16 Luglio 2013 e così via.

di Simply Yeats
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** 17 Giugno 2013 ***
Capitolo 3: *** Quel vestito un pò rock n' roll. ***
Capitolo 4: *** Meet and Greet ***
Capitolo 5: *** 17 Luglio 2013 ***
Capitolo 6: *** L'ospite e l'incidente ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Jules non era mai stata una fan degli One Direction.
Non le erano mai piaciuti, neanche un po’. E neppure ora li apprezza molto, ad essere sincera.
A volte però succedono cose strane, inaspettate, forse anche senza senso come quello che sto facendo in questo momento: scrivere una storia su un artista che non ascolto, che non ammiro e che non prendo minimamente in considerazione dal momento che preferirei mangiare dentro la lettiera del mio gatto piuttosto che ascoltare la sua musica. (No non è vero, non li odio così tanto).
Ma chiamatela comunque fan fiction, se vi pare.
E allora raccontiamola dal punto di vista di Jules, questa fan fiction. D’altronde non è facile raccontare una storia d’amore con una persona con cui non sogneresti mai di stare, ma Jules può farlo e può risparmiarvi i miei commenti di non apprezzamento nei confronti di determinate persone e canzoni. E allora vai Jules, aspettiamo tutti te.
Correva l’anno 2013. Lucy era da poco sparita dalla mia vita ed io, per altri motivi, non avevo più idea di cosa fare di essa. Della mia vita, intendo, se non vi fosse chiaro.
Ma sarà colpa mia se non avete ancora una volta capito un tubo, e allora farò un ulteriore passo indietro, ai miei anni della terza media e a tutto quello che stava per accadere.
Avevo 13 anni, due sole amiche, il mio futuro sotto una sedia ed un compagno di banco spaventosamente basso di nome Stephen. Ero un’adolescente considerabile tale solo per l’acne e gli ormoni scatenati, ma del resto, non avevo mai avuto un fidanzato, né una comitiva di amici, né tanto meno un bel look e un idolo musicale che non avesse l’età di mio nonno. Ero la piccola dark della mia piccola scuola media a Straffordshire. Il brutto anatroccolo che vestiva sempre di nero ed ascoltava musica fuori moda. Potrete immaginare, ci siamo passati tutti, e se non vi è già successo, tenetevi pronte ad affrontare il periodo più imbarazzante della vostra vita.
In questo comunissimo e squallido scenario, c’erano due ragazze con me. Due amiche fidate: Lucy e Liz.
Lucy era la classica brava ragazza.
Liz un’altra pazza disadattata, esattamente come me.
Oggi mi resta solo Liz, di quel passato nostalgico, come avrete già dedotto, ma va bene così. Ora come ora non regalo più la mia fiducia a nessuno e a volte ho ancora paura che Liz voglia avvelenarmi con le sue merendine giapponesi comprate su internet. Acqua in bocca, però.
Quell’anno, parliamo del 2012, smisi sinceramente di studiare perché preferivo ascoltare Lucy mentre mi raccontava le sue frottole al telefono, cose come: “Sono innamorata di Jesu dalla terza elementare, dovevi vedere come mi guardava Sabato sera, era geloso. Lui pensa che io non lo capisca, ma lo capisco eccome!”. Non solo questa ragazza era innamorata di un ragazzo chiamato Jesus, nome che il comune costrinse i suoi genitori ad abbreviare dopo tre giorni dalla nascita per questione di rispetto verso il sommo figlio di Dio, ma dalla prima media raccontava a me e a Liz una serie di situazioni romanzesche tra loro due che scoprimmo essere di sua invenzione dopo ben  quattro anni. Quindi adesso la chiamiamo ‘La mitomane’, e ci ridiamo su, perché pare che in realtà non si fossero mai neppure rivolti la parola. Ci credereste?
Avevo fatto l’impossibile per lei. In tempi non lontani la raggiunsi a casa sua, dall’altra parte della città, semplicemente per vedere insieme l’esibizione decisiva di un concorrente in uno spettacolo musicale che non mi era mai piaciuto. Quell’anno, non chiedetemi quale, lo guardai unicamente per lui, molte volte però feci lo stesso perché lei mi chiamava in lacrime per quel tipo di nome Jesus, (ridete pure, se volete) che evidentemente non l’aveva degnava di uno sguardo durante l’ultima gita con il club della chiesa.
E così adesso è tanto se la saluto quando passa per strada. Ma era di Lucy che dovevo parlare? Non mi sembra.
Io e Liz facevamo parte di un’orchestra scolastica, ma nessuna delle due era contenta del proprio strumento. Io suonavo l’oboe, lei il flauto. Non solo stavamo sprecando il nostro udito a furia di ascoltare Lucy, anche il fiato, che avremmo preferito usare per suonare uno strumento come la cornamusa, che ci eravamo ripromesse di acquistare non appena avessimo avuto i soldi necessari. Della serie: due ‘rockettare’ ed una cornamusa.
E si, ce ne siamo fatte di promesse fallimentari.
Gli insegnanti comunque erano davvero fighi, delle persone straordinarie e musicalmente all’avanguardia! Mai una volta che ci avessero propinato pezzi eccessivamente classici, mai una volta che ci avessero annoiati e mai una volta che avessimo perso un concorso. Fu in quel periodo che imparai a NON accettare la sconfitta e a riflettere prima di prendere determinate decisioni, come quella di suonare uno strumento senza alcuna possibilità di ritirarmi. Alla fine non mi posso lamentare: girovagavamo per l’Inghilterra con i nostri zaini e i nostri spartiti ed una voglia di studiare assolutamente inesistente. Era quella la libertà, era quella, ed io mi lamentavo. Ora come ora non faccio una gita scolastica dalla terza media, e sono in terzo superiore, ed ho anche perso un anno.
Non penso che la mia scuola fosse poi tanto normale, anzi, era una vera e propria gabbia di matti, con insegnanti sexy siliconate, un bidello apparentemente criminale, ragazze maggiorenni che avevano rapporti con il bidello apparentemente criminale, un’insegnante isterica che ci minacciava lanciandoci le sedie e qualcuno che raccontava leggende disgustose sul bagno dei maschi anche se alla fine, di fatto, la cosa veramente disgustosa era il cibo della mensa e poi c’era molto, molto altro ancora. Ad esempio, quel genio che decise di farci interpretare una canzone degli One Direction con l’orchestra. E vada per i Beatles, vada anche per i Rolling Stones se vogliamo, ma non gli One Direction. Non mi andavano giù, e neanche a Liz andavano giù.
- Guarda Jules, posso darti solo questa particina, è la più semplice, ma richiede anche un’attenzione non indifferente.
Queste le testuali parole del mio professore di musica, che ormai si era abituato al fatto che odiassi il mio strumento e che non volessi studiarlo, consegnandomi lo spartito.
Confesso che generalmente, un po’ mi dispiaceva sentirmi dire che potevo suonare solo parti semplici perché non ero brava, ma non quella volta. Non quella volta che le pischelle di prima media giungevano alle prove cantando a squarciagola “Oh oh oh oh that’s what makes you beautiful!”.
Nulla che io e Liz potessimo prendere seriamente, almeno prima di scoprire che la mia particina avrebbe inevitabilmente condizionato il resto dell’orchestra dall’inizio del brano fino alla fine.
In poche parole, tutto dipendeva da me: sbagliavo io, sbagliavano tutti.
Il direttore d’orchestra era niente meno che il professore di violino, un uomo di mezza età munito di baffetti finti, eleganza, fascino e qualche chilo in meno rispetto ai suoi colleghi, fa eccezione l’insegnante di flauto: era il più giovane, poteva avere si e no trent’anni e le studentesse e le loro madri impazzivano per lui, ma questi sono dettagli. A me non piaceva, come al solito, del resto.
Tornando al professore di violino, perché è di lui che volevo parlare, dovete sapere che aveva una sua precisa gestualità nel dirigere l’orchestra e quell’anno la sperimentai più di quanto non avessi mai fatto. Le prove iniziavano, lui chiedeva silenzio, poi poggiava il dito indice sotto l’occhio e lo batteva due volte prima di cominciare a muovere la bacchetta. Cosa significasse? Seguitemi, significava. Ma mai lo avevo visto guardare dritto verso di me facendo quel gesto, ed il che mi metteva non poca ansia.
La cosa buffa è che finii per ascoltare quel cazzo di brano ininterrottamente per dei mesi, ma alla fine, forse non fu una semplice coincidenza se si pensa a tutto quello che doveva ancora succedere, e non mi sembra il caso di perdermi in dettagli come i vari concerti vinti, le varie ansie, e così via. E allora suppongo di poter ricominciare da capo, in modo che abbiate più chiara la frase con cui avevo iniziato il mio racconto.
Correva l’anno 2013. Lucy era da poco sparita dalla mia vita ed io, per altri motivi, non avevo più idea di cosa fare di essa. Della mia vita, intendo.
Aver finito le scuole medie sembrava un miracolo, una benedizione, se non fosse che avevo deciso di frequentare una scuola nella quale, per la mia solita pigrizia, venni subito bocciata. Peraltro stavo perdendo la mia personalità da rocker accanita e, la mia migliore amica, fondamentalmente, l’avevo già persa.
Tutte le mie certezze mi erano letteralmente crollate addosso. Così, tutte in una volta, senza un vero perché.
Solo amico/ nemico Destino sa con quale assurdo criterio, quella mattina del 12 Giugno 2013, venni sorteggiata in radio per ottenere un biglietto per un meet and greet con gli One Direction.
Io e Liz, per puro scherzo, mandammo un messaggio alla radio con i rispettivi cellulari, per partecipare a questo concorso di cui fondamentalmente non ci fregava nulla, scommettendo che se una delle due avesse vinto sarebbe dovuta andare all’incontro senza lamentarsi, ma mai, mai avremmo potuto immaginare che improvvisamente, nell’arco di tre giorni, una delle due si ritrovata con quel biglietto tra le mani senza la possibilità di scaricarlo su qualche vera fan.

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Capitolo 2
*** 17 Giugno 2013 ***


17 Giugno 2013. - Beh, quindi alla fine andrai a vedere gli One Direction? - Rise Liz, cercando inutilmente di entrare in un’altalena per bambini.
- Ma si dai. D’altronde cos’ho da perdere? - Risposi pizzicando le corde della sua chitarra, seduta su un muretto vicino.
- Almeno conosci i nomi dei componenti?
- Dunque, dovrebbero essere Harry, Louis, Niall e... E poi?
- Zayn? Mi sembra che uno si chiamasse così.
- Si, esatto! Zayn!
- Sono solo loro?
- Credo di si.
- Bene. E cosa pensi di fare una volta lì?
- Parlerò con loro, cosa dovrei fare?
- Parlagli degli Iron Maiden, vedi cosa ne pensano! - Ridacchiò, improvvisando una scomoda posizione sull’altalena.
- Già me li vedo: “Chi? Gli Iron cosa?!”
- Ma dove si svolgerà esattamente questo Meet and Greet?
- Non hai capito? Saranno loro a venire qui!
- Qui a Straffordshire? Solo per te?
- A quanto pare si! Che pena però. Pensa quante fan avrebbero voluto davvero conoscerli e loro stanno facendo tutta questa strada per una ragazza che conosce appena i loro nomi.
Per tutta risposta, Liz continuò a ridere. Sembrava non potesse farne a meno affrontando questo argomento.
- Non c’è niente da ridere! - Esclamai sarcastica.
- Un giorno potrai dire: “ Io li conoscevo quei ragazzi!”
- Quando avranno fatto la fine dei Backstreet Boys?
- Esattamente.
Questo, durante un noioso pomeriggio al Robinson Park, circa un mese prima del Meet and Greet. Avevo deciso di non divulgare la notizia, sopratutto tra le ragazze conosciute a scuola: molte di loro impazzivano per gli One Direction e se glielo avessi detto mi avrebbero sicuramente implorata di cedergli il biglietto. Lo sapevano solo Liz, mia madre, mia cugina Kat e Lucy... Si, quella Lucy.
Nonostante i nostri rapporti avessero preso una pessima piega, mi capitava ancora di incontrarla per strada e, bonariamente, di salutarla, e fu proprio in una di queste occasioni che mi venne in mente di raccontarglielo. Non ero sicura che fosse una buona idea, ma era come se in me esistesse ancora un pizzico di fiducia nei suoi confronti, senz’altro legata a tutti gli anni trascorsi insieme a raccontarci la qualsiasi. Non aveva mai raccontato i fatti miei ad altri, almeno credo, ma in ogni caso non è facile troncare definitivamente i rapporti con una persona che hai considerato la tua migliore amica per anni, così, da un mese all’altro, e allora, con la bontà e la capacità di perdono che mi caratterizzano, quel giorno mi fermai con lei sulla gradinata principale del campo sportivo in Angelus Street e le spiegai quanto accaduto.
- Mi prometti che non lo dirai a nessuno? Sai com’è, per questione di sicurezza.
- Tranquilla Jules, posso immaginare.
- Bene, mi raccomando eh!
- Dubiti di me?
- Non si sa mai, tutto qui. Meglio essere chiari.
- Sei stata chiara, non preoccuparti… Ma almeno poi mi presenti Zayn?!
- Non se ne parla! E’ già tanto se sto accettando di trascorrere una serata con questo gruppo di sfigati.
- Scusa ma, se li schifi così tanto, come mai hai accettato di tenere il biglietto?
- Si è trattato di una scommessa. Trascorrerò una serata diversa, quanto meno.
- Sfrutterai le tue doti di attrice facendo finta di essere una loro fan, immagino.
- Non lo so ancora, ci devo pensare.
- Ti ci vedrei bene! - Rise. - E pensi indosserai una delle tue solite maglie rock ‘n’ roll?
- Dipende dalla posizione che deciderò di assumere, Lucy. - Le risposi. - Anche se a dire il vero, sai... Mi era venuto in mente di, si insomma... di indossare qualcosa di diverso.
- Un vestitino, per esempio? - Intuì.
- Si, magari...
Lucy sorrise. L’ultima volta che mi aveva vista con un rudimentale vestitino fu in prima media, prima di diventare il maschiaccio che ero. Ed io non potevo credere di averlo ammesso, ma soprattutto, di averlo ammesso davanti a Lucy.
- Era da tempo che non parlavamo come oggi. - Disse lei, tutt’ad un tratto.
-  La colpa non è mia, e tu lo sai.
- A dire il vero Jules, continuo a non capire cosa ti abbia allontanata da me.
- Sei tu che ti sei allontanata, ed io ho avuto il mio tempo per riflettere. Allora l’ allontanamento è stato reciproco, è inutile girarci attorno.
- Beh... Potremmo rivederci, un giorno di questi.
- Non lo so... Io sono stanca di ascoltare bugie, Lucy.
- Io non ti ho mai mentito.
- Basta, ti prego. Basta! Non ti credo più, mi dispiace! Per me è difficile riallacciare con te il rapporto di una volta avendo preso consapevolezza delle cazzate che mi hai raccontato in questi anni. Non posso fare finta di niente e andare avanti come se nulla fosse!
- Va bene. Come vuoi tu, io lo accetto.
All’improvviso mi squillò il cellulare, era mia madre che mi aspettava  all’Ex Carosello. Una vecchia giostra abbandonata a pochi metri dal campo sportivo. Mi piace quel posto, è rilassante ed anche un po’ suggestivo ed è lì che ho affrontato tutte le discussioni più interessanti della mia adolescenza, tranne quella volta con Mick, un tipo che adocchiai in seconda media e che fermai poco lontano dalla scuola per confessargli esplicitamente i miei sentimenti. Lucy c’era. Osservò tutta la scena da dietro un’auto.
Avevo solo dodici anni, fisicamente mi trovavo in una fase intermedia tra “dark” e “ confetto rosa”. Vi lascio immaginare. Ma ancora mi viene difficile pensare che ebbi il coraggio di avvicinarmi ad un perfetto sconosciuto per dirgli che mi piaceva, soprattutto dal momento che, come sempre, l’impresa fu assolutamente fallimentare e, lo stronzetto, mi lasciò in lacrime sulle transenne del parcheggio. Capisco che non fossi Samantha Fox (è un esempio vintage, chi vuol capire, capisca), ma non penso sia stato molto carino farmelo capire con la frase: “Io non mi metto con le racchie di seconda media”. E per la cronaca, lui era di terza.
Quindi salutai freddamente Lucy e mi diressi sul posto.
- Cosa hai fatto di bello? - Mi chiese mia madre.
- Nulla di che, ho incontrato Lucy.
- Ah, capisco. Come sta?
- Bene, bene.
- Continua a raccontarti bugie?
- Si. Infatti rinnega di avermi raccontato bugie.
- Figurati se una bugiarda ammetterà mai di averti mentito. Lasciala perdere, non è un tipo da frequentare.

Non amo parlare con mia madre delle mie amiche, eppure capita molto spesso che ciò accada perché lei le ha sempre accolte con calore nella nostra casa e nella nostra vita e, di fatto, si sente in un certo senso partecipe delle mie amicizie. Non è una brutta cosa, a me fa piacere che mia madre conosca le persone con cui mi frequento, ma non sopporto quando riporta a galla discorsi che speravo di non intraprendere più, in particolar modo con lei.
Intanto, nella mia testa, vi era un pensiero fisso: il vestito. Ma quale?
Era un pensiero sciocco, da ragazzina, proprio ciò che sostanzialmente, non mi ero mai sentita.
Il mio armadio era diventato un mucchio disordinato di felponi scuri, camicie nere e borchie. Non v’era traccia alcuna di magliette che avessero colori diversi dal grigio e dal nero o di qualcosa di meno grezzo dei soliti jeans strappati, scoloriti e sciupati dal tempo e confesso che negli ultimi tempi ne stavo iniziando a soffrire.  
Mi sarebbe piaciuto un vestitino. Uno bello però, non la classica bomboniera rosa, magari blu, o perché no, anche rosso! Ma il blu mi stava veramente bene, c’era poco da fare. A mia zia piacevo e piaccio in rosa, sostiene che sia il mio colore, ma io non sono d’accordo, odio profondamente il rosa e tutti i suoi derivati.
Dunque, senza dirlo a nessuno, tanto meno a mia madre, decisi che il giorno successivo sarei andata in piazza a fare un giro per i negozi alla ricerca di qualcosa di carino e non troppo costoso. L’orgoglio va superato anzitutto con se stessi, questo è ciò che imparai in quel periodo nel tentativo di scrollarmi l’etichetta che in pochi anni mi ero cucita addosso e che di fatto, involontariamente, mi aveva fatta apparire agli altri come una persona sregolata, mascolina, ineducata e menefreghista, cosa che, per quanto mi riguarda, non ritengo di essere mai stata. Ed è proprio su questo principio, che capii che la cosa più saggia sarebbe stata essere onesta e mostrare il lato migliore di me con i ragazzi, ammettendo di avere fatto una cazzata partecipando al concorso, ma che comunque mi avrebbe fatto piacere trascorrere una serata con loro, in quanto artisti ormai famosi in tutto il mondo.

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Capitolo 3
*** Quel vestito un pò rock n' roll. ***


26 Giugno 2013
-Mamma, esco.
- Dove vai?
- Passo in biblioteca e vado a fare un giro.
- Va bene, prendi le chiavi nel caso in cui dovessi tornare prima, perché tra un po’ io e tua sorella usciamo.
- Ok.

Come promesso a me stessa il giorno prima, uscii, ma non per andare in biblioteca, né per una semplice passeggiata, bensì per andare a cercare un vestito per il Meet and Greet di cui non mi fregava assolutamente nulla.
Misi le chiavi nella mia rudimentale borsa di pezza e chiusi la porta, attraversai il vialetto e giunsi sul marciapiede, dove, ad attendermi c’era come sempre “il mio amico” Finn, un ragazzo con un grave handicap celebrale di circa trent’anni che abitava ed abita nella casa accanto alla mia. Si ferma lì quando aspetta l’autobus per la comunità, o semplicemente quando si confonde sul da farsi e allora comincia a girare a zonzo tra la mia abitazione e la sua.
- Buongiorno! - Mi salutò, tutto contento, muovendosi con quella sua solita postura curva e goffa.
- Ciao Finn!
- Come stai?
- Bene, grazie! - Risposi senza soffermarmi a parlare. Insomma, potrete capire, no? Quando inizia a parlare, Finn non finisce più e tra le altre cose, fa anche molto ridere, dato il modo in cui tende a storpiare le parole (anche se poi, alla fine, vuoi o non vuoi ti ci abitui).
Mi diressi allora verso la fermata e, superate le tre abitazioni successive, mi sedetti ad aspettare l’autobus che mi avrebbe portata in centro e nel frattempo cercai di farmi venire in mente i negozi meno “thrash” in cui fossi entrata quelle poche volte in cui mi era capitato di fare shopping negli ultimi mesi.
Non era una cosa semplice, io odiavo e odio lo shopping. Odio i negozi alternativi, i negozi in franchising, le multinazionali e chi più ne ha più ne metta, si salvano solo quei quattro sgabuzzini allestiti da privati negli angoli del centro o della periferia in cui generalmente non mettono piede le mie coetanee. Avrei certamente optato per uno di quelli.
Trascorsero approssimativamente quindici minuti e, finalmente, il bus arrivò. Ero l’unica a doverlo prendere in quella fermata, come al solito d’altronde. Il mio tranquillissimo quartiere, di fatto, è abitato principalmente da persone anziane che si spostano dalla loro poltrona solo per bisogni fisiologici o domestici: nulla di più esilarante, credetemi, sopratutto quando si alzano alle cinque del mattino per andare a buttare la spazzatura, puntuali per assistere al’intervento dei netturbini mentre svuotano i cassonetti.
Mi piaceva stare in quell’autobus prima che lo sostituissero con un vecchio rottame degli anni 90. Mi piaceva perché aveva tutto: aria condizionata, finestrini che si potevano aprire, ampio spazio tra un sedile e l’altro ed una gran quantità di posti a sedere.
Per tale motivo accorsi in fretta al mio solito posto (non potevo permettere che qualcuno lo occupasse prima di me), posai la borsa sul sedile accanto e tirai fuori le cuffie dalla tasca sinistra dei miei consumatissimi jeans cinesi.
In quel periodo ero piuttosto incerta su cosa ascoltare, non avevo mai le idee chiare e ciò quasi mi preoccupava, non perché temessi di non avere più nulla da ascoltare, bensì perché ero consapevole di stare cambiando. Il rock n’ roll... si, mi piaceva sempre, però... la musica non è solo rock n’ roll, ecco. Negli ultimi anni posso dire di avere fatto passi da gigante, musicalmente parlando, ed ora come ora il rock rappresenta solo uno spicchio del mio repertorio musicale, ma allora non era così, anzi, mi imbarazzava molto ammettere di starmi aprendo a nuovi mondi musicali e quindi di stare anche interiormente cambiando.
Ora come ora, a ripensarci mi viene da ridere: stavo crescendo. Stavo crescendo e non me ne rendevo conto.
Durante il tragitto il bus si fermò svariate volte e pian piano andò riempiendosi, la penultima fermata era la mia: Connery Place.
Scesi con cautela, tenendo una mano avvinghiata al primo sedile della fila, come faccio sempre da quella volta in cui, tornando da scuola, caddi miseramente inciampando tra le scalette ed il marciapiede, generando una risata generale tra tutti i ragazzi dal lato dei finestrini.
Accostai infine sul marciapiede e cominciai a guardarmi intorno alla ricerca di qualche nuova apertura a me sconosciuta, ma non vidi nulla che non mi fosse già ben noto, quindi mi diressi, cercando di mantenere un passo moderato, verso Red’s, un negozietto non lontano dalla fontana attorno alla quale si articola la piazza principale della mia città.
So cosa starete pensando: “wow, una piazza con una fontana!”. Ma non stupitevi troppo, non è nulla di quel che immaginate: si tratta solo di due chiese poste ad angolo, un teatro, un paio di negozi accettabili e al centro di tutto, tale fontana con due cavalli nell’atto di nitrire dalle cui narici sgorga acqua. Diciamo che conosco luoghi migliori, non perché questo sia brutto, vecchio o chissà che, semplicemente perché è popolato da persone incivili e non è cosa rara trovare i muri delle chiese imbrattati di bomboletta o l’acqua della fontana inquinata da cartacce, cicche di sigaretta e magari anche da pipì umana!
Senza dare troppo conto alla gentaglia che popolava l’ambiente circostante, alla quale dopotutto mi ero abituata, mi diressi al negozio, diedi una veloce strofinata alle scarpe sullo zerbino all’ingresso e feci per entrare.
- Buongiorno. - Esordii, cercando di non dare troppo nell’occhio.
- Buongiorno, le serve qualcosa, signorina?
- Starei cercando... un vestitino.
La commessa mi sorrise, probabilmente sorpresa dall’idea che fossi venuta a chiedere un capo d’abbigliamento femminile. Nonostante tutto però, era sempre stata molto gentile e rispettosa nei miei confronti, non facendo mai emergere in modo aggressivo la sua disapprovazione verso il mio modo di vestire, come invece tendevano a fare le commesse di certe multinazionali di cui per rispetto non faccio nome, dove comunque alla fine, molto spesso, trovavo proprio quei capi che mi era difficile trovare in altri negozi.
- Che genere di vestito cerca, esattamente?
- Nulla di troppo complicato, e possibilmente sui colori scuri.
- Dunque, laggiù dovremmo avere qualcosa, mi segua.
- Okay.
Giungemmo al reparto specializzato e mi si aprirono sotto gli occhi una decina di scaffali tempestati di gonne, pizzi, colori e lustrini. L’ultimo reparto in cui avrei pensato di trovarmi, un giorno.
- Con colori scuri abbiamo questo tubino color petrolio, prettamente serale. - Mi spiegò la commessa, tirando fuori una cruccia dalla quale pendeva un orrore attillatissimo color fogna, altro che petrolio.
- Ehm... Nient’altro? - Chiesi, in evidente disagio.
- Si, abbiamo dell’altro. A lei che colore piacerebbe, esattamente? Così so da subito cosa prendere e cosa scartare.
- Qualcosa con il blu, se possibile.
- Con il blu, va bene...
E cominciò a cercare tra un abitino e l’altro, estraendo a poco a poco qualsiasi capo contenesse del blu.
- Secondo me, per te andrebbe bene qualcosa di un po’ attillato perché non mi sembra tu abbia curve particolarmente evidenti. - Mi consigliò, mettendola su un tono scherzoso.
- Cavolo, è vero, ma non amo molto gli abiti attillati. - Risi.
- Guarda, tu prova questo. - Disse poi, mostrandomi un modello. - Sta un po’ stretto sui fianchi, poi la gonna si allarga ricordando un po’ gli abiti vintage anni cinquanta, non so se hai presente.
- Si, capisco cosa intende. Beh, lo provo allora.
Quindi mi diressi in camerino, curandomi di chiudere bene la tenda e senza perdere tempo, mi spogliai della “robaccia” ed indossai il vestito. Non mi sembrava vero, non ricordavo neppure cosa si provasse ad indossare un capo che comprendesse una gonna. Figuratevi che pochi mesi prima, al diciottesimo compleanno di mia cugina mi ero presentata con una canottiera a strisce da lei stessa prestatami ed un paio di jeans, mentre tutte le altre erano di un’eleganza indefinibile, munite di cinturoni con fiocchi, tacchi alti e borsette scintillanti: roba che non avrei indossato neppure nei miei peggiori incubi.
Sistemate le bretelle, presi un respiro ed uscii dal camerino per mostrarmi alla commessa:
- Beh, come le sembra? - Chiesi con aria incerta.
- Stai bene - Sorrise - anche se, a mio parere, ci vorrebbe un cinturino per evidenziare ulteriormente i fianchi.
- Dice?
- Si, aspetta un momento, dovrei averne uno lasciato da una cliente proprio qui sul bancone... Ah, trovato!
Si chinò sul mio bacino ed allacciò il cinturino, assicurandosi di non stringere troppo.
- Allora? Che ne pensi? - Mi chiese, soddisfatta.
- Non è male.
- Vuoi rifletterci un po’?
- In effetti si.
- Va bene. Appena hai finito di rivestirti puoi lasciarlo sul bancone, ci penso io a sistemarlo. - Mi pregò, come sempre molto gentilmente.
- La ringrazio.
Quindi mi svestii e rindossai nuovamente la mia maglia nera infinitamente larga ed i miei jeans stropicciati.
- Casomai torno più tardi. - Avvisai la commessa.
- Te lo tengo da parte fino al pomeriggio, allora.
- Grazie mille, arrivederci!
- Ciao!
E con quelle parole, mi diressi fuori dal negozio, consapevole che difficilmente avrei trovato qualcosa di meglio, ma d’altronde, era giusto tentare.
La mia seconda tappa fu W.I.N.G.S, un piccolo outlet dietro il teatro che vende roba buona a prezzi stracciati. Raramente trovavo capi di mio gradimento, la dentro, ma come si suol dire, non ci si ferma mai alla prima proposta e per questione di principio decisi comunque di farvi un salto.
- Salve! - Salutai, entrando.
- Buonasera. - Rispose la commessa senza troppo clamore, indaffarata com’era a fare delle telefonate.
Capendo la situazione, mi curai di non disturbarla e rispettando il religioso silenzio di quel negozio, cominciai a muovermi “furtivamente” tra uno scaffale e l’altro. Per un momento mi soffermai su un abito ad altezza ginocchio, tutto nero con ricami blu sul petto. La commessa, notando il mio interesse si voltò e, ignorando completamente quello che è il concetto di gentilezza mi rivolse il peggiore dei consigli... se consiglio può definirsi:
- Quello non fa per te, signorina.
Definiamola un’affermazione offensiva, che forse (anzi, sicuramente) è meglio.
- Perché, scusi? - Le risposi, cercando di mantenere dei toni pacati.
- Eh... Per come ti vesti. Quello è per le ragazze con una bella postura.
Ennesima affermazione offensiva e, tra le altre cose, anche senza nesso: cosa diavolo c’entrava il mio modo di vestire con la mia postura?
- Beh... Capirà che non posso indossare una maglia larga e un paio di jeans per una serata elegante.
- Su, su... Scherzavo... Vattelo a provare!
- Certo, scherzava, come no. - Dissi tra me e me, parecchio alterata.
Ignorando comunque le parole della simpatica commessa, tirai via il vestito dalla cruccia e mi diressi in camerino.
Non so come mai, non so spiegarne esattamente il motivo, ma per la prima volta dopo quasi tre anni, specchiandomi, mi stavo chiedendo nel profondo che effetto avrei potuto fare sui ragazzi. Non sui ragazzi per strada, ma su quei ragazzi: i quattro damerini della band più amata dalle mie coetanee.
- Con un lenzuolo addosso sembrerei più formosa... Viva le mie curve! - Sussurrai, in tono ironico, facendo ritorno nel camerino.
Mi rivestii velocemente, frettolosa di andarmene e riposai il vestito sulla sua cruccia, agli occhi vigili della commessa:
- Com’era il vestito? - Mi domandò, con un’espressione che anticipava il fatto che lei avesse avuto ragione.
- Non andava.
- Te lo avevo detto io!
- Tanto non mi piaceva neppure. Arrivederci.
Io la salutai, molto educatamente, e  lei non ebbe neppure la cortesia di rispondermi.
La mattinata stava volando e dato che non c’è due senza tre, pensai di recarmi in un ultimo negozio prima di decidere se prendere l’abito di Red’s o meno. Il negozio era niente meno che Kiss the Girl: sembra il titolo di un brano degli One Direction, ma è la merda della merda a Straffordshire, il regno incantato di oche e galline, il peggior luogo in cui una come Jules Parker, cioè io, potesse recarsi. Si tratta infatti di una boutique di circa 400 mq, straripante di colori fluo, pois e strass vari, per questo piaceva tanto alle mie coetanee, e sicuramente, in mezzo a tutto quello schifo, avrei trovato qualcosa di interessante per l’occasione.
- Buongiorno. - Dissi ad una commessa, attirando la sua attenzione.
- Ciao, posso aiutarti?
- Cerco un vestitino per... per un diciottesimo.
- Sei tu la festeggiata?
- Dimostro diciotto anni? - Risi.
- Io chiedo, non si sa mai al giorno d’oggi! Dunque, io ho delle crucce da sistemare, ti lascio al mio collega che saprà aiutarti, va bene?
- Ehm... Okay, va bene!
- Vado a chiamarlo, ti raggiungerà subito, tu intanto puoi dare un’occhiata al reparto là a destra - Mi consigliò.
- Grazie mille.
Rassicurata dalla disponibilità della commessa, mi diressi al reparto sperando di non perdermi in mezzo a pois e fiocchetti rosa.
- Signorina? - Mi chiamò poco dopo una voce relativamente maschile.
Mi voltai di scatto: - Parla con me?
- E’ lei ad aver bisogno del vestitino?
- Si, sono io. - Arrossii, come al solito imbarazzata all’idea di doverlo ammettere.
- Ah, perfetto! Io sono Jonas, puoi chiamarmi Gino.

(Jonas detto Gino: esilarante, non trovate?)

- Hai trovato qualcosa là in mezzo? - Aggiunse poi.
- Non proprio, a dire il vero!
- Descrivimi un po’ il tipo di vestito che cerchi perché da come sei vestita, deduco tu abbia delle richieste particolari. - Intuì.
- In effetti non vorrei nulla di troppo colorato o luccicante.
- Ma come?? Guarda, secondo me, con questi bei capelli biondi e questi occhioni azzurri staresti divinamente in rosso! - Cominciò a suggerirmi, facendo emergere sempre più una spiccata ambiguità.
- Mio dio, no! - Risposi, nascondendo il viso dietro il braccio.
- Dai retta a me, ora ti prendo un bell’abitino rosso adatto alla tua età e lo vai a provare dentro il camerino, poi se non ti piace, optiamo per qualcos’altro, va bene?
 Sbuffai: - Okay...
Non mi sono mai piaciute le persone insistenti, e quel commesso era insistente.
Non ebbi neppure il tempo di riflettere su come potesse essere un abito scelto da lui, che mi si presentò con una sottospecie di minigonna ascellare completa di merletto sul collo e fiocco nero alla vita.
- Devo proprio indossarlo? - Chiesi, ripugnata.
- Fallo per me, dai. Una bella ragazza come te deve valorizzare il proprio corpo.
- Come no. - Dissi tra me e me, dirigendomi verso il camerino.
E per l’ennesima volta slacciai via le scarpe, sfilai i jeans, tolsi via la maglia per dare posto a quell’obbrobrio natalizio.
- Che si dice là dentro?! - Esclamò intanto Jonas detto Gino.
- Stringe un po’ sulle spalle.
- Esci, fammi vedere.
Oltrepassai la tenda, tutta imbronciata e con la peggior postura che si fosse mai vista.
- Su con la schiena!! - Mi richiamò - Il materiale è elastico quindi pian piano prenderà la forma delle tue spalle signorina, poi guarda come ti sta bene in vita... Devi uscire con un ragazzo?
- Non... Non esattamente. Perché me lo chiede?
- Perché ad occhio non mi sembri un tipo che ama i vestitini, dico bene?
- In effetti è vero... Li detesto.
A quella frase sorrise senza chiedermi più nulla.
- Se ti piace puoi sempre pensarci, non posso obbligarti a comprarlo. Vuoi provare qualcos’altro?
- Qualcosa con il blu, magari?
- E vada per il blu!
Jonas si impegnò a cercarmi qualcosa di meno “bamboloso” che comprendesse il colore blu, ma non solo i risultati furono pessimi, dati i miei gusti difficili, anche i prezzi lasciarono molto a desiderare, quindi uscii dal negozio nella tarda mattinata e decisi che la scelta più giusta sarebbe stata tornare da Red’s e acquistare il modellino anni cinquanta.
Non era facile che io apprezzassi un vestitino, in particolar modo su me stessa, ma confesso che quello non mi dispiacque affatto e certo non potevo farmi scappare una tale occasione.
Era un’abitino semplice, quasi banale, ma non m’importava, ciò che contava davvero era che io mi ci sentissi bene e a mio agio.  

Ah, per la cronaca, non mi resi conto della necessità di un paio di scarpe eleganti fino al giorno del Meet and Greet, ma quella è un’altra storia. 

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Capitolo 4
*** Meet and Greet ***


Martedì 16 Luglio 2013.

Come ti senti per stasera?”,Mah, come al solito. Sai che non mi interessano gli One Direction.”
Non ti senti in ansia?” , “No va bè, figurati. Non era mia intenzione incontrare il gruppo, lo sai”. “Ma neanche un pochino?” , “Un po’, ma solo perché non conosco i loro brani”.
Potrei riassumere quella giornata in un paio di frasette di questo tipo, ma non lo farò. Non riassumo mai, non così tanto.
Confesso anzi che, nonostante il mio evidente disinteresse musicale verso quei ragazzi, ero molto, molto in ansia.
Avevo deciso di vestirmi bene, come se all’improvviso, dopo tanti anni, stesse cominciando di nuovo ad esistere in me la necessità di curare il mio aspetto fisico per suscitare impressioni piacevoli nella mente dei miei coetanei.
Di fatto, mi svegliai più contenta del solito. Ora sapevo che all’incontro con i ragazzi sarei stata me stessa, altro che finta fanatica, e forse anche per questo ero di ottimo umore, amo la sincerità. Inutile dire che non lo avrei mai e poi mai ammesso di fronte a Liz, o di fronte a mia madre. Io ero ancora la rockettara irremovibile dal suo genere e dal suo stile, o almeno così diceva il mio cervello da quattordicenne, quasi quindicenne orgogliosa.
Quel giorno non uscii, non scrissi versi, non disegnai, non feci assolutamente nulla di ciò che ero solita fare, presa com’ero dall’incontro serale con i tanto discussi One Direction.
Gli One Direction.
- Harry, Niall, Louis e Zayn... Harry, Niall, Louis e Zayn... non dimenticare Jules.
Avrei fatto una bella figura di merda dimenticando i loro nomi, quindi dovevo allenarmi e dovevo anche ripetere a me stessa, sempre per orgoglio, che l’ansia era un caso e che in fondo non me ne fregava  nulla se quella sera avrei incontrato gli idoli musicali di quasi tutte le mie coetanee. Bastava convincermi e a furia di mentire poi ti convinci davvero, ed io puntavo proprio a quello. Tra l’altro Liz, quel pomeriggio, mi telefonò svariate volte, introducendo tutte le chiamate con una fragorosa ed irritante risata che sembrava dire: “sfigata! sfigata!”.
Certo, lei non poteva sapere che in fondo ero emozionata e che, tra le altre cose, avrei finalmente visitato dall’interno il lussuosissimo Hotel Montgomery in Montgomery Street. Tante volte ci capitava di passarvi di fronte e rimanere affascinate dalle luci della hall, consapevoli purtroppo, di non potervi entrare. I ragazzi infatti, avevano preso una stanza proprio lì, all’interno della quale sarebbe avvenuto questo Meet and Greet in forma assolutamente top secret.

In serata, accompagnata da mia madre, mi recai in tale albergo.
- Tesoro, vuoi che ti accompagni dentro? - Mi chiese, posteggiando l’auto.
- No mamma, tranquilla.
- Sicura?
- Si.
- Sei emozionata, dì la verità.
- Forse un pochino...
Non potevo mentirle, lei mi conosceva troppo bene per cedere al mio orgoglio.
- Divertiti. - Sorrise.
- Grazie, ciao ma’!
Detto ciò, afferrai la mia borsa di pezza e scesi dall’auto cercando di non cadere. Non ve l’ho ancora detto? Dimenticai di acquistare un paio di scarpe decenti, quindi mi feci prestare degli scomodissimi sandaletti col tacco da mia madre.
Trovato l’equilibrio mi diressi verso la famigerata hall, tentando di non muovermi come un rinoceronte affetto da labirintite acuta.
La sala era splendida: ampia, luminosa ed anche un po’ retro, con divanetti di velluto rosso sparsi  tra un angolo e l’altro e grandiosi lampadari con decorazioni in argento.
Superato lo shock iniziale, il mio sguardo si rivolse verso il bancone della reception:
- Sono Jules Nicole Parker, sono qui per l’incontro con gli One Direction. - Dissi all’anziano e galante receptionist, il quale però sembrò non capire bene.
- Come scusi?
- Ho un pass per incontrare gli One Direction.
La sua espressione si fece nuovamente più perplessa. Era evidente che mi stavo rivolgendo alla persona sbagliata.
“Ottimo, ed ora?”
Se ero giunta sul posto con molta sicurezza e nonchalance, improvvisamente mi ritrovai a guardarmi attorno con aria presumibilmente spaesata, nella speranza che un qualche Man in black con bombetta venisse a rapirmi per poi trasportarmi nella stanza adibita, un po’ come succederebbe in un film d’azione.
Ma non vedendo l’ombra di nessun bodyguard o qualcosa del genere, replicai:
- Scusi signore, oggi sarebbe previsto un incontro di una fan, che teoricamente sarei io, con un gruppo musicale, gli One Direction in una delle stanze del vostro hotel. A chi posso rivolgermi?
- Lei ha prenotato la stanza?
- No! Non l’ho prenotata io, ma il gruppo, ed ho bisogno di sapere dove posso trovarli!
Tanto per cambiare, l’uomo mi guardò come se stessi parlando in greco antico.
Stavo cominciando a pensare che si trattasse di una presa in giro e che avessi conservato tutta quell’ansia per nulla. Probabilmente avrei lasciato perdere se non fosse che sul più bello saltò fuori dall’ascensore un tipo ben vestito che mi invitò a seguirlo.
Entrammo  nuovamente in ascensore ed ebbi il tempo per osservarlo e rendermi conto che si trattava di un ragazzo estremamente bello, sulla trentina, biondo e con due occhioni verdi da togliere il fiato. Forse era tedesco, non saprei dirlo con certezza, ma il naso c’era, la parlata invece, non molto.
Ci fermammo al sesto ed ultimo piano. Le porte dell’ascensore si aprirono, emettendo dalla cassa sul tetto un tintinnio che ricordava quello dell’ascensore dell’ambulatorio in cui si trovava lo studio del mio pediatra.
Il corridoio non era particolarmente lungo, contrariamente a quanto immaginassi, ma era di un’eleganza e di una raffinatezza che fino ad allora potevo dire di sconoscere: le mura erano d’intonaco color avorio nella parte superiore e con una carta da parati antica giallo ocra nella parte inferiore, mentre il pavimento era ricoperto da un’aristocratica moquette rossa, mentre, tra una porta e l’altra, spiccavano delle lanterne a forma di giglio con lo stelo in oro, che emettevano una gradevole luce fioca. Erano presenti anche due enormi lampadari da cui pendevano cristalli, ma in quel momento erano spenti, probabilmente non c’era ancora abbastanza buio, oppure non c’era abbastanza gente per metterli in mostra come sono soliti fare i proprietari di Hotel di lusso com’era ed è il Montgomery.
Il bel tedesco, mi condusse a passo più o meno svelto verso la camera 604, dove evidentemente si trovavano i ragazzi.
- Buon divertimento, signorina. - Disse poi, lasciandomi all’ingresso.
- Grazie mille.
Presi un respiro profondo e sospirai, cercando di contenere un’ansia prevista.
“Ora aprirai questa porta, saluterai la band e con molta nonchalance spiegherai loro che non sei una fan”.
Poggiai la mano sulla maniglia e, preso un altro intenso respiro,aprii lentamente la grande porta in legno pregiato.
I ragazzi si voltarono di colpo, come se non se lo aspettassero. Forse avrei dovuto bussare.
- Ciao! - Esclamai subito, in tono un po’ esaltato.
- Ciao Jules! - Risposero loro, all’unìsono.
- Benvenuta! - Aggiunse Niall.
Mi addentrai nella camera, chiudendo la porta e notai immediatamente che contrariamente a quanto ricordassi c’era anche un quinto membro di cui non conoscevo il nome. La situazione generò in me ulteriore sconforto e cominciai a muovermi in modo disorientato, indecisa su dove sedermi.
- Prendi quella sedia. - Suggerì Zayn, notando il mio disagio. E mi indicò una sfarzosa sedia posta nell’angolo in fondo alla camera.
- Giusto, grazie!  (La solita imbranata).
Dunque mi diressi verso la sedia e la trasportai a fatica davanti i due letti su cui i ragazzi erano comodamente seduti nelle posizioni più disparate:
Zayn con i piedi in aria;
Niall steso in orizzontale, con la testa penzoloni;
lo sconosciuto con i piedi sul cuscino;
Harry e Louis erano gli unici seduti in modo normale, probabilmente per semplice mancanza di spazio. Il primo giocherellava con i suoi capelli, l’altro faceva oscillare un ciondolo.
Ed io ero lì, dinanzi a loro, seduta rigidamente su una sedia, con le gambe accavallate per timore di mettere in mostra zone indesiderate.
- Bene Jules, quanti anni hai? - Chiese Harry, cercando di sciogliere il ghiaccio.
- Quattordici, quasi quindici.
- Ti facevo più grande! - Esclamò Niall.
- Grazie... - Risposi senza troppo clamore.
- Beh? Cosa vorresti chiederci? - Aggiunse subito Zayn, in tono fiero, risollevandosi dalla sconveniente posizione.
- Io, ehm... Wow! Gli One Direction!
- Wohoo! - Rise Niall, sollevando squallidamente un pugno alla Judd Nelson su Breakfast Club.
Bella figura di merda. ‘Wow! Gli One Direction’? Da dove diavolo mi era uscita quella frase? Una fan avrebbe avuto sicuramente mille cose da chiedere, magari legate al significato delle canzoni, o alla loro vita privata, o al loro passato. Eppure no... no. Non me la sentivo proprio di mentire, anche se in quell’istante giuro che sarei stata tentata. Ma non lo feci, non sarebbe stato da me, ed oltretutto me lo ero ripromessa: sarei stata assolutamente sincera. D’altronde le conseguenze potevano essere due: o si sarebbero arrabbiati, o sarebbero scoppiati a ridere.
 
- Ragazzi, io dovrei dirvi una cosa.
- Dica, signorina! - Disse Louis immediato, gettandosi di spalle sul letto.
- Io, beh... Ecco... Non...
- Su, non tenerci sulle spine! - Ridacchiò Zayn, pensando probabilmente che stessi per raccontare qualche stronzata.
- Allora, io... non sono una vostra fan. Conosco appena i vostri nomi e non ho idea di quali altri brani abbiate composto a parte “What makes you beautiful”.
Improvvisamente, tutti si sollevarono di scatto e mi guardarono con delle espressioni che erano un misto tra perplesse e scioccate.
- Cosa? - Proruppe Louis, schiudendo le labbra.
- Ho partecipato al concorso per scherzo. Si trattava di una scommessa con un’amica secondo la quale se una di noi avesse vinto il biglietto sarebbe dovuta andare al Meet and Greet senza scaricare il biglietto su nessuno, ma non immaginavamo che su migliaia di persone avrebbe vinto proprio una di noi!
- Okay... - Sussurrò Harry, accennando quella che voleva essere una risata - Me ne sono capitate di stranezze da quando sono entrato nel mondo dello spettacolo, ma una situazione come questa mi è assolutamente nuova!
Mi sentivo profondamente mortificata, eppure la camera si stava riempiendo pian piano di risatine sempre più forti, alle quali mi unii presto con piacere. In pochi istanti, queste si concretizzarono in una sincera risata collettiva in vista di una serata che si prospettava più piacevole di quanto potessi immaginare.
- Allora. - Esordì lo sconosciuto (che mi disse successivamente di chiamarsi Liam), smettendo gradualmente di ridere. - Adesso potremmo tornarcene ognuno per i fatti propri, nel senso: Jules a casa sua e noi qui, oppure potremmo ordinare uno champagne e fare una partita a carte. Voi che ne dite?
- Mi piace l’ultima proposta! - Sorrise Harry.
-  Sono d’accordo. - Continuò Zayn, sollevandosi dal letto e battendo i palmi delle mani sulle ginocchia.
- Quindi non siete arrabbiati? - Chiesi, sentendomi ancora in colpa.
- Per quanto mi riguarda, no. - Rispose Louis, tirando fuori una felpa ed un mazzo di carte dalla sua valigia.
Intanto Liam stava chiamando la reception dal telefono dell’albergo per chiedere la bottiglia di champagne:
- Scusi, potrebbe far portare una bottiglia di champagne ed un bicchiere di succo d’ananas nella camera 604? La ringrazio.
- Per chi sarebbe il succo d’ananas? - Risi. - Spero non per me.
- Invece è proprio per te, bimba.
- Io odio il succo d’ananas... E ho quasi quindici anni!
- Non preoccuparti, l’ho ordinato solo per non destare sospetti. Devi sapere che in questi alberghi i camerieri hanno  l’obbligo di non portare alcol ai minorenni all’interno delle camere, e dato che tu lo sei, fingeremo che abbia preso un succo. Ora hai capito?
- Ora si. Meno male, temevo non voleste darmi alcolici.
- Trasgressiva la ragazza! - Ridacchiò Niall, accennando quella che voleva essere l’imitazione fisica di un ubriaco.
- Non sono trasgressiva, bevo alcol da sempre, e non mi sono mai ubriacata!
- Ma che brava persona.
- Perché mi prendi in giro?
- Perché sei piccolina e adoro come ti auto contraddici cercando  di trovare giustificazioni a qualunque cosa tu faccia o dica.
Non che lui fosse un uomo vissuto, anzi. Ma aveva ragione. Come aveva fatto a capire in pochi minuti quel mio pessimo vizio di trovare giustificazioni a tutto ciò che dica e susciti disapprovazione da parte degli altri?
Confesso che di fatto, non riuscii a rispondergli e mi limitai ad abbassare umilmente il capo. Odiavo e odio questo mio vizio, talmente tanto da nasconderlo spesso perfino a me stessa. Non avrei saputo difendermi, o meglio giustificarmi, soprattutto dal momento che nessuno me lo aveva mai sbattuto in faccia prima di Niall. Sarà stato lui troppo schietto? O la gente troppo buona?
Intanto, in attesa delle bibite ci sedemmo intorno al tavolo rotondo vicino l’angolo del letto in fondo e cominciammo a discutere su quale gioco fare:
- Quale gioco ti piace fare con le carte, Jules? - Chiese Zayn, dandomi la precedenza.
- A dire il vero so giocare solo a scopa!
- Ma guarda caso... - Ridacchiò a bassa voce, suscitando l’altrettanta risata degli altri membri del gruppo.
- Non è divertente! - Esclamai turbata.
- Si scherza, non preoccuparti.
- Se lo dici tu!
- Quindi vada per Scopa?
- Vada. - Rispose prontamente Harry.
- Contenti voi. - Disse Niall, tutto concentrato a tirarsi via la scarpa destra con il piede sinistro.
Gli altri si limitarono a fare cenni di approvazione poco convinti, scuotendo il capo. Quindi Zayn fece velocemente per distribuire le carte e nel frattempo giunse in camera il cameriere, il quale poggiò accuratamente i sei bicchieri, di cui il mio pieno di succo d’ananas, su un vassoio d’argento, che a sua volta posò al centro del tavolo accompagnandolo alla bottiglia di champagne che aveva galantemente stappato pochi secondi prima davanti ai nostri occhi.
- Grazie Sebastian! - Salutò Malik.
- Lo conosci?
- No, noi chiamiamo così tutti i maggiordomi.
- Non è un maggiordomo, ma farò finta di nulla.
- Sei sempre così pignola?
- Mi trovi pignola?
- Abbastanza.
- Capisco. Beh... Qualcuno dividerebbe con me il succo?
- Neanche per sogno! - Rise Louis, versando lo champagne nel proprio calice. - Chiedilo a Harry!
- Mi rifiuto! - Ribatté il riccioluto, sollevando le mani come se volesse difendersi.
- Niall?
- Non guardare me!
- Neanche me! - Si precipitò Liam, prima che potessi chiederglielo.
- E se ce lo dividessimo tutti quanti? Più siamo, meno diventa.
I ragazzi si scambiarono tutti degli sguardi pietosi che sembravano dire “Beh? La facciamo contenta?”.  E in effetti accettarono, così versai un po’ di succo d’ananas negli altri bicchieri ed annunciai un brindisi:
- Al primo Meet and Greet senza fans della storia!
Sollevammo i bicchieri, facendoli sbattere tra loro, come in qualunque brindisi che si rispetti e dopo svariate annusate accompagnate da espressioni di disgusto cominciammo a sorseggiare quell’orrore giallo in scatola, ansiosi di dare posto ad una frizzante colata di champagne.
- Disgustoso! - Esordì Harry, sollevando il bicchiere vuoto e posandolo sul tavolo.
- Concordo! - Risposi, ripetendo il gesto.
- Ragazzi, io ho dimenticato come si gioca a scopa. - Rise Niall, scoprendo le carte.
- Volevo fare una battutaccia, ma non mi sembra il caso. - Rispose Zayn, maliziosamente.
- Fammi indovinare, ci sono di mezzo io?
- Esattamente, Jules.
- Stai diventando pesante!
- La smettete di litigare, voi due? - Brontolò Louis, sfogliando ripetutamente le sue carte.
- Non stiamo litigando. Si scherza. Vero Zayn? - Sorrisi.
- Certamente! - Esclamò, fregando una donna di bastoni dalle quattro carte centrali.
La partita non durò molto, giusto il tempo che Liam facesse scopa e che Harry facesse emergere l’adolescente che era in lui facendosi venire in mente di giocare ad ‘obbligo o verità’. D’altra parte sarebbe stato un ottimo modo per conoscerci. Quindi, perché no?
- Comincia chi ha proposto. Vai tu, Harry! - Propose Liam, indicando il diretto interessato.
- Okay. Dunque... Niall. Obbligo o verità? Cavolo, non lo dicevo dal terzo anno delle superiori!
- Obbligo!
- Che noia, ero sicuro avresti detto verità. Beh, non sono bravo con gli obblighi, fatti un altro bicchiere di champagne e via.
- Detto, fatto! - Proruppe entusiasta, afferrando la bottiglia.
- Che fantasia, Harry. - Si complimentò Liam, sarcasticamente. - Scelgo te, Zayn.
- Verità!
- Ti sei incazzato quando Jules ha ammesso di non essere una nostra fan?
- Devo essere sincero, giusto? Un po’ si, ma solo un po’.
- Si spiegano tante cose, adesso. - Affermai, accennando una risata. - Beh? Tocca a me? Allora... Louis.
- Verità!
- Ottimo. E’ vero che tu ed Harry vi siete scambiati dei baci pubblicamente?
- Cosa?! Mio dio, no! - Esclamò terrorizzato.
- Sicuro?
- Sicuro! Dove diavolo hai letto questa roba?
- In internet, mi sembra ovvio!
- Non sei una nostra fan, ma le cazzate le noti, eh? - Ridacchiò Harry, piuttosto rilassato.
- Quelle mi divertono! Tocca a te, Zayn?
- Si, e scelgo te!
- Temo qualsiasi scelta io possa fare, ma solitamente scelgo verità, quindi vada per quella.
Il ragazzo accennò un riso prima di formulare la domanda, generando in me un lieve timore.
- Dì un po’... Perché hai partecipato al concorso?
- Come sarebbe a dire ‘perché hai partecipato al concorso?’, ve l’ho già detto, si è trattato di una scommessa.
- Non è perché in fondo, magari, ti stiamo un po’ simpatici?
- No. Mi dispiace, almeno non musicalmente.
- E cosa avremmo che non va? Illuminaci.
- Obiettivamente non avete nulla che non vada, ma a me non piace il vostro genere.
- E cosa ti piace? - Lo anticipò Harry.
- La musica metal, il rock n’ roll...
- Come i Guns ‘N’ Roses?
- Si, esatto! Li conosci?
- Tutti conoscono i Guns ‘N Roses!
- Dovevo immaginarlo! - Disse Zayn, rifacendosi avanti.
- Puoi prendermi la chitarra, Niall? - Chiese Harry, notando lo strumento proprio accanto alla sedia dell’amico.
- Tutta tua. - Rispose subito, porgendogliela.
- Grazie. Allora Jules, cosa vorresti suonato?
- Ehm, non saprei, sono già le 23 : 35.
- Hai sonno?
- Non molto.
- Allora che t’importa? Facciamo così, dato che ci sottovaluti tanto, ti andrebbe di mettere alla prova la nostra cultura musicale?
- Non vedo perché no!
- Vada, allora. Ma ad ogni pezzo che sappiamo suonare, ti tocca un bicchiere di champagne!
- Si, cazzo!! - Esclamò Zayn, alzandosi e battendo le mani.
- Voi altri, siete d’accordo?
- Si, assolutamente! - Sorrisero Niall e Liam.
- Io mi astengo da ogni responsabilità! - Indietreggiò Louis, visibilmente divertito dalla situazione.
Dunque simulai il gesto di rimboccarmi le maniche, accavallai le gambe e poggiai il gomito sul tavolo:
- Sei pronto, musicista?
- Prontissimo! - Rispose, finendo di accordare la chitarra.
- Iron Maiden, The trooper.
In men che non si dica, Harry pigiò le giuste corde e improvvisò l’assolo iniziale, con i dovuti errori, data la velocità della canzone, ma dimostrando comunque di conoscerla.
- Primo bicchiere per Jules! - Esclamò Niall, versando una buona dose di champagne.
- Vacci piano, amico. - Lo riprese Zayn, notando l’eccessiva quantità.
Osservai il mio bicchiere, compiaciuta e lo afferrai senza pensarci due volte: - E se devo soffrire... Soffriamo. Alla salute! - Dissi allora, sollevandolo.
- Ti piace, eh? - Ridacchiò Harry.
- Abbastanza. - Sorrisi, passandomi un dito sulle labbra bagnate. - Allora, allora... Fammi pensare... Alice Cooper, Poison.
Improvvisamente, Harry sbarrò gli occhi e allargò le narici, guardandosi poi intorno con uno sguardo buffissimo che chiedeva evidentemente aiuto, ma questo aiuto non arrivò ed anche ad egli toccò la sua generosa dose di champagne.
- Alla salute. - Disse anche lui, imitando i miei gesti.
- Com’è? Buono?
- Anche troppo... - Singhiozzò, imbracciando nuovamente la chitarra e facendomi poi cenno di dare un altro titolo.
- Aerosmith, Rag Doll.
- Piacere,sono un fan degli Aerosmith! - Mi annunciò in toni scherzosamente superbi, mostrando un malizioso sorriso.
- Ottimo! - Ironizzai, preparandomi a ricevere il bicchiere.
- Non preoccuparti ragazzina, se ti dovessi ubriacare ci penserà James a riaccompagnarti a casa! - Specificò Zayn.
- Chi, scusa?
- Il biondino che è venuto a prenderti all’ingresso.
Ah, e così si chiamava James. Mica male. Suppongo me lo avesse detto perché era uno gnocco da paura e certo immaginava che non mi sarebbe dispiaciuto salire in auto con lui, ma non in stato di ebbrezza!
- Okay, ti do un altro brano Harry. Se sai suonare anche questo, mi fermo, almeno con lo champagne.
- Come vuoi!
Presi un respiro profondo e, consapevole del fatto che non fosse poi così difficile, pronunciai il titolo: - Extreme, More than words.
Tutto il gruppo, improvvisamente, cominciò a scambiarsi sguardi complici. Evidentemente faceva parte del loro repertorio casalingo e non a caso, Harry cominciò presto a suonare e, al momento giusto, gli altri gli andarono dietro in coro interpretandone il testo:

“Saying I love you
It’s not the words I want to hear from you
It’s not that I want you
Not to say but if you only do
How easy it would be to show me
how you feel.

More than words, is all you have
to do to make it real...”


- Okay, mi arrendo, ma solo perché non voglio ubriacarmi! - Conclusi.
- Puoi finire lo champagne, se vuoi. - Affermò Niall, forse impaziente di vedermi ubriaca.
- Gentilissimo. - Borbottai. - E alla salute, di nuovo!
- Devi sapere che questo brano lo cantavamo sempre prima di cominciare a scrivere dei pezzi nostri. - Mi raccontò Louis, nel frattempo. - Noi lo adoriamo.
- Ma se apprezzate tutta questa buona musica come mai non componete nulla del genere?
A quelle parole, i ragazzi si scambiarono un altro sguardo complice, per poi tornare subito a me:
- Conosci Little Things? - Mi chiese all’improvviso Zayn, addolcendo i toni.
- No. E’ un vostro pezzo?
- Si. E’ un estratto dal nostro ultimo album ed è ispirato proprio a ‘More Than Words’.
- Beh... Fa sentire!
Harry annuì al suo posto, riposizionò le dita sulle corde e cominciò a suonare una gradevole melodia che coinvolse immediatamente il resto della band, la quale cominciò a fare ritmo con mani e piedi.
La prima voce che si fece avanti fu quella di Zayn:

Your Hand fits in mine
like it’s made just for me
but bear this in mind
it was meant to be
and i’m joining up the dots
with the freckles on your cheeks
and it all makes sense to me


Continuò Liam, accennando un sorriso:

“I know you’ve never loved
the crinkles by your eyes
when you smile
you’ve never loved
your stomach or your thighs
the dimples in your back
at the bottom of your spine
but I’ll love them endless”.


Giunse qui il ritornello, dove le loro voci si mischiarono e inaspettatamente, si rivelò una situazione piuttosto piacevole alla quale assistere, talmente piacevole che mi sarebbe piaciuto conoscere il testo per poterla cantare con loro, e magari non avere sul più bello i giramenti di testa post-champagne, che mi impedirono di ascoltare tutto il brano e di capire quello che stesse succedendo.  
Qualcosa comunque posso ancora ricordarla, uno di loro mi soccorse immediatamente e poi la morbidezza di un letto, ed un cuscino che profumava di buono.

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Capitolo 5
*** 17 Luglio 2013 ***


17 Luglio 2013.

Mi risvegliai notevolmente stordita in un orario che ad intuito poteva andare dalle 3:00 alle 5:00, non saprei dirlo esattamente, ma una cosa è certa: fuori era ancora buio.
Non avevo torce con me, né avevo idea di dove potessi aver lasciato il mio cellulare, ma il semplice tatto mi bastò per rendermi conto che non ero sola nel letto: accanto a me c’era qualcun altro e nel letto in fondo qualche altro ancora che russava in maniera spropositata.
Cercai di capire dove il tipo avesse messo la testa, in modo da poter trovare una posizione comoda e, possibilmente, non schiacciarlo. L’operazione però, si rivelò piuttosto complicata e realizzai immediatamente che la soluzione migliore sarebbe stata quella di accendere l’abajour e “chi se ne frega se sveglio tutti”.
Allungai quindi il braccio verso il comodino, afferrai il filo della lampada, lo percorsi con le dita fino a raggiungere l’interruttore e lo schiacciai: la stanza si illuminò violentemente e di botto, con una luce tutt’altro che soffusa. Mi voltai curiosa e mi resi conto di stare condividendo il minuscolo letto con il biondissimo Niall, il quale, non a caso, sembrava già in procinto di cadere.
- Scusami. - Dissi tra me e me, cercando di risollevarlo. - Spero di non trovarti steso in terra domattina. Nel letto accanto, invece, dormivano stretti stretti come due sardine, Zayn e Louis, e il rumorista era, inaspettatamente, il minuto Louis.
Mi scappò un sorriso, ed anche una spontanea domanda: perché avevano preso così pochi posti letto? D’altronde non penso gli mancassero i soldi per prendere una camera in più.
Tralasciando ogni ipotesi, spensi la luce, sicura di non aver svegliato nessuno e tornai a dormire, trattenendo un quasi irrefrenabile bisogno di fare pipì.

17 Luglio 2013, ore 9:18.

Una comunissima suoneria ruppe il silenzio che regnava nella camera mentre io dormivo profondamente e Zayn si affaccendava nella sistemazione delle valigie.
Il ragazzo, ansioso com’era, afferrò il cellulare e, senza neppure curarsi di chi stesse chiamando, rispose svogliatamente:
- Pronto?
- Tesoro, buongiorno!
- Ehm... Scusi, con chi parlo?
- Ah, sono la madre di Jules, e tu chi sei?
- Cazzo... - Disse tra se e se, rendendosi conto di avere preso il mio cellulare - Signora, sono Zayn, faccio parte del gruppo che sua figlia doveva incontrare. - Ricominciò poi, cercando di non suscitare cattive impressioni.
- Certo, immaginavo. E Jules è lì con te? - Chiese, in toni poco preoccupati.
- Si, lei è qui, gliela passo subito... Jules... Jules, sveglia! - Cominciò a scuotermi, senza alzare la voce. - Alzati, cazzo.
- Chi è? - Chiesi, assonnata e poco cosciente.
- Alzati, c’è tua madre al telefono.
-Ma tu che...? - Risposi turbata, in un primo momento. - Ah si, scusa, dimenticavo... che ore sono?
- Rispondi, è tua madre!
- Va bene... Un momento, devo fare pipì, cavolo. - Mi lamentai, sollevandomi con la dovuta lentezza.
Passato il momento critico, sedetti in un angolo a contemplare la moquette verde e dopo pochi secondi, mi decisi finalmente a rispondere al telefono.
- Mamma?
- Jules, buongiorno!
- Scusa se non ti ho più chiamata ieri, ma sono crollata, sai?
- Immagino... Ma dove hai dormito? Non mi avevi detto fosse previsto un alloggio per te. Mi hai fatta preoccupare.
- Infatti non lo era.
- Capisco, poi mi racconterai meglio. Quando posso venire a prenderti?
- Non c’è bisogno che tu venga a prendermi, mi riaccompagnerà un collaboratore della band.
- Ah, va bene allora, stai attenta, mi raccomando.
- Non preoccuparti, ciao mamma.
Dopo quelle parole staccai la chiamata e mi guardai attorno:
- Ma dove sono gli altri?
- Niall e Louis sono scesi al piano terreno, James doveva parlargli.
- James è il bel tedesco, vero?
- Come, scusa? - rispose, schiudendo le labbra e guardandomi con un’espressione più che divertita.
- Il tipo che mi ha accompagnata qui, intendo! - Precisai, cercando di evitare quella che sarebbe potuta diventare una discussione decisamente imbarazzante.
- Si, proprio lui. - Rise infine, tornando alle sue valigie.
- Posso darmi una sciacquata in bagno?
- Ovvio che puoi, sii svelta però.
- Grazie, corro!
Quindi mi diressi subito in bagno. Era una stanza piccola, ma dai colori caldi, pulita e accogliente; d’altronde, cosa avrei dovuto aspettarmi da un hotel di lusso?
Scartai una delle saponette sulla mensola sotto lo specchio, aveva il classico profumo delle saponette degli alberghi, quelle che alla fine della permanenza metti in valigia, intenzionata a farne uso, per poi gettarla nella spazzatura dopo averla lasciata una settimana a marcire sulla mensola dello specchio del bagno di casa tua.
Mi lavai il viso e le braccia, ripulii il trucco sbavato con un po’ di carta igienica e diedi una rudimentale sistemata ai capelli con un pettine trovato sul lato destro del lavandino, che evidentemente era già stato utilizzato dal momento che tra un dente e l’altro erano aggrovigliate diverse ciocche di capelli. Ad intuito non poteva che averlo usato Harry il giorno prima.

-Ho finito. - Annunciai, uscendo dal bagno.
- Okay... Ah, dimenticavo, tieni questi soldi, Niall mi ha pregato di darteli. - Disse poi il ragazzo, affondando una mano nella tasca della felpa nera sul letto - Potrai comprarti una fetta di torta ed un cappuccino al bar.
- Mi stai chiedendo implicitamente di andarmene? - Risi.
- Diciamo di si, siamo tutti in straritardo, dobbiamo farci perdonare in una qualche maniera.
Accennai un sorriso quasi malinconico e, annuendo, feci spalline.
- Ce l’hai un sogno? - Mi chiese poi.
- Beh, ora come ora, andare in Irlanda. Perché?
- Scherzi? - Esclamò, piuttosto sorpreso - Sai che Niall è irlandese?
- Sei serio? - Ribattei, sbalordita.
- Serissimo! Va dai suoi parenti in Irlanda praticamente tutti gli anni.
- Questo vuol dire che potrebbe regalarmi un biglietto aereo per l’Irlanda?
- Non esageriamo, hai solo quattordici anni, non puoi andare in Irlanda da sola!
- Ne ho quasi quindici. - Precisai, poco contenta della sua affermazione.
- La situazione non cambia, sei sempre minorenne! Puoi chiedergli di portarti qualche souvenir, a noi li porta sempre. - Propose in toni scherzosi.
- No grazie, meglio niente. - Conclusi, afferrando la mia borsa e dirigendomi verso l’ingresso. - Ciao Zayn, grazie di tutto.
- Di nulla, giù alla reception dovresti trovare James pronto per riaccompagnarti a casa.
- Va bene.
- Un momento, non vorrai andar via con quei trampoli ai piedi, spero!
- Li avevo anche ieri, dov’è il problema?
- Si vede lontano un miglio che non hai mai indossato dei tacchi, prendi le scarpe sotto il termosifone, lì vicino a te.
- Non ne ho bisogno, grazie.
- Come ti pare, poteva essere una valida scusa per rivedere gli One Direction.
Mi voltai di scatto, con la mano già poggiata sulla maniglia:
- Ma a me non piacciono gli One Direction, lo hai dimenticato? Ti auguro buon viaggio.
Sorrise con espressione rassegnata, scuotendo il capo, e ricambiò con un cenno della mano.
A quell’ultimo gesto, oltrepassai la soglia dell’uscita e mi chiusi la porta alle spalle.
In un primo momento pensai di tornare dentro e chiedere dove si trovassero Harry e Liam, così da poterli salutare, ma dopo la mia ultima ed effettivamente vera affermazione, non sarei stata contraddittoria? Quindi, come sempre, l’orgoglio fece bene la sua parte e continuai dritto, verso l’ascensore.
Giunta al piano terreno, trovai una situazione decisamente diversa rispetto a quella della sera prima, infatti, la hall brulicava di persone a modo e ben vestite, intente ad usare il cellulare o a fare due chiacchiere con l’amico o l’amica.
Spostai lo sguardo verso il bancone della reception ed oltre ad un’anziana coppia che ritirava le chiavi della propria camera, notai James in compagnia di Louis e Niall, quindi, senza pensarci due volte mi diressi verso di loro:
- Buongiorno. - Esordii, pacatamente.
- Buongiorno signorina. - Rispose educatamente il bel tedesco.
- Ciao Jules. Dormito bene? - Chiese Louis.
- Più o meno! - Sorrisi, capendo che la domanda era ironica.
- Hai sentito Louis che russava? - Si inserì Niall, beccandosi uno spintone dal diretto interessato.
- L’ho sentito eccome! Ma non è colpa sua se ho dormito male.
I ragazzi annuirono, mantenendo un accenno di risata.
- E tu Louis, come mai non hai dormito con Harry? - Scherzai.
- Perché io e Niall siamo crollati accidentalmente nello stesso letto, e beh, che dire? Mi è mancato il mio amore, ma tu non dirlo a nessuno. - Ironizzò, ricordando la mia domanda al gioco “obbligo o verità”.
Risi: - Ti ringrazio di non avermi tirato una sberla.
- Non mi permetterei, Jules.
- Lei è pronta per andare, signorina? - Interruppe James.
- Si, sono pronta.
Così Louis mi salutò: - Allora noi saliamo, penso che Zayn abbia bisogno di aiuto. Ciao Jules. - E mi tese la mano - Mi raccomando, non raccontare stronzate.
- E’ stato un vero piacere vederti così interessata alla nostra musica! - Aggiunse ironicamente Niall, emulando il gesto dell’amico.
- Dovete scusarmi, davvero.
- Non preoccuparti... Non fa nulla. - Mi rassicurarono.
A quel punto, sistemata la tracolla, uscii dall’hotel accompagnata da James; la lussuosa automobile era posteggiata proprio di fronte l’ingresso, quindi l’uomo mi aprì lo sportello, facendomi cenno di entrare, per poi dirigersi al suo lato e mettere in moto la vettura.
- Come mai quelle scuse? - Mi si rivolse improvvisamente James.
- Oh nulla, diciamo che è successa una cosa... inaspettata.
- Del tipo?
- Nulla di che, davvero! - Curioso il ragazzo - dissi tra me e me. Ma fortunatamente si rassegnò subito, non mi sembrava il caso di divulgare troppo la notizia che io non fossi una fan e che avevamo trascorso la serata ad imbottirci di champagne facendo giochi stupidi.

Giunsi a casa intorno alle dieci e mezza: un’auto come quella sa come farsi spazio nel traffico del centro. Mia madre era senz’altro impaziente di vedermi e magari farmi qualche domanda sulla mia verginità, che grazie a Dio, salvo avessi subito violenze sessuali post-svenimento, era ancora lì.
- E’ questa la sua abitazione, signorina?
- No, è poco più avanti, però se vuole può lasciarmi qui.
- Non si preoccupi, mi dica lei quando fermarmi.
L’auto avanzò di pochi metri, giusto tre case avanti: - Stop! - Esclamai.
- Non c’era bisogno che urlasse!
- Mi scusi, camminava piuttosto svelto e…
- Vengo ad aprirle la portiera. - Mi interruppe.
- Non ce n’è bisogno, davvero, la ringrazio. Buona giornata.
- A lei.
Afferrai allora la borsa che mi era scivolata dalla spalla, aprii lo sportello e, scesa dalla vettura percorsi a passo svelto il vialetto per raggiungere l’ingresso di casa mia. A quel punto, bussai e mia madre aprì:
- Jules, tesoro! - Esclamò, abbracciandomi forte.
- Non mi vedi soltanto da ieri sera, mamma. - Risi, cercando di staccarmi.
- Entra e togli le scarpe qui, davanti la porta, perché ho lavato il soggiorno.
- Va bene.
- Beh? Non mi dici niente?
- Sulla serata?
- Direi di si.
- Non è stata nulla di che, abbiamo giocato a carte, poi abbiamo parlato di musica e bevuto del succo d’ananas.
- Ma a te non è mai piaciuto il succo d’ananas!
- Neanche a loro! - Precisai, senza entrare nei dettagli.
- Ma questi ragazzi? Come sono? Raccontami qualcosa.
- Nulla di speciale davvero, sono dei ragazzi comuni. Avrei preferito un meet and greet con Slash o con i Kiss!
- E’ inutile che ti chieda di nuovo perché hai partecipato, vero?
- Io non credevo certo di vincere, e poi...
Improvvisamente squillò il mio cellulare ed era niente meno che la mia amica Liz.
- Mamma, mi sta chiamando Liz, parliamo dopo.
- Okay. - Sospirò, continuando i lavori casalinghi tralasciati nel resto della settimana.

Mi diressi in camera, rischiando un doloroso scivolone per via della cera sul pavimento, chiusi la porta a chiave e risposi alla chiamata:
- Pronto, Liz?
- Jules! - Esclamò, tutta eccitata.
- Cos’è questo affiatamento?
- E me lo chiedi? Beh, come è andata la serata?
- Pensavo non te ne fregasse nulla. - Ridacchiai.
- Non ascolto gli One Direction, ma sono curiosa lo stesso. Ti sei finta una fan o hai deciso di essere sincera?
- Indovina?
- Hai detto loro la verità.
- Esattamente e... Si sono messi a ridere!
- Non mi dire! - Rispose, divertita.
- Già, e quindi abbiamo ordinato uno champagne e abbiamo fatto due chiacchiere.
- E di cosa avete parlato?
- Di segreti personali e... Harry ascolta la nostra stessa musica, sai?
- E chi sarebbe Harry?
- Il ragazzo con i capelli più lunghi, per intenderci.
- Ah si, il tipo con il fungo in testa. Quel... coso... ascolterebbe musica metal?
- Non propriamente metal, ma gli piace il rock e adora gli Aerosmith!
- Non lo avrei mai detto, ora mi piacerebbe sapere perché canta in un gruppo così squallido.
- Sarà per soldi e fama, non ho avuto occasione di chiederglielo.
- Beh. E gli altri? Tutti sfigati?
- Ehm... Si, sapessi... Un branco di sfigati. Tutti quanti.
- Lo immaginavo. Almeno fra vent’anni potrai dire alle tue amiche quarantenni che tu conoscesti i loro idoli!
- Beh, sicuramente. - Sorrisi, abbassando il tono della voce: pensare al futuro spesso mi rattrista.
- Jules. - Disse in tono pacato dopo qualche attimo di esitazione - Ti sento giù, tutto bene?
- Certo! Perché dovrei stare male? -
- Non so, magari... Perché ti mancano le quattro carotine! - Esclamò poi sarcastica, emettendo una fragorosa risata.
- Quei bimbiminchia? - Risposi, accompagnando la sua risata. - Ma figurati Liz, mi sento come se nulla fosse mai successo... Ah, comunque sono cinque!
- A quando un concerto?! - Continuò, sempre più sarcastica.
- Oh, li raggiungerei perfino in Italia pur di vederli dal vivo! - Risi, stando finalmente alla sua ironia.
- Senti - Disse poi, cambiando argomento - Dato che hai bisogno di riprenderti dall’esperienza, che ne diresti di venire con me al Rafferty’s, stasera?
- Cosa ci sarà al Rafferty’s?
- Non hai visto i manifesti? Vengono i Dark Rogers, la band di Jacob.
- Jacob?
- Cavolo, non ricordi? L’amico di Jesu, quello con i capelli ricci con cui prendemmo una birra al Carosello qualche mese fa.
- Ah si, adesso ricordo! Perdonami, vuoto di memoria. Beh, sono bravi? Che genere fanno?
- Ne fanno tanti, l’ultima volta hanno suonato i Guns N’ Roses, ma anche i System of a down. Se la cavano e il bassista è un figo da paura!
- Se la metti così, ci sarò!
- Ottimo, ci vediamo lì allora!
- A più tardi, Liz!

Chiusi la chiamata e misi in carica il telefono, la cui batteria era ormai al lastrico.
Era il momento di mettere via l’abitino da sera e tornare ai vestiti di sempre: maglie nere, camicioni, borchie e pellame vario. Quella ero io, o ciò che Orgoglio voleva ch’io fossi.
Feci una doccia calda e pensai che sarebbe stato bene chiamare anche Claire, un’altra amica secolare con la quale mi sentivo non più di una volta al mese: non era per noncuranza dell’una verso l’altra, semplicemente sapevamo che la nostra amicizia non cambiava a prescindere dalle volte in cui ci vedevamo. Quella sarebbe stata un’ottima scusa per chiamarla, sapevo che l’argomento le sarebbe interessato ed io ero impaziente di raccontarlo a qualcun altro, quindi decisi di farlo dopo pranzo, se non fosse che invece, fui io a ricevere una chiamata decisamente inaspettata da parte dell’Hotel Montgomery:
- Pronto? - Risposi.
- Hotel Jim Montgomery, buonasera, parlo con Jules Nicole Bartram?
- S-si, sono io! - Balbettai perplessa.
- Mi è stato riferito che questa mattina ha dimenticato un paio di scarpe da ginnastica nella camera 406.
- Delle scarpe da ginnastica? Oh no, ci dev’essere stato un errore, io non avevo scarpe da ginnastica, apparterranno sicuramente ad uno dei ragazzi che erano con me.
- Ne è sicura? Perché a me le ha consegnate proprio uno dei ragazzi.
- Potrei sapere chi di loro, esattamente?
- Oh, non ne ho davvero idea, signorina. Mi dispiace molto.
- Capisco. Beh, in questo caso verrò a ritirarle nel pomeriggio.
- La aspettiamo. Buona serata.
- A lei.

Un paio di scarpe da ginnastica. Io non avevo indossato delle scarpe da ginnastica! Chi poteva averle lasciate lì? Ma soprattutto, perché avrebbe dovuto dire che mi appartenevano? Avrei dovuto recarmi lì molto presto per non fare tardi al concerto di quelle sottospecie di rockettari dei Dark Rogers, quindi mi rivolsi a mia madre chiedendole di pranzare un po’ prima del solito. La sua risposta fu: sandwiches al tonno, o meglio: - Beh Jules, a dire la verità ho parecchie cose da fare, sai, ho deciso di dare una ripulita alla soffitta, se hai bisogno di mangiare presto potresti prepararti dei sandwiches al tonno!
Detto fatto. Se vostra madre dovesse mai decidere di ripulire la soffitta in un giorno in cui voi vi troverete inaspettatamente pieni di impegni, loro potrebbero essere la vostra unica salvezza.

Verso le ore sedici uscii nuovamente di casa per tornare in hotel, per una pessima causa, peraltro, come se quella strana nottata lì non fosse già stata abbastanza. La situazione fu la solita: caloroso saluto a Finn che faceva ritorno alla comunità, corsa al posto nell’autobus (che in ogni caso nel primo pomeriggio non è mai troppo pieno), fermata in Montgomery Street. Salutai cordialmente l’autista e scesi con la dovuta attenzione, i due gradini.
- Hoop-la! - Mormorai tra me e me, poggiando i piedi per terra. - Si fa ritorno in albergo.

Percorsi pochi metri, l’hotel si trovava dall’altro lato della strada e per chissà quale assurda predisposizione rischiavo puntualmente di farmi investire da un’auto ogni qual volta mi ritrovavo a spostarmi da un marciapiede all’altro. Guardai a destra, guardai a sinistra, le auto erano abbastanza distanti per poter passare senza problemi, ma come al solito preferii fare un’imbarazzante corsetta.
L’ingresso era lì. Le scalinate erano più pulite di come le avevo lasciate quella stessa mattina, e all’interno della hall sembrava esserci una certa quiete. Bussai e feci per entrare, il portiere era intento a discutere di chissà cosa con quel grand’uomo del receptionist, ma nonostante ciò mi accolse con un cenno del capo e con un cordialissimo “Buonasera”.
Senza troppe paranoie, adocchiai un divanetto libero non distante dal bancone e accostai lì in attesa che il receptionist si liberasse, e fu l’ennesima occasione per guardarmi intorno ed accorgermi di quanto splendido fosse quel posto, anche senza lampadari accesi.

- Signorina. - Mi chiamò all’improvviso il receptionist.
- Salve! - Esclamai, distogliendo all’improvviso l’attenzione da certi modiglioni dorati agli angoli del soffitto.
- Posso aiutarla?
- Sono Jules Bartram, sono qui per quelle famose scarpe.
- Scarp... Oh si, certo, ora ricordo. Può seguirmi alla reception.
Mi alzai dal divano cercando di risultare una persona composta e feci quanto richiesto.
- Ecco qui le sue scarpe, signorina.
- La ringrazio ma, glielo ripeto, non sono mie. Le sto prendendo solo perché lei mi ha obbligata.
- Oh no, io non obbligo nessuno! Dovrebbe parlarne con il ragazzo che me ha date, è stato lui a dirmi ad assicurarmi che le appartengono, signorina.
- Non può proprio dirmi chi è stato?
- Non lo ricordo, sono tutti uguali quei ragazzi lì, non li ha visti?
O forse era lui ad essere troppo vecchio per quel mestiere... Glielo avrei detto, davvero, ma con gli anziani non si discute, poi si sa come va a finire: tu rispondi sgarbatamente e loro ti rifilano tutte le argomentazioni sul rispetto che ai loro tempi si aveva verso i più grandi e sulla seconda guerra mondiale, che alla fine, in un modo o nell’altro tirano sempre fuori anche se non c’entra nulla con il discorso.
- Va bè, pazienza, vuol dire che porterò con me un souvenir. - Mi arresi, afferrando la scatola. - Scusi, le spiace se la apro e do un’occhiata?
- Certo che no, ma lo faccia sul pavimento, per favore, non credo sia opportuno poggiare delle scarpe sul bancone.
- Si, è chiaro, la ringrazio.
Ero proprio curiosa di sapere di che scarpe si trattasse e se magari le avevo viste indossare a qualcuno della band. Dunque poggiai la scatola per terra, mi chinai e tirai fuori il contenuto: erano, per l’appunto, un paio di scarpe da ginnastica nuove di zecca con ben quattro colori diversi: la superficie era rossa con striature dorate, la suola era alta e bianca ed i lacci neri. Erano belle, davvero. Non ne avevo mai viste come quelle, forse erano ultimo modello, oppure non erano ancora entrate in commercio, d’altronde appartenevano a un componente di una band di fama mondiale, non ci sarebbe stato da meravigliarsene!
Stavo per rimetterle a posto, come sempre confusa su come posizionarle all’interno della scatola, quando notai un dettaglio, o più precisamente una scritta in oro sul lato del tallone. Questa scritta diceva, molto chiaramente: Harry.
Ammetto che la cosa mi sorprese non poco. Evidentemente le aveva fatte fabbricare a posta per se e ciò avrebbe spiegato l’unicità del modello, ma per quale motivo avrebbe dovuto dire che erano di mia appartenenza? Forse erano un regalo? O forse era un semplice invito a non indossare mai più i tacchi? Nella mia testa cominciarono ad accavallarsi mille ipotesi che ricaddero immediatamente nell’assurdo, ma mi sembrò giusto avvisare il receptionist nel caso in cui avesse avuto la possibilità di contattare Harry e chiedergli spiegazioni.
-Signore, posso finalmente provarle che le scarpe non sono mie. Qui c’è scritto il nome di uno dei ragazzi. Vede? Senza contare che si tratta di un modello prettamente maschile!
- Non vorrei risultare sgarbato, ma osservando il suo abbigliamento non risulta difficile pensare che quelle scarpe possano appartenerle. - Mi fece notare l’uomo, con quel pizzico di simpatia che bastava per non offendermi.
- Certo, ha ragione. - Confermai, mettendo subito una pietra sopra la risposta che avrei voluto dargli. - Ma qua dietro c‘è scritto Harry, lo vede? Harry è uno dei ragazzi, non possono che essere sue!
- Lei avrebbe modo di contattare questo ragazzo?
- Io no. Ma voi avrete sicuramente un indirizzo a cui rivolgervi dal momento che avete ospitato la band.
- Mi informo subito con la segretaria del capo.
-La segretaria del capo? - Pensai. Il tipo era evidentemente sprovveduto: non aveva assolutamente idea di chi entrasse ed uscisse dall’hotel in cui lavorava, nonostante fosse proprio lui a far firmare i documenti per l’alloggio ai clienti!

-Un paio di scarpe... Mah! - Continuai a ripetermi girando in tondo, nell’attesa che il mio amico tornasse.
- Signorina, mi è stato riferito che siamo in possesso del numero di telefono del Manager della band, la segretaria Brenda si sta affrettando a chiamarlo, le faremo presto sapere.
- La ringrazio, quindi posso andare? Mi ricontatterà lei?
- Assolutamente.
- Ottimo, arrivederci, allora.
- Buona serata.

Feci dunque ritorno a casa, e lungo la strada mi tornò in mente il brano che il gruppo aveva cantato la sera prima. Ricordai giusto poche note, quelle poche che avevo avuto l’opportunità di ascoltare e per un paio di attimi sentii che non mi bastavano. Repressi immediatamente quella sensazione, perché? Perché era sbagliata: a Liz non sarebbe piaciuta e neanche a quel gran manzo del batterista della band che sarei andata a vedere quella sera, sarebbe piaciuta. Non è che i miei gusti musicali dipendessero da loro, niente affatto, ma temevo di tradirli e soprattutto di tradire la mia cara amica. La verità è che, con quella repressione delle emozioni, tradivo me stessa, solo ed unicamente me stessa.

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Capitolo 6
*** L'ospite e l'incidente ***


Erano trascorse poche ore dall’incontro con il receptionist dell’albergo, quando ricevetti una chiamata da costui che mi informava dell’avvenuta telefonata con il manager della band e del fatto che, il giorno successivo, sarebbe venuto qualcuno, da lui stesso incaricato, per riprendere le scarpe di Harry.
Sarebbe finita lì con gli One Direction, e a dirla tutta, non aspettavo altro purchè smettessero di tormentare il mio orgoglio. Quella sera mi recai al Rafferty’s e ascoltai i Dark Rogers sorseggiando una birra da una lattina da 33 cl con Liz, come due vere quattordicenni ribelli. Fu come balzare di colpo nel mio mondo reale, che per quei pochi giorni mi ero letteralmente lasciata alle spalle, e se da un lato fu quasi rigenerate, dall’altro fu strano ed anche un po’ triste, perché per tutta la serata ebbi come la sensazione che qualcosa non stesse andando per il verso giusto.

18 Luglio 2013

Erano le 10 del mattino. Avevo appena finito di fare colazione quando improvvisamente suonò il campanello: doveva essere quel tipo mandato per riprendere le scarpe di Harry, magari alla fine era quel gran figo di James. Presi un respiro, preoccupandomi per un attimo di come fossi vestita, ma ormai era tardi per rubare una maglietta decente dall’armadio della mamma e senza pensarci due volte aprii la porta:
- Sera! - Esordì una voce giovane, che non identificai immediatamente. 
Era Harry. Harry Styles in persona. Rimasi allibita, fissandolo per qualche istante con le labbra dischiuse ed un’espressione evidentemente da ebete. 
- C- cosa ci fai qui?! -  Esclamai, ancora sotto shock.
- Sbaglio o hai un paio di scarpe che mi appartengono?
- Certo, si, ovvio che le ho. Intendevo dire: perché sei venuto di persona?
- Ah, allora non mi sei così indifferente!
- Ero solo curiosa, tutto qui.
- Diciamo che davo per scontato che la mia presenza non ti facesse né caldo né freddo, così mi sono permesso di venire a riprendere le mie scarpe autonomamente.
- Continuo a non capire ma, okay, entra pure. - Lo invitai, con un gesto della mano.
- Grazie. - Rispose lui, dando una veloce strofinata alle suole sul tappetino dell’ingresso.
- Ehm, seguimi, le scarpe sono in camera.
Il ragazzo annuì, guardandosi intorno ed osservando la casa con sguardo piuttosto acuto.
- Ecco, ignora il disordine, non avevo previsto l’arrivo di gente nella mia stanza. - Lo pregai poi, aprendo la porta.
- Vorresti dirmi che se ti avessi avvisata l’avresti sistemata? Ti facevo una ragazza trasgressiva. - Rispose in tono provocatorio, non smettendo di scrutare l’ambiente circostante.
- Ehm... Io infatti...
- Carino il poster dei Motley Crue. - Mi interruppe, facendosi spazio tra vestiti e libri scolastici gettati sul pavimento.
- Oh si, quello, me lo ha regalato un amico virtuale che li ha visti dal vivo un paio di mesi fa.
- Tu li hai mai visti?
- No, purtroppo.
- Attenta che Neil è in pessime condizioni, potrebbero sciogliersi molto presto.
- Allora li conosci veramente. - Chiesi sorpresa, muovendomi ancora in mezzo alla confusione.
- Certo che li conosco, credi ti prenda in giro?
- A dire il vero si... Non è da tutti conoscerli e tu sei l’ultima persona da cui me lo sarei aspettato.
- Faccio musica Jules, non posso essere ignorante in materia.
- Ma le canzoni te le scrivono gli altri, che artista sei?
- Sono colui che colora il disegno, molto semplicemente.
- Che diavolo vuol dire?
- Intendo che una persona brava a disegnare non sempre è altrettanto brava a colorare, e al posto di lasciare il disegno in bianco e nero, può decidere di affidarlo a chi sa colorare bene. Il mio produttore, anzi, il nostro in quanto siamo una band, è un ottimo scrittore, ma non sa cantare, è stonato come una campana, ma noi no. Le nostre voci sono i colori e solo noi possiamo usarli. E’ una sana collaborazione, Jules, e adesso dammi le mie scarpe per favore, non ho voglia di continuare ad ascoltare stronzate, specie da parte di persone che pretendono di giudicare il mio lavoro senza conoscerlo.
Avrei volentieri continuato a discutere rispondendo con una qualsiasi affermazione che potesse, in qualche modo, sostenere la mia opinione, data la mia spiccata polemicità, ma preferii insolitamente tacere: non so come mai, non avevo voglia di litigare con lui, quindi mi affrettai a prendere lo scatolo con le scarpe e infine, senza soffermarmi a guardarlo, glielo porsi.
- Ciao Jules. - Terminò lui, facendo subito per andarsene.
- Harry...
- Cosa c’è?
- Scusami, dai. Non credevo ti saresti offeso.
Egli si limitò a sospirare, per poi annuire e riprendere la sua strada.
- Harry. - Lo fermai nuovamente, venendogli dietro.
- Sbaglio o non te ne fregava nulla di me?
- Si, però...
- Bene, allora fai finta che non sia successo nulla, okay?
- Non capisco perché te la sia presa così tanto! - Esclamai, ignorando del tutto la sua proposta.
- Sono suscettibile, e non tollero che i miei sforzi vengano infangati.
- Ti ho chiesto scusa, riconosco il mio errore. Non ti basta?
Fece un altro sospiro, accettando implicitamente le mie scuse:- Sei troppo tenera per il rock n’ roll. Te lo hanno mai detto?
- Troppo... tenera? No, non me lo ha mai detto nessuno.
- Beh, ora lo sai. Non offenderti Jules, tu non sei fatta per il rock ‘n’ roll… ah, e per la cronaca, era una citazione di “Almost famous”.
Detto ciò, giunse all’uscio e lo aprì, per poi dirigersi a passo svelto verso il marciapiede, attendendo James.
Io non so descrivere con certezza ciò che mi stesse succedendo, ma qualcosa in me stava effettivamente cambiando e, incapace di accettarlo, mi lasciai prendere dalla rabbia scaturita dalla sua ultima affermazione e non mi curai neppure di chiedergli come si intitolasse quel brano che mi aveva cantato la band la sera precedente, prima che svenissi.
Improvvisamente comparì mia madre dalle scale che portavano in soffitta, piazzate nel bel mezzo del salotto: - Jules! Ti ho sentito alzare la voce, mi sono persa qualcosa?
- Ehm, no, tranquilla... Tutto a posto. E’ venuto il tipo per riprendersi le scarpe.
- Sicura?
- Sicurissima, non preoccuparti.
Si fidò, o almeno così mi fece credere e raggrinzendo le labbra in un’espressione incerta, tornò a svolgere i suoi lavori.
***
Potrei dire che fossero circa le sette quando mi svegliai da un sonnellino, che, come tutte le “sieste pomeridiane” sembrava essere durato un’eternità.
- Ho sognato Harry - Dissi tra me e me, restando a fissare il tetto - O almeno credo.
Ho sognato che veniva qui a riprendersi le scarpe. Veniva lui, proprio lui in persona ed io lo facevo entrare nella mia camera. Inverosimilmente conosceva i Motley Crue... Certo, ieri sera ha dimostrato di conoscere più di quanto credessi, ma addirittura i Motley Crue? Sarebbe impossibile. Poi abbiamo litigato: lui si è arrabbiato perché ho criticato il suo modo di fare musica... mi è dispiaciuto, molto più di quanto sarebbe stato possibile nella vita reale. Il seguito è stato strano: stava per andarsene ma io l’ho fermato, gli ho chiesto scusa, gliel’ho chiesto più di una volta. Io non volevo che se ne andasse... Una follia, una vera follia. Deve essere per forza un sogno, non può essere altrimenti.

Dopo aver tirato un sospiro, cercando di non lasciarmi prendere troppo da quegli assurdi pensieri, indossai le ciabatte e pensai di andare a mettere qualcosa sotto i denti; poi mi venne un dubbio: se in tutto quel tempo avevo dormito, che fine poteva aver fatto colui che doveva venire a prendere le scarpe di Harry? Sperai semplicemente che non fosse ancora arrivato o che mia madre non lo avesse cacciato via prima di uscire di casa.
Ero ancora un po’ stordita, quindi mi alzai sostenendomi ad un’anta dell’armadio e, sfregati bene gli occhi, mi diressi verso la cucina. La prima cosa che feci fu aprire la credenza, prendere del burro di arachidi e del pane ed un bicchiere per versarvi del latte. Certo, era un po’ tardi per la merenda, ma dei sandwiches al tonno non soddisfano fino all’ora di cena, quindi, senza troppe paranoie, mi sedetti ed iniziai a spalmare il burro sul pane.
Improvvisamente sentii bussare, bussare con violenza. Mi spaventai: non c’era nessuno con me, ero completamente sola ed  i colpi erano imperterriti. Nonostante ciò, con passo felpato, mi avvicinai alla porta, come quando vengono i tipi per la lettura del gas e tua madre non è in casa:
- C-chi è?! - Chiesi, avvicinandomi in punta di piedi all’uscio della porta.
- Apri, svelta! - Rispose quella che sembrava essere una voce conosciuta.
Chiunque egli fosse, sembrava tutt’altro che aggressivo, bensì preoccupato: aprii, senza pensarci due volte:
- Harry?! - Esclamai incredula.
- Ma quanto ci hai messo? E’ da venti minuti che busso!
- Aspetta... tu sei venuto qui a riprenderti le scarpe, oggi?
- Sveglia Jules! Certo che sono venuto! Ora ascolta...
- Perché sei ancora qui? - Lo interruppi in un tono che sembrava precedere una romantica dichiarazione d’amore da commedia americana.
- Ti ho detto di ascoltarmi: non siamo su Notting Hill! James ha avuto un incidente e tu devi aiutarmi.
- Porca tro*a, come è successo?
-  Non lo so... Non  lo so! E vacci piano con le parole, santo Dio!
- Parlo come mi pare.
- Okay, sputa pure tutta la merda che vuoi, basta che mi dai un carica batterie, il mio cellulare si è spento e devo contattare immediatamente i ragazzi.
- Puoi usare il mio, se vuoi.
- Te lo scordi che digito il numero di Louis sul tuo cellulare.
- Guarda che non me ne frega proprio niente, e poi puoi anche eliminarli dopo aver chiamato.
- E va bene, dammelo, basta che ci sbrighiamo!

Harry era più che preoccupato, non sapeva a chi telefonare per primo e sembrava visibilmente confuso e disorientato.
-Pronto... Pronto Louis? - Iniziò - James ha avuto un incidente, mi è giunta una chiamata dal suo cellulare e delle persone sembrerebbero averlo soccorso, ma poi il mio si è spento e non ho avuto la possibilità di capire dove si trovasse... No, sto chiamando con il telefono di Jules... Si, sono ancora qui, ho bisogno che fai una chiamata sul cellulare di James... No, io non posso perché il mio cellulare è spento e non ricordo il suo numero a memoria... Va bene, grazie, fammi sapere.
- Harry - Irruppi subito, appena terminò la chiamata.
- Cosa c’è?! - Rispose, in tono aggressivo.
- No... Niente, lascia stare.
- Non sono arrabbiato con te, dimmi!
- Volevo solo sapere cosa fosse successo, esattamente.
- E’ questo il problema, non lo so! Una donna mi ha chiamato con il suo cellulare dicendo di averlo soccorso non lontano da Straffordshire.
- Mi dispiace. Spero non sia nulla di grave.
Sospirò: - Non so come ringraziarti, Jules.
- Per così poco? Figurati.
- Non avrei saputo a chi altro rivolgermi, qui. Peraltro ero da solo in mezzo alla strada: se qualche fan mi avesse visto sarebbe stata la fine.
- Avrei dovuto aprirti molto prima, devi scus-
Venni bruscamente interrotta dalla suoneria del mio cellulare, era di nuovo Louis, e Harry non esitò a rispondere immediatamente:
- Hey Louis, dammi buone notizie, ti prego.
- James si trova attualmente al pronto soccorso di Straffordshire: mi ha risposto un medico, dice che le condizioni sono stabili poiché è stato soccorso in tempo, altrimenti avrebbe potuto morire soffocato.
- Mio dio, soffocato da cosa?
- Ti spiego meglio: James era quasi giunto a Straffordshire, quando un autista ubriaco lo ha travolto, facendo finire la sua auto capovolta oltre la strada. Si suppone che lui, nel tentativo di salvarsi durante la caduta abbia aperto lo sportello, ma il suo torace vi è rimasto letteralmente incastrato. Fortunatamente alcuni automobilisti che passavano di lì hanno potuto assistere all’incidente e lo hanno soccorso in maniera tempestiva. E’ vivo per miracolo, Harry.
- Meno male... La donna che mi ha chiamato era disperata ed io temevo che non ce l’avrebbe fatta.
- Secondo te per quale motivo avrà digitato proprio il tuo numero?
- Perchè risultava come l’ultimo numero contattato, probabilmente.
- Ah, ma certo. Senti, non è che potresti raggiungerlo in ospedale? Io intanto avviso il manager di prenotarti un volo per Londra il prima possibile. - Lo rassicurò Louis.
- Fallo prenotare per domani mattina, per favore. Se James dovesse svegliarsi durante la notte, almeno troverà qualcuno a fargli compagnia.
- Come vuoi, ci sentiamo allora.
- A più tardi, Louis.
Interrotta la chiamata si passò una mano sul viso, per poi farla scivolare sulla testa, portando indietro i suoi bei capelli mossi; era pallido in viso: doveva essersi preso un bello spavento, ma pian piano sembrava stare riprendendo colore.
-Tutto bene, Jules. - Disse poi, a bassa voce.
- Ne sono felice.
- Avrei bisogno di recarmi al pronto soccorso, tu sai dove si trova?
- Si, si trova a pochi chilometri dal centro, non dista troppo da qui.
- Ottimo. Potresti chiamare un taxi, per favore?
- Vai da solo?
- Dipende... Tu vuoi farmi compagnia? - Chiese, facendomi l’ennesimo sorriso malizioso.
Sospirai: - Non lo dirai in giro, vero?
- Non saprei neppure a chi dirlo, non preoccuparti.
- Mi do una sciacquata veloce al viso e arrivo.
Nel frattempo, Harry tornò a guardarsi intorno: d’altronde non aveva nient’altro di meglio da fare. La mia casa non era particolarmente grande, né tantomeno lussuosa, come invece molto probabilmente era ed è la sua: le mura erano di un classico intonaco bianco, con pochi quadri acquistati all’IKEA sparsi tra l’ingresso ed il salotto. La sala da pranzo era piuttosto piccola: vi era una vecchia cucina ed un minuscolo tavolo di forma quadrata, appositamente per ospitare me e mia madre; il bagno non era da meno, anche se a mia madre piaceva agghindarlo di fiori e candele profumate, ricreando una piacevolissima atmosfera fatta di colori e profumi.
Ad un certo punto, a tal proposito, mi sentii chiamare:
- Jules!
- Si? - Risposi dalla stanza da bagno.
- Cos’è questo profumo?
- Ah... Il profumo di rose, intendi?
- Si, è molto buono.
- Mia madre ha comprato una candelina profumata alla rosa e l’ha piazzata accanto al lavandino. Sai, è appassionata di essenze, oli e... tutto quel che ne deriva. - Precisai, fermandomi sull’uscio, mentre mi facevo una coda.
- Complimenti a lei! - Sorrise.
Si, sorrise, e non posso fare a meno di specificarlo. 
Uscii dal bagno, sempre un po’ disordinata, perché come ben saprete mi era profondamente difficile ottenere un’aria da ragazza curata e ben sistemata. Ad Harry, dopotutto, non sembrava importare più di tanto ed anche se così non fosse stato, la persona più menefreghista, sotto questo aspetto, per questione di principio (e di pura coerenza) avrei dovuto essere io, per due semplicissimi motivi:
1. Ero una rocker. I rockers sono disordinati per natura e non gli frega assolutissimamente nulla del parere del prossimo...
2. ...a maggior ragione se questo prossimo è un componente degli One Direction.
Ripeto: era questione di principio, e nonostante ciò mi sentivo a disagio!
Si, avete capito bene, mi sentivo a disagio e non posso fare a meno di dare voce alle mille paranoie che si generarono nella mia testa. Paranoie che non si soffermavano ad un normalissimo “come sono disordinata, proprio di fronte ad un cantante così famoso!” ma che raggiungevano livelli di ridicolaggine a loro volta spaventosamente ridicoli; cose come: “mi sento a disagio... Mi sento a disagio? No, non mi sento a disagio. Va bè, magari un po’, ma mica per Harry, è che... uhm...  la coda! Ma certo, la coda. Io mi sento sempre a disagio quando la coda mi viene male e ci sono tutti-- tutti quei ciuffi che sbucano dalla testa! Come ho fatto a non capirlo prima?!  Certo, Harry è carino... Axl Rose ha i capelli più lunghi ed è mille volte meglio, mica apprezzare fisicamente un componente degli One Direction ti fa automaticamente disprezzare Axl e... e Tommy Lee e... e Joe Perry e... e tutti gli altri. E poi hai detto solo che è carino... e guardandolo bene non lo è neppure così tanto. Insomma, smettila di farti tante paranoie, qua c’è uno strafigo da paura (James) che ha rischiato la vita e probabilmente, quando giungerai in ospedale, sarà talmente stordito che non si renderà neanche conto del fatto che lo starai fissando... è un’occasione unica. Oh, James!”
-Beh, sei pronta? Irruppe Harry, frantumando ad un tratto tutti i pensieri che si erano accumulati nella mia mente, con la stessa violenza di un sasso scagliato contro una vetrinetta di cristallo.
- Si, eccomi.
- Passano taxi da queste parti?
- Certo. Dovremo aspettare una buona mezz’ora, ma ne passerà uno.
- Mezz’ora? Così tanto?
- Siamo a Straffordshire Harry, mica a Londra. E per giunta in periferia.
Prima di sorvolare la porta di ingresso, indossò il suo cappello con visiera, chiuse accuratamente la felpa nera fino al collo e sollevò il cappuccio a coprire parzialmente il volto, nascondendo i ciuffi di capelli dietro le orecchie e dentro il cappello perché nessuno potesse riconoscerlo.


Note dell'autrice: mi scuso per essere stata assente tutto questo tempo. Preferisco essere sincera: l'ispirazione mi aveva abbandonata e per un po' avevo anche pensato di fermarmi e non continuare più la fanfiction.Ora però, sto desiderando molto di poterla concludere. Spero vivamente di riuscirci e di non assentarmi più per periodi così lunghi. Grazie per aver speso un po' del vostro tempo a leggere la mia storia!

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