Necromancer - Il Risveglio del Corvo

di Just_Charlie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Uno ***
Capitolo 2: *** Due ***
Capitolo 3: *** Tre ***
Capitolo 4: *** Quattro ***



Capitolo 1
*** Uno ***


Ripubblico questa storia che non so come mai si fosse cancellata.

I commenti sono molto apprezzati :)

Buona lettura!                              

                 

                                                              

                             

CAPITOLO UNO

                           

Qualcuno bussò alla porta.

Merda.

Charlie mise in pausa la sua serie tv preferita e si fermò in ascolto di qualsiasi rumore che potesse provenire dal corridoio. Nulla. Neanche un respiro. Si preannunciavano guai. Fosse stato uno degli altri ragazzi, l'avrebbe sentito anche attraverso le cuffie con la musica a tutto volume. E la sua musica sapeva come essere rumorosa.

Charlie cominciò a mordicchiarsi l'interno della guancia e guardò il letto vuoto della sua compagna di stanza. Ovvero: non era esattamente vuoto; prima di sgattaiolare fuori dalla finestra per andare a una festa con gli altri, Linn aveva incantato i suoi cuscini in modo che replicassero alla perfezione la sua figura addormentata. Sarebbe stato necessario uno sguardo più che attento perché qualcuno si accorgesse che era solo una Proiezione. Peccato avessero usato quel trucco almeno un migliaio di volte – e fossero state beccate per minimo la metà di esse.

Bussarono di nuovo.

«Young, Black, aprite la porta.»

La voce gracchiante e autoritaria di Mrs Crane mandò Charlie nel panico. Senza sapere cosa fare, si alzò in piedi e cominciò a mordicchiare le pellicine del pollice, percorrendo a grandi passi lo spazio ristretto tra la finestra e la porta. David Tennant la fissava con la bocca aperta e gli occhi spiritati attraverso lo schermo del pc. Don't blink. Charlie si fermò. Cosa avrebbe fatto il Dottore al suo posto?

Improvvisando, si tirò su il cappuccio della felpa – perché i più duri avevano sempre il cappuccio calato sulla testa – e aprì la porta di uno spiraglio. Mise la testa fuori e strizzò appena gli occhi, abbagliata dal corridoio illuminato a giorno. Mrs Crane stava davanti a lei, mani sui fianchi ed espressione di chi è pronto a dar battaglia. Charlie non si vergognava neanche un po' ad ammettere a se stessa che le faceva paura. Era una donna alta e ben piazzata; nonostante fosse più vicina ai settanta che ai sessanta – così le voci dicevano – aveva folti capelli castani raccolti in una stretta treccia che le arrivava fino a metà schiena. Era una delle combattenti più dotate che Charlie avesse mai conosciuto, e sorvegliava la casa in cui vivevano come un falco pronto a piombare sulla preda. Altro che Mrs Purr. C'era un motivo se Linn e i suoi amici erano usciti prima che cominciassero le sue ronde notturne.

«Sì?» chiese Charlie, cercando di sembrare innocente. Incrociò con coraggio lo sguardo di Mrs Crane e lo tenne fermo nel suo il più a lungo possibile. Sentiva il cuore batterle forte e una parte di lei temeva che la donna se ne accorgesse. Non poteva far beccare a tutti l'ennesima punizione. C'erano già abbastanza persone che la detestavano cordialmente.

«Dov'è Eveline?»

«Dorme.»

Mrs Crane la guardò per qualche secondo di troppo, assottigliando lo sguardo, come per decidere se crederle o meno.

Don't blink.

«Tu perché non sei ancora a letto?» Per un attimo, Charlie rischiò di scoppiare a ridere e mandare all'aria tutta la copertura.

«Sto guardando una cosa al computer.»

Mrs Crane arricciò le labbra e controllò l'ora sul suo vecchio orologio da polso. Charlie si alzò in punta di piedi per dare una sbirciatina; era quasi l'una.

«Tra cinque minuti voglio tutto spento, niente discussioni,»

«Sissignora.»

Poi le pose la domanda peggiore che avesse mai potuto chiederle.

«Hai visto Aaron?»

«Come?»

«Aaron. Non riesco a trovarlo. A letto non c'è e nemmeno nelle aree comuni o in uno dei suoi soliti nascondigli.»

Un orribile presentimento affondò nella pancia di Charlie.

«Ha provato a guardare in frigo?» chiese, sorridendo con un angolo della bocca «Quel gatto ama la cioccolata. Sperando che non abbia mangiato quella di Jacob... lei sa come diventa Jacob quando gli mangiano la cioccolata. Fossi in lei correrei di sotto.»

Un'ombra passò sul volto della donna. Annuì, non parlò e si allontanò di fretta. Non appena ebbe svoltato l'angolo, Charlie si girò e chiuse la porta con un piede. Si fiondò a cercare il cellulare sepolto nelle coperte; quando lo trovò, scorse la lista dei contatti alla velocità della luce.

Uno squillo, due squilli, tre squilli.

Quattro.

Dannazione, Linn, rispondi.

Stava per riattaccare al settimo biiip a vuoto quando un'esplosione di musica orribile le perforò il timpano. Voci strascicate e sconosciute si accavallavano l'una sull'altra, mentre strani suoni di cui Charlie non voleva scoprire la provenienza facevano da sottofondo a... beh, al caos.

«CHARLIE!» urlò Linn «GIÀ TI MANCO?»

Abbassare il volume del telefono non sarebbe servito a niente, Charlie ne era certa.

«Non gridare, idiota» le bisbigliò stizzita.

«COOOOSAAAA? NON TI SENTO, CHARLIZE, PARLA A VOCE PIÙ ALTA.» Il rumore della mano di Charlie che sbatteva contro la sua faccia sovrastò per un istante la cacofonia che proveniva da quell'aggeggio infernale. «ASPETTA, PROVO A USCIRE.»

Dopodiché non si sentì altro se non eco di musica a palla e gli sporadici insulti di Linn contro le persone che non si levavano dalla sua strada. Lentamente, tutto si affievolì fino a diventare un debole ronzio di coda.

«Dio, Charlie, perché fa così freddo? Siamo a Settembre, dovrebbe essere ancora praticamente estate.»

Charlie non fu mai così felice di poter riaccostare il cellulare all'orecchio senza dover temere la perdita dell'udito.

«Forse perché sei uscita mezza nuda? Ma non è questo il punto.»

«Sono in ascolto, mamma.»

Non perse neanche il tempo di alzare gli occhi al cielo. Tanto l'altra non l'avrebbe vista. Si sedette sul letto di Linn, pronta a sentire la risposta che avrebbe posto fine alla loro vita sociale. Guardò la Proiezione della sua amica sovrappensiero. Era davvero identica a Linn: i ricci scuri scuri e così soffici da sembrare una nuvola, le lunghe ciglia tremanti, le labbra carnose, leggermente dischiuse, che sembravano fatte soltanto per essere disegnate o baciate. Le coperte si alzavano e si abbassavano in sincronia con il suo respiro; incorniciavano il vitino da vespa che Charlie aveva invidiato da morire fin dal giorno in cui si erano conosciute ormai quasi quattro anni prima. Durante le loro prime scappatelle notturne era stato stranissimo: vedere la sua amica dormire placidamente e al tempo stesso sapere che la vera Linn sarebbe andata con lei da qualche altra parte. Fuggire nel cuore della notte con la protezione di un'Altra-Charlie-ma-non-la-Vera-Charlie a giacere nel letto al posto suo. Quando ancora viveva con la sua famiglia non si sarebbe neanche sognata di rischiare – non che avesse avuto posti in cui scappare.

Adesso non ci faceva quasi più caso.

Charlie sospirò, poi si decise.

«Aaron è lì?»

Nononononononononotipregodimmidinodimmidinodimmidi-

Linn scoppiò a ridere. «Oh, sì. Non sappiamo di preciso come abbia fatto, ma è saltato dentro la borsa di Melanie e ce ne siamo accorti quando ormai era troppo tardi per tornare indietro. Quel gatto è fantastico.»

«Quel gatto ci farà finire in punizione per il resto delle nostre miserabili esisten-»

«GUARDA DOVE CAMMINI, GENIO!»

E di' addio al tuo apparato uditivo. Charlie si portò una mano all'orecchio, maledicendo per la trilionesima volta la sua compagna di stanza.

«Ma ti pare possibile che ci siano ancora persone che tra tutti i chilometri di larghezza del marciapiede scelgano sempre di correre nel centimetro già occupato?!»

«Dovete riportare Aaron indietro, adesso.»

«Cosa? No!»

«Ascolta, Linn-»

«No, Charlie! Aaron sta bene, l'ultima volta che l'ho visto gironzolava con Maya mangiando un leccalecca. Capisco che tu sia asociale e odi il mondo e quant'altro, ma non per questo devi rovinare a noi – a me – la prima festa decente da-»

«Mrs Crane lo sta cercando.»

Il silenzio raggiunse Charlie come un vecchio amico che non si vede da anni. E di cui si è scordato il nome.

Durò esattamente nove secondi.

«Merda.»

Già. Merda.

                     

***

                   

«GUARDA DOVE CAMMINI, GENIO!»

La scarica che attraversò Logan quando si scontrò con la ragazza di colore lo lasciò per un attimo senza fiato. Si voltò verso di lei, occhi spalancati e cuore palpitante. Le dita già gli sfrigolavano, in attesa del colpo che avrebbero dovuto parare.

Quel colpo, però, non arrivò mai.

Non è possibile. Non poteva non averlo riconosciuto, non poteva. Gente come lei era fatta per cacciare e uccidere quelli come lui, così come lui lei. Era questione di DNA.

E invece no.

La ragazza gli dava persino le spalle -completamente indifesa. Stava farfugliando qualcosa al telefono riguardo marciapiedi troppo grandi e persone maleducate. Come se non se ne fosse accorta. Come se non l'avesse neanche sentito.

Logan accarezzò l'idea di ucciderla. Sarebbe stato così facile. Nessuno se ne sarebbe accorto, umano e non: avrebbe soltanto dovuto rilasciare un briciolo dell'energia che gli saltellava sul palmo della mano perché l'aria smettesse di raggiungerle i polmoni. O forse le avrebbe fermato il cuore? Arresti cardiaci da giovani erano rari, certo, ma non impossibili. E Logan aveva perfezionato un tocco troppo gentile perché qualcuno potesse percepire tracce della sua magia. Sarebbe bastato un semplice schiocco di dita.

(Il più delle volte).

Stava per sfiorare i capelli della ragazza quando si fermò. Sorrise. No. Abbassò il braccio con cautela e proseguì di nuovo in direzione della festa.

La strega sarebbe stata più utile da viva.

Per il momento.

                   

***

                       

Con uno sbuffo, Charlie chiuse la chiamata. Maledetta Linn. Non era così che sarebbe dovuta andare la sua serata. Mise il cellulare nella tasca dei pantaloni e si infilò di corsa il primo paio di scarpe che riuscì a recuperare da sotto il letto, lasciandole slacciate. Si girò verso la porta, pervasa dal dubbio. Chiuderla o non chiuderla? Se Mrs Crane fosse ripassata di lì e l'avesse trovata chiusa a chiave, si sarebbe di certo insospettita. Dall'altro lato, se fosse entrata e non l'avesse trovata a letto – o peggio, se avesse smascherato la Proiezione di Linn – sarebbero stati guai seri. Charlie non aveva il tempo materiale per produrre una Proiezione anche per sé. E poi era Linn quella veramente brava; il massimo che lei fosse mai riuscita a ottenere era stata una figurina minuta e con i capelli corti come i suoi, ma con la faccia completamente diversa.

Dandole un'ultima occhiata veloce, Charlie sbuffò di nuovo e girò la chiave nella serratura. Una porta chiusa le avrebbe fatto guadagnare un paio di minuti in ogni caso.

Già si sentiva il fiato sul collo.

Io Linn la ammazzo.

Si preparò mentalmente all'impresa e spalancò la finestra. La scavalcò con una gamba, sedendosi sull'infisso, e guardò in basso. Avrebbe potuto scendere a terra anche a occhi chiusi; lei e Linn avevano passato un pomeriggio intero sedute sull'erba davanti a quella parete per studiare tutti gli appigli più sicuri. Il percorso era perfetto ed era stato collaudato infinite volte. Non c'era pericolo di cadere.

Se solo quell'orribile presentimento avesse smesso di tormentarla. Le faceva prudere il naso.

Charlie scacciò dalla testa ogni pensiero che non riguardasse il recupero di Aaron. Non si guardò più indietro, scavalcò la finestra anche con l'altra gamba e cominciò la discesa, aggrappandosi ad ogni sporgenza e ai rampicanti più resistenti. Quando mancavano un paio di metri si lasciò cadere nel vuoto. Atterrò piegando le gambe e rotolando per attutire il colpo, silenziosa come un ninja.

«Black»

Le sembrò che la terra le venisse sfilata da sotto i piedi.

«Yuh-uhuh? C'è nessuno? Avanti, Black, esci fuori da quei cespugli. Tanto lo sai che ti ho vista»

Charlie, reclutante, si alzò. Ma l'orizzonte era sgombro fin dove poteva vedere; non c'era traccia del proprietario della voce.

«Sono qui sotto!» cantilenò. Charlie si girò un po' verso destra, strizzando gli occhi. A qualche metro da lei, nascosto dall'ombra di un albero, stava steso un ragazzo con una zazzera di capelli tinti di un rosso fuoco quantomai ridicolo. «Che ci fai fuori da sola nel cuore della notte, Charlie Brown?»

Charlie, per l'ennesima volta, sbuffò.

«Non ho tempo per i tuoi giochetti, Bartholomew» Lui scoppiò a ridere. Charlie si guardò intorno, sperando che non li vedesse nessuno «Bene, è stato bellissimo chiacchierare con te, ma io adesso dovrei andare.» Cominciò ad avviarsi nella direzione opposta, quando la voce del rosso la bloccò di nuovo.

«A meno che non vada ad avvisare la nostra cara Mrs Crane?»

Chiuse gli occhi e respirò piano.

«Che cosa vuoi?»

«Oh, finalmente ci siamo» Bartholomew si alzò lentamente, stiracchiandosi pigro come un gatto «Dove stai andando?»

«A salvare il culo a quelli che sono andati alla festa perché si sono portati Aaron e la Crane lo sta cercando.»

Il ragazzo arricciò le labbra e si avvicinò di qualche passo «Sembra noioso»

«È una fortuna che non sia tu a doverlo fare, allora» disse Charlie stizzita. Stava perdendo tempo. Troppo tempo «Posso andare, ora?»

«Certo che no! Dobbiamo ancora stabilire che cosa mi devi in cambio del mio silenzio»

«Ma che idiozia è q-»

«Oh, guarda. Si è accesa una luce in soggiorno» Charlie si girò ad occhi sgranati, lo sguardo incollato alle finestre illuminate. Doveva andarsene. Adesso. «Potrei anche lanciare un sassolino contro il vetro e vedere se qualcuno risponde»

«Oppure potrei lanciare io qualche sassolino e vedere se qualcuno risponde»

A quelle parole, le sopracciglia di Bartholomew scattarono verso l'alto.

«Io non credo, piccola Nec. A meno che tu non voglia far visita ai tuoi genitori» Ma Charlie leggeva qualcosa di diverso dalla spavalderia nelle sue spalle d'improvviso più rigide e le mani che fremevano. Incertezza. Paura. Ce n'era sempre un po', quando il vento soffiava dal lato sbagliato e lei era nei paraggi.

Bartholomew rise, una risata leggera che non raggiungeva gli occhi. Indietreggiò di un passo, lasciandola andare. «Sappi però che mi devi un favore, Black.»

Charlie non lo degnò di un altro sguardo e si avviò verso i confini del parco. La luna nuova dava un minimo di protezione da occhi indiscreti, ma Charlie si tenne comunque lontana dalla strada sterrata che conduceva al cancello d'entrata. Nascosta in mezzo ai cespugli, c'era una parte della solida recinzione in ferro battuto sotto la quale era stato scavato un passaggio largo abbastanza per il più grande di loro. Piccolina com'era, Charlie non dovette nemmeno sforzarsi per sgusciare via.

Qualche metro più avanti si stagliava invisibile la barriera che avvolgeva la casa come una cupola. Teneva lontani i nemici – ma soprattutto gli umani. Dall'esterno era pressoché impenetrabile. Dall'interno... beh, quelle erano di certo un altro paio di maniche. Già da prima che Charlie arrivasse, i ragazzi erano riusciti a indebolirla in prossimità del passaggio, così che la vibrazione di energia durante le loro uscite-non-esattamente-autorizzate fosse a stento percettibile. Charlie individuò in fretta il punto, quel debole tremolio captabile solo da occhio non-umano che a tratti rifletteva il luccichio delle stelle. Quando lo attraversò incontrò soltanto una leggera resistenza.

Dall'altro lato, le sembrò di respirare per la prima volta. I campi di forza non erano la sua passione.

Raggiunse la strada e recuperò una bicicletta malridotta mimetizzata tra i rovi e le radici degli alberi.

Non le restava che pedalare e pedalare, sperando che non fosse già troppo tardi.

                           

***

                           

Linn si strinse nella giacca di pelle e, nonostante i brividi di freddo, decise di restare fuori qualche altro minuto. Rovistò nella tasca sinistra e prese l'ultima sigaretta dal pacchetto. Era il terzo di quella settimana; se Mrs Crane o la Direttrice Monroe l'avessero scoperta, l'avrebbero di certo rinchiusa a vita. Non che adesso fosse autorizzata a fare alcunché – ma almeno la sorveglianza era ridicola.

Tranne quando scoprivano che Aaron ne aveva combinata una delle sue.

Linn sospirò, fissando quel piccolo cilindro bianco con la fronte aggrottata. Se non si contava il filtro, era lungo quanto il suo indice, fragile e liscio; sotto la superficie poteva sentire tutti i suoi componenti tritati e pressati assieme per creare quel piccolo assaggio di peccato. Avrebbe dovuto premere solo un po' più forte per spezzarlo in due. Se lo lasciò rotolare sulla pelle, stretto tra due dita. Poi, senza rimuginarci ancora, si appoggiò al muricciolo dietro di lei e accese la sua ultima sigaretta.

Si godette la sua piccola bolla di silenzio, estraniandosi dal caos della festa a qualche decina di metri da lei.

La lasciò insoddisfatta, come sempre.

Spense il mozzicone con la punta delle décolleté e tornò dentro.

Il calore che la investì fu quasi un sollievo, la musica a tutto volume, le risate, le luci, i colori. Appese la giacca sull'unico appendiabiti che non straripasse e si rituffò nel mare di corpi che si dimenavano al ritmo dell'house. Non esattamente il suo genere preferito, ma si accontentava.

Dove diavolo erano finiti i suoi amici? Quando era uscita per parlare con Charlie li aveva lasciati praticamente all'entrata, ma di loro non c'era più traccia.

Charlie.

Linn si morse il labbro, e cominciò a cercare in giro. Doveva ammetterlo: si sentiva un po' in colpa. C'era un motivo se Charlie non aveva voluto venire alla festa, e davvero, Linn lo capiva. Non doveva essere bello vedere la ragazza per cui hai una cotta da quando hai memoria infilare la lingua nella bocca di qualcun'altra. E dire che Mary Reed non si facesse riserve era più o meno l'eufemismo del secolo.

«Jacob!» esclamò Linn, afferrando il braccio del ragazzo. Lui e gli altri si erano rintanati in un angolino mal illuminato, accatastati su un divano che aveva visto giorni migliori. Era impossibile respirare aria che non fosse contaminata da fumo non-esattamente-di-sigaretta. Seduto nel mezzo tra i cuscini strappati c'era un tizio – un umano – con un sorriso ebete incollato sulla faccia.

Era completamente fatto.

«Linn!» Jacob la avvolse in un mezzo abbraccio, facendola cadere sopra di lui «Dove ti eri andata a cacciare? Ma adesso non importa,» la zittì ancora prima che cominciasse a spiegare. Un sorriso sghembo gli uscì sulle labbra, mentre cercava (invano) di sembrare serio. «In questa bellissima e gloriosa serata, mia cara Eveline, ho l'onore di presentarti...» Scoppiò in una risata sguaiata, e diede una pacca sulla spalla al ragazzo accanto a lui per richiamare la sua attenzione «Ehi, com'è che ti chiamavi?»

Quello si girò verso di loro, aprì ancora di più il sorriso e si accasciò contro lo schienale del divano emettendo versi incomprensibili.

«Non credo abbia mai detto il suo nome,» commentò Cam dall'altro lato del divano.

«Porca vacca. Ma che diavolo gli avete dato?»

«Una delle nostre.» Cam prese un sorso del suo drink azzurro puffo e sprofondò l'indice nella guancia del ragazzo. Non ottenne alcuna reazione. «Guardalo, è così carino. Quando si sveglierà domani... sera – sì, dai, per domani sera riuscirà a svegliarsi, no? - gli sembrerà di essere tornato dal paese delle meraviglie.»

Linn alzò gli occhi al cielo, ma si lasciò scappare un mezzo sorriso. Si sistemò meglio sulle gambe di Jacob e gli rubò di mano il suo bicchiere. Annusò il liquido arancione che conteneva, girando con la cannuccia i cubetti di ghiaccio che stavano sciogliendo. Prese un piccolo sorso di prova, e sospirò contenta. Sì, c'era abbastanza alcol.

«Sapete dov'è Aaron?»

«Chi?»

Linn sbuffò e tirò un calcio a Cam, facendo ondeggiare pericolosamente l'umano tra di loro. Jacob lo raddrizzò con una mano «Aaron, idiota.»

Di fronte all'espressione persa del biondo, la ragazza si girò verso Jacob. Il suo sguardo colpevole parlava da sé.

«Uhm,» Jacob finse un colpo di tosse. Linn alzò un sopracciglio. «Anche Cameron potrebbe essersi fumato un paio delle nostre sigarette artigianali

Gran bel nome per della marijuana incantata. Almeno lei fumava solo tabacco.

«Definisci un paio.»

«Cinque o sei?»

Linn nascose la testa tra le mani. Erano proprio nei pasticci.

«È la volta buona che ci uccidono.»

                       

***

                             

Non appena arrivato sul tetto della fabbrica, Logan fece apparire un fuoco scoppiettante in uno schiocco di dita e scintille argentate. Si tolse la giacca di jeans cercando di non badare al freddo e si stiracchiò, tendendo le braccia per sciogliere i muscoli.

Tagliò fuori qualsiasi rumore che non fosse il battito del suo cuore o la voce ancora senza volto che continuava a chiamare il suo nome.

Logan. Logan. Logan.

Il brivido che gli percorse la schiena non aveva nulla a che vedere con la temperatura.

Il ragazzo si scrocchiò le dita.

C'era del lavoro da fare.

                                   

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Capitolo 2
*** Due ***


                                          

                                       

CAPITOLO DUE

                                       

Charlie lo capì prima ancora di scendere dalla bicicletta: Linn aveva mentito. Non faceva freddo. Si gelava.

C'era qualcosa di terribilmente sbagliato.

Abbandonò la bici accanto a un lampione senza preoccuparsi di legarla e infilò le mani nelle tasche della felpa, rabbrividendo. Faceva davvero troppo freddo. Quasi le lacrimavano gli occhi, e i suoi respiri si trasformavano in nuvolette bianche che si disperdevano nell'aria. Non era normale. Non era naturale.

Doveva trovare Aaron e andarsene di lì con Linn e gli altri il più in fretta possibile.

Accelerò il passo, seguendo la musica e le luci. Si trovava in quel genere di aree di periferia pressoché abbandonate che una città migliore avrebbe riconvertito in un quartiere alla moda. Vecchie fabbriche trasformate in costosi loft, magazzini in negozi, il canale secco e in disuso in uno skatepark o in uno spazio per la streetart. Invece la sola gente -umana- che lo abitava erano spacciatori, drogati, persone poco raccomandabili e auto di passaggio che prendevano puntualmente la svolta sbagliata. E, ovviamente, ragazzi che organizzavano feste clandestine negli edifici fatiscenti.

Era un miracolo che non fosse ancora arrivata la polizia. Questa volta avevano scelto una tra le fabbriche più isolate, con un largo spiazzo di cemento attorno e un muretto crepato che la circondava. Si sentiva la musica -pessima- a tutto volume anche senza entrare, e c'era gente ovunque. Gruppi che fumavano e sghignazzavano seduti sul muretto, un paio che si davano da fare nascosti tra le macchine parcheggiate; c'era una ragazza che vomitava in un angolo appoggiata al muro, e un debole scintillio proveniva persino dal tetto. Charlie si guardò attorno, spaesata e sconfortata. Come avrebbe fatto a trovare i suoi amici in mezzo a tutto quel casino?

Si fermò davanti al cancello d'entrata quando un tizio grosso e vestito di nero le si parò davanti, facendola quasi cadere su di lui. Charlie sbuffò. Possono permettersi un buttafuori ma non un impianto elettrico decente? L'energumeno la guardò dall'alto in basso, braccia incrociate e tipica posa da buttafuori che non si beve le tue bugie. I suoi piccoli occhi quasi scomparivano sotto le sopracciglia scure e foltissime.

«Devo entrare,» disse Charlie facendo un passo indietro. L'uomo le indicò la mano con un cenno della testa e divaricò le gambe.

«Se non hai il marchio non passi.»

Ne ho anche troppi, di Marchi. Charlie alzò gli occhi al cielo, e si girò verso gli altri ragazzi. Sul dorso della mano sinistra c'era quello che sembrava lo stampo di due cerchi blu intrecciati. Fantastico. Controllando per sicurezza che nessuno stesse guardando dalla sua parte – erano tutti troppo impegnati a pomiciare o rigurgitare l'anima – fece un sorriso accattivante in direzione del buttafuori.

«Giusto, prima hanno sbagliato e me l'hanno fatto sulla destra» Charlie tirò fuori dalla tasca anche quella mano e la mostrò al buttafuori. Un leggero formicolio le attraversò le dita, mentre l'incantesimo lavorava nella mente dell'uomo e gli faceva vedere due nette circonferenze blu stampate sul dorso della sua mano. Un vago odore di caramello bruciato si diffuse nell'aria attorno a loro. Compulsione. Non era legale farne uso, ma ehi – a mali estremi, estremi rimedi, no? E poi era troppo facile incantare gli umani. A Charlie sembrava quasi una seconda natura. Non che l'idea non la disgustasse.

Il buttafuori le guardò la mano per appena un istante, poi annuì e si fece da parte.

L'interno della fabbrica era anche peggiore di come se lo fosse prospettato: norme di sicurezza (e igiene) del tutto ignorate, musica assordante che ti rimbombava nelle ossa, fiumi di gente vestita nelle più disparate maniere (dalle minigonne inguinali alle t-shirt di Game of Thrones, e per un attimo le era parso di vedere allontanarsi un ragazzo con un paio di scintillanti ali da fata). Ovunque c'erano ragazzi e ragazze che ballavano, stretti gli uni agli altri, agitando la testa a tempo o con movimenti sinuosi e sensuali. Lungo le pareti erano stati sistemati vecchi divani e sedie un po' spagliate. Dall'altra parte della stanza, in posizione rialzata, si poteva vedere una sorta di bar improvvisato, affollatissimo. Il barista era un ragazzo con i capelli blu elettrico sparati in tutte le direzioni e la canottiera nera appiccicata al petto per il sudore. Lavorava alacremente e sorrideva a tutti, distorcendo le linee dei tatuaggi che aveva accanto a entrambi gli occhi allungati.

Charlie non avrebbe mai potuto non riconoscerlo. Cominciò a farsi strada tra la folla, puntando verso di lui. La musica la assordava e il caldo era opprimente, soffocante. Troppo diverso dal gelo che c'era fuori. Raggiunse il bancone dopo millenni, schiena sudata e fiato grosso e maniche della felpa arrotolate fino ai gomiti. Si sollevò in punta dei piedi per farsi vedere e si appoggiò al microscopico bancone di metallo, umido ma sorprendentemente pulito. A una manciata di metri lampeggiava debolmente l'insegna di un'uscita d'emergenza. Almeno quella c'è.

Il barista dava a Charlie le spalle, indaffarato a mescolare alcolici a succhi coloratissimi. La gente premeva accanto a lei, sgomitando per trovare un posto e ordinare per primi. Ma quando il ragazzo si voltò fu lei che notò per prima. Le annuì in segno di riconoscimento e servì gli ultimi ordini pronti; poi fece un cenno a un altro ragazzo che stava seduto ad un angolo con una mezza sigaretta spenta stretta tra le labbra. Quello si alzò con un grugnito e lo sostituì rapidamente al bancone.

Charlie indicò con la testa l'uscita d'emergenza e il ragazzo dai capelli blu aprì la strada. Ci vollero diverse spinte perché il maniglione si sbloccasse,ma alla fine la porta si spalancò e uscirono. Due ragazze all'interno sibilarono per il freddo improvviso. Charlie respirò a pieni polmoni, rabbrividendo, mentre lui si stiracchiò un poco e fece per accendersi una sigaretta.

«Non farlo.»

Il ragazzo scoppiò a ridere, e fece scattare l'accendino. Si infilò la sigaretta in bocca e la accese, voltandosi verso Charlie con un sorriso a labbra strette. Inspirò socchiudendo le palpebre, assaporò per qualche secondo, poi le soffiò il fumo in faccia. Charlie strizzò gli occhi e agitò le mani per dissipare la nuvola chiara.

«Che vuoi, Black?»

«Dobbiamo trovare i miei amici e far scappare tutte queste persone il più presto possibile,» rispose Charlie tutto d'un fiato. Lui sollevò le sopracciglia.

«E da quando in qua tu hai amici?» Charlie alzò gli occhi al cielo, ma preferì non commentare.

«I ragazzi della Monroe,» disse invece.

Lui annuì con un sorriso sarcastico e fece un altro tiro.

«Altro?»

«Stanno per squarciare il Velo.»

Questo catturò la sua attenzione. Si levò la sigaretta di bocca e la gettò a terra come se si fosse bruciato. «Fottute sigarette. Non ho sentito niente.»

«Fa freddo,» osservò Charlie a bassa voce, ma i suoi occhi erano già stati catturati da qualcos'altro. Una figura minuta, seminascosta tra le macchine, seduta sul cofano di una vecchia Honda ammaccata; i capelli lunghissimi sfioravano il cofano grigio metallizzato; una mano sprofondava in una palla nera che agitava pigramente la coda.

Maya e Aaron.

«Aaron!» esclamò Charlie, il nodo allo stomaco che cominciava finalmente ad allentarsi. Gatto e ragazzina si voltarono in sincronia, e sul viso di lei si dipinse un sorriso. Saltò giù dal cofano, recuperò uno zainetto da terra e prese in braccio il gatto, poi trotterellò fino a raggiungere Charlie. A nessuno scappò il sospiro di sollievo di Charlie. Maya le passò lo zaino e la guardò con occhi grandi e velati dal sonno.

«Quando torniamo a casa?»

«Presto,» la rassicurò Charlie, sistemandosi lo zaino sulle spalle. «Dobbiamo solo sistemare un paio di cose e poi andiamo.»

«Cosa vuoi che faccia?» disse il ragazzo.

Charlie si girò verso di lui, un'espressione decisa sul volto.

«Fa' scattare l'allarme antincendio, così la gente comincerà ad uscire. Noi intanto andiamo a cerc-»

«Non c'è.»

Charlie si fermò.

«Cosa?»

«L'allarme antincendio. Non c'è.»

«Dimmi che è uno scherzo.»

Di fronte al suo silenzio, Charlie chiuse gli occhi e si passò una mano tra i capelli, scompigliandoli tutti. Maledizione. E ora cosa avrebbero dovuto fare?

«Non riesci magari a farlo scattare comunque? Tanto non penso qualcun altro si sia accorto che manchi. Sono tutti troppo andati per ricordarsi chi siano, figurarsi-»

«No, ovviamente» la bloccò lui.

Charlie aggrottò la fronte «Ma non puoi bypassare il Marchio e usare la loro parte di-»

«Tu puoi?» Il ragazzo alzò le sopracciglia e fece una smorfia «Wow. Quindi quelli del Consiglio non sono tutti degli stronzi. Sono sorpreso.»

«Posso farlo io,» disse Maya con voce esitante, occhi puntati sulle sue scarpe. «Come quando c'era la verifica di matematica e io non avevo studiato.»

Charlie si morse il labbro, arricciò la bocca e poi si arrese: sorrise e si accovacciò un poco per raggiungere l'altezza di Maya.

«L'hai fatto davvero?»

La ragazzina alzò lentamente lo sguardo, ma di fronte al sorriso di Charlie si illuminò «Sì, e non se n'è accorto nessuno! Neanche il preside o la Direttrice Monroe.»

«Allora è deciso.» Charlie si rialzò e posò la mano sulla spalla di Maya, che ancora stringeva forte Aaron. Sembrava che il gatto si fosse addormentato tra le sue braccia. «Noi facciamo questo e vediamo di far scappare la gente, mentre tu-»

«Mentre io trovo i tuoi amici e li sgrido perché sono usciti di domenica sera» concluse il ragazzo «Luogo di ritrovo?»

«Ho lasciato la bicicletta a un lampione a mezzo isolato da qui.»

Lui sbuffò divertito, ma annuì.

Quando rientrarono, quel calore opprimente li investì di nuovo, facendoli quasi rabbrividire. Maya si strinse a Charlie automaticamente. La folla sembrava aumentata ancora di più. Girandosi verso di lui, Charlie si accorse che il ragazzo si stava già allontanando.

«Kyle!» lo chiamò. Anche con tutta quella musica, lui riuscì a sentirla lo stesso.

«Che c'è?»

Grazie, pensò Charlie.

«Vedi di muoverti.»

                           

***

                                     

Esausto, Logan recuperò la giacca da terra e si appoggiò al cornicione del tetto della fabbrica. Si infilò la giacca e tirò fuori da una tasca il cellulare. Sarebbero state le due meno un quarto in una manciata di minuti; era quasi l'ora.

Ci erano voluti secoli a incidere nel cemento armato il pentacolo che adesso pulsava costante a qualche passo da lui. Sembrava quasi ardesse dello stesso colore mutevole del fuoco, traendone energia inspessendosi e fortificandosi. A pensarci bene, avrebbe potuto essere veramente così: vi era sempre stata una componente dei suoi poteri che Logan non era mai riuscito a dominare del tutto. Il più delle volte, comunque, le conseguenze non erano state così disastrose.

Il più delle volte.

Si sedette a gambe incrociate accanto al fuoco, un miscuglio di fiamme rosse e argentee che schioccava e scoppiettava, vibrando nell'aria sempre più fredda della notte. Nel giro di qualche minuto, tutto sarebbe stato ricoperto da uno spesso strato di ghiaccio. E chiunque si fosse ancora trovato alla festa di sotto... beh, sarebbe morto.

Logan si strinse nella giacca di jeans, sorprendendosi per un istante che il suo respiro non si trasformasse in bianche nuvolette di vapore. La realtà era che non faceva davvero così freddo; il gelo che Logan sentiva non era in alcun modo naturale. Proveniva da un mondo diverso dal suo, un piano di esistenza più alto e più bianco che per qualche motivo era in perpetua intersezione con la Terra. Il sottile lembo di realtà che li teneva separati era invisibile e teoricamente impenetrabile. Ma bastava sapere quali fili tirare per cominciare a disfare l'intreccio e sfumare le linee di confine.

Se eri abbastanza bravo, riuscivi persino a dare un'occhiata dall'altro lato. E portare indietro qualcosa.

Qualcuno.

Logan. Logan. Logan.

Era da lì che arrivava il freddo. O meglio, era da lì che il calore veniva risucchiato.

Due meno un quarto.

«Logan.»

Il ragazzo si alzò fulmineo, sul volto l'espressione colpevole di un bambino che è stato scoperto dai genitori a dire le parolacce.

«Maestro.»

L'uomo si avvicinò lentamente, in silenzio, il viso coperto dal profondo cappuccio di un mantello bianco. Era a piedi nudi. Logan si mise più composto, schiena dritta e braccia lungo i fianchi.

«Sono pronto.»

La sua affermazione si perse nel caos della festa che continuava a impazzare. Ma il Maestro parve averlo sentito ugualmente. Si fermò a debita distanza, le spalle rivolte verso il vuoto oltre il tetto. Passò lo sguardo dal pentacolo al fuoco che ancora ardeva, fino a focalizzarsi su Logan. Il ragazzo poteva sentire i suoi occhi addosso, lungo la giacca in denim, i pantaloni chiari, le Converse consumate, i capelli disordinati da dita nervose. C'era giudizio, in quegli occhi. C'era potere.

Le fiamme crepitanti riuscivano a stento a violare le ombre che coprivano il suo volto. Restituivano a Logan poche, frammentate istantanee dell'uomo che aveva imparato ad adorare e temere. Il guizzo del suo sguardo indagatore. Il bagliore di una catenina d'argento. Lo scintillio di canini scoperti in un... sorriso?

«Puoi procedere, Logan.»

Logan annuì.

«E vedi di non deludermi»

Il ragazzo annuì di nuovo, strizzò un attimo gli occhi, poi distolse lo sguardo. Si posizionò al centro del pentacolo, circondato dalle cinque punte della stella perfettamente simmetrica. Aveva le mani strette a pugno, le nocche tanto tirate da essere bianche. In fondo non avrebbe dovuto essere troppo difficile, no? Di solito la Necromanzia non gli dava grandi problemi. Nel peggiore dei casi, il fuoco sarebbe stato di grande aiuto.

Il più delle volte.

Il più delle volte.

Logan guardò un'ultima volta il suo Maestro; stava osservando qualcosa al piano di sotto, sopracciglia corrucciate ma con una strana espressione divertita. Logan sospirò. Le linee che aveva tracciato con mano ormai esperta sul polso sinistro sembravano quasi bruciare.

Ce la poteva fare.

Chiuse gli occhi.

Lasciò la mente espandersi nel buio, finché la sua coscienza non intravide uno spiraglio di quel tunnel a senso unico che era il Velo.

Logan. Logan. Logan.

Poteva quasi percepirlo.

In quello stesso istante, gli esplose nelle orecchie il frastuono di un allarme antincendio.

                                       

***

                                             

Qualcuno la stava guardando dal tetto della fabbrica. Charlie non riusciva a vederlo bene, ma sapeva che nel marasma di persone davanti all'entrata stava guardando proprio lei. Non poteva essere altro; il cappuccio bianco lo impediva.

Necromante.

Strinse più forte Maya; anche lei stata guardando in su, gli occhi grandi e spaventati. Aaron era finito dentro lo zaino, la testolina nera che sbucava dalla zip chiusa per metà.

«Ma- ma quello è...»

«Shh» Charlie abbassò lo sguardo e sorrise a Maya. «Va tutto bene, non può farci del male. Noi siamo qua sotto e lui è lì sopra, no?»

Maya parve pensarci un po' su, poi annuì anche se poco convinta. Stavano cercando di individuare Linn, Kyle e gli altri nel fiume di gente che stava uscendo dalla fabbrica. L'allarme di Maya squillava forte e incessante, quasi stordendole. La quantità di persone che era alla festa era allucinante. La tragedia non era ancora stata del tutto evitata, ma almeno ridimensionata.

Charlie era comunque un fascio di nervi. Sentiva l'energia pulsare tutto attorno a lei, il Velo che si assottigliava fino a bucarsi. Il richiamo. Logan, Logan, Logan. Non aveva idea che le fosse mancato così tanto. Quel guizzo elettrico che avrebbe potuto incendiare l'aria, la mente che si apriva e dilatava, la vita, tenuta in punta di dita. Era quasi come essere un dio.

Charlie chiuse gli occhi, godendosi la sua dose come un drogato in astinenza da giorni. Un po' la spaventava, il potere che aveva ancora su di lei. Un po' la eccitava.

Qualcuno le andò a sbattere addosso facendola tornare alla realtà. Stava per urlare qualcosa di brutto alla ragazza che l'aveva spinta, quando si accorse di chi fosse.

Mary Reed.

Correva nella direzione sbagliata.

Senza pensarci due volte, Charlie lasciò Maya e si lanciò all'inseguimento. Bloccò Mary con uno strattone al braccio. La ragazza urlò e si girò spaventata.

La Compulsione la investì come un'onda anomala. Charlie la vide bloccarsi e rilassarsi di colpo mentre l'energia la avvolgeva e un sottile filo invisibile legava la sua mente alla volontà di Charlie. Il Marchio tra le scapole di Charlie cominciò a bruciare, consumando la sua energia. Ma lei strinse i denti e andò avanti.

Mary le sorrise.

Dio, quanto si sentiva in colpa.

«Reed,» disse Charlie, voce ferma e sguardo puntato negli occhi dell'altra «Ti sei dimenticata il cellulare a casa. Corri a prenderlo.»

Mary stava per annuire ed andare quando il ciondolo che Charlie portava al collo cominciò a brillare. Charlie sentì qualcosa sbloccarsi e propagarsi come un terremoto. Un brivido le percorse la schiena.

Sapeva esattamente di che cosa si trattasse.

Fu in quel momento che i corpi cominciarono a cadere.

                                             

***

                                     

Logan stava perdendo il controllo.

Logan. Logan. Logan.

La voce che lo chiamava non era più una semplice voce. Stava prendendo forma nella sua testa, e diventava ogni secondo più forte, più grande.

Era un mostro.

Stava ridendo.

E Logan... beh, Logan stava morendo.

Il ragazzo aprì di scatto gli occhi e saltò fuori dal pentagramma, ma ormai era troppo tardi. Le fiamme argentee si dimenavano come in una tempesta, e il freddo diventava ogni secondo più penetrante. Il respiro gli si ghiacciò in gola. Adesso poteva davvero vedere il fiato che si congelava in tante nuvolette di vapore davanti alla sua bocca; la giacca di jeans era completamente inutile.

Il fuoco si spense in uno sbuffo.

Logan. Logan. Logan.

Violet.

L'ultima cosa che poté fare fu aggrottare le sopracciglia in confusione, e vedere il suo Maestro sorridere.

Poi la vita lo lasciò.

E la bestia ne prese il posto.

                                   

***

                                   

«CHARLIE!»

Charlie si girò per vedere Maya che correva verso di lei, terrorizzata.

«Resta con me,» disse Charlie a Mary. Poi le prese la mano senza badare alle farfalle nello stomaco e cominciò a correre. Si scontrò con Maya in un abbraccio che le fece cadere a terra mentre l'ondata di morte le raggiungeva. Il freddo le bruciò i polmoni, saettandole fin dentro le ossa. Era quello che accadeva quando un Necromante non era abbastanza forte: la creatura evocata si liberava e recuperava l'energia necessaria ad attraversare il Velo da sola risucchiandola da qualsiasi essere vivente incontrasse nel suo cammino.

«Va tutto bene,» bisbigliò Charlie nell'orecchio di Maya, tenendola stretta a sé, l'altra mano intrecciata a quella di Mary «Il ciondolo della mia famiglia ci proteggerà. Lo vedi quanto luccica?» dopo qualche secondo, Maya annuì. Anche se aveva la testa girata dall'altra parte, Charlie riusciva a vederlo. Era quasi accecante.

Non era mai stata così contenta di essere una Black.

Logan. Logan. Logan.

Violet.

Charlie alzò lo sguardo.

E vide Linn cadere.

                              

                                

                             

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Capitolo 3
*** Tre ***


                      

                         

CAPITOLO TRE

                          

                                                        

I telegiornali ne parlavano ancora dopo tre giorni: un terribile incendio scoppiato in una fabbrica abbandonata dove dei ragazzi avevano organizzato una festa non autorizzata. Ventisette vittime. La strage più grande che si fosse mai verificata da quelle parti.

Non era stato un incidente.

Dio, non era stato nemmeno un incendio.

Ma questo, gli umani non l'avrebbero mai saputo.

Charlie arrancava assonnata tra i corridoi del liceo, non guardando nemmeno dove stesse andando. Erano giorni che non dormiva – tre giorni, per essere precisi – e per quanto riuscisse a resistere, la stanchezza stava cominciando a farsi sentire.

Ventisette vittime.

Non era stato un incidente.

Linn non si era ancora svegliata.

Charlie non aveva la più pallida idea del perché l'avessero costretta ad andare a scuola. A cosa le serviva, poi, la scuola? Le nozioni che le sarebbero state utili nel loro mondo non le avrebbe di certo imparate in un banale liceo umano. Eppure eccola lì, a varcare la soglia dell'aula di Geografia, mentre la sua compagna di stanza lottava per restare in vita. Non le avevano nemmeno permesso di andarla a trovare in infermeria. L'avevano solo cacciata a letto, e poi dritta a scuola. Non una parola. Non una sgridata. Niente di niente. Era il terzo giorno che andava avanti così e Charlie non ne poteva più. Il non sapere la tormentava.

Si sedette in uno dei banchi in fondo alla classe e appoggiò la faccia sullo zaino a mo' di cuscino, cercando di non farsi vedere dal professore. Aveva bisogno di una sana dormita. Non ne poteva più di rivivere quella notte ogni volta che chiudeva gli occhi.

Lo sguardo di Linn puntato verso l'alto, oltre di lei, sul tetto della fabbrica.

Il terrore dipinto nel suo volto.

Quel buco nero di energia che la raggiungeva come l'onda di un mare in burrasca.

La luce che lasciava i suoi occhi.

E lei che cadeva, come un corpo morto, a terra.

L'urlo disumano che aveva squarciato i polmoni di Charlie e fatto scoppiare a piangere Maya.

Basta.

Charlie strizzò gli occhi e si sedette composta, tirando fuori i libri della lezione. Qualche suo compagno la salutò entrando in classe, compresa Jacqueline Smith. Era una ragazza alta alta con gli occhi più azzurri che Charlie avesse mai visto, nascosti da un paio di spessi occhiali da vista. Era una delle poche persone che Charlie considerasse amiche in quella scuola. Jackie si sedette accanto a lei con un sorriso, aggrottando solo per un secondo le sopracciglia di fronte alle profonde occhiaie di Charlie. Era quello che le piaceva di lei. Se ne stava al suo posto e non faceva troppe domande. Non sapeva nulla di chi fosse in realtà Charlie; ma forse era meglio così.

Il professore cominciò a parlare e Charlie si perse nella sua testa, come ogni volta. Dopo dieci minuti, il suo quaderno degli appunti era pieno di disegnini orribili e lei quasi non sentiva più la voce dell'uomo calvo e pasciuto che stava cercando di insegnar loro qualcosa sul clima statunitense. Come se me ne fregasse qualcosa.

L'avvertì molto prima di vederla.

All'inizio fu un semplice solletichio alla nuca, una scia di brividi che le scese lungo la schiena facendola stringere nella sua maglia. Le arrivò fin sulla punta delle dita, lasciandole cariche, pronte a scattare. Poi la raggiunse l'aura di potere che proveniva dalla fine del corridoio, ma che per qualche terrificante motivo Charlie riusciva comunque a percepire. Il suo istinto da Necromante agì al suo posto e si preparò mentalmente a combattere: schiena più dritta, mani libere lungo i fianchi, gambe pronte a correre.

Elementale.

Il suo nemico naturale.

Linn.

Il Marchio tra le sue scapole cominciò a bruciare.

Trattenendo il respiro, Charlie si costrinse a calmarsi.

Aveva sentito quel genere di energia soltanto altre quattro volte in tutta la sua vita. La prima risaliva alla notte in cui i suoi genitori e suo fratello erano morti. Fu quella la forza che diede fuoco ai loro corpi perché mai ritornassero sulla terra.

Non avrebbe potuto confonderla con nessun altro.

Un paio di colpi alla porta, ed Aleister Monroe entrò nella sua vita.

Charlie era fottuta.

                                        

                                           

Non era l'atteggiamento a fregarla.

Avrebbe potuto passare tranquillamente per una diciottenne normale. Giacca verde militare, eyeliner nero, stivaletti con qualche centimetro di tacco. Un sorriso arrogante sulle labbra dipinte di un colore naturale pareva gridare che no, nonostante il viso d'angelo non aveva alcun rispetto per l'autorità. Trasudava confidenza e sarcasmo, e osservava l'aula sorprendentemente piombata nel silenzio con l'ironia che le illuminava gli occhi. Sembrava si celasse un esilarante segreto tra quelle mura, un segreto di cui nessun altro poteva essere messo a parte. Charlie dubitava qualcuno avrebbe potuto reggerne il peso.

Non appena la ragazza era entrata nella classe, la temperatura era diminuita di svariati gradi. Ma quello non era il freddo pungente dell'Evocazione. Quello era un freddo che si poteva provare soltanto di fronte a un fuoco che bruciava così intenso da far sparire tutto il resto.

Oltre la sua spalla destra faceva capolino l'elsa decorata di una spada.

L'insegnante la osservava perplesso, alternando lo sguardo tra il suo sorriso e le articolate volute che ricordavano la testa di un drago, cercando di capire. Non che ci sarebbe mai potuto riuscire.

«Alice Monroe,» si presentò lei, la voce che tintinnò nell'aria come una melodia armoniosa, scivolando sulla lingua, sulla pelle, accarezzando la mente, lavando via ogni qualsiasi possibilità di resistenza.

La puzza di Compulsione era così forte che Charlie aveva la nausea.

«La nuova studentessa?» provò di nuovo, addolcendo lo sguardo e rendendo ancora più forte l'incantesimo «La segretaria mi ha dato dei fogli da farle firmare.»

Il professore annuì, confuso, e prese i fogli che la ragazza gli porgeva, senza staccare gli occhi dall'elsa della spada.

«È di scena,» disse lei, poi portò un braccio dietro la schiena e sguainò la spada in un movimento fluido ed esperto. Nessuno sussultò al sibilo che riecheggiò nell'aria o al luccichio metallico della lama sotto al sole. Nessuno avvertì l'energia che irradiava e che chiamava la sua proprietaria, invitandola a lanciarsi in duello.

Quella spada era stata forgiata secoli e secoli prima soltanto per lei.

La Prescelta.

Colei che all'età di diciannove anni avrebbe posto fine all'eterna lotta tra Bene e Male, tra Elementali e Necromanti. Infinità di ballate e poemi erano stati scritti in suo nome, una Profezia marchiata a fuoco nel suo destino che aveva segnato la sua esistenza ancora prima che nascesse. Charlie ogni tanto si chiedeva come ci si dovesse sentire, a portare da soli il peso delle sorti del mondo sulle proprie spalle. Ma in fondo tutti hanno i loro scheletri nell'armadio, no? E quelli di Charlie non erano soltanto metaforici.

Aleister mise l'altra mano sul filo della spada e tagliò.

Finse di tagliare.

Tagliò.

Charlie dovette sforzarsi per non vedere una lama di plastica rientrare nell'elsa invece del sottile rivolo rosso che colorò il palmo della mano della ragazza. Dopo pochi istanti, anche quello sparì.

Qualcuno esclamò un «Figo!» e uno persino fischiò in ammirazione. Aleister continuò a sorridere e rinfoderò la spada. Il professore sorrise a sua volta, e le indicò un banco vuoto dove sedersi.

Solo in quel momento, Aleister si voltò verso di lei.

Le fece l'occhiolino.

E andò a sedersi al suo posto.

                                           

                                                     

Charlie non fece nemmeno in tempo a svoltare l'angolo alla fine della lezione che Aleister la prese a braccetto, trascinandola quasi di peso esattamente nell'altra direzione.

«Chimica sarebbe da quella parte,» provò debolmente Charlie, sapendo già dal principio che non sarebbe servito a niente.

«Niente chimica per te quest'oggi,» Aleister lasciò andare il suo braccio ma mantenne il passo spedito «Sei stata convocata dal Consiglio.»

Merda. Il Consiglio. Se il governo di tutto il loro mondo voleva davvero parlare con lei... sì, era proprio nei pasticci. E il Consiglio non ci andava leggero. Charlie ricordava alla perfezione il giorno di ormai quattro anni prima in cui aveva dovuto subire l'inflizione del Marchio che adesso riposava sulla sua schiena. Era stata una tortura. Ma era quello il prezzo che aveva dovuto pagare per aver salva la vita.

Rinunciare a se stessa.

«E per quale motivo?»

Aleister non rispose, la guardò e basta, un sopracciglio inarcato e labbra strette in una rigida e sottile linea di disapprovazione.

Uscirono dalla scuola, e davanti all'entrata Charlie vide la cosa più bella su cui avesse mai avuto l'onore di posare gli occhi. Si fermò a guardare, incantata.

«Ti prego, dimmi che è tua.»

Aleister fece un sorrisetto con un angolo della bocca e mostrò a Charlie il casco che teneva nell'altra mano. Tirò fuori dalla tasca dei pantaloni le chiavi dell'Harley Davidson nera fiammante che stava parcheggiata accanto ad una macchina anonima. Era lucida e senza neanche l'idea di un graffio. Sembrava praticamente nuova; ma Charlie ricordava perfettamente il telo che nel garage di villa Monroe l'aveva tenuta coperta fin da quando lei era arrivata.

Qualcosa diceva a Charlie che avrebbe fatto bene a temere anche solo a toccarla.

«Rovinala soltanto con il pensiero, e qualunque cosa ti farà il Consiglio ti sembrerà una passeggiata.»

Ecco. Charlie alzò gli occhi al cielo, e si lasciò scappare uno sbuffo.

Non aveva la più pallida idea di come facesse ad essere ancora così tranquilla.

Forse devo ancora realizzare.

«Vedi di realizzare in fretta, perché tra mezz'ora ci aspettano» disse Aleister, mettendosi il casco. Charlie aggrottò le sopracciglia. Come diavolo ha fatto a- «Sì, ti leggo nella mente. Adesso muoviti.»

Charlie salì sulla moto dietro di lei, l'elsa della spada che quasi le si piantò in fronte.

«Tieniti forte,» fu l'unico avviso che Aleister le diede, prima di mettere mano all'acceleratore e partire alla velocità della luce.

                                                 

                                             

La prima volta in cui aveva incontrato i membri dell'Alto Consiglio degli Otto -il massimo organo di governo del mondo elementale- Charlie aveva quattordici anni ed era appena stata l'artefice della morte di sette persone. Quell'Evocazione le era quasi costata la vita, ma lei era riuscita comunque a farcela. I demoni che aveva portato da questa parte del Velo non erano stati difficili da distruggere; suo fratello Adam se ne era occupato con una semplice Beretta e un paio di proiettili incantati ciascuno. Disfarsi dei corpi, invece, era stato un altro paio di maniche. Normalmente li avrebbero fatti sparire nella magione dei Black, in attesa di usarli come involucri per le prossime Evocazioni: gli incantesimi risultavano nettamente superiori se ad abitare un corpo fosse stata una sola coscienza. Quella volta, però, era stato diverso.

«Quest'oggi vogliamo insegnarti che non sempre esiste una soluzione semplice,» le aveva detto sua madre, mentre la aiutava a caricare i cadaveri su un furgone bianco «A volte potresti trovarti in situazioni complicate e nell'immediato bisogno di disfarti di un alto numero di corpi.» Aveva chiuso il portellone con un colpo secco che Charlie si era sentita rimbombare nella testa nelle ore successive. «Quindi, oggi sarai tu a doverti disfare dei cadaveri, da sola. Hai due giorni di tempo.»

«E che nessuno li trovi,» aveva aggiunto suo padre in un tono che le aveva fatto venire i brividi.

E fu così che un Elementale l'aveva trovata in un angolo del Mercato delle Due, a piangere sul cadavere di una donna che doveva aver avuto al massimo trent'anni. Paradossalmente, era stato proprio il tatuaggio sul suo polso sinistro a salvarle la vita. Lo stemma della casa dei Black. Un letterale asso nella manica che aveva portato il Consiglio a distruggere forse la più potente famiglia di Necromanti al mondo.

Tutto grazie a lei.

Questa volta, però, non l'avrebbe aiutata. Charlie ne era certa.

Da come Elizabeth Monroe stava urlando a sua figlia dall'altra parte della porta, sarebbe stata la sua rovina.

Lei ed Aleister erano sedute per terra in corridoio, zaini lasciati accanto al muro, in attesa. Aleister si stava controllando le unghie con fare annoiato mentre con l'altra mano giocava con le chiavi della sua moto. Il ginocchio destro di Charlie continuava a tremare, mentre lei cercava invano di calmarsi. Sarebbe andata male. Molto male. Ma cosa aveva fatto di così terribile da richiedere l'intervento di un membro del Consiglio? Aveva soltanto cercato di salvare i suoi compagni e quante più persone possibili.

Linn è morta.

Il pensiero la attraversò paralizzandola da capo a piedi. Linn è morta. Il respiro cominciò a mancarle, mentre il cuore batteva all'impazzata. Linn è morta Linn è morta Linn è morta morta mortamortamortamorta-

«Gesù, Black, datti una calmata,» sbottò Aleister «Eveline sta bene. Non si è ancora svegliata, ma sta bene» Lanciò in aria le chiavi e le riprese con l'altra mano, senza guardarla in faccia. Charlie chiuse gli occhi, appoggiando la testa contro il muro «Stanno discutendo se rendere permanente il tuo Marchio o meno»

«Che cosa?!»

«Oh avanti, lo sanno tutti che hai aiutato quel Necromante domenica sera. Un Marchio permanente è anche un trattamento preferenz-»

«CHE COSA?!» Charlie scattò in piedi e cominciò a camminare avanti e indietro per il corridoio «Io. Non. Ho. Fatto. Niente.»

Aleister alzò le sopracciglia.

«Cosa avrei potuto guadagnarci? Nulla. Assolutamente niente. Non c'ero nemmeno, a quella festa! Ci sono andata solo perché Aaron era scappato»

«Chi?»

Charlie sbuffò e si passò una mano tra i capelli, nervosa fino all'estremo. Stava tremando. Un Marchio permanente non era un incantesimo leggero: l'avrebbe completamente privata dei suoi poteri, per sempre. Già quello temporaneo che aveva tra le scapole era impossibile da sopportare. Non sarebbe sopravvissuta. Nessuno era mai sopravvissuto. Sarebbe stato come privare un uccello delle proprie ali; prima o poi avrebbe perso la ragione. Tutti impazzivano, alla fine.

«Te lo giuro, Aleister, io sono innocente»

La ragazza non si smosse di un centimetro «Non è me che devi convincere, Charlotte»

Charlie si irrigidì.

«Non chiamarmi Charlotte.»

«E tu non chiamarmi Aleister. Quel tizio era uno psicopatico e ci aveva quasi fatti scoprire.»

In quel momento la porta dello studio della Direttrice Monroe si aprì, e ne uscì una donna dallo sguardo fiero e penetrante -e vagamente deluso- e i capelli che tradivano l'età avanzata. Elizabeth Monroe.

«Signora Consigliere,» si lanciò subito Charlie «Mi lasci spiegare, io quella sera non ero-»

«Non c'è bisogno che tu mi dica niente, signorina Black,» la interruppe lei, avviandosi verso le scale «Mia figlia Rebekah ha già parlato in tua difesa» poi si voltò verso Aleister con un inspiegabile sorriso magicamente apparso sul suo volto «Mi dispiace che questa mia visita duri così poco, Aleister, ma è un piacere rivederti» Le prese le mani tra le sue e le diede un bacio affettuoso sulla guancia «Sei cresciuta molto. E le tue imprese sono già leggenda. Siamo tutti molto fieri di te.»

Per qualche motivo, Charlie capì che quel tutti non indicava la sua famiglia, bensì gli altri membri del Consiglio. Avere una Prescelta come cagnolino deve essere una gran fortuna.

Anche Aleister sorrise, visibilmente in imbarazzo. Lasciò andare sua nonna senza abbracciarla o ricambiare il bacio.

La Consigliera Monroe se ne andò, lasciando Charlie, Alice e la Direttrice ferme in corridoio. Il cuore di Charlie stava battendo a mille. Cosa significava per lei? Era salva? Cosa aveva deciso il Consiglio?

La Direttrice Monroe sospirò e batté le mani, richiamando l'attenzione di Charlie ed Alice.

«Su, entrate, ragazze, non perdiamo altro tempo.» Charlie seguì Alice dentro lo studio della Direttrice. Non era molto grande, ma comunque lo spazio era ben sfruttato e accogliente. Charlie si sedette su una delle familiari poltroncine rosse di fronte alla scrivania della Direttrice. Nel primo periodo in cui aveva cominciato a vivere a casa Monroe erano stati infiniti i colloqui in quello studio; non credeva sarebbe mai riuscita a dimenticarlo.

La Direttrice chiuse la porta e andò a sedersi dall'altra parte della scrivania. Anche Alice si sedette e accavallò le gambe, braccia incrociate al petto in totale chiusura.

Non va bene.

«Allora, Charlie,» disse la Direttrice guardandola negli occhi. Charlie si stava torturando le mani in grembo «Ho parlato con mia madre e sono riuscita a convincerla a non toccare il tuo Marchio finché le indagini non saranno finite e non sarà dimostratala tua colpevolezza – sempre ammesso che venga dimostrata.»

A Charlie sembrò che un peso immenso le fosse appena stato tolto dal petto. Sospirò pesantemente e ignorò del tutto Alice che la guardava con un sopracciglio alzato.

«Grazie infinite,» disse, sorridendo riconoscente alla Direttrice.

«Non ringraziarmi, piuttosto-»

«Posso partecipare alle indagini, dato che sono qui?» chiese Alice interrompendo sua madre. La Direttrice la guardò e scosse la testa.

«No, non puoi.»

«Ma-»

«È qui che entri in gioco tu» la bloccò prima che potesse parlare «Dovrai controllare Charlie e riferire al Consiglio qualsiasi attività insolita.»

«Cosa?!» esclamò Alice, alzandosi in piedi.

«È uno scherzo, vero?» Charlie era allibita. Non può essere.

«No, Charlie» disse la Direttrice Monroe «È l'unico modo per cui hanno acconsentito a non rendere permanente il tuo Marchio: Alice non ti dovrà mai perdere di vista, e se-»

«Mi stai dicendo che mi avete fatto venire qui di corsa dalla Grecia per fare da babysitter a una ragazzina Necromante – Alice pronunciò la parola con disgusto – di cui non si sa neanche se è innocente o meno?!»

«Esatto»

«Tutto questo è ridicolo»

«Resta al tuo posto, Alice» Il tono della Direttrice Monroe non ammetteva repliche; Charlie ne fu intimorita anche se non era diretto a lei «Sarai anche la Prescelta ma resti sempre mia figlia. Farai come ti ho detto. La discussione è chiusa.»

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Capitolo 4
*** Quattro ***


                                           

CAPITOLO QUATTRO

                             

                               

Alice uscì dall'ufficio di sua madre come una furia, sbattendo la porta e allontanandosi a grandi passi. Charlie guardò Rebekah, senza sapere cosa dire. Da un lato dava ragione ad Alice. Non doveva essere bello passare da salvatrice del mondo a babysitter di una Necromante petulante.

«Va' anche tu,» disse la Monroe, sospirando pesantemente «Proverò a calmarla più tardi.»

Charlie raccolse il suo zaino da terra e cominciò ad allontanarsi. Ma si fermò proprio davanti alla porta, girandosi nuovamente verso l'altra. Si umettò le labbra e guardò in basso, nervosa.

«Potrei andare a vedere Linn?»

Dopo qualche secondo di silenzio, Charlie rialzò lo sguardo. Il viso della donna si era addolcito, e le stava sorridendo «Ma certo. In realtà non ti ho permesso di andare prima solo perché il Consiglio me lo impediva. E Charlie,» disse, alzandosi dalla sedia «Tu non c'entri niente con quello che è successo l'altra sera. Di questo ne sono sicura.»

Anche Charlie sorrise, un sorriso a metà che a stento le raggiunse gli occhi.

«Grazie,» disse, e se ne andò.

L'infermeria era esattamente dall'altra parte della villa in cui abitavano. Non era una vera e propria infermeria, in realtà: la Direttrice Monroe aveva usato una stanza sufficientemente grande che potesse contenere cinque letti e abbastanza kit da pronto soccorso o qualunque cosa sarebbe potuta servire in caso di emergenza; risaliva a quando aveva deciso di trasformare la magione di famiglia in una comunità in cui ospitare giovani Elementali – e Necromanti, nel caso di Charlie – che avevano perso i loro genitori o che comunque si trovavano in difficoltà. Proprio come Alice, l'orfana di guerra che aveva adottato e che si era poi rivelata essere lo strumento più importante per la vittoria.

Charlie entrò piano, cercando di non fare rumore. Seduto su una poltrona in un angolo c'era Meyer, un ragazzo che aveva vissuto lì e che dopo essersi diplomato aveva deciso di restare per dare una mano. Non fece cenno di aver notato la presenza di Charlie. Stava sfogliando con poco interesse una rivista umana. Charlie si chiese come facesse a leggere: tutte le tapparelle erano abbassate e la stanza era in una penombra troppo fitta perché si riuscisse a distinguere qualcosa. Il poco sole che filtrava era bloccato dalle tende e non bastava comunque a illuminare la stanza. C'era solo una piccola luce accesa, sul comodino dell'unico letto occupato.

E lì, pallida e con gli occhi chiusi, c'era Linn.

A Charlie venne quasi da piangere.

Sembrava stesse dormendo, come se una piccola spinta o un attacco di solletico avessero potuto svegliarla. Linn aveva sempre avuto il sonno più leggero che Charlie avesse mai visto, persino più leggero del suo; bastava una porta chiusa con un po' troppa forza alla fine del corridoio perché lei si svegliasse in un grugnito. Charlie a volte la trovava a vagare per la loro camera alle quattro del mattino, incapace di riaddormentarsi.

Questa volta, però, non si sarebbe svegliata.

Linn si sveglierà, Charlie ricordò a se stessa, Solo non subito. Ma prima o poi si sveglierà. Si sedette sul bordo del letto, zaino abbandonato per terra, e cominciò ad accarezzare i capelli di Linn; erano umidi, come se fossero stati appena lavati. Probabilmente qualcuno si era occupato di lei.

«È stabile,» disse Meyer, alzando gli occhi dalla rivista. Charlie si girò verso di lui e si costrinse a ingoiare il nodo che le si era formato in gola «Anzi, è perfettamente in salute. Ma non riusciamo a svegliarla, è come se la sua mente fosse da qualche altra parte. Tra qualche giorno dovrebbe arrivare una specialista; vedremo se lei riuscirà a fare qualcosa.»

Charlie annuì, e si girò di nuovo verso Linn. È come se la sua mente fosse da qualche altra parte.

Ma sarebbero riusciti a riportarla di qua.

Dovevano.

                                                     

Era appena mezzogiorno e Charlie era già esausta. Dopo essere andata a rubare qualcosa dalla cucina, tornò in camera sua strascicando i piedi e trascinandosi tra i corridoi come uno zombie. Aveva davvero bisogno di dormire.

Ma, a quanto pareva, il suo letto era occupato da qualcun altro.

Aaron stava dormendo placidamente sopra le coperte, un sorriso d'angelo a nascondere il suo animo da diavoletto. Questa volta era in forma umana: un bambino cicciottello con il pigiama di Batman e dei ricci così belli da far invidia a quelli di Linn. Ma come mai non era a scuola? Probabilmente si sarà trasformato in gatto per scappare dalla finestra del bagno.

Charlie sorrise, e gli diede un bacio sulla fronte senza svegliarlo. Poi si spogliò e si infilò un paio di pantaloni comodi e una delle felpe di Linn. Aveva ancora addosso il suo odore. Charlie si strinse nella felpa, guardò di nuovo Aaron e abbandonò a malincuore l'idea di fare un pisolino. Non sarebbe mai riuscita a dormire sul letto di Linn. Recuperò invece dal cassetto un piccolo cristallo verde attaccato ad una catenina, e se lo allacciò al collo. Poi uscì dalla camera, chiudendo lievemente la porta.

Adesso non le restava che trovare Alice.

Non sapendo esattamente dove cercarla, provò per prima in camera sua. Non era molto distante da quella di Charlie: soltanto un rampa di scale e un corridoio che era sempre stato, per lei, off-limits. Su quel piano c'era anche la stanza della Direttrice Monroe; ma avrebbero potuto disturbarla solo in casi di assoluta emergenza.

Charlie bussò alla porta di Alice, ottenendo qualche parola di troppo in risposta e un «Vattene via, mamma!» gridato ma attutito da quello che doveva essere indiscutibilmente un cuscino.

«Non sono tua madre,» disse Charlie.

«Gesù, devi cominciare a lagnarti fin da subito?»

Per essere la Prescelta si comportava proprio come qualsiasi altra adolescente. A Charlie venne quasi da ridere.

«Posso entrare?»

Silenzio.

«Oh, avanti, Monroe, non facciamone una questione di-»

La porta si spalancò e Charlie vide Alice con i capelli arruffati e una mano sulla maniglia. Dallo sguardo sembrava pronta a uccidere qualcuno. Dietro di lei, un letto sfatto e una poltrona con una valigia aperta ma ancora da disfare.

«Perché non riesco più a sentire i tuoi pensieri?» chiese Alice.

Charlie sorrise soddisfatta, e tirò fuori da sotto la felpa il cristallo che si era messa al collo «Scudo mentale. Anzi, oserei dire Elementale. Watson.»

Alice alzò gli occhi al cielo.

«Che vuoi, Black?»

«Posso entrare?»

Alice inarcò un sopracciglio, ma si fece da parte per farla passare. Charlie entrò, e ciò che vide la lasciò sorpresa. La camera di Alice non era grandissima, ma ogni singolo centimetro era stato sfruttato al massimo. Le pareti erano di un blu chiaro a metà tra il cielo estivo e un mare limpidissimo. Un letto matrimoniale troneggiava su tutto e una grande finestra col bovindo inondava di luce la stanza. Invece di quadri, alle pareti c'erano appese armi; arco e frecce, pistole, coltelli, daghe, e uno spazio libero per la spada che Alice aveva portato a scuola e che adesso era appoggiata sul letto. E poi c'erano libri. Libri ovunque: la libreria ne straripava, e anche sulla scrivania e sul comodino accanto al letto ce ne erano diverse pile. Trattavano di qualsiasi argomento: da romanzi in lingue straniere a manuali di magia. Dominio elementale di base. Teoria del viaggio trans-spaziale e applicazioni pratiche. Tecniche di combattimento elementale VII. Ma quelli più numerosi erano i libri sul fuoco. Dominio del fuoco avanzato. Fuoco e luce. Principi di correlazione tra fuoco e altri elementi primari.

«Il tuo elemento è il fuoco, vero?» disse Charlie, mentre sfiorava in punta di dita la costa di Pirocinesi applicata.

«Che occhio,» commentò Alice.

Un altro libro catturò l'attenzione di Charlie. Evocazione di base.

«Studi anche Necromanzia?»

«Per sconfiggere un nemico bisogna prima di tutto conoscerlo,» disse Alice. Si appoggiò alla porta con fare svogliato guardando Charlie dritto negli occhi «Ora, hai intenzione di dirmi perché sei qui o vuoi passare la giornata a sbirciare tra la mia roba?»

Charlie si fermò, girandosi completamente verso di lei. Infilò le mani nella tasca della felpa, i piedi coperti solo dalle calze che fremevano.

«Ho una proposta da farti,» cominciò Charlie «Tu non vuoi stare qui e io vorrei avere un minimo di vita privata»

«Vai avanti,» disse Alice, mettendosi dritta.

«La mia proposta quindi è: tu mi aiuti a provare che sono innocente così te ne puoi tornare in Grecia a uccidere chimere evocate o qualunque cosa tu stessi facendo prima di venire qui»

Alice la guardò scettica, questa volta con entrambe le sopracciglia alzate. «Avrebbe senso se non ti credessi colpevole»

Charlie sbuffò e cominciò a guardarsi in giro. La valigia ancora piena di vestiti, il letto fatto, l'assenza di un minimo elemento che rendesse quella camera veramente vissuta. Sembrava più un magazzino che la stanza di un'adolescente.

«Si vede che non vuoi stare qui, allora perché non cogli l'occasione?»

Alice alzò gli occhi al cielo e si buttò di schiena sul letto, evitando per un pelo la sua spada. Fissava il soffitto con gli occhi esageratamente aperti. Charlie non aveva bisogno di leggerle la mente per capire che era ancora arrabbiata.

«Perché tu non c'entri niente, ti sei solo trovata in mezzo» Charlie aggrottò la fronte. Alice piegò la testa verso di lei, e spiegò: «Tra due mesi è il mio compleanno»

Okay...

«E allora?»

Alice schioccò la lingua, stizzita «È il mio diciannovesimo compleanno»

Oh.

Quello spiegava molte cose.

Avrebbe potuto spiegare anche quanto successo alla festa, in realtà.

Charlie si morse il labbro e si sedette su un angolo del letto, silenziosa. Alice la guardò male, ma non disse niente.

Secondo la Profezia, il diciannovesimo compleanno della «Prescelta con l'inferno negli occhi» avrebbe segnato l'inizio della battaglia finale tra Elementali e Necromanti. Era una guerra che andava avanti da secoli. Andava avanti da sempre. Certo, i Necromanti avevano subito una sconfitta cocente quattro anni prima quando i Black erano stati annientati – con l'aiuto di Charlie – ma erano ancora molte le carte da mettere sul tavolo . Negli ultimi tempi le attività di Necromanzia si erano moltiplicate in tutto il mondo. Quanto accaduto qualche sera prima non era stato altro che uno tra i tanti massacri. Era per questo che Alice non tornava a casa da mesi: il Consiglio continuava a mandare lei e la sua squadra nelle zone a più alta attività necromantica per tentare di arginare le perdite. In confronto ad altre parti del mondo, la loro era una zona felice. Il Consiglio faceva in modo che lo fosse.

«Anche se tu non avessi combinato tutto questo casino, il Consiglio mi avrebbe comunque rimandato a casa,» disse Alice, sguardo perso nel vuoto «Vogliono tenermi sotto controllo. Hanno paura che venga tentata e mi schieri dalla parte dei Necromanti.»

Charlie annuì, sovrappensiero.

«Il giorno in cui mi schierai dalla parte degli Elementali e del Consiglio – il giorno in cui mi schierai dalla parte del Bene, scelsi di tradire la mia famiglia,» disse Charlie, guardando dritto a sé «Scelsi di andare contro l'unica realtà che fino ad allora avessi conosciuto. Scelsi di sottopormi all'inflizione del Marchio per non essere totalmente cacciata nel mondo degli umani, nonostante sapessi perfettamente che cosa significasse.» Si girò verso Alice, una mano che corse automaticamente a toccare la stoffa che premeva contro le sue scapole «Tu non hai idea di cosa sia avere questa... cosa dentro di te. È come perdere te stessa»

«Perché mi stai dicendo tutto questo?» chiese Alice, ma il suo viso, forse per la prima volta, era neutrale.

«Perché voglio che tu capisca che non manderei mai tutto a puttane per una cosa così stupida come un'Evocazione da quattro soldi che avrebbe e di fatto ha messo in pericolo i miei unici amici – e onestamente? Con questo Marchio non sarei mai riuscita a farla,» fu costretta ad ammettere Charlie «I miei poteri da Necromante sono totalmente sopiti.»

Alice schioccò la lingua, stette stesa in silenzio, poi sospirò profondamente.

Lo stomaco di Charlie brontolò rumorosamente.

Alice sbuffò, quindi si alzò e indicò con un cenno del capo la porta chiusa.

«Forse è meglio se andiamo a mangiare»

Non aspettò risposta da Charlie; aprì la porta e se ne andò via.

Charlie chiuse gli occhi. Non è andata proprio come speravo. Poi si alzò anche lei e scese in cucina per il pranzo.

                                                                                 

Charlie stava tentando di studiare fisica in soggiorno quando una Maya scatenata scese al volo le scale, urlando divertita mentre un gatto nero la rincorreva. Aaron. Charlie sorrise. Quei due erano dei terremoti.

«Charlie!» esclamò Maya col fiatone, appoggiandosi al tavolo per riprendersi un poco. Charlie appoggiò la penna e si girò verso di lei. «Dov'è?»

«Dov'è chi?» chiese Charlie, anche se aveva già una mezza idea di chi potesse star parlando.

«Aleister ovviamente! Voglio l'autografo,» le confessò Maya con aria sognante «Quando è tornata l'anno scorso io ero in campeggio. Le mie amiche ne saranno così invidiose!»

Charlie, però, non aveva visto Alice da quando avevano pranzato assieme. La Direttrice Monroe, trovandole sedute a tavola una di fronte all'altra, le aveva guardate in maniera strana, ma non aveva detto niente. Si era seduta accanto a loro e si era presa un piatto della deliziosa pasta che aveva cucinato Mrs Crane. Dopo pranzo, Alice era sparita chissà dove; Charlie aveva sentito il rombo della sua moto allontanarsi lungo la strada. Gran bella babysitter, eh.

«Credo debba ancora tornare a casa,» le rispose Charlie. Aaron le balzò in grembo e cominciò a strusciare la testolina contro le sue gambe. Charlie gli fece i grattini dietro le orecchie, allungandogli un biscotto.

«Uffa» Maya si sedette accanto a Charlie, appoggiando penna e quaderno sul tavolo. Si mise anche lei a sgranocchiare biscotti mentre Charlie si arrendeva definitivamente e chiudeva i libri in uno sbuffo.

«È andata da qualche parte nel Mercato delle Due per conto del Consiglio,» disse Jacob, seduto all'altro capo del tavolo a leggere svogliatamente dei sonetti di Shakespeare per scuola «Dovrebbe tornare da un momento all'altro»

«Come fai a saperlo?» chiese Maya tra un morso e l'altro. Jacob la guardò schioccando la lingua.

«L'ho Visto, ovviamente.»

Charlie alzò lo sguardo verso di lui, mordendosi il labbro. Gli aveva sempre invidiato l'Elemento che padroneggiava, l'Acqua: oltre alle mille altre cose, era in grado di vedere riflessi degli eventi presenti, passati e futuri in qualsiasi specchio d'acqua, anche una semplice tazza piena. Era quel genere di potere che a Charlie avrebbe fatto comodo, specialmente in una situazione come quella. Avrebbe potuto provare la sua innocenza una volta per tutte. Peccato servissero anni e anni perché potesse diventare un'abilità affidabile; il più delle volte tendeva a mostrare solo alcuni aspetti degli eventi, che Charlie era certa non sarebbero riusciti ad aiutarla. Una notte di forse tre anni prima aveva chiesto a Jacob se avesse mai Visto la fine della guerra. Se fosse stato ancora vivo, sarebbe stato il compleanno di suo fratello Adam. Lei lo aveva passato a letto con le tende chiuse e gli occhi rossi di pianto per ciò che in fondo non aveva mai avuto. Anche Linn, dopo aver provato per un po' a consolarla, ci aveva rinunciato.

«Non sono del tutto sicuro che ci sarà una fine,» le aveva risposto Jacob con la fronte corrucciata, una volta che Charlie aveva trovato la forza di scendere dal letto «Quando ci provo tutto ciò che vedo è il nero»

Il rombo dell'Harley Davidson di Alice che correva sulla strada sterrata la riportò alla realtà. Charlie scosse la testa e strizzò gli occhi. Maya schizzò giù dalla sedia, recuperò la penna e il quaderno e si avviò trotterellando verso il garage, Aaron in coda. Charlie li seguì con lo sguardo e un mezzo sorriso. Poi si rigirò verso Jacob.

«Non mi parlare, Black» la bloccò con voce seccata lui ancora prima che potesse aprire bocca. Prese il suo libro in mano e si alzò spostando rumorosamente la sedia, e si allontanò dal soggiorno, lasciando Charlie da sola.

                                                               

Charlie non riusciva a dormire. Era la quarta notte che non chiudeva occhio, ed erano già le due. Aveva davvero bisogno di farsi un pisolino lungo diciotto ore.

Stava ascoltando la musica a tutto volume quando una cosa sulla sua spalla la fece trasalire. Aprì gli occhi di scatto e si cavò le cuffie con uno strattone, mano già sotto al cuscino per il pugnale che però non teneva più lì da quando se n'era andata di casa. Certe abitudini erano dure a morire.

Al diavolo il Marchio tra le sue scapole. Avrebbe preferito un'ustione di terzo grado alla morte. Stava già radunando le energie che riusciva a racimolare sulla punta delle dita, quando si accorse effettivamente di cosa l'avesse disturbata.

Alice.

Solo Alice.

«Gesù, Black, avrò bussato almeno venti volte.» L'unica luce che proveniva dal corridoio sempre illuminato lasciava lunghe ombre su tutto il corpo di Alice. Charlie non riusciva a vederla in faccia; ma sapeva che aveva un sopracciglio alzato. Pareva essere il suo marchio di fabbrica.

«Che vuoi?» chiese Charlie, stizzita.

«Ho considerato la tua proposta,» disse Alice, poi chiuse la porta e accese la luce. Si sedette sul letto di Linn; Charlie si irrigidì «Rilassati, santo cielo. Non è ancora morta.» Si appoggiò al muro, le gambe che penzolavano dal materasso e che Alice faceva dondolare come una bambina «Allora. Se io ti aiuto, poi cosa ottengo in cambio?»

Charlie aggrottò la fronte, e si mise a gambe incrociate sul letto. «In che senso?»

Alice la guardò «Nel senso che se io faccio questa cosa per me, tu devi fare qualcosa per me.»

«Ti ho già detto quale sarebbe la tua parte: te ne torneresti da dovunque tu sia venuta.» Okay, forse le era venuta fuori un po' male.

«E io ti ho già detto che non sono qui solo per te, il Consiglio non mi lascerà mai ripartire. Cosa mi dai quindi in cambio?»

Charlie ci pensò su. Non aveva molto da offrire, in realtà. Tutto quello che aveva era in quella stanza. Ciò che aveva lasciato a casa sua era ormai irrecuperabile. Ma forse c'era qualcosa...

«Potrei darti una mano con Necromanzia.»

Alice scoppiò a ridere, una risata sarcastica e cattiva.

«Figuriamoci. Una Necromante Marchiata è completamente inutile.»

«Questo non è vero.»

Alice sbuffò; era palese che non le credesse. Charlie allora chiuse gli occhi.

Il Marchio era la pena che tutti i Necromanti dovevano scontare per aver salva la vita e poter vivere nel mondo Elementale, invece di essere costretti a nascondersi in quello umano. In base alla forza del Necromante sedava quasi del tutto i suoi poteri; gli unici a cui si poteva aver accesso erano le briciole di potere Elementale che tutti avevano in sé. Charlie, però, era sempre riuscita a eludere, almeno in parte, le regole: riusciva a raggiungere un filo del suo vero potere per rinforzare i suoi incantesimi – o almeno non farli sembrare totalmente ridicoli. Soltanto così era riuscita a produrre una Compulsione abbastanza potente da convincere il buttafuori della festa a farla entrare. Se non ne fosse stata capace, probabilmente a quest'ora sarebbero stati tutti morti.

Ma non era questo ciò che voleva dire ad Alice. Anzi: se l'avessero scoperta le ripercussioni sarebbero state di certo terribili.

«Che cosa vuoi fare?» disse Alice, sembrando all'erta.

«Niente.» Charlie riaprì gli occhi, un sorriso soddisfatto sulle labbra «Se i Necromanti Marchiati sono così inutili, perché tu ti sei spaventata?»

Alice assottigliò lo sguardo, gli occhi diventati due lame azzurre che scintillavano nella poca luce, e scosse la testa.

Poi tese la mano a Charlie.

«Affare fatto»

Charlie gliela strinse, cercando di trattenere il sorriso.

                                                            

                                         

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