Leggiadre note di un canto selvaggio

di Nirvana_04
(/viewuser.php?uid=949111)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prima Parte ***
Capitolo 2: *** Seconda Parte ***
Capitolo 3: *** Terza Parte ***
Capitolo 4: *** Quarta Parte ***



Capitolo 1
*** Prima Parte ***


Leggiadre note di un canto selvaggio








 
Amore vuol dire aspettare mille anni, e ancora mille.
Amore vuol dire non aspettare neanche un attimo.
 
Questa è la leggenda di un’anima spezzata in due. Questa è la canzone che, giunta dalle terre dei felichi, viene intonata dai suonatori d’arpa perfino nelle terrazze dell’Ambal.
Gli Dei sono giocatori che si annoiano facilmente dall’alto della loro immortalità. Così hanno creato pedine mortali, fallaci e imperfette, che gareggiano per loro in un campo di battaglia chiamato Vita. La gara su Vita, però, ha un tempo stabilito: all’ultima vibrazione delle corde del cuore, la pedina si trasforma di nuovo in fango; e quando questa Regola viene alterata e le divinità si trastullano con prove insormontabili per le loro bambole di creta, è sull’anima immortale che alla fine viene scolpito il dolore.
La storia di Arket e Adelaya è quel ruggito di agonia che ricorda agli Dei che Immortalità non è sorella di Perfezione, e anche loro sono vittime dei loro giochi perversi e di sentimenti, note vibranti a cui hanno vincolato le azioni degli uomini. L’amore ostacolato da un capriccio divino di Arket e Adelaya riecheggia in note di struggimento selvaggio tra i cieli dei Monti Silenti e si trasforma in tuoni roboanti che sconquassano la terra dei mortali. Canta a tutti della forza di un umano amore e del peccato commesso da creature eterne. Suona del coraggio di un uomo mortale e del rimpianto di dei volubili.
Queste note selvagge lacrimano ancora.




 

 
 
Rinacque dai rami spezzati dal vento, in un giorno d’autunno.
Era nuda, e di quella nudità non si vergognava.
Aveva la pelle di un grigio perlaceo, che sotto la luce di Mal acquisiva le tonalità delle ossa. I lunghi capelli, di un profondo bruno, erano fittamente aggrovigliati, tanto da sembrare esili ramoscelli o lunghe liane nodose: alcune ciocche ricadevano selvagge lungo la schiena; altre erano annodate sulla testa e sparavano all’aria, dando alla sua chioma una forma leonina. Sparse tra di esse, foglie secche di un bellissimo aranciato e piume di fagiano e corvo. Intorno alla fronte, una corona di edera, a incoronarla prediletta della foresta.
Era bellissima, ma di quella selvaggia bellezza non sapeva cosa farsene.
Aveva orecchie leggermente a punta e occhi dolcemente allungati sormontati da sopracciglia sottili e ritte, una linea che sembrava gettare una piccola ombra sul suo incarnato. Le palpebre erano scure, quasi tinte di grigio, e da esse si dipanavano ombre marroni: erano voglie di cenere che custodivano il suo sguardo, specchio di un’anima addolorata e prigioniera di un luogo triste e sconosciuto. Il naso era una linea sottile e dritta, con la punta all’insù, mentre le labbra un po’ piene erano dischiuse in un sospiro innocente, pallide come la tea più inviolata. Il viso ovale aveva due morbide guance, lisce e tondeggianti, che sfumavano in un mento piccolo e infantile.
Amava suonare l’arpa, Adelaya, ma non c’erano arpe da suonare nel luogo dove si era risvegliata.
Aveva un tatuaggio rifinito con inchiostro bluastro: linee sinuose che dal polso risalivano, come rami spezzati, per tutta la lunghezza del braccio e si attorcigliavano sulla scapola in una semi spirale; qua e là erano fiorite foglie minute e triangolari, dai margini spinosi. Del suo passato conservava solo il simbolo della sua tribù: un grande orecchino quadrato, di osso nero, che faceva capolino da dietro una ciocca scura.
Non provava freddo né dolore, Adelaya, ma tremava e soffriva.
All’inizio fu come se ella fosse rinata dalla foresta: vergine, nessuna memoria sulla sua vita passata a tormentarla. Semplicemente, un giorno d’autunno aprì gli occhi su un cuscino di nebbia e scorse le smilze sagome di fusti spogli, i rami più alti che si intrecciavano in un reticolato dalle maglie larghe, come dita ossute di uno scheletro invecchiato, una creatura a cui era stata tolta la linfa vitale e stava rinsecchendo lentamente nella foschia del mattino. Adelaya si alzò, alcune foglie secche aggrovigliate ai suoi capelli, e il suono prodotto dai suoi piccoli piedi scalzi sul tappeto di foglie morte fece defilare la nebbia, che si ritirò al suo passaggio. Così Adelaya vagò alla scoperta della sua casa, senza una meta o un tempo stabilito. Raccolse le piume che qualche uccello aveva perso nella sua fuga, e se le intrecciò a una ciocca di capelli, di lato al viso. Fu allora che le sue dita sfiorarono l’orecchino di osso nero. Lo fecero tintinnare, e quello produsse una singola nota acuta che si propagò nel mare del silenzio; una visione si mostrò ai suoi occhi e il volto di Arket riemerse tra i tanti sfocati della sua memoria che riaffiorava. Adelaya tornò sui suoi passi, una cerva che correva nel folto della foresta addormentata, e ritrovò il suo giaciglio. Si gettò a terra e rimestò le foglie fino a quando i suoi palmi non tastarono il freddo del metallo del suo sonaglio rotondo con incastonate gocce di cristalli e perle pendenti. Se lo portò davanti agli occhi scuri e ne fece ondeggiare i pendenti. Due note, e la voce di Arket che pregava per la sua vita cantò nella sua mente.
Aveva scoperto di avere una voce, Adelaya – calda, profonda, armoniosa, pura - nel momento in cui aveva urlato il nome di Arket; ma l’eco era stata l’unica risposta che aveva ricevuto in quella gabbia di alberi morti, la voce di uno spirito che echeggiava tra le foschie del giorno.
Aspettò giorni, poi decise di cercarlo; si perse, tornò al punto di partenza, e altri giorni passarono. Aspettò ancora, poi vagò alla ricerca di una fine per quel supplizio. Ma la nebbia era un’infida guida che la riportava sempre nel cuore della nuova casa: a volte impiegava solo qualche ora, altre intere settimane, illudendola che forse una via d’uscita ci fosse e che ella l’avesse trovata. Ma era sempre tra quelle foglie morte che faceva ritorno, anima tremante tra cadaveri rinsecchiti. Così si adagiò sul tappeto di foglie e dormì, neanche lei seppe per quanto. Al suo risveglio, il tatuaggio brillava di una luce intensa e una delle foglie che erano disegnate sbiadì fino a scomparire. Ne rimasero quattordici.
Aveva cantato, Adelaya, perché il canto era l’unica compagnia che aveva.
Di corvi e fagiani ella trovava solo le piume. Non vide mai un uccello posarsi sui rami degli alberi o uno stormo sorvolare i cieli grigio perenni. Non c’era vita – acqua, animali o piante – laddove ella viveva. Non era un problema fisico, poiché ella non ricordava cos’era la fame o la sete e non ne provava il bisogno, ma la sua pelle, seppure insensibile, aveva una temperatura bassa che proveniva da dentro, dalla sua solitudine. Così, un giorno d’autunno, Adelaya iniziò a cantare; forse Arket l’avrebbe trovata seguendo il suo canto. Ma le note prodotte dalla sua voce, seppure suadenti, si perdevano nella foschia e sembravano vibrare nel pallore di quel luogo, senza alcun centro che ne indicasse l’origine: semplicemente, vagavano. Erano arcane, meste, una sinfonia di suoni misteriosi che potevano incantare la mente, ma non guidarla verso qualcosa che non fosse la perdizione o l’annullamento di sé.
Aveva desiderato morire di nuovo, ma la sensazione di qualcosa di duro sotto la pianta del piede aveva cancellato quel pensiero sul nascere.
Nel suo letto di foglie gialle e arancioni, laddove di solito ella si raggomitolava per sentire più vicino il contatto della propria pelle, c’erano delle perle simili a quelle che pendevano dal sonaglio. Erano più grosse ed erano state bucate per far passare un gancio d’osso con cui appenderle ai fili di bue della collana, la quale ella non aveva più. Adelaya cullò quelle perle che ora le parevano lacrime solidificate. Recuperò il sonaglio e, davanti all’impossibilità di mettere insieme i pezzi della collana, afferrò una delle sue lunghe ciocche e se l’attorcigliò al braccio sinistro, formando un bracciale al disotto della spalla; ai vari grovigli di capelli appese le perle e al centro, in bella mostra, legò con più nodi il sonaglio con i pendenti. Ella apparteneva ad Arket, il simbolo del loro amore l’adornava di nuovo, rendendo pallido e fragile il pegno che la foresta aveva intrecciato sulla sua fronte.
Se la preghiera di Arket era stata ascoltata, allora il suo amato aveva il favore degli dei. L’avrebbe trovata e riportata nella loro terra. Adelaya si sedette su una pietra e riprese a cantare. 
 
 
 
 
La sua anima gemella morì nel giorno più lungo d’estate, e metà di lui morì con lei.
Era tutto pronto: le donne avevano intrecciato le ghirlande, preparato i dolcetti di eucalipto, impastato l’avena per le focacce con il rosmarino; lui e i suoi fratelli stavano per tornare dalla caccia, dopo aver abbattuto uno splendido cinghiale da servire al banchetto.
Arket sollevò il capo verso le fronde degli alberi e sorrise: i primi boccioli sui peschi avevano fatto vedere i loro tenui colori, quando la chioma si sarebbe adornata del tutto, lui e Adelaya si sarebbero uniti in matrimonio.
Arakat era una piccola tribù seminomade, che in quel periodo dell’anno amava stabilirsi a sud-est della quarta capitale, Arum; era pacifica e prospera. I suoi abitanti vivevano della semina sui terrazzamenti di montagna che ogni tribù era chiamata a lasciare coltivati al suo passaggio e di piccoli pascoli tra i costoni di roccia. Nessuna delle due attività era praticabile in quei luoghi, ecco perché i felichi di Arakat erano i maggiori esperti di arrampicata di tutta Puèntagor. Arket, come Nabaik scelto di Arakat insieme ai suoi fratelli, sapeva inerpicarsi a mani nude su uno strapiombo o stare in equilibrio sul ciglione di una gola; sapeva riconoscere le pietre friabili e ascoltare la terra per prevedere frane o smottamenti; riusciva persino a infilarsi nei pertugi beanti, dove i corsi di montagna venivano inghiottiti dalla roccia. Anche i bambini venivano incoraggiati a fare gare di arrampicata sugli alberi o corse giù per le valli più vicine, per rafforzare i muscoli e rendere scattanti le reazioni. Questo perché la tribù Arakat si narrava essere stata modellata dalla mente di Puèsigath, il Dio delle sorgenti di fango. Egli, insieme ai suoi fratelli e figli, aveva delimitato la loro terra tra quelle alte montagne dai sentieri impervi e dalle valli nascoste, creando i felichi perché vi potessero vivere. La terra era dipartita tra i tre fratelli – Not, Yara e Puèsigath – mentre una delle quattro capitali era sorta in onore dei figli gemelli del dio, le quali detenevano il controllo dell’equilibrio. Le tribù che abitavano Puèntagor erano dodici e ognuna di esse riconosceva l’autorità di un unico dio; nel caso degli dei gemelli, il tempo era diviso in bienni in cui il culto di un dio si alternava con l’altro.
Gli dei erano capricciosi e si annoiavano facilmente, raccontavano gli Shalak delle tribù durante le Adunanze. Essi non mutano, e allora avevano creato lo scorrere del tempo e la duttilità della sostanza; avevano dato vita, laddove vita ha inizio e fine, per distinguerla dalla loro Immortalità; e avevano stabilito delle Regole per poter giocare tutti allo stesso gioco. Erano loro che spartivano gioie e dolori, che truccavano la bilancia di vita e morte, che amavano farsi adulare e, a volte, istigare la fedeltà di un uomo mettendolo alla prova.
Così i felichi vivevano di continue prove: Arket aveva dovuto combattere nel fango – la stessa materia di cui era fatto – per diventare Nabaik; aveva dovuto dimostrare il suo coraggio quando aveva chiesto la mano di Adelaya; doveva portare un dono prestigioso al banchetto di nozze per poterla sposare. Ed egli, dopo giorni immerso tra le montagne, in una foresta incastonata sul fondo di una gola, aveva conquistato il miglior trofeo. Gli dei lo stavano benedicendo, riconoscendo i suoi meriti.
Tornare al villaggio dopo cinque giorni di caccia era una gioia per Arket. Presto avrebbe scalato l’ultima parete, poi avrebbe camminato sempre più velocemente giù per il declivio, fino a sormontare dall’alto di un sentiero roccioso il villaggio. A quel punto ci sarebbe stata l’arpa di Adelaya a guidarlo verso casa, a dargli il benvenuto. Già immaginava le sue dita sfiorare le corde e la sua lieve voce cantare per lui.
«Sorridi, fratello» constatò il maggiore.
Tohri era il più grande dei tre e aveva modi sempre gentili per apostrofare i più piccoli. In quel momento, infatti, Arket si rese conto di avere un sorriso da ebete stampato sulle labbra.
«Faccio male, Toh[1]
I due risero di gusto, e il secondo rispose: «Quale gioia più grande potrebbe giustificare un simile gesto? No, goditelo.»
E Arket continuò a sorridere: mentre discendeva la scarpata, durante la sua corsa spensierata per il declivio, trotterellando lungo il sentiero. Le prime capanne e le tende rotonde della tribù si stagliarono sotto di lui, adornate da un suggestivo tramonto aranciato. I felichi pulivano le armi, le donne riponevano via le ceste; alcune spire di fumo uscivano dagli sfiatatoi all’apice di alcune tende. In quel colore caldo, la sua tribù si preparava al riposo della notte e al tepore della famiglia. Si respirava il sollievo della fine di un giorno, il sapore della cena, l’abbraccio di un bambino; si sentiva il fuoco riscaldare l’acqua e il coniglio cuocere nella brace, lentamente, sottoterra, in un letto di bacche e foglie.
Ma non c’era la musica di Adelaya ad accoglierlo.
La fronte di Arket si aggrottò sempre più. All’inizio sorpreso, poi sempre più confuso e in ansia, senza rendersene conto iniziò ad accelerare il passo verso le tende circolari e le capanne più resistenti che avevano costruito vicino a un corso d’acqua. Lì, vi era una betulla sotto la quale lui e Adelaya amavano sedersi, e solitamente trovava la sua amata a suonare sotto le sue fronde. Ma il tronco bianco si alzava solitario verso il cielo serale e non sosteneva la morbida schiena di Adelaya.
«Arket!» lo chiamò Tohri. Nel suo tono c’era una nota di tensione che non piacque al fratello.
Arket non ebbe bisogno di chiedergli dove fosse la fanciulla. Egli si precipitò nella tenda della sua famiglia e, spostati i lembi dell’apertura, trovò il corpo della sua sposa poggiato contro il palo centrale della tenda. Lasciò cadere le armi e, scalzo, gattonò verso di lei, come un animale che fiuta un suo simile. Il bellissimo volto di Adelaya era livido, il rubicondo delle sue guance era accentuato dalla febbre e i suoi grandi occhi erano spalancati verso lo sprazzo di cielo che si scorgeva dall’occhio della tenda.
«Sei tu, mio amore?» Non aveva la forza per voltare il capo.
Arket le strinse con delicatezza una mano tra le sue e se la portò sulla fronte e poi sugli occhi.
«Sei tu, sei tornato… appena in tempo.»
«No!» Un lamento di sconforto proruppe dalle sue labbra, inconsolabile. «Cosa è successo?»
«Una febbre improvvisa. Un male scagliato dagli dei.»
Arket spostò i suoi occhi dal volto dell’amata a quello dello Shalak[2]. «Cosa avrebbe fatto infuriare gli dei? Ho forse commesso peccato per il quale la mia innocente promessa sposa sta pagando?»
Lo Shalak si aggrappò alla verga e si curvò su di loro, le sopracciglia talmente folte da nascondere i suoi occhi. Fiutò il profumo della loro pelle e dell’incenso che permeava la stanza. «Questa è Vita, giovane Nabaik, e quella che vi è stata lanciata è una prova.»
«Posso superarla. Quale rimedio devo cercare?» lo interrogò.
Lo Shalak fece una smorfia di compassione. Era un uomo timoroso racchiuso in un corpo quadrato. Indossava tante di quelle vesti e pellicce, e la sua schiena era talmente ricurva, che era impossibile dare un nome alle sue forme o al suo stato fisico. La verga la portava sempre con sé, e non era solo il simbolo del suo ruolo, ma il compagno della sua vecchiaia. «Mhmm, gli dei non vogliono scoprire come riuscirai a salvarla, giovane Arket. Vogliono vedere come riuscirai a salvare te stesso dalla sua perdita.»
Ad Arket sembrò di venire dilaniato dalle fauci del gigantesco cinghiale che egli aveva abbattuto per il matrimonio: un colpo selvaggio, e barbaro, e aggressivo, come lo era la forza di quell’animale.
«Puèsigath non è perfido come i suoi fratelli. Ha generato noi perché potessimo riflettere la sua immagine misericordiosa e umile su questa terra.»
Il saggio sospirò greve. Raddrizzò la schiena, come a prendere distanza dal tono insoddisfatto del Nabaik nei confronti degli dei, e chiosò gli antichi insegnamenti: «Gli dei si giocano le nostre anime, sdraiati su letti di nuvole. Le mettono in palio, le scommettono, le barattano. Ci muovono per curiosità, ci manovrano con dolenza, e quando si annoiano scagliano ostacoli e prove su Vita, per divertirsi, per distrarsi dalla loro Immortalità. Noi giochiamo per loro, per onorarli e dilettarli. Siamo al servizio di Puèsigath, ma non è dato sapere se e quando uno di noi viene ceduto a un suo fratello per movimentare i suoi giochi. Gli dei ci scambiano con molta facilità. Non rivoltarti, Arket.»
«Posso invocare la clemenza, però.»
«Se un dio si annoia, non sa cosa farsene di te.»
«Posso dilettare qualcun altro» bestemmiò.
«Vorresti mettere zizzania tra gli dei?» Lo Shalak sollevò il bastone e pronunciò una litania. Poi si calmò. «Prega che fossero girati dall’altra parte mentre tu li sfregiavi. Spera che non ti abbiano sentito.»
«Arket!» La voce delirante di Adelaya lo fermò dal ribattere. «Non… no…» La febbre la fece cadere in un sonno agitato, e forse era stato qualche dio a impedirle di acquietare l’animo del suo amato.
Se Adelaya avesse parlato, Arket avrebbe ascoltato le sue parole, così come nei giorni di primavera pendeva dalle sue dita che accarezzavano l’arpa. Ma qualche dio, nonostante la speranza dello Shalak, aveva udito la proposta di Arket e l’aveva considerata un ottimo trastullo con cui distrarsi dalla sua noiosa esistenza. Così azzittì la fanciulla e attese che il fervore d’amore che animava il felica lo conducesse da lui.
Arket rimase a vegliare la fanciulla tutta la sera e anche la notte, solo con la sua futura sposa, sotto la tenda, con l’unica testimonianza degli dei. Le accarezzò il viso perlato di sudore, posò due dita sulle labbra per catturarne il calore e infine si inginocchiò al suo fianco, una mano sotto il capo di lei, e tenendola tra le braccia chiamò a testimonianza gli eterni: «Not[3], Yara[4], Zeptum e Sefta[5], e Puèsigath, tu che tra tutti sei il più volubile» pregò con un misto di venerazione e rancore, di chi crede ma incolpa gli dei per i mali subiti. «Se è una distrazione che chiedi, guarda questo.» E alzò una mano che impugnava una lama curva. «A te la mia vita offro in cambio di quella della mia sposa.» E calò l’arma.
Fu per amore o capriccio divino che essa non trafisse il suo petto, arrivando a spillare solo poche gocce del suo sangue. La mano di Adelaya ne fermò con rinnovato vigore il polso e lo accarezzò con tutta la dolcezza che impregnava il suo cuore.
«Non sfidare gli dei, amore mio. Adorali, perché loro conoscono Vita meglio di noi.»
Su quell’ultima parola, che racchiudeva il loro legame, spirò.
Arket non urlò, non abbandonò il corpo dell’amata né chiamò aiuto. Invocò ancora l’attenzione degli eterni: «Datele la mia vita. Io le offro la mia vita. Io… io non sopravvivrò alla sua morte, il mio cuore non può accettare che ella non sia più sua.» E attese che la scure calasse sulla sua nuca.
Ma uno degli dei vide qualcos’altro nelle parole del giovane, e così agì: imprigionò il giovane Nabaik in un sonno angosciante e aspirò metà della vita che gli rimaneva, facendola fluire nel corpo della sua promessa sposa; lasciò che egli ne ammirasse nel sogno la pelle imbiancare, come se fosse fatta di creta bianca, mentre la sua pelle soffocava, diventava sempre più livida. Poche gocce del suo sangue macchiarono il braccio di lei e si tatuarono di uno strano colore blu sulla sua pelle. Poi una strana nebbia avvolse la fanciulla e gliela strappò dalle braccia. Yara soffiò davanti agli occhi del giovane e lo fece sprofondare in un nuovo sonno senza sogni.
Al suo risveglio, la lama di Tohri era puntata alla sua gola.
 

[1] In realtà, non è solo il diminutivo di Tohri. Ma nella lingua dei felichi, vuol dire “maggiore”.
[2] Sciamano, in lingua felica.
[3] Volor.
[4] Anojah
[5] Non c’è un corrispettivo caharrin per queste due divinità.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Seconda Parte ***









 
Quanto può cambiare in una notte! L’amore muore, la fede crolla. Il fratello diventa nemico e l’eroe uno sconosciuto in terra amata.
Si narra che, affacciati dai letti di nuvole nelle pozze di cielo, gli dei avessero guardato Arket fuggire dalla sua terra, scacciato dalla sua tribù.
La pelle e gli occhi lo avevano reso irriconoscibile agli occhi dei suoi stessi fratelli. I Nabaik avevano impugnato le picche e lo avevano pungolato per farlo arretrare. Lo Shalak aveva brandito la verga e saltellato a gambe divaricate, le tanti pellicce che si erano alzate e avevano denudato il suo corpo ossuto e nodoso. I lamenti di purificazioni erano risuonati tra le alture e le grotte, nelle gole e verso le vette. Un canto indignato, fatto di grida e terra pestata con forza, di tamburi percossi e lance che erano sbattute le une contro le altre, aveva sancito il suo esilio. Un esilio che sarebbe diventata la nuova trama di gioco degli dei.
La leggenda vuole che, la notte prima, senza che i due amanti se ne accorgessero, Sefta avesse già pensato a mille modi in cui tramutare la richiesta di Arket in uno dei loro giochi, trovando uno più sagace dell’altro: voleva imprigionare l’anima di Arket sulla terra e costringerlo ad assistere alle gioie della vita di Adelaya, mentre questa sposava qualcun altro e adorava quelli stessi dei che lui aveva denigrato; ma era più affascinata dall’idea di mettere alla prova entrambi gli amanti, facendoli vivere una vita longeva ma separandoli da leghe e leghe, e assistere mentre si cercavano disperatamente attraverso i secoli. Ma Not, che di morte ne spartiva non poca, era stato irremovibile: il tempo di Adelaya si era concluso, e nessuno poteva sovvertire quella Regola. Ad Arket, invece, rimanevano trenta, lunghissimi anni da vivere.
E narra anche che Yara, la quale aveva vinto le vite dei due amanti al fratello, avesse lanciato le pedine in direzione dei due dei, dicendo annoiata: «Che se la dividano.»
E ancora, dall’alto del suo scranno, che Puèsigath fosse rimasto in silenzio, sobrio e irraggiungibile persino dagli altri eterni. Così che era stato Zeptum, che fino a poco prima se n’era stato in disparte sopra tutti scrutando il padre, a esclamare: «Ascoltate il consiglio di Yara, e io aggiungo: portate lei dove lui non possa trovarla. La vana ricerca sarà la sua punizione. E vedremo se benedirà il sapere la sua amata lontano ma viva o maledirà noi e se stesso per non poterla avere anche solo per un attimo.»
I suonatori intonano note di quella notte di preghiere, maledizioni e suppliche, cantando di come il velo bianco di Yara e il mantello blu di Not avessero volteggiato tra gli spifferi, dentro la tenda dei due amanti, e di come i due fratelli avessero di nuovo le loro vite: Not aveva aspirato metà della vita di Arket e l’aveva donata a Yara, che l’aveva soffiata negli occhi di Adelaya, come fosse cenere insignificante e fastidiosa. Il corpo di Arket era sembrato soffrire la perdita di tempo ed era soffocato, fino a quando la pelle non era impallidita prima e illividita dopo e gli occhi insanguinati d’amore avevano acquisito le tonalità dell’ultimo tramonto che egli aveva ammirato. Al contrario, la pelle di Adelaya era sbiancata, quasi rilucette come marmo, il suo corpo che, ormai raffreddato dalla morte, si era rianimato di un nuovo soffio di vita.
«Ecco, gli dei hanno ascoltato la tua preghiera, felica.» Not lo aveva guardato con commiserazione e, rivolgendosi alla sorella, aveva aggiunto: «Vediamo cosa sa fare la tua pedina. Portiamo l’altra a Sefta, prima che scagli i suoi capricci sul tempio di Zuritamb.»
«Sarebbe divertente. E comunque ho ceduto la pedina del felica al corvo bianco.»
«La creazione di vite richiede tempo ed energia. Bruciarne tante in un colpo solo è uno spreco.»
«Fratello, rischi di indebolirti con tanta… pietà.»
«È strategia» aveva tagliato corto, caustico.
Si narra che due fulmini fossero sfrecciati dalla tenda verso il cielo scuro, e che in mezzo a esse una scintilla gialla avesse sparso granelli dorati sulla terra. Da esse, si tramanda ancora oggi, nacquero le gemme di Arakat.

 
 
 
 
La nuova vita di Adelaya scorreva a due tempi. C’erano giorni in cui sentiva il profumo di Arket in ogni tentacolo di nebbia che accarezzava il suo viso, come se il suo amato fosse lì con lei; in quei momenti, ella cantava, fiduciosa che presto il suo promesso sposo sarebbe arrivato da lei. C’erano giorni, o forse intere settimane, in cui ella faticava a ricordare persino il nome del felica; presa dal panico, correva come una cerva nei boschi, la foresta che premeva per avere la sua anima, ma ella vi resisteva e cercava un pertugio, una felce marrone, qualcosa che le ricordasse un dettaglio di Arket, anche se in maniera sbiadita.
Un giorno, tornando dal suo vagare verso la pietra su cui era solita sedersi a cantare, Adelaya scorse la figura di una donna: aveva una leggera veste celeste, indossata sopra a una tunica pervinca, a coprirle il corpo longilineo; sulla spalla sinistra si intravvedevano disegni floreali di mandala color rame; indossava due collane, un pendente con un diamante azzurro e un collarino d’oro con gemme di rubini e diamanti che pendevano. Ed era a forma di diamante il viso, con le guance leggermente incavate e le ossa spigolose degli zigomi che si intravvedevano sotto la carne; le labbra a cuore erano rosse e il naso era piccolo, dritto e un po’ a punta. I capelli lunghi e lisci sembravano fiamme aranciate che brillavano di luce propria, e anche in assenza di vento aleggiavano a ventaglio dietro le spalle. Ma furono gli occhi ad ammaliare Adelaya: erano indolenti, con le estremità all’insù a prolungare lo sguardo, e avevano il mondo dentro; c’era il cielo azzurro in alto e un tramonto sulla parte bassa della pupilla, spezzati solo dall’iride verticale. E rilucevano della stessa luminosità che avvolgeva la sua figura, subdola e pericolosa.
Le due fanciulle rimasero a fissarsi, in silenzio. La dea studiava Adelaya. Adelaya ammirava la dea. Era Sefta, ne era sicura. Le fiamme della distruzione le davano corpo, gli occhi serpentini mostravano con quanta annoiata curiosità la scrutavano. Agli occhi della dea, ella non era altro che un fuscello da ardere. Eppure Sefta se ne stava seduta sullo scranno di pietra improvvisato, aspettando che lei si gettasse tra le sue fiamme. E per un attimo Adealaya lo desiderò tanto. Ma più che mai il nodo di capelli legato al braccio strinse la presa sulla sua carne, i pendenti della sua vecchia collana vibrarono di note conosciute, le uniche che risuonavano in quel luogo di morte, a metà tra l’oblio e l’eremita solitudine.
«Khan tuhrt crev fush or khoscr.» Era la lingua del fuoco che la dea parlava, e un essere dalla foggia legnosa come Adelaya tremò a sentirne il suono.
Non era più abituata alle parole, ai rumori che non fossero quelli prodotti dai suoi piedi tra le foglie morte e dai suoi pianti durante i momenti di sconforto. Neppure le piume di corvo e fagiano che raccattava da terra producevano rumore al suo tocco.
«Asssomili tzantzo a hun ombrra, ppicolaa folia.» Tra le labbra di Sefta persino l’idioma felica diventava scoppiettante suono di brace.
La dea si alzò, e i sonagli cuciti al bordo superiore della veste celeste tintinnarono come campanelli d’allarme. Avvicinatasi alla fanciulla, allungò una mano: la pelle arrossata finiva con lunghe unghie appuntite, diamanti che potevano tagliare addirittura un metallo, se avesse voluto. Adelaya non si mosse, non osò neanche respirare, ma il dolore che pensava sarebbe giunto non la sfiorò nemmeno.
«Tzantzo esssile, tzantzo uttile.» Le dita della dea seguirono a un passo dalla sua carne il disegno sul braccio, dalla spalla al polso. La luce azzurra tornò a risplendere proprio in quell’istante. Una foglia sfrigolò e sbiadì fino a scomparire. «Ppeccatto, cosssì ppoco tzempo» e il suo dito saltellò da una foglia all’altra, contandone tredici.
Adelaya si ritrasse come se fosse stata punta. Si tenne il braccio con l’altra mano e proferì a filo di labbra: «Arket?»
Sefta sibilò, divertita. I suoi capelli ondularono come serpenti dietro di lei. «Ppoco tzempo purre luiì» e fece la mossa di contare di nuovo le foglie, muovendole il dito davanti al volto.
Si voltò per andarsene.
«Ti prego!» la supplicò. «Ti prego, fammelo vedere un’ultima volta.» Adelaya le si gettò ai piedi. «Fammi abbracciare una volta sola il mio amato. Tu che sei bella e conosci l’apice di un fuoco, lascia che il mio possa bearsi di lui un’ultima volta» la osannò con rinnovata fede. «Lascia che la mia ultima gioia divampi tra le sue braccia. Il nostro amore ti darà riconoscenza, canterà per te.»
Lo sguardo languido e annoiato della dea parve intensificarsi di curiosità davanti a quella purezza di fede. Adelaya alzò il viso remissivo verso di lei, le ombre di cenere che imprigionavano i suoi occhi speranzosi di ricevere clemenza.
Adelaya vide il volto di Sefta perdere interesse per lei e voltarsi, sparendo in un alone di luce rossa.
 
 
 
 
Il suo riflesso nel torrente gli diede ribrezzo: aveva gli occhi di uno scyx, un demone dei Lunghi luoghi, come il Sentiero dei Bivi[1] o il Viale di Scale[2], aranciati e senza iride; la sua pelle, una volta scura, era livida e pallida, quasi stesse soffocando, e le sue quattro dita cercarono di staccarsela dal viso, ma quella si limitava a sbiadire in tonalità più chiare. Era freddo, il suo corpo; ed era recettivo. Sentiva molte cose in modo strano, adesso, Arket: il rumore del vento in mezzo a un canneto pareva lo stropicciarsi di papiri tra le mani; lo scorrere dell’acqua nel torrente, il parlottio di una dama che voleva sedurlo. E i versi degli animali! Un gracidare di rane, in mezzo al canneto, pareva metterlo in guardia, suggerirgli di scappare. Una talpa si tuffò dentro la sua tana, smuovendo tanta terra quanto il suo intero peso, e sparì in fondo, quasi a volere fare spazio al felica. Un corvo bianco volò in ampi cerchi sopra la sua testa, e il fruscio delle sue ali copriva a tratti la risata che usciva dal suo becco… risata divina.
Il corvo bianco si posò poco distante da lui, su una roccia che affiorava dalle acque del torrente, e lì prese le sembianze di un ragazzo, poco più che fanciullo. Capelli bianchi, morbidi e voluminosi, arruffati come le piume d’un uccello; occhi di civetta, grandi e tondi e di ghiaccio, senza iride e con la pupilla verticale. Aveva tratti del viso delicati e mento a punta e prominente simile a una noce, orecchie appuntite e capelli corti, labbra piene e a cuore marcate in una smorfia di sufficienza.
Il dio Zeptum sedeva con le gambe accavallate sulla roccia, incurante degli schizzi di acqua che continuavano a bagnarlo.
Arket lo fissò per qualche istante incredulo, sbattendo gli occhi come per ridestarsi da quel miraggio.
«Rauc argunam, arc ondrg uow.» Le sue parole furono la sferza di vento che avrebbero prodotto le sue ali di corvo bianco, se queste non fossero state messe da parte per le sembianze di fanciullo. Erano fredde, affilate come rostri, dure come le correnti ascendenti che gli uccelli sfidano per volare in montagna.
«Dov’è Adelaya?» irruppe subito, mantenendosi in posizione guardinga. Era più facile essere impertinente con la figura di un fanciullo che con uno spirito a forma di corvo bianco o, peggio, con una mastodontica Puoepella[3] che si ergeva in mezzo all’accampamento della sua tribù.
«Szorrella a detto cuanto gentile è parrlarre con la tua metà» disse annoiato e quasi deluso, le pupille verticali che sembravano spezzare in due i suoi occhi tondi, «ma tu szei rrude come la mazza di un ferdg
Arket saltò in piedi. «È la vostra perfidia che ha indurito il mio cuore e freddato l’adulazione nei vostri confronti!» Sollevò un pugno. «Dov’è?»
Zeptum sollevò il labbro superiore in una smorfia di disgusto, a indicare la sciattezza con cui si destreggiava l’infima figura di Arket. «Da cuella parrte, felica.» E indicò la via che conduceva a sud, verso le rapide dei molti fiumi di quella zona, che in quel periodo dell’anno affrontavano il disgelo ed erano voraci e impetuosi, grossi come pitoni e letali come tigri.
Arket esitò, sospettoso. «Come faccio a sapere che dici il vero?»
Zeptum puntò un piede scalzo sulla roccia e, con la leggerezza di una piuma, si tirò su. Gli diede le spalle e si arrampicò con portamento orgoglioso all’apice della pietra, poi si voltò con una mezza piroetta. Il viso affilato e il mento prominente scattarono come il becco di un uccello che cala sulla preda. «Perrché dovrrei mentirrti? Sze tu cerrchi nella dirrezzione szballiata, szi perrde tutto il gusto del gioco.»
«Se io cerco nella direzione giusta, posso anche vincerlo, il vostro gioco» sibilò tra i denti.
Zeptum allontanò le sue parole con uno svolazzo incurante della mano, quasi lo annoiassero con il loro poco buonsenso e la loro mancanza di arguzia. «Vincerre o perrderre la parrtita contrro di te non è imporrtante, per me. Adeszo va, e falli diverrtirre.»
Allargò le braccia e si lasciò cadere all’indietro, un angelo che si getta nelle acque del fiume. Ma prima di toccare il pelo dell’acqua, il suo corpo si accartocciò come carta e il corvo bianco dispiegò le ali nel suo volo radente, per poi volare in alto. Volteggiò diverse volte sopra la sua testa e volò a sud, tracciando il suo cammino.
Arket guardò l’uccello sparire sopra i prati di erba alta e i cieli azzurri sormontati da soffici nuvole. Per un attimo si sentì per quello che era: un topo con l’illusione di star dando la caccia a un rapace. In quelle vesti, trovò inquietante il fatto che il simbolo della sorella gemella del dio fosse una serpe. Un serpente dalla pelle cangiante tra gli artigli del corvo bianco che apre le fauci verso il suo basso ventre. Quali dei due era più pericoloso? Il dio aveva detto che la sorella trovava gentile parlare con Adelaya, la dea quindi era in compagnia della sua amata fanciulla, viva da qualche parte. In nome di quella spaventosa visione, Arket, quale topo illuso che era, rincorse il predatore verso sud.
 

[1] È una piccola strada di montagna, sopra la terra in cui la tribù di Arket soggiornava in inverno, che compare solo al crepuscolo. La credenza della sua tribù vuole che chi vi si avventuri possa raggiungere qualsiasi luogo, ma deve trovare il bivio corretto entro l’alba, o egli sarà perduto.
[2] Questo è conosciuto da tutti i felichi, ed è un canalone tra due alte vette che discende, come tante rampe di scale, verso la Valle degli scyx. Questi sono un popolo fatato che si dice essere stato creato per spiare l’uomo, creato dagli dei, per scoprire i segreti taciuti.
[3] I monoliti raffiguranti gli dei e i loro simboli si ergono per tutta Puèntagor, ed è intorno ad essi che le tribù ergono i loro accampamenti durante il loro pellegrinare. Il percorso che esse compiono durante il loro nomade sentiero è scandito dalla posizione in cui questi monoliti sono stati eretti.


 

N.d.A.

Se siete arrivati fin quaggiù senza volermi uccidere, grido al miracolo.
Allora, vi sarete accorti che la storia segue due ritmi differenti, i quali sono scanditi da due narratori differenti: quello esterno e onnisciente e quello esterno con punto di vista interno.
Questo perché volevo dare alla storia due dimensioni, quella della leggenda e del mito, un po' misterioso e pieno di dubbi (sarà davvero andata così?) e quella reale, quella che vi porta a vivere gli eventi in maniera ravvicinata.
Consideratelo un esperimento un po' scenico. L'occhio del narratore è la telecamera: a volte guarda tutto dall'alto, e una voce fuori dallo sfondo vi narra le vicende; e una, o meglio due volte (una con Adelaya e una con Arket) vi porta sopra la spalla del personaggio, e voi guarderete con i suoi occhi e avrete modo di percepire le sue sensazioni (nel caso di Adelaya ci sarà amore e rispetto e timore degli dei; nel caso di Arket ci sarà forza, rabbia e coraggio).
Spero che l'avventura sia di vostro gradimento.
Il prossimo aggiornamento: 5 Febbraio.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Terza Parte ***











Le ballate frenetiche intorno al fuoco dei felichi tengono ancora oggi il tempo dei passi che Arket compì lungo il suo viaggio, che di essere lungo fu lungo. Dopo un anno irresoluto a vagare per le steppe del nord, passò altri quattordici anni a inseguire le indicazione di un corvo bianco.
All’inizio la sua pelle era più cianotica che azzurra, con connotati lividi laddove essa era più spessa, mentre intorno alle nocche delle mani o ai gomiti o alle ginocchia sbiancava come gesso. Ma se c’era una cosa che capì molto presto era che lo scorrere del tempo non era illimitato e che presto avrebbe avuto un brusco arresto. Mentre gli anni scorrevano, Arket illividiva, la sua pelle soffocava in sfumature bluastre, fiaccata dalla perdita raddoppiata degli anni nella metà del tempo naturale. Presto il suo corpo dovette sostenere l’invecchiare di due vite, le fatiche di due menti, i dolori di due anime ancorate ancora al mondo e spezzate dall’assenza del reciproco conforto. Il suo respiro divenne rarefatto; i dubbi e le paure, i pesanti macigni di un uomo che aveva il doppio della sua età.
In quattordici anni, Arket si era visto sfuggire la giovinezza e parte del vigore di un uomo robusto.
Gli dei, in tutto questo, non capirono perché andasse avanti. Gli uomini erano fragili, volubili, corpi flaccidi e menti instabili; vivevano troppo poco per imparare abbastanza, e l’ignoranza e il bisogno di conoscenza li rendevano arroganti, superbi, avidi, vanesi. Ricercavano piaceri effimeri, tanto deboli che un nuovo sussulto poteva scacciarli via. A volte, alcuni temerari, che di tutte le virtù che l’uomo diceva di ricevere in dono dagli dei vantavano il coraggio e la prodezza, si lanciavano a caccia di avventure, di prede rare e pericoli mortali; con questi, Not si trastullava, dando ad alcuni sconfitte pesanti e ad altri glorie irrisorie. Osservavano, gli dei, le reazioni di ognuno di essi: chi perdeva tendeva a cambiare strada o a crogiolarsi nella vergogna o a decantare quanta fortificazione aveva tratto da quella prova; i vittoriosi, invece, facevano più o meno la medesima fine, si gonfiano come rospi alla ricerca di nuove avventure, nuove imprese ardimentose. Ma Not non giocava mai allo stesso gioco con la stessa pedina.
Yara era troppo fiera per scendere a patti con le sue creature, non stava lì ad ascoltare le loro preghiere, ma lasciava che le scorressero fino alla mente, simili a gocce di latte che specchiavano la sua fiera beltà; in quel mare bianco ella nuotava, la sua figura risplendeva e da essa traeva forza. Ciò che le importava era la nota di supplica e lusinga che trasudava da ogni preghiera mortale. Yara non era permalosa come Sefta, ma anch’essa si ergeva sopra le creature di fango come una divinità irraggiungibile, troppo in alto per degnarsi dei loro dolori. Ai suoi occhi, i trastulli degli altri dei sembravano giochi noiosi e sconclusionati. Troppo bella e troppo intelligente per accogliere suggerimenti, non si lasciava mai ispirare dalle preghiere di chi stava al disotto di lei come faceva Not: ella indicava e scagliava la sua sentenza, e quella poteva cadere sulle spalle di un postulante o di un fanciullo imberbe e ignaro dell’improvvisa importanza che stava per ricoprire. Ma Yara non era capricciosa come Sefta, questo no; la dea era tremendamente annoiata dalla sua esistenza, il suo senso di superiorità la distaccava persino dagli altri dei. I sentimenti, le emozioni vibranti nei cuori degli uomini, non li capiva.
Puèsigath… lui non era né annoiato né curioso di torturare le sue pedine: lui era stanco. E un dio stanco era un dio inutile, sì, ma pericoloso soprattutto. Quando un dio se ne frega delle sue creature, è il caos che inizia a spartire la giustizia. Persino il suo stesso gioco non riusciva a lenire la sua insofferenza; e così, il gioco era conteso tra gli altri dei. Not torturava, Yara scagliava sassi alla cieca, Sefta si mischiava con troppa facilità con i volubili pensieri degli uomini di fango, salvo poi arrabbiarsi troppo spesso quando persino una lode la offendeva quanto una maledizione. E Zeptum, in tutto questo, si era trovato un gioco tutto per sé: mentre gli dei giocavano con gli uomini, lui giocava con gli dei.
Seduto su un sottile sperone di ghiaccio simile al dito di una vecchia raggrinzita che si aggettava sulle nuvole, Zeptum se ne stava con una gamba ciondoloni e l’altra ripiegata contro il petto asciutto, il corpo racchiuso in un’armatura di ghiaccio tutta artigli e spigolature. Non poteva essere più diverso dalla sua gemella, un po’ come il giorno e la notte, la fiamma e il ghiaccio, la creazione e la distruzione, la luce accecante del giorno e quella flebile della notte. Loro erano l’equilibrio a cui sottostava il mondo: l’uno preservava, l’altra distruggeva. Secondo il modo in cui essi si spartivano i passatempi terrestri, gli uomini vivevano giorni di freddo o calura, subivano piogge o venti aridi, ricevevano malattie o doni dal cielo.
Zeptum preferiva la solitudine, però. Da quando Puésigath lo aveva creato per regolamentare gli equilibri del mondo, egli aveva rifiutato la compagnia dell’eccentrica sorella e aveva vagato tra le falde dell’esistenza alla ricerca di uno scopo tutto suo, in quell’esistenza designata da volere divino, fino a quando il grande dio non aveva creato quel gioco per la sua progenie. E allora Zeptum aveva stretto le bambole che gli erano state donate e le aveva gettate alla rinfusa sul campo di gioco, come un bambino che disprezza il pupazzo di pezza, ignavo ai trastulli e ai divertimenti che da essi sembravano trarre le altre divinità. Piuttosto si era creato quel cantuccio, un po’ più sopra di tutti gli altri, e aveva iniziato a studiare i piaceri provati dagli altri suoi simili.
Un sorriso macabro si dipinse sulle labbra del dio: c’era una certa soddisfazione nel vedere come quel gioco di fango aveva presto finito per perdere il suo fascino. E cosa mai, pensava lui, poteva riuscire a sconfiggere per sempre la noia di un immortale? Sciocco colui che vi aveva riposto le speranze. Piuttosto era divertente, seppure Zeptum non ci facesse troppo affidamento, vedere gli dei affannarsi per ravvivare la fiamma spenta di quel campo di giochi. Alla fine, ogni cosa si sarebbe estinta come la vita di un bucaneve nel cuore dell’inverno, e persino loro sarebbero sprofondati di nuovo nell’apatia della loro eternità.
Eppure quel felica continuava ad andare avanti! Eppure gli dei continuavano a seguire le sue peripezie; Sefta a parlare con la fanciulla, Not e Yara a lanciare occhiate intense al campo di giochi. E Zeptum iniziò ad arrovellarsi per comprendere quale sorta di potere stesse tenendo la fiamma viva in tutti loro, felica e dei.
«Tra noi anche oggi, Zeptum?» lo interrogò placidamente Not, il buio che lo seguiva come uno strascico. C’era la nenia che guidava all’oblio nel tono della sua voce, c’era la promessa dell’abbraccio di acque chete in cui riposare nell’espressione del suo viso. Il dio Not possedeva la vecchiaia della saggezza scolpita su tratti virili e senza tempo. In lui era impossibile capire dove iniziava la forza del fiore degli anni e finisse la curvatura di una schiena che aveva vissuto secoli, se non millenni.
Zeptum decise di rispondere alla domanda con un’altra. «Dov’è la mia gemella?»
«Lì» gli rispose Yara, cosa che sorprese il dio corvo. La dea bianca non si perdeva mai in chiacchiere che non vertessero intorno alla sua grazia. Yara era un lupo solitario che si stagliava contro i veli oscuri della notte, fiera e selvaggia come la madre che incarnava con distacco. Ella era contrasti: i suoi capelli neri spiccavano sopra la cappa bianca, le dita affusolate erano d’ambra scura e accarezzavano i veli della sua veste argentata; i suoi tratti di donna erano il disegno di una matita tratteggiata sopra una superficie d’aria, talmente evanescenti da far credere di non poter essere afferrati neanche dalla vista. «Sorprendente come ancora non abbia deciso di darle fuoco.»
Zeptum guardò, dentro la pozza, sua sorella disquisire con la fanciulla dai capelli fatti di rami intrecciati e dalla pelle di marmo. Sefta non aveva mai ascoltato suppliche, solo lodi; a Sefta piaceva farsi ammirare, e a volte le attenzioni più glorificanti erano capaci di indispettirla se fatte nel modo sbagliato. Bastava un accento, un tono incrinato, una distrazione del postulante, e Sefta si sentiva oltraggiata dall’incapace amante. Quella volta, invece… «Rovinerebbe il gioco» le rispose distrattamente. E poi, curioso: «Sefta sembra divertirsi.»
«E cosa ci sarebbe di divertente nel guardare un pugno di fango piangere e correre?» si mise seduta la dea. Anche lei, notò Zeptum, faceva fatica a distogliere lo sguardo dalla pozza.
«L’ho sentita cantare qualche volta» obiettò il dio di pietra.
«E allora?»
Not diede una scossa alle falde del suo nero manto, come a pulirlo da qualche vecchia briciola. «Il canto è una preghiera affinché trovi la strada di casa.»
«Il felica non può sentirla, e Sefta gliel’ha anche detto.» Le mani della dea tentarono di stringere le nuvole sotto di lei, esasperata dalla stoltezza dell’essere infimo. La sua diafana beltà era una lama a doppio taglio: nessuno poteva toccarla, così come lei non poteva sfiorare neanche le nuvole più soffici.
Not parlò con la voce di un vecchio e rilevò: «Canta per noi.»
Zeptum e Yara seguirono lo sguardo del dio verso la pozza, nei tuguri dei suoi meandri, e ascoltarono la fanciulla lodare la dea con la stessa dolcezza e fiducia con cui la pregava quand’era ancora un fuscello comune in mezzo alla sua gente. «Arket è un guerriero orgoglioso, il suo peccato è amarmi troppo. Questo rende me colpevole della sua rabbia» stava dicendo Adelaya. «Oh dea, se c’è ira nei tuoi sentimenti, ti supplico di rivolgerla verso di me. Arket ama, non fargli una colpa di questo. Punisci me che sono la sua amante e con questo amore gli ho tolto il timore negli eterni.» Sefta ascoltava con sguardo ipnotico la fanciulla, ma pareva trattenere uno sbadiglio a ogni sua parola, gli occhi languidi simili a quelli di un pesce disinteressato.
«È morta una volta e ha ancora voglia di proporsi per il martirio» constatò Not.
«È forse orgoglio quello che sento nella tua voce?» finse di scandalizzarsi la dea.
«Se fossi un padre, ne andrei fiero, sì.» Il dio di pietra si alzò e voltò, come ad aggiungere che egli, però, non lo era, un padre. Con la schiena curva di un vecchio e il passo scattante di un giovane atleta, se ne andò.
«E tu? Anche tu vuoi provare dei... sentimenti?»
Yara era una dea che difficilmente veniva tollerata. I felichi che da lei erano stati lanciati all’interno di Vita si arrovellavano disperatamente le menti alla ricerca di un disegno divino e giusto nelle azioni della loro divinità, cercavano nella loro esistenza e nel modo in cui essa si snodava un senso più grande di loro. Se era stata una dea a mandarli su quella terra, dicevano, allora la strada doveva essere retta e densa di misteriosi e occultati significati. Non sapevano mica quanto poco Yara si curava di loro. A lei bastava sapere di essere nei loro pensieri, nelle loro preghiere, dietro i motivi di ogni loro azione. Era la vana gloria che ella ricercava, chiacchiere e solo chiacchiere. Ed era con quelle chiacchiere, l’unica cosa che ella aveva imparato a conoscere, che voleva adesso abbindolarlo.
Zeptum fece esattamente come suo solito: la ignorò.
Di lì a pochi attimi, anche Sefta fu in mezzo a loro. Si stiracchiò e racchiuse le fiamme dei suoi capelli tra le mani arrossate, le sollevò scoprendo il collo e fece roteare quest’ultimo con la sinuosità di un serpente. Puntò le sue iridi verticali sul gemello. «A che punto è l’altro?»
«Ancora troppo lontano dalla meta, eppure a un soffio dalla pazzia. Oggi ha deciso che seguirmi non è più vantaggioso. Sta errando per le selve di Erreth-Ak, lanciando sassi a qualunque volatile osi passargli a tiro. Ha abbattuto due grossi fagiani.»
Sefta si ammirò le unghie appuntite che scintillavano come affilati diamanti. Con quella sua aria distratta e disinteressata voleva fargli credere che non gli stesse prestando ascolto, cosa che egli sapeva non essere vera, eppure il suo atteggiamento riusciva ugualmente a irritarlo.
«Tutto qui quello che volevi sapere? Perché non te ne torni dalla donna, allora.» Non riuscì a controllare la rabbia, e la sua maschera di fredda impassibilità si incrinò.
Sefta parve prendersela, ma non c’erano fiamme che potessero ferirlo. Tra le nuvole il fuoco non attecchiva neanche per volere divino. «Mi ha tediato a sufficienza questo gioco. Facciamola finita.»
«Non ancora» la voce di Not giunse con il peso di una sentenza da dietro una coltre di nubi. «L’equilibrio è stato messo a dura prova una volta. Il tempo è stato di nuovo fissato, e stavolta verrà rispettato. Nessun potere potrà sovvertirlo.» E come a dare ragione alle sue parole, le corde di lira si udirono tra gli scrosci di pioggia sottostante, tese e sdrucite dall’usura, dallo sforzo di intonare due canti allo stesso tempo. Ascoltando quella musica, però, Zeptum non avrebbe mai detto che fossero due sinfonie diverse a comporla, ma piuttosto un’unica leggiadra nota che si articolava in diverse tonalità, tanta era la sincronia tra i cuori dei due amanti.
«Sarà» soffiò Sefta, come a voler intendere che di lì a poco si sarebbe trovata un nuovo gioco, «ma io mi sono annoiata.» Ma fu Zeptum a lasciare il giaciglio degli dei mentre la sorella si acciambellava ai piedi della pozza a gambe incrociate, i gomiti sulle gambe e due pugni a reggerle il mento: la dea serpente era tornata infantilmente a scrutare la sua pedina. Al dio corvo, l’interesse perverso della sorella non era sfuggito, ma ancora di più a interessargli era l’ombra nera che aveva visto muovere verso di loro, come un cumulo di tempesta che si avvicinava. Puèsigath in persona stava assistendo, seppure a distanza, a quel gioco. Tutti gli dei erano con gli occhi puntati sui due amanti. Il corvo bianco non aveva mai visto gli eterni – la sua famiglia – curarsi tanto delle vicissitudini di Vita. Se movimentare i giochi li avrebbe tenuti tutti protesi verso lo stesso punto, lui li avrebbe accontentati.

 
 
 
 
Il canto era la morte della solitudine, ma anche il veleno della speranza. Cantare le impediva di impazzire, ma la sua voce solcava la distanza che la separava dal suo amato Arket, e questa era talmente grande che il suono produceva un’eco raschiante tra gli alberi rinsecchiti e le nebbie perenni. Suonare le avrebbe forse ridato connotati più umani, poter saggiare le corde della sua arpa avrebbe liberato note conosciute nella foresta, magari avrebbe potuto anche risvegliare un po’ di vita in quel luogo, attirare i fagiani e i corvi che perdevano lì le loro penne senza mai far sentire il loro verso.
Del suo corpo umano, poco ne stava restando. Un giorno, o forse una notte – chi poteva dirlo? – la dea degli equilibri nefasti le apparve talmente vicino e così all’improvviso che Adelaya poté rispecchiarsi nei frammenti di cielo al tramonto che erano i suoi occhi; e in quelle pupille, in quelle iridi verticali, ella vide riflesse due protuberanze, lunghe una spanna e mezza, simili a ossa lavorate per produrre un’Arkra[1], che facevano capolino dalla sua scura chioma leonina. Anche i suoi capelli erano più crespi e ruvidi al tatto, le ciocche non si sbrogliarono neanche quando ella, presa dal panico, tentò di districarne i nodi. Scappò da quell’immagine e si coprì il volto con le sue dita, per scoprire che la carne era diventata tanto diafana da sembrare un velo trasparente, i muscoli aderivano alle ossa, il cui colore era ciò che più di tutto risplendeva in quell’alone nebbioso.
«Mia dea» si disperò, «come potrà il mio amato riconoscermi, o anche solo amarmi, dopo avermi vista in questo stato?»
Al che Sefta ribatté: «E cosa ti fa pensare che egli sia rimasto lo stesso? Pregare priva di molte forze, e lui ha pregato a lungo perché in te scorresse ancora della vita. Ha pregato perché le regole di Vita venissero infrante, e persino gli dei non danno a cuor leggero una simile questua.»
«Mia dea» domandò ancora, «quando arriverà il mio Arket?»
Ma la dea era scomparsa di nuovo.
Adelaya aveva ripreso a cantare allora, perché la voce era l’unica cosa che quella foresta non era riuscita a trasformare in una sua creatura. La sua pelle era morta, e la foresta le aveva dato un aspetto vuoto quanto vuota era la corteccia dei suoi alberi. I suoi capelli si erano spenti, e la foresta le aveva fatto dono di rami senza germogli, perché di germogli i suoi rami non ne possedevano. La sua pelle impallidiva sempre più, perché l’unico colore che la foresta conosceva era quello traslucido della nebbia. Ma la voce non era morta: Adelaya l’aveva usata per guidare Arket nelle sue caccie, nelle sue battaglie, l’aveva adoperata anche quando lui, adirato, si era rivoltato con ostentata smorfia di sfida verso gli dei; l’aveva fatta udire nella tenda in cui lui l’aveva trovata, morente, ad attenderlo. Il suono della sua voce si era dilungato come un’eco anche mentre il suo corpo giaceva immobile tra le sue braccia. E siccome la foresta non conosceva altro suono se non quello del silenzio, nulla poté per alterare il suo canto.
Ma il canto di Adelaya cambiò ugualmente. Dapprima pieno di speranza, poi sempre più disperato, alla fine si tramutò in una nenia funebre degna di quel mortorio, di quel limbo che era diventato la sua casa.
E alla fine anche il canto cessò. Del suo tentativo di perpetrare la vita in quei luoghi, rimase solo il battere del suo cuore. Strano come in tutto quel tempo ella non vi avesse prestato ascolto. Adesso era l’unico suono che riuscisse a sentire. Persino il suo respiro era talmente silenzioso da passare inudito alle sue orecchie.
Adelaya smise di vagare: aveva cessato di cercare una via di fuga molto tempo prima, adesso rinunciò anche alle passeggiate con cui scandiva le sue giornate, con cui contava le ore del giorno e immaginava quelle della notte scorrere via. Il pallore di quel suo mondo aveva cancellato il tempo, forse perché in quella nuova vita il tempo non era concepito. Eppure il tatuaggio sul suo braccio sembrava seguire scadenze molto rigide; ed era esso l’unica fonte a cui ella poteva affidarsi. Dopo tutti quegli anni aveva capito cosa significava la perdita di ogni singola foglia: la prima, la vita; la seconda, la tranquillità; la terza, la certezza; e poi, via via, il coraggio, la forza e la ragione. Quell’ultima foglia, di vivido blu come non mai, sancì la morte della speranza.
Se la dea degli equilibri nefasti fosse tornata a cercare la sua compagnia, avrebbe trovato una bianca corteccia vuota a perpetrare il silenzio di quei luoghi. Ma la dea probabilmente sapeva, e non venne. Nel sottobosco, sul terreno morto però, le piume di fagiano e di corvo continuarono ad ammucchiarsi, silenziose. Adelaya era arrivata a definirle la pioggia di quel luogo, tanto il terreno se ne ritrovò ricoperto. Essa era una pioggia silenziosa, svolazzante, leggera, che cadeva al suolo senza produrre alcun rumore, e per gli occhi della fanciulla era un vero supplizio assistervi. Il fogliame morto scomparve sotto di essa, come un cadavere che veniva inumato sotto un altro cadavere, e così via fino a formare una pira di morti.
Pianse, Adelaya, ma anche allora si rifiutò di far uscire anche solo un mugugno dalle labbra tremanti e dai denti serrati, quasi a mordere a sangue la lingua e a soffocare il fiato in lei.
Fu allora che apparve. Sbucò fuori dalle nebbie, o sarebbe più corretto dire che queste si ritirarono per lasciare che gli occhi di lei la potessero ammirare. Adelaya voltò il capo e la vide: uno scheletro di faggio, privo di decori, a cui l’edera si attorcigliava fittamente; le sue corde erano lacrime essiccate che un dio o una dea aveva tramutato in fili elastici e luccicanti su cui si rifletteva il pallore dei tentacoli di nebbia.
Adelaya attese che mani divine sfiorassero le corde dell’arpa, ma dalla nebbia vide svolazzare fuori solo una piuma di un corvo bianco. Nessun verso, nessun suono, nessuna vibrazione. Eppure la fanciulla liberò un gemito neanche lei sapeva di cosa… dolore, sollievo, riscossa… e allungò una mano verso l’arpa di faggio. Come una claudicante vecchia, avanzò con passo incerto e traballante, quasi le radici degli alberi tentassero di farle lo sgambetto al disotto della bassa foschia. I tratti infantili si aprirono in un’espressione sognante mentre ella s’attardava ad ammirare con stupore i virgulti che stringevano in una morsa d’acciaio la struttura di solido legno. Finalmente le sue dita si protesero a un palmo dalle corde, se si allungava poteva pizzicarle, ma troppo era il dolore e lo sfinimento, e allora riprese a piangere, e dallo sfondo della foschia il volto di Arket si dipinse con crudele precisione, in ogni dettaglio che ella ancora ricordava, infida memoria che non voleva darle pace. Sarebbe stato tanto facile lasciarsi andare ai sussurri silenziosi della foresta, diventare fino in fondo una sua creatura; aveva pensato anche di spezzare quell’ultima catena, quella ciocca di capelli che stava attorcigliata intorno al suo braccio e che reggeva il peso dei pendenti che una volta avevano formato la sua collana, simbolo del suo amore e della promessa che aveva stretto con Arket. E per un attimo, pochi istanti prima, si era lasciata andare ai primi segni di pietrificazione. Un pensiero terribile la colse: quanti di quegli alberi erano fanciulle e donne che si erano arrese? Adelaya si gettò sull’arpa e il primo suono che liberò fu un grido acuto di costernazione. Non voleva far parte di quella conca di vecchie vite incartapecorite, imprigionate nel legno spento.
Adelaya non aveva più voce, il cedimento di poco prima l’aveva privata di quel barlume di umanità, o forse erano state la sofferenza e quella freccia di ramo che si era conficcata nel suo cuore a istillare la sconfitta. Quindi prese ad accarezzare le corde, a invocare il suo amato; e le corde innalzarono suoni potenti, penetranti, che squarciarono le nebbie. Al di là c’erano solo altri alberi, altre fanciulle perdute, cortecce senza volti che ella aveva già visto nel suo pellegrinare ma mai tutte assieme. Da qualche parte, ancora oltre, doveva esserci Arket, lei lo sapeva.
Adelaya non aveva più speranza per sé, ma il nodo stretto poco al disotto della spalla la spinse a continuare a suonare, perché Arket era là fuori, e lui stava ancora sperando per entrambi.
 

[1] È una specie di boomerang a due ramificazioni, una più lunga e una più corta, con un’angolatura minore rispetto allo strumento conosciuto. La sua struttura non gli permette di tornare indietro come il comune strumento, ma i felichi lo usano durante le caccie agli uccelli, soprattutto fagiani. La preda veniva infilzata.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Quarta Parte ***










 
Arket tese l’arco, la freccia incoccata, e poi lo abbassò senza scagliare, sconsolato e timoroso dell’ira degli dei. Non per sé, ma per Adelaya.
«Non avrrei prrovato neanche dolorre» gli rilevò il dio corvo.
«No» gli confermò lui a capo chino, «ne proviamo abbastanza noi al posto vostro.»
Zeptum non lo derise come suo solito, ma gli si fece più vicino. S’inginocchiò vicino a lui e mormorò: «Più a szud, felica, un altrro po’ più a szud.»
Arket sollevò le mani verso di lui, alla cieca, ma non per ferirlo o aggredirlo: gli stava mostrando i segni del tempo impetuoso. «Non ho più tempo.» Sentiva il peso di una vecchiaia che non aveva ancora vissuto, la stanchezza di una vita che non aveva ancora affrontato. Anche Adelaya soffriva le sue stesse pene? A che vita il suo egoismo l’aveva condannata? Non sarebbe stato più misericordioso restituirla al fango, recidere quel cappio intorno al suo bellissimo collo? «Non ce n’è più per noi.»
«Alzzati, non ho ancora finito con te. Mi serrvi.» Le parole del dio corvo furono seguite da lampi di fuoco nel cielo. Lo scrosciare di un’improvvisa pioggia li colse allo scoperto, infradiciandoli. Anche le ciocche bianche del dio si piegarono sotto il peso dell’acqua. Quelle del felica, invece, spente e ingrigite, erano già diventate una poltiglia aggrovigliata sul suo capo blu. Se li sarebbe strappati con forza, se solo la disperazione non lo avesse privato dell’impeto per farlo. «Alzati» ripeté Zeptum, «szeguimi.»
Le parole del dio erano dure, determinate. C’era pietà in esse? No, eppure Arket riconobbe la nota acuta che lo esortava: era paura, era disperazione, dolore, rimorso, e forse un baluginio di speranza. In quel folle gioco, il dio aveva scommesso molto e puntato tutto, glielo si poteva leggere negli occhi tondi e rapaci.
Arket si aggrappò a quei sentimenti, fece leva sulle gambe malferme e iniziò a barcollare dietro le ali del corvo bianco. Con il viso rivolto all’insù e l’aspetto di uno spaventapasseri spelacchiato, caracollò alla cieca dietro quella scia di luci e piume candide, senza prestare attenzione alle radici che sbucavano traditrici, ai rami bassi degli alberi, alle fosse nascoste nel terreno impervio. Più volte cadde, e tutte le volte si rialzò, senza mai distogliere lo sguardo dalla sua guida. Temeva che se avesse smesso di pregare con gli occhi, i sentimenti del dio si sarebbero liberati come cani senza guinzaglio, e lui si sarebbe ritrovato per l’ennesima volta a seguire il vuoto derisorio di un dio troppo distante dalle sue pene.
Gli dei, tutti quanti, stavano guardando, partecipando alle sue pene. Una tempesta si abbatté sulla terra, talmente forte e veemente da cambiare forma al mondo. Il suolo divenne fango e si plasmò sotto il potere di Puèsigath, sradicando alberi e creando letti marroni in cui i piedi del felica scivolavano sempre più giù, sempre più a sud. Il fuoco distruttivo di Sefta scivolò come fiumi di lava, portando con sé colline e montagne, prosciugando fiumi altrimenti impetuosi e letti di torrenti troppo grandi per essere guadati. C’era luce intorno a lui, Yara la stava facendo risplendere a giorno perché egli non perdesse mai la vista. La visione di un mondo che stava per essere distrutto lo attanagliò fin sotto la pelle, come le dita di un estraneo che mettevano a nudo la sua anima. Poteva lasciare che il mondo implodesse pur di giungere a lei?
Arket pregò perché avvenisse in fretta, tutto questo, così che egli potesse riabbracciare la sua Adelaya. Più nulla contava: non il suo dovere di Nabaik, non il suo onore di felica, non la sua fede nel timore degli dei.
Mentre tutto intorno a lui mutava, mentre il mondo che conosceva spariva per sempre, Arket vide se stesso per quello che era: fango. Volubile, imperfetto, codardo. Poteva vedere l’arroganza del guerriero che era stato bruciare insieme alle cortecce degli alberi che minavano a tagliargli la strada. Sentì l’accidia dietro cui si nascondeva per evitare conflitti o decisioni scomode in nome di una volontà superiore scivolargli via di dosso. Abbandonò tra i ruggiti della tempesta le urla di guerra e tutte le altre parole che avevano composto la sua vita – famiglia, amici, persone indifese, sovrani – e un’unica nota vibrò nel suo cuore: Adelaya.
Quale valore poteva avere la vita senza di lei? Quale onore nel preservare quell’esistenza se lui non poteva averla accanto a sé? E sarebbe stato onorevole fingere che l’amore verso gli altri e se stesso fosse consolatorio di fronte alla sua perdita? Arket abbracciò la sua viltà, diede in pasto agli dei ogni cosa pur di riavere la sua amata. Se avesse avuto il potere di un dio, gridò gli occhi rivolti sempre a Zeptum, avrebbe distrutto tutto per far vivere solo lei. Cos’altro, altrimenti, poteva giustificare tanto dolore e tanta forza, se non un amore talmente forte da distruggere tutto? L’amore non salva, l’amore non crea; l’amore frantuma montagne, incenerisce l’aria. L’amore è fuoco che divampa, e il fuoco divora tutto nel suo cammino. Se Arket avesse avuto il fuoco, avrebbe azzannato la strada che lo separava da Adelaya.
Ma il fuoco che aveva era la sua passione, ed essa era mortale, come lui. I suoi piedi nel fango sprofondarono e la luce lo accecò. I suoi occhi lacrimarono nel tentativo di rimanere fissi sul corvo, ma alla fine crollò, semplicemente. Il vento aveva cessato di soffiare, ogni suono giungeva a lui come da dietro gli spessi lembi di una tenda. Arket scoprì di aver raggiunto i luoghi della morte, di trovarsi sulla loro soglia, dove aveva condannato Adelaya ad attendere il suo arrivo. La sua impudenza gli si mostrò attraverso il vuoto di quei luoghi: non c’erano profumi – non il profumo dell’erba, del vento, dei fiori – che Adelaya amava tanto; non c’erano i suoni – l’acqua del ruscello, il volo degli uccelli, la musica dei suonatori di tamburi che nella loro valle rullavano dentro a grandi grotte, per far sì che sembrasse che la stessa terra vibrasse -  che la sua amata adorava ascoltare. E non c’era alcuna via da seguire, nessuna traccia di lei, come se Morte avesse già ghermito tutto ciò che di lei egli poteva riconoscere. Stava cercando di acciuffare un fantasma.
«Corragio, felica. Non ho ancora finito con te.» Il corvo era di nuovo un fanciullo, freddo come il ghiaccio, e come il ghiaccio vicino alla fiamma stava per sciogliersi. «Mostrra lorro la felicità che szi prrova nello starre inszieme.»
«Quanto?» non aveva bisogno di aggiungere altro; lui capì.
«Alzzati.»
«Dammi la forza!» lo supplicò.
Ma Zeptum fece schioccare le labbra come il rostro di un rapace, indignato. «Sztiamo ancorra giocando, felica. Alzzati.»
Già, questo era solo un gioco per gli dei; un gioco che li era sfuggito di mano. Il dio corvo era un fanciullo implume, imberbe, che era atterrato su Vita come una lancia di ghiaccio in mezzo a un lago ghiacciato: egli voleva spezzare la lastra congelata, ma la sostanza di cui era fatto era troppo simile a quella che voleva distruggere perché egli potesse riuscirci. Zeptum aveva bisogno di lui, lo stava usando… ma non ancora per molto.
«Non arriverò in tempo.» Arket pronunciò la verità, la sputò su se stesso prima ancora che verso gli dei. «Non arriverò in tempo!» ruggì verso il cielo, e nonostante la tempesta imperversasse al di là della foresta una mano divina aveva ormai smorzato ogni altro suono al suo interno. Che importanza aveva alzarsi… loro dovevano capire quello che lui aveva già capito. Era importante, e c’era poco tempo. «Avete perso… io ho perso. Sono consumato, non potete più usarmi» si guardò le mani e le mostrò a loro. «Quanto mi rimane? Un’ora, pochi minuti, meno di quanto impiega l’ultimo raggio a scomparire all’orizzonte?» Arket gettò le armi, spezzò il suo arco, afferrò il pugnale e lo scagliò in mezzo alle fiamme alle sue spalle, sfregiandole simbolicamente, con la lama che ne squarciava per un solo istante la danza. Poi esse ripresero a vorticare intorno a lui. «Io morirò, tornerò fango e nel fango ci sarà la mia Adelaya. Voi continuerete a essere, e questo fango voi dovrete rimodellare. Avete perso. Avete perso!»
«Continua ad avanzarre» lo sollecitò a cipiglio arcato Zeptum.
«E sprecare il mio fiato qui, dove ella non può sentire che pronuncio il suo nome? Cosa vuoi dimostrare, mio dio?» Arket strisciò ai piedi del dio corvo. Dopo quattordici anni passati a lanciargli contro le sue maledizioni, fu con gli occhi imploranti che gli rivolse la sua ultima preghiera: «Dà ciò che resta della mia vita ad Adelaya, così che il mio amore sappia che il mio ultimo pensiero è stato per lei. Lascia che il vento suoni la sua arpa, così che ella sappia quanto io ancora la ami. Volendola per me, l’ho strappata ai suoni della terra, ai profumi del mondo. Lascia che io le faccia dono della vita, della vera vita, quella che la faceva ridere, che l’abbracciava anche quando io non ero con lei. Tu che sei il saggio inverno, che tutto congeli e nulla dissolvi, tu che per infinito volere cammini da solo e rifiuti la compagnia della tua gemella divinità, non lasciare che la mia promessa sposa svanisca nella solitudine di questi boschi senza sentire la carezza del vento, spirito delle nostre terre.
«Vuoi che io la raggiunga, ma anche tu devi accettare il fatto che questo non ha da essere. Sono troppo lontano, e troppo tempo hai perso a giocare con me. Vi siete illusi che fossimo noi a soffrire, ma siete voi che non conoscerete consolazione. Siamo troppo piccoli e troppo sciocchi, io per primo da quando ho pensato di potervi sfidare. Ma la nostra piccolezza, la nostra ignoranza, ci permette di dimenticare, di mutare, di provare gioia dopo il dolore, di fermare l’odio con il nostro amore. Voi siete condannati a non conoscere la consolazione di mani fragili, la gioia di una vita che potrebbe finire in un istante. Voi ricorderete questo.»
Zeptum avanzò di un passo e poi si fermò. Sefta era tra le fiamme, impugnava la lama che il felica aveva lanciato contro il suo potere. Yara sedeva su una roccia e piangeva, le sue lacrime di latte spensero il fuoco e nutrirono la terra. E anche Not, il saggio e l’imprudente dio dei fiumi che salivano a monte e dei venti che non muovevano alcuna foglia, anche lui era sceso su Vita.
Vide il potere di Zeptum sprofondare nel fango, sporcarsi: suo padre – il dio che lo aveva creato – era lì, stava fermando la sua collera, la sua determinazione. Gli stava dicendo: “anche un dio deve cambiare per sopravvivere”. Puésigath era stanco, ma scrollò il capo e la terra tremò, si sfaldò e minacciò di far sprofondare ogni cosa.
Arket vide la sua piccola arroganza, e questa lo riportò di nuovo sotto quella tenda di quindici anni prima, dove con il corpo di Adelaya tra la braccia aveva sfidato gli dei a giocare con lui, e ripeté: «Not, Yara, Zeptum e Sefta, e Puèsigath, tu che tra tutti sei il più volubile» non c’era rancore, solo preghiera, la stessa fede che Adelaya aveva riposto in lui, «se è una vittoria che cercate, ascoltatemi, vi imploro. Il mio tempo è finito, quello di Adelaya doveva cessare molti anni fa. L’invidia per la vostra immortalità mi ha accecato.» Anche con le palpebre chiuse, poteva immaginare la perplessità scolpita sui loro volti perfetti. Continuò mentre le lacrime di Yara che cadevano dal cielo ripulivano il suo viso: «La mia vita è sempre stata sua, lasciate che almeno in questo noi possiamo trovare la felicità.»
E Not allargò le falde del suo mantello, e il vento soffiò tra i rami rinsecchiti. E Yara pianse, e la pioggia cadde a bagnare le foglie secche. E la capricciosa Sefta, che reggeva il simbolo di quello sfregio, si strinse nelle sue vesti e alzò la lama a protezione del suo viso, come se quell’alito di vita in quel luogo potesse ferirla. Il fango si modellò a figura mostruosa dietro Zeptum e lo abbracciò. Ad Arket parve di sentire la voce di Puésigath gorgogliare: «Lascia andare la pedina, Zeptum.»
Vide il dio corvo lanciare un’occhiata sospetta a sua sorella, ma la sua diffidenza si dissipò nell’istante in cui il suono di un’arpa squarciò la muraglia di nebbia.
Arket sentì le note selvagge illuminare la sua strada: erano voraci come il fuoco, affilate come ghiaccio; erano volubili come creta e ottenebravano i sensi con la loro soave potenza. Arket sentì la carezza delle dita di Adelaya sfiorare il suo viso.
«Non temere» disse Not con fare rassicurante, «adesso le risponderai.»
L’ultima nota vibrò dentro la sua anima: aveva ritrovato la strada di casa.
 
 
 
 
Può l’odio alimentare un sentimento come l’amore?
Sefta e Zeptum erano nati per non potersi mai toccare, mai vedere, mai soffrirsi. Erano l’equilibrio, e per governarlo non era concesso loro camminare insieme. Sefta portava distruzione, corrodeva persino l’acciaio; Zeptum cristallizzava ogni cosa nell’imperitura durezza del gelo. Ciò che Sefta amava, Zeptum lo rendeva intoccabile. Ciò che Zeptum voleva, Sefta distruggeva. Due note stonate si attraggono come due soli, e tutto ciò che sta in mezzo a loro viene risucchiato. E cosa può l’amore di due esseri mortali su entità eterne e irraggiungibili?
Le leggende dicono che soffrirono tutti la morte di Adelaya. Tutti sentirono la morte di Arket. Il popolo felica agonizzò, come se una lama fosse entrata in ogni singolo petto, e si dice che l’aria per un attimo venne risucchiata sui monti, perché persino gli dei trattennero il fiato, e allora i felichi annasparono, cadendo in ginocchio.
Sefta distrusse la pedina del fratello: non per collera, non per capriccio, ma per amore. La stessa lama di Arket, che quindici anni prima aveva già reclamato la sua vita davanti agli occhi degli dei, affondò nel suo costato e gli rubò l’ultima nota.
Zeptum soffiò, e le foglie stormirono e la vita di Arket galoppò tra le nebbie, verso Adelaya, più veloce di quanto non avrebbe fatto se avesse continuato a risiedere nel corpo mortale. Le mani della fanciulla si tesero per accoglierla mentre il vento faceva vibrare le corde della sua arpa. Ella sentì sul suo viso l’aria dei monti, udì lo scorrere a valle dei fiumi, percepì la braccia di Arket sorreggerla di nuovo.
La vita di Adelaya si spense pochi istanti dopo quella del suo amato.
Dicono che Zeptum e Sefta ritornino in quei luoghi di tanto in tanto. Le leggende poco ricordano di questi due divinità se non che…
Il dolore della dea degli eventi nefasti fu così grande da bruciare il suo stesso tempio, la delusione del dio corvo così profonda da gelare i seggi della terra senza tempo. Sefta non cercò più l’adulazione degli uomini, la cui collera verso i tanti soprusi patiti fu terribile, e travolse ogni loro mausoleo e ogni loro tempio. Il culto degli dei gemelli si dissolse come sabbia nel deserto trasportata dalla tempesta.
Not e Yara lasciarono quei luoghi di dolore e attraversarono i confini di quel campo di gioco. Crearono altri popoli al di fuori della Cinta, spinti dalla voglia di giostrare secondo le loro regole quelle vite: il Dio muto lavorò con costanza la pietra bianca, forgiando un popolo valoroso e saggio, con cui egli amava comunicare e intrecciare sfide; mentre Yara si divertì a lavorare con l’argilla, a miscelarne le diverse sfumature, e diede vita a un popolo iracondo, tracotante e guerrafondaio, un popolo senza una vera identità, ma che aveva la passione nelle vene e il coraggio di chi non si arrende e di chi non si piega, e non si spezza, e non si inchina, e mai si guarda indietro.
Di Arket e Adelaya rimane un blando ricordo nella mente dei felichi.
Puésigath, che da lontano aveva guardato i suoi stessi figli giocare e litigarsi le bambole di fango e soffrire per esse, discese un’ultima volta su Vita e si mostrò a Tohri. A lui narrò dell’amore di suo fratello e della bellissima fanciulla che aveva aspettato nella solitudine dei luoghi senza voce. Con il felica, il grande dio sancì che metà di uno non venisse più spezzata, impedendo che altri commettessero lo sbaglio di cercare l’equilibrio nella solitudine di due metà. Alle creature di fango donò il campo di Vita, poiché gli dei erano stati indegni di amministrarne le leggi, e ignoranti nel capirne la pericolosità.
Nei luoghi freddi dove dimorano oggi gli dei, le lire continuano a suonare le leggiadre note di quel canto selvaggio che su Vita avevano fatto vibrare il cuore del mortale Arket e quello della bellissima Adelaya.




 
N.d.A.

Lo so, questa storia ha molti difetti e non è esattamente quello che avevo in mente all'inizio; però ogni volta che ho provato a cambiare qualcosa o ad aggiungere qualche particolare, mi fermavo a guardare la pagina. Forse è semplicemente nata così: imperfetta, come gli dei di questa storia e come i suoi due protagonisti. Però, rileggendola, devo dire che non mi dispiace tanto.
Spero sia riuscita nell'intento più importante: emozionarvi e farvi riflettere.
Grazie ancora a tutti voi!

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3735576