Il cammino della Fenice

di Diana LaFenice
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Memorie di un vecchio signore ***
Capitolo 2: *** Il suono del castigo ***
Capitolo 3: *** Mille riflessioni, nessuna certezza ***



Capitolo 1
*** Memorie di un vecchio signore ***


Memorie di un vecchio signore

S
e qualcuno dovesse scrivere la mia biografia, allora è bene che sappia che ci sono segreti che non posso rivelare. Altrimenti mi gioco la mia reputazione, già sono vecchio, non voglio che si pensi che sono impazzito del tutto.
In questi anni non ho fatto altro che scrivere per le persone, e ora mi posso finalmente dichiarare in pensione. O meglio, mi vorrei dichiarare così, ma sento ancora il bisogno di mettere insieme immagini e parole come film nella mia testa. E a stento resisto all’impulso di prendere qualunque cosa per trascriverle e lasciarmi trascinare dal flusso. Poi mi ricordo che sono in pensione, e allora lascio - con amarezza - che queste immagini marciscano e muoiano nella mia mente. Ma è anche vero che ho la mia età e che le dita non sono più quelle di una volta e che presto morirò. Lo so come è vero che respiro. È dura invecchiare restando mentalmente lucidi; si ha più consapevolezza di ciò che si ha perso e di ciò che ci attende.
Mi ero giurato che dopo il mio ultimo libro non avrei scritto mai più e invece no. Ho trasgredito il giuramento a causa di Magada, la mia badante. La mia cara Magada, che si occupa di me da dieci anni. Un giorno di fine agosto, mentre rassettava il mio studio, ha trovato i fogli dei miei primi romanzi. Avrebbe potuto gridarmi di averli trovati, invece me li ha portati, rapida e silenziosa come suo solito. Quando me le ha messe davanti non li ho riconosciuti subito. Ma quando li ho presi in mano sono rimasto di sasso: pensavo di averli persi. Così ho inforcato gli occhiali e mi sono messo a sfogliarli, ignorando il tanfo di muffa e le parole mezzo cancellate dal tempo. Ho riso dei miei primi tentativi: quanti errori, quanti strafalcioni, quante ridondanze, e quante parole dialettali. Oddio, facevo davvero pena.
Magada si è seduta sul bracciolo della poltrona e ha letto assieme a me le mie prime creazioni. Quanti ricordi mi suscitano queste storie, quanta giovinezza, quanta ingenuità. E il mio sorriso non scompare finché non trovo gli ultimi fogli; quelli del brain storming sulla Fenice. Magada pare accorgersi del mio cambiamento d’umore perché mi domanda se sto bene. Ed io rispondo di sì e la rispedisco a fare le pulizie. Lei obbedisce, un po’ titubante, lasciandomi solo. Avevo dimenticato quel quasi romanzo.
Allora avevo intenzione di scrivere un romanzo ambientato in un futuro alternativo dove una giovane scopriva in un convento le memorie dei suoi genitori, ma poi la situazione mi era sfuggita di mano, e le informazioni che avevo acquisito mi coinvolgevano troppo per espormi così tanto. Per questo, questo romanzo in particolare non ha mai visto la luce.
Ma ora sono vecchio, sono cambiato, e ho la forza di scriverlo. Quindi mi armo di carta e penna e comincio la mia opera, laddove non è mai cominciata. Dovete scusarmi se troverete interruzioni, errori, ma l’età è quello che è, e sto cercando di emulare lo stile del me ventitreenne per una maggiore coerenza. Inoltre dovete scusarmi se mi rivolgo direttamente a voi, cari lettori, in realtà non sto pensando di farvelo leggere, ma sono abituato a scrivere così. Pensandoci meglio, sapete che vi dico? Mi piace l’idea di sapervi presenti mentre stendo quest’ultima opera, mi aiuta a scrivere meglio, perché così posso leggervelo subito senza aspettare inutili e tediose pubblicazioni. Perciò perdonate anche la mia burbera arroganza di vecchio. Quindi, anche se siete solo fantasie della mia mente, vi prego di restare ad ascoltare mentre ripercorro con voi i miei primi passi in questo vecchio pazzo mondo.

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Capitolo 2
*** Il suono del castigo ***


Il suono del castigo

I
o sono il migliore. Non c’è nessuno che possa eguagliarmi. Almeno per quanto riguarda la scrittura. Toglimi dall’ambiente intellettuale - universitario, dammi un qualunque lavoro, o un qualunque sport e morirai dalle risate per la mia inettitudine; perché questo è l’unico lavoro che possa mai fare. Io sono uno scrittore.
Tuttavia questo manoscritto è la testimonianza dell’unico agone letterario che ho perso. L’ unica invisibile macchia nella mia brillante carriera. Perché questa storia mai pubblicata è la testimonianza di come sapei un’incredibile verità ammantata dalla leggenda. La leggenda della Fenice. Il motivo per cui ho finalmente deciso di scriverlo è stato un sogno ad occhi aperti. Pochi giorni fa ho sognato di trovarmi in uno studio a me famigliare col pavimento invaso da centinaia di scartoffie e la scrivania disordinatissima. Un uomo sotto la finestra sta leggendo un libro con aria annoiata quando ha sentito la porta aprirsi e una persona entrare. L’uomo smette di leggere e balza subito in piedi e domanda a gran voce al nuovo arrivato chi sia e come ha fatto ad entrare. Solo che la persona appena entrata sono io. Prima che l’uomo faccia qualche mossa avventata, dico: “La prego, si calmi, non sono qui per farle del male”.
“E allora che cosa vuole?” Domanda l’uomo controluce e io mi rilasso e gli dico: “La prego di aiutarmi”.
“Lo studio è chiuso, se voleva una seduta l’avviso che ci vuole un appuntamento”.
“Lo so, ma non è per questo che sono qui”.
“E allora per cosa?”
“Per questo.” Detto ciò gli porgo un libricino dalla copertina rossa che estraggo da una tasca della mia giacca e il sogno finisce.
Però prima è meglio che vi racconti qualcosa di me. Sono nato nel 2182 e in gioventù, all’incirca verso i ventitré anni, frequentavo un circolo letterario della Pisa bene. All’epoca non eri nessuno se non passavi o ti eri già fatto notare per quei circoli. E io ero uno dei più famosi. Mi aveva sempre affascinato il mondo letterario, così, una volta a Pisa, pensai di approfittarne. Questa moda tornò in auge pressappoco nel 2203. E fino al 2217 vivemmo una specie di seconda Belle Epoque. Il mondo non era cambiato granché dal XXI secolo ma prima di quell’avventura non mi interrogai mai sul perché. Mi limitavo ad adeguarmi alla versione della Crisi dei cervelli, termine coniato dai giornalisti per dire che gli scienziati, inventori erano a corto di idee. Per non parlare dei fondi e del denaro sporco e dei vari scandali di questi affaristi corrotti. Era come se il tempo si fosse fermato, ma nessuno di noi si interrogava sul vero motivo. A dir la verità, probabilmente non ce ne accorgemmo nemmeno e lo classificavamo come una cosa normale. Solo ora che le cose si sono rimesse in moto e siamo finalmente progrediti verso l’energia pulita, sul rispetto sembra che il tempo sia ripartito.
Non mi ricordo più chi li fece tornare di moda, ma mi ricordo che questo evento richiamò moltissimi curiosi al punto che fu necessario dedicargli un articolo di giornale. Pare che l’idea fosse venuta a un gruppo di Analogici - allora li chiamavamo così quelli che rifiutavano i mass media - che ebbero l’idea di aprire un posto dove le persone potessero incontrarsi e comunicare senza social di alcun tipo. Pensate, un posto senza wifi e televisore, solo il vecchio impianto stereo. Sembrava un progetto destinato a fallire sul nascere, però al pubblico l’idea piacque e il progetto decollò. Io ne frequentavo almeno tre. Ma il mio preferito, che poi elessi ad unico, era in via Alessandro Ceccani, poco dopo corso Italia, vicino al Polo Piagge. Nel 2155 il vecchio Bistrot era stato chiuso in favore di un caffè libreria dove aspiranti scrittori, editori a caccia di nuovi talenti e amanti della letteratura, si riunivano ogni sera. Poi qualcuno ebbe la bella idea di chiamarlo circolo e fu così che nacque il Circolo di via Ceccani.
All’inizio ci andavo almeno una volta a settimana, ma poi me ne innamorai e divenni un habitué. Era un posto molto accogliente ed elegante, come i palazzi stile art nouveau e lo dico io che allora non ero un amante degli edifici del passato. In effetti rimandava a certi caffè parigini che si potevano ammirare in certi film vecchio stile o in antichi documentari. E non ero l’unico a pensarla così.
Molte nostre opere nacquero proprio durante quei mercoledì in cui ci riunivamo, escluso epidemie, per leggere o modificare i nostri lavori. Talvolta, lo ammetto, scopiazzandoci a vicenda. Fu proprio laggiù che conobbi quelli che sarebbero diventati alcuni dei miei più cari amici. La serata iniziava più o meno verso le 20.30 e terminava all’una o le due del mattino.
Il primo ad arrivare ero sempre io perché ero il più vicino in linea d’aria. Poi arrivavano Luca Angiolieri e Alberto Girotti. Luca era l’incarnazione della fretta. Ogni volta che si sedeva si guardava attorno come un cane braccato e il suo ginocchio destro cominciava a ballare su e giù. Invece Alberto era un tipo tranquillo e quasi anonimo. Adesso che ci penso non ricordo neanche più che faccia avesse. Consumavamo il nostro apericena accompagnandolo con qualche bicchiere di vino.
Ci conoscemmo nel novembre del 2201, durante il mio primo anno di università. Prima di allora non sapevo dell’esistenza di queste librerie, dato che a La Spezia non esistevano. Mi ero trasferito da poco a Pisa e avevo appena cominciato ad esplorarla. Quella notte mi ero stufato di fare zapping e così, gettai il telecomando sul divano, presi la mia giacca e uscii. Come uno spettro annoiato costeggiai il Lung’Arno e approdai in corso Italia quando vidi il caffè e decisi di bere qualcosa. Dalla vetrina non si sarebbe mai detto che era un caffè libreria.
Rimasi completamente sconcertato quando entrai e scoprii tutta quella vita sotto le lampade basse che conferivano un’atmosfera d’intimità al posto che mi catturò subito. Superato il primo istante di smarrimento, mi feci dolcemente strada verso il bancone, dove ordinai un rum liscio e restai ad osservare inebriato il posto, alternando piccoli sorsi a occhiate furtive gettate qui e là. Il barista, un uomo che non poteva avere più di ventisette o ventotto anni, parve accorgersi del mio disagio e domandò: “Prima volta?” Al quale risposi battendo le palpebre. Mi occorse qualche secondo per recepire appieno la domanda e rispondere di conseguenza. Quella sera mi aiutò lui. Non gli chiesi mai il suo nome, e lui ricambiò la mia indifferenza con molta discrezione. Per tutti gli anni che ci vedemmo, non seppi mai niente di più del suo lavoro e della gente che ci veniva. Se non fosse stato per lui, probabilmente non avrei neanche incontrato Luca e Alberto. Fu lui che, verso metà novembre di quell’anno, mi indicò il tavolo di quei due, dei quali non avrei più smesso di essere amico fino alla magistrale.

Non ricordo più quando cominciai a scrivere. Sono quasi certo di aver avuto dodici o tredici anni e che era un bel giorno di primavera. Stavo osservando il modo in cui la luce illuminava un albero di pitosforo in fiore. Istintivamente buttai fuori quello che poi sarebbe diventata una strofa di una delle mie prime poesie.
I miei primi tentativi erano un po’ rozzi e sgraziati, ma col tempo e l’aiuto di una professoressa, che vide in me una sorta di nuovo Leopardi, migliorai. La cosa buffa era che prima di cominciare preferivo biologia. Volevo diventare uno scienziato. E questo sogno mi rimase per moltissimo tempo. Ma quando si è così giovani i sogni sono stabili quanto le increspature dell’acqua. Però da quando quella professoressa mi aiutò e mi appassionai alla letteratura divenni avido di storie. Bramavo leggere con tutto me stesso. E così mi divorai quanti più libri possibili su fantasy, fantascienza, gialli, horror, storici. E le varie vicende cui prendevo parte mi formarono il carattere e mi aprirono la mente. Alle volte mi consolarono persino. Alle volte erano il bacio della buonanotte che non avevo mai conosciuto da mio padre. La carezza della ragazza che mi piaceva alla quale non mi sarei mai dichiarato. O l’incoraggiamento che mi serviva per affrontare di petto la vita e le difficoltà che mi riservava.
La letteratura mi formò al punto che posso dire che qualsiasi cosa io faccia, la mia casa sarà sempre quella. La mia gratitudine era così tanta che quando pubblicai il mio primo libro, lo dedicai alla donna che me l’aveva fatta conoscere.
“Alla mia prof, che mi ha insegnato ad amare la bellezza delle storie”.
E’grazie a lei che sono diventato quello che sono. Naturalmente la professoressa capì e, anche se in pensione da tempo, mi rispose, quando le spedii la sua copia. Ma questo successe parecchio tempo dopo.
Nel 2205 sentivo che la poesia non mi bastava più da tempo, che mi dovevo avventurare verso nuovi orizzonti dello scritto. Ero deciso ad affrontare tutti i generi letterari finché non avessi trovato quello che mi stava chiamando con quella vocina ricordante il sussurro del moribondo. Lo stesso che sapevo aver chiamato molti, moltissimi altri prima di me. Ma se mi confidavo con qualcuno a proposito di ciò, mi sentivo dire che non sentivano niente, e che questo eco doveva essere frutto dello stress ante esami. Qualche tempo dopo l’incontro coi miei amici scoprii il romanzo. Mi sorpresi quando appurai che il poetare mi aveva dotato di un vocabolario più ampio che potevo ricombinare in frasi, metafore e descrizioni quasi perfette. Cosa che invece i miei amici non riuscivano. Ciò però mi portò a combattere una sorta di battaglia interiore: da un lato c’era il poeta e dall’altra il romanziere nascente. In quel momento non avevo ancora capito che sarei potuto essere entrambi. Sapete qual è la differenza tra un film degli Anni ’50 del XX secolo e quelli di adesso? Che quelli di adesso sono molto più intensi. Tutto in questi film risaltano come pugni negli occhi. Come se le persone avessero tutte un cuore di pietra. Ed io sentivo l’insensibilità dei follower e la consapevolezza che mi servivano molte più pagine fittamente scritte per riuscire a trarre un’emozione. Che fosse una lacrima, un sorriso, una risata, o un fremito di rabbia. Lo so che sembra stupido ma era ciò che da quel momento in poi avrei cercato di fare. Perché i like, le emoticon e i commenti non mi bastavano più.
Mi vergogno a confessarvi questo segreto perché in realtà non sono il moralista che avete conosciuto. Non sono affatto un moralista, ma solo una persona che dice le cose come stanno. E, coerentemente con me stesso, devo confessarvi che sono partito come scrittore di intrattenimento. Ancora una volta mi scuso con voi per questa brusca interruzione, ma permettetemi di spiegarvi la differenza. Uno scrittore di intrattenimento scrive libri di immediato successo, che fanno emozionare, ma che non lasciano niente di più, non ti cambiano la vita, ma ti confermano quello che già sapevi, i vari status quo e altre stupidaggini del genere. Mi risparmio il commento del mio ex collega in proposito. Uno scrittore di romanzi, invece, scrive opere che lasciano l’amaro in bocca, che rovinano la giornata con la fidanzata, ma che fanno riflettere. E questo libro sta tra i secondi. In un certo senso è più facile scrivere il primo tipo di romanzo. E qui magari gli intellettuali che conoscono la differenza mi fulmineranno perché “Grazie al cazzo, noi lo sappiamo già”, il problema è che agli altri questo sfugge. Quindi diciamo che questa lunga sequela altro non è che la mia dedica per tutti coloro che lo leggeranno, con l’augurio che vi lasci qualcosa di più di un’emozione.

Una delle mie ultime poesie del 2205, Il suono del castigo, nacque durante una di quelle sere. In seguito ho ripensato molto spesso a cosa possa averla fatta scattare. Arrivai persino a consultare le mappe astronomiche e le varie coincidenze fisico astrologiche per capire che cosa mi avesse spinto a recitarla. Non so, forse era colpa della mezzaluna calante di quella notte? Del fatto che quella mattina una bambina era caduta sui sampietrini e si era sbucciata un ginocchio? A Roma c’era stato un incidente automobilistico che aveva coinvolto qualcuno d’importante? Forse l’Afghanistan aveva appena stipulato un trattato di pace con la Cina in espansione? Forse la molla che aveva fatto scattare tutto era molto più banale. Avevo appena bevuto il secondo bicchiere di Chianti e stavamo ridendo per una battuta, quando mi sentii scaldare e le mie labbra si aprirono da sole per dire:

“Per me la vita è come un sogno
Incoerente e strano
Dove alba e tramonto si confondono e scompaiono.
Fiume rosso del sangue di scelte commesse.
Soffocanti come rose sull’animo infangato.
È così che muore una stella
…È così che muoio io.
Luce di palcoscenico, fa brillare quest’essere
immondo e mutilato.
Mi sento come se di me la parte migliore
avessero strappato.
E il grido muto di questo cadavere svuotato
risuona dovunque inascoltato”.


Non so nemmeno io da dove mi uscì o perché o per chi l’avessi detta, dato che non avevo una ragazza e non ero neanche innamorato. La recitai così su due piedi di fronte ai miei amici e loro mi guardarono strabiliati prima di chiedermi spiegazioni - sembravo un mago. Giuro! Le parole mi erano uscite già formate. Le strofe già perfette. Era come se qualcuno me le avesse dettate, ma io non avevo spiegazioni da dare. Col tempo, quasi subito in realtà, la cosa fu archiviata e nessuno ci pensò più. Fino a che non cominciarono a stufarsi della mia bravura.
Tra i nostri ranghi eravamo riusciti a reclutare un editore e quindi cercavamo di impressionarlo sempre di più. Arrivando a creare racconti sempre più assurdi e spettacolari e, manco a dirlo, i miei erano superlativi. Ciò era causa di molti dissapori tra noi. La nostra amicizia rischiò di troncarsi di netto per violente litigate che nascevano alla fine degli agoni. E persino la clientela si lamentò di noi al punto che il gestore del locale ci avvisò di restare calmi se non volevamo essere cacciati. “Perché devi vincere sempre tu? Non è giusto!”
“Già, ha ragione. Non è giusto!”
“Non è colpa mia se son più bravo di voi.” Replicavo tranquillamente e con un sorrisetto di trionfo che mi faceva più idiota di quel che ero. “Oh, ma sentilo. Al liceo avevi 5.” Sparava Luca incazzato, alzandosi dal tavolo, vibrante di rabbia. Alberto lo afferrava per il polso per fermarlo, altrimenti mi avrebbe spaccato la faccia a suon di cazzotti. Nonostante il fisico esile era molto forte. Tutte queste scene si ripetevano ogni mercoledì sera. E tutte le volte il nostro bersaglio osservava con vago interesse e le labbra piegate in un sorrisetto. Le sopracciglia inarcate in una perenne espressione di sorpresa. Non intervenne mai, tranne una volta. Quella in cui ci redarguì dicendo: “Ragazzi, ragazzi, tutte queste attenzioni da parte vostra mi fanno vergognare. Oserei quasi dire che sono stato ammesso per secondi fini…Però, visto che mi siete simpatici facciamo così, io pubblicherò il migliore se”, e ci guardò negli occhi uno per uno prima di soffermarsi su di me e completare, “se tratterete di un argomento a mia scelta. La Fenice”.
Ci stemmo senza pensarci due volte. Dopotutto era un argomento che non avevamo mai trattato ed era un’idea che soddisfaceva tutti e io non avevo motivi per oppormi; che qualunque argomento avessimo scelto avrei cavato una storia capace di battere le loro. Per non parlare dell’allettante posta in palio. Guardai i miei due sfidanti e loro ricambiarono la mia occhiata con dei sorrisi di sfida della serie “prova a scrivere qualcosa di creativo se ci riesci”. Gli occhi lampeggianti di scaltrezza. Io sorrisi. Non sarebbe stato così difficile: creatività era il mio secondo nome. Poi Massimo Cavaceci, era così che si chiamava il nostro uomo, formalizzò la sfida e ci versò altro vino. Io, Luca e Alberto facemmo tintinnare i bicchieri al coro di “Alla nostra e che vinca il migliore” e bevemmo sotto lo sguardo compiaciuto e calcolatore di Massimo.
Quando tornai a casa ricevetti un messaggio sui social da Luca: Ho recitato bene? Davvero credevate che io e il mio amico ci saremmo azzuffati? E per una scusa così banale, oltretutto? Davvero pensavate che l’affetto che ci legava fosse così superficiale? Era tutto un piano che avevamo architettato io e Luca all’insaputa di Massimo e Alberto, per costringere Massimo a capitolare. Massimo ci stava tenendo sulle spine da tre anni e noi non ne potevamo più. Sorrisi e risposi di sì e aggiunsi che era stato davvero bravo. Lui mi mandò la faccina di un diavoletto sorridente e mi augurò la buonanotte. Ricambiai con uno stuolo di emoticons e un ‘notte scritto alla bell’e meglio. Poi sbuffai e mi avviai in camera mia mentre il mio coinquilino se la spassava nella sua stanza con la sua ragazza. Grande, era tornato da un giorno appena e aveva già ripreso a scassarmi le palle. Non mi ricordo più per quali assurde vie io e Davide Belaqua ci incontrammo so solo che diventammo amici e che di punto in bianco ci ritrovammo a convivere. Davide era uno scassapalle. Era alto e magro come me, ma aveva il naso adunco e gli occhi piccoli. Era di tre anni più grande ed era ancora uno studente di fisioterapia. Il suo più grande difetto era scopare mentre io studiavo nella stanza accanto. Quelle volte che succedeva era di una sincronia così spaventosa che penso lo facesse apposta. Però era sufficiente indossare gli auricolari e alzare il volume al massimo per dimenticarlo completamente. Aprii il cassetto del comodino dal quale estrassi i tappi per le orecchie e mi coricai.

Se credevamo che quella recita fosse bastata per far capitolare Massimo, ci eravamo sbagliati. Il tema che ci aveva dato era facile a dirsi, non altrettanto a farsi, e ce ne accorgemmo quando ci mettemmo al lavoro. Innanzitutto perché la Fenice ci costrinse ad avventurarci in un genere a noi completamente estraneo: i breviari, e poi le varie leggende di tutto il mondo su di lei. Che erano, ahinoi, piuttosto ripetitive. Alberto ricalcò un cartone animato e Luca lo copiò finché Alberto non se n’accorse e non scoppiò un litigio - vero - che per poco non coinvolse anche Massimo e me. Però io, a differenza dei miei compari, decisi di intraprendere una strada diversa dopo aver riguardato per puro caso X-men conflitto finale in versione restaurata dove era - appunto - menzionata la Fenice. Così chiamai un mio cugino. Attesi pochi secondi prima che rispondesse: “Pronto?” Sorrisi nel sentirlo di nuovo e dissi, entusiasta: “Giancarlo, quanto tempo”. “Innocenzo, ciao, come stai?” Rispose, contento di sentirmi. Erano passati cinque mesi dal nostro ultimo incontro.
“Tutto bene, te?”
“Non c’è male, l’università?”
“Tutto a posto. Senti, avresti voglia di farmi un favore?”

Mio cugino Giancarlo Strozzi faceva lo psicoanalista. Fu ben felice di mostrarmi i suoi scritti sul paranormale. Giancarlo aveva vent’anni più di me, gli occhi verdi chiari e i capelli sale e pepe da dieci. Mi voleva bene come un fratello maggiore, e molto spesso si era occupato di me per ovviare a certe preoccupazioni psicologiche. Era lui la mia figura paterna di riferimento. Eravamo molto legati perché s’era occupato di me assieme a mia madre, che al momento della mia nascita aveva solo sedici anni. Mia madre e Giancarlo erano cresciuti insieme ed erano legati da un affetto così profondo da diventare migliori amici, oltre che compagni di giochi. Molte volte avevo pensato che era lui il mio papà, anche perché ci somigliavamo tantissimo. Dai tre agli undici anni infatti lo chiamai proprio così. E a lui piaceva nonostante il disagio e i sospetti dei nonni. In realtà la nostra era solo una semplice somiglianza di famiglia, ed io ero solo un bambino bisognoso d’affetto. Si sposò quando avevo diciassette anni, e per la sensazione di tradimento mi allontanai da lui. Soltanto l’anno dopo capii che il mio comportamento era stupido, e trovai il coraggio di riavvicinarmi e perdonarlo. Questo non lo capii da solo; fui aiutato da Davide. Giancarlo accettò di aiutarmi e, la domenica seguente, m’invitò nel suo studio pregandomi di non fare caso al disordine: “E’che sto lavorando con dei pazienti piuttosto turbolenti.” Rispose a una domanda di perplessità - ancora inespressa - quando aprì il suo ufficio. Fu una visione illuminante: se non mi avesse avvisato avrei pensato a una rapina.
“L’altra volta mi hanno sottoposto un caso di possessione demoniaca scambiandolo per schizofrenia.” M’informò scherzoso mentre apriva le imposte e lasciava entrare un po’ d’aria. Una volta mi raccontò che gli schizofrenici non erano sempre buoni e docili, ma potevano diventare pericolosi e violenti. Allora potevano nascere colluttazioni anche piuttosto feroci che potevano durare dai cinque minuti alla mezz’ora. Per la prima volta in vita mia compresi perché mio cugino andasse in palestra tre volte a settimana. Ma niente di quello che disse mi preparò alla visione dei suoi muri. La carta da parati era tappezzata di squarci che sembravano prodotti da unghiate di chissà quale belva rabbiosa.
Lo guardai con tanto d’occhi: stava scherzando, vero? Per tutta risposta, lui mi sorrise ed io appresi più verità di ogni parola. Si avvicinò alle pareti e vi posò una mano sopra, mormorò qualcosa a proposito del conto del tappezziere, di corde, acqua santa, riti di purificazione e benedizioni del parroco esorcista cittadino. Ebbi la tentazione di cercare con gli occhi il kit da bravo esorcista dilettante. E mi venne pure la tentazione di sollevare il tappeto, per accertarmi che non nascondesse uno di quegli strani disegni rituali sotto. Decisi di restarne fuori.
Scossi la testa e mi gettai a capofitto nelle pulizie. Sarò anche stato abituato a vedere horror sul tema ma un conto era la finzione, un conto era la realtà, e questa mi terrorizzava. Lavorammo quasi ininterrottamente per quattro ore e facemmo una pausa caffè al bar di fronte. Una volta tornati nello studio mi indicò le lettere dei suoi numerosi “fans” accatastate sulla scrivania. Capii che le lettere dovevano essere da parte di Analogici, solo loro usavano ancora la posta per questo. Mio cugino era anche uno scrittore di libri scientifici e, qualche anno fa s’imbatté in una nuova teoria - non mi ricordo di che genere - e ne rimase talmente affascinato da diventare un parapsicologo. Da quel momento aveva cominciato a leggere i tarocchi ai suoi pazienti e si divertiva a fare esorcismi nel suo studio. Ma se per l’esorcismo non avevo problemi a crederci, non avevo mai creduto a nessuna di quelle teorie propugnate da quel branco di venditori di fumo. Nemmeno alla reincarnazione. Eppure fu proprio su questo che decisi di lavorare. Per sorprendere i miei amici, soprattutto Massimo, dovevo ricorrere a misure drastiche e territori inesplorati, e cosa c’era di meglio di questo? Mi accomodai sulla sedia e cominciai a sfogliare le varie lettere dei suoi pazienti.
“Appena hai fatto ti faccio vedere anche le e-mail.” Mi disse.
“Ok.” Risposi senza alzare gli occhi dalla lettura. Alcune sembravano dei romanzi veri e propri, altre erano palesemente inventate. Lui mi propose anche di assistere a uno dei suoi ultimi casi, se avessi voluto, che si stava rivelando piuttosto interessante. Io risposi: “Magari più tardi. Adesso ho da fare”.
“Ok, hai visto il mio taccuino?”
“No. Che ci fai?” Gli chiesi invece. Fino a quel momento pensavo che lavorasse col registratore. “Prendo appunti per le mie sedute”.
“Si usa ancora?”
“Sì”.
“Ma dove l’avrò messo?” Borbottò mentre lo cercava nella libreria. Mi lasciò riordinare la scrivania per fare spazio al quaderno e cominciai a lavorare. Avevo appena scritto Fenice in mezzo al foglio per un brain storming quando mi accorsi del dislivello della scrivania. Così alzai il quaderno e trovai un bloc notes. Mi accigliai perché credevo di aver spostato tutto. Lo sfogliai e lo trovai riempito con la fitta grafia di mio cugino. Dovevano essere gli appunti delle sue sedute. Incuriosito lo sfogliai e lessi gli appunti dell’ultima pagina:

“Che cosa ci fa con questo?”
“L’ho trovato in libreria, l’ho letto e ho pensato che lei potesse aiutarmi”.
“Perché ha chiesto aiuto proprio a me?”
“Perché ci sono dei ricordi che devono essere riportati alla luce e solo lei può aiutarmi, la prego, lei è il solo che possa farlo, ne va…”

Aggrottai le sopracciglia mentre la curiosità si accresceva dentro di me. Quella roba era dieci volte più interessante di ogni cosa avessi mai letto! Sai quante idee avrei potuto tirare giù da quelle pagine?
Solo adesso ho capito cosa fosse quel dialogo. Era la trascrizione della parte mancante del mio sogno. Se avessi fatto quel sogno allora, avrei cominciato a elucubrare. La mia domanda è, come diavolo ha fatto Giancarlo a trascriverlo sessantanove anni prima che lo facessi? Ma non glielo chiesi perché lui non mi permise di finirlo che lo chiuse e me lo tolse di mano, facendomi sobbalzare. E con quel gesto polverizzò tutte le idee che stavano fiorendo nella mia mente. “Ecco dov’era!” Esclamò e lo spostò altrove, fuori della mia portata. Gli chiesi cosa fosse. “Te l’ho detto, è il taccuino delle mie sedute”.
“Oh. Posso leggerlo?” Domandai speranzoso e lui mi disse di no, che non potevo leggere i segreti dei suoi pazienti. Quindi mi arresi e tornai a quella benedetta bozza. Dovevo mettercela tutta, n’andava del mio orgoglio di scrittore, ma mentre lo pensavo il consueto dolore dietro gli occhi tornò a farmi visita.
Soffrivo di continue emicranie e prendevo delle medicine. Di solito un banale antidolorifico mi faceva andare avanti una giornata, ma da quando il Phacelclimax era stato immesso sul mercato, una sola pillola bastava per tre giorni. Ed era ancora il secondo giorno, per questo mi sorpresi quando sentii il dolore. Stavo per chiedere a Giancarlo di darmi qualcosa ma poi mi ricordai che non era un farmacista. E poi lui stesso era talmente assorto nelle pulizie da non essersi accorto di niente. Così cercai di ignorare il dolore e buttai giù tutto quello che mi veniva in mente. E ad ogni parola scritta scoprii di avere tante possibili trame quante parole buttavo sulla carta. E mentre lavoravo, la mia emicrania si attenuò fino a scomparire. Guardai l’orologio. Tra una cosa e l’altra avevo passato tutto il pomeriggio a scartabellare e cercare scrivere. Il mestiere dello scrittore non è così facile come può sembrare. Molto spesso faccio una fatica immensa. Una volta Luca venne a trovarmi e mi trovò in cucina che prendevo un’aspirina. Mi domandò che avevo e risposi: “Ho mal di testa”.
“Perché?”
“Ho scritto solo quattro parole”.
“E allora? Per te non dovrebbe essere un problema.” Aveva ribattuto senza capire.
“Sì”, convenni prima di sganciare la bomba, “il problema è che non so nemmeno che diavolo ho scritto”, che lo fece sganasciare dalle risate. Poi cominciarono i nostri mercoledì letterari e presto anche le sue risate terminarono. Qualche tempo dopo andai a trovarlo e lo trovai nella stessa situazione. Solo che lui mi disse: “Adesso capisco che cosa intendevi.” Scossi il capo, sorridendo al ricordo. Giancarlo aveva finito di pulire da un pezzo, si era seduto sul divano e stava leggendo un libro. Cominciai a raccogliere le mie cose e lui alzò gli occhi: “Vai già via?” Mi domandò, le sopracciglia inarcate.
“Sì, è tardi, e stasera cucino io.” Risposi sbuffando, non mi piaceva molto cucinare, e Davide non si sarebbe mai sognato di farlo al posto mio.
“D’accordo, alla prossima”.
“Alla prossima.” E uscii prendendo una bella boccata di smog; l’aria era così marcia che a volte mi veniva da chiedermi come fosse stata un tempo. E come facessero le nuove generazioni a non nascere con un cancro ai polmoni congenito. Mi recai alla fermata dell’autobus e tornai a casa.

Una volta a casa salutai Davide che ricambiò con un miagolio svogliato a malapena più forte della TV. Mentre mi toglievo le scarpe per mettere le ciabatte, m’informò di essere andato a fare la spesa e mi ricordò che avrei dovuto cucinare io. Stando agli accordi dell’ultima infestazione di formiche, i giorni dispari mi occupavo io della casa, i pari lui. Da allora non dovemmo più chiamare la disinfestazione. Improvvisamente, così, dal niente, la mia emicrania peggiorò e il dolore dietro gli occhi si spostò negli occhi. Mi fecero male i bulbi oculari, sembrava che dovessero scoppiarmi. Sibilai di dolore, sigillandoli forte anche con le mani ma non successe niente. E il dolore scomparve di nuovo. Sospirai di sollievo. Decisi di dimenticare l’episodio e tornai ai miei appunti. Quando ebbi una vaga idea di come strutturare una bozza accesi il pc ultimo modello e vi scaricai la roba che avevo preso da Giancarlo. Mi fermai soltanto per cucinare, mangiare un toast e due mele essiccate accompagnati da un bicchiere d’aranciata, e pulire la cucina. Davide mi schernì bonario: “Non stare troppo appiccicato a quel computer, o un giorno lo accenderò e ti ci troverò dentro a mo’ di file da scaricare.” Ma in realtà sapeva quanto desiderassi che il mio hobby diventasse il mio lavoro. Risi sarcastico e mi chiusi in camera mentre lui si spaparanzava sul divano. La mia stanza non era molto grande, non aveva nemmeno le mensole. Però aveva una finestra che dava sull’Arno che ad ogni tramonto si tingeva dei suoi magnifici colori. Nei mesi caldi si potevano vedere i canoisti che vogavano, mentre in qualunque stagione vedevo i gabbiani e i cormorani nuotare o sorvolare le sue acque. A volte i miei amici del liceo mi chiedevano per quanto tempo avrei scritto, se mai sarei diventato uno scrittore. Allora non sapevo che rispondere, adesso lo so: scriverò finché voleranno i gabbiani. In questo senso l’Arno era la mia musa ispiratrice.
Invece se alzavo gli occhi incontravo ciò che restava del passato attraverso i palazzi del centro storico.
Ma quella sera era già tardi e non si vedeva più niente oltre i lampioni così mi staccai dalla finestra e ripresi a scrivere. Alla trecentesima lettera, dopo l’ennesima astrusa lettura di pessima qualità su ufo, possessioni, schizofrenia e compagnia bella, mi dissi ok, adesso lasciamo fare al caso. Chiusi gli occhi stanchi e affaticati e, dopo aver mulinato la mano a caso, la posai sul primo scritto che mi capitò e l’aprii. In seguito feci una copia digitale delle lettere e dei documenti e li caricai sul computer per sfogliarli in seguito. Negli istanti dopo aver preso questa decisione, ebbi un altro attacco d’emicrania e un’immagine mi esplose negli occhi: un paio di seducenti e luminosi occhi femminili contornati da lunghe ciglia ammiccò nel buio e la scena di fronte a me cambiò di colpo. Mi trovavo in una discoteca. La folla somigliava ad un mare burrascoso e le cubiste sembravano delle naufraghe danzanti. Il Laser e luci varie illuminavano le onde oscillanti che lambivano le isole più o meno immobili dei divanetti.
Mi allontanai dal bancone dello tsunami umano con i cocktail per i miei amici. Il primo dei quali a vedermi fu Dom. Mi fece cenno di sbrigarmi e quando li raggiunsi mi strappò di mano quello centrale rischiando di far cadere gli altri due, già in precario equilibrio: “Ehi, fa attenzione!” Lo rimproverai divertito in contemporanea del suo: “Grazie, amico!”
E mi resi conto di avere una voce dai toni tenorili.
Eddy mi sfilò di mano anche il proprio, ridendo di gusto. Lo guardai ma non mi meravigliai del suo grasso che amava nascondere in tute da rappettaro. Credevano tutti che nascondesse una pistola, e anche noi lo pensammo, ma l’unica arma che avrebbe potuto estrarre da quei tasconi, erano le barrette energetiche. La cosa ancora più buffa era che portava i capelli nella stessa allegra pettinatura in voga tra i nazisti del ‘45. Ma lui non lo sapeva e noi non avemmo mai il coraggio di dirglielo. Bevvi il mio cocktail e lasciai che Eddy andasse a prendere il secondo giro.
La musica faceva talmente schifo che mi venne da vomitare. Già quella di adesso era tremenda ma quella di allora era pure peggio. Tuttavia decisi di non guastargli la serata e mi costrinsi a ondeggiare la testa a tempo e annegare le mie lamentele nei successivi cocktail alla frutta. La visione evaporò e prima che me ne rendessi conto stavo già guardandone un’altra. Ero uscito sulla terrazza per fumare e rinfrescarmi un po’ quando la vidi: Abigail. Era la ragazza più bella del college e tutti le sbavavamo dietro. In biblioteca e a lezione mi mettevo sempre vicino a lei. Eppure non avrei saputo dire quale fosse l’esatta natura dei miei sentimenti per lei. Rimasi paralizzato sull’uscio con l’accendino acceso, la sigaretta pendente tra le labbra e la gente che mi passava accanto da ambo i lati come fossi l’isola spartitraffico, spintonandomi lievemente. E lei era a pochi metri da me, infilata in un bell’abito nero che evidenziava le sue forme e il suo corpo atletico. Mi vide, mi sorrise e mi venne incontro: “Heath!”
“Ciao, Abigail.” La salutai impacciato, rianimandomi e accorgendomi dell’accendino spento. Lo riaccesi e riuscii finalmente a fumare. Lei si chinò dai suoi tacchi e mi baciò sulle guance, lasciando che inalassi il suo profumo e dessi una sbirciata al suo generoso decollette. Poi si raddrizzò e mi sorrise, ignara dell’effetto che mi aveva fatto. “Non ti facevo un festaiolo!” Esclamò tutta contenta.
Buttai fuori il primo tiro: “Ogni tanto piace uscire anche a me.” Sorrisi poi ne inspirai un altro che per sbaglio le espirai in faccia. Lei socchiuse gli occhi e fece un piccolo scatto indietro con la testa. Tossicchiò e si sventolò la mano di fronte al naso. Avvampai completamente e, in preda alla vergogna, borbottai qualche scusa. Ma lei non fece in tempo a rispondermi che un’amica ci raggiunse, la prese per un braccio, disse qualcosa che non capii e la trascinò via. Abigail si girò un’ultima volta a salutarmi. “Alla prossima.” Le dissi di rimando ma lei era già stata inglobata nella folla. Volevo sprofondare.
Era sempre stato così con lei. Fin dalla prima volta che la vidi quando andammo a visitare i college. Era salita sul mio stesso pullman. E, sollevati gli occhi dal mio arcaico videogame, la vidi e rimasi incantato. Improvvisamente non mi fregava più nulla del videogame. Poi la rividi il mio primo giorno di college.
All’improvviso mi sentii cingere il collo con una presa di judo e un paio di nocche frizionarmi i capelli. Due voci mi risero nelle orecchie e riconobbi Dom ed Eddy. Mi liberai ancora spaventato e con la cute dolente: “Ehi, bello, che fai qui impalato?”
“E’ mezz’ora che sei qui fuori.” Aggiunse Eddy. Strascicavano un poco le parole, ma erano ancora ben lontani dall’essere brilli. “Davvero è passato così tanto tempo?” Domandai con ostentata nonchalance. E loro capirono subito: “Ah…Hai visto Abigail, non è così?”
E Dom rise: “Ecco perché sei rimasto qui tutto il tempo!” Ed Eddy mi si parò davanti, oscurandomi la faccia di Dom col suo faccione flaccido pieno di eccitazione: “Com’era vestita? E’ la strafiga delle foto che ci hai fatto vedere?” E cominciarono a cantare una filastrocca in voga tra i ragazzini delle medie di trent’anni fa. Sorprendentemente non me la presi, anzi mi unii allo sgraziato coro, poi, prendendoci vicendevolmente sottobraccio rientrammo nel forno. Il flash scomparve e mi ritrovai immerso nella penombra rischiarata dalla luce bianca tendente al giallo di una stella. Mi rialzai un po’ dolorante e mi guardai intorno mentre riprendevo confidenza con la realtà. Come diavolo ero finito sul pavimento? Poi notai la sedia ribaltata e capii. Mi massaggiai la testa e il lato sinistro del corpo sul quale ero atterrato. Mi ci volle un momento per riconoscere la mia stanza; ma che cosa mi era successo?
“Innocenzo? Stai bene?” Domandò Davide dall’altra parte della porta. Mi rialzai, indolenzito e mi sedetti sul letto. Sibilai tra i denti mentre il dolore cominciava a scemare via. “Innocenzo?” Lo sentii chiamare stavolta più preoccupato.
“Sto bene, non è niente.” Bofonchiai abbastanza forte perché mi udisse. Per quanto tempo ero rimasto svenuto? Mi spolverai i pantaloni e decisi che avevo lavorato troppo e che avevo bisogno di una pausa. Così uscii dalla stanza e mi diressi in cucina a bere un bicchier d’acqua e rassicurare Davide, il quale si fece da parte e mi seguì domandandomi: “Che è successo? Stavo per accendere la TV quando ho sentito il colpo e poi tu non rispondevi”.
Gli gettai un’occhiata e capii che doveva essere passato molto tempo, così mi scusai dicendo che mi ero appisolato ed ero caduto dalla sedia. Questo parve tranquillizzarlo, così mi lanciò un accidente e tornò in salotto, dal quale continuò a maledirmi per avergli fatto perdere l’inizio del programma. Ridacchiai e bevvi un po’ d’acqua prima di tornare in camera. Però sembrava che l’incidente mi avesse tolto la voglia di rimettermi al lavoro, che temevo sarebbe potuto accadere di nuovo. Schioccai la lingua contro il palato mentre scuotevo il capo. Poi sbuffai, salvai la bozza, spensi il computer e raddrizzai la sedia. Mi cambiai e, una volta disteso sul letto, mi resi conto che gli occhi non mi facevano più male. Cosa cavolo mi era successo? Chi erano quelle persone? Erano un sogno? Non mi era mai successo di sognare ad occhi aperti, prima di quel giorno. Ripensai ai nomi e ai visi semi sconosciuti. Dominic? Eddy? Abigail? Erano questi i nomi? Non ero sicuro al cento per cento ma chiunque fossero dovevano essere stati importanti per me. Ammesso e non concesso che fosse stato un sogno.

Il dolore se ne andò piano piano nelle ore seguenti e quella notte feci un altro strano sogno. Stavo rincasando ad un’ora imprecisata della notte, con le guance e gli addominali doloranti come se avessi riso tutto il tempo e mi buttai sul letto ancora vestito. Ma la casa era totalmente diversa dalla mia. Poi la luna piena risplendette alta nel cielo buio. “Ciao.” Mi salutò un ragazzo mentre scendevo dall’albero dove mi ero appollaiato.
“Ciao.” Risposi allegro, e scoprii, sconcertato, di essere una donna. Il mio sconcerto non finì certo lì: ero contenta di rivederlo, mi sembrava di conoscerlo da sempre. Mi sentivo piena d’attese. Ma lui non sembrava dello stesso avviso. Sembrava piuttosto che volesse farmi del male. E la paura s’impossessò di me. Arretrai e cercai di scappare via, ma lui m’immobilizzò e mi tappò una bocca con una mano per impedirmi di urlare. Allora cercai di divincolarmi ma senza successo, poi mi premette l’altra sul costato, esattamente in mezzo ai seni, e recitò quella che sembrò una formula magica. Gridai di dolore mentre le energie mi abbandonavano completamente e mi accasciavo al suolo, svuotata.
Quando mi svegliai il mattino seguente, mi tastai e sospirai di sollievo nel sentire il mio corpo da uomo sotto le mani. Poi mi alzai, guardai l’ora sulla sveglia con un occhio, mentre sbadigliavo. Andai a farmi una doccia ritrovando con immenso piacere la mia casa. Davide si era alzato da qualche tempo: le sue lezioni cominciavano presto, le mie verso le dieci, quindi toccava a me pulire. Uscii dalla doccia e ripulii un tondo di vetro appannato con la mano, di modo che vedessi il mio viso. Non ero mai stato un tipo vanesio, ma non ero neanche così inguardabile. I miei capelli gocciolanti sembravano neri e i miei occhi verdi come quelli di Giancarlo mi fissavano sopra due borse scure. Ripulii completamente il vetro col phon e mi asciugai. Poi lavorai un po’ al manoscritto. Sulle prime temetti di essere colto da un altro attacco, ma non successe niente. Lavorai fino alle nove e mezzo, poi mi vestii, presi la borsa dei libri e andai a lezione. Poiché era ancora settembre erano pochi i corsi ricominciati e avevamo ancora buona parte della settimana libera.
La prima lezione si teneva in palazzo Boileau in via Santa Maria. Il centro storico di Pisa era rimasto pressoché uguale nel corso del tempo. I palazzi qui non erano demoliti, soltanto ristrutturati. Pisa campava di turismo dal XX secolo, quindi era importante dare l’impressione che il tempo era fermo. Persino le guide erano abbigliate con costumi quattrocenteschi e parlavano in antico dialetto fiorentino, che poi traducevano per i loro ospiti stranieri. Solo noi studenti, turisti, e negozietti eravamo infiltrazioni di presente nelle crepe del passato.
Ascoltai la lezione con malavoglia, senza neanche prendere uno straccio d’appunto, poi andai in biblioteca a studiare qualcosa. Mi scapicollai sui libri fino all’una prima di recarmi a mensa e alla prossima lezione, dimenticandomi del seminario di simbologia.
A volte mi chiedo che cosa sarebbe successo se me ne fossi andato. Se sarebbe stato diverso, o se sarei comunque riuscito a diventare uno scrittore o meno. Questo non posso saperlo, ma posso sapere con assoluta certezza che se non avessi partecipato, sarei una persona completamente diversa. E poi non avevo niente di meglio da fare. Così mi sorbii il prof Reticetti parlarci dei simboli nel mondo e le funzioni che avevano ricoperto nel corso della Storia. Mentre ero prossimo all’assopirmi, udii una voce femminile famigliare sussurrarmi all’orecchio destro: “Il simbolo è niente, la realtà è tutto”.
Scossi il capo e mi guardai attorno ma nessuno aveva parlato. Allora mi convinsi di essermelo immaginato. In ogni caso ero riuscito a scrollarmi di dosso il torpore. Giusto in tempo per l’intervento dell’ospite del seminario. Un certo americano di qualche college famoso, di nome Boyd. Il prof Boyd era un signore di mezz’età dalla pelle scura quanto la scrivania di Reticetti, dal sorriso smagliante vestito di camicia chiara e pantaloni beige. Però aveva un bel modo di esporre i fatti e catturò subito la mia attenzione. Mentre parlava e coinvolgeva la classe, menzionò gli studi di un professore del secolo scorso, Heathcliff Kaine. Il nome non mi era nuovo: l’avevo già incontrato sui libri di storia dell’arte antica e di storia del liceo. Però era la prima volta che acquisivo qualche nozione in più su di lui. Era stato grazie a lui che molti simboli antichi avevano acquisito un senso: era sua la traduzione della lineare “greca A” e del fenicio, e malgrado tutto, mi sembrò piuttosto interessante. Verso le cinque il seminario finì e ne uscii piuttosto incuriosito. Stavo ancora pensando al seminario quando rincasai, accesi la radio e lasciai che il pezzo del momento inondasse la mia abitazione. Non avevo di che preoccuparmi del volume visto che quella sera Davide era a dormire da amici. Mangiai qualcosa e mi rimisi a lavorare al mio romanzo. Dopo un po’, annoiato e a corto d’ispirazione, spensi la radio e mi misi a guardare la TV. Stavo guardando un film quando mi assopii e, nel dormiveglia, gli occhi ripresero a farmi male.
Parcheggiai un fossile di Trans Am di fronte la casa dei miei nonni. Spensi il motore, presi la torta che avevo comprato poco prima alla pasticceria e scesi. Una volta sulla porta suonai il campanello. Dopo mezzo secondo Pillola, il volpino dei nonni, cominciò ad abbaiare e la voce di mia nonna si erse con la potenza di uno squillo di tromba sopra il frastuono del cagnetto. Aprì la porta e il minuscolo Pillola schizzò fuori per farmi le feste. La nonna buttò il naso ricurvo fuori casa e mi vide grattare il cagnetto dietro le orecchie. La nonna era una sessantenne minuta come un uccellino. I morbidi capelli a caschetto freschi di permanente, indossava un golfino verde scuro sopra un vestito a fiori dal colore imprecisato dopo l’ultimo incasinato bucato di papà. “Oh, Heath! Vieni qua, fatti abbracciare”.
Mi raddrizzai e mi chinai di nuovo per lasciarmi stringere. Non mi aspettavo una stretta così potente. Poi prese la torta e mi domandò come stavo e tutte le domande di routine alle quali risposi con un sorriso.
Pillola ci saltellò attorno e poi entrò abbaiando.
Dal bagno spuntò mio padre: “Oh, ciao Heath.” Mi sorrise e andai a salutarlo. Notai subito che lui, a differenza della nonna, era vestito estivo. E, prima che fiatassi, mi annusò ben bene: purtroppo avevo fumato altre cinque cicche prima di raggiungerli. Scosse il capo con aria deplorevole e poi andò in salotto. Rimasto solo con la nonna le chiesi il perché di quella strana mise: “Ho freddo, piccolino”.
“Ma se sono quasi trentanove gradi all’ombra là fuori!” Obiettai con un sorriso ironico.
“E’ solo una sensazione. E’ come se qualcosa si fosse ghiacciato”.
Le domandai se stava bene. “Sì, solo che c’è qualcosa che non va. Me lo sento nelle ossa”.
“Ah. Non muori di caldo con quel maglione?” “No.” Mi guardò da dietro le lenti degli occhiali da vista: “Tu non hai sentito niente di strano stanotte?” Scossi il capo, poi andai a salutare il nonno. Lo trovai in camera, paralizzato e attaccato ad un sondino e ad un catetere. Sostai per un po’ al fianco del letto e gli presi la mano nella mia, stringendola lievemente. Poi me ne tornai di sotto prima di scoppiare a piangere. Scesi le scale e trovai papà accomodato al tavolo della cucina, già pronto per mangiare. Intanto che la CNN snocciolava le notizie del giorno. La nonna mise la pasta in tavola e papà, smettendo per un attimo di guardare la TV mi guardò: “Come va?” Domandò di nuovo. Mi limitai a rispondere: “Tutto ok”.
“Il college?”
“Bene”.
“Bene”, ripeté e, dopo un po’, “hai salutato il nonno?”
“Sì”.
“Bene”.
Alla fine della giornata la nonna mi abbracciò forte e si raccomandò: “Stai attento, stanotte la luna è rossa”.
Improvvisamente il telefono squillò e aprii gli occhi con un sussulto. Ero davanti la finestra aperta e sentivo di avere la gola piena di fumo. Il suo saporaccio mi fece tossire. Solo dopo mi accorsi di avere tra le dita una sigaretta mezzo consumata. Cosa diavolo ci facevo con le sigarette di Davide? La gettai via e seguii con gli occhi il tizzone ancora ardente rimbalzare due volte in strada. Poi andai a sciacquarmi la bocca, ma per quanto sciacquassi, il sapore persisteva. Dovetti consumare un tubetto di dentifricio per togliere il saporaccio. I residui scomparvero da soli. Sapevo che alcune medicine avevano degli effetti collaterali, per questo aprii l’armadietto del bagno e lessi il foglietto illustrativo delle pillole di Phacelclimax. E la cosa mi lasciò alquanto perplesso visto che tra i suoi effetti collaterali non c’erano né il tabagismo né il sonnambulismo né quegli strani sogni ad occhi aperti.
Mi passai una mano sugli occhi, sempre più confuso, e li sentii bagni, come se avessi pianto. Mi asciugai le lacrime rimaste impigliate nelle ciglia. “Ho pianto?” Dissi, incredulo. E la domanda che rimbalzò sullo specchio lo fece sembrare ancora più reale. “Perché ho pianto?” Domandai alla mia immagine riflessa, ma né io né lei conoscevamo la risposta, e se anche l’avesse conosciuta, non avrebbe potuto dirmela. Riordinai tutto, comprese le sigarette, e poi presi una chewing-gum alla menta dal pacchetto che avevo comprato quel pomeriggio.
Mi sedetti di nuovo sul divano, proprio mentre cominciavano i titoli di coda e guardai il cellulare: era una chiamata persa d’Erys. Scossi il capo e sbuffai infastidito. Misi da parte il telefono dicendomi che non aveva senso richiamarla, che tanto l’avrei vista l’indomani. Quindi lo spensi e mi ridistesi sul divano, stavolta a guardare dei video musicali.

Non dimenticai così facilmente l’episodio della sera prima. Che la mattina dopo che mi destai l’avevo ancora bene impresso nella mente. Così chiamai il dottore che mi aveva prescritto quelle pillole. Volevo prendere appuntamento per informarlo che non bastavano più. Soltanto per scoprire che era in vacanza alle Maldive con la moglie. Accidenti, che sfortuna.
Guardai quell’odioso flaconcino cui reputavo la colpa di quella roba, e presi una pillola con un bicchiere d’acqua. Infine mi misi al computer. Quella mattina scrissi esattamente cinque parole in ordine sparso e senza senso logico. Alla fine mi arresi e andai a lezione a palazzo Carità. Tanto per fare qualcosa indossai gli auricolari dell’mp3 alla ricerca di una canzone. Misi lo shuffle e suonò Battito vitale di una cantante del secolo scorso. Non so perché ma alle medie mi appassionai fino a collezionare tutta la sua musica. Però non lo dissi a nessuno, finsi di adeguarmi ai gusti del momento fino all’università, quando nessuno si preoccupò più di queste stronzate. Ero arrivato in piazza Dante e passai davanti a uno dei bar che si contendevano la numerosa clientela da generazioni. Lì vidi una ragazza seduta ad un tavolo esterno, apparecchiato con una tovaglia rossa. Stava per bere il suo cappuccino quando mi vide. Aveva i capelli lunghi fin sotto il seno, lisci dello stesso colore dell’ebano. Una ciocca davanti l’orecchio destro era intrecciata con una piuma e delle perline colorate, e gli orecchini a cerchio facevano capolino dalle ciocche. Al collo portava un foulard di tutti i colori del viola che faceva risaltare i suoi occhi violetti, rischiarati dalla mia vista. La pelle dorata risaltata dalla canottiera azzurro cielo. Erys. Pensai senza sorridere. Alzò una mano per salutarmi con un sorriso timido, ma io le feci capire a gesti che non mi sarei fermato. Mi lanciò uno sguardo deluso ma annuì e non mi trattenne. Non avevo voglia di fermarmi a parlare con lei: era un tipo strano che se ne stava sempre da sola. Correvano strane voci sul suo conto ed ero più che certo che mi avesse preso di mira. C’eravamo conosciuti l’anno scorso nella fila a mensa però non le parlavo molto, non mi piaceva mescolarmi con le stramboidi.
Andai a lezione e poi in biblioteca. Ero curioso riguardo a questo professor Kaine, perciò mi appropriai di un computer e cercai informazioni su di lui. Appena cliccai Cerca uscirono decine e decine di pagine su di lui. La cosa mi stupì alquanto: non pensavo che fosse così famoso. Ma alla fine optai per la classica biografia su Wikipedia:

Heathcliff Kaine

Heathcliff Jerome Cornelius Kaine nacque il 12/06/1993 a Washington DC da genitori adolescenti, Alexander Wilson Kaine (1977-2056) e Nia Olsen (1979- 2002). In seguito alla nascita del primo e unico figlio, la coppia si sposò nel 1994 e rimasero insieme cinque anni. I tre andarono a vivere insieme a Springfield l’anno seguente. Due anni dopo la nascita del piccolo Heathcliff, Nia divenne una fotomodella di successo e suo padre lasciò la scuola per cominciare a lavorare a un benzinaio. Il matrimonio tra i Kaine durò poco: Alexander collezionava decine d’amanti e quando Nia lo scoprì, chiese il divorzio e di lì cominciò un’aspra battaglia legale per la custodia del loro unico figlio. Battaglia che si concluse quattro anni dopo con la decisione della custodia congiunta del giudice. Fu proprio il piccolo Heathcliff a trovare il cadavere della madre, in camera, che si era tolta la vita con delle pastiglie la mattina del 9 settembre 2002, poco prima di andare a scuola. Da allora visse col padre e i nonni fino al 2011 quando si trasferì in un appartamento a Woodhouse. Cominciò a fumare a 14 anni e da allora non smise più. Studente nella media, al liceo non frequentò nessun circolo, meno l’ultimo anno che si iscrisse al corso di scacchi e si diplomò nel 2014. Frequentò il college di Harvard nel 2015. In quel periodo morì anche suo nonno paterno: Jeremy Kaine, professore di matematica del liceo, in seguito ad un ictus che lo paralizzò nel letto per tre anni. Tra le amicizie del giovane Kaine sono da ricordare il famoso dj Eddy Ward e dei pericolosi teppisti di strada come Dominic Mendes e Austin Stonewall, morti in sparatorie nello stesso anno.


Dominic ed Eddy. Somigliavano moltissimo ai due nomi che avevo detto nella prima visione. Che fossero proprio loro? Cliccai sui due nomi e comparve una fotografia di Eddy e la sua biografia ma per quanto riguardava Dom non trovai niente. Ma ciò non mi scoraggiò: ero sicuro che fossero loro. Tornai indietro e ripresi a leggere.

Nel 2016 imparò l’italiano e si trasferì in Italia a seguito della borsa di studio che l’università di Pisa gli aveva conferito. Al ritorno in America avvenuto nel 2023, divenne professore di Simbologia nella stessa università che aveva frequentato. Nel 2024 scoprì il sistema per tradurre la lineare A. Nel 2033 decifrò l’alfabeto fenicio. Sotto di lui si formarono i migliori simbolisti che adesso portano avanti la sua scuola di pensiero. Non si sposò mai e non ebbe figli da relazioni extraconiugali, benché abbia avuto numerose amanti. Riguardo al matrimonio era solito dire: << Mi piacerebbe sposarmi, ma non riesco a innamorarmi di nessuna. Mi sembra che ci sia qualcosa che non vada; è come se mancasse una persona, ma non riesco a capire chi sia >> oppure << Piuttosto che vivere la vita, preferisco scomparire in essa >>.

Durante gli ultimi anni della sua vita si avvicinò alle filosofie orientali ma non si convertì mai a nessun credo religioso. Il suo primo lavoro letterario fu la raccolta poetica: Seppellendo l’ascia di guerra del 2020, seguita dal volumetto “Tra le rovine” del 2025, e dal“Trattato sull’Immortalità” del 2030 e al “Trattato sulle Anime” del 2039. In più è rimasto famoso per alcune teorie sulla magia, l’esoterismo e la mitologia, che però non lo gratificarono dal punto di vista accademico. Nel 2037 gli fu diagnosticato il cancro ai polmoni. Si spense nel maggio di due anni dopo nella sua casa di campagna. Il padre non si risposò e non ebbe altri figli, ma pianse sempre la perdita del suo unico, geniale figlio.

Trovai su youtube il video originale dell’intervista dopo la pubblicazione del Trattato sull’Immortalità. Indossai le cuffie antidiluviane che usavamo quando volevamo ascoltare l’audio in biblioteca. Non dimenticherò mai quel video. Kaine era un uomo alto e magro, con una criniera leonina ad incorniciargli il volto, striata qui e là di frezze argentee. Il suo viso non era stato quasi toccato dai segni del tempo. E le sue labbra erano una linea dritta che sicuramente erano state attraversate da molte lacrime. Non so perché lo pensai, sapevo solo che mi dava l’idea di essere quel tipo d’uomo che si rintana in un angolo buio a piangere. Era seduto sulla poltrona di pelle purpurea e di tutta l’intervista mi rimase impressa una frase in particolare, la risposta alla domanda: “Professor Kaine, perché ha voluto scrivere un trattato sull’immortalità?”
“Perché penso che la gente debba sapere che è vera, che non è una leggenda.” Rispose tranquillo con voce roca e frusciante come foglie secche, regalo d’anni e anni passati a fumare. Battei le palpebre, perplesso: non mi aspettavo un timbro vocale così. E anche lo sguardo stanco e saggio, la postura rilassata e il modo in cui teneva quella gamba accavallata e di come, a volte, giocherellava con l’orlo della sua camicia. E di riflesso mi accorsi che anch’io stavo facendo la stessa cosa con il colletto della mia maglia. Quando me ne accorsi smisi e abbassai lo sguardo, imbarazzato e infastidito.
Purtroppo il video non era ben definito. Doveva essere stato danneggiato da un virus o qualcosa del genere. Lo chiusi e cercai qualche immagine del professore su Internet. E ne trovai parecchie, in mezzo a sconcezze, manga e altra roba che non avevano niente a che vedere con lui. Tra tutte le foto che sfogliai, soltanto una mi saltò agli occhi, quella scattata al momento della festa di laurea. Si capiva che gli era stata scattata a tradimento. Era appoggiato allo stipite della porta ed era vestito con un completo grigio molto simile a quello del video. Era girato come se qualcuno lo avesse chiamato e guardava il fotografo con occhi talmente malinconici che rimasi scosso. Come se stesse pensando a qualcosa di orribile. Eppure non risultava niente di tutto ciò dalla sua biografia. Non era normale che un ragazzo così giovane emanasse tutta quella tristezza che offuscava il suo sorriso. Era come se avesse conosciuto i dispiaceri della vita troppo presto e se ne fosse già stancato, nonostante la sua giovane età - i capelli e la postura inconfondibili - somigliava ad un naufrago da poco uscito da una tempesta. Inoltre aveva qualcosa di famigliare ma non capii cosa.

La stesura della bozza procedeva a gonfie vele. Quel pomeriggio stavo scrivendo all’ombra di un cedro di Piazza Dante quando improvvisamente gli occhi cominciarono a farmi male.
“Oh, no!” Feci per prendere il flaconcino di pasticche dalla borsa ma prima che ci riuscissi la scena cambiò di colpo. Il tramonto dai vari colori caldi, quasi come una fiamma psichedelica, mi ricordò che quel giorno era il compleanno di Dom e che non avevo ancora comprato un regalo. Mi detti una manata sulla fronte: “Che razza d’amico sono?” L’avevo completamente rimosso.
Stavo per cominciare ad imprecare quando mi scoprii ad osservare con interesse la fermata. La cosa che mi fece strano era che la stavo guardando come se mi aspettassi di vederci qualcuno. E quel qualcuno lo incontrai ma ad un’altra fermata, speculare a questa. Quella di Woodhouse. Appena sceso scoprii che qualcuno stava inerpicandosi da lì da un fosso, sibilando di dolore. Non so come feci a sentire il sibilo, o forse vidi solo il viso addolorato che emergeva dai lunghi riccioli rossi. Mi avvicinai a lei e saltando nel fosso vuoto, atterrando sui frammenti di tutto e altra roba, e l’aiutai a mettersi seduta sulla sponda.
“Tutto bene?” Le domandai mentre si massaggiava le parti doloranti. Poi mi accorsi di dove mi trovassi e saltai sulla banchina a mia volta. Lei sollevò il viso e incrociò per un attimo il mio sguardo e poi sbottò: “No! Non è successo niente!”
“Stai bene? Hai battuto la testa?” Le domandai e lei mi guardò male con un bagliore di feroci occhi nocciola. Si alzò in piedi, e il labbro le tremò nel tentativo di trattenere quello che sembrava un grido di dolore e poi, senza darmi una risposta se andò zoppicando un poco; cosa stava facendo? Il mio sguardo fece la spola tra lei che ormai stava già allontanandosi e il fosso. Io la conoscevo, io la conoscevo ma non riuscivo a rammentarmi il suo nome. Ero stupefatto, il cuore gonfio di gioia e pulsante come non era da molto tempo. Adesso so chi è. Adesso mi ricordo di lei, pensai gioioso. Era come se un velo di nebbia si fosse improvvisamente diradato, o come se fossi riuscito a ricordare un sogno. E poi mi sovvenne un pensiero. Chi? Mi ricordo di chi? Ma prima che potessi ricordare altro qualcosa di freddo mi fu schiaffato in fronte e ritornai alla realtà, dove fui accolto da una macchia nera, dorata e violetta che mi chiamava con voce famigliare. Misi a fuoco Erys.
“Innocenzo.” Mi chiamò sollevata quando i miei occhi incontrarono i suoi. Mi rialzò e mi abbracciò stretto e io non ci capii un’acca mentre continuava a ripetere una litania contenente le parole: “Grazie al Cielo. Grazie al Cielo stai bene. Grazie al Cielo…” Non ricambiai l’abbraccio e scorsi sull’erba una bottiglietta d’acqua che andava svuotandosi nell’aiuola. Ero ancora seduto e sentivo la fronte e i capelli bagnati, ma non capivo se mi aveva pianto addosso o se era sudore mio. Solo dopo ricollegai la bottiglietta alla sensazione di bagnato. Le misi le mani sulle spalle e la scostai per chiederle che cosa era successo. Lei mi guardò e rispose, preoccupata: “Ero seduta sulla panchina quando ti ho visto accasciarti sull’erba. Mi sono avvicinata e ho cercato di svegliarti.” La guardai con tanto d’occhi. Cercai di capire se mentiva, ma era sincera. Davvero mi era successo questo? Com’era possibile? Non avevo vissuto i sintomi dello svenimento. Poi fu lei a chiedermi “Che cosa è successo?” passandomi un fazzoletto di carta col quale mi asciugai la faccia e il collo. “Niente.” Mentii e la scostai accartocciando il fazzoletto che cacciai in tasca. Raccolsi le mie cose e mi alzai. Lei m’imitò: “Non è vero che non ti è successo niente.” Ribatté, poi mi supplicò “Per una volta dimmi la verità, Innocenzo.” Non l’avevo mai sentita supplicare prima e la cosa non mi fece piacere. Non le dissi niente, mi limitai a scoccarle un’occhiataccia e me n’andai senza nemmeno salutare. Avevo appena svoltato l’angolo quando fui fermato da uno di quei predicatori evangelisti che diffondevano la parola del Signore. “Salve, fratello.” Mi disse, “Vuoi sapere la buona novella?” Perché? In questi secoli la Bibbia era stata aggiornata, per caso? Roteai gli occhi ed emisi un verso di frustrazione, ci mancava solo lui. “No, grazie.” E feci per andarmene ma lui mi seguì dicendo: “Come, fratello, non vuoi essere salvato?” “Neanche se finissi sotto un tir.” Ribattei con lo stesso tono aspro che tiravo fuori coi vu cumprà. Poi gli augurai buona giornata e andai a casa.

Non tutte le visioni erano coinvolgenti come quelle della ragazza dai capelli rossi. Ce ne erano alcune un po’ più strampalate per i miei gusti. Come quella che ebbi la sera seguente a questo avvenimento. Stavo leggendo un giallo che mi aveva regalato Alberto per il mio compleanno quando il dolore mi colse di sorpresa nel momento clou dell’interrogatorio del sospettato principale. Raggiunsi Dom e il resto del gruppo al ristorante con le luci al neon che lampeggiavano alte sull’insegna. Salutai le nostre amiche e riabbracciai un vecchio amico che non vedevo da qualche tempo.
Durante i festeggiamenti raccontai a Dom il motivo del mio ritardo ma non ero sicuro che mi stesse ascoltando, e non solo perché si stava già scolando la prima birra della serata. Comunque il nostro tavolo fece così tanto casino che quello che gli dissi rimase tra me e lui. E scoppiò a ridere con quella sua risata animalesca: “Oh, Heath, ma le trovi tutte te le svitate?” Mio malgrado risi anch’io. Aveva ragione, era una storia talmente assurda che sarei potuto essermela inventata. Io stesso stentavo a credere alle mie orecchie: “Devo avere la calamita”. Così scacciai definitivamente la rossa dalla mia testa e mi divertii. Mi stavo divertendo così tanto che credo di aver ecceduto un po’ con l’alcol. Perché presi la nuca del mio migliore amico e avvicinai la sua faccia alla mia per baciarlo. E lui si lasciò baciare. Poi la scena si congelò e divenne in bianco e in nero per disgregarsi e ricompattarsi in milioni di milioni di parole nere sulle pagine bianche del libro.
Ritornai in me battendo le palpebre. La bocca corrucciata, la sensazione di barba appena accennata poco sopra la bocca, un lieve sentore dell’erba che si era fumato e della birra che si era scolato, sulla punta della lingua. Mossi le labbra da una parte e dall’altra e il sapore scomparve dopo un po’. Poi alzai le sopracciglia ed emisi un respiro profondo: “Però…Che variegato campionario di fantasie mi scatenano queste pillole. Farebbero la felicità di un drogato.” Aggiunsi voltando pagina tra me e me e mi domandai tra quanto sarebbe tornato il dottore. Davide mi udì dalla cucina mentre lavava i piatti a ritmo di Everytime dei The Kolors e domandò, come se si sentisse chiamato in causa: “Hai detto qualcosa?”
“No.” Risposi annoiato e la cosa finì lì.

Il giorno dopo non rividi Erys anche se l’avevo sognata la sera prima. Meglio così, non mi andava di vederla anche dal vivo.
Andai a lezione di latino ma non fu poi così interessante. Mi alzai verso le 9.30, lasciando il registratore acceso per andare in bagno e, una volta uscito, mi lavai le mani. Ma proprio quando pensavo che quella giornata sarebbe trascorsa piatta come le altre, alzai gli occhi sullo specchio e vidi la mia immagine evaporare per lasciare il posto ad un’altra visione. Improvvisamente fui assalito dal dolore agli occhi. Solo che stavolta non svenni. Ero appena uscito dalla biblioteca del college. Oh, se ci vedevo male. Mi succedeva ogni volta che leggevo o scrivevo troppo, che dopo vedevo il mondo fatto di parole. Mi succedeva più o meno dal terzo anno del liceo. Ma ormai sapevo come comportarmi, così chiusi gli occhi e li mossi da una parte all’altra per qualche secondo. Quando li riaprii la vista si era ristabilita completamente e ripresi a camminare. Poi la rividi alla fermata dell’autobus, in piedi accanto al palo con gli orari e che fissava l’asfalto con interesse. “Guarda che se stai cercando di ucciderti, gettarsi non basta, devi aspettare una macchina, come minimo.” Le dissi vergognandomi solo dopo della mia stronzaggine. Lei mi fulminò con gli occhi: “Grazie del consiglio.” Ribatté aspra, “Lo terrò a mente per la prossima volta”.
“Prego.” Feci per sedermi quando la sua voce mi richiamò: “Certo che hai una gran considerazione della vita umana”.
Mi girai e la scoprii girata di tre quarti verso di me. Le braccia conserte.
“Non sono affari miei. Faccio la mia vita e del resto non m’importa un cazzo”.
Finse di rabbrividire e si sfregò le braccia con un sarcastico “Wow che cinismo” che presi per un complimento al quale risposi: “Lusingato”.
Si allontanò.
Così sparì la visione. Mi ritrovai a fissare lo specchio con gli occhi secchi e una strana sensazione di dolore e vergogna. Battei le palpebre e mi sciacquai gli occhi finché non li sentii normali. Rientrai in aula con la faccia ancora bagnata e mi sedetti al mio posto, tornando ad ascoltare la lezione. Dopo mezz’ora mi accorsi di un paio d’occhi bruciarmi la schiena. Mi girai nella direzione dalla quale proveniva quello sguardo ma non vidi nessuno.

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Capitolo 3
*** Mille riflessioni, nessuna certezza ***


Mille riflessioni, nessuna certezza


Era raro che ricordassi le melodie che a volte mi visitavano nei sogni. Sentivo ancora quella musica grandiosa che nel sogno mi aveva elevato e trascinato verso l’alto, su, su e ancora più su fino a scomparire nella volta celeste. Poi sentii il mio corpo depositarsi su qualcosa di solido che non era il letto e non era neanche il pavimento. Sembrava quasi acqua. Aprii gli occhi e scoprii lo spazio sotto di me. Sussultai e mi sedetti. Poi sentii delle voci tutte attorno a me e scoprii di essere circondato da tante altre persone che, come me, stavano svegliandosi e alzandosi. Sapere di non essere solo mi tranquillizzò. Abbandonando la paura per la curiosità, bussai il cielo con le nocche e provocai delle increspature ma senza affondare nel vuoto.
Ci studiammo a vicenda mentre altri, svegli da più tempo, facevano la mia medesima scoperta e lo comunicavano a tutti. Sembravamo androgine lampade di vetro soffiato risplendenti di una fioca luce interiore. Eppure non eravamo fatti di vetro, eravamo qualcosa di più leggero della materia. Poi sentimmo la musica e, incuriositi, prendemmo ad esplorare lo spazio con gli occhi, per trovarla. E mentre la musica ci toccava, la nostra luce interiore crebbe fino a risplendere di fiamme indolori, prodotto delle nostre emozioni. La musica aumentò al punto che sembrò che tutto attorno a noi emanasse quella musica che in quel momento seppi riconoscere. E ci alzammo tutti in volo come uno stormo di colombe stellari, trasportati da misteriose ali che non sapevamo d’avere. Lucenti nel nostro peregrinare attraverso lo spazio, le mète che ci attendevano. Polvere di stelle vacante senza meta che si inoltrava in spazi talmente profondi da offuscare e quasi cancellare la nostra lucentezza e cominciammo ad avere paura. Ma ero talmente affascinato da non farci quasi caso. Poi qualcuno mi prese per mano. Mi volsi e vidi una giovane sorridermi. Sapevo di conoscerla, di amarla, solo che non mi ricordavo chi fosse, e non riuscissi a vederla bene in viso, sebbene avessi il suo nome proprio sulla punta della lingua. Poi lei si portò in prima fila e cominciò a risplendere in modo diverso e cominciò a cantare e capii che la musica emanava da lei.
E mentre volteggiava le sue fiamme la mutarono nella splendida Fenice che ricordavo.
La seguii e come me fecero molti, moltissimi altri finché non venne coinvolto tutto il gruppo. Improvvisamente nessuno di noi ebbe più paura con lei che volava lesta di fronte a noi, illuminandoci la strada come un faro nella notte. Facendoci da vessillo con la sua splendida e lunga coda fiammeggiante e le sue ali brillanti. Eravamo talmente ammaliati che soltanto quando sentimmo il crepitio fiammeggiante sulle nostre braccia, ci accorgemmo di essere fatti di fuoco, e di essere diventati delle Fenici anche noi. O forse lo eravamo sempre stati, solo che lo avevamo dimenticato. E mentre volavamo tutti insieme, mi sentii libero, potente e felice, così felice che unii la mia voce al melodioso e armonioso canto senza parole di tutte le altre Fenici che volavano assieme a me. E anche se lo sognai una volta sola, quella mattina appena sveglio, acchiappai un foglio e lo trascrissi velocemente per non scordarlo. Inoltre sarebbe potuto essere una probabile fonte d’ispirazione per l’agone. Però persi il foglio e non ci pensai più. Credevo che il tempo l’avesse cancellato per sempre, perciò scusatemi se per caso troverete delle macchie sul foglio. Sappiate che quelle sono le mie lacrime.
Quel giorno stavo pensando a questo per distrarmi dalla coda dell’una e mezza alla mensa. Mi sfregai i capelli ancora bagnati dalle gocce di pioggia. Quella mattina non avevo tenuto conto della tempesta che sarebbe scoppiata e avevo dimenticato l’ombrello. Perciò mi ero dovuto riparare con la borsa dei libri ma non era bastato: odiavo da morire i temporali di settembre; ma ancora di più odiavo le code della mensa. Questa in particolare procedeva talmente veloce che carezzai l’idea di convertirmi al cannibalismo. Avevo già la tessera e il vassoio in mano quando prese a squillarmi il cellulare. Me lo sistemai all’orecchio come un auricolare e pigiai il tasto di risposta: “Pronto?”
“Ciao, Innocenzo.” Mi rispose mio cugino.
“Ciao, Giancarlo”.
“A che punto sei col tuo libro?” Mi chiese.
“Al momento?” Risposi un po’ titubante. Non volevo dirgli che ero bloccato da degli strani sogni. Era uno psicologo, si sarebbe messo subito a psicoanalizzarmi anche se da una parte credevo che mi avrebbe fatto bene. Ma non volevo che pensasse che mi fossi ammattito, così risposi: “Sono a un punto morto”.
“Bene, perché volevo chiederti se ti sarebbe piaciuto assistere ad una seduta d’ipnosi regressiva”.
Aggrottai le sopracciglia: “Che sarebbe?”
“Il metodo per portare alla luce ricordi dimenticati del passato”.
Risposi senza pensarci due volte: “Sì. A che ora?”
“Alle tre in punto al mio studio”.
“Ci sarò”.
“Allora a dopo. Ciao”.
“A dopo, ciao.” Risposi, e attaccai.

Dopo un paio di pizzette e un caffè veloce al Totò, mi recai, benedicendo il tempo per aver smesso di piovere, allo studio di Giancarlo. Suonai il campanello e Giancarlo mi rispose al citofono: “Sì?”
“Sono io, Innocenzo”.
“Sali.” E mi aprì la porta.
Volai su per le scale ed entrai nello studio che mi aveva lasciato aperto. Aveva predisposto un angolino vuoto per me con una sedia. Mi tolsi la giacca e la misi sullo schienale della sedia, poi gli chiesi, mentre estraevo le mie cose, ancora un po’ umide dalla borsa: “Sono in ritardo?”
“No, sei in largo anticipo”. Non avevo neanche mangiato, ma tanto avevo perso l’appetito. “Bene.” Dissi.
Aspettammo un’ora prima che arrivasse il paziente, o meglio, la paziente. Giancarlo era andato a riceverla e io non capii perché finché non fece capolino una pancia ampia come una vela al vento di una donna. E mi trovai di fronte una ragazza incinta di sette mesi, dagli occhi duri e neri come il carbone e i capelli con un’evidente ricrescita più scura del biondo budino che ostentava. Non doveva avere più di ventisette anni. Giancarlo fece le presentazioni: si chiamava Giuliana e veniva da Verona. Ci disse di essere la tastierista di un complesso metal, nonostante ciò i suoi modi erano gentili.
Giancarlo l’aiutò a sdraiarsi sul lettino e si accomodò sulla poltrona vicina e la pregò di parlarci del suo caso. Lei ci raccontò che gli aveva scritto per informarlo di uno strano avvenimento che le succedeva da quando era bambina. Una donna anziana dal sorriso materno, vestita di un abito giallo di foggia orientale, la veniva a trovare tutte le notti. Le diceva sempre poche parole però tra queste ricordava che c’era sempre una serie precisa. “Palazzo”, “Rossane”. Poi spariva.
“Come sa ho fatto come mi ha chiesto e la donna mi è riapparsa in sogno e mi ha mostrato un palazzo. Era bello, antico. Ma l’interno è scuro. I pavimenti, ogni cosa è fatta di marmo opaco, dal verde al granito nero. Tutte le persone all’interno indossavano abiti semplici. Le donne erano velate. Non saprei dire dove mi trovassi. Credevo a Gerusalemme. Poi ha indicato una porta e, dopo essersi indicata il petto ha detto qualcosa in una lingua sconosciuta. Credo abbia detto Rossane.” Mi accigliai mentre lei volgeva la testa verso Giancarlo che prendeva nota. Le gambe accavallate. “Secondo lei che può essere?” Domandò Giancarlo guardandola.
“Credo che sia il nome della bambina che porto in grembo, forse mi ha avvicinato come in quel romanzo che lessi.” Rispose.
“Adesso si vedrà.” Ribatté Giancarlo. Districò le gambe e la ipnotizzò fino a farla tornare indietro, indietro, indietro, fino a che lei non fu più se stessa.
“Mi sente?” Domandò. Lei rispose dopo qualche secondo: “Sì”.
“Dove si trova?”
“In un palazzo. È grande qui. È luminoso, i pavimenti sono splendidi, talmente puliti che potrei riflettermici. I panneggi e le tende sono scuri, vanno dal blu più intenso al verde foresta, come quelle dei tramonti nella mia terra natia”.
“Da dove viene?”
“Epiro”.
“Cosa ci fa in quel palazzo?”
“Sono la nutrice della principessa della dinastia del Sole”.
“Qual è il suo nome?”
“E’ un nome che non si può pronunciare in questa lingua”.
“E il suo?”
“Neanche il mio riuscireste a pronunciare”.
Mio cugino domandò: “Perché sta cercando di avvicinare Giuliana?”
“Lei e io siamo la stessa persona. I miei ricordi sono i suoi”.
“Vuole dire che lei non è lo spirito del bambino che porta in grembo in questo momento?”
“No”.
“Chi è la principessa Rossane?”
“La figlia del Re. Non posso dire di più: è tabù parlare della leggendaria famiglia reale. La principessa a breve si sveglierà e io devo andare ad assisterla se no mi faranno frustare. C’è già gran fermento”.
“Perché?”
“E’ tabù”.
“La prego”.
“Posso fidarmi?”
“Sì”.
“Secondo la leggenda discendono dalle stelle e sono dotati d’enormi poteri magici. Pare che il loro emblema sia una Fenice. E a volte quando si guardano emanano un’energia irresistibile. E allora è difficile mettere in dubbio la nobiltà del loro sangue e la divinità delle loro origini. Oh, tra poco si sveglierà”.
“Chi sono i membri della famiglia?”
“Il re malato e la sua unica figlia. Ha cercato di avere altri eredi ma lui e le sue mogli non sono mai stati benedetti dalla nascita di un figlio, nemmeno una femminuccia. E col tempo s’è ammalato. Presto la morte verrà a trovarlo”.
“Mi parli di Rossane. Com’è?”
“Non posso”.
“La prego”.
“No o mi faranno frustare!”
“Non le accadrà niente di male. Qui nessuno la può più toccare. Si fidi di me”.
Lei tacque per un po’, poi si decise a parlare. Se l’avessi detto io, probabilmente non l’avrebbe mai fatto.
“E’ alta, è bella. Ha i capelli rossi scuri lunghi che le scendono ondulati sulle spalle e le cingono le scapole in morbide punte arrotondate. Ha il viso un po’ lungo ma i tratti non sono cavallini. Gli occhi sono grandi, quasi enormi, e sono luminosi e di un colore carico tra il verde e l’azzurro. Solitamente indossa abiti gialli, e sembra fatta di luce”.
“E di carattere?”
“Sa essere buona e gentile, ma sa anche farsi rispettare. E’ un po’ brusca a volte. A volte penso starebbe meglio se non fosse una principessa”.
“Quanti anni ha in questo momento?”
“Diciassette. Mi spiace, ma ho già detto troppo”.
“Capisco. Vada pure, e grazie per la cortesia che mi ha fatto”.
“P-prego, signore.” Rispose interdetta poi l’ipnosi si sciolse. Giancarlo aiutò Giuliana a rimettersi seduta e le narrò di quello che aveva detto omettendo alcuni particolari. Giuliana non sapeva quasi niente di una principessa Rossane, ma non credeva più che fosse la bambina che portava in grembo. Infine la accompagnò fino in strada. Quando tornò ero ancora sotto shock. “Com’è stato?” Mi domandò porgendomi un bicchiere d’acqua che aveva preso dalla macchinetta nella sala d’attesa. Lo presi. “Non credevo che fosse così…Cioè…” “Intenso?” Suggerì. “Sì.” Anche. Poi bevvi un sorso.
“Anche per me è stato un po’ strano.” Poi aggiunse, strofinandosi i palmi sui pantaloni: “Mi sorprende che abbia citato la leggenda di Rossane.” Lo guardai sorpreso e lui mi spiegò che era una leggenda che si trova all’interno del Trattato sulle Anime del professor Kaine. Kaine, ancora lui. Pensai; e lui, che conosceva il linguaggio del corpo, disse: “Dalla faccia deduco che lo conosci”.
“Mi sono imbattuto nella sua biografia l’altro ieri”, risposi prima di bere di nuovo, “ma non ho mai letto i suoi trattati”.
Mancanza alla quale rimediai la notte stessa, quando li cercai su Internet. Il Trattato dell’Immortalità non mi attirò, invece quello sulle anime catturò subito la mia attenzione perché parlava della sua teoria secondo la quale le anime altro non sono che energia senziente in continua crescita e movimento che transitavano da un corpo all’altro per imparare, migliorarsi e perfezionarsi finché non sarebbero diventate talmente perfette da non tornare mai più. In altre parole eravamo nati per imparare. E che per lui non v’era alcuna differenza tra il ricordo, il sogno e la vita. Mi sembrò un’assurdità bella e buona. Mai quanto la sua teoria sulla Fenice. Mi sorpresi molto nel ritrovarla anche lì. Secondo lui la Fenice esisteva davvero, ma, come avevo sospettato anch’io, non era un uccello infuocato che rinasceva ogni cinquecento anni la cui venuta era annunciata da uno stormo di tortore e colombe - bensì un’anima nata tra gli uomini per guidarli verso il progresso e il futuro. Il professore aveva condotto delle ricerche sul campo e aveva scoperto che ai suoi tempi era esistita davvero una dinastia del Sole il cui emblema era una Fenice, oltre che una stele sulla quale erano incisi i nomi della famiglia reale. L’ultimo dei quali era proprio Rossane. Attualmente la stele era esposta al Boston Museum. Inoltre, sempre stando al suo trattato, la principessa reale apparteneva ad un culto basato sulla reincarnazione. Un’altra cosa che mi colpì fu un’altra teoria che voleva che chiunque, nel suo piccolo, potesse essere una Fenice, anche se la Fenice vera e propria, la sovrana cui le anime rispondevano, era in mezzo a noi. Magari c’era pure passata accanto senza che ce n’accorgessimo. Stando ai suoi scritti era pure possibile che il suo spirito si fosse reincarnato altrove. Magari in un altro tempo. Dopo quest’ultima riga chiusi la schermata schioccando la lingua contro il palato, con la vaga idea di leggere gli scritti di un pazzo.

Il padre esorcista tolse le mani dal capo della giovane posseduta, ormai ricondotta alla luce e disse, con un sorriso felice e stremato: “Sei salva, figliola mia”.
La giovane sorrise contenta mentre una goccia di sudore le rigava la guancia come una lacrima. Solo dopo si accorse della ferita che gli aveva inferto il prete con la lama di un coltello e disse, sgomenta e dolorante, cadendo il ginocchio: “Padre…”
“Sono qui.” Fece l’uomo sorreggendola durante i suoi ultimi spasmi di vita.
“Aveva detto che ero salva.” Disse a fatica.
“Zitta, zitta. Non parlare, bambina mia.” Le disse cullandola mentre le dava l’estrema unzione. La ragazzina sempre più spaventata si appigliò alla veste di prete tutta sudata e sporca di sangue. “Padre, ho paura, che cosa…?”
“La tua anima sta per essere ricondotta a Dio, adesso sei al sicuro, piccina.” E mentre la bambina moriva mi tornarono in mente a tal punto le parole del simpatico predicatore che decisi di spegnere la TV. Mi ero appena stiracchiato sul divano quando mi aveva chiamato mio cugino. Aveva trovato un’altra persona che sapeva di Rossane. Così tre giorni dopo andai da lui.
Il caso cui assistetti stavolta era di una cinquantaquattrenne di Parma, una certa Rosetta Ciotta. La donna non aveva nozioni di storia orientale. Qualche mese fa, aveva chiamato mio cugino e lui, dopo una breve telefonata, l’aveva invitata nel suo studio per sottoporla ad una seduta d’ipnosi regressiva e la signora aveva rifiutato dicendo che suo marito non voleva. Ma poi cambiò idea e adesso stavano arrivando. Erano sposati da quasi quarant’anni. Mi stupii perché nessuno si sposava più. Rosetta era di costituzione cinquecentesca, con certi occhi grigi, luminosi come specchi, e i capelli ordinati raccolti in uno chignon. Il viso recava le ultime tracce di un’antica bellezza. Germano invece sembrava un camionista imbolsito. E se lei era elegante nel suo vestito nero a pois bianchi della domenica, lui sembrava una specie di barbone.
Non c’era mai stato niente a turbare il loro rapporto, nessun problema economico, morale, nessun tradimento. Avevano tre figli quasi adulti. Eppure recentemente erano sopraggiunti questi sogni in cui Rosetta, nascosta dietro un tendaggio, fissava una donna la cui descrizione corrispondeva a quella di Rossane. Dapprincipio aveva parlato con il marito, ma questi pensava che non volesse dire niente e non le credette. Tuttavia, quando i sogni si erano fatti più dettagliati e lei aveva cominciato ad innamorarsi della principessa, il signor Ciotta si era sentito minacciato. Nei mesi precedenti al nostro incontro si era messo a spiarla, credendo che si fosse scoperta lesbica. Cosa possibile visto che tutti nasciamo senza preferenze e talune rimangono latenti. Ma quando appurò che non esisteva nessun’amante, si convinse a portarla da mio cugino. Giancarlo ipnotizzò Rosetta.
“Qual è il suo nome?”
“Mi chiamo Dago.” Immaginatevi le nostre facce quando udimmo queste parole. Il signor Ciotta sbiancò direttamente. Io strabuzzai gli occhi, ma non dissi niente. Giancarlo rimase impassibile e continuò in tono professionale: “Che mestiere fa?”
“Una volta ero uno dei tanti servitori della Regina Rossane”.
“Regina…Che cosa è accaduto al vecchio re?”
“E’ morto dopo una lunga agonia”.
“Quanti anni sono passati da allora?”
“Sei”.
“Quanti anni ha?"
“Ventitré, come la Regina.” Come me, pensai.
“Com’è salita al trono?”
“Il padre l’ha nominata reggente e poi ha preso il suo posto. La Principessa ha pianto molto per lui, quando è morto”.
“E lei?”
“Anche noi, certo. Era un sovrano molto severo ma non era la Principessa Rossane. Il vecchio Re, suo padre, governava col pugno di ferro e alzava le tasse quasi costantemente, ma la Principessa, cioè, la Regina, è diversa; lei vuole veramente il nostro benessere”.
“Mi dica, com’è?”
“E’ bellissima, davvero; una luce nelle tenebre.” Sospirò con rammarico. Poi soggiunse, intristito, “E’tanto generosa con tutti, ha sempre un sorriso per tutti, tranne che per me. Lei non sa nemmeno che esisto.” Sembrò essersi reso conto del tono che aveva usato perché i discorsi si fecero più freddi e distaccati. A tratti era come se non volesse proprio parlarne: “Il vecchio Re teneva tanto all’etichetta; invece lei è più spigliata nonostante che sia un po’ più teatrale. Qualche tempo fa, prima del Solstizio d’estate, stava girando per le campagne accompagnata dal suo corteo, e c’eravamo fermati per far riposare i cavalli quando un contadino scese dalle colline boscose per chiedere aiuto alla nostra sovrana”.
“Mi narri, che successe?”
“L’uomo si prostrò ai suoi piedi e le raccontò la sua situazione. Noi tentammo di scacciarlo e di dissuaderla dalla possibilità di aiutarlo, ma lei non ci ascoltò. Si tolse il bracciale di corniole cesellato d’oro e glielo diede dicendo: Mi dispiace di non avere niente di meglio da darti, però tieni. Và e vendilo, e con i soldi ripaga tutti i tuoi debiti”.
Il poveraccio non la finiva più di ringraziarla, poi risalì per la collina e scomparve tra gli alberi dalle fronde smosse dal vento”.
“Era un delinquente?”
“Forse; o forse era così disperato d’assaltare il corteggio reale, ma Sua Maestà era fatta così. Forse col tempo considerò anche lei quest’ipotesi, ma aveva così tanti gioielli che non penso le importasse davvero”.
“Aveva carisma?”
“Sì, sapeva incantare le folle con la sua luce. Sapeva darci speranza, era facile amarla. A volte penso che non ne fosse nemmeno consapevole. E penso anche che non fosse naturale”.
“Bè, lei era una discendente del dio del Sole.” Buttò lì nel tentativo di incoraggiarlo a dire di più. E questo abboccò: “Sì, ma è anche più di questo. A volte sembrava fatta di fuoco”.
Inarcai le sopracciglia.
“Ha dei nemici?”
“Sì”.
“Chi?”
“Ne ha molti, sia a corte che non. Molti hanno ordito complotti alle sue spalle. Una volta hanno pure pensato di avvelenarle il cibo, ma non l’hanno mai fatto. Le basta un solo sguardo affinché cambino idea; ma i più temibili sono i Diadochi”.
“I Macedoni? Gli ex compagni d’arme d’Alessandro Magno?”
“Esattamente”.
E ci venne in mente il resto della storia dell’imperatore Macedone. Forse avevamo trovato una specie di “testimone oculare” che avrebbe potuto far luce sugli avvenimenti di quel periodo inerenti alla Grande Regina. Si emozionò molto quando formulò la domanda seguente: “Vuol dire che lei era Rossane, la moglie d’Alessandro il Grande?” Dago/Rosetta contrasse il viso in una smorfia offesa: “No, era un’omonima. Però a differenza della Grande Regina non voleva sposarsi. Temeva che l’avessero uccisa quasi sicuramente nel letto di nozze per impossessarsi del regno, quindi si rifiutò di stringere ogni tipo d’alleanza politico-matrimoniale. Ciò non vuol dire che non ebbe molti amanti”.
“Ebbe anche un figlio?”
“Credo che abortì. Ad ogni modo sapeva anche che ci avrebbero ridotto in schiavitù e non voleva questo per il suo popolo. Avrebbero dovuto passare sul suo cadavere per impossessarsi delle sue terre”.
“E lo fecero?”
“Sì. C’invasero e fecero irruzione nel palazzo, trucidando chiunque si parasse sul loro cammino; che fossero guardie, schiavi, bambini, anziani, persino gli anziani del consiglio. Noi di corvè tentammo di metterla in salvo facendola passare per il dedalo di passaggi segreti che usavamo per spostarci più facilmente. Credevamo che i soldati non ci avrebbero mai scovato ma ci sbagliammo. Non so cosa ci tradì, ma trovarono i cunicoli e…” S’interruppe brevemente, come se le parole gli fossero venute meno, per poi proseguire. Ma le parole le uscirono con un certo sforzo, come se stesse cercando di mantenere la voce salda. “Due uomini si pararono davanti a lei ma i soldati li uccisero. La Regina era pietrificata dal terrore. E poi elevarono le loro spade e, in mezzo alle grida d’orrore e i tentativi di sottrarla alle loro lame…Sono morto per proteggerla.” Quindi non poteva sapere che cosa le fosse accaduto. Dopo un po’ mio cugino, detergendosi le lacrime dagli occhi, riflesse di quelle che Dago aveva versato tutto il tempo, domandò solo un’ultima cosa, con quanta delicatezza possibile, prima di sciogliere l’ipnosi: “L’amava?”
“Sì.” Rispose l’interlocutore con voce affranta. Poi lasciò che la signora riprendesse possesso del suo corpo e mio cugino si soffiò il naso con un fazzoletto. Rosetta scoprì di aver pianto e di avere il viso impiastricciato a causa del trucco che era colato via. “Cosa mi è successo?” Chiese sperando che qualcuno le rispondesse. Ma nessuno lo fece, nemmeno suo marito, che aveva assistito e la guardava stupito. La bocca aperta.
“Niente di che, solo, dei brutti sogni.” Rispose Giancarlo. La signora arrossì e domandò due minuti per incipriarsi il naso. Mio cugino le indicò la porta del bagno dove lei si rifugiò quasi istantaneamente. Solo quando ne riemerse Germano parve riscuotersi e, dopo che si fu riaccomodata, Giancarlo le domandò qualcosa di sé. Aveva smesso di studiare a sedici anni per lavorare e, nello stesso anno, aveva conosciuto il marito. Erano stati fidanzati nove anni prima di compiere il grande passo. L’istruzione dei due non era molto approfondita, arrivavano fino a dove avevano appreso a scuola.
“Aveva mai visto prima un film su Alessandro Magno?”
“No, mai. Mi ricordavo di aver visto un remake de Gli uccelli di Hitchcock”.
A quella risposta abbassai lo sguardo e alzai le sopracciglia. Poi tornai ad osservarli. Mio cugino era ancora impassibile. “Che cosa sa della Macedonia?”
“Che è fatta con la frutta.” Rispose lei sperando di non aver sparato una castroneria. Cercò aiuto nel marito ma lui le restituì un’occhiata ancora scioccata. Io invece la guardai dissimulando indifferenza. Giancarlo ignorò la stronzata e domandò, in tono professionale: “Alla nascita, presentava una qualche cicatrice, voglia, su una qualche parte del corpo?” Lei ci pensò su e infine disse: “No. Mai avuto niente di simile”.
“Ne è certa?”
“Non ho dubbi”.
Li ringraziò per essere venuti e, qualche mese dopo, Giancarlo ricevette una lettera della signora Ciotta: i sogni erano scomparsi e la sua vita era tornata alla normalità.
C’era voluto un po’ prima che il signor Ciotta smettesse di pensare a quella seduta che l’aveva tanto turbato. Però alla fine ce la fece. E per il resto dei loro giorni rammentarono l’episodio come un aneddoto stravagante da raccontare agli amici. Mentre per me fu una cosa stranamente diversa. Era come se fossi stato colto da un’illuminazione. Il modo in cui Rosetta s’era commossa quando aveva parlato di Rossane, e il modo in cui s’era risvegliata domandando stupita: “Ho pianto? Perché ho pianto?” mi ricordavano tantissimo quello che era accaduto a me. Fino a quel momento avevo sempre pensato che fossero sogni provocati dalle medicine contro l’emicrania, ma adesso, stentavo pure io a crederlo, cominciavo a pensare che fossero qualcosa di diverso. Di molto diverso.

Non avevo più rivisto Erys dopo quella volta che la scacciai. Da una parte mi dispiacque molto. Non mi era piaciuto vederla piangere. Presi il telefono e pensai di chiamarla. Avevo appena digitato il numero quando cambiai idea e misi tutto giù. Poi presi l’accappatoio dall’armadio e andai a farmi una doccia.

La terza e ultima seduta cui assistemmo sulla principessa Rossane, fu quella di un uomo. Era un trentacinquenne come tanti che però, dopo aver visto un film del secolo scorso su Spartaco, cominciò a fare strani sogni. Sognava di essere in mezzo a un campo di battaglia e osservare un palazzo che si stagliava contro l’orizzonte e, tutt’attorno a lui, c’erano i resti di una battaglia e le sue truppe che si ritiravano. Però non era Spartaco. Le armature e i blasoni dei nemici erano Macedoni. E lui era vestito con l’emblema della Principessa: la Fenice d’oro in campo fiammeggiante. Giancarlo lo avvisò che a volte il cervello riceveva degli stimoli i cui effetti arrivavano a scoppio ritardato, quindi poteva solo essere un caso. Per un attimo ripensai alle mie visioni e pensai che potesse essere il mio caso. Ma poi accantonai l’ipotesi. Qualcosa mi diceva che non era così. Se non fosse stato che in seguito il signor Giacomo Lametta ricordò che questi ricordi risalivano ai nove anni d’età e che pensava sempre, intanto che guardava il castello: “Un giorno, lo giuro, riusciremo a liberarci degli invasori. Lo giuro sulla mia testa, Principessa Rossane”. E poi, l’urlo di una donna che non aveva mai sentito. Anche lui si recò da mio cugino. Il signor Lametta teneva davvero fede al suo nome: in passato aveva avuto problemi seri con l’autolesionismo e si tagliava frequentemente, così, dopo vari analisti, sedute terapeutiche e pillole, avevano smesso. Era un tipo alto e allampanato con i capelli e gli occhi neri dalle palpebre talmente scure che gli conferivano un aspetto tra il perennemente assonnato e il perennemente pestato a sangue. Dava proprio l’impressione di non avere tutte le rotelle al posto giusto. Giancarlo lo invitò a stendersi sul lettino e poi lo ipnotizzò.
“Lei chi è?”.
“Io sono Rossano, il capo dei ribelli del regno dei Parti.” Persino il tono di voce era cambiato. Era più deciso, più autoritario. Non era più l’affilatoio umano che avevamo sotto gli occhi. Era la voce che immaginavo avesse potuto avere Ercole.
“Agivate contro la Regina o in suo nome?”
“In suo nome contro i tiranni Macedoni”.
“Che cosa è accaduto alla Regina?” Lui deglutì prima di cominciare a raccontare: “Tenterò di rammentare anche se non è facile; se ci penso mi sembra tutto così confuso… Era riuscita a scappare dai sotterranei dove l’avevano nascosta. Stava piangendo di terrore e i suoi abiti erano schizzati di sangue. Aveva una ferita aperta al braccio sinistro. Si era ritrovata nella sala del trono ma era inciampata in un tappeto e, quando cercò di rialzarsi, due comandanti Macedoni la videro, sguainarono le spade, la raggiunsero ridendo e canzonandola. Lei cercò di arretrare ma le sbarrarono la strada. Tentò di respingerli per fuggire ma la trafissero al costato dicendo qualcosa del tipo: “La prossima volta impari a sottometterti”. E poi le ritrassero. Vidi il suo cadavere cadere pesantemente al suolo con un tonfo”.
“Lei come lo sa?”
“Io ero lì quando successe. Avevo sedici anni”.
“Perché non ha fatto niente?”
“Perché avevo paura. E perché penso che, se avesse saputo che ero lì, avrebbe fatto di tutto per proteggermi. Lei era altruista”.
“Sa cosa successe dopo?”
“Non so cosa fecero del suo corpo, però ricordo che ci ridussero in schiavitù. Avevamo perso una sovrana e la nostra libertà. Eravamo sommersi dalle tasse e la povertà, le ingiustizie e le malattie regnavano sovrane, come fedeli compagne dei nostri nuovi padroni. Era esattamente ciò che Rossane aveva tentato di evitare. Calpestarono la sua immagine, i ricordi, l’idea che avevamo di lei”.
Mi sostenni il mento con la mano, interessato.
Poi Giancarlo domandò: “E lei e il resto del popolo?”
“Eravamo sconvolti oltre che a lutto e sconfitti. Ci mettemmo molto tempo, prima di ribellarci”.
Adesso la sfumatura di vergogna che permeava la sua voce si era fatta estremamente palese.
“Perché?”
“Non so. Paura, immagino”.
“Mi dica di Rossane. Cosa ricorda di lei?”
“Lei aveva il dono della parola. Le sue parole erano magiche: era talmente carismatica che i suoi discorsi sopravvivono a lei”.
“Può fare un esempio?”
“Un giorno si presentò di fronte a noi tutti e parlò. Disse: Voi non siete oggetti. Non siete schiavi, siete esseri umani. Ho visto la miseria in cui vivete e vi prometto che farò di tutto per migliorare la situazione. Lo fece davvero. Oppure anche: Oggi sono venuti da me i dignitari Macedoni per ripetermi la solita proposta di matrimonio e io ho rifiutato. Non ho bisogno di un re straniero per governare, e voi non avete bisogno di un tiranno. Aprite gli occhi! So che molti di voi sono rimasti abbagliati dalle loro armature luccicanti e dalla ricchezza che un’alleanza comporterebbe. In realtà, se ci legassimo a loro, cosa diventeremo? Una provincia e nulla più. Io vi ho aiutato! Io ho abbassato le tasse e vi ho concesso tutti i privilegi che mio padre non vi dava. Volete davvero perdere la libertà? Lo volete davvero? Potrei ascoltare i miei consiglieri e sposarmi, ma se lo facessi non potrei più proteggervi! Perché questo è uno dei compiti di un sovrano: proteggere i propri sudditi. E come posso farlo se io stessa rinuncio alla mia libertà?
Giancarlo si rianimò e commentò: “Era davvero carismatica”.
“Con il tempo, le sue parole cominciarono a rinascere nelle nostre menti e, un giorno, si ricominciò a parlare di lei e, finalmente comprendemmo ciò che aveva sempre cercato di dirci. Così ci ribellammo. Alla fine riconquistammo il regno, però non riuscimmo a tenercelo che si frantumò e del nostro popolo non rimase quasi più niente”.
“Pensa che Rossane sapesse ciò che vi sarebbe successo?”
“Penso di sì. Non è una cosa così inusuale, i nostri sovrani erano tutti insigniti di poteri magici”.
Tutti e due battemmo le palpebre per lo stupore. Ma solo Giancarlo parlò: “Questo non lo sapevo. E…Durante la battaglia per la riconquista del palazzo?”
“Il suo spirito vegliò su di noi. Non se n’era mai andata veramente”.
“Se poteste rivederla, cosa le direbbe?”
“Niente. Non ho bisogno di dirle nulla”.
Credo che mio cugino pensasse che, se Rossane avesse potuto nascere in un’altra epoca, sarebbe stata un’ottima regina. Purtroppo era nata donna. Era soprattutto per questo che non le fu mai dato troppo credito. E mi sentii veramente dispiaciuto per l’infelice sorte di quella regina dimenticata.

Il sogno di stanotte riprendeva un gioco che facevo con i miei amici d’infanzia, le porte girevoli. Ma, solo quando rividi la chioma bionda di Dom, capii che quel sogno non era recente come credevo. Quando le nostre mamme ci portavano con sé per lo shopping del weekend, io e Dom c’infilavamo nelle porte girevoli, premevamo le mani sul vetro e spingevamo, spingevamo e spingevamo finché non acquistavamo velocità e si faceva finta di essere in una turbina. Ebbene si, la ragione dell’improvvisa assunzione dei portieri in certi negozi eravamo noi. In questo sogno eravamo io e Dom le porte girevoli.
C’erano dei ragazzi che si fiondavano contro di noi, per prenderci le mani, girare con noi per un attimo ed essere lanciati via, oltre le nostre schiene. Dom stava per far girare una ragazza, ma al momento di lasciarla andare, serrò la presa sui suoi polsi e le fece girare con così tanto impeto che la ributtò al punto di partenza, perse l’equilibrio e rotolò nella polvere. Il suo urlo di dolore si confuse con l’orribile risata di Dom, il quale, trionfante, si volse verso di me. E io feci un passo indietro per la paura. Il suo ghigno malefico svelò un’impressionante, lucente, chiostra di zanne di vetro verde bottiglia. Poi sollevò le mani sicché potessi ammirare il suo trofeo: le aveva strappato le mani all’altezza dei polsi!
Poi gettò la testa indietro e rise, intanto che la ragazza a terra gemeva e piagnucolava nella polvere. Mi destai di soprassalto e andai in cucina a bere un bicchiere d’acqua di rubinetto anche se una parte di me sentì l’impulso di uscire a fumarsi una cicca. Lasciai stare. Pensai di ascoltare un po’ di musica finché non mi fosse passata la paura, e così feci. Inserii una canzone a ripetizione nel mio lettore portatile, chiusi la porta e lasciai che partisse Ordinary day di Dolores O’Riordan. Mi stesi sul letto lasciando che la musica mi attraversasse da parte a parte. Da quand’era che stavo cominciando a fare tutti questi incubi? Forse era colpa dello stress o di quello che mangiavo. Ma non pensai che fosse colpa del cibo. Non era la prima volta che mi capitava di fare sogni angoscianti. Ci fu un periodo in seconda liceo ma quelli erano dovuti all’ansia per le interrogazioni e le verifiche - non me la cavavo benissimo - non a…Boh? Credevo d’averla superata da un bel pezzo questa “fobia”.
Stranamente la mia mente corse di nuovo a Erys. Sbuffai seccato. Perché dovevo pensare a lei? Accavallai le gambe, intrecciai le mani dietro la testa e considerai con amarezza che da una parte non me ne fregava un cazzo, e che dall’altra mi sentivo un verme per averla trattata così.

Mercoledì stava per arrivare e io non avevo avuto più visioni. Comunque quella sera c’era l’appuntamento settimanale con Massimo, Luca, e Alberto. Ero proprio curioso di vedere che cosa sarebbe successo. Chissà se quei due idioti stavano andando avanti?
In quel periodo la Chiesa era scossa da scandali interni sempre più tremendi. E i predicatori, i gesuiti di nuova generazione, infestavano le strade spacciandosi per tanti novelli San Francesco. Non avevo niente in contrario, se questo era ciò che volevano fare, che lo facessero. La cosa che mi dava fastidio era che cercassero di salvare persone tramite un sacro verbo che difficilmente avrebbe potuto aiutarli. E che il predicatore di Piazza Dante si fosse accollato a me. La società occidentale dell’Era della Comunicazione non aveva tempo per pensare alla religione, ancora meno a Parole cui pochissimi avevano davvero prestato ascolto. Quante volte ci eravamo stretti la mano in Chiesa e nascosto il coltello nell’altra? Quanti soldi andavano davvero ai poveri? Quanti scandali erano stati coperti dalla Chiesa? E quanti delitti erano stati sottaciuti dalla medesima? Non fraintendete, non ce l’ho in special modo con la religione cristiana, ce l’ho con tutte le grandi religioni. Lo dice il nome stesso: religione vuol dire religo, legare. E a me non piaceva l’idea di essere legato a qualunque cosa, specialmente a istituzioni millenarie piene di falle e oscurità. Lo penso ancora, anche se a Magada e ai miei nipoti piacerebbe molto che mi ricredessi. La salvezza che serviva a quelle persone non era di tipo spirituale, ma di tipo fisico, immediato. Parlando di immediatezza indovinate un po’ chi mi importunò? No, non Erys, il simpatico gesuita. “Ossignore, cosa ho fatto di male?” Dissi sarcastico levando le braccia al cielo.
“Niente figliolo, ma qualunque peccato tu abbia commesso sarà perdonato”.
“Ancora?” Sbuffai ma quello non demorse. Gli anni passati a predicare dovevano avergli conferito la pazienza di un santo: “Perché? Tu non vuoi essere perdonato?”
“Non m’interessa”.
“Ma come, figliolo, non vuoi essere salvato?”
“Ti ho già detto di no.” Dissi con voce lamentosa.
Forse avrei dovuto inventarmi qualcosa di meglio per scacciarlo, ma ogni mia tattica falliva. Le avevo provate tutte, compreso un fantomatico corso di demonologia. Ma questo in particolare, lo aveva convinto che fossi una delle tante pecorelle smarrite da ricondurre all’ovile. Altra figura retorica che mi ha sempre mandato in bestia. Molte volte mi ero chiesto da dove mi venisse tutta quella acidità che mi sforzavo di reprimere. Forse da quel gene Y che avevo ereditato dal mio ignoto padre. Col tempo riflettei sulle mie certezze, e per come ero, più di altri, costretto a rivederle e a rimetterle in discussione. Ad essere franchi, non ne avevo molte. Inoltre, non conoscendo il mio vero padre partivo svantaggiato. La mia vera unica certezza, non l’ho maturata io. Me l’ha data la pubblicità di un’automobile che diceva che niente era più certo del cambiamento. Io concordai e aggiunsi le parole “e la morte”. Non mi ero perso a fantasticare sulle varie teorie sulla vita dell’Aldilà, l’eterno ritorno e bla bla bla bla bla. Per me erano solo una perdita di tempo. Non pensavo neanche che avessimo davvero un’anima. Ma anche se non sapevo cosa avevo preso da chi, e cosa avessi, sapevo che la mia passione per lo studio era mia.
Per il momento stavo passando le mie ore in biblioteca a studiare. Stavo prendendo appunti su Catullo quando sentii la voce di Erys nella mia testa: “Con il nostro pensiero creiamo giorno per giorno il mondo che ci circonda.” Disse e subito gli occhi cominciarono a farmi male. Misi giù la penna e il quaderno con i miei scritti scomparve sostituito dal tavolo di un bar. Le mie orecchie erano invase dalla musica che ascoltando quando la vidi arrivare. Aveva smesso di zoppicare e sembrava già stare meglio. Portava uno zaino sulle spalle ed era vestita di verde. Anche se legati avrei riconosciuto quella massa di capelli folti ovunque: era lei. Pensavo si fosse uccisa. Finii di mangiare, pagai, raccolsi le mie cose e la raggiunsi. Si era seduta su una panchina vicina e stava leggendo un libro, la testa china, ma anche così riuscii a vedere la sua espressione concentrata. Anche se non alzò il capo, mi lesse un passo del tomo che stava leggendo: La frase di Erys!
Dopodiché elevò il viso verso di me e si tolse delle cuffiette bianche che non avevo notato. “Presumo sia il tuo modo di mandarmi un accidente.” Azzardai buttandola sul ridere.
“Presumo sia il mio modo di dire “non vedo l’ora che tu evapori”.” Rispose scontrosa.
Alla faccia del buongiorno.
“Che ti fa credere che voglia fermarmi a parlare con te? Potrei parlare con chiunque, qui”. Rilevai con la stessa ruvidezza alla quale lei non fece caso. Si guardò attorno e poi mi fece, beffarda: “E con chi? Con la strada deserta, per esempio?” Però si scostò lo stesso per farmi posto sulla panchina mal ridotta da anni e anni d’incuria e vandali e mi sedetti accanto a lei.
“Ce l’hai ancora con me per quelle battute?” Le domandai addolcendo il mio tono di voce.
“Ah, erano battute?” Ribatté aspra tenendo lo sguardo fisso di fronte a sé.
Mi agitai un po’ sulla panchina: “Bè ok, no, però mi dispiace d’averti offesa”.
Ma lei scosse il capo: “Penso che tu abbia solo avuto il coraggio di dire ciò che molta gente deve aver pensato”.
E io mi sorpresi a pensare che al posto suo un’altra ragazza m’avrebbe ucciso.
Tirò fuori un pacchetto di sigarette, ne prese una e l’accese: “Spero non ti dia fastidio”.
“Tranquilla, fumo anch’io.” Replicai. Poi: “Perché?”
Mi guardò con aria interrogativa e un sopracciglio inarcato: “Perché, cosa?”
“Perché stai cercando di toglierti la vita?” Specificai. Lei espirò una boccata di fumo e mi scrutò a lungo. A tal punto che la sigaretta si consumò da sola. Assottigliò gli occhi: “Non mi va di parlarne”.
E, non so che diavolo mi prese, però mi dispiacque quello spreco di vita. Si rificcò la cicca in bocca e riprese a fumare. “Comunque piacere, io mi chiamo Heath.” Mi presentai. Ci stringemmo la mano. “Maya. Di cognome?”
“Kaine, tu?”
“Ternant”.
Riemersi dalla visione con occhi sgranati e misi a fuoco i miei appunti di Storia Antica. Fissai lo scaffale della biblioteca d’Anglistica senza vederlo veramente.
Kaine. In quelle visioni avevo detto di chiamarmi Kaine! Non ci credevo, cioè, avevo dei ricordi del professor Kaine nella mia testa! Quella fu la prima volta che ebbi il coraggio di ammettere a me stesso quello che avevo già capito da tempo. E ne fui terrorizzato. Com’era possibile? Era un effetto collaterale delle pasticche? Stavo scoprendo di soffrire di gravi turbe psichiche? Oppure stavo cominciando a perdere il controllo della mia fantasia, ripescando dettagli dai vari film sull’argomento della reincarnazione? Sapevo già da tempo che quello dell’umanista era il regno delle incertezze e dell’intuito, ma non immaginavo che sarei arrivato fino a questi punti. Mi alzai e andai in giardino, dove cercai di rilassarmi. Ma ero talmente spaventato e stupito che mi ritrovai a passeggiare soprappensiero avanti e indietro e a continuare a lambiccarmi il cervello di domande. Com’era possibile che conoscessi questi dettagli della sua vita? Io non c’ero all’epoca! Non esistevo ancora. Era il 2015, cazzo. “Me li sto inventando forse? No, no, è impossibile. La mia mente sta dando di matto? Che cosa mi succede?” Stavo ancora scervellandomi quando sentii una mano posarsi sulla mia spalla. Sobbalzai, mi volsi di scatto e incontrai gli occhi spalancati d’Erys, che arretrò di un passo.
“Erys?” Domandai sorpreso. Che ci faceva qui? Mi guardava preoccupata intanto che si riprendeva dallo spavento involontario che le avevo causato. Notai che teneva le dita della sinistra infilate tra le prime pagine di un libro dalla copertina rigida color grigio nebbia. Le lettere gialle limone spiccavano come oro su quello sfondo spento. “Innocenzo. Mi hai spaventato.” Esclamò con un sospiro.
“Scusa. Non volevo, è che…E’ che è un periodaccio”.
“Non ti ho ancora chiesto niente.” Mi fece notare, un po’ confusa da queste rivelazioni. Non mi ero mai abbassato a dirle che cosa mi succedeva davvero, di solito inventavo qualche balla.
“Non ne ho avuto bisogno, stavi per chiedermelo lo stesso. Scusami lo stesso”.
Poi le chiesi che ci facesse qui e lei disse che le piaceva molto questo giardinetto e che, spesso e volentieri, ci studiava. “Eppure quello non mi sembra un libro dell’università.” Le dissi, accennando col mento alla copertina del suo libro. A quelle parole arrossì come se le avessi detto un’oscenità: “In effetti no, stavo facendo una pausa.” Ammise imbarazzata. Poi, per liberarsi dalla situazione di stallo in cui era precipitata, m’invitò a sedermi con lei sulla panchina dove aveva abbandonato il suo zaino e i suoi libri e io non rifiutai; dopotutto anche lei sarebbe andata bene per distrarsi. Mi passò una bottiglietta d’acqua e un kinder paradiso che mangiai quasi avidamente mentre lei metteva da parte il libro e tirò fuori della borsa un’altra merendina che si mangiò con molta più calma del sottoscritto. Le passai la bottiglietta con l’acqua rimanente e lei bevve a sua volta. “Grazie.” Dissi un po’ più calmo. Lei curvò le labbra in un dolce sorriso: “Figurati”.
Mi misi a fissare il ghiaino della stradicciola tra le aiuole. Poi sentii le sue dita girarmi dolcemente la testa e sollevarmela delicatamente con i polpastrelli, finché i nostri occhi non si incontrarono. “Che cosa c’è che ti preoccupa così tanto? Non ti ho mai visto così sconvolto come ora.” Mi chiese con un tono talmente dolce e preoccupato che mi venne voglia di rivelarle tutto, ma mi trattenni: “E’…Un periodo strano”.
“Raccontami.” Mi esortò gentilmente, battendo una volta le palpebre.
“Non credo che sia il caso”.
“Andiamo dai.” Miagolò. Mi scostai un po’, mezzo divertito e mezzo infastidito; ma alla fine, di fronte a quello sguardo implorante, capitolai. Sperando che non mi desse del matto. Solo dopo mi ricordai con chi stavo parlando: “D’accordo. Ti ho sentito leggere una frase.” Gliela replicai. Non mi sembrò molto sorpresa. E quando parlò capii perché: “Anche a me capitava di sentire le voci, ogni tanto.” Rivelò. La guardai orripilato, che fosse matta da legare oltre che strana? Ma lei si affrettò ad aggiungere: “Non preoccuparti, a volte mi sembra che i miei mi chiamino, tutto qua. Sarà successo anche a te qualche volta, no?”.
Mi sentii più sollevato e annuii poi lei continuò: “E’ una frase molto famosa. Guarda.” E mi mostrò il libro che stava leggendo. La frase era la stessa. La guardai ad occhi sgranati. “Che significa?” Le domandai spiazzato.
“Nel libro era il segreto per modificare la realtà circostante. Forse per te vuol dire qualcosa di più”.
Ragionammo così per un po’, e poi mi accorsi che il sole era calato e che avevano acceso le luci. Ci alzammo e ce n’andammo. Recuperai le mie cose e mi accorsi, mentre chiudevo la borsa, di non provare più alcun tipo d’inquietudine e che Erys era riuscita a farmi dimenticare lo spavento e tutte quelle assurdità che infestavano la mia testa. E quando ci salutammo mi sfuggì un: “Grazie per essermi stata accanto, sei davvero un’amica”.
Lei si illuminò tutta e si aprì nel sorriso più bello che avessi mai visto in tutta la mia vita. Si scostò una ciocca dietro l’orecchio e disse, gioiosa: “Lo pensi davvero?”
“Sì, certo.” Perché in quel momento era vero.

Quello stesso venerdì feci colazione con Erys. A dir la verità non fu una cosa programmata: entrai in un bar e la trovai lì, come se mi stesse aspettando. Stava mangiando una meringa e aveva una tazza di cappuccino fumante davanti. Stavolta non mi fece nessun cenno, memore dell’altra volta. Ma si limitò a seguirmi con lo sguardo mentre ordinavo un caffè e una pasta. Cercai con gli occhi un tavolo libero ma erano tutti occupati, a parte il suo. Sentivo i suoi occhi violetti trapanarmi la schiena. Il rossore mi salì alle guance mentre pregavo che distogliesse lo sguardo. Alla fine mi arresi e andai da lei: “E’ libero?”
Quel giorno aveva legato i capelli in una coda alta e smesso gli orecchini: “Oh, credevo non me lo chiedessi più.” Ribatté alzando un momento le sopracciglia. Mi accomodai di fronte a lei ignorando l’ironia.
“Sì scusami, è solo che…”
“Che non ti piace avere a che fare con le stramboidi come me.” Completò delusa. Ops, se n’era accorta. Tentai di rimediare: “No, è che…”
“Oh, avanti. Non cercare scuse con me. Sarò anche strana ma non sono scema”.
Allora abbassai gli occhi e lo ammisi. Quello che disse dopo mi arrivò come uno schiaffo: “Lo sospettavo.” Poi bevve il suo cappuccino, ignorando i sensi di colpa che era riuscita a scatenarmi. Tentai di rimediare: “Senti, mi dispiace, ok? È solo che sono ancora immaturo”. Si pulì la bocca con la salvietta e mi trafisse con un lampo degli occhi violacei: “Io avrei usato un altro aggettivo”.
Decisi di dargliela vinta: “Sì, d’accordo, hai ragione e mi dispiace. Non dovrei vergognarmi della nostra amicizia”.
“Grazie, eh?” Ribatté sarcastica.
“Scusami.” Non mi piaceva sentirmi così. Lei mi guardò in cagnesco per un po’, poi addolcì il viso, si sporse verso di me e mi diede un bacio sulla fronte. E capii che mi aveva perdonato. Da quel giorno cercai di comportarmi in modo diverso. All’inizio mi sentii un po’ a disagio ma col tempo la sensazione scomparve.

Anche se il mio rapporto con Erys era migliorato, continuavo ad avere delle visioni su Maya e Kaine. Proprio non ci riuscivo a chiamarlo per nome. Cercai delle sue foto su Internet e ne trovai una bella sfilza. Ce n’erano molte della sua “vecchiaia”, e della sua giovinezza. Da ragazzo aveva avuto i capelli biondi rossicci e gli occhi marroni che, raramente, vidi accompagnarsi a dei capelli come i suoi. Ovviamente con la solita sigaretta in mano. Tanto fumava mi sembrava sposato alla sigaretta. E, guardandolo meglio, sembrava un nuovo Freud. Accantonai l’idea d’essere la sua reincarnazione, non mi piaceva pensare a me stesso come la reincarnazione di un fumatore incallito e depresso come quello. Probabilmente le visioni erano frutto dello stress, oppure, e mi sorpresi io stesso nel prendere quest’ipotesi in considerazione, l’avevo conosciuto davvero.
Una volta mi assalì un violento dejà vu durante il mercoledì della settimana successiva mentre Alberto leggeva un passo del suo manoscritto. Mi portai una mano sulle palpebre e vidi. Mi trovavo in una mensa con un vassoio di pasta, insalata, acqua e spezzatino tra le mani. Lo stanzone non era ancora gremito. C’erano diversi tavoli liberi e, a uno di questi, individuai Maya che mangiava. Mi avvicinai: “Ciao, posso?”
“Accomodati.” E mi sedetti di fronte a lei, felice di togliermi lo zaino. Mi misi a mangiare e a fissarla: “Come va?” Le domandai a bocca piena. E lei rispose allo stesso modo: “Sempre uguale”.
Poi inghiottì.
“Stamattina non hai cercato di ucciderti, vero?” Le chiesi, ansioso della risposta.
“Stamani ho pensato di dare un po’ di tregua al mio corpo.” Meglio così. Però percepì l’intensità del mio sguardo, elevò il viso e alzò un sopracciglio scarlatto: “Perché mi fissi?”
“Niente, pensavo”.
“A che?”
“Semplicemente non m’aspettavo di trovarti qui”.
“Perché? Guarda che sono un essere umano anch’io, e come tale qualche volta ho bisogno di mangiare.” Scherzò e sorrisi.
Poi bevvi: “Non sapevo frequentassi il college”.
“E invece sì. Sorpresa!” Esclamò facendo una faccia scema “Frequento archeologia”. Soggiunse.
“Io sto facendo specialistica d’antichistica, voglio diventare un simbolista. Perché archeologia?”
“Perché per capire il mondo e prevedere il suo futuro, bisogna conoscerne il passato.” Sospirò come se parlasse ad un imbecille, mise giù la forchetta e spiegò: “Il tempo è ciclico; è una ruota che gira, non è lineare e unico come ti hanno insegnato a credere. È molto più complesso di quanto pensi”.
Allargai gli occhi: “Wow. E io che pensavo volessi scoprire Atlantide”.
Un angolo della sua bocca si tese in un sorriso: “Temo che sarà un po’ difficile; ma qualcosa d’analogo mi piacerebbe”.
Ci concentrammo sul pranzo per un po’. Ma alla fine ruppi il silenzio: “E così secondo te il tempo è ciclico eh?”
“Non secondo me. Secondo gli antichi, secondo tutti. Mai sentito la frase gli imperi sorgono e cadono?”
Non vidi il nesso: “Sì, e allora?”
Inghiottì e attaccò a spiegare: “Ti faccio un esempio. Un anno lo puoi raffigurare tranquillamente in un orologio. Gennaio è l’una, febbraio son le due e così via. In un orologio puoi ficcarci persino la durata in secoli di un impero, nascita, morte e rinascita”.
“Hai scordato la crescita, la vecchiaia e la decadenza.” Le feci notare. Alzò una spalla: “Sono già incorporate nella vita, altrimenti non la chiamerei così”.
“Ma se si sbagliassero?” Ipotizzai. E mi guardò come se l’avessi insultata: “Gli antichi sapevano molte più cose di noi.” Ribatté con un tono da discorso chiuso. Non mi arrischiai più a contraddirla. Non mi aspettavo che fosse così profonda. Per la prima volta mi accorsi che nei suoi occhi c’era una traccia di verde che aveva preso il sopravvento per tutta la durata della spiegazione. Però c’era qualcosa di terrificante in quel colore e anche nella sua voce quando disse: “Sta attento, qualcuno tra breve morirà”.
“Cosa?”
I suoi occhi tornarono nocciola all’improvviso. Niente più screziature: “Ti ho detto di…Lascia perdere. Non so cosa mi sia preso”.
La guardai un po’ incerto; “Sicura che non ti abbiano drogato la colazione?” Lei guardò il cibo nel suo piatto con aria sospettosa e sorrise. Un sorriso vero, non come quello d’Abigail, bellissimo, ma finto: “Effettivamente no.” E scoppiò a ridere.
“Innocenzo?” Mi chiamò la voce di Alberto. Dal suo tono irritato dedussi che doveva essere la quinta volta che mi chiamava. Finalmente rimisi a fuoco la scena e vidi che gli occhi di tutti erano puntati su di me. “Innocenzo, stai bene?” Mi domandò e io misi su un sorriso che doveva essere rassicurante e dissi, battendo un po’ le palpebre per rimettere tutto a fuoco: “Scusami, mi ero incantato. Che cosa c’è?”
“Ti avevo chiesto un parere”.
E io mi scusai dicendo se poteva ripetere il tutto, perché non l’avevo ascoltato. Mi guardò male e sbuffò: “Ma ti credi così superiore a noi da non ascoltarci neanche?” Disse e vidi Luca fare la spola con lo sguardo da me a lui, pronto a scattare in caso la situazione fosse precipitata. “No, certo che no.” Ribattei senza capire il perché di quello scatto. Ok che ero il migliore ma, nonostante ciò, avevo mantenuto la mia umiltà. “Allora ascolta, una buona volta!” Replicò prima di rileggermi il passaggio, o meglio, il capitolo. E Luca si rilassò visibilmente. A fine lettura mi guardò, attendendo una risposta. Gli dissi che era buono. In realtà mi faceva schifo.

Stavo passando sul Lung’Arno, diretto in corso Italia. Mi si erano rotte le scarpe proprio sotto la suola e necessitavo di un paio nuovo. Ad un tratto il mio sguardo fu catturato da un’ombra nera sull’altra sponda, che ondeggiava a tempo con la canzone che stavo ascoltando in quel momento. Poi scomparve. Battei le palpebre confuso, poi ripresi a camminare, dicendomi che era stato uno scherzo della luce. Infine raggiunsi Corso Italia e passai accanto all’antico Padiglione dove il mercatino fuori delle mura di Piazza dei Miracoli si spostava ogni anno verso Natale. Appena passai di lì mi sembrò di sentire il profumo di un incenso aromatico: benzoino, credo. E, quasi come fosse un imput, gli occhi cominciarono a farmi male. “Oh, no, non ora, non ora, non ora…” Supplicai, ma non il flashback mi assalì lo stesso. Mi trovavo in un negozio esoterico permeato da uno strano odore di benzoino. C’erano modellini di scheletri di serpente sul soffitto e un lampadario ottocentesco pendeva giù da una catena cui era avvolta una statua di ferro battuto, fin troppo realistica, di una serpe dalla lingua guizzante. Ai lati della stanza c’erano delle credenze; una di coltelli di vario tipo che mandavano sinistri bagliori, una di gioielli che avevano tutta l’aria d’essere veri. Su un ripiano c’erano dei cestini di cristalli e un cartellino col loro nome. Lessi cose tipo: lepidolite, calcite, fluorite ma anche rubini, o lava. Un’altra era dedicata agli incensi. Un’altra ancora a mazzi di carte da tarocchi di vario tipo e oggetti divinatori. E l’ultima ai libri di magia e stregoneria. Ma dove diavolo sono capitato? Pensai un tantino a disagio e il pensiero corse istintivamente a Maya che usciva dallo stesso negozio. Mi girai verso il disordinato bancone ingombro e trasalii: una signora sulla quarantina rotondetta, dai capelli castani con le prime frezze argentee e le palpebre azzurre mi salutò gentilmente e mi domandò se avessi bisogno di qualcosa. Mi sforzai di ignorare i simboli esoterici, le varie stranezze esposte e risposi: “Sì, vorrei sapere che cosa ha comprato la ragazza che è uscita adesso”.
Lei mi guardò con aria sospettosa e allora spiegai: “Sono un suo caro amico e sono preoccupato per lei”.
Ci pensò un po’ su prima di rispondermi: “D’accordo. Ha preso una confezione d’incensi di belladonna, melissa e arancia moscata”.
Tutto qui? Meno male. Sospirai di sollievo; e io che temevo che avesse preso del veleno. “Grazie, signora, arrivederci”.
Lei disse: “Non avrà mica pensato che lei volesse avvelenarla spero. A noi non interessa fare del male alla gente”.
Noi?
Mi fermai a metà tra l’uscio e la porta. C’era una strana energia in quel negozietto che non aveva niente a che vedere con la commessa che mi guardava divertita. Era qualcosa che mi faceva rizzare i peli sulla nuca. “No, no, non pensavo questo”.
“Meglio così.” Rispose sollevata a sua volta: “Buona serata”.
“Altrettanto”.
E mi affrettai ad allungare le distanze il più velocemente possibile tra quel negozio a me. Ma a cosa le serviva l’incenso? Mi ripromisi di chiederglielo. Quando la visione scomparve mi scoprii all’interno del Padiglione davanti al negozio di scarpe, di fronte a un fumigante bastoncino di incenso in un barattolo di pesche in conserva riempito con della sabbia. Scossi il capo: ossignore, per quanto tempo ancora dovrò sopportare queste visioni? Poi andai a comprarmi quelle dannatissime scarpe.

***Nota dell'autrice***
Purtroppo, come da regolamento, non posso pubblicare più di così perché la storia è già un romanzo edito in carta stampata con la Giovane Holden Edizioni di Viareggio, nonostante che quello sia il mio romanzo d'esordio. (Non sapete quanto mi dispiaccia non poter pubblicare su efp, wattpad eccetera eccetera più di così). S'intitola "Il cammino della Fenice" ed è già in commercio dal 2016 e forse qualcuno di voi l'ha già letto o avvistato su amazon o kindle o nelle librerie da qualche parte. In caso è possibile ordinarlo e avere la versione ebook.  
Spero comunque che con questi tre capitoli io vi abbia incuriositi abbastanza affinché vogliate terminare la lettura. O vi abbia lasciato un'emozione o qualcosa su cui riflettere.

Alla prossima
Kingwithoutacrown
D.M.
Susanna
 

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