I don't know how to say goodbye

di Prince Lev Swann
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Inserire frase poetica d'apertura qui ***
Capitolo 2: *** Stella marina ***
Capitolo 3: *** Cannella nella cioccolata ***
Capitolo 4: *** L'angelo caduto ***



Capitolo 1
*** Inserire frase poetica d'apertura qui ***


Inserire frase poetica d’apertura qui...

 

 

Le mie dita si agitano nervosamente al di sopra della tastiera del suo notebook. “C’era una volta…”, ovviamente è questa la prima frase a venirmi in mente. La sua voce risuona nella mia testa. “Tu dovresti saperlo meglio di tutti, sei la figlia di Biancaneve…”. Ma non mi dire. Non riesco a trattenere un mezzo sorriso. È un’eco remota, certo, ma sempre presente. Mi ricorda il mio ingresso nel mondo di cui ho sempre fatto parte. Ma il mondo delle fiabe non è così fiabesco, da quando lui se n’è andato. Almeno, non il nostro. E comunque, a prescindere da dove mi trovo ora, Henry non è più con me, e questa città incantata ha decisamente perso un po’ della sua magia.

“Succo d’arancia, Swan?”

Killian posa un vassoio di brioches sulla scrivania, prima di sedersi sul letto; fisso per qualche secondo l’arancione intenso del succo nel bicchiere al di sopra di esso, perplessa. Fu una delle prime cose che mi chiese, il succo d’arancia.

“Emma...”

Da parte mia, nessuna reazione. Ho bisogno di qualche altro secondo.

“Tesoro, mi dici che c’è che non va?”

Sollevo lo sguardo, ricambiando quello dei suoi intensi occhi azzurri. Sembra davvero preoccupato; fa quell’espressione quando pensa che gli stia nascondendo qualcosa che mi preoccupa. Sotto la più superificiale agitazione ne traspare quel po’ di rancore che riserva ai miei ostinati tentativi, mai svaniti del tutto, di non lasciare che mi scopra completamente, di impedire a chiunque, lui compreso, di toccarmi nell’animo. Lo so, è fastidioso, ma sono sempre stata così. E sebbene Uncino sia l’unico in grado di oltrepassare le mie barriere, non mi nasconde più quell’aria di delusione, quasi di disappunto, nel constatare che ogni tanto mi riparo ancora dietro a quei muri. Ma ha ragione, e non se lo merita.

Stringo il pugno e faccio un sospiro. Basta muri.

“Sono incinta.”

“Cosa?”

L’espressione che gli si dipinge in faccia mi fa dimenticare di tutto il resto, per un secondo. Sorrido. “Amore, è meraviglioso!” esclama piegandosi in avanti e portandosi la mano superstite sulla fronte.

“Non te ne rendi conto” mi guarda, “ma mi hai reso il pirata più felice che potrai mai incontrare.”

Cerco di lasciarmi andare. “Be’, me ne basta uno, di pirata. Anche se a quanto pare ne sta arrivando un altro. Un piccolo Killian che gironzola per casa, ce lo vedi?”

“O un piccolo salvatore.”

Esito.

“Oh, non glielo auguro. Meglio rum e aria salmastra piuttosto che sacrifici e responsabilità.”

Mi faccio scappare una nota di amarezza, che a Killian non sfugge. Non gli sfugge mai nulla.

“Emma, se sei spaventata, sai che non hai motivo di esserlo. Sarai una madre fantastica, chiunque ci scommetterebbe.”

“Be’, forse non Henry.”

È stato più forte di me. Non mi sopporto nemmeno io, quando faccio così, ma è inevitabile.

“Quel ragazzo ti ama più di chiunque altro, Swan. È sempre stato più maturo del normale, e fin dall’inizio ti ha capito più di quanto tu, forse, capissi te stessa.”

“Questo è quello che fa vedere. Ma il vuoto che gli ho causato non sarà mai compensato completamente. Altrimenti perché credi fosse così ansioso di trovare la sua storia? È colpa mia, se si sente incopleto. E non mi perdonerà mai. Mai del tutto.”

“Sei sicura che si tratti di lui, e non di te?”

Quindi mi accarezza il viso, sollevandomi il mento in modo che lo guardi negli occhi. Tendo a guardare verso il basso, quando ho paura, e Killian lo sa bene. Ma nemmeno lui può cambiare il passato.

“Cosa intendi? Se vuoi dire che non mi sono ancora perdonata, ti sbagli. L’ho fatto anni fa.”

“Forse ti serve un promemoria”. D’un tratto lo vedo alzarsi, prendere il telefono e spostarsi in bagno.

“La verità è che penso di non meritarlo” ammetto, parlandogli attraverso la porta aperta. “Non merito una seconda possibilità. Noi siamo felici, certo. Ma chi dice che sarei una brava madre, se effettivamente l’ultima volta sono stata pessima? Insomma, Henry mi chiama mamma, ma non gli ho mai cambiato i pannolini. Non l’ho consolato quando faceva brutti sogni, da bambino. Non gli ho mai raccontato storie della buonanotte, o cantato una ninna nanna. Perché io non c’ero. Ed è stata una mia scelta...”

“Ma c’ero io, signorina Swan.”

Regina.

“Uncino mi ha detto che c’era un’emergenza e l’ho preso molto alla lettera. Emma,” il suo tono è a metà tra l’apprensione e il rimprovero, “ne abbiamo parlato migliaia di volte…”

Lancio un’occhiattaccia a Killian, prima di voltarmi.

“Non che tu non sia sempre la bevenuta, Regina, ma amore, potevi anche avvisarmi…”

“Credo che lei sia la persona più adatta, in questo momento”. Sono confusa. Regina ha sicuramente a che fare con questa storia. Ma chiamarla ora…

“Non voglo disturbare” proferisce Regina in tono di scusa, portandosi una mano sul collo e inclinando il capo. Io mi alzo, stanca, facendomi passare un a ciocca di capelli dietro l’orecchio destro.

“Non dire sciocchezze. Sei di famiglia, lo sai, e la famiglia non disturba mai”. Non sono parole forzate; mi vengono dal profondo del cuore. Sono seria. Ogni tanto mi dimentico di tenere presente che forse lei non si rende conto che tutti noi le vogliamo bene.

“Grazie. Credo di aver intuito la situazione, ma…”

“Io… vado a controllare la Joll...”

“Non che ti voglia trattenere qui, pirata, ma potresti trovare una scusa nuova per toglierti di mezzo. Come, per esempio, Biancaneve. Credo abbia bisogno di aiuto con i preparativi per il pranzo…”

“Pranzo? Che pranzo?”

“È il compleanno di Neal, Killian” gli ricordo.

“Oh, giusto, avete ragione. Allora io vado ad aiutare tua madre a fare la… torta di mirtilli.”

“Sì, a dopo, capitano.”

“Vostra maestà…”

Quindi afferra velocemente la sua giacca di pelle e lascia la stanza. Io e Regina ci guardiamo in faccia.

“Che ne dici se ci facciamo quattro passi?”

Annuisco con un lieve sorriso.

“Faccia strada, signor sindaco.”

 

**

 

 

“Mi dispiace davvero di avervi interrotto”.

“L’hai già detto questo, finiscila” le rispondo, camminandole accanto. A passo tranquillo, ci dirigiamo non ho capito dove. “E poi è stato Uncino a chiamarti, e...”

Il vento autonnale agita le chiome degli alberi e fa sbattere le insegne dei negozi;ci stiamo avvicinando alla spiaggia.

“...e ti chiedi se non voglia evitare l’argomento avendomi chiamato dopo circa trenta secondi dalla scoperta, giusto?”

Ci fermiamo. Regina mi guarda dritto negli occhi, comprimendo leggermente le labbra e alzando le sopracciglia.

“Tu dici?” faccio io, incerta.

“Emma, ascolta” dice lei, prendendomi sotto braccio e ricominciando a camminare. “Uncino è semplicemente preoccupato per te, come sempre. Solo che, questa volta, ha pensato fossi io la persona migliore per farti vedere la verità.”

“E cioè?”

“Cioè che ti stai ancora incolpando per il tuo passato. Emma, sono stata io a lanciare il Sortilegio Oscuro.”

“Cosa c’entra?”

Non capisco dove vuole arrivare.

Non volevi abbandonare Herny, sei stata costretta dalle circostanze, proprio come i tuoi genitori con te. E quelle circostanze le ho causate io.”

“Non proprio. Fu Tremotino a manipolarti, come fece con tutti noi. E comunque non credo sia il caso di giocare a diamoci la colpa, dopo tutto quello che abbiamo passato.”

“Hai ragione. Ma pensaci, io ho cresciuto Henry fino a una certa età perché tu non eri nelle circostanze giuste per farlo. Ed è stata l’unica cosa buona che ho fatto per davvero molti, molti anni… Il punto è che se tu non avessi rinunciato a lui, probabilmente io sarei ancora quella di prima. Era destino che accadesse come era destino che tu incontrassi Baelfire, nonché la stessa nascita di Henry.”

“No Regina, ti prego, non ritirare in ballo il destino. Sì, è vero, forse era destinato a nascere, ma la sua vita è sempre stata complicata per via delle scelte di noi. Di noi due. E adesso è frustrato, e alla ricerca disperata di un senso di dare alla propria vita.”

Siamo ormai sulla spiaggia, in prossimità della battigia.

“Non è sbagliato ricercare la propria storia, e non ha a che fare con la frustrazione.”

“Ascolta, quasi non mi ha salutato quando è partito. Ora non lo sentiamo da anni e se… e se non tornasse affatto?”

“Tornerà, oppure lo andremo a trovare noi. So che sta bene, c’è un mio incantesimo sul suo cuore. Tu devi lasciar andare il passato e iniziare a preoccuparti per questo” quindi mi indica il grembo con un dito. “E non preoccuparti di Henry, lui ci sarà sempre per noi.”

“Non ti manca?” le chiedo, guardandola aggrottando la fronte. Lei sorride. Si tratta di un sorriso triste, che maschera un velo di autocommiserazione.

“Più di qualsiasi altra cosa. Ma per dieci anni l’ho tenuto chiuso in una torre, da solo e demoralizzato, e tutto quello che posso fare per rimediare ora è lasciarlo andare.”

Quasi mi viene da ridere. Che amarezza. “Per me è il contrario. L’ho lasciato andare circa due secondi dopo averlo messo al mondo, e ora vorrei egoisticamente che rimanesse con me per tutta la vita.”

“Lo so. Ma non credere che sia più facile per me. Girati un po’.”

Obbedisco, quindi vedo qualcosa che quasi mi uccide. Il suo castello. Il castello del parco giochi di Henry.

“Non ci credo… l’hai ricostruito!”

“Ci ho… provato, sì.”

Per qualche minuto stiamo in silenzio. Mi avvicino al piccolo castello di legno, passandoci le mani e finendo per sedermi nel punto in cui si sedette lui, tanti anni fa, quando lo rimproverai, rinfacciandogli la mia sfortuna, per aver detto che la sua vita faceva schifo.

Regina mi si siede accanto. “E io che mi ero illusa fossimo tornate indietro nel tempo…”

“Ah, be’, temo che quella sia una specialità di mia sorella” ridacchia Regina, cercando in maniera evidente di alleggerire l’atmosfera.

“Tutto questo è perché mi manca e, nei modi più bizarri, cerco di rievocare la sua presenza. Non sei l’unica ad avere attacchi di nostalgia, Emma, siamo sulla stessa barca. Lo siamo sempre state.”

“Già”. Il mio tono è secco, rassegnato.

“Ma questo” continua lei, girando il capo verso la sabbia, “...non vuol dire certo che tu debba rimanere bloccata. Devi andare avanti, signorina Swan. Dobbiamo andare avanti. Tu e Uncino avete qualcosa da vivere dall’inizio alla fine, adesso. Una seconda occasione… e mi devi promettere che te ne prenderai cura, Emma, perché forse non ti rendi conto di quanto sia prezioso il dono che avete appena ricevuto.”

Nelle sue parole avverto qualcosa di strano, di triste… delusione, forse, o rimpianto; una nota di fragilità che le si blocca in gola.

Dolore, ecco cos’è.

“Grazie, Regina. Non ci penso spesso, ma sono davvero felice che tu mi sia accanto.”

Quindi ci abbracciamo, prima di rimetterci in piedi.

“È un piacere. Ed è davvero il minimo che possa fare, viste tutte le tragedie familiari in cui sei stata coinvolta a causa mia.”

“Lascia stare, è acqua passata e ripassata.”

Segue qualche altro secondo di profondo silenzio, riempito solo dal suono delle onde che si abbattono impetuose sulla costa.

“Comunque, che ore sono?”

Guardo l’ora sul telefono. “Quasi ora di pranzo.”

“I tuoi genitori ci staranno aspettando. E a tal proposito… gli hai già dato la bella notizia?”

Non ci avevo ancora pensato. “No. In effetti, se non consideriamo Uncino, la cassiera che mi ha pagato il test di gravidanza ed Ashley, che era dietro di me in fila e mi ha sorriso vedendomi uscire, sei l’unica a saperlo.”

“Quindi Biancaneve…?”

“No, la mamma non lo sa ancora. Pensavo di dirlo a tutti a pranzo, dopo due fette di torta ciascuno e diversi bicchieri di vino, così magari sarà più facile.”

“Oh, bene, non mi vorrei perdere la reazione dei tuoi genitori per nulla al mondo. E a proposito di pranzo, devo passare a prendere le lasagne prima di raggiungervi.”

Questi pranzi sono diventanti un’abitudine, negli ultimi anni, una vera e propria tradizione di famiglia, di quelle che non cambiano mai. Una cosa è cambiata, ultimamente: Henry non c’è... No, basta, basta pensarci. Chiudo gli occhi per un secondo, sospirando.

“Hai fatto le lasagne? Davvero?”

Regina annuisce arricciando le labbra con aria compiaciuta.

“Bastava dirmi questo, se volevi tirarmi su il morale” mormoro con una risatina.

“Ah be’, ora che sei in dolce attesa le apprezzerai anche di più, fidati. E se ti piacciono tanto, potrei anche insegnarti a farle. È piuttosto facile una volta che capisci come disporre bene la pasta…”

“Sì, poi magari apriamo anche un ristorante...”

“Be’, a Granny...” comincia Regina sorridendo e annuendo vigorosamente, “un po’ di concorrenza farebbe senz’altro bene, non credi?”

 

 

*

 

 

 

Un lampo, un grosso schizzo d’acqua proveniente dal nulla e un foglietto di carta in un pezzo di vetro.

Finisce in mezzo alla tavola, proprio sul piatto pieno di briciole di frolla della torta di Biancaneve. Ma non c’è nemmeno bisogno di afferrare la bottiglia, perché nel giro di un istante la voce risuona nella stanza. Un lampo magico in casa durante il pranzo è di routine, ma è sentendo quella voce che per poco non mi scappa un urlo.

 

 

Aiuto, sono stato rapito da Lady Tremaine. Avvisa Emma, Regina e Capitan Uncino!”

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Capitolo 2
*** Stella marina ***


Mi giro verso mamma e papà e li fisso negli occhi, come se stessi cercando un sostegno morale nei loro sguardi.

Guardo di nuovo il portale e sospiro. Killian e Regina sono già entrati nel portale, ma io non faccio neanche un passo in avanti.

“Vai, Emma. Puoi farcela.” Mia madre mi rivolge un sorriso carico di affetto e speranza. “Quando lo saluterai tieni a mente che il vostro non sarà un addio, ma un arrivederci.”

Mio padre stringe la mano di mia madre.

“Se c'è una cosa che la nostra famiglia sa bene” si guardano l'un l'altro, e mio padre accarezza il mento di mia madre con l'indice “è che ci ritroviamo sempre.”

Annuisco. Inspiro e mi lancio dentro al portale. Non devo farmi intimorire dal futuro, solo concentrarmi sul presente. Henry ha bisogno di me, come io ne ho di lui. Ora, in questo momento. Questo momento è ciò che conta davvero.

 

* * *

 

Killian ed io camminiamo lungo il ponte della Jolly Roger, cullati dai movimenti ritmici delle onde e dallo stridio dei gabbiani. La sua mano stringe la mia e mi infonde sicurezza, e mi ricorda che un altro lui sta accompagnando mio figlio nella sua missione.

Ci fermiamo e appoggiamo le braccia sul cornicione della nave. Sorrido mentre osservo il sole in lontananza che cala all'orizzonte dipingendo il cielo di sfumature rossastre.

Mi volto verso Killian e le nostre labbra si incontrano in un caldo bacio. Le nostre lingue si intrecciano mentre le mie mani avvolgono mio marito e lo stringono a me. Lui geme, poi si allontana.

“Piano, Swan.” esclama con un sorriso. “Non vorremo spaventare il piccolo.”

“Sei un padre premuroso, Killian.” Ricambio il sorriso, ma un attimo dopo aggrotto le sopracciglia e Killian non impiega che un istante ad accorgersene.

A pochi metri da noi un gabbiano sta compiendo numerosi saltelli sul ponte, emettendo un grugnito ad ogni balzo.

“Hey, se stai cercando del cibo, temo che tu abbia sbagliato posto. C'è un ottimo pescivendolo, sul porto.”

Killian si avvicina al pennuto, che sbuffa, sbatte le ali e si innalza in volo. Alzo il volto e con lo sguardo lo seguo mentre plana verso Storybrooke.

Killian si inginocchia e raccoglie qualcosa da terra, poi torna verso di me.

“Sembra che volesse portarci un dono.” porge la mano e mi mostra una stella marina. La prendo e alzandola a mezz'aria ne studio i dettagli.

“È magnifica, non trovi?” domando senza staccare gli occhi. “Dovremmo metterla sotto coperta insieme alla nostra collezione di conchiglie.

Dopo aver sconfitto la Fata Nera, Killian ed io abbiamo attraversato i mari di altri regni e raccolto in ricordo conchiglie da ogni luogo che abbiamo visitato, e adesso la nostra splendida collezione di cimeli viene conservata nella coperta della nave. Presto non saremo più in due, e per un po' di tempo non compiremo più viaggi in giro per gli altri mondi.

La settimana successiva mi trovo nell'ufficio dello sceriffo per svolgere alcune pratiche quando ricevo una chiamata allarmata.

“Sono il barman del Rabbit Hole. Ho bisogno che venga qua immediatamente per risolvere una rissa in corso.”

Lascio i fogli ammucchiati sulla scrivania e corro verso l'auto. Schiaccio l'acceleratore e mi dirigo al locale.

Quando entro vengo subito accolta dalla musica che mi martella nelle orecchie e io mi guardo intorno. Una ragazza con le trecce e un grembiule bianco si para davanti a me con la bocca spalancata.

“Sceriffo, venga, presto. Avevamo un addio al nubilato in corso” un sospiro “quando un ragazzo è impazzito e...”

“Mantieni la calma.” le dico posando una mano sulla sua spalla. “Sei nuova?”

Lei, sempre con la bocca aperta, annuisce.

“Come ti chiami?”

“Jessy.”

“Bene, Jessy, sappi che questo genere di cose succede una volta a settimana. Non preoccuparti, tu torna a servire gli altri clienti mentre io gestisco la situazione.”

Jessy chiude la bocca e annuisce ancora una volta, poi si allontana.

Seguo le grida e raggiungo la sala del biliardo. Un ragazzo sta colpendo ripetutamente il tavolo da gioco con una mazza, fino a sfasciarla.

“Lui è qui! È qui!” urla.

Gli stringo le braccia, ma lui si dimena e riesce a liberarsi. Salta sul tavolo e calcia le biglie del biliardo.

“Fuggite! Andatevene!”

Mi sporgo sul tavolo e gli afferro nuovamente le braccia. Lo tiro verso di me e il ragazzo cade in ginocchio sul tavolo da gioco.

“Adesso basta! Una notte in cella ti schiarirà le idee.” Lo ammanetto e con uno strattone cerco di farlo scendere, ma lui si tira indietro e tenta di liberarsi dalla mia presa e di rialzarsi in piedi.

Con un gesto fulmineo lo colpisco tra capo e collo e lui cade in avanti. Lo trascino a terra e lo faccio sedere.

Il ragazzo sgrana gli occhi e mi stringe il colletto. “È arrivato!” Mi tira a sé, ma io allontano le mani di lui dalla mia giacca.

Mi giro verso alcuni ragazzi in piedi che ci fissano con gli occhi spalancati.

“Quanto ha bevuto?”

“N-non lo so.” balbetta uno di loro. “Io non l'ho neanche visto arrivare.”

“Non era tra gli invitati.”

Mi giro dall'altra parte e osservo una donna con i capelli neri riccioli.

“Come?” aggrotto le sopracciglia.

“Io sono la futura sposa. Non ho mai visto questo ragazzo prima di questa sera. Non era tra gli invitati alla festa.”

“Lui è qui! Lui è qui!” esclama ancora una volta il ragazzo.

Con uno strattone lo faccio alzare dalla sedia e lo trascino all'auto. Durante il tragitto lo guardo attraverso lo specchietto retrovisore. Ha la fronte imperlata e la camicia fradicia di sudore. Ansima forte, guarda fuori dal finestrino e picchia le mani contro il vetro. Le mie domande, come si chiama e da dove viene, non trovano risposta.

Raggiungiamo l'ufficio dello sceriffo e lo metto braccia al muro.

Lo perquisisco e percepisco qualcosa nelle tasche dei pantaloni. In quella destra un oggetto rettangolare; è il suo telefono cellulare. È protetto da una password. Lo appoggio sul tavolo, poi svuoto l'altra tasca.

Prendo in mano il contenuto e corrugando la fronte me lo rigiro tra le dita.

È una stella marina. È più piccola di quella che mi ha portato il gabbiano la settimana scorsa.

Chiudo il ragazzo nella cella e lui si aggrappa alle sbarre.

“Non lasciarmi qui. Lui mi troverà! Mi ha raggiunto fin qui! Lui è venuto qui per me.”

Entro nella mia stanza privata e chiudo la porta. Le pareti attutiscono le urla del ragazzo.

Mi metto a sedere e apro un cassetto, dentro cui getto la stella marina, poi studio il cellulare. Lo sfondo del bloccoschermo è una sua foto. È lui insieme ad una ragazza. Sono seduti sotto ad un albero e sorridono.

Ripongo il telefono dentro al cassetto accanto alla stella marina e lo chiudo a chiave. Sul tavolo c'è una bottiglia di scotch. La apro e la avvicino alla bocca, poi alzo lo sguardo all'orologio sul muro.

“Ormai dovrei essere a casa.” dico tra me e me.

Tappo la bottiglia e la metto accanto al monitor del computer, poi scosto la sedia dal tavolo e mi alzo in piedi.

Il ragazzo sta ancora implorandomi a gran voce di liberarlo. Prendo un bicchiere di carta e ci verso dell'acqua. Glielo porto, ma lui colpisce il bicchiere e lo fa cadere per terra.

“Come vuoi, torneremo quando sarai più cordiale. Buonanotte, ragazzo.”

Mi allontano, e alle mie spalle sento che continua a parlare tra sé e sé.

“Lui è tornato. Lui è tornato. Dobbiamo fuggire tutti.”

 

* * *

 

Killian ed io entriamo in ufficio. Il ragazzo è silenzioso, sta seduto in un angolo con il capo chino, i suoi vestiti sono bagnati e polverosi e dalla sua cella proviene odore di feci. Killian ed io arricciamo il naso ed entriamo nella stanza dello sceriffo.

“Quanti anni credi che abbia?”

“Non so, ventidue, venticinque al massimo” rispondo.

“Da quanto tempo è qui?”

“L'ho portato verso mezzanotte. Ormai la sbronza dev'essergli passata.”

Killian distoglie lo sguardo, poi apre la porta e guarda il detenuto dall'altra parte della stanza.

“Tenerlo qui non serve a nulla, se non a far assomigliare questo posto alla stalla dei tuoi genitori.” dice facendo un cenno della mano davanti al naso. Si avvicina alla cella, inserisce la chiave e apre la porta. Nel frattempo apro il cassetto della mia scrivania. Prendo il telefono e me lo metto in tasca, poi afferro la stella marina e blocco la mano a mezz'aria. Giro la stella e la osservo, poi la metto nell'altra tasca della giacca.

Esco dalla stanza e osservo Killian in piedi dentro alla cella.

“Andiamo, amico, sei libero di uscire.”

Il ragazzo mormora qualcosa.

“Non mi hai sentito? Sei uccel di bosco, ora.”

Il ragazzo tiene la testa china verso il basso e mormora parole incomprensibili.

Killian lo afferra sotto le braccia e lo tira in piedi. “Andiamo, muoviti.” Con una smorfia li raggiungo e tolgo le manette al ragazzo.

“È troppo tardi.” farfuglia lui. “È troppo tardi. È troppo tardi.”

“Al contrario, sono le dieci di mattina e tu hai tutto il tempo del mondo.” esclama mio marito trascinando il ragazzo in avanti.

“Lui è qui. Lui è arrivato.” ripete.

“Killian, aspetta.” dico afferrando un braccio del ragazzo. “Non è ancora in condizione di tornare a casa, ammesso che ne abbia una. Potrebbe aver assunto delle droghe, forse dovremmo portarlo all'ospedale.”

Guardo l'ex-detenuto. Ha gli occhi persi nel vuoto e continua a ripetere le stesse parole.

“Potrebbe non essere una cattiva idea.” afferma Killian grattandosi il mento. “Di sicuro risolveranno molto più di noi.”

“Tu resta qui, ci penso io.”

Killian ed io ci scambiamo un rapido bacio sulle labbra, e io faccio salire il ragazzo in auto.

Raggiungo l'ospedale di Storybrooke e stringendo il braccio del ragazzo lo accompagno dentro.

“Emma. Hai abbandonato il pirata e ti sei trovata un nuovo spasimante?”

Mi volto in direzione della voce e vedo un uomo in camice bianco e chioma bionda. Il medico porge una cartellina ad un'infermiera e compie un passo verso di me sfoggiando un largo sorriso.

“Whale, devo affidarvi questo ragazzo. Non so come si chiami, né dove abiti, ed è in stato confusionale da ieri sera.”

Whale si gira verso l'ex-detenuto e lo squadra da cima a piedi. Il suo sorriso scompare e il medico aggrotta la fronte. Il ragazzo guarda un punto fisso in alto, la testa piegata verso destra e la bocca spalancata.

“Dove lo hai trovato?”

“Al Rabbit Hole, ieri sera. Stava sfasciando il locale e gridava frasi senza senso.”

Whale non distoglie lo sguardo dal paziente. Il ragazzo gira il capo verso di lui e mormora qualcosa.

“Victor.”

Guardo prima il ragazzo, poi Whale.

“Lo conosci? Lui ti conosce?”

Il medico fissa negli occhi il ragazzo, che alza lentamente il braccio e allunga la mano verso il dottore.

“Whale!”

Il medico batte le palpebre e scuote la testa, poi mi rivolge un sorriso.

“No, non l'ho mai visto prima, mi dispiace. Probabilmente ha letto di me sui giornali, per via di quel morbo che ho scoperto l'anno scorso. Lo Specchio di Storybrooke lo ha definito 'Il vero mostro di Frankenstein', o qualcosa del genere.”

“D'accordo, allora lo lascio alle tue cure e torno al mio lavoro.”

“Senz'altro, Emma.” esclama Whale prendendo il paziente per mano. “Andiamo, ragazzo, tra non molto ti sentirai meglio.”

Esco dall'ospedale e guido fino all'ufficio dello sceriffo. Sto per entrare, quando mi accorgo di avere ancora in tasca la stella marina e il cellulare del paziente. Alzo gli occhi al cielo e sospiro, poi faccio dietro-front e torno al parcheggio a passo svelto.

Punto il telecomando verso la macchina e premo il pulsante. Compare una figura, e io sbatto contro di lei.

Chiudo gli occhi per alcuni secondi e mi massaggio il volto. Li riapro e osservo la figura per terra.

“Hey, tutto a posto?” domando mentre allungo il braccio verso la ragazza.

Lei annuisce e mormora un debole '', poi tende la mano verso la mia, rivelando una voglia a forma di stella sul polso.

Tiro la ragazza verso di me e con l'altra mano la aiuto a rialzarsi, mentre lei si scosta i capelli dal volto, poi abbozza un sorriso.

“Lily.”

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Capitolo 3
*** Cannella nella cioccolata ***


Afferro delicatamente i manici bollenti delle due tazze e mi dirigo verso il salone, dove Lily mi aspetta sul divano con qualcosa in mano. È la foto incorniciata che ci siamo fatti io ed Henry prima di separarci, nel regno di Cenerentola.
“Non dirmelo, è tuo figlio?” dice Lily prendendo in mano la sua cioccolata.
“Già.”
“È cresciuto molto. È carino!”
Sorrido lievemente. “Sì, è cresciuto.”
“E non sono passati poi tanti anni” aggiunge lei. Non ha torto.
“A quanto pare nel reame dove si trova ora il tempo scorre un po’ diversamente” spiego.
“Ah”, quindi beve un un piccolo sorso della bevanda, ancora bollente. “Non mi soprende. Ma come mai si trova in un altro reame?”
Esito, passandomi una mano tra i capelli con aria stanca. “È alla ricerca della sua storia, a quanto pare”. Mi hanno fatto questa domanda così tante volte, ormai, che ripeterlo ancora è quasi esasperante.
“Uh, lo capisco bene allora” mormora lei, rannicchiata con i gomiti sulle ginocchia e la tazza stretta fra le mani, sotto il mento, fissando un punto del muro di fronte con aria assente.
“A proposito, adesso che ti sei ripresa, ti dispiacerebbe parlami della tua storia? Che è successo? Non ti vedevo da non so quanti anni…”
Lily, disincantata, volge il capo verso di me sospirando.
“Be’, come ti ho detto sono confusa. Ancora non riesco a ricordare bene come sono finita qui. Ricordo solo mia madre che mi dice di aspettarla, e...”
“Aspetta. Tua madre? Malefica era con te? E dov’è ora?”
Riflettendoci, non vedevo né Lily né Malefica da anni; da prima di diventare la Signora Oscura, addirittura. Regina mi aveva accennato qualcosa sull’aver sentito Aurora e Filippo accennare che lei e Malefica erano partite per un altro reame poco dopo, ma non se n’è parlato mai più…
Con calma Lily manda giù un altro sorso di cioccolata e si passa la lingua sul labbro superiore, prima di rispondermi.
“Lei… Io, be’, ricordo che eravamo nella Foresta Incantata, al suo castello, e che mi aveva detto di aspettarla fuori dalla sua stanza mentre lei prendeva… delle vecchie cose, ma...”
“Aspetta, la Foresta Incantata…? Quindi siete rimaste lì per interi anni?”
“No, abbiamo viaggiato per altri reami. Diversi, in effetti. Cercavamo...”
“…Tuo padre” termino per lei, annuendo ripetutamente. Il ricordo dell’ultima conversazione avuta con Lily, prima di assorbire la grande Oscurità di Tremotino e salvare Regina, è ritornato ormai ben definito.
“Sì.”
“E l’avete trovato?”
“No.”
Mi risponde in tono secco, rassegnato.
“Oh, mi dispiace...”
Per Lily la questione genitoriale sembrava avere una certa importanza, ai tempi, e non esagero se dico che nessuno la può capire meglio di quanta possa io.
“Ma non importa. Se gli fosse importato di me, in tutti questi anni sarebbe venuto a cercarmi. Invece l’unica ad averlo fatto è stata mia madre… E a tal proposito, devo tornare da lei.” Dicendolo, molla la tazza sul tavolino del salotto e si rimette in piedi. Indossa vestiti semplici; un paio di pantaloni neri e un cappotto dotato di pelliccia dello stesso colore, mentre una lunga treccia di capelli scure le ricade sulla spalla sinistra.
“Aspetta. Non mi hai ancora raccontato tutto. Come ti aiuto, se non so…”
M’interrompo, riflettendo.
“Se non sai cosa?”
“Be’, ecco, magari anche tua madre è qui. Sei sicura di non ricordare proprio come sei arrivata a Storybrooke?”
Lily si blocca, riflettendo per qualche secondo. “A dirti la verità, Emma, proprio no.”
“Be’, la perdita di memoria è qualcosa di estremamente ricorrente da queste parti. Se chiedessi a… ah, no. Se ne sono andati entrambi…”
“Di chi parli?” chiede Lily, aggrottando la fronte.
“Di chi, secondo te? Tremotino, Regina…”
“Ah, già. Senza quei due dev’essere una vera noia da queste parti...”
Perplessa, bevo un lungo sorso di cioccolata, prima di prendere una decisione. “Sai cosa?” sbotto posando anch’io, producendo un leggero tonfo, la tazza semivuota sulla superficie di vetro del tavolino. “È tardi, dovremmo andare a dormire. Se vuoi io e Killian abbiamo una stanza in più, e per noi ovviamente non è un problema…”
“Cosa non è un problema?”
Uncino spunta improvvisamente dal corridoio, indossando dei vecchi indumenti sporchi e un sorriso stanco ma sempre abbagliante. “Ero nel capanno a fare alcuni lavoretti… E tu sei… un momento...”
Quindi riflette per qualche secondo, prima della sentenza. “La ragazza drago. Tu sei… Lily!”
“Già. Ciao, Uncino. Non sei cambiato affatto.”
Gli risponde in tono molto leggero, quasi indefferente.
“Be’, bentornata a Storybrooke” le sorride. “Come se la passa tua madre?”
“Parlavamo proprio di questo, Killian. Lily non si ricorda nulla. È molto confusa, e stanca…”
“Sì, sembra un po’ scossa”.
E in effetti Lily non è molto partecipe. Sempre di meno, da quando l’ho raccolta nei pressi dell’ospedale, un’oretta fa. Inoltre si è alzata dal divano solo per riappoggiarcisi sul bordo, mentre fissa il pavimento con aria assorta.
“Non preoccuparti, Emma” dice all’improvviso. “Non voglio disturbare oltre.”
“Ma non disturbi…”
“No, davvero, tranquilli. Inoltre credo che mi sentirei più a mio agio da… Granny. Sì, una stanza lì andrà bene.”
Se prima potevo illudermi fosse semplicemente stanca, adesso non ho più dubbi; la mia antica amica del cuore mi sta nascondendo qualcosa. La cosa fastidiosa, e me ne rendo ora per la prima volta, è che con lei il mio superpotere non funziona.
“E Granny sia, allora. Però ti do un passaggio”.
“Oh no, non è necessario” replica lei. “Granny è in questa zona, se non ricordo male… E due passi all’aria fresca non possono che farmi bene”. Quindi si scosta dal bordo del divano e si avvicina lentamente al corridoio che conduce all’ingresso.
Con un’ansia che mi tradise, le corro dietro e la supero, sbarrandole la strada.
“Ma non...”
“No, Davvero” m’interrompe Lily. “Non insistere, Emma, per favore…”
C’è qualcosa di evidentemente poco amichevole nel modo in cui lo dice. Una nota di avvertimento; una velata minaccia. Come ai vecchi tempi…
Anche Killian sembra averlo notato. Mi si è avvicinato e mi tiene la mano sulla spalla, esortandomi silenziosamente a lasciarla passare. Io mi arrendo, almeno per ora.
“Va bene, ma fai attenzione”.
“So badare a me stessa” dichiara guardandomi negli occhi, prima di voltarsi. “Buonanotte, Emma. Uncino…” fa un cenno del capo e sparisce oltre la porta del corridoio, ma io la seguo fino all’ingresso.
“Ci vediamo domattina, per discutere la faccenda di tua madre. La rintracceremo, te lo prometto!” esclamo dalla soglia di casa mentre Lily scende rapidamente le scale e si avvia in strada.
“Come no…” replica la figlia di Malefica, dileguandosi nella notte. Per un breve attimo sono tentata dall’idea di seguirla, ma poi Killian mi costringe a rientrare e mi invita ad andare a dormire. Ci metto circa un secondo a rendermi conto di essere esausta; quindi mi chiudo la porta alle spalle e mi dirigo con Uncino dove nessuno, almeno per un po’, ci potrà disturbare.

*   *   *




Mi trovo al confine meno conosciuto della città, intenta a fare ciò di cui prima si occupava Regina. I rifornimenti di cibo e altri prodotti a cui ormai il popolo della Foresta Incantata si è inesorabilmente abituato non vengono con dei camion o cose del genere, come succede per le città normali. Quando ho chiesto a Regina come funzionasse per le scorte dei supermercati mi ha dato una risposta a cui forse non sarei mai arrivata, da sola: magia. Quindi ho capito come, in effetti, se su diecimila persone anche solo una possiede la magia, ed è disponibile, i mezzi di sopravvivenza non destano molta preoccupazione.
“Per 28 anni ci ha pensato il Sortilegio” mi ha spiegato Regina quando le ho domandato come facesse davvero a mandare avanti Storybrooke.
“Sì, intendo semplicemente che i supermercati, i negozi e tutto il resto si rifornivano da soli. Ogni giorno era sempre uguale, o quasi, e nessuno si chiedeva da dove provenisse tutta la roba.”
Al che le chiesi se di fatto proveniva da qualche luogo o, semplicemente, era tutta opera di magia.
“Il problema non sono i vestiti, l’elettricità o cose simili, a dire il vero. Il generatore elettrico di Storybrooke è pura magia, niente di speciale… Ma per il cibo, be’, quello è un altro paio di maniche.”
Ne parlava con molto interesse. Ricordo che quella sera avevamo bevuto un po’.
Mi spiegò in maniera molto diretta che tutto ciò che arriva a Storybrooke, subito prima sparisce da altri posti. Letteralmente.
“Ma no, non è rubare… Cioè… Lo è?” ridacchiò.
Al che io sorrisi, ruotando il capo.
“Oh, insomma!” rispose lei, contrariata. “Quando ho lanciato il Sortilegio Oscuro, cattivo per definizione, non mi sono certo curata di futili dettagli etici. Ma se proprio vuoi che il popolo di Storybrooke torni nella foresta a pescare pesci nel fiume e a raccogliere patate fa pure, costringi tutti. Se la caveranno… O forse no!”
Quindi si piegò in un’altra, allegra risata.  È curioso pensare che solo in quel modo, da brille, mi venne in mente di chiederle informazioni come questa. Se adesso non ne fossi al corrente, semplicemente non saprei bene come mandare avanti questa città.
“E poi se ci pensi, è improbabile che qualcuno, lì fuori, si accorga dell’assenza di una decina di barattoli di fagioli in scatola. La magia funziona così. Non prende tutto nello stesso posto, ma piccole quantità da tanti luoghi diversi, e in ogni parte del mondo. Così quest’intera città continua a funzionare, senza che nessuno ne soffra in particolar modo…”
Al che fui io a ridere.
“Ma non si può semplicemente far apparire il cibo dal nulla, come per tutto il resto?” chiesi, incuriosita.
“Oh no, certo che no, Emma. Sarebbe troppo facile… Ma non hai imparato nulla dai miei insegnamenti?”
Scrollai le spalle. In precedenza non avevamo mai approfondito ogni singolo aspetto della magia, ma più che altro solo ciò che ci potesse essere utile in battaglia o in situazioni di pericolo.
“Anche quando io faccio apparire dolcetti o altro, in realtà li sto… b e’, li sto prendendo da qualche altra parte. Ciò che faccio è semplicemente evocare ciò che mi serve...”
“Quindi, fammi capire, se tu ti fai apparire un dolcetto bell’e pronto in mano, vuol dire che dalla vetrina di qualche pasticceria, là fuori, quello è svanito nel nulla, magari davanti agli occhi di qualcuno? E poi scusa, come fai a sapere che non è già stato toccato, o persino buttato…?”
“No, cara Emma, non ci sei ancora. Non funziona così, la magia ruba, è vero, ma lo fa indirettamente. Con discrezione. È probabile che l’incantesimo, in un frammento di secondo, si procuri gli ingredienti necessari per il dolcetto, li mescoli insieme, ne alteri le condizioni fisiche affinché il tutto si trasformi in quello che desideri e… puff, via al diabete!”
A quel punto avevamo decisamente sollevato il gomito. Ma pensarci mi fa ancora sorridere.
Persa nei ricordi, quasi non mi accorgo dell’enorme cassa che mi si materializza davanti, carica di scorte. Disincantata, chiudo gli occhi, mi concentro su un momento felice del mio passato – in questo caso il mio matrimonio – e la cassa svanisce nel nulla. So già che tutte le scorte sono al loro posto, ogni prodotto nel magazzino del negozio adeguato.
Forse è fin troppo facile. Alla lunga, gestire questa città sta diventando monotono. È uno dei motivi per cui io e Killian sentiamo spesso il bisogno di viaggiare, di muoverci; ci bastano la Jolly Roger e qualche fagiolo magico preso dalla coltivazione di Regina (prodotta subito dopo l’avventurosa partenza di Henry, in un impulso di apprensione) per concederci qualche piccola vacanza in mezzo ai fiordi di Arendelle, tra le dune di Agrabah o, semplicemente, nella pacifica residenza estiva della Foresta Incantata. Ma in quanto sceriffi, viste le continue necessità di una città come questa, non ci fermiamo mai più di due o tre giorni; passare la maggior parte del poco tempo libero che ci è concesso nello stesso posto, senza quindi cambiare aria più di una o due volte, è un lusso che non ci possiamo proprio permettere.

*   *   *

“Tutto bene?”
La rassicurante voce di mia mamma mi fa alzare il capo di colpo, e poso la custodia di nuovo sulla mensola vicino al televisore.
“Sì, non preoccuparti.”
“Sicura? Cos’è che guardavi?”
Senza aspettare una risposta, mamma si avvicina alla mensola e a sua volta prende in mano il gioco per Play Station 4.
“È quello a cui giocava sempre Henry prima di partire, giusto?”
Annuisco. “Sì, è ciò che in primis gli ha dato l’idea, oltre alla fine della storia con Violet e la faccenda dell’Autore.”
“Davvero?”
Sospiro. “Sì, l’incipit in particolar modo. Il protagonista è un ragazzo che vuole scappare dalla sua piccola isola per visitare altri mondi, e quindi scoprire la sua storia. Quello che poi ha fatto lui, insomma…”
Mia madre alza le sopracciglia mentre si rigira l’oggetto tra le mani, incuriosita.
“Mamma, mi dai una caramella…?”
Neal spunta fuori dalla cucina e corre verso di noi, con un pupazzo di Topolino in mano e il pigiama di Star Wars addosso. “No, amore mio. È quasi ora di pranzo. Avrai le caramelle più tardi, se farai il bravo.”
Vederli così mi fa sempre sorridere. Mi prenderei a schiaffi quando ripenso al comportamento infantile che ebbi durante i suoi primi mesi di vita, quando non era altro che un fagottino… ma poi mi ricordo che allora ero praticamente una persona diversa, non avevo il controllo delle mie emozioni, o tantomeno della mia magia, e venivo continuamente messa alla prova dal destino, dallo sbalzo di temperatura e da gelataie un po’ fuori di testa.
Mia madre si gira verso di me inspirando di colpo, dandomi l’impressione che le sia appena venuta un’idea.
“E se...”
Il suo sguardo si sposta rapidamente dalla mensola a Neal, da Neal alla mensola.
“Che ne dici se…cioè, gli piacerebbe, non credi? Mi sembrava molto carino quando vedevo Henry giocarci… e poi sai, ci sono tutti i personaggi delle favole, e noi stiamo tentando di fargli capire chi siamo… da tutti i punti di vista, intendo… quindi, potrebbe essergli utile anche per questo, no?”
Mia madre sta quasi tremando. Fa così quando cerca di proporre un’idea a un’idea a qualcuno senza svelarne i veri intenti… che in questo caso sono ovvi.  
“Mamma, innanzitutto calmati… E certo che ci può giocare, anche se forse è ancora troppo piccolo per apprezzarlo davvero.”
“Allora perché non ci giochi con lui?”
Appunto. Giocare a Kingdom Hearts è qualcosa che ho iniziato a fare con Henry, circa un anno prima della sua partenza. È un’altra cannella nella cioccolata, non so se mi spiego.
Comunque, sebbene mia madre mi abbia fatto leggermente innervosire, sorrido prima in direzione di Neal, ora occupato a fare capriole sul divano, e poi a lei, prendendole una mano. “Certo che giocherò con lui” mormoro. “Ma non per supplire alla mancanza di Henry. Mamma, l’ho superata.”
“Lo so.”
Quindi anche lei mi sorride, spostando lo sguardo sulla mia pancia. Sono in attesa da circa un mese, non di più, pertanto non si nota nulla. E se non consideriamo i parenti più stretti e pochi altri, io e Uncino abbiamo deciso che è ancora presto per rendere la cosa ufficiale.
“Devo andare ora” mormoro all’improvviso, guardando l’orologio. Poco fa ho mandato un messaggio a Lily, chiedendole di vederci alle undici da Granny, e inaspettamente ho ricevuto un “va bene, a dopo” immediato. “Cos’hai da fare, oggi? Emma, devi riposarti…” protesta mamma in tono apprensivo.
“Mamma, sono incinta, non ho il cancro. E neanche una profezia che preannuncia la mia morte per mano di qualche neonato troppo cresciuto, se è questo che ti preoccupa…”
Mia madre inclina il capo di trenta gradi, fulminandomi con uno sguardo torvo. Evidentemente non ha apprezzato l’ironia del mio commento.
“Dài, scherzavo. Ma devo andare davvero, c’è un caso urgente di cui devo occuparmi…”
Mentre lo dico, con la mano destra stringo la stella marina nella tasca del mio giubbotto, come per accertarmi che ci sia ancora. Da quando l’ho trovata, ieri, me ne sono seperata solo per dormire.
“Cosa?”
Mamma fa scattare il capo all’indietro aggrottando la fronte, come fa sempre quando è perplessa o sbigottita.
“Te ne parlerò dopo, promesso.”
“Ma non può occuparsene Uncino? O magari tuo padre?”
Quindi si avvicina alle scale. “David!” chiama. “David!” ripete più forte. Il tentativo di trattenerla, neanche a dirlo, è stato fallimentare.
“Che c’è?” risponde la voce di mio padre. Sembrerebbe arrivare dal bagno.
“Mamma, no. Faccio da sola” insisto, avvicinadomi a mia volta. “Papà, non ti proccupare!” urlo, mentre mia madre suote la testa in segno di disapprovazione.
“Ehm… va bene…?”
“David, vieni!”
“Insomma, mettetevi d’accordo!”
Ma io, esasperata, sono già alla porta.
“Ci vediamo più tardi, mamma, promesso.”
Mia madre sospira e si mette una mano sulla fronte. “Sei impossibile.”
“Ho preso da te, in effetti. A dopo, piccolo principe” aggiungo, sorridendo nuovamente al piccolo Neal e uscendo. Per un attimo faccio per dirigermi al mio maggioliono giallo, ma poi guardo di nuovo l’orologio e decido di ricorrere a una scorciatoia. Quindi sollevo l’avambraccio, concentrandomi, finché dopo circa mezzo secondo un alone di denso vapore bianco non mi avvolge dalla tasta ai piedi. Quindi svanisco.
 



 

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Capitolo 4
*** L'angelo caduto ***


La Terra Senza Colore, molti anni fa

Victor Frankenstein si portò il calice alla bocca e chiuse gli occhi. Mandò giù il vino, poi appaggiò il bicchiere sul tavolo. Il suo piede destro scivolò in avanti e Victor si aggrappò al tavolo per non cadere per terra. Batté le palpebre e scosse la testa, mentre immagini confuse prendevano forma davanti a lui.
Si girò di scatto e con il dorso della mano urtò il bicchiere e lo fece cadere sul pavimento. Il fragore raggiunse le sue orecchie attutito.
Victor si appoggiò allo schienale della poltrona, poi al mobile e finalmente raggiunse la cucina. Afferrò la bottiglia di vino e se la portò alla bocca.
Mi manca il MacCutcheon, pensò.
Victor barcollò nella sala accanto e si appoggiò al corrimano. Scese le scale ed entrò nel laboratorio. Strizzò gli occhi e distinse la sagoma del tavolo in mezzo alla stanza, poi spostò lo sguardo verso il mobile sulla destra.
Spinse il coperchio in avanti e una folata gelida lo investì.
Victor osservò il viso pallido di suo fratello Gerhardt, non invecchiato di un giorno da quando lo aveva ibernato più di dieci anni prima, molto prima del Sortilegio Oscuro.
Victor allungò una mano verso la guancia di Gerhardt, sfiorò il corpo congelato del fratello e ritrasse immediatamente la mano. Richiuse il coperchio e si girò lentamente. Fece un passo e cadde in avanti, ma afferrò il tavolo da lavoro in tempo per evitare la caduta.
Raggiunse la parete dall'altra parte della stanza e si fermò di fronte alla libreria. Le sue dita tremolanti strinsero una foto incorniciata.
Victor osservò il volto della donna nella foto, le sue labbra pallide corrucciate in un sorriso, i suoi occhi sollevati al cielo e il viso spensierato contornato dai lunghi capelli ondulati.
Victor piegò le gambe e si inginocchiò a terra. Si mise a sedere e appoggiò la schiena alla libreria, senza distogliere lo sguardo dalla foto.
“Chi sono quelle persone?” aveva domandato una voce lontana molti anni prima.
“Sono persone meno fortunate di noi, angelo mio.” aveva risposto la donna della foto accarezzandogli la testa. Il piccolo Victor osservava gli uomini sdraiati per terra e vestiti di stracci, poi spostava lo sguardo sulla madre, e ancora sugli uomini per terra.
“E perché siamo qui?”
“Per aiutarli.” aveva risposto Caroline Frankenstein stringendogli la mano. Il loro servitore si era fatto avanti e aveva teso loro una vassoio. Lo aveva appoggiato sul muretto e aveva sollevato il coperchio. I quattro senza tetto si erano lanciati sul pollo; strappavano i pezzi di carte e si spintonavano tra loro.
Sulla carrozza Victor aveva domandato alla madre:
“Perché quelle persone avevano tutti qui puntini rossi sul viso?”
“Il demonio.” aveva risposto il loro servitore.
Caroline Frankenstein lo aveva fulminato con lo sguardo, poi aveva sorriso al giovane Victor.
“È solo febbre, angelo mio.”
“No, è il demonio che si manifesta sui loro volti.” aveva ribattuto il servitore.
“Adesso basta, James. Non ti permetto di parlare di queste sciocchezze a mio figlio.”
Due mesi dopo il piccolo Victor aveva notato che sul volto di sua madre stavano comparendo dei puntini rossi. Caroline trascorreva le sue giornate a letto, e suo padre proibiva a lui e a Gerhardt di entrare nella sua stanza. Neanche Alphonse Frankenstein faceva visita a Caroline. Una mattina Victor era tornato a casa da scuola in anticipo ed era sgattaiolato nella stanza della madre.
“Vai via, piccolo angelo.” gli aveva detto lei tra un colpo di tosse e l'altro. “Io starò bene. Ho solo bisogno di altro riposo.”
Il giorno dopo Victor aveva tentato nuovamente di entrare nella camera della madre, ma la porta era chiusa a chiave. Victor e Gerhardt chiedevano a loro padre di andare a parlare con Caroline, ma il padre non glielo permetteva.
E a nessuno dei due fu mai più concesso di sentire nuovamente la sua voce. Nei mesi successivi l'intera città aveva parlato della maledizione del demonio, quel sortilegio per cui sui volti di tante persone erano comparsi i puntini rossi che portavano alla morte. Negli anni successivi Victor aveva raccolto nel suo diario i ritagli di giornale che parlavano della malattia e annotato le sue considerazioni personali, e al primo diario ne era seguito un altro, e poi un altro ancora. Aveva incontrato altri uomini malati, aveva esaminato i corpi dei defunti, e aveva elaborato un siero che era in grado di indebolire la malattia e di ritardare la morte, seppure senza sconfiggerla del tutto. Il padre aveva tentato numerose volte di farlo desistere dai suoi esperimenti, ma Victor Frankenstein non li aveva mai abbandonati. Avrebbe sempre dedicato la sua vita ai propri studi. Nessun bambino avrebbe mai più perso la propria madre. La morte non avrebbe più portato sofferenza.
Victor tirò su col naso e con il dorso della mano si asciugò gli occhi.
E invece non aveva ottenuto nulla. I suoi esperimenti non erano riusciti a vincere la morte, e la scienza aveva dovuto fermarsi laddove anche la magia non poteva arrivare. Il confine tra quel mondo e l'aldilà era impenetrabile, e una volta morti non vi era modo di tornare indietro.
A cosa era servito, dunque? Ormai aveva perso tutto. Suo padre, suo fratello, e alla fine persino il suo assistente. Aveva fallito. Era una delusione per suo padre, era una delusione per suo fratello ed era una delusione per sua madre.
Forse se fosse riuscito a tornare a Storybrooke avrebbe potuto ricominciare, dare il via ad una nuova vita. Ma non c'era modo di tornare nella Terra Senza Magia. Ci aveva provato, ma evidentemente poteva riuscirci solo lanciando un altro Sortilegio Oscuro. E come avrebbe potuto usare il cuore della persona che amava di più, se tutti quelli che amava erano morti?
Forse l'unico vero modo per ricongiungersi con i suoi cari era intraprendere la stessa via che avevano percorso coloro che aveva perduto. Doveva rassegnarsi a morire, e così un giorno avrebbe potuto riabbracciare sua madre, e lei lo avrebbe chiamato ancora una volta il suo piccolo angelo.

 

* * *

“Dottor Frankenstein, un uomo vuole parlare con voi.”
“Mandalo via, Boris.” Victor premette il bisturi sul cadavere davanti a sé e tracciò una linea orizzontale dalla quale scaturì un rivolo di sangue. “Ho molte cose da fare in questo momento.”
“Perdonate l'insistenza, dottor Frankenstein.” affermò una voce profonda alle spalle di Boris. “Ma sono convinto che potremmo avvalerci l'uno dell'altro e aiutarci reciprocamente.”
Victor premette la mano guantata sull'incisione, poi inserì l'indice nel taglio.
“Non credo che possiate fare nulla per me.”
Il suo ospite abbozzò l'angolo della bocca in un sorriso malizioso prima di rispondere.
“So che da molti mesi siete alla ricerca di un modo per raggiungere un luogo remoto, un reame impossibile da raggiungere.”
Victor si paralizzò e fissò lo squarcio che aveva aperto. Alzò gli occhi dal cadavere e si girò verso l'uomo.
“Boris, lasciaci soli per favore.”
Il servitore obbedì.
“Io conosco quel modo.” disse lo sconosciuto.
“Ho già tentato con i fagioli magici.” Victor fece una smorfia. “Mi dispiace deludervi, ma non mi porteranno dove voglio andare.”
“Ho di meglio.”
“Vale a dire?”
L'uomo fece un passo in avanti e abbassò lo sguardo sul cadavere sul tavolo, alzò le sopracciglia e guardò Victor negli occhi.
“Io so molte cose su di voi e i vostri studi, dottor Frankenstein. So bene che cosa fate nel vostro laboratorio. Ho seguito le vostre imprese sui giornali.”
“C'è poco di cui parlare, temo.” Victor si tolse i guanti di lattice e li gettò sul tavolo. “I miei esperimenti non hanno mai portato a molto.”
“So che cercate di impedire che la gente muoia, e che negli anni siete diventato un vero e proprio tanatologo.”
Victor aprì il rubinetto del lavandino e si sciacquò le mani.
“Se conoscete qualcuno malato di scarlattina, vi informo subito che nel migliore dei casi potrò solo ritardare la morte di alcune settimane.” Victor chiuse il rubinetto. “E non posso resuscitare i morti, se è questo che volete chiedermi.”
“Non ce ne sarà bisogno, dottore.” L'uomo estrasse un fazzoletto dalla tasca dello smoking e si soffiò il naso. “Nel nostro caso i defunti sono già risorti.”
Victor accigliò le sopracciglia. “Di cosa state parlando?”
“Si tratta dei miei nipoti, dottor Frankenstein. Abitano a villa Clayton, nella campagna fuori da Isham, insieme alla loro governante, la signorina Grose. Vi confesso che non ho mai amato i bambini, e se potessi non mi preoccuperei minimamente della loro salute. Tuttavia, i loro genitori hanno lasciato scritto sul proprio testamento che potrò godere della mia fetta di eredità solo se mi assicurerò che i due mocciosi proseguano la loro educazione e siano seguiti da qualcuno fino a che non avranno raggiunto la maggiore età.
“Prima che assumessi la signorina Grose erano la signorina Julia Jessel e il signor Peter Quint ad occuparsi di villa Clayton, ma i due sciagurati sono venuti a mancare alcuni mesi fa in circostanze misteriose. Meglio così, ho pensato inizialmente. Non ho mai avuto molta simpatia nei loro riguardi.
“Ma a seguito del loro decesso i miei nipoti hanno iniziato ad agire in modo bizzarro. Miles, che fino ad allora era sempre stato uno studente modello, ha abbandonato qualsiasi forma di disciplina e si è fatto espellere dal collegio dove lo avevano iscritto i suoi genitori, mentre Flora organizza continuamente delle burle per farsi beffe della sua governante. Inoltre entrambi i ragazzini si sono fatti misteriosamente taciturni, e si rifiutano di parlare con me, con la governante o con chiunque altro, e conversano esclusivamente fra di loro.”
“Perdonatemi se vi interrompo” fece Victor mentre riponeva il bisturi nella cassetta degli attrezzi. “Ma questo cosa ha a che vedere con me? Sono uno scienziato, non una bambinaia.”
“Il fatto è, dottor Frankenstein.” L'uomo fece una smorfia con la bocca. “Che la loro governante ha sorpreso più volte i miei nipoti che parlavano da soli. Non voglio dire fra di loro, intendo dire che non parlavano con nessuno. Credetemi, il mio primo pensiero la signorina Grose me ne ha informato è stato di licenziarla su due piedi, se non fosse che al mio arrivo a villa Clayton ho sorpreso io stesso la giovane Flora seduta vicino allo stagno intenta a conversare tra sé e sé, come se un essere invisibile potesse ascoltare ciò che diceva, e come se potesse persino risponderle. E sapete cosa ha esclamato Flora prima di alzarsi in piedi e accorgersi che io ero lì? Ha detto ‘Arrivederci Peter’. Capite?”
Victor aprì la bocca come per rispondere, poi corrugò la fronte. “A dire il vero non...”
“Peter come Peter Quint, uno dei precedenti servitori della casa. E quella stessa sera il giovane Miles stava conversando da solo, anch'egli con un essere invisibile. E indovinate con quale nome si è rivolto a quell'essere. Jane. Come Jane Jessel, la precedente governante che aveva esercitato il proprio incarico nello stesso periodo in cui lo aveva fatto Peter Quint.”
“Non crederete che...” Victor soffocò una risata.
“È proprio quello che penso, dottor Frankenstein.” rispose lo sconosciuto serio in volto. “I miei nipoti sono in contatto con gli spettri di Peter Quint e Jane Jessel.”
“Come è possibile? Vi rendete conto dell'assurdità di ciò che state dicendo?”
“Me ne rendo conto eccome, dottore, ed è per questo che mi rivolgo ad un luminare della scienza come voi. Voglio che vi rechiate a villa Clayton e risolviate questo mistero, e soprattutto che liberiate la villa di mio fratello dalle presenze indesiderate che lo infestano.”
Victor rise di nuovo e non disse nulla.
“Provvederò io alle spese del vostro viaggio fino alla villa, e là sarete libero di consumare tutti gli alimenti e le bevande come più vi aggrada. Se riuscirete a far tornare i miei nipoti quelli di un tempo, vi assicurerò il vostro viaggio verso un altro reame. Non sentitevi in dovere di rispondermi subito, prendetevi il vostro tempo per rifletterci. Quando avrete preso la vostra decisione potrete farmi visita al mio studio. Si trova in fondo ad Abraham Road, al numero 85.”
“Chi dovrò cercare, nel caso decidessi di accettare la vostra proposta?”
“Chiedete di Renfield. William Renfield.”

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