vecchia della città, ci sono stata poche volte. Tu la conosci? >>
Telemaco girò leggermente la testa e le lanciò un’occhiata veloce, trafiggendola con i suoi occhi grigi come la tempesta, freddi.
<< Abbastanza … ti faccio fare un giro e poi torniamo, va bene? >>
Fiorenza pensò che alla fine fosse già qualcosa il fatto di averlo convinto a camminare con lei, prima che le cose tra di loro andassero per il verso sbagliato facevano sempre tantissime passeggiate. Andavano un po’ ovunque, una volta avevano preso in treno ed erano andati a Roma a vedere i Musei Vaticani, erano partiti la mattina presto dicendo ai genitori che avrebbero passato la giornata a studiare in biblioteca, ed erano tornati in tardo pomeriggio.
A Fiorenza sembrava passato un secolo da quel giorno, e spesso si domandava se Telemaco le ricordasse quelle cose, o se avesse trasformato quei ricordi, rendendoli freddi come i suoi occhi. A volte faceva ancora fatica a trattenere le mani, a non sfiorarlo, a non prendergli un braccio per sorreggersi, a non arruffargli i ricci biondi, a non pizzicargli il naso, a non prenderlo in giro … erano talmente tante le cose che avrebbe dovuto imparare a non fare.
La parte vecchia della città era un dedalo di strade antiche, con le case popolari che affacciavano sulle strade, la chiesa antica che svettava nella piazza, un grosso campanile e portici che fungevano da galleria per i numerosi negozi. Stavano camminando già da ore ormai, e lanciando uno sguardo all’orologio Fiorenza aveva notato che erano già le due del pomeriggio, e che quello era stato molto più che un semplice “giro”.   
<< Ehi … >> Lo richiamò lei afferrandolo per una manica del giaccone, Telemaco le rivolse uno sguardo distratto << … sono le due, forse dovremmo … >>
<< Oh, ma tu guarda un po’! >> La interruppe bruscamente lui, Fiorenza rimase piuttosto sorpresa da quella reazione eccessiva e improvvisa, Telemaco si era avvicinato ad uno dei negozietti della galleria, uno che vendeva coppette di frittura di pesce fatta sul momento e ancora calda << Qui fanno la migliore della città sai? Ne prendiamo due? >>.
Non le lasciò nemmeno il tempo di replicare che si avvicinò al bancone, Fiorenza aspettò pazientemente che lui le porgesse la sua coppa e quando la ebbe tra le mani, un calore piacevole le attraversò le dita scaldandole, il profumo era invitante.
<< Allora, ti piacciono? >> Le domandò lui dopo un po’, Fiorenza annuì e gli sorrise.
Telemaco distolse lo sguardo dal quel viso arrossato, da quelle labbra screpolate impasticciate di sale e da quegli occhi luminosi.
<< Tu l’hai già finito, ne vuoi uno? >> Domandò lei allungandogli la sua coppetta ancora mezza piena, Telemaco allungò una mano e afferrò un anello di calamaro ancora caldo.
<< Suppongo che adesso tocchi a me raccontare qualcosa … >> Commentò distrattamente mentre riprendeva a camminare, passando accanto ad un negozio che vendeva addobbi natalizi, sfiorò causalmente con il braccio una pallina di natale che produsse un suono tintinnante, Fiorenza ne rimase incantata << … quando ero bambino, mio padre mi portava sempre qui nel periodo natalizio. Questa pallina di natale è speciale per me … è unita ad un richiamo degli angeli, per questo produce questo suono bellissimo … >>
Le ultime parole Telemaco sembrò sussurrarle, mentre accarezzava delicatamente la pallina di vetro che stringeva tra le mani, Fiorenza si avvicinò curiosa e scrutò la sfera di vetro, al cui interno ne pendeva una più piccola d’argento con il profilo di un angelo elegantemente ricamato sopra con dell’oro fine.
<< Vi serve aiuto ragazzi? >>
Fiorenza aveva aperto la bocca per dire qualcosa, ma un’anziana signora, probabilmente la proprietaria del negozio, si era avvicinata con un sorriso gentile sulle labbra e l’aveva fermata inconsapevolmente. Telemaco le allungò la pallina di vetro.
<< Prendiamo questa >> La donna sorrise e afferrò la pallina con le sue mani rugose e tremanti, ma stranamente rassicuranti.
<< Un ottima scelta, la impacchettiamo? >>
Telemaco annuì distrattamente, scrutando la donna compiere il suo lavoro con le sopracciglia aggrottate e gli occhi grigi scuri e temporaleschi.
Quando lasciarono il negozio, percorrendo la strada a ritroso, Telemaco le allungò il pacchetto e Fiorenza lo prese con mani tremanti.
<< Perché? >> Domandò lei con un filo di voce, Fiorenza sapeva che avrebbe dovuto essere felice, ma stranamente non ci riusciva, sentiva come una stretta al petto.
<< Consideralo come un … regalo d’addio, come una conclusione positiva, vedi un po’ tu >>
<< Ma io … >> Bastò che Telemaco scuotesse un po’ più energicamente la testa perché le parole le morissero in bocca, il ragazzo infilò le mani nelle tasche dei jeans e guardò altrove.
<< Buona Vigilia di Natale Fiorenza >> La ragazza strinse forte il cartoccio ormai vuoto nella mano destra e si morse il labbro inferiore, non poteva essere davvero un addio.
Non c’era nulla di positivo in quella conclusione.
<< Buona Vigilia anche a te … >>
 
Oscar non poté fare a meno di pensare che quel tepore fosse proprio piacevole.
E poi Catena era incredibilmente morbida e calda, Oscar aveva appena scoperto che gli piaceva osservarla mentre dormiva. Gli piaceva la sensazione della sua guancia calda appoggiata sul petto, dei capelli scuri e setosi che gli solleticavano il collo, gli piaceva sentire il suo seno schiacciato sullo stomaco e la sensazione delle loro gambe intrecciate.
Molto spesso si chiedeva se avesse davvero meritato di incontrare una persona come lei.
Allungò distrattamente le dita e le sfiorò delicatamente il contorno scoperto della spalla, lì dove il pesante maglione di lana era leggermente scivolato, la pelle di Catena era pallida e sensibile, non appena Oscar vi posò sopra i polpastrelli, delle piccole macchie rosse la deturparono, per poi scomparire velocemente come erano apparse.
<< Che cosa stai facendo? >>
La voce sussurrata di Catena lo riscosse dai suoi pensieri, Oscar le accarezzò delicatamente i capelli e incrociò i suoi intensi occhi azzurri, ancora leggermente impastati dal sonno, ma limpidi e riposati, ridenti. Oscar non poté fare a meno di chiedersi come fossero i suoi di occhi in quel momento, se ancora persi nei ricordi, o abbastanza limpidi da risultare quanto meno un minimo sinceri.
<< Cercavo di capire perché la tua pelle fosse così pallida. Dimmi, tua madre è Biancaneve per caso? >> Catena ridacchiò alle parole del fidanzato, e si tirò leggermente in su per guardarlo negli occhi, Oscar sentì il cuore accelerare freneticamente nel petto a quella visione, erano rare le volte in cui la ragazza non portava gli occhiali e poteva leggere nei suoi occhi limpidi ed estremamente sinceri, Oscar vi si rifletteva come in uno specchio.
<< Sciocco … a cosa stavi pensando sul serio? >>
Oscar sospirò pesantemente, aveva sospettato che non ci sarebbe cascata minimamente, si tirò a sedere ed entrambi si ritrovarono inginocchiati sul letto, uno di fronte all’altra.
<< Io … davvero, non … >>
<< Oscar >>
Il rimprovero di Catena era stato gentile, Oscar deglutì rumorosamente, e solo in seguito trovò il coraggio di sollevare gli occhi e fissarli nei suoi.
<< Stavo pensando che con Giulia … non mi sono mai sentito davvero tranquillo>> Mormorò infine, sospirando fortemente, Catena gli prese delicatamente le mani e gli regalò uno di quei suoi sorrisi caldi, gentili e tristi, quei sorrisi che erano proprio come lei << La serenità che ho con te … con lei non l’avevo affatto, mi arrabbiavo spesso, ero costantemente preso dall’ansia che fuggisse, e volevo a tutti i costi che fosse mia e solo mia, io … io mi sento quasi sollevato che lei non ci sia più e questo … questo mi fa ribrezzo, io …. >>
Mano a mano che la conversazione era andata avanti, il respiro di Oscar si era fatto sempre più irregolare, e lui aveva cominciato a stringere convulsamente le mani, senza rendersi conto che in quel modo avrebbe fatto male anche a Catena.
<< Oscar, basta >> Sussurrò delicatamente lei, accarezzandogli con i pollici le mani grandi e calde, ancora scosse dai tremiti << Se è quello che pensi non puoi farci nulla, se è quello che provi non cambierà  nulla, nemmeno se tu lo negassi con tutto te stesso, perché equivarrebbe ad una bugia …. Oscar … >> Catena riuscì a liberarsi le mani e le appoggiò sul viso spigoloso del ragazzo, incatenando quegli occhi castani da cerbiatto nei suoi << … ci è concesso sbagliare ogni tanto no? >> Oscar sorrise tristemente quando sentì quelle parole, sollevò le mani e prese ad accarezzarle lievemente i polsi scoperti, disegnando dei cerchi concentrici lì dove sporgeva l’osso.
<< Non lo so … ma con te di sicuro non ho sbagliato, sai? >>
<< Oscar … credo che sia arrivato il momento di darti il mio regalo … >>
Oscar aggrottò le sopracciglia quando sentì quelle parole, aveva chiesto tantissime volte a Catena di non regalargli nulla per Natale, che non aveva bisogno di nient’altro se non di lei, ma con sua grande sorpresa, la ragazza si limitò ad afferrargli le mani e sorridere.
<< Sono pronta >>
<< Catena ma cosa … Oh … >>
Oscar arrossì quando Catena si sfilò il maglione restando in canottiera, aveva le guance imporporate, ma continuava a fissarlo negli occhi, con i capelli che le ricadevano come una cascata sulle spalle, sulla schiena, sul contorno del seno leggermente visibile …
Oscar distolse lo sguardo e fece un passetto indietro.
<< Non … Catena non scherzare! E’ una cosa da cui non si torna indietro, io …. >>
<< Oscar, ma perché dovrei voler tornare indietro? Indietro da cosa? >>
<< Ascolta io … io non me lo perdonerei mai se poi dovessi pentirti! E non posso vivere con altri sensi di colpa >>
La voce di Oscar era talmente incrinata che Catena ebbe come la sensazione che si stesse per spezzare, allungò le braccia e appoggiò le mani sulle spalle del fidanzato, rassicurandolo con un sorriso.
<< Oscar … ci ho pensato così a lungo in questi giorni che non ho più né timore, né paura, né ripensamenti. Non proverai i sensi di colpa per qualcosa che non hai scelto tu, non proverai i sensi di colpa per una mia decisione, non proverai i sensi di colpa perché ci saremo amati >>
Oscar fu travolto da un calore intenso allo stomaco, afferrò le mani di Catena e la baciò con una foga tale che caddero entrambi indietro sul materasso, si guardarono negli occhi, poi lui allungò una mano e gliela poggiò all’altezza del cuore, sotto la gola.
<< Ricorderò questo momento per il resto della mia vita … ne terrò cura per sempre >>
<< Anche io … >>
<< Buona Vigilia di Natale, Catena >>
<< Buona Vigilia di Natale, Oscar >>


______________________
Effe_95

Buonasera :)
Nel caso ve lo stesse chiedendo, si sono viva xD
Scusatemi sul serio, ma tra università, malattie e impegni vari non sono riuscita a finire prima il capitolo. Allora, è stata una vera fatica concluderlo, ho lasciato queste tre "coppie" per ultime proprio perchè sapevo sarebbe stato faticoso, ma spero di non aver fatto un lavoro troppo penoso.
Questo è l'ultimo capitolo dedicato al 24 Dicembre, il prossimo sarà sul capodanno, dove i ragazzi compariranno tutti insieme e poi si passerà direttamente a Gennaio.
Come avevo accennato, non per tutti la Vigilia di Natale sarebbe stata perfetta, come nel caso di Lisandro, Fiorenza e Telemaco. Per quanto riguarda la parte di Oscar e Catena spero vi sia piaciuta.
Grazie mille a tutti come sempre, alla prossima.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 33
*** Pandoro e Champagne, Cambiare idea e Conto alla rovescia. ***


I ragazzi della 5 A
 
33. Pandoro e Champagne, Cambiare idea e Conto alla rovescia.


31 Dicembre
 
-23.00-
 
Giasone non poteva fare a meno di pensare che quella sera l’Olimpo fosse proprio bello.
Se ne stava appoggiato al bancone con un bicchiere di champagne stretto tra le dita intorpidite dal freddo, e osservava con occhi persi le decorazioni che facevano sembrare l’intero locale sotto l’effetto di un incantesimo del ghiaccio. Dall’alto soffitto pendevano numerosi fiocchi di neve dalle dimensioni discutibili in vetro, avevano forme diverse e si alternavano frequentemente, per terra erano posati dei vasi neri ricchi di fiori dalle diverse sfumature di bianco, e dei piccoli pupazzi di neve solitari occupavano i banconi del bar.
Giasone si ritrovò a pensare che facesse davvero uno strano effetto vedere quella sorta di tempio greco ricoperto dalla neve,  lasciò oscillare leggermente il liquido gassoso nel bicchiere e fece per avvicinarlo di nuovo alle labbra quando Ivan si appoggiò al bancone accanto a lui. Il moro si sistemò con la schiena sul piano freddo di marmo, spostando impudentemente un piccolo pupazzo di neve appoggiato sopra, aveva le mani infilate delle tasche dei pantaloni stracciati, i lacci degli scarponi slacciati e un maglione blu leggermente sbottonato sul petto, dal quale spuntava una camicia stropicciata.
I capelli neri gli coronavano la testa come una criniera scombinata, e gli occhi verdi spiccavano particolarmente sul viso pallido come diamanti preziosi.
<< Stasera mamma e papà si sono proprio superati, vero? >>
Domandò Ivan mentre giocherellava distrattamente con lo strato di polvere bianca che ricopriva tutto il pavimento, in un tentativo funzionante di imitare la neve.
<< Già … considerato che hanno lasciato il locale aperto tutta la notte solo per noi … >>
<< Hanno anche organizzato un bancone pieno di pandori e champagne per dopo la mezzanotte, li ho contati sai? Sono dieci pandori e cinque bottiglie! >> Giasone lanciò un’occhiata veloce all’amico, Ivan sembrava agitato e ormai lo conosceva da troppi anni per non sapere che quando cominciava a parlare a vanvera di cose inutili aveva qualcosa di importante da dirgli, anche se non sapeva come farlo << Ne avanzeranno, saremo costretti a portarceli a casa e io dovrò fare colazione con il pandoro fino a Pasqua! Davvero non … >>
<< Oh, che succede? >> Giasone bloccò la tirata senza senso di Ivan strattonandogli le braccia che stava agitando convulsamente, il moro smise di agitarsi, puntò gli occhi verdi in quelli azzurri come il ghiaccio di Giasone e arrossì prepotentemente.
<< Mi sono dichiarato ad Italia … adesso stiamo insieme >>
Giasone spalancò leggermente la bocca e gli mollò le braccia per incrociare le proprie al petto, non poteva credere che finalmente, dopo cinque anni di sbavamenti, lacrime e delusioni, paura, avesse finalmente deciso di dichiararsi ad Italia.
<< Davvero?! Ma è fantastico! >> Esclamò il biondo menando un pugno non proprio gentile sulla spalla di Ivan, che tossicchiò leggermente e si grattò imbarazzato la nuca, ci aveva messo cinque giorni per dire a Giasone come stavano le cose, ne era ancora incredulo.
<< Già … è stato il giorno della Vigilia di Natale >> Commentò Ivan con un certo disagio, guardando Giasone di sottecchi per paura che potesse prendersela per quel lungo silenzio.
L’amico invece si accigliò leggermente, appoggiò nuovamente la schiena sul bancone, facendo definitivamente precipitare dall’altro lato il povero pupazzo di neve, e sospirò.
<< Ehm … anche a me è successa una cosa, la Vigilia … >> Ivan aggrottò le sopracciglia quando Giasone cominciò a balbettare tormentandosi le dita, non l’aveva mai visto imbarazzato o in difficoltà, soprattutto non con lui << Ho … ho incontrato Muriel e … >>
<< No! Vi siete messi insieme?! >> Giasone ebbe una voglia matta di strozzare Ivan quando urlò quelle parole a tutta la sala, facendo girare numerose teste nella sua direzione, gli mollò un ceffone dietro la nuca e sbuffò infastidito, cercando di non far vedere il rossore comparso a tradimento sulle guance.
<< Fa silenzio! Vuoi annunciarlo al mondo intero? >>
<< Annunciare cosa? >>
Ivan aveva fatto per replicare, ma venne interrotto bruscamente dall’arrivo di Oscar, anche lui stringeva tra le mani un bicchiere mezzo vuoto e sembrava piuttosto allegro, quella sera indossava dei jeans scuri e un maglione verde che faceva un po’ a pugni con l’ambiente.
<< Nulla … piuttosto, mi sembri abbastanza arzillo stasera >>
Lo punzecchiò leggermente infastidito Giasone, continuando a fulminare Ivan con lo sguardo, anche se l’amico l’aveva del tutto ignorato, rivolgendo la sua piena attenzione ad Oscar << Dici? A me sembra di essere piuttosto normale >> Si limitò a commentare il ragazzo sorseggiando la sua bibita, Ivan gli pizzicò fastidiosamente il braccio.
<< Normale non direi, hai un sorriso piuttosto fastidioso sulla faccia! >>
Sbottò Giasone sventolandogli la mano davanti al viso, Oscar ridacchiò divertito, poi il suo sguardo venne attratto da qualcuno. Nel locare era appena entrata Muriel, la sua figura atletica e slanciata era fasciata da un paio di jeans scuri, da una maglietta attillata rossa e da un paio di scarponi molto poco femminili, Giasone la trovò bellissima.
E ancora di più quando lei incrociò il suo sguardo e sorrise, non era molto truccata, indossava solo del rossetto rosso e del mascara, ma emanava il fascino dell’innocenza.
<< Ne parleremo un’altra volta >> Commentò Giasone con un filo di voce, e si allontanò per raggiungere la sua ragazza, Ivan e Oscar lo seguirono con lo sguardo fino a quando i due non si scambiarono un bacio, e a quel punto pensarono fosse meglio distoglierlo.
<< Allora, a me non lo dici cos’è successo? >> Lo pungolò Ivan guardandolo con i suoi grandi occhioni verdi, Oscar sorrise maliziosamente e scosse la testa divertito. Ivan mise su un broncio degno di un bambino, ma non insistette, probabilmente era qualcosa che andava custodito, qualcosa di profondo di cui Oscar voleva a tutti i costi conservare il ricordo.
<< Piuttosto, hai saputo la novità? >>
<< Quale novità? >> Per un momento Ivan ebbe paura che la notizia del suo fidanzamento con Italia si fosse già diffusa per tutta la scuola, ma l’amico aveva gli occhi puntati altrove.
<< Beatrice ed Enea … lei è riuscita a metterlo al guinzaglio >>
Ivan sgranò gli occhi quando sentì quelle parole, non avrebbe mai creduto che uno come Enea potesse provare un interesse talmente forte per qualcuno da decidere di intraprendere una relazione più o meno stabile.
<< Sul serio? Non ci credo! >>
<< Ci caschiamo tutti prima o poi >>
Ivan spostò lo sguardo su Italia, era bella nel suo vestito color panna, stretto in vita da una fascia beige e morbido sui fianchi e sulle gambe, i capelli le cadevano mossi sulle spalle, non indossava gli occhiali, ed era luminosa come uno di quei fiocchi di neve che tanto piacevano a sua mamma, si ritrovò inevitabilmente a sorridere.
<< A me non dispiace esserci caduto … >>
Oscar si voltò a guardarlo e intercettò il suo sguardo perso.
<< Nemmeno a me >>
 
-23: 35-
 
<< La smetti?! >>
<< No >>
<< E’ il quarto bicchiere che bevi Enea! >>
<< Solo il quarto? >>
Beatrice ed Enea stavano battibeccando da quando era cominciata la serata.
Visti da fuori nessuno avrebbe detto che avessero messo da parte le ostilità o che fossero fidanzati, litigavano probabilmente più di prima, e Beatrice aveva proprio l’aria di una che avrebbe tanto voluto rovesciare uno di quei bei calici pieni di bollicine sulla testa del presunto fidanzato. << Mollalo! >> Sbottò infastidita la ragazza, allungando una mano nella direzione di Enea, che se ne stava ben spaparanzato sul divano, riuscì solamente a sfiorare il vetro con la punta delle dita, perché lui allontanò il braccio con uno scatto felino.
Il liquido vacillò leggermente all’interno del contenitore, e alcune gocce caddero macchiando il divanetto, che fortunatamente era in pelle e non lasciarono troppi danni.
<< Quanto sei rompiscatole! Sono sobrio! Non sono nemmeno brillo, vedi? >>
Beatrice incrociò le braccia al petto e gli lanciò un’occhiataccia, cercando in tutti i modi di non farsi abbindolare da quegli occhi azzurri, dal sorriso accattivante che gli increspava in quel momento le labbra e dalla camicia azzurra che tirava sui muscoli delle braccia.
Stavano insieme da pochi giorni e già sentiva di perdere tutta la resistenza che aveva.
Restò in silenzio per qualche minuto, facendo abbassare la guardia al ragazzo, e quando Enea fece per accostare nuovamente il bicchiere alle labbra, Beatrice glielo strappò dalle mani, solo che il gesto le costò una caduta in avanti.
Il bicchiere si rovesciò per terra, atterrando sul tappeto ormai macchiato e zuppo, mentre lei si ritrovò completamente schiacciata sulle gambe di Enea, a pochi centimetri dal suo viso.
Enea sembrava piuttosto sorpreso di averla così vicino, e a quella distanza Beatrice poteva percepire il suo respiro leggermente affannoso e fruttato a causa dell’alcool bevuto.
Non era fastidioso come aveva sospettato, probabilmente, se non fosse stata orgogliosa per natura, ci sarebbe passata sopra e l’avrebbe baciato. Invece fece per tirarsi su, contrariata, prima che venisse stroncata brutalmente da Enea, che le afferrò saldamente le braccia.
Erano talmente piccole e fragili che poteva circondarle con tutto il palmo della mano.
<< Se vuoi darmi un bacio … non c’è bisogno di questi trucchetti >>
Le soffiò ad un centimetro dalle labbra, Beatrice si stizzì particolarmente a quelle parole, scostò malamente le mani del fidanzato e si tirò su a sedere.
<< Idiota! >> Lo rimbeccò incrociando le braccia al petto, Enea scoppiò a ridere genuinamente, cosa che fece sospettare a Beatrice che invece fosse brillo eccome.
<< Hai rovesciato il bicchiere, e adesso come la mettiamo? Ne voglio un altro >>
Commentò Enea facendo il gesto di tirarsi in pieni, Beatrice lo bloccò sul posto prima che potesse alzare il posteriore dal divano di pelle, e per bloccarlo appoggiò entrambi i gomiti sulle ginocchia del ragazzo, facendo anche abbastanza pressione.
<< Non esiste nemmeno! Va a finire che se ti ubriachi poi devo strapparti dalle braccia di Sonia! >> Beatrice si rese conto troppo tardi che la frase le era uscita proprio male, trattenne il fiato e i suoi timori vennero confermati quando Enea smise di fare pressione per alzarsi.
Azzardò uno sguardo al fidanzato e trasalì, Enea era arrabbiato, parecchio arrabbiato.
<< Spostati >> Le intimò con voce gelida, Beatrice ebbe l’impulso di farlo davvero, ma decise di impuntarsi, non voleva litigare con lui il giorno di Capodanno.
<< No, aspetta! >> Lo incalzò lei tenendo premuto ancora di più i gomiti sulle gambe di Enea, Beatrice era piuttosto sicura che a lui sarebbe bastato spostarla bruscamente per farla finire dall’altra parte del divano senza troppi complimenti, ma non lo fece. << Mi è uscita proprio male, non volevo dire che … >>
<< Oh Bea, che io sia poco affidabile lo sanno tutti. Non mi sorprende affatto che tu l’abbia pensato >> Beatrice rimase piuttosto spiazzata da quelle parole, scostò finalmente le braccia e guardò il fidanzato con le sopracciglia contratte.
<< E allora perché sei arrabbiato? >> Enea sospirò pesantemente e si passò una mano sui capelli castano/dorati, scombinando leggermente il ciuffo piastrato con tanta cura.
<< Perché impedendomi di alzarmi, hai permesso a Romeo di prendersi l’ultimo bicchiere rimasto! >> Beatrice sentì che le braccia le sarebbero cadute da un momento all’altro, provò il terribile desiderio di strozzare Enea con le sue stesse mani, e cominciò anche ad allungarle prima che lui le stringesse tra le sue e appoggiasse la fronte su quella di lei.
<< Cercherò di farti cambiare idea, va bene? >>
Sussurrò lui ad un centimetro dalle sue labbra, e in quel preciso istante l’istinto d’omicidio sparì completamente, sostituito da un irrefrenabile voglia di baciarlo, fece giusto in tempo a sfiorare le labbra di Enea che vennero bruscamente interrotti.
<< Ehi Bea, vuoi venire un attimo … >> Italia e Catena si bloccarono di colpo quando videro la scena, Enea e Beatrice si staccarono velocemente, lei quasi con foga, lui più rilassatamente. Le due ragazze erano rosse in viso ed estremamente imbarazzate.
<< Oh, noi non … >>
<< Arrivo subito! >>
Le interruppe bruscamente Beatrice tirandosi in piedi, le raggiunse e si allontanò senza nemmeno salutare Enea, ma al ragazzo non importò granché, la seguì mentre si allontanava con lo sguardo perennemente fissato sulle curve dei suoi fianchi.
Gli avrebbe fatto proprio piacere ricevere quel bacio.
 
-23:50-
 
Gabriele si sentiva uno schifo totale.
E non perché si fosse ubriacato, non aveva nemmeno bevuto una goccia di niente, e non aveva nemmeno mangiato. Scrutava con crescente fastidio sua sorella e Zosimo che ballavano un lento, e ridevano come se fossero terribilmente felici. In realtà a Gabriele non dava fastidio il rapporto che si era creato tra i due, aveva sempre pensato che Zosimo fosse un bravo ragazzo, faceva il rompiscatole perché era il compito del fratello maggiore.
Era infastidito perché sapeva di essere un completo idiota.
Perché sapeva benissimo che per quanto avrebbe sofferto, non sarebbe mai tornato sui suoi passi, e non perché fosse orgoglioso, non se n’era mai fatto niente dell’orgoglio, ma perché era piuttosto sicuro di aver fatto bene.
Era davvero sicuro che quello fosse il bene per Katerina.
Lanciò uno sguardo disinteressato all’orologio da polso e sospirò pesantemente, era quasi la mezzanotte e presto avrebbero cominciato il conto alla rovescia, doveva prepararsi per mettere in scena il suo sorriso finto migliore prima che arrivasse quel momento.
Fece una prova guardandosi nel vetro nero del cellulare, ma le labbra si abbassarono quasi automaticamente, sospirò pesantemente e fece per mettere via l’apparecchio, quando Jurij, il fratello gemello di Katerina, si mise seduto tranquillamente accanto a lui.
<< Cos’è quel muso lungo? >> Domandò appoggiando entrambi i gomiti sul bancone.
Gabriele pensò che Jurij fosse davvero l’ultima persona con cui avrebbe voluto parlare, lui e Katerina erano gemelli omozigoti, e sebbene Jurij avesse i tratti leggermente più marcati, i capelli corti e una sfumatura azzurra negli occhi, erano comunque molto simili << Lo sai che ciò che fai a Capodanno dura tutto l’anno? >>
<< Bah! >> Gabriele replicò a quella sciocchezza con un gesto noncurante della mano.
<< Stasera sei più intrattabile del solito >> Replicò prontamente Jurij, e Gabriele ebbe come la sensazione si aver già sentito quelle parole da qualcun altro, non troppo tempo addietro.
<< Me l’hanno detto parecchie volte … >>
Jurij fece per replicare prontamente qualcosa quando il suo sguardo venne attirato da altro, e anche Gabriele seguì la traiettoria del suo sguardo, si era creata una piccola confusione perché tutti si erano accorti che mancavano dieci secondi alla mezzanotte.
<< Facciamo il conto alla rovescia! >> Strillò ad alta voce Ivan, attirando l’attenzione di tutta la sala verso di se.
Gabriele non si alzò come Jurij, preferì osservare la scena dallo sgabello.
Contento di essersi distratto prima che i ricordi lo portassero indietro.
 
<< 10 … >>
E Gabriele desiderò che l’anno nuovo portasse meno dolore.
<< 9 … >>
Ed Enea desiderò di avere al più presto il suo bacio.
<< 8 … >>
E Romeo desiderò poter ballare ancora una volta con Fulvia.
<< 7 … >>
E Zosimo ripensò al suo Tronchetto di Natale.
<< 6 … >>
E gli sguardi di Fiorenza e Telemaco si incrociarono.
<< 5 … >>
E Zoe ripensò alla promessa stretta con Igor.
<< 4 … >>
Ed Oscar desiderò stringere ancora Catena tra le braccia.
<< 3 … >>
Ed Italia pregò affinché le cose andassero per il meglio.
<< 2 … >>
E Lisandro desiderò che Beatrice fosse felice.
<< 1 … >>
E pregarono perché i desideri dei ragazzi della 5 A si realizzassero sempre.
 
-24.00-
 

 
____________________
Effe_95

Buongiorno a tutti :)
Finalmente ho terminato il capitolo! 
Allora, come avevo accennato già la volta precedente, questo è l'ultimo capitolo dedicato alle feste Natalizie, dal possimo si proseguirà normalmente con la storia.
Ho notato che questi cinque capitoli non hanno avuto molto successo xD
Probabilmente la mia è stata una pessima idea, spero che con il ritorno al corso normale della vicenda, la situazione migliori :)
Questo capitolo è un po' particolare, soprattutto per quanto riguarda il finale.
Ma spero ugulamente che vi sia piaciuto, volevo dare l'impressione di una classe unita, e anche se non interagiscono tutti i personaggi, anche per questioni logistiche ( sono davvero troppi e sarei impazzita xD), spero si sia capita la mia intenzione.
Grazie mille a tutti, vi auguro un Buon Natale.
Alla prossima spero.
 
 
 

 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 34
*** Quindici versioni di greco, Stupido vendicativo e Vuoto assoluto. ***


I ragazzi della 5 A
 
34.Quindici versioni di greco, Stupido vendicativo e Vuoto assoluto.

Gennaio

<< Che cosa?! Non hai fatto nemmeno una delle versioni che ci ha assegnato il professore?! Dimmi che stai scherzando ti prego, ne erano quindici! >>
Enea non trovava piacevole farsi rimproverare dalla propria ragazza mentre facevano la fila per accedere al teatro dove avrebbero assistito al musical di Romeo e Giulietta, non poteva scappare, non poteva distrarla e non poteva far finta che lei non stesse gridando.
<< Beatrice, ho solo diciotto anni, ti prego di abbassare il tono di voce, non vorrei indossare l’apparecchio acustico a quest’età per colpa tua >>
Replicò pacatamente il ragazzo, facendo un passetto avanti quando la fila si mosse, al suo fianco, Beatrice gli fece la linguaccia e incrociò le braccia al petto.
Enea la trovava particolarmente bella quella sera, bella nella sua semplicità, i capelli ricci erano raccolti in un codino alto, alcune ciocche troppo corte le cadevano gentilmente sul viso, e aveva un filo di lucidalabbra e del mascara che le metteva in risalto le ciglia e il colore degli occhi, quella sera grigio temporalesco a causa delle luci artificiali della sala.
Indossava un cappotto nero lungo fino alle ginocchia e sotto quest’ultimo portava un vestitino grigio su calze nere e un paio di stivaletti, in realtà era la prima volta che lui la vedeva truccata, o vestita con qualcosa di diverso da un jeans, una felpa troppo larga o un maglione sfilacciato extralarge. Non le aveva detto nulla, non aveva fatto apprezzamenti, non era da lui, ma la trovava davvero bellissima, ed era orgoglioso di andarsene in giro con lei, di far capire a tutti che quella era la sua fidanzata, che gli era costato una fatica tremenda ammettere di provare qualcosa per lei e che aveva tutte le intenzioni di costruire qualcosa che avesse un senso.
<< Ma oggi è il 5 Gennaio Enea, tra due giorni si torna a scuola >>
Continuò a strepitare lei guardando il ragazzo con occhi supplichevoli, quasi come se dal fatto che lui avesse fatto o meno i compiti dipendesse la sua vita e la sua salute mentale.
<< Lo so, ma che senso avrebbe avere una fidanza secchiona se non approfittarne in questi frangenti? >> Beatrice ci mise un po’ per capire il senso della frase di Enea, quando la ebbe recepita a pieno, gonfiò le guance e diventò rossa fino alla punta dei capelli.
<< Col cavolo che te le passo! >> Sbottò incrociando le braccia al petto e scostando la faccia dall’altro lato, in un tentativo di espressione molto offesa.
Enea ridacchiò con noncuranza, poi allungò un indice e sgonfiò in un sol colpo la guancia di Beatrice, fu un gesto talmente inaspettato che lei si girò di scatto e il dito di Enea le finì in bocca. Lui lo spostò velocemente e lei tossicchiò più volte, rossa in viso, quando si guardarono nuovamente scoppiarono a ridere come due idioti, attirando l’attenzione di tutte le persone che facevano la fila esattamente come loro.
<< Che esperienza romantica devo dire >> Commentò lui ridacchiando ancora, Beatrice alzò gli occhi al cielo, afferrò il fidanzato per il braccio e lo trascinò in avanti, era arrivato il loro turno di far passare i biglietti. Quando arrivarono di fronte alla donna che avrebbe dovuto lasciarli entrare nel teatro, Enea si accigliò e guardò Beatrice come se aspettasse qualcosa.
<< Bea, tira fuori i biglietti. Tocca a noi >> Commentò esortandola con lo sguardo.
Beatrice si voltò a guardarlo come se avesse detto la sciocchezza più grande del mondo.
<< Hai tu i biglietti, li ho lasciati da te l’ultima volta …>>
Enea sollevò le sopracciglia, Beatrice aveva la faccia di una che avrebbe tanto voluto strangolarlo, nel frattempo, la donna in rosso li guardava piuttosto infastidita perché stavano bloccando tutta la fila sul lato destro.
<< Enea ti prego, dimmi che non li hai lasciati a casa. Giuro che ti farò copiare tutte e quindici le versioni di greco e anche i compiti di matematica e fisica se mi dici che … >>
<< Ecco a lei >> Beatrice si ammutolì quando vide Enea infilare la mano destra nel taschino interno della giacca e tirare fuori i biglietti, immacolati come glieli aveva consegnati lei.
Non sapeva cosa dirgli, non sapeva se sfilarsi uno stivale per tirarglielo in testa, se scoppiare a ridere o se strozzarlo lì davanti a tutti, era talmente basita che non si accorse nemmeno del ragazzo che l’afferrava per il braccio procedendo in direzione dell’entrata del teatro.
Quando si riprese dallo shock scostò bruscamente il braccio e gli pestò un piedi.
<< Sei un … davvero tu sei un gran … >>
<< Figo? Macho? Grand’uomo? Lo so, lo so >>
Beatrice fece per replicare con qualcosa di veramente brutto quando lui la zittì rubandole un bacio a timbro sulle labbra leggermente schiuse, pronte ad imprecare contro di lui.
<< Ricordati che hai giurato >>
Mormorò Enea ancora ad un centimetro dalle sue labbra, probabilmente Beatrice l’avrebbe ucciso di baci se lui non l’avesse afferrata per condurla finalmente dentro il teatro.
I posti a sedere avevano una buona visuale, e siccome la struttura era in pendenza non c’era il rischio che qualcuno più alto potesse ostruire loro la vista, lo spettacolo iniziò molto presto, e sebbene entrambi conoscessero le canzoni a memoria e avessero già visto alcuni spezzoni per il loro imminente spettacolo, né Enea né Beatrice fiatarono per tutto il tempo della rappresentazione.
Sul finale, poco prima della morte di Romeo, Beatrice si aggrappò inconsciamente al braccio di Enea, lui distolse lo sguardo dal palcoscenico e lo spostò sul viso semibuio e bagnato di lacrime della sua fidanzata, fino a quel momento aveva conosciuto una ragazza forte e testarda, senza un briciolo di umorismo, con un pessimo carattere, un fisico acerbo e lo sguardo sempre truce, dietro quella corazza di ferro che lui stesso aveva accettato e scalfito a fatica, si nascondeva nient’altro che un volto piangente.
Enea allungò una mano titubante e asciugò alcune lacrime con il pollice, Beatrice non sollevò lo sguardo per incrociare quello del fidanzato, si limitò a prendergli la mano e a stringerla, in una muta richiesta di comprensione.
Quando uscirono dal teatro erano le undici di sera e fuori nevicava, la neve era sottile e si scioglieva non appena entrava in contatto con la loro pelle calda, Beatrice cercò di afferrarla più volte senza riuscirci, poi Enea le prese una mano e si incamminarono verso il parcheggio. Quella sera lui si era fatto prestare la macchina dal fratello maggiore, Beatrice aveva messo in dubbio quella scelta temendo per la sua vita, ma doveva ammettere che Enea se la cavava bene nella guida, era calmo e rilassato, non faceva mai nulla di avventato e rispettava la segnaletica quasi meticolosamente.
<< E’ stato uno spettacolo carino, no? >>
Le domandò lui ad un certo punto, mentre apriva con le chiavi la portiera della macchina, Beatrice aspettò che entrambi fossero entrati nell’abitacolo accogliente e profumato di muschio e menta, il profumo preferito di Daniele, per rispondere, mentre Enea si affrettava ad accendere l’aria calda e riscaldare l’ambiente per un viaggio tranquillo e rilassante.
<< Si, mi è piaciuto >>
<< Anche se io canto meglio, non trovi? >> Commentò Enea, Beatrice alzò gli occhi al cielo e incrociò le braccia al petto, mentre il ragazzo ridacchiava facendo retromarcia nel parcheggio << E sono molto più attraente, vero? Insomma, mi hai visto? Non trovi che … >>
<< Sono stata con un altro prima di te, si chiamava Mirko >>
<< … io sia decisamente più …. Cosa? >>
Il commento di Beatrice era stato talmente improvviso che Enea se ne rese conto come al rallentatore, come se quelle parole fossero giunte al suo orecchio con più ritardo del dovuto.
Si fermarono ad un semaforo e si girò a guardarla, Beatrice non lo stava fissando, era piuttosto concentrata sulla strada innevata e ancora illuminata fuori dal finestrino, Enea non lo preso come un atto di codardia, forse per lei era più semplice parlarne in quel modo.
<< L’avevo capito, sai? >> Si limitò a commentare lui, spostando nuovamente lo sguardo sulla fila di macchine davanti a lui, sulla luce rossa del semaforo che appariva sgranata attraverso il vetro ancora macchiato di condensa nei punti ciechi lasciati dai tergicristalli.
<< Lo immaginavo … >> Beatrice sospirò pesantemente dopo quel commento, azzardò a sollevare un po’ lo sguardo, ma lui non la stava più fissando, era scattato il verde ed era concentrato sulla strada << Non è stato … ecco io, se potessi tornare indietro e non incontrarlo mai più sarei … >>
<< Beatrice … non so se ce la faccio >>
Alle parole di Enea Beatrice si girò completamente dalla sua parte, con le sopracciglia aggrottate e un cipiglio nervoso negli occhi.
<< Cosa? Non ce la fai? Non ce la fai a fare cosa? A sopportare l’idea … >>
<< Non so se ce la faccio a vederti stare così male! >> La interruppe bruscamente lui, mettendo contemporaneamente la freccia e svoltando a destra con una calma quasi surreale, per un po’ Beatrice non seppe cosa ribattere, allora continuò Enea << Quando hai cominciato a raccontare … balbettavi … sei diventata pallida, e sinceramente preferisco non saperlo, piuttosto che farti stare male. >>
Beatrice scostò lo sguardo accigliato e incrociò le braccia al petto, sentiva le lacrime pungolarle gli angoli degli occhi, ma non avrebbe mai ammesso di fronte ad Enea che quelle parole le avevano fatto molto piacere.
<< Ti ascolterò volentieri … quando vorrai parlarne davvero. Va bene? >> Beatrice sobbalzò leggermente quando Enea le pizzicò una guancia tirandole la pelle << Però tu devi ammettere che sono più bravo e attraente come Romeo >>
Beatrice alzò gli occhi al cielo, ma si lasciò scappare un sorriso un po’ amaro.
Sarebbe arrivato il giorno in cui avrebbe dovuto affrontare i suoi fantasmi, ma aveva come l’impressione che insieme ad Enea non sarebbe stato troppo difficile.
 
<< Allora ragazzi, avete sentito? Sono uscite le materie esterne di quest’anno >>
Un malumore diffuso si propagò per la classe quando Costantino Riva, il professore di greco e latino, annunciò quelle parole all’intera aula. Erano appena tornati dalle vacanze natalizie e già li tartassavano con quelle scocciature sull’esame di maturità, Gabriele non poteva fare a meno di sentirsi amareggiato e di pessimo umore a sua volta.
Era una giornata fredda, nevicava come se non ci fosse un domani, aveva sonno e non ne poteva più di starsene seduto a sopportare altre quattro ore di strazio.
<< Davvero? Quali sono professore? >> Gabriele spostò con poco entusiasmo lo sguardo su Ivan, che aveva posto la domanda con una leggera apprensione nella voce.
Apprensione che da parte sua Gabriele non condivideva affatto.
<< Come scritto vi è capitato greco … mentre latino è esterno. E così anche per italiano, filosofia e matematica >> Quando il professore ebbe finito di parlare nell’aula scoppiò un putiferio sommato a un brusio di sottofondo davvero fastidioso, Gabriele sbuffò sonoramente e incrociò le braccia al petto, mentre al suo fianco Aleksej gli lanciava una delle  occhiatacce migliori del suo repertorio.
<< Ma questo significa che di esterno avremo anche storia e fisica? >>
La domanda carica di angoscia di Italia fece scoppiare un’altra protesta, il professore si alzò in piedi e si mise seduto sulla cattedra di fronte ai propri studenti, agitando le braccia in modo del tutto innaturale per catturare la loro attenzione.
<< Guardate i lati positivi! Ci sono io che sarò sicuramente un professore interno per quanto riguarda greco … e poi ci sono la professoressa di scienze della terra, quella di arte e di inglese ad aiutarvi! >> La prospettiva sembrò non rincuorare nessuno dei suoi alunni.
<< Sapessi che consolazione >> Gabriele si girò e vide Telemaco intento a brontolare con un muso addirittura peggiore del suo, non era mai andato molto d’accordo con il biondo, in realtà si conoscevano davvero poco e i loro caratteri erano quasi agli antipodi, ma quando si trattava di lamentarsi e diventare pessimisti erano in perfetta sintonia.
<< Ascoltate ragazzi, l’importante è prepararsi per il meglio … facendo in modo di essere preparati. Dunque, per questo motivo, correggiamo le versioni di greco che … >>
Gabriele smise di ascoltare nell’esatto istante in cui il professore pronunciò la parola versione, aveva la mente completamente altrove, apatica, non mostrò nessuna reazione nemmeno quando toccò ad Aleksej proporre la sua traduzione con gli appositi commenti grammaticali, tanto le versioni le aveva copiate da lui.
Aspettò come un’anima in pena che suonasse la campanella della ricreazione, e quando il suo desiderio si realizzò, non aspettò nemmeno che il professore uscisse dalla classe, fu il primo a sfrecciare fuori, ignorando completamente i richiami di Aleksej.
Aveva voglia di prendere la prima tipa che gli capitava sotto tiro, svignarsela da qualche parte e vedere se per un po’ il cervello avrebbe orbitato altrove, ma era troppo pigro e di cattivo umore per mettere davvero in atto la pessima idea che gli era venuta.
Si limitò a camminare fino alla saletta delle macchinette e si lasciò cadere sulle scale a peso morto, appoggiando una guancia su un ginocchio e lasciando le braccia penzoloni nel vuoto, appoggiate sui gradini gelidi e sporchi.
Suo padre gli aveva raccontato che zia Claudia e zio Yulian, i genitori di Aleksej, si erano conosciuti proprio in quel luogo incasinato, non era stato uno degli incontri migliori della storia, eppure da quel momento in poi non avevano fatto altro che amarsi per tutta la vita.
E Aleksej, Ivan, Pavel, Andrea e Lisa erano la prova vivente di quell’amore.
Anche i suoi genitori si era conosciuti al liceo, ma la loro era stata una storia completamene diversa, erano stati assieme per un po’ di tempo all’età di diciassette anni, poi sua madre era scappata. Si erano ritrovati quasi per caso anni dopo, quando erano entrambi adulti e feriti abbastanza dalla vita, e poi era arrivato lui, Gabriele.
Ripensando ai suoi genitori, non riuscì a fare a meno di domandarsi se anche a lui sarebbe successa una cosa del genere, se dopo tanti anni, stanco, avesse potuto guardare Katerina negli occhi e dire: “ Ricominciamo di nuovo”.
Scosse freneticamente la testa e i suoi occhi vennero attratti da diverse scene, vide Ivan e Giasone seduti su uno dei davanzali a litigare con una certa enfasi, scorse Zosimo accompagnato da sua sorella Alessandra e Jurij rincorrere qualcuno, poi vide Katerina e il respiro gli si bloccò in gola, soffocandolo.
Aveva tagliato tutti i capelli, la bellissima chioma bionda che aveva sempre portato raccolta in una treccia o sciolta sulle spalle era completamente sparita. Portava un taglio corto e maschile che le metteva in risalto il viso spigoloso e ammaliante, gli occhi grigi erano marcati da una matita nera e parlava con un ragazzo, attaccata al suo braccio.
Rideva come se non l’avesse mai fatto in vita sua.
Sembrava proprio felice, mentre lui si disperava e si dannava l’anima.
Gabriele si tirò in piedi di scatto, e non fu affatto una buona mossa, perché metà delle persone che si trovavano nella stanzetta si voltarono verso di lui, compresa Katerina.
I loro occhi si scontrarono inevitabilmente e lei smise di ridere all’istante, e a quel punto Gabriele fece l’unica cosa che avrebbe potuto ferirla, accennò un leggero sorriso e le fece un cenno con il capo, quasi come una benedizione.
“Va e si felice
Avrebbe davvero voluto essere maturo fino a quel punto, ma non lo era.
Aveva voluto ferirla perché era uno stupido vendicativo, perché non poteva ammettere di essersi sbagliato, perché non poteva rimangiarsi tutte le promesse che si era fatto.
L’aveva ferita perché era infantile e si era sentito tradito, perché era un incoerente.
Stava tornando in classe quando si sentì afferrare per la manica del pullover con malagrazia, voltò lo sguardo e si scontrò con gli occhi accesi di suo cugino Aleksej.
<< Oh, ma che ti prende oggi? Sei intrattabile! >> Sbottò il biondo strattonandolo leggermente, Gabriele gli spostò malamente la mano e continuò a camminare come se non l’avesse nemmeno sentito, aveva bisogno di andare avanti, di camminare fino a svenire dallo sfinimento, di stordirsi, di sbattere la testa da qualche parte e riprendere il senno.
In qualche modo avrebbe dovuto guarire da quella malattia.
<< E allora lasciami stare, no?! >> Si ritrovò a replicare aggressivo, non si fermò nemmeno ad osservare l’espressione ferita di Aleksej, avevano litigato parecchie volte nel corso della loro lunga amicizia, ma non era difficile capire che quella volta la situazione era diversa.
Non stavano litigando per delle caramelle o per chi doveva vincere alla play station.
C’era qualcosa che non andava ed Aleksej non sapeva cosa fosse, e lui detestava non sapere le cose, soprattutto se riguardavano il suo migliore amico.
<< Ma che cazzo di modi sono?! Sai che ti dico, vaffanculo Gabriele! >>
Sputò il biondo mandandolo a quel paese anche mimicamente, poi gli voltò le spalle e se ne andò, diretto anche lui nella saletta, Gabriele strinse forte i pugni.
<< Io me ne cado a pezzi e a te non te ne fotte un cazzo, vero?! >> Quelle parole gli scivolarono dalle labbra senza controllo, come le lacrime che avevano iniziato a bagnargli il viso, quelle lacrime che non avrebbe mai, mai, mai e poi mai voluto versare, che non doveva lasciare andare << Dannazione! >> Sbottò a denti stretti, con i pugni serrati e il volto chino.
Aleksej si girò a guardarlo frastornato, come se qualcuno gli avesse appena tirato un cazzotto proprio tra gli occhi, non aveva mai visto Gabriele piangere, o almeno non lo vedeva compiere un gesto simile da anni.
Rimase come tramortito sul posto.
<< Cos’hai detto? >> Mormorò facendo un passo verso il cugino, Gabriele si asciugò rudemente il viso, fece un passo indietro e scosse il capo.
<< Niente, ho detto che a ‘fanculo te ne vai tu >>
Aleksej rimase pietrificato, con lo sguardo piantato sulla schiena curva di Gabriele.
Che diavolo stava succedendo?
 
Cristiano detestava le assemblee di classe.
Aveva proprio voglia di lasciare l’aula come aveva fatto Gabriele non appena erano rimasti da soli, ma si scocciava di alzarsi da quella sedia, e poi tutto quel brusio e la voce di Italia, la rappresentante di classe, gli stavano conciliando il sonno piuttosto bene.
Dovevano discutere su cose che a lui interessavano davvero poco, qualcosa che aveva a che fare con la mancanza di carta igienica nei bagni, di lucchetti rotti, puzza di fumo ovunque e la gita dell’ultimo anno, tutte cose che a lui non importavano nulla.
Soprattutto l’ultima.
Era piacevole starsene con la testa appoggiata sulla cartella di pezza vuota, perché quel giorno aveva dimenticato di portare anche l’unico quaderno che utilizzava e la penna per scrivere, teneva gli occhi chiusi e per addormentarsi completamente ascoltava le voci di tutti e cercava di indovinare a chi appartenessero.
Aveva già riconosciuto quella di Catena, di Ivan, di Igor e di Oscar, ma con lui era più facile perché era uno dei suoi vicini di banco.
Non si era scomposto neppure quando Zosimo, l’altro compagno di banco, aveva tentato di infilargli una matita tra i ricci e l’orecchio a mo’ di ingegnere, gli piaceva tenere gli occhi chiusi e far finta di non esistere affatto, avrebbe potuto vivere in quel modo per tutta la vita.
Era in un totale stato di dormiveglia quando il cellulare cominciò a vibrargli nella tasca dei jeans, Cristiano provò una stizza tale che avrebbe volentieri afferrato l’oggetto per fracassarlo contro il primo muro a portata di vista, ma si trattenne, perché non aveva la minima voglia di andare dal padre a chiedergli i soldi per prenderne uno nuovo, certo, glieli avrebbe dati senza nessuna esitazione, senza nemmeno chiedergli a cosa gli servissero, perché in quella famiglia era così che i figli dimostravano il proprio affetto, ma non voleva aveva un faccia a faccia con lui, in alcuno modo.
L’unica soluzione fu quella di sfilarsi l’apparecchio dalla tasca e controllare chi lo stesse infastidendo, aggrottò le sopracciglia quando vide il numero di casa, solitamente a quell’ora c’erano solo Marta e sua madre.
<< Oh, fate silenzio! >> Sbottò all’improvviso, tutti nella classe ammutolirono e si girarono verso di lui, giusto in tempo per vederlo appoggiare il cellulare sul banco e mettere il vivavoce, in modo tale che non avrebbe dovuto sollevare la testa dal cuscino improvvisato.
Erano talmente tutti scioccati che nessuno ebbe il coraggio di replicare, l’unico che aveva sempre la risposta pronta aveva abbandonato la classe << Allora? Chi è? >> Domandò con voce strascicata a causa del sonno nel quale stava lentamente sprofondando e dal quale era stato strappato a forza. Dall’altro lato del telefono si sentì un respiro affannoso, dei rumori strani e poi dei singhiozzi soffocati, a quel punto Cristiano sollevò la testa dal banco ed Italia, che aveva aperto la bocca per dire qualcosa, la richiuse immediatamente.
<< Signorino … signorino! >> Era Marta, ma c’era qualcosa di strano, c’era qualcosa che non andava, stava piangendo, e Cristiano non avrebbe fatto una piega se il pianto non fosse stato disperato e strozzato come quello che stava sentendo in quel momento.
<< Che succede Marta?! Sono a scuola, sai che non puoi … >> Cristiano aveva cominciato a rispondere senza nemmeno pensare che tutta la classe lo stava ascoltando, senza riflettere sul gesto che aveva commesso per pigrizia.
<< Signorino, mi dispiace, mi dispiace davvero tanto! >>
Nell’aula non volava una mosca, e la voce di Marta si sentiva chiaramente, quasi come se la cameriera fosse stata lì con loro, Cristiano stava cominciando ad innervosirsi.
<< Marta! Non farmi perdere la pazienza, cosa … >>
<< E’ … è sua madre … >> Singhiozzò la donna, Cristiano alzò gli occhi al cielo.
<< Cos’ha combinato stavolta? Ha rotto qualche altro vaso? Ne ha lanciato qualcuno addosso a papà? No, perché se fosse così mi fa anche piacere! >> Replicò beffardo ed irritato, non badando minimamente agli sguardi ammutoliti dei suoi compagni di classe.
<< Era … era ubriaca signorino, non me ne sono accorta! Stavo preparando il pranzo per lei, non me ne sono accorta che era uscita di casa … >> Cristiano aggrottò ancora di più le sopracciglia quando sentì quelle parole, c’era qualcosa che non andava, decisamente.
<< Cosa stai cercando di dirmi? Parla chiaro, Marta! >>
La cameriera singhiozzò ancora di più quando Cristiano cominciò ad urlare attraverso la cornetta con più foga di quanta ne fosse necessaria, tanto che alcuni dei suoi compagni trasalirono dallo spavento.
<< Mi dispiace … era ubriaca, non ragionava lucidamente, è scesa con una bottiglia in mano, era scalza e aveva le calze bucate, non l’hanno vista, non … è stata … è stata …. >>
<< Cosa?! Cosa? >> Dall’altro lato del telefono si sentì un singhiozzo strozzato, poi un fruscio e immediatamente dopo prese parola un’altra voce, una voce maschile che Cristiano conosceva particolarmente bene, la voce fredda di suo padre.
<< Torna a casa Cristiano. Tua madre è stata investita per strada. >>
<< Cosa? >> A Cristiano gli si strozzò la parola in gola, come se qualcuno gli avesse improvvisamente bloccato le vie respiratorie, fu in quel momento che si rese conto degli sguardi di tutti i suoi compagni di classe, e che la conversazione era stata ascoltata da tutti.
<< Torna a casa, devi salutarla prima che la portino via >>
<< Portarla dove?! Non è già all’ospedale? Cosa state aspettando, muo … >>
<< Smettila! Tua madre è morta Cristiano. Torna a casa >>
Cristiano osservò con sguardo vitreo lo schermo del cellulare tornare normale e spegnersi, per un tempo indefinito nessuno sembrò fiatare.
<< Cristiano! Cristiano! >>
Fu Sonia a scattare in piedi e raggiungere il ragazzo, ma lui non la stava guardando veramente, non stava guardando niente, non stava sentendo niente, proprio nulla.
Il vuoto assoluto, il nulla più totale.

_______________________________
Effe_95

Buonasera a tutti e Buon 2016 :)
Allora, come avevo accennato nel capitolo precedente siamo passati a Gennaio e al proseguimento temporale della storia. E' stato un capitolo impegnativo da scrivere, e arrivati a questo punto credo voi possiate capire il perchè, la parte di Cristiano lo fa capire perfettamente.
Non voglio aggiungere troppo, mi piacerebbe sapere il vostro parere a riguardo.
Per la parte di Enea e Beatrice, siamo sempre più vicini a scoprire finalmente la storia della nostra ragazza, mentre per quanto riguarda Gabriele, ha litigato con Aleksej e probabilmente raggiunto il suo limite. Grazie mille come sempre per il vostro supporto continuo :)
Alla prossima spero.
 

 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 35
*** Solo per un po’, Pensavo tu fossi triste e Egoista ***


I ragazzi della 5 A
 
35.Solo per un po’, Pensavo tu fossi triste e Egoista.


Gennaio

Sonia trovava crudele il modo in cui il tempo si stesse prendendo gioco di loro.
Non nevicava, non pioveva, non faceva freddo, il cielo era chiaro e limpido, con un pallido sole che illuminava tutto, riscaldando fugacemente i loro volti.
Era crudele che la prima giornata bella d’inverno capitasse il giorno del funerale di Margherita Serra, erano le tre del pomeriggio e fuori dalla chiesa c’era un’atmosfera quasi irreale, silenziosa, mite, troppo pacifica per il dolore sordo che le attanagliava il petto.
Per Sonia quei giorni erano stati davvero pesanti.
Non riusciva a togliersi dalla testa la reazione che aveva avuto Cristiano il giorno della notizia, lei l’aveva scosso parecchie volte cercando di richiamare la sua attenzione, ma lui non l’aveva guardata nemmeno una volta. Le aveva scostato la mano con un gesto automatico e si era messo in piedi, aveva afferrato la cartella, la giacca, il casco … e quando aveva raggiunto la porta della classe era collassato a terra.
Erano stati Aleksej e Telemaco ad afferrarlo prima che si facesse male sul serio.
Sonia era sicura di aver gridato, e che le sue gambe si erano mosse nella sua direzione senza che lei le comandasse, era da quel momento che i ricordi si facevano confusi, dopo che gli aveva messo le mani sul viso e tastato la fronte sotto lo sguardo di tutti …
Ricordava che Miki le aveva masso una mano sulla spalla, che era arrivato il professore di greco e latino, che avevano portato Cristiano da qualche altra parte.
Rabbrividì quando una folata di vento le scompigliò i capelli ricci e sfibrati, quella notte non aveva chiuso occhio, le calze le davano fastidio, non le piaceva vestire di nero, eppure non poté fare a meno di constatare che fuori da quella chiesa in marmo grigio, così grande, con i mucchietti di neve raccolti ai margini delle scale, degli edifici e sui tetti, sembrassero tanti piccole macchie nere, macchie che deturpavano il paesaggio con il loro dolore.
Non vedeva Cristiano dal giorno dell’accaduto, sapeva che in quel momento si trovava dentro l’edificio sacro, da qualche parte, forse nascosto dentro un confessionale.
Le si strinse il cuore dal dolore e dalla rabbia, la rabbia di sentirsi completamente inutile, di non poter fare nulla per la persona che amava, arrabbiata perché tutti i suoi compagni di classe erano andati al funerale e non poteva prendersela con nessuno, arrabbiata perché avrebbe tanto voluto scappare anche lei e raggiungere Cristiano in uno di quei confessionali.
Si strinse maggiormente le braccia al petto e rabbrividì di nuovo, se ne stava ferma sul portico della chiesa da un tempo che le sembrava infinito, aveva paura che muovendosi sarebbe colata come cera sciolta riversandosi ovunque, chiuse gli occhi e sospirò pesantemente.
Fu in quel momento che una mano piccola e calda le si appoggiò sulla spalla.
Sonia riusciva a percepire quel calore anche attraverso la stoffa del cappotto, voltò leggermente la testa e incrociò il viso sottile e pallido di Miki, anche lei indossava abiti scuri e i capelli sottili come spaghetti le cadevano lunghi sulle spalle.
Sonia trovò quella situazione davvero comica, loro due non si sopportavano più da anni ormai, eppure Miki sembrava aver capito tutto solo osservandola, come se quel legame profondo che le aveva unite fino ai primi anni del liceo fosse rimasto sepolto da qualche parte in mezzo a tutte le cattiverie, le urla, i litigi e le pugnalate alle spalle.
<< Sembri stanca … non hai dormito, vero? >>
La voce di Miki era pacata e calda come sempre, se fosse stato un giorno diverso, probabilmente Sonia le avrebbe scostato bruscamente la mano e avrebbe risposto con sufficienza, magari con qualche parola cattiva d’accompagnamento per ferirla, ma non era un giorno diverso.
Era quel giorno, il giorno in cui l’amore della sua vita aveva perso tutti i riferimenti e lei non sapeva come aiutarlo, non sapeva come comportarsi.
<< No, ho provato a chiudere gli occhi, ma non riuscivo a prendere sonno >>
Miki scostò delicatamente la mano e la congiunse alla sua gemella, intrecciando le dita davanti al ventre, non si stavano guardando, avevano alcuni centimetri di distanza l’una dall’altra, erano rivolte verso l’entrata principale della chiesa, gremita di persone vestite in nero che si aggiravano per il portico come fantasmi, viste da lontano avrebbero dato l’impressione di due perfette sconosciute impegnate in una conversazione di circostanza.
<< Nessuna riuscirebbe a dormire Sonia, sapendo che l’uomo che si ama sta soffrendo e non puoi fare nulla per aiutarlo >>
Sonia non rimase troppo sorpresa da quelle parole, Miki era sempre stata una grande osservatrice, l’aveva sempre osservata in silenzio anche quando lei la trattava come una pezza, quando lei le aveva fatto talmente male che chiunque altro l’avrebbe lasciata da sola.
<< Te ne sei accorta, vero? >>
Miki aveva un sorriso accennato sulle labbra e l’espressione serena, i suoi occhi chiari erano posati su Aleksej, che se ne stava accanto al portone in legno della chiesa insieme ad Ivan, Igor, Telemaco, Oscar, Gabriele, Zosimo, Giasone, Lisandro, Romeo ed Enea.
Erano tutti vestiti di nero, non parlavano per rispetto ed erano persi nei propri pensieri.
<< Dal modo in cui l’hai toccato quando è svenuto, dal modo in cui lo guardavi >>
Commentò quasi distrattamente, Sonia infilò le mani nelle tasche del giubbotto nero che le arrivava fino alle ginocchia e rivolse un’occhiata veloce a Miki.
<< Non ho potuto farne a meno >>
I loro occhi si incrociarono per una frazione di secondo e Miki sorrise.
Sonia non sapeva se essere sollevata, Miki non conosceva tutta la storia, non sapeva come erano andate le cose tra lei e Cristiano, eppure le era bastato un gesto per capire l’essenziale, ma Sonia aveva sempre pensato che ci fosse un tempo per tutto, e quello non era il momento adatto per affrontare quel discorso, forse un giorno gliel’avrebbe raccontato.
Rimasero in silenzio per alcuni minuti interminabili e una folata di vento scompose i capelli ad entrambe, era una brezza fredda e tiepida contemporaneamente.
<< Comunque non c’è nulla di male, se vuoi farlo … io ti presto la mia spalla >>
All’inizio Sonia rimase impassibile alle parole di Miki, poi gli occhi le si riempirono di lacrime senza che lei riuscisse nemmeno a rendersene conto, le lacrime le bagnarono le guance e fu scossa dai singhiozzi, e solo per quel giorno, per quei pochi minuti che precedettero la processione, decise che affidarsi al passato non fosse sbagliato.
Miki la lasciò piangere sulla sua spalla senza dire nulla, e le stette vicino per tutto il tempo della funzione funebre, erano sedute abbastanza dietro e non era possibile vedere tutto, la chiesa era ricca di persone, di quelle persone che Margherita Serra aveva conosciuto in un’altra vita, una vita in cui era stata felice.
La bara si trovava al centro della navata, di fronte l’altare, era incorniciata di rose rosse e osservandola meglio, gli occhi di Sonia incrociarono la fotografia di una donna sorridente con gli stessi occhi del figlio, a cerbiatto, scuri e profondi.
Cristiano sedeva proprio nella prima panca di fronte alla foto, ma per tutto il tempo della cerimonia se ne rimase con la testa china e lo sguardo perso nel vuoto, le mani nella tasca dei pantaloni gessati e non volse lo sguardo verso sua madre nemmeno una volta.
Aveva il capo chino come un bambino appena rimproverato e Sonia non riusciva a togliergli lo sguardo di dosso, non riusciva a smettere di torturarsi le mani o stringersi il vestito.
Le sembrò tutto durare troppo, troppo fino a sentirsi completamente svuotata.
Alla fine della funzione si ritrovò nuovamente da sola a vagare per il chiosco del convento che ospitava la chiesa, dove li avevano fatti uscire per fare le condoglianze, era stata la prima volta che aveva visto il padre di Cristiano, un uomo freddo che assomigliava al figlio più di quanto le piacesse ammettere.
Cristiano non era con lui.
Eppure nessuno sembrava notarlo, nessuno sembrava farci troppo caso.
Sonia lanciò un’occhiata distratta al piccolo pozzo vuoto e barricato sistemato al centro del chiosco, sotto quest’ultimo crescevano delle rose rosse come il sangue e poco più in la …
Lo sguardo di Sonia fu inevitabilmente catturato da quella zazzera di capelli scuri e ricci che conosceva benissimo, Cristiano se ne stava seduto sotto una sorta di gazebo ricoperto di fiori accanto ad una statua della Vergine Maria, da quella distanza non era semplice scorgerlo.
I piedi si mossero da soli, Sonia attraversò lentamente il chiosco e lo raggiunse.
Cristiano era seduto un po’ scompostamente sulla panchina, aveva le gambe divaricate, le mani nelle tasche dei pantaloni e lo sguardo fisso sul selciato, non diede alcun segno di essersi accorto di lei, ma Sonia non se la prese troppo, fece un altro passo e si mise seduta anche lei sulla panchina, a parecchi centimetri di distanza da lui.
Non sapeva cosa dirgli, non sapeva come comportarsi, avrebbe tanto voluto toccarlo, abbracciarlo, stringerlo tra le braccia e vederlo piangere, lasciare che si sfogasse … ma le mani le tremavano terribilmente, e non riuscì a fare altro che stringerle attorno alla stoffa pesante del cappotto.
Le stavano pizzicando nuovamente gli occhi e le mani avevano cominciato a prudere a causa della frustrazione, fu in quel momento che Cristiano appoggiò la testa sulla sua spalla a peso morto e chiuse gli occhi. Sonia trasalì e spostò impercettibilmente lo sguardo su di lui, i capelli di Cristiano profumavano di iris, aveva le occhiaie marcate e fu in quel momento che se ne rese conto, si rese conto che non sarebbero servite le parole, che restando in silenzio aveva fatto la cosa giusta.
Che Cristiano non aveva bisogno di nient’altro.
Nient’altro che una spalla su cui riposare per un po’.
Solo per un po’.
 
A Zosimo sembrava di essere precipitato in un incubo.
Gli sembrava come se qualcuno gli avesse voluto fare uno scherzo di pessimo gusto, come se gli avessero tirato via la sedia mentre stava per sedersi, come se si fossero mangiati tutta la sua cioccolata preferita senza lasciargli nemmeno una briciola di consolazione.
Era solo uno stupido scherzo che la madre di Cristiano fosse morta lo stesso mese della sua.
Zosimo non conosceva bene Cristiano, anche se era il suo vicino di banco, loro si limitavano a stuzzicarsi, a perdere tempo durante le lezioni e quando c’era da fare una versione di gruppo si divertivano ad inventare le traduzioni più assurde.
Ma non si erano mai parlati davvero.
Zosimo non si era mai interessato veramente a lui, non gli aveva mai chiesto quale fosse il suo colore preferito, se tifasse qualche squadra di calcio, quali fossero i suoi film preferiti, se avesse mai avuto una ragazza seria tra le tante … insomma, tutte quelle cose che avrebbe dovuto domandare. A pensarci bene, Zosimo si rese conto per la prima volta di quanto fosse solo Cristiano, nella classe non aveva amici e nessuno sapeva nulla di lui, nessuno si era mai avvicinato a causa del suo carattere indifferente, della sua aria strafottente, del suo interessamento per le ragazze degli altri.
Nessuno si era mai chiesto perché fosse fatto così.
E l’avevano scoperto probabilmente nel modo peggiore in assoluto.
Zosimo sospirò pesantemente, gli dava fastidio doversene andare in giro con quello smoking  nascosto solo parzialmente da un vecchio giubbotto d’aviatore che stonava con tutto il resto, ma era l’unica cosa nera che avesse e tra l’altro suo padre stava lavorando, gli toccava prendere la metropolitana.
La gente lo fissava, ma lui non ci badava troppo.
Aveva perso anche lui sua madre all’età di otto anni, un’assenza che avrebbe segnato la sua vita fino al giorno in cui avrebbe chiuso gli occhi anche lui, ma in quel momento si rese conto di una cosa, mentre se ne stava seduto su quei sedili scomodi sballottato a destra e sinistra come una pallina da ping-pong … non c’era niente di giusto in quello che era successo, ma lui aveva sempre avuto suo padre e sua nonna.
Aveva avuto un sostegno che non l’aveva fatto crollare, un sostegno che l’aveva afferrato per le braccia quando stava per cadere e l’aveva rimesso su a forza, dicendogli:” Va! Anche se le ginocchia fanno male e sono sbucciate … continua a camminare!”
Cristiano non aveva nulla, non aveva proprio nessuno.
Zosimo non conosceva Emanuele Serra, ma gli era bastato ascoltare quella telefonata terribile e fargli le condoglianze quello stesso giorno per capire che tipo fosse.
Cristiano non avrebbe avuto nulla da lui, se non una schiena voltata.
Quando Zosimo scese finalmente dalla metropolitana e si ritrovò sulla strada affollata ad un quarto d’ora da casa, fu investito da un vento gelido, si passò distrattamente una mano tra i capelli mossi e scuri e poi la infilò nuovamente nella tasca dei pantaloni.
Aveva appena svoltato l’angolo quando si accorse di Alessandra.
Se ne stava appoggiata alla parete di un vecchio negozio con la borsa stretta tra entrambe le mani e il capo chino, era distratta e giocherellava con la punta dello stivale nella neve, solo guardando più attentamente Zosimo si rese conto che stava scrivendo e cancellando in continuazione il suo nome.
<< Cosa ci fai qui tutta sola? >>
La colse talmente di sorpresa che la poveretta saltò dallo spavento e la borsa le scivolò dalle mani finendole su un piede, considerata l’espressione che le attraversò il volto, Zosimo immaginò che non fosse stata un’esperienza molto piacevole.
<< Ahi, che male … >> Borbottò Alessandra mentre si chinava a raccogliere la borsa, era imbarazzata e aveva il naso leggermente arrossato sulla punta, anche la voce era piuttosto nasale e Zosimo si rese conto che probabilmente doveva avere il raffreddore << … stavo aspettando te, comunque >> Terminò la frase aggiustandosi una ciocca di capelli.
<< Me? E come facevi a sapere che sarei passato di qui? >>
Le domandò Zosimo sorridendole allegramente, Alessandra non poté fare a meno di pensare che in quel momento sembrasse proprio un folletto, con le orecchie leggermente a punta che spuntavano tra i capelli ricci e quel sorriso birichino sulle labbra sottili.
<< Ho chiesto a mio fratello Gabriele, non sembrava entusiasta di rispondere, ma mi ha detto che avresti preso la metropolitana e che saresti sceso proprio qui >>
Zosimo si rese conto solo in quel momento che Alessandra l’aveva guardato negli occhi per tutto il tempo, non aveva abbassato lo sguardo sul suo smoking stropicciato e un po’ corto sulle caviglie, non aveva sollevato le sopracciglia alla vista dei calzini spaiati che aveva indossato e non le era venuto un conato di vomito a causa del giubbotto d’aviatore.
<< Andiamo a prendere una cioccolata calda, allora? >>
Zosimo cominciò a camminare ancora prima che Alessandra avesse dato una risposta, ma quando le passò accanto la ragazza lo afferrò per la manica del cappotto e tirò leggermente per richiamare la sua attenzione.
<< Ti ha dato fastidio che io sia venuta? Ti ho disturbato? >>
Zosimo corrugò le sopracciglia nel sentire quelle parole, non gli era mai nemmeno passata per la mente l’idea che Alessandra potesse dargli fastidio, in realtà, quando l’aveva vista, il terribile nodo che gli stringeva lo stomaco si era leggermente allentato fino a scomparire del tutto quando lei aveva aperto bocca.
Alessandra era stata per lui come una ciambella di salvataggio dal mare dei suoi pensieri.
<< Certo che no … perché lo pensi? >>
Zosimo notò che Alessandra non faceva che torturarsi i pollici e le mani come se fosse terribilmente nervosa, come se avesse fatto qualcosa di sbagliato.
<< Io … io sono venuta qui perché pensavo tu fossi triste, perché credevo che avresti pensato al passato, e non volevo, non volevo che ti rattristasti >>
Alessandra confessò quelle parole con la testa china e le gote imporporate di rosso, fu la prima volta in vita sua che Zosimo non riuscì a trovare subito le parole che gli servivano, rimase leggermente spiazzato, con il vento freddo che gli sferzava i capelli, i viandanti che passavano ignari di tutto a fissare quella ragazzina che aveva troppa cura di lui.
Zosimo non era abituato a tutte quelle attenzioni.
Non era abituato al fatto che qualcuno si preoccupasse per lui, non riusciva a capire perché Alessandra, bella e radiosa, piena di vita, solare, fosse scesa di casa e avesse fatto tutta quella strada solamente perché aveva sospettato che per lui quella situazione sarebbe stata come piombare nuovamente in un incubo, come cadere inevitabilmente nella spirale del passato.
Non riusciva a capire perché avesse fatto tutta quella strada solamente perché lui non fosse triste. Il folletto sospirò pesantemente e si grattò la nuca imbarazzato.
<< Sai Alessandra … >> Cominciò a parlare, e la bionda sollevò lo sguardo ancora imbarazzata << … hai fatto bene a credere che avrei pensato al passato … perché l’ho fatto davvero tanto oggi >> Smise di grattarsi la nuca e allungò le mani affusolate per afferrare quelle fredde e tremanti di Alessandra << E se tu non fossi arrivata adesso, all’improvviso, proprio come un raggio di sole … probabilmente avrei pensato talmente tanto che la testa mi sarebbe scoppiata per colpa dei brutti pensieri >> Alessandra spalancò leggermente le labbra e sollevò le sopracciglia, in un accenno di sorpresa, Zosimo trovò carino quel gesto e si ritrovò a sorridere involontariamente << Grazie >>
<< P- perché mi ringrazi? >> Domandò lei ancora più imbarazzata, mentre scioglieva con nervosismo la stretta delle loro mani, Zosimo ridacchiò divertito e infilò gli arti congelati nelle tasche del suo giubbotto d’aviatore.
<< Perché non mi piace essere triste, ho promesso alla mamma che avrei sorriso sempre >>
Il rossore sulle gote di Alessandra si disperse lentamente quando Zosimo pronunciò quelle parole, i loro occhi si scontrarono quasi per caso, il verde più brillante contro il marrone più intenso, erano colori talmente diversi che in un certo senso si completavano.
<< E’ ancora valida la proposta della cioccolata calda? >> Chiese lei con un sorriso.
<< Come la vuoi? Conosco un negozio che le fa in tutti i modi possibili! >>
 
Romeo si sentiva piuttosto fiacco quel pomeriggio.
Aveva deciso di fare la strada per tornare a casa tutta a piedi, e sebbene la chiesa non fosse troppo lontana ci aveva impiegato un’ora buona.
Ci aveva messo così tanto perché aveva perso tempo durante il tragitto, perché si era messo a rimuginare su tantissime cose contemporaneamente e aveva rallentato il passo, perché era scivolato su un mucchietto di neve andando a sbattere contro un muretto imbrattando tutti i jeans scuri e perché gli faceva malissimo la caviglia.
Il sole era già calato da un pezzo quando raggiunse il cortile del suo palazzo, faceva talmente freddo che il respiro fuoriusciva in volute bianche e non sentiva più le dita delle mani né quelle dei piedi, il viso era un pezzo di ghiaccio e i capelli se ne stavano ritti come se si fossero congelati fino alla radice.
Aveva appena sfilato le chiavi del portone dalla giacca quando gli occhi incrociarono la familiare sedia a rotelle che aveva portato a spasso tantissime volte.
Fulvia se ne stava imbacuccata in un piumino pesante rosso come il fuoco, i corti capelli biondi erano nascosti da un berretto con i pon-pon e metà della faccia era sepolta in una sciarpa fatta a mano di lana, ma nonostante tutta quella protezione Romeo si accorse immediatamente che stava morendo di freddo.
<< Ma cosa ci fai qui da sola?! >>
Le domandò immediatamente in maniera apprensiva, mentre la raggiungeva con passo affrettato rischiando seriamente di rompersi l’osso del collo scivolando su una lastra di ghiaccio traditrice creatasi sulle mattonelle del cortile. Prima che potesse raggiungerla però venne brutalmente colpito sulla spalla destra da una palla di neve, ci mise un po’ a capire che era stata Fulvia a tirargliela, e che l’aveva fabbricata con della neve afferrata dal muretto più vicino, custodendola tra le mani per tutto il tempo.
<< Non ti azzardare a venirmi vicino, hai capito?! Altrimenti ti ammazzo! >>
Sbraitò la bionda alzando il tono di voce come mai aveva fatto, di solito Romeo capiva immediatamente quando Fulvia era arrabbiata per finta, quando faceva un po’ di scena, ed era piuttosto sicuro che in quel momento non si trattasse di uno di quei casi.
Fulvia era davvero furiosa con lui.
<< Che significa? Cos’ho fatto?! >>
Domandò Romeo piuttosto sbigottito, bloccato a metà strada con un piede sulla lastra di ghiaccio e l’altro sul pavimento sicuro, osservandola meglio si accorse che la ragazza aveva gli occhi arrossati dal pianto e che il cellulare giaceva sulle sue gambe inermi, come se lo avesse usato spesso.
<< Cos’hai fatto?! Saresti dovuto tornare a casa più di un’ora fa! Non hai la minima idea della paura che mi sono presa, dell’ansia che ho provato per tutto questo tempo. Ho detto a mia nonna che mi avevi chiamato dicendomi di scendere da te, l’ho fatto per non farla preoccupare e perché non allarmasse i tuoi genitori, ma ti giuro Romeo io … >>
Romeo interruppe bruscamente la tirata minacciosa e carica d’angoscia di Fulvia facendo diversi passi avanti proprio verso di lei, si sentiva terribilmente in colpa, in colpa per aver dimenticato di riaccendere il cellulare quando era finita la cerimonia funebre.
In colpa perché Fulvia l’aveva aspettato al freddo per un’ora intera.
In colpa perché l’aveva costretta a mentire per aiutarlo con i suoi genitori.
<< E sei scesa da sola? >> Le domandò con la voce incrinata dal rimorso.
Fulvia si passò rabbiosamente una mano sul viso bagnato e ghiacciato e annuì rudemente.
<< Nonna mi ha accompagnato fino all’ascensore, ma me la sono cavata da sola per arrivare fin qui … certo, ho sbattuto parecchie volte con i piedi, ma non importa! Io … non desideravo altro che vederti comparire da quella porta per tirare un sospiro di sollievo e sapere che stavi bene … maledizione! >> Romeo si morse immediatamente il labbro inferiore nel sentire quelle parole e con tre brevi passi mise fine alla distanza che ancora li separava.
La raggiunse e si inginocchiò di fronte a lei, senza fregarsene del gelo che penetrava nei pantaloni, dei brividi di freddo o dell’umido della neve che impregnava la stoffa, si mise in ginocchio per guardarla negli occhi e appoggiò le braccia sui manici della sedia a rotelle.
Fulvia non lo cacciò, né lo colpì come si sarebbe aspettato.
<< Non sai … non sai quanto mi sia sentita frustrata di essere bloccata qui! Su questa sedia, non sai quanto avrei voluto tirarmi in piedi, far funzionare queste gambe e correre ovunque per cercarti. E invece non ho potuto fare altro che arrivare fin qui, con qualche livido in più senza poter fare un altro passo … non sai quanto … >>
Romeo la strinse talmente forte tra le braccia che Fulvia non trovò più il fiato per continuare, non stava piangendo mentre pronunciava quelle parole, era una rassegnazione muta e sorda che le aveva pervaso la voce, una rassegnazione che Romeo non aveva mai potuto tollerare.
<< Mi dispiace, mi dispiace tantissimo, non lo farò mai più te lo giuro. Starò attento, non lo permetterò più, davvero io … >>
<< Romeo … >> Lo interruppe immediatamente lei, con una voce talmente bassa che lui fu costretto a sciogliere l’abbraccio per guardarla negli occhi chiari come il cielo << … vedi? E’ per questo motivo che io non posso darti speranze … è per questo motivo che io non vado bene per te, però … >> Continuò a dire prima che lui potesse aprire bocca per ribattere, Romeo era tonato ad inginocchiarsi di fronte a lei, e il suo viso era all’altezza giusta perché lei potesse posarvi sopra le sue mani fasciate dai guanti bagnati di neve << … posso fare un po’ l’egoista? Per una volta, posso essere egoista? Posso essere egoista per tutta la vita? >>
Romeo non replicò nulla, rimase in silenzio mentre Fulvia abbassava il viso e appoggiava le labbra sottili e gelide sulle sue, in un bacio casto che crebbe d’intensità mano a mano che si rendevano conto di quello che stava succedendo.
Quel giorno Romeo aveva assistito al funerale della mamma di un suo compagno di classe, di un ragazzo che aveva sempre detestato e con cui non aveva fatto altro che erigere un muro costruito sulla base del “buon viso a cattivo gioco”.
Quel giorno aveva visto per la prima volta l’anima che si celava dietro quel ragazzo, l’anima di una persona sola che non aveva nulla.
E mai come quel giorno aveva capito quanto fosse preziosa quella creatura che stringeva ancora tra le braccia.
Quanto fosse preziosa per lui, anche se non “funzionava bene”, volendo usare le parole che la stessa Fulvia gli aveva ripetuto tante volte, non gli importava che fosse così, non gli importava in quel momento quanto sarebbe potuto essere difficile.
Non voleva diventare come Cristiano.
Non avrebbe più dato per scontato le cose che aveva.
Non l’avrebbe fatto mai più.
<< Puoi essere egoista, io non ti dirò niente >>


_______________________
Effe_95

Buongiorno a tutti :)
Vi chiedo scusa per il ritardo, il capitolo era pronto da tempo, dovevo solo correggerlo, ma la settimana scorsa ho avuto un esame da preaparare e così la cosa si è protratta.
Comunque, è stato un capitolo difficile da scrivere per me, soprattutto la prima parte.
Spero vivamente di essere riuscita a trattare l'argomento con tutta la delicatezza di cui fossi capace, spero di non essere stata inrispettosa e superficiale, spero che attraverso Sonia si sia capito quello che volevo far trasparire.
Difficile da scrivere è stata anche la parte di Romeo, finalmente i nostri due ragazzi si sono baciati.
Fulvia ha aperto maggiormente il suo cuore, ma l'ha fatto del tutto?
Grazie mille come sempre per il vostro supporto, le vostre fantastiche recensioni e la vostra pazienza. 
Alla prossima spero :)
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 36
*** Spogliatoi, Ha resistito e Collera ***


I ragazzi della 5 A
 

36. Spogliatoi, Ha resistito e Collera


Gennaio

Se ripensava alla fatica dei giorni precedenti e a quella appena compiuta, Enea sapeva di dover sentire la stanchezza lambirgli tutte le membra, sentire la gola ardere e la voce venir meno. Eppure in quel momento, mentre se ne stava dietro le quinte di quel teatro che aveva consumato con i suoi passi per tutti quei mesi, a spettacolo terminato, con il pubblico che applaudiva e gridava dall’altra parte del palco, quella fatica non gli era mai sembrata così ripagata. Non gli importava di aver passato ore e ore a ripetere, a cantare, a sgolarsi, oppure a trascinare tutta la scenografia per sistemarla, riducendosi a studiare alle dieci di sera per la prova d’esame del giorno successivo, tutto quello valeva davvero poco rispetto all’emozione che aveva provato quando era entrato in scena poche ore prima.
Si sentiva svuotato e pieno allo stesso tempo, la voce del professore era un brusio piacevole nella confusione che regnava sovrana nella sua testa, una confusione fatta d’emozioni contrastanti, di stanchezza e di soddisfazione.
<< … sia proprio il caso di lasciare entrare i nostri meravigliosi protagonisti >>
Fu quella frase a risvegliarlo dal suo torpore, sentì qualcuno afferrargli delicatamente la mano e si girò per incrociare lo sguardo determinato e severo di Beatrice.
Quella sera era bellissima nel suo abito ottocentesco perfettamente inadatto per il tempo storico dell’opera, era truccata come mai l’aveva vista prima e aveva i capelli raccolti in un’acconciatura elaborata, Italia, Catena, Zoe e Fiorenza ci avevano messo ore per prepararla, utilizzando un numero improponibile di forcine e abbastanza lacca da impregnare le pareti delle quinte per quattro generazioni future.
<< Ti trovo abbastanza bene per essere uno che è morto pochi minuti fa >>
Lo prese in giro lei regalandogli uno dei suoi rari sorrisi, Enea sollevò le labbra in un ghigno malizioso e le strinse forte la mano, mentre osservava Romeo, Igor e Ivan ( Mercuzio, Benvolio e Tebaldo) avanzare sul palco e fare un profondo inchino, meritando l’applauso travolgente che stava inondando il teatro in quel momento.
<< Potrei dire lo stesso di te >>
Beatrice ridacchiò, poi entrambi raggiunsero gli altri attori sul palco sotto applausi scroscianti e una moltitudine di grida provenienti da ogni parte nel piccolo teatro che quella sera aveva ospitato un numero davvero ampio di spettatori.
Raggiungendo il centro per inchinarsi, Enea ripensò a quando aveva scelto di iscriversi a quel corso per un impulso, un impulso che aveva avuto guardando gli occhi di Beatrice, occhi che quel giorno non gli erano mai sembrati più impenetrabili e freddi.
Quando il sipario si chiuse definitivamente, Enea non poté fare a meno di tirare un sospiro di sollievo, e fu a quel punto che la stanchezza lo travolse con la forza di un uragano, sentì lo stomaco contrarsi dalla fame, le braccia indolenzite, la gola secca e gli occhi bruciare.
<< E’ stato pazzesco! >> Esclamò Ivan mentre si sfilava le fastidiose calzamaglie che erano stati tutti costretti ad indossare, lo spogliatoio maschile era un vero disastro in quel momento, e lo stesso Enea vagava alla ricerca dei vestiti di ricambio che si era portato da casa, sepolti nella borsa da qualche parte.
<< Pazzesco?! Quando abbiamo duellato il pubblico ha proprio trattenuto il respiro >>
Replicò a sua volta Romeo, lasciandosi contagiare dall’euforia di Ivan, Enea fece fatica a trattenere le risate quando lo vide aggirarsi tra quel disordine con le mutande di Capitan America e con ancora il cappello piumato sulla testa, il ciuffo decolorato gli cadeva disordinato sulla fronte e aveva le guance rosse come il fuoco.
<< Per non parlare del finale, hai visto come piangevano? >>
Constatò Oscar mentre di sfilava la tunica da prete e infilava un paio di comodi jeans, Enea stava cominciando a spazientirsi, voleva trovare la sua borsa il prima possibile e togliere quelle maledette calzamaglie che non facevano altro che provocargli prurito ovunque.
<< Uhm, più che altro io ho sentito ragazze disperate gridare “ No, Enea, sei troppo bello per morire” >> Il commento ironico e provocatore di Lisandro interrupe la sua ricerca e gli fece sollevare lo sguardo, Enea era pronto a fulminare l’amico con un’occhiataccia, ma lo trovò con la sua borsa e si bloccò con la bocca spalancata e l’espressione truce a metà << Cercavi questa? >> Domandò Lisandro lanciandogli con malagrazia la sacca, Enea mancò la presa sull’oggetto che andò a schiantarsi direttamente sulla schiena di Igor, che si era appena chinato per recuperare una vecchia felpa nera.
<< Ah >>
Cadde il silenzio più totale per alcuni minuti dopo il verso strozzato uscito dalla bocca di Igor, silenzio nel quale tutti rimasero immobili come statue.
<< Mi … mi dispiace >> Balbettò poco dopo Lisandro, chinandosi verso il moro per assicurarsi che non si fosse fatto male, Igor sollevò leggermente la testa e incrociò l’espressione mortificata del compagno di classe.
<< Lisandro … potresti passarmi le scarpe? Sono proprio dietro di te >>
Nel sentire il commento di Igor ci mancò poco che Lisandro cadesse bocconi per la sorpresa, Romeo e Oscar scoppiarono a ridere senza ritegno, mentre Enea sorrise divertito e si chinò per raccogliere finalmente il suo borsone. Mentre sfilava le calzamaglie e indossava i suoi tanto amati e comodi jeans, non poté fare a meno di pensare che anche lui fosse rimasto colpito dalla reazione di Igor, aveva una costituzione talmente gracile che si faceva male facilmente, ed era anche piuttosto melodrammatico.
Si era aspettato una reazione esagerata, ma evidentemente quella sera anche Igor era troppo su di giri per curarsi di quelle cose.
<< Allora? Siete pronti o no? Ma quanto siete lenti! >>
Era ancora sovrappensiero quando sentì quella voce squillante invadere il camerino, sollevò lo sguardo accigliato e incrociò il viso a forma di cuore di Zoe, che se ne stava affacciata nella stanza con un bel sorriso stampato in volto senza un minimo di imbarazzo.
A quel punto scoppiò il caos più totale.
Ivan produsse uno strillo molto poco maschile e si buttò, letteralmente, dietro il primo sgabello a disposizione perché era ancora in mutande. Romeo scivolò sulle sue stesse calzamaglie e picchiò il fondoschiena per terra, Oscar infilò la maglietta al rovescio per la fretta, mentre Lisandro arrossì fino alla radice dei capelli.
Gli unici a restare apparentemente tranquilli furono lo stesso Enea, che si limitò ad infilare la maglietta, ed Igor, che era già vestito e stava solo allacciando le scarpe.
<< Zoe! >> Strepitò Oscar raggiungendo la porta << Ti sembra il caso di entrare senza bussare? >> Zoe si lasciò scappare una risatina e fece spallucce, come se la cosa non la turbasse affatto. << Tanto non c’è nulla da vedere qui dentro, sbrigatevi. Noi siamo già pronte da ore >> E se ne andò con la stessa naturalezza con cui era entrata, Enea scosse freneticamente la testa, allacciò le scarpe e infilò la borsa a tracolla.
<< Nulla da vedere?! >> Replicò Oscar leggermente piccato.
<< Perché, avresti voluto fargli vedere qualcosa? >> Lo provocò scherzosamente Ivan.
<< No! Certo che no … insomma, era il tono e … >>
<< Andiamo >> Lo stroncò immediatamente Igor, avviandosi con passo veloce verso la porta. Enea non ci avrebbe scommesso troppo, ma aveva come la sensazione che Igor avesse trovato piuttosto irritante il commento.
<< Comunque lo dico a Catena >>
Mentre lasciavano lo spogliatoio, Enea sentì Ivan continuare a stuzzicare Oscar.
<< E io dico ad Italia che ti sei fatto beccare in mutande, almeno io ero solo a torso nudo >>
<< Ehi, ascolta … >>
La conversazione passò in secondo piano, ma Enea si lasciò scappare un sorriso divertito.
Era stanco, aveva fame e voleva solo andare a mangiare quella piazza tanto agognata insieme a tutti i suoi amici di teatro, e insieme a Beatrice.
Non vedeva l’ora di prenderle la mano, stuzzicarla un po’ e sentirsi rimproverare da lei.
Tuttavia, la scena che gli si presentò davanti cambiò tutti i suoi programmi.
 
Gabriele si era pentito di non essere andato a vedere lo spettacolo.
Aveva ricevuto quel pomeriggio un messaggio di Aleksej che lo avvisava dell’orario e del luogo dell’appuntamento, ma l’aveva ignorato bellamente come aveva fatto con tutti quelli precedenti. Gabriele sapeva che suo cugino era un tipo insistente e petulante, ma anche Aleksej aveva un limite di pazienza, e sembrava quasi che lui non desiderasse altro che farglielo superare ad ogni costo.
Sospirò pesantemente, scostò malamente la coperta di plaid che aveva appoggiato sulle gambe, si riposizionò meglio sul divano e cercò di prestare maggiore attenzione al film che stava guardando in quel momento, ma le scene avevano cominciato a sovrapporsi e ormai non ci stava capendo più nulla …  
Probabilmente, fu in quel momento che Gabriele si rese conto di non aver capito nulla dal principio.
La testa stava cominciando a scoppiargli per tutti quei pensieri, si stropicciò più volte gli occhi, passò una mano tra i capelli arruffati e sbadigliò, lanciando uno sguardo annoiato al telecomando che giaceva solitario sul tavolino.
Allungò le dita per afferrarlo e fu in quel momento che suo padre entrò nel salotto facendo un chiasso tremendo, Gabriele sussultò dallo spavento e ci mancò poco che perdesse l’equilibrio già precario e precipitasse sul tappeto.
<< Stupido padre >>  Brontolò mettendosi seduto con una certa fatica sul divano, il plaid gli era leggermente scivolato di dosso, ma si affrettò ad aggiustarlo per coprire i piedi senza calzini intorpiditi dal freddo, in quel momento erano l’unica parte del suo corpo che sembrava non volerne sapere di prendere calore.
Nicola Rossi sembrò accorgersi di lui solamente quando lo beccò nell’atto di fulminarlo con lo sguardo, con i capelli aggrovigliati, una mano sulla guancia e il broncio.
<< Oggi sei di pessimo umore, eh? >> Domandò con voce allegra, mentre sistemava una pila di libri sul tavolo accanto alla libreria, Gabriele lo osservò con un cipiglio nervoso.
Quella sorta di libreria era sempre stata importante per i suoi genitori, occupava tutta la parete ed era talmente stracolma di libri che si era sempre chiesto come facessero i suoi ad inserire ogni anno qualche volume nuovo, poi ricordò una cosa …
Una storia che gli avevano raccontato da bambino.
Sua madre aveva rischiato di perderlo per colpa di quella libraria.
Quando era incinta di lui al settimo mese di gravidanza era caduta da una scaletta.
<< Ho davvero un carattere così tremendo?! >>
Nicola appoggiò il libro che stringeva tra le mani sul tavolo e volse lo sguardo sul profilo spigoloso del figlio, che aveva lo sguardo perso e le sopracciglia contratte.
Lui e Gabriele non andavano sempre d’accordo, avevano un carattere troppo simile, erano entrambi irascibili, impulsivi e duri di cervice, ma spesso Nicola si domandava se avesse fatto bene a crescerlo in quel modo, se avesse fatto bene a rimproverarlo, ad essere severo.
Si domandava se Gabriele avrebbe mai capito che quello era il suo modo di amarlo.
<< Non sai quanto! >> Replicò, distogliendo frettolosamente lo sguardo quando il figlio posò nuovamente lo sguardo su di lui, uscendo dal turbinio dei ricordi << Tua madre mi dice sempre che hai preso il peggio da me! >>
<< Ed è vero? >>
Gabriele stiracchiò pesantemente le braccia e si apprestò a chiudere la televisione.
<< Non sai quanto >> Nicola si lasciò sfuggire un sorriso amaro e mesto quando rispose, e Gabriele non poté fare a meno di notare quanto si assomigliassero, mentre lo osservava posare meticolosamente ogni libro nello spazio giusto.
Avevano gli stessi occhi, la stessa forma del naso e lo stesso fisico, solo i capelli e le labbra erano diversi, perché quelli li aveva ereditati da sua madre.
<< Non sei uscito con Aleksej stasera? Non c’era tipo … uno spettacolo o qualcosa del genere? >> Al commento distratto di Nicola, Gabriele scostò definitivamente lo sguardo e si tirò in piedi lasciando cadere il plaid a terra, stiracchiò rumorosamente la schiena e cercò di svegliare il suo corpo intorpidito dai sensi di colpa.
<< Non mi andava … >> Si limitò a commentare, mentre raccoglieva con svogliatezza il panno che aveva lasciato cadere a terra, a contatto con le dita la stoffa gli pizzicò la pelle.
<< Tua sorella ci è andata >>
Gabriele alzò gli occhi al cielo, ripiegò malamente il plaid e poi lo gettò sul divano scomposto che aveva ancora la sua forma impressa sui cuscini vecchi, quel gesto stizzito lo mandò ancora più in depressione, mettendolo in atto aveva disfatto di nuovo la coperta.
<< Alessandra fa quello che le pare. Io me ne vado in camera >>
<< A studiare? >>
Quando pronunciò quelle parole Nicola non lo stava guardando, ma Gabriele lanciò uno sguardo imbarazzato alle pantofole che aveva appena indossato, si passò una mano tra i capelli scombinati e aggiustò il bordo della tuta che era salito quasi fin sotto le ascelle.
Gabriele ricordava ancora con amarezza la litigata che aveva avuto con suo padre quando era stato bocciato l’anno precedente, all’epoca se ne erano detti di tutti i colori, e lui aveva esagerato …  Aveva alzato la voce, aveva detto cose che non doveva dire ed era finito in punizione per mesi, con il senno di poi … se n’era vergognato.
Si era vergognato di averlo guardato con disprezzo,
Nicola Rossi era stato abbandonato da suo padre all’età di undici anni, quando avevano scoperto che l’uomo aveva avuto altri figli con un’altra donna, era stato abbandonato dall’uomo che aveva sempre visto come il suo punto di riferimento … e si era ritrovato tutto sulle spalle. Una madre distrutta dal dolore, una sorella di sei anni da crescere …
Nicola non era mai stato un adolescente, non era mai stato un bambino.
Era diventato adulto all’età di undici anni e Gabriele non poteva guardarlo con disprezzo.
Non avrebbe dovuto farlo mai.
<< Si … vado a ripetere matematica, domani ho un compito in classe >>
Nicola annuì distrattamente, Gabriele sospirò pesantemente e mosse i primi passi verso la porta del salotto, ma quando raggiunse il pomello la mano si bloccò a metà strada.
<< Papà … >> Lo richiamò quasi con un filo di voce, Nicola spostò lo sguardo dal lavoro che stava facendo e aggrottò le sopracciglia quando notò l’espressione sofferente sul viso del primogenito << … papà, ma tu e la mamma … come avete fatto ad innamorarvi di nuovo dopo tutti quegli anni? Insomma … siete stati insieme per un po’ quando avevate diciassette anni,  poi vi siete lasciati e dopo … l’hai incontrata di nuovo quando avevi ventitre anni, giusto? >>
Nicola contrasse leggermente le sopracciglia, poggiò il libro sul tavolo e fece un passo verso Gabriele quando lo vide con lo sguardo imbarazzato che si passava una mano dietro la nuca.
<< Ehi … tutto bene? >>
Gabriele si lasciò scappare una risata imbarazzata quando si accorse dello sguardo accigliato del padre, ma che cosa gli era passato per la testa? Scosse frettolosamente il capo e fece un passo all’indietro, posando le mani davanti come se volesse difendersi.
<< Si … era … era solo una curiosità, una stupidaggine. Io vado! >>
Girò la schiena al padre e fece uno scattò felino verso la porta, rosso in viso dalla vergogna.
<< C’era ancora >> Gabriele si bloccò di botto quando sentì quelle parole << L’amore che avevamo provato … c’era ancora, nascosto da qualche parte. Abbiamo solo dovuto trovarlo sotto tutte quelle macerie, un po’ ammaccato e dolorante … ma dopotutto ha resistito >>
Gabriele strinse forte la stretta sul metallo freddo e cambiò posizione delle gambe a disagio.
<< Ohi … di chi sei innamorato? >>
Gabriele non seppe mai spiegarsi cosa gli prese in quel preciso momento.
Non seppe spiegarselo, eppure … quando sentì quella parola fuoriuscire dalle labbra di suo padre fu come se tutto il peso fosse salito a galla senza permesso, come un tappo spinto da una pressione troppo fronte, inarrestabile.
Non era sollievo, non era il piacere di rendersi conto che nonostante tutto suo padre se ne fosse accorto senza che lui aprisse bocca.
Era il senso di impotenza, era la mancanza, la rabbia che provava per se stesso.
Gli cedettero le gambe e si ritrovò inginocchiato per terra, con la mano ormai bianca stretta ancora intorno al pomello della porta, la testa china e le lacrime che scendevano ovunque.
<< Gabriele … >>  Nicola avanzò velocemente verso il figlio, si inginocchiò al suo fianco e gli posò una mano sulla nuca, in un gesto fermo e risoluto, un gesto che non aveva mai fatto prima << Papà … >> Singhiozzò Gabriele stringendo i denti << Resisterà? Resisterà anche il mio? Tra qualche anno … quando sarò più grande, quando sarò meno stupido, meno egoista, meno me stesso … potrò tornare da lei? >> Gabriele sollevò gli occhi arrossati dal pianto e li incastrò in quelli dello stesso colore del padre, che lo osservava con aria greve ma fiera allo stesso tempo, e non gli importò poi molto di farsi vedere in quello stato << Potrò tornare da lei, mettermi in ginocchio, chiedere perdono? >>
Nicola scostò la mano dalla testa del figlio e gliela poggiò sulla spalla, per attirarlo contro il suo petto in un abbraccio rigido e impacciato.
<< Certo che potrai … >>
E pregherò perché lei non ti stia dando le spalle, perché non sia troppo tardi.
Quel pensiero Nicola lo tenne per se, si limitò a stringere il figlio tra le braccia per un tempo che non aveva tempo, e fu in quel momento che lo sguardo gli ricadde su uno strano braccialetto che Gabriele portava al polso … un braccialetto che aveva già visto su qualcun altro non troppo tempo prima, un braccialetto femminile con una scritta in latino …
Un braccialetto che indossava una ragazza con i capelli biondi come l’oro.
 
Enea era fuori di se dalla collera.
Aveva sempre creduto che l’espressione: “ Non ci vedo più dalla rabbia” fosse esagerata, ma in quel momento aveva davvero lo sguardo appannato e il respiro affannoso, gli sembrava quasi di star completamente perdendo il controllo della ragione e del suo corpo.
<< Bea, Bea, Bea, mi sei diventata ancora più bella in questi otto mesi! >>
Enea aveva già visto il tipo che in quel momento stava stringendo Beatrice per le braccia, l’aveva visto in una vecchia fotografia strappata a metà, e doveva costatare che non era cambiato per niente.
Aveva i capelli corti e biondi come il miele tendenti al rossiccio, il fisico era prestante sotto la felpa scura, le labbra sottili erano piegate in un ghigno irritante e gli occhi scuri  osservavano avidamente Beatrice, esaminando ogni centimetro del suo volto spaventato.
Enea osservò con sguardo disgustato il tentativo stentato di Beatrice di liberarsi da quella stretta e rispondergli per le rime, sembrava terrorizzata, annichilita, sembrava aver perso completamente il controllo di se stessa ed Enea non poteva tollerarlo.
Non poteva proprio vederla in quello stato per colpa di quell’essere
<< Giù le mani! >> Si fece avanti senza pensarci nemmeno una volta, scansò malamente la mano di Lisandro, che aveva tentato di trattenerlo, e afferrò saldamente Beatrice per le spalle allontanandola. Enea non aveva capito cosa stesse succedendo, ma dallo sguardo preoccupato di Italia, Catena, Fiorenza e Zoe la situazione non doveva essere stata piacevole nemmeno un po’, trasse un respiro profondo per controllarsi e fece per aprire la bocca e dirne di tutti i colori, quando Beatrice si strine convulsamente alla sua maglietta e nascose il viso nell’incavo del suo braccio, nascondendosi come una bambina.
Quel gesto lo lasciò talmente destabilizzato che le parole gli morirono in gola.
<< Oh! >> L’esclamazione divertita del biondo attirò nuovamente la sua attenzione, Enea fu costretto con una certa fatica a spostare lo sguardo da Beatrice e riportarlo sull’altro, ghignante e con un’espressione talmente soddisfatta che gli fece montare solo ancora più rabbia e ribrezzo << Tu non sei quello che recitava con lei? Sei il suo ragazzo! >>
Quando pronunciò quelle ultime parole schioccò le dita e batté un pugno sul palmo della mano gongolante di felicità, come se arrivare alla risposta gli avesse fatto guadagnare tantissimi punti in un gioco piuttosto divertente.
I muscoli di Enea si contrassero involontariamente.
<< Tu invece chi diavolo sei? >> Si intromise rudemente Oscar, facendo un passo avanti.
<< Io? Ma come Bea, non gli hai parlato di me? Che delusione … >> Il biondo ridacchiò divertito incrociando le braccia al petto << Mi chiamo Mirko, e sono quello che se l’è scopata per un po’ >>
Enea non ci vide più dalla rabbia, gettò senza troppi complimenti Beatrice tra le braccia di Catena ed Italia e si scagliò contro Mirko, aveva tutte le intenzioni, come minimo, di spaccargli il naso, tanto per cominciare … ma prima che potesse raggiungerlo Ivan e Romeo lo afferrarono per le braccia.
<< Che cazzo fate?! Io ti spacco la faccia, hai capito pezzo di merda!? HAI CAPITO?! >>
Sbraitò come un indemoniato strattonando prima Ivan e poi Romeo.
<< Enea, calmati! Se gli metti le mani addosso sono casini amari! >>
Ivan pronunciò quelle parole con una certa fatica, mentre tentava di trattenerlo con tutte le sue forze, ma Enea non voleva essere fermato, non voleva affatto, non gli importava delle conseguenze, voleva solamente spaccargli la faccia  …
<< Che tipo violento >> Commentò distrattamente Mirko, camminando avanti e indietro come se la cosa non l’avesse affatto turbato << Te lo sei scelto proprio male devo dire. Senza contare che ti sei nascosta proprio per bene! Ti ho cercato dappertutto >>
<< Che cazzo mi hai cercata a fare, eh?! >> Beatrice inveì talmente all’improvviso che Mirko indietreggiò sorpreso << Cosa cazzo vuoi da me?! Ti ho mandato a quel paese parecchio tempo fa mi pare! >> A Beatrice tremavano le mani, Enea riusciva a vederlo da quella distanza, le tremavano le mani e nonostante stesse cercando di sembrare ferma e dura aveva paura, una paura che lui non riusciva ancora a capire …
<< Beatrice, levati di mezzo! >> Sbraitò facendo ancora pressione per liberarsi.
<< Ma che domande sono principessa, ti ho cercato perché mi mancavi. Tanto lo so che provi ancora qualcosa per me, l’ultima volta ti sei arrabbiata, è vero, ma ragiona … alla fine torni sempre da me >> Enea si dimenò ancora di più quando sentì quelle parole, lanciò uno sguardo omicida a Ivan e digrignò tra i denti, minacciandolo delle più atroci sofferenze.
<< A me non sembra proprio >> L’intervento di Lisandro lasciò spiazzati tutti, fu talmente inaspettato che anche Enea stesso smise per un momento di agitarsi << Non mi sembra che Beatrice sia tornata da te. Otto mesi hai detto? Caspita, devi avere davvero un grande ego per pensarla in questo modo. Vedi … nessuno di noi ha sentito mai parlare di te, forse perché … forse perché a Beatrice non interessava poi tanto che noi sapessimo >>
Quelle parole erano una bugia bella e buona, Enea lo sapeva benissimo, eppure ebbero l’effetto sperato, il sorriso fastidioso scomparve dalle labbra di Mirko, che spostò uno sguardo carico di disgustato in direzione di Beatrice, ancora attorniata da Catena e Italia, entrambe con le mani poggiate in maniera protettiva sulle sue spalle, aveva un’espressione combattiva, quell’espressione che lui amava tanto.
<< O forse … >> Cominciò a parlare Mirko, sollevando gli angoli delle labbra in un sorriso crudele << O forse di vergognava di come mi correva dietro scodinzolando come un cagnolino, no? Si vergognava di raccontare di tutte le volte che ha aperto le ga… >>
<< Vai! >>
Prima che Mirko riuscisse a terminare la frase successero tre cose contemporaneamente, Beatrice si portò le mani sulle orecchie e strizzò gli occhi tremando da capo a piedi, Ivan e Romeo lasciarono andare Enea di comune accordo e Igor annuì incoraggiante con un certo piacere nello sguardo. 
Enea non ci pensò due volte a mollare un pugno talmente violento a Mirko che nella foga si ritrovarono entrambi a terra, gli era seduto sopra a cavalcioni e non faceva altro che riempirlo di pugni, mentre Mirko cercava inutilmente di fare leva sulle gambe e ricambiare le botte.
<< Oh, aiutatemi a fermarli! >>
Esclamò Lisandro dopo un po’, facendo un passo avanti, la situazione stava talmente degenerando che anche gli altri cominciarono ad agitarsi, anche Igor, Romeo ed Ivan che avevano lasciato che Enea intervenisse. Si avvicinarono per afferrare l’amico e scostarlo, ma l’unica cosa che ottennero fu una gomitata nello stomaco di Lisandro e una bella spinta.
<< Enea, smettila! Stai sanguinando per l’amore del cielo, e non credere a tutto quello che dice quel deficiente! >>
L’intervento inaspettato di Beatrice fece ammutolire tutti, Lisandro smise di massaggiarsi lo stomaco, Enea la guardò con il labbro spaccato, un ematoma sulla guancia e gli occhi sorpresi. Lei lo raggiunse e lo tirò leggermente per la manica, cercando di incitarlo a tirarsi in piedi, e sorprendentemente Enea la ascoltò, lasciò andare il colletto della maglietta di Mirko e si tirò in piedi barcollando, la vista un po’ appannata e la rabbia completamente svanita.
<< Ragazzi, noi andiamo via >> Commentò Beatrice stringendosi al suo petto << Avvisate voi Alessandro ? >> Italia annuì frettolosamente ancora ammutolita, Enea lanciò un ultimo sguardo disgustato a Mirko, che ricambiò ancora steso sul pavimento.
A Beatrice tremavano le mani, ma prima che lasciassero definitivamente l’atrio deserto Enea gliele strinse per darle coraggio, perché ormai sapevano bene entrambi che era arrivato quel momento.
Il momento che il passato venisse finalmente a galla.

______________________________
Effe_95 

Buonasera, ebbene si, sono viva!
Allora, questo capitolo l'avrò riscritto almeno tre volte da quando l'ho cominciato.
Ogni volta non mi andava bene, e ancora non ne sono del tutto convinta, ma ho pensato che siccome questo è un periodo stressante anche a causa degli esami mi conveniva posarlo lo stesso e non farvi aspettare oltre. L'ultima parte, quella su Enea e Beatrice mi ha fatto proprio buttare il sangue, come si suol dire xD Spero che sia venuta bene, spero che il bilanciamento tra il comico e il tragico della prima e terza parte sia stato efficace e sia venuto bene come contrasto.
Nel prossimo capitolo scopriremo finalmente cosa è successo a Bea, anche se qualcosa forse lo si può già intuire dalle poche spiacevoli battute di Mirko.
Chiedo scusa se dovessero esserci degli errori, ma questa volta ho riletto con più fretta del solito.
Grazie mille come sempre per il vostro sostegno e supporto, risponderò il prima possibile alle vostre bellissime recensioni, che mi trasmettono sempre la motivazione di andare avanti :)
Grazie mille ancora e alla prossima.
 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 37
*** Congestione, Videocassette e Per incontrare me ***


I ragazzi della 5 A
 
37. Congestione, Videocassette e Per incontrare me.


Gennaio

Igor aveva un mal di stomaco con i controfiocchi.
Sentiva la pizza piantata lì, all’altezza dello sterno come un blocco di cemento sempre più pesante, si portò una mano sulla parte dolorante e soffocò un brivido di freddo.
Era piuttosto sicuro fosse ormai vicina la mezzanotte, tirava un vento gelido, la neve ammucchiata sul marciapiede gli rallentava il passo, si strinse forte nel giubbotto pesante e nascose ancora di più la faccia sotto il cappello di lana.
<< Ci prendiamo un gelato? >>
Igor quasi sobbalzò quando sentì quelle parole, volse lo sguardo alla sua destra e incrociò gli occhi grandi e curiosi di Zoe, che lo osservava con la testa leggermente piegata di lato, un sorriso disteso sulle labbra sottili dipinte ancora di rosso e le mani nascoste nelle tasche del giaccone pesante.
<< Un gelato?! Ci saranno dieci gradi sotto zero come minimo! >>
Commentò accennando un tono di incredulità nella voce, al solo pensiero di mangiare altro la pizza si mosse fastidiosamente nello stomaco provocandogli una nausea terribile.
La cena di fine spettacolo era stata piacevole nonostante la mancanza di Beatrice ed Enea, nonostante l’atmosfera fosse stata un po’ tesa all’inizio, a quel punto però … Igor si domandava perché avesse avuto la brillante idea di proporsi di accompagnare Zoe a casa.
Alla fine, aveva solo colto un istinto spontaneo.
Non ci aveva pensato, non aveva pensato per la prima volta in vita sua.
<< Quando fa freddo il gelato ha un sapore migliore >>
Il commento di Zoe lo spiazzò, si lasciò scappare una risata incredula e scosse la testa, mentre lei afferrava con le dita il bordo della manica del suo giubbotto facendosi più vicina.
<< Davvero? Questa non l’avevo mai sentita! Piuttosto, mangiare il gelato quando fa freddo significa rischiare una congestione >>
Igor sospirò pesantemente quando Zoe gli tirò rigorosamente la manica della giacca.
<< Andiamo! Cioccolata? Panna? Banana? >> Lo stuzzicò lei pizzicandolo sul fianco.
<< Puffo e pistacchio >> Brontolò lui rivolgendole un’occhiataccia accompagnata da uno strano sorriso accennato agli angoli della bocca, Zoe ridacchiò divertita e lo strascinò verso il primo bar ancora aperto nonostante l’orario.
Dieci minuti dopo, camminavano lentamente uno accanto all’altro con un cono stretto tra le mani congelate e la gente ancora per strada che si girava a fissarli stranita.
Igor era piuttosto sicuro che avrebbe vomitato, lo stomaco ululava per la sofferenza e riempirlo con altro cibo non era sicuramente la soluzione migliore, ma non voleva dirlo a Zoe, non voleva che si preoccupasse inutilmente.
Stranamente, non voleva che lei smettesse di dire stupidaggini e di proporre cose assurde.
Quando aveva visto quella stessa sera, poche ore prima, reagire Enea in quel modo violento, quando aveva sentito montare la rabbia alle parole di quello sconosciuto, aveva provato una stranissima sensazione, una sensazione che non conosceva prima …
Una strana euforia che gli aveva fatto vibrare tutte le cellule.
<< Hai parlato con Telemaco dopo lo spettacolo? >>
Domandò Zoe pulendosi le mani dalle ultime briciole.
Igor mise in bocca il pezzo finale del cono e annuì leggermente, pulendosi a sua volta le mani, aveva le dita attaccate a causa del gelato che era colato lungo i bordi.
<< Oh, Igor guarda! Guarda che bello! >>
Zoe lo afferrò velocemente per il braccio e lo strattonò con euforia, facendogli talmente male che Igor si lasciò sfuggire un imprecazione non troppo silenziosa quando lei gli tirò la pelle con dei pizzicotti non troppo gentili.
La gioia di Zoe era stata causata da due montagne di neve raccolte all’interno del parco che stavano attraversando in quel momento, la ragazza le guardava con gli occhi luminosi e curiosi di una bambina, un sorriso a trentadue denti sulle labbra e le mani giunte come in preghiera, Igor ebbe una bruttissima sensazione quando Zoe si girò a guardarlo.
<< Arrampichiamoci! Vediamo chi riesce a salire sulla cima? >>
Igor trasalì e si passò distrattamente una mano sul braccio ancora dolorante.
<< Sei matta?! Prima di tutto, qualcuno avrà lavorato tutto il giorno per ripulire il parco da quella roba, e poi, ci verranno i geloni! Non abbiamo mica il necessario per … >>
<< Chi arriva per ultimo è un babbeo! >>
Zoe non lo fece nemmeno terminare la frase che si slanciò con impeto verso la montagnola di neve alta pochi metri, non appena tentò di scalarla sprofondò con i piedi fino alle ginocchia e strillò dalla sorpresa, ad Igor prese un colpo quando la vide affondare anche con la faccia, scattò verso di lei senza nemmeno rendersene conto …
Si arrampicò con fatica sul cumolo di neve affondando a sua volte in vari punti cedevoli, quando raggiunse Zoe, lei era riemersa e aveva la faccia tutta bagnata con alcuni cristalli di ghiaccio ancora incastrati nel cappello e sui capelli umidi.
Rideva come una bambina ed Igor era incredulo.
<< Non ti lascio mica arrivare per primo, sai? >>
Esclamò con un’allegria eccessiva, dandogli un altro pizzico sul braccio dolorante e continuando la scalata, Igor la guardò con la bocca spalancata e un’incredulità spiazzante sul viso, non sapeva se arrabbiarsi con lei o con se stesso per aver compiuto quell’atto sconsiderato senza riflettere.
Poi si rese conto che non gliene fregava niente.
<< Ah si? E’ vero che non sono molto atletico, ma sono maschio! Ho una dignità da difendere io! >> Sbottò con forza, e immediatamente dopo si aggrappò alla caviglia di Zoe e la tirò leggermente giù, facendola precipitare di qualche centimetro nella neve, la ragazza perse l’equilibrio e profondò con i palmi delle mani imbrattandosi tutti i guanti.
<< Ehi, sei un imbroglione! >> Strepitò agitando convulsamente le braccia ghiacciate.
<< In guerra tutto è lecito >> L’apostrofò Igor ridacchiando divertito, Zoe sorrise e lo osservò per alcuni istanti mentre tentava inutilmente di raggiungere la cima, non l’aveva mai visto ridere tanto, lasciarsi andare nonostante avesse i jeans zuppi di neve, i capelli umidi e le mani in stato di ipotermia imminente.
Sembrava un ragazzo completamente diverso, un ragazzo che aveva lasciato andare quei freni invisibili che lo avevano tenuto legato fino a quel momento, anche se solo per quell’istante, anche se solo per quel momento.
Aveva sempre saputo che dietro vi era molto di più, dietro quell’insicurezza, dietro quelle barriere si nascondeva un mondo che aveva tutta l’intenzione di far venire fuori.
<< Ah si? >> Si acquattò sulla neve come un gatto pronto a scattare, e quando balzò andò tutto storto, sprofondò con il piede, cadde bocconi afferrando Igor per una gamba e rotolarono entrambi fino a ritrovarsi nuovamente al punto di partenza, con la neve sparsa ovunque intorno, bagnati fino al midollo e il fiato corto.
Avevano entrambi le braccia spalancate nella posizione dell’angelo.
<< E’ stata la cosa più stupida che abbia mai fatto in tutta la mia vita >>
Commentò Igor con un filo di voce, ma nel silenzio nella notte che avanzava le parole risuonarono chiare e forti, e lui si rese conto per la prima volta che probabilmente era proprio vero, che Zoe lo aveva trascinato senza che lui ci riflettesse troppo …
E non era stato così male.
Non poteva essere stato un male se si sentiva scoppiare di vita.
La fitta allo stomaco arrivò inaspettata, l’adrenalina gli aveva fatto dimenticare il dolore per un breve momento, ma quando si tirò su con uno scatto repentino, non poté fare altro che piegarsi in avanti e vomitare.
<< Oddio Igor! Non ti senti bene?! >>
Zoe fu immediatamente al suo fianco, gli poggiò una mano sulla fronte e Igor si imbarazzò, si imbarazzò perché non voleva che lei lo vedesse rimettere, non era tra le prima cose che avrebbe voluto succedessero nella lista dei suoi desideri, si scostò leggermente e ripulì la bocca con della neve raccolta dal’ex cumulo.
<< La pizza … mi era rimasta la pizza sullo stomaco >>
Commentò distrattamente distogliendo lo sguardo quando Zoe, inginocchiata al suo fianco, lo guardò dritto in faccia, con occhi sgranati e le sopracciglia aggrottate.
<< E hai mangiato lo stesso il gelato?! Igor! Dovevi dirmelo, non avrei insistito così tanto, non mi sarei comportata come una bambina capricciosa … >>
Senza rendersene conto, nella foga del discorso, Zoe aveva afferrato il colletto del giubbotto di Igor e l’aveva costretto a far si che i loro visi fossero piuttosto vicini.
<< Hai visto? Te l’avevo detto che mi sarebbe venuta una congestione >>
Mormorò Igor cercando in tutti i modi di spostare il viso, era imbarazzato, aveva appena rimesso, la gola gli ardeva come fuoco e lo stomaco era ancora dolorante, non voleva che Zoe gli stesse così vicina … Si vergognava.
Tuttavia, quando lei sgranò gli occhi, che le si riempirono di lacrime, e cominciò a tremare, Igor fu costretto a sostenere lo sguardo e ad accigliarsi per la sorpresa.
<< Hai una congestione? Oddio, è tutta colpa mia … >>
<< Ehi, ehi Zoe! >> Esclamò Igor afferrandola per i polsi quando lei fece per prendere il cellulare borbottando di chiamare un’ambulanza e altre cose simili << Zoe, scherzavo, sto scherzando. Non starei certo così se avessi avuto davvero una congestione. Si tratta solo di una cattiva digestione, sta tranquilla >>.
Zoe si bloccò quando sentì quelle parole, con la bocca spalancata e gli occhi ancora lucidi, poi aggrottò le sopracciglia quando lui sorrise timidamente e gli mollò un cazzotto in testa.
<< Tu che fai uno scherzo del genere a me?! Si è capovolto il mondo? >>
<< Ahi >> Si limitò a commentare Igor, massaggiandosi la testa.
Ma non riusciva ad arrabbiarsi, non riusciva ad arrabbiarsi più, perché gli sembrava di essere stato stupido per tutta la sua vita fino a quel momento, perché gli sembrava di aver sbagliato tutto con Zoe, e tutto sommato perché era sollevato …
Era sollevato che alla fine lei non fosse solo ciò che aveva temuto.
Quel giorno, quando le aveva riversato addosso tutte quelle cattiverie, Igor aveva avuto paura ancora prima di quando fosse necessario averne, aveva avuto talmente paura di restare ferito, di lasciarsi scoprire, che aveva eretto una barriera piuttosto solida.
E quella sera, in quel momento, ringraziava con tutto il cuore quella ragazza che non si era arresa con lui nemmeno per un istante, anche se probabilmente non gliel’avrebbe mai detto.
<< Grazie >> La parola sussurrata da Zoe lo strappò dai suoi pensieri, si irrigidì quando lei appoggiò la fronte sulla sua, in quella posizione non poteva vederle gli occhi, ma percepiva il suo intenso odore alla vaniglia << Grazie … per esserti fidato di me, e per aver preso il gelato anche se stavi male >>.
Igor avrebbe voluto scostarla e rispondere in maniera evasiva, ma si trattenne.
<< Non … non sono bravo a fidarmi degli altri, faccio fatica ma … ma insomma, ho pensato che dopotutto sai davvero creare legami profondi >>
E se anche un giorno tu dovessi ferirmi, non ti direi nulla.
Non potrei dirti più nulla ormai.
<< Davvero? >>
Zoe sollevò la fronte e i loro nasi si toccarono, Igor trattenne il respiro e distolse immediatamente lo sguardo, allontanandola leggermente da se.
<< Adesso è meglio se torniamo a casa … sarà mezzanotte passata ormai >>
<< Igor … ti imbarazza starmi vicino perché hai vomitato? >>
La domanda diretta lo fece trasalire e arrossire violentemente, non rispose, ma anche se avesse voluto non ne sarebbe stato in grado, perché Zoe lo afferrò per il colletto della giacca, lo tirò verso di se e gli stampò un bacio a timbro sulle labbra.
Igor si portò le mani sulla bocca e diventò paonazzo.
<< Ma sei impazzita?! Non ho mica l’alito che profuma di rose dopo aver rimesso! >>
Quelle parole gli uscirono con spontaneità, senza controllo, e nell’imbarazzo più totale Igor si rese conto che con Zoe gli capitava spesso.
<< E io ho mangiato della pizza con la cipolla >>
Disse lei ridacchiando, e lo baciò di nuovo senza che Igor potesse replicare.
 
Cristiano avrebbe voluto alzarsi da quel divano, ma non ci riusciva.
Non riusciva a muovere nemmeno un muscolo, non riusciva ad avere il controllo del suo corpo, lo sentiva stanco, pesante, spossato, e non aveva importanza la sua volontà.
Non aveva importanza che cercasse di alzarsi con tutto se stesso, che cercasse di tirarsi in piedi per andare a mangiare qualcosa, per andare a fare una doccia, o semplicemente per controllare che le gambe funzionassero ancora.
Non aveva importanza perché tanto non ci riusciva.
Lasciò sprofondare maggiormente la faccia nel cuscino rabbrividendo di freddo, si rannicchiò maggiormente in posizione fetale e aprì gli occhi osservando con apatia quel macabro color viola malva del vecchio divano di famiglia.
L’odore d’alcool che ancora impregnava la stoffa aveva smesso di dargli fastidio parecchie ore prima, Cristiano trovò piuttosto ironica quella situazione, era rimasto bloccato proprio sul divano dove sua madre aveva passato gli ultimi anni della sua vita.
Stesa tra i cuscini, con le calze bucate e una bottiglia sempre tra le mani.
Cristiano non ricordava il profumo di sua madre, non ricordava il suo sorriso, non ricordava nessuna parola gentile, non ricordava proprio nulla, quello che restava della sua infanzia non era nient’altro che quella puzza d’alcool sbiadita.
<< Che stai facendo sul quel divano? >> Cristiano nemmeno sobbalzò o sollevò la testa quando la voce di Emanuele Serra ruppe il silenzio della stanza, lui se ne stava rinchiuso e steso su quel divano da due giorni, e suo padre se ne rendeva conto solo in quel momento.
<< C’è aria viziata qui dentro! Alzati, domani vengono a ritirare il divano per sostituirlo con uno nuovo … non voglio più sentire quella puzza d’alcool ovunque >>
Sarebbe finita lì probabilmente, Cristiano non avrebbe risposto, Emanuele se ne sarebbe fregato e la conversazione sarebbe terminata in quel preciso istante, ma una voce, una voce femminile che Cristiano aveva sentito gemere e strillare tante volte nello studio del padre attirò la sua attenzione e spezzò la sua apatia.
<< Si, il divano che ho scelto starà decisamente bene in questa stanza >>
La donna aveva una voce giuliva e fastidiosa, con un accento straniero, ed era già lontana quando la rabbia di Cristiano sgorgò rompendo una diga invisibile che aveva nel cuore.
Non gli importava che suo padre si scopasse quella tipa, non gli importava che la portasse a casa, né che perdesse il posto di sua madre, l’aveva già fatto da tempo ormai, ma non avrebbe permesso che quel poco che aveva ancora di lei venisse infangato.
Anche se si trattava di un sudicio divano vecchio d’anni che puzzava d’alcool.
<< Questo divano non si muove di qui, di alla tua puttana di giocare all’arredatrice da un’altra parte. Hai tanti soldi, no? Comprale una casa, così rompe altrove >>
Cristiano pronunciò quella frase con decisione, continuando a starsene steso sul divano sotto la sua coperta di plaid, quella che gli aveva fatto Marta quando era bambino cucendo insieme tanti pezzettini di stoffa dei suoi vestiti da neonato. Doveva sembrare patetico agli occhi di suo padre, con quel pigiama vecchio e consumato, i capelli arruffati e senza la forza nemmeno per tirarsi in piedi e guardarlo negli occhi.
Emanuele Serra fece qualche passo nella stanza con le sue scarpe firmate, ma Cristiano sapeva che non si sarebbe avvicinato troppo, non poteva vederlo, ma non faceva fatica ad immaginarlo in un completo gessato, con le braccia incrociate al petto e un sorriso ironico sulle labbra sottili, quel sorriso che Cristiano aveva ereditato alla perfezione.
<< Oh, ma come facciamo il sentimentale. Non trovi piuttosto, che la casa sia più tranquilla adesso? Ah, a proposito, non sei andato a scuola nemmeno oggi vero? Non usare la scusa di tua madre per saltarla >>
Anche quando rimase da solo nel salotto Cristiano non provò niente.
Perché, perché non provo nulla?
Perché?
Cosa c’è che non funziona nella mia testa?
<< Oh, accidenti! >>
Cristiano venne bruscamente strappato dai suoi pensieri quando un fracasso terribile spezzo il silenzio opprimente di quella stanza, saltò a sedere sul divano in tutta fretta e posò gli occhi sulla piccola figura di Marta, china sulla porta con le mani nei capelli per aver lasciato cadere due scatoloni pieni di roba su cui Cristiano non soffermò la propria attenzione nemmeno per un solo istante.
<< Cosa stai combinando Marta? >> Borbottò il ragazzo grattandosi la nuca.
<< Signorino?! Mi dispiace di averla svegliata … io … io ho visto il signor Emanuele uscire in compagnia di … si, insomma, ho pensato che fosse il momento giusto per … >>
Marta guardò con aria imbarazzata il disastro che aveva lasciato sul pavimento, arrossì e si chinò per raccogliere le cose, fu a quel punto che Cristiano prestò più attenzione e notò un mucchio di album fotografici, videocassette, vestiti, profumi e gioielli …
I gioielli di sua madre.
<< Lascia stare Marta, raccolgo io >>
Fu sorpreso lui stesso di quel pensiero, e senza nemmeno che se ne fosse reso conto aveva già poggiato i piedi scalzi sul tappeto freddo e si era tirato in piedi, il plaid era scivolato per terra, le gambe gli tremavano come se fossero fatte di gomma e sentiva la pesantezza partirgli da dietro la nuca e scendere fino alla punta dell’alluce.
<< Ma … signorino suo padre … >>
Marta lo guardò con occhi spalancati e aria timorosa, Cristiano avanzò verso di lei con passo strascicato e pesante, fino a chinarsi accanto a lei per toglierle la foto dalle mani.
<< Non mi intessa di quello che dice mio padre … lascia fare a me >>
Marta se ne andò facendo un leggero inchino con la testa, quando Cristiano rimase da solo nella stanza semibuia, si domandò perché avesse avuto l’impulso di curiosare tra le cose di sua madre. Sospirò pesantemente e cominciò a raccogliere gli abiti e a ripiegarli con cura nello scatolone, quando ebbe finito passò ad ispezionare le videocassette e gli album fotografici, probabilmente li avrebbe messi via senza badarvi troppo se non avesse letto su una delle cassette la scritta: Cristiano, 1 anno.
Non sapeva che avessero fatto dei video di quando era bambino.
Accigliandosi raccolse tutte le videocassette, gli album fotografici e si trascinò verso il televisore, appoggiò tutto il materiale sul tavolino, sistemò la ripresa nel registratore vecchio di anni e si mise seduto in posizione indiana sul soffice tappeto.
Sentì vagamente in lontananza il suono del campanello, ma non gli importava chi fosse.
Perché sua madre aveva tutte quelle cassette che lui non aveva mai visto?
Ne erano tantissime, e si fermavano più o meno a quando lui aveva l’età di sette anni.
Afferrò il telecomando e fece per schiacciare il tasto play quando la porta della stanza si aprì lentamente facendo riversare un fascio di luce nella stanza che lo illuminò in pieno.
Spostando gli occhi su Sonia, Cristiano non poté fare a meno di pensare che fosse proprio bella con quelle calze nere troppo trasparenti che gli mettevano in mostra le gambe lunghe e sinuose, la gonna rossa a tubino, quella maglietta che lasciava intravedere il reggiseno rosso in controluce e i lunghi capelli ricci e neri che ricadevano sulle spalle.
Non poteva arrabbiarsi, non poteva risponderle male, cacciarla.
Non poteva farlo se continuava a desiderarla in quel modo, sarebbe stato da ipocriti.
<< Cosa stai facendo qui dentro? Sono giorni che non ti fai vedere … >>
Commentò a mezza voce Sonia, mentre avanzava nella stanza, il rumore dei tacchi dei suoi stivaletti venne attutito quando passò sul tappeto fino a chinarsi accanto a lui.
Sonia profumava di vaniglia e qualcos’altro, accanto a lui sembrava un fiore fresco.
<< Ho trovato queste videocassette tra le vecchie cose di mia madre >> Sonia contrasse le sopracciglia quando sentì la voce di Cristiano roca e stanca << Le stavo per guardare, quindi adesso fa silenzio >>
Sollevando il braccio destro premette finalmente il pulsante play e il video partì sfrigolando leggermente, lasciando alcune macchie sullo schermo come se fosse molto vecchio, quando le immagini si fecero più chiare sullo schermo apparve un bambino, un bambino con una folta chioma di capelli scuri e selvaggi che stava giocando distrattamente con delle costruzioni, indossava solamente un pannolino un po’ ingombrante e una canottiera azzurra troppo grande per le sue spalle piccole.
Cristiano, che cosa stai facendo?”
Sia Cristiano che Sonia trasalirono quando sentirono la voce di Emanuele Serra, era meno roca, meno severa, era la voce di un ragazzo, la voce di un uomo che registrava con orgoglio suo figlio. Il bambino sollevò distrattamente la testa e puntò gli occhi da cerbiatto castani sulla telecamera, due occhi intelligenti che brillavano.
Cristiano, vieni a dare un bacio alla mamma?! “
Il Cristiano più adulto, quello che sedeva su un vecchio tappeto diciassette anni più grande, trasalì quando sentì quella voce fuori campo, lontana come se provenisse da un’altra stanza.
Era la voce di sua madre, una voce carica di vita, allegra.
Vide il se stesso di un anno tirarsi faticosamente in piedi con quelle gambe paffutelle ed instabili, lo vide incamminarsi con fatica lungo un corridoio familiare ed entrare nella cucina dove una bellissima donna in pantaloncini e canottiera stava cucinando qualcosa.
Cristiano non ricordava che sua madre fosse così bella.
Margherita Serra lasciò immediatamente andare ciò che stava facendo e si chinò per accogliere il figlio, lo prese tra le braccia e il bambino le afferrò immediatamente le guance con le mani paffutelle per darle un bacio.
“ Guarda com’è ubbidiente il mio bambino”
Margherita rise genuinamente, strinse Cristiano tra le braccia facendogli il solletico sul pancino e lui rise, rise tantissimo, fino a quando stanco non nascose la faccia sulla spalla della madre, stringendola forte.
La registrazione si interruppe in quel momento, lasciando lo schermo in blu.
<< C – Cristiano? >>
Il ragazzo trasalì quando Sonia allungò una mano e gli sfiorò una guancia trovandola bagnata, lui gliela scostò leggermente e si toccò il viso.
<< Ah >> Commentò risalendo con le dita fino agli occhi << Ah >> Lasciò cadere le mani sul pantalone e strinse forte la stoffa << Ahi >> Disse con voce strozzata passando a stringersi il petto all’altezza del cuore, Sonia aveva gli occhi velati di lacrime mentre lo vedeva chinarsi in avanti come se stesse invecchiando di colpo << Mamma … >> Cristiano strinse i denti e si lasciò cadere sulle ginocchia di Sonia << Mamma … >> Le bagnò la gonna di lacrime, mentre lei gli accarezzava con mani tremanti i capelli mossi e crespi << Torna qui … farò il bravo, te lo prometto … non urlerò più, mi prederò cura di te … ma torna. Torna! >>
Sonia trattenne a stento un singhiozzo, non doveva piangere, doveva essere forte.
<< Ci sono io qui, sta tranquillo >> Sussurrò con voce rotta.
Cristiano pianse fino a quando non si addormentò sulle sue gambe.
 
<< Vuoi stare fermo?! >>
<< Mi fai male maledizione! Togli immediatamente quelle manacce! >>
<< Ma … >>
<< Basta! >>
Beatrice allontanò immediatamente le mani quando Enea alzò la voce e batté con violenza le mani sullo sterzo della macchina, sospirò pesantemente e guardò con occhi stanchi quel fazzolettino sporco di sangue che aveva inutilmente tentato di passargli sul labbro spaccato.
<< Va bene … mi dispiace >>
Enea strinse forte le mani intorno al volante quando sentì quelle due parole sussurrate, sapeva benissimo che non avevano nulla a che fare con le sue ferite, vi era molto di più dietro, eppure in un certo senso le trovava assolutamente sbagliate.
Era mezzanotte passata e se ne stavano rinchiusi in quell’auto da ore ormai.
<< Beatrice, adesso devi … >>
<< Lo so! >>
La risposta di Beatrice fu talmente repentina e violenta che Enea sospirò pesantemente, lasciò andare la stretta intorno al volante e le nocche bianche ripresero colore, spostando lo sguardo oltre il finestrino incrociò le braccia al petto, sollevò le ginocchia e le appoggiò sul cruscotto assumendo una sorta di posizione fetale.
Beatrice era piuttosto sicura che Enea la stesse chiudendo fuori dai suoi pensieri.
<< Sei arrabbiato vero? Sei arrabbiato e stai sicuramente pensando che sono una stupida. Nella tua testa non fai altro che pensare:” Come ha fatto ad andare a letto con un tipo del genere? Mi fa proprio schifo!”, giusto? >>
Beatrice aveva pronunciato quelle parole con voce apatica, come se non le facessero nessun effetto, Enea si girò a guardarla e notò come impercettibilmente stesse stringendo il bordo della maglietta, le mani erano bianche per la tensione.
<< Sei davvero una scema, sai? >> Beatrice sussultò quando sentì quelle parole, strinse ancora più forte le mani e si accigliò << Che io sia arrabbiato mi sembra piuttosto ovvio! Non ho mai tirato tanti pugni in vita mia, è la prima volta che faccio a botte con qualcuno. Cos’è quella faccia? Non mi credi? >> Enea sollevò distrattamente una mano e pizzicò leggermente la guancia sinistra di Beatrice, lei lo guardava con gli occhi sgranati e le sopracciglia aggrottate << Non esserne sorpresa, non sono una persona violenta … ma … ma non ho mai pensato che tu mi facessi schifo. Non potrei pensarlo mai, perché tu l’hai fatto invece? >>
Il pizzico di Enea si sciolse lentamente e si trasformò in una rude carezza, accennata giusto con la punta delle dita, poi il ragazzo allontanò la mano e tornò a volgere lo sguardo oltre il parabrezza, sulla strada deserta all’angolo della strada dove abitava Beatrice.
<< Perché al posto tuo l’avrei pensato Enea >>
<< Tsk, solo perché per una volta sola sei andata a letto con lui? Hai idea di quante ne abbia cambiate io? Tu sei un angioletto al mio confronto >>
Beatrice sobbalzò leggermente, Enea la stava guardando dritto negli occhi, come a sfidarla.
<< Come hai fatto a capire che era stata solo una volta?! >>
<< Perché non ho creduto alle parole di quel tipo nemmeno per un secondo. L’ho capito perché anche io so piuttosto bene come fare ad irritare le persone >>
Beatrice avrebbe preferito che Enea gridasse, si arrabbiasse, sbraitasse e sbattesse le mani sul volante piuttosto che vederlo rispondere con quella sicurezza e quell’aria seria, con quella fiducia negli occhi che le faceva solamente venir voglia di abbracciarlo.
<< Ok … ho conosciuto Mirko al terzo anno di liceo >> Beatrice sospirò profondamente prima di pronunciare quelle parole, ma Enea non disse nulla, si limitò a non guardarla per lasciarle tutto lo spazio di cui aveva bisogno << Lui era quel classico ragazzo bello che volevano tutte, grande, popolare, sportivo … era stato con tantissime ragazze diverse, ma io avevo creduto davvero che con me sarebbe stato diverso. Perché ero una stupida >> Beatrice smise di parlare e respirò profondamente per darsi forza, aveva i ricordi che le ballavano davanti agli occhi ed Enea avrebbe tanto voluto stringerle una mano, ma sapeva che non era quello il momento, non era il momento giusto per farlo << All’epoca ero piuttosto vanitosa, l’avresti mai detto? Credevo che andare bene a scuola, essere bella e avere un fidanzato popolare avrebbero fatto di me una persona felice. E io ero davvero innamorata di Mirko … e non mi importava di far finta di non sapere quante volte mi aveva tradita o di quando si faceva beffa di me con i suoi amici … >> Beatrice ridacchiò ironicamente di se stessa, le si dipinse sulle labbra un sorriso talmente amareggiato che l’umore di Enea ne risultò contagiato per estensione << E poi ha cominciato ad insistere perché facessi sesso con lui … io non volevo. Non volevo e non sapevo perché. Mirko non ha preso bene il mio rifiuto, mi diceva che non lo amavo, mi diceva che l’avrei perso andando avanti in quel modo, si faceva trovare con altre ragazze apposta, mi umiliava davanti a tutti, urlava e insisteva … insisteva talmente tanto che alla fine gli ho detto di si! >>
Enea rabbrividì quando Beatrice smise di parlare, rabbrividì fino alla radice dei capelli, lei era scossa dai tremori, si era rannicchiata nel suo posto senza nemmeno rendersene conto e aveva chiuso gli occhi umidi di lacrime per controllarsi.
<< Beatrice, ho capito, va bene co … >>
<< Gli ho detto di si, ma non volevo! Mi ha pressato così tanto, voleva lasciarmi … e io non sapevo cosa fare >>
<< Ho detto basta! >>
Enea le afferrò i polsi e la costrinse a guardarlo negli occhi facendola girare verso di lui, il gesto fu talmente brusco che una lacrima solitaria cadde sulla guancia di Beatrice, Enea non aveva idea di cosa fosse una violenza psicologica, non ne aveva mai fatto esperienza … e sapere che la sua Beatrice avesse affrontato tutto quello … che fosse cambiata così tanto … gli faceva prudere le mani dalla rabbia.
<< Ho detto basta. Non ho bisogno di sapere altro, io ho capito tutto >>
<< E’ … è per questo che me ne sono andata. Ho cambiato scuola, l’ho lasciato, sono diventata un’altra persona … è per questo che ho avuto paura di te tante volte. Non mi odi? Non pensi che io sia una stupida? >>
<< Zitta! >> Enea pronunciò quella parola con una tale forza che Beatrice ammutolì immediatamente << E’ vero, sei un’altra persona, sei più cauta, non sorridi mai, ti fai toccare raramente e sei fredda, per diventare così hai dovuto soffrire, ma alla fine non ci pensi? >>
Enea le lasciò i polsi, appoggiò le mani sulle sue spalle fragili e sorrise, sorrise talmente tanto che gli spuntarono le fossette sulle guance, sorrise come Beatrice non l’aveva mai visto fare.
<< Sei diventata così … per incontrare me. Per sperimentare un amore del tutto diverso >>
Beatrice si portò entrambe le mani sulla bocca e lasciò scendere qualche lacrima, Enea decise che era arrivato il momento giusto per poterla stringere, riusciva a capire molte più cose, riusciva finalmente a capirla meglio, a capire quanto forte e coraggiosa fosse la sua ragazza.
A capire che doveva darle tutta la sua forza, tutta la sua fiducia.
<< Enea … >> Sussurrò Beatrice dopo alcuni minuti di silenzio.
<< Mmh >>
<< Cos’è questa storia che “ne hai cambiate così tante”? >>
<< Ehm … >>
 

_____________________________________________
Effe_95

Buon pomeriggio a tutti :)
Allora, vi chiedo scusa se ho impiegato tutto questo tempo per postare il capitolo, ma la sessione invernale degli esami è stata piuttosto impegnativa.
E poi, il capitolo non è stato per nulla facile da scrivere, probabilmente mi sono complicata la vita da sola xD E' un po' più lungo del normale, e spero davvero che non sia troppo pesante da leggere, avevo addirittura pensato di spostare la parte di Beatrice ed Enea ad un capitolo successivo, ma ho pensato che non sarebbe stato giusto per chi aspettava.
Comunque, nel caso fosse davvero troppo pesante, vi chiedo perdono.
Allora, è venuto fuori il segreto di Beatrice.
Adesso, dopo tutti questi capitoli in cui vi ho fatto aspettare, spero proprio di non avervi deluso.
Ho voluto far vedere quanto fosse cambiata Beatrice, quanto una relazione sbagliata l'abbia trasformata in quello che è. Quanto ha dovuto lottare e soffrire.
So che magari ho tirato fuori un argomento un po' delicato, ma credo davvero che a volte le persone sbagliate possano ferirci fino a trasformarci.
Spero vivamente di non essere stata superficiale, di non essere stata irrispettosa e di aver fatto un buon lavoro, se così non fosse fatemelo sapere.
Grazie mille come sempre a tutti per il supporto.
Alla prossima :)
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 38
*** Puoi farlo?, “I” e Brava. ***


I ragazzi della 5 A
 
38. Puoi farlo?, “I” e Brava.
 

Gennaio

<< Alješa mi aiuti a prendere i piatti? >>
Aleksej sollevò distrattamente gli occhi dal libro di fisica e posò lo sguardo sulla figura minuta di sua sorella, che stava tentando inutilmente di sporgersi verso la credenza sulla punta dei piedi.
Lisa Luna Yulianovna Ivanovna era la più piccola della famiglia, aveva otto anni, capelli rossi come il fuoco che le arrivavano a metà schiena e lo stesso viso spigoloso del padre.
Il fisico era piuttosto esile, Aleksej non poté fare a meno di sorridere mentre la osservava saltellare sulle punte, con lo sguardo concentrato e la lingua tra i denti per lo sforzo.
<< Aspetta, nanerottola >>
La canzonò alzandosi in piedi, si aggiustò velocemente la felpa che si era leggermente sollevata e raggiunse con passo pesante la sorella, che nel frattempo aveva smesso di saltellare per fulminarlo con i suoi intensi occhi azzurri.
<< Sono cresciuta di tre centimetri, sai?! >>
Aleksej ridacchiò divertito quando la sentì pizzicargli leggermente il fianco, lasciato scoperto dalla felpa nel momento in cui aveva sollevato il braccio per afferrare le stoviglie dalla credenza.
<< Addirittura tre centimetri? >> La punzecchiò Aleksej mettendole tra le mani un piatto dietro l’altro << Ce la fai a portarli tutti? >>
<< Certo che si! >> Replicò immediatamente Lisa, pestando senza troppi complimenti il piede destro del fratello maggiore, anche se essendo entrambi scalzi il risultato non fu quello desiderato.
<< Ahi >> Si limitò a commentare Aleksej con voce atona mentre chiudeva l’anta del mobile.
<< Beh, perché non vieni anche tu ad aiutare la mamma? Stasera vengono a cena tutti! >>
Il sorriso di Aleksej sbiadì leggermente di fronte la domanda innocente di Lisa, non era propriamente entusiasta di quella cena, e non lo era perché non parlava con Gabriele da più di una settimana ormai, da quando avevano litigato a scuola.
<< Finisco gli esercizi di fisica e arrivo, va bene? >>
Lisa gli accennò un sorriso, annuì leggermente e lasciò la cucina canticchiando, con la sua pila di piatti ben stretta tra le braccia, Aleksej sospirò pesantemente e tornò a sedersi, ma la testa non ne voleva sapere di concentrarsi sugli esercizi di fisica.
Non gli piaceva non sapere perché Gabriele si comportasse in quel modo.
Non avevano mai nascosto nulla l’uno all’altro.
Aleksej scosse velocemente la testa e portò nuovamente l’attenzione sul libro, doveva finire quegli esercizi a ogni costo, avrebbe parlato una volta per tutte con Gabriele quella sera. Aveva appena ripreso la concentrazione necessaria, quando dei passi affrettati rimbombarono sul pavimento e un tornado vivente fece irruzione nella cucina.
<< Alješaaaaaaaa >> L’urlo a squarciagola di Andrea, il terzogenito undicenne della famiglia Ivanov, venne brutalmente interrotto da una scivolata sul parquet che lo fece atterrare con il fianco sinistro sullo stipite della porta << Ahi >>.
Aleksej era talmente allibito che rimase in silenzio, con la bocca leggermente spalancata, a fissare suo fratello più piccolo rotolarsi sul pavimento con le mani sul fianco per almeno cinque minuti buoni.
<< Sei vivo? >>
<< No >>
Andrea Yulianovich Ivanov era il terremoto della famiglia, si faceva male almeno una volta al giorno, aveva frequentato l’ospedale della città più volte di quanto ci si potesse aspettare da un ragazzino di undici anni, e ne combinava talmente tante che aveva già cambiato tre scuole. Era alto per la sua età, probabilmente avrebbe superato anche Aleksej crescendo, i capelli erano tagliati cortissimi sulla testa e tendevano al biondo/rossiccio, gli occhi verdi screziati di azzurro erano fissi sul soffitto, probabilmente nel tentativo di concentrarsi per calmare il dolore.
<< Devo chiamare mamma e papà per andare di nuovo in ospedale? >>
Andrea rotolò su se stesso appoggiando lo stomaco sul pavimento e sollevandosi leggermente sui gomiti, sulle labbra sottili gli si dipinse una smorfia mentre osservava la fasciatura ancora fresca attorno al braccio, si era tagliato andando a sbattere contro una vetrata che aveva mandato in frantumi e il gesto gli era costato parecchi punti di sutura.
<< Nah, per oggi basta! Ci pensiamo domani … comunque, la tavola è pronta e mamma ha già preparato tutto, Miki ha suonato al citofono quindi sta salendo >>
Aleksej sentì immediatamente il morale salire al pensiero che Miki stesse arrivando, non era la prima volta che cenavano tutti insieme e ormai era diventata una di famiglia, ma quella sera aveva davvero bisogno della sua presenza, aveva bisogno che Miki gli desse la forza necessaria per affrontare Gabriele nel miglior modo possibile.
Chiuse definitivamente il libro di fisica abbandonandolo sul tavolo della cucina, scavalcò senza troppi complimenti Andrea, che se ne stava ancora in posizione supina sul pavimento, e raggiunse il piccolo ingresso proprio nel momento esatto in cui Miki suonò il campanello.
Quando aprì la porta, la trovò sorridente con un vassoio di dolci impacchettato tra le mani, aveva i sottili capelli castani raccolti in una treccia a spina di pesce, le labbra carnose erano ricoperte dal lucidalabbra, gli occhi truccati ne mettevano in risalto il taglio e i piccoli orecchini a forma di rosa abbellivano la fisionomia a cuore del suo viso.
Aleksej la trovò bellissima, talmente bella che trattenne il fiato per qualche secondo.
<< Ho preso i dolci dalla pasticceria dei genitori di Italia >>
Annunciò mostrando orgogliosa il piccolo vassoio bene impacchettato, Aleksej lasciò andare il respiro e ridacchiò divertito, mentre l’afferrava per un braccio trascinandola in casa.
<< Davvero? Ma così mio fratello Andrea li finirà tutti da solo >>
Miki ridacchiò divertita, porse il vassoio al fidanzato e si sfilò il cappotto mostrando un vestito rosa di raso che le arrivava fino alle ginocchia stringendo sulla vita, e un cardigan bianco fatto all’uncinetto lasciato aperto, ai piedi portava un paio di scarpe con la zeppa non troppo alta che tuttavia la slanciavano al punto giusto.
<< Povero Andrea … ci penserà Gabriele secondo me >>
Il sorriso di Aleksej si spense in automatico quando Miki pronunciò quelle parole, lo vide aggrottare le sopracciglia, incurvare le spalle e incattivire lo sguardo come faceva sempre quando voleva proteggersi da qualcosa che non capiva.
<< Alješa … non dirmi che non parli con Gabriele da allora?! >> Esclamò Miki afferrandogli un braccio, Aleksej si scrollò leggermente dalla sua stretta e spostò lo sguardo altrove, incrociando le braccia al petto in segno di chiusura. << Aleksej! >>
<< Non posso farci niente! >> Sbottò immediatamente lui per difendersi << Ho cercato di contattarlo, di chiedergli scusa, di cercare di capire cosa non andasse, ma non mi ha risposto nemmeno una volta! La mattina non passa nemmeno più per darmi un passaggio … Gabriele … >> Aleksej si interruppe per un secondo, sospirò pesantemente, sciolse la stretta delle braccia e la guardò negli occhi << Gabriele non vuole parlare con me, perché l’ho deluso … anche se non so il motivo. >> Miki fece un passo in avanti e gli poggiò nuovamente le mani sulle braccia, stringendo tra le dita sottili e fragili la stoffa nella maglietta azzurra di Aleksej.
<< Gabriele sbaglia. Non puoi capire tutto Aleksej, c’è un limite >>
Aleksej scosse la testa e fece per spostarsi ancora, non riuscendo a reggere il suo sguardo.
<< Ma lui è il mio migliore amico! Siamo cresciuti insieme, io dovrei capirlo con un solo sguardo, dovrei … >>
Le parole di Aleksej vennero bruscamente interrotte dal bussare insistente del campanello, Miki gli lasciò andare frettolosamente le braccia e Aleksej cambiò espressione con una rapidità sorprendente, improvvisamente tutta l’angoscia sembrò sparire dietro una maschera priva di emozioni. Si ricompose e andò ad aprire la porta di casa, sulla soglia se ne stavano Nicola e Lara, i suoi zii da parte “materna”, e dietro di loro Alessandra e Gabriele.
<< Buonasera >> Esclamò con fare allegro zia Lara, che quando entrò in casa avvolse Aleksej in un caldo abbraccio che il ragazzo ricambiò con poca enfasi << Tua madre è in cucina? Ho portato il mio dolce speciale >>.
<< Si, è di la >>. Rispose Aleksej sorridendole, Nicola gli lanciò uno sguardo veloce accigliandosi e poi spostò lo sguardo su suo figlio Gabriele, che nel frattempo stava impiegando una lentezza eccessiva nello sfilarsi il cappotto.
<< Scommetto che mia sorella ha cucinato per un reggimento >> Commentò distrattamente, salutando con una pacca sulla spalla sia Aleksej che Miki << Vado a dare un’occhiata, Alessandra, vieni con me? E tu Miki, non devi portare quei dolci? >>
Miki sussultò leggermente alle parole di Nicola, l’uomo la guardava con una certa insistenza, era sorprendente il modo in cui avesse colto in pochi secondi tutta la situazione, non appena Lara aveva lasciato l’ingresso per raggiungere gli altri, gli era bastato lanciare un’occhiata ad Aleksej e Gabriele per capire che avevano bisogno di parlare.
<< Certo, devo ancora salutare Yulian e Claudia >>
Nicola le sorrise e insieme ad Alessandra lasciarono l’ingresso.
Aleksej provava imbarazzo in quel momento, nel ritrovarsi da solo con Gabriele che gli stava dando ancora le spalle, mentre fingeva di cercare qualcosa nella tasca del giubbotto.
Era imbarazzato perché non sapeva cosa dirgli, perché non sapeva come sfruttare l’occasione che gli avevano dato Nicola e Miki, perché non era mai stato un tipo espansivo, perché …
<< Vado a salutare anche io >>
Era talmente perso nei suoi dubbi che le parole di Gabriele furono come un fulmine a ciel sereno, Aleksej sollevò la testa di scatto e riuscì ad afferrarlo per un polso prima che il cugino lasciasse la stanza.
<< No! E’ da una settimana intera che mi ignori, e se non mi dici perché non lo posso accettare! >>  Aleksej avrebbe voluto mordersi la lingua, non riusciva mai a trattenersi quando si trattava di Gabriele, gli diceva sempre tutto quello che pensava.
<< Lascia perdere, non ha importanza >> Gabriele si scrollò malamente il polso e fece per proseguire, ma con quella frase Aleksej aveva perso le staffe, lo afferrò per la collottola della maglietta e lo trascinò nuovamente verso di se, fino a farlo sbattere con la schiena sulla porta d’ingresso, Gabriele aveva gli occhi sgranati dallo stupore.
<< Te ne vai in giro dicendo che stai cadendo a pezzi e non ha importanza?! >> Sbottò con fervore, e non gli importò delle voci che si spensero improvvisamente nell’altra stanza, o di sua madre che pronunciava i loro nomi << Perché, Gabriele?! Perché non ti fidi di me? Perché diavolo non mi dici cosa c’è che non va? Perché non pensi che io possa aiutarti?>>
Gabriele aveva gli occhi verdi spalancati e non riusciva a spostare lo sguardo da quelli incendiati di Aleksej, non l’aveva mai visto in quello stato, e avevano litigato tantissime volte fin da quando erano solo due bambini.
<< No … è … è stato solo un brutto periodo. Adesso sto meglio … >>
<< Cos’è? Mi stai punendo perché non me ne sono accorto, vero? Perché … >>
<< Aleksej, adesso basta! >> Sbottò Gabriele scollandoselo di dosso, si aggiustò il colletto della maglietta e si massaggiò il collo indolenzito, Aleksej perse tutta l’adrenalina che gli scorreva in corpo e guardò con occhi stanchi le macchie rosse sulla pelle di Gabriele.
<< Mi dispiace Gab … mi dispiace, ma questa volta, se non mi dici cosa c’è che non va, non posso aiutarti … non so come fare >>
Gabriele contrasse le sopracciglia, strinse forte i pugni e provò disgusto per se stesso.
Disgusto per aver lasciato che Aleksej arrivasse a pensarla in quel modo, disgusto per avergli taciuto la verità e per non avere il coraggio, ancora una volta, di fare la cosa giusta.
Fece alcuni passi in avanti, fino a quando le punte dei loro piedi si toccarono, Aleksej era ancora scalzo, ma non si scompose nemmeno un po’, ne trasalì dal dolore nell’impatto, si aspettava che Gabriele gli urlasse contro, che lo spintonasse fino a litigare di nuovo, invece appoggiò semplicemente la fronte sulla sua spalla.
<< Non puoi fare nulla Alješa … se non tirarmi qualche pugno in più quando mi vedi cadere. Questo puoi farlo? >>
<< Si … >>
Ma non bastava.
Aleksej sapeva che quello non sarebbe bastato.
 
<< Buongiorno >>
Quando Ivan aprì la porta del piccolo negozio, facendo tintinnare allegramente la campanella appesa all’interno, venne immediatamente investito da un odore familiare di inchiostro, sigaretta, sudore e cuoio.
Gli era sempre piaciuto quell’ambiente un po’ caotico, la piccola sala d’ingresso, con le sedie di pelle nera rovinata e piena di buchi, da cui fuoriusciva l’imbottitura spugnosa ormai consumata e giallognola, il vecchio bancone sistemato dietro un muretto dal quale era venuta via la vernice rossa, il computer troppo vecchio che ronzava fastidiosamente, la pila insormontabile di riviste vecchie di anni sui tavolini per intrattenersi durante l’attesa, le macchie di caffè e gli innumerevoli poster che ornavano le pareti umide macchiate di muffa.
La prima volta che aveva messo piede in quel luogo aveva solo sedici anni ed era in compagnia di Giasone, ricordava di aver avuto paura, di essersi sentito a disagio, di aver trovato fastidioso tutto quello che aveva cominciato ad amare con il tempo.
<< Ehilà Ivan, era da un po’ che non ci si vedeva. Quanto è passato? >>
Le riflessioni del ragazzo vennero bruscamente interrotte da una voce proveniente da dietro il bancone, Ivan sorrise automaticamente, afferrò la mano di Italia e avanzò leggermente fino a quando non fu visibile la figura di una donna sulla trentina.
Era piuttosto grassottella, indossava una maglietta a mezze maniche viola attillata, nonostante fuori nevicasse, che le metteva in bella mostra il decolté tatuato, aveva capelli rossi come il fuoco e striati di viola acconciati in boccoli voluminosi, il naso e le orecchie pieni di piercing, gli occhi azzurri erano carichi di trucco scuro e le labbra dipinte di nero.
Italia ne provò immediatamente soggezione, si sentiva una bambina in confronto alla femminilità che emanava quella donna, lanciò un’occhiata veloce ad Ivan e gli strinse maggiormente la mano, anche se il moro non se ne accorse.
<< Ehi Giulia, sono passati quattro mesi >>
<< Quattro mesi eh? >> Commentò Giulia facendo girare la sedia a rotelle nella loro direzione, Italia trasalì quando spostò lo sguardo di ghiaccio su di lei, ma lo spavento venne immediatamente sostituito dalla sorpresa quando la donna le sorrise << Chi è questa bella fanciulla? Giasone dove l’hai lasciato? >>
Ivan si lasciò andare ad una risata cristallina, mentre appoggiava con naturalezza il gomito del braccio sinistro sul bancone e lasciava il peso del corpo alla gamba del medesimo lato, osservandolo attentamente, con quei capelli scombinati, la giacca di pelle sbottonata, una sciarpa bianca avvolta malamente attorno al collo, il pullover blu, i jeans stretti e quella posa rilassata, Italia non poté fare a meno di pensare che fosse bellissimo e pieno di vita.
Sobbalzò leggermente quando Ivan posò lo sguardo su di lei e ampliò il sorriso, facendosi spuntare le fossette che lei tanto amava.
<< Lei è Italia, la mia bellissima fidanzata. Gias, cosa devo farmene di Gias se ho lei? >>
<< Italia eh? >> Commentò Giulia scoppiando in una risata roca, Italia arrossì furiosamente quando la donna le lanciò un’occhiata maliziosa, e carica di qualcos’altro che non capiva.
<< Giulia, qui abbiamo finito, chi è il … oh, Ivan! >>
A interrompere il terzetto era stato un uomo sulla quarantina appena spuntato da una porta chiusa, probabilmente dove facevano i tatuaggi, era alto e slanciato, magro, aveva i capelli completamente rasati, indossava degli occhiali con la montatura a tartaruga e aveva un pizzetto scuro ben curato.
<< Ehi, Max! >> Esclamò allegro Ivan, abbandonando il bancone per raggiungere l’uomo e battere il pugno << Sono io il prossimo! >>
<< Era da un po’ che non ci si vedeva, vieni, entra >>
Disse l’uomo sparendo nella piccola stanza, Ivan afferrò saldamente Italia per un braccio e la trascinò all’interno del piccolo studio, fu talmente frettoloso che lei ebbe appena il tempo di salutare con la mano Giulia, che distratta aveva già ripreso a sfogliare con lentezza le riviste e non si era accorta del suo gesto.
Lo studio non era molto grande, e nell’arco di tempo che Italia impiegò per guardarsi attorno, Ivan si era già seduto su una sorta di sedia-lettino e aveva tolto giacca, sciarpa, pullover e canottiera restando a dorso nudo. Ad Italia era sempre piaciuto osservare i tatuaggi di Ivan, qualche volta, quando si trovavano da soli, o quando passavano il tempo insieme nella sala studio a scuola, lei gli chiedeva di sollevarsi le maniche della maglietta e di spiegargli ogni volta il significato di un tatuaggio e la sua storia. Ivan ne aveva così tanti che c’era sempre qualcosa di nuovo da dire, ma non l’aveva mai visto a dorso nudo, e non si era accorta di quanto contrasto facessero quelle braccia colorate con la sua pelle chiara.
Ivan aveva un fisico asciutto, muscoloso al punto giusto, e anche se seduto sul lettino, con la schiena curva, Italia riusciva ad intravedere gli addominali scolpiti, arrossì quando il ragazzo intercettò il suo sguardo e le sorrise, ignaro dei suoi pensieri.
<< Oggi Giasone non è venuto? >> Domandò Max mettendosi seduto accanto ad Ivan, tra le mani stringeva uno strano strumento che Italia non aveva mai visto. << Peccato, volevo convincerlo a farsi un bel tatuaggio >> Ivan ridacchiò divertito.
<< Lo sai che non ci saresti mai riuscito, dopo quel quadrifoglio sul polso è rimasto traumatizzato. >>
Max si lasciò andare ad una grossa risata, profonda e contagiosa, Italia sorrise e aggiustò la tracolla della sua borsa di pezza, per poi infilare le mani nelle tasche della giacca, era stata un po’ titubante quando Ivan le aveva chiesto di accompagnarlo, ma non se n’era pentita.
<< Beh, però hai portato questa ragazza, chi è, la tua fidanzata? >>
Ivan annuì vigorosamente e sorrise di nuovo, proprio come un bambino.
<< E’ Italia >> Max sollevò le sopracciglia.
<< Italia eh? Non è stato l’ultimo tatuaggio che hai fatto? >>
Italia sussultò quando sentì quelle parole, e ricordò un giorno di qualche mese prima, quando lei ed Ivan erano andati in cartolibreria ad acquistare del materiale per un progetto di scienze, e accidentalmente aveva intravisto la spalla del ragazzo sul quale era scritto …
<< … il mio nome … >> Mormorò Italia, poi fece il giro del lettino per osservare la spalla ossuta di Ivan, esattamente all’altezza della clavicola il tatuaggio se ne stava in bella mostra.
Italia l’aveva dimenticato per tutto quel tempo.
<< Beh … si … già … >> Balbettò Ivan arrossendo vistosamente, Max scoppiò nuovamente a ridere e gli assestò una pacca piuttosto dolorosa sulla spalla.
<< Cosa faccia questa volta? Dove? >>
<< Qui … alla base del collo … voglio che mi scrivi questa frase >>
Disse Ivan infilando la mano nella tasca del jeans, dal quale tirò fuori un foglietto tutto stropicciato sul quale era scritta una frase che Italia non riuscì a cogliere.
Max si mise immediatamente al lavoro, fu un procedimento abbastanza lungo, era un lavoro preciso e meticoloso, eppure ad Italia non pesò aspettare tutto quel tempo, mentre se ne stava seduta sulla sua sedia osservava Ivan per tutto il tempo.
Non si lamentò nemmeno una volta, aveva il viso disteso e lo sguardo posato sempre su di lei, sorridente.
Max abbassò lo strumento dopo un tempo che sembrò interminabile.
<< Bene, abbiamo finito Ivan. Solite raccomandazioni, non toccare la garza, applica la pomata … il resto lo sai già >>
Ivan si alzò dal lettino e infilò lentamente il pullover con l’aiuto di Italia, stava ormai arrotolando la sciarpa per lasciare la stanzetta quando lei lo tirò leggermente per la manica della giacca attirando la sua attenzione.
<< Voglio … voglio farne uno anche io >>
Ivan e Max si girarono a guardarla contemporaneamente, entrambi con un’espressione sorpresa sul viso.
<< Sei … sei sicura? >>
Italia annuì vigorosamente alla domanda di Ivan, il ragazzo aveva un’espressione titubante, sembrava preoccupato, allora lei gli regalò uno dei suoi rari sorrisi, poi si girò verso Max con aria decisa, sollevò leggermente la maglietta e mostrò il fianco sinistro.
<< Qui … voglio qui una piccola “I” >>
<< Una “I”? >> Domandò Ivan aggrottando le sopracciglia, ma Italia non rispose.
Max la fece stendere sul lettino e le ordinò di alzare la maglietta e abbassare leggermente i jeans, mentre compiva quell’operazione Ivan si girò dall’altro lato con la scusa di prendere la sedia e avvicinarla al lettino, era arrossito tantissimo quando aveva scorto l’orlo merlettato delle mutande di Italia. Trasse un respiro profondo, si mise seduto a cavalcioni sulla sedia e cercò di rivolgerle un sorriso rassicurante.
<< Farà un po’ male >> La avvisò Max, ma Italia annuì risoluta, con le sopracciglia aggrottate e i capelli ramati sparsi un po’ dappertutto, Ivan la trovava bellissima, allungò una mano e le afferrò le dita fredde e sudaticce, che Italia strinse immediatamente.
<< Ivan … non sto per partorire. E’ solo l’iniziale dei nostri nomi … >>
Mormorò Italia quando vide Ivan sbiancare nel momento in cui Max aveva appoggiato l’ago sulla sua pelle, trovò strano doverlo supportare quando era lei quella che stava soffrendo, ma lo trovò anche un modo per sorridere ed esorcizzare il dolore.
<< Ma i tuoi non si arrabbieranno? >>
<< Ciò che non conoscono non li ucciderà >> Ivan le strinse un po’ di più la mano e fece intrecciare le loro dita << E tra l’altro … adesso abbiamo qualcosa in comune >> Continuò lei indicando con l’indice l’opera in atto di Max, Ivan arrossì fino alla punta dei capelli quando si rese finalmente conto del perché Italia avesse deciso di fare quel tatuaggio, nascose la faccia sul braccio appoggiato al bordo della sedia e lasciò visibili solamente gli occhi.
<< Non dovevi farlo … scema >> Italia ridacchiò.
<< Ehi, non montarti la testa. E’ solo l’iniziale del mio nome dopotutto, no? >>
<< Uhm >> Mormorò Ivan scrutandola con gli occhi, aveva la fronte sudata a causa del dolore, eppure non faceva altro che continuare a sorridergli << Dopo la prendiamo una bella crepe alla nutella? >>
<< Con tanto zucchero a velo sopra! >>
<< E la glassa al cioccolato! >>
 
Quando Giasone aprì la porta della camera d’albergo trasse un profondo sospiro di sollievo.
Non era una stanza grandissima, aveva due letti singoli separati da un piccolo comodino, la porta semichiusa di un bagno immerso nell’ombra se ne stava nascosta accanto un imponente armadio con le ante rotte, e una misera scrivania senza televisione era adagiata sotto una finestra ancora chiusa.
Giasone sospirò pesantemente, trascinò con se le valigie e chiuse la porta con un piccolo calcio, poi scostò leggermente la testa e scrutò il viso immerso nel mondo dei sogni di Muriel, che se ne stava appollaiata a peso morto sulle sue spalle.
Giasone aveva sempre immaginato che Muriel fosse leggera come una piuma, era magrissima e aveva pochissime forme, ma quando l’aveva presa in braccio dopo che si era addormentata sull’autobus, aveva scoperto che i suoi erano solo vaneggiamenti.
Muriel pesava tantissimo.
Aveva una massa muscolare sorprendente.
Avanzò con passo claudicante verso il letto e adagiò la ragazza sulle coperte usando tutto il tatto di cui era capace, aveva un mal di schiena talmente prepotente che si era pentito di aver fatto il gradasso quando il facchino si era proposto di aiutarlo.
Si lasciò cadere a sua volta a peso morto nell’altro letto imprecando contro tutto e tutti per il dolore, quando ebbe finito tutti gli improperi che conosceva, voltò leggermente la faccia e si perse a contemplare il viso spigoloso di Muriel.
Quando dormiva sembrava un angelo silenzioso e taciturno, se ripensava a quanto Muriel l’avesse tartassato durante il viaggio in treno e sull’autobus, gli veniva quasi da piangere.
Eppure ormai Giasone stava cominciando a farci l’abitudine a quell’esuberanza.
Il chiasso che Muriel portava con se, la sua voce squillante, il suo sorriso allegro e spensierato, tutto quello aveva fatto irruzione nella sua vita come un uragano sconvolgendola, eppure Giasone era piuttosto sicuro che non avrebbe potuto più farne a meno. I suoi pensieri vennero bruscamente interrotti dallo squillare fastidioso di un cellulare, Muriel spalancò immediatamente gli occhi e si tirò a sedere sul letto, con gli occhi sgranati, i capelli arruffati sulla testa e la maglietta da basket troppo larga leggermente stropicciata, afferrò immediatamente il cellulare e rispose con voce impastata.
<< Pronto? Mamma … si, si sono arrivata! No … Martina è nel bagno. Si, si va bene … >>
Giasone si tirò a sedere a sua volta, non sapeva se scoppiare a ridere oppure tirarle dietro un cuscino appena avrebbe agganciato. Muriel non aveva fatto altro che dormire come un sasso per tutto il tempo mentre lui la sballottava a destra e sinistra, ma bastava una semplice chiamata al cellulare per renderla perfettamente sveglia.
<< Martina? Potevi darmi un nome migliore >>
Commentò il ragazzo quando ebbe terminato la conversazione, Muriel sospirò pesantemente, lasciò cadere il cellulare sul letto e si grattò la nuca proprio lì dove si era creato il groviglio di capelli.
Lei e Giasone non vedevano l’ora che arrivasse quel giorno, avevano aspettato quasi un mese per poter andare a vedere la partita di basket della nazionale italiana utilizzando i biglietti che si erano reciprocamente regalati a Natale, ma Muriel aveva dovuto mentire per ottenere il permesso. Con la complicità della sua migliore amica, aveva fatto credere ai suoi genitori che avrebbe passato quella notte fuori casa insieme a lei, e non con il suo fidanzato.
<< Non ti piace? Beh, invece ti dico che ti sta bene! >> Lo provocò lei facendogli una linguaccia, Giasone afferrò il proprio cuscino e glielo lanciò contro con malagrazia.
<< Questo è il ringraziamento per averti portata a spasso sulle mie spalle?! >>
<< Ma se sono leggera come una piuma! >>
Si difese Muriel scattando in piedi, indossava un giubbotto di pelle nera aperto sulla maglietta da basket troppo larga, che in controluce lasciava intravedere un top, dei jeans larghi completamente stracciati sulle ginocchia e degli scarponi maschili ai piedi.
Giasone si tirò in piedi a sua volta sovrastandola di qualche centimetro.
<< Ah! >> Esclamò picchiettandola con un dito sulla fronte << Questa è bella! >>
Muriel gli afferrò il dito con entrambi le mani e gli lasciò un bacio a fior di labbra sulla punta, Giasone rimase talmente spiazzato da quel gesto, che non si accorse nemmeno di quando la mora sgusciò di lato saltellando per tutta la stanza, curiosa.
Quando si riebbe dalla sorpresa, la trovò che aveva già piazzato la sua piccola valigia su una sedia, l’aveva aperta, e aveva riversato una serie di indumenti e oggetti sul letto.
<< Domani a che ora abbiamo la partita? >> Gli domandò tutta affaccendata, Giasone alzò gli occhi al cielo e si decise a sistemare anche lui il suo piccolo bagaglio.
<< Nel pomeriggio, mentre il treno è in tarda serata >>
<< Hai fame? >>
Gli domandò lei tornando a guardarlo, Giasone provò il terribile impulso di afferrarla per i fianchi e trascinarla con se sul letto, quando ebbe formulato quel pensiero si spaventò, scosse la testa, afferrò immediatamente il portafoglio, il cellulare e si avviò verso la porta. 
<< Si, vado a prendere qualcosa >>
Non lasciò a Muriel neppure il tempo di aprir bocca che si richiuse la porta alle spalle.
Trasse un profondo respiro, si pizzicò senza pietà la pelle all’altezza del polso, lì dove si trovava l’unico brandello scoperto, accanto al tatuaggio a forma di quadrifoglio, il dolore servì a calmarlo leggermente. Non sapeva da dove gli fosse saltato fuori quel pensiero, ma quando aveva posato gli occhi su quei fianchi sottili non ne aveva potuto fare a meno, la tentazione di toccarli, di sollevare quella maglietta troppo larga, di superare la barriera del top ed esplorare quella pelle morbida, scura e calda era stata più forte di lui.
No, non stava affatto migliorando la situazione in quel modo, il suo amichetto non era contento.
Affrettò il passo lasciandosi la hall dell’albergo alle spalle, comprò un po’ di cose a caso, senza badarvi troppo e tornò indietro con passo lento, strascicato.
Ormai il pericolo doveva essere scampato, era più sereno quando infilò la chiave della stanza nella toppa.
<< Sono tornato >>
Borbottò con voce apatica, un po’ annoiata, e per poco non gettò la busta dall’altra parte della camera quando vide Muriel uscire dal bagno con i capelli ancora umidi, indossando solamente una mutandina nera con un fiocchetto rosso al lato sinistro e una canottiera del medesimo colore leggermente slabbrata, troppo grande per la sua seconda scarsa.
Si stava frizionando i capelli con un asciugamano dell’albergo, sembrava distratta, ma quando lo vide e si accorse di lui, non ebbe la reazione che Giasone si sarebbe aspettato.
Non gli urlò contro, né gli lanciò qualcosa addosso, nella sua innocenza spalancò le labbra in un sorriso solare e gli saltò addosso, aggrappandosi a lui come un koala.
Giasone traballò all’indietro rischiando di cadere, ma evitò il disastro sbattendo la schiena sulla parete. A quel punto il suo basso ventre andò completamente in fiamme, gettò Muriel e contemporaneamente la busta della spesa sul letto con malagrazia.
<< Vado a fare una doccia! >>
Sbottò, e si richiuse nel bagno sotto lo sguardo allibito della fidanzata.
<< Ehi! Che ti prende? >>
La sentì strepitare attraverso lo strato della porta, ma non la stava già più ascoltando.
Aveva sfilato tutti i vestiti e si era gettato sotto l’acqua gelata, ghiacciata, fu attraversato da un brivido lungo tutta la schiena. Perché diavolo non riusciva a trattenersi?
Aveva sempre saputo di dover passare quella notte nella stessa stanza con Muriel, possibile che il pensiero di non avere freni, di poter cogliere l’occasione che a casa non avrebbero potuto avere, l’avesse fatto uscire di senno? Da quando Muriel aveva tutto quel potere su di lui? Da quando aveva cominciato a trovarla così attraente nonostante le sue forme acerbe?
Ripensandoci in quel momento, Giasone si rese conto che in realtà Muriel aveva proprio tutto quello che piaceva a lui, a parte una parlantina eccessivamente fastidiosa e un’esuberanza irrefrenabile. Trasse un respiro profondo e cominciò ad insaponarsi, quando i muscoli del corpo smisero di essere tesi, impostò l’acqua calda.
Doveva calmarsi, Muriel si sarebbe spaventata se le fosse saltato addosso, non era pronta per quel passo, stavano insieme da appena un mese, e lui non sapeva nemmeno se sarebbe stato in grado o all’altezza di prendersi qualcosa che per Muriel era così prezioso.
Qualcosa che magari avrebbe potuto dare a qualcun altro dopotutto, e loro … non erano ancora così giovani? Non avevano tutta la vita davanti?
Quel pensiero lo amareggiò, si sciacquò malamente dal sapone, chiuse l’acqua e si avvolse nell’accappatoio. Ci impiegò solo dieci minuti per asciugarsi, quando uscì dal bagno con una vecchia tuta grigia logora e una maglietta sformata a fargli da pigiama, i capelli umidi e scombinati, Muriel era stesa a pancia in giù sul letto, aveva intrecciato le caviglie a mezz’aria e stava facendo scorrere con il pollice la lista dei messaggi sul cellulare.
Aveva ancora la canottiera di prima, ma non era più in mutande, le gambe lunghe, flessuose e scure erano state coperte da un grazioso pantalone del pigiama ricamato con le immagini di Topolino e Minnie, mentre i piedi erano fasciati da calzini neri corti.
<< Che fai, non hai ancora mangiato nulla? >>
Le domandò Giasone, indicando la busta ancora intatta sul suo letto, proprio lì dove l’aveva lasciata. Muriel chiuse il cellulare, lo gettò sul letto e si mise seduta con un abile balzo.
<< No, ti stavo aspettando >> Disse allegra mettendosi seduta in posizione indiana, Giasone sospirò, afferrò la busta e si mise accanto a lei. 
<< Che cosa hai preso di buono? >> Domandò Muriel rovistando nella sacca, tirò fuori due cornetti ormai freddi, una bottiglia d’acqua senza bicchieri e una busta di patatine alla paprika troppo grande. Lanciò un’occhiata scandalizzata a Giasone, che aggrottò le sopracciglia in una chiara espressione dal significato di: “ Cos’ho fatto?!”
<< Questa per te è una cena?! Ci sono talmente tante calorie in questa busta che sto ingrassando solo a guardarla! E poi, non è per nulla salutare! Cosa succede se non riesco a schiacciare e sollevarmi da terra?! >>
<< E sta un po’ zitta! >>
Giasone sbottò subito dopo che Muriel ebbe finito di strillare, come aveva potuto farsi ridurre in quello stato da una piattola fastidiosa e infantile come lei, prima?
Le picchiettò la fronte con l’indice.
<< Resta digiuna allora >>
<< Ma sono allergica alla paprika! >>
Replicò Muriel, rispondendo con delle parole che non avevano nulla a che fare con il commento precedente di Giasone.
<< E allora prendi i cornetti, no? Quelle le mangio io >>
Muriel scrutò i due croissant con le sopracciglia aggrottate e un broncio esagerato.
<< Cosa c’è dentro? >>
Giasone avrebbe voluto strozzarla, tutto l’amore che aveva per lei stava sparendo insieme alla pazienza.
<< Sono vuoti >>
<< Vuoti?! Se proprio devo ingrassare, potevi almeno prendere quelli con la ciocc… >>
Il commento agitato di Muriel venne bruscamente interrotto da Giasone, che aveva afferrato uno dei due cornetti e gliel’aveva ficcato in bocca di forza.
Muriel staccò un morso in silenzio, e cominciò a masticare.
<< Allora? >> Domandò Giasone dopo qualche minuto di silenzio.
<< E’ buono >> Mormorò lei dando un altro morso.
<< Uhm >>.
Finirono di mangiare in silenzio, gettarono le cartacce e ripulirono il letto dalle briciole.
<< Andiamo a dormire adesso, domani abbiamo la partita da vedere >>
Commentò Giasone scrutando l’orologio da polso che aveva riposto sul comodino.
<< Il bacio della buona notte non me lo dai? >>
Domandò Muriel dondolando sui talloni, con le mani nascoste dietro la schiena sembrava proprio una bambina. Giasone si trattenne dallo scoppiare a ridere, portandosi una mano sulla bocca si schiarì la voce tossicchiando.
<< Hai lavato i denti? >>
Le domandò, Muriel arrossì fino alla punta dei piedi.
<< Stavo … ci sarei andata adesso! >>
Balbettò mostrando lo spazzolino che stringeva tra le mani nascoste dietro la schiena, Giasone si lasciò andare ad una lieve risata, si chinò leggermente in avanti per accontentarla, ma l’occhio gli ricadde sulla scollatura della canottiera troppo grande, slabbrata e vide tutto, tutto quello che non avrebbe dovuto ancora vedere.
Avvampò e deviò il bacio sulla fronte.
<< Che cos’è questo bacio sulla fronte?! >>
Strepitò lei, Giasone si limitò a darle le spalle con la scusa di volersi infilare nel letto, in realtà era per non guardarla in faccia più del necessario.
<< Te lo spiego quando ti fai grande >> Sbottò sollevando le coperte, Muriel gli mollò uno schiaffo sulla schiena, violento, molto violento.
<< Che significa? Me li lavo i denti! Guarda, vado subito! >>
Giasone era esasperato, non riusciva a togliersi ciò che aveva visto dalla testa, voleva che Muriel lo lasciasse in pace a soffrire nel suo letto, da solo.
<< Sei proprio strano stasera >>Sbottò la ragazza aggirandolo dall’altra parte del letto, Giasone le rivolse un’occhiata pericolosa, da predatore, e solo allora Muriel capì.
Smise di strepitare, ricollegò i pezzi del puzzle, arrossì vistosamente e si strinse le braccia al petto imbarazzata, aveva ancora lo spazzolino stretto tra le mani.
<< Vado a lavare i denti. Buonanotte >> Mormorò a denti stretti, Giasone la vide avanzare a passo lento verso il bagno, sospirò, l’afferrò per il braccio e le stampò un bacio a timbro che gli costò l’impiego di un autocontrollo non indifferente.
<< Adesso fai la brava? >>
<< Faccio sempre la brava >>
Borbottò Muriel con un filo di voce, sorpresa dal gesto del fidanzato.
Giasone sospirò e le scombinò i capelli.
<< Ma che bugiarda … sogni d’oro >>
Muriel avrebbe voluto scusarsi, non sapeva precisamente per cosa, non aveva capito tutto, ma il necessario, solo che negli occhi di Giasone lesse qualcosa che la fece stare zitta.
Un messaggio.
“ Ti aspetterò”
<< Sogni d’oro >>.


_______________________
Effe_95


Buongiorno a tutti :)
Vi chiedo perdono per questo ritardo immenso, ma ho ripreso i corsi e devo scendere tutti i giorni in facoltà fino alle sette di sera. Quando torno a casa sono stanca, e ci metto un po' di tempo per scrivere, vi prego perdonatemi xD 
Allora, passando al capitolo, l'incontro tra Aleksej e Gabriele non è andato per niente bene.
Abbiamo anche conosciuto due dei fratelli più piccoli di Aleksej, Andrea e Lisa.
Per quanto riguarda la parte di Italia e Ivan, spero vi sia piaciuta, volevo scrivere questa scena da tantissimo tempo, e anche se non è venuta proprio come mi aspettavo ( non sono mai soddisfatta di quello che scrivo) spero vi piaccia :)
Per Giasone e Muriel, voglio specificare alcune cose che potrebbero essere fraintese.
Giasone è maggiorenne, per questo è stato possibile prenotare una camera d'albergo e andare fuori insieme, legalmente, lui è un adulto. Mentre Muriel, ha utilizzato una buona dose di bugie con i suoi genitori :) 
In fine, dedico questo capitolo ad una ragazza, una ragazza che ormai posso considerare una cara amica, Maria Pia, per la pazienza che ha nell'ascoltare i miei deliri e miei dubbi su questi ragazzi scapestrati, e per tutto il supporto.
Un ringraziamento speciale anche a tutti voi che mi seguite.
Risponderò alle recensioni il prima possibile, promesso.
Fatevi sapere tutto quello pensate, anche se il capitolo è orribile, soprattutto quello.
Alla prossima spero :)
 

Ritorna all'indice


Capitolo 39
*** Tancredi e Clorinda, Linea e Atto di fede. ***


I ragazzi della 5 A
 
39.Tancredi e Clorinda, Linea e Atto di fede.

Febbraio

Oscar era stanco.
Le palpebre degli occhi gli pesavano eccessivamente, sentiva la necessità di lasciarle cadere e non sollevarle mai più, nascondersi dietro quel mondo nero attraverso il quale non poteva scorgere nulla. Restare con gli occhi chiusi fino ad essere assalito dalla paura di esser diventato cieco, quella paura che gli faceva spalancare gli occhi all’improvviso nel cuore della notte, e che scemava lentamente quando si accorgeva di riuscire ancora ad intravedere i raggi lunari passare attraverso le tapparelle abbassate solo a metà.
Il cuore smetteva di battere freneticamente e ritrovava la quiete di un luogo familiare.
Era stanco e aveva un desiderio disperato di tornare a casa e rintanarsi sotto le coperte del suo comodo letto, senza pensare a quelle sei ore pesanti di scuola, alle prove d’esame del giorno successivo, alla tesina da cominciare a preparare e alle aspettative di un futuro …
Un futuro che nemmeno gli sembrava reale.
E invece no.
A casa non ci era potuto andare, perché quel martedì pomeriggio aveva il corso di teatro.
Si strofinò frettolosamente il viso e si pizzicò le palpebre più volte, lanciò un’occhiata veloce a Catena, seduta sulla sedia accanto alla sua, che sfogliava distrattamente il libro di italiano.
Lei non sembrava stanca nemmeno un po’.
Sembrava non pesargli l’aver fatto due compiti in classe quella mattina, prima matematica e poi letteratura inglese, e non le era pesata nemmeno l’interrogazione di filosofia.
O l’aver già scelto gli argomenti per la tesina.
O dover seguire il corso di teatro.
Oppure studiare fino all’una di notte e contemporaneamente vedere lui.
Oscar sospirò pesantemente, si stiracchiò come un gatto, silenzioso, pigro e provò il terribile impulso di appoggiare la testa sulla spalla ossuta di Catena, come aveva preso l’abitudine di fare da quando avevano fatto l’amore per la prima volta.
Catena non aveva una sola parte del corpo che fosse morbida.
Ovunque Oscar posasse le mani o la fronte, o una guancia, trovava ossa e pelle … ma poi, un po’ sotto, in profondità, se allungava le dita, senza sfiorarlo, sentiva il suo cuore.
Il cuore di Catena lo sentiva battere anche solo sfiorandole lo sterno, a distanza, ed era solo quello il motivo per cui non si lamentava mai del fatto che fosse così magra.
Perché poteva toccarle il cuore.
Sciolse lentamente la posizione di stiracchiamento che aveva assunto, e con la velocità e silenziosità di un ghepardo allungò il braccio sulle spalle di Catena, facendo passare la mano sotto la seta morbida e profumata dei suoi capelli, quel giorno sciolti, e la strinse leggermente a se.
Catena rimase talmente spiazzata da quel gesto che il libro di italiano le scivolò dalle mani finendo per terra, aperto a metà sulla pagina dell’ Ultimo canto di Saffo di Leopardi.
L’occhio distratto di Oscar si soffermò per un secondo su una frase che Catena aveva sottolineato con l’evidenziatore, contornata dagli appunti che aveva preso in classe con la sua calligrafia minuta e precisa, scritti a matita.
“ Arcano e tutto, fuor che il nostro dolore”
<< Perché ripeti ancora Leopardi? Non stiamo facendo Verga? >>
Catena scostò gentilmente il braccio di Oscar e si chinò a raccogliere il libro, lo osservò con occhio critico, spiegando con le dita un piccolo taglio sul lato superiore del foglio.
Lisciò tutta la pagina con il palmo aperto della mano pulendola dai residui di polvere che le si erano attaccati sopra, Oscar lo trovò un gesto piuttosto buffo.
<< Perché farò meno fatica quando dovrò preparare l’esame. E poi … la professoressa ha detto che domani nella simulazione della terza prova mette Foscolo, Leopardi e Manzoni, sai? >> Commentò Catena con voce pacata, richiudendo il libro con gentilezza.
Oscar si grattò la testa e sbadigliò ancora una volta, aveva la mascella indolenzita da tutte le volte che l’aveva fatto quel giorno.
<< Davvero? >> Catena piegò la testa leggermente di lato, gli sorrise e Oscar rimase incatenato con lo sguardo in quegli occhi limpidi e innocenti, non si mosse nemmeno quando lei allungò una mano e gli appoggiò le dita lunghe e morbide sulla guancia ispida a causa della barba che non aveva fatto quella mattina.
Chiuse gli occhi e si abbandonò a quella carezza bonaria, quella carezza che gli diede l’illusione, anche solo per un istante, di portar via con se tutta la stanchezza.
<< Sei stanco? >>
<< Uhm >> Mormorò Oscar continuando a tenere gli occhi chiusi.
<< Danne un po’ a me allora. Così sarai stanco di meno >>
Oscar annuì silenziosamente, continuando a tenere la guancia premuta nel palmo caldo, piccolo e levigato di Catena, avrebbe potuto tenere gli occhi chiusi in quel modo per sempre, lasciarsi cullare dalla sicurezza che gli trasmetteva quella mano.
Avrebbe voluto essere un bambino, avrebbe voluto tornare indietro nel tempo.
<< Ce la faccio … ce la faccio >>
<< Ok >>
Oscar rimase incantato da quella semplice parole, dalla rapidità con cui Catena aveva replicato, aprì immediatamente gli occhi stanchi e arrossati, vissuti e in quelli limpidi e sfumati come acquerello della fidanzata vi trovò una fiducia incrollabile.
Catena era certa che ce l’avrebbe fatta, sempre.
Anche quando farcela non era proprio possibile.
<< Buongiorno mie fantastiche ombre* >>
Oscar e Catena sobbalzarono contemporaneamente quando sentirono la voce allegra e spensierata di Alessandro Romano, il professore era entrato nel piccolo teatro con il solito passo veloce, i soliti vestiti trasandati e una sciarpa rosa che non c’entrava nulla con la giacca marrone. Il suo ingresso era stato talmente brusco che Ivan scivolò sugli scalini che portavano al palco per lo spavento, Romeo fece cadere i fogli che stringeva tra le mani, mentre Enea sputacchiò tutta l’acqua che stava bevendo sulla maglietta di Lisandro.
<< Cosa sono quelle facce stanche?! Oggi ho una splendida notizia! >>
Esclamò il professore saltando come un grillo sul palco, quando si piegò sulle ginocchia per spiccare il balzo si intravidero due calzini di tinta diversa, uno giallo canarino e l’altro rosso porpora.
<< Professore, cosa intende esattamente per splendida sorpresa? >>
Domandò Fiorenza, con un tono di voce talmente preoccupato che Oscar si lasciò scappare un sorriso bonario, anche lui aveva paura delle sorprese di Alessandro.
<< Già, l’ultima sorpresa mi ha costretto a cantare a squarciagola indossando una calzamaglia >> Commentò amaramente Enea, beccandosi una gomitata da Beatrice.
<< Oh, niente calzamaglie e canti questa volta! >> Replicò con voce squillante il professore di teatro, poi afferrò la sua vecchia borsa di pelle a tracolla, marrone e consumata, con le cinghie quasi completamente usurate, era un miracolo che non si fossero già spezzate spargendo tutto il contenuto << Ho finalmente pronto il copione per il prossimo spettacolo che metteremo in scena ad Aprile! >> Quando ebbe finito di pronunciare quelle parole afferrò una manciata di copioni già stropicciati e li mostrò con fare orgoglioso, sventolandoli in aria come una bandiera di cui andare particolarmente fieri.
<< Davvero? >> Domandò Romeo facendosi improvvisamente attento.
<< Quale era? Non ricordo … >> Mormorò Ivan massaggiandosi il mento.
<< Sulla Gerusalemme Liberata mi pare >>
Commentò Igor seduto al suo fianco, che non la smetteva di lanciare sguardi preoccupati al nuovo tatuaggio dell’amico, leggermente arrossato. 
<< Esatto! >> Alessandro li fece ammutolire tutti con il suo commento, si mise seduto sul palco lasciando pendere le gambe incrociate all’altezza delle caviglie nel vuoto, aveva appoggiato i copioni di scena sul grembo e si era sollevato le maniche della giacca. << Più precisamente però, è una mia riscrittura teatrale della storia, che sarà leggermente diversa.  La chiameremo Tancredi e Clorinda.>>
<< Sembra interessante! >>
L’entusiasmo di Zoe fece sorridere il professore a trentadue denti.
<< Ho già deciso per i ruoli che interpreterete! >>
<< Professore, la prego, questa volta voglio meno battute >>
Il commento svogliato e supplicante di Enea scatenò una serie di risate collettive, e Oscar si sentiva già meno stanco, più attivo, gli piaceva l’atmosfera di squadra che veniva a crearsi nel momento della creazione, quando lo spettacolo doveva ancora essere concepito o messo in scena.
Si sentiva tranquillo, era sereno e rilassato.
<< Allora … cominciamo dai protagonisti. La nostra bella Clorinda … sarà interpretata da … Catena! >> La mora sobbalzò quando sentì quelle parole, Oscar la vide arrossire fino alla punta dei capelli e stringere convulsamente il libro di italiano, era talmente disorientata che non si accorse nemmeno che quel gesto stava creando delle pieghe terribile alle pagine che pochi istanti prima aveva accarezzato con tanta cura.
<< Io? Ma … ma professore io … >>
<< Andrai benissimo Catena! Fidati di me >>
Catena ammutolì nel sentire le parole del professore, era in difficoltà, era imbarazzata, non aveva mai avuto ruoli di rilievo, essere la protagonista non era mai stato nella sua indole.
Oscar le accarezzò leggermente una mano, e quando lei si voltò a guardarlo le fece l’occhiolino e le sorrise, sperando con tutto il cuore che Catena potesse provare la stessa sicurezza che provava lui anche solo guardandola.
<< Tancredi invece … Tancredi lo farà Oscar! >>
<< Uhm? Io? >> Domandò sorpreso, non si sentiva particolarmente imbarazzato o preoccupato, era incuriosito, non ricordava assolutamente nulla della trama della Gerusalemme Liberata di Tasso, l’aveva studiata svogliatamente e senza passione.
E non era mai stato il protagonista di nulla.
<< Si, tu e Catena dovrete lavorare parecchio insieme >>
Commentò allegro il professore facendo l’occhiolino, Oscar e Catena arrossirono contemporaneamente nel sentire quel commento, mentre tra gli altri serpeggiavano risate divertite. Alessandro snocciolò gli altri ruoli uno dietro l’altro con lentezza, tanto che un’ora di lezione passò solamente per l’assegnazione.
<< Ricordate più o meno di cosa parla la storia di Tancredi e Clorinda? >>
Chiese ad un certo punto il professore, mentre raccoglieva gli ultimi copioni avanzati e li risistemava nella vecchia borsa logora.
<< E’ una storia d’amore finita male >> Intervenne Igor con la sua solita voce pacata, attirando l’attenzione di tutti gli altri su di se << Se non ricordo male … Tancredi uccide Clorinda per sbaglio, la scambia per un nemico e la sfida in un duello mortale … >>
<< Si, Tancredi uccide la donna che ama involontariamente e … >>
<< Che cosa?! >>
L’esclamazione di Oscar fece girare tutti nella sua direzione, aveva alzato talmente tanto il tono di voce che il professore aveva interrotto la frase a metà trasalendo, al suo fianco anche Catena aveva sobbalzato spaventata. Quando si rese conto di tutti quegli sguardi addosso arrossì leggermente per l’imbarazzo, per la reazione esagerata che aveva messo su, ma non abbassò lo sguardo, non indietreggiò.
<< Oscar, ma cosa … >> Provò ad intervenire il professore.
<< Non posso farlo professore! >> Sbottò immediatamente il ragazzo, stroncando la frase dell’uomo prima che potesse concluderla << Lo so che non è reale, ma io … io non posso farlo nemmeno per scherzo! >> Quelle ultime parole Oscar le pronunciò abbassando leggermente il capo, strizzando gli occhi in una smorfia dolorosa, stringendo i pugni sulle gambe fino a far sbiancare completamente le nocche. 
Catena trasse un respiro profondo e sbatté più volte le palpebre per ricacciare le lacrime.
Oscar non aveva detto altro, non aveva aggiunto parole, ma d’altra parte non ce n’era alcun bisogno. Niente avrebbe potuto fare più rumore di quel silenzio, di quelle cose non dette.
Io non posso farlo nemmeno per scherzo.
Non posso far finta di uccidere Catena.
Non posso far finta di veder morire la donna che amo.
Non posso sentire ancora quel senso di colpa.
Nemmeno per scherzo, nemmeno per scherzo, nemmeno per scherzo!
Quelle cose Oscar non le aveva dette, ma se le avesse gridate, probabilmente avrebbero fatto meno male.
Catena sollevò la mano, le tremavano le dita e non si preoccupò di nasconderlo, non si preoccupò degli sguardi degli altri addosso, né di quelli consapevoli, né di quelli ignari, si limitò ad appoggiare quelle dita instabili sulla spalla scossa dai tremiti di Oscar.
Lui stava vivendo chissà qualche incubo, e lei non poteva tirarlo fuori.
<< Oscar … >>
<< No! >>
Era il guaito di un animale ferito, la supplica di un bambino spaventato.
Catena ripensò al libro di italiano caduto poco tempo prima …
Cos’è che aveva detto Leopardi?
Arcano è tutto, fuor che il nostro dolore.
 
Telemaco caracollò al centocinquantesimo addominale.
Quando si lasciò cadere all’indietro sul tappetino maleodorante, aveva il corpo talmente in fiamme che il cervello smise di concentrarsi su qualunque altra cosa che non fosse il dolore.
Era un metodo piuttosto drastico per staccare la spina, per far si che tutto si spegnesse, ma Telemaco l’aveva trovato efficace, anche se il giorno dopo non poteva nemmeno alzarsi dal letto a causa dei dolori muscolari, anche se camminava come un bradipo e faceva fatica a fare qualsiasi cosa … tutto quello andava bene pur di non pensare.
Respirò profondamente per cinque minuti buoni, ispirando ed espirando con la frequenza di tre secondi, fino a quando i muscoli non si rilassarono lasciando come sensazione un semplice indolenzimento. Mosse lentamente le dita delle mani abbandonate ai fianchi, sollevò distrattamente le dita e si scostò la frangetta sudata dalla fronte.
Quando aprì gli occhi mise a fuoco la palestra, le pareti rivestite di legno, la vetrata che affacciava sulla strada, gli attrezzi, le panche …  fino a scostare leggermente il viso per contemplare la figura emaciata e mingherlina di Igor.
Era ancora immerso nella lettura di un libro gigantesco, nella stessa identica posa di quando l’aveva lasciato, seduto su una delle lunghe panche, con la schiena curva, i capelli scombinati, gli occhi bassi e le caviglie intrecciate in avanti.
<< Centocinquanta >>
Telemaco sobbalzò leggermente quando Igor parlò senza nemmeno sollevare lo sguardo.
<< Cosa? >> Domandò con voce roca mettendosi lentamente a sedere, con la testa che girava leggermente per lo sforzo.
<< Hai fatto settantacinque addominali alti e settantacinque addominali bassi. In totale fanno centocinquanta, no? >>
Spiegò mestamente Igor continuando a tenere lo sguardo puntato sulla pagina del libro, Telemaco sbuffò rumorosamente e si passò il bordo della manica sulla fronte sudata.
<< Ah si? E come fai a saperlo, se hai tenuto tutto il tempo la testa china sul libro? >>
Igor sollevò leggermente le sopracciglia quando sentì quella domanda, sembrava essere sorpreso, e per la prima volta da quando aveva cominciato a parlare mise il segnalibro, chiuse il tomo e si voltò a guardarlo, raddrizzando le spalle.
<< Vuoi dirmi che non te ne sei nemmeno accorto? >>
Telemaco aggrottò le sopracciglia e scrollò le spalle.
<< Essermi accorto di cosa? >>
<< Quando entri sotto sforzo … parli >>
Si limitò a commentare Igor, sciogliendo l’intreccio delle caviglie e ritirando le gambe poco sotto la panca, in modo tale da staccare la schiena dalla parete e sporgersi un po’ più in avanti verso il suo migliore amico.
<< Parlo? Che significa che parlo?! >>
<< Dici cose … >>
Telemaco detestava le risposte vaghe di Igor, non le aveva mai sopportate, il che era tutto dire considerato che il suo migliore amico rispondeva in quel modo il novanta percento delle volte. Si sfilò velocemente la felpa sudata e gliela lanciò contro con foga, centrandolo all’altezza del petto, il braccio protestò per quel tiro violento, ma Telemaco se ne infischiò.
<< Cose …. Bah! Chi ti capisce è proprio bravo >>
Igor non replicò nulla nel sentire quelle parole, così tutti e due si persero nei propri silenzi fatti di ricordi, fatti di quei momenti che non avevano condiviso l’uno con l’altro.
Quei silenzi difficili da spiegare, che se pronunciati …
<< “Ti perdono, ti perdono, ti perdono … ti perdono” >>
 … facevano davvero rumore.
<< Hai detto queste parole … per centocinquanta volte di fila >>
Telemaco sgranò leggermente gli occhi, prendendo a torturasi le dita all’altezza del ginocchio sollevato, dove aveva appoggiato le braccia incrociate, facendole pendere nel vuoto. Igor non lo stava guardando, dopotutto, lo conosceva da abbastanza tempo per sapere quando era il momento di lasciargli i suoi spazi … il loro rapporto era un po’ in tensione da quando gli aveva raccontato quello che era successo con Zoe.
Quando gli aveva detto che avevano cominciato a frequentarsi … Telemaco aveva gridato.
Gli aveva dato dell’incoerente, del bugiardo, del bastando …
E poi gli aveva chiesto perché proprio con la migliore amica della sua ex.
Ed Igor sapeva che il problema stava tutto lì, e Telemaco se l’era lasciato scappare perché non sapeva mai tenere la bocca chiusa … probabilmente il suo miglior pregio.
Non avevano realmente chiarito, un po’ perché erano fatti in quel modo … risolvevano le cose con il silenzio, pur sapendo che il silenzio a volte non bastava, che le cose non dette restavano depositate sul fondo del cuore, in quella parte nera e oscura delimitata, che se si riempiva troppo scoppiava senza preavviso inondando tutto, sporcando tutto.
Erano stati attenti entrambi a non superare mai quella linea … ma quel pomeriggio, Igor ebbe come la sensazione di aver messo un piede sul bordo, sporcandola …
<< Ho davvero detto un’assurdità nel genere? >>
Il commento sarcastico di Telemaco non fu altro che una commedia, era così velato di amarezza e sconcerto che non convinse nemmeno se stesso.
<< Non c’è nessuna assurdità … nel perdonare Fiorenza,Telemaco >>
Igor aveva appena messo un piede fuori dal bordo.
Poteva ancora tornare indietro, dopotutto era sempre stato così, per lui sarebbe stato molto più comodo lasciare le cose come stavano, fare finta di nulla, restare al sicuro …
Non far traboccare nulla …
<< Che cosa stai dicendo Igor? >>
Il tono di voce di Telemaco era alterato, Igor lo vide mettersi in piedi a fatica continuando a fissarlo negli occhi, aveva tutto il viso sudato, la canottiera attaccata sui muscoli scolpiti e le vene delle braccia tese, ancora sotto sforzo.
<< Sto dicendo … che non c’è nulla di male se la perdoni. Né vergogna, né umiliazione. >>
<< Vedo che stasera stai delirando! Sarà per la stanchezza, torniamo a casa >>
Telemaco lo liquidò bruscamente dandogli le spalle, afferrò con malagrazia la felpa che aveva lanciato contro l’amico e la spolverò malamente, con foga.
Igor sospirò pesantemente e fu tentato davvero di tornare indietro, era quella la sua natura.
Ma Telemaco era in suo migliore amico, e per una volta, una sola volta, Igor poteva prendere in prestito il suo miglior pregio e dirgli quello che pensava.
<< Quello stanco sei tu Telemaco! >> Sbottò con voce ferma, facendolo trasalire << Non hai nemmeno le prove del suo tradimento! Ti sei fidato della parola di uno come Cristiano … e quando hai cominciato a vacillare, hai dato la colpa all’umiliazione e alla vergogna. Hai pensato sicuramente:” Diventerò lo zimbello di tutti se la perdono, che figura ci faccio?” >>
Igor non aveva più freni, aveva imparato a lasciarli andare da quando frequentava Zoe, Telemaco lo guardava con gli occhi spalancati e i pugni stretti. << E io ti dico che l’unica cosa che otterrai sarà solo del rimpianto. E te lo assicuro Telemaco, non ti piacerà scoprire di che cosa sa questo sentimento. Ascoltami … >>
Igor si tirò in piedi, dimenticò di aver appoggiato il libro sulle gambe e quello fece per cadere a terra, il moro lo afferrò goffamente un secondo prima che toccasse terra, ma quando rialzò lo sguardo Telemaco stava andando verso la porta con passo deciso.
La linea l’aveva superata …
Se l’era lasciata alle spalle di parecchi metri, ormai.
<< Ascoltami! >> Continuò imperterrito inciampando sui suoi stessi piedi << Sarà troppo tardi dopo Telemaco! Sarà troppo tardi idiota! >>
Telemaco si fermò di botto quando sentì quelle parole, voltò il corpo con una lentezza sorprendente, era intenzionato a tirare un pugno per farlo stare zitto, ma quando lo vide con il viso paonazzo, l’affanno, e in quella posizione ridicola, nel tentativo di non far cadere il libro, non riuscì a trattenersi e scoppiò a ridere senza ritegno.
Igor lo osservò ridere con gusto, fino a portarsi le mani sullo stomaco dolorante.
Si ricompose leggermente riassumendo una posa naturale, e guardando la copertina stropicciata della sua vecchia copia dei Fratelli Karamazov provò una tristezza infinita.
<< Sarà troppo tardi … >> Mormorò rivolto all’omaccione dipinto sulla pagina.
Telemaco rise fin quando il dolore non divenne troppo acuto, poi scosse la testa a destra e sinistra, facendo schizzare qualche goccia di sudore ancora incastrata tra i capelli.
<< Non sei la persona giusta per dirmi una cosa del genere … dove l’hai nascosto il mio migliore amico? >>
Mormorò senza guardalo negli occhi, Igor sospirò pesantemente.
<< Guarda che lo so. So di non essere la persona giusta … che sono un disastro, ma questo non posso permettermelo nemmeno io! >>
<< Permetterti cosa?! >> Sbottò Telemaco incrociando le braccia al petto, Igor sospirò pesantemente, aprì lentamente la cartella che portava a tracolla e infilò il libro dentro.
<< Permettermi di fare un passo indietro, di fregarmene come sempre! >>
Telemaco sospirò pesantemente, afferrò velocemente il suo borsone e buttò la felpa sporca all’interno con malagrazia, senza dire nulla si affiancarono l’uno all’altro e uscirono per strada, investiti dal vento gelido di Febbraio.
<< Ma tu guarda un po’ che situazione … >> Borbottò Telemaco spintonandolo leggermente sulla spalla << Farmi sgridare da uno come te! >> Igor inciampò nei suoi passi e andò a sbattere con il fianco su un lampione, ma Telemaco sembrò non accorgersene.
<< Ehi … sarà davvero troppo tardi >> Replicò Igor con voce strozzata, massaggiandosi il fianco dolorante, Telemaco gli lanciò un’occhiataccia e infilò le mani nelle tasche della tuta.
<< Lo so … idiota >>
Non aggiunsero altro, non ci furono altre parole.
Quella linea ormai era superata, ma Igor non pensò fosse stato un male.
 
<< Devi andare da qualche parte? >>
Cristiano sobbalzò leggermente quando Zosimo gli si accostò approcciando con quella domanda, stava camminando lentamente verso la fermata dell’autobus facendo attenzione a non scivolare sui cumuli di neve, fu preso talmente alla sprovvista che ci mancò poco tutta quella prudenza non fosse servita a nulla.
Zosimo lo afferrò prima che andasse a schiantarsi sul marciapiede, lo bloccò per le maniche del giubbotto e gli impedì un capitombolo di prima categoria.
<< Ehi, lo so che la lezione di filosofia è pesante, ma cerca di non addormentarti per strada Cris! >>
Lo canzonò con tono allegro il folletto, Cristiano sospirò profondamente, si scrollò le mani del compagno di classe di dosso, aggiustò malamente le maniche stropicciate del cappotto e gli lanciò un’occhiata stanca più che minacciosa.
Era tornato a scuola già da un paio di settimane, era tornato perché aveva scoperto che era meglio così, che se si concentrava sulle lezioni come non aveva mai fatto, se prendeva appunti, se provava a fare qualsiasi cosa che lo tenesse occupato, sua madre non veniva a tormentarlo.
Era più semplice tenere a bada i ricordi.
<< “Cris”? >> Si limitò a replicare infilando le mani nelle tasche dei jeans e riprendendo a camminare, non aveva davvero voglia di tornare a casa … non aveva mai voglia di farlo in realtà, ma si sentiva a disagio anche in quel modo, con Zosimo che gli ronzava attorno con quell’aria allegra come se fossero amici per la pelle.
<< Preferisci che ti chiami con le ultime tre lettere del tuo nome? >>
Cristiano contrasse leggermente le sopracciglia quando sentì quella domanda.
<< Le ultime tre lettere del mio nom … oh! >> Avvampò di vergogna quando si rese conto del sottile doppio senso nelle parole del compagno di banco << Non provarci nemmeno! >>
Lo minacciò spintonandolo leggermente sulla spalla, Zosimo sollevò le mani in segno di resa e scoppiò a ridere a voce alta, cristallina e pulita, una risata che Cristiano non ricordava di avere mai avuto … o almeno, la sua memoria non aveva conservato nulla di simile.
O semplicemente l’aveva rimosso.
<< Va bene, va bene, però almeno hai sorriso, no? >>
Cristiano spalancò leggermente gli occhi quando sentì quelle parole.
Aveva sorriso? Aveva mai sorriso in tutta la sua vita?
Si, a ripensarci bene l’aveva fatto, aveva sorriso tante volte guardando il volto di sua madre quando era bambino, e poi l’aveva fatto ancora osservando gli occhi verdi di Sonia …
Aveva sorriso tanto, tanto da ridere, tanto da piangere.
Ridere piangendo.
Uno tra gli ossimori più belli che esistessero.
<< Non devo andare da nessuna parte … hai in mente qualcosa? >>
Domandò rivolgendo un’occhiata veloce a Zosimo, che camminava al suo fianco con le mani strette attorno alla tracolla della cartella, i capelli ricci luccicanti a causa dei fiocchi di neve che vi erano rimasti incastrati e faticavano a sciogliersi, il naso all’insù arrossato e quel sorriso da folletto sempre presente.
<< Volevo portarti in un posto … vieni con me? >>
Zosimo gli pose la domanda allargando il sorriso fino a chiudere gli occhi.
Cristiano non si fidava affatto di quella faccia da monello.
<< Dove volevi portarmi? >> Domandò cauto, rallentando leggermente il passo.
Zosimo rimpicciolì il sorriso, fece un saltello sui piedi evitando un cumulo di neve e piegò leggermente la testa di lato, scrutandolo meglio negli occhi.
<< A conoscere mia madre! Dove altrimenti?! >>
Cristiano smise definitivamente di camminare, avevano raggiunto la fermata dell’autobus, ma non era stato quello a frenare il suo passo, né la neve o altro.
Era stato il sorriso di Zosimo, erano state le sue parole.
<< Ma … tua madre non è morta? >>
<< Eh? >> Domandò Zosimo continuando a sorridere << Si … >>
Cristiano abbassò leggermente la testa, strinse forte i pugni e mise su un sorriso cattivo, uno di quelli che gli uscivano meglio, dondolò sui talloni e scrutò Zosimo negli occhi.
<< Non voglio nessuna carità da te. Nessun “ ehi, abbiamo qualcosa in comune, diventiamo amici per la pelle!”. No, tu non hai nulla da insegnarmi, io non ho nulla da imparare. Non me ne faccio nulla dei vostri sguardi compassionevoli, ok? >>
Cristiano aveva creduto di essere stato chiaro, di aver infilato il coltello nella piaga con precisione, con maestria, come era sempre stato abituato a fare, quindi non seppe proprio cosa replicare quando Zosimo scoppiò a ridere talmente tanto da piegarsi su se stesso.
<< Certo che sei proprio un idiota, sai? >> Sbottò continuando a sghignazzare.
Cristiano si infuriò quando sentì quelle parole, fu attraversato per la prima volta da un sentimento vero, un bruciore ardente alla bocca dello stomaco.
<< Idiota? Chi è l’idiota qui?! Io o uno che sorride quando parla di sua madre sapendo che è morta, eh? >> Aveva il fiatone quando smise di gridare, e comprese solo in seguito le sue stesse parole, quando riprese IL controllo e smise di tremare << Ah! >>.
Zosimo piegò la testa dall’altro lato e continuò a mantenere quel sorriso sulle labbra.
Quel sorriso che aveva fatto infuriare Cristiano.
<< Sai, abbiamo ricordi diversi io e te … i miei sono splendenti, i tuoi un po’ meno, ma se c’è una cosa che ho imparato dalla vita Cristiano … è che non c’è modo migliore che sorridere quando pensiamo a qualcuno che non c’è più. Perché è l’unico modo che abbiamo per ringraziarle, anche se i ricordi sono bui o non ne abbiamo affatto, sorridere significa che stai dicendo:” ecco, hai visto? Di te ho solo cose belle, sorrido”. Tutto qui >>
Il discorso di Zosimo venne bruscamente interrotto dall’avvicinarsi di un vecchio pullman, imbrattato di scritte e vecchi cartelloni strappati male e sostituiti da altri comunque vecchi di anni, Cristiano sentiva il cervello completamente vuoto.
<< Oh, questo è il nostro pullman, se vuoi venire sali con me >> Commentò distrattamente Zosimo sorridendo allegramente e agitando una mano per attirare l’attenzione del conducente annoiato, l’uomo scosse la testa e alzò gli occhi al cielo << Compi un atto di fede, Cristiano, e sali su quel pullman >>.
Il mezzo di trasporto di fermò stridendo proprio davanti a loro e aprì le porte cigolanti, Zosimo salì senza esitazione, poi si girò e lanciò un’occhiata a Cristiano, che ricambiò il suo sguardo, fece un passetto in avanti e saltò all’interno.
Fece il suo atto di fede.



___________________________
Effe_95

Salve :)
Questa volta sono stata più veloce. Spero vi faccia piacere :)
Allora, per prima cosa devo spiegarvi la questione delle "ombre".
Come avrete notato, Alessandro entra in teatro e chiama i ragazzi proprio "ombre", questo perchè un tempo, nel periodo di Shakespeare per la precisione, gli attori venivano chiamati anche "shadows", per la loro capacità di proiettarsi in tante anime e personalità differenti.
Mi piaceva molto l'idea che anche Alessandro vedesse questa qualità nei nostri ragazzi.
Detto questo, spero con tutto il cuore che il capitolo vi sia piaciuto.
Nel prossimo continueremo a vedere cosa è successo a Zosimo e Cristiano.
Grazie mille come sempre a tutti voi per il supporto, in particolare alle fantastiche ragazze che trovano sempre un po' di tempo per recensiere e a cui dedico questo capitolo, e poi a tutti gli altri lettori silenziosi.
Alla prossima :)

 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 40
*** Lo rispetterò, Benedizione e Cicatrice. ***


I ragazzi della 5 A
 

40. Lo rispetterò, Benedizione e Cicatrice.

 

Febbraio

Era strano per Cristiano quel tepore che gli accarezzava la nuca passando attraverso il vetro del finestrino sporco. Il paesaggio non offriva altro che strade macchiate di bianco, persone avvolte da giubbotti pesanti, sciarpe colorate, eppure quel singolo raggio di sole, così impudente e testardo, debole attraverso i fiocchi di neve silenziosi, era arrivato fino a lui.
E gli scaldava i capelli, senza arrivare al cuore.
C’è troppo veleno perché possa scaldarsi, vero?
Cristiano sorrise amaramente di quel pensiero e distolse lo sguardo dalla strada che lenta sfrecciava alla sua destra, c’era un odore fastidioso nell’abitacolo di quel vecchio pullman, i sedili avevano la vernice scorticata ed erano imbrattati di scritte strane, alcune illeggibili.
Non voleva cercare di capire perché alla fine fosse salito, perché avesse compiuto quell’atto di fede non lo sapeva, probabilmente non l’avrebbe capito mai.
<< La nostra fermata è la prossima >> Annunciò Zosimo sorridente, era seduto accanto a lui su un altro sedile scorticato e sembrava rilassato, tranquillo. Cristiano non replicò nulla, gli tremavano leggermente le mani perché aveva riconosciuto la strada benissimo, anche se ci era passato solo una volta << C’è anche tua madre qui, vero? >>.
La domanda di Zosimo non lo colse di sorpresa, perché dopotutto Cristiano aveva sempre sospettato che il folletto lo sapesse benissimo, l’aveva saputo fin dall’inizio …
Si ritrovò a sorridere amaramente, non era più andato a trovarla dal giorno del funerale, da quando l’avevano seppellita sotto tutto quello strato di terra e lui aveva provato il desiderio bruciante di gettarsi e scavare fino a spezzarsi le ossa delle braccia.
Fammi venire con te, fammi un po’ di spazio mamma! Non lasciarmi indietro.
<< Già … sai Zosimo, mi fa proprio male … >>
Zosimo contrasse leggermente le sopracciglia quando sentì quelle parole, lanciò un’occhiata al viso stanco di Cristiano e lo trovò con lo sguardo incastonato sulle mura che delimitavano il cimitero della città.
Cos’è che faceva male?
Il cuore, la testa, le braccia, i sentimenti, gli occhi, il sangue …
Il vecchio pullman fermò proprio davanti ai cancelli spalancati, Cristiano e Zosimo furono i soli a scendere sulla strada innevata, dalle alte mura che delimitavano il perimetro si scorgevano gli abeti sempreverdi spruzzati di bianco, e un piccolo chiosco di fiori se ne stava all’angolo come una tavolozza di colori gettati malamente alla rinfusa su una tela bianca.
Lo sguardo di Cristiano era inevitabilmente attratto da quella matassa di colori.
Infilò le mani nelle tasche del jeans e si avviò senza pensarsi troppo su, spinto dallo stesso desiderio sconosciuto che gli aveva fatto fare quel gesto avventato di seguire Zosimo.
<< Ehi Cris, che fai? >> Lo richiamò il compagno di banco, ma Cristiano non si fermò.
Avanzò con passo spedito fino al piccolo chiosco variopinto, guardò impassibile l’uomo anziano che se ne stava seduto tutto imbacuccato su una sedia, sorridendogli con gli occhi, e tirò fuori il portafoglio che portava sempre nella tasca del giubbotto.
 << Un mazzo di margherite >>
L’uomo si tirò in piedi con una certa fatica, aveva grandi mani callose e scure, come quelle di una persona che aveva lavorato per tutta la vita spaccandosi la schiena.
<< Sono finte ragazzo >> Replicò con voce burbera a dispetto degli occhi, mentre si affrettava con agilità a confezionare una sorta di busta con i fogli di vecchi giornali.
<< Non importa … >>
Tanto nessuno verrà a cambiare questi fiori.
Quando raggiunse Zosimo dopo aver pagato, l’amico se ne stava appoggiato con la schiena su uno dei muri interni e osservava con fare distratto il mare di silenzio e candele che si estendeva davanti ai loro occhi, non disse nulla quando Cristiano gli si presentò davanti con quel mazzo un po’ rude, con quei fiori che non avevano nessun odore se non quello della plastica da quattro soldi con cui erano stati fabbricati.
Zosimo lo condusse attraverso un dedalo di stradine, i loro passi rimbombavano terribilmente sull’asfalto macchiato di neve appena caduta, il suono si amplificava battendo sulle pareti e la luce tenue delle candele proiettava ombre allungate su quei nomi sconosciuti a cui Cristiano non stava dando minimamente attenzione.
Faceva terribilmente freddo quando si fermarono.
La tomba di Emilia Marino era in marmo grigio tempestato di nero, era curata, un mazzo di fiori freschi riempiva un vaso di bronzo consumato, e il ramo troppo pesante di un salice piangente pendeva come il braccio stanco di un angelo custode sulla foto della donna, oscurandone l’immagine.
Cristiano non si avvicinò troppo, rimase con il suo mazzo di fiori finti stretto tra le mani a qualche centimetro di distanza, mentre Zosimo si chinava sulla tomba e la ripuliva dalla neve in eccesso bagnandosi le mani già intirizzite.
Il folletto si inginocchiò accanto alla foto della madre e spostò con delicatezza il ramo, aveva un sorriso sereno sulle labbra, un sorriso che non lo aveva mai abbandonato.
<< Ciao mamma, fa freddo oggi, vero? >> Cristiano sobbalzò quando lo sentì parlare, provava uno strano disagio nell’osservare l’amico allungare le dita per accarezzare il volto oltre il vetro, quella carezza era talmente carica d’affetto da fargli stringere lo stomaco, da dargli come la sensazione di essere completamente inadeguato << Lui è Cristiano >> Continuò Zosimo, indirizzando a lui il suo sorriso, Cristiano non si mosse di un passo << E’ un po’ burbero, scontroso, ma alla fine credo sia un bravo ragazzo >>.
<< “Bravo ragazzo” non me l’aveva mai detto nessuno >>.
Brontolò Cristiano facendo qualche passo avanti, fino a quando inconsapevolmente non si mise inginocchiato come Zosimo, con le margherite schiacciate sulle cosce, la neve a bagnargli il jeans e il selciato a graffiargli i polpastrelli su cui si reggeva.
<< Ti assomiglia >>
Commentò, osservando con occhi stanchi l’immagine sorridente di Emilia, lo stesso sorriso del figlio, i folti capelli ricci sul viso e gli occhi vispi e accesi, carichi di vita.
<< Vero eh? Hai sentito mamma? >> Le labbra di Cristiano si sollevarono agli angoli quando Zosimo fece l’occhiolino al ritratto della madre, era un gesto così spontaneo che ebbe quasi la sensazione che Emilia stesse replicando << La prossima volta ti porto i fiori nuovi d’accordo? Facciamo le primule? Aggiudicato, allora! >>
Zosimo si sollevò da terra e lasciò ricadere il ramo che aveva trattenuto fino a quel momento, Cristiano lo imitò, spolverando con una sola mano le ginocchia sporche.
<< Quante volte vieni qui? >> Porgendogli quella domanda, evitò in tutti i modi di guardare il folletto negli occhi, i jeans ormai li aveva puliti del tutto, ma continuava a passarvi le mani sopra pur di avere una scusa per non ascoltare una riposta che in realtà già conosceva.
<< Tre volte a settimana >> Zosimo rispose immediatamente, con naturalezza, aveva infilato le mani nelle tasche del giubbotto e lo fissava come se si aspettasse qualcosa.
Cristiano smise di torturare le ginocchia, raddrizzò la schiena, e traendo un respiro profondo cercò quella forza necessaria che non aveva per ricambiare quello sguardo carico di vita.
<< Dov’è tua mamma Cris? Andiamo a trovarla, si sentirà sola >>
Cristiano aspettava la domanda, ma sentirla fu come essere investito da un pullman, fu come un pugno troppo forte nello stomaco.
Dov’è tua madre?
Dove sei mamma? Dove sei? E io? Io dove sono?
Mi hai fatto un po’ di posto? Se io … se io scavassi fino a farmi sanguinare le mani, con la terra incastrata tra le unghie e le ossa indolenzite … troverei qualcosa?
Troverei … te?
Cristiano strinse più forte il mazzo di fiori finto tra le mani, la carta del giornale che li avvolgeva era quasi completamente stropicciata, alcuni petali di plastica si erano piegati in maniera innaturale sotto la pressione eccessiva delle dita, alcuni petali erano caduti a terra.
Non rispose alla domanda di Zosimo, si limitò a camminare ripercorrendo una strada che aveva fatto una sola volta, ma che ricordava alla perfezione.
Un po’ come se fosse stata la strada della sua vita.
La tomba di Margherita Serra era di un marmo bianco ed anonimo, era sporca di neve e fango, incrostata, il vaso dei fiori era completamente vuoto, probabilmente non era stato mai riempito nemmeno una volta.
Cristiano non trovò nessun salice piangente, nessun angelo custode, solamente una candela mezza sciolta che qualcuno doveva aver posato per pietà.
La foto che ricambiava il suo sguardo era la stessa del funerale.
Si ritrovò bloccato, a pochi centimetri da quello scempio, e non osò fare quel passo avanti che Zosimo compì senza alcuna difficoltà, accostandosi alla foto per pulirla dallo sporco che aveva macchiato il vetro.
<< Non farlo Cristiano … >>
<< Cosa? >> Cristiano sobbalzò quando sentì le parole di Zosimo, che lo stava fissando con una tale intensità ed una serietà che non gli aveva mai visto.
Zosimo non stava sorridendo più.
<< Non desiderare di essere anche tu lì dentro, sotto quella terra che ti opprime il respiro non c’è niente per te. Non troverai nessuno. E nessuno ti tirerà fuori >>
Cristiano avrebbe voluto rispondere in malo modo, mettersi a ridere e mandarlo a quel paese, dirgli qualcosa di cattivo e nascondere magistralmente tutti i suoi sentimenti, proprio come aveva imparato a fare benissimo nel corso di quegli anni.
Ma con Zosimo non ci riusciva, aveva capito che con lui non serviva a nulla fingere.
L’avrebbe smascherato nel giro di pochi secondi con uno di quei suoi sorrisi disarmanti.
<< Sto già soffocando ormai … >> Mormorò, e la consapevolezza gli fece riempire gli occhi di quelle lacrime che mai nessuno, a parte Sonia, aveva visto scorrere sul suo viso.
<< Perché sei tu ad esserti arreso. Cosa credi … che tua madre voglia questo per te? Che voglia vederti sotterrato lì con lei? Può averti lasciato solo, può non essere stata la persona migliore del mondo … ma anche lei a modo suo ti ha amato. Ti ha dato alla luce perché tu vivessi, come non è importante, ma sono sicuro che lei vorrebbe soltanto questo … che tu vivessi >> Cristiano chiuse gli occhi, passò la mano libera sul viso bagnato dalle lacrime, sospirò pesantemente, li riaprì, e con passo stanco si accostò alla tomba della madre.
Si inginocchiò esattamente come aveva fatto Zosimo pochi istanti prima, sollevò le maniche del giubbotto dopo aver posato i fiori finti a terra, e con le stesse mani con cui avrebbe voluto sollevare quella terra fredda e sterile, ripulì il marmo di tutta la neve e di tutto il fango. Svuotò il vaso gettando via le foglie morte che il vento aveva trasportato e che ne erano rimaste intrappolate all’interno, vi sistemò dentro i fiori finti e lo ripose.
Aveva le mani sporche, i jeans macchiati e la faccia striata di terra ma non gli importava.
<< Mi dispiace mamma, non so pregare … >> Mormorò accarezzando il volto sorridente di Margherita Serra, un sorriso triste e rassegnato << Ma ti prometto che farò il bravo … e il debito che ho con te per avermi dato la vita, lo rispetterò >>
Cristiano non trovò altre parole quel giorno, ma ebbe come la sensazione, quando si rialzò ed incrociò il volto sorridente di Zosimo a qualche metro di distanza, di aver fatto un passo avanti.
 
Gabriele aveva un raffreddore con i controfiocchi.
Il naso era talmente chiuso che gli risultava piuttosto difficile respirare anche con la bocca, le labbra screpolate non facevano altro che spaccarsi a sangue e aveva soffiato talmente tanto nei fazzolettini che la pelle del viso era completamente screpolata.
Aveva gli occhi arrossati ed un cerchio alla testa.
Era piuttosto sicuro che tutte queste cose fossero sufficienti per evitare di andare a quella maledetta festa di compleanno, credeva che rischiare di beccarsi la febbre fosse sufficiente per convincere sua madre a lasciarlo a casa sotto le coperte a dannarsi.
Ma quello era il giorno del quindicesimo compleanno di Katerina e Jurij, e ovviamente doveva scontare fino in fondo la sua punizione.
Doveva presentarsi alla festa con il mal di testa, il naso chiuso e quella voce terribilmente roca, doveva fingere che andasse tutto bene, sorridere a tutti e far finta di non vedere.
Non si era mai sentito scoraggiato come in quel momento, mentre se ne stava seduto sul sedile posteriore della macchina di famiglia, con il giubbotto stretto al petto a causa dei forti tremori che gli percorrevano tutto il corpo, cercando di controllare la stizza ogni volta che sentiva i suoi genitori ridacchiare o alzare troppo la voce.
<< Mi sono innamorato di te, perché non avevo niente da fare … >>
Gabriele sobbalzò leggermente quando Alessandra prese a canticchiare, era seduta accanto a lui, ma non riusciva a guardarla in viso perché l’aveva rivolto verso il finestrino, picchiettava distrattamente con le dita sulla coscia per seguire il ritmo e scuoteva la testa a destra e sinistra. Gabriele produsse un grugnito degno dell’uomo di Neanderthal e con la punta del piede la colpì più volte sulla caviglia per incitarla a tacere, Alessandra si voltò a guardarlo con un’espressione contrariata sulla faccia e le sopracciglia aggottate.
<< Cosa c’è? >> Domandò rivolgendogli un’occhiataccia.
<< Spegni quella radio, mi fa male la testa! >>
Gabriele rispose con totale mancanza di flemma, limitandosi a spostare lo sguardo oltre il finestrino, senza prestare troppa attenzione alla strada, e a stringersi maggiormente nel cappotto pesante, anche se non gli dava nessun sollievo dal freddo pungente.
<< Stasera sei più intrattabile del solito >>
Lo stuzzicò Nicola, che nel frattempo aveva smesso di parlare con Lara per prestare attenzione alla diatriba appena nata tra i due figli.
Gabriele sbuffò pesantemente e non si prese nemmeno la briga di replicare, aveva diciannove anni, era prossimo ai venti, e ancora doveva sottostare alle decisioni dei suoi genitori. Quando l’aveva fatto presente, Nicola aveva replicato che finché si fosse trovato sotto il suo tetto, a ripetere l’ultimo anno di liceo per la seconda volta all’età di quasi vent’anni, quei diritti diventavano nulli per principio …
Gabriele non aveva potuto replicare nulla, il che lo aveva messo ancora più di cattivo umore.
<< Più del solito? Perché, non è sempre così? >>
Il commentò inacidito di Alessandra non lo smosse di un millimetro, in altre circostanze si sarebbe infuriato, avrebbero finito con il prendersi a parole per poi azzuffarsi, ma i dolori per il corpo, il naso chiuso e il cerchio alla testa erano troppo fastidiosi.
<< Vi costava tanto lasciarmi a casa? Zia Iliana e zio Francesco non avrebbero detto nulla! >>
Sbottò tirandosi a sedere, aveva assoluto bisogno di soffiare il naso, infilò le mani nelle tasche del giubbotto ed estrasse un pacchetto di fazzolettini ancora immacolato.
<< Ma Katerina e Jurij ci sarebbero rimasti male, per non parlare di Aleksej! >>
Lo incalzò sua madre, girandosi a guardarlo con un bel sorriso stampato sulle labbra, sorriso che Gabriele ricambiò con un’occhiataccia e una soffiata di naso.
<< Cosa c’entra Aleksej?! Non è mica la sua festa! >> Brontolò irritato, mentre appallottolava il fazzoletto sporco e lo riponeva in una delle tasche già stracolme del suo giubbino.
<< Ma non avevate fatto pace voi due? >> Si intromise Alessandra sporgendosi verso di lui per guardarlo in faccia, Gabriele sollevò gli occhi al cielo e deciderò con tutto se stesso di arrivare il prima possibile solo per liberarsi di quell’inquisizione suprema.
<< Sai una cosa Alessandra? Torna pure ad accendere la radio, almeno così ti fai i fatti tuoi no? >>
Al commento acido del fratello, Alessandra spalancò la bocca per replicare prontamente, ma venne bruscamente anticipata da Lara, che si girò completamente sganciando la cintura di sicurezza e si sporse dietro per osservare meglio il figlio maggiore.
<< Ma avete fatto pace, no? >> Insistette tornando cocciutamente sull’argomento.
Gabriele si accoccolò maggiormente nel suo giubbotto e grugnì qualche parolaccia tra i denti, senza importarsi minimamente dell’eventualità che potessero sentirlo.
<< Si e no >> Mugugnò, e vide immediatamente sia Alessandra che sua madre aprire la bocca contemporaneamente per fargli una partaccia, a salvarlo fu suo padre.
Un evento più unico che raro, ma provvidenziale e manifestatosi al momento giusto.
<< Siamo arrivati! >>
Quando zia Iliana aprì la porta, la casa era già invasa da tantissimi invitati, e Gabriele si rese conto che a causa dei suoi capricci e della discussione che aveva avuto con i suoi prima di scendere, avevano fatto ritardo di parecchi minuti ed erano gli unici a mancare all’appello.
La casa era calda e confortevole, piena di parenti e piena di ragazzini che lui non conosceva.
Avrebbe tanto voluto evitare i momenti dei saluti e degli auguri, ma si rendeva perfettamente conto che non era possibile, sarebbe stato strano e quanto meno maleducato.
<< Che faccia assurda che hai! >>
Il commento poco lusinghiero di suo cugino Andrea lo fece girare con l’espressione più arcigna che possedesse, aveva il mal di testa ancora più martellante e il naso sempre più chiuso, si rendeva perfettamente conto di non star dando il meglio di se.
<< Parla per te! Che hai fatto alla testa? >>
Replicò immediatamente picchiettando con un dito la fronte del cugino, proprio lì dove aveva una grosso cerotto macchiato di sangue secco.
<< Si è schiantato nella porta della sua stanza >>
Intervenne Aleksej appoggiandogli con malagrazia un braccio attorno alle spalle, Gabriele non lo aveva visto quando era entrato in casa, il biondo sembrava tranquillo, rilassato, fastidioso come al solito e tremendamente irritante.
Tutto nella norma.
<< Un buco di quattro centimetri nella porta e tre punti di sutura >> Gabriele sobbalzò leggermente quando la voce sottile di Pavel, il fratello tredicenne di Aleksej, lo raggiunse alle spalle, scostò leggermente la testa e incrociò la figura composta del cugino, appoggiato con le spalle alla parete. << Ciao! >> Lo salutò sollevando una mano, Gabriele si liberò con malagrazia del braccio di Aleksej e schiacciò il cinque con Pavel.
<< Hai il naso più rosso che abbia visto, amico! >>
Gabriele era stanco di sentirselo dire, da quando si era svegliato quella mattina era la ventiquattresima volta che glielo facevano notare, le aveva contate tutte.
Fece il dito medio in direzione di suo cugino Ivan, il secondogenito Ivanov con i capelli più rossi che avesse mai visto, e accompagnò il gesto con un sorriso da prendere a schiaffi.
<< Ma guarda che opera d’arte ho appena visto! >> La voce allegra di Francesco Scotti, il padre dei due festeggiati, lo colse talmente alla sprovvista che nascose le mani dietro la schiena proprio come un bambino che era appena stato colto con le mani nella marmellata.
Gabriele imprecò mentalmente, aveva sempre provato una certa soggezione per quell’uomo, e non solo perché aveva avuto una relazione segreta con la figlia fino a poco tempo prima, Francesco aveva una presenza molto forte, era alto, magro, e osservava tutto con un paio di occhi talmente freddi che sembravano volessero congelare anche gli organi interni.
<< Ai nostri tempi mi sembra di avertene fatte vedere un paio anche io! >>
Gabriele adorò suo zio Yulian in quel momento, quando si avvicinò con la sua faccia birichina e appoggiò un braccio sulle spalle di Francesco.
Era ridicolo come quei due continuassero a battibeccare come se avessero ancora diciassette e diciotto anni a testa, il loro rapporto non era cominciato proprio bene, erano diventati amici solamente con il tempo, quando si erano resi conto di avere troppo in comune.
Lasciò i due adulti a confabulare tra di loro e si orientò nel grande salotto, non conosceva i compagni di classe di Katerina e Jurij, e aveva come l’impressione che quella sarebbe stata una delle serate peggiori della sua vita, ma non aveva scelta.
Doveva fare gli auguri ai due gemelli anche se gli fosse costato la vita.
Non fu difficile trovarli, erano talmente biondi ed alti che avrebbe potuto riconoscerli anche a decine di metri di distanza, sospirò pesantemente, infilò le mani nelle tasche del pantalone assicurandosi che il braccialetto non si vedesse, e avanzò con passo strascicato.
Si trovavano vicino all’enorme vetrata che dava sul terrazzo e stavano parlando con un ragazzo che Gabriele aveva già visto a scuola, in compagnia di Katerina nella stanzetta delle macchinette.
Era il suo nuovo ragazzo.
Tipico.
Gabriele non aveva alcun dubbio sul fatto che per tutta la serata sarebbe stato capace di beccarla solamente in situazioni imbarazzanti come quella.
<< Ehi gocce d’acqua, tanti auguri! >>
 Salutarli con quell’appellativo che detestavano da morire non era certamente il modo migliore per cominciare una conversazione che probabilmente sarebbe stata già spiacevole, e infatti i due gemelli non aspettarono nemmeno un secondo per girarsi con uno sguardo omicida, solo che quando si accorsero che era stato lui a parlare ebbero due reazioni differenti. Jurij mise su un sorriso a trentadue denti e corse ad abbracciarlo, Katerina arrossì.
<< Ehi Gab, che hai fatto alla faccia? >>
Gabriele mise su un sorriso tirato, tentando di trovare un contegno che non aveva più.
<< Ha il raffreddore, non lo vedi? >>
Sobbalzò sorpreso quando sentì le parole di Katerina, spostò lo sguardo su di lei e desiderò di non averlo mai fatto.
Quella sera era bellissima.
Gli occhi truccati risaltavano come un pugno nello stomaco, i capelli corti le mettevano in mostra il viso spigoloso ed il rossetto rosso esaltava la forma a fragola delle sue labbra carnose. Indossava un paio di jeans strettissimi, degli anfibi neri con le borchie e una camicetta bianca attraverso cui si intravedeva la fascia bianca del reggiseno.
<< Davvero? E sei venuto lo stesso da noi?! >>
La voce squillante di Jurij lo distrasse dai suoi pensieri lascivi, aggrottò le sopracciglia, mise su un broncio degno del bambino più capriccioso del mondo e annuì distrattamente, con un certo imbarazzo, il cugino acquisito ridacchiò divertito e gli pizzicò il braccio.
Fu solo quando sollevò nuovamente gli occhi scostando con malagrazia la mano di Jurij che si accorse dello sguardo indagatore del fidanzato di Katerina, lo scrutava con freddezza attraverso gli occhi castani e Gabriele si rese conto che probabilmente doveva aver notato il modo insistente con cui aveva osservato Katerina.
Tuttavia non abbassò lo sguardo, non con un bambino di sedici anni.
<< Ah già, non vi conoscete voi due … >> Intervenne ancora una volta Jurij, resosi conto della situazione << Carlo Gabriele, Gabriele Carlo. E’ il fidanzato di Katerina >>.
<< Piacere >> Gabriele non ci pensò un solo istante a sollevare la mano per stringergliela, Carlo non parlò, non disse nulla, si limitò a ricambiare la stretta con forza.
Aveva solo sedici anni, ma doveva aver capito tutto.
Bastava guardare il modo con cui Katerina non riusciva a sollevare lo sguardo su quella scena, che probabilmente non avrebbe voluto vedere nemmeno nei suoi incubi peggiori, per trarre tutte le conclusioni necessarie e completare il puzzle.
Il ragazzo di cui era innamorata, salutava il ragazzo con cui stava per dimenticarlo.
C’era qualcosa di terribile e comico in tutta quella situazione, e Gabriele doveva finirla.
Doveva dare il colpo di grazia, perché solo lui avrebbe potuto farlo.
Si girò verso Katerina mettendo su un sorriso finto e cattivo allo stesso tempo, la bionda sollevò lo sguardo con le sopracciglia aggrottate e sobbalzò leggermente quando Gabriele le mise una mano sulla testa, accarezzandole i corti capelli biondi.
<< Brava! Hai trovato proprio un bel ragazzo, chi l’avrebbe mai detto? Mi raccomando, non farlo fuggire a gambe levate, va bene? >>
Ti do la mia benedizione, e così ti tarpo le ali per sempre.
Ti tolgo ogni speranza che hai con me. Ogni illusione.
Gabriele sentì il corpo di Katerina irrigidirsi sotto il suo tocco, spostò velocemente la mano e la rinfilò in tasca, non si fermò a guardarla ancora, riportò la sua attenzione su Carlo e fece un sorriso finto e forzato anche a lui.
<< Qualche volta dovresti unirti a me e Jurij nelle nostre maratone alla play station >>
Commentò con tono allegro, non credeva di poter essere un così bravo attore, Jurij non si era accorto di nulla e Carlo aveva spalancato gli occhi leggermente sorpreso.
<< Certo, sarebbe fantastico! >> Era saltato su il cugino acquisito saltellando come un grillo.
<< Adesso vi lascio agli altri invitati >>
Gabriele non si prese la briga di verificare se l’avessero realmente ascoltato, se gli avessero dato il permesso di allontanarsi, fece di tutto per non guardare Katerina negli occhi perché sapeva che non avrebbe potuto farle più male di così, perché sapeva che era troppo tardi.
Da quello non poteva tornare indietro mai più.
Le aveva dato la sua benedizione per stare con un altro e aveva rinunciato del tutto a lei.
L’aveva lasciata andare e le aveva fatto credere che a lui non importasse nulla.
Aveva architettato un piano davvero perfetto, ce l’aveva messa tutta a farsi del male.
Era stato talmente bravo che gli veniva quasi da piangere.
 
Quando quella sera Fiorenza corse ad aprire la porta di casa rischiando di scivolare con i calzini sul parquet appena lucidato, si sarebbe aspettata chiunque tranne lui.
Nella frazione di secondo che ci aveva impiegato a correre dalla sua stanza all’ingresso, rischiando di schiantarsi lunga dritta a terra, aveva immaginato potessero essere i suoi genitori appena scesi che avevano dimenticato qualcosa prima di raggiungere il teatro, aveva pensato potesse essere Zoe che si presentava sempre agli orari più improbabili.
Telemaco non era tra le sue opzioni e probabilmente non lo sarebbe stato mai.
Eppure era proprio lui, lì fermo sullo stipite della porta con una felpa pesante addosso, il cappuccio calato sui capelli biondi leggermente oscurati dall’assenza di luce sul pianerottolo, e le mani nascoste dietro la schiena, sintomo di un imbarazzo che non aveva mai saputo dissimulare. Fiorenza ebbe quasi come la sensazione di essere tornata indietro nel tempo a quando stavano insieme e lui la andava a prendere fin sotto la porta per uscire.
Credeva che da quella vigilia di Natale fosse tutto finito, che non ci fosse più nulla da dire.
<< Posso entrare? Oppure non è il caso? >>
La voce di Telemaco la fece sobbalzare, doveva essere rimasta come una scema a fissarlo con la bocca spalancata, bloccata sulla soglia con le mani strette attorno al pomello, ma quando si riebbe dalla sorpresa si rese conto che Telemaco era terribilmente imbarazzato.
Che si aspettava di essere cacciato a calci nel sedere e che credeva di meritarselo anche.
<< Entra, ma guarda che i miei non ci sono e … >>
<< Si lo so, li ho visti uscire >>
Si affrettò a rispondere il ragazzo entrando in casa, Fiorenza non riuscì a guardarlo in faccia mentre pronunciava quelle parole, ma non ebbe bisogno di chiedere altro per capire che voleva parlare con lei, e voleva farlo in privato, senza che ci fosse nessun filtro.
Senza dire nulla lo condusse nella sua camera, Telemaco la seguì in silenzio, continuando a tenere il cappuccio tirato sulla testa e le mani nelle tasche nei jeans, fingendo di non conoscere a memoria la strada per arrivarci, proprio come se tutto quello che avevano vissuto non avesse più senso, come se avesse premuto il tasto di cancellazione dei ricordi indesiderati.
Cinque minuti dopo erano seduti uno di fronte all’altra con parecchi metri di distanza a dividerli, lei sul letto all’indiana, lui sulla sedia con i gomiti appoggiati sulle ginocchia e i pugni chiusi premuti sulle guance, nel silenzio più assoluto.
Telemaco aveva tirato via il cappuccio e i capelli mossi e scombinati sembravano avessero combattuto una battaglia piuttosto cruenta con il vento.
<< Ti ho perdonata >>
<< Cosa? >>
Calò nuovamente il silenzio.
Sia Telemaco che Fiorenza trattennero il fiato ed arrossirono quando si resero conto di aver parlato quasi contemporaneamente, solo con pochi secondi di distanza, quasi come se non avessero aspettato altro che interrompere quel silenzio che si era ripresentato.
Telemaco sciolse la sua posizione, passò con agitazione una mano sulla fronte e scostò lo sguardo imbarazzato altrove, ovunque tranne che su di lei, non poteva nemmeno credere di aver cominciato il discorso in quel modo, non dopo tutte le prove che aveva fatto davanti allo specchio del bagno e poi, in seguito, nell’ascensore.
<< Cioè … ecco … insomma si, ho pensato che dopotutto io … >>
<< Lascia stare Telemaco, se non è nulla di importante puoi anche andare! >>
Fiorenza si alzò di stacco dal letto quando notò il modo in cui Telemaco si contorceva le mani e cominciava a sudare, in imbarazzo, non avrebbe sopportato un’altra discussione insensata senza conclusioni, e tanto meno avrebbe sopportato di essere presa in giro.
Fece per precipitarsi verso la porta ed aprirla, quando Telemaco l’afferrò bruscamente per entrambi i polsi, Fiorenza trattenne il respiro quando si sentì abbracciare da dietro.
La stringeva con tale forza che riusciva a sentire i muscoli del suo petto aderirle sulla schiena, il respiro caldo solleticarle tutto il collo lì dove non lo coprivano i capelli, riusciva a sentire chiaramente il suo profumo muschiato da uomo.
Il cuore le batteva talmente forte che avrebbe potuto scappare dal petto.
<< Non cacciarmi … oddio, lo so che me lo merito! Non dovrei nemmeno permettermi di toccarti, ma .. Non … non sono bravo con le parole dannazione! Io … io ti ho perdonato sul serio. Tutto sommato mi sono reso conto … mi sono reso conto che di smettere di amarti non ne sono capace e che non mi importa. Non mi importa se sei stata con lui o meno, se sia vero o meno, se gli altri mi prenderanno in giro … Dell’orgoglio smisurato che mi porto dietro non me ne faccio nulla dopotutto … Tu sei più importante no? Non … non ce la faccio più a sopportare questo peso qui, qui nel petto, e quindi … se vuoi .. tu … puoi perdonarmi anche tu? Possiamo far finta che … insomma si, possiamo far finta che non sia successo nulla? No, no, no ti sto chiedendo troppo lo so! Lascia stare davvero, non fa nulla …
Però … però ti amo sul serio eh! E non mi importa! Si un po’ si ma … Maledizione Igor, ma perché dovevi parlare per forza? Comunque, davvero io … >>
<< Telemaco! >>
Tacquero entrambi e calò nuovamente un silenzio opprimente, ma né Fiorenza né Telemaco si mossero di un solo passo, assorbendo quelle parole appena pronunciate.
E poi Fiorenza scoppiò a ridere, rise talmente di gusto che le vennero le lacrime agli occhi.
<< Sei sempre il solito imbranato … Come faccio a non ridere? Come faccio? Come faccio a perdonarti dopo quello che mi hai fatto passare eh? Come? >>
E quella risata isterica, piano piano si trasformò in un pianto silenzioso, un pianto che Telemaco accolse in silenzio a sua volta, continuando a tenerla stretta tra le braccia come, si rendeva conto solo in quel momento, aveva desiderato fare per tutto quel tempo.
<< Non dovresti, non dovresti perdonarmi perché sono cattivo, perché non ti credo ancora nel profondo del mio cuore, perché ti ho fatto male. Non dovresti farlo, perché sono stato con altre due ragazze dopo di te, e perché non faccio altro che farti piangere >>
Fiorenza ridacchiò, quello era il discorso più lungo e sensato che Telemaco avesse mai fatto.
<< Così non mi aiuti >>
<< Non ti sto aiutando, ti sto dicendo quello che sono e quello che ho fatto. Ti sto dicendo che sono così … un disastro umano. Non puoi perdonarmi ma … puoi amarmi lo stesso? Anche se sono così sbagliato? Testardo? Cocciuto? Cattivo? >>
Il silenzio che era stato già troppo presente quella sera tra di loro, tornò a farsi sentire con prepotenza, opprimente, passarono minuti che sembrarono ore, poi Fiorenza sospirò pesantemente, asciugò gli occhi con le mani e le appoggiò su quelle di Telemaco.
<< Ma si … dopotutto, non è che io abbia mai smesso di farlo >>
Telemaco lasciò finalmente andare la presa e Fiorenza si girò a guardarlo negli occhi, gli appoggiò le braccia intorno al collo, si sollevò sulla punta dei piedi e gli diede un bacio a timbro sulle labbra, non era sicura che sarebbe andato tutto bene, si erano procurati a vicenda una ferita così profonda che avrebbe lasciato una cicatrice indelebile.
Tornare indietro non era possibile.
Avrebbero potuto solo guardare avanti, e prendersi cura di quella cicatrice affinché con il tempo cominciasse quanto meno a sbiadire. 


__________________________
Effe_95

Salve a tutti.
Lo so che sono terribile, ho fatto un ritardo pazzesco questa volta.
Il capitolo mi ha portato parecchi problemi, ho avuto ad un certo punto quello che viene chiamato "blocco dello scrittore", ma fortunatamente sono riusciva a risolverlo in tempo "breve" :S
Comunque, spero che questo non abbia condizionato la qualità, vi prometto che eviterò il più possibile che un ritardo di questa portata si verifichi di nuovo u_u
Allora, la prima parte di Cristiano e Zosimo è stata difficile da scrivere, per tutto il tempo non ho fatto altro che avere paura di affrontare un momento così delicato, quindi ci terrei mi faceste sapere com'è venuto. Gabriele è stato terribile anche in questo capitolo e probabilmente ha proprio superato il limite concesso, sono curiosa di vedere le vostre reazioni al riguardo ;)
Per la parte di Fiorenza e Telemaco, che è anche quella dove mi sono bloccata xD, lascio a voi la parola. Grazie mille a tutti come sempre, grazie per il supporto davvero di cuore.
Alla prossima spero :)

 

Ritorna all'indice


Capitolo 41
*** Bagno, Correre e Finestra. ***


I ragazzi della 5 A
 
41. Bagno, Correre e Finestra.


Febbraio

Beatrice doveva proprio andare in bagno.
Era l’ultima ora di un freddissimo lunedì di metà febbraio, fuori nevicava, nell’aula si congelava e la sua vescica non la smetteva di fare i capricci, lanciò un’occhiataccia ad Enea, che se ne stava stravaccato sulla sedia con lo sguardo perso sulla pagina ancora immacolata del quaderno di greco. Era solo colpa sua se durante la ricreazione non era riuscita a raggiungere il bagno, non aveva fatto altro che trattenerla per ripetere matematica in vista dell’interrogazione della quarta ora.
E quel disgraziato si era anche permesso di prendere quattro!
Incrociò le braccia al petto piuttosto imbronciata, non voleva perdersi la spiegazione del professor Riva sull’Argonautica di Apollonio Rodio, ma non avrebbe resistito ancora per molto, si morse il labbro inferiore e alzò la mano per attirare l’attenzione del docente.
<< Dunque, potremmo considerare l’opera … Beatrice, vuoi aggiungere qualcosa? >>
Beatrice si sentì avvampare nell’osservare la luce piena d’entusiasmo negli occhi del professore, non l’aveva mai deluso prima d’ora, era diventata una delle sue migliori allieve.
Sarebbe stato un colpo duro per lui.
<< Veramente avrei … avrei bisogno di andare al bagno >>
Mormorò con una certa difficoltà mordendosi nuovamente il labbro inferiore, metà dei suoi compagni di classe, quelli che stavano ascoltando la lezione, si voltarono a guardarla, lo stesso Enea sollevò un sopracciglio leggermente sorpreso.
<< Oh, certo, va pure >> Si alzò facendo strisciare la sedia sul pavimento e si avviò alla porta con passo svelto, rischiando di inciampare nella cartella di qualcuno durante il percorso, aveva appena raggiunto la porta quando sentì qualcosa che la fece raggelare.
<< Professore, vorrei fare io un’osservazione sull’opera >>
Quella era la voce di Cristiano.
Com’era possibile che Cristiano facesse una qualche osservazione su qualcosa?
Per non parlare del fatto che stava seguendo la lezione!
Aprendo la porta notò come il volto del professore si fosse illuminato di piacere, scosse frettolosamente la testa e si ritrovò nel corridoio deserto, non poteva cadere in disgrazia con il professore in quel modo, una volta rientrata in classe avrebbe fatto uno dei suoi interventi brillanti e opportuni.
Quando raggiunse il bagno fu immediatamente investita dall’odore acre del fumo di sigaretta, sbuffò spazientita e si affrettò ad aprire tutte le finestre.
Entrò silenziosamente in uno dei bagni, non erano per nulla igienici, ma almeno avevano la carta igienica e il sapone per lavarsi le mani.
Aveva giusto terminato e stava per chiudersi i pantaloni quando sentì entrare qualcuno, due voci di ragazze squillanti e allegre chiacchieravano facendo parecchio chiasso. Probabilmente le avrebbe del tutto ignorate se non avesse sentito quelle parole.
<< Si è fidanzato >> Disse una delle due con voce delusa, Beatrice immaginò che avesse mosso teatralmente un braccio, perché sentì tintinnare moltissimi braccialetti.
<< Davvero? E con chi?! >> La replica dell’altra ragazza fu carica di stupore, aveva una voce nasale piuttosto fastidiosa ed acuta, come quella di un’oca giuliva.
<< Con una sua compagna di classe … quella … come si chiama? Qualcosa tipo Ginevra, Didone? >> Beatrice contrasse leggermente le sopracciglia, finì di abbottonarsi i jeans e rimase in assoluto silenzio, aveva una sensazione piuttosto brutta su quella conversazione.
<< Non era Beatrice? >> Domandò la tipa dalla voce nasale.
<< Si, esatto! >> Replicò quella dei braccialetti facendo schioccare teatralmente le dita.
Beatrice contrasse ancora di più le sopracciglia e una strana stretta le afferrò lo stomaco, voleva tornare in classe a tutti i costi, non poteva restare rinchiusa in quel bagno per troppo tempo, ma non poteva nemmeno uscire in alcun modo con quelle due lì fuori.
Anche se parlavano di lei sarebbe passata per una spiona.
<< Ma che peccato! Che se ne fa di una come quella? >>
La domanda della sconosciuta con il tono nasale la riportò al presente.
<< Ma che ne so! E’ magra come una scopa e non ha tette! >>
Beatrice si coprì il petto indignata, le era sempre piaciuta la sua terza scarsa.
<< Per non parlare di quei baffi che si vedono a chilometri di distanza! >>
Spalancò gli occhi e si portò una mano sulle labbra, erano davvero così visibili?
<< E vogliamo parlare dei suoi capelli? Sembra che un procione vi abbia fatto il nido >>
Beatrice passò a toccare i boccoli ricci e definiti che le incorniciavano il viso, nessuno le aveva mai detto che sembravano tanto scombinati.
Scosse freneticamente la testa, non riusciva a credere che si stesse lasciando condizionare dai commenti di due ragazze solamente invidiose, non poteva avere tutti quei difetti, se fosse stato davvero così Enea non avrebbe avuto modo di trovarla bella o di stare con lei.
<< Dici che se ci provo Enea ci viene di nuovo con me? >>
La domanda della tipa con la voce nasale le fece spalancare talmente tanto la bocca che rischiò di slogarsi la mascella e farsi parecchio male.
<< Nah, l’altro ieri ci ho provato, ma sai cosa mi ha risposto quel disgraziato? >>
<< Cosa? Cosa? >>
<< “ Mi dispiace, ma lo faccio solo con la persona che mi piace” >>
<< E si riferita a quella befana!? >>
<< E a chi sennò?! Hai capito come … >>
Le voci andarono pian piano scemando, una parte del cervello di Beatrice si rese conto del fatto che le due oche giulive se ne fossero andate, che era rinchiusa in quel bagno da più ci cinque minuti e doveva tornare in classe il prima possibile, ma era ancora concentrata su alcune parole che le avevano mandato in tilt il cervello.
Primo, Enea era andato a letto con entrambe chissà quando e dove.
Secondo, aveva detto quella frase bellissima che le aveva fatto tremare il cuore.
Non sapeva se infuriarsi a morte o baciarlo fino a smettere di respirare.
Scosse frettolosamente la testa, si schiaffeggiò più volte le guance, uscì dal bagno, lavò le mani in tutta fretta e le asciugò sui jeans mentre correva verso la classe.
Quando rientrò, solo pochi sguardi si concentrarono su di lei, il professore stava leggendo qualcosa in greco e non sembrava essersi nemmeno reso conto della sua assenza prolungata.
Sgattaiolò fino al suo posto e si lasciò cadere con un sospiro di sollievo.
<< Ehi, perché ci hai messo tutto questo tempo? Dovevi fare cacca? >>
Ci mancò poco le venisse un colpo quando sentì quelle parole e si ritrovò il viso di Enea particolarmente vicino al suo, la guardava con un’espressione talmente seria da farla arrossire fino alla punta dei capelli.
<< Ma che dici?! Ti sembra il caso? >>
Sbottò indignata cacciandolo malamente con una spinta, Enea sospirò teatralmente e si lasciò cadere nuovamente sulla sedia, fissò per un istante l’orologio vecchio e logoro appeso alla parete, e sospirò nuovamente quando si rese conto che mancavano ancora venti minuti.
<< Che male c’è? Cosa, tu sei diversa? Non la fai per caso? >>
<< Smettila subito! >> Lo rimbeccò Beatrice colpendolo sul braccio con un quaderno.
<< Ahi >> Replicò Enea con tono monotono sbadigliando sfacciatamente, lei gli fece una linguaccia, incrociò le braccia al petto e portò lo sguardo sul professore, ma molto presto si rese conto di non riuscire a mantenere la concentrazione in alcun modo.
Aveva la testa piena di domande e non riusciva a smettere di pensare alle due oche.
<< Enea … >> Lo richiamò qualche minuto dopo, continuando a tenere lo sguardo puntato sulla cattedra, le risultava molto più semplice parlare in quel modo.
<< Uhm? >> Beatrice sospirò pesantemente ed Enea si fece più attento, assumendo una posizione che facesse quanto meno capire che la stava ascoltando.
<< Ho … ho i baffi? >>
Ci mancò davvero poco Enea caracollasse dalla sedia, fece un movimento talmente brusco che il quaderno di greco scivolò dal banco schiantandosi sul pavimento, Lisandro sobbalzò svegliandosi dallo stato di dormiveglia in cui era caduto e Igor, seduto proprio davanti a lui, produsse un singulto molto poco maschile.
<< Che cavolo di domande mi fai? Ti sembra che io possa uscire con qualcuno che ha i baffi? Guarda che non sono un così bravo ragazzo! Non mi sono innamorato certo di uno scimpanzé ! >> Sbottò guardandola con aria scioccata, come se l’avesse appena offeso nel suo essere uomo, Beatrice non riuscì a trattenere una risata quando lo vide con quella posa da diva scandalizzata.
<< E secondo te … ho le tette piccole? >>
Enea sollevò moltissimo un sopracciglio, incrociò le braccia al petto e finalmente le dedicò tutta la sua piena attenzione, girando il busto completamente nella sua direzione.
<< Questo non lo so, non le ho viste >> Replicò con una naturalezza sconcertante.
Beatrice pensò di essere andata completamente a fuoco, scostò lo sguardo e lasciò che i capelli cadessero fino a coprirle il viso arrossato e accaldato.
Perché gli aveva fatto proprio quella domanda?
<< Ohi Bea, ma che ti prende? >> Domandò lui scuotendola leggermente per un braccio, Beatrice gli schiaffeggiò la mano e scosse freneticamente le spalle in un gesto di noncuranza.
<< Niente, sono solo stupidaggini … >> Lo liquidò in fretta, Enea produsse uno sbuffo piuttosto comunicativo con la bocca e tornò a mostrare il suo scarso interesse per il professore << Enea … >> Lo richiamò lei dopo alcuni minuti di silenzio.
<< Cosa vuoi? >> Beatrice rintracciò una nota di esasperazione nella voce del fidanzato.
<< Questo vuol dire che faresti l’amore con me? >>
Enea non ebbe la reazione che lei si sarebbe aspettata, non si girò nemmeno a guardarla, rimase seduto composto con lo sguardo puntato sulla cattedra, facendo roteare con maestria la penna tra le dita lunga e affusolate. Porgendogli quella domanda, Beatrice si rese finalmente conto di cosa l’aveva preoccupata per tutto quel tempo, la necessità di scoprire se Enea la trovasse attraente anche da quel punto di vista, anche se era magra, non aveva seno, i capelli erano crespi, non amava truccarsi più del necessario e odiava i vestiti firmati.
<< La tua è una proposta? >>
<< No! >>
<< Peccato … mi sarebbe piaciuto proprio rispondere alla tua domanda sulle tette >>
Beatrice afferrò nuovamente il quaderno e prese a colpirlo ripetute volte, ingaggiando una battaglia scherzosa con lui, Enea rideva soffusamente per non farsi sentire dal professore, lei doveva fingere di essere profondamente arrabbiata, ma mentre lui non la guardava, non poteva evitare di sorridere.
Dopotutto, la sua risposta l’aveva avuta.
 
Oscar si sentiva particolarmente ridicolo.
Starsene rinchiuso in quel bagno sudicio con il pavimento macchiato d’acqua sporca, le impronte delle scarpe ovunque e le cicche di sigaretta che galleggiavano nella tazza del water, non aveva fatto altro che aumentare il senso di ridicolo che provava per se stesso.
Era scappato dalla lezione di teatro come un codardo.
Si era sforzato, ci aveva provato, aveva ripetuto a se stesso di essere stato uno stupido a reagire in quel modo quando aveva ricevuto la notizia di dover recitare nel ruolo di Tancredi, aveva anche parlato con Alessandro Romano per scusarsi, ma quando aveva stretto il copione tra le dita, queste avevano cominciato a tremare senza freno.
Era scappato.
Avrebbe voluto prendersi a schiaffi, sbattere la testa contro le mattonelle imbrattate di stupide scritte fino ad aprirsi il cranio in due e svuotarlo di tutti quei ricordi fastidiosi, dei sentimenti, delle paure.
Si sentiva stupido, ridicolo e patetico.
Avrebbe voluto uscire da se stesso, dimenticare perché aveva provato tutta quella paura quando il personaggio di Tancredi gli aveva sbattuto in faccia la verità che non voleva sentire, che non aveva voluto sentire mai da quando Giulia era morta.
Quei sensi di colpa che continuavano a tormentarlo, i ricordi che continuavano ad esasperarlo, i sentimenti che continuavano ad agitarlo.
Si portò le dita alle tempie e premette con tutta la forza che aveva, tirando la pelle e facendo diventare bianchi i polpastrelli, mollò un calcio al gabinetto sporcando la porcellana bianca di nero e si piegò sulle ginocchia battendo la testa sulla porta.
Avrebbe respirato profondamente, ripreso il controllo di se stesso e sarebbe uscito da quel bagno, era più o meno quella la cantilena che continuava a ripetersi da circa venti minuti.
Ma da quel bagno ancora non era uscito.
<< Maledizione! Maledizione, alzati stupido! Muovi queste gambe ed esci da qui dentro! >>
Mormorò a denti stretti ferendosi il labbro fino a sanguinare e picchiando furiosamente i pugni sulle gambe, indifferenti ed indolenzite da tutti i pizzichi che si era già dato.
Un attacco d’ansia come quello non lo aveva dal giorno del funerale di Giulia, da quando si era rinchiuso nel bagno di casa sua e non era riuscito a muoversi fino a quando non gli avevano detto che la funzione era terminata.
Oscar si rese conto solo in quel momento che probabilmente il problema era proprio lì.
Lui non aveva fatto altro che scappare.
Aveva continuato a correre in avanti inseguito da una paura che non aveva mai guardato negli occhi, aveva continuato a correre senza mai smettere, aveva continuato a farlo anche quando Catena era comparsa con la mano tesa per fermarlo.
Lui si era limitato ad afferrarla e a continuare quella folle corsa trascinandola con lui.
Solo che era arrivato al capolinea, le gambe aveva smesso di funzionare, il respiro era finito del tutto, le ginocchia avevano ceduto e Catena … Catena …
<< Oscar! Ehi, Oscar, va tutto bene? >>
Trasalì quando la voce di Ivan entrò nel suo campo uditivo, si portò una mano sul petto e strinse forte il tessuto pesante del maglione, trasse un respiro profondo e passò il dorso della mano libera sulla fronte madida di sudore.
<< Ohi Oscar! … Va’ a chiamare il professore Ivan, forse sta mal… >>
<< No! >>
Oscar interruppe la voce concitata di Giasone prima che la situazione potesse sfuggirgli ancora di più dalle mani, l’ultima cosa che voleva era essere visto in quelle condizioni pietose dai suoi compagni di teatro.
Stese le gambe e si appoggiò con la schiena sulle mattonelle fredde, aveva tutte le dita sudate e tremanti, ma doveva uscire da quel bagno a tutti i costi.
<< E’ stato solo un capogiro, adesso esco. Credo di essermi preso l’influenza, io … >>
<< Smettila >> Si bloccò con la mano sul pomello quando sentì quella parola uscire dalla bocca di Ivan con una certa severità << Non ti rimprovererò nulla Oscar, non mi sento proprio nelle condizioni di fare una cosa del genere, ma una cosa posso dirtela >> Oscar lasciò cadere nuovamente la mano nel vuoto e rimase in attesa di quelle parole che già sapeva l’avrebbero colpito più forte di uno schiaffo << Non uscire dal quel bagno finché non starai bene, finché non avrai nascosto tutto, perché davvero … Catena non si merita questo, non se lo merita proprio >>.
Fu molto peggio dello schiaffo che si aspettava, fu come un pugno proprio in mezzo agli occhi, il dolore era talmente forte da non riuscire nemmeno a respirare.
Non trovò le parole giuste per replicare nulla, così rimase in silenzio a boccheggiare, ancora chiuso in quel bagno fatiscente con la puzza dello scarico che gli pizzicava le narici.
<< Ivan ha ragione idiota! Sei abbastanza grande per capire da te stesso che tutti quei sensi di colpa, quelle paure, quelle lacrime … non sono altro che il frutto di un’esperienza andata male. Dopotutto non è così che funziona? >> Sbottò Giasone con voce annoiata << Una lunga seria di esperienze andate bene e andate male, un’infinità di persone che incroceranno il tuo stesso cammino solo per pochi istanti … tu sei arrabbiato, vero? >>.
Oscar sobbalzò leggermente e trattenne il respiro per qualche secondo.
<< Sei arrabbiato perché la persona con cui vorresti prendertela non è più qui, perché ti ha lasciato indietro prima che tu potessi darci un taglio, giusto? >>
Quando Giasone smise di parlare cadde un silenzio che sembrò durare ore, un silenzio fatto dei respiri affannosi di Oscar, respiri che andarono mano a mano calmandosi fino a trasformarsi in un sorriso ironico carico di tristezza e rammarico.
<< Non sai quanto >> Confessò.
<< Ascolta Oscar, il professore ha detto che non devi tornare per forza … ha detto che Tancredi lo puoi capire anche così … >>
Le ultime parole pronunciate da Ivan prima che lui e Giasone lo lasciassero solo, aleggiarono per un po’ nell’aria, ma Oscar le sentì solo parzialmente.
Si lasciò andare e scivolò a terra nascondendo la faccia tra le ginocchia.
Non seppe dire quanto tempo rimase chiuso in quel bagno, sapeva solo che quelle parole avrebbe voluto dirle fin dall’inizio, ma non ne aveva mai avuto il coraggio.
A Catena non riusciva proprio a spiegarlo.
<< Oscar … sono le sei passate, andiamo a casa? >>
Non si sorprese nemmeno troppo quando sentì la voce tenue di Catena, che se ne stava proprio dall’altro lato della porta, con una mano poggiata sul legno imbrattato e una pazienza infinita nel cuore.
<< Catena … mi dispiace da morire, mi dispiace davvero tanto, io … >>
<< Oscar, va bene anche così, adesso dammi la mano e andiamo a casa, vuoi? >>
Dammi la mano …
E Catena non aveva mai smesso di stringergliela quella mano, anche quando interrotta quella corsa pericolosa aveva rischiato di morire, di cadere e non rialzarsi mai più.
Avevano cominciato così a camminare.
Oscar fece scattare la serratura e spalancò la porta.
 
Lisandro detestava la sua pigrizia.
La detestava perché spesso gli faceva fare cose stupide, molto stupide, come correre scalzo sulle mattonelle macchiate di bianco del cortile per recuperare gli appunti di filosofia che erano volati fuori dalla finestra …
La finestra.
Era stata proprio la finestra la causa di tutto a ripensarci.
L’aveva lasciata aperta tutto il pomeriggio perché non aveva voglia di alzarsi dal letto per chiuderla, nonostante lasciasse entrare un freddo gelido nella camera.
Lisandro voleva semplicemente restare al caldo e fare i compiti di matematica in santa pace ben nascosto sotto il piumone, ma il karma l’aveva punito.
Una folata di vento troppo forte si era trascinata dietro tutti i suoi appunti di filosofia, gli appunti di Beatrice che aveva ricopiato con tanta fatica e che gli sarebbero serviti per la prova d’esame del giorno successivo.
Aveva imprecato in più lingue ed era saltato già dal letto senza né calzini né ciabatte, in pigiama, e aveva fatto tutte le scale del palazzo fino a ritrovarsi al centro del cortile deserto, scuro e gelido per raccogliere il suo quaderno mezzo incastrato in un cespuglio tutto spruzzato di neve.
Si era reso conto delle condizioni in cui si trovava solamente quando i piedi avevano cominciato a fare talmente male che gli sarebbero sicuramente venuti i geloni.
Lisandro imprecò mordendosi la lingua e saltellò con passo claudicante fino alla porticina sul retro, da cui era uscito correndo solo pochi minuti prima.
Quando i piedi violacei toccarono il pavimento altrettanto gelido del palazzo, ma comunque dalla temperatura più temperata, tirò un sospiro di sollievo, sistemò il quaderno arrotolato tra le ginocchia, appoggiò una spalla sul muro e cominciò a fare il risvolto alla base tutta bagnata del pigiama grigio un po’ consumato, doveva sembrare un matto con quei capelli tirati indietro dal vento, gli appunti tenuti in quel modo precario e quei piedi indecenti.
Sospirò pesantemente quando ebbe terminato l’operazione e riprese il quaderno tra le mani,  aveva appena messo un piede sul primo scalino quando sentì il piccolo portoncino aprirsi con uno schianto rumorosissimo.
<< Cosa ci fa un Hobbit sulle scale?! >>
Lisandro trasalì e voltò la testa di scatto, aveva ancora una gamba sollevata a mezz’aria e la mano libera appoggiata al corrimano di legno scorticato delle scale.
Ad urlare in quel modo era stata una ragazza, una ragazza che indossava un paio di calzamaglie a strisce gialle e nere, dei pantaloncini di jeans stracciati, un paio di stivali marroni tutti slacciati, un pesante giubbotto sbottonato che lasciava intravedere un maglione fucsia, attorno al collo una sciarpa a pois bianca e nera e un cappello con il pon-pon infilato di traverso su dei capelli castani dal taglio asimmetrico.
Era ricoperta di neve e aveva il dito puntato proprio contro di lui.
Le guance spigolose erano arrossate dal freddo, così come il naso all’insù, i grandi occhi scuri, spalancati più di quanto fosse necessario, lo scrutavano attentamente e le labbra screpolate erano spalancate in una piccola “o” di sorpresa.
Si guardarono per un momento restando nel silenzio più assoluto, entrambi in quella posa particolarmente ridicola, fino a quando la sconosciuta non scoppiò a ridere sguaiatamente.
Lisandro sciolse finalmente la posa rigida che aveva assunto e sospirò profondamente.
<< Cosa ci fai fuori a quest’ora Sara? >>
 Sara era la sua vicina di casa da quando ne aveva memoria.
Avevano solo un anno di differenza, lei frequentava il liceo artistico nella città vicina ed era strana, era stata strana fin dalla prima volta che le loro madri li avevano costretti a giocare insieme e Lisandro aveva dovuto interpretare la parte della principessa.
Sara aveva fatto il principe, un principe che indossava una scodella in testa come elmo, brandiva un mattarello come spada, un lenzuolo decisamente troppo lungo come mantello e urlava a squarciagola per tutta la casa.
Lisandro aveva sempre cercato di scappare da lei, ma ci era riuscito raramente.
Ricordava ancora con orrore tutto il tempo trascorso insieme, quei pomeriggi infiniti a cui non aveva potuto sottrarsi un po’ per educazione eccessiva, un po’ per sottomissione.
Sara aveva sempre avuto un carattere forte, dominante, e la prova stava nel fatto che qualsiasi gioco facessero, a Lisandro toccava sempre la parte della donna.
<< E uno conciato in quel modo crede di avere il diritto di pormi una domanda del genere eh? Hai proprio un bel coraggio sai?! >>
Sbottò Sara facendo un balzo un po’ troppo energico verso di lui, Lisandro sollevò le mani  per difendersi e il quaderno gli scappò dalla stretta, atterrando su uno dei gradini e aprendosi su una pagina a caso completamente ricoperta da una calligrafia piccola e precisa.
Lisandro sospirò teatralmente e con pazienza si chinò a raccogliere gli appunti, ma Sara fu più veloce di lui, gli sfilò l’oggetto da sotto le dita e lo scrutò con le sopracciglia aggrottate, probabilmente senza nemmeno rendersi conto di tenere il quaderno al contrario.
<< Potresti ridarmelo cortesemente? >> La voce di Lisandro era carica di una forte pazienza.
<< Questo quaderno è tutto bagnato! >> Replicò in risposta Sara ignorando completamente le parole del vicino di casa, ancora tutta intenta ad osservare le pagine macchiate dalla neve in più punti << Alcune parole non si leggono proprio più! Ha ha! E’ per questo che sei sceso conciato in questo modo, vero? >> Saltò su all’improvviso, puntandogli con troppa forza un dito sul petto, Lisandro pensò che se avesse spinto un po’ più forte avrebbe potuto lasciargli un bel buco a pochi centimetri dal cuore << Avrai lasciato la finestra spalancata come al solito! Ti ho beccato eh? >>.
Lisandro non ricambiò l’occhiata ammiccante di Sara, ne quel sorriso esagerato che le deformava eccessivamente la faccia, si limitò a spostarle gentilmente la mano, massaggiarsi il petto e sospirare ancora una volta, cercando di contenere la stizza.
Era sempre stato così tra di loro, Sara era estenuante, ogni volta che parlava con lei, anche solo per pochi minuti, si sentiva terribilmente stanco, provato come se avesse appena fatto uno sforzo fisico ed intellettuale contemporaneamente.
Probabilmente quello era uno dei motivi per cui aveva cominciato ad allontanarsi, da quando avevano cominciato il liceo Lisandro aveva smesso di passare il pomeriggio da lei.
Era stato un processo un po’ graduale, si erano allontanati progressivamente, non che lui avesse sofferto della separazione, in realtà non ci aveva fatto molto caso, gli era sembrata piuttosto una conseguenza naturale data dalla differenza dei loro caratteri.
Lisandro e Sara non erano fatti per passare il tempo insieme.
Il succo stava tutto lì.
<< Potrei riavere i miei appunti? Tra poco i miei piedi si staccheranno dalle gambe … >>
Sara sembrò ricordarsi solo in quel momento che Lisandro era a piedi nudi, rivolse un’occhiata veloce alle dita quasi violacee del ragazzo, ancora leggermente bagnate dalla neve, e gli restituì il quaderno con una luce pericolosa negli occhi.
<< Sono gli appunti della tua amata Beatrice? E’ per questo che ti sei precipitato a raccoglierli senza riflettere eh? >>
Lisandro arrossì violentemente a quelle parole, arrotolò gli appunti tra le mani senza rendersene conto e spostò il peso del corpo da una gamba all’altra, il rossore sulle gote aveva raggiunto anche le orecchie e messo in mostra tutte le lentiggini.
In realtà non avrebbe mai voluto che Sara venisse a conoscenza di quella storia, lei sarebbe stata davvero l’ultima persona a cui avrebbe raccontato una cosa del genere, ma purtroppo per lui era stata proprio lei a beccarlo in lacrime nascosto nel cortile la vigilia di Natale, quando Enea l’aveva chiamato tutto raggiante per dargli la bella notizia.
E lui non aveva potuto fare altro che raccontarle tutto tra i singhiozzi.
Non sapeva spiegarsi perché fosse stato così debole, perché avesse avuto quello sfogo proprio con lei … ma Sara l’aveva ascoltato per tutto il tempo in silenzio e alla fine se n’era uscita con: “ Ti cola il muco dal naso”, e gli aveva dato la sua sciarpa come fazzoletto.  
E Lisandro aveva smesso di piangere.
<< E non guardarmi con quella faccia! >>
Sara gli sventolò il dito sotto il naso e lo pizzicò su una guancia ancora arrossata.
<< Quale faccia! >> Scattò immediatamente Lisandro scostandola.
Non voleva in nessun modo parlare del perche era andato a recuperare il quaderno a piedi scalzi, non con Sara che sapeva proprio tutto.
Era stato stupido a raccontarle quello che stava provando, sapere che l’avrebbe messo in imbarazzo, che avrebbe sfruttato la cosa a suo vantaggio per mortificarlo e prenderlo in giro come faceva quando erano bambini.
<< Questa è la punizione che ti meriti per avermi ignorata tutti questi anni uhm! >>
Lisandro spalancò leggermente gli occhi nel sentire quelle parole, Sara scostò la faccia e mise su un broncio davvero infantile, poi produsse uno sbuffò strano con le labbra, gli diede le spalle e salì le scale pestando i piedi per terra con troppa violenza.
Lisandro la seguì con lo sguardo finché non scomparve alla vista.
Lui non l’aveva ignorata, non l’aveva fatto … giusto?
Gli era sempre sembrato un allontanamento reciproco il loro.
Scosse freneticamente la testa, ricordò di avere i piedi in stato di ipotermia e doloranti, strinse ancora più forte il quaderno tra le braccia e si decise a sua volta a tornare finalmente nel tepore della sua stanza, sotto le calde coperte.
Tutto questo, non prima di aver chiuso la finestra.

____________________________
Effe_95

Salve a tutti :)
Sono proprio una bugiarda, vero? Avevo detto che non avrei fatto più un grande ritardo e invece è stato così anche questa volta, vi chiedo scusa. 
Ultimamente ho avuto un po' di problemi di salute che mi hanno bloccata e la stessa stesura del capitolo si è rivelata piuttosto ostica.
Vi chiedo di avere un po' di pazienza in questo senso, perchè ultimamente ho proprio quello che si chiama il blocco dello scrittore, ma non mi lascerò fermare da questo, ce la metterò tutta.
Allora, nella prima parte del capitolo troviamo una Beatrice un po' diversa dal solito, una Beatrice un po' più spensierata, ma allo stesso tempo insicura, incerta. Volevo che fosse una scena leggera, significativa e ilare allo stesso tempo, soprattutto nella convinzione di Beatrice di essere la cocca del professore xD Spero di esserci riuscita.
La parte di Oscar e Catena è stata la più difficile da scrivere, volevo che dicesse tutto e niente.
So che magari il mio pensiero è un po' contorto ma spero di esserci riuscita, fatemelo sapere.
Nella terza parte invece conosciamo un altro personaggio, la dispotica Sara, per quanto riguarda lei lascio a voi la parola ;)
Volevo infine chiudere questo mio sproloquio eccessivo (perdonatemi sono logorroica) ringraziando davvero di tutto cuore le 7 MERAVIGLIOSE ragazze che hanno recensito il capitolo precedente.
Questo capitolo è assolutamente DEDICATO a voi.
E ovviamente ringrazio anche tutti le altre persone che impiegano il loro tempo a leggere la storia di un'atrice così ingrata come me.
Grazie mille come sempre di cuore a tutti.
Alla prossima spero :)
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 42
*** Pattinaggio, Rimpianto e Opprimente. ***


I ragazzi della 5 A
 
42. Pattinaggio, Rimpianto e Opprimente.

Febbraio

Zosimo stava letteralmente congelando quella sera di fine Febbraio.
Non faceva altro che battere i piedi per terra, tremare, sfregare le mani e cercare di scaldarle con l’alito, che comunque si manifestava solo sotto forma di nuvoletta bianca condensata. Probabilmente non era stata una buona idea indossare solo il giubbotto d’aviatore e una misera sciarpa, sopratutto sapendo che avrebbe dovuto fare una fila chilometrica all’aperto, di sabato sera, dopo che aveva appena nevicato intensamente.
La strada era tutta ricoperta di bianco, e ovunque posasse gli occhi a Zosimo sembrava che qualcuno avesse fatto una sorta di incantesimo spedendolo in un mondo a lui estraneo, un mondo fatto di luci, chiacchiericcio e gelo appartenente ad una dimensione parallela.
Un mondo dove aveva trovato il coraggio di invitare finalmente Alessandra ad uscire.
Era stato probabilmente il gesto più avventato di tutta la sua vita, ma non aveva saputo proprio trattenersi quando era passato davanti a quella pista di pattinaggio sul ghiaccio.
L’avevano appena montata nei pressi di casa sua.
Stava correndo per prendere la metropolitana quando si era imbattuto in un gruppo di ragazzine eccitate delle medie che indicavano l’evento e gli ostruivano il passaggio.
Il suo sguardo era stato catturato inevitabilmente dalla fonte di quel chiacchiericcio eccitato e si era fermato di colpo, aveva piegato leggermente la testa di lato, si era dimenticato del suo appuntamento e aveva chiamato Alessandra per invitarla.
Se ripensava a quel momento a Zosimo venivano i brividi, gli era sembrato come se qualcuno diverso da se stesso avesse preso possesso del suo corpo senza chiedere il permesso, e non sapeva se esserne felice o meno per vari motivi.
Il primo fra tutti, era che non sapeva pattinare.
Non aveva mai più voluto imparare a farlo dopo che all’età di sei anni era scivolato procurandosi una frattura scomposta alla gamba sinistra.
Era stato un vero incubo portare il gesso per tutto quel tempo, con sua madre che non stava bene e doveva occuparsi anche di lui senza far percepire il dolore che provava.
Rabbrividì nuovamente quando la fila si mosse ancora avvicinandoli maggiormente al botteghino dove avrebbero comprato i biglietti, infilò le mani nelle tasche dei jeans, poi estrasse immediatamente la destra e la passò nel groviglio di capelli ricci che aveva sulla testa, pizzicò la radice del naso, ne strofinò la punta e la rinfilò ancora nella tasca.
Alessandra seguì con lo sguardo quei movimenti insensati e infine ridacchiò divertita, portandosi un pugno chiuso sulle labbra per soffocare un po’ la risata cristallina.
Zosimo le rivolse immediatamente uno sguardo accigliato, seppur mantenendo un accenno di sorriso incerto sulle labbra sottili, Alessandra trovò adorabili quelle fossette appena disegnate agli angoli della bocca e quell’espressione da folletto preoccupato.
<< Tu non sai pattinare, vero Zosimo? >>
Alessandra poté notare con piacere che alla sua domanda le guance di Zosimo si imporporarono notevolmente, perfettamente illuminate dalla luce di un lampione che proprio in quel momento, mentre avanzavano, gli aveva incorniciato il viso.
<< Beh … no >> Farfugliò il folletto passandosi di nuovo una mano nei capelli, senza rendersi conto che in quel modo li avrebbe scombinati molto di più << Ma insomma … ho pensato che non sarebbe stato un impedimento troppo grande se tu, al contrario, sei in grado di farlo>> Poi tacque, riflettendo per un momento sulle sue stesse parole, gli occhi sembrarono illuminarsi di una consapevolezza improvvisa, il sorriso sparì dalle sue labbra e si voltò di scatto a guardare Alessandra, che l’aveva osservato tutto il tempo premendosi le dita sulle labbra per non ridere << Perché tu sai pattinare, vero Alessandra? Vero? >>
Alessandra lasciò finalmente libero sfogo alla risata che stava trattenendo con forza e quest’ultima si riversò cristallina nell’aria, come il tintinnio radioso di un richiamo degli angeli. Tutta la preoccupazione di Zosimo sembrò sparire in un sol colpo, il sorriso tornò ad increspargli le labbra nella frazione di pochi secondi, la risata di Alessandra aveva il potere di calmarlo e catturarlo allo stesso tempo come quella di sua madre quando era bambino.
Probabilmente non gliel’avrebbe mai raccontato quel piccolo particolare.
O forse l’avrebbe custodito come un segreto, un segreto che nelle sue fantasticherie di ragazzo, dove immaginava che si sarebbero amati fino ad avere i capelli bianchi, le avrebbe raccontato sotto un portico assolato, stanco, tenendole una mano dopo una vita serene passata insieme a volersi bene.
Sorrise e s’imbarazzò per quei pensieri così poco comuni per un ragazzo.
Troppo spesso fantasticava.
<< Ti è andata bene Zosimo >>
Le parole di Alessandra lo riportarono al presente, quel presente dove la ragazza che aveva davanti non possedeva capelli bianchi e non gli stringeva la mano, ma era bella e giovane, spensierata, talmente piena da vita da far girare la testa.
Proprio come piaceva a lui.
Vivere, vivere e vivere fino a soffocarne.
<< Che poi me lo devi proprio spiegare come ti è venuto in mente di portarmi proprio qui quando non sai nemmeno pattinare! >>
Quello di Alessandra non era stato un vero rimprovero, e quell’espressione severa che aveva messo su incrociando le braccia al petto e guardandolo con un sopracciglio sollevato, era tradita dall’accenno di sorriso mal celato sulle labbra.
<< Beh, non è che me ne fosse importato molto, sai? Ho solo pensato che era un posto perfetto per te e non me ne sono preoccupato … Tanto posso sempre imparare, no? >>
Mentre pronunciava quelle parole, Zosimo ricordò bene a se stesso di evitare di pensare alla  brutta esperienza che aveva vissuto, dopotutto era solo un bambino quando era capitato e i bambini avevano la tendenza ad ingigantire i ricordi spiacevoli trasformandoli in incubi.
Zosimo si domandò se avrebbe provato le stesse sensazioni di allora, la stessa eccitazione mista alla curiosità, l’adrenalina, la voglia di provare, e poi il desiderio ardente di scappare da quel posto che era stato la causa del suo dolore e di una pessima esperienza.
Si domandò quali sentimenti avrebbe provato a dodici anni di distanza.
Venne strappato bruscamente ai suoi pensieri quando Alessandra gli afferrò la mano con naturalezza, intrecciando le sue dita morbide, piccole e pallide alle sue ruvide, grandi e scure. Non lo stava guardando negli occhi ma sorrideva, trascinandolo leggermente ogni volta che la fila avanzava anche solo di un passo.
Quando finalmente raggiunsero il botteghino stavano ridendo senza ritegno, perché nell’avanzare in quel modo bizzarro avevano cominciato un gioco stupido che consisteva nel compiere il passo in avanti esattamente nello stesso momento.
Richiedeva una precisione millimetrica, e siccome Zosimo aveva dei piedi enormi, mentre quelli di Alessandra erano minuscoli, se li erano pestati a vicenda più volte.
Acquistarono i due biglietti ed ebbero in dotazione anche i pattini in prestito con il numero esatto delle loro scarpe, Alessandra afferrò ancora una volta Zosimo per mano e lo trascinò quasi correndo verso il bordo della pista dove potevano cambiarsi.
Zosimo cominciava a provare un po’ di nervosismo mentre allacciava per bene i pattini.
Gli tremavano leggermente le mani, ma cercò di nasconderlo con la scusa di aggrapparsi con tutte le forze che aveva al parapetto di legno che li separava dagli spettatori, le nocche erano bianche per la tensione mentre arrancava lentamente sul ghiaccio, sudando freddo.
<< Così non c’è alcun divertimento! >>
A Zosimo costò una certa dose di concentrazione sollevare lo sguardo dai proprio piedi instabili e posarlo su Alessandra, che era sfrecciata al suo fianco dandogli una pacca sulla spalla. Si muoveva con una leggiadria invidiabile, i capelli biondi erano sferzati dal vento e alcune ciocche le si attaccavano sulle labbra a causa del rossetto, il naso lentigginoso era arrossato a causa del vento e la sciarpa verde era scivolata di lato.
Sembrava una ninfa delle nevi, mentre lui un brutto yeti imbranato.
<< Vieni qui! Buttati nella mischia! >>
Zosimo mise su un sorriso forzato, lanciò un’occhiata leggermente allucinata a tutte le parsone che occupavano la pista e che avrebbero potuto urtalo accidentalmente e … scosse leggermente la testa, stava diventando paranoico come Igor.
<< Non … non credo che sia necessario. Guarda come sono bravo a percorrere il perimetro, lo faccio addirittura con una mano sola! >>
Ribatté con vigore, e per provare le sue parole tolse la mano destra dal parapetto, giusto in tempo per rischiare un bel capitombolo che gli fece balzare il cuore in petto, fu così doloroso che per un momento pensò fosse scappato fuori senza il suo permesso.
Alessandra scoppiò a ridere ancora una volta quella sera, pattinò fino a lui e gli afferrò saldamente le mani, Zosimo sbiancò totalmente ma la lasciò fare, un po’ come se trovasse scortese dirle che non la trovava affatto una buona idea.
<< Visto? Se mi dai le mani va tutto bene … muovi i piedi avanti e indietro … >>
Zosimo lo trovava più facile a parole che a fatti, stringeva le mani di Alessandra con tale forza che aveva paura di farle male, anche se lei non si lamentava e continuava a sorridergli.
Era completamente sudato quando raggiunsero il centro della pista, gli veniva da ridere se ripensava al freddo che aveva provato mentre facevano la fila, e gli sembrava stupido anche aver avuto paura.
Fu per la prima volta quella sera, mentre stringeva le mani di Alessandra, con le gambe instabili come quelle di un bambino, che si rese conto di quanto le cose cambiassero prospettiva con l’avanzare dell’età.
Quando era piccolo le cose che gli facevano paura erano ben altre.
Le paure che aveva in quel momento invece, a diciassette anni compiuti già da un po’, gli sembravano ancora una volta troppo grandi, ma assumevano una prospettiva diversa se pensava che all’età di quarant’anni avrebbero avuto la stessa effimera consistenza di quelle paure che da bambino gli aveva fatto paura.
Era ancora perso nei suoi pensieri quando qualcuno lo urtò violentemente.
Non sentì nemmeno le scuse urlate al vento mentre percepiva il vuoto sotto i piedi, perse la presa dalle mani di Alessandra, una stretta fastidiosa gli strinse lo stomaco e cadde a terra battendo il coccige con tale prepotenza che per un momento trattenne il fiato.
Il dolore arrivò a rallentatore, ma ebbe modo di preoccuparsene poco, Alessandra si buttò su di lui e gli afferrò la mano destra giusto qualche secondo prima che qualcuno avesse la brillante idea di passare con i pattini proprio nello stesso identico punto.
<< Ma che idiota! >> Sbottò Alessandra rivolgendo un’occhiataccia al tipo che si era appena allontanato ignaro di tutto, ma Zosimo non se n’era curato, lei era talmente vicina che poteva vederle ogni centimetro di pelle << Mi dispiace … alla fine siamo caduti >>
Il tono di voce di Alessandra si abbassò impercettibilmente quando voltandosi si accorse della loro vicinanza e del modo in cui lui la stava guardando, con quel sorriso sempre accennato sulle labbra sottili e le fossette ben visibili.
Zosimo profumava di menta, la sciarpa gli era quasi completamente caduta di lato, riusciva a vedergli la vena tesa del collo sotto la pelle scura e aveva un minuscolo neo sul labbro superiore … Alessandra sollevò una mano e glielo toccò senza riuscire a controllarsi.
<< Non fa niente >> Mormorò Zosimo senza muoversi di un millimetro << Ok, non credo di avere più due chiappe, e probabilmente avrei avuto anche qualche dito in meno … >> Alessandra scoppiò a ridere e nascose le labbra tra le dita come se volesse contenersi.
<< Ma non fa niente >> Continuò Zosimo scostandole una ciocca di capelli dagli occhi con affetto << Questa cosa l’ho superata da un pezzo. Non ho paura se cadiamo insieme >>
Alessandra lo baciò con impeto e senza preavviso.
Fu un bacio intenso che durò una vita e quando si separarono scoppiarono entrambi a ridere, si guardarono negli occhi un po’ imbarazzati e tornarono a baciarsi con foga, Alessandra stringendogli le braccia dietro il collo e Zosimo appoggiando una mano dietro la sua schiena e  attirandola a se con trasporto.
A nessuno dei due importò il fatto che si trovassero al centro di una pista artificiale di pattinaggio sotto lo sguardo di tantissime persone.
Importava che ci fossero loro.
Zosimo aveva paura anche in quel momento, ma quella paura non aveva valore per lui.
Non aveva valore finché Alessandra avrebbe continuato a stringerlo in quel modo.
 
Gabriele gettò con malagrazia la cartella sul sedile del passeggero.
Passò una mano sul ciuffo scarmigliato e imprecò contro la professoressa Cattaneo, quella di italiano, in tutte le lingue che conosceva.
Non sopportava proprio quella vecchia arpia.
L’aveva tenuto sotto torchio per tutta l’ultima ora interrogandolo su ogni singolo autore che avevano studiato quell’anno, tutta quella sofferenza per ottenere alla fine un misero cinque e sentirsi dire, per l’ennesima volta, che era un ripetente.
Gabriele era talmente arrabbiato che prese in considerazione l’idea di farsi bocciare anche quell’anno solamente per diventare l’incubo della Cattaneo e tormentarla fino alla pensione. Inoltre, quando aveva cercato solidarietà in suo cugino Aleksej, quest’ultimo l’aveva rimproverato affermando che cinque era un voto anche troppo alto per chi confondeva ancora Foscolo con Leopardi, e che dunque la Cattaneo era stata troppo gentile.
Gabriele era rimasto indignato da quelle parole.
Si era sentito tradito come se Aleksej l’avesse pugnalato alle spalle.
Allora lo aveva mandato a quel paese, aveva farneticato qualcosa sul fatto che Foscolo e Leopardi fossero due noie mortali e l’aveva invitato, con il dito medio sollevato, a tornare a casa con l’autobus perché non aveva nessuna intenzione di fargli da fattorino.
E a conclusione di quella mattinata fantastica, scendendo le scale si era imbattuto in Katerina e Carlo, che ridevano fastidiosamente tenendosi la mano.
Gabriele aveva rischiato di slogarsi una caviglia per la fretta di fuggire prima che si accorgessero di lui, ci era riuscito, ma aveva anche rischiato di travolgere Zosimo, cosa che non gli era affatto dispiaciuta da quando aveva scoperto che usciva con sua sorella.
Sospirò profondamente, ingranò la marcia e uscì sgommando dal parcheggio.
Era soprapensiero e bloccato nel traffico, quando sollevando distrattamente lo sguardo sulla strada affollata dai pedoni, notò un certo trambusto alla fermata dell’ autobus, sembrava che fosse stata soppressa una corsa e la gente si lamentava ad alta voce o imprecava contro il povero tabellone, che aveva avuto lo spiacevole compito di comunicare la brutta notizia.
Contrasse leggermente le sopracciglia e mise su il broncio, combattendo contro la tentazione di andarsene o quella di controllare se Aleksej e Ivan fossero ancora bloccati lì.
Alla fine sospirò pesantemente e rallentò calando di marcia, scrutò tra la folla con occhi attenti, ma invece di imbattersi nelle figure dei due cugini, intravide tra la folla Catena.
Sembrava leggermente preoccupata, guardava convulsamente lo schermo del telefono premendo dei tasti, Gabriele suonò due volte il clacson e Catena sollevò lo sguardo sobbalzando, lo scrutò aggrottando le sopracciglia, come se volesse accertarsi di aver visto bene, e avanzò di qualche passo verso di lui quando Gabriele le fece un cenno di saluto.
<< Ciao Catena, tutto bene? C’è qualche problema? >>
Le domandò mentre dietro di lui qualcuno suonava convulsamente il clacson.
<< Ehi Gabriele … no è che, hanno soppresso la corsa, non so come tornare a casa. E il cellulare è morto >>
Catena agitò timidamente l’oggetto per farglielo vedere e sorrise imbarazzata.
Non aveva mai parlato molto con Gabriele, aveva sempre provato soggezione a restare da sola con lui, perché Gabriele emanava una strana aurea, sembrava un uomo già adulto proiettato verso un futuro che forse ancora non vedeva.
Sembrava triste e stanco, come se un peso troppo grande gli gravasse sulle spalle.
<< Posso darti un passaggio? >>
Catena arrossì quando Gabriele picchiettò leggermente il sedile vuoto alla sua destra e le sorrise gentilmente, era imbarazzata dalla situazione e non sapeva cosa fare.
<< Sei sicuro? Non vorrei crearti … >>
<< Non crei nessun fastidio, stavo tornando a casa anche io >>
Catena sospirò profondamente, poi accennò anche lei un sorriso e si affrettò a salire nell’auto, Gabriele le sorrise incoraggiante a sua volta, ingranò la marcia e riprese a sfrecciare sulla strada infilandosi nel traffico con aria esperta.
<< Me la indichi tu la strada? Non sono mai stato da te >>
Catena sobbalzò leggermente quando Gabriele le prose la domanda, stava ancora allacciando la cintura con la mano destra, mentre con la sinistra stringeva convulsamente il bordo del sediolino, spaventata dalla guida frenetica e spericolata del compagno di classe.
<< Eh? Ah, certo … abito poco prima del ponte che divide la città … >>
Mormorò passandosi distrattamente una mano sulla fronte sudaticcia, Gabriele non sembrò accorgersi minimamente del suo disagio, le rivolse uno sguardo veloce e sollevò in maniera plateale un sopracciglio, facendolo scomparire sotto il ciuffo ribelle.
<< Davvero? Ho sempre pensato che quella fosse proprio una bella zona >>
Commentò allegramente, svoltando a destra con furia e senza inserire la freccia, Catena si premette una mano sul cuore e pregò silenziosamente qualche santo affinché Gabriele la portasse a casa sana e salva, possibilmente senza nessuna ammaccatura.
<< Non vedi l’ora di scendere vero? >>
La domanda improvvisa del ragazzo la fece sobbalzare leggermente, quando si voltò a guardarlo Catena si rese conto che era rimasta in silenzio per troppo tempo con lo sguardo terrorizzato, Gabriele ridacchiò divertito quando incrociò la sua espressione mortificata.
<< No, davvero io … >>
<< Tranquilla, me lo dicono tutti che guido come un matto, ma non ho mai fatto nemmeno un incidente, lo giuro! Ti porterò a casa sana e salva, altrimenti chi lo sente Oscar? >>
Catena sorrise lievemente quando Gabriele le fece l’occhiolino.
Erano appena rimasti bloccati in un ingorgo piuttosto incasinato, si sentivano clacson suonare da tutte le direzioni, ma Gabriele non sembrava minimamente turbato dal problema, aveva la testa completamente da un’altra parte, persa in chissà quali pensieri.
Mentre si azzardava ad osservarlo di sottecchi, Catena si rese conto che tutti quei sorrisi di cortesia che le aveva rivolto erano stati finti, dettati dall’educazione, fu in quel momento che si rese conto che molto probabilmente Gabriele avrebbe preferito restare solo.
Ancora una volta Catena provò la spiacevole sensazione di estraneità ed imbarazzo.
<< A proposito … mi dispiace per oggi, la professoressa è stata proprio tremenda >>
Gabriele si lasciò sfuggire una smorfia quando Catena mormorò quelle parole un po’ buttate lì per caso, probabilmente nel tentativo di fare conversazione, ma cercò immediatamente di correggerla scuotendo le spalle, non aveva un rapporto stretto con la compagna di classe e non voleva spaventarla più di quanto non avesse già fatto con la sua pessima guida da scalmanato. Inoltre Gabriele aveva il terribile presentimento che Catena avesse percepito il suo malumore, e questo non avrebbe fatto altro che aumentare il suo imbarazzo.
<< Non fa nulla, ormai ci sono abituato. Quando hai il marchio del ripetente sulle spalle, va a finire che la gente pensi che uno sia stupido … beh, non che io possa negarlo >>
Ridacchiò leggermente e svoltò a sinistra, riuscendo finalmente a liberarsi dell’ingorgo stradale, gli faceva uno strano effetto trovarsi da solo con Catena, stava provando uno strano disagio e desiderò improvvisamente arrivare a destinazione il prima possibile.
Come se il bisogno di restare da solo lo avesse investito tutto di colpo.
E poi si rese conto che erano state le parole che aveva pronunciato a far nascere quel disagio dentro di lui, il fatto che si stesse confidando con una semplice conoscente gli fece realizzare quanto bisogno avesse di buttare tutto fuori.
Ma non voleva farlo.
Gabriele non voleva farlo in alcun modo e …
<< Non credo che una persona con gli occhi come i tuoi possa essere stupida … >>
<< Come?! >> Gabriele si rese conto troppo tardi di aver alzato leggermente la voce, vide Catena arrossire violentemente per l’imbarazzo e strizzare la maglietta con le mani.
Detestava quel suo caratteraccio impulsivo e malfidente << In che senso? >>
Riformulò velocemente la domanda e le rivolse un sorriso davvero poco convincente.
<< Insomma … volevo dire che … nel senso che hai degli occhi molto espressivi! >>
Catena buttò fuori quelle parole di getto, domandando a se stessa perché le fosse venuto in mente di mettere in mezzo l’argomento, ma quando aveva sentito Gabriele parlare di se stesso in quel modo non aveva potuto fare a meno di dire quello che pensava.
<< Espressivi? Nel senso che sono come un libro aperto o giù di li? >>
<< No, non proprio. Non direi un libro aperto, più che altro … nei tuoi occhi si legge tutto quello che vuoi nascondere >>
Gabriele strinse più forte le mani attorno al volante, aggrottò leggermente le sopracciglia e rivolse a Catena, tutta rossa in faccia, uno strano sguardo.
Aveva sempre saputo che era una brava ragazza, tranquilla e silenziosa, osservatrice, ma non aveva sospettato mai nemmeno una volta che sapesse leggere le persone così a fondo.
Probabilmente era per quello stesso motivo che usciva con uno come Oscar.
<< Davvero? E secondo te cos’è che sto nascondendo adesso? >>
Le domandò, erano quasi arrivati al ponte, aveva iniziato a percorrere il lungo rettifilo che seguiva tutto il fiume fino alla città vicina superando con lentezza un palazzo dietro l’altro. Catena stropicciò ancora un po’ la maglietta, si morse il labbro come per valutare la risposta, Gabriele seguì quella lotta interiore con un sorriso accennato sulle labbra.
<< Rimpianto >>
Catena lo tirò fuori tutto d’un fiato, Gabriele sospirò pesantemente e alzò un po’ le spalle.
Alla fine, tirare tutto fuori gli venne quasi naturale.
<< Sei davvero una brava osservatrice sai? Di rimpianto, qui dentro … >> E si indicò il petto picchiettandolo sonoramente << … ce n’è quanto ne vuoi >>.
Catena rimase in silenzio per un po’ scrutando la strada familiare con le sopracciglia leggermente aggrottate, era sorpresa da quando si potesse capire osservando una persona semplicemente negli occhi. Fu riscossa improvvisamente dal torpore quando intravide il suo palazzo avvicinarsi, lo indicò con un dito a Gabriele e lui accostò frettolosamente, facendosi spazio tra un camion in partenza con il motore acceso e una motocicletta parcheggiata.
<< Hai … hai mai pensato di dare un po’ di questo rimpianto ad Aleksej? >>
Gabriele se l’aspettava quella domanda, spense il motore e sorrise.
<< Io e Alješa ultimamente ... Ecco, non è che andiamo molto d’accordo >>
Catena giocherellò distrattamente con la cerniera della cartella, poi sollevò i limpidi occhi azzurri e li posò in quelli verdi di Gabriele.
<< Sai, io non sapevo cosa fosse il rimpianto prima di conoscere Oscar. Non sapevo cosa fosse fino a quando lui non me ne ha riversato addosso così tanto che ho rischiato quasi di soffocare per il peso. All’inizio è stato difficile, ma ora ce la faccio. Sono sicura che anche Aleksej ce la può fare >>
Gabriele sorrise e Catena sospirò profondamente.
Non aveva mai visto un sorriso più triste di quello.
<< Grazie >>
La mora annuì frettolosamente e si apprestò ad aprire lo sportello della macchina riversandosi sul marciapiede con fretta, richiuse la portiera con tatto e si voltò immediatamente verso Gabriele facendo un breve inchino di ringraziamento.
<< Grazie mille per il passaggio >>
Gabriele sollevò una mano e fece un cenno.
<< Mi ha fatto piacere scambiare due chiacchiere con te … sei proprio una bella persona >>
Catena accennò un sorriso e rimase sul marciapiede ad osservarlo mentre accendeva la macchina e si apprestava a fare retromarcia. Avrebbe voluto fare molto di più.
Era piuttosto sicura che gli occhi di Gabriele l’avrebbero tormentata per tutta la serata.
Aveva la mente altrove quando se ne accorse.
Spalancò orridamente gli occhi e tese il braccio in avanti …
<< Attento! >>
Gabriele sentì l’urlo di Catena un attimo prima di uscire in retromarcia.
Un attimo prima che una macchina gli spuntasse davanti dal nulla.
Il camion in partenza gli aveva bloccato la visuale e lui non l’aveva proprio vista.
L’ultimo pensiero che gli risuonò in testa prima dello schianto fu una eco delle sue parole.
 “… non ho mai fatto nemmeno un incidente …”
E gli dispiacque che dovesse essere proprio Catena a dover assistere ad uno spettacolo del genere.
 
<< Quell’idiota deficiente! Venti minuti a piedi mi ha fatto fare! >>
Miki non poteva proprio fare a meno di pensare che quella sera Aleksej fosse uscito un po’ troppo fuori dai gangheri. Non faceva altro che camminare avanti e indietro percorrendo l’intero perimetro della stanza, incrociando le braccia al petto, gesticolando follemente contro il cugino assente e rivolgendole ogni tanto qualche occhiataccia, come se la colpa dell’atteggiamento scontroso di Gabriele fosse tutta sua.
<< Beh Alješa … avresti potuto evitare di rimproverarlo in quel modo. Dopotutto si era impegnato sul serio, e lo sai quanto è svogliato tuo cugino >>
Aleksej interrupe la marcia forsennata e fulminò Miki con lo sguardo assottigliando ancora di più i taglienti occhi azzurri, alla luce tenue della lampada le lentiggini sul suo viso erano accentuate in maniera sorprendente.
Se non fosse stato così di malumore Miki le avrebbe baciate una ad una.
<< Sei dalla sua parte allora? Beh, fai come vuoi! Se vuole farsi bocciare un’altra volta sono solo fatti suoi! >>
Miki sospirò pesantemente in seguito all’invettiva furiosa del fidanzato, era andata a trovarlo per passare il pomeriggio con lui e si era ritrovata a dover sopportare il suo malumore.
Erano state rare le volte in cui Miki aveva assistito ad un litigio tra Aleksej e Gabriele, ma ultimamente non sembravano fare altro, e quello della mattina era stato piuttosto feroce.
<< Aleksej, oggi hai esagerato con Gabriele >> Sbottò Miki incrociando le braccia al petto a sua volta, Aleksej fece per aprire immediatamente la bocca ma lei non glielo permise << N0n devi attaccarlo ogni volta che fa qualcosa che non va! Non è così che lo invoglierai a parlare con te di qualsiasi cosa lo affligga! >>
Aleksej rimase per alcuni istanti a bocca aperta, combattendo con se stesso contro la tentazione di replicare ancora una volta con acidità, alla fine sbuffò sonoramente e si arrese.
Sciolse la stretta delle braccia e con passo stanco percorse quei pochi metri che lo separavano da Miki e si lasciò cadere di schiena sul letto, spossato.
<< Gabriele sta soffrendo Aleksej, sta male >>
<< Lo so! Ed è proprio questo che mi fa incavolare! Se sta male … perché non si affida a me? E’ stato lui a dirmi che dovevo sempre dirgli tutto, perché non fa lo stesso quell’idiota?! >>
La voce di Aleksej salì nuovamente di tono sulle ultime parole, ma la rabbia si sgonfiò immediatamente, sbuffò infastidito e si sfregò con forza gli occhi arrossati.
 << Ehi Alješa, hai mai pensato che Gabriele non possa parlarne con te? >>
Aleksej aggrottò le sopracciglia quando sentì quelle parole, smise di strofinarsi gli occhi e li puntò sulla fidanzata, che con uno sbuffo sonoro si lasciò cadere al suo fianco.
<< Cosa intendi dire? >>
<< Magari è qualcosa di cui non riesce a parlare. Qualcosa di cui si vergogna, qualcosa che non riesce a dire nemmeno a te >>
Aleksej sembrò rifletterci su per un attimo, poi sospirò sonoramente e si girò su un fianco, prendendo la mano della fidanzata tra le sue e cominciando a giocare sul suo palmo con le dita, Miki sospirò sonoramente e con la mano libera accarezzò i capelli ribelli del fidanzato.
<< Anche io mi vergognavo di quello che ti avevo fatto … ma gliene ho parlato lo stesso >>
Bisbigliò Aleksej avvicinandosi maggiormente al viso di Miki, le cose erano andate sempre peggio da quando aveva cominciato a litigare con Gabriele per ogni sciocchezza.
La cosa che più lo destabilizzava, era il non sapere affatto come comportarsi.
Accarezzò distrattamente il viso morbido e caldo di Miki e sentì in lontananza lo squillare del telefono di casa, immediatamente interrotto dalla risposta di qualcuno, fece per avvicinarsi e dare finalmente un bacio alla sua fidanzata quando il cellulare gli vibrò in tasca.
Sbuffando sonoramente, lui e Miki si tirarono a sedere sul letto e guardarono accigliati lo schermo.
<< Catena? Perché hai il numero di Catena? >>
Domandò immediatamente Miki, Aleksej aggrottò ancora di più le sopracciglia.
<< Me lo diede l’anno scorso per una ricerca … >>
Replicò distrattamente il biondo, accettando la chiamata e portandosi il cellulare all’orecchio. Miki lo osservò attentamente per tutto il tempo, perché Aleksej non produsse una sola parola per tutto il tempo della conversazione al telefono, il suo volto sembrava primo di espressione, non muoveva nemmeno un muscolo.
Quando mise giù senza dare alcuna risposta, Miki gli afferrò un braccio e aprì bocca per dire qualcosa, ma quasi contemporaneamente la porta della camera si spalancò in un botto tremendo e Yulian, il padre di Aleksej, entrò dentro con la faccia pallida e ancora il telefono di casa in mano.
<< Dobbiamo immediatamente correre all’ospedale Aleksej! Gabriele ha …>>
<< … fatto un incidente stradale >>
La voce di Aleksej uscì quasi come un rantolo strozzato mentre pronunciava quelle parole guardando il padre, Miki si portò automaticamente entrambe le mani sulle labbra.
Aleksej era così atterrito che non sapeva se fosse reale o tutto solamente un terribile incubo che non gli dava tregua, in quel momento non riusciva proprio a distinguere tra le due cose, ma una cosa certa la sapeva.
Avrebbe preferito litigare con Gabriele mille volte al giorno, piuttosto che provare l’angoscia che gli stava attanagliando lo stomaco in quel momento.
Non lo faceva respirare dalla paura.
Era insistente, opprimente.

___________________________________
Effe_95

Buona sera a tutti :)
Lo so che ultimamente comincio le note dicendo sempre la stessa cosa, ma è doveroso che io mi scusi per il terribile ritardo. Questa volta mi sembra proprio di avere esagerato.
Comunque sono in piena sessione estiva e ho appena dato due esami e dovrò darne altrettanti, quindi il tempo per scrivere è un po' diminuto. Inoltre, il mio problema, il "blocco" che mi è venuto non sembra volere andarsene, tuttavia io non mi arrendo e continuo imperterrita.
Spero solo questo non rovini la qualità del lavoro :S
Lo so che torno dopo così tanto tempo, con un capitolo del genere tra l'altro!
Nella prima parte troviamo uno Zosimo leggermente diverso, più imbarazzato e confuso, mentre Alessandra sembra essere più sicura di se stessa. Spero vi sia piaciuta questa caratterizzazione.,
Nella seconda parte non è stato un caso che io abbia voluto far incontrare proprio Gabriele e Caterina, sebbeno siano molto diversi, hanno parecchie cose in comune secondo me.
Ora lo so che sono stata tremenda a finire il capitolo così, e che vorrete eliminarmi dopo quello che ho combinato al povero Gabriele, ma vi prego di non farlo!
Fidatevi di me ;)
L'ultima cosa e poi smetto di infastidirvi con la mia logorroicità.
Nella terza parte Catena chiama Aleksej con il cellulare, mentre io nella seconda parte avevo scritto che era scarico, NON è un errore! E' una cosa voluta, perchè nel frattempo Catena è salita a casa e ha avuto tutto il tempo di metterlo a caricare.
Allora, grazie mille davvero di cuore come sempre alle fantastiche ragazze che recensiscono e mi danno sempre la carica, anche nei momenti "no" della scrittura.
Siete il mio motore :)
Grazie mille ancora davvero e alla prossima.
Cercando di essere un po' più veloce. 

 
 
 
 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 43
*** Fiera di te, Mi dispiace e Con calma. ***


I ragazzi della 5 A
 
43. Fiera di te, Mi dispiace e Con calma.

Febbraio

Cristiano lasciò andare l’evidenziatore solamente quando le parole presero a vorticare freneticamente sul foglio. Non sapeva con precisione da quante ore stesse sul quel libro di letteratura greca, ma Teocrito non voleva entrargli in testa in alcun modo.
Appoggiò con spossatezza la schiena sullo schienale della sedia, allungò le gambe sotto la scrivania e stiracchiò le braccia dietro la testa lasciandosi andare ad uno sbadiglio rumoroso.
Con gli occhi leggermente appannati dalle lacrime del sonno, spostò distrattamene lo sguardo sull’orologio digitale sistemato nell’angolo dell’ingombra scrivania e si accorse che erano ormai le otto passate.
Chiuse con malagrazia il libro di greco, ripromettendosi di riprenderlo in mano più tardi, e scostò distrattamente la tenda per osservare il panorama imbiancato e silenzioso della strada sottostante.
Il vetro era leggermente appannato a causa della condensa e i lampioni apparivano come tante macchie sfocate di luce attraverso le goccioline d’acqua che precipitavano con una sequenza sorprendente, Cristiano appoggiò timidamente le dita sul vetro e si bagnò i polpastrelli, quando ritrasse la mano le impronte delle sue dita erano ben visibili.
<< Signorino, è pronta la cena >>
La voce lontana di Marta lo fece sobbalzare strappandolo dai pensieri affollati che gli riempivano senza tregua la mente, si allontanò leggermente dalla scrivania dandosi una piccola spinta con le mani, infilò le pantofole e si tirò in piedi aggiustando svogliatamente il pantalone largo del pigiama sceso pericolosamente oltre il bordo delle mutande.
Quando lasciò la sua stanza trovò il corridoio completamente immerso nel buio, se non fosse stato per il fascio di luce che usciva dalla porta semichiusa della cucina, Cristiano avrebbe facilmente creduto di essere solo.
Sospirò pesantemente e si incamminò con passo lento, non era una novità cenare da solo, in realtà non faceva altro che stare da solo da quando aveva l’età di sette anni, ma almeno un tempo, quando aveva finito di cenare, poteva andare distrattamente in salotto ed osservare sua madre profondamente addormentata sul quel divano che non era riuscito a salvare.
Suo padre l’aveva fatto buttare subito dopo che lui ne era uscito fuori.
Un giorno era tornato da scuola e aveva trovato l’intera stanza completamente cambiata, le tende, la posizione della parete attrezzata, dei divani nuovi fiammeggianti, del tappeto e del lungo tavolo antico. Cristiano aveva provato una rabbia insolita, una rabbia che aveva sostituito senza troppa remore quell’apatia persistente che lo aveva sempre protetto quando si trattava di avere a che fare con suo padre.
Cristiano non aveva mai gridato così tanto come quella sera, quando Emanuele Serra era rientrato a casa si era ritrovato un figlio infuriato nell’ufficio, avevano gridato talmente tanto che il giorno dopo entrambi non avevano più voce.
A Cristiano non era importato molto sentirsi dire di essere tale e quale a sua madre, che avrebbe fatto la sua stessa fine, di essere un fallito e un peso inutile.
Tutte quelle cose le aveva già sentite moltissime volte, e non gli dava più peso.
Era diventato così bravo a non provare più nulla.
Piuttosto, era stato Emanuele a restare senza parole alla fine, non aveva mai sentito tutte quelle cose che Cristiano gli aveva riversato addosso come veleno e non l’aveva mai visto arrabbiato, in effetti, non l’aveva visto e ascoltato mai.
Non si parlavano da quel giorno e facevano il possibile per non incrociarsi nemmeno.
In realtà era da tre giorni che suo padre dormiva fuori casa dalla sua amante.
Cristiano scosse freneticamente la testa quando raggiunse la cucina, non voleva in nessun modo che i suoi pensieri uscissero fuori, non voleva che Marta capisse cosa gli passasse per la testa in quel momento.
La donna gli dava le spalle, indossava un grembiule blu sopra la solita divisa in bianco e nero, i capelli scuri legati sempre in uno chignon erano impeccabili come al solito.
Trafficava frettolosamente con padelle, pentole e mestoli.
Cristiano non ricordava con precisione quando Marta fosse arrivata a casa, non aveva memorie del suo arrivo, per lui c’era sempre stata, una donna piccola e taciturna che occupava la stanza della servitù e viveva con loro.
Era una cameriera, doveva obbedire ai suoi ordini e chiamarlo signorino.
Gli avevano insegnato che le cose funzionavano così con lei.
Cristiano non la pensava più in quel modo da parecchio tempo ormai.
<< Cos’hai cucinato Marta? >>
La donna sobbalzò esageratamente quando Cristiano decise di palesare la sua presenza, il mestolo che stringeva tra le mani traballò leggermente e del sugo cadde sul tappeto.
Cristiano finse di non accorgersene e si diresse con passo lento e strascicato verso l’enorme tavolo di vetro apparecchiato per una sola persona.
Aveva sempre detestato quella cucina immensa e asettica, elettrodomestici di ultima generazione, mobili moderni … Cristiano detestava quella cucina perché sembrava priva di vita, sembrava che nessuno ci avesse mai mangiato.
<< Signorino io … io non l’avevo vista >>
Balbettò con aria imbarazzata Marta affrettandosi a ripulire il tappeto macchiato, Cristiano la osservò con occhi illeggibili, un gomito sul tavolo e una mano chiusa a pugno poggiata sulla guancia rasata di fresco quella mattina.
<< Marta … quando sei arrivata a casa? Non me lo ricordo >>
La donna sollevò lo sguardo sorpresa quando sentì quella domanda, osservò l’espressione apatica di Cristiano per alcuni secondi, poi gli diede le spalle e si affrettò a sciacquare lo straccio che aveva utilizzato per pulire il tappeto.
<< Non potete ricordarlo signorino, non eravate ancora nato >>
<< Davvero? >>
Quando gli lanciò un’altra occhiata veloce, Marta si accorse che Cristiano aveva incrociato le braccia sul tavolo davanti al piatto vuoto e la scrutava con uno strano interesse sul viso.
<< Si. Non so se conoscete questa storia, ma prima di avere voi … vostra madre ha avuto due aborti spontanei >> Cristiano aggrottò le sopracciglia e osservò attentamente Marta che afferrava un piatto dalla credenza mettendosi sulla punta dei piedi << Voi siete stato un vero dono per lei, un miracolo insperato per i signori. Il medico aveva detto che probabilmente non avrebbero potuto avere figli … e invece siete arrivato voi >> Cristiano continuava a tacere perché quella storia non l’aveva mai sentita, Marta gli stava riempiendo il piatto abbondantemente di qualcosa che nemmeno sapeva cosa fosse  << In quel periodo io avevo appena perso mia madre e stavo cercando un impiego. Non avevo famiglia e lei era l’ultimo parente che mi era rimasto … è stato allora che ho conosciuto vostro padre.
Mi ha offerto un posto fisso qui per assistere vostra madre durante la gravidanza.
Non avevo nulla da perdere e ho accettato >> La donna si girò reggendo tra le mani un piatto stracolmo e gli sorrise << Vi ho visto nascere signorino >>.
E gli mise la sua cena davanti, Cristiano osservò il cibo per alcuni istanti e poi sussultò leggermente sorpreso, Marta gli aveva preparato l’amatriciana, il suo piatto preferito.
<< Era da un po’ che non ve lo preparavo. Ho pensato vi facesse piacere >>
Commentò frettolosamente la donna gesticolando eccessivamente, Cristiano la fissò per un istante, i loro sguardi si incrociarono e lui si lasciò andare ad un sorriso sincero.
<< Mi fa molto piacere Marta >>
Aveva appena preso la forchetta per avvicinarla al piatto, quando Marta spostò la sedia e si mise seduta proprio davanti a lui osservandolo sorridente.
Cristiano era sempre stato abituato anche a quello, facevano in quel modo tutte le sere fin da quando era bambino, Marta cenava sempre da sola parecchie ore più tardi, dopo aver servito tutti ed essersi occupata della casa.
Cristiano quella sera lo trovava particolarmente fastidioso e sbagliato, non riusciva a mangiare dopo averci pensato.
<< Marta … >> La donna sollevò lentamente lo sguardo e sorrise incoraggiante, Cristiano esitò per un secondo, poi lasciò andare la forchetta nel piatto e si tirò improvvisamente in piedi slanciandosi verso la credenza, Marta era talmente sorpresa che non trovò le parole.
Si limitò ad osservarlo con la bocca leggermente spalancata mentre afferrava le posate, un bicchiere, un tovagliolino puliti, un piatto pieno di pasta e glieli sistemava davanti.
<< Mangia con me per favore, tutte le sere >> Replicò Cristiano rimettendosi seduto, non riusciva a guardare la donna negli occhi, ma sapeva di avere il suo sguardo sorpreso su di se.
<< Signorino, ma vostro padre … >>
<< Non me ne frega niente di cosa dice mio padre! >>
La replica di Cristiano fu talmente immediata che Marta ammutolì immediatamente.
<< Non … non mi va di mangiare da solo >> Si affrettò a continuare il ragazzo grattandosi leggermente la fronte con imbarazzo << E poi … chiamami Cristiano, va bene? >>
Quando sollevò lo sguardo Cristiano si rese conto che probabilmente quello era troppo per Marta, aveva le lacrime agli occhi e cercava di asciugarle con le dita.
<< Oh signorino, questo non posso prometterlo >>
Cristiano sorrise leggermente e lo fece anche Marta, si guardarono per alcuni secondi e poi presero a mangiare in silenzio per i primi minuti, silenzio che venne interrotto inizialmente con imbarazzo quando la donna gli domandò come andassero le cose a scuola.
A Cristiano bastò rispondere perché l’imbarazzo scemasse e tutta la cena fosse accompagnata dal loro chiacchiericcio continuo.
Cristiano non ricordava di essersi mai sentito così bene dopo una cena.
<< Sai Marta … sei più o meno l’unico motivo per cui ho voglia di tornare a casa la sera >>
Quel pensiero Cristiano non riuscì proprio a controllarlo, gli uscì spontaneo, senza freni.
Era stato sincero poche volte nella sua vita, era stato poco sincero prima di tutto con se stesso, aveva soffocato ogni tipo di sentimento perché gli era stato insegnato che amare o voler bene significava essere deboli, significava avere un punto debole.
Cristiano stava cominciando ad imparare che amare, o essere sincero, erano due cose che gli uscivano piuttosto semplici, più semplici di quanto avesse mai immaginato possibile.
Amare era più o meno come respirare, come gridare finalmente tutta la verità, buttarla fuori senza pensarci, senza ripensamenti, era come sbattere ripetutamente le ginocchia sul terreno duro, ferirsi le mani sull’asfalto consumato dal sole … amare era come il sorriso di Sonia alle otto del mattino di una giornata nuvolosa, prima di una noiosa lezione di matematica, amare erano i suoi capelli crespi tra le dita e gli incontri proibiti in palestra.
Cristiano si rese conto solo in quel momento di quanto avesse amato quando aveva quindici anni, era stato un amore che non aveva mai capito, un amore che non aveva mai davvero sentito, e che l’aveva colpito senza remore nel principio dei suoi diciotto anni.
Lasciò scivolare completamente le braccia fino ai gomiti nell’acqua sporca dei piatti, che aveva deciso di lavare a tutti i costi bagnandosi la maglietta del pigiama, e spalancò leggermente le labbra trattenendo il respiro come se qualcuno l’avesse colpito sul petto.
Quella consapevolezza, la consapevolezza che qualcuno l’avesse amato nonostante tutto il marcio che c’era in lui, fu come la carezza di sua madre prima di andare a dormire quando era bambino, fu come aver ricevuto un bacio sul cuore.
Cristiano sobbalzò leggermente quando una mano piccola e calda gli accarezzò una guancia asciugandogli quella lacrima solitaria scesa senza permesso.
<< Signorino … Cristiano voi … tu sei sempre stato come un figlio per me >>
<< E cosa ci hai visto in me, se non cattiveria e veleno? Perché avresti dovuto … >>
Le mani di Cristiano premevano inevitabilmente sul fondo sporco del lavello, tra piatti e bicchieri, altre lacrime scendevano dagli occhi arrossati.
<< Perché ho sempre pensato che tu … che quel bambino dai grandi occhi da cerbiatto che osservava tutto con entusiasmo, che correva la notte nel mio letto quando i genitori gridavano … ho sempre pensato che quel bambino avrei potuto salvarlo >>
Cristiano chiuse gli occhi e si lasciò andare ad un singhiozzo lamentoso da bambino, Marta gli sfilò delicatamente le braccia dall’acqua, gliele asciugò in uno strofinaccio e poi lo strinse in un abbraccio affettuoso, proprio come se stesse stringendo quel bambino di cui aveva parlato pochi istanti prima.
Cristiano ricordava di non aver mai avuto un abbraccio così materno.
<< E ho pensato bene. Sono proprio fiera di te >>
<< Ma … >>
<< E non è mai troppo tardi per aggiustare le cose. Non è mai troppo tardi, se nemmeno ci hai provato … bambino mio >>
Cristiano ispirò profondamente, strinse forte le braccia attorno all’esile figura di Marta e chiuse ancora una volta gli occhi.
Vide riflessi blu in un mare di nero, sentì il suono di una risata cristallina …
Vide due occhi verdi e luminosi.
 
<< Sei un incosciente! Cosa ti abbiamo insegnato io e tuo padre?! A volte penso davvero di essere stata troppo indulgente con te. Ti ho sempre perdonato tutto, la bocciatura, il caratteraccio … ma questo proprio no! Questo proprio non posso! Non posso perdonarti di aver rischiato di morire in quel modo! Non ti permetterò più di mettere piede su quella macchina nemmeno se … >>
<< Lara, adesso piantala! >>
Gabriele non aveva idea se fosse rimasto più stordito dall’invettiva di sua madre o dal grido esagerato e categorico di suo padre, poi ci pensò un po’ su e si rese conto che probabilmente lo stordimento era dato dall’anestesia recente.
Gli girava la testa, aveva un dolore insopportabile al braccio destro e un fastidio pungente alla coscia sinistra, ma tutto ciò non sembrava impressionare sua madre nemmeno un po’.
Da quando aveva aperto gli occhi, nauseato e con la vista appannata, Lara non aveva fatto altro che urlargli contro con le lacrime agli occhi, Gabriele aveva prestato ascolto solo a metà del discorso, perché era troppo concentrato a cercare di nuovo la sensibilità del corpo.
Aveva capito che quelle grida non erano nient’altro che la dimostrazione d’amore di sua madre, ma Gabriele lo trovava piuttosto fastidioso quando la testa gli sbatteva in quel modo.
<< Non lo vedi che non riesce nemmeno a tirare la lingua fuori dalla bocca?! >>
Gabriele aggrottò leggermente le sopracciglia e cercò di articolare alcune parole, poi si accorse di non riuscirci, sollevò leggermente il braccio sinistro e afferrò con le punte insensibili delle dita il bordo della maglietta di suo padre, tirandola.
Nicola e Lara si girarono contemporaneamente verso di lui, Gabriele li vide bene in faccia per la prima volta da quando aveva ripreso conoscenza, sua madre aveva gli occhi gonfi di pianto, suo padre sembrava provato e aveva il viso pallido e teso.
Era messo davvero male?
Non ricordava assolutamente nulla dell’incidente, l’ultima cosa che aveva visto era stato il viso pieno di terrore di Catena, ricordava di aver pensato a Katerina sono per un momento.
<< Gabriele, Gabriele, cosa c’è che non va? Ti fa male il braccio? >>
Sua madre si chinò immediatamente su di lui dimenticando di avergli urlato contro solamente pochi istanti prima, Gabriele aprì la bocca per articolare qualche parola ma ancora una volta non ci riuscì, era come se i comandi non arrivassero correttamente.
<< Nicola, perché non parla? Hanno detto che non ha avuto danni alla testa … >>
<< È l’anestesia Lara, l’hanno dovuto operare al braccio è normale che … >>
Gabriele si estraniò completamente alla conversazione, sentiva la testa sempre più pesante, come un palloncino che si gonfiava incessantemente, aveva paura che prima o poi sarebbe scoppiata. Aveva fatto proprio un bel casino, aveva proprio superato se stesso.
La consapevolezza del pericolo che aveva corso lo investì in pieno petto, sentì il respiro accelerare freneticamente e le lacrime salire agli angoli degli occhi.
Aveva rischiato di morire.
Aveva rischiato di morire senza salutare nessuno …
Senza che Katerina potesse mai sapere la verità, senza che Aleksej potesse perdonarlo …
Gabriele aveva sempre saputo di essere uno stupido, ma credeva fermamente di aver superato se stesso, non poteva toccare il fondo più di quanto non stesse facendo.
Non era mai stato un buon figlio, né un buon amico, e con Katerina aveva dimostrato di non essere nemmeno in grado di fare il fidanzato …
<< Gabriele! Perché piangi? >>
Mi dispiace mamma, mi dispiace …
Gabriele avrebbe voluto gridare quelle parole con tutto il fiato che aveva in gola, ma non ci riusciva, era stanco e voleva dormire, voleva solo chiudere gli occhi bagnati di lacrime.
<< Nicola! Oddio Nicola perché piange?! >>
Mi dispiace papà, mi dispiace davvero …
Gabriele vide suo padre afferrare sua madre per le braccia e scuoterla leggermente, lo vide voltarsi verso di lui e passargli una mano sulla fronte come faceva quando era piccolo e aveva la febbre, lo vide domandargli qualcosa che Gabriele non riusciva a capire.
Mi dispiace veramente per tutto …
 
Quando riprese nuovamente conoscenza Gabriele si rese conto di riuscire a muovere perfettamente tutti gli arti del corpo, compresa la lingua, anche se la sentiva impastata e un  sapore cattivo non faceva altro che provocargli fastidio allo stomaco.
Sbatté ripetutamente le palpebre, giusto per focalizzare meglio tutti quegli occhi che lo fissavano dall’altro lato della stanza. Vide i suoi genitori e sua sorella alla destra del suo letto, alla sinistra c’era sua nonna paterna, Luna, con la divisa da medico che controllava meticolosamente la sua cartella clinica, vicino la finestra invece c’erano sua zia Claudia e suo zio Yulian insieme ad Ivan e Aleksej, i figli più grandi.
E per ultimi, infondo alla stanza, c’erano Francesco e Iliana.
Gabriele prestò poca attenzione a Jurij, ma il suo sguardo non poté fare a meno di soffermarsi sulla figura minuta, rannicchiata e sofferente di Katerina, che lo guardava con gli occhi spalancati come se fosse un fantasma.
Gabriele scostò immediatamente lo sguardo, le aveva fatto talmente male con quell’ultima stupidaggine, che non meritava nemmeno di poterla guardare.
<< Nonna, ha aperto gli occhi! >> Alessandra gridò ad alta voce quello che gli altri già avevano notato, ma nessuno replicò nulla, nella stanza regnava un silenzio piuttosto surreale per una famiglia chiassosa come la loro.
<< Ho visto, allora … >> Gabriele vide sua nonna chinarsi su di lui con il solito sorriso dolce sulle labbra sottili, i capelli striati di bianco erano raccolti in una coda ordinata, aveva tante rughe attorno alla bocca e agli angoli degli occhi, e alcune parti del viso portavano le macchie dell’età << … tira fuori la lingua Gabriele, fammi vedere un po’ come fai uhm? >>
Il tono di sua nonna era gentile, mesto, lo stesso tono che usava quando era bambino e gli chiedeva qualcosa, quando gli cantava la ninna nanna o gli proponeva di mangiare una fetta delle sue torte inventate. Mentre eseguiva il comando senza difficoltà, Gabriele notò che sua nonna profumava di lavanda e che aveva anche lei gli occhi rossi.
<< Mi fa male il braccio … >>
La voce gli uscì come un gracidio, ma provò un sollievo evidente quando riuscì a tramutare i pensieri in parole, avrebbe volto gridare fino a farsi bruciare la gola.
<< Ha parlato! >> Il commento di sua madre suonò a vuoto nella stanza.
<< Certo che ti fa male il braccio! >> Intervenne bruscamente Aleksej, spingendo da parte il fratello Ivan e avanzando verso il letto senza remore, Gabriele vide lo scarso tentativo di sua zia Claudia di trattenerlo, ma Aleksej procedette come se lei non lo avesse nemmeno sfiorato << Ti hanno dovuto operare e hai tredici punti di sutura se proprio vuoi saperlo! >>
Aleksej aveva gli occhi gonfi e stravolti, i capelli scombinati e i vestiti stropicciati.
<< Ah, ti sei anche ferito la gamba e ben ti sta! Così impari a … >>
<< Aleksej! >>
<< Mi dispiace >>
Il rimprovero tuonante di zio Yulian venne immediatamente stroncato dalle parole di Gabriele, nella stanza tutti si girarono a guardarlo, ma lui aveva gli occhi stanchi fissi in quelli del cugino più piccolo, del suo migliore amico.
Gabriele avrebbe voluto che Aleksej capisse quanto altro c’era dietro quelle parole, per quante cose gli stesse chiedendo scusa, che era stanco, mortificato ed umiliato.
Che avrebbe voluto avere un po’ più di coraggio.
Aleksej non replicò nulla, ma continuò a fissarlo dritto negli occhi, a leggerlo.
<< Va bene, adesso basta però. Deve riposare, usciamo tutti eh? >>
Il tono di sua nonna era stato gentile, ma c’era anche qualcosa di assolutamente categorico nelle sue parole, così pochi istanti dopo Gabriele si ritrovò da solo nella stanza e cedette nuovamente al sonno senza che nemmeno se ne accorgesse.
Quando riaprì gli occhi per la terza volta quel giorno, il sole dalla finestra stava per tramontare e la stanza era in apparenza vuota.
In apparenza, perché non appena voltò leggermente la testa alla sua sinistra incrociò la figura rannicchiata di Katerina nella poltrona, che dormiva profondamente.
Gabriele non provò nessuna sorpresa, nessun tipo di sconvolgimento interiore, era come se in fondo se lo aspettasse di trovarla lì, come se il suo cuore avesse avuto quella consapevolezza da sempre.
Katerina dormiva profondamente, aveva il respiro pesante e il petto si alzava e si abbassava ritmicamente, come a voler confermare con tutte le forze che era viva e bella e giovane.
I capelli corti erano leggermente scombinati nel lato che poggiava sullo schienale della poltrona e sulla guancia destra aveva il segno rosso di un braccialetto di cuoio che portava al polso, Gabriele sussultò leggermente a quella vista, cercò di alzarsi sui gomiti ma venne raggiunto da una fitta lancinante al braccio destro, spostò lo sguardo e vide che era bendato dal polso fino alla spalla.
Dov’era il braccialetto di Katerina?
Puntellandosi sul fianco sollevò leggermente la schiena, provocandosi un moto di nausea dato dall’anestesia ancora recente, e rivolse un’occhiata alla stanza fino a quando i suoi occhi non incontrarono il luccichio familiare proprio sul comodino, accanto ad una bottiglia d’acqua che doveva essere caldissima dato le bollicine che ne incorniciavano la superficie.
Gabriele sospirò sollevato e appoggiò meglio la schiena sul cuscino, aggiustandoselo alla bell’e meglio con il braccio sano, qualcuno gli aveva infilato uno dei suoi pigiami, anche se era leggermente sollevato sulla gamba sinistra lì dove si trovava un’enorme cerotto macchiato di sangue, strizzando leggermente gli occhi Gabriele si rese conto che tutto sommato non era messo malissimo, se non fosse stato per l’operazione al braccio se la sarebbe cavata con poco.
Rimase in silenzio per alcuni secondi, era un silenzio opprimente che stava cominciando a detestare, l’odore d’ospedale gli aveva sempre dato fastidio e il ticchettio rumoroso delle macchine lo infastidiva particolarmente.
L’aria gli sembrava pesante in quella stanza con le tende tirate, non entrava la luce del tramonto e tutto sembrava scivolare lentamente nella penombra, l’unica cosa che lo faceva desistere dall’alzarsi da quel letto e scappare era la ragazza addormentata sulla poltrona.
Katerina era come un raggio di sole, come il filo nel labirinto.
Gli dava calma, gli dava forza.
Lei si svegliò quasi di soprassalto, come se avesse fatto un brutto sogno, Gabriele la vide alzarsi di colpo dalla sedia stringendo forte i braccioli e guardarsi intorno con gli occhi ancora arrossati dal sonno, ma l’aria di una persona vigile che si domandava cosa stesse succedendo. Quando Katerina sembrò essersi abituata all’ambiente e alla situazione in cui si trovava, Gabriele spostò gli occhi verso la finestra e fissò ostinatamente le pieghe giallastre della tenda.
<< Gabriele … >>
<< Non mi guardare! >> La replica del ragazzo fu talmente veloce e violenta che Katerina sobbalzò e rimase immobile dov’era << Non voglio che tu mi veda in queste condizioni >>.
Katerina sospirò pesantemente, fece qualche passo avanti e si mise seduta sul bordo del letto dandogli le spalle, sembrava ingobbita in quella posizione, era stanca.
<< Se ti stai chiedendo come faccio ad essere ancora qui … ho pregato la nonna di lasciarmi restare con te. Me ne tornerò a casa con lei non appena avrà terminato il turno >>
Gabriele tenne ostinatamente lo sguardo fisso sulla tenda con gli occhi che bruciavano.
<< Ah, non preoccuparti … la nonna già sapeva che ero innamorata di te. L’ha scoperto mesi fa quindi non mi ha fatto storie … anzi, mi ha aiutata con papà senza che lui capisse >>
Gabriele si morse violentemente il labbro e con la mano buona strinse forte le lenzuola, non voleva che Katerina parlasse proprio di quelle cose, non gli importava più in quel momento che tutti lo scoprissero, non gli importava niente di quello …
Gli importava solamente la consapevolezza di aver rischiato di morire senza poter dire a Katerina tutto quello che voleva dirle … senza trovare le parole.
Spostò finalmente lo sguardo dalla tenda e lo puntò sulla sua schiena curva, le mani di Katerina tremavano mentre parlava, tremavano violentemente, Gabriele agì quasi di istinto probabilmente, sollevò la schiena e con il braccio sinistro le circondò la vita stringendola verso di se, facendo in modo che potesse appoggiare la fronte sulla sua schiena ossuta e piangere senza che lei lo potesse vedere, lasciandosi travolgere da quell’odore di cocco familiare che tanto gli piaceva, lasciandosi trascinare dai ricordi di quando lei entrava nella sua macchina inebriandola di quel profumo e dalla consapevolezza di quanto gli fosse mancato quel piccolo particolare ogni volta che la vedeva passare.
<< Mi dispiace … non lo farò più, te lo prometto >>
Gli era molto più semplice sussurrare in quel modo, mentre le lacrime scendevano dagli occhi e sgocciolavano dalla punta del naso sulle lenzuola bianche.
<< Non farò più nulla di tutto quello che ho fatto … mi prenderò cura della mia vita >>
Gabriele soffocò a stento un sussultò di stupore quando Katerina si girò di scatto e lo abbracciò con foga, con impeto, senza curarsi dell’ago che aveva nel braccio sano, o di quando gli stesse facendo male a quello operato.
Lo abbracciò perché aveva la necessità di farlo, di sentire che stava bene, che era vivo, e Gabriele lo capì e la lasciò fare, si lasciò ricadere con la schiena sul letto e lasciò che lei lo abbracciasse fino a sentire caldo, fino ad abituarsi all’idea di averla così addosso.
<< Certo che ti prenderai cura della tua vita! >>
Sbottò lei con la voce soffocata nel suo petto.
<< E mi prenderò cura di te, se lo vorrai … quando vorrai … >>
Gabriele non riuscì a proseguire quella frase, perché proprio non sapeva cos’altro poter aggiungere, come farlo, non ne aveva il coraggio o la forza in quel momento.
Voleva solamente che Katerina capisse.
<< Ne parleremo con calma … >>
La calma.
Di calma Gabriele non ne aveva mai avuta, nemmeno un po’.
Di calma però quel giorno ne avrebbe avuta fino a soffocare, se significava poter avere Katerina ancora un po’ tra le sue braccia, anche se ferite.
Anche se stanche.



__________________________________
Effe_95

Salve a tutti :)
Allora, posso dirvi ufficialmente e con immenso piacere che finalmente ho terminato la sessione estiva!
Sono riuscita a dare tutti gli esami che volevo e a passarli, quindi sono proprio soddisfatta e contenta.
Spero vivamente che questo capitolo vi piaccia, è stato davvero molto difficile da scrivere, soprattuto la parte tra Gabriele e Katerina. 
Infatti, come avrete notato, non ha una vera e proprio conclusione.
Questa decisione l'ho presa perchè voglio che Katerina e Gabriele parlido davvero, per bene, quindi avranno una parte dedicata completamente a loro più avanti, che qui avrei dovuto sacrificare.
Vi prometto che da adesso gli aggiornamenti saranno molto più veloci, non lascerò più passare così tanto tempo fino alla prossima sessione prometto xD 
Grazie mille come sempre per il vostro sostegno infinito.
Risponderò prestissimo alle recensioni.

Alla prossima spero :)

Ritorna all'indice


Capitolo 44
*** Precocemente, Forte e La vicina di Lisandro. ***


I ragazzi della 5 A
 

44. Precocemente, Forte e La vicina di Lisandro.  
 

Marzo

Giasone non aveva la minima idea di come fosse finito in quella situazione.
Come ogni volta che si trovava con Muriel, succedeva sempre qualcosa di cui non poteva o non riusciva ad avere il controllo, ed era una cosa che detestava.
Dovevano andare al cinema quella sera d’inizio Marzo, doveva essere una normale serata tra fidanzati e Giasone l’aveva in parte pianificata tutta nella sua mente.
Sarebbe andato a prendere Muriel sotto casa, avrebbero preso insieme la metropolitana e raggiunto il posto stabilito, avrebbero scelto insieme un bel film romantico da vedere e la serata sarebbe andata per il verso giusto.
Quando molte ore più tardi Giasone si ritrovò a ripensare a tutta la serata, si rese conto con il senno di poi che avrebbe dovuto essersi abituato da un pezzo al fatto che le cose con Muriel non andassero mai come le aveva programmate, che lei era sempre diversa.
Era andato tutto secondo i piani fino a quando non era arrivato sotto casa sua e l’aveva chiamata perché scendesse, al cellulare aveva risposto suo padre con voce allegra per informarlo del fatto che Muriel era ancora sotto la doccia.
Giasone aveva risposto che l’avrebbe aspettata giù e aveva chiuso la comunicazione ancora prima che l’uomo potesse ribattere altro, imbarazzato a morte.
Era seduto sul muretto da nemmeno due minuti, a rimuginare sul fatto che sarebbero arrivati tardi al cinema sicuramente, quando si era aperto il portone del palazzo e un uomo sulla quarantina si era affacciato con un sorriso allegro sulla faccia.
Giasone ci aveva messo un po’ per capire che stava fissando proprio lui, il primo pensiero che ebbe fu che si trattasse di un pazzo che volesse aggredirlo, poi l’uomo l’aveva chiamato per nome, gli aveva afferrato una mano con calore e aveva dichiarato di essere Nathan, il padre di Muriel.
Giasone era rimasto impalato per alcuni secondi prima di rendersi conto che quell’uomo era sceso giù per andare addirittura a prenderlo, che lo stava trascinando verso l’ascensore e che sembrava ancora un diciottenne con quei vestiti che indossava.
Giasone si era ritrovato a starsene seduto sul divano del salotto di Muriel, di fronte ad un tavolino ingombro di documenti, carte e candele sciolte, con Nathan che lo fissava allegramente, senza nemmeno sapere come fosse realmente successo.
Gli sembrava tutto un incubo.
E la sua serata aveva preso una piega completamente diversa da quella aspettata.
Nathan era una persona completamente diversa da quella che aveva immaginato, quando Muriel gli aveva parlato dei suoi genitori e gli aveva detto che suo padre era un ingegnere, Giasone aveva immaginato un uomo severo sempre in giacca e cravatta.
Nathan non era per niente così.
Aveva folti capelli scuri scombinati, ribelli e grigi in alcuni punti, la pelle era scura, gli occhi erano espressivi e verdi come quelli della figlia, indossava una maglietta grigia a mezze maniche nonostante fuori la neve non fosse ancora sciolta del tutto e il braccio destro era completamente ricoperto di tatuaggi, dalla mano fino alla base del collo.
Portava dei jeans stretti e stracciati che lo facevano sembrare ancora di più un ragazzino e aveva il sorriso facile, espansivo e solare come Muriel.
In effetti, le assomigliava tantissimo.
<< Finalmente ho il piacere di conoscerti! Sei il famoso coach, Giasone, quello che ha strigliato per bene mia figlia durante una partita giusto? >>
Giasone arrossì fino alla punta dei capelli quando Nathan gli rivolse quella domanda con un sorriso strepitoso sulle labbra, era seduto proprio di fronte a lui e lo scrutava attentamente con le mani grandi e callose intrecciate sulle gambe, sembrava piuttosto rilassato.
L’esatto contrario di Giasone, che non faceva altro che torcere le dita sudate.
Non era nella lista dei suoi desideri recenti conoscere i genitori di Muriel, in realtà Giasone aveva immaginato quel momento come qualcosa di piuttosto lontano nel tempo, non sapeva nemmeno se il giorno dopo avrebbe continuato a stare con lei, erano così giovani per pensare a certe cose.
<< Ehm io … ecco, era per la … insomma … >>.
Nathan scoppiò a ridere con vigore di fronte ai continui balbettii di Giasone e il biondo si ammutolì, incassando il colpo come se qualcuno l’avesse schiaffeggiato, doveva avere le guance in fiamme in quel momento.
<< Hai fatto benissimo! Quel giorno Muriel non faceva altro che combinare guai. Un bravo coach deve avere il polso fermo quando si tratta di prendere una decisione per il bene della squadra >> Nathan terminò la frase facendogli l’occhiolino, aveva qualche ruga attorno agli occhi e agli angoli della bocca, ma era difficile stabilire quanti anni avesse, sembrava quasi che fosse rimasto bloccato nel tempo a quando andava ancora all’università.
<< Sei il fidanzato di mia figlia? >>
Giasone rischiò di cadere dal divano quando arrivò quella domanda, non aveva saputo come replicare a quella precedente per cui era rimasto in silenzio a scorticarsi le mani, era stata assolutamente una pessima idea, guardò Nathan negli occhi e annuì leggermente.
Non si era mai sentito in imbarazzo come in quel momento, sembrava che la lingua fosse sparita da qualche parte lasciandolo senza la facoltà di parola.
<< S-stiamo insieme da qualche mese … da Dicembre! >>
Giasone avrebbe voluto mordersi la lingua per quella risposta, l’aveva buttata fuori senza criterio pur di far sentire la sua voce, pur di dare anche solo per un attimo l’idea di essere tranquillo, anche solo per apparenza, ma aveva come la sensazione di non esserci riuscito.
<< Muriel ti ha parlato di noi? Io sono un ingegnere! >> Commentò Nathan con aria allegra, poi lanciò un’occhiata al tavolino ingombro e sussultò come se si fosse accorto solo in quel momento del disordine che regnava sovrano nella stanza << A proposito, tutte queste carte non dovrebbero essere qui! Stiamo lavorando a un progetto davvero interessante ultimamente … ah, non ti ho offerto nulla, che maleducato! Vuoi una fetta di torta? Mia moglie è davvero … >> L’uomo aveva pronunciato quella raffica di parole mentre raccoglieva un foglio dietro l’altro, si alzava in piedi con le braccia stracolme di carta e interrompeva la frase a metà perché proprio in quel momento si era aperta la porta di casa.
Giasone sarebbe voluto sprofondare sotto terra, rivolse un’occhiata allucinata al padre di Muriel e si girò verso la porta di casa, sul cui uscio se ne stava una donna con lunghi capelli neri raccolti in uno chignon tenuto da una matita, caldi occhi marroni e il naso all’insù.
Aveva tra le mani delle buste della spesa, indossava un lungo cappotto nero aperto su un vestito color senape alla romana legato in vita da un cinturino di pelle marrone, delle calze color carne le fasciavano le gambe magre e ossute e i piedi calzavano un paio di scarpe di stoffa gialla con la zeppa di sughero << Oh, Teresa! Guarda un po’ chi è salito? >>.
Giasone saltò in piedi quando la donna avanzò nella stanza, aveva tolto il cappotto e lasciato le buste della spesa nel piccolo ingresso, non assomigliava a Muriel nemmeno un po’.
<< Il famoso Giasone? >>
L’esordio di Teresa fece sentire Giasone ancora di più in imbarazzo, sembrava che in quella famiglia avessero tutti sentito parlare di lui in qualche modo, non gli era difficile immaginare Muriel che parlava a tutta forza definendolo uno scimmione peloso, un coach dispotico e tutta una serie di altri epiteti che lo stesso Giasone stava scoprendo un po’ alla volta.
<< Si, sono io. Piacere di conoscerla >>
Teresa gli fece un bel sorriso e Giasone cercò di ricambiare il gesto senza sembrare troppo spaventoso, Ivan gli aveva sempre detto che non aveva la tendenza al sorriso, che le sue labbra tendevano naturalmente verso il basso, e quindi quelle poche volte che si accingeva a compiere quel gesto risultava essere piuttosto spaventoso.
Giasone aveva chiesto a Muriel se fosse vero.
Avrebbe voluto non averlo mai fatto.
<< Vuoi una fetta di torta? L’ho fatta io proprio stamattina >>
<< Stavo esattamente per proporgli la stessa cosa! >>
I due adulti si diressero verso la cucina prima ancora che Giasone avesse dato una risposta, certi che il ragazzo li avrebbe seguiti senza batter ciglio, entusiasta di gustare una bella fetta di torta al cioccolato.
In realtà Giasone aveva lo stomaco chiuso e un forte desiderio di vomitare.
Fu proprio in quel momento che Muriel si fece viva, corse come un razzo dalla porta della sua camera fino al salotto travolgendo completamente suo padre, che tuttavia non sembrò minimamente turbato dall’accaduto.
Indossava un jeans largo sulle cosce e stretto sui polpacci con un piccolo risvoltino alla base, la maglietta di una divisa da basket maschile della sua collezione, sotto quest’ultima portava un top nero che impediva a chiunque di vedere troppo lì dove la maglia larga svolazzava, e ai piedi indossava degli scarponi rossi piuttosto ingombranti.
I capelli sembravano essere ancora un po’ umidi, legati ai lati dalle solite forcine, non era truccata e alle orecchie portava gli orecchini gialli a coccinella.
Quando la vide Giasone provò un misto di emozioni, sollievo, gioia, affetto, irritazione e istinto omicida, erano più o meno quelli i sentimenti che Muriel suscitava in lui il più delle volte.
<< Ho fatto tardissimo vero? Ce la faremo? Siamo ancora in tempo o … ? >>
Giasone rivolse un’occhiata veloce all’orologio da polso, poi prese con delicatezza le mani di Muriel, che nel frattempo si era aggrappata alla sua maglietta con tale foga da scoprirgli tutta la spalla destra, e con una pazienza che non aveva, si sforzò di sorriderle.
Muriel aggrottò le sopracciglia a quella vista e aprì immediatamente la bocca, probabilmente per dire qualcosa di molto imbarazzante nonostante ci fossero i suoi genitori nella stanza, allora Giasone gettò immediatamente tutto fuori alzando il tono di voce.
<< Il film è iniziato esattamente da dieci minuti, ed è l’ultimo spettacolo del giorno >>.
Muriel sembrò prendere la notizia piuttosto male, si afflosciò tra le sue braccia e gli occhi le s’inumidirono, Giasone rimase spiazzato da quella reazione, senza nemmeno rendersene conto stava continuando a tenerle fermi i polsi nonostante le braccia della fidanzata pendessero nel vuoto senza forza.
<< Lo sapevo! Mi sono addormentata oggi pomeriggio e la sveglia non ha suonato! Si è rotta la maledetta, mi dispiace tantissimo io … >>.
<< Ehi, non fa nulla. Ci andremo un’altra volta >>
Giasone provò lo strano impulso di baciarla quando Muriel gli puntò addosso gli occhi imploranti e mortificati, ma si trattenne ricordando che i genitori della sua fidanzata erano lì nella stanza e li stavano osservando attentamente, ancora sulla soglia della cucina.
Giasone si limitò a lasciarle andare i polsi, infilare le mani in tasca e guardare altrove.
<< Perché non restate a cenare qui stasera? Ho noleggiato un film niente male >>
Giasone e Muriel ebbero due reazioni completamente diverse alle parole noncuranti di Nathan, il primo sbiancò completamente e sentì il terreno mancargli sotto i piedi come se fosse precipitato nell’incubo peggiore della sua vita, la seconda s’illuminò completamente, congiunse le mani e saltò addosso al padre stringendolo in un abbraccio esuberante.
<< Che bella idea papà! Allora Gias, che dici? >>
Giasone si girò a guardarla con un sorriso forzato sulle labbra, pregò tutti i santi che il suo viso fosse il meno leggibile possibile, che la sua espressione fosse impassibile.
<< Non vorrei disturbare, davvero … >>
<< Oh, non disturbi per niente! >> Teresa intervenne talmente velocemente che tutte le speranze di Giasone furono infrante senza perdono << Ordiniamo una bella pizza, ti va? >>
<< Certo … >> Giasone ebbe come l’impressione che vi fosse un pizzico d’isteria nel tono della sua voce, Muriel gli afferrò affettuosamente un braccio e lo tirò verso di se sorridente.
Quella serata era andata completamente per il verso opposto, Giasone si sentiva piuttosto esasperato e stanco, imbarazzato e insicuro, ancora non aveva capito bene quali fossero i suoi sentimenti per quella ragazzina chiacchierona e petulante, ma quando la vide sorridere in quel modo, raggiante e contenta, pensò che dopotutto non fosse così importante che quell’incontro fosse arrivato precocemente.
Era semplicemente andata in quel modo.
 
Oscar e Catena non si rivolgevano la parola da più di una settimana.
Era stato un processo graduale e orribilmente naturale, qualcosa che era nata spontaneamente da entrambi i lati, da quando Catena aveva telefonato a Oscar per comunicargli quello che era successo a Gabriele gli ultimi giorni di Febbraio.
L’aveva fatto con le migliori intenzioni, l’aveva fatto perché si era spaventata e perché era piuttosto sicura che spettasse proprio a lei comunicare al suo fidanzato cosa fosse successo, senza che Oscar venisse a saperlo da altre persone.
L’aveva fatto perché non ci vedeva niente di male.
Oscar però non aveva fatto altro che farsi sempre più taciturno durante la conversazione, talmente taciturno che alla fine aveva preso a rispondere per monosillabi.
Quando era terminata la telefonata, Catena aveva provato un fortissimo senso di disagio.
Non riusciva a capire perché Oscar l’avesse presa in quel modo, e quando poi se ne era improvvisamente resa conto, l’imbarazzo era stato talmente violento che il giorno seguente non gli aveva rivolto la parola.
E Oscar aveva fatto lo stesso.
L’aveva completamente ignorata.
A una settimana da quegli avvenimenti i sentimenti di Catena erano piuttosto confusi e mutati, provava un forte senso d’irritazione e confusione che aveva sostituito l’imbarazzo iniziale, avrebbe voluto dire tantissime cose che non facevano altro che morirle in gola.
Tutti quei pensieri non facevano altro che turbinarle nella mentre senza tregua, aveva come la spiacevole sensazione che se non avesse fatto qualcosa quella distanza, le parole non dette … tutto sarebbe diventato troppo per poterlo affrontare, per andare oltre.
Solo che non sapeva se sarebbe stata sufficientemente preparata per quella discussione.
Catena si era resa conto che erano arrivati al punto limite.
In quella disperata fuga cui Oscar l’aveva costretta, Catena aveva cercato di stare al suo passo e di rallentarlo con tutti i mezzi a sua disposizione, ma erano arrivati di fronte ad un burrone, un burrone profondo e nero di cui non si scorgeva alcun fondo.
Non potevano andare dall’altra parte del burrone.
Non potevano sanare quella spaccatura se Oscar non frenava la sua corsa.
Ci sarebbero finiti dentro senza nemmeno frenare, a capofitto, di getto.
Catena sospirò pesantemente e si strinse maggiormente la giacca al corpo, era vicina la primavera ormai, ma le strade della città erano ancora sporche di neve non sciolta in alcuni punti, tirava ancora un vento freddo e le giornate finivano ancora troppo presto.
Eppure le piaceva molto la vista del parco quel pomeriggio, non era solita fermarsi su una delle panchine della piazza, ma quel giorno ne sentiva una particolare necessità.
Era il crepuscolo, quel momento della sera in cui il cielo si tinge tutto di arancione dando l’impressione che il profilo della città fosse interamente circondato dalle fiamme, le luci della piazza erano già accese, anche se non era ancora del tutto buio e l’acqua della fontana scorreva serenamente dopo tanto tempo producendo un suono rassicurante.
Catena non rimase troppo sorpresa quando vide Oscar mettersi seduto sulla sua stessa panchina, sul lato estremo come se fossero due sconosciuti.
Non rimase sorpresa perché si era resa conto proprio in quel momento di essersi fermata in quel punto preciso perché era il posto preferito di Oscar, il posto dove sicuramente l’avrebbe trovato se avesse voluto parlare finalmente di nuovo con lui.
Era stata una reazione inconscia che non aveva saputo controllare.
Che entrambi non avevano saputo controllare.
La distanza che avevano messo l’uno dall’altra non aveva turbato nessuno dei due, sapevano entrambi che un qualsiasi coinvolgimento emotivo o fisico non avrebbe fatto altro che impedire ad entrambi di parlare finalmente a cuore aperto.
Di fare in modo che tutto quello che non andava da quando avevano cominciato a provare per il Tancredi e Clorinda venisse assolutamente fuori senza eccezione.
Senza alcun compromesso o titubanza.
<< Lo sai che il motivo del mio silenzio è la rabbia Catena, ma non riesco davvero a capire quale sia il tuo >>.
Catena aveva pensato che la voce di Oscar le sarebbe risultata sgradevolmente e spaventosamente diversa dopo tutto quel silenzio, invece provò un gran sollievo nel rendersi conto che non era affatto così, che si trattava sempre della voce della persona che amava.
Fu una certezza che le diede la forza necessaria per affrontare la situazione.
<< All’inizio credevo fosse per l’imbarazzo, poi mi sono resa conto che era solo confusione. Non riuscivo a parlare con te perché ero confusa, confusa da morire >>.
Entrambi avevano lo sguardo ostinatamente puntato sulla fontana mentre parlavano, c’erano dei bambini che giocavano chiassosamente poco distanti, sembravano appartenere come ad una dimensione parallela mentre loro due si comportavano come due estranei.
<< Non hai pensato che i tuoi fossero sensi di colpa? >>
<< Perché mai avrei dovuto avere i sensi di colpa? >>
Cadde ancora una volta il silenzio, risoluto, imperterrito.
<< Per essere salita in macchina con un altro uomo? Per essere stata talmente imprudente da lasciare che ti accompagnasse nonostante tu non sappia assolutamente nulla di lui! Avrebbe potuto metterti le mani addosso! Avrebbe potuto … >>
<< Stai parlando di Gabriele Rossi, Oscar?! >>
Quando entrambi smisero di gridare a voce alta, il silenzio li aggredì nuovamente, avevano fatto talmente tanto rumore che i bambini avevano smesso di schiamazzare e li fissavano atterriti, probabilmente indecisi se riprendere il gioco oppure no, se spostarsi altrove.
Valutando la possibilità che l’avrebbero rifatto ancora, che quei due estranei avrebbero potuto gridare nuovamente, infastidendoli di nuovo.
<< Non ho mai pensato di provare sensi di colpa perché non ho fatto nulla di male. Perché non c’è niente di sbagliato in quello che ho fatto io … Piuttosto ho provato imbarazzo, imbarazzo per averti ricordato qualcosa che non volevi >>.
<< Non è dell’imbarazzo che m’importa! Quello che m’importa è che se fossi stata ancora su quella macchina avresti fatto l’incidente anche tu. Quello che m’importa sapere è se ci hai pensato anche solo un minimo a come mi sono sentito quando mi hai detto quello che è successo! Quello che importava davvero era che tu prendessi in considerazione la possibilità che se ti fosse successo qualcosa io avrei potuto anche dare di matto! >>
Catena strinse convulsamente tra le mani la stoffa del giubbotto che le arrivava fino alle ginocchia, le nocche si sbiancarono e morse convulsamente il labbro inferiore.
Ci aveva pensato a tutte quelle cose, ci aveva pensato moltissimo.
<< E non ti sembra di star dando di matto anche adesso? >> Mormorò rivolgendo per la prima volta lo sguardo sul fidanzato, Oscar le sembrava stranamente estraneo in quel momento, mentre osservava il suo profilo spigoloso teso e contratto, sembrava il viso di un’altra persona che lei ancora non aveva conosciuto << Quando hai scelto di metterti con me … quando ci siamo messi insieme … hai detto che mi avevi scelta perché eri sicuro che io non ti avrei mai tradito. Cosa ti ha fatto pensare anche solo per un istante che io avessi potuto farlo davvero? >> Catena sospirò pesantemente, sciolse i pugni e appoggiò una mano a palmo aperto sulla panchina spostando tutto il peso del corpo su quest’ultima, annullando alcuni di quei centimetri che li avevano divisi << Io c’ho provato davvero con tutta me stessa. Ho provato a prendermi il tuo risentimento, il tuo peso, a far si che anche solo un po’, anche per poco, non pesasse sulle tue spalle! E l’ho fatto dal momento in cui ho accettato tutto quello che comportava amare te. Ma adesso mi sono resa conto … >> Catena chiuse gli occhi e respirò profondamente, lasciando che il vento fresco della sera le scostasse le ciocche di capelli neri dal viso << … mi sono resa conto che non posso farlo se tu non parli, se tu non ti liberi di quei fantasmi. Non lo posso proprio fare senza il tuo aiuto >>.
Oscar stava provando una forte sensazione di nausea in quel momento, mentre le parole di Catena scavano profondamente e senza alcun tipo di remore nel suo petto, era un senso di nausea che non sapeva nemmeno come spiegare.
Era un carico di sensazioni contrastanti che lo schiacciavano, lo opprimevano.
<< E quindi è game over? Ti arrendi così facilmente solamente perché io non parlo? >>
Oscar avrebbe voluto tirarsi uno schiaffo da solo dopo aver pronunciato quelle parole, reagiva sempre in quel modo quando non riusciva a dire ciò che realmente gli passava per la testa, quando non riusciva a trovare il modo per buttare tutto fuori.
<< Se metti questo muro tra di noi, Oscar … io non posso vederti, e non posso scavalcarlo. Sta diventando troppo alto, troppo spesso, troppo lungo. Non riuscirò più a raggiungerti da nessun lato >>.
<< Un muro? Che muro starei mettendo?! Sono stato sempre me stesso con te, sono stato me stesso ogni giorno, ogni istante, dal momento in cui ti ho vista, mi sono reso conto che ti avevo finalmente trovata, avevo trovato proprio quello che stavo cercando. Ero sicuro che tu non mi avresti mai, mai, mai, nemmeno una volta, deluso. E invece sei salita in macchina con quell’uomo! Maledizione, proprio con quell’uomo! Come ti è venuto in mente? Come ti è venuto in mente di tradire me con lui?! Sei una stupida! Una stupida e non ti perdonerò mai maledizione! >> Oscar non aveva mai gridato tanto come in quel momento, aveva il fiatone, lo sguardo perso nel vuoto, quando la voce gli si spezzò sull’ultima parola sgranò leggermente gli occhi e si portò le lunghe dita tremanti sulla bocca << Ah >>.
Il tempo sembrò congelarsi esattamente in quell’istante.
<< Con chi mi stai confondendo Oscar? >>
Oscar sollevò di scatto la testa e per la prima volta da quando erano seduti su quella panchina, per la prima volta da quelle due settimane di silenzio, si guardarono negli occhi.
Catena aveva un sorriso triste sulle labbra e gli occhi azzurri velati di lacrime, sembrava distante anni luce da lui in quel momento, in quel momento in cui Oscar non desiderava altro che sparire completamente dalla sua vista.
<< L’hai buttato fuori? Le hai detto tutto quello che pensavi? Sei libero adesso? >>
Ad Oscar sembrò che qualcuno gli avesse appena tirato un pugno nello stomaco strappandogli fuori tutto il respiro di colpo, come se il peso del cielo gli fosse stato sottratto all’improvviso dalle spalle restituendogli anni di vita.
Fu come se riuscisse a vedere finalmente Catena per la prima volta.
<< Ah, io … >>
<< Lo posso sopportare Oscar. Ti sto dicendo che lo posso sopportare, non l’hai ancora capito? L’ho sopportato da subito … perché ti amo >>.
Era semplice dunque, era sempre stato così semplice?
Oscar avrebbe voluto gridare a pieni polmoni, avrebbe voluto piangere, correre per tutto il parco squarciandosi i polmoni, avrebbe voluto prendere la mano di Catena e piangervi sopra come un bambino, gettarsi nella fontana e smettere di provare quella vergogna devastante.
Voleva fare tutto quelle cose, ma l’unica cosa a cui pensava era che finalmente stava respirando.
Dire quello che pensava, anche se non alla persona giusta, l’aveva fatto respirare.
Catena lo faceva sempre respirare.
<< Lo so, l’ho sempre sentito … tu, io ti ho sempre sentita, anche quando non parlavi. Ora mi domando Catena, ed io? Io cosa ti ho mai fatto sentire, sotto tutto questo schifo? Perché davvero non lo so come puoi amarmi dopo questo … >>.
Catena continuò a guardarlo con quel sorriso triste carico di amarezza.
<< Perché sei un uomo forte >>
Perché questa sera è venuto tutto fuori, perché andrai avanti.
<< No … quella forte sei tu. Sei tu la mia forza >>
Catena si era fermata ad un passo da quel burrone, aveva afferrato Oscar per la manica della maglietta prima che precipitasse del tutto, si era graffiata le braccia, aveva dovuto puntare i piedi per terra e sporcarsi tutte le gambe, aveva dovuto farsi male perché lui non cadesse.
E poi lo aveva afferrato per mano, perché avrebbe oltrepassato con lui il ponte che li avrebbe portati dall’altro lato, su una terra stabile.
Una terra dove Oscar avrebbe potuto riposare le sue gambe stanche.
 
<< Basta! Non ne posso davvero più! Non mi esce in nessun modo, l’ho fatta quattro volte! Mi arrendo, davvero! Non ho intenzione di rifare tutti i calcoli, mi verrà il vomito se vedrò ancora la calcolatrice! >> Enea non ne poteva davvero più, aveva perso la pazienza e gettato malamente la penna sul quaderno, ma l’aveva fatto talmente violentemente che quest’ultima era rimbalzata sulla pagina finendo direttamente nell’astuccio di Lisandro.
<< Di quale stai parlando? Il numero … ? >>
Lisandro replicò all’invettiva dell’amico senza scomporsi minimamente, era abituato a quel tipo di comportamento, Enea non aveva mai molta pazienza quando si parlava di compiti, soprattutto quelli di matematica, reagiva sempre in quel modo.
Perdeva la pazienza e gettava le cose per aria.
<< Sei impazzito per caso?! >>
Beatrice non vi era abituata però, e guardava il fidanzato come se fosse un matto pericoloso che correva per tutto l’appartamento brandendo un coltello insanguinato in mutande.
Avevano deciso di passare quel pomeriggio insieme a casa di Lisandro per studiare in vista del compito di matematica del giorno seguente, era andato tutto bene per i primi venticinque minuti di silenzio da quando si erano seduti attorno al tavolo con i libri davanti, avevano cominciato a fare gli esercizi in silenzio, seri e concentrati, poi Enea aveva cominciato a dare di matto.
<< Il numero 234 >> Replicò Enea ignorando completamente la fidanzata, che continuava a fissarlo con la bocca spalancata, lo sguardo scioccato e la penna sollevata a mezz’aria.
Lisandro trattenne una risata tossendo leggermente nel pugno della mano e afferrata la penna di Enea, gliela restituì facendola slittare attentamente sul tavolo tra i libri e gli astucci.
<< A me è uscita, copiala >>
Lisandro si affrettò ad allungare la brutta copia dei suoi esercizi all’amico con aria noncurante, Enea protese le lunghe dita per afferrarlo, ma prima che riuscisse a toccare il foglio se lo vide strappare da sotto il naso con violenza.
<< Non esiste! Copiando non imparerai proprio niente eh! >>
Enea alzò gli occhi al cielo quando la voce isterica e perentoria di Beatrice gli perforò i timpani, si girò a guardarla con un’espressione infastidita sul viso e incrociò le braccia al petto sbuffando piuttosto sonoramente.
<< Oh, davvero? Beh, non lo scopriremo mai se non proviamo. Dammi quel foglio! >>
Enea accompagnò il commento con un tono ironico piuttosto irritante e si protese in avanti per strappare il figlio dalle mani della fidanzata, che ostinatamente se lo portò dietro la schiena rischiando seriamente che venisse stracciato.
Lisandro impallidì alla vista del pericolo a cui erano sottoposti i suoi esercizi.
<< Per favore, quelli sono i miei compiti … >>.
La sua voce supplichevole fu bruscamente sovrastata da quella dei due litiganti, che avevano preso furiosamente a insultarsi, probabilmente giocando a chi dei due avrebbe perso prima la voce gridando fino allo stremo.
<< Ecco perché rimarrai per sempre un idiota! >>
<< Vorrei ricordarti che l’idiota ha preso nove all’ultimo compito d’inglese! >>
<< Ah! E questo ti rende un genio vero?! >>
<< Oh Beatrice, tu davvero non … >>
Dling dlong.
Enea e Beatrice smisero di bisticciare nell’instante esatto in cui suonò il campanello, voltarono lo sguardo in direzione di Lisandro, che aveva le guance arrossate e gli occhi lucidi dalla disperazione puntati inesorabilmente sul foglio stropicciato che Beatrice stava sventolando pericolosamente solamente un secondo prima.
Si alzò facendo strisciare convulsamente la sedia sul pavimento e Beatrice ne approfittò per riporre il foglio sul tavolo, foglio che sparì immediatamente nelle meni di Enea non appena la ragazza si distrasse per seguire con lo sguardo Lisandro che spariva verso l’ingresso.
Quando aprì la porta sospirando pesantemente, Lisandro non aveva proprio pensato che la giornata avrebbe potuto concludersi male.
Sulla soglia della porta c’era Sara.
La ragazza stringeva tra le mani due piatti di plastica sistemati uno sull’altro e lo guardava con un sorriso radioso e fastidioso sulle labbra, uno di quei sorrisi che non promettevano assolutamente niente di buono, era di quel genere che Lisandro aveva sempre associato a quando da bambino gli toccava indossare le scarpe troppo grandi di sua madre per fare la principessa.
<< Ciao! Ti ho portato un po’ di torta, mamma mi ha detto di dirti che è buonissima. Io ti dico che non è vero, quindi se vuoi buttarla fa pure. Ha messo troppa farina, quindi sembra già vecchia di giorni, e non la si può ingoiare senza rischiare di morire soffocati >>
Lisandro afferrò il piatto con una certa reticenza, fece per aprire la bocca e replicare qualcosa, ma Sara lo spostò leggermente di lato ed entrò in casa con una familiarità sorprendente per una persona che non lo faceva da parecchio tempo.
<< Oh, sei con qualcuno a casa vero? Ho sentito gridare >>
Sara guardò con fare curioso lungo il corridoio che portava nella cucina dove si trovavano Beatrice ed Enea, Lisandro seguì il suo sguardo e fu colto per la prima volta da una bruttissima sensazione alla bocca dello stomaco.
Sara e Beatrice si trovavano nella stessa casa.
<< S-si … stiamo studiando, quindi puoi passare più tardi. Grazie della torta! >>
Afferrò la ragazza per le spalle e la girò verso la porta, ma Sara spostò sgraziatamente le sue braccia e lo colpì con un pugno un po’ troppo energico sulla spalla.
<< Ehi, siamo diventati proprio spiritosi vero? Fammi conoscere i tuoi amici dai >>
E con immenso orrore di Lisandro si avviò a passo di marcia verso la cucina.
Quando vi mise piede dentro, sia Beatrice che Enea sollevarono distrattamente lo sguardo e fissarono la mora con curiosità, Lisandro arrivò di corsa proprio in quel momento, completamente inorridito da cosa sarebbe potuto succedere.
<< Oh Enea, da quanto tempo! >> Esclamò Sara facendo un sorriso ampio in direzione dell’interessato, inizialmente Enea contrasse le sopracciglia sorpreso, poi un barlume di comprensione gli attraversò il viso.
<< Sara? La vicina di Lisandro? Come sei cresciuta! >>
<< Ehm Sara davvero, non … >>
Il fiacco tentativo di Lisandro fu bruscamente spazzato via dalla ragazza, che esuberante si avvicinò al tavolo e fissò Beatrice con una malcelata curiosità dipinta sul viso.
<< Tu sei Beatrice vero? >>
<< Si … >> La voce di Beatrice era carica di reticenza e sorpresa.
<< Oh, Lisandro mi ha parlato tantissimo di te! Vero Lis? >>
E dallo sguardo che gli rivolse, con quel sorriso preoccupante che avrebbe spaventato chiunque, Lisandro si rese conto che quello sarebbe stato un pomeriggio lunghissimo.
E dallo sguardo di Enea, si rese conto che probabilmente non ne sarebbe uscito nemmeno vivo.



______________________
Effe_95

Buonasera a tutti :)
Sono tornata, questa volta ho fatto molto prima del solito.
Spero che comunque non sia stato troppo tardi, non lo so, sono un po' strana con queste cose io.
Non ho la misura del tempo, vi chiedo scusa :P
Allora, questo capitolo è stato un po' faticoso da scrivere, soprattuto la parte di Catena ed Oscar.
Mi ha dato un po' di grattacapi, ma spero che alla fine sia quanto meno decente, non ne sarò mai davvero soddisfatta, ma meglio di così non sono proprio riuscita a scriverla.
Volevo che fosse un punto di svolta per entrambi, non necessariamente in meglio nè in peggio, ma giusto un passo avanti verso un cambiamento, soprattutto per Oscar.
Nel prossimo capitolo ritroveremo Lisandro alle prese con Sara, ne passerà di tutti i colori vi avviso ;) Fate una preghiera per Lisandro xD
Allora, ho deciso in queste note di rivelarvi qualche curiosità sulla storia, per esempio, quando scrivo le parti dedicate ad una determinata coppia, ascolto sempre una canzone differente. 
La musica mi è sempre di ispirazione, non necessariamente con le parole dei testi, che a volte non c'entrano niente nè con la scena in se, nè con la coppia, ma basta anche solo la melodia per ispirarmi. 
Per esempio, per scrivere la scena di Catena ed Oscar, ho ascoltato una canzone tedesca di Andreas Bourani che si chiama " Auf anderen Wegen" " Su strade diverse" ( studio tedesco all'università, quindi per me è normale ascoltare anche musica straniera).
Se siete curiose di qualche coppia in particolare, scrivetemelo nelle recensioni, vi risponderò nel prossimo capitolo :)
Grazie mille a tutti come sempre, ho letto le vostre bellissime recensioni e risponderò appena avrò un pò di tempo, e adesso vi lascio che ho parlato anche troppo.
Alla prossima. 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 45
*** Sconosciuta, Gesso e Guerriero. ***


I ragazzi della 5 A
 
45. Sconosciuta, Gesso e Guerriero.

Marzo

<< Oh, Lisandro mi ha parlato tantissimo di te! Vero Lis? >>.
Enea non era mai stato molto bravo a leggere le persone.
Eppure in quel momento era piuttosto sicuro che chiunque avrebbe potuto interpretare lo sguardo malizioso di Sara e quello pieno di disagio di Lisandro.
Enea non aveva mai visto il suo migliore amico sudare come in quel momento.
Aveva le mani strette convulsamente e bianche sulle nocche, sulla tempia destra una vena pulsava incessantemente e il viso lentigginoso era arrossato sulle gote.
Enea contrasse leggermente le sopracciglia e spostó lo sguardo sulla fidanzata, che osservava la scena con una strana espressione di confusione sul viso, forse mista anche all’imbarazzo di trovarsi al centro dell’attenzione.
<< Ma davvero? E sentiamo, cosa ti ha raccontato? In cosa consiste questo “tantissimo? >>
Enea aveva reagito quasi senza rendersene conto, il tono aspro e l’ironia malcelata nella voce non era proprio riuscito a controllarli, provò un misto di disagio quando Lisandro sollevò lo sguardo su di lui e arrossì ancora di più, mortificato e in preda al panico.
<< E-Enea stai fraintendendo! >> Intervenne bruscamente il ragazzo gettandosi in avanti sul tavolo, come se in quel modo avrebbe potuto impedire la conversazione << Sara esagera sempre quando si tratta di queste cose! Le ho semplicemente raccontato della mia nuova amicizia con Beatrice >> Lisandro era consapevole in quel momento di avere la voce alterata, di essere rosso in viso e di avere tutta l’aria di una persona che stava nascondendo qualcosa, l’aria di una persona colta con le mani nel sacco, ma non poteva proprio evitarlo in quel momento, non riusciva a controllarsi << Che poi te ne ho parlato solo una volta! >> Sbottò ad un certo punto in direzione di Sara, che nel frattempo si era messa comodamente seduta su una delle quattro sedie attorno al tavolo e lo guardava sorridente con le fossette ben visibili.
<< Beh, quella volta me ne hai parlato “tantissimo”, per non parlare di come pia… >>
<< Ohi, Sara! >>
Enea, Sara e Beatrice sobbalzarono contemporaneamente quando Lisandro alzò la voce battendo una mano a palmo aperto sul tavolo, aveva il fiatone ed era rossissimo in volto.
Seguirono alcuni istanti di silenzio in cui Enea si rese conto che Lisandro non alzava mai la voce, lo faceva solamente quando non riusciva più a controllare la situazione o quando era talmente carico di sentimenti da non poterli più contenere in alcun modo.
Qualsiasi cosa sapesse Sara, qualsiasi cosa Lisandro stesse cercando di nascondere in quel momento, Enea non si era mai sentito così a disagio nei confronti del suo migliore amico.
Gli sembrava uno sconosciuto in quel momento.
Da quando avevano smesso di parlare? Da quanto tempo Lisandro non era più sincero con lui? Da quando Enea aveva smesso di guardarlo negli occhi e di ascoltarlo?
<< Stavamo studiando un attimo fa, quindi se sei venuta qui per dare fastidio, conosci da sola la strada per la porta >>.
La voce di Lisandro era bassa e secca mentre pronunciava quelle parole, l’espressione di Sara cambiò in un istante, il sorriso accennato che aveva sostenuto fino ad un attimo prima era scomparso alla velocità della luce sostituito da un’espressione seria ed indecifrabile.
La mora non staccava gli occhi da quelli di Lisandro che sembrava ricambiare quello sguardo a stento, ed Enea ebbe come la brutta sensazione che i due stessero avendo una conversazione silenziosa che lui non avrebbe potuto mai capire.
O che non avrebbe mai dovuto capire. 
<< Ragazzi … davvero, non mi sembra il caso di farne un problema >>
La voce pacata di Beatrice sembrò risvegliare gli altri da un torpore sinistro, si girarono a guardarla come se fosse uscita magicamente da un cappello, come se nei pochi minuti di silenzio si fossero immediatamente dimenticati di lei.
Beatrice lo trovò piuttosto ironico considerato che era lei il motivo di quella discussione.
<< Insomma, non credo sia un problema che Sara resti a farci compagnia. Gli amici di Lisandro sono anche miei amici per quanto di riguarda … giusto Enea? >>
Enea rischiò seriamente di imprecare ad alta voce quando Beatrice gli assestò una gomitata nel fianco destro, si portò una mano dove aveva ricevuto la botta e le lanciò un’occhiataccia che Beatrice ricambiò all’istante, spalancando gli occhi e serrando le labbra.
<< No Beatrice, lascia stare! >>
L’intervento di Sara fu talmente inaspettato che i due fidanzati smisero immediatamente di bisticciare e si voltarono a guardarla con sorpresa, anche Lisandro sobbalzò leggermente e sollevò lo sguardo per osservare la sua vicina di casa che si tirava in piedi facendo strisciare con malagrazia la sedia sul pavimento. Era stato così preoccupato di quello che avrebbe potuto combinare con Beatrice che non si era nemmeno dato la briga di osservarla, così spalancò leggermente gli occhi quando si rese conto che Sara stava indossando, sotto la gonna di jeans, un paio di calze a lui davvero familiari.
Le calze che le aveva regalato all’ultimo compleanno festeggiato insieme.
Il ricordo ritornò a fargli visita senza che Lisandro l’avesse davvero richiesto, ma l’immagine di quel momento era ancora nitida nella sua memoria, lui e Sara seduti sul tappeto della sua cameretta ancora vestiti da principe e principessa, le scarpe con il tacco troppo grandi sistemate accanto a lui in maniera ordinata, la scodella utilizzata come elmo abbandonata sul soffice tessuto e Sara che stringeva tra le mani quelle calze verdi dell’ape Maia come se fossero la cosa più preziosa del mondo.
Lisandro fu colpito come da uno schiaffo per quel ricordo, come se a schiaffeggiarlo fosse stata la stessa Sara, come se lei gli avesse gridato addosso con violenza, come se fosse stata lei personalmente a risvegliare quella sensazione che Lisandro aveva dimenticato.
La sensazione che tutto sommato con Sara aveva solo bei ricordi.  
Anche se lei era prepotente, espansiva al limite dell’accettabile, chiassosa e chiacchierona.
E aveva conservato quelle calze per tutto quel tempo.
Lisandro provò un forte senso di disagio quando si rese conto di quanto per Sara fosse stata importante la loro amicizia, un’amicizia che l’aveva portata a conservare un paio di calze per più di sette anni, quella stessa amicizia che per Lisandro aveva perso valore nell’istante esatto in cui Sara aveva pian piano preso ad allontanarsi dalla sua quotidianità.
<< E’ chiaro che per Lisandro sono solamente un fastidio. Troppe verità scomode, vero? Dirò a mamma che la torta ti è piaciuta, quindi se dovessi incontrarla per le scale confermalo a tua volta. Non dovrebbe risultarti difficile mentire no? >> 
Lisandro era piuttosto sicuro di non avere mai ricevuto uno sguardo così carico di disgusto da parte di Sara, né di averla mai vista arrabbiata con lui in quella maniera.
Il disagio era talmente forte che non riuscì nemmeno a reggere più a lungo il suo sguardo, l’ultimo sprazzo che ebbe di lei prima che lasciasse la stanza fu il verde forte delle calze ancora stampato nel reticolo degli occhi, vivido come su una tela.
Fu a quel punto che si accorse dello sguardo di Beatrice ed Enea, due sguardi talmente diversi che Lisandro aveva il capogiro solamente a sentirseli addosso.
Ma in quel momento era in grado di sorreggere solamente quello di Beatrice, così decise di concentrarsi su di lei e di evitare che quello di Enea finisse di gettarlo in ginocchio senza pietà. Lisandro provava pietà per se stesso.
Non riusciva più a guardare il suo migliore amico negli occhi.
<< Ho esagerato, vero? >> Domandò fissando Beatrice.
<< Abbiamo esagerato un po’ tutti mi sa >>
Lisandro non ci pensò nemmeno un secondo, si alzò di colpo dalla sedia e raggiunse l’ingresso di casa come un fulmine, giusto in tempo per vedere Sara aprire la porta di casa con estrema violenza e con l’aria di una persona molto contrariata.
<< Credi davvero di avere il diritto di essere arrabbiata?! >> Lisandro le sbottò contro senza riuscire a controllarsi in alcun modo << Dopo essere arrivata qui con l’intenzione di raccontare ad Enea e Beatrice proprio quello che ti avevo pregato di non dire mai?! >>
Sara si girò a guardarlo come se Lisandro non l’avesse affatto aggredita, come se fosse stata pronta a parare il colpo da sempre, lasciò andare il pomello della porta, incrociò le braccia al petto e gli replicò contro immediatamente, senza freno.
<< Oh andiamo Lisandro! Siamo arrivati al punto tale che mi credi capace di una cosa del genere? Ma forse dopotutto è davvero così … Ti sei dimenticato di me così facilmente che è come se non mi avessi mai conosciuta. E come puoi fidarti di una sconosciuta? >> Sara sospirò teatralmente e mise su un sorriso forzato e amaro, scosse leggermente la testa facendo rimbalzare le ciocche asimmetriche dei capelli e alzò gli occhi al cielo << Credevo che le cose fossero cambiate quella sera, quando mi hai confessato … >>
<< Non sai quanto me ne sono pentito! Mi sono pentito da morire di avertene parlato quella sera! E’ stata la confessione di uno stupido e l’errore più grande della mia vita! >>
Lisandro aveva il fiatone dopo aver gettato fuori quella verità che si portava dentro da troppo tempo, una verità che aveva tirato fuori senza pensare nemmeno una volta che Sara avrebbe potuto restare ferita o amareggiata nel sentirla venir fuori.
<< Ma poi perché sei rientrata nella mia vita? Chi te l’ha chiesto di … >>
<< Non volevo rientrare affatto nella tua vita idiota! >>
Sara alzò talmente tanto la voce che Lisandro si ammutolì di botto e la fissò con gli occhi stralunati e sorpresi, era la prima volta che Sara strillava in quel modo così femminile.
<< Volevo lasciarti a piangere sulle scale da solo quella sera! Perché avrei dovuto preoccuparmi di te, che mi avevi dimenticata senza rimorsi? Ma poi ti ho guardato negli occhi maledizione! E quegli occhi erano gli stessi del bambino con cui giocavo tutti i giorni … Non potevo immaginare che quel bambino fosse cambiato così tanto. Ho cercato in tutti i modi di restare me stessa con te, la me stessa di quegli anni … >> Sara si lasciò scappare un sorriso di schermo e rivolse ad un Lisandro paralizzato un gesto di noncuranza << Ma tu non sei per niente in bambino di allora … Credevo che avessi ancora quel coraggio, il coraggio di ammettere i tuoi sentimenti a qualunque costo … volevo aiutarti solamente a ricordare quella parte di te … che sciocca >>.
Sara sospirò ancora una volta e si avviò con passo stanco verso il pianerottolo.
<< Ohi Sara! Ma cosa vuoi da me? Sono innamorato di Beatrice, va bene? Sei contenta che io l’abbia detto ad alta voce? >>
Lisandro era rabbioso nella voce, era nervoso, aveva i pugni stretti e la faccia in fiamme, aspettò con trepidazione che Sara si girasse senza sapere nemmeno per quale motivo, ma quando lei lo fece l’espressione che assunse non fu quella che si aspettava.
Sara sbiancò letteralmente guardando un punto fisso dietro le spalle di Lisandro.
Il ragazzo si girò di scatto con il cuore in gola e trovò Enea appoggiato allo stipite della porta con le braccia incrociate al petto, la testa appoggiata al legno freddo e un sorriso di tristezza sulle labbra, Lisandro sentì come un risucchio nel petto a quella vista.
<< Avrei davvero voluto che tu me lo dicessi >>
Il tono mesto della voce di Enea fu peggio di un pugno nello stomaco.
 
Gabriele non era proprio riuscito ad abituarsi.
Era già da alcune settimane che prendeva i mezzi di trasporto per tornare a casa, ma proprio non riusciva a farci l’abitudine. Gli mancava lo spazio confortevole della sua vettura, gli mancava poter regolare l’aria calda come gli pareva, oppure gettare la cartella sul sedile posteriore, gli mancavano tutti quei piccoli gesti che non aveva mai considerato molto.
Ma più di tutto a mancargli erano i ricordi che aveva lasciato intrappolati tra le portiere dell’auto, tutti i suoi ricordi più belli con Katerina.
Sospirò profondamente, sollevò lo sguardo sulla strada e si strinse maggiormente il braccio ferito ed ingessato al petto, provava ancora una strana sensazione quando guardava il gesso un tempo bianco tutto imbrattato di scritte dai molteplici colori.
Quando era tornato a scuola qualche giorno dopo l’operazione, Zoe e Fiorenza lo avevano aggredito sulla soglia della classe e gli avevano imbrattato il gesso di fiorellini e cuoricini, Gabriele l’aveva trovato piuttosto irritante all’inizio, poi ci aveva rimuginato sopra durante l’ora di educazione fisica, mentre soffriva in silenzio seduto su una panchina, e alla fine si era fatto firmare il braccio da tutti i suoi compagni di classe senza nemmeno rendersene conto.
Sonia gli aveva disegnato vicino al polso una faccia da diavoletto con le corna, Cristiano si era limitato a scrivergli un “IDIOTA” a lettere cubitali occupando tutto lo spazio del gomito.
Zosimo aveva tracciato un piccolo poema che Gabriele non aveva potuto leggere perché l’amico aveva utilizzato una matita chiarissima che si era subito cancellata lasciando leggibile solamente un residuo di parola: “ … gnato”.
Gabriele aveva rischiato seriamente di impazzire quando aveva chiesto di firmare a Beatrice ed Enea, i due non avevano fatto altro che scrivere i loro nomi per poi cancellarseli a vicenda come dei bambini, il risultato era stato una sfilza di “Enea” e “Beatrice” cancellati e riscritti fino a quando i due non avevano trovato un compromesso tracciando i loro nomi uno accanto all’altro con un’elegante “&” nel centro. L’idea era stata di Miki, che si era limitata a scrivere “Fight” firmando sia per lei che per Aleksej.
Gabriele si ritrovò a sorridere quando ripercorrendo le numerose scritte, seduto alla fermata dell’autobus, intercettò le firme di Giasone, Ivan ed Oscar.
I tre non avevano fatto altro che bisticciare su cosa scrivere, fino a quando Italia non aveva perso la pazienza, aveva afferrato un evidenziatore rosa shocking e aveva scritto: “ Siamo tre idioti senza cervello. Rimettiti presto!” firmando “ I tre idioti senza cervello – Ivan, Giasone ed Oscar “. Per lei, Catena e Romeo era stata molto più raffinata, si era impegnata al punto tale da aver creato una vera e propria opera d’arte multicolore, a Gabriele dispiaceva pensare che una volta tolto il gesso quel bellissimo intreccio di colori creato da Italia sarebbe andato perso e distrutto.
Gli era stato più difficile ottenere la firma di Igor, che non faceva altro che lamentarsi di quanto fosse pericoloso che qualcuno gli toccasse il braccio in quelle condizioni.
Fortunatamente Telemaco lo aveva zittito prima che Gabriele potesse perdere la pazienza e colpirlo con il presunto braccio pericolante, alla fine ne era uscita una firma titubante tutta storta e tremolante. L’unica persona che non gli aveva creato alcun tipo di disagio era stato Lisandro, a Gabriele era bastato avvicinarsi al suo banco durante la ricreazione.
Scosse leggermente la testa e smise di osservare il gesso quando si accorse che il suo pullman stava per arrivare, la fermata era piuttosto affollata e lo aspettava una mezz’ora di strazio nella calca dell’ora di punta, in un caldo soffocante schiacciato tra un palo e un finestrino sporco, terrorizzato dall’idea che qualcuno potesse urtarlo o schiacciargli il braccio.
Il solo pensiero non fece altro che accrescere la nostalgia per la sua vecchia auto.
L’avevano portata a riparare, ma non avrebbe potuto riaverla prima di un mese, sempre se fosse riuscito a convincere sua madre a ridargli la patente, misteriosamente scomparsa dal portafoglio. Si alzò svogliatamente e si lasciò trascinare dalla calca fin sul mezzo di trasporto, già pieno ancora prima che si aprissero le porte.
Come aveva sospettato, si ritrovò schiacciato tra un uomo robusto e corpulento che puzzava terribilmente di sudore rancido e una ragazzina bassina dalla chioma bionda.
Non se ne accorse immediatamente, probabilmente fu prima di tutto l’odore a risvegliare in lui la memoria, quell’inconfondibile odore di cocco che lei si portava sempre dietro.
Gabriele non si accorse di essere schiacciato contro Katerina fino a quando lei non si girò e i loro occhi si incrociarono inevitabilmente.
Fu probabilmente una delle situazioni più imbarazzanti della sua vita, Gabriele non seppe mai spiegarsi perché provò cosi tanto disagio in quel momento, perché averla vicina in quel modo inequivocabilmente intimo gli provocasse tanta angoscia.
Non si era sentito in imbarazzo in quel modo nemmeno quando era stato la prima volta con una ragazza, una delle sue ex di cui non ricordava nemmeno il nome.
Sentiva tutto il peso di Katerina come una presenza viva e pulsante, a dividerli c’era solo una misera cartella di stoffa riempita da qualche libro spigoloso che non faceva altro che aumentare il disagio che entrambi stavano provando.
Erano talmente vicini che avrebbero potuto baciarsi, che sarebbe bastato allungare una mano per sfiorarsi il viso, per accarezzarsi o semplicemente sfiorarsi.
Ma nessuno dei due mosse un singolo dito.
<< Gabriele?! Cosa ci fai qui? Credevo che prendessi il pullman verde … non è più vicino a casa tua? >> Gabriele trovò piuttosto triste che Katerina esordisse con quella domanda, non si vedevano da quel giorno all’ospedale, non parlavano da allora e ogni volta che lui aveva chiamato o le aveva mandato un messaggio non aveva mai ottenuto risposta.
Gabriele era arrivato a pensare che dopotutto se l’era proprio meritato.
Aveva meritato quel trattamento, eppure soffrì terribilmente quando comprese le parole implicite in quella domanda: “ Cosa ci fai qui? Non avevo nessuna intenzione di vederti”.
<< Già … >> Replicò, e quando si rese conto dell’amarezza nella sua voce cercò di apparire più allegro e spensierato << Di solito prendo quello, ma passa solamente alle tre. So che è pericoloso per il braccio, ma preferisco stare un po’ nella calca e tornare a casa prima piuttosto che aspettare un’ora e mezza alla fermata >>.
Katerina trovò strano il tono di voce di Gabriele, lo trovò strano perché era spaventosamente formale, come se stesse parlando con una conoscente e non sapesse come fare conversazione senza cadere in silenzi imbarazzanti.
E poi si vergognò di se stessa, perché dopotutto era stata lei a cominciare in quel modo, rivolgendogli una domanda che non avrebbe dovuto rivolgergli con quel tono sorpreso.
Katerina si vergognava troppo per ammettere che all’uscita della scuola, da quando aveva saputo che Gabriele prendeva il pullman, aveva cambiato fermata dell’autobus nella speranza che non succedesse proprio quello che era successo quel giorno.
Anche se dallo sguardo triste e mal celato di Gabriele si rese conto che era troppo intelligente perché non se fosse accorto.
Gabriele lo aveva capito benissimo, e doveva esserci rimasto male.
<< E senti, come … >>
Gabriele cominciò a pronunciare quelle parole quando il silenzio aveva cominciato a farsi troppo lungo, ma non riuscì mai a completare la frase perché il pullman frenò bruscamente facendolo finire di botto contro il signore corpulento e sudato.
Non avrebbe emesso nemmeno un lamento se non fosse stato per il braccio, andato a schiacciarsi senza alcun tipo di rimedio contro il palo di sostenimento arrugginito.
<< Ahia! >> Gabriele si morse violentemente il labbro inferiore e strinse maggiormente il braccio dolorante al petto, i tredici punti di sutura gli facevano ancora terribilmente male.  
Lanciò un’occhiataccia al tizio che lo aveva spintonato contro il palo, ma non ebbe modo di verificare se il messaggio di minaccia implicito fosse arrivato a destinazione, perché scostò immediatamente lo sguardo quando sentì le mani di Katerina poggiarsi una delicatamente sul gesso, l’altra sulla spalla.
Era da tantissimo tempo che non lo toccava con quella disinvoltura, e a Gabriele non importò che lo avesse fatto perché stava cadendo o perché non sapeva dove altro aggrapparsi, gli importò che lei l’avesse toccato, che avesse potuto sentirla ancora addosso.
Katerina sembrò accorgersi solamente in quel momento di quanto fosse schiacciata addosso a Gabriele, arrossì violentemente e lasciò andare di botto la maglietta del ragazzo, che rimase leggermente stropicciata nel punto in cui l’aveva stretta con violenza per non cadere in avanti. Nell’abbassare lo sguardo imbarazzato, soffermò la sua attenzione sul braccio ingessato e per la prima volta sembrò rendersi conto di quanto fosse colorato, sembrava tutto pieno di tatuaggi, dimenticando l’imbarazzo sollevò la testa di scatto e ricambiò lo sguardo curioso di Gabriele.
<< Non avevo notato che te lo eri fatto firmare! >>
Esclamò la bionda avvicinando maggiormente il viso al gesso, operazione che non le costò molta fatica considerato che il braccio di Gabriele le arrivava all’incirca all’altezza del seno.
Gabriele ne approfittò per osservarla mentre lei non poteva guardarlo, i capelli biondi erano stati tagliati recentemente dietro la nuca, erano ancora più corti e dorati, rischiarati dal sole che penetrava dai finestrini del mezzo di trasporto.
Sulle labbra aveva un rossetto rosso come il fuoco che a scuola non avrebbe dovuto portare, mentre i vestiti da maschiaccio che indossava facevano esattamente da contrappeso.
Nel complesso dava l’idea di un maschiaccio piuttosto attraente.
Mentre si lasciava esaminare scrupolosamente il braccio, Gabriele sollevò leggermente gli angola della bocca in un sorriso accennato e triste, domandandosi perché tra tutte le fidanzate che aveva avuto dovesse essere proprio Katerina la donna della sua vita.
Perché non gli era capitato di innamorarsi di nessun’altra.
Dopotutto era stato qualcosa di assolutamente irrazionale, qualcosa che non sapeva nemmeno spiegarsi come fosse successo, un giorno si era svegliato e aveva sentito le farfalle nello stomaco, aveva provato gelosia, desiderio di possesso.
Tutte cose che gli erano state estranee nelle relazioni precedenti.
Si era domandato spesso perché fosse rimasto attratto proprio da quella ragazzina un po’ maschiaccia che aveva visto nascere, anche se non lo ricordava, e con cui era cresciuto per tutta la vita. Si domandava perché il destino l’avesse messa così vicina al cuore.
<< Ehi! Questa non te la perdono proprio! C’è la firma di Jurij qui sopra, e non la mia?! >>
Gabriele sobbalzò terribilmente allo strillo di Katerina, era talmente soprapensiero che per alcuni istanti la guardò come se fosse un alieno sceso sulla terra, poi ritornò lentamente al presente e scrutò i suoi occhi grigi che lo fissavano minacciosi con ilarità.
<< Beh, firma adesso no? >>
Tutta la rabbia di Katerina sparì in un lampo di fronte la remissività di Gabriele.
<< Oh, ma non ho una penna! E con questo casino non riesco nemmeno a muovere le braccia come vorrei! >> Commentò immediatamente di rimando cercando di imporre un tono di autorità e indifferenza nella voce, Gabriele soffocò a stento una risata quando la vide sforzarsi di mantenere un’espressione minacciosa che mutò immediatamente, sostituita da una di illuminazione << Ah, ho trovato come firmare! >>
E pronunciate quelle parole abbassò la testa e baciò il gesso.
Quando rialzò leggermente il capo per osservare lo stampo lasciato dal rossetto, Gabriele ne approfittò per passarle il braccio buono introno alla spalla e seppellire la faccia nell’incavo del suo collo sottile che profumava di bagnoschiuma al cocco.
Katerina rimase pietrificata sul posto, con le labbra ancora schiuse su una parola che non era riuscita a pronunciare e le mani strette attorno al gesso, bloccate contro il petto massiccio e ampio di Gabriele.
<< Gabriele, non è … >>
<< Lo dico domani. Domani lo dico a tutto il mondo. Lo dico a mio padre, lo dico a mia madre, vado da tuo padre e mi metto in ginocchio per supplicarlo. Rinnego la mia amicizia con Jurij e Aleksej. Faccio qualsiasi cosa per farmi perdonare. Farò qualsiasi cosa per te >>
La voce di Gabriele era bassa e roca mentre parlava, e Katerina capì perché l’avesse abbracciata in quel modo bizzarro, perché in quel modo poteva sentirlo solo lei.
<< Non avrò più paura di quello che dirà la gente, non avrò più paura di questi cinque anni che ci separano. Mi preoccuperò solamente di vivere il resto della vita con te e di morire prima di te. >> La stretta attorno alle spalle si fece più salda mentre parlava, e sebbene Katerina provasse l’irrefrenabile desiderio di stringerlo, rimase ferma con le mani bloccate.
<< E soprattutto, mi preoccuperò di non farti mai più del male. E se dovesse succedere lasciami. Lasciami ogni volta che vuoi, rimproverami e poi torna da me dopo qualche giorno. Quando non ce la farò più a vivere senza di te >> Katerina avrebbe voluto impedire a quella stupida lacrima che le era sfuggita dall’angolo dell’occhio destro di cadere e macchiare la maglietta di Gabriele, ma proprio non ci riuscì. Avrebbe voluto allontanare gli sguardi curiosi da loro, ma non poteva farlo << E poi, sopra ogni altra cosa, prendi la mia codardia, la mia testardaggine e rendili forza. Sii la mia forza ogni istante, quando resterò solo e nessuno mi rivolgerà più la parola sii la mia forza, va bene? >>
Era stato il discorso più lungo che Katerina gli avesse mai sentito pronunciare, ma quando lui smise di parlare la sola cosa che le venne in mente fu di scoppiare a ridere.
<< Ma nessuno smetterà di rivolgerti la parola Gabriele >>
Pronunciò quelle parole tra le risa, mentre Gabriele scioglieva l’abbraccio mostrando un viso arrossato dall’imbarazzo e gli occhi determinati di un adulto.
Katerina aveva sempre pensato che amare Gabriele l’avesse portata a maturare in fretta, a mostrarsi sempre più grande di quanto non fosse in realtà, ma non lo aveva mai trovato un male. Dopotutto Gabriele non aveva fatto altro che migliorarla e valorizzarla.
Lo guardò negli occhi carichi di aspettativa e sospirò.
<< Questa volta Gabriele … questa volta è davvero l’ultima possibilità che ti do >>
Gabriele spalancò gli occhi senza riuscire a trattenersi a quelle parole, Katerina lo guardava negli occhi, lo toccava e lui non aveva la minima paura di essere visto.
Voleva solamente che lei non lasciasse mai più la sua mano.
<< E Carlo? >> Non riuscì a trattenersi dal porle quella domanda.
<< Ci siamo lasciati qualche giorno fa. Le cose tra noi non funzionavano, sai? >>
Gabriele non replicò nulla a quelle parole, si limitò ad accarezzarle la fronte con la mano buona, scostandole il ciuffo biondissimo dagli occhi senza trucco.
<< E comunque non mi importa più sai? Non mi importa se non vuoi dirlo che stiamo insieme. Non ho bisogno di altre prove. Prenditi tutto il tempo che ti serve, ok? >>
Gabriele sospirò teatralmente nel sentire quelle parole e alzò gli occhi al cielo.
<< Non essere troppo indulgente con me Katerina! Sii più severa! >>
Poi le sorrise mettendo in mostra le fossette, le sorrise come non le aveva mai sorriso da quando stavano insieme e appoggiò la fronte sulla sua << Grazie >>.
<< Ad una condizione però! >>
Le parole di Katerina lo lasciarono basito per alcuni istanti, fino a quando la ragazza non gli afferrò con difficoltà il braccio sano e lo sollevò, incastrando un dito sotto il braccialetto dorato che Gabriele non aveva mai smesso di indossare nemmeno per un giorno.
<< Rivoglio indietro questo … perché vale molto >>
Gabriele sussultò sentendo quelle parole, e ne ricordò altre opposte, pronunciate il giorno in cui si erano detti addio in quel sudicio bagno.
“Tanto non vale niente, no?!”
<< Moltissimo >> E la baciò.
 
Il 21 Marzo sarebbe dovuta arrivare la Primavera.
Mancava solamente una settimana per quel giorno, la neve ormai era completamente sciolta, l’aria fresca stava lentamente mutando nel tepore di un caldo mite.
Eppure Enea sentiva terribilmente freddo mentre se ne stava seduto sul muretto del cortile posteriore della scuola, quello che affacciava sul parcheggio ancora mezzo vuoto.
Erano le otto del mattino, solitamente non arrivava a scuola tanto presto perché preferiva prendersela più comoda, ma quel giorno non aveva esitato a sbrigarsi.
Lisandro aveva finalmente risposto al suo messaggio.
Enea glielo aveva mandato la sera stessa dell’incidente con Sara, una volta tornato a casa.
Non avevano potuto parlare quel giorno perché Beatrice li aveva raggiunti immediatamente, ma Enea non aveva perso tempo una volta chiuso nelle quattro pareti della sua camera.
Dobbiamo parlare. Ti aspetto domani mattina alle 8:00 fuori scuola al solito muretto”.
Il giorno dopo Lisandro non si era presentato all’appuntamento.
Enea lo aveva aspettato fino allo scattare della campanella come aveva aspettato una risposta la sera precedente, una risposta che non era arrivata come il suo proprietario.
“ Lisandro, sappi che ti aspetterò anche domani mattina e quella dopo ancora!”
Enea aveva ritentato immediatamente, preda della delusione e della rabbia, ma Lisandro non aveva risposto e non si era presentato a scuola nemmeno il giorno successivo e quello dopo ancora. Non aveva dato segno di essere vivo fino alla sera precedente.
“ Domani ci sarò”
Enea era talmente agitato che si era presentato fuori scuola alle sette spaccate.
Non era riuscito a dormire per buona parte della notte, irrequieto, era saltato in moto che erano solo le sei e mezza, con il cielo ancora grigio e la luna alta appena sbiadita dal sole nascente. Il cortile era deserto quando era arrivato, freddo e umido, si era stretto maggiormente nel giubbotto di pelle, aveva avvolto meglio la sciarpa attorno al collo e si era piazzato sul muretto, aspettando lì per tutto il tempo rimanente.
Era stato più calmo di quanto si sarebbe aspettato, solitamente non era un tipo paziente, non sapeva starsene fermo allo stesso posto per più di dieci minuti, quando era bambino i suoi genitori avevano addirittura sospettato che soffrisse di iperattività eccessiva.
Invece i pensieri erano stati talmente tanti che lo avevano tenuto inchiodato lì, fermo.
In principio Enea aveva pensato che Lisandro non sarebbe venuto, poi aveva immaginato che quei giorni di assenza da scuola li avesse fatti solo per scappare da lui e se ne era pentito.
Quando alla fine Lisandro si era presentato, alle otto precise, lo aveva trovato imbacuccato in un giubbotto pesante, stretto in una sciarpa, con il naso rosso di chi aveva il raffreddore.
Lisandro si era messo seduto accanto a lui, ad un metro esatto di distanza, silenziosamente.
Enea aveva immaginato mille modi per iniziare quel discorso, aveva ripetuto mille volte nella testa il discorso che si era preparato, ma le parole erano sfumate via inesorabilmente, come se la memoria avesse voluto tirargli un brutto scherzo.
E così era rimasto zitto ed in silenzio, lasciando che un freddo artificiale, un freddo nascente dal suo cuore, lo paralizzasse.
Non gli era mai successo di sentirsi in quel modo, di non trovare le parole, di non sapere cosa dire né come comportarsi con il suo migliore amico.
Si erano così allontanati negli ultimi tempi che Enea si domandò se avesse ancora il diritto di chiamarlo in quel modo.
<< “ Avrei davvero voluto che me lo dicessi”, hai detto così quel giorno vero? >> Enea trasalì quando Lisandro aprì improvvisamente bocca, il ragazzo aveva la voce leggermente nasale a causa del raffreddore, se si fossero trovati in un’altra circostanza Enea avrebbe riso della cosa. Lisandro si sarebbe arrabbiato terribilmente, avrebbero bisticciato un po’ e poi alla fine sarebbero tornati in classe spintonandosi e ridendo << Ma sinceramente, Enea, cosa credi che sarebbe successo? Cosa credi che sarebbe cambiato? >>.
Enea rimase in silenzio per un po’ dopo quella domanda, avevano entrambi lo sguardo puntato sull’asfalto del cortile ancora umido per l’ultima neve sciolta, macchiato di foglie secche schiacciate dalle macchine e di impronte di pneumatico.
<< Non lo so >> Alla fine fu quella la verità a cui Enea arrivò, fece spallucce e sorrise leggermente, gesto che attirò l’attenzione di Lisandro << Non lo so cos’avrei fatto. Il fatto è che amo Beatrice anche io, che lei è la cosa più bella che ho. Quindi probabilmente non avrei rinunciato a lei nemmeno in quel caso … ma tu avresti sofferto di meno? >>
Enea vide Lisandro sgranare leggermente gli occhi, stringere con forza la stoffa dei jeans tra le mani e mettere ancora più in rilievo le vene verdastri sul dorso pallido e teso delle mani.
<< Avremmo combattuto ad armi pari? Avresti perso con dignità? Avrei perso io con dignità? Ti saresti sentito meno solo, meno patetico? Mi sarei comportato da amico migliore? >> Lisandro continuava a fissarlo con quegli occhi grandi da bambino, Enea si lasciò scappare uno sbuffo molto simile ad una risata smorzata, triste, e riportò l’attenzione sull’asfalto, sul parcheggio che andava riempiendosi lentamente << Che dici Lis, qualcosa sarebbe cambiato? >> Lisandro non replicò nulla, poco dopo la sorpresa dal suo viso andò scemando lentamente, velocemente sostituita da un’espressione di tristezza, di rimpianto, di rammarico << Sai perché avrei voluto che tu me lo dicessi? Perché in questo modo mi avresti fatto capire che pessimo amico sono stato >> Quando Lisandro si girò a guardarlo, Enea aveva messo su un sorriso talmente carico di scuse e rimpianto da lasciarlo completamente senza fiato, tramortito << Mi avresti fatto capire che avrei dovuto prestare più attenzione >> Enea sospirò e strinse forte i pugni << Che avrei dovuto chiederti scusa più spesso >>.
<< Tu sei un guerriero Enea >> La risposta di Lisandro arrivò immediata, velata << Tu sei fatto così, no? Stringi forte la spada e ti butti nella mischia a capofitto, vivi con impeto. E non avevi mai amato come stai facendo adesso. Beatrice è la tua Roma. E tu l’hai costruita prima di me >> Rabbrividirono entrambi quando una folata di vento passò sollevando le foglie morte dal selciato, ululando come una bestia in catene, ma Lisandro continuò a parlare nonostante tutto << Ho capito di amare Beatrice troppo tardi. Non ci sarebbe stata alcuna partita alla pari, voi due eravate già irrimediabilmente caduti uno nella rete dell’altro. Sai Enea, Sara ha ragione quando dice che sono un codardo >> Enea sobbalzò quando Lisandro gli diede una pacca sulla spalla costringendolo a guardarlo negli occhi lucidi di febbre << Io non sono un guerriero … io sono solo io. Sono come quelle rovine di Troia che ti sei lasciato alle spalle. O forse … che ho voluto ti lasciassi alle spalle >>
Non appena Lisandro smise di parlare, dopo alcuni istanti di silenzio assoluto, silenzio nel quale il cuore di Enea scoppiò nella cassa toracica senza rimedio, senza controllo, suonò la campanella di inizio lezione.
Lisandro saltò giù dal muretto, gli disse qualcosa che Enea non sentì.
Alla fine, il guerriero non era affatto lui.
Lisandro aveva torto marcio.

___________________________________________________
Effe_95

Buonasera a tutti :)
Oggi pomeriggio sono finalmente tornata dopo due settimane di vacanze in un posto dove non avevo internet. Avrei voluto postare questo capitolo prima di partire, ma come avrete potuto notare è piuttosto pesante e per questo ci ho messo più tempo, vi chiedo perdono.
Comunque per farmi perdonare ( ma per qualcuno potrebbe essere una maledizione xD) il capitolo è un po' più lungo del solito.
Ho finalmente affrontato due degli argomenti, diciamo, rimasti in sospeso.
Per quanto riguarda la prima e la seconda parte lascio commentare a voi, la terza è stata davvero dura da scrivere, sebbene mi sia uscita quasi tutta di getto. 
So che magari le parole finali di Lisandro sono piuttosto "enigmatiche", ma non voglio dire nulla al riguardo. Mi piacerebbe sapere cosa vi hanno trasmesso, cosa hanno comunicato a voi :)
Grazie mille come sempre per il supporto continuo, per la pazienza che avete nel seguirmi nonostante i capitoli siano così tanti, ripeto che senza di voi farei ben poco :)
Alla prossima spero.  
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 46
*** Chi manca?, Questo filo … e Specchio specchio. ***


I ragazzi della 5 A
 

46. Chi manca?, Questo filo … e Specchio specchio.


Marzo

<< Chi manca ancora?! >>
Italia era stanca di sollevare l’ombrellino rosso ed agitarlo in aria come se fosse una guida turistica, era stanca anche di ripetere la stessa domanda e di alzare la voce.
Era il 21 Marzo, il primo giorno di Primavera, e avevano organizzato un’uscita di classe.
Avevano deciso di andare al Luna Park fuori città perché aveva offerto un prezzo ridotto per le grandi comitive che si sarebbero presentate in quel weekend, tuttavia, non era stato affatto facile organizzarsi per orario e luogo d’incontro.
Avevano fatto un disastro totale e ognuno si era presentato ad un orario diverso.
<< Nessuno, siamo tutti qui. Ho controllato io >>
Italia si ritrovò a sospirare di sollievo quando Ivan le si avvicinò per sussurrarle quelle parole all’orecchio con voce pacata, il moro le appoggiò una mano sulla spalla e tutto il nervosismo di Italia sparì in un istante, sostituito da un profondo senso di serenità.
Ivan aveva sempre il potere di tranquillizzarla quando era agitata o esasperata.
Era come se le passasse quella calma che si portava sempre dietro per natura, in qualsiasi situazione. Anche quando si trattava di gestire una classe scalmanata come quella.
<< Miki, Aleksej e Gabriele sono già in fila per prendere i biglietti! >>
La voce di Romeo risuonò forte e chiara nel marasma della folla e Italia gli rivolse un’occhiataccia che il migliore amico non colse, troppo impegnato a farsi largo tra la gente con la carrozzina di Fulvia, che se ne stava piuttosto imbronciata nella sua giacca rossa.
<< Cosa?! Ma ci sono andati anche Igor e Telemaco a prenderli! >>
Zoe scattò su come un grillo e indicò come una forsennata le quattro file delle casse che arrivavano fino alla fine del grande piazzale come un lungo serpente contorto.
Italia si schiaffò una mano sulla fronte, alzò gli occhi al cielo e invocò la pazienza tra i denti, gesto che Ivan interpretò più come un digrignare.
<< Bloccateli immediatamente, no?! >> Fu l’uscita acida di Sonia, che incrociò le braccia al petto e fece una smorfia piuttosto interpretativa, del tipo: “ banda di incompetenti”.
<< Calma, calma. Ci vado io a cercarli. Aleksej, Miki e Gabriele sono molto più avanti >> Esclamò Oscar portando una mano sugli occhi per scrutare attentamente nella folla alle casse, dalla posizione accanto all’ingresso dove si trovavano era in grado di osservare solo la fila della prima cassa, quella dove per pigrizia si erano inseriti  Aleksej, Miki e Gabriele all’incirca una mezz’oretta prima.
<< Ti accompagno >> Catena gli afferrò con sicurezza una mano e entrambi si incamminarono verso l’immensa folla alla ricerca di Telemaco ed Igor.
<< Ma che cosa sta combinando Gabriele?! >>
La voce alterata di  Alessandra, venuta in compagnia di Zosimo come fidanzata ufficiale, fece girare tutti quelli che si trovavano in attesa all’entrata.
<< Oddio! Sbaglio oppure ha appena alzato il dito medio a quel tizio? >>
Alessandra lanciò un’occhiataccia in direzione di Zosimo quando notò nel tono della voce del fidanzato un accenno di divertimento e ilarità, mentre lei non riusciva a capacitarsi del perché suo fratello dovesse essere talmente idiota da attaccar briga con uno della fila.
<< Oh cielo! Quello l’ha afferrato per la collottola della camicia! Finiranno per darsele … >>
La voce di Fiorenza era carica di apprensione mentre afferrava convulsamente la manica della giacca di Zoe e scrutava il litigio attentamente, sollevandosi sulla punta dei piedi per vedere meglio attraverso la folla movimentata.
<< Ma perché deve essere così idiota, perché? >>
Il brontolio di Giasone fu più che altro una lamentela personale e privata, perché il ragazzo era piuttosto impegnato ad impedire a Muriel di saltare addosso ad un bambino che le stava facendo la linguaccia. Era esasperante assistere a quella scena raccapricciante, a Giasone sembrava di avere a che fare con due bambini mentre osserva Muriel ricambiare il gesto.
Era decisamente più interessante prestare attenzione a Gabriele.
<< Oh! Adesso si è messo in mezzo anche Aleksej >>
La voce di Lisandro era piuttosto pacata mentre pronunciava quelle parole, era quello più distante dal gruppo, se ne stava in silenzio con le braccia incrociate, ma nemmeno lui riusciva a fare a meno di osservare il putiferio che si stava andando a creare nella fila.
<< Così ci cacceranno ancora prima di entrare! >>
Commentò Beatrice con esasperazione incrociando le braccia al petto, al suo commento Italia cominciò a sventolarsi con la mano, era rossa in viso e sembrava pronta ad esplodere da un momento all’altro per l’ansia.
<< Ci penso io, ho capito >>
<< Lasciate fare a me >>
Enea e Cristiano avevano pronunciato quelle parole nello stesso identico momento e avevano mosso il primo passo in sincrono, si bloccarono entrambi nello stesso istante e si studiarono per alcuni secondi con un sopracciglio sollevato.
<< Oh, ci cacceranno di sicuro adesso >>.
Il commento lugubre di Katerina, invitata quel giorno da Aleksej e Gabriele, mentre osservava Enea e Cristiano che si incamminavano verso il posto del litigio, non fece altro che demoralizzare ancora di più la compagnia degli aspettanti.
<< Non posso guardare! >> Mormorò Fiorenza portandosi le mani sugli occhi, anche se ogni tanto apriva degli spiragli tra le dita e osservava ugualmente la scena con avidità.
Nel frattempo, Catena ed Oscar avevano appena fatto ritorno in compagnia di Igor e Telemaco, giusto in tempo per vedere Cristiano fare un piccolo inchino di scuse in direzione dell’uomo con cui stavano litigando ed inveire con foga nei confronti di Gabriele, che si prendeva la ramanzina con le mani nelle tasche dei jeans in una posa da bimbo mortificato. 
<< Ne avrà combinate un’altra delle sue >>
Il commento esasperato di Katerina si perse nel chiasso della folla.
 
<< Accidenti! Lo sapevo che in mezzo a tutta questa gente ci saremmo persi >>
Romeo decise di smettere di girovagare quando si ritrovò nuovamente al punto di partenza.
Quando erano entrati finalmente del Luna Park avevano trovato talmente tanta gente che era bastato davvero poco per perdersi di vista, Romeo era rimasto indietro trascinando la carrozzina di Fulvia, una famiglia piuttosto numerosa aveva tagliato loro la strada, e quando si erano finalmente spostati del resto del gruppo non c’era più alcuna traccia.
Romeo aveva cominciato a vagare a caso, era passato due volte davanti la ruota panoramica, la casa degli specchi e quella degli spettri, aveva visto le montagne russe e anche i giochi acquatici ma in nessuna di queste attrazioni aveva scorso qualcuno che conosceva.
Alla fine si era ritrovato all’entrata da dove era partito, sospirò pesantemente, fermò la sedia a rotelle ed estrasse il cellulare dai jeans, guardò lo schermo con aria avvilita e imprecò tra i denti. Perché aveva dimenticato di ricaricare il cellulare proprio quel giorno?
Perché quell’affare doveva scaricarsi proprio in quel momento?
Guardò con fare afflitto lo schermo nero, tamburellò distrattamente con le dita sulla coscia, si guardò attorno passandosi una mano sul ciuffo decolorato e poi lo sguardo gli ricadde su Fulvia. La ragazza non aveva aperto bocca da quando avevano messo piede nel Luna Park, in realtà non aveva detto niente nemmeno durante il tragitto in macchina, Romeo non ci aveva fatto caso perché quando guidava si concentrava talmente tanto sulla strada da estraniare tutto il resto. Non era abituato a portare un’auto, preferiva decisamente la moto, ma quel giorno suo padre si era offerto di prestargliela, e per portare Fulvia non aveva avuto scelta.
Romeo non avrebbe mai ammesso ad alta voce che caricarla sulla macchina da solo era stato faticoso, aveva avuto paura di farle del male, di non essere abbastanza forte o preparato.
Eppure la soddisfazione che aveva provato nel trovarsela accanto, con la cintura e tutto, come se fossero una coppia normale, era valsa tutta la fatica che aveva fatto.
Era fiducioso, avrebbe imparato senz’altro.
<< Ehi Fulvia, mi dai il tuo cellulare? Provo a chiamare Italia, ti sei segnata il suo numero prima, vero? >>.
Romeo allungò una mano ed attese con pazienza che Fulvia aprisse la borsa e gli consegnasse l’apparecchio, ma la ragazza non fece assolutamente nulla, rimase ferma con le braccia incrociate al petto, il volto ostinatamente fisso davanti a se e la borsa ben chiusa.
Romeo aggrottò leggermente le sopracciglia, posò nuovamente il cellulare nella tasca dei jeans e fece il giro della carrozzina per trovarsi davanti la fidanzata, perché nella posizione in cui si trovava in quel momento non poteva vederle il viso.
Si immobilizzò immediatamente quando Fulvia sollevò il suo sguardo di ghiaccio ricolmo di lacrime su di lui, aveva provato fino all’ultimo a trattenere il pianto e anche in quel momento le lacrime non le avevano ancora bagnato le guance appannandole solamente gli occhi, ma i tratti del viso erano terribilmente rigidi e le mani bianche a furia di tenerle strette convulsamente attorno alla tracolla della borsa.
<< Ohi Fulvia! Che succede? Ti fa mal … >>
Romeo rimase di sasso quando a raggiungerlo fu uno schiaffo, si era chinato leggermente in avanti per arrivare all’altezza del viso di Fulvia, ma quest’ultima aveva sollevato una mano per colpirlo con violenza, una violenza tale da arrossargli il viso e farglielo bruciare.
<< Perché? >> Quando Romeo girò nuovamente il volto in direzione nella fidanzata, la voce gli uscì più calma di quanto si fosse aspettato, le lacrime avevo finalmente bagnato il viso di Fulvia che si mordeva convulsamente il labbro inferiore fino a farlo sbiancare.
La mano colpevole se l’era portata al petto come per nasconderla.
<< Come ti è venuto in mente di portarmi in un posto del genere eh? >>
Fulvia esplose come un fiume in piena, afferrò Romeo per le maniche del giubbotto e lo strattonò, non riusciva a guardarlo negli occhi perché si sentiva un’egoista, perché Romeo aveva ancora il segno delle sue dita sulla pelle e perché lo amava talmente tanto da impazzire nel sapere di non potergli dare tutto quello che meritava.
<< Perché mi hai portato in un posto dove non sono altro che un peso? >>
La voce le si abbassò impercettibilmente, smise di strattonare Romeo, lasciò andare lentamente il suo giubbotto e sollevate le mani tremanti le appoggiò sulle sue guance, facendo particolarmente attenzione con quella arrossata dallo schiaffo.
<< Perché non sei venuto da solo, senza di me? Perché non fai qualcosa solo per te? Per una sola volta Romeo … per una sola volta, perché non fai qualcosa per te? Non ti avrei detto niente, lo sai che ti avrei lasciato fare quello che volevi! >>.
Romeo sospirò pesantemente dopo aver sentito quelle parole, afferrò con poca grazia le mani di Fulvia, le imprigionò tra le sue e si chinò ancora di più su di lei.
Fulvia trasalì quando vide la sua espressione, era irritato e arrabbiato.
<< A volte penso che dovrei proprio lasciarti! >>
Nel sentire quelle parole Fulvia scosse involontariamente la testa, sembrava una bambina estremamente testarda, Romeo sbuffò e le picchiettò la fronte con l’indice.
<< Sei un idiota, ecco cosa sei! Perché ti dimentichi sempre tutto quello che ti dico?! Quel giorno, quando ci siamo messi insieme, ti ho detto che potevi essere egoista e non ti avrei detto nulla. E poi … come vuoi che mi diverta se non ci sei tu? >>
<< Eh? >> Romeo si lasciò scappare un sorriso quando Fulvia lo guardò con quegli occhi chiari grandi e confusi, ancora bagnati di lacrime e dolore.
<< Cosa credi, che me ne importi qualcosa del posto in particolare? Sapevo benissimo che questo posto non era adatto per te! Ma ho voluto portarti lo stesso, perché io e te non abbiano nulla di diverso dagli altri. E cosa importa se non possiamo salire sulla ruota panoramica? Non ti basta stare qui con me? Non ti basta proprio? >>.
Fulvia non ebbe nessuna reazione a quelle parole, continuava a fissarlo, Romeo sospirò pesantemente, sollevò finalmente la schiena e si guardò attorno con le sopracciglia aggrottate.
Si trovavano all’entrata proprio di fronte all’enorme cancello dipinto in oro, di fronte ad una serie di bancarelle che vendevano di tutto, fu proprio verso una di quelle che Romeo si incamminò, Fulvia lo seguì con lo sguardo e lo vide comprare un gomitolo di lana rosso.
Una volta tornato da lei Romeo le afferrò la mano, legò il filo di lana al suo mignolo e cominciò a scioglierlo lentamente allontanandosi, lo fece passare attorno al palo di una luce, attraverso una panchina, lo srotolò sulle sedie di alcuni tavolini e quando finalmente ebbe in mano l’altro capo, si avvicinò nuovamente a Fulvia e legò l’ultima parte al suo mignolo.
<< Conosci questa leggenda orientale? >>.
Le domandò chinandosi nuovamente su di lei, afferrò la mano legata al filo e la sollevò così che lei potesse averla davanti agli occhi.
<< No … >>
<< E’ una vecchia storia in cui si racconta che due persone, quando sono destinate a stare insieme per la vita, sono legate da un filo rosso del destino … >> E tirò leggermente il filo di lana legato al suo mignolo << … e questo filo può arrotolarsi, legarsi, incrociare tantissimi ostacoli, ma alla fine non si spezza mai, alla fine … quelle due persone sono destinate ad amarsi ugualmente, non c’è storia che non sia così! >> Romeo indicò il groviglio che aveva creato con il gomitolo di lana, Fulvia seguì il suo sguardo ignorando le lamentele e le occhiate degli altri occupanti del Luna Park << Ecco, il nostro filo rosso è un po’ incasinato, forse un po’ di più rispetto a quello degli altri, ma non importa. Alla fine, questo filo rosso è comunque legato alle nostre dita e non si spezza, non si spezzerà, ok? >>.
Quando smise di parlare Romeo si chinò ancora di più su di lei e le sorrise, le sorrise come sorrideva pochissime volte, facendo vedere tutti i denti bianchi e mettendo le fossette in bella mostra, Fulvia rimase imbambolata un istante ad osservarlo, soffermandosi in particolar modo sulla guancia ancora arrossata.
Guardò nuovamente il filo intrecciato ai loro mignoli, poi lo afferrò per le spalle e se lo tirò addosso. Romeo rimase talmente sorpreso che quando le loro labbra si scontrarono si fecero parecchio male entrambi, ma continuarono a baciarsi nonostante il dolore.
Romeo si rese conto che Fulvia non lo aveva mai baciato in quel modo, non riusciva nemmeno a respirare per quanto lei lo stava tenendo stretto.
Quando smisero di baciarsi si aggrappò talmente tanto alle sue braccia che Romeo rimase ugualmente imprigionato, stretto in un abbraccio forzato.
<< Ehi … >> Protestò Romeo, ma Fulvia lo zittì immediatamente.
<< Ti amo, ti amo, ti amo, ti amo idiota! Ti amo! >>
<< Ok, ok, ho afferrato il concetto >>
Romeo scoppiò a ridere e ricambiò la stretta, rimasero in quel modo per un po’ di tempo, in assoluto silenzio, respirando a vicenda il proprio odore.
<< Romeo, senti … >>
<< Uhm >>
<< E adesso come lo sbrogli il casino che hai creato con quel filo? >>
<< Cazzo! >>
 
<< Ma dove diamine si sono cacciati gli altri eh? I cellulari li hanno per bellezza?! >>
Gabriele stava strepitando più o meno da dieci minti e Aleksej osservava un cartellone dei gelati valutando seriamente se fracassarlo sulla testa del cugino o meno.
<< Gabriele taci! Altrimenti il cellulare te lo rompo in testa! >>
Katerina era l’altra persona a cui Aleksej avrebbe volentieri tirato qualcosa in testa, camminava poco più avanti al fianco di Gabriele e non faceva altro che strepitare a sua volta.
I due non la smettevano di battibeccare, prendersi a parole e tirarsi spintoni, quella era più o meno la routine per Aleksej, che li osservava attentamente da quando avevano cominciato a bisticciare, eppure c’era qualcosa di strano in loro.
La loro sembrava una rabbia … intima.
<< Ohi, ohi, non agitiamoci eh? Nel frattempo perché non saliamo su qualche attrazione? Dato che ci siamo … >>
Zosimo aveva parlato con tutte le buone intenzioni del mondo, immediatamente stroncate dalle occhiatacce minacciose che Gabriele e Katerina gli rivolsero contemporaneamente.
<< Oppure potremmo continuare a vagare per il Luna Park tutto il giorno, come volete! >>
Si affrettò a continuare il folletto alzando le mani in segno di resa.
<< Oh andiamo, Zosimo ha ragione! >> Intervenne bruscamente Alessandra andando in aiuto al fidanzato, Zosimo le rivolse un’occhiata sorpresa e si lasciò scappare un sorriso.
Era tutta rossa in viso e si stringeva al suo braccio con trasporto, come se volesse sfidare chiunque a dire anche solo una parola contro di lui.
<< Oh, per te qualsiasi cosa dica Zosimo è legge! >>
La stuzzicò Gabriele facendole una linguaccia che Alessandra ricambiò immediatamente.
<< Beh oggi la sua parola è legge anche per me! >> Intervenne bruscamente Aleksej incrociando le braccia al petto, era stufo di camminare in tondo in quel modo << Andiamo a farci un giro, ci ritroveremo con gli altri sicuramente ad ora di pranzo >>. Continuò strattonando il braccio del suo migliore amico, Gabriele guardò ancora una volta il cellulare, poi sospirò pesantemente e lo ripose nella tasca dei jeans.
<< Ok, così mi passa l’arrabbiatura. Allora, dove andiamo? >>
<< Perché non andiamo nella casa degli specchi? >> La proposta di Miki fece fermare tutti quanti, la ragazza aveva appena indicato l’attrazione con il pollice facendo spallucce << Beh, le montagne russe non le possiamo fare con Gabriele in quelle condizioni >> Continuò indicando il braccio ancora bendato del compagno di classe.
<< Direi che allora è deciso, no? Andiamo! >>
Si affrettò a dire Aleksej, poi afferrò il cugino per il braccio sano e lo trascinò verso l’attrazione con forza, tanto che Gabriele protestò apertamente ad alta voce.
Aleksej l’aveva trovata un’ottima idea all’inizio, trascinare il cugino per il braccio sano era l’unico modo per coinvolgerlo attivamente in quella cosa senza che continuasse a borbottare come un vecchietto lamentoso, ma se ne pentì immediatamente quando si rese conto che nella foga si erano immediatamente persi nel labirinto di specchi.
Aveva sempre detestato quei tipi di attrazione, bastava distrarsi per un solo secondo e non sapevi più ritrovare la strada per l’uscita, si fermò di botto, lasciò andare il braccio a Gabriele e si guardò alle spalle per vedere se miracolosamente qualcuno li avesse seguiti.
Ovviamente non era andata in quel modo.
Sospirò teatralmente, alzò gli occhi al cielo e tornò a guardare il cugino e migliore amico, che nel frattempo stava rimirando una delle sue molteplici immagini riflesse dagli specchi in cui appariva eccessivamente magro ed eccessivamente alto.
<< Beh, se fossi uno spilungone di due metri sarei orribile non trovi? >>
Aleksej sospirò pesantemente e si appoggiò con la schiena ad uno specchio, era fastidioso e strano allo stesso tempo osservare tutti quei sé diversi che i vari specchi rimandavano, in uno era troppo alto, in un altro chiatto, in un altro ancora magrissimo, eppure in tutti compariva con una faccia aggrottata e tesa.
<< Gabriele … >> Il suo richiamo fu debole, appena accennato.
<< Uhm >> Gabriele replicò con distrazione, continuando a fissarsi allo specchio.
<< Quella cosa di cui non hai mai voluto parlarmi … quel problema che hai avuto. Insomma, quando abbiamo litigato tu … è qualcosa di cui ti vergogni? >>.
Gabriele smise di rimirarsi quando sentì quelle parole e si girò per guardare il cugino, ancora appoggiato con la schiena ad una delle tante superfici di vetro.
Aleksej avevo uno sguardo limpido mentre lo scrutava con curiosità, uno sguardo velato dall’ansia di essere respinto ancora una volta.
<< Non più ormai. Non ha senso vergognarmi di amare qualcuno >>.
Aleksej tentò in tutti i modi di non far trasparire la sorpresa che gli dipinse il volto nel sentire quelle parole, nascose la meni dietro la schiena e strinse forte i pugni, sopprimendo il desiderio di mordersi il labbro inferiore o prorompere in esclamazioni volgari.
Gabriele fece finta di non aver notato la reazione sorpresa di Aleksej, e incrociate le braccia al petto appoggiò la spalla sinistra su uno specchio decidendo finalmente di affrontare quello scoglio.
Dopotutto era stanco di quella situazione, non voleva mai più deludere Katerina, non voleva mai più lasciarla andare o separarsi da lei, e sebbene sapesse di non essere ancora abbastanza forte per sopportare tutte quelle cose che lo avevano fatto tirare indietro, decise che quella volta avrebbe voltato le spalle a tutte le sue paure.
Anche se significava perdere il suo migliore amico o l’appoggio della sua famiglia.
<< Si Alješa, sono innamorato di questa persona più o meno da un anno ormai >>
<< Un anno?! >> Aleksej non riuscì a trattenere quell’esclamazione.
<< Già … >> Gabriele ridacchiò beffardo e si passò una mano dietro la nuca, era davvero difficile confessare tutti quei segreti, mettere a nudo tutte le sue colpe << Lo so cosa stai pensando, io ti ho fatto una testa tanta con la storia di Miki, e poi non ho nemmeno il coraggio di confessarti una cosa del genere >> Aleksej non replicò nulla a quelle parole, non sapeva come comportarsi e Gabriele d’altro canto non voleva fermarsi, altrimenti non avrebbe parlato mai più probabilmente, non ci sarebbe stata un’altra occasione come quella << Ma vedi Alješa, è facile aiutare le persone a cui vuoi bene, ma è davvero difficile aiutare se stessi >> C’era amarezza nel tono di voce di Gabriele, un’amarezza che Aleksej aveva percepito raramente, fin da quando erano bambini era sempre stato Gabriele quello coraggioso, quello pieno di vita, solare, Aleksej non era abituato a vederlo in quello stato.
<< Ma … >>
<< E no, non è nemmeno facile chiedere aiuto e lo sai benissimo! >> L’interruzione brusca di Gabriele stroncò immediatamente il flebile tentativo del biondo di protestare << Se non ti avessi cavato le parole di bocca con Miki non mi avresti detto nulla. E questo perché io e te l’orgoglio ce lo mangiamo a colazione vero? >>
Gabriele sospirò e si grattò nuovamente la nuca in chiaro segno di disagio, non avevano mai avuto una conversazione così seria, negli ultimi mesi il loro rapporto aveva preso una strada differente, una strada che nessuno dei due aveva previsto prima. 
Una strada che portava alla maturità.
Avevano cominciato a lasciarsi alle spalle i pomeriggi passati davanti alla playstation, le serate a fare gli stupidi con le ragazze, le prime esperienze.
Avevano cominciato a lasciarsi alle spalle l’infanzia e l’adolescenza dove tutto era stato più semplice, più facile.
Gabriele si stava domandando in quel momento se in quella nuova strada intrapresa, piena di curve, salite, buche e vicoli ciechi, Aleksej sarebbe stato al suo fianco per aiutarlo ad evitare i pericoli come aveva sempre fatto anche prima.
Oppure era stato lui a lasciarlo indietro quando aveva svoltato sul lato sbagliato?
Gabriele si rese conto che Aleksej non aveva fatto altro che inseguirlo con il fiatone per tutto quel tempo, da quando avevano litigato nella saletta delle macchinette, aveva cercato di raggiungerlo, gli aveva allungato la mano più volte, ma Gabriele gli aveva mostrato sempre le spalle ignorando i suoi avvertimenti.
E così non aveva fatto altro che cadere, sbagliare ed inciampare.
Si ritrovò a sorridere con amarezza quando si rese conto di quanto sarebbe stato tutto più facile se avesse avuto il coraggio di dire al suo migliore amico quelle semplici parole:
“ Amo tua cugina Katerina più della vita, accettalo di prego”.
<< Avrei dovuto dirti tutto fin dall’inizio, lo so. Ma a quanto pare sono più codardo del previsto. Pensavo che questa persona che amo fosse sbagliata per me, che non andasse bene. Mi sentivo in colpa per questo sentimento perché lo ritenevo sbagliato e si, me ne vergognavo da morire. E’ per questo che l’ho lasciata, ed è per questo che sono stato intrattabile per tutto quel tempo. >> Gabriele, che nel frattempo aveva abbassato lo sguardo per nascondere la colpa che aveva negli occhi, lo rialzò e fissò Aleksej con intensità, con un messaggio implicito di scuse << Credevo che tu non potessi aiutarmi. Ero sicuro che tu non avresti capito. E adesso mi chiedo da quand’è che ho perso la fiducia in te. Da quand’è che sono diventato così scemo >>.
Gabriele smise di parlare e cadde un silenzio pesante, carico di quelle parole che non potevano svanire facilmente,
<< Scemo lo sei sempre stato, comunque >>.
Al commento di Aleksej Gabriele scoppiò a ridere immediatamente, era una risata cristallina e sincera, una risata che non sentiva da tantissimo tempo, una risata che sembrava essere stata trattenuta da tantissimo tempo.
Era un riso liberatorio.
<< Ma lo scemo non sei solo tu. Ti conosco da una vita, e non è solo questo che ti ha impedito di parlarmene vero? Non si tratta solo d’orgoglio o di vergogna, vero? >>.
Gabriele smise di ridere, ma il sorriso continuò comunque ad accarezzargli le labbra, sapeva che Aleksej ci sarebbe arrivato prima o poi, era inevitabile.
Allora aspettò.
<< Gabriele … chi è questa ragazza? >>
<< E’ Ka … >>
<< Accidenti! Ecco dove erano finiti, meno male! Non ne potevo più di girare >>
Sia Aleksej che Gabriele sobbalzarono quando Zosimo e Alessandra comparvero nel corridoio dove si erano fermati a parlare, si erano talmente estraniati da trovare quella situazione piuttosto allucinante.
<< Uhm, forse abbiamo interrotto … >>
<< Vi stavamo aspettando in realtà >> La replica immediata di Aleksej alle parole di Alessandra fece sussultare Gabriele << Abbiamo pensato fosse meglio non muoverci >>.
<< Ok … andiamo a cercare Katerina e Miki allora? >>
Mentre si muovevano nella stessa direzione per andare a cercare le due ragazze, Aleksej e Gabriele si guardarono per un istante e sorrisero di sottecchi.
Su quella nuova strada Gabriele si era finalmente fermato e Aleksej l’aveva raggiunto.
Questa volta senza fiatone, con una promessa tra le mani.

________________________________________
Effe_95

Buonasera a tutti!
Allora, arrivo da un periodo pieno zeppo di guai che mi sono crollati come una valanga molto rumorosa sulle spalle, e sto preparando l'esame più difficile della mia vita ( che paura! xD) 
Quindi vi chiedo scusa se questo dovesse essersi ripercosso sul testo e anche per il ritardo.
Era da un po' che avevo in mente questo capitolo ambientato al Luna Park e spero vi sia piaciuto. Nella seconda parte, quella dedicata a Romeo e Fulvia, ho avuto finalmente l'opportunità di inserire una delle leggente orientali che mi piacciono di più, quella del Filo Rosso del Destino.
Non so se la conoscevate già prima, ma io la trovo davvero bellissima.
E ho pensato che per una coppia come quella di Romeo e Fulvia, così piena di scogli lungo il cammino che porta al futuro, fosse perfetta :)
Spero piaccia anche a voi e che abbiate capito la reazione di Fulvia, andando oltre il gesto dello schiaffo, cercando bene tra le righe ;)
La terza parte invece, è quella che mi ha dato più filo da torcere, essenzialmente perché Gabriele ha messo in tavola più o meno tutte le carte ( insomma, lo so che mi odiate perché sul momento più bello sono comparsi Alessandra e Zosimo xD) e ormai manca davvero poco.
Io sono convinta che arrivati ad un certo punto della vita, quelle amicizie che abbiamo coltivato da bambini raggiungono un punto di svolta, e così è successo anche ad Aleksej e Gabriele.
Siccome a me non è andata proprio bene in quel senso, ho voluto che fossero almeno loro due ad intraprendere insieme quella "nuova strada", come la chiama Gabriele :)
Spero di postare il prossimo capitolo il prima possibile, esame permettendo, ma quando riprendo i corsi paradossalmente dovrei avere più tempo per scrivere quindi conto di velocizzarmi un po'.
Nel prossimo capitolo troveremo tutte le altre coppie che passeranno tantissimi guai nella casa degli spettri, ma non vi dico altro ;)
Risponderò alle vostre fantastiche recensioni appena potrò, promesso.
Alla prossima, grazie mille di cuore sempre per la vostra costanza, per il vostro tempo.
Semplicemente perché siete voi e siete fantastici <3 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 47
*** Nello stesso modo, Se tu sei felice e Buh! ***


I ragazzi della 5 A
 
47. Nello stesso modo, Se tu sei felice e Buh!


Marzo

<< Morirò, oddio morirò! Gira tutto, la mia testa … un dottore! Serve un dottore! >>.
<< Una pecora, due pecore, tre pecore … Oddio, taci!>>.
<< Ma quello non si fa per prendere sonno? E poi, non hai resistito nemmeno oltre il tre!>>.
<< Facciamo un altro giro? Dai, un altro giro!>>.
Era da più di dieci minuti che Cristiano li stava osservando, dieci minuti di strazio assoluto.
Quando il gruppo si era sparpagliato nella folla, lui e Sonia erano rimasti bloccati con Telemaco, Zoe, Fiorenza e Igor, le ultime persone con cui si sarebbe mai aspettato di passare la mattinata. Erano appena scesi dalle montagne russe dopo un giro piuttosto movimentato e avevano dato tutti e quattro di matto in maniera differente.
Igor era pallido, sudaticcio, tremolante e non faceva altro che delirare qualcosa a proposito di dottori e di morte violenta traumatica, inoltre Cristiano era piuttosto sicuro che non avesse fatto altro che urlare in maniera stridula per tutta la corsa.
Ne era piuttosto sicuro perché Igor era seduto davanti a lui e l’aveva reso sordo.
Al suo fianco invece, Telemaco contava a squarciagola per cercare di controllarsi ed evitare di stendere Igor a terra con un pugno micidiale, osservando la situazione Cristiano dovette ammettere che Fiorenza non lo aiutava a contenere l’ira rimproverandolo in quel modo.
L’unica che sembrava completamente estranea alla situazione era Zoe, che saltellava sul posto come un grillo con i lunghi capelli biondi elettrizzati dal vento, insistendo affinché facessero un altro giro.
<< Sento che diventerò idiota anch’io se resto ancora un altro minuto con questi qua! >>.
Cristiano sollevò il sopracciglio destro e si girò ad osservare Sonia, che se ne stava accanto a lui con le braccia incrociate al petto e un’espressione infastidita sul viso affilato.
<< Beh, a essere idioti sono idioti, però … non li trovi bene assortiti? >>.
Sonia sollevò entrambe le sopracciglia alle parole di Cristiano, lo guardò come per accertarsi del fatto che avesse le rotelle a posto, e con fare eloquente indicò la pietosa scena che si stava consumando davanti ai loro occhi: Igor che si piegava per vomitare sugli stivali di una Zoe inorridita che tentava inutilmente di soccorrerlo, e Telemaco e Fiorenza che si urlavano contro con tale forza da calpestarsi i piedi senza accorgersene.
<< Tu li trovi bene assortiti?! >> Cristiano osservò per un po’ la scena, poi si lasciò scappare un sorriso che Sonia trovò piuttosto amaro e autoironico.
<< Beh, prima che mi mettessi in mezzo rovinando tutto … Telemaco e Fiorenza se la intendevano alla grande >> Sonia sollevò la testa di scatto quando sentì quelle parole, distolse lo sguardo dai quattro compagni di classe e si concentrò su Cristiano, che tuttavia non la stava guardando, perso in chissà quale amaro ricordo << Ho saputo che sono tornati insieme ma … >>.
<< Ma finché ti porti dietro la tua verità, finché quello che è successo tra te e Fiorenza quella sera in discoteca resterà un segreto, peserà sulla loro relazione come un’ombra scura, ho indovinato? >>. Cristiano trasalì quando sentì le parole di Sonia, quando i loro occhi si incrociarono fu strano come lo sguardo della mora gli risultasse terribilmente familiare.
<< Già … >> Sonia non aveva mai visto un’espressione così carica di colpa sul viso di Cristiano, nemmeno quando erano stati insieme quei pochi mesi del secondo anno di liceo.
Quando erano entrambi ancora innocenti, ancora bambini.
Non conosceva quella nuova versione di Cristiano, lui le sembrava estraneo e familiare allo stesso tempo, era una persona nuova e contemporaneamente lo stesso ragazzo che le aveva spezzato il cuore, che l’aveva trasformata in quello che era adesso.
Sonia si rese conto per la prima volta che la sofferenza lo aveva cambiato.
Il Cristiano che conosceva lei, il Cristiano di pochi mesi prima non avrebbe mai avuto quello sguardo, non sarebbe mai venuto al Lunapark quel giorno, non avrebbe mai parlato con lei in quel modo, non l’avrebbe guardata con quegli occhi …
<< Sai, sei cambiato >> Dirlo ad alta voce glielo fece sembrare ancora più vero.
<< Dici? >> Le domandò Cristiano osservandola con i suoi occhi profondi dal taglio a cerbiatto, Sonia aveva amato quello sguardo alla follia un tempo.
<< Uhm, e oggi sei anche di buon’umore eh? >>.
Cristiano portò nuovamente l’attenzione sui fidanzati, Zoe stava passando un fazzoletto  bagnato in una fontana vicina sulla fronte di Igor, che pallido se ne stava appoggiato a lei come se fosse la sua roccia, mentre Telemaco e Fiorenza avevano finito di gridarsi contro e si baciavano fastidiosamente senza pudore.
<< Sarà perché stasera Marta ha detto che mi prepara la lasagna? >>.
<< Senti … ma poi alla fine ci sei andato davvero a letto con Fiorenza? >>.
Cristiano non sembrò sorpreso di ricevere quella domanda, la guardò di sottecchi e le fece l’occhiolino, un gesto che Sonia non si sarebbe mai aspettata da lui.
<< Che dici Sonia, ce la filiamo? >>
Sonia sapeva che Cristiano non le avrebbe mai dato una risposta, ma la minima curiosità che le era rimasta, e che probabilmente l’avrebbe portata ad insistere sull’argomento, svanì immediatamente non appena il significato di quelle parole le fu chiaro.
<< Cosa? >> La domanda le partì in automatico, con incredulità.
Cristiano fece spallucce, infilò le mani nelle tasche dei jeans e continuò a fissarla con uno sguardo indecifrabile, uno di quegli sguardi che Sonia ancora non conosceva.
Provò uno strano senso di smarrimento e una stretta alla bocca dello stomaco quando si rese conto che stavano parlando in quel modo, con naturalezza, senza insultarsi, senza dirsi cattiverie, senza rivangare il passato o chiamare in causa sentimenti che c’erano stati o non c’erano stati. Le venne spontaneo domandarsi se fosse possibile continuare in quel modo.
Se avesse accettato quella proposta, se si fossero ritrovati da soli, sarebbero stati in grado di lasciarsi alle spalle il passato anche solo per poche ore?
Oppure sarebbero tornati a vomitarsi addosso tutto il rancore, tutto il dolore?
<< Andiamo da qualche altra parte io e te. Tanto ci ritroveremo ad ora di pranzo, no? >>
Sonia non replicò nulla nell’immediato, si limitò a fissarlo a lungo, a scrutargli il viso in ogni dettaglio, notando che Cristiano non era cambiato tantissimo in quegli anni.
Aveva sempre avuto gli occhi dal taglio leggermente orientale, di un marrone intenso che a contatto con la luce del sole creava come dei riflessi dorati, gli zigomi erano alti e sporgenti, quel giorno aveva un leggero strato di barba e le labbra carnose erano screpolate a causa del vento, non doveva aver tagliato i capelli recentemente perché alcune ciocche ricciolute gli coprivano la fronte. Era sempre stata una bellezza grezza la sua.
<< Ma forse dopo tutto il male che ti ho fatto … ok, lo capisco. Considera la proposta ritirata, non … >>.
<< Andiamo, va bene >>.
Sonia fu sorpresa dalle sue stesse parole, aveva reagito per riflesso, non appena Cristiano aveva cominciato a tirarsi indietro il panico aveva preso possesso del suo corpo facendola agire in quel modo impulsivo.
Cristiano si girò a guardarla con le sopracciglia aggrottate e l’espressione interdetta, Sonia sospirò pesantemente, sollevò gli occhi al cielo, lo afferrò per un braccio e lo trascinò via dagli altri compagni di classe che comunque non avrebbero notato la loro fuga.
Mentre camminavano con passo affrettato verso una meta imprecisa, Cristiano non poté fare a meno di notare come la mano di Sonia fosse scivolata dal suo braccio fino al polso e poi di come le loro dita si fossero trovate con la stessa naturalezza di un respiro.
Sonia lo prendeva per mano in quel modo anche quando avevano quindici anni.
Cristiano non avrebbe mai pensato di ricordare un dettaglio talmente insignificante anche dopo tutti quegli anni, aveva avuto talmente tante donne tra le mani che per un momento aveva dimenticato cosa significasse volere bene solo ad una di loro.
E a Sonia aveva voluto bene davvero, a modo suo.
<< Per questi ultimi mesi, per avermi prestato la tua spalla la vigilia di Natale, per esserti seduta accanto a me il giorno del funerale di mia madre senza dire nulla, per avermi prestato il tuo grembo quel giorno quando ho pianto … grazie >>.
Cristiano aveva trovato più semplice dirle quelle parole mentre correvano, mentre Sonia si trovava un passo davanti rispetto a lui e non poteva vederle il viso.
Non restò nemmeno troppo sorpreso quando lei si fermò di botto e voltò la testa di scatto fulminandolo con quel suo sguardo verde e limpido, lampeggiante, con le sopracciglia contratte e la posa di un animale selvatico pronto a difendersi.
<< Era da un po’ che volevo ringraziarti, ma non ho mai saputo davvero come farlo >>.
Sonia sembrò notare solo in quel momento le loro dita intrecciate, gli lasciò andare immediatamente la mano e guardò altrove, sconcertata.
<< Non … io non l’ho fatto per essere ringraziata!  >>. Sbottò con impeto.
<< Lo so! Però … non posso ringraziarti nemmeno per avermi amato tutto questo tempo? Per aver amato una persona come me? Una persona che ti ha usato, calpestato, abbandonato e gettato via migliaia di volte? Che ha preso i tuoi sentimenti e li ha trasformati in fumo? >>.
Quando Cristiano smise di vomitare quelle domande che tante volte avrebbe voluto rivolgerle, non rimase nient’altro che il silenzio tra di loro, un silenzio sostenuto dallo sguardo fermo e fisso di Sonia su di lui.
<< No. Non puoi ringraziare una come me Cristiano. >> Il suo sguardo era fermo e stabile quando pronunciò quelle parole << Non puoi ringraziarmi perché il mio amore, se lo vuoi chiamare così, è solamente egoismo. Io non volevo aiutarti, volevo solamente che tu fossi mio. E’ per questo che sono stata così ostinata. E’ per questo che sono stata con tutti quei ragazzi, perché credevo che sarebbe stato l’unico modo per ferirti, perché la mia concezione dell’amore è questa, perché per me l’amore è egoismo >>.
Cristiano si ritrovò a fissare Sonia per alcuni secondi in assoluto silenzio, poi si lasciò scappare una risata amara, allungò una mano e accarezzò Sonia sulla testa.
<< Io e te amiamo proprio nello stesso modo eh? >>.
<< Cosa? Cosa stai … >>.
<< Forse è per questo che non possiamo amare nessun’altro? O forse … >> Cristiano smise di accarezzare Sonia sulla testa lasciando la mano ferma sul suo capo, abbassò leggermente il viso in modo che i loro occhi fossero più o meno alle stesso livello e le sorrise << … o forse è proprio perché non abbiamo amato nessun’altro, che siamo fatti così? >>.
Sotto il tocco della sua mano Cristiano sentì Sonia tremare leggermente prima che si attaccare al suo braccio, con forza, con tutto il peso del suo dolore e di quei tre anni.
<< Non lo so Cristiano. Non so nemmeno se il mio sia amore … >>.
<< Certo che è amore >> La replica di Cristiano fu talmente immediata che Sonia sussultò.
<< E’ un amore egoistico, ma è pur sempre amore. E’ imperfetto, è mutevole, ma l’amore è l’amore. E non esiste qualcosa che ne sia l’imitazione >>.
<< E cosa ne sai tu, che non mi hai mai amata e mi hai mandata via in quel modo? >>.
Cristiano tolse la mano dal capo di Sonia, che tuttavia continuò ad aggrapparsi alla stoffa sintetica della sua giacca a vento, stringendo con forza fino a farsi sbiancare le dita.
<< Ti ho amata moltissimo invece.>> Sonia sgranò gli occhi e sollevò la testa di scatto, Cristiano le stava sorridendo amaramente, con lo sguardo distante e lontano. << Ti ho amata nel modo sbagliato perché nessuno mi aveva insegnato come farlo bene >> Sospirò e fece un piccolo passo indietro, la stretta di Sonia si era talmente allentata per lo shock che la presa sul giubbotto svanì in un istante << Perché mi avevano insegnato che amare significa distruggere l’altro, perché mi avevano insegnato che se ti avessi amata in quel modo totale, violento, avresti fatto la fine di mia madre … e lasciandoti, trattandoti male io … io ho pensato di salvarti e invece … >> Cristiano fece un altro passo indietro << Invece avrei dovuto amarti proprio in quel modo lì, proprio come ti amavo allora, perché era quello il modo giusto di amare, era quello il mio modo di amarti! >> Un altro passo indietro, ancora. << Perché ho capito solo adesso che saresti stata più felice se io ti avessi amata in quel modo. Se non avessi creduto di fare il tuo bene lasciandoti andare, saresti stata più felice vero? >>.
Cristiano era indietreggiato talmente tanto che Sonia non riusciva quasi più a sentirlo.
O forse erano le orecchie che le si erano otturate.
O forse era il cuore che stava pompando troppo sangue.
<< Se ti dicessi adesso che ti amo ancora in quel modo, torneresti ad essere felice? >>.
Cristiano si fermò a dieci metri di distanza da lei, raddrizzò la schiena e spalancò le braccia.
Sonia sentì il respiro accelerare freneticamente nel suo petto, una strana stretta alla bocca dello stomaco e i piedi incollati sull’asfalto, immobili.
Ma le fu facile prendere una decisione.
Fece un passo indietro, girò la schiena e scappò via.
 
<< Ehi, ma dove sono finiti Sonia e Cristiano? >>.
Igor sollevò la testa distrattamente quando sentì le parole di Fiorenza, ricordava solo vagamente che con loro erano saliti sulle montagne russe anche Cristiano e Sonia.
Lo ricordava perché il moro era seduto dietro di lui e durante tutto il percorso non aveva fatto altro che imprecare, Igor aggrottò le sopracciglia mentre ci ripensava, doveva essere solamente uno scherzo della sua immaginazione, ma aveva come il sospetto che Cristiano avesse imprecato contro di lui.
No, la cosa non aveva affatto senso!
Aveva ancora lo stomaco sottosopra e gli girava leggermente la testa, quando erano scesi dall’attrazione aveva cominciato a barcollare come un ubriaco e l’intero parco sembrava ruotare freneticamente su se stesso.
Era stato imbarazzante vomitare in quel modo sulle scarpe della sua fidanzata, ma Igor era fortemente convinto che fosse inevitabile per uno dal fisico come il suo non subire i postumi di una corsa sfrenata come quella appena compita.
<< Beh, ma chi se ne frega dove sono quei due? Almeno si sono tolti dai piedi da soli >>.
Igor sollevò gli occhi al cielo quando sentì il commento acido di Telemaco, sapeva benissimo che l’amico risentiva ancora tantissimo di quello che era successo con Cristiano, che non poteva sopportare la sua vista per più di dieci secondi perché il dubbio gli afferrava lo stomaco come una morsa fastidiosa.
E sapeva che nonostante questo Telemaco avrebbe continuato a tacere, a frenarsi, ad evitare con tutte le sue forze di fermare Cristiano e costringerlo a parlare, l’avrebbe fatto solamente per Fiorenza, per provarle che dopotutto ci stava provando a fidarsi di lei.
In un modo del tutto discutibile, ma ci stava provando.
<< Comunque, io e Fiorenza andiamo a fare un altro giro. Venite? >>.
Igor sentì lo stomaco attorcigliarsi nella cassa toracica come se si stesse ritraendo per nascondersi, ma quando lanciò uno sguardo a Zoe, che era saltata in piedi battendo le mani entusiasta, tentò in tutti i modi di dominare il suo pallore ed il tremore.
<< S-si, andiamo >>. Si tirò eroicamente in piedi, sbandò altrattanto eroicamente a destra e si andò a schiantare, sempre eroicamente, nel cestino della spazzatura provocandosi un dolore acuto nel fianco destro. Igor provò uno strano senso di vergogna, e non perché la gente lo stava fissando o altro, piuttosto perché se proprio doveva fare una figura del genere avrebbe preferito che almeno quel maledetto cestino di plastica si rovesciasse. 
Invece era stato lui ad essere “rovesciato”, e come regalino si sarebbe portato a casa un bel livido violaceo.
<< Ha-ha, devo essere inciampato nei lacci delle scarpe >>.
Commentò forzatamente tentando di mettere su un sorriso convincente, poi si accorse che Zoe, Telemaco e Fiorenza gli stavano guardando i piedi, seguì la loro stessa direzione e desiderò sprofondare parecchi metri sotto terra.
Indossava degli stivali di gomma.
Igor ricordò solo in quel momento che aveva deciso di indossarli quella mattina perché il tempo era incerto e non sapeva se avrebbe piovuto o meno.
Beh, dopotutto aveva sempre saputo di non essere affatto abile con le bugie.
<< Ad ogni modo sto bene! Andiamo, Zoe non vede l’ora no? Forza! >>.
Smise di massaggiarsi il fianco, ridacchiò in maniera terribilmente finta e afferrò un braccio di Zoe trascinandola verso l’attrazione, ci avrebbe pensato dopo alle sue fobie.
Tuttavia fu la stessa Zoe a piantare i piedi per terra fermando la sua stupida corsa.
<< Igor, smettila, va bene così >>. Igor si girò a guardarla con le sopracciglia aggrottate, lei gli sorrise dolcemente e poi si rivolse a Fiorenza e Telemaco << Voi andate, noi vi aspettiamo qui, va bene? Dopo possiamo andare a provare la casa degli specchi, uhm? >>.
Igor spalancò la bocca quando Telemaco e Fiorenza li salutarono con fare svogliato dopo aver sentito le parole di Zoe e si incamminarono verso la fila dell’attrazione.
<< Ma come … ma tu guarda quei due! Forza, seguiamol… >>.
<< Igor, hai mal di stomaco vero? Ti fa male il fianco, provi vertigini lungo tutto il corpo e tremi al solo pensiero di salire li sopra! Cosa credi, che non l’abbia capito che ci sei salito solo per me? >> Igor si fermò di botto quando sentì quelle parole, sospirò pesantemente e si voltò per guardare Zoe negli occhi << Avevi paura, ma hai visto che io desideravo andarci a tutti i costi e ti sei morso la lingua. Come ogni volta che voglio fare qualcosa che a te non va, hai messo da parte i tuoi desideri e sei andato contro i tuoi principi fino a stare male >> Zoe fece un passo avanti e afferrò Igor per la giacca, stringendo le dita sottili attorno alla stoffa grezza della giacca a vento << Ho permesso che tu lo facessi una volta per me, ma adesso va bene sai? Adesso tocca a me fare un passo indietro ok? Adesso sono io che faccio qualcosa per te, uhm? >> La stretta si fece ancora più salda, ma Igor continuò a guardarla negli occhi, ad ogni modo, continuò a farlo perché amava con tutto se stesso guardare dritto in quegli occhi che sapevano leggerlo meglio di chiunque altro.
<< Sai Zoe, a volte penso che io e te siamo davvero troppo diversi >> Zoe aggrottò leggermente le sopracciglia quando sentì quelle parole e Igor sorrise, accarezzando con l’indice della mano sinistra la ruga di preoccupazione comparsa sulla sua fronte << E a volte penso che questa differenza dipenda essenzialmente da me. So di non essere il tipo giusto per te, continuo a domandarmi perché tu ti sia ostinata e inevitabilmente sento di privarti di qualcosa continuando ad essere egoista fino a questo punto, continuando a tenerti con me. È per questo che cerco di fare tutto quello che vorresti fare tu, perché tu possa sentirti libera. Perché tu non sia delimitata dalle mie fobie o dalle mie paure, sai, un mal di stomaco lo posso gestire bene … se tu sei felice >>. 
Igor accennò uno dei suoi rari sorrisi e la carezza sulla ruga scese sul naso fino alle labbra, seguì il profilo della mascella e la linea pulsante della carotide fino a fermarsi nell’incavo dello sterno, poco al di sotto della gola.
Zoe rabbrividì leggermente ma continuò a tenere lo sguardo fisso su di lui, era davvero raro che Igor si aprisse in quel modo nei suoi confronti, erano passati solo pochi mesi da quando stavano insieme e lei avrebbe potuto contare sulla punta delle dita le volte in cui lo aveva sentito parlare in quel modo di ciò che provava per lei.
Erano momenti preziosi, che avrebbe custodito nel futuro.
<< Ci mettiamo seduti su quella panchina? >>.
Igor accontentò il desiderio di Zoe senza aggiungere altro, la prese per mano ed entrambi si misero seduti su quella panchina verde scorticata, spalla contro spalla.
Seduta da quella posizione Zoe riusciva a vedere Fiorenza e Telemaco ancora intrappolati nella lunga fila, sbadigliò sfacciatamente e appoggiò la testa sulla spalla ossuta del fidanzato, fu in quel momento che si accorse per la prima volta del fatto che Igor si fosse portato dietro la cartella. La zip era leggermente aperta e dall’interno riusciva ad intravedere un paio di quaderni, più uno di quei libri preparatori per i test d’ingresso alle università pieno zeppo di post-it.
<< Che cos’è quel libro? >>.
Igor uscì dal mondo dei pensieri in cui si era rintanato e seguì l’indicazione del dito puntato di Zoe, notò la cartella aperta e il libro in bella mostra, aggrottando le sopracciglia aprendo del tutto la zip e lo tirò fuori mettendolo in bella vista.
<< Io … sto iniziando a studiare per i test d’ingresso a medicina >>.
<< Davvero? Non mi avevi detto che volevi entrare a medicina >>.
Zoe aggrottò la fronte e prese il libro tra le mani sfogliando superficialmente alcune pagine, Igor arrossì leggermente e fece spallucce.
<< Beh, è un’idea recente. Mi piacerebbe diventare neurologo … credo >>.
<< Credi? La trovo una bella idea, e va bene se ti piace >>.
Zoe gli restituì il libro e sorrise mettendo in mostra le fossette, Igor si imbambolò alcuni secondi a fissarla prima di riprendere il libro.
Aveva sempre amato il viso a forma di cuore di Zoe, la curva delle labbra, il piccolo neo sotto l’occhio sinistro e il naso macchiato da due o tre lentiggini, di lei amava anche quei capelli sottili come spaghetti, biondi come il grano e sempre elettrizzati.
E amava terribilmente quel sorriso sincero.   
<< E … e tu cosa vorresti fare dopo? >>.
<< La maestra d’asilo! Quindi farò pedagogia >>.
Igor si sorprese della velocità con cui Zoe aveva risposto alla sua domanda, non aveva esitato nemmeno un secondo a dargli la sua risposta e l’aveva fatto con fierezza.
Come se avesse deciso la sua strada già da molto tempo.
Igor stava imparando con il tempo che a dispetto dell’apparenza e del suo carattere frizzante,  Zoe era una ragazza decisa, molto più decisa di lui, decisamente più decisa di lui.
<< Sarai un’ottima maestra >>.
<< E tu un ottimo dottore >>.
 
<< Perché la casa degli spettri? Perché? >>.
Italia non poteva proprio fare a meno di avere quella voce lamentosa, né di attaccarsi al braccio di Ivan in quel modo morboso che sarebbe risultato estremamente intimo e imbarazzante se Italia fosse stata padrona di se stessa.
Dal lato suo Ivan non provava nessun tipo di fastidio nell’avere Italia così vicina, gli era diventata così familiare con il passare del tempo che avrebbe potuto anche considerarla come un prolungamento del suo stesso cuore.
<< Non è così terrificante come sembra, te lo assicuro >>.
Ivan pronunciò quelle parole sussurrandole dopo essersi chinato verso di lei e averle messo un braccio attorno le spalle con fare protettivo, Italia si era sentita stranamente meglio quando la voce calda e roca del fidanzato le aveva sfiorato l’orecchio con familiarità.
<< Ma perché deve essere un percorso a piedi? >>.
Domandò Catena afferrando con entrambe le mani una manica della giacca di Oscar, che camminava qualche passo più avanti borbottando qualcosa tra i denti.
Sembrava talmente concentrato da non accorgersi nemmeno di quel gesto.
<< Per farci morire meglio dalla paura! >>.
La replica di Beatrice risuonò lugubre lungo il corridoio buio e spoglio che stavano attraversando in quel momento, procedevano con estrema cautela ignorando le finte ragnatele o le luci fluorescenti che ogni tanto apparivano dal nulla facendoli sobbalzare.
<< Andiamo Bea, questa roba è finta! >> La voce di Enea era rilassata e ironica come al solito, lui e Beatrice camminavano uno affianco all’altra senza toccarsi, lei era perfettamente imbronciata e non faceva altro che fulminarlo con lo sguardo.
<< Io mi sto annoiando alla grande! Perché non succede nulla? >>.
Al commentò urlato di Muriel, sia Catena, Italia che Beatrice si voltarono a guardarla come se fosse impazzita, come se avessero a che fare con una strana creatura di un altro pianeta.
In realtà era stata proprio Muriel ad insistere perché entrassero nella casa degli spettri, dopo che Italia aveva smesso di urlare e telefonare i dispersi senza successo, li aveva trascinati lì dentro controvoglia. Eppure lei non aveva trovato nulla di spaventoso in quella specie di villa fatiscente costruita ad arte, lanciò un’occhiata divertita a Giasone, ma lui le camminava accanto accigliato e irritato, Muriel aggrottò le sopracciglia.
<< Cosa vuoi che succeda? Al massimo spunterà qualche scheletro di plastica e … >>.
La frase di Enea venne bruscamente stroncata nel momento in cui, voltando finalmente l’angolo del corridoio buio, si erano ritrovati in un’ampia stanza piena di spettri finti e una mummia si era sollevata dal pavimento, senza preavviso, fermandosi ad un millimetro di distanza dal viso di Enea. Catena, Beatrice e Italia strillarono balzando indietro, Giasone sobbalzò imprecando a denti stretti, Ivan si passò fugacemente una mano sul cuore, mentre Muriel saltellava eccitata, Oscar continuava a mormorare qualcosa senza scomporsi minimamente e Lisandro si piegava sulle ginocchia per nascondere il sudore freddo.
Quando tutti ebbero più o meno ritrovato il contegno, voltarono lo sguardo su Enea, che nel frattempo era rimasto immobile, fermo, anche se la mummia si era ritirata nel pavimento.
Tutti puntarono lo sguardo esitante sulla sua schiena, non potevano vedergli il viso perché si trovavano dietro di lui quando erano entrati nella nuova sala, ma la sua immobilità era eccessiva.
<< Enea, stai … >>.
<< Ha-ha-ha! Davvero esilarante! >>.
Enea stroncò bruscamente le parole di Beatrice e senza voltarsi continuò a camminare, gli altri si guardarono negli occhi, fecero spallucce e presero a seguirlo.
Quando si lasciarono alle spalle la stanza della mummia presero ad attraversare un altro corridoio, molto più ampio, in cui se ne stava una riproduzione piuttosto realistica di una strega che consultava una sfera di cristallo che emanava bagliori violacei.
Mentre Catena, Beatrice, Oscar, Ivan, Giasone, Muriel e Italia si fermavano incuriositi ad osservare la fattucchiera, Enea ne approfittò per allontanarsi leggermente e tirare un sospiro di sollievo, era bianco come un cencio.
<< Sei morto di paura, vero? >>. Sobbalzò vergognosamente portandosi una mano al cuore quando Lisandro spuntò alla sua destra all’improvviso.
Era calmo e serafico come al solito, anche lui un po’ pallido per lo spavento, ma non lo guardava con ilarità o con indifferenza, nonostante le cose tra loro non stessero più andando nel verso giusto, Lisandro aveva sempre lo sguardo curioso di un bambino.
Senza rancore, senza odio né altro.
<< Non sai quanto! >>.
Si ritrovò a mormorare Enea accennando un sorriso forzato.
Non sapeva realmente spiegarsi perché avesse deciso di dire la verità a cuore così aperto, ma con Lisandro non aveva mai dovuto fingere nulla prima, prima che si innamorassero della stessa persona.
<< Me ne sono accorto perché avevi le mani strette a pugno. Quando ti spaventi o hai paura, il tuo viso rimane più o meno impassibile, ma le mani … me ne sono accorto con il tempo. Ho capito che per scoprire cosa ti passa per la testa devo evitare di guardarti negli occhi. Sai, a differenza degli altri, i tuoi occhi sanno mentire piuttosto bene Enea, ma le mani … non tanto, lo sapevi? >>.
Enea spalancò leggermente gli occhi e rimase in totale silenzio, osservando l’amico che giocherellava distrattamente disegnando con la punta della scarpa qualcosa di astratto sul pavimento del corridoio, la gomma bianca delle calzature spiccava sinistramente a causa della luce psichedelica che emanava la sfera della strega.
Nessuno gliel’aveva mai detta una cosa del genere.
Nemmeno Beatrice l’aveva notato.
<< Ma per Enea Colombo è troppo, vero? Sarebbe una sconfitta colossale ammettere di aver avuto paura, giusto? Il guerriero che non ha mai …>>.
<< Ohi Lisandro! >> Enea alzò deliberatamente la voce e Lisandro smise di parlare di botto, sollevando finalmente il viso da terra per fissarlo negli occhi, in quello sguardo fiero e contemporaneamente amareggiato << Lo sai che ho paura di tantissime cose. Lo sai, vero? E sai anche che davanti a Beatrice non mostrerei mai le mie paure, no? Perché vedi … se le lascerò credere che non posso avere paura di nulla, che posso proteggerla da tutto, allora lei sarà più felice, non credi? >>.
Lisandro non replicò nulla a quelle parole, e i due si limitarono a fissarsi in silenzio fino a quando non vennero raggiunti dal resto del gruppo, che finalmente aveva smesso di analizzare nei minimi dettagli una scultura che tra l’altro Enea trovava piuttosto scadente.
Avanzarono fino all’angolo successiva e questa volta ci misero più cautela nello svoltare.
La prima a farsi avanti fu Muriel, che strascinava un riluttante Giasone per la manica della giacca, tuttavia la stanza successiva non fu affatto come se l’aspettavano.
Si ritrovarono su una sorta di balcone che affacciava su una sala da pranzo in stile vittoriano in cui alcune proiezioni di fantasmi d’epoca ballavano un valzer perpetuo.
<< Wow è … bellissimo! >>
Commentò Italia aggrappandosi alla ringhiera per osservare meglio la scena.
<< Wow, non fa per nulla paura nemmeno questo! >>.
Il commento di Muriel accompagnò immediatamente quello di Italia e Giasone si ritrovò a sbuffare sonoramente e appoggiarsi a sua volta alla ringhiera con fare depresso.
<< Perché sbuffi? >>. Domandò Ivan, che non si era lasciato sfuggire il gesto.
<< Perché a volte vorrei avere una fidanzata un po’ più ... normale >>.
<< Normale? Credi che Muriel non lo sia? >>.
Bisbigliò Ivan abbassando il tono della voce dal momento che Oscar si era appena sistemato accanto a loro, continuando a mormorare qualcosa tra i denti, concentrato.
<< Uhm, trovami un’altra ragazza che si emoziona per una casa degli spettri o che non vede l’ora di morire di paura! Preferirei di gran lunga che saltasse dallo spavento e si aggrappasse al mio braccio! Sarebbe molto più … gratificante? >>.
Ivan non riuscì a trattenere una risata nel sentire quelle parole, tuttavia non ebbe modo di replicare nulla perché gli altri li incitarono a proseguire.
E non appena varcarono la soglia successiva accadde più o meno il finimondo.
Una serie di zombie morti motorizzati si sollevarono dal pavimento e cominciarono ad avanzare verso di loro, Beatrice fu talmente colta dal panico che saltò come un koala addosso ad Enea, che impreparato precipitò a terra trascinandola con sé.
Italia si accovacciò a terra nascondendo la testa sulle ginocchia, mentre Ivan scivolava in una sorta di spaccata nel tentativo di allontanarsi di fretta da uno zombie troppo vicino.
Lisandro rimase pietrificato dalla paura, fermo sul posto, mentre Oscar gridò a tutta voce:” Ohi vista, ohi conoscenza!” rendendo finalmente noto a tutti il motivo del suo continuo mormorio. Stava ripetendo le battute per il Tancredi e Clorinda, lo spettacolo teatrale.
Catena rimase talmente scioccata dalla reazione del fidanzato che non pensò nemmeno di urlare, sebbene si fosse spaventata a morte anche lei.
Oscar non le aveva detto che aveva deciso di interpretare la parte.
<< Doveva essere una sorpresa! >> Si lamentò il ragazzo in un attimo di panico totale.
L’unica che non urlò affatto fu Muriel, e di controparte nemmeno Giasone perché si era accorto per primo che gli zombie non potevano raggiungerli, essendo il percorso che dovevano seguire delimitato da sbarre di ferro.
E poi erano finti, non potevano fare paura comunque.
Quello fu in assoluto il momento più imbarazzante della giornata.
Quando si furono ricomposti ed ebbero attraversato anche quella sala, si resero conto che il percorso terminava lì e che lo strazio era finalmente finito.
Accolsero con gioia la luce del sole, lasciandosi alle spalle quella psichedelica, le ragnatele finte, le voci spaventose e il buio. Si erano appena allontanati dalla villa fatiscente quando Muriel cacciò un urlo disumano, fece un balzò indietro di due metri e si nascose dietro la schiena di Giasone, stringendolo con una tale violenza che al ragazzo mancò il respiro.
<< Cosa c’è?! >>. Gridò il biondo dopo aver ripreso fiato, tentando inutilmente di convincere Muriel a staccarsi dalla sua schiena.
<< Una … una farfalla! >> Mormorò Muriel strillando un’altra volta quando l’insetto colorato volteggiò sulle loro teste, Giasone spalancò talmente tanto la bocca che rischiò di slogarsi la mascella. Com’era possibile che la sua fidanzata avesse paura delle farfalle?
Perché delle farfalle e non degli zombie?
Perché?!
<< Beh, guarda il lato positivo. Alla fine ti è saltata tra le braccia >>.
Giasone non ebbe nemmeno la forza di ridere quando Ivan lo prese in giro qualche minuto dopo, sghignazzando di lui senza ritegno. 


__________________________
Effe_95

Buonasera a tutti! :)
Oh, non credevo di riuscire ad aggiornare entro oggi e invece ce l'ho fatta!!
Allora, questo capitolo è stato stranamente divertente da scrivere, soprattutto la seconda e la terza parte, mentre la prima mi ha portato parecchi problemucci xD
Non è stato facile scrivere di Sonia e Cristiano perchè hanno entrambi dei sentimenti molto complessi, spero comunque di essere riuscita a trasmettere una sorta di "cambiamento", soprattuto in Cristiano. E spero possiate capire perchè Sonia sia scappata in quel modo nonostante lo ami.
Per quanto riguarda Igor e Zoe, volevo far si che per una volta Igor tirasse fuori seriamente quello che prova per lei, senza filtri, inoltre ne ho anche approfittato per cominciare ad inserire uno dei temi che sarà alla base dei prossimi capitoli, ovvero: il futuro. 
La terza parte è un delirio totale, me ne rendo conto, la mia intenzione era far si che fosse divertente e non troppo seria, ma ho lasciato qui e lì alcuni indizi su ciò che succederà nei prossimi capitoli. Per la descrizione della casa degli spettri ho preso ispirazione da quella che c'è a Disneyland, io ci sono stata e anche se non era un percorso a piedi (meno male xD), la scena dei fantasmi che ballano nella sala in stile vittoriano è assolutamente reale.
Io ne sono rimasta talmente colpita che ho pensato di riproporla.
In fine, le battute che Oscar urla a squarciagola in un atto di vero eroismo xD, sono prese dalla Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso, per tanto non sono mia invenzione. 
Il prossimo capitolo comincerà con il mese di Aprile, io farò concludere la storia intorno al mese di Luglio, quindi ci avviciniamo ai mesi caldi e pian piano alla fine, ma ci vorrà ancora un pochino ;)
Grazie mille come sempre per le recensioni, giuro che appena avrò tempo risponderò.
Grazie mille ancora, alla prossima :)

 

Ritorna all'indice


Capitolo 48
*** Mi vedo con te, Simone e Presto. ***


I ragazzi della 5 A
 
48. Mi vedo con te, Simone e Presto.


Aprile

Quanto hai totalizzato nella simulazione d’esame questo mese?”
Beatrice stava assiduamente buttando giù la bozza della sua tesina quando il cellulare le aveva annunciato l’arrivo di un messaggio. Aveva recuperato l’apparecchio nascosto sotto libri e fogli vari, per scoprire che ad inviarglielo era stata Italia.
Guardò con fare accigliato il cellulare, poi spostò lo sguardo sullo schermo del piccolo portatile che stava utilizzando in quel momento, e chiuse meccanicamente l’icona della pagina di word, contrariata per aver scritto solo dieci pagine.
Quarantatre su quarantacinque. Mi ha fregato quella domanda di scienze della terra nella terza prova :( Ah, e poi alla versione di greco ho totalizzato SOLO quattordici punti. Da non credere!”.
Quando ebbe risposto a Italia, appoggiò nuovamente il cellulare sulla scrivania e sospirando rumorosamente prese a raccogliere tutta la serie di fogli, appunti e schemi che aveva tracciato con estrema pazienza durante le settimane precedenti.
Il professor Riva aveva trovato piuttosto esagerata la quantità di libri che si era portata a casa dalla libreria della scuola, ma Beatrice li aveva utilizzati quasi tutti.
Mentre separava quelli che le sarebbero ancora serviti da quelli che avrebbe restituito il giorno dopo, non riuscì a fare a meno di lasciarsi scappare un sorriso ripensando alla faccia che aveva fatto Enea quando l’aveva vista uscire dalla libreria con le buste stracariche.
Radunò tutti i fogli in un mucchio ordinato e divise gli argomenti per materia, raggruppandoli con l’utilizzo di graffette colorate e post-it fluorescenti.
Aveva appena terminato l’operazione quando le arrivò un altro messaggio.
Anch’io ho sbagliato la domanda di scienze! Comunque … mi diresti a che pagina sono gli esercizi di matematica?”. Beatrice si affrettò a rispondere al messaggio e quando decise che era arrivato il momento di lasciar perdere la tesina e mettersi anche lei a fare i compiti, i suoi piani andarono completamente in fumo.
<< E così è questo il modo in cui ti vesti quando non posso vederti? >>.
Beatrice rischiò seriamente di cadere dalla sedia, il cellulare le cadde di mano e atterrò sul morbido tappeto peloso producendo un suono attutito, era piuttosto sicura che in quel momento doveva aver messo su un’espressione terribilmente scioccata.
Enea se ne stava appoggiato allo stipite della porta con una naturalezza tutta da invidiare, aveva il corpo rilassato, l’espressione serafica, divertita, e i capelli perfettamente spettinati.
Osservandolo attentamente, Beatrice si rese conto per la prima volta che probabilmente fuori stava piovigginando, perché Enea aveva la camicia umida all’altezza delle spalle, la cartella a tracolla era completamente bagnata e i capelli gocciolavano sulle punte all’altezza delle tempie.
Il cuore le fece un piccolo balzo nel petto a quella visione, ma la realtà la portò bruscamente nel presente, un presente in cui stava indossando un pigiama con delle paperelle, dei calzini rosa shocking imbarazzanti, le si vedeva il reggiseno di pizzo azzurro e aveva i capelli tutti in disordine raccolti malamente da un mollettone di plastica giallo fosforescente.
<< E tu cosa diavolo ci fai qui?! Come sei entrato?! >>
La sua voce era talmente carica di indignazione che Enea contrasse le sopracciglia, incrociò le braccia al petto e mise immediatamente su un’espressione circospetta.
<< Chi vuoi che mi abbia lasciato entrare? Prenditela con tua madre … paperella >>
Beatrice arrossì violentemente quando Enea ammiccò con lo sguardo divertito alla sua maglietta del pigiama, incrociò le braccia al petto e si alzò in piedi.
<< Che ci fai qui? Non dovevi andare a cena da tua nonna stasera? >>.
Beatrice gli porse quella domanda con espressione truce e un tono profondamente acido.
<< Mah, ho deciso di lasciar perdere per stasera. Lo so che sono già le sei e mezza, ma sono venuto qui per studiare un po’ con te … >>.
Enea fece spallucce ed entrò finalmente nella stanza.
Beatrice non poté fare a meno di pensare a quando ormai le fosse familiare vedere Enea muoversi in quell’ambiente che fino a pochi mesi prima era solamente suo.
<< Studiare con me? Da quand’è che tu … >>.
Beatrice ammutolì immediatamente quando Enea le mise sotto il naso il libro di matematica, sgranò gli occhi e senza troppe cerimonie si mise a rovistare nella cartella del fidanzato, scoprendo con grande sorpresa che era piena di libri.
Enea non aveva mai la cartella così piena di libri, mai.
Era già tanto trovarci più di un quaderno e una penna che non fosse scarica o rotta.
<< Sei venuto davvero per studiare! >> Sbottò con aria scandalizzata da principessa.
Enea alzò gli occhi al cielo, si sfilò velocemente la cartella e la gettò per terra accanto al letto della fidanzata, lanciò sulla scrivania il libro di matematica e afferrò Beatrice tra le braccia.
<< Ti aspettavi qualcos’altro forse? Sappi che io non ho alcun problema, ma non credo che tua madre sia tanto d’accordo … >>.
<< Smettila! >>.
Beatrice non lo fece nemmeno finire di parlare che lo schiaffeggiò sul braccio e scappò dalla sua stretta. Non aveva mai provato un disagio così forte nell’averlo tanto vicino, Enea era caldo, profumava di dopobarba, pioggia e menta, aveva i muscoli delle braccia incredibilmente tesi e toccarlo le incendiava letteralmente il corpo.
<< Va bene, va bene! >> Commentò Enea alzando le mani in segno di resa, Beatrice lanciò un’occhiata truce a quelle mani e non riuscì ad evitare di immaginarle sul suo corpo, avvampò violentemente e si precipitò verso la scrivania, dandogli le spalle.
<< Coraggio, prendi quella sedia e mettiti accanto a me! Stasera ceni da noi, e non discutere con me, capito? Muoviti! >>.
Enea riuscì a stento a trattenere un sorriso mentre eseguiva tutti quegli ordini.
<< Si, signora >> Mormorò quando si mise seduto accanto a lei.
Sorprendentemente per entrambi riuscirono a studiare per una mezz’ora buona senza interruzioni, battibecchi, bisticci o amoreggiamenti, terminarono tutti gli esercizi di matematica e tradussero metà della versione di greco di Tucidide.
Enea fu piacevolmente sorpreso di scoprire che era possibile tradurre qualcosa utilizzando solamente un dizionario, senza internet che suggerisse come fare.
Erano appena scattate le 19:30 quando terminarono anche con la ricerca di filosofia su Heidegger e Freud.
<< Ahia, non avevo mai scritto così tanto in vita mia! Ma era proprio necessario riportare così tante informazioni? Cosa vuoi che me ne freghi di questo “ Essere per la morte” o di psicoanalisi? Tanto non ricorderò nulla comunque … >>.
Beatrice ascoltò solo vagamente il brontolio di Enea, stava riponendo i libri e i quaderni per il giorno dopo nella cartella con estrema cura, e i suoi pensieri viaggiavano completamente altrove, dove non li aveva mai spinti fino a quel momento.
<< Tu come ti vedi tra dieci anni? >>.
<< … non capisco perché si ostinino a … Come? >>.
Beatrice smise di sistemare la cartella e sollevò lo sguardo, erano seduti una di fronte all’altro, davanti a quella scrivania ingombra di libri, con la pioggia che batteva i vetri in quei primi tiepidi giorni di Aprile, e per la prima volta provarono una paura tremenda.
<< Non fraintendermi … non ti faccio questa domanda perché voglio sentirti dire cose stupide come: “ tra dieci anni mi vedo con te”. Non mi riferivo a quello, non intendevo il nostro rapporto … mi riferivo proprio a te. A come immagini il tuo futuro >>.
Beatrice aspettò pazientemente che Enea rispondesse alla sua domanda, ma il ragazzo si limitò a fissarla negli occhi con sguardo vitreo, le mani strette a pugno sulle gambe.
<< Enea … >>
Beatrice non poté fare a meno di trasalire quando realizzò per la prima volta quella sera il motivo per cui Enea si era presentato a casa sua a quell’ora tarda saltando la cena da sua nonna: era preoccupato per qualcosa, c’era qualcosa che lo stava tormentando.
Qualcosa che lo tormentava così tanto da inscenare tutta quella farsa dello studio.
<< Enea, cosa c’è che non va? Devi dirmi qualcosa? Perché sei venuto qui stasera? Voglio sapere il vero motivo, non usare la scusa dello studio con me >>.
Enea sembrò riprendersi momentaneamente dal suo torpore e guardò con occhi vuoti la scrivania ancora ingombra dei suoi libri, sospirò pesantemente e si protese verso la cartella.
<< Hai ragione, c’è qualcosa che devo farti vedere … >>.
Infilò lentamente una mano nella tasca esterna della borsa e fece per estrarre un plico di carta spillato e ben ordinato, ma proprio in quel momento qualcuno bussò alla porta.
<< Ragazzi, è pronta la cena >>.
Enea sobbalzò leggermente quando Sofia entrò nella stanza guardandoli con un sorriso gentile sulle labbra, ripose frettolosamente i fogli nella cartella e la mise a terra.
<< Abbiamo finito mamma, veniamo subito … >>.
Si affrettò a replicare Beatrice, e quando la madre se ne fu andata nuovamente si girò immediatamente verso Enea e lo incoraggiò a continuare con lo sguardo.
Enea sorrise dolcemente, sollevò una mano e le aggiustò una ciocca ribelle dietro l’orecchio.
<< Cosa dovevi farmi vedere? >>.
<< Non è nulla di importante, te ne parlerò un altro giorno, va bene? >>.
No, a Beatrice non andava affatto bene, ma si rese conto che quella sera Enea non avrebbe parlato più, non avrebbe tirato più fuori quell’argomento.
Stava imparando poco a poco come era fatto quel ragazzo sfacciato, vivace, allegro e terribilmente solitario, chiuso come un guscio. Enea aveva più difese di quanto volesse ammettere a se stesso, aveva più maschere di quante avrebbe potuto portarne senza impazzire del tutto, ed era fatto in quel modo.
Enea sapeva parlare solamente con i gesti.
Beatrice annuì con riluttanza e afferrandolo per una mano lo tirò verso la porta.
<< E comunque, tra dieci anni mi vedo con te >>.
<< L’hai detto apposta per irritarmi vero? >>.
<< Ovviamente >>.
Raggiunsero la cucina che ridevano entrambi.
 
<< Alješa ho fame? Quando mangiamo? >>.
Aleksej aveva sempre ritenuto di essere una persona abbastanza paziente, ma suo fratello Ivan, il secondogenito della famiglia Ivanov, non faceva altro che mettere alla prova quella virtù solidamente consolidata.
<< Quando finisco la versione di greco! Se hai fame cucinati da solo >>.
Quella sera era di pessimo umore e ce l’aveva a morte con i suoi genitori, che se ne erano andati a cena fuori con Francesco, Iliana, Katerina e Jurij lasciandolo a casa da solo con i suoi quattro fratelli più piccoli e con il cuginetto di cinque anni, Simone.
Per tenerli tutti sotto controllo si era messo a studiare sul tavolo del grande salone di casa, ma con Andrea e Lisa che giocavano chiassosamente al Monopoli, Pavel che leggeva ad alta voce un libro di favole a Simone, e Ivan che imprecava sparando a tutto volume con il joystick della Play Station, era riuscito a tradurre solamente sette righi su ventisette.
Era piuttosto depresso e contrariato, non era mai successo che ci mettesse tutto quel tempo per tradurre una versione, guardò nervosamente il cellulare e gli si illuminarono gli occhi quando trovò finalmente le risposte al messaggio che aveva inviato pochi minuti prima.
Una era di Gabriele:
Sinceramente Alješa, perché dovrei alzarmi dal letto e venire fino a casa tua per aiutarti con una banda di marmocchi? Prendila come una scusa per fare pratica ;) Lo sai che ti amo <3”
Il secondo era di Miki:
Alješa non arrabbiarti ti prego, ma non ho ancora terminato i compiti per domani e non posso muovermi. Te la caverai benissimo, ne sono assolutamente sicura :). Ti amo <3”.
Aleksej strinse convulsamente il cellulare tra le mani, poi trasse un respiro profondo e cercò con tutto se stesso di trovare la calma necessaria per non esplodere.
Ma era davvero difficile dopo essere stato tradito in quel modo e senza ritegno!
<< Come siamo acidi stasera! Ormai sono già le otto … >>.
Aleksej appoggiò con malagrazia il cellulare sul tavolo e fulminò il fratello più piccolo con lo sguardo, Ivan aveva già compiuto quindici anni ormai, ma sembrava sempre un bambino.
Con quella zazzera di capelli ramati e gli occhi azzurri e taglienti sembrava un vero monello di strada, era burbero e scostante, un vero piantagrane.
<< Non mi interessa! Anche tu sei abbastanza grande per cucinare, alza le chiappe da quel divano e datti da fare, no? >>.
<< Senti un po’ tu! Stasera le vuoi prendere o … >>.
<< Alješa, anche io ho un po’ di fame ... >>.
Ivan smise immediatamente di parlare e gli occhi di tutti si spostarono sul piccolo Simone, perfino Andrea e Lisa, i due Ivanov più piccoli, smisero di giocare a Monopoli.
Aleksej adorava immensamente il suo cuginetto più piccolo, un bambino vivace, allegro e intelligente, con grandi occhi grigi e una zazzera ribelle di riccioli neri come la pece.
Assomigliava moltissimo al suo papà Francesco, e aveva preso davvero poco dai gemelli.
<< Beh, se Simone ha fame allora bisogna preparare assolutamente! Copierò la versione da Miki domani mattina … e magari gliela correggo anche >>.
La dichiarazione solenne di Aleksej venne accompagnata dalla chiusura istantanea del libro e del quaderno, si stiracchiò velocemente allungando le braccia dietro la schiena e rivolse un sorriso caloroso al cuginetto più piccolo.
<< Ehi, perché se te lo chiede Simone ascolti, ma se te lo chiedo io … >>.
<< Perché Simone non è un idiota, tu si! >>.
L’invettiva di Ivan venne bruscamente interrotta da Aleksej, che prese in braccio il cugino più piccolo e si avviò con passo sicuro in cucina.
Non aveva la minima idea di cosa preparare, mise giù Simone, che andò diligentemente a sedersi accanto al tavolo, e aprì il frigorifero grattandosi la nuca a disagio.
<< Posso darti una mano Alješa? >>.
Aleksej sobbalzò quando Pavel comparve al suo fianco silenziosamente, era sempre stato un bambino estremamente silenzioso e taciturno, osservava tutto con occhi attenti, ed era dotato di un’intelligenza fuori dal comune.
Tra i suoi fratelli Pavel era quello che assomigliava di più al padre, aveva una matassa disordinata di capelli biondo grano impossibili da domare, un viso estremamente spigoloso e gli occhi azzurri come il ghiaccio più freddo, tuttavia, a dispetto di questo particolare, era il bambino più altruista e generoso che avesse mai conosciuto.
<< Certo che puoi Pavlik, hai in mente qualcosa in particolare? >>.
Domandò Aleksej accarezzando il fratello più piccolo sulla testa, Pavel lanciò uno sguardo nel frigorifero e fece spallucce, indicando semplicemente le uova.
<< Perché non facciamo una bella frittata di verdure? Ci sono zucchine, melanzane, peperoni … oppure una frittata di cipolle? Troppo pesante? E poi qui è avanzato del ragù da ieri, lo scaldiamo e mangiamo anche un bel piatto di pasta, che ne dici? >>.
Aleksej guardò il fratello più piccolo sbattendo ripetutamente le palpebre, senza parole, Pavel era sempre sconcertante, con un’analisi dettagliata e veloce aveva trovato una soluzione efficace che non comportasse ricette troppo elaborate e pericolose.
Probabilmente aveva preso anche in considerazione il fatto che Aleksej non sapesse nemmeno accendere un fornello senza procurare danni.
<< Ok, ottimo. Ti occupi tu delle verdure? Io metto a scaldare il ragù >>.
Un’ altra cosa che Aleksej apprezzava di Pavel era la sua estrema organizzazione, non ebbe bisogno di dirgli nulla, pochi minuti dopo lavoravano in silenzio senza intralciare l’uno il lavoro dell’altro. Una decina di minuti più tardi si unirono a loro anche Andrea e Lisa, che avevano appena terminato la lunghissima partita a Monopoli.
Aleksej li incaricò di mettere la tavola, senza rendersi conto del fatto che tra Andrea e Lisa in quel momento era in atto una sorta di guerra silenziosa.
<< Molla quel bicchiere! L’ho preso prima io >>.
Sbottò ad un certo punto Andrea strappando l’oggetto dalle mani della sorella più piccola, Aleksej smise velocemente di controllare la pasta e fulminò i due Ivanov più piccoli con un’occhiataccia che fu bellamente ignorata da entrambi.
<< Smettila Andrea, sei arrabbiato perché ti ho stracciato al Monopoli! >>.
Replicò Lisa afferrando il bicchiere e tirando con forza.
<< Fate attenzione per favore … >>.
La supplica sussurrata di Pavel risuonò vana nella stanza.
<< Non dire stupidaggini, ti ho solamente lasciato vincere perché altrimenti ti saresti messa a frignare come una mocciosa! E molla il bicchiere! >>.
<< Non è vero! Hai perso perché sei un idiota. E mollalo tu quel bicchiere, non tirarlo! >>.
<< Ohi! Smettetela entrambi, siete venuti qui per fare casino?! Se continuante in questo modo quel bicchiere si … >>.
Aleksej non terminò nemmeno la frase che il bicchiere scivolò dalla presa di Andrea e Lisa e si schiantò a terra in una marea di schegge di vetro taglienti e minuscole.
<< Ops … >> Commentò Andrea grattandosi la nuca.
<< Alješa, non arrabbiarti … >>. Lo supplicò Lisa con le lacrime agli occhi.          
Aleksej guardò con fare avvilito il disastro che si era creato sul pavimento, respirò profondamente passandosi una mano sulla faccia, poi spense velocemente il fuoco sotto la pentola e indicò la porta della cucina con l’indice.
<< Uscite immediatamente da questa stanza, finché non avrò rimosso tutto il vetro da terra non voglio nessuno qui dentro, sono stato chiaro? >> Andrea e Lisa annuirono immediatamente, il primo mettendo su un’espressione di vergogna, la seconda tirando su con il naso, Pavel lasciò cadere il coltello con cui stava tagliando le verdure sul tagliere e guardò con occhi preoccupati il fratello più grande.
<< Alješa, sicuro che non vuoi una mano? Simone è bloccato sulla sedia e non può scendere, forse è il caso che io … >>.
<< Non preoccuparti Pavlik, Simone resterà seduto sulla sedia, vero? >>.
Aleksej completò la frase guardando il cuginetto negli occhi grigi e intelligenti, Simone annuì vigorosamente e incrociò le gambe come un indiano sulla sedia.
Pavel tentennò solo per alcuni secondi, poi sospirò rassegnato e lasciò anche lui la stanza.
<< Che disastro >> Commentò Aleksej, poi si chinò a terra per raccogliere i pezzi di vetro più grandi, ne aveva appena presi un paio quando sentì una fitta lancinante alla mano destra.
Senza accorgersene si era procurato un bel taglio sul palmo, imprecò tra i denti ed esaminò la ferita per controllare che non vi fosse rimasto incastrato dentro un pezzo di vetro.
<< Ti sei fatto male Alješa? >>. Aleksej sollevò gli occhi dalla ferita e intercettò lo sguardo accigliato e preoccupato di Simone, cercando di combattere contro il bruciore sorrise forzatamente e scosse la testa.
<< E’ solamente un graffio, passerà subito >>.
<< Forse dovrei darti un bacio sulla ferita? >>.
<< Come? >> La domanda del bambino lasciò Aleksej perplesso.
<< L’altra volta ha funzionato con Gabriele, gli ho dato un bacio e la sua bua è passata >>.
<< Gli hai dato un bacio quando si è fatto male al braccio? >>.
Domandò Aleksej fasciando velocemente la mano con una pezza bagnata, lanciò un’occhiata veloce al cuginetto e lo vide scuotere velocemente la testa.
<< No, quando aveva il mal di testa. Gabriele era seduto sul letto con Katja …>>
Aleksej lasciò cadere a terra scopa e paletta quando sentì quelle parole, voltò la testa di scatto verso Simone e lo afferrò per le spalle ignorando il dolore alla mano destra.
Il cuore gli martellava talmente forte nel petto che sembrava poter uscire da un momento all’altro senza che lui nemmeno se ne accorgesse.
Katja … Katen’ka … Katerina …
Che cosa ci faceva Gabriele seduto su un letto con Katerina?
Aleksej sapeva bene di essere abbastanza intelligente per capirlo anche da solo, ma …
“Ohi Katja, che stai facendo?”
“Sto cercando Gabriele”
Aleksej rabbrividì mentre i ricordi cominciarono a collegarsi come tanti fili invisibili.
“Ma che cazzo di modi sono?! Sai che ti dico, vaffanculo Gabriele!”         
“Io me ne cado a pezzi e a te non te ne fotte un cazzo, vero?!”
E ancora …
“Mi dispiace Gab … mi dispiace, ma questa volta, se non mi dici cosa c’è che non va, non posso aiutartinon so come fare”.
“Non puoi fare nulla Alješa … se non tirarmi qualche pugno in più quando mi vedi cadere. Questo puoi farlo?”
E ancora, ancora, ancora …
“Aleksej, oggi hai esagerato con Gabriele. Non devi attaccarlo ogni volta che fa qualcosa che non va! Non è così che lo invoglierai a parlare con te di qualsiasi cosa lo affligga! Gabriele sta soffrendo Aleksej, sta male ”
“Lo so! Ed è proprio questo che mi fa incavolare! Se sta male … perché non si affida a me? E’ stato lui a dirmi che dovevo sempre dirgli tutto, perché non fa lo stesso quell’idiota?!”
“Ehi Alješa, hai mai pensato che Gabriele non possa parlarne con te?”
“Cosa intendi dire?”
“Magari è qualcosa di cui non riesce a parlare. Qualcosa di cui si vergogna, qualcosa che non riesce a dire nemmeno a te”
E ancora, fino ai ricordi più recenti …
Quella cosa di cui non hai mai voluto parlarmi … quel problema che hai avuto. Insomma, quando abbiamo litigato tu … è qualcosa di cui ti vergogni?”
“Non più ormai. Non ha senso vergognarmi di amare qualcuno”
“Avrei dovuto dirti tutto fin dall’inizio, lo so. Ma a quanto pare sono più codardo del previsto. Pensavo che questa persona che amo fosse sbagliata per me, che non andasse bene. Mi sentivo in colpa per questo sentimento perché lo ritenevo sbagliato e si, me ne vergognavo da morire. E’ per questo che l’ho lasciata, ed è per questo che sono stato intrattabile per tutto quel tempo”
Aleksej si schiarì velocemente la voce, aveva le mani tremanti mentre stringeva le piccole spalle del cuginetto, Simone lo osservava ancora, ignaro del tumulto nei suoi pensieri.
<< C-che … che cosa facevano Gabriele e Katerina, Simone? >>
Il bambino aggrottò le sopracciglia e si portò un dito sul mento, come se si stesse sforzando a tutti i costi di ricordare.
<< Si stavano per baciare … si, si baciavano! >>.
Aleksej chiuse gli occhi involontariamente quando ebbe la sua conferma.
Pensavo che questa persona che amo fosse sbagliata per me …
 … questa persona che amo fosse sbagliata per me …
… che amo …
.. sbagliata per me …
Lasciò andare le spalle del cugino e sospirò teatralmente, sorridendo con tristezza al bambino ignaro ed innocente.
“ Stupido … Gabriele, sei uno stupido”.
 
<< Vienna? >>.
<< Si, Vienna! >>.
<< Perché proprio Vienna? >>.
<< E che ne so! Sono stati i professori a decidere >>.
Italia adorava osservare il modo in cui Muriel e Giasone bisticciavano, lo facevano con una tale confidenza che dava l’impressione di qualcosa di estremamente intimo.
Come se i due si conoscessero già da tutta una vita.
<< E quindi te ne vai a Vienna per cinque giorni? >>.
<< Sono solo cinque giorni Muriel, non vado mica in guerra! >>.
<< E chi ti ha detto niente! >>.
Italia si trovò a ridacchiare mentre li vide incrociare le braccia al petto nello stesso identico momento e arrossire come due pomodori.
<< Sono così divertenti? >>.
Sobbalzò leggermente quando Ivan le mormorò quelle parole all’orecchio.
Era una bella giornata di primavera, la prima vera giornata calda dopo tanto tempo, e avevano deciso di andare fuori città per un pic-nic sulla spiaggia più vicina.
Tirava un vento piuttosto forte e l’acqua era ancora ghiacciata, ma la sensazione di tepore che le accarezzava le membra era estremamente piacevole.
<< Moltissimo >> Bisbigliò verso il fidanzato ridacchiando con complicità.
<< Beh, tu cosa ne pensi di questa gita scolastica a Vienna? >>.
Le domandò Ivan stendendo le gambe sul pareo che avevano sistemato in spiaggia, prima di rispondere Italia non riuscì a fare a meno di contemplarlo per un po’, sotto la luce del sole Ivan era estremamente pallido, ma gli occhi verdi brillavano come due fanali.
Era bello, allegro, spensierato e il vento gli scombinava tutti i capelli con maestria.
<< Penso che sia la nostra ultima gita come classe, che proverò molta nostalgia e che voglio partecipare a tutti i costi e fare tantissime fotografie! >>.
Commentò giocherellando con le dita nella sabbia sottile, era seduta in posizione indiana sul pareo e il vento le faceva finire tutti i capelli sul viso, alcune ciocche le si attaccavano sulla bocca a causa del lucidalabbra alla pesca che aveva messo quella mattina.
<< Uhm, mi sembra una bella idea >>.
Ivan pronunciò quelle parole stiracchiando le braccia al cielo, poi sbadigliò sfacciatamente e si stese appoggiando la testa sulle gambe di Italia, che lo lasciò fare senza dire nulla.
<< Basta Giasone, sei un idiota! >>.
Sia Italia che Ivan sussultarono all’urlo angosciato di Muriel, che era saltata in piedi come un grillo schizzando tutti di sabbia, e fulminando Giasone con occhi lucidi di pianto.
<< Vattene a Vienna e restaci tutta la vita! Non voglio vedere mai più la tua brutta faccia! >>.
E con un’uscita teatrale si mise a correre verso il bar più vicino, bar dove in quel momento si erano sistemati anche Oscar e Catena per ripararsi dal vento troppo forte.
<< Muriel! Dannazione, mica l’ho fatto apposta? Non volevo davvero toccarle il seno … >>.
Brontolò Giasone grattandosi la nuca, Ivan e Italia lo guardarono sollevando entrambi un sopracciglio, il biondo arrossì violentemente e si tirò in piedi pulendosi i jeans dalla sabbia.
<< Beh, comunque c’è bisogno di fare tutta questa scena?! Manco fossi un maniaco >>.
E dette quelle parole inseguì la fidanzata.
Italia non riuscì a fare a meno di ridere seguendo Giasone con lo sguardo, ma quando il ragazzo sparì all’interno della struttura riportò l’attenzione sul viso di Ivan.
Aveva gli occhi chiusi ed un sorriso beato sulle labbra carnose, le braccia piene di tatuaggi erano ben visibile perché nonostante il vento aveva indossato una maglietta larga a giro maniche, un tripudio di colori e immagini piene di significato.
Italia sollevò un dito e prese a seguire distrattamente il profilo di quelle braccia allenate e tese, sentì la pelle di Ivan rabbrividire sotto il suo tocco, ma lui non emise nessun lamento.
<< Ivan … voglio davvero fare l’amore con te. Davvero, davvero tanto >>.
Italia sussurrò quelle parole, ma Ivan le sentì ugualmente, trasalì leggermente e spalancò gli occhi per guardare la fidanzata, si tirò a sedere di scatto e deglutì, rosso in faccia come un pomodoro troppo maturo.
<< Davvero, davvero tanto? >>.
Mormorò come un pappagallo e Italia scoppiò a ridere, sembrava un bambino spaventato con quegli occhi lucidi, i capelli tutti scarmigliati dietro la nuca e le guance rubiconde.
<< Uhm, sai, per me sarebbe la prima volta in assoluto. E’ così anche per te, vero? >>.
Ivan trasalì nel sentire quelle parole, batté più volte le palpebre ed esitò.
<< Perché la pensi così? >>. Le domandò, Italia fece spallucce e gli sorrise.
<< Perché tu sei così, se non ami davvero non le fai queste cose. Ho ragione? >>.
I pensieri di Ivan si persero in ricordi passati, ricordi di mani su una pelle candida, di capelli corvini stesi su un materasso, di piedi intrecciati e di mani dappertutto.
Scosse frettolosamente la testa e si sforzò di sorridere.
<< Hai ragione >>.
E non lo capì mai davvero perché le avesse mentito in quel modo.
Probabilmente perché si vergognava di se stesso, perché non voleva deludere le sue aspettative, perché dopotutto non aveva avuto il coraggio di dirle che era un uomo proprio come tutti gli altri …
<< E allora fallo con me, con me e solo con me,  vuoi? >>.
Mormorò Italia prendendogli il viso tra le mani, ad un millimetro dalle sue labbra.
Ivan chiuse gli occhi e contrasse le sopracciglia.
<< Va bene, va bene … quando vuoi tu >>.
<< Presto >>.  
E lo baciò.


____________________________________________
Effe_95

Salve a tutti :)
Sono tornata sopo quella che mi è sembrata una vita, perchè ovviamente, adesso che potrei scrivere di più, mi si è rotto il computer ed ho dovuto aspettare un'eternità.
Comunque, spero che questo capitolo vi piaccia.
E' un po' più leggero degli altri, almeno spero xD, e lo si potrebbe definire un po' di "passaggio", anche se in realtà ne ho approfittato per introdurre un po' quelli che saranno i prossimi argomenti.
Prima tra tutti la questione del futuro.
Finalmente Aleksej è venuto a conoscenza della verità, ve lo aspettavate che sarebbe stato Simone a rivelare tutto? ;) E cosa mi dite di Ivan e Italia? Vi sembrerà che io sia impazzita (non posso garantirvi che non sia così xD), ma fidatevi di me, per quanto possibile.
In fine, come ultima cosa, pensavo potesse farvi piacere sapere che ho trovato una canzone che di per se io associo sempre ai Ragazzi della 5A, diciamo la loro colonna sonora: " Parole in Circolo" di Marco Mengoni, se non la conoscete ve la consiglio :)
Detto questo, grazie mille come sempre, spero che il capitolo vi sia piaciuto e non sia troppo scadente. 
Alla prossima spero :)

 

Ritorna all'indice


Capitolo 49
*** Che sollievo, Anima e L’ultima cosa nella vita. ***


I ragazzi della 5 A
 
49.Che sollievo, Anima e L’ultima cosa nella vita.


Aprile

<< Zia fai scendere Alješa? Cosa, non è ancora pronto?! Ok, lo aspetto giù … ciao >>.
Gabriele quella mattina si sentiva particolarmente euforico, allegro e comprensivo.
E non c’entrava nulla il bel tempo, il sole caldo che finalmente faceva capolino in cielo o il canto degli uccelli con il suo cambiamento d’umore, Gabriele era euforico perché finalmente aveva rimosso i punti dal braccio operato e perché suo padre gli aveva riconsegnato le chiavi della macchina nonostante gli strilli di Lara.
Era ancora un po’ ammaccata in alcuni punti, ma tutto sommato Gabriele era felice di  riaverla, di tornare alla sua quotidianità.
Si allontanò velocemente dal citofono e raggiunse la macchina appoggiandosi svogliatamente con la schiena sulla portiera dal lato del guidatore.
Incrociò le braccia al petto e lo sguardo gli cadde inevitabilmente sulla lunga cicatrice ancora fresca che gli attraversava tutto il braccio fino al gomito, una cicatrice che si sarebbe portato dietro per il resto della sua vita. Fu strappato ai suoi pensieri quando sentì picchiettare sul finestrino dall’interno dell’auto, si spostò e aspettò pazientemente che Katerina abbassasse il vetro, quando il suo viso spigoloso comparve per intero Gabriele venne completamente investito dal suo familiare odore al cocco.
Era solamente un caso che quella mattina Katerina si trovasse in macchina con lui, solitamente andava a scuola in motorino con il fratello gemello, ma Jurij era rimasto a casa con la febbre alta e Gabriele si era proposto di andare a prenderla.
Dopotutto da quando sua sorella Alessandra aveva preso l’abitudine di fare la strada per scuola a piedi con Zosimo, Gabriele aveva ricavato un posto in più nella macchina.
<< Alješa non scende? >> Domandò Katerina guardando Gabriele dritto negli occhi, lui fece spallucce e ne approfittò per chinarsi e darle un bacio veloce a stampo sulle labbra.
Sorrise quando le guance di Katerina si imporporarono di rosso.
<< Zia Claudia ha detto che non era ancora pronto, il solito ritardatario! >>.
Katerina fece per replicare qualcosa, ma lo sbattere violento del portone di un palazzo la distrasse, entrambi i ragazzi si voltarono verso la fonte del rumore e videro Aleksej imprecare ad alta voce contro la tracolla della sua cartella che si era incastrata sulla maniglia. Gabriele alzò gli occhi al cielo e incrociò le braccia al petto.
<< Che combini Alješa? Stamattina ti sei alzato con le mani di ricotta? >>
Lo prese in giro mettendo su uno dei suoi sorrisi migliori, era sicuro che quella mattina nulla avrebbe potuto guastare il suo umore, ma quando Aleksej si girò a guardarlo con quegli occhi di fuoco, occhi che non gli aveva mai visto prima, Gabriele cominciò a dubitarne.
Vide Aleksej avanzare verso di lui con passo fermo e oltrepassarlo sfacciatamente senza rivolgergli nemmeno la parola, diretto verso da fermata dell’autobus.
Gabriele rimase pietrificato sul posto per alcuni secondi, continuando a fissare il vuoto davanti a se, poi sbatté ripetutamente le palpebre, come se si fosse appena svegliato da un incubo, e si girò di scatto afferrando il cugino per il braccio.
La reazione di Aleksej fu talmente inaspettata che Gabriele ne rimase scioccato per parecchi minuti, il biondo si girò di scatto a sua volta e gli mollò un pugno sulle labbra.
Gabriele sentì immediatamente il sapore metallico del sangue sulla lingua, il liquido scarlatto scivolargli repentinamente sulle labbra fino a sporcargli il pullover e gocciolare sull’asfalto, dove si era inginocchiato a causa del colpo.
Sentiva anche il dolore da qualche parte in lontananza, ma era come attutito dallo shock, in realtà qualsiasi suono aveva perso la propria consistenza in quel momento, giungeva ovattato e distante alle sue orecchie.
Non poteva essere successo davvero, Aleksej non poteva avergli tirato un pugno, non lo aveva mai fatto prima, doveva essere solo un incubo da cui non riusciva a svegliarsi.
Scosse  più volte la testa per liberarsi le orecchie dal fischio fastidioso che le attraversava e appoggiò saldamente i palmi delle mani sull’asfalto caldo, come per trovare la stabilità.
Sentì solo vagamente il grido soffocato di Katerina, aveva la vista appannata dallo shock quando la vide scagliarsi contro Aleksej ed inveire contro di lui come un demonio, sbatté più volte le palpebre, scosse la testa a destra e sinistra ancora una volta e alcune gocce di sangue bagnarono nuovamente l’asfalto.
Fu la vista di tutto quel sangue a fargli riprendere i sensi, come se una pellicola fastidiosa fosse stata strappata di botto riprese a sentire tutti i rumori, e il dolore del pugno lo travolse prepotentemente provocandogli una smorfia involontaria.
Si portò una mano sul labbro spaccato e si tirò in piedi, guardando con occhi spalancati Katerina che teneva Aleksej per la collottola della camicia, lo scuoteva violentemente urlandogli contro come un’ossessa e lui lasciarglielo fare impassibile, atterrito.
<< Sei impazzito?! Cosa diavolo ti passa per la testa! Come ti viene in mente di colpirlo in quel modo? Guarda quanto sangue gli stai facendo uscire, Aleksej! E’ così che tratti il tuo migliore amico? Se sei arrabbiato, nervoso, sfoga la tua rabbia altrove, se ti permetti di farlo ancora una volta giuro che te le do di santa ragione Alješa! Devi essere davvero ammat- >>
<< Lo ami davvero così tanto? >>.
Alla domanda quasi sussurrata di Aleksej, che sembrava lontano anni luce nei suoi pensieri, come se la sfuriata di Katerina l’avesse osservata da un altro pianeta, la bionda smise di infuriare e Gabriele dovette appoggiarsi con la spalla sulla macchina per non barcollare.
Era quello il motivo per cui Aleksej l’aveva colpito?
Aveva scoperto tutto?
Gabriele non aveva mai davvero pensato a quanto doloroso sarebbe stato vedere Aleksej reagire proprio nel modo in cui si era aspettato avrebbe reagito.
Aveva pensato di essere sempre stato pronto a ricevere quel colpo, a rinunciare alla sua amicizia e vedersi buttare addosso milioni di insulti e quintali di risentimento.
Ma pronto non lo sarebbe stato mai.
<< E se lo ami così tanto, perché diavolo non me l’hai detto?! >>.
Fu come se il tempo si fosse fermato nel momento esatto in cui Aleksej pronunciò quelle parole inveendo contro la cugina più piccola, che sobbalzò con le lacrime agli occhi.
<< Voi due … voi due siete davvero dei grandi idioti senza speranza! >> Esplose Aleksej liberandosi malamente dalla stretta di Katerina, sia lei che Gabriele non riuscivano a far altro che guardare atterriti Aleksej che li additava sbraitando << Per tutto questo tempo … per tutto il fottuto tempo, mentre io non potevo capire a causa del vostro silenzio, voi avete pianto e sofferto … inutilmente! Avete capito? Inutilmente, RAZZA DI IDIOTI CHE NON SIETE ALTRO! >> Aleksej concluse il suo sermone/sfuriata con la gola che gli bruciava.
Il petto gli si alzava ed abbassava freneticamente, le nocche della mano pulsavano per il dolore e così anche le tempie, che sembravano davvero sul punto di esplodere.
Eppure si sentì tremendamente bene dopo aver gridato a quel modo.
<< Alješa … >> Mormorò Katerina, ma le parole che aveva in mente morirono sfumando.
<< E tu! Tu! >> Aleksej si girò con le guance paonazze verso Gabriele, pallido, atterrito, con il mento imbrattato di sangue e ancora completamente accasciato sulla macchina << Tu sei l’idiota più idiota di tutti i tempi! Ho dovuto scoprirlo da un bambino, se non fosse stato per Simone non avrei mai avuto la conferma di quello che ormai già sapevo >> Gabriele sussultò nel sentire quelle parole << Ma ti sei bevuto il cervello?! Sono davvero così spaventoso? Hai davvero pensato che me la sarei presa se l’avessi scoperto? Che ti avrei voltato le spalle? Che avrei fatto di tutto per impedire che voi stesse insieme? Dimmi di no Gabriele, perché altrimenti ti strangolo con le mie mani! >> Gabriele non aveva mai visto Aleksej così fuori di se, e non l’aveva nemmeno mai sentito alzare così tanto la voce << Allora non hai capito niente di me? Che colpo basso! Per me sei sempre stato come un fratello, dannazione! Sei stato tu a dirmi che dovevamo sempre dirci tutto, sei sempre stato tu ad incoraggiarmi, come hai potuto pensare che io non ne sarei stato in grado con te? Ti sei rinchiusi in te stesso come un idiota e non ti sei reso conto che … >> Aleksej afferrò bruscamente Katerina per le spalle e la spinse verso Gabriele come se fosse un trofeo, un oggetto prezioso << … che non avrei potuto desiderare nessun’altra persona che non fossi tu per lei! >>.
Gabriele lasciò andare tutto il fiato che aveva in gola nel sentire quelle parole, appoggiò le mani sulle ginocchia respirando affannosamente come se avesse corso una maratona, scoppiò a ridere e poi a piangere contemporaneamente.
<< Che sollievo >>.
Quando ebbe pronunciato quelle parole rivolgendo ad Aleksej un sorriso bagnato di lacrime, il biondo non riuscì più a trattenersi, lasciò andare delicatamente Katerina e raggiunse Gabriele afferrandolo con fermezza per le braccia.
<< Se era la mia benedizione che volevi Gabriele, te la do adesso con tutto il cuore. Ma non mentirmi mai più, e non nascondermi niente mai più. Sono il tuo migliore amico >>.
<< Lo so, mi dispiace. Sono uno stupido >>.
<< L’importante è che tu lo sappia Gab, è già un passo avanti. >>
<< Grazie Alješa … >>
ti prometto che non scapperò mai più.
 
Oscar aveva come la sensazione di essersi completamente svuotato.
Ma non sapeva esattamente di cosa.
Era da più di mezz’ora che camminava senza una meta in quel parco che tanto gli piaceva, sapeva bene di dover tornare a casa prima che facesse buio, erano le sette di sera e sua madre sicuramente lo stava aspettando, ma non riusciva a prendere una decisione concreta.
Quel pomeriggio avevano finalmente messo in scena le prove generali dello spettacolo di Tancredi e Clorinda, era stato soddisfatto di se stesso, aveva recitato bene, era stato bravo.
E allora perché sentiva quel vuoto terribile nel petto?
Oscar ricordava bene il momento in cui aveva preso la decisione ferma di farlo, di interpretare quel ruolo che tanto gli aveva fatto paura. Aveva litigato anche fin troppo con Catena per le sue ridicole paura, l’aveva fatta soffrire e disperare.
Le aveva gettato sulle spalle un carico che nessuno aveva il dovere di sopportare, e l’aveva fatto senza alcun riguardo nei suoi confronti, senza preoccuparsi di quanto male avrebbe potuto farle, l’aveva fatto perché Catena non aveva mai ceduto di un passo.
Perché era sempre stata lì, presente, anche quando Oscar non si meritava altro che schiaffi.
Era stata un punto fisso nella sua vita, una luce in tutta quell’oscurità che lui stesso aveva creato con il suo rancore, il suo odio e la sua paura insensata.
Oscar si fermò di botto nel parco, proprio di fronte l’elaborata fontana di pietra che finalmente aveva ripreso a funzionare con zelo, e si ritrovò a ringraziare il cielo per aver trovato Catena sul suo cammino, per averla incontrata tra tutta quella gente.
Guardò intensamente l’acqua limpida, infilò una mano nella tasca del giubbotto e tirò fuori una monetina da dieci centesimi, la scrutò per bene e senza ripensamenti la gettò nell’acqua.
Prometto qui e ora che ti renderò felice.
Prometto qui e adesso che lascerò andare tutti i miei fantasmi.
Premetto che ti rispetterò, che non avrò paura.
Prometto che non mi sentirò più in colpa e che ti amerò senza scappare.
Prometto che mi fermerò lungo la strada e smetterò di correre.
Prometto che da adesso in poi, non mi volterò mai più indietro.
Oscar pronunciò quelle promesse con gli occhi chiusi e le mani congiunte, come se stesse pregando silenziosamente di fronte un altare.
E fu in quel momento che realizzò il perché di quel vuoto nel petto, perché si rese conto di non aver provato nulla mentre recitava nei panni di Tancredi.
Che non aveva provato assolutamente nulla di quello che aveva temuto di provare.
Non aveva provato nulla, perché era nulla quello che sentiva per Giulia.
Perché odiarla, maledirla, non serviva più a nulla se aveva Catena.
Non serviva davvero a nulla.
Davvero.
Quella rivelazione lo frastornò come se qualcuno gli avesse tirato un pugno sulla tempia, barcollò fino alla panchina più vicina e si lasciò cadere a peso morto, scioccato.
Si accorse solo vagamente del cane del suo vicino che gli annusava i piedi e gli saliva sulle ginocchia, gli sembrava di aver camminato verso la direzione sbagliata per tutto il tempo, gli sembrava di aver corso inutilmente.
<< Alla fine chi resta deve continuare a vivere, te ne sei accorto eh? >>.
Oscar si spaventò quando sentì quella voce, fece un piccolo saltello sulla panchina e il cane che lo stava annusando ringhiò mostrando i denti. Il padrone lo strattonò e la creatura andò ad accucciarsi docilmente ai suoi piedi lasciando in pace Oscar, che in quell’istante stava guardando Luca con gli occhi sgranati dalla sorpresa.
<< L’ultima volta che ci siamo visti mi hai trattato proprio da cani, sai? >>.
Oscar non poté fare a meno di notare che Luca aveva un aspetto terribile, sembrava sciupato, stanco, rassegnato a vivere una vita che lo stava schiacciando sulle spalle senza perdono, senza riserve, senza pietà.
Oscar iniziò a chiedersi se fosse normale che un ragazzo ancora così giovane avesse quell’espressione sul viso, poi trasalì, deviando il corso della sua stessa domanda:
Anche io ho avuto quell’espressione sul viso per tutto il tempo?
<< Puoi biasimarmi? >>. La voce gli uscì leggermente roca dopo le tante prove a teatro.
<< Direi di no >>. Il commento di Luca fu accompagnato da una risatina amara, stanca, priva di qualsiasi brio << Sembri stanco Oscar >>.
<< Davvero? Ti sei visto di recente? >>.
<< Oh, io sarò stanco tutta la vita, ma tu, non è ora che ti liberi di quel peso sulle spalle?>>.
<< So che devo, l’ho capito, ma non so come farlo >>. C’era angoscia nella voce di Oscar.
<< Ti aiuterò io >>. Quella di Luca era spenta.
<< Davvero? Non lo trovi ironico? >>.
<< C’era una cosa che volevo dirti quella volta che ci siamo incontrati, ma poi mi è mancato il coraggio quando ho visto che eri ancora così arrabbiato … >>.
Oscar esitò dopo quelle parole, esitò per un solo piccolo istante, un istante insignificante in quella bolla sospesa di tempo che si era andata a creare attorno a quella panchina.
Lasciando tutto il resto del mondo dall’altra parte della strada, dall’altra parte della vita.
<< Cosa? >>.
<< “Sono una persona cattiva Luca, sono stata cattiva per tutto il tempo. Oscar è un bravo ragazzo, è davvero troppo buono per me. Gli ho fatto delle promesse che sapevo non avrei mantenuto, gli ho dato carezze che sapevo erano false, gli ho detto di amarlo e non era vero.
Vedi? Sono cattiva, e da domani lui mi odierà, mi disprezzerà, e contemporaneamente desidererà poter tornare indietro nel tempo e rifare tutto d’accapo. Digli, ti prego, che per una stronza come me non ne varrà la pena. Digli, perché non ho il coraggio, che arrabbiarsi, gridare, soffrire o sentirsi in colpa per una come me non ne male la pena. Mai.” Mia sorella mi disse queste parole qualche ora prima di salire su quella macchina. Lei non avrebbe mai voluto vederti così Oscar, pensava davvero che non ne valesse la pena >>.
Oscar aveva temuto per tutto il tempo che il carico di quella verità l’avrebbe schiacciato senza rimedio, aveva temuto che la ruggine depositata sulle sue spalle avrebbe finito per ricoprirlo irrimediabilmente fino a soffocarlo, ma non fu così.
Si sentì libero come non lo era mai stato in quei due anni.
<< E perché … queste belle parole te le fai uscire solo adesso? >>.
La bolla si ruppe all’improvviso quando Luca si alzò in piedi, tutti i rumori del parco, che erano improvvisamente spariti, tornarono a farsi sentire lentamente, progressivamente.
<< Perché adesso hai Catena >>.
Oscar non replicò più nulla dopo quelle parole, si limitò a seguire con sguardo perso la figura emaciata di Luca che andava pian piano allontanandosi dalla strada, dalla sua vita.
Aveva le spalle più leggere quella sera.
A riportarlo al presente fu l’arrivo di un messaggio sul cellulare, lo sfilò senza fatica dalla tasca del cappotto e osservò con fare distratto le telefonate senza risposta di sua madre, la sua attenzione era tutta per il messaggio di Catena.
“I cannot live without my life! I cannot live without my soul!”
Oscar si ritrovò a sorridere riconoscendo la citazione tratta da Cime Tempestose.
Era un gioco che facevano entrambi da un po’ di tempo ormai, la sera si salutavano in quel modo, usando le parole di chi già prima di loro si era amato.
Non posso vivere senza la mia vita, non posso vivere senza la mia anima.
Oscar l’aveva capito, la sua anima era Catena.
Non avrebbe guardato indietro mai più.
 
Lisandro aveva sempre trovato simpatico Daniele Colombo.
Era completamente diverso da Enea, e non solo perché era il fratello maggiore, ma perché era allegro, solare e schietto.
Praticamente tutto quello che Enea non era e non sarebbe mai stato.
<< Enea dovrebbe tornare tra qualche minuto, lo aspetti in camera sua? >>.
Lisandro venne bruscamente richiamato al presente quando Daniele gli rivolse quella domanda, erano seduti attorno all’isola della cucina da una ventina di minuti, con i bicchieri ormai vuoti e le conversazioni di circostanza terminate da un pezzo.
Lisandro aveva persino dimenticato il motivo per cui aveva deciso di andare da Enea, in realtà forse un motivo non lo aveva mai avuto fin dall’inizio, era stata solo l’abitudine.
<< D’accordo … >>.
Si tirò lentamente in piedi e seguì Daniele lungo il corridoio, attraverso quel percorso familiare che risvegliava tanti ricordi infantili; corse sfrenate per andare a nascondersi, combattimenti galattici con le scodelle sulla testa e gli ombrelli in sostituzione delle spade laser, cadute e cicatrici, lacrime e litigi.
Lisandro non ricordava esattamente quand’era stato che aveva smesso di andare a casa di Enea con frequenza, se ne era allontanato pian piano, tanto che nemmeno con Daniele, lo stesso Daniele che da bambino giocava con loro a Star Wars,  riusciva ad essere se stesso.
<< Ecco qui, il regno inespugnabile di mio fratello minore >>.
Il commento di Daniele gli strappò un tenue sorriso.
Lisandro entrò timidamente nella camera del suo migliore amico e si guardò attorno con nostalgia, era un posto ordinato e tranquillo, completamente estraneo ai suoi ricordi.
Le pareti erano di un anonimo bianco asettico, c’era una sola finestra con le tende blu aperte giusto il necessario per far passare la luce, il letto era ad una piazza e mezza ed occupava una buona parte di spazio. Lisandro osservò con nostalgia il grande piumone blu, un tempo su quel letto ne avevano costruiti di fortini e fortezze inespugnabili.
L’armadio era anonimo e completamente nuovo, senza più alcuna traccia di scritte con il pennarello o poster di Dragon Ball e Naruto, Lisandro provò uno strano senso di vertigini quando notò la scrivania sistemata ed ordinata, provò le vertigini perché in bella mostra, in una cornice semplice e bianca, se ne stava una fotografia di quando andavano alle medie. Lisandro vi si avvicinò senza nemmeno pensarci, rivolgendo solo uno sguardo fugace alle mensole piene di modellini di Star Wars, altre fotografie di famiglia e trofei scolastici, la sua attenzione era tutta per quell’unica fotografia che abbelliva una scrivania asettica, abitata solo da un computer portatile d’ultimagenerazione, una lampada da lettura e un plico di documenti ordinati proprio al centro del tavolo.
<< Enea si arrabbia se la mamma la sposta di lì, sai? >>.
Lisandro trasalì quando sentì la voce di Daniele, per un istante aveva dimenticato che nella camera c’era anche lui, per un istante aveva dimenticato tutto ed era tornato indietro nel tempo, al giorno in cui quella foto era stata scattata.
<< D-davvero? >> Domandò con voce secca.
<< Uhm, dice che guardarla gli ricorda tempi felici >>.
Lisandro trasalì impercettibilmente e incrociò lo sguardo di Daniele, che per tutto il tempo se n’era stato appoggiato allo stipite della porta e l’aveva osservato con un sorriso bonario ed enigmatico sulle labbra, un sorriso che comunicava molto più di tante parole.
Quei tempi felici se ne sono andati, vero? Siete cresciuti, eh?
Lisandro distolse lo sguardo e fu solo in quel momento che vide l’altra fotografia, domandandosi come avesse fatto a non notarla prima visto che occupava da sola quasi tutta la parete. Il cuore gli si fermò in gola quando si rese conto di chi erano i due protagonisti, era una foto in bianco e nero di Enea e Beatrice, sorridenti con le sciarpe sulla bocca per ripararsi dal vento, i capelli di lei nel vento, stretti in un abbraccio pieno d’affetto con gli occhi persi inesorabilmente, terribilmente l’uno nell’altro.
Lisandro si sentì terribilmente piccolo.
Sentì il cuore restringersi e contorcesi dolosamente all’interno del suo petto.
Faceva male, faceva davvero troppo male.
Distolse velocemente lo sguardo e appoggiò distrattamente una mano sulla scrivania per non barcollare, per non vacillare davanti a Daniele, e fu in quell’istante che l’occhio gli ricadde sulla pila di documenti ordinati al centro del tavolo, si accigliò, contrasse le sopracciglia e …
E gli sembrò che tutto il mondo avesse cominciato a girare all’incontrario.
<< Daniele … cosa – cosa sono questi documenti? >>.
Lisandro cercò di rivolgere quella domanda con un contegno che temeva di aver perso.
<< Cosa? Ah, si. Enea ha vinto una borsa di studio per andare a studiare un anno all’estero. Non te l’aveva detto? >>.
<< Ah, si … l’avevo dimenticato >>.
Lisandro aveva come la sensazione che in quel momento il cervello sarebbe potuto esplodere da un momento all’altro insieme alla sua collera, strinse forte i pugni e rivolse a Daniele un sorriso che non lo convinse per nulla.
<< Lisandro, sei sicuro che … >>.
<< Che ci fai nella mia stanza Daniele?! Quante volte ti ho detto … oh, Lis >>.
Sia Lisandro che Daniele si voltarono a guardare Enea con sguardo allucinato, erano stati talmente presi dalla situazione che non avevano nemmeno sentito la porta di casa aprirsi.
Daniele rivolse un’occhiata veloce ai due ragazzi, alzò le mani in segno di resa e li lasciò soli.
<< Ehi, è da un po’ che non venivi qui, è succ- >>.
<< Questa non te la perdonerò mai! >>.
Enea aveva mosso solo  un passo nella stanza quando Lisandro sollevò il plico di fogli e glielo gettò addosso con foga, guardandolo negli occhi con una rabbia che non gli aveva mai visto prima.
<< Non l’hai detto a Beatrice, vero? Non gliel’hai detto che te ne vai un anno all’estero, ho ragione?! Vero?! >>.
Lisandro aveva il fiatone mentre gridava quelle parole, una collera cieca si era impossessata di lui, perché non gliel’aveva detto?
Perché Enea non si era confidato con lui come avrebbe fatto con il bambino nella foto?
Perché diamine le cose doveva andare a finire in quel modo?
Enea rimase atterrito per un solo istante, poi si chinò a terra e con mani tremanti afferrò il plico di fogli, riordinandoli automaticamente.
<< Non ho ancora firmato niente, io non lo so se … >>.
<< Se le fai una cosa del genere Enea, se ti permetti di farle una cosa del genere … giuro che te la porto via. Dovesse essere l’ultima cosa che faccio nella vita! >>
Non erano quelle le parole che Lisandro avrebbe voluto pronunciare.
 

____________________
Effe_95
Buongiorno a tutti :)
Avrei dovuto pubblicare questo capitolo due settimane fa più o meno, ma non ho potuto farlo per una serie di problemi di salute che lentamente stanno finalmente sparendo. Da adesso in poi mi impegnerò affinchè questi ritardi diminuiscano sempre di più, dovessi fare le ore piccole per scrivere u_u. Allora, sono tornata con un capitolo un po' più ( è un eufemismo vero?)  pesante del precendete e succedono tantissime cose.
Nella prima parte abbiamo finalmente il confronto tra Aleksej e Gabriele, spero che non ci siate rimasti troppo male per il pugno che Aleksej molla a Gab, ma mi sono messa nei suoi panni e ho capito che personalmente io non avrei potuto reagire diversamente.
Alla fine quello di Aljesa è stato un rimprovero un po' violento, ma dettato dall'affetto ;).
Per la parte di Oscar, ci tengo a precisare che è solamente un inzio del suo percorso a "ritroso", avevo già detto che Luca sarebbe tornato ancora una volta, ed eccolo qui, da adesso in poi non comparirà più, quindi ci ha lasciato con quelle parole.
Spero che questa parte vi sia piaciuta perchè mi ha fatta penare davvero xD
Per quanto riguarda la parte di Enea e Lisandro non dirò nulla, voglio sapere le vostre reazioni, positive o negative che siano ;)
Grazie mille come sempre per il sostegno, per la pazienza nonostante le lunghe attese.
Alla prossima :) 

 
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 50
*** Pietosamente, Ghiaccio e Non lo farà ***


I ragazzi della 5 A
 
50.Pietosamente, Ghiaccio e Non lo farà.


Aprile

Cristiano quella mattina non aveva la più pallida idea di come avrebbe affrontato la giornata.
La sera prima non era riuscito a chiudere occhio, aveva passato tutto il tempo a cambiare fianco nel letto, a togliersi e rimettersi le coperte addosso, spegnere ed accendere la luce, tapparsi le orecchie con il cuscino o contare le pecore in altre lingue.
Purtroppo per lui, nulla di tutto ciò era riuscito a coprire i gemiti fastidiosi di quella specie di donna che suo padre si era portato a casa.
Emanuele Serra era tornato il giorno precedente dopo settimane di assenza, Cristiano non ne era stato particolarmente entusiasta, soprattutto quando si era portato dietro quella donnaccia volgare e ignorante.
Non aveva potuto far nulla per impedirlo, si era limitato ad ignorarli entrambi e passare il maggior tempo possibile con Marta, studiando seduto al tavolo della cucina mentre lei preparava la cena canticchiando sotto voce.
Osservando il cielo limpido fuori la finestra, durante quella prima ora di un tedioso lunedì mattina di metà Aprile, Cristiano si ritrovò a pensare che nemmeno Marta doveva aver dormito quella notte. La sua camera si trovava proprio di fronte quella di Emanuele Serra, che per tutta la notte non aveva fatto altro che scoparsi la sua volgare donna.
Cristiano si lasciò andare ad un sospiro rassegnato e osservò con occhi nostalgici un uccello planare e nascondersi tra i rami di un pino, se avesse avuto un carattere meno apatico, meno disinteressato, probabilmente non avrebbe mai sopportato quella situazione.
Se fosse stato un’altra persona, avrebbe urlato e gridato fino a sgolarsi.
Ma dopotutto, Cristiano era convinto di non avere il diritto di poter intervenire o dire la sua, era suo padre ad avere in mano la sua vita, era lui ad occuparsi di tutto.
Mai come in quel momento Cristiano aveva desiderato essere già grande abbastanza.
<< Cosa sono questi sospiri esasperati? >>.
Cristiano registrò lentamente le parole di Zosimo, il suo vicino di banco aveva cercato di richiamare la sua attenzione punzecchiandolo sul gomito con la punta affilata della matita, Cristiano si ritrovò a pensare che doveva averla temperata apposta perché facesse male.
<< Niente >> Si limitò a replicare massaggiando il gomito punzecchiato.
Zosimo gli rivolse un sorriso pericoloso e malandrino, gli pizzicò il braccio senza alcuna pietà e immediatamente dopo, prima che Cristiano potesse protestare, picchiettò sul giornale che il suo vicino di banco aveva tentato inutilmente di nascondere.
<< Perché nascondi un giornale sotto i quaderni? Stai cercando lavoro? >>.
Cristiano percepì un fastidioso calore alle guance quando Zosimo gli rivolse quelle domande con estrema naturalezza, rivolse uno sguardo veloce ad Oscar, l’altro suo compagno di banco, ma non sembrava che si fosse accorto di qualcosa, era distratto dalla professoressa.
<< Davvero non sono affari tuoi >> Ringhiò tra i denti accartocciando il giornale.
Zosimo fece spallucce, si rilassò sulla sedia e incrociò le gambe sotto il banco.
<< Se vuoi scappare di casa non ci trovo nulla di male Cris, davvero >>.
Cristiano sospirò pesantemente e abbassò tutto il peso delle spalle curvando la schiena, era da un po’ di tempo che aveva capito ormai che con Zosimo mentire o nascondersi era inutile. Aveva anche cominciato ad apprezzarlo per questo.
Zosimo possedeva la capacità di percepire ogni suo stato d’animo o cambiamento d’umore.
<< Ultimamente … >> Cristiano incespicò un po’ mentre pronunciava quella parola, aveva la voce bassa e incerta, non voleva farsi sentire da Oscar, non voleva che Zosimo provasse pietà o compassione per lui, ma sentiva davvero il bisogno di dirlo a qualcuno <<  Ultimamente non ho altro che un desiderio. Vorrei prendere Marta e portarla via da quella casa, vorrei poter essere abbastanza indipendente da prendermi cura di lei e staccarmi definitivamente da quell’uomo >> Cristiano strinse forte il pugno e la pagina di giornale finì con lo stracciarsi completamente, sospirò e allentò la presa, tanto comunque non avrebbe trovato nulla che facesse al caso suo, ne era certo << Vorrei allontanarlo dalla mia vita, far finta che non esista ma … >>.
<< Ma è tuo padre, ed è l’unico legame che hai, giusto? >>.
Quando Cristiano incrociò gli occhi di Zosimo non vi lesse né compassione né altro, solo un’infinita comprensione. Gli fu immensamente grato per questo.
<< No, non è l’unico. Io … io sto cercando di recuperare un legame del passato ma … >>
Ma davvero non so come farlo.
<< Uhm >> Zosimo incrociò le braccia al petto e mise su un cipiglio serio che Cristiano ancora non gli aveva mai visto << Quindi quello che vuoi è crearti una nuova vita con Sonia, giusto? Stai cercando di portarla indietro, vero? >>.
Cristiano sentì il battito cardiaco accelerare pericolosamente al suono di quelle parole.
<< Come fai a … ? >>.
<< Cris, tu e Sonia siete i soli a credere che nessuno se ne sia accorto. C’è stato qualcosa tra di voi, direi che è successo più o meno tra il primo e secondo anno, giusto? >>.
Cristiano doveva aver messo su un’espressione piuttosto scandalizzata, perché Zosimo si lasciò andare ad una risatina divertita, risatina che irritò particolarmente il suo vicino.
<< Beh, come diavolo te ne sei accorto? >> Sbottò Cristiano infastidito.
<< Perché ti osservavo Cris, quale altro motivo dovrebbe esserci? >>.
<< Quindi sei tipo uno stalker eh? >>.
<< Nah! >> Zosimo gli tirò un pugno sul braccio e gli fece l’occhiolino, pensando che Cristiano avesse davvero un viso migliore quando sorrideva, anche se il sorriso somigliava ad un ghigno << Per chi mi hai preso? Comunque Cris, non è questo il punto >>.
Cristiano accartocciò definitivamente il giornale e fece per metterlo sotto il banco, ma Zosimo glielo strappò di mano, lo spiegò come meglio gli riuscì e lo sbatté sul banco dell’amico, attirando così anche l’attenzione di Oscar.
<< E allora qual è? >> Domandò Cristiano con estremo imbarazzo.
<< Il punto è che puoi farlo! Se adesso butti questo giornale, tutti i tuoi buoni propositi se ne andranno a quel paese, non credi? Lo puoi fare Cristiano, sei una persona forte >>.
Cristiano non si era mai visto in quel modo.
Era Zosimo quello forte, no?
E allora perché sentirselo dire valse più di mille altre parole, o gesti o altro?
<< Pensi che … >>.
<< Si! >> Zosimo lo interruppe senza nemmeno permettergli di continuare la frase, con una sicurezza e fermezza tale da annichilirlo << Porterai indietro Sonia, diventerai indipendente e creerai il tuo futuro lontano da quell’uomo, senza necessariamente spezzare quel legame. Ce la farai, garantisce il sottoscritto! >>.
<< Allora sono nei guai >>.
Zosimo ridacchiò divertito al commento di Cristiano, notando finalmente che la ruga di preoccupazione sulla sua fronte era finalmente sparita. Contemporaneamente alla sua risata allegra, anche la campanella annunciò la fine della prima ora con brio, Zosimo osservò il vicino di banco segnare diligentemente i compiti sul diario e ripiegare con cura il giornale.
Sorrise sotto i baffi e riportò l’attenzione sul professor Riva, che era appena entrato in aula con l’aria allegra ed elettrizzata di chi aveva qualcosa in mente.
Zosimo prevedeva due ore molto lunghe e stancanti.
<< Buongiorno ragazzi! Cosa sono quelle facce stanche? >>.
Cristiano trovò leggermente irritante il tono di voce del professore, un leggero mal di testa aveva cominciato a pulsare nella tempia sinistra a causa del sonno mancato, e la voce di Costantino Riva non faceva altro che aumentare il fastidio.
<< Oggi ho in mente qualcosa di divertente per ripassare tutto il programma! >> Un mormorio diffuso di protesta e sconcerto serpeggiò tra i banchi, ma Costantino lo ignorò continuando a parlare con entusiasmo << Vi dividerete in otto squadre da due, più una da tre. Lascerò che scegliate il vostro compagno liberamente. Io farò una domanda generale sul programma sia di latino che di greco, la squadra che alzerà per prima la mano avrà la possibilità di rispondere. Ogni domanda giusta varrà un punto. >>
Il professore spiegò diligentemente le regole mentre strappava un foglio di quaderno, Cristiano trovava piuttosto noiosa l’idea, ma era un buon modo per non pensare.
<< Cosa vince chi fa più punti? >> Domandò Telemaco senza alzare la mano.
<< Un otto sul registro! >>.
Annunciò Costantino Riva guardando i suoi alunni con un sorriso raggiante sulle labbra.
<< Io non ci proverò nemmeno >> Borbottò Zosimo al suo fianco stiracchiandosi.
Era piuttosto rilassato per essere uno che sapeva di non avere nessuna possibilità di alzare la propria media scolastica.
<< Benissimo, cominciamo allora. Sonia, tu sei la prima! Chi vuole andare in squadra con Sonia? >>. Tutta la noia e l’apatia che si stavano lentamente impossessando di Cristiano scivolarono immediatamente via nel sentire quelle parole.
Nella classe cadde un silenzio imbarazzante ed opprimente, fatto di sguardi circospetti, occhi bassi o scrollate di spalle. Cristiano spostò lo sguardo su Sonia, non poteva vederle il viso da quella posizione, ma era piuttosto sicuro che vi avrebbe letto indifferenza e noncuranza. E poi … se avesse continuato a scavare sotto la maschera, come gli altri non facevano mai, avrebbe notato le spalle curve, le mani intrecciate e tese sul ventre, la ruga di dolore tra gli occhi.
Avrebbe notato tutte quelle cose che stava notando.
Cristiano si rese conto per la prima volta di una cosa quel giorno, si rese conto che se il professore avesse proposto quello stupido gioco qualche mese prima, anche per lui sarebbe calato quel silenzio imbarazzante.
Nessuno avrebbe alzato la mano per lui.
In quel momento invece sapeva di avere almeno una persona in quella stanza che ci avrebbe provato, Zosimo avrebbe alzato quella mano contro ogni pronostico.
Ma per Sonia?
<< Andiamo raga- >>.
<< Io, vado io in squadra con Sonia >>.
Cristiano non ebbe dubbi al riguardo, non appena si era reso conto che nessuno avrebbe colmato quel silenzio la sua mano si era mossa da sola, come se un filo invisibile fosse passato attraverso il cuore muovendo così anche il suo braccio.
Tutta la classe si girò a guardarlo, ma a lui non importava.
Aveva deciso che avrebbe cominciato a costruire il suo futuro da quello, da lei.
Quando fece cambio posto con Miki e si mise seduto accanto a Sonia, lei non lo stava guardando ed evitava appositamente il suo sguardo, non si erano rivolti la parola da quel giorno al Luna Park, ma a Cristiano non importava.
Zosimo aveva detto che ce l’avrebbe fatta.
E lui ci credeva, ci credeva davvero.
<< Non ho bisogno della tua pietà! Perché l’hai fatto?! >>.
Sbottò dopo un po’ Sonia, mentre gli altri formavano lentamente le restanti coppie, Cristiano osservò distrattamente Gabriele che si spostava accanto a Romeo, e fece spallucce.
Perché proprio non sopporto di vedere la persona che amo trattata così pietosamente.
Cristiano quelle parole non le pronunciò ad alta voce ma Sonia le percepì lo stesso, tacitamente, implicitamente, nel cuore.
Grazie.
 
Enea si rese conto che ricevere un astuccio in faccia faceva piuttosto male.
Faceva male, ma era stato comunque meno doloro del vedere gli occhi di Lisandro infiammati dalla collera, dalla delusione e dalla determinazione, era stato meno doloro delle parole che gli aveva rivolto.
Enea si vergognava di se stesso, si era vergognato per giorni interi.
Aveva sempre trovato la voce per dire tutto quello che pensava, le parole non gli erano mai mancate, ma da quando stava con Beatrice si era reso conto che le cose erano cambiate.
Ci aveva provato più volte a dirglielo, a farglielo sapere.
Ma aveva avuto paura.
Ed Enea non aveva mai avuto paura prima di allora.
Perché non aveva mai avuto nessuno e niente da perdere.
Erano state le parole di Lisandro a spingerlo oltre la linea, a gettarlo nel precipizio senza paracadute, senza rete di salvataggio, aveva fatto un salto nel vuoto che molto probabilmente l’avrebbe portato a schiantarsi dolorosamente su una superficie appuntita.
Aveva detto tutto a Beatrice quello stesso pomeriggio, mentre studiavano insieme.
L’aveva gettato fuori come se fosse stato veleno, qualcosa di tossico che gli stava lentamente corrodendo lo stomaco, l’aveva fatto non perché avesse avuto paura delle minacce di Lisandro, ma perché aveva avuto paura di quello che lui stava diventando.
Aveva gettato fuori la verità come se fosse stata un neonato urlante e ripugnante.
E Beatrice gli aveva tirato il porta pastelli in faccia, centrandolo sul naso.
<< Ahia >> Si limitò a commentare, mentre i pastelli e le penne si riversavano come un fiume in piena sul tappeto e tra le sue gambe, passando attraverso la cerniera che Beatrice aveva dimenticato fosse completamente aperta.
Enea non aveva pensato nemmeno a mostrarle i documenti che si portava dietro da settimane, in realtà gli risultava difficile anche solo guardarla negli occhi in quell’istante.
Beatrice non aveva mai avuto una postura così rigida, né i tratti del viso contratti dalla collera e dal dolore come in quel momento, ad Enea dava l’impressione di una bella regina delle Amazzoni pronta a spellarlo vivo con la sola forza bruta delle mani.
<< Non ti sembra una reazione un po’ esagerata? >>.
Sapeva bene che con quella frase non avrebbe fatto altro che peggiorare le cose, eppure la pronunciò lo stesso, cominciando a raccogliere svogliatamente tutte le matite che aveva tra le gambe e quelle che erano finite sulla sedia, nascoste tra le insenature.
<< Per l’amor di Dio, Enea! >> Beatrice sbraitò senza preavviso << Quando cazzo avevi intenzione di dirmelo?! Il giorno prima di partire? >>.
Enea aveva aspettato quella reazione per tutto il tempo, ma con la stessa aspettativa aveva pregato che quel momento arrivasse il più tardi possibile.
Smise di raccogliere le matite e le rilasciò cadere sul tappeto.
<< La fai facile tu, vero? Ho provato a dirtelo un milione di volte! E altrettante volte mi sono chiesto perché non riuscissi a trovare le parole per farlo. E ancora non lo so! Non lo so perché non te l’ho detto prima. Non lo so! >>.
Enea aveva alzato la voce senza accorgersene, le parole gli erano sgorgate dallo stomaco crescendo senza alcun tipo di freno o controllo, mostruose, violente.
<< Non lo sai?! Sarei dovuta essere una delle prime persone a cui avresti dovuto dirlo! >>.
<< Dannazione Beatrice se te l’avessi detto prima avresti accettato la cosa senza fare tutte queste storie?! Ti saresti congratulata con me senza urlare? >>.
Beatrice ammutolì e le parole le si strozzarono in gola quando venne investita dalla consapevolezza di non poter replicare come avrebbe voluto.
No, non avrebbe reagito bene nemmeno se Enea gliel’avesse comunicato il giorno stesso in cui era arrivata la notizia.
Beatrice non avrebbe reagito bene mai, in nessuna circostanza.
Ma perché Enea non riusciva a capire il suo sgomento?
Perché Enea non poteva capire il suo dolore?
Perché non si rendeva conto di quanto le avesse fatto male anche solo immaginare che se ne sarebbe andato altrove, in un posto dove non poteva vederlo?
Perché non capiva che era davvero quello il motivo per cui urlava tanto?
<< Io … io non me lo aspettavo! >> Continuò Enea passandosi con esasperazione la mano tra i capelli << È stato mio padre a – non importa. A me- >>.
<< Sono la tua ragazza Enea! Sono la->>.
<< Cazzo Beatrice, è il mio futuro! >>.
Le parole di Enea furono come uno schiaffo per Beatrice, strinse convulsamente la stoffa della maglietta tra le dita e scattò in piedi, gli occhi furiosi e velati di lacrime.
Le sembrava di essere stata gettata forzatamente in un incubo, pochi istanti prima sorrideva e scherzava con Enea come tutte le volte che si ritrovavano a studiare insieme, e l’istante dopo le sembrava di avere a che fare con una persona sconosciuta ed estranea.
<< E io non faccio parte del tuo futuro, giusto? >>.
Enea scattò in piedi a sua volta e afferrò Beatrice per le braccia, era rigida e tesa sotto il suo tocco, come se non sopportasse nemmeno più che lui la toccasse.
<< Certo che si Bea, non era quello che volevo dire io … io sto impazzendo dannazione! >>.
Beatrice non aveva mai visto Enea in quelle condizioni, sembrava aver perso tutto il contegno e la sicurezza di cui era dotato, e dopotutto non avevano mai litigato così furiosamente prima di allora.
<< Ma non te ne frega niente di noi? Non te ne importa nulla se non ci vediamo più per un anno intero? Non ci stai male? Non ci hai pensato nemmeno un po’? >>.
Enea le rivolse un’occhiata esasperata.
<< Non ho nemmeno firmato i documenti Beatrice! Non so nemmeno se ci voglio andare!>>.
Cadde un silenzio pesante nella stanze dopo quello scambio di battute concitate e violente, avevano entrambi il fiatone e le guance arrossate dalla collera e dal dolore.
Enea allentò leggermente la presa sulle spalle di lei accarezzandola impercettibilmente con i pollici, e come un riflesso incondizionato a quel tocco gentile anche la postura di Beatrice cominciò a tendersi e rasserenarsi.
Enea pensò che dopotutto erano stati bravi, dopotutto non avevano oltrepassato quella linea pericolosa dove le parole sarebbero potute diventare armi letali.
Non avevano spezzato nessun filo, niente che non potesse essere aggiustato.
Non avevano …
<< Ad ogni modo non importa più, dopotutto … posso sopravvivere anche senza di te >>.
Enea trovò impressionante il modo in cui Beatrice aveva cambiato espressione in quella frazione di secondi e di silenzio, tutta l’angoscia, tutto il dolore, tutto quello che vi aveva letto pochi istanti prima era improvvisamente scomparso, sostituito da una collera glaciale.
<< Vuoi punirmi così solo perché non te l’ho detto prima? >>.
Le parole gli uscirono con più disprezzo di quanto avrebbe voluto, ma Enea non sapeva come altro difendersi dal dolore che stava provando, non sapeva difendersi da qualcosa che non aveva mai provato prima in vita sua.
Era indifeso, esposto.
<< A me fa male anche solo sapere che hai preso in considerazione l’idea >>.
<< E non te ne frega niente del dolore che stai facendo provare a me ades- >>.
<< Tu sei peggio di quel maiale di Mirko! >>.
Enea le lasciò andare le braccia quasi automaticamente dopo aver sentito quelle parole, come se avesse preso la scossa, guardò Beatrice negli occhi e per la prima volta da quanto l’aveva conosciuta desiderò veramente farle del male.
Ferirla.
Beatrice si rese conto troppo tardi delle sue parole, e fu come se attraverso gli occhi feriti di Enea riuscisse a leggere senza filtri il carico del suo egoismo.
Sapeva di avere esagerato, di essere andata troppo oltre, di aver rovinato tutto.
<< Sai che ti dico Beatrice? Ti meriti solo tipi come lui >>.
Beatrice non riuscì nemmeno a fermarlo quando lo vide lasciare la stanza.
Le sembrava di avere un buco nel cuore.
Un buco pieno di ghiaccio.
 
<< Che cosa le hai detto?! >>.
Ivan ebbe più o meno come la sensazione di aver perso l’udito dopo l’urlo violento ed estremamente esagerato del suo migliore amico. Lanciò un’occhiata veloce al resto della palestra, dove stavano facendo educazione fisica, ma si rese conto che nessuno aveva prestato loro attenzione, essendo tutti troppo impegnati a palleggiare diligentemente.
<< Abbassa la voce Gias! >>.
<< Ma sei impazzito?! Questa non te la perdonerà sicuramente! >>.
Ivan si ritrovò a lanciare un’occhiataccia al suo migliore amico, non aveva certo bisogno che qualcuno gli ricordasse quello che già sapeva, né che Giasone lo rimproverasse.
Lo aveva già fatto da solo abbastanza.
<< Lo so perfettamente! >> Commentò mentre riceveva con professionalità il passaggio del suo migliore amico e glielo restituiva << Non so cosa mi sia preso, in realtà volevo … >>.
<< Volevi farle credere di essere un Santo? >>.
Lo rimbrottò Giasone facendogli una linguaccia, Ivan trovò il gesto piuttosto infantile.
<< Certo che no! Ma credevo … credevo che lei lo sapesse! O quanto meno … Beh! Sono un uomo no? Lei avrebbe dovuto immaginarlo … o no? >>.
<< Decisamente no Ivan! >>
Alla replica affrettata ed immediata di Giasone, Ivan rischiò di lascar cadere la palla.
Rivolse uno sguardo veloce al professor De Luca, l’orco di educazione fisica, ma fortunatamente in quel momento stava torturando il povero Igor.
<< Perché no?! >>.
<< Perché le ragazze sono fatte così, queste cose non le capiscono. Sono diverse da noi, loro non fanno queste cose con il primo che capita … o almeno non tutte! >>.
Ivan si morse violentemente il labbro inferiore e pestò un piede a terra con rabbia, alzando un po’ troppo il tiro del palleggio, Giasone lo guardò malissimo quando fu costretto a fare una sorta d’acrobazia per recuperare il pallone.
<< È stato solo con una ragazza. Sono stato solo con una ragazza, e non era nulla di importante. Lo capirà vero? Mi perdonerà per aver mentito? >>.
Giasone non aveva mai visto Ivan così avvilito e mortificato, conosceva il suo migliore amico da tutta la vita, e sapeva che a dispetto dei tatuaggi sulle braccia era un bravo ragazzo.
Stava giusto aprendo la bocca per rispondergli quando il fiato gli si strozzò in gola.
<< Ohi Gias, che succede? >>.
Domandò Ivan seguendo la direzione dello sguardo scioccato del suo migliore amico, spostò gli occhi concentrati e intravide lì, proprio dietro di se … Italia.
Era ferma, immobile, con il pallone stretto tra le mani e il corpo tremante.
Ivan ebbe come la sensazione che lo stomaco si fosse messo a fare le capriole in maniera davvero spiacevole nel suo corpo, il palleggio di Giasone cadde a vuoto pochi centimetri dalla sua testa e il rimbombo del pallone gli vibrò nelle orecchie come un ronzio lontano.
<< Italia io … >>
Ivan non ebbe nemmeno il tempo di allungare un braccio che si ritrovò la palla della ragazza schiacciata sul naso, sentì immediatamente il sangue sporcargli la faccia e il labbro.
<< Ehi, Ivan sta sanguinando! >> Commentò ad alta voce Aleksej, che solo in quel momento si era accorto della cosa con la coda dell’occhio, tutti in palestra si voltarono a guardarlo.
<< Che succede qui?! >> Sbraitò il professore di educazione fisica avvicinandosi con fare imbufalito verso il gruppetto che si stava riunendo intorno al mal capitato.
L’uomo era sconcertato, non era mai capitato prima che Ivan facesse l’imbranato nelle sue ore scolastiche, era sempre stato un allievo atletico e dotato.
<< Ehi, dove vai Italia?! >>.
Strepitò Romeo inseguendo l’amica con lo sguardo, mentre il resto della classe la vide correre come una furia verso l’uscita della palestra con Catena al seguito.
<< Si sarà impressionata >>.
Il commento apatico di Lisandro lo sentirono solo poche persone.
Ivan non si rese minimamente conto di tutto quel disordine, aveva le orecchie otturate.
Era come insensibile al tocco rude di un fazzoletto sotto il naso, alle chiacchiere degli altri, al viso troppo vicino del professore che parlava senza essere ascoltato.
Sollevò lo sguardo su Giasone, che in quel momento gli sembrava estremamente lontano in quel mare di sensi di colpa che lo stava investendo senza pietà.
A quando pare non lo farà.
 
 
 

_____________________________
Effe_95
 
Buonasera a tutti :)
Come prima cosa in assoluto voglio augurarvi un Buon Natale e Buon Anno anche se in ritardo (come sempre) di qualche (tanti) giorni ^^’.
Ad ogni modo, anche se in ritardo, ci tenevo davvero tanto a fare gli auguri anche a voi.
Passando al capitolo, vi confesso che è stato un vero parto scriverlo, ho faticato tantissimo!
La prima parte, quella tra Cristiano e Zosimo, ce l’avevo in mente già da un po’ di tempo, volevo dare l’impressione di un Cristiano leggermente diverso, di un ragazzo che sta cercando di staccarsi dalla parte peggiore di se senza recidere definitivamente i fili però.
Mi rendo conto che detta così sembra una fera follia insensata, ma spero mi abbiate capita.
Per quanto riguarda invece la parte di Bea ed Enea è stata decisamente quella che mi ha dato più problemi in assoluto, non mi piace come è scritta e vorrei davvero avere in vostro parare a riguardo. Anche perché i due hanno proprio dato di matto, e la mia idea era quella di comunicare una situazione di botta e risposta violenta, frenetica.
Non so se di sono riuscita del tutto.
Per quanto riguarda Ivan e Italia, li ritroveremo nel prossimo capitolo sicuramente.
Prima di salutarvi avevo in mente di fare un gioco divertente (?) con voi proponendovi un quesito:  Secondo voi chi ha vinto la gara a squadre del professor Riva? Ecco le alternative.
  1. Enea e Beatrice
  2. Igor e Telemaco
  3. Aleksej e Miki
Avevo intenzione di scriverlo nel capitolo, ma per questione di trama non sono riuscita ad inserirlo, però trovavo carino lo stesso farvelo sapere anche solo per curiosità, così mi è venuta l’idea di proporvi questo giochetto :P.
Grazie mille come sempre per le recensioni, a chi legge e come sempre per la pazienza che avete con me.
Alla prossima. 

Ritorna all'indice


Capitolo 51
*** La direzione opposta, Il mio migliore amico e Creta. ***


I ragazzi della 5 A
 
51.La direzione opposta, Il mio migliore amico e Creta.  


Aprile

Italia aveva un mal di testa terribile quel giorno quando uscì di casa.
Non era stata affatto una buona idea addormentarsi piangendo la sera precedente, ma non era riuscita in alcun modo a trattenersi oltre. Fingere con i suoi genitori e sua sorella che andasse tutto bene era stato più faticoso del previsto.
Sospirando pesantemente aggiustò il colletto ripiegato della camicetta rosa che aveva indossato quella mattina, strinse forte tra le mani la tracolla della borsa e aprì il portone.
Era un caldo sabato di metà aprile, quel giorno il sole sembrava volerle giocare un brutto scherzo rischiarando tutto con il suo splendore, se non fosse stata così amareggiata, triste e ferita, Italia avrebbe trovato piacevole passeggiare con quel tepore sulla nuca.
Sospirando pesantemente si passò una mano sulla tempia e controllò l’orologio da polso, aveva appuntamento a casa di Catena per studiare insieme in vista di una simulazione, ma era uscita di casa decisamente troppo presto, desiderosa di distrarsi e cambiare ambiente.
La luce le feriva gli occhi mentre scrutava distrattamente il marciapiede affollato e i negozi colorati, senza farlo apposta, incondizionatamente, infilò una mano nella tasca esterna della borsa e strinse il cellulare tra le dita.
Ivan le aveva mandato una trentina di messaggi a cui lei non aveva risposto, l’aveva chiamata altrettante volte fino a quando non aveva spento il cellulare per la disperazione.
Italia non credeva di essere pronta per affrontarlo, la delusione che aveva provato il giorno precedente in quella palestra era stata troppo forte per potervi soprassedere.
Ivan non l’aveva mai delusa come in quel momento.
Lasciò la presa sul cellulare e decise che avrebbe raggiunto Catena con un po’ d’anticipo, le sarebbe andato bene tutto pur di non pensare, pur di non rivedere nella mentre quegli occhi verdi ed imploranti seguirla mentre fuggiva dalla palestra.
Italia si vergognava immensamente di se stessa per aver avuto quella reazione esagerata. Quando lei e Catena erano rimaste sole, aveva strillato, pianto e tirato su con il naso.
Non era stata per niente razionale, nemmeno un po’.
Si chiuse lentamente il portone alle spalle accompagnandolo, e raggiunse il semaforo per attraversare, fu in quel momento che se ne accorse, mentre si trovava a metà percorso.
Dall’altra parte della strada, appoggiato goffamente alla moto, Ivan aveva lo sguardo perso aspettando chissà cosa, aspettando lei.
Italia non riuscì a fare a meno di osservarlo, indossava una maglietta a giro maniche bianca che metteva in mostra tutti i tatuaggi, un paio di jeans scuri e stracciati sulle ginocchia e i soliti scarponi rossi. Era più pallido del solito e sotto la luce la sua pelle sembrava nivea, i folti capelli neri se ne stavano tutti sparati sulla destra, come impazziti, aveva le mani infilate nella tasca dei jeans e la schiena terribilmente ingobbita.
Mentre si avvicinava inesorabilmente al marciapiede, Italia non poté evitare di osservargli gli occhi, cerchiati di rosso e tremendamente gonfi.
Nemmeno lui doveva aver dormito quella notte.
Italia provò una spiacevole stretta alla bocca dello stomaco, aveva come la sensazione che se l’avesse toccato, se anche solo avesse sfiorato la sua pelle, tutte le certezze sarebbero crollate inevitabilmente senza alcun rimedio.
E non voleva, non voleva sentirsi in colpa per qualcosa che non aveva fatto.
Non era stata lei a mentire.
Quando finalmente raggiunse il marciapiede, in quei pochi secondi che gli erano sembrati una vita intera, Ivan alzò gli occhi come per magia, come se avesse percepito la sua presenza inevitabilmente e la inchiodò con lo sguardo, scrutandola fissa.
Italia avrebbe voluto avere la forza di girarsi e andarsene, ignorarlo, ferirlo come lui aveva ferito lei e allontanarsi, ma non ci riuscì.
Non ci riuscì in alcun modo, e si sentì estremamente debole.
Rimasero a fissarsi per un tempo che ad entrambi sembrò dilatarsi all’infinito, schiacciati da sentimenti contrastanti e diversi che non avevano mai provato prima l’uno per l’altro.
Fu Italia a spezzare l’incantesimo, strinse forte i pugni conficcandosi le unghie nel palmo della mano e proseguì a camminare, intenzionata a passargli accanto ed ignorarlo.
Ma ad Ivan bastò allungare un solo braccio e stringerle la vita per fermare quella fuga così ravvicinata, Italia si morse inevitabilmente il labbro quando si rese conto di averlo fatto intenzionalmente, quando si accorse che il suo corpo aveva reagito da solo.
Quando realizzò che voleva essere fermata da lui.
Sapeva che se Ivan avesse continuato a tenerla stretta in quel modo non avrebbe ragionato con razionalità, che se il suo profumo o il suo respiro avessero continuato a solleticarle la testa come in quel momento, non sarebbe stata in grado di riflettere come si deve.
E forse era proprio quello che voleva nel cuore.
Non riflettere, non ragionare, non più.
<< Italia … Italia ti prego, non fare così. Ti prego >>.
Quella supplica Ivan gliela sussurrò tra i capelli, seppellendo la fronte sulla sua spalla.
<< E come dovrei fare Ivan, come dovrei reagire? >> La sua stessa voce le sembrava quella di una sconosciuta mentre pronunciava quelle parole, la voce di un’estranea.
<< Mi dispiace, mi dispiace da morire! Non ho avuto il coraggio di dirtelo quando me l’hai chiesto, ho avuto paura di deluderti. Ho avuto paura che se tu avessi saputo … >>.
<< Mi hai deluso molto di più così Ivan, molto di più >>.
Ivan sentì la presa del suo stesso braccio allentarsi inevitabilmente a seguito di quelle parole, come se solo pronunciandole Italia avesse creato una barriera inespugnabile che l’aveva respinto. Non riusciva nemmeno a credere che si trovassero in quella situazione.
Non riusciva nemmeno a tollerare di perderla per una stupidaggine che aveva fatto, non dopo tutto il tempo che aveva impiegato per averla, per amarla, per toccarla, per …
Gli sembrava di impazzire al solo pensiero.
<< Quella ragazza … quella persona non era nulla per me! Io non ricordo nemmeno più il suo nome, ero … ero disperato perché non riuscivo ad avvicinarti! Volevo vedere se potevo staccarmi, se potevo dimenticarmi di te, se sarei riuscito a farti uscire dal mio cuore, ma non è servito a nulla! Lei non m’importa! Io sono stato così contento quando hai detto di voler fare l’amore con me che ho avuto paura di deludere le tue aspettative. Io … >>.
Italia non aveva mai sentito Ivan parlare così tanto, non lo aveva mai visto in panico come in quel momento, vomitava un fiume di parole senza controllo, senza tregua, senza freni, spaventato, ansioso e colpevole.
Inerme.
<< Ivan >> Ad Italia bastò pronunciare solo il suo nome perché lui tacesse di colpo, smarrito e con gli occhi bagnati di lacrime represse, che ancora non erano scese << Non mi importa di quello che hai fatto con lei, non mi importa se sei stato con un'altra. Davvero, questo non cambia quello che provo per te, né l’opinione che ho di te >>.
<< E allora perché tu … >>.
<< Perché mi hai mentito >>.
Ivan sentì le parole mancargli all’improvviso, incastrasi nella gola e non trovare via d’uscita.
Avrebbe voluto replicare qualcosa, avrebbe voluto trovare la forza di ribattere.
Ma di parole, davvero, non ne trovava più.
<< Avrei potuto accettarlo, l’avrei senz’altro capito. Ti avrei capito benissimo Ivan, io stessa sono stata assurda a pensarlo, a metterti addosso un peso come quello. Un’aspettativa insensata come quella, perché anche sapere che non sarei stata la prima, non avrebbe cambiato l’opinione che avevo di te. Ti avrei amato nello stesso identico modo >>.
Italia pronunciò quelle parole allontanandosi da Ivan, dalla sua stretta, dal suo calore, dal suo profumo e dai suoi occhi feriti, non poteva guardarlo, non poteva toccarlo.
Era arrivato il momento di dar spazio alla razionalità.
L’amore, a volte, non poteva averla vinta.
<< Invece mi hai mentito, non sei stato sincero con me Ivan. Non sei stato sincero con me! E per quanto io possa amarti, per quanto possa desiderati, la sincerità Ivan, era davvero tutto quello che chiedevo. Non volevo nient’altro da te, davvero nient’altro >>.
Quando Ivan si rese conto che Italia si era allontanata da lui, quando la cortina di dolore che quelle parole avevano creato intorno a lui si mosse leggermente rivelando la realtà, Ivan scosse la testa con disperazione e allungò una mano nel tentativo di toccarla.
Ma Italia era già troppo lontana.
<< Non lo farò più, te lo prometto, lo giuro! Non lo farò mai più, perciò tu … perciò tu, ti prego, ti supplico, non allontanarti da me. Puniscimi in tutti i modi che vuoi, ma non allontanarmi. Non … ti prego >>.
Ivan le sembrava un bambino in quel momento, le sembrava un bambino supplichevole con quelle mani protese e il volto bagnato di lacrime trattenute a stento, e le sembrava di essere diventata un po’ bambina anche a lei.
Avrebbe voluto stringerlo e dirgli che andava tutto bene, che non importava.
Ma importava eccome invece.
Per lei, aveva importanza davvero.
<< Un po’ di tempo per rifletterci su farà bene ad entrambi, credo. >>
Quando Italia pronunciò quelle parole, Ivan non riuscì a trattenersi dal lasciarsi scappare un singhiozzo lamentoso proprio come un bambino a cui era stato portata via una caramella.
<< Usa questo tempo per riflettere, studia, sorridi, mangia, esci con gli amici, ridi, e non pensare a me nemmeno una volta >>.
Italia fece qualche altro passo per allontanarsi, giunse le mani dietro la schiena, mise il petto in fuori e si sforzò di sorridergli, ma come risultato non ottenne che una smorfia esagerata.
<< Italia, ma … >>.
<< Stammi bene Ivan >>.
Girò le spalle.
Corse via.
Nella direzione opposta.
Opposta a quella del suo cuore.
If you're gonna let me down, let me down gently
Don't pretend that you don't want me
Our love ain't water under the bridge

 
Sei stai per lasciarmi, lasciami gentilmente
Non pretendere di non volermi
Il nostro amore non è acqua passata
 
Adele - Water Under The Bridge.
 
Lisandro a volte trovava deprimente fare la strada di casa da solo.
Quando non poteva prendere in prestito lo scooter di suo padre e gli toccava mettersi in marcia con le sue sole gambe, trovava fastidioso il modo in cui la mente cominciasse a vagare sempre nella direzione sbagliata, senza freni, senza barriere, senza pietà.
Quel giorno inoltre, era stato ancora più difficile da sopportare per due motivi: Beatrice non era venuta a scuola, ed Enea non gli aveva rivolto uno sguardo nemmeno per sbaglio.
Lisandro non era mai stato il tipo di persona pronta a compiere il primo passo, non aveva mai dovuto abbassare quella difesa protettiva che per tanto tempo aveva fatto parte della sua vita, e che da un po’ di tempo a quella parte non faceva altro che sgretolarsi in punti dove non poteva ripararla. Lisandro non era e non sarebbe mai stato pronto a parlare con Enea.
Non dopo quello che gli aveva detto.
Non dopo il modo in cui gliel’aveva detto.
Sbuffò sonoramente infilando le mani nelle tasche dei jeans, aveva il passo strascicato e pesante quel giorno, e la sua camicia verde a mezze maniche, sbottonata su una canottiera bianca, catturava inevitabilmente la luce del sole in quel caldo lunedì mattina di Aprile inoltrato. Eppure Lisandro sentiva tutto tranne che la pace di quei luoghi.
Aveva smesso di essere in pace con se stesso da quando si era innamorato della fidanzata del suo migliore amico, da quando aveva confessato il suo dolore a Sara per mancanza di sopportazione, da quando lei aveva tentato di spifferare tutto ed Enea se n’era accorto.
Aveva smesso di provare pace da quando aveva perso il suo migliore amico.
Lisandro si passò distrattamente una mano tra i capelli e cercò in tutti i modi di prestare attenzione alla strada, di affrettare il passo e allontanarsi il prima possibile da scuola, di fare qualsiasi altra cosa piuttosto che pensare.
Perché pensare gli stava divorando il cervello.
Perché pensare faceva male, gli faceva malissimo.
Sfilò le mani dalle tasche dei pantaloni e si schiaffeggiò le guance, richiamando in questo modo l’attenzione di alcune persone per strada o di studenti della sua scuola che come lui stavano tornando a casa al termine delle lezioni.
Doveva davvero sembrare uno sciocco in quel momento, con la faccia arrossata e l’impronta delle sue stesse dita stampate ad arte sulle pallide lentiggini che aveva sempre detestato.
Stava prendendo in considerazione l’idea di attraversare prima di raggiungere le strisce pedonali, per pigrizia, quando la sua attenzione venne catturata da un gruppetto di persone radunate tutte all’angolo della strada.
Non era una persona curiosa, probabilmente sarebbe passato avanti se non fosse stato che quelle parsone erano tutte suoi compagni di classe.
Lisandro aggrottò le sopracciglia e si avvicinò con passo improvvisamente accelerato individuando Aleksej, Miki, Giasone, Oscar e Catena, erano tutti vicini e chini su qualcuno che non riusciva a vedere.
<< Sei sicuro di star bene? Hai una pessima cera e ti sei scorticato tutta la mano >>.
Lisandro sentì Aleksej pronunciare quelle parole con voce preoccupata, mentre si accovacciava sulla persona che evidentemente doveva essere scivolata con il motorino alla curva della strada, da come aveva intuito Lisandro facendosi sempre più vicino.
Infatti, aveva visto il mezzo di trasporto disteso di lato sul marciapiede e dei frammenti di vetro causati dalla rottura di uno specchietto laterale.
<< Non sarà il caso di chiamare qualcuno? A scuola ci sarà sicuramente la preside >>.
Il commento di Catena era indirizzato ad Oscar, i due se ne stavano un po’ in disparte rispetto agli altri, come per lasciar spazio e respiro al povero malcapitato.
Lisandro li raggiunse con titubanza e i due lo fissarono sorpresi.
<< Cos’è successo? >> Chiese con prudenza.
<< Non lo sappiamo di preciso, perché quando siamo arrivati era già successo tutto >> Cominciò a spiegare Oscar, aggrottando le sopracciglia << Ma a quanto pare Enea è scivolato dalla motocicletta per evitare un pedone che non aveva visto, e si è fatto male alla mano >>.
Lisandro si impietrì quando sentì quelle parole, guardò per alcuni secondi Oscar e Catena come se fossero due estranei, poi le gambe si mossero per conto loro.
Enea era seduto a terra sul marciapiede, aveva ancora il casco allacciato sulla testa, con la mano destra reggeva il polso della sinistra il cui palmo era scorticato e ricoperto di sangue, aveva il jeans stracciato sul ginocchio sinistro, a sua volta sbucciato, e la cartella a tracolla era finita dietro la schiena a causa della caduta.
Aleksej era chino su di lui e cercava inutilmente di convincerlo a pulirsi la mano con un fazzoletto bagnato d’acqua che gli aveva dato Miki, ma Enea sembrava del tutto intenzionato ad alzarsi e andare via senza chiamare nessuno, ignorando i suoi compagni di classe e scacciando tutti gli adulti che si fermavano per dare una mano.
<< Ho detto che sto bene! È solo una stupida sbucciatura Aleksej! >>.
Enea pronunciò quelle parole con aria stizzita, scostando con maleducazione la mano tesa del compagno di classe, il fazzoletto che Aleksej stringeva tra le dita scivolò a terra sul marciapiedi e si sporcò subito.
Lisandro vide Miki chinarsi per raccoglierlo ed il suo migliore amico (poteva ancora chiamarlo in quel modo?) tirarsi in piedi a fatica ignorando la tirata di Aleksej nei suoi confronti.
Enea non l’aveva ancora visto, e Lisandro cominciava a soppesare l’idea di scappare.
Dopotutto come avrebbe potuto affrontare gli occhi di Enea quel giorno?
Sembravano due pozzi neri pregni di rabbia e dolore.
<< Enea, smettila di prendertela con gli altri! Aleksej stava solo cercando di aiutarti >>.
Lo rimbrottò Giasone aggiustandogli rudemente la borsa a tracolla, Enea scacciò anche lui e si affrettò ad avvicinarsi alla motocicletta per alzarla.
<< Oggi non è giornata, va bene?! >> Sbottò in direzione dei tre poveri malcapitati, mentre Oscar e Catena si facevano ancora più da parte, lasciando Lisandro sempre più esposto allo sguardo di Enea << Mi dispiace di avervi fatto preoccupare, ma sto bene >> Alzò con fatica la moto e guardò con fare afflitto lo specchietto rotto << Davvero! >> Sottolineò poi in risposta allo sguardo severo ed apprensivo di Miki.
<< E va bene, ti lasciamo andare. Ma sta attento dannazione! >>.
Enea sbuffò sonoramente al rimprovero di Giasone, che aveva accompagnato il tutto menandogli anche uno scappellotto dietro la nuca, dove non era protetto dal casco, fu in quel momento che si accorse di Lisandro, mentre accendeva la moto per controllare che partisse ancora.
A Lisandro sembrò di tremare come se il terreno si fosse messo all’improvviso a ballare sotto i suoi piedi, era rimasto fermo sul posto senza sapere come comportarsi, imbambolato, intrappolato da un filo che tirava spingendo avanti e indietro per andare via o per restare.
E siccome Enea si ostinava a guardarlo fisso, con l’espressione sorpresa, Lisandro si ritrovò l’attenzione di tutti gli altri addosso, una cosa che non aveva mai sopportato.
<< Oh, Lisandro. Quando sei arrivato? >>.
Gli domandò gentilmente Miki, infilandosi il fazzoletto sporco nella tasca del giubbotto.
<< Pochi … pochi istanti fa >> Borbottò Lisandro a disagio, distogliendo lo sguardo.
<< Hai visto cos’ha combinato Enea?! Mi raccomando, digliene quattro tu eh? >>.
Lisandro guardò Giasone con gli occhi spalancati, come se gli sembrasse assurda l’idea che toccasse a lui fare la predica ad Enea.
Proprio lui, che non aveva fatto altro che spingerlo verso il baratro.
Ormai Lisandro aveva capito, l’aveva capito perché Enea aveva quegli occhi.
Lo sapeva.
Era colpa sua, erano state le sue parole.
<< Veramente io … stavo per andarmene. Ciao >>.
Lisandro provò una vergogna che non aveva mai provato prima mentre pronunciava quelle parole, con le guance in fiamme, lo sguardo basso e le mani strette fino a far male intorno alla tracolla di pezza della cartella mezza consumata.
Sapeva che gli altri lo stavano fissando, percepiva lo sguardo di tutti perforargli la nuca mentre voltava le spalle per andare via, per scappare via.
Chiuse gli occhi e ci morse il labbro inferiore fino a sentire dolore.
Vigliacco, vigliacco, vigliacco, vigliacco.
<< Ehi Lis, perché non resti? Non vuoi parlare con me? >>.
Le parole di Enea per Lisandro ebbero la stessa risonanza di due bombe a mano, gli sembrarono esplodere fragorosamente, far tremare la terra, i palazzi, tutto, nonostante per strada nessuno le avesse sentire, nonostante in realtà nessuno stesse scappando per il terrore. Lisandro si rigirò lentamente, come un automa, avvampò ancora di più quando si ritrovò addosso gli sguardi imbarazzati di Aleksej, Miki e Giasone, mentre Oscar e Catena dovevano essersi allontanati silenziosamente qualche istante prima.
<< Noi dobbiamo andare, altrimenti perdiamo il pullman >>.
L’intervento stentato di Miki fu una condanna e un sollievo per Lisandro.
Li vide salutare educatamente, scambiare qualche parola con Enea in merito a quanto accaduto e allontanarsi frettolosamente, parlando tra di loro.
Li avevano lasciati da soli.
Lisandro continuava a torturarsi il labbro inferiore con i denti, incapace di articolare parola.
Enea continuò a fissarlo per un po’ in silenzio, poi sospirò pesantemente e si mise a controllare la motocicletta, utilizzando una lentezza nei movimenti che Lisandro trovò esasperante e punitiva.
<< Non vuoi sapere com’è andata? Hai insistito così tanto dopotutto >>.
No, Lisandro non lo voleva sapere.
Non voleva.
<< Enea, io non … >>.
<< Abbiamo litigato. Beatrice era furiosa, fuori controllo, mi ha tirato un porta pastelli in faccia. Ha detto che potevo andarmene, ha detto poteva sopravvivere anche senza di me >>.
<< Enea … >>.
<< Ha detto che sono un egoista a cui non frega un cazzo di lei >>.
Basta, basta, basta!
<< Non … >>.
<< Ah, e poi ha detto che sono peggio di quello stronzo di Mirko e … >>.
<< BASTA! >>.
Lisandro ed Enea rimasero a fissarsi per un tempo che sembrò dilatarsi all’infinito nonostante tutto il resto scorresse ugualmente, nonostante la gente passasse senza accorgersi di nulla, o guardando quei due strani ragazzi di sottecchi, perché urlavano.
Enea aveva lo sguardo impassibile.
<< Non vuoi sentirlo, vero? Alla fine non hai vinto tu? Mi hai rubato il tempo, il tempo necessario per capire che cosa volevo farne della mia vita. Il tempo per capire come non mandare tutto a puttane. L’hai fatto perché la ami, lo so. Lo capisco anche. Ti capisco >>.
Lisandro aveva come la sensazione che il sangue nelle mani si fosse completamente fermato data la violenza con cui continuava a stringere la tracolla della borsa.
Andando avanti in quel modo l’avrebbe sicuramente spezzata.
Enea sospirò, poi salì finalmente sulla moto, sgasando un po’ con l’acceleratore per controllare che partisse senza problemi.
<< Sai Lis, Beatrice mi ha ferito così tanto che non so se sarò capace di guardarla come facevo prima. Dopotutto non avevo mai amato nessuno prima, e non capisco proprio perché dovrei farlo se vuol dire stare male in questo modo, farsi trattare così da qualcuno. Quindi fa quello che vuoi, portamela via. Non mi importa più >>.
Lisandro prese a scuotere freneticamente la testa come un bambino.
Sentiva le parole montargli come un’onda nella gola, ma non riusciva a farle uscire.
Non ci riusciva nemmeno un po’.
E allora scuoteva la testa come per non sentire, come per non vedere.
<< Ci vediamo >>.
<< PERCHÉ MI DICI QUESTE COSE?! PERCHÉ NON MI URLI CONTRO?! >>.
Enea sorrise mentre passava con la moto accanto a Lisandro, sfrecciando sulla strada.
Ma Lisandro le sentì lo stesso quelle parole mormorate.
Non sei il mio migliore amico, forse?
 
Where did I go wrong?
I lost a friend, somewhere along in the bitterness.
 
Dove ho sbagliato?
Ho perso un amico, da qualche parte nell’amarezza.
 
The Fray – How to Save a Life

<< Senti … credo che tra un po’ mi spezzerò la schiena >>.
<< Sei davvero così poco resistente? Lasciami finire il capitolo, per favore >>.
<< Quante pagine ti mancano per finire? >>.
<< Sette >>.
Oscar trovò piuttosto desolante la replica di Catena.
Era da più di un’ora che se ne stavano seduti a terra nella sua camera schiena contro schiena.
Catena trovava piacevole leggere in quel modo, affidare tutto il suo peso alle spalle larghe e accoglienti di Oscar, trovava piacevole lasciar scivolare il capo nell’incavo tra il collo e la scapola o i lunghi capelli neri sul petto ampio del fidanzato.
Era piacevole il tepore che sprigionava il corpo del suo uomo.
Oscar la lasciava fare perché l’amava, perché non sapeva dirle di no, perché anche se la sua massima resistenza era giusto quell’ora scarsa, adorava sentirla così addosso.
Pressante, schiacciante, viva e palpitante.
<< E adesso quante te ne mancano? >>.
<< Sempre sette Oscar >>.
Oscar guardò svogliatamente il libro di storia aperto su una pagina della Seconda Guerra Mondiale, e ascoltò con un sorriso sulle labbra la pacifica risposta di Catena.
Aspettò che passassero alcuni secondi di silenzio, circa una trentina …
<< E adesso? >>.
<< Adesso sei Oscar, ma … >>.
Catena pronunciò quelle parole chiudendo meticolosamente il libro che stava leggendo, voltandosi poi per osservare il fidanzato, Oscar percepì immediatamente il sollievo invadergli la spina dorsale quando il peso di Catena smise di fare pressione con ostinatezza.
Non la fece nemmeno finire di parlare che l’afferrò per entrambi i polsi e come un ghepardo la bloccò sul tappeto con il proprio corpo.
Catena aveva il respiro leggermente accelerato e gli occhi sgranati dalla sorpresa, che andò man mano affievolendosi quando Oscar sollevò la mano e con la punta delle dita prese a seguire il profilo del suo viso, passando sulla punta del naso, seguendo il contorno delle labbra leggermente schiuse, la curva della gola, il profilo del seno fino all’altezza dell’ombelico, in un punto dove Catena aveva scoperto di essere piuttosto sensibile.
Oscar aveva sempre trovato estasiate il modo in cui il corpo di Catena cominciasse a sciogliersi al tocco della sua mano, era come modellare della creta per farne una meravigliosa opera d’arte.
Era come diventare lui stesso creta e farsi plasmare.
Le guardò le labbra schiuse, arrossate dal desiderio, ansimanti, e sorrise.
Non aveva mai provato nulla del genere prima di Catena, prima di lei fare l’amore non aveva mai avuto quel significato intenso, non gli aveva mai dato quelle emozioni a cui non sapeva nemmeno dar nome.
Gli sarebbe piaciuto continuare all’infinito, infilarle una mano sotto la maglietta per toccarle la pelle calda, soffice e delicata, amarla con trasporto, entrare dentro di lei e morirne lentamente, piacevolmente, come ogni volta, ma doveva dirle qualcosa.
Aveva qualcosa di molto più importante da dirle, qualcosa che non poteva rimandare.
<< Cosa c’è che non va? >>.
La voce di Catena era leggermente roca, ma tranquilla e languida, aveva sollevato una mano per giocare con le ciocche ribelli dei suoi capelli, proprio dietro l’orecchio sinistro, proprio dove ad Oscar piaceva essere accarezzato.
<< Vorrei dirti una cosa, ma non so come farlo >>.
Commentò Oscar chiudendo gli occhi per soffocare un mugolio di piacere.
<< Ho un’idea, fammi alzare >>.
Oscar rimase leggermente interdetto da quell’affermazione, ma dopo un attimo d’esitazione lasciò la presa e la fece alzare, scrutandola attentamente mentre si dirigeva verso l’interruttore della luce e la spegneva, riducendo la stanza al buio più totale.
<< Che cosa stai facendo? >>.
<< Guidami con la tua voce Oscar, altrimenti mi farò male >>.
Fu il commento di Catena alla domanda del fidanzato, Oscar continuò a parlare fino a quando allungando le mani la prese per i fianchi e la fece sedere con difficoltà proprio di fronte a lui.
Era strano starsene seduti in quel modo nel buio più totale.
Ad Oscar sembrava quasi di poter percepire Catena addirittura con maggior forza, come se fosse esattamente l’unica cosa viva e reale in quel buio infinito.
<< Raccontami tutto adesso, non è più facile in questo modo? >>.
All’inizio Oscar trovò piuttosto strana quella frase, avrebbe voluto ridere e affermare che era una sciocchezza bella e buona, ma non poteva farlo.
Perché in quel modo era davvero più facile.
<< Ci sono cose difficili da dire, cose che proprio non riusciamo a cacciar fuori a volte, vero? Ma se non puoi vedere la mia faccia, se hai la certezza che io sono qui, ma senza giudicarti, allora puoi avere anche la certezza di dirmi proprio tutto quello che vuoi Oscar >>.
Oscar chiuse involontariamente gli occhi e si permise di sorridere come un bambino.
Aveva ringraziato poche volte Dio in quegli anni, ma per avergli mandato Catena non avrebbe smesso di farlo mai più.
<< Qualche giorno fa ho incontrato Luca … >>.
Le parole vennero da sole, raccontare fu facile, fu semplice, fu una vera e propria liberazione.
Fu un po’ come tornare indietro nel tempo, fu come resettare il cuore e farlo partire di nuovo, avere la sensazione di plasmare il proprio corpo ancora come creta.
Fu come avere una pelle nuova e immacolata.
I rimpianti avevano fatto il loro tempo quella sera.
E per Oscar era stato facile rimuoverli dalle spalle come fossero una piccola valigia sovraccarica, si era fermato al limite di quella strada che aveva fatto tutta di corsa.
Aveva guardato nel precipizio più volte, aveva rischiato di cadere e rimanere prigioniero di quel buio infinito in cui aveva tramutato il suo cuore in paura.
Si era fermato di colpo, vi aveva guardato dentro un’ultima volta e quella valigia pesante, quella valigia gravida del nulla, l’aveva gettata via con facilità.
Perché non aveva più paura di cadere, non aveva paura di precipitare.
La sua catena di sicurezza l’avrebbe sempre tenuto saldo su quel terreno.
Sempre, nei giorni a venire.
<< … e allora mi piacerebbe … mi piacerebbe che tu mi accompagnassi al cimitero quando tutto sarà finito, quando avremo il diploma in mano e il mondo intero per noi. Perché sei stata tu ad insegnarmi che gettare tutto fuori non fa altro che guarirci, giusto? Perché voglio davvero mettere la parola fine a questa storia >>.
Quando smise di parlare Oscar aveva la voce roca ma si sentiva bene.
Aveva due polmoni nuovi per respirare.
<< Ti accompagnerò dove vuoi >>.
<< Lo so >>.
E lo sapevo entrambi davvero che la strada in da quel momento in poi sarebbe stata tutta in discesa.
Per quella sera, tuttavia, si limitarono a fare l’amore, riprendendo lì dove si erano interrotti, desiderosi, felici.
Liberi.
 
 
__________________________
Effe_95

 
Buonasera a tutti :)
Eccomi qui prima del previsto (?), con un nuovo capitolo.
Devo confessare che mi aspettavo sarebbe stato più difficile da scrivere, e invece per una volta mi è venuto quasi naturale come respirare.
Non so se questa cosa sia stata un bene o un male.
Soprattutto perché il capitolo sembra un campo da guerra e distruzione ^^”
Partiamo dalla parte di Ivan e Italia, so che per molti di voi sarà un colpo durissimo la decisione presa dalla nostra ragazza, per alcuni potrà sembrare esagerata e insensata, fuori luogo, melodrammatica e mille altre cose.
Non per me, ad ogni modo.
Come avete potuto notare, non ho messo definitivamente la parola “fine” tra quei due.
Non potevo farlo perché si amano alla follia e perché non sono così cattiva (non ho il cuore per farlo, lo confesso) xD
Per questo motivo e molti altri, ho ritenuto che il “tempo” fosse la soluzione migliore per entrambi, per risanare le ferite e rinforzare i sentimenti.
Dopotutto spero possiate capire il reale motivo della decisione di Italia, il perché si sia sentita così ferita ;)
La parte di Enea e Lisandro è stata particolarmente “dolorosa” da scrivere, non riesco a trovare davvero altro termine per descrivere le sensazioni che ho provato.
Anche in questo caso la reazione di Enea potrà suscitare innumerevoli reazioni, ma vi prego di comprendere cosa sta passando questo povero ragazzo ( parla quella che ha combinato tutto il casino ^^”). Credo che provare amarezza e rabbia sia normale.
Sono curiosa, in realtà, di sapere cosa ne pensate del modo di comportarsi di Lisandro ;)
Avrete inoltre notato che alla fine delle due parti ho inserito delle frasi tratte da alcune canzoni, non l’avevo mai fatto prima, ma questa volta ne ho sentito la necessità perché mi hanno praticamente accompagnato assiduamente nella stesura del capitolo.
La parte di Oscar e Catena spero davvero che vi sia piaciuta.
Ovviamente questa non è una conclusione definitiva per loro (non usciranno assolutamente dalla storia), ho ancora altre scene per loro, solo che saranno più tranquilli adesso, più sereni mentre mi concentrerò su altri elementi, e inoltre lo potremmo definire solamente un inizio questo, no?.

E adesso finalmente il momento che aspettavate tutti con ansia (?).
Sono lieta di comunicarvi che i vincitori del super quiz del professor Riva sono ….
 
 
IGOR E TELEMACO!
 
Ve lo aspettavate? :P
Per le persone che hanno indovinato (ovvero: Kim_Sunshine, Claddaghring8 e sky35) ho deciso di mettere un premio in palio :)
Se vorranno, ovviamente a propria scelta, potranno chiedermi una curiosità sulla coppia che preferiscono.
Ovviamente risponderò in privato e ovviamente vi consiglio di non chiedere qualcosa di troppo spoileroso (si può dire?) perché potreste rovinarvi la lettura in futuro.
Detto questo, grazie mille come sempre per il supporto.
Siete le mia forza, sempre.
Alla prossima.
 
 

 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 52
*** E la punizione?, Mancanza e Partenza. ***


I ragazzi della 5 A
 

52. E la punizione?, Mancanza e Partenza.


Aprile

Zosimo sapeva di dover scappare a casa a preparare la valigia.
Sapeva che era disordinato e disorganizzato, fare tutto all’ultimo minuto avrebbe significato sicuramente dimenticare cose importanti come i documenti, il biglietto aereo o lo spazzolino. Davvero, Zosimo sapeva di dover andare a casa e lasciar perdere, ma proprio non poteva farlo.
Doveva risolvere quella situazione, o altrimenti sarebbe impazzito.
Era da una settimana intera che non aveva notizie di Alessandra, da quando la ragazza gli aveva raccontato che suo padre aveva cominciato a dare di matto dopo aver scoperto che si era fidanzata con lui. L’ultima volta che avevano parlato Alessandra gli aveva suggerito di lasciarla perdere per un po’, il tempo necessario affinché Nicola Rossi sbollisse l’arrabbiatura e l’ansia da padre troppo apprensivo, ma Zosimo non poteva più aspettare.
Non poteva aspettare che Nicola cominciasse a capire che sua figlia non era più una bambina, perché il giorno seguente sarebbe partito per Vienna con la classe e avrebbe significato solamente stare un’altra settimana senza sapere nulla di Alessandra.
Andarsene a Vienna senza nemmeno salutarla non era contemplabile.
Osservò con fare distratto il volto di ogni singolo studente che si apprestava a lasciare l’istituto scolastico e ignorò gli sguardi sconcertati di alcuni ragazzi, senza calcolare minimamente la possibilità di apparire del tutto sospetto standosene nascosto dietro i cancelli in quel modo.
La verità era che Zosimo aveva programmato quell’agguato per tutta la giornata.
Era da giorni che cercava di convincere Gabriele a farlo parlare con Alessandra anche solo per un istante, ma il castano trovava sempre una scusa per ignoralo o liquidarlo, suggerendo di non volersi mettere nei casini con i suoi.
Beh, quel giorno Zosimo era intenzionato a convincerlo a tutti i costi.
Sporse nuovamente la testa da dietro la colonna di mattoni dove si era nascosto e scrutò tra la folla con sospetto, aveva fatto una corsa micidiale per raggiungere i cancelli prima di Gabriele e Aleksej, ma stava cominciando a chiedersi se avesse calcolato bene tutti i dettagli.
Sentiva come se qualcosa gli stesse sfuggendo, un particolare.
<< Che cosa diavolo stai facendo precisamente?! >>.
Zosimo rischiò una commozione celebrare quando quelle parole lo raggiunsero, saltò come un grillo e andò a sbattere con la tempia sui mattoni scarabocchiati della colonna, ritrovandosi un: “ Fabrizio ti amo”, con tanto di cuore gigante, ad un palmo dal naso.
<< Ahia! >> Commentò massaggiandosi la parte dolorante del viso, poi sollevò i grandi occhi castani e li posò sulla figura slanciata di Cristiano, che lo osservava con un sopracciglio sollevato e l’espressione di una persona eternamente disgustata << Ehi Cris, come va? >>.
Domandò allegramente tornando a scrutare la folla con una mano sulla fronte.
<< Tsk, possibile che non smetta di essere allegro nemmeno quando sbatte con la testa contro una colonna di mattoni incrostata di vecchie gomme da masticare? >>.
Brontolò tra sé e sé Cristiano, poi alzò gli occhi al cielo e picchiettò l’amico sul braccio, infastidito dal fatto che non gli stesse prestando la minima attenzione.
<< Ohi Zosimo, cosa diamine combini? Sembri uno stalker maniaco o qualcosa di simile >>.
<< Sto preparando un agguato a Gabriele >>.
Cristiano esitò un istante dopo aver sentito quelle parole, e fu fortemente tentato di lasciar perdere tutto quello che aveva sentito e abbandonare Zosimo alla sua follia, ma per qualche strana ragione non riusciva a fare l’indifferente quando si trattava di lui.
Inoltre, avevano un appuntamento.
<< Beh, credo tu abbia dimenticato che Gabriele ha la macchina. Se n’è già andato da un pezzo probabilmente, avresti dovuto appostarti nel parcheggio se proprio volevi fregarlo >>.
<< Cazzo, la macchina! Ecco cos’era! >>.
Cristiano rischiò un infarto quando Zosimo strillò quelle parole schioccando le dita e schiaffandosi una mano sulla fronte in maniera teatrale, si passò una mano sul petto all’altezza del cuore che aveva preso a battere freneticamente, poi si schiarì la voce, chiuse gli occhi un istante per ritrovare la calma, e con tutto il contegno di cui era capace menò un calcio a Zosimo nel didietro.
<< Ahi, perché?! >> Proruppe Zosimo riportando totalmente per la prima volta la sua attenzione sull’amico indispettito, Cristiano alzò gli occhi al cielo.
<< Ci sarebbero infiniti perché, ma non abbiamo tutta la giornata! Andiamo? >>.
<< Andare dove? >>.
<< Ohi Zosimo, mi stai prendendo per il culo? Ti sei davvero dimenticato che volevi andare al cimitero insieme prima di partire e mi hai tormentato per tutto il tempo ieri?! Per progettare questo casino l’hai davvero dimenticato?  E hai osato anche fallire!?>>.
Cadde un silenzio di alcuni secondi a seguito della sfuriata di Cristiano, secondi in cui Zosimo spalancò la bocca e sollevò un dito nel tentativo di ribattere qualcosa di sensato, ma l’unica cosa che riuscì a produrre fu un lungo sospiro.
<< Mi dispiace Cris, sono un po’ distratto in questi giorni >>.
Commentò rivolgendo all’amico un ampio sorriso mentre si grattava goffamente la nuca.
Cristiano sospirò, incrociò le braccia al petto e scrutò il folletto con attenzione, era la prima volta che vedeva Zosimo sorridere così forzatamente, gli era successo qualcosa?
Stava passando un brutto momento e lui non se n’era accorto?
Cristiano provò imbarazzo nel rendersi conto di non essere proprio tagliato per i rapporti umani, come amico faceva davvero schifo e aveva molto da imparare.
<< Ok, non importa, piuttosto … posso aiutarti in qualche modo? Non so – io – cioè … >>.
Zosimo sollevò entrambe le sopracciglia osservando il tentativo disastroso di Cristiano, ma si ritrovò inevitabilmente ad allargare il suo sorriso facendo spuntare le fossette.
<< È per Alessandra. Suo padre è un po’ contrariato dal fatto che la figlia non gli abbia detto di essere fidanzata e adesso la tiene in punizione … lontana da me. Niente cellulare, niente computer, niente Zosimo per due settimane! >>. Raccontò il folletto accompagnando ogni divieto con un “zac” finale dal tono molto teatrale.
Cristiano trovò sorprendere il modo in cui Zosimo avesse la capacità di essere così positivo anche nelle cose che lo riguardavano personalmente e che lo facevano soffrire, mentre lui non avrebbe fatto altro che commiserarsi o arrendersi, adducendo a se stesso la scusa che non ne valesse la pena, o qualcosa di simile.
<< Non è esagerato? >>. Domandò Cristiano, contrariato.
<< Sinceramente non lo so >> Rispose Zosimo facendo spallucce << Gabriele mi ha detto che suo padre da bambino è cresciuto solo con la madre e la sorella. Che ha dovuto crescere in fretta e prendersi cura di loro, diventare uomo troppo presto. Mi ha detto che è solamente troppo apprensivo nei confronti di Alessandra per questo motivo, perché lei è la sua unica figlia femmina, e che per questo devo lasciar perdere perché tanto poi gli passa >>.
<< E tu? >>.
<< Io? Beh, io vorrei fargliela passare oggi >>.
<< Beh, fallo! >>.
<< Cosa? >>.
Cristiano afferrò Zosimo per le spalle e lo girò verso la strada, l’occhio del folletto ricadde su una macchina nera accostata al marciapiede dal quale stava scendendo un uomo alto e atletico, sulla quarantina inoltrata.
<< Quello è il padre di Gabriele no? Non vedi Alessandra che lo sta per raggiungere? >>.
Zosimo la vide, mentre usciva dal cancello in compagnia di alcune sue compagne di classe e rivolgeva un’occhiataccia al padre, che appoggiato alla macchina in quel modo, con espressione seria e annoiata contemporaneamente, assomigliava incredibilmente a Gabriele.
<< Certo che però … andare a prenderla anche a scuola lo trovo eccessivo! >>.
Commentò Cristiano spintonando Zosimo verso la macchina.
<< Che ci vuoi fare? Si vede che è un uomo dalle decisioni ferme >>.
Replicò Zosimo opponendo un po’ di resistenza alla spinta di Cristiano, ma quest’ultimo lo sollevò praticamente di peso e lo spintonò in avanti con decisione.
<< Adesso va’! Al cimitero ci andiamo quando torniamo da Vienna. Sbrigati! >>.
E con quelle parole rudi si congedò da Zosimo lasciandolo in bella vista in mezzo alla strada, con la giacca di jeans spiegazzata e il colletto della felpa rovesciato sulla spalla.
Trasse un respirò profondo, si aggiustò alla bell’e meglio la maglietta e mettendo su il sorriso migliore del suo intero repertorio, piuttosto vasto grazie alla pratica di anni, raggiunse la macchina nera e si piazzò con aria allegra davanti a Nicola Rossi, accompagnando il tutto con un profondo inchino in stile orientale.
<< Buongiorno signore! >>.
Nicola rimase piuttosto interdetto quando si ritrovò davanti il ragazzo, il primo pensiero che gli passò per la mente fu chiedersi se non gli fosse venuto un colpo della strega dato il modo esagerato in cui si era chinato.
<< Zosimo! >>.
Fu l’esclamazione sorpresa della figlia a fargli comprendere più o meno la situazione.
Alessandra guardava il fidanzato con aria scioccata, bloccata in una posa del tutto particolare mentre si accingeva a salire in macchina.
<< Ehi Ale! Come stai? >> Replicò Zosimo allegro, salutandola con una mano.
Nicola incrociò le braccia al petto, sollevò un sopracciglio e osservò con aria contrariata il giovanotto che si trovava davanti. Era alto giusto qualche centimetro in più rispetto Alessandra, aveva una matassa di capelli mossi e sbarazzini che non nascondevano per nulla le orecchie dai tratti elfici, e per giunta non sembravano essere mai stati pettinati, gli occhi erano grandi e scuri, così come la sua carnagione leggermente olivastra.
Indossava dei vestici stropicciati che facevano a cazzotti tra loro e aveva le scarpe slacciate e scribacchiate come quelle di un bambino.
<< Zosimo, cosa stai facendo qui? Ti - >>.
<< Le domande le faccio io! >>.
Intervenne bruscamente Nicola interrompendo la figlia, Alessandra alzò gli occhi al cielo e finalmente emerse dalla macchina chiudendosi la portiera alle spalle.
<< Si signore! >> Scattò immediatamente Zosimo, come se si trovasse davanti ad un sergente o un comandate dell’esercito << No, signore! Non fumo e non bevo! Non ho mai fatto uso di droghe o stupefacenti e non ho tatuaggi. A scuola ho la media del sei! Non sono mai stato fidanzato con nessuno prima di sua figlia, quindi non ho malattie sessualmente trasmettibili. Vivo da solo con mio padre, perché ho perso la mamma quando avevo otto anni, quindi mi scuso se i miei vestiti non sono perfettamente stirati, le assicuro che papà fa del suo meglio! Ah! Lui è un pianista, lavora al conservatorio e ogni tanto da lezioni private. Sono bravo a cucinare, faccio schifo a educazione fisica ma sono in salute, lo giuro! Non ho grandi aspirazioni per il mio futuro, ma vorrei diventare un meccanico e aprire un’officina mia.
Sono figlio unico e non ho parenti oltre mia nonna e mio padre. In famiglia non soffriamo di malattie mentali. Ah, e ho la fedina penale pulita! Ecco, questo è tutto … più o meno >>.
Zosimo concluse lo sproloquio portandosi una mano alla fronte nel tipico segno militare, poi si rese conto di cosa aveva fatto e arrossì, nascondendo il braccio dietro la schiena.
Nicola rimase ad osservarlo per un secondo con un’espressione allucinata sul viso.
<< “Malattie sessualmente trasmettibili?” >> Mormorò tra se e se, scioccato.
<< Possibile che sia tutto quello che hai sentito del suo discorso, papà?! >>.
Al rimprovero di Alessandra, che guardava Zosimo con intensità, Nicola si schiarì la voce, sciolse la posa rigida delle braccia e sospirò, rivolgendo al ragazzo un’espressione seria.
<< Vuoi bene a mia figlia? >>.
<< Si, signore! >>.
Nicola sussultò per l’immediata risposta del ragazzo che continuava a guardarlo negli occhi, in effetti, l’adulto si rese conto per la prima volta che Zosimo non aveva mai abbassato lo sguardo.
<< Hai … hai perso tua madre quando eri bambino? >>.
<< Si. Ma sto bene, e sono felice. Perché so che la mamma veglia sempre su di me. E poi mi ha mandato Alessandra, no? >>.
E dopo aver pronunciato quelle parole Zosimo si aprì in un sorriso che Nicola trovò particolarmente suggestivo, si lasciò andare anche lui ad un buffetto divertito e guardò la figlia di sottecchi, ancora concentrata sul fidanzato che non vedeva e sentiva da giorni.
<< Stai bene? >> Domandò lei alzando la voce per attirare l’attenzione di Zosimo, lui si girò verso di lei e annuì sorridendo << Stai mangiando come si deve? Pulisci la tua stanza tutti i giorni? Hai cambiato le lenzuola del letto? Ti sei stirato le camicie? >>.
Zosimo annuì ad ogni affermazione della ragazza, Nicola non aveva mai visto la figlia con un’espressione così seria e preoccupata sul viso.
<< Va bene, basta così! >> Esordì interrompendo il contatto visivo tra i due giovani << Io devo andare a lavoro, quindi torna a casa con Zosimo, Alessandra >>.
Commentò distrattamente l’uomo aggirando la macchina per raggiungere il posto del guidatore, ignorando con maestria le espressioni sorprese e incredule dei due.
<< E la punizione? >>. Domandò Alessandra.
<< Finisce qui! Mi ero anche annoiato di venirti a prendere a scuola tutti i giorni. Ad ogni modo … >> Commentò Nicola sollevando lo sguardo verso Zosimo << … quando tornate da Vienna sei invitato a cena da noi, voglio parlare un po’ meglio della tua fedina penale! >>.
E con quelle parole e un sorriso nascosto mentre saliva sulla macchina, Nicola mise in moto e se ne andò, pensando che dopotutto sua figlia fosse stata davvero fortunata.
Alessandra e Zosimo rimasero a fissarsi per un po’, poi sorrisero contemporaneamente.
<< È forte tuo padre! >>.
<< Vieni qui e baciami, scemo! >>.
Zosimo non ci pensò due volte.
 
<< Il numero da lei chiamato non è al mo->>
<< Che significa che non è raggiungibile?! Perché quella stupida non risponde? >>.
Giasone era pienamente consapevole che sgridare in quel modo il suo cellulare non avrebbe affatto risolto la situazione, né placato il motivo della sua indignazione.
Osservò ancora una volta con fare rabbioso lo schermo del telefono, imprecò tra i denti quando si accorse che la batteria sarebbe durata ancora per poco tempo e alzò gli occhi al cielo per la frustrazione.
Non aveva altra scelta.
Guardò con il cuore in subbuglio nel petto il portone del palazzo e si domandò ancora una volta perché dovesse avere una fidanzata talmente testarda e stupida da essere costretto a raggiungerla addirittura sotto casa per cercarla.
Giasone aveva creduto che Muriel stesse scherzando quando la sera precedente, dopo averla fatta arrabbiare, lei gli aveva gridato che il giorno prima di partire non l’avrebbe salutato.
Aveva creduto che stesse scherzando perché Muriel restava arrabbiata solo pochi minuti quando lui la faceva esasperare, non gli aveva mai davvero gridato contro con ira, o negato la parola per giorni interi o ore, come invece aveva fatto in quel caso.
<< Forse ho esagerato questa volta? >> Mormorò Giasone tra se e se riponendo il cellulare nella tasca della giacca, sospirò pesantemente e vi avviò con passo deciso verso il citofono, ma poco prima di bussare ritrasse la mano e si morse il labbro inferiore.
Dopotutto perché doveva salutarla a tutti i costi?
Non aveva fatto altro che prenderla in giro per tutto il tempo su quando fosse piagnucolona, sul fatto che fosse troppo gelosa e che sarebbe stato via solo per poco tempo, e allora …
Allora perché si era presentato sotto casa sua per salutarla?
Non sarebbe stato meglio lascarla bollire nel suo brodo per un po’?
Giasone infilò la mano con cui stava per bussare nella tasca della giacca e sbuffò sonoramente, intenzionato ad andare via, ma non appena mosse un piede per allontanarsi cambiò immediatamente idea, ritornò sui suoi passi e guardò attentamente il citofono.
<< Dopotutto forse l’ho stressata troppo … dovrei scusarmi? >>. Commentò incrociando le braccia al petto, qualche passante si girò a guardarlo con fare perplesso nel vederlo comunicare con un citofono << No! Ad ogni modo lei non avrebbe dovuto dire cose del genere! Se ha detto che non mi avrebbe salutato allora deve mantenere la promessa! >>.
Quando ebbe pronunciato quelle parole Giasone si rese conto che in effetti Muriel aveva mantenuto la promessa, erano le sette passate e non lo aveva contattato per tutto il giorno.
Era lui quello che era corso sotto casa sua.
<< Ah! >> Commentò con amarezza, poi rise di se stesso e decise che doveva tornare a casa.
Non aveva senso tutta quella scena, avrebbe provato a chiamarla un’altra volta in tarda serata, e se non avesse ottenuto risposta anche in quel caso sarebbe andato a dormire con l’anima in pace.
Osservò ancora una volta con sguardo minaccioso il citofono, come se fosse il colpevole di tutta la situazione, e si apprestò ad allontanarsi proprio nel momento in cui il portone del palazzo si spalancò facendogli prendere un colpo.
<< Muriel?! >>.
La mora rischiò un infarto quando Giasone gridò il suo nome in quel modo, fece un balzo indietro di alcuni metri e si mise in posizione d’attacco ancora prima di rendersi conto di cosa fosse successo. Sembrava un gatto randagio pronto a scattare.
<< Gia- Giasone?! Cosa ci fai qui? >> Mormorò quando fu la sorpresa a prendere spazio, aveva ancora il cuore che martellava nel petto per la paura, ma lentamente lasciò cadere le braccia e sciolse le mani dalla presa ferma di quei pugni che aveva stretto con vigore.
Giasone la osservò per alcuni istanti, sorpreso, indossava le scarpe da ginnastica sotto i pantaloni di una tuta per correre che gli fasciava le gambe snelle e toniche, un pullover peloso decisamente troppo largo per le sue poche forme e una semplice giacca a vento.
Non era truccata e aveva i capelli in disordine.
Era decisamente troppo sexy in quel modo per i gusti di Giasone.
<< Dove stai andando conciata in quel modo? >>. Si ritrovò a domandare incrociando le braccia al petto, Muriel rivolse un’occhiata veloce al suo abbigliamento estremamente anonimo e fece spallucce, trovando la domanda del fidanzato fuori luogo.
<< A comprare il pane nel supermercato vicino >>
Rispose infilando le meni nelle tasche della giacca, Giasone avrebbe voluto mantenere un’espressione severa, ma il desiderio di abbracciarla non lo aiutava nell’impresa.
Si guardarono negli occhi per un po’, in silenzio.
<< Ti accompagno >>.
Giasone pronunciò quelle parole senza lasciarle il tempo di controbattere o rifiutare l’offerta, perché la sorpassò e cominciò a camminare in direzione del supermercato, a Muriel non restò altro che affiancarlo pochi istanti dopo.
<< Hai preparato la valigia? >> Domandò lei quando il silenzio cominciò a diventare insopportabile e sbagliato.
<< Uhm >> Brontolò Giasone diminuendo inconsciamente la velocità dei suoi passi.
<< Hai preso lo spazzolino? I documenti per viaggiare? La biancheria intima necessaria? Il caricabatteria del cellulare per averlo sempre carico? >>.
<< Si, mamma >> Replicò lui con ironia.
<< Non sei divertente >>.
Cadde nuovamente il silenzio quando Muriel replicò in quel modo serio del tutto estraneo alla sua personalità, camminavano entrambi così lentamente che avrebbero potuto direttamente fermarsi lì, smettere di farlo, e non sarebbe cambiato nulla.
Giasone le risolve un’occhiata di sottecchi e la trovò pensierosa, seria.
<< Davvero non volevi salutarmi? >>.
<< Si, perché sei un brutto idiota, uno scimpanzé peloso e stupido! >>.
<< Wow, con questi insulti potrei offendermi seriamente. Ahia! >>
Giasone non si pentì del suo tono sarcastico nemmeno quando Muriel gli tirò un pugno sulla spalla con tutta la forza bruta che aveva a disposizione, non se ne pentì perché era più da lei.
Era da lei essere chiassosa, chiamarlo scimpanzé e prenderlo a botte.
<< Ci vado da sola a comprare il pane, tornatene a casa! >>.
Sbottò Muriel al colmo dell’esasperazione, affrettando il passo ad una velocità tale che ben presto Giasone la vide a parecchi metri di distanza, con la schiena curva e la postura rigida.
Le gambe gli si mossero da sole, con solamente due falcate fatte di corsa la raggiunse, avvolse le braccia intorno alla sua vita sottile e la tenne stretta a se, con forza.
<< Non posso partire se mi tieni il muso e non rispondi al cellulare >>.
<< Non avevi detto che sono troppo appiccicosa? Allora perché mi abbracci? >>.
Mormorò lei abbassando inevitabilmente il tono di voce, si era resa conto in quel momento di quanto tirasse vento quella sera, non appena Giasone l’aveva stretta a se il corpo le si era riscaldato, si sentiva bene e al sicuro.
<< Non sei appiccicosa … è solo che mi piace stuzzicarti >>.
A seguito di quelle parole rimasero in silenzio entrambi, lasciandosi trasportare da un abbraccio che non si erano mai dati con tale intensità, ignari degli sguardi dei passanti, dell’orologio che avanzava o del vento sempre più forte e insistente.
<< Sai Gias io … non è vero che devo comprare il pane. Stavo venendo da te in realtà >>.
Giasone rimase meno sorpreso di quanto si sarebbe aspettato a seguito di una dichiarazione del genere, si ritrovò piuttosto a pensare per la prima volta di essere stato egoista.
Non era mai stato pienamente sicuro di ciò che provava per Muriel, aveva cominciato quella storia come se fosse stato un gioco, una sfida da superare, una prova a cui dare un voto finale, che fosse stato positivo o negativo non avrebbe avuto importanza per lui.
Invece aveva imparato che l’amore era molto più complicato.
Aveva imparato che senza quella “piattola” sarebbe stato un po’ più difficile vivere da quel momento in poi.
<< Beh, non ne hai avuto bisogno. Alla fine sono venuto io da te >>.
<< Volevo dirti di fare attenzione. Di divertirti con i tuoi amici e di non pensarmi. Di crearti dei ricordi bellissimi, e di fare tante foto e tante sciocchezze >>.
Mentre pronunciava quelle parole Muriel sentì la stretta di Giasone farsi più intensa, sollevò lo sguardo e gli occhi versi rischiarati dalla luce dei lampioni si scontrarono con quelli chiari e limpidi del fidanzato, che la guardava come non aveva mai fatto prima.
<< Sentirò la tua mancanza >>.
Giasone l’aveva capito solo in quel momento che quelle semplici parole erano tutto ciò che Muriel avrebbe voluto sentirsi dire in quei giorni in cui non avevano fatto altro che bisticciare per sciocchezze.
<< Non fare il melodrammatico, è solo una settimana! >>.
Lo rimbrottò lei con il sorriso sulle labbra, ripetendo con ironia quelle stesse parole che lui le aveva detto per giorni solo per esasperarla, Giasone ridacchiò chiudendo gli occhi e per quel motivo rimase piuttosto sorpreso quando Muriel sollevò le punte dei piedi e lo baciò a tradimento, mentre era distratto.
Era strano ricambiare quel bacio al contrario, era scomodo.
Ma Giasone pensò che potesse andargli bene anche in quel modo.
 
<< E se cade l’aereo? E se becchiamo una turbolenza e ci schiantiamo in mare? Non ho nemmeno salutato mia sorella e mia madre come si deve questa mattina! >>.
Telemaco avrebbe volentieri tirato una gomitata al suo vicino di posto e migliore amico, ma era troppo impegnato ad allacciarsi la cintura per ascoltare pienamente i suoi deliri.
Erano appena saliti sull’aereo, Telemaco aveva trovato particolarmente dura svegliarsi alle cinque del mattino per raggiungere il luogo dell’appuntamento con il resto della classe. Aveva sempre detestato i voli aerei che partivano troppo presto la mattina.
Anche se imbarcarsi era stato meno difficile di quanto si era aspettato, non avevano avuto problemi al check-in e nessuno era arrivato in ritardo, contribuendo ad aumentare in questo modo la gioia dei professori che li accompagnavano in gita: Costantino Riva di greco e latino, Enzo Palmieri di storia e filosofia ed Elettra Valente di scienze della terra.
<< Ma che fai Telemaco?! Hai allacciato male la cintura! >>.
Lo strillo di Igor lo distrasse dai ricordi di quella mattina procurandogli la perdita momentanea dell’udito, chiuse gli occhi e cercò di contenere la rabbia o gli insulti, ma fallì.
<< Imbecille che non sei altr- >>. Cominciò a sbraitare, ma prima di poter terminare la frase qualcuno seduto al sedile posteriore gli tappò la bocca.
<< Ti prego, non urlargli contro. Stanotte non ha chiuso occhio per la tensione. È solamente un po’ nervoso >>.
Telemaco avrebbe voluto dirne quattro anche a Zoe in quel momento, prima di tutto perché si era permessa di tappargli la bocca in quel modo, ma in particolar modo perché era sempre troppo accondiscendente quando si trattava di Igor.
Le rivolse un’occhiataccia, per quanto gli fosse realmente possibile in quella posizione scomoda, e annuì vigorosamente, giusto per farle capire che se non l’avesse lasciato andare sarebbe sicuramente morto soffocato.
Zoe lo liberò di scatto e tornò a mettersi seduta con compostezza.
<< Sicura che non se la farà sotto? >>.
La bionda era soddisfatta di se stessa quando gli giunse quella domanda, alzò lo sguardo e vide Enea in piedi proprio di fronte a lei che sistemava distrattamente un piccolo zaino negli scompartimenti alti. Zoe fece per aprire la bocca e ribattere con vigore, quando Beatrice, giunta in quel momento con il biglietto tra le mani, la precedette.
<< Sei seduto qui? Io nel posto dietro il tuo >>. Zoe contrasse le sopracciglia quando Enea continuò a fare quello che stava facendo senza degnare della minima attenzione la sua fidanzata, come se non avesse affatto parlato. Rivolse un’occhiata a Beatrice e la vide mordersi il labbro inferiore con violenza, sembrava afflitta.
Osservò ancora un po’ la scena per cercare di capire meglio cosa stesse succedendo, ma Fiorenza richiamò la sua attenzione facendola distrarre, così fu solamente Oscar, capitato sul corridoio in quel momento, ad assistere allo scambio di battute mancato.
<< Enea, possiamo parl- >>. Tentò di nuovo la riccia allungando una mano per toccare il braccio del fidanzato, ma prima che ci riuscisse Enea chiuse violentemente l’anta dello scompartimento e le diede le spalle.
<< Ehm, scusatemi … >> Intervenne Oscar sventolando il suo biglietto, entrambi si voltarono a fissarlo e lo fecero trasalire, Enea sembrava indifferente, Beatrice afflitta.
<< Enea, se vuoi possiamo far cambio posto. Sono seduto io accanto a Beatrice >>.
Quando Enea lo guardò a lungo Oscar cominciò a dubitare di aver fatto bene a proporre quella cosa, poi guardò di sottecchi Beatrice e si rese conto che lei aspettava avidamente una risposta da parte del suo fidanzato.
<< Ti ringrazio Oscar, ma no. Però conosco qualcun altro che sarebbe felicissimo di sedersi accanto a Beatrice, dico bene? >> E dette quelle parole si chinò verso il suo vicino di posto, un Lisandro piuttosto imbarazzato che osservava fuori il finestrino facendo finta di avere le la musica nelle orecchie al massimo volume.
Oscar ebbe la brutta sensazione di essere finito in un gruppo di pazzi quando si mise seduto accanto ad una Beatrice demoralizzata con le lacrime agli occhi.
Si stava per allacciare la cintura quando Ivan gli passò accanto.
<< Ehi Ivan! Tu dove sei seduto? >> Domandò all’amico fermandolo giusto in tempo, Ivan si fermò di botto, guardò con titubanza il suo biglietto e si morse il labbro inferiore.
<< Sono capitato accanto a … >> E tacque.
Oscar non ci mise troppo a capire a chi si stesse riferendo, era a conoscenza di tutta la situazione e se ne dispiaceva immensamente.
<< Non è … non è che potremmo far cambio posto? Sai, non voglio che Italia pensi che io stia cercando di perseguitarla o altro … insomma … >>.
<< Certo, non c’è problema >> Si affrettò a ribattere Oscar quando vide l’amico in difficoltà, rivolse un’occhiata a Beatrice per vedere se la cosa le andasse bene o meno, ma la ragazza era persa in altri pensieri e non aveva nemmeno seguito la loro conversazione.
Nel frattempo, nascosta nel sedile in prima fila, Italia osservava la scena di sottecchi, aiutata da Catena e Romeo che erano seduti proprio dietro di lei.
<< Ha scambiato il suo biglietto con quello di Oscar >>
Le annunciò Romeo incrociando le braccia al petto con aria svogliata, era sempre di cattivo umore quando si svegliava troppo presto la mattina.
<< Davvero? >> Domandò immediatamente Italia sentendo un tuffo al cuore, poi scosse frettolosamente la testa e si schiaffeggiò le guance << Bene, meglio così >>.
E si ritrasse sul posto quando vide arrivare Oscar, un po’ trafelato e sconcertato.
Avrebbe voluto chiedergli qualcosa, ma proprio in quel momento la voce del professor Riva fece trasalire e ammutolire tutti.
<< Stiamo per partire ragazzi, mi raccomando, allacciate bene le cinture! >>.
Stavano per raggiungere Vienna, e seduta al suo posto Italia ebbe come la sensazione che quell’ultima settimana di Aprile sarebbe stata piuttosto movimentata.
 

 
 
 ______________________
Effe_95

Buonasera a tutti :) 
Sono finalmente riuscita a postare questo capitolo e a sopravvivere alla sessione invernale ( ho dato quattro esami e mi è sembrato di morire -_-"). Allora, non posso trattenermi molto questa volta, quindi lascio commentare a voi le prime due parti. Per quanto rigurda la terza, vi anticipo che per quanto riguarda il viaggio a Vienna credo che vi dedicherò al massimo due capitoli (o forse uno solo, ancora non so), e che verterà più sulle situazioni interne piuttosto che sulla descrizione della città (che io trovo bellissima, tra l'altro). 
E, piccolo spoiler, nel prossimo capitolo scopriremo finalmente la verità sul triangolo Telemaco-Fiorenza-Cristiano ;)
A presto, grazie mille come sempre a tutti per il sostegno.
Siete la mia forza.
Alla prossima :)

Ritorna all'indice


Capitolo 53
*** Ceretta, Mutante e Clessidra ***


I ragazzi della 5 A
 
53.Ceretta, Mutante e Clessidra.

Aprile

A Zoe dolevano i piedi per quanto avevano camminato quella mattina.
Era da giorni che non facevano altro che visitare monumenti, prendere metropolitane e mangiare specialità del posto ascoltando le fantastiche avventure del professor Palmieri.
Zoe si era ritrovata quel giovedì sera con quattro vesciche sui piedi che non le permettevano nemmeno più di indossare un paio di calzini senza provare un dolore estremo.
Si lasciò cadere pesantemente sul letto e osservò con aria afflitta i suoi piedi, lo smalto rosso luccicava sulla punta dell’unghia facendo da specchio alla luce ancora accesa sul soffitto, ma la brutta bolla che aveva sul pollice sembrava spiccare più della pedicure.
<< Vuoi dei cerotti per le bolle? Ne ho portati alcuni >>.
Zoe smise di osservarsi i piedi e portò la sua attenzione su Italia, che era appena uscita dal bagno e aveva tutti i capelli arruffati a causa del vapore. Indossava una camicia da notte lunga fino alle ginocchia tutta merlettata e ai piedi portava dei calzini antiscivolo rosa shocking. La prima sera che l’aveva vista conciata in quel modo Zoe aveva pensato che Italia assomigliasse in tutto e per tutto ad una bambola di porcellana troppo grande.
<< Si, grazie. Altrimenti domani non sarò in grado di uscire da questa camera >>.
Brontolò Zoe riportando l’attenzione sui piedi, Italia alzò gli occhi al cielo e, abbandonato l’asciugamano sul proprio letto, si affrettò a raggiungere il beauty-case dove aveva riposto tutte le medicine d’emergenza, i disinfettanti e i cerotti.
Ne prese un paio e si affrettò a consegnarli alla compagna di classe proprio nel momento in cui la porta della camera si spalancò rivelando la presenza di Fiorenza e Catena, le altre due coinquiline di stanza, seguite da Miki e Sonia, che condividevano invece un’altra stanza con Beatrice. Italia rivolse un’occhiata distratta all’orologio sulla parete e si rese conto che erano le undici passate, orario esatto in cui i professori andavano a dormire e loro si radunavano per fare le ore piccole insieme, sgattaiolando in silenzio nei corridoi.
<< Non manca Beatrice? >> Domandò Zoe osservando le altre che si sistemavano comodamente nella camera, chi sul letto di Catena e Fiorenza, chi su una sedia.
<< Stava finendo di farsi la doccia, ci mette tantissimo tempo a causa dei ricci. >>
Commentò Miki incrociando le gambe in posizione indiana seduta sul letto di Catena.
<< I ricci vanno curati >> Se ne uscì Sonia mentre chiudeva le tende della finestra cercando il più possibile di stare lontana dal gruppo. Non le piaceva l’idea di quegli incontri notturni, dopotutto sapeva che l’avevano invitata solamente per cortesia, ma starsene da sola in camera era troppo triste anche per una dal carattere come il suo.
<< Ci raggiungerà più tardi >> Concluse Fiorenza sistemandosi sul letto accanto alla sua migliore amica, ancora intenta ad applicare i cerotti sulle bolle dei piedi.
<< Ho un favore da chiedervi >> Esordì Miki attirando la totale attenzione delle altre ragazze su di se << Ho bisogno che qualcuno di voi domani mi aiuti a fare la ceretta! >>
E pronunciate quelle parole con aria melodrammatica, sollevò il bordo del pigiama sulla gamba destra mostrando una pelle candida come la neve accarezzata da una peluria quasi completamente inesistente.
<< Ma non si vede niente! >> Proruppe Fiorenza osservando con invidia la gamba dell’amica.
<< Si, ma anche se non si vedono ci sono lo stesso! Il solo fatto che ci siano mi da i brividi>>
Replicò Miki accarezzandosi le braccia come se fosse stata davvero pervasa dai brividi.
<< Ah, ecco perché scappavi da Aleksej allora >>
La prese in giro Italia spintonandola leggermente sulla spalla, le altre scoppiarono a ridere in coro facendola arrossire, perfino Sonia si lasciò andare ad uno sbuffo divertito.
<< Tsz! Alješa dovrebbe vergognarsi per tutti i peli che ha sulle gambe! Sono biondi, è vero, ma ci sono eccome! >> Si lamentò Miki incrociando le braccia al petto con aria teatrale.
<< Già, nemmeno Igor scherza! >>
Le diede man forte Zoe, ottenendo un’occhiata incuriosita dalle altre.
<< A volte mi domando perché dobbiamo sottoporci a torture simili per quegli scimpanzé che non se ne curano per nulla invece! Vorrei vedere uno di loro sottoposto ad una ceretta! >> Brontolò Italia incrociando le braccia al petto.
Nella stanza cadde un silenzio opprimente a seguito di quelle parole, silenzio in cui gli occhi di tutte si incrociarono per una frazione di secondo di comune accordo.
<< Vado a prendere le strisce depilatorie? >> Domandò Fiorenza indicando la sua valigia.
<< Si, lasciate libero un letto! >> Ordinò Miki saltando in piedi << Il primo che becchiamo lo portiamo in stanza con le buone o con le cattive! >>.
<< Anche se fosse Aleksej? >>.
Chiese Zoe, che insieme a Italia si era già diretta verso la porta della stanza.
<< Chiunque sia! >> Sbottò Sonia, che nel frattempo si era completamente animata dimenticando il proposito di fingersi trasparente e invisibile, la prospettiva di torturare un maschio qualsiasi la allettava troppo, segretamente sperava che beccassero Cristiano.
Zoe e Italia si affrettarono a uscire.
Il corridoio era deserto e silenzioso, le due ragazze avrebbero dovuto attraversarlo per raggiungere l’ala maschile, si guardarono negli occhi e con un cenno comune sgattaiolarono in punta di piedi.
Fecero appena in tempo a raggiungere la prima porta che ospitava alcuni dei compagni di classe, che quest’ultima si aprì lentamente rivelando la presenza di Gabriele.
Zoe e Italia sobbalzarono dalla paura quando si trovarono il ragazzo davanti, aveva i capelli tutti spettinati e ingarbugliati, indossava come pigiama una vecchia tuta grigia e una maglietta nera a mezze maniche, sembrava insonnolito e stanco.
<< Che cosa state combinando qui fuori? >> Domandò Gabriele sbadigliando sfacciatamente, senza nemmeno sorprendersi o domandandosi perché sembrassero spaventate e colpevoli allo stesso tempo. 
<< Oh Gabriele, meno male che ti abbiamo trovato! >> Intervenne prontamente Zoe aggrappandosi con tutte le sue forze al braccio del castano, Gabriele aggrottò le sopracciglia e fissò la compagna di classe come se fosse impazzita << Abbiamo bisogno di aiuto! >>.
<< Perché non lo chiedi a Igor? >> Sbottò immediatamente il ragazzo liberando senza troppi complimenti il braccio dalla stretta della compagna di classe, non aveva mai avuto nessun tipo di confidenza con Zoe, e non riusciva a capire se fosse impazzita.
<< È piuttosto urgente in realtà >> Cinguettò la bionda prendendolo nuovamente per il braccio, Gabriele spalancò la bocca per dire qualcosa di altamente maleducato, ma prima che potesse farlo Italia intervenne prontamente evitando di compromettere la situazione.
<< Scusala se fa così, ma siamo davvero disperate! Sonia ha bevuto troppo e adesso … non sappiamo più come fermarla, non potresti darci una mano? >>.
Gabriele le guardò negli occhi per alcuni secondi, valutando la veridicità di quelle parole, poi sospirò pesantemente e scrollò le spalle come se fosse spossato e stanco.
Aveva bevuto un po’ prima di imbattersi nelle due ragazze e si sentiva leggermente intontito e insonnolito, ad ogni modo non aveva nulla da fare e non sapeva come tirarsi indietro.
<< Va bene, vedrò cosa posso fare, ma se fossi in voi lascerei Sonia chiusa fuori al balcone >> Brontolò grattandosi la nuca, e senza aggiungere altro si avviò verso il corridoio femminile.
Le due si scambiarono un occhiolino veloce e lo guidarono fino alla camera giusta.
Quando bussarono ad aprire fu Catena, si affacciò timidamente dalla porta e guardò Gabriele negli occhi con un certo disagio, le dispiaceva che fosse capitata proprio a lui.
<< Ehm, Zoe e Italia mi hanno detto che- >>
<< Si, si, entriamo! >> Lo esortarono le due ingannatrici trascinandolo dentro la stanza.
Gabriele non avrebbe mai pensato in vita sua di ritrovarsi partecipe di una scena grottesca come quella che gli si presentò davanti: si trovava in una camera piena di ragazze che indossavano pigiami succinti, lo fissavano e sembravano tutte perfettamente sobrie.
<< Cosa diavolo sta succ- >> Sbottò girandosi verso Catena con aria indignata, ma venne immediatamente bloccato dal gesto di quest’ultima, che si affretto a chiudere la porta sbarrando la strada per uscire con il suo stesso corpo.
<< Mi dispiace da morire Gabriele! >>.
<< Catena, ma cosa- Ehi! Che cazzo fate?! >>.
Sbraitò Gabriele quando Fiorenza e Miki lo afferrarono saldamente per le braccia, intenzionate a spingerlo verso il letto privato dalle lenzuola.
<< Aspettate tutte! >> Intervenne bruscamente Sonia incrociando le braccia al petto.
<< Tu non eri ubriaca?! >> Sbottò Gabriele rivolgendo un’occhiataccia a Zoe e Italia.
<< Togliti i pantaloni >> Replicò tuttavia Sonia senza scomporsi.
<< Che cosa?! Siete tutte impazzite per caso? Cosa devi vedere che tu non abbia già visto Sonia?! >> Gabriele aveva una voce leggermente isterica mentre pronunciava quelle parole, spintonò senza troppi complimenti Miki e Fiorenza, scavalcò Sonia con una semplice falcata, e si incamminò imbufalito verso Catena, l’unico fragile ostacolo che lo separava dalla fuga, ma prima che riuscisse a raggiungere l’obbiettivo lo afferrarono tutte insieme e lo trascinarono sul letto.
<< Andiamo Gabriele, non fare tutte queste storie!  Abbiamo visto tutte un paio di boxer prima d’ora >> Lo rimproverò Miki sedendosi con tutto il peso sulla sua spalla sinistra per evitare che potesse alzarsi e scappare.
<< Si tratta solo di fare una ceretta >> Lo rassicurò Fiorenza sedendosi sull’altra spalla.
<< Cosa?! >> Strillò Gabriele con aria allucinata, gli sembrava di essere vittima di un brutto sogno << Siete ammattite tutte quante! Smettetela di dire stronzate e lasciat – Ehi! Che fai? Sonia! >> Strillò quando la riccia gli tirò via i pantaloni senza troppi complimenti.
<< Su, non fare storie. Bene ragazze, c’è molto materiale su cui lavorare >>.
Costatò Sonia osservando le gambe del ragazzo come un medico professionista osserverebbe una cartella clinica, Gabriele sospirò profondamente, alzò gli occhi al cielo e si dimenò con tutte le forze, ne aveva avuto abbastanza di quella pagliacciata e non voleva avere il piacere di provare quella fantomatica ceretta.
<< Bloccategli le caviglie! >> Ordinò Miki.
<< Miki, giuro che- Catena! >>.
Strepitò Gabriele quando Catena e Zoe gli bloccarono le caviglie.
<< Mi dispiace Gabriele, perdonami >> Mormorò Catena rossa d’imbarazzo.
Gabriele fece per protestare ancora ad alta voce, tentò di forzare le braccia nel tentativo di darsi la spinta necessaria per rialzarsi, ma con Miki e Fiorenza sedute ostinatamente sulle sue spalle gli risultava piuttosto difficile sollevare anche solo la testa.
<< Non è divertente! Andiamo, perché non lo fate a uno dei vostri ragazzi? >>
Mentre pronunciava quelle parole Gabriele provò come la sensazione di essere particolarmente disperato, gli sembrava che tutta la sua dignità di uomo fosse andata a farsi benedire in pochi secondi.
Non aveva idea di come uscire da quel pasticcio.
<< Abbiamo giurato che ci saremmo vendicate sul primo che capitava >> Spiegò Italia.
<< Vendicarvi?! Ditemi la verità, che cosa avete bevuto? Farò finta che non sia successo nulla domani mattina quin- No! Allontana da me quella roba! Sonia – No! Hiiii >>.
Gabriele non si rese nemmeno conto di aver prodotto un verso stridulo quando Sonia gli attaccò sulla coscia la striscia depilatoria, aveva lo sguardo terrorizzato puntato sulle mani della compagna di classe che sfregavano avanti e indietro sul pezzo di carta nel tentativo di farlo aderire per bene.
<< Per favore, non tirare! Non tirare! Sonia, Sonia, So- Ahhhhhhh! >>.
Gabriele sentì un bruciore terribile irradiarsi per tutta la gamba, si morse convulsamente il labbro inferiore e sentì le lacrime bruciargli gli occhi, decisamente non poteva sopportare un altro strappo come quello.
<< Sonia, forse non avresti dovuto cominciare dall’ inguine >>.
Commentò Miki osservando con sguardo critico la faccia arrossata di Gabriele, il ragazzo le rivolse un’occhiataccia, ma venne immediatamente distratto da Sonia, che si apprestò a preparare un’altra striscia.
<< Vogliamo provare l’interno coscia? >> Chiese Sonia sorridendo amabilmente.
<< No! L’interno coscia no! Qualsiasi cosa significhi no e poi no! >> Strillò Gabriele ancora più rosso, Catena aveva come l’impressione che fosse del tutto esasperato mentre lo osservava alzare gli occhi al cielo.
<< Dà qua Sonia, facciamo cambio, la prossima la strappo io >>.
Gabriele non sapeva se fosse positiva l’affermazione di Zoe, era sicuramente meno violenta di Sonia, ma non gli ispirava la minima fiducia. La bionda si affrettò a far cambio con Sonia e prese la striscia tra le mani come se fosse un giocattolo molto divertente.
<< Zoe, ti prego basta. Mi sembra che vi siate divertite abbastanza no? Parliamone! >>
Protestò Gabriele, mentre osservava con ansia sempre più crescente la compagna di classe che avvicinava la cera al suo polpaccio, fortunatamente per lui, fu proprio in quel momento che la porta della stanza si spalancò di colpo e la professoressa di scienze della terra, Elettra Valenti, entrò tutta scarmigliata con l’aria furibonda.
<< Si può sapere che cosa state comb- >> La donna interruppe di botto la sfuriata quando gli occhi le si posarono sulla figura di Gabriele immobilizzata al letto, dal canto suo Gabriele non avrebbe mai creduto di poter essere più felice di vedere la professoressa.
<< Professoressa la prego mi aiuti! >> Strepitò tentando inutilmente di scalciare.
La professoressa osservò la scena con la bocca spalancata e gli occhi strabuzzati dalla sorpresa, si avvicinò cautamente alla scena e ammirò con occhio critico la striscia depilatoria già utilizzata sul pavimento e la gamba di Gabriele ancora arrossata.
<< Ragazze … >> Cominciò, incrociando le braccia al petto, Gabriele sentì un rivolo di speranza mentre osservava l’espressione contrariata della docente e quella sempre più mortificata delle sue maligne compagne di classe << … il prossimo strappo lo faccio io >>.
Trillò allegra la donna, prendendo la striscia che Zoe le stava porgendo tra le risate generali.
<< Che cosa?! >>.
Gabriele aveva come la sensazione di essere precipitato in un incubo.
 
Igor aveva dimenticato il numero della stanza dove sarebbero stati quella sera.
L’aveva dimenticato anche se Telemaco gliel’aveva ripetuto un milione di volte.
Prima di uscire gli aveva anche raccomandato di segnarlo da qualche parte, ma Igor aveva ignorato la proposta ritenendo che la sua memoria sarebbe stata sufficiente.
Ad ogni modo, era troppo orgoglioso per ammettere di aver sbagliato, avrebbe preferito mille volte vagare per i corridoi come stava facendo piuttosto che telefonare a Telemaco.
Una ramanzina dal suo migliore amico non la voleva proprio sentire.
Osservò con fare critico la porta che gli si stagliava di fronte, aveva segnato sulla targhetta il “317”, Igor aveva come la sensazione che non fosse quello il numero giusto, che la stanza fosse la “318”, ma controllare non avrebbe di certo guastato.
Accostò l’orecchio sulla superficie della porta, ma non riuscì a percepire alcun tipo di rumore, aggrottò le sopracciglia e tentò bussando cautamente; non ottenendo anche in quel caso alcun tipo di risposta pensò di tentare altrove, ma poco prima di allontanarsi sentì una risata rumorosa e senza pensarci troppo tornò sui suoi passi e spalancò la porta.
Probabilmente Igor non urlò a causa dello shock.
Rimase come pietrificato sull’uscio della porta, con lo sguardo ipnotizzato dalle mutande di pizzo semitrasparenti che Beatrice stava indossando in quel momento.
Igor non avrebbe mai pensato in vita sua di poter assistere ad una scena del genere, non era mai stato impulsivo o poco accorto come in quel caso. Era stato stupido da parte sua dare per scontato che la risata maschile che aveva sentito provenisse da quella stanza.
Beatrice invece sembrò impiegare alcuni minuti per comprendere la situazione.
Aveva i capelli bagnati raccolti in un asciugamano, indossava una semplice canottiera merlettata e quel paio di mutande che mai avrebbe voluto far vedere a qualcuno che non fosse stato Enea.
Tanto meno ad Igor.
Beatrice sentì la faccia avvampare di colpo, lasciò cadere a terra la spazzola che reggeva tra le mani e in un atto di estremo pudore si accovacciò a terra strillando a pieni polmoni.
<< Esci fuori immediatamente! >>. Per tutta risposta Igor si portò le mani sugli occhi e prese a strillare di rimando, balbettando confusamente qualcosa di incomprensibile.
Fu solamente quando Beatrice gli tirò addosso la spazzola che Igor si decise ad uscire.
Non si prese nemmeno il tempo di riflettere che spalancò la porta della stanza “318”, traumatizzato e tremante, ritrovandosi gli occhi di tutti i suoi compagni di classe addosso.
Se ne stavano seduti a terra e stesi sui letti, o leggermente brilli o completamente ubriachi, molte bottiglie giacevano vuote sul pavimento e inoltre nella camera tirava un vento gelido a causa del balcone completamente spalancato.
<< Che cosa hai fatto Igor?! >> Gli sbottò contro Enea, era seduto per terra con la schiena appoggiata sul bordo del letto e sembrava leggermente sbronzo, guardava un atterrito Igor con l’aria imbronciata e gli occhi chiari arrossati e lucidi.
<< Sembra che tu abbia visto un mutante >> Continuò Enea agitandogli un dito contro.
<< Mutande? Non ho visto le mutande di nessuno! >>.
Igor strillò talmente ad alta voce che tutti gli altri nella stanza ammutolirono puntandogli gli occhi addosso. Telemaco gli si avvicinò barcollando e lo strinse in una stretta soffocante appoggiandogli il braccio sulle spalle.
<< Di chi erano le mutande? Sei entrato nella stanza sbagliata vero? >>
Biascicò con voce strascicata ridacchiando, Igor avvampò di vergogna, rivolse un’occhiata veloce ad Enea, ancora accigliato, e preso dal panico strappò la bottiglia dalle mani del migliore amico e cominciò a tracannare senza ritegno.
<< MI MANCA! MURIELLLLL! >>
Il grido improvviso di Giasone riverberò nella stanza come il guaito di un cane ferito.
Lui ed Ivan se ne stavano seduti a terra in un angolo, completamente ubriachi, Giasone non riusciva a smettere di piangere e singhiozzare, mentre Ivan di ridere.
<< Sta dormendo? Eh, sta dormendo secondo te? >> Continuò Giasone afferrando Ivan per le spalle, per tutta risposta il moro lo guardò negli occhi, rimase in silenzio per alcuni secondi e poi scoppiò a ridere senza alcun motivo.
Giasone lasciò la presa e tornò a disperarsi da solo.
Mentre osservava quella scena pietosa Igor sentiva la testa girargli terribilmente e lo stomaco bruciare come se fosse stato pieno di acido, come gli era venuto in mente di bere tutto quell’alcol dalla bottiglia di un’altra persona?!
Doveva essere ammattito.
Era stato l’unico a protestare quando Gabriele e Cristiano si erano presentati con quella busta piena zeppa di alcolici, erano maggiorenni entrambi e non avevano avuto problemi, ma gli sembrava stupido passare l’ultima notte in gita conciati in quella maniera.
Tuttavia, ora era brillo anche lui.
<< Vado fuori a prendere un po’ d’aria >>. Replicò Telemaco lasciandolo andare, barcollò fino alla finestra spalancata e poi sparì oltre le tende gonfie di vento.
Igor lanciò un’occhiata distratta a Lisandro, che parlottava da solo nel suo letto, con le guance arrossate e gli occhi lucidi, ed invidiò immensamente Zosimo, che non aveva bevuto un goccio e russava beatamente nel suo letto, per nulla infastidito dal baccano.
<< Credo proprio che vomiterò! >>
Annunciò Aleksej salendo in piedi su una sedia, Igor accolse quell’affermazione con estrema preoccupazione, e quando si rese conto che Aleksej non stava affatto scherzando, afferrò di corsa il cestino della spazzatura e glielo mise sotto il mento giusto in tempo.
Aleksej vi riversò dentro anche l’anima.
<< Oddio che schifo! >> Piagnucolò Igor saltellando sui piedi, non voleva pensare a quanti germi gli stessero contaminando le mani in quel momento.
<< Passalo a me Igor, svel- >> Igor sobbalzò quando Oscar gli comparve affianco all’improvviso, gli strappò il cestino di mano e vi vomitò dentro a sua volta.
<< Oddio, urgh! >> Il suo povero stomaco non avrebbe sopportato un’altra scena del genere, Igor si portò una mano sulla bocca e decise che era meglio abbandonare quella stanza e tornarsene nella sua. Avrebbe dovuto seguire l’esempio di Romeo, restarsene a dormire.
Fece per raggiungere la porta, quando quest’ultima di spalancò di colpo e un Gabriele rosso come un pomodoro, in mutande, furioso e imbarazzato schizzò nella camera e si nascose nel primo letto vuoto disponibile.
Igor doveva decisamente uscire da quel manicomio.
 
Quando Telemaco aveva deciso di prendere un po’ d’aria, l’aveva fatto perché la testa gli girava troppo e non riusciva a schiarirsi le idee.
Tuttavia, non avrebbe mai immaginato di trovare sul balcone anche Cristiano.
Il moro se ne stava seduto su una vecchia sedia di plastica verde, aveva una bottiglia vuota stretta tra le mani, i capelli scombinati mossi dal vento e lo sguardo perso sulla piazza deserta e illuminata che faceva da sfondo ai loro deliri notturni.
Telemaco valutò l’idea di allontanarsi e rientrare, non gli andava di restare da solo con Cristiano, non gli andava di guastarsi l’umore con dei ricordi spiacevoli.
Non voleva che ciò che stava tentando di ricostruire con Fiorenza venisse sporcato di nuovo.
Fece giusto per girare le spalle e scappare quando Cristiano si accorse della sua presenza e si girò a guardarlo; i loro occhi si scontrarono inevitabilmente.
Telemaco trasalì leggermente quando le labbra di Cristiano si stiracchiarono in un sorriso tirato, aveva le gote rosse a causa della sbronza leggera e sembrava di buon’umore.
<< Perché non ti siedi? >> Domandò a Telemaco, indicando con la bottiglia vuota l’altra sedia di plastica, quella dove fino ad un istante prima aveva appoggiato le gambe.
Telemaco non voleva sedersi, c’era una parte di lui che proprio non lo voleva.
Cristiano non gli piaceva, non lo sopportava dal primo anno di liceo, e quando era successo quel disastro con Fiorenza, le cose non avevano fatto altro che peggiorare, per tutti quei motivi Telemaco non si seppe mai spiegare perché alla fine decise di sedersi ugualmente.
La brezza della sera era piacevole sulla pelle accaldata dall’alcol.
A Vienna faceva ancora abbastanza freddo, ma era un toccasana in quel momento, era importante per Telemaco avere la mente funzionante, i pensieri attivi.
<< Cosa fai qui da solo? >> Si ritrovò a domandare, osservando anche lui il panorama notturno e silenzioso della città.
Non si trovavano in periferia, eppure quella sera tutto sembrava avvolto da un silenzio sacro, come se anche il tempo stesso si fosse messo in attesa.
<< Non mi piace bere troppo … >> Commentò distrattamente Cristiano.
Cadde un silenzio di alcuni secondi tra i due, secondi in cui rimasero immobili a riflettere su quanto a volte potesse essere strana la vita.
Nessuno dei due aveva progettato di incontrarsi in quel modo, di parlare, anche solo di tollerarsi, eppure stava succedendo, in un posto diverso che non era casa loro, in un posto che avrebbe visto solo un breve passaggio della loro vita e che li avrebbe cancellati presto.
Che avrebbe cancellato tutto quello che si sarebbero detti quella sera.
<< E poi … >> Riprese Cristiano spezzando l’incantesimo << … oggi è il compleanno di mamma >>.
Telemaco sentì la pelle accarezzata da innumerevoli brividi, ed era piuttosto sicuro che non fosse per il freddo, era stato per il modo in cui Cristiano aveva pronunciato quelle parole.
Con fragilità, con rimpianto, con tristezza, con dolore.
<< Tu mi piaci >>Telemaco trasalì quando sentì quelle parole, era ancora perso nei suoi pensieri, ed era già la seconda volta che Cristiano ne spezzava il filo in quel modo drastico.
Senza contare che aveva detto qualcosa di estremamente imbarazzante.
<< Che ti prende adesso?! Sei impazzito?! >>. Sbottò Telemaco con malagrazia.
Cristiano ridacchiò divertito e fece spallucce.
<< Lo dico perché sono brillo … ma sono serio. Mi piaci perché non mi guardi con pietà >>
L’espressione contratta di Telemaco di distese quasi involontariamente; era vero, non aveva mai guardato Cristiano con pietà, nemmeno il giorno in cui era andato al funerale di sua madre. Non l’aveva guardato con pietà perché non poteva perdonarlo.
Non poteva farlo in nessun caso.
Eppure … eppure in quel momento gli sembrava così triste e solo da spezzargli il cuore.
<< Non dire stronzate … io non sono Zosimo >> Mormorò con poca convinzione.
Cristiano sorrise davvero per la prima volta e Telemaco non riuscì più ad ignorare il suo sguardo, come aveva tentato di fare per tutto il tempo da quando era cominciata quella assurda conversazione.
<< No, direi di no. Zosimo è la persona migliore del mondo per me … ma non dirglielo ti prego, si monterebbe la testa. >>
E ancora una volta arrivò il silenzio.
Un silenzio che non era oppressione, un silenzio che non era costrizione.
Un silenzio necessario.
<< È vero comunque, non provo pietà per te. Perché in realtà io ti disprezzo >>.
Telemaco provò una strana sensazione di sollievo quando confessò quelle parole ad alta voce. E non rimase sorpreso nemmeno quando l’unica reazione di Cristiano fu quella di sollevare le spalle e sorridere ancora una volta.
<< Anche io mi disprezzo Telemaco, è facile farlo >>.
Telemaco sospirò pesantemente e lasciò che una folata di vento più insistente delle altre gli accarezzasse il viso rudemente, quasi come se volesse schiaffeggiarlo con affetto.
Arrivato a quel punto pensò che valesse la pena di andare fino in fondo.
Non ci sarebbe stata più occasione per farlo, almeno non per loro due.
<< Ti disprezzo perché hai sporcato la cosa più bella che avevo >>.
Cristiano provò una strana stretta alla bocca dello stomaco quando sentì quelle parole, sapeva bene cosa significasse sporcare tutto, aveva accarezzato innumerevoli corpi asettici con quelle sue stesse mani, che non gli erano mai sembrate più luride.
Poteva capire cosa significassero le parole di Telemaco.
<< Non ho sporcato nulla … o meglio, non ho sporcato lei. Fiorenza è ancora la cosa più bella che hai. Io non ho permesso che si sporcasse … davvero. Ce l’ho messa tutta >>.
Telemaco trovò le parole di Cristiano piuttosto deliranti e oltremodo ridicole, gli fecero montare una strana rabbia nel petto, una rabbia che lo spingeva con tutte le forze verso il desiderio prepotente di afferrarlo per la collottola della felpa e scaraventarlo a terra.
<< Smettila con ‘ste cazzate! >>
Sbottò stringendo i pugni attorno alla stoffa umida dei suoi stessi jeans.
Cristiano smise di sorridere con amarezza, staccò la schiena dal bordo della sedia e fece oscillare il proprio corpo avanti e indietro, giocherellando con la bottiglia di vetro vuota che ancora stringeva tra le mani ossute e infreddolite.
<< Vuoi che ti racconti tutta la verità? Come sono andate le cose quella sera? >>.
Cristiano non poteva biasimare Telemaco quando assunse un’espressione sconvolta nel sentire quelle parole, sembrava assurdo anche a lui pronunciarle finalmente dopo tutto quel tempo, dopo tutti i danni che aveva causato e il dolore che aveva inflitto.
<< No! >> Sbottò Telemaco di colpo, con foga << Non mi importa più saperlo o meno. Non cambierà quello che provo per Fiorenza, ormai l’ho deciso. La amerà lo stesso, punto! >>
Era difficile per Cristiano non percepire la nota di panico nella voce di Telemaco, il sottile desiderio di conoscere la verità contrapposto alla decisione di non tornare indietro.
Tutto quello era colpa sua, non c’erano né “ma” né vie d’uscita.
<< Fiorenza è vergine Telemaco, io non l’ho toccata nemmeno con un dito >>.
Telemaco ebbe come la sensazione che Cristiano gli avesse appena gettato una valanga di emozioni sulle spalle, sentiva il petto stranamente oppresso, una certa difficoltà a respirare.
Non riusciva nemmeno a muovere i muscoli delle mani.
Era vero che non voleva saperlo, era vero che aveva deciso di amarla lo stesso, ma da qualche parte nel profondo della sua anima, da qualche parte in un posto dove faceva davvero male, il sollievo si fece largo silenziosamente, con passo cauto.
Cominciò ad anestetizzargli il cuore, ad anestetizzare il dolore che aveva provato fino a quel momento.
<< Ero andato in bagno perché me la stavo facendo sotto >> Cominciò a raccontare Cristiano, mentre faceva oscillare pericolosamente la bottiglia nel vuoto come se fosse stata una vecchia clessidra << Avevo bevuto parecchio ma non ero del tutto fuori di me. Quando ho aperto la porta del bagno, ho trovato Fiorenza piegata in avanti sul lavandino. Era svenuta suppongo … o forse in dormiveglia, non lo so. >> Fece spallucce e sospirò profondamente, come se gli risultasse difficile raccontare dopotutto.
<< Ad ogni modo, non era piegata sul lavandino di sua spontanea volontà. Un tizio le aveva bloccato le mani in avanti e stava cercando di sbottonarle i jeans … >>.
Telemaco trasalì quando sentì quelle parole, il movimento fu talmente brusco che Cristiano smise di parlare e tornò a fissarlo, ma si pentì immediatamente di averlo fatto.
Quegli occhi erano davvero troppo da reggere, quello sguardo sconvolto, scioccato, ferito, impaurito era davvero troppo per lui.
Avrebbe dovuto smettere di raccontare, avrebbe dovuto smetterla, alzarsi da quella sedia e andarsene a dormine, oppure passare un’altra notte in bianco soffocato dai sensi di colpa.
Sarebbe stato meglio, qualsiasi tortura sarebbe stata meglio di quello.
<< Continua! >> Quello di Telemaco fu quasi un ruggito, il ruggito di un animale braccato.
Cristiano si lasciò ricadere con la schiena sul bordo della sedia e chiuse gli occhi.
Si domandò chi mai avrebbe potuto ricucire i pezzi strappati di quell’indegna scena.
<< Te la faccio breve. L’ho pestato, ho preso Fiorenza sotto il braccio e sono uscito fuori >>.
Quando Cristiano tacque Telemaco si lasciò andare ad un sospirò così trattenuto che assomigliò terribilmente ad un singhiozzo strozzato, ad un emissione di colpa.
<< L’ho persa d’occhio solo per alcuni minuti … >> Mormorò infilandosi le mani tra i capelli.
<< Lo so che non mi credi, so che non vuoi farlo, ma … >>
<< E invece ti credo dannazione! >> Telemaco pronuncio quelle parole con una tale rabbia, mordendosi così furiosamente il labbro inferiore, che Cristiano non poté fare altro che tacere << Perché lei me l’ha detto così tante volte … così tante … Oh, dannazione! >>.
Cristiano smise di fare oscillare la bottiglia, la guardò per un istante e sorrise, aveva finalmente ribaltato la clessidra, il tempo aveva ripreso a scorrere e non era più necessario che lui continuasse a parlare.
Non si era tolto nessun perso dalla coscienza.
Non l’aveva fatto per se stesso o per Telemaco, né tanto meno per Fiorenza.
L’aveva fatto per Sonia, l’aveva fatto per Marta, per Zosimo.
L’aveva fatto per sua madre, dopotutto. Non per se.
Non voleva il perdono, non voleva nessuna espiazione.
Voleva solamente andare avanti e sopravvivere un altro giorno ancora.
Si tirò finalmente in piedi e gli sembrò di essere stato seduto un’eternità quando la schiena protestò dal dolore, si stiracchiò come un gatto assonnato e lasciò la bottiglia vuota per terra, accanto ad un vaso tutto sporco di terra vecchia.
Non voleva nemmeno più guardare Telemaco negli occhi, non voleva sapere come sarebbe finita quella storia viennese, era sicuro che sarebbe rimasta sepolta su quel balcone, in una fresca notte d’aprile, tra una bottiglia vuota, un vaso sporco e delle sedie di plastica.
<< Perché ti sei preso quel pugno allora? >> Cristiano non rimase sorpreso dalla domanda di Telemaco né si girò a guardarlo, semplicemente non gli importava granché << Perché mi hai fatto credere per tutto questo tempo che le avevi messo le mani addosso?! Lurido figlio di puttana, pezzo di merda che non sei altro?! Eh? >>.
Cristiano ridacchiò quando sentì tutti quegli epiteti, aveva già raggiunto la finestra e riusciva a vedere Giasone ed Ivan che dormivano abbracciati sul pavimento.
<< Beh, dopotutto mi hai dato un pugno Telemaco. Per quanto io sia apatico mi hai fatto incazzare. E poi lo trovavo divertente e non me ne fregava niente di voi due. Non avevo né confermato, né smentito. E tu non me l’avevi chiesto. >>
<< Stai dando la colpa a me, idiota?! >>
<< E poi … >> Continuò Cristiano come se nulla fosse << Mi avresti mai creduto se avessi raccontato la verità? Avresti mai creduto, ad un tipo come me? >>
Telemaco rimase seduto su quella sedia per buona parte della notte.
Non gli importò del freddo sempre più pungente, del fatto che avrebbe potuto prendere un raffreddore, o che qualcuno da dentro avrebbe potuto chiuderlo fuori.
Io non ho permesso che si sporcasse …
Quelle parole gli stavano lentamente logorando il cervello, avrebbe voluto scacciarle, dimenticarle, avrebbe voluto prendere Cristiano e gridargli contro prenderlo a cazzotti fino a sfogarsi, a calci, a morsi, l’avrebbe fatto consapevole che nulla sarebbe cambiato.
Che quel sollievo nel cuore non aveva fatto altro che confermargli una cosa, per quanto fosse penoso provarlo, per quanto fosse triste averlo sperato così profondamente nonostante i suoi propositi.
E quella cosa era che avrebbe amato Fiorenza molto, molto di più.
E se stesso, ed il suo egoismo, molto, molto di meno.
 
 
_________________________________
Effe_95
 
Buonasera, sono tornata :)
E questa volta direi con un tempo molto più decente rispetto a quello dell’ultima volta xD
Allora, so che molto probabilmente starete pensando che io sia impazzita, mi presento con un capitolo del genere! È un vero e proprio delirio lo so, e molto probabilmente potrebbe essere anche un vero e proprio obbrobrio.
Il mio intento era semplicemente quello, per una volta, di mostrate come alla fine i protagonisti di questa storia non siano altro che ragazzi. Ragazzi come tutti gli altri che, anche se hanno a che fare con cose più grandi di loro la maggior parte delle volte, anche se mostrano una maturità a volte eccessiva, fanno le ore piccole durante una gita, bevono, si ubriacano, dicono sciocchezze e si fanno la ceretta.
Ecco, spero che tutto questo sia venuto fuori.
Inoltre, volevo anche fare in modo che le prime due parti, così spensierate e ironiche (o almeno spero che vi abbiano strappato un sorriso, perché sono una frana con queste cose) facessero un po’ da contrappeso alla terza.
È così è venuta fuori tutta la faccenda tra Telemaco, Fiorenza e Cristiano.
Questo è quello che io ho sempre avuto in mente dall’inizio, né più né meno, so che probabilmente non lo troverete originale, qualcuno potrà restarci male, ma davvero non avevo altro in mente se non questo fin dall’inizio.
E quello che ho scritto non l’ho fatto per rendere Cristiano un personaggio migliore o altro, dopotutto lui non ha parlato per mesi, ha fatto credere a Telemaco e Fiorenza quello che voleva lui, e non avrebbe affatto parlato se non fosse stato per l’alcol.
Come ha detto lui stesso, non lo fa per redenzione.
In realtà potete pensarla un po’ come volete in questo senso, sarò curiosa di sapere cosa ne pensate.
A quanto pare inoltre, lo scorso capitolo deve essere stato davvero tremendo, siccome ha avuto solo una recensione xD Chiedo perdono.
Ah, poi volevo informarvi del fatto che probabilmente un’altra decina di capitoli e la storia si concluderà, sta entrando nella fase finale ;)
Ora vi lascio che ho sproloquiato anche troppo xD
Alla prossima spero :)  
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 54
*** Vergogna, Cd e L’ottava. ***


I ragazzi della 5 A
 
54.Vergogna, Cd e L’ottava.
 

Maggio

Beatrice aveva come la sensazione che sarebbe impazzita.
O forse impazzita lo era già, doveva essere così dopotutto, se aveva avuto il coraggio di farsi dare da Lisandro il numero di Daniele, chiamarlo, e organizzare insieme a lui un piano diabolico per incastrare Enea e costringerlo a parlare con lei.
Era da più di tre settimane ormai che Beatrice non riusciva a dormire bene, da quando aveva fatto l’errore di ferire immotivatamente la persona a cui teneva di più in quel momento dicendo cose che non pensava davvero, cose imperdonabili.
Era stato inutile tentare di parlare con Enea, ogni volta che provava ad avvicinarsi, che gli si rivolgeva direttamente o tentava anche solo di guardarlo, lui o la ignorava o lanciava frecciatine talmente cattive che la lasciavano paralizzata sul posto senza poter reagire.
Faceva male, era insopportabile, ma non aveva scuse per quella sofferenza.
Era solo colpa sua se stava male.
Era solo colpa sua se Enea stava soffrendo, era colpa del suo egoismo e del suo pessimo carattere, delle sue stupide paure.
Non poteva fingere di non essere agitata, non poteva fingere nemmeno di fronte a Daniele che la stava guardando proprio in quel momento, mentre se ne stava seduta sul letto di Enea contorcendosi le mani.
Il ragazzo era invece appoggiato con una spalla sullo stipite della porta, le braccia incrociate al petto e una strana espressione sul viso, un’espressione indecifrabile che metteva Beatrice in imbarazzo. Non aveva molta confidenza con Daniele, in effetti aveva parlato con lui faccia a faccia solamente un paio di volte.
<< Io- >> Cominciò a balbettare, per poi interrompersi e schiarirsi la voce << Io ti ringrazio per avermi aiutata oggi. Lo so che probabilmente ti avrò dato una bruttissima impressione chiedendoti una cosa del genere, ma->>.
<< Ti riferisci al fatto che ti abbia fatta entrare in camera di Enea senza il suo permesso e mentre era fuori casa? Non devi ringraziarmi, per me è una cosa normale invadere il suo territorio >>. Daniele la interruppe immediatamente ed entrò finalmente nella stanza del fratello più piccolo, mettendosi seduto senza troppi complimenti sulla sedia girevole della scrivania, ingombra solo di un computer portatile di ultima generazione in standby.
Quando lui le puntò gli occhi addosso Beatrice non poté fare a meno di abbassare lo sguardo, imbarazzata e intimidita.
 Aveva sempre pensato che Daniele fosse l’esatto opposto di Enea, solare, allegro, aperto ed espansivo; anche se si assomigliavano in alcuni aspetti fisici erano come il sole e la luna, ma entrambi avevano lo sguardo tipico di chi sa leggere.
Di chi sa leggere l’anima.
<< Sai, non so cosa sia successo esattamente tra di voi >> Daniele riprese a parlare come se niente fosse, divertendosi a girare prima a destra e poi a sinistra con la sedia << Enea non me lo direbbe mai, introverso com’è, ma … Beh, si, è decisamente giù di corda ultimamente >>.
Beatrice si lasciò andare ad un sospiro pesante e sciolse finalmente la posizione rigida delle spalle. In quel momento le sembrava stupido aver organizzato quell’incontro.
<< È colpa mia >> Confessò guardando Daniele negli occhi per la prima volta, provava un’enorme vergogna per quello che aveva fatto e per quello che aveva detto.
Era stata impulsiva, esagerata, quando Enea le aveva raccontato la verità non aveva fatto altro che aggredirlo, accusarlo, incolparlo di non pensare a lei.
In verità Beatrice sapeva benissimo che era stata lei a non pensare affatto ad Enea.
Quando lui aveva avuto bisogno della sua comprensione, del suo consiglio, lei era scappata e gli aveva gettato addosso solo veleno, aveva detto parole che non avrebbe mai dovuto pronunciare, non contro di lui, mai contro di lui.
Adesso sapeva che poteva essere troppo tardi.
Sapeva che Enea avrebbe potuto lasciarla, mandarla a quel paese, che avrebbe potuto pensare che dopotutto non ne valesse la pena, soprattutto con lei, ma …
Ma Beatrice lo amava troppo per lasciarlo andare in quel modo.
Aveva capito di amarlo talmente tanto che le sembrava il cuore potesse esplodere nel petto da un momento all’altro.
E tutto quell’amore … tutto quell’amore avrebbe voluto dimostrarglielo.
Avrebbe voluto che lui glielo permettesse.
<< Tuo fratello sta così per colpa mia. In realtà, gli ho detto una cosa terribile che non può perdonarmi. Non ho fatto altro che renderlo infelice per tutto il tempo >>.
Daniele smise di giocare con la sedia e per la prima volta da quando aveva fatto entrare Beatrice in casa, da quando aveva progettato con lei al telefono quella sottospecie di agguato, la guardò senza traccia di ironia nel volto, le parlò con serietà.
<< Avete litigato per la borsa di studio che ha vinto vero? Ti sei arrabbiata e gli hai chiesto di non partire, giusto? L’hai accusato di non aver pensato a te >>
Beatrice non rispose alle domande di Daniele, riteneva che non ce ne fosse bisogno, che la sua espressione mortificata potesse valere come tale.
<< Beatrice, almeno sai come ha vinto quella borsa di studio? Sai in cosa l’ha vinta? >>.
<< No … >> Mormorò Beatrice stringendo i pugni delle mani, aveva le nocche bianche dalla tensione e le lacrime che le pungevano gli occhi, si era preoccupata così tanto di non scoprirsi troppo, di fare attenzione a non lasciarsi ferire, di proteggere se stessa, che per Enea non aveva avuto il minimo riguardo.
<< Enea vuole diventare un graphic designer. È bravo. Papà lo ha iscritto a sua insaputa ad un concorso straniero, e lui ha vinto il primo posto insieme ad una borsa di studio che gli permette di studiare in una delle scuole più prestigiose del mondo per un anno >>.
Beatrice rimase come paralizzata nel sentire quelle parole, Enea non le aveva detto nulla, non le aveva mai detto cosa volesse fare da “grande”, cosa gli piacesse.
Quelle lacrime che stava cercando di trattenere scesero silenziosamente sulle sue guance, senza fare rumore ma incredibilmente comunicative.
<< L’unico motivo che gli impedisce di andarci, sei tu. >> Continuò Daniele, il ragazzo spostò la sedia in avanti e prese le mani di Beatrice con gentilezza, nonostante non avessero confidenza << Adesso devo parlare come un fratello maggiore, devi capirmi. Ti prego di lasciarlo andare, è del suo futuro che stiamo parlando. E no, non sto dicendo che nel suo futuro tu non debba esserci, al contrario! Lascialo andare con la tua benedizione, lasciagli sapere che lo aspetterai qui quando tornerà, che sarai orgogliosa di lui >> .
La stretta di Daniele si fece più forte, ma restò sempre gentile, anche quando Beatrice si morse il labbro inferiore e pianse un po’ più ad alta voce.
<< Sono già orgogliosa di lui >> Mormorò tra i singhiozzi trattenuti, Daniele le sorrise.
<< Se davvero lo ami, e so che lo ami, allora diglielo, allora fai in modo che lui lo sappia e vada lì con questa consapevolezza. >>
Tra i  due cadde un silenzio inevitabile a seguito di quelle parole, Daniele continuò a tenerle le mani ancora per un po’, almeno fino a quando i singhiozzi non smisero di scuoterla e il respiro tornò ad essere regolare.
Quando finalmente gliele lasciò andare, si riavvicinò alla scrivania e cominciò ad armeggiare con il computer di Enea mentre Beatrice si asciugava il viso.
<< Io adesso vado via. Come ti ho spiegato i miei sono fuori città, mentre Enea dovrebbe tornare tra un po’, quindi hai tutto il tempo che ti serve >> Chiarì Daniele tirandosi in piedi, Beatrice lo seguì con lo sguardo fino a quando il giovane non si fermò sulla soglia e le sorrise, nuovamente con quell’aria malandrina ad accompagnarlo.
<< Nel frattempo, ti ho messo il disegno che ha fatto vincere ad Enea il concorso, se vuoi guardarlo … >> E con quelle parole se ne andò lasciandola sola nella stanza, Beatrice era così distratta che non sentì nemmeno il rumore della porta di casa che si chiudeva.
Rimase seduta su quel letto troppo grande per una sola persona, con le mani ancora strette sui jeans, gli occhi arrossati e le guance rigide a causa delle lacrime asciugate di fretta.
Non seppe mai dire quanto tempo passò prima che decidesse di alzarsi da quel letto e seguire il consiglio di Daniele, ma quando mosse la freccetta del mouse sulla pagina in standby e diede un’occhiata al lavoro di Enea, le gambe le cedettero e fu costretta a sedersi.
Si portò una mano sulla bocca e le lacrime si affacciarono nuovamente nello specchio dei suoi occhi, di quegli stessi occhi che la stavano fissando di rimando dallo schermo.
Enea aveva ritratto lei.
Lo stesso sguardo severo, l’espressione corrucciata, i lineamenti del viso marcati e le ombreggiature al punto giusto, i capelli ricci e ribelli sembravano esplodere e fondersi contemporaneamente con lo sfondo del disegno, incorniciato in un turbinio di colori che richiamavano l’autunno e comunicavano serenità.
Era più di un semplice ritratto, era più di un lavoro fatto magistralmente con una tavola grafica su un computer; era la sua anima quella che vedeva in quel disegno.
Era lo sguardo che Enea aveva su di lei.
Era il modo in cui lui la vedeva.
Beatrice appoggiò entrambi i gomiti sul piano della scrivania e pianse nuovamente, pianse come una bambina, senza controllo, stringendo forte i capelli tra i pugni delle mani, singhiozzando, lamentandosi, desiderando che lo schermo tornasse nuovamente ad oscurarsi, perché non era mai stata bella come in quel ritratto.
<< Stupido, stupido, stupido che non sei altro! >> Singhiozzò tra i sussulti, continuando a tenersi i capelli tra le dita, il viso nascosto dalle braccia, i gomiti doloranti sul piano duro della scrivania << Non ti merito, non merito niente! >>.
<< Dio mio Beatrice, cos’è successo?! >>.
Beatrice perse totalmente il controllo quando sentì la sua voce.
Nel suo pianto disperato non aveva sentito la porta di casa aprirsi, né i passi di Enea nel corridoio, ma quando aveva sollevato lo sguardo e se l’era ritrovato lì davanti, sulla soglia della porta, era scattata in piedi senza pensarci.
Era saltata in piedi e gli si era gettata contro per stringerlo.
Enea era così sorpreso che rimase sulla soglia con le braccia spalancate, come se toccarla non fosse nemmeno tra le possibili opzioni di come comportarsi in quella situazione; sapeva che avrebbe dovuto provare rabbia, infuriarsi, respingerla e chiederle cosa diamine ci facesse nella sua stanza, ma Beatrice non l’aveva mai stretto in quel modo.
Beatrice non l’aveva mai toccato con quell’intimità.
E poi, quando l’aveva sentita singhiozzare in quel modo violento, seduta in quella posa sofferente di fronte al disegno che gli aveva permesso di vincere il concorso, e Dio solo sapeva come avesse fatto Beatrice a trovarla, tutta la sua amarezza se n’era andata via.
Enea si sentiva come uno di quei bambini estremamente lunatici.
Era stato arrabbiato per così tanto tempo in quelle settimane, aveva lavorato così duramente per evitarla, risponderle male, per farle capire che non l’avrebbe mai perdonata ...
In quel momento gli sembrava vana quella sua opposizione.
<< Sono un’egoista. Non ti merito, lo so. Mi dispiace così tanto per quello che ti ho detto.>>
Non appena Beatrice cominciò a parlare, tenendolo sempre stretto nella sua morsa, Enea provò il forte desiderio di farla tacere, un moto di stizza che non riuscì a controllare.
Sciolse la sua rigida posizione e costrinse Beatrice a lasciarlo andare.
Quando fu libero dall’abbraccio soffocante di lei, Enea si avvicinò in fretta al computer, dandole le spalle, e lo spense come se volesse cancellare quella scena.
<< È stato Daniele a farti entrare in casa? >>
Non era quello che Enea avrebbe voluto domandarle, ma si era chiuso come un riccio ormai da troppo tempo, e non era mai stato un tipo incline ad aprirsi.
Beatrice l’aveva ferito più di quanto ad Enea piacesse ammettere.
<< Enea, lo so che non ti fidi più di me ormai. Sono stata pessima con te, ma- >>
Beatrice cominciò a parlare con impeto, ignorando totalmente la domanda di Enea, ma a lui non stava bene che le cose andassero così, non voleva affrontare quell’argomento.
Era impreparato.
<< Ti ho fatto una cazzo di domanda?! >> La aggredì.
<< Non me ne fotte della sua domanda! Sto cercando di dirti che voglio tu vada a studiare all’estero cazzo!  >> Beatrice alzò così tanto la voce che Enea ammutolì, guardandola con espressione scioccata << Voglio che tu ci vada! Voglio che firmi quei documenti, e che tu faccia tutto quello che devi fare dannazione! >>.
Beatrice aveva il fiatone, si portò una mano sullo stomaco e prese un respiro profondo.
Doveva essere stravolta in quel momento, avere la faccia rossa, i capelli scombinati, doveva sembrare una vera folle agli occhi di Enea, così tentò di calmarsi.
<< E non lo dico per farti contento. È vero che all’inizio non volevo, quelle cose le pensavo davvero, ma poi ci ho riflettuto. Ho riflettuto su cosa avrebbe significato per te, e ho capito che dovevo lasciarti andare. Quindi voglio lasciarti andare, lo voglio davvero >>.
Beatrice pronunciò quelle parole con più calma, guardandolo negli occhi.
Enea ricambiò con altrettanta impassibilità.
<< E come mai hai cambiato idea? Mi sei sembrata abbastanza convincente quella volta. Anzi, ad essere sincero credo mi chiedo perché ne stiamo ancora parlando. >>
Beatrice sentì il cuore richiudersi come un portafoglio all’interno del petto.
Cosa stava dicendo Enea, voleva davvero farla finita?
No, non poteva farlo, lei aveva ancora così tante cose da dirgli, così tante cose da farsi perdonare, così tante, tante, tante che …
Se davvero lo ami allora diglielo.
Le parole di Daniele le risuonarono nella testa quasi come un grido, inaspettate.
<< Perché ti amo >>.
E dirlo fu facile e natura come respirare.
Enea sentì il proprio corpo irrigidirsi automaticamente nel sentire quelle parole.
Quelle parole che mai nessuno gli aveva detto prima, quelle parole che mai avrebbe creduto di poter sentire dalla bocca di Beatrice, non da lei che era così chiusa, introversa, fredda.
<< Perché amo tutto di te. Perché per amore posso fare un passo indietro, posso mettere la  tua felicità al primo posto. Posso aspettarti per un anno. Posso non avere paura né vergogna di chiederti perdono. Posso dirti di essere orgogliosa di te. Perché per amore io- >>.
Beatrice non riuscì nemmeno a terminare la frase che Enea la afferrò per le braccia, la tirò verso di se e la baciò, fu uno slancio di tale impeto che Beatrice cadde a finendo distesa sotto di lui sull’ampio letto.
<< S-scusa … >> Balbettò Enea tentando di tirarsi su, scosso, sconvolto da quel gesto completamente privo di razionalità. Ma prima che potesse scostarsi Beatrice gli posizionò le braccia dietro al collo e lo tenne giù, completamente schiacciato sul suo corpo.
<< Ti amo >> Gli sussurrò di nuovo ad un centimetro dalle sue labbra.
Enea rabbrividì, sentì la pelle d’oca attraversargli le braccia scoperte e in tensione.
<< E adesso, fa l’amore con me >>.
 
Italia aveva sempre avuto il desiderio di entrare in quel negozio.
Ci era passata davanti un’infinità di volte, ma non l’aveva mai fatto.
Era stata attratta principalmente dall’odore di antico che emanava quel posto, dai vecchi dischi esposti in vetrina, da quelli più recenti messi in un carrello sulla strada con dei prezzi stracciati, e dagli immensi scaffali che aveva intravisto.
Non seppe spiegarsi perché quel giorno avesse deciso di entrarvi, ma la prospettiva di tornare a casa e stare da sola con i propri pensieri, o di sentire sua sorella Eleonora che continuava a domandarle perché Ivan non venisse a pranzo da loro, le aveva guastato l’umore. Inoltre si sentiva stanca, era rimasta due ore dopo scuola con il professor Riva a preparare gli ultimi argomenti della sua tesina e non aveva nemmeno pranzato decentemente.
Italia era convinta che le avrebbe fatto bene distrarsi un po’.
Così non ci pensò due volte ad aprire la porta tintinnante ed entrare in quel vecchio negozio di musica. Era un ambiente confortevole, gli scaffali pieni di cd e vecchi dischi si inerpicavano fino al soffitto creando dei corridoi e delle sezioni suddivise per lettere.
Italia rimase colpita quando si rese conto che il negozio in realtà era tutto tranne che piccolo, infatti aveva altre due stanze laterali, una dedicata agli strumenti musicali e l’altra agli spartiti e ai libri di cultura generale sulla musica.
Cominciò a vagare distrattamente tra gli scaffali sfiorando con le dita i titoli di alcuni album famosi, ritrovandosi inevitabilmente a ripetere mentalmente tutti i nomi di quei cantanti di cui Ivan le aveva parlato incessantemente nelle ore trascorse insieme.
Si sorprese di pensare a quei momenti come ricordi piacevoli, erano già trascorse più di tre settimane da quando aveva deciso di prendersi quella “pausa di riflessione”, prima pensare ad Ivan la faceva arrabbiare, provare amarezza, tristezza, ma in quel momento …
In quel momento si rese conto che invece le piaceva ricordare le cose che avevano fatto insieme.
Italia si ritrovò a sfilare dagli scaffali alcuni album in offerta senza neanche farci caso, le era appena venuto in mente che Ivan li voleva comprare all’epoca, ma siccome aveva speso tutti i suoi risparmi per l’ennesimo tatuaggio, non aveva potuto acquistarli.
Era passato troppo tempo da quando gliel’aveva detto?
Possibile che Ivan li avesse già comprati?
Dopotutto, lui era stato davvero bravo a non starle addosso in quel periodo.
Era stato anche troppo bravo, eppure Italia era convinta che dopotutto Ivan doveva essere stato davvero male. Forse era stato molto peggio di lei.
L’aveva amata in silenzio per cinque anni, quei cinque anni in cui lei aveva pensato solo a se stessa e di lui non aveva avuto altro che una stupida opinione da compagna di classe.
Era normale che lui avesse provato a dimenticarla, Italia l’aveva capito e accettato.
Era stata proprio quella bugia che non aveva tollerato, le aveva fatto così male in quel momento sapere che lui le aveva mentito, eppure …
Eppure si ritrovò a pensare che fosse vero il detto che il tempo curava tutte le ferite; nel suo caso, l’aveva fatto positivamente. Aveva preso la decisione giusta nel prendersi una pausa, e non perché non avesse avuto paura di poterlo perdere per sempre nel frattempo, ma perché quel tempo le era servito per ragionare.
Le era servito per rendersi conto che aveva reagito d’impulso, che non era nulla che non si potesse risolvere parlando, o semplicemente lasciando correre le cose, cercando ancora con maggior forza di costruire qualcosa insieme che avesse basi più solide.
Aveva raggiunto la fine degli scaffali, alla lettera zeta, senza nemmeno accorgersene, riusciva anche ad intravedere la cassa dietro cui era seduto un signore anziano intento a leggere un vecchio libro dalla copertina ingiallita.
Osservò con fare critico la pila di cd che aveva preso e decise che dopotutto avrebbe rischiato acquistandoli.
Voleva proprio dirlo ad Ivan quello che aveva imparato.
Voleva proprio creare altri bei ricordi con lui, e dimenticare tutte quelle stupidaggini.
Fece per raggiungere la cassa, quando con la coda dell’occhio intravide la porta spalancarsi ed Ivan entrare nel negozio. Italia fu così sorpresa di vederlo lì che rischiò di far cadere tutti i cd per terra, anche se si rese conto solo in quel momento di aver camminato tutto il tempo sulla moquette, e che lì i cd non avrebbero fatto molto rumore.
Si nascose meglio dietro lo scaffale e osservò il moro di sottecchi.
Doveva immaginarlo che Ivan frequentava quel negozio, era proprio da lui.
Indossava una maglietta a mezze maniche di diverse tonalità d’azzurro che andavano scurendosi mano a mano, dei jeans stracciati pieni di catene rumorose, un paio di scarponi ai piedi, portava il casco sotto braccio e aveva i capelli appiattiti sulle tempie.
Italia lo vide avvicinarsi alla cassa con passo deciso, l’uomo dietro il bancone si aprì in un sorriso radioso non appena lo vide, gli diede una pacca sulla spalla e gli scombinò i capelli come avrebbe potuto fare un nonno con il proprio nipote.
<< Giovanotto, era da un po’ che non ti facevi vedere! >>.
Esordì l’uomo dandogli una forte pacca sulla spalla.
<< Mi spiace signore, ho avuto da fare con la scuola … >>.
Si giustificò Ivan grattandosi la nuca con imbarazzo.
<< Hai speso tutti i tuoi soldi per un tatuaggio vero? >> Lo canzonò l’uomo con aria bonaria, Ivan arrossì fino alla radice dei capelli e cominciò a farfugliare qualcosa, ma il vecchio scoppiò a ridere fragorosamente e gli assestò un’altra pacca sulla spalla.
<< Lo sapevo! Comunque non preoccuparti, ti ho messo tutti i cd da parte >>.
Gli sussurrò con aria cospiratoria, facendogli l’occhiolino, Ivan sorrise radioso e alzò i pollici.
<< Verrò a prenderli appena possibile. Oggi sono passato per l’ordine di Gias >>.
Italia non si sorprese che quell’uomo conoscesse anche Giasone, doveva essere da una vita che entrambi frequentavano quel posto, tutti e due fanatici di musica già dall’infanzia.
Si ritrovò a sorridere mentre osservava distrattamente l’uomo tirare fuori da uno dei cassetti della scrivania che usava come cassa un pacco ben fatto e scambiare qualche altra parola con Ivan.
Aspettò fino a quando il ragazzo non uscì dal negozio, poi sbucò da dietro lo scaffale e si diresse con passo spedito verso il bancone. L’uomo le rivolse un caldo sorriso quando la vide avvicinarsi, Italia ricambiò e gli mostrò con cautela i cd che aveva raccolto.
<< Mi scusi signore, sono questi i cd che aveva messo da parte per il ragazzo che è appena uscito? >> Domandò con cautela, il vecchio osservò prima i cd con aria seria, poi la guardò negli occhi per un tempo che le sembrò infinito ed annuì mestamente.
<< Si signorina, come … >>.
<< Li prendo tutti allora >>. L’uomo la guardò battendo le palpebre, poi si affrettò a preparare una busta e lo scontrino alla cassa.
<< Ma lei chi è signorina? Un’amica di Ivan? >> Le domandò mentre le porgeva il resto e la busta, Italia gli rivolse un altro sorriso e allungò la mano per prendere i suoi acquisti.
<< Sono la sua fidanzata >>.
 
Enea aveva asciugato otto lacrime.
E le aveva contate tutte, dall’inizio alla fine.
La prima era scesa quando le aveva baciato la scollatura del reggiseno, lì sulla pelle morbida e candida attraversata da una leggera pelle d’oca. L’aveva sentita sussultare sotto il tocco della sua mano sul fianco sensibile, irrigidire quando aveva cominciato a giocare con l’elastico dei suoi slip. L’aveva sentita inarcare la schiena ed accelerare il respiro mentre seguiva con un dito il profilo del suo ventre piatto fino all’ombelico.
La seconda lacrima Beatrice l’aveva versata quando Enea le aveva baciato la fronte, accarezzato i capelli e guardata come se fosse la cosa più bella del mondo, come se il suo corpo, così tremendamente esposto al suo sguardo, privo di ogni velo, indifeso, fosse luce.
Enea l’aveva spogliata con gentilezza, nel fisico e nel cuore, era stato paziente con lei, aveva lasciato che procedesse secondo i suoi tempi, l’aveva guidata per poi lasciarla andare.  
L’aveva guardata come se non avesse mai visto una donna prima d’allora.
Enea si era innamorato del suo seno piccolo, del modo in cui respirava piano …
Beatrice si era innamorata delle sue spalle larghe, del modo in cui aveva le labbra schiuse …
La quarta lacrime l’aveva versata pensando a quanto fosse diverso essere toccata da lui.
Enea passava le ampie mani sul suo corpo come se stesse modellando una scultura, erano le mani ruvide di uno scultore esperto che incidevano ogni grammo di pelle.
Erano mani che sapevano toccare le corde sensibili del suo corpo come se lo conoscesse da sempre, come se fossero state create apposta per quello.
La quinta lacrima scivolò sulla guancia quando i loro corpi si fecero più vicini, Enea gliela baciò via e con le stesse labbra, bagnate di sale e di tutta la sua gioia, tutta la sua paura, tutto il passato che scivolava via in quella sorgente limpida che erano i loro esseri così vicini, così legati, le sfiorò gli occhi chiusi.
Era come rinascere nuovamente per lei, come provare per la prima volta qualcosa del genere, non esisteva nessuna esperienza passata, nessun dolore, nessun ricordo spiacevole.
Beatrice voleva rinascere come un fiore tra le mani di quell’uomo.
La sesta lacrima Enea gliel’asciugò quando entrò dentro di lei.
Lo fece con cautela, anche se non era mai stato da lui chiedere il permesso. E fu come essere scosso nelle ossa, perdere la forza nelle braccia, scoprire una sensazione che non aveva mai provato prima di allora.
Essere esattamente.
Lì nella donna che amava.
Lasciare che tutto acquistasse un valore così profondo e così intenso che ebbe come la sensazione di non aver mai fatto l’amore prima di allora in vita sua.
Di non aver mai saputo davvero cosa significasse, di sentirsi anche lui inesperto, inadeguato, troppo piccolo e misero per poter provare quello che stava sentendo in quel momento.
Troppo piccolo per poter meritare quello che Beatrice gli stava donando.
Muoversi con lei, dentro di lei, sentirla inarcare la schiena e non poter trattenere il respiro, aggrapparsi alle sue spalle e farsi più vicina, intrecciare le gambe dietro la sua schiena, sussurrare il suo nome con gemiti delicati e sensibili …
La settima lacrime fu più un sussurro roco e strozzato, quando entrambi si lasciarono andare a quel gemito trattenuto che era l’apice di ciò che avevano imparato quel giorno.
Di amarsi e di volersi amare ancora per molto tempo.
Enea sentiva le membra del suo corpo completamente spompate, come non le aveva mai sentite prima in vita sua.
Fu come se tutta la tensione di quel tempo infinito gli fosse crollata sulle spalle.
Si lasciò andare ad un profondo respiro tremante, ancora accaldato, e cadde a peso morto sul corpo sudato di Beatrice, che per reazione gli si avvinghiò come una piovra, ancora tremante e scossa dagli spasmi dei piacere che l’avevano travolta.
Avevano ancora il respiro irregolare, si sentivano come due ragazzini alle prime armi con quelle guance arrossate dallo sforzo e dalla gioia.
Beatrice scoprì, nel silenzio che seguì, che le piaceva accarezzare i capelli di Enea, le piaceva sentirlo così addosso, avere la sua pelle calda e sudaticcia che strusciava sulla sua, le piaceva che lui non si fosse ancora mosso, che non fosse uscito da lei. Le piaceva sentire il suo respiro infrangersi sulla pelle del suo seno e cullarlo tra le sue braccia.
Le piaceva il suo odore e sapere che era tutto suo.
Le piaceva sapere che il passato non esisteva più in quel momento, che avrebbe per sempre ricordato in futuro quel momento come se fosse stata la sua prima volta.
Era la sua prima volta.
Sarebbe stata sempre la prima volta con Enea.
<< Mi sento come un bambino … >>.
Enea aveva la voce roca quando pronunciò quelle parole, era stato solamente un sussurro spezzato, il corso di un pensiero sfuggito dalle labbra.
<< Ti amo >> Un altro brandello di pensiero che gli sfuggì come una consapevolezza spaventosa, come qualcosa troppo grande per lui, qualcosa che aveva faticato ad ammettere e che aveva ora scoperto con gran terrore.
La consapevolezza di aver provato tutto quel tempo qualcosa per cui finalmente aveva trovato un nome adatto, la collocazione adatta nel suo cuore.
<< Cavolo, ti amo anche io … >>.
<< Va a prenderti il tuo futuro Enea, io ti aspetterò sempre qui >>.
Beatrice sussultò quando qualcosa di umido le scivolò sulla pelle, seguendo prima il profilo inarcuato del suo seno, poi la curva del fianco fino a raggiungere la schiena, dove si infranse a contatto con le lenzuola.
L’ottava lacrima, l’aveva versata lui.
 

______________________________________
Effe_95
 
Buongiorno a tutti :)
Eccomi tornata con un altro capitolo!
Confesso che è stato davvero duro da scrivere, soprattutto la seconda parte eh, eh.
Non sono molto brava a scrivere certe cose, ma spero davvero vivamente che alla fine sia emerso quello che io volevo emergesse, ovvero il cambiamento di Beatrice, la sua nuova consapevolezza di se stessa e l’aver accettato l’amore che prova per Enea.
Amore che la porta a mettere da parte se stessa per il bene di lui.
E ovviamente quanto sia stato importante quel momento per entrambi, al di là dell’atto fisico. Inoltre, ne ho approfittato anche per approfondire un po’ il personaggio di Daniele ;)
Per quanto riguarda la parte di Italia ( con breve comparsa di Ivan e piccolo accenno a Giasone ) anche lì spero che sia emersa la presa di posizione di Italia, il mutamento dei suoi pensieri, anzi, sarebbe meglio dire la maturazione.
Per quanto riguarda i cd, non dimenticateli perché torneranno ;)
Ora vorrei toccare un piccolo tasto per me un po’ dolente.
Non mi piace scrivere queste cose, ma non ho potuto fare a meno di notare il drastico calo di recensioni. Solitamente non sono una persona che si lamenta, e non lo sto facendo nemmeno adesso, ma teoricamente mi farebbe piacere sapere se ciò è dovuto al fatto che ci siano dei problemi con la storia. É diventata noiosa? È scritta male? La mia scrittura è peggiorata? È troppo pesante? Ecco, tutti questi pensieri hanno cominciato a ronzarmi nella testa inevitabilmente ^^”. Ad ogni modo io continuerò a scriverla con la stessa passione e lo stesso rispetto di sempre, perché non mi piace lasciare le cose incompiute e amo tutti i miei ragazzi incondizionatamente u_u  La mia non vuole essere una forzatura o altro, è semplicemente una cosa che ho notato. Oltre al fatto che comunque è un progetto a cui dedico tutto il tempo che riesco a ritagliare tra una cosa e l’altra, con tanto sudore e fatica.
Detto questo, spero che il capitolo vi sia piaciuto, siamo sempre più vicini alla fine, anche se non sembra lo so ;)
Alla prossima :) 

Ritorna all'indice


Capitolo 55
*** La persona migliore del mondo, Accidenti! e Cancrena. ***


I ragazzi della 5 A
 
55.La persona migliore del mondo, Accidenti! e Cancrena.


Maggio

Sonia avrebbe voluto approfittare di quella pausa per sempre.
Non le era mai piaciuto fare educazione fisica, né alle elementari né alle medie, ma da quando era capitata con il professor De Luca al liceo aveva finito per odiare quella materia definitivamente. Trovava piuttosto irritante il ridicolo fanatismo di quel piccolo uomo peloso che si ritrovava per professore.
Le sue lezioni erano sempre troppo competitive, e se malauguratamente capitava che beccasse qualcuno con le mani in mano, aveva la capacità di urlare per ore intere blaterando cose su perdite di tempo, fisici spompati e idiozie varie a cui Sonia prestava generalmente poco ascolto.
Era stata una manna del cielo per lei la richiesta del professore di andare a posare la rete con i palloni da basket nel ripostiglio degli attrezzi sportivi.
Le aveva dato un momento per staccare la spina e allontanarsi dall’inferno di quella palestra, e da Cristiano, che le era capitato come compagno di esercizi anche quel giorno.
Sonia cominciava a sospettare che non fosse solo un caso.
Generalmente Cristiano non parlava mai quando capitavano quelle cose, si limitava ad aprire bocca solamente per correggerle qualcosa nel movimento, e per avvertirla di impegnarsi di più quando il professore si avvicinava per il solito giro di controllo.
Era un tipo di atteggiamento che Sonia trovava particolarmente esasperante, le veniva spesso il desiderio di gridargli dietro, di spingerlo a fare qualcosa, qualsiasi cosa se voleva conquistarla, se voleva davvero che tornassero insieme, ma si rendeva conto che farlo avrebbe significato dargliela vinta, così cercava di trattenersi.
Accumulava talmente tanta tensione che a volte le scoppiavano dei tremendi mal di testa.
Quando raggiunse la piccola stanza che fungeva da ripostiglio per le attrezzature sportive, lasciò cadere la rete con le palle da basket malamente in un angolo, e si mise seduta con un piccolo saltello su uno di quei materassi imbottiti che utilizzavano per fare il salto in alto.
Sapeva che se avesse perso troppo tempo il professore le avrebbe gridato contro, ma non le importava molto, aveva davvero bisogno di stare un po’ con se stessa.
Lei e Cristiano non avevano più parlato di quello che era successo al Luna Park, non avevano parlato dei loro sentimenti, del fatto che lei fosse scappata o della possibilità di tornare insieme. Cristiano si era semplicemente limitato a starle più vicino di quanto avesse mai fatto prima, senza parlare o senza pretendere nulla.
Era diverso dal ragazzo che conosceva, dal ragazzo impetuoso che aveva amato i primi anni di liceo, e forse era proprio quello a spaventarla di più.
La consapevolezza che sarebbe stato tutto diverso se fosse tornata con lui.
Si lasciò andare ad un sospiro rumoroso e fece penzolare i piedi nel vuoto.
<< La solita perdi tempo eh? >>.
Non si era accorta di Gabriele finché non aveva sentito la sua voce; se ne stava sulla soglia semiaperta della piccola stanza con aria scocciata e trascinava anche lui una rete piena di palloni. Li gettò malamente a sua volta in un angolo e, infilate le mani nelle tasche della tuta, appoggiò la spalla sullo stipite della porta osservando la compagna di classe.
<< Che cosa vuoi da me, eh? >> Sbottò Sonia rivolgendogli l’occhiataccia degna di un assassino. Gabriele si limitò a fare spallucce e continuare a fissarla atono.
<< Niente, aspetto che muovi le chiappe. Il professore mi ha caldamente invitato a farti “muovere il culo”, testuali parole >>.
Sonia sbuffò sonoramente, ma invece di scendere dal materasso e seguire le direttive del professore, si lasciò cadere con la schiena sul morbido tappeto e sospirò teatralmente.
Sperava che in quel modo Gabriele si arrabbiasse con lei, ma non fu accontentata.
Lo sentì sospirare pesantemente, nello stesso modo in cui un adulto avrebbe potuto sospirare di fronte le marachelle di un bambino, e sedersi accanto a lei sul materasso.
In fondo era sempre stato così tra di loro, se ne dicevano di tutti i colori fingendo di odiarsi fino allo stremo, probabilmente perché nessuno dei due poteva sopportare l’idea che in fondo si assomigliassero.
<< È qui che abbiamo fatto sesso quella volta? >> Esordì Gabriele con voce tranquilla, accarezzandosi il mento come se stesse riflettendo su un problema di geometria.
Sonia si tirò nuovamente a sedere, incrociò le gambe in posizione indiana e fece spallucce.
<< Non me lo ricordo >> Confessò giocherellando con il lacci delle scarpe.
<< Eravamo in classi diverse allora. Tu terza e io quarta giusto? >> Sonia fece spallucce.
<< Si, può darsi. Ma come ti ho già detto non lo ricordo, sei stato solo uno dei tanti >>.
Gabriele si girò a guardarla e sollevò un sopracciglio.
Quando aveva fatto sesso con Sonia non la conosceva nemmeno, era capitato perché gli avevano detto che ci stava, perché lei aveva fatto la stupida civettuola con lui provocandolo.
L’aveva fatto perché ancora non amava Katerina.
<< Cosa c’è, ho ferito il tuo piccolo cuoricino? >> Lo prese in giro lei, inarcando le sopracciglia a sua volta, Gabriele mise su un sorriso ironico e la spinse sulla spalla.
<< No, è stata una pessima scopata. Da dimenticare direi >>.
<< Ah – ah! Non l’hai ancora dimenticata? Sei tardo! >>.
Gabriele ridacchiò quando sentì quelle parole, poi la risata si spense lentamente lasciandogli stampato sulle labbra un sorriso tirato.
<< Ero il primo dopo Cristiano, vero? Non l’avevi mai fatto con nessun altro. Le voci di corridoio erano solo una stronzata, giusto? >>.
Sonia trasalì quando sentì quelle parole, non se le aspettava.
In realtà aveva sperato che Gabriele non se ne fosse mai accorto, era anche quello il motivo per cui con lui stava sempre sulla difensiva. Si sentiva troppo vulnerabile.
E adesso, il fatto che lui l’avesse buttato fuori all’improvviso, le sembrava un colpo basso.
<< Stai dicendo solo cazzate! >> Sbottò di colpo, inviperita.
<< E allora perché dopo hai pianto? >>.
Per la prima volta in vita sua Sonia rimase senza parole.
Le mani con cui stava giocando con i lacci delle scarpe si fermarono di colpo e le caddero inermi sulle gambe; aveva sempre pensato di essere sola quel giorno.
Aveva sempre pensato che Gabriele se ne fosse già andato quando lei aveva pianto disperatamente da sola in quello stesso sgabuzzino.
<< Mi hai fatto sentire una merda per parecchio tempo, sai? >>.
Continuò Gabriele rivolgendole un’occhiata di rimprovero, Sonia tentò di ritrovare un po’ del contegno che aveva perduto, sbuffò e gli pizzicò la spalla con violenza.
<< Guarda idiota che se avessi voluto dirti di no l’avrei fatto! >>.
<< Ahia! >> Si lamentò Gabriele schiaffeggiando la mano con cui l’aveva pizzicato << Tu dovresti fare sesso solamente con Cristiano per essere felice! >>.
<< Oh, ma che hai oggi?! Stai cercando di convincermi a venire a letto con te? >>.
<< Sono fidanzato io! F-i-d-a-n-z-a-t-o, capisci questa parola? >>.
Dopo aver gridato come due ossessi, si fecero la linguaccia contemporaneamente.
E poi scoppiarono a ridere senza ritegno, continuando a spintonarsi come bambini a cui piaceva farsi i dispetti. Gabriele continuò a sorridere anche quando la risata di Sonia si trasformò in un pianto sommesso. La vide nascondere la faccia tra le ginocchia, e i ricci scuri le scivolarono sulla spalla.
<< Dovresti tornare con lui se stai così male, sai? Si vede che in fondo ti ama >>.
Gabriele trovava un po’ assurda quella situazione, ma in cuor suo sentiva anche che non ci sarebbe stato mai più un momento come quello. La scuola stava per finire, loro avrebbero preso strade diverse, forse non avrebbe rivisto Sonia mai più.
<< Ho paura >> Mormorò lei << E se lo dici a qualcuno ti spacco la faccia! >>.
Gabriele ridacchiò, poi saltò giù dal materasso e si stiracchiò come un gatto.
<< Anche io avevo paura. E quindi come uno scemo sono scappato. Ma ti assicuro che ho sofferto molto di più in questo modo. Katerina è quella parte di me di cui non posso fare a meno. E non posso farne a meno perché è la mia parte migliore. Io non sono una brava persona Sonia, generalmente faccio abbastanza schifo, ma lei mi fa credere che non sia così. È per questo che la amo >>.
Sonia asciugò frettolosamente gli occhi verdi arrossati e li puntò sulla schiena di Gabriele, che nel frattempo aveva infilato nuovamente le mani nelle tasche della tuta e si era diretto verso la porta, come intenzionato a troncare quella conversazione.
Sonia trovò assurdo che si fossero ritrovati entrambi in quella situazione.
Se ne erano sempre dette di tutti i colori, si erano fatti del male a vicenda quando ce n’era stata l’opportunità e non avevano mai perso l’occasione per litigare, eppure Sonia era sicura che Gabriele sarebbe stato l’unica anima affine in quella classe di matti che si ritrovava.
E la cosa la faceva imbestialire più che mai.
<< Stai dicendo che Cristiano sarebbe la parte migliore di me?! Tu stai fuori come un balcone Gabriele! >> Sbottò Sonia mostrandogli il dito medio.
Gabriele non colse la provocazione, le rivolse un’occhiata annoiata e fece spallucce, sembrava aver perso tutta la voglia di scherzare o apostrofarla.
<< No, tu è Cristiano siete delle merde! E questo lo sanno tutti Sonia. Siete le persone più menefreghiste e infide della terra. Vi piace fare del male agli altri e non avete cura di voi stessi nemmeno un po’. Distruggete tutto quello che toccate >>.
Sonia provò un pizzico di fastidio quando Gabriele si mise ad elencare tutti quei difetti con sicurezza e consapevolezza di se, nonostante fosse tutto vero.
<< Beh, grazie mille eh! >> Brontolò raccogliendo svogliatamente i ricci in un codino.
<< Ma siete delle merde solo con gli altri >> Gabriele fece spallucce e raggiunse la porta appoggiando una mano sullo stipite << Quello che sto cercando di dirti è che non devi avere paura. Perché quando sei con Cristiano diventi la persona migliore del mondo, e del resto dovresti davvero sbattertene >>.
Ancora una volta Sonia non trovò le parole per replicare nulla.
Si limitò ad osservare per un po’ le spalle larghe di quel ragazzo che aveva sempre detestato dal profondo del cuore e sorrise mestamente.
<< Ehi, Gabriele! >> Lo richiamò quando ormai si era quasi allontanato.
<< Che c’è? >> Domandò lui con svogliatezza, senza nemmeno voltarsi.
<< Ti sono ricresciuti i peli sulle gambe? >> Chiese la mora con aria divertita.
Per tutta risposta Gabriele si limitò a sollevare il dito medio dandole le spalle.
Sonia ridacchiò, forse era arrivato il momento di tornare in palestra dopotutto.
 
Aleksej non riusciva ancora a credere che quella scena fosse vera.
Eppure era proprio lì davanti ai suoi occhi: Cristiano Serra era seduto sul suo letto, in camera sua, e contorceva le mani guardandolo accigliato.
Aleksej cominciò a domandarsi se non avesse mangiato qualcosa di allucinogeno a pranzo, perché per tutto il tempo, da quando aveva aperto la porta di casa fino a quel momento, gli era sembrato tutto molto irreale.
Cristiano era già stato a casa sua una volta, durante un progetto di scienze, ma all’epoca era stato diverso. Non erano soli, c’erano altre persone, e non erano entrati nella sua camera.
Aleksej trovava la presenza di Cristiano una vera e propria invasione nei suoi territori.
Essendo il figlio maggiore si era sempre vantato di avere una stanza propria, detestava che qualcuno ci entrasse senza il suo consenso, permetteva di farlo solamente a Gabriele perché sapeva che tanto il cugino avrebbe ignorato le sue proteste in ogni caso.
Aleksej trasse un respiro profondo, tentando di controllarsi, chiuse la porta della camera e andò a sedersi sulla sedia mobile, posizionandosi proprio di fronte al compagno di classe.
Si scrutarono per un po’, come due lottatori prima di una battaglia.
Cristiano gli era sembrato estremamente imbarazzato quando se l’era ritrovato fuori la porta di casa, aveva farfugliato qualcosa a proposito di una richiesta e poi era diventato viola.
Aleksej l’aveva fatto entrare perché aveva avuto paura che potesse avere un collasso sulla soglia di casa a causa dell’orgoglio smisurato che si ritrovava, e che aveva appena oltraggiato.
La sua espressione non era cambiata molto, anche in quel momento sembrava imbarazzato.
Mentre lo guardava Aleksej avrebbe voluto chiedergli se per caso avesse mangiato un limone prima di venire da lui, perché sembrava estremamente disgustato.
<< Ok, spara. Cosa vuoi da me? >>.
Aleksej si rese conto che probabilmente quello non era il modo più adatto per cominciare una conversazione, ma sapeva anche che con Cristiano mai nessun inizio sarebbe stato adatto. Non l’aveva mai sopportato.
Cristiano si agitò imbarazzato sul posto, poi lo guardò finalmente negli occhi.
<< Lo so che non mi sopporti. E non sarei qui se non fosse che - >>.
<< Ok, frena! Se vuoi parlare del rapporto inesistente che c’è tra di noi allora ti avviso che non sono dell’umore adatto. Anzi, non è che me ne freghi granché sai, senza offesa >>.
In realtà, Aleksej sperò proprio che Cristiano si offendesse, ma non fu accontentato.
Il moro continuò a fissarlo senza indignarsi, senza prendere le sue cose e andarsene sbattendo la porta, anzi, sembrava straordinariamente indifferente e la cosa lo colpì.
Aleksej cominciò a domandarsi quanto avesse dovuto sopportare Cristiano per diventare così indifferente alle calunnie e alle cattiverie degli altri.
<< Ok, si tratta di Sonia >>.
Cristiano andò dritto al punto, come se nulla fosse, ed Aleksej cambiò immediatamente idea.
Avrebbe preferito mille volte parlare del fatto che si odiassero piuttosto che di quello.
<< Ok, va bene. Si, ho capito che ti piace, l’abbiamo capito tutti in classe in questi giorni a dire il vero, ma … insomma, se sei qui per fare a botte perché ho fatto sesso con lei non- >>.
<< Hai fatto sesso con lei?! >>.
Aleksej e Cristiano si guardarono negli occhi per dei secondi che sembrarono interminabili, restando in un silenzio talmente assoluto da sembrare che si fossero pietrificati sul posto.
<< T-tu non … non lo sapevi? >> Balbettò Aleksej grattandosi la nuca.
Cristiano tossicchiò nel pugno della mano e distolse lo sguardo.
<< No, non sapevo che avesse fatto sesso anche con te. Comunque! >> Sbottò all’improvviso scombinandosi i capelli sulla testa così violentemente da dare l’impressione ad Aleksej che stesse disperatamente tentando di cancellare dalla testa un’immagine orribile << Non era di questo che volevo parlare con te! >>.
<< A no? >> Aleksej rimase così sorpreso da quella dichiarazione che era piuttosto sicuro di aver messo su un’espressione esilarante in quel momento.
<< No. Ho bisogno che mi insegni a suonare la chitarra >>.
Cadde nuovamente il silenzio a seguito di quell’affermazione, Aleksej rimase così basito che non sapeva se scoppiare a ridere o dare di matto, oppure fare tutte e due le cose contemporaneamente. Eppure quando guardò Cristiano lo trovò estremamente serio.
<< Perché?! >> Domandò con eccessiva enfasi, se qualcuno gli avesse detto che un giorno si sarebbe ritrovato in quella situazione non ci avrebbe mai creduto.
Cristiano trasse un respiro profondo e cominciò a parlare, spiegandogli quali erano le sue intenzioni e perché c’entrasse Sonia in tutta quella faccenda, Aleksej ascoltò tutto il racconto senza battere ciglio, per la prima volta con serietà, valutando i pro e i contro.
<< Allora, mi aiuterai? >> Domandò Cristiano alla fine del racconto.
Aleksej incrociò le braccia al petto e lo fissò negli occhi, non gli era mai importato nulla di Cristiano, l’aveva sempre trovato irritante, egoista e menefreghista, nella sua vita privata gli importava ben poco e aveva sempre evitato di avere a che fare con lui.
A dir la verità Aleksej lo detestava profondamente.
Eppure si rese conto per la prima volta di una cosa che lo fece desistere dal mandarlo a quel paese immediatamente, senza via di scampo.
Si rese conto che Cristiano era orgoglioso, era orgoglioso esattamente come lui, e che doveva essergli costata una fatica immensa quella decisione, la decisione di andare da una persona che provava solo disprezzo nei suoi confronti e chiedere il suo aiuto.
Aleksej si ritrovò a sorridere amaramente con se stesso, dopotutto Cristiano aveva avuto un coraggio che lui probabilmente non sapeva nemmeno dov’era di casa.
<< Guarda che io non sono Zosimo >> Si affrettò tuttavia a replicare, incrociando le braccia al petto. Con sua grande sorpresa Cristiano sbuffò e alzò gli occhi al cielo.
<< Me l’ha detto anche Telemaco l’ultima volta che abbiamo parlato! Ma cosa credete, che Zosimo sia il buon Samaritano?! Lui è solo il mio migliore amico! Non si è avvicinato a me né per pietà, né perché io sia stato gentile o- Ok, non importa >>.
Aleksej rimase in silenzio per un po’ dopo la sfuriata del moro, aveva sempre trovato quella strana amicizia tra Zosimo e Cristiano come qualcosa di estremamente anomalo.
Lui non ne sapeva nulla, né pretendeva di volerne sapere qualcosa, ma cominciava a pensare che dopotutto quel rapporto non fosse poi così tanto anomalo.
<< Beh, perché non hai chiesto ad Oscar allora? Oppure ad Ivan, o Giasone? >>.
Cristiano esitò prima di rispondere, intrecciò le mani e prese a far roteare i pollici l’uno sull’altro con insistenza, Aleksej lo lesse come un chiaro segno di disagio.
<< Perché mi hanno detto di no. Tu sei la mia ultima possibilità >>.
<< Oh >>.
Per la prima volta quella sera Aleksej vide la situazione da una prospettiva diversa, non si sentiva offeso per essere stato l’ultima scelta, dopotutto se fosse stato nei panni di Cristiano anche lui avrebbe chiesto prima ad Ivan o a Giasone, ma si rese conto di quanto fosse stato difficile per Cristiano tutta quella storia.
Dover chiedere a delle persone che lo odiavano, sentirsi dir di no, e poi non dare l’impressione di star chiedendo aiuto supplicando.
Anche in quel momento, probabilmente Cristiano non voleva dare l’impressione di dover dipendere da lui, non voleva che Aleksej si sentisse in dovere di doverlo aiutare.
Non voleva suscitare la sua pietà, sapendo che in realtà era proprio quello che stava facendo.
Tutto quello era troppo anche per uno come Cristiano.
<< Va bene, ti aiuterò >> Replicò Aleksej sospirando pesantemente.
E quando Cristiano sollevò la testa sorpreso, apprezzò il fatto che il ragazzo non si fosse propinato in adulazioni ridicole o in ringraziamenti e avesse semplicemente detto: “Quando cominciamo?”. Era decisamente più da lui.
Aleksej si alzò e fece per andare a prendere la chitarra acustica, quando la porta della camera si aprì lentamente e la testa di sua madre sbucò nella stanza.
<< Chiedo scusa per il disturbo >> Commentò la donna sorridendo calorosamente << Volevo sapere se a Cristiano andava di restare a cena da noi >>.
Cristiano sussultò quando sentì quelle parole, guardò Claudia con occhi sgranati e Aleksej lo osservò di sottecchi con curiosità, chiedendosi cosa avrebbe risposto alla proposta.
<< Io la ringrazio ma … a casa ho una persona che mi aspetta e non vorrei- >>.
<< Va bene, lo capisco. Sarà per la prossima volta >> Cristiano fu grato a Claudia per averlo interrotto prima che l’imbarazzo e la vergogna cominciassero a farsi troppo evidenti.
La donna sorride nuovamente e poi se ne andò salutandoli.
Quando Aleksej gli si sedette nuovamente davanti con la chitarra tra le mani, Cristiano aveva lo sguardo perso nel vuoto.
<< Tua madre non ti assomiglia per nulla, sai? >> Commentò distrattamente, aveva gli occhi così carichi di nostalgia e così distanti che Aleksej non si sforzò nemmeno di fulminarlo con lo sguardo, tanto l’altro non se ne sarebbe accorto.
<< Beh, perché in effetti non è mia madre >> Confessò mentre cominciava ad accordare la chitarra, non sapeva perché gliel’avesse detto, non erano molte le persone che lo sapevano, eppure gli era venuto quasi naturale farlo << La mia madre biologica è morta mettendomi al mondo, quindi non l’ho mai conosciuta. È quella donna lì, la vedi? >> Disse indicando una piccola fotografia attaccata con una puntina su una bacheca vuota. Cristiano osservò la donna con aria attenta, le lentiggini, gli occhi, la bocca, erano proprio quelli di Aleksej.
<< Era la prima moglie di mio padre, lui l’ha sposata per me ma … amava Claudia. E alla fine è stata lei a crescermi quando Svetlana è morta. Quella per me è solo una sconosciuta. >>
Aleksej smise di accordare la chitarra e la porse a Cristiano, che la prese con titubanza.
<< Mia madre è Claudia, punto >> Cristiano lesse negli occhi di Aleksej una luce strana, come se volesse sfidarlo ad affermare il contrario.
<< Forse è qualcosa che non puoi capire, vero? >> Continuò Aleksej sollevando un sopracciglio con aria ironica, ecco un’altra persona che non provava pietà per lui, pensò Cristiano. E lo trovò piuttosto irritante, i suoi compagni di classe erano davvero irritanti.
Mai una volta che deludessero le sue aspettative.
<< Si invece, è qualcosa che posso capire. >>
E pensò a Marta.
Sorrise sommessamente e prese la chitarra tra le mani posizionandola attorno al collo.
<< Non si mette così! >> Lo rimproverò immediatamente Aleksej, ma contemporaneamente i suoi pensieri correvano come il vento più impetuoso.
Ecco un’altra cosa che ho in comune con Cristiano Serra, accidenti!
 
Lisandro avrebbe voluto distogliere lo sguardo ma non ci riusciva.
Era più forte di lui, non poteva proprio smettere di guardarli.
Aveva sempre sospettato nel profondo del suo cuore di avere una vena leggermente masochista dentro di se, ma mai avrebbe pensato che si sarebbe fatto volontariamente male come stava facendo in quel momento.
Il fatto era che Beatrice ed Enea sembravano diversi.
Lisandro non riusciva a trovare davvero nessun’altro aggettivo adatto per descrivere quello che i suoi occhi stavano vedendo in quel momento.
E quella diversità non aveva nulla a che fare con il fatto che i due avessero fatto pace.
In un certo senso Lisandro era sollevato che fosse successo, non aveva mai sperato che Beatrice potesse guardarlo diversamente, o smettere di amare Enea.
E se anche avesse scelto un altro ragazzo di certo non avrebbe mai guardato lui, “il migliore amico di Enea”. Sarebbe stato decisamente di cattivo gusto.
Se ne stavano entrambi fermi a pochi metri di distanza dal cancello della scuola, Enea aveva appoggiato un braccio attorno alla vita di Beatrice stringendola a se con affetto, la maglietta della ragazza era leggermente sollevata sul fianco e metteva in mostra un lembo di pelle che Enea stava sfiorando con disinvoltura assoluta.
Ridevano entrambi per qualcosa di stupido che avevano detto e i loro visi erano talmente vicini che avrebbero potuto scambiarsi un bacio da un momento all’altro.
Sembravano così intimi l’uno con l’altro.
Erano così felici, si amavano così tanto …
Lisandro scosse furiosamente la testa e si schiaffeggiò le orecchie.
Non aveva dovuto riflettere molto per capire cosa fosse successo tra quei due, per capire perché finalmente Enea stesse sorridendo con spensieratezza o Beatrice avesse smesso di tremare ogni volta che il fidanzato la sfiorava più del dovuto.
Ma il solo pensarlo faceva così male che Lisandro avrebbe voluto strapparsi il cuore dal petto in quello stesso istante.
Aveva come paura che molto presto avrebbe finito con l’atrofizzarsi a causa del dolore.
Aveva paura di cadere in un circolo vizioso da cui non sarebbe mai più uscito.
Era stupido, ma aveva paura di avere amato Beatrice un po’ troppo.
Aveva paura che poi non avrebbe saputo più come amare qualcun altro.
Strinse maggiormente il casco tra le mani, ricordando a se stesso che doveva tornare a casa e smetterla di farsi del male, che starsene tutta la giornata a rimuginare su cosa fosse successo tra quei due non avrebbe fatto altro che aggravare l’infezione che aveva nel petto.
Più o meno all’altezza del cuore.
Era stato stupido da parte sua non pensare ad altro per tutta la giornata.
Sospirò pesantemente e si infilò il casco in testa, proprio quando smise di allacciarlo vide Enea venire distrattamente nella sua direzione, giocherellava con le chiavi della moto e aveva ancora un sorriso idiota stampato sulle labbra.
Lisandro aspettò che si avvicinasse, quando Enea si accorse di lui rallentò automaticamente il passo ma non smise di avanzare, dopotutto aveva la moto parcheggiata proprio accanto a quella dell’amico.
Non avevano perso quell’abitudine, nonostante non si parlassero praticamente più ormai.
<< Avete fatto pace? >> Esordì Lisandro sorprendendo anche se stesso per quell’impeto di coraggio improvviso, cercò di fare l’indifferente dopo aver posto quella domanda, ma riuscì lo stesso a percepire lo stupore di Enea.
Non sapeva spiegarsi cosa gli fosse preso, così all’improvviso.
Ma in cuor suo sapeva perché avesse attaccato bottone.
Era arrivato il tempo di smuoversi e spezzare quelle catene.
<< Già … >> Commentò distrattamente Enea, mentre si apprestava molto lentamente a prendere anche lui il casco << Ho spedito il modulo. A settembre parto >>.
Annunciò Enea con una cerca difficoltà, gettando fuori la notizia come se non stesse aspettando altro che comunicarlo al suo migliore amico, nonostante tutto quello che si erano detti, nonostante non si fossero né perdonati né capiti.
Lisandro cercò di non restarci troppo male, anche se avevano litigato, Enea restava pur sempre il suo migliore amico, e l’idea di non vederlo per un anno gli faceva male.
<< Mi fa piacere >> Si pentì immediatamente di aver utilizzato quell’espressione, era troppo formale, perfino per loro. E soprattutto, non era vera per nulla.
<< Senti Lis, volevo chiederti una cosa … >> Riprese Enea indugiando un po’, ancora non aveva infilato il casco e guardava davanti a se con aria accigliata, sembrava imbarazzato eppure terribilmente fermo nelle sue decisioni << Lo so che la mia richiesta ti sembrerà egoista ed inappropriata in un momento come questo ma - >>.
<< Non preoccuparti, quando non ci sarai, la terrò d’occhio io >>.
Enea non sussultò quando sentì la replica immediata dell’amico, ma trattenne il respiro e Lisandro se ne accorse.
Era assurdo che Lisandro fosse ancora capace di capire perfettamente Enea, ed era assurdo che Enea gli facesse una tale richiesta dopo quello che si erano detti a vicenda.
Probabilmente era tardi per tornare indietro senza cicatrici.
Ma proprio perché assurdo era esattamente da loro.
Enea e Lisandro erano sempre stati così: un’assurda contraddizione.
<< Però Enea, ascoltami io- >>.
<< Ok, puoi farlo. Puoi dirglielo se vuoi, anzi, fallo! Io farò finta di non saperlo >>.
A quel punto fu il turno di Lisandro di trattenere il respiro.
<< Solo … non dirmi niente, va bene? >>.
E prima che Lisandro potesse anche solo realizzare quello che era successo, Enea era già sfrecciato via con la moto, lasciandolo lì da solo con la bocca semi spalancata.
<< Ma che idiota! >> Sbottò con indignazione, poi scoppiò a ridere per il sollievo.
Non avevano risolto i loro problemi, non avevano parlato molto, in realtà si erano detti pochissimo, ma quelle parole per Lisandro erano state più liberatorie di una boccata d’aria.
Aveva paura di cosa ne sarebbe venuto, aveva paura di cosa avrebbe provato.
Ma la sua decisione ormai l’aveva presa.
Se voleva essere felice almeno un po’, se voleva curare quell’infezione che gli stava mandando il cuore in cancrena, allora non doveva fare altro che dire la verità.
Lo sapeva, l’aveva sempre saputo in cuor suo.
Doveva solo trovare il coraggio per farlo, da qualche parte tra i pezzi della sua anima, che aveva lasciato sparsi un po’ ovunque.
 
 
___________________________________ 
Effe_95
 
Buonasera a tutti :)
Lo so che ci ho messo davvero tantissimo tempo per scrivere questo capitolo ma ho avuto una serie infinita di problemi, senza contare che si avvicina la sessione estiva …
Ad ogni modo, credo che questo capitolo sia un po’ particolare.
Abbiamo confronti tra personaggi che in effetti sembrerebbero non avere nulla in comune tra di loro, ma che secondo me invece avevano molto da insegnarsi a vicenda.
Era questo il mio intento principale e spero di esserci riuscita almeno un po’.
Per quanto riguarda la parte di Gabriele e Sonia, chiedo scusa per il linguaggio un po’ scurrile dei due, ma non sarebbero stati loro se non avessero parlato così.
Spero vi abbia incuriosito questo strano rapporto che hanno, io l’avevo solamente accennato nei capitoli precedenti, lasciando qualche indizio, e spero che non sia stato troppo sorprendente.
Comunque, i nodi stanno arrivando tutti al pettine come potete notare, lentamente ma tutto andrà verso una sua conclusione ;)
Per quanto riguarda la richiesta di Cristiano ad Aleksej, si capirà preso il perché ;)
Detto questo grazie mille come sempre alle persone che leggono con devozione nonostante siano passati tre anni da quando ho postato il primo capitolo, e grazie mille in particolar modo alle tre fantastiche ragazze che hanno recensito l’ultimo capitolo.
Mi avete dato la carica di continuare con sempre più passione :)
Alla prossima spero. 

Ritorna all'indice


Capitolo 56
*** A diventare grande, Le mie gambe e Tutto ricomincia. ***


I ragazzi della 5 A
 
56.A diventare grande, Le mie gambe e Tutto ricomincia.

Maggio

Gabriele stava quasi per appisolarsi quando arrivò lo schiaffo.
Fu un vero trauma.
Katerina l’aveva colpito con tale fervore da lasciargli il segno dell’anello che portava al dito sulla fronte, proprio al centro.
Gabriele aveva sentito dire che colpire quel punto preciso del viso provocava un moto di nervosismo incontrollato, quel pomeriggio constatò che era una verità assoluta.
Provò un nervosismo difficilmente descrivibile.
Mugugnò infastidito e si limitò a cambiare posizione, mettendosi di lato piuttosto che steso a pancia in su, era sicuro che in quel modo Katerina avrebbe trovato difficile colpirlo nello stesso punto, e poi stava per fare un sogno meraviglioso prima dello schiaffo, ne era certo.
Doveva riprenderlo a tutti i costi!
La sentì sospirare infastidita mentre tentava inutilmente di tirargli i capelli per ripicca.
Gabriele ridacchiò, era andato dal barbiere proprio quella mattina, le ciocche erano troppo corte perché Katerina potesse fargli male, continuavano a sfuggirgli dalle dite e il risultato non fu altro che un piacevole massaggio alla nuca perfetto per conciliare il sonno.
<< Dovevi andare dal barbiere proprio questa mattina, vero?! Maledetto bradipo pigrone! >>.
Lo canzonò picchiettandogli la tempia con l’indice.
<< Comincia a far troppo caldo per i capelli lunghi >>.
Il commento di Gabriele venne accompagnato da un sospiro infinitamente lungo di rassegnazione, non sarebbe riuscito a chiudere occhio quel pomeriggio, era ovvio.
<< Mi si sono addormentate le gambe Gabriele, mi si atrofizzeranno se non ti alzi >>.
La voce di Katerina era talmente seria che Gabriele fu costretto a soffocare un sorriso mentre apriva finalmente gli occhi e riassumeva una posizione supina.
<< Ma sono così comode >> Commentò facendole un sorriso da sberle.
Katerina sospirò pesantemente e alzò gli occhi al cielo.
Quel pomeriggio non c’era nessuno a casa sua, Jurij era andato a dormire da un amico, mentre i suoi genitori avevano portato Simone al cinema, a vedere uno di quei cartoni animati che Katerina proprio non sopportava.
Gabriele si era presentato da lei senza avvisarla.
Katerina era piuttosto sicura di non avergli detto che sarebbe rimasta da sola, la verità era che detestava quando in casa con lei non c’era nessuno.
L’appartamento era troppo grande per una sola persona e il silenzio la innervosiva.
Ma tutto questo Katerina non l’avrebbe mai ammesso, tanto meno a Gabriele.
Quindi era piuttosto sicura che ci fosse sotto lo zampino di Aleksej, l’unico a sapere di quella sua piccola paura; Katerina gli era grata in realtà, ma non gliel’avrebbe mai detto.
<< Puoi almeno farmi cambiare posizione? >> Domandò accarezzandogli la fronte nel punto in cui il segno dell’anello stava lentamente sbiadendo lasciando solamente un puntino rosso d’irritazione sulla pelle. Gabriele si tirò a sedere in posizione indiana controvoglia.
Sulla faccia aveva l’espressione di un bambino contrariato.
Katerina gli sorrise, avanzò carponi verso di lui e prima di incastrarlo stendendosi lei sulle sue gambe, lo baciò a timbro di sfuggita, inebriandolo del suo profumo al cocco.
Gabriele la guardò con espressione indignata mentre lei si sistemava meglio sulle sue gambe.
<< Sono decisamente più comoda adesso >> Commentò la bionda con un sorriso soddisfatto sulle labbra, Gabriele scoppiò in una risata allibita e le pizzicò la fronte con il pollice e l’indice << Ahia, così mi fai male! >> Si lamentò lei strofinandosi il punto sensibile.
<< Fa male eh?! Ma tu guarda questa – Basta, me ne vado! >>.
Tuttavia, nonostante la minaccia, Gabriele non si mosse di un millimetro e cominciò ad accarezzarle il ciuffo dorato che le cadeva perpendicolarmente sull’occhio destro, Katerina chiuse gli occhi e si accoccolò meglio su di lui.
Gabriele profumava di menta fresca e dopobarba.
<< Cantami una ninnananna >> Mormorò con un filo di voce.
Gabriele trovò piuttosto stana quella richiesta, Katerina sapeva meglio di chiunque altro che era stonato, quando cantava la sua voce somigliava sospettosamente a quella di una foca strozzata. Qualche anno prima, durante una delle loro serate in famiglia, avevano messo il karaoke casalingo e si erano divertiti un mondo, fino a quando non era arrivato il turno di Gabriele e i vicini avevano bussato minacciando di chiamare la polizia se non facevano smettere quel terribile guaito agonizzante.
Erano state quelle le testuali parole.
<< Di un po’, vuoi dormire, oppure vuoi avere gli incubi per tutta la notte, eh? >>.
La rimproverò lui pizzicandola nuovamente sulla fronte, Katerina si lamentò come una bambina e scacciò malamente la sua mano con uno schiaffo.
<< Lo so che sei stonato! Ti ho detto di cantare proprio perché è l’unico modo per non addormentarmi idiota! >> Gabriele ridacchiò istericamente e fece il gesto di strozzarla, poi Katerina aprì gli occhi insospettita e lui nascose le braccia dietro la schiena, troppo tardi.
<< Canta! >> Ordinò lei dandogli uno schiaffo sulla spalla.
<< Va bene, va bene! Che rompiscatole che sei! >>.
Ma era più facile a dirsi che a farsi, Gabriele rimase in silenzio per alcuni minuti prima di trovare qualcosa da cantarle.
All’inizio aveva pensato a qualcosa di estremamente fastidioso e acuto, giusto per lasciarla un po’ stordita, poi gli era venuta in mente una canzone che aveva ascoltato alla radio proprio mentre guidava per andare da lei.
Gabriele non seppe spiegarsi perché proprio quella canzone, ma l’aveva trovata carina.
Le aveva fatto venire in mente proprio Katerina.
<< È tutta la vita che io sbaglio sempre … >> Cominciò a canticchiare una delle poche frasi che ricordava, forse con la melodia sbagliata << Spalle contro il muro e non imparo niente >> Quelle parole gliele sussurrò all’orecchio, facendola ridacchiare <<Fossero sbagliate solo le domande, so solo che tra miliardi di persone ora tu sei la mia casa e … >>
Gabriele non ricordava il resto della frase, così si interruppe.
E poi Katerina era più sveglia che mai e lo guardava con gli occhi luccicanti, come faceva ogni volta che lo amava un po’  più di quanto non facesse già.
Lo guardava in quel modo che Gabriele non sopportava, perché era estremamente convinto di non meritare tutto quell’amore, nonostante ciò che aveva detto a Sonia.
<< Gabriele, perché abbassi gli occhi? Abbassi sempre gli occhi quando ti guardo >>.
Quella domanda lo colse alla sprovvista, scrollò le spalle e sorrise nervosamente.
<< Non lo faccio apposta! Sarà un riflesso incondiz- >>.
<< Ti ho perdonato. Quindi devi guardarmi negli occhi sempre, ok? >>.
<< Ok … >>.
Katerina chiuse nuovamente gli occhi e appoggiò la mano destra sul suo petto, proprio all’altezza del cuore, Gabriele posò lo sguardo sul braccialetto che le aveva regalato, tornato finalmente al posto giusto. Non se n’era accorto, ma durante l’incidente doveva averlo graffiato, la “s” finale svirgolava sulla punta come se volesse arricciarsi.
<< Come si chiamava la canzone che cantavi prima? >>.
<< “Mai così felice” mi pare, l’ho sentita per caso in radio prima di venire, mi è rimasta impressa nella mente >> La risposta di Gabriele fu distratta.
In realtà stava cominciando a domandarsi se sarebbe mai riuscito a liberarsi dei sensi di colpa che stava provando in quel momento.
Erano irrazionali, arrivavano a tradimento,e non poteva ignorarli.
E così aveva imparato qualcosa di nuovo, dagli errori non si scappava mai.
Avevano sempre delle conseguenze, lasciavano sempre qualche cicatrice.
<< Sembra davvero bella. E dimmi, pensi davvero che io sia la tua casa? >>.
Gabriele strizzò gli occhi e tornò a concentrarsi sulla fidanzata, in dormiveglia.
<< Ovviamente si >> Katerina sorrise.
E a Gabriele venne in mente esattamente quello che avrebbe dovuto fare per lei.
Quell’illuminazione arrivò con la stessa naturalezza con cui aveva risposto alla domanda.
<< Katerina, ho deciso che domani parlerò con tuo padre di noi >>.
Gabriele non provò né paura né timore nel pronunciare quelle parole.
Ne aveva passate così tante con quella ragazza, per quella ragazza, che non gli faceva più paura nulla se non l’idea di stare male o di soffrire come aveva sofferto quando l’aveva lasciata andare per la sua strada.
Era stato un buon proposito il suo, ma pur sempre un proposito stupido.
Gabriele era sicuro fosse tutta colpa del caratteraccio che aveva ereditato da suo padre.
<< Ne sei proprio sicuro? >> Katerina gli porse quella domanda con i grandi occhi grigi e tempestosi attenti e fissi sul suo viso.
Come se volesse metterlo alla prova, in qualche modo.
<< Sicuro, sicuro. Voglio proprio sfidarli a tenerti lontana da me >>.
Commentò avvicinando il suo viso a quello di Katerina, le punte dei loro nasi si sfiorarono inevitabilmente, il respiro caldo di entrambi si infrangeva reciprocamente sul viso dell’altro.
Fu Katerina ad afferrarlo per la nuca e spingere le sue labbra contro quelle di Gabriele.
Caddero entrambi sul pavimento per la foga del gesto, poiché Gabriele era troppo pesante perché Katerina riuscisse anche solo a sostenerlo, tuttavia non se ne curarono.
Rimasero stesi sul pavimento freddo a baciarsi ad intervalli sconnessi per un tempo che sembrò infinito, l’orologio sembrava andare al contrario e il tempo, per una volta, essersi cristallizzato.
Gabriele non era preoccupato.
Non aveva paura.
Per una volta sola, per una volta, voleva essere solo un ragazzo di vent’anni.
A diventare grande poi, ci avrebbe pensato il giorno seguente.
 
Fulvia aveva sempre detestato il disordine che regnava sovrano nella stanza di Romeo.
Era sempre a causa di quel disordine che si faceva male.
La carrozzina era troppo grande per zigzagare tra i cumuli di vestiti sporchi che lasciava sparpagliati per terra, Fulvia aveva provato innumerevoli volte il desiderio di potersi alzare da quella carrozzina per raccogliere quel macello da terra.
Non potendolo fare tuttavia, era stata costretta a trovare una soluzione.
Ogni volta che entrava nella stanza di Romeo quando lui non c’era, si portava dietro un bastone da passeggio per raccogliere con il manico tutte le magliette, mutande e jeans sporchi del suo presunto fidanzato.
Quando anche quel pomeriggio ebbe finito l’operazione con immensa fatica, guardò con aria sconsolata in cesto dei panni sistemato sulle gambe inermi e pensò alla sua povera nonna, che avrebbe dovuto stirare una montagna di panni una volta lavati.
Fulvia si ripromise di sgridare Romeo non appena fosse uscito dal bagno.
Guardò con aria critica il poco spazio che aveva a disposizione per fare una retromarcia,  sospirò pesantemente e cominciando l’operazione andò a sbattere prima conto il letto poi contro la sedia della scrivania.
Le era già capitato prima, ma quella volta non aveva messo in conto la pila di libri e quaderni che dalla scrivania le rovinò pericolosamente addosso facendo cadere a terra la cesta con tutti i panni e procurandole una serie di lividi nuovi sulle cosce.
Fulvia aspettò che il piccolo terremoto cessasse, poi guardò con sgomento i panni che aveva appena raccolto con tanta fatica sparpagliati nuovamente sul pavimento e urlo per la rabbia.
Avrebbe scagliato i libri che aveva sulle gambe contro il muro se non fosse stato per il loro contenuto.
Guardò con aria accigliata il tomo che aveva tra le mani e fece per aprirlo, ma proprio in quel momento Romeo entrò nella stanza ancora con i capelli bagnati, la maglietta al rovescio e l’aria sconvolta.
<< Cosa c’è, cos’è successo?! >>.
Guardando Romeo in quelle condizioni, con il ciuffo decolorato sparato in alto a causa dell’umidità dei capelli, la maglia al rovescio con l’etichetta da fuori e l’espressione atterrita e stupita allo stesso tempo, Fulvia non sapeva se ridere oppure lanciargli un libro addosso.
Tutta la rabbia che le si stava accumulando dentro prima che Romeo arrivasse, sparì improvvisamente di fronte la vista del suo fidanzato; era una cosa che le capitava spesso quando si trattava di Romeo.
<< Dovevi per forza lasciare tutto questo casino nella tua stanza? Lo sai che faccio fatica a muovermi in mezzo a questa confusione >>.
Il tono di voce che aveva usato per pronunciare quelle parole era ben diverso da quello che avrebbe voluto usare al principio, la sua era rassegnazione mista ad affetto.
Romeo si grattò con fare imbarazzato la nuca umida e si affrettò a raccogliere da terra tutti i panni sporchi, riponendoli in maniera confusa nella cesta.
Osservandolo in silenzio mentre compiva quell’operazione con aria mortificata, Fulvia si ritrovò a pensare ancora una volta di essere stata un po’ egoista, non riusciva proprio a non farlo. Romeo non era un principe azzurro, era magro, mingherlino, a tratti effeminato, si comportava in modo ambiguo e aveva un carattere indecifrabile.
Fulvia si era sempre chiesta come avessero fatto Catena e Italia a farlo aprire in modo così naturale, ad accettarlo con tutti quei difetti che si portava dietro; ma poi si era resa conto che alla fine erano proprio tutte quelle cose che lei amava di lui.
Quindi si, avrebbe fatto l’egoista per molto tempo se fosse stato necessario.
Se avesse significato averlo accanto ancora per un po’.
<< Ti sei fatta male? Ti usciranno di nuovo dei lividi sulle gambe, vero? >>.
Domandò Romeo tirandosi in piedi, era carino con quei capelli sparati ovunque e la cesta dei panni sporchi sotto il braccio, ma era talmente magro che sembrava scomparire dietro la pila. Eppure Fulvia sapeva che le sue braccia erano molto più robuste di quanto sembrasse.
<< Beh, in tal caso mi metterai tu la crema come l’altra volta >>.
Fulvia ridacchiò quando lo vide arrossire fino alla punta delle orecchie.
Le piaceva provocarlo in quel modo, perché Romeo aveva un’anima molto più candida di quanto sembrasse.
Era capitato quasi per caso, non sarebbe dovuta toccare a Romeo fare una cosa del genere.
Solitamente erano la nonna o sua madre ad aiutarla a cambiarsi, era un’operazione difficile e faticosa, ma per una serie di motivi imprevisti quel giorno erano rimasti solo loro due.
A Fulvia non aveva dato fastidio che Romeo la vedesse in mutande e in reggiseno.
Non le importava.
Le aveva fatto più male che lui avesse visto le sue gambe.
Se ne vergognava, pur sapendo fosse una cosa sbagliata.
Romeo si era preso cura di lei senza dire una parola, le aveva medicato i lividi e i graffi che si procurava di continuo per la sua avventatezza, l’aveva vestita e si era fatto male al polso per caricarla sulla carrozzina.
Non erano mai stati intimi come in quel momento.
Eppure nulla le era mai sembrato più naturale.
Prendendosi cura di lei in quel modo, Romeo l’aveva fatta sentire bella e normale.
<< Si, ho preso questa decisione proprio grazie a quella volta >>.
Fulvia aggrottò le sopracciglia e guardò Romeo con aria interrogativa, le sue parole non trovarono un senso fin quando non si rese conto che il ragazzo stava osservando attentamente il libro che lei ancora stringeva tra le mani.
Averlo lì davanti a lei le aveva fatto dimenticare il reale motivo per cui voleva arrabbiarsi.
Osservò ancora una volta il tomo e sospirò.
<< Hai deciso di fare infermieristica per quello che è successo? >>.
Romeo scosse la testa e sistemò meglio il cesto sotto il braccio, imbarazzato.
<< Non proprio, io – io avevo già in mente qualcosa del genere. Ho solo trovato la giusta motivazione per prendere definitivamente la mia decisione >>.
Fulvia si allungò verso la scrivania con difficoltà e appoggiò in maniera precaria il libro sul ripiano di legno in disordine.
<< E quando pensavi di dirmelo? >> Romeo arrossì di vergogna.
<< Ascoltami, io- >>.
<< Ok, lo so che non me l’hai detto perché ho un pessimo carattere. Ma va bene, Romeo. Va bene. Voglio solo che tu mi dica una cosa, non lo fai per causa mia vero? Non lo fai perché ti faccio pena e senti il bisogno di farmi da balia per tutta la vita giusto?! >>.
Fulvia aveva visto Romeo arrabbiarsi poche volte nel corso degli anni che avevano trascorso insieme, assumeva un’espressione pericolosa, con gli occhi che luccicavano per la collera.
<< E quando mai mi avresti fatto pena tu eh?! Sentiamo >> Sbottò alzando la voce.
Fulvia non si lasciò intimorire, sapeva che le sue parole avrebbero scatenato quella reazione.
Non l’aveva fatto perché voleva sentirsi dire cose che già sapeva.
L’aveva fatto perché quella volta toccava a lei dire tutto quello che provava.
<< Io ho intenzione di fare molte cose per te in futuro. Quindi vedi di non pensare nemmeno una volta di fare qualcosa del genere per me, chiaro? >>.
<< Fulvia! Ti sto dicendo che- >>.
<< Ho intenzione di andare a vivere con te in una casa troppo piccola, di fare fatica ad arrivare alla fine del mese. Ho intenzione di litigare moltissimo e poi fare la pace, di cucinarti qualcosa di caldo quando torni a casa stanco o di stringerti forte quando hai la febbre e chiami tua madre nel sonno. Ho intenzione di farmi mettere un anello al dito prima o poi e di stirarti io le camice. E si, ho intenzione anche di darti un figlio prima o poi. Ti è chiaro?! Ho intenzione di fare tutte queste cose con le mie mani, sulle mie gambe! So che non sarà facile ma lo farò lo stesso. Quindi pensaci bene Romeo, perché non ho nessuna intenzione di farmi fare da balia dal futuro padre dei miei figli! >>.
Fulvia aveva parlato così tanto, così velocemente e con il cuore completamente esposto tra le mani che Romeo non riuscì a reagire per ben due minuti.
Avrebbe potuto dire di tutto per ferirla, si era talmente esposta che sarebbe bastato poco per farle del male irreparabilmente, indelebilmente, ma l’unica cosa che riuscì a fare fu gettare a terra con violenza il cesto dei panni.
<< Fulvia tu! Tu davvero->> Sbottò appoggiando entrambe le mano sui braccioli della carrozzella per poterla guardare negli occhi, ma non riuscì a terminare la frase che Fulvia gli strinse le braccia attorno al collo e si tirò in piedi appoggiandosi completamente a lui.
Romeo dovette attingere a tutta la sua resistenza fisica per non cadere.
<< Hai visto? Sono in piedi sulle mie gambe. Sei tu le mie gambe, perciò – Ahi! >>.
Romeo non la fece nemmeno finire di parlare che le diede una piccola testata sulla fronte.
<< Ohi, basta! Ho capito che mi ami tantissimo e sono fantastico >>.
<< Ma tu guarda sto - >>
<< Lo faccio perché mi piace Fulvia. È davvero una cosa che mi piace! Tu non hai bisogno di nessuna balia, mi sembra di averti ripetuto non so quante volte che tu per me sei una persona assolutamente norm- >>.
Fulvia lo baciò senza preavviso, a metà parola, barcollarono rischiando di cadere, ma le loro labbra non si separarono finché entrambi non rimasero senza fiato.
<< Quindi vuoi un anello al dito eh? >> La prese in giro lui ridacchiando.
<< Si, con un bel diamante al centro! >>.
<< Ehi, adesso non esagerare! >>.
<< E deve essere d’argento finissimo e - >>.
<< Basta, ti lascio! Mi manderai in banca rotta >>.
<< Vedi prima di diventare ricco >>.
<< Fulvia! >>.
 
A Fiorenza facevano davvero male i piedi, ma non sapeva proprio come dirlo a Telemaco.
Stava finendo di scrivere la tesina quando lui l’aveva chiamata, non avevano in programma di vedersi né di uscire quella sera, ma Telemaco aveva insistito così tanto che alla fine Fiorenza era stata costretta a cedere.
Era capitato solo raramente che lui facesse qualcosa del genere.
Erano state davvero poche le volte che aveva preso lui l’iniziativa, non era mai stato il tipo.
In realtà Fiorenza era spaventata, perché ogni volta che Telemaco l’aveva chiamata in quel modo, era stato per dirle qualcosa che l’avrebbe ferita, qualcosa che le avrebbe fatto male.
Come quella volta che l’aveva lasciata.
Non voglio più vedere la tua faccia, mi fai schifo! Sei una puttana.
Come quella volta che le aveva detto addio per sempre.
Consideralo come un … regalo d’addio, come una conclusione positiva, vedi un po’ tu.
Tuttavia, aveva lo stesso infilato un paio di jeans puliti, pettinato i capelli corti e asimmetrici, indossato un po’ di lucidalabbra, messo la matita, il rimmel, ed era scesa.
Telemaco aveva tagliato i capelli pochi giorni prima, i riccioli dorati che un tempo gli cadevano sugli occhi avevano lasciato spazio ad un taglio corto e militaresco, in quel modo gli occhi verdi screziati di pagliuzze color nocciola erano ben visibili.
Sotto il sole la testa gli scintillava come una moneta d’oro.
<< Si può sapere dove stiamo andando? >>.
Non ce la fece più a trattenersi, i piedi le facevano davvero male, camminare con i sandali per tutta la città non era il modo migliore per evitare delle belle bolle ovunque.
Telemaco rallentò il passo e si girò a guardarla, nonostante si fossero tenuti per mano durante tutto il tragitto lei era sempre stata un passo indietro.
<< Ti stai stancando, vero? >> Le domandò il ragazzo osservando con aria critica i suoi piedi arrossati e la fronte imperlata di sudore << Siamo arrivati comunque >>.
<< Cosa? >> Fiorenza lo guardò con aria perplessa, si erano fermati a metà del ponte che divideva la città vecchia da quella nuova.
L’asfalto era arroventato a causa del caldo eccessivo, il fiume rumoreggiava selvaggiamente scorrendo senza tregua, limpido e possente, i lampioni erano accesi ma c’era ancora la luce calda del sole a rischiarare tutto.
<< Qui sul ponte? Mi hai fatto venire fin qui per il ponte? >>.
<< Esatto! >> Commentò Telemaco con fare allegro, in effetti quel giorno sembrava proprio spensierato, come Fiorenza non lo vedeva da troppo tempo << Il fiume ti piace vero? >> Domandò appoggiando le braccia sulla ringhiera di ferro. Sembrava rilassato.
<< Per nulla! Da piccola ci sono caduta dentro >> Replicò lei.
Telemaco ridacchiò e si girò a guardarla, aveva la barba un po’ sfatta e un brutto brufolo sulla tempia destra, eppure Fiorenza lo trovava ingiustamente bello.
<< Me lo ricordo, me lo raccontasti il giorno della vigilia di Natale vero? >>.
Fiorenza sussultò quando sentì quelle parole, non credeva che Telemaco lo ricordasse.
Quello era stato uno dei giorni più brutti della sua vita.
E lui era stato così cattivo.
<< Una volta sono andato anche io a pattinare sul fiume. Quel giorno avrei voluto dirtelo, ma poi alla fine non l’ho fatto >>.
Fiorenza sospirò pesantemente e sorrise con tristezza.
<< Che cos’hai oggi Telemaco, sembri strano >>.
Telemaco si girò completamente a guardarla e rimase come imbambolato.
Avrebbe voluto stringerla, avrebbe voluto prenderla tra le braccia e tenerla stretta forte a se, ringraziarla per non essersi arresa con lui, per avergli dato una seconda possibilità anche se non la meritava. Avrebbe voluto mettersi in ginocchio e chiedere perdono.
Ma non l’avrebbe fatto dopotutto.
Non serviva farlo più dopo tutto quello che avevano passato.
Lui ne aveva combinate troppe per ammettere che si era sbagliato.
<< Nulla, solo che … solo che non posso fare a meno di ripensare a quel giorno >> Commentò passandosi una mano tra i capelli corti.
<< Beh, non dovresti farlo. Ti farà solo stare male >>.
<< Quindi stai dicendo che io ti ho fatto solo stare male vero? >>.
Fiorenza rimase sorpresa da quella domanda, Telemaco era davvero strano quel giorno.
Non l’aveva mai visto così attivo, felice, pieno di vita … beh, o almeno non lo vedeva così sereno insieme a lei da prima che si lasciassero e succedesse il finimondo.
<< Beh, non posso dire che tu mi abbia sempre reso felice ma - >>
<< È ok, lo capisco. È vero! >> La interruppe subito Telemaco << È per questo che ti ho portata qui in realtà >>.
Fiorenza gli prestò piena attenzione, si girò verso di lui e gli prese una mano.
<< Cosa intendi dire? >> Telemaco tossicchiò un po’ in imbarazzo e fece spallucce.
<< Il giorno della vigilia ti dissi che era completamente finita tra noi. Ma mi sbagliavo, come sempre. Come su tutto. Oggi ti ho portata qui per dirti che … che in realtà qui è dove tutto ricomincia >>.
Le posò le mani sulle spalle e la attirò leggermente verso di se.
Fiorenza glielo lasciò fare, le mani di Telemaco erano calde sulla sua pelle sudata, ma non le importava, non erano mai stati vicini come in quel momento.
Non si erano mai voluti bene come in quell’istante.
<< Ho deciso di regalarti molti momenti felici in futuro. Perciò, tu fidati di me, ok? >>.
Fiorenza sapeva di avere mille motivi per dire di no, per scansarlo bruscamente ed urlargli contro, aveva ricordi ancora così dolorosi di quello che era successo.
Aveva sofferto così tanto che ogni tanto si domandava se il suo cuore non fosse pieno di cicatrici ancora non rimarginate del tutto.
Tuttavia si limitò a sorridere ed annuire, perché gli era bastato guardarlo negli occhi per capire cosa stesse passando nella testa del suo fidanzato, quel messaggio implicito.
Puoi perdonarmi? Puoi perdonare questo stronzo?
<< Si, si, posso provarci >>.
 
Time will tell us whether what we have 
 we’ll survive, but tonight 
I hold on to the mystery and save our 
50 shades of colour

 
Lodovica Comello – 50 shades of colours
 
_____________________________________
Effe_95

 
Buonasera a tutti!
Lo so che questa volta sono stata davvero imperdonabile, quasi due mesi di assenza è troppo. Ma davvero non credevo che gli esami del terzo anno fossero così complicati ^^”.
Ho dato tre esami in poco tempo e non ne ho avuto per scrivere di conseguenza.
Comunque il periodo critico dovrebbe essere passato quindi sarò molto più veloce prometto.
Allora, spero che il capitolo vi sia piaciuto.
Come potete aver notato ci stiamo lentamente avviando verso la fine.
Personalmente non so ancora quanti capitoli manchino alla fine, ma io non ne conto più di una quindicina. Si arriverà al massimo sulla settantina credo.
Per Gabriele e Katerina si avvicina il momento della verità, finalmente.
Ah, prima che mi dimentichi (e sarebbe terribile se lo facessi! ) la canzone che canticchia si chiama, appunto, “Mai così felice” ed è di Federica Carta, molto bella secondo me u_u
Per quanto riguarda invece Romeo, Fulvia, Telemaco e Fiorenza, mi duole dirvi che in un certo senso questo è il loro finale.
Ora, vorrei spiegarmi meglio, non significa che escono di scena e non si vedono più xD
Ci sono ancora gli esami, e saranno capitoli divertenti ed esilaranti ve lo prometto ;)
Per finale intendo che li ho lanciati verso il futuro, verso un qualcosa di concreto o meno.
Verso una nuova partenza.
Spero che la cosa non vi dispiaccia troppo o vi sembri frettolosa.
Io vorrei sempre accontentare tutti e far si che le cose siano perfette, ma mi rendo conto che non sempre sia possibile purtroppo.
Adesso vi lascio che sono stata anche troppo lunga, perdonatemi -_-“
Alla prossima il prima possibile, giuro >_<
Grazie mille come sempre, appena avrò tempo risponderò a tutte le vostre recensioni :)

 

Ritorna all'indice


Capitolo 57
*** Non scapperò più, Posso comprarti? e Provvidenziale. ***


I ragazzi della 5 A
 
57. Non scapperò più, Posso comprarti? e Provvidenziale.



Maggio

Ivan era immerso nella ripetizione dei classici di greco.
Non era mai stato troppo bravo in quella materia, se l’era sempre cavata con un misero sei a fine pagella, ma quell’anno si era ripromesso di impegnarsi almeno un po’ di più in vista dell’esame. “I sette contro Tebe”  non era una delle sue tragedie preferite, eppure il professor Riva era stato così bravo a spiegare durante l’anno che Ivan aveva deciso di fargli fare quanto meno una figura decente all’orale.
Trecentocinquanta versi non erano moltissimi, no … davvero.
Ivan sospirò con aria afflitta e appoggiò il mento sul quaderno delle traduzioni.
Avrebbe dovuto imparare quei versi durante l’anno, così si sarebbe risparmiato tutta quella fatica a meno di un mese dall’esame.
Solitamente gli piaceva restare il pomeriggio a studiare in aula studio, era un posto tranquillo, anche se i primi tempi ci andava solamente per osservare Italia, aveva scoperto che era davvero un ottimo luogo per studiare.
Quel giorno però l’aula era strapiena di ragazzini del primo e secondo anno che facevano un baccano tremendo, il docente di pattuglia sembrava troppo impegnato a leggere il giornale per dire a quei mocciosi fastidiosi di fare silenzio.
Ivan schiacciò le orecchie con i palmi delle mani e rivolse un’occhiataccia al tavolo incriminato, dove i ragazzini ignari facevano tutto tranne che studiare.
Si accorse solamente qualche secondo dopo che qualcuno aveva occupato il posto davanti al suo, quando lo sconosciuto gli picchiettò con il dito sul dorso della mano per richiamare la sua attenzione.
Ivan ci mise qualche secondo di troppo a togliere le mani dalle orecchie.
Era piuttosto impegnato ad osservare Italia che sistemava con cura i quaderni sul tavolo.
Lei non lo guardava negli occhi, compiva tutte le operazioni necessarie con una lentezza un po’ snervante, mentre lui non poteva far a meno di fissarla come un maniaco.
Era da settimane che non parlavano, che nemmeno si guardavano negli occhi.
Ivan non riusciva davvero a fare a meno di chiedersi se non fosse tutto frutto della sua testa.
Forse Italia non l’aveva chiamato, probabilmente l’aveva solo immaginato.
<< Riesci davvero a studiare con tutto questo chiasso? >>.
Ivan trasalì quando arrivò la domanda, tolse definitivamente le mani dalle orecchie e le incrociò sul tavolo abbassando lo sguardo, aveva il cuore che batteva a mille nel petto ed era piuttosto sicuro di essere arrossito, ma Italia non lo stava guardando e Ivan sperò non decidesse di alzare gli occhi proprio in quel momento.
<< Uhm, giusto qualcosina >> Borbottò riportando l’attenzione sul quaderno.
A quel punto toccò ad Italia sollevare lo sguardo.
Aveva fatto una fatica immensa ad avvicinarsi a lui in quel modo, come niente fosse, ma aveva avuto così tanta paura da non trovare un modo diverso per farlo.
Era solo da poche settimane che non parlavano, ma lei trovava già difficile anche solo avvicinarsi a lui.
Lo aveva perdonato, ne era certa.
Era passata sopra a tutto quello che era successo, il tempo che si era data le era servito per capire quanto realmente tenesse a quel ragazzo.
Quanto realmente avrebbe potuto trovare semplice perdonargli qualsiasi cosa.
Non aveva mai preso in considerazione l’eventualità che lui potesse essersi stancato di aspettarla. Dopotutto l’aveva fatto per ben cinque anni, perché avrebbe dovuto farlo ancora?
Perché farlo quando lei aveva sofferto così poco, quando era stata così egoista?
Italia fu assalita dal panico, ma tentò di controllarlo.
<< Stai studiando greco? >> Domandò guardandolo con il viso pallido e sudato, preoccupata, a differenza del tono di voce che invece era tranquillo e mascherato.
Ivan le sembrava terribilmente bello quel giorno.
Era sempre stato bello, ma Italia cominciò a domandarsi se non fosse la paura di perderlo a renderlo irresistibile ai suoi occhi. Era un tipo di dolore che non aveva nulla a che fare con il narcisismo o altro, Ivan gli sembrava bello in tutti i sensi.
Un’anima bella che aveva tenuto tra le mani senza nemmeno accorgersene.
Aveva i capelli alzati su con la gelatina in maniera disordinata, indossava una maglia a giro maniche che metteva in mostra tutti i tatuaggi, quelli vecchi e quelli nuovi che aveva appena fatto sulle dita delle mani e sul collo.
Ivan aveva sempre detto di detestare il rosso per via della sua pelle pallida, ma lo indossava spesso, anche quel giorno. Si intravedeva un principio di crescita della barba sul mento e aveva come al solito un brufolo sulla fronte, nascosto da qualche ciocca ribelle.
<< Uhm >> Si limitò a replicare lui continuando a tenere lo sguardo fisso sul quaderno.
Italia sentì il proprio cuore sprofondare ancora di più nel petto.
Si morse convulsamente il labbro superiore e spostò lo sguardo sul pacchetto regalo che aveva nascosto sulle cosce mentre svuotava la cartella.
Erano i cd che aveva comprato solo pochi giorni prima.
Voleva darglieli, ma non sapeva se fosse troppo tardi.
La corda si era davvero spezzata?
<< Io ho già imparato tutte le traduzioni a memoria, vuoi che ti sent- >>.
La sua domanda venne bruscamente interrotta dalle risate di tre ragazzine che si erano appena avvicinate al loro tavolo. Dovevano essere tutte e tre del secondo anno, eppure sembravano molto più grandi, guardando il loro trucco pesante o i loro abiti così succinti Italia si sentì stranamente trasandata e fuori luogo.
Quella mattina aveva fatto un codino disordinato per raccogliere i capelli, non si era truccata e non aveva nemmeno avuto il tempo di mettere le lenti a contatto.
Anche lo scamiciato che aveva indossato in quel momento le sembrava sbagliato.
Non aveva mai fatto pensieri simili prima in vita sua, ma quando quelle tre ochette si erano avvicinate ad Ivan ridacchiando come delle stupide, non aveva potuto farne a meno.
<< Ehm, ehm. Scusami? >> Disse una delle tre picchiettando Ivan sulla spalla, Italia le rivolse un’occhiataccia che la tipa non notò nemmeno, quasi lei non esistesse.
Ivan sollevò distrattamente lo sguardo dal quaderno e fissò le più piccole con aria sorpresa, come se si fosse accorto solo in quel momento della loro presenza.
Come se le loro risatine non fossero sufficientemente fastidiose da attirare l’attenzione.
Italia spostò l’occhiataccia su di lui, ma anche Ivan la ignorò.
<< Si? >> Domandò togliendosi un’auricolare dall’orecchio sinistro, Italia lo notò solo in quel momento. Quindi mentre lei parlava lui stava ascoltando della musica?
E perché per parlare con quelle sconosciute toglieva le cuffie?
Italia fu assalita da un moto di nausea che non aveva mai provato prima in vita sua.
<< Ehm, ho sentito dire che i tuoi genitori sono i proprietari dell’Olimpo >> Continuò la ragazzina giocherellando con una ciocca di capelli, Italia si lasciò scappare un risolino non troppo rumoroso. Come poteva provarci così spudoratamente?
<< Si, è vero. E? >> Le rispose Ivan continuando a guardarla come se si aspettasse qualcosa.
<< Vorrei fare la mia festa di compleanno lì, mi daresti il tuo numero di telefono? >>.
Italia stentò dal trattenersi dal ridere, era davvero una pessima scusa.
Ivan sollevò un sopracciglio e incrociò le braccia al petto.
Sembrava terribilmente intimidatorio in quella posa, Italia riusciva a leggerlo negli occhi rapiti delle sue compagna di scuola, con quei tatuaggi e l’aria da duro doveva sembrare bello e accattivante.
Italia fu contenta di rendersi conto che in realtà lei fosse l’unica a conoscerlo davvero.
Il suo animo puro e buono, la sua indole tranquilla, tutto quello che non si vedeva dietro quei tatuaggi che lo facevano bollare immediatamente come un pianta grane.
<< Perché il mio numero? Posso darti quello del locale >>.
Italia lo amò ancora di più quando lo sentì rispondere in quel modo.
<< Ah, ehm … in realtà io – ecco, io vorrei chiamare te per decidere quando organizzare un giorno per vedere il posto e - >>.
<< È una cosa di cui si occupano i miei. Davvero, devi chiamare >>.
<< Non – non puoi farmi fare un giro tu? >>.
Quando la sconosciuta si piegò in avanti avvicinando il proprio viso ricoperto di cerone a quello di Ivan, Italia perse completamente la pazienza.
Sbatté con violenza un libro sul tavolo, facendo trasalire Ivan e le tre ochette.
<< Adesso basta, eh! Smettila di provarci con il mio ragazzo dannazione! >>.
La diretta interessata si girò a guardarla come se si fosse davvero accorta di lei solo in quel momento, Italia aspettò che la sconosciuta la scansionasse come una macchina e giungesse alle proprie conclusioni.
Quali fossero già lo sapeva, ma non che le importasse poi tanto.
<< Il tuo ragazzo?! >> Domando quella scoppiando a ridere, come se l’idea fosse folle.
Italia strinse più forte il pacchetto che stringeva tra le mani, nascosto ancora sulle gambe sotto il tavolo, poi si accorse che finalmente Ivan la stava guardando.
Non riuscì a fare a meno di sorridere quando lo vide con gli occhi sgranati e la bocca spalancata come un pesce lesso mentre la fissava.
<< Si, il mio fantastico, meraviglioso, strepitoso ragazzo >> Disse continuando a fissarlo negli occhi, e fu come se in un certo senso tutto il resto fosse sparito.
C’erano solo loro due, lì, in quel preciso istante.
E si amavano, e bastava.
<< Potreste – potreste andarvene per favore? >> Mormorò Ivan in direzione delle tre, senza nemmeno guardarle negli occhi. Quelle si allontanarono borbottando qualche insulto.
<< Finalmente ti degni di parlarmi >> Commentò Italia, Ivan fece spallucce.
<< Stavo solamente cercando di capire se stessi sognando oppure no >>.
Italia abbassò lo sguardo per un istante, poi sospirò e tornò a guardarlo con maggiore intensità di quanto non avesse fatto prima.
<< Mi dispiace se mi sono presa tutto questo tempo Ivan, davvero >>.
<< No, non ti biasimo, io – io non avrei mai dovuto mentirti. Non avrei dovuto dubitare di te, né tradire la tua fiducia. Lo so che non c’è niente di peggio di questo, io - >>.
<< Qualcosa di peggio c’è >> Sbottò Italia prendendogli all’improvviso le mani.
Ivan aveva sempre avuto delle mani grandi e ruvide, mani da musicista, e Italia amava intrecciare le loro dita. Le sue erano così piccole che sembravano quasi sparire.
<< La tua indifferenza. Ho pensato che fosse troppo tardi, ho pensato di aver esagerato. Ho rischiato di morire un centinaio di volte prima, mentre ti parlavo >>.
Ivan sgranò gli occhi e rafforzò la stretta delle loro mani.
<< No Italia, no! Io … ho cercato di starti lontano per non sembrare asfissiante. Volevo – volevo darti tutto, tutto il tempo che - >>.
Ivan non riuscì a terminare nemmeno la frase che Italia si sporse in avanti e lo baciò.
Il vociare confusionario nell’aula si fece più mite, ma a loro non importò.
Non importò davvero.
<< Oh, wow >> Mormorò Ivan quando lei lo lasciò andare, Italia ridacchiò.
<< Non lasciamoci mai più >> Dichiarò lei, continuando a stringergli le mani con affetto.
<< Non mentiamo più, non scappiamo più. Non funziona >>.
Ivan la guardò per un istante, poi mise su quel sorriso un po’ infantile che gli faceva uscire le fossette sulle guance, agli angoli della bocca.
Quel sorriso che Italia non poteva fare a meno di amare immensamente.
<< Non mentirò più, non scapperò più. Lo prometto >>.
<< Promettere è pericoloso >> Scherzò lei ridendo con spensieratezza.
Quel giorno indossava gli occhiali con la grossa montatura nera, era da un po’ che non li portava, Ivan fu contento di vederglieli addosso, era una parte di lei che l’aveva fatto innamorare così velocemente il primo giorno di scuola del primo anno di liceo.
<< Mi assumerò i rischi >> Dichiarò lui avvicinandosi nuovamente per baciarla.
<< Oh, ma che frase da macho >> Sussurrò lei quando ormai le labbra di Ivan si trovavano ad un centimetro dalle sue, ma prima che il moro potesse baciarla gli morse lievemente il naso e infilò il pacchetto regalo tra le sue mani.
<< Ma che – Oh >> Ivan ebbe una reazione davvero sorprendente, sgranò gli occhi toccandosi il naso, poi vide il pacchetto tra le mani e sobbalzò come una femminuccia.
<< È solo un regalo Ivan! >> Lo rimproverò Italia faticando a trattenere una risata.
Ivan le rivolse un’occhiataccia, ma si limitò silenziosamente a scartare il regalo.
In trepida attesa per la sua reazione, Italia lo vide prima sgranare gli occhi, poi fissare intensamente la collezione di cd come se fossero un’allucinazione e infine nascondere la faccia tra le mani per nascondere il rossore, l’imbarazzo e la commozione.
<< Ivan! >> Lo richiamò lei con affetto, picchiettandolo sull’avambraccio.
Lui aprì le dita a fessura mostrandole due occhi rossi e lucidi.
<< Ti amo >> Sussurrò tra le mani, con la voce roca, come se fosse un segreto prezioso.
Italia arrossì, ma nascose anche lei il viso tra le mani, lasciando visibili gli occhi dalle fessure.
<< Ti amo anche io>> Sussurrò a sua volta, nello stesso modo.
E scoppiarono a ridere insieme, tra un mucchio di cd e un quaderno delle traduzioni.
 
Che queste braccia sono così stanche
Stanche di respingerti ora
Che queste braccia ti stanno aspettando ancora
 
Federica Carta – Ti avrei voluto dire
 
Quando Lisandro aveva telefonato a Beatrice, era convinto che avrebbe avuto più coraggio.
Sentirla dall’altre parte dell’apparecchio aveva fatto sembrare tutto molto più semplice.
Gli aveva fatto credere di poter fare una cosa del genere senza avere troppa paura, che sarebbe stato veloce come uno strappo di ceretta, doloroso  ma efficace.
Mentre la vedeva avanzare verso di lui sul marciapiede affollato, non ne era più sicuro.
Aveva pensato di mandare un messaggio ad Enea, di dirgli quello che stava per fare, ma conosceva piuttosto bene il suo migliore amico da sapere che non l’avrebbe apprezzato, e poi ricordava ancora bene l’ultima conversazione che avevano avuto.
Solo … non dirmi niente, va bene?
Enea non avrebbe voluto saperlo.
Era l’ultima opportunità di salvare la loro amicizia, non voleva sporcarla.
Quando Beatrice si fece più vicina, la salutò con un sorriso allegro e un cenno della mano.
Non era mai stato molto bravo a nascondere le proprie emozioni, ma si sforzò di farlo quanto meno per non spaventarla.
Lisandro non era sicuro che dopo quella conversazione lei avrebbe continuato a guardarlo nello stesso modo, in realtà non era nemmeno sicuro che lei avrebbe continuato a considerarlo anche solo lontanamente nello stesso modo.
<< Ehi Lisa, sono in ritardo? Scusami >> Beatrice era dolorosamente bella quel giorno, di una bellezza che trascendeva l’aspetto fisico in se, era una bellezza radiosa che veniva direttamente dal suo stato d’animo tranquillo e sereno.
<< Ma no, tranquilla. Senza contare che ti ho chiamato senza preavviso >> Commentò Lisandro grattandosi la nuca, aveva nuovamente rasato i capelli da poco e non poteva più nascondere le dita nelle ciocche. Tentò di non osservarla troppo mentre si sistemava meglio sulla sedia e sollevava i lunghi capelli mettendo in mostra il collo pallido.
<< Oggi fa veramente caldo. Hai già ordinato? >> Domandò lei prendendo il menù del bar.
Lisandro per un istante aveva addirittura dimenticato dove si trovava.
Quello era il suo bar preferito in assoluto, si trovava nella parte vecchia della città, sotto i porticati che a Natale ospitavano tantissime bancarelle e negozi meravigliosi.
Gli piaceva perché era gestito da due persone anziane sposate da quarant’anni.
I proprietari lo conoscevano da quando era un bambino e lo trattavano come un nipote.
Lisandro si morse convulsamente il labbro e sospirò, stava cominciando a pentirsi di aver invitato Beatrice proprio in quel posto, non voleva trasformarlo in un brutto ricordo.
<< No, non ancora. Comunque ti consiglio le granite, le fanno artigianali qui >>.
<< Davvero? >> Domandò Beatrice richiudendo il menù e guardandolo negli occhi, Lisandro tentò di non abbassare lo sguardo << Allora mi fido di te >> Terminò sorridendo.
Lisandro si morse violentemente il labbro inferiore fino a sentire il sapore metallico.
Probabilmente Beatrice se ne accorse perché aprì la bocca per dire qualcosa, ma l’intervento della figlia dei proprietari, una donna minuta ed elegante, lo salvò dall’umiliazione di dover dare una spiegazione al suo palese nervosismo.
<< Ohi Lis, è bello vederti! Ma non dovresti stare a casa a studiare per l’esame? >>.
Domandò la donna prendendolo un po’ in giro, Lisandro rivolse un’occhiata imbarazzata a Beatrice, che sorrise, e si grattò nuovamente la nuca.
<< Si, tra poco torno a casa, promesso! >> Balbettò rosso come un pomodoro.
La donna sorrise e fece l’occhiolino a Beatrice, come se fossero complici.
<< Hai un fidanzato davvero per bene, ma è un vero ciuccio! >> Lisandro rischiò di affogarsi.
<< Non stiamo insieme! >> Si affrettò a commentare buttando le mani in avanti come se dovesse difendersi da un colpo improvviso, Beatrice sollevò le sopracciglia.
La donna li guardò perplessa e scoppiò ancora una volta a ridere.
<< Beh, dovreste allora! Siete così carini che - >>.
<< Vorremmo ordinare due granite alla mandorla per favore, Elisa >>.
La donna sollevò le sopracciglia e mise su un’espressione leggermente delusa che addolcì immediatamente, come se avesse capito solo sentendo quelle poche parole, tutto quello che Lisandro aveva sempre tentato di nascondere e aveva accettato con immensa fatica.
<< Sembra una brava persona, perché non ci fai un pensierino? >>.
Quando Beatrice pronunciò quelle parole dandogli di gomito, una volta che Elisa si fu allontanata con l’ordinazione, Lisandro strabuzzò gli occhi e rimase in silenzio il tempo necessario per sembrare una persona un po’ tarda a cui bisognava ripetere le cose due volte perché le capisse.
<< Stai scherzando?! Ha vent’anni più di me, è sposata e ha anche quattro figli! >>
<< Andiamo Lis, sto scherzando >> La risata di Beatrice fu così cristallina e genuina che Lisandro non ce la fece proprio a fingersi arrabbiato, era troppo impegnato a guardarla.
Avrebbe voluto tirarsi una sberla da solo.
Non avrebbe risolto assolutamente nulla continuando in quel modo.
<< Non è uno scherzo divertente … >> Mugugnò guardandola solo un po’ di traverso, giusto per farla sentire un pizzico in colpa << … figurati se io – Bah! >>.
Beatrice smise di ridere e tornò a guardarlo con quegli occhi grigi tempestosi e pieni di vita, era felice come Lisandro non l’aveva mai vista in tutto quell’anno che avevano trascorso come vicini di banco.
Doveva amare Enea veramente tanto per essere così felice.
<< E che mi dici di Sara? Tu le piaci, si vede >> Lisandro cominciò a pensare che se Beatrice avesse continuato a fargli quelle domande così all’improvviso, sarebbe morto entro pochi minuti, proprio su quella sedia, nel suo bar preferito.
<< Sara?! Ma chi se la prenderebbe mai quella piaga soc- >>.
<< Ehi, non sei un po’ troppo cattivo? E poi, non lo sai ? “Chi disprezza vuol comprare” >>.
Elisa arrivò proprio in quel momento con le loro granite, se Beatrice non fosse stata distratta a trattenere una risata palese, e Lisandro a cercare di non andare in iperventilazione, entrambi sarebbero rimasti colpiti dalla bellezza con cui erano preparati i bicchieri.
Quando Elisa se ne andò rimasero in silenzio per un po’.
<< Oh, questa granita è deliziosa! >> Commentò in fine Beatrice, guardando con sorpresa il cucchiaino che stringeva tra le mani << Il sapore delle mandorle è fortissimo, non sembra proprio che ci sia anche del ghiac- >>.
<< Ti disprezzo >>.
<< -cio. Che cosa hai detto? >>.
Se la situazione non fosse stata disperata come in quel momento, Lisandro sarebbe scoppiato a ridere di fronte l’espressione scioccata di Beatrice, ancora con il cucchiaino sollevato a mezz’aria e il rossetto leggermente sbavato all’angolo della bocca.
Una volta sua madre gli aveva detto che sarebbe stato difficile raccogliere i pezzi.
Quel giorno Lisandro avrebbe lasciato solo polvere.
Non avrebbe lasciato più nulla da raccogliere.
<< Ho detto che ti disprezzo. Questo significa che posso comprarti? >>.
Questo significa che posso amarti?
Ci vollero esattamente cinque secondi perché Beatrice reagisse.
Abbassò prima lentamente il braccio, riponendo il cucchiaino nella granita già in fase di scioglimento, poi lasciò cadere la mano sul tavolo stringendo le dita.
E infine abbassò lo sguardo.
Lisandro strinse le braccia attorno al petto e fece spallucce, ridacchiando lievemente.
<< Lo so che non posso. In realtà, non lo vorrei neppure arrivati a questo punto. Ma una volta qualcuno mi disse che i sentimenti possono diventare una malattia davvero pericolosa se li tieni per te. Possono mandarti in cancrena il cuore. E alla fine, volevo che tu lo sapessi >>.
I loro sguardi si incrociarono di nuovo in una frazione di secondo e vi rimasero come incatenati, era sorprendente come l’atmosfera fosse cambiata in quei pochi attimi.
Era sorprendente come le parole potessero avere quel tipo di potere.
<< Questi sentimenti di cui mi vergogno, questi sentimenti che mi stanno mandando il cuore in cancrena … scusami se te li ho gettati addosso in questo modo. Ma davvero io … non sapevo più che cosa fare per non impazzire >>.
Era strano per Beatrice, aveva sempre trovato le parole da usare per ogni situazione, anche quelle dove di parole davvero non ce n’erano, ma quella volta che avrebbe dovuto esplodere come un fiume in piena non ne aveva nemmeno una.
Non riusciva a fare altro che osservare il migliore amico del suo fidanzarlo parlare d’amore.
E non sapeva come aiutarlo, non sapeva come tirarlo via da quella situazione.
Non sapeva nemmeno se dirglielo, che lei aveva capito tutto da molto tempo.
<< Ti prego, non dirlo ad Enea. Gli ho promesso che - >>
<< Mi dispiace, devi aver sofferto molto per colpa mia >>
Se il tempo si fosse fermato in quell’istante, probabilmente Lisandro avrebbe fatto di tutto per scappare, mentre Beatrice per restare ferma lì dov’era a chiedere perdono.
<< Ah, ah, no – non così tanto, dopotutto è solo una cotta, davvero – ah, ah >>
Lisandro accompagnò la risatina nervosa grattandosi la nuca per l’ennesima volta, con lo sguardo altrove, lo sguardo di chi non è bravo a mentire.
Beatrice mise su un sorrisino triste che per fortuna Lisandro non vide.
<< Mi dispiace davvero però. Scusami >>.
Scusami per aver fatto finta di niente, scusami.
Ma davvero credevo che tu non me l’avresti mai detto.
Credevo davvero di poter far finta di nulla per sempre.
<< Ok no, non fa nulla! Io- beh, suppongo sia già tanto che tu mi rivolga ancora la parola … ah,ah,ah. Adesso io – io devo andare. Ti lascio i soldi qui, puoi pagare tu? Ciao >>.
Beatrice non ebbe modo di fermarlo, ma nemmeno ci provò.
Sapeva che sarebbe stato egoistico da parte sua anche solo dire una parola di conforto, anche solo compatirlo, l’unico regalo che poteva fargli era restare in silenzio.
Era accettare quei sentimenti in qualche modo.
Era sperare che tutto quel peso potesse sparire da quelle spalle gentili, miti e insicure.
Era sperare che Lisandro potesse vivere meglio lasciandola andare.
Beatrice pregò Iddio che quel peso che adesso Lisandro le aveva passato, potesse davvero liberarlo. Dargli la libertà di amare nuovo qualcun’altro.
Rimase seduta al tavolino ancora per una decina di minuti, guardando le loro granite ormai sciolte e le decorazioni floreali appassite.
<< Ehi Lis, ti chiedo scusa se sapevo tutto e ho fatto finta di non vedere. Ma davvero, ero troppo spaventata per affrontarti. Avevo troppa paura di ferirti >>. 
Quelle parole le sussurrò a un fiore, rattristata.
Sperò che un giorno, con il passare del tempo, Lisandro potesse sentirle da lei.
Quando il tempo avrebbe guarito tutte le ferite.
 
<< Pss, ehi, Alješa! Che diavolo hai risposto alla terza domanda di storia? >>.
Aleksej avrebbe davvero voluto ignorare Gabriele di tutto cuore, ma il cugino era seduto proprio dietro di lui e non la smetteva di tirargli calci sotto la sedia, o di picchiettarlo dietro la schiena con la punta acuminata e ben temperata di una matita che aveva preparato apposta, e che non avrebbe mai davvero usato per la simulazione.
<< Quella su Giolitti. Andiamo, Alješa! >> Gabriele bisbigliò il suo nome con tale forza che Aleksej rivolse immediatamente lo sguardo alla cattedra, fortunatamente per loro quel giorno era toccato il professor Riva come supervisore.
<< È la numero tre, devi mettere la crocetta sulla numero tre! >>.
Replicò Aleksej tra i denti, avrebbe perso la concentrazione se Gabriele avesse continuato a torturarlo in quel modo, ne era certo. Guardò con aria afflitta le domande di matematica,  cominciò a risolvere il primo esercizio quando Gabriele gli mollò un altro calcio, proprio sulla caviglia scoperta.
A quel punto successero un po’ di cose contemporaneamente.
<< Mi hai fatto male deficiente! >>
Sbottò Aleksej ad alta voce, ormai completamente privo di pazienza. Il professor Riva sollevò lo sguardo dal libro di greco con espressione sorpresa e Giasone saltò in piedi come un grillo correndo verso la porta mentre si stingeva la pancia tra le mani.
Il professore saltò in piedi per seguirlo, e a quel punto scoppiò il finimondo.
Aleksej non si accorse nemmeno dello schiaffo che Gabriele gli diede dietro la nuca.
Era troppo impegnato ad osservare il caos che regnava nella sua classe.
Vide Romeo scattare in piedi e dirigersi verso la porta, pronto a fare il palo.
<< Catena, mi serve la risposta tre e quattro di storia, più gli esercizi di matematica! >>
Disse Romeo concitatamente, mentre osservava con occhio vigile il corridoio per vedere se qualcuno stesse passando o se il professor Riva avesse deciso di tornare.
Catena si fiondò sul banco dell’amico e cominciò a rispondere febbrilmente a tutte le domande che Romeo aveva lasciato in bianco.
Contemporaneamente Aleksej vide Telemaco e Igor litigare furiosamente.
Il moro continuava a stringere la prova al petto scuotendo la testa come un forsennato, mentre Telemaco provava in tutti i modi a strappargliela di mano, imprecando come un marinaio contro il suo migliore amico.
<< Dobbiamo solo scambiarci i fogli Igor! Non se ne accorgerà! >> Strillava Telemaco.
<< Si, se ne accorgerà eccome! >> Replicava Igor in preda alla nausea.
Lo sguardo di Aleksej venne poi distratto dalle ragazza, erano decisamente le più discrete.
<< La prima di arte è Caravaggio giusto? >> Domandava Beatrice spulciando le sue risposte.
<< Non è Canova? >> Replicava Sonia aggrottando le sopracciglia.
<< No, no è Caravaggio, ne sono certa >> Rispondeva in replica Miki.
E andarono avanti in quel modo anche con le domande delle altre materie.
<< Ah, la diarrea di Giasone è stata provvidenziale! >>.
Aleksej trovò il commento gioioso di Zosimo completamente fuori luogo.
Il folletto si era addirittura accovacciato sul banco di Cristiano e stava copiando tutte le risposte dell’amico, che nel frattempo invece aveva abbandonato la sua postazione per andare a vedere cosa stesse combinando Sonia.
I due litigavano, lei furiosamente, lui con più pacatezza, su quale fosse il corretto risultato di un esercizio di matematica sui limiti.
<< Ti dico che non è così! >>.
<< Si che è così invece! Ma tu perché sei venuto a rompere le scatole proprio a me!? >>.
<< Pensa a correggere piuttosto >>.
Aleksej scosse la testa e decise di non perdere altro tempo, era a conoscenza della spudoratezza con cui i suoi compagni di classe copiavano ad ogni compito, ma ogni volta la cosa lo lasciava sostanzialmente basito.
Lui non aveva mai avuto bisogno di copiare nulla.
Spostò lo sguardo sul suo banco per terminare gli esercizi di matematica, ma non trovò più il foglio. Come gliel’avevano sottratto senza che lui se ne accorgesse?
Controllò prima che non fosse volato da qualche parte, ma non lo trovò.
Poi ispezionò per bene sotto il banco, ma nulla.
<< Ohi, dov’è il mio compito? >> Esclamò a gran voce tirandosi in piedi, ma erano tutti così presi dal copiare furiosamente che nessuno gli prestò ascolto.
Sospirò affitto, deciso a controllare i banchi di tutti, quando sentì tossicchiare si girò verso Gabriele, che sembrava molto più rilassato di quanto non fosse stato prima.
<< Puoi finire matematica per favore? Mi manca solo quella da copiare. >>
Aleksej fulminò il cugino con lo sguardo mentre lo vedeva restituirgli il compito con tutta la calma possibile. Gabriele fece spallucce e lo incitò ad affrettarsi.
<< Che c’è? Tu eri distratto e ne ho approfittato >> Si giustificò sbadigliando.
Aleksej fece per replicare qualcosa, ma proprio in quel momento Romeo diede l’allarme.
<< Stanno tornando, svelti! >>.
In men che non si dica, prima che Aleksej avesse il tempo di sedersi e riprendere la penna in mano, nell’aula tornò tutto in ordine e calò un silenzio di tomba, come se nessuno avesse mai lasciato il proprio posto o alzato la voce o fatto baccano.
Quando il professore rientrò il calasse con l’aria trafelata, come se si fosse reso conto solo in quel momento di aver lasciato l’aula incustodita, e si ritrovò davanti la classe composta, emise un sospiro di sollievo.
Dietro di lui Giasone non sembrava stare molto bene, era pallido.
Tuttavia Aleksej ebbe come la sensazione che perfino lui avrebbe preso un voto alto a quella simulazione della terza prova, poco prima che il professore ritornasse aveva intravisto con la coda dell’occhio Italia e Ivan completare anche il suo compito.
Aleksej si ritrovò a sorridere mentre passava di nascosto la prova finita al cugino.
La sua era una classe di matti ed imbroglioni, ma non gli importava.
Adorava la sua classe con tutti quei difetti, anche se non l’avrebbe ammesso mai ad alta voce.
 
 
_________________________________
Effe_95
 
Buon pomeriggio a tutti :)
Questa volta ho fatto molto più in fretta vero? Sono proprio fiera di me u_u (questo dovrebbe dirvela lunga su di me xD). Comunque ad ogni modo, mi rendo conto che probabilmente questi ultimi capitoli stanno risultando un po’ pesanti, ma è la conseguenza del fatto che tutti i nodi stanno lentamente andando al pettine.
Cercherò comunque ad ogni modo di lasciar sempre la vena ironica nel tragico, promesso.
Per quanto riguarda questo capitolo in particolare, spero che vi sia piaciuto.
Non lo dico spesso, anzi, non lo dico praticamente mai, ma sono contenta di come sia venuto.
Sono contenta in particolar modo della terza e ultima parte, volevo dare l’idea di una scena frenetica ma al contempo divertente e credi in parte di esserci riuscita.
E poi questo vi da un assaggio di come saranno gli esami ;)
Per quanto riguarda Lisandro e Beatrice sono proprio curiosa di sapere cosa ne pensate.
Per loro ho in mente un altro breve confronto più avanti, ma avevate sospettato che Beatrice avesse capito tutto? Avevo lasciato degli indizi, ma non so …
Grazie mille come sempre a tutti per il sostegno, sembrerà banale ma per me è davvero importante. Non mi importa che il numero delle visite o delle recensioni sia calato, sapere che comunque continuate a seguirmi dopo tutto questo tempo e con la stessa dedizione per me è un motivo sufficiente per dare tutta l’anima, ogni singola briciola delle mie possibilità.
Detto questo, e dopo essere stata infinitamente melensa, grazie di cuore.
Alla prossima spero :)
 
 
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 58
*** Cresciuto, Arrivo e Cespuglio ***


I ragazzi della 5 A
 
58.Cresciuto, Arrivo e Cespuglio.


Maggio

Gabriele aveva mal di stomaco, ma si sentiva stranamente tranquillo.
Non aveva paura di fare ciò che si era prefissato quella sera.
Tutte le volte che aveva immaginato come sarebbero potute andare le cose se avesse aperto bocca, gli erano venute in mente solamente scene dell’apocalisse.
Ma sapere che tra le persone sedute attorno a quel tavolo c’erano anche loro, Aleksej e Katerina, sapere che sarebbero stati sempre dalla sua parte, gli facevano apparire la situazione molto meno spaventosa.
Il cuore non gli batteva nel petto freneticamente.
E non aveva nemmeno le mani sudate.
Un bel passo avanti considerata tutta la resistenza che aveva fatto per evitare che quel giorno arrivasse. Considerato che aveva sofferto come un cane lasciando Katerina.
<< Cosa c’è Gabriele, non ti senti bene? Hai lasciato il piatto pieno >>.
Gabriele fissò sua nonna come se non la riconoscesse, era così perso nei suoi pensieri che non si era nemmeno accorto di aver cominciato a giocherellare con la forchetta nel cibo.
Non era mai stato così distratto durante una cena di famiglia.
Inoltre, doveva essere una cosa piuttosto insolita per gli altri non vederlo mangiare come un lupo affamato, perché quando sollevò gli occhi dal piatto si ritrovò gli sguardi di tutti puntati addosso.
<< Sto benissimo! >> Commentò con enfasi, poi incrociò lo sguardo di Katerina e si mortificò. Non voleva farla preoccupare, lui stava bene davvero, era pronto.
<< Sei preoccupato per l’interrogazione di fisica di domani? >> Domandò Lara, sua madre, mentre si versava dell’acqua fresca nel bicchiere.
<< No, tanto farò schifo comunque >> Replicò Gabriele facendo spallucce.
<< Ohi signorino, guarda che - >>
<< Io e Katerina usciamo insieme >> Gabriele lo tirò fuori con una naturalezza che non si sarebbe mai aspettato da se stesso, non sentiva nemmeno il cuore battergli freneticamente nel petto o quella tipica ansia pre-esame che faceva venire la tremarella alle mani << O meglio, stiamo insieme da più o meno un anno. Certo, se non si considera le volte in cui ci siamo lasciati … ehm … più o meno ogni tre mesi, ma - >>.
Gabriele si interruppe di colpo quando sentì sua sorella Alessandra scoppiare a ridere, seguita a ruota da Jurij ed Ivan, il gemello di Katerina e il fratello più piccolo di Aleksej.
Gli adulti invece lo guardavano immobili come statue, sua nonna Luna era rimasta con il mestolo sollevato a mezz’aria nell’intento di servire un’altra porzione di arista a suo padre Nicola, mentre sua madre aveva rovesciato tutta l’acqua sul tavolo.
<< Stai scherzando vero? >> Commentò Alessandra dandogli un pugno sul braccio << Dai Gab, non è divertente! Katerina è tutta rossa, non vedi? >>.
In realtà Katerina non era rossa per nulla, aveva il solito sguardo fiero da regina del ghiaccio che aveva ereditato dalla madre e sembrava estremamente orgogliosa di lui.
<< Già, mia sorella fidanzata con Gabriele?! Ma se sono praticamente parenti! >> Sbottò Jurij con eccessiva enfasi, e scoppiò a ridere di nuovo coinvolgendo anche Lisa, Andrea e Simone, che non avevano realmente compreso le cose.
Tuttavia quella situazione era qualcosa che a Gabriele non faceva ridere nemmeno un po’.
Era scappato troppe volte per lasciare che qualcuno potesse ridere di lui, aveva pianto troppe lacrime per la vergogna e desiderato troppo incessantemente che quei sentimenti sparissero.
Aveva desiderato troppe volte poter dimenticare tutto e far si che Katerina sparisse.
Era caduto troppo in basso per farsi deridere in quel modo.
Non avevano la minima idea di quanto male si fosse fatto alle gambe per le troppe cadute.
Non avevano  la minima idea di quante volte avesse sbagliato strada o si fosse perso.
Non avevano la minima idea di nulla
<< NON SIAMO PARENTI! >> Gabriele alzò talmente la voce che fu finalmente come se l’incantesimo si spezzasse, la nonna lasciò cadere il mestolo di nuovo nella pentola e sua madre imprecò, cominciando a raccogliere i tovaglioli per asciugare la tovaglia.
<< Ok, ci consideriamo cugini ma non lo siamo davvero! Francesco e Iliana non hanno nessun tipo di parentela con mia madre e mio padre! >>.
<< Gabriele, aspet- >>.
<< No, papà! Non aspetterò più un bel nulla, ok? >>.
Gabriele decise di ignorare lo sguardo allibito e sconcertato di Jurij, o quello severo di suo padre o quello intimidatorio di Francesco, che sembrava sul punto di scoppiare da un momento all’altro. Ormai aveva perso il controllo e non voleva fermarsi.
Fermarsi in quel momento avrebbe significato gettare tutto all’aria.
Avrebbe significato crescere, soffrire, sbagliare e prendere decisioni per nulla.
E non aveva fatto così tanti errori per fermarsi in quel momento.
Sarebbe andato fino in fondo, sarebbe cresciuto quel giorno.
<< Ho avuto così tanta paura di voi che adesso mi sento davvero uno stupido! Ok, va bene ho vent’anni, sono praticamente un adulto mentre lei è ancora una bambina, e allora? Mi sono vergognato abbastanza per questo! Mi sono punito abbastanza. L’amore non è sufficiente per stare insieme? È davvero così importante che io sia più grande di lei? >>.
Gabriele aveva come la sensazione di aver esagerato, aveva il fiato corto per aver alzato la voce e lo sguardo severo, sconvolto o indifferente degli altri puntato addosso.
Si sentiva a disagio perché non aveva mai parlato così tanto o così apertamente con qualcuno. Non si era mai messo così tanto a nudo come in quel momento.
Era una parte nuova di se stesso che ancora non conosceva.
<< Gabriele!>> Gabriele raggelò quando Francesco si decise finalmente a parlare.
L’uomo aveva gli stessi occhi della figlia, grigi e tempestosi, severi.
Lo fissavano come se avessero voluto leggerlo fin dentro le ossa e Gabriele si rese conto per la prima volta che per tutto quel tempo aveva avuto paura proprio di lui.
Aveva avuto paura di quel confronto, più che affrontare suo padre, più che deludere Aleksej, ciò che realmente gli aveva fatto paura era affrontare quell’uomo.
Il padre della ragazza che amava.
<< Papà! Ascolta, noi - >>.
<< Katerina, zitta >> La ragazza ammutolì quando Francesco alzò la voce.
<< Francesco, forse stai - >>.
<< Iliana >> Bastò il semplice nome per far tacere la donna.
Gabriele deglutì rumorosamente ma non smise di fissare l’uomo negli occhi.
Aveva sempre avuto un pessimo carattere, non era buono, non era gentile e non aveva nessun tipo di dote che potesse farlo apparire migliore di fronte agli occhi di un uomo che l’aveva visto nascere e crescere. Che lo conosceva come le sue tasche.
Eppure Gabriele non aveva paura, non più di quanto si aspettasse.
<< Facciamo due chiacchiere, io, te e tuo padre. Ok? >>
Si, Gabriele era pronto per farlo.
Era pronto.
 
Se Beatrice avesse ripensato in quel momento alla se stessa di poche settimane prima, avrebbe trovato sorprendente il cambiamento che aveva effettuato su se stessa.
Il coraggio che aveva trovato dentro di se per arrivare fin lì.
Sapeva che avrebbe trovato Mirko al solito posto, nel parco.
Un ragazzo come lui non poteva cambiare, non poteva migliorare.
Sarebbe rimasto sempre lo stesso, senza mai crescere, senza mai provare niente.
Beatrice un po’ lo compativa, provava pena per lui e un immenso sollievo per se stessa.
Per essere riuscita a scappare, per essere riuscita a cambiare, per essere riuscita ad amare.
Mirko era seduto sullo schienale della panchina, aveva le gambe divaricate in maniera volgare e con gli scarponi sporchi di fango e terra imbrattava tutto il sedile.
I capelli biondi gli cadeva scomposti sulla fronte, come se quella mattina avesse dimenticato di pettinarli, tentava inutilmente di accendere una sigaretta ma il vento che tirava quella mattina gli impediva di mettere in atto il suo proposito.
Era solo, come sempre.
Osservandolo in quel modo, Beatrice si rese conto per la prima volta di quanto fosse sempre stato solo.
Era un tipo di solitudine che non aveva nulla a che fare con le persone, Mirko era sempre stato circondato da una marea di gente, fisicamente non era mai stato solo.
Era nei momenti di bisogno che non aveva nessuno.
Beatrice ridacchiò e incattivì lo sguardo.
Come aveva potuto aver paura di una persona così patetica?
Come aveva potuto aver paura di una persona così insignificante?
Avanzò con passo deciso e gli si piazzò davanti incrociando le braccia al petto.
Quando Mirko sollevò lo sguardo la prima emozione che gli attraversò il viso fu la sorpresa, spalancò gli occhi e la sigaretta gli sfuggì dalle labbra, cadendo per terra attraverso le intercapedini troppo larghe della panchina.
<< Accidenti! >> Borbottò masticando la parola tra i denti, per un momento parve intenzionato a raccogliere la sigaretta e scendere, ma ci ripensò all’ultimo secondo, rivolgendo tutta l’attenzione a Beatrice << Mi hai fatto cadere la sigaretta principessa. Come hai intenzione di rimediare? Sentivi la mia mancanza? Cosa fai qui?>>.
Beatrice se le aspettava quelle parole, e dopotutto non poteva aspettarsi altro da una persona che non era in grado di cambiare, o di capire i propri errori.
Mirko congiunse le mani appoggiando gli avambracci sulle ginocchia e si protese in avanti, investendo Beatrice con il suo forte odore di sudore, sigaretta e menta.
Beatrice lo trovò nauseante, ma non ne aveva più paura.
Se fosse stata la persona che era prima di incontrare Enea sarebbe bastato quell’odore a farle venire un attacco di panico, a riportarle alla mente scene che avrebbe solo voluto dimenticare. Se fosse stata la persona che era prima sarebbe bastata la vicinanza di Mirko a farla paralizzare dal terrore, il suo tocco per non avere più il controllo di se stessa.
Ma era proprio il controllo che invece le aveva dato Enea.
La stabilità, la sicurezza, l’innocenza.
<< Vedi, lo sapevo che saresti tornata da me >>
Beatrice trovò riprovevole la sicurezza che Mirko aveva negli occhi, il suo fiato sul viso le dava fastidio, ma lasciò ugualmente che lui le appoggiasse una mano sulla spalla.
Lasciò che lui gliel’accarezzasse e stringesse, e rimase ferma a fissarlo negli occhi.
Il sorriso di Mirko andò lentamente svanendo di fronte quello sguardo determinato, di fronte l’impassibilità della ragazza che aveva davanti.
Perché Beatrice non tremava? Perché non cadeva tra le sue braccia?
Perché sembrava così diversa, così sicura di se stessa?
Perché non sembrava avere alcun bisogno di lui?
<< Tu mi fai veramente pena sai? >>.
Beatrice pronunciò quelle parole con meno rabbia di quanto si sarebbe aspettata da se stessa. Le pronunciò a voce bassa invece, cariche si compassione e pietà.
Mirko scostò malamente la mano dalla sua spalla e mise su un sorriso sprezzante.
<< Ah, vedo che sei venuta qui per dire le tue solite cazzate! Ti faccio pena? Ma se sappiamo entrambi che basta che io allunghi un dito così e- >>.
<< No >> Beatrice non pronunciò quel ‘no’ a voce alta, non si impose né si agitò, si limitò solamente ad afferrargli il polso e allontanarlo quando lui fece per toccarla.
Non aveva più paura, non aveva paura di quel povero ragazzo senz’anima.
Le faceva solamente pietà.
<< Non ho più paura di te Mirko. Non più ormai. Smettila >>.
Mirko mise su un’espressione inferocita quando Beatrice pronunciò quelle parole in maniera pacata, quasi come se il suo fosse un consiglio disperato dato a una persona che in realtà non aveva nessuna possibilità.
Si scrollò dalla sua stretta e sputò a terra.
<< E cosa ci sei venuta a fare qui?  Tu non hai mai saputo dirmi di no Beatrice, ogni mia parola per te era legge! Tu avevi bisogno di me per sopravvivere! Ogni mio respiro era - >>.
<< Perché credevo che il tuo fosse amore Mirko! >>.
<< Il mio era amore! >>.
<< NO! NON LO ERA! IL TUO NON ERA AMORE! >>
Beatrice alzò talmente tanto la voce che si sorprese di se stessa.
Tutta la compostezza era sparita.
Alcuni passanti si erano voltati, altri fermati a guardare, qualcuno sembrava intenzionato ad intervenire, ma Beatrice non se ne curò.
Trasse un respiro profondo e fece un passo indietro, continuando tuttavia a guardare Mirko negli occhi. Lui era come ammutolito, intontito, non l’aveva mai sentita urlare.
<< Tu non hai la minima idea di cosa significhi amare Mirko, è per questo che provo pena per te >> Beatrice fece un altro passo indietro e, continuando a guardarlo, cominciò a domandare a se stessa cosa mai avesse trovato di bello in quel viso.
In quel momento le sembrava mostruoso.
<< Tu non ne hai la minima idea. Mi hai insultata, mi hai messo le mani addosso … hai fatto qualsiasi cosa pur di umiliarmi! E lo chiami amore? Tu non saprai mai cos’è l’amore. Non saprai cosa significhi essere toccato da qualcuno che metterebbe la propria vita da parte per il tuo bene, per la tua felicità >> Mentre pronunciava quelle parole Beatrice vide chiaro e impresso nella mante il volto di Enea, le sorrideva con quell’aria sfrontata.
Sentì immediatamente la sua mancanza e il fortissimo desiderio di accoccolarsi tra le sue braccia, di sentire il suo calore ed il suo profumo.
Provò il desiderio di sentirselo addosso, di fare l’amore con lui come quella prima volta.
Non gli aveva detto della sua intenzione di affrontare Mirko per l’ultima volta.
Non gli aveva detto nulla perché sapeva di potercela fare.
Enea l’aveva guarita più di quanto Beatrice avesse immaginato.
<< Tu sei un mostro senz’anima, sei patetico! E non meriti niente e nessuno e rimarrai solo per il resto della tua vita perché l’unica persona che avrebbe mai potuto amarti l’hai uccisa con le tue stesse mani Mirko! Perché te lo meriti, meriti di morire da solo!   >>.
Cadde un silenzio pesante quando Beatrice pronunciò quelle ultime parole sputandole con violenza al diretto interessato. Mirko aveva la vena sulla tempia destra che pulsava violentemente, il viso contratto dalla rabbia o dalla vergogna, era difficile capirlo.
Eppure Beatrice poteva leggere riflesso lo stesso in quegli occhi quanto anche Mirko stesso si sentisse patetico di fronte a lei.
<< Alla fine comunque una cosa buona l’hai fatta. Se non fosse stato per te non avrei mai e poi mai incontrato Enea. Non avrei mai capito cosa significhi fare l’amore con qualcuno senza farsi male >>.
Beatrice smise di parlare e aspettò che Mirko reagisse.
Ma lui non lo fece, si limitò a contrarre la mascella.
<< Io, adesso, sono libera >>.
Ed era vero, Beatrice non si era mai sentita più libera.
Respirare non era mai stato così facile, aveva voglia di correre e fu quello che fece.
Scoppiò a ridere, voltò le spalle al suo passato, voltò la spalle al suo orrore e corse.
Corse finché non le fecero male i polmoni, finché non fu costretta a fermarsi aggrappandosi ad un lampione, con il fiato corto, la milza dolorante e il cuore insistente sulla cassa toracica. Trasse un altro respiro tremante e poi afferrò il cellulare con aria febbrile.
Che succede? Vuoi ancora ripetere la tesina al telefono?”.
Il cuore le si sciolse nel petto quando sentì la voce di Enea, era imbronciato e annoiato come sempre, sembrava essersi appena svegliato da un pisolino oppure essere stanco morto, difficile poterlo dire con lui. Beatrice sorrise e ridacchiò, stringendo il telefono tra le mani.
<< No, ho solo voglia di stare con te >>.
Enea rimase in silenzio per un po’ prima di parlare, erano rare le volte in cui Beatrice si mostrava così diretta con lui.
Lo lasciava sempre impreparato e non sapeva mai come rispondere.  
“ Uhm, preparo le crepes. Vieni da me?”. Beatrice sorrise quando sentì quelle parole.
<< Con la marmellata di fragole? >>.
“ Andiamo Beatrice, sei l’unica persona sulla faccia della terra che non mangia le crepes con la cioccolata!”
<< Allora? >>
“ … si …. “
<< Ah-ah! Lo sapevo, mi ami troppo per dirmi di no! >>.
“ Beh, suppongo sia vero …” Enea sospirò teatralmente, poi tacque di nuovo “ Ti aspetto”.
<< Arrivo >>.
 
Gabriele avrebbe tanto voluto domandare a suo padre e Francesco perché avessero deciso di parlare proprio in giardino. Tirava un vento fortissimo e lui indossava solamente una semplice maglietta di cotone a mezze maniche.
Sentiva le braccia costantemente accarezzate dai brividi della pelle d’oca.
Era una situazione piuttosto spiacevole.
Incrociò le braccia al petto, tentando di nasconderle, e guardò i due adulti negli occhi.
Francesco e Nicola si erano fermati proprio davanti a lui, all’inizio del vialetto.
Quando era bambino Gabriele adorava il giardino di sua nonna Luna.
Era pieno di piante, cespugli e vasi.
Aveva giocato a nascondino con Aleksej un’infinità di volte, tra quei cespugli aveva costruito fortini con le lenzuola e giustiziato numerose lucertole. Mentre abbassava lo sguardo sul selciato di ghiaia gli tornò in mente quella volta che insieme ad Aleksej aveva riempito un intero formichiere con dell’acqua bollente.
Stavano giocando a fare gli esploratori, ma per quelle povere formiche non doveva essere stato divertente.
E poi … era stato dietro uno di quei cespugli che aveva baciato Katerina la prima volta.
Se lo ricordava come fosse successo solo pochi secondi prima, le immagini dei suoi ricordi erano talmente abbaglianti che sembravano ancora estremamente reali.
I suoi genitori non c’erano, erano fuori per il week end e lui era rimasto a dormire dalla nonna.
Era uscito con gli amici il sabato sera e aveva bevuto, aveva bevuto troppo.
Ricordava di essere inciampato in un vaso rovesciandolo a terra quando era rientrato, ricordava che sua sorella Alessandra e Katerina avevano pensato che si trattasse di un ladro ed erano scese al piano terra ancora in pigiama e con le ciabatte in mano a mo’ d’arma.
Ricordava come Katerina gli avesse urlato contro dicendogli che puzzava come un cane bagnato ed era un’idiota.
Ricordava di averla supplicata di non dir nulla alla nonna.
E che poi le luci al piano di sopra si erano accese, e allora Katerina l’aveva afferrato per un polso trascinandolo dietro i cespugli mentre Alessandra inventava una stupida scusa.
Ricordava quanto erano vicini e il loro respiro corto per la corsa e l’adrenalina che scorreva nelle sue vene insieme all’alcol, ricordava il profumo dello shampoo al cocco di Katerina e la sua mano sulla spalla … e che poi l’aveva baciata, così, all’improvviso.
E non era nemmeno attratto da lei, non ci aveva nemmeno mai pensato a lei in quel modo.
Katerina gli aveva raccontato che subito dopo le aveva vomitato addosso.
Ma quel particolare Gabriele non lo ricordava, quindi non era mai successo per lui.
<< Gabriele! >> Il ragazzo sussultò quando suo padre lo scosse per una spalla.
Senza rendersene conto si era lasciato trasportare indietro dai ricordi, scostò con fatica lo sguardo dal cespuglio, ancora lì al limite del selciato, accanto al cancelletto.
Francesco lo stava fissando con le braccia incrociate al petto, probabilmente gli aveva domandato qualcosa a cui Gabriele non aveva prestato la minima attenzione.
Sospirò pesantemente e maledisse il suo problema da deficit dell’attenzione.
<< La conversazione non ti interessa? >> Domandò Francesco sollevando un sopracciglio.
Gabriele sospirò pesantemente e abbassò lo sguardo, sapeva meglio di chiunque altro che non avrebbe potuto fare molto per cambiare due persone come gli adulti che si trovava davanti in quel preciso momento.
Francesco era testardo, sicuro di se, un uomo forte come pochi.
Suo padre era stato costretto a portare avanti una famiglia quando aveva solo undici anni!
Come avrebbe mai potuto dimostrare a due persone come quelle che era degno di Katerina?
Lui era solamente uno stupido ragazzino di vent’anni che non aveva ancora preso il diploma, si era fatto bocciare l’ultimo anno di liceo giusto prima degli esami e non sapeva minimamente cosa farsene della sua vita.
Così decise di fare l’unica cosa che sentiva veramente di poter fare.
Quando Francesco fece per riaprire bocca, con l’intento di rimproverarlo forse, o di dirgli una volta per tutte di tenere giù le mani dalla sua Katerina, si inginocchiò a terra e piegò la testa in avanti chiudendo gli occhi per sopportare l’umiliazione.
<< Non costringetemi a lasciare Katerina per favore! >> Gridò con la faccia quasi schiacciata sul selciato. Gabriele avrebbe tanto voluto sollevare il viso, raccogliere il suo stupido orgoglio e gettarlo in faccia a quelle due persone con tutta la forza che possedeva.
Ma del suo orgoglio non gli importava quella sera.
Per una volta, per una sola volta nella vita, l’avrebbe messo da parte.
E sarebbe stata l’unica volta.
<< Lo so che sono troppo grande, lo so che siamo come parenti. So anche che non ho alcun pregio. Che sono orgoglioso, testardo e ho un carattere di merda! So davvero tutte queste cose. Che rispetto a voi non sono nulla. Ma farò il bravo, metterò la testa a posto e mi sforzerò! Lo giuro, lo – lo prometto. Domani prenderò almeno sei all’interrogazione di fisica perciò - >>.
<< Basta così! >> Gabriele trasalì quando sentì le mani calde di Francesco posarsi sulla sua schiena. L’uomo gli strinse forte le spalle e fece in modo che sollevasse la testa << Davvero, perché mai devi costringere tuo padre a vedere una scena così pietosa? >>.
Gabriele spalancò gli occhi e fissò con fatica lo sguardo sull’alta figura di suo padre.
Nicola lo stava guardando con un’espressione che Gabriele non gli aveva mai visto.
Sembrava addolorato nel vederlo prostrato a terra in quel modo.
<< Gabriele, noi sapevamo già tutto >>.
Gabriele rischiò di perdere la testa quando sentì quelle parole.
Che cosa diavolo significava che sapevano già tutto?
Ma tutto cosa?
<< Cosa credevi che volessimo dirti stasera? Tu per me sei come un figlio! >> Gabriele si scostò leggermente quando sentì quelle parole, lasciò la sua posizione scomoda e cadde seduto sul selciato, portandosi entrambe le mani sugli occhi << Non ho mai pensato che tu non avessi pregi o che fossi un buono a nulla. Sono stato duro a tavola perché volevo che Katerina non ci seguisse >> Gabriele sentì la stretta di Francesco farsi più forte.
Aveva le mani grandi e calde, mani che quando era bambino gli avevano scompigliato il capo innumerevoli volte. Quelle stesse mani che l’avevano caricato sulle proprie spalle per giocare a cavallo e cavaliere centinaia di volte.
<< Ti ho portato qui perché volevo dirti che mi dispiace >>.
Gabriele sollevò la testa di scatto quando sentì quelle parole.
<< Ti dispiace?! Ma che cavolo dici! >> Sbottò con voce stridula, Francesco scoppiò a ridere.
<< Mi dispiace di avervi fatto soffrire tanto. Quando tuo padre ha visto il bracciale che portavi al polso, lo stesso che avevo visto io su quello di Katerina … quando ho visto mia figlia piangere nella sua stanza e tuo padre ha visto te crollare in quel modo … noi ci siamo resi conto di tutto. Abbiamo capito tutto, più di quanto tu possa credere >>.
Francesco lasciò la presa dalle sue spalle e gli scombinò i capelli.
<< Avrei dovuto dirlo prima, lo so. Pensavo che sarebbe stato meglio che foste voi a risolvere questa cosa, ma facendo così non ho fatto altro che darti pene. È per questo che mi dispiace Gabriele. Ora, per quanto vale, hai la mia benedizione. Non potrei volere nessun’altro per mia figlia, davvero nessun’altro >>.
Gabriele non riusciva proprio ad aprir bocca, sentiva la necessità di dire tantissime cose ma le parole gli si bloccavano all’altezza della trachea.
In realtà aveva paura che sarebbe scoppiato a piangere se avesse osato anche solo dire “a”.
Non sapeva se gridare, inveire contro tutti e rompere qualche pianta oppure ridere dal sollievo, piangere per la vergogna e l’umiliazione che aveva dovuto sopportare.
Prima che riuscisse a fare tutto ciò, sentì la porta della veranda aprirsi di schianto.
E pochi istanti dopo si ritrovò completamente investito da Katerina.
Gabriele avrebbe dovuto sospettare che se ne fosse stata nascosta tutto quel tempo, ma proprio non riusciva a sopportare l’idea che lei l’avesse visto prostrarsi a terra in quel modo.
<< Katerina, santo cielo! >> Il rimprovero di Francesco non sembrò proprio scalfire la ragazza, che aveva avvolto le braccia attorno al collo di Gabriele e lo teneva stretto stretto.
<< D’accordo, è meglio andare a dirlo agli altri. Prima che ce li ritroviamo tutti qui >>.
Commentò Francesco grattandosi la nuca con imbarazzo, guardò ancora una volta Gabriele negli occhi e gli sorrise, arruffandogli tutti i capelli. Poi rientrò sparendo dietro la tenda.
Gabriele era consapevole della presenza forte di Katerina sulla sua schiena, del suo calore e del fatto che la stesse finalmente stringendo senza avere paura, ma aveva gli occhi puntati solamente sulla figura stanca di suo padre.
Nicola non aveva parlato per tutto il tempo.
Era rimasto in silenzio proprio come Gabriele si era aspettato da lui.
Nicola Rossi aveva sempre fatto così dopotutto, aveva sempre lasciato che i propri figli affrontassero la vita da soli, era il suo modo di amarli.
Gabriele non gli avrebbe mai confessato che alcune volte avrebbe preferito non facesse così.
Quando non ce la fece più a sostenere quello sguardo, quando si sentì patetico e sconfitto, abbassò gli occhi e sospirò pesantemente.
Era certo che anche quella volta Nicola se ne sarebbe andato senza dire una parola.
<< Sei stato bravo >> Gabriele sollevò la testa di scatto quando sentì quelle parole, guardò suo padre negli occhi e corrugò le sopracciglia << Quello che hai fatto, il coraggio che hai avuto, ti rende un uomo molto più forte di quanto avrei potuto esserlo io >>.
Nicola infilò la mano sinistra nella tasca del pantalone e si incamminò con passo lento verso la veranda, quando gli passò accanto con la destra gli accarezzò la testa.
Gabriele tremò.
<< Lo so che non sembra Gabriele, ma io sono comunque tuo padre. Io ti vedo >>.
Gabriele aspettò che se ne fosse andato, aspettò che le tende della veranda venissero tirate, aspettò che il suo orgoglio fosse completamente morto, aspettò di impazzire prima di scoppiare a piangere come un bambino, a singhiozzo sulle mani.
Non piangeva così tanto da anni.
Forse così tanto non aveva pianto mai.
<< Lo so, lo so >> Mormorava Katerina stringendolo forte, accarezzandogli la fronte.
<< Sei contenta adesso? Sei finalmente contenta? >> Sbottò lui tra i singhiozzi, Katerina gli prese il viso tra le mani e annuì energicamente, i capelli che scintillavano sotto la luce dei lampioni accesi che seguivano il sentiero del vialetto.
<< Grazie, grazie di amarmi così tanto. >>
Gabriele scosse la testa freneticamente e afferrò Katerina per le braccia tirandosela addosso mentre si gettava con la schiena per terra tra l’erba e la ghiaia.
Fu un bacio che fece male ad entrambi quando i denti urtarono gli uni contro gli altri, ma fu il bacio più vero che si fossero mai dati alla luce della luna.
Senza essere nascosti dietro un cespuglio.
Senza essere ubriachi o spaventati.
Senza avere timore.
 
 
 
___________________________
Effe_95

Buongiorno a tutti :)
Finalmente ce l’ho fatta! Mi è sembrato di correre su una strada molto ripida mentre scrivevo questo capitolo, una strada ripida e piena di ostacoli.
Ho fatto così tardi a postare perché mi sono proprio bloccata, e dato il contenuto del capitolo penso possiate capire benissimo il perché.
Confesso che ho avuto paura di rovinare tutto.
Tutto il percorso di Katerina e Gabriele o di Beatrice.
Questo ovviamente ha comportato molta più fatica per me scrivere, ma alla fine eccomi qua.
Non aggiungerò molto, anzi, non dirò nulla.
Aspetto che siate voi a farlo, in un momento così importante ;)
Ci tenevo a dirvi che probabilmente per il mese di Agosto non sarò costante nella pubblicazione dei capitoli, perché vado in vacanza anche io xD
Tenterò di pubblicare il prossimo capitolo il prima possibile ;)
Grazie mille come sempre, alla prossima spero.  
 

Ritorna all'indice


Capitolo 59
*** Sottopelle, La misura del suo amore e Avvenire. ***


I ragazzi della 5 A
 
59. Sottopelle, La misura del suo amore e Avvenire.
 

Maggio

Cristiano non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma stava cominciando a trovare divertenti i pomeriggi passati a casa di Aleksej.
La famiglia Ivanov era casinista e unita; era tutto quello che Cristiano non avrebbe mai potuto avere; se non in un futuro ancora troppo lontano.
Guardò con aria rassegnata il campanello, avrebbe dovuto suonarlo, ma in quel momento era piuttosto sicuro che nessuno l’avrebbe sentito, perché da dentro casa arrivavano delle urla spaventose. Cristiano ormai aveva imparato a riconoscere le voci di tutti.
Erano Lisa e Andrea che litigavano l’ennesima volta per qualcosa di stupido.
Si morse il labbro inferiore e incrociò le braccia al petto, non poteva restarsene chiuso fuori quella porta fino a quando Lisa e Andrea non avessero trovato un accordo, sarebbero potuti passare giorni interi.
Infilò la mano nella tasca del jeans e afferrò il cellulare. Non aveva mai chiamato Aleksej prima, si erano scambiati i numeri per evenienza ma nessuno dei due l’aveva fatto con l’intenzione di passare piacevoli serate al telefono a parlare del più e del meno.
A dire il vero entrambi avevano sperato di non dover usare mai quel numero.
Cristiano maledì le due piccole pesti e si portò il cellulare all’orecchio.
Aleksej rispose dopo due squilli esatti, aveva la voce leggermente ovattata.
Non dirmi che mi hai dato buca perché ti ammazzo! Ho rimandato un appuntamento con Miki per te, idiota”.
Cristiano non rimase troppo sorpreso da quell’invettiva, dopotutto Aleksej lo rimproverava sempre ogni cosa facesse; era un insegnante severo.
<< Sono fuori la porta di casa tua. Vieni ad aprirmi, oppure devo aspettare che i tuoi fratelli smettano di litigare? Ovvero tra circa quattro anni!>>.
Cristiano sentì Aleksej imprecare sommessamente dall’altra parte del telefono, rumori di ciabatte sul pavimento, qualche altra imprecazione e poi l’inconfondibile suono di un cellulare chiuso in faccia senza alcun preavviso.
Alzò gli occhi al cielo e ripose con svogliatezza l’oggetto nella tasca destra del jeans, non sapeva spiegarsi il perché, ma in quel momento aveva una voglia matta di sentire la voce allegra di Zosimo, di passare il pomeriggio con lui. Peccato che Zosimo fosse bloccato a scuola per colpa della tesina che non aveva ancora scritto.
La porta di casa si spalancò pochi istanti dopo, e Cristiano venne immediatamente investito dalle grida dei più piccoli. Ad aprire era stato Aleksej, sembrava piuttosto nervoso.
<< State zitti, cazzo! >> Inveì il fratello maggiore senza successo. Le urla non cessarono.
 Cristiano aggrottò le sopracciglia e rivolse al compagno di classe un’occhiata stranita, Aleksej indossava i pantaloni di una tuta grigia sbiadita, aveva i capelli sparati in tutte le direzioni e le occhiaie.
<< Hai una pessima cera >> Commentò entrando in casa, Aleksej si limitò ad alzargli il dito medio e dirigersi con passo spedito verso la sua stanza.
Cristiano aveva appena mosso un piede per seguirlo, quando si accorse che gli strilli erano cessati.  Si grattò la nuca e si rese conto di essere osservato.
Lisa e Andrea, i più piccoli di casa Ivanov, lo fissavano spudoratamente dalla loro postazione sul tappeto. Stavano giocando a Monopoli e per tutto il tempo sembravano aver litigato su chi dovesse acquistare il “ Parco della Vittoria”.
Lisa aveva gli occhi rossi di chi aveva pianto, mentre ad Andrea pulsavano le vene della tempia, come se fossero in procinto di esplodere da un momento all’altro.
<< Ehm, ciao >> Commentò Cristiano rivolgendo un’occhiata imbarazzata ai due.
Era da una settimana buona che andava tutti i pomeriggi a casa di Aleksej, ma non aveva mai davvero interagito con i suoi fratelli.  
Solo una volta aveva fatto una partita alla play station con Ivan, il secondogenito, ma con Pavel, Andrea e Lisa non ci aveva parlato nemmeno una volta.
<< Ciao >> Replicò Andrea sventolando una mano in segno di saluto, Cristiano ricambiò con imbarazzo il gesto e fece un accenno piuttosto stentato di sorriso in direzione di Lisa, che arrossì come un pomodoro e nascose mezza faccia dietro le ginocchia.
La ragazzina gli guardava le mani, strette attorno alla tracolla, forse per l’imbarazzo.
Cristiano pensò che fosse sufficiente come primo approccio e raggiunse Aleksej.
Il biondo aveva già tirato fuori la chitarra e stava eseguendo una serie di arpeggi sofisticati che Cristiano non avrebbe potuto imparare nemmeno se ci si fosse messo d’impegno.
<< Perché diavolo ci hai messo tutto questo tempo?! >>.
Lo rimbrottò non appena il moro si chiuse la porta alle spalle, Cristiano fece spallucce e gettò senza troppi complimenti la cartella sul pavimento.
<< I tuoi adorati fratellini hanno smesso di gridare >> Si limitò a commentare.
Aleksej sospirò pesantemente e gli porse la chitarra con un gesto di spossatezza, Cristiano lo guardò di sottecchi, mentre si metteva seduto sulla sedia girevole della scrivania e afferrava lo strumento. Era diventato bravo a metterlo nella giusta posizione.
<< Hai l’aria di uno che sta per crollare >> Commentò distrattamente, fingendo di aver messo poco interesse nella costatazione mentre ripeteva gli accordi della canzone che Aleksej stava tentando di insegnargli da una settimana.
<< Vorrei vedere l’aspetto che avresti tu se tuo fratello più piccolo ti facesse passare la notte in bianco! Non so quante volte gli ho tenuto la fronte mentre vomitava >>.  
Cristiano tentò di ignorare il senso di nausea; strimpellò qualche altro accordo e Aleksej gli schiaffeggiò malamente la mano, come ogni volta che sbagliava.
<< Che cos’è quella roba?! Ti ho detto mille volte che non devi piegare il dito in quel modo! Vuoi rompertelo per caso? Perché conosco altri modi più semplici >>.
Cristiano lasciò che il compagno di classe gli aggiustasse la posizione della mano e lo scrutò meglio in faccia, Aleksej aveva le lentiggini sul naso e sotto gli occhi, esattamente come la donna che vedeva nella fotografia appesa sulla bacheca vuota.
Svetlana, la sua madre biologica.
<< E i tuoi? Perché hai dovuto tenergli tu la fronte? >> Si ritrovò a domandare senza pensarci. Aleksej sollevò il viso e incrociò le braccia al petto, guardandolo con un sopracciglio sollevato, ovviamente sorpreso. Cristiano avrebbe voluto mordersi le mani.
<< Ok, non me ne frega niente dei fatti tuoi! >> Si affrettò a commentare, gettando le mani davanti come per ribadire con fermezza la questione << Puoi anche non rispondermi >>.
Cristiano si ritrovò a pensare che quel comportamento fosse colpa di Zosimo.
Sapeva di non dovere nulla ad Aleksej, che non erano amici e non lo sarebbero stati mai.
Il tempo era scaduto da un pezzo per loro, e lui si sentiva estremamente ridicolo.
Eppure quelle parole che un tempo non avrebbe mai pronunciato, quell’interesse dato da un minimo dettaglio, come notare la somiglianza con sua madre, non aveva saputo controllarlo.
Ed era esattamente qualcosa che invece Zosimo avrebbe chiesto con naturalezza.
Aleksej continuò ad osservarlo con il sopracciglio sollevato, poi distese le spalle tese e sciolse la posizione delle braccia, risultando improvvisamente molto più vecchio.
<< I miei sono fuori per il week end. Mi occupo io di tutta la banda finché non tornano >>.
Commentò distogliendo lo sguardo, Cristiano rimase sorpreso dalla risposta, ma cercò di non darlo troppo a vedere << Ivan ha la febbre? >> Chiese con finta disinvoltura, mentre provava un accordo in sol minore.
<< Il medio su quella corda, non l’indice! >> Lo rimproverò Aleksej aggiustandogli la posizione della mano << Pavel >> Replicò poi con gli occhi ben fissi sulle corde.
Era più semplice parlare come niente fosse se non si guardavano direttamente.
<< Pavel è quello tranquillo giusto? >>.
<< Giusto >> Commentò Aleksej ridacchiando.
Cristiano non replicò oltre, e Aleksej ne approfittò per metterlo sotto con la canzone.
In realtà Cristiano non sapeva cantare, era stonato e sgraziato. Aleksej aveva dovuto faticare parecchio per trovare un’intonazione che gli facesse sembrare la voce meno da cavernicolo.
Ma nonostante Cristiano sapesse di essere stonato, aveva voluto umiliarsi lo stesso.
Quando aveva spiegato ad Aleksej il suo piano, era sicuro che il biondo gli avrebbe riso in faccia. Non era da lui fare o pensare certe cose.
Cristiano però aveva imparato a sue spese che non fare nulla sarebbe stato anche peggio.
Prima o poi l’avrebbe rimpianto, prima o poi se ne sarebbe pentito.
E siccome di rimpianti ne aveva fin troppi sotto la pelle, e siccome sapeva bene quanto il tempo fosse inclemente, aveva deciso che umiliarsi sarebbe stato meglio.
Aveva deciso che mettere da parte l’orgoglio poteva andare bene.
Quando ebbe finito di cantare, Aleksej lo guardò con una strana luce di soddisfazione negli occhi chiari e tempestosi.
<< Sei stato abbastanza decente sai? Perché non lo fai stasera? >>.
<< Stasera?! >> Sbottò immediatamente Cristiano sfilandosi la chitarra dalle braccia e riponendola con cautela sul letto << Ma io - >>.
<< Ehi, senti. Io non posso comunque insegnarti altro, tanto vale farlo subito >>.
Cristiano guardò Aleksej negli occhi e sospirò.
Non aveva torto dopotutto, Cristiano aveva aspettato così tanto per quel momento.
Aveva faticato così tanto, si era fatto spuntare i calli sulle dita e aveva perfino sanguinato.
<< Va bene >> Poi cadde il silenzio.
Grazie per le lezioni.
Prego.
Entrambi sapevano che quelle parole non sarebbero mai state pronunciate.
Ma nonostante tutto andava bene a entrambi.
Andava bene per due che non sarebbero mai stati amici.
Cristiano fece per alzarsi dalla sedia e lo stesso Aleksej, quando la porta della stanza si aprì di colpo rivelando la presenza della piccola Lisa. Si nascondeva dietro l’uscio rossa in faccia.
<< Che cosa stai facendo ? >> Domandò Aleksej guardando la sorella con occhi affettuosi.
Lisa non rispose immediatamente, era rossa in viso e la pelle pallida creava un contrasto piuttosto marcato con i capelli del medesimo colore.
La bambina guardò timidamente Cristiano, poi affacciò una manina e gli fece segno di avvicinarsi. Cristiano aggrottò le sopracciglia e si indicò con l’indice.
<< Io? >> Domandò guardando Aleksej negli occhi, il biondo sembrava estremamente sconcertato dalla reazione della sorella, ma sul viso aveva uno sguardo divertito.
<< Avanti, va! >> Lo incitò con una sorta di sfida nel tono di voce, Cristiano raddrizzò le spalle e raggiunse la porta, inginocchiandosi davanti la sorella di Aleksej.
Lisa lo guardò negli occhi; Cristiano si ritrovò a pensare che fossero di un colore singolare, azzurri come il cielo più limpido, taglienti e gelidi allo stesso tempo.
Erano sorprendentemente simili a quelli di Aleksej.
La bambina allungò le mani, distraendolo dai suoi pensieri, e afferrò le sue mettendole girate con i palmi all’insù. Cristiano la guardò allibita per un istante, prima che Lisa gli gettasse una manciata di cerotti con gli smile tra le mani.
Sussultando, Cristiano si rese conto che erano piene di tagli, calli ed escoriazioni.
La bambina doveva averlo notato quando era entrato in casa.
Lisa arrossì maggiormente e fece un passetto all’indietro, Cristiano sorrise come probabilmente non avrebbe rifatto mai più per molto tempo e le accarezzò la testa.
<< Grazie >> Mormorò, Lisa avvampò, ma prima che Cristiano potesse rialzarsi fece un passetto in avanti e lo baciò su una guancia, per poi scappare via come un fulmine.
Cristiano si toccò il punto del viso ancora umido e sentì su di se lo sguardo di Aleksej.
<< Mi sa che mia sorella si è presa una cotta per te >> Commentò il biondo inorridito.
Cristiano non riuscì a trattenere una risata divertita quando lo vide con quell’espressione.
<< Sta attento Ivanov, tra qualche anno potrei anche farci un pensierino >> Lo provocò.
Cristiano uscì da casa di Aleksej tra le risate, con un dolore acuto sul fondoschiena, lì dove il biondo gli aveva tirato un calcio ponderoso.
Aveva riso così tanto che gli erano venute le lacrime agli occhi.
Era anche l’ultima volta che avrebbe messo piede in quella casa.
Cristiano strinse forte tra le mani i cerottini; avrebbe messo sottopelle anche quel rimpianto.
 
Gabriele si era addormentato senza nemmeno rendersene conto.
Non era una cosa che gli capitava spesso.
Il pomeriggio non amava riposare, e stendersi era un modo come un altro per perdersi in pensieri che avrebbe volentieri evitato. Mentre sbatteva le palpebre con fare perplesso, ancora stordito dai postumi del sonno, Gabriele si ritrovò a pensare che di pensieri pesanti ormai non ne aveva più.
Non sentiva più quella consueta pesantezza sul cuore ogni volta che chiudeva gli occhi.
Non sentiva più le spalle pesanti ogni volta che pensava a Katerina, quella sgradevole sensazione di vergogna che gli serrava lo stomaco. Quell’insensato avvertimenti che lo pungolava con dolore come un monito perenne e punitivo.
Era strano per lui potersi alzare la mattina e telefonare Katerina davanti ai suoi genitori, parlare con lei alla luce del sole, oppure andare a prenderla sotto casa e poter suonare il citofono. Uscire la sera senza doversi nascondere, salire a prenderla per salutare Francesco e Iliana. Erano tutte cose che Gabriele aveva dovuto imparare a fare, cose naturali che per lui non lo erano mai state prima.
Si stropicciò gli occhi con entrambe le mani e sbatté più volte le palpebre, era piuttosto sicuro che prima di addormentarsi fosse pomeriggio, ma quando guardò il cielo il sole stava per tramontare tingendo l’orizzonte di un arancione spettacolare.
Ricordava di essersi messo a studiare fuori al balcone della sua stanza, aveva portato con se il libro di italiano per l’interrogazione finale sugli autori del ‘900.
Ricordava di essersi steso sul dondolo e di aver cominciato a ripetere Ungaretti, come si fosse addormentato non lo sapeva.
Stiracchiò sommessamente le braccia, allungandosi come un gatto che faceva le fusa, e una sottile coperta di cotone ricamata a mano scivolò sulle mattonelle rosse.
Gabriele contrasse le sopracciglia e si mise seduto, appoggiando i piedi scalzi sul pavimento intiepidito dai raggi del sole che l’avevano accarezzato nelle ore più calde. Si grattò la nuca nel groviglio scomposto che erano diventati i suoi capelli e raccolse la coperta da terra.
Era quella che aveva da neonato nella culla, una copertina ricamata a mano da sua madre quando aveva solo pochi mesi di vita. Gabriele aggrottò le sopracciglia e strinse la stoffa tra le dita, era da tempo che non vedeva quell’oggetto in giro per casa; ricordava che sua madre l’aveva tirata fuori all’inizio della primavera per lavarla, ma che poi l’aveva riposizionata nell’armadio insieme agli indumenti dell’inverno dopo averla stirata.
Si ritrovò a sorridere leggermente mentre accarezzava con la punta delle dita le iniziali del suo nome, sbadigliò sfacciatamente senza coprirsi la bocca e rivolse lo sguardo all’orizzonte.
Non aveva l’orologio con se né il cellulare, ma doveva essere più o meno ora di cena; prima di alzarsi raccolse il libro di italiano caduto a terra, e poi rientrò lasciandosi alle spalle l’odore fresco della sera appena giunta.
Quando uscì dalla sua stanza, chiudendosi la porta alle spalle, si imbatté in sua sorella Alessandra, anche lei appena uscita dalla propria cameretta.
Non appena i loro sguardi si incrociarono Alessandra lo guardò di traverso, Gabriele non ci fece molto caso, era da quando aveva rivelato la sua storia con Katerina che Alessandra si comportava in quel modo con lui. Lei e Jurij non l’avevano presa bene, ma dopo quello che aveva passato Gabriele confidava vivamente che entrambi l’avrebbero accettato con il tempo, perché lui non aveva intenzione di dare a quella piccola protesta il minimo peso.
<< Dove stai andando? >> Le chiese con la voce ancora strascicata dai postumi del sonno.
Dormire il pomeriggio gli aveva creato una sorta di stordimento da cui faceva fatica a riprendersi, si diede qualche colpetto sulla tempia e strizzò gli occhi.
<< Esco con Katerina. La mia migliore amica! >>
Gabriele trovò del tutto inutile rimarcare la cosa.
<< Ah si. Katja me l’aveva detto che andavate da qualche parte >> Commentò distrattamente grattandosi la nuca, Alessandra gli rivolse un’occhiata obliqua mentre finiva di sistemarsi le stringhe dei saldali alla romana che aveva indossato, poi lo sguardo gli ricadde sulla copertina che Gabriele stringeva ancora tra le mani. Aveva dimenticato di posarla.
<< Ben sveglio piuttosto! Hai dormito per quattro ore buone. La pagina del libro di italiano ti si era incollata in faccia con la saliva. Eri disgustoso! >> Dichiarò Alessandra drizzando la schiena e incrociando le braccia al petto. Mentre la guardava Gabriele non riuscì a fare a meno di pensare che fosse proprio carina con quei capelli mossi e biondi liberi sulle spalle e lo sguardo imbronciato. Alessandra aveva preso quasi tutto da Lara a parte gli occhi.
Gli occhi erano di Nicola, come quelli di Gabriele.
<< Beh! >> Esordì il ragazzo sventolando in aria la copertina << Grazie per avermi coperto con questa >> Dichiarò, e poi fece per piegarla e tornare nella sua stanza, ma le successive parole di Alessandra lo frenarono.
<< Non sono stata io. È stato papà. L’ho visto che te la metteva sulle spalle quando sono entrata nella tua stanza a prendere in prestito il caricatore del cellulare. Ah, prima che ti arrabbi, l’ho già rimesso a posto >> Gabriele diede poco conto al resto della frase, il suo cervello si era fermato a metà. Suo padre non aveva mai fatto cose del genere, o almeno non da quando Gabriele ne aveva memoria.
<< Adesso vado >> Commentò Alessandra quando si rese conto che il fratello non avrebbe ribattuto. Fece spallucce e si incamminò verso l’ingresso, Gabriele staccò con fatica lo sguardo dalla copertina e lo puntò sulla schiena della sorella << Ehi Ale, fate attenzione tu e Katja. Controlla per me che altri non le mettano gli occhi addosso >>.
Quando Alessandra di girò a guardarlo, Gabriele temette che la sorella l’avrebbe mandato a quel paese alzando il dito medio, invece si limitò a sbuffare, alzare gli occhi al cielo e poi sorridere << Non preoccuparti, Katja non vuole avere altri fidanzati. Per qualche ragione a me oscura tu sei perfetto per lei >> E dopo aver pronunciato quelle parole se ne andò, lasciando Gabriele con un sorriso divertito sulle labbra.
Avere la benedizione di Alessandra, anche se in quel modo bizzarro, era più di quanto si aspettasse da quella conversazione.
Entrò in salotto stringendo ancora la coperta tra le mani e trovò suo padre seduto sul divano che guardava distrattamente il telegiornale.
Sembrava stanco e aveva i capelli castani-argentati sparati in tutte le direzioni.
Rivolse a Gabriele solo uno sguardo fugace quando lo vide sulla soglia della stanza, il ragazzo pensò gli fosse consentito andarsene in cucina da sua madre senza dire una sola parola. Ma non ci riuscì.
<< Questa me l’hai messa tu? >> Tentò di fare quella domanda con nonchalance, mettendo nel tono di voce una nota d’indifferenza ben studiata.
Nicola girò il viso e gli prestò la sua totale attenzione.
<< Fuori tirava vento >> Si limitò a rispondere guardando il figlio negli occhi, lo sguardo indecifrabile. Gabriele si morse il labbro inferiore e dopo un attimo di indecisione lanciò la coperta al padre, che la prese al volo per un riflesso incondizionato.
<< Non sei il tipo da fare queste cose. Ritorna in te >> Gli disse, e Gabriele pensò che sarebbe finita in quel modo, come sempre. Ma non fu così, Nicola sollevò un sopracciglio e sorrise.
<< Davvero? Chi pensi ti abbia rimboccato le coperte tutte le notti quando eri bambino? >>
<< La mamma? >>.
La risposta gli venne fuori spontanea, istantaneamente.
Nicola sospirò e piegò con cura la copertina che un tempo aveva avvolto il corpicino di suo figlio.
<< Beh, no. Ero io che mi mettevo accanto a te nel letto per farti addormentare. Volevi sempre che ti raccontassi la storia di Raperonzolo, avevi una cotta per - >>
<< Ok, ok ho afferrato il concetto! >> Lo interruppe Gabriele, rosso in viso per l’imbarazzo, odiava quando suo padre se ne usciva con quegli aneddoti dimenticati << E comunque io non lo ricordo per niente! >>.
<< Avrai rimosso >> Replicò Nicola stiracchiandosi come un gatto, in quel gesto Gabriele rivide molto di se stesso e provò un’irritazione incontrollata.
<< O forse tu hai smesso di farlo troppo presto >> Gabriele si morse le labbra dopo aver pronunciato quelle parole, ma continuò lo stesso << Hai smesso troppo presto di raccontarmi quelle storie e io non lo ricordo perché ero troppo piccolo >>.
Cadde il silenzio.
Nicola non replicò immediatamente, si limitò a tornare serio e fissare il figlio con aria stanca, questo diede il vantaggio a Gabriele di ritrarsi verso la cucina.
<< Gabriele >> Lo richiamò Nicola con voce ferma, ma lui aveva già cominciato a grattarsi la nuca e girato la schiena, non voleva parlarne ancora, era evidente << Gabriele! >>.
Nicola alzò talmente la voce, che il ragazzo si bloccò di colpo come se l’avesse colpito.
Quando si girò a guardarlo con gli occhi spalancati dalla sorpresa, Nicola aveva già assunto un’espressione diversa: stanca e pacata.
<< Cosa fai, lanci la pietra e poi scappi? >> Domandò l’uomo passandosi una mano tra i capelli. Gabriele strinse i pugni e spostò lo sguardo altrove.
<< Scappare? Da quand’è che ti importa? Non hai sempre lasciato che me la cavassi da solo? Ora cosa te ne importa se scappo? Se respiro? Se faccio qualsiasi dannatissima cosa?! >>.
Sputare tutto quel veleno non era nelle sue intenzioni, ma non riuscì a trattenersi.
Nicola si stiracchiò, come se quelle parole non l’avessero colpito, e poi si alzò in piedi con fatica << È vero, ti ho sempre lasciato da solo.’Ho sbagliato’, è questo che vorresti sentirti dire? ‘Hai ragione’? Così andrebbe bene? >>.
<< No, non è - >>.
<< Scusami se non sono il padre migliore del mondo Gabriele, scusami se non so come si fa. Non ho avuto un esempio perfetto. Tuo nonno era pessimo. E non ti dirò che ho fatto del mio meglio >>.
<< Papà, smettila! >> Gabriele non si aspettava tutte quelle spiegazioni.
<< Mi dispiace che tu sia diventato l’uomo che speravo. Forse non era quello che volevi? Forse dovevo dirti più spesso che sono orgoglioso di te? >> Quando smise di cacciar tutto fuori Nicola si sentì leggermente spossato, aveva le spalle stanche per la faticosa giornata di lavoro. Chiuse gli occhi per lasciare andare il respiro, e quando li riaprì scoprì che suo figlio si era rannicchiato nelle spalle e sembrava più piccolo dei suoi vent’anni << Ho sempre avuto paura di aver sbagliato tutto con te, Gabriele. Ho odiato mio padre così tanti anni, a volte ancora lo odio. Mi sono chiesto spesso perché non dovesse essere lo stesso per te con me. Ho pensato che farti crescere così, con qualcuno che ti guardasse le spalle lasciandoti andare per la tua strada, fosse la cosa giusta. Ma forse ho sbagliato. Dimmi, l’ho fatto? Perché ancora non lo so come si fa, ancora non so come si faccia il padre >>.
Gabriele non aveva mai sentito parlare suo padre così, non conosceva quel lato di lui e non sapeva come comportarsi.
Nicola gli era sembrato troppo fragile, gli era sembrato troppo vulnerabile mentre metteva a nudo tutte le sue paure, tutto quello che mai, Gabriele lo sapeva bene, avrebbe voluto fargli vedere come padre. Mai. Aveva un macigno alla bocca dello stomaco, un senso di colpa opprimente per averlo spinto così oltre.
<< No, tu - >> Balbettò per interrompersi, indietreggiò un po’ << Tu sei comunque mio padre >> Anche se hai sbagliato, anche se non sei perfetto. Adesso l’ho capito.
Gabriele si rese conto in quel momento che non avrebbe voluto che Nicola cambiasse, non avrebbe voluto perché aveva finalmente capito la cosa più importante.
Aveva capito la misura dell’amore di suo padre.
In quella piccola confessione, in quell’atto di debolezza che entrambi avrebbero gelosamente custodito e per sempre taciuto, aveva visto la misura del suo amore di padre.
<< La mamma stasera ha fatto il polpettone >> Commentò Nicola limitandosi a scompigliargli i capelli, e un ricordo lontano e confuso nel tempo affiorò nella mente di Gabriele. Nicola non gli aveva mai fatto una carezza, ma gli aveva scompigliato il capo un milione di volte. Gabriele si vergognò di scoprire per la prima volta, a vent’anni, che era sempre stato un gesto d’orgoglio e d’affetto << Arrivo >> Mormorò grattandosi la nuca, raggiunse il padre e gli sfilò la copertina dalla mano, Nicola non protestò né chiese.
Gabriele l’aprì sommessamente, e se la pose sulle spalle.
 
Ad Oscar erano sempre piaciuti i cimiteri.
Se avesse esternato un pensiero del genere al alta voce, sapeva che qualcuno l’avrebbe trovato di cattivo gusto. Ma Oscar amava la tranquillità che regnava in quei posti, un rispetto e una compostezza che non avevano nulla a che fare con la vita terrena.
Guardò con imbarazzo il mazzo di fiori che stringeva tra le mani, si era inerpicato sul pendio costeggiato di lapidi, alberi e fiori quasi con fretta.
Quando si fermò per aspettare Catena, lei stava salendo adagio la strada, sul lato destro, e accarezzava le fotografie di persone che non conosceva con estrema delicatezza e rispetto.
Oscar non riusciva a fare a meno di guardarla con amore, con gratitudine; gli risultava facile farlo quando lei non poteva vederlo.
Era bella con quei capelli sciolti sulle spalle, mossi dal vento caldo di Maggio.
Il vestitino blu ricamato con fiorellini bianchi le aderiva sul corpo, le gambe scoperte erano bianche sotto la luce del sole, a contrasto con le ballerine nere che stava indossando. Quando si girò a guardarlo, a metà strada, Catena gli sorrise con affetto facendo brillare gli intensi occhi azzurri, resi ancora più chiari dal riverbero del sole sulle lenti degli occhiali.
Da quando aveva parlato con Catena quella prima volta, al buio nella sua stanza, Oscar non aveva più smesso di farlo.
Quel peso opprimente che aveva sulle spalle era scivolato via lentamente, con il tempo le ferite avevano preso a cicatrizzarsi lasciando solo un alone appena visibile sulla pelle.
Oscar sapeva che era arrivato il tempo di dare uno strappo definitivo al passato.
In quella folle corsa intrapresa contro il tempo e contro se stesso, aveva finalmente trovato un punto fermo dove respirare, dove riposare.
Aveva afferrato quella corda dolorosa con entrambe le mani, l’aveva tenuta stretta, era pronto a reciderla del tutto. Si riscosse dai suoi pensieri quando Catena gli poggiò delicatamente una mano sulla spalla, l’aveva raggiunto sulla sommità della strada.
<< Hai trovato la sua lapide? >> Catena gli porse quella domanda con tono gentile, Oscar ripensò a quando si era offerta di portare i fiori per lui, perché si era accorta che erano fonte di imbarazzo per il proprio fidanzato.
<< Si, è proprio lì dove mi aveva detto Luca >>.
Oscar in realtà aveva lanciato solamente una rapida occhiata al luogo, non sapeva come sarebbero andate le cose, era solamente consapevole del fatto che qualcosa sarebbe cambiato.
Che lui sarebbe cambiato.
Che sarebbe guarito, che avrebbe finalmente lasciato andare quel passato ingombrante.
Catena gli prese dolcemente la mano e insieme si incamminarono tra il dedalo di tombe.
Quella di Giulia era l’ultima della sua fila, la terza.
Aveva la lapide in marmo nero e grigio, di un colore singolare simile all’ossidiana.
Il vaso dei fiori era pieno di rose rosse, era curato, segno che qualcuno ci era stato recentemente. Oscar indugiò per alcuni istanti, fermo in piedi sullo sfondo mentre Catena si inginocchiava davanti la foto della ragazza che Oscar aveva amato prima di lei.
I ricordi tornarono prepotentemente a farsi vivi; il giorno del funerale, quando si era rinchiuso in camera sua per ostinazione e non aveva voluto parteciparvi.
Aveva pensato che in quel modo avrebbe fatto un torto a Giulia.
Ricordava di non aver realizzato subito che per lei non avrebbe fatto alcuna differenza.
Perché era morta.
Ricordava di aver gridato quando era rimasto a casa da solo e di aver rotto il cellulare contro il muro quando aveva provato a chiamarla ed era scattata la segreteria.
Le aveva dato della puttana e della stronza.
Si era sentito in colpa da morire, e non sapeva nemmeno il perché.
Aveva sempre pensato di averla amata troppo poco, che fosse colpa sua se lei l’aveva tradito.
Che fosse morta perché lui non aveva saputo amarla abbastanza, tenerla legata a se.
Era stato arrabbiato talmente a lungo che gli sembrava quasi irreale, in quel momento, trovarsi di fronte quella lapide che aveva tentato di ignorare così fortemente con il cuore sereno.
<< Era una bella ragazza >> La voce di Catena lo strattonò nel presente, Oscar chiuse gli occhi e respirò profondamente, lasciò scivolare via tutti i ricordi come olio sulla pelle.
Si avvicinò alla lapide e si inginocchiò accanto a Catena, lasciando i fiori finti a terra.
Nella foto Giulia aveva sedici anni, eterno memoriale di un volto che non sarebbe più cambiato, il viso sottile e sorridente, i capelli biondi lunghi sulle spalle, gli occhi castani grandi e vivaci, pieni di vita. Oscar trovò ironico che i genitori avessero scelto una foto che era stato proprio lui a scattare. Durante una gita in montagna, lo ricordava ancora.
<< Era troppo bella forse. Forse non avrei dovuto intestardirmi con lei. Non avrei dovuto avvicinarla quando aveva nel cuore un altro. Non avrei mai dovuto incontrarla >>.
Il commento di Oscar si perse nel silenzio sacro di quel luogo, c’erano poche persone che si aggiravano tra le tombe per onorare i propri defunti. Catena non replicò subito, prese i fiori che Oscar aveva lasciato per terra e li mise nel vaso già pieno, poi congiunse le mani in preghiera e chinò il capo << Piacere di conoscerti >>Mormorò piano, ed Oscar la imitò nei gesti ma rimase muto << Qualcuno mi ha detto che nella vita non incontriamo mai una persona per caso. C’è sempre un motivo, anche se non lo capiamo >>.
Oscar pensò che il motivo per cui avesse incontrato Giulia non lo sapeva in effetti, perché si fossero fatti così male, perché fosse successo tutto quello che era successo.
Allungò una mano tramante e le accarezzò il viso attraverso il vetro, fece un passo avanti sulle ginocchia e Catena si fece da parte sedendosi a terra ma tenendo contemporaneamente il braccio su quello di Oscar. Una figura rassicurante e muta, che gli avrebbe dato sempre il suo sostegno anche nel silenzio, Oscar aveva imparato che era quello per lui Catena.
<< Scusami per essere arrivato così tardi >> Cominciò, parlando alla Giulia nella foto << Io, che aveva detto di amarti, non mi sono presentato nemmeno al tuo funerale. Ed è passato più di un anno, ti sarò sembrato proprio un ingrato >> Mentre avanzava con le parole, parlare cominciò a diventargli sempre più naturale, Oscar si rese conto che se l’avesse fatto tanto tempo prima, molta della sua rabbia non avrebbe avuto vita << Ma ero così arrabbiato Giulia. Per molto tempo ho creduto di essere arrabbiato con te, perché mi avevi tradita. Invece ero arrabbiato con me stesso per lo più, perché credevo di non averti amato a dovere. Che fosse colpa mia se eri tornata da lui, e allora per me era facile pensare che tu fossi solo una puttana. Incolpare te, che non potevi difenderti, era facile >> Oscar mise su un sorriso un po’ stanco e sentì la stretta sul suo braccio farsi più forte << Ho desiderato innumerevoli volte che tu tornassi in vita. Ma non sapevo se fosse per il desiderio di rivolerti con me o per odio. Volevo darti dell’egoista, volevo farti male. Perché mi sembrava ingiusto dover soffrire da solo >> Oscar congiunse le mani davanti a se e chinò il capo in avanti << La verità è che tutta la rabbia che ho provato, era data dal fatto che non potessi parlare con te. Ma tu hai pensato a me fino all’ultimo momento e credo di averlo capito finalmente >> Oscar sospirò e strinse la mano a Catena, con forza << Ho capito che facendomi così male, tu volevi solamente liberarmi. Volevi solamente lasciarmi andare, volevi che io ti odiassi, perché eri sicura di non meritarmi. Beh, ci sei riuscita, sai? Ti ho odiata, e tu davvero non mi meritavi. Ma – ma nel tuo egoismo e nel tuo tradimento, volevi solamente salvarmi >>
Passò una brezza leggera quando Oscar tacque, tutto sembrava sospeso nel tempo, trattenere il fiato, immerso in un rispetto tenace.
 << L’hai fatto nel modo sbagliato, non hai scuse per questo. Ma non importa, io … >> Oscar chiuse gli occhi ed ispirò profondamente << … ti perdono lo stesso >>.
Oscar lo sentì chiaramente, sentì chiaramente il suono del taglio netto, il taglio con il suo passato, con il rancore, con il dolore.
Fu come togliersi di dosso una maglietta bagnata e scoprire che in quel modo le spalle erano più leggere. Fu come togliere il piede dalle sabbie mobili e cominciare nuovamente a camminare.
<< Sei stato bravo >> Il sussurro di Catena, che nel frattempo gli aveva poggiato la testa sulla spalla, fu come una carezza sul viso per Oscar.
<< Mi sento così bene adesso >> Mormorò abbandonando anche lui la guancia sulla testa di Catena, i suoi capelli profumavano di pino e sole.
<< Perché non sei mai stato così libero >>.
<< Ora mi toccherà seriamente pensare all’esame >> Commentò Oscar ridacchiando, e ancora una volta di meravigliò come un bambino di riuscire a farlo davanti la lapide di Giulia << E mi toccherà pensare seriamente anche al nostro futuro >>.
Catena arrossì violentemente quando Oscar gli sussurrò quelle parole all’orecchio con voce sensuale. Era così fiera di lui e di se stessa, di quello che era riuscita a costruire e della forza che aveva avuto. Era sicura che da quel momento in poi la vita sarebbe stata meravigliosa per lei ed Oscar.
<< Sei così carina quando arrossisci >>.
<< Lo sai che sono timida >>.
<< E io ti amo moltissimo per questo >>.
Oscar amava davvero quella ragazzina un po’ timida e insicura, così timida da sembrare fragile come un castello di carta, ma che nascondeva dentro una forza talmente solida da scuotere le montagne. Senza di lei, non avrebbe imparato niente sull’amore.
Senza di lei, avrebbe fatto ben pochi passi avanti nella vita.
<< Ti amo moltissimo anche io >> Mormorò a sua volta Catena, per una volta senza arrossire. Si baciarono, sotto il sole di fine Maggio, scambiandosi infinite promesse per il futuro, con la prospettiva di un’infinità di possibilità e nessun fantasma del passato a tormentare il loro avvenire.
 
 
 
__________________________ 
Effe_95
 
Salve a tutti :)
Sono finalmente tornata dalle vacanze ed eccomi qui a postare.
Questo capitolo l’ho scritto mentre ero via, tra uno spostamento e l’altro, in macchina, a mare, per strada seduta su una panchina, tra un libro di studio e l’altro.
È stato estremamente difficile per me, a livello emotivo.
Non so se mi sia venuto bene. Anche in questo capitolo vediamo la ‘fine’ di alcuni episodi.
Credo fosse necessario un confronto tra Nicola e Gabriele, non voglio aggiungere molto su di loro, ho cercato in tutti i modi di farli restare loro stessi nonostante questa ‘piccola confessione’, come la definisce Gabriele. Spero di esserci riuscita.
La prima scena è stata un po’ strana da scrivere per me, ma credo che questo piccolo confronto tra Aleksej e Cristiano, che poi non trovo così diversi tra di loro, fosse quanto meno necessario. Credo si sia cominciato ad intuire cosa voglia fare Cristiano ;)
Nel prossimo capitolo si scoprirà tutto :D
Per Catena ed Oscar invece, siamo giunti alla fine.
Non dirò nulla, lascerò che siate voi a parlare al riguardo.
Come ultima cosa, ultimamente sto passando un periodo di forte calo d’autostima e motivazione. Ce la sto mettendo tutta per continuare con lo stesso vigore e amore, ma volevo ugualmente chiedere il vostro sostegno per portare a termine questo lavoro.
Manca poco ormai ;)
Detto questo, grazie mille come sempre.
Siete il motore che fa muovere le mie dita sulla tastiera.
Alla prossima. 

Ritorna all'indice


Capitolo 60
*** La cosa più preziosa, Pancake con il sale e Farò. ***


I ragazzi della 5 A
 
60. La cosa più preziosa, Pancake con il sale e Farò
 

Maggio

Sonia detestava quel lavoro part-time.
Lo detestava, ma non osava lamentarsi perché i soldi le servivano.
Era stata dura all’inizio convincere i suoi genitori a farla lavorare, ma quando aveva spiegato loro che quel lavoro avrebbe interessato solo i weekend, senza compromettere lo studio, avevano ceduto. Sonia non capiva quale fosse il motivo di tanta ostinazione, i suoi voti erano sempre stati bassi, lavorare non avrebbe peggiorato una situazione già critica.
Si passò distrattamente una mano sul collo sudato e guardò con disgusto i resti della cena di altre persone. Detestava fare la cameriera in quel pub, lavorava lì solo da un paio di settimane, ma ancora non si era abituata alla puzza di frittura e carne che usciva dalla cucina o alla maleducazione di alcuni clienti.
Una con il suo carattere tollerava difficilmente certe espressioni, Sonia aveva dovuto mordersi la lingua parecchie volte per rimanere in silenzio, erano soprattutto le avance che non sopportava, anche se con la sua reputazione non l’avrebbe mai ammesso.
Cominciò ad impilare sommessamente i piatti, raccogliendo solo con pollice ed indice, in una esplicita espressione di puro disgusto, i tovagliolini usati. Le luci del pub erano soffuse e basse, con colori caleidoscopici e scuri che rendevano tutto l’ambiente misterioso e tetro.
A volte era talmente scuro che non riusciva nemmeno a vedere i propri piedi, aveva rischiato di cadere parecchie volte i primi tempi.
Non aveva detto a nessuno che lavorava in quel posto, era in periferia, lontano dai posti frequentati dai suoi compagni di classe. Sonia si bloccò di colpo quando si ricordò del forte desiderio che aveva provato, i primi tempi a lavoro, di confessare tutto a Miki.
Ovviamente non l’aveva fatto, perché nonostante tutti i difetti che aveva non era mai stata incoerente. Non le aveva detto nulla, nonostante morisse dalla voglia di gridare il marasma di sensazioni che le stavano esplodendo in petto.
Mentre raccoglieva i piatti in una pila ordinata Sonia sentì un’insensata voglia di vedere Cristiano. Le capitava spesso da quando aveva parlato con Gabriele, ma non aveva il coraggio di confessarlo davvero a se stessa.
Di confessare il desiderio che aveva di lasciarsi andare con lui ancora una volta.
Di dirgli quel si tanto agognato che lui stava tacitamente aspettando.
Forse Cristiano non l’avrebbe delusa una seconda volta, forse le cose sarebbero andare molto diversamente, e Sonia era stanca di scappare da qualcosa che alla fine aveva continuato a seguire incessantemente fin dai suoi quindici anni.
Strinse con forza le dita attorno ai bordi del piatto, sbiancando i polpastrelli, non era quello il momento di pensare a Cristiano.
Se avesse continuato a pensare a lui in quel modo, avrebbe finito per sentirne una tale mancanza da percepire il cuore frantumarsi nella cassa toracica.
Doveva concentrarsi sul lavoro.
Posizionò la pila di piatti sporchi nel cestello che si portava dietro, indicò un tavolo libero a quattro persone appena entrare e si diresse con passo pesante verso la cucina, dove lasciò il carico di stoviglie sporche. Le facevano male le gambe a furia di stare in piedi tutto quel tempo, la sua insegnante di ballo l’avrebbe sicuramente rimproverata.
Era qualcosa che sapevano poche persone; mentre si avviava a prendere le ordinazioni, Sonia ricordò di averlo detto solo a Miki che studiava danza classica dall’età di quattro anni.
Era qualcosa che non aveva preso seriamente all’inizio, si era impegnata solo per rendere contenta sua madre, quando poi Cristiano l’aveva lasciata, Sonia aveva smesso di ballare.
Aveva ripreso solo quell’anno, senza sapere nemmeno lei perché, e non l’aveva detto a nessuno. Non aveva detto a nessuno che voleva fare sul serio quella volta.
Che al suo futuro ci aveva pensato , almeno in parte.
Mentre si aggiungeva una ciocca di capelli dietro l’orecchio, correndo a consegnare l’ordinazione appena presa, Sonia pensò che avrebbe tanto voluto dirlo a Cristiano.
Dirgli che anche una come lei aveva un sogno stupido da voler realizzare.
Sonia avrebbe tanto voluto chiedergli se sarebbe stato dalla sua parte, se sarebbe stato disposto a sopportare.
Oppure se scappare era ancora tra le sue opzioni.
Si era fermata solamente un istante, persa nelle sue preoccupazioni, e si accorse che il fracasso infernale che aveva regnato fino a quel momento era sparito.
Il pub ospitava ogni sera una band o un cantante emergente che pagava una miseria o niente, e che solitamente di musica ne capiva davvero poco.
Quella sera era toccato ad un gruppo di metallari che aveva fatto un chiasso tremendo per tutto il tempo. Per Sonia fu scioccante tutto quel silenzio improvviso; rivolse uno sguardo in direzione del palco improvvisato, un rialzo di legno nell’angolo più lontano della sala, e vide qualcuno seduto su uno sgabello.
Doveva essere un ragazzo, ma le era difficile dirlo con certezza, era girato di spalle per collegare l’amplificatore alla chitarra e l’intensa luce fluorescente gli deformava i tratti rendendoli poco visibili. Sonia lo vide passarsi una mano tra i ricci scuri, suppose, per il nervosismo e stiracchiare le dita.
Manteneva la chitarra come un principiante, ed era vestito in maniera piuttosto anonima per essere uno che voleva farsi notare, jeans scuri e stracciati, sneaker rosse ai piedi e una tshirt anonima tutta bianca che sembrava fluorescente sotto le luci al neon.
Sonia si ritrovò a pensare che fosse un poverino un po’ anonimo, sospirò, rimproverando se stessa per essersi distratta, e girò le spalle al palco per tornare al lavoro.
<< Ehm, prova – Si, funziona … >>
Sonia si bloccò di colpo quando sentì quella voce, roca, calda e annoiata.
L’avrebbe riconosciuta ovunque, ma non poteva essere davvero lui.
Si girò di scatto e spalancò la bocca.
Cristiano sembrava estraneo sul quel palco, come un pugno su un bel viso.
Aveva le gote arrossate sotto la luce, chiunque non lo conoscesse abbastanza bene avrebbe pensato che fosse dovuto al caldo, ma era un rossore dato dall’imbarazzo, Sonia lo sapeva.
La stava guardando in quel momento, la guardava negli occhi, e siccome nessuno stava prestando davvero attenzione al ragazzo, era come se fossero solo loro in quella stanza.
Loro e dei tavoli vuoti e scuri a dividerli.
<< Non sono un cantante >> Biascicò Cristiano grattandosi la fronte << In realtà ho imparato a suonare la chitarra giusto un paio di settimane fa. Ho avuto un insegnante testardo e severo, che mi gridava contro e schiaffeggiava le dita ogni volta che sbagliavo. Ho cerotti ovunque >> Mentre avanzava con le parole Cristiano si faceva sempre più audace, era con Sonia che stava parlando.
Era lei che stava guardando.
 Sollevò addirittura le dita per far vedere i graziosi cerottini con gli smile che gli aveva regalato la piccola Lisa, quando l’aveva visto sanguinare a causa dei calli.
<< Ho imparato una sola canzone, e anche male se per questo. Non lo dico per giustificarmi. È giusto un’informazione che vi do nel caso vogliate lasciare il locale >>.
Sonia ridacchiò nel sentire quelle parole, si portò una mano sulle labbra e premette per contenersi. Avrebbe voluto non indossare quei jeans neri e smessi e quella t-shirt grigia con il grembiule sporco, o avere quei capelli disordinati stretti nel codino.
Non era nemmeno truccata, aveva le occhiaie.
Sonia non ricordava nemmeno l’ultima volta che Cristiano l’avesse vista conciata in quel modo. Naturale come non lo era mai stata.
Nemmeno prima che lui le rubasse l’innocenza.
<< A dire la verità, non so nemmeno dove ho trovato il coraggio per farlo. Né da dove mi sia venuta l’idea – o forse è colpa del mio migliore amico dopotutto … >>.
Cristiano sospirò e si passò una mano tra i capelli, tentando di ignorare un gruppo di ragazzine che avevano cominciato a prestargli attenzione.
Sonia si sentì chiamare da una sua collega con insistenza ma non si mosse.
Aveva come la sensazione che se si fosse distratta proprio in quel momento qualcosa di estremamente importante le sarebbe scivolato per sempre tra le dita.
Qualcosa che Cristiano non le avrebbe detto mai più, qualcosa che avrebbe fatto per solamente quella sera.
Un’unica, irripetibile, sola volta.
<< Questa canzone non l’ho scelta a caso. Questa canzone, tutta questa pantomima imbarazzante, sono l’unico modo che trovato per poterti dire quello che con le sole mie limitate parole non riesco >> Sonia spalancò leggermente gli occhi quando Cristiano le si rivolse direttamente, attirando così su di se anche gli sguardi di altre persone prima distratte << Non ci sarà un’altra volta. Non ci sarà una seconda occasione. Questa è l’ultima volta che te lo chiederò. È l’ultima volta che mi farò mettere in imbarazzo per te. Sarà l’ultima volta per tutto, Sonia >> Quando pronunciò il suo nome, con quella cadenza sulla vocale finale che lei aveva sempre amato, Sonia sentì lo sguardo di quasi tutti i suoi colleghi addosso, la ragazza che fino a poco prima l’aveva chiamata ora era ammutolita, anche lei sorpresa e con lo sguardo sul palco. Cristiano e Sonia si guardarono negli occhi per quelli che furono solamente secondi, ma che a loro sembrarono durare una vita.
Una vita fatta dei ricordi di due ragazzini inesperti che si volevano bene giusto un pochino, una vita fatta di cattiverie e frasi velenose sussurrate nei momenti di maggiore vulnerabilità per ferire. Una vita fatta di perseveranza, ma di paura.
Sonia stava raccogliendo tutto ciò tra le braccia, Cristiano le stava tenendo aperto il cassetto perché tutto vi venisse gettato dentro e conservato per sempre.
Chiuso a chiave con il lucchetto.
Quando Cristiano cominciò a cantare, con quella voce roca e nasale, Sonia si sorprese, nell’ascoltare parola dopo parola con avidità, di quanto fosse piacevole ascoltarlo nonostante fosse stonato come una campana.
Era nell’intensità il trucco, era nel sentimento.
Tutto quello che Cristiano diceva aveva un senso, aveva importanza, aveva valore.
“ Tu sei quel cagnolino ignaro che ho lasciato per la strada e da quel giorno pago caro e che mi segue ovunque vada …”
Sonia tirò sul con il naso e si coprì gli occhi.
Tutto quello che aveva fatto non aveva alcun senso.
Tutto quello che lei e Cristiano erano stati non aveva più senso.
“Tu sei il senso che ho di me …”
Era quello il senso.
Erano quello, loro due.
Due persone che avrebbero trovato il bene solo nell’altro.
Avrebbero fatto bene solo all’altro.
Perché nessuno altro gli aveva insegnato, perché nessun altro avevano amato.
Quando Cristiano smise di cantare, rosso in faccia per la tensione, aveva gli occhi di tutti puntati addosso. Applaudirono nonostante la performance scadente.
Cristiano scese dal palco e il suo viso, alla luce di un faretto, divenne chiaro e distinto, con i tratti che Sonia tanto amava ben chiari.
Le si avvicinò infilandosi le mani nelle tasche dei jeans, gli occhi delle persone puntati addosso che lentamente cambiavano rotta, distraendosi.
Quando si ritrovarono faccia a faccia, e Sonia fu costretta a sollevare lo sguardo per fissarlo negli occhi, Cristiano si accorse che la ragazza aveva il viso bagnato e la solita espressione feroce, selvaggia << Non mi aggredisci questa volta? >> Esordì, aveva la voce roca per il cantare << Non mi prendi in giro? >>.
<< No, mi hai dato un ultimatum >>.
Cristiano non replicò nulla, rimase a fissarla.
Sonia si limitò ad afferrargli una mano, sfilandogliela dalla tasca, gliela strinse, forte.
<< Lo sai che non ho mai smesso di amarti >> Gli disse, e l’espressione di Cristiano non mutò <>.
<< Non sono lo stesso ragazzino di allora >>.
Erano parole banali, parole che chiunque avrebbe potuto dire, ma non banali per un ragazzo come Cristiano, non banali per un ragazzo che aveva vissuto come lui.
<< E io non sono la stessa stupida di allora >> Replicò Sonia afferrandolo bruscamente con entrambe le mani per la maglietta, lo attirò a se e il suo respiro caldo le solleticò il viso, Cristiano sapeva di menta e sudore << Non te la caverai facilmente questa volta, adesso ti amo molto di più. Adesso non è più un gioco >>.
Quelle ultime parole Sonia le pronunciò ad un centimetro dalle sue labbra screpolate e carnose, Cristiano sollevò l’angolo delle labbra in un lieve sorriso, per nulla turbato da quella vicinanza, come se il suo corpo non la percepisse.
<< Io non gioco con la cosa più preziosa che ho>>.
Senza sciogliere la stretta sulla sua maglietta, Sonia cominciò a spingerlo velocemente verso una porta che si trovava alle sue spalle. Cristiano l’assecondò in ogni movimento, cominciò a camminare all’indietro, tastando la parete con le mani quando le spalle gli si aderirono contro. La stanza in cui entrarono era semibuia, il ragazzo notò solo fugacemente che si trattava di una sorta di spogliatoio, probabilmente dove i dipendenti si cambiavano.
Non appena la porta si richiuse dietro con uno scatto, Sonia si avventò sulle sue labbra.
Si diedero baci famelici, mordendosi a vicenda, Cristiano la teneva talmente stretta tra le braccia che Sonia avrebbe dovuto provare difficoltà a respirare se non fosse stato per l’adrenalina che le infiammava il corpo come benzina vicino al fuoco.
Quando restarono a corto di fiato, Cristiano la prese per i fianchi e senza troppi complimenti la mise seduta su un tavolo ingombro di vestiti e altre robacce.
Sonia vi si stese sopra scalciando con i piedi per adagiare meglio la schiena, non fece nemmeno in tempo che Cristiano le era già addosso, frenetico le aveva sollevato il lembo della maglietta scoprendole la pelle bianca del ventre tonico e piatto.
Sonia sollevò le braccia e la maglietta volò per terra, da qualche parte.
Avevano entrambi l’affanno mentre si toccavano dappertutto con enfasi, spogliandosi,  Sonia gli aveva intrecciato le gambe dietro la schiena, Cristiano era a torso nudo.
I jeans di entrambi già abbassati, le scarpe ancora ai piedi.
Erano entrambi sudati, si baciavano dappertutto, ansimavano, le dita di Cristiano viaggiavano senza sosta nei posti più sensibili, come se stessero tracciando, seguendo il filo dei ricordi, tutti quei posti che un tempo aveva esplorato senza riserve.
Il corpo di Sonia, nudo nella penombra, gli era familiare ed estraneo contemporaneamente.
Cristiano non fu gentile quando entrò dentro di lei, Sonia gridò.
E gli si strinse addosso, le dita nei capelli, il fiato corto, seguendo il movimento frenetico dell’uomo che amava. Gli occhi bagnati di lacrime.
Non aveva mai provato emozioni intense come quelle con nessuno, non ricordava nemmeno quanto fosse bello stringerlo in quel modo, sentirlo così prepotentemente suo.
Nella sua irruenza c’era il dolore, nella sua fretta la meraviglia e lo stupore di sapere che la stava stringendo tra le braccia; Cristiano non aveva mai parlato molto, quasi mai dei suoi sentimenti, ma in quel momento, tra i gemiti di entrambi confusi e fusi, Cristiano parlò più di quanto avesse mai potuto fare con le parole.
 
Zosimo avrebbe voluto smettere di respirare.
Avrebbe voluto poter allungare le dita e accarezzare lo zigomo spigoloso di Alessandra senza farle aprire gli occhi o disturbare il suo riposo. Avrebbe voluto che il tocco fosse incorporeo.
Avrebbe voluto che lei se ne restasse lì, stesa accanto a lui sul pavimento cosparso di spartiti, vestiti e tazze del modesto salotti di casa sua.
Alessandra aveva le ciglia più lunghe che avesse mai visto, erano scure alla radice ma diventavano bionde sulle punte, il naso era ricoperto di lentiggini chiarissime e le labbra socchiuse si incurvavano leggermente agli angoli.
Non stava davvero dormendo, ma Zosimo non osava fiatare né toccarla, nonostante lo spazio sotto la giacca di jeans con cui si erano coperti fosse pochissimo.
Avevano entrambi le spalle scoperte, e le gambe intrecciate spuntavano fuori sul vecchio pavimento completamente nude fin dalla coscia; Alessandra era minuta e spariva sotto la giacca di jeans del ragazzo coprendo tutte le sue esili forme, Zosimo si sentiva estremamente nudo ed estremamente grosso, nonostante fosse in realtà non troppo alto e piuttosto magro.
Si chiedeva se fosse normale sentirsi inadeguato come faceva in quel momento.
Non sapeva nemmeno dire come fossero finiti sul pavimento.
Era stato più o meno facile come respirare, pensò.
Alla fine non ce la fece a tenere ferme le dita e accarezzò la curva della spalla di Alessandra illuminata dal sole del primo pomeriggio, sul collo, riversa di lato e ferma vicino la clavicola se ne stava la collana con le loro iniziali che Zosimo le aveva regalato per il suoi sedici anni.
Alessandra aprì gli occhi lentamente, e le ciglia si mossero come farfalle, erano di un verde stupefacente sotto la luce del sole che inondava la stanza, pagliuzze di un castano dorato li rendevano ancora più luminosi e vivi, allegri e innocenti.
<< Mi fai il solletico >> Commentò lei ridacchiando, mentre si accoccolava in posizione fetale sotto la giacca di jeans, le loro gambe si serrarono maggiormente, intrecciate.
Zosimo sorrise mettendo in mostra i candidi denti e le fossette.
<< Ho provato a tenere le mani ferme, ma non ci sono riuscito >> Confessò ridacchiando a sua volta, poi si fermò a guardarla incantato, come fosse un miracolo meraviglioso.
Alessandra era felice e allegra, tranquilla e serena come sempre.
Fare l’amore, per la prima volta, quel pomeriggio, era stato normale per entrambi.
Era stata una semplice conseguenza del loro amore, qualcosa che era venuto naturale.
Non ne avrebbero nemmeno parlato, sarebbero stati semplicemente loro stessi.
<< Mi piace quando mi accarezzi >> Mormorò timida Alessandra, Zosimo allargò ancora di più il sorriso e fece per rispondere qualcosa quando il suo stomaco brontolò.
Si guardarono negli occhi per un breve istante, poi scoppiarono a ridere.
<< Hai fame mio tesoro? >> Lo prese in giro Alessandra, infilando le dita della mano destra nella matassa di ricci disordinati del suo fiabesco fidanzato.
Zosimo annuì solennemente, senza guardarle il seno piccolo e sodo sfuggito alla protezione della giacca di jeans. Il sorriso sul viso di Alessandra si fece molto più tenero quando se ne accorse, avvicinò il viso a quello del fidanzato e appoggiò la fronte sulla sua.
<< Prepariamo i pancake? >> Gli propose con un sussurro, occhi negli occhi.
<< Certo che si >> Mormorò a sua volta Zosimo.
Rimasero in silenzio per altri pochi secondi, poi entrambi scattarono in piedi senza pensarci due secondi. Zosimo infilò velocemente mutande, jeans e maglietta, poi aiutò Alessandra a tirare su la zip del vestitino a fantasia fiori che aveva indossato quel giorno.
Avevano entrambi i capelli in disordine, sembravano sconvolti, ma scalzi e incuranti si precipitarono in cucina con l’entusiasmo di due bambini.
Alessandra aprì il frigorifero canticchiando, tirò fuori latte, uova e burro andando a sbattere contro Zosimo quando si girò di scatto. La farina che il ragazzo stringeva tra le mani, insieme a quello che sembrava zucchero, esplose lerreralmente ricoprendoli da capo a piedi.
Chiunque altro avrebbe dato di matto, ma Alessandra e Zosimo scoppiarono a ridere.
<< Ne è avanzata un po’ ? >> Si limitò a commentare la ragazza divertendosi a disegnare dei baffi alla Naruto sulle guance spigolose del suo fidanzato.
Zosimo controllò i resti nella busta squartata e annuì solennemente.
<< Cosa manca? >> Domandò Alessandra contando mentalmente gli ingredienti, mentre Zosimo risorgeva da un armadietto con padelle e scodelle tra le braccia.
<< Il lievito per dolci >> Commentò calpestando amabilmente con i piedi nudi la farina finita sul pavimento, sia lui che Alessandra avevano rischiato di scivolare un paio di volte.
Ma non aveva la minima importanza per loro.
Zosimo non sapeva davvero fare i pancake, cosicché, dopo aver recuperato anche il lievito, si mise seduto su uno sgabello dell’isola, sempre sporco di farina, e appoggiate le mani a pugno sulle guance contemplò la sua fidanzata preparare il composto e muoversi per la cucina come fosse un girasole luminoso ricoperto inaspettatamente di zucchero a velo.
Alessandra faceva ogni singola cosa sorridendo, era un qualcosa che aveva imparato da Zosimo. Vivere non era mai stato così bello da quando lo aveva conosciuto.
Non era mai stato così importante.
<< L’impasto è pronto, vuoi cuocerle tu? >>.
Zosimo saltò su come un grillo alla proposta di Alessandra, scese dallo sgabello rischiando di scivolare per l’ennesima volta sulla farina e si mise scalzo ai fornelli.
A quel punto toccò ad Alessandra osservarlo e vegliarlo.
Non gli disse nulla quando Zosimo bruciò senza pietà i primi tre pancake.
Gli faceva così tanto bene al cuore trovare familiare ogni singolo aspetto del suo uomo.
Entrare in quella pizzeria, in quel freddo inverno che era sembrato appartenere a secoli prima, era stata la cosa migliore che le fosse mai capitata in tutta la sua vita.
Zosimo aveva le maniche della maglietta, infilata tutta storta, sollevate fino al gomito sul braccio sinistro, e fin quasi alla spalla sul braccio destro, i ricci spruzzati di farina gli davano ancora di più l’aria da folletto insieme alle orecchie leggermente a punta che spuntavano a tradimento in quella matassa aggrovigliata.
<< Ecco, mon amour, i pancake più buoni del mondo per te! >>.
Zosimo la risvegliò dalle sue fantasticherie quando le mostrò il piatto che stringeva tra le mani come un tesoro prezioso, dove una pila di pancake bruciacchiati faceva bella mostra di se; Alessandra riuscì a stento a trattenere una risata divertita a quella vista.
Zosimo sembrava un bambino infarinato ed estremamente contento di esserlo.
Non avevano lo sciroppo d’acero per guarnirli, né cioccolata o marmellata, ma Zosimo ci spolverò sopra una buona dose di zucchero a velo e si mise seduto accanto alla fidanzata.
Addentarono il primo pancake contemporaneamente, e contemporaneamente lo sputacchiarono dappertutto.
<< Ma c’è il sale! >> Esclamò Alessandra scoppiando a ridere.
<< Si, è sale! >> Constatò Zosimo guardando il suo pancake come fosse qualcosa di raro.
<< Hai preso il sale invece dello zucchero? >> Domandò Alessandra afferrando tra le mani il barattolo che Zosimo aveva tirato via dalla credenza mentre prendevano gli ingredienti.
Il ragazzo infilò un dito nei granelli bianchi e se lo portò alle labbra, leccandoselo.
Arricciò il naso e sorrise.
<< È sale >> Dichiarò, Alessandra ripose il barattolo sul ripiano tutto sporco e afferrò il viso del fidanzato tra le mani ancora macchiate di impasto e farina.
<< Amore, ma hai inventato una ricetta nuova! Sei un genio! >>
Lo lodò, Zosimo catturò le mani della fidanzata tra le sue, allontanandole dal suo viso, su cui rimasero le impronte a causa della farina, e le stampò un bacio a timbro sulle labbra.
<< No Ale, in realtà esistevano già i pancake salati >> Le rivelò piegando le labbra in un equivocabile broncio finto che poco gli si addiceva, Alessandra stava per rispondere prontamente quando Zosimo la baciò di nuovo zittendola << Me li faceva la mamma >> Confessò timidamente, guardandola negli occhi e facendo scivolare le dita tra quelle di lei.
<< E oggi te li ho fatti io >> Replicò Alessandra facendosi più vicina.
<< Già … >>.
<< E te li farò io da adesso in poi, tutte le volte che vorrai >>.
Si sorrisero, e senza sapere ancora una volta come, troppo vicini anche solo per rendersene conto, scivolarono nuovamente sul pavimento.
Emilia, dalla mensola più alta della cucina, sorrideva.
 
<< A Settembre me ne vado, Cristiano >>.
Nel silenzio assoluto di quello spazio, dove il tempo sembrava essersi dilatato a dismisura per inghiottire ogni cosa, ogni respiro e ogni battito esitate di cuore, le parole di Sonia avrebbero dovuto echeggiare e rimbombare tra le pareti.
Far tremare ogni cosa ed esplodere come fuochi d’artificio.
Invece non fecero nulla di tutto ciò, risuonarono sorprendentemente risolute e aspettate.
I loro respiri si erano ormai tranquillizzati da un pezzo, la pelle ancora calda pizzicava di meno, il tavolo si era spostato di qualche centimetro e tutti i vestiti che un tempo lo ricoprivano erano finiti sul pavimenti, insieme ad ogni altra cosa.  
Cristiano stava provando a farle una treccia quando Sonia aveva parlato, non aveva ancora infilato la maglietta ma se ne stava solo con la canottiera sul reggiseno nero che aveva rimesso da poco.
Quando stavano insieme, Sonia l’aveva tormentato affinché lui imparasse a farle code di cavallo e varie trecce, Cristiano si era lamentato, ma giocare con quei capelli in realtà gli era sempre piaciuto.
Poterlo tornare a rifare era una sensazione così piacevole, gli sembrava di essere tornato indietro nel tempo, a quando si nascondevano nella palestra, sui materassi, per parlare, scherzare o amarsi a seconda dell’umore.
Quei ricordi che aveva creduto di aver dimenticato erano così vividi che gli sembrava quasi di poter percepire ancora, sulle braccia scoperte, il calore del sole che gli accarezzava la pelle. Poteva farlo anche in quella stanza semibuia, con la porta chiusa a chiave.
<< Non mi dici niente? >> La domanda di Sonia lo risvegliò, senza rendersene conto aveva fermato le mani a mezz’aria, con le sue ciocche di capelli tra le dita.
Cristiano si limitò a fare spallucce, sebbene in quella posizione, dandogli la schiena, Sonia non potesse vederlo affatto in volto, e non avrebbe potuto farlo comunque con quel buio.
<< Certo che no, me ne vado anche io >>.
Sonia irrigidì la presa delle braccia intorno alle gambe quando sentì quelle parole.
Cristiano riprese ad intrecciarle i capelli con cura, un riccio alla volte per non farle i nodi, avrebbe voluto chinare il viso e darle un bacio dietro la nuca, o magari sulla spalla spigolosa scoperta, o sulla vertebra più altra per farle venire i brividi.
Era da tantissimo tempo che non stava con una donna con tanta voglia, la pelle gli scottava ancora se osava anche solamente pensarci, i nervi tesi come corde di violino.
<< Tuo padre non te lo lascerà fare, Cristiano >> Commentò Sonia facendo strusciare la punta delle scarpe, che non aveva mai tolto, sul tavolo, sporcandolo di nero.
Cristiano strattonò leggermente uno dei suoi ricci e le si fece più vicino, stringendole ancora di più i fianchi con le gambe, con intimità.
Sembrava che avessero smesso di toccarsi solamente ieri per la facilità con cui avevano ripreso a farlo, come una vecchia abitudine.
<< Mio padre non può dirmi cosa fare o meno. Non può pretendere nulla da me >>
Commentò Cristiano con voce apatica e annoiata, Sonia chiuse gli occhi e, cogliendolo di sorpresa, gettò la testa all’indietro adagiandola sul suo petto.
La treccia si sciolse quasi del tutto, tranne alla base, dove rimase fissa sulla sua schiena, lì dove Sonia vi aveva poggiato il capo chiudendo gli occhi.
<< E dove pensi di andare? Cosa pensi di fare? >>.
Gli domandò stanca, con gli occhi chiusi e le lunghe ciglia appoggiate sulle guance.
Cristiano posò le mani, fino a poco prima così indaffarate, sulle ginocchia e la guardò, desiderando imprimersi nella mente ogni singolo frammento importante di quel volto.
<< Lo sai dove andrò. Lo sai, non te lo dirò ad alta voce. Non lo dirò >>.
Sonia strinse le labbra per cercare di trattenere le lacrime, era sempre stata così brava a farlo. E non le fu difficile quella volta, perché un’ondata di serenità arrivò a travolgerla.
Andrò esattamente dove andrai tu.
Non c’era bisogno di dirlo, no davvero.
<< Non mi dici che diventerò la ballerina migliore del mondo? >> Domandò lei, aprendo i taglienti occhi verdi, selvaggi e maligni, Cristiano sollevò un sopracciglio.
Sonia non gli aveva accennato della sua ripresa nel ballo, eppure era consapevole del fatto che lui sapesse già tutto, senza davvero avere il bisogno di indagare.
<< Mi hai preso per Ivan o Zosimo? Non diventerai la ballerina migliore del mondo Sonia. Sei pigra e hai cominciato ad impegnarti troppo tardi. Dovrai faticare >>.
Sonia scoppiò a ridere quando sentì quelle parole, qualcuno bussò alla porta con insistenza, ma entrambi ignorarono quel richiamo irritato.
<< Mi licenzieranno >> Commentò Sonia borbottando leggermente.
Cristiano sollevò l’angolo della bocca in un sorriso cattivo e sarcastico, nel suo sorriso.
<< Almeno potrai dire di esserti fatta una bella scopata sul tavolo della - >>,
<< Piantala porco! >> Lo zittì lei con una gomitata nelle costole, Cristiano tossicchiò per il dolore e si massaggiò il punto colpito scoccandole un’occhiataccia.
Rimasero in silenzio entrambi per un po’ a cullarsi e farsi cullare.
<< E tu cosa farai Cristiano? Cosa vuoi fare della tua vita? Uhm? >>.
La domanda di Sonia, ripetuta, arrivò proprio quando Cristiano se l’aspettava.
Aveva un’idea piuttosto precisa di cosa avrebbe voluto farsene della sua vita, ma non l’avrebbe mai detto ad alta voce, non avrebbe mai detto ad alta voce che era pienamente, sorprendentemente intenzionato a viverla.
Che era seriamente intenzionato a rispettare quella vita che sua madre gli aveva dato.
Nonostante tutto.
<< Farò >> Si limitò a rispondere.
E non lasciò altro spazio alle domande, non pensò a cosa avrebbe dovuto fare il giorno dopo, alla decisione che aveva preso, o a quel futuro che sembrava così terribilmente lontano.
Pensò più che altro a quello che aveva fatto quella sera, a quello che aveva ottenuto.
Pensò piuttosto, che per la prima volta da molti anni, in quel punto vuoto nel suo petto, in quella voragine spaventosa piena di veleno, avesse finalmente trovato un punto fermo.
Un piccolo appiglio a cui aggrapparsi per respirare.
Pensò piuttosto che, finalmente, dopo tanti anni, il cuore avesse cominciato a rifargli male.
E per una sera, per una sera soltanto, Margherita Serra non tormentò le sue ferite.
 
 
 
 _________________________________________
Effe_95
 
Buonasera a tutti :)
Mi presento qui con la mia faccia tosta e non ci provo nemmeno a chiedervi scusa, ho fatto davvero un ritardo mostruoso questa volta. Non ho scuse.
Vi sarete sicuramente scocciati ad aspettare così tanto.
Ma mi devo laureare e la mia vita è diventata un piccolo inferno.
Passando al capitolo ad ogni modo, ho voluto mettere a confronto Zosimo e Cristiano in maniera quasi opposta, spero che si sia capito in qualche modo xD
Cosa ne pensate della ‘serenata’ di Cristiano? xD
Avevate capito cosa voleva combinare il nostro bel tenebroso? Oppure no?
Ad ogni modo, vi consiglio di ascoltare vivamente la canzone di cui ho riportato solo qualche frase per capire perché io l’abbia ritenuta così adatta per Sonia e Cristiano: “Niente più” di Claudio Baglioni.
Per quanto riguarda Zosimo e Alessandra, ho dovuto davvero imparare la ricetta per fare i pancake, nel tentativo di non scrivere stupidaggini (non sono sicura di esserci riuscita) quindi vi prego abbiate pietà di me e siate clementi xD
Anche questa volta, abbiamo visto due coppie avere un ultimo confronto insieme, e spero davvero che vi abbia soddisfatti. Come avevo accennato la storia sta per finire, anche se non sembra, ma conto di scrivere al massimo un’altra decina di capitoli.
Grazie mille come sempre a chi ha trovato il tempo di leggere, un grazie speciale a chi ha continuato a recensire, non avete idea di quanta forza per andare avanti mi diate.
Nonostante io sia fortemente demoralizzata e tutto quello che scrivo mi sembri pessimo.
Cercherò di pubblicare il prossimo capitolo il prima possibile.
Grazie di cuore.
Alla prossima :)
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 61
*** Trottola, Mio figlio e Proviamo. ***


I ragazzi della 5 A
 
61.Trottola, Mio figlio e Proviamo.


Maggio

Lisandro avrebbe tanto voluto capire come avesse fatto a ritrovarsi dietro quella porta.
Non era qualcosa che avesse propriamente progettato, sua madre gli aveva semplicemente chiesto di andare a riportare quei piatti ai vicini.
Gli aveva anche detto che in casa non c’era nessuno, e siccome aveva fatto pressioni affermando che fosse qualcosa di assolutamente urgente, Lisandro non aveva trovato scuse per lamentarsi o filarsela. E dopotutto sua madre gli aveva detto che non c’era nessuno.
Beh, Lisandro dovette ammettere che sua madre l’aveva preso per i fondelli proprio bene.
Perché in casa qualcuno c’era eccome.
Aveva sentito i rumori solamente quando era entrato nella cucina semibuia e aveva riposto i piatti sul tavolo, con il bigliettino che la madre gli aveva ripetuto mille volte di consegnare.
Per un momento Lisandro aveva pensato si trattare di ladri entrati prima di lui, poi gli era preso un colpo quando aveva visto la porta della stanza di Sara, l’ultima del corridoio, semichiusa e illuminata.
Lo spicchio di luce si allungava sul pavimento di marmo aprendosi come una grande coda di pavone mano a mano che si allontanava dalla fonte.
Lisandro aveva osservato quel particolare con gli occhi sgranati e il cuore che batteva come un puledro impazzito nel petto, per un istante era rimasto fermo all’ombra in silenzio.
Aveva preso in considerazione l’idea di andarsene camminando in punta di piedi, era un’idea piuttosto ferma, quindi non seppe spiegarsi perché avanzò fino alla porta come un ladro.
La voce di Sara lo raggiunse prima ancora che accostasse l’occhio sulla fessura, e ci mancò poco si facesse scoprire immediatamente per un attacco di risate potenti quando la vide.
Sara se ne stava in piedi davanti allo specchio, indossava delle ciabatte a forma di elefante con la lunga proboscide afflosciata sul pavimento, accompagnate da calzettoni a righe multicolor sollevati  fino al ginocchio.
Sopra indossava una vecchia felpa completamente chiusa fino al mento, era talmente grande da arrivarle a metà coscia, e dava la sgradevole sensazione che sotto non indossasse altro.
Fortunatamente, in quella posa da diva imbarazzante che aveva assunto, con la gamba sollevata sul puff, la coscia in bella mostra, Lisandro poté constatare che indossava un paio di mutande a fantasia bianca con le coccinelle.
Il che non la rendeva nuda, ma nemmeno completamente vestita.
Lisandro rischiò di strozzarsi quando se ne rese conto.
I capelli asimmetrici erano stretti in un codino scomposto da bambina sul lato sinistro della testa, cosicché le numerose ciocche rosse prendevano a confondersi con il castano scuro.
Un paio di grosse cuffie gli coprivano completamente le orecchie.
Sara stava cantando in maniera del tutto stonata, senza preoccuparsi del ritmo o del fracasso che faceva, e utilizzava un vecchio pettine verde fosforescente con tre denti mancanti a mo’ di microfono. Lisandro si protese leggermente meglio verso la fessura e ascoltò.
Sara stava cantando una vecchia canzone di Mina, “Non credere”.
Quando erano bambini l’aveva sempre presa in giro per i suoi gusti musicali, Sara si arrabbiava sempre tantissimo, ma Lisandro non l’aveva mai presa sul serio.
In quel momento, nonostante la scena fosse alquanto imbarazzante e vergognosa, si pentì un pochino di averla presa in giro, Sara cantava con tale trasporto da intimidirlo.
Lo intimidiva nonostante scuotesse la testa come una scema, e muovesse i fianchi con una sensualità pari a quella di un bradipo addormentato.
<< Se lei ti amasse, ioooo! >> Urlò a squarciagola facendo una piroetta << Se lei ti amasse, ioooo! >> Fece un’altra piroetta, afferrò un vecchio peluche dal letto e lo mandò, in un tentativo di giravolta, contro il vetro della finestra, dove si schiantò con dignità << Saprei soffrire ed anche morire pensando a teeeee … >> Fece una sorta di spaccata per aria, in un tentativo piuttosto fallito di imitazione di una ballerina, e riafferrò il povero pupazzo << Ma non ti ama, nooooo! >> E prese a scuoterlo guardandolo con una sofferenza estrema << Lei non ti ama, nooooo! >> E lo rigettò sul letto con foga, abbracciandosi da sola mentre si muoveva goffamente sulle gambe sorprendentemente lunghe e magre << Ed io non voglio vederti morire, morire per lei! >> E si lanciò in una piroetta piuttosto enfatizzata che la vide inciampare nel tappeto e finire con il sedere per terra e le gambe all’aria.
Una ciabatta volò pericolosamente su una mensola carica di libri.
Lisandro ebbe una reazione del tutto particolare a quella vista, si premette la mano sulla bocca più che poté ma non ce la fece a trattenersi, scoppiò a ridere come un forsennato, si piegò in avanti e picchiò con la testa sulla porta, spalancandola del tutto.
Sara cominciò a strillare come una matta, spaventata a morte dallo scoppio di risa e dall’improvvisa apparizione di Lisandro, e gli tirò per riflesso il pettine contro.
L’attrezzo micidiale lo centrò in pieno sul cavallo dei pantaloni.
Non fu dolorosissimo, ma piuttosto umiliante.
Lisandro si portò momentaneamente le mani sul viso, piegandosi su se stesso in preda ad un attacco di dolore, risate e umiliazione cocente, mentre Sara si toglieva le cuffie e lo fissava oltraggiata e sconvolta, totalmente senza parole.
Per un istante nella stanza cadde un silenzio assordante.
Un silenzio interrotto solo sporadicamente dai mugolii imbarazzati di Lisandro e dal respiro affannoso di Sara, ancora seduta a terra in maniera scomposta con il petto che si alzava ed abbassava freneticamente, gli occhi spalancati e le guance arrossate.
<< C-che … che cazzo stavi facendo Lisandro?! >>.
Sara urlò con così tanta potenza che Lisandro si domandò come facesse ad avere ancora tutta quella voce dopo aver cantato come se non ci fosse un domani solo fino a pochi istanti prima. Ad ogni modo, non rispose.
Rimase in quella posizione, con le mani sul cavallo dei jeans e la faccia nascosta nelle braccia. Gli sembrava di essere totalmente impazzito se anche solo ci pensava.
Perché non se n’era semplicemente andato? Perché aveva dovuto spiarla in quel modo?
Come gli era anche solo venuto in mente di fare una cosa del genere?
Perché da quando Beatrice l’aveva respinto si comportava in quel modo?
Lisandro avrebbe potuto passare l’intera giornata in quella posizione a rimuginare. Sicuramente l’avrebbe preferito all’andare a scuola, perché negli ultimi tempi gli era diventato piuttosto difficile alzarsi la mattina e affrontare ancora quel tormento.
Il tormento di vederla e provare una vergogna così grande da non riuscire nemmeno ad articolare due parole di fila senza arrossire, balbettare, farla sentire in colpa e allertare Enea.
Lisandro lo sapeva che Enea aveva capito tutto, non era di certo stupido.
<< Ohi! Sto parlando con te, brutto porco spione della malora! >>
Fu il calcio di Sara a risvegliarlo dai suoi turbamenti, la ragazza l’aveva colpito con il piede privo di ciabatta, senza troppi complimenti, sul braccio.
Il dolore fu abbastanza forte da distrarlo.
<< Mi fai male, animale! >> La richiamò scostandole malamente il piede.
Sara barcollò leggermente, poi si mise ritta e incrociò le braccia al petto.
Mentre lo fissava dall’altro, con quel cipiglio nervoso, Lisandro la trovò sorprendentemente simile ad un generale, molto simile a quella bambina dispotica che aveva tanto odiato.
<< E sarei io l’animale eh?! >> Continuò a rimbeccarlo lei, pungolandogli la caviglia scoperta con la punta del piede, Lisandro le scoccò un’occhiataccia contrariato.
<< Lo sapevo io, che dovevo lasciare i piatti e andarmene >> Mugugnò il ragazzo imbronciandosi come un bambino, le lentiggini sul viso pallido piuttosto marcate.
<< A proposito, tu come ci sei entrato in casa mia, eh? >> Sbottò lei riprendendo a colpirlo con la punta del piede, questa volta sul gomito del braccio, Lisandro le rivolse uno sguardo ancora più minaccioso, senza tuttavia reagire.
<< Tua madre ha lasciato le chiavi alla mia! >> Replicò irritato.
<< E che bisogno ce n’era? Ti costava così tanta fatica suonare il campanello? Oppure dovevi compiere il tuo dovere di porco per bene, a spiare la gente? >>.
Lisandro avvampò quando sentì quelle parole, avvampò di collera e di vergogna.
<< Ma chi diavolo vuole spiarti?! Mia madre mi ha detto che non c’era nessuno, altrimenti col cavolo che ci venivo qui! >> E pronunciate quelle parole con estrema collera, dopo l’ennesimo spintone di Sara, le afferrò la caviglia per strattonarla e la ragazza precipitò a terra a gambe all’aria, dandogli una vista piuttosto ampia della sua biancheria intima.
Lisandro lasciò la presa dalla caviglia, inorridito, il volto in fiamme.
Sara si rimise a sedere, i capelli sfuggiti al codino, gli occhi sgranati e …
<< E adesso perché piangi? >> Mormorò Lisandro con disperazione.
Sara aveva le lacrime agli occhi.
<< Non dirmi che ti sei fatta male vero? >> Nel pronunciare quelle parole Lisandro le rivolse uno sguardo veloce, imbarazzato, ma l’unico punto in cui si posarono i suoi occhi fu sulle lunghe gambe flessuose del’amica e provò un disagio così grande da stordirlo.
Che cosa gli stava prendendo esattamente? Era Sara, era solo Sara.
<< No, idiota! >> Commentò la ragazza asciugandosi in fretta il viso, poi, con estrema sorpresa di Lisandro, si mise seduta a gambe incrociate di fronte a lui e lo fissò.
Lui si trovava ancora in quella posa ridicola, rannicchiato come un ladro.
<< È solo … è solo sollievo >>
<< Sollievo? >> Lisandro pronunciò quella parola con estrema sorpresa.
<< Uhm, sai … credevo che non saremmo mai più stati in grado di parlarci così >>.
E cadde il silenzio, prepotente e infingardo.
Lisandro sentì le spalle sprofondargli nella schiena, se si fermava a riflettere, anche solamente un attimo, riusciva a vedere perfettamente quanto fosse strana quella situazione.
Non aveva parlato molto con Sara negli ultimi tempi, non l’aveva fatto perché la detestava per quello che aveva combinato con Enea, perché ignorarla era qualcosa che lo appagava.
Ma ancora una volta era stato egoistico da parte sua, aveva sempre pensato a se stesso.
Lisandro aveva avuto come l’impressione di imperversare come una trottola in quei giorni.
Girare andando a sbattere contro le cose senza nemmeno sapere cosa provare.
E in effetti, non aveva provato proprio nulla da quella volta con Beatrice.
Aveva solamente cercato un modo per distrarsi, un modo per smetterla.
Quel pomeriggio di fine Maggio, nella stanza della ragazza più improbabile del mondo, per la prima volta Lisandro ebbe come la sensazione di essersi finalmente fermato.
Si era fermato dolorante, pieno di contusioni e con la testa che gli girava freneticamente.
<< Era da tantissimo tempo che non mettevo piede nella tua stanza >>.
Le parole di Lisandro uscirono quasi come un mormorio mentre si guardava intorno, nessuna risposta, nessun accenno a ciò che aveva detto Sara; e lei lo accettava, lo capiva.
Era un altro posto, era un’altra vita, altre persone.
Non c’erano più né scodelle, né spade di legno o giocattoli per bambini.
Era la stanza di una donna, una donna con delle belle gambe, una donna fastidiosa e dispotica, un po’ matta, impicciona e quindi l’esatto opposto di lui.
<< Cosa c’è, vuoi giocare al principe e alla principessa? >>
Lo prese in giro Sara, spingendolo di nuovo con il piede, Lisandro probabilmente avrebbe preso in considerazione l’idea di amputarglielo se non fosse stato troppo impegnato a fare una smorfia disgustata, degna di un bambino eccessivamente lamentoso.
<< Dovrai prima accopparmi >> Dichiarò con solennità.
Sara ridacchiò, distogliendo lo sguardo, e Lisandro ne approfittò per guardarla meglio.
Aveva il viso piccolo e spigoloso, le sopracciglia folte e marcate, i capelli lunghi sul lato destro che le ricoprivano la spalla e quelli corti sul lato sinistro fissati con delle forcine.
Se si concentrava bene Lisandro riusciva ancora a vedere la bambina che era stata.
Nonostante tutte le cattiverie che si erano detti l’ultima volta.
Nonostante fossero in realtà soltanto due estranei.
<< Sara sai, ho detto a Beatrice di amarla >>.
Le parole gli uscirono da sole, senza sapere per quale motivo, semplicemente guardandola di sottecchi, Lisandro aveva avuto come l’impulso di farlo, di gettarle fuori.
Disse a se stesso che era solamente una conseguenza del fatto che non potesse parlarne con Enea, era per quel motivo che gli erano sfuggite così a rotta di collo.
Ma tutto sommato gli era successa la stessa cosa anche quella volta che aveva pianto, era disperato, aveva visto Sara e le aveva gettato tutto addosso come fosse stato veleno.
Lo stava esattamente rifacendo, e non sapeva il perché.
<< Finalmente, eh? >> Lo rimbeccò Sara, Lisandro sollevò uno sguardo truce per rimproverarla, ma quell’espressione se ne andò come venne, perché Sara era lì che lo fissava con un sorriso leggero e triste sulle labbra, quasi lo stesse compatendo.
<< Ha fatto meno male di quanto ti aspettavi, vero? Ti sei sentito meno pesante dopo? >>.
Lisandro la guardò battendo le palpebre, in silenzio.
<< Si, ma adesso mi sembra di impazzire. Gliel’ho detto, sono libero, ma … ma cosa posso fare adesso per togliermi tutto questo dalla testa? Come faccio a sbarazzarmene? >>.
Sara non rispose, e d’altra parte Lisandro non si aspettava che lei fosse in grado di farlo.
Era fatta in quel modo dopotutto, Sara non dava risposte alle domande che non capiva.
Non dava risposte se non le sapeva.
<< Vuoi giocare al principe e la principessa per distrarti? >> Gli domandò lei dopo un po’, quando il silenzio diventò troppo pesante, prendendolo in giro.
Lisandro sorrise nonostante tutto, e le fu immensamente grato per questo.
<< Mi presti tu i tacchi? >> Le domandò con rassegnazione, sbuffando.
<< Ho i piedi troppo piccoli Lis … e poi, credo che ormai ti lascerei fare il principe >>.
Quella frase produsse uno strano effetto nell’aria, un po’ come se Sara avesse gettato un incantesimo. I due rimasero a fissarsi negli occhi, le pupille dilatate al massimo.
Lisandro tornò ad essere consapevole dell’eccessiva nudità dell’amica e il suo corpo reagì di conseguenza. Gli dava fastidio, improvvisamente, trovarsi lì con lei, così vicina.
“E che mi dici di Sara? Tu le piaci, si vede”.
Le parole pronunciate da Beatrice gli tornarono in mente all’improvviso, senza preavviso.
Lisandro sussultò senza riuscire a controllarsi e si spostò, automaticamente.
<< Devo andare, Sara >> Mormorò prendendola in contropiede.
Lisandro riuscì a leggere, come un libro aperto, tutta la delusione che le attraversò il viso.
<< Oh, va bene … ci vediamo in questi giorni? >> Replicò lei tirandosi in piedi, sembrava improvvisamente timida, come se si fosse accorta solo in quel momento di essere in mutande. Giocherellava con le maniche dell’enorme felpa che indossava.
Lisandro si tirò in piedi a sua volta, goffo, e annuì grattandosi leggermente la testa.
Aveva così tanta fretta di andarsene, che quando si girò di scatto non vide la porta.
Vi si schiantò dentro con prepotenza, rimbalzò all’indietro, finì addosso a Sara ed entrambi si ritrovarono schiacciati per terra, sul tappeto, le gambe aggrovigliate e la faccia di Lisandro inequivocabilmente schiacciata tra i seni floridi della vicina di casa.
Per un momento nessuno dei due fiatò.
Schiacciato contro il suo petto Lisandro sentiva il cuore di Sara agitarsi come un uccellino intrappolato, sentiva il suo respiro scomposto dalla sorpresa, il suo profumo al caramello e anche tutte le ossa dello sterno. Inoltre, era evidente che non indossasse il reggiseno.
Lisandro strizzò gli occhi a quel pensiero e fece per tirarsi su, ma non ci riuscì.
Prima che potesse anche solo sollevare la testa, le braccia di Sara lo avvolsero dietro le spalle e le sue dita magre, flessuose, con le unghia smaltate di rosso, curate, si insinuarono nei suoi capelli con gentilezza, nonostante fossero estremamente corti.
Lisandro rimase attonito a quella carezza, schiacciato sul suo petto, tra braccia sconosciute che mai, nemmeno una volta, avrebbe pensato l’avrebbero stretto in quel modo.
<< Puoi restare un po’ così? Puoi restare con me per una volta? >>.
Successe una cosa strana dopo che Sara ebbe pronunciato quelle parole, Lisandro vi colse dentro molto più di quanto esprimessero, il respiro si calmò da solo, il cuore smise di ballargli nel petto come avrebbe fatto quello di un dilettante alle prime armi.
Si era reso conto, lì, tra braccia che avrebbero dovuto fargli ribrezzo, che non aveva pensato a Beatrice per più di venti minuti da un anno a quella parte.
Che per un breve, piccolo istante, Beatrice era sparita del tutto.
<< Ehi, Sara … >> La chiamò, completamente abbandonato su di lei.
<< Si? >> Mormorò lei, le mani che ancora gli accarezzavano la nuca.
<< Mi lasceresti fare il principe per questa sera? >> A Lisandro la sua stessa voce risultava estranea, diversa, ma non si frenò << Mi daresti il permesso di usarti per dimenticare? >> Mentre parlava, gli sembrava di avere cambiato per un attimo personalità << Posso usarti per un tempo indeterminato, per vedere se riesco a dimenticarla? >> Non riusciva nemmeno a rendersi conto di essere crudele mentre pronunciava quelle parole, non riusciva a immaginare all’eventualità che avrebbe anche potuto ferirla, continuò, continuò perché sentiva di non avere scelta.
Perché sentiva di non avere alcuna scelta se non voleva morire soffocato da se stesso.
<< Fai l’amore con me, adesso, ora. Vuoi? >>.
Non si guardarono negli occhi, non si mossero, Lisandro aspettò il suo “no”.
<< Si >>.
 
Cristiano non aveva mai provato una sensazione sgradevole come quella in vita sua.
La sensazione di dover raccogliere le forze per fare qualcosa di altamente indesiderato.
In quel momento si sentiva così saturo di quel sentimento che le mani, strette a pugno lungo i fianchi, continuavano a formicolargli fastidiosamente.
Era fermo di fronte quella porta da almeno cinque minuti, avrebbe dovuto alzare quella benedetta mano e bussare, avanzare con passo fermo e deciso, dire quello che pensava.
Ma non ci riusciva.
Era una brutta vecchia abitudine che proprio non riusciva a farsi andare via, quella terribile apatia che aveva accompagnato la sua vita fino a quel momento.
Il cocente desiderio di fregarsene di qualsiasi cosa ed andarsi a nascondere sul vecchio divano impregnato d’alcool di sua madre … poi si ricordò che quel divano non c’era più.
Che l’uomo dall’altra parte della porta, quell’uomo che aveva paura di affrontare, aveva gettato tutte le cose di sua madre come se non fosse mai esistita, come se non avesse fatto altro che aspettare quel momento con ansia.
Il momento di rimpiazzarla con una donna altrettanto volgare e rumorosa.
Per Cristiano gli ultimi mesi in quella casa non erano stati facili.
Non l’aveva mai davvero considerata come il luogo dove rifugiarsi, ma da quando quella donnaccia si era trasferita da loro, cambiando anche quelle poche cose che gli erano sempre sembrate familiari, per lui viverci era diventato quasi insostenibile.
Mentre sollevava la mano stretta a pugno, ripensò con tristezza al libro di matematica che aveva lasciato aperto pochi istanti prima sulla scrivania della sua stanza.
Avrebbe preferito ripassare tutto il programma di matematica piuttosto che cominciare quella conversazione con suo padre; fu solamente il volto di Sonia, apparso chiaro e limpido nella sua mente, a fargli finalmente battere quel pugno sulla porta di legno intarsiata.
<< Avanti >> La voce apatica e fredda di Emanuele gli giunse ovattata alle orecchie.
Cristiano spinse la porta senza esitare oltre e mise su la maschera che gli usciva meglio, quella che aveva indossato per tutti quegli anni, la maschera che aveva fatto aderire così perfettamente al suo viso da non sapere nemmeno più dove cominciasse e dove finisse.
La maschera dell’indifferenza.
Emanuele Serra sollevò lo sguardo dal portatile di ultima generazione aperto sulla scrivania.
La luce blu del desktop si infrangeva sinistramente sul suo viso spigoloso, mettendo in mostra un gioco d’ombre piuttosto inquietante; Emanuele non riuscì a trattenete un accenno di sorpresa quando si ritrovò davanti il figlio.
Cristiano era entrato solamente una volta in quello studio da che ne aveva memoria.
Quando era bambino gli era assolutamente vietato, e crescendo aveva perso tutto l’interesse per quel posto, non aveva mai davvero voluto varcare il ‘regno’ di suo padre.
Vi era entrato pochi mesi prima quando era morta sua madre, quando aveva tentato di rifilare un cazzotto al padre, cazzotto che, purtroppo per lui, non era mai andato a segno.
<< Cristiano … che ci fai qui? >> Chiese l’uomo ritrovando subito la sua compostezza.
Cristiano non rispose immediatamente, rimase in piedi incrociando le braccia al petto.
Aveva sempre detestato il modo in cui assomigliava terribilmente al padre.
Gli stessi capelli mossi e riccioluti, gli occhi dal taglio orientale e la mascella squadrata.
Erano talmente simili, che guardare suo padre gli provocava il voltastomaco.
Cristiano aveva sempre pensato che, se avesse fissato negli occhi di quell’uomo per troppo a lungo, non avrebbe fatto altro che vedere se stesso.
E non lo sopportava.
<< Devo parlare con te >> Si limitò a dire, fissando la punta delle sue scarpe.
Emanuele in compenso aveva già smesso di prestargli attenzione, lo sguardo nuovamente puntato sul computer, lo schermo luminoso riflesso nelle scure pupille.
<< Me ne vado >> Continuò Cristiano impassibile, sapeva che Emanuele non gli avrebbe riservato molto del suo tempo, era già troppo che avesse alzato lo sguardo su di lui.
Quelle parole tuttavia dovettero sortire un qualche effetto su di lui, perché fece qualcosa che Cristiano non si sarebbe mai aspettato, chiuse il portatile, incrociò le braccia al petto e lo invitò a sedersi su una delle sedie davanti la scrivania.
Accorgendosi che Cristiano non sembrava per nulla intenzionato ad eseguire quell’ordine, Emanuele incrociò le dita sotto il mento e si limitò a fissarlo, troppo intensamente.
<< Ti ascolto >>.
Cristiano si ritrovò a deglutire, a disagio, non si era di certo aspettato quella reazione.
Non aveva preso nemmeno in considerazione l’idea che la conversazione potesse farsi più lunga del necessario.
Non era preparato per un confronto così diretto, Emanuele stava decisamente barando.
I giochi non erano andati in quel modo, quella variante non c’era nelle regole.
<< Io- >> Cristiano si morse la lingua per quel tentennamento << Io vado via, una volta che sarò diplomato, a Settembre. Prendo Marta e me ne vado >> Dichiarò con forza, prendendo finalmente il coraggio di guardare suo padre negli occhi << Sono maggiorenne ormai >>.
Emanuele Serra lo osservava con uno strano sorriso accennato sulle labbra.
Sembrava quasi stupito di suo figlio, come se lo vedesse davvero per la prima volta.
<< Beh, va bene allora >>.
Cristiano rimase spiazzato dalle parole del padre, non avrebbe mai voluto assumere quell’espressione sorpresa di fronte a lui, ma non riuscì proprio a trattenersi.
<< Va bene? Ti dico che voglio andarmene e tu mi rispondi “va bene”? >> Sbottò carico di incredulità, poi si lasciò scappare una risata esasperata e fissò il padre con gli occhi pieni di fuoco, quel fuoco che raramente si era risvegliato in lui << Non te ne frega proprio niente, vero? Non c’è nulla che ti tocchi eh, papà >> Sputò con disprezzo, enfatizzando con estrema caricatura l’ultima parola << Prima ti sei sbarazzato della mamma, sarà stata una manna dal cielo la mia proposta, vero? Bene, ti accontento! >>.
Quando smise quell’invettiva che sapeva del tutto inutile, chiuse gli occhi di botto, respirando a fatica, infuriato con se stesso per essersi lasciato andare in quel modo.
Si portò il pollice e l’indice della mano destra alla radice del naso e respirò profondamente.
Non aveva alcun senso che continuasse a stare in quella stanza.
<< Cristiano! >> Emanuele pronunciò il suo nome con una tale autorità che Cristiano si fermò sul posto, raggelato << Vedo che l’abitudine di trarre conclusioni affrettate non l’hai persa per nulla, eh? >> Continuò l’uomo riprendendo un tono di voce normale.
Cristiano aveva lo stomaco serrato, avrebbe voluto che finisse tutto in fretta.
<< Prima di tutto, non mi sono sbarazzato di tua madre. Secondo, io e tua madre ti abbiamo desiderato ardentemente, quindi non capisco perché dovrei essere felice di averti lontano. E terzo, ti lascerò la libertà di andartene solamente ad alcune condizioni >>.
Cristiano sbatté ripetutamente le palpebre, si sentiva leggermente frastornato.
Aveva come la terribile sensazione di aver perso quella battaglia in tutti i sensi.
Io e tua madre ti abbiamo desiderato ardentemente, quindi non capisco perché dovrei essere felice di averti lontano”.
Scosse la testa e decise finalmente di sedersi, fronteggiando suo padre faccia a faccia.
<< Ti ascolto >> Replicò piccato, tornando alla sua solita espressione scocciata.
Emanuele incrociò le braccia al petto e si rilassò contro lo schienale nella poltrona.
<< Ti lascerò andare dove vorrai, con chi vorrai, ma a patto che tu ti metta a studiare per prendere in mano le redini dell’azienda di famiglia >>.
<< Stai scherzando?! >> Cristiano contrasse le sopracciglia, incredulo.
Emanuele Serra non era mai stato tipo da fare scherzi, era un uomo d’affari, freddo, calcolatore e tremendamente solo. Cristiano si ritrovò a ridacchiare con cattiveria.
<< Ah, ma certo! Ora capisco tutto, era ovvio >>.
Chiuse gli occhi e respirò profondamente, avrebbe dovuto aspettarselo da suo padre.
Emanuele non faceva mai nulla per caso, voleva tenersi vicino Cristiano solamente per un proprio tornaconto, probabilmente, aveva voluto un figlio proprio per quel motivo.
<< No, non lo farò >> Replicò tranquillo, e fece per alzarsi.
<< Allora puoi scordarti Marta >> La replica di Emanuele fu immediata, istantanea.
E Cristiano rimase bloccato su quella sedia ancora una volta, frustrato, colpito nei suoi punti deboli, colpito in quell’unico misero legame che mai, mai avrebbe reciso.
<< Ma che cosa te ne frega di me? Mi hai voluto solamente per questo? Hai sposato la mamma solamente per avere un cazzo di erede?! Perché vorresti dare l’azienda a me? >>.
Cristiano aveva alzato ancora la voce, ed era una seconda volta di troppo per lui.
Aveva sempre perso le staffe con suo padre.
<< Perché sei mio figlio >> La replica di Emanuele fu immediata e assoluta.
Cristiano rimase fermo sulla sedia, rigido come un pezzo di ferro, impassibile.
“Porterai indietro Sonia, diventerai indipendente e creerai il tuo futuro lontano da quell’uomo, senza necessariamente spezzare quel legame.”
Improvvisamente, senza preavviso, le parole che una volta Zosimo gli aveva rivolto, in un giorno qualsiasi di scuola, gli tornarono in mente quasi a tradimento.
Cristiano non era interessato a conoscere i motivi di suo padre, non era interessato a conoscere le sue ragioni, ma doveva ammettere con estrema fatica, con dolore, che era l’unica famiglia che avesse.
L’unico legame, sebbene frammentato, corroso e malato, che possedesse.
Non poteva reciderlo, ma poteva allentarlo.
<< Va bene >> Si ritrovò ad acconsentire, deciso << Ma dovrai stare fuori dalla mia vita >>.
Emanuele lo guardò negli occhi per un po’, se vi passò del rimpianto attraverso, Cristiano non lo notò, e nemmeno avrebbe voluto farlo. Si limitò ad alzarsi da quella sedia, le mani strette troppo a pugno, la testa dolorante per la tensione.
Era finita.
Hai visto Zosimo? Avevi ragione tu. Non ho spezzato nulla.
Cristiano sorrise mentre pensava quelle parole, chiudendosi la porta alle spalle.
Non l’avrebbe mai dette davvero al suo migliore amico.
 
Lisandro non riusciva a staccare lo sguardo dal soffitto.
Aveva contato tutte le crepe e le bolle d’aria, ma il respiro gli era tornato regolare solamente da alcuni minuti, e il tornado di emozioni si era placato da pochi istanti,
Non sapeva se sarebbe stato in grado di muoversi, di parlare o di fare altro.
Inoltre, Sara gli si era completamente accasciata addosso come un sacco di patate, quindi non sarebbe stato in grado di muoversi nemmeno se avesse voluto.
Era stata l’esperienza più strana della sua vita.
Aveva sempre pensato di non essere capace di fare sesso con qualcuno senza amore, invece con Sara era stato completamente diverso. Non era stato né sbagliato né disgustoso come si era aspettato, c’era stato dell’affetto, qualcosa di strano a cui non avrebbe saputo dare nome.
Era stato quasi come fare qualcosa di già fatto con una persona familiare.
E poi, Lisandro non aveva pensato a Beatrice nemmeno per un istante, e quella cosa lo faceva letteralmente impazzire di insicurezza, la testa piena di domande.
<< Non credo che riuscirò a muovermi per un po’ >> Mormorò Sara all’improvviso, rompendo il filo dei suoi pensieri distorti e affannosi, aveva la guancia schiacciata sulla sua spalle, il seno premuto sul suo petto e le mani intrecciate alle sue.
<< Beh, nemmeno io >> Lisandro si sorprese nello scoprire che poteva ancora parlare.
Aveva la voce roca, ma funzionava bene.
Sara ridacchiò e si tirò su a fatica, guardandolo negli occhi, avevano entrambi il viso arrossato, erano sudati e sembravano avere appena combattuto una battaglia.
<< Sono stata troppo impetuosa? >> Domandò ammiccando con lo sguardo.
Lisandro arrossì, ma non doveva essere troppo evidente quel particolare, accaldato com’era.
<< In effetti mi sono chiesto dove avessi imparato … certe cose >> Balbettò spostando lo sguardo, avrebbe potuto scostarsi, togliersela di dosso ma, la verità era che non voleva.
Gli piaceva averla così addosso, quella sensazione di calore e dei loro corpi incollati e sudati.
Lisandro si sarebbe preso a schiaffi in faccia se avesse potuto farlo.
E forse, dopotutto, una volta tornato a casa l’avrebbe fatto davvero.
<< Credevi che fossi vergine? >> Domandò Sara sollevando magistralmente un sopracciglio.
Lisandro la fissò negli occhi scuri, luminosi, vivi, e annuì risoluto.
<< Ho avuto due ragazzi Lisandro! Che ti credevi, che nessuno mi volesse? >>.
Sbottò Sara rivolgendogli un’occhiataccia un po’ piccata, Lisandro tentò di far finta di nulla e nascondere l’evidente sorpresa che quella rivelazione gli aveva provocato.
In effetti, Sara gli era sembrata anche troppo esperta a riguardo.
<< Beh, non credevo che esistesse qualcuno in grado di sopportarti >>.
Commentò Lisandro con fare incurante, e fu un pessimo errore, perché Sara si mise a cavalcioni su di lui e lo colpì in mezzo alle costole con uno schiaffo non molto gentile.
Lisandro rimase senza fiato per alcuni secondi, senza capire bene quale fosse la causa.
<< Non ti muovere! >> La minacciò, afferrandole i fianchi.
Non sarebbe stato in grado di ragionare se Sara si fosse mossa solamente di un millimetro.
Sorprendentemente Sara obbedì, e non si mosse.
Lisandro strizzò gli occhi e la fissò, non sapeva bene cosa dirle.
<< Questa cosa che è successa Sara … >> Esordì, e tentò di non farsi scappare un gemito quando lei sussultò e gli si strusciò contro inconsapevolmente << … mi piacerebbe succedesse altre volte. Non – non ti sto dicendo che ti amo, perché non è così. E anche tu, non mi ami. È così evidente! >> Trasse un respiro profondo, doveva fare in fretta a parlare, non avrebbe resistito per molto a stare in quel modo << Ma stavo pensando … perché non ce la prendiamo con calma? Perché non vediamo che cosa succede? >>.
Pronunciando quelle parole, Lisandro la guardò, Sara abbassò il viso e gli diede un bacio a timbro sulle labbra. Non aveva molto da aggiungere.
<< Proviamo >> Mormorò, e prima che potesse realizzarlo Lisandro le afferrò i fianchi con violenza e la ribaltò, incastrandola sotto di lui.
<< Però adesso il principe lo faccio io! >>
La minacciò, e Sara rise.
 
 
 
 
 
_______________________________ 
Effe_95
 
Buongiorno a tutti!
Se ve lo stava te chiedendo, si, sono ancora viva ^^’
Allora, vi confesso che non ho passato un bel periodo, la laurea si avvicina e ho avuto seri problemi familiari, quindi il tempo e la voglia di scrivere non c’erano proprio.
Ad ogni modo eccomi qui, ho scritto un capitolo molto più lungo del solito e spero di essermi fatta perdonare in questo modo :D Vi prego, perdonatemi!
Cercherò di essere più veloce nel pubblicare il prossimo, prometto.
Come avrete notato negli ultimi capitoli ogni situazione sta trovando la propria conclusione, ed è anche il caso di Sara e Lisandro e Cristiano ed Emanuele.
Questo mi piace definirlo un po’ il capitolo delle “sospensioni”, perché per la prima volta ho lasciato per questi personaggi un finale totalmente aperto, soprattutto per Sara e Lisandro.
Che cosa ne pensate? Vi è piaciuta l’idea?
Ovviamente, per motivi di tempo, non potevo dedicare troppo alla coppia Lisandro/Sara, ma è un po’ come se per loro, pieni di fantasmi, la storia cominciasse adesso.
Starò a voi immaginare come potrebbe proseguire.
Siamo sempre più vicini alla fine della storia, sigh!
Comunque ringrazio davvero di cuore le persone che ancora leggono la storia, chi la segue solamente e in particolar modo chi trova ancora il tempo e la voglia di lasciarmi una recensione. Spero di riceverne un po’ di più questa volta xD
Grazie mille, siete la mia forza!.
Alla prossima :)
 

Ritorna all'indice


Capitolo 62
*** Pioggia, Questo cortile e Inizio. ***


I ragazzi della 5 A
 
62.Pioggia, Questo cortile e Inizio.
 


Giugno

<< Ma tu guarda se doveva mettersi a piovere in questo modo! >>.
Ivan non riusciva davvero a smettere di brontolare mentre osservava la pioggia sciabordare contro la vetrata del negozio. Guardò con aria sconsolata l’enorme libro di letteratura latina aperto sul tavolo davanti a lui; il gelato nella coppetta si era sciolto da tempo.
Il pistacchio si mescolava alla vaniglia creando delle onde di crema piuttosto artistiche.
Faceva un caldo della malora, eppure il cielo sembrava voler piangere tutte le sue lacrime.
Nell’aria si respirava una tale umidità che persino le magliette sembravano volersi incollare addosso permanentemente.
Ivan avrebbe tanto voluto chiedere ad Italia, seduta proprio davanti a lui, come facesse a concentrarsi così intensamente senza fare nemmeno una piega.
Avevano stabilito da giorni di andare a studiare in quella sorta di gelateria-caffè universitario, l’ambiente era sembrato ad entrambi così rilassato e pacifico da sceglierlo senza nemmeno pensarci troppo.
Ma nessuno dei due avrebbe potuto prevedere che avrebbe fatto quel putiferio.
Ivan guardò con aria sconsolata il riassunto sulla vita di Ungaretti che stava meticolosamente trascrivendo, avrebbe dovuto studiarlo quando il professore l’aveva assegnato mesi prima.
<< Il tuo gelato si è sciolto >> Il commento di Italia lo distrasse dai suoi lugubri pensieri.
Aveva finalmente sollevato gli occhi dal proprio quaderno, i lunghi capelli ramati cadevano sciolti sulle spalle scoperte macchiate di lentiggini, gli occhiali erano stati sostituiti da un paio di lenti a contatto e l’intenso color cioccolata del suo sguardo sembrava sciogliere ogni cosa nel raggio di mille chilometri.
Indossava un vestitino bianco tutto ricoperto di fiori dai mille colori, che le aderiva addosso con una tale grazie da sembrare essere stato fatto apposta per lei, le spalline sottili le scivolavano sulla pelle e Ivan non riusciva a distogliere lo sguardo.
<< Anche il tuo >> Si ritrovò a replicare, strizzando gli occhi e dandosi un pizzicotto sulla coscia. Era stanco di studiare per l’esame di maturità, gli sembrava di non aver fatto altro per giorni in quella ultima settimana di scuola.
Italia alzò le sopracciglia sorpresa, quasi si fosse dimenticata di aver ordinato anche lei una coppetta; il suo gelato era completamente intatto, ormai crema nel suo contenitore di carta.
<< Fuori piove così tanto … >> Mormorò la ragazza spostando lo sguardo sul vetro della finestra frustato dall’acqua, Ivan fece fatica a trattenere un sorriso mentre le osservava il profilo. Era tipico di Italia essere così concentrata sullo studio da non accorgersi di altro.
<< Dovremmo andare a casa? >> Domandò lei sovrappensiero.
<< Non abbiamo gli ombrelli >>.
Italia distolse lo sguardo dal vetro bagnato, chiuse il quaderno di italiano, si stiracchiò come un gatto e fece spallucce, fissando Ivan con uno strano interesse e un pizzico d’affetto.
<< Non importa se ci bagniamo un po’ … casa tua è qui vicino, no? >>.
Ivan aggrottò le sopracciglia alla domanda, fissando Italia negli occhi.
Lei sembrava sorprendentemente serena, gli angoli della bocca erano sollevati in un sorriso gentile, lo osservava intensamente con quegli occhi nocciola, la mano posata sotto il mento; da quando erano tornati insieme sembrava che tutta l’ansia, tutta la timidezza che aveva provato precedentemente, fosse magicamente sparita nel nulla.
Come se avessero preso totale confidenza l’uno dell’altra.
Era una sensazione talmente piacevole che Ivan se ne rendeva conto per la prima volta.
<< Si >> Dichiarò, per poi incrociare le braccia al petto e arrossire << Ma i miei non ci sono oggi. Sono andati a trovare nonna per il weekend >>Terminò balbettando leggermente.
Italia sorrise ancora di più, spostò la mano da sotto il mento e prese quella di Ivan.
Ormai i tatuaggi erano talmente aumentati che avevano raggiunto anche il dorso della mano e le nocche. Osservando le loro dita intrecciate Italia si ritrovò a pensare a quanto avesse dato di matto quando aveva notato che Ivan si era fatto tatuare la parola “FUCK” in maiuscolo, una lettera per ogni falange.
Gli aveva tenuto il broncio per ore.
In quel momento invece quelle mani tutte colorate le piacevano, perché erano le mani di Ivan, ed erano talmente familiare, talmente sue, che non le avrebbe volute diverse.
<< Lo so che i tuoi non ci sono >>.
Italia vide la comprensione farsi strada nei suoi occhi, lo vide arrossire, abbassare lo sguardo, impappinarsi con le parole e lo amò ancora più di quanto già non facesse.
Ivan era sempre stato come un fiore bellissimo per lei, dall’aspetto bizzarro, poteva incutere un po’ di timore per i suoi colori scuri, poteva sembrare velenoso; ma alla luce della luna, al buio, nel silenzio, apriva i suoi petali e diventava dorato, come un tesoro bellissimo.
Con quei capelli legati a samurai, la canottiera bianca troppo larga che mostrava tutta la pelle colorata, le dita piene di anelli e l’orecchio sinistro costellato di orecchini, doveva fare davvero una pessima impressione agli altri, ma per Italia era il segreto più bello del mondo.
Quello che vedevano gli altri era solamente un guscio, lei vedeva l’essenza.
<< Sei … sei sicura? >> Domandò Ivan, le sopracciglia ancora aggrottate, le mani strette.
Italia annuì solennemente, sorridendo, gli lasciò la mano di colpo e cominciò a riordinare tutto nella cartella con una certa compostezza, incitandolo contemporaneamente a fare lo stesso. Lui la fissò per qualche altro secondo, imbambolato, poi la imitò.
Quando misero piede fuori dal locale, dopo aver pagato il conto, cominciarono a bagnarsi immediatamente, perché la pioggia era sospinta da un vento inferocito e precipitava senza una direzione precisa, frustando la faccia, le gambe, le braccia.
<< Dannazione! >> Sbottò Ivan aggiustandosi la cartella a tracolla.
Si era già bagnato tutti i capelli, e la canotta bianca gli si era appiccicata sul petto rendendosi completamente trasparente, rivelando in quel modo la forma dei pettorali scolpiti.
Italia distolse frettolosamente lo sguardo, un po’ rossa in faccia, con il cuore a mille, e lasciò che Ivan le afferrasse una mano con una certa confidenza, stringendola lievemente.
Si buttarono sotto la pioggia senza alcuna esitazione, correndo e ridendo come due bambini.
I capelli zuppi sferzati dal vento, i vestiti incollati addosso, le numerose scivolate.
Raggiunsero casa di Ivan con il sorriso sulle labbra e le gote arrossate dall’affanno.
Erano zuppi ed umidi, ma faceva un caldo tremendo nel piccolo appartamento buio.
Aprendo la porta di casa Ivan afferrò Italia per entrambe le mani e la invitò ad entrare, camminando di schiena come un gambero, senza mai distogliere lo sguardo da lei.
Le cartelle abbandonate per terra, le scarpe bagnate nel pianerottolo e i piedi nudi sul pavimento freddo, con le loro impronte distinguibili solamente controluce.
<< Hai freddo? >> Le domandò Ivan, entrando nel piccolo bagno di casa.
Italia fece spallucce senza rispondere, in realtà, si sentiva soffocare dal caldo.
Il moro afferrò un paio di asciugamani, compreso un telo bianco da doccia che aprì avvolgendo Italia teneramente, mentre le frizionava i capelli.
Lei lo lasciò fare per un po’, osservando il suo cipiglio particolarmente concentrato, i capelli sfuggiti al codino che ricadevano sulla fronte in tante ciocche disordinate e ondulate, le gocce d’acqua che precipitavano seguendo il profilo della sua mascella squadrata, quel giorno accarezzata da uno strato di barba tagliata male …
Afferrò anche lei un telo bianco, che Ivan aveva lasciato sulla lavatrice, e prese ad asciugargli a sua volta i capelli, cosicché le loro braccia si intrecciavano senza posa, toccandosi e scontrandosi inevitabilmente.
Risero, guardandosi negli occhi lucidi, il respiro affannato e l’espressione eccitata.
Il bagno era davvero piccolo, faceva sempre più caldo e Italia sentiva i capelli più sottili agli angoli delle tempie arricciarsi a causa dell’umidità.
Smise di asciugare inutilmente le braccia di Ivan, lasciò cadere a terra l’asciugamano ormai bagnato, e mentre lui le tamponava le gambe con il grosso telo bianco che le aveva avvolto addosso, si sfilò prima una bretella, poi l’altra e lasciò cadere il vestito, che si bloccò a metà percorso posandosi dolcemente sulle braccia colorate del ragazzo.
Ivan rimase come paralizzato per un istante, lo sguardo fisso sulle gambe scoperte della ragazza, poi abbassò le braccia e lasciò che il vestito di lei terminasse il percorso cadendo sul pavimento. Italia lo calciò via con un piccolo colpetto, e rimase ferma mentre sollevando lo sguardo Ivan la studiò come meravigliato.
Aveva i piedi piccoli Italia, sottili, sembrava di poter contare tutte le ossa una ad una, erano curati, le unghie smaltate di un rosa pallido; aveva le caviglie sottili, i fianchi morbidi e la vita stretta, piatta, con un piccolo neo accanto l’ombelico leggermente all’infuori.
Indossava un intimo bianco tutto merlettato e aveva il seno gonfio, morbido.
Non stava arrossendo quando la guardò negli occhi, sembrava tremendamente sicura di se.
Ivan sospirò pesantemente e capì che era arrivato il suo turno, e non aveva pura, non aveva vergogna, non aveva alcun tipo di timore.
Gettò a terra la canottiera bagnata, restando a torso nudo, e scalciò via i jeans pesanti.
Il pavimento del bagno era ingombro dei loro vestiti, degli asciugamani, era così piccolo che sembrava straripare dei loro indumenti e dei loro respiri silenziosi, misurati.
Italia sollevò delicatamente le mani, muovendo le dita con la grazia di un pianista che si apprestava ad accarezzare i tasti, e seguì il profilo delle clavicole del ragazzo.
Ivan rabbrividì.
Spogliarsi del resto fu un procedimento quasi naturale.
E non ci fu vergogna, non ci fu esitazione, né pentimento, né dolore.
Italia ed Ivan sapevano di doversi amare in quel momento, l’avevano saputo dal primo momento in cui si erano sfioranti, l’avevano saputo da sempre.
Fu come riscoprirsi di nuovo, fu come conoscersi da zero di nuovo.
E mentre fuori la pioggia sciabordava insistentemente, battendo contro la finestra, quei due ragazzi si amavano senza sosta su un letto troppo piccolo.
Senza coperte o lenzuola o veli, a coprirli.
 
Il primo giorno di scuola, quando era cominciato l’anno, Romeo non avrebbe mai pensato di poter provare l’assurda nostalgia che lo stava divorando in quel preciso istante.
L’ultimo giorno di scuola della sua vita era arrivato davvero in maniera inaspettata.
Quando si era seduto dietro il banco, accanto ad Italia e Catena come ogni mattina, aveva percepito una sorta di fastidiosa stretta alla bocca della stomaco, era stata l’assoluta consapevolezza che da quel giorno in poi tutto sarebbe cambiato.
Se avesse potuto tornare indietro nel tempo, Romeo l’avrebbe fatto.
Se avesse potuto tornare indietro nel tempo e prestare più attenzione ai momenti che gli erano stati regalati in quelle mura, dare più peso alle parole che aveva usato, dare più sacralità ad ogni istante, Romeo, senza alcun dubbio, l’avrebbe fatto.
Era l’ultima ora dell’ultimo giorno di scuola, il professor Riva li aveva portati fuori.
Il sole sembrava voler spaccare anche le pietre, colorando tutto vivacemente.
Romeo riusciva a tenere aperto a stento l’occhio destro mentre se ne stava seduto comodamente sul solito muretto, le gambe penzoloni nel vuoto, le braccia distese dietro di se e la luce del sole a colpirgli il viso senza cura, a tradimento.
Aveva legato il ciuffo decolorato in un elaborato codino a samurai, e l’effetto sarebbe risultato piuttosto virile se non fosse stato per l’elastico rosa con i cuoricini bianchi che aveva preso in prestito da Zoe pochi minuti prima.
Gli occhi gli lacrimavano per la luce forte, erano sempre stati di un verde troppo chiaro.
<< Hai una faccia orribile! >> Commentò allegramente Zosimo, seduto accanto a lui.
Il folletto se n’era stato in silenzio per tutto il tempo, mollemente abbandonato sul muretto come se stesse prendendo il sole, le gambe spalancate penzolanti una a destra ed una a sinistra. Le braccia erano piegate dietro la testa per fare da cuscinetto, le dita intrecciate nella matassa di ricci ribelli; indossava una salopette da muratore, slacciata sulla spalla destra, sopra una maglietta rossa a mezze maniche, con le gambe tirate gli si vedevano le caviglie ossute, i calzini verdi che spuntavano a tradimento dalle converse blu.
Guardandolo di traverso, Romeo si chiese perché gli fosse venuto in mente di guardarlo proprio in quel momento, quando se n’era stato fino a quel momento con le Ray-Ban sugli occhi e la musica a volume estremo nelle orecchie.
<< È la sua faccia, non è che possa farci molto. No? >>.
Il commento giunse dalla panchina affiancata al muretto, quella dove se ne stavano blandamente seduti Gabriele ed Enea, entrambi stravaccati come se non ci fosse un domani.
Romeo aveva creduto che il primo stesse dormendo fino a pochi secondi prima.
<< Se uno nasce brutto, nasce brutto! >> Biascicò Enea, sollevando pesantemente una palpebra, mentre guardava con aria infastidita Aleksej, che si era appena seduto sul bracciolo della panchina schiacciandogli il braccio senza troppi complimenti.
<< Esistono i chirurghi plastici >> Dichiarò Igor con voce tranquilla, era seduto proprio ai piedi di Romeo, sotto il muretto, e leggeva diligentemente un libro dall’aria pesante.
Enea, Gabriele, Telemaco, Zosimo e Oscar scoppiarono a ridere contemporaneamente, complimentandosi con Igor per la battuta divertente, sebbene quest’ultimo non avesse mostrato il minimo accenno di sorriso o interesse alla loro euforia.
Romeo, invece, provò il fortissimo desiderio di mollargli un calcio dritto dietro la nuca.
Era proprio a portata di tiro.
<< Ah! Come mi mancherà questo cortile! >>.
L’esclamazione di Ivan, accompagnata dal suo arrivo rumoroso e ingombrante, attirò l’attenzione di tutti i presenti. Il moro si era appena seduto nel poco spazio libero rimasto sul muretto, proprio tra Romeo e le ginocchia di Zosimo, costringendo il primo a spostare le braccia che aveva tenuto stese comodamente fino a solamente pochi istanti prima.
<< Sei l’unico idiota a cui mancherà >> Replicò Giasone, che nel frattempo stava punzecchiando Zosimo nel fianco in un blando tentativo di convincerlo a tirarsi su.
<< A dire la verità, lo rivedremo ancora per gli esami. No? >>.
<< Lis, ho sempre apprezzato i tuoi silenzi, ma questa volta l’hai detta grossa! >>.
Biascicò Telemaco, mangiandosi leggermente le parole a causa dei residui di uno sbadiglio.
Lisandro, appoggiato contro il muro pieno di scritte, leggermente in disparte, fece spallucce.
<< Già, chi è che parla di esame l’ultimo giorno di scuola, eh? >> Strepitò Zosimo tirandosi finalmente su con un colpo di reni, per la gioia di Giasone che aveva finalmente un po’ di spazio libero per se sul muretto << Porta iella! >> E si tolse gli occhiali, sorridendo.
Lisandro alzò gli occhi al cielo e non replicò, si era tagliato i capelli recentemente, talmente corti che il pallido cuoio capelluto si intravedeva contro la luce del sole.
<< Sei ridicolo >> La voce di Cristiano, spuntato dietro di loro proprio in quel momento, sorprese un po’ tutti. Il ragazzo si trovava proprio dietro Zosimo, aveva la solita espressione annoiata, i capelli talmente scombinati che sembrava non pettinarli da anni, e le mani infilate mollemente nelle tasche dei jeans, la schiena curva.
<< Ehi Cris! >> Gli rispose Zosimo di rimando, con una tale gioia nella voce da non sembrare minimamente colpito dal commento poco carino del suo migliore amico, quasi non l’avesse nemmeno sentito. Si girò su se stesso come una trottola e si trovò faccia a faccia con Cristiano, il sorriso a trentadue denti, le orecchie a sventola per colpa degli occhiali.
<< Ad ogni modo, siete tutti degli ipocriti! >>.
La voce di Enea risultò talmente squillante e forte, che gli altri imprecarono.
Gabriele, seduto accanto a lui fino ad un istante prima, gli rivolse un’occhiataccia da premio oscar; aveva la testa appoggiata sulla sua spalla, e prima che Enea decidesse di saltare in piedi come un grillo e stiracchiarsi come un gatto aggraziato, stava anche sonnecchiando.
<< Hai rotto il cazzo Enea! >> Sbottò Giasone, mostrandogli un bel dito medio.
<< Per una volta che dice qualcosa di sensato … >> Mormorò sommessamente Aleksej, passandosi distrattamente una mano tra i capelli; aveva occupato il posto di Enea sulla panchina e Gabriele si era accoccolato su di lui poggiandogli addirittura le testa sulle gambe.
<< Ecco un altro stronzo >> Borbottò nuovamente Giasone, imbronciato.
<< Stai dicendo troppe parolacce >> Commentò tranquillamente Igor, girando una pagina del libro con la calma estrema di chi invece era abilissimo a far perdere quella altrui.
Se Giasone non fosse stato troppo stanco per sopportare una scena da tragedia greca, avrebbe tirato ad Igor lo stesso calcio ponderoso che aveva tentato anche Romeo.
<< Aleksej ha ragione! >> Parlò Oscar per la prima volta, smettendo di guardare il cellulare, si staccò dal muro e spalancò le braccia, prendendosi le occhiatacce di molti dei suoi compagni perché con quel gesto aveva appena oscurato il sole << Questo cortile mancherà a tutti. Non è cominciato tutto qui? >>.
E per la prima volta, sotto il sole cocente di Giugno, la stessa nostalgia che aveva provato Romeo accarezzò i cuori di tutti.
Lo fece in modo diverso per ognuno di loro, con ognuno di loro.
Non parlarono, rimasero in silenzio, assaporando il calore del sole, tornando a fare quello che stavano facendo, fingendosi contenti di non doversene stare dietro i banchi.
Quei banchi che avevano detestato così tanto
Nessuno di loro parlò dei ricordi: delle ore passate accanto al cancello aspettando l’amico del cuore, degli scivoloni sui gradini dell’ingresso nei giorni di pioggia, delle scritte sui muri quando i sorveglianti non guardavano, degli annunci sulla bacheca troppo vecchia, delle partire a pallone rubate di nascosto, delle ore passate a prendersi in giro, del tempo speso nel parcheggio dei motorini o delle corse sfrenate a chi arrivava prima alla fermata del bus.
Erano memorie talmente belle, erano memorie così vive.
Talmente vive che sarebbe bastato chiudere gli occhi e ritrovarle dietro le palpebre come dei vecchi amici a cui si era appena detto addio.
Caldi, confortanti, preziosi.
 
<< Non c’è nulla da fare, più li guardo, più mi sembrano dei trogloditi >>.
C’era un pizzico di esasperazione rassegnata nella voce di Beatrice mentre si stringeva le braccia attorno alle ginocchia, seduta sui caldi gradini di marmo dell’ingresso.
Era piacevole lasciare che il sole le riscaldasse le gambe, fin dove riusciva ad arrivare.
Seduta alla sua sinistra, Italia sollevò distrattamente la testa che aveva posato sulla spalla ossuta della compagna di classe, e rivolse un’occhiata divertita ai ragazzi.
Avevano occupato tutta la zona del muretto, quella che dava sul parcheggio delle moto.
Facevano chiasso, si prendevano in giro, ridevano, si picchiavano …
<< In effetti, non fanno niente che possa aiutarmi a trovare qualche pregio >>.
Mormorò l’ormai ex rappresentante di classe, sospirando sommessamente.
<< Sarebbe come cercare di trovare un pregio in una pietra >>.
Fu il lapidario commento di Sonia, in piedi sotto il portico, una sigaretta tra le mani e i lunghi e ricciuti capelli neri raccolti alla bell’e meglio sulla nuca con una matita.
Aveva gli occhi struccati per una volta, taglienti e verdi sotto il sole cocente.
Le labbra piene e rosee erano tirate nella solita espressione scocciata, quel genere di espressione che restava sulle labbra in maniera permanente e che, si ritrovò a pensare Beatrice, probabilmente si sarebbe portata dietro per il resto della sua vita.
<< Non sono così male … >> Mormorò Catena giocherellando con la sua treccia.
L’espressione completamente rapita dai movimenti di Oscar, carica di serenità sopita.
Era seduta alla destra di Beatrice, anche lei con le gambe distese in avanti alla volta del sole.
<< Sembrano sereni >> Fiorenza pronunciò quelle parole con fare calibrato, quasi stesse analizzando attentamente una scena che avrebbe potuto subire un’evoluzione improvvisa.
Lei e Zoe erano appena tornate dai bagni, puzzavano di fumo come chiunque mettesse piede in quei luoghi infernali, avevano gli occhi rossi e lucidi da un pianto recente.
<< Certo che sono sereni, sono maschi! >> Sbottò Miki con una veemenza tale da dare l’idea che, marcando prepotentemente quella singola parola, la questione fosse già chiusa e finita.
<< Maschi … >> Mormorò Beatrice giocherellando distrattamente con un braccialetto al polso sinistro << Si cuciono le ferite di nascosto. Lontano da occhi indiscreti >>.
Sotto il portico dell’ingresso cadde un silenzio dignitoso, un silenzio fatto di riflessioni.
Riflessioni di ragazze che non sapevano nascondere bene i propri sentimenti, riflessioni fatti di abbracci e lacrime, di quella sensibilità che dava l’assoluta percezione della fine.
La fine di qualcosa di bellissimo, la fine di un’età.
Una fine che non era davvero la fine di tutto.
<< … come il miele sul sale … >> Sussurrò Catena sorridendo tristemente.
<< Non credo che mi mancherà questo posto >>.
Sonia aveva appena finito di fumare, la cicca della sigaretta giaceva schiacciata sotto la sua ballerina di velluto nero, come la triste metafora di quei ricordi che stava gettando via.
Quei ricordi che si stava gettando malamente dietro le spalle.
Senza riserve.
<< A me mancherà moltissimo, invece >>.
Le fece eco Miki, tirandosi in piedi per stiracchiarsi un po’, la forza di chi quei ricordi li aveva appena afferrati buttandosi nel vuoto impressa nella voce.
Raccolti a fatica tra le braccia, sembravano gridare di lasciarli sospesi ancora per un po’.
<< La fine di una bellissima esperienza >>.
Commentò Zoe stiracchiandosi beatamente, il sole caldo sul viso sottile e pallido.
Anche loro smisero di parlare quando la campanella suonò, ma non si mossero.
Sembrava quasi che come una eco silenziosa ma potente, la replica alle parole di Zoe fosse arrivata prepotentemente senza chiedere il permesso a nessuno, in quella calda e asfissiante giornata di inizio Giugno.
Alla fine di qualcosa di importante.
L’inizio di qualcosa di grandioso.




_______________________

Effe_95 

Buonasera a tutti 
Sono finalmente qui dopo tre mesi, e mi sembra davvero un miracolo.
Sinceramente non so quanti di voi avranno ancora voglia di continuare a leggere dopo un ritardo così pesante ...
Ma ad ogni modo, metterò la parola "fine" a questa storia, dovessero volerci altri tre anni u_u
Vengo da un periodo difficile fatto di dolore, problemi di salute e delusioni continue che non starò a raccontarvi.
Ma eccomi qui di nuovo alla fine, ancora una volta.
Vi chiedo immensamente scusa per questo capitolo tremendo.
Torno dopo così tanto tempo con una roba simile?
Vi chiedo davvero perdono, ma non sono riuscita proprio a fare di meglio, per me è stato un po' come imparare nuovamente a scrivere in questo periodo. Come se avessi dovuto riprendere un po' di confidenza con tutti loro di nuovo.
Il capitolo è corto, lo so, ma dal prossimo prometto che si tornerà agli antichi splendori xD
Riprenderò sicuramente il ritmo che ho perso.
Ho pensato che fosse doverso che l'ultimo giorno di scuola venisse celebrato da tutti, con un pizzico di amarezza, ma anche di desiderio per quello che il futuro riserva a tutti loro nell'avvenire.
Che è un'avvenire bellissimo u_u
Spero che, nonostante l'orrore di quello che ho scritto, tutto questo sia riuscito a venir fuori ugualmente.
Conto di riprendere gli aggiornamenti in maniera più regolare ora che la situazione si è un po' tranquillizzata.
E ne approfitto per comunicarvi che siamo ormai a meno quattro capitoli dalla fine *sigh*.
Ma vi prometto che sarà un finale spettacolare!
Grazie mille a chi ha continuato a recensire, a leggere nonostante sia mancata per così tanto tempo.
Le vostre parole sono PREZIOSISSIME per me, più di quanto creadiate ;)
Alla prossima :)



 

Ritorna all'indice


Capitolo 63
*** Frazione di secondo, Proprio nessuno e Quanta strada. ***


I ragazzi della 5 A
 
63.Frazione di secondo, Proprio nessuno e Quanta strada.


Giugno

Alla fine di quella serata, quando Giasone si ritrovò bagnato dalla testa ai piedi di birra, pensò di esserselo meritato. E fu probabilmente l’unica volta nella vita.
Erano passati un paio di giorni da quando la scuola era finita.
Rivedersi all’Olimpo per una delle ultime serate prima degli esami, prima dell’inizio delle settimane infernali di ripasso, di stesura di tesine dell’ultimo minuto e di crisi di nervi preannunciate, era sembrato d’obbligo e doveroso per tutti.
Il locale era bello e suggestivo.
Quella sera però, sembrava essere più ammaliante del solito.
Giasone era contento di trovarsi lì con tutti gli altri, per lui, che era il migliore amico di Ivan, non sarebbe stata l’ultima volta.
Ma poteva essere una delle ultime con i suoi compagni di classe.
Quello era uno dei motivi per qui quella sera ce l’aveva avuta con Muriel fin dal principio.
Fin da prima che si presentasse al locale nonostante lui le avesse espressamente chiesto di non venire, perché non avrebbe potuto dedicarle attenzione, perché voleva passare quelle ore con i suoi amici senza doversi preoccupare di cosa combinava lei.
Muriel era venuta ugualmente; per di più, bella come non lo era mai stata.
Si era tagliata recentemente i capelli in un taglio maschile che le stava di incanto.
Doveva aver arricciato il ciuffo perché le cadeva sugli occhi espressivi e truccati con grazia, solamente una semplice mollettina a forma di coccinella lo teneva su accanto all’orecchio.
Aveva messo sia la matita che l’eyeliner, rendendo i suoi occhi ancora più affilati e verdi, le ciglia lunghe e voluminose, il viso era pulito, acceso, le labbra a cuore macchiate di rosso.
Non indossava tacchi o scarpe scomode, ma sotto quel vestito a tubino nero, con il corsetto ricamato di pizzo elaborato, anche quel paio di Converse nere sembravano fatte di cristallo.
Era bella, alta, magra, con le gambe slanciate e la pelle scura.
E le si vedeva il tatuaggio poco sotto l’ascella, e i piccoli seni erano troppo evidenti …
L’indisposizione che Giasone aveva provato nei suoi confronti sembrò crescere a dismisura.
Era arrabbiato, e quindi non pensò minimamente a quello che fece quella sera.
Non pensò ai limiti da non superare, non pensò a quello che avrebbe potuto rompere.
Pensò solamente di volerla ferire.
Stava parlando animatamente con Ivan, Enea e Gabriele dell’ultima partita di calcio che aveva giocato quando la vide nell’anticamera del locale.
Si sporgeva sulla punta dei piedi cercandolo nella sala, mentre il povero ragazzo addetto ai cappotti e agli oggetti personali tentava inutilmente di farsi consegnare la borsa.
Giasone l’avrebbe trovata una scena piuttosto divertente se un moto di stizza improvvisa non l’avesse colto all’altezza dello stomaco, avrebbe trovato divertente il modo in cui Muriel faceva esasperare quel poveretto mostrando la sua vera natura di maschiaccio incallito.
Ma Giasone era arrabbiato, e non aveva mai avuto un carattere adeguato a quel difetto.
Niente che potesse mitigarlo.
Si tirò in piedi di colpo, zittendo immediatamente Ivan e Gabriele, ancora intenti a parlare ad alta voce, ridendo esageratamente per ogni sciocchezza che si stavano dicendo.
<< Che succede Gias? >> Il suo migliore amico gli aveva posto quella domanda afferrandolo per la maglietta, lo conosceva abbastanza bene da sapere che stava fumando di rabbia.
<< Vado a prendere quella cretina >>.
La replica di Giasone assomigliò più al ringhio rabbioso di un cane.
Ivan e Gabriele spostarono lo sguardo nella sua stessa direzione, e videro Muriel intenta in un colloquio un po’ troppo amichevole con il ragazzo nell’ingresso.
Quella visione, non doveva aver contribuito nemmeno un po’ a migliorare l’umore del biondo, che appoggiò rumorosamente il suo bicchiere di birra sul tavolino, lasciando cadere qualche gocciolina sulla superficie di vetro, e si incamminò con passo brusco.
Quando Muriel lo vide, il viso affilato e bello le si aprì in un sorriso luminoso.
Giasone avrebbe dovuto notare già da molto tempo che quel genere di sorriso, quel sorriso che le faceva venire le fossette sulle guance spigolose e le ingrandiva gli occhi, era solamente suo. Era sempre stato solamente suo e di nessun’altro.
Ma come qualsiasi cosa a cui si fa l’abitudine, Giasone non l’aveva mai davvero notato.
Afferrò Muriel malamente per un braccio e la tirò via dallo sconosciuto, che se la filò.
<< Che ci fai qui?! >> Le ringhiò contro con aria scontrosa.
Il sorriso sulle labbra di Muriel si incrinò leggermente, ma non sparì del tutto.
Fece spallucce e si aggrappò al suo braccio con forza, l’espressione divertita da maschiaccio e la solita aria da piattola fastidiosa, pronta a tormentarlo con un sermone lunghissimo di sciocchezze che, tutto sommato, in un’altra occasione Giasone sarebbe stato a sentire.
Lamentandosi ogni tanto, sbuffando.
Ma con lei non si era mai arrabbiato come quella sera.
<< Andiamo Gias, mi annoiavo! >> E non si rese nemmeno conto di aver scelto le parole peggiori da poter pronunciare in quel momento. Le aveva scelte con l’innocenza della sua esuberanza, e non riuscì a capire la reazione di Giasone o il gesto che seguì.
Non riuscì davvero a capire la violenza con cui le afferrò il polso e la strattonò in avanti.
Era una cosa che Giasone faceva spesso, afferrarla per i polsi, per le spalle, strattonarla …
Ma l’aveva sempre fatto con quell’aria imbronciata che nascondeva dell’affetto malcelato; l’aveva fatto quando voleva averla più vicina lamentandosi della sua esuberanza, l’aveva fatto per stringerla tra le braccia con la scusa di tenerla ferma, l’aveva fatto anche per prenderla per mano, correndo sui marciapiedi e gridandole dietro che era una ritardataria cronica …
La violenza che sentì nel dolore che le attraversò il polso era qualcosa di totalmente inedito.
Muriel tentò inutilmente di guardare Giasone negli occhi, ma prima che potesse riuscirci si ritrovò scagliata con forza contro uno dei divanetti, dove cadde scompostamente.
L’impatto le fece male al fondoschiena, sbilanciandola a destra, rivolse un’occhiataccia al proprio fidanzato, che nel frattempo si era messo a sedere a debita distanza da lei, e avrebbe anche protestato a gran voce se non fosse stato per gli altri.
Tre paia di occhi la osservavano con altrettante espressioni diverse sul viso.
Muriel riuscì a ricambiare solamente lo sguardo sconcertato e mortificato di Ivan, ed ignorò di proposito quello incuriosito di Gabriele e quello estremamente indifferente di Enea.
Conosceva i compagni di classe di Giasone, ma l’unico con cui avesse stretto un rapporto d’amicizia era senza ombra di dubbio Ivan, e non le faceva assolutamente piacere trovarsi in quella situazione di tensione.
Era tutta colpa di Giasone e delle sue brutte maniere, che la facevano sentire sbagliata.
<< Vuoi da bere, Muriel? >> Le chiese gentilmente Ivan in un vano tentativo di farla sentire a suo agio, la ragazza rivolse un’occhiata veloce a Giasone, ancora ostinato a non fissarla.
<< No, grazie >> Replicò aprendo il viso in un sorriso forzato che, tuttavia, aveva ancora qualche traccia di reale allegria e spensieratezza, caratteristiche indelebili della sua indole.
Stava cominciando a pentirsi di essere andata all’Olimpo nonostante Giasone le avesse espressamente chiesto di non farlo, aveva pensato che lui avrebbe potuto lamentarsi come suo solito, strapazzarla un po’ … tutta quella rabbia repressa non se l’era aspettata.
E ne stava avendo tremendamente paura, in un modo del tutto sconosciuto.
Non avevano mai litigato sul serio, Muriel si era spesso ritrovata a fantasticare su come sarebbe stato urlarsi contro fino a perdere la voce, spintonarsi e piangere lacrime amare.
Quella sera trovò davvero stupida e infantile quella curiosità.
<< Hai delle gambe lunghissime >> Se ne uscì ad un certo punto Gabriele, bevendo un sorso di birra e ammiccando nella sua direzione; qualsiasi altra ragazza sarebbe arrossita a quel commento, o quanto meno l’avrebbe trovato strano e fuori luogo, Muriel sorrise.
<< Gioco a basket! Ala forte e asso della squadra >> Commentò con aria fiera, accavallando le gambe in una posa fiera e compiaciuta di se stessa, i ragazzi ridacchiarono divertiti.
Giasone smise di nascondersi dietro la birra e le rivolse un’occhiata che rasentava il disgusto.
<< È un piccolo prodigio! >> Le andò incontro Ivan, nel disperato tentativo di cominciare una conversazione che potesse durare per un po’ e sciogliere la tensione << Sono andato a vedere quasi tutte le partite in cui ha giocato. Nell’ultima ha segnato da sola venticinque punti e tre li ha fatti con un alley oop! >> Continuò Ivan con un certo entusiasmo.
<< Forte >> Si limitò a replicare Gabriele, tornando a bere la sua birra.
<< Il basket mi fa schifo >> Sbottò invece Enea, lo sguardo disinteressato.
Cadde il silenzio.
Muriel se ne accorse solamente in quel momento e pensò di essere stata egoista.
Quando era entrata nel locale, la prima cosa che aveva notato era stato proprio il tavolo dove se ne stava seduto Giasone, perché i ragazzi che vi erano raccolti attorno scherzavo e ridevano e facevano talmente chiasso da sovrastare la musica.
Con la sua entrata in scena aveva spezzato quell’allegria e li aveva messi tutti in difficoltà, imponendo la sua presenza non necessaria, rovinando la serata che Giasone aveva programmato con loro.
L’aveva capito in ritardo forse, ma almeno l’aveva capito.
Si guardò per alcuni secondi la punta dei piedi pensando a quello che doveva fare, rivolse poi un’altra occhiata veloce a Giasone, ma ancora una volta lui sorseggiava la sua birra con lo sguardo ostinatamente puntato sul tavolo, in silenzio.
<< Devo andare in bagno >> Annunciò con finta allegria, tirandosi in piedi poco dopo.
Le sembrava un buon piano quello di rinchiudersi in bagno per un po’, ritornare fingendo un malore improvviso e tornarsene a casa con un taxi, ci sarebbe voluto poco tempo e Giasone non avrebbe perso una delle ultime serate passate con i suoi compagni di classe per colpa della sua insensibilità e della sua incapacità di provare empatia con gli altri.
Giasone si rese conto, molto più tardi, che avrebbe dovuto capirlo in quel momento che qualcosa non andava, avrebbe dovuto capirlo in quel momento che Muriel stava macchinando qualcosa per tirarsi fuori dal pasticcio in cui si era cacciata.
Avrebbe dovuto capirlo, ma l’unica cosa che provò quando la vide allontanarsi verso il bagno fu solamente un incredibile sollievo, e il desiderio che ci restasse per un po’.
<< Le avevo detto di non venire! >> Brontolò alla volta degli altri seduti al tavolo.
Gabriele appoggiò la lattina di birra finalmente vuota sul tavolino e si lasciò scappare un rutto piuttosto rumoroso e prolungato.
<< Lo trattenevo da minuti! >> Annunciò soddisfatto, incrociando le braccia al petto.
<< Potresti anche trattarla con più gentilezza comunque! >> Lo punzecchiò immediatamente Ivan, tirandogli un calcio sulla caviglia senza troppi complimenti.
Giasone imprecò in greco antico e rivolse all’amico di sempre un’occhiataccia.
<< Quella? Comincio a domandarmi perché le sto ancora dietro! >>.
Giasone sentì immediatamente di star esagerando mentre pronunciava quelle parole, lo sentì nel momento stesso in cui lasciarono le sue labbra, lo sentì nello sguardo che gli altri gli rivolsero, ognuno velato di una reazione diversa dall’altra.
<< Ohi Gias, calmati >> Lo rimproverò Ivan, nella voce una punta di irritazione.
Giasone però non era mai stato bravo a frenarsi, soprattutto quando perdeva le staffe.
Probabilmente, alla fine di quella serata avrebbe imparato a togliersi quel vizio.
<< Perché dovrei calmarmi? È insopportabile, non fa mai quello che le dico! >>.
<< Ehi amico, ma sei sicuro che ti piaccia? >> Giasone alzò gli occhi al cielo con aria teatrale alla domanda di Enea, vide Ivan al suo fianco spalancare la bocca come se volesse frenarlo dal dire qualsiasi cosa gli passasse per la testa in quel momento, per poi fermarsi.
Giasone non diede peso a quel piccolo particolare, ancora una volta si lasciò domare dalla rabbia, ma in un’altra occasione avrebbe trovato strano un simile comportamento.
<< Piacermi? Non lo so >> Ammise ad alta voce, sporgendosi in avanti verso il compagno di classe << Muriel è bella, è davvero bella. Ma stare con lei è sempre stata una scommessa per me >> Si guardò le mani, poi stiracchiò le braccia come un gatto un po’ annoiato, come se la conversazione non lo toccasse dal vivo << Mi sono detto di provarci. Di vedere se poteva andare … non posso garantirti che domani non mi sarò stufato di lei e l’avrò fatta finita >> Aveva appena finito di parlare quando sentì qualcosa di gelido colargli tra i capelli e bagnargli tutta la maglietta, rimase talmente attonito da impiegarci parecchi secondi per rendersi conto di cosa fosse davvero successo.
Qualcuno gli aveva rovesciato della birra addosso, di proposito.
Si girò di scatto, il tempo necessario per vedere Muriel piegare la lattina che stringeva nella mano destra con forza bruta e gettargliela in faccia senza troppi complimenti, senza nemmeno preoccuparsi di poterlo ferire o di lasciargli qualche tipo di escoriazione.
<< Muriel … >> Mormorò completamente incredulo, mentre osservava la fidanzata scuotere la mano bagnata di birra e fissarla con un’aria del tutto scocciata sul viso.
<< Mi sono anche fatta male per questo cretino … >> La sentì poi mugugnare, infastidita.
Giasone sentì tutta la rabbia che aveva provato fino a quel momento scoppiare come una bolla di sapone, si rese conto di come si era comportato e di quello che aveva detto.
E si accorse di avere esagerato, di essersi lasciato andare nuovamente, di avere un pessimo carattere e di essere spaventato. Si, quella era la cosa più strana, aveva paura da morire.
<< Muriel ascolta, io - >>.
<< Voglio che cancelli il mio numero di cellulare >> Lo interruppe bruscamente lei, anche se le parole di Giasone erano state talmente deboli che sarebbe bastato parlare con un tono di voce normale per sovrastarle totalmente << Cancella qualsiasi cosa abbia a che fare con me. Il torneo è quasi finito, quindi suppongo di poter saltare gli allenamenti, giusto? In questo modo dovrebbe risultare più facile per entrambi >> Muriel sembrava totalmente un’altra persona mentre pronunciava quelle parole, era dura, cattiva quasi, parlava con la stessa professionalità di una segretaria che dettava l’agenda al suo capo.
Era arrabbiata, e nemmeno Giasone l’aveva mai vista in quello stato.
Dire che l’aveva fatta grossa sarebbe stato poco, aveva fatto un macello e adesso aveva paura.
Aveva paura di non sapere come recuperare, perché aveva come la sensazione che Muriel … aveva come la sensazione che lei lo stesse lasciando.
E perché il cuore gli ballava in quel modo ostinato e spiacevole nel petto al solo pensarlo?
Non aveva detto che era tutta una scommessa? No … non lo era mai stata davvero.
Giasone era solamente arrabbiato, non le aveva mai pensate davvero quelle cose.
Poteva essere cominciato tutto come una prova, per capire cosa fossero quei sentimenti, per vedere se potesse davvero andare oltre quello che aveva sempre pensato di se stesso …
Ma non era quella la conclusione a cui era giunto in quei mesi, Muriel doveva saperlo.
<< Più facile che cosa? Che - che stai dicendo? >> Balbettò alzandosi in piedi.
<< Che la sto finendo qui >> Sbottò Muriel fissandolo con occhi freddi di dolore e rabbia.
Non aggiunse altro, non sprecò altre parole inutili, tutto quello che aveva sentito per lei era sufficiente per non andare oltre, per non fidarsi più, per lasciarlo indietro.
Giasone non ebbe nemmeno la prontezza di reagire quando la vide allontanarsi, rimase fermo in piedi come uno stupido, incredulo, con le mani bagnate di birra strette a pugno.
<< Te l’avevo detto di smetterla >> Mormorò Ivan al suo fianco, funereo.
Giasone registrò la voce dell’amico con estrema lentezza, poi la realizzazione lo colse all’improvviso, completamente di sorpresa, quasi avesse voluto pugnalarlo a tradimento.
<< Tu l’avevi vista, vero? >> Sbottò in direzione di Ivan, gli occhi allucinati << Perché cazzo non mi hai - >> Continuò alzando la voce, immediatamente stroncata da Ivan.
<< Perché non ascolti mai! Perché sei talmente stronzo da non sapere quando fermarti! >>.
Preso da un impeto di rabbia Giasone afferrò Ivan per la collottola della maglietta, e non sentì nemmeno le proteste di Enea e Gabriele che lo invitavano a calmarsi, non le sentì perché si rese conto immediatamente di sembrare ridicolo in quel momento.
Ivan aveva ragione, dopotutto.  Aveva sempre avuto ragione.
<< Dannazione! >> Imprecò Giasone a denti stretti lasciando andare la presa, le mani formicolanti per la stretta troppo ferrea << Che vuol dire che la finisce qui? Quella cretina … io non sono nemmeno d’accordo! Maledizione Muriel … >>.
La voce gli si incrinò pericolosamente sulle due ultime parole, si portò una mano a pugno sulla fronte e respirò profondamente, se l’era meritata, Ivan aveva ragione.
Aveva meritato tutto quello che era successo quella sera, ma l’aveva capito.
Aveva finalmente capito tutto quello che provava.
<< Cazzo! >> Imprecò a voce alta, e prima che potesse realizzarlo si ritrovò per strada.
Credeva di averci impiegato troppo quando finalmente la trovò, aveva il fiatone per la fatica e per il batticuore violento, era ancora bagnato di birra e probabilmente puzzava di alcool misto a sudore in quell’afosa notte di inizio Giugno.
Muriel stava per aprire la portiera di un taxi, aveva il braccio sinistro stretto al petto, la borsa penzoloni nel vuoto, avvolta attorno all’avambraccio come ad una maniglia e il viso bagnato di lacrime di rabbia e frustrazione, di dolore e tradimento.
Giasone le andò incontro a passo spedito, mandò malamente via il tassista, le afferrò una mano e prima che Muriel potesse anche solo realizzare che cosa stesse succedendo, se la strinse al petto con una naturalezza che si era concesso con lei solamente nei momenti di limite assoluto. Quei momenti in cui se non avesse superato quella linea sapeva che sarebbe stato come fare un passo indietro troppo grande.
Gli arrivò immediatamente una gomitata piuttosto dolorosa allo stomaco.
Muriel gliela rifilò con violenza e senza un briciolo di controllo nella forza che ci mise, Giasone capì da quel semplice gesto che non si trattava dei soliti modi scherzosi con cui soleva liberarsi di lui quando la infastidiva.
Quella volta Muriel era arrabbiata davvero e stava tentando di liberarsi di lui con tutte le sue forze, probabilmente perché l’idea di essere toccata da una persona che aveva creduto provasse quanto meno qualcosa per lei doveva disgustarla profondamente.
Nonostante quelle premesse, Giasone non si arrese e la tenne ferma finché il taxi che aveva chiamato la ragazza non se ne andò, lasciandoli soli sulla strada deserta illuminata dai lampioni e sporadicamente vivacizzata dal passaggio di un automobile.
<< E mollami maledizione! >> Sbottò Muriel ad un certo punto di quella lotta furiosa, per poi afferrargli malamente una mano e mordergliela con violenza assoluta.
Giasone gridò lasciando andare immediatamente la presa e si portò l’arto al petto, osservando solamente per una frazione di secondo le piccole mezzelune che i denti di Muriel gli avevano lasciato inciso sulla pallida pelle.
Lei lo fissò scocciata per un solo istante, poi gli voltò le spalle e prese a camminare.
Giasone le fu dietro immediatamente, la mano ancora stretta al petto.
<< Ti accompagno a casa! Aspetta! >> Muriel continuò a camminare imperterrita, ignorandolo completamente << Aspetta! >> Continuò lui affannandosi dietro di lei, tentò di afferrarle il braccio un paio di volte, ma lei lo scansò brutalmente << Non lasciarmi! >> Le gridò dietro ad un certo punto, completamente disperato << Andiamo! Non puoi lasciarmi! Non esiste proprio! >> Muriel interruppe la sua fuga furiosa e si girò a guardarlo di scatto, completamente fuori di se, rabbiosa, lasciando perfino che lui le afferrasse il polso, semplicemente perché voleva vedere dove sarebbe arrivato con le parole, le scuse che avrebbe usato << Andiamo! Hai fatto tutta quella fatica per farmi innamorare di te! >>.
<< Perché? Sei mai stato innamorato di me? >> Lo aggredì lei immediatamente << Dalle parole che hai pronunciato poco fa mi è sembrato l’esatto contrario >>.
Giasone non rispose, frustrato, si passò la mano libera tra i capelli ancora appiccicosi di birra, completamente scombinati sebbene li avesse tagliati di fresco solo pochi giorni prima.
<< Ero arrabbiato Muriel! Non mi so controllare quando->>.
<< Non usare la rabbia come scusa per qualcosa che pensavi veramente! >>
Lo ammonì Muriel senza quasi nemmeno dargli il tempo di finire la frase, liberò il polso dalla stretta con più gentilezza di quanto avesse fatto prima, mostrando in quelle parole una maturità che Giasone non aveva mai visto in lei, non prima di quella sera.
La prima volta che litigavano seriamente, la prima volta che pronunciavano parole che avrebbero potuto essere troppo pericolose se non calibrate con la giusta dose.
La prima volta che si rendevano conto di quanto fosse difficile e impegnativo amarsi, quello che avevano intrapreso insieme quasi con spensieratezza, per provarci.
Muriel gli stava mostrando il lato maturo di se proprio quella sera, sbattendogli in faccia la verità più semplice e assoluta: che c’erano ancora troppe cose che non sapeva di lei, troppe cose che invece avrebbe voluto scoprire con tutto se stesso, ancora e ancora.
La verità che per lei non era mai stata una prova di niente, probabilmente non lo era mai stato dal primo momento, fin da quando gli si era seduta vicino su quel pullman sgangherato, rovinando i suoi piani di una lettura serena e tranquilla.
In realtà, era proprio da quella sera che le cose per loro sarebbero cominciare per davvero.
<< La rabbia non dovrebbe mai essere usata come una giustificazione, Giasone >>.
Terminò lei, mormorando quelle ultime parole, perché doveva aver perso, da qualche parte mentre si guardavano negli occhi e realizzavano tutte quelle cose, la rabbia che la animava.
Muriel non avrebbe voluto finirla lì, non avrebbe voluto farlo mai.
Sentiva sincerità nelle sue parole, sentiva che era spaventato, che era vero, ma non le bastava, dopo quello che aveva sentito non le bastava più così poco.
Avevano fatto passi in avanti troppo grandi quella sera per accontentarsi.
Se Giasone non avesse fatto quel passo oltre, se Giasone non avesse allungato la mano per prendere tutte le sue paure, le paure che aveva seppellito così bene sotto la sua spensieratezza, la sua allegria e la sua così palese ed evidente ingenuità, allora …
Allora … allora Muriel non si sarebbe guardata più indietro, non l’avrebbe fatto.
 Avrebbe lasciato andare il suo primo amore di spalle con un “addio” sussurrato di schiena.
Giasone non tentò di afferrarla ancora una volta, sembrava lontano, basito.
La perse solamente per una frazione di secondo, spaesato e tramortito, e quando sollevò gli occhi lei era già avanti di parecchi metri, lontana.
Giasone non seppe spiegarsi perché le gambe avessero deciso di bloccarsi proprio in quel momento, perché le sentisse pesanti come macigni, inutili come non le aveva mai pensate.
<< Ma dove vai? >> Si ritrovò a mormorare, Muriel sempre più lontana << Ehi Muriel, ma dov’è che vai senza di me? >> La voce trovò un po’ più di forza, di colore, seguendo il flusso della disperazione che gli stava montando nel petto come un’onda << No, ehi, ehi, guarda che ti amo …. Guarda che ti amo, scema! >> Esplose all’improvviso, violenta << Ho avuto paura! Ho avuto fottutamente paura. É così sbagliato? >>.
Successe tutto all’improvviso, talmente all’improvviso che Giasone ci mise un po’ per realizzare di aver davvero visto Muriel gettare la borsa a terra, girarsi di scatto verso di lui e correre come una disperata nella sua direzione, per poi saltargli addosso come un koala.
Giasone era talmente incredulo che non protestò nemmeno quando lei gli afferrò il viso per baciarlo dappertutto, bagnandolo contemporaneamente di lacrime che, in quel disastro, avrebbero potuto benissimo essere anche le sue, confondersi anche sul suo viso.
Trovò un po’ di pace per se stesso solamente quando realizzò di averlo detto.
Di aver detto finalmente quello che provava, di aver fatto la cosa più spaventosa.
<< Mi ami davvero? >> Le domandò lei, la voce lamentosa da bambina che lui adorava.
<< Cazzo Muriel, ho avuto come la sensazione che mi stessero strappando il cuore dal petto a mani nude mentre te ne andavi … cazzo, mi hai spaventato … dannazione … >>.
Si guardarono negli occhi, i visi bagnati di lacrime e di sudore, di birra.
Le labbra dolci e salate, i capelli scomposti, sembravano aver combattuto una guerra.
<< Non dire quelle cose mai più, non farmi così male mai più >> Mormorò lei, gli occhi grandi che lo fissavano con ancora dei residui di dolore sul fondo, ancora feriti di fresco.
<< Non ho motivo di dire cose che non penso … la rabbia non dovrebbe mai essere usata come una giustificazione, giusto?  Mi dispiace >>.
Mormorò lui di rimando, la voce imbronciata.
Muriel ridacchiò cautamente, non la sua risata sguaiata e infantile, ma trattenuta.
<< Ehi, dimmi che mi ami anche tu >> La incalzò Giasone.
<< Ti amo anche io >>.
E mentre la baciava tenendola in braccio come un koala, dimentico dei suoi amici all’Olimpo, di tutte le storie che aveva messo su per stare da solo con loro, incoerente con se stesso come non lo era mai stato prima, Giasone pensò che ne avessero fatta di strada da quel tiepido giorno di Ottobre, quando si erano parlati per la prima volta su quel pullman vecchio e sgangherato, il catorcio che per cinque anni l’aveva portato in  giro.
Di strada da fare ne avevano ancora tantissima, ma arrivare a quel punto …
Arriva a quel punto era stata la vittoria più grande che Giasone avesse mai raggiunto.
Si rese conto che forse, se avesse avuto una giratempo in un altro universo magico, se gli avessero dato la possibilità di tornare indietro a quel giorno e cambiare le cose, lui avrebbe lasciato tutto esattamente come era stato: inaspettato, sconcertante, fastidioso e stupendo.
Proprio come Muriel.
 
Miki aveva scelto di uscire dal locale solamente per prendere un po’ d’aria fresca.
Se avesse potuto immaginare quello che sarebbe successo, o la persona che avrebbe incontrato seduta sul marciapiede, con una sigaretta mezza consumata tra le mani curate, probabilmente non sarebbe uscita. 
Non sarebbe uscita perché, se avesse avuto la consapevolezza, probabilmente non avrebbe mai trovato il coraggio di farlo spontaneamente, o anche solo di provare a creare l’occasione che qualcuno le regalò quella sera, l’ultima all’Olimpo.
Sembrava uno strano scherzo del destino che le fosse concessa quell’opportunità proprio alla fine di tutto, alla fine di quella che avrebbe dovuto essere la sua vita scolastica, lì dove tutto era cominciato inaspettatamente anni prima.
La sorpresa non era stata trovare Sonia seduta sul marciapiede con la sigaretta quasi finita tra le dita, la vera sorpresa era stata quella di imbattersi proprio in lei tra tutte le persone, di trovare la strada deserta, di incrociare lo sguardo con lei e di non avere dunque la minima possibilità di far finta di nulla e andarsene senza salutare, o scambiare qualche parola.
<< Davvero ironico, eh? >>.
Miki era talmente sorpresa da tutte quelle coincidenze che la domanda di Sonia le arrivò a scoppio ritardato, lasciandola basita per alcuni secondi in cui rimase ferma a fissarla fumare.
Sonia continuò a fumare silenziosamente in quei secondi di silenzio, fissando tranquillamente la strada deserta, sotto il lampione che le incorniciava la testa come una corona dorata. Doveva aver pensato la stessa cosa.
<< Cos’è che trovi ironico? >> Domandò Miki facendo un passo avanti, si mise seduta, contando con lo sguardo i centimetri che avrebbero messo una giusta distanza tra lei e il passato << Che non ci sia nessuno per aiutarci a fingere di non esserci incontrate … oppure che sia successo proprio nel posto esatto in cui ci siamo conosciute anni fa? >>.
Quando Miki lasciò andare quella domanda, lo fece con la voce serena, con una tranquillità che temeva di non potere avere in una situazione come quella.
Al suo fianco Sonia sorrise sommessamente, sollevando le labbra tinte di rosso vermiglio in quel ghigno fatale che aveva catturato l’attenzione di tanti uomini, e aveva dato l’impressione che oltre i baci che potevano regalare non ci fosse un’anima.
<< Dopotutto, la vita ha davvero un senso dell’umorismo che fa schifo! >>
Si limitò a replicare, gettando la cicca della sigaretta nel canale di scolo; la punta ancora  accesa di rosso dava l’impressione di una minuscola stella cadente appena precipitata sul suolo, pronta a morire lentamente senza aver esaudito il desiderio di nessuno.
Non parlarono per un po’, mentre la brezza leggera della sera passava tra loro come una carezza gentile; dovevano essere entrambe perse nel passato.
Era successo la prima sera trascorsa all’Olimpo.
Avevano entrambe quattordici anni, il mondo sembrava così grande, così lontano, i nuovi compagni di classe erano degli sconosciuti, i ragazzi dell’ultimo anno dei giganti e i professori troppo severi …
Miki aveva deciso di andare all’Olimpo solamente perché era stato Aleksej ad insistere, era il periodo in cui si stava lentamente innamorando di lui, senza tuttavia riuscire ad accettarlo.
A distanza di tanti anni, quando le cose tra lei e Sonia si erano fatte esasperanti, aveva sempre pensato a quel giorno come qualcosa di nefasto, il momento in cui aveva preso una delle decisioni peggiori della sua vita.
Aveva pensato, ripetendolo mille volte a se stessa nelle notti di pianto nascosta sotto le coperte del suo letto, che se non avesse accettato l’invito insistente di Aleksej la sua vita sarebbe stata sicuramente più tranquilla, nessuno l’avrebbe tradita o pugnalata alle spalle, si sarebbe risparmiata tantissima sofferenza.
 A diciotto anni compiuti, ad un passo dalla conclusione, ad un passo dal lasciarsi alle spalle quel mondo che le aveva fatto tremendamente paura, ad un passo dal gettarsi nella vita vera … trovava quei suoi pensieri estremamente stupidi.
Era destino che quella sera di cinque anni prima Aleksej le rovesciasse addosso la sua birra facendola uscire infuriata dal locale, era destino che incontrasse Sonia seduta sotto quello stesso lampione in lacrime, era destino che si fosse seduta accanto a lei.
Era stato destino tutto quello che era accaduto da quel momento in poi.
E se le cose erano finite in quel modo terribile, probabilmente la colpa era di entrambe, ma la colpa non sarebbe mai stata una scusa sufficiente per cancellare i momenti belli.
Tutto sommato, di ricordi belli insieme ne avevano talmente tanti che sarebbe stato semplicissimo riempirvi una parete completamente bianca senza lasciare spazi bianchi.
Miki non sapeva se fosse effettivamente diventata più matura a distanza di anni.
Si erano fatte troppo male, avevano cercato di ferire, di lasciare cicatrici …
Ma tutto sommato era giunto il momento di lasciarsi quelle cose alle spalle per sempre.
Erano state parte della sua vita, e Miki credeva fermamente che non le fossero capitate per una decisione sbagliata presa quando ancora non si era davvero affacciata sul mondo.
Era sicura che, prima o poi, avrebbe finalmente capito perché Sonia era entrata nella sua vita, avrebbe capito perché le cose erano finite in quel modo e perché c’era stata tutta quella sofferenza e tutto quel dolore.
Dopotutto, era sicura che nella vita non si incontrasse mai nessuno per caso.
Ma proprio nessuno.
Probabilmente, si rese conto, era proprio quella consapevolezza che la faceva sentire stranamente tranquilla in quel momento, dove tutto sarebbe finito.
Miki e Sonia erano entrambe convinte, sicure, che dopo quella sera sarebbero potute andare avanti tranquillamente, senza guardarsi indietro per qualche pezzo dimenticato lungo la strada. Sarebbe stato triste, ma terribilmente liberatorio.
<< Tutto sommato, credo che sia giusto così >>.
Le parole di Sonia ruppero quel silenzio durato minuti interi, pesante, nemmeno il brusio soffocato che proveniva dall’interno del locale sarebbe stato in grado di alleggerirlo.
Era stato importante per arrivare a delle conclusioni.
<< Cosa? >> Mormorò Miki tirandosi le ginocchia al petto, serena.
Se fossero stati altri tempi, sarebbe stata in grado di capire Sonia senza bisogno di chiedere nulla, ma di capire quell’amica aveva smesso di farlo tra una cattiveria e l’altra, tra un cambiamento e l’altro.
Erano cambiate entrambe, e non l’avevano fatto insieme.
Era semplice, era giusto, ed era corretto che fossero due estranee arrivate a quel punto.
Sarebbe stato tutto più semplice in quel modo, decisamente più semplice.
<< Che le cose finiscano qui >> Chiarì Sonia con semplicità, diretta << Non credi anche tu che sia arrivato il momento di finirla una volta per tutte? >>.
Si guardarono negli occhi, quelli chiari e tersi come il cielo, puliti e senza traccia di trucco, e quelli verdi come le foreste più profonde, scuri e carichi di matita.
<< Credo proprio di si >> Miki annuì, nessuna reale alterazione nello sguardo sereno.
Entrambe probabilmente lo pensarono in quel momento, lo pensarono, ma come ogni pensiero di quel genere non lo avrebbero mai espresso ad alta voce.
Erano sedute esattamente nello stesso identico posto in cui avevano parlato per la prima volta, la stessa distanza, la stessa postura, lo stesso sguardo, un’anima totalmente diversa.
<< Non ti chiederò scusa per nulla >> Commentò Sonia, decisa.
<< Non accetterei le tue scuse >> Replicò Miki di rimando, decisa a sua volta.
Scoppiarono a ridere contemporaneamente e distolsero lo sguardo, puntandolo sulla strada.
Era così sereno il cielo quella sera, di un blu cobalto, attento come se le stesse ascoltando.
<< A Settembre vado via >> Raccontò Sonia estraendo il pacchetto delle sigarette dalla tasca destra dei jeans << Ho deciso di andare a studiare danza >> Se ne portò una alla bocca e la accese magistralmente, lasciando andare una buona boccata di fumo << Cristiano viene con me, andiamo a vivere insieme >>.
Miki ascoltò quelle parole attentamente; non era una confessione finale quella che le stava facendo Sonia in quel momento, era il suo modo di dirle addio, il suo modo di farle capire che era andata oltre, che aveva trovato la sua felicità.
Che anche una come lei aveva trovato la sua stabilità.
Le stava dicendo che poteva andare davvero per la sua strada con serenità, che non aveva motivo di volgere il pensiero a lei in futuro nemmeno per un istante.
Le stava regalando la libertà, l’unica cosa che potesse ancora concederle.
L’ultimo regalo d’amica che potesse farle.
<< Mi auguro che siate davvero felici >>.
Miki non aggiunse altre parole, non chiese perché Sonia non le avesse mai voluto parlare di Cristiano in tutti quegli anni, non si chiede come sarebbero potute andare le cose se l’amica le avesse detto tutto, se si fosse confidata. Non si chiese se Sonia sarebbe rimasta la stessa se lei avesse potuto aiutarla, non si chiede nemmeno se fosse tutta colpa sua per non essere stata attenta. Quelle erano tutte domande che si era già fatta mille volte.
Domande che non avevano risposte, perché doveva semplicemente andare in quel modo.
Sospirò pesantemente e si tirò in piedi, lisciando la gonna che indossava.
Era finita, e respirare di nuovo faceva incredibilmente bene.
Miki rivolse uno sguardo sereno alla luna, quel capitolo della sua vita si era concluso lasciandosi tantissime cose alle spalle, tanti frammenti, tanto dolore, tante cicatrici.
Se ne apriva un altro, ed era curiosa di scoprire che cosa le avrebbe regalato.
Quanto meno, Sonia le aveva fatto il regalo di poter guardare avanti senza doversi preoccupare del passato.
<< Lo saremo >>.
Miki sorrise e chiuse gli occhi, il vento le accarezzò il viso per consolarla.
Era stata brava, tutto sommato.
E a distanza di quattro anni si alzava finalmente da quel marciapiede su cui era stata seduta per tutto il tempo a costruire un muro talmente solido che nessuno avrebbe potuto abbatterlo.
La persona dall’altra parte era andata via da tempo.
Anche lei, da quel momento in poi, avrebbe potuto girare le spalle con serenità.
 
Beatrice aveva scoperto di amare profondamente il sorriso di Enea.
Era raro, era un evento estremamente prezioso, ma che si verificava sempre più spesso nelle ultime settimane, soprattutto quando erano insieme.
Era quell’aspetto che Beatrice amava di più in assoluto, probabilmente, che quel sorriso fosse esclusivamente per lei, il più delle volte.
Enea aveva sempre indossato quel ghigno malizioso, che faceva girare la testa a tutte le altre ragazza, ma che Beatrice aveva trovato pericoloso fin dal principio.
Aveva sempre avuto paura di quel ghigno, perché rappresentava la parte di Enea di cui non si era fidata, la parte di Enea che l’aveva fatta allontanare, e girare, e sbandare.
Fortunatamente per lei, aveva ritrovato la strada giusta facilmente.
Beatrice era serena, nonostante la partenza di Enea si avvicinasse.
Era serena da quel giorno in cui aveva fatto per la prima volta l’amore con lui, e non avrebbe avuto alcuna difficoltà ad ammetterlo a se stessa.
Era stato come se tutte le nubi oscure si fossero improvvisamente diradate, lasciando solo il sole più splendente; e quel sole era bello, alto, forte e aveva un sorriso meraviglioso.
Ed era in piedi proprio di fronte a lei in quel momento.
Beatrice lo guardò sorridendo di sottecchi per un po’, osservandolo.
Aveva avuto il cuore pesante per tutta la mattina quando Enea l’aveva contattata proponendole di aiutarlo ad inviare i moduli per l’iscrizione.
Una volta compiuta quell’operazione, non sarebbero più potuti tornare indietro.
Beatrice si era sentita leggermente in colpa per quello strato di tristezza che non era riuscita a scacciare subito via; ma era stato spontaneo, umano.
L’istante successivo era tornata a sorridere, sicura di volerlo appoggiare con tutta se stessa.
Enea era contento, lei era c0ntenta, quello era senza ombra di dubbio la prova più grande che potesse dargli del suo amore, e Beatrice l’avrebbe fatto senza condizioni.
<< Quanto ghiaccio ci vuoi dentro? >>.
La domanda di Enea la colse di sorpresa, strappandola ai suoi pensieri.
Beatrice ebbe giusto il tempo di abbassare lo sguardo sul computer che aveva davanti prima che lui si girasse a guardarla con quegli occhi freddi e taglienti per natura.
<< Tre cubetti vanno bene >> Rispose lei schiarendosi la gola.
Un istante dopo, Enea si girò allungandole sul tavolo un bicchiere pieno di tè fresco.
Quel giorno faceva terribilmente caldo e, nonostante le finestre di tutta la casa fossero spalancate e i ventilatori accesi, si soffocava terribilmente.
<< Grazie >> Commentò lei portandosi la cannuccia alla bocca.
A quel punto, fu il turno di Enea di perdersi ad osservarla.
Beatrice aveva legato i capelli ricci in un codino un po’ scomposto, alto, qualche ciocca ribelle le cadeva sul collo scoperto e sul viso, mentre qualche riccio capriccioso era rimasto incastrato all’interno dell’elastico; indossava una canotta grigia attillata, un paio di shorts e dei sandali bianchi.
Da quando avevano fatto l’amore, Enea non aveva potuto fare a meno di notare che il modo di vestirsi di Beatrice era cambiato.
Non indossava più magliette sformate o jeans troppo larghi, sembrava più sicura di se e del proprio fisico, molto più sicura della sua persona di quanto lo fosse stata precedentemente ed Enea amava quel particolare, amava tutti quei dettagli.
Li amava, perché Beatrice era bellissima.
E li amava, perché era stato lui a farli uscire fuori.
<< Che cosa stai guardando, Enea? >> Gli domandò lei distrattamente, con lo sguardo sempre puntato sul computer e l’espressione di una persona davvero interessata a quello che stava leggendo. Beatrice non avrebbe ammesso mai ad alta voce di non aver letto una sola parola del documento in inglese che aveva davanti agli occhi in quel momento.
<< La cosa più bella che abbia mai visto >> Replicò lui immediatamente.
In un’altra occasione Beatrice gli avrebbe risposto sgarbatamente o l’avrebbe rimproverato senza alcun freno; Enea era solito pronunciare quelle frasi comuni per stuzzicarla un po’.
Lo faceva perché Beatrice detestava quelle cose, e lui amava vederla arrabbiata.
Quel giorno però la voce di Enea aveva una strana intonazione, una cadenza più dolce, inaspettata; la sincerità di chi, per una volta, credeva fermamente in ciò che aveva detto.
Beatrice non si arrabbiò, al contrario, gli occhi le si addolcirono e le labbra si piegarono in un tenero sorriso immediatamente ricambiato dal ragazzo che le stava di fronte.
Anche lei aveva preso a sorridere molto di più negli ultimi tempi.
<< Inviamo questi documenti? >> Gli chiese, allungando le mani sul ripiano dell’isola per toccare con entrambi gli indici delle mani la pelle calda del suo avambraccio.
C’era serenità anche nel tono di voce con cui gli pose quella domanda.
Enea la guardò per un po’, innamorandosi ancora di lei, perdutamente, anche se non gliel’avrebbe detto nemmeno sotto tortura più spietata.
<< Inviamoli >> Acconsentì, facendo il giro dell’isola al centro della cucina per affiancarla.
Si mise seduto accanto a lei sullo sgabello, la schiena curva.
Fu Beatrice ad inviare i moduli per lui, non gli chiese di occuparsene, ma si lasciò guidare con una concentrazione tale da sembrar quasi che stesse avendo a che fare con qualcosa di estremamente importante per il suo futuro, o la sua vita.
Beh, nel suo caso era davvero una metafora azzeccata.
Enea se ne stette buono seduto al suo fianco mentre le dava le istruzioni necessarie.
Ripensò velocemente al primo giorno in cui l’aveva vista in quella classe nuova, gli era sembrata bruttissima con quei capelli crespi, quei jeans sformati e la felpa scolorita.
L’aveva giudicata antipatica solamente con un’occhiata, gli aveva dato l’impressione di avere la puzza sotto il naso, Enea non avrebbe mai potuto immaginare che cosa si nascondesse realmente dietro quegli occhi tempestosi che l’avevano cambiato.
In effetti, ripensandoci, Enea si rese conto che erano stati proprio quegli occhi a chiamarlo a se, un giorno di metà Ottobre, di fronte una bacheca per le prenotazioni …
Quanta strada avevano fatto da quel giorno.
Enea non avrebbe mai potuto immaginare, a distanza di mesi, che quella racchia sarebbe diventata la sua ragione di vita, la cosa più bella della sua vita.
Non avrebbe mai potuto immaginare che l’amore l’avrebbe cambiato così tanto.
<< Inviato! >> Esclamò Beatrice all’improvviso, con un sorriso soddisfatto sulle labbra.
Enea guardò la casella di posta elettronica per qualche secondo.
<< Grazie >>.
Mormorò, e gli sembrò di pronunciare quella parola per la prima volta in vita sua.
Non c’era bisogno di spiegare che cosa significasse, e quanto ci fosse dietro.
Beatrice gli sorrise, avvolgendogli le braccia attorno alle spalle in un gesto intimo che prometteva carezze e passione consumate nelle prossime ore.
Si, ne avevano fatta davvero di strada.
 


__________________________________________________
Effe_95
 
Buonasera a tutti!
Si, sono tornata, dopo cinque mesi di nulla assoluto, con la mia faccia tosta.
Non vi starò a dire i miei casini o i miei guai.
Come avevo già detto in un’altra nota finale, questa storia la finirò, dovessi metterci anche tutta la vita u_u Quindi aspettatevi una conclusione, perché arriverà ;)
Nel frattempo, vi lascio con questo capitolo lungo cinque mesi.
Con un Giasone finalmente sicuro dei suoi sentimenti, Miki e Sonia che si dicono addio con serenità, ed Enea e Bea, che, ora posso confermarlo, sono finalmente sereni!
Mi sento un genitore molto soddisfatto xD
Mancano quattro capitoli alla fine della storia, dopo questo.
Non posso garantirvi che il prossimo capitolo arriverà presto, non lo so nemmeno io, ma come ho già scritto, arriverà u_u
Spero che vi sia piaciuto, che il mio stile di scrittura non sia cambiato molto in questo tempo lunghissimo di assenza, che non sia scaduto e che non faccia troppo schifo.
La vita è dura, ma si deve andare avanti con coraggio ;)
Ormai quasi tutte le storie stanno trovando una conclusione, gli esami si avvicinano ( ci sarà da ridere promesso xD) e come piccolo regalo vi anticipo che nel prossimo capitolo avremo un bel confronto tra Enea e Lisando! Così, per farmi perdonare un po’ ;)
Grazie mille come sempre, soprattutto per la pazienza questa volta!
Alla prossima.
 
 
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 64
*** Sparta e Roma, I migliori e Quell’ ultima volta. ***


I ragazzi della 5 A

 

64. Sparta e Roma, I migliori e Quell’ultima volta.

Giugno

<< Mi sto vedendo con Sara, ultimamente >>.
Lisando non aveva trovato altro modo per comunicare quella novità al suo migliore amico, se non, se ne rendeva conto, nel modo più diretto e sbagliato possibile. In realtà, aveva avuto la solita difficoltà di trovare le parole giuste per farlo.
Lisandro non era sicuro fosse stata la vergogna a renderlo frettoloso ed avventato; con quella ci aveva fatto i conti da un po’ di tempo ormai. No, la verità era che Lisandro non sapeva proprio come affrontare Enea.
Se ne erano dette troppe in quel periodo, si erano allontanati, si erano fatti male.
Quella fresca sera di inizio Giugno, Lisandro cominciò a domandarsi perfino dove avesse trovato il coraggio di mandare quel messaggio al suo migliore amico per vederlo.
Forse frequentare Sara lo stava rendendo un po’ più intraprendente. O forse no. Forse era stato solamente il senso di colpa.
Ad ogni modo, Lisandro avrebbe voluto che quella storia finisse quella sera.
Per sempre.
<< Con quella Sara? >> Domandò Enea sollevando un sopracciglio.
Si erano dati appuntamento nel solito posto dove avevano passato pomeriggi interi.
In quella sorta di angolo di strada grezzo e sporco di graffiti, con un’altalena rotta da sempre, una panchina sfasciata e l’erba incolta che cresceva tra le crepe dell’asfalto. Enea si era presentato all’appuntamento senza obiettare, senza rifiutarsi.
Lisandro non ci aveva creduto, o forse inconsciamente aveva sperato che non lo facesse, risparmiandogli così la fatica di dovergli chiedere scusa prima o poi, da qualche parte in quel discorso forzato che avrebbero messo su, per arrivare al punto.
Lisandro sapeva di essere stato stupido a sperare una cosa del genere.
Codardo.
Enea era un guerriero, non si era mai tirato indietro, aveva sempre affrontato tutto di petto, l’aveva sempre fatto da quando quella storia era cominciata e Lisandro, che lo conosceva meglio di chiunque altro, era anche la persona che avrebbe dovuto saperlo più di tutti.
<< Già, quella Sara … >> Replicò incassando un po’ troppo la testa nelle spalle.
Enea gli sembrò restare in silenzio per un tempo infinito, eppure Lisandro poteva percepire senza troppi problemi il suo sguardo fisso sul suo profilo. Lui non riusciva a voltarsi per ricambiarlo, era più semplice guardare l’erbaccia tra l’asfalto.
<< Ma la vedi tipo che … >> Commentò infine Enea, rifilandogli una gomitata poco gentile nel fianco con fare ammiccante; Lisandro ridacchiò e gli spostò malamente il braccio.
<< Tipo che scopiamo Enea! >> Sbottò trovando finalmente il coraggio di guardarlo.
Era sempre andata in quel modo tra di loro, era sempre stato facile far finta di nulla finché era stato possibile per entrambi, con un po’ di fiducia in più, sarebbe stato facile anche far tornare le cose esattamente come erano state un tempo.
In quel modo, Enea gli stava dicendo che potevano farlo.
Se Lisandro avesse voluto, Enea sarebbe stato disposto a farlo senza alcun rancore.
<< Metti almeno due preservativi prima di fare certe cose? >>.
<< Cazzo Enea! Dobbiamo davvero parlarne? >>.
Lisandro sentiva il viso in fiamme mentre spintonava senza troppi complimenti il suo migliore amico, che se la rideva al suo fianco senza alcun ritegno, rilassato come se non avesse nulla da rimproverargli, come se Lisandro non gli avesse fatto alcun male.
Come se non l’avesse spinto sull’orlo del baratro per poi lasciarlo cadere.
Come se non gli avesse mentito per tutto il tempo sui suoi sentimenti.
<< L’hai fatta venire qualche volta? >> Continuò Enea come se nulla fosse, imperterrito.
<< Tutte le volte! >> Replicò piccato Lisandro << Che non sono state poi molte … >> Mugugnò infine incrociando le braccia al petto e mettendo su un broncio da bambino.
Faceva caldo, ma non tanto quanto ne aveva fatto nei giorni precedenti.
Il cielo era una via di mezzo tra il crepuscolo violaceo e il blu cobalto della notte, Lisandro pensò fosse bello potervi sollevare lo sguardo e provare quella serenità.
Gli era mancato parlare ad Enea in quel modo, nel modo in cui solo con lui sapeva farlo.
Ed essere se stesso senza doversi preoccupare di nulla.
<< Gliel’hai detto, vero? >>.
Lisandro non scostò nemmeno lo sguardo dal cielo quando Enea gli porse la domanda con estrema naturalezza, fissando la strada deserta e il fatiscente palazzo all’angolo. Sapeva che quel momento sarebbe arrivato, sapeva anche che Enea non avrebbe aggiunto altro, perché voleva assolutamente che fosse lui a dirglielo. 
Anche se gli aveva chiesto di non farlo.
<< Si >> Rispose allora << Ed è stato davvero uno schifo >> Concluse, e scoppiò a ridere.
Enea si girò a guardarlo con un sopracciglio sollevato e il solito ghigno sulle labbra.
<< Ok, non voglio sapere i dettagli. Ma se esci con Sara … >>.
Commentò, facendo un gesto delle mani come se volesse scacciare una mosca fastidiosa, oppure semplicemente mandarlo a quel paese.
Lisandro rise ancora per un po’ fissando il cielo, poi la risata cominciò a spegnersi lentamente da se, lasciandogli stampata sul viso un’espressione terribilmente grottesca.
<< Non è stato facile per me farlo, sai? >> Mormorò con un filo di voce, abbassando lo sguardo.
<< Niente è stato facile in questo periodo, Lis >>.
Enea e Lisandro si fissarono e non aggiunsero parole inutili per un po’.
Rimasero in silenzio mentre il cielo si scuriva sempre più tingendosi di stelle scintillanti, mentre una macchina passava ogni tanto, dei bambini scendevano per giocare sull’altalena mezza rotta, coppiette felici si tenevano per mano e padroni portavano i cani in giro.
No, non era stato un periodo facile per la loro amicizia.
Non lo era stato per nulla, ma …
Ma come qualsiasi periodo difficile, ne stavano lentamente uscendo, insieme.
Con la testa alta di due fieri generali alla fine di una battaglia combattuta ad armi pari.
Enea gliel’aveva detto, un giorno impreciso di parecchi anni prima, un giorno che Lisandro non aveva saputo dimenticare, perché era stato anche il giorno in cui si era sentito padrone di una forza in cui non aveva mai creduto davvero.
Enea gli aveva detto, con il suo fare ingenuo da bambino, che loro due erano dei generali.
Lisandro è il condottiero spartano più forte del mondo!” Gli aveva detto con aria solenne e la fiducia incrollabile che solamente nell’infanzia poteva avere fondamenta potenti.
E quindi?” Era stata la sua replica, con il viso bagnato di lacrime dopo essere stato preso in giro dai bambini più grandi di lui, quelli di quinta elementare.
E quindi, anche tu sei il più forte del mondo! Ti chiami Lisandro, no?”
Era stato anche il giorno in cui erano diventati inseparabili, avevano sette anni, andavano in seconda elementare, ed Enea gli era sembrato un vero guerriero.
Certo!” Gli aveva detto poi, quando Lisandro gliel’aveva fatto notare “ Anche il mio nome è quello di un grande condottiero! Enea ha fondato Roma! Siamo due generali io e te! “.
Lisandro non gli aveva mai detto quanto ci aveva creduto quel giorno.
Doveva aver dimenticato quelle parole da qualche parte però, lungo la strada della crescita, mentre vedeva il suo migliore amico diventare davvero quel condottiero che tanto aveva decantato nell’infanzia.
Alla fine di quel lungo viaggio alla ricerca di se stesso, Lisandro non era sicuro di essere arrivato ad una meta o di aver trovato davvero una soluzione al casino che sentiva nel cuore. 
Ma una cosa l’aveva capita per certo: era stato forte, era stato un generale.
Lo era stato a modo suo, alle sue condizioni.
Enea aveva costruito la sua Roma, lui aveva difeso la sua Sparta.
<< Sono stato un pezzo di merda con te, in questo periodo >>.
Lisandro sentiva di poterglielo dire arrivato a quel punto, sentiva di poterlo dire al suo migliore amico, sentiva di potersi scusare senza perdere l’orgoglio o la dignità. Sentiva di poterlo fare, perché al contrario ne avrebbe solamente guadagnato.
<< Si, lo sei stato >> La replica di Enea arrivò immediata, diretta, proprio come lui.
<< Beh, mi dispiace >>.
<< Lo so che ti dispiace >>.
<< Andiamo a mangiare da qualche parte? Ho una fame pazzesca >>.
<< Anche io, amico. Mi sembra di avere un buco nero nello stomaco! >>.
Si incamminarono insieme, continuando a parlare di Sara, del più e del meno, di tutto quello che non si erano detti in quei mesi di difficoltà, spintonandosi quando serviva e tirandosi calci e schiaffi dietro la nuca come se fossero ancora dei bambini un po’ maneschi.
Erano arrivati al termine della battaglia, un po’ acciaccati, un po’ stanchi.
Vinti e vincenti.
Erano pronti anche per la prossima guerra: la vita.

 

Nessuno di loro avrebbe mai creduto di mettere piede a casa di Cristiano Serra.
Al loro quinto anno insieme era successo, come fosse successo era una storia tutta da raccontare.
L’idea di quell’ultima cena con i professori era stata di Italia, in quanto rappresentante di classe si era dichiarata responsabile dell’impresa assolutamente necessaria. Nessuno aveva preso davvero sul serio l’iniziativa, disinteressandosi della preparazione, ma Italia non era diventata rappresentante di classe senza un motivo, si era impuntata al punto tale da rendere la vita scolastica difficile a tutti.
Alla fine, nonostante il disinteresse iniziale, con l’appoggio indiscusso di Ivan, Catena e Romeo era riuscita a vincere anche quella battaglia. Mentre si ritrovava a camminare nell’immenso salone di casa Serra, Miki non poteva fare a meno di chiedersi come avesse fatto la sua compagna di classe a convincere Cristiano a mettere a disposizione casa sua.
Il problema maggior fin dall’inizio era stato proprio quello di trovare un posto nel quale organizzare l’evento, l’Olimpo non era adatto per una cena con tanto di professori.
Miki doveva ammettere che la sua compagna di classe aveva un senso di perseveranza davvero notevole, mai nella vita avrebbe creduto di vedere la dimora di Cristiano Serra.
Il salone era mastodontico, una libreria dal legno pregiato occupava tutta la parete di fondo, era stracolma di libri, fotografie, bomboniere e oggetti da collezione. Un televisore al plasma dalle dimensioni spropositate occupava la parete sinistra, incorniciato dai divani di pelle a elle nuovi di zecca, il morbido tappeto e il tavolino in vetro occupato da una serie di candele viola, sistemate l’una accanto all’altra in base all’altezza. Il tavolo su cui avrebbero cenato doveva essere lungo un paio di metri, era stato addobbato come per un matrimonio, Miki aveva capito immediatamente che dietro quel lavoro infinito e faticoso doveva esserci una mano femminile delicata e attenta.
Doveva essere stata la donnina bassa e minuta che aveva visto affaccendarsi avanti e indietro seguita instancabilmente da Cristiano, Miki si era domandata se il compagno di classe volesse darle una mano o semplicemente mettersi tra i piedi a dar fastidio, dato il modo in cui era stato più volte liquidato e mandato via con un gesto secco della mano.
<< Quello è un cazzo di impianto radio che costa più di mille euro! >>.
Non erano arrivati ancora tutti i professori e Miki dubitava che l’avrebbero fatto, non vedeva affatto la professoressa Cattaneo intrattenersi con loro tra risate e battute; in compenso però, della classe, nonostante lo scetticismo iniziale, nessuno si era tirato indietro.
Erano tutti lì, quel commento colorito era uscito senza troppa considerazioni dalle labbra di Giasone; i ragazzi se ne stavano ammassati davanti a quell’impianto tecnologico che occupava uno spazio di parete spropositato a sbavare come se non avessero dignità alcuna.
Miki sorrise quando vide che, invece di essere davvero interessato all’impianto, Aleksej aveva piuttosto lo sguardo perso sull’infinità di libri che quella libreria ospitava. Collezioni intere, classici, politica, saggi … ce n’era da far girare la testa.
<< Volete accenderlo? >>.
La domanda di Cristiano, che doveva essersi finalmente arreso all’idea di essere oltremodo d’impiccio in cucina, accese una serie di esclamazioni d’entusiasmo. Miki pensò che fosse un peccato, non aveva mai davvero avuto alcun tipo di rapporto con lui, ma qualcosa doveva essere cambiata nella sua vita da quando aveva perso la madre.
Era un peccato che Cristiano fosse riuscito a legare con gli altri solamente alla fine di tutto.
Sospettava che, dopotutto, il merito fosse soprattutto di Zosimo. Una musica soffusa si diffuse dolcemente nella stanza, era jazz quello.
<< Che cos’è sta roba? >> Commentò Enea storcendo il naso.
<< Mio padre ha solo questa merda >> Replicò Cristiano con voce apatica, controllando la pila infinita e spropositata di cd, dischi e cassette sistemata con ordine nello stesso mobile che ospitava tutto l’impianto audio, Gabriele ara accovacciato accanto a lui per aiutarlo.<< Ma tu non lo usi ?! Non senti della musica amico? >>.
Giasone aveva la voce carica di disapprovazione mentre poneva quella domanda, come se fosse perfettamente consapevole della risposta che sarebbe arrivata e ne fosse già profondamente deluso, in totale disappunto.
Cristiano lo accontentò facendo spallucce.
<< Ascolto la musica dal cellulare >>.
Miki ridacchiò all’espressione scandalizzata di Giasone ed Ivan, espressione a cui Cristiano non diede il minimo credito, troppo impegnato ad ascoltare qualcosa che gli aveva appena detto Gabriele; anche Zosimo gli si era accostato incuriosito da quella collezione.
<< Questa roba è noiosa >> Esclamò Enea a gran voce, anche lui ammassato con gli altri.
<< Ma questo è Nat King Cole! >>.
L’intromissione del professor Riva arrivò inaspettata, l’uomo se n’era stato fino ad alcuni istanti prima a parlare animatamente di un recente studio sull’Inferno di Dante Alighieri con il professor Palmieri di Storia e Filosofia, più rimbambito che mai.
<< Nature Boy! >> Rincarò la dose l’uomo, aggiustandosi gli occhiali storti sul naso.
Entrambi si avvicinarono alla collezione di proprietà del padre di Cristiano e cominciarono a commentarla animatamente con il diretto interessato; Palmieri afferrò Enea per le spalle costringendolo ad una lezione forzata di storia del jazz, mentre Aleksej e Oscar si accostarono quando la conversazione con il professor Riva sembrò deviare verso la collezione infinita di classici in copie antiche della libreria. Il sorriso di Miki si allargò, pensò a quel punto di andare anche lei in cucina.
La maggior parte delle ragazze si era rifuggiate nella stanza in fermento per aiutare la donnina minuta, Marta, a preparare le ultime cose da servire durante la cena. 
La cucina era una stanza bellissima, Miki l’aveva vista solamente di sfuggita, ma le era rimasta impressa: asettica, elettronica e decisamente tecnologica. 
Aveva appena imboccato il lungo corridoio che separava la zona giorno dalla zona notte, il parquet scuro era illuminato dalle belle lampade di ceramica bianca poste in maniera simmetrica su entrambe le pareti; si accorse che una piccola folla era accerchiata attorno ad una fotografia o forse un quadro dalle dimensioni piuttosto importanti.
<< Era davvero bella >> Quel commento giunse dalla bocca di Catena, gentile.
Era quella che se ne stava più indietro nel gruppo, aveva le mani intrecciate dietro la schiena, le gambe scoperte tese mentre se ne stava sulle punte dei piedi per vedere meglio.
<< Ha gli stessi occhi di Cristiano, è impressionante >> Mormorò invece Beatrice, composta.
Miki si avvicinò con curiosità.
Era una fotografia quella che stavano osservando, una di quelle fotografie fatte da un professionista, in bianco e nero; ritraeva una donna davvero bellissima in un campo di girasoli, un vestito elegante ma semplice sul corpo magro e attraente, le mani curate che reggevano un cappello da mare piuttosto raffinato e il sorriso della gioia sulle labbra.
Aveva davvero gli stessi occhi di Cristiano, Miki ricordava bene dove l’aveva già vista.
Non era stato in un giorno felice.
<< Che cosa state facendo qui? >>.
Catena, Beatrice, Italia, Fiorenza e Zoe sobbalzarono imbarazzatissime, come se fossero state colte a ficcare il naso in una stanza in cui non avrebbero dovuto mettere piede; Miki si limitò a girarsi verso Cristiano con le gote solamente leggermente arrossate.
Il compagno di classe non aveva nessun tipo di espressione sul bel viso spigoloso.
<< T-tua madre era davvero molto bella Cristiano >>.
Zoe fu coraggiosa a pronunciare quelle parole, lo fece con quella carica di ingenuità e quell’incapacità di comprendere quando frenare la lingua che erano sue tipiche, lo fece a fin di bene, per spezzare la tensione, ma non si rese conto che nessuna delle sue amiche l’avrebbe mai fatto. Aspettavano tutte una rispostaccia da parte di Cristiano.
<< Lo so >>.
Si limitò invece a rispondere l’altro, senza cambiare nemmeno di un po’ il tono di voce.
<< Sempre a perdere tempo queste qui! >> Dalla cucina, provvidenziale, arrivò immediatamente la rispostaccia di Sonia; era bella come una modella con quei vaporosi ricci neri, le belle labbra rosse, gli occhi da gatta truccati e quel vestitino nero a tubino.
Sembrava la signora della casa.
<< La cena è pronta, date una mano a Marta >> Ordinò con il suo solito fare dispotico da strega, che le fece guadagnare una serie di occhiatacce << Tanto mi sembra ovvio che quella vecchiaccia della Cattaneo non si farà viva e nemmeno quel brutto antipatico di De Santis >>. 
Non impiegarono molto tempo per mettersi tutti seduti attorno a quella tavola imbandita.
Lo fecero scompostamente, chiassosamente, esattamente nel loro stile.
Era un altro di quei momenti di non ritorno.
Quei momenti da conservare nel cassetto dei ricordi belli, quelli da pescare quando il mondo si faceva troppo pesante o insistente, quasi soffocante certe volte. Osservando quei volti sorridenti, in quella casa in cui non avrebbe mai pensato di metter piede, Miki pensò che ne avevano ancora di strada da fare, di cadute da prendere.
Avrebbero preso strade diverse, qualcuno invece avrebbe continuato a camminare insieme, fianco a fianco; qualcuno sarebbe rimasto indietro, qualcun’altro avrebbe preso il volo.
Era così incerto il futuro ... ma di una cosa era invece certa, voleva godersi quel presente.
Il presente dei suoi diciotto anni, della sua maturità, di quegli anni che sarebbe stati i migliori per tutti loro.

 

L’idea di andare al mare non l’aveva avuta nessuno in particolare.
Era stata forse l’unica cosa che avevano organizzato spontaneamente, era successo per caso, ed era stato sorprendente che la chat non fosse diventata un campo minato come ogni volta che c’era da organizzare qualcosa.
Nessuna nota vocale di cinque minuti piena di lamentele, nessun messaggio che si sovrapponeva all’altro, nessuna incomprensione, nessuna chiamata vacale fatta per errore. Italia l’aveva ritenuto un vero e proprio miracolo.
La spiaggia non era affollata, avevano infatti scelto un giorno infrasettimanale per andarci.
Quell’immensa distesa azzurra e limpida era tutta per loro, avevano anche un cielo privo di nuvole a fare da tetto alle loro risate chiassose e la spensieratezza dei loro anni. Gli scritti erano ormai alle porte, occasioni come quelle non ne avrebbero avute ancora.
Faceva caldo, ma non era soffocante, era l’inizio di quelle temperature miti che andavano sfidate con un pizzico di follia e coraggio; l’acqua era ancora fredda, intorpidita dall’inverno pesante e spossante che si erano tutti lasciati alle spalle solamente da pochi mesi.
Enea, Cristiano, Zosimo e Gabriele avevano dimostrato quel coraggio immediatamente.
Erano stati i primi a spogliarsi senza alcuna vergogna, ancora prima di raggiungere la spiaggia avevano cominciato a correre verso la maestosa distesa d’acqua sfidandosi a chi sarebbe riuscito prima a gettarvisi dentro senza annaspare o soffocare.
Zosimo era stato il primo ad arrendersi, era inciampato di faccia sull’acqua e ne era schizzato fuori come una ranocchia particolarmente infreddolita. Enea, Cristiano e Gabriele invece avevano combattuto come i guerrieri che erano fino alla fine. Si erano affogati a vicenda e avevano bellamente ignorato le proteste delle donne.
Alla fine di quella zuffa violenta, Gabriele era uscito dall’acqua con il costume sceso per metà sul fondo schiena, scandalizzando Catena e Italia che si stavano avvicinando timidamente all’acqua. Katerina, invitata speciale di quel giorno insieme a Muriel, non era stata contenta. 
Cristiano si era stancato di azzuffarsi non appena Sonia era entrata nel suo campo visivo.
Indossava un costume tutto d’un pezzo talmente striminzito da essere quasi inesistente. Era nero, come i suoi capelli dalle sfumature bluastre illuminati dal sole. Aveva il viso truccato anche quella volta, waterproof aveva detto, o qualcosa del genere.
Lo fissava con uno sguardo … nessuno si prese il disturbo di richiamarli quando si allontanarono avvinghiati l’uno all’altro in alto mare, alla fine erano due puntini indistinti. Enea invece, colse al volo l’occasione di uscire dall’acqua quando Beatrice si mise seduta sulla riva in compagnia di Italia, Catena e Miki; lo fece scuotendosi tutto come un cagnolino.
Beatrice fu la prima a protestare sonoramente, Enea aveva schizzato soprattutto lei, ma anche le altre erano rimaste coinvolte, colpite da alcune di quelle goccioline gelide; erano state solamente molto più veloci di lei ad alzarsi in piedi e scappare in tutte le direzioni strepitando. Beatrice invece rimase seduta sulla sabbia, combattendo con il suo fidanzato che le si stava ostinatamente attaccando addosso; era ancora vestita e voleva bagnarla apposta.
Finirono entrambi stesi sulla sabbia bagnata, sporchi, ridendo come due sciocchi.
Giasone e Muriel furono invece i due più avventurieri, raggiunsero la scogliera non troppo lontana, che sapevano sicura perché l’avevano frequentata fin da bambini, e cominciarono ad esibirsi in una serie di tuffi spericolati, facendo a gara tra di loro come bambini.
Non ci volle molto perché fossero raggiunti da Ivan, Oscar e Romeo.
L’unico che non sembrava particolarmente interessato a divertirsi era Igor.
Il ragazzo si era portato da casa uno di quegli ombrelloni formato famiglia che aveva provveduto a conficcare nella sabbia con tutta calma e meticolosità, ricavandosi in quel modo uno spazio d’ombra dove si era piazzato con una sedia da spiaggia.
Non si muoveva di lì da ore, e nonostante non fosse a diretto contatto con il sole, non aveva tolto la maglietta a mezze maniche né i pantaloncini scuri che indossava sopra al costume, si era cosparso la pelle pallida di creda da sole, accentuandone in quel modo il colore cadaverico e indossato un paio di occhiali da sole moderni che stonavano con tutto il resto.
Igor sembrava indifferente agli schiamazzi e al divertimento dei suoi compagni di classe, continuando a leggere Le affinità elettive di Goethe come se nulla fosse, si era dimostrato tollerante solamente ad ospitare ad un certo punto la povera Catena, che stava per avere un collasso sotto il sole che mano a mano le ore avanzavano diventava incredibilmente cocente.
Verso mezzogiorno la sua pace ebbe totalmente fine.
Enea, Gabriele, Cristiano, Telemaco, Zosimo e Lisandro, ritennero che il compagno di classe se ne fosse stato anche troppo rilassato sotto quell’ombrellone esagerato, trovarono anche un’ottima scusa per divertirsi ulteriormente, dato che stavano cominciando ad annoiarsi ad entrare ed uscire dall’acqua o tentare di convincere le loro riottose fidanzate.
Attaccarono Igor di spalle, facendogli produrre un gridolino che aveva davvero poco di maschile, sollevarono contemporaneamente la sedia e l’ipocondriaca vittima ebbe appena il tempo di lasciar cadere il libro sacro nella sabbia prima di ritrovarsi scaraventato in acqua con tutta la sedia.
Zoe, che era seduta a riva in compagnia di Fiorenza, Beatrice e Italia scoppiò sguaiatamente a ridere quando vide il fidanzato annaspare nell’acqua non troppo alta, con una gamba incastrata nella sedia, gli occhiali da sole storti e l’espressione totalmente avvilita.
Gli autori del crimine ridevano sguaiatamente continuando a schizzarlo, come per non dargli la minima tregua; la tragedia si consumò in fretta, Igor diede di matto per alcuni secondi, uscì dall’acqua grondando dai vestiti ormai inzuppati, mentre si trascinava dietro la sedia ormai chiusa sulla sabbia.
<< Andiamo Igor, non te la prendere! >> Lo prendeva alacremente in giro Telemaco, non riuscendo tuttavia a trattenere delle grosse risate che lo stavano lasciando senza fiato.
Igor a quel punto fece qualcosa di totalmente inaspettato.
Provvide a togliersi immediatamente di dosso i vestiti bagnati, mettendo in mostra un fisico asciutto e mingherlino dalla pelle diafana, insieme agli indumenti aveva anche mollato la sedia, e dimentico totalmente del libro ormai insabbiato, prese una rincorsa inaspettata e si schiantò di colpo addosso al suo migliore amico, facendolo andare immediatamente sotto.
Nel processo, prima che cadesse anche lui, abbassò totalmente il costume di Gabriele, mettendo in mostra ben più di un semplice fondo schiena questa volta, cosa che fece furiosamente arrossire le donzelle ancora sedute come sirene sulla riva.
La sua vendetta finale, prima di schiantarsi di faccia sull’acqua, fu anche quella di riuscire a spingere Enea per le spalle, che cadendo all’indietro trascinò con se prima Lisandro e successivamente Zosimo, in un effetto domino rallentato dalla difficoltà di muoversi in acqua. Fu solamente l’inizio delle risate generali e di un’altra sfrenata ora di divertimento.
Gabriele se la vide brutta nel dover scappare lungo tutta la spiaggia inseguito da Katerina, che tentava di colpirlo con uno zoccolo che aveva raccolto per caso, sotto lo sguardo estremamente compiaciuto di Aleksej, anche lui appena memore di un tuffo dagli scogli.
Pranzarono tardi, a orari scomposti, e Italia, Catena e Beatrice dovettero lottare strenuamente per impedire ai loro fidanzati di consumare il parco pranzo in acqua, a meno che non volessero sentirsi male e morire, cosa che le tre stavano prendendo in considerazione di lasciargli fare dato l’esasperazione.
Sonia e Cristiano tornarono dal loro lungo bagno in mare per ultimi e si isolarono in fretta, sistemandosi entrambi su un telo da mare che condividevano, dove pranzarono soli.
D’altronde nessuno aveva voglia di far sapere a Sonia che il costume se lo era rinfilato male, mettendo in mostra una porzione di chiappa non abbronzata. Cominciarono a sentirsi meno risate e schiamazzi quando il cielo si tinse di rosso fuoco.
Erano tutti stanchi, chi più e chi meno, avevano smesso di farsi i bagni a mare, aspettando invece che i costumi cominciassero ad asciugarsi da soli sotto il sole morente.
L’ombrellone di Igor era stato chiuso da un pezzo, abbandonato a se stesso.
Si rendevano tutti conto che, giunti alla fine di quella giornata strappata dal tempo e dagli impegni, non ci sarebbe stata più una giornata come quella.
Gli esami sarebbero cominciati la settimana successiva, e dopo, con la fine anche degli orali, non sarebbero stati più la 5 A, ma solamente persone che prendevano strade diverse.
Avrebbero potuto organizzare altri momenti come quelli, ma non ci sarebbero stati tutti come quel giorno, loro stessi non sarebbero stati più la classe strana che erano. Volevano tutti godersi quelle ultime ore insieme di odio, di sopportazione reciproca, di affetto, di stordimento, di presa in giro.
Un’ultima volta, prima di guardare avanti.


__________________________
Effe_95 

É successo qualcosa di brutto mentre stavo scrivendo questa storia, qualcosa che mi ha cambiato la vita e l'ha fermata, inevitabilmente. 
Non è stato facile per me riprendere in mano questa storia, perchè automaticamente la collegavo a quei mesi tremendi e a quei momenti difficili. Non era forse questo il capitolo che avevo in mente all'inizio, due anni fa, quando l'ho iniziato. 
Non è forse la stessa la mia scrittura, perchè il dolore ci cambia. 
Ma la scrittura è sempre stata teraupetica per me, non ho mai smesso di farlo davvero in questi due anni di pausa.
Mi ha aiutato, e questa storia è un pezzo di cuore che voglio conservare, nonostante tutto, e portare a termine. 
Non so chi sia rimasto ancora, ma per chi l'ha fatto un grazie sincero e davvero di cuore. 
Mancano, al punto attuale, due capitoli per concludere tutto, arriveranno. La fine arriverà. 
Ora, spero che stiate tutti bene, in questo tempo sospeso che ci ha travolto come un uragano inaspettato, sperando in giorni migliori. 
I miei ragazzi mi erano mancati, anche se forse sono diversi da come li ricordate. 
Alla prossima. 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 65
*** Coltivare un fiore, Germoglio del cemento e Caro Cristiano. ***


I ragazzi della 5 A

 

65.Coltivare un fiore, Germoglio del cemento e Caro Cristiano .

 

 

Giugno

 

Gabriele aveva trovato Katerina nascosta dietro il cespuglio.
No, trovarla lì non era stata una cosa razionale, non lo era stata per nulla.
Aveva girovagato in lungo e largo per tutta la casa di sua nonna, intralciando la donna che se ne stava tutta agitata in cucina, impegnata a preparare uno dei suoi pranzi inventati. Era euforica, troppo tempo era passato dall’ultima volta che i suoi nipoti di sangue, e quelli acquisiti, erano andai a mangiare da lei. Sarebbe andata presto in pensione e cominciava con fatica ad abituarsi a quella vita fatta solo di famiglia e libertà, tempo per se stessa.
Gabriele era finito in giardino solamente per inerzia, perplesso, faceva un caldo tremendo anche sotto l’ombra dei due maestosi e unici alberi di noce, quindi avrebbe sicuramente preferito starsene dentro casa, dove c’erano i condizionatori accesi.
Era convinto che per Katerina fosse lo stesso, eppure gli era bastato distrarsi qualche ora, immerso nei libri di letteratura italiana in un disperato tentativo di recupero dell’ultima ora, per perderla di vista. Aveva abbassato lo sguardo sul libro, l’aveva rialzato distrattamente dopo un tempo che non aveva saputo quantificare esattamente, e sul divano non c’era più nessuno rannicchiato con un libro tra le mani.
Era comunque ora di pranzo e una pausa se l’era meritata, quindi si era messo alla ricerca.
L’odore, era stato l’odore a condurlo verso il cespuglio, non qualcosa di razionale o un pensiero concreto, un intuizione, ma l’odore di cocco trasportato da un’inaspettata folata di vento, che aveva smosso leggermente il caldo asfissiante di quel Giungo che stava entrando nella sua fase finale. Il giorno successivo Gabriele avrebbe sostenuto gli scritti. Non era preoccupato, non ancora almeno, si sentiva piuttosto sospeso in un punto di svolta che sapeva sarebbe giunto, ma non era stato preparato ad accogliere consapevolmente.
Katerina era stesa a pancia in sotto sull’erba fresca, appena innaffiata, aveva i gomiti piantati nel terreno mentre reggeva il libro che stava leggendo in quel periodo di vacanze estive tra le mani curate, il suo braccialetto scintillava quasi fastidiosamente al sole.
Indossava un vestitino leggero, di cotone bianco a fantasia di lillà, era a piedi scalzi e, poiché li teneva sollevati in aria e incrociati tra di loro, Gabriele notò che erano sporchi di terra bagnata e clorofilla verde. Sorvolò velocemente sull’accenno di gluteo che si intravedeva dal lembo sollevato del vestitino, sul fianco destro, e ignorò il bordo bianco delle mutandine a strisce colorate che stava indossando, scelta non molto saggia dato il colore dell’abito.
Anzi, nel mettersi seduto sotto l’albero, accanto a lei, le aggiustò quel pezzo di stoffa, sistemandogliela compostamente sulla pelle abbronzata dal sole.
<< Fa caldo, perché ti sei messa qui fuori? >> Le domandò lui pigramente.
Aveva tuttavia appoggiato la testa sul tronco e sollevato lo sguardo sulle fronde dei due unici alberi del giardino che si intrecciavano tra di loro, come se si stessero abbracciando. Il sole vi filtrava attraverso creando giochi di luci e ombre sul suo volto sudato.
<< L’erba è fresca. L’innaffiatore automatico ogni tanto la bagna >>.
Fu la risposta distratta di Katerina, che non aveva nemmeno sollevato lo sguardo dalla pagina che stava leggendo, sebbene avesse dovuto percepire la sua presenza in qualche modo. Gabriele non era stato certo discreto nello spostare il cespuglio per raggiungerla.
Le stavano crescendo i capelli, aveva adesso un caschetto sistemato che le arrivava giusto al mento, incorniciandole il viso affilato, sotto il sole sembrava una pepita d’oro scintillante. Gabriele allungò una mano e sciolse il fiocco del nastro che aveva utilizzato al posto del cerchietto, avvolgendolo immediatamente attorno al polso, anche quello profumava di cocco.
Katerina non sollevò lo sguardo dalla pagina che stava leggendo nemmeno in quel caso.
<< Cos’è che stai leggendo con tanto interesse? Non ti sei staccata da quel mattoncino da quando siamo arrivati da nonna stamattina presto! >>.
Le disse allora lui e proprio in quel momento l’innaffiatoio automatico prese a spruzzare l’acqua sull’erba e nelle piante attorno, Gabriele si ritrovò con la maglietta umida e il volto bagnato, ma non se ne dispiacque affatto. Era fresco, proprio come aveva detto Katerina.
Ora capiva perfettamente perché si fosse andata a rifugiare proprio in quel posto.
<< Potrei mettermi a studiare qui oggi pomeriggio … >> Mormorò allora Gabriele, completamente dimentico o improvvisamente disinteressato alla sua domanda precedente. Katerina sollevò allora lo sguardo dal libro per la prima volta, voltandosi a guardarlo.
Le venne un sorriso spontaneo sulle labbra carnose; Gabriele aveva due aloni di sudori ben visibili sotto le ascelle, che si espandevano anche sulle maniche corte della maglia grigia. Il ciuffo era raccolto in alto in un mini – codino con un elastico rosa, uno di quelli minuscoli che si utilizzavano per le bambine piccole, appartenuto probabilmente a Lisa e dimenticato. I bermuda color cachi erano a loro volta inumiditi dagli schizzi dell’innaffiatoio automatico e una delle due infradito che indossava stava per cadergli dal piede, poiché li aveva incrociati.
Aveva anche una cavigliera che scintillava sotto la luce del sole, la K d’argento le feriva quasi la vista, ma Katerina era compiaciuta da quella vista. Gabriele non la toglieva mai.
<< Io adoro questo posto >> Decise allora di parlare lei.
Si era nel frattempo messa seduta, le ginocchia e le gambe affondavano nell’erba bagnata e corta e il vestitino bianco le si allargava attorno, il libro l’aveva appoggiato a pancia in giù sulle cosce, il titolo Jane Eyre spiccava nel suo colore blu cobalto sulla copertina beige.
Gabriele la guardò, allungando immediatamente una mano per aggiustare una ciocca dorata sfuggita da dietro l’orecchio quando le aveva sfilato via il nastro.
<< Davvero? >> Domandò lui osservandola intensamente << Come mai? >>.
Lei sorrise lievemente, era struccata e il viso pulito era illuminato a tratti dalla luce che filtrava attraverso le fronde, fece un passettino in avanti sull’erba per accostarsi a lui, sporcandosi le ginocchia di terra e del verde della clorofilla sprigionata a contatto con l’acqua e lo sfregamento. Avanzò fino ad appoggiare il mento sulla sua spalla, dandogli ora totale attenzione. Gabriele venne totalmente investito dal suo odore di cocco, forte, lo adorava.
<< Quella sera puzzavi di alcol e mi hai anche vomitato addosso >>.
Mormorò lei arricciando le labbra, Gabriele sollevò un angolo delle labbra in un sorriso ammiccante, sciolse il fiocco fortuito che aveva fatto con il nastro intorno al suo polso e lo avvolse dolcemente intorno al collo della ragazza, come fosse una sciarpa o un foulard.
Aveva immediatamente compreso a che cosa Katerina stesse facendo riferimento, il loro primo bacio, inaspettato, dato proprio dietro quel cespuglio in una notte brava.
<< Ma ti ho anche baciata >> La provocò Gabriele, tirandola dolcemente in avanti con lo stesso foulard; nello slancio Katerina avvolse automaticamente le braccia attorno al suo collo. Gabriele profumava di ammorbidente, bagnoschiuma all’iris, dopobarba e sudore.
<< E ti sei salvato per un pelo >> Lo ammonì lei a fior di labbra << Se non mi avessi vomitato addosso ti saresti trovato con un cazzotto dritto sul naso >>.
Gabriele mise su un ghigno terrificante, anche se risultava ugualmente smorzato, o forse ridicolo, se accostato a quel codino da samurai rosa anche troppo stretto.
<< Tu non mi piacevi Gabriele Rossi! >> Continuò lei, con un finto tono minaccioso.
Si guardarono negli occhi, talmente vicini che i loro respiri si confondevano.
C’era sfida nei loro sguardi, ma durò poco, scoppiarono entrambi a ridere l’istante successivo.
Avevano caldo a stare vicini in quel modo, la pelle era lucida e appiccicosa e le mani di Gabriele sulle sue scapole e sul fianco erano decisamente bollenti, ma a Katerina piaceva. Non che si fossero ancora mai toccati oltre dei vestiti, ma le dava quella sensazione lì.
<< Ma il bacio deve esserti piaciuto eccome >> Replicò poi lui ad un certo punto, quando la sua risata si era finalmente smorzata << Sei stata inarrestabile da quel momento in poi >>.
Aveva ancora quel ghigno fastidioso sulle labbra, Katerina sollevò un sopracciglio biondo, i suoi occhi grigi avevano delle pagliuzze dorate a contatto con i raggi del sole indiretti.
<< Ma ti ho fatto innamorare di me. Quindi ho vinto io >>.
Sembrava una bambina capricciosa mentre pronunciava quelle parole sussurrate sulle sue labbra. Gabriele avrebbe voluto baciarla, farla stendere sull’erba se possibile e accompagnarla in quel movimento sinuoso e sensuale, ma gli piaceva quel modo nuovo che avevano di rubarsi quei baci a fior di labbra, mostrando una reticenza giocosa nel toccarsi. Alla fine non riuscivano mai a capire chi l’aveva vinta per primo.
<< Sei preoccupato per domani? >> Katerina voleva portare quel gioco ancora per le lunghe.
Gabriele si sentì infatti solleticare le labbra dal suo respiro quando pronunciò quelle parole. Ma le morsicchiò ugualmente il labbro inferiore prima di risponderle.
<< No, conoscendomi mi verrà l’ansia una volta consegnato il tema >>.
Katerina rise di quelle parole, una risata cristallina e breve, che le lasciò le fossette sul viso.
Gabriele si era fatto audace da quando aveva confessato della loro storia alla famiglia.
Katerina non credeva di averlo mai visto tanto spontaneo e felice come lo era stato in quelle settimane. La portava dappertutto con sé, la toccava senza vergognarsi, le parlava con spontaneità anche per strada; era stato strano all’inizio, non aveva potuto fare a meno di provare una sorta di estraneità nei confronti di un aspetto del suo fidanzato che le era sconosciuto. Se ne era sentita spaventata all’inizio, Gabriele si era sempre frenato con lei.
Ma con il passare del tempo quella sensazione era velocemente sparita, Katerina avrebbe infatti potuto dire senza ombra di dubbio che adesso Gabriele era una persona libera. Felice. Quindi, lei non poteva che esserlo in egual misura.
E quel Gabriele felice le piaceva decisamente di più, con la sua spontaneità, con la sua passionalità e anche con quegli anni in più che la facevano apparire ancora una bambina. Gabriele aveva mostrato perseveranza e determinazione nelle proprie convinzioni anche riguardo quella faccenda, Katerina sarebbe rimasta una bambina ancora per qualche anno e lui non aveva fretta. Per l’amore vero, aveva imparato di non aveva fretta alcuna.
Era come coltivare un fiore, qualcosa di minuscolo, lento, fragile e delicato, che una folata di vento eccessiva o una mancanza di cure avrebbe spazzato via e distrutto in un secondo. Ma qualcosa di straordinariamente incantevole quando sbocciava nei suoi petali caleidoscopici. Gabriele aveva dato quell’immagine all’idea che aveva dell’amore. Katerina era senza ombra di dubbio il bocciolo che avrebbe coltivato per tutta la vita.
Era una convinzione che, a vent’anni di vita, aveva pensato di potersi permettere di fare.
<< Quando avrai finito gli orali andremo insieme in vacanza >>.
Katerina lo baciò velocemente sulle labbra, uno sfiorasi leggero prima di ritrarsi nuovamente.
<< Davvero? Non ne sapevo nulla >> Commentò Gabriele, e quella volta toccò a lui baciarla.
A fior di labbra, uno schiocco silenzioso e l’innaffiatore li spruzzò nuovamente con l’acqua.
<< Si, i nostri si stanno organizzando. Parlavano di Cefalonia come meta >>.
<< Cefalonia? Non male … tra qualche anno potremmo andarci insieme solo io e te … >>.
La voce di Gabriele si era fatta leggermente roca, il caldo stava aumentando. Era ora di pranzo ormai, molto presto nonna Luna sarebbe uscita fuori a chiamarli.
<< Dovrai aspettare ancora un bel po’ per quello >> Gli disse lei, seria.
<< Sono paziente … >> Commentò Gabriele, poi ci pensò su << … a volte >>. Risero nuovamente, questa volta a voce più alta.
Era così bello stare insieme senza vergognarsi, senza avere paura di essere scoperti, senza preoccuparsi di quei cinque anni che li dividevano lungo la linea temporale. Era stato un anno difficile quello, ma quante cose nuove avevano imparato.
Gabriele, di certo, aveva quanto meno guadagnato qualcosa di prezioso e una maggiore consapevolezza di se stesso e della sua vita. Di cosa farsene del suo futuro.
Quando la loro risata si estinse, Katerina e Gabriele si scambiarono solamente uno sguardo di tacito accordo prima di scambiarsi finalmente un bacio pieno, e ancora una volta non potevano dire chi avesse cominciato e chi avesse vinto quel gioco infantile di effusioni rubate.
Sentirono in quel momento il cancello scattare, erano vicini all’entrata del giardino.
Gabriele e Katerina non temevano di essere visti, nascosti dal cespuglio e dagli alberi, ma il vestito bianco di lei e l’ennesimo spruzzo improvviso dell’innaffiatoio automatico tradirono la loro presenza. Ebbero appena il tempo di separare le labbra prima che qualcuno spostasse le fronde.
<< Fa caldo, ma non vi annoiate a stare appiccicati a quel modo? >>.
Il volto abbronzato di Aleksej fece capolino tra le frasche, aveva una voce monotona.
Doveva essere appena arrivato; in lontananza sentirono anche la voce squillante di Lisa, Andrea e Simone che scendevano le scale al piano di sotto pronti per il pranzo.
Aleksej aveva i capelli talmente rischiarati dal sole che sembravano bianchi, mentre gli occhi erano un caleidoscopio di tonalità d’azzurro difficili da catalogare.
<< Tu ti annoi a stare appiccicato a Miki? >> Gli domandò di rimando Gabriele, annoiato.
Katerina, forse per l’imbarazzo o forse perché ancora non ci era abituata, fece un debole tentativo di sciogliere il loro abbraccio; ma le mani di Gabriele, bollenti, rimasero ben incollate sul suo corpo e la tennero stretta a sé. Era quasi prepotente.
Non che Aleksej avesse mai mostrato disagio ad ogni modo di fronte alle loro manifestazioni d’affetto. In realtà, nessuno aveva mai detto nulla, se non Alessandra o Jurij i primi tempi. Ma anche loro aveva smesso alla fine.
<< Vedo che sei simpatico stamattina eh? >> Commentò Aleksej mettendo su un sorriso sghembo, se ne stava accovacciato nel cespuglio maltrattandolo visivamente.
Gabriele non rispose, ma guardò il suo migliore amico negli occhi, ringraziandolo in silenzio.
Aleksej gli fece l’occhiolino, ma senza che Katerina, ancora rossa, potesse notarlo.
<< Ti vedo accaldata, Katja >> Decise allora di prenderla in giro per farla sciogliere, funzionò.
Katerina non era famosa né per la sua sottomissione, né per la sua calma.
<< Ora ti faccio accaldare io con un calcio nelle pal- >>.
<< Va bene, calma, calma! >> Intervenne immediatamente Aleksej alzando le mani, rise.
Gabriele invece si morse un labbro inferiore per trattenere le sue di risate. Era evidente che non volesse essere il prossimo a ricevere quel genere di minaccia.
Proprio in quel momento dall’abitazione sopraggiunse la voce allegra e contenta di nonna Luna, che annunciava il pranzo. Era una bella prospettiva quella di trovare la tavola invasa dalla metà dei suoi nipoti, acquisiti e non, persino Gabriele era dell’umore adatto quel giorno.
I tre si alzarono, raggiungendo velocemente il vialetto di ghisa.
Il libro di Jane Eyre era stato brutalmente abbandonato presso le radici dell’albero, scivolato indisturbato e silenziosamente dalle gambe della ragazza mentre si stringeva a Gabriele, che alla fine aveva vinto la sua battaglia. Aveva vinto tutta la sua attenzione.
Katerina li distanziò quasi subito, camminava circa un metro più avanti, saltellava felice nonostante i piedi nudi e il vestito umido, il fiocco le pendeva ancora dal collo … sembrava una ninfa dei boschi. Gabriele la osservava con un sorriso accennato sulle labbra. Non si era accorto di essere osservato a sua volta, ma da occhi diversi.
<< Se continuerai a guardarla in quel modo, allora credo che Francesco possa stare tranquillo per il resto dei suoi giorni >> Commentò Aleksej, richiamando finalmente la sua attenzione << E anche io >> Ci tenne poi ad aggiungere, con voce calda e confortante.
Gabriele distolse lo sguardo dalla schiena di Katerina e fissò il suo migliore amico.
Non disse nulla riguardo quelle parole, non ne aveva più bisogno ormai.
<< Sei preoccupato per domani? >> Cambiò argomento.
Aleksej fece spallucce, era una domanda sciocca quella di Gabriele e lo sapeva bene.
<< Mi dispiace solo che sia finita >> Si ritrovò piuttosto a dire. Gabriele si fermò a riflettere su quelle parole, era vero, molte cose stavano finendo, ma …
<< Ma io e te saremo ancora insieme >> Constatò, facendo semplicemente spallucce.
Quella volta toccò ad Aleksej fissarlo e riflettere sulle sue parole.
<< Come i migliori tra i fratelli eh? >> Decretò infine.
<< Già >> Rise Gabriele.
Proprio in quel momento Katerina li richiamò, invitandoli a sbrigarsi, aveva fame. Era ferma sullo stipite di legno della portafinestra, che toccava delicatamente con una mano. Aleksej e Gabriele si guardarono un’ultima volta complici.
Era forse passata la stagione della loro adolescenza, ma loro due erano lì, pronti insieme ad affrontare qualsiasi cambiamento e dolore la vita avesse in serbo in futuro per loro. Esattamente così come avevano cominciato, molti anni prima.

 

Il salice piangente, che pendeva sul marmo grigio tempestato di nero, aveva le foglie secche.
Era un’estate torrida quella che si stava affacciando alle porte.
Zosimo aveva la fronte totalmente impregnata di sudore, con i ricci che rimbalzavano umidi sul volto dai tratti fiabeschi. Aveva appena gettato un intero secchio d’acqua ghiacciata sul marmo della lapide, spazzando via lo sporco e i fiori secchi, facendo in modo che un po’ di quell’acqua colpisse accidentalmente anche lui e il suo accompagnatore. Cristiano, di fatto, non sembrò minimamente toccato o infastidito da quel gesto.
Anche lui aveva caldo, stava sudando nonostante la maglietta a giro-maniche che indossava. Inoltre, si stava avvicinando l’ora di pranzo, il momento di caldo peggiore in assoluto. Zosimo, inginocchiato accanto al vaso dei fiori, che emanava un odore nauseante di acqua putrida, strofinava alacremente la fotografia di sua madre mentre gocce di sudore solcavano le sue tempie. Ma nonostante questo, come sempre, il sorriso adornava le sue labbra sottili.
<< Mi passi i fiori freschi, Cris? >> Domandò all’amico, allungando una mano.
Aveva infatti appena svuotato e ripulito brutalmente il vaso, schizzandosi addosso sia di acqua putrida che di acqua fresca, ma siccome aveva i vestiti già sporchi di grasso dei motori non faceva alcun tipo di differenza per lui sporcarsi anche un altro po’.
Cristiano, mortalmente annoiato dal caldo soffocante, passò il fascio di fiori all’amico come gli era stato precedentemente richiesto.
<< Se anche il vaso di mia madre puzza in quel modo io me ne vado >>.
Commentò con la sua solita voce scocciata e apatica, anche lui era inginocchiato accanto alla lapide curata e immacolata, ma dalla parte opposta. I capelli indomabili erano tirati indietro da un cerchietto che aveva sottratto a Sonia qualche tempo prima, mentre studiavano da lei.
Zosimo rise, mentre sistemava con cura le peonie e le begonie nel contenitore d’ottone.
<< Non preoccuparti, ci sono qui io per questo, no? >>.
Cristiano guardò il suo migliore amico e lo spinse leggermente sulla spalla quando lo sentì provocarlo in quel modo, Zosimo ricambiò l’occhiata, entrambi avevano un sorriso scherzoso sulle labbra, anche se forse il burbero Cristiano lo nascondeva decisamente meglio.
<< Ecco fatto! >> Annunciò poi il folletto, soddisfatto << Hai visto che belli mamma? >>.
Domandò alla donna sorridente riflessa nella foto, Emilia sembrava sempre rispondergli.
Cristiano inoltre si era anche abituato a quelle scene, le trovava familiari e necessarie quasi, avrebbe ormai potuto dire.
Zosimo congiunse le mani in preghiera e rimase in silenzio per qualche minuto, immerso in pensieri personali che non voleva condividere; anche per quello ormai Cristiano ci aveva fatto l’abitudine, rimaneva in silenzio ad aspettare con rispetto.
<< Andiamo da tua mamma ora, Cris? >>. La domanda di Zosimo arrivò una volta che ebbe terminato la sua preghiera.
Cristiano annuì impercettibilmente e si tirò in piedi, stiracchiando le gambe che si erano tutte indolenzite a furia di starsene piegato sulle ginocchia accanto al marmo grigio e freddo. La lapide di Margherita era bianca, con venature rosa e grigie al suo interno, era ancora pulita dall’ultima volta che Cristiano l’aveva visitata, ovvero quasi una settimana prima. I due si accorsero immediatamente di un particolare inaspettato, di quell’unica rosa rossa sistemata nel vaso, ancora frasca in mezzo a quel mare bianco e giallo di margherite dai petali appassiti e macchiati prematuramente a causa del caldo soffocante.
Cristiano si inginocchiò nuovamente accanto alla lapide e sfiorò con le dita la rosa rossa, accigliato. Si domandava chi potesse averla portata e Sonia era stata la prima persona che gli era venuta in mente, ma con Sonia al cimitero ci era andato solamente qualche giorno prima.
Marta invece non ci andava mai, lasciando a lui il compito di occuparsi della faccenda.
Rimaneva una sola persona che avrebbe potuto farlo, ma Cristiano si rifiutava di crederci.
Scosse la testa e afferrò brutalmente il vaso, intenzionato a non pensarci oltre; al suo fianco Zosimo si era allontanato per non fare domande indiscrete, avendo capito che l’amico non voleva parlare di quella rosa dalla sua espressione.
Ne aveva comunque approfittato per riempire un secchio d’acqua pulita e cambiare quella del vaso che, per la gioia di Cristiano, puzzava esattamente di fiori appassiti dal caldo. A testimonianza del suo disappunto, Cristiano allontanò velocemente il vaso per vuotarlo nel canaletto di scolo e lo fece con il naso tappato e il braccio proteso eccessivamente in avanti. Zosimo sorrise a quella scena, ma lo fece di sottecchi, perché conosceva abbastanza bene il suo migliore amico da sapere che se la sarebbe presa se l’avesse notato, oppure l’avrebbe semplicemente colpito da qualche parte senza troppi complimenti né alcuna delicatezza.
Mentre Cristiano sistemava con cura le solite margherite bianche nell’oggetto del suo odio giornaliero, anche se ormai non più puzzolente, Zosimo gettò la secchiata sul marmo come aveva fatto precedentemente anche alla tomba di sua madre, osservando l’acqua colare dai bordi sul terreno particolarmente bisognoso a causa dell’arsura di quel periodo. Si accorse, una volta finita l’operazione, che Cristiano era rimasto con quella rosa tra le dita, se la rigirava a destra e sinistra, pensieroso. Sobbalzò imprecando quando una spina gli si conficcò senza troppi complimenti nel pollice, facendo zampillare subito il sangue.
<< Cazzo! >> Brontolò mentre si portava il dito ferito alle labbra, per succhiare sulla ferita.
Zosimo si accorse che l’amico ebbe l’impulso di gettare con foga la rosa per terra, magari calpestarla nel processo, ma trattenersi all’ultimo secondo, evidentemente combattuto. Alla fine, la ripose nuovamente nel vaso, lasciando che spiccasse in mezzo al bianco delle margherite. Cristiano si era ricordato solamente in quel momento che le rose rosse erano i fiori preferiti di sua madre, solamente una persona poteva conoscere quel dettaglio oltre lui.
<< Vaffanculo >> Mormorò nuovamente, contro chi non era ben chiaro.
Zosimo ridacchiò divertito e allo stesso tempo intenerito dall’espressione imbronciata e dalla reazione del suo migliore amico, questa volta senza riuscire ad evitarsi un’occhiataccia. Infilò una mano nel tascone della salopette che stava indossando e tirò fuori un cerotto malandato e sporco di grasso d’auto nella parte anteriore, lo porse a Cristiano.
<< Vuoi farmi morire con un infezione? Cos’è quello schifo? >>.
Lo rimbeccò immediatamente l’altro, fissando con fare astioso il povero cerotto incriminato.
Zosimo continuò a sorridere sventolando l’oggetto sotto il naso di Cristiano.
<< In officina mi faccio spesso male alle mani, ne porto sempre un po’ dietro con me >>.
Gli spiegò con pazienza, continuando a sventolare il cerotto; stizzito da tutto quel movimento insensato, Cristiano bloccò senza complimenti il polso ossuto dell’altro e gli strappò il tanto decantato “schifoso” oggetto dalle mani. Zosimo ghignò, mettendo in mostra la fila di denti perfettamente bianchi e dritti.
<< Togliti quel ghigno dalla faccia, idiota! >> Lo rimbeccò immediatamente Cristiano.
Nonostante avesse lo sguardo basso, impegnato a dividere le due alette di plastica bianca, un’operazione che richiedeva particolare attenzione dato che se i due lembi di cerotto si fossero attaccati tra di loro sarebbe finito con il dover buttare tutto, Cristiano riuscì ugualmente a percepire che l’altro stava ridendo di lui.
Una volta avvolto il cerotto attorno al pollice, sollevò lo sguardo e fissò Zosimo di sottecchi.
L’amico indossava la salopette che utilizzava a lavoro, era anche quella sporca di grasso.
Aveva appena terminato il suo turno quando Cristiano era passato a prenderlo per andare al cimitero, non gli aveva dato nemmeno il tempo di andare a casa a farsi una doccia. Ma Zosimo era fatto in quel modo, l’aveva accompagnato senza lamentarsi o fare domande.
Guardandolo, Cristiano si rese conto che gli sarebbe mancato tantissimo dove sarebbe andato a stare da solo con Sonia e Marta, a partire da Settembre.
<< Sta andando bene questo apprendistato all’officina? >>.
Si ritrovò allora a domandargli, perché da quando l’amico aveva cominciato una settimana prima quella sorta di “addestramento” pagato appena due pidocchi, Cristiano non gliel’aveva mai chiesto, nemmeno una sola volta. Sapeva che Zosimo voleva aprirsi un’officina in futuro, diventare un meccanico.
Stava già cominciando a realizzare i suoi sogni, l’aveva fatto senza nemmeno preoccuparsi di non dover spendere quella giornata a lavorare, ma piuttosto a studiare dato che l’indomani aveva un esame da affrontare, il primo in assoluto, la meno temuta prova d’italiano.
<< Benissimo! >> Rispose l’amico entusiasta << Il signor Franco è severo, ma sto imparando tantissime cose. Per esempio, un giorno … >>.
Zosimo cominciò a raccontare, ma Cristiano si distrasse ad osservarlo.
L’amico aveva le mani tutte incerottate, poteva facilmente immaginarsi il suo capo che lo strigliava per bene, magari rimproverandolo anche aspramente con qualche scappellotto oltre che con l’invettiva verbale, poteva anche immaginare Zosimo continuare a sorridere in rimando. Inoltre, stava parlando a propulsione come se non avesse aspettato altro che farlo.
Cristiano si sentì in colpa per quello e fece una cosa non da lui.
<< Mi mancherai Zosimo >> Lo interruppe, senza preoccuparsi delle conseguenze.
Cristiano aveva abbassato lo sguardo nel dire quelle tre semplici parole, osservava con disinteresse un ciuffo d’erba spuntato tra il cemento e la lapide di marmo, a riprova del fatto che anche un fiore potesse nascere e crescere rigoglioso dal cemento, caparbio. Lui stesso di sentiva un germoglio del cemento.
Forse quella fu la prima volta che Cristiano vide dipinta la sorpresa sul viso del suo migliore amico, anche se la sua espressione era come al solito incredibilmente apatica, un pizzico del suo cuore guizzò felice alla prospettiva di aver strappato via il sorriso dal volto sempre allegro.
Cristiano era felice che fosse successo soprattutto per una cosa positiva.
<< Cris … >> Commentò Zosimo grattandosi la nuca << Ma ci sentiremo tutti i giorni, no? E poi potrò venire a trovarti qualche volta se vorrai >>.
Cristiano ghignò, mettendo in risalto i canini più appuntiti del normale, ferini quasi.
<< Qualche volta? Tornerò almeno una volta a settimana per starti attaccato al culo idiota! >>.
Fu la sua replica burbera, Zosimo scoppiò a ridere ed entrambi presero a spintonarsi giocosamente sulle spalle.
Ovviamente, sapevano entrambi che una cosa del genere non sarebbe mai stata possibile, ma quello era il modo un po’ strano di Cristiano di far sapere a Zosimo che nonostante le loro vite si fossero intrecciate solamente da poco, nonostante avrebbero presto intrapreso strade diverse, non aveva intenzione che l’altro uscisse dalla sua vita. Non aveva molte persone che la riempivano, ma quelle poche erano preziose per lui.
Quanto meno, quello era il dono che gli aveva fatto sua madre, l’aveva messo al mondo, il minimo che doveva fare era vivere meglio che poteva, con il meglio che gli veniva concesso.
<< Passerai anche da mia madre quando non ci sarò? >>. Domandò Cristiano fissando la lapide pulita, con i fiori adesso ancora profumati.
<< Se non lo faccio io non lo farà nessuno. Forse - >> Si interruppe, come per ripensare a quello che stava dicendo << Mamma si sentirà sola senza di me … penso >>.
Lui non parlava con la foto di sua madre come il suo migliore amico, ma aveva cominciato a pensare che non fosse male, provava un profondo conforto in quegli appuntamenti settimanali, un conforto che avrebbe perso tra qualche mese. Ne aveva anche paura.
Zosimo tuttavia annuì immediatamente, lo fece con assoluta solennità.
<< Stai tranquillo, Margherita non si sentirà mai sola finché ci sarò io >>. Cristiano si concesse un sorriso molto simile ad un ghigno.
Entrambi si voltarono verso la lapide, ora toccava a lui pregare in silenzio, con le mani giunte.
Grazie mamma per avermi messo al mondo.
Erano ormai quelle le sue parole, la sua preghiera da un po’ di tempo a quella parte.
Quando disgiunse le mani sospirò pesantemente guardando la rossa rossa che non era riuscito a gettare via, nonostante ormai avesse compreso chi era stato a portarla.
<< Andiamo a mangiare qualcosa Zosimo, offro io il pranzo oggi >>.Dichiarò tirandosi in piedi con energia, nonostante le ginocchia ancora doloranti.
Zosimo saltò in pieni ancora più energicamente, come se non avesse lavorato tutta la mattina e non si fosse rannicchiato come una rana di fronte a ben due tombe diverse.
<< Voglio mangiare sushi! >> Lo informò, ridacchiando divertito.
Cristiano tentò di colpirlo con un calcio, ma Zosimo, da bravo folletto, schizzò via di lato.
<< Sei un bastardo >> Commentò il primo << Andiamo all’ all you can eat >>. Aggiunse ugualmente, incrociando le braccia al petto, Zosimo rise vittorioso.
Dopotutto sapeva bene che a Cristiano piaceva, in un modo quasi perverso, sperperare i soldi di suo padre quando poteva, anche se non era un ragazzo vanesio né attaccato alla moda.I due si allontanarono lentamente dalla lapide di Margherita Serra, incamminandosi sul vialetto che li avrebbe condotti verso il cancello, le loro voci erano forse troppo alte per il luogo in cui si trovavano, dove era richiesto rispetto e silenzio per i morti.
<< Lasciami fare prima una doccia >>.
Stava commentando Zosimo, braccia incrociate dietro la nuca con aria rilassata.
<< Ovvio. Non vado in giro con un puzzone! >>. Arrivò immediata la replica piccante di Cristiano.
Le voci dei due si persero lungo il viale, aumentando d’intensità quando si avvicinavano maggiormente alla strada caotica al di fuori di quelle mura quasi sacre.
Non avrei incontrato Zosimo se non mi avessi messa al mondo.
L’ultimo stralcio della preghiera che aleggiava ancora nell’aria.

 

Cristiano rientrò a casa ormai che era sera, anche se il sole in cielo era ancora alto.
I gyoza che aveva mangiato gli ballavano ancora nello stomaco, sembravano non volerne sapere di essere digeriti, o forse lui e Zosimo avevano esagerato in un eccesso di euforia. Di fatto, avevano sbagliato ad ordinare ed erano arrivate porzioni per dieci persone.
Finito di pranzare erano andati a casa del folletto per studicchiare qualcosa.
Quanto meno, avevano fatto un excursus di tutti i poeti e autori italiani del primo novecento, terrorizzati all’eventualità che potesse uscire uno di loro nella traccia dell’analisi del testo, come era capitato appunto l’anno precedente. Non che Cristiano avesse intenzione di fare quella traccia comunque, troppo problematica.
Rientrato a casa fu immediatamente investito da un intenso profumo di cucinato, si massaggiò lo stomaco e cominciò immediatamente a pensare, ancora immerso nel corridoio buio, che scusa avrebbe potuto utilizzare con Marta per non mangiare nulla quella sera.
Stava pensando a come fare per non offenderla, aveva decisamente esagerato con Zosimo.
Lasciò cadere le chiavi di casa nella ciotola di ceramica sul mobile dell’ingresso, sfilò le scarpe dai piedi accanto alla porta infilando le ciabatte e buttò anche il portafoglio, svuotato, sul ripiano in mogano impeccabile. Camminò lentamente verso la cucina, ancora pensieroso su cosa dire.
Quando mise piede nella stanza, tuttavia, non si trovò davanti la scena che si aspettava di vedere. I fornelli erano stati appena spenti a giudicare dal vapore che ancora usciva dai coperchi, mentre Marta se ne stava seduta al tavolo, fissando un foglio di carta stropicciato e ripiegato più volte con aria totalmente assente, talmente assente da non essersi nemmeno accorta di Cristiano, fermo sulla soglia a fissarla accigliato.
<< Marta? >> La richiamò il ragazzo e la donna sussultò, spaventata.
Si riebbe immediatamente dalla sua reazione e sorrise gentile e amorevole come sempre.
<< Sei tornato? Scusami se non ti sentito rientrare >> Disse con la sua voce delicata.
Cristiano fece un segno di diniego e senza preamboli si avvicinò al tavolo scostando una sedia, mettendosi seduto proprio davanti a lei, non aveva rimosso il cipiglio nervoso dal suo volto.
<< Stai bene? É successo qualcosa? >> Volle immediatamente sapere, piuttosto.
La donna sorrise teneramente e scosse la testa, allungò anche una mano per accarezzargli una guancia, era un gesto con cui aveva ormai preso confidenza e Cristiano glielo lasciva fare. Gli piacevano quelle carezze, ne aveva ricevute poche nella vita, anche se non amava ammetterlo e infatti non lo faceva mai. Le subiva, contento, nel silenzio assoluto.
<< Non è successo nulla di grave. Piuttosto, ti sei divertito con Zosimo? >>.
Cristiano continuò a guardarla con sospetto, con la sua espressione solita di indifferenza, ma parve arrendersi al fatto che qualsiasi cosa avesse turbato la donna avrebbe dovuto aspettare per saperlo. Era arrivato il momento delle domande e non poteva mai sottrarvisi.
<< Come al solito >> Rispose semplicemente, facendo spallucce.
Marta ormai aveva preso in simpatia il migliore amico del suo signorino, erano state tante le volte in cui negli ultimi tempi Zosimo aveva cenato da Cristiano, riempiendo la casa di gioia. Perfino una sera quando, inaspettatamente, Emanuele Serra si era unito a loro per la cena.
Cristiano era sicuro che a suo padre piacesse Zosimo, anche se non ne avrebbero mai parlato.
<< A proposito … >> Aggiunse poi, questa volta abbassando lo sguardo << Oggi abbiamo pranzato al ristorante giapponese e - >>.
<< Non hai fame adesso, vero? >> Lo interruppe Marta, sorridendo.
Cristiano le rivolse uno sguardo colpevole al cento per cento, facendo ridere la donna minuta.Forse un po’ di inappetenza era data anche dall’ansia dovuta agli esami del giorno successivo, ma la donna non volle indagare sulla faccenda, conoscendo l’orgoglio del ragazzo.
<< Vorrà dire che stasera nessuno mangerà. Nemmeno tuo padre ha voluto cenare >>. Cristiano inarcò un sopracciglio, sorpreso di sentire quelle parole.
<< E tu? >> Le domandò, non voleva che Marta non mangiasse per colpa sua.
Ma la donna fece spallucce, facendogli capire che anche lei soffriva di inappetenza quella sera.
A quel punto, Marta afferrò entrambe le mani di Cristiano, mollemente abbandonate sul tavolo fino ad un istante prima, e lo guardò negli occhi risoluta.
<< Oggi, facendo delle pulizie nella stanza di tuo padre, ho trovato due lettere >>.
Quella comunicazione non provocò nessuno cambiamento sull’espressione facciale del ragazzo, che in quel modo composto stava cercando di aiutarla a continuare.
<< Una era per il Signor Serra. Questa - >> E con una mano indirizzò il foglio spiegazzato e ripiegato verso Cristiano, che ancora non lo prese << questa invece è indirizzato a te >>. Osservando il foglio il ragazzo si accorse che era macchiato in alcuni punti.
<< Non so come ho fatto a non notarlo prima. Scusami Cristiano >>.
A quelle parole lui capì immediatamente chi fosse il mittente di quella lettera.
Osservò il foglio per alcuni secondi, forse non voleva averlo, non voleva leggerlo dopotutto, o forse invece voleva farlo, anzi, aveva una strana sensazione alla bocca dello stomaco. Era ansia, ora la riconosceva, ma era a tratti spiacevole e a tratti no invece.
Marta gli strinse la mano con maggior vigore, sorridendogli.
Ora Cristiano comprendeva perché l’avesse trovata combattuta quando era rientrato.
<< Leggila con calma, quando vuoi. E vai a dormire presto stanotte, domani hai un esame >>.
La donna si alzò lentamente e gli diede un bacio sulla fronte, profumava di borotalco e cibo.
<< Grazie >> Mormorò Cristiano, prima di essere lasciato da solo con quel foglio di carta.
Ci mise qualche minuto per trovare il coraggio di prenderlo tra le dita tremanti.
Ci mise qualche altro minuto anche per trovare il coraggio di alzarsi da quella sedia. Alla fine, quando raggiunse la sua camera buia e silenziosa, con l’unico rumore delle macchine che sfrecciavano nella strada affollata sotto la finestra chiusa, era passato un quarto d’ora da quando aveva parlato con Marta.
Si mise seduto sul bordo del letto, accese la piccola abat jour sul suo comodino e aprì il foglio spiegazzato con le mani ormai completamente tremanti.
Lo accolse una scrittura elegante e raffinata, morbida, senza ombra di sbavatura. Cristiano comprese immediatamente che sua madre doveva essere stata sobria quando aveva buttato su carta quelle parole per suo figlio, non vi erano date o altro. Solo parole.
Le ultime parole di sua madre, quelle che aveva creduto di non poter mai sentire pronunciare.

 

Caro Cristiano,
anzi no, mi piacerebbe chiamarti amore mio ancora una volta se me lo consenti.
Quando eri bambino lo facevo spesso, ma sei cresciuto velocemente e come ogni bambino hai cominciato a fuggire da queste mie manifestazioni d’affetto maternoanche se forse sono stata io a smettere prima del tempo di dimostrartele.
Dimmi, amore mio, sei ancora capace di ricordare una mia carezza?
Sei ancora capace di pensare a me come tua madre?
Me lo domando spesso negli ultimi tempi … ma a volte, ho paura della risposta che potresti darmi.

Cristiano prese un respiro profondo, il foglio si accartocciò tra le sue dita.

Vorrei approfittare di questo sprazzo di lucidità per dirti tante cose, ma so che ne dimenticherò sicuramente qualcuna nella fretta di poterti dire tutto quanto.
Temo che non riuscirò mai ad uscire da questo inferno, mi dispiace amore mio.
Permettimi però di farti da madre almeno ancora una sola volta nella vita.
Vorrei avere la capacità per tornare indietro nel tempo.
Vorrei avere il coraggio di dirti queste parole a voce, come qualsiasi altra madre e vederti ignorarle come qualsiasi figlio.
Ma tua madre è un disastro Cristiano, ed è immensamente dispiaciuta per questo.
Io ti ho amato e ti ho voluto con ogni mio respiro.
Ho perso quattro bambini prima di poterti stringere tra le mie braccia, non ti ho dato nessun fratello su cui poter contare se fossi rimasto da solo.
Ma a volte ho pensato che se non avessi avuto tutti quegli aborti, alla fine non avrei avuto te, così come sei, tra le braccia. Saresti stato diverso, sarebbe stata un’altra persona e non tu.
Tu, che sei il motivo per cui io sono venuta al mondo, la ragione per cui esisto.
Sei testardo, amore mio, volevi vivere a tutti i costi. E l’hai fatto.
Sarai arrabbiato con tuo padre a causa mia, immagino, ma sappi che per quanto le cose nel tempo non abbiano funzionato tra di noi, non smetterò mai di ringraziare Emanuele per non essersi arreso con me a quei tempi, per avermi dato te nonostante tutto. Vedi amore mio, sarebbe stato facile per tuo padre abbandonare tutto e lasciarmi andare … ma ti ha voluto e sono sicura che anche per lui tu sei il motivo massimo della sua esistenza.
Avrebbe potuto avere altri figli con un’altra donna, avrebbe potuto averne più di uno, con qualcuno con cui non avrebbe dovuto soffrire tutte quelle perdite, ma no … lui ha voluto te. Come io ho voluto te, te e nessun altro.
Tuo padre ti ama Cristiano, ha pianto come un bambino il giorno in cui sei nato.
Non credo di avertelo mai detto prima. Forse adesso sarà tardi.
Arrivo sempre troppo tardi amore mio e mi dispiace immensamente.
Emanuele è un uomo freddo, ma non smetterà mai di essere la tua famiglia o di rimanerti accanto, questo tienilo presente Cristiano.
Non è incapace di amare, ma solo di dimostrare amore.
Voglio dirti che la vita non è semplice bambino mio.
Ci saranno momenti in cui vorrai mollare tutto, esattamente come ha fatto tua madre … hai il mio sangue nelle vene, lo so, ma non essere come me Cristiano.
Vivi tutto pienamente, ama pienamente, piangi, arrabbiati, urla, ridi felice, disperati, soffri, prova dolore, cadi, rialzati … fai tutto senza avere paura di sbagliare.
Non devi avere dei rimpianti nella vita amore mio, al massimo solamente dei rimorsi.
Non fare il prepotente e non comportarti male con gli altri. Trovati una donna che sappia amare anche la parte peggiore di te, una donna che sappia mettersi al tuo fianco e non al centro. Fatti un amico sincero, ne basta solamente uno, ma che sia per sempre lì con te.
Tua madre è una donna egoista Cristiano, non è vero?
L’ultima volta ti ho spaccato il labbro con una bottiglia e mi dispiace immensamente per questo. Non avrei mai voluto che tu vedessi tante cose.
Volevo che tu restassi un bambino felice per sempre, scusami se non ci sono riuscita.
Se avrai dei figli in futuro, fai con loro esattamente l’opposto di quello che io ho fatto con te, perché allora saprai di starli crescendo nel modo migliore.
Di stargli dando l’amore che meritano.
Non so che cosa ne sarà di me, amore mio.
Ma qualsiasi cosa succeda, in qualsiasi posto me ne andrò, in qualsiasi posto te ne andrai, qualsiasi strada prenderai, tu sarai sempre la luce dei miei occhi.
La ragione della mia vita.
Ti amo. Ti amo immensamente.

Mamma.

 

Calde gocce precipitarono sul foglio di carta, bagnandolo e sbavando l’inchiostro di alcune parole. Cristiano allora si affrettò velocemente ad asciugare il volto, strofinandosi rudemente le guance senza il minimo tatto. Era sgomento, sgomento per quello che stava provando.
No, non era dolore, nemmeno rimpianto o tanto meno nostalgia.
Era felice, si sentiva come se un peso enorme gli fosse stato tolto finalmente dal petto.
Sua madre lo amava e lo aveva voluto. Sua madre e suo padre si amavano quando l’avevano concepito, cercato, desiderato.
Cristiano, che fino a quel momento si era domandato perché fosse venuto in quel mondo, che senso avesse la sua vita, sebbene avesse cominciato a scorgerne un significato nell’esistenza di Sonia, Marta e Zosimo, fu pienamente consapevole di non essere capitato lì per caso.
Ancora una volta, ringraziò il suo migliore amico per le parole di quella volta.
Cosa credi … che tua madre voglia questo per te? Che voglia vederti sotterrato lì con lei? Può averti lasciato solo, può non essere stata la persona migliore del mondo … ma anche lei a modo suo ti ha amato. Ti ha dato alla luce perché tu vivessi, come non è importante, ma sono sicuro che lei vorrebbe soltanto questo … che tu vivessi.
Cristiano se ne era convinto con il tempo, ma adesso ne aveva pienamente avuto la conferma.
Era contento, dunque, di aver trovato alla fine un senso nella sua esistenza.
Lasciò il foglio sul letto, lo avrebbe riposto successivamente in un luogo sicuro, come fosse stato uno dei tesori più preziosi del mondo e così era per lui.
Quando passò per il corridoio, intenzionato a raggiungere il bagno per sciacquarsi il viso e farsi una doccia fresca prima di andarsene a dormire, si accorse di qualcosa di particolare che catturò immediatamente la sua attenzione. Un dettaglio diverso dal solito.
La porta della camera da letto di suo padre era aperta, l’uomo era seduto sul bordo del letto, aveva un foglio mollemente abbandonato tra le mani, ma lo sguardo rivolto altrove. Sembrava stanco e vecchio, le maniche della camicia azzurra erano arrotolate fino al gomito, il colletto spiegazzato e i capelli laccati spettinati, come se ci avesse ripetutamente passato le mani attraverso.
In controluce, Cristiano si accorse che la pelle del viso era umida, ma se fosse sudore o altro non poteva dirlo. Certamente non a quella distanza comunque.
Non seppe quale fu esattamente il motivo, forse le parole di sua madre l’avevano scosso in qualche modo, inconsciamente, Cristiano fermò i passi nella direzione che stava prendendo e fece dietro front, entrando nella camera da letto dei suoi genitori senza annunciarsi. Era da secoli che non metteva piede lì dentro.
Si rese conto immediatamente che mancava qualcosa, la donna con cui suo padre aveva frequentemente tradito sua madre non viveva più da loro da qualche giorno ormai, tutte le sue cose erano sparite. Era rimasto solamente un arredamento minimalista e vuoto.
Cristiano entrò senza fare piano, voleva che suo padre lo sentisse.
Emanuele Serra non sollevò lo sguardo dalla lettera, ma percepì distintamente il peso di un altro corpo che si accomodava accanto a lui sul materasso, facendolo scricchiolare. Cristiano rivolse solamente uno sguardo fugace al foglio, su cui lesse:

Caro Emanuele,
ti ricordi della prima volta che abbiamo sentito battere il cuore di Cristiano?

Distolse lo sguardo, era una lettera intima che non doveva interessargli.
<< Papà >> Lo chiamò semplicemente, infrangendo il silenzio della stanza.
Emanuele non rispose, ma dal modo in cui tese le spalle Cristiano seppe che lo stava ascoltando attentamente, che aveva percepito bene la sua voce.
<< Mi parli un po’ della mamma? >>.
Cristiano lo domandò senza avere paura, fu anche la prima volta che lo fece.
A quel punto Emanuele sollevò il viso, era così simile a quello del figlio, lo guardò e annuì silenziosamente, dando un consenso che in un’altra occasione forse non avrebbe dato. Ma complice Margherita, con le sue parole, i due parlarono a lungo, senza toccarsi, senza cambiare espressioni o senza spostarsi dalle loro posizioni.
Sentirono solamente per un momento, un singolo momento, di essere nuovamente in tre.
Cristiano non sognò nulla quella notte, non ebbe incubi, dormì profondamente.
Era forse la prima volta da anni che dormiva davvero così bene.
Fu con il cuore sereno che raggiunse i suoi compagni di classe, la mattina successiva, per affrontare insieme a loro i tanto attesi esami di maturità.

____________________________________

Effe_95 

Questo è il penultimo capitolo. 
Nel progetto originale, ovvero quello precedente ai due anni di stop, dovevano esserci altri tre capitoli sugli esami dopo questo. 
Ho dovuto rivalutare tutto in questo tempo di riflessione, e alla fine sono giunta alla conclusione che non ci saranno. 
Spero che questo capitolo sia di vostro gradimento, che vi piaccia. Doveva concludere giusto quelle ultime cose che mi ero lasciata alla spalle. 
Il prossimo capitolo, ovvero l'ultimo, avrà un time skip di circa un mese e sarà leggermente diverso da come siete abituati. 
Riprenderà a specchio il primo capitolo, con una sola scena molto lunga. 
Sono preoccupata che la conclusione non sarà soddisfacente, come temo sempre che i miei ragazzi siano diventati un po' cupi come me. 
Ma sono comunque arrivata fin qui alla fine. 
Grazie infinite a chi, nonostante il tempo, ha speso qualche minuto per scrivermi nello scorso capitolo. 
Forse posso sembrare una persona fredda, ma in realtà non avete idea del bene che mi avete fatto e di quanto vi sia grata. 
Sto tornando a scrivere come un tempo, con lo stesso ardore, lo farò sempre credo a modo mio. 
Alla prossima, per l'ultima volta.  

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 66
*** L’incedere del tempo, Come uccelli che migrano e Per sempre . ***


I ragazzi della 5 A

 

66. L’incedere del tempo, Come uccelli che migrano e Per sempre .

 

 

Luglio

 

Il sole infiammava ogni cosa quella mattina di Luglio inoltrato.
Infiammava l’asfalto, le panchine scrostate che dovevano essere ridipinte ogni anno ma non c’erano mai abbastanza fondi per farlo, le chiome degli alberi, il tetto della scuola e i suoi mattoni rossi vecchi e antiquati.
Infiammava anche la bacheca nell’atrio, passando attraverso le vetrate impolverate.Lo spazio era ampio, ma faceva caldo a starsene tutti ammassati in un unico punto; il brusio confusionario di molteplici voci frastornava le orecchie, non aveva moderazione.
La ormai ex 5 A aveva ricevuto gli esiti degli esami di maturità esattamente quella mattina.
Sembrava ieri che si erano ritrovati uniti in quello stesso spazio ampio e familiare all’inizio dell’anno, spazio che i loro passi avevano calcato innumerevoli volte distrattamente, di corsa, con fare affrettato o incespicando.
Sembrava solamente ieri che impauriti avevano varcato quelle mura considerate una prigione eterna, ma che con il mondo spalancato davanti ai loro occhi ancora da adolescenti sembravano improvvisamente care, rassicuranti.
Si stavano lasciando alle spalle un pezzo di vita e nonostante l’adrenalina che cresceva per l’aspettativa del futuro imminente che si parava davanti ai loro occhi, nessuno di loro era privo di quel piacevole fastidio alla bocca dello stomaco che dava la sensazione di doversi lasciare qualcosa alle spalle, anche se indolore.
Era solamente il tempo che procedeva inesorabilmente in avanti, ed accorgersi del suo incedere lento a volte risultava davvero difficile, possibile solo in momenti come quelli, dove la fine di qualcosa segnava l’inizio di un’altra.
Talvolta faceva paura guardarsi indietro.
Italia non riusciva a smettere di frenare le lacrime che le scendevano sul viso, aveva dovuto sollevare gli occhiali sulla testa come un cerchietto, imbrigliando i capelli ramati tra le stecche nere, per evitare che le gocce si infrangessero sui vetri appannandole ulteriormente la vista. Ivan le stringeva un braccio attorno alle spalle, ridendo lievemente mentre tentava inutilmente di consolarla; la maglietta a giro-maniche che indossava metteva in mostra tutti i suoi tatuaggi, con l’ultimo recente ancora arrossato che spiccava dietro il collo completando il giro, la data in cui lui e Italia si erano messi insieme, solamente sette mesi prima. Lei invece, con il viso arrossato e non solo dal caldo, aveva entrambe le braccia avvolte attorno alla sua vita, quella a cui aveva imparato ad aggrapparsi solo recentemente.
<< Andiamo Italia, non significa che non ci vedremo mai più! >>.
La prese bonariamente in giro Romeo, spintonandola leggermente sulla spalla.
Era raggiante per il suo rispettosissimo settantadue ed estremamente eccentrico quel giorno, indossava dei pantaloni dalla fantasia a quadratoni gialli e blu di cotone leggero, uno scamiciato bianco, delle Converse blu e portava il solito ciuffo perennemente decolorato raccolto in un codino alla samurai. Tutto di lui gridava Romeo e guardandolo ad Italia veniva da piangere ancor di più.
<< Lo so! >> Strepitò la ormai ex rappresentante di classe << Ma non potrò vedervi tutti i giorni come adesso e mi mancherete da morire! >> E con una mano prese ad asciugarsi convulsamente altre lacrime che le avevano rigato le guance.
Romeo rise nel sentire l’amica disperarsi in quel modo inutile, Catena invece stava facendo fatica a trattenere a sua volta le lacrime, nonostante entrambe non si sarebbero allontanate a causa delle comuni scelte universitarie che avevano fatto.
<< Italia piantala, sta per mettersi a piangere anche Catena! >> La rimproverò bonariamente Romeo, afferrandola per un braccio e staccandola malamente da Ivan << E se tu e Catena riuscirete a passare i test di medicina vi vedrete tutti i giorni comunque! >>.
<< Romeo ha ragione … >> Commentò bonariamente Ivan, che aveva nel frattempo incrociato le braccia al petto pompando involontariamente i muscoli e i tatuaggi. Lui si era diplomato con un discreto settantacinque, nulla a che vedere con il cento e lode di Italia e Catena, e si stava preparando per superare il test d’ingresso con debito per la facoltà di ingegneria informatica sotto la vigile attenzione della sua fidanzata.
<< Anche tu devi fare il test per infermieristica, perché non ti sei incluso nel gruppo? >>.
Lo accusò Italia, finendo di asciugarsi gli occhi arrossati, forse il pianto era finito.
Romeo gonfiò il petto e mise i pugni chiusi sui fianchi, fiero di se come un lord.
<< Perché io passerò di sicuro il test. C’è bisogno di chiederlo? >>.
Catena, Italia e Ivan scoppiarono a ridere contemporaneamente, allentata la tensione del pianto i tre amici storici si scambiarono un’occhiata prima di convergere tutti e tre in un abbraccio che non avrebbe fatto altro che scatenare un’altra serie di crisi emotive.
Ivan invece si era fatto rispettosamente da parte, mentre fissava la scena si sentì tuttavia afferrare brutalmente per un braccio e allontanare senza troppe cerimonie.
Giasone, che aveva appena smesso di scherzare con gli altri sul suo sessantasette risicato, guardò Ivan con fare serio prima di schiarirsi rispettosamente la voce.
<< Muriel ha avuto il permesso dai suoi genitori, tu e Italia ci siete vero? >>.
Ivan alzò gli occhi al cielo e si limitò ad annuire, da quando erano terminati gli esami Giasone si era messo corpo ed anima ad organizzare quella vacanza di coppia in cui sperava di poter passare del tempo utile da solo con Muriel. Era convinto che i genitori di lei non l’avrebbero lasciata andare se avesse organizzato qualcosa solamente per loro due.
Zante era stata la meta prescelta e Ivan si era trovato in quel progetto dell’ultimo minuto e decisamente costosissimo, con Italia, immischiato fino al collo; era certo che se avesse dato buca a Giasone proprio in quel momento l’amico avrebbe avuto un infarto sul posto.
Anche se magari fargli uno scherzo del genere sarebbe stato divertente.
Ivan probabilmente non avrebbe mai detto al suo migliore amico, che l’unico motivo per cui aveva accettato una simile follia dell’ultimo minuto era perché non aveva idea di quanto tempo avrebbero avuto a disposizione da passare insieme una volta finite le vacanze.
Giasone voleva iscriversi alla facoltà di scienze motorie e aveva preso la cosa con serietà.
Il suo complesso Universitario distava circa quaranta minuti in moto da quello di Ivan … era lontano, non raggiungibile in tempi utili tra uno spacco e l’altro …
Abituarsi ad una nuova situazione, conoscere nuove persone, avere ritmi e orari diversi …
<< Ci siamo, ma i soldi te li do in settimana >> Lo rimbeccò allora, paziente.
<< Va bene, va bene, non è un problema, tanto sgancia il mio vecchio per il momento >>.
Ivan alzò gli occhi al cielo, ma scoppiò a ridere.
Quella follia dell’ultimo minuto solo loro quattro sarebbe stata divertente, un bel ricordo.
Contemporaneamente, dall’altra parte del corridoio, un ululato di gioia squarciò l’aria.
Zosimo, che inizialmente era stato disinteressato al risultato del suo scarso esame, si era finalmente deciso a dare un’occhiata alla lista appesa in bacheca.
Quel sessanta striminzito era stata una manna dal cielo per lui, che aveva cominciato a prendere seriamente in considerazione la possibilità di ripetere l’anno, e quindi di dover ancora studiare, solamente quando Gabriele lo aveva malamente provocato su quell’eventualità, reduce dall’esperienza egli stesso.
<< É finito lo strazio! Niente più libri per tutta la vita! >>.
Aveva allora gridato a squarciagola il folletto, saltellando sul posto come un grillo impazzito.
Indossava anche quel giorno una salopette di jeans su una maglietta bianca, le mani nodose erano quasi interamente ricoperte di cerotti, i ricci ribelli rimbalzavano sul viso e tra questi le orecchie a punta da elfo leggermente a sventola facevano capolino ribelli.
Ci pensò Cristiano a rallentare la sua folle corsa della felicità, assestandogli un calcio.
<< Ahi, che bello! Ahi Cris, mi fai male! Si, è finita! >> Continuava tuttavia imperterrito Zosimo, felice come una pasqua mentre schizzava come una scheggia per evitare i colpi di Cristiano, che si stavano facendo sempre più numerosi e agili.
<< E io che pensavo di demoralizzarlo >> Sbuffò invece Gabriele.
Tormentare Zosimo, il fidanzato di sua sorella ufficialmente entrato in famiglia, era diventato uno dei suoi passatempi preferiti.
Per lui, finalmente, non ci sarebbe stato un altro anno da ripetere.
Si era diplomato con sessantatré all’età di vent’anni e stava cominciando a pensare a cosa farsene del suo futuro solamente in quel momento; ma aveva deciso di prendere le cose con calma, parlandone anche con suo padre e sua madre.
Gabriele voleva trovare davvero la sua strada, qualcosa che l’avrebbe reso felice.
<< Ce ne vuole per demoralizzare quell’idiota! >>.
Il commento acido era venuto dalla sua sinistra, da Sonia per la precisione, che osservava la scena con quello che sembrava disappunto. In realtà, sebbene fingesse di non tollerare affatto Zosimo, Sonia gli era estremamente grata per il modo in cui era stato accanto a Cristiano.
Inoltre, Zosimo era sempre stato estremamente gentile con lei.
<< Quando partite tu e Cristiano? >> La domanda di Miki, poco distante da loro, la distrasse.
Sonia fece spallucce, mentre osservava il proprio fidanzato dare un ultimo scappellotto dietro la nuca di Zosimo, ancora ridente e contento, per poi avvicinarsi a lei con quel suo sguardo orientale e penetrante, scuro come il carbone.
<< Settembre >> Fu lui a rispondere alla domanda.
Aleksej, che stava abbracciando Miki da dietro, appoggiato con la schiena al muro, il mento sistemato esattamente al centro della sua testa, fischiò sonoramente, sopracciglia sollevate.
<< Fuga d’amore? >> Domandò distrattamente, senza guardare Cristiano negli occhi.
Le cose tra di loro si erano fatte incredibilmente strane ma pacifiche da quando erano terminate le inaspettate e stranissime lezioni di chitarra che avevano condiviso. Un’amicizia che sarebbe potuta essere, ma non era mai stata.
<< No, facoltà di economia aziendale e marketing, interessato? >>.
Fu l’apatica risposta di Cristiano, che nel frattempo era stato agguantato per le spalle da Zosimo, che gli era salito sopra come un koala mingherlino e decisamente fiabesco.
<< Grazie, ma mi va bene lettere classiche e moderne >>.
Cristiano e Sonia sarebbero andati a studiare in un’altra città, la voce si era sparsa durante il periodo degli esami orali, che si erano svolti a Luglio inoltrato perché la loro scuola era uscita per seconda nelle estrazioni con quella affiliata.
Periodo di fuoco assoluto, in tutti i sensi.
I due diretti interessati non ne avevano parlato apertamente, non avevano nemmeno espresso nessun desiderio di vedersi un’ultima volta con i loro compagni di classe, d’altronde, con tutti i difetti di cui erano dotati l’ipocrisia non era tra quelli.
Solo Zosimo avrebbe probabilmente avuto l’onore di avere tutte le informazioni a riguardo.
Da quel torrido giorno di fine Luglio le loro strade si sarebbero divise per sempre, per davvero.
Molti di loro non si sarebbero mai rivisti, altri forse avrebbero incrociato i passi accidentalmente, altri ancora avrebbero dimenticato le reciproche facce o i reciproci nomi con il passare del tempo e degli anni. Forse, arrivati attorno alla quarantina, avrebbero avuto l’idea di organizzare una di quelle rimpatriate di classe, impazzendo per trovare i contatti di tutti, dimenticandosi qualcuno lungo la via, ripescato in fine all’ultimo minuto. Una di quelle rimpatriate a cui non partecipavano mai tutti e in cui si ricordavano momenti imbarazzanti o si parlava di cose inaspettate, dei propri figli o della misera vita da single che si stava conducendo.
Erano quelli i pensieri che affollavano la mente di Beatrice, mentre osservava quelli che erano stati i suoi compagni di classe per un solo anno, ma che avrebbe ricordato come gli unici, coloro che l’avevano fatta sentire parte del gruppo a modo loro, anche quando non lo era.<< Soddisfatta del tuo cento e lode? >>.
La domanda di Lisandro, posta con la solita pacatezza, la riscosse da quei pensieri sul futuro.
<< Ma se ha quel sorriso ebete di soddisfazione stampato sulla faccia da stamattina! >>.
La rimbeccò immediatamente Enea, appoggiato al muro accanto a lei.
Stavano parlando prima che si distraesse, e aveva ovviamente perso il filo del discorso.
Lisandro era stato tanto gentile da coinvolgerla nuovamente cambiando argomento, ma Enea non poteva lasciargliela passare liscia in quel modo, non sarebbe stato da lui.
<< E smettila un po’ idiota! >> Lo rimproverò immediatamente, dandogli una gomitata.
Enea la scansò abilmente, ridacchiando divertito come ogni volta che le faceva perdere le staffe, il che capitava parecchie volte al giorno quando passavano molto tempo insieme.
Ormai, erano stati presentati entrambi reciprocamente alle loro famiglie.
Enea non avrebbe mai creduto, all’inizio di quell’anno, che si sarebbe ritrovato fidanzato in casa con quella piccola racchia scontrosa che gli si era seduta accanto il primo giorno.
<< Ad ogni modo devo ancora capire che cosa ci fai tu qui, Sara >>.
Commentò Enea rivolgendosi alla diretta interessata, indubbiamente intrusa in quel frangente. Sara, stravagante come al solito, con il nuovo pircing scintillante al naso, sorrise tutta compiaciuta di se stessa senza provare il minimo imbarazzo o sentirsi di troppo.
Di fatto, nessuno l’aveva fatta sentire in quel modo, nemmeno Enea con quel suo commento evidentemente provocatorio piuttosto che giudice e accusatorio.
<< Volevo venire a vedere i risultati degli esami di Lisandro per sapere se dargliela o meno stasera. Abbiamo fatto una scommessa! >>.
Le sue parole fecero immediatamente arrossire il diretto interessato.
Lisandro si era nuovamente rasato i capelli castani quasi a zero, non indossava il capello come il primo giorno di scuola, nascosto nell’ultimo banco da tutto e da tutti, nell’osservarlo Beatrice non poté fare a meno di pensare che fosse una bella cosa che non si coprisse. Anche Lisandro aveva fatto dei passi avanti e forse un giorno avrebbero potuto parlare con serenità di quella cotta non ricambiata, ridendone addirittura magari.
Forse un giorno Beatrice avrebbe anche potuto raccontargli la verità.
<< Oh oh! Questa cosa mi interessa, che scommessa? >>.
Volle immediatamente sapere Enea staccandosi dal muro, si era fatto improvvisamente interessato a tutta la faccenda, amava mettere in difficoltà il suo migliore amico dopotutto. Lisandro insorse immediatamente, dandogli una gomitata nello stomaco ben più forte di quella che aveva provato a rifilargli Beatrice solamente pochi istanti prima, ovviamente Enea non sembrò accusarne nemmeno il colpo.
<< Fatti i cazzi tuoi! >> Continuò a stroncarlo Lisandro, con le orecchie totalmente rosse.
Ma Sara era evidentemente intenzionata a dare man forte ad Enea, come sempre.
<< Io ho scommesso che non superava nemmeno il settanta come voto finale, mentre lui che avrebbe superato addirittura settantacinque. Se vincevo io non gliela davo per un mese, se vinceva lui invece dovevo fargli un po- >>.
La mano di Lisandro venne immediatamente premuta sulle labbra di Sara.
Era comunque tardi ormai, Enea era scoppiato a ridere sguaiatamente, richiamando anche l’attenzione di qualcun’altro su di se, mentre Beatrice aveva sollevato le sopracciglia.
<< Voi scommettete queste cose? >> Domandò allora, evidentemente molto colpita.
Sara tentò di risponderle, ma Lisandro ci tenne a tenerla bloccata e continuare a premere la mano sulla sua bocca con forza, per assicurarsi che non tentasse di sfuggirgli.
<< Perché non le facciamo anche noi queste scommesse ? >>.
Propose immediatamente Enea, guardandola con gli occhi da cucciolo bisognoso.
Beatrice sollevò gli occhi al cielo, ci mancava soltanto aggiungere un giochetto simile alla loro già iperattiva relazione e sarebbe definitivamente partita per un viaggio ad Honolulu di sola andata.
<< Scordatelo Enea! >> Lo stroncò sul nascere.
Nel frattempo, la lotta convulsa che avevano intrapreso Sara e Lisandro, fu vinta facilmente da quest’ultimo, che continuando a tenere la mano premuta sulla bocca della sua vicina di casa, la bloccò anche per la vita stringendosela la petto e incastrandola tra le sue gambe.
Sara smise immediatamente di scalciare e mugugnare a quel punto.
<< Piuttosto Enea, quand’è che parti per Londra? >> Chiese per cambiare discorso.
<< Settimana prossima, salgo con i miei per vedere gli appartamenti. Ci resto per qualche giorno e poi scendo di nuovo, io e Bea andiamo una settimana insieme nel Salento >>.
Lisandro annuì distrattamente, aveva ancora le orecchie tutte rosse.
<< La partenza definitiva è a fine Agosto, tranquillo >> Ci tenne a fargli sapere Enea.
Le orecchie di Lisandro, se possibile, assunsero una tonalità ancora più rossa e accesa.
<< Io sono tranquillissimo! >> Sbottò allora, dimostrando esattamente il contrario.
Nel frattempo Beatrice si era avvicinata ad Enea, che l’aveva presa per la vita quasi automaticamente, ormai era un gesto che gli veniva naturale ogni volta che l’aveva vicina.
<< Mi raccomando Lis, te la affido mentre sono via >> Continuò a prenderlo in giro Enea, anche se in realtà vi era un fondo di serietà in quelle parole, Lisandro lo comprese.
<< Sta tranquillo, Beatrice te la tengo d’occhio io >> Replicò infatti, stando al finto gioco.
<< Ehi >> Protestò immediatamente la diretta interessata, ma con poco vigore.
<< E comunque ha vinto Sara, Lis. Starai al secco per un mese! >>.
Lo colpì infine a tradimento Enea, ritornando sul discorso che Lisandro credeva di aver abilmente arginato, ovviamente, doveva aspettarselo dal suo migliore amico. Inoltre Sara, sentendosi chiamata in causa riprese a mugugnare.
Scoppiarono tutti a ridere, anche Lisandro, che nel farlo lasciò finalmente andare Sara.
Un’altra stagione delle loro vite stava passando e mutando le dinamiche del tempo.
Erano come quegli uccelli che migravano con l’arrivo dell’inverno verso luoghi nuovi, sperando che fossero più caldi e accoglienti, anche se estranei e sconosciuti al principio. O stavano forse partendo per fondare nuove città e guidare nuovi eserciti.
Lisandro sorrise mentre formulava quel pensiero, ancora perso nelle risate genuine.
Il tempo era davvero solo un battito di ciglia.
<< Igor smettila di mettere il muso, non hai avuto la lode e non morirai per questo! >>.
Zoe era stata probabilmente severe con il suo fidanzato mentre pronunciava quelle parole, ma a causa del suo malumore se ne erano stati in disparte, quando lei avrebbe invece preferito fare casino insieme a tutti gli altri in quell’atrio familiare per un’ultima volta.
<< Ah questo è il giorno più bello della mia vita! >> Esclamò invece Telemaco tutto trionfante, mettendo i pugni chiusi sui fianchi << Igor che non prende la lode! >>.
<< Telemaco! >> Lo rimproverò immediatamente Fiorenza, dandogli uno schiaffo sulla spalla.
Ma quest’ultimo rise, decisamente tutto gongolante, in direzione del suo amico musone.
<< É tutta colpa della Cattaneo, quella befana, mettermi tredici al saggio invece di quindici, ma come si permette?! >> Mugugnò invece Igor, tutto perso nel proprio malumore interiore.
<< E dai Igor piantala! Concentrati sul test di medicina, si? >>.
Tentò nuovamente Zoe, tirandolo inutilmente per un braccio nel tentativo di tirarlo su di morale, Telemaco allora intervenne prendendo l’amico per l’altro braccio.
<< Dai è quasi ora di pranzo e abbiamo visto i risultati, tutti promossi. Andiamo a mangiare? Sto morendo di fare e voglio andare al ristorante giapponese vicino scuola, oggi oltre l’ all you can eat c’è anche una promozione sui prezzi dei dolci! >>.
Disse tutto euforico Telemaco, tirando il suo migliore amico per il braccio e producendo finalmente un qualche effetto, almeno con la sua forza bruta lo spostò di qualche metro.
<< Telemaco sei proprio insensibile! >> Brontolò Igor, mentre dietro di lui Zoe strillava entusiasta alla prospettiva e Fiorenza rideva con una mano sulla bocca divertita.
Si erano appena allontanati dall’angolino della commiserazione che nell’ampio atrio entrò il professor Riva accompagnato dal professor Palmieri, entrambi felici ed entusiasti.
<< Oh per fortuna siete ancora tutti qui, contenti della promozione? >>.
Domandò l’uomo entusiasta, scatenando con quella domanda una serie di strilli di gioia e contentezza, altre lacrime e risatine incontrollate.
<< Oscar, dammi il tuo cellulare che vi faccio una bella foto di gruppo, la passi tu ai tuoi compagni sul vostro gruppo Whatsapp, va bene? >>. La proposta del professore, inaspettata, colse tutti di sorpresa, nessuno ci aveva pensato.
Oscar fece come gli era stato detto, consegnò al suo ormai ex professore di latino e greco il suo cellulare con la fotocamera impostata e raggiunse i suoi compagni di classe che si stavano mettendo tutti in posa in modo disordinato e caotico.
<< Italia sei troppo bassa, mettiti davanti! >>.
<< Ohi Zosimo non fare il photobomber come tuo solito eh! >>.
<< Ehi, chi mi ha pestato i piedi? >>.
<< Romeo togliti quel codino che mi copri la faccia! >>.
<< Che banda di idioti >>.
<< Mi raccomando, diciamo tutti insieme cheese >>.
<< Chi si permette di dirlo è un coglione >>.
<< Telemaco! >>.
Il professori Riva osservò quei battibecchi con un sorriso divertito sulle labbra, mentre li guardava litigare per chi avesse la posa migliore, per chi dovesse mettersi seduto a terra in avanti perché troppo basso; i capelli di Romeo che coprivano la faccia di Oscar con il codino, Ivan che pestava accidentalmente i piedi a Zoe, Sonia in disparte che sbuffava, Igor che tentava inutilmente di non mettere il muso e Zosimo che non trovava una posa fissa.
Costantino Riva guardava i suoi alunni irrequieti attraverso la fotocamera di un cellulare.
Si domandava che strade avrebbero preso in futuro, quali ostacoli avrebbero incontrato lungo il percorso, dove li avrebbe portati la vita, se avesse insegnato loro le cose più importanti, quelle che non avevano a che fare né con il greco, né con il latino ...
Ma in quella foto, in quell’attimo di tempo rubato con uno scatto, quei ragazzi sarebbero rimasti eternamente giovani, bloccati in quel momento, in quel ricordo meraviglioso, a quegli anni bellissimi, gli anni della loro adolescenza, gli anni delle paure, delle insicurezze, delle amicizie, degli amore appena sbocciati …
In quella foto, in quell’attimo …
<< Ragazzi allora io scatto, sapete che cosa dire, vero? >>.
Gridò a gran voce Costantino Riva, attirando la loro attenzione.
… in quello scatto di tempo, loro sarebbero rimasti …
<< Uno, due, tre! >>.

<< GRAZIE DI TUTTO! >>.

… sarebbero rimasti per sempre i ragazzi della 5 A.

 

Fine

 

Effe_95

________________________________________

Siamo giunti alla fine e mi sembra un miracolo.
Mi scuso per il ritardo, ma scrivere un ultimo capitolo decente che potesse chiudere con dignità questi cinque anni non è stato facile.
Non è stato facile nemmeno farlo in quest’ultima sessione estiva di esami della mia vita ( si spera, la Magistrale mi ha ammazzata ) e con dei giorni ancora “no” a farmi compagnia ogni tanto.
Forse per qualcuno questo capitolo potrà risultare deludente, sicuramente non sarebbe venuto fuori in questo modo se l’avessi scritto due anni fa, ma io ho fatto del mio meglio. Ho fatto del mio meglio per mettere una parola fine che fosse degna di questo lavoro.
Spero che questo possa essere apprezzato e capito.
Le cose importanti le avevo già dette tutte prima, quindi sono contenta così.
Dire addio a questi ragazzi non è stato facile e non lo sarà nei giorni a venire, ma è arrivato il momento definitivo che io li lasci andare per la loro strada, che io mi stacchi da loro anche per andare avanti.
Per quelle persone che c’erano prima, grazie infinite per tutto il supporto che mi avete dato a quei tempi, siete stati un motore importante e mi avete spinta a migliorare sempre più.
Per coloro che sono rimasti invece, non credo di avere le parole adatte per dirvi che cosa provo veramente, non penso di meritarmi la vostra pazienza quindi “grazie” non sarebbe abbastanza.
Spero che le parole finali dei nostri ragazzi possano parlare per me.

 

Se avete domande di curiosità da farmi sul futuro dei nostri fanciulli sono bene accette, potete chiedermi di tutto e io risponderò senza alcuna esitazione.

 

Per il futuro invece ho intenzione di scrivere ancora, perché è forse l’unica cosa che mi fa stare bene davvero nella vita. Quindi se vi va, tenete d’occhio la mia pagina perché potrebbe arrivare una nuova storia su un altro componente della famiglia di Aleksej ;) ( Ehm … Pavel *cough cough* )
Non so quando, né come ( in teoria il come si, ma ok ), ma probabilmente in futuro.
Inoltre, stavo pensando anche di rimettere mano al “mostro sacro” … ovvero revisionare Salvami ti salverò, senza cambiarne la trama ovviamente, ma solamente abbellendo (?) la forma. Quindi, cercherò di essere più attiva.

 

In conclusione, scusatemi se ho fatto tutti questi annunci che a voi sicuramente non interesseranno, sono sempre stata logorroica.

É stato un viaggio bellissimo per me, lungo, pieno di ostacoli, ma comunque bellissimo.
Grazie di tutto ( alla fine l’ho detto lo stesso), anche da parte mia. Per davvero.

 

 

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3076797